Nemesis - La Chiave Di Salomone 2f4x4t

Prefazione Prologo Il Risveglio 1. Ellen Imprevisti 2. Kevin I Quattro Sigilli 3. Ellen Animal Instinct 4. Kevin Una vecchia conoscenza 5. Ellen La maledizione 6. Kevin Il Patto con le Streghe 7. Ellen Un’ombra dal ato 8. Kevin Una nuova missione Intermezzo Il libro maledetto 9. Ellen Il segreto di Hugh 10. Kevin Riunione tra Angeli e Demoni 11. Ellen La Chiave di Salomone 12. Kevin Nuovi Indizi 13. Ellen La Città Fantasma 14. Kevin Galeria 15. Ellen Il Grimorio degli Avi 16. Kevin Un altro indizio 17. Ellen La Porta dei Cieli

18. Kevin Magia Goetica 19. Ellen Addii 20. Kevin Di nuovo soli Intermezzo I Demoni di Salomone 21. Ellen Ritorno a Inverness 22. Kevin La malattia di Damien 23. Ellen Tradimenti 24. Kevin Il rapimento 25. Ellen Buio 26. Kevin Il segreto di Vivian Barclay 27. Ellen Prigioniera 28. Kevin Sulle tracce dell’Ordine 29. Il sangue dei Lynch 30. L’orrore dell’Apocalisse Epilogo Ringraziamenti

sco Falconi

Nemesis

La chiave di Salomone

© 2011 sco Falconi

Tutti i diritti riservati

Alle mie cugine sca e Giulia

Ci sono abissi che l’amore non può superare, nonostante la forza delle sue ali

HONORÉ DE BALZAC

Prefazione

2 dicembre

Cari mamma e papà, ho iniziato a scrivere questa lettera ben due settimane fa. Ho perso il conto delle volte che ho accartocciato il foglio e l’ho gettato nel cestino. Sono rimasta ore e ore davanti a una pagina bianca, senza sapere cosa raccontarvi. Un giorno, per il nervoso, ho sbattuto un pugno contro la scrivania incrinandone la superficie. Be’, ancora non so dosare la mia forza, lo sapete. Eppure, appena mi accingo a scrivere, tutta questa forza evapora. La mano trema, le parole non riescono a esprimere quello che provo. Mi sono fatta coraggio, ho deciso di non mollare. Sono stanca di fuggire, indugiare, temere. Voglio affrontare i problemi di petto. Voglio di nuovo stringere le redini della mia vita. Perché ciò che ho sempre desiderato è la libertà. Perché quel macigno che porto nel petto è troppo pesante. Perché non posso più ignorare quella voce che mi dice di essere me stessa. Di amarvi. Di sentirvi. Di avervi accanto. Lo so, siete arrabbiati con me. Posso appena immaginare il dolore che vi ho causato. No, non pensate che sia una figlia irresponsabile e che non abbia ragionato a lungo sulle mie azioni. Quando sono fuggita con Kevin non ho riflettuto sulle conseguenze, è stato un gesto impulsivo. Poi, a mente fredda, ho trascorso intere notti in bianco per decidere ciò che desideravo veramente per il mio futuro. Non avevo scelta, questa è l’unica verità. Ero confusa, volevo fuggire e liberarmi da tutti i problemi. Ho vissuto a Inverness per otto anni, mentre voi viaggiavate in tutte le Highlands per lavoro. Mi sentivo sola e abbandonata. La nebbia e il silenzio erano i miei unici amici,

eccezion fatta per Hugh e Kenneth, s’intende. Quando siete tornati ero al settimo cielo, ma la gioia è durata solo un istante. Mio fratello era scomparso sulle coste di Oban. Scomparso, già, si fa per dire. Forse la cosa che mi ha più ferito è stata quella di essere sempre stata esclusa dalla famiglia. Considerata una bambina che non poteva capire, troppo piccola per affrontare una realtà così complessa. Ironia della sorte, vero? Be’, il mio quindicesimo compleanno non è stato proprio uno dei giorni più sereni. «Evoluzione», così l’avete chiamata. Una parola semplice, che di certo non rende giustizia alla verità. Chi era la nuova Ellen? Una ragazza scozzese trasformata in un Demone Emerso scelto dal Basilisco, condannata per sempre a vivere una vita che non avrebbe mai voluto. Capace di arrecare dolore, instillare la paura e infettare gli esseri umani. Una definizione orribile, non trovate? Ed è la sola verità, purtroppo. Sono questo. Un Demone Emerso. Tutto qui? No, la vita di Ellen Lynch non era abbastanza complicata, così la sorte si è affrettata ad accanirsi di nuovo contro di lei. Perché incontrare Kevin è stato come vedere il mondo da un’altra prospettiva. Ho provato sensazioni che credevo fossero solo frutto di fantasia e che esistessero solo nei libri e nei film. Invece Kevin era un ragazzo in carne e ossa. Con lui ho trascorso i giorni più belli della mia vita, dimenticando tutte le amarezze, cancellando il destino che si era accanito contro di me. Sono tornata a respirare, ero pronta a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Non ne ho avuto tempo. La serenità è durata solo pochi giorni, spazzata via da un maledetto tramonto durante il quale ho scoperto la vera identità di Kevin: un Angelo Ombra. Demoni Emersi e Angeli Ombra. Destinati a combattersi per l’eternità, condannati dal Patto di Equilibrio, giudicati ogni otto anni, al Tetrastile. Quante cose ho imparato in pochi mesi,

vero? E quali terribili verità mi sono state gettate addosso senza che nessuno mi aiutasse a rimanere in piedi! Rabbia, delusione, impotenza. Ma anche gioia. Damien, mio fratello, era ancora vivo. Ho forse avuto il tempo di abbracciarlo? Di presentarmi come sua sorella? Di dirgli quanto gli volessi bene? Di raccontargli le lacrime che ho versato sulla spalla di Vivian dopo la sua scomparsa? No, certo che no! Le Sfere e le Spirali hanno accusato Damien di alto tradimento e l’hanno rinchiuso nelle prigioni di Stonehaven. Da solo, al buio e al gelo. Un’ala tranciata. Un dolore insopportabile che annebbia la ragione. Che spinge al suicidio. È questa la giustizia del Patto d’Equilibrio? Questa l’onestà del Consiglio? E io, cosa dovevo fare? Dovevo rimanere a Inverness, con le mani in mano, mentre mio fratello si spegneva giorno dopo giorno? Ero costretta a salvarlo, ma non ci sarei riuscita senza l’aiuto di Kevin. Perché Kevin non è un Angelo Ombra, è il mio Angelo Custode. Lui ha rimediato al mio errore, salvando Hugh dalla morte certa. Lui mi è sempre stato accanto, pronto a sacrificare la sua vita dopo il tradimento di Inghinn e Vivian, quando Nemesis era pronto a uccidermi. Proprio nelle stesse ore durante le quali il Consiglio e l’Arconte bivaccavano nelle proprie case, comodi nelle poltrone che avrebbero occupato per i prossimi otto anni. Kevin e io abbiamo salvato il Consiglio e il Patto d’Equilibrio. Siamo stati noi, con il sacrificio dell’Arcangelo Remiel, a impedire che l’Ordine dell’Apocalisse risorgesse portando il caos nel nostro mondo. Ma non m’interessa la fama. La gloria. L’onorificenza. Non mi frega nulla se il mio nome non apparirà in qualche libro destinato a tramandarsi nelle ere. Mamma, papà… sapete bene come sono fatta. Desideravo solo nascondermi nell’ombra, tornare a essere l’Ellen ignorata dai ragazzi di Inverness, la ragazza che adorava giocare a pallone sulla spiaggia con i suoi due unici amici. Desideravo solo stare con i miei genitori e mio fratello.

Desideravo sentirmi libera di amare un ragazzo, perché i sentimenti non si possono comandare, né incatenare con colori, razze, dinastie. Ma anche questo mi è stato negato. Un affronto, una vergogna, un abominio. Un Demone Emerso che ama un Angelo Ombra! Dovevo rinunciare alla mia felicità per un’imposizione che non ha senso di esistere. Dovevo vivere una vita che non ho scelto, pronta a eseguire ogni ordine degli Emissari. Dovevo subire una punizione per aver salvato il Patto d’Equilibrio. È assurdo. Di più, è un’ingiustizia che non potevo accettare. Volevano che negassi i miei sentimenti, che uccidessi le mie emozioni. Mi spiace, vostra figlia non è un’assassina. Ho fatto una scelta. Una scelta d’amore. Fuggire lontano dalla crudeltà del Consiglio. Aprire le ali del mio cuore, per troppo tempo imprigionate nel gelo di Inverness. È stato facile? No, non lo è stato affatto. Perché mi mancate da morire. Mi manca il tuo abbraccio, mamma. Mi manca il tuo sorriso, papà. Mi manca lo sguardo di Damien. La voce di Hugh. Le battute di Kenneth. Mi manca la mia camera. La biblioteca. Il mio ato. Ho sempre desiderato viaggiare, conoscere nuovi posti, visitare le città più belle d’Europa. Ecco, forse il destino stavolta mi ha concesso una piccola tregua. Madrid, Parigi, Londra, Atene, Berlino. Poi guardo le foto. Io. Kevin. Kevin e io. Unici protagonisti del mio presente. Allora le lacrime si affollano sulle mie ciglia. Lo sfondo scompare, ci siete voi alle mie spalle. Mi abbracciate. Mi sorridete. Vi conosco bene, sono sicura che il rancore sia scomparso. Perché a-mare una

figlia significa desiderare solo la sua felicità. E la mia unica felicità è stare assieme a Kevin. Vi scrivo questa lettera con il cuore in mano. Sto disobbedendo a Kevin, che non mi avrebbe mai permesso di farlo. Contattarvi significa rischiare di essere scoperti, e avere una dozzina di Immacolati sulle nostre tracce. Però non gli nasconderò la verità. Gli dirò che dovevo farlo e sono sicura che lui capirà. Perché lui mi ama veramente e si prende cura di me, non dubitatelo mai. Il tramonto non esiste solo nelle Highlands. Esiste in Francia, in Germania, in Spagna, in Grecia. Esiste in ogni angolo del mondo. Guardatelo, pensate a me. Un giorno, sono sicura, ci riabbracceremo. Ci getteremo tutto alle spalle, vivremo per sempre felici. Mi sono data da fare in ogni città, lavoretti che mi permettono di vivere senza problemi. Sto studiando, adoro imparare la cultura di ogni paese che mi ospita. Sto continuando a leggere I tramonti dei Demoni Emersi. Non è una facile lettura, ma Kevin mi sta aiutando a comprenderla. Alla fine devo accettare la mia natura, è mio dovere conoscere la mia storia, le leggende, le dinastie. Così come lui mi racconta ogni giorno delle stirpi angeliche. E non fingo più di essere un’umana. Ho accettato la mia natura. E Kevin mi sta aiutando a sviluppare le mie capacità. A volte io stessa mi sorprendo dei progressi che sto facendo! Ho imparato a volare, a muovermi velocemente, a impedire che il mio tocco infetti le persone, a dosare la mia forza. Be’, su quest’ultimo punto ci devo ancora lavorare, lo ammetto. Un’ultima cosa: non vi dirò dove mi trovo adesso. So che capirete. Consegnerò questa lettera a un conoscente che sta per partire per Istanbul. La spedirà da quella città. Sono convinta che queste poche righe vi abbiano fatto piacere.

Sono qui, in una nuova camera che mi ospiterà per qualche altra settimana. Ho così tante domande che mi frullano in testa che credo quasi di impazzire. Vorrei chiedervi come sta Damien, settimana le cure stanno facendo effetto. Vorrei sapere come sta Vivian, perché anche se ha tradito la mia fiducia non riesco a odiarla. Piango. Rido. Sogno. Spero. Questa è la cosa più buffa. Dopo tutto ciò che è successo, sono l’Ellen di sempre. Vostra figlia. Vi voglio tanto, tanto bene. Non scordatelo mai. Ellen

Prologo Il Risveglio

Il vento ululava tra le rocce della cascata di Foyers. Una pioggia fine e fastidiosa scendeva da un cielo compatto e scuro come antracite, aleggiava nell’aria e scompariva inghiottita dal vapore del lago di Loch Ness. Di tanto in tanto, una ragnatela di fulmini squarciava l’oscurità illuminando le sagome degli alberi che costeggiavano la riva. Là vicino, lungo un sentiero scosceso, si muovevano due ombre. Un individuo in nero, con il volto coperto da un pesante cappuccio, stava spintonando un uomo vestito di un saio grigio puntandogli una lama al collo. I due giunsero in prossimità della cascata e si fermarono davanti a una roccia. Un lampo. La luce illuminò il viso dell’uomo in grigio. Una maschera di sangue. Un lampo. La lama sibilò nell’aria. La roccia si macchiò di schizzi vermigli. Un lampo. I due individui erano scomparsi nel nulla. Tra i cunicoli scavati dentro la montagna, l’individuo in nero arrancava ansante. Con una mano teneva davanti al petto una torcia, con l’altra trascinava l’uomo in grigio sul terreno melmoso. Dopo un po’ si trovò di fronte a una porta d’acciaio. Sulla sua superficie erano incise le lettere: MShiCh, 358, Nechesch. Inspirò a lungo, congiunse le mani e recitò una preghiera, quindi bussò per tre volte. La porta si dischiuse con un cigolio metallico. «Vieni, ti stavo aspettando», sussurrò una voce dall’interno. Era una stanza circolare, dal soffitto basso e a botte, illuminata da una fila di candele poggiate dentro delle nicchie scavate sulle pareti. «Non è stata una buona idea», esordì l’uomo in nero, lasciando cadere il

cappuccio sulle spalle. Una cascata di capelli castani e ricci si adagiò sulle sue spalle, mentre la luce si rifletteva sull’incarnato esangue del volto. «Ti ringrazio dei tuoi consigli, Inghinn». «È una mossa azzardata, dovevamo aspettare». «Aspettare? Ho aspettato fin troppo». «Siamo a un o dall’ottenere ciò che abbiamo sempre desiderato», proseguì Inghinn. «Rischiamo che l’Arconte ci scopra». La voce si trasformò in una risata soffocata. «Non sei mai stata una brava stratega. Il Consiglio non penserà mai di tornare dove tutto è finito. E dove tutto inizierà ancora una volta». «Sei pronto a invocarlo?». «Lo sono sempre stato, sebbene ancora non lo sapessi». «Procediamo». «L’Immacolato?». «È qui con me». Inghinn gettò la cappa a terra. L’euforia la pervase come adrenalina nelle vene. Aveva atteso in silenzio per dieci lunghi mesi. Aveva aspettato il momento giusto, agito nell’ombra, mosso le sue pedine. No, non era affatto finita. Perché il suo unico Dio stava per risorgere, la sua vendetta per compiersi. Sì, c’era stata delusione. Profonda amarezza. Bruciante sconfitta. Perché lei era convinta di essere l’unica predestinata. L’unica ad aver dimostrato lealtà e devozione. Non si meritava forse di salire sul trono e comandare la luce e le tenebre? Aveva pregato, offerto sacrifici, ascoltato il silenzio. Per ore. Giorni. Mesi. Ma la voce di Nemesis non l’aveva mai chiamata. Cosa poteva fare? Rinunciare al

nuovo mondo? Come poteva distruggere per sempre il tramonto, spazzare via quel regno di imperfezione? Eseguire gli ordini. Esaudire il suo volere. Portare a termine la sua missione. Per sempre al suo fianco. Il braccio destro. Il consigliere. La devota serva. Nell’attesa di una ricompensa superiore, di un’eterna nuova vita. Inghinn drizzò le spalle. Il fallimento non era più concesso. Afferrò il polso dell’Immacolato e lo trascinò al centro della stanza. «È ancora vivo?». Lei lo guardò appena. «Respira. Almeno per adesso». Appena fece un altro o, si accese un triangolo di undici candele nere, rivelando dei simboli disegnati sul pavimento. Dieci cerchi bianchi, disposti in modo tale da formare la figura di un ottagono con due circonferenze vicine al vertice più basso. «Entra nel diamante delle Sephirot», sussurrò la voce. Poco prima dell’ultimo cerchio c’era una pozza riempita di una so-stanza scura, dove si trovava un individuo immerso fino al mento. I capelli, intrisi di sangue, gli coprivano metà volto. «Segui il sentiero di sangue. Percorri l’Albero della Vita». «Paradiso, Inferno. Caino, Serpente e Angelo Caduto», recitò Inghinn. «Raggiungimi, Primo Discepolo dell’Ordine, segui il Sentiero Ermetico». Inghinn alzò l’uomo in grigio da terra e lo prese sottobraccio. «Malkut, il Regno», disse entrando nel primo cerchio e affondando il coltello nella bocca dell’Immacolato, che emise un gemito. Poi proseguì diritto fino al secondo simbolo. «Yesod, il Fondamento», pronunciò conficcando la lama nell’inguine della vittima.

Si spostò in obliquo, sulla sinistra. «Hod, la Gloria», sussurrò colpendolo alla gamba sinistra. «Geburah, la Severità». Il coltello scese sul braccio sinistro dell’Immacolato, che si mosse appena. «Vieni da me, conduci l’offerta all’undicesima Sefirah», mormorò la voce. Inghinn si spostò sulla destra e spinse l’uomo dentro il pozzo scuro. «Daat, l’Abisso. La Non-Sefirah», disse infine inchinandosi. L’individuo si avvicinò al volto dell’Immacolato. «Daat, Sole Nero, Samael, io vi invoco», salmodiò affondando i den-ti sul suo collo. Un vento gelido soffiò nella cripta, spegnendo tutte le candele. Una luce flebile rischiarava la parete opposta della stanza, dove si trovava una statua di marmo scuro. Raffigurava l’Angelo Nemesis che stringeva in una mano una spada, con l’altra impugnava un candelabro. Il corpo della Creatura del Daat ebbe un sussulto. La pelle si scurì, i muscoli e i tendini si tesero come corde. Quando si staccò dalla gola dell’Immacolato, reclinò la testa all’indietro lasciando che un rivolo di sangue scendesse fino allo sterno. Poi, un urlo rimbombò tra le pareti della stanza. «Lucifer, Beelzebuth, Astaroth, Lilith. Venite!», gli fece eco Inghinn, con le palpebre socchiuse e le labbra tremanti come se fosse caduta in trance. Una fiamma le serpeggiò tra le dita, esalando un ricciolo di fumo che disegnò degli arabeschi a mezz’aria. «Io brucio questo incenso in onore di Nemesis. Lucifer, Beelzebuth, Astaroth, Lilith. Venite!». Dopo qualche istante di silenzio, Inghinn si alzò in piedi. La punta della lama graffiò il centro di ciascun palmo. «Stigmata».

Due gocce di sangue, nere come inchiostro, stillarono sul pavimento. Zigzagarono tra le rocce, disegnando una stella a undici punte attorno al pozzo del Daat. «Io apro il cancello dell’alba, nell’est, e invoco l’elemento dell’aria, nel nome di Amaymon», disse la creatura, elevando le braccia al cielo. «Io apro il cancello di mezzogiorno, nel sud, e invoco l’elemento del fuoco, nel nome di Göap». I suoi capelli si tinsero di bianco. «Io apro il cancello della sera e invoco l’elemento dell’acqua, nel no-me di Corson». Il suo corpo s’innalzò fino alla superficie del pozzo. «Io apro il cancello della notte e invoco l’elemento della terra, nel no-me di Zimimay». Una luce dorata illuminò la sua sagoma. «Io apro il cancello del mondo infero con la lettera Mem, nel nome di Lilith». Un’ala bianca spuntò sulla sua schiena, aprendosi verso destra. «Io apro il cancello del cielo con la lettera Shin, nel nome di Lucifero e di Samael». Un’ala nera si spiegò a sinistra. «Io apro il cancello del mondo astrale con la lettera Aleph, nel nome di Chiva e di Sariel». Una spada comparve nella mano della creatura. Un groviglio di luce e ombra si allungò dall’elsa. «Io ti saluto, Nemesis, e ti offro una libagione», concluse Inghinn, tagliando la gola dell’Immacolato. Il suolo iniziò a tremare, frammenti di roccia si staccarono dalle pare-ti e

rotolarono a terra. «Amen». Inghinn s’inginocchiò e congiunse le mani al petto. «Infine ti sei risvegliato, Nemesis». «Con me, l’Ordine dell’Apocalisse». «Sono pronta, mio Signore». Nemesis camminò lentamente fino a raggiungerla, quindi le pose una mano sulla nuca. «È arrivato il momento di agire». «Abbiamo già il Libro Dimenticato, presto otterremo la Chiave». Nemesis annuì imibile. «Mi serve una nuova offerta». «Non sarà difficile trovare un altro Immacolato». «Oh, no. Mi serve un’offerta… più importante». Inghinn incrociò il suo sguardo. «Dimmi il suo nome, te lo porterò». «Si chiama Ellen. Ellen Lynch».

PRIMA PARTE

La maledizione dell’Angelo e del Demone

1. Ellen Imprevisti

Mi sciacquai il viso. Mi strinsi i capelli in una coda. Mi osservai ancora una volta allo specchio. E sospirai. Troppo pallida. Troppo magra. Troppo poco italiana. Mi ai un velo leggero di trucco sul volto. Fondotinta e rossetto, niente di più. Ma si sa, stare in pubblico implica essere… come si dice? Ah, di bella presenza e sempre cordiale. Il che equivale a dire, nell’ordine: sorriso a trentadue denti, voce così dolce da far venire le carie, parlantina squillante, sguardo da ebete. Il tutto per mettere a proprio agio il cliente ed esaudire ogni suo dannato desiderio. E, dulcis in fundo, occorreva essere svelte senza combinare guai. Due cose che non riuscivo a conciliare. Una semplice somma che equivaleva a una sola parola: disastro totale. E poi, quel giorno mi sentivo a pezzi e non potevo nascondermi dietro a un enorme paio di occhiali da sole. Dovevo smetterla di fare le ore piccole in giro per il centro della città. Ellen ti serva da lezione, mi dissi aggiustandomi la maglietta da lavoro. Un super demone che ha sonno. Terribile. Bene. Pronta per il combattimento. Un’altra giornata stava per iniziare. Afferrai un menu e uscii dalla porta d’ingresso del bar. Quel pomeriggio mi spettava la clientela seduta nel gazebo su strada. Meglio così, un po’ d’aria aperta mi avrebbe fatto bene. Dunque, quali tavoli dovevo servire? Nulla di più facile, bastava controllare le espressioni d’insofferenza stampate sul volto dei clienti. Come al solito evitavo quelli che mi incenerivano con lo sguardo, lasciandoli a una collega che da anni lavorava nel bar e che aveva trasformato la sua pelle in una corazza coriacea. Bene, decisi di cominciare dai turisti dell’ultimo tavolo, gli unici a sembrare

quasi contenti della loro gita romana e non in preda al tipico attacco convulsivo: è tardi! Devo andare! La riunione! Signorina, si sbrighi! Si può avere il conto sì o no? Perché con quei tipi ero costretta a correre come se avessi alle spalle un killer con un lanciafiamme in mano. Killer che non mi avrebbe regalato un misero grazie né un centesimo di mancia. Ottimo. Rapida panoramica sulla clientela. Sorriso a trentasei denti. «Salve, vi serve aiuto?». Il tizio seduto al tavolo era un uomo sulla cinquantina, vestito con una terribile maglietta I love Italy, un paio di pantaloni militari corti fin al ginocchio e un cappellino verde. Al suo fianco c’era una donna più o me-no della stessa età, con un completo rosa shocking che bucava le pupille. Mi bastò un attimo per capire che erano stranieri. Niente di complicato, avrei gestito la situazione senza problemi. Durante le ultime settimane avevo scoperto una nuova dote: riuscivo a parlare e capire tutte le lingue del mondo senza difficoltà. Un simpatico gadget ereditato dalla famiglia Demoni Emersi di cui non potevo lamentarmi. Ripetei la domanda in inglese, il tizio ricambiò con un sorriso radioso. «Scozzese?», mi chiese riconoscendo il mio accento. «Esatto!», gli risposi porgendogli il menu. «Desiderate bere o mangiare qualcosa?». «Un martini per me e un succo d’arancia per mia moglie. Da quale parte della Scozia viene? Noi siamo di Bristol». «Perfetto», mi segnai la comanda. «Vengo dal nord della Scozia». «Edimburgo?». Quattro in geografia. A nord della Scozia ci sono le Highlands. «Più o meno», risposi vaga.

«Vacanza studio?». Rimasi impalata, sperando che non mi spuntassero gli artigli. Troppe domande per i miei gusti. Da quando in qua gli inglesi erano diventati così invadenti? «Proprio così! Be’, Roma è una città stupenda, fin da piccola desideravo visitarla», gli risposi indicando il Colosseo, che si ergeva davanti a noi. «Avete già visitato il Colle Oppio alle nostre spalle? Stupendo. O i Fori Imperiali? Proprio laggiù? Non c’è tempo da perdere». «Ah, è un’esperta allora! Bene, bene! Potrà sicuramente darci una mano», esclamò il tipo dispiegando la cartina di Roma sul tavolo. «Dunque… dunque…». Ahi. Guai in vista. Non potevo starmene zitta? Accidenti alla mia mania di parlare, parlare e parlare. Volevo fargli capire quante bellezze era-no nascoste a Roma, suggerendogli in modo non troppo velato di affrettarsi a visitarle. Magari lasciandomi un po’ di mancia, che non avrebbe guastato. «Sa per caso come si arriva alla Città Fantasma?», mi domandò puntando un dito sulla mappa. La scrutai rapidamente. Nord di Roma, fuori dal raccordo, lungo la Via Cassia. «Mi perdoni, in realtà sono a Roma da poche settimane», mentii. «Ho a malapena avuto il tempo di visitare il centro storico». Sfoderai un altro sorriso e mi congedai in tutta fretta. Guardai l’orologio. Erano solo le tre del pomeriggio. Altre quattro interminabili ore. «Signorina! Signorina!», udii alle mie spalle. Mi voltai appena, alzai una mano. Accento riconosciuto. E stavolta me la sarei cavata con poche chiacchiere. si. *** Alle diciannove in punto staccai dal lavoro. Indossai dei comodi jeans e una

maglietta scura, quindi presi la borsa. Contai i soldi delle mance, arrivavo appena a dieci euro. Periodo di orrenda crisi, senza dubbio. Scrollai le spalle. Sarebbero bastati per pagare due aperitivi. Oppure due caffè. Appena uscii dal bar, trovai Kevin che mi stava già aspettando. Schiena contro il muro, un ginocchio alzato, un libro tra le mani. Per la precisione la guida che gli avevo regalato la settimana precedente. Strinsi gli occhi. Che intenzioni aveva? Rimasi a guardarlo per un minuto. Ormai lo conoscevo da più di un anno, eppure ogni volta che lo vedevo il cuore mi batteva all’impazzata come una ragazzina in preda a una crisi ormonale. Occhi celesti come il ghiaccio, una cascata di riccioli biondi che gli incorniciava i lineamenti squadrati del viso. La solita stupida, certo. Eppure mi era impossibile comportarmi diversamente. Perché tutto era successo troppo velocemente, e in quei mesi non avevo realizzato che la mia vita era cambiata per sempre. In peggio o in meglio? Ancora dovevo stabilirlo. Comunque, il più bel compleanno della mia vita era stato quello dei quindici anni, quando avevo ricevuto come dono l’Evoluzione. Un termine piuttosto vago e apparentemente innocuo per dire che non ero un’umana né un semplice diavoletto dispettoso, ma un Demone Emerso devoto al Basilisco. Non solo, ma il ragazzo che avevo conosciuto e per cui avevo perso la testa era un Angelo Ombra. Bianco e nero? Freddo e caldo? Acqua e fuoco? Agli antipodi, insomma. Ma non era finita, un super Angelo pronto a scatenare l’Apocalisse era sulle nostre tracce. Infine, il Consiglio aveva ammesso il proprio sbaglio per aver tranciato ingiustamente l’ala a mio fratello Damien, ma non aveva accettato di buon grado la mia relazione con Kevin. Stop, pausa di riflessione? Manco per sogno. Perché l’Arconte aveva proibito qualsiasi relazione tra Angeli e Demoni. In pratica dovevo far finta che nulla fosse accaduto e tornare l’Ellen di sempre tra college e biblioteca.

Ottimo. Le cose erano andate un po’ diversamente. «Kevin?». Kevin ebbe un sussulto. «Non mi ero accorto che fossi già uscita», mi disse baciandomi sulla fronte. «Troppo preso dalla lettura del libro che ti ho regalato e che hai ignorato per una settimana?», lo punzecchiai. Lui alzò gli occhi al cielo. «Ero occupato in biblioteca». Scoppiai a ridere. A Roma i nostri ruoli si erano invertiti: io ero diventata una cameriera in un bar all’ombra del Colosseo, Kevin aveva trovato un impiego pomeridiano in una biblioteca di quartiere. La vita a volte è davvero ironica. O sadica, dipende dal punto di vista. «Già, immagino. Trovato nulla di interessante?». «Hum… qualcosa. Dai, incamminiamoci», disse prendendomi sottobraccio. Ci avviammo lungo i Fori Imperiali. Osservai alle mie spalle la sagoma del Colosseo farsi sempre più piccola. «Roma è davvero una città stupenda. Mi piacerebbe viverci, lo sai?», esordii dopo un po’. Kevin mi fulminò con lo sguardo. «Troppo caotica per i miei gusti». «Figuriamoci. Lo dicevi anche per Inverness. Per caso ci sono altri motivi?», gli domandai, Kevin non era mai stato un campione di bugie. «Ma davvero, Ellen, vorresti vivere in Italia?». «A Roma, sì. L’Italia non è così terribile come sembra di primo acchito». «Non lo so. Non credo sia il posto giusto per noi», s’incupì aprendo il libro sull’ultima pagina, dove c’era la mappa della città. Un velo di tristezza mi coprì il volto. «Perché, per caso esiste un posto adatto per un Demone Emerso e un Angelo Ombra in fuga?».

Mi rispose con un’occhiataccia. «Parla piano. Forse una città più pic-cola, meno frequentata, meno confusionaria…». «Meno, meno, meno» lo presi in giro. «Kevin, mi conosci. Roma è bellissima, piena di cose da vedere, non mi annoierei mai. Ma con te vivrei anche in un paesino di mille anime arroccato su una montagna sconosciuta, per me non fa differenza». Lui si fermò, pensieroso. «Chissà, potrebbe essere un’idea». Gli detti una pacca sulle spalle. «Ehi, stavo scherzando. Scordatelo. Ah, non riuscirai a sviare il discorso, quindi andiamo subito al sodo. Che hai oggi?». Kevin rimase un minuto in silenzio, preso in contropiede, mentre ci avviavamo lungo Via del Corso, gremita di persone. «Non è il momento e il luogo per parlarne», dichiarò caustico. «Per quale motivo? In questa strada ci sono migliaia di persone alle quali non frega un accidente dei nostri problemi. Stai diventando troppo apprensivo». «Apprensivo? Stai scherzando? Siamo dei fuggiaschi, Ellen, fattene una ragione». Inarcai le sopracciglia. «Me ne sono fatta una ragione nel momento in cui ho spiccato il volo dal Castello di Inverness». Kevin mi strinse le mani nelle sue, i nostri sguardi s’incontrarono. Ancora una volta, mi persi nelle sue iridi. E, come sempre, per uscire dal-l’imbarazzo detti il meglio di me. «Bene, Romeo Alato, vediamo di dipingere un bel sorriso sul tuo volto. No, non sono pentita di averlo fatto. Sì, mi avevi avvertita che saremmo fuggiti di città in città, anche se non pensavo fosse così stressante. E soprattutto, sì, sono felice di stare con te. Come mai lo sono stata in tutta la mia vita». Con l’indice mi alzò il mento, le sue labbra sfiorarono le mie. «Era questo che volevo sentirti dire». ***

Svoltammo sulla destra, in una strada laterale di Via del Corso. Rimanemmo in silenzio, abbracciati, a osservare la folla che entrava e usciva nei negozi, i ragazzi che schiamazzavano, la gente che si accalcava in cerchio attorno agli artisti di strada. Non era facile abituarsi al caos delle grandi città, anche Londra o Parigi erano simili. Frotte di turisti che ondeggiavano come un mare in piena, persone che camminavano spedite come in una maratona, metropolitana così gremita che si stava stretti come sardine. Niente a che vedere con Inverness, neppure durante l’ora di punta. Chinai la testa. Non mi sarei mai aspettata però che Kevin cedesse all’insicurezza. Ero convinta che sarei stata io la prima a crollare e a trovarmi disorientata. Chissà, forse il desiderio di uscire dalle Highlands scozzesi mi aveva dato l’energia per affrontare un mondo così diverso dal mio. Per Kevin però non era stato lo stesso. Aveva vissuto fino a sedici anni in completa solitudine nell’isola di Skye, in compagnia della nebbia, del freddo, del silenzio. Quando però ci ritiravamo nella nostra casa in affitto, tornava ad essere il Kevin di sempre, ironico e affettuoso. Alla fine era solo questione di tempo, prima o poi si sarebbe abituato a questa nuova vita. E io ero pronta ad aiutarlo in qualsiasi momento ne avesse avuto bisogno. Appena girammo l’angolo, rimasi senza fiato. Ogni volta che mi trovavo di fronte alla Fontana di Trevi il cuore mi balzava in gola. Kevin sfogliò rapidamente la guida. «Barocco… classicismo…», farfugliò. «Risale al Settecento, fu progettata da Nicola Salvi. Rappresenta il mare, al centro c’è la statua di Oceano, a sinistra quella dell’Abbondanza e a destra della Salubrità. Quelli in basso sono i tritoni». «Così non imparerò mai nulla», mi rimproverò chiudendo il libro. «Ci sei venuta senza di me, per caso? Mi reputo offeso, sappilo». Sorrisi divertita. «Ho solo il desiderio di conoscere il paese che mi ospita, tu sei sempre occupato… E quando faccio l’orario spezzato ne approfitto per vedere qualcosa. A proposito, non hai mai visto La dolce vita di Fellini?». «Eh?».

«Fellini, il regista». «Ah, sì, certo», replicò lui guardando altrove. «Angelo bugiardo», gli dissi girandolo di spalle e porgendogli una moneta. «Lasciamo perdere. Dai, esprimi un desiderio e lanciala nella fontana». Kevin chiuse gli occhi e tirò la moneta dietro di sé. Mi accinsi a fare lo stesso, ma indugiai un istante. Il problema era scegliere un solo desiderio tra quelli annotati sul papiro chilometrico intitolato «Propositi di Ellen Lynch, stagione inverno-primavera». Ecco, anch’io stavo mentendo. A me stessa. Inutile girarci attorno, perché c’era solo una cosa che desideravo più di tutte. Dopo otto mesi dalla fuga da Inverness, il mio unico desiderio era quello di poter riabbracciare i miei genitori e mio fratello. Tutto qui. Un desiderio semplice e rapido. Come la moneta che scomparve nell’acqua della Fontana di Trevi. A Kevin non sfuggì l’espressione stampata sul mio volto. «Mi spiace, Ellen». «Non devi dispiacertene», lo freddai subito. «È colpa mia». «Non lo è». «Prima avevi una famiglia». «La mia famiglia è sempre stata complicata». «Adesso non puoi più starci insieme». «Mai dire mai. Comunque, la mia famiglia adesso sei tu». «Ellen…». «Piantala di fare la vittima».

Come sempre, bastavano poche battute per farmi innervosire. Non era addossandosi tutte le colpe che mi avrebbe fatto sentire meglio. Mi mancavano i miei genitori e Damien, era naturale. Ma ero convinta della mia scelta. Punto. Ed era giunto il momento di affrontare il discorso, che Kevin lo volesse o no. Avevo rimandato per troppo tempo. «Sono stanca di spostarmi per tutta l’Europa. Ho bisogno di stabilità. Chi l’avrebbe mai detto? Questa vita non fa per me. Desidero viaggiare, ma ho la necessità di un punto di riferimento. Ho il desiderio di sapere che da qualche parte nel mondo esiste un mio rifugio. Tutto qua». «No, non possiamo», mi rispose, inflessibile. «Kevin, non prendiamoci in giro. Sai benissimo che se l’Arconte ci avesse voluto scovare non sarebbe stato così difficile. Quanti Angeli e Demoni abbiamo incontrato durante la nostra fuga? In quanti ci hanno riconosciuto al tramonto?». «Se mi avessi ascoltato…». «Non voglio vivere rintanata come una ricercata». «Tecnicamente per il Consiglio siamo due ricercati». «Siamo due ricercati di serie B, allora». «Può darsi», commentò adombrandosi. «Siamo sempre Ellen Lynch e Kevin Shaw. Mostriamo le nostre carte d’identità ogni volta che affittiamo una casa, prenotiamo un hotel, accettiamo un lavoro. Insomma, non servono i servizi segreti per stanarci. La verità è molto più semplice: all’Arconte non frega un accidente di noi». «Non possiamo stabilirlo». Scossi la testa. «Tu che non stabilisci qualcosa? Non sei credibile. Sapevi che non ci avrebbe messo degli Emissari alle costole, altrimenti avresti cercato di recuperare delle nuove identità». «Ed è sempre la mia intenzione, ma ero cosciente che il dialogo tra i distretti non è dei migliori, specialmente quello dei paesi dove siamo stati. E di sicuro non

siamo nella top ten delle priorità del Consiglio». «Oppure l’Arconte ha deciso di ignorarci, visto che abbiamo rischiato la vita, smascherato l’Ordine dell’Apocalisse, eliminato Nemesis. Un modo particolare per ringraziarci, chissà. Insomma, ci siamo esiliati, questo è sufficiente per il Consiglio». «Parla piano», mi redarguì di nuovo. «No, non parlo piano un accidente. Sono stanca di sussurrare. Voglio urlare. Voglio solo tornare a vivere». Kevin sospirò, poi tornò ad abbracciarmi. «Lo faremo, te lo prometto. Però voglio che tu mi dica tutto, qualsiasi dubbio o malumore. Dobbiamo essere sempre sinceri tra di noi. Siamo io e te, Ellen». Mi staccai. Sentivo le lacrime affollarsi sulle mie ciglia. «Già». «Ellen?». Non avevo il coraggio di sostenere il suo sguardo. «Ellen?». Quando incontrai i suoi occhi, le pupille mi tremarono. «Cosa ti prende?». Non ce la facevo più. Non potevo mentirgli ancora. Dovevo liberarmi di quel macigno. «Dieci giorni fa ho spedito una lettera ai miei genitori». Kevin sbiancò in volto. «Cosa hai fatto?». «No, non ti preoccupare. Ho chiesto a un cliente del bar di spedirla da Istanbul, dove stava per tornare. Non potranno mai capire che siamo a Roma». Lui incrociò le braccia al petto, torvo in volto. «Maledizione, Ellen». «Sei arrabbiato?».

«Sono deluso». «Avevo bisogno di scrivere quella lettera. Rischiavo di impazzire. Dovevo rassicurare la mia famiglia. Che un giorno ci riabbracceremo e che devono stare tranquilli», dissi tutto d’un fiato. «Non è questo il punto». «Lo so». «Dovevi dirmelo». «Non me lo avresti permesso». «Ci avremmo ragionato insieme». «Sei sempre tu che decidi, non io». «Basta, Ellen!», s’infuocò in volto, avvicinandosi di un o. «È così che deve essere il nostro rapporto? Dobbiamo fingere e mentirci alle spalle?». Abbassai lo sguardo. Aveva ragione. Ero stata un’idiota. «No». «Mi spiace, ma così non può andare». Alzai subito la testa. Detesto le allusioni e le frasi dette a metà. «Quindi?». «Quindi devi dirmi tutto. Tutto», sillabò puntandomi l’indice contro. Mi misi sulla difensiva. «Sono stata attenta. Ci ho pensato a lungo. Non sono un’incosciente». «Ma non me l’hai detto. Cos’altro mi nascondi?». ai al contrattacco. «E tu invece? Dimmi, mio Angelo Custode, cosa mi nascondi?». Kevin rimase un attimo in silenzio. Mi ai una mano sul volto. Avevo fatto centro, purtroppo.

«Non sono una ragazzina stupida. Quando ti chiedo cosa fai in biblioteca resti sempre sul vago. Quando torni a casa e sei nervoso, irritato, angosciato… non mi spieghi mai il perché. Succede dal nostro ultimo viaggio a Parigi. È evidente che mi nascondi qualcosa anche tu». Kevin s’irrigidì. «Non nascondo nulla d’importante». Abbozzai un sorriso. «Non sono una Sfera, né un Primo Cerchio. Puoi rendermi partecipe anche delle tue preoccupazioni». Avevo la situazione in pugno. Sapevo benissimo quello che Kevin stava facendo, ma avevo sempre evitato di affrontare l’argomento. Vivere come gitani non era facile, speravo che le cose si sarebbero aggiustate con il tempo. Ma mi si accusava di non essere sincera, e questo non lo potevo accettare. «Ricerche». «Ricerche non andate a buon fine». «Più o meno». «Ricerche per capire come annientare il Basilisco che scorre nelle mie vene». Mi guardò solo per un istante. Sì, era proprio così. «Non è una novità. Già lo sapevi». «Certo, lo so dal mio quindicesimo compleanno», gli dissi mostrando il tatuaggio del serpente avvolto sul sole, impresso sul mio polso. «Ma speravo che questa ricerca, per quanto inutile sia, potessimo condividerla». Kevin si sedette su uno scalino, con lo sguardo perso sugli zampilli della fontana. «Detesto sentirmi impotente. Detesto fallire». Appunto. Fu sufficiente quella frase a farmi sbollire la rabbia e cadere nel senso di colpa. Non mi aveva parlato delle sue ricerche perché non aveva trovato nessuna soluzione al mio problema. Be’, definirlo problema era un eufemismo. La verità era che al tramonto il Basilisco prevaleva su qualsiasi mia volontà, ne avevamo già sperimentato gli effetti i primi giorni che ci eravamo conosciuti. Se mi avvicinavo a un Angelo, in tal caso Kevin, il desiderio di affondare gli artigli

nella sua schiena era incontrollabile. Gli cinsi le spalle con il braccio. Ancora una volta mi ero dimostrata una stupida. Ero io quella in difetto: forse il sentimento che provavo non era così forte da sconfiggere la bestia del superdemone che si annidava nel mio animo? Kevin stava cercando una soluzione e io l’avevo accusato di mentirmi, nascondendo la verità e rischiando di complicare la situazione. «Non è così, lo sai bene. E poi… sono solo pochi minuti al giorno», gli dissi abbassando la zip del suo giubbotto. Gli indicai il tetto del palazzo a ridosso della Fontana di Trevi. «Cielo rosso. Tramonto. Le giacche costano, ma le magliette si trovano al mercato a buon prezzo». Feci appena in tempo a spogliarmi, che le mie ali si distesero. Mi scansai, guardando altrove. Quel dannato tramonto sarebbe ato. Così come le persone che mi camminavano accanto, senza accorgersi della mia trasformazione, della mia pelle livida, delle unghie mutate in artigli acuminati. Infischiandosene dei tagli sul retro della maglia. Si sa, i giovani se ne escono sempre con nuove mode bizzarre. Un altro giorno. Un altro tramonto. Questione di secondi. Al massimo un minuto o due. Difficile prevederlo. Eppure, mi sembrava un’eternità. Un’eterna punizione, un supplizio che mi condannava a stare lontana dall’unica persona che amavo. E ogni volta avevo una paura tremenda. Paura che quegli istanti non finissero più, paura che non potessi più sprofondare la mia testa nelle sue braccia. Ma, soprattutto, mi sentivo colpevole. Malvagia, meschina, crudele. Il tramonto era la macchia indelebile impressa dal destino, la vergogna di una natura che ero incapace di combattere. E improvvisamente tutte le mie debolezze vacillavano, l’amarezza vinceva ogni mia sicurezza, speranza, gioia. Era un’apnea che sembrava non aver fine. Tornavo a inspirare a pieni polmoni solo quando l’ultimo raggio di sole congedava il giorno e abbracciava la notte. Liberandomi da quell’eterna maledizione.

Facendo scomparire le ali, le unghie. Trasformandomi nell’Ellen di sempre. Una lacrima solcò la mia guancia. Perché la coscienza di ciò che ero diventata non mi abbandonava mai. Perché per quanto mi ostinassi a voler vivere un’adolescenza comune, semplice, anonima, non potevo per sempre ignorare la bestia che ruggiva nel mio petto. Così come aveva fatto Kevin, tenendomelo nascosto per non farmi soffrire, per lasciarmi libera di godere delle bellezze di Roma e della sua storia antica. Di vivere una giovinezza che mi era stata negata. Mi avvicinai a lui. Con la punta dell’indice, Kevin raccolse la lacrima dal mio mento e si sfiorò la guancia. «Il tuo dolore è il mio dolore. La tua gioia è la mia gioia». Chiusi gli occhi. Kevin era la mia unica cura. Lo sentii avvicinarsi. Annusare la mia pelle. Fondere il suo respiro con il mio. Sentii il calore delle sue labbra. Le sue braccia che mi stringevano, il suo desiderio che moltiplicava il mio. Poi, successe qualcosa d’imprevisto. Le gambe iniziarono a tremare, le forze mi abbandonarono. La testa iniziò a girarmi. E tutto fu buio.

2. Kevin I Quattro Sigilli

«Ellen?». Nessuna risposta. «Ellen, ti prego, dimmi qualcosa…». Ellen aprì lentamente gli occhi. Sbatté le palpebre, si guardò attorno, quindi si sfiorò con le dita la pezza bagnata sulla fronte. «Kevin?». Le carezzai il volto. «Ehi, come stai?». «Come… come se mi fosse… ato sopra un camion», balbettò, tentando di alzarsi. La trattenni sdraiata sul divano, sistemandole il guanciale sotto la nuca. «Ferma, non muoverti. Sei ancora debole». «Siamo a casa?», mormorò dopo una lunga pausa. «Sì. È tutto a posto». «Che ore sono?». «Quasi mezzanotte». Le toccai di nuovo la fronte. Scottava. «Hai ancora la febbre alta, devi riposare». «Febbre? Ma… ma cosa è successo?». Scossi la testa. Che potevo dirle? «Sei svenuta», sintetizzai.

«Svenuta?», ripeté con aria confusa. «Com’è possibile? Eravamo… eravamo davanti alla fontana di Trevi, era appena ato il tramonto». «Proprio così». «E ci siamo baciati». Sospirai. Era l’unica spiegazione plausibile. Ellen si accorse della mia espressione angosciata. Si alzò sul cuscino. «Kevin, ragioniamo». «Devi riposare». «Non sono in fin di vita. Non mi hai messa ko con un bacio». Mi trattenni dal risponderle in malo modo. Era svenuta tra le mie braccia e rimasta priva di sensi per diverse ore, ancora scottava ed era debole, eppure aveva voglia di fare dell’umorismo? Possibile che non capisse quanto stessi male? La situazione era assurda e sentirmi così impotente mi faceva impazzire. Che cosa stava accadendo a Ellen? «Quando te ne stai in silenzio mi spaventi», mi disse a un tratto. «Pensare troppo è uno dei tuoi più gravi difetti». «Potrei dire il contrario di te», risposi piccato. «E poi non penso, so-no solo preoccupato». «Sarà la stanchezza. Una dura giornata al bar», minimizzò. «Non so-no malata». Scattai in piedi. «Lo so che non sei malata! Ma far finta che vada tutto bene non risolverà la situazione». «Stai esagerando. Stavolta è stato… un po’ più forte del solito». «Un po’ più forte, dici? Eri in perfetta forma, Ellen, ma appena ti ho baciata sei crollata…». «Come una pera lessa. Ok, ho afferrato il concetto. E capisco che ti sia

preoccupato». «Ero terrorizzato», esclamai. «Non sapevo cosa fare! Di certo non potevo accompagnarti da un medico o al pronto soccorso!» . «Perché no? Bastava che chiedessi le indicazioni per raggiungere il reparto degenza Demoni Emersi». Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. Era una battaglia persa in partenza. «Sto cercando solo di sdrammatizzare», disse lei alzandosi la coperta fin sotto il mento. «Vedi, quando litighiamo reagisco così». «Non abbiamo litigato, abbiamo solo discusso». Ellen si accigliò. «Lo so. E infatti hai perfettamente ragione. Dovevo parlarti della lettera, che avrei comunque scritto. Ma anche tu dovevi mettermi al corrente dei tuoi studi. Ecco perché ti sei intestardito a cercare un lavoro in una biblioteca». Alzai le spalle. «Be’, sempre meglio del rapporto col pubblico. Come sai non sono molto bravo». «Potresti migliorare e diventare un perfetto barman. A proposito… Angelo, daresti qualcosa da mangiare a un terribile Demone febbricitante?». Sorrisi. Il suo accento pungente mi face sperare bene, alla fine. «Un tè caldo con dei biscotti?». «Sì, grazie. Quanto darei per avere un piatto di scones in questo momento». Andai in cucina e misi a scaldare l’acqua. Sapevo benissimo che anche Ellen era preoccupata. Solito modo di agire: scherzare e rispondere con sarcasmo per non affrontare la situazione di petto. D’altro canto aveva ragione: era inutile che continuassi le mie ricerche da solo. La situazione stava precipitando, avevo bisogno del suo aiuto. In due, forse, avremmo trovato una soluzione. Immersi una bustina di tè nella tazza. Mi ero illuso di scoprire qualcosa nei libri più antichi e nelle leggende che si tramandavano di generazione in generazione. Anche solo delle frasi che potessero indirizzarmi nella direzione giusta, per

capire cosa stava succedendo. Mi detti dello sciocco. I testi sugli Angeli e Demoni, quelli veri, erano stati sequestrati dagli Immacolati nel corso dei secoli. Nessuna traccia: questo era il loro unico obiettivo. Del resto mi sembrava impossibile che non esistessero testi sulla convivenza tra Angeli Ombra e Demoni Emersi, dinastie in lotta dalla notte dei tempi. Possibile che noi due fossimo l’unica eccezione? Quando tornai in sala, Ellen era seduta sul divano, avvolta dalla coperta e intenta a leggere quella che da qualche tempo era diventato il suo libro preferito: I tramonti dei Demoni Emersi. «Trovato nulla?», le domandai appoggiando il vassoio sul tavolino. Scosse la testa. «Nulla di preciso, ma ho un sospetto. Ricordi quando Nemesis stava per rompere il Patto d’Equilibrio e la linea del tramonto stava per assottigliarsi?». «Nemesis non c’è più», dissi stringendo i pugni. Ogni volta che udivo quel nome il volto di Rachel mi appariva davanti, e il dolore riaffiorava pungente. «Ok, lasciamo stare per un attimo l’Ordine dell’Apocalisse. Supponiamo che per un’altra causa il Patto sia di nuovo in pericolo. Questo… sfaldamento del tramonto potrebbe riversarsi sui minuti antecedenti e successivi al Tramonto. Man mano che il processo va avanti, i bordi del tramonto diventano sempre più pericolosi per noi. Ecco la motivazione di ciò che è successo», concluse non troppo convinta. «Ammesso che sia vero. Dimmi Ellen, come ti sei sentita quando le a-li sono scomparse e ci siamo abbracciati?». Ellen si strinse nelle spalle. «Come sempre». «Niente desiderio di… uccidermi?». «No, quello l’ho provato qualche minuto prima quando litigavamo». «Ecco, come pensavo», risposi glissando sulla battuta. «Quindi è qualcosa di diverso». Ellen prese la tazza fumante e vi intinse un biscotto. «È vero, ma ho provato la

stessa sensazione quando infettai Hugh». Aggrottai la fronte. Questo era un particolare interessante. «Quindi è come se tu avessi involontariamente usato i tuoi poteri?». «Proprio così. Ma forse non funzionano con gli Angeli». Si lasciò cadere sullo schienale del divano. «O forse ero stanca, la tua natura ha fatto scudo e tutto si è ritorto contro di me. È solo un’ipotesi, ma resta poco plausibile visto che il tramonto era ato». «A meno che, come appena detto, il Patto non sia in pericolo». Ellen poggiò la tazza sul tavolino e sfogliò rapidamente il libro fino alle ultime pagine. «Questa parte è la più difficile. È scritta in un linguaggio che appena riesco a capire. Eccola, guarda, proprio l’ultima sezione, non sono mai stata capace di leggerla». Gli detti una sbirciata, ma erano solo un’accozzaglia di simboli ignoti. Non me ne preoccupai, per noi Angeli era impossibile decifrare i libri scritti dai Demoni. «Vedi, dal momento dell’Evoluzione non ho mai letto questo diario con attenzione. Ero confusa, preoccupata, rifiutavo categoricamente la mia natura. Lo consultavo solo al momento del bisogno, perché mi disgustava l’idea di essere un Demone. E poi, mia madre mi aveva avvertita: avrei compreso il suo significato con il manifestarsi dei poteri da Demone. Comunque, credo che tu sappia che esistono ordini superiori alle Sfere e alle Spirali». Mi sedetti accanto a lei. Il discorso stava già prendendo una brutta piega. «Sono solo leggende e superstizioni. Non esistono entità superiori al Consiglio delle Sfere e delle Spirali». Ellen dondolò la testa sulle spalle. «O così almeno ti è stato insegnato quando eri nell’isola di Skye. Per me la situazione è un po’ diversa, ormai non mi meraviglio più di nulla. Come dell’esistenza delle Tre Gerarchie Celesti». Non ero uno sprovveduto, erano tutte nozioni che avevo fin da piccolo. «Terza gerarchia, quella in contatto con gli uomini: Angeli Ombra, Arcangeli. Seconda gerarchia: Dominazioni, Virtù e Podestà. Prima gerarchia: Serafini, Cherubini e Troni».

«Segno un bell’otto nel registro», scherzò Ellen, poi si fece subito se-ria. «Tu credi nell’esistenza di Dio?». Mi toccai il naso. La situazione si faceva sempre più complessa. «Tu credi nell’esistenza di Lucifero?». «Non lo so, ma il mondo che credevo di conoscere non è così semplice come mi ero immaginata. Quindi sì, tutto è possibile». Le ai una mano sulla fronte. La temperatura sembrava essere scesa. «Sai, ci ho ragionato molto da piccolo, mentre mi allenavo. Solo, tra la nebbia e la pioggia di Skye, mi chiedevo se Dio mi stesse guardando. Se era orgoglioso di me, perché sarei diventato un Angelo Ombra, un guerriero». Feci una lunga pausa. Non riuscivo a trovare le parole adatte. «Poi ho smesso di pensarci. Perché ogni giorno la sofferenza annientava qualsiasi altro sentimento. Man mano che la mia pelle s’induriva, mi sentivo sempre più vicino alla terra, e meno alle entità superiori». «Ne hai mai parlato con Remiel?», mi domandò Ellen. «Mi raccontò qualcosa, ma non abbiamo mai approfondito l’argomento. Colpa mia, ero troppo impegnato nell’allenamento fisico». «Quindi possiamo ipotizzare l’esistenza delle Tre Gerarchie». «Superstizioni». «Proprio come Nemesis, peccato che si sia trasformata in realtà», concluse abbassando lo sguardo. «Non capisco dove vuoi arrivare». Ellen chiuse il libro di botto. «Qui c’è scritto che quando le dimensioni degli Angeli e dei Demoni si saranno fuse, i Quattro Sigilli saranno infranti». «Quattro Sigilli?». «Il diario è molto vago sulla questione, o forse non riesco ancora a capirne il contenuto. Parla del Cavaliere Bianco, simbolo della supremazia bellica. Il Cavaliere Rosso, emblema dell’ira e della guerra sanguinaria. Il Cavaliere Nero,

portatore di carestia. Il Cavaliere Verde, ovvero la morte. Ti risparmio tutti gli altri terribili dettagli». Chinai la testa, avevo già sentito quella leggenda. «E Nemesis vorrebbe risvegliare questi Demoni». «Ah, no, non sono Demoni a quanto ho capito», sospirò scuotendo la testa. «È solo l’Apocalisse. I Cavalieri che distruggeranno il mondo, costringendo le Gerarchie Celesti a scendere sulla terra». «Per combattere le 666 legioni demoniache, emerse dagli inferi». Ellen poggiò il libro sul tavolino e riprese la tazza tra le mani. «Così dice, vedo che conosci anche tu la leggenda. Ci sono interi capitoli sulle Gerarchie Demoniache. Be’, avrei preferito una lettura più rilassante, ma mi sa che è arrivato il momento che approfondisca questa sezione». «Non ne so molto, eccezion fatta per i Demoni Emersi, Emissari e Spirali», commentai, sebbene non fossi così curioso di conoscere le atrocità demoniache. «Ho letto il finale della storia. La comparsa del Drago dell’Apocalisse, ossia di Lucifero». «E Dio muoverà la sua mano sulla terra», conclusi rabbrividendo. In quell’istante mi arono davanti le immagini di quando ero piccolo, nel rifugio tra i monti Cullins, in compagnia di Owan e Rachel, mentre l’Arcangelo ci narrava queste storie. A quel tempo erano solo racconti misteriosi e affascinanti, per quanto potessi comprendere il loro significato. Adesso però un dubbio mi assillava senza darmi tregua: Remiel non aveva mai agito senza un preciso scopo. Per quale motivo ci aveva raccontato quelle leggende se non credeva che potessero avere un fondamento di verità? «Direi che siamo andati un po’ oltre», conclusi affranto. Ellen bevve un sorso di tè, tossendo. «Non direi. Se è vero che l’Ordine dell’Apocalisse sta continuando a perseguire il suo piano, può aver trovato un modo per spezzare il Patto d’Equilibrio. Così si spiegherebbe l’assottigliamento del tramonto e quello che ci è successo alla Fontana di Trevi. Nel libro però non è spiegato il legame tra il Patto d’Equilibrio e i Quattro Sigilli dell’Apocalisse».

Le misi un braccio sulle spalle. «E tutto questo l’hai capito mentre ero in cucina a preparare il tè?», le domandai sarcastico. Ellen fece spallucce. «Kevin, tu avevi un’intera biblioteca a disposizione, io solo questo libro. Direi che sono stata molto più efficiente di te. Forse… forse dovremmo collaborare e smettere di fingere di ignorare la questione». «Forse dovremmo lasciare questi problemi a chi ha il potere e il dove-re di affrontarli». «Già, il Consiglio», commentò scettica. «L’Arconte, preoccupato solo a mantenere il suo comodo posto nella poltrona, sperando di avere meno problemi possibile per i prossimi otto anni». «Ma di certo non saremo noi a svelare questi misteri», dissentii inflessibile. «Siamo solo un Angelo Ombra e un Demone Emerso in fuga». Ellen si voltò e contrasse i lineamenti del volto. «Bene, vediamo se posso essere più chiara: sono come le tessere del domino e stanno crollando l’una sull’altra. No, Kevin, non sono pazza o visionaria. Procediamo all’incontrario, forse è più semplice. Dall’omega all’alfa, come si dice. Dio e Lucifero che si affrontano sulla terra, devastata dalla guerra tra Angeli e Demoni. Dio e Lucifero richiamati dalla discesa delle Gerarchie Celesti e della comparsa delle 666 legioni Demoniache. Gerarchie che sono state invocate nello stesso momento in cui sono apparsi i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Questi ultimi, però, sono stati liberati quando i Quattro Sigilli si sono infranti, cioè allo spezzarsi del Patto d’Equilibrio. Come si spezza il Patto d’Equilibrio, dunque?». Alzai le spalle. «È proprio questo il punto, Kevin. È lo scopo che Nemesis ha sempre cercato di raggiungere, senza riuscirci». «Non sono problemi che possiamo risolvere con le nostre forze», obiettai. «Ma sono problemi che ci riguardano. Quando il tramonto sarà sfaldato in un eterno Tetrastile, le nostre nature acquisteranno così tanta forza che sarà impossibile stare anche a un chilometro di distanza senza desiderare di ucciderci a vicenda».

Capitolai. Se quelle supposizioni erano esatte, saremmo stati costretti a lasciarci. Per sempre. Un senso opprimente di angoscia mi spinse ad abbracciarla ancora più forte. Potevo sopportare tutto, ma non la sua perdita. Le carezzai il volto, disegnai con il dito il contorno delle sue labbra. Fu un attimo. Balzai in piedi, gemendo dal dolore. La pelle sul polpastrello era diventata scura, increspandosi. Quando alzai lo sguardo, Ellen stava piangendo.

3. Ellen Animal Instinct

Ore sette e quindici. Tv accesa. Zapping selvaggio. Inspiro. Espiro. Anche in Italia la qualità dei programmi era abbastanza scadente. Serie Tv degli anni Ottanta, film visti e rivisti fino alla nausea, reality, talent e talk show da sbadiglio interrotti dalla solita rissa di turno. Mi stavo annoiando a morte. Kevin era uscito da meno di mezz’ora per andare in biblioteca, e il suo imperativo era stato chiaro e indiscutibile: assoluto riposo. Divano, coperta, I tramonti dei Demoni Emersi – ottima e piacevole lettura per una convalescenza, non c’è che dire – l’ennesima tazza di tè, l’aspirina che non sarebbe servita a un tubo. Sì, perché fondamentalmente stavo bene. Anzi, mi sentivo già in forze. Motivo? Semplice, dovevo solo recuperare qualche ora di sonno. Forse Kevin e io ci eravamo preoccupati inutilmente. Forse non esisteva nessuna macchinazione globale. Niente Gerarchie Celesti e Demoniache, niente Cavalieri dell’Apocalisse. Niente di niente. Solo stanchezza. Spensi la Tv e scaraventai il telecomando in mezzo ai cuscini. Ottimo, la missione autoconvincimento-mattutino-per-Ellen era fallita miseramente. No, non potevo ignorare quello che era successo. A mezzanotte, o giù di lì, Kevin mi aveva sfiorato le labbra. Il suo dito era diventato viola scuro come un fiore avvizzito. La spiegazione che mi ero data era fin troppo chiara. Dopo aver perso i sensi alla Fontana di Trevi mi ero risvegliata a casa, mentre Kevin era stanco per la

terribile giornata. La mia natura aveva prevalso su di lui e stavolta non mi si era ritorta contro. Il nocciolo della questione era sempre il solito: la maledizione che ci costringeva a stare lontani non era più limitata al tramonto ma sconfinava nei minuti limitrofi. O addirittura ore. Ripresi ancora una volta quel dannato diario. Mi sforzai di leggere le ultime pagine, a fatica riuscivo a capire il significato dei simboli. • Serafini: Draghi o Serpenti Alati, Angeli a sei ali che rappresentano l’ordine più elevato, circondando il trono di Dio. Tra di loro Vehulah, Jeliel, Sitael. • Cherubini: Tori Alati, custodi del Regno Celeste, Angeli a quattro facce e quattro ali che portano sapienza. Tra di loro Haziel, Aladiah, Hariel. • Troni: portatori della giustizia di Dio, muovono il suo trono nel Paradiso. Tra di loro Lauviah, Caliel, Ayulah. • Dominazioni e Principati: Angeli della seconda sfera, ricevono ordini da Serafini e Cherubini. Tra di loro Rayel, Haalah, Oamel. • Potestà: Angeli fatti da nebbia multicolore. Portano la coscienza e custodiscono la storia. • Potenze e Virtù: Angeli che sviluppano ideologie e dottrine. • Arcangeli: sette schiere, tre maggiori e quattro minori, spesso in contatto con il mondo umano. • Angeli Ombra: per metà uomini e per metà Angeli, guerrieri in terra delle gerarchie Celesti, atti a preservare il Patto d’Equilibrio.

Erano poche righe, ma bastarono a farmi tornare il mal di testa. Avevo una repulsione congenita per la burocrazia. Provai comione per Kevin. Se tutte quelle entità soprannaturali non erano frutto di fantasia e non nascevano da qualche strana leggenda, la sua vita era

decisamente complicata. Un gran casino, ad essere sinceri. Bene, era giunto il momento di tornare a giocare in casa. • I Demoni Superiori si dividono in sei categorie: Demoni del Fuoco (Inferi), dell’Aria, della Terra (Demoni Emersi, Spirali, Emissari), dell’Acqua, dei Sotterranei e delle Tenebre. A loro volta divisi in dieci gruppi, comandati da uno spirito infernale. Tra i quali: Thamiel, i bicefali, spiriti in rivolta dominati da Moloch; Chaigidel, spiriti di menzogna guidati da Belzebù… Sfogliai altre pagine. Meglio andare oltre, quei nomi erano impronunciabili e impossibili da ricordare. • L’imperatore è Lucifero, il demone principale, il «portatore di luce» e conoscenza, il primo a sollevarsi contro l’ordine celeste. Belzebù è il suo Principe, il Signore delle Mosche. Astoroth il Gran Duca. Lilith, Regina dei demoni succubi, assassina dei neonati, tentatrice di Adamo… Un simpatico gruppo di amici, non c’è che dire. …A loro sono subordinati Lucifugo, Primo Ministro, Stanacchia e Agaliareth, Gran Generali, Fleuretiy, Tenente Generale… Il gruppo di amici si era allargato, quindi. Seguiva una lista infinita di subalterni, con i vari riferimenti e gerarchie. Andai avanti di qualche capitolo, senza soffermarmi sugli epiteti che mi facevano rabbrividire. • I settantadue Demoni del Lemegeton si dividono a loro volta in Re (sigilli in oro), Duchi (sigilli in rame), Principi (sigilli in stagno), Marchesi (sigilli in argento), Presidenti (sigilli in mercurio), Conti (sigilli in rame e argento), Cavalieri (sigilli in piombo). Chiusi di botto il libro e lo scaraventai a terra. Se le Gerarchie Celesti erano complicate, quelle Demoniache erano un vero incubo. Anzi, il completo caos. Non mi sarebbe servito a nulla conoscere a menadito tutti i legami tra le dinastie. Unica nota positiva: se mi lamentavo di essermi trasformata in un super-demone, non ero nulla in confronto ai capi degli inferi.

Quindi? Mi restava come amico il silenzio e come unico svago la contemplazione della strada intasata dal traffico, fuori della finestra. La Tv mi faceva saltare i nervi, quel maledetto libro invece era la soluzione migliore per aggiudicarmi un’emicrania cronica. Come mi mancava la biblioteca di Inverness! Solo adesso mi rendevo conto di quanto fosse importante. Anzi, mi sorpresi a provare nostalgia per la mia vita ata, che avevo sempre reputato noiosa e detestabile. Non so cosa avrei dato per fare una eggiata lungo la riva del fiume Ness o una partita di pallone al mare con Kenneth e Hugh. Già, i miei amici. Cosa stavano pensando di me? Ero scomparsa da un giorno all’altro, avevo gettato via la scheda del mio cellulare. Sicuramente erano piombati in casa a chiedere spiegazioni ai miei genitori. E quale scusa gli avevano rifilato? Che ero partita per un viaggio? Chissà, forse Kenneth aveva abboccato, ma non Hugh. Mi si strinse lo stomaco in un pugno. Prima di partire per salvare Damien a Stonehaven, Hugh mi aveva dichiarato i suoi sentimenti. Di più, mi aveva detto che mi amava. Il che mi poneva in una situazione fin troppo scomoda, perché gli volevo un bene dell’anima, quasi come fosse un secondo fratello. Be’, nel periodo in cui stetti lontana da Kevin, avevo anche pensato a cosa sarebbe successo se avessi considerato Hugh più di un amico. Pensiero stupido? Forse, ma giustificabilissimo. Hugh era affascinante, allegro, intelligente. Uno dei ragazzi più belli del college, e non aveva nulla da invidiare a Kevin. Ma era anche tremendamente cocciuto e testardo. Sorrisi. Ero così confusa da dimenticare che dopo l’Evoluzione non avrei potuto avere nessun tipo di rapporto sentimentale con gli esseri umani. Sarei vissuta fino a trecento anni, loro invece quanto? Ottanta, forse. Li avrei visti tutti morire. Avrei ato i miei ultimi giorni a portare fiori nel cimitero dei miei defunti fidanzati e mariti. Che immagine macabra e desolante. Un fatto però mi era assolutamente chiaro: avevo bisogno disperato di confidarmi con un amico, raccontargli le mie preoccupazioni, liberarmi una volta per tutte da quell’ansia crescente che mi teneva per la gola e m’impediva di

respirare. Potevo sfogarmi con Kevin? Certo che no. Chi afferma che il fidanzato può essere anche il migliore amico dice una grande stupidaggine. Kevin era confuso quanto me, renderlo partecipe del mio stato d’animo non avrebbe aiutato nessuno dei due. Dovevamo sostenerci a vicenda e affrontare la situazione nel migliore dei modi, evitando inutili isterismi. Ossia i miei. Mi morsi le labbra. Stavo facendo di tutto per distrarmi per non pensare al vero problema che mi affliggeva. Kevin e io. L’Angelo e il Demone. Scattai in piedi. Mi sentivo di nuovo soffocare. Dovevo scaricare la tensione in qualche modo. Trovare la via d’uscita per quel labirinto di pensieri. Volevo solo liberarmi dalla maledizione che mi teneva lontano da Kevin. Volevo solo che il mio istinto animale non ci uccidesse a vicenda. Dovevo uscire al più presto di casa. *** If you want, I’ll hunt you like an animal If you want, I’ll treat you like an animal Ore nove. Piazza del Popolo. Una tuta da ginnastica. Una maglietta bianca. Cuffie infilate nelle orecchie, musica sparata a tutto volume tanto da cancellare qualsiasi altro suono. Il clacson delle automobili, le voci delle persone, il rumore dei miei i. Oltre l’obelisco, in fondo alla piazza, una scalinata. La mia meta. There’s no use going back ’cause the damage is done

Go away, all the rules ’cause it’s gonna be now Salii di corsa sul colle Pincio. Mi fermai per tirare il fiato. Un rapido sguardo al panorama di Roma. Il Colosseo. L’Altare della Patria. San Pietro. Ok, non sarei dovuta uscire. L’avevo promesso a Kevin. Ma un Demone che fa dei giuramenti… be’, è alquanto ridicolo. Chiusi gli occhi. Mi voltai. Tornai a correre. If you want, I’ll hunt you like an animal If you want, I’ll treat you like an animal Correvo nei sentieri del parco. Correvo lungo il perimetro di Piazza di Siena. Correvo perché la mia vita si era trasformata in un incubo. E l’incubo era diventato una voragine scura che risucchiava ogni mia energia ed estirpava tutti i pensieri, conducendomi a una sola conclusione: presto non sarei più potuta stare accanto a Kevin. Ero tragica? Fatalista? Pessimista? No, non lo ero affatto. Inutile illudersi che la situazione sarebbe migliorata. L’impossibilità di stare uniti non era una novità e mi ero abituata all’idea. Prima accadeva solo al tramonto, poi si era estesa ai minuti precedenti e successivi. Adesso bastava che ci sfiorassimo anche per un istante in qualsiasi momento della giornata e le nostre nature si ribellavano. Finale della storia? Il nostro amore non era capace di fronteggiare una maledizione che prescindeva le nostre volontà. Come on and let yourself go, ’cause there’s no time to think. Now I’m in control of your animal instinct. Il mio istinto animale contro quello di Kevin.

Il Demone che s’impadroniva di me, contro l’Angelo che cercava di difendersi. O viceversa, a seconda delle nostre forze fisiche. Lanciai un urlo. Qualche ante si volse a guardarmi, poi tirò dritto. M’inginocchiai a terra, ansante. Iniziai a piangere. Perché i nostri sentimenti ci univano e la nostra natura ci voleva dividere? Non era servito a nulla andare contro le nostre famiglie, come Montecchi e Capuleti. Adesso eravamo al livello successivo. «Sempre insieme, eternamente divisi», sussurrai. Come Etienne e Isabeau nel film LadyHawke. Condannati per l’eternità a non poter vivere insieme. Sarebbe successo così? «Io sono dolore». Strinsi le braccia al petto. Mi asciugai le guance. Correre. Ancora. Play. If you want, I’ll treat you like an animal If you want, I’ll feed you like an animal Giardino del lago. Davanti a me un isolotto con al centro un tempio. Sul frontone una scritta in greco: Ασκληπιωι Σωτηρι. La tradussi in un attimo: ‘Esculapio salvatore’. Per me, però, non esisteva alcun salvatore. Quanti poteri avevo. Ma qual era il prezzo da pagare per una vita lunghissima e una conoscenza sovrumana? La solitudine. Lontana dai miei amici. Dal ragazzo che amavo. Dalla mia famiglia.

Spensi l’iPod e presi una decisione. Non potevo più continuare a quel modo, torturandomi ogni minuto. Dovevo sentire la voce di mia madre. Evitai di usare il mio telefonino. Cercai una cabina telefonica, ma non ne trovai neppure una. Non c’era da meravigliarsene, tutti ormai utilizzavano i cellulari. Mi ci volle un buon quarto d’ora per spiegare la mia situazione al gestore di un bar, pregandolo di farmi usare il suo telefono fisso. Ovvio, dovetti sborsare ben venti euro. Questa, a suo avviso, era la spesa per una chiamata in Scozia. Ladro. Composi tremante il mio numero di casa. Stavo facendo una follia, lo sapevo. Se il Consiglio era sulle mie tracce, di certo aveva inviato un Emissario a controllare ogni mossa della mia famiglia. Anzi, il telefono era sotto controllo. Ormai non mi sarei più meravigliata di nulla. Quindi? Quindi avrebbero capito che la chiamata proveniva da Villa Borghese, a Roma. Avrebbero chiamato il distretto di competenza, gli Immacolati si sarebbero messi sulle tracce mie e di Kevin. Nessun problema, c’era abbastanza tempo per fuggire in un’altra città. Attesi il segnale di libero. Stavo tremando come una foglia. «Avanti… rispondete…», dissi con un filo di voce. Sentii il rumore della cornetta che si alzava. Silenzio. «Pronto?», dissi. Un ronzio. «Mamma?». Un respiro. «Papà?». «Ellen». Abbassai subito. Il cuore mi batteva in gola. Strinsi la cornetta fino a farmi

sbiancare le nocche. Non era la voce di mia madre. Non era la voce di mia padre. Era quella di uno sconosciuto. In quello stesso istante, il mio cellulare squillò. Lo cercai nella borsa, avevo ricevuto un messaggio. Afferrai il telefono. Dall’agitazione non riuscivo neppure a sbloccare il salvaschermo. Andiamo, forza! Menu. Messaggi. Nuovo messaggio in arrivo. Lo lessi.

4. Kevin Una vecchia conoscenza

Stasera arriverò in ritardo. Problemi in biblioteca. Un bacio, ti amo. Invio. Chiusi il cellulare. Aspettai qualche istante. Il bip di notifica. Il messaggio era stato ricevuto da Ellen. Sospirai. Detestavo mentirle. Solo la notte prima ci eravamo promessi di non nasconderci nulla, di aiutarci l’uno con l’altra, di risolvere i problemi assieme. Già tradivo quel giuramento. Stavo commettendo un errore? Dovevo dirle ciò che stavo per fare? Ellen non avrebbe capito. Sarei stato accusato di essere un egoista, di aver tradito la sua fiducia e il patto che avevamo stretto quando eravamo fuggiti da Inverness. Un patto di non ritorno, la promessa di lasciarci il ato alle spalle. Ma la verità era un’altra. Non era stato possibile per Ellen, che aveva contattato i suoi genitori. E non lo era stato per me. Forse mi stavo sbagliando. Se le avessi spiegato la situazione, lei avrebbe capito. Ormai non erano solo dei semplici sospetti o delle ossessioni di un Angelo Ombra che non riusciva a gestire una nuova vita e ad adattarsi nel mondo degli uomini. C’erano dei fatti chiari e indiscutibili. Mi morsi le labbra e strinsi il telefono nel pugno. Avevo ragione. Il Patto d’Equilibrio era di nuovo in pericolo, qualcosa era successo nelle Highlands. Qualcosa di terribile, tanto che il tramonto non bastava più a confinare le nostre rispettive nature. Alzai lo sguardo. Scossi la testa. Seguii le curve del marmo freddo che scolpiva la Vergine e il corpo martoriato del Figlio abbandonato tra le Sue braccia. Lessi la frase sulla fascia a tracolla della statua: MICHELA[N]GELVS BONAROTVS

FLORENT[INVS] FACIEBAT. Il destino si era accanito ancora una volta con una terribile maledizione. Per noi non ci sarebbe stata alcuna pietà. Mi voltai e uscii dalla cappella, incamminandomi lungo la navata centrale. Mi guardai attorno, affascinato dall’imponenza della basilica di San Pietro. Contemplai l’ampia volta a botte del soffitto, i mosaici, il pavimento marmoreo e le file di pilastri massicci. La penombra e il silenzio cullavano i miei pensieri, infondendomi un senso di pace e sicurezza. I turisti rispettavano la sacralità della cattedrale, il divino imponeva la devozione annientando il caos di Roma. Arrivai nell’ambulacro, il cuore della basilica. M’inginocchiai di fronte al baldacchino del Bernini, delimitato dalle quattro colonne tortili di bronzo, che proteggevano l’altare papale. Non potevo più nascondere i miei piani a Ellen. Era giunto il momento di svelarle ogni mia intenzione, farle capire che non avevamo altra scelta se non affrontare una nuova missione. Fino a quel momento avevo agito nell’ombra, combattendo tra il dovere e il rimorso. Adesso dovevo mettere fine a quell’inutile gioco. Controllai l’orologio, ero in anticipo. Lui mi stava già aspettando. Là, nel posto prestabilito. Nelle Grotte Vaticane. Scesi lungo la doppia scalinata e raggiunsi il piano sotterraneo. Camminai spedito attraverso i corridoi, fino alla nicchia dove ci eravamo dati appuntamento. A terra si trovava una tomba di marmo bianco, sulla cui superficie erano incise le lettere: IOANNES PAVLUS PP.II 16 X 1978 * 2 IV 2005 Tirai un sospiro di sollievo. Dovevo solo aspettare qualche minuto, sapevo che non avrebbe ritardato. Lui non tardava mai.

«Ciao, Kevin. Sono felice di rivederti dopo tutto questo tempo». Mi voltai lentamente, riconoscendo subito la sua voce. Era un uomo alto dalla corporatura massiccia, indossava un cappotto nero, degli stivali scuri e un paio di guanti di pelle. Su tutto risaltava la sua pelle esangue e i capelli così chiari da sembrare bianchi. «Non così tanto. Sono solo otto mesi, Angus», replicai chinando la testa in segno di saluto. Angus si guardò attorno con circospezione. «Incamminiamoci, c’è troppa gente per parlare di cose private». Annuii, seguendolo in silenzio. «Aspettavo la tua chiamata con ansia», esordì Angus dopo qualche minuto. «L’ho fatto appena ho potuto». Angus congiunse le mani all’altezza della vita. «È inutile che perdiamo tempo a discutere su ciò che è accaduto a Inverness. Ma voglio sottolineare che sono profondamente amareggiato per essere stato così ingenuo e per aver commesso errori imperdonabili». Ne rimasi sorpreso. Le poche volte che avevo parlato con Angus durante quel periodo, aveva sempre glissato sull’argomento. Erano telefonate brevi, in cui ci scambiavamo dei messaggi concisi e ci aggiornavamo sui nostri progressi. Temevo di essere scoperto, ma Angus mi aveva rassicurato che non c’era da preoccuparsi. Nessuno avrebbe immaginato che l’Angelo fuggitivo lavorava ancora con il suo vecchio e detestato capo clan. «Non potevi prevedere che Inghinn fosse la traditrice», commentai a labbra strette. Mi bastava pronunciare il suo nome per sentir montare la rabbia. Avevo sempre odiato gli atteggiamenti arroganti di Inghinn, aver scoperto che apparteneva all’Ordine dell’Apocalisse non era stato altro che una conferma. Incrociai lo sguardo di Angus, che aveva un’espressione triste. Non mi sentivo appagato per ciò che era successo, sapevo quanto doveva aver sofferto per aver preso un abbaglio simile. Teneva molto a Inghinn, l’aveva considerata il suo braccio

destro, il suo consigliere, una persona di cui poteva fidarsi ciecamente. La realtà invece gli aveva dimostrato l’esatto contrario. «Sono felice di non essermi sbagliato sul tuo conto e su quello di Nora». «Nora come sta?», chiesi subito con apprensione. «Bene. Sta eseguendo alla perfezione i suoi compiti», replicò lui, algido. Evitai di fargli altre domande, sebbene fossi assillato da mille dubbi. Nora era arrabbiata con me? Come aveva reagito quando aveva saputo dello scontro con Nemesis? Si era preoccupata? E quando ero scomparso nel nulla, cosa aveva pensato? «E sono ancor più orgoglioso di te». Quest’ultima affermazione mi colse di sorpresa. Mi sarei aspettato di tutto, ma non una reazione simile proprio da Angus, distaccato per natura, che non si era mai lasciato andare a elogi sul mio operato. Del resto, lo meritavo? Fuggendo con un Demone Emerso avevo abbandonato il clan, infranto le regole degli Angeli Ombra e, cosa ancor più grave, quelle del Consiglio. Insomma, non godevo certamente di una buona reputazione. Angus mi abbracciò. Fu un gesto rapido e impacciato. Non seppi come reagire e m’irrigidii come un tronco. «Anche se per quanto riguarda il tuo comportamento…», Angus s’interruppe e mi fissò dritto negli occhi. «Be’, devo dire che mi hai assolutamente spiazzato», concluse abbozzando un sorriso e indicandomi l’uscita dalle Grotte Vaticane. «Sono stato io a sorprendermi, ero convinto che non avresti mai risposto al mio appello», risposi camminandogli a fianco. «Per quale motivo non avrei dovuto farlo?». «Ho tradito il Consiglio, mi pare un dato di fatto». «È un dato di fatto anche che l’Arconte sia un Demone Emerso, verso il quale non nutro stima né fiducia», aggiunse caustico. «Ed è un dato di fatto la sua negligenza in merito ai compiti che ha il dovere di svolgere. In particolare, preservare il Patto d’Equilibrio».

Evitai di commentare. Stavolta avevamo la stessa opinione. «Però otto mesi sono troppi, Kevin», disse infine, mentre raggiungevamo il portone d’uscita della Basilica di San Pietro. «Sono sempre il capo clan di Inverness. Ammesso che tu voglia ancora farne parte». Gli posi una mano sulla spalla. «Io, Kevin Shaw, Angelo Ombra e Terzo Cerchio, giuro fedeltà a te, Angus Cameron, Primo Cerchio del clan di Inverness dell’Area Centosei. Giuro di eseguire ogni tuo ordine, affinché sia preservato il Patto d’Equilibrio». Angus sorrise, i lineamenti del volto contratti. «Non ho mai tradito questo giuramento. L’ho pronunciato durante la Nomina, lo rinnovo adesso. Ti sono sempre fedele», dissi gonfiandomi in petto per l’orgoglio. Lui socchiuse gli occhi. «Ciò che conta sono i fatti, non le parole di u-no stupido giuramento che ho visto fin troppe volte infrangere. E tu hai ampiamente dimostrato la tua lealtà al Patto d’Equilibrio. Tanto basta». «Ma non verso il Consiglio», precisai, andando dritto al punto. «Ma hai rispettato l’ideale che anch’io perseguo. Certo, in tutta sincerità non posso approvare la scelta di vivere con un Demone Emerso». Mi rabbuiai. «Ellen, si chiama Ellen». «Ellen Lynch, conosco perfettamente la sua storia. Comunque, ti sei comportato in modo ineccepibile durante questi ultimi otto mesi». «Non è stato facile eseguire le istruzioni. Le ricerche a Madrid e Parigi non hanno portato a nessun risultato». «Ti sbagli, ci hanno condotto alla giusta meta. Roma. Qui si trova la Chiave». Angus osservò il colonnato di Piazza San Pietro. Non ne ero affatto convinto. Era come cercare un ago in un pagliaio. «Ammesso che qualcuno non sia giunto prima di noi», dissi dopo una pausa.

Angus scosse la testa. «No, non credo. Nora sta facendo un buon lavoro a Inverness. I Discepoli ancora non hanno portato a termine la loro missione». «Quindi sono di nuovo all’opera? Come immaginavo…». «Supposizioni e qualche dato concreto. Ma stanno operando in modo inaspettato, il loro obiettivo non è più quello di creare disordini tra Angeli e Demoni. Il prossimo Tetrastile è fra quasi otto anni, vogliono raggiungere il loro scopo ben prima». «Per spezzare il Patto d’Equilibrio, come dice la leggenda. Richiamare le Gerarchie Celesti e Demoniache, risvegliare i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse», commentai ricordando la discussione con Ellen. Aspettai una reazione di Angus che smentisse quelle supposizioni. Ma non fu così. «Questo è lo scopo di Inghinn». Rabbrividii. Adesso avevo la certezza che le mie paure stavano per avverarsi. «Il tramonto si sta sfaldando ancora una volta». «Perché il Patto è di nuovo in pericolo», mi confermò Angus. «Quindi Nemesis è risorto?». Si strinse nelle spalle. «È un’ipotesi». «Inghinn è… il nuovo Nemesis… è lei la nuova incarnazione dell’Angelo dell’Apocalisse?», domandai infastidito, cacciando le mani dentro le tasche del giubbotto. «Può essere», rispose con aria vaga. «Ma non è un’informazione essenziale ai fini della nostra missione». «Non lo è?». «Nemesis o qualche altro Discepolo dell’Ordine dell’Apocalisse, oppure nessuno. Che differenza fa? . Inutile rispondere. Angus aveva perfettamente ragione.

*** Mentre eggiavamo sul Lungotevere, continuammo a discutere. Gli raccontai gli esiti delle ricerche che avevo portato avanti durante la permanenza a Parigi e Madrid, e le ultime scoperte a Roma. «Cosa succederà se l’Ordine otterrà la Chiave?». «Spezzerà per sempre il Patto. Aprirà le porte dell’Apocalisse». Leggende. Ancora leggende. Ne avevo abbastanza. «Angus, cos’è la Chiave?». Lui poggiò i gomiti sul muricciolo che delimitava gli argini del Tevere. Il suo sguardo si perse nell’acqua scura del fiume. «È così importante saperlo, Kevin? Un libro. Una formula magica. Un amuleto. Un’idea. Un’illusione. Può essere qualsiasi cosa, ma non è questo il punto. Se cadrà nelle mani dei Discepoli non potremo più far nulla». Riflettei a lungo sulla risposta da dargli, cercando di ponderare le parole. «Non è una missione che dovremmo svolgere noi. Non ne abbiamo le forze, e spetta al Consiglio combattere contro l’Ordine. All’Arconte, che se ne sta beato nella sua poltrona a oziare e godere della sua posizione». Angus mi fulminò con un’occhiataccia. «Non dire sciocchezze, Kevin. Non mi deludere». Sostenni il suo sguardo senza timore. Gli avevo giurato fedeltà e intendevo onorare il mio giuramento, ma la situazione non era più quella di quando ero giunto a Inverness. Adesso non volevo più sottostare a inutili comandi, volevo partecipare attivamente alle decisioni. Queste erano le mie nuove regole. «Sto dicendo solo ciò che penso. E credo che tu sia della stessa opinione». «Cioè? Fammi capire Kevin, perché questo atteggiamento non ci porterà da nessuna parte. Vuoi agire come l’Arconte, lavandotene le mani?». «Non abbiamo la possibilità né gli strumenti per fronteggiare l’Ordine».

«No, e non lo faremo. Non ho intenzione di ingaggiare una battaglia contro i Discepoli. Non ne abbiamo le forze, è evidente. Cercheremo però la Chiave, evitando che portino a termine il loro folle piano». «Rischiando la nostra vita». Angus scoppiò a ridere. «Vita? Di quale vita stai parlando, Kevin? La mia, forse? Non ne ho più una dal momento in cui sono diventato Primo Cerchio e ho deciso di guidare un clan di Angeli Ombra. Intendi la tua o quella di Ellen, quindi? Due fuggiaschi che hanno deciso di scappare in ogni angolo della terra, aspettando che prima o poi il Consiglio decida di strapparvi le ali?». Mi morsi le labbra. Guardai altrove. «Ma la domanda giusta da porsi è un’altra, Kevin. Quando accadrà?». Già, proprio così. Era la stessa domanda che mi ponevo da giorni. «Chissà, forse questo debole Arconte sta facendo finta di nulla, perché avete tolto di mezzo Nemesis che era una grande scocciatura», continuò chiudendosi i bottoni del cappotto. «Anzi, il più grande pericolo per la sua posizione come capo del Consiglio. Sicuro che non cambi idea in futuro? Ti fidi dell’Arconte?». Era inutile rispondere a quella domanda. Se neppure un Primo Cerchio aveva fiducia nelle istituzioni angeliche, avrei dovuto averne io? «Sarò pronto ad affrontare qualsiasi situazione», asserii infine. «Magari fra otto anni, un nuovo Arconte desidererà sistemare il con-to in sospeso. Perché, sai, la voce che un Angelo e un Demone vivano beati dopo aver infranto una delle leggi più importanti del Consiglio non gioca affatto a suo favore». «Non ho paura». «Ne sono sicuro. Ammesso che arriveremo al prossimo Tetrastile, prima che l’Ordine spezzi il Patto d’Equilibrio».

«È solo una leggenda». «Come la leggenda che narra dello sfaldamento del tramonto, che rafforza la natura di un Angelo e di un Demone. Che li rende per sempre nemici, spingendoli a uccidersi a vicenda. È una leggenda anche questa?». Capitolai. Inutile nascondersi dietro un dito. Avevo raccontato ad Angus quello che stava succedendo tra me ed Ellen. Non ne ero pentito, non avevo altra possibilità che chiedere il suo aiuto. E Angus aveva ragione. Non potevo fuggire fingendo che i miei sentimenti avrebbero potuto vincere qualsiasi destino avverso. Avevo avuto fin troppe conferme. «Non mi fraintendere. Non mi sto tirando indietro. Sto solo esprimendo dei dubbi a riguardo». «Dubbi comprensibili, che ci faranno però solo perdere tempo. È ora di agire, Kevin, siamo giunti alla meta. Non possiamo cedere adesso». Inspirai. No, non mi sarei tirato indietro. Ero pronto ad affrontare una nuova battaglia. Ma a una precisa condizione. «Stasera diremo a Ellen la verità. Tu e io, insieme». Angus non si scompose, come se avesse già previsto quella richiesta. «In questi mesi mi sono sempre domandato perché ancora non avevamo discusso su questo punto». «Perché volevo che Ellen fosse felice», risposi d’istinto. «Se Ellen ti ama, ti capirà senza battere ciglio. Anche il suo aiuto è importante, non ce la faremo mai da soli. Temevi che non sarei stato d’accordo?». «No, perché non hai mai approvato la mia scelta», gli risposi con tono di sfida. «Naturale. Certo, non sono al settimo cielo per essere costretto ad allearmi con un Demone Emerso, tantomeno ad averla nel mio clan». «Be’, non siamo più nell’Area Centosei. Né siamo un clan».

«Come dire… trovo inadeguato lavorare spalla a spalla con un Demone Emerso. Sei soddisfatto, adesso? Vuoi che mi inventi altri mille sinonimi?». «Il concetto è chiaro. Quindi?». «Esiste un’altra possibilità?». Sorrisi, per una volta avevo la situazione in pugno. «Certo, chiedere aiuto al distretto di Roma e del Vaticano». Angus si ò una mano tra i capelli. «Un’ottima idea. Hai sempre la risposta pronta, Kevin?». Feci spallucce. «Non direi. In realtà aspettavo che ti arrabbiassi, alzassi la voce…». «Per quale motivo? Ho letto tutti i tuoi pensieri mentre eri nella nicchia di Giovanni Paolo II. I tuoi soliti errori, Kevin. Se vuoi salire di Cerchio devi stare più attento. In ogni circostanza e in ogni ora del giorno». Fui preso in contropiede. Non avevo pensato a chiudere la mente quando avevo incontrato Angus. Non ero più abituato a difendermi dalle intrusioni degli Angeli, dato che non avevo avuto più l’opportunità di stare a contatto con loro. «Bene, vorrà dire che non ho più segreti con te. Quindi qual è la tua decisione finale?». «In un’emergenza sono ammissibili delle eccezioni». «Ellen non è un’eccezione. È il presupposto per avermi al tuo fianco. Devi accettarlo». «Una sfida interessante». «La mia relazione con Ellen non è una sfida», ribattei inflessibile. Angus cercò il mio sguardo. «Nel profondo, Kevin, sei davvero sicuro di desiderare una relazione con un Demone Emerso?».

5. Ellen La maledizione

Un bacio, ti amo. Rilessi l’ultima frase del messaggio più volte. Spensi il cellulare. Bugie. Nient’altro che bugie. Conoscevo Kevin come le mie tasche, e non era solito chiudere gli sms con frasi d’amore, complimenti, sdolcinatezze. Usava controvoglia il telefonino, riduceva al minimo il suo utilizzo. I suoi sms erano freddi e rapidi come telegrammi. Quando questo non avveniva, c’era qualcosa di strano. Senso di col-pa, ecco come chiamarlo. Perché non era vero che era bloccato in biblioteca a lavorare. Potevo sciogliere i miei dubbi andando a trovarlo, certo. Ma non ce n’era bisogno. Mi sarei arrabbiata solo di più. Tutto qui? Nemmeno per idea. Ne avremmo discusso a lungo. Non sarebbe finita con un sorriso e un abbraccio sinonimo di «bentornato a casa, amore!». Non ero la brava massaia che imbandiva la tavola per cena, lavava i piatti e stendeva i panni. Se lo poteva scordare. E poi, appena ieri ci eravamo promessi di dirci tutto. Et voilà, di nuovo punto e da capo. Ero forse troppo stupida per aiutarlo? Incapace di combinare qualcosa di buono? Non mi pare che fosse riuscito a risolvere i nostri problemi da solo. Quindi, la conclusione era una sola: Kevin mi stava nascondendo qualcos’altro. Perché la motivazione di volermi dare un po’ di tregua e vivere felice non stava più in piedi. Io non ero affatto felice. Ero delusa, depressa, nervosa e arrabbiata nera. Stop. Tanto per chiarire, non amo litigare. Ma ci sono dei limiti che non si devono superare e le discussioni servono per chiarire una situazione e non tornarci più sopra. Forse non ero stata incisiva? Forse dovevo spiegargli in modo ancor più chiaro che non ero una stupida bambina e che sapevo cavarmela da

sola? A quanto pare tutto quello che era successo a Inverness non era stato sufficiente a conquistare la sua fiducia. Bene, anch’io ero molto indaffarata. Così tanto da uscire un’ora prima da lavoro, gettare via la maglietta da barista e infilare quella della turista. Almeno impiegavo il mio tempo nel migliore dei modi. Da sola, naturalmente. Ormai mi stavo abituando all’idea. Aprii la guida di Roma alla pagina su Castel Sant’Angelo. Distrazione, ecco cosa mi ci voleva. Risalii la rampa elicoidale che percorreva il cilindro interno del castello per giungere al secondo livello. Lessi rapidamente la sua storia, anche se qualcosa già la conoscevo. Anno 590. Roma era afflitta da una grave pestilenza, Papa Gregorio I organizzò una processione solenne per benedire la città e salvarla dal morbo che mieteva centinaia di vittime. Allora il castello si chiamava Mole Adriana, e fu proprio in quel luogo che, secondo la leggenda, il Papa ebbe la visita dell’Arcangelo Michele che rinfoderava la sua spada. Da quel giorno la pestilenza scomparve dalla città. Sorrisi, chiedendomi perché gli Immacolati non fossero intervenuti. Miracolo, così fu definito quell’evento, quando in realtà era la normale procedura burocratica del Consiglio del Vaticano e di Roma, riportare l’Equilibrio. I Demoni Emersi avevano esagerato, gli Angeli Ombra erano stati costretti a chiedere aiuto persino a un Arcangelo. Era finita là? Non proprio. A quell’epoca la lotta per il Patto d’Equilibrio era molto più… come dire, vivace. Tanto che quando fu costruito un Angelo di legno sopra il Castello, i Demoni si affrettarono a distruggerlo, ma gli Angeli spinsero gli uomini a costruirne un altro, stavolta di marmo. Le sorti si ribaltarono ancora una volta, quando il «libero arbitrio umano» fu deviato nell’assedio del 1379 delle truppe si. Nome in codice? Equilibrio. La statua fu ricostruita in marmo e bronzo, finché i Demoni persero la pazienza e scagliarono un fulmine su Castel Sant’Angelo. Una mossa semplice e risolutiva, non c’è che dire. Be’, secondo quanto mi aveva raccontato mia madre, fu una delle lotte intestine più famose nella storia dei Consigli di tutto il mondo. Al successivo Tetrastile, nel 1752, fu stabilito che l’Angelo dovesse rimanere in cima al castello, e venne ricostruito in bronzo. Non

fu facile giungere alla decisione conclusiva, perché nessuno dei due schieramenti voleva cedere. Ma all’epoca il Consiglio del Vaticano era molto più forte di adesso. Gli Arconti provenivano tutti dalle Sfere e non si lasciarono sfuggire l’occasione di marchiare Roma con la loro effige. Sospirai, amareggiata per quanto fosse stupida e inutile la battaglia tra Angeli e Demoni. Avevo raggiunto la Sala delle Urne, dove erano custodite le spoglie di Adriano. Una lama di luce proveniva dall’alto e spezzava l’oscurità, rischiarando una nicchia e una lapide. Lessi l’epigrafe in latino. Animula vagula, blandula, Hospes comesque corporis, Quae nunc abibis in loca Pallidula, rigida, nudula, Nec, ut soles, dabis iocos… Tradussi le frasi: ‘piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti…’. Non potevano esserci parole più adatte per esprimere il mio stato d’animo. Mi sentivo perfettamente a mio agio nelle vesti di una piccola anima smarrita, che guarda con nostalgia le rive familiari, convinta di non rivederle mai più. Mi detti della sciocca. Dovevo solo parlare con Kevin e mettere le cose in chiaro, una volta per tutte. Anzi, ero stanca di quella situazione. Sarebbe stato un aut aut: o mi rendeva partecipe delle sue ricerche o le nostre strade si sarebbero divise. Che razza di rapporto pensava di instaurare? Infine, gli avrei raccontato della mia telefonata a casa. Senza alcuna vergogna, perché dopo otto mesi di fuga era giunto il momento di dare una svolta definitiva. Mentre salivo nella terrazza superiore, rabbrividii. Di chi era quella voce che mi aveva risposto al telefono? Ero stata troppo precipitosa, la paura mi aveva spinto ad attaccare subito la cornetta. Non era mamma né papà, tantomeno mio fratello.

Forse un nuovo amico di famiglia? Uscii a prendere una boccata d’aria, ammirando il panorama di Roma e il Tevere che si snodava al suo centro. Avevo la gola secca, mi misi a cercare un bar. Mi fermai per qualche minuto nella terrazza adiacente, dove si trovava una donna intenta a suonare il piano. Si era formato un piccolo gruppo di persone, che ascoltava in silenzio la melodia. Sarei voluta rimanere anch’io, ma avevo troppa sete. E non ero dell’umore giusto per godermi un concerto di musica classica. Raggiunsi il bar più vicino, che per fortuna era deserto. Mi avvicinai al bancone, dove c’era un ragazzo di bell’aspetto, capelli scuri e occhi color nocciola. «Un caffè, signorina?», mi chiese mentre asciugava delle tazze. «Forse sarebbe meglio una camomilla». Mi guardò stranito. «Come?». «Un succo di frutta per favore. Alla pesca». Ero già stanca di gironzolare per Roma. Con tutti quei pensieri che si affollavano nella mia mente non riuscivo a godermi neppure quella breve visita. E poi, fare i turisti da soli non è così piacevole. «Eccolo qua, pronto» mi disse il ragazzo porgendomi il bicchiere. Lo presi, sfiorando inavvertitamente le sue dita. Una scossa elettrica, le luci del bar si abbassarono per un istante. Lasciai cadere il bicchiere a terra, gemendo. Quando alzai lo sguardo, la pelle del ragazzo emetteva una luce argentea. I miei polpastrelli si erano anneriti, proprio com’era successo a Kevin la notte precedente. Con le parti invertite, però. «Un Demone?», ringhiò lui ritraendosi. E lui un Angelo, ovviamente. E neppure di buon umore, così di primo acchito.

Non gli risposi. Mi voltai e uscii rapidamente dal bar, con il cuore che mi martellava nel petto. Controllai l’orologio, mancava un’ora circa al tramonto. Presa dal-l’ansia, cercai un bagno nella vicinanze della terrazza. Chiusi la porta alle mie spalle e mi diressi al lavandino. Mi lavai le mani, ancora indolenzite e scure. Le unghie si erano allungate, ma poco a poco il colore della pelle stava tornando roseo. La nausea però non era ancora ata. Sentivo un bruciore al petto e mi veniva da vomitare. Entrai subito nella toilette e mi chinai di fronte alla tazza. Una scena romantica e indimenticabile, non c’è che dire. Una delle giornate più memorabili della mia vita: Kevin che mi mentiva, i miei genitori che non rispondevano al telefono, io che mi fingevo una turista che conversava animatamente con il water di un bagno pubblico. Emisi un colpo di tosse. Con orrore vidi delle macchie di sangue sul palmo della mano. Mi alzai di nuovo, la testa mi girava e le tempie erano trafitte da spilli invisibili. Arrancai fino allo specchio. Ero pallida in volto, un alone violaceo m’incorniciava gli occhi. Inspirai, espirai. Sarebbe ata, era questione di minuti. Stavolta però lo scontro era stato più violento rispetto a quello che avevo avuto con Kevin. Mi sciacquai il viso con l’acqua fredda. Dovevo mantenere la calma. Una manciata di minuti, poi sarei sgattaiolata via. Non avevo la minima idea di cosa stesse facendo quell’Angelo, se aveva chiamato rinforzi o si era già rivolto al suo clan. Mi era parso spaventato, e non volevo crearmi la fa-ma del superdemone ammazza-angeli di Castel Sant’Angelo. Mi consolai all’idea che il problema non fosse limitato a me e Kevin, ma era anche vero che non potevo girare con i guanti temendo di sfiorare qualsiasi essere umano e scoprire con un bel fuoco d’artificio che apparteneva alle schiere angeliche. Come potevo risolvere il problema? Ci avrei pensato con calma a casa. Anzi, sarebbe stato un motivo serio di discussione con Kevin. Sentii la rabbia ribollirmi nelle vene. Stavo brancolando nel buio, in un vicolo cieco. Volevo sfogarmi, scagliare un pugno contro lo

specchio e ridurlo in frantumi. Avvertii un formicolio alle spalle, le unghie allungarsi ancora una volta. Calma, Ellen, sta’ calma, m’imposi. Se avessi perso il controllo, mi sarei trasformata in un demone fuori dall’orario consentito. Stavo per cacciarmi in guai seri. Feci per uscire dal bagno, girai la maniglia. Porta bloccata. Mi voltai di scatto. In un angolo in fondo al bagno, c’era un uomo con un completo grigio indosso. Capelli lunghi fino alle spalle, striati di bianco. Occhi serrati in una fessura sottile, espressione indecifrabile. Come avevo fatto a non notarlo prima? «Salve. La porta deve essersi bloccata», farfugliai abbozzando un sorriso. Silenzio. L’individuo non batté ciglio. Era evidente chi fosse. Come tutti gli Immacolati, non amava perdersi in chiacchiere. «Lo sa, forse ha sbagliato bagno. Questo è riservato alle signore», dissi continuando ad armeggiare con la maniglia e fingendo di non aver capito la sua identità. «Esattamente. Per le signore, non per i Demoni Emersi». Bingo. Come dicevo, gli Immacolati arrivano subito al nocciolo della questione. «Be’, anche le signore Demoni Emersi hanno i loro bisogni fisiologici», replicai schiacciandomi contro lo stipite della porta. Si stava mettendo male. Molto male. Meglio correre ai ripari. Feci per prendere il cellulare dalla borsa, ma in un microsecondo l’Immacolato mi fu davanti. Gli arrivavo appena alle spalle. Lo spinsi indietro, non era piacevole conversare con il suo sterno. «Niente giochetti», sussurrò costringendomi ad abbassare la borsa.

«Oh, ti stai sbagliando. Non ho nessuna sciabola nascosta, lo giuro». «Dovrei accertarmene». Se lo poteva scordare. Fra l’altro, è estremamente scortese rovistare nella borsa di una signorina. Gli Immacolati di Roma non conoscevano le buone maniere. Punto uno chiarito. Tagliai corto: «Quindi? A cosa devo la tua visita così cordiale da chiudermi in un bagno pubblico?». Si avvicinò di un o. «Indietro o urlo come una pazza. Là fuori è pieno di turisti che arriverebbero in un istante». Lui piegò le labbra in un sorriso impercettibile: «Non eri così preoccupata di non farti scoprire dagli esseri umani quando eri nel bar». «È successo inavvertitamente», mi difesi. «Hai attaccato un Angelo… inavvertitamente?». Nuovo stop. Cosa? Mi voleva accusare di aver attaccato un Angelo? Ok, gli Immacolati di Roma avevano le rotelle fuori posto. Punto due chiarito. «Non ho attaccato nessuno. Neppure sapevo che quel barista fosse un Angelo». «Ma hai usato i tuoi poteri per ferirlo. È riuscito per un pelo a scam-pare al tuo attacco, che sarebbe stato mortale». Eh? Mortale? Ma se volevo solo prendere un dannato succo di frutta! Ok, gli Immacolati di Roma erano fin troppo apprensivi ed esagerati. Punto tre chiarito. «È stato un incidente. È successo senza che lo volessi. E poi, chi ti dice che non sia stato l’Angelo ad attaccarmi?». Così, tanto per aggiungere qualche precisazione. Detesto quando mi si accusa di reati che non ho commesso. E quando si giunge a conclusioni affrettate. «Non sono qui per accusarti, ma per evitare che gli umani possano vedere».

«Non c’era nessuno al bar». «A prescindere». «A prescindere un accidente», mi scaldai. Ne avevo abbastanza di quelle allusioni. «Ne discuteremo con il Consiglio. L’Arconte prenderà una decisione, vedrà lui se chiudere la faccenda o rimandarla al prossimo Tetrastile». Il che significava essere accusata seduta stante e rinchiusa in qualche prigione. Insomma, la Stonehaven di Roma. Chissà qual era. Hum… un déjà vu, e sapevo fin troppo bene come sarebbe andata a finire. La lezione impartita a Damien l’avevo imparata a dovere. «Naturalmente una volta avvertiti la tua famiglia e l’Emissario di competenza», concluse l’Immacolato. «Certo, nessun problema», dissi sistemandomi la giacca e lasciando cadere la borsa a terra. Quando lui si chinò per raccoglierla, colsi l’occasione al balzo. Gli sferrai una ginocchiata in pieno volto, mi girai di scatto e afferrai la maniglia. Scardinai la porta. Uscii fuori dal bagno cercando una via di fuga. L’Immacolato si stava già alzando in piedi. Presi la prima uscita sulla destra. Errore. Scale in salita, non in discesa. Non avevo tempo per un dietrofront. Salii al piano superiore. Altra scalinata. Da dove diavolo si usciva? Ultimo livello. Terrazza dell’Angelo. Tirai il fiato, poggiando le mani sulle ginocchia. C’erano diversi turisti, l’Immacolato non mi avrebbe fatto nulla di male, non in mezzo alla folla. Ma dovevo trovare un modo per uscirne al più presto. Mi sarebbe stato alle costole fino all’orario di chiusura. E poi? Avrei seguito le persone, mi sarei mischiata con loro.

Scossi la testa, non avrebbe funzionato. Presi il cellulare in tutta fretta. Composi il numero di Kevin. «Avanti… muoviti…». Nulla. Il suo telefonino non prendeva o era spento. «Dannazione!». Ero nel completo panico. Mi sporsi dalla ringhiera. Un salto di circa settanta metri. Nulla di complicato se aprivo le ali, ma mi trovavo in mezzo a decine e decine di persone che mi avrebbero visto. Potevo attendere il tramonto, mancava meno di mezz’ora, così nessuno si sarebbe accorto della mia trasformazione, ma solo di una ragazza che volava a mezz’aria e planava dolcemente a terra davanti alla riva del Tevere. Ero in trappola. Ne ebbi la conferma qualche istante più tardi. Proprio sotto la statua dell’Angelo di bronzo, l’Immacolato mi osservava in silenzio, le braccia conserte e lo sguardo torvo. Un sorriso si affacciò sul suo volto. Non aspettava altro che un mio o falso. Decisi di affrontarlo e lo raggiunsi in un attimo. Forse troppo velocemente. «Ellen Lynch, non è permesso usare i poteri dei Demoni Emersi di fronte alle persone», commentò compiaciuto. Un’altra piccola infrazione, già. E chissenefrega. «Mettiamo le cose in chiaro. Non verrò con te da nessuna parte. Non ho commesso alcun reato e non ho intenzione di subire alcuna condanna». Lui rimase imibile. «Non spetta a te deciderlo. Ho una lista piuttosto interessante da presentare all’Arconte». «Scordatelo». «Come il tuo rifiuto di collaborare». «Non è collaborare, è subire un giudizio approssimativo».

Fece spallucce. «Attenderò il momento più opportuno». Fu quella frase a instillarmi un dubbio. Avevo ancora poca esperienza, ma sapevo come si comportavano gli Immacolati. Quando c’era una situazione di emergenza, adottavano misure estreme. Lui, invece, attendeva… cosa? «Per quale motivo? Se sono veramente colpevole potresti arrestarmi qui, distruggere in un battibaleno le telecamere, cancellare la memoria delle persone che hanno assistito alla scena e mi hanno visto dimenare come una matta». «È più semplice aspettare». «Di solito gli Immacolati non perdono così tanto tempo a ragionare. Risolvono i problemi, cancellano le tracce. Forse a Roma sono un po’ arrugginiti?». «Taci. Non osare discutere le mie decisioni». Strinsi gli occhi. «O forse no. E poi, quanto hai impiegato a rispondere all’Angelo? Meno di dieci minuti. Che efficienza». Notai un lieve tremore delle sue pupille. «O forse ti trovavi qui per caso?». Lui strinse i pugni. Bingo. «Non sei un Immacolato, vero?». Gli afferrai i polsi, lui indietreggiò di un o. Non successe nulla. Nessuna scarica elettrica. «E non sei un Angelo. Prima domanda: quale Demone Emerso ho il piacere di conoscere? Seconda domanda: che accidenti vuoi da me?». «Ellen Lynch, anche se scapperai in capo al mondo, noi ti troveremo». Lasciai la presa. Un o indietro. Ancora un altro. Noi ti troveremo. Quelle parole rimbombarono nella mia mente. Mi ci volle meno di un secondo per capire chi avevo di fronte. Per di più, conosceva il mio nome. Un Discepolo. L’Ordine dell’Apocalisse.

«Ehi, Ellen! Ma dove ti eri cacciata?». Una voce alle mie spalle mi fece sussultare. Mi voltai, rimanendo a bocca aperta. No, non potevo credere ai miei occhi. Cosa ci faceva a Roma? «Tu?», sussurrai.

6. Kevin Il Patto con le Streghe

Ci misi qualche secondo prima di rispondere. «Angus, forse non ti è chiaro un punto». La mia voce si fece tagliente. Se stava alludendo all’impossibilità per un Angelo di amare un Demone, si sbagliava di grosso. Era l’evidenza dei fatti a dimostrarlo. A meno che non avesse una così bassa reputazione di me, o ritenesse che i miei sentimenti fossero il capriccio di un bambino. «Non ho mai desiderato complicarmi la vita. Mai», affermai con sicurezza. «Quando prestai il giuramento all’Arcangelo Remiel, avevo appena otto anni ma ero convinto di voler seguire il percorso per diventare un Angelo Ombra. Ho eseguito gli ordini alla lettera. Senza fiatare. Ho sudato, ho sofferto, ho versato sangue ma neppure una lacrima. Non ho infranto nessuna legge. Non ho mai ricevuto un premio né un elogio. Quindi, per favore, non venirmi a dire che non ho dato tutto me stesso per il clan degli Angeli Ombra». Angus non mosse neppure un muscolo. «Non hai risposto alla domanda». «Naturalmente, perché qualsiasi mia risposta non troverà mai la tua approvazione. Il motivo è semplice: non sai cosa significa innamorarsi». «Innamorarsi?». «Proprio così. Un sentimento che ti strappa ogni brandello di volontà, annienta i tuoi pensieri, distrugge l’egoismo. A quel punto, Angus, che tu sia un uomo, un Angelo o un Demone non fa più differenza». Angus tornò a fissare la corrente scura del Tevere. «Ti sbagli, e così facendo giungi a conclusioni affrettate». «Oh, no, non sono io a sbagliarmi. Sei tu che giudichi senza conoscere il mondo degli uomini», gli dissi con tono deciso. «Del resto, una delle tue leggi più ferree era: nessun coinvolgimento. Non è così?».

Sì, avevo commesso un errore grave e ingiustificabile. Andavo contro qualsiasi legge del Consiglio, perché la relazione con un Demone rappresentava il più grande peccato per un Angelo Ombra. Un marchio a fuoco, un’onta indelebile. Ed era l’unica volta in cui mi ero arreso all’inevitabile. Potevo sacrificare qualsiasi cosa della mia vita, ma non Ellen. Perché significava smettere di respirare, uccidere la mia anima e il mio corpo. Esageravo a pensarla così? No, proprio no. Avevo fatto di tutto per evitare di arrivare a quella conclusione, l’avevo rifiutata con forza. Ma al-la fine ero capitolato. Argomento chiuso, inutile discuterne ancora. Non avrei mai lasciato Ellen, non di certo per imposizione di Angus o dell’Arconte. «Un amore sbagliato caà solo dolore. Il tradimento è ancor peggiore della perdita e del non aver mai amato». Un debole tremore delle sue ciglia. Rimasi in silenzio, incapace di trovare una risposta valida. Era evidente che Angus mi stava nascondendo qualcosa. «A questo punto possiamo giocare a carte scoperte, non più come un Primo Cerchio verso un Terzo. A chi ti riferisci?». «Lo sai già di chi sto parlando». Si volse lentamente, piegando le lab-bra in un sorriso. Un dubbio mi assalì. Si riferiva a Inghinn? Lei, la causa di tutto ciò che era successo? Dell’amore, del tradimento, del dolore. Della consapevolezza di superare ogni preconcetto e legge degli Angeli, che aveva gettato anche Angus, dall’animo granitico e incrollabile, nel baratro delle emozioni umane. Lui che si era sempre elevato a un livello superiore, obbligandosi a un’esistenza distaccata dal mondo in cui viveva, era stato travolto dalla sua metà mortale? «Sto parlando di Inghinn», disse serrando le labbra. «Ma l’hai già intuito, non è vero?». Annuii appena. Inghinn era stata il suo braccio destro, consigliere, fedele alleata e prima stratega. Credevo che fosse solo un rapporto di lavoro, entrambi troppo presi dall’ambizione di assurgere ai Cerchi superiori e alle Sfere. Tutto ciò accadeva nell’ombra, giorno dopo giorno, mentre io lavoravo con Nora, dibattuto tra il senso di colpa e l’attrazione fatale per Ellen.

«Mi spiace», dissi dopo una lunga pausa. «Non ne avevo la minima idea». Angus scrollò le spalle. «Oh, non devi dispiacertene. Mi sono già torturato abbastanza. In effetti era solo un’illusione. L’illusione di un amore mai consumato, un’ossessione che non ho mai saputo dichiarare, sperando che un giorno avrei trovato la forza per abbassare lo scettro di capo clan e aprire le porte del mio cuore. Ma non ne ho avuto il tempo, ovviamente». Ero sempre più sbalordito. Perché sentir parlare a quel modo Angus era inconcepibile. «Non è colpa tua. Nessuno sospettava che Inghinn appartenesse all’Ordine», tentai di giustificarlo, non perché fosse mia intenzione consolarlo, ma perché lo pensavo davvero. Angus si morse le labbra. «Inghinn è stata una bravissima attrice. Mi ha appoggiato nei momenti di debolezza, mi è stata vicina quando non sapevo come fronteggiare l’Ordine. E certo non potevo immaginare…». Si fermò, alzando gli occhi al cielo. Feci per replicare, ma lui alzò la mano. Non c’era bisogno che aggiungessi altro, né potevo dire qualcosa che lenisse il suo dolore. Chinai la testa, pensando a come mi sarei sentito se Ellen avesse tradito la mia fiducia. Non mi riferivo a sciocchezze o piccole incomprensioni, come la lettera che aveva spedito a mia insaputa spinta dalla nostalgia. Comportamento che non mi sentivo di biasimare, visto che non avevo mai avuto dei genitori. Ciò che era accaduto ad Angus era devastante, il tradimento dalla persona che sentiva più vicina e che credeva persino di amare. Decisi di cambiare discorso. Se Angus avesse desiderato il mio conforto o consiglio, non avrebbe esitato a chiedermelo, perché ero l’unica persona che in quel momento gli stava vicina. Mi sentii improvvisamente meglio. Per un attimo ebbi la sensazione che il legame tra me e Angus si fosse trasformato in qualcosa di più profondo. Un’amicizia, forse. Un altro sentimento ignoto. «Bene, adesso è ora di tornare al lavoro, che ne dici?», proposi con un sorriso. «Ed è giunto il momento che tu mi racconti come hai ottenuto le informazioni

sull’ubicazione della Chiave». Angus fece cenno di sì con la testa. «Perfetto, questo è il giusto spirito». «Dimenticavo, incamminiamoci verso casa. Durante questi giorni sarai mio ospite». «Ellen non ne sarà felice. Due Angeli in casa… be’, sarà un duro colpo», ironizzò sistemandosi il cappotto. «Sono sicuro che sopravviverà. Ovvio, dovrai tapparti le orecchie quando le comunicherò la notizia. A volte è… come dire, difficile da trattare». *** Proseguimmo lungo la sponda del Tevere, quindi costeggiammo Villa Borghese. Durante il tragitto, Angus mi rivelò ciò che era accaduto poco prima dell’ultimo scontro con Nemesis. I genitori di Ellen avevano avvertito il Consiglio, che però non gli aveva dato udienza. Non avevano trovato altra soluzione che rivolgersi all’Angelo Ombra capo clan di Kevin. Angus dapprima si era rifiutato, poi aveva ceduto intuendo la gravità della situazione. Da quell’istante aveva iniziato a dubitare della lealtà di Inghinn. Angus aveva poi interpellato direttamente l’Arconte uscente. A sua volta, quest’ultimo aveva inviato l’Arcangelo Remiel in nostro soccorso. Fui sorpreso da quel racconto, non era mai capitato che Angeli e Demoni collaborassero per un fine comune. «Sarei voluto venire io stesso, ma le Sfere mi bloccarono. Avevo già scoperto il tradimento di Inghinn, e loro si accorsero del mio coinvolgimento emotivo. Per me non fu facile desistere, ma Remiel mi convinse. I suoi poteri erano nettamente superiori ai miei, e avrei rischiato di soccombere facendo fallire la missione». «Potevate venire entrambi», obiettai. «Ma l’Arconte uscente non era convinto che i genitori di Ellen dicessero la verità, e non poteva far leva sulla nuova guida del Consiglio, che apparteneva ai Demoni».

«Be’, i Lynch sono Demoni». «Che vuoi farci, è la solita burocrazia». «Così come la tua decisione di agire nuovamente senza l’aiuto del Consiglio. È una scelta saggia?», domandai incerto. In effetti durante il tragitto mi era sorto il dubbio che il fine di Angus fosse quello di vendicarsi di Inghinn, che adesso era a capo dell’Ordine dell’Apocalisse. Scelta comprensibile, che però poteva mettere a repentaglio la missione. In un certo senso mi trovai d’accordo con la decisione del Consiglio: Angus era troppo coinvolto. Sospirai. Inutile perdersi in pensieri ipocriti, neppure io ero mosso dall’alto ideale di salvare il mondo. Ero costretto, perché se l’Ordine avesse trovato la Chiave e spezzato il Patto per me sarebbe stato impossibile stare vicino a Ellen. Anzi, il nostro amore si sarebbe trasformato in un folle desiderio di ucciderci a vicenda. Rabbrividii solo all’idea. «No, non lo è», mi rispose Angus dopo una pausa. «Ma non ho intenzione di rendere pubblica la notizia. Nel caso migliore, cioè che credessero alla mia versione, i clan e le famiglie demoniache di mezzo mondo si getterebbero alla ricerca della Chiave, perché a quel punto non sarebbe più un problema circoscritto al distretto di Roma e del Vaticano, data la sua gravità. Hai idea di cosa significherebbe un’invasione di Angeli e Demoni in questa città?». Situazione da evitare ad ogni costo. Caos più totale, disordini, Immacolati ovunque. E Roma era una capitale fin troppo affollata. «Ma appena la recupereremo, ci rivolgeremo al Consiglio di Inverness. E tu avrai gli stessi miei meriti», mi disse appoggiandomi una mano sulla spalla. Forse Angus non aveva capito che non m’interessavano la gloria e le onorificenze. Ed ero sicuro che anche se fossi stato giudicato il salvatore del mondo, avrebbero trovato una buona giustificazione per impedirmi di stare con Ellen. «Perché mi hai mandato a Parigi?», domandai cambiando discorso. «All’epoca avevo pochissime informazioni, le ricerche iniziali riportavano proprio alla capitale se. Tu eri a Londra, avevi intenzione di spostarti perché non ti sentivi al sicuro. Troppo vicino alla Scozia».

Già. Non che spostarmi sempre più lontano, a Parigi e poi a Londra, mi avesse fatto sentire meglio. L’ansia di avere il Consiglio alle costole non mi aveva abbandonato un solo istante, non sarebbe cambiato nulla neppure se mi fossi spinto fino al polo sud. «Più tardi riuscii a contattare l’informatore che attendevo da tempo. Te ne avevo parlato brevemente, ricordi?». Aggrottai la fronte, tentando di ricordare. Scoppiai a ridere. «Non stai dicendo sul serio, vero?». «Direi proprio di no». «Le Streghe? Hai contattato le Streghe?», chiesi con scetticismo. «Lo sai, sono testardo, alla fine ci sono riuscito», ammiccò soddisfatto. Ecco l’ultima sconvolgente rivelazione di Angus, che non mancava mai di sorprendermi. Quando mi aveva accennato di una Chiave in grado di spezzare definitivamente il Patto d’Equilibrio, ero rimasto piuttosto costernato, perché ritenevo che l’unica arma fosse quella di provocare una rivolta di Angeli contro Demoni. Una procedura tanto complessa quanto inefficiente, e l’errore di Nemesis – o meglio di Rachel – era stato più che evidente. Il problema però era che nessuno sapeva cosa fosse la Chiave, né dove fosse nascosta. Anzi, in molti erano convinti che si trattasse solo di una leggenda. Così come i custodi di questo segreto, cioè le Streghe. «Le Streghe non esistono. È solo immaginazione», ribattei con convinzione. Questo, del resto, mi era stato insegnato dall’Arcangelo Remiel. «Buffo, non trovi? Anche Xavier Gomez era sicuro che gli Angeli e i Demoni fossero solo un mucchio di leggende. Gli Immacolati hanno fat-to un ottimo lavoro, non c’è che dire». «Xavier Gomez?». «Il krisnitóri, la massima autorità dei kalé di Barcellona».

«Non ti seguo…», mormorai confuso mentre ci lasciavamo Villa Borghese alle spalle. Angus mi dette una spiegazione piuttosto sintetica: le Streghe catalane erano divise in famiglie e appartenevano ai gitani spagnoli, chiamati anche con il nome di kalé. In Catalogna c’era un anziano che svolgeva il compito di guida superiore e presiedeva il kris, una sorta di tribunale delle Streghe, dove venivano discusse le decisioni più importanti, la politica e i rapporti con gli altri distretti. Il suo racconto aveva dell’incredibile, perché l’esistenza della stregoneria era qualcosa che avevo sempre creduto inammissibile e frutto di fantasia. Andava contro la mia fede, i dogmi che avevo appreso durante l’addestramento nell’isola di Skye. Dovevo però concedergli il beneficio del dubbio. Avevo avuto la stessa convinzione sull’Angelo Nemesis, ed ero stato mio malgrado costretto a ricredermi. «Pare che ultimamente in Catalogna si siano verificate delle circostanze molto gravi», continuò Angus mentre ci avvicinavamo alla meta. «Xavier non è andato nel dettaglio, ma mi ha spiegato che l’autorità della Badalona, una certa Miriam Esteban, si è messa alla ricerca di un metodo per impedire la nascita di… Streghe Immortali». «Esistono anche le Streghe Immortali?». «Proprio così, perché le Streghe sono esseri umani in grado di deviare le leggi della natura con quella che comunemente viene definita magia. E sembra che le Streghe Immortali siano degli ibridi fra le Streghe e le creature immortali. Insomma, esseri pericolosi. Ma tralasciando questi inutili dettagli, sta di fatto che la sua informatrice ha scoperto l’esistenza della Chiave, prima custodita a Parigi, poi nascosta a Roma. La Chiave, oltre a spezzare il Patto d’Equilibrio, ha il potere di difendere i kalé dalle Streghe Immortali». Tutto quadrava, perché d’improvviso Angus mi aveva chiesto di spostarmi a Roma, probabilmente appena aveva ricevuta la notizia da Xavier Gomez. Ma qualcosa tuttavia mi diceva che c’era dell’altro sotto. «Sono felice che tu abbia trovato un alleato, ma sono sorpreso della sua disponibilità, dato che mi è parso di capire che tu non l’abbia mai conosciuto di persona. Dico bene?».

«Proprio così, anzi non è stato facile contattarlo». «E anche tu non eri così sicuro dell’esistenza delle Streghe». «Era la mia ultima possibilità. Perché non sfruttarla?». Lo fissai negli occhi ma Angus sfuggì il mio sguardo. No, non me la raccontava giusta. Cosa lo preoccupava? «Certo, era un tentativo da fare. Ma, Angus, arriviamo al nocciolo della questione, perché io credo che sotto ci sia dell’altro. Non è forse vero?». Silenzio. «Le Streghe ti hanno concesso il loro aiuto senza batter ciglio?». Angus drizzò le spalle. Bene, avevo intuito che qualcosa non andava, il tono delle sua voce era preoccupato. Non ero riuscito a leggergli la mente, solo a percepire un’ombra. «Angus, dimmi cosa è successo». «Uno scambio di favori», ammise infine. Mi adombrai. La situazione si stava complicando. «Cosa ti ha chiesto in cambio Xavier Gomez?».

7. Ellen Un’ombra dal ato

Se non fossi un Demone Emerso avrei gridato al miracolo. Davanti a me c’era una persona che conoscevo fin troppo bene. Corporatura alta e slanciata, spalle larghe, sorriso magnetico. Occhi di un verde così intenso da perdercisi dentro. Capelli mossi dal vento che spirava sulla sommità di Castel Sant’Angelo. Erano ati otto mesi, ma era identico a come lo ricordavo. «Hugh?», mormorai, disorientata. Perché se ne era uscito con quell’affermazione? In una frazione di secondo lo capii, Hugh si era accorto che mi trovavo in difficoltà. «Ma se è un’ora che ti sto cercando!», esclamai sperando che mi reggesse il gioco. Hugh si avvicinò e, con una scioltezza disarmante, mi cinse in un abbraccio e mi baciò la fronte. Rimasi sbalordita, perché non era proprio un campione nel… come dire, intuire certe situazioni. E ancor meno a fingere così bene. Ottimo, una delle poche volte in cui ero ben felice di essermi sbagliata a sottovalutare le persone. «Chi era quel tipo?». Il tono di voce di Hugh cambiò all’istante. Mi staccai dall’abbraccio, voltandomi lentamente. Il Demone Emerso era scomparso. Tutto sommato era andata meglio del previsto, se fosse stato un vero Immacolato non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Scampato il pericolo, tornò la sorpresa di rivedere Hugh. «Che ci fai qui?», gli chiesi tirando un sospiro di sollievo. «Un giro». Certo, come no. Il mondo era così piccolo che, guarda caso, proprio a Roma, a migliaia di chilometri di distanza da Inverness, avevo ritrovato uno dei volti più cari della mia infanzia. Proprio mentre ero nei guai a Castel Sant’Angelo.

«Un giro?». «Esatto». «A Roma, dove mi trovo anch’io». «Già, proprio così». «A Castel Sant’Angelo, dove facevo una eggiata». «Che tremenda coincidenza, non trovi?». «Un po’ troppo tremenda per i miei gusti». «Colpa tua, sei attratta irrimediabilmente da me». «Sì, sto quasi per crollarti addosso». «Resisterò all’urto». Stop. Ora mi stavo arrabbiando davvero. «Così, tanto per, vuoi rispondermi da persona intelligente oppure vuoi continuare a prendermi in giro? Magari con un timpano forato visto che sto per perdere la pazienza e iniziare a urlare?». Hugh trattenne una risata e si sfiorò il mento con l’indice. «Hum… quanto tempo ho per rispondere?». «Hugh, mi sto innervosendo». «Perché quand’è che non lo sei, scusami?». «Hugh!». «Ciao Ellen. Mi sei mancata da morire». Mi abbracciò nuovamente, stavolta ancora più stretta. Sentii un calore avvamparmi nel petto e il sangue pulsare nelle vene, come una scarica d’adrenalina.

Perché? Comprensibile. Da quanto desideravo riabbracciare i miei amici? Quanto mi sentivo sola e lontana dai miei affetti? «Va tutto, bene», mi sussurrò all’orecchio, con un tono di voce dolce e rassicurante. «Chi era quel tizio?». «Uno che cercava di attaccar bottone». «Ma dai. Voleva rimorchiarti mentre fingevi di essere una turista?». Fingere di essere una turista, che frecciatina deliziosa. Rimorchiarmi, che espressione infelice. Mi staccai ancora una volta. Avevo bisogno di risposte. Subito. «Come hai fatto a trovarmi?». «Ah, non fare la presuntuosa. Roma è una città stupenda e volevo visitarla da tanto tempo. Non è una tua esclusiva. E Castel Sant’Angelo è una meta fin troppo frequentata. E poi, ti ricordi quante volte abbiamo parlato dell’Italia?». «Il gioco è bello quando dura poco», riposi piccata. Hugh annuì e si guardò attorno. «Forse è meglio parlarne in un luogo meno affollato, che ne dici?». «Parlare di cosa?», lo interruppi, sempre più agitata. Cosa stava succedendo? «Vuoi che torni quello scocciatore? Dai, andiamocene». Lo seguii. Non era una buona idea discuterne in mezzo ai turisti, perché se mi avesse dato un’altra risposta idiota avrei alzato di una decina di decibel il tono della mia voce, come minimo e, visto che non era prevista un’esibizione da soprano a Castel Sant’Angelo, meglio arrabbiarsi altrove. Sì, esattamente, arrabbiarsi. Perché il mio sesto senso – umano o demoniaco che fosse – mi diceva che qualcosa non quadrava. Se Hugh era riuscito a trovarmi, avevo commesso un o falso. Ma quale? Ne ebbi la conferma qualche minuto più tardi, ma fui io a tornare sull’argomento

appena superammo Ponte Sant’Angelo. «Allora, come hai fatto a scoprirmi? Da quanto tempo eri sulle mie tracce? Chi ti ha mandato qui? Cosa vuoi?», gli chiesi tutto d’un fiato. Hugh si grattò la testa. «Ciao, Ellen, sono davvero felice di rivederti, bla bla bla… ma quanto mi sei mancata, bla bla bla… cosa hai fatto tutti questi mesi, bla bla bla». «Non amo i preliminari». «Buono a sapersi…». «La pianti di scherzare?». «Tra poco, e solo se mi riterrò soddisfatto delle tue risposte… Come diavolo ti è saltato in testa di sparire da un momento all’altro, eccetera eccetera, hai la più pallida idea di come io ci sia rimasto, eccetera eccetera, neppure un messaggio per spiegarmi cosa ti era successo, eccetera eccetera». «Storia complicata». «Vai di fretta?». «Ti do tre secondi, e poi vedrai quanto vado di fretta». Ero davvero felice di rivedere Hugh. Una parte di me avrebbe voluto saltargli addosso e stringerlo fino a soffocarlo. L’altra parte, però, l’avrebbe per davvero soffocato, mani al collo, se non mi avesse detto subito la verità. Hugh mi aveva trovato, quindi la mia fuga con Kevin era in pericolo. In un microsecondo realizzai la situazione. Il Consiglio aveva scoperto dove ci eravamo nascosti. Angeli e Demoni che piovevano dal cielo. Immacolati che spuntavano come funghi. Stonehaven, ali tranciate. Hugh si sedette sul muretto e si accese una sigaretta. Lo guardai allibita mentre inspirava la prima boccata e rilasciava un anello di fumo. Gliela presi all’istante

e la gettai a terra, schiacciandola furiosa. «Fumare fa male». «Grazie dell’apprensione, mamma Ellen». Lo incenerii con lo sguardo: «Non fare l’idiota. Ehi, parlo con Hugh?». «In persona, miss!». «Cioè, fammi capire, sei impazzito? Eri la persona più imbranata del mondo, un secchione di prima categoria, salutista fino all’esaurimento nervoso, e adesso cosa sei diventato?». Lo squadrai dall’alto in basso. Jeans scuri, maglietta grigia, giubbotto di pelle nero. «Devo prenderla come un’offesa o come un complimento?». Eccellente. La conversazione si stava prolungando troppo. E senza risultati. «Ci riprovo. Come hai fatto a scoprire che mi trovavo a Roma?». Hugh tirò fuori una lettera dalla tasca. La riconobbi subito. «Te l’ha data mia mamma?». «Più o meno». Gliela strappai dalle mani, convinta che il cliente del bar mi avesse mentito. Controllai il francobollo e il timbro. Istanbul, come mi avevano promesso. «Istanbul non è Roma». Hugh si strinse nelle spalle: «Naturalmente. Sapevo che non avresti mandato una lettera dalla città in cui ti nascondevi. A proposito, perché ti stai nascondendo, Ellen?». I suoi occhi si strinsero in un’espressione cupa. «Storia lunga».

«Sono pronto ad ascoltare una storia lunga e complicata», disse togliendosi il giubbotto. Doveva essersi rintanato in palestra durante quei mesi, perché non lo ricordavo così muscoloso. «Cosa avete combinato di così grave?», m’incalzò. «Nulla di grave. Lo sai, sono una brava ragazza», ironizzai. «Non mi hai riposto». «Ti ricordo che ti ho fatto una domanda dieci minuti fa, e ancora sto aspettando una risposta». «Ai tuoi ordini», scattò mettendosi una mano sulla fronte a mo’ di saluto militare. «Dunque, mi trovo a casa tua. Squilla il telefono, rispondo. È la tua voce. Non faccio in tempo a parlarti che mi abbassi la cornetta in faccia. Maleducata». «Eri tu? Non ti avevo riconosciuto». «Già. Sempre molto carina nei confronti del tuo… come mi hai chiamato l’ultima volta, prima di smaterializzarti? Ah, migliore amico». Alzai gli occhi al cielo. Sarebbe stata una lunga conversazione. Me lo dovevo aspettare, una delle tante ipotesi di quando sarei tornata a Inverness era Hugh che mi accoglieva con un tridente in mano pronto a infilzarmi. «Ok, mi sfugge il collegamento con Roma», insistetti. Kevin mi prese la mano. Un brivido mi salì lungo l’avambraccio fino al lobo dell’orecchio. «I tuoi genitori hanno installato uno di quegli aggeggi che ti fanno registrare la voce…». «Segreteria telefonica, ha un nome». «Ecco, esatto. Sai, sono molto preoccupati per te…», disse scandendo ciascuna parola. «Temevano di perdersi una tua telefonata. Comunque, quell’aggeggio fa apparire sullo schermo il numero telefonico del chiamante. Ok, non sono bravo a

usare Internet, ma rintracciare quel numero è stato facile. Un bar di Villa Borghese, non ricordo il nome». Mi morsi le labbra. Idiota. Idiota. Idiota, mi ripetei. Era successo proprio quello che temevo, anche se per fortuna non era stato l’Arconte a ordinare di tenere il telefono sotto controllo. Ecco, avevo combinato un bel casino. «Non ti preoccupare, ho cancellato il numero dal display. Poi ho pre-so il primo volo per Roma. Ed eccomi qua». «Hai fatto in fretta». Non mi venne in mente altro. Cioè, qualcosa non tornava, era evidente. Anche se avesse scoperto quel numero, non è che a Roma ci fossero solo Villa Borghese e Castel Sant’Angelo. Come diavolo aveva fatto a trovarmi? «I tuoi genitori erano davvero in ansia per te», aggiunse poco dopo. Bastò quella frase per far convergere tutti i miei pensieri su un’altra questione. Mamma. Papà. In una frazione di secondo fui sommersa da mille dubbi, temendo che la loro reazione fosse stata peggiore del previsto. «Come fai ad avere quella lettera?». «Me l’ha data tua madre. Pensava che potessi esserle d’aiuto, perché ero il tuo migliore amico». Hugh enfatizzò la parola ero, un simpatico modo per girare il coltello nella piaga. Ok, mi ero comportata male, ma i miei genitori potevano comprendere perfettamente le ragioni. Hugh naturalmente no. «Eri fuggita con il tuo ragazzo senza neppure dirmi addio». La sua voce si fece roca, carica di rabbia. Chinai lo sguardo. «Hai la più pallida idea di come mi sia sentito? Non riuscivo a dormire la notte,

pensando che tu non mi volessi più parlare dopo il nostro ultimo incontro, per quello che ti avevo detto…». S’interruppe. Sì, ricordavo perfettamente la sua dichiarazione sulla riva del fiume Ness. Ironia della sorte, ci trovavamo nella stessa condizione, davanti a un altro fiume. «Poi ho deciso di chiamarti. Telefono staccato». E scheda gettata nel mare. Meglio non specificare. «Quindi ho creduto che ti fosse successo qualcosa di grave. Un incidente? Mi sono rivolto alla tua famiglia. Jamye mi ha raccontato della storia assurda di Damien, che in realtà non era morto, ma liberato dopo il processo». Più o meno. Lasciamo perdere i dettagli. Cosa cavolo gli aveva raccontato mia madre? «Infine, fatto ancor più strano, proprio quando avevi ritrovato la tua famiglia hai deciso di fuggire via con il tuo ragazzo, perché non era ben visto da tuo padre». Ah, che fantasia, mamma. Ottimo diversivo, anche se non ne uscivo proprio come la ragazza immagine di Inverness. Pace. «Lo so, Hugh. Ma non avevo scelta». Sbuffò, serrando i pugni. «Già. E avevi così tanta fretta che ti sei scordata di salutare i tuoi migliori amici. Quanti anni sono che conosci me e Kenneth?». Altra stilettata tra le scapole. Se voleva mortificarmi ci stava riuscendo. Me lo meritavo, no? Ma non potevo spiegare a Hugh la verità e non avevo tempo per fare il giro dei saluti. Dovevo trovare un modo per sistemare la mia vita ata. Altrimenti prima o poi avrei dovuto subirne le conseguenze. Per l’appunto, Hugh. Ma come potevo risolvere la questione? Non ero imibile alla sua sofferenza, sebbene non fossi sicura che mi amasse veramente. Forse aveva preso solo un abbaglio, dopo la malattia che gli avevo inflitto si era attaccato a me confondendo l’affetto per amore. Tutto qui.

Comunque, non potevo biasimare la sua collera. «Hugh, non dubitare mai dei miei sentimenti nei tuoi confronti», gli risposi eludendo la sua domanda. Alzò la testa, i lineamenti del suo volto si distesero per un attimo. «Sentimenti confusi», mormorò dopo un po’. Tirai il fiato. Era giunto il momento di agire. «Risolverò la questione. Prima non potevo, adesso non voglio più rimandare. Sono felice che ci siamo incontrati, ti racconterò tutto per filo e per segno. Riproverò a telefonare ai miei genitori, troveremo il modo di incontrarci. Sì, devo loro delle spiegazioni. Devo farlo al più presto». Hugh tacque. Gli presi le mani nelle mie, le accarezzai. Un nuovo brivido caldo mi pervase dalla testa ai piedi. Ne rimasi quasi stordita. Cosa mi stava accadendo? Il senso di colpa. L’affetto verso un amico. La gioia di averlo ritrovato. Qualcosa di più? «Mi spiace, Hugh. Spero solo tu mi possa perdonare». Mi prese il viso e lo spinse al suo petto. Le lacrime mi appesantirono le ciglia. Mi sforzai di non piangere, non ero più la bambina di Inverness. «Dannata Ellen. Perché non riesco ad essere arrabbiato con te?», mi sussurrò con tono dolce. Accennai un sorriso. Hugh non poteva odiarmi anche se me lo meritavo. Quando alzai la testa, mi accorsi che il sole stava per tramontare. «Adesso devo andare. Ti chiamerò in serata», tagliai corto, bruscamente. Volevo scappare prima della trasformazione. Hugh non si sarebbe accorto di nulla, ma avevo il bisogno di parlare con Kevin al più presto e liberarmi dall’imbarazzo. Riflettere, decidere quale nuova bugia raccontargli, sistemare tutto con calma. E, soprattutto, evitare di infettarlo per sbaglio, visto che era già successo in ato. «Kevin ha tutta la vita, io solo cinque minuti», concluse con disappunto. Mi tolsi il giubbotto. «Ti prego Hugh, non iniziare, non servirà a nulla».

«Lo so». «Devo andare. Ti chiamo prestissimo, promesso». Gli detti un bacio sulla guancia e feci per voltarmi, ma Hugh mi afferrò il polso. «No, non puoi andare». «Hugh, per favore non insistere…». «Devi sapere». «Sapere cosa?», lo incalzai infastidita. «I tuoi genitori». Il suo volto. L’aria triste. Il tono della sua voce. Fu una doccia gelida. «Cosa… cosa gli è… successo?», balbettai. Hugh balzò giù dal muricciolo. «La sera successiva a quella in cui Jamye mi aveva dato la lettera, tornai a casa dei tuoi. Non feci in tempo a suonare il camlo che udii delle grida dall’interno. Mi avvicinai al-la finestra e vidi Dorrel parlare animatamente con un uomo. Stavano litigando in realtà». Aggrottai la fronte. Un nuovo Emissario che gli stava alle costole dopo la mia fuga? «Non riuscii bene a capire cosa si stavano dicendo. Intervenne anche tua madre, seguita da una donna che non avevo mai visto. Non credo che fossero amici di famiglia, Ellen, ormai li conosco tutti». «Cos’è successo?», insistetti. «Alla fine è scoppiata una vera rissa. Tuo padre ha dato una spinta a quell’individuo, Jamye ha allontanato l’altra donna. Non sapevo cosa fare, avevo capito che la situazione si stava mettendo male. Così ho bussato alla finestra, per attirare la loro attenzione… ed è in quel momento che è successo». Il mio cuore perse un battito. «I miei genitori…», dissi con la voce spezzata, temendo il peggio.

Hugh scosse la testa. «No, Ellen. Lasciami spiegare». Inspirò ancora, cercando di trovare le parole adatte. «All’inizio ho pensato di avere un’allucinazione. Perché non era possibile. Sì, era frutto della mia immaginazione». Ah. I guai si stavano moltiplicando. «Ho visto spuntare a tutti delle ali. Chi bianche, chi nere, nitide contro la debole luce del tramonto». Annuii, con lo sguardo fisso a terra. Come ne sarei uscita? Dovevo dargli del pazzo? Be’, non sapevo com’era andata a finire. Forse i miei genitori gli avevano spiegato tutto. E Hugh aveva creduto all’esistenza degli Angeli e dei Demoni? Impossibile. E poi, non avrebbe dovuto accorgersi della trasformazione dei miei genitori al tramonto... Hugh mi anticipò. «Ma la cosa che mi ha fatto più male, Ellen, è che tu non mi hai mai detto la verità. Ci conosciamo… da quanto? Dieci anni? Non lo ricordo più. Eppure mi hai nascosto chi eri veramente». Rimasi senza fiato. Una lunga apnea. Hugh sapeva tutto di me? Com’era possibile? Scossi la testa freneticamente. «Aspetta. C’è una spiegazione». «Sì, la spiegazione è che il tramonto si sta assottigliando e i confini non sono più così definiti. Per cui gli umani a volte possono vedere gli Angeli e i Demoni quando si trasformano». Più chiaro di così si muore. Hugh non sapeva qualcosa. Hugh sapeva tutto. Non feci in tempo a rispondergli che mi squillò il cellulare. Sul display apparve un nome: Kevin.

8. Kevin Una nuova missione

Giungemmo in Piazza Mincio, nel cuore del quartiere Coppedè, dove Ellen e io avevamo affittato un appartamento. Un colpo di fortuna che ci era capitato durante il nostro breve soggiorno a Parigi, quando avevamo avuto l’occasione di conoscere un imprenditore italiano. Quest’ultimo aveva appena acquistato una casa a Roma, ancora sfitta. Ci propose di ospitarci per un breve periodo, al massimo un paio di mesi, prima del suo ritorno dalla Francia. Il prezzo per l’affitto era irrisorio, accettai di buon grado. Anche Ellen ne fu entusiasta: s’immerse subito nella lettura di una guida sulla capitale italiana, segnando le pagine dove erano riportati tutti i luoghi e monumenti più interessanti. Era rimasta subito affascinata dalla particolare architettura del quartiere Coppedè, e aveva tentato con scarsi risultati di spiegarmi i vari stili decorativi che erano stati usati per quei palazzi. Dal Liberty all’Art Dèco, con degli accenni di Barocco. Compresi la bellezza del quartiere Coppedè solo quando giunsi nella via che ci era stata indicata dall’imprenditore. Il panorama era unico e diverso da quello che avevo visto fino a quel momento a Roma: ville circondate da una fitta vegetazione, edifici ornati con motivi mitologici, greci, medioevali, e persino fantastici con la riproduzione di cavalieri e fate. Un mosaico di stili e culture, così l’aveva definito Ellen, che prendeva spunto dagli elementi della natura ricreando rose, arbusti, piante di ogni genere. Non avevo mai studiato storia dell’arte. Non che fosse una novità la mia ignoranza, lo stesso valeva per la letteratura e la filosofia. Me la cavavo benino in geografia, sebbene non fossi un campione. Ellen un giorno si era impuntata: ata la bufera della fuga e ritrovata un po’ di pace, mi avrebbe aiutato a studiare. Non era un suggerimento, ma un’imposizione. Ne fui ben felice, ero stanco di sentirmi sempre fuori luogo e in perenne imbarazzo. Potevo ancora recuperare, proprio come stava facendo Nora. In effetti l’Arcangelo Remiel era stato troppo indulgente. Era giusto lasciare il libero arbitrio agli Angeli Ombra durante l’addestramento, ma su alcuni punti, come l’istruzione e la teoria, le regole dovevano essere più ferree.

Guardai Angus e tornai alla questione principale. «Allora, cosa ti ha chiesto in cambio Xavier Gomez per rivelarti dove si trova la Chiave?». Angus indugiò prima di rispondere. «Uno scambio», disse infine. «Che tipo di scambio?». «Scambio di favori». «Una mossa azzardata». «Non avevo scelta, era l’unico che poteva darmi l’indicazione che cercavo da tempo. Ero in un vicolo cieco». Mi rabbuiai. «Visto che la Chiave è importante anche per le Streghe, perché non ha cercato di trovarla lui stesso?». Angus annuì con aria preoccupata. «Perché quando è riuscito a decifrare gli antichi grimori delle Streghe, era troppo tardi. Sia gli Angeli sia i Demoni erano interessati al manufatto, non poteva intralciare il loro cammino. Sarebbe stato troppo rischioso». Sorrisi. Xavier era piuttosto furbo: lasciava il lavoro sporco ad Angus, evitando di scontrarsi con entità più forti di lui. «E poi, gli Angeli Ombra non sono favorevoli alle Streghe», concluse Angus. «Davvero? Non abbiamo sempre creduto che fossero solo una leggenda?». «Non proprio. Ci sono dei racconti che narrano di scontri tra Angeli e Streghe durante il Medioevo. Come sempre, gli Immacolati hanno sistemato a dovere la faccenda insabbiando gli eventi più pericolosi per la nostra copertura». «Per quale motivo non corre buon sangue? Potrebbero esserci d’aiuto». «Motivi ideologici. Le Streghe usano la magia per imporre il loro volere agli uomini e questo va contro l’ideale di libero arbitro e il Patto d’Equilibrio». Lasciai cadere l’argomento, benché avessi mille domande che mi ronzavano in

testa. Meglio non addentrarsi troppo nel rapporto tra Angeli e Streghe, il ruolo dei Demoni e la posizione del Consiglio. Avrei approfondito la questione in un altro momento, una volta risolto il problema principale. «Quale scambio gli hai promesso?». «Una volta preservato il Patto d’Equilibrio gli consegnerò la Chiave, affinché Xavier possa distruggere le Streghe Immortali». Lo fissai disorientato. Non sapevamo neppure com’era fatta la Chiave: se fosse un oggetto, un libro, un’arma. Oppure una semplice formula magica, non mi sarei meravigliato più di nulla. Ma, soprattutto, non avevamo la certezza di portare a termine la missione, perché tutto poteva rivelarsi solo frutto di fantasia. «Ma se non troveremo la Chiave non avrai alcun debito nei suoi confronti, ho capito bene?», domandai a quel punto. «Gli ho dato la mia parola che aiuterò comunque le Streghe». Sbuffai. Sapevo bene che Angus era un uomo d’onore, avrebbe rispettato la promessa. Ad ogni costo. «Rischiando a tua volta la vita per risolvere problemi che non ti riguardano», mormorai trattenendo a stento le parole. Angus aveva preso una decisione affrettata, ancora una volta mi chiesi se era stato spinto dalla gravità della situazione o dal desiderio di vendetta nei confronti di Inghinn. «Il male che avvelena il nostro mondo è affare degli Angeli Ombra, a prescindere dalla sua natura e origine. Non lo scordare mai, Kevin», disse con tono inflessibile. La questione non stava proprio in questi termini. Stava minimizzando l’accaduto. «Non è vero. Il nostro compito è mantenere l’equilibrio con i Demoni, non scontrarci con le Streghe». «Affronteremo un problema alla volta. Adesso dobbiamo ritrovare la Chiave». Continuammo a eggiare nel quartiere Coppedè, fino a raggiungere la Fontana delle Rane, proprio davanti al portone del mio palazzo.

Angus era partito da più di due mesi da Inverness, alla ricerca di informazioni su come fermare l’Ordine dell’Apocalisse. Non mi aveva mai detto dove si era diretto, adesso però era chiaro che si era spinto nel Sud della Spagna, fino a Barcellona. «Ti aiuterò a rispettare il tuo debito nei confronti di Xavier», affermai con convinzione. Angus mi rivolse un’occhiata sorpresa, poi si fece torvo. «Kevin, non vado fiero di ciò che ho fatto, agli Angeli è vietato prendere decisioni così pericolose senza prima aver consultato le Sfere o direttamente il Consiglio». «Su, non mi dire che un’altra infrazione mi rovinerà la carriera», ironizzai. «Non avrei comunque la possibilità di rimanere con Ellen. Angus, non sono uno stupido. Nessun Arconte avallerà mai una cosa del genere, incrinerebbe la sua reputazione. Né oggi, né mai». Angus non parve sollevato. «Le Streghe sono più pericolose di quanto pensi. Non credere che mi sia rivolto a loro senza valutare le conseguenze. È vero, noi siamo più forti, i nostri poteri sarebbero capaci di schiacciarle facilmente. Ma non conosciamo gli effetti della loro magia e non possiamo muoverci in modo affrettato. Sono i fatti a dimostrarlo: le Streghe sono state capaci di valicare il confine tra la vita e la morte». Mi sedetti sul bordo della fontana e infilai le dita nell’acqua gelida. «Abbiamo già superato quei confini. Una Chiave capace di spezzare i Quattro Sigilli e innescare la guerra tra le 666 legioni demoniache e le Gerarchie Celesti. Fino a quando Lucifero non emergerà dagli Inferi. Non mi pare che stiamo parlando di creature mortali». Angus aggrottò la fronte, ma non disse altro. Mi accorsi allora che era appena iniziato il tramonto e presto sarebbero comparse le nostre ali. Angus si tolse il cappotto, io lo imitai sfilandomi la giacca. Mentre la piegavo sulle ginocchia, presi il cellulare. Mi accorsi che sullo schermo lampeggiava una scritta. «Problemi?», mi domandò Angus. «Un avviso di chiamata persa. Ellen ha tentato di telefonarmi ma il cellulare non

prendeva». «Quando eravamo nella cripta di San Pietro?». «Probabilmente. Sarà furiosa perché non l’ho richiamata subito». «Non sei un campione con quell’aggeggio, vero?», disse Angus trattenendo una risata. Mi strinsi nelle spalle. «A volte mi scordo di averlo sempre dietro. Perché tutti gli esseri umani stanno sempre con questa diavoleria in mano? È solo una grande scocciatura». «E non ti permette di inventare delle buone scuse con Ellen», precisò lui. «Nessun problema, le dirò tutto. Stasera saprà la verità». Composi il suo numero e attesi che rispondesse. «Ellen, tutto a posto?». «Kevin, dove eri finito?», mi rispose. Dal tono della sua voce capii subito che era agitata. «Ti spiegherò tutto quando torni a casa. Fra quanto sarai qui?». «Un quarto d’ora, più o meno». Non finii la frase che le ali mi spuntarono sulla schiena. «Ci risiamo», disse Ellen. «Dove sei stato oggi? Ho provato a chiamarti». «Ho avuto un incontro importante a San Pietro. Il telefono non prendeva». «San Pietro? Avevi detto che eri occupato in biblioteca». «Ti spiegherò tutto. Ti aspetto». Non feci in tempo ad abbassare la cornetta che Ellen emise un urlo. «Ellen? Ellen? Cosa succede?».

Silenzio. «Ellen!». La sua voce era lontana, poco più di un sussurro. «Non posso crederci. Non tu».

SECONDA PARTE

La Chiave di Salomone

Intermezzo Il libro maledetto

La porta si dischiuse con un rumore metallico. Inghinn varcò la soglia del Tempio, stringendo una borsa al petto. Camminò silenziosa nel corridoio, illuminato dai candelabri appesi alle pareti laterali. Giunta alla fine del cunicolo si trovò davanti un altro portone. Bianco e splendente come fosse alabastro, alto più di tre metri. Sulla sua superficie, alcune lettere in rilievo componevano le parole: «Sitra Ahra». Inghinn trattenne il respiro. Il suo viaggio a Parigi non era stato vano, la missione era stata portata a termine con efficienza e nei tempi previsti. Non era stato facile. Aveva avuto solo pochi indizi per trovare il Libro Perduto. Aveva giocato d’astuzia, non si era lasciata sfuggire nessun particolare. Il Louvre. Quella era sempre stata la sua meta. Un sospetto, le prove che dimostravano che la sua tesi era corretta. L’immancabile aiuto e il sostegno di Nemesis. Sì, il suo Dio sarebbe stato orgoglioso. Lei era l’unica a non averlo mai tradito. L’unica ad averlo servito fin dal momento in cui era diventata un Angelo Ombra. Per un istante ricordò il giorno della sua Nomina. L’Arcangelo Remiel che la fissava inquieto, combattuto tra la gioia per aver educato uno dei suoi migliori adepti e la consapevolezza dell’insaziabile ambizione di Inghinn. Si era dimostrata la migliore, aveva superato la prova senza alcuna difficoltà, non aveva battuto ciglio nel veder cadere i compagni con i quali si era allenata per anni. Inghinn sorrise. C’era forse qualcosa di sbagliato nel suo comportamento? Quella era l’istruzione che veniva impartita agli Angeli Ombra, per poter accedere al Terzo Cerchio. Distacco, freddezza, efficienza. Nessun rimpianto. Nessun rimorso. Nessuna emozione. E così lei aveva agito, senza mai rivelare la sua devozione a Nemesis. Il suo

amore inconfessato. L’Angelo dell’Apocalisse. All’inizio fu solo una delle tante storie raccontate da Remiel. Con il tempo si trasformò in una leggenda affascinante, infine in una vera ossessione. Così, mentre si adeguava alla legge che le imponeva di vivere nel clan di Angus, Inghinn non aveva mai perso le speranze che un giorno i suoi sogni si potessero realizzare. Aveva recuperato grimori proibiti, aveva corrotto le Streghe dell’Irlanda affinché le fornissero le giuste indicazioni. Aveva persino rischiato la morte per recuperare la Statua di Nemesis. Al suo cospetto, dopo l’antico rito che l’avrebbe incarnato in un nuovo corpo, il suo Dio sarebbe risorto. Inghinn attese. Giorni. Mesi. Anni. Quel periodo buio fu la prova più dura da superare. Combattere contro l’ansia, convivere con una pungente pazienza. Lasciar calmare le acque, non destare alcun sospetto. Mantenere l’identità dell’efficiente consigliera del clan nell’Area Centosei. Non dimostrarsi mai remissiva, assurgere al Secondo Cerchio con forza, dimostrando al contempo un’attitudine tenace e ambiziosa. Quello era il ruolo che doveva recitare con coerenza, non si concesse alcuna distrazione. Nessuno aveva mai dubitato di lei. Una donna dal carattere difficile, opportunista, intrattabile. La maschera che aveva deciso di indossare si rivelò la scelta migliore. Instaurò un complicato rapporto con il resto del clan e con il capo, che l’avrebbe tenuta a distanza temendo la sua ambizione. Quello fu il suo unico errore di valutazione, ma di certo Inghinn non poteva prevederlo. Non si sarebbe mai immaginata che Angus apprezzasse una donna simile, e che addirittura le dimostrasse una sorta di… sentimento? Affetto? Come definirlo? Una follia, certo. Anzi, una dimostrazione che la corruzione stava infettando ogni angolo del mondo, Angeli e Demoni compresi. Fu la conferma della sua fede: esisteva un’unica salvezza per annientare l’Equilibrio ormai sinonimo di disfacimento. Lui, il suo Dio, Nemesis. Uscire allo scoperto non fu un problema. Aveva ottenuto tutto ciò di cui aveva bisogno, poteva pronunciare il rito d’iniziazione in qualsiasi momento. Ah,

quanto avrebbe voluto offrire il proprio corpo! Quanto aveva sofferto e si era lamentata! Perché Nemesis l’aveva rifiutata? Perché non aveva deciso di risorgere nelle sue carni? Sapeva che le risposte a quelle domande non sarebbero mai arrivate. Nemesis non ne dava. Lei non ne chiedeva. Questo era il patto che avevano stretto, il prezzo da pagare.Con la testa alta strinse i denti e accettò il volere del suo Dio. Il destino non era stato crudele, le aveva solo mostrato un nuovo sentiero. E lei aveva il compito di seguirlo, trovando un Angelo o Demone così debole da lasciarsi circuire. Un animo fragile, corrotto dalla disperazione, pronto al suicidio. Rachel fu la scelta più ovvia. Abbandonata da Remiel e dai suoi compagni. Sola, schiacciata dal destino, in preda alla follia per l’ala tranciata. L’aveva accompagnata nella vasca di sangue, aveva ucciso per lei ogni altro pretendente. Era rimasta in disparte, nell’ombra, mentre Nemesis divorava il suo corpo e la sua anima. Inghinn scosse la testa. Se non fosse stato per Kevin ed Ellen, il corpo di Rachel sarebbe stata ancora la dimora del suo Angelo. Si strinse nelle spalle e poggiò il palmo della mano sulla scritta Sitra Ahra. Una scarica elettrica si propagò in ogni suo arto, inebriandola di piacere. Il portale si aprì lentamente, una folata di vento gelido spense i candelabri uno a uno. L’oscurità inghiottì ogni cosa. Inghinn avanzò nelle tenebre con o sicuro. Sì, aveva fallito, perché l’Arcangelo Remiel si era messo di mezzo. Forse era colpa sua? Aveva deciso di non esporsi, perché così le aveva comandato l’Angelo dell’Apocalisse. Lei era l’anello più importante, l’unica che poteva assicurare a Nemesis una vita eterna. Il ritorno nel mondo degli uomini in qualsiasi momento. Era stata una disfatta, certo. Inutile negarlo. Il Patto d’Equilibrio era stato solo scalfito, non era riuscito a spezzarlo. Ma non si era arresa, e non era stato

complicato trovare un altro corpo che rimpiazzasse quello di Rachel. Adesso, però, non poteva commettere altri errori. Era giunto il momento di agire e concludere la missione. Nemesis le aveva ordinato di recuperare il Libro Perduto, e lei non aveva indugiato un attimo a eseguire gli ordini. Un lavoro pulito, due sole uccisioni. Nessun testimone, la scena del crimine studiata nei minimi particolari affinché sviasse ogni indagine. Uomini o Immacolati che fossero. Inghinn era fuggita da Parigi senza lasciare tracce né sospetti. Silenziosa, rapida come il vento, ingannevole come un’ombra, era giunta al Tempio del Sitra Ahra. Fino alla sala di Nemesis, dove una lama di luce fendeva l’oscurità. «Vieni, mio Discepolo», disse una voce. «Segui la Via Regale». In pochi istanti gli occhi si abituarono alla penombra, e Inghinn vide un baratro che sprofondava nel buio. Alla sua sinistra, una colonna nera che pendeva dal soffitto fino ad arrivare quasi a terra, come una stalattite. Inghinn la sfiorò socchiudendo gli occhi. «Pilastro della Severità. Principio analitico e disgregante, mostrami la via ermetica verso l’illuminazione». Alla sua destra, dall’alto, discese una colonna bianca. Inghinn vi poggiò sopra l’altra mano. «Pilastro della Misericordia. Principio di unione e relazione, mostrami la via orfica verso l’illuminazione». Il suolo ebbe un lieve tremore. Dall’oscurità comparve una colonna dorata. Inghinn si staccò dalle altre due e abbracciò quest’ultima. «Pilastro della Mitezza. Principio di Equilibrio, mostrami la Via Regale per diventare un guerriero spirituale». Appena concluse il rito, dalla voragine emersero delle rocce, che si disposero a formare un diamante: la stessa figura geometrica nella quale era nato Nemesis, stavolta rovesciata.

«Percorri l’Albero della Morte. Giungi all’ultima Conoscenza. Giungi da me, Guerriero Spirituale». Inghinn salì sul primo cerchio. «Qlifah Thaumiel. Regno dei due Dei Gemelli Satana e Moloch. Lasciatemi varcare la vostra soglia». Inghinn ripeté il rito fino a giungere di fronte all’ultima Qlifah, dove si ergeva il trono di Nemesis. Volto al buio, un filo di luce che le illuminava la veste, all’altezza del petto. Il cammino di Inghinn finiva in quel punto. Non avrebbe osato mettere piede in Gamaliel. Regno dell’osceno, della magia astrale, della stregoneria. Ventre della dea Oscura Lilith e adesso trono di Nemesis. Inghinn estrasse il libro dall’involucro e lo porse all’Angelo. Una luce dorata accompagnò il volume a mezz’aria fin sopra le ginocchia di Nemesis. Quest’ultimo sfiorò la copertina, con un gesto pieno di reverenza. «Il Lemegeton Clavicula Salomonis. Finalmente abbiamo trovato l’unica vera copia». L’altra annuì, sospirando. «Le Streghe ci sono state d’aiuto. Gli indizi di Londra ci avrebbero fatto perdere molto tempo». Nemesis sorrise. «Ho sempre scelto i giusti alleati. Sapevo che la mia fiducia era ben riposta». Inghinn rimase imibile. Era la prima volta dopo anni che il suo Dio si congratulava per il suo operato, ma non voleva mostrare i suoi sentimenti. Perché i sentimenti erano vetro, e la sua anima granitica come il marmo. Nemesis si alzò in piedi. Inghinn non osò sollevare lo sguardo, finché non sentì una mano posarsi sulla nuca. «Manca l’ultimo tassello. Poi avremo un intero esercito al nostro servizio». «Tutto sta procedendo come programmato».

«Il Discepolo?» «Porterà a termine la missione. La Chiave sarà presto nostra». «Nessun piano è infallibile, Inghinn». «Ogni piano prevede sempre una soluzione di riserva. Anche se il nostro Discepolo fallirà, ho dato disposizioni affinché tutto rimanga sotto controllo». Silenzio. Una goccia che stillava in lontananza. Il vento che sibilava tra i Pilastri. «Lo so. Ho seguito ogni tuo movimento», continuò Nemesis. «Eccellente decisione, seppur rischiosa». «Il rischio è una delle componenti della nostra missione. Ma non c’è da preoccuparsene, il Consiglio non sospetta di noi, crede che l’assottigliarsi del tramonto sia un effetto eggero, dovuto a quanto è successo otto mesi fa. L’Arconte è ancora troppo debole e non ha la fiducia delle Sfere e delle Spirali. Il rischio è minimo». «Non sottovalutiamo le pedine. Sono state loro a rovesciare le sorti dell’ultima battaglia». Inghinn incassò il colpo. Così come Nemesis non le aveva mai mostrato gratitudine, neppure l’aveva criticata per le sue azioni. Rifletté a lungo prima di rispondere. La colpa di ciò che era successo era sua, uno smacco ancora più cocente perché il colpevole si trovava proprio nel suo clan. Kevin. Kevin Shaw. Gliel’avrebbe fatta pagare. Avrebbe appagato la sua sete di vendetta. Ma non ora. Non adesso che doveva concentrarsi su altri obiettivi. Drizzò le spalle, imibile. Nessuna emozione. Gioia, dolore, rabbia erano le armi dei perdenti. «Ho previsto anche questa evenienza. Stavolta tutto procederà senza ostacoli. Abbiamo il Lemegeton, serve solo la Chiave». La mano di Nemesis si allontanò dalla sua nuca. Inghinn trattenne il respiro,

incerta sulla sua reazione. Ma, quando questa giunse pochi istanti più tardi, fu del tutto inaspettata. «Alza gli occhi, mio Discepolo». E gli occhi di Inghinn si riempirono di luce e di tenebra, emanazioni della spada di Nemesis e delle sue ali. Un groviglio in cui il grigio si dissolveva nel bianco e nel nero. Una lama che la trafisse in pieno petto, togliendole il respiro. «Mio Discepolo. Ti nomino Generale delle mie Legioni, comandante dell’Ordine dell’Apocalisse».

9. Ellen Il segreto di Hugh

«Non posso crederci. Non tu». Le mani mi tremavano. Il telefono mi scivolò a terra. «Va tutto bene, Ellen. Sta’ calma». «No. Non va bene per niente. Non sta accadendo per davvero». «Non è niente di grave». Hugh avanzò fissandomi dritto negli occhi. «Punti di vista. Il mio è: non ti avvicinare di un o», lo minacciai puntandogli un dito contro. «Posso spiegarti tutto». La mia gola era diventata improvvisamente secca, a malapena riuscivo a parlare. La fronte era madida di sudore. Il freddo mi penetrava fin dentro le ossa. «Ellen?». Quando l’ultimo raggio di sole morì dietro i palazzi, le ali scomparvero dalla mia schiena. E successe lo stesso a quelle di Hugh. Nere, come quelle di un Demone Emerso. Nere, come le mie. Socchiusi gli occhi. Inspirai una boccata d’aria. La trattenni a lungo nei polmoni prima di espirare. Sarebbe ato tutto. Era solo un’allucinazione. Un brutto incubo. Ma quando li riaprii, la realtà mi ripiombò addosso. «Sei un Demone?», domandai infine a fior di labbra.

Lui annuì appena. «Impossibile. Non puoi esserlo». «Lo sono». «Stai mentendo». Hugh voltò la testa di lato. «Per quanto vuoi negare l’evidenza?». Mi sentii mancare. Quelle poche certezze che avevo acquisito dopo l’Evoluzione si stavano sgretolando sotto i miei piedi come un castello di sabbia. Com’era possibile che Hugh fosse diventato un Demone? Scossi la testa. Non funzionava così. Lo ricordavo benissimo. Il tramonto al parco. Io avevo un bel paio di ali nere, lui no. Il mio abbraccio. La nebbia che si insinuava nei suoi polmoni, infettandolo. Sarebbe morto se Kevin non avesse ripristinato l’Equilibrio. Non c’era ombra di dubbio: Hugh era un essere umano. O no? I miei pensieri si rincorsero frenetici fino a una nuova soluzione di quel complicato enigma. Perché non ci avevo pensato prima? Hugh aveva compiuto sedici anni durante la mia assenza, negli ultimi otto mesi. Per un solo istante mi sentii scoppiare dalla gioia. Che sciocca! Anch’io avevo vissuto una vita normalissima prima di scoprire la mia metà oscura. Non era meraviglioso che il mio migliore amico condividesse con me questo terribile destino? Sì, lo sarebbe stato. Peccato che la logica era contro di me. Ammesso che fosse possibile infettare un Demone non ancora evoluto, come io avevo fatto nel parco a Inverness. Ma, a parte questa postilla, se Hugh era un Demone allora lo erano anche i suoi genitori, ma ricordavo benissimo quanto fosse addolorata sua madre per la sua inspiegabile malattia. Se fosse stata una famiglia di Demoni come la mia, i suoi genitori non si sarebbero disperati e avrebbero compreso l’accaduto, trovando un rimedio. Ok,

mi stava ufficialmente per scoppiare la testa. «Sono un Demone Emerso da poco più di un mese». Ero talmente confusa che per un attimo non mi ricordai neppure del suo compleanno. «Ovvio, sono offeso perché non mi hai fatto gli auguri. Puoi recuperare con un bel regalo, però». Glissai su quell’osservazione stupida, tentando di riflettere. «Non è impossibile. Siamo a dicembre, hai compiuto sedici anni a ottobre. Non tornano i conti». «Infatti non è stata un’Evoluzione, non l’ho mai detto. Ero un essere umano». Appunto, non avevo il cervello in panne. Quindi? Hugh mi mostrò il polso. Un alone scuro stampato sulla sua carne. Indelebile, inequivocabile. Un serpente avvolto attorno al sole. Mi piegai sulle ginocchia e raccolsi il cellulare da terra. Se non si era evoluto per il suo compleanno, qualcosa non quadrava. Mi rialzai, furiosa. «Spiegami cosa diavolo è successo, adesso». «Mi hanno trasformato in Demone Emerso». Mi irrigidii. Non era possibile. «È una bugia». «Le mie ali erano una bugia?». Mi morsi le labbra. «Chi ti ha fatto questo?», urlai fuori di me. Hugh fu preso alla sprovvista, non si aspettava una reazione del gene-re. «Ellen, mantieni la calma. Le persone non potranno vedere le nostre ali, ma possono sentire perfettamente le tue grida». «Chi è stato?». «Stai esagerando».

Rimasi inebetita per qualche secondo. Mi stava prendendo in giro o voleva davvero minimizzare l’accaduto? «Sto esagerando un accidente! Hugh, non si diventa un Demone devoto al Basilisco da un giorno all’altro. Non è come farsi una lampada o i colpi di sole ai capelli. Quindi, visto che tu non hai genitori Demoni, c’è qualcosa che non va. Non si può trasformare un essere umano in Demo-ne. Non è teoricamente possibile». «Lo è nella pratica». Chinai la testa. «Se è vero, dimmi chi è lo stregone che ti ha trasformato in un mostro», ringhiai, la collera ribolliva nelle mie vene. Hugh non aveva la più pallida idea di quale condanna gli era stata inflitta. «Non è uno stregone. È un Demone». «Dimmi questo dannato nome!», urlai furiosa. «Vivian Barclay», rispose lui, secco e conciso. Fu un altro pugno in pieno petto. Vivian? Vivian era rinchiusa a Stonehaven. Vivian non avrebbe mai fatto una cosa simile. Vivian non avrebbe mai ucciso il mio migliore amico. «Vivian?», domandai confusa. «Sì, la cara zia Vivian». Lo incenerii con lo sguardo. La situazione era grave. Perché un essere umano non poteva trasformarsi in Demone. Non esisteva alcun modo. Questo mi avevano insegnato. Questo c’era scritto nel libro dei Tramonti. Punto! Mi ai una mano sul viso, premendo forte le dita sugli occhi e cercando di ragionare a mente fredda. «Bene. Sentiamo, com’è potuto succedere, sono tutta orecchie». Hugh si guardò attorno. Un gruppetto di persone si era formato oltre la strada e ci guardava incuriosito.

«Andiamo. Ti dirò tutto, ma non qui». Indossammo i nostri giubbotti e fiancheggiammo il Lungotevere per alcuni minuti. Fu Hugh a rompere il silenzio. «Quando ho visto le ali spuntare sulla schiena dei tuoi genitori e dei due sconosciuti, non ho creduto ai miei occhi. Pensavo di avere un’allucinazione. Poi, qualcuno mi ha afferrato da dietro, sbattendomi a terra. Era un uomo vestito con un completo grigio». «Un Immacolato?», domandai. Lui alzò le spalle. «All’inizio ha pensato che fosse un ladro, così mi so-no difeso sferrandogli un pugno in faccia. È stato come colpire una lastra di metallo». Inarcai un sopracciglio. Sì, era un Immacolato. «Quando mi sono accorto che non potevo far nulla per fermarlo, so-no fuggito. È stato del tutto inutile, quell’uomo era più veloce di me e mi ha raggiunto sulla riva del fiume Ness, nelle vicinanze del castello. Mi ha bloccato, poi ha poggiato le sue mani sulle mie tempie. Ho sentito un calore esplodermi nella testa». Chiaro. L’Immacolato stava cercando di cancellargli la memoria. Quindi? Cosa c’entrava con la sua trasformazione in Demone? «Sono riuscito a divincolarmi, ho cercato di fuggire… ma la vista era annebbiata. Non so cosa mi avesse fatto». «Voleva friggerti il cervello», gli spiegai con la delicatezza di un elefante. Ma ormai potevo giocare a carte scoperte. «Prosegui», lo incalzai. «Continuai a correre, ero quasi giunto al Castello di Inverness. Non vedevo neppure dove stavo andando. Così sono scivolato nel dirupo del fiume Ness». Sgranai gli occhi. In quel punto il burrone era alto almeno una quindicina di metri. «Ho sbattuto la testa su una roccia. Gli Immacolati hanno creduto che fossi

morto. O almeno così mi è stato raccontato da Vivian, perché quando mi sono svegliato ero a casa sua». «Vivian ti ha trovato?». «Vivian si stava dirigendo dai tuoi genitori, poi ha seguito me e gli Immacolati». Scossi la testa. Qualcosa non tornava. «Stop. Fammi capire, ché mi sono persa qualche aggio. Vivian è stata rinchiusa nelle prigioni di Stonehaven per essersi unita all’Ordine dell’Apocalisse. Perché l’Arconte l’avrebbe assolta?». «Non l’ha assolta. È evasa». Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. La situazione era più complicata del previsto. Dovevo ragionare con calma, senza farmi prendere dall’agitazione. Hugh mi avrebbe raccontato tutto per filo e per segno. Dopo l’incontro con il Demone a Castel Sant’Angelo non avevo più avuto un attimo per tirare il fiato. Mi serviva tempo. Tempo e un attimo di pace per fare il punto della situazione. Feci segno a Hugh di seguirmi e assieme a lui mi diressi vero il primo bar che trovai. Era un locale minuscolo, un bancone di legno lo occupava per tutta la sua lunghezza, lasciando uno stretto corridoio laterale dove erano disposti dei piccoli tavolini. Chiesi un bicchiere d’acqua e bevvi avidamente. Sulla parete centrale era appeso un poster enorme, in bianco e nero, che raffigurava un uomo giovane con il cappello intento a mangiare un piatto colmo di spaghetti. Sotto, una didascalia: «Alberto Sordi, un americano a Roma». Mi immaginai in una foto simile, mentre ingurgitavo un trancio di pizza. «Ellen Lynch, una scozzese a Roma». Oppure: «Ellen Lynch, un Demone sfigato a Roma». Già meglio. Adocchiai un angolo in fondo alla sala. Ci sedemmo e ordinammo del tè. Mi guardai attorno: carta da parti terribile e delle sedie consunte dal tempo che avevano tutta l’aria di volermi accompagnare a terra da un momento all’altro. Ecco perché quel bar era deserto. Perfetto per le mie esigenze. Ripresi subito la conversazione dal punto in cui era stata interrotta.

«Mi pare molto strano che Vivian sia riuscita a fuggire da Stonehaven. Conosco quelle carceri, non è così facile uscirne illesi». Hugh fece spallucce. «Secondo Vivian sono cambiate molte cose negli ultimi mesi. Il fatto più preoccupante è l’assottigliarsi del tramonto, perché permette ad alcuni umani di vedere la vera natura degli Angeli e dei Demoni». «Già. E il Consiglio che spiegazione ha dato?». «Nessuna risolutiva. Secondo le Sfere e le Spirali alcuni umani ci riescono, altri no». Annuii. Sentir parlare Hugh di Sfere e Spirali era qualcosa di surreale, come se la mia vita fosse stata riscritta. «Sono casi molto rari», continuò dopo un po’. «A loro avviso questa sovrapposizione delle dimensioni può accadere se c’è stato... un contatto tra l’essere umano e un Angelo. O un Demone», mi disse cercando il mio sguardo. Mi sentii subito in colpa. Forse si riferiva al fatto che io – involontariamente – l’avevo infettato e Kevin guarito? Come se ciò che era accaduto gli avesse dato la possibilità di vedere qualcosa in più di un semplice essere umano? Meglio non indagare, almeno per ora. «Così il Consiglio ha richiamato tutti gli Immacolati ed Emissari affinché sistemassero la situazione», concluse Hugh con una punta di ironia. «Con i loro metodi», concordai. «Con qualsiasi metodo purché l’identità degli Angeli e dei Demoni rimanesse segreta. Anche cancellando possibili pericoli, cioè io», precisò storcendo la bocca. «Comunque, andiamo con ordine. Circa due mesi fa, durante un tramonto, c’è stata un’evasione di massa dalle carceri di Stonehaven. La sicurezza era al minimo, perché quasi tutti gli Immacolati si trovavano per le strade di Inverness nella loro consueta pulizia». Spiegazione plausibile, più o meno. Mi sarei informata dei dettagli della fuga in seguito, avevo dubbi ben più importanti da sciogliere. «Perché Vivian è venuta a casa mia? Voleva regolare i conti con la mia famiglia?».

Hugh sorrise. «No, non si voleva vendicare di te». «Quindi ti ha raccontato tutto quello che è successo? Dello scontro contro Nemesis?». «Sì, ogni dettaglio». «Be’, immagino che non sia proprio in cima alla lista delle sue amicizie preferite». Hugh tornò serio. «Ti sbagli. Vivian ti vuole bene come se fossi sua figlia». Sentii un groppo alla gola. Non riuscii a rispondere, benché quell’affermazione fosse alquanto discutibile. «Era trascorso un mese dalla sua fuga da Stonehaven. Aveva deciso di parlare con Jamye e Dorrel, chiarire la situazione…». «Chiarire la situazione?» lo interruppi bruscamente. Hugh mi fece cenno di abbassare la voce, ma io continuai imperterrita. «Non hai idea di quello che ha fatto. Kevin e io abbiamo rischiato la vita per colpa sua». Mi fermai. Inutile rinvangare il ato, mi avrebbe fatto solo male. Ed ero certa che Vivian aveva già raccontato tutto a Hugh, o almeno la sua versione dei fatti. Quale bugia avrebbe rifilato ai miei genitori? Come pensava di risolvere la situazione? Ma, soprattutto, perché aveva trasformato Hugh in Demone, ammesso che ciò fosse possibile? «Me l’ha detto. Per mesi è stata rinchiusa nelle carceri. Ha riflettuto a lungo, e si è pentita per ciò che ha fatto». Sbuffai. Troppo facile per i miei gusti. Vivian aveva commesso un gravissimo errore. Come aveva potuto? Nemesis e i suoi seguaci erano solo degli assassini. In quel momento giunse la cameriera, portandoci del tè e dei biscotti. Sospirai. Ero ancora arrabbiata per Vivian, delusa dal suo comportamento. Ma soprattutto mi sentivo tradita. Una ferita che non si sarebbe rimarginata presto, non di certo con delle semplici scuse. Eppure, nel profondo, non riuscivo a odiare Vivian.

Dannazione. Perché? «Perché ti ha trasformato in Demone?», gli chiesi di nuovo quando fummo soli. «Calma, Ellen, lasciami raccontare». «Allora cerca di essere sintetico». Hugh sospirò. Certo, ero intrattabile. Ma stare sulle spine mi stava facendo impazzire. «Vivian non voleva solo scusarsi con i tuoi genitori», aggiunse Hugh. «Aveva un piano ben preciso». «Quale?», gli chiesi addentando un biscotto. «Uno scambio». «Spiegati», gli chiesi allungando la mano per prendere il bicchiere. Hugh lo guardò per un attimo e questo scivolò sul tavolino. «Come hai fatto?». «Non fare la sciocca. Anche tu sei capace di muovere gli oggetti». Feci lo stesso e gli strappai il bicchiere dalle mani, accertandomi prima che la cameriera fosse lontana. Bevvi un altro sorso con avidità. Sì, Hugh era decisamente un Demone. «Ho imparato a usare la telecinesi da poche settimane. Come diavolo hai fatto in un mese?». «Vivian è una brava insegnante. A quanto pare non si può dire lo stesso di Kevin». Altra frecciatina per Kevin. Ma la verità era molto più semplice: Ellen la superdemone era un po’ dura a imparare. «Continua», gli dissi con rabbia. «Vivian aveva intenzione di rivolgersi dall’Arconte, per proporre un accordo. Lei gli avrebbe dato tutti i dettagli sui fuggiaschi, perché sapeva benissimo dove

si sarebbero diretti dopo l’evasione. Infine, avrebbe collaborato per smascherare gli altri Discepoli di Nemesis». «Perché ancora non l’aveva fatto?». «No, non era sua intenzione fornire quelle informazioni gratis». «Gratis? Stai scherzando? Il Consiglio avrebbe potuto torturata per avere quei nomi…». «L’hanno fatto per sei mesi». Mi azzittii di colpo. Vivian aveva sbagliato, ma l’idea che avesse subito delle violenze per tutto quel tempo mi fece rabbrividire. «Perché era sua intenzione… come dire, barattare quelle informazioni», concluse Hugh, con espressione disgustata. «Con la sua libertà, per non essere più una ricercata, immagino», ipotizzai stizzita. «Con la libertà tua e di Kevin. L’Arconte non avrebbe più dovuto cercarvi». Come rimanere di sasso, nel vero senso della parola. Abbassai lo sguardo sul tavolino. Era tutto vero quello che mi stava raccontando Hugh? Vivian voleva espiare le sue colpe in cambio della nostra libertà? Possibile. Ecco il motivo per cui non ci avevano mai trovati. Questo scioglieva altri miei dubbi, perché mi sembrava impossibile che fossimo ati sempre inosservati. Troppi quesiti e incertezze. E ancora non avevo risolto il problema principale. «Ne parleremo con calma. La questione Vivian non è una priorità adesso», dissi con voce gelida. «Torniamo al punto di partenza. Uno: come sei diventato un Demone. Due: cosa c’entra Vivian». Hugh bevve un sorso di tè, annuendo. «Quando Vivian mi trovò sulla sponda del

Ness ero in fin di vita. Non poteva chiedere aiuto agli Angeli affinché mi salvassero, ovviamente». «Perché? Gli Immacolati avrebbero cancellato la tua memoria», obiettai. «Non funziona proprio così. Non hai studiato bene la lezione», ironizzò lui. «Gli Immacolati possono cancellare la memoria a breve termine. Nel mio caso era trascorso troppo tempo, c’era il rischio che potessi ricordare qualcosa. L’unico modo che avevano gli Immacolati per risolvere il problema era lasciarmi morire. Possibile che in un mese abbia imparato più cose io di te che sei sul pezzo da un anno e mezzo?». Lasciai perdere la sua ironia e lo perforai con lo sguardo. «Quindi? Cos’è accaduto subito dopo?». «Quindi mi portò all’ospedale. Ma avevo perso troppo sangue. Emorragia interna, grave commozione celebrale. Vivian mi raggiunse quando ero in fin di vita e mi lasciò decidere. Libero arbitrio, così si chiama». Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Hugh mi stava raccontando quella storia con una freddezza disarmante. «Decidere cosa?». «Se morire o vivere, nel secondo caso però mi sarei trasformato in un Demone Emerso». Rimasi a bocca aperta. «Non si può trasformare un essere umano in un Demone», insistetti. «Non se è ancora in vita. Ma solo quando il cuore smette di battere e prima che l’anima lasci il corpo mortale che l’ha racchiusa». Stavo per scoppiare a piangere. Sembrava impossibile, eppure la realtà era davanti ai miei occhi, inconfutabile. Hugh non era più un essere umano. Era morto, e la colpa era mia. Solo mia, perché era venuto a cercarmi. Perché ero scomparsa senza dargli alcuna spiegazione. Perché riuscivo a fare del male a qualsiasi persona mi stesse accanto.

«Sono un resuscitato. Uno zombie», disse scoppiando a ridere. Il che mi fece perdere subito la pazienza. Io stavo per piangere e lui se la rideva? «Piantala. Non è divertente. È successo tutto per colpa mia. Sei morto per colpa mia». Udendo le mie stesse parole, iniziai a tremare. Non era facile seguire quella storia e vedermi Hugh davanti, in carne e ossa e in perfetta salute. In quell’istante mi accorsi che il cellulare era spento. Forse a causa dell’urto quando mi era scivolato di mano. Lo riaccesi immediatamente. «Non è bello essere un Demone», mormorai mentre armeggiavo con i tasti. «Non è bello morire senza aver vissuto». «Non sarai più quello di prima». «Non lo sarei stato neppure da morto». «Non accetto che Vivian l’abbia fatto». «Non accetto che tu non accetti che Vivian l’abbia fatto. Vivian mi ha salvato la vita, questa è l’unica verità». «L’unica verità è che essere un Demone Emerso non è una cosa naturale». «Forse il concetto di cosa è naturale va rivisto». «La tua vita cambierà definitivamente». «La mia vita è cambiata definitivamente da quando mi hai abbandonato». Silenzio. Perché quelli sono dei momenti in cui veramente non sai più cosa dire. Come tirartene fuori. Come sembrare imibile di fronte a una persona che ti dice parole così vere. Parole spontanee, che ti trafiggono il petto e vanno dritte al cuore. E, come al solito, cambiai discorso. «Non ho mai letto dell’esistenza di un metodo per trasformare un essere umano in demone. Mi correggo, un morto».

«Un quasi morto, grazie». «Un morto da poco? Al diavolo, Hugh, perché su quel dannato libro non c’è scritto, perché i miei genitori non me l’hanno mai detto?». Lui si strinse nelle spalle. «Quanto tempo hai avuto per parlare con i tuoi genitori sulla natura dei Demoni?». Poco. Quasi niente. Perché dopo l’Evoluzione ero sconvolta. Incredula, amareggiata e soprattutto arrabbiata. Poi venni a sapere che mio fratello era ancora in vita. Poi lui fu accusato. Poi decisi di salvarlo. Poi ebbi qualche problemino con l’Ordine dell’Apocalisse. Poi fuggii con Kevin. Poi, poi e poi. Dannazione. «Non ho avuto tempo», capitolai. «Bene, argomento chiuso, allora». Chiuso un corno. Se lo poteva scordare. Perché era inammissibile che dopo neppure un mese dalla sua… resurrezione? Hugh fosse così tranquillo. Dopo un anno e mezzo non riuscivo ancora ad accettarmi, mentre lui sembrava tranquillo, come se morire – anzi, quasi morire – e trasformarsi in Demone fossero la cosa più naturale del mondo. Ipotesi uno: Vivian gli aveva fatto il lavaggio del cervello. Ipotesi due: Hugh era impazzito. Ipotesi tre: Hugh mi stava mentendo. Ma avrei ripreso il discorso in un altro momento, al più presto. Adesso avevo una domanda ben più importante. «Cosa è successo ai miei genitori?». Hugh sospirò, prendendosi una pausa. «Dopo che mi sono trasformato, ho avuto un po’ di problemi per adattarmi alla mia nuova natura. Non che adesso sia una eggiata. Comunque, Vivian si è occupata della faccenda. È tornata il giorno seguente a casa dei tuoi, ma loro era-no spariti».

«Spariti?», chiesi preoccupata. «Esatto». Sbiancai. Cosa gli era successo? «Sta’ calma, Ellen. Sono convinto che siano fuggiti». «Oppure sono stati rapiti, o peggio…», le parole mi morirono in gola. «Per quale motivo avrebbero dovuto far del male ai tuoi genitori? Immacolati ed Emissari avevano delle precise direttive dopo l’accordo con Vivian. Tu e Kevin non eravate più un problema. Sì, ne sono sicuro, Jamye e Dorrel si sono nascosti». «Nascosti da chi?», lo incalzai. «Se non erano Immacolati o Emissari, chi stava discutendo con i miei genitori?» Hugh scosse la testa. «Vivian sta ancora cercando di capirlo, ma non ha avuto tempo per indagare. Abbiamo avuto questioni più urgenti». «Più urgenti della scomparsa dei miei genitori?», esclamai risentita. «Sì, e non sei nella posizione di accusare nessuno, visto che per otto mesi te ne sei infischiata, eccezion fatta per una semplice lettera». Ottimo. Mi aveva zittito con poche parole. E aveva ragione. Una sola inutile giustificazione: non immaginavo che stesse accadendo tutto questo casino. «Quali problemi dovevate risolvere?». «Quelli per cui sono giunto a Roma. Da te». Cosa intendeva? Non ebbi il tempo di rispondere che il cellulare mi squillò. «Kevin», disse Hugh sbirciando il nome apparso sul display. «Pronto, Kevin?». «Ellen, dove sei? Cosa succede? Mi hai spaventato!». «Tutto a posto». «Come tutto a posto? Hai urlato! Qualcuno ti ha aggredita?». «Parlo un po’ forte, lo sai». «Piantala! Mi hai fatto preoccupare, avevi il cellulare staccato!». «Mi è caduto e si è spento». «Dove sei?». «In un bar». «Dammi l’indirizzo che ti raggiungo. Subito».

10. Kevin Riunione tra Angeli e Demoni

Scesi dal taxi. Attraversai la strada di corsa. Ellen era di fronte all’entrata del bar, braccia conserte e testa china. Mi irrigidii. Alla sua destra c’era una persona che conoscevo bene. Una persona che non avrebbe mai dovuto trovarsi a Roma. «Che meravigliosa sorpresa, Hugh», dissi a labbra strette, rallentando il o. Ellen alzò le sopracciglia, fissando un punto dietro di me. Mi voltai, anche Angus era uscito dal taxi. «Già, una meravigliosa sorpresa», ripeté lei. I nostri sguardi s’incrociarono per un attimo, come due lame. Ellen mi aveva mentito ancora una volta. Da quanto tempo si vedeva con Hugh? Come aveva saputo che ci eravamo nascosti a Roma? Perché si erano incontrati a mia insaputa? Strinsi i pugni. Anche l’espressione dipinta sul volto di Ellen non era delle migliori. Identica situazione, ma capovolta e con un altro protagonista: Angus. «Il tuo amico infine è venuto a trovarti», mormorai riluttante. «Oppure vi siete incontrati per caso?». «Assolutamente per caso». «Già, Roma è proprio piccola». «Ma il mio amico non si è fatto accompagnare in taxi come il tuo». Piegai le labbra. «Andiamo via, subito». «Non andiamo da nessuna parte», mi rispose senza scomporsi. «Di certo non con lui».

Le afferrai un polso. «Ti spiegherò a casa». «E se io non volessi?». «Non fare la stupida. Non è il luogo né il momento». Ellen si divincolò, ma la tenni stretta. Giunse Hugh in suo soccorso. «Tu stanne fuori», ringhiai. «Principe Shaw, l’aria di Roma ti ha fatto perdere le buone maniere scozzesi? Non mi pare il modo più cortese per iniziare una conversazione». «Basta così», s’intromise Ellen. «Hugh ha ragione, ne discuteremo a casa». «Bene, vieni. Il taxi ci sta aspettando». «Veniamo. Hugh e io». Sbuffai. «Con Hugh ci parlerai domani, dopo che avremo chiarito la questione. Noi da soli». «Da soli? Chi? Tu, io e… Angus? Naturale. Allora la situazione cambia un po’. Chiariremo tutti assieme. Tu, io, Hugh e Angus». «Dobbiamo parlare… di cose private». «Cose che potrà sentire anche Hugh». Scossi la testa, indicando Angus. Possibile che non capisse che non potevamo discutere di Angeli e Demoni di fronte a Hugh? Ellen non mi dette modo di replicare. «Andiamo Hugh, stiamo perdendo tempo. I taxi a Roma non sono affatto economici». Durante il tragitto per arrivare al quartiere Coppedè, restammo in assoluto silenzio. A quell’ora le strade di Roma erano intasate dalle automobili, e ci trovammo imbottigliati nel traffico. Non riuscivo a trattenere l’ansia, stavo per esplodere da un momento all’altro.

Angus osservava fuori dal finestrino, con aria preoccupata. Come biasimarlo, avere un umano con noi non avrebbe facilitato le cose. Mi sentii in colpa, più volte mi aveva ripetuto che Ellen ci avrebbe causato solo dei problemi e messo a repentaglio la missione. Io gli avevo assicurato che era una ragazza responsabile e intelligente, che il suo aiuto sarebbe stato fondamentale. E adesso invece? Proprio quando era giunto il momento di agire, Ellen portava a casa un amico di infanzia. Non era stata capace di frenare la nostalgia? Non immaginava il rischio che correvamo? Cercai il suo sguardo, ma Ellen teneva gli occhi incollati al sedile di fronte. Tentai di farmi sbollire la rabbia. Avevamo deciso di dirci tutto, e poi venivo a sapere che si vedeva di nascosto con Hugh. Dovevo stare calmo. Avremmo discusso e risolto la faccenda in privato, poi lo avremmo congedato al più presto. Ellen non era una sprovveduta, se le avessi raccontato della Chiave e dell’Ordine dell’Apocalisse avrebbe compreso la gravità della situazione, ne ero certo. Una mezz’ora più tardi eravamo già a casa. Appena entrammo mi accorsi che era nel completo caos. Cuscini a terra, plaid sul divano, tazze sporche sul tavolino, libri e riviste sparsi ovunque. C’erano ancora i piatti da lavare nel lavello. Ellen mi sussurrò tra le labbra una specie di «scusa», mentre io feci appena in tempo a nascondere il libro de I tramonti dei Demoni Emersi prima che Hugh ci fe caso. Sbuffai. Come al solito Ellen non mi aveva ascoltato, era chiaro che era uscita di casa presto quando le avevo chiesto di rimanere a letto e riposarsi. Potevo perdere le speranze, era inutile parlarne. Una gita a Castel Sant’Angelo? Per distarsi? Oppure aveva già appuntamento con Hugh? No, stavolta non l’avrebbe ata liscia. Ero stanco di quelle continue bugie. Certo, anch’io ero in difetto, ma tutto quello che avevo fatto era per il nostro bene. Avrei potuto coinvolgere Ellen fin da subito, ma non sarebbe stata una cosa semplice. Avevo dovuto aspettare il momento giusto, e infine ottenere l’approvazione di Angus. Maledizione. Proprio adesso che ci ero riuscito, ecco spuntare fuori Hugh dal nulla. O meglio, Ellen l’aveva chiamato, non c’era altra spiegazione. La raggiunsi in cucina e affrontai il discorso.

«Dobbiamo parlare». «Parla». «Come facciamo se c’è Hugh tra i piedi?». «Hugh non è un problema». «Ellen, accidenti, possibile che tu non capisca?». Non ebbe il tempo di rispondere che udimmo la voce di Angus. «Ehi, tutto bene voi due in cucina?». «Sì, certo! Scusate il ritardo, vi sto portando qualcosa da bere», rispose Ellen preparando un vassoio. Sospirai. Dovevo solo rimandare la questione e aspettare. Santa pazienza, davvero. Andai in sala e mi misi a sedere su una sedia, tamburellando con le dita sul tavolo. Ellen portò un po’ di tè, succo di frutta e dei biscotti. Sembrava quasi un aperitivo tra amici. Peccato che avessimo questioni ben più importanti da sbrigare, quindi evitai i convenevoli. «Andiamo dritti al punto. Ellen, mi spieghi perché hai chiamato Hugh a Roma senza consultarmi?». «È stata una mia iniziativa», l’anticipò Hugh. Frenai le parole. «Come sapevi che eravamo a Roma?». «Ellen ha chiamato a casa. Ho rintracciato il numero». «Cosa hai fatto?». Ellen alzò le mani. «Fermo, ti posso spiegare. Avevo un brutto presentimento e…». «Brutto presentimento? Rischi di farci scoprire per un brutto presentimento?». S’incupì. «Mi pare che anche tu abbia contattato i tuoi amichetti. Ognuno aveva

le sue buone ragioni». «In realtà Kevin e io siamo sempre rimasti in contatto dal giorno in cui avete lasciato Inverness», precisò Angus. «Splendido. Quindi mi stai mentendo da otto mesi», realizzò Ellen allibita. «Non è la stessa cosa», mi difesi. «C’era un motivo molto importante». «Così importante che non hai pensato di mettermi al corrente. Forse sono troppo stupida e incapace per partecipare alle vostre conversazioni? Non sono all’altezza?». «Non è così, lo sai. Era un momento difficile per te». «Lascia a me stabilire cosa è difficile e cosa posso affrontare, grazie». «E poi… prima volevo sentire il parere di Angus», le dissi sperando che capisse l’allusione. Ovvio, non potevo mica dire ad alta voce che dovevo avere l’approvazione del capo clan degli Angeli. Che situazione assurda. «Certo. La bambina Ellen deve giocare con le bambole e non partecipare alle cose dei grandi. È così, Angus? È questo che pensi di me?». Quest’ultimo scosse la testa, mentre Hugh mormorò qualcosa e si tolse la giacca. In quel momento notai dei tagli nella maglietta, all’altezza delle scapole. Cercai lo sguardo di Ellen, che abbassò la testa. «Cosa diavolo succede?», sbottai. «Cosa ti è successo, Hugh?». «Dove?». «Sulla schiena». «Ho litigato con un gatto», scherzò lui. «Non prendermi in giro!», ringhiai. «Conosco quei tagli». «Devo renderti conto di quello che faccio, Kevin?».

«Sì, lo devi». «Ti sbagli, non ti devo un bel niente, caro Angioletto». Non ci vidi più. Balzai in piedi, lo afferrai per i polsi. Lui mi strattonò facendomi perdere la presa. Indietreggiai sconcertato. La forza di Hugh… non era umana. Fu allora che notai il tatuaggio del Basilisco impresso sulla sua pelle. «Sei un Demone Emerso?», domandai incredulo. «Così sembra», replicò ammiccando a Ellen. Mi allontanai. Quello che stava per succedere non mi piaceva affatto. Quando si era trasformato Hugh? Ripensai al giorno in cui gli avevo salvato la vita, alla sua età, a quando poteva essersi evoluto… «Fermi. Ora basta». Ellen si alzò in piedi. «La discussione è iniziata nel peggiore dei modi. Quindi, manteniamo tutti la calma e mettiamoci a sedere». Angus evitò di intervenire, osservandoci con preoccupazione. Ellen prese la parola e raccontò la storia di Hugh, da ciò che era accaduto a Jamye e Dorrel, allo sfaldamento del tramonto, fino all’intervento di Vivian dopo la fuga da Stonehaven. Ero sbalordito. «Sapevi nulla dell’evasione dal carcere?», domandai ad Angus. «No, o almeno non in questi termini. Qualche settimana fa, quando ero a Barcellona, ho contattato Nora. Mi aveva parlato delle difficoltà del Consiglio nel gestire le problematiche di Inverness e del rischio che molti esseri umani potessero vedere la vera natura di Angeli e Demoni. Mi aveva anche accennato a delle sommosse a Stonehaven, perché i controlli alle carceri erano diminuiti, ma nulla di così grave». Lasciammo cadere il discorso quando Ellen ci raccontò della trasformazione di Hugh. «Ti risulta possibile, Angus?», chiesi scettico.

«Non credi a ciò che ti stiamo raccontando? Ogni volta devi avere l’approvazione del capo clan?», intervenne Ellen. «So solo che non è possibile trasformare un essere umano in un Angelo e non ho mai sentito che sia accaduto per i Demoni», mi giustificai. «Sto solo cercando di capire com’è successo». «Come ti ha appena spiegato Ellen», confermò Hugh, imibile. «Non che io sappia», rispose Angus, congiungendo le mani al petto. «Ma non posso definirmi un esperto sui Demoni Emersi. Ciò che conosco lo sai anche tu, Kevin. Evoluzione a sedici anni». «Oppure a quindici», precisò Ellen stizzita. «Di certo i Demoni non confidano i loro segreti a noi Angeli. E non posso escludere che esistano dei riti particolari che possano compiere un simile abominio». Hugh scoppiò a ridere. «Fantastico, nessuno mi aveva mai dato dell’abominio fino ad oggi». «I Demoni Emersi sono un abominio», chiarì Angus. «Ok, lo prendo come un complimento. Ellen, che dici? Esiste un party privato per noi abomini?», scherzò Hugh. «Quindi un rito di magia nera?», domandai, sviando quel commento che ci avrebbe solo distratti. E non mi piaceva affatto che Ellen e Hugh fero fronte comune. «Su questo non posso esservi d’aiuto», disse Hugh. «Ma possiamo comunque tornare a Inverness e chiederlo a Vivian». «Un’influenza così intrusiva in un essere umano è severamente proibita dal Consiglio», dichiarò Angus. «Vivian ha salvato Hugh», obiettò Ellen. «Mentre gli Immacolati erano ben lieti che Hugh morisse. Un problema in meno per il tuo Consiglio».

Hugh scoppiò a ridere. «Già, quale Consiglio, Angus? Quello a cui non hai comunicato il motivo per cui sei giunto a Roma? Il Patto d’Equilibrio vacilla da molto tempo, l’Arconte sta cercando solo di tamponare la situazione per non perdere la poltrona». «Cosa ne vuoi sapere tu? Sei Demone da solo due mesi», gli dissi. Ellen scattò in piedi, mettendosi nel mezzo fra me, Angus e Hugh. «Bene, vedo che la discussione non procede nel verso giusto. Non sarà litigando che raggiungeremo un accordo». «Un accordo?», ripetei con tono sarcastico. «Quale accordo vorresti proporre? Sappiamo tutti perché Hugh è qui». Hugh arricciò il naso. «Dai, Kevin, non essere timido. Dì pure quella parola». «Basta!», urlò Ellen, capendo a cosa mi riferivo. Ma era ovvio. Non credevo affatto a quella storia. Hugh aggredito dagli Immacolati, Hugh in fin di vita, Vivian che lo salvava trasformandolo, guarda caso, in un Demone. Quando l’ultima volta che lo avevo visto aveva dichiarato i suoi sentimenti a Ellen. Si era ficcato in un mare di guai, era evidente. Non che la cosa mi interessasse, ma doveva starsene lontano da noi. «Hugh è qui per darci una mano», concluse Ellen. Soffocai una risata. «Scordatelo. Nessun aiuto dai Demoni Emersi». Mi incenerì con un’occhiataccia, poi emise un lungo sospiro. «Ti ricordo, Kevin, che anch’io sono un Demone, tante volte non te ne fossi accorto». «Non fare la sciocca, per te è diverso». «Anche per Hugh lo è, visto che è il mio migliore amico». «Non lo riguarda». «E abbiamo una missione da portare a termine», aggiunse Angus, inflessibile. «Certo, peccato che i miei genitori siano scomparsi e che mio fratello sia solo a

Inverness in chissà quale stato. Bene, a quanto pare siete voi a gestire questa cosa, quindi spetta a voi la decisione. O Hugh si unisce a noi, oppure torno con lui a Inverness. Domani mattina». Hugh abbozzò un sorriso di vittoria. A stento mi frenai dal colpirlo con un pugno in pieno volto. «La situazione è complicata, e non è prudente comunicare a Hugh le nostre ricerche», intervenne Angus. «Parli della Chiave?», domandò Hugh. Lo guardai dritto negli occhi. Cosa ne sapeva lui? «Come fai a sapere della Chiave?». «Non è questa la giusta domanda da porsi, Kevin. Il punto è: quanto ne sapete voi della Chiave di Salomone?».

11. Ellen La Chiave di Salomone

Angus strinse gli occhi fino a farli diventare due lame color ghiaccio. «Salomone?», chiese Kevin. «L’ultimo re del regno di Giuda e d’Israele», commentai. «Ricordato per la sua proverbiale saggezza, tanto che gli fu costruito un tempio», aggiunse Hugh. «Agli Angeli non viene insegnata la Bibbia?». Kevin lasciò cadere la provocazione. Hugh aveva ragione, era inconcepibile che durante l’addestramento nell’isola di Skye l’Arcangelo Remiel non l’avesse costretto a leggere almeno la Bibbia. Ma stava esagerando con le insinuazioni e le frecciatine. Ci avrei parlato a quattrocchi, da sola. Era ora di finirla con quegli inutili battibecchi. «Non credo che questo ci sia d’aiuto. Oppure la Bibbia spiega dove trovare questa misteriosa Chiave?», domandò Kevin. «Salomone è considerato anche un mago e un esorcista. Si dice che il Tempio di Gerusalemme sia stato costruito grazie alle sue evocazioni e influenze sui Demoni», s’intromise Angus. Hugh annuì. «Proprio così, o almeno è quello che mi ha raccontato Vivian». Quindi anche Vivian era alla ricerca della Chiave. E chissà da quanto tempo. Come al solito, la mia cara amica aveva sempre evitato di parlarmene. Altra questione da chiarire. «Da quanto Vivian sta facendo ricerche sulla Chiave?», chiesi subito. «Da quanto le è stato ordinato dall’Ordine dell’Apocalisse. Quindi da Nemesis», rispose Hugh. Kevin si irrigidì. «Rachel. Ecco qual era la sua vera intenzione».

«E Inghinn ha pensato di continuare le sue ricerche». Mi sedetti sulla poltrona. La faccenda si faceva sempre più complicata. «Quindi tutto ciò che si dice su Salomone è vero?». «Chissà. Nella leggenda c’è sempre un pizzico di verità», disse Angus, dubbioso. «Anche le Streghe stavano studiando il Testamento di Salomone, un apocrifo dell’Antico Testamento». Scattai in piedi. «Streghe? Vi prego, ditemi che è solo uno scherzo». Ma non era così. Angus mi narrò del suo viaggio a Barcellona, la discussione con il krisnitòri, la massima autorità delle Streghe. Rimasi in silenzio, senza dire una sola parola. Ero pronta al peggio, mancavano solo licantropi e vampiri e tutte le mie certezze sarebbero crollate in una volta sola. «Secondo le Streghe, Salomone rappresenta l’anello di congiunzione tra il mondo della magia e quello dei Demoni. Alcuni lo definiscono il padre dell’occultismo, ma ovviamente sono solo un mucchio di falsità». Iniziavo ad avere un tremendo mal di testa. Sarò cocciuta, ma in un anno e mezzo ancora non mi ero abituata all’idea di vivere in un mondo pieno di creature svolazzanti, altresì note come Angeli e Demoni. Figuriamoci all’esistenza delle Streghe. Appunto, altre creature svolazzanti sulla scopa che riempivano il cielo. Ricapitolai ad alta voce. «Quindi Salomone ha nascosto la Chiave, una specie di Manufatto, i cui poteri sono ignoti ma è talmente importante che l’Ordine dell’Apocalisse si è messo alla sua ricerca, perché è in grado di spezzare il Patto d’Equilibrio. Fin qui ci siamo, più o meno. Vero?». «Proprio così. Anche Vivian sapeva che le Streghe avevano informazioni importanti a riguardo», intervenne Hugh. «Ma riteneva che fosse troppo pericoloso coinvolgerle, perché volevano ottenere la Chiave per ben altri motivi». «Comunque, anche Vivian era in possesso dell’informazione più preziosa: la Chiave di Salomone si trova a Roma».

Angus versò del tè nella tazza. «Esatto, questo è il punto. Il rapporto tra i Consigli di Angeli e Demoni e le Streghe non è affare che ci riguarda. Non dobbiamo distrarci: il nostro unico scopo è ritrovare la Chiave prima che cada nelle mani sbagliate». «Perché Vivian non è venuta con te?», domandai a Hugh, con una punta di diffidenza. «Poteva darci una mano, dato che è intenzionata ad aiutarci». «Perché non poteva allontanarsi dal Consiglio e dall’Arconte. Se fosse partita per Roma, l’avrebbero accusata di voler fuggire dopo l’evasione da Stonehaven. In questo momento deve recitare bene la sua parte, far credere al Consiglio che è disposta ad aiutarlo a scovare i Discepoli di Nemesis». «E sviare l’Arconte, affinché non sappia nulla della Chiave», concordò Angus. «Perché la notizia si diffonderebbe a macchia d’olio, tutti i Consigli si getterebbero alla sua ricerca per ottenere chissà quali vantaggi al prossimo Tetrastile». «E io ho dovuto imparare in fretta come funziona tutto l’ingranaggio. Vivian sapeva già cosa stavate facendo tu e Kevin», concluse Hugh. «Fin troppo in fretta», mormorò Kevin. Ottimo. Chi in fretta, chi con calma. Tutti lo sapevano tranne Ellen, la bambina che doveva rimanere nel mondo delle fiabe. Stavo per arrabbiarmi, e stavolta non se la sarebbero cavata con un «mi dispiace ma». «Impossibile», mi anticipò Kevin, lapidario. «Le nostre conversazioni sono state assolutamente riservate». «Ma non quelle di Angus e Nora, che Vivian sorvegliava da circa un mese». «Dannazione», imprecò Angus. «Nora». «Non è colpa sua. E comunque è sola a Inverness, senza una guida e delle precise direttive», la difese Kevin. «Streghe, Vivian e quant’altro ci stanno distraendo. Non abbiamo tutto questo tempo», dichiarò il capo clan. «Kevin, puoi prendere la borsa con gli appunti?».

Kevin eseguì e gli portò quanto richiesto. Angus estrasse una cartellina e sfogliò delle pagine. «Allora, non sappiamo come è fatta la Chiave di Salomone, ma siamo sicuri che si trova a Roma. Non mi interessa quale sia il fine delle Streghe o di Vivian, dobbiamo raggiungere il nostro obiettivo. Fine della discussione». Silenzio. Angus aveva un carisma tale che riusciva a zittire con una facilità disarmante, quando i miei «basta!» non riuscivano a mettere d’accordo neppure quattro persone. A lui era sufficiente impostare il tono di voce e contrarre i lineamenti del volto. Ecco perché era diventato un capo clan. Ed ecco perché nessuno mi dava mai retta. Chapeau. «Procediamo. Secondo quanto mi è stato raccontato, la Chiave serve a risvegliare i Demoni infernali, capaci di spezzare il Patto d’Equilibrio e i Quattro Sigilli». «I Cavalieri dell’Apocalisse», dissi con un filo di voce, cercando lo sguardo di Kevin. Avevamo ragione, le nostre non erano semplici congetture. «Esattamente, così dice la leggenda. Dopo di che, l’Apocalisse avrà inizio. Le 666 legioni si scontreranno con le Gerarchie Celesti, e questo sarà il primo o verso l’ascesa di Lucifero». «Lucifero… stiamo rincorrendo solo delle storie», commentò Kevin dubbioso. «Così come ammetti l’esistenza di Dio, devi credere anche a Lucifero», lo redarguì il capo clan. Trattenni un sorriso. Angus aveva involontariamente toccato un tasto dolente. Nessun Angelo o Demone era mai stato in contatto con un’essenza ultraterrena, tantomeno le gerarchie celesti e infernali. Non avevamo mai affrontato direttamente la questione, ma il punto era semplice: Kevin credeva a Dio tanto quanto io a Lucifero. Eravamo dei miscredenti? Forse. E non ritenevo neppure che fosse così sbagliato.

«Nessuno ci ha mai imposto un credo», affermai con sicurezza. «Io sono stata marchiata dal Basilisco, la mia famiglia appartiene alla dinastia dei Demoni. Eppure sono stata educata al cattolicesimo. Da piccola andavo in chiesa ogni domenica poi… vabbè, lasciamo perdere. Quindi sono una specie di blasfema verso Lucifero?». Scoppiai a ridere, ma ancora una volta la mia battuta non fu accolta nel verso giusto. Fatto sta che dicevo la verità, la nostra esistenza era un totale controsenso. Eppure, Angus non parve affatto meravigliato. «Il Consiglio non ha mai imposto una fede. Le Sfere e le Spirali lasciano il libero arbitrio agli Angeli e ai Demoni proprio come agli uomini. La nostra unica fede è rispettare il Patto d’Equilibrio ed essere giudicati per il nostro operato durante il Tetrastile». Come da manuale. Impeccabile. Peccato che non sciogliesse nemmeno uno dei miei dubbi, anzi rafforzava la convinzione che tutto quell’apparato burocratico nel quale ero stata schiaffata senza averne fatto richiesta fosse solo un mucchio di menzogne. E, alla fine dei conti, l’operato del Consiglio e le influenze degli Angeli e dei Demoni sugli uomini mi apparivano come un sadico gioco tra due fazioni opposte. Era come stare allo stadio e assistere alle urla delle due tifoserie, oppure davanti alla Tv a vedere due schieramenti politici che litigavano durante una campagna elettorale. Se davvero il Patto d’Equilibrio si basava sull’ideale del libero arbitrio, non avevamo il diritto di manovrare gli esseri umani. Era un discorso troppo complicato, che andava oltre il mio problema attuale. Perché il mio unico desiderio, in quel momento, era poter vivere felicemente con la mia famiglia e con Kevin. Quindi si tornava al pun-to di partenza: evitare che l’Ordine scatenasse l’Apocalisse. E distruggesse il tramonto, impedendomi per sempre di stare con l’unica persona che amavo. Lucifero e Dio, realtà e immaginazione, fede e speranza. Il mio problema era molto più terreno. «Anche Vivian è giunta alla stessa conclusione. Ma stava per scoprire l’ubicazione della Chiave», disse Hugh dopo un lungo silenzio. Angus s’incupì. «In che modo ci è riuscita?». «Grazie all’Ordine dell’Apocalisse».

Kevin scattò in piedi, furente. «Vivian è ancora in contatto con i Discepoli?». Hugh non si scompose. «Proprio così. Non mi ascolti, Kevin? Come ti ho già detto, questo è necessario per l’accordo che ha stipulato con il Consiglio». «Lo sentite? Sentite cos’ha detto? In pratica vuol farci credere che Vivian sta facendo il doppio gioco, sia con l’Arconte sia con i Discepoli perché il suo unico scopo è redimersi e fare del bene a Ellen e me. Chissà, forse Vivian sta facendo il triplo gioco, prendendoci tutti in giro?» «Libero di credere ciò che più ti piace», replicò Hugh, guardando l’orologio. «Ma sono in ritardo, a quest’ora avrei già dovuto chiamarla». «Non ti azzardare». «Perché no? Così potreste parlarci anche voi e verificare che non vi sto mentendo. Perché il punto è proprio questo, non è vero Kevin? Tu non mi credi». I due si sfidarono guardandosi dritti negli occhi. Sarebbe bastata una scintilla per far scoppiare una lite furibonda. «No, tu non chiamerai nessuno». «È una specie di ordine, Kevin? Oppure una minaccia?». Mi misi tra di loro, allargando le braccia. «Piantatela, subito. Per favore». «Lui non chiamerà Vivian. Non lo vedi, Ellen? Non capisci che è tutta una messinscena?». «Kevin, sta calmo», gli dissi allontanandolo da Hugh. «Lo stai difendendo? Ti ha già fatto il lavaggio del cervello?». Persi la pazienza in un microsecondo. Ero veramente stanca di essere trattata da bambina incosciente sbattuta a destra e manca come un pacco regalo. Avevo una testa sopra le spalle, sapevo ragionare in modo autonomo. «Hugh chiamerà Vivian», dissi perentoria, poi mi rivolsi ad Angus. «Siamo sinceri, non sappiamo minimamente dove sia la Chiave. Possiamo rimanercene a

Roma, farci tanti divertentissimi giri turistici, e ne sarò ben lieta. Ma non tireremo fuori un ragno dal buco. La Chiave? Non sappiamo neppure com’è fatta. È come cercare un ago in un pagliaio. Le informazioni di Vivian ci servono». Angus socchiuse gli occhi ed emise un respiro profondo. Quindi annuì. Kevin non disse una parola. Afferrò il giacchetto e uscì di casa sbattendo la porta. Angus, con la sua calma glaciale, si alzò qualche istante più tardi e lo seguì. *** Sul divano. Con una tazza di tè freddo. Sola. Amareggiata. Esausta. «Tutto bene?», mi domandò Hugh entrando in sala. «Hai parlato con Vivian?». «Sì. Mi ha chiesto di te. Voleva sentire la tua voce». Feci spallucce. «Dopo tutto quello che è successo, non mi pare il caso di iniziare una discussione per telefono. Ci parlerò, certo. Faccia a faccia. È una storia lunga, di certo non potrò liquidarla con una bella chiacchierata o una manciata di sms». «Come vuoi. Ma ricordati che Vivian ti vuole davvero bene», mi disse con un tono caldo e rassicurante. Sviai subito il discorso. «Buone notizie da Inverness?». «Niente d’importante. Vivian sta ancora cercando informazioni, neppure l’Ordine conosce l’esatta ubicazione della Chiave. Speravo di fornire qualche dettaglio importante. Ne parlerò con gli altri appena saranno di ritorno, troveremo un’altra soluzione».

Poggiai la tazza sul tavolo. «Ammesso che tornino». Hugh si sedette accanto a me e mi ò un braccio attorno al collo. «Dai, non fare la stupida. Kevin tornerà, è solo un po’ confuso». «Confuso? Direi furioso». «È una persona che ama avere tutto sotto controllo, quando si trova a dover improvvisare perde la calma. Tutto qua». Ennesima conferma che in quella giornata tutto procedeva all’incontrario. «Adesso ti metti a difendere Kevin? Da quando ti sta simpatico?». «Da quando ho capito che ci tieni molto. E io tengo a te. Di conseguenza, rispetto la tua scelta, anche se non la condivido». Non poteva dire una cosa più giusta. Il mio sentimento per Kevin era sempre stato ostacolato: dagli amici, dalla mia famiglia, dagli Angeli e dai Demoni e persino dal destino che voleva condannarci a un tramonto di eterna solitudine. Non mi sarei aspettata che proprio Hugh mi incoraggiasse a non demordere. Appoggiai il volto sul suo petto. «Grazie Hugh. Ne avevo bisogno». Lui mi ò una mano tra i capelli con dolcezza. «Lo sai, per te ci so-no sempre». Alzai il viso, cercai il suo sguardo. I suoi occhi verdi, così profondi e rassicuranti. Hugh mi carezzò il volto. Un brivido mi corse lungo la schiena, accompagnato da un torpore e un senso di pace. Abbassò la testa. In un attimo ci trovammo a pochi centimetri di distanza. Non so perché, ma in quel momento l’unica cosa che desideravo era baciarlo.

12. Kevin Nuovi Indizi

«Ti consiglio di prestare più attenzione», mi disse Angus, mentre eggiavamo nel quartiere Coppedè. Mi voltai di scatto. «A cosa?». «La tua mente. Accesso libero», sibilò. Chissenefrega. «Divertiti pure. Ne troverai delle belle». «Una delle prime regole che ti ho insegnato: chiudi sempre la tua mente». «Ma tu sei il capo clan, e sei anche un amico». Angus accennò un sorriso. «La legge resta valida per tutti e in ogni occasione. Sei debole quando cadi preda delle emozioni». «Al diavolo le emozioni!», esclamai perdendo la pazienza. Non era il momento di fare addestramenti o comportarsi da bravo Angelo Ombra. «Non sei più il ragazzino dell’isola di Skye. Quindi, per favore, piantala con questo atteggiamento». Sospirai, innervosito. La situazione era frustrante: avevo bisogno di sfogarmi ma non potevo far altro che imprecare. «Magari la prossima volta che capitano queste discussioni, esprimi chiaramente la tua opinione invece di startene zitto», lo accusai con rabbia. Angus mi si parò davanti. «Ogni mia azione causa una precisa reazione. Ellen mi ha fatto una domanda, io ho risposto. Non mi pare di essermene lavato le mani». «Pessima decisione». «Punto di vista sul quale non concordo. Fammi capire, Kevin, per far sbollire il tuo nervosismo vuoi accusarmi di non averti appoggiato, oppure preferisci

battere i piedi come un bambino? Mi stai deludendo». Mi trattenni dal dargli un pugno in faccia. Non eravamo più a Inverness, non doveva permettersi di trattarmi come un idiota. Angus ribatté: «Va’ pure, colpiscimi. Spero che questo ti faccia senti-re meglio e ti schiarisca le idee. Ho bisogno di un collaboratore valido, non di un Angelo in preda alla gelosia». Lo guardai in tralice. Era troppo semplice liquidare la questione in quei termini. «No, sono io a essere deluso, Angus. Ritrovare la Chiave ha la massima priorità, è il nostro unico obiettivo. Sai meglio di me qual è la posta in gioco e quali sono i giocatori. Ordine dell’Apocalisse, Streghe e probabilmente qualche infiltrato nel Consiglio». «Concordo. Perché quindi stiamo perdendo tempo in inutili battibecchi?». «Non è vero!», m’infuriai. «Stiamo procedendo alla cieca senza riflettere». «Forse tu non stai riflettendo, perché la tua mente è impegnata su altri fronti», replicò Angus senza scomporsi. «Lo stesso non vale per me. Ho vagliato ogni possibilità». «Ci stiamo muovendo in modo avventato». «Ripeto, non abbiamo tempo», m’interruppe, caustico. «Ma dobbiamo anche stare attenti a non farci scoprire. Forse la cosa più giusta è trovare un giusto compromesso tra le nostre posizioni». «Non sottovalutarmi, Kevin. Cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decido io. Ricordati chi è il capo clan». Sostenni il suo sguardo senza timore. «Non siamo più a Inverness. Questo non è il tuo distretto. E qui non sono il tuo sottoposto». «Sottoposto?», Angus scoppiò a ridere. «Per favore, non prendiamoci in giro. Sei stato tu a chiamarmi in preda al panico perché il tuo bel rapporto con Ellen si stava incrinando».

Inutile mettersi sulla difensiva, Angus aveva perfettamente ragione. Se il tramonto non si fosse sfaldato non lo avrei mai chiamato e sarei fuggito in capo al mondo. D’altronde il quadro della situazione era incompleto, anche Angus aveva avuto bisogno di me. ai comunque al contrattacco. «Davvero, quindi vuoi dirmi che mi hai aiutato per comione o amicizia? Non mi pare proprio. Cosa è rimasto del tuo clan? Nora, punto. Di me ti fidi, e ti ero utile perché potevo spostarmi in tutta Europa senza problemi». Angus annuì senza scomporsi. «Certo, è vero, ho stima di te. Mi pare di avertelo già dimostrato. Anzi, ho fatto di più. Se avessi deciso di agire con cautela e nel rispetto delle leggi, mi sarei comportato diversamente. Tanto per iniziare ti avrei denunciato al Consiglio, quando mi telefonasti circa sei mesi fa. Chissà, forse avrei avuto anche un premio dall’Arconte, no?». «Be’, puoi sempre farlo», risposi allargando le braccia. «Se vuoi, denunciami pure». Angus mi ricambiò con un’occhiataccia. «Piantala con queste sciocchezze. Anzi, smettiamola entrambi. Ritengo sia più importante impedire che l’Ordine distrugga il Patto di Equilibrio, mi pare ovvio. Se così non fosse, avrei evitato di lasciare Nora da sola a Inverness, sapendo che l’Arconte si sarebbe insospettito per la mia assenza e che i Discepoli avrebbero cercato di sottrarmi le ricerche sulla Chiave. Ma, soprattutto, avrei evitato di rivolgermi alle Streghe e di stipulare un patto con loro. Come vedi, Kevin, sono sceso a compromessi da un bel pezzo. Se Hugh ha intenzione di chiamare Vivian per avere altre informazioni non sarà la fine del mondo. Nella migliore delle ipotesi potrà fornirci qualche altro indizio, nella peggiore avremo presto alle calcagna altri scocciatori». Fin qui ero d’accordo, più o meno. Ma mi sembrava che stesse sottovalutando la seconda ipotesi. Insomma, non conoscevo bene Hugh, ma dal mio punto di vista era cambiato troppo in fretta. Solo da un mese era stato trasformato in Demone Emerso, con un rito che nessuno sapeva esistere, eppure sembrava totalmente a suo agio nella sua nuova natura. Il che era inaccettabile. Oltre che poco credibile. Hugh stava mentendo, Hugh stava facendo il doppio gioco. E Hugh aveva un altro scopo: Ellen. «Già, ma accoglierlo a braccia aperte senza neppure dubitare della sua lealtà è

fin troppo rischioso. Angus, conosco le tue capacità, non dirmi che ti sei bevuto la storia che ci ha raccontato». Lui sollevò un sopracciglio. «Siamo in un vicolo cieco e il tempo ci è nemico. Sono pronto ad accettare questo rischio. Ma il problema è un altro, Kevin, non giriamoci attorno». Bene, carte scoperte. E allusioni poco piacevoli. «Parla pure, un capo clan non deve avere peli sulla lingua». Angus incrociò le braccia al petto. «Ciò che non tollero è l’insicurezza. Non è consentito agli Angeli Ombra, tanto meno a uno come te che meriterebbe il Secondo Cerchio, se non addirittura il Primo». Quell’affermazione mi spiazzò ancora una volta. Sì, Angus riusciva a parlare senza mezzi termini. «E l’insicurezza deriva dal fatto che temi Hugh. Temi che possa portarti via Ellen». «Non è vero». «Oh, sì che lo è. Se non hai piena fiducia della tua ragazza quale rapporto pensi di costruire?». Ero pronto ad accettare qualsiasi critica da Angus, perché come Angelo Ombra aveva più esperienza di me. Ma non su altri piani, tantomeno sentimentali. «Cerco solo di non commettere i tuoi stessi errori e imparare dai tuoi sbagli», risposi a labbra strette. Angus incassò il colpo e chinò la testa. «Non si può vivere nell’eterno dubbio. Non si può vivere accanto a una persona con il terrore di soffrire. Non puoi vivere nel desiderio nichilista di un tradimento sempre in agguato. Infine, non puoi paragonare Ellen a Inghinn». Scossi la testa. La situazione non stava proprio in questi termini. «Con una piccola sostanziale differenza. Ellen è un Demone, non è mai stato

facile il nostro rapporto. Ostacolato da tutti e da tutto. E adesso ricompare un vecchio amico. Una persona che è sempre vissuta nel suo ato, che le è stata accanto fin da quando era piccola. Nei momenti di dolore, quando suo fratello era scomparso. Ogni giorno a scuola, ogni pomeriggio quando giocavano a football in spiaggia». «Ti senti in competizione?». Sbuffai. Possibile che non capisse quello che volevo dire? «Perché vuoi fare dei paragoni che non stanno in piedi? Ellen non ha mai avuto dubbi, ha scelto te», aggiunse Angus. «Perché adesso sento che ha bisogno anche di lui». «Anche. Vedi, ti sei già risposto. Hugh è un amico. E l’amicizia non è l’amore». «A volte si può confonde l’amicizia con l’amore. O viceversa. Ho imparato a conoscere il mondo degli uomini e noi siamo vittime delle stesse emozioni. Non è stato così per te e Inghinn? Non è stato lo stesso per Nora?». Lo fissai dritto negli occhi. «In più c’è un nuovo simpatico ingrediente: Hugh è un Demone. È tutto più semplice, quante cose possono condividere adesso?». Angus alzò le spalle. «Tante. Un destino li accomuna. Appartengono alla stessa dinastia. Certo, come noi apparteniamo a quella degli Angeli Ombra. Mi parlavi di Nora, esempio che calza a pennello. Non era così semplice anche per te? Perché non ti sei innamorato di Nora invece di finire tra le braccia di un Demone, mentire a me e al Consiglio, rischiare di distruggere in pochi giorni otto anni di allenamenti nell’isola di Skye?». Rimasi in silenzio. La risposta era ovvia. «Perché non esistono formule magiche che ci permettono di decidere i nostri sentimenti», concluse Angus controllando l’orologio. «Sono quasi le dieci di sera e ancora non abbiamo discusso su come muoverci nei prossimi giorni. Torniamo a casa». *** Aprii la porta. Hugh ed Ellen sul divano. Mani nelle mani.

Ellen si voltò e accennò un sorriso. Si alzò e mi venne incontro. Le feci cenno di seguirmi in cucina. Chiusi la porta alle mie spalle. «Kevin… io credo che tu…». Le posi l’indice sulle labbra. Le carezzai la guancia. Mi avvicinai al suo volto. Aspettai la sua approvazione. Lei annuì. La baciai prima delicatamente, poi con ione. Forse sarebbe successo di nuovo: le nostre nature ci avrebbero respinto costringendoci ad allontanarci. Avremmo sofferto. Avremmo combattuto contro la nostra volontà una guerra che non ci apparteneva e che mai avevamo desiderato. Ma eravamo disposti a rischiare. Un abbraccio. Un bacio. Una carezza ancora. Una manciata di secondi. Questo era tutto ciò che il destino ci avrebbe concesso. Mi allontanai. Cercai il suo sguardo con disperazione e speranza. Ellen aveva gli occhi lucidi. «Tutto ok?», sussurrò. «Tutto ok». Sorrise. «Stavolta siamo stati fortunati». «Per adesso. Chissà cosa mi avrai iniettato con il tuo respiro demoniaco». «Chissà cosa mi avrai trasmesso con la tua stramaledetta aurea angelica». Sospirai. Fissai le sue pupille, che tremavano come il primo giorno che l’avevo baciata. Ero stato un idiota a dubitare di lei. Ed ero stato ancora più stupido a dubitare di me stesso. «Mi spiace», fu tutto quello che seppi dire.

«Dispiace anche a me. Ti odio e mi odio. Non voglio più litigare, me lo prometti?». «Promesso. Sono stato uno stupido». «Lo vedi? Non è così difficile andare d’accordo, dopotutto», scherzò poggiando le mani sul mio petto. Le presi nelle mie e le strinsi. «È che ho una dannata paura di perderti». «Io una sacrosanta paura di non essere mai alla tua altezza». «Sei un Demone cocciuto, Ellen». «Sei un Angelo insolente, Kevin». Rimanemmo in silenzio. Poche parole, inutili scuse. E i nostri dubbi si sciolsero come neve al sole. *** Quando tornammo in sala, Hugh era seduto sul divano. Aveva dispiegato la mappa di Roma sul tavolo e stava leggendo attentamente la guida. Angus, invece, era davanti alla finestra e stava parlando al telefono. L’espressione riflessa dal vetro non lasciava presagire nulla di buono «Ok, per stasera sono Ko, vi lascio il piacere di studiare un piano superfigo per domani», disse Ellen. «Torno a fare la brava donnina smidollata tra pentole e fornelli». «Eh?», chiesi distrattamente. «Era una battuta. Traducendo: vado a cucinare qualcosa da mangiare, prima che ci azzanniamo a vicenda per la fame. Capito?». «Chi si è azzannato?», domandai continuando a fissare Angus. «La pantera del portinaio ha ucciso il proprietario di questo appartamento». Mi voltai confuso. «Una pantera?».

Ellen alzò gli occhi al cielo. «Lascia perdere. Mi eclisso in cucina». Si girò e scomparve dalla sala. Mi avvicinai ad Angus, che aveva appena chiuso la conversazione al cellulare. «Tutto bene?». «Più o meno. Ero al telefono con Xavier Gomez». «Il krisnitòri?». «Proprio lui». «Perché l’hai chiamato a quest’ora?». «Mi ha telefonato lui, aveva un’informazione importante sulla Chiave». A quella parola, Hugh chiuse il libro e si alzò dal divano. «Ha scoperto dove è nascosta?». «Sì, le Streghe hanno decifrato gli enigmi contenuti in alcuni antichi scritti che sono stati tramandati di generazione in generazione», dichiarò Angus. «Avevamo ragione, la Chiave di Salomone si trova a Roma». Sospirai. Tutto il nostro lavoro non era stato vano. «L’avevamo già capito. Dove di preciso?». «Non ha saputo darmi questa informazione». «Quindi siamo punto e a capo». «Non proprio», ribatté Angus. «Perché le Streghe hanno scritto l’ubicazione esatta della Chiave in un Grimorio, che hanno poi nascosto a Roma». «Detesto le cacce al tesoro», commentò Hugh. «E il Grimorio dove si trova di preciso?», gli domandai. «Nella Città Fantasma». Mai sentito nulla del genere. Forse era un modo di dire, o almeno lo speravo. «È

un nome che identifica una particolare zona di Roma?». Angus alzò le spalle. Hugh prese la guida e iniziò a sfogliarla con agitazione. «Non ricordo nessuna definizione del genere. Dobbiamo cercare in questo libro, qualcosa troveremo». «Oppure su Internet, domattina», proposi. «So io dove si trova la Città Fantasma». Ci girammo. Era stata Ellen a parlare.

13. Ellen La Città Fantasma

Ore sette e trenta. Cucina. Il ticchettio dell’orologio a parete. Qualche rumore dalla sala. Hugh che si girava sul divano letto, Angus che cercava una posizione comoda per riposarsi sulla poltrona. Di più non potevamo fare, la casa era piccola. Una camera da letto, un bagno, una cucina e una sala. Quando decidemmo di prendere quell’appartamento in affitto non pensavamo di certo ad avere ospiti. Anzi, era la soluzione migliore, un buon compromesso tra prezzo e vicinanza al centro. Per i giorni successivi ci saremmo organizzati meglio. Ore sette e trentacinque. Il tempo non ava mai, i miei occhi era-no sbarrati e il sonno evaporato. Mi preparai una tazza di caffè. Avevo un terribile mal di testa, una lama che mi perforava da tempia a tempia. Ero riuscita a dormire sì e no due ore, troppo agitata per la giornata appena trascorsa. L’arrivo di Hugh, la sua trasformazione in Demone Emerso, la compagnia che si allargava con l’integerrimo capo clan Angus. E, soprattutto, un dedalo di dubbi nel quale mi ero incastrata e non riuscivo più a uscire. Poteva bastare, no? Quando lasciammo Parigi speravo in una bella e tranquilla gita a Roma prima di fuggire in chissà quale altra capitale europea. Mai crearsi troppe illusioni, già. Maledissi me stessa per aver criticato la vita monotona di Inverness, il mio karma si era sicuramente ribellato e adesso mi faceva scontare le pene dell’inferno. Che, detta così, faceva molto pendant con la mia intera esistenza. Mi massaggiai la fronte. Ero terribilmente preoccupata per i miei genitori, anche se non l’avevo detto esplicitamente agli altri. Erano tutti troppo presi dalla Chiave di Salomone per pensare ai problemi della famiglia Lynch. Inutile che Hugh cercasse di tranquillizzarmi: non avevamo la certezza di niente,

non sapevamo neppure l’identità degli Angeli e dei Demoni che gli avevano fatto visita. Erano forse degli Immacolati? L’Ordine dell’Apocalisse? O degli Emissari mandati dall’Arconte? Avrei voluto prendere il primo volo e raggiungere Inverness al più presto, ma era una decisione troppo avventata. Se tutte le nostre ipotesi erano corrette, la Chiave di Salomone era il fulcro di tutta quell’assurda situazione. No, stavo solo esagerando. I miei genitori non erano degli stupidi, sapevano benissimo come cavarsela. Avevano affrontato di peggio, e il loro compito era stare vicini a Damien affinché guarisse e tornasse a casa quanto prima. Non vedevo l’ora di riabbracciarlo e aiutarlo nella degenza, anche se ero convinta che gli inviati del Consiglio lo curassero al meglio. In tutto quel trambusto non ero riuscita ancora a parlarci serenamente, e avevo l’assoluto bisogno di confidarmi con lui. Invece non potevo far altro che aspettare e aiutare gli altri a cercare la Chiave. Avevo alternative? Da sola non sarei stata in grado di fare un bel niente. Era già complicato stare vicino a Kevin, con il timore che ogni volta che ci sfioravamo potesse capitare qualcosa di terribile. Proprio ora che il nostro rapporto era diventato più solido, e che ero pronta persino a fare l’amore con lui. Bevvi un sorso di caffè, per poco non mi ustionai il palato per quanto era bollente. Sorrisi, senza curarmi del dolore. Molte delle mie amiche di Inverness – o meglio, mi correggo, compagne del college – avevano già fatto sesso con un ragazzo. Io invece, avevo pensato bene di trascorrere le mie giornate a studiare, lavorare in biblioteca, giocare a pallone con Hugh e Kenneth in spiaggia. Ottimo, no? Non me ne ero mai vergognata, né mi ero sentita esclusa dall’élite delle ragazze più fighe di Inverness. Avevo la convinzione che la prima volta dovesse essere un’esperienza indimenticabile. Con il ragazzo di cui mi ero innamorata, non il primo bulletto rimorchiato in un locale. Mi strinsi nelle spalle. A essere sinceri, la situazione era un tantino differente. Ellen Lynch non era così famosa a Inverness, non frequentava party cool, non si scatenava in discoteca. Insomma, non ero proprio la ragazza immagine che tutti avrebbero voluto al loro fianco, né avevo una fila di pretendenti dietro la porta di casa. Ma non volevo nemmeno fare l’alternativa ad ogni costo, non c’era mai stata

l’occasione. Tutto qua. Anche perché i ragazzi troppo invadenti mi avevano sempre infastidita. Sì, proprio quelli che si presentavano con il petto infuori e ti accecavano con un sorriso da orecchio a orecchio tirando fuori qualche battuta infelice. A Inverness avevo conquistato il primato imbattuto per numero di ragazzi che avevo fatto fuggire a gambe levate nel giro di pochi secondi. Sorprendente, vero? Uno sguardo, una risposta secca e… puff! Si smaterializzavano. Era sempre stato così, tranne che per Hugh e Kevin. Perché con loro si era instaurato subito un rapporto particolare. Come ci erano riusciti? Semplice, facendomi ridere. Non avevano cercato di rendersi diversi, ma si erano proposti nella loro semplicità. Erano persone vere, con i loro difetti e pregi. M’incupii all’istante appena pensai a Hugh. Il nostro rapporto era cambiato profondamente, inutile negarlo. L’avevo sempre considerato l’amico per eccellenza, bello ma goffo, imbranato ma intelligente. Una persona a cui tenevo tantissimo e che avevo rischiato di perdere, l’unico che mi era sempre stato accanto nel momento del bisogno. Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla porta, che era socchiusa. Hugh era disteso sul divano letto, con un lenzuolo fino alla vita e il volto affondato nel cuscino. Stava ancora dormendo profondamente, beato lui. Cosa stava succedendo? Forse anch’io provavo un sentimento che non era semplice amicizia. Impossibile, non era paragonabile a ciò che sentivo per Kevin. E allora perché avevo avuto il desiderio di baciarlo? A stento mi ero fermata, d’improvviso mi ero sentita completa e felice. Non avrei saputo come spiegarlo, era stata una sensazione totalmente diversa da quella che avvertivo quando stavo con Kevin, eppure ugualmente intensa. Tornai al tavolo, presi la tazza e ne rovesciai il contenuto nel lavello. Il caffè si era raffreddato. I miei pensieri non mi davano tregua. E non volevo più rimanere da sola con loro. Era l’ora di rompere il silenzio in casa con un tripudio di musica e sveglie impazzite. ***

Ore nove. In sala con Kevin e Hugh, che controllavano la mappa di Roma e vomitavano una quantità infinita di parole su come gestire al meglio la spedizione. Un termine esagerato e inappropriato. Mica stavamo partendo per la guerra, no? O almeno lo speravo. D’altronde per una volta Ellen non era stata la scocciatrice di turno. Perché senza di me avrebbero perso un bel po’ di tempo a capire cosa fosse la Città Fantasma, che io ricordavo grazie al dialogo con dei turisti al bar. «Potremmo are per questa strada sterrata», propose Kevin a Hugh. «No, è troppo in bella vista. Meglio optare per questa che attraversa il bosco. Più riparata». «Rischiando di perderci? Non mi convince». «Be’, sentiamo anche cosa ne pensa Angus. A proposito, non doveva già essere qui?». «Già. Avrà avuto problemi all’autonoleggio». «In realtà aveva detto alle nove un quarto. È ancora in orario», intervenni. «Guiderà lui?», chiese Hugh senza degnarmi di uno sguardo. «Lui o io, non fa differenza», rispose Kevin. «Potrei guidare io, prima o poi devo imparare, no?», scherzai. Kevin arricciò il naso. «Non capisco dove si possa trovare il Grimorio in questa Città Fantasma». «Città che io vi ho indicato, altrimenti sareste ancora in biblioteca o su Internet a cercarla», precisai piccata. «Così, tanto per». «Lo scopriremo presto», concluse Hugh, pensieroso. «Non capisco perché qualcuno debba aver scritto dove si trova un Grimorio, a sua volta nascosto nella Città Fantasma, nota anche con il nome di Galeria».

«Perché la Chiave di Salomone ha un enorme potere. In questo modo si sono assicurati una doppia protezione». A tutto c’è un limite. Vedere Hugh e Kevin che parlottavano come amici di vecchia data era davvero divertente. Ancora più entusiasmante il fatto che io fossi totalmente esclusa dalla loro conversazione. Esilarante, infine, che la sottoscritta intervenisse ma avesse l’effetto di un fantasma che tenta di comunicare con la medium farlocca al luna park più sfigato del paese di provincia. Alzai la mano. Mi concentrai. Un secondo, la cartina di Roma volò sul pavimento. Hugh e Kevin mi guardarono meravigliati. «Buongiorno. La colazione è stata di vostro gradimento?». «Eh?», si sorprese Hugh per la mia reazione improvvisa. «Non so, avete bisogno di altro? Un cornetto caldo, Kevin?». «Un cornetto? Ho già fatto colazione…». «Ah, stupendo! Anticipiamo i tempi allora. Che ne dici di un arrosto di maiale immerso in una cascata di patate al forno?». Kevin mi guardò stralunato. «Sei impazzita, Ellen?». «Per quale motivo? Perché mi sento come una patata lessa piantata sul divano visto che nessuno mi interpella per prendere delle decisioni?». Hugh scoppiò a ridere. «Provaci e quella libreria piomberà sulla tua testa», lo minacciai indicando lo scaffale alle sue spalle. «Senza di me non avreste mai saputo cos’era la città di Galeria. Non è forse così?». Lui inarcò un sopracciglio. «Hai ragione, sei stata tu a metterci sulla buona strada».

«Appunto, e gradirei partecipare attivamente alla spedizione, o come l’avete chiamata». «Qualche suggerimento?», domandò Kevin con un sorriso. Tenni duro. Non gliel’avrei data vinta. Sapeva che ero una frana a programmare. Non c’era nulla di male, preferivo seguire l’istinto. «Certo, evitare di perdere tempo a ciarlare e preparare gli zaini con tutto ciò che potrebbe esserci utile», risposi dopo un po’. «Angus sarà qui a momenti, oltre ad aver noleggiato un auto doveva are a un internet point e stampare del materiale su Galeria, non ricordate?». Non feci in tempo a finire la frase che squillò il camlo di casa. Puntuale come sempre, Angus entrò con un plico di fogli. «Anche a Roma la burocrazia non scherza», esordì togliendosi la sciarpa. «Non è stato facile senza carta di credito, e ho dovuto ritirare una bella somma in contanti come garanzia. Ma alla fine hanno ceduto al mio… charme», concluse ammiccando. Già, una volta Kevin me lo aveva accennato. Gli Angeli con più esperienza, quelli dal Terzo Cerchio in su, erano in grado di influenzare le decisioni degli esseri umani convincendoli ad agire come loro desideravano. Un comportamento che il Consiglio non vietava ma sconsigliava vivamente, perché l’utilizzo di quella dote implicava il dover deviare il libero arbitrio rischiando di infrangere qualche legge sull’Equilibrio. Angus crollò sul divano e sparse le carte sul tavolo. «Allora, eccoci qua. Questo è tutto ciò che sono riuscito a recuperare in così poco tempo, ma credo sia sufficiente». Hugh prese un foglio e lesse le frasi evidenziate. La fondazione della città di Galeria risale all’antichità: alcuni ritengono che i fondatori siano i Galerii, altri gli Etruschi. Colonizzata successivamente dai Romani, Galeria decadde dopo le invasioni germaniche, per poi ritrovare nuovo splendore durante il Medioevo. Verso la fine del Settecento Papa Adriano I mirava a un’espansione nella campagna romana e scelse questo luogo per costruire una fattoria fortificata. La posizione era infatti ottima: arroccata su uno

sperone di tufo e protetta da una fitta boscaglia. Dopo l’anno Mille, Galeria divenne un monastero per volontà di Papa Gregorio VII. «Andiamo avanti», lo interruppe Kevin. «C’è un riferimento alla Chiave?». «Sono informazioni importanti. Se capiamo la storia della città sarà più semplice comprendere il collegamento con la Chiave». Angus annuì, indicandogli il capoverso successivo. La città ò sotto diverse proprietà: prima i Conti di Galeria, nel 1276 alla famiglia Orsini. Con i Sanseverino iniziò la fase decadente, che la retrocesse a tenuta agricola. Il colpo di grazia fu lo straripamento del fiume Arrone, verso la fine del Settecento, che trasformò la campagna circostante in una zona paludosa, estendendola a tutto l’Agro Romano. Vi fu un forte calo demografico, dovuto alla malaria, finché la città non fu abbandonata nel 1809. Appunto: malaria, brutta epidemia, ma nulla di sovrannaturale. «Ecco spiegato il nome di Città Fantasma», affermai con un sospiro di sollievo. «Non è proprio così», obiettò Angus. «Non è stata solo la malaria». Hugh continuò a leggere. Nonostante l’epidemia malarica sia plausibile per spiegare l’abbandono di Galeria, restano tuttavia misteriose le dinamiche. La città fu evacuata in modo precipitoso, tanto che furono ritrovati attrezzi e suppellettili. Tutto fa pensare che gli abitanti non ebbero il tempo di fuggire, e questo contrasta con l’ipotesi che la popolazione si sia estinta oppure abbia emigrato altrove. Rabbrividii. Ecco la parte horror del racconto: come poteva mancare? «Forse furono aggrediti dalle popolazioni vicine», ipotizzò Kevin. «Non credo, Galeria era in declino, non era una città interessante dal punto di vista economico», obiettò Hugh. «E poi, poche righe sotto c’è scritto che gli abitanti si trasferirono a un chilometro di distanza fondando Santa Maria di Galeria Nuova. Sembra un controsenso». «A meno che non si trattasse di malaria», intervenne Angus, «ma di qualcosa che ci riguarda». Ecco giunto il momento in cui intervenivamo noi, era chiaro. «Una guerra tra Angeli e Demoni?». «Un’ipotesi plausibile», convenne

Angus. «A discapito della popolazione, che hanno sterminato». «All’epoca erano molto superstiziosi, e hanno interpretato gli eventi in modo del tutto… particolare», annuì Hugh. «In questo documento si parla di un’antica leggenda di Galeria: il fantasma menestrello, dal nome Senz’affanni, che ogni anno torna in città in sella al suo cavallo bianco suonando per la sua amata. C’è chi narra di aver sentito un lamento nella valle, chi rumore di zoccoli durante le piene del torrente Arrone». «E magari è solo lo sciabordio dell’acqua o il vento che ulula tra le rocce», ipotizzai con scetticismo. «Oppure l’opera degli Immacolati», sentenziò Angus. «Può darsi che dopo lo scontro tra Angeli e Demoni non siano riusciti a cancellare la memoria della gente, perché era trascorso troppo tempo. Allora deviarono le loro convinzioni spingendole alla superstizione». Mi alzai in piedi. Il piano era chiaro, inutile perdersi in altre congetture. «Bene, partiamo. Mi pare evidente quale fosse lo scopo di questa battaglia tra Angeli e Demoni: la Chiave di Salomone». «E cosa andiamo a cercare?», chiese Kevin. Sorrisi. «Semplice. Il fantasma Senz’affanni».

14. Kevin Galeria

Angus aveva noleggiato una Punto cinque porte. Un’utilitaria piccola ma comoda e adatta alle nostre esigenze, provvista persino del navigatore satellitare. Ad essere sinceri non volevo assolutamente guidare, ma… be’, desideravo prendermi una rivincita nei confronti di Hugh. Non c’era argomento in cui lui non intervenisse per dire la sua, mostrando ovviamente quanto fosse preparato e colto. Geografia, storia, arte e chi più ne ha ne metta. Sembrava quasi fosse nato e cresciuto a Roma, per quante cose sapeva di quella città. Quindi ogni tanto si fermava, mi lanciava un’occhiata beffarda e ripeteva la solita battuta: «Tu già lo sapevi, Kevin, non è vero?». Il che mi faceva saltare i nervi, anche perché Ellen glissava sempre su quelle battute. Era evidente: Hugh stava facendo di tutto per mettermi in difficoltà. Tuttavia c’era qualcosa che il caro Hugh non sapeva ancora fare: guidare una macchina. Mossa astuta? Nemmeno per sogno. Dopo neppure cinque minuti mi pentii di non aver ceduto il posto ad Angus. Seguire il navigatore satellitare era una vera impresa. Non riuscivo a stare attento alla strada e allo stesso tempo ascoltare le indicazioni di quell’odiosa voce. Il momento più drammatico fu quando sbagliai traversa – ma non fu colpa mia, fui avvertito troppo tardi – e la signorina navigatore mi redarguì con un secco: «Tornate indietro quando potete». Certo, un’ottima idea per ritrovarsi una macchina piantata nel cofano, una dentro lo sportello e un’altra conficcata sul tettino. Ma il vero dramma fu la guida a sinistra. Si dimostrò un incubo, specialmente quando imboccai una rotatoria nel verso sbagliato. Che ci potevo fare se in Italia tutto funzionava al contrario rispetto alla Scozia? Insomma, la missione: «Guarda Kevin quanto è bravo a guidare» era fallita miseramente. Mi destreggiai nel traffico impazzito per circa un’ora e mezza,

maledicendo la signorina navigatore che mi aveva mentito prevedendo un viaggio di soli quaranta minuti. Peccato che a Roma spuntassero semafori come funghi. Appena uscii dal raccordo anulare tirai un sospiro di sollievo. Lanciai un’occhiata allo specchietto retrovisore, Ellen e Hugh stavano ridendo. Su cosa? Lasciai perdere. Angus, al mio fianco, stava ancora leggendo i documenti che aveva stampato all’Internet point. «Siamo quasi arrivati», mi disse dopo un po’. «Guarda quella strada sterrata sulla destra, l’ingresso è tra quei due pini». Svoltai, facendo attenzione a evitare le buche e i dossi. Dopo neppure un chilometro parcheggiai la macchina in un piazzale. Appena sganciai la cintura mi sentii sollevato, finalmente ero arrivato a destinazione. «Allora, dove ci dirigiamo?», domandò Ellen aprendo lo sportello. Angus uscì dalla macchina e indicò davanti a sé. «Quello è tutto ciò che rimane dell’antica città di Galeria». «Un mucchio di pietre» commentò Ellen guardandosi attorno. Non che avesse tutti i torti: c’erano un vecchio campanile, una strada di ciottoli che s’inoltrava nella boscaglia e dei massi poggiati a terra, resti di chissà quali costruzioni. Nel corso degli anni la natura aveva preso il sopravvento, le piante rampicanti e la fitta vegetazione crescevano in ogni anfratto. «Secondo questi documenti, un tempo qui sorgeva un castello, proprio a ridosso della chiesa. Non vi sono rimasti che pochi ruderi», precisò Angus, facendoci strada. Ci incamminammo lungo il sentiero, che si fece sempre più stretto inghiottito dall’erba e dalle piante selvatiche. Dopo pochi i, Angus si fermò di nuovo. «Guardate qui», ci disse indicando una roccia. Sopra di essa erano impressi dei segni inequivocabili: pentagramma invertito, stella a quattro bracci uguali, simbolo dei sigilli Demoniaci. Mi piegai e allontanai gli arbusti, osservando le iscrizioni.

«Sembrano dei riti satanici», notò Ellen. Angus annuì. «Senza dubbio. Questa incisione invece rappresenta tre spirali unite a un unico centro: è il simbolo della triplice dea, usata dalle streghe wiccan». Satanisti e streghe. Un luogo perfetto per una tranquilla scampagnata di domenica. Scossi la testa, pensieroso. «Per quale motivo proprio a Galeria hanno eseguito questi riti di magia nera?». Il capo clan alzò le spalle. «Da quanto possiamo immaginare, in questo luogo si è combattuta una guerra tra Angeli e Demoni in età remota. E gli Immacolati devono essersi affrettati a cancellare ogni traccia, per cui è difficile comprendere il motivo che scatenò quella lotta». «E di certo il Consiglio di Roma e del Vaticano hanno cercato di far are inosservata la vicenda», commentò Ellen. «Pessima pubblicità, dico bene?». «Esattamente», concordò Angus, «ma non c’è da meravigliarsi. Il Consiglio di Inverness ha pensato bene di insabbiare ciò che è accaduto l’anno scorso sulle coste del lago di LochNess e non ha mai comunicato la resurrezione di Nemesis». «La politica dei Consigli è quasi peggio di quella degli uomini», disse Hugh, incrociando le braccia al petto. «Se tutti fossero uniti sotto un medesimo capo, la situazione sarebbe certamente migliore». «Ci hanno già pensato, non ti credere. Se non sbaglio un primo tentativo in Europa è stato effettuato a inizi Novecento, ma con scarsi risultati», dichiarò Angus, mentre continuava a ispezionare i disegni sulle rocce. «Anzi, fu un fallimento su tutta la linea. I Consigli dei vari Paesi non erano uniti da un punto di vista spirituale e ideologico, si accentuò la competizione rischiando una battaglia tra i vari Arconti. Insomma, pochi anni prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, hanno preferito che i Consigli si ignorassero e pensassero alle proprie questioni regionali, evitando così che nascessero problemi ben più seri». «Con risultati piuttosto discutibili, visto cosa è accaduto», s’impuntò Ellen. «Il mondo non è più fatto a compartimenti stagni da secoli. Non far fronte comune è un grave errore. Anche perché, se Nemesis scatenerà l’Apocalisse, non sarà più solo una questione che riguarderà la Scozia».

Angus trasse un profondo sospiro, poi le fece l’occhiolino. «Se un giorno diventerò Arconte, seguirò i tuoi consigli, Ellen. Dici sempre cose sagge». Ellen arrossì subito. «Mi sembrano cose ovvie, in realtà». Evitai di interferire. Il mio capo clan, Terzo Cerchio a un o dal diventare una Sfera, che si complimentava con un Demone Emerso, scherzando sul fatto che l’avrebbe assunta come consigliera. Forse era l’effetto dell’aria che si respirava nella città fantasma di Galeria, un luogo davvero surreale. «Ma torniamo al punto», riprese Angus. «Ciò che è accaduto a Gale-ria in ato non deve sorprenderci. Nel corso della storia le battaglie tra Angeli e Demoni sono state frequenti, spesso associate alle più grandi distruzioni e carneficine». «Cosa intendi per… associate?», domandai. «Siamo sempre stati protagonisti della storia degli uomini», rispose Angus. Hugh si avvicinò, torvo. «Stai dicendo che Angeli e Demoni hanno influenzato gli uomini, spingendoli a combattere gli uni contro gli altri?». «Siamo noi i responsabili delle Guerre Mondiali?», intervenne Ellen, inorridita. «Non esageriamo. Noi non abbiamo deciso un bel niente», rispose il capo clan. «Forniamo solo dei suggerimenti, più o meno impliciti». «Cioè?», domandai confuso. «Idee, sogni, premonizioni, sensazioni». «E questo cosa implica?». «La reazione dell’uomo è imprevedibile. La fragilità lo rende facilmente impressionabile, la fede e la forza d’animo sono invece le migliori difese». Dal mio arrivo a Inverness non avevo avuto modo di approfondire quanto gli Angeli e i Demoni manipolassero il mondo circostante, se non quello che avevo capito da poche frasi sentite da Nora. Non era di certo colpa mia se la nostra attenzione era stata catalizzata da un Angelo dell’Apocalisse. Il concetto mi era

chiaro, ma non le conseguenze tangibili. «Il futuro è imprevedibile, ma il ato è già stato scritto. Fammi degli esempi». «Il cavallo di Troia, Hiroshima, l’attentato a Papa Giovanni Paolo II. La lista è infinita, basta ripercorrere le fasi della nostra storia», replicò Angus senza battere ciglio. «Immaginavo ci fosse il nostro zampino», aggiunse Ellen con sarcasmo. «Proprio per questo nasce l’Equilibrio», ribatté Angus. «Pensavo che aveste già chiaro quanto sia importante il nostro ruolo e l’operato dei Consigli di tutto il mondo. Quando la bilancia vacilla e il Tetrastile non riesce a ristabilire l’ordine, si apre una nuova era». Cercai il suo sguardo. «Quindi questi disastri derivano dal nostro fallimento? Oppure perché al Tetrastile ci siamo accorti di aver forzato la mano nel manovrare gli uomini come marionette?». «Non è proprio così, Kevin», sibilò con voce tagliente. «Non è un gioco fine a se stesso. Le Sfere e le Spirali guidano Angeli e Demoni affinché l’uomo possa comprendere il significato del bene e del male, sta a loro poi gestirlo e decidere del proprio futuro». Già, proprio come sosteneva Nora. Una tesi alquanto assurda: eravamo noi a far provare la gioia e la sofferenza, ma lasciavamo poi all’uomo la libera scelta se continuare a percorrere la strada che gli avevamo indicato oppure fare dietrofront e cambiare il proprio destino. In un certo senso mi sentii sollevato al pensiero che nulla fosse scritto ma che ogni essere vivente potesse decidere in autonomia del proprio futuro, giorno dopo giorno. Alla fine anche gli Angeli e i Demoni erano solo delle pedine in un quadro più ampio. Un mosaico inintelligibile che mai avrei compreso appieno. «Il Tetrastile serve solo a tirare le somme, giudicare i colpevoli, garantire una sorta di ordine tra di noi. Ricordatevi: è sempre l’uomo a decidere», concluse Angus. «Ma affinché questo sia possibile, il Patto d’Equilibrio non deve essere in pericolo. Per questo siamo qui, dico bene?». Ellen non sembrò convinta e prese la parola. «Bene, non perdiamoci in inutili ragionamenti su cosa è giusto e sbagliato. Calerebbe il tramonto e ancora non

avremmo raggiunto un accordo. Quindi, cosa c’entra la Chiave di Salomone con l’ipotetica battaglia che ha causato l’abbandono di Galeria?». «Semplice: gli Immacolati spinsero gli ultimi abitanti a fuggire, facendo loro credere che questo luogo fosse maledetto». «Dal fantasma Senz’affanni?». «O da chissà cos’altro», annuì Angus. «Fatto sta che era un luogo perfetto per nascondere la Chiave. E gli Avi ne approfittarono». Ecco un nuovo nome per la mia collezione dei nomi ignoti. «Chi so-no gli Avi? Remiel non ne ha mai parlato». «La dinastia di Streghe Antiche», mi spiegò Angus. Ellen perse la pazienza. Avanzò decisa verso di noi e si mise a sedere su un masso. «Ok, il tempo non ci è favorevole, dobbiamo fare presto, anticipare gli altri, bla bla bla. Ma non mi muovo se prima non mi dai ogni spiegazione. Il collegamento con le Streghe e tutto il resto. Sono stanca di brancolare nel buio». «Lo stesso vale per me», rincarò la dose Hugh. Io mi limitai ad annuire. Anch’io non ne sapevo nulla, era giunto il momento che Angus ci spiegasse la situazione. Lui guardò l’orologio al polso, sconsolato. «Il tempo ci è nemico, ma avete ragione: siete tutti coinvolti in questa ricerca ed è giusto che siate informati di tutto. Dunque, da dove iniziare?». «Da quanto esistono i Consigli?», lo incalzò Ellen. «Da quanto l’uomo è apparso sulla terra. Da sempre» le rispose Angus. «Cioè?». «Ellen, vuoi spostare la questione su un piano teologico? Vuoi sapere se l’uomo deriva da Adamo ed Eva o dalla scimmia?». «Convivo benissimo con questo dubbio, grazie. Cosa c’entrano gli Avi?». «Nell’antichità furono proprio loro i primi esseri umani a stabilire un contatto

con gli Angeli e i Demoni, grazie alle loro invocazioni. Gli unici a poterci vedere per ciò che siamo, a fondere la dimensione umana con quella sovrannaturale. Al contempo, però, il loro potere si stava rafforzando, e la loro magia era così forte da riuscire a incantare persino le Sfere e le Spirali». «Tra le Streghe c’era chi pensava al proprio tornaconto», s’intromise Hugh. «Certo, anche loro erano esseri umani. Così gli Avi, prima che la situazione degenerasse, decisero di nascondere il Grimorio in un luogo sicuro, affinché nessun’altra Strega lo potesse trovare». «Per far sì che queste formule magiche, così potenti e pericolose, morissero con loro?», ipotizzai. «Proprio così. In un certo senso ristabilirono l’Equilibrio, le generazioni successive di Streghe non avrebbero mai sfruttato quei riti arcani». «E nascosero il Grimorio degli Avi nella città Fantasma di Galeria», ragionò Hugh. «Ma da qualche parte le Streghe hanno lasciato indicazioni su come ritrovare il Grimorio, altrimenti Xavier Gomez non l’avrebbe mai scoperto». Angus fece spallucce. «Non sono sceso in questi particolari». «Perché Xavier vuole quel Grimorio?», domandò Ellen, dubbiosa. «A cosa gli servono quelle formule magiche se sono così pericolose? Non so, ma la situazione non mi sembra limpida. Se ritroviamo la Chiave e consegniamo il Grimorio alle Streghe… ci ritroveremo in altri guai?». L’altro si prese una lunga pausa. «Non so cosa stia accadendo nei clan delle Streghe, ma ho un sospetto. Durante il Medioevo, gli Avi erano riusciti a creare dei sortilegi così potenti da far resuscitare i morti». Ellen indietreggiò di un o. «Zombie?». «Loro li chiamavano Imperfetti, i Flawed, creature nate dell’oscurità capaci di portare gli esseri umani al suicidio». «In che modo?», domandai. Anche se la possibilità che esistessero i non morti

mi sembrava piuttosto remota, ormai ero pronto ad accettare qualsiasi realtà. «Le Streghe affermano che si nutrono di lacrime», mi rispose Angus, algido. «Cosa? Ma è assurdo». «Penso sia solo un modo di dire», si corresse subito. «O almeno lo spero. Xavier ha affermato che questi esseri sono capaci di strappare i sentimenti e svuotare l’anima. In realtà credo che abbiano le nostre stesse capacità di influenzare la volontà umana. Comunque, il problema principale sta nel fatto che i Flawed possono replicarsi, diffondendosi come una vera epidemia». Se tutto quello che raccontava Angus era vero, i nostri problemi si stavano allargando a macchia d’olio. «I Consigli di Angeli e Demoni non intervennero?», gli chiesi. «Se questi… Imperfetti spingevano gli uomini al suicidio era una chiara violazione del Patto d’Equilibrio». «Certo che sì, ma non vi fu nessuna guerra perché raggiunsero subito un accordo con le Streghe. Gli Avi li rassicurarono che avrebbero risolto il problema. E così fecero, ma a caro prezzo: sacrificando la loro stessa vita». Ellen abbassò lo sguardo, pensierosa. «Ecco cosa si nasconde dietro l’Inquisizione. Gli Immacolati sistemarono tutto per bene…». «Cioè si estinsero?», domandai sempre più confuso. «No, i figli ereditarono i loro poteri e consentirono alla stirpe delle Streghe di sopravvivere, ma senza gli insegnamenti dei genitori non furono in grado di sviluppare gli stessi poteri. Insomma, proprio come ha detto Ellen, dopo i decenni dell’Inquisizione le Streghe scomparvero dalla scena, perché non avevano più la stessa forza degli Avi. Si disgregarono, radunandosi in piccole comunità in ogni angolo del mondo, spesso spostandosi di Paese in Paese». «Divennero un popolo gitano, quindi», osservai. «In parte sì, come i kalè spagnoli ai quali Xavier appartiene». «E gli Immacolati fecero credere agli uomini che si trattasse solo di superstizione e folklore», concluse Ellen.

«Più o meno andò così». M’intromisi ancora una volta, stavamo divagando. «Quindi Xavier non vuole la Chiave, è interessato solo al Grimorio». «Oppure a entrambi», suppose Hugh. «Chi può stabilirlo? A questo punto sarebbe lecito domandarsi: Xavier teme una nuova epidemia di Imperfetti, oppure vuole recuperare gli incantesimi degli Avi per far risorgere una dinastia di Streghe potente come quella antecedente all’Inquisizione?». Annuii pensieroso. Be’, a malincuore dovevo ammettere che l’osservazione di Hugh era sensata. Angus stava rischiando a fidarsi di uno Stregone. La possibilità che Xavier lo stesse sfruttando solo per recuperare il Grimorio era più che evidente. «Domandiamoci anche perché Xavier Gomez non viene qua a Roma a prendersi il Grimorio, se è così importante per lui», concluse Hugh. Angus storse la bocca. «Possiamo trascorrere tutto il pomeriggio a pensare mille ipotesi che potrebbero aver spinto il krisnitòri ad affidare a me questo incarico. Per esempio, la più plausibile: non si può allontanare da Barcellona perché impegnato a fermare gli Imperfetti». «Oppure perché così non rischia la vita, ci siamo noi al suo posto» propose Hugh. Decisi di prendere le difese del capo clan. Quella discussione non stava portando a nulla, stavamo solo sprecando tempo. «Non possiamo escluderlo, è vero. Ma non abbiamo altra scelta né vie da seguire. Per noi c’è solo un obiettivo: il Grimorio degli Avi, quindi la Chiave di Salomone. Questo è tutto ciò che ci serve per fermare lo sfaldamento del tramonto». Angus annuì e congiunse le mani al petto. «Bene, questo è tutto ciò che avevo da dirvi. Domande?». Non ci dette neppure tempo di radunare le idee e replicare. «Ottimo, procediamo. Come vedete, davanti a noi c’è una biforcazione. La

strada in salita porta al vecchio castello e alla zona residenziale, quella in discesa al fiume Arrone alla Galeria industriale. Direi di dividerci per cercare il Grimorio. Voi due vi dirigerete nella via di sotto», disse indicando Ellen e Hugh. «Noi invece ci dirigeremo di sopra». Lo incenerii con uno sguardo. Se lo poteva scordare che lasciassi Ellen da sola con Hugh. «Non credo sia una buona idea. Hugh è un Demone giovane, Ellen non sa padroneggiare bene i suoi poteri». «Ritengo invece che sia un’ottima idea. Capisco il tuo disappunto, ma dobbiamo tener presente ciò che è successo i giorni scorsi tra te ed Ellen. Ossia tra un Angelo e un Demone». «Non si ripeterà». «Non puoi prevedere quando le vostre nature si ribelleranno ancora una volta, rischiando di uccidervi al solo tocco. Non possiamo permettercelo adesso». Mi morsi le labbra. Non potevo lasciare Ellen sola con Hugh, se fosse successo qualcosa nessuno sarebbe stato in grado di difenderla. Ma Angus aveva ragione: per mantenere saldi i nostri poteri dovevamo stare il più lontano possibile gli uni dagli altri, perché le nostre nature s’indebolivano a vicenda. Mi guardai attorno. Solo ruderi e piante selvatiche. Nient’altro. Stavo esagerando? «Ehi, va tutto bene, non ti preoccupare». Ellen si avvicinò e, incurante del rischio, mi prese la mano nella sua. «Il fiume dista meno di un chilometro da qui. Il cellulare prende campo pieno, possiamo chiamarci in qualsiasi momento, ok?». Chinai la testa, guardando di sbieco Hugh. «Ok. Va bene». Così, pochi minuti più tardi, le nostre strade si divisero. *** Proseguimmo lungo la strada etrusca che portava nel cuore della Galeria Antica. Scrutai ogni angolo per capire dove le Streghe avessero potuto nascondere un Grimorio, prestando attenzione alle iscrizioni, ai simboli, a qualsiasi particolare degno di nota.

Dopo neppure dieci minuti raggiungemmo il centro della città, la piazza dove un tempo si diramavano le vie ortogonali che conducevano alla zona residenziale e alla casa del governatore. Trascorsa una buona mezz’ora di inutili ricerche, Angus si fermò. Poggiò i fogli a terra e si guardò attorno con circospezione. Socchiuse gli occhi, quindi si portò le mani alle tempie. Le dita tremavano come se stesse sopportando uno sforzo disumano. La fronte si costellò di piccole gocce di sudore. Angus gemette, piegandosi sulle ginocchia. Lo raggiunsi subito sorreggendolo sotto una spalla. «Angus, che è successo?». Lui alzò la testa. Le sue iridi erano diventate un vortice di oro liquido. «Lassù, nel campanile», disse infine. Compresi subito ciò che era accaduto: l’Arcangelo Remiel me ne aveva parlato durante l’addestramento nell’isola di Skye. Alcuni degli Angeli Ombra di Cerchio più elevato e con maggiore anzianità avevano sviluppato i loro poteri a tal punto da essere capaci di identificare la presenza del soprannaturale. L’utilizzo di questa dote era severamente proibito dall’Arconte, perché permetteva di svelare la presenza di Angeli e Demoni al di là della linea del tramonto. Secondo le normative del Consiglio, entrambi gli schieramenti dovevano agire in modo indipendente eseguendo gli ordini impartiti dal capo clan e degli Emissari. La capacità di riconoscersi poteva quindi influire sulle normali attività quotidiane e, proprio per questo motivo, era stato fatto divieto all’Arcangelo di insegnarci a sfruttarla. Un’imposizione inutile, perché molti degli Angeli Ombra era riusciti con la pratica a sviluppare quel talento. Inutile come gran parte delle leggi che facevano parte della costituzione imposta dalle Sfere e dalle Spirali. Angus abbozzò infine un sorriso. «Anche questo resterà un nostro piccolo segreto». «Uno dei tanti», ammiccai. «E non mi sembra così piccolo. Magari un giorno mi insegnerai come fare?». Angus divenne serio. «Non pensarci neppure da lontano. L’identificazione del sovrannaturale è un potere che va usato con molta cautela, e non perché

trasgredisci una legge del Consiglio. Identificare il sovrannaturale significa distendere il confine tra le dimensioni, può essere pericoloso e costa molta fatica». «Imparerò». Angus sbuffò contrariato. «Sei testardo, Kevin. E questo è il tuo più grande difetto e pregio». Annuii. «Bene. Muoviamoci adesso, non perdiamo altro tempo». Aggirammo il campanile che sorgeva accanto ai resti della Chiesa di Sant’Andrea, finché non trovammo un’apertura nella roccia. Entrammo facendo la massima attenzione e in silenzio. Lame di luce filtravano tra le crepe nelle pareti, illuminando la polvere che aleggiava nell’aria. Davanti a noi c’era una scala di pietra, che portava ai piani superiori. Angus la risalì a o svelto, lo seguii senza fiatare. Quando raggiungemmo l’ultimo piano, un’ombra si trovava di fronte all’apertura dove un tempo era posizionato l’orologio. «Fermo», urlò Angus. Non facemmo in tempo a raggiungerlo. Vidi due ali bianche e la sagoma di un uomo gettarsi nel quadrato di luce. Ci precipitammo verso la finestra, ma l’Angelo era già scomparso. «Un Angelo?», mormorai incredulo. «Un Angelo che apre le ali durante il giorno?». «Non siamo soli alla ricerca del Grimorio», sibilò Angus stringendo i pugni. «Siamo arrivati tardi». Poi, udii un urlo lontano. Un gemito. Qualcuno che invocava il mio nome. Era la voce di Ellen.

15. Ellen Il Grimorio degli Avi

Come si dice in questi casi? Trovarsi tra l’incudine e il martello? Ecco, mi sentivo proprio così. Perché quando mi avviai con Hugh lungo il sentiero che portava al fiume Arrone, non potei evitare di nota-re l’espressione di Kevin. Rabbia, amarezza, disappunto… chi più ne ha ne metta. Dunque, il fatto che Kevin fosse geloso mi faceva ovviamente piacere, lo ammetto. Insomma, credo che un pizzico di gelosia sia come gettare un po’ di pepe in un rapporto, sempre che non diventi possessività. D’altro canto però mi dispiaceva, perché ne avevo già discusso e non volevo che soffrisse inutilmente. Hugh, umano o Demone Emerso, era il mio migliore amico. La persona con la quale ero cresciuta e avevo condiviso gioie e dolori. No, non volevo rinunciare a lui semplicemente perché era una cosa stupida e priva di senso. Ok, fino a un certo punto. Hugh a Inverness mi aveva dichiarato i suoi sentimenti, non me l’ero scordato. Ma era stato sincero? Insomma, le parole vanno sempre ponderate e interpretate. Hugh era stordito per essere stato avvelenato da un Demone e poi guarito da un Angelo. Di sicuro non potevo valutare gli effetti, magari era solo un po’ scombussolato. O forse ero io che mi obbligavo a credere a questa spiegazione. O forse mi stavo creando un sacco di castelli in aria. O forse… non lo sapevo. «Miss Lynch, è tra noi?». Sorriso a trentadue denti. Capriola allo stomaco. «Certo». «Sì, come no. Ti conosco Ellen, e quando pensi troppo rischiamo di ficcarci in un mare di guai», disse Hugh spostandosi un ciuffo di capelli che gli svolazzavano sulla fronte. Sì, Hugh era proprio bello. Moro, alto, ben messo di muscoli. E adesso che era

diventato Demone… non so, qualcosa era cambiato in lui. Era più affascinante e deciso, anche se avevo sempre adorato quella sua naturale imbranataggine. Anzi, ne avevo nostalgia. «Lynch?». Appunto. Che cavolo stavo pensando? «Sì, Hugh, scusami». «Ti scuso se mi dici che ti prende. Non farmi tirare a indovinare, visto che hai circa mille motivi per essere in ansia. Motivi ben più importanti che esserti allontanata per cinque minuti dal tuo Kevin». Eccolo con le sue simpaticissime frecciatine. Ottima mira, fra l’altro, faceva sempre centro. «Cosa c’è di male se sono un po’ agitata?». «Nulla, ma visto che Angus, uno degli Angeli Ombra più potenti di Inverness, non è con noi penserei più alla nostra pelle, dato che siamo due Demoni pivelli». Possibile che nessuno avesse capito che detestavo essere trattata come un’inetta? Bene, era ora di reagire. Guardai un sasso a terra. Un istante, e questo volò verso Hugh. Lui lo intercettò con la coda dell’occhio e, un attimo prima che lo colpisse a una spalla, fu deviato da un’altra pietra, anch’essa scagliata in aria. Presa in contropiede. Con la tipica espressione «no, non ci posso credere!» stampata sul volto. Hugh, invece, mi ricambiò con un’occhiata di sfida. «Tanto per capire, come hai fatto?», gli chiesi. «Tanto per capire, potevi iniziare con un: oh, Hugh, ti voglio così bene che volevo colpirti con un sasso a una spalla! Oppure: oh, Hugh, mi spiace, ma ogni tanto perdo il controllo della telecinesi! Oppure…». Gli sbarrai la strada. «Ok, stop. Primo: non l’avevo lanciato con violenza. Non ti avrebbe fatto nulla, sei grande e grosso. Secondo: ho impiegato circa sei mesi a imparare a fare questa roba e tu poco più di un mese. Come tutte le altre cose. Magari sai anche volare, non è vero?».

«Me la cavicchio», ammise lui. «E poi sono sempre stato il secchione primo della classe. Non mi definivi così al college?». Alzai gli occhi al cielo. «Quali altre cose sai fare?». «Un ragazzo astuto non svela mai tutte le proprie doti, servono sempre per meravigliare una ragazza e conquistarla» mi sussurrò avvicinandosi e cingendomi in un abbraccio. «Ma tu non sei un ragazzo astuto». «Ok, lo prendo come un complimento». Feci leva con le mani sul suo petto e tentai di allontanarlo. Niente, neppure se facevo forza. «Mi stai facendo male. Ora mi arrabbio sul serio…». Hugh lasciò la presa. «Ai suoi ordini, miss Lynch». Lo fulminai con lo sguardo. «Piantala di fare l’idiota. Insomma, siamo qui per trovare questo dannato Grimorio, non per fare una scampagnata tra amici». «Ti ricordo che sei stata tu a lanciarmi un sasso addosso… e comunque, volevo solo proteggerti», mi disse indicando un cespuglio e tornando subito serio. Scese un silenzio gelido. Qualcosa si stava muovendo dietro quelle piante. Gli feci cenno di far silenzio e mi avvicinai lentamente. Bene, potevo dimostrargli che ero capace a cavarmela da sola. Non ero l’ultima arrivata ed ero anch’io un superdemone con dei superpoteri. Mi guadai attorno. Un tronco divelto. Sassi più o meno grandi. Tutto ciò di cui avevo bisogno per cogliere di sorpresa l’intruso e colpirlo alle spalle. Insomma, ammesso che fosse stato un… nemico? Poteva essere semplicemente un umano, magari un turista. Anche se da queste parti sembrava non ce ne fosse neppure l’ombra. Ma potevano esserci Angeli e Demoni che volevano soffiarci sotto il naso il Grimorio. Un altro o. Un altro ancora. Il rumore dietro gli arbusti si fece più intenso. Mi concentrai sul tronco, lo feci volare davanti a me, pronto a scagliarlo

all’occorrenza. Poi successe qualcosa di inaspettato. Un’ombra saettò fuori dal cespuglio, saltandomi quasi addosso. La scartai di lato, ma andai a sbattere contro il tronco a mezz’aria. Finii a terra, ma ebbi il tempo di capire chi fosse il terribile nemico. Una volpe. Sì, un’innocente tenera volpe. Più impaurita lei di me. Una sonora risata mi fece da colonna sonora mentre mi ripulivo dalla polvere e dall’erba. «Ellen, se non sei capace di stendere una volpe, credo che tu abbia veramente bisogno del mio aiuto». Protese la mano, l’afferrai. Mi trascinò con forza in piedi e mi ritrovai a pochi centimetri dal suo viso. Il suo profumo. I suoi occhi verdi. Un desiderio inconfessato che mi scorreva nelle vene. Arrossii. «Sei diventata dello stesso colore di un peperone, lo sai?», mi sussurrò Hugh. Non riuscii a staccarmi. Perché non lo volevo. Perché più mi dicevo che era sbagliato, che volevo allontanarmi, più il suo sguardo annientava ogni mio pensiero. Fu solo un attimo. Le sue labbra sulle mie. Una scarica elettrica che si propagò come un incendio nelle mie vene. Il desiderio pulsò senza controllo, ogni rumore fu inghiottito nel battito del mio cuore. Non reagii, mi abbandonai a quella sensazione che mi appagava, che mi faceva sentire così libera, forte, inebriata. Poi, la coscienza prese il sopravvento. Mi staccai. Confusa. Agitata. Mi coprii il volto con le mani. La vergogna. Il senso di colpa. Cosa avevo fatto? Perché era successo?

Non sapevo rispondere. Amavo Kevin. Lo amavo con tutta me stessa, ne ero convinta. Hugh era solo un amico. Lo era sempre stato a Inverness. Ma adesso eravamo a Roma. E lui non era più un essere umano. *** Continuammo a scendere lungo il sentiero. Con la testa bassa, ogni tan-to sbirciavo l’espressione di Hugh. Lui mi osservava. Serio, in silenzio. «Non devi sentirti in colpa». Chiusi gli occhi e alzai una mano davanti al petto. «Non so perché è successo. Ma è stato uno sbaglio». «È stato solo un bacio, Ellen», rispose con voce roca. «Un bacio che non doveva esserci, perché io sto con Kevin». «È evidente». «Se è evidente, quello di poco fa è stato un errore. Tutto qua, non cambia niente tra di noi». «Gli amici non si baciano». Mi conficcai le unghie nei palmi delle mani. Voleva farmi sentire in colpa? Dove voleva arrivare? Agganciai il suo sguardo, pronto a sfidarlo, ma non vidi nient’altro che una pupilla tremante. Ogni mia difesa crollò all’istante. «Hugh, è colpa mia, ho sbagliato. Ma io non ti…». Mi mise una mano davanti alla bocca. «Non dire altro. Non farmi questo». Voltai la testa, trattenendo le lacrime. Mi sentivo un macigno al posto dello stomaco. Che diavolo mi era ato per la testa? Ero a Galeria per recuperare il Grimorio e impedire che l’Ordine dell’Apocalisse scatenasse l’inferno sulla Terra e invece, come una perfetta stupida, mi ero fatta sopraffare da un sentimento che non sapevo neppure decifrare.

Non avevo avuto rispetto nei confronti di Kevin, né di Hugh. L’avevo illuso di provare qualcosa che non esisteva. Inspirai a lungo. «Incidente concluso», dissi con un tono gelido. «Muoviamoci, cerchiamo il Grimorio». Hugh non ribatté. Mi seguì in silenzio mentre raggiungevo la sponda dell’Arrone. L’acqua scorreva impetuosa sul letto irregolare del torrente, cadeva in piccole cascate scivolando tra detriti, massi e tronchi d’albero sradicato e formando infine dei mulinelli di schiuma scura. La vegetazione invadeva le rive, che zigzagavano nella boscaglia. A pochi i da noi c’era un ponte, che capii essere parte della mola. Sotto infatti c’era un sistema di chiuse, nell’antichità dovevano essere utilizzate per far innalzare il livello dell’acqua e muovere le ruote della macina. Costeggiammo la riva del fiume fino a giungere alla mola. In un angolo, sulla parete rocciosa, notai alcune iscrizioni. «Guarda, il simbolo della triplice Dea». Hugh si avvicinò e ispezionò il masso. Cercò nei dintorni, trovando altre incisioni identiche. Seguimmo la via indicata dai simboli delle Streghe, finché non giungemmo di fronte a una parete di tufo. «Vicolo cieco?». Lui picchiettò con le nocche sulla roccia. «Non sembra compatta. Forse è un aggio chiuso. Proviamo a spostarla. Mi dai una mano?». Eseguii senza fiatare. Hugh aveva ragione, la parete nascondeva un ingresso alto poco più di un metro e largo altrettanto. Scendemmo nel cunicolo, che si inoltrava nell’oscurità e nel sottosuolo. Un filo di luce penetrava dall’entrata, rischiarando a malapena la via, ma fu sufficiente per la nostra vista di Demone.

«Siamo sotto la macina?», domandai. «Sento il rumore delle ruote». «Credo di sì». «A cosa serviva questo posto?». Alzò le spalle. «Non saprei, forse era una specie di riserva per gli antichi abitanti di Galeria, o forse una necropoli». Un brivido mi corse lungo la schiena. Dopo la storia delle Streghe che erano riuscite – almeno teoricamente – a resuscitare i morti, temevo di vedere uno scheletro ambulante da un momento all’altro. Per fortuna era esatta la prima ipotesi. Ci trovammo in una grotta rettangolare scavata nel tufo, alta tre o quattro metri e lunga circa il doppio. L’aria era umida e irrespirabile, il terreno una fanghiglia putrescente. «Direi che la visita alle riserve è conclusa. Non c’è nulla qui che ci possa essere utile». Hugh non mi rispose, la sua attenzione era focalizzata in un angolo della grotta. Lo seguii, mentre si chinava a terra. «La tua vista è migliore della mia», mi giustificai, mentre mi indicava il simbolo delle tre spirali. «Quindi? Vicolo cieco?». «Forse dobbiamo scavare». Deglutii. L’idea di mettere le mani in quella fanghiglia mi nauseava, ma Hugh ebbe un’altra idea. Uscì dalla grotta e tornò con dei rami appuntiti. «Non è una vanga, ma ci può essere d’aiuto». Ci mettemmo subito all’opera, benché non avessi così fiducia nel sesto senso di Hugh. «Se le Streghe hanno nascosto il Grimorio in un luogo così sperduto, potrebbero averlo protetto con la magia», ipotizzai. «Non credo. Al college preparai una tesina sulla stregoneria in Scozia e in

Irlanda. Non so quanto ci fosse di vero nelle leggende che trovai, ma se avessero usato un rito di protezione, sarebbe stato più facile trovare il Grimorio per le altre Streghe». «Una specie di… macchia magica», ironizzai osservando i miei jeans imbrattati di melma. «Lo troveremo, stanne certa. Poi arriverà il bello, capire cosa farne». «Potremmo venderlo su eBay». Hugh si fermò a guardarmi. «Eh?». Sospirai. «Stavo scherzando anche se magari potremmo tirare su una bella somma…», non finii la frase che il mio legno si scontrò contro qualcosa di duro, producendo un rumore metallico. «Ci siamo!», esclamai. «Ho trovato qualcosa, Hugh». E, dal suono prodotto, non era di certo una roccia. Le mie supposizioni si rivelarono vere, dalla buca tirammo fuori una scatola di metallo. Hugh la prese, ripulendo la superficie dalla terra. «Grande Ellen! L’hai trovato». Abbozzai un debole sorriso, che si allargò quando riconobbi il simbolo del triscele impresso sul coperchio. «E adesso?», chiesi emozionata. Hugh mi rispose a modo suo: colpì la scatola con un pugno e strappò via un lembo di metallo, mangiato dalla ruggine. «A volte la forza di un Demone porta i suoi vantaggi», ammiccò. E anche una montagna di lati negativi, che gli avrei illustrato con più calma. Avevamo fatto centro. Dentro la scatola si trovava proprio un libro, di piccole fattezze. La copertina di cuoio nero, incisa con miriadi di simboli magici, era sigillata come un pacco regalo da una corda color vermiglio. Afferrai subito il cellulare per avvertire Kevin, ma dentro la grotta il segnale era

assente. Uscimmo di tutta fretta, aspettai che il telefonino prendesse la rete. Non feci in tempo. Dall’altro lato del fiume notai una donna, che mi guardava sorridendo. Aveva lunghi capelli neri, che le incorniciavano un viso affilato dal-l’incarnato esangue. Alta ed esile come un giunco, indossava una maglia bianca e un paio di pantaloni grigi. Un abbigliamento troppo leggero per la temperatura di quella giornata. «Hugh…», mormorai, ma lui stava già digrignando i denti. «Andiamocene, svelta», disse nascondendo il libro sotto la giacca. Poi, tutto avvenne in pochi secondi. La donna spalancò le ali, scure e brillanti. Il Demone volò sopra il fiume, atterrando a un metro da noi. Sobbalzai all’indietro, Hugh mi si parò davanti. Lei gli assestò un pugno allo stomaco, ma Hugh lo bloccò con entrambe le mani. «Vattene, Ellen, subito», mi urlò mentre l’altra sfoderava un coltello. Mi guardai attorno, atterrita. Non potevo lasciarlo a combattere da solo. Dalla velocità dei suoi movimenti, era un Demone molto più anziano di noi. E con molta più esperienza. Il panico mi costrinse a muovermi in fretta. Intercettai tutto ciò che mi stava attorno e lo scagliai con violenza. Sassi, detriti, tronchi si alzarono a mezz’aria e piombarono sul Demone. Fu tutto inutile: le bastò muovere una mano per bloccare ogni mio attacco. Questo tuttavia dette modo a Hugh di tirare il fiato e colpirla con un calcio al braccio, facendole perdere la presa del coltello. «Kevin!», urlai con tutta me stessa, cogliendo l’occasione per correre verso il ponte. Non ne ebbi modo. Il Demone si muoveva con una rapidità impressionante. Schivò Hugh, raccolse il coltello e in un attimo gli fu alle spalle, puntandogli la lama alla gola. «Il Grimorio o gli taglio la gola».

Mi voltai, sbiancando. Hugh mi fece cenno di no con la testa. Le pupille della donna si erano allargate fino a inghiottire le iridi. Ma non volevo cedere. «Lascialo, subito». «Non sei nella posizione di ordinare un bel niente». «Gli Immacolati saranno qui a breve». «Nessuno viene mai a Galeria». «Avvertiranno la nostra presenza». «Ne sei sicura? Te la senti di rischiare?», disse mentre la lama incideva la pelle di Hugh e un rivolo di sangue gli scendeva fino allo sterno. Mi morsi le labbra. Non avevo scelta. Presi il Grimorio e lo lasciai cadere a pochi i da me. «Eccolo, lascialo subito». «Portamelo vicino». Ma non mi aveva detto come. Con un calcio lo spostai di un altro metro. Il Demone imprecò, quindi lasciò la presa. Era l’istante giusto: intercettai lo sguardo di Hugh e capimmo cosa fare. Le nostre ali si aprirono dietro di noi. Un battito solo, che ci dette lo slancio per saltare addosso al Demone. Colto in contropiede, questi si trovò sbattuto sulla riva dell’Arrone. Hugh afferrò il Grimorio, io tentai di bloccarlo. Fu una mossa avventata e stupida, perché la donna alzò il coltello conficcandolo dentro il mio braccio. Una scarica di dolore mi annebbiò la vista. Le gambe mi cedettero e caddi all’indietro, sbattendo la testa contro una roccia. I rumori si attutirono di colpo. Arrancai nella melma, udendo solo il mio respiro e il battito del mio cuore. Ancora dei suoni alle mie spalle.

Due sagome in lontananza. Un ragazzo dai capelli biondi. Kevin. Silenzio e oscurità si chio su di me.

16. Kevin Un altro indizio

Identica scena di due giorni prima: Ellen stesa sul letto priva di sensi. Nuova ambientazione: camera. Nuovi protagonisti: Angus e Hugh. Controllai la ferita al suo braccio. Era profonda, ma la fasciatura stretta aveva bloccato l’emorragia. Come sempre, non potevo portare Ellen all’ospedale. Troppe domande, troppi problemi, il rischio di incorrere in qualche Angelo e Demone o, ancora peggio, in un Immacolato. «Si riprenderà presto», mi disse Angus con tono rassicurante. Annuii, senza troppa convinzione e con un senso di colpa che era pesante come una lastra di piombo. Mi avvicinai a Ellen. Le carezzai la fronte, era fresca. Mi tranquillizzai, ciò significava che non c’era nessuna infezione. Bene, era giunto il momento di agire. Le sfiorai la ferita con entrambe le mani e chiusi gli occhi. Mi rilassai, abbandonai ogni pensiero e preoccupazione, lasciai che l’energia fluisse nel mio corpo fino a raggiungere l’estremità delle dita. Un bagliore dorato si diffuse attorno al braccio di Ellen. Quando aprii gli occhi, inorridii. La macchia di sangue sulle bende si stava allargando di nuovo. «Allontanati», ringhiò Hugh afferrandomi per un polso. Mi divincolai all’istante. «Non osare dirmi quello che devo fare», esclamai puntandogli l’indice contro. Hugh arricciò il naso. «Piantala con queste scene da ragazzo geloso. Non capisci che la tua presenza la indebolisce? Qual è il tuo scopo, far-la morire?». Cercai approvazione nello sguardo di Angus, ma rimase imibile come sempre. Chinai la testa. Solo qualche mese addietro sarei stato in grado di guarirla e avrei sanato senza difficoltà le ferite mortali di un Demone. Proprio come avevo fatto con Hugh, che adesso mi invitava ad allontanarmi dalla

ragazza che amavo. Ma, sebbene il solo pensiero mi desse fastidio, Hugh aveva ragione. Con l’Equilibrio sempre più precario, le nature degli Angeli Ombra e dei Demoni Emersi sopraffacevano la parte umana, si espandevano nell’invisibile e si respingevano come calamite della stessa polarità. Hugh si abbassò su Ellen e le strinse forte le mani. Vidi un alone scuro lambire la sua pelle, attorcigliarsi al suo braccio, confluire dentro le sue labbra. E vidi il sangue nella garza sparire all’istante. «Vattene, Kevin», sibilò Hugh, senza neppure voltarsi. Non avevo altra scelta. Il bene di Ellen, prima di tutto. Sopra ogni altra cosa. Oltre me stesso. *** Seduto sul divano, aspettai che Hugh uscisse dalla camera da letto. Appena lo vidi, scattai in piedi. «Come sta?». Hugh era pallido e aveva la fronte bagnata di sudore. «Meglio. Si è anche svegliata», disse accennando un sorriso di vittoria. «Vado». Mi sbarrò la strada. «Si è rimessa a dormire. Lasciala riposare, Kevin». Sostenni il suo sguardo a lungo, poi mi limitai ad annuire. «La ferita si è quasi rimarginata. Era meno grave del previsto. Domani sarà di nuovo in forma». Si lasciò cadere sulla poltrona. Era distrutto. «Grazie», mi sforzai a dire. «Per cosa?». «Per averla guarita». Sollevò le spalle. «Le sono solo stato accanto. Funziona così tra Demoni. Ma farla star bene indebolisce me». Mi voltai di scatto. «Hugh, dobbiamo parlare». «Ti ascolto». Andai subito al punto. «Tra te ed Ellen non ci sarà mai nulla, fattene una ragione». Lui piegò le labbra in un sorriso impercettibile. «Tra me ed Ellen c’è già molto, fattene tu una ragione».

«Non è la stessa cosa che lei prova per me». «Ma tu non hai vissuto per dieci anni accanto a lei. Dov’eri, Kevin, nei momenti in cui piangeva per il fratello? Dov’eri quando si sentiva sola, abbandonata persino dai suoi stessi genitori?». Scossi la testa. Si stava arrampicando sugli specchi. «Neppure ci conoscevamo. Confondi l’amicizia con l’amore, Hugh». Lasciò cadere lo sguardo a terra. «Ti sbagli. Voglio solo il bene di Ellen». «Ellen è felice con me», tenni duro. Una volta chiarita la faccenda, non ci sarei più tornato sopra. O almeno con le buone maniere. «Sarà Ellen a decidere cosa la rende felice». Gli detti le spalle. Lasciava la palla in mano a Ellen, costringendola a decidere tra un’amicizia e l’amore? Hugh era un folle. Anzi, un disonesto. Non replicai. Evitai di polemizzare ancora. M’interessava solo che Ellen si riprendesse. Tutte le altre considerazioni avano in secondo piano. Guardai oltre la finestra, verso i palazzi illuminati e le strade affollate di macchine. «Sono stato uno stupido. Non dovevamo dividerci. Angus aveva torto». «Angus aveva ragione», obiettò subito Hugh. «Se non l’avessimo fat-to, altri Angeli o Demoni ci avrebbero preceduto e il Grimorio non sarebbe qui con noi», obiettò guardando il volume poggiato sul tavolo. «Era mio dovere proteggerla». Hugh crollò sullo schienale della poltrona e poggiò le mani dietro la nuca. «Se vuoi dare la colpa a qualcuno, quel qualcuno sono io. Ero io con lei». Serrai i pugni. Sì, dannazione, doveva difenderla. Doveva lanciare quel dannato Grimorio nel fiume ed evitare che qualcuno torcesse un capello alla mia Ellen. «Non me lo perdonerò mai. Ellen poteva morire», concluse Hugh, socchiudendo gli occhi.

A quelle parole sobbalzai, perché quell’idea, assurdo dirlo, non mi era ata neppure per l’anticamera del cervello. Ellen che non c’era più era una realtà impossibile persino da pensare. «No, non potevi fare altro». Era stato Angus a parlare, mentre usciva dalla cucina chiudendo la porta alle sue spalle. «Era un Demone Emerso molto più forte di te. Quando ha capito che non poteva combattere anche contro di me e Kevin, è fuggito». «L’identità del Demone?», domandai inferocito. Angus scosse la testa. «Ero al telefono con Xavier Gomez. È molto arrabbiato per ciò che è successo». Sbuffai. Lui arrabbiato? Peccato che noi avevamo rischiato la vita al posto suo. «Come suo dovere, ha comunicato al tribunale dei kalé che gli antichi scritti erano stati decifrati e che il Grimorio si trovava nella Città Fantasma. È evidente che qualche suo collega l’ha tradito». «Streghe in combutta con il Consiglio di Roma e del Vaticano?», domandò Hugh. «Possibile. Oppure con altri distretti, chi può dirlo. Ma è evidente che c’è stata una soffiata, come del resto già temevamo. Ellen sta bene?», si assicurò quindi. Hugh fece cenno di sì con la testa. «Lo immaginavo», disse avvicinandosi al tavolo. «Bene, mettiamoci all’opera». Mi arresi, controvoglia. Dopo tutto quello che era successo, non avevo proprio il desiderio di leggere il manuale degli Avi. Volevo solo stare con Ellen. «Ma Ellen deve riposarsi. Quindi perché non sfruttare al meglio il nostro tempo?», mi sorrise Angus, che aveva già letto tutti i miei pensieri. Al lavoro. Tenermi impegnato mi avrebbe distolto dall’ansia. Ottimo.

Ci sedemmo attorno al tavolo, Angus aprì il Grimorio e iniziò a sfogliarlo. «Come immaginavo. È scritto in qualche codice o lingua sconosciuta». Gli detti un’occhiata. Pagine e pagine zeppe di segni incomprensibili. Quindi? Anche Hugh lo esaminò con attenzione, incerto. «Credo di sapere di cosa si tratti», disse dopo una lunga pausa. «Illuminaci», dissi subito con sarcasmo. Che strano, vero? Hugh che non sapeva qualcosa sarebbe stato un evento memorabile. «Kenneth, un mio amico del college, seguiva un corso di crittografia e fece una ricerca sulle lingue e sui codici non ancora decifrati. Uno di questi era il manoscritto di Voynich». «Sei sicuro del collegamento?», intervenne Angus. «L’idioma è identico, Kenneth era molto preso da questa ricerca e mi mostrò più volte la documentazione che aveva raccolto». Il capo clan scattò in piedi, euforico. «Eccellente! Tutto quadra». Lo guardai disorientato, perché a me non quadrava un tubo. Per fortuna, anche Hugh stavolta sembrava in alto mare. «Vedo che l’Arcangelo Remiel e Vivian non vi hanno parlato del manoscritto di Voynich e del suo legame con le Streghe». Hugh e io ci guardammo per un attimo, scuotendo la testa. «Dunque, cercherò di essere breve. Quando gli Avi si accorsero della pericolosità dei loro sortilegi, dopo essere riusciti a valicare il confine tra la morte e la vita con gli Imperfetti, decisero di trascrivere gli incantesimi nei Grimori utilizzando un codice che solo loro sarebbero stati capaci di decifrare. Be’, come vi ho già raccontato fu solo un modo pretestuoso indetto dal senso di colpa per ciò che avevano fatto. Quando l’epidemia degli Imperfetti dilagò in ogni angolo del mondo, decisero metodi ben più drastici».

«Sacrificandosi sui roghi», ricollegai. «Proprio così. Comunque, il primo esperimento di Grimorio scritto in codice è proprio il manoscritto di Voynich». «Ecco perché nessuno è mai riuscito a decifrarlo», notò Hugh. «Ma per quale motivo l’hanno lasciato in mano agli uomini? Se ricordo bene è ancora custodito all’Università di Yale. Forse è un falso?». Angus trattenne una risata. «Tutt’altro, è il vero Grimorio che risale al Medioevo. Non lo nascosero perché vi erano trascritti riti di secondaria importanza, per lo più pozioni di guarigione e trattamenti curativi a base di erbe. Sono i principi che conosce qualsiasi strega alle prime armi». Tornai a osservare i simboli impressi nelle pagine del Grimorio. «Quindi il manoscritto di Voynich era una specie di prova generale per imparare a usare un idioma che nessuno avrebbe mai tradotto?». «Esatto, perché qualsiasi incantesimo di protezione avrebbe lasciato delle scie di magia e sarebbe stato facilmente rintracciabile. Scelsero la via più semplice, un libro senza alcun incantesimo. L’unico problema era evitare che gli uomini potessero comprendere il suo contenuto». «E come ci riuscirono?», domandò Hugh. «Chiedendo aiuto agli Angeli e ai Demoni, che gli avevano dato l’ultimatum per tamponare la situazione drammatica che si era creata dopo la nascita degli Imperfetti. I Consigli misero all’opera gli Immacolati, che influirono sulle capacità umane». Sorrisi. Gli Immacolati erano davvero onnipresenti nel corso della storia dell’umanità. Ero pronto a credere che in qualsiasi mistero o leggenda ci fosse il loro zampino. «Così instillarono il dubbio che il manoscritto fosse un falso risalente al Sedicesimo secolo, una macchinazione del falsario inglese Edward Kelley e del filosofo John Dee a scapito di Rodolfo II d’Asburgo. Poi, nel corso dei secoli, si sono assecondate frivole teorie a riguardo… ma andiamo al punto. Il codice Voynich».

«Lo stesso codice con cui è stato scritto questo libro, e che neppure Xavier Gomez sa interpretare, perché il segreto morì con gli Avi sui roghi. Da allora i rapporti tra Angeli e Demoni con le Streghe si sono interrotti. I Consigli ritennero che le Streghe si fossero estinte. Ovviamente non è stato così». Mi abbandonai contro lo schienale della sedia. «Quindi siamo in un vicolo cieco?». Angus si strinse nelle spalle. «Tutt’altro, Kevin. Uno dei poteri degli Angeli e dei Demoni è quello di essere capaci di parlare qualsiasi lingua. Ecco svelato perché Xavier Gomez ha affidato a me la missione. Anche se avesse ritrovato il Grimorio degli Avi, non sarebbe stato altro che un libro pieno di scarabocchi nelle sue mani». «Ma io non sono capace di leggere queste scritte», ribattei. «Neppure io, ma lo saremo se uniremo le nostre forze. Diamoci la mano e liberiamo la mente». Ci stringemmo in un cerchio, chiudendo gli occhi. Non avevo mai fat-to nulla di simile, ma avevo sentito parlare da Remiel della permutazione dell’energia: un modo per far confluire i poteri di più Angeli verso un unico obiettivo. Con la solita eccezione che il terzo incomodo era un Demone Emerso, ma Angus non ne pareva affatto preoccupato. Quando riaprimmo gli occhi, ci concentrammo sul Grimorio. Delle luci dorate serpeggiarono sul tavolo, confluendo nelle pagine del volume. I simboli cambiarono forma, muovendosi sul foglio come se fossero stati degli insetti. Poi, una saetta nera scaturì dalle mani di Hugh e colpì il libro. Vi fu una vibrazione così intensa da far tremare il tavolo, sobbalzai dallo spavento. Ma, come aveva previsto il capo clan, i segni di quell’incomprensibile alfabeto si sfaldarono, le linee vorticarono nel triscele, quindi si ricombinarono per formare frasi di senso compiuto. Angus lo esaminò con attenzione. «È un rito». «Una formula magica?», domandò Hugh, sbirciando la pagina. «Più o meno».

«A cosa serve?». Angus voltò pagina e indicò una riga con l’indice. «È scritto proprio qui, alla fine della litania». Lessi ad alta voce. «Questo è il rito per ottenere la Chiave di Salomone, nascosta nella Porta dei Cieli, a Roma».

17. Ellen La Porta dei Cieli

Mi svegliai di soprassalto. La prima cosa che udii fu il clacson impazzito di un’automobile. Poi il cigolio di una saracinesca e il clangore di attrezzi degli operai in strada. Che terribile mal di testa. Aprii gli occhi. Il letto, la camera, i mobili. Ero tornata a casa. Alla mia destra, poggiati su una sedia vicino al comodino, c’erano una maglietta, un paio di jeans e un giubbotto di pelle nera. Sì, proprio i vestiti che indossavo a Galeria. Mi girai su un fianco, allungando una mano tra le lenzuola. Uno spazio vuoto e freddo. Dov’era finito Kevin? Pian piano la vista divenne nitida e si abituò alla penombra, tagliata da un filo di luce che penetrava dalle persiane. In quello stesso istante, i ricordi di ciò che era successo il giorno precedente riaffiorarono alla memoria. Il ritrovamento del Grimorio, il combattimento contro il Demone, una lama che mi trafiggeva il braccio poco sotto la spalla. Controllai la ferita, che era coperta da una garza macchiata di sangue rappreso. Sciolsi delicatamente il nodo, temendo che una fitta di dolore mi avrebbe fatto vedere le stelle. Rimasi meravigliata: la pelle era liscia e rosea, come se non mi fossi mai scontrata con quel Demone. Cos’era successo? Era stato solo un incubo? Mi sedetti sul materasso. La mia vista di Demone focalizzò un angolo della stanza, dove c’era una poltrona. Un gomito sporgeva dal bracciolo, il profilo di una testa spuntava sopra lo schienale. Un ciuffo di capelli neri, non biondi. Proprio come quelli di Hugh, non di Kevin. «Hugh?».

Silenzio. «Hugh?», insistetti alzando il tono di voce. Un mugolio. «Hugh, dannazione!». Hugh sussultò sulla poltrona. Si voltò, con i capelli arruffati che gli coprivano metà volto e le palpebre che faticavano a stare aperte. «Ellen». «Fin qui ci siamo». «Ma… ma… che ore sono?». «Le undici, quasi». «È mattina?». «Ho detto le undici». «Le undici di mattina». «Così dice l’orologio». «Ah». «Eh». Balzai giù dal letto e lo raggiunsi, pronta a scuoterlo se non si fosse svegliato subito. «Mi dici che cosa diamine è successo? Dov’è Kevin?». «Di… là. In sala. O in cucina. O in terrazza. Boh, da qualche parte sarà». «Cosa?». «Parla piano, abbiamo avuto una nottataccia».

Così, quando Hugh si decise a tornare nel mondo dei vivi e trasformare quel biascichio in frasi di senso compiuto, mi feci raccontare per filo e per segno cosa era successo dopo che avevo perso i sensi. E Hugh non dimenticò nessun particolare, da come si era adoperato per curare la ferita fino alla scoperta dell’idioma del manoscritto Voynich e dell’ubicazione della Chiave di Salomone. «Come sempre mi sono persa la parte più divertente», smorzai con un po’ di sano sarcasmo. «Però continuo a non capire perché quando mi so-no svegliata ti ho trovato su quella poltrona». «Fra l’altro molto scomoda», precisò Hugh, avvicinandosi di un o. «Per caso preferivi che dormissi con te, sotto le coperte?». Guardai il letto. Guardai Hugh. M’irrigidii. «Non sei divertente. Perché Kevin non è qui con me?», domandai sottolineando il nome di Kevin. «Non fare domande di cui sai già la risposta. La presenza di un Angelo mentre eri ferita e debole avrebbe impedito la guarigione». «Era solo un graffio». «C’era il rischio di un’emorragia». Deglutii. Questo significava che, al contrario, la presenza di un Demone mi aveva salvato la vita. Hugh, per l’appunto. In mezzo secondo caddi di nuovo nel baratro del senso di colpa. Era evidente che Kevin non sapesse nulla del bacio tra me e Hugh, altrimenti non lo avrebbe lasciato dormire nella mia stessa camera. Come sempre l’aveva fatto per il mio bene, perché la presenza di un Demone poteva guarire le mie ferite. E Hugh, ovviamente, aveva pensato bene di omettere quel particolare. «Sei diventata scura in volto», mi sussurrò tentando un abbraccio. Mi divincolai. Era l’ora di farla finita, quel gioco era fin troppo pericoloso. Mi ero comportata male, ero stata una stupida, un’idiota, un’incosciente, un’avventata eccetera eccetera ma, a parte perdere tempo a insultare me stessa,

dovevo sistemare le cose. E, soprattutto, portare rispetto a Kevin. Sì, gli avrei raccontato tutto. Nessuna bugia, nessuna omissione da parte mia. «Ellen, sei tornata nel nostro mondo?». «Andiamo, è tardi», tagliai corto, afferrando i miei vestiti poggiati su una sedia. Quando uscii dal bagno, Hugh era in cucina, con indosso solo un paio di boxer. «Fame?». Abbassai lo sguardo, imbarazzata. Hugh era cambiato anche fisicamente. Più snello e definito, muscoli tesi come funi e tartaruga stampata sulla pancia. Decisamente non male. Scossi la testa e scacciai via quel pensiero, sostituendolo con una semplice constatazione: perché io dopo l’evoluzione non ero migliorata neppure un po’? Non pretendevo di diventare una modella, ma magari potevo correggere qualche mio difetto, no? «Allora? Caffè e brioche?». Annuii, guardando la sala. «Dove sono Kevin e Angus?». Lui si grattò un fianco. «Lo sai, gli Angeli non amano fare gruppo con noi Demoni. Saranno andati a cercare informazioni sulla Porta dei Cieli». E su questo non potevo dargli torto. Guardai l’orologio alla parete. Sarebbero sicuramente tornati per pranzo. Poi tornai a chinare la testa. «Belle queste mattonelle, non trovi?», disse Hugh scoppiando a ridere. Alzai di scatto lo sguardo, incrociando il suo. «Non dirmi che sei imbarazzata?». «Perché? Certo che no». «Perché sono in boxer». «Be’, in effetti potresti vestirti, come ho fatto io. Si chiama educazione. O forse

buon gusto, vedi tu». «Ah. Quindi non sono esteticamente di buon gusto». «Falla finita». «È la prima volta che mi dici che non ti piaccio. Sono peggiorato?». Gioco stupido. Hugh che voleva costringermi a guardarlo e a fargli dei complimenti. Non si era mai comportato in modo così infantile. «Parlo di stare mezzo nudo in cucina con una ragazza», precisai piccata. «Questa ragazza non è proprio una sconosciuta. Si chiama Ellen Lynch, è una tipa un po’ stramba e simpatica di Inverness. Ama giocare a calcio come gli uomini, leggere un’infinità di libri come il più gran secchione della scuola…». «Falla finita». Hugh scosse la testa. «Siamo lontani da casa, ma siamo sempre noi. Tu e io». La sua voce si era fatta poco più di un sussurro. «Non è più come prima». «Perché siamo Demoni Emersi?». «Perché siamo diversi. Siamo cambiati». «Come cambiano in fretta le cose, vero Ellen? Non eri tu in riva al mare a dirmi che un paio di boxer erano come un costume?» mi disse con un’espressione maliziosa. «Perché ci conoscevamo da quando eravamo alti poco più di un metro?». «Che c’entra… non è la stessa cosa». «Cioè? Un paio di boxer sono un costume a Inverness ma non a Roma? Sei confusa». Appunto, ottima osservazione. Ero decisamente confusa. E Hugh si divertiva a rendere tutto più complicato.

Mi fece l’occhiolino, porgendomi il vassoio. «Buon appetito! Dai, lasciamo perdere. So già che se insisto inizierai a tenermi il broncio e mi distruggerai con qualche tua battutina acida». «Hai una buona memoria anche da Demone». «Ok, miss Scozia. Vado a farmi la doccia. Se vuoi venire anche tu però…». «Piantala». Lui abbozzò un sorriso e si avviò verso il bagno. «No, Ellen, non straziarmi con i ringraziamenti per averti salvato la vita. Ieri rischiavi di inzuppare il materasso di sangue, oggi non hai neppure un graffio. Prego… prego… davvero, non insistere, non ce n’è bisogno…», disse infine prima di chiudere la porta. Sospirai, girando meccanicamente il cucchiaino nella tazza. Puntai il gomito sul tavolo, poggiando la fronte sul palmo della mano. «Qualcuno mi spieghi che diavolo mi sta succedendo», sospirai. Ricapitoliamo. Ero convintissima di essere innamorata di Kevin, ma non potevo fingere di non provare attrazione per Hugh. Visto che non ero impazzita da un giorno all’altro, c’era una sola variabile che poteva aver influenzato i miei sentimenti: Hugh non era più un essere umano, non era più l’amico con il quale ero cresciuta. Adesso era un Demone Emerso. Così come la sua presenza era capace di curare le mie ferite e rafforzarmi, così anche le mie emozioni erano… alterate. Fine della storia. Semplice, no? Dilemma risolto. Più o meno. In quello stesso istante si aprì la porta di casa. Entrò prima Angus, con una cartella piena di fogli, seguito da Kevin. Corsi ad abbracciarlo. «Ehi! Caspita che guarigione!». «Ho la pelle dura, caro mio. Ne dubitavi, forse?». Mi dette un pizzicotto sul braccio. «Azzardati un’altra volta a farmi prendere

uno spavento del genere e ti giuro…». Gli schioccai un bacio sulle labbra, impedendogli di finire la frase. «Invece di arrabbiarti dovresti ringraziarmi per aver ritrovato il Grimorio. Senza di me sareste ancora a girovagare come disperati per la Città Fantasma». Angus non trattenne una risata. «È vero, questa volta dobbiamo ringraziarti», poi si fermò, sgranando gli occhi. «Un Primo Cerchio che ringrazia un Demone Emerso. Il mondo sta proprio andando alla deriva». Si sedette sul divano e sparpagliò i fogli sul tavolo. «Qualcuno mi aiuta? Stavolta non ho fatto in tempo ad analizzarli e ho stampato tutto ciò che ho trovato su Internet. Detesto Google, rischi di perderci un’intera giornata senza tirare fuori un ragno dal buco». Ci mettemmo subito all’opera. Dopo pochi minuti anche Hugh ci raggiunse, stavolta vestito con una maglietta e un paio di pantaloni. Deo gratias. Il materiale sulla Porta dei Cieli era molto interessante. Scoprimmo che era conosciuta con diversi nomi, tra i quali Porta Alchemica, Porta Ermetica e Porta Magica. Kevin si occupò della storia, io della locazione, Hugh e Angus della simbologia. «È un monumento edificato tra il 1655 e il 1680 per opera di Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte, a villa Palombara. Il luogo indicato si trova sul colle Esquilino corrispondente all’odierna piazza Vittorio», lessi a voce alta. «Non è molto distante dalla stazione Termini, facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. Figo». Kevin mi mostrò una fotografia. Ritraeva la porta, con gli stipiti in marmo che riportavano delle iscrizioni e due statue ai lati. «Le statue raffigurano il Dio Bes, che proviene dall’antico Egitto. Un Demone che spesso era rappresentato nano e vecchio, con le gambe storte e ornato di piume di struzzo». Un po’ meno figo. «Un modo per ridicolizzare i Demoni?», domandai.

Kevin scosse la testa. «Non proprio, pare che fosse venerato per scongiurare le sciagure». «Ah, allora devo iniziare anch’io a pregarlo. Ogni ora della mia vita», risposi con sarcasmo, ma Angus mi interruppe. «Sono tante le leggende che ruotano attorno alla Porta dei Cieli, ed è difficile capire quali fatti siano realmente accaduti e quali siano solo frutto dell’influenza degli Immacolati. In questo documento si parla di un misterioso gatto nero chiamato Cagliostro, che da decenni custodisce la Porta tenendo lontano i turisti». Appunto. Superstizioni e dicerie. Ne avevo abbastanza. «Qualcosa di più… credibile? Voglio dire, lasciamo perdere le leggende metropolitane. Noi stiamo cercando la Chiave di Salomone. Qui abbiamo una Porta. Chiave, porta, serratura. Ha un senso?». «Lo spero, ma non ne sarei troppo convinto. La storia della Porta dei Cieli è complessa. Si narra che verso la fine del Seicento, un pellegrino chiese ospitalità nella Villa Palombara. Quest’uomo, che alcune fonti identificano con l’alchimista sco Giustiniani Bono, era noto per le sue ricerche sull’elisir di lunga vita e sulla trasmutazione alchemica dei materiali in oro. Il giorno seguente il pellegrino fu visto scomparire proprio dietro quella porta, lasciando tuttavia dei documenti pieni di enigmi e formule magiche che avrebbero dovuto rivelare il segreto della pietra filosofale». «Pietra filosofale?», chiesi, sempre più confusa. «Proprio così, la leggendaria pietra capace di curare ogni malattia e assicurare l’immortalità, di donare la conoscenza di trasmutare in oro i metalli». «Fantasia, giusto?», lo interruppe Hugh. Angus annuì. «Non vi è nessuna prova che la pietra filosofale sia mai esistita, probabilmente è una delle tante falsità inculcate nella testa degli uomini dagli Immacolati. Comunque, il marchese Palombara fece incidere sulle mura il contenuto di quegli scritti, sperando che prima o poi qualcuno riuscisse a decifrarli». «Ma non è stato così», azzardai. «Perché, se non erro, quei simboli so-no molto

simili a quelli disegnati nel Grimorio che abbiamo trovato a Galeria». Angus sorrise compiaciuto. «Ottima osservazione, Ellen. È lo stesso idioma del manoscritto Voynich. Sono delle rune magiche». «Quindi il pellegrino Giustiniani Bono era una… Strega? Cioè, uno stregone?», ipotizzò Hugh. «Qualunque sia stato il suo vero nome, quell’individuo non cercava la pietra filosofale né il modo per trasformare il ferro in oro. Era giunto a Roma per nascondere la Chiave di Salomone e quindi il Grimorio che conteneva le istruzioni per ritrovarla». Poggiai il mento sulle mani. «Insomma, le Streghe furono obbligate dall’ultimatum dei Consigli di Angeli e Demoni, ma decisero comunque di preservare la loro conoscenza, sperando in un futuro migliore». «Futuro migliore che non c’è stato, dato che si sono estinte», concluse Angus. «Fino ad oggi, quando hanno deciso di rimettere mano alle formule degli Avi, qualsiasi sia la loro situazione critica». «C’è un errore storico però», feci notare. «Perché questa leggenda sull’alchimista – o stregone – Giustiniani Bono è successivo al periodo della caccia alle Streghe, quindi all’estinzione degli Avi». «Osservazione corretta, ma non possiamo essere certi che tutti gli A-vi scelsero il suicidio per evitare che la loro conoscenza e la capacità di risvegliare i morti si tramandassero nei secoli. Del resto, i Consigli non potevano avere la certezza sulla veridicità della faccenda. Si accontentarono del fatto che l’Equilibrio fosse stato ristabilito e l’epidemia degli Imperfetti evitata». «Come sempre. Obiettivo raggiunto con il minimo sforzo», aggiunsi sconsolata. Kevin si alzò in piedi, stirandosi le braccia. «Bene, tutte queste leggende mi stanno facendo venire il mal di testa. Direi che ne sappiamo abbastanza, che ne dite?». «Che è l’ora di agire. Ci aspetta la Chiave di Salomone», concordò Angus. Kevin si avvicinò alla finestra e guardò di sotto. «Ma dobbiamo stare attenti

stavolta. Angeli e Demoni di questo distretto ci stanno alle costole». «Non credo che sappiano dove ci troviamo, avrebbero già bussato poco cortesemente alla nostra porta» considerò Hugh. «Ma non possiamo permetterci altri scontri, non nel cuore di Roma dove pullulano gli Immacolati. Partiremo a notte fonda». Mi alzai dalla sedia, annuendo. Solo in quel momento mi accorsi di una nota di disappunto impressa sulla faccia di Angus. Medesima espressione su quella di Hugh. Idem sul volto di Kevin. Scoppiai a ridere. «Che carini che siete. Immagino che dopo quello che è successo ieri, abbiate già deciso di comune accordo di piantarmi a casa a lavare i piatti, non è così? Certo, solo per il mio bene. Per evitare che un Demone o Angelo poco socievole mi trafigga con qualche arnese contundente. Che dolci. Che premurosi. Sono davvero commossa. Sto per scoppiare a piangere». Voltai loro le spalle e mi avviai verso la camera. «Naturalmente potete scordarvelo». *** Ore dieci e trenta di sera. Uscii dalla camera vestita con una tuta nera aderente, guanti di pelle e capelli raccolti dentro un cappello di lana. Ok, forse avevo esagerato. Non stavamo andando a derubare i Musei Vaticani, ma mi sembrava l’abbigliamento più adatto. Comodo e scuro, avrebbe dato meno nell’occhio. O anche no. Non furono della stessa opinione i miei compagni dalle idee superlative, che invece preferirono un abbigliamento casual e meno spy fashion. Be’, forse non avevano tutti i torti, almeno a giudicare dagli sguardi che mi dovetti sorbire in autobus e metropolitana. Anche se, in tutta sincerità, riuscivo a destare l’attenzione solo di qualche studente con gli ormoni impazziti. Che vestissi un paio di jeans, una minigonna o un sacchetto di plastica nero non credo avrebbe fatto differenza. Giorno infrasettimanale, tarda serata. Per fortuna raggiungemmo Piazza Vittorio in poco più di mezz’ora. Ci muovemmo nel parco, seguendo le indicazioni che

Angus aveva stampato. «Cagliostro deve essere ancora a cena», dissi rompendo il silenzio. «Chi?», mi domandò Hugh distrattamente, scrutando ogni angolo del parco. «Il gatto nero… vabbé lascia perdere». Angus aveva avuto un’ottima idea. Il parco era situato un po’ fuori dal centro di Roma ed era deserto. Mi strinsi la sciarpa al collo, tirava un vento gelido che si insinuava nei vestiti facendomi rabbrividire. Stavolta non sarebbe stato difficile individuare un Angelo Ombra o un Demone Emerso, e il diktat di Angus era stato perentorio: restare uniti. Osservai con attenzione il giardino, avvolto nella penombra e rischiarato solo da qualche pozza di luce gettata dai lampioni. In lontananza, oltre gli alberi, si scorgevano le luci dei palazzi ottocenteschi che circondavano la piazza. Seguimmo il sentiero di ciottoli, finché non raggiungemmo la Porta dei Cieli, situata in un angolo del parco a ridosso della recinzione perimetrale. Ci avvicinammo con cautela. La Porta era proprio come nell’immagine: poggiata su una roccia scura, stipiti di marmo con impresse le rune magiche, le statue del Dio Bes ai lati. «Eccoci, ci siamo. Sul frontone si trovano due triangoli sovrapposti e la scritta in latino: TRIA SUNT MIRABILIA DEUS ET HOMO MATER ET VIRGO TRINUS ET UNUS». «Tre son le cose mirabili: Dio e uomo, Madre e vergine, trino e uno», tradussi senza difficoltà. «Un collegamento alla triplice Dea?», ipotizzò Kevin. «Può essere. Ma il simbolo sul rosone richiama il Sigillo di Salomone, sormontato da una croce e con la punta inferiore dell’esagramma occupata dall’oculos». «Il simbolo del Sole e dell’oro. Ancora Alchimia», fece notare Hugh. Angus scosse la testa. «E di certo non sapremo mai quali di queste iscrizioni

risalgono alla vera Porta dei Cieli e quali sono state apportate dagli Immacolati per depistare i curiosi». «Così come le iscrizioni sugli stipiti», aggiunse Hugh. «Se non sbaglio sono i simboli dei pianeti e dei metalli». «Saturno e il piombo, Giove e lo stagno, Marte e il ferro, Venere e il rame, la Luna e l’argento, Mercurio con… il mercurio», mormorò Angus incupendosi. «Luna e argento», ripetei sovrappensiero. «QUI SCTI COMBURERE AQUA ET LAVARE FACIT DE TERRA CAELUM ET DE CAELO TERRAM PRETIOSAM». «Chi sa bruciare con l’acqua e lavare col fuoco, fa della terra cielo e del cielo terra preziosa», tradusse Kevin. «Quindi? Dove si trova la Chiave di Salomone?». Angus si guardò attorno, assicurandosi che nessun intruso fosse nei paraggi. Quindi prese il Grimorio e ne sfogliò le pagine. «Non siamo delle Streghe, ma possiamo formulare il rito in quanto esseri fuori dalla dimensione umana. Datemi le mani e ripetete le mie parole». Angus poggiò il Grimorio a terra e ci stringemmo in un cerchio. «SI SEDES NON IS». «Se siedi non vai», rispose Hugh. «Se non siedi vai», gli fece eco Kevin. «IS NON SEDES SI», conclusi una volta capito che si trattava di parole palindrome, che si potevano leggere da destra a sinistra e viceversa. Appena pronunciai l’ultima sillaba in latino, udimmo dei rumori alle nostre spalle. Quando mi voltai, sussultai: la testa delle due statue era rivolta verso la porta. Allo stesso tempo, le rune sul Grimorio stavano vorticando e formando tre spirali e un triscele. «SI SEDES NON IS, IS NON SEDES SI».

Un nuovo rumore. Un cerchio scuro al centro della porta. Angus si avvicinò e porse la mano dentro l’apertura. Inarcò un sopracciglio. «Non ci posso credere», sussurrò estraendo un oggetto. Lo guardai meravigliata. Avevo intuito che il segreto di Salomone era qualcosa di più complesso di una semplice chiave: un oggetto magico capace di sovvertire il Patto d’Equilibrio e risvegliare le gerarchie celesti e demoniache. Ma di certo non mi aspettavo di trovare quello che Angus stava stringendo tra le mani.

18. Kevin Magia Goetica

L’alba stava rischiarando il cielo di Roma quando, tutti e quattro, ci ritrovammo in sala seduti attorno al tavolino. Là, al suo centro, campeggiava la Chiave di Salomone. «Un vaso. Un semplice vaso di bronzo», dissi con una punta di scetticismo. Mi pareva impossibile che le nostre ricerche si fossero concluse e che la Chiave di Salomone fosse solamente un vaso. Mi aspettavo qualcosa di più… leggendario? Non so, una spada, uno specchio, un’antica coppa. Così come quando ricevetti la Nomina al Castello di Dunnotar, e vidi con i miei occhi la mitica Fairy Flag del clan dei MacLeod. «Mai fermarsi all’apparenze», mi riprese Angus leggendo i miei pensieri, poi si avvicinò a Ellen, che stava sfogliando I tramonti dei Demoni Emersi. «Questo libro è maledetto», disse infine Ellen, scuotendo la testa. «Ogni volta che lo apro, appaiono nuove pagine». «In che senso? Com’è possibile?», domandai incredulo. «Non lo so, ma sta accadendo spesso in questi ultimi giorni». «Come se il suo contenuto si svelasse poco a poco?», chiese Angus. «Forse. Ero sicura che non vi fosse alcun riferimento alla Chiave di Salomone, ed ecco che oggi è apparso un nuovo capitolo in fondo al libro. È come se mi mostrasse il contenuto solo quando sono pronta per capirne il significato. Lasciate perdere, sto dicendo un sacco di fesserie». «Non credo. Quali capitoli sono comparsi?». Ellen ci mostrò una pagina col titolo Magia Goetica. «Vivian mi aveva parlato di questo diario», intervenne Hugh. «Mi dis-se che ci sarebbe stato d’aiuto per comprendere gli enigmi di Salomone. Non è un libro

qualunque, Ellen». «Sul Grimorio di Galeria c’è qualche riferimento alla Magia Goetica?». «No, nascondeva solo la formula per aprire la Porta dei Cieli e ritrovare il manufatto di Salomone. Adesso dobbiamo capire il legame tra il vaso e il Patto d’Equilibrio e in che modo i Discepoli dell’Ordine lo avrebbero utilizzato per scatenare l’Apocalisse». Ellen aggrottò la fronte. «È più facile capire l’aramaico antico». «Cosa c’è scritto in quel capitolo?», domandò Hugh sporgendosi dal-la sedia. «Si legge a malapena». «Rune? Simboli simili al manoscritto Voynich?». «No, stavolta i nostri poteri saranno del tutto inutili. È solo una calligrafia distorta e di difficile lettura, come se questa parte del libro fosse stata scritta in fretta e furia». Diedi una sbirciatina. Parole al limite del comprensibile, pagine ingiallite dal tempo e chiazze di inchiostro che coprivano intere porzioni del foglio. Ellen sbuffò. «Tutta colpa mia. Dovevo chiedere altri dettagli ai miei genitori, invece ho sempre evitato di approfondire la questione. Accidenti. Comunque, non mi arrendo. Provo a trascrivere quello che riesco a leggere. Vincerò io, lo prometto». Hugh si alzò in piedi. «Bene, vado a preparare una caraffa di caffè. Sarà una lunga giornata». *** Mi sedetti sul divano, accanto ad Angus. Ellen era ancora china sul tavolo a copiare la pagine del diario, imprecando ogni volta che non riusciva a decifrare una frase. Hugh, come al solito, era la sua ombra e fingeva di aiutarla. Lasciai perdere, evitando inutili discussioni. «Qualcosa non quadra», mi disse Angus a un tratto, controllando il cellulare.

«Hai provato a chiamare Xavier?». Lui annuì, pensieroso. «È staccato da ieri. Non riesco a capire perché, era così ansioso di sapere se eravamo riusciti a trovare il Grimorio». «Pensi che gli sia successo qualcosa?». Angus fece spallucce. «Non saprei. So che c’erano molti contrasti al-l’interno del tribunale e tra i clan di Streghe. Ne abbiamo avuto la prova a Galeria». Colsi subito l’occasione, c’era un dubbio che mi assillava da quando mi ero svegliato. «Ieri è filato tutto liscio. Nessun Angelo o Demone ci ha sbarrato la strada. Non lo trovi un po’ troppo strano dopo quello che è successo a Galeria?». «Siamo stati attenti, abbiamo utilizzato i mezzi pubblici rimanendo in mezzo alle persone». «Tranne nel parco di Piazza Vittorio, dove non c’era nessuno. Se Angeli e Demoni ci stessero alle costole, ci avrebbero seguito appena usciti di casa. Insomma, credo che ormai sappiano dove ci troviamo». Angus si alzò in piedi, sbuffando. «Inutile perdersi in congetture. Risolviamo la faccenda del Vaso di Salomone e poi torniamo subito a Inverness. Roma non è più un luogo sicuro». Proprio in quell’istante, Ellen si stiracchiò sulla sedia. «Ho finito. Di più non posso fare». Ci sedemmo attorno al tavolo. Lei dette una scorsa al foglio e sgranò gli occhi. «Era forse più comprensibile il diario dei miei appunti», sorrise. «Comunque, molte frasi sono illeggibili, ma il senso generale mi è chiaro». Mi fissò dritto negli occhi. «Kevin, purtroppo avevamo ragione. Ci mancava l’ultimo tassello, adesso lo abbiamo». M’incupii all’istante. «Cosa intendi?».

«Ti ricordi le nostre supposizioni sulla rottura dei Quattro Sigilli?». «I quattro Cavalieri dell’Apocalisse?». «Esatto. Vedete, mentre Kevin e io eravamo a Roma abbiamo ipotizzato una tesi che spiegasse l’assottigliarsi del tramonto e la rottura del Patto d’Equilibrio. Eravamo molto preoccupati per quello che ci stava succedendo: auree demoniache e angeliche che si scontravano, uomini che riuscivano per pochi istanti a vedere la nostra vera natura». «Questo è noto, va’ avanti», la incalzò Angus con ansia. «Abbiamo quindi pensato che l’Ordine dell’Apocalisse volesse spezzare i Quattro Sigilli, svegliando così i Cavalieri dell’Apocalisse». «Avrebbe senso, è sempre stato l’obiettivo di Nemesis», concordò Hugh. Ellen annuì, versando del caffè nella tazza. «Seguendo le indicazioni di questo diario, ho quindi trovato informazioni riguardanti la discesa dei Quattro Cavalieri. Quando questo accadrà, la leggenda narra che in Terra appariranno le Gerarchie Celesti, mentre le 666 Legioni Demoniache emergeranno dagli inferi». Angus rimase in silenzio, il volto contratto in una maschera imibile. «Una volta scatenata la guerra, il tramonto sarà spezzato e le dimensioni umane, angeliche e demoniache si fonderanno per sempre. Comparirà allora il Drago dell’Apocalisse, ossia Lucifero, costringendo Dio a scendere dai cieli». «E poi?», domandò Hugh con ansia. «Fine della storia. Anzi, per meglio dire fine della storia dell’umanità. Ossia l’Apocalisse. Cosa succederà dopo non c’è scritto. Una nuova era. Una nuova rinascita. Oppure semplicemente il nulla». Mi ai una mano tra i capelli. La leggenda si sta avverando, quindi. Angus chinò lo sguardo sulla tovaglia. «Qual è il legame con il Vaso di Salomone?». «Come vi dicevo, era l’ultima informazione che ci mancava. Secondo il diario è

l’unico strumento capace di spezzare i Quattro Sigilli». «Questo vaso?», domandai scettico, osservando il recipiente sulla tavola. Era alto poco più di trenta centimetri, di forma ovale con un coperchio di bronzo. La curiosità di aprirlo era pari al terrore di cosa avrei scoperto. E, dentro di me, speravo che fossero solo un mucchio di superstizioni inculcate dagli Immacolati. «Sebbene possa sembrare un semplice vaso, pare che racchiuda un grande potere», spiegò Ellen. «Nella pagina che ho trascritto del diario si parla della Goetia, la prima parte del Grimorio Lemegeton». A quella parola, Angus sussultò. «Il Lemegeton? La Chiave Minore di Re Salomone?». «Proprio così. Ecco perché stavamo cercando la Chiave di Salomone. Ecco il legame. Un semplice nome. A volte la verità è più vicina di quanto pensiamo». «Ma noi abbiamo trovato un vaso, non il Lemegeton di Salomone», obiettai. «Non voglio essere pessimista, ma forse siamo sulla strada sbagliata». Anche Angus aveva un’espressione piuttosto disorientata. «Ma non si spiegherebbe perché questo vaso sia stato nascosto con una potente magia dentro la Porta dei Cieli, non trovi?». Ellen alzò le mani. «No, calmi. Se mi lasciate spiegare vi sarà tutto chiaro. Pare che la Goetia descriva le caratteristiche di settantadue demoni principali, i riti per evocarli, i loro poteri e le legioni infernali che controllano. Secondo la leggenda, Re Salomone era famoso per la sua saggezza e per la sua capacità di comandare orde di spiriti e di djinn. Così il diario spiega anche perché quella parte del Grimorio si chiama Goetia: deriva dalla parola goetes, ossia mago oscuro». «Re Salomone e la magia nera?», la interruppe Hugh, affatto convinto. «Non ci interessa sapere qual è la realtà e quale la mistificazione per opera degli Immacolati», intervenne Angus. «È naturale credere che l’autore del Lemegeton non sia stato Salomone ma qualche Avo alle sue dipendenze, benché sia poco chiaro come il Re fosse implicato nella faccenda… ma non è questo il punto. Non siamo degli storici. Continua, Ellen». Lei trasse un lungo sospiro. «La Chiave di Salomone si trova nella formula dello

Schemhamforash, la parola che nasconde i settantadue nomi segreti di Dio… qui il diario diventa sempre meno comprensibile. Dice che settantadue sono anche i Demoni della Goetia, intesi come ombre di Dio, spiriti delle Qlifoth che abitano l’altro mondo, il Sitra Ahra». «Non ho capito un accidente», mormorò Hugh. «Già, neppure io», sorrise Ellen. «Comunque, si parla di un vaso divino che a causa del peccato umano si infranse, lanciando sulla terra duecentottantotto scintille. Queste caddero nell’abisso dando vita a duecentottantotto demoni». «Angeli Caduti?», intervenni senza troppa convinzione. «Se non sbaglio è scritto anche nel libro di Enoch», replicò Hugh. «Lessi qualcosa di simile tempo fa». Ellen si strinse nelle spalle. «Può darsi. Il diario parla di quattro demoni superiori, una sorta di Re. Duecentottantotto diviso quattro fa…». «Settantadue», concluse Angus. «C’è anche il nome di questi Re?». «Belial, Bileth, Asmoday e Gaap». «Quattro come i Cavalieri dell’Apocalisse», notai. «E come i sigilli che devono essere infranti per rompere il Patto d’Equilibrio e dare inizio all’Apocalisse», annuì Angus. Sospirai. Iniziavo a pensare che non saremmo mai arrivati a capo di nulla. «Ancora non mi è chiaro il legame con questo vaso». Ellen chiuse il diario. «Il capitolo termina con la leggenda di Salomone che rinchiuse i quattro demoni in un vaso di bronzo con un sigillo divino e lo gettò in un lago vicino Babilonia. Si dice che decenni più tardi fu ritrovato da dei pescatori, ma nessuno fu in grado di aprirlo. ò di mano in mano…». «Finché non tornò dalle Streghe Antiche, gli Avi, che pensarono bene di nasconderlo insieme al Grimorio, i cui riti erano capaci di risvegliare gli Imperfetti», ragionò Angus. «Erano oggetti troppo potenti e pericolosi. A quel tempo i clan di Streghe erano deboli, non volevano mettersi contro i Consigli di

mezzo mondo. La storia sarebbe plausibile». Ellen bevve un altro sorso di caffè. «Ovviamente non c’è scritto qual è la formula per rompere il sigillo e scoperchiare il vaso, ma eviterei di cercarla». «A meno che Nemesis e il suo Ordine non ne siano già in possesso», ipotizzai. Ellen mi guardò disorientata. «Quindi? Adesso che abbiamo il vaso cosa ne facciamo?». «Dobbiamo portarlo al Consiglio e all’Arconte. Lui è l’unico che può tenerlo al sicuro», dichiarò Angus con espressione seria. Sbuffai, non riuscendo a credere alle mie orecchie. «Fammi capire, questa proposta deriva dal senso innato di dovere che hai verso il Consiglio oppure sei davvero convinto di ciò che stai dicendo?». Angus si alzò dalla sedia, con aria cupa. «Kevin, ho capito perfettamente a cosa stai alludendo. No, non sto cercando gloria, né un modo per assurgere alle Sfere. Ma è anche vero che noi non siamo in grado di proteggere un manufatto così potente, né sappiamo come rafforzare il sigillo che tiene chiuso il coperchio». «E il Consiglio di Inverness ne sarà capace, invece?», ribattei con sarcasmo. «Le Sfere e le Spirali hanno poteri superiori ai nostri, mi pare evidente. Ne discuteremo con loro, troveremo una soluzione. Ma se hai altre proposte, siamo tutti lieti di ascoltarle». Non feci in tempo a rispondere che Ellen mi anticipò. «Kevin, Angus ha ragione. Basta fuggire per tutta l’Europa. Sono stanca. Voglio tornare a casa. Voglio ritrovare i miei genitori, capire cosa gli è successo. Voglio riabbracciare mio fratello, sapere che sta bene. Abbiamo fatto il possibile, anzi, siamo andati oltre ad ogni nostra aspettativa. Adesso non spetta più a noi salvare il Patto d’Equilibrio. La nostra missione si è conclusa». Scossi la testa, ma dagli sguardi di Hugh e Angus capii che non avevo alternativa. Avevano già deciso. «Bene, non c’è altro da discutere», disse il capo clan. «Vado a cercare un volo

per Inverness nel tardo pomeriggio. Credo che dobbiate sistemare un po’ di faccende prima di partire».

19. Ellen Addii

«Ne sei sicura?». Chinai la testa, cercando di trovare le parole giuste. «Mi dispiace di averti dato così poco preavviso. Spero di non metterti nei guai, Carlo». Carlo, il gestore del bar, si pulì le mani sul grembiule. «Non è per il poco preavviso. È perché non è facile trovare delle brave cameriere come te». Mi sentii travolgere dall’orgoglio. «No, non è vero. Non ho fatto nulla di speciale». «Quante altre sanno così tante lingue come te?». Ehm… come dire, trucchi del mestiere. Non sarebbe stato così felice di me se avesse saputo che avevo barato. «In realtà biascico un po’ di tutto ma non conosco nessuna lingua al-la perfezione», mentii ancora una volta. «Non fare la modesta. Con l’italiano te la cavi alla grande anche se sei cresciuta in Scozia. Anzi, conosci la nostra lingua meglio di alcuni romani». «Apprendo con una rapidità impressionante». «E poi sei di una gentilezza unica». Non è vero, con il pensiero avevo mandato a quel paese un centinaio di clienti. «A volte», tagliai corto. Magari un giorno gli avrei raccontato di quel se raffinato, che criticava il vino e il formaggio italiano, a suo avviso scadenti. Mi aveva fatto perdere la pazienza a tal punto che con la telecinesi gli avevo fatto rovesciare l’aperitivo sulla bella camicia ricamata. Bon, sonner la grosse cloche! A mali estremi, estremi rimedi.

Carlo mi porse la busta paga. «È stato un piacere. Tieni, c’è anche una piccola aggiunta». Arrossii. «Non c’era bisogno. Ho fatto quello che dovevo…». «Te lo meriti. E ti serviranno per tornare in Scozia, no?». Lo abbracciai. Ci conoscevamo da pochi mesi eppure si era instaurato un rapporto bellissimo, quasi di amicizia. «Piantala, odio gli addii e le scene strappalacrime. Adesso va’, il tuo ragazzo ti sta aspettando fuori». Mi voltai, cercando Kevin in strada, ma vidi un ragazzo dai capelli ricci e castani. Hugh, per l’appunto. Evitai di chiarire l’equivoco. «Grazie ancora, Carlo». Presi lo zaino e uscii dal bar. Hugh mi stava aspettando con una rosa viola in mano. Alzai gli occhi al cielo. Avevo scoperto l’unico punto in comune tra lui e Kevin. «Grazie…», gli dissi con tono tagliente. «Motivo?». «In Italia non è usanza fare un regalo quando si lascia un lavoro?». Ci pensai qualche secondo. «No, non credo. Sono italiani, mica alieni». «Ah, quindi non ti piace?». «Sì. Ma non dovevi». Mi guardò in tralice. «Piantala di startene congelata come un pezzo di ghiaccio. Questa non è la Ellen che conosco». «E nemmeno lo Hugh che conosco io mi ha mai regalato delle rose», replicai avvicinando il naso alla corolla. «Ok, a quel tempo ero un po’ imbranato, lo ammetto». «Quel tempo erano solo pochi mesi fa. Sai, mi manca quella parte di te».

Hugh mi prese le mani, stringendole forte. «Ellen, non sono una persona diversa. Sono sempre lo stesso ragazzo con il quale sei cresciuta. Ok, adesso sono un Demone. Mi sento più sicuro e più forte, ma non cambia niente tra di noi». Colsi la palla al balzo. «Appunto, non cambia niente tra noi. Infatti l’altra volta…». «Quando mi hai baciato?». Drizzai le spalle. Io che avevo baciato Hugh? Ok, c’era un po’ di confusione. Meglio chiarirgli le idee. «Dunque, così, tanto per precisare, sei stato tu a baciare me». «Tanto per precisare, miss Lynch, ricordo benissimo la scena. Fuggivi da un orribile mostro altresì noto con il nome di volpe, mi sei piombata addosso e ti sei appiccicata alle mie labbra. Fine della storia». La mia risposta fu concisa ed efficace: un pugno dritto al suo stomaco. Mugugnai, la mano mi ringraziò con una fitta al polso. Hugh non si era spostato neppure di un millimetro. «Ecco perché mi manca lo Hugh di un tempo. Mi avresti dato soddisfazione piegandoti dal dolore». «Ah, perché era un pugno? Non me ne ero accorto», sorrise prendendomi in giro. «Te l’ho dato piano, non volevo farti del male», farfugliai massaggiandomi le nocche. Che dolore atroce. «Lo so. Ti piace picchiarmi, Ellen?». «Non iniziare». «Provaci di nuovo». «Sei pazzo». «Magari mi piace». «Idiota».

«Violenta». «Stupido». «Maschiaccio». «Scemo». «Acida zitella». «Non sono una zitella!», esclamai brandendo la rosa in aria come una spada. «Così la rovini», disse strattonandomi verso il suo petto. Mi ritrovai ancora una volta a pochi centimetri dal suo volto. I suoi occhi verdi. Il suo profumo irresistibile. Quel dannato senso di protezione. Quel maledetto desiderio di stringerlo forte a me. Voltai la testa. Mi staccai. «Andiamo a casa, è tardi». Il volto di Hugh tornò serio. «Non direi, l’appuntamento è alle cinque. Così ha detto Angus». M’incamminai in silenzio lungo la strada che costeggiava il Colosseo. Il rapporto con Hugh era cambiato, inutile negare l’evidenza. Il problema era che non sapevo più come gestirlo. Non volevo perderlo come amico, ma non ero capace a mantenere le distanze. Cosa dovevo fare? Ok, potevo parlargli a quattr’occhi, mettendo in chiaro le cose una volta per tutte. No. Non era il momento di creare discussioni, prima dovevamo tornare a Inverness. Poi tutto sarebbe stato più facile. Il mio ambiente, ecco, mi mancava quello. Là avrei saputo come muovermi, tutto sarebbe stato sotto controllo. Che confusione. «Ellen, pensavo… ti manca essere quella di un tempo?», mi chiese Hugh rompendo il silenzio. Mi sentii sollevata, il discorso stava prendendo una piega meno insidiosa tornando nei giusti binari. «In realtà non sono cambiata affatto».

«Prima volavi, spostavi gli oggetti con il pensiero e avevi la stessa forza, per caso?». «Piccoli dettagli. Io sono rimasta la stessa persona. Tu, invece, sei di-verso. Molto diverso». Hugh infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Diventare un Demo-ne mi ha dato coraggio e ha eliminato quella timidezza che mi rendeva imbranato. Tutto qui». «Adoravo quella timidezza e quell’imbranataggine», m’impuntai. «La differenza forse sta nel fatto che io ho avuto una, come dire… normale Evoluzione e invece tu sei stato trasformato». «Però mi mancano i vecchi tempi», continuò Hugh glissando sulla mia osservazione. «Ricordi le nostre partite di calcio al mare?». «Già». «E Kenneth che dopo cinque metri entrava in apnea?». «Che schiappa d’uomo». «E quando ci rinchiudevamo a casa a studiare?». «Questo mi manca un po’ di meno». «A me manchi solo tu». Bloccai ogni muscolo. Eccoci di nuovo, poche parole che mi colpirono dritte al cuore. Sì, anche a me mancava Hugh, ancora più di Kenneth. Lui era l’unica persona con la quale avevo sempre desiderato parlare durante il mio dannato pellegrinaggio in Europa. «Sembra ata un’eternità», commentò Hugh poco più tardi. Feci cenno di sì con la testa. In effetti non era trascorso neppure un anno, ma erano cambiate tantissime cose. Quasi tutte in peggio, eccezion fatta per aver incontrato Kevin. E per aver ritrovato Hugh, certo.

Be’, riflettendoci sopra, il fatto che fosse anche lui un Demone non era una catastrofe. In realtà mi dispiaceva che non potesse più vivere da semplice essere umano: un’esistenza noiosa ma assolutamente tranquilla, senza il pericolo che qualche Discepolo ti strape le ali o ti trafiggesse con una spada angelica o demoniaca. Però, in fondo al cuore e in modo del tutto egoistico, ero felice di poter condividere ogni mia preoccupazione con Hugh. Senza inibizioni, senza dover mentire o evitare di raccontargli la verità sulla mia nuova natura. Scossi la testa con decisione. Il bacio a Galeria non significava nulla. Avevo solo travisato i miei sentimenti, perché gli volevo un mondo di bene. Tutto qui. Continuammo a parlare dei vecchi tempi a Inverness, e di cosa avremmo fatto dopo aver consegnato il Vaso di Salomone all’Arconte. La nostra vita sarebbe tornata normale. Sembrava quasi assurdo: io che avevo sempre odiato le giornate monotone a Inverness adesso desideravo con tutta me stessa tornare nel mio nido. College, biblioteca, la mia famiglia. Piccole gioie che avevo sempre sottovalutato, sognando di girare il mondo e fuggire dal deserto gelido delle Highlands scozzesi. Ovvio, mi piaceva ancora viaggiare. Di più, lo adoravo. Ma da semplice turista, non da fuggiasca inseguita da un’orda di Discepoli invasati. La conversazione fu piacevole, tanto che neppure mi accorsi di essere giunta a casa. Controllai l’ora, erano quasi le cinque del pomeriggio. In perfetto orario, avrei avuto tempo per fare con calma le valigie senza scordarmi nulla. «Ehi! Eccoci di ritorno!», esclamai aprendo la porta. Il mio cuore perse un battito. Lasciai cadere la borsa e la rosa a terra, trattenendo il respiro. Il tavolo era rovesciato, i libri erano sparsi sul pavimento, le ante dei mobili aperte e i cassetti gettati a terra. Un brivido corse lungo la mia schiena. Hugh mi strinse da dietro, rigido come una statua. «Non dire un parola», mi sussurrò con un filo di voce. Tenendomi la mano, si diresse in cucina. Stesso caos: credenza spalancata, posate ovunque, piatti e bicchieri rotti.

Hugh impugnò un coltello. Feci lo stesso, ma la mano mi tremava. Qualcuno si era introdotto in casa. Nella mia casa. Ci spostammo nel corridoio, con le spalle rasenti alla parete. Aprimmo lentamente la porta del bagno. Vuoto. Asciugamani nel lavandino. L’accappatoio dentro la vasca. Dentifricio, spazzole, creme sparse sopra il tappeto. Deglutii. La camera da letto. La porta era socchiusa. Una lama di luce che tagliava il parquet scuro. Alzai il coltello davanti al petto. Hugh sfiorò la porta e l’aprì lentamente. Mi misi una mano alla bocca e soffocai un singulto. Angus era a terra, in un bagno di sangue. Le ali sulla schiena erano recise, una nuvola di piume macchiate di vermiglio ancora aleggiava nell’aria, mossa dal vento che soffiava dalla finestra spalancata. «Angus!», esclamai gettandomi su di lui. Gli presi il volto tra le mani, continuai a ripetere il suo nome. «Angus, ti prego…». Scoppiai a piangere. Il suo petto non si muoveva. Non respirava. Mi voltai, guardai Hugh. Il suo volto era contratto in un’espressione di rabbia. I pugni stretti a sbiancare le nocche. Poi, un rumore. «Buonasera». Hugh si girò di scatto. Un uomo sulla cinquantina se ne stava sulla soglia della camera. Completo scuro, che faceva risaltare ancora di più le a-li bianche che gli spuntavano dietro la schiena. Lo riconobbi subito. Era il turista che avevo incontrato al bar vicino al Colosseo. L’individuo che mi aveva chiesto informazioni sulla Città Fantasma. Un nodo mi strinse la gola. Da quanto tempo mi seguiva? Da quanto era sulle mie tracce?

Tra le mani stringeva un libro. Era il Grimorio degli Avi. «Lascialo cadere a terra», ringhiò Hugh. «Non sei nella posizione di dettare ordini». «Siamo due contro uno», dissi facendomi coraggio. «Due neo-demoni contro un Discepolo dell’Ordine di livello superiore. Ne avete avuto la prova, non mi è stato difficile uccidere un Angelo appartenente al Primo Cerchio». Hugh mostrò i denti, stringendo il coltello con forza. «Quindi, poche parole. Il Vaso di Salomone», ci ordinò il Discepolo. Era sul tavolo in sala, ma evidentemente Angus l’aveva spostato. Dove? Con la coda dell’occhio guardai la cassapanca vicino al letto. Là dentro stavano le sue cose. Forse l’Angelo non aveva ancora avuto modo di mettere a soqquadro la camera, interrotto da Angus… Pessima mossa. Il Discepolo intercettò il mio sguardo e scattò fulmineo verso la cassapanca. Gli lanciai addosso una sedia, che gli fece perdere l’equilibrio. Hugh ne approfittò e si gettò su di lui, conficcandogli il coltello tra le scapole. L’altro lanciò un urlo e si divincolò, scagliando Hugh contro la parete. Estrasse la lama e la tirò contro Hugh, che si stava ancora riprendendo dal contraccolpo subito. Fui pronta di riflessi, con la telecinesi deviai la traiettoria facendola conficcare contro un comodino. Spalancai le ali, mi avrebbero dato maggiore slancio nei movimenti. Il Discepolo mi ignorò e si rivolse di nuovo alla cassapanca, che spostai subito verso di me. Sollevò la testa, piegando le labbra in un sorriso sinistro. In una frazione di secondo mi raggiunse, afferrandomi il polso. Tentai con tutta me stessa di spingere il coltello verso il suo sterno, ma la sua forza era nettamente superiore alla mia. Vidi la mia mano contorcersi e la lama girarsi contro di me. Un centimetro, un altro ancora. Avvertii il metallo gelido sfiorarmi il collo.

Poi, un lampo nero. Un’ombra saettò sopra il Discepolo, catapultandolo a terra. «Ellen, prendi il Grimorio e il Vaso di Salomone», urlò Hugh, immobilizzandolo. Non seppi cosa fare. Tutto stava succedendo troppo velocemente, dovevo aiutare Hugh o mettere in salvo i manufatti? Aprii la cassapanca. Come avevo immaginato, Angus aveva avvolto il vaso in un pan-no. Lo afferrai con foga, raccolsi il Grimorio e corsi verso il corridoio. Un urlo alle mie spalle. Mi voltai, l’adrenalina incendiava le vene e il terrore mi attanagliava la gola impedendomi di respirare. Mi aggrappai alla maniglia della porta di casa, ma non feci in tempo a fuggire. Qualcosa mi afferrò per i capelli strattonandomi indietro. Il vaso mi sfuggì dalle mani e andò a rotolare sul pavimento. Il Discepolo mi issò in aria e mi schiacciò sul tavolo. Sentii una fitta alle costole, che sbatterono sul vetro con una tale violenza da incrinarlo. «Lasciami il Grimorio, sudicio Demone», sbraitò il Discepolo, il volto deformato in una maschera di rabbia e bagnato di sangue. Feci resistenza, lo spinsi lontano con il ginocchio. Non fu abbastanza. L’Angelo spalancò le ali, alzò il pugnale sopra la testa e con un salto si scaraventò su di me. I secondi parvero dilatarsi. Vidi il bagliore della lama farsi sempre più vicino, dritto al mio cuore. Neppure un istante e mi avrebbe trafitto. Qualcosa, però, mi si parò davanti. «Hugh», urlai in preda al panico.

20. Kevin Di nuovo soli

Capitava di rado che mi sentissi così di buon umore come quel giorno. Ero stato in biblioteca, avevo terminato le ultime commesse, compilato qualche documento, salutato il direttore e tutti i colleghi. Mi avevano persino regalato un libro su Roma, dicendomi che sarebbero sempre stati disponibili ad assumermi di nuovo se avessi deciso in futuro di fermarmi in città. Insomma, proprio ora che stavo per fare le valigie e tornare a Inverness, un po’ mi dispiaceva lasciare la capitale. Roma era troppo caotica per i miei gusti, ma aveva un fascino particolare che non avrei più scordato, ancora più di Parigi e Londra. Forse ciò che più mi intrigava era quel perenne contrasto tra l’essere una metropoli immensa e il calore delle persone, che ti mettevano a tuo agio come se vivessi in un piccolo paese di provincia. Sulla via del ritorno decisi di prendere l’autobus anziché la metro. Per l’ultima volta volevo gustarmi il panorama di Roma, ammirare i suoi monumenti a cielo aperto e i piccoli scorci dove si respirava l’aria di una storia antica, congelata nel tempo, immune al are degli anni. Quando giunsi nel quartiere Coppedè mi accorsi di essere in ritardo di circa venti minuti. Non me ne preoccupai, conoscevo Ellen e sapevo che aveva già preparato le valigie. Anzi, per essere precisi non voleva che l’aiutassi a sistemare i bagagli, aveva un modo tutto suo per incastrare i vestiti senza che si sgualcissero. Comunque, decisi di fare una breve sosta in una pasticceria. Comprai anche una bottiglia di spumante, dovevamo festeggiare. Insomma, avevamo concluso una missione di vitale importanza, ci meritavamo una serata tranquilla per tirare il fiato e salutare l’Italia. Poi, tornati a Inverness, avremmo dovuto sbrigare faccende ancor più complicate, come affrontare il Consiglio e convincerlo sulla tesi della guerra tra Gerarchie celesti e Legioni demoniache. Certo, stavolta non sarei stato solo, Angus mi avrebbe dato man forte ed Ellen sarebbe stata al mio fianco. Per la prima volta nella vita non avevo paura del mio futuro, mi sentivo ottimista e felice. Forse ero uno sprovveduto, perché avrei dovuto superare ancora mille ostacoli e la mia relazione con un Demone non era un fatto

scontato, ma il solo pensiero che il tramonto non si sarebbe sfaldato costringendomi ad allontanarmi da Ellen mi riempiva di gioia. Suonai il camlo. Attesi qualche istante. Nessuna risposta. Salii le scale e infilai la chiave nella serratura, quando mi accorsi che la porta di casa era socchiusa. Appena entrai, rimasi senza fiato. I dolci mi caddero a terra, così come la bottiglia di spumante. Ellen era inginocchiata sul pavimento, di fronte a Hugh. «Ellen», esclamai guardando la sala semidistrutta. Appena alzò il volto. Piangeva. Scuoteva la testa. Mormorava qualcosa di incomprensibile. Mi precipitai verso di lei. «Cosa… è successo?». «Ci hanno attaccati. Hanno preso il Grimorio e il Vaso di Salomone. Hugh…», sussurrò carezzandogli la fronte. Con l’altra mano gli premeva una garza sul petto, dove si allargava una macchia di sangue. «Chi è stato?», urlai, ma Ellen non mi rispose e continuò a ripetere il nome di Hugh. «Sta morendo, Kevin, non riesco a salvarlo. Non sono capace. Non ho la forza». Sapevo che non potevo far nulla per lui. Non mi era più permesso curare un Demone, avrei solo rischiato di peggiorare la situazione. «Dov’è Angus?». «Di là… in camera», rispose con un singulto. Feci per avviarmi, ma mi afferrò il polso. Non aggiunse nient’altro, si limitò a scuotere la testa. Corsi nell’altra stanza, temendo il peggio, con il cuore che mi batteva in gola. Angus era disteso sul pavimento. Immobile. Rigido. La pelle si stava già colorando di grigio. Un’ora, forse due. Poi sarebbe scomparso. Come tutti gli

Angeli Ombra che lasciano il mondo mortale. M’inginocchiai a terra. Il dolore era così straziante che mi impediva persino di piangere. *** Ellen era inginocchiata di fronte a Hugh, e gli ava una pezza bagnata sulla fronte. «Posso fare qualcosa?», le domandai con un filo di voce. Scosse la testa. «Non c’è niente che possiamo fare. Non possiamo portarlo all’ospedale. Non possiamo curarlo. Nulla». «Dannazione», sbottai. «È tutta colpa mia. Dovevo tornare prima. Dovevo proteggervi». Lei si alzò in piedi. Il volto congelato in un’espressione indecifrabile. Gli occhi fissi sulle tende che coprivano la finestra. «Sarebbe stato inutile. Avrebbe ucciso anche te». «Non è vero! Dovevo esserci. Dovevo combattere al vostro fianco». «Era un Discepolo di Nemesis. Un Angelo di ordine superiore. Non è stato capace Angus a fermarlo, tantomeno Hugh e io». «Ma forse…». «Basta, Kevin! È tutto finito! Finito! Non capisci?». «No, non doveva andare così!». «Quel maledetto vaso! Ecco a cosa ci ha portato! Cosa pensavamo di fare? Noi tre che cambiavamo un destino che è già stato scritto? Noi tre che affrontavamo Nemesis?». «Ellen…».

«Cosa, Kevin? Maledizione! È stato solo un suicidio!», s’inginocchiò di nuovo, singhiozzando. «L’abbiamo fatto per stare insieme». «Già, ed ecco dove siamo arrivati con il nostro egoismo». «Noi volevamo…». «Salvare il mondo? Ma per piacere. Siamo delle briciole». Annuii. Ellen aveva ragione. Come potevamo pensare di contrastare con le nostre forze l’Ordine dell’Apocalisse? Ci avevano manovrato come marionette. Pedine in mano a Nemesis che si era divertito alle nostre spalle. Era chiaro adesso: fin dall’inizio aveva aspettato questo momento. Chissà, forse sapeva tutto. Che Angus era in contatto con le Streghe di Barcellona, che avevamo trovato il Grimorio, che altri Angeli e Demoni del Distretto di Roma erano sulle tracce del Vaso di Salomone. Aveva atteso in silenzio che combattessimo le nostre battaglie, per poi coglierci alle spalle e prendersi ciò che voleva. Ellen scoppiò di nuovo a piangere. «No, tutto ma non questo. Non posso permettere che Hugh muoia». Mi avvicinai e la strinsi da dietro. «Troveremo una soluzione». «Quale, Kevin, quale? La ferita è troppo profonda, ha perso troppo sangue. Sta morendo… Hugh sta morendo, non lo vedi? E noi ce ne stiamo qui, a parlare, a parlare, a parlare! Non ho il potere per guarirlo, non ho la capacità! Cosa devo fare? Dimmelo». «Ellen, ti prego…». «Devi dirmelo! Devi dirmi cosa fare!». «Non possiamo fare nulla. Non più». Si voltò di scatto, con gli occhi gonfi di lacrime. «So volare. So spostare gli oggetti con il pensiero. Ho la forza di dieci uomini, riesco a muovermi come il vento. Posso vivere fino a trecento anni. Ma non voglio niente di tutto questo.

Perché non posso salvare Hugh. A cosa è servito? Ho perso tutto nella mia vita. Tutte le persone che amavo». Non seppi cosa risponderle, se non stringerla ancora tra le mie braccia. Chiusi gli occhi, respingendo il dolore in fondo all’anima. Perché soffrivo dannatamente per la perdita di Angus, adesso che lo consideravo come un amico. L’unico amico che avevo mai avuto, la persona alla quale potevo finalmente confidare ogni mio dubbio e che, contro ogni aspettativa, aveva dato la benedizione al mio legame con un Demone Emerso. Ma sapevo anche che la mia disperazione non era paragonabile a quella di Ellen. Loro due erano cresciuti insieme. Anno dopo anno, Hugh aveva preso il posto di Damien, diventando come un secondo fratello. «Vieni, siediti un attimo…», mormorai per tranquillizzarla . Ellen però scosse la testa. «No, non voglio sedermi. Voglio solo trovare un modo per salvarlo. Ti prego, non dirmi che devo stare qui ad aspettare che se ne vada per sempre. Che me ne devo restare ferma come una cretina a bagnargli la fronte. A pregare che qualcuno lo aiuti. Perché le preghiere non servono. Non servono a nulla adesso». «Ce la farà, vedrai». «E se non ce la farà? Guardalo, Kevin. Appena si muove». «Hugh è forte». Ellen crollò a terra. «Hugh è solo un ragazzo. Un ragazzo che mi ha salvato la vita. Che ha fatto scudo con il suo corpo prima che il Discepolo mi colpisse con il coltello. Sono viva grazie a lui». «È stato coraggioso». «È coraggioso! È sempre vivo!». «Calma, Ellen». «Perché l’ha fatto? Chi glielo ha chiesto? Perché si è sacrificato per me?». «Perché ti vuole bene».

«E anch’io gli voglio bene! Dovevo morire io al suo posto». Il senso di colpa mi serrò la gola, togliendomi il respiro. Dovevo an-dare in biblioteca. Sbrigare le ultime faccende. Tornare a casa. E invece cosa avevo fatto? Un ultimo giro per Roma. Una capatina in pasticceria. Dolci e spumante. Perché dovevamo festeggiare. Festeggiare cosa? La nostra vittoria. Mi ero illuso che tutto fosse finalmente finito. Fine dell’Apocalisse. Fine del tramonto. Un lieto fine, già, e un futuro felice per me ed Ellen. Debole, stupido, idiota. Ed eccoci qua. Questo era il risultato. Sangue e cenere. Ellen scoppiò in una risata isterica. «Tutto questo non sta succedendo veramente. No, non esiste che Hugh muoia. Non lo posso accettare». Sospirai. Se un Angelo non poteva guarire la ferita di Hugh e il potere di Ellen era troppo debole, c’era solo una soluzione. L’ultima speranza. «Chiama Vivian. Solo lei può aiutarci». Ellen si morse le labbra. Restò immobile per una manciata di secondi, poi si alzò e andò in cucina. Da solo. In sala. Con Hugh che respirava a malapena. Più lontano, in camera, Angus che si trasformava in polvere. Strinsi le braccia al petto. Lasciai che il dolore prendesse il sopravvento. Mi abbandonai al buio della disperazione. E, finalmente, una lacrima rigò il mio volto. *** Ellen fu di ritorno dopo neppure dieci minuti. «Sei riuscita a chiamarla?». Annuì.

«Le hai raccontato quello che è successo?». «Rapidamente». «Che ha detto?». Ellen sospirò. «Mi ha appena risposto. Ha detto che ci pensava lei. Che sarebbe arrivato qualcuno in nostro soccorso. Che non dovevamo dire nulla del Vaso di Salomone eccetera eccetera, ma solo che eravamo stati attaccati da un Angelo, e che non sappiamo il motivo». «Chi arriverà?». «Un Emissario di Roma. Forse una Spirale». Rimasi sorpreso. «Una Spirale che si scomoda per salvare un Demone di un altro distretto?». «Forse a Roma le Spirali sono più comprensive di quelle di Inverness. Ma non me ne frega nulla. Voglio solo che salvi la vita a Hugh». Si chinò su di lui, gli baciò la fronte. «È fredda». «Ellen, vedrai che la Spirale lo salverà. Il suo potere è molto più forte del nostro». Lei si voltò, imibile. «Per favore allontanati, Kevin. La presenza di un Angelo non può fargli che male». Socchiusi gli occhi. Parole gelide e dolorose. Parole vere, inutile negarlo. Benché sognassi l’eternità con Ellen, per l’eternità saremo stati Angelo e Demone. Per l’eternità divisi. Mi voltai, andai in cucina. Chiusi la porta alle mie spalle.

Ero di nuovo solo.

TERZA PARTE

L’inizio dell’Apocalisse

Intermezzo I Demoni di Salomone

Abnegazione. Tenacia. Rigore. Ma soprattutto orgoglio. Un orgoglio che alimentava l’ansia fino a toglierle il respiro. Fino a costringerla a piegarsi sulle ginocchia, alzare la testa, osare infrangere il muro della devozione e incrociare lo sguardo del suo Dio. Perché ancora una volta Inghinn aveva portato a termine la missione in modo esemplare. Encomiabile la sua precisione. Inarrestabile la determinazione con la quale aveva impartito gli ordini agli altri Discepoli, superando ogni ostacolo e rispettando i tempi previsti. Lei. Il comandante dell’Ordine dell’Apocalisse. La Consacrata dall’Angelo della Luce e del Buio. Inghinn si guardò attorno. Qualcosa era cambiato nella Sala del Tempio. L’oscurità era tagliata da lame di luce verde che provenivano dal centro del soffitto. I Tre Pilastri all’ingresso erano un intrico di piante e rampicanti. Si alzò in piedi, stringendo tra le mani il pegno tanto atteso. La Chiave. Il Vaso di Salomone. L’oggetto tanto ambito dal suo Dio. Cosa gli avrebbe detto? Come l’avrebbe ringraziata? L’aveva già nominata comandante. Sarebbe diventata forse la sua mano destra? Sorrise, scostandosi i capelli dal viso. No, non le interessava salire di grado. Non le importava che il suo Dio la ricompensasse con denaro e onorificenze. Non sperava neppure che si perdesse in elogi. Quel giorno aveva indossato un vestito di raso nero che le fasciava le forme. Si era persino ata un velo di trucco sul volto, un rossetto sulle labbra. Sì, senza dubbio non erano altro che sciocche abitudini mondane. Ma lei voleva essere bella. Bella per il suo Dio. Per la sua eterna ossessione. Per la sua

inconfessabile follia. «Signore del Sitra Ahra. Creatura emersa dagli abissi del Daat. La tua fedele servitrice è tornata». La risposta non fu altro che un interminabile silenzio. Inghinn superò gli arbusti senza fiatare, osservando la dimora di Nemesis. Qualcosa era cambiato: la Sala era diversa, invasa da decine e de-cine di piante che si attorcigliavano in ogni angolo. Il suolo era diventato un tappeto di foglie, il soffitto non era più visibile perché coperto da una ragnatela di liane. Si guardò attorno, curiosa e confusa. Perché il suo Dio era così irrequieto? Cosa era successo di così grave? Forse non aveva avuto fiducia in lei? Si concesse un altro sorriso. Era l’ansia a farla vaneggiare. Si tolse lo scialle, lasciando che i raggi verdi del Sitra Ahra bagnassero di luce la pelle esangue delle sue spalle. Spalancò le ali, una folata di vento scosse le fronde delle piante. A pochi i c’era un piccolo altare di pietra. L’edera ne copriva i la-ti, intrecciandosi in cerchio sulla sua superficie. Qui, rischiarato da un fascio di luce, si trovava il Libro Perduto. Il Lemegeton, la Clavicula Salomonis. Inghinn avanzò sicura, riponendo il Vaso di Salomone sotto il bagliore. Solo allora si accorse che, pochi i più lontano, oltre l’ara, c’era un corpo a terra. Un corpo privo di testa. Riconobbe subito i vestiti e le fattezze di quell’uomo. «Oliver?». La gola le si seccò. «Oliver?», ripeté disorientata. «Proprio lui». Due aloni scuri emersero dal buio. Inghinn si prostrò subito a terra. «In perfetto orario, mio Discepolo», sussurrò Nemesis avvicinandosi all’altare.

Lei lo guardò con la coda dell’occhio. Il suo Dio indossava una tunica bianca, sporca di sangue. Un tonfo sordo, la testa di Oliver rotolò fino alle sue mani. Inghinn trattenne un sussulto, obbligandosi a rimanere imibile. «Cosa ti ha fatto arrabbiare, mio Signore?». Nemesis sfiorò le fronde che scendevano dal soffitto, strappò i petali di un fiore e li ò tra le dita. «Quando un fiore apisce, occorre recidere la corolla affinché la pianta possa continuare a vivere». «Oliver era un Discepolo devoto». «Oliver era un uomo meschino spinto dalla cupidigia e accecato dal-l’arroganza. Gli avevi forse ordinato di presentarsi al mio cospetto?». Inghinn scosse la testa. «Alzati, Discepolo». L’altra ubbidì, tenendo però la testa china. «Oliver è giunto da me questa mattina, senza alcun invito, per informarmi su quanto era accaduto a Roma». Inghinn si morse le labbra. Rabbia e gelosia infuocarono le sue vene. Oliver le aveva disubbidito, cercando di ingraziarsi il suo Dio. O forse di metterla in cattiva luce, spodestando la sua posizione. Un comandante deve saper riconoscere il traditore, rimbombò una voce nella sua testa. «Chiedo perdono. Non accadrà mai più». «Un comandante deve accertarsi che la missione sia portata a termine nelle modalità previste», tuonò Nemesis. Un brivido le corse lungo la schiena.

«Angus Cameron era un valido Angelo Ombra», continuò Nemesis. «Angus era un debole», replicò Inghinn con un filo di voce. «I sentimenti l’avevano condotto al fallimento». «Accusi Angus di aver sbagliato a innamorarsi di te?». «Un amore non corrisposto. Un sentimento che non potrò mai provare», precisò subito Inghinn. «Ed è questo il tuo più grande limite, Discepolo». Lei alzò lo sguardo per un attimo. I lineamenti del volto di Nemesis stavano mutando, assumendo le fattezze di Angus. Trattenne il respiro. Perché il suo Dio le stava facendo questo? Perché aveva preso le sembianze di un uomo che non lei aveva mai amato, ma al quale era stata accanto solo per avere l’opportunità di far risorgere il Signore del Daat? La missione a cui erano chiamati era più importante di ogni altra cosa. I sentimenti umani che la loro sporca natura li costringeva a provare erano solo una distrazione. E non c’era nulla di sbagliato in tutto questo. «L’amore è evanescenza. È solo l’ombra della pietà. Ed è la pietà l’unico motivo per cui sono risorto dal Daat, recuperato il Libro Perduto e la Chiave». Inghinn non comprese il significato di quelle parole. «Non esiste il bene e il male, mio Discepolo. Sono solo dei nomi. Stupidi colori. Inutili appellativi. Pretesti che muovono il dramma umano, inchiostro che scrive pagine di storia. Anni, decenni, secoli. Ere intrise di sangue, ultimi aneliti di pietà. È la pietà di un mondo dove l’alternanza della luce e del buio sono solo un’eco dell’esasperazione e della confusione. Sole e Luna che si stringono per mano per pochi istanti, in un tramonto che è solo una vaga reminiscenza di ciò che un tempo fu chiamato Patto d’Equilibrio». «Non capisco, mio Signore». «Ciò che vedi non è carne. Non è spirito. È solo forma. Fumo. Liquido. L’eterna lotta tra la scoria divina e l’emanazione celeste».

Un bagliore accecante illuminò le spalle di Nemesis. C’era un albero, con dieci scintille luminose. Sotto, le radici si allungavano in una forma speculare, dove pulsavano undici sfere scure. «L’Albero della Vita. L’Albero della Conoscenza. Da Kether a Thaumiel, il nostro compito è cancellare la disarmonia che regna nel suo cuore, dominato da Malkut e Lilith. La pietà, mio Discepolo, è ciò che mi spinge a ricostruire il mondo». «Così sia», s’inchinò Inghinn. «Non saranno ammessi altri sbagli. Né vite sacrificate inutilmente. La morte di Angus è stata un tragico errore». «Chiedo perdono, mio Signore». «Nessuno aveva chiesto la sua vita». «È stato solo un imprevisto..». «Gli imprevisti non possono esistere», la interruppe. «Nessuno aveva chiesto che Ellen Lynch fosse uccisa». Inghinn deglutì. «Non ci aspettavamo che Ellen tornasse a casa così presto. Avevamo seguito Kevin Shaw, ma lei ci è sfuggita». «Errore imperdonabile». «Ellen Lynch è ancora viva». «Perché Hugh le ha fatto scudo con il suo corpo. E nessuno aveva chiesto che si sacrificasse al suo posto. Sai bene qual è il fine ultimo della missione». L’altra socchiuse gli occhi, annuendo. «Il compito era piuttosto semplice», continuò Nemesis. «Assicurarsi che Angeli Ombra e Demoni Emersi del distretto zero e uno non interferissero con la nostra missione. Ti avevo lasciato carta bianca, tu dovevi scegliere i tuoi fidati». «Oliver era il migliore Discepolo dell’Ordine che avessimo a Roma».

«Eppure stavano per sottrarre il Grimorio degli Avi». «Il Consiglio di Roma e del Vaticano è debole. Le Sfere e le Spirali non ubbidiscono all’Arconte, che trama con le Streghe di Barcellona e Valencia». Nemesis soffocò una risata. «Qual è la novità, Discepolo? Non lo sapevamo già?». «Non pensavamo che le Streghe dissidenti avvertissero il distretto». «Se ti ho nominata comandante è perché confidavo nella tua capacità analitica. Quindi, hai mai pensato che Oliver potesse essere d’accordo con il distretto zero e uno? Oppure che avesse un legame con le Streghe?». Inghinn sentì lo stomaco stringersi in un pugno: la delusione del suo Dio era cocente come camminare su tizzoni ardenti. Sì, era vero, aveva scelto Oliver per le sue qualità. Il migliore, il più anziano. Nessuno sarebbe stato in grado di affrontarlo senza soccombere. Ma non aveva avuto tempo per accertarsi della sua onestà. Fedele all’Ordine dell’Apocalisse, così come altre decine di Discepoli sparsi in tutto il mondo. Inghinn si irrigidì e drizzò le spalle. Aveva forse commesso qualche errore di valutazione, ma un fatto era evidente: il Grimorio degli Avi, il Lemegeton e il Vaso di Salomone erano stati recuperati. «La situazione è stata arginata. Il piano può essere ancora portato a termine», concluse algida. Nemesis si avvicinò all’altare e sfiorò con le dita il Vaso di Salomone. «Sai quanto è importante che Ellen Lynch rimanga viva». «Non ti deluderò, mio Signore». L’altro scosse la testa. «Non è questione di deludermi, Discepolo. Non posso ammettere altri sbagli. Il risultato è troppo importante. Proprio per questo motivo, sarai affiancata dalla mia Mano Destra». Nemesis allungò il braccio verso il fondo della sala. Vicino ai Tre Pilastri, avanzò un individuo incappucciato. Inghinn sentì tremare le proprie gambe. Il

suo Dio aveva scelto un’altra persona come suo primo consigliere. In pochi attimi si sbriciolò tutto il suo mondo. Un’intera esistenza di dedizione e sofferenza. Lei, l’unica artefice della resurrezione di Nemesis era stata infine messa da parte. Lo sconosciuto avanzò rapidamente nella sala, senza produrre alcun rumore, quasi camminasse sospeso da terra. Quando le fu vicino, lasciò scendere il cappuccio sulle spalle. Inghinn rimase senza fiato. «Tu?», ringhiò stringendo i pugni. «Non è possibile. Non è ammissibile». Nemesis la ignorò e si avvicinò alla sua Mano Destra. «Siamo pronti, adesso».

21. Ellen Ritorno a Inverness

Hugh aprì gli occhi. Avrei potuto reagire in mille diversi modi. Abbracciarlo, baciarlo, scoppiare a piangere, urlare come una pazza scatenata. Invece rimasi seduta nella sedia vicino al letto, regalandogli un semplice sorriso. «Ellen», mi disse dopo un po’ con un filo di voce. «Bentornato, Hugh». Tentò di alzarsi, ma una fitta al petto lo costrinse a ricadere sul materasso. Gli presi il polso, guardandolo in tralice. «Direi che hai già fatto il supereroe con risultati piuttosto discutibili. Adesso devi riposare. Non azzardarti a farlo di nuovo». Hugh gemette, poi si guardò attorno disorientato. «Cosa… cos’è successo? Il Discepolo! Angus!», si agitò. «Calmo, sta’ calmo. È tutto ato». «ato? Quanto tempo è ato?». «Una settimana. Per la precisione sette giorni e otto ore. Se vuoi ti dico anche i minuti, più o meno». Hugh annuì, tranquillizzandosi. «Raccontami tutto quello che è successo». Così feci, senza entrare troppo nei dettagli, dal momento in cui lui aveva pensato bene di beccarsi un coltello che per poco non gli perforava il cuore fino a quando non era arrivato Kevin e il Discepolo era fuggito con il Grimorio degli Avi e il Vaso di Salomone. Hugh non disse una parola, i lineamenti del volto contratti in un’espressione imibile. Solo quando giunsi al punto in cui la Spirale era arrivata per curarlo sembrò meravigliato.

«Non credevo che Vivian avesse legami con il distretto zero e uno», commentò controllandosi la fasciatura al petto. «Neppure io, ma a quanto pare ci sono molte cose che non sappiamo sulla nostra amica Vivian Barclay». «L’hai più sentita al telefono?». Scossi la testa. «Ho provato a chiamarla, ma il cellulare era sempre staccato. È stata lei a telefonarmi ieri sera, per assicurarsi che tu stessi meglio». «E la Spirale ha fatto domande sull’accaduto?». «Non mi ha detto neppure il suo nome. Credo di averle sentito dire solo queste parole: dov’è Hugh?». «Loquace». «Meglio così, non avrei saputo che scusa inventarle». Hugh strinse la coperta in un pugno. «Quindi abbiamo fallito». Alzai gli occhi al cielo. Ecco, eravamo già arrivati alla fase due, quando avrebbe iniziato a imprecare perché avevamo perso il Vaso e il Grimorio. Avanti veloce. «Grazie, saltiamo a piè pari la parte in cui ti lamenti e piagnucoli per quello che è successo». Mi trafisse con un’occhiataccia. «Piagnucolare? Angus è morto e noi non siamo stati capaci…». «Angus è morto e per poco tu non lo seguivi», lo interruppi subito, gelida. «Un bel mucchio di polvere in casa. E sono veramente pessima a are l’aspirapolvere». Battuta brillante che ebbe l’effetto di farlo arrabbiare ancora di più. «Ellen, non è il momento di scherzare. Piantala». «E tu piantala di rischiare la tua vita per me. Grazie», risposi secca.

«Non l’ho fatto apposta». Scoppiai a ridere, prendendo il termometro. «Fammi capire, non hai fatto apposta a metterti tra me e il Discepolo?». «Ti ricordo che stava per colpirti e tu eri imbambolata a guardarlo». «Il Discepolo era troppo veloce. Non sono una rimbambita». «Il risultato non cambia». «Quindi hai pensato bene di sacrificarti. Che eroe». «Ti ringrazio per il complimento». «Gli eroi salvano le vittime, ma non ci lasciano mai le penne. Così, tante volte non avessi chiaro come funziona». Gli alzai il braccio, infilando il termometro sotto l’ascella. «Mi piace quando fai l’infermiera», sussurrò mentre mi avvicinavo al suo volto. Bastarono quelle poche parole per mettermi a disagio. «Anche se non mi era mai capitata un’infermierina con il viso rosso come un peperone». Crollai sulla sedia, esausta. Con Hugh era una battaglia persa in partenza. «Allora, mettiamo le cose in chiaro. Azzardati un’altra volta a rischiare la vita per me e ti giuro che ti uccido con le mie stesse mani». Mi fece l’occhiolino. «Sei tornata violenta. Mi piaci». «Ti odio». «Potevi lasciarmi morire invece di appellarti a sua santità la Spirale». Strinsi i pugni. «Sono sempre in tempo». «Ti aspetto a braccia aperte».

Mi massaggiai le tempie, cercando di rimanere calma. Ed era uno sforzo disumano quando Hugh si divertiva a fare il bambino. «Per favore, smettila. Non hai la più pallida idea di quanto mi hai spaventato». «Non potevo permettere che qualcuno ti fe del male», replicò lui, con un tono di voce improvvisamente serio. «Se mi vuoi riprendere per questo, avanti, sono pronto a sorbirmi la tiritera. Tornassi indietro farei la stessa cosa. Una, due, cento volte. Sono stato abbastanza chiaro?». Annuii. Sì, l’avrebbe fatto. Potevo biasimarlo? No, perché anch’io avrei agito allo stesso modo. Mi guardai attorno, soffocai una risata. «Com’è buffa la vita a volte. È ato quasi un anno e ci troviamo nella stessa situazione: io di fronte al tuo capezzale». «Già. Ma stavolta siamo più consapevoli. E poi, sono stato anch’io al tuo capezzale. Ogni tanto ci divertiamo a invertire le parti». «Il che non mi fa stare affatto meglio». «Ma adesso puoi curarmi, non devi chiedere l’aiuto a un Angelo». «Che terribile fortuna. Sempre se non sei in fin di vita, ancora non arrivo a quel livello demoniaco». «Ci arriverai col tempo. Forse è meglio fare un po’ di pratica? Ho un sacco di dolori sparsi per il corpo…», mormorò abbassando il lenzuolo e scoprendo il torace. «Tipo qui… e anche qui…». Se non avessi peggiorato la situazione gli avrei sferrato un pugno in pieno stomaco. Mi imposi di mantenere la calma e di rispondergli con una delle mie battute al vetriolo, ma Hugh pensò bene di cambiare discorso. «Scherzavo, Ellen, smettila di arrabbiarti un minuto sì e l’altro pure. Tornando al problema… adesso cosa faremo?». Ottimo, una domanda a cui sapevo rispondere. «Per prima cosa aspetteremo che tu guarisca del tutto».

«Sto già bene. Quindi? Dobbiamo cercare il Discepolo». Lo fissai allibita. Stava scherzando o diceva sul serio? «Scordatelo. Non rischieremo ancora la nostra vita». «E lasciamo che l’Ordine dell’Apocalisse raggiunga il suo obiettivo?». «No, ci penserà Vivian. Così almeno ha detto. Insomma, fra due giorni, se ce la farai a stare in piedi, torneremo a Inverness». Hugh abbassò lo sguardo con aria mesta. «Padron Shaw è d’accordo?». «Certo che sì». «Sperando che sia puntuale, stavolta». Mi morsi le labbra, l’insinuazione era tagliente come il filo di un’accetta. «Su, di’ quello che vuoi dire. Non girarci troppo attorno». Hugh sollevò un sopracciglio. «Dico solo che se avessi la fortuna di avere al mio fianco una ragazza come te, al diavolo tutto. Non permetterei a nessuno di farle del male». «Hugh, ti prego, non iniziare…». «Eppure sono solo un tuo amico». Mi alzai in piedi. Presi il termometro. Temperatura: trentasei gradi e mezzo. Ottimo. «A dopo, Hugh, riposati». Mi voltai e feci per uscire dalla stanza. «Ellen, potrai combattere quanto vuoi. Potrai ignorarmi. Potrai evitare ogni mia domanda. Ma non potrai mai impedirmi di amarti». Afferrai la maniglia con decisione. La strinsi finché non la piegai tra le dita. Poi aprii la porta e varcai la soglia. «Ma la giusta domanda che ti devi porre è: ami Kevin o me?».

«Non riuscirai a farmi dubitare», risposi immediatamente senza voltarmi. La voce di Hugh diventò poco più di un sussurro. «Dubita che le stelle siano fuoco. Dubita che il sole si muova. Dubita che la verità sia mentitrice. Ma non dubitare mai del mio amore». *** Kevin si trovava sul divano, con lo sguardo perso davanti alla Tv. «Come sta?», mi chiese appena mi vide entrare in sala. Mi sedetti al suo fianco e gli appoggiai la testa sulla spalla. «Meglio, si è risvegliato». «Tutto ok?», mi chiese con apprensione. Be’, l’espressione dipinta sul mio volto non doveva essere delle migliori, dopo quello che mi aveva appena detto Hugh. Lui mi conosceva bene. Anzi, fin troppo bene, tanto da citare una frase tratta dall’Amleto di Shakespeare che chiariva per l’ennesima volta ciò che provava per me. «Gli ho raccontato tutto quello che è successo», dissi infine. Kevin mi cinse in un abbraccio, una fitta al braccio mi fece gemere. «Ellen, ancora non ti sei messa in forze», si preoccupò lui. «La ferita di Galeria non si è rimarginata del tutto». Annuii. Dopo la visita della Spirale anch’io avevo cercato di curare Hugh, a discapito della mia guarigione. «È solo un graffio, niente di più», sospirai. «Non ce la faccio più a stare chiusa in casa. Rischio di impazzire». «Ho prenotato i biglietti per Inverness per domani. Credi che Hugh ce la possa fare?». «Per domani?», gli chiesi dubbiosa. In effetti l’aiuto della Spirale era stato notevole, la ferita stava guarendo a vista d’occhio. «Forse, se non lo affatichiamo

troppo. Sono d’accordo, prima torniamo a casa, meglio è. Qui siamo in pericolo, è evidente». «Dopo quello che è successo, il Consiglio di Roma tiene d’occhio il nostro appartamento. Due Immacolati stanno perlustrando il quartiere, uno è fisso di fronte al portone d’ingresso del palazzo». «Bene. Forse sarebbe meglio aspettare qualche altro giorno, ma non possiamo. Neppure Vivian è riuscita a rintracciare i miei genitori» dissi stropicciandomi gli occhi. Avevo dormito pochissimo, mi sentivo spossata e la testa era pesante come un macigno. «Te lo ha detto per telefono?». «Sì, senza altri dettagli. Tornata a Inverness affronterò il problema di petto. Vivian mi deve dare molte spiegazioni». «Vedrai, andrà tutto a posto. Su Damien ti ha detto qualcosa?». «Per fortuna la situazione è sotto controllo. Damien si trova sempre all’ospedale psichiatrico, controllato notte e giorno dagli inviati del Consiglio. Invece non ho la più pallida idea di dove siano finiti i miei genitori». «Si saranno nascosti dopo quello che è accaduto. Jamye e Dorrel sanno cavarsela». «Ho provato a contattarli al cellulare…». «Ma ce l’hanno staccato. Mi pare ovvio». Annuii poco convinta. «È una guerra senza fine. Riusciremo un giorno a vivere tranquilli, liberandoci per sempre dall’Ordine dell’Apocalisse? I Discepoli hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Il Grimorio degli Avi, il Vaso di Salomone. E ora pensano bene di vendicarsi sulla mia famiglia per quello che abbiamo fatto a Nemesis. Non vedo altra spiegazione». Kevin mi prese il volto tra le mani. «Staremo uniti. Nessuno ci farà del male». Sentii le lacrime affollarsi sulla ciglia. Ero stanca di quelle inutili rassicurazioni. A cosa erano servite? Non avevano salvato Angus, Hugh era vivo per un pelo, io

potevo considerarmi una miracolata. Voltai la testa. «Kevin, basta così. Non sono più una bambina da un pezzo. E la realtà dimostra l’esatto contrario. Possono farci fuori quando lo desiderano». «Non è vero. Insieme possiamo farcela». «A far cosa? A farci uccidere? È questo che vuoi dire?». «No. Siamo stati poco accorti». «Già, poco accorti. O forse abbiamo sottovalutato con chi abbiamo a che fare. Ossia i Discepoli di Nemesis e altri dissidenti del Consiglio che farebbero di tutto pur di raggiungere i loro obiettivi. E noi chi siamo per fermarli? Solo degli sciocchi presuntuosi che giocano a fare gli eroi». Mi strinse le mani. «Non accadrà di nuovo. Non permetterò che nessuno ti sfiori». «L’hai già detto più di una volta, ma non è andata così», sbuffai irritata, ma mi morsi subito la lingua. «Scusami, non volevo. È che sono davvero arrivata al limite. Non sono preoccupata per me, ma per le persone che amo. Per la mia famiglia. Forse dovrei consegnarmi a Nemesis, così sarà soddisfatto e la smetterà di perseguitarci». «Non dirlo neppure per scherzo». «Ah no? Perché, qual è la soluzione? Sono riusciti a trovarci fino a Roma. A Inverness sarà ancora peggio». «Ci organizzeremo», ribatté Kevin. Soffocai una risata isterica. «Siamo seri. Non siamo capaci di fare nulla». «Ma io…». «Tu tanto meno. Guarda quello che è successo». Kevin deglutì, annuendo. Sospirai, accorgendomi troppo tardi di quello che avevo detto. Non volevo ferirlo, né addossargli la colpa per quello che era

accaduto. Ma era l’ora di piantarla con le finte rassicurazioni che mi facevano saltare i nervi. Nessuno poteva proteggerci, forse neppure il Consiglio, covo di dissidenti e traditori. Mi alzai in piedi. «Vado a preparare le valigie», dissi senza neppure voltarmi. *** «L’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio». Tornai alla realtà. Kevin aveva sbirciato nel mio diario ripetendo ad alta voce l’ultima frase che avevo scritto. «Bellissime parole», commentò. «Non sono mie. Sono di Stendhal». «Ah», fu la sua risposta. Ovviamente non sapeva chi fosse. «Uno scrittore se dell’Ottocento, fissato con la ione e l’egotismo. Ma scriveva delle belle frasi», tagliai corto, lanciando uno sguardo furtivo a Hugh, che era seduto pochi posti avanti a noi. Poi mi volsi a sinistra, guardando attraverso il finestrino dell’aeroplano e perdendomi in un oceano di nuvole bianche. Emisi un lungo sospiro. Stavo per tornare a casa, rivedere i miei genitori, abbracciare mio fratello. Era tutto ciò che avevo desiderato in quelle ultime settimane. Eppure, una terribile sensazione di vuoto e d’insoddisfazione non mi dava tregua. Ancora una volta rimpiansi la mia vita ata, le stupide giornate trascorse a giocare a pallone, a studiare, in biblioteca. Adesso tutto era diverso. Dovevo parlare con Vivian e chiarire una volta per tutte la situazione, obbligandomi ad essere ragionevole e diplomatica, perché lei era l’unica a poter intercedere con il Consiglio e fare in modo che l’Arconte accettasse la relazione tra me e Kevin. Non sarebbe stato proprio così, già me lo aspettavo. Sapevo benissimo che il Consiglio non avrebbe mai permesso che si creasse un precedente, non era di certo un buon esempio. Ma non me ne preoccupai: il Tetra-stile era lontano, l’Ordine dell’Apocalisse aveva il Vaso di Salomone,

quindi c’erano urgenze ben più importanti di una sciocca relazione tra un Angelo Ombra e un Demone Emerso. Quindi, risolto questo punto, avrei parlato con Hugh. La nostra situazione andava chiarita, perché non potevo più fingere che nulla fosse accaduto. Non tanto per il bacio che ci eravamo concessi, quanto per la sua esplicita dichiarazione d’amore. Anche se nel profondo i sentimenti di Hugh mi facevano piacere, sapevo che era una cosa sbagliata. Soprattutto nei confronti di Kevin, ignaro di quello che era accaduto a Galeria. Quando vidi il profilo di Inverness e il mare in lontananza mi sentii soffocare. Perché solo in quel momento capii che la mia fuga in Europa era finita. Ero tornata a casa, e dovevo risolvere ogni mio problema. Appena scendemmo dall’aereo prendemmo un taxi. Raggiungemmo la mia casa circa una mezz’ora più tardi. Aprii la porta con il cuore in subbuglio, cosciente che non avrei trovato nessuno. La sala era in disordine, così come mi aveva raccontato Hugh. Dopo lo scontro con i due sconosciuti i miei genitori non avevano più fatto ritorno. Il cuore iniziò a battermi forte nel petto. «Andrà tutto bene, vedrai», mi rassicurò Kevin. Non mi sentii affatto sollevata, stavo per scoppiare a piangere. Hugh si sedette sulla poltrona, tirando il fiato. Il viaggio l’aveva stancato, ma stava recuperando rapidamente. «Vivian non mi risponde», disse armeggiando con il cellulare. «Telefono staccato?», domandai. «No, mi dà libero. Forse è impegnata… non so che dirti». Già. Peccato che sapeva benissimo l’orario del nostro ritorno, Hugh le aveva spedito un messaggio poco prima di partire. Bene, un altro problema che avrei risolto il giorno successivo. Adesso c’era una cosa più importante. Controllai l’orologio, erano le due di pomeriggio. «Andiamo. C’è una persona che mi aspetta».

«Dove?», chiese Kevin. «In un ospedale psichiatrico».

22. Kevin La malattia di Damien

In pochi minuti raggiungemmo il Raigmore Hospital. Angus mi aveva accennato che parte dello staff dell’ospedale era costituita da inviati del Consiglio, e un’intera ala dell’edificio era adibita al ricovero di Angeli e Demoni. Appena parcheggiai nel piazzale, Ellen scattò fuori dalla macchina. Non aveva parlato per tutto il viaggio, sguardo fisso fuori dal finestrino. Avevo intuito quanto fosse in ansia di rivedere suo fratello, e cercai di smorzare la tensione scambiando quattro chiacchiere con Hugh. Cosa che feci controvoglia, naturalmente. Anche quest’ultimo era agitato, Vivian ancora non rispondeva al telefono. Durante il viaggio avevamo organizzato al meglio la giornata: dopo la visita a Damien avrei accompagnato Hugh dalla sua famiglia, mentre Ellen e io saremmo tornati a casa. O meglio, al vecchio covo del clan di Angus. Ero impaziente di parlare con Nora e aggiornarla sugli ultimi eventi. Non sarebbe stato facile comunicarle la morte di Angus, sempre che Vivian non avesse avvertito l’Arconte che, a sua volta, aveva contattato Nora. Non sapevo cosa aspettarmi. Dopo la defezione di Inghinn e la scomparsa del Primo Cerchio, il mio clan non esisteva più. Il mio futuro? Volevo restare con Ellen, ma era insensato continuare a fuggire in tutta Europa. Dovevamo giocare a carte scoperte, la verità era alla luce del sole. Dovevamo solo sperare che l’Arconte si dimostrasse clemente e ci permettesse di vivere assieme. L’ansia mi chiuse lo stomaco. Era impossibile prevedere come si sarebbe comportato il Consiglio. Ciò che mi aveva raccontato Remiel era inequivocabile: chiunque avesse infranto le regole imposte dal Patto d’Equilibrio era destinato alle prigioni di Stonehaven, dopo che gli Immacolati gli avevano strappato le ali. Solo in rari casi, quando l’Arconte ammetteva l’esistenza di valide attenuanti, la pena era ridotta a un esilio forzato.

Insomma, data la nostra collaborazione e il ruolo che avevamo avuto nella disfatta di Nemesis, l’Arconte non avrebbe potuto accusarci di tradimento e chiuderci a Stonehaven. Non certo per riconoscenza, ma perché saremmo diventati dei martiri sia agli occhi degli Angeli Ombra sia a quelli dei Demoni Emersi. L’Arconte teneva troppo all’apparenza e non voleva creare malumori durante il suo primo anno di incarico. Quindi? L’esilio sarebbe stata la soluzione più ovvia, un modo semplice per lavarsene le mani e risolvere il problema. Esistevano angoli remoti del mondo che non appartenevano a nessun distretto, una sorta di terre franche senza alcuna guida. In poche parole il caos allo stato puro. Mentre entravamo nella hall dell’ospedale osservai il volto di Ellen e vi lessi paura e preoccupazione. Non avrebbe mai accettato di separarsi ancora una volta dalla famiglia e dai suoi amici. Mi amava, ne ero certo, ma non potevo costringerla a una scelta così drastica. L’aveva già fatta una volta, quando avevamo preso il volo dal castello di Inverness, e se ne era pentita. Chinai la testa. Ero stato avventato quando le avevo chiesto di fuggire con me. Anche egoista. Per me non era stato così difficile: non ero affezionato a Inverness, non avevo genitori e le uniche due persone a cui tenevo, l’Arcangelo Remiel e Rachel, erano morte. Mi dispiaceva lasciare Nora, perché fra di noi si era instaurato un vero rapporto di amicizia. Come quello che stava nascendo con Angus, prima che il destino cancellasse la possibilità che il nostro legame diventasse ancora più stretto. Per Ellen la situazione era invece diversa. Non l’avevo costretta a fuggire, è vero, ma involontariamente non le avevo fornito alcuna alternativa, facendo leva sulla sua impulsività e sui suoi sentimenti. Scacciai via quegli inutili pensieri. Alla fine potevo perdermi in mille congetture sul nostro futuro, ma la decisione spettava solo all’Arconte che, al momento, era impegnato su ben altri fronti. Superammo l’ingresso dell’ospedale e ci avvicinammo al bancone, dove una ragazza ci accolse con un sorriso. Capelli scuri e stretti in uno chignon, naso affilato e occhi piccoli e verdi. «Posso aiutarvi?». «Siamo venuti a far visita a Damien Lynch», rispose Ellen.

La tizia controllò in un foglio e cambiò subito espressione. Aveva intuito che non eravamo semplici visitatori. «Mi chiamo Aìbel MacMourrog. Seguitemi», disse laconica. Ci fece strada lungo il corridoio principale, quindi entrammo in un ascensore. Aìbel girò la chiave nella serratura posta sopra la pulsantiera, aprendo così un altro pannello di comandi. C’era una serie di bottoni, sui quali erano scritti dei numeri: da meno due a meno cinque. L’ala del Raigmore Hospital adibita al ricovero di Angeli e Demoni era stata quindi costruita nei sotterranei dell’ospedale. «In fondo al corridoio, sulla destra. Proseguite fino alla porta successiva, quindi terza stanza sulla sinistra», ci disse continuando ad armeggiare con la serratura. «Grazie mille», la congedò Ellen uscendo dall’ascensore. «Vi suggerisco di essere discreti e rapidi», concluse con aria severa, mentre le porte si chiudevano. Proseguimmo nel corridoio, in silenzio. Era un cunicolo stretto, le mattonelle del pavimento erano crepate, l’intonaco chiazzato di muffa e il soffitto basso coperto da file di tubi arrugginiti. Il silenzio era spettrale, rotto solo dal rumore dei nostri i e dal ronzio dei neon appesi alle pareti. L’aria era mefitica e dava la nausea, era quasi impossibile respirare. «Per essere l’ospedale del Consiglio, non è proprio tenuto nel migliore dei modi», commentò Hugh infastidito. «Decisamente poco accogliente», concordai. «L’importante è che ci salvino la vita», rispose Ellen, affrettando il o. «Visto che non possiamo stare nei piani superiori, ci conviene accontentarci. Anzi, siamo fortunati che esista una struttura simile a Inverness». Seguimmo l’indicazione dell’infermiera, superammo la porta e il successivo corridoio. Quando giungemmo alla fine, Ellen indugiò a girare la maniglia. Fui subito da lei. «Ehi, tranquilla. Damien è stato ricoverato qui per guarire. L’Arconte ha dato la

sua parola, vedrai che lo troverai in perfetta forma». Lei annuì, inspirando a lungo. «Se fosse in perfetta forma sarebbe già tornato a casa, non credi?». Arrivò alla camera di Damien quasi correndo. Le mani le tremavano dall’agitazione. «Damien?», mormorò entrando. La stanza era angusta e arredata in modo spartano. Un piccolo armadio bianco poggiato al muro. Pareti spoglie. Nessuna finestra. Una lampada pendeva dal soffitto appesa a un filo di ferro. In fondo, una poltrona di pelle vicino a un letto. Là si trovava Damien, coperto da un lenzuolo bianco. Una flebo era appesa a un’asta di ferro, dalla sua estremità un tubo trasparente scendeva fino a collegarsi alla farfalla infilata nel suo avambraccio. Accanto c’era un comodino, sul quale campeggiava una pila di libri. Il primo era un tomo voluminoso, sulla copertina di cuoio era impresso il titolo Muses, il canto delle Muse. Ellen avanzò lentamente fino a raggiungere il fratello. Lo osservò a lungo, imibile. «È dimagrito», commentò dopo un minuto. «La degenza non è stata delle più facili», disse Hugh. «È pallido». Le sfiorai una spalla. «Non entra un filo di luce qua sotto, è normale». «Già, dieci mesi al buio». Era inutile consolarla, Damien non aveva un bell’aspetto. Guance scavate, il volto devastato dalla sofferenza. L’ultima volta che l’avevo visto, durante il viaggio nell’isola di Skye, era un ragazzo aitante, dalla corporatura massiccia e con i capelli ricci e ribelli che gli arrivavano fino sotto le spalle. Adesso non era rimasta che l’ombra di Damien. Il suo corpo scompariva sotto le lenzuola, le gambe rannicchiate verso il bacino. Le braccia erano così magre che si potevano vedere le ossa. La testa rasata, l’incarnato pallido, la barba incolta,

due aloni violacei che gli incorniciavano gli occhi. No, Damien non stava affatto bene. Un sussulto. Le palpebre si aprirono pian piano. «Damien…», sussurrò Ellen con la voce rotta dal pianto. Lui la fissò per un istante, senza muovere un muscolo del volto. Si guardò attorno, prima me poi Hugh. Ellen accennò un sorriso. «Damien, come stai?». Silenzio. «Damien, mi riconosci? Sono Ellen, tua sorella», sussurrò stringendogli la mano. Si voltò subito, con gli occhi velati di lacrime. «È fredda… Damien, ti prego, dimmi qualcosa». Gli carezzò la fronte, poi le labbra. Ma Damien non disse una parola. Neppure si mosse. Forse erano i sedativi che gli somministravano gli infermieri del Consiglio. «Usciamo, dai», mi disse Hugh all’orecchio. Indugiai un attimo, poi compresi che era la cosa giusta da fare. Ellen aveva bisogno di rimanere sola con suo fratello. Aspettammo fuori. Per quanto le cure degli Angeli e dei Demoni fossero superiori a qualsiasi medicinale degli uomini, c’era poco da fare quando le ali venivano strappate. Remiel me lo aveva detto più volte: notti sconvolte da incubi, la mente che si perdeva nell’oscurità, la pazzia in agguato pronta ad assalirti appena abbassavi le difese. Il corpo che pian piano si destabilizzava, la vecchiaia precoce che ti lasciava pochi anni di vita. Proprio com’era accaduto a Rachel, prima che si abbandonasse alla voce di Nemesis. In quell’istante l’immagine di Rachel nei panni dell’Angelo dell’Apocalisse, così come l’avevo vista l’ultima volta, s’infranse. Tornò la ragazza con la quale avevo trascorso intere giornate tra le nebbie dell’isola di Skye, durante i duri allenamenti che non mi lasciavano mai tirare il fiato.

Sorrisi, abbracci, lacrime. Quante volte ci eravamo confidati, sostenuti a vicenda, raccontati le nostre paure e debolezze. Poi l’ultimo addio, prima che Rachel si arrendesse all’evidenza, sconfitta dall’ambizione che mi aveva spinto a diventare un Angelo Ombra con una pervicacia tale da annullare qualsiasi altra emozione. Il senso di colpa si sostituì alla comione. Perché se Rachel si era trasformata nel mostro di Nemesis, non potevo fingere di non esserne anch’io responsabile. Il destino non era mai stato scritto, era solo la conseguenza del concatenarsi degli eventi che io stesso avevo deciso. La stessa sorte era toccata al fratello di Ellen. Vittima di un gioco più grande di lui, bloccato nell’incastro di una vita che non gli apparteneva. Un ragazzo giovane, che aveva tanti sogni e speranze. Ambizione, lealtà, desiderio di mostrare quanto valesse. Gli stessi ideali che mi avevano sempre spinto a non demordere quando crescevo nell’isola di Skye. Giorno dopo giorno, fino alla Nomina. Fino a Inverness. Finché mi ero scontrato contro un sentimento che non ignoravo. Un fulmine che aveva sgretolato la mia arroganza, squarciando l’oscurità che si era fatta spazio nel mio animo, gelida e impenetrabile come le nebbie nelle quali ero vissuto. Un rumore metallico mi fece tornare alla realtà. Ellen uscì dalla stanza e chiuse la porta alle sue spalle. Si fermò, schiena poggiata allo stipite, sguardo perso nel vuoto, occhi rossi per le lacrime versate. «Non mi ha neppure riconosciuta», disse fra le labbra, con le braccia conserte al petto. «Mio fratello non mi ha riconosciuta». Mossi un o verso di lei, ma Hugh mi anticipò cingendola in un abbraccio. Ellen scoppiò di nuovo a piangere, liberandosi da quel dolore che per troppo tempo aveva trattenuto. Rimasi in silenzio, mentre lei riversava la sua sofferenza su Hugh. Incrociando il suo sguardo. Sussurrandosi frasi di conforto. Per la prima volta da quando stavo con Ellen, sentii che non ero al posto giusto. In quel momento Ellen aveva bisogno di Hugh, non di me.

*** Dopo aver accompagnato Hugh alla sua abitazione, raggiungemmo la mia casa. Entrai con il cuore in subbuglio, ispezionando ogni stanza. Dopo tutti quei mesi, nulla era cambiato. La sala era identica, così come la cucina e la camera. Presi il telefono e composi il numero di Nora. La conversazione non durò neppure un minuto. Mi disse che si trovava in centro e che mi avrebbe raggiunto il prima possibile. Nel frattempo, Ellen si era seduta sul divano, immersa in una ridda di pensieri. «Ehi, come stai?». «Come se fossi finita sotto un tram». «Mi spiace, Ellen». Alzò la testa, inspirò a lungo. «Sono solo una stupida. Cosa mi aspettavo di trovare? Mio fratello che saltava sul letto? So bene cosa accade quando ci strappano le ali. Non esistono eccezioni. Damien non riesce neppure ad alzarsi». Cercò quindi il mio sguardo. «Non si riprenderà più, vero? Pian piano si spegnerà?». Mi sedetti al suo fianco. «Ellen, non voglio mentirti, ma non possiamo prevedere cosa succederà a tuo fratello. C’è chi preferisce il suicidio, chi si fa forza e riesce a continuare a vivere». «Non Damien. Per lui essere un mezzo demone senza ali è come stare all’inferno. Lo conosco». Si scostò un ciuffo di capelli dal volto. «Aveva così tanti sogni, obiettivi da raggiungere. È finito tutto, Kevin, tutto». «Non dobbiamo arrenderci, non adesso. Troveremo i tuoi genitori. Con la famiglia unita, risolveremo ogni problema. Damien ha bisogno del vostro aiuto e del vostro affetto». Ellen annuì, sforzandosi di credere alle mie parole. «Ce la faremo, sì. Abbandonarsi alla disperazione non serve a nulla, hai ragione. Tanto meno piangere».

Sorrisi, felice che si fosse fatta forza. Anche nelle situazioni più drammatiche Ellen trovava sempre un modo per tirare avanti. «E poi hai me, non scordartelo mai». Feci una smorfia. «E anche una specie di amico, Hugh». «Kevin, a proposito di Hugh, io…». Le misi un dito sulle labbra. «Fine della discussione. Mi sono comportato male. Stupida gelosia», gesticolai. «So quanto Hugh sia importante per te. Sai, a Roma credevo di aver trovato un amico, Angus. E solo allora ho compreso quanto sia importante avere una persona che ti sta vicino ogni giorno, che ti aiuta e ti consiglia. L’amicizia è importante. Vedi, non ho mai provato nulla di simile, per questo non riuscivo a comprendere il vostro legame. Ti chiedo scusa, davvero». Ellen sembrò rammaricata. «Kevin, non è colpa tua. Solo che…». «No, non ti devi scusare. Anzi, perdonami se ho tentato di interferire nel vostro rapporto. Siete cresciuti assieme, dannazione, è naturale che vi appoggiate l’uno all’altra. E poi, sono solo sciocchezze. Io sono felice solo quando lo sei anche tu». Ellen scoppiò a piangere di nuovo, sprofondando la testa nel mio petto. «Kevin, la situazione con Hugh è complicata». Le carezzai la nuca. «Non esagerare». «Sì, è un problema per noi». «Non lo sarà più». «Non funziona così». «Accetto la vostra amicizia perché so cosa provi per me». «Kevin…». «Non ho più dubbi». «Kevin! Ho baciato Hugh, lo vuoi capire?».

Ci misi qualche secondo per metabolizzare quelle parole. Perché proprio non avevano senso di esistere, forse me le ero immaginate. Forse avevo capito male. Forse avevo frainteso. «A Galeria. Ci siamo baciati. Vicino al fiume Arrone». Mi allontanai di un o. «Non ho capito». Lei scattò in piedi. «Cosa c’è da capire, dannazione? Io, Hugh, ci siamo baciati. Punto». Strinsi i pugni. Mi morsi le labbra. Alt. C’era sicuramente una spiegazione. Una spiegazione che mi sfuggiva. «Perché?». Ellen abbassò lo sguardo, incapace di sostenere il mio. «Non lo so». «Non lo sai?». «No». «Non capisco». «È successo. È successo e basta». «Perché? Tra amici non ci si bacia». «Lo so». Mi alzai dal divano. Non ero arrabbiato. Non ero deluso. Mi sentivo improvvisamente svuotato. «Ti prego, spiegami cosa significa baciare un amico». Lei, di tutta risposta, perse la pazienza. «Non c’è alcuna spiegazione, Kevin! Non si baciano gli amici!». «E perché l’hai fatto?».

Volse la testa di lato, mordendosi le labbra. Labbra che tremavano perché aveva baciato Hugh, il suo compagno di infanzia. Ma non avrebbe dovuto farlo, perché io ero il suo ragazzo. La rabbia m’incendiò le vene. L’afferrai per le spalle, scuotendola con forza. «Piantala di prendermi in giro», ringhiai. «Dimmi la verità, una buona volta! Sei innamorata di Hugh?». Ellen socchiuse gli occhi. «Non. Lo. So». Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. Mi ai una mano tra i capelli. Inspirai. Espirai. Dovevo stare calmo. Calmo. Dannazione, calmo! Ma come dovevo reagire? «Mi hai tradito», realizzai girandomi verso il muro. «È stato solo un bacio, Kevin, nulla di più». Presi un vaso dal tavolo e lo scagliai contro la parete, mandandolo in frantumi. «Quindi un bacio non è nulla? Funziona così? È tutto normale? Ma dai, questa non la sapevo. E poi quando ti domando se sei innamorata di lui, tu che fai?», urlai puntandole un dito contro. «Tu mi dici che non lo sai? Anche questo è normale, Ellen?». Stavolta fu lei a indietreggiare, spaventata dal mio scatto d’ira. «Non lo è, Kevin». «Quindi?». «Quindi sono confusa». «Certo, sei confusa. Mi hai dichiarato il tuo amore. Mi hai detto di non aver mai provato per nessuno quello che senti per me. Sei fuggita con me. Hai lasciato tutti e tutto. Cos’era, una sceneggiata? Sei una specie di attrice, oppure ti piace mentire?». «No».

«Quindi mi hai sempre preso in giro? Dannazione, Ellen, dimmi la verità». Ellen s’irrigidì. «No, questo non è vero. Non ho mai mentito quando ti ho detto di amarti. E ti amo ancora, Kevin». «Ah, la cosa si complica. O sei falsa, o sei pazza». «Forse sono pazza». «Quindi ami due persone, fammi capire?». Scosse la testa. «Non potevo nasconderti ancora quello che era successo. Dovevo dirtelo». Si avvicinò e mi prese il volto tra le mani. «Perché ti amo, Kevin, devi credermi. Te l’ho raccontato per questo». Mi staccai subito con decisione. «È il senso di colpa che ti fa parlare». «No, è solo la verità». «Ma tu ami anche Hugh», sussurrai esausto. «È diverso». «In quanti modi si possono amare le persone?». «In tanti». «In tanti, già. E come mi ami?». «Ti amo». «E come ami Hugh?». Attimo di esitazione. Altra pugnalata nella schiena. Non le detti modo di formulare un’altra menzogna. «Chissà, forse sono io quello sbagliato. Perché io ho amato solo una persona nella mia vita. Questa persona si chiama Ellen Lynch. Non Nora. Non Rachel. Tu sei stata e sarai l’unica per me. Per sempre». «Kevin, ti prego…», disse mentre una lacrima le rigava il volto. «È stato uno

sbaglio. Hugh è diverso, adesso. Forse perché è Demone, questo è il motivo per cui ho commesso un terribile errore…». «Tu sei un Demone Emerso, io un Angelo Ombra. Lo sapevamo fin dall’inizio. Da quel maledetto tramonto in cui abbiamo visto le nostre ali. Ci siamo allontanati. Ti ho evitato con tutto me stesso. Perché pensavo che fosse sbagliato. Che fosse un abominio contro natura. E invece non era così». «No, non lo era affatto». «E abbiamo sacrificato tutto per il nostro amore». «Lo rifarei mille volte». «Ma tu hai rovinato tutto. Per sempre». Ellen si coprì il viso con le mani e scoppiò di nuovo a piangere. «No, non lo so perché è successo…». «Galeria. Quanti giorni sono ati? E solo adesso me lo dici», esclamai mentre la rabbia tornava a ribollirmi nelle vene. «Ho provato a dirtelo. Ma sono successe troppe cose insieme. Il Vaso di Salomone, il Grimorio…». «Al diavolo il Vaso di Salomone! Abbiamo fatto tutto questo solo per noi, per poter stare insieme! Perché il tramonto si sfaldava e non potevamo più neppure avvicinarci! Quando mai ti è importato qualcosa dell’Apocalisse?». «È vero, hai ragione. Ti prego sta’ calmo adesso». «Calmo? Calmo un accidente! Come faccio a stare calmo? Mi hai nascosto la verità! Per quanto tempo volevi continuare così? Io cosa sarei stato? L’amante? Il vecchio fidanzato? Un atempo?». «Mi fai del male, adesso». «Ti faccio del male? Tu non hai idea del male che mi hai fatto!». «Se non tenessi a te non te lo avrei detto. Pensaci».

«Certo, chissà. Ripeto, è il senso di colpa». «No, l’avrei fatto subito. Perché non è significato nulla. Ma poi lo scontro con i Discepoli, Hugh in fin di vita…». «Hugh. Hugh. Sempre Hugh! È più importante di me, Ellen?». «Non lo è». «Quindi cosa provi per lui?». «Gli voglio tanto bene». «E che differenza c’è tra questo tanto bene e l’amore?». Ed Ellen non seppe cosa rispondere. Lo leggevo chiaramente nei suoi occhi. «Bene, devi deciderti. O lui o io», la incalzai. «Non puoi avere entrambi». Ellen scosse la testa. «Non puoi chiedermi questo». «Sì che te lo chiedo! Stavolta non ci sono alternative». «Mi metti con le spalle al muro». «Non mi dai altra scelta. Se vuoi stare con me, non vedrai più Hugh. Mai più, chiaro?». «Va bene, hai ragione. Ci parlerò, lui capirà…». «Basta! Lui è innamorato di te, Ellen, lo è sempre stato. La questione è più semplice del previsto. Come la domanda che ti sto ripetendo ma al-la quale non vuoi rispondere. Sei innamorata di Hugh?». Suonò il camlo. Sbuffai, avvicinandomi all’entrata della sala. Nora era arrivata giusto in tempo. Perché in quel momento volevo re-stare solo. Riflettere. Calmarmi. O avrei distrutto tutto ciò avevo attorno. Non volevo altre risposte, non avrei creduto più a nulla. Era solo un gioco masochista che non avrebbe risolto niente. Ma, ironia della sorte, quando aprii la porta non mi trovai di fronte Nora. Ma un

ragazzo sorridente, moro, con gli occhi maledettamente verdi e l’espressione dannatamente felice. «Niente, Vivian non è in casa», disse oltreandomi. «Al telefono non risponde. Inizio a preoccuparmi». Si bloccò. Guardò Ellen, poi me. «Ehi, cos’è successo?». Lo raggiunsi con la mano serrata in un pugno. Ellen mi anticipò prima che mi scagliassi contro di lui. «Hugh, dobbiamo parlare». «Non capisco… perché?», farfugliò lui. «Adesso. In camera». E così scomparvero. Di nuovo. Assieme. *** Silenzio. Era tutto quello che mi rimaneva. Osservai ogni particolare della sala. I mobili, i quadri appesi ai muri, la carta da parati ingiallita nelle vicinanze del caminetto. E ancora il tappeto scuro, il tavolo d’ebano e la credenza di cristallo. Oggetti che durante la mia permanenza a Inverness non avevano mai catturato la mia attenzione, ma che adesso mi sembravano del tutto nuovi. Anzi, estranei, proprio come ogni angolo di quella casa. La casa di Angus, non la mia. Trattenni a stento le lacrime. Il mondo mi era crollato di nuovo addosso. Ero giunto a Inverness con entusiasmo e ione, desideroso di mostrare le mie doti di Angelo Ombra, salire di livello, spostarmi verso Edimburgo o Londra in cerca

di chissà quali avventure. Combattere i Demoni, difendere il Patto d’Equilibrio e servire il capo clan al quale avevo prestato giuramento dopo la Nomina al castello di Dunnotar. Non era trascorso neppure un anno, e la mia vita era completamente cambiata. Stravolta e distrutta. L’incontro con Ellen, la lotta contro Nemesis, la fuga in Europa fino agli ultimi eventi di Roma. Allora ero pronto ad affrontare qualsiasi avversità, perché avevo uno scopo. Un preciso obiettivo che m’imponeva di stringere i denti e raggiungere quel futuro che in fondo al mio cuore, scevro di ogni sciocca ambizione, agognavo da tempo: una vita semplice, lontana dal caos, felice delle piccole cose. Felice con Ellen. Eppure, adesso che anche la mia ultima certezza si era frantumata, non riuscivo a piangere. L’incredulità mi aveva irrigidito come un blocco di marmo. Mi alzai in piedi e mi avvicinai alla porta della camera. Tentai di origliare, ma non sentii altro che pochi sussurri. Era tutta colpa di Hugh. Hugh l’aveva ingannata. Hugh l’aveva circuita. Confusa. Deviata. Sì, era stato lui a portarmi via Ellen. Perché lei non si sarebbe mai allontanata, né avrebbe mai dubitato del sentimento che ci univa. Per un istante afferrai la maniglia per irrompere nella camera. Lo avrei preso al-la gola. Gliel’avrei stretta fino a farlo soffocare. Desistetti. Dovevo lasciarli soli. Dovevano parlare, chiarire. Tutto si sarebbe risolto. Perché ero così insicuro? Avevo dato una scelta a Ellen e sapevo che lei non avrebbe indugiato. Avrebbe scelto me. Il nostro amore. Il futuro che ci eravamo sussurrati ogni

notte. E se non fosse stato così? Fino a poco prima non credevo che potesse baciare Hugh. Solo il pensiero mi faceva salire il sangue al cervello. E se avessi spalancato quella dannata porta e li avessi visti assieme? Meglio non sapere, perché Hugh non l’avrebbe ata liscia. E io il resto della mia vita in una cella di Stonehaven. E poi, ero davvero sicuro del mio futuro? Il rapporto con Ellen si era incrinato, per quanto potessi illudermi che non fosse successo nulla, la realtà era chiara. Non mi sarei più fidato di Ellen. Non sarei più stato capace di abbandonarmi completamente a lei. O forse il tempo avrebbe lenito il dolore e cancellato quello spiacevole evento? Solo un incidente di percorso, solo uno stupido insignificante errore. Controllai l’orologio. Era trascorso già un buon quarto d’ora. Occorreva così tanto tempo per cacciare via Hugh? Proprio in quell’istante suonò il camlo. Mi avvicinai alla porta, guardai nello spioncino. Era Nora. Inspirai a lungo. Nuovo reset, perché adesso mi spettava un altro difficile compito. Raccontare tutto ciò che era successo a Roma, compresa la morte di Angus. Appena varcò la soglia, Nora mi strinse in un forte abbraccio. Mi lasciai cullare, tutto ciò che desideravo era un po’ d’affetto. Ci sedemmo sul divano. Feci di tutto per distendere i muscoli del mio viso, calmare la respirazione, far finta di nulla. «Come stai?», mi chiese fissandomi negli occhi. «Distrutto, ma ancora vivo». «Mi sei mancato, Kevin». «Anche tu. Non sai quanto è stata dura. Anzi, lo è tutt’ora». «Sì, Angus mi ha raccontato della vostra scelta. Lo sai, non sono mai stata d’accordo ma…», alzò le spalle, scuotendo la testa, «sei un tipo troppo testardo, signor Shaw. A proposito, dov’è Angus?».

Appunto. Nora aveva centrato il problema. «È una lunga storia». «Bene, raccontami tutto», mi disse con un sorriso, ignara della spiacevole notizia che stavo per darle. E così feci, dai miei viaggi a Londra e Parigi fino agli ultimi eventi di Roma. Nora non disse una parola, rimase in silenzio ad ascoltare, finché giunsi all’omicidio di Angus. Si alzò in piedi, raggiunse la finestra e osservò fuori nel cortile. «Non sono mai stata d’accordo con Angus, litigavamo su ogni cosa e spesso ho dovuto ingoiare bocconi amari», disse con tono gelido. «Ma era un buon capo clan, lo devo ammettere». «Angus non era la persona che sembrava. Ho avuto modo di conoscerlo meglio, ed era diverso da come appariva. Era un uomo comprensivo e generoso». Nora si voltò di scatto. «Prima il tradimento di Inghinn, poi la tua scomparsa e adesso l’uccisione di Angus. Siamo rimasti solo noi due. Questa è l’unica verità». Aggrottai la fronte. L’espressione di Nora mi aveva spiazzato. Non era addolorata, indifferente oppure felice di essersi liberata dal capo clan. Era solo arrabbiata. «Ce la faremo. Ricostruiremo assieme il nostro clan», le dissi senza troppa convinzione. «Non è una decisione che spetta a noi. Dobbiamo avvertire le Sfere e l’Arconte di quanto accaduto». Le raccontai rapidamente di Hugh, piccolo particolare che avevo omesso in precedenza. Dal suo arrivo a Roma, alla rivelazione che era stato trasformato in un Demone Emerso da Vivian Barclay, al coinvolgimento di quest’ultima con il Consiglio. «Ne ero all’oscuro. Angus mi aveva accennato alla sua ricerca della Chiave, ma mi aveva fornito pochi dettagli, fin quando non aveva iniziato a viaggiare. Non mi aveva mai riferito dove si era diretto, né che conoscesse Vivian Barclay. Non me ne sono preoccupata, non era una novità la sua poca stima nei miei confronti, figuriamoci se mi rendeva partecipe di missioni così importanti».

Ecco, chiarito il punto. Nora era delusa e offesa, perché Angus non l’aveva mai ritenuta all’altezza del clan al quale era stata affidata dalle Sfere. Rimasi tuttavia sorpreso della freddezza con la quale aveva reagito. «No, Vivian non era d’accordo con Angus», precisai subito dopo, «ha stretto un patto con l’Arconte per riferirgli ciò che stava accadendo tra i Discepoli dell’Ordine dell’Apocalisse». Nora trattenne una risata. «E l’Arconte si fida di lei? È da folli dopo il suo tradimento. Vivian sta facendo il doppio gioco». «Questo lo sappiamo». «Sì, ma resterà fedele a Nemesis. Quella è la sua natura. Uno sporco Demone Emerso traditore». «Non è detto». Nora arricciò il naso. «L’influenza di Ellen ti ha reso così debole, Kevin? Pochi mesi fa avresti ripetuto le mie stesse parole». Serrai la mascella. Solo sentire pronunciare il nome di Ellen mi faceva uscire di senno. «Esiste un patto tra Angeli e Demoni. Sei stata tu a spiegarmelo, una volta», ribattei piccato. «Certo, ma questo non implica che esistano delle scusanti per i Demoni Emersi». La incenerii con un’occhiataccia. Detestavo perdere tempo in chiacchiere inutili. «Ti ricordo che tra i Discepoli ci sono anche individui dalle ali bianche. Angeli Ombra, nostri fratelli». Nora chinò la testa di lato. «Questo accade perché il Consiglio del nostro distretto è debole. Debole come il nuovo Arconte che decide persino di scendere a compromessi con una traditrice come Vivian Barclay». «Non ha avuto altra scelta, la situazione è drammatica». «Certo che lo so, più di quanto immagini. Sono rimasta io a Inverness durante

questi mesi, da sola», replicò ponendo l’accento sull’ultima parola. Nora si stava trattenendo, ma era furiosa per il mio comportamento e per quello di Angus. Alla fine dei conti aveva anche ragione: non eravamo riusciti a recuperare il Vaso di Salomone e il nostro capo clan aveva pagato con la sua vita. «Non è stato facile per me», aggiunse con tono triste. «Non sai quanto avrei voluto sentire la tua voce, Kevin. E invece neppure una lettera. Neppure una telefonata». «Anche a me sei mancata tanto, Nora, ma non potevo rischiare. Ancora non sapevo se il Consiglio ci stava dando la caccia, se tenevano sotto controllo la nostra casa...». «Be’, hai comunque rischiato quando hai deciso di contattare Angus». «Perché era l’unico che poteva aiutarmi. E lui aveva bisogno del mio sostegno per recuperare la Chiave». «E io sono rimasta come una stupida a Inverness. Eri parte della mia famiglia, eri la persona…», s’interruppe, scuotendo la testa. «Eri importante». «Lo sono ancora. E anche tu lo sei per me», la rassicurai. In quel momento in cui nulla andava per il verso giusto, avevo assolutamente bisogno che Nora mi sostenesse. «Sì, Kevin, ci sono», rispose con un sorriso. «Qui è un vero incubo. Da quando il tramonto ha iniziato a sfaldarsi, le strade sono invase di Immacolati, notte e giorno. Dai, non perdiamo altro tempo, dobbiamo avvertire le Sfere della scomparsa di Angus». «Ammesso che non l’abbia già fatto Vivian. I suoi contatti con l’Arconte sono frequenti, Hugh l’ha avvertita di cosa è successo». «Bene, accertiamoci che sia vero. Fammi capire, Vivian è diventata una specie di Emissario? Tradisce il Consiglio e si becca una promozione?», domandò con sarcasmo. «È già fuori luogo che l’abbiano fatta uscire dalla prigione. L’Arconte ha creato un precedente, è una cosa molto grave». «In realtà non è proprio così», obiettai. «L’Arconte ha apprezzato che si sia consegnata di sua spontanea volontà dopo l’evasione da Stonehaven».

In quello stesso istante udii un rumore proveniente dalla camera di Ellen. Mi voltai preoccupato, quando Nora mi afferrò il polso. «Quale evasione?». La guardai meravigliato. «Come quale evasione? Quella dei detenuti nelle carceri di Stonehaven. Vivian si è data molto da fare per ritrovare i fuggiaschi. Molti erano Discepoli di Nemesis, fra l’altro». «Non mi risulta che ci sia stata un’evasione a Stonehaven. Le carceri sono sotto massima sicurezza, come sempre». Rimasi a bocca aperta, confuso. Com’era possibile? «Chi ti ha raccontato quest’assurdità? Vivian?», m’incalzò Nora, preoccupata. «No, è stato Hugh», ringhiai. «Hugh? Non capisco perché abbia inventato una cosa simile». Io sì. Ed era la conferma dei sospetti che avevo sempre messo a tacere, per il bene di Ellen. Corsi verso la stanza da letto, furibondo. Hugh aveva mentito. Non c’era stata alcuna evasione. Ci aveva raccontato un mucchio di frottole. Spalancai la porta della camera e rimasi senza fiato. Non c’era nessuno. Solo una finestra aperta e una tenda strappata mossa dal vento.

23. Ellen Tradimenti

Una bottiglia sulla scrivania. Un bicchiere di plastica. La sete che mi ardeva la gola. Bevvi un sorso d’acqua così avidamente che mi andò di traverso. «A volte sei davvero buffa», rise Hugh dandomi una pacca sulla schiena per aiutarmi a respirare. «Avevo sete». «Ok, dissetati ma senza morire. Perché sei sempre così agitata, me lo spieghi?». Colpo di tosse. Sorriso. Spallucce. Dovevo prendere tempo, perché non sapevo proprio dove iniziare. Cioè, sapevo benissimo cosa dovevo dirgli, ma non avevo avuto modo di formulare una frase sensata. O meglio, trovare delle parole che non ferissero Hugh. «Quando resti imbambolata mi preoccupi. E, di solito, ci sono guai in vista». «Già». «È una lezione che conosco a memoria: mai lasciare il tempo a Ellen di pensare». Mi sedetti sul letto, poggiando la testa tra le mani. Hugh si accovacciò davanti a me e mi alzò il volto. «E poi, non sai affatto carina quando fai l’imbronciata. Non ti dona». «Piantala o ti mordo», gli risposi subito. Lui e le sue battutine idiote. E l’avrei morso per davvero, avevo i nervi a fior di pelle. «Ecco, ti preferisco arrabbiata e acida. Sei perfetta».

«Non sono acida». «Come lo yogurt avariato». Sbuffai. Meglio andare dritti alla questione. Perché se mi avesse sbattuto in faccia un altro di quei superfantastici sorrisi non sarei più stata capace di muovere le labbra. Non mi mancava il coraggio, solo non volevo far soffrire le poche persone che mi volevano bene. Era forse un reato? «Hugh, la situazione non è delle migliori. Vedi... ho parlato con Kevin». Hugh scoppiò a ridere. «Tesoro, permettimi di consigliarti di ridurre al minimo i dialoghi con il tuo ragazzo, se questi sono i risultati». «Sei un idiota», ribattei, lasciandomi sfuggire un sorriso. «Ecco la differenza: a lui dichiari amore piangendo, a me riservi un mucchio di offese ridendo». Tornai subito seria. «Ho parlato con Kevin di noi». «Cioè?». «Lo sai». Hugh cambiò subito espressione. «Ohi, ohi. Mi sa che il bianco pennuto si è irritato. Gli hai detto proprio tutto?». «Tutto. Cioè, il bacio, visto che di questo si tratta», precisai subito. Guardò alle sue spalle. «Ah. E come mai non sta scardinando la porta per accogliermi con un coltello in mano? Ehm, ripensandoci ci ha provato appena sono entrato in casa. Ma era solo un pugno, non troppo convinto tra l’altro». Lo fulminai con lo sguardo. «Senti, puoi smetterla per una volta di fare il cretino e ascoltarmi?». «Sai, sono stanco di essere sempre serio, composto, rigido. L’ho fatto per una vita intera. Ci vuole un po’ di ironia per affrontare questa grama vita», rispose Hugh con sarcasmo.

«Be’, diventare Demone ti ha spinto all’estremo opposto». «Non è vero, stai mentendo», scosse la testa. «Perché so come rendere felici le persone che mi stanno accanto. E tu hai bisogno solo di una cosa: ridere». Scattai in piedi. «Ah, che gentile. Ti ringrazio per la premura». «Come l’ha presa?». Bene, eravamo tornati al nocciolo della questione. «Boh, devo ancora capirlo. Arrabbiato e deluso, suppongo». Hugh cercò il mio sguardo. «Gli erà, vedrai». Strinsi le braccia al petto. Non c’era altro da aggiungere, se non la cosa più difficile. Quella a cui non sarei mai voluta arrivare. «Sì, gli erà, ma a una precisa condizione». Hugh s’irrigidì. «Ossia?». «Che devo fare una scelta. O lui o te». Trattenni il fiato, ansiosa di vedere la sua reazione. Ma Hugh non parve affatto meravigliato. «Mi pare normale». «Normale? A me non sembra affatto normale», sbottai. «Come posso decidere tra te e lui?». «Ha solo paura che tu lo abbandoni. La reazione più ovvia è quella di metterti spalle al muro e di farti scegliere, eliminando il problema alla fonte. Quindi, o lui o me». «Già, ma che idea brillante! Peccato che io non voglia scegliere un bel niente», gesticolai infuriata. «E poi, cosa significa? Addio Hugh, è stato bello conoscerti e stare con te per tutti questi anni, adesso ciao e per favore non farti più vedere né sentire?». Sorrise. «Perspicace».

«No, assurdo», esclamai sentendomi infuocare. Hugh, invece, mi rispose in tutta tranquillità. «Be’, le possibilità sono tante: aspettare che Kevin sbollisca la rabbia e parlarci, lasciare che ci discuta io…». «Non pensarci neppure da lontano», lo interruppi, decisa. «Non voglio altri morti sulla mia coscienza». «Oppure semplicemente fare il suo gioco e decidere». Crollai di nuovo sul letto. Perché anche se avessi fatto are qualche giorno, sapevo benissimo che Kevin non avrebbe cambiato idea sul suo ultimatum. Era comprensivo, ma squadrato. Fin troppo. «Lo so, devo prendere una decisione». Hugh mi fissò un istante, poi scosse la testa. «È da vigliacchi metterti in questa posizione». «Non è vero, sono io che ho sbagliato, non Kevin», lo difesi, in effetti ero stata la causa di tutta quell’orribile situazione. Fra l’altro, non potevo scegliere un momento migliore, adesso che la mia unica priorità doveva essere quella di ritrovare i miei genitori. Capire la decisione del Consiglio. Sfuggire alla vendetta dell’Ordine. Parlare con Vivian. Ehm… in effetti erano un po’ troppe le mie priorità. «Ellen, tagliamo la testa al toro. Se sei convinta che devi decidere, fallo». «Non è facile». «Anzi, riformulo la domanda in maniera più diretta, visto che sono giorni che ci giriamo attorno», mi disse avvicinandosi di un o. «Sei innamorata di me?». Domanda ovvia e lecita, che mi lasciò del tutto impreparata. Mi era stata posta più volte, ma mi ero sempre ostinata a non voler rispondere. Anzi, neppure pensarci. Battei i piedi a terra dal nervosismo, arrabbiandomi con me stessa. Stavo per rovinare una storia bellissima, solo perché mi rifiutavo di fare i conti con me stessa.

«No, non credo di amarti», replicai dopo un po’. Hugh soffocò una risata. «Non mi ami o non credi di amarmi?». Scossi la testa freneticamente. «No, non ti amo. Certo, ti voglio bene. Un sacco di bene». Si sedette al mio fianco, cingendomi in un abbraccio. «I punti da capire sono due, Ellen. Sono le stesse domande che mi sono posto da mesi ormai. Primo: sei sicura che la nostra sia solo un’amicizia?». «Sì, certo». «Perché anch’io ne ero convinto, finché ho iniziato a sentire la tua mancanza ogni giorno. Finché mi sono chiesto quale sarebbe l’ultima persona che vorrei accanto dopo l’Apocalisse. E quella sei tu. Perché mi completi, mi rendi felice. Rendi il mondo meno fragile e la vita meno breve. Poi mi convinsi che era solo un’illusione e che stavo travisando i miei sentimenti. Certo, tutto era possibile. Non sono mai stato uno… come si dice? Sciupafemmine? Quella roba là. Lo sai, né avevo tutta questa esperienza con le ragazze. Ero solo il bel secchione del college, geneticamente imbranato. Eppure, non ho battuto ciglio nell’offrire il mio petto al posto del tuo. Allora mi sono chiesto… perché l’ho fatto? Ok, da diversi mesi non ti vedevo più come un’amica perché provavo un’attrazione fisica, non lo nego. Ma ho capito che c’era qualcosa di più. Qualcosa che mi spingeva a voler bene a una persona più di me stesso. È l’abbandonarsi a un’emozione capace di annullare qualsiasi forma di egoismo. Ecco, questo lo chiamo amore». Rimasi in silenzio ad ascoltare quel lungo monologo, senza riuscire a ribattere, a trovare un singolo pretesto a cui aggrapparmi. Ero in un dannato vicolo cieco, mi scoppiava solo da piangere. Perché sì, volevo restare con Kevin. E no, non volevo perdere Hugh. Chiedevo troppo dalla vita? «Secondo punto: si possono amare due persone allo stesso modo?». La domanda era del tutto fuori luogo. «Non secondo i dettami della nostra società», aggiunse Hugh. «Perché è sbagliato, immorale eccetera eccetera. Eppure, per te è così. Inutile negarlo».

Abbassai la testa. «Non posso perdere Kevin. Non voglio». «Pensi che io sia felice di sapere che ami sia me che Kevin? Credi che non ti vorrei tutta per me?». Feci per ribattere, ma Hugh mi pose l’indice sulle labbra, distruggendo la mia già fragile volontà di reagire. «Ma la vita non è un quadro che dipingiamo a nostro piacimento. Possiamo scegliere solo i colori, le tonalità calde o fredde. Kevin: il ragazzo misterioso, bello e intrigante che hai conosciuto al college, in un momento in cui ti trovavi a combattere contro tutti e tutto, sentivi di non riuscire a legare con gli altri ragazzi, che eri sempre più emarginata. Ti sei difesa dietro questo stato d’animo, desiderando con tutta te stessa di fuggire lontano da Inverness. Kevin è arrivato al momento giusto, è stata la tua liberazione e àncora di salvezza. Un rapporto che forse sarebbe evaporato se non ti fossi trovata implicata nella difficile situazione dell’Ordine dell’Apocalisse e di tuo fratello Damien». «Sei diventato uno psicologo oltre che un Demone Emerso?». «No, ma non è così difficile osservare ciò che mi circonda e analizzarlo. Non ho finito, comunque». Mi arresi allargando le braccia. «Ok, Sigmund Freud, continua pure la seduta. Sono tutta orecchie». «Poi ci sono io, Hugh». Alzai la testa. Ecco la parte più imbarazzante. «Il tuo amico di infanzia. La persona con la quale hai condiviso ogni tua paura e gioia, senza alcuna inibizione. Ci siamo sempre detti tutto, quasi fossi il tuo secondo fratello». «Così ti ho sempre considerato, è vero», annuii con convinzione, felice che la discussione avesse preso la giusta piega. «Poi siamo cresciuti. Siamo arrivati al college, eravamo disorientati. Anzi, entrambi un po’ strambi. Forse anche troppo».

«È un marchio di fabbrica», tentai di sdrammatizzare. «Siamo sempre stati in disparte, lontano dalle mode del momento, dai gruppi più popolari di Inverness e del college. Non ci siamo mai fatti coinvolgere in nessuna relazione sentimentale. Ti rendi conto? Kenneth aveva la ragazza e io no». «Già, come dimenticarlo? La prima Apocalisse: la sua ragazza, Mercedes. Di nome e di fatto. La ricordo come se fosse ieri, era un tir. Un armadio con le ruote. Quando mi abbracciò per salutarmi ho rischiato che mi stritolasse le costole». «Lo sai che era innamorata di me?». «Cosa?», esclamai spiazzata. «Stai scherzando, vero?». «No, sto dicendo la verità. Non è che ne vada fiero, s’intende. E non lo metterò nel mio curriculum vitae, te lo prometto. Comunque Mercedes me lo confessò in segreto qualche mese dopo che si era lasciata con Kenneth». Era difficile trattenermi da scoppiargli a ridere in faccia. Per un attimo mi ò davanti l’immagine di Mercedes e Hugh insieme. L’armadio e il comodino. Oppure, l’automobile e la bicicletta. Carini insieme, un film dell’orrore. «Piantala di fare quella faccia». «Scusa, ci provo», sghignazzai. «Mercedes si era messa con Kenneth per attirare la mia attenzione e avere l’opportunità di conoscermi», spalancò gli occhi, incredulo. «E io non me ne ero neppure accorto, ci credi? Anzi, l’idea non mi era ata neppure per l’anticamera del cervello. Certo che voi donne siete davvero strane». «È Kenneth quello strano, non noi». A un tratto sentii un nodo alla gola. Altra priorità: chiamare Kenneth il prima possibile. Senza i suoi sms martellanti era impossibile svegliarsi la mattina. C’era poco da discutere, avevo l’assoluto desiderio di risentirlo. Mi bloccai. Cosa diavolo stava succedendo? Avevo chiamato Hugh in disparte

per affrontare una questione seria, non per ridere come vecchi amici davanti a una birra al pub. «Non è che è successa la stessa cosa con Kevin?». Colpita, ma non affondata. «Mi spiace deluderti, non sono così idiota». «Mai detto il contrario». «Offendi la mia intelligenza, allora. Arriva al punto, detesto i giochetti e le allusioni. E in fretta, grazie». «Il punto è molto semplice: da quando è comparso Kevin le cose sono cambiate. Per sempre». Et voilà. Pronti al vero round. Hugh si grattò la fronte, prendendosi una lunga pausa. «All’inizio ero contento della vostra relazione. Perché ti vedevo felice, distratta, gioiosa. Ed era quello che volevo veramente. Poi, com’è giusto che sia, hai iniziato a uscire con lui. E a dedicare sempre meno tempo a me». «Sei un Sigmund Freud con le ali da Demone terribilmente geloso». «Proprio così, per la prima volta nella mia vita ho provato la gelosia, anche se credevo che fosse solo una specie di possessività perché l’amico Hugh era stato messo in secondo piano. E così, pian piano, ho capito che forse era qualcosa di più, fino a quando non ti ho rivelato i miei sentimenti. Ricordi quel giorno?». Annuii. Come se fosse ieri. Era poco prima che partissi per Stonehaven. «Ma non ho avuto il coraggio di fare altro. Mi sono messo in disparte, ho sofferto quando sei fuggita con Kevin. Perché in fondo al mio cuore sapevo che non era il ragazzo giusto per te, ma avvertivo che tra di noi si era forma-to un baratro. Perché, cos’era successo in quelle ultime settimane?». «Già, cos’era successo?», chiesi senza retorica.

«Lo scoprii quando l’Immacolato pensò di ridurmi in fin di vita e Vivian di trasformarmi in Demone. Non eri più una semplice ragazza. Tutto qua». Molto riduttivo. I miei sentimenti per Kevin non derivavano dal fat-to che eravamo entrambi creature svolazzanti. «E solo allora ho avuto il coraggio. Te l’ho già detto, diventare un Demone Emerso ha annullato la mia timidezza». Mi alzai in piedi. «Un’analisi accurata, ma dove vuoi arrivare?». «A dire che forse la mia natura umana ti impediva di capire che anche tu mi amavi. Infatti è successo solo dopo. A Galeria». Strinsi i pugni. «A Galeria è stato uno sbaglio». «No, Ellen, non è stato così. Quando ti deciderai ad ammettere che sei innamorata di me?». Ero davvero stanca di sentirmi dire chi ero, cosa provavo, cosa dovevo fare. Ero grande e vaccinata, sapevo benissimo come comportarmi. Con qualche difficoltà, ovvio. «Bene, è ora di prendere una decisione. E sai già qual è». Hugh, imibile, mi raggiunse. Non riuscii a sostenere il suo sguardo. «Non puoi farmi questo, Ellen». «Non ho altra scelta», mormorai con un filo di voce, mentre le lacrime mi affollavano le ciglia. «Non puoi farti questo». «Devo, Hugh». «Vuoi negarti la felicità». «Sono io che ho sbagliato». «Te ne pentirai».

«Lo so». Quando incontrai di nuovo i suoi occhi, vidi le pupille tremare. Così come le sue mani, che mi stringevano i fianchi e salivano lungo la schiena. «Ti amo, Ellen». Una lacrima mi rigò la guancia. «Magari mi allontanerò solo per un periodo». «Per quanto?». «Non lo so». «Una settimana». «Forse di più». «Un mese». Non risposi. «Due mesi? Quanto Ellen… dimmi quanto, ti prego». «Hugh, non rendere tutto più difficile. erà…», ma un singulto m’interruppe. Lui mi rispose con un sorriso. «Grazie. Adesso so che mi ami. Non potevi farmi una dichiarazione migliore». «Addio, Hugh», gli dissi con voce roca, indietreggiando. Hugh si avvicinò. Sentii il suo fiato sul mio mento, sulle mie labbra. E poi ancora un bacio. Non riuscii a oppormi. Perché sarebbe stato l’ultimo. E lo desideravo anch’io. L’ultimo, promisi a me stessa. Riaprii gli occhi lentamente. Il suo collo aveva assunto uno strano colorito violaceo. Le vene sembravano invase da inchiostro scuro, che disegnava nella pelle una ragnatela di tatuaggi. Incontrai il suo sguardo. Non vidi più le sue iridi verdi. Ma solo dei cerchi neri

come una notte senza stelle. Tentai di divincolarmi. Mi aggrappai alla tenda. Avanzai fino alla scrivania. Cercai qualcosa con le mani, rovesciai un libro a terra. Hugh non si muoveva, incollato alle mie labbra. Poi, un dolore improvviso al petto. E ogni colore sfumò nel nero.

24. Kevin Il rapimento

Corsi alla finestra. «Ellen!», urlai guardando di sotto. Una strada buia, illuminata dalle pozze di luce dei lampioni. Poche macchine ferme al semaforo. Qualcuno che eggiava sui marciapiedi. Un ragazzino che sfrecciava in bicicletta. «Ellen», ripetei ancora una volta, con il cuore in gola. Scrutai ogni angolo, ma di lei neppure l’ombra. Ero arrivato troppo tardi. Mi voltai, fuori di me. La tenda strappata. Un libro aperto sulla moquette. Nora mi raggiunse subito, incredula. «Cos’è successo?». Mi sentii avvampare. «Hugh! Maledetto! Ha preso Ellen!». «Cosa? Come hai detto?». Scagliai un calcio alla sedia, scaraventandola contro il muro. «Sono stato uno stupido. Hugh ci ha mentito fin dal primo giorno». Nora tentò di calmarmi. «Fermo, ragioniamo, non arrivare a conclusioni affrettate. Perché rapirla?». «Perché Ellen lo stava per lasciare». «Cosa? Ellen e Hugh stavano assieme?». «No, dannazione, no! Ma Hugh la voleva solo per sé». Mi girai di scatto, avvicinandomi di nuovo alla finestra. In un attimo le ali mi comparvero sulla schiena. «Kevin, stai esagerando, non mi pare una motivazione sufficiente».

«Ah no? Allora guardati attorno, Nora, ti pare che siano usciti dalla finestra in comune accordo? Hanno litigato, è evidente». «Ma noi non abbiamo sentito nulla…». Scossi la testa, frastornato. Avevo sentito qualche rumore, ma erano chiuse la porta del corridoio e quella della camera. Distratto dal dialogo con Nora sullla finta evasione di Stonehaven non gli avevo dato troppo peso. «Cosa hai intenzione di fare?», mi chiese quest’ultima. «Cercarla», ringhiai. Nora mi afferrò la mano. «È una cosa stupida, Kevin. Non azzardarti a farlo». Mi liberai dalla presa. «Devo. Salvare. Ellen», sillabai. Ma non feci in tempo a balzare sul davanzale della finestra che qualcosa mi colpì alla nuca. Persi i sensi. *** «Kevin, svegliati». Aprii gli occhi. Un dolore acuto alla testa. La vista appannata. «Kevin?». Un colpo di tosse. «Bene, ti sei svegliato. È un quarto d’ora che ci provo». Misi a fuoco. Il volto di Nora. La sala. Tentai di muovermi, ma avevo braccia e gambe legate a una sedia. «Cosa diavolo…». Inorridii. Nora mi aveva bloccato. Anche lei era un Discepolo dell’Ordine dell’Apocalisse?

«Sei confuso, e anche molto. Almeno da quello che leggo nella tua mente». «Liberami!». «Sta’ calmo, per una volta, dannazione!». «Perché mi hai legato?». Nora sbuffò, lanciandomi un’occhiataccia. «Per il tuo bene». «Sei impazzita?». «Se qui c’è una persona fuori di testa, quella non sono io». Inutile ragionare, la situazione era diventata assurda. «Nora, liberami subito», le ordinai. «Non lo farò». «Perché?». «Non mi hai lasciato altra scelta. Avevo pochi attimi per decidere, e non potevo lasciare che ti gettassi dalla finestra. Spero di non averti fatto troppo male». Ma il dolore era già ato, rimpiazzato dall’ansia di ritrovare Ellen. Avevo fallito su tutta la linea, fin dall’inizio. Non ero stato capace di difenderla a Galeria, nell’appartamento a Roma e neppure qui a casa mia a Inverness. No, non potevo rimanere fermo un minuto di più. «Devo ritrovare Ellen! Liberami subito!». «Scordatelo». Puntai i piedi a terra. Feci forza con le braccia, ma ero ancora troppo debole e le funi troppo spesse. Persi l’equilibrio e caddi sbattendo la faccia contro il pavimento. «Se preferisci stare in quella posizione non ho alcun problema a lasciarti così», commentò Nora, gelida. «Ma che diavolo ti prende?», farfugliai, facendo leva con i gomiti e girandomi

su me stesso. In un attimo Nora mi fu sopra. «Lo chiedi a me, Kevin? Mi stai chiedendo cosa mi prende? Diciamo che in questa splendida giornata dopo quasi un anno che non ti vedevo, mi tocca farti da baby-sitter e impedire che ti faccia del male». «Devo salvare Ellen!». «Aprendo le ali e volando nel cielo di Inverness? Sei un perfetto idiota. Hai visto per caso chi c’era per strada?». «Nessuno! Erano già scomparsi!», sbottai perdendo la pazienza. «E dove sono andati adesso? Dove l’ha portata quel bastardo?». «Ellen e Hugh non c’erano, è vero. Ma degli uomini vestiti in grigio camminavano tranquillamente lungo i marciapiedi, non te ne sei accorto?». «Certo!». «Chi pensi che fossero se non gli Immacolati? Ormai li so riconoscere anche da lontano, dovresti imparare anche tu». «E chissenefrega!», urlai fuori di me. «A loro forse interessa eccome se un Angelo Ombra spalanca le ali e vola per le strade di Inverness facendosi notare dagli uomini. Ti sarebbero stati addosso in meno di un minuto». «E allora? Non capisci, Ellen è in pericolo!». «Ma di certo non le sarai d’aiuto rinchiuso a Stonehaven. È questo che vuoi? Ti assicuro che ultimamente gli Immacolati non sono affatto clementi. E le regole del Consiglio sono inflessibili, non ammettono insubordinazioni. Già sei in una posizione difficile con l’Arconte, che non vede l’ora di avere un altro pretesto per schiaffarti in prigione e buttare via le chiavi fino al prossimo Tetrastile. Sei solo una scocciatura per le Sfere e le Spirali, renditene conto». Mi morsi le labbra. Sì, Nora poteva avere anche ragione, non avevo minimamente pensato a quell’eventualità. Ma non mi importava un fico secco di andare contro le regole del Consiglio, dovevo comunque salvare Ellen. Stavo

perdendo solo tempo. «Liberami, non farmelo ripetere!», scattai di nuovo. Nora agganciò il mio sguardo. «Piantala, ti detesto quando fai così. Non sei cambiato negli ultimi mesi, sempre attaccato alla gonnella di Ellen, infischiandotene completamente di ciò che sei, un Angelo Ombra». Se non fossi stato legato le avrei risposto con un pugno in pieno stomaco. Non era proprio il momento dei rimproveri, né di ricordarmi qual era il mio ruolo. Nora mi fissò cercando di mantenere la calma. «Sarai capace tu stesso a spezzare quelle funi fra poco, appena avrai riacquistato le forze. Ti chiedo solo dieci minuti. Per pensare, per riflettere, ragionare e capire quale sia la cosa migliore da fare. Maledizione, Kevin! Sei sempre stato un bambino impulsivo». Emisi un gemito. Ero stato un idiota. Preso dagli eventi a Roma, avevo sottovalutato Hugh. Il suo ato. La sua trasformazione… In quel preciso istante sgranai gli occhi, realizzando ciò che era successo. «Hugh è un Discepolo di Nemesis», ammisi sbalordito. Nora scoppiò a ridere. «Non dire sciocchezze. Sei frastornato e confuso. Forse hai bisogno di più di dieci minuti». Le raccontai tutto ciò che sapevo di Hugh. Gli Immacolati che l’avevano ridotto in fin di vita, Vivian che per salvarlo da morte certa l’aveva trasformato in Demone Emerso, le sue menzogne sull’evasione di Stonehaven. Nora strinse gli occhi. «Impossibile. Mai sentito dire che un essere u-mano possa essere trasformato in un Demone, eppure come sai ho studiato molto negli ultimi mesi. Non è… oggettivamente possibile, tanto meno se un umano è in fin di vita. Cos’è, una specie di resurrezione, possessione demoniaca?». «Non sappiamo cosa sono capaci di fare i Demoni». «Ma le Sfere sì, così come i primi Cerchi. Angus mi avrebbe parlato di questa possibilità, perché rappresenterebbe una grave infrazione del Patto d’Equilibrio».

«Neppure Angus ne era al corrente», precisai. «Già. Ma se i Demoni avessero questa capacità, non credi che l’avrebbero sfruttata già da tempo? Quale migliore sciagura nel trasformare gli esseri umani in una legione demoniaca?». «Forse non ne sono capaci, o temono le conseguenze del Consiglio». «Anche i Discepoli dell’Ordine?». «Non lo so, Nora, dannazione! Non siamo qui per questo! La spiegazione più ovvia è che Vivian non si sia mai pentita e che sia sempre una fedele servitrice di Nemesis. L’Ordine dell’Apocalisse l’ha fatta evadere, il Consiglio ha taciuto perché la sua posizione era fin troppo a rischio. L’Arconte sarebbe apparso ancora più debole se si fosse diffusa la notizia che un Discepolo era fuggito da Stonehaven. Una volta libera, Vivian ha pensato bene di trasformare Hugh, che mi odiava per avergli portato via Ellen». D’un tratto, la faccenda mi apparve chiara. Tutto tornava, eravamo stati raggirati e manovrati come burattini. Anzi, ero convinto che Hugh fosse coinvolto con l’aggressione a Roma e con l’omicidio di Angus. «Rifletti, non torna», obiettò Nora leggendo i miei pensieri. «Perché Hugh si sarebbe fatto quasi uccidere se era d’accordo con quel Discepolo?». Scrollai le spalle. «Non lo so. Una messa in scena? Forse era già d’accordo con la Spirale, ha finto di essere in fin di vita ma non lo è mai stato». «E perché avrebbe dovuto farlo?». «Perché il Vaso di Salomone e il Grimorio erano già al sicuro mentre Angus, che era il pericolo maggiore, era stato eliminato. Hugh aveva già compiuto egregiamente la missione». Nora scosse la testa, confusa. «Continuo a non capire». «Hugh voleva Ellen. È sempre stato ossessionato da lei. Così, dopo che l’altro Discepolo ha ucciso Angus, ha recitato la parte fingendo di sacrificarsi per lei. Un modo per dichiararle tutto il suo amore e conquistarla».

«È da folli. Ma non avrebbe senso rapirla, no?». «Perché avevo chiesto a Ellen di scegliere fra me e lui. A quanto pare l’ha fatto, e Hugh ha perso il controllo». Serrai i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi delle mani. Come potevo essere stato così ingenuo? «Liberami subito. Dobbiamo andare a cercare Vivian, adesso». In quell’istante suonò il camlo. Nora si avvicinò alla porta e guardò attraverso lo spioncino. Poi si voltò, con espressione terrorizzata e mi fece segno di far silenzio. Non ebbi il tempo neppure di leggere i suoi pensieri. L’uscio si spalancò con violenza, sganciandosi dai cardini. Entrò una figura ammantata, il volto contratto in una smorfia di rabbia. Mi si gelò il sangue. La gola si seccò all’improvviso. «Vivian…».

25. Ellen Buio

«Mi fai il solletico!». Nuda. Supina sul letto. Toccai con la mano le lenzuola di raso. Erano fresche, piacevoli al tatto, coperte da un manto di piume bianche e nere. Volsi la testa di lato, guardandolo con la coda dell’occhio. «La smetti?». «Perché dovrei?». Una voce calda. Rassicurante. Ipnotica. Irresistibile. Gli sorrisi. «Posso riposare almeno cinque minuti? Ti prego, sono distrutta». Hugh mi morse il lobo dell’orecchio. «Te ne ho concessi due. Mi sembrano più che sufficienti». «Ma ho sonno…». Hugh scivolò sopra di me. Sentii il suo petto sulla mia schiena, il corpo che aderiva al mio, il cuore che gli batteva all’impazzata. Era ancora sudato, aveva il respiro affannato. Non riuscii a contenere un gemito di piacere, e Hugh mi coprì le labbra con le dita. «Mi arrendo», mormorai allungando le braccia sotto il cuscino. «Ti sei arresa tanto tempo fa, Ellen, ma ancora non lo sapevi». Mi lasciai sfuggire una risata. «Dai, è tardi, lasciami stare», mi ribellai senza troppo vigore. «Non è mai tardi quando sto con te. Il tempo vola». «È solo una pazzia…». «Adoro questa pazzia. E lo vuoi anche tu. L’hai sempre voluto». «Fuggire?». «Sì, fuggire da tutto e da tutti. Sola con me». Mi scostò una ciocca di capelli sulla spalla, lasciandomi libero il col-lo. Mi baciò con delicatezza, quindi scese lungo le scapole. Inspirai a fondo. Lo desideravo con tutta me stessa. Volevo abbandonarmi al piacere senza più inibizioni, sensi di colpa, paura. Libera di esplorare nuovi mondi, oltreare i confini di una nuova vita. Inebriata dal suo profumo, persa nei suoi occhi penetranti, cullata dalle sue carezze. E, ogni volta che mi sfiorava, non potevo resistere. Ne volevo sempre di più, come una droga a cui non

riuscivo ad assuefarmi. «Ti lascio andare solo se indovini», ridacchiò lui, soffiando sulla mia schiena e alzando tutt’attorno un turbinio di piume nere. «Ancora quello stupido gioco?», protestai, ma Hugh mi schiacciò ancor più sotto il suo peso. Poi, sentii la sua lingua che mi sfiorava appena, disegnando una forma sulla pelle della mia schiena. «Mmm… lasciami indovinare… è una T?». «Riprova, puoi fare di meglio», sussurrò Hugh mentre continuava a baciarmi. «Una M?». «Fuochino…», si fermò, avvicinandosi alle mie labbra. «Stai sbagliando di proposito, Miss Lynch?». Alzai le spalle. «Stupido! Non è così facile!». Di nuovo la sua lingua tornò a muoversi sinuosa. Chiusi gli occhi, assaporando ogni istante. Sarei stata disposta a implorarlo se solo si fosse azzardato a smettere. «Una N?». «Brava». Trattenni il respiro. «Hum, questa sembra… una E?». «Aggiudicato». «Questa è una M. Un’altra E…». La sua mano cercò la mia. Le nostre dita s’intrecciarono. D’improvviso, una scarica d’adrenalina. Una sensazione di disagio. E Hugh continuava a imprimere le lettere sulla mia schiena. «S…», mormorai sentendo le forze venire meno.

Aprii gli occhi. La sua mano era una ragnatela di arabeschi neri. Quando Hugh si fermò, riconobbi l’ultima lettera e ricostruii l’intera parola. Il terrore mi pervase, il sangue si congelò nelle mie vene. Cacciai un grido. «Nemesis!». Mi svegliai di soprassalto. Avida d’ossigeno, presi fiato come se fossi rimasta in apnea per un tempo interminabile. Spalancai gli occhi. Attorno a me c’era solo buio. Denso, palpabile. Così impenetrabile che per un istante credetti di essere diventata cieca. Poi le ombre assunsero dei contorni appena distinguibili. Dove sono? Ero sopra un materasso senza lenzuola. Mi misi a sedere con fatica, i muscoli delle braccia e delle gambe erano intorpiditi quasi avessi dormito per giorni interi. Quanto tempo è ato? Nell’oscurità, i ricordi affiorarono alla memoria con prepotenza. Il litigio con Kevin. La discussione con Hugh. L’ultimo bacio. Le sue iridi che sprofondavano in pozzi neri. Io che tentavo di fuggire e divincolarmi dalla sua presa, mentre le forze mi abbandonavano e scendevo inesorabilmente nelle tenebre. Il cuore iniziò a martellarmi nel petto e la consapevolezza di ciò che era successo si trasformava in una verità cruda quanto inaccettabile. Hugh mi ha rapita. Mi alzai in piedi, il cigolio della rete ruppe il silenzio. Sentii un rumore in lontananza, un vociare confuso.

Nemesis. Il nome dell’Angelo della Luce e del Buio tuonò nella mia mente, così come le lettere che Hugh disegnava sulla mia pelle in quello che era stato solo un sogno. Un terribile incubo. Hugh. Nemesis. L’Ordine dell’Apocalisse. La gola mi divenne secca a tal punto che non riuscii neppure a deglutire. Perché l’idea che Hugh fosse coinvolto con i Discepoli dell’Ordine o che addirittura fosse la nuova incarnazione di Nemesis mi toglieva il fiato. No, non è vero. È solo un altro incubo. Avanzai un o incerto. Brancolai con le braccia nell’oscurità. Una parete. Liscia e fredda. La seguii, finché non giunsi a un angolo. Mi mossi per tutto il perimetro della stanza, fino a quando sentii delle sbarre di ferro. Mi trovo imprigionata in una cella. Ma dov’ero, a Stonehaven? Hugh era quindi d’accordo con l’Arconte? Mille idee e supposizioni mi affollarono la mente. Non c’era alcuna spiegazione logica per come si era comportato. A meno che non fosse impazzito dopo che gli avevo comunicato la mia decisione di non vederci più. O forse ero io che stavo cedendo alla follia? Scossi la testa. Hugh non si sarebbe mai comportato così, lo conoscevo bene. Se ne sarebbe andato, mi avrebbe lasciata in pace qualche giorno, poi si sarebbe fatto risentire. Era quello che mi aspettavo e che speravo: avere un po’ più di tempo per parlare con Kevin, fargli capire le mie ragioni, lasciare che riflettesse sull’accaduto e che gli sbollisse la rabbia. E poi, eravamo cresciuti insieme, come poteva solo immaginare che avrei cancellato la nostra amicizia? Sì, qualcosa era cambiato. Entrambi avevamo sbagliato. Ma c’era ancora margine per recuperare. Lo desideravo con tutta me stessa. No, non era possibile che Hugh mi avesse rapito. Avevo perso i sensi, era successo qualcosa di terribile. Ne ero sicura. «C’è qualcuno?», domandai a fior di labbra.

«Ellen?». Sobbalzai dallo spavento, inginocchiandomi a terra. Riconobbi subito quella voce. «Papà?». «Ellen sei tu?». «Mamma!». «Piccola mia! Sei viva! Sei qui… sei qui…», disse scoppiando a piangere. Lo stomaco mi si strinse in un pugno. «Dove siamo? Cosa vi è successo? Oh, mamma… papà…». Sporsi il braccio al di là delle sbarre, ma non sentii altro che aria gelida. «Siamo in una prigione, Ellen», mi disse mio padre, caustico. «Una prigione? Ero convinta che foste fuggiti e vi foste nascosti». «I Discepoli ci hanno trovati», intervenne mio padre. Deglutii. Le mie supposizioni erano quindi fondate. Hugh apparteneva all’Ordine dell’Apocalisse. Non ebbi il tempo di riflettere su quell’idea così assurda, che la porta si aprì con un cigolio. Un alone di luce mi trafisse le pupille, mi ci volle qualche istante affinché la vista si abituasse all’intensità di quel bagliore. Poi, un contorno scuro prese forma. La riconobbi all’istante e scattai in piedi. «Inghinn. Ancora tu». «Piacere di rivederti, Ellen», sorrise compiaciuta. «Che bello, la famiglia Lynch al completo. O quasi». Inghinn indossava un vestito scuro, che le aderiva al corpo come una seconda pelle. Era ancora più esangue di quanto ricordassi, il viso pallido incorniciato da riccioli corvini. Dietro di lei si trovava un altro individuo. Non fu difficile capire la sua identità.

Strinsi le mani sulle sbarre fino a farmi sbiancare le nocche. Serrai la mascella, trattenendo un impeto di rabbia. Feci forza sulle aste di ferro, ma erano costituite di una lega che non riuscivo neppure a piegare. Agganciai lo sguardo di Hugh. Glaciale, distaccato. Come se lo vedessi per la prima volta. E forse, chissà, era proprio così. In un attimo la rabbia mi salì al cervello. «Come hai potuto?», sbottai. «Hai sempre fatto il doppio gioco, fin dall’inizio?». «Ho fatto ciò che era necessario». «Liberami subito! E anche i miei genitori?». «Sarete liberati quando sarà il momento», intervenne Inghinn con un’espressione di vittoria stampata in volto. Non ci vidi più. Con i miei poteri, tentai di scagliarla contro il muro, ma lei resistette all’attacco di telecinesi e indietreggiò solo di qualche o. Il sorriso si allargò in un ghigno. «Ellen, non sai quanto piacere proverei a ucciderti con le mie mani. Arriverà il momento, te lo prometto». La ignorai, rivolgendomi di nuovo a Hugh. «Ti prego, dimmi che ti hanno costretto. Che ti hanno fatto il lavaggio del cervello. Che sei sotto una sorta di rito… che non sei la persona che ho conosciuto». Hugh rimase in silenzio, senza muovere neppure un muscolo. Scoppiai in una risata isterica. «Ci avevo quasi creduto, Hugh. Per un attimo avevo pensato che il nostro rapporto potesse essere più di un’amicizia. Invece è stata solo una menzogna. La prima volta che mi hai detto ti amo, anche quella era una bugia?». Nessuna risposta. «A Roma è stata tutta una messinscena? Il nostro bacio? Il tuo ferimento?». Scivolai sul pavimento, trattenendo a stento le lacrime. «Chi sei, Hugh?».

Inghinn mi rispose con un applauso. «Che scena commovente. Davvero, ho il cuore spezzato». «Cosa diavolo vuoi, tu?», ringhiai. «Tu e la tua maledetta combriccola avete ottenuto tutto ciò che desideravate. Avete rubato il Grimorio degli Avi, il Vaso di Salomone. Vi siete presi la vita di Angus. Adesso cosa volete ancora da noi?». Inghinn piegò le labbra in un sorriso impercettibile, la ignorai con stizza. «Dimmi, Hugh, in onore alla grande amicizia che ci lega, almeno per una volta cerca di essere onesto: ci hai imprigionato per vendicarti? Vuoi torturarci, ucciderci? Qual è il grande scopo dell’Ordine dell’Apocalisse?». Hugh strinse gli occhi, mentre Inghinn rideva divertita. «Tesoro, ti sei già risposta: l’Apocalisse. Non credo sia una novità, e dovrebbe essere chiaro da un pezzo anche a una mente piccola come la tua». «Però vi siete dati tanto da fare per la mia mente piccola e per quella dei miei genitori. Spie a Roma, traditori nelle Spirali del Vaticano, il piano perfetto del mio caro amico Hugh. Tutto questo per cosa?». Inghinn s’infuocò in volto e fece per rispondere quando una mano si posò sulla sua spalla. Era sopraggiunto un individuo vestito di un saio nero, con il capo chino coperto da un pesante cappuccio. Inghinn e Hugh non dissero altro. Si voltarono e uscirono da dove erano entrati, chiudendo la porta con un rumore sordo. Fu di nuovo buio. Mi accasciai a terra. Stanca ed esausta. In compagnia delle mie sole lacrime.

26. Kevin Il segreto di Vivian Barclay

«Salve a tutti», esordì Vivian varcando con sicurezza la soglia d’ingresso. Non ebbi il tempo di reagire né di ribattere. Le mani di Nora si illuminarono, i suoi capelli si sollevarono come spinti da un vento irreale. Il mio cuore perse un battito quando capii ciò che stava per succedere. Nora stava per utilizzare un potere di alto livello, che solo gli Angeli del Primo Cerchio erano capaci di sfruttare. L’aveva utilizzato l’Arcangelo Remiel, durante lo scontro con Nemesis, ma non ero sicuro che Angus lo sapesse padroneggiare. Eppure Nora, Secondo Cerchio, possedeva quel talento. Com’era possibile? Tutto avvenne in pochi istanti. Il pavimento iniziò a tremare, i mobili a muoversi, il lampadario cadde dal soffitto e si ruppe in mille pezzi. Lampi di luce avvolsero le braccia di Nora, quindi convogliarono sulle sue dita e si diramarono in aria formando una ragnatela dorata. Il bagliore era di un’intensità tale che fui costretto a voltare la testa e a socchiudere gli occhi. Quando li riaprii, Nora era in ginocchio, esausta, mentre un alone bianco pulsava a mezz’aria implodendo poco a poco su se stesso. Pochi attimi più tardi, una sagoma emerse dalla penombra. Due ali immense, scure e brillanti come l’ossidiana. Vivian le spalancò. I lineamenti del suo volto erano contratti in una smorfia di rabbia. «Complimenti, Nora. Stai facendo dei progressi, devo ammetterlo. Ma un Angelo Ombra del Secondo Cerchio non potrà mai competere con un Demone Emerso anziano come me, dovresti saperlo. Sono le basi, il tuo Arcangelo protettore non ti ha insegnato la lezione a dovere?». Quando Nora tentò di rimettersi in piedi, Vivian mosse appena una mano, scagliando un tavolo contro il suo fianco e costringendola di nuovo a terra. Mi morsi le labbra. Non potevo starmene immobile ad assistere all’uccisione di

Nora. Ero ancora debole, ma ero tornato abbastanza in forze per slegarmi dalle funi. Inspirai a lungo, radunando le energie rimaste. Bastò uno strattone, e queste si recisero liberandomi mani e piedi. Vivian scosse la testa. «Davvero, non riesco a capirvi. Eppure mi sono sempre impegnata con costanza, contro la mia volontà, cercando di essere ragionevole e tollerante. Non c’è nulla da fare, voi Angeli Ombra non riuscirete mai a starmi simpatici». Avanzò a o spedito, fissandomi negli occhi. Mi misi subito in posizione di difesa. «Piantala, Kevin. Cosa vuoi fare, prendermi a pugni?». «Non azzardarti a toccarla», la minacciai. «Chi? Nora?». «Dovrai vedertela con me». Vivian incrociò le braccia, fissandomi con disappunto. «Ti sembro per caso affaticata dopo aver messo fuori gioco un Angelo più forte di te?». «Non mi spaventi», esclamai digrignando i denti. «Sono pronto ad affrontarti, ma non ti permetterò di uccidere Nora». Vivian la guardò con la coda dell’occhio, soffocando una risata. «E per quale motivo dovrei farlo? Secondo te la mia giornata è così tediosa da perdermi nelle scaramucce con Angeli Ombra isterici e confusi come voi? Se non erro è stata la signorina McLean ad accogliermi con una fastidiosa scarica elettrica». Scosse la testa, sospirando. «Un giorno Ellen mi spiegherà cosa ci trova in un tipo come te». «Maledetto Discepolo», urlò Nora aggrappandosi alla tenda per rizzarsi di nuovo in piedi. Vivian mi guardò con aria implorante. «Kevin, per favore, sii ragionevole. Puoi dire alla tua amica di calmarsi? Mi sto infastidendo e, credimi, la prossima volta non sarò così delicata. Già la situazione è complicata, il tempo non è dalla nostra parte. Vi suggerisco di non aggravare ulteriormente la faccenda. Per il vostro

bene, naturalmente». Feci cenno a Nora di non muoversi. L’atteggiamento di Vivian era incomprensibile: la sua intenzione non era quella di ucciderci, altrimenti l’avrebbe fatto senza perdersi in tante chiacchiere. Aveva dimostrato a sufficienza che eravamo dei pivelli a suo confronto. Quindi, cosa voleva da noi? Scrutai il suo viso e vi lessi rabbia e preoccupazione. «Cosa sei venuta a fare qui?», sibilai. «Dove sono Ellen e Hugh?». Sollevai le sopracciglia, esterrefatto. «A quale gioco stai giocando, Vivian?». «Cos’è, il gioco a chi fa più domande? Esigo una risposta, grazie». «Mi stai prendendo in giro, vero? Il tuo piano ha funzionato alla perfezione». «Te lo chiedo per l’ultima volta: dove sono Ellen e Hugh?». «Sono scomparsi», sbottai. «Dannazione! Possibile che tu non sappia chi ha rapito Ellen? È stato Hugh, quel maledetto traditore, il Discepolo di Nemesis». Vivian cambiò subito espressione, sgranando gli occhi. Si avvicinò al divano e si mise a sedere lentamente. «Temevo che potesse accadere», mormorò tra le labbra. «Ma non credevo così presto». «Accadere cosa?», urlai. «Cosa volete ancora da noi? Avete preso tutto. La vita di Angus, il Grimorio, il Vaso di Salomone… e adesso anche Ellen». Vivian mi congelò con un’occhiataccia. «Non doveva andare così. È stato un terribile errore. Bene, mi occuperò io della faccenda». Fece per alzarsi, ma le sbarrai la strada. «Eri d’accordo con Hugh fin dall’inizio, vero? Siete servi di Nemesis…». «Non dire sciocchezze, Kevin. Non farmi pentire di aver sopravvalutato la tua intelligenza in ato».

«Ah sì? Che immenso dispiacere deludere l’amica di Ellen. Quella che ha sempre tramato alle sue spalle, dopo averla cresciuta come una figlia». Vivian si morse le labbra, ma non rispose. Rincarai la dose. «Dopo di che ha pensato bene di allearsi con l’altro amico di Ellen, Hugh. E ci siamo cascati di nuovo, credendo alle sue bugie e all’evasione da Stonehaven. Hugh era solo una spia dell’Ordine». Vivian intercettò il mio sguardo, glaciale. «Stai vaneggiando. L’unica spia, se ti fa piacere affibbiarmi questo appellativo, sono io. Ma adesso devo andare, Kevin, non c’è tempo da perdere in inutili spiegazioni. Tra Angeli e Demoni non ci sarà mai una tregua, mi pare chiaro. Ci sono pregiudizi che non si sgretoleranno neppure col are dei millenni». La bloccai ancora una volta. No, non poteva andarsene senza spiegarmi cosa diavolo stava succedendo. «Raccontami la verità, adesso! Ne ho il diritto!». «Tu non hai alcun diritto», mi disse a fior di labbra, mentre i suoi occhi si velavano di nero. «Se è vero che vuoi bene a Ellen, dimmi la verità. Oppure anche questo faceva parte della messinscena, Vivian?». Nora mi prese per un polso. «Lasciala andare. È vero, non possiamo affrontare Vivian, ma presto gli Immacolati saranno qui. Sanno percepire i nostri poteri a distanza». Vivian la ricambiò con un’occhiata di comione. «Gli Immacolati sanno benissimo dove mi trovo. Così come l’Arconte e il Consiglio. State brancolando nel buio». Rimasi di stucco. «Le Sfere e le Spirali sono d’accordo con l’Ordine dell’Apocalisse. L’evasione era solo una montatura». «Più o meno, non so cosa vi abbia raccontato Hugh», disse con tono mesto. Colsi quell’istante di debolezza e mi feci avanti. L’unica mia possibilità era

quella di fare leva sui suoi sentimenti, ammesso che fossero veri. «Vivian, sai quanto tengo a Ellen. Ti prego, dimmi cosa sta accadendo. So che non vuoi farci del male, se eri qui per eliminarci l’avresti già fatto». Vivian annuì. «Questo tono già mi piace. Meno male ogni tanto sei ragionevole». Si sedette su una sedia, vicino al tavolo. «Sarò breve. Dopo l’uccisione di Rachel, fui condotta alle carceri di Stonehaven con l’accusa di alto tradimento verso il Consiglio. Non perderò tempo a farvi capire le mie ragioni. Non starò qui a dirvi per quanti anni ho sofferto a causa delle ingiustizie che i vari Arconti hanno perpetrato nei miei confronti e in quelli di mio marito Adam». Non commentai, ricordavo benissimo la storia che mi aveva raccontato Ellen sull’esecuzione del marito di Vivian, accusato di un reato che non aveva mai commesso. «Un’ottima ragione per diventare una serva di Nemesis?», intervenne Nora. Vivian la ignorò, scuotendo la testa. «A quel tempo credevo che Nemesis fosse la soluzione per porre fine a un mondo corrotto e avvelenato. La salvezza, il messia che ci avrebbe condotti verso una nuova era. Mi sbagliavo, e me ne sono pentita amaramente». Trattenni a stento la rabbia. Ciò che Vivian aveva fatto non ammetteva alcuna giustificazione, ma il tono della sua voce sembrava sincero. «Ho trascorso un paio di mesi nelle carceri di Stonehaven, sola col mio rimorso», continuò Vivian. «Jamye era stata come una sorella per me, Ellen una figlia. Il dolore per la perdita di Adam mi aveva spinto in un baratro dal quale non riuscivo più a fare ritorno. Poi, ho capito che piangere sui miei errori non sarebbe servito a nulla, che il ato non si poteva cambiare. Dovevo rimediare in qualche modo. Al più presto». «Rimediare? Sai quante persone sono morte per mano dell’Ordine dell’Apocalisse?», chiese Nora. Vivian chinò la testa stringendo le braccia al petto. «E so anche quante ne potranno morire se raggiungeranno i loro obiettivi. Lo scopo di Nemesis è

sempre stato quello di spazzare via questo mondo e dare il via a una nuova era». «Ma non hai fatto nulla per fermarlo», precisai. «Credevo che le intenzioni di Nemesis fossero altre. Che a scomparire sarebbe stato solo il Consiglio, il maledetto Tetrastile e il Patto d’Equilibrio che fino ad oggi si è rivelato protagonista di ingiustizie. Un modo per far ingrassare l’Arconte e la sua combriccola di Sfere e Spirali. Purtroppo mi sbagliavo, è evidente. Non voglio nascondermi dietro a un dito». «Su questo mi trovi d’accordo. Va’ avanti», la esortai. «L’Arconte spesso si recava nelle prigioni di Stonehaven. Voleva assicurarsi che tutto procedesse senza problemi, era stato appena eletto e voleva raggiungere una buona credibilità nel Consiglio. Così chiesi di parlarci, e dopo vari giorni mi dette udienza. Ammisi le mie colpe senza remora, esprimendo il desiderio di aiutarlo a scoprire i piani dell’Ordine. L’Arconte dapprima mi negò l’appoggio, poi si trovò con l’acqua alla gola». «Quando il tramonto iniziò a sfaldarsi», ipotizzai. «Proprio così. Accettò la mia proposta, perché gli Immacolati, Emissari e Primi Cerchi non stavano ottenendo nessun risultato. Affinché potessi fare il doppio gioco con i Discepoli, inscenammo la mia fuga dalle carceri». «Non è vero, non c’è stata nessuna evasione», obiettò Nora. «Perché l’Arconte di certo non poteva divulgare una notizia simile. È stata messa in giro la voce, senza darle troppo risalto. Ma ti assicuro che i Discepoli l’hanno recepita all’istante, si sono messi sulle mie tracce e Inghinn mi ha trovato pochi giorni dopo». Nora scosse la testa, cercando il mio sguardo. «Una storia poco credibile». «Ma è la verità, che tu ci voglia credere o no. Inghinn voleva eliminarmi, perché sapevo troppo sull’Ordine dell’Apocalisse». «Ma non l’ha fatto, a quanto pare». «Sono stata brava, e comunque Inghinn è solo una serva di Nemesis, non può

prendere decisioni in modo autonomo. Ti assicuro che non è stato facile, Inghinn mi chiese di tenerla informata sulle mosse dell’Arconte». Sbuffai, incredulo. Vivian aveva fatto il doppio gioco con entrambe le parti. L’Arconte l’aveva fatta uscire dalle carceri affinché potesse fornirgli informazioni importanti sui Discepoli, l’Ordine l’aveva risparmiata perché si trasformasse nella loro spia all’interno del Consiglio. «Sicché, appena le acque si calmarono, andai subito a trovare la famiglia Lynch, e appresi che Ellen era fuggita con te, Kevin. All’inizio mi dispiacque, perché avrei voluto parlare con Ellen e spiegarle tutto l’accaduto. In seguito capii che era stata la scelta migliore, la situazione a Inverness era fin troppo complicata. Cercai di spiegare le mie ragioni a Jamye e Dorrel, ma non fu facile. Be’, naturalmente non mi aspettavo che mi accogliessero a braccia aperte, sapevo benissimo quale sarebbe stata la loro reazione. Come biasimarli, del resto... Così tentai di riconquistare la loro fiducia e mi presi cura di Damien, assicurandomi che la sua guarigione procedesse senza problemi. Avevo qualche conoscenza all’ospedale e detti precise istruzioni a riguardo». Affermazione alquanto discutibile: le condizioni di Damien erano pessime, non osavo immaginare come erano trattati gli Angeli e Demoni senza raccomandazioni. Evitai di commentare, l’unica priorità era ritrovare Ellen. Un velo di tristezza calò sul volto di Vivian. «Sapevo che non sarebbe stato facile, ma speravo che con il tempo Jamye e Dorrel avrebbero capito le mie ragioni. Poi la faccenda si è complicata». Strinsi gli occhi in una fessura. «Chi è Nemesis?». «Non so chi abbia preso il posto di Rachel», affermò Vivian con decisione. «Inghinn è il suo braccio destro, ma non ammette repliche su questo argomento né ho mai avuto modo di parlarci. Lei è il mio unico contatto». «E Hugh? Cosa c’entra in tutto questo?». «Dopo un mese, Inghinn mi spiegò il piano dell’Ordine, perché avevano bisogno del mio appoggio. Già lo sapete: ottenere il Vaso di Salomone per dare inizio all’Apocalisse». «Spezzando i Quattro Sigilli e iniziando la guerra tra Gerarchie Celesti e Legioni

Demoniache?». «Questo era il loro piano. Quando capii che la situazione stava precipitando, corsi a casa dei Lynch. Ellen era lontana, nascosta in qualche capitale europea, Damien era al sicuro all’ospedale, dovevo solo assicurarmi che Jamye e Dorrel fuggissero al più presto dalla città, prima che si scatenasse una vera guerra. Nemesis era pronto a spazzare via il Consiglio appena avesse ottenuto il Vaso. E, nel frattempo, aveva intenzione di regolare i conti con gli Angeli e i Demoni più pericolosi. Inutile dirvi che i Lynch erano nelle prime posizioni di quella lista…». «Già, questa parte della storia la conosciamo», la interruppi, riferendole poi la versione dei fatti così come ci era stata raccontata da Hugh: dalla sua fuga dagli Immacolati all’incidente che l’aveva ridotto in fin di vita. Vivian si alzò in piedi e si diresse verso la finestra, imibile. «Quello è stato un altro mio grave errore», ammise con voce roca. «Quando raggiunsi la casa dei Lynch era troppo tardi. Jamye e Dorrel erano stati rapiti dall’Ordine, e non potevo affrontare due Discepoli di livello superiore al mio. Non solo, avrei compromesso la mia posizione nell’Ordine senza ottenere alcun risultato». «I genitori di Ellen sono stati…», mi bloccai, deglutendo. «No, non sono stati uccisi. Solo imprigionati». «Per quale motivo?», domandò Nora. Vivian piegò le labbra in un sorriso impercettibile. «Nemesis non è solito dare spiegazioni, tantomeno Inghinn. Comunque, Hugh su questo non ha mentito: lo trovai mezz’ora più tardi in fin di vita sulle rive del fiume Ness. Gli Immacolati avevano eseguito le istruzioni dell’Arconte al-la lettera: evitare che qualsiasi umano potesse accorgersi della presenza di Angeli e Demoni». «Allora hanno cambiato strategia, in ato gli bastava cancellare la memoria», notai con sarcasmo. Vivian fece spallucce. «Molte cose sono cambiate da quando il tramonto si è assottigliato. Le regole a cui siamo abituati non valgono più. Del resto non credo

che gli Immacolati volessero ucciderlo, è stato solo un incidente». Serrai i pugni. «E forse sarebbe stato meglio, visto l’evolversi degli eventi». Vivian mi restituì un’occhiataccia. «Smettila di dire stupidaggini senza sapere la verità». «La verità è che Hugh ha rapito Ellen e l’ha portata dai Discepoli, dannazione», mi scaldai. «La situazione è più complessa». «Bene, spiegacela», la incalzò Nora. «Vediamo se le tue bugie sanno stare in piedi». Vivian glissò sul commento, tirando un lungo sospiro. «Sapevo quanto Ellen tenesse a Hugh, non potevo lasciare che morisse. Non so, forse nella mia mente si era insinuata l’idea che se l’avessi salvato, Ellen mi avrebbe perdonato per i miei errori». «E così… l’hai resuscitato trasformandolo in Demone?», chiesi incredulo. «Non proprio. Lo condussi a casa mia, tentando di curarlo. Non potevo di certo rivolgermi all’ospedale, gli Immacolati mi sarebbero stati addosso e avrebbero portato a termine il lavoro». «Sono solo menzogne! Non esiste un rito per trasformare un essere u-mano in un Angelo», obiettò subito Nora. «Ma in Demone Emerso a quanto pare è possibile». Vivian si ò una mano tra i capelli, scuotendo la testa. «Un’ora più tardi, venne a trovarmi Inghinn, per assegnarmi una nuova missione. Avevano scoperto che il Vaso di Salomone si trovava a Roma, e avevano avvertito i Discepoli di Roma e del Vaticano. Al contempo però c’era stata una fuga di notizie, e alcuni Angeli e Demoni del distretto si erano messi sulle tracce del manufatto. Un bello smacco per l’Arconte di Inverness». «Sappiamo bene la storia», la interruppi. «Quindi anche tu, come Angus, eri in contatto con le Streghe?».

«Certo, ma non è facile scendere a compromessi con loro. Comunque, chiesi a Inghinn di aiutarmi a salvare Hugh. Magari avrebbe chiesto aiuto a un Demone Emerso più potente di me, che fosse stato capace di curare quelle ferite». «Lei lo fece?», trattenni una risata. «Non credevo che Inghinn fosse così comionevole». «Certo che no, mi disse di lasciarlo morire, era solo un inutile essere u-mano. Se ne andò, dicendomi che sarebbe tornata entro poche ore per affidarmi una nuova missione dopo aver parlato con Nemesis. Le risposi che l’avrei aspettata, non potevo di certo mostrare comione per Hugh». Scossi la testa, qualcosa non tornava. «Potevi chiedere aiuto all’Arconte?». «Ed era quella la mia intenzione», replicò subito Vivian. «Ma non ne ebbi il tempo. Inghinn tornò prima del previsto, infuriata. Non capiva perché Nemesis avesse a cuore la vita di Hugh, ma era sua intenzione salvarlo. Così lo fece condurre nel covo dell’Ordine». Spalancai gli occhi. Quella era l’unica informazione di cui avevo bisogno per ritrovare Ellen. «Dove si trova?». «Non lo so. A nessuno è consentito l’accesso al Tempio di Nemesis, se non ai suoi più stretti consiglieri. Nel frattempo Inghinn mi affidò una nuova missione, non era più importante che seguissi da vicino le mosse dell’Arconte. Volevano che andassi a Barcellona, per tenere sotto controllo l’operato delle Streghe e del krisnitòri». Iniziai a camminare per la sala, pensieroso. La situazione era più complessa di quanto avessi immaginato e, soprattutto, non sapevo come trovare Ellen. Vivian si avvicinò e mi prese le mani. «Qualche ora più tardi Hugh tornò a casa. Rimasi sbalordita: non solo Nemesis gli aveva salvato la vita, ma l’aveva trasformato in un Demone». «Com’è stato possibile?». Scosse la testa. «Non lo so, i poteri dell’Angelo dell’Apocalisse sono ignoti, e di certo non sono paragonabili ai nostri, neppure a quelli di una Sfera o di una Spirale. Inghinn mi ordinò di prendermi cura di lui, senza darmi ulteriori

spiegazioni. Così feci: nei mesi seguenti gli spiegai tut-to ciò che sapevo sugli Angeli e sui Demoni, gli insegnai a padroneggiare le sue doti di Demone Emerso. Rimasi sorpresa dalle sue capacità di apprendimento. Poi, circa dieci giorni fa, Inghinn tornò a casa nostra, comunicandoci il nuovo piano di Nemesis: Hugh sarebbe dovuto andare a Roma per controllare Angus, io a Barcellona per seguire le mosse delle Streghe». «E così è successo. Peccato che lo scopo di Hugh fosse un altro». Vivian si sedette, con gli occhi lucidi. Poi, tremante, cercò il mio sguardo. «Non lo sapevo. Non sapevo che Hugh era cambiato. Ma di una cosa sono certa: non si è trasformato solo in un Demone Emerso».

27. Ellen Prigioniera

Il risveglio non fu dei migliori. Qualcuno mi alzò di peso dal letto, una mano mi tappò la bocca, un’altra mi bloccò i polsi. Non opposi resistenza. Ero stanca, esausta, delusa. Priva di forze e voglia di combattere. Avevo trascorso ore e ore a parlare con i miei genitori, circondata da un muro compatto di oscurità, morsa da un gelo che mi penetrava fino alle ossa. Avevano tentato di rassicurarmi, dicendomi che tutto sarebbe andato per il meglio. Kevin mi avrebbe trovato, il Consiglio e l’Arconte erano già sulle nostre tracce e presto avrebbero scoperto l’ubicazione del covo dell’Ordine. Anch’io tentai di essere ottimista, facendo leva sulla gioia di essere viva assieme ai miei genitori. Divisi da una parete, ma a pochi i. Una magra consolazione, l’unica alla quale potevo aggrapparmi. Nel profondo però sapevo che erano solo un mucchio di menzogne, un pietoso tentativo di convincere me stessa che non era giunta la fine. Poi, quando finimmo di parlare, il silenzio calò di nuovo tra noi, come un pesante sipario che nascondeva la dura realtà: non avevamo speranza perché nessuno sapeva dove eravamo rinchiusi. La voce di mio padre mi aveva però dato sollievo. Per un istante mi sentii libera da quel senso di colpa che, come un tarlo, non mi aveva concesso un istante di tregua. Perché ero spalle al muro, immobile e impotente, e non potevo far altro che ammettere i miei errori e tentare di immaginare un finale meno drammatico. La dura legge del se. Se non avessi mai deciso di fuggire via con Kevin. Se non mi fossi allontanata dalla famiglia in un momento così difficile. Se non avessi anteposto il mio egoismo a ciò che era veramente importante per

me. Se fossi rimasta accanto a Damien, dopo tutti quegli anni di sua assenza. Se non fossi stata così stupida, immatura, ingenua. Se, se, e ancora se. La mia vita non era altro che un susseguirsi di decisioni, conseguenze ed eventi che ogni volta mi lasciavano senza respiro. Avevo quasi sedici anni, mi meritavo forse tutto questo? Desideravo vivere con pochi amici, senza sentirmi schiacciata dal peso della responsabilità, dall’angoscia di aver sbagliato e di non essermi comportata come gli altri si aspettavano. Non volevo essere un Demone Emerso. Non volevo dover cambia-re il mondo. Non volevo cancellare il male con il bene, né viceversa. Volevo solo trascorrere un tramonto senza che mi spuntassero le ali dalla schiena. Una ragazza qualunque, una studentessa del college. Lontana dalla luce dei riflettori, dalla notorietà, dalla fama, dalla gloria. Dalla responsabilità di essere devota al Basilisco e di dover impedire che il mondo sprofondasse nell’Apocalisse. Avevo imparato che ero artefice del mio destino ma, per quanto mi rifiutassi di ammetterlo, non potevo cambiare la mia natura. La natura di un Demone Emerso. Una creatura nata per instillare il male che si era ribellata a un futuro in parte già scritto. Non ero più Ellen Lynch. Forse questo era stato il mio grande errore. Fuggire in Europa, fingere di poter trovare un’altra normalità. Tentare con caparbietà di essere come un qualunque essere umano. E adesso, ironia della sorte, mi trovavo impotente di fronte a un destino che mi sbatteva come una barca in balia di una tempesta, naufraga di un’esistenza che diventava ogni giorno più insostenibile. Aspettative, per l’appunto. I miei genitori mi amavano, ne ero certa, e avevano desiderato che stessi con loro. Kevin mi aveva offerto l’alternativa di un sogno inespresso. Damien aveva avuto bisogno del mio aiuto. E poi Hugh. L’amico d’infanzia che mi aveva confessato il suo amore, a tal punto da confondere i miei sentimenti, mettere in discussione ogni mia certezza e sgretolare le mie più granitiche convinzioni. E poi, via la maschera, si era rivelato la persona più meschina che potessi mai immaginare.

Già, non era finita. C’era anche Vivian, una seconda madre che per la seconda volta mi aveva tradito, facendo leva sulla mia dannata debolezza. Adesso non avevo più forze. Perché si arriva a un punto di non ritorno, in cui si deve gettare la spugna e ammettere la propria sconfitta. Perché la sofferenza prolungata, il dolore e i tentativi di ottenere un obiettivo sempre più lontano mi avevano strappato per sempre la speranza che un giorno mi sarei rifugiata in un angolo remoto di questo mondo. Lontana dal terrore di vivere come una perenne fuggiasca e dalla paura di voltare le spalle ed essere pugnalata dalle persone a me più care. Le parole dei miei genitori mi avevano consolato quanto il calore di una candela può riscaldare durante una bufera di neve. Non volevo essere rassicurata. Volevo solo piangere. Sì, piangere come una stupida bambina. Fui condotta lungo un corridoio. Trascinai i piedi a terra, le braccia inerti lungo i fianchi, la testa china. I due Discepoli mi rinchio in un’altra cella, legandomi a una sedia con delle manette. Era una stanza asfittica, con un’unica luce a neon che appena rischiarava l’ambiente. Per il resto non c’era nulla di nuovo: un luogo angusto, umido e gelido. M’imposi di non pensare a nulla, per non perdermi in un dedalo di pensieri che avrebbe solo moltiplicato la mia paura. Perché sì, dannazione, per quanto mi sforzassi di restare indifferente ero dominata da un panico incontrollabile. C’era poco da girarci attorno: Kevin e io eravamo stati la causa dell’uccisione di Nemesis. Certo, prima che si reincarnasse di nuovo, stavolta nel mio migliore amico, che si era nascosto dietro l’identità di un Demone Emerso con due ali nere solo per ingannarmi. E fu proprio lui a farmi visita qualche minuto più tardi. La porta di metallo si aprì lentamente ed entrò Hugh, con o sicuro. Lo fissai dritto per un interminabile minuto. Fu un susseguirsi di emozioni contrastanti: rabbia, ribrezzo, odio e pena. Ma se Hugh si era ridotto in quello stato, doveva per forza esserci un motivo. Una spiegazione plausibile che non rendesse tutta la mia vita così assurda e cinica.

«Ciao, Ellen». Non mossi un muscolo. Non un tremito. Non una parola. Hugh mi squadrò dall’alto in basso. Non dovevo essere un grande spettacolo: pelle livida per il freddo, labbra screpolate e volto imbrattato di terra. I suoi occhi si posarono sulle catene che mi stringevano i polsi e le caviglie. «Posso togliertele, se ti fanno male. Ma devi promettermi che non tenterai una fuga. Altrimenti…». Voltai la testa. Non potevo sostenere il suo sguardo. Era troppo doloroso. «Altrimenti?», sibilai tra le labbra. «Ellen…». «Altrimenti renderai più breve la mia sofferenza? Cosa cambia morire adesso o fra qualche ora? Qual è la differenza? Fallo, fallo adesso e non pensiamoci più». «Non dire sciocchezze. Non sono venuto qui per ucciderti». Drizzai le spalle con sicurezza. «E allora non azzardarti a togliermi queste catene, Hugh. Perché devi guardale. Guarda i segni sulle mie mani. Guarda cosa mi stai facendo». Hugh si avvicinò di qualche o. Mi ritrassi sullo schienale della sedia, intirizzendo braccia e gambe. Il rancore esplose nel mio petto, trasformandosi in un gemito a fior di labbra. «Uccidimi, adesso. Ma promettimi che non lascerai morire i miei genitori. Sono io la responsabile della morte di Nemesis, non devi prendertela con loro». Sentii la sua mano sfiorarmi la guancia. Rabbrividii disgustata. Strinsi i pugni sul bracciolo e lo guardai. «Oppure liberami. Non ci sono alternative». «Ci sono sempre alternative». No, non poteva succedere per davvero. «Dimmi che fa tutto parte di un piano

che non conosco. Dimmi che sei dalla mia parte, come sempre». «Parla piano, Ellen», mi sussurrò. Scossi la testa. «Non ho più nulla da perdere, ormai. Nessuna notizia può ferirmi come hai fatto tu, Hugh. Siamo cresciuti insieme. Come un fratello e una sorella. Come hai potuto farmi questo?». Silenzio. «Hugh, accidenti, rispondimi! Cosa ti ha fatto Vivian? Com’è riuscita a cambiarti così tanto?». Le sue pupille tremarono per un istante. Hugh aveva abbassato le difese. Non potevo lasciarmi sfuggire quell’attimo di debolezza. «Quindi è stata una bugia? Mi hai sempre ingannata? No, non ci posso credere. Perché so che eri sincero quando mi hai confessato i tuoi sentimenti. A Inverness, a Roma… eri sempre tu». «Non ho mentito, Ellen». La rabbia s’impossessò di nuovo di me. Ero stata presa in giro per troppo tempo. «Sei tu Nemesis?». La sua espressione tornò algida, come se ogni cellula del suo corpo si fosse improvvisamente congelata. «Tutto fa parte di un piano più grande di te. Più grande anche di me». Trattenni una risata. «Un piano divino? È un anno che sono sbattuta nel grande e imperscrutabile quadro del destino. Ho il diritto di sapere la verità. La verità su chi sei veramente, Hugh. Non capisci quanto mi hai fatto male? Sono stata ore al tuo capezzale a Roma, terrorizzata dal-l’idea di perderti. Controllavo la tua ferita ogni minuto, misuravo la febbre. Pregavo per ogni minimo miglioramento. Ma anche quella era una messinscena, vero?». Hugh alzò un sopracciglio. «Chissà. Probabilmente non sarei mai morto». «Probabilmente? Ridicolo. Hai finto di morire?».

«Non ho finto nulla. Non sono stato io a supporre che sarei morto». «Eri in fin di vita, dannazione! Sei un bravo attore, Hugh. Cos’era? Una specie di trucco?» «Una lama che a vicino al cuore non è un trucco». «Già, chiunque morirebbe. Angelo Ombra o Demone Emerso che sia», sussurrai prima di intercettare di nuovo il suo sguardo. «Ma non sarebbe lo stesso per un essere più potente. Per uno come Nemesis, dico bene?». «Cosa stai insinuando, Ellen?». «Che prima è successo a Rachel. Caduta nel precipizio dell’isola di Skye, in fin di vita. Riportata a nuova vita. Non è successo anche a te?». «La verità può essere più dolorosa di qualsiasi altra supposizione». Sbuffai. No, non c’era nulla da fare. Hugh non mi avrebbe detto la verità, niente di più di quanto non sapessi o avessi già intuito. «Fra qualche ora i Discepoli dell’Ordine ti verranno a prendere. Abbiamo bisogno di te e della tua famiglia». Un altro brivido mi scosse dalla testa ai piedi. «Non azzardarti a toccare i miei genitori», ringhiai. Alzai i pugni in aria, ma le catene bloccarono il mio slancio. Hugh non parve affatto spaventato. «Dammi retta, Ellen, lascia che gli eventi seguano il loro corso. È la cosa migliore per tutti noi». Scoppiai a ridere. «È davvero fantastico trovarmi di fronte al mio migliore amico che mi dà l’estrema unzione. Ti rendi conto di cosa stai per fare? La mia vita non è nulla a confronto. Neppure quella dei miei genitori. Vuoi davvero aprire il Vaso di Salomone?». Hugh accennò un sorriso. «Non sarò io ad aprirlo». «Vuoi distruggere gli uomini? Sei cresciuto come uno di loro, fino a sedici anni!».

«Le cose cambiano». «Già, su questo sono fin troppo d’accordo. E qual è il mio ruolo in tutto questo? Prima spettatrice del mondo che cade in rovina? Di una carneficina che spazzerà via la razza umana, che ucciderà tutte le persone che amo, dalla prima all’ultima?». Hugh rimase immobile come un blocco di ghiaccio. «Vedrai morire tutte le persone che ti sono state accanto. Vedrai Kenneth ridursi in polvere. È questo che vuoi? Ed io, cosa rappresento? La prima offerta?». «Ti sbagli. Sei una pedina come tante». «E perché se sono una semplice pedina mi tieni prigioniera?». «Perché tu aprirai il Vaso di Salomone». Rimasi a bocca aperta. Non sapevo in quale modo mi avrebbero ricattato, forse con la vita dei miei genitori, ma non sarei stata io la persona che avrebbe dato inizio alla guerra tra gli Angeli e i Demoni. Forse avevano preso un abbaglio: non sarei mai stata in grado di aprire quel vaso. «Sei impazzito, Hugh. Non c’è altra spiegazione». «Forse nessuno di noi ha scelta. Tutto è stato già scritto e non possiamo più tornare indietro». «Non è stato scritto un accidente!», esclamai infuriata. «Hugh, ti prego, non credere a ciò che ti hanno detto, sono solo false promesse e speranze. Credi solo alle cose vere, ai ricordi, a ciò che eri un tempo». Hugh si limitò a scuotere la testa, quindi si voltò avviandosi all’uscita della cella. Tentai l’irrecuperabile. «Non può finire così. Non puoi andartene senza neppure dirmi addio». Lui si bloccò, a capo chino, poggiandosi con una spalla allo stipite della porta. «Non lo ammetto», urlai fuori di me. Tentai di divincolarmi sulla sedia e di

alzarmi in piedi, ma fu tutto inutile. Crollai di nuovo sullo schienale, gemendo per la fitta ai polsi e alle caviglie. «No, Hugh, non andartene, resta con me», farfugliai soffocando il dolore. «Ti prego, dimmi che non è tutto falso». «Addio, Ellen». L’urlo esplose dal mio petto. «Dimmelo! Adesso o mai più. Dimmi la verità».

28. Kevin Sulle tracce dell’Ordine

Osservai con attenzione ogni movimento di Vivian. Un semplice gesto, un tremore impercettibile delle labbra o delle pupille. Qualsiasi particolare mi fe supporre che stesse mentendo. Ma non fu così. Vivian Barclay stava dicendo la verità, proprio quella che per giorni mi ero ostinato a non voler credere. Eppure, nel profondo, avevo sempre intuito che c’era qualcosa di strano in Hugh. Il suo comportamento così sicuro e spavaldo, le sue battute al vetriolo, il suo modo sfrontato di porsi che cozzava totalmente con la persona che avevo conosciuto l’anno ato nel college di Inverness. Certo, Hugh e io non eravamo mai stati amici, ma da quei pochi incontri e da ciò che mi aveva raccontato Ellen mi ero fatto una precisa idea del suo modo di essere. Colpa della sua trasformazione in Demone, dovuta a chissà quale rito demoniaco: questa era stata la spiegazione con cui avevo liquidato il problema. Anzi, ad essere sinceri, avevo lasciato correre perché era un momento difficile con Ellen e non volevo creare inutili discussioni. Infine, sapevo che se avessi confidato quei dubbi sarei ato solo per il fidanzato geloso e oppressivo. Be’, a ragion veduta non avevo tutti i torti. «Ti ascoltiamo, va’ avanti», la esortai dopo una lunga pausa. Non volevo calcare troppo la mano con Vivian, sapevo quanto fosse irascibile e non avrebbe reagito bene a una valanga di domande. E, soprattutto, avevo compreso che teneva a Hugh, sebbene il motivo mi fosse del tutto incomprensibile. Dal suo tono di voce avvertivo un’apprensione esagerata, che andava oltre la volontà di riconciliarsi con Ellen prendendosi cura di un suo amico. C’era qualcosa sotto, Vivian stava omettendo particolari importanti, ne ero convinto. Lei scosse la testa, prendendosi altro tempo. Decisi di andare dritto al punto. «Quindi, se ho inteso bene, Hugh dopo la trasformazione è cambiato. Ad essere sinceri, anch’io mi ero accorto che non era più la stessa persona».

«Ellen ha detto qualcosa in merito?», mi domandò subito. «Non ho avuto modo di approfondire la questione a Roma. Comunque, credo che si fosse accorta che Hugh non era più il ragazzo che aveva lasciato a Inverness», risposi, evitando di scendere in dettagli. Non mi sembrava il caso di rendere noto ciò che era successo tra Ellen e Hugh. Un semplice e dannato bacio che adesso aveva assunto un significato del tutto diverso. In un certo senso mi sentii sollevato: Ellen non l’aveva baciato di sua spontanea volontà. Era stata soggiogata, o qualcosa di simile. «Pensi che Hugh sia diventato un Discepolo di Nemesis?», le insinuai il dubbio. «No, non lo credo affatto», replicò Vivian con tono secco. «Hai appena affermato che la trasformazione in Demone l’ha cambiato profondamente. Forse i suoi nuovi poteri l’hanno spinto a seguire una nuova strada?». «Non travisare le mie parole. Ho semplicemente detto che non so cosa sia successo. Non ho la più pallida idea di cosa gli abbia fatto Nemesis». «Devi ammettere però che l’Ordine dell’Apocalisse ha un certo fascino, al quale spesso è difficile resistere», intervenne Nora, con un accento piccato. «È successo anche a te, del resto». Vivian tuttavia non rispose alla provocazione e scosse la testa con aria rassegnata. «Ho chiesto a Inghinn i particolari del rito che l’ha trasformato in Demone. Ovviamente lei si è rifiutata di rispondermi, dicendo che non era affar mio. Questo fatto, lo ammetto, mi ha fatto pensare a lungo». «Perché?», domandai accigliandomi. «Perché Inghinn non mi ha mai permesso di accedere al Tempio di Nemesis. Perché non sono sicura che Nemesis si sia di nuovo reincarnato, né quale sia il suo vero piano». «L’Apocalisse, questo lo sappiamo già», precisò Nora, avvicinandosi al divano. Scossi la testa. Era come trovarsi di fronte a un tavolo sul quale erano poggiati una decina di pezzi di un puzzle ma, per quanto provassi, non riuscivo a trovare

il giusto incastro. «Le opzioni che mi vengono in mente sono due. La prima, quella più assurda, che Inghinn abbia usato il corpo di Hugh per reincarnare Nemesis». Vivian mi fulminò con un’occhiataccia. «Ipotesi remota». «Ma non da escludere», ribattei sicuro. «La seconda è che Nemesis avesse bisogno di una spia, per assicurarsi che a Roma tutto procedesse secondo i suoi piani». Nora scrollò le spalle. «Al suo seguito ha Angeli e Demoni molto più forti di te e di me. Perché avrebbe dovuto fidarsi di un neo-Demone?». «Perché probabilmente è un’idea di Inghinn», annuì Vivian. «Perché lei sa bene quanto siano determinati e testardi i membri del suo ex clan, a prescindere dalle loro doti e anzianità. E con ragione, mi pare che abbiate recuperato il Vaso di Salomone senza troppi problemi». «Nessun problema, in effetti. Ellen ferita, Hugh in fin di vita, l’uccisione di Angus. Sì, quella era vera», riposi con tono acido. Nora aveva perfettamente ragione: i Discepoli ci avevano manovrato a loro piacimento per poi colpirci al momento opportuno. «Quindi Nemesis, o Inghinn, o chi per loro, ha fatto in modo che la trasformazione di Hugh fosse tale da renderlo schiavo dell’Ordine» ipotizzò Nora senza troppa convinzione. «Magari Hugh ha una specie di… sdoppiamento di personalità?». «È l’unica spiegazione che so darmi», replicò Vivian, sospirando. «Ma non posso esserne sicura. Ho conosciuto Hugh, gli sono stata accanto per mesi insegnandogli le doti di un Demone Emerso. Hugh non è un mostro, né un folle». Nora scoppiò a ridere. «Se appartenere all’Ordine è da mostri e folli – osservazione sulla quale concordo appieno – allora anche tu lo sei». Vivian guardò altrove. «Hai perfettamente ragione, e non dico che l’Ordine dell’Apocalisse debba essere sottovalutato, perché sa essere molto convincente. Dove vuoi arrivare, Nora? Sì, sono stata un mostro. Quando ho compreso che

Nemesis non si sarebbe fermato di fronte a nulla mi sono pentita. E sì, sono stata una folle pensando di poter costruire un mondo migliore, privo di ingiustizie e scelte sommarie. Come quella che è toccata a mio marito Adam». Silenzio. Il tono della sua voce, sommesso ma al contempo sicuro, non lasciava margine di replica. «No, non so dirvi se Hugh mi abbia mentito, se la sua mente sia stata influenzata da Nemesis, se lui stesso sia la nuova incarnazione dell’Angelo dell’Apocalisse», disse infine chinando la testa. «Né riesco a capire perché l’Ordine abbia voluto rapire Ellen. Stanno per aprire il vaso di Salomone, perché dovrebbero perdere tempo adesso a vendicarsi dei nemici dell’Ordine? Una cosa è però sicura: dobbiamo salvare Ellen ad ogni costo». Serrai la mascella. «Proprio così. Dobbiamo scoprire dove sono al più presto, non perdiamoci in altre chiacchiere». Nora mi bloccò. «Ammesso che tutto ciò che ci ha raccontato Vivian sia vero, vuoi veramente fidarti di questa donna, Kevin? Non commettiamo errori di cui potremmo pentirci in futuro. Vivian ci ha già traditi una volta, non esiterà a farlo una seconda». «Abbiamo un’altra scelta? Ogni proposta è ben accolta», l’affrontai con decisione. Non potevo biasimare Nora, i suoi dubbi erano più che legittimi: se Hugh ci aveva sempre mentito, nessuno poteva assicurarci che anche Vivian non fe altrettanto. Anzi, la sua posizione, dati i precedenti, era ancora meno credibile. «Su questo non ho nulla da ribattere», dichiarò Vivian alzandosi in piedi. «Non mi aspettavo di certo la vostra collaborazione. Ma sono qui perché ho bisogno del vostro aiuto, e sono disposta a rispondere ad ogni vostra domanda. Quando ero a Barcellona, infatti, ho provato a contattare Hugh senza risultati». «Guarda caso anche Hugh ha detto la stessa cosa», sorrisi, scuotendo il capo. «Ma per poter affrontare i Discepoli, che ci piaccia o no, dobbiamo restare uniti. Da soli non ce la faremo mai». «Quindi? Come pensi di convincerci della tua onestà?», l’affrontò Nora.

Vivian si strinse nelle spalle, guardando l’orologio. «Posso solo dimostrarvi che parte della storia che vi ho raccontato è vera». «Una parte?», esclamò Nora. «È tutto ciò che posso fare per ottenere la vostra fiducia. Ho un appuntamento con l’Arconte fra non molto. Siete i benvenuti». *** L’incontro con l’Arconte durò meno di un quarto d’ora. Vivian gli raccontò l’esito del suo viaggio a Barcellona, dove aveva il compito di tenere d’occhio le Streghe e capire le intenzioni del krisnitòri Xavier Gomez, fino al suo ritorno a Inverness e al rapimento di Ellen. Mi dette quindi la parola, affinché fornissi tutti i dettagli di ciò che era accaduto a Roma, dalla ricerca della Chiave di Salomone all’uccisione di Angus. Appena terminai, Vivian prese le mie difese, sostenendo che il mio viaggio in Europa non era stato una fuga d’amore come si vociferava a Inverness, ma avevo semplicemente eseguito l’ordine impartito dal mio capo clan. Io, infatti, non avevo il compito di riferire alle Sfere, né avevo l’autorizzazione per farlo. Solo un Primo Cerchio, in tal caso Angus, doveva chiedere udienza al Consiglio in caso di missioni che riguardavano la salvaguardia del Patto d’Equilibrio. Una bugia ripugnante, a stento resistetti a non intervenire. Rimasi in silenzio, senza fiatare, mentre Vivian continuava a sostenere quella tesi assurda. Potevo fare altro? Trovare Ellen era la cosa più importante, ribattere significava rischiare una severa punizione e l’accusa di aver tradito le leggi del Patto d’Equilibrio. Finire a Stonehaven fino al prossimo Tetrastile non mi intimoriva, ma non mi avrebbe permesso di cercare Ellen. D’altro canto, queste riflessioni non mi rincuoravano. Erano solo un debole alibi che non alleviava il senso di colpa: ero complice di aver infangato il nome di Angus, l’unica persona che mi aveva dimostrato amicizia e sostegno. L’Arconte reagì in modo del tutto inaspettato. Sebbene fosse preoccupato per l’evolversi degli eventi, ribadì il suo scetticismo sulla veridicità della leggenda del Vaso di Salomone. Ritenendo però che l’Ordine dell’Apocalisse tramasse ancora alle spalle del Consiglio e che, dato l’assottigliarsi del tramonto, il Patto d’Equilibrio fosse ancora in pericolo, assegnò a Vivian l’incarico di scoprire il covo di Nemesis. Non espresse alcun dubbio sulla mia posizione: era evidente la

fiducia che riponeva in Vivian. Oppure, cosa più probabile, si trovava spalle al muro e per uscire da quella scomoda soluzione non aveva altra possibilità che affidarsi alla persona più vicina ai Discepoli. Con sollievo realizzai che la fuga del Demone Ellen e dell’Angelo Kevin non era all’ordine del giorno tra le attività del Consiglio. In pratica, quell’incontro fu la conferma definitiva che Vivian ci aveva detto la verità: era stata liberata dalle carceri di Stonehaven per spiare le mosse dei Discepoli e capire quale fosse il loro fine. Non mi sorpresi della freddezza con la quale l’Arconte accolse la notizia della morte di Angus: prima di diventare il primo ministro del Consiglio era una Spirale, adesso aveva un nuovo pretesto per mettere in cattiva luce l’operato delle Sfere e degli Angeli Ombra. In fin dei conti Angus aveva agito di testa sua, tradendo i suoi doveri di capo clan. Anzi, aveva l’assoluto dovere di riferire alle Sfere, perché solo loro potevano prendersi in carico un’operazione così delicata, benché l’inizio dell’Apocalisse fosse un’ipotesi remota, se non addirittura una follia. Insomma, un mucchio di conclusioni affrettate, sulle quali però non potevo esprimermi. Dopo esserci congedati dall’Arconte, ci dirigemmo a casa di Vivian. Nora non disse una parola durante il tragitto, era chiaro che l’idea di lavorare con un Demone Emerso non le andava affatto a genio, ancor più adesso che non aveva argomenti per attaccarla o mettere in dubbio la sua buona fede. Quando giungemmo a destinazione, Vivian ci fece accomodare in sala. Tornò poco più tardi, con una bacinella riempita di liquido scuro, una mappa e un sacchetto zeppo di vestiti. La guardai allibito mentre sgombrava il tavolo dai soprammobili. «Vivian? Che hai intenzione di fare?». «Domanda sciocca, Kevin. Di certo non me ne resterò qui con le mani in mano mentre Ellen rischia la vita. Né perderò tempo a fare le ronde per la città, come se i Discepoli fossero tanto stupidi da farsi beccare». Sottile allusione ai piani di Angus, quando l’anno precedente cercavamo i

Discepoli di Nemesis in tutto il distretto. Senza riuscirci, naturalmente. «Be’, la situazione è un po’ diversa adesso. Tu conosci l’identità dei Discepoli», mi difesi. «Solo di alcuni di loro. Ma nessuno sa l’ubicazione del Tempio di Nemesis, ossia dove si trova Ellen». «E probabilmente anche il Vaso di Salomone e il Grimorio degli Avi» aggiunse Nora. «Ma… cosa stai facendo?». Vivian dispose la bacinella sul tavolo e spiegò la cartina, poi si voltò di scatto. «Bene, avete verificato che ho detto la verità su ciò che mi è successo. Ma, visto che questa missione l’affronteremo insieme, vi dirò invece su cosa ho mentito». Aggrottai la fronte. «Che significa, Vivian?». «Che anch’io, come Angus, seguivo la mia strada», ammiccò. «Che è impensabile sperare che ci salvi il Consiglio. Che quando l’Arconte scoprirà dove si trova Nemesis e muoverà i suoi monolitici squadroni di Emissari e Immacolati, i nostri Discepoli saranno già lontani, pronti a scatenare l’Apocalisse. È sufficiente come spiegazione, Nora?». L’altra alzò gli occhi al cielo. «Per una volta mi trovi d’accordo. Un solo appunto, noi siamo in tre, loro in… decine? Centinaia? Vogliamo diventare dei martiri?». Vivian sorrise appena. «Tanto per chiarire: a nessun Discepolo è consentito accedere al Tempio di Nemesis, eccezion fatta per il suo braccio destro, Inghinn, e un paio di servi ai quali non è permesso mai uscire. Il nostro scopo è salvare Ellen e rispettare l’accordo con l’Arconte. Non ci penso neppure a scontrarmi con l’Ordine, non sono così pazza. Non ne abbiamo le possibilità». «Signore, scusate se mi intrometto nella discussione. Osservazioni interessanti, sulle quali concordo», intervenni con sarcasmo. «Ma manca il punto di partenza: neppure noi sappiamo dove si trova il Tempio». Vivian continuò ad armeggiare sul tavolo, disponendo tre candele scure in posizione tale da formare i vertici di un triangolo equilatero. «Secondo te cosa sto facendo, Kevin?», rispose senza degnarmi di uno sguardo. «Come vi dicevo,

a quanto pare senza catturare il vostro interesse, su alcune cose ho mentito. Ho accolto l’inutile richiesta dell’Arconte di controllare l’operato delle Streghe, ma con un preciso obiettivo: trovare il modo per scoprire l’ubicazione del Tempio». S’infilò un anello al dito medio della mano sinistra. Era di metallo, sulla parte superiore era impresso il simbolo delle triscele. «Un dono delle Streghe?», domandai indicandolo. «Più o meno. Diciamo che è un catalizzatore magico, che mi permetterà di eseguire dei semplici sortilegi». «Catalizzatore magico? Sei diventata una Strega?», si meravigliò Nora. «Non ancora, ma ci sto lavorando», sorrise Vivian. «Comunque… no, non c’è tempo per raccontarvi come sono riuscita a ottenere quest’anello da Xavier Gomez e la formula per il rito di localizzazione. Comunque, il piano originario era identificare la posizione di Inghinn, sperando di trovarla nel Tempio. Hugh doveva saccheggiare la dimora di Angus…». «Cosa?», esclamai. «Be’, saccheggiare forse è un termine esagerato. Mi serviva solo qualcosa che appartenesse a Inghinn, e quello era l’unico posto dove pensavo di trovarlo. Per assurdo, adesso è anche più facile, perché dobbiamo localizzare Ellen». «Ah, chiaro», risposi. Ma non era chiaro per niente. Rito di localizzazione? Triscele? Formule magiche? Cosa stava blaterando Vivian? Vivian notò il mio disappunto. «Non capisco Kevin perché ancora ti meravigli del mondo che ti circonda. Sei un Angelo, conosci i Demoni, sei disposto a credere che l’Apocalisse sia vicina e che i Demoni confinati nel Vaso di Salomone siano capaci di risvegliare le legioni infernali e le Gerarchie celesti. Sai che esistono le Streghe kalè di Barcellona, grazie alle quali Angus aveva recuperato informazioni vitali che vi hanno aiutato a trovare il Grimorio degli Avi e la Chiave. Perché, quindi, sei così meravigliato dall’idea che esista la magia?». Discorso che filava liscio come l’olio, niente da recriminare.

«Bene, venite attorno a questo tavolo», ci esortò Vivian, prima di rovesciare il contenuto del sacchetto sul pavimento. C’era di tutto: orsi di pelouche, cappelli, borse, magliette e sciarpe. «Vestiti e simpatici gadget che Ellen ha scordato a casa mia negli ultimi anni. Ecco, questo può andare», disse prendendo un capello da un maglione. «Nero, lungo, liscio. Non può essere che di Ellen. O almeno lo spero». Lo gettò nella bacinella, quindi immerse un mestolo nel liquido scuro. Girò tre volte in senso orario, tre in quello opposto. «Ci siamo, speriamo che funzioni». Sganciò una catenella che portava appesa al collo, e immerse il pendaglio nella mistura. Lo lasciò nella bacinella per qualche minuto, mormorando alcune parole incomprensibili. La osservai in silenzio mentre espletava il rito, tamburellando con le dita sul tavolo. Ero nervoso, temevo che stessimo perdendo altro tempo; ogni istante che ava poteva essere fatale per Ellen. Vivian accese le candele, quindi pose il pendaglio sopra la mappa e lo fece oscillare. Inarcò la testa, socchiudendo gli occhi e salmodiando una litania. Per un istante, mi sembrò che il triscele al suo dito emettesse un debole bagliore. Quando stavo per perdere le speranze, il pendaglio si fermò di colpo su un punto preciso della cartina. Mi sporsi sopra il tavolo con ansia, sgranando gli occhi. «Ecco il covo di Nemesis».

29. Il sangue dei Lynch

Ellen

Risvegliarsi fu ancora più doloroso della volta precedente. Mi faceva male ogni parte del corpo, i polsi e le caviglie mi bruciavano come se fossero stati marchiati a fuoco. Inspirai una boccata d’aria e quasi mi mancò il respiro. Aveva un sapore intenso, un odore pungente di terra umida e di bosco. Alzai le palpebre, pesanti come macigni, ma ciò che vidi fu solo un’accozzaglia di colori e sagome informi. I rumori mi arrivavano lontani e ovattati, quasi mi trovassi dietro una spessa parete di vetro. Un flash improvviso. Due Discepoli che sopraggiungevano nella cella dov’ero stata rinchiusa, poche ore dopo la visita di Hugh. Un individuo massiccio che mi schiacciava contro il muro, con un sorriso maligno. Il bagliore di un oggetto metallico. Un ago che mi penetrava il braccio. Rabbrividii. L’ultima cosa che mi ricordavo era la puntura della siringa. Poi, il vuoto. Mi avevano drogato. Non sapevo per quanto tempo ero rimasta incosciente né dove mi avevano condotto. Ero in piedi, di spalle contro una parete bagnata e fredda, le braccia alzate sopra la testa e i polsi incatenati. «Ellen…». Una voce alla mia destra. Mi voltai, strizzando gli occhi per mettere a fuoco la persona che mi aveva appena parlato. Avvertii una fitta allo stomaco. «Mamma, papà? Siete voi?».

«Siamo noi», sussurrò mio padre, sofferente. «Dove ci troviamo?». Silenzio. Poco a poco la vista divenne chiara. Mi trovavo in un’ampia sala, o forse una grotta, totalmente riempita di piante. Alberi, edere, arbusti rampicanti che s’insinuavano in ogni angolo, un reticolo di liane sul soffitto, rischiarato da una luce cerulea che filtrava da un manto fitto di foglie. Davanti a me c’era un altare di marmo, sopra il quale era riposto un libro dalla copertina di cuoio nero e il Vaso di Salomone. Subito dopo l’ara, sul pavimento erano state scavate delle buche, scure come pozzi e disposte senza un preciso ordine. L’ultima si trovava vicino a tre colonne che scendevano dall’alto fin quasi a toccare il suolo. Aguzzando la vista riuscii a intravedere una porta di metallo in lontananza. «Ellen, come stai, piccola mia?», mi chiese mia madre, con la voce spezzata dal pianto. Appena la guardai, trasalii. Capelli scarmigliati, occhiaie livide, un labbro spaccato e i vestiti ridotti a stracci. Mio padre era messo ancora peggio: privo di sensi, con il volto tumefatto chino sullo sterno, una palpebra gonfia che gli copriva l’occhio e la gamba sinistra piegata in una posizione innaturale. Non osavo neppure immaginare cosa gli avessero fatto e a quali torture li avessero sottoposti durante quei giorni. Non trattenni le lacrime. Volevo scusarmi con loro, ma non feci altro che singhiozzare. Il rimorso mi assalì: mentre me ne stavo in giro per mezza Europa, i miei genitori venivano seviziati senza pietà. «Perché ci hanno imprigionati? Perché ci stanno facendo questo?». ansimai, senza riuscire a darmi una spiegazione plausibile. L’Ordine dell’Apocalisse doveva prendersela solo con me, io ero stata la causa della scomparsa di Nemesis. I miei genitori non c’entravano nulla, la loro unica colpa era stata quella di mettermi al mondo. «Ce la faremo, insieme», mi consolò mia madre. «Papà? Come sta?».

«È solo svenuto. Quando sono venuti i Discepoli ha tentato di reagire, di difendermi e…». Chiusi gli occhi, incapace di sostenere il suo sguardo. Il dolore ai polsi mi distraeva da quel senso di colpa opprimente, obbligandomi a non pensare a un destino che sembrava ormai ineluttabile. Nemesis si voleva vendicare. Nemesis voleva le nostre vite. Nemesis non ci avrebbe concesso una morte dignitosa, avrebbe goduto della nostra sofferenza. Fino all’ultimo istante, quando il dolore sarebbe stato troppo insopportabile. Mi guardai attorno, mentre la rabbia fremeva nel mio petto. No, non poteva finire a quel modo. Non mi sarei arresa senza aver combattuto, finché le forze non mi avessero abbandonato. Ero un Demone Emerso, non più la ragazzina ingenua di Inverness. Mi concentrai, sorprendendomi di non essere del tutto esausta. I sedativi che mi avevano somministrato i Discepoli mi avevano costretta a dormire, permettendomi di recuperare energie. Bastò solo un secondo, un rapido movimento delle pupille, e il Vaso di Salomone si spostò di qualche centimetro sull’altare. «Non ci proverei fossi in te». Era una voce, poco più di un sibilo fastidioso. «Inghinn». Comparve dietro una cascata di liane. Aveva indosso un vestito nero e scuro, che la fasciava sui fianchi. I capelli raccolti sopra la testa, il viso truccato come se si fosse preparata per una serata speciale. Con una mano stringeva una borsa di pelle nera. «Che bello rivederti», mi disse a fior di labbra, che si piegarono in un sorriso impercettibile. «Dovevamo ucciderti alle Cascate di Foyers». «Sarebbe stata un’ottima idea. Peccato, però. Com’è che si dice? Ogni lasciata è persa».

«La famiglia Lynch è così importante per te, quindi?», la sfidai, mentre lei si avvicinava all’ara. «Mi dispiace dirlo, ma pare proprio di sì. E non sai quanto la cosa mi infastidisca». «Libera nostra figlia! Ha solo sedici anni…», gemette mia madre. «Dipendesse da me risolverei la questione in modo ben più sbrigativo», disse Inghinn estraendo dalla borsa degli oggetti: tre piccole piastre di vetro e un coltello dalla lama affilata. «Ma devo eseguire degli ordini. Prima il dovere, quindi il piacere». Si avvicinò a meno di un o, con un sorriso stampato sul volto. Mi ritrassi, schiacciandomi contro la parete. «Cosa… cosa hai intenzione di fare?». Non ebbi il tempo di concludere la frase che la lama mi tagliò una guancia. Una piccola ferita, superficiale, che tuttavia mi strappò un gemito. Inghinn raccolse una goccia di sangue sul vetrino, quindi ripeté l’operazione con mio padre e mia madre. Trattenni a stento le lacrime cacciando un urlo. «Basta, ti prego, lasciali stare». «Smettila di frignare, Ellen», mi zittì Inghinn tornando nei pressi dell’altare. Versò le gocce di sangue sul Vaso di Salomone, in tre punti distanziati. In pochi istanti scomparvero dalla superficie, quasi fosse fatta di un materiale assorbente. Il vaso assunse un colore più brillante, come se fosse stato lucidato. Fu allora che capii tutto. Per rompere il sigillo che teneva chiusa la Chiave di Salomone occorreva il sangue. E Nemesis aveva pensato bene di immolare proprio noi, la famiglia Lynch. «Ottimo. Vedo che tutto procede secondo i piani», disse una voce in lontananza. Mi voltai, deglutendo. Hugh apparve alla mia sinistra, ali scure spalancate dietro le spalle.

«Hugh, non puoi farmi questo», dissi con un nodo alla gola. Scossi la testa, mentre le lacrime si affollavano sulle ciglia. La sua presenza avrebbe reso tutto ancor più doloroso e inaccettabile. «Così è stato deciso», replicò lui senza neppure guardarmi. «No! Non è stato deciso nulla! Dimmi, cosa ti ha fatto Inghinn? In cosa ti ha trasformato? Ti prego, Hugh…». Non mi ascoltò. Lanciò uno sguardo d’intesa a Inghinn e pose il Vaso di Salomone a terra, proprio sotto l’altare. Mi accorsi allora di tre canali incisi sul pavimento, che confluivano nel punto in cui Hugh aveva posto la Chiave. Le tre scanalature si diramavano sul suolo fino a giungere sotto i nostri piedi. I due Discepoli non indugiarono oltre. Inghinn si rivolse a mia madre, le strappò un altro pezzo di veste e le infierì due tagli sulle gambe. Il sangue scese copioso lungo le cosce, fino a formare una pozza scura vicino al canale. La guardai mentre si dirigeva verso mio padre per ripetere la stessa operazione, quando Hugh mi comparve davanti. «Hugh, non farlo». I lineamenti del suo volto non si mossero. «Non puoi uccidermi. Non puoi desiderare che quel vaso si apra. Tu non sai che…». «So benissimo cosa sto facendo», replicò lui a denti stretti, mentre mi arrotolava i pantaloni. Provai a scalciare, ma le catene mi tenevano le caviglie schiacciate contro la parete. Lanciai un urlo quando il coltello mi penetrò la carne, poco sopra il ginocchio. La fitta mi annebbiò la vista. «Se è questo che vuoi, uccidimi subito», sussurrai. «Non farmi sopportare tutto questo». Le lacrime scesero copiose fin sotto il mio mento. Hugh si alzò, mi carezzò la guancia.

«Tutto andrà per il meglio», concluse voltandosi. «Non rendere tut-to più complicato». Scoppiai in un impeto di rabbia. «Complicato? Sei impazzito, Hugh». Usai la telecinesi per spostare il vaso, ma un’occhiata di Inghinn bloccò ogni mia capacità mentale. Allo stesso tempo, il libro di cuoio nero sull’altare iniziò a vibrare, mentre il sangue dei Lynch confluiva nei canali e andava ad abbeverare le bestie contenute nel Vaso di Salomone. «I Demoni di Salomone stanno per risvegliarsi», urlò Inghinn alzando le braccia al cielo, invasata dalla follia. Anche mia madre aveva perso i sensi. Le ferite inflitte da Inghinn era-no più profonde delle mie, presto sarebbe morta dissanguata. «Hugh, hai ottenuto quello che hai sempre voluto. Mi hai manovrato, mi hai usata. Spero tu ne sia felice». «Ho fatto ciò che dovevo», replicò lui, di spalle. «Bene, allora voltati. Perché devi guardarmi morire». «Non ne provo piacere». «Fino all’ultimo istante», strillai fuori di me. «Mi guarderai fino al-l’ultimo istante, con gli occhi della bestia che sei diventato: Nemesis». «Ti sbagli». La luce cerulea proveniente dal soffitto si attenuò per un istante. Un’ombra si stagliò nell’oscurità di un angolo della grotta. Avanzò lentamente, zigzagando tra le piante che coprivano il suolo. Era un individuo alto e massiccio, ammantato di una cappa nera, sulla quale erano ricamati arabeschi d’oro e simboli sconosciuti. «Hugh è solo un servo. Un Discepolo eccellente». Si abbassò il cappuccio, rivelando un viso spigoloso, zigomi e mascella sporgenti. Capelli biondo cenere e occhi chiari come il ghiaccio.

«Chi sei?», domandai confusa. La risposta giunse pochi istanti più tardi. L’uomo si tolse il mantello, dalla schiena si allargarono due ali: una nera e una bianca. Mi sbagliavo, Hugh non aveva ceduto il suo corpo a Nemesis. La creatura dell’Apocalisse era un perfetto sconosciuto. Chissà, forse un Angelo o un Demone che, come Rachel, era caduto nel baratro della disperazione cedendo alle lusinghe della bestia. «Siamo pronti?», chiese Nemesis a Inghinn. Lei s’inchinò, sorridente. «Finalmente. Com’è stato stabilito», rispose, indicando il Vaso che diventava sempre più lucido. In quell’istante ebbi un mancamento. Il taglio sotto il ginocchio non era profondo, ma continuavo a perdere sangue. Goccia dopo goccia, che stillava sul pavimento e si incanalava fino a dissetare i Demoni di Salomone. Solo allora la vendetta di Nemesis mi fu chiara: non gli bastava farmi assistere alla morte dei miei genitori, non era sufficiente torturarmi nel fisico e nell’anima. Voleva annientarmi la volontà, costringermi a osservare il mio stesso sangue che mi sgorgava dal corpo e dava vita al suo folle piano. Un supplizio che dilatava la sofferenza e la alleviava al tempo stesso, perché la mente era sopraffatta dalla coscienza di essere complice di una terribile carneficina: l’inizio dell’Apocalisse. Trovai la forza per ricacciare i gemiti e affrontare quell’orrore. «Quando il mondo sarà distrutto e non ci sarà più nessuno ancora in vita, come potrete godere del dolore delle persone?». Nemesis non si scompose. «Trai sempre conclusioni affrettate, Ellen. È uno dei tuoi più grandi difetti». «Dimmi, perché hai scelto proprio me e i miei genitori? Volevi vendicare la morte di Rachel? Ci siamo solo difesi, abbiamo salvato le nostre vite». «In tutta onestà, di Rachel non m’interessa nulla. Era solo un corpo, neppure

troppo forte». «Già, perché tu ti impossessi di un corpo. Le persone che distruggi non sono altro che questo. Un involucro, un contenitore che prendi e trasformi in un mostro, senza pietà». «Ancora una volta ti sbagli, Ellen. Sono loro a chiamarmi e Inghinn a esaudire i loro desideri. Possessione è un termine del tutto inappropriato». «Rachel non avrebbe mai creduto a quello che le sarebbe successo». Nemesis mi guardò con comione. «Perché tu conoscevi Rachel? Non mi risulta». «No, ma Kevin sì. Mi ha parlato della loro amicizia, della persona che era. E Rachel non avrebbe mai commesso quelle atrocità se non fosse stata manovrata da te», sbottai. «Come fai a ottenere il loro controllo? Confondi la loro mente?». Erano solo delle domande stupide, di cui non m’interessava minimamente la risposta. Ma in quel momento, incapace di trovare un modo per salvarmi, non avevo altra possibilità che prendere tempo. Forse era inutile, forse c’era ancora un barlume di speranza. Comunque, avrei lottato fino alla fine. «Affatto. Sono individui pronti a morire ma non ne hanno il coraggio. È uno scambio, Ellen: annullare la sofferenza per ricostruire un mondo migliore». «Cancellare il mondo, parla chiaro, perché è questo che succederà quando aprirai quel vaso». Nemesis lo raccolse da terra e lo ripose sul tavolo. Al solo tocco, il Vaso di Salomone emise un bagliore repentino. Si girò di scatto, agganciando il mio sguardo. «Smettila di fare l’ipocrita, Ellen. In cuor tuo non hai mai amato il mondo che ti circonda». Abbassai la testa di lato. «Sei tu a trarre conclusioni affrettate. Sono sempre stata felice? No, certo, ho sofferto ogni anno della mia vita. In ogni istante. Pensi davvero di conoscermi o sono solo una vittima scelta a caso? Una persona scomoda che hai pensato bene di immolare per seguire la tua follia?».

«Non è follia, è salvezza». No, non potevo starmene zitta ad ascoltare quella voce invasata dalla pazzia. Perché avevo capito cosa intendeva. La fine di un’era, un nuovo inizio che avrebbe riportato, come il Diluvio Universale, la razza umana alle sue origini. «Il peccato, gli errori, l’odio e la violenza fanno parte dell’animo u-mano. Ucciderai tutti, farai rinascere gli uomini. Ma la storia si ripeterà». Nemesis continuò ad armeggiare sull’altare. Accese sette candele ne-re su un candelabro, quindi cosparse l’ara di cenere. Inghinn e Hugh, nel frattempo, diffo l’aroma d’incenso nell’aria. «Senza dubbio, Ellen, ma si giunge a un punto in cui le macchie sono talmente scure che non è più possibile ripulirle e vedere la luce». «La luce si può vedere solo se si conosce l’oscurità. Non avrei mai provato la gioia se non avessi affrontato il dolore. Solo insofferenza». «Ne sei convinta?». «Certo, ma tu forse no. Perché non hai perso un fratello a otto anni, non hai ato l’infanzia senza l’affetto dei genitori, non hai scoperto a quindici anni che la tua vita era solo una menzogna e che l’essere un Demone Emerso pregiudicava per sempre la possibilità di essere una persona qualunque. Non hai rischiato di sprofondare in un vortice di even-ti che ti rendevano incapace di pensare, provare sentimenti, essere libero di esprimere la tua volontà. Non ti sei mai trovato di fronte a scelte dolorose, non hai visto i tuoi genitori soffrire, non sei stato tradito da un amico a cui tenevi più di te stesso. Non hai visto tuo fratello, sangue del tuo sangue, in un ospedale da mesi, in fin di vita, apire giorno dopo giorno. Chiunque tu sia, Nemesis, tu non sai cosa significa perdere la speranza». Dissi tutto d’un fiato. Le parole sgorgarono come un fiume in piena perché, adesso che tutto stava per concludersi, dovevo liberarmi per sempre da quell’angoscia che m’impediva di essere me stessa, mi annebbiava i sensi, stringeva le emozioni in una morsa di sofferenza. Era finita, certo. Ma tutto si sarebbe concluso come le mie parole. Con l’affermazione della mia volontà, che mai si sarebbe piegata al male.

Nemesis aprì il libro sull’altare, sfogliandolo lentamente. Poi camminò attorno all’ara e mi fu vicino. «Non sai quanto ti capisco, Ellen. E hai ragione: la storia si ripete. Perché la vita è come una spirale, giungi sempre al punto di partenza». «Tu non puoi saperne nulla. Parli di comione, ma sono io a provare pena per te». «Proprio così. Pena e comione, gli unici amici della solitudine che, anno dopo anno, mi hanno fatto capire che era giunto il momento. Il momento di cambiare». E, a quelle parole, anche il suo viso ebbe una trasformazione. I capelli si allungarono, una cascata scura sin sopra le spalle. I lineamenti si addolcirono, il ghiaccio dei suoi occhi si stemperò in un verde muschio. Silenzio. Solo il battito del mio cuore che rimbombava come tocchi di campana. Perché la verità che avevo davanti era troppo dura e inaccettabile. Perché, forse, dentro di me l’avevo sempre sospettato e mai ammesso. Che il dolore può cambiare. Che nella sofferenza non c’è salvezza. Che esiste solo la pietà. E che era accaduto anche a lui. L’origine e la fine. L’alfa e l’omega.

Kevin «L’orario delle visite è terminato, mi spiace. Potrete tornare domani mattina, alle dieci in punto», disse l’infermiera appena entrai nella sala dell’ospedale, senza neppure alzare la testa. Sospirai, dovevo trovare una soluzione senza dare nell’occhio. La osservai con più attenzione e la riconobbi subito. Era la stessa donna del giorno precedente,

quando avevamo fatto visita a Damien. «Lei è la signorina Aìbel MacMourrog?». «Ci conosciamo?», mi domandò alzando la testa. «Sì, ricorda? Siamo venuti proprio ieri. Per Damien Lynch», aggiunsi sottolineando il nome del fratello di Ellen. Lei scosse la testa, osservando il monitor davanti a lei. «Capisco la situazione. Mi spiace, ma non sono permesse visite a quest’ora tarda. Neppure in… casi particolari». In quell’istante si aprirono le porte scorrevoli dell’ingresso ed entrarono Nora e Vivian. Quest’ultima si avvicinò al bancone d’accoglienza. «Problemi?». Aìbel deglutì. «No, certo, non ci sono problemi». «Grazie. Saremo… discreti. Più o meno». Vivian sorrise e ci indicò la strada verso l’ascensore. Appena vi entrammo, sollevò le spalle. «Aìbel è un Demone Emerso. La sua famiglia, i MacMourrog, mi devono un favore. Sono certa che chiuderà un occhio sulla nostra visita fuori orario». «Per quanto ci aspetterà? Se dovesse venire a cercarci?», obiettai poco convinto. «Ellen è qui, ma non sappiamo dove». «Non ti preoccupare, Aìbel è una ragazza sveglia, non ci creerà problemi. Comunque, un modo lo troveremo per raggiungere il covo di Nemesis», concluse tirando fuori dalla borsa il pendaglio. «Funziona ancora?». «Funzionerà, stanne certo», mormorò Vivian mentre l’ascensore raggiungeva i piani interrati. Ci inoltrammo nel corridoio sotterraneo. Vivian teneva stretto in pugno il

pendaglio, che le indicava la via da seguire per ritrovare Ellen. Quando ammo davanti alla camera dov’era tenuto Damien, aprii la porta e detti una sbirciata. Damien era sul letto, coricato di lato e di spalle, con i tubi della flebo ancora attaccati al braccio. «Andiamo, non c’è tempo da perdere», mi esortò Vivian, imboccando la svolta a destra. Continuammo a seguirla senza fiatare e cercando di fare il minimo rumore possibile. Per fortuna, data l’ora, non c’erano infermieri nei dintorni. Nora tuttavia dava segni di nervosismo. «Ci siamo, andrà tutto bene», la rassicurai. «Metteremo fine a questa storia, una volta per tutte». «Lo spero, non credo sarà facile. Non siamo pronti ad affrontare l’Ordine, dovevamo aspettare e pianificare un attacco». «L’avrei voluto anch’io», concordai. «Ma non ne avevamo il tempo. Non so per quale motivo l’Ordine abbia deciso di vendicarsi di Ellen, credevo che avesse altre priorità ora che è in possesso del Vaso di Salomone. A meno che, ironia della sorte, tutte le nostre supposizioni non siano altro che un’assurda leggenda». «Lo spero, Kevin, ma non ne sono affatto sicura», disse Vivian, fermandosi di fronte a una porta di metallo e controllando ancora il pendaglio. «Di qua». La porta risultò bloccata, dovemmo usare i nostri poteri per sce la serratura. Non fu difficile, il metallo era corroso dalla ruggine, bastò una spinta per scardinarla. Dovemmo tuttavia agire con cautela, perché i montanti cigolavano al minimo tocco. Proseguimmo nel corridoio successivo, che non era illuminato. Rimanemmo dietro Vivian che, grazie alla sua vista di Demone, riusciva a orientarsi nella penombra. In fondo, si trovava un altro portone, bianco e più imponente del pre cedente. Sulla sua superficie erano impresse le parole «Sitra Ahra». «Ci siamo,

questo è il covo di Nemesis», bisbigliò Vivian. Non fece in tempo a dire quella frase, che udimmo un urlo. Era la voce di Ellen. «Damien, non farlo, ti supplico».

30. L’orrore dell’Apocalisse

Ellen «Io sono il figlio del Daat». Non so quanto tempo trascorsi in silenzio a osservare ogni lineamento del suo viso. La fronte, gli occhi, il naso, la bocca. I secondi mi sfuggirono come granelli di sabbia tra le dita. Trattenni il respiro, immobile e impotente di fronte a una realtà che non aveva nulla di razionale. «Sono io, Damien». La voce di mio fratello fu come il boato di un tuono in pieno deserto. La realtà mi piombò addosso con una forza dirompente. I miei genitori si trovavano alla mia destra, incatenati alla parete e privi di sensi, mentre morivano dissanguati per le incisioni alle gambe. Hugh, il mio amico d’infanzia, se ne stava alla mia sinistra, imibile e indifferente come se fossi una perfetta sconosciuta. Tutto questo era difficile da accettare, ma non era nulla in confronto a ciò che avevo appena scoperto. Damien, mio fratello, si era trasformato nell’Angelo nell’Apocalisse. Una creatura senza emozioni, pronta a uccidere i propri genitori e la sorella per spalancare le porte dell’inferno. No, non era possibile. Era un brutto incubo, uno scherzo crudele, un’allucinazione spietata. «Niente di tutto questo sta accadendo», farfugliai. Ne ero totalmente convinta, avevo perso la ragione. Forse ero ancora a Roma, svenuta dopo lo scontro a Galeria o in fin di vita dopo l’attacco del Discepolo. La mia immaginazione aveva viaggiato nel tempo e si era mossa in una dimensione parallela, distorcendo la realtà in un tormento infinito. «Prima lo accetterai, Ellen, prima scoprirai che esiste una soluzione».

Inspirai più volte. E, in quel momento, l’unica cosa che seppi fare fu quella di aggrapparmi a qualche misera giustificazione. «È tutta colpa mia. Non dovevo lasciarti solo. Non dovevo fuggire da Inverness», singhiozzai scuotendo la testa. Damien si avvicinò con sguardo comionevole. «È stata una mia decisione, non avresti potuto fare nulla». «I nostri genitori, forse, non ti sono stati accanto. Non ti hanno saputo consigliare». «Mi hanno parlato a lungo, ma non ho mai risposto». «Quando ti strappano le ali si perde il lume della ragione». «Bugie, solo bugie. È stato solo dolore fisico. Le cure degli inviati del Consiglio mi hanno aiutato a sopportarlo, niente di così atroce». «Allora è colpa di Inghinn», urlai dimenando le mani con foga. «Dimmi, com’è andata? Eri in ospedale e quella bastarda ti è venuta a trovare. Stavi male e ti ha promesso che non avresti più sofferto, vero?». Inghinn mi ricambiò con un’occhiata carica di odio. Poi si addolcì, rivolgendosi a mio fratello. «Mio Signore, non sprechiamo altro tempo in queste sciocchezze. A cosa serve perdersi in inutili chiacchiere? Il rito ci attende! Basta solo una tua parola…». «Oh, no, perché tutta questa fretta? Mio fidato Discepolo, ti sbagli. Non sono domande stupide. Mia sorella mi sta chiedendo perché ho deciso di scendere nel pozzo del Daat e accogliere l’Angelo dell’Apocalisse. Mi pare un quesito legittimo, perché non dovrei soddisfare la sua curiosità?». «Perché non abbiamo più tempo», rispose a denti stretti. «Il tempo è stata sempre la mia ossessione, la mia eterna punizione. Vero Ellen? Otto anni rinchiuso a Stonehaven non sono stati affatto piacevoli». Bastò quell’allusione per insinuare un nuovo terribile dubbio. Damien non era

impazzito perché gli erano state strappate le ali, né era stato soggiogato da Inghinn. Aveva agito in modo intenzionale con un unico scopo: vendicarsi per l’ingiustizia subita. «La vendetta non allevierà il ato. Nessuno cancellerà quello che è successo, non si può più tornare indietro», gli dissi con sicurezza. «Qual è il tuo scopo? Vuoi incolparmi per quello che è successo? Fino a qualche mese fa ho creduto che tu fossi morto annegato nel golfo di O-ban. Eravamo solo dei ragazzini…». «Proprio così», mi rispose lanciando un’occhiata disgustata ai nostri genitori. «Loro sono stati dei deboli, hanno permesso che marcissi in quel carcere per otto lunghi anni». «Non è vero!», sbottai stringendo i pugni. «Sai benissimo che non è così! Hanno fatto di tutto per salvarti. Si sono disperati per anni, cercando l’appoggio di qualsiasi Immacolato…». «Ma per favore, Ellen, smettila di offendere la tua intelligenza. So che non sei una stupida. Immacolati? Sai a cosa serve il Tetrastile? A gettare a caso un Angelo o un Demone nelle fogne di Stonehaven, in modo che sia chiaro il potere dell’Arconte e il braccio di ferro del Consiglio. Possibile che fossero così sciocchi da non saperlo?». Scrutai il suo ghigno, tentando di trovare le parole giuste per farlo ragionare. «Hanno scelto la via legale per salvarti, vuoi condannarli per questo?». Damien si voltò e tornò a sfogliare il libro dalla copertina di cuoio nero. «Ah, Ellen, quando si è piccoli si crede a tante cose. Per anni mi so-no illuso che mio padre venisse a salvarmi, ad aprire quelle maledette sbarre, a riportarmi a casa. Non sai per quante notti ho pianto invocando il suo nome…». Il mio cuore perse un battito, mentre le lacrime tornavano a rigarmi il volto e a bagnarmi le labbra. «No, non puoi sapere cosa significa vivere in quelle prigioni, quali violenze fisiche e psicologiche si possono subire. Sai quante volte sono venuti a trovarmi i tuoi cari genitori?». Scossi la testa.

«Prima era ogni giorno, prima del tramonto. Poi ogni due. Quindi una volta a settimana. Infine l’ultima domenica del mese, se tutto andava bene e non c’erano altre urgenze. Quali urgenze potevano avere, nascosti come topi a marcire in un’insulsa biblioteca della città?». «Non lo so, Damien! Guardali, per favore! Papà e mamma sono qui accanto a noi, stanno morendo dissanguati! Vuoi questo? Vuoi uccidere così anche me?». «Perché, non hai fatto lo stesso?», mi domandò sorridendo. «L’anno scorso non eri più una bambina, Ellen. Certo, eri un po’ disorientata per aver scoperto di essere un Demone Emerso, ma sapevi benissimo quali erano le conseguenze dopo la privazioni delle ali. Eppure sei andata via da Inverness senza neppure salutarmi». Provai a rispondere, ma non mi uscì mezza parola. «No, non ti scusare, non inventare giustificazioni. Eri confusa, oppressa, angosciata per tutto quello che era successo». «Ti ho sempre voluto tanto bene…», dissi con un filo di voce. «Così tanto che hai preferito abbandonare tuo fratello in fin di vita per volare via con uno stupido Angelo. Per coronare il tuo sogno d’amore come una stupida adolescente. E il tuo Damien, dimmi, dov’era allora? Già, proprio quell’adorato fratello che dici di aver pianto per not-ti intere? Avevi la possibilità di conoscerlo e di stargli accanto, ma hai preferito fuggire da tutto, evitare ogni problema. Sei una debole, Ellen, sei solo una vergogna, tale e quale a tua madre». Capitolai. Seppur sul filo della pazzia e con quelle parole così crudeli che mi tagliavano come lame, Damien aveva ragione. Ero stata un’incosciente e un’egoista. Amareggiata per quello che era successo, desideravo solo andare via da Inverness. Non volevo affrontare il problema di petto e, spinta dalla rabbia per l’impossibilità di stare con Kevin, avevo scelto la via più facile. Fuggire. Lontana da tutti e da tutto. Una stupida ripicca. In un attimo mi arono davanti le immagini degli ultimi mesi. Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Roma. Io che sorridevo, che scattavo foto con Kevin. Ignobile. Insensibile. Perché mio fratello era a Inverness, nel braccio della pazzia.

Era tutta colpa mia. «Ma io continuo ad amare la mia famiglia, non credere», continuò Damien poco più tardi. «Hai ragione, ho commesso un terribile errore», ammisi con la voce rotta dal pianto. «Ma non è così per i nostri genitori. Credimi, hanno fatto davvero di tutto per scagionarti, ma…». M’interruppi. Non avevo più le forze per continuare a parlare, per difendere le mie ragioni. Ragioni alle quali io stessa, per prima, non avevo mai creduto. «E il risultato lo conosci. Il Tetrastile, la mia condanna sommaria, le mie ali tranciate dagli Immacolati». Deglutii. Il solo ricordo di quel giorno mi faceva rabbrividire. «E poi cosa hanno fatto?», continuò Damien con voce cupa. «Hanno lasciato che mi trascinassero di nuovo a Stonehaven, aspettando che morissi». «Non è vero», urlai in preda alla disperazione. «Ti abbiamo salvato da quelle maledette carceri, Damien! Non fingere di non ricordarlo». «Tu mi hai salvato. Mia sorella, che dopo tutti quegli anni era diventata una perfetta sconosciuta! Ma loro no. Perché non esiste l’amore, Ellen. Nel nostro mondo esiste solo il dolore». «Non è servito a nulla quel gesto?». Damien socchiuse gli occhi. «Prendetevi la responsabilità delle vostre azioni. È giunto il momento di tirare le somme, proprio come l’Arconte si diverte a fare durante il Tetrastile. La bilancia, purtroppo, non pende dalla vostra parte». «E quindi vuoi ucciderci tutti? Vuoi vendicarti?». Damien scosse la testa, prendendo il libro tra le mani e sfogliandolo lentamente. «Non è così. Non provo odio, né rancore. Provo solo comione. Pietà per un mondo che è arrivato al termine di un vicolo cieco. Non c’è altra scelta, Ellen. Il mondo deve essere purificato: le dieci Sefiroth dovranno piegarsi su se stesse, le fronde dell’albero della Vita toccheranno le proprie radici fondendosi con le

Qlifoth». Rimasi a bocca aperta, senza capire ciò che stava dicendo. Non avevo più forze, perché nulla gli avrebbe impedito di concludere quella follia. «Sei mio fratello. Ti ho sempre voluto bene. Tu parli di dolore a Stonehaven… pensi che a Inverness sia stato diverso? Pensi che il gelo di questa maledetta città mi abbia reso felice?». Damien incrociò il mio sguardo. Le sue pupille tremavano, i suoi occhi si velarono di grigio. «No, ti sbagli. Provo pietà per te, sorella. So quanto hai sofferto. Per questo ti do la possibilità di una redenzione. Morirai e risorgerai in un nuovo mondo». Sentii il sangue congelarsi nelle mie vene. Perché quell’attimo di umanità che avevo intravisto, in un microsecondo era stato cancellato da un’ondata di fredda indifferenza. E, al tempo stesso, le sue parole mi furono chiare. Morire e risorgere. Proprio com’era avvenuto per Hugh, e conoscevo bene le conseguenze. Della mia umanità non sarebbe rimasta che cenere. «Non avere paura, Ellen, non sentirai nulla. Vi sacrificherete per aprire il Vaso di Salomone, e risvegliare i suoi settantadue Demoni. Saranno loro a chiamare i Quattro Cavalli dell’Apocalisse, a liberare le legioni Demoniache e le Gerarchie Celesti. Non sarà una lunga guerra, te l’assicuro. Quest’era di disperazione scomparirà in meno di un battito di ciglia». Sicché era tutto vero, come avevo supposto fin dall’inizio. Damien lanciò un’occhiata d’intesa ai suoi Discepoli, Inghinn e Hugh. «Ci siamo, che il rito abbia inizio», disse alzando un coltello davanti al petto. Mi schiacciai contro la parete, tremando. Non potevo far altro che gridare. «Damien, non farlo, ti supplico».

Kevin

«Damien, non farlo, ti supplico». Quando spalancammo la porta del covo di Nemesis, la voce di Ellen ancora echeggiava tra le pareti. Per un attimo mi guardai attorno, disorientato, riconoscendo quella che doveva essere un’ampia sala e che si era trasformata in una specie di giungla o grotta. Scorsi dei bagliori in lontananza, udendo ancora i gemiti di Ellen. Mi misi a correre, senza pensare ad altro che a salvarla. Oltreai tre strane colonne che pendevano dal soffitto, zigzagai tra pozzi neri scavati nel pavimento, quindi spalancai le ali e balzai davanti a un altare. Fu allora che rimasi senza fiato. «Damien?», mormorai, tenendo gli occhi fissi sulle sue ali: una bianca e una nera. Il marchio di Nemesis. La triade dei traditori si completava con Inghinn e Hugh, al suo fianco. La prima non era una novità da tempo e, dopo gli ultimi eventi, neppure il secondo. Tuttavia, trovarmelo davanti e vedere ciò che aveva fatto alla famiglia Lynch, che l’aveva accolto in casa fin da quando era piccolo, mi fece salire il sangue al cervello. Si era preso gioco di Ellen, l’aveva confusa facendo leva sull’affetto e sulla loro amicizia, in modo sleale e senza scrupoli. Damien inarcò un sopracciglio, abbassando lentamente la mano che impugnava un coltello. «Benvenuto, Kevin. Che incredibile coincidenza, parlavamo proprio di te poco fa». «Onorato. Non eri in un letto d’ospedale? Ti ho visto con i miei occhi». «Sicuro che fossi io?», mi sorrise. Corrugai la fronte. No, non avevo visto il volto, ma solo la schiena di un ragazzo… «Già, che ingenuo. Ci hai sempre ingannati, vero?».

Lui scrollò le spalle. «Vedila così: siete voi a giungere sempre a conclusioni affrettate». Mi bastò constatare com’erano ridotti Jamye e Dorrel e le ferite alle gambe di Ellen per sentire la rabbia ribollirmi nelle vene. «Kevin… vattene», mi disse Ellen con la voce soffocata. «Non senza di te». Inghinn avanzò di un o, seguita da Hugh, ma Damien li bloccò con un gesto della mano. «Calmi, calmi, non scaldiamoci inutilmente. È tutto sotto controllo». «Mio Signore, sono terribilmente dispiaciuta per questa interruzione, ma Kevin non è un problema», replicò Inghinn a denti stretti, guardandomi con odio. Damien scoppiò a ridere. «Certo che non è un problema. Tutt’altro, è un ospite gradito e necessario. Vero, Vivian?». Quelle parole furono come una doccia gelida. Mi girai lentamente, intuendo l’inevitabile. Vivian camminava con incedere lento tra i pozzi mentre Nora era bloccata contro una parete, braccia e gambe legate con delle liane e un groviglio di foglie che le tappava la bocca. Tutto era successo in pochi attimi, senza che me ne rendessi conto. «Ciao, Damien», esordì Vivian, piegando l’angolo delle labbra. La osservai sbigottito, scuotendo la testa. «Anche tu, Vivian?». «Kevin, per favore, non rendere tutto più difficile». Incrociai lo sguardo di Hugh, gelido e impenetrabile. Non me ne meravigliai, era la reazione che mi aspettavo. Bene, il teatrino era al completo. La triade si era trasformata in un bellissimo quartetto. Strinsi i pugni dalla rabbia. Ero stato uno stupido, dovevo dar retta alle mie

sensazioni che mi suggerivano l’unica verità possibile: Vivian e Hugh erano i servi di Nemesis e alleati con l’Ordine dell’Apocalisse. «Quindi non era così complicata la tua storia, Vivian. Niente doppi giochi con il Consiglio ma un solo obiettivo: servire sempre e comunque Nemesis. Che magnifica attrice, avevo quasi creduto al tuo pentimento. Quasi». Lei m’ignorò e si avvicinò di un altro o, elargendo un breve inchino a Damien. Con la coda dell’occhio vidi che Ellen stava piangendo. «Eccellente, Vivian. Lavoro encomiabile», la accolse Damien. «Avrei preferito che lei non ci fosse», disse indicando Nora. «Ma non potevo fare altrimenti, non prevedevo che Kevin si sarebbe rivolto alle sue vecchie conoscenze». «Peccato, mi hai sopravvalutato», le risposi, dando corda a quell’inutile dialogo. Nel frattempo, valutai la situazione. I genitori di Ellen non potevano esserci d’aiuto, ammesso che fossero ancora vivi. Ellen aveva subito delle ferite, ma riusciva a tenersi in piedi. Dovevo liberarla, insieme forse saremmo riusciti a fuggire. Avevo bisogno anche di Nora, che ancora tentava di tranciare gli arbusti che si muovevano come tentacoli. D’altronde, anche se ci fossi riuscito, eravamo in tre contro quattro. Escluso Nemesis. «Kevin, ti consiglio di lasciar perdere», mi suggerì Damien con fare stanco. Avevo schermato la mente ma forse aveva intuito i miei pensieri o, più probabilmente, i suoi poteri erano di gran lunga superiori alla mia immaginazione. «Non ti lascerò uccidere Ellen, e neppure Nora». Lui annuì, pensieroso. «Già, conosco il tuo coraggio, ma servirà a ben poco. Perché vuoi prolungare la tua sofferenza?». Poi si rivolse a Vivian socchiudendo gli occhi. «Non preoccuparti per Nora, non sarà un problema. Adesso però ho l’imbarazzo della scelta: quale Angelo è più adatto per concludere il rito?». Detto questo alzò il Vaso di Salomone da terra e lo ripose sull’altare. Notai con

sconcerto quanto fosse lucido e brillante. «Sai, Kevin, avevo scelto proprio te per dar inizio all’Apocalisse», proseguì con calma. «Per spezzare i Sigilli di Salomone è necessario il sangue dell’Officiante, ma la mia famiglia si è resa disponibile a prendere il mio posto, più o meno. Che fortuna avere due genitori e una sorella in vita». «È la tua famiglia! Come fai a essere così spietato?». «Ti lascio immaginare la risposta. Comunque, adesso mi serve il sangue della creatura a me opposta. Derivando io da un Demone Emerso, è necessario un Angelo Ombra». «Damien, no!», gridò ancora Ellen, singhiozzando. «Ti prego, risparmialo. Farò tutto quello che vuoi, ma non ucciderlo». Suo fratello la guardò con disprezzo. «Hai ragione, sorellina, questa scena pietosa si è protratta per troppo tempo. È ora che tu concluda il tuo lavoro. Mi devi semplicemente la vita». «E allora prendila! Ma risparmia i nostri genitori e Kevin». Mi accorsi che Nora era riuscita a liberare le gambe dalle liane. Dovevo solo aspettare qualche altro istante, poi saremmo stati in due. «Ti farà piacere sapere che non sarò io a ucciderti. Ma la persona che più ti ama», spiegò Damien. Non ebbi il tempo di ragionare su quella frase che le sue ali si mossero. Da quella nera si allungarono delle propaggini scure, che si avvinghiarono come uno spettro sul corpo di Ellen. L’altra, quella bianca, emise un bagliore dorato. Indietreggiai di un o, scartando sulla destra la prima lingua di luce, ma non fui capace di schivare la seconda. Appena fui colpito, avvertii un calore pervadermi dalla testa ai piedi, un’energia sconosciuta che s’irradiava in ogni angolo del corpo. Poi, un bruciore al-lo sterno, accompagnato un senso d’infinito piacere. «Fa’ quello che devi», mi ordinò Damien. «Obbedisci alla tua natura di Angelo Ombra».

E così feci. Avanzai fino a raggiungere Nemesis, che mi porse il pugnale. Mi voltai, avvicinandomi a Ellen. Il suo volto era trasfigurato in un ghigno diabolico. Non era più Ellen, ma un abominio di Demone Emerso, una creatura portatrice di male e foriera di dolore. Come potevo resistere al desiderio di uccidere quel mostro che infettava il mondo portando solo corruzione? Quello era il mio dovere, ciò per cui mi ero allenato duramente nell’isola di Skye. La squadrai dall’alto in basso. Provai ripugnanza, ribrezzo, odio. Doveva scomparire dalla terra, dovevo ricacciare la bestia nell’oscurità da cui proveniva. Strinsi l’impugnatura del coltello, l’avvicinai al suo collo. Bastava un gesto secco, rapido, e tutto sarebbe finito. Ascoltai la sua voce, simile al rantolo di una belva feroce. Annusai la sua pelle, che odorava di marcio. Vidi i suoi occhi, due cerchi scuri e maligni. Poi, per un solo istante, notai due ombre così piccole da essere quasi invisibili. Erano le pupille, che tremavano nascoste sotto una strato di tenebra. Avvertii un gemito, soffocato dal latrato del Demone, e un profumo appena percepibile, sovrastato da un tanfo nauseabondo. E allora capii che non era solo una belva immonda. Là dentro, da qualche parte, c’era un essere umano. C’è Ellen. Kevin, là dentro c’è Ellen. Quel sussurro m’instillò il dubbio. La mia mano divenne incerta. I pensieri si accavallarono gli uni sugli altri, il calore che mi bruciava le vene implose nel petto. «Ellen?», domandai a fior di labbra. «Fa’ quello che devi», m’incitò Damien, urlando. E la lama avanzò ancora, incidendo il collo di Ellen. Sarebbe bastato solo un altro sforzo, e mi sarei liberato per sempre da quella maledetta voce che mi rimbombava nella testa senza darmi tregua. È Ellen. La tua Ellen. Sei sicuro di volerla uccidere?

Presi la decisione in un attimo. La lama si mosse e penetrò nella carne, in profondità. Damien cacciò un urlo. «Cosa hai fatto? Idiota». Indietreggiai di un o, mentre il sangue sgorgava dalla spalla che mi ero appena trafitto. Non avevo avuto altra scelta: l’unico modo per contrastare quella forza che teneva incatenata la mia volontà era infliggermi un dolore talmente atroce da annullare qualsiasi altro pensiero. Trascorse un istante, le gambe tremarono. E caddi in un baratro di silenzio.

Ellen «Kevin». Lo vidi crollare a terra, una macchia scura si allargò sotto di lui. Tornai in me in un istante. Le propaggini che mi avevano attanagliato la mente svanirono, ripresi possesso della mia volontà. «Damien! Come hai potuto… sei un mostro», urlai fuori di me. No, non avevo più lacrime da spendere. Non avevo più la forza per giustificare, per lamentarmi, per disperarmi su ciò che era diventato mio fratello. Kevin si era sacrificato per me, colpendo se stesso pur di non farmi del male. Qualcosa scattò dentro di me. Come una molla, lo spirito di sopravvivenza mi caricò di ogni energia. Divincolai gambe e braccia, lo strattone fu tale da allentare persino le catene che mi tenevano imprigionata. Ma non fu abbastanza. «Hugh, esegui il lavoro. Ne ho abbastanza», esclamò Damien furente.

Un urlo in lontananza. Due ali bianche si innalzarono in aria. Nora si era finalmente liberata e, con un balzo repentino, era piombata addosso a Inghinn. Quest’ultima crollò a terra, presa in contropiede, cercando di liberarsi dalle mani che le serravano la gola. Vivian indietreggiò di un o, dietro Damien, che osservò a malapena ciò che stava succedendo. «Hugh, adesso», gli ordinò mio fratello. E Hugh obbedì. Estrasse il coltello dal corpo di Kevin, che giaceva a terra privo di sensi. Ripulì la lama lentamente sui pantaloni. Nel frattempo, Inghinn era riuscita a divincolarsi con un colpo d’ali. Saltò in avanti, distanziandosi da Nora. Questa la seguì immediatamente, finché non oltrearono l’altare e giunsero a pochi i da me. Agii. In quell’istante Nora era l’unica che mi avrebbe potuto aiutare. Non avevo altra scelta, e solo una frazione di secondo prima che Hugh completasse il lavoro. Non fu difficile trovare l’energia per muovere le liane e imbrigliare le gambe e la vita di Inghinn. Se Nora avesse intuito le mie intenzioni, avrebbe avuto il tempo di liberarmi, cogliendo di sorpresa gli avversari. Fui rapida ma non abbastanza. La mano di Hugh si strinse attorno alla mia gola. Chiusi gli occhi, aspettando che il coltello mi penetrasse nel petto. Poi, successe qualcosa d’inaspettato. Un fremito improvviso, il mio cuore che accelerava i battiti. Quando riaprii gli occhi, Hugh sorrideva. Si girò di scatto e lanciò il pugnale contro Inghinn, trafiggendola al collo. Lei sbarrò gli occhi, incredula. Un attimo, un rantolo e cadde a terra priva di vita. «Hugh», sbraitò Damien allargando le ali bianche e nere. In quell’avvicendarsi convulso di eventi, capii tutto. Hugh non mi aveva mai

tradita. Hugh non mi voleva uccidere. Hugh mi aveva sfiorata usando il suo potere per curarmi la ferita sotto il ginocchio, che volutamente aveva inferto in modo solo superficiale. E, infine, Hugh mi aveva liberato dalle catene, con un gesto così rapido che i suoi movimenti era-no stati a malapena percettibili. Nessuno l’avrebbe potuto notare. Nessuno eccetto Damien, il quale aveva già compreso le sue intenzioni. Gli bastò alzare un braccio, e un guizzo di luce scagliò Hugh contro l’altare. Libera dalle catene, mi scaraventai contro Damien. Le ali si distesero dietro le mie spalle, le unghie si allungarono diventando aguzze e arcuate. Lo colpii al braccio con tutta la forza che avevo, traandolo da parte a parte. Damien indietreggiò colto di sprovvista, poi mi respinse con un pugno allo stomaco. Mi mancò il respiro, mi piegai agonizzante sulle ginocchia. Quando riuscii di nuovo a respirare, Nora e Hugh stavano combattendo contro Damien. La loro forza non era paragonabile a quella di Nemesis, ma riuscivano tuttavia a spalleggiarsi a vicenda, respingendo i suoi attacchi e costringendolo ad arretrare. Erano in perfetta sincronia, e capii subito il motivo. Si stavano parlando tramite il pensiero, decidendo insieme le mosse da eseguire. La pelle di Damien assunse allora un colore dorato. Sapevo cosa sarebbe successo, era già accaduto alle Cascate Foyers durante lo scontro con Rachel. Grazie alla telecinesi, spostai le piante in modo tale che ci fero da scudo. Non fu abbastanza. Scaglie di luce si staccarono dalla pelle di Damien e schizzarono via come schegge taglienti. Gli arbusti ci colpirono alle gambe e alle braccia, evitando però che fossimo trafitti al petto e alla testa. Seppur stremata, radunai le ultime forze e scattai in avanti per difenderlo. Al contempo Damien alzò un gomito, sbattendomi all’indietro contro la parete. Il contraccolpo mi annebbiò la vista. Mi ripresi poco dopo pronta di nuovo a combattere, ma qualcosa era cambiato. Nemesis aveva sfoderato la spada della Luce e del Buio, la stessa arma con la quale Rachel aveva affrontato l’Arcangelo Remiel. Impugnandola a due mani, la alzò sopra la testa per calarla su Hugh.

Non seppi cosa fare, realizzando che qualsiasi mia azione sarebbe stata troppo lenta. «Basta così». Il volto di Damien si contrasse in una maschera di sofferenza. La spada si fermò a mezz’aria. Dietro le sue ali, fece capolino Vivian. «Basta così, Damien. Non c’è altro che puoi fare». Vivian teneva il braccio disteso all’altezza del petto. Al dito aveva un anello, il simbolo del triscele era incandescente. «Devi fermarti». «Maledetta», gridò. «Maledetta Strega». Ci misi qualche istante per capire cosa stava succedendo. Quando lo compresi, esultai. «Vivian, cosa…» . «Va tutto bene, Ellen», mi interruppe, senza però staccare gli occhi da Damien. «Ora va tutto bene, devi credermi». Aveva mantenuto un pericoloso doppio gioco, un piano che evidentemente aveva studiato fin dall’inizio. Qualcosa tuttavia non mi era chiaro. Vivian sapeva che Nemesis era mio fratello? Conosceva un modo per liberarlo dalla maledizione dell’Angelo dell’Apocalisse? Era un’ipotesi remota, non riuscivo infatti a spiegarmi perché Vivian fosse rimasta con le mani in mano fino a quel momento, lasciando che noi rischiassimo la vita. La felicità scomparve nell’istante successivo. Lanciai un’occhiata a Kevin disteso sul pavimento. Il sangue si era fermato, ma era ancora incosciente. Il suo petto si gonfiava a fatica, quindi era sempre vivo. Per quanto lo sarebbe stato?

Stessa sorte per i miei genitori, ancora incatenati alla parete. Damien cacciò un urlo ferino. I lineamenti del suo volto si contrassero, assumendo delle sembianze che non avevano più nulla di umano. Girò il bacino e mosse un o incerto, come se una forza invisibile lo trattenesse. «Non riuscirai a fermarmi a lungo. Prima o poi cederai», sibilò Damien. «E a quel punto sarò pronto a divorare la tua anima». Vivian strinse le labbra, sofferente. Aveva la fronte imperlata di sudore, era evidente la fatica che stava compiendo per tenere salda quella magia. Non avevo la minima idea di cosa stesse facendo, non sapevo neppure che possedesse queste capacità né come le avesse apprese. Ma non era importante: dovevamo fuggire al più presto. Nel frattempo Nora si era rialzata e Hugh si era avvicinato all’altare, forse con l’intenzione di prendere il Vaso di Salomone. Il mio obiettivo, invece, era quello di liberare i miei genitori e salvare Kevin. Non ne ebbi modo. Damien sbatté le ali, che sprigionarono una luce talmente abbagliante da costringermi a pararmi gli occhi con le mani. Un vento improvviso mi spinse all’indietro, facendomi perdere l’equilibrio. Esausta mi alzai ancora una volta. Damien teneva Hugh al suolo schiacciandolo con un piede, con una mano impugnava la Spada della Luce e del Buio e con l’altra il Vaso di Salomone. «Siamo giunti alla fine», urlò gettandolo sopra Kevin. Il vaso cadde a terra con un rumore sordo, rotolando nella pozza di sangue. Rabbrividii. Il Vaso di Salomone si stava nutrendo del sangue dell’Angelo, l’ultima fase del rito per spezzare i Sigilli e liberare i settantadue Demoni. Agii d’istinto, sollevandolo da terra con la forza del pensiero. Il vaso vibrò in aria, come se stesse per esplodere da un momento all’altro. Sperai con tutta me stessa di aver evitato la catastrofe, quando la spada della Luce e del Buio puntò nella mia direzione. Una fitta alle tempie mi assalì con una violenza inaudita. Caddi in ginocchio,

ansante, sforzandomi di tenere la testa alta. «No!», gridai terrorizzata quando mi accorsi che il Vaso di Salomone era scomparso. «Vivian, non dovevi farlo!», gridò Damien, fuori di sé. «Non è stata Vivian». Una voce rimbombò tra le pareti del tempio. Sembrava una litania, una cantilena antica e incomprensibile. Damien ebbe un singulto, le piume delle sue ali si colorarono di rosso. Una sagoma comparve davanti alle tre colonne, in fondo alla sala. Camminava lentamente, tenendo tra le mani un libro. Appena la luce cerulea del soffitto lo illuminò, riconobbi il Grimorio degli Avi, lo stesso volume che avevamo recuperato a Galeria. «Benvenuto, krisnitòri Xavier Gomez», disse Vivian con tono reverenziale. Era un uomo di alta statura e di corporatura massiccia. Sul viso dai lineamenti decisi, risaltavano il naso aquilino, piccoli occhi scuri e la folta capigliatura brizzolata. Xavier affiancò Vivian. Alzarono le braccia e lessero all’unisono la formula contenuta nel Grimorio. Damien imprecò di nuovo, mentre la sua pelle perdeva il colorito dorato. «Cosa mi state facendo», gridò. Hugh colse l’occasione e lo colpì alle spalle trafiggendolo con un coltello, mentre io e Nora soccorrevamo Kevin. «Kevin, rispondimi, ti prego…», mormorai. «Nora, libera i miei genitori». Lei annuì e si mise subito in piedi. Udii allora un altro urlo, l’ala bianca di Damien era stata tranciata da Hugh, che combatteva con una rapidità e forza impressionanti. Allo scontro successivo, Hugh sbalzò all’indietro, giungendo fino ai miei piedi. «Hugh», esclamai ansimando. La sua maglia era ridotta a brandelli, aveva una

ferita profonda sullo sterno. Ero pronta a prendere il suo posto e a combattere contro mio fratello, ma con mia sorpresa il taglio sul suo petto si rimarginò in pochi istanti. Sgranai gli occhi, non avevo mai visto un Demone o un Angelo guarire con quella velocità, tanto più senza l’aiuto di nessuno. Hugh inarcò la schiena, si dette uno slancio e scattò in piedi. Nel frattempo, Vivian e Xavier avevano interrotto il sortilegio, dai loro volti si capiva lo sforzo al quale erano sottoposti per rendere inefficaci i poteri dell’Angelo dell’Apocalisse. Bastò quel frangente per far tornare Damien più agguerrito che mai. Con un affondo di spada, trafisse Hugh al-l’ala sinistra, proprio mentre stava per spiccare il volo. Nora aveva liberato mio padre e stava armeggiando con le catene che tenevano imprigionata mia madre. Kevin, invece, si era risvegliato e si era aggrappato all’altare per rialzarsi. Libero dagli avversari, Damien si gettò verso di lui. Non fece in tempo a raggiungerlo che gli sbarrai la strada e lo infilzai con le unghie all’altezza della vita. Un rivolo di sangue bagnò le labbra di Damien e gli scese lungo il mento. Al contempo, Xavier e Vivian ripresero a salmodiare le parole magiche. Adesso che la sua forza si era ridotta, mi bastava spingere ancora un po’, colpire qualche organo vitale, e tutto sarebbe finito. Proprio così: l’orrore dell’Apocalisse si sarebbe concluso con il fratricidio. Poi lo guardai negli occhi, e Nemesis scomparve. Era solo Damien, il fratello che avevo pianto per anni. Non ne ebbi il coraggio. «Damien…», mormorai in lacrime. «Non costringermi a farlo. Dam-mi solo una ragione per fermarmi». L’Angelo dell’Apocalisse si stava eclissando sotto il sortilegio del krisnitòri, alimentato dalla forza magica degli Avi. Non era più la creatura della Luce e del Buio, ma solo un essere mortale che avrei potuto eliminare senza difficoltà. «Ti supplico, non costringermi a farlo», lo implorai.

Ma non servì a nulla. Nemesis riprese possesso del suo corpo, l’odio esplose di nuovo trasfigurando i suoi lineamenti. Sì, ero ancora in tempo per agire. Avevo ancora energia per annientare il male, il dolore e l’ingiustizia. Ma non potevo farlo. Perché a tutto c’era comunque un limite, un confine che non ero e non sarei mai stata in grado di superare. Damien si accorse della mia incertezza. Impugnò la spada, pronto a fare ciò che io non ero stata capace. Un sibilo nell’aria. Un bagliore. L’ala nera che si spezzava. Damien si girò di scatto avventandosi su Hugh e mordendolo sulla scapola. Hugh emise un rantolo, ma ormai i giochi erano conclusi: mio fratello aveva perso entrambe le ali. Vivian se ne stava alla mia sinistra, con il capo chino e le mani congiunte. Xavier annuì, allontanandosi lentamente con il Grimorio stretto al petto. «Il nostro patto è concluso, Vivian. Oltre la morte, c’è solo la polvere. Addio». Damien crollò al suolo, con gli occhi sbarrarti. Alle sue spalle c’era Hugh. A capo chino. In silenzio. Con il petto bagnato dal sangue che gli sgorgava dalla spalla. L’Angelo dell’Apocalisse era stato distrutto. M’inginocchiai a terra, singhiozzando, stringendo tra le braccia il corpo di mio fratello. Trascorse un minuto. Forse due. Il tempo si dilatò al-l’infinito. E io rimasi lì, cullando Damien come un bambino. Cantandogli una ninnananna. Come se il tempo si fosse riavvolto su se stesso, e fossimo tornati prima di quel maledetto giorno sulle coste Oban. No, nessuno si sarebbe azzardato a fermarmi. Perché io avrei continuato.

Finché le mie lacrime non sarebbero finite. Finché il suo corpo sarebbe diventato freddo e rigido. Finché si fosse sbriciolato in cenere. Finché quella dannata eco fosse scomparsa dalla mia mente. Oltre la morte, c’è solo la polvere.

Epilogo

Ellen Oltre la morte, c’è solo la polvere. Mi strinsi nel plaid, accucciata in un angolo del divano di fronte al camino. Il fuoco ardeva. La legna bruciava. I tizzoni si trasformavano in cenere. Era trascorso un mese dalla morte di mio fratello. Trenta lunghissimi giorni da quando ero fuggita dal covo dell’Ordine, e ancora non riuscivo a staccarmi di dosso quel freddo che avevo patito nelle prigioni. Un freddo penetrato così a fondo da congelarmi l’anima. «Ellen?». Mi scostai i capelli dalla fronte, sorrisi. «Kevin». Aveva un cappotto scuro, che gli arrivava fin quasi alle caviglie. I capelli biondi erano tirati all’indietro, facendo risaltare i lineamenti perfetti del suo volto e gli occhi chiari e magnetici. «Hai freddo?», mi chiese sedendosi accanto a me. «Fa sempre freddo in Scozia». Lui mormorò qualcosa, poi mi sfiorò la guancia. «Dovresti uscire più spesso. Parlare. Distrarti». «Già». «Vedere un po’ di persone». «Vero». «Uscire con gli amici».

«Non ne ho. Kenneth è preso dalla sua nuova fiamma, non voglio essere un peso». «Ah. Un altro dirigibile?». «Più o meno. Lo sai, a lui piacciono formose», ironizzai con lo sguardo fisso alle fiamme. «E deve ancora accettare le mie scuse per essere scomparsa durante questi mesi. Lo sai, è un tipo permaloso». «E Hugh?». Rimasi in silenzio per qualche istante. «Hugh non c’è mai. È sempre con Vivian. Con il Consiglio. Con l’Arconte. Con le Spirali. Con gli Emissari. Attaccato a loro come questo dannato mal di testa che non mi dà tregua da giorni». «È normale». «Il mal di testa?». «Scema. No, Vivian, che si è presa l’incarico di custodire il Vaso di Salomone e il Lemegeton». «Custodire?». «L’Arconte lo farà sparire presto, anche perché tutti i Consigli sono al corrente della situazione, e vogliono delle risposte esaustive. Specialmente il distretto di Roma e del Vaticano». Annuii. «Sì, un incubo». «No, non lo è stato, perché avevo te accanto». Lo fissai, sorridendo, quindi appoggiai la testa sul suo petto. Kevin era incredibile. Dopo tutto quello che era successo a Roma, il bacio con Hugh, la mia incapacità di stabilire una relazione chiara con entrambi, aveva perdonato l’accaduto senza rancore. Di più, mi suggeriva di non chiudere l’amicizia con Hugh, ritrattando quello che mi aveva detto. Chissà, forse sentendosi pure in colpa per avermi messo di fronte a una scelta così drastica. In poche parole Kevin era un ragazzo straordinario. E, proprio in quei momenti,

mi sentivo una nullità in confronto. Perché io ero impulsiva, permalosa, debole e confusa. E, come sempre quando mi trovavo in difficoltà, ai al contrattacco. «Kevin, smettila immediatamente di fare il buon samaritano. Stai solo cercando di sdebitarti visto che ho ato due settimane a curarti in un ospedale buio e puzzolente». Kevin sollevò le sopracciglia. «Tecnicamente mi hanno curato gli inviati delle Sfere, non tu». «Tecnicamente. E io non ho fatto nulla quindi? Chi ha subito i tuoi isterismi, chi ha ascoltato le tue lamentele, chi ti ha portato qualcosa di decente da mangiare, chi ha sopportato il tuo infinito senso di colpa per non essere riuscito a fronteggiare…», mi fermai, pronunciare a voce alta il nome di Nemesis era come spingere un punteruolo dentro una ferita ancora aperta. Kevin se ne accorse subito e cambiò discorso. «Comunque, dammi retta ed esci un po’. Fra l’altro saresti d’aiuto ai tuoi genitori in biblioteca». Missione fallita. Il nuovo argomento era peggiore del precedente. «Uh! La biblioteca. Immagino il caos, le frotte di ragazzi urlanti in preda a spasmi ormonali, i miei genitori catatonici di fronte al banco. E io che piombo sorridente per aiutarli in archivio. Hai ragione, sarebbe come scoperchiare una pentola a pressione. Mamma e papà non hanno fatto parola di quello che è successo dopo la degenza in ospedale. So che stanno per scoppiare da un momento all’altro, e io sarò la scintilla. Vorrei evitare la deflagrazione in un luogo pubblico». Kevin prese un lembo del plaid e si coprì le gambe. «Andrà tutto per il meglio. Tutti assieme. Adesso non dobbiamo più nasconderci, l’Arconte ci ha concesso di vederci. È un buon traguardo, non trovi?». «Solo perché l’Arconte è stato ricattato da Vivian. Non aveva altra scelta se voleva il Vaso di Salomone e il Lemegeton». «Ellen, possibile che tu veda tutto in negativo? Vivian ci ha detto la verità: si è pentita per quello che ha fatto e ha collaborato con il Consiglio per farsi perdonare dalla tua famiglia. Non conta nulla questo per te?».

«Sì, ma sarei felice di poterci parlare a quattrocchi e ancora non ne abbiamo avuto modo. Non si cancella il ato, non posso far finta che non mi abbia mai mentito». «Vivian ti conosce. Verrà da te quando sarai pronta ad affrontare una conversazione che non includa urla, imprecazioni, battute al vetriolo e vasi in frantumi contro le pareti. E sai quanto ci tiene a quelle cianfrusaglie». «Ok, nessun problema. Aspetterò». «Potresti fare il primo o». «Ho detto che aspetterò». «Per quanto?». «Chissà. Posso prendermela con comodo, noi Demoni Emersi viviamo fino a trecento anni, se nessuno si diverte a tranciarci le ali». Kevin scoppiò a ridere. «Sei impossibile, Ellen». Tornai a osservare il fuoco, immergendomi pian piano nei miei pensieri. Mi assalì subito un senso di nostalgia, paura, rabbia… «L’illuminazione non consiste nella contemplazione di figure e di visioni luminose, ma nel rendere visibile l’oscurità». Mi voltai meravigliata. «Sei diventato un poeta, Kevin?». «No, è una frase di Carl Gustav Jung». Di male in peggio. «Da quanto tempo ti sei messo a studiare? Un’altra Apocalisse non la sopporterei, ti giuro». «Da un po’ di giorni, con Nora. Era ora che cominciassi». «Non me ne ero accorta». «Se non te ne stessi dalla mattina alla sera in pigiama con lo sguardo perso davanti al fuoco o fuori della finestra, forse ti renderesti conto che il mondo va avanti».

«Ingrato. Il mondo, intendo». «E la vita, anche se di trecento anni, è troppo breve per sprecarla nella contemplazione». Bloccai le lacrime prima che mi velassero gli occhi. No, non mi meritavo un ragazzo così meraviglioso. «Sono un disastro. Un giorno mi spiegherai perché te ne stai ancora qui con me. Oppure ammetterai che sei un pazzo furioso». «È meno svilente stare accanto ai disastri che a un superdemone senza difetti. Sai, è un toccasana per l’autostima di un Angelo Ombra come me». Cercai il suo sguardo, seria. «Perché mi ami, Kevin?». Lui si fece pensieroso: evitare una risposta banale non sarebbe stato facile. E io ero pronta a ribattere ogni sua frase. Avrei combattuto, avrei detto la mia. E non mi sarei rifugiata nella vile scusa del «tu non mi meriti». Kevin mi alzò il mento con l’indice. «Perché non posso vivere senza di te. Perché quando mi sei vicina, il mondo cambia». «Sono solo un Demone con le ali nere». «Sei come neve nera che si scioglie sulla mia pelle». «Sono una persona fredda». «Come pioggia gelida che mi scivola addosso». «Sono sfuggente». «Come gocce che si infrangono tra le dita». «Sono instabile». «Come un temporale che graffia l’anima. Ma, senza di te, la quiete dopo la tempesta è un vuoto che non riesco a sopportare».

E, dopo quelle parole, scoppiai a piangere. Lui mi baciò, mentre le lacrime scivolavano dentro le nostre labbra cancellando ogni dolore.

***

Oltre la morte, c’è solo la polvere. Damien Lynch. Bronzo su marmo bianco. Caratteri semplici e ben leggibili. Senza data di nascita. Senza data di morte. Senza una croce, un simbolo, un rilievo. Solo una foto che sprofondava nella pietra. L’avevo scelta io. L’unico istante in cui aveva sorriso dopo averlo liberato da Stonehaven. Tutto ciò che mi rimaneva di mio fratello. Posi una rosa viola sulla lapide. Mi piegai a terra abbracciando le ginocchia. Silenzio. Perché il cimitero doveva essere un luogo così tetro? Perché tutti parlavano sottovoce, quasi avessero timore di svegliare i defunti? Perché esistevano tanti sinonimi per definire una realtà così semplice? Si nasce. Si muore. Si diventa polvere. Così era successo a Damien. E io avrei voluto gridare. Disperarmi. Piangere. Sbattere i pugni su quell’inutile marmo. Così gelido. Così distante. Chissà dov’era Damien. Chissà se esisteva veramente un aldilà. Chissà se la destinazione finale dei Demoni era l’Inferno, quella degli Angeli il Paradiso. Chissà se nell’Inferno c’erano il fuoco e il dolore, nel Paradiso la luce e la beatitudine. Perché, dopo tutto quello che era accaduto, la verità era sempre la solita. Ellen,

una ragazza di Inverness, un Demone Emerso dentro un corpo umano che annaspava nel mondo in cui era nata. Le sue tradizioni, le sue credenze, le sue menzogne. Il male, il bene e tutte le miriadi di sfumature di grigio. La corruzione, che cambiava per sempre le tonalità nella tavolozza del pittore. Il pittore, quel dannato libero arbitrio, che decideva di gettare un po’ di bianco o un po’ di nero sul quadro della sua esistenza. Sorrisi. Tutto si riduceva a questo. Alla difficoltà di schiarire il nero con il bianco, alla semplicità nel fare l’esatto opposto. E, infine, questa era l’unica giustificazione che mi ero data. Che Damien aveva sofferto troppo. Che Damien non sarebbe mai riuscito a vivere senza ali. Che Damien aveva deciso di gettare una goccia di nero nella sua tela. E che questa si era allargata in una macchia opaca. Giorno dopo giorno. Fino a scurirsi per sempre. Bianco e indifferente come quel maledetto marmo. Oppure scura e decisa come quella dannata ombra che adesso copriva la lapide. Non ci fu bisogno di voltarmi, riconobbi la sagoma. «Non devi fartene una colpa. È stato Damien a fare la sua scelta». Mi alzai in piedi, voltandomi lentamente. Il volto di Hugh era una falce di luna nella notte. «Certe persone non vogliono essere salvate. Perché la salvezza implica un cambiamento», disse. «E il cambiamento richiede uno sforzo maggiore dal restare sempre uguali. Occorre coraggio per guardarsi allo specchio e vedere oltre il proprio riflesso». Sorrisi. Anche Hugh conosceva Grant Morrison, un autore scozzese di fumetti adorato da mio fratello. Mi accorsi allora che aveva con sé una borsa, mentre con una mano stringeva un libro. Sulla copertina c’era scritto Qohèlet. «La smetterai di studiare?». «Quando smetterò di respirare. Sai, c’è sempre molto da imparare. Troppe cose

si nascondono nel mondo dell’invisibile». Lo fissai negli occhi, trattenendo la rabbia. «Cosa sei venuto a fare, Hugh? Perché adesso, e non ieri? Non l’altra settimana? Non dopo quello che era successo?». Rimase in silenzio. Mi avvicinai, lo colpii al braccio con un pugno, gli afferrai un polso. Immobile, Hugh incrociò il mio sguardo. «Avevo bisogno di te. Dannazione», urlai. «Sono venuto quando era il momento». «E quale momento speciale è oggi? Quale ricorrenza mi sono persa?». «Ellen, me ne vado». Ci misi qualche istante per capirlo. Finché l’immagine di Hugh non si stampò nelle retine e mi traò il cervello. No, non era uno scherzo. «E dove vai?». «A Barcellona. Con Vivian». «Perché?». «Perché devo capire». «Cosa?». «Chi sono. Cosa è successo». Pausa. Riflessione. «Non è successo nulla». «Ero un essere umano. Sono un Demone Emerso. Qualcosa è successo». «Anch’io sono un Demone Emerso». «Ma tu non sei stata trasformata dall’Angelo dell’Apocalisse. Tu non sai cosa ho

dentro». Scossi la testa. Un mucchio di menzogne. «Buio? Desiderio di far del male? Di distruggere? Di contaminare? Di annientare? Benvenuto nel club», dissi con rabbia. «Devo capire se posso controllarmi. Non voglio fare del male a nessuno, Ellen». «È solo una bugia», urlai infuocandomi in volto. «Dimmi la verità, vuoi mettermi spalle al muro? Stai facendo lo stesso gioco di Kevin? Vergognati». «Nessun gioco», mi rispose lui, scuotendo la testa. «Dai su, arriviamo al punto. Cosa vuoi che faccia per farti cambiare idea? Per impedire che mi abbandoni?». «Non c’è nulla che puoi fare». «Non te lo permetterò. Non ti azzardare». «Ellen, così deve andare». Gli detti una spinta. «No! Sei tu che non devi andare da nessuna parte. Tu. Devi. Stare. Qui. Con. Me». «Ce la farai». Scoppiai a piangere. Stavo perdendo l’ultima battaglia. «Cosa vuoi che ti dica? Che ti amo?». «Ellen…». «Vuoi che te lo dica? Che ti amo, Hugh? Abbi il coraggio di chiedermelo ancora». Hugh socchiuse gli occhi. Non fece nient’altro. Se non dire una stupida frase. «Ci sono abissi che l’amore non può superare, nonostante la forza delle sue ali».

Mi voltai. Strinsi i pugni. Cercai qualcosa da colpire. Una giusta vendetta. Se la vita mi distruggeva, io distruggevo lei. «Non si muore per amore, Ellen». Ancora quel maledetto silenzio. Quell’odioso frusciare degli alberi. Quel vento meschino che strisciava tra le lapidi. Nei miei vestiti. Nelle mie lacrime. «Cosa farò domani?», gli chiesi. E me lo chiesi. «Qualcosa farò». «Io vivrò. Hugh, io vivrò». «Io sopravvivrò». «Io ti odierò». «Continuerò». «Ti cercherò». «Scomparirò». «Ti distruggerò». E poi? E poi l’ombra scomparve dalla lapide. Quando mi voltai, c’era solo il vuoto. Gelido come le mie parole. «E io ti piangerò». Rimasi inginocchiata di fronte alla lapide di Damien finché il cielo si tinse di rosso. Le ali spuntarono sulla mia schiena, gonfiate dal vento freddo della sera. Mi rialzai in piedi, non potevo far altro. Non avevo più lacrime per piangere. Ma, dentro di me, qualcosa era cambiato. La consapevolezza di non essere più la ragazzina di Inverness. La sicurezza di avere Kevin al mio fianco, sostegno nei miei momenti di debolezza, centro dei miei sentimenti.

M’incamminai lungo il sentiero. La vita era un susseguirsi di battaglie, alcune le avrei vinte, altre le avrei perse. Il destino mi avrebbe riservato ancora tanti ostacoli da superare. Avrei pianto ancora, sarei tornata ad essere felice. Non avrei ceduto per nulla al mondo. Avrei continuato dritta per la mia strada. Sarei caduta, mi sarei rialzata. E poi, ne ero convinta, un giorno avrei riabbracciato anche Hugh. Dovevo solo aspettare. Infine, sorrisi al tramonto. Sorrisi a quei pochi istanti in cui ero veramente me stessa. Un essere umano e un Demone Emerso. Perché nulla si spegne per sempre quando esiste la scintilla della speranza.

Ringraziamenti

Ci siamo. Ecco la fine di un’altra avventura. E, senza dubbio, Nemesis lo è stata. Una palestra, un ricettacolo di emozioni, la liberazione di un’anima. Dell’amore impossibile, combattuto, negato. Quello che tutti noi abbiamo il diritto di provare almeno una volta nella vita. Perché solo soffrendo si impara cosa si nasconde dentro l’invisibile. Oltre la nostra vita. Oltra la morte, c’è solo la polvere. Ringrazio Cristiano Armati per aver creduto in questo libro e nel suo sequel. Tutta la famiglia della Castelvecchi Editore, in particolar modo l’editor Marcella Russano e Angelo Bernacchia dell’ufficio stampa. I sorrisi non sono mai abbastanza. Ringrazio Luca Azzolini per il suo immancabile o e forbici ben appuntite. Ringrazio Paolo Barbieri, un genio del disegno che con la sua magia ha dato vita a copertine stupende. Ringrazio Liz Nemesi Biella, cosplayer di Ellen, e Marco Dal Castello, alias di Kevin. L’avventura di Lucca Comics & Games non sarebbe stata così bella senza di voi. E, naturalmente, tutto ciò è stato possibile grazie al o di sco Roghi. Uomo di santa pazienza e amico. Ringrazio Madonna, mi perdonerà per aver rubato pezzi di sue canzoni. E, naturalmente, lo stesso vale per tutti gli autori, poeti, cantanti, fumettisti che ho citato in questi due libri. Povero Shakespeare, ripensandoci. Ovvio, ringrazio la Qabalah per avermi stravolto la prospettiva di ciò che mi circonda. Ringrazio la mia famiglia, perché mi sta sempre accanto. La distanza non ha importanza quando il cuore supera ogni barriera.

Ringrazio gli scrittori che mi hanno aiutato nelle varie presentazioni del libro: Pierdomenico Baccalario, Barbara Baraldi e molti altri. Ringrazio tutto il mondo dei e delle blogger. Impossibile citarvi tutti, so già che mi meriterei una cazziata per avervi dimenticato. Ma non scorderò le vostre critiche e la vostra ospitalità. Ringrazio tutti gli amici che mi sono stati accanto durante i mesi più duri. Adesso riuscirete a capire cosa succedeva quando vi sembravo scorbutico… c’era di sicuro un maldetto capitolo che mi faceva patire le pene dell’Inferno. A proposito, almeno per un po’, basta con Inferni e Paradisi, Angeli e Demoni. Ma, come sempre, torneranno in altre forme. A proposito di Angeli e Demoni. Non mi resta che ringraziare voi, che siete la mia massima e più grande ispirazione. Voi che mi seguite su face-book (www.facebook.com/falconisco) e sul mio sito (www.scofalconi.it). Voi che mi mandate le mail, alle quali prima o poi rispondo. Voi che mi avete incoraggiato ogni giorno a tentare nuove strade, a superare ogni limite. Voi che mi avete chiesto di scrivere il sequel di Nemesis in un sondaggio. Se sono qui, se andrò avanti, è anche per voi. Adesso finalmente sono pronto. Per altri voli. Per ascoltare le mie Muse e il loro canto.