Nino De Marchi
Memorie 1943-1945
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Adattamento ebook a cura di Alberto Negri.
In copertina: Belluno, settembre 1943. Il sottotenente Nino De Marchi, in servizio di prima nomina presso il V Artiglieria Alpina di Belluno e in basso a sinistra una porzione di foto ritraente il Comando della brigata Fratelli Bandiera a Pian Canaie (Cansiglio) nell'aprile 1945.
Prefazione
Caratteristica essenziale di questi ricordi di vita partigiana 1943-1945 di Nino De Marchi è la sua antiretoricità. La sua testimonianza, filtrata a cinquant'anni e più di distanza, è una memoria asciutta, priva di orpelli e vuoti luoghi comuni, dove i ricordi si dipanano pian piano nella pagina sempre con grande misura ed equilibrio, evitando ogni facile concessione all'emozione e al sentimentalismo agiografico, a cui purtroppo - e dico purtroppo, perché ritengo che ciò non abbia reso un buon servizio alla Resistenza – ci ha abituato tanta parte della memorialistica del settore. C'è in queste memorie lo sforzo costante da parte dell'autore di ritrovare e ricreare, al di fuori del mito che le è stato appiccicato addosso per tutto un cinquantennio, quella che è la vera dimensione del fenomeno Resistenza o Lotta di Liberazione come dir si voglia. Una dimensione la cui prima cifra è la quotidianità. La lotta partigiana, così come emerge dalle pagine di De Marchi, è una lotta segnata non solo da momenti eccezionali, dalle vittorie, dagli episodi di eroismo individuale che pure ci sono stati, ma soprattutto da una somma di piccoli gesti, che si frantumano in una miriade di episodi e vedono come protagonisti molto spesso uomini e donne senza nome. È una lotta dove trovano cittadinanza gli aspetti più minuti, come l'universo dei pensieri e dei sentimenti, gli interrogativi, le riflessioni, le ansie e anche le paure. La seconda cifra di questa Resistenza è poi quella della problematicità. Come ben sottolinea tra le righe De Marchi, la lotta partigiana fu uno dei più prolungati periodi i tensione fisica e morale che egli abbia mai dovuto affrontare. Il partigiano era costantemente solo, costretto giornalmente ad operare scelte dalle quali spesso dipendeva non solo la sua vita, ma anche quella dei suoi compagni e di tutta la comunità più ampia ove operava. Scelte – val la pena di sottolineare – da cui il singolo non poteva prescindere e che, una volta adottate,
tracciavano una specie di spartiacque con il proprio ato e nei confronti degli altri. La terza dimensione della Resistenza presente in queste pagine è il contesto di violenza diffusa in cui vivevano i partigiani, i nazifascisti e la popolazione. De Marchi non ha reticenze nel raccontarci la durezza e l'atrocità di quei giorni, e le domande che quotidianamente affollavano la mente e il cuore di molti resistenti. Come trattare i nemici catturati? Come comportarsi con chi poco prima aveva bruciato la casa, ucciso il compagno, ato per le armi i familiari? E qui emerge a tutto campo la “pietas” del partigiano, anzi dell'uomo De Marchi. In quei momenti in cui la vita – sono parole sue – non aveva alcun valore, e in cui si era quasi necessariamente portati a rispondere alla violenza con una violenza, l'imperativo categorico fu quello di rimanere lucidi, di mantenere sempre l'equilibrio interiore anche e soprattutto nelle situazioni limite. Perché solo controllando le emozioni, era possibile sostituire alle ragioni della forza quelle del dialogo, della persuasione, e perché no, anche del perdono. Molte pagine sono poi dedicate alle vicende e ai luoghi della lotta, e cioè al Cansiglio, all'Alpago e al paese di Montanes, sempre nel cuore del protagonista, e soprattutto alle popolazioni dell'Altopiano che, pur apparentemente relegate sullo sfondo delle vicende narrate, rappresentano i protagonisti assoluti di quegli anni, condizione “sine qua non” dell'esistenza del fenomeno partigiano. Sono infatti le popolazioni che nascondono, sfamano e aiutano nei momenti di difficoltà il partigiano Rolando (all'anagrafe Nino De Marchi), e come lui molti altri, rischiando in prima persona la vita e tutti i propri averi. Non mancano anche gli episodi per così dire leggeri, come l'incontro di Tilman con Johnson, il “qui pro quo” con gli alleati relativamente ai lanci, e così via, che conferiscono, nella loro genuinità e talvolta nella vena umoristica che li pervade, maggiore freschezza e autenticità a queste “Memorie”. Il libro di De Marchi è confezionato dal punto di vista formale con un registro familiare, contraddistinto da strutture sintattiche e lessico tipici della lingua parlata, spesso aperti alle inflessioni dialettali e talvolta al limite – e in taluni casi addirittura in aperta violazione – degli standard linguistici tradizionali.
L'autore ha motivato tale scelta coll'esigenza di salvaguardare l'immediatezza del racconto, che sarebbe stata tale solo se esso avesse avuto le connotazioni dell'oralità; e con la necessità di sintonizzarsi meglio con i destinatari dell'opera, cioè con le nuove generazioni, i giovani. Si tratta di una scelta chiaramente consapevole, di cui l'autore si assume ogni paternità, e che non mancherà in sede di diffusione del libro di far arricciare il naso a tanti “puristi”. Da parte nostra l'abbiamo accettata “tout court”, perché siamo fermamente convinti che il valore di una testimonianza “forte” come quella di De Marchi non sia per nulla compromessa o sminuita dalle scelte stilistiche da lui adottate in fase di stesura. Questi ricordi di vita partigiana sono destinati – lo dice espressamente l'autore nell'introduzione – non già all'attenzione degli studiosi (anche a questi) – ma soprattutto alle nuove generazioni, a tutti coloro che vuoi per ragioni anagrafiche, vuoi per scarsa conoscenza, la Resistenza l'hanno davvero poco frequentata. Leggendo queste pagine essi avranno modo di capire meglio come stavano le cose in quel lontano 1943-1945, e soprattutto di evitare quelle pericolose semplificazioni che liquidano la Resistenza come esclusivamente guerra civile, scontro tra due fazioni portatrici di progetti politici antitetici. La Resistenza – lascia intendere De Marchi – fu qualcosa di più di uno scontro tra opinioni diverse come qualcuno vorrebbe accreditare. La Resistenza fu un lotta di civiltà, fra “chi combatteva per eliminare Auschwitz e chi oggettivamente combatteva, qualsiasi fossero le sue motivazioni personali, per mantenere ed estendere Auschwitz”. Fu uno straordinario momento di riscatto morale di una generazione nata e cresciuta dentro il fascismo, che ad un certo punto scelse di fare i conti con se stessa e di opporsi alla dittatura, al fine di ripristinare le condizioni per una futura libertà e democrazia del Paese. E il prezzo che questa generazione pagò non fu da poco: una giovinezza bruciata sull'altare della lotta; lacerazioni per molti giovani; lutti per numerose famiglie. Eppure Nino De Marchi non rinnega la sua scelta. Nonostante tutto quello che è ato sotto i ponti in questi cinquant'anni e più, la sua scelta, ieri come oggi,
rimane sempre quella. È la scelta per la libertà, per un Paese migliore, per quelle speranze e quei valori che allora nacquero e non sono mai tramontati.
Ottobre 2001
Pier Paolo Brescacin Direttore Scientifico Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea del Vittoriese
Introduzione
Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Salvatore Quasimodo
Quanto scritto, non vuol essere un diario, né un resoconto storico di una brigata partigiana.
Vuole soltanto raccontare ciò che ho vissuto in prima persona durante quel lungo periodo che fu la guerra di Liberazione. Non mi dilungo sulla vita quotidiana perché sarebbe lunga e spesso monotona. Non parlo sul sentito dire, ma su ciò che ho visto e provato. Non faccio nomi, tranne quando è strettamente indispensabile, evitando così di dimenticare qualcuno. Non racconto cose eroiche, perché all’eroismo non credo, bensì credo a ciò che si fa con coscienza, responsabilità e convincimento. Tante cose, posso aver dimenticato, ma quelle scritte sono senz’altro autentiche. Dedico questo racconto ai miei figli, ai miei nipoti e ai giovani tutti, perché ricordino quanto duro è stato il cammino per ottenere quella libertà democratica e pace di cui tutti oggi godiamo e perché si sappia che non ho combattuto una guerra civile, ma una guerra di liberazione, contro uno straniero invasore e despota. Se poi qualcuno ha ritenuto opportuno schierarsi con lui, affari suoi! Ma la nostra lotta fu, senza dubbio, di liberazione ed anche d’indipendenza, dato che le Province di Bolzano, Trento e Belluno ed il Friuli Venezia Giulia erano state già annesse al Reich della Grande Germania.
Febbraio 2001
Nino De Marchi
10 GIUGNO 1940
Mussolini dichiara guerra alla Francia, già invasa dai tedeschi, ed io ne posso malauguratamente gioire per la conseguente abolizione degli esami per il conseguimento del diploma di perito agrario. Mi iscrivo all’università ed ottengo così il rinvio della chiamata di leva. Ma nell’agosto 1942 devo presentarmi per il corso allievi ufficiali. Al distretto militare mi fanno spogliare per una visita e poi resto in attesa della destinazione. Sono ancora in mutande quando mi giunge la notizia di essere destinato a Bari in Artiglieria di Corpo d’Armata. Avevo, in precedenza, presentato domanda per entrare nelle truppe alpine, allegando un lungo curriculum di tutte le mie salite alpinistiche nelle Dolomiti ed il mio spirito era già proiettato in questo ambiente. Non riuscivo quindi ad adattarmi all’idea di finire a Bari, dove di alpino non c’era proprio niente. Così come mi trovavo, cioè in mutande, corsi per il distretto alla ricerca della porta del comandante. La trovai, bussai, entrai e con una foga da forsennato - non ricordo esattamente cosa dissi - mi uscirono certamente quelle frasi retoriche che allora erano molto di moda: “Se Lei vuole avere un ufficiale che serva veramente la Patria ecc. ecc.” Il colonnello comandante che mi stava di fronte sgranò tanto d’occhi colpito dalla mia esasperata ione, chiamò il furiere, fece accertare che ci fosse un posto libero a Merano presso il Reggimento d’Artiglieria Alpina e lì, dopo pochi giorni, mi ritrovai. Non è che fra le montagne di Merano il corso per arrivare al grado di sergente sia stato proprio uno scherzo, ma ad ogni modo l’ambiente era più consono al mio carattere.
Avevamo inoltre come istruttore il sergente Bruno Detassis che io conoscevo molto bene di fama per essere uno dei rocciatori più forti. Peccato non aver avuto modo di fare qualche arrampicata con lui. Durante le marce, nelle soste, cantavamo spesso, le vecchie canzoni di montagna e, se pur fra le innumerevoli fatiche, ci trovavamo in un ambiente sereno. Un giorno il capitano, comandante la nostra batteria, mi mandò a chiamare e mi comunicò che mio fratello Giuliano, tenente pilota effettivo (aveva frequentato l’Accademia Aeronautica di Caserta) dall’11 ottobre di quell’anno 1942 era stato dato disperso, essendo caduto in mare in seguito ad una azione sull’isola di Malta. Aveva ventiquattro anni. Rimasi impietrito ed alla sera in branda sotto le coperte non riuscii a trattenere un pianto doloroso. Era l’unico fratello che avevo e la nostra prima giovinezza era trascorsa sempre assieme, frequentando gli stessi sport e legandoci spesso alla stessa corda nelle varie salite dolomitiche. L’anno precedente, il 1941, eravamo stati assieme, durante una sua licenza, a trascorrere una settimana alla capanna Marmolada, facendo anche la traversata per cresta fra Punta Rocca e Punta Penia. Fu il primo grave colpo della mia vita. Non riuscivo a darmene pace e cercavo in tutti i modi di pensare che forse poteva essere stato raccolto da un sottomarino inglese e dopo la guerra, ci saremmo potuti ritrovare. Non fu purtroppo così. Da Merano, con il grado di sergente, fummo designati alla Scuola Allievi Ufficiali di Bra, dove ci colse il 25 luglio 1943 la caduta del fascismo con l’arresto di Mussolini. Furono giorni un po’ confusi non comprendendo bene cosa sarebbe successo. Fummo ordinati a far servizio d’ordine attorno alla caserma e dopo pochi giorni, ati gli esami, partimmo da Bra per andare a compiere il servizio di prima nomina, come sottotenenti, presso i reggimenti. Giunsi così ai primi di agosto presso il V Artiglieria Alpina, a Belluno.
8 SETTEMBRE 1943
L’8 settembre, ero ufficiale di picchetto, quando attraverso la radio, apprendemmo il proclama del maresciallo Badoglio che diceva:
Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.
Poi il silenzio. Non ci furono ordini di alcun genere. Il giorno successivo ci troviamo in pochi ufficiali, con la caserma vuota. Il colonnello c’invita ad uscire per metterci in borghese per poi rientrare. A quel punto non abbiamo avuto più dubbi: siamo usciti, ma non siamo più rientrati. Il colonnello è rimasto ad attendere i tedeschi che lo hanno poi internato in Germania, da dove non è più ritornato. Da quel momento, ogni decisione dipendeva da noi stessi. Avevamo alle spalle un giuramento fatto al Re, che però se n’era scappato al sicuro.
Da Belluno rientrai subito a casa, dove rimasi in attesa degli eventi. Pochi giorni dopo, i tedeschi, occupate le caserme di Conegliano e deportati in Germania tutti i militari che non riuscirono a sottrarsi alla cattura, emanarono bandi perentori, con i quali ordinarono a tutti i militari di presentarsi al loro comando, pena la condanna a morte. Dovevo prendere una decisione. Sono momenti in cui si affollano nella mente moltissime considerazioni. - Presentarsi ai tedeschi non se ne parla proprio. - E allora? - Bisogna andarsene da casa. - Ma dove? - E per quanto tempo? - E dopo? - E le eventuali rappresaglie ai genitori? -Non era molto semplice. In ogni modo, a casa, non potevo rimanere, perché mi avrebbero certamente trovato. Così, su consiglio anche di mio padre e mia madre, decisi di recarmi in un paesino dell’Alpago, Montanes, dove nel lontano 1928 avevo trascorso un periodo di vacanza.
IN ALPAGO
Vi giunsi assieme ad un amico che, avendo saputo da una mia zia delle mie intenzioni ed essendo nella mia stessa situazione, aveva chiesto di unirsi a me. Ci rivolgemmo subito ad un certo Serafino, conosciuto da mio padre, il quale ci accolse molto cordialmente, ma non disponendo di stanze libere nella sua casa, ci mise a disposizione una sua casera con fienile a circa quaranta minuti di cammino dal paese. Facemmo una certa scorta di viveri e ci sistemammo alla meglio in questa casera situata in una posizione dominante e panoramicamente meravigliosa. I primi giorni arono quasi allegramente, data la inusuale esperienza, ma dopo quindici giorni decidemmo di cercare un'altra sistemazione. Trovammo una camera nella casa di amia (zia) Silvia, che abitava con il marito Martino ed un nipote. C’era un lettone grande, dove avremmo dovuto dormire entrambi, con una specie di materasso, ripieno di quelle foglie che rivestono le pannocchie di mais, che poggiava su un piano di tavole, sostenuto da quattro gambe di legno. I giorni avano e noi cominciavamo a sentire il peso dell’inerzia. Si avvicinava il Natale del 1943 e visto che tutto sembrava tranquillo, decidemmo di tentare un ritorno a casa. Trascorsi così un po’ di tempo con i miei cari che, dopo la perdita di mio fratello e con la mia posizione clandestina, non erano certo sereni. Nel frattempo i tedeschi avevano liberato Mussolini dalla prigionia al Gran Sasso, e si era costituita la Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò. A Conegliano, il capitano Pillon aveva formato un centro raccolta Alpini ed inoltre era sorto un gruppo di cosiddette Brigate Nere. Tutto questo oltre
naturalmente al Comando Tedesco che presidiava la Città. La situazione per me stava diventando sempre più pericolosa e pertanto decisi, questa volta da solo, di riprendere la via dei monti. Ritornai quindi in bicicletta, attraverso il o Fadalto dove era stata messa una sbarra che bloccava la strada. A fianco però c’era uno stretto aggio per i pedoni e ne approfittai d’istinto. Nessuno mi fermò e volai verso La Secca, al termine del lago di Santa Croce. Qui abbandonai la statale e mi inoltrai nell’Alpago. A Montanes presi nuovamente possesso di quella camera che avevo occupato in precedenza. Era sistemata al secondo piano di una casa che si trovava all’estremità ovest del paese. Dalle due finestre, non essendoci altre costruzioni di fronte, si spaziava su tutta la meravigliosa conca dell’Alpago. In basso luccicava il lago, sullo sfondo si elevavano le due montagne: a sinistra il Pizzoc a destra il Col Visentin divisi dal o di Fadalto. Durante il giorno, data la mia grande ione per la montagna, ero spesso alla ricerca di nuovi sentieri. Avevo sentito parlare di un caminoche collega la valle che sale al Col Nudo con il Valar del monte Teverone. M’incamminai un giorno con l’intento di scoprirlo e possibilmente di superarlo. Lo individuai e mi accinsi a scalarlo. Lo trovai molto sporco di detriti, segno che non era frequentato. Può essere considerato con difficoltà di terzo–quarto grado. Mi trovai quindi sul così detto Valar, dove un ragazzo di nome Ciecio, stava pascolando le sue pecore. Rimasi con lui qualche minuto e poi per un facile sentiero ritornai al paese.
LA SCELTA PARTIGIANA
Le giornate erano ancora corte e quindi le sere molto lunghe. Dovevo fare qualcosa. Molti ragazzini venivano all’imbrunire a trovare amia Silvia, la padrona di casa, e in cucina cominciai ad intrattenerli, insegnando loro un po’ di tutto. Trascorsi così un certo periodo, avendo però sempre dentro di me una sorta di ansia, sentendo di dover agire in qualche modo. L’occasione venne il giorno in cui si presentarono due persone che, senza mezzi termini, mi dissero che sapevano che ero un ufficiale di artiglieria alpina e che avevo una pistola. “Abbiamo bisogno di un comandante” mi dissero, “ed abbiamo pensato a lei.” Al primo momento rimasi un po’ perplesso e chiesi subito qualche chiarimento: - Chi erano? - Da dove venivano? - Cosa intendevano fare? - Su quanti potevano contare? Dalle loro risposte, compresi subito che avevano già le idee chiare e che erano in contatto con altri gruppi. Da quel momento la mia vita cambiò, è proprio il caso di dirlo, dal giorno alla notte. Infatti, la prima cosa da fare era reperire armi, e questo si poteva fare solo nelle ore notturne. Così si cercava di dormire durante il giorno per essere svegli la notte. I ragazzi, tutti dell’Alpago, conoscevano chi poteva essere in possesso di qualche arma e così nottetempo bussavamo alle porte di questi. Essendo io
l’unico foresto, ero io che dovevo spiegare chi eravamo e perché andavamo a quelle ore poco opportune a turbare i tranquilli sonni altrui. Quasi tutti rispondevano con una certa preoccupazione, ma poi ci aprivano e potevamo parlare serenamente. La maggior parte erano cacciatori che possedevano un vecchio fucile modello '91 (guerra 1915 – 1918) che usavano per la caccia al capriolo. Togliere ad un cacciatore l’arma di caccia non è certo cosa semplice e dovevo quindi escogitare tutte le mie doti persuasive per ottenerla. L’argomento determinante era il fatto che, trattandosi di arma da guerra, ne era proibito il possesso e se i tedeschi, che avevano già annesso la provincia di Belluno al Terzo Reich, l’avessero trovata in casa, sarebbero stati guai seri, non ultima la fucilazione. Spesso con le lacrime agli occhi, ma alla fine ce la consegnavano. Riuscimmo così, sia pure in qualche modo, ad armarci. Nel frattempo, i tedeschi avevano occupato un fabbricato a Bastia nei pressi de La Secca, ponendovi un presidio armato di tutto punto con circa venti uomini. Da informazioni assunte, sapevamo che avevano in dotazione: mortai, fucili e molte munizioni. Il 27 luglio 1944 decidemmo di attaccare questo presidio per impossessarci di tutte quelle armi. Siamo una decina. Partiamo a piedi da Lamosano e quando giungiamo a circa un chilometro dal presidio, ci togliamo le scarpe e con il massimo silenzio (erano circa le due di notte) ci avviciniamo alla garitta della sentinella. Risulta vuota. Ci accostiamo alla porta del presidio che per fortuna, con una spallata, si apre. Senza esitazione, con le nostre povere armi in pugno, saliamo di corsa una scala ed entriamo nella camerata dove, sorpresi nel sonno, vediamo gli occupanti, balzare a sedere sui letti con le mani alzate. Non si è sparato un solo colpo, né da parte nostra, né da parte loro. In tutta fretta, per evitare l’eventuale sopraggiungere di loro rinforzi da Belluno, raduniamo tutte le armi e relative munizioni e le carichiamo su un carro che avevamo predisposto nelle vicinanze.
I nostri prigionieri erano tutti austriaci, piuttosto anziani. Non potevamo portarli con noi, non avendo alcuna possibilità per la loro sistemazione. Lasciarli subito liberi, sarebbe stato pericoloso perché avrebbero potuto richiedere un intervento veloce dai reparti tedeschi di Belluno e pertanto così com’erano, cioè con i mutandoni lunghi, li abbiamo rinchiusi in una vicina stalla, chiudendo la porta con il catenaccio esterno. Non sono mai riuscito a sapere come sono stati considerati dal loro comando, dato che non è stato sparato un sol colpo. Diventammo così un gruppo di una certa entità e ben armato. Tessemmo rapporti diretti con i reparti che si trovavano nella foresta del Cansiglio e, nel mese di agosto, da battaglione Fratelli Bandiera ammo a brigata del Gruppo Brigate Vittorio Veneto. Naturalmente aumentando di numero si aggravarono i problemi di sussistenza. Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) ci procurava dei fondi con cui poter acquistare viveri di prima necessità, ma quando i fondi mancavano eravamo costretti a rilasciare buoni che dopo la Liberazione sarebbero stati rimborsati.
IL GRANDE RASTRELLAMENTO NAZIFASCISTA IN CANSIGLIO
Nel mese di agosto altre azioni furono fatte. Io però non vi partecipai personalmente, anche perché il Comando Gruppo Brigate, mi chiamò nella piana del Cansiglio per dirmi che avrei dovuto lasciare la Fratelli Bandiera per are al comando della Brigata Bixio, operante a nord della strada pedemontana che da Fregona va a Montaner, Caneva e Sarone. I ragazzi della Fratelli Bandiera non accolsero favorevolmente il mio trasferimento. Eravamo nati e cresciuti assieme ed in verità pure io non ero molto entusiasta del cambiamento, tuttavia le necessità superiori prevalsero sui sentimenti personali. Con Coledi, commissario della Bixio, sistemammo il Comando alla Crosetta e subito, essendoci aria di prossimi rastrellamenti, predisposi lo schieramento dei tre battaglioni della brigata scegliendo i luoghi più idonei alla difesa ed all’eventuale sganciamento, com’era nella logica del nostro tipo di guerriglia. Sempre nel mese di agosto, nella piana del Cansiglio, si era insediato il Comando di Divisione Nino Nannetti che comprendeva le brigate del Gruppo Brigate Vittorio Veneto (Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) ed inoltre le brigate Mazzini, Tollot e Piave. Il 31 agosto venne paracadutata sull’altopiano di Asiago la missione inglese Simia che in seguito si sarebbe dovuta spostare in Cansiglio. Vi fecero parte: il maggiore Tilman, il capitano Ross, il tenente trentino Gozzer e l’operatore Marini. Lo scopo di questa missione era quello di informare i Comandi Alleati sulla consistenza ed organizzazione effettiva delle formazioni partigiane ed allestire campi di aviolanci che permettessero di far pervenire alle stesse gli aiuti necessari. Tale missione, da Asiago, si avviò a piedi verso il Cansiglio. Il 9 settembre, giunse a Trichiana e venne subito informata che il Cansiglio era stato circondato
da sei divisioni tedesche e pertanto fu costretta a deviare verso le Vette Feltrine, dove operava la brigata Gramsci. Quindi, anche noi che eravamo in zona, ci trovammo circondati dalle truppe tedesche. Il comando della brigata Bixio, come già detto, era situato alla Crosetta. I battaglioni però erano schierati sul versante sud, verso la pianura. Il 7 settembre 1944 l’artiglieria tedesca apre il fuoco sul Pizzoc dove è schierata la Cairoli. All’alba del giorno dopo, apre il fuoco anche sulle nostre postazioni, con pezzi da 149. Mentre corro dalla Crosetta verso le postazioni dei battaglioni, sento fischiare sopra la testa le pallottole delle mitragliere da 20, segno che, dopo i tiri dell’artiglieria, iniziavano a salire. Appena arrivano a tiro delle nostre armi ha inizio una dura lotta per mantenere le nostre posizioni. Dopo aver sparato tutto il giorno, nel tardo pomeriggio, le truppe tedesche si ritirano. Il giorno dopo, l’offensiva tedesca riprende con la stessa intensità ed io sono costretto a rimanere in linea con i battaglioni. Filippo, maggiore dell’esercito, che in quel periodo comanda la divisione, manda una staffetta alla Crosetta per avere notizie sulla situazione di quel settore. Non trovandomi, ne invia un’altra che mi raggiunge presso i battaglioni, dicendomi che devo rientrare alla Crosetta, per poter dare le informazioni adeguate. Sono costretto a rispondere con un biglietto, dando le ultime notizie, ma dicendo di non poter soddisfare la sua richiesta; visto che non possiamo disporre di telefoni con cui poter essere al corrente degli eventi, anche a distanza. Le truppe tedesche, che fin dal giorno precedente si sono spinte verso la cima del monte Pizzoc dove si trova la brigata Cairoli, minacciano di proseguire dal Pizzoc verso la Crosetta. C’è quindi il pericolo per noi di avere tedeschi a sud ed anche a nord. Stacco quindi una compagnia e la invio in rinforzo alla Cairoli. Dopo aspri combattimenti, finalmente giunge la sera e tutto si calma. Rimane
però il dubbio del domani. Abbiamo ancora pochissime munizioni e di rifornimenti non c’è proprio la possibilità. Rientro alla Crosetta ed invio una staffetta al Comando Divisione per informarlo sulla nostra situazione. Evidentemente anche le altre brigate, dopo aver sparato per giorni, si trovano nelle stesse condizioni. A notte inoltrata, giunge l’ordine di dividersi in piccoli gruppi e cercare di uscire nottetempo dall’accerchiamento nemico. Avvisati di questo i nostri battaglioni, dobbiamo provvedere a nascondere tutti i documenti che sarebbe stato molto pericoloso portare con noi. Soprattutto le biografie, cioè l’individuazione di ciascuno di noi, con nome di battaglia e nome e cognome corrispondenti. Se trovate, procurerebbero gravi problemi per le nostre famiglie.
LO SGANCIAMENTO
Alle tre e mezza del mattino del 10 settembre, dopo aver nascosto ogni cosa in buche scavate nel bosco, decidiamo di abbandonare la Crosetta. Scartando l’idea di scendere in pianura, dove non avrei saputo trovare un posto sicuro, decido di puntare sull’Alpago. Con me decidono di venire: Coledi, che è il commissario; Mirko, che è il capo di stato maggiore ed un romano, del quale non ricordo il nome, dattilografo della brigata. Ci avviamo, naturalmente a piedi, lungo la strada che scende verso la piana, dove ormai non troviamo anima viva. Attraversiamo Pian dell’Osteria, giungiamo a Campon e deviamo a destra verso Pian Canaie. Quando arriviamo comincia già ad albeggiare ed è quindi poco prudente proseguire per la strada. Ci inoltriamo verso destra nel bosco e ci portiamo sulle pendici della Cima Vacche. Ormai è giorno e con il binocolo scorgo una colonna di tedeschi che sale verso Tambre. Ci fermiamo fra i cespugli, per evitare di farci vedere in movimento, e vediamo che la colonna si dirige verso Spert. Rimaniamo fermi per varie ore e verso sera, purtroppo, vediamo provenire dalla foresta del Cansiglio dei bagliori rossastri, che ci fanno capire che le case di Campon stanno bruciando. Prima del buio ci portiamo in Val Salatis, dove in una piccola grotta iamo la notte. Al mattino, non avendo altro con noi, facciamo colazione con fragole e mirtilli, che lì abbondano, e ci consultiamo sul da farsi. Notiamo ad un tratto apparire, stagliata sul profilo della cresta a nord della valle, una fila di persone. Data la distanza, non riusciamo a capire chi possano essere. Sono partigiani, che per uscire dal cerchio, sono saliti lassù? Oppure sono tedeschi, che provenendo dalla Carnia, ci chiudono anche da quella parte?
Non riuscendo a darci una risposta, decidiamo di rimanere ancora fermi e nascosti in Val Salatis. Il giorno dopo tutto appare tranquillo e così, sempre costeggiando le montagne, ci portiamo a nord di Montanes, proprio in quella casera che io conoscevo molto bene, fin dai primi giorni della mia fuga da Conegliano. Vi troviamo una mucca e così dopo tre giorni di digiuno, a parte le fragole ed i mirtilli, possiamo bere un po’ di latte. In paese riusciamo a rifocillarci e, trascorsi alcuni giorni, decidiamo di rientrare in Cansiglio per renderci conto di come sia la situazione. Dalla stanza di Montanes, dove avevo ancora le mie cose, prelevo la macchina fotografica, caro ricordo di mio fratello, e così ando per Campon e Pian dell’Osteria posso fotografare quello che rimane dopo la rabbia dei tedeschi. Anche l’Albergo San Marco, nella piana, è bruciato e così quasi tutte le case della Crosetta.
Non essendo riusciti a catturare o uccidere una gran parte di noi, i tedeschi hanno sfogato la loro rabbia bruciando le case. Di circa quattromila partigiani che al momento del rastrellamento occupavano il Cansiglio, ne mancheranno all’appello soltanto (si fa per dire) diciotto. Certo però che le nostre formazioni si erano frantumate ed occorreva quindi cercare di riorganizzarle. Il Comando Gruppo Brigate si ricompattò in località Tre Buse, sopra Montaner e da qui venne emanato questo appello a tutti i partigiani:
Il nemico invasore, tante volte ricacciato dalle contese soglie del Cansiglio, da noi cercato e battuto nei suoi presidi, sulle strade e sulle ferrovie, ha raccolto in uno sforzo supremo le sue energie e ha lanciato concentricamente contro di noi migliaia di uomini con numerose artiglierie e mezzi pesanti. Con eroico slancio, esso è stato ovunque contenuto e in qualche punto volto in disperata fuga nel
corso di alcuni giorni di duro combattimento. Ora, di fronte al rinnovarsi dei suoi disperati tentativi ed allo scopo di deluderlo nelle sue mire di annientarci, abbiamo attuato la tattica utilmente usata nella guerra partigiana. A gruppi, a piccole squadre, siete ati attraverso le maglie d’acciaio delle sue forze e avete raggiunto la pianura, i vostri paesi, le vostre città. Il nemico, che aveva creduto di poter uccidere nel sangue degli italiani migliori ogni volontà di riscossa e di redenzione, ha stretto il vuoto nel suo artiglio sanguinante, mentre le nostre energie ancora integre e potenti si raccolgono per sferrare nuovi colpi. L’impotente rabbia del tedesco si è sfogata sulle povere case dei montanari, sulle loro umili abitazioni, sulle poche masserizie, che sanno il sudore di molte generazioni. Ogni casa, ogni stalla, ogni covone di fieno bruciato, ogni briciola di cibo rubato all’umile gente dei campi e delle malghe, è una ingiustizia che chiede una giusta vendetta riparatrice. Garibaldini delle Brigate Vittorio Veneto, per le mille ferite inferte a questa nostra sacra terra, per i lutti, per i dolori, per l’orgoglio infine di riconquistare, armi in pugno, ogni nostra libertà, noi continueremo audacemente, decisamente, la nostra guerra di liberazione. Le Nazioni alleate, la Russia, l’Inghilterra, l’America, sanno quanto pesi sulla bilancia della guerra, ogni nostra azione e questo riconoscimento sarà di somma importanza al momento in cui verranno discusse le condizioni della pace. Fazzoletti rossi del Cansiglio! Il sacrificio dei compagni caduti non deve rimanere vano. Il sangue da essi versato, ci impegni per la vita e per la morte. Alla brutalità, alla ferocia del nemico, risponderemo con il nostro impavido coraggio, con la nostra estrema decisione. Riprendiamo, compagni, le nostre armi, riformiamo le nostre squadre, le nostre compagnie e liberi uomini, sui liberi monti d’Italia, riscattiamo la terra che i padri ci lasciarono onorata e libera.
LA RIPRESA AUTUNNALE
Ebbe così subito inizio la nuova organizzazione di tutta la divisione Nannetti. Con l’avvicinarsi dell’inverno, era illogico ricreare gruppi troppo numerosi che avrebbero avuto molte difficoltà di sopravvivenza. Furono quindi tenuti in efficienza i comandi di brigata, con pochi uomini. Un giorno, arrivò a Montaner un giovane inglese, fuggito da un campo di concentramento tedesco. Lo accolsi in seno alla brigata e dopo qualche giorno vidi che, seguendo il nostro esempio, senza dubbio per una questione di comodità, si lasciò crescere la barba. In quei giorni giunse presso di noi la missione alleata comandata dal maggiore Tilman, che era stata paracadutata, giorni addietro, nei pressi di Asiago. Dopo i doverosi reciproci saluti, pensai di presentargli Johnson, l’inglese che avevo con me. Tilman rispose al suo saluto militare, lo squadrò dalla testa ai piedi, e gli disse secco una cosa che non capii. Quando poco dopo Johnson mi tradusse la frase, mi resi conto della freddezza inglese. “Tagliati la barba“ gli aveva detto, quando mi sarei aspettato almeno una stretta di mano. Ebbi poi modo di conoscere il maggiore Tilman per l’uomo meraviglioso che era. A parte la sua grande ione per la montagna, che lo aveva portato in alcune spedizioni sull’Himalaya, aveva una tempra eccezionale. L’ho visto personalmente, in pieno inverno con dieci gradi sotto lo zero, rompere il ghiaccio di una cisterna adiacente ad una casera, calarvi un secchio, riempirlo d’acqua ed in mutande com’era versarsela in testa a mo’ di doccia. Con un po’ d’inglese imparato da Johnson e un po’ d’italiano che Tilman sapeva, si era creato fra noi un cordiale rapporto, tanto che, avendo lui espresso il desiderio di salire qualche montagna, ebbi modo di accompagnarlo su qualche cima dell’Alpago.
Con la venuta della Missione Alleata, che via radio era collegata con le truppe già sbarcate nel Sud d’Italia, era aumentata la possibilità di avere rifornimenti, sia di armi che di viveri e vestiario, paracadutati dagli aerei. Ogni brigata aveva un messaggio proprio, che veniva trasmesso e captato tramite una piccola radio portatile. Ogni sera eravamo in ascolto, nella speranza di sentire il messaggio attribuito alla nostra brigata. Dopo vari giorni d’inutile attesa, finalmente riceviamo quello giusto per noi. Naturalmente il campo di lancio era già stato definito in precedenza. Dovevamo solo predisporre dei fuochi a forma di “T” per indicare la direzione del vento, in modo che il lancio venisse effettuato nel migliore dei modi, evitando che i colli paracadutati finissero lontani dal campo. Dovevamo inoltre, con una luce prodotta da una batteria, segnalare con alfabeto morse una lettera convenuta. Tutto era pronto e con l’ansia che si può immaginare, aspettavamo in piena notte il rumore di un aereo. Arriva, non arriva, eccolo ... sentiamo che gira sopra di noi. Accendiamo i fuochi e trasmettiamo la lettera convenuta, ma succede qualcosa di strano. I fascisti di un presidio, che si trova a sud di Montaner, presso il così detto Tubo, sentendo l’aereo, accendono alcuni grossi fari (loro avevano la corrente elettrica). Ci rendiamo subito conto della possibilità di equivoco da parte del pilota. Rimaniamo tuttavia fiduciosi, in quanto avrebbe dovuto distinguere la lettera stabilita. Gira, gira, ed alla fine, forse per la fretta di concludere la sua missione, il pilota inspiegabilmente sgancia i colli proprio sul presidio fascista. Il giorno seguente, informiamo la Missione dell’accaduto e facciamo trasmettere un messaggio, precisando che il nostro campo era a nord di quello dove era avvenuto il lancio precedente. ano vari giorni e nel frattempo, anche la brigata Cairoli, che si trovava in Pizzoc, e quindi a nord rispetto al nostro campo, riceve l’ordine di allestirne uno per sé. a ancora del tempo e finalmente riceviamo il nostro messaggio, che, ovviamente, non era quello della Cairoli.
Arriva l’aereo, noi accendiamo i nostri fuochi; il presidio fascista, non accende nulla, giustamente pensando ad una possibile reazione. Invece proprio i partigiani della Cairoli, sentito l’aereo data la poca distanza da noi e pur non avendo avuto alcun messaggio, accendono i loro fuochi sperando di ricevere qualcosa. Il pilota vede quindi due campi accesi: considera quello a nord la nostra postazione e lì, cioè alla Cairoli, sgancia i colli, ed al nostro campo, che considera essere il presidio fascista, sgancia le bombe. C’è da ridere ora, ma vi assicuro che in quel momento non ne avevamo proprio voglia. Per fortuna le bombe erano solo spezzoni e sono cadute senza procurare danni. Naturalmente ci siamo chiesti: cosa serve la lettera in morse che dobbiamo trasmettere, se non ci fa riconoscere? Ma la guerra è fatta anche di queste cose. Ricordo che mio padre, mi raccontava che, essendo lui di fanteria, durante la prima guerra mondiale, nel corso di un attacco, la nostra artiglieria che doveva colpire le linee nemiche, avendo il tiro corto, bersagliava invece le nostre. Comunicarono subito di allungare il tiro. La risposta? L’artiglieria non riceve ordini dalla fanteria. (sic)! Il nostro caso era ben diverso, ma tuttavia, per un “piccolo” malinteso, potevamo rimetterci le penne.
SORPRESA TEDESCA IN CROSETTA
Intanto si avvicina l’inverno. Un giorno di novembre, con tre miei compagni, salgo alla Crosetta ad incontrare alcuni forestali che dovevano darci informazioni sull’intenzione dei tedeschi di prelevare durante l’inverno, dalla foresta, legname per le fortificazioni sul Piave. Li troviamo proprio lì sul o. Parlo un po’ con loro e chiedo di un certo Coan, che conoscevo da tempo e che abitava alla Crosetta, prima del gran rastrellamento di settembre. La sua casa era una delle rare non incendiate. Mi dicono che doveva essere proprio lì e così lascio il gruppetto sulla strada e, fatti pochi i, entro in casa, dove trovo l’amico Coan. Ci siamo appena abbracciati e salutati che, all’improvviso, arriva, proveniente dall’Alpago, una camionetta di tedeschi. Vedono il gruppo di persone che avevo appena lasciato e, senza alcun preavviso, sparano una raffica e si fermano. Essendo in casa, non mi rendo conto di cosa stia succedendo. Esco dal retro e facendo un piccolo giro, nascosto dal bosco, mi porto sopra la strada, da dove posso vedere e sentire cosa succede. Uno dei miei è a terra, gli altri due non ci sono, e i due forestali stanno parlando con i militari tedeschi. Astutamente, stanno dicendo ai tedeschi che quello a terra è un forestale e quindi, ad evitare complicazioni, questi rimontano in camionetta e se ne vanno. Esco dal mio nascondiglio e constato che il partigiano a terra ha una ferita di striscio sulla testa, come se avesse ricevuto una bastonata. Per fortuna si riprende subito e ci dice che, pur essendo intontito, aveva sentito ogni cosa ed aveva finto di esser morto. Bene così!
Dopo un po’ ritorna il secondo, ma non si vede invece ricomparire il terzo. Ci mettiamo subito alla ricerca e dopo un po’ lo troviamo riverso sopra un cespuglio. Sulla schiena del suo giubbetto di cuoio, vediamo un foro. Lo solleviamo e constatiamo che ne ha uno anche sul petto. Quindi la pallottola era entrata e uscita. Non sappiamo però se ha leso delle parti vitali. Occorre far presto e portarlo all’ospedale. Con l’aiuto di Coan e dei forestali, troviamo un carro e un mulo. Mettiamo un po’ di fieno sul carro e adagiamo Jimmi (così si chiama), sperando di attenuargli i grandi scossoni che inevitabilmente avrebbe avuto lungo la strada, non asfaltata, fino a Fregona dove c’è un medico a noi conosciuto, che lo visita e lo trasferisce subito all’ospedale di Vittorio Veneto. Jimmi guarì ed ancora oggi da Norcia, dove abita, spesso mi telefona, ricordando quel giorno. Durante l’inverno i tedeschi iniziarono a tagliare alberi e a trasferirne i tronchi al Piave, e noi, dopo il messaggio del generale Alexander che ci invitava ad attendere la primavera per agire, li lasciammo fare.
RAGAZZO SOTTO PROCESSO
In quel periodo autunnale avevo sistemato il comando della brigata, con alcuni uomini, in una casera a nord-est delle Tre Buse. Un giorno alcuni partigiani, che erano dislocati più in basso, catturano un ragazzo di quattordici anni che, armato di mitra, essendo in forza del presidio fascista al Tubo, andava nei vari paesi della pedemontana derubando per le case con la minaccia dell’arma. Lo portano al nostro comando per essere processato. In base ad un regolamento generale, il commissario di brigata aveva funzione di accusa, il comandante quella di difesa e cinque partigiani di giuria. Dai dati di fatto l’accusa era tale che, con le regole di guerra esistenti, avrebbe richiesto la pena di morte. Io che come comandante rappresentavo la difesa, sostenni che la colpa di quanto aveva fatto quel ragazzo non era sua, ma di chi criminalmente aveva consegnato l’arma ad un quattordicenne. Dopo lunga discussione, fu deciso di trattenerlo con noi, sotto la mia responsabilità. Per un po’ di giorni lo tenni d’occhio e mi sembrava che si fosse adattato abbastanza al nostro tipo di vita, indubbiamente meno comodo di quello che aveva presso il presidio fascista. Era un ragazzino sveglio, simpatico, dall’accento romanesco. Un giorno i ragazzi, con i quali aveva già familiarizzato, lo mandano a prendere un secchio d’acqua ad una cisterna, presso una vicina casera, e lui scompare. Così finisco io stesso sotto processo, essendone il responsabile. Riuscii a convincere tutti che la cosa migliore da fare era quella di cambiare zona e per quanto mi riguardava, decidessero loro. Tutti in fondo mi volevano bene e così, naturalmente, me la cavai. Del ragazzo non avemmo più notizie se non dopo la Liberazione, quando da alcuni fu visto sfilare per le vie di Vittorio Veneto con tutti i partigiani.
NERVI TESI
Durante l’autunno subimmo vari rastrellamenti, non molto estesi, ma improvvisi e quindi inaspettati. Uno, in particolare, costò la vita a quattro nostri partigiani, che stavano tranquillamente pulendo le armi in una casera, e non sospettavano certo di essere sorpresi da un reparto di nazifascisti. Uno dei quattro era studente di filosofia e si chiamava Ideacome nome di battaglia, e teneva sempre aggiornato un suo diario. Anch’io avevo preso il piacere di scrivere giornalmente quanto accadeva, ma considerato che io sarei stato il terzo, essendo già caduto in precedenza un altro stesore di diario, confesso che da quel giorno, forse-purtroppo, smisi di scrivere. Dico forse, perché chissà, avrei potuto essere il terzo; dico purtroppo perché se avessi continuato a scrivere, oggi non sarei costretto a spremere le meningi per ricordare, senza contare tutto quello che dalla memoria può essere sparito. Eravamo, quindi, sempre in continuo allarme ed anche se in qualche casera ci trovavamo in pochi, facevamo i turni di guardia. Per rendere l’idea di come avessimo i nervi tesi, vi racconto un fatto, di per sé banale e se vogliamo addirittura ridicolo, che accadde a me in un turno di guardia notturno. Mi trovo con altri tre in una casera, dove arriva un sentiero piuttosto sassoso, fra cespugli di noccioli e altro. Sono le tre di notte e mentre gli altri dormono, me ne sto appoggiato al muro della casera, con le orecchie tese nel silenzio notturno, sentendo solo il lieve fruscio delle foglie, mosse da una leggera brezza. Croc…croc-croc sento ad un tratto anche questo rumore sordo, come di i guardinghi, lungo il sentiero. Croc-croc lo sento sulla mia destra, essendo io sullo spigolo sinistro della casera. Faccio il giro sul retro della stessa e mi porto sullo spigolo destro.
Aspetto un attimo e: croc-croc lo sento sulla sinistra, cioè al centro di fronte alla casera, proprio dove arriva il sentiero. Con l’arma pronta, adagio, adagio, mi sposto verso il punto da dove parte quel rumore. Croc-croc lo sento proprio vicino. È una ciotola di alluminio vuota che alla sera avevamo lasciata fuori, sulla tavola di pietra non levigata, e che con la brezza, traballa, facendo croc-croc. Mi sfogo scaraventandola lontano e sorrido di me stesso.
RIFLESSIONI DA UN ROCOLO
Durante l’inverno 1944–1945 rimanemmo in pochi in montagna. C’era difficoltà di approvvigionamento e di pernottamento, soprattutto per il freddo e la quantità di neve che in quell’inverno fu particolarmente abbondante. In un primo momento, ci eravamo sistemati in una capanna nei pressi di un rocolo abbandonato. Non c’era ancora tanta neve, ma faceva molto freddo. Una notte, durante uno dei soliti turni di guardia, poco prudentemente salgo sul palco del rocolo da dove, quando questo è in attività, i cacciatori, gettano gli spaventi per spingere i poveri uccellini (scesi nel centro del rocolo, richiamati dagli ignari loro simili rinchiusi nelle gabbie) nelle reti e sentendomi tranquillo, malgrado i circa diciotto gradi sotto lo zero, mi rannicchio fra le frasche rinsecchite, cercando di disperdere il meno possibile il calore del mio corpo. È fantastico constatare come si possa, col pensiero, are da un luogo all’altro, da una persona all’altra, oppure nel tempo da un fatto avvenuto oggi a quello accaduto dieci anni prima, con una velocità che supera la luce. Così, vado a casa dai miei cari lasciati soli con tutte le loro ansie; volo nei pressi dell’isola di Malta, dove mio fratello è caduto con l’aereo; rivedo le belle escursioni fatte assieme ed infine mi soffermo con la morosa che con tanto coraggio, sfidando le possibili conseguenze, da sola in bicicletta, è venuta a trovarmi, avendo avuto le opportune indicazioni da persona fidata. Le conseguenze ci furono infatti, perché fu arrestata ed interrogata, per sapere da lei dove io fossi. Paradossalmente fu proprio il comandante tedesco, che alloggiava nell’albergo gestito da sua madre, a farla liberare dalle mani dei fascisti. Tutto questo, lo seppi dopo la Liberazione. Nel 1946 ci sposammo e fu la madre dei miei figli.
Purtroppo nel 1955, la perdetti assieme al terzo figlio. E fu il secondo grave colpo della mia vita. Ma allora, tutto questo, doveva ancora avvenire ed il pensiero vagava per altri anfratti. Come siamo giunti ad una situazione così anomala? Perché mi trovo qui, braccato come fossi un delinquente? “Achtung bandit” dicono i tedeschi. Per loro siamo dei banditi. Se non ci fosse stato il 25 luglio e poi l’8 settembre, sarei senza dubbio finito a combattere in Russia. Al V Artiglieria Alpina, allora, si stava già preparando la partenza. E tutti quelli che si erano trovati già in Russia, sorpresi dagli eventi storici? E quelli mandati in Montenegro, in Albania ed in Grecia, alla quale secondo Mussolini, si dovevano spezzare le reni? Ma perché ? Cosa hanno fatto a noi quei popoli? Tutto mi appare così assurdo, da convincermi sempre più, di essere sulla strada giusta. Si dove porre fine a tutto questo massacro e, sia pure con la lotta armata, preparare le fondamenta per una nuova Italia, in pace e liberata da una dannosa dittatura. Il calpestio di un capriolo mi fa sobbalzare, distogliendomi da questo accavallarsi di pensieri. Solo allora mi rendo conto in quale brutto posto mi ero appollaiato. Se ci fosse stato un rastrellamento mi sarei trovato nella rete, come un povero uccellino. Scendo subito da quel soppalco e mi accingo a fare un po’ di ginnastica per riscaldarmi.
Viene intanto a scadere il mio turno e così ritorno nella casera, dove mi attende almeno una coperta per dormire un po’ al calduccio. Quell’inverno, fu veramente duro. Tanta neve e tanto freddo. Eravamo rimasti in quattro, praticamente il comando della brigata e ci rendemmo conto che, anche noi, non potevamo resistere a quella quota, soprattutto per la difficoltà di provvedere a quanto strettamente necessario alla sopravvivenza. Decidemmo pertanto di trasferirci più in basso, per essere più vicini al paese. Dormire nelle casere era però molto pericoloso e così erigemmo una tenda addossata ad una roccia, nascosta nella boscaglia della valle che sale verso Valsalega. Lì ci sentivamo abbastanza tranquilli, anche se una spiata di qualcuno, che per caso l’avesse scoperta, avrebbe potuto metterci in grossi guai. Naturalmente, la usavamo solo per andarci a dormire. Di notte, quando nevicava, dovevamo uscire per togliere la neve dai teli ed evitarne lo sfondamento, e quell'inverno, di neve, ne cadde molta anche in pianura.
RITORNO IN ALPAGO
Alla metà di febbraio il Comando Divisione sente la necessità di ricompattare le formazioni per essere pronti, nella vicina primavera, a riprendere in pieno le attività. Il 17 febbraio il Comando mi informa che, allo scopo di riorganizzare la brigata Fratelli Bandiera e vista la mia conoscenza di quella zona, avrei dovuto riprenderne il comando, recandomi al più presto in Alpago. La notte del 18, assieme ad un partigiano di Lamosano, naturalmente a piedi, iniziamo la traversata di tutto il Cansiglio. La strada è aperta, perché di giorno i tedeschi vengono con gli automezzi a caricare legname, ma ai lati ci sono due muri di neve alti circa due metri. Si cammina quindi come se fossimo in una grande trincea bianca, che non ti lascia vedere né a destra né a sinistra. Camminiamo in un silenzio assoluto, sentendo soltanto lo stridio che i nostri scarponi provocano sulla neve gelata. Verso le cinque del mattino arriviamo ad una stalla, nei pressi di Pianon. All’interno troviamo una mucca e spinti dal desiderio di bere un po’ di latte, cerchiamo di mungerne qualche sorso. Mentre siamo intenti a questa operazione, che però non riesce, entra il proprietario. Ci guarda, si rende conto di cosa stiamo facendo e con una risata: “Non vedete che è gravida e quindi ancora non dà latte?” Così rimaniamo a bocca asciutta. Sostiamo comunque un po’ a riscaldarci e poi riprendiamo il nostro cammino. Arriviamo a Chies, ed essendo già giorno, troviamo varia gente in piazza. Alcuni mi riconoscono, si avvicinano per salutarmi, ed in breve si forma un capannello di persone. Dopo circa sei mesi di assenza da quei luoghi, mi viene logicamente chiesto dove sono stato durante tutto quel tempo e dove sono diretto. Sempre pensando di trovarmi fra tutti vecchi amici, molto ingenuamente, mi
viene spontaneo di dire che, avendo ato l’inverno in una tenda, penso di andare a dormire nel mio vecchio letto di Montanes. Proseguiamo per Lamosano, dove anche ritrovo tanti amici e quindi salgo a Montanes. L’accoglienza che ricevo è, a dir poco, commovente. Chiedo ai ragazzi, già partigiani della Fratelli Bandiera, com’è la situazione in loco. “Al momento è tutto abbastanza tranquillo, però a dormire andiamo nelle casere a monte del paese.” Così mi rispondono. Io ho troppa voglia di un letto per rinunciarvi e dato che questo è anche grande, lo condivido con un partigiano del battaglione Gava, che da Lamosano aveva voluto seguirmi. Alle cinque del mattino (era il 20 febbraio 1945) mi sveglia il continuo latrare del cane, legato presso la porta di casa. Mi alzo, socchiudo silenziosamente un’imposta, e vedo cinque o sei tedeschi che stanno piazzando un fucile mitragliatore sull’angolo del cortile, che ad ovest domina la vallata. Appena informato di questo il mio compagno, che evidentemente era un impulsivo, prende il mio mitra appoggiato su una cassapanca, con la chiara intenzione di sparare dalla finestra a quei pochi tedeschi. Mentre lo afferro per un braccio e, sempre in silenzio, lo trattengo, entra in camera la padrona di casa, amia Silvia per informarci che il paese è pieno di tedeschi. Intuisce ciò che sto facendo nei confronti del mio compagno e, dai quei gesti, ne deriverà poi che io ho salvato il paese dalla rovina. Penso, in verità, che il merito sia stato più suo che mio. In un attimo affiorano in me varie considerazioni: tentare la fuga, anche ammesso che ci riuscisse, il che non è molto probabile, avrebbe certamente compromesso i padroni di casa. L’unica cosa da fare è mantenere la calma e cercare di nasconderci. Ad amia Silvia dico subito di nascondere le nostre armi, cosa che lei compie ponendole nel granaio, sotto un mucchio di patate. Ritorna quindi giù in cucina, dove si prodiga ad intrattenere i tedeschi, che nel frattempo sono entrati, offrendo loro da mangiare e da bere. Noi ci sistemiamo fra le tavole del fondo del letto ed il pagliericcio, dopo aver
ricomposto alla meglio le coperte sovrastanti. Essendo sdraiati di fianco l’uno di fronte all’altro, ci guardiamo in faccia e parliamo sottovoce: ci diciamo essere quelle le nostre ultime ore. Ad un tratto sentiamo la porta aprirsi, ma troppo silenziosamente per essere aperta dai tedeschi. Era infatti entrata una ragazza; Santina, che pensando così di evitare, in una eventuale ispezione, che guardassero sotto il pagliericcio, s’infila sotto le coperte fingendosi ammalata. Nonostante le mie insistenze perché non resti lì, pensando alle conseguenze in cui sarebbe incorsa se ci avessero trovati, Santina rimane a letto sopra di noi fino alle due del pomeriggio, quando i tedeschi se ne vanno. Purtroppo però non è che tutto sia andato così liscio. Alcuni ragazzi, che dormivano in una casera proprio a nord-ovest della casa dove eravamo noi, accortisi che in paese c’erano i tedeschi, uscirono di corsa, per entrare nel bosco vicino. Proprio quel mitragliatore, piazzato sotto la nostra casa, li vide e sparò. Uno di loro, Vittorio Barattin, colpito, cadde per non rialzarsi più. Oggi, su quella casera, c’è una lapide che lo ricorda. Alle 14, usciamo dalla nostra precaria posizione e dopo aver ringraziato Santina per il suo coraggio e spirito di abnegazione, ma anche averla sgridata scherzosamente per aver osato troppo, abbracciamo Silvia e Martino che troviamo giù in cucina ed andiamo subito da Costante, l’unica osteria del paese, per sapere meglio cosa sia successo durante tutte quelle ore. Apprendiamo che i tedeschi erano circa trecento, che appena arrivati erano entrati nelle case, avevano prelevato una quindicina di uomini e li avevano chiusi in una stalla, come ostaggi, in attesa degli eventi. Dicevano di sapere che alla sera era arrivato un comandante partigiano che avrebbe dormito nell’ultima casa del paese. Per fortuna, in un paese, ci sono tante ultime case; a nord, a sud, a est o ad ovest. La nostra era proprio l’ultima ad ovest. Che non siano saliti in quella è stata proprio una grande fortuna.
A parte questa, il merito va alla padrona di casa, che ha saputo mantenere la calma trattenendoli in cucina. Ma proprio lei che, come già detto, aveva assistito al mio intervento di impedire al compagno di sparare dalla finestra, attribuì a me la salvezza del paese e così, per vari anni, il 20 febbraio fu festeggiato anche in mio onore. Purtroppo la gioia per il ato incubo si tramutò in dolore quando apprendemmo della morte del caro Vittorio. ato il momento di apprensione, cercai subito di contattare i componenti del battaglione Gava, che era rimasto in zona durante l’inverno. Avuta qualche indicazione, in breve riuscii ad individuarli. Erano ridotti ad una dozzina di uomini, ma tutti ben temprati e preparati a tutto. Con loro iniziai la ricompattazione della brigata Fratelli Bandiera. Dovevamo al più presto allestire un campo di lancio, che avrebbe consentito agli alleati di rifornirci di quanto necessario per la ripresa dell’attività, durante la ormai vicina primavera. Il luogo doveva essere lontano dai paesi, per evitare probabili rappresaglie, e non raggiungibile in breve tempo dai tedeschi. La scelta fu: Pian Scalon. C’era ancora tanta neve e nessuna casera che potesse offrirci un riparo. Decidemmo allora di costruire una baracca con quanto si poteva trovare sul posto. Non essendoci altro che rami di pino, con questi, oltre che le pareti, coprimmo anche il tetto. Finché durò il freddo e continuò a nevicare, tutto andò bene; ma verso la primavera, quando la neve cominciò a sciogliersi, fu una vera pioggia, che ci obbligò ad abbandonare quel ricovero. Spostandoci un po’ a nord trovammo una roccia rientrante, non una vera grotta, ma che ci consentì almeno di non bagnarci. Per allestire il campo di lancio portammo a spalle una batteria da camion, necessaria per trasmettere in morse la lettera convenuta all’aereo, che di notte sarebbe venuto per paracadutare i colli.
Raccogliemmo un po’ di legna per i fuochi necessari ed ogni sera, per mezzo di una piccola radio, ascoltavamo con ansia i messaggi che ci venivano inviati. Come già detto, ogni campo aveva il proprio messaggio; quando lo si riceveva, significava che quella notte e per quel campo ci sarebbe stato un lancio. ano i giorni, ma il nostro messaggio non arriva. Finalmente eccolo… Sinceramente ora non lo ricordo più, ma allora era ben impresso nella memoria. Poteva essere: “Le rane gracchiano“. Felici, ci apprestiamo ad accendere i fuochi stabiliti e con il faro collegato alla batteria a dimostrare, emettendo la lettera in morse, che il campo è quello giusto. Dopo qualche tempo di attesa sentiamo il rombo di un aereo che volteggia sopra di noi. Tutto procede per il meglio ed il lancio avviene regolarmente. I colli più vicini vengono raccolti subito e per la ricerca degli altri attendiamo le prime luci dell’alba. Cercare dei colli in montagna, con un metro di neve, sparsi fra rocce, canaloni e pini, non è cosa molto semplice. Con molta fatica, riusciamo comunque a ricuperarli tutti tranne uno, quello che, da una distinta trovata nei colli, risulta contenere la posta per la Missione Alleata, ospite in quel periodo della brigata Ciro Menotti nostra vicina. Ne nasce una discussione piuttosto animata con la Missione, che minaccia la sospensione dei lanci, qualora non fosse ricuperato il collo mancante. Con i ragazzi, stanchi per la ricerca effettuata in quelle avverse condizioni e quasi sospettati di appropriazione del collo mancante, viene a crearsi una situazione di aspra tensione. Per fortuna il giorno dopo, appeso ad un albero in mezzo al bosco, viene rintracciato anche l’ultimo paracadute e così tutto si appiana. In quel periodo, sopra le nostre teste e durante il giorno, sorvolavano a quote elevate formazioni di Fortezze Volanti che andavano a bombardare la Germania. Un giorno, sentiamo il rombo di un aereo a bassa quota provenire da nord-ovest, dal monte Teverone. Volgiamo lo sguardo verso quella zona e vediamo una Fortezza Volante, certamente di ritorno dalla Germania e colpita dalla contraerea, che continuava a perdere quota, venendo proprio verso di noi. Dopo qualche secondo sparisce
dalla nostra vista dietro ad un costone, nel bosco sotto la Palantina. Sentiamo un gran botto, che ci fa ovviamente pensare alla sua caduta. Ci precipitiamo verso quella direzione e giunti presso l’aereo, che fortunatamente non dà alcun segno di incendio, constatiamo che al suo interno non c’è alcuna presenza. Ci sono, sparse per la cabina, alcune sigarette, qualche barattolo e i sedili contorti. Dall’impatto anche i motori sono rimbalzati alcuni metri avanti. Evidentemente, quando gli aviatori dell’equipaggio si erano resi conto che non c’era altro da fare, avevano indirizzato l’aereo verso luoghi non abitati e si erano gettati col paracadute. In seguito, infatti, furono ricuperati tutti in vari luoghi dell’Alpago e riuniti poi in una casera della località detta Pomera, a nord di Montanes. Da quell’aereo noi riuscimmo a smontare una mitragliera da 20, l’unica rimasta efficiente e che, dotata di un robusto cavalletto fatto costruire appositamente da un fabbro di Tambre, ponemmo a difesa del nostro campo di lancio . Naturalmente, la caduta dell’aereo, fu notata in tutto l’Alpago e quindi anche a Montanes, dove due persone, che io conoscevo molto bene, dotate di fantasia ed anche di capacità creativa, mi chiesero il permesso di recarsi presso l’aereo per recuperare parte delle lastre di duralluminio che compongono le ali. Consegnai loro un biglietto con il timbro di brigata, autorizzando quel sopralluogo, raccomandando però di mostrarlo solo ad eventuali partigiani, ma non certo a tedeschi che avrebbero potuto essere in zona. Quando chiesi loro il perché di quel ricupero, mi dissero che pensavano di costruire semplicemente una trebbiatrice, visto che nell’Alpago c’era proprio bisogno di una macchina del genere. Beh! Sapete che riuscirono veramente a costruirla e dopo la Liberazione, trascinata da un vecchio trattore, la portarono in giro per l’Alpago a trebbiare il frumento di tutti? Oggi, dopo cinquantacinque anni, a Montanes (ora San Martino) ogni anno in luglio, quella trebbiatrice viene portata in pubblico per la Festa del Frumento e trebbia ancora perfettamente. Vengono allestiti dei capannoni, dove la gente mangia in allegria e dopo, alla musica di una simpatica orchestra, si balla fino a
notte inoltrata. Montanes è un paese che è rimasto profondamente nel mio cuore, per la posizione incantevole, per le montagne che lo proteggono dai freddi venti del nord, ma soprattutto per la sua gente. Allora il paese non era allacciato alla linea elettrica della SADE, così alcuni ebbero l'idea di costruire una centralina. Procurarono una turbina ed una dinamo, incanalarono l’acqua dalle pendici del sovrastante monte Teverone e riuscirono a dare la corrente ai loro paesani. Quando però l’assorbimento di corrente cominciò ad aumentare, sorse un problema. La dinamo infatti poteva surriscaldarsi e bruciare. Pensarono allora di interporre dei fusibili di piombo posti ad una certa altezza. A questi legarono uno spago che sosteneva un peso. Quando i fusibili, per l’aumento di assorbimento si surriscaldavano, bruciavano lo spago, lasciando così cadere il peso sopra una leva che chiudeva l’afflusso dell’acqua. La turbina si fermava e tutti rimanevano al buio, però la dinamo era salva. In paese c’erano poi due forni ed a turno ogni famiglia si faceva il pane che, dovendo durare fino al turno successivo, veniva impastato con le patate, che lo mantenevano morbido a lungo. C’era anche un telaio, che era proprio di amia Silvia. Coltivavano la canapa e una volta raccolta la lasciavano macerare distesa sul prato, le ragazze la sfibravano a mano, con un arnese di legno costruito in loco, con la corletta filavano il tutto e quando avevano accumulato una quantità di filo sufficiente per fare un lenzuolo, andavano dalla zia Silvia che metteva a loro disposizione il telaio. Così, un po’ alla volta, ogni ragazza si preparava il corredo per sposarsi. Questo era Montanes. Oggi sono cambiate molte cose, ma la gente è sempre così, con il suo affetto, con la sua cordialità, con la sua laboriosità e solidarietà. Ma noi siamo ancora nella zona di Pian Scalon, alle prese con la neve che, verso la primavera incomincia a sciogliersi, obbligandoci ad abbandonare la nostra dimora.
PRIMAVERA 1945
Usciti dal torpore invernale, riuniamo il maggior numero di uomini e ci prepariamo ad affrontare la ripresa dell’attività. Varie sono le azioni: a La Secca, a Puos, a Bastia e a Farra. Nella notte dell’undici aprile decidiamo di attaccare il presidio nazifascista di Puos, asserragliato nel fabbricato dell’asilo. Spariamo alcuni colpi di fucile, ed intimiamo la resa. Per tutta risposta, sparano anche loro e così si continua per un bel po’. Una pallottola mi trafora il braccio destro. Sento come una scottatura, ma non ne faccio caso. Si continua a sparare, ma senza esito positivo. Decidiamo di sparare un colpo di bazooka, che risulta determinante, perché a quel punto il presidio si arrende. Vengono fatti prigionieri venticinque repubblichini italiani ed un tedesco (il comandante). Ricuperiamo: un mortaio 81, uno da 45, vari fucili mitragliatori e mitra, fucili, pistole, bombe a mano ed una forte quantità di munizioni varie. Do ordine di portare i prigionieri nella malga Degnona a nord di Montanes e dato che il mio braccio sanguina mi reco dal medico di Puos, il dottor Bottacin, che molto gentilmente mi accoglie (erano le quattro di notte) e disinfetta la ferita dovuta fortunatamente ad una pallottola intelligente, entrata ed uscita dal mio braccio senza ledere parti importanti. Mi accomiato dal buon dottore, che salutandomi mi dice: “Attento, perché la pelle è una sola”. Con il mio braccio legato al collo, m’incammino verso Lamosano e quindi su fino a Montanes. Qui mi riposo un po’ e poi riprendo il cammino verso malga Degnona, per rendermi conto sulla sistemazione dei prigionieri.
Strada facendo, incontro due dei miei ragazzi che stanno preparando una buca, con disteso a fianco uno dei prigionieri, gravemente ferito, che sembrava morto, ma non lo era ancora. Naturalmente, li ho convinti a sopportare la fatica ed a continuare a portarlo, finché il suo cuore batteva. Oggi, che da molti anni viviamo in pace, un fatto del genere, appare come un paradosso. È difficile comprendere ciò che fatalmente, durante una guerra, può subentrare nel pensiero umano. Ci si rende conto che la propria vita non vale nulla e pertanto è facile considerare nulla anche quella degli altri. Occorre mantenere un equilibrio psicologico, che non a tutti riesce. Arriviamo alla malga e subito mando a chiamare il medico di Pieve che, essendo più giovane del medico di Puos, sarebbe potuto più agevolmente arrivare a piedi lassù. Mi dicono che durante il trasporto su un carro da Puos a Montanes dei feriti che non potevano camminare, era morto il maresciallo tedesco. Nell’attesa che il medico arrivasse, m’intrattengo a parlare con i prigionieri, che mi fanno capire il loro stupore nei nostri confronti. Pensavano che noi fossimo veramente dei banditi, quasi dei selvaggi; ed erano quindi meravigliati nel constatare che eravamo uomini come loro. In verità ho pensato che questo atteggiamento fosse un po’ ipocrita; ad ogni modo, mi fece piacere. Il medico arrivò e curò così bene i feriti che guarirono tutti, anche quello che sembrava dovesse morire. Circa due anni dopo, mentre mi trovavo nell’ufficio dell’azienda di mio padre, si presenta uno che dice essere alla ricerca di un comandante partigiano a nome Rolando. “Sono io”, rispondo. Quello con commozione mi stringe la mano e mi dice: “Io sono quello che se non arrivava lei …”. Mi commossi anch’io. Parlammo di quel brutto periodo e mi ribadì che allora non immaginava che il nostro movimento fosse così importante. Ci salutammo e non lo rividi più. Il gruppo maggiore della brigata lo avevo concentrato, a metà di aprile, al Vivaio Forestale del Cansiglio sopra il paese di Broz, ai bordi della foresta. C’erano vari fabbricati vuoti, che poterono essere adibiti a dormitorio per noi.
Un giorno, arriva un nostro conoscente da Tignes e mi dice che nei pressi appunto di Tignes c’è un tenente tedesco, che vuole trattare con il comandante partigiano della zona. Mi faccio prestare una moto da uno della forestale di Broz e, con quello che mi aveva avvisato del fatto, scendo. In una piccola radura, mi trovo di fronte ad una autoblinda e dietro a questa un autocarro con cassone scoperto pieno di ragazzi giovanissimi, senza copricapo, tutti biondi. Erano senz’altro dell’ultima chiamata, fatta da Hitler in estremo. Davanti all’autoblinda c’è l’ufficiale con a fianco un suo militare che ci farà da interprete. Io sono solo e, mentre mi avvicino al tenente, vedo alle sue spalle quei ragazzi, in piedi sul cassone del camion, che mi fanno dei cenni, come a volermi incitare a concludere la resa. Il tenente, naturalmente tramite l’interprete, mi dice di essere disposto alla resa, ma mi chiede l’onore delle armi. In sostanza mi chiede di non essere disarmato. Rispondo che ciò non è assolutamente possibile e si apre così una piccola discussione. Alla fine accetta le mie condizioni, ma mi chiede se almeno posso assicurare la vita dei suoi ragazzi. Io sento di poterlo rassicurare su questo e così decidiamo di partire verso il Vivaio, dove ci aspettano gli uomini della brigata. Lascio la motocicletta presso un conoscente, salgo assieme al tenente tedesco sull’autoblinda e, seguiti dal camion, saliamo verso Tambre. Lungo il tratto che precede Borsoi, dalla torretta, continuo a sbracciarmi rivolto verso i costoni che a sinistra fiancheggiano la strada, per avvisare le nostre vedette a non intervenire. So benissimo che lassù non c’è alcuna vedetta, ma voglio far intendere che tutto è sotto il nostro controllo. Nel frattempo troviamo il modo di capirci parlando in se e così, quando giungiamo a Borsoi, mi chiede se fosse possibile fare una sosta, perché ha una gran sete.
Entriamo nell’osteria di Lavina, che conoscevo molto bene. Lui è dietro al banco e quando mi vide solo con tutti quei tedeschi, sbarra gli occhi ed il suo viso ha un’espressione di vero terrore. Indubbiamente nella sua mente stanno ando due pensieri: o Rolando è stato catturato dai tedeschi, o è ato dalla loro parte. È ben lontano dal pensare che tutti loro sono miei prigionieri. Lo rassicuro subito e dopo esserci dissetati, riprendiamo la strada verso il Vivaio. Vi giungiamo accolti festosamente da tutti i partigiani della brigata. Dispongo subito per la sistemazione ed il disarmo dei nostri ospiti, ed alla sera mi reco a vedere come si è sistemato il tenente. Scambiamo qualche parola ed alla fine mi dice: “Alors nous sommes desarmès!?...”. Rispondo che non potevo proprio fare diversamente e lui, cavallerescamente, a dimostrarmi come era stato disarmato dai miei ragazzi, mi porge la sua pistola personale. Altrettanto cavallerescamente avrei dovuto lasciargliela, ma sinceramente preferii tenerla.
FINALMENTE LIBERI
In quei giorni di fine aprile 1945, gli eventi stavano precipitando e colonne di militari tedeschi, cercavano di rientrare in Germania. Una grossa colonna, proveniente da Feltre, stava dirigendosi verso Ponte nelle Alpi per proseguire poi verso Longarone. Carichiamo subito i mortai 81 che avevamo sul camion catturato e con questo e l’autoblinda pilotata da un nostro carrista, scendiamo sulla statale portandoci su un pianoro sopra Cadola. Contemporaneamente, una pattuglia di nostri sabotatori, risalendo il Piave, si porta a circa sei chilometri a nord del bivio di Ponte nelle Alpi a deporre alcune mine anticarro. Piazzati i mortai, devo scegliere un settore di strada dove non ci fossero abitazioni. Lo individuo sulla sinistra di Ponte nelle Alpi e spariamo qualche colpo. Intanto, però, si fa buio e continuare a sparare con i mortai diviene troppo pericoloso per le case vicine alla strada, dove la colonna si è arrestata. Inoltre, sentiamo uno strano rumore di automezzi alle nostre spalle e per evitare di poter essere noi accerchiati, decidiamo di abbandonare la postazione rientrando in Alpago, in attesa della luce . Il giorno dopo è l’apoteosi. La colonna bloccata, non potendo più proseguire, si arrende; ma non tutta contemporaneamente. Nasce così una confusione indescrivibile. Anche i partigiani della 7° Alpini, scesi verso la strada, sparano contro la colonna nei tratti in cui questa continua a resistere. Chi va verso Belluno, chi da Belluno a Ponte nelle Alpi. Autocarri, motociclette, autoblinde abbandonate in mezzo alla strada. Si dovevano incolonnare tutti quelli che gradualmente si arrendevano, ma non era tanto facile.
Da Fadalto, giunge notizia che stanno salendo carri armati alleati. Prendo una moto, fra le tante della colonna e corro verso Santa Croce incontro agli Alleati. Li trovo prima de La Secca, fermi ad una curva. Faccio loro capire che la strada è tutta libera, ma evidentemente non si fidano e mi chiedono di mandare alcuni partigiani, che nel frattempo sono sopraggiunti, sulla collina sovrastante la curva, per accertare che dietro non ci sia qualcuno. Soltanto dopo questo accertamento proseguono e giungono a Ponte nelle Alpi, dove trovano i tedeschi in parte già disarmati ed incolonnati. Sulla strada c’è ancora molta confusione, ma c’è già un’atmosfera di allegria. Finalmente è finita! È finito quel lungo periodo di angoscia, di apprensione, di fatiche, di dolore e di morte; è finito l’incubo di una guerra che sembrava non finire mai. Siamo finalmente liberi. Ci sono però ancora tante cose da fare. Devo occuparmi dei prigionieri che sono al Vivaio. Li faccio salire tutti sull’autocarro coperto che li trasporterà fino al confine austriaco. Da lì, dovranno per forza cavarsela da soli. Dopo circa due mesi, a Puos, dove avevamo istituito l’Ufficio Stralcio della Brigata, ricevo una lettera firmata dal tenente tedesco, in cui mi ringrazia informandomi che tutti sono arrivati alle loro case sani e salvi. Erano tutti ragazzi, che la guerra l’avevano appena sfiorata.
Postfazione
Lettera aperta di Giovanni Mariot a Nino De Marchi
Vittorio Veneto, 2 ottobre 2001 Caro Nino, ieri sera, subito dopo la tua partenza da Vittorio Veneto, ho scoperto la tua ottima testimonianza sulla Resistenza per la Libertà. È libro prezioso che ho letto tutto d’un fiato, che ho sentito dentro di me e mi ha fatto tanto bene al cuore. La narrazione risulta limpida e scorrevole come un torrente di montagna, semplice e serena come la verità dei montanari nostrani. È una testimonianza personalmente sofferta, con fatti reali nudi e crudi. Plaudo all’assenza in esso di ogni tentazione di predica, di sentito dire, di retorica o di polemica. Anch’io non credo alle infatuazioni eroiche patriottarde, bensì all’etica della responsabilità, unita alla coscienza di colui che sa distinguere il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia. Sono pagine in cui il nonno racconta ai nipoti, a quelli che nasceranno da loro, e ai giovani tutti, in forma piana-familiare, un vissuto di valore universale per la Memoria e la Salvezza della futura Umanità. Perché la Resistenza fu lotta di Liberazione dall’invasore prepotente e crudele per arrivare alla pace e alla democrazia di ogni popolo europeo e del mondo intero. È una lettura avvincente, come un romanzo d’avventura, dove l’avventura però diventa storia, anzi occasione di inquietanti riflessioni.
-Perché l’odio e la cattiveria di quella delazione vigliacca, che poteva costare la fucilazione per te e l’amico partigiano che riposavate nel vecchio letto di Montanes? -Perché la guerra dichiarata da pochi e patita soprattutto dai popoli? -Perché essere torturati e uccisi nel fiore degli anni e dei sogni? E ancora: - Quale giustificazione per la schiavitù dei lager, il nazifascismo e ogni fanatismo disumano e assassino? Un libro vale anche e soprattutto quando suscita domande esistenziali di questo tipo, quando esige precise risposte sul piano del rispetto della vita e della dignità dell’uomo. Sono 55 milioni infatti i morti della seconda guerra mondiale. E nessuno ha il diritto di dimenticare, affinché tenebre e sangue non ritornino a straziare il nostro pianeta. Ho trovato esemplari, tra le righe, il senso di umanità del Comandante Rolando verso i 25 prigionieri repubblichini, con in testa il tedesco, di Puos; la sua infinita pietà per salvare quel giovane creduto morto che stava per essere gettato nella fossa – proprio allora, quando la vita altrui e la nostra era considerata nulla. E poi il ringraziamento, a chiusura dell’educativo racconto, di quell’ufficiale tedesco che, insieme ai sui ragazzi fatti prigionieri, dichiara di essere rientrato sano e salvo a casa. Segno che i banditi, i Resistenti Partigiani, erano Uomini, con un cervello e un cuore. Grazie, caro Nino, di quanto ci hai donato. Sono pienamente d’accordo con te: la Memoria è un dato inoppugnabile, che va salvaguardato da tutte le manipolazioni revisionistiche, purtroppo, di moda oggi. Ti abbraccio forte. Giovanni Mariot
Nino De Marchi, classe 1920, è nativo di Conegliano (Treviso). Diplomato all’Istituto Agrario di Conegliano, già sottotenente all’8 settembre 1943 d’artiglieria alpina al V Reggimento di Belluno, ha partecipato alla Resistenza nel Vittoriese e in Cansiglio in qualità di comandante prima della brigata Bixio e poi della Fratelli Bandiera (Gruppo Brigate Vittorio Veneto). Nel dopoguerra ha continuato gli studi, laureandosi in Agraria all’Universtità agli Studi di Bologna. Successivamente ha operato nel settore commerciale, continuando un’ avviata attività di famiglia. Ha ricoperto per vari lustri la carica di Presidente dell’Associazione Commercianti di Conegliano e del CAI della sezione di Conegliano. Ha fondato lo Sci CAI ed è attualmente Presidente dell’ANPI, sempre di Conegliano. Per l’attività partigiana è stato decorato con Diploma Alexander, Croce al Merito e Diploma d’Onore Speciale del Presidente della Repubblica.
Indice
Prefazione Introduzione 10 GIUGNO 1940 8 SETTEMBRE 1943 IN ALPAGO LA SCELTA PARTIGIANA IL GRANDE RASTRELLAMENTO NAZIFASCISTA IN CANSIGLIO LO SGANCIAMENTO LA RIPRESA AUTUNNALE SORPRESA TEDESCA IN CROSETTA RAGAZZO SOTTO PROCESSO NERVI TESI RIFLESSIONI DA UN ROCOLO RITORNO IN ALPAGO PRIMAVERA 1945 FINALMENTE LIBERI Postfazione