Lo Zero Rappresenta Il Caos 1l4r4z

Valeria Campana, Carmine Cascella, Nero Gatto, Simona Gervasoni, Nadia Milani, Sergio Ragno, Alba Giovanna Toresani

Lo Zero rappresenta il caos

Editing: Valeria Campana, Simona Gervasoni, Sergio Ragno Illustrazioni: Deborah Henking

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Indice dei contenuti

1. Un bravo ometto 2. Una bella giornata 3. La gabbia 4. La cena 5. Il pozzo e il frantoio 6. Il vicino di casa 7. Il raduno di Boscoscorta 8. L'antologia 8.1 Come nasce 8.2 Il titolo 8.3 Gli autori Ringraziamenti

1. Un bravo ometto

Valeria Campana

La prima regola è non guardare mai nei loro occhi, Vostro Onore. Ogni giorno vedo sfilare davanti a me decine di persone. Portano fiori e oggetti ricordo. Trascinano i i pesanti lungo i sentieri di ghiaia che corrono accanto ai viali numerati. Con il capo chino scrutano i volti nelle fotografie ovali che scorrono lente, una dopo l’altra. Quando trovano il loro numero si fermano e restano. È a quel punto che abbasso lo sguardo e mi faccio da parte. Ma il dolore è una bestia infame, Vostro Onore, capace di stanarti quando meno te lo aspetti. Per questo non bisogna mai abbassare la guardia. Nino correva a perdifiato lungo la strada sterrata che separava la proprietà di compare Carmelo dal vecchio casolare di nonna Adelina. Intorno solo il giallo dei campi arsi dal sole torrido di metà luglio. Alle sue spalle i Nebrodi erano da sempre a guardia del paese. Il viso paonazzo, le mani a reggere le tasche gonfie e, dietro di lui, un vecchio cane malconcio che cercava di tenere il o. “Tobia!” urlò il ragazzo voltandosi. “Muoviti! Se nonna mi becca, stavolta le prendo sul serio.” I due arrivarono alle spalle del casale un attimo prima che la vecchietta apparisse sull’uscio. “Ninooo!” Il ragazzo si appiattì al muro e fece segno al cane di non muoversi. “Ninooo!” urlò di nuovo la nonna. “Che vuoi?” L’anziana si guardò intorno cercando di capire da dove venisse la voce. Nino si piegò in un angolo e rovesciò le tasche dei pantaloni. Fece cadere a terra una cascata di nocciole, che nascose dietro la legna accatastata. Poi corse incontro alla nonna.

“Che hai fatto, disgraziato?” disse andogli una mano tra i capelli fradici di sudore. “Trasi. Tò patri t’ava parrari.” Nino entrò in casa, si avvicinò al telefono con sospetto, prese la cornetta e l’accostò all’orecchio stringendola con entrambe le mani. “Pa’?” disse. Un colpo di tosse catarrosa annunciò la presenza dell’uomo. “Picciriddu, è nata Anna.” Il padre fece una lunga pausa. “Sta bene. Stiamo tutti bene.” Nino prese ad attorcigliare il cavo intorno al dito. “Te la ricordi la promessa, pa’?” disse poi tutto d’un fiato, quasi avesse già dimenticato la notizia appena ricevuta. “Me la ricordo,” disse il padre, “ma tu fa il bravo ometto!” Il ragazzo restò immobile per qualche istante, le mani sudate e l’orecchio teso ad intercettare la minima intenzione, dall’altro capo del telefono, di dire quella parola in più. Era trascorso più di mese da quando Nino era stato mandato al paese dalla nonna. Quella mattina il ragazzo aveva supplicato il padre affinché non lo lasciasse partire. L’uomo, steso sul divano, lo aveva attirato a sé per qualche istante. Di quell’abbraccio impacciato Nino ricordava due cose su tutte: il cranio liscio e la pelle vuota delle braccia, lì dove un tempo c’erano capelli folti e muscoli sodi. “Sei cresciuto,” aveva detto il padre accarezzandogli la testa. “Al tuo compleanno ce ne andiamo al mare, io e te.” Nino si era sciolto dall’abbraccio per guardare il padre negli occhi. “È una promessa?” “Ti porto a Gioiosa Marea, il paese di mio padre. Vedrai che bella festa!” aveva detto l’uomo abbandonandosi sul divano. Poi, prima di scivolare in un sonno pesante, aveva bisbigliato: “Ma s’è sentito mai un siciliano che in nove anni non ha mai visto il mare?” Ed era vero. Nino avrebbe compiuto nove anni alla fine dell’estate e il mare lo

conosceva solo dai racconti del padre. Rincuorato dalla promessa, Nino aveva seguito la madre fuori casa e fino in fondo alla strada dove, di lì a poco, era comparsa una corriera verde e bianca, con la carrozzeria arrugginita, che lo avrebbe portato da Librizzi a Lembo, il paese in cui viveva nonna. L’autobus arrivò sussultando sull’asfalto avvolto in una densa nube di polvere. Nino prese posto accanto al finestrino dove, per qualche istante, osservò la madre: i capelli lunghi raccolti in un fermaglio, i ciuffi ribelli che qui e là ne sfuggivano al controllo, non un filo di trucco ad animarle il viso. E quel vecchio vestito a fiori con la stoffa davanti tirata su per il pancione. A Nino era venuta in mente un’immagine sul libro di scienze, che ritraeva un boa dopo aver strangolato e ingoiato un coniglio. E se ne stava lì a digerirlo lentamente, con il ventre enorme e lo sguardo imibile. Con il naso attaccato al vetro Nino contemplò la figura della madre allontanarsi lentamente. La vide voltargli le spalle e avviarsi verso casa. Il casolare di nonna si trovava in cima a una strada sterrata che portava al centro del paese. Una volta la settimana l’anziana chiedeva al nipote di accompagnarla in città. Così chiamava la piazza attorno alla quale si radunava tutta la gente del paese in cerca di qualcosa che interrompesse la noia di quelle interminabili giornate. Anche per questo in paese si andava solo vestiti bene. “Quelle malelingue non aspettano altro,” diceva nonna obbligando Nino a indossare la camicia buona infilata dentro ai calzoni. Per lei sceglieva, dal suo misero guardaroba, il solito vestito nero. Da che era morto nonno, Nino non ricordava di averle visto indossare altro. Raccoglieva i lunghi capelli bianchi, copriva il capo con uno scialle che annodava poi intorno al collo e porgeva al ragazzo la sportina della spesa. Durante il tragitto la nonna prendeva a parlare del figlio, arricchendo sempre i suoi racconti con nuovi particolari. A Nino piaceva immaginarsi il padre alla sua stessa età, scoprire i suoi atempi preferiti o com’era solito mettersi nei guai. Attraverso le parole della nonna imparava a conoscerlo e la lontananza si faceva meno pesante. Quel giorno Don Antonio, il parroco di Lembo, era sul sagrato con il libricino

dei salmi aperto davanti agli occhi. Andava avanti e indietro nervosamente e le sue labbra si muovevano senza emettere alcun suono. Appena vide nonna e nipote avvicinarsi, richiuse il libro e s’affrettò a raggiungerli. “Comare Adelina…” disse guardandola di taglio. “Venga con me.” Indicò la porta della sagrestia e rimase fermo in quella posizione aspettando che la vecchina lo seguisse. La nonna lo guardò e i suoi occhi si fecero seri. Si chinò su Nino e gli accarezzò il capo. “Aspettami qua,” disse, “ritorno subito.” Don Antonio aprì la piccola porta della sagrestia e fece entrare Adelina, si voltò a guardare il ragazzo per un istante, poi s’infilò anche lui nella porticina. Nino rimase solo. Infilò le mani nelle tasche e prese a scalciare i sassi sul sagrato. Poi alzò la testa e guardò il paese. La piazza distava solo pochi i dalla chiesa. Nino tirò su le spalle e decise d’incamminarsi. Entrò in paese e vide la solita manciata di vecchi, seduti su minuscole sedie di paglia, le coppole di lino calate sulla fronte, ai margini della strada. Si aggiustò il colletto della camicia e proseguì a testa alta, senza degnar loro di un solo sguardo, così come gli aveva insegnato nonna. C’erano due anziani dal viso incartapecorito davanti al vinaio. Uno se ne stava in piedi appoggiato a un bastone, l’altro invece era seduto al contrario su una sedia mezza rotta e aveva i gomiti sullo schienale di legno. Quando Nino ò davanti a loro, i due vecchi lo guardarono. Poi quello seduto bisbigliò qualcosa all’altro. L’uomo in piedi annuì e guardò il ragazzo con aria sicura. Nino lanciò loro un’occhiataccia e alzò la testa. Vide una donna di mezza età affacciarsi da una finestra che dava sulla strada. Aveva i capelli neri e scarmigliati. La donna lo guardò, poi entrò per un attimo in casa e ne uscì subito dopo con un grosso tappeto che adagiò sul davanzale. Rivolse di nuovo lo sguardo al ragazzino e iniziò a battere il tappeto con forza. Nino si strinse nelle spalle e avanzò, con le mani ben ficcate nelle tasche, fino ad arrivare alla bottega di Franco, il macellaio. Quando fu davanti al negozio, si voltò indietro. La donna alla finestra era già rientrata.

Entrò dal macellaio e tirò fuori dalla tasca la lista della spesa. Franco lo guardò inarcando un sopracciglio, poi si allungò a guardare fuori. “Si vinnuto da solo, eh picciriddu?” Nino fece un cenno col capo e gli allungò la lista. L’uomo si sporse dal bancone per prendere il foglio e lasciò intravedere il camice macchiato. Era un uomo imponente, nonostante l’età. Aveva mani molto grosse e una striscia di capelli che gli attraversava il capo da orecchio a orecchio, lasciando scoperto il resto del cranio. Nino era disgustato dalla vista di quell’uomo, detestava anche l’odore che si respirava nel suo negozio, ma non poteva smettere di guardare il vecchio macellaio quando si metteva all’opera. Franco prese dal banco un grosso pezzo di carne rossa e lo adagiò sul tagliere. Scelse con cura il coltello, ne saggiò l’affilatura facendo scorrere un dito lungo la lama e con un colpo secco tranciò il tocco di carne in due. Il camice si tinse di una nuova macchia rosso vivo. “Quant’anni tieni?” disse il macellaio senza smettere di lavorare. “Nove,” disse Nino, “nove il mese prossimo.” L’uomo sistemò la carne in un cartoccio, poi riprese in mano la lista. La contemplò dopodiché scelse dal cesto una decina di uova, prese con le mani nude una manciata di carne trita, pesò tutto e iniziò a riporre la merce in un sacchetto. Nino guardava con attenzione tutte le manovre del vecchio. “Mio padre mi porta al mare.” Disse improvvisamente. “Io e lui soli.” Franco si fermò. Alzò di nuovo il sopracciglio e disse: “Tuo padre, hai detto?” “Sì.” Nino aveva raddrizzato la schiena. “Io e lui. Da soli. Che tanto mamma non viene sicuro. A quella non gliene importa niente del mio compleanno.” Il macellaio lo guardò di taglio. Si ò una mano sulla barba ispida, ma non disse nulla. Nino rimise le mani nelle tasche. “Ma a me non me ne fotte una minchia di

quella…” “Nino!” sentì urlare all’improvviso alle sue spalle. “Come ti permetti!” La nonna era entrata proprio in quel momento nel negozio. Nino sobbalzò. Vide la donna alzare il braccio su di lui. Si riparò il volto con le mani, ma non ce ne fu bisogno. La vecchina si morse il labbro e fece ricadere la mano sulla spalla del ragazzo. “Veni,” disse, “turnammucini a casa.” Poi guardò il macellaio e aggiunse: “Quanto devo pagare, eh don Franco?” “Duemila lire, comare Adelina.” La nonna prese il borsellino e contò i soldi giusti che poi allungò al macellaio senza guardarlo in faccia. Afferrò la sporta piena, prese il ragazzo per un braccio e lo trascinò fuori dal negozio. “Arrivederci!” “Arrivederci,” disse Franco scuotendo la testa. Dopo la nascita di Anna le telefonate da casa iniziarono a diradarsi. Il padre non venne più al telefono e Nino fu costretto a parlare solo con la madre, ma spesso le loro conversazioni venivano interrotte dal pianto della sorellina. Nino chiedeva di continuo del padre, ma la donna tagliava corto. “Faccio il bravo ometto,” diceva allora Nino alla mamma, “dillo tu a papà.” La madre, a quel punto, riattaccava. Le giornate iniziarono ad accorciarsi e Nino si fece impaziente. Per molti giorni non ebbe più notizie da casa, finché una mattina il telefono squillò. Nino, intento come al solito a dar la caccia alle cavallette che affollavano il giardino, vide la nonna affrettare il o verso il soggiorno. Il ragazzo si avvicinò alla casa e si accucciò ai piedi della finestra che dava sul cortile. Da quella posizione non poteva sentire, solamente osservare. E osservò. Osservò nonna oscillare il capo da destra a sinistra senza sosta. Teneva il telefono con una mano, mentre l’altra se la portava freneticamente ora alla bocca, ora alla fronte. A un certo punto prese a scuotere il capo ripetutamente, dopodiché posò il ricevitore. Si appoggiò al muro e rimase immobile, le spalle rivolte a Nino, una mano appoggiata al mobile, l’altra al petto. E i capelli bianchi si facevano argento alla luce del sole che filtrava nella stanza. Nonna era anziana

e curva da un pezzo ma Nino, in quel momento, se ne accorse come per la prima volta. I giorni seguenti furono un susseguirsi di conversazioni telefoniche bisbigliate. Nino capì che qualcosa doveva essere successo. Lo capì perché nonna smise di rimproverarlo per le cose di sempre: la camicia fuori dai calzoni, le mani e le ginocchia nere di terra. Lo sorprese persino a rubare di nuovo le nocciole dalla proprietà di compare Carmelo e non gli disse niente. La madre arrivò qualche giorno più tardi. Indossava un lungo abito scuro, un po’ troppo accollato per la stagione. Sul fianco reggeva la piccola Anna, avvolta in uno scialle color crema. Nonna chiamò Nino a gran voce e, quando il ragazzino la raggiunse, lo strinse sotto la sua ala come fanno le chiocce con i pulcini. Mentre in cucina le due donne discutevano animatamente, Nino rimase in soggiorno a guardare la sorellina. Dormiva placida, il culetto tutto arricciato all’insù, le labbra che accennavano una specie di sorriso. Le toccò i capelli, le osservò la bocca, le sfiorò le mani. “Non mi somigli per niente.” disse. S’infilò le mani nelle tasche e andò in cucina. Quando la madre lo vide arrivare disse: “Ti avevo detto di badare ad Anna.” “Dov’è papà?” chiese Nino. La donna sospirò, si mise il palmo della mano sotto il naso e uscì. “Dov’è papà?” gridò Nino rivolto alla nonna. La vecchina abbassò il capo. Il ragazzo l’afferrò per le spalle “Dove minchia sta papà?” urlò. La madre tornò indietro. “Taci, scrianzatu!” Urlò e colpì Nino con un ceffone. “Tuo padre è partito. U capisti? Partito!” Nino si ò una mano sulla guancia rossa. Aveva gli occhi gravidi di lacrime. Guardò prima la madre, poi la nonna, infine scappò in cima alle scale. Rimase lì seduto finché sua madre lasciò la casa. La piccola Anna piangeva. Quella sera Nino si chiuse in camera, lasciando nonna fuori dalla porta a

chiamarlo invano. Uscì solo quando fu certo che stesse ormai dormendo. In cucina trovò la tavola apparecchiata: formaggio, qualche pomodoro e un tozzo di pane con l’uvetta. Tobia sonnecchiava in un angolo. Nino prese il piatto e andò a sedersi accanto al cane. “Partito…” sussurrò portando un pezzo di pane alla bocca, “…senza di me.” Poi batté il pugno sul tavolo e disse: “Minchiate! Papà non mi ha mai detto una bugia!” Fu mentre stava lì, cercando di capire, che notò un pezzetto di carta sotto il tavolo: Gioiosa Marea, Contrada Magnaro - B121 Prese ad andare su e giù per la stanza stringendo il foglietto tra le mani, finché all’improvviso tutto gli fu chiaro. Papà non l’aveva mai deluso. Nino non chiuse occhio quella notte. Lo zaino pronto, accanto al letto, le mani che stropicciavano il lenzuolo, mentre la mente studiava il piano nei minimi dettagli. Poi, prima che fe giorno, svegliò Tobia e abbandonò la casa. Si diresse alla fermata della corriera guardandosi dietro per assicurarsi che la nonna non l’avesse sentito. Attese pochi minuti prima che l’autobus comparisse dall’angolo in fondo al paese. Le porte si aprirono e l’autista lo guardò incuriosito. “Che ci fai tutto solo, picciriddu?” gli disse l’uomo, un ragazzone scuro con pochi capelli. “Devo andare dai miei al mare,” disse Nino. “Ma tu non sei il nipote di comare Adelina?” Nino fece di sì col capo e deglutì. Poi tutto d’un fiato disse: “Nonna è malata e non si può più occupare di me. Vede, mi porto pure il cane.” L’autista diede un’occhiata al cane, poi tornò a guardare il ragazzo. “Viene mamma a prendermi. Paga lei la corsa.” L’uomo gli fece cenno di salire. “Eh picciriddu, diventar vecchi è una gran brutta cosa!”

Il viaggio proseguì lento. Nino riava le fermate, ormai non restava molto. Quando entrarono a Gioiosa, il ragazzo aspettò che la corriera rallentasse. Appena l’autista aprì le porte Nino si piegò tra i sedili, prese la mira, allargò al massimo l’elastico della fionda e scagliò con tutta la forza un sasso che andò a schiantarsi sul vetro posteriore della vettura. “Chi minchia è?” gridò l’autista coprendosi la testa. “Sono stati quei ragazzi, li ho visti,” urlò Nino. L’autista si lanciò in corsa fuori dalla corriera gridando al vento figghi ri buttana. Alla fermata ci fu un gran parapiglia. Nino ne approfittò e, afferrato Tobia per la collottola, sgattaiolò fuori dall’autobus iniziando a correre in direzione opposta. Quando fu certo di essere abbastanza lontano, riprese fiato e chiese indicazioni ad un ante. “Mi scusi, come ci arrivo qui?” disse Nino mostrandogli il foglietto. “E che ci devi andare a fare, ragazzino?” disse l’uomo sgranando gli occhi. “Devo incontrare mio padre. Domani è il mio compleanno e mi sta preparando una sorpresa.” L’uomo si grattò il capo pensieroso. Inclinò la testa e indicò con la mano rattrappita una stradina che portava su. Nino pensò alla faccia che avrebbe fatto il padre nel vederlo e l’impazienza gli fece accelerare il o. Dopo un lungo camminare in salita, si trovò davanti a un bivio. Nuvole scure iniziavano ad addensarsi nel cielo. Il ragazzo fermò un’anziana che gli veniva incontro zoppicando per chiederle quale strada dovesse prendere. “Oh Gesù,” disse la donna, “ma che ci vai a fare, bambino mio?” Poi fece cenno di salire lungo il viale di destra. Arrivati in cima i due si trovarono di fronte a un cancello che divideva un ampio tratto di strada percorso unicamente da alte mura bianche. Scendevano da un lato e dall’altro come enormi gradini, scomparendo dietro la curva. Nino sentì una goccia, poi un’altra. In pochi istanti la pioggia iniziò a battere violenta. “Tobia, corri!” gridò Nino e i due varcarono il cancello rifugiandosi sotto la

tettoia. Da quella posizione Nino non riusciva a vedere altro che lunghi viali di ghiaia contornati da file ordinate di alberi. Poi sentì qualcosa muoversi alle sue spalle. Si girò di scatto trovandosi davanti una figura alta e magrissima. “Che ci fai qui?” disse l’uomo. “Cerco mio padre,” rispose Nino indietreggiando e gli porse il foglietto. L’uomo indossava una tuta da lavoro grigia e un berretto dello stesso colore. Il viso percorso da una ragnatela di rughe, gli occhi infossati e due denti che sporgevano prepotenti dal labbro inferiore. Fissò Nino per qualche istante e poi gli prese il foglio dalle mani. La sua espressione, prima severa, si distorse in una smorfia d’incredulità. “B121,” disse levandosi il cappello. “Bedda Matri, è arrivato qui solo una settimana fa.” “Mio padre? Allora è qui!” disse Nino. “La prego mi ci porti subito.” L’uomo rigirò il foglio tra le mani. “Va bene, seguimi.” Sotto un violento temporale percorsero per intero il lungo viale alberato, finché l’uomo si fermò, si tolse il cappello e se lo mise al petto. Con la mano libera indicò a Nino una lastra di marmo. “Mi spiace ragazzino. Mi spiace.” E quel giorno vidi finalmente il mare. Se ne stava lì imibile, a fare sfoggio del suo bell’azzurro sotto quel cielo grigio topo che di bello non aveva proprio niente. Pareva prendersi gioco di lui. E di me. Sempre stato un bravo ometto, Vostro Onore, domandi alla gente in paese. Ma Lei capisce, in venticinque anni nemmeno una parola. E poi, quella mattina, mi trovo davanti al B121 questa tizia tutta arruffata. Si piega sulle ginocchia e inizia a spazzar via le foglie dal marmo. Poi con un gesto secco sfila i ranuncoli e li getta per terra, sostituendoli con degli orrendi gladioli. Gladioli, Signor Giudice! Ma Le sembrano fiori adatti a un morto? E ancora sistema i lumini, spolvera l’incisione, aggiunge acqua nel vaso. Io me ne sto lì in disparte, con lo sguardo basso, come d’abitudine. Ma non creda che non mi costi fatica.

E poi quella fa una cosa che mi manda su tutte le furie. Si piega in avanti e la tocca. La foto, Signor Giudice, tocca la foto! A quel punto la rabbia mi acceca e in un attimo le sono addosso. L’afferro per un braccio costringendola a voltarsi. “Si fermi,” urlo. “Come osa!” Lei si divincola, arretra, mi guarda, confusa e smarrita. “Mi lasci, che fa?” mi dice con quella vocina odiosa. È la prima volta che infrango le regole e mi trovo occhi negli occhi con un visitatore. La ragazza si liscia la gonna sulle sue gambe tozze e cerca di riacchiappare qualche ciuffo corvino che le svolazza ribelle intorno al viso. Che orrore di donna! “Che ci fa qui?” chiedo minaccioso. “Cosa vuole? Se ne vada!” A quel punto quello scorfano in gonnella alza la testa e mi dice trionfante: “Era mio padre.” E io stavo lì, il badile in una mano, i miei occhi nei suoi. Che altro avrei potuto fare, Signor Giudice? Tra l'altro non mi somigliava proprio per niente.

2. Una bella giornata

Nadia Milani

“Buongiorno Clara,” disse alla segretaria l’ingegner Ghisleri lasciandosi sfuggire un insolito sorriso. La ragazza sgranò gli occhi dietro i suoi occhiali dalla montatura nera. “Bubuongiorno a lei ingegnere.” Ghisleri sembrava quasi divertito. “Ci sono messaggi?” La segretaria scosse la testa. “Bene,” disse l’uomo, avviandosi a grandi falcate verso il suo ufficio. Il rumore dei suoi i era attutito dalla moquette blu pervinca, lo stesso blu che campeggiava nel logo della Novatech. Clara lo seguì cercando di tenere il o. La gonna grigia a mezza coscia che le fasciava le gambe, la intralciava nei movimenti. Quando giunsero davanti alla porta dell’ufficio dell’ingegnere aggiunse: “Tra venti minuti inizierà la riunione con i capi area, nella sala dell’ottavo piano.” Ghisleri sospirò: “Ah, è vero. I capi area.” Sorrise alla ragazza. “Grazie, Clara.” L’ingegnere aprì la porta dell’ufficio. Un fascio luminoso si proiettava con violenza all’interno del locale. Il pulviscolo fluttuava nell’aria. Da molto tempo non vedeva la luce irrompere dalla grande finestra laterale. La corsa dei raggi del sole terminava sulla sua scrivania e sulla sua poltrona. La stanza gli sembrava il palcoscenico di un teatro, pronto per l’entrata in scena del protagonista. Si voltò verso la segretaria. “Telefoni a mia moglie,” disse, “le dica che il viaggio è andato bene e che la chiamerò prima di pranzo.” “Sarà fatto,” disse Clara. “Altro?” L’ingegnere posò la ventiquattrore sulla scrivania, si liberò del trench e lo appese con cura sull’appendiabiti. Si sistemò la giacca, il nodo della cravatta, dopodiché si avvicinò all’ampia scrivania di noce e frugando tra le carte raccolte in una cartelletta disse: “Quando chiamerà la dottoressa D’Agostino, le dica che mi farò sentire io.” Poi aggiunse: “Mi porti un caffè, per favore.”

“Glielo preparo subito, signor Ghisleri.” La ragazza girò su se stessa e uscì per riapparire poco dopo con una tazzina fumante. L’ingegner Ghisleri amava sorseggiare il caffè. Lo gustava a piccoli sorsi. Al caffè della mattina dedicava l’unico momento di quiete che si concedeva durante la giornata. Quella breve pausa gli serviva a riordinare le idee. Seduto alla sua scrivania, guardò fuori dal suo ufficio. In particolar modo, osservò la porta chiusa di là del corridoio. Con lo sguardo indugiò sulla sagoma ovale, ben delineata, di varie tonalità più chiare. Fino a pochi giorni prima, proprio in quel preciso punto, vi era una targhetta di ottone lucido, sulla quale si poteva leggere: Dott. Gerardo Rossi Direttore Commerciale. Rossi non lavorava più per la Novatech. Ghisleri ricordava bene il giorno in cui lo aveva salutato insieme ai colleghi. Non riusciva a dimenticare lo sguardo mesto dell'uomo. Non l’aveva mai visto così abbattuto. “Una mattina mi chiama Cristina la segretaria del direttore del personale,” aveva raccontato Rossi e imitando la voce acuta della donna aveva continuato: “Direttore, il dottor Guglielmi la invita a pranzo.” Poi, a testa bassa, aveva aggiunto: “Non pensavo che mezz'ora dopo avrei dovuto cominciare a mettere la mia roba negli scatoloni. La porta della stanza di fronte era stata chiusa e, da quel momento, Ghisleri si era messo in testa di riaprirla. A pochi mesi dal suo quarantasettesimo compleanno, quella poteva essere la sua ultima possibilità di migliorare la carriera e non voleva sprecarla. Nell’avvicinarsi alla sala riunioni, l’ingegnere sentì che i suoi collaboratori stavano discutendo. Quando entrò nella stanza i capi area, seduti al grande tavolo rettangolare, tacquero. Nella sala riunioni aleggiava un odore stantio. La finestra di fronte all’ingresso si affacciava sui tetti delle case. Il cielo era azzurro e senza nuvole. Accomodandosi a capotavola, l’ingegnere osservò i suoi collaboratori uno a uno. Loro evitavano il suo sguardo. “Buongiorno signori,” disse. “Chi comincia?”

Si sentì una voce nasale: “Inizio io”. “Prego, Roberti,” disse l’ingegnere. Roberti si ò una mano tra i capelli radi. “È stata rispettata la scadenza del 31 marzo,” disse. “Stiamo procedendo con la commessa per Dulliver, dovrà essere consegnata il 20 luglio. La scadenza per Billiput è stata spostata al 15 giugno...” Mentre l’uomo parlava, Ghisleri seguiva la cantilena delle sue parole, senza afferrarne il senso. Il pensiero tornava alla cena della sera precedente, nell’elegante appartamento della dottoressa Alessandra D’Agostino e alle sue portentose tette. Finalmente se l’era portata a letto. Quasi stentava a crederci. Sorrise. Si portò le dita sotto il naso. Sentiva ancora il profumo di Alessandra. Si chiedeva se fosse una sua impressione o se il profumo gli fosse rimasto davvero incollato alle dita. Forse sua moglie se ne sarebbe accorta, ma sapeva che in qualche modo sarebbe riuscito a non darle spiegazioni, anche questa volta. L’avrebbe portata al mare. “Che palle, Roberti!” disse qualcuno. “Ci stiamo addormentando!” L’esclamazione e la risata che ne conseguì, riscossero Ghisleri. Era Dettori che aveva parlato. Ghisleri lo fulminò con un’occhiata. Lo considerava il più capace tra i suoi collaboratori e per questo lo detestava. Odiava la sua competenza. Non sopportava il carisma che esercitava sui colleghi. Anche i suoi superiori sembravano incantati da lui. Lo disgustavano i suoi vestiti, sempre trasandati, e le sue scarpe, sformate, dalla suola di para. Ghisleri si rivolse a Roberti. “Hai finito?” L’uomo, rosso in viso, lo fissò. “Sì, ho finito”. “Bene, allora continua tu, Dettori,” disse Ghisleri, mellifluo, “raccontaci un po’ cosa hai fatto”. “Ma cosa vuoi che ti dica!” Dettori si guardò intorno, cercando l’attenzione dei colleghi. “Sai benissimo che la situazione è disastrosa.” “Ah, no eh!” Ghisleri si stizzì. “Oggi, per me, è una bella giornata. Non

rompermi le palle con le tue menate!” Dettori gli rivolse uno sguardo meravigliato. “Devo fingere che vada tutto bene?” “Non c’è bisogno,” disse Ghisleri, seccato. “Di certo non va tutto male, come vuoi farci credere!” “Ah, già, certo!” disse Dettori. “Tu non vuoi mai sentir parlare di crisi.” Appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse verso Ghisleri. “Allora come ti spieghi il fatto che ogni giorno qualcuno viene segato?” “Vengono segati i rami secchi,” disse Ghisleri puntandogli il dito in faccia. “Solo i rami secchi.” Dettori lo guardò dritto negli occhi. “Sai chi raccontava sempre questa storia dei rami secchi?” disse. “Rossi! Gerardo Rossi diceva la stessa cosa e hai visto che fine ha fatto?” “Non mi paragonare a Rossi!” disse Ghisleri. “È un coglione!” Dettori sogghignò. “Boh, sarà come dici tu,“ disse, “ma era il tuo capo e ha esperienza da vendere.” “Può darsi,” Ghisleri esitò un istante, “ma non ha mai capito che nei momenti di crisi bisogna sapere approfittare delle opportunità.” “Ah, ecco!” disse Dettori sarcastico. “La filosofia Zen mi mancava! Perché non la vai a spiegare ai cinque stagisti che non potrò confermare?” Ghisleri si irrigidì. “E basta con ‘sto populismo del cazzo!” Batté con forza il palmo della mano sul tavolo. “Di stagisti te ne trovo quanti ne vuoi. Quello che succede agli impiegati non ci riguarda”. “Come non ci riguarda?” disse Dettori, alzando la voce. “Guarda che lavoriamo tutti per la stessa azienda!” “Falla finita!” urlò l’ingegnere. “Andiamo avanti! Siamo qui per parlare dell’avanzamento dei progetti!”

Dettori, furente, tacque. A uno a uno, gli altri capi aerea cominciarono a esporre le attività del periodo. Ghisleri li ascoltava senza commentare. Gli argomenti della riunione si stavano ormai esaurendo, quando lo smartphone di Ghisleri vibrò. Sul display apparve un nome: Lucrezia. Sua moglie. L’ingegnere respinse la telefonata, colpendo il touch screen del cellulare. Nessuno fiatava. Poi fissò i suoi colleghi con uno sguardo durissimo. “Non riuscite a combinare un cazzo di positivo. Vi farò sbattere fuori tutti!” Il telefono ebbe un breve sussulto. Un messaggio di Lucrezia: Vado a Cortina con Giulia. Ci vediamo lunedì. Ghisleri afferrò il cellulare, si alzò di scatto e uscì dalla sala. Telefonò a sua moglie. Al terzo squillo, Lucrezia rispose. “Pronto?” “Ciao, amore. Avevo detto a Clara di chiamarti…” “Sì, l’ho sentita. Cosa c’è?” “Volevo portarti a Portofino,” disse Ghisleri. “Vabbe’, magari un’altra volta, eh?” disse Lucrezia. “Ho fretta. Ciao.” E chiuse la comunicazione. Ghisleri rimase fermo in mezzo al corridoio, lo sguardo fisso sul telefono. Rientrò nella sala riunioni. “Signori,” disse, “ci vediamo settimana prossima”. Raccolse i fogli sparsi sul tavolo, li afferrò senza riordinarli e uscì senza salutare. ò davanti all’ufficio di Clara: “Telefonate?” “No, ingegnere, niente.” Si sorprese, era certo che la D’Agostino l’avrebbe cercato. Tornò nel suo ufficio. La luce del sole aveva lasciato la stanza. Chiuse la porta. Gettò i fogli sulla scrivania. Si tolse la giacca e la appoggiò sullo schienale della sedia destinata agli ospiti.

Sprofondò nella sua poltrona girevole e cominciò a giocherellare con una penna. Rimase per qualche istante a osservarsi le dita. Portò lo sguardo oltre la vetrata del suo ufficio. Il panorama era cambiato negli ultimi anni. I nuovi grattacieli scintillavano, circondati dal profilo delle montagne, visibili solo in giornate dal cielo terso come quella. Pensava che le cose non stavano andando come voleva. Gli toccava lavorare con degli incapaci e non riusciva a liberarsene. In ato si era lamentato spesso con Gerardo Rossi per l’inettitudine dei collaboratori. Non era mai riuscito a convincere il suo ex capo ad allontanarli. “Guarda che ti sbagli,” gli diceva Rossi. “Sono professionisti validi. Il tuo compito è motivarli, invece li mortifichi continuamente.” “Motivarli, figuriamoci!” disse tra sé Ghisleri. Accese il computer e cominciò a leggere la posta, quando il telefono sulla scrivania trillò. “Direttore,” la voce di Clara, “le o Cristina.” Ghisleri sentì aumentare la tensione dei muscoli. Cristina era la segretaria del direttore del personale. “Me la i,” sentì un bip al telefono. “Buongiorno Cristina,” disse, “a cosa debbo questa telefonata?” Dalla cornetta uscì la vocina della donna. “Buongiorno, direttore. Il dottor Guglielmi la invita a pranzo.” “Ah!” disse Ghisleri. “Si faccia trovare alle dodici e trenta davanti all’ufficio del personale.” “Va bene.” Ripose la cornetta, lentamente. Si appoggiò allo schienale della poltrona e si ò le mani sul viso. “Ma che cazzo,” mormorò, “non può essere.” Rimase attonito per qualche istante, lo sguardo fisso nel vuoto, poi cominciò a

tamburellare con le dita sulla scrivania. Consultò il suo Rolex. Aveva ancora qualche minuto. Sistemò la stilografica nel portapenne di ebano, allineò con cura i documenti sparsi sulla scrivania e spense il computer. Si alzò. Ravviò i capelli, infilò la giacca, sistemò il nodo della cravatta. Uscì. Di fronte aveva la porta chiusa dell’ufficio di Rossi. Si voltò a guardare la sua stanza. Era ancora una bella giornata, ma ormai non se ne rendeva più conto. Chiuse la porta dietro di sé e s’avviò sul lungo corridoio.

3. La gabbia

Nero Gatto

La sveglia suona. Sono le 7.30. Gabriella si stiracchia. Indugia nel letto ancora qualche minuto. Vede la luce del sole proiettare strane ombre sul muro di fronte al letto. Pizzi grigi ricamati. Sono le ombre delle sbarre della finestra. Si alza. Addosso ha solo il suo pigiama. Quello di seta azzurro. Ha trascorso la serata in compagnia della sua migliore amica e hanno fatto tardi. Non ha riposato bene. Lo specchio riflette tutta la sua stanchezza. a davanti alla camera della figlia e scorge il letto vuoto e intatto. Ora mi ricordo, pensa. Ieri sera nel box la bici di Sara non c'era. Avrà dormito da suo padre. Entra in doccia. Si lascia cullare dai getti d’acqua dell'idromassaggio e dal vapore. Quando esce, avvolta dal suo accappatoio giallo, prende un asciugamano e comincia a sferzarsi i capelli. Si guarda di nuovo allo specchio. Gli occhi sono incavati, le rughe le segnano il viso. Si siede sullo sgabello imbottito, davanti allo specchio appoggiato sul piccolo tavolo antico. Tira su le spalle, apre il cassetto del tavolino e tira fuori i suoi trucchi. Si asciuga i capelli, a la piastra, sempre con l’accappatoio giallo addosso, torna in camera da letto. Sceglie con cura i vestiti da indossare. Si concede una generosa spruzzata del suo profumo preferito: Knowing di Estée Lauder. Sara detesta questa fragranza, pensa dispiaciuta. Si veste e si ammira di nuovo allo specchio. “Tutta un’altra storia!” dice tra sé. Scende nel box ed esce con il suo SUV. Si ferma in centro. Parcheggia la macchina davanti al bar Piccadilly. Entra. Il profumo delle brioche appena sfornate le fa socchiudere gli occhi. “Buongiorno Gabriella,” dice il barista, “il solito?” “Si grazie,” dice la donna. Si siede al tavolino davanti alla vetrina. Poco dopo il barista le porta un cappuccino d'orzo e una brioche. Gabriella guarda l’orologio. Si sbriga a fare colazione, lascia cinque euro sul tavolino ed esce di corsa per recarsi al lavoro. È in ritardo. È appena entrata nel suo ufficio quando il telefono squilla. Gabriella guarda il grande orologio appeso alla parete di fronte alla sua scrivania. Sono le 10.30. Appende il soprabito Giorgio Armani alla gruccia, appoggia la borsa di Louis Vuitton sul tavolo e risponde.

“Pronto!” dice. Sente la voce di una ragazza. “Pronto, Gabriella?” “Si, sono io.” “Mi scusi,” sente dire, “sono Marta, una compagna di classe di Sara.” Gabriella accende il computer e avvia il programma per leggere la posta. “Ah sì,” dice un po' seccata per l'interruzione, “mi ricordo di te, dimmi pure.” “Sara è a casa?” “No, credo sia rimasta dal padre ieri sera,” dice Gabriella senza prestare molta attenzione. “È malata?” Gabriella si drizza sulla sedia. “Non credo, perché?” “Be’ ecco…” sente dire dalla ragazza dall’altro capo del ricevitore. “Sara oggi non è venuta a scuola.” “Dici sul serio?” Gabriella guarda la cornetta. “Hai provato a chiamarla al cellulare?” “Be’, sì certo,” dice la ragazza. “Non risponde.” Rimane in silenzio per un po’, poi aggiunge: “Sono preoccupata.” Gabriella ripensa alla bici rossa. Si ricorda di aver visto il cellulare di Sara abbandonato sul tavolo. Si appoggia allo schienale della sua poltrona in pelle. Alza gli occhi al cielo. Il giorno prima aveva litigato con sua figlia. Si a una mano tra i capelli. Sbuffa, ma non è annoiata. Si sarà cacciata in qualche guaio, pensa. “Senti Marta,” dice, “non preoccuparti. Sarà andata da suo padre, te l’ho detto.” “Be’ spero sia così,” il tono della ragazza sembra cupo. Gabriella lo nota. “Facciamo una cosa, Marta. Appena metto giù, la chiamo dal

padre. Ok?” “Ok,” dice la ragazza. “Le dico di richiamarti?” “Be’ ecco, se può, mi farebbe stare più tranquilla.” “Perfetto, ciao allora, eh?” La donna mette giù il telefono. Guarda il computer, poi torna a guardare il telefono. Sara smette di pedalare all'inizio della strada. Il SUV nero è parcheggiato nel vialetto di casa. Un'espressione di disgusto le a sul volto, rapida. Detesta quell'auto. È troppo nera. Deve essere rientrata prima dal lavoro, pensa. Stringe il manubrio della sua bicicletta rossa. È affezionata a quella bicicletta. Un regalo dei nonni, per un suo compleanno. I suoi compagni di liceo hanno il motorino, qualcuno ha già la macchina. Ma lei no. Non le interessa. Affronta la salita, lentamente. Potrebbe essere successo qualcosa. Sta male. Ma no, con una mano ata rapida davanti agli occhi, cerca di cacciare via i pensieri. La porta del box è aperta. Strano. Entra. Appoggia la bici al muro. Guarda fuori dalla finestra. Merletti d'acciaio limitano la vista del giardino. “Siamo prigionieri della nostra stessa casa,” dice a voce bassa. Sale su in casa. I dieci gradini che collegano i due piani, sembrano cento. I suoi gatti, Nerone e Mimì, si avvicinano, fanno le fusa. Strofinano i fianchi sulle sue gambe e miagolano. Sente rumori di pentole e profumo di cibo. Butta in un angolo lo zaino dei libri, si toglie il giubbotto leggero e si siede per terra. Gioca con i gatti. Sente la voce di sua madre, in cucina. “Sei in ritardo,” dice la donna, “sbrigati, la pasta è cotta.” Sara si toglie le scarpe “Arrivo!” dice. Ma non si alza. Si chiede come mai sia già a casa. Ci deve essere un motivo. Lei, Gabriella Ferro, non fa mai niente per caso. “Allora!” urla la donna. “Ti muovi?”

Sara raccoglie i lunghi capelli biondi dietro la nuca e ne fa una coda di cavallo. Prende il suo iPhone dalla tasca dello zaino. Cerca le cuffie e le mette. Seleziona Under pressure dei Queen e alza il volume. “Pressure pushing down on me”¹canta a voce bassa “Pressing down on you no man ask for...”²Indossa il suo maglione preferito. Quello nero, oversize. Con la sua andatura dinoccolata, raggiunge la cucina. Sua madre è là, indaffarata ai fornelli. Perfetta, come al solito. “Watching some good friends”³ Sara canta ancora “Screaming let me out. Pray tomorrow, gets me higher...”⁴La donna la guarda e si siede al tavolo. “Togliti quell'affare dalle orecchie!” le dice. La ragazza sbuffa, appoggia il telefono e le cuffie sul tavolo, si siede e comincia a mangiare. Gabriella si sistema un ciuffo di capelli che l’è caduto, impertinente, sulla fronte. “Oggi avevi il compito di matematica?” dice. La ragazza rimane con gli occhi sul piatto. “Non era di matematica.” “Ah, no?” dice la donna. “E di cos'era?” “Greco.” “Sì già, greco,” dice la donna, “me n’ero scordata.” Subito dopo tira su un groviglio di spaghetti avvolto alla forchetta, ma uno le scivola via e le cade sulla manica del suo Chanel color cipria. Le guance della donna s'infiammano. Le mascelle si contraggono. Stringe i pugni. Ecco, ci siamo, pensa Sara, ora s'incazza e chi la tiene più. Una macchia sul vestito nuovo, per lei, è inammissibile. Però poi Gabriella la sorprende. Rilassa i pugni e cerca di contenere la rabbia. “Allora,” dice, “com'è andato il compito di matematica?” Sara scuote la testa, la inclina leggermente di lato e socchiude gli occhi. Avvilita.

“Era di greco,” dice sottovoce. Sua madre si porta una mano alla bocca e l'altra al petto. “Scusa,” si guarda la macchia sul vestito e alza gli occhi al cielo. “Oggi ho preso un giorno di ferie,” dice mentre raccoglie il suo piatto e si dirige verso la cucina. “Ti accompagno io agli allenamenti!” La ragazza si tira le maniche del maglione sulle unghie e, delusa, scrolla le spalle. “Mamma'!” dice. “Lo sai che non ci posso andare. Ho una cifra da studiare.” Con un movimento leggiadro Gabriella si toglie il grembiulino bianco, di quelli antichi, ricamato. Lo appende allo schienale della sedia. “Lascia stare i compiti, per una volta,” dice Gabriella. “Dopo gli allenamenti potremmo fare un giro in centro.” Sara appoggia le mani aperte sul tavolo, inarca un po' la schiena e sbuffa. “Smettila di stressarmi con questa storia della ginnastica artistica!” Sposta il piatto, il bicchiere dell’acqua si rovescia. “Io voglio andare all'università. Voglio studiare mamma e non ho nessuna intenzione di andare alle Olimpiadi.” Gabriella rimane immobile. Corruga la fronte, il respiro si fa pesante. Prende a giocare con la collana di perle che ha al collo. Il filo si spezza. Le perle cadono a terra. Una dopo l'altra. Torna a guardare sua figlia. Il suo sguardo è più crudele di prima. “Tu ci devi andare,” dice con un tono secco, “lo studio può aspettare.” “Ti ho detto di non rompere!” Sara afferra il piatto con ancora della pasta dentro e lo butta nel lavello pieno. I piatti vanno in frantumi. Si gira verso sua madre e la guarda. I suoi occhi sono una fessura, le labbra contratte, sottili. “Hai sempre qualcosa da rimproverarmi,” dice.

Gabriella allarga le braccia e guarda la figlia spalancando gli occhi. “Papà ha ragione, sei una stordita!” le dice Sara a brutto muso. “Tu stai bene solo con quelle oche delle tue amiche!” Ed esce dalla cucina di corsa. Sua madre fa per seguirla, ma rimane sulla porta della cucina. “Tuo padre è uno stronzo!” le urla. “Non capisce un cazzo!” Poi sbuffa e dice tra sé: “Non ha mai capito un cazzo!” La rampa di scale che porta ai box sembra un gradino solo. Sara non la vede nemmeno. Prende la bicicletta ed esce. Pedala. Prende la via del centro. Percorre le strade affollate. Un ammasso di umanoidi indefiniti. Pedala. Le sbarre del aggio a livello sono chiuse. Frena. I pedali sono fermi, ma i suoi pensieri no. Non vede nemmeno il treno che a ad alta velocità. Le sbarre si alzano. Riparte. a nel quartiere popolare. Un mucchio di case fatiscenti. Odore di immondizia. Pedala. Arriva nella zona industriale. Sfreccia accanto ai capannoni. Gli operai sono al lavoro. Nei parcheggi gli automezzi schierati uno a fianco all’altro. Sembrano sempre pronti a partire. Pedala. In fondo alla strada scorge dei tendoni colorati. Pedala. In città è arrivato il circo. Pedala. Si avvicina ai container. Si ferma. Stanno ancora montando le giostre e i chioschi. Ci sono operaiche girano con i loro attrezzi e chiacchierano tra loro. Nessuno l’ha notata. Poi, in un angolo, vede le gabbie degli animali. Ci sono due tigri in un grosso recinto. Ci sono anche due sgabelli, di quelli che si usano per gli spettacoli, dei cerchi e qualche palla consumata. Vede due cuccioli nella gabbia accanto. Con loro c'è un uomo. Li fa giocare. Un tigrotto si ribalta sulla schiena. L'uomo gli gratta la pancia e lui si difende tentando di mordergli la mano. L'animale riesce a liberarsi. Raggiunge il fratello e lo attacca. Lottano, si rotolano. Dopo poco l'uomo si allontana. Sara si avvicina al recinto. Mamma tigre è sdraiata sull'erba, mentre papà tigre eggia avanti e indietro. Sembra disturbato dalla presenza di Sara. Difende il suo territorio. Ribadisce il suo predominio emettendo un suono “Grraaa, ggrrraaaaaa, brrrruu.” A Sara non piace vedere gli animali in gabbia, ma è curiosa e si avvicina ancora di più. La tigre femmina si alza. Allunga il collo e le zampe. Solleva la testa. Annusa l'aria. Si avvicina alle sbarre facendo un verso, “Frrrr, ffffrrrr”, accompagnato da un soffio. Chiude gli occhi. Li riapre e fissa la ragazza. I loro sguardi per un istante s’incrociano. Sara sbatte le palpebre, perplessa. Vede la tigre fare lo stesso. Con lo stesso ritmo. La ragazza crede di essere allo specchio. Sara riprova diverse volte a chiudere gli occhi. L'animale la imita. Allora, pensa, non è un caso. É il modo di comunicare della tigre. L'animale si gira verso il recinto dei cuccioli. Strofina prima il muso

e poi i fianchi contro i pali. Si sdraia sulla schiena e si rotola nella terra. Emette un suono intenso mentre torna vicino alla ragazza. Si trovano esattamente una di fronte all'altra. Sara allunga una mano, attraverso le sbarre, senza paura. Sente odore di tigre. Penetrante. Pungente. Odore selvaggio, agliaceo e sgradevole. Di pioggia e di erba. Sente il pelo sotto il palmo della sua mano. Caldo. Vellutato. Soffice. Sente i possenti muscoli della sua schiena contrarsi. Ma non ferma la mano. Prosegue. Sara cerca la testa dell'animale. La trova. Il grosso felino le offre il muso. Lo sfiora. Il tempo si ferma. “A mia madre,” dice, “interessa solo il mondo dorato del successo, la bella vita, i soldi.” La tigre ascolta le parole della ragazza e apre la bocca. Emette un suono che non è un ruggito. È un suono gutturale, profondo, articolato, come se volesse dire qualcosa. “È determinata,” dice la ragazza, “ma è arida, non prova sentimenti. Non prova affetto per nessuno” Sara tormenta con un piede l'erba tenera e punteggiata da piccoli fiori azzurri. “Vuole costringermi a fare una vita che non è la mia!” dice. “Vorrei scappare.” Sara si siede per terra. Parla. Parla con se stessa. Parla con la tigre. Si guarda le mani, gioca con un anello. “Mi esaspera la mancanza di dialogo e di attenzione. Non trovo le parole giuste per farmi ascoltare. Il suo egoismo mi uccide, mi blocca. Eppure non riesco a detestarla, le voglio bene. Apprezzo il suo spirito ribelle, la sua intelligenza, la sua bellezza.” Sara abbassa lo sguardo, fissa la scarpe. Si mangia le unghie. “Io non sono così!” dice. “Sono timida, impacciata, insicura. Invidio le mie coetanee. Loro non sono come me. Vorrei fare tante cose, nella vita. Invece la guardo dalla finestra, la vita.” Sara guarda le sbarre della gabbia. Le sfiora con le dita. “Strano,” dice con un cipiglio. “Anch’io ho le sbarre. Giuro. Fuori della mia finestra ci sono delle sbarre come queste. Servono a tenere i ladri fuori, ma forse è più giusto dire che servono a tenere me dentro.” La tigre si sdraia su un fianco. La testa alzata a tre quarti. Non guarda Sara. Emette di nuovo quello strano verso. Ora è scandito. Lungo. Modulato. Come

fossero un insieme di parole. Una frase. Sara solleva la testa, contempla il cielo. Il sole è basso, diretto a ovest. Qualcuno dice: “Anch'io, vorrei fuggire.” Si guarda intorno. Non vede nessuno. Si alza di scatto. Si sposta di qualche o, nella penombra. “Chi c'è?” dice la ragazza con il fiato corto. “Chi ha parlato?” “Io,” sente dire Sara, “sono io, Sally.” “Sally chi?” Sara guarda la tigre e spalanca gli occhi. Poi si volta in giro e dice: “Non è divertente, smettila!” La tigre la guarda e sorride. “Non sto mica scherzando,” dice, “sono proprio io.” Sara rabbrividisce. Fissa il grosso felino. Il suono di quelle parole proviene proprio dalla gabbia. “Non puoi crederci, eh?” dice la tigre. “Eppure è vero.” Sara rimane incredula. Fissa la tigre e vede il movimento della bocca in sincronia perfetta con le parole che sente. “Non è possibile,” dice. Alza il cappuccio della felpa color amaranto. Si guarda ancora intorno. Il corpo contratto, le braccia incrociate sulle spalle, come per proteggersi. Si avvicina alla gabbia ed esclama: “Ma… sei davvero tu?” La tigre annuisce.“È una cosa normale, sai?” dice accucciandosi davanti a Sara. “Tutti gli animali parlano, anche se non tutti gli uomini sono capaci di ascoltarli.” Sara continua a guardare la bocca dell’animale. Non riesce a credere a quello che vede. La tigre è sempre nella stessa posizione. “Se questo ti può consolare, anche a me capita di vivere una vita che non ho scelto.” Si volta da un lato. Lo sguardo perso verso il tramonto. “Mi chiedo spesso come sarebbe la mia esistenza fuori da queste sbarre.”

Sara è confusa. “Mi spiace,” dice. “Vengo da te a parlare dei miei stupidi problemi, quando tu sei…” indica con la mani la gabbia. “Sei rinchiusa qui dentro.” Si siede per terra e appoggia la schiena alle sbarre. Solleva le ginocchia e se le abbraccia. “Il fatto è che non ricordo l’ultima volta che mia madre mi abbia accarezzata. Sempre troppo impegnata, sin da quando ero piccola. Il lavoro. Le amiche.” Sally si avvicina. Tira fuori il muso dalle sbarre. Quel poco che riesce. Lo strofina contro la schiena della ragazza. Sara è sorpresa, ma non si spaventa, accetta le coccole dell'animale. Poi la tigre si sdraia su un fianco e solleva la testa. “Noi animali del circo, siamo nati tutti in cattività. Da decine di generazioni. Abbiamo perso l'istinto della fuga. Abbiamo ridotto la nostra aggressività. Non siamo più diffidenti verso l'uomo. Il nostro capobranco è un umano. È il nostro addestratore.” Con sospetto, papà tigre si avvicina. Annusa. Anche lui emette dei suoni “Frrrr, ffffrrrr, graaauu.” Sara cerca di accarezzarlo, ma lui si allontana di qualche o. “È il tuo compagno?” dice Sara. Sally annuisce. “E quelli sono i tuoi cuccioli?” “Sì,” dice Sally, “ai maschi non è permesso stare con i cuccioli.” “Perché?” La tigre inclina la testa. “Li ucciderebbe.” Sara la guarda con un cipiglio. Pensa a suo padre. All'uomo che giocava con lei quando era una bimba, che le leggeva le favole e che adesso è lontano. Straziato dalla vita con sua madre. a poco tempo con lui. Qualche viaggio. Qualche domenica al cinema. Qualche cena. Niente di più. “Be’ allora io sono davvero fortunata,” dice. “Io nella gabbia di mio padre sarei più felice. Lui non mi farebbe mai del male.”

Sara sente delle voci in lontananza. Si alza in piedi e si guarda in giro. Ci sono tre uomini che si stanno avvicinando a una gabbia. Vede un camion poco lontano dal recinto e lo raggiunge. Si acquatta dietro le ruote posteriori e sbircia. I circensi si avvicinano alle tigri. Spingono i felini con dei bastoni verso le erelle che collegano il recinto al camion. Stanno rinchiudendo le tigri nel rimorchio del camion per la notte. Due degli uomini si allontanano. L’altro che rimane si accende una sigaretta. Sara approfitta della distrazione di quell’uomo, s’infila nel rimorchio del camion e si nasconde dietro a una balla di fieno. L'uomo finisce di fumare, butta via il mozzicone dopodiché chiude le porte del rimorchio. Sara è chiusa dentro, con le tigri. Si sdraia accanto alle sbarre e si addormenta. Gabriella è seduta sulla poltrona in pelle del suo ufficio. I gomiti appoggiati alla scrivania. Le mani tengono la testa. Fissa il cellulare sul tavolo. Cerca di trattenere le lacrime. Gabriella Ferro non può piangere. Ha il fiato corto, le mani tremano. Prende il cellulare ma le cade. Lo raccoglie. Per fortuna non si è rotto. Cerca un numero con le mani tremanti. Gli occhi sbarrati, pallida in viso. Finalmente trova il nome Andrea nella rubrica. Sfiora l'icona chiama. Uno, due, tre, quattro, cinque squilli. Non risponde nessuno. Sei, sette, otto squilli. Il panico aumenta. Nove, dieci squilli. “Cosa c’è?” la voce di Andrea irrompe roca dal ricevitore. Gabriella per un attimo prova sollievo. “Andrea.” Dice, ma non riesce a dire una parola di più. “Sono io,” la voce di Andrea gracchia. “Cosa c’è?” Gabriella è in affanno. “Andrea,” dice ancora. Le manca l'aria. “Sara è da te?” “No,” dice Andrea, “perché?” “Perché a casa non c’è.” Sara è in piedi davanti a una commissione di professori. Dietro ci sono tutti i suoi cari. Sua madre non c’è. Non si vedono da molto tempo. Dall'ultima litigata che hanno avuto. Non si sono mai cercate. Dopo la notte che ha ato al circo, Sara è stata un po' dal padre. Ha girato il mondo. Ha conosciuto molte persone. Anche suo marito.

“Io Rettore dell'Università Cattolica di Milano,” sente dire. La sua testa è lontana, in alto, dentro una bolla. “Proclamo Sara Rossi Dottore Veterinario con la votazione di 110 con lode.” Un ometto con i capelli grigi si allunga sul tavolo e le porge la mano destra. Sara la afferra e la stringe. Come un automa. Si gira. Mille mani vogliono stringere la sua. Mille persone vogliono congratularsi con lei. Esce dall'aula. La tesi sotto il braccio. Qualcuno le porge un mazzo di fiori. Un'amica le mette in testa una coroncina d'alloro. Esce dall'aula con i fiori, con la coroncina d'alloro in testa e con nuove speranze per il futuro. Suo marito si avvicina con in braccio una bimba di pochi mesi. Sara bacia prima il marito, poi la figlia. “Ho una cosa da fare, prima del ricevimento,” dice “aspettatemi al ristorante.” La giovane donna sale in auto. Rossa. Prende la via del centro. Lo attraversa percorrendo le strade affollate. Le sbarre del aggio a livello sono chiuse. È ferma, come i suoi pensieri. Un treno a ad alta velocità. Lei lo vede bene. Le sbarre si alzano. Riparte. Ha l'impressione che un auto la stia seguendo. a nel quartiere popolare: un ammasso di case fatiscenti. Dai finestrini abbassati entra odore di immondizia. Va avanti. Arriva nella zona industriale. Sfreccia accanto ai capannoni. Gli operai sono al lavoro. Nei parcheggi gli automezzi schierati uno a fianco all’altro. Sembrano sempre pronti a partire. Va avanti. Vede nello specchietto retrovisore la stessa auto, un SUV nero . Va avanti. In fondo alla strada scorge dei tendoni colorati. V a avanti. In città è tornato il circo. Va avanti. Ha ancora dietro quell'auto. Si avvicina ai container. Si ferma. Scende dall'auto. Stanno ancora montando le giostre e i chioschi. Ci sono operai che girano con i loro attrezzi e chiacchierano tra loro. Nessuno l’ha notata. Poi, in un angolo, vede le gabbie degli animali. C'è una tigre in un grosso recinto. Il felino è sdraiato sull'erba. Sara si avvicina al recinto. La tigre si alza. Allunga il collo e le zampe. Solleva la testa. Annusa l'aria. Si avvicina alle sbarre facendo un verso: “Frrrr, ffffrrrr,” accompagnato da un soffio. Chiude gli occhi. Li riapre e fissa la ragazza. I loro sguardi per un istante s’incrociano. Sara sbatte le palpebre. Vede la tigre fare lo stesso. Con lo stesso ritmo. La donna crede di essere allo specchio. Sara riprova diverse volte a chiudere gli occhi. L'animale la imita. “Sei la mia Sally?” dice la donna emozionata. È una tigre molto anziana, ora. Si sdraia sul fianco. La testa alzata a tre quarti. Strofina il muso sulla terra.

“Ti ricordi,” dice Sara con la voce rotta dal pianto, “quella notte, al freddo, insieme”. Cerca un fazzoletto nella borsetta. Si soffia il naso. Sally fa le fusa: “Frrrr, ffffrrrr”. “Quella notte ho trovato il mio futuro”dice Sara “mi sono laureata. Sono veterinario”. La tigre fa un'altra capriola, agita le zampe in aria. Ma si rialza di scatto. Sally ruggisce. Feroce. “Grraaa, ggrrraaaaaa, brrrruu.” Qualcosa ha attirato la sua attenzione. Si agita, guarda in giro irrequieta. Le orecchie piatte, incollate alla testa. Mostra i denti. Soffia. Qualcosa la infastidisce. Con lo sguardo spietato fissa un punto, la strada. Sara si gira. Vede una signora elegante, immobile accanto alla sua auto. Nera. Le braccia lungo il corpo alto, ancora snello. Indossa un cappottino color panna, moderno. Una mano è occupata da un bauletto di marca. L'altra è stretta, a pugno. Sua madre, perfetta, bella, come se la ricordava .

[1] La pressione mi sta schiacciando

[2] La pressione ti comprime come nessuno si augurerebbe

[3] Guardi qualche buon amico

[4] Che grida "fatemi uscire". Implorare che domani, possa stare meglio

4. La cena

Simona Gervasoni

A bordo della strada, la luce interna di una Cinquecento blu si accese. Dopo aver girato il quartiere per venti minuti, Greta aveva finalmente parcheggiato. Per essere puntuale, all'uscita dall'ufficio, era andata direttamente all'appuntamento con le sue amiche. Allungando il collo, si guardò nello specchietto retrovisore. Era truccata con cura. La linea dell'eyeliner era precisa, priva della minima sbavatura. Notò un'unica piccola pecca: le ciglia. Sbuffò. Le piaceva averle folte, lunghe, definite una a una, ma il mascara che aveva usato, quello regalatole dal fidanzato Davide, le rendeva rade e corte. Aprì la portiera e scese dall'auto. Sollevando il cappuccio bordato di pelliccia sintetica, si avvolse nel suo piumino nuovo. Dalla tasca prese l'iPhone, aprì la chat e rilesse l'ultimo messaggio: Ti aspetto ore 20.30 in via Carlo Botta 7. C'è anche Letizia. Baci, Moni. Ad ampi i percorse la via scarsamente illuminata. Sul marciapiede non c'era nessuno. Camminava in silenzio, con i suoi tronchetti neri, le cui suole in gomma attutivano ogni rumore. Pensò ai suoi vecchi stivali in pelle, quelli con la suola in cuoio che a ogni o producevano un suono sordo. Quella sera non li aveva indossati perché li aveva riposti nello scatolone da portare alla Caritas. Era stata un'idea di Davide, approfittare del trasferimento a casa sua per dar modo a Greta di scegliere e scartare ciò che non metteva più. Arrivata al portone numero 7, scorse con attenzione i nomi del citofono fino a scovare un'etichetta bianca con scritto in pennarello Arosio. Suonò. “Quarto piano.” Era la voce distorta di Monica, la sua vicina di banco al liceo. Non si vedevano da circa quattro anni, da quando Monica si era trasferita a Londra per un master in Events Management. Tornata a Milano da un paio di mesi, aveva comprato un appartamento. Per festeggiare il suo ritorno, e inaugurare la casa, aveva deciso di organizzare una cena con le amiche a lei più care: Greta e Letizia. Greta entrò nell’atrio e schiacciò il pulsante dell’ascensore dando appena un’occhiata intorno. Era un palazzo signorile con vecchi pavimenti di marmo e qualche logoro tappeto rosso qua e là. Entrò in ascensore, si guardò allo specchio e iniziò a scrutarsi. Attorno agli occhi, le rughe d'espressione si erano

trasformate in segni sempre più profondi. La tinta castano cioccolato copriva alcuni impertinenti capelli bianchi. Non era più la ragazza dei tempi del liceo. Chissà quanto erano cambiate le altre. Chissà com'era diventata Letizia. Aprì il piumino. Abbottonò l'ultimo bottoncino della camicia color panna. Prese tra le dita il ciondolo d'oro a forma di farfalla e lo portò al centro della collana. Per coprire la gola avrebbe potuto indossare il foulard rosso di seta, ma anche quello lo aveva riposto nello scatolone da consegnare alla Caritas. Rilassò la bocca e guardò il suo riflesso accennare a un sorriso cordiale. Era pronta. Le porte dell'ascensore si aprirono, un profondo sospiro, un o e si ritrovò sul pianerottolo. “Gre!” strillò una ragazza sorridente, avvicinandosi con le braccia spalancate. Era Monica ed era cambiata. Aveva le guance più paffute ma il suo sorriso era rimasto identico. “Quanto tempo.” Aveva gli occhi lucidi. Greta la guardò commossa. “Tanto.” Si ò una mano sotto gli occhi e aggiunse: “Mi devi raccontare tutto.” “Certo.” Monica le fece strada e disse: “Lo bevi ancora lo spritz, vero?” “Mai smesso,” disse Greta entrando nel bilocale. Lo spazio era strutturato al meglio: una spaziosa sala con angolo cottura e a destra dell'ingresso una porta dava su quella che era la zona notte. Dal tavolo apparecchiato al centro della stanza, Monica prese una caraffa colma di liquido arancione e riempì due bicchieri. Uno lo pose a Greta, l'altro lo alzò, fece un occhiolino e disse: “In onore dei nostri vecchi tempi.” “Ai vecchi tempi,” disse Greta portandosi il bicchiere alla bocca. Si guardò attorno. Il soggiorno aveva ancora un aspetto spartano. I muri bianchi erano spogli, mancavano le tende, e i ripiani del mobile a parete erano per lo più vuoti. L'arredamento era incompleto ma, dal poco che c'era, si intravedeva il tocco caldo e accogliente di Monica. Si capiva che era una situazione di aggio. Una situazione simile a quella di Greta. La casa di Davide era ancora la casa di Davide. In due mesi, la ragazza aveva provato a lasciare una sua impronta, modificando la disposizione della piccola sala e aggiungendo qualche oggetto, ma Davide non era mai d'accordo sui cambiamenti suggeriti. Tutto era rimasto esattamente come prima dell'arrivo di Greta.

Muovendosi con circospezione per la stanza Greta disse: “Mi piace casa tua.” Stava guardando la porta che separava la zona giorno dalla zona notte chiedendosi se poteva dare una sbirciatina quando questa si aprì. Ne uscì una ragazza dai capelli biondi arruffati, con un maglione rosso, un paio di jeans e ai piedi delle sneakers. Fissò Greta, le fece un breve cenno con la testa e disse.: “Ciao.” “Ciao Leti.” Guardandola, Greta capì che l'amica non era cambiata, era rimasta la stessa ragazza delle superiori. Quegli occhi così azzurri, chiari come il ghiaccio, se li ricordava bene. Greta si avvicinò e disse: “Come va?” Si sbilanciò in avanti, e porse la guancia destra. Letizia rimase immobile. “Bene, grazie,” disse. Il suo viso, dai lineamenti rigidi, era contratto. Nessun accenno di movimento e nessun sorriso da parte sua. ò di fianco a Greta senza degnarla di una benché minima attenzione e iniziò a discutere con Monica dell'arredamento della camera da letto. Greta si unì a loro, incrociò le braccia al petto e rimase in silenzio ad ascoltarle. A tavola, Monica era divenuta il perno della conversazione, si giostrava tra Letizia e Greta, prima rivolgendosi a una e poi rivolgendosi all'altra. Se la compagnia non era delle migliori, il cibo invece prometteva molto bene. Il menù presentato fino a quel momento era stato perfetto: cestini di pane con verdure come antipasto e spaghetti ai tre pomodori come primo. Come aveva richiesto Greta, nessun ingrediente di origine animale era stato aggiunto alle preparazioni. Sul secondo però, lei e Monica avevano un po' discusso, ma alla fine erano giunte a una soluzione soddisfacente. Monica, portando in tavola la seconda portata, aveva tra le mani due piatti e una ciotola. I due piatti di pollo al curry con patate al forno erano per Monica e Letizia mentre la scodella piena di verdura variopinta era per Greta. Un po' di insalata riccia, del radicchio, carote, pomodorini e germogli di soia. Verde, bordeaux, arancione, rosso e bianco, un impatto cromatico molto piacevole. Greta ammirò quel tripudio di verdure, cercando di rallegrarsi. Alzò lo sguardo sugli altri due piatti. Il pollo era magnifico: due fusi ricoperti di una salsa ocraarancione accompagnati da patate al forno dorate . Il profumo era invitante. Si

distinguevano due odori in particolare: il familiare rosmarino usato per il contorno e un insieme di odori esotici. In vita sua, il pollo cucinato in quel modo, Greta non l'aveva mai mangiato. Quando Monica fece per sedersi, le squillò il cellulare. Sbuffò. “Scusate,” disse, “è una telefonata di lavoro.” Si diresse verso la camera da letto e aggiunse: “Me la sbrigo in un attimo.” Rimaste orfane della padrona di casa, Greta e Letizia iniziarono a mangiare in silenzio. Gli unici suoni udibili erano quelli del loro masticare e la voce ovattata di Monica che parlava in inglese nell’altra stanza. Ogni tanto Letizia emetteva dei mugolii. Il pollo doveva essere gustoso. Il ritmo delle bocche, l'inglese, i mugolii, crearono una sorta di nenia che stregò Greta. Scosse la testa, prese la bottiglia di Barbera d'Asti e si riempì il calice. Lo portò alle labbra. Bocche, inglese, mugolii. Greta inspirò e sentì l'odore penetrante del curry. Bocche, inglese, mugolii. Accavallò la gamba destra sulla sinistra e iniziò a scuotere il piede. Letizia infilò in bocca un altro boccone dorato ed emise un altro mugolio. Greta alzò lo sguardo dall'insalata e guardò il fuso solitario nel piatto di Monica. Inspirò profondamente. Sentì le spezie e le erbe aromatiche arrampicarsi nelle sue narici. Bevve un sorso di vino. “Allora,” disse Greta, “mi ha detto Moni che lavori come giornalista freelance.” Prese il bicchiere e si bagnò le labbra. “Esatto!” rispose Letizia, poi tagliò un piccolo boccone e se lo portò alla bocca. Greta sentì il pollo sciogliersi sul palato dell’amica. Sorseggiò ancora. “E con quali giornali collabori?” “Un po' con quello, un po' con l'altro,” Letizia mosse nell'aria la forchetta che stringeva nella mano sinistra. Riabbassò la testa. Un altro boccone. Un altro mugolio. Un po' di salsa le finì all'angolo della bocca. Appoggiò le posate. Prese il tovagliolo e si pulì. “Capito,” disse Greta svuotando il bicchiere. Aprì la bocca. E la richiuse.

Riprese a mangiare. Nonostante masticasse come un ruminante, l'insalata sembrava non finire. La mascella le doleva. Si guardò attorno, Letizia la stava osservando. “Come mai solo l'insalata?” Greta si sistemò sulla sedia, aggiustò il tovagliolo sulle gambe e disse: “Non mangio carne.” “Ma neanche formaggi?” Letizia la guardò con maggiore insistenza. “Un tagliere di formaggi misti sarebbe perfetto, se proprio non vuoi mangiare carne.” Infilzò un pezzetto di pollo e se lo portò davanti agli occhi. Lo guardò e lo mangiò. Un altro mugolio. “Neanche,” rispose Greta, portando il tovagliolo alle labbra. “ Niente carne, formaggi, uova o pesce.” “Non dirmi che ti sei messa con un vegano?” Letizia sorrideva. “Un fanatico vegano!” Si coprì il viso con una mano e scoppiò a ridere. Greta cercò di mantenere il controllo della voce. “Cosa c'è? Trovi divertente avere un ragazzo vegano?” Comodamente seduta, per la seconda volta Greta prese la bottiglia e versò il liquido dal color rosso rubino. “Cosa c'è di così divertente?” Si scolò un lungo sorso e appoggiò il bicchiere sul tavolo. “Non rido per il tuo ragazzo,” Letizia scosse la testa, “sei tu che mi fai ridere.” Greta la guardò sbalordita. “E per quale motivo ti farei ridere?” Gli occhi azzurri di Letizia erano fissi su di lei. La sua bocca era piegata in un ghigno. Letizia tagliando un altro pezzo di pollo disse: “Rido perché tu ti adatti sempre a chi hai di fronte.” “Ma cosa stai dicendo?” disse Greta riprendendo il vino. Lo fece oscillare e lo osservò vorticare nel vetro fine. Letizia deglutì. “Ti ricordi all'università, quando uscivi con l'istruttore di fitness?”

“Paolo!” disse Greta pensando al suo ex. Era un istruttore della palestra in cui si era iscritta assieme a Monica per mantenersi in movimento due volte la settimana. Conosciuto Paolo, per compiacerlo e stargli accanto, Greta aveva iniziato a frequentare la palestra tutti i giorni. Per farlo aveva tolto del tempo allo studio e alle amiche. “La palestra era diventata la tua vita,” disse Letizia, “adesso scommetto che in palestra ci vai a malapena due volte alla settimana.” Alzò il coltello in aria in direzione di Greta. “E non dirmi che non è così!” “No, non è così.” Greta trangugiò una lunga sorsata di vino e abbassò lo sguardo sul piatto. “Ah, no?” disse Letizia mentre affondava il coltello nel pollo. “E quante volte ci vai?” Greta storse la bocca e disse: “Non sono iscritta.” Lanciò un’occhiata all’amica e svuotò il bicchiere. “Visto!” Letizia agitò il coltello in aria davanti a sé. “Stessa cosa con quello delle escursioni in montagna.” Posò coltello e forchetta, e prese il tovagliolo. “Odiavi la montagna,” ridacchiò, “a te piace il mare.” “Non è vero.” Greta era accigliata. “Eri così anche con Monica. I capelli, i vestiti. Il tatuaggio,” disse Letizia, “tutto quello che faceva lei lo facevi anche tu.” Riprese le posate e ricominciò a mangiare il pollo come se niente fosse successo. Greta aprì la bocca, ma poi la richiuse. Prese la bottiglia e riempì per la terza volta il bicchiere. Un altro lungo sorso. “Il tatuaggio, i capelli, la palestra, mi piacevano,” la voce di Greta era decisa, “poi è vero che alcune cose le ho fatte perché piacevano alla persona con cui stavo, ma lo facciamo tutti.” Prese la forchetta e giocherellò con l'insalata oramai apita. Sul fondo della ciotola si vedeva l'olio e l'aceto. Mangiò un mezzo pomodorino che non sapeva di nulla. Con la bocca piena Letizia le disse: “Cos’è che facciamo tutti?”

Greta contemplò i denti di Letizia fare a brandelli la carne. “Condividere le ioni di qualcuno,” disse, “anche quando non ti piacciono.” Buttò giù tutto il vino. Sentì lo stomaco brontolare. Abbassò lo sguardo sulla sua insalata. Prese la forchetta, ma l'abbandonò nella ciotola. Di fronte a lei i fusi di pollo di Monica erano ancora intatti nel piatto. Era innegabile che avessero un aspetto invitante. Greta riprese la forchetta e l’allungò verso il piatto di Monica. Raccolse un po' di salsa e l'assaggiò. Deliziosa. Sentì l'aroma delle spezie liberarsi dalla gola al naso. “Condividere sì, ma tu le spacci come tue ioni,” disse Letizia, “dubito che ti divertissi ad andare in montagna, come dubito che tu sia vegana per tua scelta.” Sorrise a metà. Greta arrossì. “Sì che voglio essere vegana.” Riempì il quarto bicchiere. La bottiglia era ormai vuota. Iniziava a sentire la testa girare. Avrebbe voluto mettere sotto i denti qualcosa di sostanzioso. Guardò sulla tavola in cerca di un pezzo di pane. Il pollo era lì. La salsa al curry. La carne bianca ben cotta dal colorito ocra. La pelle ben rosolata. Da quasi un anno, non mangiava pollo. E il pollo le era sempre piaciuto. “Sentiamo,” disse Letizia, sporgendosi verso di lei, “per quale strano motivo lo vuoi essere?” Greta si sistemò sulla sedia. Prese tra le dita il ciondolo a forma di farfalla e lo fece scorrere avanti e indietro sulla catenina. Quegli occhi ghiaccio la fissavano. Biascicando Greta disse: “Sono vegana perché ho fatto una scelta personale.” Ricordò il discorso che le aveva fatto Davide al primo appuntamento e proseguì. “Ma anche per avere un futuro migliore, per gli animali, l'ambiente e la fame nel mondo.” Greta nel dire quelle parole guardò il pollo, immaginando l'esplosione di sapori delle spezie, la tenerezza della carne e la golosità della pelle che si scioglie in bocca. Da un anno Davide le ripeteva le sofferenze e le torture che i polli subivano negli allevamenti intensivi creati dall'uomo. In quel momento, però, Greta avrebbe preso coltello e forchetta e assaggiato quel pollo. Non era di certo colpa sua se era morto. Non era stata lei a ucciderlo. Non era stata lei a comprarlo. Il pollo oramai era già morto. “Ti senti una martire dell'ambiente?” disse Letizia. “Ti imponi una dieta per salvare il mondo?”

“Non mi sento una martire,” disse Greta, omettendo il fatto che il suo ragazzo un po' si sentiva un eroe. Letizia rise. “Dai è innegabile, reciti la parte dell'ambientalista, con la tua dieta.” “Io non recito!” rispose Greta. “Devi sapere che gli allevamenti industriali sono delle macchine difettose.” Proseguì riportando in maniera sconclusionata i dati che Davide le aveva ripetuto più volte. Greta in realtà non aveva mai capito il reale significato del ragionamento ambientalista che le faceva il suo ragazzo. “Quale persona,” disse, “ebbe una macchina che gli fa spendere più energia di quella che produce?” “Ma sei ubriaca?” chiese Letizia. “Sai, hai bevuto un po' troppo e il tuo discorso non ha senso.” “Non sono…” singhiozzò Greta, “…ubriaca.” A stento trattenne il secondo singhiozzo. “Va be’!” Letizia sventolò la mano nell'aria. “Poco importa. A me paiono un mucchio di stronzate, dillo pure al tuo ragazzo.” Poi scoppiò a ridere. In quel momento entrò Monica. “Che succede di così divertente?” sorrise, “cosa mi sono persa?” “Niente!” disse Letizia, posando la forchetta e il coltello affianco al piatto vuoto. “Com'è andata la telefonata?” Greta salì in macchina e laciò la borsa sul sedile del eggero. Abbassò il cappuccio del piumino e si guardò nello specchietto retrovisore. Sotto gli occhi lucidi aveva un alone nero. Dalla tasca, prese il fazzoletto stropicciato e lo sfregò nel tentativo di togliere il mascara colato. Lo aprì e si soffiò il naso. Dopo lo scambio con Letizia, Greta non aveva più parlato. Finito il dolce, aveva deciso che si era fatto tardi. Con la promessa di rivedersi e un abbraccio, aveva salutato Monica. A Letizia, invece, non aveva rivolto nemmeno uno sguardo. Incrociò le braccia sul volante e ci si appoggiò con la testa. Restò immobile. Inspirò dal naso ed espirò dalla bocca. Al decimo profondo respiro si raddrizzò. Aprì la borsa e cercò l'iPhone. Fece scorrere il dito sullo schermo, entrò nella chat chiamata Amore e iniziò a digitare nello spazio vuoto: Cena finita. Tempo

di arrivare e sono a casa. Rimase a fissare la schermata. Cancellò l'intero messaggio e buttò il cellulare sul sedile. Si guardò nello specchietto, raccolse i capelli e avviò la macchina. Allo stop prese la direzione opposta a quella di casa di Davide. Si guardò attorno, senza sapere dove andare. Abbassò il finestrino e l'aria invernale la travolse. Sentì la pelle tirare, inspirò e sentì il freddo raschiarle la gola. Spalancò gli occhi e si risvegliò dal torpore. Al semaforo rosso si fermò e chiuse il finestrino. Sentì il telefono suonare. Un messaggio di Davide. Non hai ancora finito? Ricordati di scrivermi prima di tornare. Greta bloccò il telefono e lo mise in borsa. Ripartì svoltando prima a destra e poi a sinistra, e vagò tra le strade della città desolata senza meta finché non fu attratta da un’insegna gialla e arancione. Era tardi, ma qualche posto era ancora aperto. Parcheggiò la macchina e scese. Sentì le prime note della canzone Love is in the air, la suoneria personalizzata che aveva assegnato a Davide. Non rispose. Tirò su col naso e si avviò verso la vetrina. Quando entrò i profumi la travolsero. Sentì odore di cipolla, di spezie, e di carne. Vicino all'ingresso, due ragazzi erano intenti a mangiare dei panini succulenti. Greta si avvicinò al bancone. Un ragazzo di origini turche le si parò davanti sorridente. Lei sorrise di rimando. Alzò gli occhi e osservò il tabellone luminoso con i menù e le relative immagini. Incrociò le dita delle mani e le strinse forte. Si mordicchiò il labbro inferiore. Inspirò. Abbassò lo sguardo e fissò il ragazzo sorridente. “Un kebap completo,” disse Greta velocemente. “Abbondante, per favore.”

5. Il pozzo e il frantoio

Carmine Cascella

Vago in una nebbia fitta, bagliori intermittenti mi sovrastano. Cado in fosse profonde, mi rialzo. A un tratto vedo mio padre, ha il volto contratto. Urla qualcosa a mio fratello che, ansimando, lo segue. Mi ano davanti ma non mi vedono. Allungo le mani come per afferrarli, ma non ci riesco. Le loro figure svaniscono nella nebbia. Qualcuno afferra la mia mano. È mia madre. Con un cenno mi indica la via. Intuisco e li seguiamo. La nebbia inghiotte anche i nostri corpi. Poi all’improvviso la luce del sole, un’altura, dove ci ritroviamo felici. Adelaide s’era destata con il sogno ancora vivo in testa. Aveva tutte le intenzioni di raccontarlo ai suoi ma non appena mise piede in cucina fu accolta da una strana atmosfera. In tavola c’erano due tazze da latte vuote e due tazzine da caffè piene, delle merendine confezionate e una scatola di latta tonda di biscotti ai cereali. Il padre Marco, con il capo chino e le mani infilate nella chioma nera riccioluta, era seduto a fissare il piano del tavolo. Adelaide non l'aveva mai visto così. La madre era in piedi accanto all'uomo. Gli teneva il braccio intorno al collo, appoggiando la mano destra alla sua spalla. “Dai,” disse la donna, “non ci abbattiamo, qualche soluzione si troverà.” Marco si girò e la guardò nel profondo dei suoi occhi verdi. “Non ci sperare. Ho quarantadue anni e nessuno mi vorrà più.” Adelaide ascoltava ma non capiva Aveva quattordici anni ed era una sognatrice. La sua capigliatura bionda arruffata: i capelli non le crescevano in lunghezza ma sembrava che si ammassassero sul capo come fili di paglia. Gli occhi erano azzurri e il suo sguardo era meravigliato, ingenuo e poetico. Sembrava che guardasse le cose sempre per la prima volta. I lineamenti erano decisi ma allo stesso tempo fluidi, il naso all’insù dava al suo volto un aspetto piacevole quanto singolare. Aveva un viso impossibile da dimenticare. Il suo giovane corpo, sostenuto da due gambe lunghe e sottili, vedeva appena un accenno di seno. Poteva essere una sognatrice ma non era stupida. Non le era sfuggita la presenza più costante del padre in casa, e il volto della madre sempre più teso e non più sorridente come un tempo. Una sera le aveva sentito dire: “Allora, Marco?” il tono era rassegnato. “Ancora niente?”

“No niente!” le aveva risposto lui. “Cara Simona, il lavoro è latitante.” Adelaide aveva compreso che per quel niente le loro vite stavano cambiando. In un'altra occasione aveva visto il padre spegnere con stizza il televisore proprio mentre la conduttrice del telegiornale annunciava la chiusura di un'altra fabbrica, una delle tante che approfittava del periodo di ferie estive dei dipendenti. “In questo Paese non c’è più rispetto per gli operai e il loro lavoro,” era stato il commento secco di Marco. Adelaide aveva un fratello, Antonino, un ragazzino di dieci anni e di poche pretese. Il calcio era la sua unica e totale ione. Giocava come attaccante nella squadra dell’oratorio San Gaetano, quello vicino casa. Una sera Marco e Simona decisero finalmente di informare i figli dell’imminente partenza per San Petra, il paese natale del padre, un territorio fra Appennini e Tirreno. Sarebbero andati a vivere nella casa del nonno paterno, Antonio. Marco Loiacono, un uomo né robusto né esile, aveva lavorato in una fabbrica dell’indotto industriale, la Metalflex, che per anni aveva prodotto componenti metallici per industrie famose. La crisi e la concorrenza straniera erano stati i motivi della chiusura dell’opificio. In un primo momento fra cassa integrazione e piccoli lavori aveva cercato di resistere, ma finito il periodo assistenziale si era dovuto arrendere. Da parte sua la mamma di Adelaide, Simona Freccia, una donna dalla forte costituzione e dalla carnagione chiara così come i capelli, si era da sempre occupata della casa e dei figli. Per il tempo restante lavorava come stiratrice per la Pulitus, una lavanderia sotto casa, e due volte al mese era impegnata come domestica, in casa degli anziani coniugi Negri. Non era di certo una che se ne stava con le mani in mano. Quando il marito perse il lavoro cercò in tutti i modi di guadagnare di più, ma la sua caparbietà dovette sbattere contro la durezza dei tempi. Le lacrime rigarono il viso di Antonino, non appena ebbe afferrato il senso di del discorso dei genitori. Proprio non si capacitava di dover abbandonare amici, scuola e soprattutto la sua squadra di calcio. Adelaide seguì con attenzione le parole della madre, la cui voce tradiva commozione, disappunto e indomita rassegnazione. Notò anche che il padre era troppo scosso per riuscire a proferir parola. L’atmosfera cupa e carica di tensione aveva molto colpito Adelaide. Le erano rimasti ben impressi nella mente i volti scuri, contratti e nervosi dei genitori. E la frase: “Sono troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per

un lavoro,” l’avevano turbata. L'ingenuitàdi Adelaide di guardare le cose del mondo, la sua propensione a trasfigurare la realtà, a vedere una possibilità di vita in tutto, non le permettevano di percepire la connotazione negativa che tutta la sua famiglia attribuiva al cambiamento, seppur non voluto, o peggio, subìto. E pareva proprio così se si doveva dar retta all’umore dei suoi genitori e ai singhiozzi del fratello. Il perché di quell’ipoteca sul futuro non riusciva proprio a comprenderlo. Perché per Adelaide un cambiamento lo si poteva giudicare solo dopo se era buono o cattivo. Era come il compito in classe, fin quando l’insegnante non lo correggeva non potevi sapere com’era andata. La sera stessa, nella loro cameretta, Adelaide si era confidata col fratello. “Sai Antonino, io credo che il futuro è come te lo immagini, e io me lo immagino bello.” “Io no. Me lo immagino tutto brutto.” “Ed è per questo che devi usare la fantasia, l’immaginazione e colorarti la vita. A me viene naturale” “Sì, lo so, a volte ti parlo ma nemmeno mi rispondi, tanto sei presa dai tuoi sogni. Comunque, sarà pure come dici tu, ma io so solo che voglio giocare a pallone.” “Io, invece, so solo che senza i sogni non potrei vivere.” Antonino non rispose. Il suo respiro si era fatto pesante e in pochi minuti si trasformò in un sibilo nasale. Si era addormentato. Adelaide rimase a fissare il soffitto per un po’, poi il sonno la trascinò via. Marco urla, è disperato. Adelaide lo osserva, lui non può vederla. Si guarda intorno a cercare la provenienza di tanta paura, ma non nota niente. Simona è in cucina. È atterrita. Si porta i palmi delle mani alle tempie. Il pavimento è ricoperto da scarafaggi che galleggiano in una poltiglia grigiastra. Adelaide sembra volare sulla scena. All’improvviso è rapita da una luce fioca, si avvicina e vede un bambino accovacciato. Ha la pelle scura e ride, ride senza ragione apparente. Anche Adelaide aveva i suoi buoni motivi per dispiacersi dell’imminente

partenza. Sarebbe restata volentieri, senza lasciare tante cose in sospeso. Le sue amiche, la pallavolo e la biblioteca del quartiere, che le aveva donato le storie, delle quali si nutriva la sua fantasia. La focacceria Prendi e Mangia, dove amava perdersi tra i profumi delle tante brioche, tra le quali la sua preferita, quella ai frutti di bosco. E soprattutto abbandonare Karim, che per lei era un sogno vivente. Scuro di pelle, esotico, straniero, diverso, parlava un italiano simile al suo e questo lo rendeva perfetto. Le parlava sempre con quel tono di voce mieloso e profondo, tipico degli arabi, che le piaceva tanto. Le confessava che un giorno sarebbe tornato al suo villaggio sulle sponde del Nilo. E mentre Karim parlava, lei fantasticava. S’immaginava le palme, il sole, le piccole case di fango, una piccola moschea e un’abitazione adibita a scuola. Ma soprattutto immaginava un pozzo nel mezzo del villaggio, centro della vita della piccola comunità. Le donne riempivano le loro anfore al mattino, i bambini ci giocavano intorno nel tardo pomeriggio, gli uomini si radunavano la sera. La scuola, lo sport, le amiche, Adelaide poteva lasciarle, in fondo erano cose che si potevano rimpiazzare, ma Karim no. In qualche modo se lo sarebbe portato con lei, nascondendolo nel profondo del suo cuore, là dove riponeva le cose preziose. La mattina della partenza per San Petra, Adelaide era sdraiata sul letto con gli occhi fissi nel vuoto, quando entrò la madre nella stanza. “Dai alzati,” disse Simona, “e sveglia Antonino. Preparatevi in fretta e venite in cucina per la colazione.” Adelaide ubbidì, svegliò Antonino e mentre suo fratello si stiracchiava ancora nel letto, lei si lavò e si vestì. Poi toccò ad Antonino. Lei aprì la finestra e guardò la città, forse per l’ultima volta. Il vento della notte aveva portato nel cielo strati di nuvole scure e minacciose. Le strade alberate e i viali dei parchi erano colorati di giallo indiano e terra di Siena, per via delle foglie cadute in abbondanza in quei giorni. La famiglia Loiacono, di buon mattino, era già bella e preparata. Le valige erano pronte dalla sera prima. Un ultimo saluto a quelle pareti che avevano ospitato per tanti anni le loro vite. Soltanto un disegno, dimenticato sul tavolo in cucina, avrebbe testimoniato il loro aggio. Scesero in silenzio giù in strada, alla

fermata del bus numero 1 che li avrebbe accompagnati alla stazione centrale della grande metropoli del Nord. Arrivarono alla stazione per tempo, il treno era già là ad aspettarli. Salirono sulla carrozza designata, scompartimento giusto, occuparono i loro posti e sistemarono il bagaglio. L’Intercity a lunga percorrenza collegava il Nord al Sud e tagliava l’Est dall’Ovest. Durante il tragitto si sarebbe fermato più volte per dare spazio ai modernissimi treni veloci. Mancavano dieci minuti alla partenza. Il treno era ancora fermo ad aspettare gli ultimi eggeri, era affollato e gelido. Antonino non s’era ancora tolto il piumino, mugugnava, ma non perché avesse freddo. “Chissà se a San Petra c’è una squadra di calcio,” disse guardando fuori dal finestrino. Adelaide avrebbe voluto continuare a fantasticare, ma le parole di Antonino attendevano una risposta. I suoi genitori erano persi dietro le loro preoccupazioni, toccava a lei acquietare il fratello. “Ma certo,” gli disse sorridendo. “La troverai di sicuro. Sei bravo, vedrai che faranno a gara per averti in squadra.” Era la prima volta che Antonino sentiva Adelaide fargli questo tipo di complimenti, in altri periodi sarebbe stato più sospettoso, ma in quel preciso momento aveva bisogno di essere rassicurato sull’unica certezza della sua vita. “Dici veramente? Ci sono le squadre di calcio al paese?” “Fidati di me Antonino,” disse Adelaide annuendo. “Il calcio in Italia esiste anche nei più piccoli paesi. E quindi anche a San Petra.” Il treno si avviò e Adelaide scrutò i volti dei genitori. Conoscendo il carattere responsabile e protettivo del padre era sicura che si stesse arrovellando il cervello con domande del tipo: Che lavoro farò? Il contadino? Piccoli lavori? Lei era certa che il padre avrebbe fatto di tutto pur di farli vivere degnamente. La madre invece, secondo Adelaide, era presa dalla preoccupazione per quei pochi mobili che già erano arrivati a San Petra. Qualche giorno prima l’aveva sentita parlare al telefono con una cugina alla quale chiedeva in che condizione era arrivato il mobilio. Condividevano lo spazio ridotto dello scompartimento con una coppia di anziani

coniugi. Adelaide aveva notato la donna portare l’indice al naso e guardare il compagno. Questi s’era zittito in un istante. In un secondo momento, Adelaide li osservò meglio. La donna aveva le mani conserte e uno sguardo severo che scrutava gli altri eggeri, mentre l’anziano signore sfogliava un quotidiano. In prima pagina c’era la foto di un disastro ferroviario. Il titolo dell’articolo diceva: “La montagna frana, treno deraglia. Molti feriti tra i eggeri.” Adelaide li osservò e un sorriso le si aprì sulle labbra. Aveva sempre quel sorriso quando cominciava a fantasticare. L’anziana coppia, taciturna e sospettosa, era venuta al Nord a far visita al figlio, abbracciare i nipoti che vedevano due volte l’anno e a portare dei regali per tutti. Ora faceva ritorno ai luoghi natii. Tra una fantasticheria e l’altra, un po’ di musica sparata dall’iPod, uno sguardo al paesaggio che scorreva dal finestrino, arrivarono a Bologna. I suoi genitori, glielo si leggeva in faccia, erano ancora alle prese con i loro tortuosi pensieri. Adelaide decise di porvi rimedio. “Papà,” disse, “adesso che non lavori più avrai certamente più tempo da dedicare a me e ad Antonino.” Il fratello annuì. “A San Petra,” aggiunse la ragazza, “potrai finalmente mettere a posto il frantoio del nonno di cui ci hai tanto parlato.” Marco fu come ridestato da quella parola, frantoio, a cui erano legati i ricordi della sua fanciullezza, e per un certo periodo era stato anche la fortuna della sua famiglia. “Certo il frantoio,” disse grattandosi il mento ispido. “Non potete immaginare che feste si facevano al paese durante la raccolta delle olive.” Sorrise e annuì soddisfatto da quei ricordi. Simona gli accarezzò la mano, poi sorridente si rivolse ai figli. “Sapete che vostro padre mi ha chiesto di sposarlo proprio lì, accanto al frantoio?” Marco si appoggiò la mano sulla fronte. “È vero,” disse, “l’avevo quasi dimenticato. Io e il frantoio abbiamo chiesto la mano di vostra madre.” Rise. “Allora io e Ade siamo due olive,” disse Antonino ridendo come un matto. “Io

nera e lei bianca, eh papà?” Finalmente si ride un po’,pensò Adelaide. E subito dopo le balenò per la testa uno strano accostamento. Il frantoio di San Petra poteva diventare come il pozzo del villaggio di Karim? Il centro dell’attenzione, l’orgoglio del piccolo paese? Suoni, incontri, profumi, feste, giochi e allegria proprio lì, al frantoio. Alcune ore dopo il treno fece una lunga sosta tra Firenze e Roma, per dare precedenza ai treni ad alta velocità, e tutti i eggeri, compresa la famiglia Loiacono, ne approfittarono per mangiare qualcosa. Nel primo pomeriggio l’Intercity era ormai alle porte di Roma, metà viaggio s’era concluso. Alla stazione Tiburtina scesero pochissime persone. La maggior parte dei eggeri era diretta verso Sud. Le porte si richio con quello sfiato malinconico che solo i treni hanno e la marcia ricominciò inesorabile. Il cielo plumbeo della partenza aveva subìto, lungo il tragitto, pochissime variazioni di tonalità. Mai l’ombra di una striscia di sole a confortare i viaggiatori. Uno strano silenzio si impadronì dei vagoni. Solo sbadigli, russamenti e mormorii. Anche Marco e Antonino si erano appisolati. Erano rimaste sveglie solo Simona e Adelaide. “Mamma,” disse Adelaide. “Come hanno preso la tua partenza i signori Negri? So che gli eri molto affezionata.” Lei sospirò. “Erano increduli, dopo quasi un vita trascorsa in casa loro!” disse. “Bianca mi ha abbracciata e aveva le lacrime agli occhi. Suo marito mi ha stretto la mano, e con voce commossa mi ha ringraziato per tutto quello che ho fatto per loro con amore e rispetto.” “Anch’io e le mie amiche abbiamo pianto tanto, mamma.” La ragazza rimase ad ammirare il paesaggio agreste dell’alta Campania intristito dalle nubi. Poi si voltò verso la madre ed esclamò: “Ma sai quanti vecchi soli e bisognosi ci saranno a San Petra, eh mamma?” Fece una strana smorfia con le labbra, quasi desse l’impressione di pensare, poi la sua voce sottile e insinuante aggiunse: “Nei piccoli paesi ci sono sempre tanti vecchi e pochi giovani. Chissà potresti ritrovare i tuoi coniugi Negri.” Simona non rispose. Adelaide chinò il capo verso il finestrino guardando distrattamente il paesaggio.

Vide gli inconfondibili pendii del Vesuvio. Quel gigante di pietra le si stagliava di fronte. Complice la musica rock-soft dell’iPod, si addormentò. Era sera quando le televisioni di tutta Italia trasmettevano un notiziario straordinario: la terra aveva tremato nel Sud. I danni al momento non erano quantificabili, era stata interessata la linea ferroviaria Napoli-Reggio Calabria e si parlava di un treno che aveva subìto delle conseguenze. Ma le notizie al momento erano scarne e tutte da verificare. Adelaide correva sotto un cielo limpido, il sole illuminava il suo splendido viso, il seno cresciuto era quasi d’impaccio. Era in ritardo. Chissà se sarebbe arrivata in tempo all’inaugurazione del vecchio e unico frantoio di San Petra. Sotto i consigli di nonno Antonio, il padre aveva lavorato sodo per rimetterlo a posto. Antonino aveva finito l’allenamento ed era già là in prima fila pronto a inorgoglirsi del lavoro paterno. Simona a quell’ora finiva l’assistenza domiciliare alla signora Regina, e avrebbe partecipato alla soddisfazione e alla gioia del marito materializzata nel rinnovato vecchio frantoio. Adelaide correva, sorrideva e immaginava il frantoio di Marco e il pozzo di Karim.

6. Il vicino di casa

Alba Giovanna Toresani

“Stramaledetta tapparella,” fece Chiara a denti stretti. La persiana si era fermata di nuovo a quindici centimetri dal davanzale. “Porca miseria!” sbuffò. Col dito della mano destra ancora sull’interruttore morto, Chiara si chinò a guardare fuori attraverso la fessura trasversale. Vide il tetto della palazzina di fronte e un rettangolo di cielo azzurro quasi grigio, illuminato da un sole pallido. Aprì la finestra. L’aria le arrivò fredda sulla faccia. Alzò il bavero del pigiama sul mento. Strizzò gli occhi in una smorfia di brivido. Inspirò. “Vado a correre.” Si scostò, richiuse la finestra e si diresse verso il bagno camminando obliqua. Il mobile basso, dal ripiano decorato con disegni geometrici, era troppo ingombrante per quella stanza. L’aveva scovato qualche mese prima tra varie cianfrusaglie in un mercatino dell’usato lungo la statale. Quel mobile le aveva ricordato le atmosfere delle case turche. In compenso il bagno era spazioso. Chiara accese il neon e si guardò allo specchio. Finalmente era riuscita a dormire tutta una notte di filata, e si vedeva. La pelle del viso aveva ripreso un colore vitale. Pallido, come sempre, ma più rosa che grigio. Non c’erano i soliti solchi intorno agli occhi che aveva quando non dormiva bene. Gli occhi nocciola e lucidi diventavano troppo piccoli dietro alle lenti. Le sopracciglia sottili si vedevano appena sotto quella frangetta folta e pesante. Fece uno sbuffo e storse la bocca. Non era mai soddisfatta di quello che vedeva allo specchio. Allungò il braccio per prendere un fermaglio dal cestino di vimini appoggiato sulla mensola, raccolse i capelli castani, che le scendevano dritti sulle spalle, e li legò. Si lavò gettandosi dell’acqua fredda sul viso con gesti brevi e veloci. Si asciugò tamponandosi con l’asciugamano. Si sfilò il pigiama e rimase un istante a guardare i seni nudi, bianchi, piccoli e tondi. Con le dita della mano destra si sfiorò i capezzoli ando da un seno all’altro. Chiuse le mani a coppa e con una leggera pressione percepì il loro turgore sotto i palmi. All'improvviso sentì un suono intermittente e stridulo. La sveglia. Scosse la testa, strizzò gli occhi come per ridestarsi da un’immaginazione e aprì il cassetto del mobile di fianco al lavandino. Prese il reggiseno, quello sportivo e lo indossò sotto alla solita maglietta bianca. Mise la tuta, la giacca antivento, le scarpe da corsa e uscì. Quando richiuse la porta dietro di sé, Chiara sentì qualcosa scrocchiare sotto lo

zerbino. Non era solita trascurare i dettagli. Si soffermò immobile per qualche istante, la mano destra ancora sulla maniglia della porta chiusa, lo sguardo verso il basso. Sentì dei i sulle scale. Attese lo scatto del portone d’ingresso e, certa di essere sola, si chinò in fretta a guardare di che si trattasse. Trovò una busta bianca, di quelle rettangolari con la finestrella trasparente. Dentro una chiave e un messaggio. La calligrafia era veloce, ma abbastanza leggibile. Diceva: Devo partire, ti lascio chiavi del mio appartamento. Per favore guarda il gatto. E poi qualche altro segno incomprensibile. Non c’era un nome in fondo al messaggio, diceva solo il tuo vicino. Da dietro la porta dell’appartamento di fronte, Condor, il cane della signora Affranti, prese ad abbaiare. Era un povero cane vecchio e malconcio che si agitava per ogni minimo rumore. Chiara non ci fece caso. Era rimasta lì impalata, con il biglietto aperto tra le mani, le sopracciglia aggrottate e una piega verticale che le tagliava la fronte. Non conosceva la persona che abitava nell’appartamento di fianco, non l’aveva mai vista. Non conosceva la sua voce né tanto meno il suo volto. Tante volte aveva fantasticato su quel suo misterioso vicino di casa. Aveva fatto delle supposizioni su di lui. Poteva essere un giovane studente che usciva presto la mattina per andare all’università e nel pomeriggio si manteneva lavorando in un bar. Oppure un signore anziano che trascorreva l’intera giornata presso il Circolo Ricreativo Stella. A volte se lo immaginava come un uomo di mezza età, celibe, con una discreta carriera nel campo del commercio. Di certo era un uomo. Quando pioveva c’erano sempre dei grossi mocassini marroni sul pianerottolo. Erano simili a quelli che aveva visto indossare a Riza quando era andata a trovarlo nell’inverno del 2012. S’infilò la busta nella tasca della giacca e scese le scale. Il profumo intenso di caffè, proveniente dalla Starcaf in fondo alla strada, le fece rallentare l’andatura. Chiara non beveva caffè, ma una volta un cliente gliene aveva regalata una confezione. L’aveva versato in un vecchio barattolo d’alluminio di quelli con la scritta CAFFÈ . Lo teneva lì. Non lo usava. Non ci faceva colazione. Non lo beveva dopo pranzo e nemmeno lo offriva agli ospiti. Non aveva mai ospiti. Ogni sera, quando rientrava dal negozio, apriva il barattolo, e con un movimento lento ci infilava la punta del naso. Chiudeva gli occhi e inspirava l’aroma di quella polvere scura. Inspirava profondamente finché il diaframma non ce la faceva più.

Prese la seconda rampa di scale e si ritrovò davanti alla signora Coletti, una vecchina vispa e impertinente. “Toh, guarda chi c’è!” disse la donna. “Buongiorno!” le disse chiara, “già di ritorno stamattina?” Era pressoché impossibile non incontrare la Coletti durante il giorno. La si poteva incontrare sulle scale ogni mattina con le borse della spesa, oppure nel pomeriggio mentre attraversava il cortile per andare a trovare la sorella più anziana nella palazzina di fronte. Verso sera poi si affacciava in vestaglia sul pianerottolo in cerca del suo gatto Gustavo, un vecchio siamese grigio. La Coletti si fermò su un gradino a riprendere fiato. Appoggiò a terra la borsa. Pane, latte e un flacone formato famiglia di detersivo. Si era piantata in mezzo alle scale e con una mano si lisciava i capelli bianchi raccolti in una crocchia dietro la nuca, mentre con l’altra si teneva appoggiata al corrimano. “Ti cercavo ieri, sai?” le dava del tu per via della giovane età. “Ti volevo dire che il corriere che aspettavi non è arrivato la mattina ma il pomeriggio tardi. Comunque il pacco te l’ho ritirato lo stesso, eh!” “Ah, già!” disse Chiara. “Il pacco. Mi spiace! L’ho tenuta in ballo tutto il giorno per quella cosa.” “Oh ma figurati, cara,” disse la signora, “che vuoi che sia.” “Le spiace se o dopo a prenderlo? La trovo a casa?” “E dove vuoi che vada? Sono sempre in casa. Da sola!” La Coletti aveva quattro figli maschi e tutti vivevano lontani. “Ma senti un po’ Chiara,” la donna le si accostò all’orecchio, “ma hai notato anche tu che la ragazza di Antonio non si vede più da qualche giorno, eh?” “Antonio chi?” fece Chiara. “Il siciliano piccoletto che sta sotto di me?” La Coletti ridacchiò. “Oh sì, sì, quello che parla sempre a voce alta,” si portò una mano alla bocca, “che gli sentiamo anche le telefonate, eh?” “Già!” Chiara sorrise.

“E se non fosse per lui, sarebbe proprio un condominio tranquillo il nostro, eh? Sapessi, io vivo qua da trent’anni! E ne ho viste io, sai?” La Coletti alzò un braccio e se lo portò all’indietro come per lanciare qualcosa dietro di sé. Aveva l’abitudine di accompagnare i suoi discorsi con ampi gesti. “Sta parlando di quella ragazza con tutti quei bei capelli neri?” Chiara aveva incontrato spesso la fidanzata del siciliano sulle scale. Le aveva sempre invidiato i capelli scuri e lucenti che le vedeva sobbalzare sulle spalle quando scendeva i gradini saltellando. “Oh sì, sì. Proprio quella!” La Coletti accostò le labbra all’orecchio sinistro di Chiara ed esplorò con la coda dell’occhio lo spazio intorno a sé, come per accertarsi che nessuno fosse nei paraggi. “Secondo me se n’è andata via eh?” “Non saprei,” fece la ragazza, “ma ora vado Signora Coletti.” Chiara aveva già un piede sul gradino successivo. “Dopo la corsa ho un sacco di cose da fare.” “Oh, ma certo!” disse la Coletti. “Scusami, eh.” Chiara era scesa di una rampa. “No, si figuri,” disse lanciata ormai fuori dall'ingresso. “Ci vediamo più tardi,” le urlò, “arrivederci”. Lasciò che il portone si richiudesse dietro di sé, percorse il vialetto tenendo la mano nella tasca per giocherellare con le chiavi. Trovò il cancelletto aperto. Il signor Marchionni, un pensionato che abitava al primo piano, rientrava dalla eggiata mattutina col quotidiano sotto il braccio. “Oh, Ciao Chiaretta! Te ne vai a fare la corsetta?” Il Signor Marchionni aveva l’abitudine di rivolgersi alla ragazza con un tono che lei spesso trovava canzonatorio. “Buongiorno!” disse Chiara. Il signor Marchionni era un signore sulla settantina. Alto, piuttosto robusto, la figura un po’ sgraziata. Le braccia penzolavano pesantemente lungo i fianchi costringendolo a tenere la schiena curva. Era rimasto vedovo un paio d’anni addietro e da allora Chiara aveva avuto la sensazione che le avesse messo gli occhi addosso. Non perdeva occasione per farle delle gentilezze. “Se hai ancora bisogno che ti porti le casse dell’acqua su, citofonami pure,” le

disse. “Grazie, ma ho smesso di comprare l’acqua in bottiglia,” disse Chiara. “La saluto adesso.” Aveva iniziato a corricchiare. “Buona corsa!” le urlò l’uomo. L’aria era umida e a breve la giacca antivento non le sarebbe più bastata a ripararla dal freddo. Correva. Nuvole di vapore le uscivano dalla bocca. Sentiva il battito del cuore che accelerava e i muscoli che si tendevano man mano che la corsa diventava più intensa. Le chiavi del vicino le rimbalzavano nella tasca. Si mise a pensare a lui. Siamo così vicini eppure non l’ho mai visto. Conosco i suoi grossi mocassini marroni che lascia sul pianerottolo quando piove, il profumo di cannella che d’estate proviene dalla sua cucina e il rumore dei suoi i. Poi nient’altro. Si era soffermata tante volte a osservare quei mocassini marroni sul pianerottolo. Più volte si era scoperta ad annusare l’aria per inspirare quell’odore di cannella. E ogni giorno, due volte al giorno, tendeva l’orecchio attratta dal rumore della serratura della porta accanto. La mattina, mentre faceva colazione e la luce inondava la stanza dalla finestra dietro le sue spalle. Quattro mandate per aprire e quattro mandate per chiudere. E la sera, mentre guardava la televisione e la lampada da lettura, accanto al divano, rischiarava la stanza con una luce gialla soffusa. Quattro mandate per aprire e quattro per chiudere. Allora le si fermava il respiro. Abbassava il volume del televisore e si soffermava a guardare verso la porta come se qualcuno la stesse chiamando. Tutte le volte era tentata di avvicinarsi alla porta, trattenere il respiro, scostare il cerchietto metallico dello spioncino e guardare fuori. Ma non l’aveva fatto. Lui se ne sarebbe accorto. Avrebbe sentito i suoi movimenti da dietro la porta. Mentre pensava a queste cose il respiro si fece più profondo e lungo. Le nike battevano sull’asfalto producendo un ritmo sordo. Mattino e sera. Quattro mandate aprono e quattro mandate chiudono quella porta. Decise di allungare il percorso. Le chiavi sobbalzavano nella tasca.

Era andata ad abitare in quel condominio di via Bramante per la prima volta nell’agosto del 2012. Il giorno in cui andò a vedere l’appartamento faceva così caldo che l’asfalto trasudava polvere e vapore. L’agente immobiliare aveva allentato la cravatta e risvoltato le maniche della camicia fin sopra i gomiti. Non aveva voglia di provare a convincerla e lei non ne avevo avuto bisogno. Il pino grigio al centro del giardino le aveva ricordato la casa dove aveva vissuto con la famiglia. E poi la strada era così silenziosa che certo non avrebbe avuto problemi a dormire la notte. Sentì le gambe farsi pesanti e rigide. Rallentò un po’ l’andatura. Rallentò ancora. Si fermò. Il cancelletto era aperto. Col respiro ancora affannoso ripercorse le scale. La signora Affranti era in cima alla terza rampa di scale e strattonava il guinzaglio del povero Condor con la mano destra. “Ieri pomeriggio qualcuno ti ha cercata,” disse senza salutare. Poi diede un secco strattone al guinzaglio e urlò: “Condor fermo!” “Ah, si?” fece Chiara appiattendosi contro la parete. Quel vecchio cane una volta l’aveva quasi morsa. “Sì, qualcuno ha suonato il tuo camlo più volte,” disse con un tono un po’ seccato l’Affranti. “Mmmh, non saprei,” fece Chiara distratta. Condor cominciava a dare segni di nervosismo. Tirava e ronfava. L’Affranti si lasciò trascinare in fondo alle scale. Chiara fu sul pianerottolo. Esitò. Gli occhi puntati sulla maniglia della porta accanto e poi di nuovo giù in fondo alla scala. Tirò fuori dalla tasca il bigliettino e lo lesse di nuovo: ti lascio chiavi del mio appartamento. Per favore guarda il gatto. Sentì lo scatto del portone d’ingresso e il ringhio di Condor in lontananza. Tolse la chiave dalla busta. Si guardò rapidamente attorno. Esaminò per qualche istante la chiave e la infilò nella toppa. Quattro mandate. Appoggiò la mano sulla maniglia. La abbassò. Tornò a guardare la scala. Spinse in avanti la porta pesante, entrò di traverso e la richiuse in fretta dietro di sé. Quattro mandate.

La stanza apparve luminosa. Dalle righe della tapparella di fronte filtravano dei raggi di luce polverosa che cadevano obliqui sul pavimento. Con la mano destra ancora sulla maniglia, si guardò attorno con gli occhi allargati per lo stupore. La stanza adibita a soggiorno-cucina era traboccante di mobili, oggetti, tappeti, cuscini e tendaggi dai colori caldi. La parete rosso alla sua sinistra era decorata fino al soffitto con motivi geometrici, dalle sfumature che andavano dal verde smeraldo all’oro. Lungo la parete c’era un divano angolare basso con i piedi di legno. Sopra una stoffa ricca di fantasie floreali e tanti cuscini finemente decorati. Ne aveva contati sette. Lo sguardo di Chiara si mise a riprendere la stanza come una cinepresa. Vide una credenza di palissandro, intagliato, con le ante a vetri. Le mensoline erano piene zeppe di piatti in ceramica, minuscoli servizi da tè, amuleti contro il malocchio, antiche argenterie e fotografie in bianco e nero. In una di queste una giovane donna alta, slanciata, con i capelli crespi e il naso aquilino, teneva per mano un bambino che se ne stava mezzo nascosto dietro alla sua gonna. Vide una lampada da terra, una finestra e un tavolino basso, ma la sua attenzione cadde sulla cucina. Sulla mensola sopra il piano di cottura c’erano vasetti e ampolline di varie dimensioni. Chiara si soffermò a leggere le etichette. Bastoncini di cannella, cannella in polvere, semi di anice, foglie di alloro, pepe nero, chiodi di garofano, coriandolo, cumino, curcuma, curry, aneto e zenzero. Prese il barattolo di vetro con la polvere di cannella. Lo aprì. Ne ispirò l’aroma dolce e legnoso. Si mise a ricordare. A ritornare a un anno prima. In un pomeriggio di fine dicembre, Chiara si trovava a Istanbul nella grande casa vicino al bazar di Fatih. La signora Banu, la mamma di Riza, stava lavorando al tavolo di legno che occupava il centro della grande cucina. Banu era una donna di altezza media come la maggior parte delle donne turche. Il viso era incorniciato da un velo bianco e il ventre tondo era fasciato da un abito lungo. Indossava i vestiti tradizionali. Le mani abili della donna modellavano delle palline di carne. Stava preparando le kofte, le tipiche polpette turche. Carne di agnello, verdure, uova e una montagna di spezie. All’estremità del tavolo il budino di riso pronto. “Manca solo una spolverata di cannella,” disse la donna guardando Chiara negli occhi. Lo sguardo della donna quel pomeriggio non era il solito. Mancava il modo di guardare di sottecchi, con la coda dell’occhio e la faccia immobile tipico di chi non si fida. Tante volte Chiara si era sentita guardare così dalla

mamma di Riza. Ma del resto lei era la ragazza occidentale del suo unico figlio maschio e un po’ poteva capire la diffidenza della donna. Non aveva mai interferito nella relazione tra lei e Riza. Di certo non l’approvava. La Signora Banu era una donna ancora molto ancorata alle tradizioni, ma anche riservata e non aveva mai espresso la sua opinione al riguardo. Riza era un ragazzo che frequentava veterinaria all’Università di Istanbul e che scendeva in piazza a protestare. L’aveva fatto molte volte in quegli anni. Contro la guerra in Siria, contro la legge che rimetteva il velo alle donne, al Gezi Park nell’estate del 2013. Mentre Chiara era immersa in questo ricordo, uno squillo rimbombò nella casa del vicino e la ridestò. Alzò di scatto la testa e tese l’orecchio. Secondo squillo. Spostò lo sguardo sulla porta e restò in ascolto. Terzo squillo. Fece cadere lo sguardo sull’apparecchio che divenne muto. Sentì il battito del cuore galopparle nel petto. Afferrò in fretta il barattolo di cannella in polvere e scappò via. Quando fu nel suo appartamento si sedette sulla sedia della cucina ad attendere che il battito cardiaco tornasse regolare. Avrebbe tanto desiderato una sigaretta ma aveva smesso da un po’. Da quando era iniziata quella storia del vicino d’appartamento, il ricordo di Riza non smetteva di ronzarle nella testa. Era l’ottobre del 2012. Chiara era in viaggio di lavoro. Il negozio di stoffe dove aveva iniziato a lavorare cercava novità per incrementare le vendite. Era periodo di disordini a Istanbul. In piazza Taksim Chiara era rimasta travolta da una folla di persone che urlava slogan agitando dei cartelli con le braccia alzate. Saranno state qualche migliaia. Riusciva ancora ad avvertire la sensazione di disagio che aveva provato quel giorno. La folla l’aveva spaventata. Un tipo alto e robusto con una barba incolta e occhi scuri l’aveva urtata. Urlava. Il volto deformato per lo sforzo. Imbracciava un cartello con disegnata a pennarello una croce nera e delle scritte rosso sangue. “Sorry!” fece lui distratto. Lei aveva pensato che quella poteva essere la persona giusta cui chiedere che stesse succedendo. Il suo inglese non era granché ma forse lui non ci avrebbe fatto caso. “Vogliono fare una legge per abbattere i cani che girano per la città e tutta questa

gente sta protestando,” aveva risposto lui. “Ah, siete tutti animalisti!” “Da sempre la gente di Istanbul convive con cani e gatti di strada, mai problemi.” “E ora cosa vogliono fare?” “Vogliono sopprimerli. Mettere ordine per le strade.” “Tutti quanti?” “Dicono che vogliono toglierli dalla strada e sopprimere quelli in eccesso.” Chiara aveva sgranato gli occhi. “Vogliono fare una strage!” Parlando di queste cose avevano finito col defilarsi dal corteo e lui l’aveva invitata a bere un tè turco. Voleva spiegarle come funzionavano le cose nella sua città. “Oh, no! Il gatto?” disse Chiara seduta nella cucina del suo appartamento. Prese il biglietto accartocciato nella tasca e lo rilesse a voce alta. Devo partire, ti lascio chiavi del mio appartamento. Per favore guarda il gatto. Chiara accantonò i ricordi e ritornò nell’appartamento del vicino. Premette l’interruttore della luce a sinistra della porta. Con l'illuminazione artificiale i colori dell’appartamento erano più caldi. Scostò i cuscini del divano, alzò la stoffa che lo ricopriva. Non c’erano gatti in quella stanza. Andò in la camera da letto, l’unica altra stanza della casa. Il gatto era lì, sul letto matrimoniale basso rivestito con un tessuto rosso. Quando si accorse della presenza di Chiara nella stanza, fece un balzo e andò a ficcarsi sotto al letto. Non aveva dimestichezza con gli animali domestici, anzi con gli animali in generale. Non ne aveva mai avuti. Tornò in cucina. Diede un’occhiata intorno. Sul pezzettino di pavimento tra il divano e la credenza vide la ciotola, la busta del cibo, la vaschetta dell’acqua e la lettiera. Cambiò l’acqua nella vaschetta, riempì la ciotola di croccantini, pulì la

lettiera. Si mise a sedere sul divano. I suoi pensieri era ancora rivolti a Riza. Quel pomeriggio dell’estate del 2013 Chiara non aveva mai avuto tanta paura. Riza lo sapeva che lei temeva la folla, ma aveva voluto portarla al Gezi Park. Lui la trascinava tenendola per mano. Camminavano tra le migliaia di persone di ogni età sedute per terra. C’era della musica rock nell’aria. Arrivava da un altoparlante sulla cima di un camion in fondo al parco. Alcuni battevano le mani, altri cantavano, altri urlavano slogan in coro. L’atmosfera sembrava calma. Qualche giorno prima era morto un ragazzo. Dall’altra parte della piazza la polizia era schierata in assetto di guerra di fronte ai giovani nelle prime file. Riza continuava a trascinarla. “Andiamo a raggiungere Binnur e Ayla.” Poi uno scoppio. La folla cominciò ad agitarsi. Tutti si alzarono, si guardarono attorno. Qualcuno cominciò a correre verso l’esterno del corteo e poi anche tutti gli altri. La folla si sparpagliò in modo confuso. Un altro scoppio. Riza la tirò con forza vicino a sé, la guardò negli occhi, le urlò che dovevano correre. In un attimo l’aria si riempì di un gas denso e maleodorante. Riza correva e lei dietro di lui col braccio teso e dolorante. Alcuni ragazzi erano per terra. Qualcuno veniva calpestato da quelli che scappavano. Qualcuno si fermava ad aiutare quelli a terra. Molti tossivano. Tutti si coprivano la bocca con fazzoletti o con le mani mentre correvano senza sapere dove. Chiara era terrorizzata. Riusciva a muoversi solo perché restava aggrappata con entrambe le mani al braccio di lui. Piangeva. Un altro scoppio. Ancora gas nell’aria. Urla, grida, spari. La musica non aveva smesso di suonare. Cercavano di allontanarsi il più possibile dal parco e dalla nube di gas. Sentiva i corpi delle altre persone su di sé. Alcuni la sfioravano appena, altri la spintonavano. Ma Riza continuava a tenerla per mano e la rialzava quando le capitava di cadere. L’aria odorava di gas lacrimogeni. Sopra le loro teste le pale di un elicottero fendevano l’aria. Quando finalmente giunsero in una stradina dietro Piazza Taksim, i poliziotti con i loro lacrimogeni erano ormai lontani. Sfiniti e senza fiato si lasciarono cadere a terra sull’asfalto rovente. Erano sudati fradici e sporchi. Chiara aveva i jeans stappati in vari punti e macchiati di sangue. Si accovacciò. Le braccia intorno

alle gambe e la testa tra le ginocchia, si lasciò andare a una crisi di nervi. Singhiozzava, batteva un pugno contro l’asfalto e continuava a ripetere che non ce la faceva più. Ogni volta che andava in Turchia a stare un po’ con lui, finiva col trovarsi in situazioni come quella. Quella volta, Chiara decise che non ci sarebbe tornata più. Lei non era coraggiosa, non aveva ideali, non aveva nessuno e nulla per cui combattere. Riza invece sì, amava il suo Paese e lo voleva cambiare. Chiara continuò ad andare nell’appartamento del vicino per quattro giorni di seguito. Ogni volta il grosso gatto arancione correva a rintanarsi sotto il letto. Ogni volta lei cambiava l’acqua nella vaschetta, riempiva la ciotola di cibo, puliva la lettiera e rientrava a casa sua. Questa era la vita tranquilla che voleva. Amava la routine della vita condominiale, le chiacchiere della Coletti, le gentilezze di Marchionni e persino il muso lungo dell’Affranti. Alle tre del pomeriggio del quinto giorno Chiara stava annaffiando il budino di riso con una montagna di cannella, secondo la ricetta della mamma di Riza. Il profumo riempiva la stanza e lei non aspettava ospiti. Qualcuno suonò alla porta. Alzò lo sguardo e restò immobile fino al secondo squillo. Posò il contenitore della cannella sul tavolo e con indosso il grembiule verde scuro andò alla porta. Scostò lo spioncino e vide un volto scuro deformato dallo specchietto concavo. Con quattro mandate lente aprì la porta. Si affacciò. Lo sguardo le cadde su un paio di grossi mocassini marroni. “Buongiorno, sono il vicino di casa.” Era un ragazzo vicino ai trenta, di altezza media, dal volto scuro e lo sguardo schivo. Chiara alzò lo sguardo. “Buongiorno.” “Sono tornato. Vengo a prendere mie chiavi e a ringraziare.” Chiara restò mezza nascosta dietro la porta, si ò le mani impolverate nel grembiule. “Prego, entri.” “Grazie,” fece lui senza guardarla negli occhi. “Io sono Chiara.” “Piacere, io Ahmet.”

Chiara indicò la sedia della cucina. “ Si accomodi.” L’uomo scostò la sedia, si mise a sedere, posò lo sguardo sul budino di riso e poi sul barattolo di cannella. “Conosco la Turchia,” fece Chiara. “Io sono venuto via da là pochi mesi fa. Non è buon periodo ora.” Lei gli porse le chiavi. “Lo so,” disse. Gli occhi del ragazzo si muovevano rapidissimi incapaci di soffermarsi in quelli della ragazza “Ci sono disordini contro il governo. Non piace questo governo a noi giovani turchi,” disse. Lei annuì. “Lo so,” disse di nuovo. “Non è più tornato nel suo Paese? Com’è ora la situazione?” “Ci sono stato in questi giorni. È morto un carissimo amico in uno scontro durante una manifestazione. Un ragazzo in gamba, quasi laureato in veterinaria, ma troppo visionario.”

7. Il raduno di Boscoscorta

Sergio Ragno

Stavo andando a velocità di crociera e mi gustavo il vento in faccia. Sentivo le mie piccole ali rosse a pois neri ronzare come il motore di una Harley Davidson. Quel giorno avevo messo su un bel paio d’occhiali Blue Butterfly e mi ero appena fatto fare un taglio tattico da Pina la Mantide. Avevo saputo che nel prato oltre il canale c’era un raduno di coccinelle gialle del nord e avevo tutta l’intenzione di fare colpo su qualche pollastra. Ero giovane a quel tempo, la mia nuova pettinatura e le mie Blue Butterfly mi facevano sentire più figo. Ero figo. Svolazzavo tranquillo a velocità moderata e già pregustavo il momento della grande abbuffata. Poi a un certo punto sentii alle mie spalle un fastidioso ronzio. Mi voltai per un attimo a guardare cosa stesse succedendo e vidi uno sciame di vespe che stava arrivando di gran carriera. “Cazzo!” mi dissi. “I soliti ragazzacci senza stile.” Accelerai. Cercavo di volare più veloce che potevo, ma le loro ali erano più potenti. Mi stavano ormai raggiungendo. La dura realtà è che nel mondo degli insetti le vespe sono più veloci e più grosse delle Harley Davidson. Era più saggio rallentare, magari ancora meglio fermarsi. Vidi un bel fiore violaceo e mi ci appollaiai sopra. La scelta del colore di un fiore è importante per mimetizzarmi al meglio. Le gazze da queste parti sono sempre in agguato. In questa zona, quegli odiosi pennuti bicromatici, fanno il bello e il cattivo tempo, in termini di catena alimentare. Aspettai su quel fiore che assero le vespe. E arono. Le sentii rombare sopra la mia testa con quel loro volare caciarone. Urlavano cose tipo: “Anvedi” “Li mortacci!” “A buzzicone!” ci volle un sacco di tempo prima che tutto lo sciame di cafoni asse e quando finalmente l’ultima vespa sgasò sopra la mia testa, mi voltai a guardare la lunga scia di puzzolenti idrocarburi che si erano lasciati alle loro spalle. Certa gente dovrebbe rimanere a casa propria. Alcuni istanti dopo una folata leggera e calda portò via l’odore nauseabondo che quella ciurma di zarri aveva disseminato nell’aria. Mi guardai un po’ intorno. L’aria era deliziosa e le cicale avevano intonato una canzonetta niente male. Uno di quei motivetti che ti rimangono attaccati alla bocca per tutto il giorno.

Sospirai e pensai di prendermela con calma. Visto che mi ero fermato, una bella scorpacciata di polline non ci stava male. M’infilai in una di quelle conchigliette di petali violacei e cominciai a ciucciare un po’ di succo. I petali erano piuttosto trasparenti. La luce di quella bellissima giornata rischiarava l’interno del fiore e pensai che tutto sommato non mi era andata poi tanto male. Avevo il tempo di rifocillarmi e riposare un po’. Era meglio essere in forma per le coccinelle gialle, quelle sono femmine nordiche e le nordiche, si sa, sono parecchio esigenti. Dopo aver mangiato mi sdraiai a pancia in su e incrociai le zampe all'aria. Presi uno stelo sottile e cominciai masticarlo per ingannare il tempo quando, all'improvviso, il cielo si oscurò di nuovo. “Cazzo!” dissi a me stesso, “non starà mica per cominciare a piovere?” Sentii un tuono arrivare da lontano e mi vedetti spacciato. Mi affacciai per capire se potevo trovare un riparo più adeguato. Quel fiore diafano e delicato si sarebbe disciolto con una sola goccia d’acqua. Ma quando alzai la testa vidi che sopra di me non c’erano nuvole, ma uno sciame di orribili calabroni. Erano più lenti delle vespe, ma facevano un rumore infernale e lasciavano dietro di loro un fetore di nafta. E non era tutto! Dietro i calabroni stava arrivando uno stormo di locuste che faceva il tipico rumore di quelle moto da cross. Le cavallette, naturalmente, erano molto più veloci dei calabroni. Arrivarono con lunghi balzi e con una certo disprezzo superarono quei puzzoni di calabroni. Erano tutti diretti nel prato oltre il naviglio. Cominciavo a chiedermi cosa stesse succedendo in quel prato quando, senza neanche accorgermene, fui sorvolato da una miriade di libellule luccicanti. Sembravano tante fate da come volavano. C’è poco da fare, le libellule hanno veramente classe. Una di loro, nel suo incedere leggero e regale, mi ò vicinissimo. “Ehi amica,” le urlai, “sai cosa sta succedendo laggiù?” La libellula si voltò con tutta la sua nobiltà. “C’è il grande raduno del Boscoscorta,” disse. “Il raduno del Boscocosa? E che cos’è?” “È un grande raduno dove si fa musica, si balla e si fa il bagno nei papaveri.” “Ah!” dissi annuendo come una coccinella di mondo. “E ci sono anche le

coccinelle gialle?” “Non sono ancora arrivate, ma ci saranno. Ne abbiamo superato uno sciame piuttosto cospicuo mezz'ora fa!” La libellula riprese il suo volo e aggiunse: “Ci vediamo al Boscoscorta allora.” “Ci vediamo là,” dissi agitando la mia zampina, “Sicuro com’è sicuro che i miei puntini sono neri!” Bene, pensai, non mi restava altro che aspettare le coccinelle gialle allora. Attesi per un po’. Vidi are mandrie di grilli, stormi di farfalle di ogni colore e coleotteri delle più svariate specie. Vedevo il prato del Boscoscorta pullulare d’insetti. Si sentiva la musica rock e le grida di tutti quanti, ma di coccinelle gialle non se ne vedeva neanche l’ombra. Mi ero messo comodo sul mio fiore viola e guardavo al di là del canale invidiando tutti quegli insetti che si divertivano come matti quando, a un certo punto, sentii uno strano odore nell’aria, e istintivamente volsi il mio sguardo verso sud. All’epoca ero giovane e la mia vista da quel fiore poteva vedere fino a Pavia. Scrutai l’orizzonte senza vedere niente di particolare, anche se continuavo a sentire quell’odore più intensamente di prima. Mi strinsi nelle ali e m’immersi nel mio fiorellino viola. Feci una breve ciucciatina di miele, ma quell’odore che sentivo mi aveva rovinato l’appetito. Misi le antennine fuori e mi levai con le zampine sopra un petalo quando, proprio da sud, vidi arrivare uno stormo di gazze che veniva proprio nella mia direzione. Nella fretta caddi a pancia all’aria. Mi sentii spacciato, ma poi vidi le gazze sorvolare il mio fiorellino. Tirai un sospiro di sollievo e quando l’ultima gazza mi ò sopra la testa, mi arrampicai di nuovo sul petalo e sbirciai fuori. Lo stormo delle gazze era piombato sul prato. Ci fu il panico, con stridii di vespe, frinire di grilli e varie altre urla di tutte le specie. Fu una vera e propria mattanza. Qualcuno riuscì a scappare, ma i più furono mangiati, sgusciati e spolpati senza pietà. La cosa durò cinque minuti. Appena le gazze ebbero finito se ne tornarono verso sud. Rimasi incredulo. Avrei potuto esserci anch’io in quel prato. Il cuore mi batteva forte. Mi lasciai scivolare giù per il petalo e mi adagiai sulla polpa del fiore. Non so quanto ci rimasi so solo che quando mi decisi a uscire fuori vidi arrivare lo sciame di coccinelle gialle all’orizzonte. Le salutai. C’erano alcune femmine che mi guardavano con occhi pieni di lussuria e questo mi fece dimenticare le gazze e tutte il resto. Un paio di loro mi fecero persino l’occhietto. Mi scrollai le ali e mi tirai su. Mi misi comodamente sul petalo del fiore viola con le gambe incrociate e un filo di

paglia in bocca. Quelle due che mi avevano adocchiato, con una mezza dozzina di amiche si fermarono sul mio fiore. Si sa, le ragazze del Nord sono sempre attratte dai ragazzi meridionali. Una di loro si appollaiò sul mio petalo. “Sai dov’è il Boscoscorta?” mi disse. “Abbiamo saputo che c’è un mega party di insetti.” “Il Boscoscorta?” dissi masticando il mio ramoscello con nonchalance. “Siete arrivate tardi.” Guardai verso il prato e aggiunsi: “È già tutto finito. Però se volete nel prato da dove vengo i miei amici stanno organizzando una festicciola. Una cosa solo tra noi coccinelle. Niente calabroni intorno, né grilli per la testa.” Le ragazze si lanciarono occhiate sbattendo le lunghe ciglia, poi una di loro chiese: “E dove sarebbe questo prato?”

8. L'antologia

8.1 Come nasce

Lo Zero rappresenta il caos nasce un po' per caso. Nasce da sei sconosciuti che probabilmente non si sarebbero mai incontrati se non fosse stato per la comune curiosità per la scrittura. Chi genitore, chi impiegato, chi studente, chi maestra, chi lavoratore, tutti han preso la stessa decisione: partecipare al corso di Scrittura narrativa organizzato da Fondazione per Leggere. Una sera d'ottobre queste sei persone si sono presentate in una saletta della biblioteca, all'interno del castello Visconteo di Binasco. Con la guida di Sergio Ragno settimana dopo settimana la pagina bianca non era più qualcosa di cui avere paura. Mese dopo mese il racconto di ognuno ha iniziato a prender forma, una piccola antologia ha iniziato a prender vita, prima in versione cartacea e ora in versione digitale.

8.2 Il titolo

"In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti." Il castello dei destini incrociati, Italo Calvino Ne Il castello dei destini incrociati, Italo Calvino utilizza i tarocchi per costruire la narrazione. Le carte principali sono i 22 arcani maggiori, ventidue elementi che a seconda delle combinazioni possono cambiare il significato di una divinazione, o nel caso di Calvino di una storia. Tra queste la carta n.0, che riporta raffigurato Il Matto, viene dato il significato del disordine. Gli autori di questa antologia sono un po' come la carta de Il Matto. Da zero, attraverso il disordine del processo creativo, hanno originato il caos: Lo Zero rappresenta il Caos.

8.3 Gli autori

Valeria Campana Nata il 07.05.1977 a Milano, dove vive con la sua famiglia. Laureata in lingue e letterature straniere, nel 2008 diventa mamma e apre un blog, considerandolo di gran lunga meno costoso dell'analista. Da allora collabora con diverse redazioni online scrivendo di maternità e prima infanzia, ma anche di libri e luoghi belli per famiglie. Dopo aver affollato il primo cassetto del suo comodino di racconti, sogni e storie varie, decide di frequentare finalmente un corso di scrittura. Il racconto Un bravo ometto nasce proprio da quest’esperienza. La trovate in rete sui principali social come Robedamamma. Blog personale: www.robedamamma.it - Indirizzo mail: [email protected] Alba Giovanna Toresani Nasce a Pavia il 19.02.1972 e vive a Binasco. Si diploma all’Istituto Magistrale di Pavia nel 1990 e nel giro di quattro anni, all’età di 22, si ritrova inconsapevole ad occupare una cattedra come insegnante di scuola primaria. La ione per lo studio e per le discipline umanistiche la spinge a frequentare il corso di laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia dove si laurea nel 2008. La laurea resta un desiderio realizzato ma sceglie di continuare ad essere una maestra. Apionata fin da bambina di lettura e di storie, approda alla scrittura quando la biblioteca del paese propone un corso di scrittura narrativa. Da qui nasce Il vicino di casa, il suo primo racconto. Nero Gatto Alias di Anna Pellegatta, nata in provincia di Milano il 31.08.1968, dove vive tutt'ora. Da sempre apionata d'arte e fotografia, nonostante gli studi tecnici, nel 2000 inaugura l'atelier Elix Art dove dipinge porcellana, vetro e stoffa. Approda alla scrittura assolutamente per caso: una locandina invita a partecipare a un corso di scrittura narrativa e si inscrive. Nasce così La gabbia,

racconto d'esordio. Simona Gervasoni Nasce a Milano nel 1988. A dieci anni le regalano un diario segreto, inizia ad annotare i suoi pensieri. Cresce nel capoluogo lombardo, studia e lavora. La scrittura è per lei un punto fisso, che coltiva più per se stessa, finché non decide di partecipare a un corso di scrittura. Pubblica così La cena, il suo primo racconto. La trovate in rete con il suo blog personale Mi metto a dieta. Nadia Milani Nata a Milano nel 1962. Dopo più di 20 anni di professione in ambito informatico, ha deciso di rallentare i ritmi di lavoro e dedicare più tempo alla famiglia. Da sempre ha nutrito il desiderio di sperimentare capacità nuove. A questo scopo, ha approfondito nel tempo la ione per fotografia e pittura. Nell’ultimo anno ha approfittato dell’occasione di frequentare il corso di scrittura narrativa, avventurandosi nella narrazione di un personaggio dal carattere antitetico rispetto al suo, protagonista di Una bella giornata. Carmine Cascella Nato a Napoli il 17.01.1959. Studia al Liceo Scientifico V. Cuoco di Napoli. Dal 1982 vive e lavora a Milano. Apionato di letteratura, filosofia, antropologia e saggistica. Il corso di scrittura narrativa gli ha dato la possibilità di scrivere il racconto: Il pozzo e il frantoio. Sergio Ragno Nato a Napoli nel 1969, ma vive attualmente a Milano. Laureato in Mediazione linguistica con una specializzazione in cultura anglo-americana, conduce corsi di scrittura creativa basati sulle tecniche narrative del Gotham's Writer Workshop, che lui stesso ha avuto modo di frequentare presso la New York University. Ha tenuto il corso di scrittura narrativa che ha dato vita all'antologia, contribuendo con il racconto Il raduno di Boscoscorta. Deborah Henking

Nata a Milano il 29.09.1979, ha ato i primi dieci anni della sua vita in Italia, per poi trasferirsi a Manchester, in Inghilterra, dov’è rimasta fino al 2011. Attualmente vive a Milano con la sua famiglia. Laureata in lingue, ama lavorare con i bambini sfruttando anche l'arte e la creatività. Ha sempre disegnato, fin da piccola, forse proprio grazie a una mamma pittrice. Da quando anche lei è diventata mamma, ha iniziato a ritrarre i suoi bimbi nelle loro piccole avventure di ogni giorno e si è specializzata nella creazione di biglietti di auguri personalizzabili per le occasioni speciali. Predilige lo stile fumetto, ma si apre volentieri anche a nuovi stili ed esperienze, come nel caso di quest’antologia. Le sue creazioni sono raccolte sulla pagina Facebook: Madebyus. Indirizzo mail: [email protected]

Ringraziamenti

Un ringraziamento speciale va a Sergio Ragno. Senza di lui nessuno degli altri sei autori probabilmente si sarebbe lanciato in questa avventura.

Ringraziamo Fondazione per Leggere per aver organizzato il corso, e il Comune di Binasco per aver messo a disposizione la saletta della biblioteca e di averci dato la possibilità di presentare la nostra antologia al pubblico.

Ringraziamo Deborah Henking per aver collaborato con noi, rendendosi disponibile a creare le illustrazioni e la copertina dell'ebook.