Luca Alessi
Caos
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Indice dei contenuti
INTESTAZIONE PROLOGO CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 CAPITOLO 5 CAPITOLO 6 CAPITOLO 7 CAPITOLO 8 CAPITOLO 9 CAPITOLO 10 CAPITOLO 11 CAPITOLO 12 CAPITOLO 13 CAPITOLO 14 CAPITOLO 15 RINGRAZIAMENTI
CONTATTI
INTESTAZIONE
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono prodotti dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in maniera fittizia. Ogni somiglianza a eventi, luoghi o persone reali, vive o morte, è del tutto casuale.
PROLOGO
Correva l’anno 1994 quando Luis Queen e Ann Mcnish si conobbero nella galleria d’arte di Talon City. I due si innamorarono al primo sguardo. Fu un vero e proprio colpo di fulmine: Ann rimase affascinata da Luis per la sua vena artistica di pittore e Luis fu conquistato dalla semplicità e bontà d’animo di Ann. Così dopo pochi mesi i due si sposarono. Tutto filava liscio come l’olio, la relazione andava a gonfie vele e la felicità regnava in casa Queen; arrivati a un certo punto della loro vita decisero che era ora di avere un figlio, purtroppo per loro sfortuna scoprirono che entrambi erano sterili. Si affidarono a numerose cure anche sperimentali, ma tutto sembrava vano. Allora un giorno Luis decise di adottare un bambino. Così ne parlò con sua moglie e la scelta fu condivisa. E così si affidarono ad un’agenzia per le adozioni, che dopo un lungo iter burocratico li indirizzò presso l’orfanotrofio Kambridge, gestito dalle suore Domenicane. E da quel giorno la giovane coppia ebbe un nuovo membro nella famiglia, il piccolo Nicholas Queen…
CAPITOLO 1
Vent’anni dopo ... Era Sera, nella contea inglese di Devon, precisamente a Talon City; soffiava il vento tipico di inizio novembre e la luna piena illuminava il maestoso paesaggio montano. Talon City era una piccola cittadina di montagna che contava al massimo un centinaio di abitanti. Le abitazioni erano tutte baite in legno. L’unica casa che appariva diversa dalle altre era quella dei coniugi Queen: una gigantesca villa in pietra simile a un castello medievale, circondata da alte mura dall’aspetto imponente; anche le sale non erano da meno, ampie ed eleganti. Tutto sembrava un paradiso in terra. Purtroppo la tranquillità esteriore della casa non corrispondeva alla vita dei famigliari Queen. Per l’ennesima volta Nicholas aveva fatto infuriare il padre per il suo comportamento negligente nel cercare un lavoro; Nicholas era il tipico ragazzo ribelle, sempre contro corrente e con ideali talmente bizzarri da indurre i genitori sull’orlo di un esaurimento nervoso, come quella volta in cui dipinse l’automobile del padre con una bomboletta spray come un Murales, oppure quando prese a martellate il vecchio stereo di casa perché difettoso. Nicholas era un ragazzo molto alto, timido e introverso, a volte soggetto a sbalzi d’umore e attacchi d’ira, aveva capelli neri, occhi azzurri e viso minuto e grazioso. Luis e Ann, sapevano che prima o poi avrebbero dovuto chiamare uno psicologo a causa del comportamento violento del figlio, ma li bloccava la paura di vederlo soggiornare in qualche manicomio. Nicholas si rinchiuse in camera da letto, ed esclamò con tono furioso: “Non voglio seccature! Lasciatemi in pace! Io non desidero lavorare! Punto!”. Intanto Luis tentando invano di aprire la porta chiusa a chiave della stanza del
figlio, gli disse con tono calmo, ma allo stesso tempo deciso: “Beh se entro fine mese non ti trovi un lavoro sarò costretto a sbatterti fuori di casa!”. Dopo il breve battibecco il padre fece un cenno di dissenso e pensò tra sé e sé che era stufo di quella situazione, camminò verso le scale che portavano al salone e lì trovò la moglie Ann con aria triste e pensierosa, appoggiata al muro a braccia conserte: “Luis questa storia non può andare avanti così…”, esclamò la donna, e il marito con tono rassegnato fece un sospiro malinconico. Si diresse verso la sala di pittura; lì vi ava gran parte delle sue giornate a dipingere quadri di grande valore, riuscendo così in parte a sfogare le sue preoccupazioni per il figlio. Luis era un uomo alto di bella presenza con capelli color nero corvino, occhi neri e carattere piuttosto introverso, al contrario della moglie Ann (bionda con gli occhi azzurro cielo); che era molto estroversa; conosciuta da tutti nella cittadina di Talon City per la sua personalità vivace e allegra; non perdeva mai l’occasione per fermarsi con i anti e fare quattro chiacchiere e frequentare il circolo del golf. Ann si sedette su una sedia con sguardo vitreo a fissare il vuoto e a sorseggiare whisky, dopo pochi secondi osservò la bottiglia e vide che ne aveva consumata quasi la metà, così decise di riporla nel massiccio mobile dei liquori, mettendola dietro agli altri per non destare sospetti. Ad un tratto udì una voce debole che le indicava di recarsi verso la scala, e lei intimorita e frastornata dalle ingenti quantità di alcool ingerito si diresse verso il luogo indicato dalla strana voce; senza accorgersi scivolò dalla scala e cadde a terra. Luis all’ udire un improvviso tonfo, gettò il pennello a terra e si alzò di scatto per correre nella direzione del suono: “Hey tutto bene? Ann? Nicholas?”. Luis arrivò sul posto e vide la moglie a terra dolorante e ubriaca: “Tutto bene amore? Che è successo?”, e la donna con tono sordo e distorto: “Luis non ci crederai mai, una voce mi ha indicato di andare verso la scala, quando ad un certo punto sono inciampata e boom!”.
Il marito al sentire la versione della moglie, la guardò con aria furiosa, ma allo stesso tempo preoccupata: “Ma quale voce? E’ la tua mente che ha creato la voce! Tu hai bevuto, sei ubriaca!”, e le diede uno schiaffo. Lei con tono mortificato: “Ma io giuro di averla sentita! Giuro… io…”. “Zitta!” esclamò il marito: “Devi stare zitta!”, e la colpì di nuovo. Intanto il figlio era in camera sua che ascoltava la musica, ignaro di quello che stava accadendo di là. Durante la litigata il marito scosse il capo e chiese scusa alla moglie per averla offesa e lei: “Luis, ma che ti sta succedendo? Questo è il primo schiaffo che mi hai dato in tutti questi anni di matrimonio, non ti ho mai visto così, che ti succede?”. Luis con tono tremante: “Lasciami stare!” e salì le scale con o deciso per andare nel corridoio che portava alla camera da letto. La camera dei coniugi Queen era molto raffinata: i muri avevano una tappezzeria color rosso, il pavimento era in parquet, e i mobili in legno massiccio, con una specchiera enorme, per via della vanità della moglie che lo utilizzava spesso per scegliere il vestito più consono alla giornata; il letto era sfarzoso, con baldacchino e sponde in legno, il tutto illuminato da un grosso lampadario con cristalli. Luis si levò i vestiti e si sdraiò sul letto, improvvisamente la porta della camera da letto si aprì da sola e Luis rimase di sasso e impaurito; ma era la moglie che l'aveva aperta senza entrare in stanza. Ann entrò con il capo basso: “Amore mi prometti che non alzerai più le mani?”. “Promesso. Ma come mai hai aperto la porta e non sei entrata subito?” chiese Luis.
Ann rispose: “Eh ma come non lo sai? Porta male accompagnare la porta!”. “Ehm amore, sicura di stare bene? Da quando hai queste fisse?”, esclamò il marito con il viso accigliato. “Eh non so amore – yawn – ho un sonno…” rispose la moglie. “Vieni dai che ti coccolo un po’”, esclamò Luis e si ritrovarono abbracciati fino ad addormentarsi l'uno stretto all'altro. Arrivò il mattino, Luis si svegliò grazie alla sua sveglia un po’ bizzarra che gli aveva regalato sua nonna paterna: un orologio a forma di gallina color oro che beccava il camlo ad ogni ora; si alzò, si lavò e scese sotto in cucina per prepararsi la colazione. Come ogni mattina accese la tv per sentire il notiziario del telegiornale e le prime parole che sentì, catturarono subito la sua attenzione: “Ma ora iamo alla cronaca, strani omicidi a Talon City, dove è stata trovata morta in circostanze ancora da chiarire la famiglia Lock...”. Quella notizia drammatica fece venire a Luis brividi di paura. Successivamente finita colazione andò nella sala di pittura, quando a un tratto sentì squillare il telefono… Era il suo migliore amico Frederick. Frederick era un uomo di media statura, con capelli castani e occhi color nocciola, indossava sempre un berretto da baseball per nascondere la sua calvizie che lo sorprese già all’età di 25 anni. “Hey, ciao Luis! Che ne dici se oggi andiamo a pescare?”, disse Frederick. “Sì, ottima idea tanto oggi non sono ispirato per dipingere!”, gli rispose Luis con tono felice, ma allo stesso tempo ancora sconvolto per la tragica notizia in tv. “Ok, dieci minuti e sono da te!” esclamò l’amico. Venti minuti dopo Frederick arrivò con il suo massiccio fuoristrada blu scuro e i due amici si avviarono verso il posto di pesca.
Intanto a casa Lock, le indagini sul presunto omicida continuavano; arrivato sul posto lo sceriffo Rudolf si trovò davanti una baita come tante, con l’unica differenza che era contornata dal nastro per segnalare le zone di omicidio. Rudolf Maier era un uomo assai robusto con baffi neri e occhi verdi e accento tedesco marcato. “Allora, uomini, come procedono le indagini?”, domandò lo sceriffo con tono autoritario. “Molto male signore, non vi sono segni di sparo né di lame da taglio. L’unica cosa che ci è balzata subito agli occhi è stato l’enorme buco in mezzo al petto, sembra quasi una bruciatura che attraversa tutto il corpo. Ogni vittima è morta col medesimo metodo e a tutti è stato strappato il cuore…”, asserì Frank. “Chi ha avvisato la polizia?” chiese lo sceriffo. “Non lo sappiamo signore, abbiamo ricevuto una chiamata anonima, sappiamo già il luogo in cui è stata effettuata: un telefono pubblico qui nelle vicinanze, ma la voce era camuffata”, affermò uno dei poliziotti presenti. “Avete informazioni sull’ora del decesso?”, domandò Rudolf. “Sì, il medico legale afferma che il delitto è avvenuto tra le due e le quattro di notte, ma lo sapremo con certezza tra qualche giorno”, dichiarò Frank. Frank Murphy era un giovane poliziotto con capelli castani e occhi neri, fisico atletico e carattere molto intraprendente, prese servizio presso la polizia di Talon già all’età di 20 anni, era il miglior tiratore del distretto. “Oddìo, mi chiedo quale uomo possa commettere simili atrocità!”, si chiese lo sceriffo con un nodo alla gola. “Ah a proposito ogni cadavere è come se fosse stato marchiato a fuoco: vi è uno strano simbolo, simile a due lettere V incrociate…” asserì il poliziotto. “Molto bene, darò un occhiata là dentro” disse lo sceriffo. Così lo sceriffo entrò nella casa. Aprì la porta e all’istante si sentì avvolto in un’atmosfera spettrale; dopo aver deglutito proseguì giungendo fino al salone, in
cui trovò l’intera famiglia ammassata, i corpi gli uni su gli altri. Improvvisamente vide dalla finestra due occhi gialli che lo scrutavano, subito afferrò la pistola con la mano tremolante e corse verso la finestra per aprirla, la aprì di scatto e la misteriosa figura balzò dentro casa, lo sceriffo preso dal panico gli sparò due colpi: “Bang bang!”. Frank e altri due uomini che erano fuori, sentiti gli spari, corsero subito in aiuto del paffuto sceriffo. “Rudolf! Oh merda!” urlò preoccupato Frank. Quando entrarono i tre poliziotti videro Rudolf riverso per terra che ansimava: “Era un mostro alato con occhi gialli!”, precisò Rudolf; al vedere lo sceriffo, Frank scoppiò a ridere. “Rudolf non vedi che è una civetta? E’ solo una civetta! Guarda che non si beve in servizio!”. “No, ti dico che era un mostro, era bruttissimo” asserì lo sceriffo ancora sconvolto per l’accaduto. Frank aiutando Rudolf ad alzarsi notò subito il viso pallido dell’uomo: “Tu hai bisogno di una vacanza!” disse Frank. “Può darsi…” rispose Rudolf. “Bene ora controlliamo di sopra, non si sa mai!”, esclamò Rudolf. “Ma signore, abbiamo già controllato noi!” precisò Mike. “Beh, un'altra ispezione non fa mai male”, e così lo sceriffo salì su per le scale di legno, che scricchiolavano ad ogni o che faceva l’uomo. Una volta saliti al piano si trovarono in un corridoio con pareti rivestite di carta da parati rosa e pavimento in marmo nero. Ad un tratto si sentì un rumore proveniente dalle mura. Rudolf fece cenno ai suoi uomini di andare verso il misterioso suono, quando scoprirono che proveniva da dietro il mobile. “Presto spostiamo l’armadio e vediamo cosa c’è dietro”, disse lo
sceriffo. Rimosso, si trovarono una robusta porta in legno massiccio. Rudolf cercò di aprirla invano, ma era chiusa. “Maledizione!” esclamò Rudolf con rabbia. Così cercò di sfondarla; una volta riuscito nell’impresa vi entrò e notò che non vi era neanche uno sprazzo di luce, ma solo quel rumore incessante. Rudolf incuriosito prese in mano la torcia e la pistola e la puntò nella direzione del suono, quando vide davanti a sé un ragazzo imbavagliato e legato a una sedia. Lo sceriffo accorse subito verso il ragazzo per liberarlo: “Chi sei? Chi ti ha rinchiuso qua dentro?!” chiese con decisione lo sceriffo. “Mi chiamo Jimmy Lock signore, e i miei genitori adottivi mi hanno rinchiuso qua dentro per punizione”, asserì il ragazzo. “Chiamala punizione, ti hanno imprigionato!”, disse Rudolf. Ad un tratto Mike si avvicinò a Rudolf bisbigliandogli nell’orecchio: “Rudolf, credo che dovremmo dirgli dei suoi genitori…”. “Ah sì!” esclamò Rudolf con tono imbarazzato. “Senti ragazzo, non so come dirtelo, ma i tuoi genitori sono stati assassinati… mi dispiace tanto…”. Il ragazzo al sentire quella notizia rimase imibile, non una parola, non una lacrima: “Ah”, disse con tono freddo e testa bassa. Lo sceriffo rimase stupito da tanta freddezza e la mente cominciò a viaggiare su mille pensieri: “Che sia stato il ragazzo? No, come poteva essere lui? Era rinchiuso là dentro… accidenti che casino, non riesco a venirne a capo!”. Intanto Mike vedendo lo sceriffo così preoccupato gli si avvicinò con
discrezione. “Hey Rudolf tutto bene? Ti vedo strano”, domandò Mike. Lo sceriffo emise solo un respiro e lo guardò negli occhi, poi successivamente si diresse verso l’uscita; intanto arrivarono altri poliziotti che presero in custodia il ragazzo e lo portarono in centrale. Uscito dalla casa lo sceriffo, decisamente sconvolto per l’accaduto, decise di andarsene, quando nell’istante in cui cercò di salire sul fuoristrada, Frank gli si avvicinò con aria preoccupata: “Rudolf dove vai?”. “Ti ho preso in parola, mi prenderò una vacanza, cambiare aria mi farà bene, affido a te il caso, mi raccomando Frank!” disse Rudolf. “Ma Rudolf sei sicuro che io sia l’uomo giusto?”, domandò Frank. “Certo Frank! Hai dimostrato più volte di avere fegato! Non posso dimenticare quella volta che mi salvasti durante la sparatoria alla drogheria di John! Credetti di morire! Poi sono vecchio per queste cose…”. Frank rimase senza parole di fronte alla grande responsabilità che gli veniva affidata, e non disse nulla; fece solo un cenno di assenso, seguito da un sospiro carico di preoccupazione. “Bene Frank buona fortuna, ci vediamo!”. Così lo sceriffo partì, lasciando Frank di stucco: “Cosa avrà fatto spaventare così Rudolf? Possibile che una civetta incuta questo timore?”, pensò il giovane, ignaro dei guai che di lì a poco sarebbero capitati, e ritornò dai suoi compagni per continuare l’indagine.
CAPITOLO 2
Intanto in centrale Jimmy Lock fu sottoposto ad interrogatorio. I poliziotti gli ponevano domande sull’accaduto e su possibili dissidi tra i genitori e il vicinato; sfortunatamente però il ragazzo non fornì alcuna risposta plausibile per la risoluzione del caso e successivamente fu consegnato agli zii perché si prendessero cura di lui. Prima di lasciare la centrale, uno degli agenti ricordò a Jimmy di ricontattare la polizia nel caso gli fosse venuta in mente qualche informazione importante. Nel mentre, Frank, sconvolto per le parole di Rudolf, diede inizio alle indagini: “Bene uomini ripulite il posto, io faccio un po’ di domande in giro” disse Frank dirigendosi verso la prima casa vicina alla villa dei Lock. “Bene, mettiamoci al lavoro, andiamo a sentire questi vicini”, pensò Frank. E così bussò alla porta del vicino chiamato Wholes… Gli aprì la porta un uomo dal viso cagionevole e sguardo vitreo. “Buongiorno polizia di Talon, posso farle qualche domanda?” esclamò Frank mostrando il suo distintivo. “Ma certo” rispose l’uomo un po’ intimorito. “Che tipo di rapporto aveva con la famiglia Lock? Sa se aveva qualche problema con qualcuno?”, domandò Frank. “No, guardi, non frequentavo la famiglia Lock; siamo rimasti in buoni rapporti di vicinato, ma nulla di più e riguardo alla seconda domanda non saprei proprio risponderle… ma perché mi fa queste domande? E’ successo qualcosa?” chiese il vicino. “Purtroppo i due coniugi sono stati assassinati barbaramente e non abbiamo alcun indizio che ci possa fornire dettagli sull’accaduto” esclamò Frank
imibile. L’uomo reagì con estremo sgomento e manifestò tutto il suo dispiacere per quel tragico evento. “Avete udito o visto qualcosa di strano nei paraggi?”, chiese Frank. “No, le finestre della casa sono chiuse per via del freddo e non abbiamo sentito nessun rumore sospetto”, rispose l’uomo sempre più preoccupato per l’accaduto successo a pochi i da casa sua. “Va bene… buona giornata signor Wholes, e se le venisse in mente qualcosa, non esiti a contattare la polizia”, disse il vice sceriffo dopo aver salutato l’uomo. Frank interrogò tutti i vicini di casa ma non trovò nessun indizio utile per risolvere il caso e così sconsolato ritornò in centrale. Arrivato a destinazione, salutò i suoi colleghi e raggiunse il suo ufficio; si sedette sulla sedia della sua scrivania e incominciò a pensare… Ad un tratto il trillo del telefono lo fece sobbalzare: “Pronto signore, sono Mike, dovrebbe venire a vedere qua all’orfanotrofio Kambridge, è urgente!”. “Cosa è successo?”, domandò Frank. “Non c’è tempo per le spiegazioni, signore!”. Frank senza pensarci un attimo afferrò le chiavi del fuoristrada e si avviò verso l’uscita per salire a bordo del suo veicolo. In pochi minuti il poliziotto fu in marcia. Nel frattempo Frederic e Luis erano arrivati al lago Yantar, un lago enorme munito di piccolo porto per ormeggiare le barche. Il lago era gestito da un circolo di pesca privato, di cui erano soci da diversi anni. Arrivati nella baita per effettuare i pagamenti per la giornata di pesca, con gran stupore trovarono alla cassa un ragazzo al posto del proprietario: era il giovane Ray Myers, figlio adottivo del proprietario, che li accolse con molta gentilezza. “Ciao Ragazzi, mezza giornata, o giornata completa?”, domandò Ray.
“Giornata completa!”, dissero i due nello stesso momento; così Ray strappò i due biglietti dal piccolo raccoglitore. “Ray, ma tuo padre che fine ha fatto?”, chiese Luis incuriosito mentre Frederick scrutava la rustica baita. “Ah papà si è beccato l’influenza, sapete è sensibile ai cambi di stagione”, rispose il ragazzo rassegnato; sapeva già che avrebbe dovuto sostituirlo per molti giorni finché non fosse guarito. Intanto Luis prese i biglietti e uscì. “Va bene Ray, allora salutamelo quando torni a casa, ok?”. “Certo Luis, buona pesca, ah a proposito, stamattina mi sono arrivati due quintali di salmoni, Buon divertimento!”, esclamò Ray. “Bene!”, disse Luis. I due uomini presero l’attrezzatura di pesca per raggiungere la barca di Luis. Luis mise in moto e salparono per arrivare in mezzo al lago, in cerca di un punto favorevole per la pesca. “Bene! Io direi di attraccare qui, che ne pensi Frederick?”, domandò Luis. “Sì, qua è ottimo” rispose l’amico. I due iniziarono la battuta di pesca, quando Frederick si accorse che Luis non stava prendendo nemmeno un pesce. “Hey, che ti succede?”, domandò Frederick. “Niente, sono solo sfortunato stamattina, ecco tutto!” ribatté Luis. “No, sfortunato un corno! Non hai visto nemmeno un’abboccata, sicuro di stare bene? Mi sembri depresso, qualcosa non va?”, rispose a tono Frederick. “No Fred, è tutto ok, sono solo preoccupato per mio figlio, ultimamente ha un comportamento strano, non mi dà mai ascolto, né a me né a Ann. Sai, credevo che al compimento dei 18 anni avrebbe acquisito un briciolo di maturità, ma mi
sbagliavo, è ancora lo stesso bambino di sempre, capriccioso e irascibile; in più oggi anche mia moglie, esasperata, si è messa a bere e a sentire le voci… povero me! Ho una famiglia disgraziata” disse Luis con tono affranto. “Mi spiace molto per tuo figlio, credimi, però scusa se te lo dico, ma non hai mai pensato di consultare uno psicologo? Sai, magari potrebbe dargli una mano a indirizzare questa sua rabbia interiore verso qualcosa di più costruttivo…”, esclamò Frederick. “Beh, sinceramente io e mia moglie ci avevamo già pensato, però abbiamo paura che lo rinchiudano in qualche ospedale psichiatrico: non mi piacerebbe per niente!”, rispose Luis. Ad un tratto i due furono interrotti dal suono della sirena della polizia. “Accidenti speriamo che non sia nulla di grave, dal paradiso che era questa cittadina, è diventata un inferno!”, disse Frederick. “Già spero proprio non ci siano stati altri omicidi”, esclamò Luis con tono preoccupato. Nello stesso momento in un’altra zona di Talon city Frank arrivò all’orfanotrofio, trovando i suoi colleghi sconcertati! “Allora Mike che succede?” domandò Frank. “Un altro terribile omicidio signore! Le suore sono state tutte assassinate alla stessa maniera di casa Lock, con un foro nel petto e le due V incrociate sulla fronte; però sono stati risparmiati i bambini signore, il medico legale afferma che il decesso è avvenuto non più di un’ora fa”. “Molto strana come cosa”, esclamò Frank toccandosi il mento. “Perché l’assassino ha lasciato in vita i bambini? Qual è il movente? E l’arma del delitto?”. Erano molti gli interrogativi che affollavano la mente di Frank, e che lo lasciavano sconcertato. “Ah dimenticavo signore, la donna delle pulizie che per prima ha visto la scena del delitto e ci ha avvisati è già in caserma; era sotto shock” disse Mike.
“La capisco, sarà stato un duro colpo per lei” rispose Frank. “Eh già, comunque signore se vuole seguirmi…” disse Mike mostrandogli la strada verso la scena del delitto. Mike guidò Frank all’interno dell’orfanotrofio, fino alla sala della madre superiora; la scena era molto simile a quella di casa Lock: i corpi delle suore erano ammassati gli uni sugli altri, una di loro aveva sul volto un’espressione di paura che faceva rivivere i momenti dell’assassinio: gli occhi erano sbarrati e la bocca spalancata per il terrore, come se stesse gridando e chiedendo aiuto mentre le mani erano congiunte al suo crocifisso, forse in segno di protezione. Mentre Frank scrutava ancora il volto di quella giovane suora, gli squillò il cellulare: ebbe una strana sensazione, un presentimento negativo… “Frank, dovresti venire a casa, c’è tua madre che sta poco bene!”, disse il badante. “Oddio! Aspetta Gomez arrivo subito!”, esclamò Frank. “Che mattinata di merda!”, pensò l’uomo. “Ragazzi, devo andare, ho un’urgenza!”, disse Frank con tono sbrigativo. “Frank, dove vai?”, disse Mike. “C’è mia madre che non sta bene!”. Così Frank salì immediatamente sul fuoristrada proprio nel momento in cui scoppiò un violento nubifragio. Durante il tragitto Frank per poco non si scontrò con un’altra auto a causa della ridotta visibilità, rischiando così di non arrivare a casa. La madre di Frank, Melanie Watson, era una donna sulla cinquantina con capelli castani, occhi marroni e viso roseo, vedova del marito Julian Murphy, morto in un incidente d’auto all’età di quarant’ anni. Nonostante fosse paralizzata da molto tempo per una grave caduta, Melanie era una donna con sempre il sorriso sulle labbra. Frank a causa del suo lavoro molto impegnativo era sempre fuori casa e per questo aveva assunto un badante: Gomez Freis. Gomez era un omone di due metri, calvo e dalla carnagione olivastra, dal carattere servizievole, sempre vestito elegante e amante dell’ordine e della pulizia; aveva preso servizio in casa Murphy quando le condizioni di Melanie si
erano aggravate. Arrivato sul posto Frank parcheggiò il fuoristrada a casaccio e suonò all’impazzata il citofono e Gomez accorse subito ad aprirgli; una volta entrato si trovò il badante impietrito che lo fissava… Frank corse subito su per le scale: “Mamma! Mamma! Arrivo!” disse Frank spaventato. Entrato nella stanza della madre la trovò in stato semi dormiente sul letto, e si avvicinò per parlarle. “Mamma tutto bene?”, domandò Frank. “Scappa figlio mio, quello vuole ucciderti… scappa, scappa!”, disse la madre con un filo di voce. Successivamente Frank vide sul comodino un flacone di veleno, che era dello stesso colore del sacchetto della flebo. “Oh no! Merda!”, esclamò il figlio in preda al panico; tentò di strappare dal braccio della madre la flebo, quando vide riflesso dal vetro del quadretto del comodino di sua madre una losca figura, che in un batter d’occhio lo afferrò da dietro il collo con una presa potente. Frank colto impreparato si spinse contro il muro per liberarsi dall’assalitore, e si girò per vedere chi fosse; stupito si trovò davanti Gomez che lo fissava con aria beffarda, brandendo un coltello da cucina. L’uomo prese subito la pistola ma Gomez con un calcio gliela buttò in terra, e si avventò contro di lui. Frank si scansò e il coltello affondò nel materasso della madre. Gomez furioso si lanciò di contro di lui, ma il poliziotto si buttò a terra per raggiungere la pistola, caduta vicino all’ armadio. Allora Gomez con prontezza gli fermò la mano con il piede. Frank con le gambe libere, fece uno sgambetto a Gomez che cadde a terra ridacchiando diabolicamente. L’uomo prese allora il coltello e si avventò sul badante che lo bloccò prontamente; le due forze si contrapponevano. Frank spingeva il coltello verso il collo e Gomez tentava di respingere l’attacco verso di lui, fino a quando il badante con una sovrumana forza riuscì a scaraventare il coltello e a buttare per terra Frank, che ne rimase stupito. Il badante si precipitò immediatamente contro Frank, ma stavolta egli riuscì a prendere in mano la sua pistola prima dell’assalto di Gomez, e... “Bang! Bang!”. Due colpi raggiunsero l’ampia fronte di Gomez
che cadde a terra esanime, emettendo un gemito di sofferenza. L’uomo rimase fisso per qualche secondo con la pistola in mano e il sudore che gli grondava dalla fronte. Poi guardò il cadavere del suo assalitore con stupore: “Gomez, che ti è preso? Che cosa sta succedendo in questa città?”, si domandò tra sé e sé Frank con tono incredulo e spaventato, e si diresse verso la madre morente. “Mamma mi spiace, se fossi arrivato prima io…”, disse Frank con un nodo alla gola e gli occhi lucidi per la disperazione. “Non ti preoccupare figlio mio, non potevi fare nulla; quando ho capito che qualcosa stava andando storto, mi sono trovata legata sul letto: quel disgraziato deve avermi dato prima un sonnifero e poi mi ha avvelenato… non mi resta molto da vivere”, esclamò Melanie con tono di voce flebile e morente. “Mamma, ti porto in ospedale, farò il possibile per salvarti!” disse l’uomo con tono disperato. E così prese la madre in braccio e scese per le scale trovandosi davanti alla porta i vicini incuriositi dal boato degli spari. “Signore tutto bene? Abbiamo sentito degli spari! Oddio cosa è successo alla signora Watson?” chiese una donna in mezzo alla folla; intanto la pioggia batteva dirompente sull’imibile viso di Frank, impietrito e sconvolto da quello che era appena successo. “Signori questa è zona di indagini, tornate pure nelle vostre case, andate via!” disse Frank con tono infastidito dall’orda di curiosi che incombeva vicino casa sua. Successivamente accomodò la madre sul sedile eggero e corse all’ospedale in preda alla disperazione, incrociando le dita nella speranza che la sua sfortunata madre si salvasse. Arrivato davanti all’ingresso dell’ospedale, si trovò la cabina della guardiola e la sbarra chiusa, suonò il clacson e sfondò la sbarra spaventando così la guardia,
che partì all’inseguimento di Frank. Il vice sceriffo arrivato davanti all’entrata aprì la portiera del grosso fuoristrada e prese la madre in braccio ormai ciondolante, esanime, entrò nel pronto soccorso e si trovò l’infermiera della reception: “In cosa posso esserle ut…” disse la ragazza impietrita chiamando subito il dottor Wilson, che arrivò prontamente con una barella e una équipe di medici pronti per la sala rianimazione. “Non ti preoccupare mamma andrà tutto bene sei forte lo so, ce la farai, lo sento!” disse Frank con tono disperato mentre inseguiva l’équipe di medici diretti alla sala rianimazione. “Signore deve aspettare fuori, abbia pazienza” disse l’infermiera facendo segno con i due palmi delle mani rivolti verso l’uomo. Frank acconsentì con un cenno e si sedette su una delle gelide panchine metalliche. L’Ospedale di Talon non era certo un bell’edificio, si respirava un’aria di profonda tristezza, le pareti color ocra e il pavimento con piastrelle bianche e nere disposte a scacchiera non trasmettevano di certo buon umore. Frank era avvolto da mille pensieri, gli omicidi di Talon lo avevano scosso profondamente e ora ancor di più vedendo sua madre in fin di vita. “Gomez, chi lo avrebbe mai detto che eri un pazzo psicotico, eri così gentile e premuroso con mia madre, perché hai tentato di ucciderla, perché? Cosa ti ha indotto a comportarti così?” pensò Frank stropicciandosi il viso, in ansia per il responso del dottore. Dopo diverse ore si sentì il rumore di una porta aprirsi, seguito da dei i. Era il Dottor Wilson che con aria seriosa si avvicinava a Frank: “Guardi abbiamo fatto il possibile, ma il veleno ormai ha fatto collassare tutti gli organi interni, compreso il cuore, non c’è più niente da fare, l’assassino deve aver usato un veleno molto potente, tra qualche ora sapremo l’esito dell’esame tossicologico, mi dispiace molto signore” disse il dottore con tono basso. All’udire quella notizia Frank rabbrividì e molti dei momenti di vita trascorsi assieme alla madre gli arono davanti.
“No non ci credo! Voglio vedere mia madre!” disse l’uomo urlando. “Signore non c’era più nulla da fare, è ato troppo tempo dall’ avvelenamento, mi creda abbiamo fatto il possibile, ora si calmi!”, esclamò il dottore. L’uomo corse subito verso la sala di rianimazione e trovò la madre senza vita e i medici attorno con sguardo di pietra. “Mamma, mi dispiace tanto, se solo fossi stato più presente, tutto ciò non sarebbe accaduto” sussurrò Frank nell’ orecchio di Melanie. Successivamente l’uomo si calmò e fu portato fuori dalla stanza da due infermieri. “So che sarà dura, ma devo occuparmi delle indagini, gli omicidi di questo assassino non devono rimanere impuniti!” disse Frank nella sua mente. Quando il vice sceriffo uscì dall'ospedale il cellulare cominciò a squillare, Frank lo estrasse dalla tasca e vide che sul display compariva il nome di Mike, e rispose: “Pronto Frank, allora come sta tua mamma?”, chiese Mike. Frank per un attimo non rispose, e si stropicciò il viso in segno di disperazione: “E' morta Mike, il badante l'ha uccisa...”, e le lacrime iniziarono a scendere. “Oh Cristo, mi dispiace molto Frank... condoglianze”. Silenzio di tomba. “Lì all'orfanotrofio avete scoperto qualcosa?”, chiese Frank con tono basso. “No nulla, solito metodo di uccisione e soliti simboli incisi sul corpo... che sia il badante di tua mamma l'assassino che stiamo cercando?” affermò Mike. “No Mike lo escludo categoricamente, mia madre è stata avvelenata e non ho trovato incisioni sul corpo. Devo dire che nell’eventualità non dovessero esserci più omicidi della stessa tipologia, il caso verrà archiviato per mancanza di prove,
movente e assassino. Per ora l'unico colpevole possibile può essere solo Gomez Freis. Io comunque torno a casa mia per indagare ancora, avvisi tu la scientifica e l'obitorio che c'è un cadavere da prelevare?”. “Certo Frank… beh allora ti saluto, buone indagini!”. “Grazie Mike...”.
CAPITOLO 3
Frank, ancora triste per la scomparsa della madre, ritornò a casa sua. Davanti al cancello si era riformato un gruppo di curiosi, accorsi dopo l’accaduto; Frank si arrabbiò molto vedendo che le sue parole non erano state ascoltate: “Cosa ci fate ancora qui? Non potete sostare! E’ zona di indagine. Se vi vedo ancora davanti alla mia proprietà vi faccio arrestare!”. Finalmente la gente, intimorita dalla minaccia, si dileguò. Il poliziotto entrò in casa e salì le scale per giungere nella stanza da letto trovando ancora Gomez per terra. La scientifica e Mike non erano ancora arrivati per prelevare il cadavere, avevano da sbrigare il lavoro all’orfanotrofio. Si avvicinò al corpo dell’uomo e vide che sul petto aveva marchiato a fuoco un simbolo con tre allori rossi disposti a cerchio; iniziò dunque a frugare bene nelle tasche e trovò una grossa chiave di ottone. “Questa dev’essere la chiave della sua stanza personale, vado a controllare subito”, disse l’uomo fortemente curioso. Così si incamminò verso la stanza del badante nel garage sotto casa. Aprì la massiccia porta in legno e trovò davanti a sé la camera di Gomez che in apparenza non destava alcun sospetto: l’arredamento era in stile antico e alle parenti di colore beige erano appesi quadri raffiguranti battaglie medievali e dragoni. Il vice sceriffo controllò i cassetti del comodino, trovando solo numerose riviste di giardinaggio, una lente di ingrandimento, delle penne stilografiche e delle matite. Vedendo che non vi era nulla di importante, esaminò il letto e la scrivania, e anche lì non trovò niente di rilevante; poi la sua attenzione fu colpita dall’armadio. L’uomo lo aprì di scatto e vide solo vari vestiti; stava per chiudere le ante
quando i suoi occhi caddero su una piccola scatola metallica sul fondo dell’armadio con quattro lucchetti a combinazione numerica. “Curioso, mi domando cosa nasconderà questa scatola per avere tutti questi lucchetti deve essere un tesoro inestimabile, chissà magari è pieno di monete d’oro! Diventerò ricco!”, Frank per un attimo evase con la mente fantasticando un po’. Le indagini erano iniziate da poco, ma la tensione già lo pervadeva in tutto il suo corpo: sapeva che doveva essere calmo e avere sangue freddo, per raggiungere il suo obiettivo; era la prima volta che eseguiva un’indagine completamente da solo e non voleva sbagliare nulla. Frank tentò invano numerose combinazioni, senza riuscire mai ad aprire la scatola, quando preso dall’ira la gettò per terra. “Cazzo! Non ce la farò mai!”, disse l’uomo; tutto sembrava perduto quando ad un tratto ebbe un lampo di genio. Frank era apionato di videogiochi e si ricordò che per aprire una serratura a combinazione, simile a quella che aveva lui tra le mani, il protagonista del videogame aveva usato uno stetoscopio. Il meccanismo era lo stesso e così preso dall’entusiasmo corse verso il bagno dentro casa rovistando nell’armadietto dei medicinali e lo trovò. Rientrando nella stanza di Gomez, si avvicinò alla scatola metallica e appoggiò lo stetoscopio vicino alle varie serrature, concentrandosi sui vari suoni metallici degli ingranaggi. La prima serratura fu sbloccata, successivamente la seconda, poi la terza e infine la quarta. Frank aprì lentamente la scatola e quando il coperchio giunse a fine corsa, una risata diabolica accompagnata da un tuono rimbombò dentro la stanza, l’uomo si spaventò a morte ma poi con calma e sangue freddo continuò l’esplorazione e vi trovò un libro privo di copertina: “Bene vediamo di cosa tratta”, mormorò l’uomo con tono basso. Una volta infilati i guanti aprì il libro e rimase sbigottito, tutte le pagine erano scritte in una lingua incomprensibile: “Merda e ora come faccio?”, disse l’uomo. Ripose il libro nella bustina di plastica e lo appoggiò sulla scrivania lì vicino. Il poliziotto studiò attentamente la scatola e vide che all’interno di essa vi era un’altra scatola più piccola con un'altra combinazione numerica; l’uomo si mise subito all’opera.
Frank stava sondando con lo stetoscopio i vari rumori metallici per rilevare la combinazione quando venne colto da una paura improvvisa di risentire la risata diabolica, ma subito con uno scossone della testa si riprese, pensando che doveva concentrarsi sulle indagini. La paura lo avrebbe distratto troppo e lui non poteva permetterselo, dal momento che erano morte diverse persone in quella maledetta mattina. “Bene ci siamo! Siano lodati i videogiochi!”, disse Frank con un mezzo sorriso stampato sulla faccia. E davanti a se si trovò un ciondolo con una pietra rossa incastonata, che lo lasciò sbigottito. Ripose la collana nell'apposito sacchetto e lo posizionò vicino al libro. Frank compì un'altra ispezione senza trovare nulla di importante. Finalmente, qualche minuto dopo arrivò il medico legale accompagnato da alcuni agenti di polizia. Uno di loro si avvicinò a Frank chiedendo informazioni dell'accaduto e lui gli spiegò come erano avvenuti i fatti e come si era dileguato da Gomez. Così gli addetti dell'obitorio trasportarono via il cadavere. Il vice sceriffo salutò gli agenti e consegnò le prove alla scientifica per esaminarle, montò in macchina e partì per ritornare in centrale. Arrivato lì, trovò l’intero edificio deserto, non vi era anima viva, a parte la recluta Victor Johnson, un ragazzo molto timido e introverso, dall’aspetto fragile, con corpo snello, capelli neri e occhi castani, che stava spazzando per terra. “Buongiorno signore!”, disse il ragazzo un po’ impacciato. “Oggi non è affatto un buongiorno Vic!”, esclamò Frank con tono agitato, lasciando a bocca aperta la recluta che ci rimase male per il comportamento del neo-vice sceriffo. “Allora Vic, ci sono notizie di Mike e gli altri? Hanno scoperto qualcosa all’orfanotrofio?”, chiese Frank. “No signore, li ho sentiti mezz’ora fa e non c’è nessun indizio che faccia intendere chi è l’assassino”, rispose la recluta. “Maledizione, abbiamo a che fare con un vero professionista!” ribatté Frank. Il vice sceriffo si incamminò verso il suo ufficio e si sedette nella sua comoda
sedia imbottita, pensando e ripensando alle prove che aveva trovato. Frank rimase quasi un'ora a meditare battendo i polpastrelli sulla scrivania, e decise di alzare la cornetta e chiamare la scientifica per avere notizie di quanto appena trovato. Al telefono gli rispose Tom Knight, l’addetto al telefono della scientifica, che a malincuore dovette dargli una risposta negativa su eventuali indizi. Quando Frank abbassò la cornetta, cominciò a pensare a come trovare una soluzione, decidendo di effettuare una ricerca online, per rintracciare uno storico che potesse aiutarlo con i reperti trovati e a decifrarli. E lo trovò: Mick Wall, uno storico nella vicina cittadina di Lone City. Così chiamò nuovamente Tom per avvisarlo che sarebbe ato di lì a poco per riprendere gli oggetti; uscì dalla stanza e si incamminò verso l'uscita. “Vic io vado fuori città, fammi sapere se ci sono novità”, disse Frank. “Certo signore!”, ribatté Vic contento di rendersi utile in qualche maniera. Frank prese gli oggetti in questione e andò verso Lone City. Arrivato a destinazione, si accorse che il nubifragio iniziato da qualche ora stava finendo e dalle nuvole sbucava un timido sole di novembre che illuminava maestoso il fuoristrada di Frank. L’uomo si addentrò in un dedalo di vie ma fu costretto a scendere a piedi a causa dei viottoli stretti che consentivano il aggio solamente ai pedoni. Il piccolo quartiere in cui si trovava la via aveva un aspetto gotico: i muri di pietra sembravano chiudersi su di essi talmente erano stretti. Frank si munì di navigatore e con molta pazienza riuscì a trovare il domicilio dello storico. “Bene, eccoci qua! Speriamo ne sia valsa la pena farsi tutta questa strada a piedi, magari riesce a darmi una mano!”, mormorò nella mente l’uomo. Frank trovò davanti a sé un maniero in pietra, che assomigliava a un castello medievale. Con suo grande stupore, invece di trovare un normale citofono, trovò una camla e la suonò. Ad aprirgli la porta fu il maggiordomo: “Buongiorno, desidera?”.
“Sono il vice sceriffo Frank Murphy, della cittadina di Talon, sto svolgendo delle indagini riguardo ad alcuni omicidi avvenuti stamane; avrei bisogno dell'aiuto del signor Wall, sarebbe possibile incontrarlo ora?”. “Sì, è in casa, gli riferisco subito quanto mi ha detto”. Il poliziotto attese qualche minuto, e poco dopo vide ritornare il maggiordomo che lo fece entrare. Entrando nel maniero Frank colse un’atmosfera d’altri tempi: i candelabri, invece di normali lampadine, avevano candele per illuminare il corridoio, grandi arazzi raffiguranti paesaggi montani con trama color rosso erano appesi alle pareti di pietra antica. Un lungo tappeto rosso con i bordi dorati percorreva il corridoio anch’esso in pietra. Alla fine del corridoio il maggiordomo aprì il portone del salotto e fece entrare l’uomo, “Prego signore”, disse il maggiordomo con tono galante. Il soggiorno dello storico lasciò Frank di sasso: era maestoso e ricordava perfettamente la grande sala di un maniero antico, tappezzata di arazzi e vecchie armature lucidate e disposte ordinatamente in riga. In mezzo vi era un grande tappeto bordeaux ricamato con vari disegni al suo interno; circondato dal divano, aveva forma di semicerchio, e al fondo della stanza vi era un grosso camino con il fuoco che faceva scoppiettare la legna. Tutto intorno alla sala vi era una immensa libreria con un terrazzo che era raggiungibile tramite una scala di legno a chiocciola. Mick Wall, un signore già di una certa età, dai capelli brizzolati e una lunga barba sotto gli occhiali, era seduto sul divano che leggeva un libro e sorseggiava del whisky: “Salve signor Murphy, sono incuriosito dalla sua richiesta di aiuto”, esclamò lo storico con voce tenebrosa. “Salve ho qui con me questo libro, di cui la lingua mi è ignota, e ho anche questo ciondolo antico, di cui non conosco la provenienza”, disse Frank porgendogli i due oggetti. Mick prese in mano il libro e lo scrutò attentamente tentando di capire a quale epoca storica fosse appartenuto e quale ne fosse lingua.
“Guardi signor Murphy, sarò schietto con lei, la lingua in cui è stato scritto questo libro non l’ho mai vista prima d’ora; ha una vaga somiglianza con il russo, ma non è russo, non saprei proprio come aiutarla”, disse Mick con il volto accigliato, mentre si strofinava il mento con grande stupore. “Capisco, non si preoccupi”, esclamò Frank con un tono consolatore. “Bene controlliamo anche il ciondolo… è molto rovinato comunque a giudicare dallo stile sembrerebbe del dodicesimo secolo, quindi piena epoca medioevale, ma non riesco a dirle di più per il momento. Non si scoraggi signor Murphy, adesso provo a fare una ricerca bibliografica, sa magari da lì qualcosa potrei scoprire; se non ha obiezioni io mi metterei subito all’opera, però mi ci vorrà del tempo. Appena saprò qualcosa mi farò vivo io non si preoccupi”, disse Mick con un mezzo sorriso vittorioso. “Le pare, faccia pure, è lei l’esperto in materia! Ecco prenda, questo è il mio numero di telefono, mi chiami quando avrà delle notizie interessanti. Grazie infinite signor Wall, a presto!”, esclamò Frank. “Arrivederci signor Murphy, stia bene!”, disse lo storico con voce alta. Frank uscì dalla stanza e fuori la porta di ingresso trovò di nuovo il maggiordomo ad attenderlo; i due si salutarono e Frank uscì dalla tenuta, imboccando di nuovo quella via claustrofobica.
CAPITOLO 4
Frank si voltò per un momento per ammirare ancora una volta il maniero di Mick e poi riprese il cammino in quella via stretta e buia; si spaventò quando vide una megera seduta a lato della via che lo fissava con uno sguardo vitreo. A Frank, guardandola negli occhi, gli si gelò il sangue. Quella signora incuteva timore e per un attimo rimase paralizzato, urtando contro un ante: “Hey, sta’ attento, guarda dove metti i piedi”, esclamò l’uomo che stava camminando nella stessa direzione. Frank scosse il capo, si riprese e si avviò verso il fuoristrada che era sul ciglio della strada, montando dentro. “Bene, torniamo in centrale, vediamo se sono tornati i ragazzi!”, disse Frank dirigendosi verso la strada che portava a Talon City. Arrivato in centrale Frank trovò tutti i suoi colleghi alle loro scrivanie, compreso Mike che si stava avvicinando: “Ciao Frank, scoperto qualcosa?”. Frank sospirò per un attimo: “Forse potrebbe essere Gomez Freis l’assassino; sai, l’aver tentato di uccidere me e mia madre… tutti gli indizi mi fanno pensare che sia stato lui l’esecutore di questi spietati omicidi e poi quel simbolo che gli ho trovato sul petto, è molto simile a quello trovato sugli altri cadaveri.”. “Sì Frank come deduzione non mi sembra errata, ma non abbiamo prove che sia stato lui, perché non è stata trovata ancora l’arma del delitto e inoltre non ci sono persone che possono testimoniare, né in casa Lock, né all’Orfanotrofio Kambridge” ribatté Mike. “Comunque sia, spero di aver seguito la pista giusta Mike!”, disse Frank.
“Cioè, spiegati meglio!”, disse Mike. “Ho trovato nella stanza personale di Gomez un ciondolo e un libro antico: chissà magari possono darmi una mano nelle indagini. Per tenerle così sotto chiave certe cose significa che sono tesori inestimabili oppure nascondono qualche segreto. Appena avrò notizie dallo storico saprò di sicuro qualcosa al riguardo!”. Mike fissò per un attimo il vice sceriffo guardandolo con aria compiaciuta senza dire una parola. “Ora se vuoi scusarmi voglio stare un po’ solo!”, disse Frank dirigendosi nel suo ufficio. Entrato dentro, il vice sceriffo si sedette, guardò il quadretto con la foto di sua madre e si mise a piangere, poi prese in mano il telefono e ordinò una pizza. Era già l’ora di pranzo: la fame cominciava a farsi sentire, nonostante la tensione che aveva in corpo. Dieci minuti dopo Vic bussò alla porta portandogli la pizza tanto desiderata. “Grazie Vic!”, disse Frank con un tono di voce schietto e sincero. “Oh si figuri signore, per lei questo e altro!”, rispose la recluta che si voltò e uscì dalla stanza. Frank mangiò la pizza con molta tranquillità senza pensare alle indagini ma la quiete non durò molto: il suo cellulare iniziò a squillare. Alzata la cornetta, sentì una voce flebile e sommessa: era il maggiordomo dello storico Mick Wall. “Signor Murphy aiuto, vogliono uccidermi, aiuto, aiuto!”. “Chi vuole ucciderti? Pronto! Pronto!... che cavolo!”, e la linea cadde. Frank non perse un attimo di tempo, afferrò immediatamente le chiavi del fuoristrada e aprì l’armadio dei fucili, prendendo un fucile calibro 12 a pompa e spalancando la porta dell’ufficio. Quando uscì dalla stanza gli si avvicinò Mike: “Hey Frank che succede? Dove vai così di fretta?”, poi vide che in mano aveva un grosso fucile e deglutì impaurito:
“Cosa ci devi fare con quello?”. “Forse ho trovato l’assassino, non me lo lascio di certo scappare!”. “Ok Frank veniamo con te”, disse Mike. “No ragazzi è troppo pericoloso, statene fuori!”, esclamò Frank con tono autoritario e occhi rabbiosi, dirigendosi al fuoristrada. Appena Frank chiuse il portone, Mike diede l’ordine di mettersi all’inseguimento di Frank. Il vice sceriffo montò sul fuoristrada e partì a razzo, impaurito ed eccitato allo stesso tempo: sapeva che avrebbe rischiato la vita, ma si doveva giocare il tutto e per tutto. Nel suo duro addestramento gli avevano insegnato a non tirarsi mai indietro di fronte ai pericoli, ma ad affrontarli con metodo e oculatezza, perché in fondo la sua missione era proteggere i cittadini. Frank varcò il confine che separava Talon da Lone City e parcheggiò nella medesima strada che aveva percorso al mattino; sceso dalla macchina impugnò il fucile e si incamminò con disinvoltura per le anguste vie del paese che gli erano ormai conosciute. Una volta raggiunto il maniero di Mick, l’atmosfera si fece surreale: il tempo sembrava essersi fermato e che non ci fosse anima viva. Il vice sceriffo arrivato a destinazione trovò il cancello aperto ed entrò nella tenuta. Camminando verso l’entrata sentì dei i dietro di lui; si arrestò, il terrore l’assali, si voltò di scatto e impugnò il fucile: erano tortore che becchettavano a terra in cerca di cibo. Ripresosi dallo spavento, andò dritto alla porta d’ingresso; con sorpresa notò che era rimasta aperta. Frank pensò che fosse stata lasciata aperta dall’assassino. Si fece coraggio e varcò la soglia della casa. L’atmosfera era inquietante: le candele erano tutte spente, vi era un silenzio irreale; l’unico rumore era l’incessante scoppiettare del camino del salone. Frank impugnò saldamente il fucile e accese la torcia che si trovava sulla canna, continuò a percorrere il lungo corridoio, fino a quando un rumore metallico seguito da un tonfo lo fece arrestare di colpo. Con molta cautela l’uomo entrò nel grande salone – buio pesto per via delle imposte abbassate – cercò il pulsante
delle serrande elettroniche per illuminare l’ambiente. Il fatto di trovarsi in quella stanza, lo atterrì ancor di più, sapendo che l’assassino poteva trovarsi lì, in quel preciso istante, magari proprio dietro di lui. Frank impaurito e con il respiro affannoso, puntò la luce in mille direzioni per trovare il pulsante delle serrande, non lo vide, ma sentiva sempre di più odore come di carne bruciata provenire dal camino. Frank dopo vari tentativi trovò il bottone rosso delle serrande e le aprì. La luce entrò nella stanza, e lo spettacolo che gli si presentò fu sconvolgente: il corpo ancora semi distinguibile del maggiordomo fatto a pezzi nel camino. Le parole che uscirono dalla sua bocca furono: “Oh mio Dio”. Il vice sceriffo rimase imibile, ci volle un po’ per ritornare in sé e cercare l’estintore, appeso al muro adiacente. Una volta domato il fuoco, Frank venne attirato da un mugolio sommesso, proveniente dalla stanza più avanti. Entrato nella stanza Frank notò che c’era stata una lotta all’interno di quello che doveva essere lo studio di Mick; la sedia davanti al PC era a terra e i cassetti completamente aperti, con varie scartoffie che ricoprivano il pavimento. Frank si girò verso il PC e vide che era stato completamente distrutto; mancava l’Hard Disk. “Maledizione! Come faccio a seguire la mia pista, ora che non ho più indizi?”, disse Frank pensando a quanto accaduto e ancora sconvolto per il cadavere carbonizzato del maggiordomo. Prese in mano il cellulare componendo il numero di Mike, per avvisare del cadavere appena scovato, quando sentì delle gocce che cadevano sul suo capo, che lo fecero sussultare e guardare in alto. Frank puntò la torcia sul soffitto e si trovò davanti all’ennesima scena raccapricciante: Mick infilzato in uno degli spuntoni del lampadario. La reazione di Frank fu un’improvvisa tachicardia, seguita da forti conati di vomito: in tutta la sua carriera non aveva mai visto niente di simile. La zona circostante Talon City e Lone City era sempre stata tranquilla e gli
abitanti erano gente molto riservata e alla mano, non vi erano mai stati delitti così efferati da quando lui era in servizio alla polizia. Ripresosi dai conati, chiamò Mike. “Mike manda giù un po’ di uomini, che’ qua abbiamo due cadaveri da portare via”. “Ma non mi dire che…”, disse Mike con tono preoccupato. “Sì Mike hai capito benissimo, l’assassino ha colpito di nuovo”, precisò Frank. “Merda! Comunque te li avevo già mandati quando eri partito… sai la situazione si sta facendo parecchio tesa”, esclamò Mike. “Oh beh grazie! Comunque non sono ancora arrivati. Riferisci loro questo indirizzo: via San Giorgio 24” esclamò Frank chiudendo la conversazione. Frank impaziente pensava a un modo per raggiungere il lampadario dove era infilzato lo storico, quando trovò nelle vicinanze una scala molto alta. Frank la aprì e raggiunse il cadavere di Mick, che era trafitto con uno dei lunghi spuntoni del lampadario; il povero storico doveva essere morto dopo una lunga agonia, pensò Frank. “Si ora ricordo Vlad Tepes di Valacchia usava fare questo trattamento ai suoi oppositori. Mi domando chi altri possa infierire con tanta crudeltà su di un essere umano.”, continuò a riflettere Frank, ricordando le macabre usanze del conte Vlad, da cui lui era affascinato, soprattutto per il mito di Dracula, il vampiro assetato di sangue. Frank dopo questa breve e intensa riflessione, tornò sui suoi i, si accorse che in cima alla punta vi era una normale busta color giallo contenente un foglio: il poliziotto non perse tempo e la scartò subito. Vi era un foglio scritto a mano in bella calligrafia e il testo diceva così: Caro Vice sceriffo, quanto sangue vuole spargere ancora per causa sua?
Non le bastava sua madre, ora anche lo storico e il suo maggiordomo? Mi chiedo fino a che punto voglia andare avanti con le sue indagini… Mi dia retta, resti fuori da questa storia, se non vuole che succeda qualcosa di brutto a lei e a chi ancora le sta a cuore: queste sono faccende che non la devono riguardare minimamente. Mi ascolti, ne va della sua vita… Frank rimase allibito da tanta crudeltà, ma non si perse d’animo e mise la busta e la lettera nel sacchetto per farla analizzare dalla scientifica. Poi ispezionò il cadavere di Mick in cerca di ulteriori indizi, ma non trovò nulla di rilevante. Dopo aver finito, il vice sceriffo scese dalla scala e diede ancora un’occhiata sulla scrivania in cerca del libro e del ciondolo trovati nella stanza di Gomez, ma non trovò nulla, erano spariti. Preso dallo sconforto, Frank ritornò nuovamente nel salone e scrutò attentamente il camino per la seconda volta: trovò un foglio bruciacchiato. Sul reperto, salvato per tempo dalle fiamme, vi erano strane linee e parole in lingua sconosciuta. Studiandolo attentamente, capì che si trattava di una mappa. “E’ una cartina geografica!”, disse Frank molto contento e speranzoso. Nel centro della mappa appariva un cerchio di colore rosso su un nome: “Doujane”. “Qualcuno mi ha lasciato un indizio, ma chi? Lo storico o altri che mi vogliono depistare?”, stava ragionando Frank. Era un buon indizio, però non bastava, doveva avere più elementi. Osservando attentamente sul fondo della cartina trovò scritto un nome: “Jacques Fiennes”. Frank si rincuorò e pensò che in fondo c’era ancora speranza di arrestare l’efferato assassino; doveva solo cercare e scoprire il luogo e la persona indicatigli nella preziosa lettera.
CAPITOLO 5
Le porte del maniero dell’ormai defunto storico si aprirono di scatto facendo spaventare Frank. Mike si incamminò per il corridoio con altri quattro uomini dietro di sé e venivano verso Frank che reggeva la mappa in mano. “Hey Frank!”, Mike si interruppe improvvisamente quando vide il cadavere del maggiordomo e si inginocchiò a terra, strofinandosi le mani sulla faccia rimanendo atterrito. “Gesù, ma questo è un pazzo scatenato: come può un essere umano avere tanta crudeltà mi chiedo io”, disse Mike. “Eh già Mike, ma penso che non sia lo stesso assassino questa volta”. “Cioè… spiegati meglio!”, disse Mike rimettendosi in piedi. “Beh l’esecuzione è stata eseguita diversamente dall’orfanotrofio e da casa Lock, dove i cadaveri sono stati trovati con un foro al petto, ricordi? Qui uno è stato fatto a pezzi e bruciato nel camino, invece l’altro è stato impalato sul lampadario. La prima cosa che mi viene in mente è che possano essere due assassini diversi”, asserì Frank. “Già credo proprio che sia così! Però ora mi chiedo, che motivo avevano di uccidere il maggiordomo e lo storico, qual era il movente?”. “Caro Mike, credo proprio di avere la risposta, leggi un po’ qua, l’ho trovata sullo spuntone dove era appeso lo storico e c’è anche una mappa”, esclamò Frank, porgendo i fogli a Mike. “Cavoli, una minaccia di morte, deve proprio tenerci tanto ai propri omicidi questo pazzo”, esclamò Mike. “E questa cartina invece?”, disse Mike con tono curioso.
“E’ la mia unica pista e all’assassino deve essergli sfuggita. Credevano di avere bruciato tutto ma il maggiordomo per fortuna aveva in mano questa mappa, Mick deve averla data al maggiordomo, quando ha visto che le cose si mettevano male, ma purtroppo non ce l’ha fatta a sopravvivere…”, disse Frank. Mike emise un sospiro preoccupato guardando ancora una volta il cadavere del maggiordomo. “Ah senti, prova a dare un’occhiata a questa lettera, se sono rimaste tracce organiche o impronte digitali”, disse Frank porgendo la lettera a Mike. “Ok! La farò analizzare… comunque sono convinto che non troveremo niente, questo tizio è un professionista, dubito che abbia scritto la lettera a mani nude, senza guanti, sarebbe un gesto da sciocchi secondo me”, asserì Mike guardando fisso il suo interlocutore. “Beh in effetti hai ragione Mike, però tentare non nuoce”, ribatté Frank. “Di là c’è il cadavere dello storico che ha esalato i suoi ultimi attimi di vita quando sono arrivato, l’ho sentito gemere di sofferenza, sono accorso da lui ma non c’era più niente da fare...”, esclamò Frank con tono calmo. Mike assieme agli altri poliziotti entrò nella studio di Mick e rimase atterrito dalla scena. “Oh mio Dio!”, esclamò Mike sentendosi un brivido lungo la schiena. Mike fece la chiamata di rito alla scientifica per prelevare i cadaveri e subito dopo si avvicinò a Frank che lo stava aspettando: “Beh Mike, fammi sapere subito se ci sono sviluppi, io torno a casa a rilassarmi.” disse Frank molto stanco. “Ok capo, fai bene, ci penso io qua, tranquillo.”, rassicurò Mike. Frank ripose la mappa nella tasca posteriore dei suoi jeans e uscì dal maniero. Mentre stava percorrendo a piedi la piccola via, fu costretto a mettersi gli occhiali da sole (un regalo dei suoi genitori), per via della luce che gli impediva la visuale.
Camminava e ripensava ai due indizi trovati: la lettera e la cartina. Nel suo cuore sapeva già che la scientifica non avrebbe trovato nessuna impronta sulla lettera, l’unica speranza era riposta nella mappa che poteva portarlo sulla strada giusta. Senza accorgersene Frank si trovò davanti al suo fuoristrada e vi salì a bordo. Quando arrivò davanti a casa, cominciò a sentirsi più rilassato, come se fosse in paradiso. Entrato, chiuse a chiave il portone e ripose le chiavi sulla ciotola sopra l’armadio. L’atmosfera di casa non era più quella di un tempo: gli mancava sua madre, ormai era rimasto solo. Frank andò in cucina. La cucina di casa Murphy era arredata con mobili in mogano e maniglie di argento. A lato della cucina vi era un’arcata in muratura, che fungeva da divisorio con la sala da pranzo, dotata di un tavolo rettangolare anch’esso in mogano, con sedie imbottite di stoffa rossa. Il vice sceriffo si avvicinò verso il frigo e lo aprì prendendo un brik di latte, la sua bevanda preferita, a differenza dei suoi colleghi che preferivano le bevande alcoliche. I genitori gli avevano impartito un’educazione alimentare ferrea, tant’è che la dispensa di casa era sempre munita di cibi salutari e lui ormai si nutriva solo di quello. Finito di bere il latte, Frank ripose il brik nel frigo e si diresse nella sua camera da letto. Entrato in camera si levò i vestiti per farsi una doccia. Mentre l’acqua gli sgorgava sul capo, Frank pensò ai cadaveri del maniero. Gli interrogativi erano molti, ma le soluzioni non erano a portata di mano, forse le speranze erano tutte riposte nel villaggio da visitare. Frank aveva il presentimento che dietro a quel libro si celasse qualche oscuro segreto, ma per ora non poteva rispondere al suo dubbio; finito di lavarsi, si asciugò e con il palmo della mano levò l’appannamento che si era formato sulla specchiera davanti a lui e si specchiò.
Davanti allo specchio si vedeva la sua faccia molto preoccupata per le indagini in corso. Il poliziotto doveva agire e non poteva perdere tempo a guardarsi nella specchiera. Immediatamente ripose l’accappatoio, varcò la camera da letto e aprì la cassettiera dove era riposta la biancheria intima e se ne mise un paio. Chiuse il cassetto e si sdraiò nel letto, prendendo rapidamente sonno, nonostante dovesse continuare a indagare e a pensare al funerale di sua madre. Intanto al lago Yantar, Luis e Frederick presi dalla pesca decisero di smettere per andare a pranzare, erano ate le due e mezza del pomeriggio. Luis guidò la barca verso il porticciolo. Una volta scesi presero l’attrezzatura da pesca e la riposero in macchina. Nel frattempo si avvicinarono Tom Warren e David Smith, due amici di infanzia di Luis, che si congratularono con loro per la loro pesca fruttuosa. La tradizione del lago Yantar era quella di pranzare tutti assieme, e dividere la pescata con tutti anche se quel giorno erano solo in cinque. Poco dopo Ray che aveva già intravisto i salmoni, si avvicinò a loro: “Wow! Complimenti ragazzi, oggi banchettiamo! Tra i pesci di Tom, David e i vostri ne abbiamo per un reggimento!”, disse Ray con tono felice, seguito da una risata. Luis porse la nassa piena di pesci a Ray che li portò nella baita per cucinarli. Il gruppo di uomini entrò nella baita e si sedette in ognuna delle rustiche sedie in legno aspettando il lauto pasto. Arrivato il momento di mangiare gli uomini si saziarono contenti della spensierata mattinata di pesca. Poco dopo Tom guardò fisso negli occhi Ray, che fece cadere il grosso piatto che conteneva precedentemente i pesci. “Hey, cos’hai Ray? Ti vedo strano…”, esclamò Tom. “E’ tutto ok Tom, sono solo un po’ stanco, stanotte non ho chiuso occhio”, disse il ragazzo con voce indecisa. “Sicuro?”, ribatté Tom.
“Certo certo, tranquillo”, rispose nuovamente Ray. Il ragazzo non perse altro tempo e raccolse i cocci del piatto con la paletta e la scopa e li buttò nel bidone dell’immondizia, con aria infastidita. Tom Myers non gli era mai andato a genio, mai! Faceva sempre domande inopportune e molte volte tardava con i pagamenti. Cosa che al padre non destava alcun fastidio, anzi ogni volta gli dava una pacca sulla spalla come se non fosse successo nulla. Arrivata una certa ora, gli uomini uscirono dalla baita e si salutarono. Appena messo i piedi fuori dal cancello del lago, gli amici rimasero tutti sbigottiti, nel sentire una voce dall’altoparlante della stazione di polizia: “Cittadini di Talon, viste le macabre vicende di stamane, dalle ore 17 vige il coprifuoco! Chiunque verrà trovato fuori dalla propria abitazione dopo tale ora verrà immediatamente arrestato e sottoposto a interrogatorio. Grazie per l’attenzione!”. Il messaggio venne ripetuto per altre dieci volte, lasciando impietriti tutti quanti i presenti, che si avviarono immediatamente nelle rispettive abitazioni senza dire una parola. Talon non era mai stata così tesa e terrorizzata come quel giorno; le persone che vi abitavano non erano abituate a siffatta situazione catastrofica.
CAPITOLO 6
Frank era nel pieno del suo sonno, gli incubi riguardanti i cadaveri lo tormentavano. Non si riusciva a dare pace nemmeno mentre dormiva: “Maledetto, Maledetto!”, così esclamò Frank durante il suo sogno vivido, in cui un assassino incappucciato accoltellava sua madre. Frank correva per raggiungere il misterioso assassino, ma sotto di lui vi era una ruota che non lo faceva avanzare e dietro di lui vi era una sega circolare che lo aspettava minacciosa in attesa della sua resa. Un suono simile a campane riecheggiava nell’ambiente saturo di morte e disperazione. I volti dei cadaveri fluttuanti lo guardavano minaccioso. Era il viso dello storico Mick Wall: “Se fossi arrivato prima, saremmo ancora vivi!”, così dissero Mick, la madre di Frank e il maggiordomo. Il coro si faceva incessante, un'unica voce maligna che avvolgeva quell’ambiente infernale. Frank intanto continuava a correre su quella sorta di ruota degli orrori, il sudore gli grondava dalla fronte e cominciò a urlare per la fatica, ormai era allo stremo delle forze. Intanto il suono delle campane si faceva sempre più vicino e… szack!... il corpo di Frank venne tagliato in due dalla ruota. Frank si svegliò di soprassalto, con il respiro corto e il cuore che batteva all’impazzata. Le gocce di sudore ricoprivano l’intero corpo. Intanto il telefono continuava a squillare. “Pronto!”. “Pronto Frank sono Mike, cosa stavi facendo?”, chiese Mike. “Mi ero assopito un attimo e mi hai svegliato con la tua telefonata... spero sia importante!”, rispose il vice sceriffo con un tono di voce lievemente adirato. “Oh beh, importante è importante: ho esaminato la lettera del serial killer e non
corrisponde a nessuna impronta digitale negli archivi”, disse Mike. “Come sospettavo, abbiamo a che fare con un professionista che sa il fatto suo!”, disse Frank. “Ora cosa farai?”, domandò Mike. “Seguo l’ultima pista disponibile: cercare questo villaggio e scoprire chi è Jacques Fiennes. Ora faccio una ricerca veloce su internet e vedo cosa riesco a concludere!” esclamò Frank. “Va bene Frank, che la fortuna sia con te!”, disse Mike con tono deciso. “Speriamo, ne ho davvero bisogno!” ribatté il poliziotto. Frank riattaccò il telefono con ancora il sudore che gli grondava dalla fronte e si stropicciò gli occhi per le continue preoccupazioni che lo vessavano. La sua mente era in balia di un vortice di pensieri. Ora doveva stare calmo e concentrarsi, doveva seguire quell’unica pista e non lasciarsela sfuggire per nulla al mondo. Frank non era certo tipo da abbattersi, sin da bambino si era dimostrato caparbio e sicuro di sé: suo padre gli diceva sempre che era come un treno in corsa e che mai nulla lo avrebbe fermato. In effetti Frank, dopo aver finito la High School, si era iscritto alla scuola di polizia per diventare poliziotto. Ma quest’ultima cosa non era piaciuta molto al padre, un uomo dall’indole pacifista e contrario alla violenza in ogni sua forma. Fu proprio in quel periodo che i rapporti tra Frank e suo padre presero una brutta piega, fino a quando una maledetta sera di Novembre a Frank giunse la notizia che il padre era morto in un incidente automobilistico. Nonostante quel lutto, continuò il percorso nell’accademia della scuola di polizia, diplomandosi con il massimo dei voti: dopo pochi mesi prese servizio nella polizia di Talon, avverando il suo sogno. Frank si alzò dal letto e si diresse verso il PC effettuando una ricerca su internet. Il suo PC era di ultima generazione, in quanto Frank era apionato di tecnologia.
Dopo una mezzoretta, Frank trovò la destinazione da seguire: il villaggio di Doujane si trovava in Francia, precisamente nella parte settentrionale, a Tordans. Poi digitò il nome di Jacque Fiennes, e notò che era uno storico della zona. Frank spense il PC e si alzò dalla sedia. Guardò l’ora: erano le 17; avrebbe potuto ancora prendere l’ultimo volo per la Francia, se avesse fatto in fretta. Prese la roba necessaria, la infilò nel trolley e si vestì frettolosamente. Successivamente prese in mano il telefono e prenotò immediatamente un biglietto per Tordans, in Francia, e informò la compagnia aerea del possesso di un’arma, da custodirgli. Finita la conversazione telefonica con l’addetta all’ufficio deposito armi, uscì di casa. Subito dopo telefonò a Mike per raccontargli le ultime novità: “Mike, ho trovato il villaggio, è in Francia e so chi è Jacque Fiennes, uno storico. Parto subito per la Francia. Pensaci tu al funerale di mia madre. Ti mando una mail con tutti i dettagli al riguardo. Adesso non ho tempo di occuparmi anche di questo. Mamma capirà. Devo trovare il colpevole e fare finire questi terribili omicidi. Mi raccomando ti affido temporaneamente il comando della stazione, conto su di te. Se ci sono novità avvisami immediatamente”, disse Frank. Frank guidò fino all’aeroporto di Lone City, un edificio fatiscente con i muri quasi tutti scrostati di color verde e le vetrate color nero fumé, ma i servizi erano molto efficienti. Entrato nell’aeroporto, Frank si stupì per la carenza di persone e camminò trascinando il suo piccolo trolley, con nell’altra mano la scatola metallica contenente la sua fedele pistola. Notò davanti a sé il banco con la scritta “CheckIn” della compagnia “Lone-Airlines” e lo raggiunse. Li si trovava una bellissima ragazza castana con occhi azzurro cielo. Gli occhi di Frank caddero sul seno prosperoso e sulla sua targhetta personale che indicava il nome di Julie Bates. “Buongiorno, il signor…?”. Frank come incantato sembrò svegliarsi da un sogno vivido e rispose: “Frank Murphy”.
“Ah lei dev’essere il poliziotto che ha telefonato poco fa per la custodia dell’arma: ecco gentilmente se vuole compilare le relative formalità”, disse la ragazza porgendogli il foglio e una penna, tenuta da una molla di plastica. Frank compilò l’intero foglio e lo porse alla signorina che nell’istante gli lanciò un occhiata ammiccante. Poi prese la scatola metallica e la porse a Julie. “Prego sulla sinistra troverà la via per l’imbarco. Buon Volo e buona serata signor Murphy”, esclamò la ragazza. “Buonasera anche a lei”, disse Frank con ancora il sorriso stampato in faccia. Frank raggiunse il rullo trasportatore e vi mise il trolley; ato dall’altra parte recuperò nuovamente il suo bagaglio e si incamminò nella sala di aspetto. Mancavano pochi minuti alla partenza e Frank si trovò improvvisamente in preda all’ansia. Aveva preso numerose volte l’aereo ma ogni volta che vi saliva provava sempre la medesima angoscia di quando era bambino; immagini di incidenti aerei affioravano nella sua mente e si susseguivano incontrollati. Poi prese fiato e deglutì, per un attimo tutto sembrò svanire nel nulla. L’addetta all’imbarco chiamò a raccolta i vari eggeri e strappò il talloncino di ogni biglietto. Finalmente Frank poté entrare nella cabina dell’aereo e si sedette nel primo posto che gli capitò. Il suono delle turbine cominciò a farsi sentire, l’aereo si diresse verso la propria pista di decollo. Frank dal finestrino poteva scorgere l’ampia ala e per un attimo provò ancora una lieve sensazione di ansia. “Bene ci siamo.”, pensò Frank, vedendo che l’aereo era pronto per decollare. Il suono delle turbine si fece sempre più forte e per istinto il vice sceriffo strinse le proprie mani sui braccioli del sedile. L’aereo prese rapidamente velocità e in poco tempo si ritrovò sospeso in aria. Intanto la mente di Frank era già proiettata sulla sua missione. Nel frattempo, altrove, una misteriosa voce al telefono:
“Pronto, in cosa posso esserle utile?”. Dall’altro capo della cornetta una persona rispose: “Sono io, tra qualche ora dovrebbe arrivare un ospite inglese lì da te, intrattienilo come tu sai fare e mi raccomando seguilo: non deve sapere del nostro segreto, e se i depistamenti non dovessero bastare, uccidilo… sono stato chiaro?”. “Certo, non preoccuparti, riceverà un trattamento regale!”. “Bene”.
CAPITOLO 7
Quando l’aereo varcò i cieli europei, il sole era già tramontato e non si poteva ammirare l’immensa pianura del nord della Francia. Frank ancora una volta fu preso da un nodo alla gola mentre l’aereo prese contatto con il suolo della pista d’atterraggio. La velocità dell’aereo era molto elevata e Frank aveva la sensazione che il velivolo potesse andare a schiantarsi contro una delle vetrate dell’aeroporto. “Bene finalmente arrivati!”, pensò Frank molto contento mentre l’aereo stava atterrando e i eggeri battevano le mani in segno di gratitudine al comandante per il viaggio appena terminato senza alcun tipo di problemi. Frank si avviò verso l’uscita del mezzo salutando il comandante di bordo e le hostess. Il poliziotto recuperò il suo trolley e la scatola metallica contenente l’arma. Camminando all’interno dell’aeroporto se, egli rimase affascinato dalla grande sala principale e dai numerosi negozi di profumi e abbigliamento dei più prestigiosi brand. Girovagò molto per l’aeroporto, prima di trovare l’uscita. Poi d’un tratto la trovò e uscì dalla grande porta automatica. Fuori, trovò numerosi taxi di modelli di automobili simili tra loro ma tutti dello stesso colore nero lucido. Frank parlò abbastanza bene se con uno dei tassisti appoggiato sul taxi; si fece subito capire e indicare il luogo in cui voleva andare: il villaggio di Doujane. Il tassista impostò la destinazione sul navigatore satellitare posto sul vetro, dicendo che per arrivarci ci volevano solo venti minuti di viaggio e ingranò la marcia verso la località. Quando il taxi partì, Frank cominciò a guardarsi intorno e notò l’enorme differenza con Talon City: lì a Tordans tutti i palazzi erano dipinti di grigio, mentre nel suo paese era abituato ad abitazioni con colori più sgargianti e rustici.
Il Taxi si immerse nelle strade tetre del villaggio, di certo l’ora buia e la nebbia non aiutavano e miglioravano la visione del villaggio di Doujane. Arrivati nella piazza centrale si trovarono di fronte all’unica locanda. La locanda non si presentava molto bene esteticamente: la facciata frontale color rosé presentava calcinacci a terra, mura scrostate e piccole finestre in legno chiaro e vicino alla porta d’ingresso vi erano due panchine malandate. Frank pagò il tassista e scese, mentre il taxi scompariva nella fitta nebbia. Con una smorfia di disappunto per il posto in cui si trovava, non all’altezza delle sue aspettative, si apprestò velocemente ad entrare nella rustica locanda. Appena mise piede all’interno trovò una hall con il bancone di legno massiccio incastonato tra due colonne, le pareti decorate di azzurrino chiaro con appesi quadri raffiguranti volti antichi e fotografie monocromatiche del posto. Frank notò subito che sul bancone vi era un camlo e lo suonò con decisione. Dalle tende vicino alla colonna sinistra sbucò un uomo corpulento con un completo giacca e pantaloni nero ato di moda da decenni; il viso era ovale, con una folta barba brizzolata e occhi neri che incutevano timore. Gli occhi penetranti del locandiere fissarono per un attimo Frank: “Benvenuto nella Locanda dell’Orso, io sono Pierre, lei è il Signor…?” “Frank Murphy”. “Ah, uno straniero… scusi la domanda impertinente, se posso permettermi, cosa la porta nella mia modesta locanda?”, chiese il locandiere. “Sono un agente di polizia e sto svolgendo delle indagini. Sono qui per cercare lo storico Jacque Fiennes, sa dove posso trovarlo?”, domandò Frank. “No. Non conosco nessun Jacques Fiennes, mi dispiace”, rispose il locandiere con aria assente, distogliendo gli occhi dal suo interlocutore. “Che strano, eppure da quanto so, è molto famoso in questa zona; ha pubblicato svariati articoli, romanzi ed è apparso qualche volta anche in TV…” disse Frank stupito. “Non guardo la TV, né tantomeno mi interesso di storia!”, ribattè il locandiere
seccato. “Va bene, va bene, non la annoierò ancora con le mie domande” esclamò Frank. “Beh, immagino che voglia una camera…”. “Esatto”, rispose Frank. L’uomo prese la carta d’identità per le pratiche burocratiche, gli porse il mazzo di chiavi e gli indicò la direzione da seguire per trovare la stanza. “Buona permanenza, Signor Murphy”, disse il locandiere sforzandosi di essere gentile. Frank prese il suo modesto bagaglio e salì i gradini delle scale, che ad ogni o producevano scricchiolii poco rassicuranti. Mentre Frank camminava per il corridoio, il silenzio la faceva da padrone: il parquet di legno scuro, i muri color ocra e le luci soffuse non davano una buona impressione della locanda che poteva essere un set cinematografico per un film dell’horror. La porta della camera 4 era proprio in fondo al corridoio e Frank la raggiunse con o deciso, notando già da lontano che la maniglia era in ottone… l’unica cosa positiva che aveva trovato sino ad allora in quel posto orribile. Così Frank si avvicinò alla porta e inserì la chiave nella serratura e la porta si aprì. Vi era un letto con un comodino in mezzo alla stanza, una misera scrivania con una sedia, entrambe color marrone scuro posizionate alla sinistra del letto, e un armadietto per riporre i vestiti alla destra del letto. Vicino al comò una piccola e semplice finestra con tende color verde spento illuminava la stanza, che affacciava sulla piazza principale del villaggio, immerso in una coltre di nebbia, che di certo non metteva allegria. Frank non perse tempo ad ammirare il brutto spettacolo di Doujane e ripose i pochi vestiti che aveva nel piccolo armadio. Finito di sistemarsi nella stanza si diresse verso il pianterreno per cenare. Una volta conclusa la modesta cena a base di zuppa di ortaggi, patate al forno e formaggi della zona, tornò su e si sdraiò sul letto, prendendo rapidamente sonno. Il mattino seguente, Frank aprì gli occhi con la sensazione che il tempo si fosse
fermato, sembrava una scena surreale come se da un momento all’altro potesse capitare qualcosa di negativo: era la stessa sensazione che aveva provato quando si era diretto al maniero per la seconda volta. Frank si alzò dal letto che cigolò e si guardò attorno stropicciandosi gli occhi. Per lavarsi dovette andare nella stanza vicino alla sua che fungeva da bagno comune per tutto il corridoio. Si lavò in fretta, ritornò nella sua camera, si vestì e scese al piano di sotto, pagò la stanza e la cena al locandiere e finalmente poté uscire dalla locanda e iniziare la ricerca dello storico Jacques Fiennes. Il villaggio di Doujane in “versione diurna”, non sembrava poi così male: era un tipico paese di campagna; attorno al borgo vi erano campi di grano e le case avevano piccoli recinti per animali. Frank camminava con i decisi, determinato a scoprire la verità. Poiché il locandiere non era riuscito ad aiutarlo nell'impresa, decise di chiedere a un paio di anti. Tutti i tentativi fallirono, complice la scarsa conoscenza del dialetto locale da parte di Frank. Il poliziotto, sconsolato, si stava dirigendo verso la locanda quando una coppietta appartata su una panchina attirò la sua attenzione. L’istinto gli diceva che stavolta non avrebbe fallito; infatti i due ragazzi gli indicarono immediatamente la strada da prendere.
CAPITOLO 8
Frank seguì la strada che gli era stata indicata dai due ragazzi e trovò la casa dello storico, in Rue de la Liberté, 122. La casa a due piani somigliava molto a una dimora delle fiabe: il tetto era color rosso e le pareti esterne erano ricoperte da un suggestivo mosaico in pietra. Il poliziotto suonò il camlo; ad aprirgli la porta, un uomo distinto dal portamento elegante, capelli grigi, sbarbato e occhi azzurri che lo scrutò prudentemente. “Buongiorno! Chi è lei, e cosa desidera da me?” chiese l’uomo. “Sono Frank Murphy, un agente di polizia, sto svolgendo un’indagine e ho bisogno di incontrare lo storico Jacques Fiennes per capire molte cose. Sono stato mandato qui da Mick Wall”, rispose Frank mostrando il distintivo della polizia. “Sono io, Jacques Fiennes. Entri pure… come sta Mick? Purtroppo non ho avuto modo di sentirlo di persona; ho ascoltato il suo messaggio sulla segreteria telefonica e poi mi ha mandato un fax… oggi stesso gli avrei telefonato per raccontargli cosa ho scoperto, nelle mie ricerche”, esclamò il signore. “Mi dispiace deluderla, ma Mick è stato assassinato barbaramente. Sono qui proprio per questo. Mi deve aiutare…” supplicò il poliziotto. “Povero Mick… mi dica tutto, vedrò cosa posso fare… per Mick questo e altro. Lui era un mio caro amico” esclamò lo storico. “Ci ho messo un po’ a trovare la sua abitazione, qui la gente è molto scortese, compreso il locandiere, meno male che ho incontrato due ragazzi che mi hanno indirizzato da lei”, affermò Frank. “Ah Pierre… eh ma sa, da quando gli è morta la moglie non è più lo stesso.
Guardi lei non è l'unico che si lamenta degli abitanti della zona. Comunque non sono tanto amato nel villaggio. Sono tutti molto invidiosi della mia carriera professionale”. Intanto Jacques fece accomodare il poliziotto nel suo modesto salotto: appena entrati sulla sinistra vi era un divano con trama scozzese mentre alla destra vi era un mobile rustico pieno di libri e un televisore antico. Jacques andò nella stanza vicina a prendere dei fogli di carta. “Immagino che lei sia venuto per la ricerca che mi ha chiesto il signor Wall”, disse Jacques. “Sì, cosa ha scoperto? Mi dica tutto”, fece Frank guardandolo negli occhi. “Si tenga pronto, perché le informazioni che le rivelerò non sono per persone deboli di cuore” affermò preoccupato lo storico. “Vada avanti, non si preoccupi, sono tutto orecchi...”, disse Frank. “Bene, siamo di fronte a una malvagia setta radicata nel mondo, che si tramanda da secoli. Il libro che lei ha scoperto nell'alloggio del badante è un libro inerente all'occulto, più precisamente a rituali di potere demoniaco” esclamò Fiennes. “Oh, per piacere: rituali che si tramandano, sette, demoni, io non sono venuto qui fino in Francia per sentir parlare di queste idiozie. Suvvia professore, sia serio!”, rispose Frank molto seccato dalla frase appena sentita. “Io sono serissimo, e ora se volesse sedersi e starmi a sentire gliene sarei grato signor Murphy… è in gioco la vita di molte persone, ci sono forze che lei non immagina neanche, di cui stenterà a credere”, esclamò Jacques con tono deciso. “Si spieghi meglio…”, disse Frank. “Il libro parla di un antico rituale tramandato da secoli, in cui delle madri scelte ricevono il “privilegio” di partorire un figlio. Questo figlio portato in grembo è in simbiosi col demone. L’infante che porta con sé l’oscura creatura maligna acquisisce i poteri del demonio stesso, diventando così un bambino posseduto già dalla nascita. Tutto questo ha un prezzo molto alto da pagare: le madri partorienti e il padre devono essere sacrificati al cospetto del demone stesso”
raccontò lo storico. Prese un po’ di fiato e continuò l’orrenda spiegazione: “Da millenni questa setta oscura, detta ‘degli allori rossi’ tenta di risvegliare Katon, il Signore dei Demoni, l'unico ad avere il potere di entrare in più corpi contemporaneamente. Se la setta riesce a portare a termine il compito, il mondo cadrà nel baratro del caos e della malvagità. Così ogni essere umano già alla nascita diventerà automaticamente una persona malvagia, senza scrupoli: non esisterà più la bontà nelle persone. Perché si avveri la terribile catastrofe è necessario che il bambino che è in simbiosi con il demonio compia il ventesimo anno d’età. I venti anni del ragazzo corrispondono all'età di 2000 anni del demone stesso, riuscendo così ad avere la perfetta simbiosi tra il demone e l'essere umano posseduto… solo così l’oscura forza del male avrà pieni poteri e potrà scatenare la sua malvagità”. Con queste parole cariche di terrore, Jacques finì la spiegazione. “Molto interessante come storia” disse Frank e continuò: “Quindi gli omicidi che sono avvenuti nella mia città sono stati commessi da qualche ragazzo posseduto? Ogni cadavere aveva due V incrociate marchiate sul corpo… le dice qualcosa?” chiese Frank. “Sì, esattamente, anche questo è scritto nel libro. Si tratta del simbolo della casata dei demoni minori al servizio di Katon: quegli omicidi sono opera dei demoni minori che sono in simbiosi con i ragazzi… la sete di malvagità dei demoni non avrà mai pace” rispose Fiennes. “Però, mi scusi, ma la setta cosa ci guadagna in tutto ciò? Se tutto il mondo verrà portato nel caos, intendo…”, domandò il poliziotto. “Beh è molto semplice: avranno il privilegio anch'essi di vivere in simbiosi col demone, godendo di enormi poteri”. “E mi dica, Signor Fiennes, esiste un modo per fermare tutto ciò?” chiese con ansia il poliziotto. “Per quanto ne sappia io no, ma fors...”, lo storico non riuscì a terminare la risposta che “ugh”… la fronte di Jacques venne raggiunta da un proiettile sparato dalla finestra.
Frank non fece in tempo a vedere l'assassino che in un attimo altri due proiettili distrussero un parte del cuscino del divano, facendo così volare delle piume. L’uomo si accasciò a terra, trascinandosi verso le scale che portavano al piano superiore; il cuore gli batteva all'impazzata e il respiro si faceva sempre più corto mentre numerosi colpi di pistola stavano aprendo la porta d’ingresso; egli stava aspettando l’arrivo del nemico per colpirlo. Si udì un boato intenso: l'assassino aveva aperto la porta. Frank appena vide il malvivente esplose due colpi dalla sua 9 mm, mancandolo per un pelo. Il misterioso individuo rispose al fuoco e stavolta Frank riuscì a colpirlo alla gamba. L’assassino cadde a terra ed emise una risata diabolica, simile a quella del suo vecchio badante Gomez Freis. “Uccidete quello sbirro ficcanaso”, disse il misterioso uomo. Il poliziotto salì velocemente le scale senza farsi colpire e attese le mosse degli assassini; due uomini del gruppo, muniti di mitragliatore, cominciarono a sparare in direzione del mancorrente della scala, dove era appostato Frank, che immediatamente si rifugiò nella camera da letto. Intanto i malviventi stavano salendo le scale. “E' arrivata la tua ora. Nessuno può opporsi alla setta degli allori rossi… sei finito” disse uno dei due energumeni mentre comunicavano a gesti per organizzarsi alla perlustrazione delle varie stanze. Frank era sotto il letto e vedeva i pesanti stivali di pelle che si avvicinavano sempre di più. Il respiro dell'omone era affannoso, quasi non umano ma da bestia infernale. Frank sparò e mirò alla gamba: l’uomo inferocito per il colpo ricevuto alzò con una mano il letto, scaraventandolo contro la finestra e puntò il mitragliatore alla testa del poliziotto. Poi premette il grilletto, ma il vice sceriffo schivò il colpo rotolando su di un fianco e sparò in pieno petto al suo avversario. Il gigante ferito, si arrabbiò ancor più: gli occhi erano iniettati di sangue, pieni di ira per aver mancato il bersaglio. Sparò un’altra raffica verso il poliziotto che si era nascosto dietro la porta della stanza della camera da letto; poi la bestia finì le cartucce nel mitragliatore… Per la prima volta Frank poté osservarlo attentamente: era alto due metri, con una corporatura spessa e vigorosa muscolatura, calvo, con una cicatrice sul volto
e gli occhi assatanati e malvagi… l’incarnazione stessa di Satana. Frank approfittò della situazione e gli sparò, ma fu fermato dal colpo di pistola dell’altro complice che li aveva scovati: il colpo disarmò Frank; nel frattempo arrivò anche l’ultimo malvivente, più piccolo di statura. Frank senza pensarci due volte, si lanciò a capofitto sull'uomo disarmato nella stanza da letto; l'energumeno in fin di vita, vedendo Frank fiondarsi verso di lui, lo afferrò con una mano e lo scaraventò nuovamente per terra. Il poliziotto ebbe il riflesso fulmineo di rialzarsi e argli sotto le gambe per afferrarlo e bloccarlo da dietro la schiena: ci riuscì. Lo stava bloccando stringendogli il collo. L'omone tra mille lamenti cercò in tutti i modi di scrollarselo di dosso, senza tuttavia riuscirci. Frank vide luccicare dalla patta della giacca dell'omone un grosso coltello e senza esitare un attimo lo brandì: nello stesso momento in cui cercava di tagliare la giugulare, l'altro energumeno armato entrava nella stanza. “Fermo lì o uccido il tuo gemello”, disse Frank con voce potente. “Uccidilo pure”, urlò l’altro di rimando. “Jason sei un codardo!”. Nell' attimo in cui l'omone era in balia di Frank, fu colpito alla testa dal suo compagno, che cercava di uccidere il poliziotto. A quel punto l’omone ferito a morte emise un lamento e indietreggiò per i colpi subiti, cadendo dalla finestra assieme a Frank, che lo usò da scudo per attutire la caduta. Il gigante sospirò: finalmente era morto. Il poliziotto era salvo, per ora; scavalcò il basso recinto che dava sul boschetto vicino e scappò via in mezzo la radura. Dai cespugli Frank poteva scorgere perfettamente i due loschi figuri, che probabilmente appartenevano alla setta di cui aveva parlato poco prima il defunto storico Fiennes.
“Presto, dobbiamo cercare quel bastardo, non sarà andato lontano”, disse uno all'altro zoppo. “Jason, vai avanti tu senza di me: io con questa gamba non ce la faccio a muovermi velocemente”. “Bene… allora crepa! Non me ne faccio niente di te”, esclamò il compagno, e “Bang! Bang!”: due colpi raggiunsero la fronte dello zoppo, lasciando Frank di sasso, alla vista della spietata e inaudita ferocia di quella setta di pazzi sanguinari. Nel mentre che Frank era ancora scioccato dalla scena, una mano raggiunse la sua bocca. “Vieni con me se vuoi vivere”, esclamò la voce misteriosa. “Chi sei tu?”, chiese Frank intimorito. “Stai zitto, altrimenti quelli ci uccidono… una persona che può aiutarti, ora seguimi”, disse l'uomo misterioso. Frank, non avendo altra scelta, seguì l'uomo, il cui volto ancora non gli fu visibile. I due corsero per la fitta boscaglia senza guardarsi indietro. Nel frattempo, Jason notò i movimenti che provenivano dalle foglie e iniziò a seguirli. “Maledetto, sei mio! Dove credi di andare?”, grugnì con tono beffardo. I i dei due fuggitivi si facevano sempre più incessanti in quella fitta foresta che sembrava non finire mai. Ad un certo punto Frank inciampò su di un ramo, incastrandovisi. “Maledizione!”, esclamò il poliziotto. Nel frattempo, il misterioso uomo, udito l'urlo, indietreggiò e lo tirò su con forza; finalmente si intravide che aveva la barba grigia. In quel preciso istante lo spietato assassino sparò dei colpi in aria per spaventare le sue vittime.
“Presto, seguimi!”, intimò l'uomo, e i due corsero all'impazzata fino a quando si trovarono una nicchia. “Su, dentro!”. Frank non fece in tempo a girarsi che costui aveva chiuso il buco da dove erano entrati. Nello stesso momento sopra le loro teste arrivò Jason a i impetuosi, che ignaro del nascondiglio in cui si trovavano, sembrò allontanarsi nella fitta boscaglia.
CAPITOLO 9
I due rimasero in silenzio: la paura di essere sentiti e scoperti da Jason era tanta; arono svariati minuti prima che l’uomo misterioso fe cenno con il capo per dire a Frank che era arrivato il momento di uscire. Frank seguì ciecamente quell’uomo; camminarono per molto tempo nella fitta boscaglia fino a quando si trovarono davanti a una discesa che portava a una caverna. Entrarono dentro a un corridoio buio, che conduceva a un cancello metallico nero un po’ arrugginito. L'uomo tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e aprì il cancello. Visto da dietro l’individuo non aveva di certo un aspetto rassicurante bensì grottesco e malandato, complice il lungo cappotto nero sgualcito e il o strascicato. “Ti ringrazio per avermi salvato, ma… potrei sapere chi sei?”, chiese Frank adirato e allo stesso tempo spaventato. L'uomo si girò con ancora le chiavi in mano e con voce calma e pacata disse: “Padre Juan, sono un prete protestante, ora credo che tu debba seguirmi, avrai bisogno del mio aiuto se vuoi sconfiggere la setta”. “Io sono Frank Murphy. Beh, grazie dell'interessamento!”. I due entrarono dentro quella che doveva essere la sala principale, arredata solamente da un divano, una libreria, un tavolo con delle sedie e un dipinto di San Giorgio. Frank rimase colpito dalla bellezza del quadro, e si immaginò il famoso scontro tra San Giorgio e il drago, narrato nella leggenda. “Vedo che stai guardando il quadro di San Giorgio”. “Sì, ne sono affascinato… ma tu come fai a sapere della setta? Perché mi aiuti?”, rispose Frank, cambiando il discorso.
“Perché io ho un conto in sospeso con quei maledetti. Anni fa la setta uccise mia moglie in uno dei rituali che hai avuto modo di conoscere, credo dal Professor Fiennes” rispose padre Juan. “Grazie, apprezzo il tuo aiuto, però toglimi due curiosità: come fai a conoscere il professore? E, soprattutto, durante il rituale è nato un bambino?”, domandò Frank. “Conosco il professor Fiennes perché è lui che mi rivelato tutto quanto sulla setta. Non so se mia moglie abbia partorito, perché mi imprigionarono in un boschetto situato in un’altra regione, Dalvarre, e quando riuscii a fuggire non mi guardai indietro, anzi fuggii per la paura. Il cammino durò quasi un giorno intero prima di arrivare sano e salvo fino a casa. Poi ho dovuto cambiare identità e trasferirmi in questo rifugio per il terrore di venire di nuovo catturato dalla setta”. “Capisco, mi dispiace molto per tua moglie, ma come hai fatto a fuggire?”, domandò Frank. “E’ stato un membro della setta… per redimersi da tutti i peccati commessi, mi liberò, facendomi uscire da un aggio segreto da quel luogo nefasto. Me lo ricordo ancora: si chiamava Leon; non ho saputo più niente di lui, ma a giudicare dalla cattiveria che pervade nella setta, lo avranno sicuramente ucciso”. Il prete per un attimo prese fiato e riprese a parlare con un nodo alla gola: “Sai, io non riesco a perdonarmi questa cosa, se le fossi stato più vicino, a quest'ora mia moglie sarebbe ancora viva, mentre invece... ”. Juan scoppiò a piangere, dal suo viso sgorgavano copiose lacrime. Frank rimase impietosito alla vista delle lacrime di quell'uomo distrutto dai rimpianti. In quell'istante pensò alla scia di morti che si era lasciato dietro. Pensò alla madre: mai come in quel momento Frank sentì la mancanza di Melanie, solo qualche giorno fa ava attimi di vita con lei e ora era rimasto senza genitori; un vuoto incolmabile, un vuoto che poteva essere riempito solamente dalla vendetta. Sì, una pura e mera vendetta contro quella dannata
setta di pazzi sanguinari: non gli rimaneva che farsi aiutare da Padre Juan per sconfiggere una volta e per sempre la setta. Juan smise di piangere e Frank gli diede una pacca sulla spalla in segno di conforto. “Juan, esiste un modo per porre fine a tutto ciò?”. “Sì, e la soluzione è proprio nel quadro che guardavi con tanta ammirazione: un’antica profezia dice alla lettera ‘Il drago che fu sconfitto da San Giorgio, in realtà celava dentro di sé lo spirito malvagio di Katon, che al momento della sua morte uscì dal corpo del drago per essere confinato in un limbo oscuro’. E l’unica possibilità per Katon di ritornare nel mondo terreno è quella di impossessarsi di un ragazzo, svelato da un antico ciondolo della setta degli allori rossi. Sicuramente Jacque Fiennes ti avrà parlato di questo ciondolo”. “Certo”, rispose Frank. Il prete continuò il suo racconto: “Per porre fine alla malvagità di Katon, è necessario ritrovare la spada di San Giorgio, che si trova in un tempio dedicato al santo, sotto l’odierna Talon City. Così facendo, il prescelto avrà in sé il potere del cavaliere di San Giorgio: sconfiggendo il drago, la malvagità si placherà e nessun demone potrà più esser risvegliato… il problema è che il punto esatto non è narrato nella profezia, e non viene fatto alcun riferimento di chi sia il prescelto”. Il prete riprese fiato e continuò con le sue rivelazioni: “Se Katon non verrà fermato, il male aumenterà fino a diventare un caos incontrollabile, l'umanità intera sarà mossa da intenzioni malvagie: non esisterà più il bene, gli esseri umani si uccideranno tra loro, vivremo in un mondo in cui regna la ferocia, la violenza… un inferno in terra!” esclamò il religioso. A Frank nell'udire quel terribile discorso si accapponò la pelle: il pensiero che l'umanità intera potesse essere vittima di un'apocalisse imminente di certo non lo faceva star bene, anzi rimuginava circa l’essere impotente dinanzi a quanto stava succedendo. Ora sapeva che le probabilità di evitare quell'apocalisse erano decisamente poche.
Svenne. Il sogno era vivido: Frank si vide barricato nella propria casa, con fuori un caos apocalittico; improvvisamente, una pallottola vagante gli raggiunse il petto formando una evidente macchia di sangue sulla sua maglietta bianca. Cadde a terra esanime e morì. Una voce fioca raggiunse le sue orecchie: “Frank svegliati… Frank, su coraggio!” disse Padre Juan. Padre Juan buttò in terra le cianfrusaglie che aveva sul tavolo e vi adagiò Frank. “Hey, tutto bene? Per un attimo credevo fossi morto” esclamò il prete. “Argh... ma cosa è successo?”, chiese Frank con voce flebile. “Sei svenuto, amico mio… ecco, bevi questo ti rimetterà in sesto”, disse il prete. Frank ne bevve un sorso e subito sentì invadere le sue papille gustative da un sapore tremendamente acidulo. “Che cos'è?” esclamò disgustato Frank. “Un infuso di erbe officinali, tranquillo”, rispose Padre Juan. E così Frank si riaddormentò. Gli venne in mente nuovamente sua madre, che lo fissava con un sorriso quasi surreale; in un attimo si trasformò in un viso dall’aspetto demoniaco, gli occhi iniettati di sangue… lo prese per la gola… aiuto! Buio. Poi la luce della vivida realtà. Gli occhi di Frank si spalancarono; le braccia non si muovevano, come incollate al tavolo, e l'unica parte del corpo che gli riusciva di tirare su, era la testa. “Ma che diavolo…” imprecò il poliziotto. Da un angolo della stanza si udì una risata maligna.
“Bene: il prete è stato gentile a portarti qui da noi!” disse una persona nell’oscurità. Quella voce risuonava familiare: “No, non può essere lui”, pensò Frank nella sua mente. Ma la risata era la sua, unica e inconfondibile, con quel tono squillante e provocatorio. “Cosa ci fai qui Mike?”, urlò Frank. “Sono venuto ad assistere alla tua morte, ficcanaso”, esclamò Mike emettendo un sorriso poco rassicurante. “Ma che cazzo stai dicendo? Non puoi essere un membro della Setta degli Allori Rossi… non voglio crederci” urlò Frank disperato e furibondo. Ad un tratto spuntò dall'angolo della stanza anche Padre Juan. “Juan, che succede?” chiese Frank. “Mi dispiace Frank, non avevo altra scelta: hanno preso la mia adorata sorella e non voglio commettere lo stesso errore che ho fatto con mia moglie”, disse il prete costernato. Ad un tratto una coltellata raggiunse Padre Juan. “Noooo!”, urlò Frank. Subito dietro di lui sbucò con beffarda risata Jason: “Ora non ci servi più vecchio!”, urlò l'omone. “Argh… mi dispiace...”, riuscì ancora a dire Juan, emettendo un ultimo rantolo prima di spegnersi, guardando Frank negli occhi: il sangue usciva dalla bocca rugosa e gli occhi emettevano un nitido bagliore di tristezza. Una lacrima raggiunse la guancia di Juan… era morto. “Ora tocca a te” disse Jason.
Frank si sentì in trappola: non poteva far nulla, legato mani e piedi. L'unico pensiero che gli ò per la testa era la sua morte imminente. Il vice sceriffo cominciò a far muovere il tavolo a destra e a sinistra, fino a farlo cadere; così si ritrovò per terra ancora legato al tavolo girato sul fianco destro. Proprio nell'istante in cui Frank si girò, Jason indirizzò il coltello sporco del sangue del defunto religioso alla gola del poliziotto, senza però riuscire a colpirlo: la lama recise la corda che immobilizzava la parte superiore del poliziotto. Frank poté così liberare anche i piedi e attaccare Jason prendendolo per la gola. L'omone si difese e lo afferrò a sua volta per la gola ma il poliziotto si liberò e cominciò a prendere a pugni il suo aggressore. Il sangue sgorgava a fiotti dall’enorme bocca inferocita del gigante. Però quei pugni non sembravano recar danno a Jason, che emise un urlo per intimorire il suo avversario, pietrificato dalla paura. Intanto Mike, vedendo che la situazione si complicava, fuggì dal nascondiglio; Jason approfittò della debolezza del poliziotto e cercò di colpirlo con il coltello, ma questi si scansò. Il nemico si muoveva a velocità fulminea, tant’è che il poliziotto per poco non venne colpito a una gamba. Il combattimento si fece sempre più insidioso e l'omone decise di colpire a calci Frank, sperando di metterlo ko; in un lampo il poliziotto si ritrovò a terra e Jason lo raggiunse nuovamente per accoltellarlo. “Questa volta sei mio!” urlò il demone. Il membro della setta sferrò colpi su colpi, mancando ripetutamente Frank, che si alzò da terra e indietreggiò velocemente, mentre il primo lo rincorreva. Frank si abbassò e il suo avversario colpì uno degli enormi scudi appesi al muro, incastrandovisi. Il poliziotto si guardò intorno in cerca di un’arma e trovò un’enorme ascia in un o per armi; si avventò sull'aggressore emettendo un urlo di odio.
Jason tentò invano di estrarre il coltello dallo scudo, e... slam! L'ascia di Frank si abbatté più volte sulla schiena dell’avversario, facendolo urlare di dolore. L'energumeno tentò l’ultimo assalto girandosi, ma Frank non si fece cogliere impreparato e con un colpo preciso e violento lo decapitò, mentre ancora il corpo mozzo muoveva qualche o. Poi lo vide cadere a terra, col sangue che fluiva dal collo. Il poliziotto, con il viso ricoperto di sangue e il fiatone per via del combattimento, ripensò alla fuga di Mike. Lanciò un’ultima occhiata alla sua vittima e corse via in cerca di quel maledetto. La salita verso l’uscita dalla caverna sembrava interminabile, il suo organismo era in debito di ossigeno, ma non c'era tempo per pensarci. Frank aveva un solo obiettivo: uccidere Mike, colui che fino a poco prima aveva ritenuto buon amico, persona di cui fidarsi ciecamente, e che si era rivelato membro di quella dannata setta. Per sua madre, per Mick Wall, per Jacques Fiennes, per Juan, per tutte le vittime che erano morte per colpa di quei pazzi sanguinari Frank doveva agire.
CAPITOLO 10
Frank uscì da quell’inferno e constatò che Mike era già fuggito; doveva sbrigarsi per raggiungerlo e catturarlo. Impugnò l'ascia con decisione e si addentrò nella foresta in cerca del traditore. Il poliziotto decise di seguire il suo istinto che gli diceva di andare sempre dritto, e corse, nonostante fosse provato dal combattimento con Jason. Si trovò solo, immerso completamente nelle conifere: l’unico rumore che udiva era il tonfo sordo dei suoi i sull’erba. Improvvisamente l’equilibrio perfetto creatosi con la natura fu spezzato: Frank sentì un dolore atroce raggiungergli il ventre. Era Mike che, appostato dietro a un albero, lo aveva colpito con violenza, facendolo cadere al suolo. L’ex collega e amico di Frank, vedendo che era ancora a terra infierì su di lui cercando di colpirlo alla testa, ma il poliziotto ebbe la prontezza di pararsi con l'ascia intrisa di sangue dell'omone. Il grosso pezzo di legno usato da Mike per colpire l’avversario si piantò nell'ascia di Frank; Mike tentò di estrarre il bastone dall'ascia ma non ci riuscì: i due si trovarono a fronteggiarsi con ferocia inaudita. Ad un certo punto Mike, vedendo che il bastone non poteva essere estratto, lasciò la presa e scappò a gambe levate; Frank con le forze residue staccò il bastone dall'ascia e si alzò in piedi, aiutandosi con quella. Il poliziotto riprese a correre: l'adrenalina andava a mille e i i erano veloci e incalzanti: sentiva l’aria gelida che fischiargli nelle orecchie e il rumore delle foglie schiaffeggiate dal vento.
Quella corsa sembrava interminabile, i muscoli delle gambe erano imbevuti di acido lattico ma riuscirono a dare l’ultimo slancio per avvicinarsi al nemico in fuga. “Ci sono quasi”, disse Frank, e in pochi secondi raggiunse il fuggitivo, e lo spinse. “Preso!”, urlò Il poliziotto con tono vittorioso. I due ruzzolarono per terra e Mike emise un urlo di terrore. Frank si alzò subito: mise il piede sul petto di Mike che era ancora sdraiato a terra immobile e contemporaneamente puntò l'ascia sul collo del traditore. “Non mi uccidere ti prego”, urlò Mike in preda alla disperazione. “Dovrei invece, soprattutto ora che so che sei uno sporco traditore”. Frank avvicinò l'ascia con forte velocità vicino alla gola di Mike ma si fermò. In quel momento il nemico era alla sua mercé. “Dimmi perché… perché lo hai fatto? Perché mi hai tradito Mike? Eravamo come fratelli, io copro te e tu copri me”, mormorò Frank con tono rabbioso e malinconico. “Il potere, Frank, il potere... ricordo ancora il giorno che sono venuto a contatto con la setta, mi trovavo a pescare al torrente Rangor, fuori città, quando ad un tratto scivolai da una di quelle rocce perennemente umide per via del loro continuo contatto con gli schizzi d’acqua. Poi svenni, ritrovandomi poco dopo in una specie di rifugio abbandonato dove ad accogliermi c’erano loschi figuri dall’aspetto tutt’altro che rassicurante. Io mostrai loro il distintivo: ero un poliziotto, e se avessero osato toccarmi sarebbero stati in guai seri… ma aver usato quella strategia non si rivelò efficace, e uno di loro, probabilmente il capo, mi propose di fare un patto: mi spiegò che erano parte de “La Setta degli Allori Rossi”… del loro scopo tu già sai… mi intimarono di collaborare, vista la mia posizione lavorativa. Così, mi fecero eseguire una prova rischiosa, come per tutti gli iniziati: mi trovai in una cella metallica imbottita, avente minuscole finestre, attorniata dal fuoco per aumentare la temperatura al suo interno. Credetti di morire, là dentro: il caldo soffocante mi stava uccidendo, ma il fato volle che
riuscissi a sopravvivere… quando mi tirarono fuori, non mi diedero il tempo di riprendermi che già mi marchiarono a fuoco sul petto il simbolo degli allori rossi, mentre pronunciavano parole incomprensibili, ma che ben presto anche io avrei imparato a pronunciare. Da lì in poi, partecipai ai rituali di iniziazione delle madri dei ragazzi, occupandomi di occultare i cadaveri dei genitori e di non far trapelare alcun sospetto” . “Avresti potuto avvisarci in Centrale… perché non l’hai fatto?”, gridò Frank adirato e allo stesso tempo stupito da quella orribile spiegazione. “Perché avrei dovuto? Il potere mi attendeva: per la prima volta nella mia vita mi sentivo me stesso… ma ormai che senso ha discutere di ciò? Quando Katon raggiungerà la simbiosi perfetta con Nicholas, il mondo sarà invaso dal male oscuro e io sarò ricompensato con poteri sovraumani e un posto di comando al fianco del Signore dei demoni”. “Hai detto Nicholas? Non sarà per caso il figlio adottivo di Luis Queen, il pittore?”, domandò Frank con stupore. “Sì, è stato il ciondolo a mostrarci che era Nicholas Queen il prescelto di Katon, tramite una visione. Scommetto che cercavi questo vero? Sono stato io ad ordinare che mi venisse consegnato insieme al libro”, disse Mike mostrandogli il ciondolo che aveva al collo. “Oggi è il 10 novembre 2014, tra circa tre ore, tutti i capi mondiali della ‘Setta degli Allori Rossi’ si riuniranno, Nicholas compirà venti anni e il male trionferà… preparati a morire Frank Murphy! Credevi che ti avrei lasciato agire indisturbato mentre svolgevi le indagini? Sono stato io ad avvisare il locandiere del tuo arrivo e sono stato sempre io a volere la tua morte dal primo momento che hai ficcato il naso nei piani della setta. Pensaci bene, se non ti fossi immischiato in questa faccenda a quest'ora tutte le persone che sono morte per causa tua sarebbero ancora vive. Ma tu no, hai voluto fare il testardo e ne paghi le conseguenze”. “Quindi hai ordinato tu l'assassinio di mia madre?”, domandò il poliziotto con gli occhi sbarrati e la voce furiosa. “Ma che bravo, ci sei arrivato!”, sogghignò Mike. “Maledetto, muori!” urlò Frank.
Il poliziotto abbatté con forza l'ascia sul collo di Mike e lo decapitò; il sangue schizzò da tutte le parti macchiandogli i jeans. Il respiro di Frank era ancora affannoso quando lasciò cadere l'ascia. E guardò ancora la testa mozzata del traditore con un ultimo ghigno stampato sulla faccia; ma non c'era tempo da perdere, doveva raggiungere Talon City in meno di tre ore, o sarebbe stata la fine per tutti. Per un attimo gli rivennero in mente i ricordi di quando era adolescente, periodo della sua vita in cui era magnanimo e generoso nel proteggere Mike dai bulli di quartiere; Mike era spesso preso in giro dai suoi coetanei per il carattere introverso e insicuro, ma Frank lo aveva difeso sempre. Si ricordò di quel giorno d’estate quando prese le parti di Mike in una rissa scatenata con Mark Waller e il suo gruppetto di amici, di quando finì e Mike non lo ringraziò, anzi lo rimproverò rabbioso, intimandogli di non aiutarlo più. Frank con quei vecchi ricordi cercò disperatamente di trovare un briciolo di bontà ma non la trovò, dedusse che in quell'uomo regnava la frustrazione: Mike aveva sempre saputo di non essere all'altezza del suo amico, si era sempre sentito un perdente, stufo di essere chiamato da tutti, per tutta la vita “Mike il tonto”. Forse era stata quella la ragione per cui Mike aveva intrapreso la strada del male: sperava che un giorno anche lui avrebbe avuto posto tra i vincenti, potendo vendicarsi dei torti subiti in gioventù. Ma non c'era tempo per arrovellarsi sui possibili motivi delle scelte di vita di Mike: era in ballo la vita di miliardi di persone, e questa grossa responsabilità gravava sulle spalle di Frank. Lui, il giovane vice sceriffo di Talon City, l’uomo che fino all'altro giorno era stato un semplice poliziotto, aveva ora in mano lo stendardo del bene, trascinato in una guerra inattesa e spaventosa, eppure ormai iniziata, che andava vinta a tutti i costi.
CAPITOLO 11
Il vice sceriffo scrutò per l'ultima volta il volto diabolico di Mike, prese il ciondolo con sé e ritornò indietro, ripercorrendo la strada dell’andata. Mentre camminava a o spedito, notò che il vento aveva portato con sé nuvole cariche di pioggia. Infatti poco dopo cominciò a piovere. La pioggia lavò via tutto il sangue dal viso di Frank; per la prima volta si sentì libero da quel bagno di sangue. Camminò a lungo, fin quando si trovò nuovamente dinanzi alla staccionata, ma stavolta svoltò a destra in direzione della casa del defunto storico. A pochi metri dalla dimora di Jacques Fiennes vide che l'auto dei membri della setta era ancora lì dove l'avevano parcheggiata; Frank corse immediatamente verso la macchina e vi salì a bordo. Si ricordò di aver lasciato il bagaglio nella hall della locanda, l’avrebbe preso prima di andare all’aeroporto, poi però decise di non ritornare perché il locandiere apparteneva a quella setta di pazzi: non voleva più rischiare. Ingranò la marcia e tirò dritto cercando l'autostrada che conduceva all'aeroporto. Per fortuna l’autostrada era a pochi chilometri da lui. Entrò in autostrada, destinazione aeroporto; intanto la pioggia continuava a cadere violentemente. Nonostante il brutto tempo, Frank si sentiva più tranquillo, mise la quinta e proseguì. Dietro di lui notò due automobili: una rossa e un'altra grigia. All’inizio i due veicoli percorrevano la strada tranquillamente dietro al poliziotto, poi all’improvviso aumentarono la velocità rischiando di tamponare l’auto su cui viaggiava Frank. Il poliziotto capì che non era normale un tale comportamento e decise di controllare nello specchietto retrovisore la situazione: le facce che vide non gli piacquero per niente.
Le mani cominciarono a sudare copiosamente, come fosse il volante a trasudare acqua, la testa gli girava vorticosamente, e il panico aumentava. Frank riguardò meglio dallo specchietto e notò che nella vettura rossa un braccio sporgeva dal finestrino eggero: era una pistola pronta a sparare. Frank deglutì e si spaventò, ma proseguì per la sua strada pronto a combattere: di sicuro erano altri uomini della setta, solo loro potevano averlo inseguito con lo scopo di ucciderlo. Dopo pochi secondi un colpo raggiunse il bagagliaio posteriore, successivamente un altro frantumò il lunotto posteriore: la pistola usata contro di lui doveva essere di grosso calibro e la cosa di certo non lo rincuorava, visto che lui aveva solo una normale pistola in dotazione alla polizia. Frank si girò per vedere meglio i suoi assalitori nello stesso momento in cui un altro colpo raggiunse il vetro del finestrino posteriore spaccandolo del tutto: dovette coprirsi dai frammenti di vetro che arrivarono su di lui. In quel caos, il poliziotto riuscì a girarsi, a prendere saldamente il volante e sterzare a sinistra evitando all’ultimo secondo un grosso tir che era davanti alla sua automobile; invece la macchina rossa tamponò il camion, e ruotando su se stessa finì nella direzione opposta alla vettura guidata da Frank: per un attimo le due auto si trovarono divise dal camion. Intanto anche l'auto grigia si avvicinò, preoccupando ancora di più il poliziotto: ora aveva due assalitori alle calcagna. Frank guidò con il capo abbassato e tenne una mano sopra la fodera della sua pistola in attesa del momento opportuno per sparare; si ricordò che quella che stava utilizzando era l’auto della setta e molto probabilmente c’erano delle pistole nascoste lì dentro. Infatti aprì il portaoggetti e trovò una pistola: “Eureka!” disse Frank entusiasta. La impugnò e si voltò in direzione della macchina grigia, riconobbe il conducente: era lo sgarbato locandiere, Pierre, con altri quattro membri della setta. In quel momento il vice sceriffo si sentì terribilmente solo, aveva come l'impressione di essere l'ultimo uomo sano di mente al mondo: tutta la Terra
stava cadendo sotto il potere del male… la realtà era peggio di un incubo! “Bang! Bang!”. Sparò due colpi che colpirono la vettura grigia che avanzava ad alta velocità. Per un soffio un colpo non raggiunse il locandiere che si era abbassato prontamente, ma appena risalito con la testa venne colpito in piena fronte da un altro proiettile. L’automobile senza più il guidatore finì contro il guardrail ad angolo di uno svincolo: l'impatto fu violentissimo. Frank posò la pistola sul sedile eggero e guardò dallo specchietto l'esplosione della vettura grigia. “E’ fatta” pensò. Restava da eliminare solo la vettura rossa. Per un attimo Frank si sentì sollevato, ma non durò a lungo, perché dietro di lui a tutta velocità procedeva nuovamente l'auto rossa, che a intervalli regolari tamponava Frank, rischiando di mandarlo contro altre macchine o, peggio, fuori strada. In pochi secondi l'assalitore speronò Frank, facendo scodare l'auto: il poliziotto riuscì a non fare testacoda tenendo saldamente il controllo del mezzo. Le due auto procedevano a gran velocità in prossimità di un ponte: Frank si guardò dietro ma in quel preciso istante la vettura rossa speronò ancora una volta la sua auto. “Aaaaaahhhh!”. La vettura di Frank andò fuori strada, sfondando il guardrail e cadendo a capofitto giù dal ponte, poi fu sommersa dall’acqua del fiume. In quell'istante la mente di Frank era come anestetizzata; gli sembrava di scendere da uno di quegli scivoli ad alta velocità dei parchi acquatici… peccato che in quel momento stesse rischiando la vita! Nel frattempo da sopra il ponte un membro della setta scrutò in direzione dell’avvenuto impatto. Notando che la vettura di Frank era scomparsa, scoppiò a ridere con gran fragore: “Bene, ora che il poliziotto è morto nulla potrà impedire l'adempimento dei poteri di Katon! Dopo secoli finalmente la setta ha trionfato!” esclamò, ridendo
assieme agli altri quattro membri ancora seduti in macchina. Il membro della setta diede ancora un'occhiata per sicurezza e salì a bordo dell'auto, sfrecciando a tutta velocità per evitare di essere visto da qualcuno. Nel frattempo l’automobile si era adagiata sul fondale; Frank era in preda al panico, d'istinto cercò di aprire la portiera, invano, per via della forte pressione che glielo impediva. L'unico pensiero era che di lì a qualche minuto avrebbe fatto la fine del topo. Intanto l'acqua aveva già superato la cintura: doveva trovare una soluzione per salvarsi e uscire da lì. All’improvviso si ricordò che il vetro posteriore era frantumato, era quella l'unica via d'uscita. Frank nuotò in direzione del lunotto posteriore, poi si fece il segno della croce e lo attraversò. Uscì senza particolari problemi, a parte un piccolo taglio sul braccio provocato da un frammento di vetro del finestrino, cui non diede peso: l’unica cosa che gli premeva era uscire dal fiume. Frank raggiunse la superficie e prese una grossa boccata d'aria; intanto la pioggia imperversava. La corrente del fiume era forte e lo stava trascinando sempre più avanti, in una direzione a lui ignota. Le forze lo stavano per abbandonare e la ferita continuava copiosamente a sanguinare. Fortuna volle che davanti a lui scorse un ormeggio per piccole imbarcazioni. Frank non perse altro tempo e con le ultime forze rimaste si aggrappò a uno dei pali che reggevano la piattaforma in legno. L’impeto della corrente lo spostava, facendolo muovere come una banderuola in balia del vento, ma riuscì a tirarsi su sdraiandosi completamente sopra l'ormeggio: era salvo, ma gli occhi gli si fecero via via più pesanti e svenne per la fatica. “Hey signore tutto bene?”, disse una voce lontana, che raggiunse le orecchie di Frank. Buio.
Il corpo si muoveva, era trascinato da qualcuno la cui l’identità era ignota; i sensi erano deboli e l'input muscolare quasi azzerato. Poi un rumore di automobile si fece strada. “Bisogna portarlo in ospedale, ha perso molto sangue” esclamò un uomo. La voce che prima era lontana, ora era molto più vicina; la vista cominciò a mettere a fuoco l'ambiente circostante: era dentro a una vettura; ma chi era la persona che stava guidando? Il vice sceriffo emise una smorfia di sofferenza: “Dove mi state portando, e chi siete voi?”, domando Frank agli sconosciuti. “Oh ti sei svegliato, bene. Tutto ok ora? Mia moglie ha provveduto a fasciarti il braccio, ti stiamo portando all'ospedale, comunque io sono François e lei è mia moglie Caterine”, disse l’uomo. Frank per un attimo sentì un vuoto dentro di sé, cercando di recepire tutto quello che gli era stato detto dal suo interlocutore, ma poi gli sovvenne che aveva un appuntamento inderogabile, un impegno in cui era in ballo la vita dell'intero pianeta, e l'ultimo dei suoi pensieri era andare in un dannato ospedale a perdere del tempo prezioso. Ogni minuto che ava era come un centimetro di acqua che riempiva la stiva di una nave: la sua nave pronta a colare a picco nel mare della malvagità. A quel punto Frank esplose: “No! Nessun ospedale, portatemi all'aeroporto! È una questione di vita o di morte!” disse animatamente. “Si rilassi signore, vada a farsi dare una controllata, ha perso molto sangue, mi creda”, esclamò François alla guida. “No!” gridò Frank, e con un guizzo di rabbia prese l'uomo per la maglia e gli tirò un pugno; ma l'uomo reagì prontamente con un altro pugno ben indirizzato sulla bocca.
Nel frattempo una pattuglia ferma sul ciglio della strada, vedendo l'auto sfrecciare a gran velocità, si mise all'inseguimento. Intanto Frank e l'uomo alla guida continuarono ad affrontarsi, fino a quando videro che dalla sinistra si affiancò l'auto della polizia che intimava loro di fermarsi. A quel punto François accostò. L'auto della polizia si fermò dietro di loro, si aprì la portiera e dalla macchina uscirono due uomini: uno sulla quarantina con capelli brizzolati e corporatura atletica e l’altro ancora molto giovane, magro e con capelli biondo cenere. Si avvicinarono e dissero: “Salve”. “Salve”, risposero Frank e François contemporaneamente. “Temo che dovrò farle una bella multa per eccesso di velocità” esclamò l’agente più anziano. François fece una smorfia di disappunto. Mentre il poliziotto stava per scrivere sul taccuino dei verbali, notò che i due mostravano segni di tumefazioni sul volto e sangue rappreso ai lati della bocca e del naso. “Che cosa avete combinato al volto? Rispondete!” domandò il poliziotto se. Frank stava cominciando a parlare ma fu interrotto da François: “Agente questo pazzo mi ha aggredito, asserendo che doveva andare assolutamente in aeroporto. Io gli ho fatto solamente un favore: l'ho visto in riva al fiume privo di forze, e ho deciso di portarlo in ospedale, aveva perso molto sangue”. “Beh, ha fatto bene a soccorrerlo, ma non vi era motivo di correre in quel modo, il signore alla sua destra non mi sembra così moribondo non crede?”, esclamò il poliziotto.
“Ehm, sì, ma...”, François fu interrotto. “Quello che mi chiedo io è perché il signore alla sua destra la stava aggredendo? Come si chiama?”, chiese l'agente se rivolgendosi a Frank. “Frank Murphy. Mi chiamo Frank Murphy e sono un agente di polizia inglese”, asserì Frank, mostrando il distintivo all'agente. “Ah un poliziotto inglese, sono curioso di sentirla: mi dia una buona ragione per non portarla in caserma. Si ricordi che qui siamo in territorio se…” rispose l’agente. “Credo che tutti quanti voi, non mi credereste mai: mi prendereste piuttosto per pazzo”, asserì Frank con le orbite spalancate. “La ascolto signor Murphy… prego!”. “Qui è in ballo il destino del pianeta, l'umanità è in grave pericolo. Devo fermare la Setta degli Allori Rossi, che vuole risvegliare Katon, signore dei demoni! Altrimenti, il mondo sarà pervaso dall'odio incontrollato: ci uccideremo l’un l'altro. Katon avrà il controllo di tutti noi: io devo prendere quell'aereo tornare a Talon City per sconfiggerlo”. Tutti i presenti scoppiarono a ridere, più degli altri i due agenti. “Questa è buona, il signore dei demoni… lo sa fino a un minuto fa mi sembrava una giornata grigia, ma lei me l'ha illuminata con il suo umorismo e la sua fervida immaginazione?”. “Ecco, sapevo che avrebbe reagito così, ma mi creda è la verità”, esclamò Frank atterrito. “E lei pretende che io creda a un'idiozia simile?”, chiese l'agente. “Lei mi deve credere… è la verità!” rispose Frank. “E sentiamo… lei come è venuto a conoscenza di questo demone che porterà il mondo nel caos?”, domandò l'agente con tono sarcastico. “Il professor Jacques Fiennes e Padre Juan del villaggio di Doujane mi hanno
rivelato informazioni di vitale importanza sulla setta e sul tentativo di risvegliare il demone Katon. Quei due uomini hanno dato la vita per fornirmi queste informazioni! Vada pure a controllare in Rue de la Libertè, 122, a Doujane e troverà ancora il corpo di Jacques Fiennes in casa sua, e nel bosco vicino vi è una caverna… lì troverà il corpo di padre Juan, ucciso dagli uomini della setta”. “Quindi lei afferma di avere lasciato due cadaveri per la sua strada senza aver chiamato la polizia? Questo è davvero troppo… chi mi dice che non è stato lei a ucciderli?” chiese l’agente un po’ inalberato. “E' stata la setta a ucciderli, perché al corrente del segreto, e ora vogliono eliminare anche me, ecco perché sono fuggito! Mandi dei suoi uomini a controllare; vedrà che tutto ciò che le ho detto corrisponde a verità!” disse Frank arrabbiato. L'agente di polizia se guardò negli occhi Frank con aria perplessa. Nel frattempo l'altro poliziotto, che fino a quel momento era stato in silenzio vicino all'agente gli si avvicinò all'orecchio bisbigliandogli: “Signore, forse dovremmo tentare, a giudicare dall'espressione del suo volto i fatti che racconta potrebbero corrispondere a verità”. L'agente più anziano si girò verso quello più giovane e gli fece un cenno di assenso: “David, chiama la centrale e avvisali che ci sono dei cadaveri in Rue...” e chiese: “Dove ha detto che era, signor Murphy?”. “Rue de la Libertè, 122 a Doujane!”, rispose Frank sospirando. “Sì, Rue de la Libertè, 122 a Doujane… digli di mandare una squadra a controllare. E voi tre venite subito con me in Centrale: fin quando non saprò la verità, sarete sotto la custodia della polizia di Tordans”, esclamò il poliziotto. L'agente più giovane ammanettò i tre e li invitò a seguirli dentro la vettura facendoli salire a bordo nei sedili posteriori e requisì l’arma di Frank.
CAPITOLO 12
L'auto dei poliziotti si percorse a gran velocità la strada che conduceva alla stazione di polizia a Tordans mentre Frank ammirava dal finestrino le poche case della campagna di Doujane. In pochi attimi l'automobile arrivò a destinazione senza che Frank se ne fosse accorto. Il poliziotto giovane fece scendere Frank, François e sua moglie Caterine, accompagnandoli all'ingresso del palazzo. “La stazione di polizia non è molto diversa da quella di Talon city, cambiano solamente i volti delle persone che vi lavorano. Non ci sono i miei compagni ad aspettare i miei comandi, non mi tocca interrogare i sospettati bensì stavolta sono io ad essere indagato… che vergogna per un vice sceriffo come me!” pensò Frank nella sua mente. Una volta entrati, l'agente più anziano li invitò a seguirlo nella stanza degli interrogatori; intanto il poliziotto giovane salutò i colleghi e rientrò nel suo ufficio. “Ah, scusate se non mi sono presentato prima, sono il commissario Jerard Jeneve. Prego, accomodatevi pure” mormorò il poliziotto più anziano. I tre sedettero nella stanza e aspettarono l’inizio dell’interrogatorio. “Mi auguro che i suoi uomini facciano il più in fretta possibile, non ho tutto questo tempo da perdere”, disse Frank seccato. “Che irruenza, stia calmo, tanto lei non esce di qua fin quando non mi dice la verità. Allora, sia sincero, cosa deve andare a fare in Inghilterra? Un altro omicidio forse? Non le è bastato quello di padre Juan? Ora lei non può pretendere che io creda alla storia della setta e di quel demone… come ha detto che si chiama?” tuonò il commissario. “Katon! Mi fa fare una telefonata per cortesia?” chiese Frank. “Temo di no... allora, mi dica la verità, ha ucciso lei padre Juan?” domandò
Jeneve. “Le ho detto di no… basta!”, esclamò Frank urlando. “Va bene, va bene, allora cambiamo argomento: che cosa deve andare a fare in Inghilterra? Su, mi dica…” domandò pacatamente il commissario se. “Devo trovare un ragazzo di nome Nicholas Queen e salvarlo da Katon, anche se non ho la più pallida idea di come farò”, rispose Frank. “Ah, quindi era come pensavo! Lei mi sta confessando che deve commettere un altro omicidio” dichiarò Jeneve. “Troverò un’altra soluzione, mi creda” disse con aria di sfida Frank. Nel frattempo che i due poliziotti si guardavano in cagnesco, il telefono sul tavolo squillò. “Pronto… dimmi tutto!” esclamò Jeneve. “Commissario, l’inglese aveva ragione, purtroppo Padre Juan e Jacques Fiennes sono morti, abbiamo trovato le armi del delitto. Inoltre sui luoghi degli omicidi sono stati rinvenuti dei cadaveri di soggetti incensurati poco raccomandabili. L’inglese è stato bravo a sistemarli”. “Bene, grazie Gaston. Seguite la procedura che vi compete” ordinò il poliziotto. Il commissario appoggiò la cornetta sul telefono e guardò Frank dritto negli occhi. “Bene signor Murphy, il caso è chiuso, grazie per la collaborazione… è tutto a posto, era come diceva lei, ma alla storia del demone continuo a non crederci: perché questa setta ha ucciso un prete e un professore di storia? E perché lei era con questi due signori?” domandò Jèrard. “La setta ha visto che loro mi stavano aiutando e li ha uccisi: costoro sono dei pazzi sanguinari che non conoscono pietà e uccidono qualsiasi persona cerchi di ostacolare l'ascesa di Katon” tuonò Frank. “Signor Murphy, stento a credere che esistano simili cose al mondo, il medioevo
è finito da un po’… comunque ora sarà meglio avvisare Robert della morte di suo cugino Juan” annunciò il commissario con tono perplesso. “Noi possiamo andare?”, domandò Frank guardando negli occhi François e la moglie, che erano stati in silenzio durante la conversazione. “François e Caterine sì… andate pure… lei, agente Murphy, stia ancora qua un secondo, poi le spiego” disse il commissario. Jeneve aprì la porta alla coppia e avvisò uno degli agenti di rimuovere le manette e accompagnarli fuori: François e la moglie salutarono Frank con un cenno del capo. Il commissario Jerard chiuse la porta e ritornò alla sua scrivania, poi prese nuovamente la cornetta in mano e chiamò il cugino; la conversazione telefonica durò pochi secondi. Al termine Frank chiese: “Come mai mi ha trattenuto commissario?”. “Voglio aiutarla agente Murphy”. “Mi chiami pure Frank”. “Certo, Frank… sono curioso di sapere come andrà a finire questa storia, che onestamente mi ha molto colpito: è la prima volta che sento parlare di omicidi collegati a una setta dalle mie parti. Ho appena convocato Robert: chissà, magari potrà darle una mano, visto che era il cugino di Juan… forse saprà qualcosa di questa setta”. “Bene, grazie, ma il tempo stringe commissario e io devo scappare, ho poche ore ormai, non mi resta molto”. “Non si preoccupi, conosco il proprietario di un aeroporto privato che possiede aerei di ottima fattura, capaci di farla volare in Inghilterra in un batter di ciglia: proprio ieri ne ho affittato uno per una settimana… comunque vado a prendere un caffè, lo vuole anche lei?”. “Si grazie, molto volentieri… ma…”.
Il commissario si alzò dalla sedia bruscamente, senza lasciare tempo a Frank di dire la benché minima parola, e lo chiuse a chiave nella stanza. Frank si guardò attorno in cerca di un oggetto per aprire le manette, e trovò sopra il tavolo una scatoletta di plastica contenente delle graffette ferma fogli; si alzò e si girò dando le spalle al tavolo tentando di aprirla, senza tuttavia riuscirci. La scatoletta gli scivolò dalle mani e cadde a terra; al contempo Frank udì dei i provenire da fuori la porta, era il commissario che faceva ritorno. Con un guizzo, il vice sceriffo si girò e si chinò per raccogliere la scatola delle graffette; aprì il contenitore e ne prese una, infilandosela nella tasca posteriore dei jeans. Poi ripose la scatoletta dove l'aveva trovata, e si sedette. La serratura della porta si aprì e il commissario entrò nella stanza; Frank lo guardò con indifferenza. “Ecco a lei, una bella tazza di caffè, lo beva pure con calma… aspetteremo Robert per parlare meglio della questione”. Da quel momento Frank ebbe come l'impressione di sentirsi in trappola… perché tutta quella calma? Va bene lo scetticismo, ma ormai non vi era molto tempo e il commissario sembrava incurante del tempo che ava inesorabile: trangugiava il suo caffè con un'espressione di immensa tranquillità. Così Frank con estrema calma e perizia sfilò la graffetta dai jeans e si liberò. Ad un tratto si sentì bussare alla porta, era arrivato Robert accompagnato da un agente. “Oh, prego signor Robert, si accomodi… grazie mille Christophe”, disse il commissario con voce quasi gioiosa. Intanto l’agente chiuse la porta lasciando il commissario chiuso in stanza con i due uomini. Frank guardò Jeneve e successivamente Robert, il quale mostrava un fisico giovanile, anche se l'età doveva essere sulla cinquantina: capelli neri tirati all'indietro, occhi nocciola, abbigliamento curato e, dalla tasca della giacca un
fazzoletto marrone chiaro. Il tutto gli conferiva un alone di mistero. L'uomo si sedette sulla sedia adiacente a quella di Frank porgendogli la mano. “Piacere, sono Robert Danton”. “Spiacente, ma sono ancora ammanettato, temo che non potrò darle la mano. Comunque Frank Murphy, molto piacere”, gli disse Frank con un sorriso imbarazzato. “Mi spiace molto… cosa le è successo?”, domandò Robert a Frank. “Bene, veniamo al dunque” esclamò il commissario Jeneve, interrompendo il dialogo tra i due, che, attirati dalla voce impetuosa, si girarono verso il funzionario di polizia. “Robert, ti ho convocato qui per una ragione precisa”. “Quale?”, domandò Robert. Il commissario si abbassò alla sua destra, in direzione del cassetto della scrivania; Frank udì un rumore metallico molto familiare. “Questa”. Il commissario puntò la pistola in direzione di Robert. “Cosa vuoi fare? Sei impazzito?”, domandò Robert in preda al panico più totale. “Oh niente… solo farvi un buco in testa e mandarvi al Creatore”. Frank rimase stupito dalla scena che aveva innanzi ai suoi occhi, e per un attimo non fiatò; sapeva bene che in simili situazioni una parola di troppo oppure una frase errata potevano costare care. “Commissario, perché sta facendo questo?”, chiese Frank guardando dritto negli occhi Jeneve. “Credevi che ti avrei lasciato agire indisturbato?... Mike prima di essere ucciso da te mi ha chiamato e mi ha informato su tutto. Volevi intralciare l'ascesa di Katon!? Povero illuso, nessuno può fermare Katon, e una volta che avrà preso pieno potere su Nicholas voi sarete carne morta e io potrò godere di tutti i
privilegi che sono riservati a un membro della Setta degli Allori Rossi: immortalità, forza sovrumana e un posto al fianco del signore dei demoni”. “Siete proprio dei bastardi, voi della setta… vi intrufolate da ogni parte come serpi pronte a colpire, senza nessuna pietà! Tu non lo sai, eppure sei già morto!” gridò Frank in preda a un attacco d'ira. “Oh, davvero io sarei già morto? Mi sa che a morire sarai proprio tu, caro il mio sbirro inglese”, disse il commissario con tono beffardo, pistola puntata verso il vice sceriffo. In una frazione di secondo Frank spinse Robert a terra; nel mentre il commissario sparò un colpo che raggiunse il muro dall'altra parte. “Siete morti maledetti!”, urlò Jeneve gonfio di rabbia. Frank con scatto fulmineo si lanciò sotto la scrivania, in direzione dei piedi del commissario, afferrandogli i pantaloni e gettandolo a terra; intanto un altro colpo partì, colpendo quasi la testa di Robert che era rannicchiato per terra. Frank si avventò su Jeneve con tutta la forza che aveva in corpo, tentando di strappargli la pistola dalle mani, e “bang” un altro colpo fendette l’aria colpendo il muro. Il vice sceriffo bloccò il braccio di Jeneve, mentre quest'ultimo continuava a sparare colpi all'impazzata, fino a quando gli diede una testata che lo stordì e poté prendergli la pistola dalle mani. Frank si alzò in piedi puntandola contro il commissario che stordito farfugliò qualcosa di incomprensibile. A quel punto Robert, spettatore della scena, intimò a Frank di risparmiare il commissario, ma il poliziotto non ebbe pietà e incurante della voce di Robert gli sparò un colpo dritto in testa, creando a poco a poco una enorme macchia di sangue che ricoperse il pavimento. In quell'istante Robert guardò Frank; quest’ultimo aveva ancora un’espressione pregna di rabbia e il respiro incessante… Robert per un attimo pensò che sarebbe stata lui la prossima vittima della furia del poliziotto di Talon, ma nulla accadde. Nel frattempo, gli altri poliziotti che avevano udito gli spari tentarono di sfondare la porta; Frank infilò la pistola del commissario nei pantaloni e frugò nel cassetto della scrivania in cerca delle chiavi del velivolo dapprima
menzionato dal funzionario di polizia se. Per sua gran fortuna, Frank trovò una chiave con su una targhetta recante la sigla “MX400”, nome dei jet a doppia turbina dell'azienda Marcos. “Presto, Robert, non c'è tempo da perdere… dobbiamo fuggire o siamo morti”, esclamò Frank a gran voce. Robert si alzò di scatto, vedendo che Frank stava scavalcando la finestra. “Ma cosa vuoi fare? Saltare dalla finestra? Sei impazzito?”. “Beh, io salto, non ho intenzione di farmi ammazzare”, disse il vice sceriffo con un tono di voce alto. Robert non ebbe esitazioni e seguì Frank in direzione della finestra. “Allora pronto? Uno… due… tre!”. Nell'attimo in cui i due si lanciarono, i poliziotti sfondarono la porta facendo irruzione, trovando solo il corpo del commissario ormai senza vita. “Presto, acciuffateli non devono scapparci!”, urlò il poliziotto più alto in grado. Nel frattempo i due atterrarono in una siepe che contornava la stazione di polizia. “Visto Robert? Non è andata poi così male…”, esclamò Frank scherzoso. Robert fece solo una smorfia di disappunto mascherata da un mezzo sorriso. Frank domandò dove fosse parcheggiata l'auto di Robert, lui gli disse che era in uno dei posteggi frontali della stazione di polizia; i due si spostarono verso il muro posteriore rasentando le pareti. Il vice sceriffo ò avanti; procedettero a o lento, fin quando si fermarono. Frank sbirciò dall’angolo del muro e notò due poliziotti che venivano nella loro direzione. “Accidenti, non ci voleva”, disse il poliziotto.
“Che succede?”, domandò Robert con tono spaventato. “Ssshhh!”, disse Frank a Robert, puntando il dito sul naso. In quell'istante Frank non ebbe esitazione: sparò in direzione dei due poliziotti colpendoli con colpi precisi in fronte: caddero a terra esamini. “Presto, muoviamoci o siamo morti”, disse Frank a Robert, che annuì col capo. I due corsero rasente al muro; per un attimo, Frank si girò a guardare i due poliziotti, con un'espressione di velata sofferenza. L'erba attorno a loro era intrisa di sangue, rendendo il manto erboso di un rosso ; i due raggiunsero l'altro angolo della stazione che dava sull'ingresso principale. Sulla scalinata di accesso, si potevano notare due poliziotti che conversavano animatamente, allertati dagli spari che provenivano dalla direzione di Frank e Robert. Uno di loro notò il viso di Frank sporgere dallo spigolo e sparò due colpi che quasi lo colpirono. “Qual è la tua macchina?”, domandò Frank con fervore. “Quella gialla lì davanti”, urlò Robert, mentre gli spari li raggiungevano. “Vai verso la macchina e vieni a prendermi qua, ti copro io”, urlò Frank con fare autoritario. “Ok!”, disse Robert spaventato. In quel frangente, Frank sparò all'impazzata verso i due poliziotti; intanto Robert raggiunse di corsa l'autovettura, vi salì a bordo, mise in moto e andò verso Frank. A quel punto, Frank esaurì le munizioni, ma fortuna volle che Robert riuscisse ad avvicinarsi a Frank per prenderlo a bordo. I due partirono a grande velocità trascinandosi dietro numerose auto della polizia.
L'auto di piccola cilindrata di Robert svicolava tra le vie di Tordans, senza tuttavia distanziare di molto le pattuglie. Frank prese in mano il mazzo di chiavi del velivolo affittato da Jeneve e lo strinse forte, domandando a Robert dove fosse situato l'aeroporto privato menzionato dal commissario. Robert gli rispose che lo conosceva, e che per arrivare sin là era necessario percorrere l'intera città, raggiungendo l'altro capo; il vice sceriffo scrutò dal finestrino i palazzi che sembravano non finire mai e venne preso dal magone. “Accelera maledizione! Abbiamo poco tempo, Robert!”, disse Frank deglutendo disperato. Le auto della polizia dietro di loro non sembravano desistere; Frank si sentì non più un tutore della legge, ma un assassino: aveva ucciso due colleghi a sangue freddo… mai sarebbe arrivato a tanto se non ci fosse stato così poco tempo a disposizione. Allo stridere delle gomme sull'asfalto, ebbe come un risveglio: Robert aveva imboccato una piccola e angusta via a senso unico. “Hey Frank, tutto bene?... di qua dovremmo seminarli e accorciare la strada per l'aeroporto”, disse Robert al vice sceriffo; poi dribblò un cassonetto: appena dietro di loro una pattuglia non riuscì nel tentativo e lo centrò in pieno, mandando all’aria una gran quantità di rifiuti. Intanto altre auto sopraggiunsero all'inseguimento di Robert e Frank. “Maledizione quanti sono… non ce la faremo mai”, urlò Robert in preda al panico. “Non perdere la concentrazione Robert, o sarà peggio per noi”, gridò a sua volta Frank, stringendo la mano sulla maniglia della portiera e guardando dritto davanti a lui. In lontananza si poté scorgere un'altra strada più ampia che segnava la fine del vicoletto angusto. Robert all'uscita non prestò attenzione e vi si addentrò sterzando con forza verso destra; nel frattempo un’auto della polizia sfiorò una delle macchine parcheggiate sulla strada.
Le auto continuarono a sfrecciare imperterrite per le vie di Tordans, lasciando i anti sconcertati; alcuni di loro fotografarono la scena. “Tra poco dovremmo incontrare un ponte mobile che dà sul fiume Loire, tieniti pronto!”, disse Robert. Il vice sceriffo lo guardò con espressione incredula, sentendosi immerso in un’atmosfera colma di adrenalina. Davanti a loro si poté notare l'enorme ponte mobile che era in procinto di alzarsi; Frank notò che Robert controllò l'orologio, probabilmente per assicurarsi che fosse l'ora giusta per l'apertura. L'auto si fece sempre più vicina al ponte, fino a quando lo percorse a gran velocità: i due non poterono fare a meno di urlare. Arrivò il momento del salto... sospesi in aria! “Aaaaaahhhhhh!”. L'auto raggiunse l'altra parte del ponte sobbalzando fino a sfregare il frontale sull'asfalto, creando numerose scintille. Intanto dall'altra parte del ponte una pattuglia si arrestò per paura, sterzando sulla sinistra, mentre altre tre auto saltarono il ponte con estrema facilità; una di queste finì fuori strada centrando un palo lì vicino. Ora rimanevano due pattuglie da seminare. Frank si guardò ancora una volta dietro per vedere lo svolgersi della situazione e diede un'occhiata alla sua pistola ormai scarica: “Maledizione se solo potessi sparargli”, pensò Frank. Robert per un secondo si girò a guardare il vice sceriffo: “Lo so cosa pensi Frank, ma non temere: li semineremo!”. Il poliziotto rimase stupito da cotanto coraggio e per un attimo si sentì come vulnerabile; in quell'istante Robert fece un soro azzardato e sfiorò un’automobile che veniva dalla direzione opposta. “Ma dove hai imparato a guidare così?”, domandò Frank con tono adirato.
Robert non si girò a rispondere, e sorrise solamente. “Ok, ora siamo fuori città, manca poco all'aeroporto privato”, disse Robert con fare deciso. Ai bordi della strada si potevano notare alcune case simili a quelle del villaggio di Doujane: tetto nero e pietre a vista. “Dannazione!”, gridò Robert. “Che succede?”, domandò Frank. Il vice sceriffo capì che la situazione stava volgendo al peggio: una mandria di vacche stava attraversando la strada, e finir loro addosso sarebbe stato fatale, e anche immorale: in fondo quelle povere bestie che colpa avevano se dovevano are proprio di lì. Il contadino che le guidava scorse in lontananza le auto in corsa e si mise a gridare cercando istintivamente di spingere i capi di bestiame sull'altro ciglio della strada. Le auto erano ormai vicine, Robert con abile mossa dribblò l'ultimo manzo di quella lunga fila. “Aaaaahhhhh!”: i due uomini gridarono dal terrore. L'auto andò a sbattere su di una di quelle staccionate di legno fragile che contornavano le case. L'auto di Robert sbandò verso destra, ma con abile mossa lui la rimise in carreggiata. Intanto le auto della polizia attraversarono il medesimo punto in cui aveva attraversato Robert; in quel mentre, il contadino fece per girarsi a guardare l'evolversi della situazione e cadde in terra all'indietro. Le auto continuarono a inseguirsi per diversi chilometri. Uno dei poliziotti aprì il fuoco e tentò di colpire le gomme dell'auto di Robert, ma invano: Robert sembrava come posseduto, si muoveva a zig zag superando ogni macchina gli si parasse davanti.
Il poliziotto che aveva tentato di colpire l'auto di Robert ritrasse la pistola, per via dell'ordine del suo superiore che era alla guida: avrebbe potuto colpire dei civili. “Siamo quasi arrivati Frank”. Il vice sceriffo notò in lontananza il grosso cancello dell'aeroporto con su scritto “Voyage Dupont”.
CAPITOLO 13
“Ci siamo Frank, non temere!”, disse Robert urlando, mentre superava l'ultima automobile. Arrivati davanti all’ingresso dell’aeroporto, i due scesero dall'auto, abbandonando il veicolo a bordo della strada ove si addentrarono. Il perimetro dell'aeroporto era contornato da una rete metallica con del filo spinato. In lontananza si potevano scorgere quattro hangar di modeste dimensioni; sulla sinistra vi era un edificio di color grigio spento e da una delle finestre si potevano notare due uomini conversare. Frank e Robert si diressero con molta cautela a lato degli edifici senza farsi notare dagli operai che lavoravano e parlavano tra di loro. Intanto dalla strada si potevano udire le sirene della polizia che venivano nella loro direzione; il rombo delle volanti si arrestò e si sentirono i rumori delle porte della volante sbattere. “Merda! Dobbiamo fare in fretta”, disse Frank a bassa voce. I due notarono degli addetti alla manutenzione lavorare su un velivolo dentro a uno degli hangar mentre in un altro lì vicino si poté notare la scritta “Affittato al commissario”. Era di sicuro l'aereo prenotato da Jeneve, pensò Frank: un bel MX400 bianco con strisce nere sui lati, con la livrea lucidissima. I due si guardarono a destra e sinistra e corsero verso il mezzo. “Fermi!”. Si sentì il rumore di un'arma che si caricò. “Su le mani!”.
Al sentire quella misteriosa voce i due eseguirono l'ordine. “Ora voltatevi!” I due si girarono e a loro sorpresa non fu un poliziotto a puntar loro contro l'arma, ma un vigilante che con espressione boriosa si mise a ridere con gusto. “Dove credevate di andare?”. Nel frattempo arrivarono i poliziotti che ringraziarono l'agente di sicurezza dandogli una pacca sulla spalla e si avvicinarono a Frank e Robert. “Bene, ora qui è compito nostro. In quanto a voi, vi dichiaro in arresto per l'omicidio del commissario Jeneve, potete affidarvi ad un legale; in caso contrario ve ne sarà assegnato uno d'ufficio”, disse il brigadiere. “E' stato Jeneve a cercare di ucciderci per primo: io mi sono solo difeso. Il signor Robert qui presente può testimoniare”, urlò Frank gonfio di rabbia e disperazione. “Sì, come no! E Babbo Natale esiste… e gli altri ragazzi che hai ucciso a sangue freddo fuori dalla centrale? Presto, ammanettateli e portateli via!”, disse il poliziotto più alto in grado con tono deciso a due agenti vicino a lui. “Non avevo scelta. La prego mi lasci: è una questione di vita o di morte. È in ballo la vita di tutti noi”, urlò Frank, mentre i due agenti cercavano di ammanettarlo. “Questa è buona: tra mille giustificazioni per non farsi arrestare, questa è la più strana che abbia mai sentito”, disse il poliziotto. Intanto l'agente di sicurezza che sentì la discussione, con un cenno chiamò gli altri suoi compagni e puntò l'arma alla schiena del brigadiere. “Cosa?”: il brigadiere si girò di scatto guardando l’agente di sicurezza negli occhi. “Mi spiace brigadiere, ma temo che dovrò ucciderla: non possiamo permettere che l’inglese e il suo amichetto sopravvivano. L’ascesa di Katon non può essere fermata… addio!”
“Bang!”. Un colpo di pistola colpì violentemente il brigadiere facendolo cadere in ginocchio e poi a terra. Gli agenti di polizia vedendo quella macabra scena cercarono di rispondere al fuoco, ma vennero colpiti da altri agenti di sicurezza davanti a loro. Frank e Robert sfruttarono l'occasione per fuggire indisturbati dentro l'hangar dove era posteggiato il jet di Jeneve: gli uomini della setta iniziarono a sparare ai due fuggitivi. “Presto Robert, corri!”, urlò Frank. Fortuna volle che i colpi non scalfissero minimamente i due uomini, che si addentrarono in quella enorme struttura metallica; Frank cercò subito l'interruttore per chiudere la saracinesca e lo trovò. Era di un bel verde : lo premette e l'enorme cancello metallico si mosse a ritmo medio per chiudersi. Al di fuori intanto gli agenti di sicurezza, membri della setta, correvano all'impazzata verso di loro sparando a più non posso. L'imposta si chiuse, erano bloccati dentro, ma erano salvi per il momento. “E ora cosa facciamo Frank?”, domandò Robert terrorizzato. “Non lo so, ma almeno abbiamo guadagnato tempo”, rispose Frank tentando di non far trasparire l'angoscia che lo assaliva. I due in quell'istante si girarono verso l'aereo che sembrava che li scrutasse con quel muso appuntito e i suoi vetri anteriori; era come una persona con due enormi occhi. I due decisero di salire sull'aeromobile. Il vice sceriffo decise che il ruolo di pilota spettava a lui, sapeva che doveva farlo. “Chi guida?”, chiese Robert.
“Io, anche se non ho mai guidato un aereo in vita mia. Però ho acquisito molte conoscenze grazie ai simulatori di volo per computer”, rispose Frank. Quella risposta non rincuorò molto Robert, che deglutì sbarrando gli occhi verso il vice sceriffo: “Speriamo che vada tutto bene”, disse. Frank, incurante di quelle parole, levò subito lo sguardo ed entrò dentro la cabina di pilotaggio: si sedette e guardò l'immensa consolle capeggiata da molti pulsanti leve e tachimetri, fece mente locale della procedura di avviamento motore e agì. Accendendo dapprima l'APU e lo starter, il motore cominciò a prendere giri e Frank aprì il rubinetto del carburante; i motori si erano stabilizzati e l'aereo era pronto a partire: il suono delle turbine invase l'intero stabile. In quel momento Robert entrò dentro l'aereo e si complimentò con Frank per la sua impresa di accensione; successivamente il cugino del prete notò a lato del sedile dove era seduto Frank una pistola riposta su una fondina color marrone scuro. Gioì per la fortuna di averla trovata: si sentiva più sicuro e chiese spiegazioni a Frank sul suo utilizzo, che fu contento di dargliele. “Bene Robert, ora se Dio vuole ce ne andiamo da questo posto… allora, la prima cosa che devi fare è aprirmi il cancello, rientrare nell'aereo e sparare a vista su qualsiasi cosa si muova. Intesi?”. Robert annuì con un cenno del capo e pensò che era una follia ma era l’unica cosa da fare per salvarsi. Non obiettò e si diresse subito in direzione dell'interruttore del cancello per sbloccarlo e aprirlo. A quel punto, Frank avvicinò il jet in prossimità dell'enorme imposta. Intanto da fuori si udivano le voci dei membri della setta, che inveivano contro di loro e battevano i pugni e sparavano sulla serranda per cercare di aprirla. Robert premette il pulsante ed entrò subito dentro l'aereo posizionandosi in prossimità della portiera di ingresso, mentre una raffica di colpì raggiungeva il frontale del velivolo.
Frank tirò la manetta del motore alla massima potenza, e impostò i flap al massimo: il decollo doveva essere fulmineo e in spazio breve: non potevano certo permettersi di effettuare un decollo usando l'intera pista, gli assalitori avrebbero subito mirato ai motori. L'aereo partì. Robert impugnò la pistola e sparò davanti a sé colpendo alcuni assalitori alle gambe e altri al petto; due vennero travolti dall'aereo in corsa, che sbandò un attimo per poi riassestarsi. Il capo degli assalitori, che si era scansato per non essere investito, tentò con un ultimo disperato tentativo di colpire Robert, ma non ci riuscì e venne centrato da quest'ultimo a una gamba, cadendo a terra. Frank impugnò saldamente la cloche e la spostò tutta in basso: l'aereo prese quota. “Ho un futuro da pilota”, pensò il poliziotto. Nel mentre, Robert chiuse il portellone e tornò in cabina di pilotaggio sedendosi vicino a Frank. I due esultarono: ce l'avevano fatta...
CAPITOLO 14
Il suono dell'MX400 rimbombava per tutto l'abitacolo; erano ati pochi minuti dal decollo, l’aereo viaggiava tranquillamente e Robert ammirava lo stupendo paesaggio sottostante: non gli era mai capitato di salire su un aereo e osservare la Francia da lassù. Successivamente, pensò allo scopo per cui era salito a bordo e si domandò se Frank conoscesse la rotta per dirigersi verso il Regno Unito. In quel momento Frank pensò anch'egli a come avrebbe fatto a trovare la rotta da percorrere per giungere a destinazione, e gli chiese di frugare nel cassetto sotto alla consolle in cerca di qualche mappa aerea. Robert trovò una cartina con segnata la rotta da percorrere con i relativi gradi; molto probabilmente il commissario Jeneve l'aveva segnata perché anche lui sarebbe dovuto andare in Inghilterra per l’ascesa di Katon. Robert gliela porse e Frank impostò la traccia per raggiungere il Regno Unito. Il viaggio sembrava interminabile e i due discussero a lungo sulle loro rispettive vite e su come fermare Katon: in fondo nessuno dei due aveva la più pallida idea di come farlo, ma entrambi erano come posseduti da una enorme forza di volontà, che li faceva procedere nonostante le avversità. Dovevano sconfiggere la setta per tutte le persone a loro care che erano morte, vittime di quella pazzia demoniaca. Durante il dialogo, Frank virò a destra seguendo la rotta prestabilita e Robert venne preso da una inspiegabile sensazione di panico: era così strano per lui essere a bordo di un jet. Il silenzio regnava sovrano e l'unico suono percepibile era quello dell'aereo che procedeva a gran velocità. Robert nonostante le angosce, si addormentò lasciandosi cullare dal lieto suono delle turbine.
“Svegliati! Svegliati, Robert, siamo arrivati!”, disse Frank strattonando il compagno. Robert si era addormentato di sasso pensando di aver dormito solo pochi minuti: in realtà era ata un’oretta. Frank prese in mano il microfono della radio e impostò la frequenza sulla stazione di polizia di Talon: dopo qualche istante, a rispondergli fu la recluta Vic Johnson, la voce non sembrava molto rassicurante. “Signore, che piacere sentirla, qui a Talon regna il caos. Ci siamo dovuti barricare: la gente sembra essere impazzita… la situazione ci è sfuggita di mano. o”. “Tranquillo, Vic, sto arrivando. Tieni duro. o”. “Signore… sopravviveremo, vero? o”. “Sì, Vic, tranquillo… tu aspettami lì”. Durante la comunicazione si sentirono solamente spari e urla che preoccuparono molto Frank: per un attimo pensò che Vic non sarebbe sopravvissuto a lungo, non era ancora pronto per reagire a simili situazioni, ma poi si ricordò che il suo compagno era un poliziotto e i poliziotti sono addestrati per quelle situazioni di pericolo. “Vic! Viiiccc!!! Devi resistere, tra poco arrivo”, urlò Frank molto preoccupato. Robert lo scrutò con comione e apprensione, perché lì ad aspettarli vi era solo l'ignoto: né lui né Frank sapevano come fronteggiare Katon. Le soluzioni erano due: o perire oppure combattere e tentare di fermare il demone che via via stava scatenando il caos in tutto il mondo. “Frank, dove atterreremo se la città è in preda al caos?”, chiese Robert spaventato da quello che aveva appena udito dalla radio. “Non preoccuparti, Robert, troveremo un modo. Di sicuro non all'aeroporto, è troppo pericoloso… l'ideale sarebbe atterrare in una zona isolata e raggiungere il centro urbano a piedi”.
Robert annuì; si toccò il mento in segno di preoccupazione. “Ecco, lì mi sembra un buon posto per effettuare l'atterraggio… tieniti pronto!”, disse Frank indicando un enorme campo di grano pianeggiante. Robert non fiatò, si fece il segno della croce e si mise completamente nelle mani di Frank, che in quel momento aveva già impostato i flaps al massimo e cominciava ad indirizzarsi verso quell'enorme slargo. Il jet cominciò ad avvicinarsi al suolo e Frank mentalmente riò la procedura di atterraggio, cercando di stare il più possibile diritto con il muso ed evitare che si impuntasse verso il basso: le conseguenze sarebbero state fatali. I due uomini urlarono a squarciagola quando l'aereo cominciò a toccare il terreno; la velocità era assai elevata: da lì agli alberi vi erano all'incirca 900 metri e Frank sapeva benissimo che la lunghezza non era sufficiente, ma in quel momento non vi erano alternative. Il suono delle turbine era impetuoso ed enfatizzava la paura del momento con irruenza; la manetta era regolata al minimo, i freni furono pigiati con graduale pressione. “Oddio, no! Gli alberi, Frank!” gridò Robert in preda al panico. Il vice sceriffo virò prepotentemente verso sinistra facendo infrangere l'ala destra sugli alberi… “crash!”, e l'aereo si fermò. Frank rimase per qualche secondo imibile, con uno sguardo vitreo, mentre Robert, rendendosi conto che era ancora vivo, esultò per l'esito dell'atterraggio e ringraziò il Signore e suo cugino per averli assistiti fino a lì. “Congratulazioni Frank”, urlò Robert. Il vice sceriffo non reagì: era ancora scosso da quell'atterraggio così impetuoso e si girò lentamente verso Robert, regalandogli un sorriso vittorioso. Pian piano levò le mani sudice di sudore dalla cloche e se le ò sul viso, buttando fuori l'aria e con essa la tensione accumulata. Robert aprì il portellone e scese a terra, Frank prese la pistola che era nella fondina sull'aereo e la ripose nella sua, scendendo anche lui.
La prima decisione di Frank fu di are per i boschi per raggiungere Talon City: così facendo sarebbero entrati in città indisturbati. E così fecero: entrambi corsero a o veloce voltandosi da ogni parte; a poco a poco Frank iniziò a ricordarsi degli attimi ati nella foresta dove aveva decapitato Mike e di quelli precedenti. Tutti gli avvenimenti negativi di questa storia lo tormentavano in maniera assai fastidiosa. Ma non c'era tempo per i ricordi, bisognava agire e in fretta, ormai mancava poco all’ultimatum. Il sentiero si fece via via più in salita e i due cominciarono ad avvertire un forte senso di fatica, soprattutto Robert, che non era di certo addestrato a correre così a lungo. Ogni suono dei i si incrociava con il rumore del respiro pesante di Robert, che intimò a Frank di fermarsi per via della enorme fatica che stava accusando. Il tempo di riprendere fiato e i due ripresero il cammino; ormai già da svariati minuti Frank ripeteva che c'erano quasi, ma Talon sembrava lontanissima per il se. “Avanti, ci siamo quasi Robert”, disse Frank quando avevano raggiunto la fine delle foresta boscosa. Da lì in avanti si poteva notare Talon City immersa in un’atmosfera irreale come in un film: la cittadina si preparava alla battaglia finale. Al vice sceriffo di Talon sembrava tutto molto strano mentre superava il cartello con su scritto: “Welcome to Talon City”. Davanti a loro c’erano delle case che all'apparenza sembravano disabitate, poi la porta di una di esse si aprì di scatto. I due uomini impauriti, si ripararono dietro una siepe posizionata vicino all'abitazione. Frank fece segno di fare silenzio a Robert e subito dopo si girò per guardare quell’uscio aperto. Dalla porta uscì un uomo che brandiva un grosso coltello da cucina insanguinato, Frank si spaventò terribilmente. A primo impatto si augurò che quel coltello lo avesse usato per macellare un animale appena cacciato, ma in cuor suo sapeva che molto probabilmente aveva assassinato qualcuno, magari un familiare o un amico; non aveva importanza oramai, il danno era stato compiuto. Improvvisamente a Frank venne in mente di puntargli la pistola e portarlo in caserma, ma sarebbe stato vano, in quanto come detto da Vic la stazione di
polizia era sotto assedio: Non poteva certo permettersi di farsi scoprire e far saltare il piano. Gli occhi di Frank puntarono di nuovo l'uomo con il coltello e vide che lo stava pulendo contro la propria gamba guardandosi da ogni parte. Frank si abbassò di scatto, ma non fece altrettanto Robert che fu immediatamente scoperto dall'uomo col coltello che gli lanciò un immediato sguardo di odio. “Nooo!”, Robert urlò dalla paura, l'uomo si avvicinò con o deciso verso il se, tenendo in mano quel coltello che aveva ancora del sangue raffermo sulla lama. Frank non perse altro tempo e urlò all'uomo di fermarsi, intimandogli più e più volte di gettare il coltello; ma quelle parole sembravano non attirare benché la minima attenzione del pazzo. Il male del mondo proveniente dall'ascesa di Katon si stava pian piano mettendo in luce e quell'uomo impazzito ne era la prova: gli occhi erano spalancati ed emanavano un'aura di odio. “Fermo! Ancora un altro o e sparo!”. L'uomo non diede ascolto a Frank e cominciò ad alzare il braccio che impugnava il coltello per prepararsi a colpire il malcapitato e “bang!”, un colpo raggiunse la mano dell'uomo facendogli cadere il coltello dalle mani, ma lui non arretrò. Robert rimase ancora fisso a guardare il suo aggressore; Frank lo prese per la giacca e lo trascinò via mentre indietreggiava. A quel punto sparò altri due colpi che raggiunsero il ventre e poi la testa dell’uomo. Questi cadde a terra ed emise un ultimo gemito di dolore guardando Frank negli occhi e levando il braccio verso di lui, stringendo il pugno in segno di sfida. Il vice sceriffo, nonostante la paura di essere aggredito, si avvicinò all'uomo e gli controllò il polso per sicurezza. Era morto. “Meno male!”, pensò il poliziotto. I due procedettero per la strada principale che conduceva alla stazione di polizia, portandosi con loro la brutta sensazione che da un momento all'altro potevano essere aggrediti da qualche altro pazzo furioso. Infatti quella calma apparente si
infranse quando Frank e Robert udirono un forte scroscio di vetri rotti; i due alzarono il capo in direzione del rumore e videro un uomo precipitare dalla finestra e cadere al suolo emettendo un tonfo sordo. In quell’istante sentirono una risata diabolica provenire dalla finestra, era una signora, molto probabilmente la moglie assassina. L'aspetto era spaventoso: la donna mostrava numerose ecchimosi sul volto completamente insanguinato e gli occhi erano iniettati di sangue. Quegli stessi occhi si accorsero della presenza dei due uomini che avevano assistito alla scena. La donna fu presa così da una crisi isterica e cominciò a urlare a squarciagola. Intanto dall'interno delle altre case, altre urla si sprigionarono per tutta l'area, facendo temere il peggio ai due malcapitati, in preda al panico. Ben presto le porte di tutte le abitazioni del circondario si aprirono e da lì uscirono numerose persone che urlavano all'impazzata contro i due uomini: molti di essi avevano in mano coltelli, altri picconi o qualsiasi attrezzo potesse fungere da arma. Frank guardò Robert per un breve frangente e gli sussurrò di seguirlo: Robert seguì il consiglio alla lettera e cominciò a correre velocemente insieme a lui. Davanti a loro intanto cominciava a formarsi una numerosa folla di pazzi assassini che urlava a più non posso e che bloccava loro la via per giungere alla stazione di polizia. Frank vedendo che la situazione non girava a suo favore svoltò in una delle vie sulla destra seguito da Robert; purtroppo dietro di loro spuntarono altre persone che si unirono al primo gruppo di inseguitori. “Presto Robert! Corri, quelli ci ammazzano!”, urlò Frank terrificato. I due corsero per svariati metri trovandosi a saltare diversi cadaveri che occupavano il marciapiede; da uno di questi usciva copiosa materia grigia dal capo e Frank perse quasi l'equilibrio: per fortuna riuscì a tenersi in piedi. Robert era più goffo e molte volte scivolava e cadeva a terra, però si rialzava subito per paura di cader vittima degli inseguitori. Per fortuna mancavano ormai pochi metri alla stazione di polizia perché la folla
inferocita non sembrava dare tregua ai due poveri uomini, allo stremo delle forze. Le finestre della stazione di polizia erano tutte completamente barricate con assi di legno, dando parvenza di un edificio senza vita. Frank e Robert percorsero le scalinate che davano al portone e cominciarono a bussare all'impazzata in cerca di aiuto; dopo vari tentativi il portone fu aperto dalla recluta Vic Johnson che li fece entrare in gran fretta, contento di vedere facce amiche. “Bentornato signore!”. “Grazie Vic, ma tu sei ferito”, disse il vice sceriffo puntando il dito sul suo braccio destro che presentava una fasciatura macchiata di sangue. “Oh non è niente, me la caverò”. “Comunque ho provato a cercare Mike: è sparito nel nulla. E’ da stamattina che lo chiamo al cellulare e non risponde: gli sarà capitato qualcosa di brutto?” “Caro Vic, ti racconterò anche di lui”, disse Frank sospirando. “Boom! Boom!”. I tre furono interrotti dai colpi decisi della folla che cercava di buttar giù il grosso portone principale. Frank aiutato da Robert e da Vic prese il grosso armadio metallico che era nella reception e lo mise davanti al portone; poi ancora un tavolo e tutto quanto l’arredamento che c’era nella stanza. I tonfi continuarono ancora per un po’, ma poi smisero all'improvviso: l'unico suono percepibile erano i i della folla che molto probabilmente si allontanava. “C’è mancato poco…”, disse Frank emettendo un sospiro che alludeva a forte preoccupazione. “Comunque Vic, dimmi un po’: qual è la situazione dei feriti?”.
“Purtroppo molti agenti sono morti nel tentativo di fermare delle liti domestiche, altri invece sono morti in una rapina stamattina: siamo rimasti solo io e l'agente Gun. La gente sembra come impazzita, Dio solo sa cosa sta succedendo in questa città…”. “La situazione è più complicata di quanto credi Vic, ora ti spiegherò brevemente quanto ho scoperto in Francia e cosa è successo a Mike”. “Vedi, quando sono stato lì mi sono state fatte delle rivelazioni di quello che sta succedendo tuttora. La gente è impazzita perché è stata plagiata dal demone Katon che piano piano sta prendendo piede del nostro mondo. Tutto ciò grazie al ragazzo Nicholas Queen”. “Nicholas Queen? Intende il figlio del Pittore Luis Queen?”. “Proprio lui!”. “Ma come è stato possibile tutto ciò?”, domandò Vic atterrito. “In breve: la Setta degli Allori Rossi ha reso tutto questo possibile: per secoli hanno cercato di risvegliar questo demone, che darà loro in cambio poteri sovraumani e potranno regnare sopra il caos più totale. Ti dirò di più, riguardo agli omicidi che si sono susseguiti qui a Talon, gli assassini non sono altro che persone vittime della setta entrati in simbiosi con demoni inferiori. Gli uomini della setta aspettano trepidanti questo giorno, in cui finalmente il demone supremo acquisterà pieni poteri; tra due ore, quando il prescelto, Nicholas, compirà 20 anni. E Mike ci ha traditi: era un membro della setta. Si occupava di occultare i cadaveri e di evitare che la polizia indagasse su questi casi di omicidio. Peccato che i loro piani siano stati sconvolti da me”. “Tutto ciò è sbalorditivo signore, ma anche terrificante. Non credevo che Mike potesse tradirci… mi dispiace molto…”. “Dispiace anche a me perché oltre ad essere un collega era per me un amico”. “Come faremo a fermare il demone visto che è un entità sovraumana?”, chiese Vic preoccupato. “Non preoccuparti, Vic, troveremo il modo di fermarlo. Per prima cosa dobbiamo andare a casa del ragazzo e mettere al sicuro i suoi genitori, dopo di
che tentare di fermare il demone nei limiti delle nostre possibilità umane, e che Dio ci aiuti...”, disse Frank con tono deciso e sicuro di sé; ma nella sua mente sapeva già che sarebbe stata una follia. Comunque il vice sceriffo non doveva dar segno di vacillare ai suoi compagni, non ora che bisognava tenere alto il morale per riuscire nell'impresa. Vic per un attimo non fiatò e lo guardò negli occhi sapendo già che le sue parole non erano rincuoranti, ma in fondo bisognava pur tentare. “E lui chi è?”, domandò Vic. “Ah mi stavo dimenticando: Robert, il cugino di un prete anch’egli vittima della setta. Io e Robert siamo fuggiti perché braccati da altri membri”. I due si strinsero la mano, ma all'improvviso si sentì il rumore di un’automobile in corsa... “boom!”. I tre uomini si girarono e videro un’auto spalancare i portoni di ingresso. Dalla stanza più avanti stava arrivando correndo l'agente Gun preoccupato e con la pistola in pugno, pronto a far fuoco sui nemici. I quattro ragazzi andarono nella sala delle conferenze sulla destra; appena entrati, Gun aprì uno degli armadi dei fucili e ne ò uno a Frank, uno a Robert e l'altro a Vic. Nel frattempo dal veicolo uscirono cinque uomini con varie armi da taglio in mano, correndo direttamente verso Frank, Robert e gli altri due poliziotti. Frank uscì dalla sala delle conferenze e appena vide gli uomini correre verso di lui sparò tre colpi: uno colpì a morte un uomo; gli altri ne uccisero altri due, che si apprestavano ad avanzare. Il quinto uomo fu colpito solamente a una gamba di striscio, ma continuò a camminare come se quel colpo calibro 12 non gli avesse procurato il minimo dolore. Poi un ultimo colpo partì dal fucile di Frank centrando finalmente l'ultimo uomo ancora vivo in pieno petto. Finito il fragore dei colpì regnò un assoluto silenzio che terminò presto con altre
grida che arrivavano dalla strada. “Correteee! Presto, scappiamo viaaa!”, urlò Frank agli altri, che uscirono dalla stanza dove erano rintanati e seguirono il vice sceriffo a ruota. I quattro uomini corsero fino al fondo del largo corridoio ed entrarono nella stanza in fondo all’androne e chio la porta a chiave per prendere tempo. Successivamente a Frank gli venne in mente che non avrebbe potuto stare lì a lungo anche se voleva aiutare i suoi compagni, perché il tempo correva veloce: ormai non mancava molto prima della fusione totale fra il demone e Nicholas. Robert lo guardò e intuì subito il suo stato d'animo e gli disse che poteva andare a compiere il suo destino e che loro se la sarebbero cavata. Frank tentennò nella sua decisione ma poi decise che era ora di andare. “Grazie Robert, appena sarà finito tutto questo ti ringrazierò… addio”. “Non ti preoccupare andrà tutto bene, ci riuscirai”. Così Frank salutò anche i suoi compagni che si stavano preparando allo scontro imminente e scavalcò la finestra che dava sul retro; una sedia ruppe il vetro della sala e decine di uomini entrarono dentro. Vic e Gun iniziarono a sparare sulla folla: decine di uomini morirono a ritmo frenetico; la mira dei due poliziotti era eccezionale, purtroppo avevano finito le cartucce e non avevano il tempo di ricaricare, così decisero di scappare dalla finestra dove pochi minuti prima era fuggito Frank. Robert fu il primo a correre verso la finestra e ad uscire con estrema velocità. Vic lo seguì, invece Gun fu colpito alla testa con un’ascia, talmente forte che il suo cranio si divise in due; il sangue iniziò ad uscire copiosamente dal taglio e in poco tempo il corpo diventò una carcassa appena macellata. Vic assistendo impotente a quella scena raccapricciante gridò dal terrore e scappò lanciandosi fuori dalla finestra; atterrò appoggiando male il piede e si procurò una distorsione alla caviglia.
Robert lo aiutò ad alzarsi e lo prese sotto braccio: Vic non si dava pace per la macabra morte del compagno. Intanto dietro di loro la folla inferocita si lanciava dalla finestra per inseguirli; la caviglia infortunata di Vic non avrebbe mai permesso agli uomini di scappare da quei pazzi, ma strinse i denti e nonostante il dolore lancinante continuò a correre, conscio del fatto che potevano non farcela a causa sua. Con gran sorpresa dei due però successe un fatto alquanto insolito: la folla improvvisamente si disinteressò e proseguì nella marcia, non curandosi più di loro. Vic riuscì ad osservare un assassino: aveva lo sguardo vitreo e spento come se fosse guidato da una forza sovrannaturale. Poi però gli vennero in mente le parole di Frank riguardo al potere di Katon, e realizzò che quei “mostri” probabilmente stavano raggiungendo il luogo dell’ascesa del demone. Li aspettava un grande pericolo, ma il dovere di aiutare Frank in quell'ardua impresa superava qualsiasi paura.
CAPITOLO 15
Frank continuava imperterrito nel suo cammino, andando alla ricerca della casa di Luis Queen, che era un po’ isolata e distante dalle altre del paese. Il poliziotto stava camminando in una via poco popolata, in cui gli alberi la facevano da padrone, ma la cosa di certo non lo intimoriva. Ormai tutte quelle esperienze gli avevano temprato lo spirito dotandolo di un coraggio immane. Il vento freddo di novembre soffiava forte contro di lui, impedendogli di camminare più velocemente, ma non si scoraggiò, e continuò. Percorse la strada per diversi metri trovandosi davanti al lago Yantar: qui notò subito la figura di un ragazzo e lo riconobbe, era il figlio adottivo del proprietario del lago, Ray Myers, che alla vista di Frank emise una risata diabolica, e si incamminò verso il lago. Il vice sceriffo lo ignorò e proseguì per la sua strada per molti metri ancora prima di arrivare a destinazione. Finalmente trovò la maestosa villa Queen circondata da una muraglia che le dava un aspetto quasi medievale. Il poliziotto notò che l'enorme cancello era aperto, sapeva già che varcando quel cancello lo attendeva qualcosa di brutto. Frank si addentrò nella villa, imbracciando il suo fucile con forza guardandosi da ogni parte. Il silenzio regnava sovrano. Il vice sceriffo si sentì per un attimo come partecipe in uno di quei film dell'orrore, dove il protagonista solitamente si trova a marciare in luoghi ostili e pieni di mistero, in attesa che qualche cosa possa rompere il silenzio angoscioso. Anche il portone d’ingresso della villa era aperto e Frank accese la torcia ed entrò dentro l’abitazione. In un attimo la porta gli si chiuse alle spalle. Il vice sceriffo non si spaventò più di tanto: oramai era abituato a queste cose.
“Signor Queen… c'è nessuno in casa?”, disse Frank tenendo saldamente in mano il fucile, dirigendosi nella stanza alla sua sinistra. L'arredamento della casa era impeccabile, i mobili antichi davano a quel salone un aspetto regale, ma al contempo assai tetro. Ad un tratto tutti gli orologi della casa si misero a suonare: erano le otto di sera. Frank fu in preda al panico, cominciò a correre per il salone e poi verso la cucina vicino all'entrata, urlando dalla disperazione sentendosi ormai impotente a fronte di quello che stava succedendo. Dopodiché salì le scale correndo, ma proprio quando aveva terminato l'ultimo scalino per raggiungere il piano superiore avvertì una sensazione strana, come se la mente e il corpo fossero distaccati e indipendenti; fu in quel momento che la casa implose. Frank rimase sospeso in aria, come stesse galleggiandoe il fucile che impugnava gli si levò dalle mani e si disintegrò: in pochi secondi l’ambiente circostante fu avvolto dalle tenebre e il prato della villa si colorò di un rosso scarlatto. Il vicesceriffo era conscio di essere alla mercé di una forza sovrannaturale. Improvvisamente davanti a lui si materializzarono Luis Queen e la moglie Ann Mcnish legati a un palo e tutto attorno vi era un’orda di membri della setta vestiti nel loro abito tradizionale: un completo giacca e pantaloni color rosso. Infine arrivò lui: Nicholas Queen. Nicholas scrutò dalla testa ai piedi Frank con quei suoi occhi azzurri e disse: “Oh, ma guarda, l'impavido ficcanaso che vuole fare l'eroe… peccato che i tuoi limiti umani non ti consentano di fermarmi”, disse il demone con fare beffardo. Quella sensazione che hai in questo momento è il mio controllo su di te: sei alla mia mercé, caro poliziotto, non puoi fare nulla per salvare il tuo amato pianeta, né tantomeno questi due cari genitori che si sono presi cura di me fino ad oggi”, disse Nicholas ormai in pieno assorbimento di Katon. “Maledetto, ti ammazzo”, furono quelle le uniche parole che vennero in mente a Frank, impotente dinnanzi a una scena da delirio di onnipotenza. “Ora ammira il potere di Katon, mortale”. Il corpo di Nicholas cominciò ad emanare un'aura di color rosso con venature di
arancione, i suoi occhi si colorarono del medesimo colore; stava iniziando la trasformazione tanto temuta da Frank: Katon stava acquistando la piena forza e il controllo sul ragazzo, oramai il poliziotto non aveva più molte speranze. L'aura di Katon scaturita dal corpo del ragazzo era imponente: alto, spesso, la testa di umanoide, le guance scavate e la bocca con enormi denti aguzzi, il naso assente e i muscoli di tutto il corpo poderosi; aveva due enormi corna nere che spuntavano dalle spalle e due ali del medesimo colore simili a quelle dei draghi. A quella vista, i membri della setta gioirono per l’ascesa di Katon, pronunciando parole incomprensibili: finalmente la perfetta simbiosi era avvenuta e il nuovo regno era iniziato. Katon lanciò un urlo con quella sua voce tenebrosa e cupa. In un batter d'occhio le corde che tenevano legati i genitori di Nicholas si frantumarono e i due si abbracciarono regalandosi ultime parole d'amore, consci del fatto che sarebbero morti da un momento all'altro. Luis tentò di far ragionare il demone: “Ti prego, lascia stare mio figlio”. Ma Katon non rispose; ormai il padre sapeva che Nicholas non c’era più: suo figlio aveva perso ogni umanità, diventando un demone assetato di sangue e pieno di odio. Luis vedendo che non vi era più speranza di rivedere suo figlio, disse al demone: “Uccidimi, ma risparmia mia moglie”. Il demone rispose con una risata diabolica: “Povero illuso”. “Ann, uccidilo tu per me”, disse il demone senza muovere un dito. Il corpo di Ann venne invaso dall’aura di Katon: il demone, divertito da quella scena, chiese alla folla astante di consegnare un coltello ad Ann. Katon fece dunque cenno ad Ann di uccidere suo marito: Ann fece per eseguire l’ordine e andò verso il suo compagno impugnando il coltello. Luis, assistendo a quella scena, non poté far altro che gridare implorando Ann di ritornare in sé, ma quelle parole non sembrarono fermare minimamente la donna,
che oramai era sotto il controllo della bestia demoniaca: Ann aveva perso il suo viso angelico, i suoi occhi trasmettevano odio e rabbia. “Smettila bastardo, prenditela con me se vuoi”, disse Frank, che fino a qual momento era rimasto in silenzio. “Oh, ma guarda che iniziativa eroica… questi umani che si vogliono sacrificare per il bene dei loro simili… patetici! Conservare la vostra specie equivale a tenere in vita un’esistenza priva del minimo significato e scopo: ma guardatevi… siete così infinitamente deboli e fragili…”. Dopo aver pronunciato quelle parole Katon, con la sola forza del pensiero, scagliò Frank a terra procurandogli un intenso dolore. “Possiamo continuare”, disse il demone dirigendo Ann verso il marito; quest'ultimo tentò di evitare le coltellate infertegli dalla moglie, ma fu ferito più volte ed iniziò a perdere molto sangue. Il demone alla vista di quella macabra scena cominciò a ridere sguaiatamente. Frank assistette all'episodio ancora a terra, senza poter intervenire per salvare Luis… si sentiva inutile: non poteva agire, anche lui era in balìa del potere di Katon Fu proprio a quel punto che il vicesceriffo perse ogni speranza e pianse per la disperazione, invocando Dio in suo aiuto. Tutto sembrava perduto: tutti gli sforzi, i pericoli a cui era andato incontro erano stati vani, non vi era più nulla da fare. Pure, ad un certo punto le sue orecchie percepirono una voce a lui familiare, una voce anziana: era padre Juan che si materializzò davanti a lui. “Frank Murphy, coraggio! Non devi perdere la speranza”. Frank non poteva credere ai propri occhi: “Ma allora sei vivo Juan!”. “No Frank... sono venuto per darti conforto”.
Proprio in quell’istante, un fascio di luce accecante, proveniente dal cielo, impattò col terreno. La luce perse luminosità, evidenziando una spada luccicante che fuoriusciva dal terreno. Misteriosamente Frank riprese il controllo del corpo: la spada lo aveva liberato dal controllo del demone e lo chiamava a sé. Frank la impugnò e fu in quel momento che San Giorgio si rivelò: “Ti aiuterò in questa impresa”. Il vicesceriffo fu invaso da un’aura di colore blu, a mo’ di armatura. Essa era imponente, massiccia e piena di decorazioni, con spallacci ampi e rotondi e un ampio mantello a ricoprire il tutto. A quel punto Frank ormai congiuntosi con il cavaliere si alzò in piedi emettendo un urlo di battaglia: il demone rimase incredulo alla vista di quell'enorme armatura scintillante. “No non può essere, ancora tu… te la farò pagare per avermi relegato nel limbo oscuro! Morirai, maledetto, e il tuo soccorso verso questo misero umano sarà vano”, disse il demone materializzando nella propria mano uno spadone delle medesime dimensioni di quello impugnato da Frank. Katon in un sol gesto spinse via Luis e Ann, che riprese conoscenza e riabbracciò Luis. Ma il duello finale era appena iniziato: il male contro il bene, due auree che si fronteggiavano. Intanto dalla folla Robert e Vic travestiti da membri della setta assistettero a quella scena epocale, solidali con il loro amico. Katon non perse altro tempo e si lanciò verso Frank a una velocità disumana: il grosso spadone di Katon andò a scagliarsi contro Frank, che fu sbilanciato per un attimo. A quel punto Frank effettuò un contraccolpo di taglio, cercando di affondare Katon sul lato destro, ma lui prontamente si difese sbilanciandolo nuovamente e facendolo cadere a terra. Successivamente Katon, vedendo Frank sdraiato e inerme, tentò di colpirlo
nuovamente, ma invano, poiché Frank rotolò sulla sinistra per schivarlo; Katon non si diede per vinto e tentò di colpire Frank ripetutamente senza successo. Katon stufo di non riuscire a colpirlo, smaterializzò la spada dalla propria mano e alzò l’avversario di peso dalla gola, scaraventandolo molti metri più avanti. Frank si ritrovò nuovamente sdraiato e stordito, ma non aveva tempo da perdere e si rialzò per difendersi dall’attacco del demone. Katon tentò di colpirlo nuovamente con la spada. “Devi perire maledetto! Ormai hai fatto la tua scelta di schierarti dalla parte sbagliata facendo morire molti dei tuoi ‘cari’… è così che li chiamate voi, vero? I tuoi ‘cari’, tra cui anche tua madre… muori!”. Un altro fendente raggiunse la spada di Frank, che sentendo quelle parole così intrise di odio perse ogni residua ragione. “La pagherai bastardo!”, e con quell'urlo furioso scagliò Katon a terra. “Allora ho toccato il tasto giusto, umano! Bene, così ti voglio: rabbioso. Ora sì che mi diverto”, disse il demone ridacchiando. Ma quando Katon tentò di rialzarsi, Frank lo raggiunse immediatamente, tentando di colpirlo. Da quel momento, la battaglia si fece più aspra: ogni mossa da ciascuno era effettuata con la massima potenza, e ad ogni sferzata l'uno riusciva a parare il colpo dell'altro, provocando enormi scintille fra i rispettivi colori delle aure. Ad un tratto, Katon cercò di prendere il controllo di Frank, e ci riuscì: il poliziotto era in balìa degli attacchi del demone. Fu a quel punto che lo spirito di San Giorgio gli parlò: “Non temere, scaccerò io il controllo del demone, però ho bisogno di un po’ di tempo per raccogliere le forze e dargli il colpo finale. Cerca di resistere ancora, non arrenderti proprio ora. Dovrai sopportare per qualche minuto ancora il controllo del demone su di te. Tu sei un uomo coraggioso, sei stato scelto per le tue doti da guerriero valoroso… tieniti pronto, Frank Murphy! Tua madre, Mick Wall, è con te… forza!”.
Da quel momento ci fu una profonda lotta interiore in Frank: la forza vacillava e la spada si faceva via via più pesante; ogni colpo sferzato da Katon sembrava sempre più letale; fino a quando il demone con un calcio lo fece ruzzolare a terra e lo mise in ginocchio. A quel punto Katon, già sicuro dell’imminente vittoria, si avvicinò e rimaterializzò lo spadone per decapitare l’avversario. “Muori, stupido umano!”, disse il demone. I membri della setta erano pronti a festeggiare, ma per loro sfortuna in quel momento il Cavaliere ridiede pieni poteri a Frank, scacciando il controllo del demone. Katon non ebbe il tempo di reagire e Frank impugnò la spada che si illuminò di luce propria e colpì con un fendente al cuore: il demone, ferito mortalmente, cominciò ad urlare. In pochi secondi l’aura di Katon uscì dal corpo del ragazzo e il demone sparì: non vi era più traccia della sua presenza. I membri della setta seguirono Katon, e come per magia vennero risucchiati in una sorta di buco nero.Giustizia era stata fatta; il male era stato sconfitto. Le tenebre che dominavano la cittadina di Talon svanirono: il paese tornò come prima, anzi splendeva di una luce potentissima, inedita. Il corpo di Nicholas giaceva al suolo inerme, con la spada infilzata nel torace... spirò… purtroppo era morto. Frank estrasse la spada da Nicholas: il ragazzo aveva avuto la sfortuna di essere stato scelto dal demone. I genitori accorsero dal figlio, abbracciandolo a sé, tentando inutilmente di rianimarlo, ma il ragazzo non dava segni di vita: la madre gridò per il profondo dolore. Intanto l'aura blu intensa che contornava Frank si dissolse rientrando dentro la spada. “Uomo valoroso, hai compiuto il tuo destino… il mondo te ne sarà grato. Ora posso riposare in pace, il mio compito è terminato… addio...”, disse il Cavaliere
San Giorgio. “Grazie per avermi aiutato”, disse Frank mentre guardava ancora una volta la spada che aveva ferito mortalmente Katon: si stava dissolvendo. Nel frattempo arrivarono Vic e Robert che corsero verso Frank per congratularsi con lui: “Bravo Frank, sei stato grande. Sembravi un vero guerriero del medioevo”. Frank ne fu contento, ma si girò nuovamente verso la famiglia Queen, consapevole che loro nella guerra avevano perso il bene più prezioso: il loro unico figlio. Luis lo guardò con gli occhi lucidi dalle lacrime: “Non ti tormentare Frank, hai fatto quello che dovevi fare per eliminare il demone. Nicholas non avrebbe voluto essere dominato da un demone”. I due uomini si abbracciarono e si unì anche la madre. Quel momento fu interrotto da una voce: “Non la erete liscia, morirete tutti”, esclamò Ray Myers seguito da altri ragazzi, tra cui Jimmy Lock. Erano ancora vittima del controllo dei demoni minori: come Nicholas anche loro erano stati prescelti dalla setta. Frank si preoccupò non avendo più la spada di San Giorgio per combatterli. “Ora che facciamo Frank?”, chiese Robert. “Non lo so”, rispose Frank. Ma appena i ragazzi cominciarono a muoversi verso di loro, dai corpi uscirono delle aure con fattezze demoniache, che si accasciarono su se stesse tra mille lamenti, facendo svenire i ragazzi per lo shock: anche i demoni minori erano stati sconfitti. Frank emise un sospiro di sollievo e si buttò a terra, stremato dal duello.
“Bravo Frank, hai compiuto il tuo dovere: sapevo che eri in grado di sconfiggere Katon… grazie a te il mondo è salvo, e il bene ha trionfato sul male”, disse Padre Juan dal cielo. Frank si girò nuovamente verso gli amici e la famiglia Queen, e il suo sguardo fu ricambiato da sorrisi, poi alzò il capo e guardò meglio il cielo: vi erano le figure di sua madre, Mick, Padre Juan e San Giorgio in sella al suo cavallo bianco, che lo guardavano con fierezza. Frank fu al settimo cielo. Era finita...
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare Giulia, la mia ragazza, che mi ha sempre sostenuto e aiutato a rendere possibile questo sogno, divenuto realtà. Grazie a tutti i lettori che si sono cimentati con la lettura del mio romanzo: spero vi sia piaciuto!
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