Personaggi
ERNESTO
ROSSANA
[voce fuori campo] INFERMIERA
INTRODUZIONE
La vecchiaia, in quanto capitolo finale, viene spesso confusa con l’idea di
declino, chiusura e termine. I vecchi, abbandonati come rottami in qualche
“officina” geriatrica, si riconoscono quali scarti di un mondo che non ha
bisogno di impacci e perdite di tempo. Il testo di questa vecchia Signora,
attraverso tre quadri-affreschi, richiamo metaforico alla terza età, prova a
riscattare l’ultima tappa della nostra esistenza rendendola volutamente più
lunga e sottolineandone la densità e la bellezza. Giunta all’ennesimo
compleanno, costretta nelle solitarie e indifferenti pareti di un ospizio, a
causa del suo odio per le macchine che ha più volte colpito con il suo
bastone, obbligata ora a deglutire pasticche per vivere ancora un anno da
oggetto abbandonato in un cassetto; la signora Rossana accompagnata
dalla dolce presenza del signor Ernesto, malato di Alzheimer, nuota nel
fiume di memorie-immagini, custodite gelosamente per tutta la vita. I
ricordi s’intrecciano ai desideri non ancora assopiti; la torta, il ballo e la
presenza di Ernesto saranno il giusto slancio per tornare a sentirsi viva e
correre in discesa su una bicicletta che non si fermerà più.
L’ennesimo compleanno
I QUADRO
Una vecchia Signora (Rossana) entra camminando con difficoltà. C’è molta
luce in scena, sembra giorno, è nel cortile di una casa di riposo per anziani.
Si siede su una panchina e cerca di grattarsi la schiena.
ROSSANA: C’è nessuno che mi farebbe la cortesia di infilarmi una mano e
grattare? Morta’ ma dove siete finiti tutti, che prurito. Mi devo
ricordare di far portare a mia figlia una di quelle manine di
legno che ti infili dietro e via, ‘na goduria. Quanto ero agile,
riuscivo a toccare i talloni con la punta delle mani, ora manco i
capelli riesco a pettinare. Ma che ch’avete oggi, si sciopera?
Me basterebbe anche un infila-scarpe cor manico lungo eh.
Che tortura. Ce fosse Ernesto, quant’ è caro, quante volte me
gratta la schiena con quelle mani fossilizzate a mo’ de
rastrello, me rastrella come se dovesse toje le foglie cadute, me
fa senti’ un prato, un prato a Primavera. Se mi chiedete quanti
anni ho vi rispondo: che ve ne frega. Mica diventate più
giovani a chiedermelo e io neanche, a rispondervi. Io non ho
età, sono come la mia dentiera, rido e digrigno in un corpo che
non è il mio, che è troppo diverso dalla mia anima, la mia
anima non fa questa puzza, sa di mare la mia anima. Il tempo
però a. Come a? Non lo so. Oppure non a. Ho
ancora sedici anni, che belle tette che avevo, e che odore le
mele e il grano, allora non ero un fil di ferro storto e non avevo
il cuore pieno di piaghe e biascicona e bavosa … ero bella,
non ci si crede adesso ma ero bella, bellissima, avevo un culo
che sembrava un cocomero, una pelle tesa che suonava il ritmo
dei miei i. Quanti anni c’ho, ma che lo chiedete a fare? Ve
l’ho detto, ne ho sedici anzi venticinque. C’ho venticinque
anni, muore mamma, magra gialla con l’itterizia, e papà nun
piagne beve, beve poi piagne vino dal naso e la casa se riempie
di silenzio e di polvere e io per non restare sola mi sposo con
Alfio che anche lui puzza di vino e c’ha un cazzetto piccolo
nero grinzoso che odora di baccalà secco e la notte di nozze...
Io volevo sposare Enzo ma sono entrati di notte senza bussare
gridando per far sentire che erano arrivati e gli hanno sparato.
Chi? Eppure non siete vecchi, volete dimenticare chi. I nazisti
hanno sparato a Enzo che c’ aveva diciotto anni, perché suo
fratello era andato in montagna e a sua madre che rispondeva
con il silenzio le hanno rotto la testa, tanto fate finta di niente,
bisogna chiuderla la storia, dire che ora è nuova la storia, ma la
storia non smette mai di sanguinare. Ancora con questi anni?
C’ho quelli di Enzo sparato, c’ho quelli di mia sorella Nina
che le viene la meningite a sei anni, muore al buio, io c’ho gli
anni di tredici Nine e penso che era più giusto vivere la metà e
dare metà dei miei anni a mia sorella o a Enzo o a mia madre,
ma quanti anni vuoi vivere vecchia [si alza dalla panchina],
quanto semolino quante mele quanta merda ancora vuoi
mangiare, quanta merda vuoi ancora fare. Forse non sapete
com’è quando ti accorgi che non esisti più, esisti solo per lo
spazio che occupi e le tre medicine che prendi e il cesso che
sporchi e le lenzuola che bagni perché morire non va bene, non
si uccidono le vecchie, costruiamo tanti posti che qualcuno
paga per far vivere centinaia di vecchiacce anche se lo sai che
a nessuno frega niente di una vecchiaccia e allora cosa fanno
le vecchiacce? Urlano. Così il mondo si accorge di te e delega
un infermiere, un poraccio con un futuro da vecchiaccio,
delega lui a rappresentare l’umana generosità e tu che ormai
sei un sasso nell’acqua che va giù e fa cerchi sempre meno
visibili e l’acqua si richiude, il mondo ti cancella…poi il sasso
va verso il fondo e si vive di prurito e rabbia e no, le medicine
non le prendo, il prurito me lo tengo e mi caco addosso e sto
davanti a alla mia finestra sulla mia sedia quanto me pare
e…( guardando il cielo) me sa che pioverà, io lo so che mia
figlia mi vuole bene ma quando viene non vede l’ora di
andarsene e tu che faresti? La andresti a trovare una
vecchiaccia che pare un vecchio tronco di una quercia
abbattuta da anni, una sedia a dondolo dal legno fradicio,
quattro peli al posto di quella fitta chioma e delle zanne di
cartapesta al posto dei vecchi e cari denti…ma ero bella avevo
una bocca bellissima e avevo delle belle gambe e andavo giù
in discesa e spalancavo le gambe e andavo giù in discesa [a
braccia aperte] si sollevava la gonna e il vento mi entrava
nelle mutande e quanti anni ho mi chiedete, nun sento nun
sento sto andando in bicicletta c’è il vento.( pausa) E adesso io
odio le macchine, ogni vecchio le odia, quanto godo ad
attraversare la strada e fermarmi così di colpo in mezzo alla
strada e farle frenare e quelli mi guardano da dietro il vetro
con odio e pensano ahò questa ce mette ‘n secolo ad
attraversa’, io li sfido e dico andate piano bastardi e loro
dicono sei fuori dalle strisce vecchiaccia e io lo so che sono
fuori dalle strisce sennò che gusto c’è, ma faccio finta di niente
e alzo il bastone e bam! una mazzata sul cofano. Non
picchiarmi stupido isterico, dai, i deboli o fanno pena o fanno
intralcio. Sono vecchie le cose che dico ma vi fanno arrabbiare
allora ve le dico ancora, ve lo soffio contro senza denti e
dentiera. Sì infermiera sto gridando, così nessuno mi viene
vicino e non devo aspettare nessuno vicino. [tossisce] Sono
stanca, quanto sono stanca in questo mondo che puzza di
semolino e intanto mi faccio due carezze da sola, perché le
vecchiacce si fanno le carezze da sole, e mentre io mi coccolo
una mattina mi dicono mamma ci vorresti andare in un posto
dove ti badano ogni giorno, dove si prendono cura di te e dove
non ci sono macchine, dove puoi stare in compagnia e giocare
a carte e ridere e...e basta ho capito ho capito mica so’ scema.
Così ho infilato tutta la mia vita in una valigia e via su quella
orrenda scatola che mi ha portato dritto dritto verso la fabbrica
ricicla-vecchiacce, e mi è venuto incontro un medico panzone
e diceva con l’asma “bella signora la teniamo con noi un poco
di tempo, si troverà bene qui vedrà”, e io lo sapevo quanto
sarebbe stato quel poco di tempo. Vedrò, vedrò. Vidi delle
rose chiuse in una piccola serra di vetro e mi dissi che se ce la
fanno le rose anche io ce la farò, sarò come la mia dentiera in
un corpo estraneo, diverso dalla mia anima. A volte mi capita
ancora di sognare la mia vecchia bicicletta, vado in discesa,
senza mani, apro le braccia e il vento mi entra nelle mutante...
sento la voce di Suor Veneranda che ogni santa mattina
starnazzava nella penombra dell’aurora, vedo le mani legate
della mia compagna Carmela perché si toccava, perché aveva
scoperto il suo sesso e suor Veneranda che gridava di non
toccarsi, non ci si doveva neppure guardare quando ci si
lavava..è peccato. E allora io che dentro la tinozza d’estate
fuori in giardino mi guardavo, eccome se mi guardavo, quelle
due minuscole protuberanze che si gonfiavano ad ogni estate
di più e quell’ombra sull’inguine..lavatevi bene e non
guardatevi..no no non mi guardo ma sento il vento, il vento
che mi entra nelle mutande e vado giù in discesa, sono in
bicicletta…quanto sono bella.
La luce cala lentamente. Intanto dietro delle ombre di altri “Vecchi”, in
piedi sulle panchine, allargano le braccia come pronti a spiccare il volo.
Pronti a buttarsi dal più alto del precipizio, iniziano muovere le braccia
come ali, sognano di volare mentre il “Notturno in mi bemolle maggiore
Op.9 N°2” di Chopin accompagna il momento onirico.
La Signora esce mentre viene preparata la scena.
II QUADRO
Si accendono le luci in scena. Appare una stanza dove ci sono un tavolino e
due sedie. Entra un signore anziano dall’aspetto ancora lontanamente
giovanile, e’ vestito in modo un po’ “strano”successivamente si capirà che
ha l’Alzheimer, porta una torta di compleanno e l’appoggia sul tavolino e
accende una candelina. Sistema le due sedie attorno al tavolino e se ne va.
Entra la signora Rossana e trova la torta di compleanno.
ROSSANA: Quanto è caro Ernesto, no ma siamo solo amici, per carità,
già me sogno tutte le notti mio marito che me chiede se gli
sono fedele figuriamoci se mi fidanzo, c’è caso che non me
lascia più dormì, che poi loro riposano in pace ma a noi ce
continuano a rompe l’anima. Ricordo ancora il giorno in cui
ho visto Ernesto sul suo balcone, era il mio dirimpettaio,
avevamo le finestre della sala l’una di fronte a l’altra, [pausa]
aho c’ho vissuto quarant’anni in quella casa e non c’eravamo
mai visti anche perché lui era spesso fuori per lavoro e mio
marito era talmente geloso delle sue cose che le finestre
dovevano sta’ chiuse, ( pausa) ah le mie tende, la mia radio, la
mia poltrona. Insomma quel giorno, come tutti i giorni,
guardavo la televisione, quant’ è de compagnia, ad un certo
punto va via il coso, come se chiama, eh il segnale, allora me
alzo dalla poltrona do du’ botte a quella scatola ma niente
nun risponneva. E mo’? Che me ’nvento? Che faccio fino a
l’ora de cena? Potrei leggere un libro sì, [pausa] ma gli
occhiali? Dove… dove l’ho messi? Allora m’affaccio dar
balcone e m’accorgo che pure gli altri nun c’avevano il
segnale. Anche lui Ernesto era affacciato ar balcone e me
disse “Proprio adesso che lo Sceriffo stava p’accoppà i
balordi. E lei bella signora? Che guardava?” Io rimasi
qualche secondo senza fiato, come avessi ricevuto un colpo
improvviso, e poi prendendo coraggio risposi: Io una
telenovela, sa quelle con le fasende, gli schiavi, e i giovani
innamorati che se inseguono e se cercano ma pe acchiape
ce metteno quindici puntate. Ma tanto nun c’abbiamo fretta
no? “Anche lei è tutta sola?” me disse. No macché io ho mia
figlia, m’ ha chiamata due giorni fa e m’ ha detto che questo
fine settimana non può are a trovarmi, sa lei è tanto
impegnata c’ha un lavoro bellissimo, insegna il metodo
Montessori, gira tutto il mondo. Quanto ho sudato per falla
studià, eh ma so soddisfazioni. Certo la vedo poco ma la
vedesse quant’è bella. E lei? È solo? “Si sono vedovo da
molti anni e mio figlio vive a l’estero ma me la cavo
benissimo sa, e poi sono un vecchio cuoco in pensione quindi
de fame nun me moro!”. Quante risate ce facemmo e da
allora iniziammo a prende’ un tè dopo l’altro fino a che un
pomeriggio non si presentò al nostro tè e non lo vidi neppure
sul suo balcone. Mi disse qualche giorno prima che aveva
iniziato a prendere delle medicine che gli facevano bene per
la memoria perché a volte si sentiva un po’ disorientato. Io
l’aspettai per giorni. Ahò me venne pure da pensà
male! [pausa] Chi l’avrebbe detto che il tè avremmo
continuato a prenderlo in questo postaccio.
La Signora tenta di nuovo di grattarsi la schiena, cerca qualsiasi oggetto
utile, prova anche con la paletta da dolce che è sul tavolo, ma non ci riesce.
ROSSANA: Se me vedesse la vecchia zia Titta, che pe’ me era sempre
stata vecchia anche a trent’anni. Oh nun ava ‘n giorno
mandato ‘n terra che quella vecchia nun me chiedesse de
grattaje la schiena. “Gratta la zia, gratta, con quella manina
dolce”, in culo jel’avrei messa ‘a manina dorce. “Gratta,
gratta più forte che prude a zia”. Te prude? Quanto la odiavo
quanno me faceva senti’ ‘na grattacacia, che poi ch’aveva
quea schiena piena zeppa de porri de nei che dovevi pure sta
attenta sennò...‘na padellata ‘n testa nun t’a tojeva nissuno.
Puh! [fa il gesto di sputare] ‘n giorno me disse “manina vieni
vieni da zia che ha tanto bisogno di una grattatina”; allora io
m’avvicino da dietro co’ ‘n secchio d’acqua gelata e jela
stavo a dà ‘na grattatina con quei bei cubetti de ghiaccio
sennonché me sorprenne mi madre ed è finita che me grattò
lei a me co’ ‘na manciata de schiaffoni. Avrei voluto urla’
alla vecchia zia Titta ma come fa ad avere tutto questo prurito
una ch’è già morta.( pausa) Eh si, hai visto zia? Ora la vorrei
tanto io quella manina dolce.
Si sente una voce femminile fuori campo.
VOCE F.C.: Signora Rossana la pasticca, si ricordi la pasticca.
ROSSANA: Ho sentito, ho sentito, l’ora della pasticca. Sai che c’è, che
oggi nun la prendo. Basta me ne infischio, fanculo tutte ‘ste
pillole e per la pressione e per il cuore e per il diabete e per la
circolazione e per la colazione il pranzo e la cena e non ne
posso più, io sto benissimo, quando arriva la mia ora io so’
pronta, voglio morì così al naturale.
VOCE F.C.: Su da brava, prenda la pasticca che poi facciamo una partitina
a carte.
La vecchia signora tira fuori le pillole dalla tasca e ne prende una
controvoglia.
ROSSANA: ( Si rivolge alla voce F.C. ) Contenta? ‘Na vorta nun
c’avevamo nemmanco lo zucchero in casa figuriamoci a
prende’ tutte ‘ste pasticche manco ce le sognavamo, se
moriva e basta senza chiedersi tanto il perché. [pausa] Mi
ricordo un giorno durante il periodo del fascismo che
eravamo in cucina io e mia madre, era estate, cucivamo, ad
un certo punto vediamo entrare dalla finestra qualcosa, se
sbatteva, se dimenava, a noi nun ce sembrava vero, era
caduto un piccione ed era caduto proprio dentro la nostra
finestra.
L’agguantammo velocissime, je tirammo er collo e quela’
sera magnammo carne dopo tanto tempo.
III QUADRO
Entra il signor Ernesto accompagnato dalle note del “Valzer viennese” e
invita la vecchia signora a ballare. Iniziano a ballare senza distogliere mai
lo sguardo l’uno dall’altro.
ROSSANA: Oh mamma mia me gira tutto, basta Erne’, basta. Quanto sei
caro Ernesto mio, grazie pe la torta, un pensiero tanto carino.
Però Erne’, nun la posso magnà lo sai è proibito. Poi chi li
sente quelli. Grazie Erne’ [fa una carezza a Ernesto], una
torta così non l’ho mai avuta, so’ commossa. E io che
pensavo che ti fossi stancato di me, quer pomeriggio a casa
mia ti aspettai fino a tardi. Ed eccoci qua.
Una voce fuori campo chiama il signor Ernesto, si interrompe la musica.
VOCE F.C.: Signor Ernesto una telefonata per lei, venga signor Ernesto.
ERNESTO: Perdonami cara, sarà il Capitano che annuncia la nuova
partenza.
ROSSANA: Ssì…vai caro, vai, tanto io nu me movo. [il signor Ernesto si
congeda dando un bacio sulla guancia alla vecchia signora].
VOCE F.C.: Signora è l’ora della pillola
ROSSANA: Oh ma te sei nata er giorno de’ la rottura de scatole? La
prendo la prendo, so settimane che la prendo, so mesi, so anni
e so pure stufa della tua vociaccia, cambia voce perché
proprio nun te diggerisco, sembri ‘n’anatra [fa il verso
dell’anatra] c’hai pure la camminata da anatra, che sculetti,
che te sculetti. Ma tu te lo sogni er culo come il mio, un
tamburo era, un mandolino, incantava come il flauto del
pifferaio magico. E che voce, m’hanno sempre fatto crede
d’esse stonata, anche a scuola la maestra me zittiva durante
l’ora di canto, diceva che le mie stecche facevano sbagliare le
altre, e mio marito che tutte le mattine mentre faceva la barba
me diceva, “senti, senti come canta bene il tuo uccellino” e
giusto l’uccellino, e su e giù con quer rasoio davanti allo
specchio, diceva che il barbiere di Siviglia je faceva ‘n baffo
a lui. E intanto io cantavo sotto la doccia e quanno ero sola,
come quelli che a forza de sentisse di’ che nun ce la ponno
fa’ nun ce la fanno davero… ( pausa si siede), io però non ho
mai smesso de canta’, per me, sì, cantavo per me,
l’importante era canta’. ( la Signora inizia a canticchiare e
piano piano in preda alla stanchezza e al sonno si
addormenta).
Entra Ernesto con un foglio in mano e silenziosamente si avvicina alla
Signora e la bacia in fronte. La Signora si risveglia quasi imbarazzata.
ERNESTO: Credevo che il mio viaggio fosse giunto al termine
mancandomi ormai le forze,
che la strada davanti a me fosse chiusa,
che le provviste fossero esaurite
e che fosse giunto il momento di trovare riposo
in un’oscurità silenziosa.( pausa)
La Signora notando la difficoltà di Ernesto nel proseguire con la lettura,
prende il foglio e continua a leggere lei.
ROSSANA: Scopro invece che i tuoi progetti
per me non sono finiti
e quando le parole oramai vecchie muoiono
sulle mie labbra, nuove melodie nascono dal cuore;
e dove ho perduto le tracce dei vecchi sentieri,
un nuovo paese appare con tutte le sue meraviglie1.
Pausa, Ernesto guarda negli occhi la Signora
ROSSANA: Questa non l’hai scritta tu vero?
ERNESTO: No…a volte mi capita di non ricordare più quello che voglio
scrivere.
ROSSANA: Se vuoi, quando pensi delle cose me le dici subito e io le
scrivo.
ERNESTO: Mia cara, a chi dovrebbe interessare quello che scrivo?
ROSSANA: Suvvia Erné, nun fa lo sciocco, a tutti interessa, a me
interessa.
VOCE F.C.: Signora Rossana c’è una telefonata per lei venga.
ROSSANA: Te pareva che questa n’azzeccava er momento giusto pe’
rompe …
VOCE F.C.: Sua figlia al telefono, venga.
ROSSANA: O mamma è mi fija, so’ du’ settimane che nun la sento, vorrà
venire a trovarmi, sicuro, scusa Erné, torno subito. ( la
Signora esce).
ERNESTO: Ho ato quarant’anni della mia vita a cucinare in tutto il
mondo, non ho mai scritto una ricetta, una. Quando provavo a
scrivere qualche ingrediente lo mettevo in rima. Il poeta,
Ernesto, tu devi fare il poeta… ancora sento la voce della
maestra Bettina, la mia maestra d’italiano. Poverina si era
presa tanto a cuore il mio futuro e non aveva la minima idea
che il mio futuro era già stato destinato alle cucine delle navi
da crociera. Quando l’andai a salutare il giorno prima della
mia partenza si mise a piangere, mi regalò un quaderno a
righe e mi disse: Ernesto, scrivi, scrivi, scrivi le tue poesie
qui, promettimi che non smetterai neanche per un giorno di
scrivere. La poesia, Ernesto, la poesia ci salverà, quando più
ne avrai bisogno, lei ti salverà. Quel quaderno è ancora
bianco, oddio adesso è un po’ giallino, neanche le mie iniziali
c’ho scritto sopra, perché ogni volta che lo aprivo io vedevo
1 Poesia di R.Tagore
una possibilità che in questa vita non ho avuto il coraggio di
darmi.
Rientra la signora con o lento e con lo sguardo rivolto a terra, Ernesto
la guarda intenerito.
ROSSANA: Eh niente, dice che è piena di lavoro e che deve andare una
settimana in Francia per un congresso. Mi fa tanti auguri e se
riesce verrà tra due settimane. Se riesce ( pausa) Si me ce
trovi, bella!
ERNESTO: Sei dispiaciuta vero?
ROSSANA: Chi io? Macché, è solo che mi faceva piacere, non so, farci
due chiacchiere, magari darle un abbraccio… m’ha chiesto:
come stai ma’? Eh come sto, come na’ stronza. Uh, famme
sta’ zitta va’.
ERNESTO: Balliamo?
ROSSANA: Sì, la danza della pioggia Erné, ma che ballamo! Io me ne
vado a dormì. Bonanotte. ( esce e dopo un po’ rientra). Erné,
scusa. Che sciocca che sono, è proprio vero che dopo ‘na
certa età si torna bambini, mi perdoni?
ERNESTO: Balliamo?
ROSSANA: E ballamo Erné, ballamo.
Musica del Valzer Viennese che riprende a suonare mentre i due
protagonisti tenendosi stretti volteggiano ridendo.
ERNESTO: Senti cara, visto che oggi è il tuo compleanno , ce l’hai un
desiderio da esprimere prima di spegnere la candelina?
ROSSANA: Eh uno, ce n’avrei venti.
ERNESTO: Scegline uno, il più importante di tutti.
ROSSANA: Ma lo devo dire?
ERNESTO: Dillo, ti prego.
ROSSANA: Oddio, non è proprio così facile da dirsi.
ERNESTO: Sarà il nostro segreto.
ROSSANA: Erné ma tu ci pensi mai alla morte? Ci pensi a tutte le cose
che abbiamo fatto, a tutte le cose belle o brutte che abbiamo
vissuto, a tutte le volte che ci sembrava di non potercela fare
e invece piano piano le cose si aggiustavano, a le persone che
abbiamo conosciuto, amato, perso. Non lo so Ernè, certe
volte mi capita di sentirmi per un momento, anche solo per
un momento, alta, come quando da bambina andavo
sull’altalena e mi spingevo al limite per vedere le cose
dall’alto, sempre di più, sempre di più. E poi arrivava mi’
madre che mi chiamava dicendomi che era ora di andare e io
non volevo scenne, sai quanti schiaffoni me so presa perché
me n’caponivo che non volevo scenne? Anche allora sentivo
il vento…E invece poi, schiaffoni o no toccava de scenne per
forza. Quando penso alla morte me sento come quando
dovevo scenne dall’altalena. Ecco il mio desiderio più grande
è addormentarmi mentre vado in altalena, per nun scenno più.
( pausa) Ti ho annoiato vero? Quanto so noiosa, m’annoio da
sola.
Ernesto, si blocca e rimane congelato dal desiderio della Signora, si
allontana e si va a sedere un po’ arrabbiato
ERNESTO: Quindi te ne vuoi andare? Perché? Non stai bene qui? Mi
vuoi lasciare da solo?
ROSSANA: Ma no, ma che dici? Calmati. Io qui alla fine ci sto anche
benaccio ma mi mancano le mie cose, la mia casa, le mie
abitudini. E tutto questo perché? Perché ho dato qualche
bastonata alle macchine che me stavano per investi’ e mi’
figlia per stare più tranquilla mi ha portato qui, ma io a casa
mia ce stavo bene.
ERNESTO: E’ che quando sto con te mi sembra di stare sull’altalena,
anche se non ci sono mai stato, come quando ci siamo visti la
prima volta sul ponte della nave quando facevamo la tratta
Genova-Palermo? Te lo ricordi il dondolio che sentivamo?
ROSSANA: Erné ma chi l’ha mai presa la nave…Quella non ero io.
ERNESTO: Come no? Lo ricordo benissimo, avevi una camicetta bianca
che ti metteva in evidenza…( Ernesto allude al seno)
ROSSANA: Ma se c’ho ‘na seconda scarsa! ( pausa) Ernesto caro quella
con le.. ( allude al seno) era tu moglie, la tua povera moglie.
( Ernesto rimane in silenzio)
ERNESTO: Come il capo cuoco che ieri mi ha dato due bastonate perché
ho fatto bruciare la carne.
ROSSANA: Troppo poche te n’ha date Erné, ma che capocuoco, ieri è
venuto a trovarti tuo figlio.
VOCE F.C.: Signor Ernesto è l’ora della pasticca
ROSSANA: (stizzita) Ecco, questa è una che du’ bastonate te le tira
proprio via de mano.
ERNESTO: Mi hanno chiamato, hai sentito? Questo è di certo il Capitano
che è pronto a salpare.
ROSSANA: Vai caro, vai, vai a salpare.
ERNESTO: Hai visto? Anche oggi è mare mosso.
ROSSANA: Sì, è proprio un bel mare mosso.
Ernesto esce mentre la Signora si avvicina alla torta, sta per spegnere la
candelina ma si blocca.
ROSSANA: Mica so’ stata sincera prima quanno ho espresso il mio
desiderio, o mejo nun era l’unico desiderio che volevo
esprime’ in quer momento; ce n’ho uno bello forte, vivo,
carnale… ma come faccio a dillo, che vergogna, chissà che
penserebbero di me, e quell’altro che riposa ‘n pace… uh per
carità, nun dovrei neanche pensarle certe cose. Eppure la
notte, io non sogno solo la bicicletta e il vento, io… io sogno
di sentirmi ancora come la prima volta, la prima volta che
quel disgraziato de mi marito me baciò in bocca…e me iniziò
a toccà, scenneva giù co’ quelle mani da contadino, aho’
eravamo già belli che sposati, che vergogna, e chi l’aveva
mai visto, no mi marito eh, niente… uh mamma! ancora me
vengono i brividi… eravamo lì in camera da letto, macché me
sa che nun c’eravamo neanche arivati alla camera, capirai ‘n
anno e mezzo aveva aspettato quer disgraito, quanno se calò
giù le braghe ce mancò poco che me mettevo a piagne, tiè me
disse fate conoscenza, sì…co’ sto baccalà! Io me ne volevo
annà, ma dove… ma te pare che nessuno s’era mai preso la
briga de preparamme, che ne so de famme un po’ de scola.
Per carità, che capre. Quanno ce penso ancora me vengono i
brividi ma me viene pure da ride. La cosa che me scioccò di
più fu sentire il mio corpo reagire in un modo che non
scorderò mai. Ancora oggi non so dire se ero terrorizzata o
contenta, però venderei l’anima per sentirmi ancora così.
Ernesto sarebbe il secondo uomo dopo cinquant’anni ati
con mio marito. Uh mamma ma che sto a dì… Ernesto? Una
persona così gentile ed elegante e pure un po’ rincoglionito,
porino, e io…’na svergognata, alla mia età, ma quanti anni ho
mi chiedete, ve l’ho detto, nun sento, c’è solo il vento…il
vento…
La Signora apre di nuovo le braccia come se stesse in bicicletta senza mani
e il vento le entrasse nelle mutande ed è felice. Da dietro, rientra Ernesto
con una nuova torta e si blocca.
ROSSANA: Erné ma..ma che stai a fa?
ERNESTO: Scusami cara, non sapevo che ti avessero già portato una
torta.
ROSSANA: Ma quante torte m’ hai fatto?
ERNESTO: Una.
ROSSANA: E quella chi l’ha fatta?
ERNESTO: Non lo so, forse qualche tuo…spasimante.
ROSSANA: Ernesto caro, vieni qui, sarai un po’ stanco, vuoi sederti?
Ernesto abbraccia calorosamente la Signora.
ROSSANA: Ah Erné ma che te sembra il momento…
ERNESTO: Scusami cara, ho provato un’irrefrenabile voglia di
abbracciarti come quando ci siamo visti la prima volta sulla
nave.
ROSSANA: Aridaje… Erné, alla nostra età, macché irrefrenabile. E poi io
la nave nun l’ho mai presa, te l’ho già detto.
ERNESTO: Ti giuro cara che io quando ti vedo mi sento…mi sento bene,
è come se il tempo si fermasse.
ROSSANA: Ma che t’hanno fatto male le pasticche?
ERNESTO: Mia cara, io non prendo le pasticche.
ROSSANA: Ma che davero Erné, ma che se’ matto? Ma lo sai che con
quello che hai non ti puoi permette una cosa del genere.
ERNESTO: Perché dovrei prenderle, io sto benissimo, comunque tra dieci
minuti salperemo.
ROSSANA: Ecco appunto. Ma sei sicuro che quelle pasticche non ti
facciano bene?
ERNESTO: Sono sicuro, come sono sicuro di come mi sento quando sto
con te.
ROSSANA: ( spazientita) Senti caro sei stato davvero gentile per la torta,
anzi le torte, le candeline, il ballo ma adesso è ora
de…de…annà a letto no?
ERNESTO: Ma perché è tardi?
ROSSANA: Ma che ne so Erné, però è ora via.
ERNESTO: E le candeline?
ROSSANA: Ah già, e mo’ le spengo…tanto il desiderio l’ho già espresso
no?
La Signora sta per spegnere di nuovo le candeline ma si blocca e con forte
imbarazzo guarda Ernesto
ROSSANA: Erné io le candeline non le voglio ancora spegnere.
ERNESTO: Come? Perché?
ROSSANA: Perché io…il mio desiderio non l’ho ancora espresso.
ERNESTO: Ah no?
ROSSANA: No, Erné, no. Quello di prima era una speranza non un
desiderio.
ERNESTO: Mia cara non sentirti in imbarazzo con me. Io lo so qual è il
tuo desiderio, il tuo sogno.
ROSSANA: Davvero Erné? E come l’hai capito?
ERNESTO: Ernesto tuo ce vede poco ma ancora non è scemo.
ROSSANA: Ma che vergogna, mi sento tanto sciocca.
ERNESTO: Non devi, anch’io sogno la stessa cosa.
ROSSANA: Davvero?
ERNESTO: Certo, anche io a volte vorrei rivedere mia moglie ed è
normale che il tuo desiderio sia quello di vedere ancora una
volta tuo marito.
ROSSANA: Ma che stai a dì....I morti lasciamoli riposa’ che stanno mejo
de noi.
ERNESTO: Ma allora qual’ è il tuo desiderio?
ROSSANA: Beh, diciamo che a volte, penso, o meglio ripenso a… a
quando ero giovane e… insomma Erné… non è così facile…
ERNESTO: Vuoi che ti lasci sola?
ROSSANA: Ma no, perché? Anzi io vorrei… ( pausa) ma tu vuoi stare
solo?
ERNESTO: Io vorrei festeggiare il tuo compleanno con te.
ROSSANA: E anch’io lo vorrei e vorrei anche dirti che…
VOCE F.C.: Signor Ernesto? Venga c’è il dottore che la vuole vedere!
ERNESTO: Hai sentito? Non ti preoccupare, è la solita visita del dottore
che viene a controllare l’equipaggio. Torno subito.
Ernesto si congeda e se ne va mentre la Signora si avvicina alla torta
l’assaggia con un dito e si siede sulla sedia
ROSSANA: Quanto je piacevano i dolci a mi’ padre, non c’avevamo un
soldo in tasca eppure un pezzettino de dolce se trovava
sempre in casa. Mi ricordo il mio diciottesimo compleanno,
le mie cugine mi prepararono un dolce coi biscotti e il
cioccolato e lo nascosero in cantina per non farmelo vedere,
naturalmente mi’ padre quando tornò dalla sua bottega,
faceva il barbiere, ed entrò in cantina vide ‘sto ben di dio e
nun ce pensò neanche due secondi. Tutto s’ ‘o divorò. I pianti
le mie cugine quando s’accorsero, dopo cena, che il dolce
nun c’era più. Mi’ padre invece de sentisse in colpa se sentì
male dal ridere. A quel punto la mia vecchia zia Titta prese lo
zucchero, lo sciolse, ci aggiunse le mandole dentro e, ironia
della sorte, fu grazie a lei che spensi le mie diciotto candeline
sopra a un torrone di venti centimetri. Manco a dirlo, ai
tutta la sera del mio diciottesimo compleanno a gratta’ la
schiena alla vecchia zia Titta.
Rientra Ernesto con una terza torta di compleanno.
ERNESTO: Per la miseria sono arrivato tardi.
ROSSANA: Ernesto mio ma che stai a combinà…
ERNESTO: Volevo farti una sorpresa, ma a quanto pare sono in ritardo,
c’hanno già pensato altri.
ROSSANA: Ma che me stai a fa’ na torta pe’ ogni anno che c’ho, su caro,
calmati, vieni qui. Perché non balliamo?
ERNESTO: No.( preoccupato)
ROSSANA: Perché?
ERNESTO: Perché è vietato avere un contatto con i eggeri. Ordini del
capitano.
ROSSANA: Ma stasera il capitano nun c’è, via Erné non ci vedrà nessuno.
ERNESTO: Prima però vorrei leggerti quello che ho scritto, è per te, per
il tuo compleanno.
ROSSANA: Per me? Un’altra poesia? Grazie caro. Leggi, ti ascolto.( La
Signora si siede)
ERNESTO: Allora: Conservare a temperatura inferiore a 30 C°. Tenere
fuori dalla portata dei bambini. Non usare dopo la data di
scadenza riportata sulla confezione. I medicinali non devono
essere gettati nell’acqua di scarico e nei rifiuti domestici.
Questo aiuterà a proteggere l’ambiente.( pausa, la guarda
smarrito)
ROSSANA: ( dopo aver fatto un lungo silenzio) Beh , diciamo che una
cosa così non me l’aveva mai dedicata nessuno. Grazie Erné,
facciamo così tu mi dai questo foglio e io ti do un pezzo di
dolce.
ERNESTO: E no.
ROSSANA: Perché?
ERNESTO: Perché ancora non hai spento le candeline.
ROSSANA: Che sciocca, hai ragione, allora sai che facciamo? Le
spengiamo insieme eh? Ti va?
ERNESTO: E no.
ROSSANA: Perché?
ERNESTO: Perché non è il mio compleanno.
ROSSANA: Va bene, va bene le spengo io ma tu stai qui vicino a me, anzi
dammi la mano.
Ernesto le da la mano e poi l’abbraccia in modo ionale.
VOCE F.C.: Signor Ernesto è l’ora della pasticca. Venga, signor Ernesto.
ERNESTO: Mia cara, sembra non essere ato un giorno, provo le
stesse cose di quando ti ho rivisto quel giorno sul…
ROSSANA: Sul balcone?
ERNESTO: Sul ponte della nave.
ROSSANA: Eh già! ( la Signora sconsolata si libera dall’abbraccio)
ERNESTO: Mi sento ancora il giovine di allora. Scusami cara, torno
subito.
Ernesto esce, mentre la Signora un po’ triste prende la paletta da dolce e
tenta di grattarsi la schiena.
ROSSANA: Stanotte ho sognato mi’ madre. Quanto era bella, c’aveva un
dono, sognava le cose che dovevano ancora succede.
Un’ansia addosso quanno la mattina la vedevi in lacrime!
Perché magari tra le cose che se sognava ce staveno pure le
persone che dovevano morì. Una mattina la trovai davanti ar
focolare cor rosario in mano e piagneva e piagneva, le chiesi
che era successo, e lei me disse che era mejo nun di’ nulla. Il
giorno dopo er figlio della nostra vicina di casa ebbe un
incidente e morì, mia madre nun aprì bocca pe’ giorni. Non
sono ancora certa se avesse sognato anche la sua di morte ma
di sicuro ogni volta che si addormentava pregava il Signore
de nun falla sogna’. A me invece l’unica cosa che m’è
rimasta so’ proprio i sogni. La sera m’addormento sperando
di are più ore possibili a sognare e poi la mattina me li
scrivo tutti e durante il giorno cerco di riviverli. Ma non
riesco a capi’ perché ‘na dormigliona come me adesso dorme
al massimo tre ore a notte. Ma io ero capace de dormi’ dieci
ore de seguito. Più me vojo addormenta’ in santa pace e più
me svejo subito e quarche volta nun faccio manco in tempo a
sognà e dico “e mò tutte ‘ste ore sveja che faccio? Certe
giornate lunghe!” E’ come se il mio corpo e la mia mente si
rifiutassero di perdere tempo a dormire, tanto ce ne avrò de
tempo pe’ riposa’ in pace.
Rientra Ernesto
ERNESTO: Mia cara, tutti questi ceri si stanno sciogliendo.
ROSSANA: E giusto i ceri ce mancano, vieni qui Ernesto che voglio
spegnere i ceri ( ironica) con te.
E poi c’è ancora quel desiderio da esprimere.
ERNESTO: Balliamo?
ROSSANA: Dopo balliamo, prima vorrei parlarti di questo mio desiderio
e sento che lo devo fare ora perché qui di tempo ce n’è poco
da perdere. E’ un po’ che ci penso, ho questo peso di cui mi
voglio liberare. Oddio non è proprio un peso è più una
soddisfazione.
ERNESTO: Non vorrai mica uccidere quella con la voce da anatra?
ROSSANA: C’ho pensato tante volte ma non c’ho il coraggio de falla
fuori, in fondo, a parte la voce e la rottura de scatole, è ‘na
brava figliola.
ERNESTO: Allora vuoi che ti aiuti a scappare da qui. Però sappi che io
mi opporrò con tutto me stesso perché se tu te ne vai e mi
lasci qui, da solo, io, io, io…
ROSSANA: Ernesto calmati, non voglio andare da nessuna parte, primo
perché me riporterebbero subito qui e secondo perché anche
io, io, insomma anche io. Erné ma tu il tuo primo bacio te lo
ricordi?
ERNERSTO: E certo, come faccio a dimenticarlo, era la figlia del barbiere,
Angelica, ancora mi ricordo il colore dei suoi occhi, la prima
volta che la baciai fu dopo la processione del santo patrono
stavamo fianco a fianco con i cerini in mano, pregavamo e ci
guardavamo, pregavamo e ci guardavamo finché non riuscii
di nascosto a portarla nel fienile e la baciai, la riempii di
bacetti, non sapevo neanche come si faceva, e lei faceva
quello che facevo io, durò pochi minuti perché sentimmo
delle voci. Due giorni dopo mio padre mi disse che mi aveva
fatto entrare come cuoco nelle navi da crociera e che quello
sarebbe stato il mio futuro. Decisi allora di non vederla più
così ci saremmo risparmiati tanta sofferenza. Però quei
minuti non potrò mai dimenticarli. Le ho dedicato tante
poesie che né lei né altri hanno mai letto.
ROSSANA: Ma allora te lo ricordi ancora? Credevo che…mi hai
commosso lo sai?
ERNESTO: Ma io ricordo tutto, te l’ho detto ho ancora il ricordo lucido
del nostro primo incontro sul ponte della nave.
ROSSANA: ( Ormai rassegnata)Ernesto caro, non importa dove ci siamo
incontrati, l’importante è che ora tu sei qui con me e mi sei
vicino per il mio compleanno. Sai che penso di aver trovato il
mio desiderio?
ERNESTO: E qual’ è cara?
ROSSANA: ( sorride mentre fa una lunga pausa) A volte ci ritroviamo a
desiderare le cose più strane, fantasiose, quando invece
basterebbe ascoltarsi un pochino di più e osservare ciò che ci
sta attorno e sentire davvero quali sono i bisogni necessari
e… ( la Signora si avvicina sempre più ad Ernesto)
ERNESTO: E…? ( Ernesto si avvicina sempre più alla Signora)
ROSSANA: Ernesto?( quasi soffiato)
ERNESTO: Dimmi cara…( rimanendo sospeso)
ROSSANA: Posso essere sincera fino in fondo con te?
ERNESTO: Fino in fondo…
ROSSANA: La schiena… C’ho un prurito insopportabile… che me la
daresti ‘na grattatina co’ quella tua manina dolce?
ERNESTO: ( felice) Ma certo cara. Così va bene? E così?
ROSSANA: Ah sì, Erné, gratta gratta co’ quella manina dolce..gratta…e
famme sentì come un prato a Primavera!
Ernesto continua a grattare la schiena della Signora mentre lei ad un certo
punto fa il gesto di soffiare le candeline e le luci si spengono.
VOCE F.C. ROSSANA:
È o non è il mio compleanno? Quanti anni
c’ho? Non lo so, non sento, non sento sto
andando in bicicletta c’è il vento, il vento che
mi entra nelle mutande, quanto sono bella.
(Lunga pausa)
Riprende la musica il “Notturno in mi bemolle maggiore Op.9 N°2” di
Chopin mentre in fondo ombre di vecchi danzano liberamente.
FINE
COMMENTI FINALI
L'ennesimo compleanno di Eleonora Cecconi è un testo dalla drammaturgia
pulita, scritto da chi padroneggia in prima persona le regole del
palcoscenico e della parola recitata e del suo potere evocativo.
Si tratta di un testo bello, forte, che non ci si aspetterebbe da una giovane
donna di ventisei anni: di solito a quest' età gli aspiranti drammaturghi
raccontano di storie schizzate di giovani alla deriva, intrisi di malessere
metropolitano, alle prese con un narcisismo post adolescenziale che sfocia
in monologhi infarciti di depressione minimalista.
Eleonora Cecconi invece nel suo testo mette in scena, con un linguaggio
semplice e per questo forte, coraggioso e bello, una storia di anziani alle
prese con il aggio più duro della vita, di cui in questi tempi "estetici"
nessuno ha il coraggio e la voglia di parlare: il decadimento fisico, la
vecchiaia, l'avvicinarsi della morte. Ma lo fa in modo forte,
dignitoso, poetico e persino divertente.
I suoi personaggi non si arrendono, hanno voglia di vivere, a dispetto dei
denti che cadono, delle ossa che dolgono, delle facoltà mentali che si
appannano... e lo fanno in maniera bella, vitale.
Un testo ben scritto, con due personaggi ben delineati, una bella storia. Sono
felice che venga da una giovane donna: la vita è un ciclo, una rinascita,
sempre.
Pujadevi
La vecchiaia: le sue fisiche deformità, le sue scomode richieste, in un paese
che sembra vivere in un’eterna mezz’età. Dimenticando i vecchi come i
giovani.
La vecchiaia, anche come consapevolezza di sé, dei rimpianti, delle forze e
delle debolezze della propria esistenza, vicina al termine.
L’ennesimo compleanno parla di tutto questo con sensibilità e delicatezza,
scegliendo l’ironia come perfetta chiave per allontanare qualsiasi forma di
pietismo. Ha la forza, Eleonora Cecconi, di sbatterci in faccia tutto quello
che non vorremmo vedere e farcelo piacere. Abbassa le nostre difese con
una scrittura solo all’apparenza leggera, ma che si insinua nella pelle.
La bravura dell’autrice è anche quella di disegnare un personaggio che parla
attraverso le cose, quasi tangibili per il pubblico che ascolta: il prurito dietro
la schiena, le macchine che attraversano, il culo sodo di una ventenne, il
semolino pronto in cucina.
Gli anziani in sala guarderanno con più dolcezza a se stessi, quelli giovani
avranno un motivo in più per ritenersi fortunati. Ma entrambi, sicuramente,
sentiranno forte il vento tra le mutande.
Motivazione della Giuria
“Festival Talk to Me” scrittura per voce sola
Primo premio