Buon compleanno
Veronica Di Carlo
Buon compleanno
Edizione digitale: novembre 2013
ISBN: 9788868558963
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Indice
Prologo
Buon compleanno bambina!
Una storia sbagliata
Il suono della domenica
Sfiorivano le viole
La canzone di Marinella
Matti!
La luce del sole
Mio zio
In Viaggio
Sapore di sale
Un senso
Don Chisciotte
Everybody’s Got To Learn Sometime
La collina dei ciliegi
Prologo
Sono le 06.30 del mattino. E’ sabato. Sono di turno in clinica anche oggi. Ogni volta che mi sveglio la notte faccio fatica a riprendere sonno. Il pancione pesa. Mi alzo spesso per andare in bagno. Sono tanti i cambiamenti della gravidanza, ma manca poco, solo due mesi. Accarezzo la mia piccola come tutte le mattine e le auguro il buongiorno sperando di sentirla scalciare come segno di risposta. Non avevo voluto sapere il sesso, ma sentivo dentro di me che era una femminuccia. Essendo ancora presto, ne approfitto e invece di rimanere a letto a poltrire, faccio una bella eggiata sul lungomare, mi piace sentire il profumo dei fiori mischiati all’odore del sale marino. Anche se Pescara non è la mia città d’origine, mi ci sono affezionata come ad un cane fedele. Rispetto alla frenesia dei ritmi milanesi qui mi sento cullata da una rassicurante routine. E’ come vivere nel terzo movimento della IX sinfonia di Beethoven: adagio. Mi sono trasferita a Pescara per il lavoro di Walter che non è il padre di mia figlia. Walter ed io siamo stati insieme dieci anni, ma quando arrivò il momento di progettare una famiglia, lui mi piantò per un uomo. Per controbattere lo shock decisi di perseguire la mia volontà anche in sua assenza. Avevo tutti i diritti di avere un figlio. Ma la piccola provincia sa essere appuntita e tagliente. Sono una donna sola, incinta, milanese e con un ex omosessuale. Ci sono tutti i presupposti, secondo la gente, per tenermi lontana. Sono stata in analisi per anni, ma ora sono stufa di mettermi ancora in discussione, per lo meno non più come donna. Adesso finalmente sta per cominciare una nuova fase della mia vita: la maternità. Entro in clinica, le assistenti mi osservano in modo strano. Sento che c’è puzza di novità. Dico puzza perché nel mio reparto non potevano che capitare cose poco piacevoli. Percepisco l’atmosfera funerea. Mi dirigo verso la sua stanza, il letto è vuoto, appena rifatto, come se stesse aspettando un sostituto. Mi annunciano che Lucrezia Di Girolamo è morta. Mi devo sedere. Lucrezia era stata portata da noi per un malore. Era molto malata. Quando le comunicai che si trattava di una forma fulminea di leucemia non mostrò alcun tipo di reazione. Ne rimasi stupita. Di solito i terminali hanno tutti la stessa espressione carica di speranza che li tiene in vita fino all’ultimo respiro. Dallo sguardo di Lucrezia invece traspariva una sorta di serena rassegnazione.
Lucrezia non mi ha mai parlato. Quando facevo il giro pazienti, mi soffermavo di più nella sua stanza, la più bella della clinica, la chiamiamo la ‘suite con vista’. Mi sedevo sul suo letto mentre lei guardava il mare e teneva una mano sul mio pancione. Quella macchia blu che si intravedeva lontana magnetizzava il suo sguardo, come se lei attendesse pazientemente di tornare a farne parte. Lucrezia aveva modi gentili, le sue mani tiepide e consumate si muovevano in modo armonico, i suoi sguardi erano tremendamente rassicuranti. I suoi capelli bianchi erano lunghi e raccolti in una coda attorcigliata a dei fermagli. Il suo corpo esile era appeso alla sua anima gonfia di pace. Per la prima volta avevo visto un malato terminale, almeno ai miei occhi, serenamente pronto a lasciare questa vita. Cercai di entrare nel suo mondo, tentando di ascoltare quei silenzi, dando voce ai miei pensieri. Quando entravo nella sua stanza facevo i conti con il mio inconscio e le mie paure esistenziali. Cresceva dentro di me la pena per la creatura in grembo a cui avevo già tolto un diritto prima di nascere: quello di avere un padre. Non rivelai a nessuno la verità sulla sua paternità, nemmeno a mio madre. Quando rimasi incinta le dissi che il padre biologico non avrebbe riconosciuto il bambino, al contrario io avevo scelto di tenerlo e portare avanti la gravidanza. Lei non fece molte domande, dopo la mia breve spiegazione non entrammo più nell’argomento che andò a far parte della vetrinetta dei tabù di famiglia, accanto alla morte di mio padre. La parola ‘padre’ fu bandita da casa da quando fummo informati della vera causa di morte di nostro padre. Quando si dice che si diventa maturi a diciotto anni è vero, mio fratello ed io a quell’età fummo costretti ad abbandonare per sempre l’età dell’innocenza. Non potendo sfogare la mia rabbia contro mio padre, cominciai la mia battaglia contro mia madre. Venuta a conoscenza della verità, andai via di casa, mi trovai un appartamentino nel centro di Milano e mi iscrissi a medicina. Avevo bisogno di tenere la testa impegnata, motivo per cui scelsi una delle facoltà più faticose. Il tempo libero lo spendevo lavorando per mantenermi e per non pensare. Volevo stare sola, lontana dalle relazioni sociali. Tutt’ora non ho amici, se non qualche conoscenza superficiale. Nei momenti di raccolta e di riflessione accanto a Lucrezia ero giunta ad una conclusione: negando un padre a mia figlia avrei potuto risparmiarle un grande dolore perché la figura paterna per me non era altro che una fonte di sofferenza. Le infermiere, notando lo stato di coinvolgimento con la mia paziente, decidono di consegnarmi gli effetti personali di Lucrezia racchiusi in una scatola, chiedendomi se avessi voluto mettermi in contatto io con la famiglia di Lucrezia. Torno a casa, sfinita dopo una giornata trascorsa per lo più in piedi. Metto a cucinare un po’ di minestrone. Apro la scatola di Lucrezia, trovo una cartelletta
blu, sembra fatta a mano, con la carta crespa. La apro. Contiene una lettera con una dedica. I fogli sono in ordine sparso. Cerco una sequenza logica, e una volta assemblati, spengo il gas e mangio velocemente seduta al tavolo della cucina. Lancio uno sguardo sul mare che si intravede, è scuro come il calar della sera. Adesso Lucrezia riposa cullata dalle onde, penso. C’è un gran silenzio. Il resto della casa è buia tranne la sala dalla quale si intravede l’abatjour accesa. Mi trasferisco in poltrona avvolta da un’atmosfera soffusa e sprofondo nella lettura.
A Sara
Quando ho conosciuto Alex stavo ancora con tuo padre. C’era un seminario di filosofia orientale all’Università di Pescara. Anche se avevo appena consegnato la tesi e mi ero messa a dare ripetizioni dalla mattina alla sera per mantenere te e lui che come al solito si era fatto sbattere fuori da qualche cantiere, decisi di parteciparvi. Abitavamo in un paese dell’entroterra abruzzese. Nei giorni tersi si intravedeva il Gran Sasso. Avevo bisogno di staccare da quella realtà claustrofobica: tuo padre trascorreva le giornate al bar con quei quattro sciamannati di paese, a pranzo andava da sua madre, sapeva di trovare sempre un pasto caldo e un’ospitalità rassegnata. Lui evitava di incontrarmi in casa, riflettersi nel mio sguardo significava ammettere di essere un padre ed un marito fallito. Non ne potevo più ma la mentalità del paese non mi permetteva vie d’uscita. Tu eri piccolina, a mala pena riuscivi a stare in piedi sulle tue gambette sottili. Avevi tanti capelli, come ora, neri neri. Il tuo visino sembrava sereno, su di te rimbalzavano i nostri problemi, le mie angosce e la mia rabbia. Ma quanto avresti resistito ancora? Almeno tu avevi diritto ad un’altra possibilità. Dovevo combattere per fuggire da quella realtà di provincia e portarti via. Il potere di avere la tua vita nelle mie mani mi dava una grande forza. Per te potevo farcela. Così ho ricominciato a vivere con l’idea di conquistare la mia libertà, progettando il nostro futuro, ideando la nostra fuga.
Elvira e Claudio ci hanno cresciuti a cottimo, cinque figli, uno dopo l’altro. La figlia più grande accudiva i più piccoli e così a scendere fino all’ultimo nato. Solo i due maschi della famiglia non dovevano alzare un dito, come papà ovviamente. Papà però alzava le mani. Appena si innervosiva e appena lo facevamo arrabbiare. Eravamo sempre pieni di lividi grossi quanto le padelle che usava per menarci. Non avevo una bella immagine di mio padre. Una volta ascoltai una chiacchierata nella casa degli zii. Io giocavo a nascondino coi cuginetti nel portico dove solitamente si tenevano i banchetti delle ricorrenze. Mi infilai dietro un cespuglio. Faceva caldo, era estate, sentivo puzza di sudore. Erano le ascelle puzzolenti delle zie. Ricordo come se fosse oggi un odore acre. I peli spuntavano come batuffoli di lana grigia.
-Si sentit che ha success? -Si, Si agg sentit -Elvira è annata a aiutà quella baldracca di Cesira -Cesira s’ha fat lu marit di Elvira -Ha rimast incinta e per forza ha dovuto abortì -E chi l’ha fatt l’abort? -L’ha fatt co Elvira, gliel’ha chiesto lu marit, non sapeva che fà, lui, si capit? -Robba du l’altr monno Mia madre Elvira ha accompagnato donna Cesira ad abortire dopo la fuitina con mio padre. Incredibile! Ricordo che provai un gran senso di nausea. Lo attribuii al fetore delle ascelle delle zie. Tra tutti i miei fratelli io ero l’unica che leggeva. Ogni volta che vedevo un libro esposto in qualche vetrina di una libreria, volevo entrare e leggerlo. Il libraio era vicino a casa nostra. Era un vecchietto solitario. Era rimasto vedovo da giovane e non si era più risposato. Me lo immaginavo di notte, che apriva il suo negozio di nascosto, per sedersi a leggere Cime Tempestose. Appena mi liberavo dalle pesti dei miei fratellini chiedevo al libraio se potevo aiutarlo a spolverare gli scaffali. Nel frattempo sbirciavo, li sfogliavo, guardavo le figure, leggevo qualche paragrafo saltando da un’atmosfera ad un’altra, dall’avventura al fantasy, dal poliziesco al drammatico. La scuola dell’obbligo stava per terminare. A scuola ero brava, le maestre volevano tutte che continuassi a studiare, addirittura mi consigliarono di frequentare un liceo. Mia madre e mio padre non ne volevano sapere. Mia sorella, che aveva solo sedici anni, era appena rimasta incinta e si stava per sposare. Anche papà e mamma si erano sposati alla sua stessa età. Se credevano che anch’io seguissi le loro orme se lo potevano scordare. Io avrei continuato a studiare. Ma per convincere papà ho dovuto escogitare uno stratagemma.
A scuola venne a trovarci un giornalista. Era il marito della maestra Bruna. Lei
era incredibile. Mi aveva in pugno. Non volevo deluderla. Sognavo di fare le eggiate assieme a lei, raccontarle dell’ultimo libro letto. Quando arrivò suo marito in classe ci rimasi. La maestra Bruna, così alta e affascinante, stava con un uomo in sedie a rotelle? Sai, papà ci ha cresciuto ripetendoci che il diverso fa paura. Quando vedeva un bambino down ci faceva cambiare strada, se ava un cieco, si spaventava. Lui ci spiegava che per scaramanzia sarebbe stato meglio non parlarci con quelli differenti da noi sennò potevamo finire anche noi come loro. Così quando vidi Enrico entrare a bordo della sua carrozzella mi venne un colpo. Cominciai a voltarmi da tutte le parti pur di non incrociare il suo sguardo. Ma sembrava che lui ce l’avesse con me. Continuava a fissarmi. Mi stava succedendo come con i gatti. Non mi sono mai piaciuti. Eppure tutte le volte che capitavano attorno a noi quando giocavamo all’aperto, si mettevano sempre vicino a me. La maestra Bruna mi chiamò in cattedra, proprio accanto al marito disabile. Io camminai a o di gambero, per non incrociare il suo sguardo. Mi presentò come la migliore allieva della classe. Lui mi chiese di scrivere un articolo per la classe e di portarlo per la settimana successiva. Fu allora che mi venne in mente l’idea geniale. Il titolo era: ‘Il liceo porta soldi’. Dovevo scriverlo per mio padre quindi usai dei termini dialettali, cercai di renderlo il più semplice possibile. Corto ma efficace. Mio padre avrebbe dovuto convincersi che fosse un articolo vero e che mandarmi a scuola gli sarebbe venuto comodo per arrotondare. Scrissi qualcosa del tipo:’Offerta speciale: lu liceo st’anno dà li sord alle famiglie che mannano li figl a scola’. Il risultato fu che presi una bella insufficienza con stupore dei compagni e delusione della maestra Bruna, in compenso mio padre accettò l’idea di iscrivermi alle superiori. Rimaneva un particolare, mio padre si aspettava che con l’iscrizione al liceo, avrebbe potuto riscuotere del denaro. Tornai dal libraio sconfitta, gli raccontai la storia. Sapevo che lui mi avrebbe capita. Decise di darmi mille lire al mese per aiutarlo tutti i pomeriggi. Avrei potuto così dare i soldi a mio padre. Mentre le mie amiche di scuola cominciavano ad andare di nascosto alle feste nelle cantine o nei garage, io dovevo pensare ai fratelli, andare al liceo, studiare e lavorare dal libraio. Non avevo tempo per nient’altro.
Il mio primo giorno di scuola. Il liceo Scientifico Leonardo da Vinci si trovava a L’Aquila. Non ci potevo credere. Avevo gli occhi annacquati per l’emozione. I miei nuovi compagni di classe erano seri, rispettosi, silenziosi. Avevano delle belle cartelle. Era la nuova moda, si vendevano nelle cartolerie. Per me erano inaccessibili. Io invece avevo solo una penna. Successivamente portai i libri
annodati con una corda che rubai a Tarcisio, il pescatore che viveva sopra di noi. Al mio compleanno il libraio mi regalò una cartella, era un po’ vecchia, credo l’avesse comprata usata o recuperata da qualche figlio di amico intellettuale che non la usava più. Ma a me che importava, era bellissima. I Prof. erano severi, a me sembrava tutto più difficile. La prima interrogazione di italiano, la mia materia forte, andò malissimo. I primi tempi furono durissimi. Ero rimasta indietro. Alle medie studiavo con i caproni della mia zona, la maestra Bruna era paziente ma si vedeva che non li sopportava. Nessuno dei miei vecchi compagni di classe ha continuato a studiare. Sono tutti andati a lavorare, tranne quei pochi che sono rimasti a ripetere l’anno. Alcuni recidivi secondo me li avevano promossi per toglierseli di torno. Non sapevo con chi sfogarmi. Il libraio era diventato pure sordo e quando gli parlavo mi faceva ripetere cento volte le stesse parole. Volevo fare amicizia con la mia vicina di banco, Antonella De Gregorio, ma lei mi guardava sempre male. Non avevo mica la rogna io anche se sapevo di essere diversa. Mi vergognavo della mia famiglia, ma allo stesso tempo non riuscivo a odiare mio padre e mia madre nonostante non fossero come avrei voluto. Se avessi potuto scegliere, in quel periodo, avrei voluto il libraio come padre e la maestra Bruna come madre. Ma soprattutto avrei scelto Antonella per sempre. Proprio la mia vicina di banco. Inizialmente devo averla conquistata per mancanza di alternative. Una volta mi invitò alla sua festa di compleanno a casa sua. Abitava vicino alla piazza principale, che si scorgeva dal suo grande terrazzo in fiore. Eravamo sedute sulla punta dei piedi, accanto al tavolo antico della grande sala da pranzo. Le tende erano socchiuse. Filtravano dei raggi di sole che scaldavano i nostri polpacci. Si vedevano solo quelli. Non potevamo né truccarci né scoprire le gambe. Sul tavolo erano disposti in bella vista dei succhi di frutta e una grande torta di mele. La madre di Antonella stava in cucina, pronta a servire, qualora fossero arrivati gli altri invitati. arono dei cugini, poi una zia ma nessun amico, neanche uno straccio di compagno di classe, a parte me. Non parlammo. Ma il mio regalo le piacque. Le scrissi una storia di un’amicizia tra due ragazze della nostra età. Non la lesse davanti a me, ma ero certa che le fosse piaciuta visto che mi chiamò i giorni successivi per vederci di nuovo, a casa sua. Questa volta in casa c’era solo lei. La madre era fuori per commissioni, il padre come sempre in giro per lavoro. Eravamo nella stanza di Antonella, ne aveva una tutta sua, per intero. Era figlia unica. Io condividevo la camera con una sorella e due fratelli. Un incubo. La cameretta di Antonella sembrava un luogo etereo, sospeso, silenzioso, profumato. Odorava di bucato appena steso. Non so come sia successo ma eravamo sul suo letto sedute vicine, condividevamo un grande album di fotografie. La sua cresima. Sfogliandolo ci succedeva di sentire i nostri
respiri profondi, il battito dei nostri cuori, la pelle delle nostre gambe nascoste dalle pagine del libro che si toccavano tra loro. L’ultimo foglio lo girammo assieme, la mia mano si posò sulla sua. Fu in quel momento che sentii un brivido sulla schiena, mi bruciavano le guance. Il suo viso color latte arrossì. La mia indole era sempre stata combattiva, per sopravvivere alla mia famiglia e andare contro le sue regole, dovevo essere una guerriera come le amazzoni dei miei libri preferiti. Allora avvicinai la mia bocca alle sue labbra. La toccai appena chiudendo gli occhi. Lei li chiuse prima di me. Io spensi la luce sul suo comodino. Avevamo paura che la luce ci vedesse. Il buio ci metteva più a nostro agio. Lei si stese come se sapesse cosa fare. Io goffamente provai a salire sopra di lei cercando di non farle male. Cercai di nuovo le sue labbra. Le nostre mutandine erano bagnate. Ci strusciammo per almeno due ore, senza mai parlare. Baciandoci e toccandoci come due amanti segrete. I giorni successivi ero di ottimo umore. Sembrava che la mia vita andasse a gonfie vele. Avevo i soldi da dare a mio padre grazie al lavoretto in libreria, dove potevo trarre spunto per scrivere i racconti, i miei fratelli stavano crescendo, andavano a scuola quindi per gran parte del giorno non li avevo tra i piedi, i miei voti andavano migliorando, soprattutto grazie all’aiuto di Antonella, e la nostra relazione stava diventando qualcosa di grande. Eravamo inseparabili. Ci raccontavamo tutto. Adoravo la sua timidezza, i suoi modi gentili e raffinati. Io per molti versi ero rude e pasticciona. Ma le piacevo e questo era l’importante. Trascorsero cinque lunghi anni. Al buio c’eravamo Antonella ed io. Alla luce del sole c’era il resto del mondo che a me non interessava più di tanto. Mi piaceva quando Antonella mi medicava le ferite. Era così dolce e premurosa. Mio padre avevo smesso con le padelle, perché aveva trovato un lavoro più remunerativo, per cui aveva cominciato a usare le cinture in pelle. Non voleva che uscissi, credeva che andassi a fare la scema con i ragazzi. C’erano i primi movimenti studenteschi in paese, ma erano delle imitazioni di quelli di città. La televisione mostrava le prime manifestazioni, le minigonne, i volti truccati delle ragazze, la voglia di libertà. Finalmente anche ai miei coetanei stavano strette quelle vite oppresse. Si sentiva aria di cambiamento. Anche io avevo cambiato look. Ovviamente c’erano i miei abiti di casa e poi quelli che usavo fuori, di solito riuscivo a vestirmi e svestirmi in una discesa e una salita di ascensore senza che i miei se ne accorgessero. Partecipavo ai pranzi delle ricorrenze, compleanni, matrimoni, funerali, battesimi, comunioni, cresime, recitando la parte della figlia intellettuale. -Quant è intelligggente sta nipot –
-Ti na capa gross come nu cocomero – Ma la più incoerente era: -Nunte sposà – Non facevano altro che strafogarsi ai matrimoni e riprodursi come ricci. Probabilmente il freddo invernale li invogliava a tubare come piccioni in calore perché ogni estate spuntava un cuginetto nuovo. Al matrimonio di Zio Nicola decisi di fare la femminista ribelle. Mi presentai in minigonna con la giacca di pelle e i capelli blu. Ero su di giri, avevo appena fatto l’amore con Antonella dietro gli scaffali della libreria. Ormai la portavo avanti io perché il libraio si era ammalato. Si era trasferito sopra al negozio in un buco dove aveva giusto una stufa, una branda e una piccola tv in bianco e nero. Non potevo abbandonarlo, lui aveva bisogno di me. Avevo chiesto ad Antonella di venire al matrimonio, nessuno avrebbe detto nulla di un’amicizia tra donne. Era splendida, con i suoi capelli biondissimi, la pelle chiara, i suoi seni morbidi che si intravedevano attraverso un vestito color oro che le arrivava alle ginocchia. Mi piaceva morderle la rotula. Gliela stavo guardando. Lei richiamò la mia attenzione. Un amico di famiglia mi si avvicinò prendendomi da dietro con prepotenza. Mi scostai subito iraconda. Antonella si impaurì, temeva la mia reazione. Mi portò via. Finimmo in bagno, chiuse dentro la toilette, lei tentò di calmarmi con il suo fare pacato. Ero furibonda. Gli uomini per me erano tutti come mio padre, arroganti, maschilisti, egoisti, fascisti, avrei voluto tagliare le palle a tutti e appendergliele tra i panni stesi. Una delle cugine di papà ci beccò in flagrante mentre ci confortavamo affettuosamente abbracciate sul water. Uscimmo una alla volta, Antonella paonazza, io strafottente.
Non so se quell’episodio fu il vero motivo della nostra separazione, fatto sta che ci siamo divise e non ci siamo mai più riviste. Dopo il diploma Antonella partì per andare all’Università di Bologna. Lì c’era un gran movimento, gli studenti erano incazzati per davvero, si lottava sulle strade, nelle piazze, si urlava al mondo la volontà di trasformare la società. Io invece finii per trascorrere le giornate a ripercorrere i luoghi miei e di Antonella. Le eggiate e le fughe notturne in libreria dove, con un lumino da cimitero, ci mettevamo a leggere Annamaria Ortese, Virginia Woolf, Doris Lessing, Simone De Beauvoir, Chatwin, Bukowsky. Grazie ad Antonella conobbi l’amore. Non era tanto quello
che facevamo insieme, né il come che ci rendeva così inseparabili. Antonella ed io sognavamo il futuro insieme facendo progetti e raccontandoci come e dove saremmo state da grandi. Io volevo incontrare i Beatles e diventare la loro assistente logistica, organizzargli le trasferte, i concerti, prenotargli gli alberghi, Antonella invece voleva aprire una libreria in California, sul lungomare. La voleva chiamare Fish&Books! Saremmo state appollaiate su una terrazza di legno sbiancato, a guardare l’oceano, leggendo libri e mangiando pesce appena pescato.
Terminò anche il tour dei ricordi, il tempo trascorreva, io mi convinsi che per l’estrazione sociale della mia famiglia e le mie possibilità, fino ad allora ero stata fin troppo fortunata. Dovevo pagare la mia felicità con un po’ di sofferenza. Era giusto così. Ci furono dei momenti in cui avrei voluto essere mia sorella Antonia, lei era sempre indaffarata a preparare il pranzo, la cena, accudire la prole, il marito e così via ogni giorno senza mai fermarsi. Che noia pensai all’inizio, ma invece quando trascorsi un po’ di tempo da lei per aiutarla con i figli più grandi visto che il nuovo arrivato non le faceva chiudere occhio, mi resi conto che le sue giornate erano una diversa dall’altra. C’erano tanti imprevisti come una tubatura rotta da mettere a posto, il panettiere che aveva chiuso per tre giorni per lutto, oppure sorprese un po’ più allietanti come trovarsi con un pappagallo in casa che chiede ospitalità e dialoga in dialetto. Quando il marito di mia sorella rientrava il pappagallo gli diceva sempre: ‘Si nu cornut’. E i bimbi ridevano. Suo marito meno.
Avevo deciso di non andare all’Università. Avrei trovato un lavoro. I miei continuavano a stressarmi che avrei dovuto trovare un marito, non avevano più intenzione di mantenermi. Capirai per quello che gli costavo. In quegli anni gli avevo dato come contributo i soldi guadagnati in libreria. Mio padre aveva fatto finta di credere a quell’articolo di giornale chiaramente falso, in cui avevo scritto che il liceo avrebbe finanziato gli studenti iscritti, ma pur di estorcermi quei pochi spiccioli, aveva preferito are per fesso. A casa non c’ero mai, a pranzo finivo sempre da Antonella, quindi al massimo consumavo il pasto della sera, il più misero, una minestra o una pasta riscaldata. Andavo al o coi tempi senza volerlo. Ero sottile e smunta come Twiggy!
Trovai un lavoro ma soprattutto uno stimolo per andare avanti e credere di nuovo nel mio futuro. Un gruppo di ragazzi del mio liceo aprì una radio, una stazione alternativa, mettendo musica rock e parlando di politica. Ci mantenevamo a mala pena le spese e prendevamo qualche spicciolo dai pochi sostenitori che ci seguivano. Per lo più si trattava di famiglie bene oppure di imprenditori piuttosto egocentrici che chiedevano venisse fatto il loro nome quando eravamo in onda.
Ma non avevo ancora pagato abbastanza per quella felicità vissuta e oramai perduta per sempre. Arrivò il girone infernale. Il libraio morì nel sonno. Che bella morte pensai. La libreria chiuse e aprirono al suo posto un pizzicagnolo. Decisi di non arci più davanti, quella via era stata bandita dai miei percorsi quotidiani. Ma il grande lutto che trasformò le sorti della nostra famiglia fu quello di mia madre. Morta mia madre il castello di carta crollò, come quando fai le torri con le carte, se cede la carta portante cade tutto il resto. Mi sono sempre chiesta cosa si provasse. Quando morì zia Adelaide ad esempio al funerale mi arrovellai le membra per capire cosa asse per la testa di suo marito e delle sue figlie. Ora sapevo cosa ava per la testa a me. Immagini di un deserto senza fine, dune, e poi mare aperto, orizzonti lontani. Ad un tratto comparivano dei cammelli ma al posto della gobba avevano le ali. Io rimanevo al centro di questi spazi immensi e non riuscivo a volare. Pensavo di aver vissuto senza il o di una madre sin da quando ero piccola e invece dopo la sua morte mi sentii tremendamente sola e abbandonata. Anche se non ci eravamo mai frequentate né piaciute avevamo comunque condiviso delle esperienze familiari intime e personali. Mio padre decise di averne abbastanza di tutti noi, del paese, della politica, così partì per il Canada e raggiunse uno zio che aveva aperto un ristorante italiano. Il periodo delle grandi migrazioni. Ci fece scrivere una lettera dallo zio che mischiava lo slang americano con il dialetto delle nostre parti. Papà non sarebbe tornato, aveva trovato una dolce compagnia, ci invitava ad andare a trovarlo ma a nostre spese. Ci avrebbe trovato un posto a buon mercato dove alloggiare per l’eventuale breve visita. Il termine breve in dialetto era ‘ampress ampress’ sottolineato due volte. Meno male che avevo imparato a cavarmela da sola da parecchio tempo prima.
Arrivò Ettore proprio in quel momento di grande sconforto di gioventù.
Quell’anno che trascorsi in un limbo di dubbi esistenziali. La mia identità di amazzone, ribelle, femminista, combattiva si stava sgretolando. Così finii a letto con lui. Indovina un po’ chi era? Il figlio del pizzicagnolo. Infatti non lo incontrai mai lungo quella via per me bandita ma fu lui a corteggiarmi tramite la radio. Telefonava durante le dirette rilasciando testimonianze buffe. Mi faceva ridere. Era un bel ragazzo, robusto, con le mani grandi e rassicuranti. Una sera lo trovai fuori dalla radio, mi aveva atteso tutto il giorno. Mi ero trattenuta perché dovevamo fare lo speciale dello sbarco sulla Luna. Mi ha fatto tenerezza. Siamo andati a zonzo tutta la sera. Mentre gli parlavo spaziando dalle mie eroine alle figure goffe e grottesche della mia famiglia, lui trascorreva il tempo a salutare tutti quelli che incontravamo come se fosse il capo dei quartieri. Quella notte mi portò a Pescara. Facemmo l’amore in riva al mare in una spiaggia selvaggia sotto le stelle. Mentre mi penetrava pensavo proprio a loro, ai ragazzi che in quel momento erano dall’altra parte dell’universo. La mia prima volta con un uomo, la prima volta che l’uomo sbarcò sulla Luna. Lo trovavo singolare. Ettore ed io eravamo diversi anni luce. Infatti tutt’ora credo che il mio inconscio mi abbia portato da lui solo per il legame con il libraio. Mi immaginavo al bancone mentre le signorotte mi chiedevano tre etti di salame e io che consegnavo loro le poesie di Emily Dickinson. Fatto sta che mi ritrovai a vivere da Ettore, nella casa della nonna defunta, con una fede al dito. Non avevamo soldi per cui niente cerimonia fastosa, niente parenti che come cani randagi cercavano solo di sbranare gli ultimi bocconi dei banchetti. Organizzai un pranzo sotto il nostro portico. Le sorelle furono la mia benedizione, avevano cucinato tutto con le loro mani e deliziato i nostri palati come cuoche professioniste.
Il matrimonio mi fece bene in un solo senso. Per disperazione mi convinsi a tornare a studiare. Non sopportavo più l’idea di stare a casa a far finta di essere la casalinga modello. Ettore non aveva tanta voglia di faticare quindi spesso me lo ritrovavo pure tra i piedi. Così mi convinsi a iscrivermi in università. Nel frattempo aiutavo i ragazzini a studiare dando qualche ripetizione. L’università più vicina era a Pescara, vidi il mare di giorno. Mi emozionai. Il lungo mare lo costeggiavo a piedi per ore, respirando quell’aria fresca e facendomi accarezzare dalla brezza marina. Scelsi la facoltà di Lettere e Filosofia. Mi innamorai di Sartre e Schopenhauer, Fichte e Shelling, Verga e Flaiano. Avevo trovato qualche compagno di lezione con cui fare due chiacchiere prima di prendere la corriera che mi riportava in paese. Ettore non era d’accordo ma
avevamo fatto un patto. Lui voleva fare l’amore con me e io no. Ma in cambio della mia libertà di studiare mi concedevo più spesso del dovuto. Un giorno non andai all’esame. Non ero pronta perché era una settimana che ero a casa malata. Una brutta influenza girava. Però a me aveva preso lo stomaco e non smettevo più di rimettere. Io e il water stavamo diventando intimi. Mia sorella Antonia mi disse che secondo lei ero incinta. Io sapevo che sui volantini che giravano il movimento femminista aveva fatto una campagna di sensibilizzazione sul corpo della donna. Infatti non mi vergognai a chiedere per capire come funzionavano certe cose. Mi confrontai con un’amica dell’università, lei mi aveva detto che era stata da un ginecologo che l’aveva fatta abortire. In ospedale. Avevano varato la 194. Mi feci visitare, ero incinta. Ma quando me lo dissero lì per lì non mi resi conto. Non provai nessuna sensazione particolare. Tornai a casa, lo dissi a Ettore, sembrava contento ma allo stesso tempo preoccupato perché avrebbe dovuto darsi da fare trovando un lavoro fisso. Il Pizzicagnolo bastava giusto a mantenere i suoi genitori. Nella mia famiglia nessuno si stupì. Le nascite erano all’ordine del giorno. Anzi, a ventotto anni ero già considerata vecchia per avere figli. Qualcuno disse che finalmente ero guarita, come se il mio desiderio di libertà fosse una malattia. Appena vidi la mia pancia lievitare mi emozionai. Poi sentii scalciare. Eri tu la mia nuova ragione di vita. Quando sei nata, chiesi subito se fossi sana. I medici mi risposero che eri una femmina. Ho deciso di chiamarti Sara. Era la protagonista del mio primo libro letto. Mi chiesi come avessi fatto a vivere senza di te fino ad allora. Avevo tirato su i miei fratelli, condiviso tanto tempo con i figli delle mie sorelle, ma tu mi sembravi così diversa dai tutti loro. Ti volevo solo per me. Un rapporto esclusivo fatto di sguardi e di sorrisi, stavo scoprendo di nuovo il mondo e la vita attraverso i tuoi occhi.
Arrivò il momento cruciale. La tesi di laurea. Non avevo più scuse, dopo avrei dovuto lavorare e in paese non c’era futuro per me. Ettore non potevo lasciarlo. Anche se per fortuna era ato il referendum del divorzio e le donne potevano scegliere. Ma dove potevamo andarcene io e te? Senza una casa e senza soldi, con la nostra valigia di libri e buone speranze? Avevi quattro anni, eri già parecchio articolata. Volevo farti contaminare il meno possibile da quel provincialismo, evitando contatti con certi parenti analfabeti. Io ero il tuo mondo e tu il mio. Quando vidi in bacheca l’annuncio del seminario di filosofia orientale che si sarebbe tenuto all’Università di Pescara, rimasi intrigata perché vidi che c’era la possibilità di collaborare con il docente che avrebbe tenuto la
lezione. A Milano.
Quando ascoltai Alex mi vennero in mente gli anni dell’adolescenza. Riprovai quella sensazione di benessere e leggerezza. Pensai ad Antonella, al libraio, alla maestra Bruna. Finii per ascoltare poco di quella lezione ma decisi comunque di mettermi in fila per parlargli e chiedergli in modo sfacciato se avesse avuto bisogno di un aiuto. Dovevo fuggire e portarti via con me. Alex mi sembrava come quei giovani manifestanti, me lo immaginavo a fare il leader col megafono in mano nelle piazze delle grandi città. Alex era un idealista, un esploratore delle anime umane. Mi portò fuori a cena. Fu la prima volta che ti lasciai da mia sorella, dicendo a Ettore che avevo un corso serale. Portai Alex ai travocchi, mangiammo nelle palafitte il pesce appena pescato e cucinato dalle mogli dei pescatori. Alex mi trascinava nei suoi racconti d’avventura in giro per il mondo. Io lo intrattenevo con gli aneddoti rocamboleschi della gente del mio paese. Era la prima volta che mi confrontavo con una persona così libera. Le sue storie mi facevano sentire libera. Libera di agire. Con lui vedevo l’immagine di Ettore e del paese sempre più lontana. Capii finalmente la differenza tra me e loro. Non erano gli accadimenti esterni che mi facevano vivere ma era la mia forza interiore, quella che abitava dentro di me e che nessuno mi poteva strappare via, a farmi andare avanti e cercare nuove strade, seguire nuovi percorsi. Alex ed io architettammo la fuga nei minimi dettagli. Peccato che i genitori di Ettore, che erano un po’ meno tonti di lui, avevano sospettato che avessi un amante. Intanto Alex era rientrato a Milano, a preparare il nostro nido d’amore. Non ricevetti una sua lettera che mi giurò di avermi inviato da settimane. Capii che non andò persa. I suoceri mi avevano messo alle calcagna un detective. Invece di prendere a calci il figlio che non aveva combinato nulla nella sua vita, spendevano soldi per farmi seguire. Decisi di anticipare la fuga. Ero riuscita a mettere a posto la vecchia cinquecento del librario, me la regalò prima di morire. Feci un paio di scatoloni con libri e vestitini per te. Ti presi una mattina alle quattro e ti caricai sopra la macchina. Destinazione: Milano. Alex ci aspettava a casa sua, un piccolo monolocale dal quale si vedeva la Madonnina. Era il giorno del tuo compleanno!
Nonostante la fuga fosse riuscita trovando il coraggio di ricominciare un’altra volta una fase della mia vita, non fu facile gestire il ato ed educarti bene per
assicurarti un futuro. Scelsi di fare carriera in Università a Milano, trascorrevo le giornate in casa tra scartoffie e giocattoli. Tu giocavi con i miei libri, costruivi le case delle bambole con l’Ariosto e il Tasso. Ti mandai alla scuola materna così riuscivo a concentrarmi meglio. Alex spesso ci lasciava sole perché partiva anche per lunghi periodi, le sue missioni antropologiche. Lui cercava se stesso in ogni dove del mondo, e noi stavamo ad attendere che tornasse da noi. Volevamo essere noi la culla della sua anima. Eri molto intimorita dal cambiamento drastico. Il clima rigido, il cielo grigio, la grande città, l’assenza di punti di riferimento. Mi mancavano le mie sorelle, il portico, le zie appollaiate sulle loro panche fuori casa, i panni stesi, l’odore fresco di bucato, il lungo mare di Pescara, gli amici della radio e dell’Università. Cominciai a guadagnare meglio, così decisi di portarti per mostre. Andammo a Venezia come due turiste sprovvedute. Quando cominciasti le elementari, ti sentii più serena. Ti stavi ambientando. Avevi preso anche la cadenza milanese. Gli altri non ci consideravano più come forestiere. E anch’io cominciai a sentirmi meno ragazza di paese e più cittadina del mondo. Ti ricordi quando siamo andati tutti e tre in India? Eravamo a Varanasi, siamo ati davanti al grande inceneritore dove si portavano i morti a cremare per poi disperdere le ceneri nel Gange. C’era quel palazzo diroccato, un ammasso di cemento sventrato, da cui si sentivano gemiti di strazio di coloro che stavano per morire. Ai suoi piedi i corpi che venivano divorati dalle fiamme. Una cornice macabra per noi, un rituale necessario per quella gente e per le anime dei loro defunti. Parlammo a lungo della vita e della morte. Ti lessi le fiabe induiste, leggemmo Siddharta. Spero che tu possa ricordare quelle parole perché è arrivato il momento di salutarci. Mi piacerebbe tanto ancora scriverti e raccontarti della mia vita, ma adesso lascio spazio alla tua augurandoti di viverla appieno senza dover mai rinunciare ai tuoi sogni. Buon compleanno piccola mia, per tutti quelli che verranno! La tua mamma.
Capitolo 1
Buon compleanno bambina! (E. Bennato)
Suona due volte il clacson del vecchio maggiolone giallo di Alex appostato fuori dal Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano. -Sara mi sa che ce l’hanno con te. – Le compagne di classe interrompono l’amica intenta a raccontare gli impegni che l’attendono. Se ne stanno appollaiate ai muretti dell’uscita della scuola, dopo una mattinata di interrogazioni di fine anno. -Oh si è Alex… Poi continua trafelata accavallando una parola sull’altra, col fiatone addosso: -Non so come farò a gestire tutto, ora ho il pranzo con Alex e mia mamma, poi devo correre a cercare le scarpe per stasera, non le ho ancora trovate, ci credete? Le ragazze annuiscono come cani fedeli. -Emma ricordati che dobbiamo essere al locale prima della festa per controllare tutto. Ok ragazze sentiamoci dopo, ora devo scappare. Sara è raggiante ed euforica per i suoi sedici anni, la festa di compleanno nel locale storico del suo liceo, la cotta per Edo, il vestito nuovo da indossare. Sara allunga il o con le sue gambe affilate nascoste da una gonna di raso blu che si muove morbidamente sulle sue curve sottili. Indossa la sua giacca preferita, in finta pelle color rosso fuoco, un capo vintage che le aveva riportato la madre da Londra. La sua folta chioma bruna è arruffata e raccolta da un grosso fermaglio. Gli occhi da cerbiatta spiccano sul suo volto sorridente. Incrociano quelli di Alex. Lui si sporge dal finestrino abbassato e prima di
aprirle la portiera le sussurra: –La smetti di farti desiderare…E le strizza l’occhio. Lei risponde con una smorfia, salta a bordo e riprende il discorso come se si stesse rivolgendo ad un coetaneo. Alex ha lo sguardo fisso sulla strada interurbana che porta fuori città. La sua aria da santone, i capelli folti e disordinati, la barba incolta e la sua magrezza lo fanno sembrare ancor di più un uomo indifeso. La sottile ironia, che accompagnava spesso il suo umore, è soppiantata da un profondo senso di angoscia. Alex non riesce a smettere di pensare alla sua compagna di vita che di lì a poco li avrebbe lasciati per sempre. Arrivano in cascina. Un vecchio rudere ristrutturato a pochi chilometri dalla città. Si sente il rumore del fiume, gli uccellini cantare. Un luogo bucolico, ospitale e genuino, che d’inverno viene avvolto dalla nebbia della Bassa. Da Mario ci si poteva godere la quiete della natura circostante. E’ una bella giornata primaverile, il sole scalda abbastanza per stare fuori, sotto il portico. Mario è un omone barbuto, ex giocatore di rugby, che con fare avvolgente, va loro incontro a braccia aperte. Sara e Alex scendono dall’auto, si sente la ghiaia che scricchiola sotto i piedi, Mario bacia la festeggiata sulla fronte e la accompagna da sua madre. E’ seduta di spalle. Sta sorseggiando del vino rosso. Sotto il portico in pietra, c’è poca gente nonostante la bella giornata. -Ciao mamma – Sara le schiocca un bacio sulla guancia. -Ciao tesoro – le risponde con un fiacco sorriso. -Tutto bene mamma? Chiede Sara sorpresa per quel saluto stanco. Alex interrompe lo scambio malinconico stappando un prosecco e versando il vino nei calici. Punta il dito sulla bocca della bottiglia e comincia a bagnare le sue ragazze sul collo. Poi si accanisce su Sara e la insegue divertito come un ragazzino. -Non cresce mai mamma, dì la verità, è lui il figlio maschio mancato! Sara ride con la spontaneità dei suoi anni e si dimena cercando di sfuggire ad Alex che la avvolge a modi polipo per non farla scappare. Sua madre, come una spettatrice anonima, osserva quel piacevole balletto con aria nostalgica. I loro schiamazzi rimbombano nella sua testa e piano piano le voci si disperdono. Ora sente un profondo dolore. Non è fisico ma è come se lo fosse perché le stringe la
gola. Riesce a malapena a deglutire. Il suo pensiero volge al ato, alla sua adolescenza, alla forza d’animo che aveva caratterizzato la sua vita fino a quel momento. Ecco gli antipasti di Mario: affettati e formaggi nostrani accompagnati da pane caldo appena sfornato. Sono tutti e tre a tavola, Alex invita le sue fanciulle per un brindisi: -Brindo a noi tre e alla vita che ci ha fatto incontrare! Il pranzo procede con naturalezza, lo stato d’animo straziato di una madre cede spazio all’euforia della propria figlia. -Allora chi è il fortunato stasera? -Mamma dai, no porta sfiga raccontarlo. Posso dire che stasera forse ci sarà e verrà con il suo amico, che piace a Emma. -Quindi tesoro? Com’è, dai racconta… -Non dico altro. Ho già troppe aspettative, non voglio rimanere delusa. E se poi viene solo per vedere che aria tira oppure viene perché gli piace un’altra? Ci sarà mezzo liceo, figurati se tra tutte sceglierà proprio me. -Ma figurati, secondo me questo Edo dovrà preoccuparsi di tenere a bada tutti i tuoi spasimanti! Sara si assenta con il pensiero, il walzer di dubbi continua a danzare nella sua testa di adolescente, mentre i due adulti si guardano negli occhi senza parlare. Quel silenzio è una conversazione muta, lacerante. Mario si avvicina con la sorpresa, il dessert. -Ma cos’è?- Esclama Sara. E’ una grande mela con una candelina rosa e una bandiera americana infilata in uno stuzzicadenti. -Indovina un po’?-Risponde Alex.
-E’…è una mela! Esclama Sara. -Siiii e poi… -America? -Aiutino…? -Ma si, è New York! Sara esulta fiera di aver risolto l’indovinello. -Un viaggio a New York tutti assieme? Chiede lei. -Qualcosa di più bambina mia. Risponde sua madre. -Potrai frequentare un liceo americano l’anno prossimo! Proprio nella Grande Mela, sei contenta? -Wow! Che figata! -Siamo contenti che ti piaccia. Sarà un’esperienza di vita che ti renderà ancora più forte e matura vedrai. Dovrai cavartela da sola piccola mia. -Ma voi mi verrete a trovare vero? -Hei, non pensare a noi adesso. Pensa a questa nuova avventura! Risponde Alex sfiorandole una guancia per rassicurarla. Tanti sono i pensieri di Sara: i sacrifici di Alex e sua madre per quel prezioso regalo, Edo e la loro ipotetica storia, la sua migliore amica Emma. Un’ultima riflessione si rivolge a suo padre, Ettore, che non l’aveva ancora chiamata per farle gli auguri. Non era mai andato a trovarla da quando lei e sua madre si trasferirono a Milano. Sua madre aveva lottato per ricevere gli alimenti, atteso sette anni dopo la separazione per ottenere il divorzio. Padre e figlia erano legati da telefonate sporadiche cadenzate da lunghi silenzi. Madre e figlia si abbracciano. Sara cerca di allontanarsi con dolcezza: -Mami tranquilla, ci rivediamo domani! Sara sarebbe stata alla festa e poi a dormire da Emma, che aveva la casa libera.
Scivola una lacrima, lungo il viso di sua madre. Sara non si accorge di nulla. Cerca nella sua borsetta il cellulare che ha appena trillato. Un sms. Sente un brivido lungo la schiena. Da: Edo –Sbaglio o stasera c’è la festa della ragazza più carina del liceo? Faccino che ride. A stasera! – E’ fatta, pensa. Vuole rileggere quel messaggio almeno cento volte per sentirsi più sicura di sé. Ora il suo cuore è carico di aspettative.
Capitolo 2
Una storia sbagliata (F. De Andrè)
-Come cazzo ti permetti eh? Io t’ammazzo, giuro quanto è vero iddio t’ammazzo, si capit? Ettore è rosso come un peperone, la faccia gli scoppia. La canotta un po’ slabbrata finisce per rimanere imbrigliata alla maniglia della porta di casa dalla quale sta inveendo contro il vicino. Le urla rimbombano per la scala lunga e divelta all’interno di una delle case popolari di Rancitelli, un quartiere arrugginito di Pescara. Nicola si catapulta giù dal letto a castello, sopra di lui c’è sua sorella, Martina, che sta russando. E’ pesante Nicola, sembra un grande orsacchiotto. Incalza verso Ettore, con l’idea di calmarlo. -Ma che cazzo, basta co’ sto casino, voglio dormì, capito? E’ sabato mattina- E urla pure lui. Intanto il vicino, il Signor Masciarelli, minuto e pungente ferisce con le parole, mentre Ettore, poco dotato linguisticamente, improvvisa mosse da karatè per intimorire l’avversario. -Mò basta, mò gli faccio vedè io a sta famiglia Addams dei mei coglioni. Continua a lamentarsi Nicola, mentre avanza verso il vicino, con la trippa che saltella con lui. Ettore lo afferra per un lembo del pigiama e lo tira più forte che può. -Basta, basta, capito? Che vuoi finì in galera per sta banda dell’orore? Ettore rientra in casa blaterando assieme a Nicola. Avevano soprannominato i vicini, i Masciarelli, Adams, una famiglia dall’aspetto sbiancato, funereo e filiforme. Ettore continua con il turpiloquio:
-M’hanno rotto i coglioni sti stronzi de Addams capito? Se quello stronzo prova a distruggermi tutto lo sgabuzzino che ho fatto in solaio io giuro che l’ammazzo. Lo sgozzo, capito? Siete testimoni! Ettore ha le sembianze di un orso, un omone goffo dagli occhi languidi come quelli di uno scimpanzé. In casa di Ettore Rattazzi, la televisione è accesa già dal mattino, rimbomba attraverso i muri ammuffiti del palazzo. In tinello c’è una grande nuvola di fumo. Avvolta in essa si intravede lo spettro di una donna gracile che, a intermittenza, succhia la sigaretta e scrive con mano tremante su un quaderno. La madre di Nicola e Martina. Detta Teresina. Aveva avuto i due figli da una relazione precedente. Teresina è la seconda moglie di Ettore. Una grande giocatrice del lotto. Una donna, una cabala. Per lei esistono solo i numeri e le combinazioni. Aveva vinto un paio di volte duecento euro e si era fatta festa. Ettore sbatte la porta per tornare in solaio e continuare la sua missione sgabuzzino, Teresina lo chiama: -Ettore pe piacè comprami le sigarette e giocami sti numeri. -Hai rotto il cazzo cò sti numeri! -Ettore stavolta me lo sento. Il 52 non esce da 25 anni! E’ sabato. Ettore è stanco. Ha lavorato per una settimana intera in cantiere dal suocero. Vorrebbe trovare pace e dedicarsi al suo progetto in solaio. Il sottotetto del palazzo era stata la sua grande scoperta. Un luogo inavvicinabile. Caldo, puzzolente e invaso da matasse di polvere. Però era uno spazio e questo bastava ad Ettore per conquistarlo e farlo suo, senza chiedere il permesso a nessuno. Aveva rubato dei lettini e delle sdraio dallo stabilimento balneare di Montesilvano, usandoli come pareti del suo sgabuzzino improvvisato. Le mensole erano delle assi di legno trovate in strada legate da tiranti di corde sfilacciate. Ci metteva le provviste, come la pasta e lo scatolame. Poi c’erano i palloni rubati, lasciati incustoditi dai bambini del palazzo, vecchi giocattoli dei figli, album ricordi, scartoffie varie. Il tutto chiuso con una lamiera bucata che fungeva da porta e ricoperto dai teloni che si usano per rivestire le barchette dei pescatori. Ma quella mattina il Signor Masciarelli non vede l’ora di calpestare l’orgoglio maschile del suo vicino di casa inveendo contro la sua prepotenza. Non sopporta quell’invasione di campo. Lo sgabuzzino abusivo avrebbe dovuto essere abbattuto.
Nicola beve il caffè bruciato e frega una sigaretta dal pacchetto delle rosse di sua madre. Si mette in balcone e osserva dall’ottavo piano i tetti in lontananza della città. Guardarla dall’alto verso il basso lo fa sentire importante. I palazzi del suo quartiere sono come piloni abbandonati in un deserto di cemento. Nicola pensa agli stabilimenti balneari brulicanti di turisti. Gli viene in mente che quando era piccolo c’erano i tedeschi, adesso invece venivano a fare il mare solo i cafoni dall’entroterra. Famiglie affollate invadono già le spiagge di quella porzione di riviera Adriatica. Nicola riflette sul da farsi della giornata, aspirando con forza l’ultimo tiro di cenere bruciata. Martina, sua sorella, si è appena svegliata. La prima cosa che fa è pesarsi, sperando di aver buttato giù qualche chilo. Queste le sue riflessioni mattutine…In questa casa si mangia di merda. Devo imparare a cucinarmi le cose sane da sola. Mia madre non serve a niente. La cucina è uno schifo. Mio padre sa fare solo toast e pasta scotta, Nicola si ingozza di hamburger, dice che lo fanno diventare forte. Intanto io a quattordici anni mi ritrovo coi fianchi e il culo di una quarantenne altro che la carne soda di un’adolescente. Dopo un risveglio paranoico, tipico di un’adolescente frustrata, Martina si rivolge al fratello sbadigliando: -Ma che è successo, ancora gli Adams? -Si che palle, Ettore lo sai com’è quando quello lo stuzzica lui diventa un pitbull. -Si ma potrebbe farne a meno visto che mi fa fare solo figure di merda. Lo sai che Anita va a dire in giro che viviamo con un malato di mente? -Ma chi, la figlia cozza degli Adams? -Certo, viene a scuola con me, tanto a te che te frega giusto? Tu tanto vai all’Itis, stai coi grandi. -Se se, co’ sti discorsi. Senti invece parliamo di cose serie. Perché non venite con noi stasera?-chiede Nicola. -Veramente? – Martina è raggiante, tutto d’un colpo Anita e tutta la famiglia Adams, scompaiono dalla sua mente. Potrà rivedere il suo idolo: Mattia. -Ma c’è anche Mattia?- chiede mentre si sistema i capelli arruffati. -Si ma solo se tu porti la tua amichetta, dai come si chiama, tetta grossa.
-Ma chi, Gloria? -Brava sorellina, brava. Tu portala e poi ci divertiamo. Ci vediamo dopo alla Tramontana. La Tramontana è lo stabilimento balneare frequentato dai ragazzi di Rancitelli. Il proprietario l’aveva subaffittato ai Barzò, la famiglia degli zingari più noti della città. -Ok, così festeggiamo pure il suo compleanno! Martina aveva già pronto il regalo infiocchettato per la sua amica del cuore. Gloria l’avrebbe accompagnata all’appuntamento. Erano inseparabili. Mentre Martina sogna l’incontro con il suo idolo dell’Itis, Nicola si ritira come ogni mattina ad espletare il suo rito in bagno. La sessione merderotica, come gli piaceva definirla, sta per avere inizio. Nicola è un diciottenne goffo, aspirante bullo col fare da tonto. Pluribocciato, preferiva rimanere comodamente seduto sui banchi dell’Itis importunando le primine piuttosto che andare a lavorare.
Sta per compiere quattordici anni. Gloria guarda l’orologio mentre si accartoccia sotto le lenzuola. Osserva la porta. Sono le 23:58, mancano due minuti a mezzanotte, l’ora consueta dell’incubo che ogni anno, la notte del suo compleanno, si ripete. Chiude gli occhi, li stringe spremendosi le guance. Si apre la porta. Con o lento avanza verso di lei. E’ buio pesto. Sente il respiro del mostro delle tenebre, così lo definiva nella sua testa. Sta andando a punirla. Gloria si sente colpevole, la sua prematura crescita come donna è vissuta come una colpa. Il mostro si avvicina con la bava che cola. Le fa indossare una maschera. Gloria sente il respiro del mostro rimbombare nel suo corpo tremante vuoto e annientato. Vorrebbe essere paralizzata per non sentire quella massa estranea che la penetra e le apre la carne. La stritola. Il mostro sbava. Il mostro si dilegua nell’oscurità della notte. Si porta via la maschera, assieme all’innocenza della sua giovane vittima. Gloria trema come una bambina febbricitante. Le lenzuola non le bastano per scaldarla. Vorrebbe andare in bagno ma non riesce ad alzarsi. Ha paura anche di muoversi. Ha gli occhi spalancati dal terrore, rimane immobilizzata e sogna di essere morta, trattenendo il respiro. La luce penetra dalle tapparelle. Gloria si sveglia. Digrigna i denti, non riesce ad aprire la bocca. I raggi del mattino scaldano la sua pelle. Sa che il mostro viene
solo di notte quindi è salva. Può ricominciare e fare finta che sia un nuovo giorno, forse migliore. La madre si precipita nella sua stanza. Sente uno strano odore. -Che è sta puzza, Gloria? -Niente mamma. Risponde intimorita. La madre, una donna giunonica che sembra uscita da un quadro di Botero, comincia ad alzarle le mani addosso. -Ma che hai fatto?-Intanto tocca le lenzuola bagnate. -Ti sei pisciata ancora addosso? La smetti? Sei una bambocciona. Quella mattina Giunone vuole farle proprio del male. Si scaglia contro di lei con il battipanni. La mena, ripetutamente, contro le cosce. Gloria cerca di proteggersi e la implora si smettere. Quando le sue gambe si riempiono di lividi, la madre si allontana fiera della sua esecuzione. E Gloria esce, sola, zoppicante verso l’ospedale.
A casa Rattazzi il volume della televisione è alto. Numeri vincenti 2 – 52 -38. Uno dei giorni più belli della sua vita. Teresina esulta. Teresina grida il nome di Ettore a voce alta. Si sentiva raramente la sua voce in quella casa. Si accende una sigaretta, senza accorgersi che una è già accesa e appoggiata sul posacenere. Ettore arriva trafelato dalla camera da letto. Volge lo sguardo verso la muffa che si stava mangiando pure l’armadio. Quelle case di mare erano state fatte con la sabbia e trasudavano odore di pesce. -L’avevo detto che non usciva da 25 anni…Oddio oddio ho vinto…Mamma mia, aiuto, mamma mia, mo’ mi sento male. Teresina non sta nella pelle. In effetti è solo pelle e ossa. Sta facendo i conti sul quaderno, le tremano le mani. Deve calcolare in fretta le centinaia di euro che sarebbero tornate nelle sue tasche. Quando Ettore si avvicina allo schermo e ascolta la voce della presentatrice che pronuncia la sequenza e a seguire la data dell’estrazione dei numeri comincia a dimenarsi, si era dimenticato che quel giorno è il compleanno della sua unica figlia, i sedici anni di Sara.
-Sei una cretina, è colpa tua che mi fai pure dimenticare le cose importanti. La smetti co’ sti cazzo di numeri? Non servi a niente, hai capito? Teresina lo guarda con aria stupita, ma non ricevendo consensi dal marito, decide di concentrarsi di nuovo sullo schermo da 52 pollici. L’avevano preso il Natale ato, era il sogno di Ettore. Il televisore più grande del negozio. Nel frattempo Ettore viene distratto dal suono del cellulare. E’ il suo. E’ stupito perché di solito non lo chiama né gli scrive nessuno. Si tratterà di un sms commerciale, pensa. Arranca verso la camera. Si siede lentamente sul letto. Gli tremano le mani. I peli neri delle braccia si drizzano come aculei. Ettore ha gli occhi terrorizzati come se la morte gli avesse appena inviato un messaggio.
Martina si prepara. Vuole are da Gloria, per farle gli auguri, per andare a fare un giro con lei e per raggiungere i ragazzi alla Tramontana. Arriva davanti a casa di Gloria. Suona. Risponde la madre e dice che Gloria non c’è, è uscita. Le chiede se vuole salire. Martina accetta volentieri. Le piace andare da Gloria perché la madre prepara delle torte buonissime. Sua madre invece non sa fare nemmeno un uovo al tegamino. Con la scusa di una bella colazione succulenta per l’amica golosa di sua figlia, la madre di Gloria indaga e cerca di scoprire da Martina se sua figlia le abbia mai raccontato nulla che riguardi lei ed il padre. Martina accoglie l’interesse come un gesto di premura, invece che come un interrogatorio mirato. La madre di Gloria si interessa della figlia, sua madre no. La madre di Gloria cucina bene. Sua madre no. Il padre di Gloria fa un lavoro rispettoso, il poliziotto. Suo padre, non si era mai interessato né a lei né a suo fratello ed Ettore non era altro che un sostituto mediocre. Martina rassicura la madre di Gloria spiegandole che la figlia non è interessata al genere maschile, anzi sembra evitarlo curandosi solo di studiare ed ascoltare gli altri. Martina approfitta del confronto con una figura materna di cui sente tremendamente la mancanza, così finisce per confessare le sue insicurezze adolescenziali. Al termine del monologo, Martina saluta e ringrazia, percorre i dieci piani di scale a piedi, per smaltire le migliaia di calorie ingerite. Intanto riprova a contattare l’amica. Gloria ha ancora il cellulare staccato.
Gloria è davanti al dottore che la visita. Le domanda cosa le è successo. E lei risponde a singhiozzi rivelando che era stata sua madre. Poi balbetta il nome di
suo padre e pronuncia le parole dell’orrore con una grande vergogna nel cuore: -Mia madre mi odia perché mio padre mi violenta. -Calmati ragazzina. Di cosa parli? -Voglio parlare con i carabinieri, qualcuno mi aiuti, per piacere. Singhiozza Gloria senza fermarsi. Quell’anziano dottore sembra Babbo Natale. Gloria lo implora e spera che come nelle favole lui voglia proteggerla con gesti e parole rassicuranti. -Come hai detto che ti chiami? -Gloria. -Gloria, senti, queste cose non si raccontano ai carabinieri. Devi ascoltare i tuoi genitori, sono certo che sistemerete tutto tra voi. Poi termina di medicarla e la fa accomodare fuori. Alza lo sguardo come se Gloria fosse già sparita dal suo campo visivo e chiede all’infermiera di far are il prossimo paziente. Gloria esce sconfitta, la sua rabbia si trasforma di nuovo in dolore. Avrebbe preferito avere vergogna di se stessa per tutta la vita pur di non essere ancora una volta sbranata dal suo carnefice. Ora non sarebbe potuta tornare indietro, ma nemmeno andare avanti. Gloria si sente definitivamente intrappolata. Purtroppo Babbo Natale esiste solo nella testa dei bambini. Lei non è più una bambina, ma è già una donna colpevole.
Capitolo 3
Il suono della domenica (Zucchero)
La mattina seguente mi alzo, sono ancora in poltrona. Mi accorgo di essermi addormentata vestita, in una posizione del tutto scomoda. Ho male alle ossa e mi innervosisco stirandomi. La mia piccola si fa sentire. Torna il buon umore. I fogli sono sparsi attorno a me. Tutte quelle parole mi cingono come un vestito aderente. Penso alla vita di quella donna e mi chiedo dove abbia trovato la forza e lo spirito per ribellarsi a quella mentalità ottusa e smisuratamente oppressiva. Cerco di farmi contagiare dall’entusiasmo di quella combattente che ora non c’era più. E’ arrivato il momento di mettermi in contatto con la famiglia di Lucrezia. Comincio la ricerca chiamando il numero che aveva lasciato in ospedale. Risulta inesistente. Mi siedo in cucina, c’è più luce. Oggi il mare è color cobalto. Prendo i fogli trascritti da Lucrezia, poi afferro un blocco ed una penna dalla credenza. Mi appunto delle date. Lucrezia è nata nel 1939 come risulta dai dati rilasciati in clinica. Leggo l’indirizzo di residenza. Conosco quel posto, ci andava spesso per lavoro Walter. Diceva che era un luogo dimenticato da Dio, scomodo da raggiungere in auto, un paese di montagna nell’aquilano. Nella mia condizione sarebbe stato impossibile avventurarmi. Quindi chiamo Franco detto il Baffetto. Lavorava all’anagrafe di Pescara. Un mio spasimante che conobbi sulla tratta Milano-Pescara durante le mie prime trasferte amorose quando facevo la pendolare per venire a trovare Walter. Franco non faceva altro che decantarmi tutti i pregi di Pescara e della sua gente. Aveva lavorato per un breve periodo a Milano, non ne sopportava il grigiore e la diffidenza dei suoi abitanti. Appena gli fu possibile chiese il trasferimento. Ci siamo rivisti qualche volta qui a Pescara, quando Walter non aveva voglia di fare l’amore con me. Mi sono lasciata andare tra le sue braccia gonfie, mi faceva sentire desiderata, ma avevamo pochi argomenti in comune. Non era certo il tipo con cui andare a teatro o disquisire di arte contemporanea. A letto si notava meno la differenza tra noi, in piedi lui è una spanna più basso di me. Io sono alta e giunonica.
-Ciao Cristì cosa posso fà pe’ te? Sapeva che se lo chiamavo era per un favore e non solo per semplice cortesia. -Bene, bene, sempre più gonfia! -Dai che sei sempre bellissima. Oddio non ti ho visto ultimamente. Non sarà perché sei lievitata come una mongolfiera? -Hei! -Dai sto a scherzà, sei la solita permalosa. -Dunque, è deceduta una mia paziente, dovrei avvertire la sua famiglia ma non riesco a trovare nessuno. Ho la copia della carta d’identità e un numero di telefono errato. -Vai dammi i dati che hai e in un battibaleno ti richiamo. -Ok, grazie mille. -Tesò, pe’ te questo e altro. -Si, si ciao, grazie. -Cià. Franco non mi richiama. Nel frattempo vado a fare un po’ di spesa al centro commerciale. Non dovrei prendere la macchina ma guido piano. Speravo che ad ora di pranzo non avrei incrociato nessuno e invece: -Ciao, ma quanto è cresciuto il pancione! Mi bussa sulla spalla la portinaia. Mi vede tutti i giorni, penso tra me e me, che necessità ha di fermarmi come se non mi vedesse da una vita? -Ciao. Si. Lo avrai notato, tutte le mattine quando ci salutiamo. La mia frecciatina le rimbalza addosso. -Guarda c’è mia nipote anche lei incinta, di due gemelli, poverina non sta più in
piedi. Si stanno scervellando sui nomi. Sono due maschi. -Immagino, ora devo proprio andare. -Aspetta ma è maschio o femmina? Peppa combacia perfettamente con il suo ruolo, la classica pettegola che ripete sempre le stesse cose, altro che la sorprendente Renée del mio libro preferito. Sospiro e tento di trattenere il nervoso. -Femmina. -Ah, l’hai saputo. -Non lo so, ma credo che sia femmina. Ora devo scappare. Ciao. -Ciao Dottorè. Quando rientro mi trovo Franco sotto casa. Ho sbagliato a chiamarlo, penso. Ora non me lo tolgo più di torno. Sta diventando una giornata faticosa a gestire tutte queste persone. -Ciao! -Ciao tesò, c’ho novità. -Dimmi pure. Lui fa cenno come se volesse salire. Mi prende le buste della spesa e sorride sotto i baffi. -Non dovresti portà i pesi. Certo che ci vuole fegato a lascià na donna incinta. Sti ommini. Tutti uguali tranne me eh? Tutti credevano che fossi stata abbandonata dal padre di mia figlia. Mi sembrava una scusa plausibile visto l’alto tasso di egoismo maschile che circola ai nostri tempi. Ci sediamo in cucina. Lascio i sacchetti della spesa sulla credenza. Ascolto Baffetto. -Lucrezia Di Girolamo è nata a Tagliacozzo, provincia dell’Aquila nel 1939. L’indirizzo di residenza risulta lì.
-Hai cercato il numero di Tagliacozzo? -Si ma a quell’indirizzo non risulta nessuno a nome Di Girolamo. Mi parla come un cadetto al suo generale. -Hai provato a cercarla a Milano? -Sissignora, anzi Si dottorè. Ma non c’è nulla sotto questo nome. -Mhm, strano perché dalla lettera che ha lasciato si parla di una nuova famiglia a Milano. E sua figlia Sara? -Eh ma come faccio col nome, mi servirebbe nu cognome. Il padre come si chiama? -Non lo so. -Non lo sacc, dottorè, mi spiace pensavo che era più semplice. -Fosse! -Come? -Niente, lascia perdere. Lo congedo subito perché ho bisogno di stare da sola e riflettere. Mi chiama nel frattempo mia madre. Da quando sono incinta si fa sentire tutti i giorni. Si preoccupa perché sa che sono sola. Per fortuna abita a Milano e ha mio fratello gemello che la tiene piuttosto impegnata con le sue turbe altalenanti, altrimenti, conoscendola, si sarebbe piazzata a casa mia. Non ci tenevo ad avere un bel rapporto con lei, né con nessuno altro. E appena potevo cercavo di ferirla e colpire il suo lato più fragile. -Ciao mamma dimmi. -Volevo sapere come stavi. -Bene grazie. -E la creatura, scalcia?
-Si. -Che fai in questi giorni? -Sto cercando una persona, anzi una figlia. -In che senso? -Una mia paziente è morta e tra le sue cose ho trovato una lettera, una dedica a sua figlia. Silenzio. E poi ci salutiamo freddamente. Fino all’età della maturità ce l’avevo col destino che mi aveva tolto un padre di infarto. Invece, verso l’alba di una buia mattina d’inverno, quando mio fratello gemello ed io avevamo dodici anni, mio padre decise di prendere una corda e legarsela al collo, rimanendo appeso, come una carcassa in un macello, per tutta la giornata, tra le mura fredde della nostra cantina. Dopo aver saputo la verità proprio da mia madre, prima di andare a letto e di addormentarmi tutte le sante sere da allora mi chiesi e tutt’ora mi domando, perché mio padre non ci avesse mai lasciato un biglietto, una giustificazione, un addio, un ‘scusate ma vi voglio bene’. Mia madre sosteneva che si fosse trattato di un gesto irrazionale, un raptus incontrollato, per cui non avrebbe potuto scriverci nulla di sensato. Altrimenti non si sarebbe tolto la vita, mi ripeteva. Ma a me quella spiegazione non è mai andata giù. Lei lo ha sempre difeso, pure da morto. Ho cercato di farle capire che se ce la avamo male era solo per causa sua, ma è stato un tentativo vano. Quindi sono più che mai determinata: farò di tutto per consegnare alla destinataria della lettera ciò che le appartiene. Almeno lei, Sara, avrebbe potuto rileggere e conservare quelle parole per il resto della sua esistenza. Invece mio padre cosa ci aveva lasciato? Una sofferenza lunga quanto una vita intera. Ho fame, cerco nella credenza qualche biscotto da addentare. Provo a cercare i Di Girolamo che vivono in Abruzzo. Ne trovo parecchi. Molti di loro saranno stati parenti, penso, immaginandomi le famiglie numerose di un tempo. Si saranno anche sposati tra loro. Squilla il telefono. Poteva essere ancora mia madre o qualcuno che voleva vendermi qualcosa. Il mio carattere solitario e riservato mi difende da futili conversazioni. Rispondo priva di entusiasmo: -Pronto?
-Dottorè su con la vita! -Franco, che c’è? -Vabbeh sempre affettuosa la dottorè. -Dai scusa dimmi ero sovra pensiero. -Quando si parte per la gitarella? -Come scusa? -Annamo per le montagne, ti farebbe bene, a te e al bambino. -Bambina! -Ma che ne sai? La telefonata si chiude senza una conclusione sensata. Quella storia sta intrigando lui e anche me. Presto sarò a casa in maternità, avrò più tempo a disposizione, nell’attesa dell’arrivo della mia piccolina. L’unico che potrebbe seguirmi in questa follia senza fare troppe domande è proprio Baffetto. Mettiamo a punto gli spostamenti. Andremo con la sua 4X4, mi ha promesso di sistemarla per non farmi sentire eventuali sobbalzi. Andremo il prossimo week-end. Lui, lavorando all’anagrafe, finisce per mezzogiorno, io cerco di spostare il turno con una collega. Tanto le donne incinta hanno sempre la precedenza! Nell’attesa devo sistemare il funerale. Con la colletta in ospedale raccolgo abbastanza per una cerimonia dignitosa. Mi viene in mente di pubblicare il necrologio sul giornale della città. Magari qualcuno che conosceva Lucrezia avrebbe partecipato. In Chiesa ci ritroviamo Franco ed io più alcune vecchiette del quartiere. -Ecco le aficionados! Esclama Franco con aria irriverente. -Ma che dici? -Cristì, queste sò le solite vedovelle che porelle vestite di nero vanno ai funerali
degli altri pe’ sentì meno il loro dolore. -Capisco. -Non esse triste, loro so abituate. Dai namo va che sto funerale mi sta a mette n’angoscia. Mi guardo bene attorno, in effetti a parte queste aficionados come le chiama Franco non mi pare di vedere nessuno. La solitudine attorno a quella bara rimbomba lungo il colonnato della Chiesa. Usciamo e salutiamo il prete. Ha pure cominciato a piovere. Franco mi ripara con la sua giacca impermeabile ma non riesce a coprirmi tutta, il pancione si bagna. Mentre tento di proteggermi, lo sguardo cade su una Mercedes scura. Non riesco a vedere bene il volto della persona che è seduta al volante ma sono certa che ci stia fissando. Sembra un uomo. Appena lo dico a Franco, fa in tempo a voltarsi mentre l’auto mette in moto per andarsene. -Cristì, sta storia è strana. Non è venuto nessuno a lu funerale su e poi forse qualcuno c’ha seguito. Ma che è? -C’è qualcosa di strano. E’ Vero. Grazie per avermi accompagnato. Ci vediamo venerdì. -Si tesò riguardati. Ciao Cristì. Sono sempre più convinta di fare la cosa giusta, voglio andare in fondo a questa storia.
E’ venerdì. Franco ed io sembriamo due matti. Il cruscotto è pieno di panini con la frittata e bibite fresche, il mio sedile si è trasformato in una costruzione di cuscini per non farmi prendere urti durante il tragitto. Mi metto a bordo con il plaid sulle gambe, si parte per una gita senza senso. Le curve dei tornanti iniziano a farmi tornare le nausee che avevo dimenticato. Ci fermiamo in un bar di Tagliacozzo, siamo nell’area marsicana, infatti si sente, fa più freddo e l’aria è secca. Franco, che fa sempre amicizia con tutti, comincia a chiedere della famiglia Di Girolamo. Una schiera di vecchietti al bancone sostiene di conoscerla.
-Si si lo conosco. -La Famiglia Di Girolamo? Chiedo io. - Si si lo conosco. Non sanno dire altro. Mentre masticano con quei pochi denti rimasti. Mi stanno facendo innervosire. Franco invece sa come prendere quella gente. Inizia a conversare di calcio, a seguire di tasse e poi torna di nuovo sull’argomento. Per lo meno abbiamo ottenuto un’informazione apparentemente utile: i Di Girolamo che cerchiamo non abitano a Tagliacozzo ma in una frazione, in un paese chiamato Villa San Sebastiano. Sono troppo stanca, devo fermarmi. Ho il fiatone per tutte le volte che scendo e risalgo dalla jeep. Franco si fa suggerire un posto dove pernottare. Troviamo una locanda, Il Gallo Nero. Chiedo due camere singole. Il proprietario, dall’aria sonnolenta, ci scruta come se fossimo due alieni. Vedendo me col pancione accanto a un uomo, per il pigro locandiere, non possiamo che essere marito e moglie. -Si non è mia moglie, è mia sorella. Afferma Franco. Ce ne vuole per assomigliarci, penso tra me e me. Adesso il locandiere ha l’espressione di quello che ci sta per cacciare, mentre legge i cognomi sulle nostre carte d’identità. -Cioè sorellastra. E’ una storia lunga, triste, di famiglia. Troppo complessa. Aggiungo io. Ci dileguiamo come pantere rosa verso le due stanze. Sono comunicanti e non c’è la chiave. Non ho paura di Franco però non vorrei che mi bussasse di notte per chissà quale strambo motivo. Non sopporto le persone invadenti. Mentre siamo a Tagliacozzo, ne approfittiamo per fare un giro all’indirizzo dove risulta ancora la residenza di Lucrezia. La cittadina sembra ospitale. Ci sono molte pensioni, dalle quali si intravedono i primi anziani seduti fuori sulle panche, turisti di mezza età in cerca di luoghi freschi al riparo dai caldi estivi. Troviamo la via, sul citofono non compare nessun Di Girolamo. Non sembra un
condominio con la portineria. In quel momento mi viene in mente Peppa. E’ qui che servirebbe una come lei. Per lo meno avremmo saputo vita, morte e miracoli di tutti i condomini. Però vediamo uscire qualcuno dal portone e Franco con la sua faccia di tolla lo ferma subito. Purtroppo non otteniamo informazioni utili. E’ un ragazzo troppo giovane per conoscere la storia di quel condominio. Andiamo a cena al ristorante accanto alla locanda, consigliato dal proprietario. Ce lo ritroviamo lì a seguire le comande. Che furbo, penso. Ci accomodiamo e ordiniamo piatti succulenti. La frescura estiva mi ha messo appetito. Franco ed io cominciamo a raccontarci della nostra gioventù, le vacanze in colonia, il primo bacio. Poi torniamo sul tema della nostra indagine poco professionale ed esclamo: -Ma certo, dobbiamo analizzare i fatti. Si parte sempre da quelli! -In che senso dottorè? Ti dimostro il mio amore con i fatti? Lo faccio eh? -Dai Baffetto non scherzare…Lucrezia è nata nel 1939. Nella lettera si parla di dati storici come lo sbarco sulla luna, Twiggy, le contestazioni del ‘68… -Quindi? -Nella lettera c’è scritto che Sara è nata quando lei (chi ha scritto la lettera) aveva 28 anni. Se fai i conti… -1939+28= 1967 -Esatto! Allora com’è possibile che nel ‘69 durante lo sbarco sulla Luna, lei stesse facendo l’amore, in spiaggia, per la prima volta con Ettore? -Che vuoi dire dottorè, voi donne state sempre a guardà all’amore? Di tutta quella lettera ti ricordi proprio di quel particolare? -Ma no, penso alle date, non all’amore! -E vabbeh come si dice, mi tieni sempre sulla su..? -Suspance Baffetto, suspance! -Significa che i fatti non coincidono con le date. Punto.
-Senti, facciamo così, ora finiamo di mangiare e torniamo a parlare di noi, domani è natro iorno, no? Mi metto a ridere, penso a Rossella O’Hara che pronuncia la sua frase memorabile in dialetto pescarese. Trascorriamo una serata piacevole. Non so nemmeno quando è stata l’ultima volta che sono uscita fuori a cena con un uomo. Walter preferiva stare a casa, diceva che era stanco per il lavoro che lo costringeva per ristoranti quindi facevamo poche uscite. A me andava bene così. In fondo se ci siamo scelti, un motivo ci sarà stato. Ciò che si dimentica, col tempo, è il ricordo di quella spinta che ti lancia verso l’altro. Solo quando la relazione finisce si possiede uno sguardo più nitido, cambia il punto d’osservazione. Walter nascondeva la sua sessualità dietro un rapporto fatto di rispetto e stima reciproca, io mi celavo dietro un uomo che non mi chiedeva nulla. Nessuno dei due esponeva se stesso, nessuno dei due per un po’ ha avuto bisogno di altro. Fino a quando lui, da gatto mansueto, ha deciso di trasformarsi in un felino selvaggio, mettendo in atto ciò che era più naturale per lui, ossia seguire l’istinto. Grazie al gesto di Walter anch’io ho fatto una scelta coraggiosa. Mi ha dato la forza di uscire dagli schemi e compiere un atto rivoluzionario. A breve avrei condiviso la mia vita con un’altra persona che sarebbe dipesa totalmente da me. Avrei avuto una chance, amare incondizionatamente, con una promessa solenne che ho fatto a me stessa: al contrario di mio padre, non avrei mai abbandonato mia figlia.
Il silenzio di montagna non mi ha fatto alzare nemmeno una volta durante la notte, mi sveglio riposata, non dormivo così bene da mesi. Comincio a gustarmi il sapore di quella gita strampalata. -Buongiorno principessa, tutt’appost? -Si grazie e tu? -Benissimo, carico come la canna di un fucile. Annamo và. Mi porto dietro un paio di fette di torta fumante, nascoste in un tovagliolo. Non posso permettermi di soffrire la fame durante la nostra indagine. Più che altro ho paura di non trovare un posto dove mangiare. Quei paesini che abbiamo incontrato fino ad ora mi sembrano dei presepi inabitati. Siamo all’inizio di una
salita, sulla nostra destra un dirupo. La strada mi fa paura. Ho la nausea. Baffetto scende e si dirige verso un vecchietto che va al o del suo asino. Dopo poco ferma la jeep, mi prende la mano, mi porta verso l’animale e mi mette nel carretto seduta sulla legna che l’asinello sta trainando. Franco è accanto a me, avanza con o da militare, fiero della sua trovata. Mi metto a ridere pensando a quel povero asinello. Dopo un paio di curve finalmente entriamo in paese, vediamo l’insegna ‘Villa San Sebastiano’. Il vecchietto è muto come il suo asinello. Lo salutiamo e procediamo a piedi. Il paese è spettrale, si sente il rumore dei nostri i sui ciottoli. Le abitazioni appaiono come miniature di pietra, sono sparse sui sali e scendi, sembrano abbandonate. Il paesaggio attorno è contemplativo: siamo circondati dai monti marsicani. Incrociamo qualche ante a testa bassa e in là con l’età. Poi un miraggio. C’è un giovanotto che fa delle foto. Franco lo fiuta e mi dice: -Sarà nu stranier. Ci avviciniamo. E’ italiano, di Roma, è venuto a fare un servizio fotografico. Facciamo amicizia, ci racconta un po’ la storia di quel paese e ci consiglia di andare a dormire da Donna Lina. Lei avrebbe potuto senza dubbio aiutarci nelle ricerche, pare sia la memoria storica di quel luogo. In fondo al viale di ciottolato è arroccata la casa di Donna Lina, un edificio di pietra grezza sviluppato su tre piani. La struttura venne ricostruita dopo il grande terremoto del 1915. Donna Lina è prossima ai cento anni. Ci sistemiamo nelle camere semplici ma pulite e poi ci rivediamo nella cucina di Donna Lina, un vero museo culinario di strumenti antichi, il tempio del rame e del cotto. Siamo affamati. Donna Lina ha ancora le forze di preparare tutto con le sue mani robuste. Faccio parlare Franco che sfoggia il suo accento rassicurante. Io invece cerco di intenerirla con il mio pancione. -Signò lu ciambellone è nu spettacol -Graz, Graz -State a sentì signò, stiamo a cercà la famiglia Di Girolamo -Ma chi u poliziott? -Poliziotto?
-Accà ce stava lu Signò Di Girolamo, nu poliziott che sa mort l’ann scors. -E chistu poliziott stava spusat? C’aveva li figl? -Eh si che stava spusat e teneva pure li figl Che pazienza che ha Franco, penso. -Vi arricurdat se na figl si chiamav Lucrezia? -Nu nu nu non sacce nind La matrona si è irrigidita. Notiamo dai suoi modi che abbiamo toccato un tasto dolente. Lucrezia pare un argomento tabù. Franco mi strizza l’occhio. Sta al gioco e tenta di farla tornare più mansueta. La addomestica con aria ruffiana. Donna Lina ha giusto un secolo di vita da raccontarci. Ma dopo circa mezz’ora torniamo sul tema. -Lu poliziott era nu brav’uomo? -Si si, certamend. -Stava spusat. -Si. -Pure li figl stavan spusat. -Si, si, certamend. -Nu cerd figl de lu pizzicagnol, lo conosceste? -Si, si certamend. Ettore. -Brava Signò proprio di Ettore te vogghio parlà. -Non sacc nind di cullu e la famiglia su. Se na it a vivere da natra part. -Con Lucrezia? Intervengo io. -Avast, non sacc nind, avast.
-Lucrezia? Insisto. Donna Lina sembra scocciata e pure Franco con me. Mi fa segno di fermarmi. Ma non sopporto la lentezza di questa gente. Abbiamo ancora un’oretta di luce quindi ci facciamo indicare la casa del poliziotto Di Girolamo. Nella lettera Lucrezia non parla del padre poliziotto. Lo descrive come un Don Giovanni, un operaio dalle mani sporche di calce più che di polvere da sparo. Ecco la casa con il grande portico. Coincide con il racconto di Lucrezia. Immagino le zie con le ascelle puzzolenti che ciarlano mentre i bambini schiamazzano e giocano a nascondino. Suoniamo il camlo. Risponde una voce roca. -Chi è? -Buonasera stiamo cercando la figlia di Di Girolamo. -Non ci sta nisciun. -Possiamo farle una domanda? Siamo venuti da fuori, c’è pure una donna incinta. Esce un signore, dimostra cent’anni, sfoggia due denti marci. Non mi sono mai sentita così giovane come quel giorno, penso. -Non ci sta nisciun. Continua a ripetere. -Certo si però volevamo sapere dove possiamo trovare i figli. Baffetto scandisce le parole come se si rivolgesse ad un neonato. -Non lo sacce. -Si tratta di eredità. Franco si strofina le dita per indicare che si tratta di soldi. Io lo guardo stupita. Altro che impiegato comunale, mi sembra Hercule Poirot. -Bè se si tratt de sord è natra storia. Scopriamo che i Di Girolamo avevano avuto solo due figli, un maschio e una
femmina. Dalla lettera risultano due sorelle e due fratelli. Comunque il figlio maschio si è trasferito molti anni prima e non si sa in quale città. Il padre di famiglia, il Signor Di Girolamo, era il poliziotto del paese, è morto l’anno scorso. La moglie li aveva lasciati molti anni prima. -Ma il poliziotto non è andato a vivere in Canada? Chiedo io. -Eh? -Ca-na-da. Lontano, America… Ora parlo anch’io come un ebete. -Nu nu. Acca se stat. -E come si chiamava il poliziotto? -Ermanno, lu poliziotto Ermanno. -Ettore, il figlio del pizzicagnolo? -Non ce sta più acca, se ne so iti in città. Non lo sacc dove. -Qual è il cognome di Ettore? Chiedo. -Rattazzi. Lu pizzicagnolo Rattazzi. Allora Franco chiede di Lucrezia. Il vecchietto ci fa cenno di andarcene e borbotta: -La paz. -E Sara? Il vecchietto fa capolino e scompare dietro un grande portone in ferro battuto. Un paese decisamente ermetico, penso. Neanche stessimo indagando su un caso di mafia. In fin dei conti vorrei solo rintracciare gli affetti di quella povera donna e consegnare la sua lettera alla figlia. Ma comincio a dubitare dell’appartenenza
di quella lettera a Lucrezia. Alcuni elementi generali come il paese combaciano, altri relativi al legame di parentela no. Ricontrollo sulla lettera, si parla di un padre ed una madre, Elvira e Claudio. Nessun accenno ad un padre poliziotto di nome Ermanno. Ettore invece combacia, il figlio del pizzicagnolo, che ha preso il posto del libraio. Il padre di Sara. A cena dalla matrona Lina ci gustiamo pasta alla chitarra col sugo di cinghiale, agnello cacio e ovo e patate al forno. -Ti piacciono le patate eh? Mi chiede Baffetto guardando il piatto vuoto. Mi accorgo di averne mangiate una quantità abnorme. -Si, sono la mia ione. -Pure pe me! Baffetto sogghigna. Gli tiro un pizzicotto. L’aria di montagna ci ha aumentato l’appetito! Ceniamo con voracità. Donna Lina sembra appagata dal suo operato, noi le diamo soddisfazione senza mai rifiutare un bis. L’indomani saremmo dovuti ripartire. Non abbiamo raccolto molte informazioni utili ma sia io che Franco abbiamo dedotto che dietro la storia di Lucrezia si celano parecchi misteri. Molti sembrano occultati dalle coscienze di chi l’aveva conosciuta. Ci alziamo presto, dobbiamo rientrare. Ci attendono i tornanti. Il fotografo romano sta uscendo per scattare le foto dell’alba. Il panorama sembra limpido per un effetto cartolina. Beviamo un caffè assieme. Gli chiedo se posso vedere i suoi scatti. Mi isolo e li guardo dal display della sua Canon. Mi viene quasi un colpo quando vedo inquadrata una vecchia insegna. ‘IL LIBRAIO’. Gli chiedo dove l’ha scattata. Come avevo fatto a dimenticarmi. La gravidanza fa perdere la memoria! Prima di partire trascino Franco sul luogo dell’insegna. Sta per terra abbandonata dentro una cantina buia e umida non lontana dalla casa di Lucrezia, quella col portico che abbiamo visitato il giorno prima. La cantina contiene la legna per le case del paese che si riscaldano ancora con le stufe di una volta. L’insegna è calpestata da un pilone di tronchi inumiditi, archiviata come i sogni infranti di gioventù della protagonista della lettera. Il libraio era esistito per davvero. Me lo sono immaginato lì, accanto agli scaffali a mettere in ordine e a sognare una vita avventurosa come quella dei suoi libri. I miei pensieri vengono interrotti dal rumore di un tonfo. Baffetto sta rotolando sulla legna, si apre alla
nostra vista un luogo più scuro. Franco mi chiede di stare lontana e illuminarlo con la sua torcia da campeggio mentre avanza verso il buco nero. Sento dei rumori, come se avesse trovato qualcosa. Poi lo intravedo sporco di cenere. -Annamo Cristì. Non puoi sta qua dentro, non si respira. Mi porta fuori con l’affanno. -Che hai trovato, cos’è quello? -Un libro. Lo apro. Lui tenta di pulirlo con la manica della giacca a vento. -E’ un libro di favole. Guarda, ci sono delle pagine strappate. Decidiamo di portarlo con noi. Fuggiamo verso la jeep con il pensiero di essere scrutati a vista. Sento che la memoria storica di quel paese si nasconde dietro le anime impenetrabili dei suoi abitanti. Sulla via del ritorno siamo silenziosi e stanchi. Mi appisolo. Quando siamo quasi a casa mi scuso di averlo lasciato guidare senza compagnia. Lui mi tranquillizza. Si era persino fermato a mettermi il plaid. Mi chiedo come mai gli uomini così gentili e premurosi non riescano a trovare una compagna. Baffetto prima di salutarmi mi porge il libro e mi dice: - Quel luogo buio puzzava di sangue marcito. Forse è meglio che ora ti riposi e pensi alla bambina. Cristì pensa alle cose belle, leggiti una favola. Trascorre un’altra settimana. Sono sempre più affaticata. Ho l’affanno anche per quei due i che faccio per andare in clinica e per muovermi da una stanza all’altra dei pazienti. Sono attorniata da persone in fin di vita, mentre dentro di me si forma la vita stessa. Vivere ogni giorno la consapevolezza di questo ciclo mi rende più vulnerabile. Trascorro il tempo nell’attesa degli accadimenti: la morte lenta e straziante dei miei pazienti e l’arrivo gioioso della mia bambina. Non ho aperto nemmeno il libro delle favole per verificare la presenza di qualche indizio, cerco di non pensare più a Lucrezia. Non sono nelle condizioni di continuare le ricerche, sono stata già abbastanza incosciente ad andare in giro per luoghi sperduti. E se avessi partorito? Impacchetto di nuovo la scatola di Lucrezia, pronta per riportarla in clinica. Non faccio a tempo ad aprire la porta
che mi ritrovo il muso di Franco appiccicato al viso. Sta per cadermi addosso. -Franco cosa ci fai qui a quest’ora? Non dovresti andare a lavoro? -Chiama, chiama la clinica. -Perché? Che cosa è successo? -Ho sentito un mio amico, lui c’ha le mani in pasta dappertutto. Se gli chiedi una cosa, qualsiasi cosa, lui la sa. Non mi chiedere come fa… Lo interrompo. -Franco dimmi, io devo andare. Già cammino lenta, non mi costringere a correre. -Certo, certo. Ma è meglio se dici che arrivi dopo. -Ma perché? -Perché ho trovato Lucrezia! -In che senso? -Cioè ho trovato la sua identità. -Davvero?
Capitolo 4
Sfiorivano le viole (R. Gaetano)
Se per caso cadesse il mondo io mi sposto un pò più in là sono un cuore vagabondo che di regole non ne ha tanti auguri, a chi tanti amanti ha tanti auguri, in campagna ed in città.
Sulle notte trash della vecchia canzone della Carrà, si scatena la festa al Linus. Emma, Edo, Tony, Giuli, Andre, Mavi, Sere, e tanti altri del liceo. Tutti in pista a ballare sfrenati e disinibiti. Si sono già sbottonate le prime camicie. Il tasso alcolico è alticcio. Sara indossa un vestitino rosso scollato e provocante, i suoi piedi sono avvolti dai brillantini di un paio di sandaletti sgargianti. Appeso al collo ciondola il regalo della sua migliore amica Emma. Una pietra incisa con le loro iniziali. –Un’amicizia è per sempre-le ha scritto sul biglietto d’auguri. Ci sono anche Edo e Tony, gli ambiti del liceo. E’ una conquista avere ospiti due di quinta alla festa dei sedicenni. Il Dj dedica una canzone a Sara. Arriva il lento. Sara sente dei brividi lungo il corpo. Edo la sta stringendo da dietro e ondeggia con lei. Il suo vestito svolazza a tempo. L’imbarazzo si stempera con il ritmo della musica che comincia a pompare e si trasforma in techno. I due si staccano, vengono travolti dalla folla di amici che volteggia con i calici alzati mentre stona la canzone degli auguri. Sono quasi le due del mattino. E’ una notte unica, sia per l’orario concesso per l’occasione che per la magia che si è creata alla festa. Edo non ha mai tolto lo sguardo di dosso a Sara. Edo la strappa via alla folla, le tende la mano, lei la afferra e la stringe forte. Ora sono fuori dal locale, sotto la pioggia. Sorano un gruppo di ragazzi che sta fumando qualche canna. Lei si ritrova contro il muro. Le gocce della pioggia sembrano cadere ai loro lati
risparmiandoli. Edo comincia a baciarla. Sara si scioglie come le gocce di pioggia. Lui fa scivolare una mano sui suoi seni prosperosi. I capezzoli sono turgidi. Poi le abbassa la cerniera del vestito, scende con la bocca verso uno dei due seni. Lo bacia, lo lecca, lo succhia. Sara ha voglia di fare l’amore con lui, sarebbe stata la sua prima volta. Ma non così. Mentre in lei prevale la ratio, lui è completamente inebriato e comandato dalle pulsioni sessuali che vogliono essere appagate. Sara lo allontana. Poi lui si riavvicina, la cerca ancora. Lei lo bacia ma poi lo scosta di nuovo. Sara cerca di riallacciarsi il vestito. Un po’ brilla e disinibita si rivolge a lui con aria saccente: -Mi dovrai conquistare tesoro mio. Edo sembra un cane bastonato, spettinato e bagnato dal diluvio, la prende di nuovo per mano e la stringe a sé sotto la sua giacca, si riparano dalla pioggia e saltellano tra le pozzanghere verso l’ingresso della discoteca. Riprendono a danzare inebriati dal desiderio l’uno per l’altra. Sara desiderava far l’amore con Edo quanto lui con lei. Sara si era fermata per paura di rimanere con il ricordo di una prima volta bruciata sul nascere. Il sogno della sua prima volta non combaciava con quel vicolo poco romantico. E’ questione di tempo, poco, ma non doveva accadere in quel momento. E se lui dopo non l’avesse più cercata, allora lei avrebbe dovuto accettare il fatto che si sarebbe risparmiata una bella delusione. Sara doveva convincersene, perché in quel momento la carne voleva prendere il sopravvento.
Sara ed Emma sono a casa di quest’ultima. Sono stese sul letto in slip e maglietta, disinvolte e truccate come donne nei corpi di due giovani fanciulle. Sanno che trascorreranno il resto del tempo, fino all’alba, a raccontarsi della festa, senza tralasciare alcun particolare. Invece Edo e il suo compare Tony raggiungono la casa di Valentina, anche lei è di quinta come loro ma di un’altra sezione. Da Valentina si consuma un altro festino, dal sapore amaro come quello della ‘coca’. -Ciao Vale, come va?-le schioccano un bacio sulle labbra, uno dopo l’altro. -Hei ciao raga benissimo, venite, qua sembrano ancora le dieci di sera, sono tutti caldi.
Valentina ha l’aria disinvolta, si muove in modo sinuoso e avanza verso la sala che ha l’aspetto di un museo d’antichità, dove si tengono conversazioni accese tra giovani adagiati su poltrone e divani retrò. Nessuno si accorge dei nuovi arrivati. Anche loro devono scaldarsi e fare due ‘tiri’ per entrare nel gruppo. -Ce l’hai Vale? Ti prendiamo un pezzo, ma stiamo poco, due tiri, due chiacchiere e andiamo. Valentina ha appena spento una sigaretta sul posacenere vittoriano della madre e ignara di questo movimento, ne sfila un’altra ai suoi ospiti, poi si aggrappa ai loro cinquanta euro e cerca di infilarseli nella tasca stretta dei jeans, mentre estrae una bustina bianca. A Valentina piace sballarsi, appena può, dopo una settimana intensa di studio, libera dalle pressioni dei suoi genitori. Quando loro partivano, lei si sentiva più leggera. Quando le sale l’effetto della ‘coca’, comincia a straparlare, è ossessionata dalla sua famiglia, rigida e formale. Ora Edo e Tony la osservano, mentre lei racconta episodi del ato, della sua infanzia. La cocaina apre le porte della disinibizione, Valentina confessa tra una sniffata e l’altra, la storia dell’aborto, le aspettative opprimenti dei suoi, l’insostenibilità della sua doppia vita. Edo e Tony non hanno voglia di socializzare con il resto del gruppo, né di ascoltarla. Cercano di svincolarsi dalla padrona di casa che adesso sta ricordando la vergogna provata quando era in fila in ospedale, dietro le coetanee straniere a ritirare il modulo della 194. Edo e Tony si dileguano lasciandola dialogare con una credenza in ottone e si sistemano lungo il corridoio con un drink in mano, un pacchetto di sigarette e tanta voglia di fare due chiacchiere per conto loro. Edo comincia a raccontare delle tette di Sara e Tony, un po’ a malincuore, cita quelle minuscole ma ben fatte di Emma. -Sai, Sara mi sembra una giusta. Non è una ‘fattona’ capisci? Una come Vale me la potrei fare anche tra cinque minuti, capisci? Intanto tira su col naso Edo, e poi aspira la sigaretta, infine si bagna le labbra col sapore di vodka. Nel frattempo escono dal bagno due ridotti parecchio male, camminano come ominidi ingobbiti. Il ragazzo sorregge un’anoressica dal viso bianco come un lenzuolo, barcollano ondeggiando tra i muri della casa. -Ma quella non è la Giulia? Chiede Tony rivolgendosi a Edo con aria stupita e con gli occhi spalancati come
due fari. -Chi, la suora? Minchia come si è ridotta, è proprio vero che non ci si deve più stupire di nulla. Chissà che cazzo le è successo. Si domanda Edo. -Da quando suo padre è andato via di casa e la madre è finita in depressione, lei è stata bocciata e da allora non c’ha capito più un cazzo. Altro che casa e chiesa, quella adesso fa pompini a tutti. Strano, non lo sapevi? Gli chiede Tony mentre sorride come un malinconico clown. -Non fare il deficiente, certo che lo so, infatti non alludevo ai pompini ma al fatto che si fe di barella. A proposito, il bagno è libero, andiamo a farci altri due tiri, dai, gli ultimi, promesso. Poi giuro che ce la teniamo per sabato prossimo. Edo lo trascina dentro, c’è odore di vomito ma nessuno sembra farci attenzione.
Un’altra festa si consuma ai travocchi pescaresi, delle palafitte protese verso il mare, che sembrano appartenute ad antiche civiltà legate alla pesca e al mare. Un gruppo di giovani facinorosi sta bevendo e rollando canne. Tra loro c’è Mattia, il leader, colui che tiene testa agli zingari, un giovane eroe di Rancitelli, che spaccia e si fa voler bene da tutti. Mattia era cresciuto col padre, la madre era morta di parto. Da allora suo padre decise di dedicare la sua vita al figlio e all’officina meccanica che aveva tirato su col peso dei sacrifici, tra biberon e odore di benzina. Il giorno più bello lo trascorsero a Monza, grazie ad un viaggio premio della Bridgestone. Loro due, seduti in tribuna, con i cuori gonfi pronti a essere riempiti dall’adrenalina della Formula uno. Quel rapporto simbiotico tra padre e figlio venne meno quando esplose il caos di nome adolescenza. Mattia sentiva la mancanza di una figura materna? Cominciava a mettersi a confronto con l’altro sesso? Doveva farsi rispettare dai suoi coetanei e dall’ambiente che lo circondava? Nel quartiere non erano ammessi i deboli, quelli finivano male. Non aveva scelta. Lui era un duro. Avrebbe dimostrato a suo padre che ce l’avrebbe fatta da solo, senza dover più dipendere da lui, come un vero uomo.
All’età di tredici anni, Mattia prese la sua decisione: avrebbe lavorato per i Barzò, il gruppo di zingari più temuto della zona. Se stavi coi Barzò stavi a posto. Per valutare la sua fedeltà ed il suo coraggio i Barzò cominciarono a usarlo come corriere. Portava buste della spesa piene di droghe di ogni genere, nascoste tra frutta e scatolame. Alcune le riconosceva, altre non aveva idea di cosa fossero. Coca, hashish, maria, lsd, mdma, chetamina. Mattia sapeva che nella vita bisognava avere anche fortuna, trovarsi al momento giusto al posto giusto. Così pensò quando finì a casa di uno spacciatore molto famoso, detto Sgamba, si conosceva di lui solo il soprannome e nessuno l’aveva mai visto bene in faccia. Quest’ultimo l’aveva preso in simpatia, forse gli ricordava il fratello minore che era rimasto ammazzato durante una rissa. Sgamba era segnato e scavato dalla cocaina. Era stato già due volte in carcere. Aveva le braccia piene di tatuaggi. Una cicatrice sul viso che gli attraversava la guancia destra. Sgamba aveva accolto Mattia in casa sua, invece gli altri li incontrava in cantina, rigorosamente al buio per non farsi riconoscere. Sgamba invece lo aveva scelto e protetto. Sgamba gli mostrò il suo tesoro nascosto. Mattia si impressionò. In fondo avrebbe voluto solo essere rispettato, non aspirava al mestiere di delinquente. Aveva solo tredici anni. Non poteva più tornare indietro. Adesso Mattia ha finito la gavetta da un pezzo, ha diciotto anni e spaccia ancora.
Sono le sei, il sole è ancora alto in quella serata calda d’estate. Tira un vento garbino. Martina manda un ultimo sms alla sua amica Gloria: - Happy Birthday! P.S. Sto andando alla Tramontana, raggiungimi se puoi, ci sono tutti, anche Mattia. Ho bisogno di te! Bacio. Martina si sistema la gonna. E’ un po’ corta e si alza tutte le volte che cammina velocemente. Sente sfregare l’interno coscia. Si è messa le zeppe per slanciare le sue gambe tozze. Mentre si dirige verso la Tramontana, si sente in colpa per avere mangiato la torta dalla madre di Gloria. Se la sua amica non l’avesse raggiunta, suo fratello gliel’avrebbe fatta pagare. Gloria era bella e piaceva a tutti. Seni grossi e magra come un chiodo. Diceva che non mangiava perché aveva sempre mal di stomaco. Martina però non ci riusciva a essere così tenace e a resistere alle tentazioni culinarie. Nonostante la differenza tra le due, trovarono conforto l’una nell’altra. Vicine di banco, sin dalla prima media, non si erano più
lasciate. Martina è una chiacchierona, Gloria una paziente ascoltatrice. Quando i compagni di classe e anche quelli più grandi facevano il filo a Gloria, quest’ultima non li destava nemmeno di uno sguardo, non gli piaceva mai nessuno, come se il genere maschile non esistesse. Gloria voleva trascorrere il suo tempo solo con Martina. La loro amicizia era inscindibile e indissolubile, entrambe avevano bisogno l’una dell’altra. -Ciao ragazzi, come va?-improvvisa con finta superbia Martina. D’altronde una delle medie che esce con quelli delle superiori deve darsi un tono per non essere inadeguata. Mattia, Nicola, Beppe, Antonello, sono disposti sul muretto del lungomare all’altezza dello stabilimento della Tramontana. Hanno appena lasciato i travocchi dove hanno sistemato i sacchetti della spesa. A breve Mattia avrebbe dovuto incontrare Sgamba per confrontarsi sui dettagli dell’imminente missione di ferragosto. -Oh chi si vede, sorellina, dove hai nascosto la tua amichetta?-chiede Nicola allungandole una mano sul viso e tirandole la guancia paffutella. Mattia interviene, non degna nemmeno di uno sguardo la sorella di Nicola e lo richiama all’ordine. -Nicò, viè qua. Stasera non abbiamo tempo di stare con le ragazzine. Dì a tua sorella di andarsene, capito? C’ho impegni, e quando dico così significa che è importante, hai capito che voglio dì? Nicola si sente come al solito fuori posto, non riesce a trovare un ruolo nella compagnia dei Barzò. Le aveva tentate tutte ma lo avevano escluso dai loro giri. Quella sera sperava di far divertire Mattia, il suo ‘fra’, con l’amica di sua sorella. Gloria in fondo era un bel bocconcino. E invece è andato tutto all’aria. Così Nicola pensa bene di scagliarsi contro la sorella. La prende per un braccio e la strattona verso la strada. –Senti, ammasso di lardo, vattene a casa e dì che stasera torno tardi. C’abbiamo da fare qui. Martina lo guarda con aria attonita e confusa. Si sente indifesa e con il magone in gola attraversa il viale. Una macchina inchioda e inveisce contro di lei. Lei prosegue a testa bassa, le sue gambe sfregano e avanzano tremando, il viso è una maschera di lacrime nere, il mascara cola. Dopo aver camminato a lungo, giunge a casa, sua madre è davanti alla tv, sembra imbalsamata, e le fa cenno che Ettore
non c’è. Per fortuna, pensa Martina, quindi a inosservata e si chiude a chiave nella stanza. Lo stronzo di suo fratello sarebbe tornato tardi quindi nel frattempo avrebbe potuto starsene in pace e fare finta che quel buco fosse solo per sé. Doveva riflettere. Doveva cambiare la sua vita, così non si poteva più andare avanti. Accende la tv e ricomincia a piangere, celando i singhiozzi dietro il rumore di un film d’azione.
Mattia, Beppe e Antonello sfrecciano sulla Mercedes nera. Beppe ha appena preso la patente, suo padre gli ha lasciato il suo gioiello per fare pratica. Gli zingari si muovono con le auto di lusso e vivono nelle roulotte. Beppe è il figlio di un Barzò, Antonello è suo cugino. Beppe e Antonello erano cresciuti assieme. Da bambini andavano per circhi a chiedere le elemosine, poi i Barzò si stabilirono fuori Pescara e decisero di aprire una giostra. Contrari alla loro natura nomade, si fermarono a lungo. Beppe e Antonello venivano messi nelle roulotte a riempire i pupazzi di droga. E ora che erano cresciuti, si erano creati il loro giro di distribuzione. I ragazzi si devono incontrare con Sgamba che ha i contatti con i domenicani. Solo Mattia può intercettarlo e vederlo per ritirare la merce. La missione ferragosto è alle porte. Sarebbero andati tutti a Rimini per il grande scambio che avrebbe potuto cambiare la vita a tutti loro. Mattia sfreccia con la sua moto verso l’appartamento di Sgamba. L’accoglienza è esuberante. Ogni volta che Mattia entra in quel luogo sente una profonda malinconia, come se qualcuno lo stesse scrutando da lontano e lo stesse giudicando. Lungo i muri del corridoio rivestiti di carta da parati sbiadita sono appesi i bozzetti del padre di Sgamba. Un noto fumettista erotico che aveva preferito l’alcool alla fama. L’anziano, ormai deperito dalla vecchiaia e dalla solitudine, sta seduto in una cucina stretta e maleodorante, con una matita in mano. -E’ mio padre, c’ha l’ Alzheimer. Ogni giorno disegna sempre la stessa cosa e io ogni giorno devo dirgli che mi piace. I miei zii non ne potevano più di lui e me l’hanno lasciato a me. Sgamba si giustifica con rassegnazione. Mattia rimane in silenzio, lo segue e rimane attonito davanti alla stanza di Sgamba. -Con questa robba finalmente chiudo con tutto. Riesco a pagare l’istituto a mio
padre e io me ne vado a Santo Domingo a scopare e fare la bella vita. Me l’hanno già promesso quelli, devo solo fare questa operazione e poi sparisco. E tu ragazzo mi devi aiutare! Anche la vita di Mattia sarebbe potuta cambiare, ma in quel momento il terrore gli si aggrappa al collo e lo avvinghia, fa fatica a respirare. Una vocina lo porta a rispondere senza che lui si renda conto delle parole che pronuncia: -Torno domani. Ora non posso. Mattia corre via, si raggomitola dietro un angolo e vomita. Poi alza gli occhi al cielo, guarda le nuvole e cerca sua madre. Non sapeva quasi nulla di lei, il padre non aveva voluto raccontargli molto di lei se non qualche episodio poco avvincente. Sapeva che si erano conosciuti a Bologna mentre lei manifestava con dei compagni dell’università. Il padre l’aveva abbordata mentre riprendeva fiato durante uno scontro in piazza. Lui stava sul marciapiede a guardare con le mani sporche di grasso, era corso fuori dall’officina, aveva paura che gli studenti potessero fare danni ai negozi e ai negozianti del viale. Lei portava una sciarpa che le copriva quasi tutto il viso, i suoi capelli lunghi e biondi stavano nascosti in un cappellino. Aveva o sguardo di una combattiva. Voleva cambiare il mondo. Mattia era venuto a conoscenza solo di quel lato ribelle della madre che tutto ad un tratto aveva deciso di mollare gli studi e sposarsi suo padre, un semplice meccanico senza grilli per la testa, col quale avrebbe deciso di trascorrere una vita tranquilla mettendo su famiglia. Non poteva ricordarla in nessun modo, non riusciva a farsi un’idea di come fosse stata veramente, anche prima di conoscere suo padre. Ma la sua entità, così eterea e intoccabile, la rendeva ancora più desiderabile. Mattia aveva un bisogno estremo di sentirla e sapere che lei fosse al suo fianco, perché in qualche modo anche lei doveva aver provato per lui lo stesso amore che lui sentiva per lei. Non si erano mai conosciuti fisicamente ma nei loro cuori l’amore reciproco sarebbe stato eterno, di questo ne era certo. Doveva essere così.
Ettore non vuole ancora rientrare a casa. E’ sconvolto. La sua vita gli sta ando davanti, tutta quanta. E’ quasi buio, le lacrime timidamente scendono lungo il suo viso rugoso e usurato. E’ seduto sull’ultimo travocco, con le gambe penzoloni e guarda all’imbrunire l’orizzonte del mare. Ettore dopo tanto tempo riflette e tira le somme della sua vita. Ettore non è abituato a pensare. Cosa
sarebbe successo? Lui è il padre di Sara. Quella notizia proprio non ci voleva, come se l’ex moglie avesse disturbato la sua quiete. Decide di incamminarsi verso casa, quella sera non ha le forze di chiamarla, la sua ex moglie, l’avrebbe sentita il giorno seguente. Tutti questi pensieri assieme gli hanno fatto venire mal di testa, dimenticandosi definitivamente di mandare gli auguri di compleanno a Sara, sua figlia.
Capitolo 5
La canzone di Marinella (F. De Andrè) Gloria vuole essere invisibile. Gloria è in bagno. Gloria abbraccia il vento. E poi l’asfalto. La sua carcassa rimbomba sul cemento. Si sente l’eco di un urlo. I lividi di Gloria, le ossa frantumate dal botto per terra. I vicini corrono giù. Il portiere grida, chiama l’ambulanza. Il silenzio e la quiete della domenica vengono interrotti bruscamente. La madre di Gloria senza sapere il perché, d’istinto esce in balcone, si affaccia dal decimo piano e scorge una cerchia di persone che cela pezzi di corpo. Si intravedono delle macchie rosse. Non mette a fuoco, allora rientra, corre verso il bagno, sente la finestra che sbatte. C’è un vento forte. La doccia gocciola come se qualcuno si fosse appena pulito delle sue colpe. Lo specchio porta ancora il segno dell’alone della condensa, parole colpevoli sono state appena trascritte con il candore di dita innocenti, come se Gloria avesse voluto farsi giustizia da sola, liberandosi dalla sua condanna: -Mio padre non mi stuprerà piùLa pena se l’era appena inflitta lei. Piano piano le lettere svaniscono e si dileguano con l’aria fresca che penetra dalla finestra. La donna boteriana si appoggia al lavandino e si accascia a terra provocando un rumoroso tonfo. La televisione, sempre accesa, è ad alto volume. Alfio è immobile, ascolta con attenzione dalla sua poltrona di pelle i dibattiti politici. Il camlo suona più volte. Alfio, scocciato chiama più volte la moglie, senza ottenere risposta. Si alza sbuffando e sente un gran frastuono mischiato ad una voce spezzata che ripete: -Gloria, la citela Gloria s’ha gettatanterra. Alfio è in preda al panico, l’impeto lo fa rientrare in casa, quasi volesse trincerarsi per difesa. Cerca la moglie, entra nella stanza di Gloria, è vuota, allora spalanca con forza la porta del bagno e ci trova la moglie a terra. La finestra sbatte forte. La sua mente mette a fuoco l’incidente, il suicidio della figlia non è ammissibile. Quel gesto lo fa sentire macchiato di sangue e di colpa. Ma lui non ha colpe, pensa. Ama sua figlia, più di ogni altro. L’ama soprattutto quando la
desidera, quando la possiede. Nessuno avrebbe potuto dividerli, nemmeno sua moglie. Alfio le dà uno scossone con le mani, ma la donna rimane incosciente, poi sente la sirena dell’ambulanza. Allora corre verso l’ascensore. E’ occupato. Prende la via delle scale. Arriva giusto in tempo per salire a bordo e stringe la mano di sua figlia. Gloria è coperta da un telo bianco, spunta il viso tumefatto. La mano che suo padre sta toccando ora sembra gomma, le ossa sono tritate. Il corpo di Gloria è come quello di una marionetta, sostenuto da filamenti che lo tengono unito per poco ancora. E’ cosciente, il battito è molto debole, quasi inesistente. Alfio le accarezza la mano e gliela bacia, si sporca del suo sangue sul viso, sulle labbra. L’unica angoscia di Alfio in quel momento è rimanere solo, senza di lei. –Perché piccola mia, perché? Non lasciare il tuo povero papino da solo. Tu sei l’unica mia ragione di vita. Gli infermieri a bordo staccano la presa di Alfio dalla mano della figlia e gli chiedono gentilmente di spostarsi. Gloria ha un arresto cardiaco. La stanno perdendo.
Sara è appena tornata a casa in motorino. Il cielo grigio milanese auspica pioggia. E’ ancora frastornata dalla festa della sera precedente. Ha un bel mal di testa. Lei ed Emma non hanno dormito per niente. Si sente stanca ma felice. Avrebbe comunque avuto il resto della giornata per riprendersi. Entra, sente il rimbombo di un silenzio assoluto. Non c’è nessuno. Saranno andati a qualche mostra, pensa. Si dirige verso la cucina, apre il frigo, sorseggia un succo. Corre sulla scala a chiocciola, sbircia nella camera di Alex e sua mamma, ma nulla. Poi fa capolino verso la propria, si sfila i vestiti della sera prima, e si infila velocemente una tuta, una maglietta comoda e poi giù di corsa sul divano a vedersi un film. Una bella commedia romantica la attende. Sara si addormenta sui titoli di coda che scorrono. Squilla il telefono di casa ripetutamente, a seguire anche il suo telefonino. Qualcuno la sta cercando disperatamente.
Martina ha dormito male nonostante si fosse addormentata presto. Non aveva nemmeno cenato. Nicola russa dal letto accanto. Martina va in bagno, gli occhi sono gonfi dopo una notte di lacrime. Si sente più brutta del solito. Sconfitta,
torna in camera e guarda il cellulare. La batteria è quasi scarica. Nessun messaggio. Il suo pensiero è per Gloria. Decide di andare di nuovo a casa dell’amica, tira su al volo il regalo ancora infiocchettato, percorre la solita strada desolata che divide le loro abitazioni, si ferma nell’unico bar aperto della domenica, popolato da vecchietti che giocano a carte e che bevono caffè corretti. Martina mastica con voracità il suo cornetto alla nutella, intontita dal sonno e dall’odore di sambuca. Si avvia fuori dal bar e prosegue il suo cammino. Martina sta deglutendo l’ultimo boccone, quando ad un certo punto arresta il o e rimane attonita dalla folla che gremisce attorno al portone di lamiera. La avvolge una strana e inconsapevole sensazione. Decide di superare la muraglia umana, senza prestare ascolto e corre fino al decimo piano. Deve avere la sicurezza che la sua migliore amica stia bene. Arranca agli ultimi gradini, la porta di casa è semiaperta. Dei vicini stanno mettendo delle pezze sulla testa della madre di Gloria, distesa sul divano della sala. Il vento continua a sbattere le finestre. Martina sente che deve essere accaduto qualcosa di grave. L’ambiente, gli occhi della gente parlano. Evocano una scena apocalittica. Corre verso la camera di Gloria, il luogo di gioco, memoria dei bei momenti trascorsi assieme. Trova il peluche che lei stessa le aveva regalato lo scorso compleanno. E’ lì solitario, sul letto ben rifatto, come se volesse comunicarle qualcosa. Una vicina la riconosce e le chiede se ha visto. Martina la guarda con occhi d’attesa. Lei le risponde che ha appena chiamato il padre dall’ospedale. Gloria se n’è andata, non c’è più. Martina corre via, scende le scale tremolante, si disperdono le lacrime sui pianerottoli che mano a mano si lascia alle spalle. Stringe forte tra le mani il regalo di compleanno che ora più che mai vorrebbe consegnare all’amica del cuore. Martina è nel cortile, guarda verso l’alto e scorge il balcone di Gloria. Vede le chiazze per terra di sangue. Gloria si è buttata dalla finestra. Gloria si è tolta la vita. Martina cerca di immaginare il salto, il viso dell’amica e poi il corpo sconquassato a terra. L’impatto. Le rimbomba nella gola. Il suo cuore batte all’impazzata. Martina si volta verso un angolo e vomita.
Sara si sveglia di soprassalto. Sente il telefonino squillare. Sei chiamate perse. Tutte provenienti dal telefono di Alex. Cosa poteva essere successo, si chiede. Sara ricompone il numero di Alex. Lui ha una voce strana, ripete il suo nome, come un disco rotto: -Sara, Sara…
L’adrenalina sconfigge la sonnolenza di Sara e tutto ad un tratto si irrigidisce, capisce che qualcosa non va. Lo sente dalla voce di Alex. E’ un istinto inconscio. -Alex, cazzo, parla cosa è successo? Si tratta della mamma, vero? Parla, parlami. -Sara ascolta, sto venendo a casa, dobbiamo parlare. Tua madre era malata, ora sto tornando, tua madre… -Che cazzo dici Alex? Che significa, non prendermi per il culo capito? Voglio che mi i mia madre, hai capito? Cosa le hai fatto? Cosa le hanno fatto? Che le è successo? Che cazzo significa malata? Sara piange, singhiozza, Sara sente un male dentro forte che le strappa i tessuti. Alex dall’altro lato della cornetta frigna come un bambino. Non aveva pianto nemmeno al funerale di suo padre. Cade la linea. Sara chiama sua madre al cellulare ma senza successo, poi corre nella sua stanza, cerca dei messaggi ma non trova nulla. Era malata, si ripeteva, era malata, allora era in ospedale, oppure aveva deciso di allontanarsi da loro per un po’. Sara cerca una spiegazione. Barcolla. Alex entra in casa, la afferra e la stringe forte mentre le sussurra che sua madre è morta.
Capitolo 6
Matti! (R. Zero)
Sono a casa seduta in cucina. Avrei tante cose da sistemare, tra cui preparare la borsa per l’ospedale. Sono troppo eccitata all’idea che tra poco arrivi Baffetto. Non mi ha anticipato nulla al telefono, vuol dire che la storia è più articolata del previsto. Tendo a credere sempre meno che quella lettera appartenga a Lucrezia. Rimane il fatto che non sono riuscita a contattare nessuno della sua famiglia, come se quella donna non fosse mai esistita. Poi ho capito perché. -Ciao, entra, entra. Franco si accomoda. In cucina c’è tanta luce, siamo abbagliati dal sole. Come una scolaretta ho davanti a me un blocco e una penna con l’intento di voler prendere appunti. -Cristì, sai perché non troviamo niente di sta donna? -Perché? -Eh pecchè, pecchè…Perché sin da piccola è stata in manicomio. -Come? Vedi che c’era una motivazione. Mi sembrava diversa dagli altri, l’avevo detto. In quel momento tento di interpretare l’espressione di Lucrezia, come mi guardava, come accarezzava il mio pancione. Affascinata, non come una madre, ma come una esploratrice incosciente. -Povera donna! Esclamo tirando un sospiro. -Ti prego Franco continua.
-Beh s’è fatta il manicomio e poi quando dopo la legge Basaglia… -Si Franco lo so, sorvoliamo il dato storico. -Beh è stata tutto il tempo a Villa Serena. Villa Serena è la casa di cura qui vicino, sulle colline di Città Sant’Angelo. I colleghi del settore me ne hanno parlato sempre bene. -Capisco. Ecco perché non si trovava nulla a suo nome. -Ed ecco pecchè allu paese su la chiamavano la paz. -Quindi quella vita descritta nella lettera, la figlia…Sono tutte fandonie. Franco rimane perplesso come me. -Bene, allora devo andare a Villa Serena, questa volta me la cavo da sola, parlo io con i medici. Franco mostra il viso corrucciato. Mi accorgo della gaffe. -No, non fraintendere, dico che ci parlo io perché parliamo la stessa lingua, sai tra medici…Ma tu mi accompagni vero? Franco mi sorride di nuovo. -L’hai letta la favola tesò? -Hai ragione, il libro! Non l’ho neanche aperto. Vado a prenderlo in camera da letto. Mentre entro e scorgo il disordine mi rendo conto che non ho ancora nulla di pronto per l’arrivo della piccola. Trovo il libro e torno in cucina. Nel frattempo squilla il telefono. Rispondo in modo sbrigativo. -Si? -Dottoressa Albani? Cristina Albani?
-Si, sono io. -Buongiorno, sono l’assistente del Professor De Carolis. Chiamo da Villa Serena. Non ci posso credere, penso tra me e me. Faccio un cenno a Franco saltellando. Lui non afferra il mio stupore ma cerca di calmarmi. Il pancione dondola. Al termine della chiamata gli spiego che ho preso appuntamento a Villa Serena con il direttore, per il giorno seguente nel tardo pomeriggio. A Villa Serena avevano letto il necrologio. Il direttore, nonché l’illustre Professor De Carolis, noto a livello mondiale per i suoi studi sulla schizofrenia, vuole incontrarmi. Che coincidenza incredibile, penso. -Cristì, hai visto? Caso risolto. Sta povera Lucrezia era na matta. -E la lettera? Ettore, Sara, il libraio, la reticenza del paese a darci informazioni su di lei? -Magari viveva là e s’è inventata tutto, i personaggi so reali, la storia no. Saluto Baffetto schioccandogli un bacio sulla guancia. Mi sento soddisfatta, qualcuno ha intenzione di raccontarmi qualcosa in più su quella donna misteriosa. Non faccio in tempo ad aprire il libro perché mi chiamano dalla clinica. Sono riuscita a prenotarmi la visita dal ginecologo per il mattino seguente per poi andare a Villa Serena nel pomeriggio. A lavoro ho chiesto un giorno di riposo. E ovviamente ora hanno bisogno di me, sono reperibile. Casualmente c’è un’urgenza ogni qual volta che chiedo le ferie. Mi incammino verso la clinica di fretta, maledicendomi. Invece di utilizzare il tempo libero per la piccola, mi sono incagliata in una storia che non mi appartiene. Durante la pausa mi avvicino ad alcune colleghe che conversano davanti alla macchinetta del caffè. Chiedo loro qualche informazione sul Professor De Carolis. Sono sempre stata un po’ intimorita dai sapientoni universitari. -Stai attenta Cristì, è il classico figlio di barone. Lo temono tutti e ha parecchi portaborse in giro. -Grazie per l’avvertimento. Ciao.
-Ciao. Rientrata a casa mi metto a cercare le pubblicazioni di De Carolis. Ne leggo alcune, le più recenti. Non mi va di andare impreparata. Mi sento come una scolaretta che affronta l’esame con il professore più temuto dell’Università. Poi cerco una sua foto. E’ un uomo sulla settantina, i suoi occhi mi ricordano quelli di un orso polare, piccoli e scuri. Ha i lineamenti marcati. Se dovessi trovare una somiglianza con qualcuno credo che lo paragonerei alla versione anziana di Schwarzenegger. L’indomani Franco ed io ci vediamo da me. Viene sin dal mattino. Mi è sfuggito di bocca l’appuntamento per il controllo di termine gravidanza, così baffetto ha voluto a tutti i costi accompagnarmi. Come sempre sale su a prendermi fino alla porta. Crede che io non sappia scendere le scale. Sono autosufficiente, me la cavo da sola ma per lui è impossibile che una donna per di più incinta possa gestirsi in maniera autonoma, senza o maschile. Rimango senza parole. E’ vestito come un damerino. Io indosso il solito camicione e un paio di pantaloni con delle ballerine. Lui sembra che stia andando ad un matrimonio. Non dico nulla. Devo averlo intimorito quando gli ho spiegato chi fosse De Carolis per noi del settore medico. Dal ginecologo è voluto entrare anche lui, mi ha supplicato di sentire il battito. Mi ha intenerito, così si è avvicinato, ha guardato il monitor, mi ha stretto la mano e si è commosso. Anch’io mi sono emozionata. Adesso ho proprio voglia di conoscere la mia piccolina. Arriviamo a Villa Serena, a pochi chilometri da Pescara. La casa di cura è in collina, attorniata da un grande parco secolare. Veniamo annunciati, entriamo nello studio del direttore. Mi cade l’occhio sull’ordine dei suppellettili disposti sulla sua grande scrivania in ciliegio e sulla sua biblioteca di testi antichi. Credo faccia la collezione di maschere etniche, da tutto il mondo. -Buongiorno Professor De Carolis. -Buongiorno. -Complimenti per la sua ultima pubblicazione sul Lancet, la trovo molto puntuale. Lui mi interrompe e viene al sodo. -Si, vi ho chiamato per la Signora Di Girolamo.
-Si, Lucrezia. -La mia assistente mi ha detto che è deceduta nella vostra clinica. -Esatto. Stiamo cercando un suo parente per potergli comunicare la notizia ed espletare le faccende burocratiche del caso. -Capisco. Poi aggiunge. -Ci teniamo molto a Lucrezia, è arrivata qui il giorno che fondai questa clinica. Si può dire che siamo cresciuti insieme. Intuisco che desidera parlarci di lei. Allora lo incuriosisco. -Ecco, le rivelo una cosa, Lucrezia ha lasciato una lettera su una vita, che a questo punto reputo irreale. In quel momento mi accorgo di essere stata ancora una volta una smemorata. Avrei potuto portargliela la lettera, magari il Professore avrebbe potuto decifrarla. -Mi piacerebbe vederla. -Certo, gliela porterò. Allora De Carolis comincia il racconto.
La versione di De Carolis
Dopo la legge Basaglia ci fu una ricostituzione del concetto della malattia mentale. Non mi soffermo sui dettagli tecnici di cui sarete certo a conoscenza. Ero giovane ed entusiasta di intraprendere la mia carriera di psichiatra in un ambiente medicalizzato, soprattutto dopo gli orrori e lo stato dei manicomi che io definisco come la prigione degli emarginati e dei diversi della società. Lucrezia fu rinchiusa in manicomio nel 1952, all’età di soli tredici anni. (Il
Professor De Carolis spunta la cartella clinica per trovare conferma delle date). Arrivò qui da noi nel 1971. Lucrezia era affetta da schizofrenia paranoide. Fu il mio primo caso. Essendo stata a cavallo tra le cure dei manicomi, se così si possono definire, e quelle adeguate dell’epoca successiva, rimango del parere che quella bambina manifestò alcuni sintomi della malattia al seguito dei traumi subiti sia durante l’infanzia che in manicomio. Lucrezia aveva una luce diversa dagli altri miei pazienti. Quando raccontava di sé e della sua vita immaginaria era estremamente lucida. Lei stessa un giorno mi sussurrò in un orecchio: ‘So che lì fuori non esisto. Qui dentro si.’. Indicandomi la sua testa. E’ stata rinchiusa in manicomio dopo che l’hanno trovata nella cantina della sua casa, con in mano la pistola del padre che faceva il poliziotto. Lui era steso a terra ferito. Per poco morì dissanguato. Era minorenne, e nel suo paese la chiamavano la matta. Il caso fu archiviato, lei rinchiusa per l’appunto in manicomio. La diagnosi fu schizofrenia paranoide. Dalle relazioni dei medici che la seguirono pare che si sentisse perseguitata dalla sua famiglia. Credeva che suo padre fosse a capo del complotto. E poi di conseguenza il resto dei suoi famigliari. Ho cercato di scoprire la sua vita lì dentro attraverso di lei e tormentando i dottori che l’avevano, se così si può dire, seguita. Quando arrivò qui da noi la trovammo in uno stato catatonico. Dopo anni e anni di terapia arrivai a elaborare un quadro clinico più completo. Oltre al fatto che indagai sulla sua famiglia per eseguire un’anamnesi adeguata.
Il Professor De Carolis si interrompe. Franco ed io siamo attenti come due studenti diligenti. Ora è lui che pretende informazioni da parte nostra quindi ci domanda: -Quando è arrivata Lucrezia da voi? Franco si impettisce, gli piace la parte del dottore, ma credo preferisca lasciare a me la parola. -Lucrezia è arrivata per un malore. Evidentemente sapeva di essere molto malata perché quando le ho comunicato dello stato di avanzamento della malattia non mi è sembrata sorpresa. O forse non aveva compreso bene. -Capisco. Potrei chiederle di cosa parlava quando mi ha accennato ad una lettera?
-Si, certo, mi spiace non averla portata con me. Si tratterebbe di una lettera dedicata alla figlia. Lucrezia scrive di una vita rocambolesca, un matrimonio, una figlia, per l’appunto, di nome Sara, una fuga a Milano. Ma a questo punto sono tutte invenzioni. -Capisco. -Ci perdoni Professore. Noi purtroppo siamo molto confusi. Sono certa che lei possa darci una mano a capire meglio. -Come sapete benissimo c’è un segreto professionale che va rispettato. Potremmo scambiarci qualche informazione in più, visto che avete quella lettera. Portatela, poi vedremo come procedere. Il Professore ci congeda. Rimaniamo d’accordo che avrei chiamato presto la sua assistente per fissare un nuovo appuntamento. Quando usciamo Baffetto mi sorprende e mi dice: -Guarda un po’, al funerale mi hai detto di aver visto una Mercedes, giusto? -Si. -Voltati. In effetti è proprio la stessa. O almeno mi pare uguale. Deduco che non sia un caso e soprattutto immagino chi sia il proprietario. Scorgiamo nel parcheggio il sul cruscotto. Franco fa per telefonare: -Pronto? Si guardi al parcheggio numero otto c’è l’auto sbagliata. Questo non è il posto del Professor… Poi baffetto ringrazia e mette giù. Mi prende sotto braccio e mi fa cenno di salire in macchina in fretta. -Cristina, quella Mercedes è di De Carolis. -Ecco, così non ci possiamo fidare nemmeno di lui. -E poi hai notato quanto è interessato a leggere la lettera?
-Come no. -A questo punto dobbiamo capire di chi è la lettera e perché l’aveva Lucrezia. -Certo, Cristina, ti aiuterà il tuo baffetto preferito! Poi aggiungo: -Perché mi hai chiamato per nome? -E perché come ti devo chiamare? -Dai sai cosa intendo, perché non ‘Cristì’? Ci mettiamo a ridere. -Perché ho capito che ti dà fastidio quando parlo in dialetto. Mi piaccio di più quando parlo senza slang abruzzese. Sembro più serioso. -E chi te l’ha detto che mi piaci serioso? -Allora vedi che ti piaccio? -Assolutamente no! -Dai, andiamo a comprare qualcosa per la tua bambina, iamme và. Trascorriamo il pomeriggio per il corso a cercare vestitini. Le commesse si rivolgono a Franco come se fosse il padre di mia figlia. Lo troviamo divertente quindi non abbiamo voglia di smentire. Quando dico a Franco che non ho né culla né carrozzina quasi sviene. Mi prende e mi porta da sua sorella. Ci accolgono due pesti, la sorella mi consegna ben volentieri alcune cose, con l’augurio di non far più figli. Una ragazza semplice e solare, come Franco. Mentre Franco gioca con i nipotini, sua sorella mi inonda di parole che faccio finta di ascoltare con interesse. Ma appena sento pronunciare una frase rimango attonita: -Sai Cristì, come so contenta che Franco sta co te, la gravidanza, per lui è importante. Dopo quello che gli ha succes. -Perché? Chiedo io. Sorvolando il fatto che lei abbia capito che Franco ed io
stiamo assieme. -La robba che ti dò non è proprio mia. L’ho usata coi bambini, ma era di Franco e la sua compagna. -Ah Si? Mostro con un mezzo sorriso un ingenuo stupore. -Non t’ha detto niende? -No, non sapevo avesse una fidanzata. Ma era incinta? Perciò ha comprato il necessario per neonati? Franco ci interrompe. Sua sorella cambia espressione e mi azzittisce con lo sguardo. Ci congediamo. Quando siamo sulla via di casa lo ringrazio e prima di salutarlo gli chiedo della sua ultima fidanzata. Lui mi bacia sulla fronte e va via. Ho paura di aver fatto una gaffe.
E’ il mio ultimo giorno di lavoro. Entro ufficialmente nel ruolo di mamma full time. Non so cosa mi aspetta ma credo che l’adrenalina di questi ultimi tempi mi stia facendo rinascere un’altra volta. Proprio io, la pigrona abitudinaria per antonomasia. Alcune colleghe mi hanno salutato con dei pensieri gentili per la mia piccolina. Ho convinto tutti che sia una femmina quindi sono piena di tutine rosa, anche se avrei preferito un colore neutrale a prescindere. Ma qui ci tengono a certi tradizionalismi. A mia madre ho promesso che potrà raggiungermi a pochi giorni dal parto. Mi sono accordata con l’hotel che è qui accanto. Conosco il proprietario, era un vecchio amico di Walter. Per fortuna ho trovato questa soluzione, altrimenti avrei dovuto gestire sia lei che la bambina. La giornata non promette bene, mi fa male la schiena, ho voglia di starmene a casa con le finestre aperte così entra quell’odore umido di pioggerellina estiva. Dalla cucina vedo l’azzurro del mare, tendente al grigio come il cielo di oggi. Prendo il libro e lo apro. Sono le favole di Gianni Rodari. Lo sfoglio velocemente. Trovo una pagina strappata. Leggo l’inizio di quella favola senza finale:
Un giovane gambero pensò: - Perché nelle mia famiglia tutti camminano
all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco. – Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: Urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole. Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse: - State a vedere.- E fece una magnifica corsetta in avanti. - Figlio mio,- scoppiò a piangere la madre, - ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene. - I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare. Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse : - Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua , il ruscello è grande : vattene e non tornare più indietro.Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo.
Poi trovo una frase scritta a mano, sembra la calligrafia di qualcuno che abbia appena imparato a scrivere: “Siamo solo due bambine”. Dall’inchiostro che intravedo in fondo alla pagina immagino che oltre alla fine della storia del gambero ci sia un proseguimento scritto a mano. Forse quella era la scrittura di Lucrezia. Alludeva ad un’altra bambina oltre a lei? Erano rinchiuse dentro quel buco nascosto in cantina? Il padre di Lucrezia era il poliziotto che le faceva del male? Perciò aveva tentato di ucciderlo? Chi era l’altra bambina? Comincio a trascrivere i dati e le impressioni che ho raccolto fino ad ora.
Lucrezia di Girolamo è morta di leucemia. A dodici anni tenta di uccidere il padre. A tredici rinchiusa in manicomio e poi trasferita a Villa Serena. La cantina dove è avvenuta l’aggressione contro il padre poliziotto potrebbe essere la stessa vista da noi, dove abbiamo ritrovato il libro di favole, sul quale c’è una scritta inquietante “Siamo solo due bambine”. Quel ‘solo’ fa paura. Se Lucrezia è arrivata a voler uccidere il padre, ci deve essere un motivo scatenante. La lettera ritrovata nella scatola della defunta Lucrezia non le appartiene. Forse è di proprietà di un’altra persona, un’altra donna, l’altra bambina. Se così fosse, l’altra bambina è la madre di Sara, la moglie di Ettore, la donna vissuta a Villa San Sebastiano che poi è fuggita a Milano con Alex. Ma allora come mai Lucrezia aveva la lettera di un’altra persona tra le mani? Poi c’è il Professor De Carolis, un’altra ombra, poco chiara in questa storia. Ci segue al funerale. Lucrezia è il suo primo caso di schizofrenia. Vuole leggere la lettera, forse perché teme che ci sia una verità rivelata? Perché De Carolis, un luminare temuto dal mondo psichiatrico, dovrebbe essere così interessato ad una sua paziente? Troppi dubbi mi sovrastano. Quel paesino non mi ha fatto una bella impressione. Forse ora è oggetto di reportage fotografici d’autore, ma un tempo deve essere stato il nascondiglio di segreti famigliari alquanto spaventosi. Avrei dovuto rassegnarmi. Quella donna non aveva più nessuno o anche se ci fosse stato in vita ancora qualcuno legato a lei e al suo albero genealogico, quest’ultimo non era interessato alla sua esistenza, men che meno alla sua morte. Ripenso all’intera vicenda, come a una sequenza di un vecchio rullino fotografico. Poi mi soffermo sul ricordo della conversazione con la mia collega. Ora forse so da dove cominciare.
Capitolo 7
La luce del sole (A. Celentano)
Raffaella se n’era andata salutandoli in una giornata di festa, il compleanno di sua figlia Sara. Sarebbe dovuta andare a cena con Alex quella sera, ma quella cena non fu mai consumata perché lei si sentì male. La trovarono in strada, accasciata a terra. Fu portata all’Istituto dei Tumori di Milano. Non volle avvisare nessuno. Non voleva che la vedessero in quelle condizioni. Voleva solo riposare un po’. I funerali di Raffaella Di Giacinto si sono tenuti in forma sobria presso la Chiesa di Santa Maria del Suffragio di Milano. Sara e Alex sono uniti nel dolore. Si stringono la mano. Non ascoltano le parole del prete, ma ricordano le parole di Raffaella in quell’ultimo giorno trascorso insieme. Il cuore di Sara è ricolmo di pianto. Il sentimento di privazione per la madre che non c’è più prende forma, occupa uno spazio infinito e si sostituisce definitivamente alla gioia di un’adolescente che ha appena compiuto sedici anni. Alex è pronto per partire. I bambini del terzo mondo lo attendono. Sara è minorenne, deve andare da suo padre. Deve trasferirsi a Pescara.
Martina è in camera, dall’alto del suo letto a castello, stringe il peluche di Gloria. Dal funerale della sua amica non è mai più uscita di casa. Non è andata a scuola nemmeno negli ultimi giorni prima della chiusura estiva. Per lo meno è dimagrita di qualche chilo, il caldo e il magone l’hanno tenuta lontano dal cibo. Sua madre ogni tanto la sprona a uscire ma Teresina non ha mai avuto polso con i suoi figli né risulta portata per affrontare discorsi articolati. Martina esige una risposta. Vuole sapere perché la sua amica si è tolta la vita. In casa Gloria non si può più nominare, è un argomento tabù. Coesiste in lei un sentimento di colpa per non aver compreso l’amica del cuore. Martina sta seduta affacciata al balcone, vede scorrere davanti a sé la vita degli altri. Per ora lei vuole stare
ferma a guardare. Gli stabilimenti balneari sono in piena attività, le giornate regalano sole e cielo azzurro, i bagnanti aumentano giorno dopo giorno, gli ombrelloni si aprono, si sente il profumo dell’estate nell’aria. Ettore è ancora una volta senza lavoro. Cammina sul bagnasciuga e decide di chiamare Sara. Non ha quasi più credito sul cellulare. Impreca a bassa voce e poi decide di fare uno squillo alla figlia. Non se ne vergogna, in fondo le ultime volte l’aveva sempre chiamata lui. Squilla il telefono. –Pronto Sara-esclama Ettore. –Si, ciao-Sara risponde con voce fredda e resta in attesa. -Sono tuo padre-esordisce Ettore impappinando le parole. -Si lo so, ti ho richiamato io. Dimmi. -Ah si giusto, scusa ma volevo sentirti e però ho finito i soldi, al cellulare capisci. Ma adesso lo ricarico. Volevo sapere come stavi. Ettore balbetta imbarazzato. -Sempre uguale grazie. -Se non ti va ci sentiamo un’altra volta. -No, anzi, ti devo dire una cosa. -A si? Chiede Ettore terrorizzato. -Vengo giù per l’estate e poi parto per l’America. Mi devi dire se c’è posto a casa tua sennò vado dai nonni. Li ho già avvertiti. Ettore si irrigidisce. Prende a calci l’acqua della riva. -Ma come, perché devo essere sempre l’ultimo a sapere le cose? A fatto compiuto le fate. A me nessuno chiede mai niente? Ettore sbraita e si sovrappone sulla risposta di Sara. -Guarda che sei mio padre, mia madre è morta e sono minorenne, cosa ti
aspettavi? Tanto poi parto, la mamma mi ha regalato l’anno a New York. Ettore continua a inveire. Invece di preoccuparsi della figlia e del suo stato d’animo, è travolto dalla rabbia nei confronti della sua ex moglie che ancora una volta era riuscita a disturbare la sua serenità. Sara vuole concludere la telefonata, allontana il telefono per non sentirlo e poi lo riavvicina alzando la voce per farsi ascoltare e grida: -Non mi interessa cosa pensi. Ciao. Sara mette giù. Ora è proprio sola. Ettore prende le chiavi della macchina dalla tasca dei boxer da mare, corre verso l’auto, accelera verso la casa dei suoi genitori. Suona ripetutamente il camlo. Risponde sua madre con voce roca, apre ma capisce subito che il figlio è nervoso e c’è aria di lite. Per fortuna suo marito è fuori col cane, pensa. Ettore è iracondo, ha le guance rosse, le orbite degli occhi gli fuoriescono dal suo viso paffuto. -A mà, ti sei impazzita? Che è sta storia? – quando si innervosisce accentua il suo dialetto. -Di cosa stai parlando, spiegati per favore Ettore, calmati, ti ha morso una tarantola? - prova a calmarlo Carmela, detta nonna Tina, un’anziana donna dalla chioma bianca e dal corpo robusto. -Se se, per chi m’avete preso eh? Per lo zimbello? Mia figlia vuole venire qua a casa mia, io non tengo più soldi, a mala pena andiamo avanti. Adesso ci pensate voi, a tutto, perché avete creato voi tutto ‘sto casino. Adesso mi date i soldi, chiaro? -Ascolta Ettore, questa casa non è una banca! Lo interrompe Tina, che con aria pacata ma con il fuoco dentro, cerca di far ragionare un figlio che in cuor suo sa che non potrà mai darle soddisfazione. -Ti ricordo che se hai una casa è per merito mio e di tuo padre. Se ti abbiamo fatto lavorare in ato è grazie a noi, ti abbiamo pagato un matrimonio fallito, comprato la macchina e tutt’ora ti paghiamo il condominio e le bollette. Devo andare avanti?
-Ecco, ogni volta questa storia, allora non si può più parlare. Allora non li fate i regali come dite voi, se poi li rivolete indietro no? Che cazzo, sono l’unico figlio, che ci fate con i soldi, ve li volete portare dentro alla bara? -No Ettore, ti sto dicendo solo che… -Eh no, non ricominciare, dici sempre le stesse cose, m’hai rotto i coglioni capito? Povero papà com’ha fatto a sopportarti tutti sti anni, ma com’ha fatto? -Non ti permettere Ettore… -Cosa cazzo volete tutti da me? Io voglio sta tranquillo, si capit? Quella è morta ma prima ricordiamoci che m’ha tradito, m’ha portato via una figlia, s’è divertita con quel fricchettone testa di cazzo e ora che volete tutti da me? -Ettore, calmati, è tua figlia, è una ragazzina. Non prendertela con lei per gli errori di sua madre. Ettore prende la porta per le mani, la sbatte forte e urlando scende giù di corsa dalle scale. Un vicino tenta di salutarlo, poi lo schiva lungo il muro e sale a testa bassa. Nonna Tina è rassegnata. Cosa avrebbe potuto fare alla sua età? In fondo è felice dell’arrivo di Sara. Idealizza una nipote che non conosce, subisce l’egoismo dei maschi di famiglia, si accontenta di sopravvivere. Tina torna ai fornelli, si concentra sulla preparazione della cena prima che torni il marito, sospirando. Ettore rientra a casa. Teresina intuisce l’atmosfera, quindi si fionda in cucina a far finta di preparare qualcosa. Ettore la insulta perché come al solito lei non ha cucinato. Anche quella sera avrebbe mangiato un toast. Nicola lo saluta e lui accenna una risposta con la mano. -Esco, non ceno, ho da fare fuori. Ci vediamo dopo. Nicola scende a piedi, per tenersi allenato. Non prendeva l’ascensore da mesi. La sua pancia non calava per cui aveva deciso di iscriversi in palestra. Ci andava all’ora di cena così gli ava la fame. Per pagarsi la palestra sostituiva Mattia durante alcune consegne della ‘spesa’. Soldi veloci, facili. Quella sera Mattia gli manda un sms. La palestra salta. “Corri vieni sotto casa mia tra 10 minuti. Ci vediamo qui”.
Nicola scatta e attraversa i quattro palazzoni che dividono la sua casa da quella di Mattia. Giunto al casermone dal quale si sente un gran baccano, Nicola intravede delle volanti. Non le vedeva da anni, da quando avevano arrestato il figlio di Nella del piano terra. Un tossico che andava in giro a vendere la roba a poco prezzo ai ragazzini delle medie. E invece eccole di nuovo, le fiammanti che lampeggiano. Nicola è rapito da un senso di colpa. Si guarda bene nelle tasche dei pantaloni, poi ricorda di essere pulito, almeno per il momento. Non corre pericolo ad avvicinarsi al portone. Poi il suo pensiero si ferma su Mattia. E se lo avessero beccato? Se volesse incastrare anche lui, o coinvolgerlo? Non avrebbe senso, non lo avrebbe mai fatto, si sarebbe sputtanato per sempre. Mattia il buscettaro, no Mattia non era il tipo. I suoi timori vengono subito meno perché intravede tra le colonne del porticato due poliziotti enormi che trascinano ammanettato un ragazzo che si copre il viso. Ad un certo punto Nicola fa un balzo e strappa un urlo di stupore. Mattia lo pizzica da dietro. -Paura? I cani randagi ci seguono, sti bastardi. Hai visto chi è quello?- dice Mattia all’amico. -Oh m’hai fatto cagà sotto, fanculo va. No chi è? Che succede? Chiede Nicola con stupore. -E’ Sgamba. -No! Esclama Nicola. -Sta coi domenicani mi sa che mò gli conviene più sta in gabbia che stà fuori. -Oh ma quante ne sai fra? Tu eri stato a casa sua vero? E che hai visto? -Mo’ te lo posso dire, ho visto un cassetto pieno di robba. Robba pura, bianca, un botto di soldi, robba da farti la Ferrari, comprarti n’attico a Centrale…Robba che c’avrebbe cambiato la vita. -Minchia! -Sgamba diceva sempre che sarebbe stata l’ultima volta, l’ultima missione, da anni, tutte le volte che lo vedevo e invece…ha fatto il o più lungo della Nicola lo interrompe con una battuta che fa ridere solo lui.
-S…gamba. Ah ah ah! -Invece chissà suo padre…porello. Sorvola la battutaccia di Nicola. -Perché? -Perché è malato ma per fortuna ha quella malattia in cui non ti ricordi un cazzo, ma chissà come finirà, chi si occuperà di quel vecchio. Certo che viviamo proprio in un mondo dimmerda. -Si veramente, hai raggione fra. Nel frattempo Mattia pensa alla missione di ferragosto, avrebbero dovuto rimandarla, lui e i suoi soci. Ma in fondo non gli dispiace affatto, perché la paura gli è salita di nuovo in gola. Poi si rivolge da gradasso a Nicola: -Va beh, senti, ti ho chiamato perché stasera non si fa nulla come puoi immaginare. Bisogna stà calmi con le canaglie in giro. Quindi andiamo a farci una tirata con la mia moto, l’ho rimessa a posto, ti va? Nicola non crede alle sue orecchie. Quella notte niente spesa, niente rischi. Avrebbe trascorso la serata con il suo migliore amico, anzi il suo fra.
Capitolo 8
Mio zio (C. Consoli)
Chiamo subito Franco. -Ciao! -Ciao tesò, dimmi tutto. -Ti va di venire a cena da me? -Quando? -Stasera. -E…Stasera non posso proprio. -Come? -Ho un appuntamento galante! -Ah, niente dai allora ci sentiamo un altro giorno. -Ciao. Metto giù irritata. Avrei fatto per conto mio, come al solito. Ho un discreto appetito, preparo i cannelloni. Mentre sono in forno, trascrivo altri appunti. Suona il citofono. Subito dopo squilla il camlo del forno. I cannelloni sono pronti. Spengo da una parte e rispondo dall’altra. -Si? -Apri?
Mi sembra la voce di Franco. Apro il portone. Poi la porta di casa. Mi trovo davanti agli occhi un enorme mazzo di tulipani gialli. -Il tuo appuntamento ti ha dato buca? Chiedo con tono scocciato. -Agliaiai, rifai la domanda. -Che ci fai qui? -Te l’avevo detto che avevo un appuntamento galante! Sorrido. Lo faccio entrare. Intanto borbotta di aver fatto bene a scegliere il colore della gelosia. Mi viene da ridere. Baffetto è proprio buffo. Cerca nella credenza un vaso e vi sistema i fiori. In quel momento penso al mio ex. Quando metteva piede in cucina, dopo anni di convivenza, osava ancora chiedermi dove fossero le forchette! -Ma sei proprio perfetta Cristì. Sti cannelloni sono una bomba. -Grazie Baffetto! -Dai senti qua, ti racconto le novità. -Vai, ti ascolto dolcezza. Mostro il libro di favole e la frase, rileggo i miei appunti ad alta voce. Baffetto mi ascolta senza fiatare. Poi concludo con l’intuizione che ho avuto quando parlai con la mia collega della clinica: - Una collega con cui ho parlato in ospedale si è laureata quando De Carolis era ancora in cattedra. Quando le ho chiesto di lui ha fatto riferimento al padre di lui. Mi ha detto ‘attenta che è figlio di un barone’. -Sangue blu? Mi domanda Baffetto. -Ma no, in gergo universitario si dice così, per dire che era un uomo potente. Allora sono andata a spulciare nella vita di De Carolis Senior.
Lucrezia Di Girolamo è nata nel 1939. Quando è andata in manicomio aveva tredici anni, nel 1952. Il padre di De Carolis, Pietro, era uno degli psichiatri che l’aveva seguita in manicomio. La fondazione di Villa Serena è ancora intestata a lui. Il figlio ha ereditato i pazienti del padre. Dopo la legge Basaglia andò in pensione, forzata aggiungerei. Ci sono numerosi articoli contro i metodi scarsamente professionali adottati all’interno di quelle prigioni dell’orrore. De Carolis junior ha dovuto convivere con l’ombra di suo padre. Ho trovato degli articoli che risalgono all’inaugurazione di Villa Serena. C’è De Carolis junior che stringe la mano del sindaco di allora. Il giornalista sottolinea chiaramente la differenza tra padre e figlio. Quest’ultimo viene osannato come un pioniere dei nuovi metodi psichiatrici, al contrario di quelli utilizzati da suo padre, che si serviva di elettroshock e lobectomia. Ho controllato. Di tutti i pazienti di De Carolis senior, solo Lucrezia era rimasta in vita. Gli altri morirono tutti di malattie varie. Quindi De Carolis ha mentito quando diceva che aveva tormentato i medici precedenti per capire cosa fosse successo a Lucrezia. Suo padre, Pietro De Carolis, si era occupato di Lucrezia in manicomio.
Franco rimane sbigottito. -Ecco perché De Carolis junior vuole leggere la lettera. Aggiungo io. -Pecchè? -Crede che ci sia scritto qualcosa di compromettente. -Ma sta lettera, Cristì, di chi è secondo te? -Quella lettera è il mio cruccio. Continuo a pensarci. La protagonista della lettera non è Lucrezia, ma un’altra donna, una mamma che dedica le ultime parole ad una figlia, forse l’altra bambina, quella della frase scritta sul libro delle favole. -Ma ce l’aveva Lucrezia prima di morire, quella lettera. Mi assento con il pensiero. Poi finalmente mi decido e mi confronto con Franco sulla prossima mossa.
-Proviamo a verificare se c’è un legame tra D.C Senior e la famiglia di Lucrezia a Villa S.S. -In effetti se è finita in manicomio vuol dire che ce l’hanno portata. -Appunto, magari si sono messi d’accordo per liberarsene. -Ma perché liberarsi di una bambina? -Questo lo dobbiamo scoprire. Forse perché come il gambero voleva camminare in avanti. -Va bene dolcezza. Mi mancherai. A domani. -Buona notte. Non faccio in tempo ad andare a letto che vengo interrotta dal suono del cellulare. -Pronto? -Cristina. -Mamma, perché chiami adesso, che è successo? -Niente. Ti sento sempre presa. Non mi richiami mai. Ma che storia è questa della lettera? Mi ha detto tuo fratello che stai facendo la detective? -Tuo figlio non si fa mai i cavoli suoi vedo. L’unica persona a cui raccontavo di me è mio fratello, lo specchio della mia anima. Ci ascoltavamo, senza mai giudicarci o darci consigli. Al mio contrario, però, lui aveva la lingua lunga. -Ma come ti salta in mente di andare in giro così, nelle tue condizioni! -Hai chiamato per farmi la predica? -No dai Cristina, dimmi un po’, cos’è questa storia della paziente? Non sta bene andare a indagare nelle faccende di famiglia.
-Perché, hai la coda di paglia? -Ti saluto, volevo solo sapere se stavate bene, tu e la bimba. Buona notte. Mette giù il telefono. In effetti sono stata pungente ma non mi va che si intrometta sempre nella mia vita. Persino in lontananza riesce a farmi innervosire. Mi sale un po’ di malinconia. In effetti sto cercando di scoprire i segreti di un’altra famiglia quando dalla mia sono letteralmente scappata. So di non aver risolto il mio dubbio più grande, ma nessuno avrebbe potuto darmi una risposta che mi avrebbe accontentato. Neanche mia madre. Perché ci aveva lasciati soli? Perché lei si ostinava a difenderlo? Sento ancora squillare. Il mio telefono non è mai stato così operativo come nell’ultimo periodo. Per fortuna non è mia madre, ma è Franco. -Cristì? -Si, ciao. Imposto la voce. -Ma che c’hai? -Niente, dimmi. -Vabbeh, senti qua. D.C. Senior conosceva il poliziotto. -Davvero? E come hai fatto a scoprirlo? -Ho chiamato Donna Lina. -A quest’ora? Le avrai fatto prendere un colpo. -Se non è schiattata fino a mò… -Dai smettila dimmi. -Te l’avevo detto che c’aveva un debole per me. -Baffetto? -Vabbeh, vabbeh, stammi a sentì. Le ho chiesto se conosceva un certo Dottor De Carolis e lei mi ha risposto di si, andava spesso a trovare la famiglia Di
Girolamo. Si conosceva col poliziotto. -O mio Dio. -Va beh, ma mò che sappiamo che si conoscono? -Secondo me quei due si coprivano a vicenda. Mi sta venendo la nausea. -Ma non dovrebbe are dopo i primi mesi? -No, no, mi viene perché sto pensando ad una cosa atroce. Silenzio. Intanto penso alla piccola Lucrezia e ai due uomini che come leoni feroci si avvicinano alla tana buia della cantina. -Cristì, non ci pensà, non può esse. -E invece si. Poi aggiungo, col fiatone: -Franco cerchiamo l’altra bambina. Sicuramente sarà stata legata alla famiglia Di Girolamo. -Ok, capo! Che orrore… Anche io sono inorridita al pensiero. Mi sento il mal di testa. Non so se è dovuto alla gravidanza oppure a quel senso di disgusto che provo per quella supposizione sconvolgente.
Capitolo 9
In Viaggio (F. Mannoia)
-Non avrei mai voluto che finisse così la nostra amicizia-esordisce Sara al telefono con Emma, che era già partita per le vacanze con i suoi. -Non dire così patata, lo sai che la nostra amicizia è per sempre. Ci sentiremo, ci vedremo e prima o poi ci ritroveremo vedrai, promesso! Emma ha il magone, le mancherà la sua amica del cuore. Nel frattempo fa i conti con il futuro prossimo. Chi avrebbe potuto conquistare come nuova vicina di banco? Chi sarebbe stata la sua nuova socia? Sara era insostituibile certo, ma lei non poteva per questo rimanere sola. Le sue guance arrossiscono, si vergogna di quel pensiero cinico e un po’ egoista. -Ora ti saluto, sta partendo il treno. C’è un sacco di gente, non ti sento bene. Lungo la carrozza continuano a are persone con bagagli enormi, qualcuno saluta i suoi cari, una ragazza abbraccia il suo fidanzato come se fosse l’ultimo incontro. Il treno Milano-Pescara è in partenza. -Un’ultima cosa Sara…ma Edo l’hai visto? Lo sa? Chiede con malizia Emma. -No, mi ha scritto un paio di messaggi ma io non ho voluto vederlo. E perché? Per farmi consolare? Per innamorarmi di lui per poi sapere di dover partire? Non mi interessa più niente adesso. -Si, scusa, ho fatto una domanda stupida. Va bene patata vado anch’io, buon viaggio e scrivimi. Smack! Un bel bagno rinfrescante attende Emma, i suoi amici della compagnia estiva la stanno aspettando in acqua. Sara clicca e fissa il tasto rosso del suo cellulare.
Con quel gesto le sembra di chiudere definitivamente con la sua vita precedente. Non sapeva se fosse lei a essere più fredda e distaccata oppure se fosse quel mondo ad averla già salutata per sempre. La sua migliore amica, Edo ed un sogno d’amore infranto, i suoi amici di scuola che l’avevano salutata con i messaggini. Un sms prima o poi si cancella, così come quelle parole assolute che vengono usate a sproposito, come i ‘per sempre’, ‘non ti dimenticherò mai’, ‘ci ritroveremo’ . Il viso di sua madre appare riflesso sul finestrino del treno che viaggia. Non le aveva lasciato nessun messaggio, lei. L’immagine della madre si dilegua tra i colori dei campi che scorrono lungo il finestrino. Sara chiude gli occhi e si assopisce con una grande nostalgia nel cuore. La voce in stazione annuncia l’arrivo alla stazione di Bologna. Presto si sarebbe visto il mare. Pescara è sempre più vicina.
Ettore, Nicola, Martina e nonna Tina sono alla stazione ad attendere Sara. Sono seduti e ammutoliti al binario 3. Non si guardano. Sono nervosi. Alzano gli occhi verso Sara, che timidamente avanza verso di loro, con la sua valigia, timorosa dei suoi stessi i, spaventata da quegli sguardi ignoti. Martina e nonna Tina la avvolgono in un abbraccio affettuoso e spontaneo. Martina la stringe con l’augurio di poter ritrovare una complicità femminile di cui ha tremendamente bisogno. Nonna Tina spera di avere un’altra chance con la nipote che se n’era andata via troppo presto. Nicola è acciecato da tanta bellezza. Non vede l’ora di sfoggiare il suo trofeo alla banda dei suoi amici. Sara è a Rancitelli. Attorno a lei: immondizia abbandonata ai lati dei portoni, calcinacci, muri trafitti e intonaci sbiaditi. L’appartamento sa di muffa. Un buco con un grande balcone. Sara guarda all’orizzonte e scorge i tenui colori del calar della sera. Si muove timidamente in quel luogo che non le appartiene, dove gli altri abitanti si spostano disinvolti senza interessarsi dei suoi timori. Intravede Teresina, le accenna un saluto. Il suo posto letto, un materasso, all’interno di una stanza lunga e stretta, buttato su una branda pericolante. Sara ha voglia di fare una cosa sola: sentire Alex per trovare conforto. Lascia i bagagli e scende giù nel grande cortile, accende il cellulare e digita il numero della casa di campagna. Martina va da Ettore in sala, comincia la tarantella della discussione di famiglia. Le voci si alzano e si confondono. L’argomento del giorno è Sara. -Scusate ma ha ragione, lei dovrebbe dormire con me, e Nicola andare in branda
da solo. – Martina avrebbe potuto avere la stanza con la lei e finalmente liberarsi di suo fratello. -Che cazzo dici cretina? Cosa credi che quella stia dietro a una come te? Uscirà con me e i miei amici chiaro? Sparisci stronza! Nicola è furente, si sente messo da parte come al solito. Deve farsi rispettare. Solo alzando la voce riesce a far tacere i suoi interlocutori. Con Martina funziona, basta mortificarla. -Sei uno stronzo tu hai capito? Non capisci niente, non capisci, non capisci… -La smettete di litigare voi due, non fate gli stronzi! Interviene Ettore che si aggiunge ai cori scurrili. I ragazzi non riconoscono l’autorità e proseguono come se nessuno fosse intervenuto. -Appena presento la bella in compagnia ci saranno occhi solo per lei lo sai? E poi che amica vorresti essere tu, proprio tu mocciosa, che non hai saputo tenerti stretta nemmeno la tua amichetta del cuore… Bolle il sangue nelle vene di Martina, la stoccata è andata dritta al cuore, prende fiato e si aggrappa al fratello come un polipo, lo avvolge e lo morde ovunque trovi carne da strappare. Ettore li divide bestemmiando. Martina corre giù, scappa piangendo da quella casa maledetta, vorrebbe lasciarla per sempre.
Alex trova le forze per alzarsi. -Pronto Alex? -Sara!- Esclama lui stupito. -Sara, cosa c’è piccola mia? Hai la voce affranta. -Ho sbagliato tutto. Sono confusa, triste. Ma chi è questa gente, ma come ho fatto? Ho paura. -No piccola, io sono sempre al tuo fianco lo sai. Non abbatterti al primo
ostacolo, ora sei fragile, stai affrontando una nuova vita. Tua madre ed io abbiamo sempre saputo che sei forte e lo dimostrerai anche a te stessa. Non vedere tutto nero adesso. Pensa che c’è una famiglia da conoscere, è un’occasione, potrai almeno dire un giorno di averci provato a farne parte, troverai il tuo posto tra loro, a modo tuo. Goditi l’estate, conosci persone nuove e poi c’è l’America che ti attende. E aggiunge: -Ti ricordi cosa diciamo sempre quando vediamo tutto negativo? -Si. – Risponde Sara con voce spezzata. Sta piangendo. -Ecco, piccola, pensa al futuro. Non fermarti a ciò che stai facendo oggi. Pensa al domani, a come vorrai essere. Devi essere forte perché solo se superi questi momenti negativi, qualsiasi siano, potrai guardare avanti ed essere la persona che scegli di essere. Ok? -Si. Sussurra piano Sara. -Allora dai forza piccola mia, metticela tutta. Per lo meno dai fiducia a te stessa e a loro. Ok? Promesso? Fallo per… -Lei? Sembra timorosa di nominare sua madre. Sarebbe come farla morire di nuovo. Sara irrompe la conversazione con una domanda precisa: -Perché non mi ha scritto nulla? Neanche un messaggio. Non è possibile. Non è da lei. -Sara, ne abbiamo già parlato. Sicuramente l’avrebbe fatto ma forse non credeva di…lasciarci proprio quel giorno. Sono sicuro che ti avrebbe scritto, anch’io, non mi devi convincere. Alex tenta di cambiare discorso: -Dimmi un po’, una cosa positiva che ti ha colpito o che ti piace c’è lì, qual è? Sara tace per qualche secondo e poi risponde tirando su col naso:
-Mi piace il mare. -Bene, è un buon inizio. La esorta ancora a reagire. -Chiamami se hai bisogno, ho deciso di portarmi il satellitare. Parto domani per la Cambogia. -Ok. Grazie. Vorrei tanto venire con te. Ti abbraccio. Mi manchi. -Anche tu mi manchi, tanto. Sara chiude la conversazione. Nel frattempo si avvicina Martina che le chiede se stesse parlando con il suo fidanzato. -No, ero al telefono con una persona speciale. -Anch’io avevo una persona speciale sai? Però l’ho persa. Sara osserva il viso paffuto di Martina, è intenerita da quella sconosciuta dall’aria semplice e genuina, prova per lei una sorta di empatia, rispetta la sua sofferenza e rimane in silenzio per un po’. Sono entrambe sedute sul marciapiede bollente, affrante e sconsolate. Poi Sara le prende la mano, un gesto che segna l’inizio di un rapporto, per lo meno solidale. -Mi dispiace. Quando hai voglia di parlarmene se vuoi ti ascolto. Mi piacciono le storie, di qualsiasi tipo, tranquilla. -Ma questa è una storia triste, alcune cose non si possono raccontare. Risponde Martina. -Ma il bello delle storie è che puoi raccontarle come vuoi. Puoi anche cambiarne il destino, la trama… Le sussurra Sara, come se le stesse svelando un segreto. Vuole tirarla su di morale come aveva appena fatto Alex con lei. Martina accenna un sorriso e le chiede se le va di andare a mangiare un gelato. Sara annuisce. Si avviano verso il lungomare. Martina ora le stringe forte la mano e la trascina, con aria disinvolta, verso uno dei suoi gelatai preferiti. Sara avverte familiarità con quel lungomare
che una volta doveva essere stato uno dei panorami d’infanzia, ora invece è un ricordo lontano e annebbiato quanto quell’orizzonte sbiadito che si intravede dalla riva.
Alex è nella casa di campagna alle porte di Milano. Comincia a preparare lo zaino. Occorre l’indispensabile, non vuole appesantire il suo corpo già affaticato dal peso del dolore. Si avvicina a lui Viviana, lo abbraccia da dietro, carne contro carne e gli sussurra il suo amore prima di salutarlo un’altra volta. -Parti ancora? -Si. Ho bisogno di ritrovare me stesso. -Noi ti amiamo, stai qui. -Noi chi? Sara è con suo padre e Raffaella non c’è più. Sono un uomo che ha perso la bussola, lo capisci? -E io? Io chi sono per te? -Vivi, ti prego. Vivi, nel vero senso del termine, vivi senza di me. -Ho sempre rispettato Raffaella lo sai. Non ti permetto di escludermi proprio ora che… -Che, cosa? Che non c’è più? -Scusami, non volevo. Viviana si ritira e si tampona i folti ricci, avvertendo la gaffe che l’ha fatta sprofondare nell’imbarazzo. -Lascia stare. Sai come stanno le cose tra noi. Non cercare ciò che non posso darti. Viviana corre via, col suo solito carico di delusioni. Alex la rincorre. La prende con forza e la getta sul letto. Lei si lascia penetrare. Lui la avvinghia con veemenza. La sua rabbia si sfoga su di lei. Il corpo magro e ossuto di lui si
trasforma in un animale feroce che la sormonta a quattro zampe. Lei, con gli occhi lucidi di pianto, sogna di essere amata come se quell’atto animalesco sancisse la loro eterna unione. Ma per Alex, Viviana chi era? Viviana era una cara amica, che con tenacia lo ha sempre fatto sentire grande, importante. Una subdola dipendenza lo teneva attaccato a lei. Come poteva allontanare una persona che per tutta la vita lo aveva desiderato? Provava un’imbarazzante consolazione al pensiero che qualcuno potesse amarlo così indistintamente, senza mai contrastare le sue scelte e la sua libertà. Viviana c’era sempre. Anche quando Alex le disse che si era follemente innamorato di una donna straordinaria come Raffaella. Viviana era stata il conforto delle sue notti insonni, quando la sua quotidianità assumeva i tratti monotoni della routine, quando la ione con Raffaella era venuta meno. Raffaella rappresentava la sua vita, il ato, il presente, il suo futuro. Viviana era l’ammiratrice segreta. Alex era il mattatore, che aveva bisogno di abbandonare temporaneamente il palcoscenico e rifugiarsi tra le braccia della sua corteggiatrice. Dietro le quinte si consumava una relazione tra amanti, effimera e ionale, fuori dal tempo e da ogni luogo. Alex afferra un ultimo oggetto, la foto di loro due: Raffaella e Sara, madre e figlia, sono in Venezuela, sotto la cascata più alta del mondo, chiamata Angel, proprio per la forma d’ali d’angelo che prende l’acqua quando scende da così in alto. Sembra che quelle ali vogliano proteggerle. Alex afferra il porta foto e lo infila nello zaino. Poi lo chiude e lo porta sull’uscio del grande portone in legno. Fuori si è annuvolato. E’ previsto un acquazzone estivo. L’aria comincia a odorare di umido. Il giardino è annacquato. Si sentono le gocce battere contro i vetri delle grandi finestre. Sarebbe partito l’indomani all’alba. Alex si accascia sul divano e si lascia cullare dal rumore intermittente e costante della pioggia. Viviana lo osserva mentre dorme. Il suo sguardo fisso su di lui viene interrotto dal rumore del telefono. Non vuole svegliarlo, quindi corre a rispondere, ignara della reazione che avrebbe potuto creare. Dall’altra parte è Sara. -Pronto? Ripete Viviana. -Chi sei? Chiede irritata Sara. -Sono Viviana, la fidanzata di Alex. Risponde fiera e consapevole di ciò che avrebbe comportato quell’affermazione.
La comunicazione viene interrotta. Viviana si riveste, dà un bacio sulle labbra del suo amato sussurrandogli un arrivederci e a presto con la sicurezza di averlo finalmente presto tutto per sé. Raffaella non c’era più, Sara l’aveva appena persa, e dopo la parentesi cambogiana, avrebbero vissuto assieme, per sempre, senza interferenze.
Capitolo 10
Sapore di sale (G. Paoli)
-Sara, Sara. Chiama sua figlia ad alta voce, scocciato per essere stato interrotto mentre guarda il suo telefilm preferito. -Chi è? Chiede Sara. -Che ne so, so’ stranieri, hanno fatto il mio nome ma mi sa che vogliono a te. Sara sferra la cornetta e comincia a parlare in inglese. Ettore la ascolta per una manciata di secondi e rimane stupito di come la figlia sia disinvolta con l’uso di quelle parole così diverse. Poi Sara si rivolge al padre. -Chiedevano di te perché serve la tua firma, il tuo benestare, visto che sei il mio unico genitore rimasto. Per l’America. -Embeh, che è sta storia? Io non firmo niente, capito? -Ma perché? E’ solo una formalità. -Guarda che io non mi posso mica prendere ste responsabilità. Quando stavi con tua madre facevi quello che ti pare, qua è diverso. Capito? -Sara, Sara! Grida Ettore mentre lei corre via. Tra sé e sé pensa che quella storia dell’America fosse proprio una follia. Gli sembrava strano che si sarebbe tutto risolto con quel viaggio all’estero. Lui doveva accollarsi la responsabilità di mandare la figlia in un paese straniero, da sola e per di più minorenne... Non era nemmeno pensabile. Ora che non c’era più Raffaella, era lui che comandava. Una presa di posizione congeniale al suo piano. Avrebbe chiamato sua madre
Tina per chiederle di continuare ad aiutarlo con gli assegni mensili per il mantenimento di Sara. Facendo delle spese più contenute e lavorando solo un paio di settimane al mese, avrebbe potuto riposarsi un po’ e finalmente stare più sereno. Ettore ha deciso. Sara non sarebbe andata in America. Sara cerca disperatamente Alex. Digita tremolante i numeri della casa di campagna. Ne ha abbastanza di quel posto. Avrebbe chiesto ad Alex di venire a prenderla, sarebbe andata con lui in Cambogia. Non sarebbe stata un peso per lui, avrebbe cercato di rendersi indipendente. Sua madre glielo diceva sempre… ‘Alex non vuole essere tuo padre o sostituirsi a lui, ma ricordati che sono le persone che ti dedicano tempo e amore quelle che contano’. Ettore era suo padre all’anagrafe, e poi? Alex l’aveva cresciuta ed educata. E aveva amato sua madre più di chiunque altro uomo, di certo più di Ettore. Ma appena sente pronunciare quelle parole da una voce femminile, estranea che però sembra così decisa e rabbiosa come una cagna, Sara si accascia sul pavimento del bagno, accanto agli stracci, sotto il lavandino che perde. Ha le gambe lunghe che si abbandonano come due stecchini spezzati. La testa all’ingiù che fissa il pavimento. E’ come un secondo lutto. Anzi un omicidio. Alex aveva ucciso sua madre. Sara ha trovato una spiegazione alla sua frustrazione. Sente quasi un sollievo all’idea di aver trovato una soluzione al mistero che avvolgeva la morte di sua madre. Era morta per il dispiacere. Alex le aveva spezzato il cuore. Doveva aver scoperto tutto. E così si sarà ammalata. Doveva aver perso la testa, ecco perché era strana negli ultimi tempi. Ed ecco perché non le aveva scritto. Oppure se l’aveva fatto, Alex doveva aver nascosto la lettera perché avrebbe contenuto la verità sulla sua storia clandestina. In quel momento Sara sente di voler vendicare sua madre. Avrebbe voluto stritolare Alex con le sue mani. Sente un cambiamento interiore. La parte della brava e diligente Sara sta svanendo, è il momento di crescere e affrontare il mondo di petto. Sara deve combattere. E’ sola. E’ sconfitta. Quel luogo sta assumendo caratteristiche sempre più reali. Non sarebbe stata una semplice parentesi, un breve periodo, un rapido aggio, adesso sembra più che mai un posto di cui aver paura. Sara si sente vicina a sua madre, a ciò che doveva aver provato quando aveva dovuto lottare contro la famiglia e quella mentalità di paese che la tenevano imbrigliata come un cane randagio. Soltanto in quel momento Sara capisce il valore del suo regalo di compleanno, il viaggio in America non era altro che il dono per un futuro lontano da quel luogo. Ma Sara non ha altre possibilità. Alex non esiste più per lei, sua madre è morta, e a suo padre Ettore non interessa nulla di lei. Ormai deve rassegnarsi, avrebbe dovuto vivere lì, a Rancitelli, tra l’immondizia, in una casa che cade a pezzi, con una famiglia di sconosciuti.
Il Tonlé Sap è il polmone della Cambogia. Alex osserva la scia vellutata del lago che si allontana dal traghetto diretto a Siem Reap. Ora è davvero lontano da casa, ma il ricordo di Raffaella e Sara è sempre con lui. Si trasferisce presso il floating village vietnamita che vive sulle palafitte. Per muoversi da una casa all’altra si usano le piccole imbarcazioni locali. La Chiesa, il pub con il biliardo, il porcile, il barbiere, la polizia, il ristorante, le abitazioni, sono tutti sospesi sulle acque torride del lago. Alex trova ospitalità presso una famiglia vietnamita. In cambio dà una mano con il bestiame e nella costruzione del famoso ponte che la comunità avrebbe dovuto terminare molti anni prima. Sono numerosi i turisti che si fanno portare a visitare questo piccolo villaggio fluttuante. Quando Alex è intento ad annodare delle corde, seduto penzoloni sulle travi di legno che sfiorano l’acqua, viene colto dagli sguardi curiosi di una coppia di giovani inglesi e da una donna se, trasportati come suppellettili dondolanti, da un timoniere stanco e imbronciato. Le loro macchine fotografiche sono pronte a scattare. Alex è abbronzato, ha la barba e capelli lunghi, veste un calzone lercio arrotolato sulle ginocchia, è a petto nudo, gli si vedono le costole. Si mette in posa e sorride. I turisti si mettono a ridere. Scattano le foto ricordo. Il timoniere dell’imbarcazione accenna un saluto, lui risponde in lingua vietnamita. -Xin chào! L’inglesina ripete il saluto e sfoggia un meraviglioso sorriso che le illumina il viso color bianco latte. Il fidanzato pare meno divertito e fa cenno all’indigeno di proseguire il tour. E’ un giorno di festa per la comunità per la ripresa dei lavori del ponte. Sono tutti al ristorante a festeggiare. E’ ora di pranzo. Le specialità del luogo sono distese in bella vista sui tavolacci decorati da drappi e fiori coloratissimi. Si sente la musica fino alla terraferma. I turisti sono incuriositi. Si guardano tra loro e pensano di essere molto fortunati: trovare una festa locale durante un tour dà un sapore diverso alla vacanza, la rende più verace e meno commerciale. Il timoniere invece vorrebbe terminare il giro al più presto, accaparrarsi una buona mancia e condividere con i suoi amici i festeggiamenti. Alex è appena sceso dalla sua barchetta, sta salendo sulla palafitta del ristorante. Molti lo applaudono e lo invitano a salire. Vogliono accerchiare anche lui. Ad un certo punto si volta, verso l’inglesina a bordo, le strizza l’occhio, urla delle
parole incomprensibili ai forestieri. Il barcaiolo è costretto a cambiare direzione, torna verso il ristorante. I turisti sembrano contenti di scendere. Alex aiuta l’inglesina, che si fa avanti per prima, sale a piedi nudi con le infradito tra le mani. Lui le prende la mano, la trascina nella bolgia. Il fidanzato di lei e la se rimangono indietro. Vengono travolti dal ritmo godereccio delle danze locali. Alex sorseggia la sua bevanda alcolica a base di riso, gliela porge, bevono dallo stesso calice. Non riescono a conversare, c’è troppo baccano, i loro corpi ondeggiano nella folla sudata. Alex scopre dove alloggia, lei lo invita. Riesce ad intrufolarsi nella camera d’hotel. Il fidanzato era lì per lavoro, lei rimaneva sola tutti i pomeriggi. Per due settimane l’inglesina si intrattiene con Alex, il suo forestiero selvaggio, tra eggiate avventurose e ione consumata nella natura incontaminata. -I know what you’re thinking. Lei lo scruta mentre Alex le tiene la testa sul petto e guarda verso l’alto, il soffitto solido e cementato dell’hotel. In realtà sta pensando al soffitto di canne della sua capanna. -Cosa? Chiede lui. -La maestra inglesina e l’ingegnere irlandese, una coppia che si accontenta di una vita fatta di costanza e stabilità, senza figli, senza progetti… -Ma che dici darling? Io non sono nessuno per giudicare. Ho appena perso l’amore della mia vita e continuo a are tra le braccia di tutte le donne che mi ano davanti… Poi Alex si interrompe, la sua tempestiva sincerità ora lo mette in difficoltà. -Non preoccuparti. Ho capito cosa intendi. Ognuno di noi ha un buon motivo per essere tra le braccia dell’altro. Alex apprezza quella risposta, segno di maturità e di vita vissuta che lo rincuora per quell’accenno di solidarietà. Entrambi rimangono abbracciati, come due estranei uniti da uno stesso bisogno, quello di trovare in quell’ assaggio effimero una temporanea consolazione.
Dopo poche ore la coppia è sul traghetto sulla via del ritorno a casa. L’inglesina abbraccia il suo compagno. Trova conforto in quella stretta, senza voltarsi, come per convincersi che quella fosse l’unica direzione possibile.
Ferragosto è vicino e la frivolezza dell’estate rende tutti più simili e uniti. Sono allo stabilimento La Tramontana i ragazzi di Rancitelli. Nicola, Mattia, Sara, Martina, Beppe, Antonello sguazzano in allegria nelle acque torbide dell’Adriatico. -Dai Mat prendimi sulle spalle, facciamogli vedere a questi! Sara sfoggia un bikini verde e viola che aveva comprato in Indonesia in uno dei viaggi con sua madre e Alex. -Certo tesò, monta in groppa. Risponde Mattia mettendo in risalto i risultati della sua perseveranza in palestra. -Vabbeh grazie ragà se io devo prendere la ciambellona sulle spalle affogo. Ride Nicola mentre guarda la sorella. -Dai scemo, quando un giorno sarò bella e magra come Sara ti rinnegherò come fratello. Martina non si offende. Martina è felice. Nemmeno le battute di Nicola possono strapparle quel momento di serenità. Martina ha un estremo bisogno di sentirsi parte del gruppo. Se gli altri le hanno assegnato quel ruolo, di ragazza goffa ma gentile, lei non può che accettarlo ma con la certezza di esserci, senza paura di rimanere sola. Quel mondo aveva deciso che le ragazze come Sara avrebbero avuto una strada più facile da percorrere, una discesa tra abeti e margherite, mentre quelle come lei avrebbero dovuto prima imparare a scalare e poi rischiare la salita. Mai avrebbe scelto di finire come sua madre. Martina voleva combattere e trovare un luogo adatto per lei, questo sogno nessuno avrebbe potuto negarglielo. Martina e Sara cominciano a intrecciare le braccia tra loro e a spingersi, i ragazzi incitano le proprie eroine e si spostano ondulando da destra a sinistra e viceversa come se in ogni istante stessero per perdere l’equilibrio. Ridono, ridono tutti fino a quando finiscono sott’acqua. Mattia avvinghia Sara e la stringe a sé di proposito. Lei si dimena in apnea, poi emerge e boccheggia, priva di fiato alza una mano contro Mattia, lui la blocca e inizia un dolce e romantico duello tra i
due. Martina e Nicola escono dall’acqua, sono stati chiamati da Beppe e Antonello, che reclamano due giocatori per una partita a bigliardino. -Viè qua milanese. Dice Mattia prendendo Sara per un braccio che sta per alzarsi verso riva. Sara cede e si abbassa verso di lui, lo guarda e comincia a nuotare e appena si allontana verso gli scogli, grida: -Ce la fai a raggiungermi o devo andare più piano? Si volta e con foga continua a nuotare. Le lezioni di piscina adesso avevano un perché, pensa lei, tra una bracciata e l’altra. Mattia la osserva e senza pensarci accetta la sfida, proprio lui che è un competitivo, figuriamoci se si fa battere a nuoto da una donna, pensa tra sé e sé. Quindi sbraccia con tutte le sue forze e nel frattempo fantastica sulla sua intrigante preda. Sara è una diversa dalle altre. Oltre ad essere sexy, è intraprendente, ha classe nelle movenze. Mattia la supera e poi si blocca ad attenderla. Lei emerge con la testa, si volta verso di lui. Lei sorride, lui si avvicina e la bacia sulle labbra. I corpi si dimenano sott’acqua per tenersi a galla, Mattia si avvicina e le prende i fianchi, li tira verso di sé. Continuano le loro labbra a muoversi ritmicamente, mentre i corpi si attorcigliano e finiscono per andare sotto. Sara ritorna su e respira animatamente, Mattia le prende le mani e se le annoda al collo e nuota verso riva con il suo trofeo sulla schiena. Appena approdati a riva Sara scappa via, vuole raggiungere il resto del gruppo al bar dello stabilimento, ma prima lo saluta arruffandogli i riccioli bagnati davanti agli occhi. Non appena lui alza lo sguardo non la vede più. Quindi decide di andare sotto l’ombrellone dove ci sono alcuni amici che giocano a carte. Mattia stende il telo, sfila una Marlboro dallo zaino, si siede con le gambe aperte rivolto verso la riva e fuma con aria godereccia la sua sigaretta. Sara è sul campo da beach volley, batte cinque alle compagne di squadra, dopo aver fatto punto con una schiacciata sugli avversari. Poco dopo la raggiunge Mattia, la osserva fuori dal campo, lei lo guarda e si concentra sull’azione successiva. Un altro punto. Mattia, con ammirazione, entra in campo buttando fuori uno dei ragazzi, proprio quello che punta Sara con maggiore interesse. -Dai ragazzino esci e vai a pulirti la bocca, che quelle così ti fanno distrarre. Che ti fai battere da ‘ste uaiunette? Ora guarda il maestro. -Maledetto strafottente! Esclama Sara. Mentre lo osserva sorridendo, le appare di nuovo l’immagine del bacio, quando
lei si sentiva completamente sua, abbandonata tra le sue braccia. Non le sembra vero che qualcuno abbia il desiderio di conoscerla e donarle affetto. Seguono così le giornate e le serate dei ragazzi di Rancitelli tra La Tramontana, i bagni, le carte, il bigliardino, il gelato, la musica sotto le stelle. Sara e Mattia si annusano, giorno dopo giorno, in mezzo agli altri. Nascondono il loro ardore e quando riescono a confondersi con la folla, si dileguano terminando la serata su un lettino in riva al mare, sotto una romantica volta celeste. Sara e Mattia condividono lo stesso lutto, per una madre che li ha lasciati troppo presto, vogliono riempire i loro vuoti, nutrono aspettative, desiderano appartenersi e riconoscersi in una relazione che li protegga e li faccia sentire bene. Sara e Mattia non si sentono più soli. Insieme si sentono invincibili. E’ la notte di ferragosto. La Tramontana ha organizzato una cocomerata a base di vodka sulla spiaggia e poi il bagno di mezzanotte. Quando gli altri si ritirano per asciugarsi e bere per sballarsi ancora un po’, Sara e Mattia decidono di prolungare la loro permanenza sul bagnasciuga illuminati dalla Luna nuova. Si intravedono le luci del bar, ora loro sono lontani, ma soprattutto sono soli. I corpi bagnati si rotolano e Sara finisce sotto quello di Mattia. Entrambi fremono, si vogliono appartenere. Sara comincia ad ansimare, Mattia decide di penetrarla, lei si lascia guidare. Sara vibra, Mattia la possiede. Per Sara è la prima volta, per Mattia è la prima volta con una ragazza così. Sara sente in bocca il sapore dell’amore. Sono talmente eccitati che vorrebbero che quella serata non finisca mai. Mattia la prende per mano. Si avviano verso la moto, salutano Nicola e Martina che li guardano con gli occhi dell’invidia, poi Mattia guarda il telefono e decide di comporre il numero di Beppe. -O’ ciao dove siete? -O’ fra dove cazzo sei finito, non t’abbiamo più visto. Chiede l’amico. -Eh faccende personali, risponde ridacchiando Mattia. -Seeee, seee, stavi con quella cocca, bravo, ci chiedevamo chi se la portava a quella a letto per primo. E ride, ride, ride fino a quando Mattia lo blocca. -O’non t’azzardà, quella è la mia ragazza e nessuno la deve guardà capito?
Strizza l’occhio a Sara mentre lei gli stringe la mano. -Si fra stavo a scherzà dai, non te la piglià. Ti aspettiamo al solito posto. -Si ma stasera viene pure Sara. Poi la guarda e con il labiale dice: ‘La nostra notte sarà infinita’. Sara non sarebbe mai rimasta fuori senza avvisare. Non avrebbe fatto una follia del genere con sua madre e Alex. Con suo padre si. In fondo chi era lui per darle delle regole visto che non aveva mai fatto nulla come padre? Con gli adulti non avrebbe più voluto avere a che fare. Poteva benissimo decidere per se stessa. Per lo meno poteva riscattare parte della sua sofferenza con un po’ di libertà.
Sara e Mattia volano in moto da Beppe e Antonello. Sara si fa accarezzare dal vento estivo, sente su di sé l’umidità del mare mescolata all’odore di Mattia che le è rimasto sulla pelle. Giungono alla roulotte di Antonello. Come al solito sono tutti fatti di ‘coca’, hanno appena concluso la pokerata di ferragosto. Il ritmo rap fa vibrare le pareti metalliche. -Uè Antonè , ragazzi, c’è rimasto qualcosa pure per me? Chiede Mattia con aria da galletto. Prende Sara per mano e la trascina in un angolo. Gli altri sono troppo presi tra loro per guardarli. Le stende una striscia, le porge la cannuccia e la invita a servirsi. Lei lo guarda attonita. -Non mi dire che a Milano non c’è la bamba. -No è che… -Ah ecco, vuol dire che per te signorina è la prima volta giusto? -In effetti si. -Dai piccola, vedrai la nostra notte sarà magica. Non finirà mai. Fidati di me. Mattia la bacia e la stringe forte. Sara ha bisogno di quell’abbraccio più che mai. Quindi prende la cannuccia e
tira su col naso con tutte le sue forze. -Brava, sei un’aspirapolvere! Sara sente scendere piano piano l’amaro in bocca, poi il calore prende il sopravvento come se le ossa si stessero scaldando. Sta salendo l’effetto della ‘coca’. Sara si accorge che è proprio lì che vuole stare. E’ esattamente quel momento che vuole vivere intensamente, con il suo Mattia. I due si baciano, chiacchierano, ballano. Beppe e Antonello sono attorno a loro. Si stringono, si abbracciano, in quella nottata di ferragosto che per loro ha appena avuto inizio. -Dai frà, facciamo l’ultimo tiro e poi andiamo a Rimini, che stasera c’è un after da paura. -Andiamo lo stesso frà? Chiedono Beppe e Antonello. -Certo. Solo divertimento, niente lavoro stasera! -Ci credo, co quello che è successo a Sgamba bisogna sta attenti. Mi sa che gli danno cinque anni di gattabuia. -Dai non ce pensiamo, ragà, è ferragosto, annamo và. Mattia parcheggia la moto dietro la roulotte. Prepara la cannuccia con il suo dollaro porta fortuna, lo porge alla sua dama e poi lo riprende per tirare anche lui. Gli altri si dividono le pastiglie per l’after e se le nascondono in ogni dove. Fanno ancora due chiacchiere, poi montano tutti in macchina, sulla Mercedes fiammante di Beppe. Suo padre gliela aveva lasciata per l’occasione fino al mattino seguente . La notte è ancora lunga. Mattia sale in macchina per ultimo. Prende due sacchetti di coca avvolti nella carta stagnola e li nasconde sotto il sedile davanti a sé. Non li aveva visti nessuno durante il blitz che aveva inchiodato Sgamba. A Rimini avrebbe trovato l’acquirente. La discoteca è imballata, il cielo va schiarendosi, i ragazzi entrano saltando la fila. Una vecchia conoscenza di Mattia sta alla porta, quindi li fa imbucare tutti senza pagare. La musica pompa, le ragazze sono mezze nude, sculettano e si agitano fatte dalla testa ai piedi. Hanno tutti voglia di divertirsi, c’è spazio solo per lo sballo, l’assenza di pensieri, la libertà della mente e del corpo. Un paio di fanciulle provocanti si avvicinano a Mattia e lo salutano mettendogli le mani sul petto. Lui cinge le braccia attorno alla vita nuda di entrambe e si butta nella
mischia. Sara lo segue abbracciata a Beppe e Antonello. Mentre ballano e si sballano, Mattia e Sara si ritrovano in pista, cominciano a stuzzicarsi raccontandosi i particolari di quando faranno ancora l’amore. Ad un certo punto Sara si volta di soprassalto: -Hei, piccola cosa ci fai qui? -Edo? Risponde lei con gli occhi di fuori. -Sei sempre più bella! Sara sorride e abbassa lo sguardo per poi rivolgerlo al suo uomo. Attende una sua reazione. Quella situazione la inorgoglisce senza sapere il perché. -Hei, hei lo dico io. Anche se vi conoscete questa è la mia donna. Si intromette Mattia allungando il braccio tatuato intorno alla vita di Sara come per creare una barriera tra lei e il suo amico milanese. -Stai calmo. Sto parlando con Sara. Da quando in qua hai un bodyguard? Sara avverte il tono provocatorio di Edo. In quel momento si accorge della differenza dei due mondi. Mattia, dal fare spavaldo, tonico e possente, ma in fondo molto semplice e poco colto. Edo, dall’aspetto curato e affascinante, altezzoso e brillante. Sua madre glielo ripeteva sempre. Nella vita bisogna essere elastici. La vita di ognuno di noi può subire degli stravolgimenti quando noi non ce l’aspettiamo. Ecco, quello era il momento di Sara. Se sua madre non fosse morta forse adesso sarebbe a Rimini per mano con Edo oppure in una spiaggia ligure assieme ai suoi amici di scuola. E chissà Mattia sarebbe con una sua simile a farsi di coca in qualche bagno di una discoteca. Mattia prende da parte Sara: -Piccola vieni qui. La stringe a sé. -Che ti prende, non stai bene? Le gira la testa. I suoi pensieri vanno talmente veloci che non riesce a fermarli. Chiede di essere accompagnata in bagno. Deve sciacquarsi il viso. Mattia l’accompagna. Poi torna subito verso Edo.
-Senti, tu sei Edo il milanese? -Si, e allora? -Mi hanno detto degli amici di chiedere di te. -Quanto potresti farmi felice? Mattia capisce la risposta in codice. Era lui. L’amico di Sara. Incredibile coincidenza. Il suo acquirente. In effetti lei sembrava una figlia di papà, anche se viveva a Rancitelli. Lei gli aveva raccontato di sua madre e del suo patrigno. I viaggi, la vita agiata…Vuol dire che frequentava quei giri. E non aveva mai pippato? O magari glielo ha fatto solo credere per sembrare un’ingenua? Sara le piace troppo quindi Mattia mette da parte i suoi dubbi. Si accorda sul luogo dello scambio. Poi torna a prenderla. Ha un viso molto più roseo. -Amore. Stai meglio? Le mette una mano sulla nuca e poi la tira a sé. -Lei si fa trasportare come una bambola. Lo stringe e lo desidera. -Si amore. Dove sei stato? -Ho conosciuto meglio il tuo amico Edo. Sai che mi interessa tutto ciò che ti sta attorno. E le fa l’occhiolino. -Dai…Risponde lei stupita. Si allontana e lo guarda ciondolando. -Certo. -E cosa avreste voi due in comune? -Un sacco di cose, piccola. Una sei tu. -Io non sono sua. -Non ho detto questo. Ma quello ti fa il filo e quindi devo conoscere il mio nemico sennò come faccio ad affrontarlo? -Sara gli tende le braccia al collo e si stende ballando a ritmo. Vuole tornare in pista ed essere frastornata dai rumori che rimbombano nelle casse e dalle luci che rimbalzano in sala. Mentre ballano Mattia le chiede:
-Mi dicevi che vorresti andare a New York. -Si ma non ci andrò. -E se ti ci portassi io? -Ma cosa dici? -Non sto scherzando. Mi devono arrivare dei soldi. Un fondo… -Non mentirmi. Non ci conosciamo da tanto. Ma non mi piacete voi… -Tesoro, dai, non fare la schizzinosa bacchettona. -Io non ero abituata così a Milano. Ma era tutto diverso. Adesso non mi interessa più. Anzi, perché non mi porti a fare un altro tiro? Mattia la tiene stretta mentre le si dimena per andare verso il bagno. -Ascoltami. Io ti ci porto a New York. Ricominciamo insieme. Una nuova vita. -Ma sono minorenne… Dai andiamo. E lo tira. -Ok, aspetteremo i tuoi diciotto anni. Ma vivere qua non sarà più una prigione perché avremo un sogno. Cazzo ce lo devi avere un sogno no? Sara si sente offesa. Certo che ce lo aveva un sogno, forse anche più d’uno. Ma come doveva sentirsi ora che la sua vita stava andando in frantumi? Sara si scosta e scappa via. Mattia la rincorre ma viene fermato da Edo. -Dove vai? Adesso è il momento. Mattia deve scegliere. Deve sistemare se stesso e la sua amata per la vita. Lo scambio sarebbe stato breve. Nessuno se ne sarebbe accorto. Nemmeno Beppe e Antonello. Non avrebbe potuto coinvolgerli. Non poteva essere tradimento quello. In fondo si era preso lui il rischio di entrare nel rifugio nascosto di Sgamba. E se lui avesse detto a qualcuno del suo bottino segreto? No, era più probabile che l’avesse tenuto per il futuro, come pensione dopo il carcere. E’ il momento di compiere una scelta importante. Come quando aveva deciso di cavarsela da solo, a tredici anni, lavorando per i Barzò. Mattia guarda in alto
come per chiedere aiuto a sua madre. Sua madre, Antonella De Gregorio, una ribelle dall’animo coraggioso, che aveva sposato un uomo semplice e buono e aveva vissuto troppo poco della sua vita, così poco da non poter gioire nemmeno della nascita di suo figlio. Sara gli ricorda sua madre. Una ragazza fine, dolce ma combattiva. Un mix perfetto per far sballare un uomo, un ragazzo di periferia come lui, come suo padre. Nel frattempo Beppe lo sta cercando. Devono rientrare. Sara è con lui. Sono le dieci del mattino, il sole sta penetrando le vetrate della discoteca, la musica house si trasforma in tribal. Beppe sta sorseggiando l’ultimo gin tonic, è al bancone, cerca tra la folla i suoi amici. Deve rientrare, suo padre ha bisogno della macchina. La Mercedes si mette in moto, i ragazzi sono a bordo per tornare a casa, aprono le loro bocche solo per buttar fuori il fumo delle sigarette, sono in fase di down, le facce sono tristi, hanno le occhiaie, la pelle sembra ritirarsi e assumere un aspetto di carta sgualcita. I loro aliti puzzano di alcool, le teste rimbombano. Il loro stato non gli permette di riposare, né di essere vigili. Non c’è felicità o infelicità, si rimane sospesi fino a quando a, perché poi a e finalmente si dorme, e sfuma via anche quel senso di ansia e di angoscia che ti si aggrappa all’anima. Era stata una bella nottata, pensa Beppe al volante, mentre butta fuori la cenere dal finestrino. Il sole comincia a intiepidire l’auto, lui scorge un raggio di sole e poi il buio.
Marco Santini ha compiuto diciannove anni e li ha festeggiati anche lui a Rimini. Si è fatto trascinare all’after dalle sue amiche trans. Anche lui si sballa come i suoi coetanei. Suo padre gli aveva regalato la Golf, 1200 di cilindrata, turbo diesel. Aveva preso la patente. E’ già mattina, suo padre lo chiama. Marco trova il telefono tra le gambe di Max. Si danno appuntamento al bar del lungomare all’altezza del bagno 61. Ugo Santini aveva preso un giorno libero per provare l’auto con suo figlio e fargli fare un po’ di pratica in autostrada. Tentava di inculcargli la ione per le quattro ruote, il calcio, le donne. Dentro di sé sapeva che suo figlio era diverso dai figli maschi dei suoi colleghi ma sperava che con la perseveranza avrebbe potuto avere anche lui un figlio degno di suo padre e di cui non doversi vergognare. Ugo Santini conosceva bene quella tratta, la faceva ogni giorno e spesso anche di notte, la chiamavano la gabbia gli agenti speciali come lui, i poliziotti che pattugliavano su e giù per l’autostrada. Anche in borghese ci teneva a mettere in risalto il rigore nel suo aspetto: capello rasato a zero, camicia aderente ai suoi pettorali vigorosi, viso liscio e odore di dopo
barba. Marco aveva sgarrato anche quella sera ma dopo tutto era il suo compleanno. Presto sarebbe andato a studiare a Londra. La fuga da suo padre significava libertà. Una volta fuori casa avrebbe potuto rinfacciargli tutte quelle prediche inutili da maschilista perbenista. Marco si sarebbe trasferito a Londra dove avrebbe potuto essere ciò che lui era davvero: un ragazzo che aveva diritto ad amare la vita a modo suo, amando se stesso ed i ragazzi del suo stesso sesso. Marco si cambia in macchina, si toglie i pantaloni aderenti, cerca di coprirsi con il phard il succhiotto che gli ha lasciato Max sul collo, e poi raggiunge suo padre. Ha sonno. Avrebbe voluto andare a dormire invece che fare quella prova di virilità autostradale. Ugo Santini rimprovera suo figlio ripetutamente: -Ma come guidi? Come una femminuccia? Dai cambia marcia e metti ‘sta quinta. Non ti ho regalato una carretta, dai, dai Marco. -Si, ho capito pa, un attimino no, mi devo adattare. -Ma perché non me lo fai pure tu un regalo? -Cosa pa? Risponde Marco sconfortato e sempre più assonnato. Ugo comincia il suo monologo retorico sugli agenti speciali autostradali, il potere della divisa, la disciplina come maestra di vita, il coraggio della razza maschile, la differenza di ruoli tra uomo e donna…E poi il buio.
Capitolo 11
Un senso (Vasco)
-Cristì? -Dimmi. -Avevi ragione. -Cioè? -Ho trovato l’altra bambina. Sicuro. -E chi è? -Si chiama Raffaella Di Giacinto. I suoi genitori, come nella lettera, si chiamano proprio Elvira e Claudio. -Quindi la lettera è di questa Raffaella? Ma come hai fatto? -Stammi a sentì. Ho fatto un controllo incrociato. Me so studiato la genealogia di famiglia. Lo sai che so il re dell’anagrafe! -Dai, dimmi. -Sta bambina è nata nel ‘52, poco prima che Lucrezia è stata rinchiusa in manicomio. Ed è pure sua parente. Ti ricordi il poliziotto, il papà di Lucrezia, quello che ha tentato di uccidere quando era na bambina? -Si, certo. -Ecco, sua sorella si chiama Elvira, ed è la mamma di Raffaella. Quindi Raffaella e Lucrezia sono cugine.
-E la carta d’identità di Lucrezia? Quell’indirizzo di Tagliacozzo? -Era la vecchia residenza delle due famiglie che vivevano là, in quel condominio che abbiamo visto noi a Tagliacozzo, però a nome Di Giacinto e non Di Girolamo. Le due famiglie hanno vissuto a Villa San Sebastiano. A Tagliacozzo mi sa che c’avevano solo la residenza. -Quindi la lettera è stata scritta da Raffaella indirizzata alla figlia Sara. -Si, ho richiamato Donna Lina. Le ho promesso uno spazio sul Centro per pubblicizzare il suo affitta camere. Sai che il mio amico ci lavora, mi deve un favore. -Ma quanto sei intrallazzato Baffetto mio? -Stammi a sentì. Mi ha confermato che pure Raffaella era diversa, mi ha detto che era una ragazza strana. -Si, se diversa da quella gente, per me vuol dire normale. -Appunto. Ma stammi a sentì. Ho due notizie da darti. Vuoi la uno o la due? -Dai, non scherzare. -Vabbeh, tanto te le dico tutte e due. La prima è che ho provato a bleffare con Donna Lina. Le ho detto che sapevamo la storia di Lucrezia e di Raffaella. E così lei sai che mi ha risposto? -No. -M’ha detto che quella era un brutta storia. C’erano di mezzo le violenze. -Come avevamo supposto, rispondo io. Silenzio. Poi gli chiedo: -La seconda notizia qual è? Non potrà essere peggio di questa. -Mhm. -O mio Dio, spara.
-Raffaella Di Giancinto è morta. -O mio Dio. Quando, come? -E’ morta a Milano, pochi giorni fa. Ho chiamato il mio amico dell’anagrafe di su, mi ha anche detto di cosa è morta. -Di cosa? -Leucemia fulminante. -Come Lucrezia. -Quando? -Raffaella è morta una settimana prima di Lucrezia.
Decidiamo di vederci. La telefonata si fa lunga e lui ha da lavorare. Mentre attendo l’arrivo di Franco preparo qualcosa da mangiare e nel frattempo ci rifletto ancora su. Quando ho scoperto che il padre di De Carolis si era preso in carico di portare Lucrezia in manicomio ho pensato subito ad un abuso. A quei tempi era comodo emarginare dalla società un individuo. Ancora più semplice se si trattava di una povera bambina. Ecco perché Lucrezia aveva tentato di uccidere suo padre, per difendersi dalle violenze. Ma che c’entrava sua cugina? Quella frase si ripete nella mia testa: ‘siamo solo due bambine’. Come se anche la cugina fosse una vittima. Facendo un rapido calcolo, quando è nata la cugina Lucrezia aveva tredici anni e poi è stata rinchiusa in manicomio, quindi non si erano nemmeno conosciute. I miei pensieri tornano su De Carolis senior, forse lui era il complice del poliziotto. O negli abusi o nell’atto di aver rinchiuso Lucrezia. Meno male che è arrivato Franco. Ci sediamo a mangiare. Continuiamo a parlare come se avessimo finito la telefonata il minuto precedente. Gli mostro i miei appunti. E dice: -Tesò, ho già verificato tutto. Raffaella Di Giacinto si era trasferita a Milano con la figlia Sara. Ho l’indirizzo e il numero di casa.
-Si, dobbiamo rintracciare Sara, ha diritto ad avere la lettera che le appartiene. Sua madre gliel’ha scritta prima di morire. Sono le sue ultime parole. In quel momento sento una gran nostalgia nel cuore. Una vocina dentro di me spera che anche mio padre mi abbia lasciato un biglietto, chissà anche nel mio caso avrebbe potuto essere finito nelle mani sbagliate. Ma so che è una mera illusione. Non ho mai avuto il coraggio di chiederlo a mia madre. Una questione di orgoglio, implorare una risposta, quando ormai avevo deciso che mio padre aveva torto marcio, per il fatto di averci abbandonato tutti, commettendo quell’atto vigliacco ed egoista. Le ragioni o le parole non avrebbero potuto colmare il vuoto che ci ha lasciato dentro in tutti questi anni. -Cristì? Ci sei? -Si, scusa. -Lo so, sta storia è n’intreccio. -Anche se adesso sappiamo che la lettera appartiene a Raffaella, la cugina di Lucrezia, rimangono ancora tanti dubbi. -C’hai raggione Cristì. Quindi mò siamo punto a capo? -No, siamo a buon punto. Prima di rintracciare Sara dobbiamo scoprire tutta la storia. Forse c’è una persona che conosce la verità. Aggiungo col fiatone: -Ci vediamo domani pomeriggio. Tanto è venerdì e tu esci presto. -Dove mi porti? Mi lasci così nella sup…? -Suspance vuoi dire? -Esatto. Ti dico solo che domani saremo da De Carolis. -Hai preso appuntamento? Perché non me l’hai detto? -Perché lui non lo sa ancora, ma sono certa che ci riceverà. Non erò nemmeno dalla sua assistente. Ho il presentimento che preferisca riceverci lui,
direttamente e quanto prima. -Ammazza dottorè, mi stai a fa paura. Vai a dormì. Ciao. Franco dà un bacio al mio pancione. Sono esausta. Sprofondo nel letto. Siamo a Villa Serena. Come ho intuito, De Carolis ci ha voluti ricevere. Entriamo, ci attende. Ha un aspetto diverso. Ora sembra sul banco degli imputati invece che seduto in cattedra da barone. -Credo che lei ci debba delle spiegazioni. Ci ha mentito. Suo padre conosceva il poliziotto e si è preso carico di Lucrezia in manicomio. Ho qui la lettera. Se la vuole vedere dobbiamo sapere. Sappiamo anche dell’altra bambina. Ma soprattutto sappiamo delle violenze. Baffetto mi guarda con aria stupita. In effetti sto bluffando, ma come faccio con i pazienti, preferisco che siano loro a dirmi l’anamnesi e poi io faccio le mie deduzioni. Preferisco ascoltare prima di parlare. De Carolis sembra arrendersi e sfonda il muro del silenzio.
Erano anni in cui si potevano nascondere sotto gli occhi di tutti molte atrocità. Mio padre e il poliziotto come lo chiamate voi, si conoscevano dai tempi del militare. Nonostante fossero di diversa estrazione sociale, avevano la stessa intensa brama di potere. Erano malati. Malati per le ragazzine. Si coprivano a vicenda quando condividevano gli abusi. Mio padre, prima di morire, mi ha rivelato la storia di Lucrezia. In qualche modo raccontandomi la verità, mi ha reso complice dei suoi peccati. Da quel momento avrei dovuto occuparmi io di lei. Lucrezia era solo una bambina, aveva quasi tredici anni. Nessuno dei due poteva credere che così giovane potesse procreare.
Baffetto ed io ci guardiamo con gli occhi del terrore. De Carolis si accorge del nostro stupore. Mi tremano le gambe. -Avete detto che sapete dell’altra bambina. -Si. Risponde Franco in mio aiuto.
Le labbra si cuciono sulla mia bocca. Avvolgo il pancione tra le mani, in segno di protezione. Sento la stessa sensazione di impotenza provata quando mia madre ci portò in cantina, quel pomeriggio di fine estate, dopo le vacanze. Mio fratello ed io eravamo appena rientrati da un viaggio in Grecia, quello della maturità. Avevamo il futuro tra le mani e un mucchio di sogni in testa, nostra madre ce li ha tolti in una manciata di secondi, scolpendo nei nostri cuori le parole che hanno cambiato il corso delle nostre vite. De Carolis continua: Quando rimase incinta Lucrezia fu rinchiusa in una cantina, la stessa dove avvenivano gli abusi. Lì trascorse il tempo della gravidanza, nascosta fino a quando la bambina nacque di otto mesi. Lucrezia ha allattato quella creatura, l’ha cresciuta per i primi mesi nell’oscurità di quella cantina. Nessuno in paese doveva sapere. Diedero per scontato che non avrebbe sopravvissuto e invece la bambina resistette. Quando fu strappata a Lucrezia per essere affidata ai suoi zii, Lucrezia tentò di uccidere suo padre. Poi fu rinchiusa in manicomio. Il padre di Lucrezia, il poliziotto, affidò la bambina a sua sorella Elvira. I Di Giacinto, gli zii di Lucrezia hanno voluto in cambio un’ingente somma di denaro. Il poliziotto non aveva soldi, così fu mio padre a pagarli. Tutto sarebbe stato insabbiato e risolto. La bambina fu chiamata Raffaella. A tutti gli effetti, agli occhi della gente, fu figlia di Elvira e Claudio Di Giacinto. Quando Elvira morì, Claudio chiese ancora soldi a mio padre. Non gli bastavano quelli che si era messo da parte facendo morire di fame nel frattempo il resto della famiglia. Pare che avesse un giro di donne. In quel modo promiscuo sperperava i soldi dell’estorsione contraccambiando con il suo silenzio. Morta Elvira, Claudio se ne andò a vivere in Canada, probabilmente grazie ai soldi sporchi accumulati nel tempo.
D.C. Junior tira un sospiro e poi conclude: Quando finii il liceo, mio padre mi supplicò di scegliere il suo stesso percorso di studi universitari. Cercava il mio perdono. Mi spronò affinché potessi salvare quella parte di genere umano che aveva più bisogno d’aiuto, come i suoi pazienti. Fondai Villa Serena con la speranza di poter riscattare i suoi peccati facendo del bene. Quando morì e mi rese partecipe delle atrocità inflitte a quella bambina, presi Lucrezia con me. Non avrei mai potuto lasciarla libera, il mondo
là fuori l’avrebbe sbranata. Oramai il suo stato mentale era stato bombardato abbastanza per renderla una persona mentalmente inferma. Continuava a chiedermi della bambina. Non potevo dirle la verità. Anche il suo inconscio aveva rimosso gli abusi ma aveva tenuto in superficie il ricordo più bello, quello della sua piccola creatura. Le dissi che sarebbe stato impossibile ritrovarla. Anche se in realtà sapevo la storia e avrei potuto aiutarla. Ma a che scopo? Per infliggere altro dolore?
D.C. junior ha il viso affranto. Percepisco la sua sincerità. Poi penso a quella donna, Raffaella, ignara di essere frutto di uno stupro. E penso anche a me e a mio fratello: se mia madre non ci avesse detto nulla su nostro padre, avremmo vissuto con un dolore diverso, più accettabile. Curo malati terminali, guardo la morte in faccia ogni giorno della mia vita e ancora tremo al pensiero della morte di mio padre. Il padre di De Carolis scelse di dire la verità a suo figlio. Mia madre avrebbe potuto farci convivere con una bugia. Ormai il dolore era stemperato dal trascorrere del tempo. E invece mia madre aveva compiuto un atto coraggioso. Perché aveva voluto dirci la verità? De Carolis e Baffetto mi si avvicinano: -Tutto bene? -Crisì stai bene? Sei un po’ pallida. -Mi scusi Dottoressa Albani, questa vicenda non è adatta ad una donna nelle sue condizioni. -Non vi preoccupate, sto bene. Sono stata io a voler andare in fondo a questa storia. -Andiamo Cristì, ti porto a casa. -No Franco, scusami, ma rimane un dubbio. Come faceva Lucrezia ad avere la lettera di Raffaella tra le mani? -Purtroppo questo non lo so. So solo che Raffaella Di Giacinto si sposò con un ragazzo del paese e poi si separò trasferendosi a Milano.
-Lo sappiamo. Il destino ha voluto che Raffaella fuggisse da quel luogo, ignara di essere il frutto di un duplice abuso. Lo sa che Raffaella è morta proprio giorni fa? -No, non sapevo. Come? -E’ morta di leucemia, come sua madre Lucrezia. A quel punto De Carolis si mette le mani tra i capelli. -C’è qualcosa che non va? Chiediamo in coro Franco ed io. -Sapete in quale ospedale è morta? -Credo di si, Franco puoi chiedere tu al tuo amico? -Certo, basta una chiamata. -Perché? Chiedo io. -Forse so come è potuto succedere. -Cosa? -L’incontro tra loro due. -Cioè, come crede che abbiano potuto incontrarsi Lucrezia e Raffaella, madre e figlia? De Carolis procede sempre più avvilito: Lucrezia cominciò a sentirsi male, aveva spesso la febbre, quindi decisi di farla visitare da un amico privatamente. Facemmo tutte le analisi del caso. Il quadro clinico era chiaro. Una forma gravissima di leucemia. Decisi di portarla a Milano, presso uno degli Istituti più noti per lo studio della malattia. Lucrezia fu ricoverata per una settimana. Le presi una stanza singola. Intanto io dormivo in un albergo dietro l’istituto. Poi tornammo a Pescara e Lucrezia sparì. Quando ho letto il necrologio vi ho cercati. Mi rimase in testa un dubbio che solo ora riesco a trafugare. Quando eravamo in clinica a registrare Lucrezia, la segretaria ci diede da firmare dei fogli. Lucrezia era al mio fianco. Lessi Di
Giacinto al posto di Di Girolamo. Feci notare l’errore, così si scusò e aprì una nuova cartella col nome giusto. Lì per lì non feci alcun tipo di associazione. Sarebbe stato ardito sostenere o credere a quella coincidenza straordinaria. Ma adesso che ci ripenso…
-Quindi vuol dire che Raffaella era lì per lo stesso motivo di Lucrezia? A Milano, madre e figlia, entrambe malate di leucemia, legate dallo stesso destino? -Forse si. Risponde De Carolis. Franco mi fa cenno di alzarmi. Ci congediamo senza parlare. Ora che siamo giunti alla conclusione della storia di Lucrezia, sento una profonda amarezza in bocca. Mi assento col pensiero e cerco di immaginare la scena di quell’incontro. Lucrezia, al contrario di De Carolis, ha voluto credere in quella coincidenza. Come il filo di Arianna, per la svista di una segretaria, deve aver seguito quella traccia, ritrovato la figlia tenuta in grembo e poi perduta. Si saranno scrutate, Lucrezia deve averle svelato di essere sua madre. Raffaella, sul punto di andarsene, le avrà affidato la lettera che in realtà contava di consegnare personalmente a sua figlia Sara. Ma questa è solo una supposizione. Non sapremo mai cosa è successo. A questo punto non ci resta che contattare Sara e consegnarle ciò che le appartiene, la lettera di sua madre.
Capitolo 12
Don Chisciotte (F. Guccini)
Ugo Santini apre gli occhi, guarda subito se suo figlio sta bene. Per deformazione professionale si attiva subito, cerca di studiare l’accaduto in una manciata di secondi, intanto sgorga sangue dalle sue grandi narici. Il primo pensiero è per suo figlio. -Marco, Marco rispondi. -Pa. Sussurra Marco, mentre è intrappolato nell’abitacolo. In quel momento non ci sono più pregiudizi per Ugo, suo figlio Marco è in pericolo, deve aiutare il sangue del suo sangue, suo figlio, il suo Marco, la sua creatura. Quel ricordo tenero ed ancestrale lo fa sentire di nuovo un tutt’uno con lui, dimenticandosi della vergogna che prova per quel ragazzo venuto male. Cosa poteva essere successo? Il botto gli fa ancora tremare la testa. Cerca di estrarre Marco, poi una volta fuori dall’auto chiama l’ambulanza ed i colleghi. Marco riesce a tenersi in piedi, ha ferite sparse ovunque, ma sembrano leggere. Zoppica dalla gamba destra. Ugo e Marco Santini rivolgono lo sguardo verso l’accumulo di lamiere che si staglia davanti ai loro occhi. Marco si piega in due e rivolgendosi in avanti vomita. C’è tanfo di alcool. Poi con voce spezzata sibila la sua confessione come un condannato a morte: -Mi sono addormentato. L’ho ammazzati. Ugo si sente impotente. Chiunque fosse stato sulla Mercedes non sarebbe riconoscibile. Ugo deve trovare una soluzione, deve riappropriarsi della sua lucidità. A breve si sarebbe ritrovato dall’altro lato, avrebbe dovuto giustificare quell’incidente mortale con i colleghi. Marco frigna, Ugo si innervosisce.
-Marco allontanati, vattene, vai a sederti lì. Indicandogli un punto lontano dalla scena dell’orrore. Ugo pensa, ha poco tempo, deve riflettere su come uscire da quella situazione. La sua carriera sarebbe stata sotto processo, deve difendere in primis se stesso e di conseguenza la sua famiglia. Moralmente sa che non è giusto, ma il destino aveva deciso: lui e suo figlio erano i sopravvissuti. Si avvicina ai resti dell’altra automobile spezzata, calandosi nel suo ruolo. Ugo ora è distaccato, il suo lavoro gli impone di essere analitico. Niente emozioni. Intuisce che si tratta di giovani forse dell’età del figlio. Vede una scarpa da ginnastica insanguinata. Si sente il rumore delle volanti e dei soccorsi in arrivo. All’altezza dell’uscita di Ancona, arrivano due volanti della polizia autostradale e svariate ambulanze, oltre alla carcassa di ciò che rimane di una Mercedes. Il guardrail è piegato in due. L’agente Marco Barbagallo guarda il collega, si accende un sigaro, il solito rituale quando la scena è tragica e anche questa volta lo è. L’agente collega Alfio De Nardis annuisce. Poi entrambi rivolgono lo sguardo verso il collega Ugo Santini. Con stupore lo osservano. Ugo Santini sa cosa deve fare. Come un leone inferocito si avvicina ai colleghi inveendo contro le giovani e mute carcasse che giacciono a pochi metri da loro. -Colleghi guardate che hanno combinato. Ero con mio figlio in macchina, stavo guidando quando ad un certo punto mi sono ritrovato la Mercedes alle costole. I due agenti lo guardano con aria di approvazione e solidarietà. Allora Santini aumenta la dose di aggressività. -Ragazzini come al solito che andranno a farsi nelle discoteche, ho pensato. Ma non ho fatto in tempo a pensare che mi sono venuti addosso e poi si sono ribaltati due volte fino ad ammazzarsi con le loro mani. Sanguina ancora dal naso Ugo Santini. -Tieni collega. Porge un fazzoletto l’agente Barbagallo, marchigiano d’adozione, ma siciliano d’origine e soprattutto di spirito. Poi lecca il bordo del sigaro e risponde al collega con molta calma e con accento fortemente mediterraneo. -Questi ragazzi perché sono giovani pensano di essere immortali. Bevono, si drogano, vanno veloce e poi le famiglie piangono. Sospira e conclude:
-Meno male che non c’ho figli io, un problema in meno. L’agente De Nardis invece pensa ai suoi, Angelica di 8 e Pietro di 12 anni, si chiede cosa staranno facendo ma poi si rincuora dell’età ancora precoce che li tiene lontani da questi pericoli. Ci penserà più avanti su come prevenire, ora vuole solo tornare a casa e riposare, perché il ferragosto l’aveva trascorso a bere con gli amici del bar sotto casa fino alle quattro del mattino. Sbadiglia. Sembra filare tutto liscio per Ugo Santini quando ad un certo punto De Nardis osserva il tratto di strada dietro di sé e poi commenta a voce alta: -Mah! Esclama guardando la traiettoria dell’auto. -Non ci sono segni di frenata, strano. Ugo Santini sa che la mancanza di tracce di frenata negli incidenti autostradali indica spesso il colpo di sonno. Ogni tamponamento prevede una frenata. In questo caso in effetti non si vede nulla sull’asfalto. Da come sono posizionate le due auto sembra che la Mercedes fosse davanti alla Golf. Allora distrae i colleghi porgendogli una busta: -L’ho trovata là in mezzo. Con aria di disprezzo gliela porge ai colleghi. -Caspita, questo cambia tutto. Altro che frenate o dinamica dell’incidente. Questa è tanta roba. Da giro del narcotraffico. Poi aggiunge: -Mi spiace collega. Ma quella è la Golf nuova di cui ci hai parlato? Il regalo dei diciotto anni di tuo figlio? Chiede Barbagallo. -Si, nuova di zecca. Bel regalo per mio figlio, poraccio che si ritrova con la macchina distrutta, guarda com’è ridotta. -Vabbeh, dai collè, non te la prende, pensa alle famiglie. Sono vittime anche loro. Fai fare all’assicurazione. Ugo Santini annuisce come se stesse facendo uno strappo alla regola. Doveva recitare quella parte. Non c’era modo di tornare più indietro. La verità avrebbe rovinato per sempre la sua vita. Non c’era altra scelta. I due agenti Barbagallo e
De Nardis espletano le solite burocratiche formalità del caso, ormai sono certi che le cause dell’incidente siano dovute agli effetti della droga e probabilmente anche dell’alcool. Ora bisogna avvisare le famiglie, quindi dalla targa viene fatta subito una verifica per identificare almeno una carcassa che giace in strada. Nel frattempo raccolgono un portafogli, un’identità viene individuata a nome di Giuseppe Barzò. Si capisce dalla foto che è uno zingaro. Questo dettaglio rincuora ancora di più Ugo Santini.
Capitolo 13
Everybody’s Got To Learn Sometime (Zucchero)
Lidia è la responsabile del progetto Onlus di Siem Reap. Una donna di cinquant’anni, che vive da trent’anni in Indocina. E’ approdata in Cambogia quando ha conosciuto l’uomo che diventò suo marito, l’archeologo se esperto delle antiche civiltà che popolavano Angkor. Una donnona proveniente dalle campagne venete, che dopo la laurea alla Cà Foscari, decise di trascorrere un anno sabbatico all’estero, prima di tornare a casa e cominciare a lavorare nell’azienda di famiglia. Ma Lidia a casa non ci tornò più. Gli stranieri che vivono a Siem Reap si conoscono tutti prima o poi. In terra straniera le razze si cercano, fanno ghetto e si adoperano per un fine comune secondo gli schemi della propria cultura. Esiste solo una strada principale asfaltata, lungo la quale si stagliano le viette sterrate con baraccopoli e ristorantini improvvisati fatti da panche, tavoli in legno e verande in paglia. Lo street food con i suoi aromi speziati si mischiano al caldo torrido e all’umidità delle piogge monsoniche. Lidia è assieme a due ragazze locali, seduta su una sedia in plastica presso una delle baracche sistemate lungo una stradina sabbiosa. E’ sera, l’atmosfera sembra più invitante che di giorno, il buio nasconde la sporcizia. Sta dando loro alcune indicazioni relative all’orfanotrofio dove lavorano. Alex la incrocia e la saluta. Lei lo invita a sedersi con loro. -Sono contenta della ripresa dei lavori del ponte. La tua determinazione è stata efficace. Esordisce lei con accento veneto. -Khob Kun(Grazie)- risponde lui. Poi le chiede: -Come mai non sei venuta alla festa? -Stavo venendo sai, quando purtroppo mi hanno chiamato le ragazze in lacrime. E’ andata a fuoco la casa di una famiglia sai, non lontano da noi. Deve essere
scoppiata la solita bombola del gas. Tutti morti tranne un bimbo a cui hanno amputato una gamba, è andato in cancrena. Si è salvato grazie ai medici di Battambang. -Bisogna fare qualcosa, dobbiamo andare presso le famiglie e sensibilizzarli sull’uso delle bombole. Afferma lui con tono imperativo. -Lo so, infatti volevo parlarti proprio di questo. Ora che sei più libero…Se puoi darmi una mano…Accenna lei. -Certo, risponde Alex. Devo solo trovare una sistemazione. -Vieni da noi in orfanotrofio, potresti prendere il posto di mia sorella, è dovuta tornare in Italia giorni fa e non so se rientrerà prima della fine dell’anno. Alex saluta la famiglia vietnamita. L’intera comunità ricambia con affetto porgendogli delle buste piene di riso. Lui promette di tornare presto a trovarli, il lago dista poche ore dal centro di Siem Reap. Alex e Lidia cominciano il loro programma di sensibilizzazione. Per raccogliere le offerte, invitano i turisti a visitare l’orfanotrofio e prendere contatto con la comunità locale. I bambini aumentano, i letti cominciano a scarseggiare. Sono sempre di più le famiglie cambogiane che vivono in situazioni sotto la soglia della sopravvivenza. Parte una nuova campagna, Alex e Lidia parlano rispettivamente con gli uomini e le donne di famiglia spiegando l’importanza dell’uso del preservativo. Erano riusciti a farseli inviare dagli sponsor italiani. Mentre i tour turistici incrementano con visite e offerte per la comunità, Lidia e Alex sono costretti ad effettuare un tour straziante: devono selezionare i bambini che possono accogliere in orfanotrofio. E’ un girone infernale: come si può scegliere tra le giovani vittime di abusi sessuali, quelle al limite della sopravvivenza, i malati di Aids, gli orfaenelli…Non avrebbero bisogno tutti di aiuto allo stesso modo? Non c’è più posto in orfanotrofio. Alex e Lidia sono obbligati a compiere una selezione brutale. I bambini stessi sono genitori di altrettanti bambini che portano in grembo creature appena venute al mondo, nati sotto una stella povera e buia, chiedono elemosina ai tanti turisti in vacanza. Lidia, Alex e altri volontari stagionali tentano di sensibilizzare gli stranieri in arrivo, chiedendo loro di donare un sorriso al posto di un dollaro. Una turista è seduta a chiacchierare con i volontari, in una delle tante baracche lungo la strada e ascolta interessata i discorsi sui loro
ambiziosi progetti di sviluppo delle comunità locali. Appena i bambini vedono una faccia forestiera si accalcano e chiedono soldi. Il gingle del ‘One dollar’ è estenuante, un disco rotto che non si ferma mai. La turista desiste. I volontari la esortano a resistere a quelle strazianti richieste di aiuto. I bambini ora la accerchiano. Lei vede una bimba con in braccio un neonato, hanno entrambi le labbra secche. Hanno sete. Hanno fame. La turista si alza, cammina a o veloce e va verso un minimarket, compra del latte. Ad un tratto il proprietario del negozietto chiude a chiave la porta. Lei si volta e non può credere a ciò che vedono i suoi occhi: centinaia di bambini ammassati contro i vetri del negozio che la implorano con espressione agognante.
Siem Reap – saccheggiati tutti i centri Onlus tra cui due uffici di micro credito e l’orfanotrofio. E’ notte fonda. Siem Reap non dorme mai. C’è sempre un cane randagio che ulula e qualche vagabondo che barcolla. Alex si è addormentato sulle parole crude di Guttierez, Animal Tropical. Sogna il malecon e il rhum cubano. Lidia e il marito riposano abbracciati come due fidanzatini appena conosciuti. Un gruppo di cambogiani d’origine vietnamita avanza camminando con o deciso verso i tre obiettivi della rapina. Se non indossassero stracci e coltelli arrotolati ai loro brandelli di vestiti sfilacciati, verrebbe da pensare che siano dei soldati. Sono undici, protagonisti per una notte, di una guerra tra poveri. Sono i padri, i fratelli, i figli, i nipoti, delle famiglie escluse dall’intervento straniero. Il volontariato era un’invasione di campo? Un’arrogante selezione artificiale? Questi sono gli argomenti di Alex, Lidia e i ragazzi delle Ong durante la riunione del post saccheggio. Non importava che avessero rubato loro cellulari e computer, o le provviste del mese raccolte con i fondi e le offerte, o annientato a colpi di coltello e macete le strutture in paglia dell’orfanotrofio. Quel gesto vandalico racchiudeva un messaggio ben più feroce. Alex è dubbioso, con le mani che trastullano la chioma disordinata si rivolge al resto del gruppo: -E’ giusto creare nuove opportunità di vita e di lavoro per questa gente? Un gruppo di giovani volontari stagionali annuisce amareggiato. Riflettono in silenzio sulle proprie scelte. Le loro coscienze si pongono nuove domande.
Alex continua: -Siamo degli invasori? Se lo avessero fatto a casa nostra? -Ma qui non si tratta di imposizione, si tratta di creare delle opportunità, nuovi modelli… Dice un ragazzo romano alla seconda stagione presso l’ufficio microfinanza di Siem Reap. -Si ma il punto è…Creiamo opportunità ma poi ci sono le condizioni per far vivere meglio questa gente? Risponde Alex. Un’altra ragazza interviene: -Non è più una selezione naturale ma una selezione coercitiva…In certe condizioni alcuni bambini non sarebbero sopravvissuti se non ci fosse stato l’orfanotrofio. Ma questi bambini quanto vivranno ancora? Come si manterranno? Un altro ribatte: -Esatto, allora noi stiamo solo allungando di poco le loro vite, anzi stiamo rimandando la loro morte annunciata? Le voci si accavallano, i volontari finiscono per frammentarsi in sotto gruppi di discussione. Lidia riprende in mano la situazione e chiude una volta per tutte il dibattito esistenziale. Preferisce basarsi sui fatti e sugli esempi concreti. I suoi toni sono duri, ma il suo ruolo le impone di essere ferma sulla sua ideologia. Lei quei dubbi li aveva avuti per anni. Alza la voce per attirare l’attenzione e afferma con risolutezza: -Ragazzi, ragazzi, fermatevi. Tutto ciò che stiamo facendo ha un senso. Guardate i nostri amici di Emergency cos’hanno creato qui a Battambang. Quell’ospedale adesso è gestito soltanto dal personale locale grazie agli insegnamenti sul campo di medici stranieri. Ogni uomo ha il sacrosanto diritto di sopravvivere. Non abbiamo l’arroganza di poter salvare tutti, ma non dobbiamo nemmeno avere l’egoismo di lasciarne morire una parte. In quell’esatto momento Alex capisce qual è la sua vera missione. Come aveva
fatto ad essere così cieco fino a quel momento? Quella ragazzina era come una figlia per lui e l’aveva lasciata nelle mani di un barbaro, tra gli estranei. Come aveva potuto essere così egoista? Se ne stava lì con la pretesa di salvare le vite altrui quando avrebbe potuto salvarne una, quella di Sara e forse anche la sua stessa vita, stando assieme a lei, ricomponendo la loro famiglia anche se mozzata. Alex sente un forte senso di colpa che gli contorce lo stomaco. Vorrebbe cancellare i suoi errori e rinascere per ricominciare. Chiude gli occhi. Si rivede bambino. Poi trova sempre davanti a sé due figure portanti, le colonne della sua vita: Raffaella e Sara. Adesso è tutto chiaro. E’ ora di smettere di fuggire. Alex è pronto per andare a prendere Sara e portarla via con sé.
Capitolo 14
La collina dei ciliegi (L. Battisti)
Sono a letto, dopo una cena a base di tagliatelle e funghi, mi sento particolarmente pesante. Mi chiedo quando arriverà il momento fatidico. Non riesco a dormire. Mi rialzo e vado verso la mia amata poltrona. L’adrenalina non si è ancora quietata. Sembro assetata di verità, come se la storia di Lucrezia, Raffaella, Sara, non mi fosse bastata. Ripenso alle parole della sorella di baffetto. Quando accadevano le tragedie a Pescara, i giornali locali si sbranavano per raccontarle. La sorella di Franco mi ha parlato di una compagna, un figlio, sicuramente doveva essere accaduto qualcosa di terribile. Chiamo una vecchia conoscenza del Centro e faccio il nome di Baffetto. Lo conoscono tutti, basta chiedere. Appena mi accennano dell’accaduto, rimango scioccata e allo stesso tempo mi sento una ladra. Fino ad ora non ho fatto altro che entrare segretamente nella vita di queste persone: Lucrezia, Raffaella, Sara e ora anche il povero baffetto. Sono un’intrusa, che si piazza nella vita altrui abusivamente. Forse avrei dovuto pensare di più alla mia. Sono stata talmente egoista che non ho voluto condividere il mio dolore nemmeno con mia madre. Anche lei e mio fratello hanno sofferto quanto me. Avrei dovuto ricordare mio padre per la gioia che ci ha donato. E basta. Basta con i rancori, basta con le punizioni. Mi assopisco in poltrona con un gran senso di irrequietezza. Scocca il gong dall’orologio in sala, ha un suono diverso, lo sento che rimbomba nella mia pancia. E’ mezzanotte. Avverto uno stimolo, vado verso il bagno. Mi accovaccio sul water. Sento dell’acqua colare tra le gambe come un rubinetto aperto. Mi si sono rotte le acque. Sono terrorizzata. Mi tremano le gambe. Ho i brividi. Non riesco a contenere quel liquido che scorre incessantemente. Chiamo Franco. Appena sente la mia voce mi risponde: -Arrivo! Non credo di avere ancora le contrazioni. Non sento dolore. Ho un asciugamano
nei pantaloni. Tampono per quel che posso. Arrivati al pronto soccorso Franco si fa dare una sedia a rotelle. Mi portano in ostetricia. Da lì comincia l’attesa delle contrazioni. ano due ore. Arrivano. Respiro, sento contorcermi. Mi tengono monitorata. Chiedo ad una ostetrica se quel dolore così forte sarebbe rimasto costante anche al momento di andare in sala parto. Non mi risponde. Intuisco il significato di quel silenzio. Me ne devo fare una ragione ma non riesco proprio a immaginarmi una sofferenza più intensa. Sono quasi le sette del mattino. L’intensità giunge all’apice, penso. Mi portano in sala parto. Mi chiedono se c’è qualcuno che voglia stare lì con me. Intravedo Franco in sala d’attesa. Sto camminando piegata a metà, aggrappata all’infermiera. Baffetto mi osserva dolorante. Si avvicina. Ci lasciano soli in sala parto. E’ un luogo di pace, con luci soffuse, i muri color pesca. Mi metto sul lettino in posizione ginecologica. Dopo un po’ di spinte, chiedo l’epidurale. Arrivano le ostetriche, a il ginecologo, ed infine gli anestesisti. I miei angeli custodi. Poi giunge la pace dei sensi. Ci lasciano di nuovo soli. C’è una finestrella da cui si intravede il mare. Devo spingere quando Franco mi avverte, lui guarda il monitor. Dopo dieci ore che siamo lì ha imparato quali sono i picchi delle contrazioni. Io non sento nulla. Sono felice e beata. Mi va di chiacchierare del più e del meno con lui. Racconto all’ostetrica che non so se è maschio o femmina. Cominciano le scommesse. Poi sento che l’effetto dell’anestesia sta ando. Chiedo ai miei angeli un rabbocchino di anestesia, mi viene negato. E’ arrivato il momento dell’espulsione. Tutta un’altra sensazione rispetto alle contrazioni. Un lavoro animalesco. Sono sfinita. Se ne accorgono anche i medici in sala. Digrigno i denti. Sospiro. Sudo. Sono fradicia, insanguinata. Franco mi stringe la mano e mi esorta all’ultimo sforzo. Io non gli credo più, sono trascorse altre due ore. Sono le due del pomeriggio. Franco mi prende la mano ed esulta. -E’ la testa. A quel punto spingo con tutta la forza rimanente che ho. Sento sgusciare via un corpo compatto. Sento il grido della vita, della vita nuova. La mia e la sua. -E’ una femmina! Esulta l’ostetrica. -Lo sapevo! Sussurro io, esausta. Me la porgono sul petto. Siamo entrambe spaesate. Poi guardo Franco, ha le
mani che gli coprono il viso, si asciuga le lacrime di gioia. Piango anch’io. E’ un momento di sospensione, mai provato prima, indescrivibile. I medici mi riportano alla lucidità, interrompendo quel breve stato di grazia, chiedendomi: -Come si chiama questa bella bambina? Franco ed io ci guardiamo. Poi mi volto verso di loro e rispondo senza esitare.
Un anno dopo
La piccola Lucrezia cresce a vista d’occhio. Inizia a balbettare qualche parola. Secondo me dice ‘Ma’, secondo Franco, ‘Pa’. Franco si è trasferito da noi. Mi dà una mano su tutto. E’ affezionato a quella bimba come se fosse davvero sua. Ma in fondo lo è e lo sarà se continueremo a frequentarci così assiduamente. Dopo la nascita di Lucrezia, Franco ed io ci siamo raccontati le nostre verità. Senza saperlo siamo stati legati da una tragedia comune. Mio padre s’era impiccato, la sua compagna si era gettata dalla finestra col figlio di appena pochi mesi di vita. Quello che sappiamo ora, Franco ed io, è che sorridiamo tutto il giorno, perché la nostra piccolina ride e noi rispondiamo con entusiasmo. Lei ride, e noi sorridiamo. Dicono che in realtà è il contrario, noi sorridiamo e i bambini fanno altrettanto per imitazione. Una cosa è certa, ci gongoliamo in questo effetto contagioso. Mi sento come se fino ad allora avessi vissuto col freno a mano tirato. Adesso invece ho spalancato le porte all’imprevedibilità della vita, accogliendo gioie e dolori con estrema elasticità. Oggi è il mio compleanno. Franco mi ha portato un mazzo di tulipani gialli, sostiene che io sia sempre gelosa. Si vanta delle sue fans all’anagrafe. E’ entrato in camera da letto trionfante, come un cavaliere, vestito elegante, mentre io sono in pigiama e gioco con la piccola Lucrezia che ci fa le smorfie. Mi consegna una busta, la apro e rimango senza parole. Un viaggio a New York! -Ma sei pazzo? E la bambina? -Viene con noi, ovvio.
-Perché NY? -Aspe’ tieni anche questa. Mi consegna un pacchetto. Scarto velocemente. C’è un libro. L’autore, anzi l’autrice è Sara, il titolo è Compromessi di famiglia. Guardo Franco: -E’ Sara, Sara? Lui annuisce. Prima che partorissi avevamo provato a chiamare ripetutamente il numero di Raffaella Di Giacinto a Milano ma senza successo. Pensammo che dopo la morte di Raffaella, Sara si fosse trasferita da qualche altra parte. Poi è nata la piccola Lucrezia e tutte le attenzioni le abbiamo rivolte a lei. I primi mesi sono stati molto impegnativi. Ho fatto fatica ad allattarla, ero sempre nervosa. Non so se ce l’avrei fatta senza Franco. Mia madre è venuta a Pescara, l’ho sistemata in hotel come avevo predisposto, ma anche in questo caso Franco è riuscito a darmi una mano, sapeva gestirla, anche se in fondo mi faceva piacere averla tra i piedi. Per la prima volta, quando si stava tutti assieme, a modo nostro, ho sentito che eravamo una famiglia. Avevo smesso di addossarle la colpa della morte di mio padre, perché anche lei, come noi, non era altro che una vittima. Apro il libro e trovo una dedica: La verità è sempre rivoluzionaria. Con affetto, Sara. Poi leggo la quarta di copertina, prima di assaporare il resto del romanzo: Per Sara e Mattia quella notte non è mai finita. Non tornarono in macchina con Beppe e Antonello. Mattia scelse Sara. La rincorse e la portò in spiaggia. I due adolescenti rimasero abbracciati sulla riva del mare, si misero a guardare il sole che si alzava all’orizzonte, carichi di speranze, proiettati verso il futuro. Ma quella notte apparentemente infinita si era portata via una volta per tutte la loro innocenza. Erano scampati alla tragedia…Un nuovo giorno avrebbe dato luce alle loro nuove esistenze. Guardo Franco:
-Come al solito mi hai stupito. L’hai trovata? -Si. Dopo che le ho consegnato la lettera di sua madre… Poi leggo la nota sull’autrice: Sara Rattazzi è nata a Pescara, studia e vive a New York. Questo è il suo romanzo d’esordio. Prima di partire per andare a conoscere di persona la giovane scrittrice, mi alzo e mi dirigo verso la mia amata poltrona, nel frattempo penso che un giorno anch’io racconterò a mia figlia la mia verità. Mi siedo e sprofondo nella lettura. Il romanzo comincia con una citazione, è il finale della favola del gambero: Un giovane gambero pensò: - Perché nelle mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco…Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: - Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua, piuttosto che rivolgermi la parola: Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio. Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava:-Ho ragione io.-E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino. Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: - Buon viaggio!