Chiara Michelon
Buon pranzo buona domenica
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Indice dei contenuti
Buon pranzo, buona domenica Introduzione Luca Karim Amid, ovvero Prince Livia Il signore gentile I servizi del Centro di solidarietà della Caritas Il Centro di prima accoglienza Il Centro di seconda accoglienza Il Centro di ascolto L’ambulatorio medico L’avvocato di strada L’armadio del povero La mensa della domenica La cucina del Centro di solidarietà I pacchi viveri Casa San Benedetto
Casa Stella Bottega del signor N(essuno)
Buon pranzo, buona domenica
di Chiara Michelon
Navigammo su fragili vascelli per affrontar del mondo la burrasca ed avevamo gli occhi troppo belli: che la pietà non vi rimanga in tasca. (Fabrizio De André, Corale , 1968)
Introduzione
Questo libro prova a raccontare un pranzo speciale, alla cui tavola si siedono persone emarginate e sole, alla ricerca di calore, di cibo e un po’ di compagnia. Viene chiamato in vari modi – è “il pranzo della domenica” per i volontari, oppure “il pranzo dei poveri”, “la mensa della domenica”, “la mensa del povero” – e nasce circa quindici anni fa, da un’idea della Caritas di Senigallia. La domenica è un giorno particolare per tutti i centri di accoglienza, anche per il Centro di solidarietà Palazzolo: di domenica non vengono erogati i servizi quotidiani, cioè la possibilità di fare una doccia, il pernottamento, il pacco viveri, e via così. Per questo motivo, e per coinvolgere un maggior numero di volontari, fondamentale per mantenere in vita il lavoro quotidiano del Centro, nel 1999 si aprì alle parrocchie l’opportunità di entrare a contatto con l’esperienza di un pranzo comunitario. I volontari, coordinati da un referente, garantiscono la loro presenza nel calendario annuale e nei turni di ogni domenica o festività al pranzo della domenica, che dà ospitalità e cibo a un ampio numero di utenti. Dalla fine del 2013 il Ministero ha consegnato alla Caritas un registro, nel quale gli ospiti e i volontari devono registrarsi, per attestare la quantità di persone coinvolte e consentire al Fondo nazionale per il volontariato di stabilire una quota di finanziamento adatta.
Il pranzo rappresenta uno dei tanti risvolti esemplari della comunità della carità, da cui il nome dell’organismo, appunto, che si impegna per dare ascolto e aiuto alle persone che ne hanno bisogno, poveri di denaro, poveri di beni, poveri di amore, deboli, esclusi, emarginati, rinnegati dalla società. Sulla strada oggi si possono incontrare i più tradizionali marginali, cioè persone malate con una cronicità, tossicodipendenti, alcolisti, diseredati e persone psicologicamente instabili, cioè coloro che un tempo venivano riuniti sotto l’egida del “sottoproletariato urbano”, ma anche persone che appaiono integrate nella
società, insospettabili, uomini, soprattutto, e donne, che fanno parte di una normalità che vacilla e non sa tenere il o con la velocità spietata del mondo moderno e delle sue feroci selezioni che decretano vincitori e sconfitti. Dietro all’apparente semplicità del gesto, quello di un pranzo preparato e servito con generosità di spirito, si cela un affresco variegato sul quale si stagliano le figure fondamentali alla riuscita della giornata. Sono loro, sono gli ospiti, insieme ai volontari, che danno a questo pranzo un senso profondo ed emozionante, loro che sedendosi uno accanto all’altro alla tavola dei “poveri” regalano, a chi sa ascoltarla, una ricchezza rara.
Luca
“Babbo, dove vai?” “Esco, ma ti prometto che torno presto. Alle tre sono qui e giochiamo a calcio insieme tutto il pomeriggio!” Nicola ha quattro anni e sta in pigiama sul tappeto del salone. Si è svegliato da poco, ha bevuto una tazza di latte con i cereali e non ha fatto altro che giocare con le costruzioni. “Sì, sì, sì! Ma dove vai adesso?” “Al pranzo speciale.” “E la mamma?” “La mamma sta qui con te, che domande!” “Ciao babbo.” “Ciao, piccolo. Tesoro… io vado. Sei riuscita per caso a fare la torta?” Mi risponde dal bagno, la voce è bassa: “Certo, sul tavolo della cucina. Buon pranzo!” Mi dirigo in cucina. Sul tavolo c’è una grande busta di carta. Nell’aria sento un profumo irresistibile di dolce appena sfornato. Dentro alla busta, posizionati con cura tutta femminile, due involucri ricoperti di carta stagnola. Non resisto alla curiosità e sbircio all’interno: due crostate di marmellata, quella di fragole che fa la nonna. Accanto alla busta, sul tavolo, un biglietto: non vorrai mica farli restare con la voglia? Che angelo, penso.
Esco di casa, l’aria è frizzante ma c’è un sole che invita a starsene fuori. Quando
torno porto Nicola a giocare a pallone al mare, invece che al campetto, penso. Salgo in macchina, adagio la busta seduta al mio fianco e mi viene l’acquolina in bocca. Per fortuna le torte sono due, durante l’ultimo pranzo non abbiamo potuto offrire neanche un assaggio di dolce. La mamma di Silvia ne aveva preparata una con la cioccolata, deliziosa ma piccolina. Avremmo dovuto sperare che qualcuno non volesse la sua parte, ma mica siamo scemi. Così l’abbiamo lasciata in cucina, per gli ospiti della sera. Silvia ci era rimasta un po’ male. Parcheggio vicino all’edicola. Nei giardini davanti alla Caritas vedo già qualche ospite che si aggira tra le panchine. Quando c’è il sole molti si avvicinano alla mensa qualche ora prima, si siedono sulle panche, si guardano attorno. Chiacchierano tra loro, chissà cosa si dicono. Ci penso sempre. Ma cosa si diranno? Si conoscevano, prima d’ora?
Suono il camlo e corro in cucina. Accidenti, oggi sono in ritardo di un quarto d’ora. “Scusate il ritardo!” “Ma dai, Luca. Tu sei sempre in ritardo!” “Però mi faccio perdonare subito: ho due torte ancora calde.” “Grande, Luca! Anzi… grande la santa donna che ti ha sposato! Metti il grembiule che c’è un sacco da fare stamattina.” Mi allaccio il grembiule e comincio. Oggi il ritmo lo dà Livia. È un pilastro della Caritas, lei. Fa la volontaria da almeno quindici anni e quando c’è lei in cucina sai che tutto andrà nel migliore dei modi. Mai un inghippo, mai un ritardo. Cotture impeccabili e piatti da leccarsi i baffi. “Forza, inizia a tagliare le cipolle. Oggi c’è il sugo di tonno. Ci facciamo le penne, che dite? Quelle piacciono sempre.” Inizio a sbucciare e affettare. Non c’è nessuno con le mani in mano, la prima ora siamo tutti così concentrati che quasi non ci parliamo. Certo, avrei preferito pelare le patate, invece che le cipolle. Sto piangendo come un disperato. Gli altri mi guardano e ridono.
“È la punizione per il ritardo.” “Ma non bastavano i dolci? La prossima volta mi porto gli occhiali da sole.” Dopo un’ora tutto il pranzo è imbastito, tranne il pollo che è ancora in fase di divisione. Chissà cosa si mangia a casa, penso. “Luca, condisci tu il pollo? Erbe aromatiche, aglio, poco sale e pochissimo olio. Lascialo insaporire per bene, che dev’essere buono.” “Obbedisco comandante!” e abbraccio forte Livia. Lei ride e si schernisce. “Come sei bella oggi, Livia!” “Guarda che sono vecchia per te.” “Be’, sei bella lo stesso!” Silvana ed Elisa sono tutte intente a lavare l’insalata. Oggi siamo in pochi, sei me compreso. Abbiamo fatto molto di meglio. A volte a fare il turno della domenica siamo stati in dieci, allora era tutto più rilassato! Oggi dobbiamo muoverci, poche chiacchiere, il tempo stringe. Noi uomini ci mettiamo ad apparecchiare. “Per quanti? Come al solito?” “Sì, fai per sessanta. Vedrai che non restano tanti posti liberi.” Sessanta coperti. Sessanta bicchieri di plastica, sessanta salviette di carta. Una caraffa di acqua per ogni tavolo. “Che sia bella fresca, ragazzi,” dice Livia, che ancora sta tagliando i polli a tocchetti. E poi forchette e coltelli, un po’ di alluminio un po’ di plastica. Le sedie, le panche, controlliamo che sia tutto pulito. Ci siamo. Le tavole sono pronte.
Butto uno sguardo fuori dalla finestra. Gli ospiti si avvicinano al cancello. È ancora presto ma sperano sempre che per qualche distrazione il cancello apra prima delle 12.30. Sono proprio tanti. Abbiamo fatto bene ad apparecchiare per sessanta. Riconosco tra di loro, appoggiato alla sua bicicletta sgangherata e
sovraccarica di cose, il signore che sta sempre ai giardini della Rocca, quel barbone che quando gli o davanti mi fa sempre un sorriso disarmante. Ha i denti neri e in ordine sparso. Lo vedo quasi sempre ridere, penso sia una persona felice, forse è solo fatalista, forse non c’è proprio con la testa, ma quest’ultima ipotesi non combacia con i suoi atteggiamenti. Quando si siede a mangiare alla mensa non parla con nessuno. Un po’ puzza, ha quell’odore che io chiamo “l’odore dell’ospite”, un misto inconfondibile di aglio, urina, panni asciugati male, solitudine e amarezza. Molti per questo motivo lo allontanano, soprattutto a pranzo. Allora lui, che non è scemo per niente, ha escogitato la sua tattica: appena aprono il cancello cerca di entrare per primo e si mette a sedere all’angolo della tavolata a forma di U. Quel suo posto, a capotavola, non ha vicini di posto. Geniale. Fino a qualche anno fa gli ospiti della domenica erano al massimo una trentina. L’atmosfera era diversa, li conoscevi praticamente tutti. Qualcuno si fermava a lungo dopo il pranzo, si facevano due parole, ti chiedevano i soliti soldi, avevano voglia di raccontare qualcosa della loro giornata in strada. Ora scappano con la frutta in mano. Aspettano un po’ dopo il bis del secondo, per capire se dalla cucina non uscirà più nulla, e poi se ne vanno. Le relazioni umane sono state ammazzate dalla crisi. Nei loro occhi la cattiveria è più netta, non ringraziano. Non hanno più voglia di parlare.
Tornato in cucina do uno sguardo agli altri volontari. Di solito li vedo in parrocchia, seduti ad ascoltare la messa. La domenica siamo vicini ma ognuno è preso dalla sua vita. Quando siamo qua dentro, in questa cucina che inizia a diventare rovente, siamo una squadra. Ci sentiamo forti. E pieni di energia. Tutti sono concentrati su quello che stanno facendo. Li osservo e penso che non abbiamo niente da invidiare ai concorrenti di Masterchef , abbiamo un’organizzazione da ristorante. Ma quello che stiamo facendo noi è oltre, questo pranzo è oltre. Noi cuciniamo per le persone, non per una giuria, e nessuno oserebbe buttare cose commestibili nel cestino. Mi metto a pulire un po’ il lavello e il piano di lavoro, poi porto fuori il sacco dell’organico pieno. Tutto quello che riusciamo a fare prima dell’ora del pranzo è tempo risparmiato dopo. Carichiamo la prima lavastoviglie. La cucina si sta scaldando. In estate fa un caldo infernale , ma io sono fortunato perché non soffro il caldo. I forni sono a regime, il pollo inizia a regalarci un profumino
niente male. “Chi serve in sala oggi?” “Io lo faccio volentieri. Magari Giovanni mi aiuta a scodellare il primo.” “Bene. Tu, Elisa, che sei nuova, potresti far firmare il registro. Devono scrivere nome e cognome e poi firmare. Se non sanno scrivere aiutali tu, se non sanno firmare faranno un segno. Lascia il registro in tavola e fallo girare. Da lontano controlla che tutti lo firmino, anche quelli che arrivano in ritardo. È molto importante per la Caritas.” A me non piace granché far firmare il registro. C’è sempre qualche ospite che non vuole firmare e allora devi insistere. Quasi tutti sanno che è una formalità, ma qualcuno ha paura che implichi qualcosa, tipo che il giorno dopo non potrà accedere alla doccia. Bisogna spiegare ogni volta ai nuovi ospiti che il registro serve alla Caritas per verificare la presenza al pranzo della domenica e ottenere dei finanziamenti dal Fondo nazionale del volontariato. Quei soldi sono fondamentali per tirare avanti.
driiiiiiin.
Ci siamo. Gli ospiti entrano. Sono molto pimpanti oggi, questo sole mette allegria, si sente un vociferare squillante che si avvicina dal portone d’ingresso verso la sala. Io sono qui che li aspetto, fuori dalla porta della cucina. Li saluto con un sorriso, una mano alzata. Buongiorno a tutti, ciao, ciao. Qualcuno scherza, l’amico senzatetto si siede nel suo posto privilegiato. Mi fa tenerezza. Come ogni volta c’è una cosa che mi colpisce dritto dritto al cuore. Forse perché sono un avvocato civilista, forse perché i miei clienti sono quasi tutti uomini, tristi e inariditi dalla perdita, forse semplicemente perché sono uomo e inevitabilmente mi immedesimo negli uomini che vedo… noto che buona parte degli ospiti è composta da maschi italiani. Non voglio fare statistiche, a quelle ci pensano i sondaggi. Io vedo che in questa tavolata ci sono occhi che riconosco, occhi tristi e depauperati, occhi di chi un tempo aveva una vita soddisfacente e che oggi si trova qui, travolto dalla solitudine, a mangiare insieme a tanti
sconosciuti. Quello sguardo lo so comprendere, è quello dei miei clienti, la mia sofferenza sta nel non riuscire a spegnerlo e a dipingerci sopra un colore diverso. Anche a me, un giorno, potrebbe capitare la stessa cosa. Un giorno mia moglie potrebbe andarsene, insieme a mio figlio, e io finirei di certo per svuotare lentamente il mio sguardo fino a farlo diventare opaco.
Ci sono facce nuove, questa mattina. Tra queste noto due coppie di ragazzi molto giovani. Li osservo mentre si siedono, ai poli opposti della lunga tavolata. Due sembrano stranieri, lei in particolar modo. È bella, lui le tiene la mano, appoggiata sulle gambe sotto il tavolo. Stanno zitti. Non sorridono. Guardano le posate e il bicchiere davanti a loro. Forse è la prima volta che pranzano alla mensa. L’altra coppia invece è più smaliziata. Chiacchierano intensamente tra di loro, studiano gli altri ospiti, li indicano, e ridono. Quando mi avvicino lei mi chiede di Goran. “Ehi, come sta Goran? Lo aiutate? Guarda che ha tanto bisogno di aiuto.”
Goran, da qualche settimana, è un ospite fisso della Caritas ma è come se lo fosse da tempo. La differenza è che ora dorme in una stanza, mentre per mesi ha dormito sul marciapiede davanti ai panettoni di cemento della Caritas o su una seggiola nell’atrio. Immancabilmente abbracciato stretto al suo cane. Quando gli avi davanti dovevi obbedire alle sue manie, per non rischiare di sentirlo urlare fino allo sfinimento. La bicicletta dovevi parcheggiarla in retromarcia, e l’ombrello doveva stare chiuso con il laccetto, non potevi argli davanti se provenivi da sinistra, mai provare ad accarezzare il suo cane. Goran è macedone e non ama raccontare del suo ato, forse non ne ha nemmeno memoria. Dopo l’incidente tutto è cambiato. La sua vita si è capovolta, ha perso l’amore, ha perso il lavoro, ha perso la memoria e la voglia di tirare avanti. In strada ha ricevuto un dono da un amico, il cane, ma non ha nemmeno fatto in tempo a ringraziarlo che già l’amico era perduto. Così il cane è diventato per Goran un pezzo di vita e di amore. Per anni hanno dormito insieme, nelle lunghe notti, dentro gli spazi abbandonati delle colonie dell’Enel. Intanto Goran faceva la stagione in un albergo e non dimenticava mai, finito il turno, di portare qualcosa di prelibato per il piccolo amico che lo aspettava fedele. A Goran sembrava davvero di avere di nuovo una famiglia, insieme al cucciolo, raccontava in giro
che, da quando aveva capito che il cane aveva bisogno di lui per vivere, tutto aveva preso un nuovo colore. La sera in cui il cane è morto, è morto Goran. È morto il suo disperato bisogno di dare amore. “Ora nessuno ha più bisogno di me”, ha affermato lapidario. Lo psichiatra ha detto che Goran è mentalmente disturbato ma, come molti pazzi, ha degli slanci di filosofia sottile e perspicace. Oggi Goran è ospite alla Caritas, ma non viene mai a sedersi al pranzo della domenica perché non scende dalla sua stanza. Dice che non può più muoversi. Ha voluto fermare il tempo e lo spazio, immobilizzarsi in un punto e cristallizzare la sua vita. Alle poche persone con cui ha voglia di parlare racconta che vuole sentirsi ripetere ogni cosa più e più volte, per tentare di ripartire sempre da zero. Goran ha fatto tabula rasa. Se provi a guardargli dentro la vedi bene, questa tabula rasa.
“Io vengo qui solo la domenica,” rispondo alla donna, “non lo so. Vedrai che lo aiutano di sicuro.” “Cosa c’è da mangiare?” “Oggi pasta al tonno e pollo con patate e insalata. Vi piace?” “Sempre ‘sto pollo! Ma di domenica sempre il pollo?” “Ti dirò che a me piace molto il pollo. E dalla cucina c’è un profumo che fa venire fame.” “Non ti preoccupare che la fame non ci manca. È da ieri a pranzo che non mangio. Oggi mi devi dare dei piatti strapieni. Ricordati.” Sorrido. Elisa sta facendo girare il registro. Per aiutarla spiego io alle facce nuove a cosa serve il registro. Quando mi avvicino mi chiedono un po’ di soldi, per il treno, per un amico, per stanotte. Cinque euro, anche meno. Mi spiace, niente soldi. Loro mi sorridono. Io sorrido. È un gioco che conosciamo bene. Entro in cucina, Livia sta tagliando un po’ di pizza calda di ieri sera come antipasto e, a scanso di equivoci, toglie il prosciutto e la salsiccia dalla pizza. Esco con la pizza e le pinzette. A uno a uno porgo un rettangolo di pizza. Ancora, ancora.
Ed ecco che la porta della cucina si apre, inondando la sala di profumi e calore. Giovanni esce con il carrello carico di due teglie roventi di penne al tonno e pomodoro. Oooh. Lui scodella, io inizio a servire dal lato destro, Elisa, che ha finito con il registro, dal lato sinistro. Grande, eh, voglio un piatto grande! Per un attimo cala un silenzio inaspettato. Senti solo le mandibole che lavorano sui piatti fumanti. Non ho ancora finito il primo giro di primi che qualcuno chiede il bis. Mi porge il piatto. Grande, eh, dammene tanta. Prima finisco il giro, poi vado. A quel punto si ricomincia. Qualcuno prende tre piatti di pasta. Io non riuscirei a mangiarne più di due, giuro, sono dei piattoni carichi. Pane, pane! Elisa a con il cesto del pane e le pinze. Offre panini freschi a tutti. Qualcuno non vuole sprecarlo e ne chiede un pezzo piccolo, magari metà. Non tutti sono ossessionati dalla quantità. Soprattutto gli ospiti più anziani sanno che lo stomaco si è ristretto e che troppo pane li fa star male. I giovani invece sono insaziabili. Porto via i piatti fondi da tavola, entro in cucina e trovo già una ventina di piatti pronti con il secondo, due pezzi di pollo e un contorno di patate e insalata. Uno spettacolo. Io e Silvana carichiamo il carrello con i secondi, poi esco e distribuisco. Si leccano le dita, succhiano le ali di pollo, arrostito alla perfezione. Mi sembra sia tutto ottimo. È buono? Buono, buono. Ancora, ancora. Vediamo cosa possiamo fare. In cucina c’è un po’ di bis per tutti. Torno fuori. Pane, pane. Elisa, il pane. Patate, ancora patate. Le patate sono finite, mi dispiace. C’è il dolce? Sì, c’è il dolce. Penso a mia moglie e penso a cosa staranno facendo ora a casa. Nicola starà mangiando un po’ di gelato o un cioccolatino, perché è domenica e la mamma gli concede sempre qualche dolcetto. Poi guarderà un po’ di tv o sfoglierà un libro sul divano. “Luca, portalo fuori tu il dolce! È opera tua!” Quando esco dalla cucina con il dolce alcuni ospiti mi si avvicinano. Stavano per andarsene via, con il tozzo di pane in bocca e la mela in mano. Poi hanno visto il dolce e sono accorsi. Per un attimo mi sono sentito fiero. “È buonissimo,” mi dice la ragazza, ancora seduta al tavolo. “L’ha fatto mia moglie,” racconto. “Anche noi due siamo sposati, sai?”
Non so cosa dire. Sorrido. Mi chiedo cosa facciano questi due ragazzi qui oggi. Non hanno l’odore dei vagabondi, non hanno i denti neri né quel fare concitato e il tremore nei gesti dei tossici, parlano bene, lei usa le parole con molta cura. Li vedo uscire baldanzosi. Solo più tardi scopro, dal racconto di Sergio che li ha incontrati al Centro di Ascolto, che da una settimana dormono in spiaggia. Sono rumeni ma parlano un ottimo italiano. Lui lavorava da muratore ma la crisi si è abbattuta anche sulla sua impresa edile e lei, spaventata soprattutto per la bambina, ha pensato di rimandare la figlia a casa dei nonni in Romania, in provincia di Galati. Da mesi il marito non prendeva più lo stipendio, pur lavorando le solite nove ore al giorno. Lei si è sentita tremare le ginocchia quando i soldi, tenuti da parte fino ad allora, iniziavano a diminuire senza freno. L’unico vizio che avevano era quello di mangiare. Una volta sistemata la bambina le cose sono andate sempre peggio, ma la sofferenza e la paura erano più piccole da affrontare senza un bambino da accudire. Hanno venduto tutto quello che potevano e alla fine hanno dovuto abbandonare la casa, ormai svuotata. “Per nostra fortuna l’inverno sta per finire”, hanno detto a Sergio, “e la piccola non sa nulla della nuova vita che facciamo.” Ora mi spiego il motivo della loro disinvoltura: hanno superato uno degli ostacoli più alti, la vergogna di mostrarsi al proprio figlio come sconfitti e perdenti. Anche la coppia silenziosa sta uscendo, sempre mano nella mano, sempre a testa bassa, stessa tristezza addosso.
Quando non c’è più nessuno in sala si solleva un’aria di malinconia. Come quando finisce una festa e in mezzo al caos scorgi i momenti rimasti nell’aria. Gli odori, le parole che sfumano, le risate, una scia che persiste con dolcezza. Resto un attimo in silenzio, per onorare questa sensazione. Prendo un grande sacchetto nero della spazzatura e inizio a ripulire i tavoli. Elisa mi aiuta tenendomi aperto il sacco. “Hai visto quel signore gentile? Ha pulito tutto!” sussurro a Elisa. C’è un signore alto e molto educato che, silenzioso, sta spazzando la sala. Non lo conosco, gli sorrido. Poi prendiamo due spugne dalla cucina, spruzziamo il disinfettante e puliamo tavoli e sedie. Non diciamo una parola. Forse stiamo
vivendo la stessa sensazione avvolgente di qualcosa di intenso che è finito. Soprappensiero appoggio tutte le sedie sopra ai tavoli, per pulire più facilmente il pavimento con lo straccio. “Ma Luca! E noi dove mangiamo? In piedi?” La voce arrabbiata di Livia mi arriva come una frustata dalla cucina e mi trascina via con violenza dai miei pensieri. “Scusa, Livia. Hai ragione!” “Sempre con la testa tra le nuvole, tu. Chissà cosa penserai… Forza, ragazzi. A tavola che mangiamo anche noi. Sono affamata!” Ci sediamo in uno dei tavoli appena puliti. Livia porta la pentola con la pasta rimasta e scaldata. Io l’aiuto con il tegame con qualche pezzo di pollo e la ciotola con l’insalata. Ci sediamo e chiacchieriamo, un po’ di politica, un po’ di figli, un po’ di cucina. “Livia, ti sei superata. Questo pollo è eccezionale!” “Si vede che era buono il pollo.” “Ma l’insalata chi l’ha condita?” Silenzio. Sergio timidamente alza un dito. Ci guardiamo tutti con complicità. È senza aceto. Sergio neanche lo sapeva, che non doveva mettere l’aceto. Ma ringraziando il cielo non l’ha fatto.
Durante un pranzo dell’anno scorso avevamo tantissima insalata da smaltire, perché un centro commerciale ce ne aveva regalate varie buste. Eravamo contenti perché era quella già lavata e pronta da condire. Poca fatica, insomma. “La condisco io,” avevo detto. Avevo addirittura preparato la vinaigrette in una ciotolina. C’era tempo e mi piaceva giocare a fare lo chef. Sale, pepe, aceto, olio, mescolati con cura. Condii l’insalata nelle due grosse ciotole. L’assaggiai. Era deliziosa. “Sentite che buona,” dissi. Quando venne servita in tavola, nel piatto con il pesce arrosto, si sollevò un brusio. Quella domenica stavo in cucina e non
servivo ai tavoli. Il brusio diventò un vociare, il vociare un rumoroso lamento, poi un No, io non la mangio! E un altro Neanch’io, Neanche io, Non la mangio, No. Una specie di rivolta. Incuriosito aprii la porta della cucina e mi trovai di fronte una scena assurda. Alcuni ospiti erano in piedi con il piatto in mano, per restituirlo. “Ma cosa succede? Qualcuno mi vuole dire cosa succede?” “Nell’insalata c’è aceto. Io non bevo vino. Io musulmano.” Anche io. Anche io. Niente vino. Noi siamo musulmani. Dapprima mi sentii colpevole. Avevo condito io l’insalata, avevo fatto un bel casino. Poi al senso di colpa subentrò la delusione, infine la rabbia. Sapevo benissimo che se l’ospite musulmano fosse stato uno solo non avrebbe proferito parola e avrebbe mangiato in silenzio e a testa bassa la sua insalata. Ma nessun musulmano mangerebbe qualcosa di proibito di fronte a un altro musulmano, è una questione di principio. Capita con l’insalata come con il prosciutto. “Ragazzi, è solo aceto, non è vino, per favore, sedetevi e mangiate con calma,” dissi, cercando di mantenere la calma. NO. NO. NO. Mi guardavano come se non capissi, come se fossi così stupido da non sapere che i musulmani non bevono alcool. Qualcuno quella domenica abbandonò nel piatto anche il pesce, perché l’aceto l’aveva contaminato. Fu un vero dispiacere ma non potemmo fare nulla. In cucina non c’era più niente di commestibile. Quella domenica tornai a casa amareggiato e svuotato. Ebbi la brutta sensazione che tutto quello che facevo fosse inutile, che le mie domeniche speciali non fossero più speciali. Talvolta fare il volontario qui ti mette di fronte a pensieri contrastanti, che ti portano di fronte a un bivio: ogni volta però ho scelto la strada vecchia, quella dell’indulgenza.
Finito di pranzare torniamo tutti in cucina. Qualcuno ha già pensato al caffè che sta salendo dalla moka. Io spazzo la cucina, gli altri riordinano il piano cottura e danno una pulita al forno. Silvana ha lo straccio pronto. Quando usciamo lasciamo sala e cucina che sono uno splendore. Ci guardiamo negli occhi soddisfatti.
“Bravi, ragazzi. Oggi siamo stati proprio bravi.”
Usciamo. C’è ancora un bel sole e l’aria è più calda. Già sto pensando se andare in bicicletta sul lungomare con Nicola. Poi però al ritorno sarà freddo, è pur sempre febbraio anche se questa domenica è un dolce assaggio di primavera. Infilo le chiavi nella toppa. Nicola è seduto sul divano con la giacca addosso e il pallone tra i piedi. “Ma cosa fai con il giubbotto? Non hai caldo?” “Ti aspettavo, babbo! Andiamo?” “Ok, campione. Si va a giocare al mare! Saluto la mamma e si parte!” “Ehi, tutto bene qui?” “Certo! Nicola è lì seduto da almeno dieci minuti. E voi? Piaciuta la torta?” “E chi l’ha assaggiata? Se la sono divorata in un batter d’occhio!” “Te lo dicevo che ne servivano due. La prossima volta ne farò tre, allora.” “Sì, ma la terza la nascondo così ce la mangiamo noi volontari!” “Scemo.” “A dopo, tesoro.”
Karim
“Karim, oggi cerca di venire giù a tavola prima del solito, perché c’è una persona che vuole incontrarti.” “Bene, chi è?” chiedo al volontario della Caritas che è salito nella mia camera del Centro di seconda accoglienza per avvisarmi. “Una ragazza nuova. È arrivata stanotte insieme a qualche altra giovane mamma. Non so se li hai sentiti arrivare, erano quasi le due. Hanno fatto una traversata allucinante e sono sbarcate a Lampedusa con tre bambini. È molto impaurita perché non parla una parola di italiano. Niente, né inglese né se, solo un dialetto del suo paese, o almeno così mi ha detto un’altra donna che è qui con lei. Magari vi capite, è della Costa d’Avorio anche lei.” “Arrivo subito.” Sento il cuore che mi si stringe e fa male. Voglio aiutare questa ragazza ma ho bisogno di preservare me stesso. Ci ho messo così tanto tempo a trovare un equilibrio dopo tutto quello che ho vissuto, che pensare di ricadere di nuovo mi terrorizza. Devo essere forte.
Scendo giù nell’atrio e la vedo. È molto giovane e, nonostante la fatica, la sua bellezza traspare e abbaglia. Vedo che ha la pancia un po’ rigonfia, probabilmente aspetta un figlio. “Inisogoma,” la saluto. Alza gli occhi dal pavimento e le si apre un sorriso. “Iniche”. Mi sento sollevato, parliamo una lingua simile, se non è jula è bambara, va benissimo. Mi fermo sui suoi grandi occhi neri e ci leggo un misto di terrore, richiesta di aiuto, alte onde del mare. La prego di seguirmi, per parlare. Lei,
obbediente, non discute. Inizia così la nostra conversazione, lei mi racconta del suo viaggio disperato, in cui molti migranti sono morti durante la traversata. Il mare era infuriato e il viaggio è durato molto più del previsto, gli scafisti non avevano pietà per nessuno e urlavano di far finta di niente di fronte a chi stava male. Lei aveva ancora nelle orecchie e nell’anima le urla e i pianti, le mamme che per calmare i piccoli porgevano i seni vuoti. Lo sappiamo tutti, quando partiamo, che ci stiamo mettendo nelle mani del fato. Non è facile da comprendere, per chi non si è trovato in questa situazione, ma non abbiamo avuto scelta. Il nostro destino sarebbe stato sicuramente peggiore. Quando termina il suo racconto la ragazza mi interroga, ha voglia di ascoltare la mia voce e la mia storia, di avere un amico con cui confidarsi. E così, in modo quasi terapeutico, la sua innocenza, quel suo sguardo da bambina spaventata mi trascinano a sé, come dentro una corrente, e mi fanno raccontare chi sono e perché sono qui. Non l’avevo mai fatto, finora. Le parole mi escono chiare come la luce e vomitarle in questo modo, senza preavviso, mi fa sentire quasi forte e speciale.
La schiena di mia mamma china sulle fave di cacao già essiccate, le mani che sparpagliano rumorosamente i semi e un profumo persistente che riconoscerei tra mille. Questo è il primo ricordo che ho della mia infanzia, un ricordo di sole battente, la voce dolce di mamma e quell’odore inebriante che mi arrivava al cervello, fino a intontirmi. I miei genitori lavoravano nelle piantagioni di cacao, io e mio fratello Abou, che ha otto anni meno di me, potevamo studiare e lo dico perché nel mio paese, Yabayo, nella repubblica della Costa d’Avorio, non è una fortuna dedicata a tutti, quella di poter studiare. A casa parlavo jula, che è una delle tante lingue che si possono ascoltare tra la nostra gente, a scuola ci insegnavano il se. La prima guerra civile è scoppiata nel 2002, ma non ne ho ricordi precisi, mi risuonano nella testa solo i pianti insistenti di Abou, che aveva un anno appena, al rumore degli spari, soprattutto durante le lunghe notti che trascorrevamo nella foresta. La foresta ci ha protetto per settimane, è stata la nostra tana accogliente e sicura, quando i militari e i roberjeo giungevano con rabbia selvaggia nei nostri villaggi. Ammazzavano chiunque, violentavano le donne, picchiavano i vecchi con le canne dei fucili, i negozi iniziavano a chiudere uno dopo l’altro, il lavoro scarseggiava persino nella capitale, San Pedro. Ma grazie al cielo la foresta ci era
sempre benevola. Negli anni seguenti la situazione divenne più tranquilla, la guerra scemava, almeno nella nostra zona, e tornammo ad abitare dentro casa, nonostante continuassi a intravedere una paura silenziosa negli occhi di mio padre e di mia madre. I roberjeo però erano ancora il terrore di noi ivoriani del villaggio. Si raccontava che, seppur lontani da noi, fossero diventati ancora più cattivi, che alla sola vista di un essere umano sparassero come pazzi. Ancora oggi i miei incubi notturni hanno il loro volto. La tragedia mi è esplosa in faccia a 15 anni. La guerriglia ricominciò e si espandeva a macchia d’olio. Le bande erano feroci e colpivano indiscriminatamente uomini, donne, bambini. Una notte i ribelli hanno fatto irruzione nel nostro villaggio, siamo stati svegliati dalle grida disperate delle donne e dai pianti dei bambini. Spari, rumori secchi, squarci di luce nel buio. “Scappiamo!” disse mio padre. “Ma dove possiamo andare? Dove? I ragazzi…” Io e Abou eravamo già in piedi, accanto a papà. “Siamo tutti qui, mamma. Nascondiamoci nella foresta. Non ci troveranno. È buia e non la conoscono quanto noi.” “Fuori, subito! Andiamo!” Mio padre stava per aprire la porta, un calcio la spaccò e ci trovammo di fronte tre uomini armati, con il fucile spianato verso di noi. “Dietro!” gridò mio padre. Prendemmo di corsa la porta sul retro, quella che portava al piccolo orto dove la mamma coltivava pomodori, cipolle e tapioca. Corremmo come pazzi, mentre i ribelli sparavano senza ragione. Ricordo il bruciore vivo nella schiena, come un fuoco proprio dentro alla pelle. Corsi lo stesso, sanguinante, e mi addentrai nella foresta. Altri spari, i i pesanti degli scarponi dei guerriglieri che indietreggiavano, poi il silenzio. Anche mia madre era stata raggiunta da due pallottole nelle gambe e ne porta ancora il ricordo, oggi è costretta a una sedia a rotelle, senza speranza. Restammo due giorni interi nella foresta, con le nostre
ferite e una paura cupa. Non potevamo avvicinarci al villaggio per timore di essere uccisi. Il terzo giorno mio fratello andò in avanscoperta e ci venne a chiamare. La casa era stata saccheggiata e bruciata, nell’aria si sentiva l’odore dell’odio. Andammo da un medico che ci curò ma io non pensavo ad altro che alla fuga. Ero il fratello maggiore e volevo essere degno del mio ruolo. Dovevo andarmene e lasciarmi alle spalle tutto questo male, questo desiderio di vendetta, quell’odore di bruciato e di disperazione. Il mattino seguente, ancora bendato e malconcio, andai nella città più vicina. Avevo con me un sacchetto con poche cose e nessun documento. Mio padre mi diede dei soldi, che nascosi dentro ai pantaloni, ma non volli che mi accompagnasse. Alla stazione degli autobus salii su un autobus diretto a nord e chiusi gli occhi ancor prima di partire. Ero distrutto e la schiena mi doleva, ma più di ogni altra cosa non volevo farmi vedere piangere. Sentivo le lacrime che mi pulsavano dentro le palpebre. Non sapevo se avrei più rivisto la Costa d’Avorio e la mia famiglia, ma stavo partendo anche per loro. Arrivai in Libia dopo quattordici giorni di viaggio estenuante. Presi solo autobus di linea e dormii per quasi tutto il viaggio, ci fermammo a Bouaké per cambiare autobus e poi scendemmo in Mali e in Algeria. Avevo bisogno di riprendere le forze prima di intraprendere una nuova vita. La Libia mi accolse con generosità e grandi speranze. Trovai quasi subito lavoro a Tripoli e feci amicizia velocemente, anche grazie al contatto con Moustafa, che mi ospitò per qualche mese a casa sua per 300 denari. Molti ivoriani erano già arrivati fin lì, in fuga dalla guerra civile e in cerca di una nuova vita. Mescolavo il lavoro da meccanico e quello da imbianchino, lavoravo anche di domenica, ma il venerdì ci fermavamo tutti per il giorno della preghiera. Mi sembrava che tutto andasse bene e che la mia vita avesse preso una sua direzione, seppur lontano da casa. Sentivo spesso mia madre al telefono, mi raccontava che i roberjeo erano ancora a piede libero, che loro avevano paura ma che non si sarebbero spostati dal villaggio. Non sono mai riuscito a essere fatalista come mia madre. Quando le parlavo al telefono chiudevo gli occhi e cercavo di ricordarmi il suo odore e le sue mani che mi accarezzavano la testa, e solo quando mi accennava al dolore alle gambe, che non la faceva dormire di notte, mi risvegliavo dal sogno e ricordavo, come uno schiaffo improvviso, che dopo gli spari era diventata paralizzata. La rivoluzione in Libia si è insinuata con l’arrivo del 2011, prima ci sono state le
sommosse della gente, poi una vera guerra a colpi di armi da fuoco tra i fedeli di Gheddafi e il consiglio nazionale libico. Fu come un incubo che ti aggredisce in una notte di quiete. Non potevo più lavorare, stavo tutto il giorno chiuso dentro casa perché uscire, con il mio colore della pelle, era molto pericoloso. La polveriera è scoppiata in pochissimi giorni e la vita è diventata insostenibile. Ricordo che, chiuso in casa con i miei pensieri, mi chiesi più volte il motivo per cui la guerra doveva perseguitarmi. Avevo un buon lavoro e un ottimo stipendio, e ogni tanto sognavo il giorno in cui sarei tornato a casa, dalla mia famiglia, vittorioso, con tanti soldi e uno sguardo da uomo. Anche stavolta, invece, ho dovuto fare a botte con il mio orgoglio e scappare, scappare ancora. La fuga rimane sempre una ferita aperta, nell’animo di un uomo.
Ero già in Italia da qualche mese quando ho sentito dalla voce di un giornalista radio che Gheddafi era stato catturato e ucciso, ponendo di fatto fine alla guerra. Non sono così ingenuo da credere che la guerra finisca con la morte di una persona, neanche di un mostro come Gheddafi, per questo non ho avuto rimpianti per essere partito. Ricordo con precisione nitida quel momento: ero seduto alla tavola nella comunità per minori di Corinaldo insieme ai miei nuovi amici. Molti di noi scappavano dalla Libia, pur provenendo da varie parti dell’Africa. Si stava per avvicinare il diciottesimo compleanno di Rashid, che era diventato il mio migliore amico: il 30 novembre ci avrebbe abbandonati. Rashid era così fiero e sfrontato che non avrebbe mai lasciato trapelare il suo timore. Noi minori stranieri non accompagnati in Italia viviamo un piccolo paradosso. Prima dei diciotto anni siamo considerati bambini, tutelati dalla legge italiana, veniamo coccolati e protetti nelle comunità, siamo accarezzati e avvolti da una grande ala che ci tiene stretti a sé. Di colpo, il giorno del nostro diciottesimo compleanno, tutto si stravolge, tutte le nostre tutele non esistono più, come succede quando a un uragano e ti solleva il tetto dalla testa. A diciotto anni dobbiamo abbandonare la nostra nuova famiglia e ci troviamo a essere dei clandestini. È una follia che non riuscirò mai a spiegarmi, ma ci sono tante cose che non riesco a spiegarmi, qui in Italia. Qualsiasi cosa al di fuori della comunità a me sembrava un possibile mostro che divora i bambini. Ma non lo avrei mai ammesso di fronte a nessuno. A tavola, mentre fissavo Rashid, per cogliere una sua debolezza tra le parole di
stizza verso un fatto che gli era accaduto quella mattina in autobus - uno degli episodi che ci succedono quasi ogni giorno, l’ostilità di alcuni coetanei che lo deridevano per le scarpe diventate grigie -, abbiamo sentito la voce alla radio: gheddafi barbaramente ucciso dai nemici. è la fine della guerra. Ci siamo guardati attoniti. Nessuno ha detto nulla. Lo sguardo è sceso sul piatto. In silenzio abbiamo terminato il pranzo e siamo tornati a studiare. Eravamo tutti lì, seduti a quel tavolo, per colpa di una guerra civile che per noi non aveva avuto nessun senso. La guerra in Libia aveva ammazzato buona parte dei nostri sogni di rivalsa. Tutti quanti ci eravamo trovati di fronte a una scelta obbligata: i non libici, che i guerriglieri riconoscevano dal colore della pelle, dovevano tornare in patria o avrebbero fatto una brutta fine. Entravano nelle case e sparavano ai neri, non c’era molto da fare. A quella notizia non potevamo essere felici. Non eravamo neanche tristi. È la guerra. Senza senso.
Compio gli anni il 2 ottobre. Al mio diciottesimo compleanno, nell’autunno del 2012, non ho avuto una festa a sorpresa. Non ho ricevuto nessun regalo. Mi sono svegliato con un nodo alla gola e le gambe come il piombo: “Karim, oggi hai diciotto anni,” pensai. “Karim, oggi te ne vai”. Sono sceso a fare colazione nella sala della comunità. Provavo una tempesta di emozioni diverse e quasi non riuscivo a coordinare i i. Ho salutato i miei amici e sono uscito da lì con un carico di tristezza e di sbigottimento. Quando arrivai alla Caritas di Senigallia nuvole gonfie coprivano il cielo. Io stavo davanti al cancello, impalato come uno spaventaeri, con la mia valigia blu piena di qualche abito e di tanta paura. Suonai il camlo e mi accolsero dei volontari. Una vita nuova mi si apriva davanti. Karim, sei diventato un uomo. Appena entrai sentii la pioggia che scrosciava. Il segreto della felicità è vivere con la tua famiglia, è questo che ti fa stare bene. Anche oggi ogni tanto penso a casa, soprattutto prima di addormentarmi. Posso dirmi fortunato, sono accolto e accudito dalla Caritas ma la mia vita è attaccata a loro attraverso un filo. Posso fare la doccia anche tutte le sere, a casa dovevo lavarmi a pezzi con un mastello pieno d’acqua. “E non sei contento di poter finalmente fare una bella doccia tutte le sere?” mi
chiedono i volontari. “Sarei contento di usare di nuovo il mastello e dividere l’acqua, se con me ci fosse mio fratello.”
Quando partimmo dalla Libia salii su un barcone insieme ad altri 150 ragazzi. Eravamo tutti giovani e forti, non c’erano donne o uomini anziani, la barca partì alle tre del pomeriggio, sotto un sole cocente. Non sapevamo dove era diretta la barca, nessuno sapeva niente. Eravamo costretti a scappare e ad affidare la nostra vita nelle mani degli scafisti. Il 5 maggio arrivammo a Lampedusa e io non sapevo neanche dove fossimo. italia , sentivo urlare da qualcuno. Italia… e ora? La traversata nel barcone è un viaggio impossibile da descrivere, perché la tua vita, mentre stai seduto stretto ad altri che ridono e piangono e hanno fame e sete e attorno a te vedi mare, mare e nient’altro che mare, la tua vita in quei giorni di viaggio è atrofizzata in un fermo immagine. Potrebbe andare tutto bene. Potrebbe andare tutto male. La vita. La morte. Il giorno. La notte. Mentre sei sul barcone non percepisci più i confini, non ci pensi, non ci devi pensare altrimenti l’angoscia ti agguanta e ti fa crollare. L’unico pensiero che mi cullava e mi faceva sorridere era che mia madre, con il suo fatalismo, avrebbe sopportato tutto questo con serenità. Non parlo mai della traversata perché non trovo le parole, ma una sera, in comunità, fui sul punto di farlo, anche se poi non accadde. Mi trovavo da solo in sala con Rashid e sentivo che era arrivato il momento di tirare fuori quel nodo di dolore e paura che mi stringeva lo stomaco. Quella sera notai la sua malinconia, lui che era sempre indistruttibile quella sera mi sembrò fragile e lo avvicinai. “Cosa succede, Rashid?” “Niente.” “Rashid… raccontami qualcosa.” Stava in silenzio e non mi guardava. Fuori alla finestra il cielo era stellato e immaginavo il profumo dell’estate, lì fuori. “Cosa pensavi, quando eri in mare?”
Rashid abbassò gli occhi di colpo. Poi mi trafisse con lo sguardo. Ci lessi rabbia. Poi interrogativi. Poi paura. Infine tutto si sciolse e il coperchio si aprì.
“Era appena iniziata la primavera araba. Non scappavo da una guerra, ma da una vita che non mi bastava. Volevo rivalermi di tante cose, volevo conquistare l’Europa, fare qualcosa di memorabile, non fermarmi in Tunisia come i miei fratelli. No, io volevo essere speciale. Cominciai ad andare regolarmente al porto per vedere come partivano i barconi. Prendevo informazioni, chiacchieravo con tutti e lentamente la decisione venne da sé. Una sera, il sole stava calando, arrivai al porto con 500 euro dentro le scarpe. Mio padre si era raccomandato di tenere i soldi nascosti e mi aveva dato il primo abbraccio della nostra vita. Guardai la barca da lontano e sentii un brivido. Non mi piaceva, quella barca, era messa proprio male. Gli scafisti gridavano di salire. Non riuscivo a capire se era la paura, che mi teneva lontano e mi bloccava le gambe, o se era un sesto senso. Quella notte non partii e gli scafisti ritardarono la partenza di qualche ora perché mi cercavano. Sapevano che sarei dovuto salpare con loro e volevano i miei 500 euro. Mi nascosi nel buio, pensando ai miei soldi nelle scarpe. Due giorni dopo tornai al porto e mi imbarcai. L’Europa mi aspettava ed ero pieno di sogni e di vitalità. Il viaggio mi spense ogni sogno, rimanemmo in mare per tre giorni e tre notti, affrontammo varie tempeste e un mare così furioso che pensai solo alla morte e ai miei desideri che si frangevano contro le onde. Poi, nel tardo pomeriggio del terzo giorno, quando il vento era immobile e il sole stava per andare giù, sentimmo un elicottero che ci ava sopra la testa, come un’allucinazione. In poco tempo arrivò una nave della guardia costiera che ci scortò, insieme all’elicottero, al porto di Lampedusa. Terra, finalmente terra.”
Quella notte rimasi alzato a lungo con Rashid, che oltre al suo viaggio decise di raccontarmi anche il vero motivo della sua tristezza. Aveva saputo quella mattina che il suo migliore amico tunisino, che sarebbe dovuto partire insieme a lui, l’anno precedente, era morto in mare. La sua barca era crollata alle frustate delle onde ed erano morti tutti. Centinaia di giovani inghiottiti dalle fauci del mare. Rimanemmo in silenzio un po’, guardando fuori dalla finestra. La nostra vita stava sospesa e attaccata a un filo. Anche mia madre, la regina della fatalità, avrebbe pianto a questa notizia.
Quando Rashid terminò il suo racconto tralasciai il mio viaggio, il mio ato, la mia famiglia. Un giorno o l’altro, pensavo, mi sarei svelato anch’io, come sto facendo ora con te, per la prima volta. Gli raccontai però del mio arrivo in Italia. Mi avevano dato subito uno zaino e pensai di essere davvero fortunato ad avere un’accoglienza del genere. C’erano lamette per la barba, fazzoletti, oggetti d’emergenza. Eravamo tutti senza documenti, nessuno avrebbe pensato di portare con sé i propri documenti in un viaggio folle e infernale tra le braccia del mare. Il giorno successivo ci portarono a Napoli dove era stata allestita una tendopoli enorme, un centinaio di tende blu e grigie dove si dormiva in otto. Lì ogni mattina ci portavano le sigarette, per tenerci buoni e calmi, perché in molti iniziavano a perdere le staffe, chiusi dentro quel recinto come cani. Dopo due mesi venimmo smistati nei centri di accoglienza. Salimmo su un autobus, scortati dalla polizia e dalla protezione civile, e percorremmo l’Italia da Napoli in su, lasciando gruppi di migranti in ogni città che li ospitava. Io fui tra gli ultimi a scendere, a Senigallia. Erano le tre e mezza di notte e scendemmo in dodici. Ne restavano solo altri dieci, in autobus. Sarebbero scesi a Senigallia anche loro, all’hotel Lori. Quando scendemmo ci aprirono le porte di Casa Stella un gruppo di volontari. Ragazzi giovani. Ci chiesero subito se volevamo mangiare e bere, noi chiedemmo sigarette. Fu sorprendente scoprire che qui le sigarette non erano una priorità né un genere di prima necessità come a Napoli. Il giorno successivo dieci di noi partirono per la Francia. Molti avevano lì dei parenti e il fatto di poter parlare se avrebbe facilitato il loro futuro. Restammo qui io e Farouk. A Casa Stella mi sentivo davvero a casa, tra di noi lo chiamiamo “il condominio”. È pieno di bambini e il pomeriggio lo trascorrevo in giardino con la quindicina di piccoletti che schiamazzavano e mi saltavano addosso. Piano piano la felicità tornava a farmi visita. I primi tempi dovevamo comunicare tutto al commissariato, potevo allontanarmi solo per 48 ore al massimo o sarei uscito dal programma di protezione per rifugiati politici. Non mi preoccupavo granché di queste limitazioni, visto che non sapevo proprio dove andare. Il mondo là fuori mi faceva sempre molta paura. Dopo qualche settimana andai alla comunità per minori di Corinaldo, poi, a diciotto anni compiuti, mi trasferii al Centro e ancora oggi vivo qui. Faccio
qualche lavoretto di manovalanza, ogni tanto torno alla casa di Corinaldo per salutare gli operatori, quando riesco telefono ai miei amici della comunità. Senza di loro mi sarei perso. Il loro affetto mi ha tenuto ancorato a me stesso, perché dopotutto sono un ragazzo e mi serve quello che serve a tutti i ragazzi del mondo. Mi dispiace se mi giudicate perché ho un paio di jeans di marca. Ci ho speso lo stipendio di due settimane, ma con quei jeans mi sento più vicino ai miei amici italiani. Mio padre si arrabbierebbe molto con me, la mia gli sembrerebbe un’azione irresponsabile e stupida. Ma con indosso quei jeans mi sento un po’ più italiano e, se anche questo non mi basta a essere guardato con la stessa normalità degli altri, almeno sento di avere una possibilità in più. Non so se questa volta la mia vita ha preso una strada migliore, per scaramanzia non lo voglio dire più. Sto bene, qui, ma vivo le contraddizioni di ogni straniero emigrato. Più di tutto sento un dolore dentro che deriva dal vuoto d’affetti. La mia famiglia non è qui con me, l’odore buono di mia mamma non a attraverso il filo del telefono e la voce di mio fratello è diventata roca senza che io abbia vissuto la sua maturità. Mi mancano, mi mancano tanto.
La ragazza piange. Non volevo farla soffrire, le sue lacrime sono contagiose, ora piango anch’io. Ci abbracciamo. Andrà tutto bene, penso, ma non riesco a dirglielo.
“Ibebo,” le sussurro, prendendola per mano e portandola a tavola. Gli ospiti sono già arrivati, ho sentito il fracasso e i i pesanti lungo il corridoio. Ci sediamo al solito tavolo, quello defilato, dove ci mettiamo sempre noi ospiti fissi. Lei ha di nuovo paura e si asciuga frettolosamente le lacrime sul braccio. Le spiego a cosa serve il registro, chi sono questi signori che servono a tavola, cosa mangeremo, come usare la forchetta per la pasta. Mangia masticando ogni boccone come fosse l’ultimo e ogni tanto si tocca la pancia tesa sotto il maglione verde. Mi fa tenerezza. Quando arriva il pollo sorride, pensa che finalmente c’è qualcosa che sa mangiare e che conosce. Piccola donna, avrai bisogno di tanto tempo per iniziare a stare bene, ma ce la farai. Arriva il dolce e lei lo divora. Ha un colorito più , ora. Mentre parlo con qualche altro ospite del tavolo, spiegando chi è la ragazza, la vedo che, con la
testa pesantemente appoggiata alla mano, sta per chiudere gli occhi. Ha una stanchezza primitiva, un viaggio come il suo è faticoso da digerire anche per gli uomini più giovani e forti come me, figurarsi per una ragazza incinta. Le dico che può alzarsi e andare in camera a riposare, se vuole. Questa sera verrà accompagnata a Casa Stella e lì potrà riposare e ricevere tutte le attenzioni e l’amorevolezza ci cui ha bisogno. “Kanbeng”. Arrivederci.
Mi fermo qualche istante a parlare con un ragazzo senegalese, che porta sempre un lungo abito elegantissimo, con dei ricami d’oro. Dice che di domenica bisogna vestirsi bene perché è la giornata più sacra della settimana. Vedo gli ospiti che si affrettano e ficcano i resti del pranzo in un sacchetto o attorno a un fazzoletto di carta, mentre i volontari sparecchiano. Oggi abbiamo mangiato davvero bene, penso che in cucina ci fosse una cuoca. A casa mia solo le donne sapevano cucinare così bene, mamma per esempio era una cuoca eccezionale. Ho bisogno di riposare un po’ anch’io, è stata una mattinata molto impegnativa per il mio cuore. Mi sento addosso una malinconia che non so come soffiare via. Mi riprometto di telefonare al mio amico Rashid, nel pomeriggio. È da qualche settimana che non lo sento, si è trasferito a Genova da un anno, e oggi ho proprio bisogno di sentire la sua voce.
Quando alzo la cornetta e sento quel tono inconfondibile, brusco ma allo stesso tempo carezzevole, mi viene in mente la nostra sera di confidenze in comunità. L’unica volta in cui Rashid, che considero il mio più grande amico, si è lasciato spogliare della durezza della sua corazza. Gli racconto della mia nuova amica, ma non scendo nei particolari. “E tu, Rashid, come va con la ragazza?” “Bene, mi piace davvero tanto. Silvia è una ragazza speciale. Forse quest’estate riusciremo a partire per la Tunisia insieme. Sarebbe un sogno.”
“Sono felice per voi, amico! Spero che la vostra storia vada alla grande!” “C’è un’unica cosa che mi fa stare male, quando sto con Silvia…” “Male? Cosa ti fa stare male?” “Vedi, Karim, lei è innamorata del mare, un po’ come tutti i genovesi d’altronde. Allora la sera, quando ci incontriamo, mi porta sulle panchine del porto, lì ci baciamo e guardiamo il mare.” “E…” “E lo sai, Karim. Lei ama il mare e ci vede sogni e luci e canti delle sirene, mentre io non posso amare il mostro nero che voleva inghiottirmi. Ma erà.” “Certo che erà.”
Amid, ovvero Prince
“Ecco Prince!” Manca ancora un’ora all’apertura del cancello ma già sotto l’ombra dei pini sono seduti tre o quattro compagni di strada. Quando le giornate sono limpide come oggi ci diamo appuntamento qui, guardiamo le persone che escono dalla chiesa, qualcuno racconta storie, beviamo birra. Abbiamo tutti i nostri problemi, chi cerca soldi, chi lavoro, qualcuno cerca addirittura la moglie, ma di solito sono i giovani che hanno ancora molte speranze. Prince sono io, ma il mio nome è Amid. Mi chiamano Prince perché dicono che ho un portamento da principe, sono schizzinoso e cerco di vestirmi con eleganza. Quando vado a cambiarmi i vestiti alla Caritas tra gli abiti di quello che i volontari chiamano “l’armadio del povero” scelgo sempre giacche e cappotti scuri, per sentirmi più bello. L’unica nota stonata nel mio abbigliamento è lo zaino. L’ho trovato in un cassonetto in riva al mare ormai anni fa, mi aveva catturato perché era di un color giallo limone e bucava lo spesso strato di nebbia che c’era quella mattina. Ci sono disegnati due tipi molto muscolosi, con i capelli da punk, uno biondo e uno moro, saranno fratelli, non so, sotto c’è una scritta, dragon ball . Credo sia roba che piace ai bambini, io mi ci sono affezionato ma non lo trovo molto adatto al mio stile. Gli abiti scuri sono sicuramente più eleganti, per lo meno qui in Italia: a casa mia invece gli uomini eleganti indossavano caftani preziosi, tutt’altra roba insomma. Mio padre era un sarto, in Marocco, e ci teneva a essere impeccabile. Ormai vivo in Italia da più di venti anni. Lentamente la mia cultura islamica si è mescolata con quella occidentale, se mi sentisse mio nonno, che mi ha allevato, morirebbe di crepacuore a sapere che il suo adorato nipote è diventato impuro. Ma le cose cambiano, e la mia vita è scivolata nella direzione che voleva.
Mi siedo sulla panchina e chiacchiero con gli altri. Quando inizia la primavera adoro sedermi sul prato, soprattutto quando devono ancora tagliare l’erba e ci sono un sacco di margherite. È soffice e mi dà l’idea di vacanza. Ci andavo in
vacanza, da piccolo, partivo con i miei fratelli di mattina, nelle giornate in cui non c’era la scuola, e arrivavamo in spiaggia, ad Agadir, che è la spiaggia di noi berberi, un paradiso sull’oceano. Lì stavo dentro al mare tutto il giorno, fino a farmi venire le mani spugnose, e uscivo solo per mangiare pesce cotto alla brace. Non ricordo quasi nulla della mia infanzia, men che meno della mia età adulta, ma quei giorni ce li ho incisi nell’anima come tatuaggi.
Appena apre il cancello ci incamminiamo, io cerco di essere tra i primi così posso andare in bagno. Qualcuno tenta di suonare il camlo prima delle 12.30 ma non ottiene mai risposta. Per fortuna in inverno, quando ci sono eccezionali notte gelide, se ci presentiamo davanti al portone poco prima della notte e suoniamo il camlo ci aprono e ci fanno dormire dentro. Sono casi straordinari, e noi siamo felicissimi.
Ecco, arriva la pizza. Oggi sono dei piccoli rettangoli di pizza, ogni tanto ci sono delle belle fette. Mi piace la pizza, non l’avevo mai mangiata prima di venire in Italia. Prendo dalle pinze del ragazzo che mi serve la mia porzione, mi accorgo che hanno tolto qualcosa da sopra il pomodoro. È rimasto un buco ma è deliziosa lo stesso. Sicuramente hanno tolto il prosciutto. I volontari pensano che tutti noi stranieri siamo musulmani, ma si sbagliano di grosso! Nel mio paese c’era qualche cristiano, e la carne la mangiava eccome. Io invece sono musulmano ma mi sono adattato e ora la mangio senza tanti scrupoli. Non mi interessa se gli altri mi giudicano per quello che mangio, sono preoccupazioni che ho allontanato con l’età. E con la fame, ancor prima.
Quando sono arrivato in Italia avevo gli incubi. Ero paranoico, come quasi tutti quelli che iniziano a vivere in strada, mi sembrava che attorno a me ci fossero solo nemici. Ogni ombra, ogni rumore, ogni sguardo, tutto mi affondava nello stomaco e mi faceva venire i peli dritti, mi sentivo come un animale. Di notte sognavo che nei centri di accoglienza mi davano la carne di maiale di nascosto, mi obbligavano a mangiarla e io diventavo un demonio, vomitavo e il veleno della carne del maiale mi trasformava in un mostro. Per me il maiale non era solo vietato, il maiale per me faceva male, ti poteva anche uccidere.
Una sera ero affamato, non mangiavo da giorni e tenevo gli occhi semiaperti solo per bere vino rosso da un cartone. Con me c’era Boris, un vagabondo russo, che mi faceva compagnia. Ogni tanto si alzava per rovistare nei bidoni, soprattutto quelli dei ristoranti del lungomare. Lì sì che trovi roba buona. Ma quella sera non mi portava mai niente e io non avevo la forza di reggermi in piedi. Mi arrabbiai con lui, gli diedi un calcio, lui imprecò e mi mandò qualche maledizione. Non ricordo nulla di quello che accadde durante la notte. La mattina dopo mi trovai sulle gambe dei pezzetti di salsiccia. Mi sentii morire, mi vennero le convulsioni e lo stomaco si contorse. Pensai che fosse colpa del maiale, dovevo vedere Boris e capire cos’era accaduto. Lo vidi venire su dalla spiaggia con una lattina di birra mentre si tirava su la cerniera dei pantaloni. “Cos’è? Maiale?” “Sì, salsiccia. Hai mangiato due salsicce intere.” “Cosa? Io non posso mangiare maiale! Non posso!” “Ieri non me lo hai detto. Eri molto felice, ieri.” “Ora sono impuro.” “Eh? Ora almeno stai in piedi!” Ero arrabbiato nero, ma forse Boris aveva ragione. Che cosa mi ero messo in testa? Mica lo sapevo che sarei finito a mendicare, nella vita, e a rovistare nei bidoni. Da quel giorno accaddero due cose: smisi di fare distinzioni di carne, almeno quando non c’era scelta, e capii che Boris poteva essere un amico.
Oggi Boris alla mensa non c’è. Lui non viene quasi mai. Vedo Olga, sta all’angolo con la testa china sul piatto. Ha una testa del colore della paglia che è stata troppo al sole, ogni tanto abbiamo ato la notte in spiaggia insieme, bevendo vino di infima qualità dai cartoni e raccogliendo i mozziconi delle sigarette per fumare un po’. Ce l’avevo una donna, un tempo. Una meraviglia marocchina, di una bellezza disarmante. Aveva 15 anni, io ne avevo 17 e pensavo di sposarmela e di avere una famiglia numerosa, nei suoi occhi c’era tanto splendore che mi vergognavo quasi a guardarci dentro. Poi sono partito in cerca di fortuna, lei mi ha giurato che mi avrebbe aspettato per tutta la vita e io
non sono più tornato. La vita mi ha fatto diventare un bugiardo. In estate la spiaggia è il nostro ricovero, un posto vale l’altro. È una fortuna avere trovato come porto Senigallia perché la spiaggia è lunga e infinita e quando il freddo non spacca le ossa puoi trovare rifugio nel buio più nero che la spiaggia ti porge. Olga è sempre triste e quando sono lucido penso che dovrebbe andarsene dalla strada. È una donna e ci sono tanti pericoli, di notte in strada. Ma lei non ne vuole sapere. Con Olga abbiamo ato un lungo periodo a dormire insieme sul lungomare di Falconara, quasi vicino alla raffineria. “Teniamoci per mano, Prince,” mi diceva quando scendeva la sera. “Ecco, Olga, ecco la mia mano,” e le porgevo il palmo. “Non capisci.” “Cosa non capisco?” “Dammi la mano e stammi vicino.” Mi spiegava che non era la mia mano che voleva ma avere una persona accanto. E poi le si bagnavano gli occhi grigi. “Olga, devi andartene dalla strada.” “E dove vado?” “Trova un uomo, una casa. Le donne non devono stare in strada.” “La strada è la mia casa. Non saprei proprio come cambiarla.” E io non sapevo davvero cosa dirle. In quel tratto di lungomare ci sono dei rifugi coperti, che hanno in alto dei tetti d’argento. Mi hanno detto che sono di amianto, ma non ho tanta paura dell’amianto. Più che altro non ho molta paura di ammalarmi, anzi, magari qualcuno si prenderebbe cura di me, portandomi un te nel letto e dandomi delle coperte pulite e calde. Quando mi ero preso la broncopolmonite stavo così male che mi aveva portato
in ospedale un amico di strada. Tossivo di continuo, avevo il torace dilaniato dal dolore, non riuscivo a dormire in nessuna posizione e vomitavo. Una notte il mio amico si stancò di sentirmi tossire, mi prese sotto braccio e mi portò all’ospedale. Dormivamo in un parco, non c’era molta strada da fare. Lì mi lasciò tutto barcollante e poi ricordo solo quando mi svegliai. Era tutto chiaro e pulito, una cosa incredibile. C’era un odore pungente di qualche sostanza, non so, qualcosa di misto tra il detersivo e la varechina. Il petto mi faceva malissimo. Mi curarono e quando tornai in strada mi sembrava che tutto avesse un odore terribile. Fu difficile tornare alla vita da senzatetto, sopportare la puzza di piscio e di pioggia asciugata sui vestiti, quella dei tuoi compagni di viaggio e della loro tristezza. Ci vollero tre giorni per abituarmi, e tornai Amid, il principe dei poveri.
Rimettersi sempre al buon cuore della gente non è semplice, di questi tempi sono in pochi a darti qualche moneta. Quando ero più giovane ero anche più esigente e facevo un gioco: mettevo il cappello a testa in su lungo il corso e chiudevo gli occhi. Spesso mi addormentavo davvero e mi svegliavo con il tintinnio della monetina sul pavé, allora aprivo gli occhi e la prendevo, me la mettevo in tasca e aspettavo un altro dlin sul pavimento. Non mi fidavo neppure a lasciare la moneta nel cappello, che non si sa mai, a occhi chiusi tutto può succedere. In inverno invece per dormire di notte io preferisco la rimessa delle barche. Rubo i cuscini dalle imbarcazioni e me li metto sotto alla schiena, così l’umidità della sabbia non mi penetra troppo a fondo. Ho una certa età, ormai, e anche il mio fisico inizia a sentire il peso della vita di strada. Boris invece dorme sotto i treni, sognando un po’ di calore. Una volta mi aveva invitato a dormire con lui, nel binario morto, ma non ci ho pensato neanche un attimo. Io sono terrorizzato dai treni, ho paura che partano senza che me ne accorga. Non ho nessuna intenzione di morire. Siccome invece Boris ci lavorava, con i treni, quando stava in Russia, li conosce e non li teme. Quando è arrivato in Italia voleva lavorare nelle ferrovie, così aveva chiesto in prestito un dizionario di russo-italiano e aveva imparato molti termini italiani relativi ai treni. Parole inutili, tipo “locomotore”, “massicciata”, “convoglio”: a una era particolarmente affezionato, “deragliare”, perché amava fare una metafora sulla sua vita, diceva che la sua vita era deragliata. Ma solo quando era abbastanza sbronzo da ammettere che niente di quello che voleva per sé era accaduto. Boris è l’uomo più orgoglioso che conosca, e non direbbe mai che la nostra vita è uno sfacelo.
Alzo lo sguardo e vedo una teglia fumante. È arrivata la pasta, sono affamato. Accanto a me si è seduto un rom. È molto giovane e si guarda attorno furtivo. Li conosco, i rom, se possono ti rubano anche il pane. Non socializzano con nessuno e ti mandano maledizioni, con quegli occhi neri che si affondano nei tuoi. Mi sorride, forse non è così male. A forza di stare qui ho iniziato a capire che i giovani rom sono dei disadattati. Gli adulti sono irascibili e sollevano sempre un polverone, anche al pranzo della domenica, una volta uno ha tirato una sedia a un volontario, che poi era un prete. Non sapevamo se ridere o metterci a testa bassa e stare zitti. Gli zingari vogliono tutto e subito, io chiedo un pezzo di pane e loro mi ano sopra con il braccio. Lascio fare, tanto so che il pane arriva anche a me, ma se hai voglia di discutere e sei anche tu uno prepotente puoi uscire e fare a cazzotti. È successo un sacco di volte. Io me ne sono sempre tenuto fuori, sono di indole pacifica. I giovanissimi rom invece sono diversi, al nero feroce degli occhi hanno sostituito un colore più opaco, che racconta di sofferenze. Penso che molti dei giovani non siano felici di vivere da rom e che vorrebbero cambiare qualcosa della loro vita, ma sono incatenati e costretti alle regole del gioco.
Il pollo mi piace, mi piace mangiare con le mani, come quando ero bambino. Non che abbia grandi ricordi, di quando ero piccolo, la memoria si è persa con i fumi dell’alcool, ma ogni tanto ho degli attimi di lucidità che mi riportano al Marocco. Eravamo seduti per terra, sui cuscini, e mamma aveva preparato un pollo. Mi succhiavo le dita come ora. Era pieno di spezie, quel pollo, oggi ho sparso peperoncino in grande quantità, perché per fortuna ce lo lasciano a disposizione. Mi piace mangiare bene. Una domenica i volontari ci diedero le frittelle per Carnevale e mi misi quasi a piangere dalla gioia. In bocca sentii il sapore delle m’semmen fragranti, che mamma tirava su dall’olio bollente per cospargerle di miele. Sono delle frittelle marocchine deliziose, noi le mangiamo tutto l’anno e i bambini ne vanno matti. La cucina marocchina mi è sempre mancata, mi piaceva mangiare bene, mamma era una cuoca bravissima, ma mi piaceva soprattutto mangiare insieme, tutti seduti in cerchio. Per questo continuo a venire al pranzo della domenica, perché qui mi sento accerchiato dal calore umano. Altro che principe, io voglio stare in mezzo al popolo.
A Boris invece il pranzo non piace, lui è un solitario. Non so da che città venga, credo da qualche posto dove il freddo si fa sentire, visto che lui eggia indifferentemente in maniche di camicia in estate e in inverno. Di sicuro si scalda bevendo, quello è certo: è praticamente sempre ubriaco. Anch’io lo sono spesso, è l’unico modo che abbiamo per stare bene. Quando non bevo sto da cani e i pensieri mi aggrediscono il cervello. A volte non sappiamo come fare per procurarci da bere, allora rubiamo. È dura da are una giornata intera, ma quasi quasi è più dura la notte, perché il buio riserba spesso delle brutte sorprese, per questo è meglio addormentarsi pesantemente con tanto alcool in corpo. Un tempo, quando ero più coraggioso e giovane, preferivo dormire di giorno, ero capace di ciondolare tra le panchine dei vari parchi dalla mattina alla sera, ma quando calava il sole gli occhi erano sbarrati e coglievo ogni pericolo. Se mia madre vedesse come sono ridotto morirebbe. Io, il figlio maggiore di sette fratelli, io che dovevo conquistare il mondo e tornare a testa alta… Eccomi qui, un po’ fuori un po’ dentro al carcere, che ormai non so neanche dire dove si sta meglio, se lì dentro o qua fuori. Mamma, non ti ho mai chiamato perché non avrei saputo mentirti.
C’è stato un periodo della mia vita in cui sembrava che le cose prendessero una piega migliore. Riuscivo a fare la stagione da lavapiatti in un ristorante sul lungomare, mi ero ripulito dall’alcool e la Caritas mi dava il cambio vestiti. Avevo addirittura trovato un posto dove dormire, con un materasso lussuoso steso per terra. L’appartamento era piccolo, forse 40 metri quadri, ma ci stavamo in sei. Eravamo tutti uomini e di giorno appoggiavamo i materassi al muro, per fare spazio alla cassetta di legno attorno alla quale mangiavamo. Mi sentivo realizzato, avevo un tetto e un lavoro, c’era l’acqua, che pagavamo al nostro affittuario, e pure la luce. Una vera manna dal cielo. Avevo trovato una bicicletta scassata in stazione, le avevo dato una ripulita e un po’ di olio. Con la bici potevo andare a trovare Boris, che aveva trovato ospitalità da alcuni connazionali a Borgo Catena. Inforcavo la bici e mi sentivo orgoglioso. Un giorno però arrivò una coppia con un bambino di tre anni. Erano amici di uno dei miei inquilini, lei era incinta all’ultimo mese e lui aveva perso il lavoro. Per non lasciarli per strada li ospitammo in casa ma i problemi vennero fuori subito. Il marito dormiva sul terrazzo sopra una coperta, lei e il bambino stavano con
noi. Non ci stavamo, se qualcuno alzava il gomito la toccava e il marito non resisteva al saperla attorniata da sei uomini. Io non mi sono mai azzardato a sfiorarla, ma qualcuno sì, lo so per certo. Così una notte il marito della donna si alzò dal suo giaciglio sul terrazzo, entrò in casa, urlò Bastardi! e iniziò a menare a vanvera, al buio. Le urla svegliarono i vicini di casa che chiamarono la polizia, alcuni di noi vennero portati al commissariato. L’uomo venne riconosciuto per aver rubato un portafoglio da una macchina – lo teneva in tasca, tutto intero, con venti euro, era proprio maldestro, non aveva mai rubato – e finì dentro. La donna rimase con noi due giorni, poi le vennero le doglie e la portammo in ospedale. Fu la sua fortuna, perché finalmente venne assistita dai servizi sociali.
Non ho rubato molte volte, ma tra le poche fui arrestato quasi sempre. Non credo di essere molto fortunato, a riguardo. Forse mi beccavano sempre perché ogni volta che rubavo ero ubriaco fradicio e non mi rendevo conto di cosa stavo facendo. Non ero così ingenuo da tenere il portafoglio in tasca, ma nemmeno così furbo da scappare dal luogo del delitto. Inebetito dai soldi li contavo a pochi i dalla vittima, e mi ritrovavo sottobraccio alla polizia quasi subito. Noi che viviamo in strada conosciamo i poliziotti quasi per nome. Con me sono gentili, sanno che non sono un attaccabrighe e quando vogliono scherzare mi chiamano Prince anche loro, e a me viene da ridere. Il mio primo incontro con loro fu memorabile. Erano i primi di ottobre, cioè un periodo importante per la mia gente, perché si festeggia la “Id al-adha”, cioè la festa del sacrificio dell’agnello. Qualcuno la chiama anche “festa del montone”, da noi in Marocco, o “festa dell’offerta”. Durante questi giorni di festa si deve sacrificare un animale, meglio se una capra, un agnello o un montone. I montoni qui non sapevo dove trovarli, così abbiamo rubato una capra in un allevamento delle campagne. Sapevamo di fare qualcosa di assolutamente necessario ed eroico. Prendemmo la bestia, la appendemmo a un gancio al soffitto di un garage di un nostro amico marocchino che viveva con la famiglia in affitto in un bilocale in città. La sgozzammo, recidendole la gola in modo che il sangue potesse fluire bene nel pavimento. Il sangue è impuro, è proibito per noi mangiarne, come dice il Corano “Allah ha proibito il consumo alimentare della carne di bestia morta, il sangue, la carne del maiale e di ciò che è stato consacrato ad altri che Allah”. La macellazione la chiamiamo “halal”, che poi è il contrario di “haram”, che vuol dire proibito: il sangue deve uscire tutto e sgozziamo in nome di Allah, recitandogli una
preghiera. Fu quello uno dei pochi momenti della mia vita in Italia in cui mi sentii un po’ a casa. Peccato che ne pagammo le conseguenze: il nostro amico venne sfrattato e per un po’ fu meglio non farsi vedere a Senigallia.
Quando gli altri iniziano ad alzarsi da tavola mi guardo attorno. Sulle tavole non c’è praticamente nulla, neanche le briciole. Solo bicchieri di plastica vuoti e piatti che sembrano leccati. Chiedo alla ragazza giovane un bicchiere con l’acqua per mandare giù il pasto. Non berrei mai da un bicchiere che non è il mio, mi fa proprio schifo. Chissà che malattie si portano dietro gli altri, sto molto attento alla pulizia. Sì, in effetti il mio soprannome mi si addice. La ragazza non sente, o forse io non sento cosa mi dice. Sono un po’ sordo, anzi, ho un difetto all’udito che mi porto dietro da quando lavoravo in una fornace, in un paese a sud della Francia. Per ore e ore ero immerso nel rumore più assordante, e non avevo mica i tappi. Quando tornavo a casa, una camera che allora dividevo con quattro ragazzi nordafricani come me, mi buttavo nel letto e mi veniva da vomitare perché mi sembrava di stare in barca. Sentivo un rumore di onde fracassate, di acqua che si scaglia contro un muro, e tutto ondeggiava appena chiudevo gli occhi. Oggi il rumore è più tenue ma lo sento sempre lo stesso, come un sottofondo continuo, non molto piacevole.
Dopo un dolce niente male mi avvicino lentamente all’uscita. Aspetto il mio turno per il bagno, lascio are chi ha il treno e non lo invidio. Quasi sicuramente salirà senza biglietto e il controllore gli farà una scenata, ma tanto la fermata successiva è Marotta e se anche deve andare a Fano rifarà la stessa cosa salendo a Marotta. Non è mica che chiamano la polizia, per dei poveracci come noi! Siamo tanti in questa zona, per due motivi ben precisi: il treno e il mare. Il mare è una tana per noi reietti e il treno tocca tutte le città con i centri di prima accoglienza, Pesaro, Fano, Falconara, Ancona. Guardo fuori dalla finestra e penso che oggi è veramente una bella giornata, non vedo l’ora che arrivi la primavera e il tepore, che il prato qui davanti si riempia di margherite. Stasera spero che qualche bar mi regali una brioche o un panino, così riesco ad addormentarmi. Quando hai i morsi della fame e del gelo è impossibile dormire, per questo devi bere, bere fino a stordirti e non capire più se sei vivo o morto.
La mattina è il momento più duro. Hai le ossa spaccate dalla rigidità del posto dove hai dormito, o dall’umidità della sabbia. Non sono mica tanto giovane, eh, avrei bisogno di un po’ di morbidezza sotto la schiena, allora di notte di solito mi metto da un lato, cambiandolo ogni sera, e cerco tutte le cose morbide che trovo in giro, le coperte, le carte stracce, una volta ho dormito persino su dei cuscini soffici di un divano che era stato buttato via. Ci ho dormito per un mese buono, poi un cane deve averli rotti mentre non c’ero, maledizione. Non sono un amante degli animali, anche se molti di noi vagabondi non vivrebbero senza. “I cani non ti tradiranno mai,” diceva un amico egiziano. Be’, a me un cane ha sbranato i cuscini, fosse per me possono anche crepare, i cani e gli stronzi che mi rovinano il giaciglio. o la giornata a tenere con cura le mie cose, il mio zaino giallo. Ci tengo cose utili, depliant delle pubblicità, qualche salvietta che porto via dai bar, qualche bustina di zucchero, bottiglie vuote di plastica da riempire di acqua alle fontane, accendini esauriti che però ogni tanto, se tenti e ritenti, possono anche funzionare, qualche goccina di gas si vede, insomma, la mia vita sta dentro lì, e guai a chi me la tocca. C’è pure un lumino del camposanto, che accendo quando mi sento troppo solo. Lavoro non lo trovo di sicuro, alla mia età. Le giornate ano sempre uguali, giro qua e là, sorrido a qualcuno che incontro, all’impulsività irascibile del giovane che ero è subentrata una malinconia diffusa, mi trascino dietro me stesso e non penso a nulla. So che la domenica c’è il pranzo alla Caritas, che una volta a settimana posso farmi la doccia qui al Centro, che mica tutti possono farsela, perché di solito la puoi fare una volta ogni trenta giorni nello stesso posto, ma io ormai non mi muovo neanche più in treno. Ormai mi stanca viaggiare, e poi sono un principe e non mi piace lo sporco dei treni, la puzza di sedile bagnato, non si trovano neanche più i giornali, nei treni, che almeno mi erano utili per la notte. Vivo così, senza aspettative e senza grandi paure, piano piano cancello tutto quello che mi sta dentro alla memoria, non mi serve a nulla, addio Marocco, addio fratelli, addio mamma. Vivo seduto, ai bordi della strada, e aspetto le margherite.
Livia
È ancora buio quando mi sveglio. Da quando mio marito se n’è andato vado a letto sempre presto, la sera. Guardo un po’ di televisione, leggo un libro, spesso mentre sono già sotto le coperte, e quasi non mi accorgo del momento in cui gli occhi si chiudono. A lui invece piaceva molto dormire fino a tardi, la mattina, e svegliarsi con il profumo del caffè. Mentre mi preparo la colazione accendo la radio. Oggi sarò di turno alla Caritas. Provo a immaginare cosa troveremo in cucina, ogni tanto mi piacerebbe preparare qualcosa di fuori dal comune per gli ospiti, che so, broccoletti gratinati, per coccolarli un po’. I miei figli li adorano. Quando mi vengono a trovare, nelle domeniche invernali, glieli preparo quasi sempre. Ho un segreto per renderli deliziosi, ma non lo racconto a nessuno. Do una pulita veloce al tavolo della cucina, mi metto il cappotto e vado a Messa.
10:00 Metto piede nella grande cucina della Caritas. Ogni volta che ci entro mi sembra diversa. Qualcosa è stato spostato, qualche piatto fuori posto, una nuova presina, piccoli dettagli che riconosco al primo sguardo. È da così tanti anni che uso questa cucina che la sento mia. Mentre apro il frigorifero e penso cosa ci potremmo inventare per il pranzo di oggi, si spalanca la porta. “Ciao, Livia! Ma a che ora arrivi? Sei sempre la prima!” Sono Sergio e Giovanni. “Sono stata alla Messa delle nove. Spogliatevi, forza, che non è mai troppo presto per cominciare.” “Cosa prepariamo oggi? Il solito tacchino in crosta ripieno di castagne e funghi?
Ah, ah, ah!” Sul tavolo ci sono una quindicina di confezioni di pollo intero, in frigo grandi quantità di ceppi di insalata e patate. Sicuramente sono di Undicesima Ora, si vede che sono freschissime. Da quando c’è la cooperativa sulla verdura siamo molto più fortunati, arrivano tanti prodotti di grande qualità.
10:15 Do un’occhiata all’orologio. Sono arrivati tutti. Oggi siamo pochi, dovremo lavorare sodo per cucinare tutto nei tempi e non fare aspettare gli ospiti. La macchina organizzativa si mette in moto, do i compiti ai volontari, prendo in mano la mannaia e inizio a porzionare i polli. Avrò da fare per un bel pezzo, ma preferisco farlo io, per non far trovare nei piatti troppi ossicini rotti. Sono una perfezionista e quando cucino, dovunque sia, lo faccio come fossi a casa mia. Nessuno della parrocchia ha deciso che io debba interpretare il ruolo della cuoca, in fin dei conti lo siamo un po’ tutti, qui dentro, però gli anni di esperienza e il mio amore per la buona tavola mi hanno eletta “capo cuoca”.
11:00 “Lavate bene l’insalata, non ci devono essere tracce di terra. E conditela all’ultimo minuto, non si deve apire.” “Bene, capo. Accendiamo i forni?” “Ma certo! Cosa aspettate? E le patate a pezzi non troppo grandi, eh.” Faccio la cuoca da tanti anni, qui alla Caritas. Cucinare per gli altri mi è sempre piaciuto molto, ascoltare il silenzio di chi mangia con gusto qualcosa di buono, vedere il sorriso quando la prima forchettata scompare nella bocca... La cucina per me è un atto d’amore. Mi piace farlo per i miei cari, ma quando cucino per gli ospiti provo una sensazione ancora diversa, perché non è la conferma di un amore corrisposto, è una sensazione che oltrea i confini del quotidiano ed entra nella sfera della sorpresa. Gli ospiti non si aspettano che io elargisca affetto, quindi si sorprendono nel riconoscere, nel piatto, qualche ricordo antico
e dolcissimo. Ogni tanto mi piace guardarli dalla piccola finestra della cucina e cercare, tra i tanti, quel volto che mi ringrazia con un sorriso.
11:40 Guardo l’orologio per l’ennesima volta. Luca si accorge della mia preoccupazione e prende i piatti. Gli uomini si accingono ad apparecchiare. Il pollo è in forno che sfrigola, condito come dico io e mescolato nelle teglie con grande cura. Le patate sono in forno. Manca solo l’insalata. L’acqua per la pasta forse è un po’ indietro, ma di poco. Siamo quasi perfettamente sincronizzati. Per le 12.40 dovrebbe essere in tavola il primo. “Il sugo è buono? Avete sminuzzato per bene il tonno?” “Mi sembra ottimo!” “L’hai assaggiato, Sergio? I cuochi assaggiano sempre.” “Tu sei troppo professionale, Livia! Mica siamo al ristorante!” “Assaggia.” A volte sono un po’ dura nei modi, ma ognuno di noi qui ha voglia che vada tutto bene. Quando ci troviamo di fronte a una difficoltà durante il pranzo ci sentiamo inevitabilmente colpevoli. Quando, per esempio, dobbiamo portare in tavola i wurstel già ci sentiamo vacillare: sicuramente qualche ospite non mangerà perché teme che contenga carne di maiale. Non c’è mai carne di maiale, per loro. Mai prosciutto, mai ragù con il macinato di maiale, mai salsicce. I wurstel sono di pollo e tacchino, ma spesso loro non si fidano, allora dobbiamo recuperare le buste nel sacco dell’immondizia e mostrargliele. Non sempre si mettono il cuore in pace.
12:10 Mi affaccio alla finestrella della cucina. I tavoli sono pronti. Le caraffe d’acqua brillano alla luce del sole. Oggi è davvero una splendida giornata d’inverno. Il
pensiero del calore del sole mi rasserena perché so che i ragazzi là fuori non avranno freddo. Mi è capitato di stare qui dentro quando fuori il gelo li intirizziva e mi si contorceva lo stomaco, al solo pensiero dei loro brividi. Quando entrano in sala, in quei casi, faccio sempre un gesto di cui nessuno dei volontari si è mai accorto. Spalanco la porta della cucina, tenendola ferma con il piede. Resto un po’ lì, con il grembiule e la faccia arrossata, e lascio che il fumo, il profumo, il calore inondi la sala. E in mezzo io, come una vecchia mamma consolatoria. “Avete preparato i bicchierini con sale e peperoncino?” “Accidenti, Livia, ci eravamo proprio dimenticati. E il pane?” “Sto per scaldarlo nel forno. È di ieri, non è morbido.” “Guardate, sta entrando Elisa con due bustone di carta piene di pane. Che tempismo!” “Il panificio del centro ci ha appena regalato questi chili di pane ancora caldo. Delizia!” “Favoloso. Saranno felicissimi. Tagliamo i panini a metà e mettiamoli tutti nel cestone di paglia. Ricordatevi le pinze per porgerlo, non a mani nude.”
12:20 Ho appena buttato la pasta. Sono penne. Stanno molto bene con il tonno. Ammetto che non ho scelto il formato per questo motivo, è stata una questione di fortuna. Nella dispensa Sergio ha trovato uno scatolone intero, ancora sigillato, con 16 pacchi di penne. Gli altri formati erano tutti in piccole quantità, e a me non piace mescolare i formati, non di domenica. A volte lo dobbiamo fare, ma se si può evitare sono molto più contenta. Abbiamo buttato giù otto chili di pasta. Se gli ospiti sono una sessantina saranno necessari. Se il sugo è buono non ne resterà neanche tanta per noi!
12:30
Sento i i e le voci. Sono entrati. Inizia a fare davvero un po’ troppo caldo, qui dentro. “Portate la pizza scaldata, come antipasto. È rimasta da ieri sera, credo. Non è moltissima ma se la tagliamo a strisce renderà molto. Ricordatevi: diamo a tutti la stessa cosa e le stesse quantità.” “Con il piatto?” “No, sulla salvietta di carta. Ricordatevi le pinze.” “Ehi, dove scappate? La preghiera. Se non la dite voi vengo io, non mi interessa a chi diranno grazie, diamo l’esempio e siamo riconoscenti per questo momento insieme.” “Non ti preoccupare, Livia. Ci abbiamo già pensato. Ha deciso di dirla Giovanni.”
Getto un’occhiata in sala e tra i tanti uomini la vedo, spicca come un palloncino rosso sulla neve. È Olga. Viene qui da tanti anni e sento di esserle affezionata, a lei e quei suoi modi buffi da pupazzo di stoffa. Una mattina eggiavo lungo il corso, quando una voce mi scosse dai pensieri. “Signora! Signora della Caritas!” Mi voltai e la vidi. Era inconfondibile, con quei capelli arruffati biondo cenere. Mi si avvicinò lentamente, con le gambe pesanti e il o affaticato. “Come ti chiami, signora?” “Io sono Livia. Tu sei Olga, vero?” “Sì, signora, ti prego aiutami, è andato via anche lui.” Olga ha una storia dolorosa alle spalle. Arrivò in Italia dalla Russia qualche anno fa per tentare la fortuna. Venne sola, era bella ma quei capelli biondi, che un tempo scintillavano al sole, furono la sua sventura. Gli uomini ne approfittarono,
la sfruttarono, prese così tante botte che ora le sue gambe sono delle masse informi che il suo corpo si trascina dietro. “Tanti calci”, mi raccontò una sera al Centro d’ascolto quando le chiesi cosa avesse negli arti inferiori per camminare così male: tanti, tanti calci. Non ho mai avuto il coraggio di chiederle se si prostituiva o se sceglieva solo gli amanti più sbagliati, so per certo che lei l’amore voleva mettercelo, nelle sue storie, ma veniva ripagata con soprusi. Olga è una senzatetto ma ha mantenuto il suo carattere riservato e si vergogna a presentarsi al Centro quando ha il viso tumefatto. Aspetta qualche giorno, si trucca con mani inesperte per camuffare i lividi e i graffi. Le ernie alla schiena, venute fuori quando d’estate guadagnava trasportando i contenitori termici del gelato – due alla volta , le dicevano, non puoi sollevarne uno solo! -, ora le impediscono di fare lavori stagionali e ormai vive solo in strada. È sempre alla ricerca di un uomo, in strada è molto importante avere qualcuno che ti sta vicino, “lì fuori ci dobbiamo tenere per mano”, mi aveva detto una domenica, quando la vidi che si accoccolava a un signore che poteva essere suo padre. Gli occhiali da sole improbabili di un colore rosa che le vedo addosso stamattina mi fanno pensare che anche stavolta l’uomo che dovrebbe proteggerla ha usato le mani. Ma lei, delle violenze, non vuole parlare. “Olga, stai attenta, non ti fidare del primo che a. Non lasciare che ti facciano del male, Olga, mi senti? Perché non ti togli gli occhiali?” “Non capisci niente.” È vero, non capisco niente. Che ne so io della strada, che ne so io di cosa si fa quando arriva il buio e c’è una notte lunghissima da trascorrere a cielo aperto, e hai i morsi della fame e senti il freddo che ti punge come tanti aghi e gli uomini che ti stanno vicino sono ubriachi e ti pestano con rabbia, non gli interessa se un tempo eri una ragazza bellissima e piena di speranze, e oggi sei disperata e non hai nemmeno la forza di fartele, tutte queste domande. Cosa ne so, io? Niente. Io non ne so proprio niente. “Non andare, Olga.” Ma lei si è già girata e la guardo, mentre ondeggia verso la Rocca, dandomi le spalle. Mi dispiace, Olga. Vorrei tanto saper fare qualcosa per te.
12.33
Scoliamo la pasta. Ne teniamo da parte mezzo chilo, in una terrina, se qualcuno non la gradisce con il sugo di tonno e la preferisce in bianco. Succede quasi sempre. “Tieni un po’ di acqua di cottura per tenerla morbida, e mettici un po’ di olio.” Addento una penna. Perfetta. Di cottura e di sale. “Ci siamo. Uscite pure con le teglie!” “Il formaggio?” “Niente formaggio in tavola. Poi se lo litigano.” Mangio una striscia di pizza al rosmarino. Stamattina ho fatto una colazione troppo leggera, mi è venuta fame. Sarà questo profumino di pollo arrosto e rosmarino, chissà. Giovanni e Luca tornano in cucina dopo pochi minuti. “Ancora pasta! Prepariamo altre teglie. Stanno arrivando molti altri ospiti.” “Quella in bianco tenetela sempre lì. Se non la vuole nessuno la uniamo all’ultima porzione di sugo.” “Agli ordini!”
13:10 Il pollo è uscito dal forno. Le patate sfrigolano. Cottura puntuale. Io e Silvana prepariamo i piatti dei secondi. Sarebbe impossibile gestire il secondo in sala, con i primi invece scodellare è l’ideale, anche perché tutti mangiano due o tre porzioni e quando hanno ancora l’ultima forchettata in bocca ci porgono il piatto chiedendone ancora. Per i secondi appoggiamo sul largo piano di acciaio una ventina di piatti e li riempiamo. “Silvana, due pezzi di pollo, una cucchiaiata di patate arrosto e una manciata di insalata. Senti che profumo…”
Quando entra Luca carica il carrello dei secondi, intanto io e Silvana ci accingiamo a preparare gli altri piatti. 58, 59, 60. Ci siamo. Non so con precisione se sono sessanta, oggi, i nostri ospiti. Da qui dentro è difficile capire la situazione. Quando entra qualcuno devo chiedere se ci siamo con i numeri. Le patate sono finite. Di insalata ce n’è ancora abbastanza ma quasi nessuno vuole il bis. A questo punto conto quante coscette e quanti pezzi di pollo sono rimasti. Precisamente 54. Entra Luca con impeto. “C’è bis di pollo e patate?” “Patate terminate, il pollo c’è ma non per tutti. Possiamo dividere i pezzi a metà, così non li lasciamo a bocca asciutta.” “A bocca asciutta? Livia, hanno mangiato un etto e mezzo di pasta a testa, due bei pezzi di pollo, patate e insalata!” “Luca! Quei poveretti hanno fame! Devono fare una bella scorta di calorie, oggi. A proposito: quanti ospiti abbiamo a tavola?” “Sono 56, li ho contati proprio prima di entrare qui. Continuava ad aggiungersi qualcuno.” “Bene, quindi le previsioni erano giuste. Dai, Luca, aiutami a tagliare il pollo a metà e poi porta il dolce.” “Ti ricordi, Livia, quella volta che hai fatto le castagnole?” “Certo che mi ricordo! Vi ho sbalorditi tutti, eh? C’erano tante uova, era Carnevale, mi sembrava proprio carino fare qualcosa di speciale.” “E la faccia di Amid, te la ricordi? Il sorriso gli bucava la faccia!” “Quella volta Prince era venuto di persona a ringraziarmi. Chissà che ricordi gli erano tornati a galla con la castagnole… Dobbiamo rifarle, eh!” Anche stamattina, appena alzata, avevo pensato di preparare un dolce, poi ho aperto la credenza e mi sono accorta che mancava lo zucchero. Da quando sono
rimasta sola lo zucchero è latitante, in casa mia. Così, per non arrivare a mani vuote, ho messo in una busta un pandoro che avevo in casa, ma quando ho visto le magnifiche torte della moglie di Luca l’ho nascosto nella dispensa.
13:40 In cucina non c’è più nulla. Qualche pezzo di pollo, una bella ciotola di insalata condita, una teglia a metà di pasta. Inizio a sentire la tensione che cala. Mi sto rilassando e il calore nel viso mi fa sentire stanca. Avrei voglia di sedermi sul divano e chiudere un po’ gli occhi. Sono molto soddisfatta di questo pranzo. Giovanni mi ha detto che alcuni ospiti hanno fatto i complimenti e nei piatti non c’è una briciola. Nel mio piccolo ho regalato un po’ di allegria. Che dentro me si moltiplica e diventa una gioia maestosa e fiera. Prima di andare a letto, la sera, mi lavo il viso e mi guardo allo specchio. Alcune sere mi sento vuota e sola, altre sere sento che dentro me c’è qualcosa di luminoso che pulsa, ed è la soddisfazione di aver fatto qualcosa per qualcuno. Un maglione al nipotino. Un pranzo per gli ospiti. Un mazzo di fiori a un’amica. Quelle sere mi sento viva.
A questo punto l’orologio non lo guardo più. Il tempo ora non è più importante. Sento la stanchezza e la fame. Mi siedo, assaggio la pasta, il pollo e l’insalata. Mi sembra tutto buono. Chiacchieriamo tra di noi. Ascolto ma non parlo. Mi godo questa sensazione di benessere, la leggo negli occhi di Sergio, di Luca, di Elisa. È nuova, Elisa, e per lei è tutta una accecante novità. Per me non è una novità, ma l’emozione rimane la stessa. Quando cuciniamo di domenica è tutto più speciale, perché la domenica è un giorno speciale. Noi siamo qui con gli ospiti, mentre le famiglie sono sedute a casa, tutti attorno al tavolo. E di domenica ci sono piatti prelibati, gli arrosti, la pasta all’uovo, la domenica ci sono dolci che durante la settimana non ti concedi. E si resta seduti a parlare, in quell’atmosfera suadente e comoda del pranzo della domenica. Qui c’è la medesima dolcezza, o almeno noi cerchiamo di mettercela.
Anche durante la settimana ogni tanto vengo a cucinare. Eh sì, perché non c’è solo il turno della domenica, da fare. La domenica gli ospiti sono tanti, ma
durante la settimana ci sono pranzi e cene tutti i santi giorni, per meno ospiti, una ventina di solito. C’è qualcuno che cucina, qualche volontario, qualche signora. I tempi sono diversi, si arriva a mezzogiorno e si va via presto, perché durante la settimana tutti hanno impegni e orari. E il giovedì non sarà mai speciale come la domenica. Da qualche anno non ci sono più gli obiettori, che gestivano il centro. Ricordo che quando c’erano loro le cose erano più facili. Avere qualcuno che ha il pieno controllo di una cucina, della spesa, dei resti del giorno prima, del pane, del latte, è fondamentale. È come a casa, per cucinare devi saper dominare la cucina. Da quando gli obiettori non ci sono più la cucina in certi momenti è allo sbando, il frigo è mal gestito, le lavastoviglie piene di piatti sporchi. Ma nessuno dei volontari si lamenta. Chi arriva per il turno settimanale sa che i turnisti della domenica daranno il giro di vite. Tra di noi le chiamiamo “le pulizie generali”.
Quando mi alzo da tavola vedo che tutti sono intenti a rassettare. “Livia, stai seduta, tu! Hai porzionato così tanti polli che ti meriti un po’ di riposo!” “Ma dai, vi aiuto. Almeno metto su il caffè.” “E stasera vieni a cucinare a casa mia? Sai… ho cinque amici di mio figlio a casa, poi vedono la partita insieme.” “Falli cucinare, no? Vedrai che si divertiranno!” “Ma figurati, a cucinare!” Quando c’era Alfio, mio marito, si divertiva a prepararsi da solo da mangiare, nei giorni in cui ero alla Caritas a pranzo. Aveva imparato a farsi un sughetto con i pomodorini, la salsiccia e la maggiorana e diceva che non c’era niente di più buono al mondo. Ci condiva un etto di spaghetti ed era felice. Le prime volte mi dispiaceva lasciarlo solo, alcune amiche erano imbarazzate quando raccontavo che io andavo a cucinare fuori mentre mio marito stava a casa da solo. Con Alfio non mi sono mai dovuta giustificare, lui faceva il volontario alla Croce Gialla: quando inizi a fare volontariato non ne esci più, è come un vizio. Non abbiamo mai navigato nell’oro, con la sua pensione di 519 euro riuscivamo a vivere
dignitosamente, ma la nostra vera ricchezza era stare con gli altri e aprire le braccia al prossimo.
Anche questa domenica è trascorsa e il sole è così alto e brillante nel cielo che quasi quasi quando esco mi vado a fare una eggiata. La domenica è un giorno unico e irripetibile per tanti motivi, anche perché abbiamo più tempo. Niente orari di lavoro, niente commissioni da fare, niente orologi che ticchettano con insistenza. A me questo tempo regalato piace dedicarlo agli altri. A qualcuno piace dedicarlo al calcio. A qualcuno a dormire. Ognuno fa quello che crede giusto per sé e per il suo benessere. Io so che stasera, in camicia da notte, mi guarderò allo specchio e mi sentirò davvero bella. È una questione di luce.
Il signore gentile
È sabato sera e sono dentro casa. Mi stavo assaporando C’è posta per te in televisione, con la solita commozione. Tutti quei pianti, quelle persone che si incontrano, si abbracciano, che si dichiarano amore e perdono, be’… mi riempiono il cuore. Quando c’è la pubblicità spesso mi alzo, vado in bagno, bevo un bicchier d’acqua, guardo di sfuggita il mio riflesso sullo specchio dell’ingresso: mi accorgo di essere diventato vecchio. Ogni tanto mi perdo a osservare l’angolo della strada, dove curva verso il lungomare. È proprio lì, in quell’angolo buio, che ho visto per l’ultima volta Ada, la mia gatta. È accaduto quest’estate, le avevo aperto la porta, non si sentiva bene, quella settimana, ma era uscita lo stesso, scomparendo dietro quell’angolo, come fosse stata inghiottita dalla notte. Da quella sera non ho più saputo niente di lei. Torno in poltrona, tiro su la coperta sulle gambe magre e aspetto che Maria De Filippi presenti la prossima storia. Stasera mi sento felice. Non capita spesso, ma da un anno a questa parte il sabato per me è una giornata fantastica. Se lo raccontassi in giro mi direbbero che sono pazzo, ma per me il sabato è speciale perché è la vigilia della domenica. E la domenica alla Caritas c’è il pranzo sociale. Il pranzo della domenica mi ha cambiato la vita.
Ho 79 anni, i capelli sono ormai tutti bianchi e sono solo. Se la scrivi, la parola solo ha già un suo spessore. Quelle o messe così vicine danno un’idea di consistenza, di pienezza. Mi capita spesso di prendere un foglio e scrivere le parole che penso, mi ricorda quando facevo il cameriere e scrivevo le ordinazioni. Tutte le parole, allora, erano gustose, scrivevo antipasto caldo , arrosto di pesce e ne sentivo l’odore. La parola solo invece è incoerente perché la sua forma è piena ma la sua sostanza è vuota. Essere soli significa essere scavati, erosi. La solitudine arriva lentamente, si sedimenta con calma e senza tregua. Quando perdi qualcuno non ti senti solo, piuttosto ti senti perso, travolto, insicuro. Quando ano i giorni la tempesta a, le gambe che vacillavano
iniziano a riprendere l’antica stabilità, tu riconquisti l’orientamento. È a quel punto che la solitudine si fa strada nella tua vita. E la sua non è una compagnia molto piacevole.
Vado a dormire appena finisce la trasmissione. Uno sguardo ancora alla finestra, a indagare le orme di Ada. Mi addormento profondamente e sogno di svegliarmi con un bel sole. Al mattino non uso la sveglia, anche quando lavoravo fino a notte fonda avevo il mio orologio interno che mi faceva aprire gli occhi alle nove. Alzo la tapparella e un raggio di luce mi colpisce. Che meraviglia di giornata. Mi vesto con cura, stendo la biancheria che ho lavato e rammendo un paio di calzini. Da giovane avevo iniziato a fare il sarto, era il lavoro perfetto per me. Delicato, attento ai particolari, mi dava la possibilità di trovare l’armonia, in un abito come in una giacca. Il problema era che non guadagnavo nulla, facevo l’apprendista in una bottega, al massimo qualche cliente facoltoso mi sganciava qualche mancia. Fu allora che mio padre volle che seguissi le sue orme e feci, controvoglia, il marmista. Non mi sono mai lamentato. Il lavoro è lavoro e, di qualsiasi lavoro si tratti, va fatto con ione e diligenza. Certo, se riesci a fare un lavoro che ti piace è tutta un’altra cosa. Nodo, colpo di forbici, i calzini grigi sono pronti. Indosso il mio maglione preferito, è blu con un bordo grigio sul collo, un’occhiata alle unghie: devono essere perfette, è una mia fissazione da quando lavoravo. Che bellezza, oggi è domenica.
Esco a piedi e alle 11.15 sono seduto in una panca a metà della navata della chiesa del Portone. Non sono di questa parrocchia, ma da quando ho iniziato a venire a pranzo alla Caritas di domenica ho pensato che sarebbe stato carino uscire dalla messa ed entrare in sala a mangiare, senza dover fare tanta strada. Un po’ come le persone normali, che vanno a messa nel loro quartiere e in pochi i sono a casa, davanti a una tavola imbandita e prelibata. Dopo la messa mi accodo alla gente in uscita, saluto la mendicante con le trecce che tutti i giorni si fa trovare qui all’uscita, le sorrido, forse la incontrerò dopo a tavola, attraverso le strisce pedonali ed eccomi al cancello verde. C’è già un capannello di persone. Alcuni stanno seduti sulle panchine con la faccia rivolta verso il sole. In inverno un sole così caldo può riuscire a scaldare il freddo della notte ata all’aperto,
o il freddo che senti dentro. Sorrido a qualcuno, altri mi ignorano. Non so nulla di loro ma mi sembra di conoscerli da tempo. Mentre aspettiamo che scocchino le 12.30 qualcuno si lamenta. Che cavoli, potrebbero aprire . Io penso che oggi invece potrebbero anche tardare ad aprire, per farci godere questo sole. Ma io non ho la fame che ha qualcuno di loro. Io ho fatto la mia colazione, stamattina, un caffè e due fette di pane con il miele. Sono un privilegiato, rispetto a queste persone, e talvolta mi prende un senso di colpa che mi stringe lo stomaco. Ho una pensione, io, non sono un vagabondo, non sono costretto a chiedere l’elemosina. Mi sento in colpa per non essere povero come loro. Mi sento in colpa per sedermi a una tavola per poveri. Poi però sciolgo la morsa del senso di colpa e trovo una scusa al mio comportamento: io ho bisogno di questo pranzo. La mia povertà è più subdola, io ho i soldi ma non ho l’affetto. Non ho amici, ho un fratello maggiore che vive a Torino e ha la sua vita, nella quale non ha mai voluto farmi entrare. Mi sono fatto tante domande sul perché mio fratello non mi abbia voluto bene ma non ho trovato una risposta valida. L’ho sempre giustificato, è sposato, ha dei figli, ora persino dei nipoti, che bellezza, quanto ne vorrei qualcuno anch’io, da coccolare, da portare a eggio nelle giornate come questa, da tenere vicino a me sul divano per guardare un cartone animato. Invece mi ritrovo con un fratello che si sente figlio unico e i nipoti che non sanno neanche come mi chiamo. È una situazione dolorosa.
Il cancello si apre, entriamo tutti insieme. Faccio are gli altri, le donne soprattutto. Il mio mestiere mi è rimasto nei gesti, a una donna devi sempre aprire la strada e accompagnarla con dolcezza. Qui sembra che nessuno abbia queste attenzioni, forse non sono mai stati camerieri. Allungo lo sguardo verso il viale e vedo Novi che cammina a i svelti, con il suo immancabile zaino rosso e nero, verso di noi. Lo aspetto al cancello: non posso dire che sia un amico ma gli voglio bene. È lui che mi ha introdotto a questo pranzo. “Ciao Novi!” “Ciao amico. Non entri?” “Ti aspettavo. Mi prendevo un po’ di sole.” “Ah. Entriamo.”
Circa un anno fa, era prima di Natale, iniziai a stare molto male. Non riuscivo più a mangiare. Provavo a mandare giù varie cose ma mi si fermava tutto in gola, come se qualcuno mi avesse annodato il tubo digerente. Fui invaso da una debolezza spossante, stavo seduto sul divano a fissare il vuoto e a centellinare gocce di te. A volte avano giorni senza che toccassi qualcosa di solido. Ada se n’era andata da qualche mese e io non parlavo più con nessuno. Le giornate trascorrevano senza nessuna emozione. Nemmeno il sole mi metteva un po’ di allegria, nemmeno certi programmi in televisione. Tutto era spento e aveva perso la luce. Stavo lentamente morendo. Un pomeriggio stavo seduto in una panchina in città. Faceva freddo ma non sentivo più neanche gli sbalzi di temperatura, come se il mio sangue si fosse paralizzato e congelato in un punto preciso della mia vita. Mi si sedette vicino un signore. Prima di tutto notai la sua puzza di cantina umida. Quella puzza mi diede una scossa, il mio sangue ricominciò a scorrere e provai una sensazione di caldo che mi si diffondeva nel corpo. Dopo la puzza sentii il suo alito alcolico e vidi i suoi occhi chiari che mi colpivano. “Hai una sigaretta?” Non risposi. Avevo la bocca impastata. Stare da soli e non parlare con nessuno ti rende difficile articolare i suoni, come se si disimparasse a usare le parole. Bisogna esercitarsi, da soli, per mantenere l’uso della parola. “Ehi, non capisci? Hai una sigaretta? Sigaretta? Fumi?” E fece il gesto di chi fuma, con le due dita unite verso la bocca. “N-no.” “Ma non sei italiano? Non parli?” “Sì, sono italiano. E tu?” “Io no, io Ungheria. Fumi?” “No, vuoi una sigaretta? Se vuoi ti compro un pacchetto.”
L’uomo sbarrò gli occhi come avessi detto una pazzia. “Bravo, Malboro rosse.” Non so perché gli proposi di comprargli le sigarette. So che ero così emozionato a sentire di nuovo il calore di un essere umano che non volli perdere l’occasione. Mi alzai dalla panchina, mi diressi verso il tabaccaio davanti alla panchina. Di colpo mi venne il timore che quell’uomo se ne andasse e mi girai di scatto. Lo vidi lì, che frugava dentro a uno zaino logoro rosso e nero. Mi voltai di nuovo, entrai, chiesi un pacchetto di Malboro rosse, pagai e uscii di corsa. Quando lo vidi ancora lì, che guardava verso di me, mi sentii fiero. Stavo facendo qualcosa per qualcuno. “Ecco qui. Va bene?” “Bene, bene.” Aprì immediatamente il pacchetto, gettò la plastica a terra e si accese una sigaretta. Faceva boccate profonde e teneva la Malboro tra pollice e indice. Poi, una volta finita, la gettò a terra e mise il pacchetto nello zaino. Quando lo aprì notai almeno una decina tra panini e pizzette, avvolte nella pellicola. Non ebbi il coraggio di chiedergli cosa ci fero tutte quelle cose nel suo zaino. “Che fai tu? Hai i soldi.” “Sì, sono in pensione. Non sto tanto bene, era da tanto che non parlavo con qualcuno.” “Perché? Sei malato?” “Forse sì. Sì, sono malato. Ma oggi mi sento meglio.” “Ciao amico.” “No, aspetta, per favore. Come ti chiami?” “Novi. Stanotte dormo qui, domani c’è il pranzo alla Caritas.” “Ah. Mangi lì? Mangi bene?” dissi, senza sapere cosa dire per trattenerlo.
“Mangio. E tu mangi? Sei magro.” “Mangio poco, ultimamente. Mi sento solo. Mi sento giù. Come se tutto fosse finito.” “Vieni anche tu domani a mangiare. Tutti vengono.” “Io? Ma posso? Ma…” “Vieni. A domani, ciao.” E se ne andò. Camminava con un o da soldato, a gambe strette e tese. Lo zaino in spalla, la testa bassa. Per me quell’uomo era un angelo caduto dal cielo. La sua puzza desolante mi aveva rianimato. Finalmente ero tornato un uomo. Mi misi a ridere.
Nella sala siamo già in tanti. È tutto apparecchiato con cura. Un uomo con la camicia e una ragazza giovane e sorridente ci accolgono. Firmiamo il registro, nome e cognome, la firma. Il mio vicino mi dice Non so firma . Gli dico di fare un segno, che non penso sia molto importante, basta che metta il nome. Novi si siede vicino a me e rovista nel suo zaino. Getto un’occhiata dentro e vedo sbucare i soliti panini avvolti nella pellicola, come sempre sono un bel numero di panini, ma non so a quando risalgano. Novi ha un odore di alcool molto forte, ma non mi sembra ubriaco. Vedo che si abbassa e beve un po’ di vino da un cartone. Quando si accorge che lo vedo mette via tutto. Ma per me può fare quello che vuole. Le regole di questo pranzo dicono che non puoi portare niente di alcolico da fuori, che non devi arrivare qui ubriaco. Ma penso che se non sei violento, se non dai fastidio agli altri, lascino correre. Novi non farebbe del male a una mosca, lui è perso nel suo mondo. E poi Novi mi ha tirato su dal burrone, per lui sarei disposto anche a mentire. Qualcuno si lamenta del ritardo. È cotto il pollo? Abbiamo fame, dai . Porta, porta . La ragazza continua a sorridere, penso sia la prima volta che fa la volontaria, si vede che è molto dispiaciuta di non poter far arrivare subito i piatti. Non mi piace quando gli altri ospiti sbraitano, non lo trovo corretto. Siamo qui per grazia ricevuta, queste persone ci servono e cucinano per noi, non abbiamo il diritto di lamentarci. Dire grazie a molti sembra costare molta fatica.
La porta della cucina si apre, un fumo odoroso e caldo ci inonda e due uomini portano fuori il carrello con le pentole di acciaio piene di pasta. Mi viene l’acquolina in bocca. Novi approfitta della distrazione comune e beve un altro goccio dal cartone. Un bel sorso, gli sento l’alito di vino rosso e noto gli occhi annacquati. Mangio con gusto la pasta, qualcuno trangugia senza masticare. Io sono più lento, chiedo il bis dopo gli altri. “Posso avere un altro piatto?” La ragazza mi sorride con un’infinita dolcezza. Forse apprezza la mia gentilezza, povera ragazza. Non erano stati molto carini con lei, finora. A tavola non si parla con nessuno. Chi apre bocca lo fa per chiedere qualcosa, per lamentarsi, per pretendere. Quando lavoravo al ristorante a volte capitavano dei clienti simili, arroganti e maleducati. Io sapevo mantenere il mio integerrimo senso del controllo e li trattavo come i clienti più gentili. Il padrone del ristorante, quando adocchiava un avventore rompiscatole, mandava sempre me. Sistemalo tu , mi diceva facendomi l’occhiolino. E io, con una gentilezza sbalorditiva, lo annichilivo. Ci restavano di sasso, lui e la rispettiva signora. Per questo quando vengo qui, la domenica, osservo con attenzione come si muovono i volontari, e ci resto male quando qualche ospite scortese li fa arrabbiare. Bisogna avere un po’ di pelo sullo stomaco e sentirsi orgogliosi di se stessi, per vincere sull’arroganza.
Il secondo è ottimo, un pollo cotto a puntino, fragrante, pieno di aromi. È degno di un ristorante, lo voglio proprio dire al cuoco, quando gli altri se ne sono andati. Se fai complimenti e sei troppo educato i tuoi compagni di tavola ti guardano storto, e io non voglio mettermi in imbarazzo. Penso che per molti la violenza dei modi sia venuta fuori in modo istintivo di fronte alla cattiveria che si sono trovati intorno. Non posso giudicarli per questo. Io sono stato fortunato a non perdere i miei modi cortesi. Mio padre da piccolo mi tirava uno schiaffo quando non ero beneducato, e mia madre era fiera di me quando, eggiando per la strada, mi fermavo a salutare le sue amiche e dicevo Buongiorno . L’educazione della famiglia costruisce l’uomo che sarai.
Il ragazzo con la camicia celeste esce dalla cucina con piglio trionfale: ha in
mano un vassoio con delle fette di torta. Lo guardo negli occhi e lo ringrazio. Il pranzo della domenica che si conclude con un dolce è ciò di più soave che mi possa capitare. Chiudo un attimo gli occhi e assaporo questa crostata. È deliziosa, riconosco la marmellata di fragole fatta in casa. Assomiglia a quella che preparavo a mia mamma nel periodo in cui stava morendo. Non riusciva a deglutire e i suoi occhi si annebbiavano di giorno in giorno. Ricordando che da piccola adorava la marmellata di fragole pensai di prepararne un po’. Non l’avevo mai fatta prima di allora ma fu facile. Metti le fragole a pezzi, lo zucchero e qualche mela per addensare. Per qualche settimana si nutrì principalmente di quella. Sembrava avesse preso persino un colorito più roseo. Poi l’effetto benefico della marmellata svanì e con lui il suo sorriso appena accennato. Quando mia madre rimase vedova, non molti anni fa, disse che nella nostra vita non sarebbe cambiato nulla, invece dopo pochi mesi si ammalò, la ricoverarono in ospedale e io le feci assistenza. Le infermiere mi volevano bene, perché le aiutavo a cambiare il letto e ad asciugare il comodino dove mamma rovesciava di continuo il bicchiere dell’acqua. Mi dicevano che ero un uomo d’altri tempi, mi chiamavano “il signore gentile” e io arrossivo. Si chiedevano perché a 74 anni ancora non mi fossi sposato, e io mi schernivo dicendo che non era mai arrivata la mia regina. Ogni tanto me lo sono chiesto, perché non mi sono sposato. Non cercavo una regina per davvero. Però è andata così. La donna per me non è arrivata.
Tutti si alzano per andarsene, vedo Novi che guarda l’orologio appeso alla sala e si affretta. Gli chiedo se si ferma un po’ qui fuori. “No, c’è treno.” “Dove vai?” “Marotta. Alle due c’è treno.” “Non sapevo che vivevi a Marotta.” “Ciao.” E lo vedo allontanarsi velocemente, non prima di aver chiesto un sacchetto e una salvietta di carta ai volontari della cucina. Si appoggia sul tavolo, buca il pane con le dita, ci infila dentro un pezzo di pollo mordicchiato, lo avvolge alla buona
nella salvietta, prende la mela che gli spetta e mette tutto nel sacchetto. Se ne va di fretta. a per il bagno, ne approfitta come tutti, poi lo vedo uscire dal cancello e gettare il cartone del vino nel cestino. Non so dove vive, non so cosa fa tutto il giorno. Mi chiedo cosa dovrà mai fare, a Marotta, poco dopo le due. Che fretta può avere un vagabondo? Novi per me è un mistero, ma un mistero a cui voglio bene.
Quando sono usciti gli ospiti, dalla cucina sbucano fuori tutti i volontari. Hanno la faccia arrossata dal calore dei fornelli e sono un po’ stanchi. So bene che cucinare e servire così tante persone è faticoso. Per questo ogni domenica mi fermo qui, prendo la scopa dallo sgabuzzino e do una pulita per terra. Qualcuno mi guarda storto, con ogni probabilità si chiede chi sono e cosa faccio. Io non parlo, continuo a pulire a testa china. Mi sento addosso quella sensazione che avevo a fine serata. Ho lavorato in qualche ristorante di pesce molto rinomato. Quando arrivavano le persone e io entravo in sala mi sentivo un dio. Per me era come entrare in un teatro, per la mia serata di gala ero vestito alla perfezione, impeccabile, con l’abito nero e la camicia inamidata. A fine serata invece mi sentivo sgualcito e appesantito, ma sapevo che sarebbero bastate una doccia e una dormita per tornare a essere un cameriere perfetto. Hai visto quel signore gentile? Ha pulito tutto! Sento questa frase dalla bocca del signore che serviva la pasta in sala. Mi fa piacere e mi ricorda le infermiere di mamma.
Do uno sguardo all’orologio: sono le 14.20. Mi sento sazio e appagato. Mi dispiace solo di dover aspettare una settimana prima del prossimo pranzo, ma la settimana corre veloce. I momenti peggiori, da quando i miei genitori sono venuti a mancare e da quando ho perso il lavoro perché mi sono rotto un braccio correndo per le scale con una fiamminga di spaghetti allo scoglio tra le mani, sono sempre stati la domenica e le feste. Essere soli a Natale è terribile. Essere soli l’ultimo dell’anno è deprimente. E tutte le domeniche dell’anno, quando apri gli occhi nel letto, pensi: Oggi voglio morire . Ma poi Novi mi ha stravolto la vita e ora sono riuscito a superare questo Natale appena trascorso con più serenità. Sento che ce la farò a essere un po’ più felice, almeno fino a che sarò sano.
La mia peggiore paura ora è la vecchiaia. Quando non saprò più cucinare per me, quando non riuscirò più a vestirmi o la testa prenderà strade incomprensibili… allora qualche anima buona si accorgerà che sto male e mi porterà in un ospizio. Almeno lo spero. Spero che qualcuno se ne accorga, ecco. Magari la mia vicina di casa. Magari qualche volontario della Caritas che si accorge della mia mancanza. Magari Novi. Quando arriverà quel momento non avrò più pranzi della domenica da attendere nelle trepidanti vigilie del sabato sera. Mi immagino, di sera, in una stanza buia di un ospizio, mentre chiudo gli occhi e provo a ricordare la dolcezza della domenica alla Caritas, i sapori, gli odori della mensa, quelli buoni e quelli sgradevoli, il vociare rumoroso degli altri ospiti, la cuoca accaldata che apre la porta della cucina, nelle giornate gelide d’inverno, e ci riesce a scaldare così, con il petto che batte forte e uno sguardo da mamma. Mi immagino a soffrire, perché, se la mia testa avrà ancora un barlume di ragione, sarà difficile vivere senza la bellezza dell’attesa di qualcosa di così importante. Prima di dormire dirò una preghiera, qualcosa di semplice, rivolto ai miei angeli della Caritas, agli ospiti e ai volontari, un grazie per l’amore che mi hanno regalato, perché ne avevo proprio bisogno, o forse dirò semplicemente quello che dicevo, tra me e me, ogni volta che mi sedevo a tavola: Buon pranzo, buona domenica.
I servizi del Centro di solidarietà della Caritas
Il Centro di solidarietà don Luigi Palazzolo (intitolato al prete innamorato dei poveri) fu aperto nel 1995 in risposta all’emergere di nuove povertà nel territorio: immigrazione, problemi legati ai minori, disagio mentale, persone senza fissa dimora. Si propone come luogo dove i volontari possono vivere l’esperienza del servizio e della condivisione con gli emarginati e i bisognosi. Il Centro di oggi è il risultato di una storia nata agli inizi degli anni 80, quando la Caritas scommise sulla forza degli obiettori di coscienza, proponendo loro un servizio ampliato: non più le tradizionali 6 ore giornaliere, ma una vera e propria esperienza di convivenza, 24 ore su 24. Fu da questa energia e da questo impegno che nacquero i primi nuclei del Centro di prima accoglienza (A) e del Centro di ascolto (CDA).
La Caritas è un ente educativo non assistenzialistico, che privilegia un atteggiamento di aiuto costruttivo e indirizza le persone in difficoltà a diventare indipendenti e più forti. L’ente Caritas ha nell’Osservatorio costante delle povertà e delle risorse, nel Centro di ascolto e nel Laboratorio promozione i suoi principali strumenti pastorali per avere uno sguardo chiaro e oggettivo dello stato di disagio ed emarginazione. A questo scopo propone questi servizi.
Il Centro di prima accoglienza
Aperto tutti i giorni (12.00-14.00 e 19.00-23.30). Offre ospitalità alle persone senza fissa dimora. I volontari registrano gli ospiti, forniscono loro un cambio di vestiti, un pasto caldo, una doccia e il pernottamento con colazione. A questo aspetto pratico si affianca quello più profondo e delicato dell’accoglienza e della vicinanza. Gli ospiti possono accedervi una sola volta al mese, a eccezione di coloro che, inseriti nei progetti concordati con il CDA, si fermano per periodi più lunghi.
Il Centro di seconda accoglienza
È rivolto al crescente numero di immigrati e alla loro richiesta di aiuto, specialmente di casa e lavoro: dal 1994 sono stati realizzati, al primo piano del Centro, sei mini appartamenti, cioè alloggi sociali che offrono una risposta temporanea alle esigenze di adulti con varie difficoltà. I destinatari sono immigrati, richiedenti asilo o rifugiati politici, vagabondi, malati di AIDS stabilizzati, persone in grave disagio economico o a rischio di esclusione sociale.
Il Centro di ascolto
Aperto da lunedì a sabato (10.00-12.00; martedì e venerdì anche 17.00-19.00). È il luogo in cui gli utenti possono raccontare di sé, della loro vita, delle loro necessità, per tentare di trovare soluzioni adatte ai loro reali bisogni. Vi accedono uomini, donne, stranieri e italiani, ma anche intere famiglie, che non riescono a farcela con le proprie forze. Oltre al CDA di Senigallia ci sono altri 40 centri nelle parrocchie della diocesi.
L’ambulatorio medico
Aperto martedì e venerdì (10.00-12.00). Fornisce assistenza medica a soggetti stranieri senza permesso temporaneo e indigenti, e si aggiunge all’ambulatorio infermieristico, aperto ogni mattina e due pomeriggi a settimana.
L’avvocato di strada
Aperto ogni primo venerdì del mese (pomeriggio). Offre consulenza legale a persone senza fissa dimora, private dei loro diritti fondamentali.
L’armadio del povero
Aperto da lunedì a sabato (10.00-12.00; martedì e venerdì anche 17.00-19.00). È il luogo in cui si selezionano gli indumenti raccolti e si distribuiscono agli utenti.
La mensa della domenica
Aperta ogni domenica dalle 12.30. Il Centro di domenica offre la possibilità di pranzare a tutti gli utenti che si presentano. I volontari sono persone (sei-dieci) delle parrocchie della Diocesi. Si tratta di un’occasione preziosa di collegamento tra parrocchie e Caritas, fondamentale per garantire l’ampio numero di volontari necessari.
La cucina del Centro di solidarietà
Aperta tutti i giorni dalle 12.30 e dalle 20.00. Tutti i giorni, a pranzo e a cena, garantisce preparazione dei pasti. I volontari danno la disponibilità per i turni, dalle 10.00 alle 14.00 e dalle 19.00 alle 22.00, con la possibilità di coprire solo metà delle ore, in una specie di part time del volontariato per chi lavora. I volontari cucinano, si occupano di spesa, gestione della dispensa (controllo scadenze, sistemazione logistica, ecc.) e preparazione dei pacchi viveri.
I pacchi viveri
Vengono composti utilizzando vari canali: l’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) fornisce periodicamente alimenti di prima necessità; i supermercati locali raccolgono prodotti alimentari; l’Ipercoop, tramite la prefettura di Ancona, con il progetto “Brutti ma buoni” dona prodotti in buono stato con confezioni non integre o prossime alla scadenza.
Casa San Benedetto
Nata nel 2007, la struttura accoglie ragazze madri e gestanti con figli a carico, che vi risiedono per periodi medio-lunghi, per vivere serenamente la propria maternità e garantire la tutela del bambino. Può ospitare fino a 4 mamme e 8 bambini, e, oltre ai volontari, possono partecipare alla convivenza anche famiglie intere. Prima di arrivare qui la primissima accoglienza di mamme e bambini avviene a Casa Sant’Ubaldo.
Casa Stella
Nasce per rispondere alle crescenti richieste di sostegno materiale e psicologico della famiglia, non solo del singolo, e per restituire dignità personale. L’utente viene accompagnato verso un percorso di indipendenza, infatti requisito base del servizio è la temporaneità. L’edificio, sviluppato su cinque piani, è composto da 10 appartamenti e 4 camere.
Bottega del signor N(essuno)
Offre a soggetti in momentaneo stato di difficoltà la possibilità di trovare occupazione in un ambiente protetto, attuando sgomberi di locali e raccolta di mobili per singoli e famiglie bisognose, presso i due magazzini del Seminario e del Brugnetto.