Carlo Collodi
LE FIABE
Collana
I CLASSICI
Titolo
LE FIABE
Pinocchio - I racconti delle fate - I ragazzi grandi - Storie allegre
Autore
CARLO COLLODI
Codice ISBN
978-88-98006-73-1
Editore
ePubYou
www.epubyou.com
Digital Edition 2014
UUID: 978-88-98006-73-1
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INDICE
PINOCCHIO I. Come andò che maestro Ciliegia trovò un pezzo di legno... II. Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto... III Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino... IV La storia di Pinocchio col Grillo-parlante... V Pinocchio ha fame, e cerca un uovo per farsi una frittata... VI Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano... VII Geppetto torna a casa... VIII Geppetto rifà i piedi a Pinocchio... IX Pinocchio vende l’Abbecedario... X I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio... XI Mangiafoco starnutisce e perdona Pinocchio... XII Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio... XIII L’osteria del Gambero Rosso... XIV Pinocchio s’imbatte negli assassini... XV Gli assassini inseguono Pinocchio... XVI La bella Bambina dai capelli turchini...
XVII Pinocchio mangia lo zucchero... XVIII Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto... XIX Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro... XX Pinocchio liberato dalla prigione... XXI Pinocchio è preso da un contadino... XXII Pinocchio scopre i ladri... XXIII Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini... XXIV Pinocchio arriva all’isola delle api... XXV Pinocchio promette alla Fata di essere buono... XXVI Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola... XXVII Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni... XXVIII Pinocchio corre il pericolo di essere fritto in padella... XXIX Pinocchio ritorna a casa della Fata... XXX Pinocchio parte di nascosto col suo amico Lucignolo... XXXI A Pinocchio spuntano un bel paio d’orecchie asinine... XXXII A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco... XXXIII Diventato un ciuchino vero, Pinocchio viene venduto... XXXIV Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci... XXXV Pinocchio ritrova Geppetto... XXXVI Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino... I RACCONTI DELLE FATE
Barba-blu La bella addormentata nel bosco Cenerentola Puccettino Pelle d'asino Le Fate Cappuccetto Rosso Il gatto con gli stivali Enrichetto dal ciuffo La Bella dai capelli d'oro L'uccello turchino La Gatta Bianca La Cervia nel bosco Il Principe Amato La Bella e la Bestia I RAGAZZI GRANDI I ragazzi grandi STORIE ALLEGRE L'omino anticipato
Pipì La festa di Natale Dopo il teatro Chi non ha coraggio non vada alla guerra L'avvocatino difensore Quand'ero ragazzo! Una mascherata di Carnevale
PINOCCHIO
I. Come andò che maestro Ciliegia trovò un pezzo di legno...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura. Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: – Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi: – Non mi picchiar tanto forte! Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia! Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare
un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?... – Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, – si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare. E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno. – Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina. Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana. Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento: – Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?... Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli... O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza. Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla! – Ho capito, – disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare. E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio. Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo: – Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra. Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
II. Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto...
In quel punto fu bussato alla porta. – ate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi. Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla che somigliava moltissimo alla polendina di granturco. Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia e non c’era più verso di tenerlo. – Buon giorno, mastr’Antonio, – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra? – Insegno l’abbaco alle formicole. – Buon pro vi faccia! – Chi vi ha portato da me, compar Geppetto? – Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore. – Eccomi qui, pronto a servirvi, – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi. – Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea. – Sentiamola. – Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un
bicchier di vino; che ve ne pare? – Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse. A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito: – Perché mi offendete? – Chi vi offende? – Mi avete detto Polendina!... – Non sono stato io. – Sta’ un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi. – No! – Si! – No! – Si! E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono. Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname. – Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio. – E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita. – Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta, – qual è il piacere che volete da me?
– Vorrei un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date? Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dette uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto. – Ah! gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!... – Vi giuro che non sono stato io! – Allora sarò stato io!... – La colpa è tutta di questo legno... – Lo so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe! – Io non ve l’ho tirato! – Bugiardo! – Geppetto, non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!... – Asino! – Polendina! – Somaro! – Polendina! – Brutto scimmiotto! – Polendina! A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume degli occhi, si avvento sul falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta. A battaglia finita, mastr’Antonio si trovo due graffi di più sul naso, e quell’altro
due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita. Intanto Geppetto prese con se il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
III Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino...
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco ; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero. Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. – Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la avano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina. Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito: – Occhiacci di legno, perché mi guardate? Nessuno rispose. Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. Dopo il naso, gli fece la bocca. La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo. – Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro. – Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa. Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua. Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani. Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino. – Pinocchio!... rendimi subito la mia parrucca! E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato. A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse: – Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! E si rasciugò una lacrima. Restavano sempre da fare le gambe e i piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
– Me lo merito! – disse allora fra sé. – Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi! Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare. Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un o dietro l’altro. Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare. E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini. – Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare. Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie. Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di argli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco. Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli. Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:
– Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti! Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello. Chi ne diceva una, chi un’altra. – Povero burattino! – dicevano alcuni, – ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!... E gli altri soggiungevano malignamente: – Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!... Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando: – Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!... Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.
IV La storia di Pinocchio col Grillo-parlante...
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori. Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza. Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece: – Crì - crì - crì! – Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito. – Sono io! Pinocchio si voltò e vide un grosso Grillo che saliva lentamente su su per il muro. – Dimmi, Grillo: e tu chi sei? – Io sono il Grillo-parlante, ed abito in questa stanza da più di cent’anni. – Oggi però questa stanza è mia, – disse il burattino, – e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro. – Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo, – se prima non ti avrò detto una gran verità. – Dimmela e spìcciati.
– Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente. – Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola e per amore o per forza mi toccherà studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido. – Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te? – Chétati. Grillaccio del mal’augurio! – gridò Pinocchio. Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce: – E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane? – Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. – Fra tutti i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo, che veramente mi vada a genio. – E questo mestiere sarebbe?... – Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo. – Per tua regola, – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma, – tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione. – Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza, guai a te! – Povero Pinocchio! Mi fai proprio comione!... – Perché ti faccio comione?
– Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso sul banco un martello di legno lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì - crì - crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
V Pinocchio ha fame, e cerca un uovo per farsi una frittata...
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, senti un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito. Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si converti in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello. Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita. Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via. Allora piangendo e disperandosi, diceva: – Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa... Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame! Quand’ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva: – E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?... No, è meglio cuocerlo nel piatto!... O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo! Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro. Ma invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale, facendo una bella riverenza, disse: – Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa! Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio. Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra, per la disperazione, e piangendo diceva: – Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!... E perché il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole che gli avesse fatto l’elemosina di un po’ di pane.
VI Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano...
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna. Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia. Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse; e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti. Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al camlo d’una casa, e cominciò a suonare a distesa, dicendo dentro di sé: – Qualcuno si affaccierà. Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito: – Che cosa volete a quest’ora? – Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane? – Aspettami costì che torno subito, – rispose il vecchino, credendo di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicollo che si divertono di notte a suonare i camli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente. Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:
– Fatti sotto e para il cappello. Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio apito. Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa. E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere. E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta. – Chi è? – domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. – Sono io, – rispose una voce. Quella voce era la voce di Geppetto.
VII Geppetto torna a casa...
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi, che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento. E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli. cascato da un quinto piano. – Aprimi! – intanto gridava Geppetto dalla strada. – Babbo mio, non posso, – rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra. – Perché non puoi? – Perché mi hanno mangiato i piedi. – E chi te li ha mangiati? – Il gatto, – disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno. – Aprimi, ti dico! – ripeté Geppetto, – se no quando vengo in casa, il gatto te lo do io! – Non posso star ritto, credetelo. O povero me! povero me che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita!... Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra. Da principio voleva dire e voleva fare: ma poi quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo
subito in collo, si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando: – Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi? – Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene; sei stato cattivo, e te lo meriti», e io gli dissi: «Bada, Grillo!...», e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un martello di legno, e lui morì ma la colpa fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella... e tanti saluti a casa» e la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! Ih!... ih!... ih!... ih!... E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano. Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse: – Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia. – Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle. – Sbucciarle? – replicò Geppetto meravigliato. – Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!... – Voi direte bene, – soggiunse Pinocchio, – ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola. Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli: – Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo. – Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... – gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera. – Chi lo sa! I casi son tanti!... – ripeté Geppetto, senza riscaldarsi. Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce. Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando: – Ho dell’altra fame! – Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti. – Proprio nulla, nulla? – Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera. – Pazienza! – disse Pinocchio, – se non c’è altro, mangerò una buccia. E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca; ma poi, una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce, anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si batté tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando: – Ora sì che sto bene! – Vedi dunque, – osservò Geppetto, – che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!...
VIII Geppetto rifà i piedi a Pinocchio...
Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perché voleva un paio di piedi nuovi. Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse: – E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua? – Vi prometto, – disse il burattino singhiozzando, – che da oggi in poi sarò buono... – Tutti i ragazzi, – replicò Geppetto, – quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così. – Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore... – Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia. – Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. Geppetto che, sebbene fe il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla ione di vedere il suo povero Pinocchio in quello stato comionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno. E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti; due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio. Allora Geppetto disse al burattino:
– Chiudi gli occhi e dormi! E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura. Appena il burattino si accorse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriole, come se fosse ammattito dalla gran contentezza. – Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me, – disse Pinocchio al suo babbo, – voglio subito andare a scuola. – Bravo ragazzo! – Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito. Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza di albero e un berrettino di midolla di pane. Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sé, che disse pavoneggiandosi: – Paio proprio un signore! – Davvero, – replicò Geppetto, – perché, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore. ma è piuttosto il vestito pulito. – A proposito, – soggiunse il burattino, – per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio. – Cioè? – Mi manca l’Abbecedario. – Hai ragione: ma come si fa per averlo? – È facilissimo: si va da un libraio e si compra.
– E i quattrini? – Io non ce l’ho. – Nemmeno io, – soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo. E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi. – Pazienza! – gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di fustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa. Dopo poco tornò: e quando tornò aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava. – E la casacca, babbo? – L’ho venduta. – Perché l’avete venduta? – Perché mi faceva caldo. Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.
IX Pinocchio vende l’Abbecedario...
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria, uno più bello dell’altro. E discorrendo da sé solo diceva: – Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!... Mentre tutto commosso diceva così gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì zum, zum, zum, zum. Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare. – Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no... E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i pifferi. – Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, – disse finalmente quel monello facendo una spallucciata. Detto fatto, infilò giù per la strada traversa, e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pìpì-pì, pì-pì-pì… zum, zum, zum, zum.
Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori. – Che cos’è quel baraccone? – domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese. – Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai. – Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere. – Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI... – È molto che è incominciata la commedia? – Comincia ora. – E quanto si spende per entrare? – Quattro soldi. Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno, e disse senza vergognarsi al ragazzetto, col quale parlava: – Mi daresti quattro soldi fino a domani? – Te li darei volentieri, – gli rispose l’altro canzonandolo, – ma oggi per l’appunto non te li posso dare. – Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta, – gli disse allora il burattino. – Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavartela da dosso. – Vuoi comprare le mie scarpe? – Sono buone per accendere il fuoco. – Quanto mi dai del berretto? – Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi
me lo vengano a mangiare in capo! Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse: – Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo? – Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi, – gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui. – Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, – gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!
X I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio...
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione. Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata. Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate. La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo. Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico: – Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!... – È Pinocchio davvero! – grida Pulcinella. – È proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena. – È Pinocchio! è Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte. – È Pinocchio! è il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio. – Pinocchio, vieni quassù da me, – grida Arlecchino, – vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! A questo affettuoso invito Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei
posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico. È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale. Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare: – Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia! Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta. Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme. All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie. – Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? – domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa. – La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!... – Basta così! Stasera faremo i nostri conti. Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiedo. E perché gli mancavano la legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
– Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto. Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente: – Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, non voglio morire!...
XI Mangiafoco starnutisce e perdona Pinocchio...
Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi e, dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto. A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso, e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce: – Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a comione per te, e oramai sei salvo. Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore. Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio: – Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina in fondo allo stomaco... Sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcì! etcì! – e fece altri due starnuti. – Felicità! – disse Pinocchio. – Grazie! E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – gli domandò Mangiafoco.
– Il babbo, sì la mamma non l’ho mai conosciuta. – Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti fi gettare fra quei carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!.. Etcì, etcì, etcì, – e fece altri tre starnuti. – Felicità! – disse Pinocchio. – Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiedo qualche burattino della mia Compagnia... Olà, giandarmi! A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano. Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa: – Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene! Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra. Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole: – Pietà, signor Mangiafoco!... – Qui non ci son signori! – replicò duramente il burattinaio. – Pietà, signor Cavaliere!... – Qui non ci son cavalieri! – Pietà, signor Commendatore!... – Qui non ci son commendatori!
– Pietà, Eccellenza!... A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio: – Ebbene, che cosa vuoi da me? – Vi domando grazia per il povero Arlecchino!... – Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene. – In questo caso, – gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane, – in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me!... Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte. Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio: – Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso. – Dunque la grazia è fatta? – domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena. – La grazia è fatta! – rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il capo: – Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo, ma un’altra volta, guai a chi toccherà!... Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.
XII Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio...
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò: – Come si chiama tuo padre? – Geppetto. – E che mestiere fa? – Il povero. – Guadagna molto? – Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga. – Povero diavolo! Mi fa quasi comione. Ecco qui cinque monete d’oro. Vai subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia. Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio, abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della Compagnia, anche i giandarmi: e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per tornarsene a casa sua. Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe. – Buon giorno, Pinocchio, – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
– Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino. – Conosco bene il tuo babbo. – Dove l’hai veduto? – L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua. – E che cosa faceva? – Era in maniche di camicia e tremava dal freddo. – Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!... – Perché? – Perché io sono diventato un gran signore. – Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti. – C’è poco da ridere, – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro. E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco. Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accorse di nulla. – E ora, – gli domandò la Volpe, – che cosa vuoi farne di codeste monete? – Prima di tutto, – rispose il burattino, – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me. – Per te?
– Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono. – Guarda me! – disse la Volpe. – Per la ione sciocca di studiare ho perduto una gamba. – Guarda me! – disse il Gatto. – Per la ione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi. In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse: – Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai! Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto. Mangiato che l’ebbe e ripulitasi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco, come prima. – Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto, – perché l’hai trattato così male? – Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri. Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino: – Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro? – Cioè? – Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila? – Magari! E la maniera? – La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi. – E dove mi volete condurre?
– Nel paese dei Barbagianni. Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente: – No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie spese, Perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo... Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci! – Dunque, – disse la Volpe, – vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e tanto peggio per te! – Tanto peggio per te! – ripeté il Gatto. – Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna. – Alla fortuna! – ripeté il Gatto. – I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila. – Duemila! – ripeté il Gatto. – Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore. – Te lo spiego subito, – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricuopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno. – Sicché dunque, – disse Pinocchio sempre più sbalordito, – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
– È un conto facilissimo, – rispose la Volpe, – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti. – Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due. – Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi! – Te ne liberi! – ripeté il Gatto. – Noi, – riprese la Volpe, – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri. – Gli altri! – ripeté il Gatto. – Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto: – Andiamo pure. Io vengo con voi.
XIII L’osteria del Gambero Rosso...
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso. – Fermiamoci un po’ qui, – disse la Volpe, – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli. Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito. Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato! La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca. Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro. Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste: – Dateci due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire schiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.
– Sissignori, – rispose l’oste e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!...». Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire: «Chi ci vuole venga a prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera. Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata. – E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino. – Altro che pronti! Sono partiti due ore fa. – Perché mai tanta fretta? – Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita. – E la cena l’hanno pagata? – Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un affronto simile alla signoria vostra. – Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò: – E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici? – Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì. Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva
alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un salto indietro per la paura, gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là? Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente. – Chi sei? – gli domandò Pinocchio. – Sono l’ombra del Grillo-parlante, – rispose l’animaletto, con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là. – Che vuoi da me? – disse il burattino. – Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo che piange e si dispera per non averti più veduto. – Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila. – Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro. – E io, invece, voglio andare avanti. – L’ora è tarda!... – Voglio andare avanti. – La nottata è scura... – Voglio andare avanti. – La strada è pericolosa... – Voglio andare avanti.
– Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono. – Le solite storie. Buona notte, Grillo. – Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini! Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.
XIV Pinocchio s’imbatte negli assassini...
– Davvero, – disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio, – come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!». A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non voler scappare, allora scapperei io, e così la farei finita... Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscio di foglie. Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi. – Eccoli davvero! – disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua. Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo o, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero: – O la borsa o la vita! Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime per dare ad intendere
a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino, e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso. – Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! – gridavano minacciosamente i due briganti. E il burattino fece col capo e colle mani un segno come dire: «Non ne ho». – Metti fuori i denari o sei morto, - disse l’assassino più alto di statura. - Morto! - ripeté l’altro. – E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre! – Anche tuo padre! – No, no, no, il mio povero babbo no! – gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli suonarono in bocca. – Ah! furfante! Dunque i denari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito! E Pinocchio, duro! – Ah! tu fai il sordo? Aspetta un poco, che penseremo noi a farteli sputare! Difatti, uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare screanzatamente, uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita. Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo, a guisa di leva e di scalpello, fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua maraviglia quando, invece di una mano, si accorse di aver sputato in terra uno zampetto di gatto. Incoraggiato da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini e, saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che
aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come fe. Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi. Non per questo si dettero per vinti: che anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare, come una candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più, e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai. Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò sbarrato il o da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!... cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre: – Buon bagno, signori assassini. E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati.
XV Gli assassini inseguono Pinocchio...
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve. – Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo, – disse dentro di sé. E senza indugiare un minuto riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro. E dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente tutto trafelato arrivò alla porta di quella casina e bussò. Nessuno rispose. Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei i e il respiro grosso e affannoso de’ suoi persecutori. Lo stesso silenzio. Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: – In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti. – Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi. – Sono morta anch’io. – Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?
– Aspetto la bara che venga a portarmi via. Appena detto così, la bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore. – O bella bambina dai capelli turchini, – gridava Pinocchio, – aprimi per carità! Abbi comione di un povero ragazzo inseguito dagli assass... Ma non poté finir la parola, perché sentì afferrarsi per il collo, e le solite due vociaccie che gli brontolarono minacciosamente: – Ora non ci scappi più! Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua. – Dunque? – gli domandarono gli assassini, – vuoi aprirla la bocca, sì o no? Ah! non rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!... E cavato fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff... gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni. Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia. – Ho capito, – disse allora uno di loro, – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo! – Impicchiamolo, – ripeté l’altro. Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e atogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino fe l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai. Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata. E se ne andarono. Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio di una campana che suona a festa. E quel dondolìo gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro. A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo... e balbettò quasi moribondo: – Oh babbo mio! se tu fossi qui!... E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.
XVI La bella Bambina dai capelli turchini...
In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai più morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi. A questo segnale si sentì un gran rumore di ali che volavano con foga precipitosa, e un grosso falco venne a posarsi sul davanzale della finestra. – Che cosa comandate, mia graziosa Fata? – disse il Falco abbassando il becco in atto di reverenza (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco): – Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande? – Lo vedo. – Orbene: vola subito laggiù: rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria e posalo delicatamente sdraiato sull’erba a piè della Quercia. Il Falco volò via e dopo due minuti tornò dicendo: – Quel che mi avete comandato, è fatto. – E come l’hai trovato? Vivo o morto? – A vederlo, pareva morto, ma non dev’essere ancora morto perbene, perché, appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: «Ora mi sento meglio!». Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e quale come se fosse un uomo.
Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in capo un nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giù per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi gli ossi che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzoni corti di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi dentro la coda, quando il tempo cominciava a piovere. – Su da bravo, Medoro! – disse la Fata al Can-barbone; – Fai subito attaccare la più bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito? Il Can-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partì come un barbero. Di lì a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell’interno di panna montata e di crema coi savoiardi. La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi. Non era ancora ato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò, e la Fata, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a chiamare i medici più famosi del vicinato. E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante. – Vorrei sapere da lor signori, – disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio, – vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!... A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole: – A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto,
allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo! – Mi dispiace, – disse la Civetta, – di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero! – E lei non dice nulla? – domandò la Fata al Grillo-parlante. – Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo!... Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto. – Quel burattino lì, – seguitò a dire il Grillo-parlante, – è una birba matricolata... Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito. – È un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo. Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli. – Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!... A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio. – Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione, – disse solennemente il Corvo. – Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega, – soggiunse la Civetta, – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.
XVII Pinocchio mangia lo zucchero...
Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire. Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente: – Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimanda con voce di piagnisteo: – È dolce o amara? – È amara, ma ti farà bene. – Se è amara, non la voglio. – Da’ retta a me: bevila. – A me l’amaro non mi piace. – Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca. – Dov’è la pallina di zucchero? – Eccola qui, – disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro. – Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara... – Me lo prometti? – Sì...
La fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri: – Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutti i giorni. – Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute. Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse: – È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere. – Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata? – Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero... e poi la beverò!... Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere. – Così non la posso bere! – disse il burattino, facendo mille smorfie. – Perché? – Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi. La Fata gli levò il guanciale. – È inutile! Nemmeno così la posso bere... – Che cos’altro ti dà noia? – Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto. La Fata andò e chiuse l’uscio di camera. – Insomma, – gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto, – quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!...
– Ragazzo mio, te ne pentirai... – Non me n’importa... – La tua malattia è grave... – Non me n’importa... – La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo... – Non me n’importa... – Non hai paura della morte? – Punto paura!... Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. A questo punto, la porta della camera si spalancò ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto. – Che cosa volete da me? – gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto. – Siamo venuti a prenderti, – rispose il coniglio più grosso. – A prendermi?... Ma io non sono ancora morto!... – Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!... – O Fata, o Fata mia,– cominciò allora a strillare il burattino, – datemi subito quel bicchiere. Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire no... non voglio morire... E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato. – Pazienza! – dissero i conigli. – Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo. E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse: – Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero? – Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!... – E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla? – Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male. – Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte... – Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, colla bara sulle spalle... e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giù!... – Ora vieni un po’ qui da me e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini. – Gli andò che il burattinaio Mangiafoco mi dette alcune monete d’oro, e mi disse: «To’, portale al tuo babbo!» e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: «Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli». E io dissi: «Andiamo»; e loro dissero: «Fermiamoci qui all’osteria del Gambero Rosso e dopo la mezzanotte ripartiremo». Ed io, quando mi svegliai, loro non c’erano più, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: «Metti fuori i quattrini»; e io dissi: «Non ce n’ho»; perché le quattro monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro e, io corri che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco, col dire:
«Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua». – E ora le quattro monete dove le hai messe? – gli domandò la Fata. – Le ho perdute! – rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca. Appena detta la bugia, il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più. – E dove le hai perdute? – Nel bosco qui vicino. A questa seconda bugia il naso seguitò a crescere. – Se le hai perdute nel bosco vicino, – disse la Fata, – le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre. – Ah! ora che mi rammento bene, – replicò il burattino, imbrogliandosi, – le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ di più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata. E la Fata lo guardava e rideva. – Perché ridete? – gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate. – Rido della bugia che hai detto. – Come mai sapete che ho detto una bugia? – Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non ava più dalla porta.
XVIII Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto...
Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non ava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, batté le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale. – Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino, asciugandosi gli occhi, – e quanto bene vi voglio! – Ti voglio bene anch’io, – rispose la Fata, – e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina... – Io resterei volentieri... ma il mio povero babbo? – Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui. – Davvero?... – gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. – Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me! – Vai pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicurissima che lo incontrerai. Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriolo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due
compagni di viaggio, coi quali aveva cenato all’osteria del Gambero Rosso. – Ecco il nostro caro Pinocchio! – gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. – Come mai sei qui? – Come mai sei qui? – ripeté il Gatto. – È una storia lunga, – disse il burattino, – e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo nell’osteria, ho trovato gli assassini per la strada... – Gli assassini?... O povero amico! E che cosa volevano? – Mi volevano rubare le monete d’oro. – Infami!... – disse la Volpe. – Infamissimi! – ripeté il Gatto. – Ma io cominciai a scappare, – continuò a dire il burattino, – e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia. E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due i. – Si può sentir di peggio? – disse la Volpe. – In che mondo siamo condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?... Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò: – Che cosa hai fatto del tuo zampetto? Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito: – Il mio amico è troppo modesto, – e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio, che ha
davvero un cuore di Cesare?... Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. E la Volpe nel dir così, si asciugò una lacrima. Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi: – Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!... – E ora che cosa fai in questi luoghi? – domandò la Volpe al burattino. – Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento. – E le tue monete d’oro? – Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all’osteria del Gambero Rosso. – E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dai retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli? – Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno. – Un altro giorno sarà tardi, – disse la Volpe. – Perché? – Perché quel campo è stato comprato da un gran signore e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari. – Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli? – Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi? Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finì, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo pure: io vengo con voi. E partirono. Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi avano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina. – E il Campo dei miracoli dov’è? – domandò Pinocchio. – È qui a due i. Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi. – Eccoci giunti, – disse la Volpe al burattino. – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo e mettici dentro le monete d’oro. Pinocchio ubbidì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra. – Ora poi, – disse la Volpe, – vai alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò: – C’è altro da fare?
– Nient’altro, – rispose la Volpe. – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo. – Noi non vogliamo regali, – risposero quei due malanni. – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque. Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.
XIX Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro...
Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli. E mentre camminava con o frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé: – E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?... E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna. Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento i in avanti, e nulla: entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo. In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso. – Perché ridi? – gli domandò Pinocchio con voce di bizza. – Rido, perché nello spollinarmi mi son fatto il solletico sotto le ali. Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricopriva le monete d’oro.
Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo. – Insomma, – gridò Pinocchio, arrabbiandosi, – si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi? – Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro. – Parli forse di me? – Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa. – Non ti capisco, – disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura. – Pazienza! Mi spiegherò meglio, – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo! Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più. Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato. Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni. Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e
finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il camlo. A quella scamlata comparvero subito due cani mastini vestiti da gendarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: – Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i gendarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia. E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini. – Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io, – disse Pinocchio al carceriere. – Voi no, – rispose il carceriere, – perché voi non siete del bel numero... – Domando scusa, – replicò Pinocchio, – sono un malandrino anch’io. – In questo caso avete mille ragioni, – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.
XX Pinocchio liberato dalla prigione...
Figuratevi l’allegrezza di Pinocchio, quando si sentì libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscì subito fuori della città e riprese la strada che doveva ricondurlo alla Casina della Fata. A motivo del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba. Ma il burattino non se ne dava per inteso. Tormentato dalla ione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un cane levriero, e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra sé e sé: – Quante disgrazie mi sono accadute... E me le merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso... e voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte più giudizio di me!... Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente... Tanto ormai ho bello e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano mai una per il su’ verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?... Ce lo troverò a casa della Fata? è tanto tempo, pover’uomo, che non lo vedo più, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatto?... E pensare che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose... e pensare che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei! Ma si può dare un ragazzo più ingrato e più senza cuore di me?... Nel tempo che diceva così, si fermò tutto ad un tratto spaventato e fece quattro i indietro. Che cosa aveva veduto?... Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntita, che gli fumava come una
cappa di camino. Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il o della strada. Aspettò un’ora; due ore; tre ore; ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda. Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi i di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente: – Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi are? Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse. Allora riprese colla solita vocina: – Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo più!... Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada? Aspettò un segno di risposta a quella domanda: ma la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chio e la coda gli smesse di fumare. – Che sia morto davvero?... – disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per are dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra. E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi,
alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero. Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata prima che si fe buio. Ma lungo la strada non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscatella. Non l’avesse mai fatto! Appena giunto sotto la vite, crac... sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo. Il povero burattino era rimasto preso da una tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.
XXI Pinocchio è preso da un contadino...
Pinocchio, come potete figurarvelo, si dette a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perché lì all’intorno non si vedevano case, e dalla strada non ava anima viva. Intanto si fece notte. Un po’ per lo spasimo della tagliuola, che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto vedendosi are una Lucciola di sul capo, la chiamò e le disse: – O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?... – Povero figliuolo! – replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. – Come mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati? – Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscatella, e... – Ma l’uva era tua? – No... – E allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?... – Avevo fame... – La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potere appropriarsi la roba che non è nostra... – È vero, è vero! – gridò Pinocchio piangendo, – ma un’altra volta non lo farò più. A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di i, che si avvicinavano.
Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta al trabocchetto della tagliuola. E la sua meraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto il pastrano, s’accorse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo. – Ah, ladracchiòlo! – disse il contadino incollerito, – dunque sei tu che mi porti via le galline? – Io no, io no! – gridò Pinocchio, singhiozzando. – Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli d’uva!... – Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo. E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte. Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra: e tenendogli un piede sul collo, gli disse: – Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia. Detto fatto, gli infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare andoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro. – Se questa notte, – disse il contadino, – cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare. Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato sull’aia, più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in tanto, cacciandosi rabbiosamente le mani dentro al collare, che gli serrava la gola,
diceva piangendo: – Mi sta bene!... Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo... ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la sfortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa d’un contadino. Oh, se potessi rinascere un’altra volta!... Ma oramai è tardi, e ci vuol pazienza! Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò.
XXII Pinocchio scopre i ladri...
Ed era già più di due ore che dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente di uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce: – Buona sera, Melampo. – Io non mi chiamo Melampo, – rispose il burattino. – O dunque chi sei? – Io sono Pinocchio. – E che cosa fai costì? – Faccio il cane di guardia. – O Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane, che stava in questo casotto? – È morto questa mattina. – Morto? Povera bestia! Era tanto buono!... Ma giudicandoti alla fisionomia, anche te mi sembri un cane di garbo. – Domando scusa, io non sono un cane!... – O chi sei? – Io sono un burattino. – E fai da cane di guardia?
– Purtroppo: per mia punizione!... – Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo: e sarai contento. – E questi patti sarebbero? – Noi verremo una volta la settimana, come per il ato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino. – E Melampo faceva proprio così? – domandò Pinocchio. – Faceva così, e fra noi e lui siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bella e pelata, per la colazione di domani. Ci siamo intesi bene? – Anche troppo bene!... – rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: «Fra poco ci riparleremo!». Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane, e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di legno, che ne chiudeva l’entratina, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza. Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello. E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce bu-bu-bu-bu. A quell’abbaiata, il contadino saltò dal letto e, preso il fucile e affacciatosi alla finestra, domandò: – Che c’è di nuovo? – Ci sono i ladri! – rispose Pinocchio.
– Dove sono? – Nel pollaio. – Ora scendo subito. E infatti, in men che non si dice amen, il contadino scese: entrò di corsa nel pollaio e, dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza: – Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me non badano a queste piccolezze!... Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e, fra le altre cose, gli domandò: – Com’hai fatto a scoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla... Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva: avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che avano fra il cane e le faine: ma ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sé: – A che serve accusare i morti?... I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!... – All’arrivo delle faine sull’aia, eri sveglio o dormivi? – continuò a chiedergli il contadino. – Dormivo, – rispose Pinocchio, – ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: «Se prometti di non abbaiare e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bella e pelata!...». Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta! – Bravo ragazzo! – gridò il contadino, battendogli sur una spalla. – Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio
libero fin d’ora di tornare a casa. E gli levò il collare da cane.
XXIII Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini...
Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso i campi, e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata. Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giù a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo a occhio nudo il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, innalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma guarda di qua, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini. Allora ebbe una specie di tristo presentimento e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:
QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le
colline all’intorno ne ripetevano l’eco. E piangendo diceva: – O Fatina mia, perché sei morta?... perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?... E il mio babbo, dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! più! più!... O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci... ritorna viva come prima!... Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti? Se arrivano gli assassini. mi attaccheranno daccapo al ramo dell’albero... e allora morirò per sempre. Che vuoi che faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove andrò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sì, voglio morire!... ih! ih! ih!... E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita. Intanto ò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza: – Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù? – Non lo vedi? piango! – disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta. – Dimmi, – soggiunse allora il Colombo – non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio? – Pinocchio?... Hai detto Pinocchio? – ripeté il burattino saltando subito in piedi. – Pinocchio sono io! Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più grosso di un tacchino. – Conoscerai dunque anche Geppetto? – domandò al burattino. – Se lo conosco? È il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci
da lui? Ma è sempre vivo? Rispondimi per carità: è sempre vivo? – L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare. – Che cosa faceva? – Si fabbricava da sé una piccola barchetta per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono più di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo. – Quanto c’è di qui alla spiaggia? – domandò Pinocchio con ansia affannosa. – Più di mille chilometri. – Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!... – Se vuoi venire, ti ci porto io. – Come? – A cavallo sulla mia groppa. Sei peso di molto?... – Peso? tutt’altro! Son leggero come una foglia. E lì, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo e messa una gamba di qua e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento: – Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme di arrivar presto!... Il Colombo prese l’aire e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giù a guardare: e fu preso da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir disotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura. Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse: – Ho una gran sete! – E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio.
– Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse: – Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone! – Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie! Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare. Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparì. La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare. – Che cos’è accaduto? – domandò Pinocchio a una vecchina. – Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua... – Dov’è la barchetta? – Eccola laggiù, diritta al mio dito, – disse la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta in quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino. Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando: – Gli è il mi’ babbo! gli è il mi’ babbo!
Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio ritto sulla punta di un alto scoglio non finiva più dal chiamare il suo babbo per nome e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in capo. E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro, ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla terra. Tutto ad un tratto, venne una terribile ondata, e la barca sparì. Aspettarono che la barca tornasse a galla: ma la barca non si vide più tornare. – Pover’omo! – dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornarsene alle loro case. Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e, voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando: – Voglio salvare il mio babbo! Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro più. – Povero ragazzo! - dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera tornarono alle loro case.
XXIV Pinocchio arriva all’isola delle api...
Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte. E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente, e con certi lampi che pareva di giorno. Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare. Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido. Il colpo fu così forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire: – Anche per questa volta l’ho proprio scampata bella! Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio. Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma così lontana, che pareva una mosca. – Sapessi almeno come si chiama quest’isola! – andava dicendo. – Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi; ma a chi mai posso domandarlo? A chi, se non c’è nessuno?...
Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lì lì per piangere; quando tutt’a un tratto vide are, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dell’acqua. Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi sentire: – Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola? – Anche due, – rispose il pesce, il quale era un Delfino così garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo. – Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati? – Ve ne sono sicuro, – rispose il Delfino. – Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui. – E che strada si fa per andarvi? – Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare. – Mi dica un’altra cosa. Lei che eggia tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mi’ babbo? – E chi è il tuo babbo? – Gli è il babbo più buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare. – Colla burrasca che ha fatto questa notte, – rispose il delfino, – la barchettina sarà andata sott’acqua. – E il mio babbo? – A quest’ora l’avrà inghiottito il terribile Pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.
– Che è grosso di molto questo Pesce-cane? – domandò Pinocchio, che di già cominciava a tremare dalla paura. – Se gli è grosso!... – replicò il Delfino. – Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia così larga e profonda, che ci erebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa. – Mamma mia! – gridò spaventato il burattino: e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al delfino e gli disse: – Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza. Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un o svelto; tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni più piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca. Dopo mezz’ora di strada, arrivò a un piccolo paese detto «Il paese delle Api industriose». Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo nemmeno a cercarlo col lumicino. – Ho capito, – disse subito quello svogliato di Pinocchio, – questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! Intanto la fame lo tormentava, perché erano oramai ate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla; nemmeno una pietanza di veccie. Che fare? Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccone di pane. A chiedere l’elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di comione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la
fame, tanto peggio per loro. In quel frattempo, ò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone. Pinocchio, giudicandolo dalla fisionomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce: – Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame? – Non un soldo solo, – rispose il carbonaio, – ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone. – Mi meraviglio! – rispose il burattino quasi offeso, – per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!... – Meglio per te! – rispose il carbonaio. – Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia e bada di non prendere un’indigestione. Dopo pochi minuti ò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina. – Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito? – Volentieri; vieni con me a portar calcina, – rispose il muratore, – e invece d’un soldo, te ne darò cinque. – Ma la calcina è pesa, – replicò Pinocchio, – e io non voglio durar fatica. – Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, – divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia. In men di mezz’ora arono altre venti persone, e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero: – Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, và piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane!
Finalmente ò una buona donnina che portava due brocche d’acqua. – Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua alla vostra brocca? – disse Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete. – Bevi pure, ragazzo mio! – disse la donnina, posando le due brocche in terra. Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca: – La sete me la sono levata! Così mi potessi levar la fame!... La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito: – Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. Pinocchio guardò la brocca, e non rispose né sì né no. – E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto, – soggiunse la buona donna. Pinocchio dette un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sì né no. – E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere e, fatto un animo risoluto, disse: – Pazienza! Vi porterò la brocca fino a casa! La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo. Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto. Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi. Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per
ringraziare la sua benefattrice; ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh!... di maraviglia e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore. – Che cos’è mai tutta questa maraviglia? – disse ridendo la buona donna. – Egli è... – rispose balbettando Pinocchio, – egli è... egli è... che voi somigliate... voi mi rammentate... sì, sì, sì, la stessa voce... gli stessi occhi.. gli stessi capelli... sì, sì, sì... anche voi avete i capelli turchini... come lei!... O Fatina mia!... O Fatina mia!... ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate più piangere! Se sapeste!... Ho pianto tanto, ho patito tanto.. E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettandosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.
XXV Pinocchio promette alla Fata di essere buono...
In sulle prime la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più a lungo la commedia, fini col farsi riconoscere, e disse a Pinocchio: – Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io? – Gli è il gran bene che vi voglio quello che me l’ha detto. – Ti ricordi? Mi lasciasti bambina e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma. – L’ho caro di molto, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere così presto? – È un segreto. – Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio. – Ma tu non puoi crescere, – replicò la Fata. – Perché? – Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini. – Oh! sono stufo di far sempre il burattino! – gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. – Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri. – E lo diventerai, se saprai meritartelo... – Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
– Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene. – O che forse non sono? – Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece... – E io non ubbidisco mai. – I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu... – E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno. – I ragazzi perbene dicono sempre la verità... – E io sempre le bugie. – I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola... – E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita. – Me lo prometti? – Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene e voglio essere la consolazione del mio babbo... Dove sarà il mio povero babbo a quest’ora? – Non lo so. – Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare? – Credo di sì: anzi ne sono sicura. A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò: – Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta? – Par di no, – rispose sorridendo la Fata. – Se tu sapessi, che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui
giace... – Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma... – Oh! che bella cosa! – gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza. – Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io. – Volentieri, volentieri, volentieri! – Fino da domani, – soggiunse la Fata, – tu comincerai coll’andare a scuola. Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro. – Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere... Pinocchio diventò serio. – Che cosa brontoli fra i denti? – domandò la Fata con accento risentito. – Dicevo... – mugolò il burattino a mezza voce, – che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi... – Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi. – Ma io non voglio fare né arti né mestieri... – Perché? – Perché a lavorare mi par fatica. – Ragazzo mio, – disse la Fata, – quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più.
Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa disse alla Fata: – Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero? – Te l’ho promesso, e ora dipende da te.
XXVI Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola...
Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale. Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro; chi gli levava il berretto di mano; chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso; e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani per farlo ballare. Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli, che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro: – Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato. – Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! – urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso. Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi. – Ohi! che piedi duri! – urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino. – E che gomiti!... anche più duri dei piedi! – disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco. Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un bene dell’anima. E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso, intelligente,
sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita. Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi, c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore. Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte: – Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia. – Non c’è pericolo! – rispondeva il burattino, facendo una spallucciata e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!». Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero: – Sai la gran notizia? – No. – Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna. – Davvero?... Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo? – Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vieni anche tu? – Io, no: voglio andare a scuola. – Che t’importa della scuola? Alla scuola ci andremo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari. – E il maestro che dirà? – Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutto il giorno.
– E la mia mamma?... – Le mamme non sanno mai nulla, – risposero quei malanni. – Sapete che cosa farò? – disse Pinocchio. – Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni... ma andrò a vederlo dopo la scuola. – Povero giucco! – ribatté uno del branco. – Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto. – Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? – domandò il burattino. – Fra un’ora, siamo belli e andati e tornati. – Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! – gridò Pinocchio. Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio, si misero a correre attraverso ai campi; e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi. Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli, ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato in quel momento non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!...
XXVII Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni...
Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dette subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio. – O il Pesce-cane dov’è? – domandò, voltandosi ai compagni. – Sarà andato a far colazione, – rispose uno di loro, ridendo. – O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino, – soggiunse un altro, ridendo più forte che mai. Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera; e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza: – E ora? Che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pescecane? – Il sugo c’è sicuro!... – risposero in coro quei monelli. – E sarebbe?... – Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alle lezioni? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai? – E se io studio, che cosa ve ne importa? – A noi ce ne importa moltissimo perché ci costringi a fare una brutta figura col maestro...
– Perché? – Perché gli scolari che studiano fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!... – E allora che cosa devo fare per contentarvi? – Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici. – E se io volessi seguitare a studiare? – Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!... – In verità mi fate quasi ridere, – disse il burattino con una scrollatina di capo. – Ehi, Pinocchio! – gridò allora il più grande di quei ragazzi, andandogli sul viso. – Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!... Perché se tu non hai paura di noi, noi non abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo in sette. – Sette come i peccati mortali, – disse Pinocchio con una gran risata. – Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!... – Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa... se no, guai a te!... – Cucù! – fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura. – Pinocchio! la finisce male!... – Cucù! – Ne toccherai quanto un somaro!... – Cucù! – Ritornerai a casa col naso rotto!...
– Cucù! – Ora il cucù te lo darò io! – gridò il più ardito di quei monelli. – Prendi intanto quest’acconto e serbalo per la cena di stasera. E nel dir così gli appiccicò un pugno sul capo. Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, come c’era da aspettarselo, rispose con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito. Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo. Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicché i volumi, andogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare. Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!» Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato: – Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!... Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:
– Chétati, Granchio dell’uggia!... Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Vai piuttosto a letto e cerca di sudare! In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice. Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso di molto! Uno di quei monelli agguantò quel volume e, presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni; il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole: – O mamma mia, aiutatemi... perché muoio! Poi cadde disteso sulla rena del lido. Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe e in pochi minuti non si videro più. Ma Pinocchio rimase lì, e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva: – Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri gli occhi, e guardami!... Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove andrò a nascondermi?... Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!... Perché ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?... E il maestro me l’aveva detto!... e la mia mamma me lo aveva ripetuto: «Guàrdati dai cattivi compagni!». Ma io sono un testardo... un caparbiaccio... lascio dir tutti, e poi fo' sempre a modo mio!... E dopo mi tocca a scontarle... E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di
bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me?... E Pinocchio continuava a piangere, e berciare, a darsi pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio: quando sentì a un tratto un rumore sordo di i che si avvicinavano. Si voltò: erano due carabinieri – Che cosa fai così sdraiato per terra? – domandarono a Pinocchio. – Assisto questo mio compagno di scuola. – Che gli è venuto male? – Par di sì!.. – Altro che male! – disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. – Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito? – Io no, – balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo. – Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito? – Io no, – ripeté Pinocchio. – E con che cosa è stato ferito? – Con questo libro. – E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere. – E questo libro di chi è? – Mio. – Basta così: non occorre altro. Rìzzati subito e vieni via con noi. – Ma io... – Via con noi! – Ma io sono innocente...
– Via con noi! Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento avano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro: – Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. Quindi si volsero a Pinocchio, e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco: – Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te! Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover are sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire. Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una decina di i. – Si contentano, – disse il burattino ai carabinieri, – che vada a riprendere il mio berretto? – Vai pure: ma facciamo una cosa lesta. Il burattino andò, raccattò il berretto... ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile. I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio in tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di questo palio feroce.
Ma non poté levarsi questa voglia, perché il cane mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non fu più possibile di veder nulla.
XXVIII Pinocchio corre il pericolo di essere fritto in padella...
Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credé perduto: perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can-mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto. Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate. Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina e il mare si vedeva lì a pochi i. Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma più annaspava e più andava col capo sott’acqua. Quando torno a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando, gridava. – Affogo! Affogo! – Crepa! – gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo. – Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... A quelle grida strazianti, il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a comione, e voltosi al cane gli disse: – Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?
– Te lo prometto! Te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido. Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e, allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato: – Addio, Alidoro, fai buon viaggio e tanti saluti a casa. – Addio, Pinocchio, – rispose il cane; – mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu mi hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione, ci riparleremo. Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’ occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo. – In quella grotta, – disse allora fra sé, – ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! Andrò a rasciugarmi e a riscaldarmi, e poi?... E poi sarà quel che sarà. Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perché con sua grandissima meraviglia si trovò rinchiuso dentro a una grossa rete in mezzo a un brulichio di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolando si dibattevano come tant’anime disperate. E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto su i piedi di dietro.
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento: – Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce! – Manco male, che io non sono un pesce! – disse Pinocchio dentro di sé, ripigliando un po’ di coraggio. La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia da mozzare il respiro. – Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! – disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie. – Buone queste triglie! – disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua. Poi ripeté più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva: – Buoni questi naselli!... – Squisiti questi muggini!... – Deliziose queste sogliole!... – Prelibati questi ragnotti!... – Carine queste acciughe col capo!... Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e le acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie. L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio. Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla meraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito: – Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne mai mangiati!
E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì col dire: – Ho già capito: dev’essere un granchio di mare. Allora Pinocchio mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento risentito: – Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io per sua regola sono un burattino. – Un burattino? – replicò il pescatore. – Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio così! Ti mangerò più volentieri. – Mangiarmi? Ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei? – È verissimo, – soggiunse il pescatore, – e siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare, come me, così voglio usarti anch’io i dovuti riguardi. – E questi riguardi sarebbero?... – In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi essere cucinato. Desideri essere fritto in padella, oppure preferisci di essere cotto nel tegame colla salsa di pomidoro? – A dir la verità, – rispose Pinocchio, – se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di essere lasciato libero, per potermene tornare a casa mia. – Tu scherzi? Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce così raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione. L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi e piangendo diceva: – Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!... Ih!... Ih!... E perché si divincolava come un anguilla e faceva sforzi incredibili, per
sgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri. Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dette a infarinare tutti quei pesci; e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella. I primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più né voce né fiato per raccomandarsi. Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltolò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso. Poi lo prese per il capo, e...
XXIX Pinocchio ritorna a casa della Fata...
Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura. – a via! – gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato. Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse: «Dammi un boccon di frittura e ti lascio in pace». – a via, ti dico! – gli ripeté il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata. Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne. In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse: – Salvami, Alidoro!... Se non mi salvi, son fritto! Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio e si accorse con sua grandissima meraviglia che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato che il pescatore teneva in mano. Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno! Il pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi i, gli venne un nodo di tosse e dové tornarsene indietro. Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e
posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio. – Quanto ti debbo ringraziare! – disse il burattino. – Non c’è bisogno, – replicò il cane. – Tu salvasti me, e quel che è fatto, è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno coll’altro. – Ma come mai sei capitato in quella grotta? – Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!... – Non me lo dire! – urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. – Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bello e fritto, mangiato e digerito. Brrr!... mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!... Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono. Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole: – Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?... – Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora... Ora sarà morto!... – interruppe Pinocchio con gran dolore. – No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua. – Davvero, davvero? – gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. – Dunque la ferita non era grave? – Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, – rispose il vecchietto, – perché gli tirarono sul capo un grosso libro rilegato in cartone. – E chi glielo tirò? – Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio...
– E chi è questo Pinocchio? – domandò il burattino facendo lo gnorri. – Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo... – Calunnie! Tutte calunnie! – Lo conosci tu questo Pinocchio? – Di vista! – rispose il burattino. – E tu che concetto ne hai? – gli chiese il vecchietto. – A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, ubbidiente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia... Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli s’era allungato più d’un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare: – Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto: perché conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino! Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò della grandezza naturale, come era prima. – E perché sei tutto bianco a codesto modo? – gli domandò a un tratto il vecchietto. – Vi dirò... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco, – rispose il burattino, vergognandosi a confessare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella. – O della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto che cosa ne hai fatto? – Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa?
– Ragazzo mio, in fatto di vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se vuoi, piglialo: eccolo là. E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese. Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un o avanti e uno indietro e, discorrendo da se solo, andava dicendo: – Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto che non me la perdona!... Oh! Non me la perdona di certo... E mi sta il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!... Arrivò al paese che era già notte buia, e perché faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire. Ma, quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare si allontanò, correndo, una ventina di i. Si avvicinò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: si avvicinò una terza volta, e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino. Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino sul capo, la quale disse: – Chi è a quest’ora? – La Fata è in casa? – domandò il burattino. – La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei? – Sono io! – Chi io? – Pinocchio.
– Chi Pinocchio? – Il burattino, quello che sta in casa colla Fata. – Ah! ho capito, – disse la Lumaca. – Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito. – Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo. – Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. Intanto ò un’ora, ne arono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca. – Lumachina bella, – gridò Pinocchio dalla strada, – sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità. – Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. E la finestra si richiuse. Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa. Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada. – Ah, sì? – gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. – Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.
Figuratevi il povero Pinocchio! Dové are tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria. La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiola della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata! – Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? – domandò ridendo al burattino. – È stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio. – Ragazzo mio, così ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola. – Pregate la Fata da parte mia!... – La Fata dorme e non vuol essere svegliata. – Ma che cosa volete che io faccia inchiodato tutto il giorno a questa porta? – Divèrtiti a contare le formicole che ano per la strada. – Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perché mi sento rifinito. – Subito! – disse la Lumaca. Difatti dopo tre ore e mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature. – Ecco la colazione che vi manda la Fata, – disse la Lumaca. Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dové accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite al naturale.
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro: ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto. Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui. – Anche per questa volta ti perdono, – gli disse la Fata, – ma guai a te se me ne fai un’altra delle tue!... Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti, agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse: – Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato! – Cioè? – Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo perbene. Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra. Quella giornata prometteva d’essere molto bella e molto allegra, ma... Disgraziatamente, nella vita dei burattini c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.
XXX Pinocchio parte di nascosto col suo amico Lucignolo...
Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gli inviti: e la Fata gli disse: – Vai pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito? – Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato, – replicò il burattino. – Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere: ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere. – Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo. – Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te. – Perché? – Perché i ragazzi che non danno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia. – E io l’ho provato! – disse Pinocchio. – Ma ora non ci ricasco più! – Vedremo se dici il vero. Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori della porta di casa. In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri da principio si fecero un po’ pregare; ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: «Verremo anche noi, per farti piacere».
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte. Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano. Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini. – Che cosa fai costì? – gli domandò Pinocchio, avvicinandosi. – Aspetto la mezzanotte, per partire... – Dove vai? – Lontano, lontano, lontano! – E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!... – Che cosa volevi da me? – Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata? – Quale? – Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri. – Buon pro ti faccia. – Domani, dunque, ti aspetto a colazione a casa mia. – Ma se ti dico che parto questa sera. – A che ora?
– Fra poco. – E dove vai? – Vado ad abitare in un paese... che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!... – E come si chiama? – Si chiama il Paese dei Balocchi. Perché non vieni anche tu? – Io? no davvero! – Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più salubre per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figùrati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!... – Ma come si ano le giornate nel Paese dei Balocchi? – Si ano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare? – Uhm!... – fece Pinocchio: e tentennò leggermente il capo, come dire: «È una vita che farei volentieri anch’io!». – Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti. – No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio e buon viaggio. – Dove corri con tanta furia? – A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte. – Aspetta altri due minuti.
– Faccio troppo tardi. – Due minuti soli. – E se poi la Fata mi grida? – Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà, – disse quella birba di Lucignolo. – E come fai? Parti solo o in compagnia? – Solo? Saremo più di cento ragazzi. – E il viaggio lo fate a piedi? – A mezzanotte erà di qui il carro che ci deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese. – Che cosa pagherei che ora fosse mezzanotte!... – Perché? – Per vedervi partire tutti insieme. – Rimani qui un altro poco e ci vedrai. – No, no: voglio ritornare a casa. – Aspetta altri due minuti. – Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me. – Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli? – Ma dunque, – soggiunse Pinocchio, – tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?... – Neanche l’ombra. – E nemmeno maestri?...
– Nemmen’uno. – E non c’è mai l’obbligo di studiare? – Mai, mai, mai! – Che bel paese! – disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. – Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!... – Perché non vieni anche tu? – È inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola. – Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!... E anche quelle liceali, se le incontri per la strada. – Addio, Lucignolo: fai buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici. Ciò detto, il burattino fece due i in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò: – Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane siano composte di sei giovedì e di una domenica? – Sicurissimo. – Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre? – Di certissimo! – Che bel paese! – ripeté Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia: – Dunque, addio davvero: e buon viaggio. – Addio.
– Fra quanto partirete? – Fra due ore! – Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare. – E la Fata?... – Oramai ho fatto tardi!... E tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo, è lo stesso. – Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida? – Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà. Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara! – Eccolo! – gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi. – Chi è? – domandò sottovoce Pinocchio. – È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no? – Ma è proprio vero, – domandò il burattino, – che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare? – Mai, mai, mai! – Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!...
XXXI A Pinocchio spuntano un bel paio d’orecchie asinine...
Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci. Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame. Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine. Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca. E il conduttore del carro?... Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei Balocchi. Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri, come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ohi!, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno. Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo e con mille
smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo: – Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese? – Sicuro che ci voglio venire. – Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più posto. Come vedi, è tutto pieno!... – Pazienza! – replicò Lucignolo, – se non c’è posto dentro, io mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro. E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe. – E tu, amor mio?... – disse l’omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio. – Che intendi fare? Vieni con noi, o rimani?... – Io rimango, – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene. – Buon pro ti faccia! – Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dai retta a me: vieni via con noi e staremo allegri. – No, no, no! – Vieni via con noi e staremo allegri, – gridarono altre quattro voci di dentro al carro. – Vieni via con noi e staremo allegri, – urlarono tutte insieme un centinaio di voci di dentro al carro. – E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? – disse il burattino che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico. – Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera! Pinocchio non rispose: ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro; finalmente disse:
– Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io!... – I posti son tutti pieni, – replicò l’omino, – ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta... – E voi?... – E io farò la strada a piedi. – No, davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! – gridò Pinocchio. Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiola, voltandosi a secco, gli dette una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria. Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena. Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro. Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: «Viva Pinocchio!» e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più. Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada sopra un monte di ghiaia. Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello, che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino: – Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi e spero di averlo reso mansueto e ragionevole.
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciotoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse: – Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti: Tutti la notte dormono E io non dormo mai... Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la solita vocina fioca che gli disse: – Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!... Io lo so per prova!... E te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io... ma allora sarà tardi!... A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura e andò a prendere il suo ciuchino per il muso. E immaginatevi come restò, quando s’accorse che il suo ciuchino piangeva... e piangeva proprio come un ragazzo! – Ehi, signor omino, – gridò allora Pinocchio al padrone del carro, – sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino piange. – Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo – Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare ? – No: ha imparato da sé a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.
– Povera bestia!... – Via, via, – disse l’omino, – non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la notte è fresca e la strada è lunga. Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente nel Paese dei Balocchi. Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni: i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto. Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano; altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi eggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo; insomma un tal pandemonio, un tal eraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: Viva i balocci (invece di balocchi): non voglamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili. Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro? In mezzo ai continui si e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, avano come tanti baleni. – Oh! che bella vita! – diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo. – Vedi, dunque, se avevo ragione?... – ripigliava quest’ultimo. – E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla
tua Fata, per perdere il tempo a studiare!.... Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori. – È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!...». – Povero maestro! – replicò l’altro tentennando il capo. – Lo so purtroppo che mi aveva a noia e che si divertiva sempre a calunniarmi, ma io sono generoso e gli perdono! – Anima grande! – disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi. Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore.
XXXII A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco...
E questa sorpresa quale fu? Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse... Indovinate un po’ di che cosa si accorse? Si accorse con sua grandissima meraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo. Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule. Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini. Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio! Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente: – Che cos’hai, mio caro casigliano? – Sono malato, Marmottina mia, molto malato... e malato d’una malattia che mi
fa paura! Te ne intendi tu del polso? – Un pochino. – Senti dunque se per caso avessi la febbre. La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando: – Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!... – Cioè? – Tu hai una gran brutta febbre!... – E che febbre sarebbe? – È la febbre del somaro. – Non la capisco questa febbre! – rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita. – Allora te la spiegherò io, – soggiunse la Marmottina. – Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo... – E che cosa sarò? – Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato. – Oh! Povero me! Povero me! – gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro. – Caro mio, – replicò la Marmottina per consolarlo, – che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, ano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari. – Ma davvero è proprio così? – domandò singhiozzando il burattino.
– Purtroppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima! – Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!... – E chi è questo Lucignolo!... – Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... ma Lucignolo mi disse: «Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri». – E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno? – Perché?... Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!... E a quest’ora non sarei più un burattino... ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n’è tanti! Oh!... ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta! E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?... Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso. Poi uscì: e si dette a cercar Lucignolo dappertutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto. Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò. – Chi è? – domandò Lucignolo di dentro. – Sono io! – rispose il burattino. – Aspetta un poco, e ti aprirò. Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone
in testa, che gli scendeva fin sotto il naso. Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé: «Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?...» E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo: – Come stai, mio caro Lucignolo? – Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano. – Lo dici proprio sul serio? – E perché dovrei dirti una bugia? – Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti copre tutti gli orecchi? – Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso? – Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede. – Oh! povero Pinocchio!... – Oh! povero Lucignolo!... A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura. Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno: – Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi? – Mai!... E tu?
– Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare. – Ho lo stesso male anch’io. – Anche tu?... E qual è l’orecchio che ti duole? – Tutt’e due. E tu? – Tutt’e due. Che sia la medesima malattia? – Ho paura di sì? – Vuoi farmi un piacere, Lucignolo? – Volentieri! Con tutto il cuore. – Mi fai vedere i tuoi orecchi? – Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio. – No: il primo devi essere tu. – No, carino! Prima tu, e dopo io! – Ebbene, – disse allora il burattino, – facciamo un patto da buoni amici. – Sentiamo il patto. – Leviamoci tutt’e due il berretto nello stesso tempo: accetti? – Accetto. – Dunque attenti! E Pinocchio cominciò a contare a voce alta: – Uno! Due! Tre! Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria. E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera.
Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt’e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata. E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando colore, disse all’amico: – Aiuto, aiuto, Pinocchio! – Che cos’hai? – Ohimè. Non mi riesce più di star ritto sulle gambe. – Non mi riesce più neanche a me, – gridò Pinocchio, piangendo e traballando. E mentre dicevano così, si piegarono tutt’e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero. Ma il momento più brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino. Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt’e due coro: j-a, j-a, j-a. In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse: – Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!
XXXIII Diventato un ciuchino vero, Pinocchio viene venduto...
Vedendo che la porta non si apriva, l’Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato che fu nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo: – Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui. A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe. Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli perbene. E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno. E i compratori, difatti, non si fecero aspettare. Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia. E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché assero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e
contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario. Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata. Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò. Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque. – Ah! non ti piace neppure il fieno? – gridò il padrone imbizzito. – Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!... E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe. Pinocchio dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse: – J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!... – Allora mangia il fieno! – replicò il padrone che intendeva benissimo il dialetto asinino. – J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!... – Pretenderesti, dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? – soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più e affibbiandogli una seconda frustata. A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e non disse altro. Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno. Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.
– Questo fieno non è cattivo, – poi disse dentro di sé, – ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!... A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame!... Pazienza! La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno; ma non lo trovò perché l’aveva mangiato tutto nella notte. Allora prese una boccata di paglia tritata: ma in quel mentre che la masticava si dové accorgere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana. – Pazienza! – ripeté, continuando a masticare. – Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!... pazienza! – Pazienza un corno! – urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. – Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo, e là ti insegnerà a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro. Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dové imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo. Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone poté annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano così:
GRANDE SPETTACOLO DI GALA PER QUESTA SERA AVRANNO LUOGO I SOLITI SALTI ED ESERCIZI SORPRENDENTI ESEGUITI DA TUTTI GLI ARTISTI E DA TUTTI I CAVALLI D’AMBO I
SESSI DELLA COMPAGNIA E PIÙ SARÀ PRESENTATO PER LA PRIMA VOLTA IL FAMOSO CIUCHINO PINOCCHIO DETTO LA STELLA DELLA DANZA IL TEATRO SARÀ ILLUMINATO A GIORNO Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato. Non si trovava più né un posto distinto, né un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro. Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio. Finita la prima parte dello spettacolo, il direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico, e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso: «Rispettabile pubblico, cavalieri e dame!» «L’umile sottoscritto essendo di aggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Corti principali d’Europa.» «E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!” Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi: ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi; la criniera divisa in tanti riccioli legati con fiocchettini d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto amaranto e celeste. Era, insomma, un ciuchino da innamorare!
Il direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole: «Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogne delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi dà suoi occhi, conciossiaché essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto più volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartagine ossea che la stessa Facoltà Medicea di Parigi riconobbe essere quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo nonché nei relativi salti dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo, e poi giudicatelo! Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io v’inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore undici antimeridiane del pomeriggio». E qui il direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi rivolgendosi a Pinocchio, gli disse: – Animo, Pinocchio!... Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi! Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, fino a terra, e rimase inginocchiato fino a tanto che il direttore, schioccando la frusta, non gli gridò: – Al o! Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di o. Dopo un poco il direttore grido: – Al trotto! – e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il o in trotto. – Al galoppo!... – e Pinocchio staccò il galoppo. – Alla carriera! – e Pinocchio si dette a correre di gran carriera.
Ma in quella che correva come un barbero, il direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola. A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero. Rizzatosi da terra, in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne naturalmente di alzare la testa e di guardare in su... e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro, dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino. – Quel ritratto è il mio!... quella signora è la Fata! – disse dentro di sé Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare: – Oh Fatina mia! oh Fatina mia! Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro. Allora il direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso. Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito. Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!... Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accorse e, meno degli altri, il direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò: – Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi.
Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci ava più comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio. Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia. – Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! – gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso. Ma il ciuchino per quella sera non si fece rivedere. La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita. Allora il direttore disse al suo garzone di stalla: – Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo. Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla: – Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo? – Venti lire. – Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese. Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo! Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sopra uno scoglio ch’era sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.
Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo; e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sullo scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi levargli la pelle.
XXXIV Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci...
Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo: – A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell’affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo. E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua... indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo che scodinzolava come un’anguilla. Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo credé di sognare e rimase lì intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa. Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando: – E il ciuchino che ho gettato in mare dov’è? – Quel ciuchino son io! – rispose il burattino, ridendo. – Tu? – Io. – Ah! mariuolo! Pretenderesti forse burlarti di me? – Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio. – Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora, stando nell’acqua sei diventato un burattino di legno?... – Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.
– Bada, burattino, bada!... Non credere di divertirti alle mie spalle. Guai a te, se mi scappa la pazienza. – Ebbene, padrone: volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò. Quel buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria prese a dirgli così: – Sappiate dunque che io ero un burattino di legno come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa... e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto di orecchi... e con tanto di coda!... Che vergogna fu quella per me!... Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi; ma una sera durante lo spettacolo, feci in teatro una brutta cascata, e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il direttore non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato! – Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti soldi? – E perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!... un tamburo!... – Pur troppo!... E ora dove troverò un’altra pelle? – Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti, in questo mondo! – Dimmi, monello impertinente: e la tua storia finisce qui? – No, – rispose il burattino, – ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi; ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora
moltissimo, e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata... – E chi è questa Fata? – È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balia a se stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero un ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti anche dei ragazzi! Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena... e fra gli altri, vi fu un pesciolino così garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda. – Da oggi in poi, – disse il compratore inorridito, – faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco! – Io la penso come voi, – replicò il burattino, ridendo. – Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, – com’è naturale, all’osso... o per dir meglio, arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie... Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto. – Io mi rido della tua storia, – gridò il compratore imbestialito. – Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto. – Rivendetemi pure: io sono contento, – disse Pinocchio. Ma nel dir così, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando
allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore: – Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me. E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte: – Addio, padrone: se avete bisogno di un po’ di legno stagionato, per accendere il caminetto, ricordatevi di me. Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buonumore. Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco: e su in cima allo scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi. La cosa più singolare era questa: che la lana della Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di due colori, come quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina. Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quando ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata, come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte. E sapete chi era quel mostro marino? Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato «l’Attila dei pesci e dei pescatori». Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.
– Affréttati, Pinocchio, per carità! – gridava belando la bella Caprettina. E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. – Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina! E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa. – Bada, Pinocchio!... il mostro ti raggiunge!... Eccolo!... Eccolo!... Affréttati per carità, o sei perduto!... E Pinocchio a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua! Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora. Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non senti nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana. Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a strillare: e piangendo diceva: – Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi? – Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?... – disse in quel buio una vociaccia fessa di
chitarra scordata. – Chi è che parla così? – domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento. – Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei? – Io non ho che vedere nulla coi pesci. Io sono un burattino. – E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro? – Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?... – Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!... – Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere. – Neppure io vorrei esser digerito, – soggiunse il Tonno, – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!... – Scioccherie! – gridò Pinocchio. – La mia è un’opinione, – replicò il Tonno, – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate! – Insomma... io voglio andarmene di qui... io voglio fuggire... – Fuggi, se ti riesce!... – È molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? – domandò il burattino. – Figùrati che il suo corpo è più lungo di un chilometro, senza contare la coda. Nel tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore. – Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio. – Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento
di esser digerito!.... – Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire? – Io te l’auguro di cuore, caro burattino. – Addio, Tonno. – Addio, burattino; e buona fortuna. – Dove ci rivedremo?... – Chi lo sa?... è meglio non pensarci neppure!
XXXV Pinocchio ritrova Geppetto...
Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un o dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano. E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima. E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca. A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: – Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più! – Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, – Dunque tu sé proprio il mi’ caro Pinocchio? – Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!... e pensare che io, invece... Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per
traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: «Se non è morto, è segno che è sempre vivo», e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi ava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché fi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e così ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: «Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare», e io gli dissi: «Oh! se avessi l’ali anch’io», e lui mi disse: «Vuoi venire dal tuo babbo?», e io gli dissi: «Magari! ma chi mi ci porta», e lui mi disse: «Ti ci porto io», e io gli dissi: «Come?», e lui mi disse: «Montami sulla groppa», e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: «C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare», e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia... – Ti riconobbi anch’io, – disse Geppetto, – e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna. – E quant’è che siete chiuso qui dentro? – domandò Pinocchio.
– Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli! – E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati? – Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento... – Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?... – domandò Pinocchio maravigliato. – Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta... – E dopo?... – E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio. – Allora, babbino mio, – disse Pinocchio, – non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire... – A fuggire?... e come? – Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare. – Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare. – E che importa?... Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia. – Illusioni, ragazzo mio! – replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo
malinconicamente. – Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle? – Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme. E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo: – Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga. Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna. – Questo è il vero momento di scappare, – bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. – Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi. Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro. Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio. – E ora?... – domandò Pinocchio facendosi serio. – Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti. – Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!...
– Dove mi conduci? – Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura. Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo: – Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.
XXXVI Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino...
Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana. Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa? Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per confortarlo: – Coraggio babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi. – Ma dov’è questa spiaggia benedetta? – domandò il vecchietto diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. – Eccomi qui, che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare. – Ma io vedo anche la spiaggia, – disse il burattino. – Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno. Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buonumore: ma invece... Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso... insomma non ne poteva più, la spiaggia era sempre lontana. Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte: – Babbo mio, aiutatemi... perché io muoio! E il padre e il figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse: – Chi è che muore?
– Sono io e il mio povero babbo!... – Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!... – Preciso: e tu? – Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane. – E come hai fatto a scappare? – Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io. – Tonno mio, tu càpiti proprio a tempo! Ti prego per l’amor che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: aiutaci, o siamo perduti. – Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutt’e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva. Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno. – Siamo troppo pesi?... – gli domandò Pinocchio. – Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchiglia, – rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta, da parere un vitello di due anni. Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto; poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse: – Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!... Il Tonno cacciò il muso fuori dall’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò
il capo sott’acqua e sparì. Intanto s’era fatto giorno. Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse: – Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi ci riposeremo lungo la via. – E dove dobbiamo andare? – domandò Geppetto. – In cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da letto. Non avevano ancora fatti cento i, che videro seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina. Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella trista ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche. – O Pinocchio, – gridò la Volpe con voce di piagnisteo, – fai un po’ di carità a questi due poveri infermi. – Infermi! – ripeté il Gatto. – Addio, mascherine! – rispose il burattino. – Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più. – Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero! – Davvero! – ripeté il Gatto. – Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini
rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine! – Abbi comione di noi!... – Di noi!... – Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca». – Non ci abbandonare!... – ...are! - ripeté il Gatto. – Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia». E così dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada: finché, fatti altri cento i, videro in fondo a una viottola in mezzo ai campi una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di mattoni. – Quella capanna dev’essere abitata da qualcuno, – disse Pinocchio. – Andiamo là e bussiamo. Difatti andarono, e bussarono alla porta. – Chi è? – disse una vocina di dentro. – Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto, – rispose il burattino. – Girate la chiave, e la porta si aprirà, – disse la solita vocina. Pinocchio girò la chiave, e la porta si apri. Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno. – O il padrone della capanna dov’è? – disse Pinocchio maravigliato. – Eccomi quassù! Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello
il Grillo-parlante: – Oh! mio caro Grillino, – disse Pinocchio salutandolo garbatamente. – Ora mi chiami il «tuo caro Grillino», non è vero? Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di legno?... – Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me... tira anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo... – Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno. – Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna? – Questa capanna mi è stata regalata ieri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino. – E la capra dov’è andata? – domandò Pinocchio con vivissima curiosità. – Non lo so. – E quando ritornerà?... – Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse: “Povero Pinocchio... oramai non lo rivedrò più... il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!...”. – Ha detto proprio così?... Dunque era lei!... Era lei!... era la mia cara Fatina!... – cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente. Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante: – Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?
– Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Và da lui e troverai il latte, che cerchi. Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio; ma l’ortolano gli disse: – Quanto ne vuoi del latte? – Ne voglio un bicchiere pieno. – Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo. – Non ho nemmeno un centesimo, – rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente. – Male, burattino mio, – replicò l’ortolano. – Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte. – Pazienza! – disse Pinocchio e fece l’atto di andarsene. – Aspetta un po’, – disse Giangio. – Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo? – Che cos’è il bindolo? – Gli è quell’ordigno di legno, che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna, per annaffiare gli ortaggi. – Mi proverò... – Dunque, tirami su cento secchie d’acqua e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte. – Sta bene. Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai. – Finora questa fatica di girare il bindolo, – disse l’ortolano, – l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
– Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio. – Volentieri. Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi: – Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova! E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino: – Chi sei? A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto: – Sono Lu...ci...gno...lo. E dopo richiuse gli occhi e spirò. – Oh! povero Lucignolo! – disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso. – Ti commovi tanto per un asino che non ti costa nulla? – disse l’ortolano. – Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti? – Vi dirò... era un mio amico!... – Tuo amico? – Un mio compagno di scuola!... – Come?! – urlò Giangio dando in una gran risata. – Come?! avevi dei somari per compagni di scuola!... Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!... Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna. E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina,
prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da sé stesso un elegante carrettino per condurre a so il suo babbo alle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria. Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege. Fatto sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo. Una mattina disse a suo padre: – Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un paio di scarpe. Quando tornerò a casa, – soggiunse ridendo, – sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore. E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella Lumaca che sbucava fuori della siepe. – Non mi riconosci? – disse la Lumaca. – Mi pare e non mi pare... – Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? Non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa? – Mi rammento di tutto, – gridò Pinocchio. – Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? Che fa? Mi ha perdonato? Si ricorda sempre di me? Mi vuol sempre bene? È molto lontana da qui? Potrei andare a
trovarla? A tutte queste domande fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma: – Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!... – Allo spedale?... – Pur troppo! Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata e non ha più da comprarsi un boccon di pane. – Davvero?... Oh! Che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! Povera Fatina! Povera Fatina!... Se avessi un milione, correrei a portarglielo... Ma io non ho che quaranta soldi... eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e và a portarli subito alla mia buona Fata. – E il tuo vestito nuovo?... – Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Và, Lumaca, spìcciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto. La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto. Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò: – E il vestito nuovo? – Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!... Lo comprerò un’altra volta. Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte suonata; e invece di far otto canestre di giunco ne fece sedici. Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così.
– Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice. A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati. Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura. Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca. Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose. In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti. – E il mio babbo dov’è? – gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali. – Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? – gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
– Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo, – disse Geppetto. – Perché merito mio?... – Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie. – E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto? – Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: – Com’ero buffo, quand’ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!... Fine.
I RACCONTI DELLE FATE
Avvertenza Nel voltare in italiano i Racconti delle fate m'ingegnai, per quanto era in me, di serbarmi fedele al testo se. Parafrasarli a mano libera mi sarebbe parso un mezzo sacrilegio. A ogni modo, qua e là mi feci lecite alcune leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire: e questo ho voluto notare qui di principio, a scanso di commenti, di atti subitanei di stupefazione e di scrupoli grammaticali o di vocabolario.
Peccato confessato, mezzo perdonato: e così sia.
C. COLLODI
Barba-blu
C'era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche, e piatterie d'oro e d'argento, e mobilia di lusso ricamata, e carrozze tutte dorate di dentro e di fuori. Ma quest'uomo, per sua disgrazia, aveva la barba blu: e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c'era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe dalla paura. Fra le sue vicinanti, c'era una gran dama, la quale aveva due figlie, due occhi di sole. Egli ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quella delle due che avesse voluto dargli: ma le ragazze non volevano saperne nulla: e se lo palleggiavano dall'una all'altra, non trovando il verso di risolversi a sposare un uomo, che aveva la barba blu. La cosa poi che più di tutto faceva loro ribrezzo era quella, che quest'uomo aveva sposato diverse donne e di queste non s'era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto. Fatto sta che Barba-blu, tanto per entrare in relazione, le menò, insieme alla madre e a tre o quattro delle loro amiche e in compagnia di alcuni giovinotti del vicinato, in una sua villa, dove si trattennero otto giorni interi. E lì, fu tutto un metter su eggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende: nessuno trovò il tempo per chiudere un occhio, perché avano le nottate a farsi fra loro delle celie: insomma, le cose presero una così buona piega, che la figlia minore finì col persuadersi che il padrone della villa non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene. Tornati di campagna, si fecero le nozze. In capo a un mese, Barba-blu disse a sua moglie che per un affare di molta importanza era costretto a mettersi in viaggio e a restar fuori almeno sei settimane: che la pregava di stare allegra, durante la sua assenza; che invitasse le sue amiche del cuore, che le menasse in campagna, caso le avesse fatto piacere: in una parola, che trattasse da regina e tenesse dappertutto corte bandita. "Ecco", le disse, "le chiavi delle due grandi guardarobe: ecco quella dei piatti
d'oro e d'argento, che non vanno in opera tutti i giorni: ecco quella dei miei scrigni, dove tengo i sacchi delle monete: ecco quella degli astucci, dove sono le gioie e i finimenti di pietre preziose: ecco la chiave comune, che serve per aprire tutti i quartieri. Quanto poi a quest'altra chiavicina qui, è quella della stanzina, che rimane in fondo al gran corridoio del pian terreno. Padrona di aprir tutto, di andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d'entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera." Ella promette che sarebbe stata attaccata agli ordini: ed egli, dopo averla abbracciata, monta in carrozza, e via per il suo viaggio. Le vicine e le amiche non aspettarono di essere cercate, per andare dalla sposa novella, tanto si struggevano dalla voglia di vedere tutte le magnificenze del suo palazzo, non essendosi arrisicate di andarci prima, quando c'era sempre il marito, a motivo di quella barba blu, che faceva loro tanta paura. Ed eccole subito a sgonnellare per le sale, per le camere e per le gallerie, sempre di meraviglia in meraviglia. Salite di sopra, nelle stanze di guardaroba, andarono in visibilio nel vedere la bellezza e la gran quantità dei parati, dei tappeti, dei letti, delle tavole, dei tavolini da lavoro, e dei grandi specchi, dove uno si poteva mirare dalla punta dei piedi fino ai capelli, e le cui cornici, parte di cristallo e parte d'argento e d'argento dorato, erano la cosa più bella e più sorprendente che si fosse mai veduta. Esse non rifinivano dal magnificare e dall'invidiare la felicità della loro amica, la quale, invece, non si divertiva punto alla vista di tante ricchezze, tormentata, com'era, dalla gran curiosità di andare a vedere la stanzina del pian terreno. E non potendo più stare alle mosse, senza badare alla sconvenienza di lasciar lì su due piedi tutta la compagnia, prese per una scaletta segreta, e scese giù con tanta furia, che due o tre volte ci corse poco non si rompesse l'osso del collo. Arrivata all'uscio della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del marito, e per la paura dei guai, ai quali poteva andare incontro per la sua disubbidienza: ma la tentazione fu così potente, che non ci fu modo di vincerla. Prese dunque la chiave, e tremando come una foglia aprì l'uscio della stanzina. Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue
accagliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barba-blu aveva sposate, eppoi sgozzate, una dietro l'altra. Se non morì dalla paura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano. Quando si fu riavuta un poco, raccattò la chiave, richiuse la porticina e salì nella sua camera, per rimettersi dallo spavento: ma era tanto commossa e agitata, che non trovava la via a pigliar fiato e a rifare un po' di colore. Essendosi avvista che la chiave della stanzina si era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte: ma il sangue non voleva andar via. Ebbe un bel lavarla e un bello strofinarla colla rena e col gesso: il sangue era sempre lì: perché la chiave era fatata e non c'era verso di pulirla perbene: quando il sangue spariva da una parte, rifioriva subito da quell'altra. Barba-blu tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva ricevuto lettere, dove gli dicevano che l'affare, per il quale si era dovuto muovere da casa, era stato bell'e accomodato e in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto quello che poté per dargli ad intendere che era oltremodo contenta del suo sollecito ritorno. Il giorno dipoi il marito le richiese le chiavi: ed ella gliele consegnò: ma la sua mano tremava tanto, che esso poté indovinare senza fatica tutto l'accaduto. "Come va", diss'egli, "che fra tutte queste chiavi non ci trovo quella della stanzina?" "Si vede", ella rispose, "che l'avrò lasciata disopra, sul mio tavolino." "Badate bene", disse Barba-blu, "che la voglio subito." Riuscito inutile ogni pretesto per traccheggiare, convenne portar la chiave. Barba-blu, dopo averci messo sopra gli occhi, domandò alla moglie: "Come mai su questa chiave c'è del sangue?". "Non lo so davvero", rispose la povera donna, più bianca della morte.
"Ah! non lo sapete, eh!", replicò Barba-blu, "ma lo so ben io! Voi siete voluta entrare nella stanzina. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sempre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto là dentro." Ella si gettò ai piedi di suo marito piangendo e chiedendo perdono, con tutti i segni di un vero pentimento, dell'aver disubbidito. Bella e addolorata com'era, avrebbe intenerito un macigno: ma Barba-blu aveva il cuore più duro del macigno. "Bisogna morire, signora", diss'egli, "e subito." "Poiché mi tocca a morire", ella rispose guardandolo con due occhi tutti pieni di pianto, "datemi almeno il tempo di raccomandarmi a Dio." "Vi accordo un mezzo quarto d'ora: non un minuto di più", replicò il marito. Appena rimasta sola, chiamò la sua sorella e le disse: "Anna", era questo il suo nome, "Anna, sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arrivassero i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fa' loro segno, perché si affrettino a più non posso". La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l'erba che verdeggia." Intanto Barba-blu, con un gran coltellaccio in mano, gridava con quanta ne aveva ne' polmoni: "Scendi subito! o se no, salgo io". "Un altro minuto, per carità" rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?".
"Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l'erba che verdeggia." "Spicciati a scendere", urlava Barba-blu, "o se no salgo io." "Eccomi" rispondeva sua moglie; e daccapo a gridare: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Vedo" rispose la sorella Anna "vedo un gran polverone che viene verso questa parte..." "Sono forse i miei fratelli? " "Ohimè no, sorella mia: è un branco di montoni." "Insomma vuoi scendere, sì o no?", urlava Barba-blu. "Un'altro momentino" rispondeva la moglie: e tornava a gridare: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Vedo" ella rispose "due cavalieri che vengono in qua: ma sono ancora molto lontani." "Sia ringraziato Iddio", aggiunse un minuto dopo, "sono proprio i nostri fratelli: io faccio loro tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto." Intanto Barba-blu si messe a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna ebbe a scendere, e tutta scapigliata e piangente andò a gettarsi ai suoi piedi: "Sono inutili i piagnistei", disse Barba-blu, "bisogna morire". Quindi pigliandola con una mano per i capelli, e coll'altra alzando il coltellaccio per aria, era lì lì per tagliarle la testa. La povera donna, voltandosi verso di lui e guardandolo cogli occhi morenti, gli chiese un ultimo istante per potersi raccogliere. "No, no!", gridò l'altro, "raccomandati subito a Dio!", e alzando il braccio...
In quel punto fu bussato così forte alla porta di casa, che Barba-blu si arrestò tutt'a un tratto; e appena aperto, si videro entrare due cavalieri i quali, sfoderata la spada, si gettarono su Barba-blu. Esso li riconobbe subito per i fratelli di sua moglie, uno dragone e l'altro moschettiere, e per mettersi in salvo, si dette a fuggire. Ma i due fratelli lo inseguirono tanto a ridosso, che lo raggiunsero prima che potesse arrivare sul portico di casa. E costì colla spada lo arono da parte a parte e lo lasciarono morto. La povera donna era quasi più morta di suo marito, e non aveva fiato di rizzarsi per andare ad abbracciare i suoi fratelli. E perché Barba-blu non aveva eredi, la moglie sua rimase padrona di tutti i suoi beni: dei quali, ne dette una parte in dote alla sua sorella Anna, per maritarla con un gentiluomo, col quale da tanto tempo faceva all'amore: di un'altra se ne servì per comprare il grado di capitano ai suoi fratelli: e il resto lo tenne per sé, per maritarsi con un fior di galantuomo, che le fece dimenticare tutti i crepacuori che aveva sofferto con Barba-blu. Così per tutti gli sposi.
Da questo racconto, che risale al tempo delle fate, si potrebbe imparare che la curiosità, massime quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno.
La bella addormentata nel bosco
C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figliuoli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto. Andavano tutti gli anni ai bagni, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla giovava. Alla fine la Regina rimase incinta, e partorì una bambina. Fu fatto un battesimo di gala; si diedero per comari alla Principessina tutte le fate che si poterono trovare nel paese (ce n'erano sette) perché ciascuna di esse le fe un regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo. Dopo la cerimonia del battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle fate. Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d'oro massiccio, dove c'era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d'oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini. Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant'anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta e incantata. Il Re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d'oro massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le sette fate. La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti alcune parole di minaccia. Una delle giovani fate, che era accanto a lei, la sentì, e per paura che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina, appena alzati da tavola, andò a nascondersi dietro una portiera, per potere in questo modo esser l'ultima a parlare, e rimediare, in quanto fosse stato possibile, al male che la vecchia avesse fatto. Intanto le fate cominciarono a distribuire alla Principessa i loro doni. La più
giovane di tutte le diede in regalo che ella sarebbe stata la più bella donna del mondo: un'altra, che ella avrebbe avuto moltissimo spirito: la terza, che avrebbe messo una grazia incantevole in tutte le cose che avesse fatto: la quinta che avrebbe cantato come un usignolo: e la sesta, che avrebbe suonato tutti gli strumenti con una perfezione da strasecolare. Essendo venuto il momento della vecchia fata, essa disse tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che la Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso e che ne sarebbe morta! Questo orribile regalo fece venire i brividi a tutte le persone della corte, e non ci fu uno solo che non piangesse. A questo punto, la giovane fata uscì di dietro la portiera e disse forte queste parole: "Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si bucherà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, in capo ai quali il figlio di un Re la verrà a svegliare". Il Re, per la ione di scansare la sciagura annunziatagli dalla vecchia, fece subito bandire un editto, col quale era proibito a tutti di filare col fuso e di tenere fusi per casa, pena la vita. Fatto sta, che ati quindici o sedici anni, il Re e la Regina essendo andati a una loro villa, accadde che la Principessina, correndo un giorno per il castello e mutando da un quartiere all'altro, salì fino in cima a una torre, dove in una piccola soffitta c'era una vecchina, che se ne stava sola sola, filando la sua rocca. Questa buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal Re di filare col fuso. "Che fate voi, buona donna?", disse la Principessa. "Son qui che filo, mia bella ragazza", le rispose la vecchia, che non la conosceva punto. "Oh! carino, carino tanto!", disse la Principessa, "ma come fate? datemi un po' qua, che voglio vedere se mi riesce anche a me." Vivacissima e anche un tantino avventata com'era (e d'altra parte il decreto della
fata voleva così), non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e cadde svenuta. La buona vecchia, non sapendo che cosa si fare, si mette a gridare aiuto. Corre gente da tutte le parti; spruzzano dell'acqua sul viso alla Principessa: le sganciano i vestiti, le battono sulle mani, le stropicciano le tempie con acqua della Regina d'Ungheria; ma non c'è verso di farla tornare in sé. Allora il Re, che era accorso al rumore, si ricordò della predizione delle fate: e sapendo bene che questa cosa doveva accadere, perché le fate l'avevano detto, fece mettere la Principessa nel più bell'appartamento del palazzo, sopra un letto tutto ricami d'oro e d'argento. Si sarebbe detta un angelo, tanto era bella: perché lo svenimento non aveva scemato nulla alla bella tinta rosa del suo colorito: le gote erano di un bel carnato, e le labbra come il corallo. Ella aveva soltanto gli occhi chiusi: ma si sentiva respirare dolcemente; e così dava a vedere che non era morta. Il Re ordinò che la lasciassero dormire in pace finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi. La buona fata, che le aveva salvata la vita, condannandola a dormire per cento anni, si trovava nel regno di Matacchino, distante di là dodici mila chilometri, quando capitò alla Principessa questa disgrazia: ma ne fu avvertita in un baleno da un piccolo nano che portava ai piedi degli stivali di sette chilometri (erano stivali, coi quali si facevano sette chilometri per ogni gambata). La fata partì subito, e in men di un'ora fu vista arrivare dentro un carro di fuoco, tirato dai draghi. Il Re andò ad offrirle la mano, per farla scendere dal carro. Ella diè un'occhiata a quanto era stato fatto: e perché era molto prudente, pensò che quando la Principessa venisse a svegliarsi, si vedrebbe in un brutto impiccio, a trovarsi sola sola in quel vecchio castello; ed ecco quello che fece. Toccò colla sua bacchetta tutto ciò che era nel castello (meno il Re e la Regina) governanti, damigelle d'onore, cameriste, gentiluomini, ufficiali, maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, svizzeri, paggi e servitori; e così toccò ugualmente tutti i cavalli, che erano nella scuderia coi loro palafrenieri e i grossi mastini di guardia nei cortili e la piccola Puffe, la canina della Principessa, che era accanto a lei, sul suo letto. Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde
trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d'occhio; perché le fate sono sveltissime nelle loro faccende. Allora il Re e la Regina, quand'ebbero baciata la loro figliuola, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero bandire che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi. E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d'un quarto d'ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non c'era pericolo che uomo o animale potesse arvi attraverso. Si vedevano appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran distanza. E anche qui è facile riconoscere che la fata aveva trovato un ripiego del suo mestiere, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse a temere l'indiscretezza dei curiosi. In capo a cent'anni, il figlio del Re che regnava allora, e che era di un'altra famiglia che non aveva che far nulla con quella della Principessa addormentata, andando a caccia in quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella folta boscaglia. Ciascuno gli rispose, secondo quello che ne avevano sentito dire: chi gli diceva che era un vecchio castello abitato dagli spiriti; chi raccontava che tutti gli stregoni del vicinato ci facevano il loro sabato. La voce più comune era quella che ci stesse di casa un orco, il quale portava dentro tutti i ragazzi che poteva agguantare, per poi mangiarseli a suo comodo, e senza pericolo che qualcuno lo rincorresse, perché egli solo aveva la virtù di aprirsi una strada attraverso il bosco. Il Principe non sapeva a chi dar retta, quando un vecchio contadino prese la parola e gli disse: "Mio buon Principe, sarà ormai più di cinquant'anni che ho sentito raccontare da mio padre che in quel castello c'era una Principessa, la più bella che si potesse mai vedere; che essa doveva dormirvi cento anni, e che sarebbe destata dal figlio di un Re, al quale era destinata in sposa". A queste parole, il Principe s'infiammò; senza esitare un attimo, pensò che sarebbe stato lui, quello che avrebbe condotto a fine una sì bella avventura, e spinto dall'amore e dalla gloria, decise di mettersi subito alla prova.
Appena si mosse verso il bosco, ecco che subito tutti gli alberi d'alto fusto e i pruneti e i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo are. Egli s'incamminò verso il castello, che era in fondo a un viale, ed entrò dentro; e la cosa che gli fece un po' di stupore, fu quella di vedere che nessuno delle sue genti aveva potuto seguirlo, perché gli alberi, appena ato lui, erano tornati a ravvicinarsi. Ma non per questo si peritò a tirare avanti per la sua strada: un Principe giovine e innamorato è sempre pien di valore. Entrò in un gran cortile, dove lo spettacolo che gli apparve dinanzi agli occhi sarebbe bastato a farlo gelare di spavento. C'era un silenzio, che metteva paura: dappertutto l'immagine della morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto addormentati, e i loro bicchieri, dove c'erano sempre gli ultimi sgoccioli di vino, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando. a quindi in un altro gran cortile, tutto lastricato di marmo; sale la scala ed entra nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila colla carabina in braccio, e russavano come tanti ghiri; traversa molte altre stanze piene di cavalieri e di dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere. Entra finalmente in una camera tutta dorata, e vede sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una Principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgoreggiante c'era qualche cosa di luminoso e di divino. Si accostò tremando e ammirando, e si pose in ginocchio accanto a lei. In quel punto, siccome la fine dell'incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!" Il Principe, incantato da queste parole, e più ancora dal modo col quale erano dette, non sapeva come fare a esprimerle la sua grazia e la sua gratitudine. Giurò che l'amava più di se stesso. I suoi discorsi furono sconnessi e per questo piacquero di più; perché, poca eloquenza, grande amore! Esso era più imbrogliato di lei, né c'è da farsene meraviglia, a motivo che la Principessa aveva avuto tutto il tempo per poter pensare alle cose che avrebbe avuto da dirgli: perché, a quanto pare (la storia peraltro non ne fa parola), durante un sonno così lungo, la sua buona fata le avea regalato dei
piacevolissimi sogni. Fatto sta, che erano già quattro ore che parlavano fra loro due, fitto fitto, e non si erano ancora detta la metà delle cose che avevano da dirsi. Intanto tutte le persone del palazzo si erano svegliate colla Principessa: e ciascuno aveva ripreso le sue faccende: e siccome tutti non erano innamorati, così non si reggevano in piedi dalla fame. La dama d'onore, che sentiva sfinirsi come gli altri, perdé la pazienza e disse ad alta voce alla Principessa che la zuppa era in tavola. Il Principe diede mano alla Principessa perché si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu abbastanza prudente da farle osservare, che era vestita come la mi' nonna, e che aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come costumava un secolo addietro. Ma non per questo era meno bella. arono nel gran salone degli specchi e lì cenarono, serviti a tavola dagli ufficiali della Principessa. Gli oboè e i violini suonarono delle sinfonie vecchissime, ma sempre belle, quantunque fosse quasi cent'anni che nessuno pensava più a suonarle: e dopo cena, senza metter tempo in mezzo, il grande elemosiniere li maritò nella cappella di corte, e la dama d'onore tirò le cortine del parato. Dormirono poco. La Principessa non ne aveva un gran bisogno, e il Principe, appena fece giorno, la lasciò per ritornare in città, dove il padre suo stava in pensiero per lui. Il Principe gli dette a intendere che, nell'andare a caccia, s'era sperso in una foresta e che aveva dormito nella capanna d'un carbonaio, dove aveva mangiato del pan nero e un po' di formaggio. Quel buon uomo di suo padre, che era proprio un buon uomo, ci credé: ma non fu così di sua madre, la quale, vedendo che il figliuolo andava quasi tutti i giorni a caccia e che aveva sempre degli ammennicoli pronti per giustificarsi, tutte le volte che gli accadeva di are tre o quattro nottate fuori di casa, finì col mettersi in capo che ci doveva essere di mezzo qualche amoretto. Perché bisogna sapere che egli ò più di due anni insieme colla Principessa, e ne ebbe due figli; di cui il maggiore, che era una femmina, si chiamava Aurora, e il secondo che era maschio, fu chiamato Giorno, comecché promettesse di essere anche più bello della sorella. La Regina si provò più volte a interrogare il figlio, e a metterlo su per levargli di
sotto qualche parola: dicendogli che in questo mondo ognuno è padrone di fare il piacer suo: ma egli non si arrisicò mai a confidarle il segreto del suo cuore. Voleva bene a sua madre; ma ne aveva paura, perché essa veniva da una famiglia d'orchi, e il Re s'era indotto a sposarla unicamente a cagione delle sue grandi ricchezze. Anzi c'era in corte la diceria che ella avesse tutti gli istinti dell'orco; e che, quando vedeva are dei ragazzetti, fe sopra di sé degli sforzi inauditi per trattenersi dalla voglia di avventarsi su di essi e di mangiarseli vivi vivi. Ecco perché il Principe non volle mai dir nulla dei suoi segreti. Ma quando il Re morì, e questo accadde due anni dopo, e che egli diventò il padrone del regno, fece subito bandire pubblicamente il suo matrimonio e andò con grande scialo a prendere la Regina sua moglie al castello. Le fu preparato un solenne ingresso nella capitale del Regno, dov'ella entrò in mezzo ai suoi due figli. Di lì a poco tempo il Re andò a far la guerra al Re Cantalabutta, suo vicino. Lasciò la reggenza del Regno alla Regina sua madre, e le raccomandò tanto e poi tanto la moglie e i figliuoli suoi. Si contava che egli dovesse restare alla guerra tutta l'estate, che appena fu partito la Regina mandò la nuora e i suoi ragazzi in una casa in mezzo ai boschi, per poter meglio soddisfare le sue orribili voglie. Dopo qualche giorno, vi andò essa pure, e una tal sera disse al suo capo cuoco: "Domani a pranzo voglio mangiare la piccola Aurora". "Ah, signora!", esclamò il cuoco. "Voglio così", rispose la Regina; e lo disse col tono di voce d'un'orchessa, che ha proprio voglia di mangiare della carne viva. "E la voglio mangiare in salsa piccante." Quel pover'uomo del cuoco, vedendo che con un'orchessa c'era poco da scherzare, prese una grossa coltella e salì su nella camera della piccola Aurora. Ella aveva allora quattr'anni appena, e corse saltellando e ridendo a gettarglisi al
collo e a chiedergli delle chicche. Egli si mise a piangere, la coltella gli cascò di mano e andò giù nella corte a sgozzare un agnellino, e lo cucinò con una salsa così buona, che la sua padrona ebbe a dire di non aver mai mangiato una cosa così squisita in tempo di vita sua. In quello stesso tempo esso aveva portato via la piccola Aurora e l'aveva data in custodia alla sua moglie, perché la nascondesse nel quartierino di sua abitazione in fondo al cortile. Otto giorno dopo quella strega della Regina disse al suo capo cuoco: "Voglio mangiare a cena il piccolo Giorno". Egli non rispose né sì né no, risoluto com'era a farle lo stesso tiro della volta ata. Andò a cercare il piccolo Giorno, e lo trovò con una spada in mano, che tirava di scherma con una grossa scimmia: eppure non aveva più di tre anni. Lo prese e lo portò alla sua moglie, la quale lo nascose insieme colla piccola Aurora: e in luogo del fanciullo, servì in tavola un caprettino di latte, che l'orchessa trovò delizioso. Fin lì le cose erano andate bene; ma una sera la malvagia Regina disse al cuoco: "Voglio mangiare la Regina, cucinata colla stessa salsa de' suoi figliuoli". Fu allora che il povero cuoco sentì cascarsi le braccia, perché non sapeva proprio come fare a ingannarla per la terza volta. La giovane Regina aveva vent'anni suonati, senza contare i cento ati dormendo; e la sua pelle, quantunque sempre bella e bianchissima, era diventata un po' tosta: e ora come trovare nello stallino un animale che avesse per l'appunto la pelle tigliosa a quel modo? Per salvare la propria vita, prese la risoluzione di tagliar la gola alla Regina e salì nella camera di lei, col fermo proposito di non dovercisi rifare due volte. Egli fece di tutto per eccitarsi e per andare in bestia, e con un pugnale in mano entrò nella camera della giovane Regina: ma non volendola prendere di sorpresa, le raccontò con grandissimo rispetto l'ordine ricevuto dalla Regina madre. "Fate pure, fate pure", ella gli disse, porgendogli il collo, "eseguite l'ordine che vi hanno dato; io andrò così a rivedere i miei figli, i miei poveri figli, che ho tanto amato."
Ella li credeva morti fin dal momento che li aveva veduti sparire, senza saperne altro. "No, no, o signora", rispose il povero cuoco, tutto intenerito, "voi non morirete nient'affatto: e non lascerete per questo di andare a rivedere i vostri figliuoli: ma li vedrete a casa mia, dov'io li ho nascosti, e anche per questa volta ingannerò la Regina, facendole mangiare una giovine cervia invece di voi." La condusse subito nella sua camera, dove, lasciandola che si sfogasse a baciare le sue creature, e a piangere con esse, se ne andò diviato a cucinare una cervia, che la Regina mangiò per cena, col medesimo gusto, come se avesse mangiato la giovine Regina. Ella era molto soddisfatta della sua crudeltà; e già studiava il modo per dare a intendere al Re, quando fosse tornato, che i lupi affamati avevano divorato la Regina sua moglie e i suoi ragazzi . Una sera che la Regina madre, secondo il suo solito, ronzava in punta di piedi per le corti e per i cortili, a fiutare l'odore della carne cruda, sentì in una stanza terrena il piccolo Giorno che piangeva, perché la sua mamma lo voleva picchiare, a causa che era stato cattivo, e sentì nello stesso tempo la piccola Aurora che implorava perdono per il suo fratellino. L'orchessa riconobbe la voce della Regina e de' suoi figliuoli, e furibonda d'essere stata ingannata, con una voce spaventevole, che fece tremar tutti, ordinò che la mattina dipoi fosse portata in mezzo alla corte una gran vasca, e che la vasca fosse riempita di vipere, di rospi, di ramarri e di serpenti per farvi gettar dentro la Regina, i figliuoli, il capo cuoco, la moglie di lui e la sua serva di casa. Ella aveva ordinato che fossero menati tutti colle mani legate di dietro. Essi erano lì, e già i carnefici si preparavano a gettarli nella vasca, quand'ecco che il Re, il quale non era aspettato così presto di ritorno, entrò nella corte a cavallo: esso era venuto colla posta, e domandò tutto stupito che cosa mai volesse dire quell'orrendo spettacolo. Nessuno aveva coraggio di aprir bocca, quando l'orchessa, presa da una rabbia indicibile nel vedere quel che vedeva, si gettò da se stessa colla testa avanti nella vasca, dove in un attimo fu divorata da tutte quelle bestiacce, che c'erano state messe dentro per suo comando. A ogni modo il Re se ne mostrò addolorato, perché in fin dei conti era sua madre: ma trovò la maniera di consolarsene presto colla sua bella moglie e coi suoi bambini.
Se questo racconto avesse voglia d'insegnar qualche cosa, potrebbe insegnare alle fanciulle che chi dorme non piglia pesci... né marito. La Bella addormentata nel bosco dormì cent'anni, e poi trovò lo sposo: ma il racconto forse è fatto apposta per dimostrare alle fanciulle che non sarebbe prudenza imitarne l'esempio.
Cenerentola
C'era una volta un gentiluomo, il quale aveva sposata in seconde nozze una donna così piena di albagia e d'arroganza, da non darsi l'eguale. Ella aveva due figlie dello stesso carattere del suo, e che la somigliavano come due gocce d'acqua. Anche il marito aveva una figlia, ma di una dolcezza e di una bontà da non farsene un'idea; e in questo tirava dalla sua mamma, la quale era stata la più buona donna del mondo. Le nozze erano appena fatte, che la matrigna dette subito a divedere la sua cattiveria. Ella non poteva patire le buone qualità della giovinetta, perché, a quel confronto, le sue figliuole diventavano più antipatiche che mai. Ella la destinò alle faccende più triviali della casa: era lei che rigovernava in cucina, lei che spazzava le scale e rifaceva le camere della signora e delle signorine; lei che dormiva a tetto, proprio in un granaio, sopra una cattiva materassa di paglia, mentre le sorelle stavano in camere coll'impiantito di legno, dov'erano letti d'ultimo gusto, e specchi da potervisi mirare dalla testa fino ai piedi. La povera figliuola tollerava ogni cosa con pazienza, e non aveva cuore di rammaricarsene con suo padre, il quale l'avrebbe sgridata, perché era un uomo che si faceva menare per il naso in tutto e per tutto dalla moglie. Quando aveva finito le sue faccende, andava a rincantucciarsi in un angolo del focolare, dove si metteva a sedere nella cenere; motivo per cui la chiamavano comunemente la Culincenere. Ma la seconda delle sorelle, che non era così sboccata come la maggiore, la chiamava Cenerentola. Eppure Cenerentola, con tutti i suoi cenci, era cento volte più bella delle sue
sorelle, quantunque fossero vestite in ghingheri e da grandi signore. Ora accadde che il figlio del Re diede una festa da ballo, alla quale furono invitate tutte le persone di grand'importanza e anche le nostre due signorine furono del numero, perché erano di quelle che facevano grande spicco in paese. Eccole tutte contente e tutte affaccendate a scegliersi gli abiti e le pettinature, che tornassero loro meglio a viso. E questa fu un'altra seccatura per la povera Cenerentola, perché toccava a lei a stirare le sottane e a dare l'amido ai manichini. Non si parlava d'altro in casa che del come si sarebbero vestite in quella sera. "Io", disse la maggiore, "mi metterò il vestito di velluto rosso e le mie trine d'Inghilterra." "E io", disse l'altra, "non avrò che il mio solito vestito: ma, in compenso, mi metterò il mantello a fiori d'oro e la mia collana di diamanti, che non è dicerto di quelle che si vedono tutti i giorni." Mandarono a chiamare la pettinatora di gala, per farsi fare i riccioli su due righe, e comprarono dei nèi dalla fabbricante più in voga della città. Quindi chiamarono Cenerentola perché dicesse il suo parere, come quella che aveva moltissimo gusto; e Cenerentola die' loro i migliori consigli, e per giunta si offrì di vestirle: la qual cosa fu accettata senza bisogno di dirla due volte. Mentre le vestiva e le pettinava, esse dicevano: "Di', Cenerentola, avresti caro di venire al ballo?..." . "Ah, signorine! voi mi canzonate: questi non son divertimenti per me! " "Hai ragione: ci sarebbe proprio da ridere, a vedere una Cenerentola, pari tua, a una festa da ballo." Un'altra ragazza, nel posto di Cenerentola, avrebbe fatto di tutto per vestirle male; ma essa era una buonissima figliuola, e le vestì e le accomodò come meglio non si poteva fare. Per la gran contentezza di questa festa, stettero quasi due giorni senza ricordarsi di mangiare: strapparono più di dodici aghetti per serrarsi ai fianchi e far la vita
striminzita; e avano tutt'intera la santa giornata a guardarsi nello specchio. Venne finalmente il giorno sospirato. Partirono di casa e Cenerentola le accompagnò cogli occhi più lontano che poté: quando non le scorse più, si mise a piangere. La sua Comare, che la trovò cogli occhi rossi e pieni di pianto, le domandò che cosa avesse. "Vorrei... vorrei..." E piangeva così forte, che non poteva finir la parola. La Comare, che era una fata, le disse: "Vorresti anche tu andare al ballo, non è vero?". "Anch'io, sì" disse Cenerentola con un gran sospirone. "Ebbene: prometti tu d'essere buona?", disse la Comare. "Allora ti ci farò andare." E menatala in camera, le disse: "Vai nel giardino e portami un cetriolo". Cenerentola scappò subito a cogliere il più bello che poté trovare e lo portò alla Comare, non sapendo figurarsi alle mille miglia come mai questo cetriolo l'avrebbe fatta andare alla festa di ballo. La Comare lo vuotò per bene, e rimasta la buccia sola, ci batté sopra colla bacchetta fatata, e in un attimo il cetriolo si mutò in una bella carrozza tutta dorata. Dopo, andò a guardare nella trappola, dove trovò sei sorci, tutti vivi. Ella disse a Cenerentola di tenere alzato un pochino lo sportello della trappola, e a ciascun sorcio che usciva fuori, gli dava un colpo di bacchetta, e il sorcio diventava subito un bel cavallo: e così messe insieme un magnifico tiro a sei, con tutti i cavalli di un bel pelame grigio-topo-rosato. E siccome essa non sapeva di che pasta fabbricare un cocchiere: "Aspettate un poco" disse Cenerentola "voglio andare a vedere se per caso nella
topaiola ci fosse un topo; che così ne faremo un cocchiere". "Brava!" disse la Comare "va' un po' a vedere." Cenerentola ritornò colla topaiola, dove c'erano tre grossi topi. La fata, fra i tre, scelse quello che aveva la barba più lunga; il quale, appena l'ebbe toccato, diventò un bel pezzo di cocchiere, e con certi baffi, i più belli che si fossero mai veduti. Fatto questo, le disse: "Ora vai nel giardino: e dietro l'annaffiatoio troverai sei lucertole. Portamele qui." Appena l'ebbe portate, la Comare le convertì in sei lacchè, i quali salirono subito dietro la carrozza, colle loro livree gallonate, e vi si tenevano attaccati, come se in vita loro non avessero fatto altro mestiere. Allora la fata disse a Cenerentola: "Eccoti qui tutto l'occorrente per andare al ballo: sei contenta?". "Sì, ma che ci devo andare in questo modo, e con questi vestitacci che ho addosso?" La fata non fece altro che toccarla colla sua bacchetta, e i suoi poveri panni si cambiarono in vestiti di broccato d'oro e di argento, e tutti tempestati di pietre preziose: quindi le diede un paio di scarpine di vetro, che erano una meraviglia. Quand'ella ebbe finito di accomodarsi, montò in carrozza: ma la Comare le raccomandò sopra ogni altra cosa di non far più tardi della mezzanotte, ammonendola che se ella si fosse trattenuta al ballo un minuto di più, la sua carrozza sarebbe ridiventata un cetriolo, i suoi cavalli dei sorci, i suoi lacchè delle lucertole, i suoi vestiti avrebbero ripreso la forma e l'aspetto cencioso di prima. Ella dette alla Comare la sua parola d'onore che sarebbe venuta via dal ballo avanti la mezzanotte.
E partì, che non entrava più nella pelle dalla gran contentezza. Il figlio del Re, essendogli stato annunziato l'arrivo di una Principessa, che nessuno sapeva chi fosse, corse incontro a riceverla, e offrì la mano per iscendere di carrozza, e la condusse nella sala dov'erano gl'invitati. Si fece allora un gran silenzio: le danze rimasero interrotte, i violini smessero di suonare, tutti gli occhi erano rivolti a contemplare le grandi bellezze della sconosciuta. Non si sentiva altro che un bisbiglio confuso, e un dire sottovoce: "Oh! com'è bella!...". Lo stesso Re, per quanto vecchio, non rifiniva dal guardarla, e andava dicendo sottovoce alla Regina, che da molti anni non gli era più capitato di vedere una donna tanto bella e tanto graziosa. Tutte le dame avevano gli occhi addosso a lei, per esaminarne la pettinatura e i vestiti, e farsene fare degli uguali per il giorno dopo, sempre che fosse stato possibile trovare delle stoffe così belle e delle modiste così valenti. Il figlio del Re la collocò nel posto d'onore: quindi andò a prenderla per farla ballare. Ella ballò con tanta grazia, da far crescere in tutti lo stupore. Fu servito un magnifico rinfresco, che il giovine Principe non assaggiò nemmeno, tanto era assorto nel rimirare la bella sconosciuta. Ella andò a porsi accanto alle sue sorelle: usò loro mille finezze: e fece parte ad esse delle arance e dei cedri, che il Principe le aveva regalato; la qual cosa le meravigliò moltissimo, perché esse non la riconobbero né punto né poco. In quella che stavano discorrendo insieme, Cenerentola sentì battere le undici e tre quarti; e fatta subito una gran riverenza a tutta la società, scappò via come il vento. Appena arrivata a casa, corse a trovare la Comare, e dopo averla ringraziata, le disse che avrebbe avuto un gran piacere di tornare anche alla festa del giorno dipoi, perché il figlio del Re l'aveva pregata molto. Mentre stava raccontando alla Comare tutti i particolari della festa, le due sorelle
bussarono alla porta: Cenerentola andò loro ad aprire. "Quanto siete state a tornare!" disse ella stropicciandosi gli occhi e stirandosi come se si fosse svegliata in quel momento. E sì, che ella non aveva avuto davvero una gran voglia di dormire, dacché s'erano lasciate. "Se tu fossi stata al ballo", le disse una delle sue sorelle "non ti saresti annoiata: vi è capitato la più bella Principessa, ma di' pure la più bella che si possa vedere al mondo: essa ci ha fatto mille garbatezze, e ci ha regalato dei cedri e delle arance." Cenerentola non capiva più in sé dalla gioia. Ella domandò loro il nome di questa Principessa; ma quelle risposero che non la conoscevano, e che il figlio del Re si struggeva della voglia di sapere chi fosse, e che per saperlo avrebbe dato qualunque cosa. Cenerentola sorrise, e disse loro: "Dev' esser bella davvero! Dio mio! come siete felici voi altre! Che cosa pagherei di poterla vedere! Via, signora Giulietta, prestatemi il vostro vestito giallo, quello di tutti i giorni...". "Giusto, lo dicevo anch'io!" rispose Giulietta. "Prestare il mio vestito a una brutta Cenerentola come te. Bisognerebbe proprio dire che avessi perso il giudizio." Questa risposta Cenerentola se l'aspettava: e ne fu contentissima; perché si sarebbe trovata in un grande impiccio, se la sua sorella le avesse prestato il vestito. La sera dopo le due sorelle tornarono al ballo: e Cenerentola pure; ma vestita anche più sfarzosamente della prima volta. Il figlio del Re non la lasciò un minuto; e in tutta la serata non fece altro che dirle un monte di cose apionate e galanti. La giovinetta, che non s'annoiava punto, si era dimenticata le raccomandazioni fatte dalla Comare; tant'è vero che sentì battere il primo tocco della mezzanotte, e credeva che non fossero ancora le undici. S'alzò e fuggì con tanta leggerezza, che pareva una cervia.
Il Principe le corse dietro, ma non poté raggiungerla. Nel fuggire, ella lasciò cascare una delle sue scarpine di vetro, che il Principe raccattò con grandissimo amore. Cenerentola arrivò a casa tutta scalmanata, senza carrozza, senza lacchè e con addosso il vestito di tutti i giorni, non essendole rimasto nulla delle sue magnificenze, all'infuori di una delle sue scarpine, la compagna di quella che aveva perduta per la strada. Fu domandato ai guardaportoni del palazzo, se per caso avessero veduto uscire una Principessa; ma essi risposero che non avevano veduto uscir nessuno, tranne una ragazza mal vestita e che dall'aspetto pareva piuttosto una contadina che una signora. Quando le sorelle ritornarono dal ballo, Cenerentola chiese loro se si erano divertite e se c'era stata anche la bella signora. Esse risposero di si, e che era scappata via allo scocco della mezzanotte, e con tanta furia, che s'era lasciata cascare una delle sue scarpine di vetro, la più bella scarpina del mondo: e che il figlio del Re l'aveva raccattata, e non aveva fatto altro che guardarla tutto il tempo del ballo, e che questo voleva dire che egli era innamorato morto della bella signora, alla quale apparteneva la scarpina. E dicevano la verità: perché di lì a pochi giorni il figlio del Re fece bandire a suon di tromba che sposerebbe colei, il cui piede avesse calzato bene quella scarpina. Si cominciò a provare la scarpa alle Principesse: poi alle Duchesse e a tutte le dame di corte: ma era tempo perso. Fu portata a casa delle due sorelle, le quali fecero ogni sforzo possibile per far entrare il piede in quella scarpa: ma non ci fu modo. Cenerentola, che stava a guardarle e che aveva riconosciuta la scarpina, disse loro: "Voglio vedere anch'io se mi va bene!". Le sorelle si misero a ridere e a canzonarla.
Il gentiluomo incaricato di far la prova della scarpa, avendo posato gli occhi addosso a Cenerentola e parendogli molto bella, disse che era giustissimo, e che egli aveva l'ordine di provar la scarpa a tutte le fanciulle. Fece sedere Cenerentola, e avvicinando la scarpa al suo piedino, vide che c'entrava senz'ombra di fatica e che calzava proprio come un guanto. Lo stupore delle due sorelle fu grande, ma crebbe del doppio, quando Cenerentola cavò fuori di tasca l'altra scarpina e se la infilò in quell'altro piede. In codesto punto arrivò la Comare, la quale, dato un colpo di bacchetta ai vestiti di Cenerentola, li fece diventare assai più sfarzosi, che non fossero stati mai. Allora le due sorelle riconobbero in essa la bella signora veduta al ballo; e si gettarono ai suoi piedi per chiederle perdono dei mali trattamenti che le avevano fatto patire. Cenerentola le fece alzare, e disse, abbracciandole, che perdonava loro di cuore, e che le pregava ad amarla sempre e dimolto. Vestita com'era, fu condotta dal Principe, al quale parve più bella di tutte le altre volte, e dopo pochi giorni la sposò. Cenerentola, buona figliuola quanto bella, fece dare un quartiere alle sue sorelle, e le maritò il giorno stesso a due gentiluomini della corte.
Questo racconto, invece di una morale, ne ha due. Prima morale: la bellezza, per le donne in ispecie, è un gran tesoro; ma c'è un tesoro che vale anche di più, ed è la grazia, la modestia e le buone maniere. Con queste doti Cenerentola arrivò a diventar Regina. Altra morale: grazia, spirito, coraggio, modestia, nobiltà di sangue, buon senso, tutte bellissime cose; ma che giovano questi doni della Provvidenza, se non si trova un compare o una comare, oppure, come si dice oggi, un buon diavolo che ci porti? Senza l'aiuto della Comare, che cosa avrebb'ella fatto quella buona e brava figliuola di Cenerentola?
Puccettino
C'era una volta un taglialegna e una taglialegna, i quali avevano sette figliuoli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci anni, il minore sette. Farà forse caso di vedere come un taglialegna avesse avuto tanti figliuoli in così poco tempo: ma egli è, che la sua moglie era svelta nelle sue cose, e quando ci si metteva, non faceva meno di due figliuoli alla volta. E perché erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in grado di guadagnarsi il pane. La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano per un segno di stupidaggine. Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo, non ava la grossezza di un dito pollice; per cui lo chiamarono Puccettino. Capitò un'annata molto trista, nella quale la carestia fu così grande, che quella povera gente risolvettero di disfarsi de' loro figliuoli. Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si spezzava, alla sua moglie: "Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai nostri figliuoli: e non mi regge l'animo di vedermeli morir di fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a menarli nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché, mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la daremo a gambe, senza che abbiano tempo di addarsene". "Ah!", gridò la moglie, "e puoi tu aver tanto cuore da sperdere da te stesso le tue creature?" Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun patto. Era povera, ma era madre:
peraltro, ripensando anch'essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti morire di fame, finì col rassegnarvisi, e andò a letto piangendo. Puccettino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per potere ascoltare ogni cosa senz'esser visto. Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della nottata, rimuginando quello che doveva fare. Si levò a giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la tasca di sassolini bianchi: poi chiotto chiotto se ne tornò a casa. Partirono, ma Puccettino non disse nulla ai suoi fratelli di quello che sapeva. Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza di due i non c'era modo di vedersi l'uno coll'altro. Il taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere delle frasche per far dei fastelli. Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si allontanarono adagio adagio, finché se la svignarono per un viottolo fuori di mano. Quando i ragazzi si videro soli, si misero a strillare e a piangere forte forte. Puccettino li lasciò berciare, essendo sicuro che a ogni modo sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s'era messi nella tasca. "Non abbiate paura di nulla, fratelli miei", disse loro, "il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli; ma io vi rimenerò a casa: venitemi dietro." Essi infatti lo seguirono, ed egli li menò per la stessa strada che avevano fatta, andando al bosco. Da principio non ebbero coraggi d'entrarvi: e si messero in orecchio alla porta di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la madre. Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per rimettere un po' di fiato in corpo a quella povera gente, che era proprio a tocco e non tocco per morir di fame.
Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome era molto tempo che non s'erano sfamati, essa comprò tre volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per la cena di due persone. Quando furono pieni, la moglie disse: "Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi tondi coi nostri avanzi! Ma tant'è, Guglielmo, se' stato tu che hai voluto smarrirli: ma io l'ho detto sempre che ce ne saremmo pentiti. Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio mio! i lupi forse a quest'ora l'hanno bell'e divorati. Proprio non bisogna aver cuore, come te, per isperdere i figliuoli a questo modo!...". Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e che essa l'aveva di già detto e ridetto: e minacciò di picchiarla se non si fosse chetata. Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono molto colle donne che parlano con giudizio, ma non possono soffrire quelle che hanno sempre ragione. La taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire: "Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri bambini?". Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i ragazzi, che erano dietro l'uscio, la sentirono e gridarono tutti insieme: "Siamo qui! siamo qui!". Essa corse subito ad aprir l'uscio e, abbracciandoli, disse: "Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda un po' come ti sei inzaccherato! vien qua, che ti spillaccheri". Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei. Si messero a tavola e mangiarono con un appetito, che fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la gran paura che avevano avuta nella foresta.
Quella buona gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allor decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta. Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta segretezza, che Puccettino non sentisse tutto; il quale pensò di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla, perché trovò l'uscio di casa serrato a doppia mandata. Egli non sapeva davvero che cosa stillarsi, quando ecco che la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per colazione. Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando i minuzzoli lungo la strada per dove sarebbero ati. E si messe il pane in tasca. Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero una scappatoia e via. Puccettino non se ne fece né in qua né in là, perché sapeva di poter ritrovare facilmente la strada coll'aiuto dei minuzzoli sparsi; ma figuratevi come rimase, quando si accorse che i minuzzoli glieli avevano beccati gli uccelli. Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro. Venne poi una grand'acqua che li bagnò fin sotto la pelle: a ogni o sdrucciolavano e cascavano nella mota: e quando si rizzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le mani. Puccettino montò in cima a un albero per vedere se scuopriva paese; e guardando da ogni parte, vide un lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era lontano lontano, molto al di là della foresta. Scese dall'albero: e quando fu in terra, non vide più nulla. Questa cosa gli diede un gran dolore. Nonostante, camminando innanzi coi suoi fratelli, verso quella parte dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo mentre usciva fuori del bosco.
Arrivarono finalmente alla casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano di vista, segnatamente quando camminavano in qualche pianura molto bassa. Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad aprire, e domandò loro che cosa volevano. Puccettino disse che erano poveri ragazzi che s'erano spersi nella foresta, e che chiedevano da dormire per amor d'Iddio. La donna, vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse: "Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma non sapete che questa è la casa dell'Orco che mangia tutti i bambini?". "Ah, signora", rispose Puccettino, il quale tremava come una foglia, e così i suoi fratelli. "Che cosa volete che facciamo? Se non ci pigliate in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci mangeranno. E in tal caso, è meglio che ci mangi questo signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse comione di noi." La moglie dell'Orco, sperando di poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li lasciò entrare e li menò a riscaldarsi intorno a un buon fuoco, dove girava sullo spiede un montone tutt'intero, che doveva servire per la cena dell'Orco. Mentre cominciavano a riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati alla porta. Era l'Orco che tornava. In men d'un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed andò ad aprire. L'Orco domandò subito se la cena era lesta e il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi, fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di carne viva. "Sarà forse", disse la moglie, "quel vitello che ho spellato or ora, che vi mette per il naso quest'odore." "E io dico che sento l'odore di carne viva", riprese l'Orco guardando la moglie di traverso, "e qui ci deve essere qualche sotterfugio!..."
Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato verso il letto. "Ah!", egli gridò, "tu volevi dunque ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e tigliosa! Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me in questi giorni." E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro l'altro. Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio, chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne comione, li mangiava di già cogli occhi prima del tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona salsa. Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che egli teneva nella mano sinistra. E ne aveva già agguantato uno, quando la moglie gli disse: "Che ne volete voi fare a quest'ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?". "Chetati, te!", riprese l'Orco. "Così saranno più frolli." "Ma ve ne avanza ancora tanta della carne! C'è qui un vitello, un montone e un mezzo maiale..." "Hai ragione", disse l'Orco, "rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a smagrire, e portali a letto." Quella buona donna, fuor di sé dalla contentezza, dette loro da cena: ma essi non poterono mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso. In quanto all'Orco, ricominciò a bere, soddisfattissimo di aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli die' al capo e fu obbligato ad andare a letto. L'Orco aveva sette figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a punta e una bocca larghissima, con una
rastrelliera di denti lunghi, affilati e staccati l'uno dall'altro. Non erano ancora diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già mordevano i fanciulli per succhiare il sangue. Le avevano mandate a dormire di buon'ora, ed erano tutte e sette in un gran letto, ciascuna con una corona d'oro sulla testa. Nella stessa camera c'era un altro letto della medesima grandezza. Fu appunto in questo letto che la moglie dell'Orco messe a dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a suo marito. Puccettino, che s'era avviso che le figlie dell'Orco portavano una corona d'oro in capo, e che aveva sempre paura che l'Orco non si ripentisse di averli sgozzati subito, si levò verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie dell'Orco, dopo aver loro levata la corona d'oro, che pose sul capo suo e de' suoi fratelli, perché l'Orco li scambiasse per le proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che voleva sgozzare. E la cosa andò appuntino com'egli se l'era figurata; perché l'Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì di aver differito al giorno dopo quello che poteva aver fatto la sera stessa. Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio: "Andiamo un po' a vedere", disse, "come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte". Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l'Orco che gli tastava la testa, come l'aveva già tastata ai suoi fratelli. L'Orco sentendo la corona d'oro, disse: "Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più". Allora andò all'altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi:
"Eccoli", disse, "questi monellacci! Lavoriamo di fine". E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole. Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie. Appena che Puccettino sentì l'Orco che russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte, tremando come foglie, e senza sapere dove andavano. Quando l'Orco si svegliò, disse alla moglie: "Va' un po' a vestire quei monelli di ieri sera". L'Orchessa restò molto meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le ò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse intendere un'altra cosa, credendo in buona fede di doverli andare a vestire. Salì dunque di sopra, e rimase senza fiato in corpo, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse nel proprio sangue. Cominciò subito dallo svenirsi, essendo questo il primo espediente, a cui in simili casi ricorrono tutte le donne. L'Orco, temendo che la moglie non mettesse troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo. "Ah! che ho mai fatto?", gridò. "Ma quei disgraziati me la pagheranno, e subito!" E senza mettere tempo in mezzo, gettò una brocca d'acqua sul naso della moglie, e così avendola fatta tornare in sé: "Dammi subito", disse, "i miei stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere". E uscì fuori all'aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di là, finalmente infilò la strada che battevano per l'appunto quei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di cento i dalla casa paterna. Essi videro l'Orco che ava di montagna in montagna, traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati rigagnoli.
Puccettino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi si nascose anch'esso, senza perdere peraltro di vista tutte le mosse dell'Orco. L'Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta (perché gli stivali di sette chilometri son molto faticosi per chi li porta), pensò di ripigliar fiato, e il cielo volle che andasse per l'appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei ragazzi si erano nascosti. E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa. Ma Puccettino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli di scappare a gambe verso casa, mentre l'Orco dormiva come un ghiro; e di non stare in pena per lui. Essi non se lo fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa. Puccettino intanto si avvicinò all'Orco: gli levò adagino gli stivali, e se l'infilò per sé. Questi stivali erano molto grandi e molto larghi, ma perché eran fatati, avevano la virtù d'ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati fatti per il suo piede. Eglì andò di carriera alla casa dell'Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie uccise. "Vostro marito", le disse Puccettino, "si trova in un gran pericolo: è cascato fra le mani di una banda di assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna loro tutto il suo oro e il suo argento. Mentre gli stavano col pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno senz'ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri, come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione." La buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che aveva; perché l'Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini.
Puccettino, col carico addosso di tutte le ricchezze dell'Orco, tornò a casa del padre, dove fu accolto con grandissima festa. C'è per altro della gente che non crede che la cosa finisse così; e pretendono che Puccettino non commettesse mai questo furto a danno dell'Orco: e che solo non si fe scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi. Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella stessa casa del taglialegna. Raccontano, dunque, che quando Puccettino ebbe infilato gli stivali dell'Orco, se ne andò alla Corte, dove stavano tutti in gran pensiero per un'armata, che era in campagna alla distanza di duecento chilometri, e per l'esito di una battaglia data pochi giorni avanti. Dimodoché Puccettino andò a trovare il Re e gli disse che se lo desiderava avrebbe potuto portargli le notizie dell'armata, prima del calar del sole. E il Re gli promise una grossa somma, se egli fosse stato da tanto. La sera stessa Puccettino ritornò colle notizie dell'armata; e questa prima corsa avendolo messo in buona vista, guadagnava quel che voleva; perché il Re lo pagava profumatamente, valendosi di lui per portare i suoi ordini al campo; e un'infinità di signore gli davano quel che chiedeva, per aver le nuove dei loro amanti; e questo fu il guadagno più concludente di tutti gli altri. Ci furono anche alcune mogli che gli consegnarono delle lettere per i loro mariti; ma esse pagavano coi gomiti, e il profitto era così meschino, che egli non si degnò nemmeno di segnare nel libro degli utili i piccoli benefizi che gli pervenivano per questo titolo. Dopo aver fatto per qualche tempo il mestiere del corriere, e avere ammassato grandi ricchezze, ritornò alla casa di suo padre, dove non è possibile immaginarsi la festa che gli fecero nel rivederlo fra loro. Egli messe la sua famiglia nell'agiatezza; comprò degl'impieghi, di recente fondazione, per il padre e per i fratelli: formò a tutti uno stato conveniente; e gli rimase sempre un ritaglio di tempo, tanto da fare il damerino colle signore.
La storia di questo piccolo eroe, che i si chiamano Petit Poucet, perché era grande appena come il dito pollice, è stata forse inventata apposta per dar ragione e autorità a quell'antico proverbio che dice: "Gli uomini non si misurano a canne!".
Pelle d'asino
C'era una voIta un Re così potente, così ben voluto da' suoi popoli e così rispettato dai suoi vicini e alleati, che poteva dirsi il più felice di tutti i monarchi della terra. Fra le sue tante fortune, c'era anche quella di avere scelta per compagna una Principessa, bella quanto virtuosa: e questi avventurati sposi vivevano come due anime in un nocciolo. Dal loro casto imeneo era nata una figlia, ornata di tutte le grazie e di tutte le attrattive, a segno tale da non far loro desiderare una figliuolanza più numerosa. Il lusso, l'abbondanza, il buon gusto regnavano nel loro palazzo: i ministri erano saggi e capaci: i cortigiani virtuosi e affezionati: i domestici fidati e laboriosi: le scuderie vaste e piene de' più bei cavalli del mondo, tutti coperti di magnifiche gualdrappe. Ma la cosa che faceva maggiormente stupire i forestieri, che venivano a visitare quelle belle scuderie, era che nel bel mezzo di esse e nel luogo più vistoso, un signor Somaro faceva sfoggio delle sue grandi e lunghe orecchie. Né si può dire che questo fosse un capriccio; se il Re gli aveva assegnato un posto particolare e quasi d'onore, c'era la sua ragione. Perché bisogna sapere che questo raro animale meritava davvero ogni riguardo, a motivo che la natura lo aveva formato in un modo così straordinario e singolare, che tutte le mattine la sua lettiera, invece di essere sporca, era ricoperta a profusione di bellissimi zecchini e napoleoni d'oro, che venivano raccattati, appena egli si svegliava. Ma siccome le disgrazie sono tegoli che cascano sul capo dei Re come su quello dei sudditi, e non c'è allegrezza senza che ci sia mescolato qualche dispiacere, così accadde che la Regina fu colta all'improvviso da una fiera malattia, per la quale né la scienza né i medici sapevano suggerire rimedio di sorta. La desolazione era al colmo.
Il Re, tenero di cuore e innamoratissimo, a dispetto del proverbio che dice "Il matrimonio è la tomba dell'amore", si dava alla disperazione e faceva voti ardentissimi a tutte le divinità del regno, e offriva la sua vita per quella di una sposa così adorata: ma gli Dei e le fate erano sordi a ogni preghiera. Intanto la Regina, sentendo avvicinarsi l'ultim'ora, disse al suo sposo, il quale struggevasi in pianto: "Prima di morire, non vi abbiate a male se esigo da voi una cosa; ed è, che nel caso vi venisse voglia di rimaritarvi...". A queste parole il Re dette in urli da straziare il cuore. Prese le mani di sua moglie e le bagnò di pianto, giurando che era un di più venirgli a parlare di un altro matrimonio. "No, no, mia cara Regina", egli gridava, "ditemi piuttosto che io debbo seguirvi!" "Lo Stato", ripigliò la Regina con una tranquillità imperturbabile, che accresceva gli spasimi e le torture del Re, "lo Stato ha ragione di pretendere da voi dei successori; e vedendo che io ho dato solamente una figlia, vorrà da voi dei figli che vi somiglino: ma io, con tutte le forze dell'anima e per tutto il bene che mi avete voluto, vi domando di non cedere alle insistenze de' vostri popoli, se non quando avrete trovato una Principessa più bella e fatta meglio di me. Giuratemelo, e morirò contenta." Alcuni credono che la Regina, la quale non mancava di una certa dose di amor proprio, volesse per forza questo giuramento, perché, persuasa com'era che nel mondo non ci fosse altra donna da starle a fronte per bellezza, veniva così ad assicurarsi che il Re non si sarebbe mai riammogliato. Finalmente ella morì, né ci fu marito che fe mai tanto fracasso. Piangeva come una vite tagliata, singhiozzava giorno e notte, e non aveva altro pensiero, che quello di adempiere a tutto il cerimoniale e a tutte le seccature del vedovile. Ma i grandi dolori non durano. D'altra parte, i maggiorenti dello Stato si riunirono, e presentatisi in deputazione al Re, si fecero a domandargli che riprendesse moglie.
Questa proposta gli parve dura, e fu cagione di nuovi piagnistei. Messe di mezzo il giuramento fatto alla Regina e sfidò tutti i suoi consiglieri a trovargli una mogile più bella e fatta meglio della sua sposa buon'anima; persuaso che sarebbe stato impossibile. Ma il Consiglio chiamò ragazzate simili giuramenti, e soggiunse che la bellezza importava fino ad un certo segno, purché la regina fosse virtuosa e buona da far figliuoli: che per la quiete e la tranquillità dello Stato ci volevano dei Principi ereditarii: che, senza ombra di dubbio, l'infanta aveva tutte le doti volute per diventare una gran Regina, ma bisognava darle per isposo un forestiero: e in questo caso, o il forestiero l'avrebbe menata a casa sua, o, regnando con essa, i loro figli non sarebbero stati considerati dello stesso sangue: e finalmente, che non avendo egli nessun figlio maschio che portasse il suo nome, i popoli vicini avrebbero potuto far nascere delle guerre da condurre lo Stato in rovina. Il Re, toccato da queste considerazioni, dette parola che avrebbe pensato a contentarli. Cercò difatti fra le Principesse da marito quella che sarebbe stata più adatta per lui. Ogni giorno gli portavano a vedere dei bellissimi ritratti: ma non ce n'era neppur una che avesse le grazie della defunta Regina. E così non si decideva mai. Quand'ecco che per sua gran disgrazia, sebbene fosse stato fin allora un uomo pien di giudizio, tutto a un tratto dette volta al cervello, e cominciò a pigliare la fissazione di credere che l'infanta sua figlia vincesse di gran lunga in grazia e in bellezza la Regina madre, e fece intendere che era deciso a volerla sposare, perché ella sola poteva scioglierlo dalla fatta promessa. A questa brutale proposizione, la giovane Principessa, un fior di virtù e di pudore, ci corse poco non cadesse in terra svenuta. Si gettò ai piedi del Re suo padre, e lo scongiurò, con tutte le forze dell'anima, a non costringerla a commettere un tal delitto. Ma il Re, che si era fitto in testa questa strana idea, volle consultare un vecchio druido, per acquietare la coscienza della giovane Principessa. Il druido, che sapeva più d'ambizioso che di santo, non badò a sacrificare l'innocenza e la virtù, per la boria di diventare il confidente di un gran Re, e trovò il modo di insinuarsi con tanto garbo nell'animo di lui, e gli abbellì talmente il delitto che stava per commettere, che lo persuase perfino che lo sposare la propria figlia era un'opera meritoria.
Il Re, messo su dai discorsi dello scellerato, lo abbracciò, e si partì da lui più incaponito che mai nella sua idea, e ordinò all'infanta di prepararsi a ubbidire. La giovane Principessa straziata da un acerbo dolore, non vide altro scampo che andare a casa della sua comare, la fata Lilla. Per cui partì la sera stessa in un grazioso calessino, tirato da un grosso montone che conosceva tutte le strade, e arrivò felicemente. La fata, che voleva molto bene all'infanta, le disse che aveva saputo ogni cosa, ma che non se ne desse alcun pensiero, perché non poteva accaderle nulla di male, solo che avesse dato retta fedelmente alle sue prescrizioni. "Perché, mia cara figlia", ella disse, "sarebbe un grande sproposito lo sposare vostro padre: e voi, senza contradirlo, potete tirarvene fuori: ditegli, che per contentare un vostro capriccio, bisogna che egli vi regali un vestito color dell'aria. Con tutta la sua potenza non sarà mai capace di tanto." La Principessa ringraziò senza fine la comare, e la mattina dopo ripeté al Re, suo padre, quello che la fata le aveva consigliato, dichiarando che senza il vestito color dell'aria, ella non avrebbe mai acconsentito a nulla. Il Re, tutto contento per la speranza avuta, radunò gli operai più famosi e ordinò loro questa stoffa, sotto pena che, se non ci fossero riusciti, li avrebbe fatti tutti impiccare dal primo all'ultimo. Ma non ebbe il dispiacere di venire a questi estremi. Il giorno dopo gli portarono il vestito tanto desiderato: e il cielo quando è sparso di nuvole d'oro non ha un colore più bello di quello che aveva questa stoffa, quando venne spiegata. L'infanta ne rimase afflittissima e non sapeva come uscire da quest'impiccio. Il Re pigiava per venire a una conclusione. Bisognò tornare un'altra volta dalla comare, la quale stupita che il suo ripiego non avesse fatto l'effetto, le suggerì di provarsi a chiedere un altro vestito color della luna. Il Re, che non sapeva ricusarle nulla, mandò fuori in cerca di operai più capaci, e ordinò loro un vestito color della luna, e con tanta premura di averlo subito, che fra l'ordinarlo e il riportarlo bell'e fatto, non ci corsero ventiquattr'ore. L'infanta, invaghita in quel primo momento più del magnifico vestito che di tutte le attenzioni di suo padre, se ne afflisse poi oltremisura, appena si trovò insieme colle sue donne e colla sua nutrice.
La fata Lilla, che sapeva tutto, venne in aiuto alla sconsolata Principessa, e le disse: "O io non ne azzecco più una, oppure ho ragione di credere che se ora gli chiedeste un vestito color del sole, si sarebbe trovato il verso di disgustare il Re, vostro padre; perché è impossibile che si possa giungere a fabbricare una simile stoffa. Male male che la vada, guadagneremo sempre del tempo". L'infanta se ne persuase, e chiese il vestito. Il Re, tutto amore per lei, diede senza rincrescimento tutti i diamanti e i rubini della sua corona, con ordine di non risparmiare alcuna cosa perché questa stoffa riuscisse compagna al sole: tanto che quando fu messa in mostra, tutti quelli che la videro, furono costretti a chiuder gli occhi per il gran bagliore. Si vuole anzi che incominci da quel tempo l'uso degli occhiali verdi e delle lenti affumicate. Figuratevi un po' come rimase l'infanta a quella vista. Cosa più bella e più artisticamente lavorata non s'era veduta mai. Ella restò confusa, e col pretesto che le faceva male agli occhi, si ritirò nella sua camera, dove la fata l'aspettava col rossore della vergogna fino alla punta dei capelli. E lì accadde di peggio; perché la fata, vedendo il vestito color del sole, diventò paonazza dal gran dispetto. "Oh, questa volta poi, figlia cara", diss'ella all'infanta, "metteremo l'indegno amore di vostro padre a una prova terribile. Sia pure che egli abbia fissato davvero il chiodo in questo matrimonio, che si figura assai vicino: ma io son sicura che rimarrà molto sbalestrato dalla domanda che vi consiglio di fargli. Si tratta della pelle di quell'asino, al quale egli vuole un gran bene perché provvede con tanta larghezza a tutte le spese della sua Corte. Andate, e ditegli che desiderate quella pelle." L'infanta, tutt'allegra di aver trovato un altro scappavia per mandare a monte un matrimonio che detestava, e colla speranza sicura che il padre suo non avrebbe mai acconsentito a sacrificare l'asino del suo cuore, andò da lui e gli disse chiaro e tondo che voleva la pelle di quel bell'animale. Sebbene il Re rimanesse molto sconcertato per questo capriccio, non esitò a contentarla. Il povero asino fu sacrificato e la sua pelle venne presentata con molta galanteria all'infanta, la quale, non vedendo più alcun mezzo per sottrarsi alla sua disgrazia, stava per perdersi d'animo e darsi alla disperazione; quando
ecco che sopraggiunse la fata: "Che fate voi, figlia mia", diss'ella vedendo la Principessa che si strappava i capelli e si graffiava il bel viso; "questo è il momento più fortunato della vostra vita. Avvolgetevi in codesta pelle, uscite dal palazzo e camminate finché troverete terra sotto i piedi. Quando si sacrifica tutto alla virtù, gli Dei sanno ricompensare. Andate; sarà mia cura che le vostre robe vi seguano dappertutto; in qualunque luogo, dove vi fermerete, la cassetta de' vostri vestiti e delle vostre gioie vi sarà venuta dietro sotto terra: eccovi la mia bacchetta: ve la regalo, e battendola in terra tutte le volte che avrete bisogno della vostra cassetta, la cassetta apparirà dinanzi ai vostri occhi. Ma spicciatevi a partire, e non più indugi". L'infanta abbracciò mille volte la sua comare, pregandola di non abbandonarla mai; si messe addosso quella brutta pelle, e dopo essersi insudiciato il viso di fuliggine, uscì da quel magnifico palazzo, senza che nessuno la riconoscesse. La sparizione dell'infanta fece un gran chiasso. Il Re, che aveva fatto preparare una magnifica festa, era disperato e non sapeva darsene pace. Diè ordine che partissero più di cento giandarmi e più di mille moschettieri in cerca della figlia: ma la fata, che la proteggeva, la rendeva invisibile agli occhi di tutti; e così bisognò farsene una ragione. L'infanta intanto comminava giorno e notte. Essa andò lontano, e poi più lontano, e sempre più lontano, e cercava dappertutto un posto da impiegarsi; ma sebbene per carità le dessero un boccone, nessuno voleva saperne di lei, a cagione di vederla tanto sudicia. Giunse finalmente a una bella città, dove vicino alla porta c'era una fattoria: e la fattoressa aveva appunto bisogno di una donna da strapazzo per lavare i cenci e per tenere puliti i tacchini e lo stallino dei maiali. Vedendo questa zingara così sudicia, le propose di entrare al suo servizio: e l'infanta accettò di gran cuore, stanca com'era di aver fatto tanto paese. Fu messa in un canto della cucina, dove sui primi giorni ebbe a patire gli scherzi triviali del basso servidorame, tanto la sua pelle d'asino la rendeva sporca e nauseante. Alla fine ci fecero l'occhio, e perché ella si mostrava molto precisa nelle
faccende che doveva fare, la fattoressa la prese nelle sue buone grazie. Menava le pecore all'erba, e, alla sua ora, le rimetteva dentro: e guardava anche i tacchini, e lo faceva con tanta intelligenza, che pareva non avesse fatto altro mestiere in vita sua: ogni cosa fioriva e prosperava fra le sue mani. Un giorno, mentre stava seduta presso una fontana d'acqua limpidissima, dove veniva spesso a piangere la sua misera sorte, le saltò in capo di specchiarvisi dentro, e l'orribile pelle d'asino, che le serviva da cappello e da vestito, la spaventò. Vergognandosi di trovarsi in quello stato, si lavò ben bene il viso e le mani, che diventarono bianche più dell'avorio, e il suo bel carnato riprese la freschezza di prima. Il piacere di vedersi così bella le fece entrar la voglia di bagnarsi, e si bagnò: ma dopo, per tornare alla fattoria, le convenne rimettersi addosso la solita pellaccia. Per buona fortuna l'indomani era giorno di festa; per cui ebbe tutto il comodo di fare apparire la sua cassetta, di accomodarsi e di pettinarsi perbene, di dare la cipria ai suoi bei capelli e di mettersi il suo bel vestito color dell' aria. La sua camera era così piccina, che non c'entrava nemmeno tutto lo strascico della sottana. La bella Principessa si mirò e si ammirò da se stessa, e con molto piacere; anzi, con tanto piacere, che decise da quel momento in poi di mettersi nelle feste e per le domeniche, a uno per volta, tutti i suoi bei vestiti, non foss'altro per darsi un po' di svago. E mantenne puntualmente la presa risoluzione. Ella intrecciava dei fiori e dei diamanti fra i suoi bei capelli, con un'arte ammirabile: e spesso sospirava, mortificata di non avere per testimoni, se non le sue pecore e i suoi tacchini, che le volevano lo stesso bene, anche a vederla vestita di quella orribile pelle d'asino, che le aveva dato il brutto soprannome, fra la gente di fattoria. Un giorno di festa, in cui Pelle d'Asino s'era messa il suo vestito color del sole, il figlio del Re, al quale apparteneva la fattoria, ritornando dalla caccia, vi si fermò per prendere un po' di riposo. Quel Principe era giovane, bello, fatto a pennello della persona, l'occhio diritto
di suo padre, l'amore della Regina sua madre, l'idolo di tutti i suoi popoli. Venne offerta al Principe una merenda campestre, che egli accettò: e dopo si messe a girare per i cortili e per tutti i ripostigli. E nel girandolare di qua e di là, entrò in un andito scuro, in fondo al quale vide una porta chiusa. La curiosità gli fece metter l'occhio al buco della serratura. Ma immaginatevi come restò, quando vide la Principessa così bella e così riccamente vestita! Al suo aspetto nobile e modesto, la prese per una Dea. La foga della ione, che provò in quell'istante, fu così forte, che avrebbe dicerto sfondata la porta, se non l'avesse trattenuto il rispetto che gl'ispirava quell'angiolo di donna. Se ne venne via a gran i per quell'andito oscuro e tetro, ma lo fece per andar subito ad informarsi chi era la persona che stava in quella piccola cameruccia. Gli risposero che era una servaccia, chiamata Pelle d'Asino, a motivo della pelle colla quale si vestiva, e che era tutt'unta e bisunta da fare schifo a guardarla e a parlarci, e che l'avevano presa proprio per comione per mandarla dietro ai montoni e ai tacchini. Il Principe, poco soddisfatto di questo schiarimento, s'accorse subito che quella gente ordinaria non ne sapeva di più, e che era fiato buttato via stare a interrogarla. Se ne tornò al palazzo di suo padre, innamorato da non potersi dir quanto, e coll'immagine fissa dinanzi agli occhi, di quella creatura divina che aveva veduto dal buco della serratura. Egli si pentiva di non aver picchiato alla porta: ma fece giuro che un'altra volta non gli sarebbe più accaduto. Intanto il gran subbuglio del sangue cagionato dall'amore, gli messe addosso nella nottata un febbrone da cavalli, che in poche ore lo ridusse al lumicino. La Regina sua madre, che non aveva altri figliuoli che quello, si dava alla disperazione, vedendo tornare inutili tutti i rimedi: e invano prometteva ai medici grandi ricompense: essi adoperavano tutta la loro arte, ma non bastava a guarire il Principe. Alla fine indovinarono che questa gran malattia derivava da qualche ione segreta, e ne avvertirono la Regina; la quale, tutta tenerezza per il suo figlio, venne a scongiurarlo di palesare la cagione del suo male, col dire che quand'anche si fosse trattato di cedergli la corona, il Re suo padre sarebbe sceso dal trono senza rammarico, pur di vederlo contento; e che se egli avesse
desiderato in moglie una Principessa, avrebbe fatto qualunque sacrificio perché la potesse avere, anche se fossero stati in guerra col padre di essa e che ci fossero giusti motivi di rancore; ma che per carità lo scongiuravano a non lasciarsi morire perché dalla vita sua dipendeva la loro. La Regina desolata non poté finire questo discorso commovente senza bagnare il viso del Principe con un diluvio di lacrime. "Signora", prese a dire il Principe con un fil di voce, "io non sono un figlio tanto snaturato da desiderare la corona del padre mio: Dio voglia che egli campi ancora cent'anni, e che io possa essere il più fedele e il più rispettoso dei suoi sudditi! In quanto alla Principessa che mi offrite, non ho pensato ancora ad ammogliarmi: ma quando fosse, potete ben credere che, sommesso come sono, farei sempre la vostra volontà, qualunque cosa me ne dovesse costare." "Ah! figlio mio", riprese la Regina, "nessuna cosa ci parrà grave, pur di salvarti la vita: ma, mio caro figlio, salva la vita mia e quella del padre tuo, facendoci conoscere il tuo desiderio, e stai sicuro che sarai contentato." "Ebbene, signora", disse egli, "poiché volete per forza che vi manifesti il mio desiderio, vi obbedirò; tanto più che mi parrebbe un delitto di mettere in pericolo la vita di due esseri, che mi sono carissimi. Ebbene, madre mia, io desidero che Pelle d'Asino mi faccia un piatto dolce: e quando sarà fatto, che mi sia portato qui." La Regina, sentendo un nome così bizzarro, domandò chi fosse questa Pelle d'Asino. "Signora", rispose uno de' suoi ufficiali, che per caso l'aveva veduta, "è la bestia più brutta, dopo il lupo: un muso tinto, un sudiciume che abita nella vostra fattoria e che custodisce i tacchini." "Questo non vuol dir nulla", disse la Regina, "forse il mio figlio, tornando da caccia, avrà mangiato della sua pasticceria: sarà un capriccio da malati: ma infine io voglio che Pelle d'Asino (poiché questa Pelle d' Asino esiste) gli faccia subito un pasticcio." Si mandò alla fattoria e fu fatta venire Pelle d'Asino, per ordinarle un pasticcio per il Principe, e perché ci mettesse tutta la sua bravura.
Alcuni scrittori pretendono che proprio in quel punto, in cui il Principe pose l'occhio al buco della serratura, gli occhi di Pelle d'Asino se ne avvidero; e che dopo, affacciatasi alla sua finestrina, e visto questo Principe così giovane, così bello, e così ben formato, ne avesse serbata l'immagine scolpita nel cuore, e che spesso e volentieri questo ricordo le fosse costato qualche grosso sospiro! Fatto sta che Pelle d'Asino, o l'avesse voluto, o avesse solamente sentito dire un gran bene di lui, era tutta contenta di aver trovata la via per farsi conoscere. Si chiuse nella sua cameretta: gettò in un canto quella pellaccia sudicia, si lavò ben bene il viso e le mani, ravviò i suoi biondi capelli, s'infilò una bella vitina di argento luccicante e una sottana della stessa roba, e si messe a fare il pasticcio tanto desiderato. Prese del fior di farina, delle uova e del burro freschissimo. E mentre lavorava a impastarlo, fosse caso o altro, un anello che aveva in dito le cascò nella pasta e vi rimase dentro. Appena il pasticcio fu cotto, si rimesse addosso la sua orribile Pelle d' Asino e consegnò il pasticcio all'ufficiale, al quale chiese le nuove del Principe: ma questi non si degnò nemmeno di rispondere, e corse subito dal Principe col pasticcio. Il Principe glielo prese avidamente dalle mani e lo mangiò con tanta voracità, che i medici, lì presenti, dissero subito che questa fame da lupi non era punto un buon segno. Difatti ci corse poco che il Principe non rimanesse strozzato dall'anello, che trovò in una fetta del pasticcio: ma gli riuscì di cavarselo di bocca con molta destrezza, e così rallentò un poco anche la furia del mangiare, esaminando il bellissimo smeraldo incastonato in un cerchietto d'oro, il quale era così tanto stretto, che egli giudicò non potesse star bene altro che al ditino più grazioso e più affascinante del mondo. Baciò mille volte l'anello, lo messe sotto il capezzale, e ogni tantino, quando credeva di non esser visto da nessuno, lo tirava fuori per guardarlo. Non si può dire quanto si tormentasse il cervello per immaginare il modo di arrivare a conoscere colei, alla quale questo anello andasse bene. Non osava sperare che se egli avesse domandato di Pelle d'Asino, di quella cioè che gli aveva fatto il pasticcio da lui richiesto, gliel'avrebbero fatta venire; e non aveva neppure il coraggio di palesare ad anima viva ciò che aveva veduto dal buco della serratura, per paura che lo canzonassero e lo pigliassero per un visionario. Il fatto egli è che tutti questi pensieri lo tormentarono tanto e poi tanto, che gli si riprese una grossa febbre: e i medici, non sapendo più che cosa dire, dichiararono alla
Regina che il suo figliuolo era malato di amore. La Regina andò subito dal figlio, insieme col Re, che non sapeva darsi pace. "Figlio, mio caro figlio", disse il Re, addoloratissimo, "palesa pure il nome di quella che tu vuoi, ché noi facciamo giuro di dartela, foss'anche la più vile fra tutte le schiave della terra." La Regina, abbracciandolo, gli ripeté il giuro del Re. Il Principe, intenerito dai pianti e dalle carezze degli autori de' suoi giorni: "Padre mio e madre mia", disse loro, "io non penso punto a stringere un legame, che possa farvi dispiacere, e la prova, che dico il vero", soggiunse cavando lo smeraldo di sotto il capezzale, "è questa, che io sposerò la donna a cui quest'anello potrà entrare in dito, chiunque ella sia; né c'è da sospettare che quella che avrà un ditino così grazioso e sottile possa essere una marrana o una contadina". Il Re e la Regina presero in mano l'anello, lo esaminarono con molta curiosità, e finirono col dire come diceva il Principe, cioè, che non poteva andar bene, se non a una fanciulla di buona famiglia. Allora il Re, abbracciato il Principe e scongiuratolo di guarire, uscì di camera e fece dare nei tamburi, nei pifferi e nelle trombe per tutta la città e bandire col mezzo dei suoi araldi che non c'era da far altro che venire al palazzo per provarsi un anello, e che quella a cui sarebbe tornato preciso, avrebbe sposato l'erede al trono. Prima arrivarono le Principesse: poi le Duchesse, le Marchese e le Baronesse; ma ebbero tutte un bell'assottigliarsi le dita: non ce ne fu una che potesse infilarsi l'anello. Convenne scendere alle modistine, le quali, sebbene graziose, avevano i diti troppo grossi. Il Principe che cominciava a star meglio, faceva da se stesso la prova. Si venne finalmente alle cameriere; e anche queste fecero la figura di tutte le altre. Non c'era più nessuna donna che non si fosse provata invano a mettersi l'anello, allorché il Principe volle che venissero le cuoche, le sguattere e le pecoraie: e tutte gli furono menate dinanzi; ma i loro ditoni grossi e tozzi non poterono are nell'anello, al di là dell'ugna. "È stata fatta venire quella Pelle d'Asino che, giorni addietro, mi fece un dolce?", domandò il Principe. Tutti si messero a ridere e risposero di no, perché era troppo sudicia e da far schifo.
"Cercatela subito", disse il Re, "non sarà detto mai che io abbia fatta una sola eccezione." Ridendo e burlando, corsero in cerca della tacchinaia. L'infanta, che aveva sentito i tamburi e il bando degli araldi d'arme, s'era già figurata che il suo anello fosse la causa di tutto questo diavoleto; essa amava il Principe, e perché il vero amore è timido e modesto, così stava sempre colla paura che qualche dama non avesse un ditino piccolo come il suo, per cui fu per lei una grande allegrezza quando vennero a cercarla e a battere alla sua porta. Fin dal momento che ella era venuta a sapere che si cercava un dito, al quale andasse bene il suo anello, una vaga speranza l'aveva consigliata a pettinarsi con più amore del solito e a mettersi il suo bel busto d'argento, con la sottana tutta gale e ricami d'argento e seminata di smeraldi. Appena sentì bussare alla porta e chiamarsi per andare dal Re, lesta come un baleno si rimise la sua pelle d'asino e aprì. Gli uomini di corte, pigliandola in canzonatura, le dissero che il Re la cercava, per farle sposare suo figlio; quindi in mezzo alle più matte risate, la condussero dal Principe: il quale, stupefatto anch'esso dallo strano abbigliamento della fanciulla, non voleva credere che fosse quella medesima che aveva veduto coi propri occhi, così sfolgorante e così bella! Tristo e confuso di aver preso questo granchio a secco madornale: "Siete voi", le domandò, "che abitate in fondo di quel corridoio oscuro, nel terzo cortile della fattoria?". "Sissignore!", rispose. "Fatemi vedere la vostra mano", disse egli tremando e con un grosso sospiro. Indovinate ora voi chi rimase più meravigliato di tutti? Fu il Re e la Regina, furono tutti i ciamberlani e i grandi della Corte, quando videro uscir fuori di sotto a quella pelle nera e bisunta, una manina delicata, bianca e color di rosa, dove l'anello senza molta fatica poté infilarsi nel più bel ditino del mondo; quindi per un leggero movimento fatto dall'infanta, la pelle cadde, ed ella apparve di una bellezza così abbagliante, che il Principe, sebbene ancora molto debole, si gettò ai suoi piedi e l'abbracciò con tanto ardore, che la fece arrossire; ma nessuno quasi se ne accorse, perché il Re e la Regina vennero ad abbracciarla anch'essi con grandissima tenerezza, e le chiesero se fosse contenta di sposare il
loro figliuolo. La Principessa, confusa da tante carezze e dall'amore che le dimostrava questo bel Principe, stava per ringraziare, quand'ecco che il soffitto della sala si aprì, e la fata Lilla, calandosi dentro a un carro intrecciato coi rami e coi fiori del suo nome, raccontò con una grazia infinita tutta l'istoria dell'infanta. Il Re e la Regina lietissimi di sapere che Pelle d'Asino era una gran Principessa, raddoppiarono le attenzioni, ma il Principe si mostrò sempre più sensibile alle virtù della Principessa, e il suo amore si accrebbe per tutte le cose che aveva sentito dire. La sua impazienza di sposare la Principessa era così forte, che non le lasciò nemmeno il tempo di fare i preparativi convenienti per questo augusto imeneo. Il Re e la Regina, innamorati della loro nuora, le facevano mille carezze e la tenevano sempre stretta fra le loro braccia. Ella aveva dichiarato che non poteva sposare il Principe senza il consenso del Re suo padre; per cui egli fu il primo ad essere invitato, senza dirgli per altro il nome della sposa: la fata Lilla che, com'è naturale, era quella che regolava ogni cosa, aveva voluto così, per evitare tutte le conseguenze. Arrivarono Principi e Re da tutti i paesi; chi in portantina, chi in calesse; i più lontani vennero a cavallo sopra elefanti, sopra tigri e sopra aquile; ma il più magnifico e il più potente di tutti fu il padre dell'infanta, il quale, per buona fortuna, aveva dimenticato il suo amore stranissimo e aveva sposato una Regina, vedova e molto bella. L'infanta andò a incontrarlo; ed egli la riconobbe subito e l'abbracciò con gran tenerezza, prima che ella avesse il tempo di gettarsi ai suoi piedi. Il Re e la Regina gli presentarono il loro figlio, al quale egli fece un sacco di garbatezze. Le nozze furono celebrate con uno scialo da non potersi descrivere. I giovani sposi, poco curanti di tutte queste magnificenze, non vedevano e non pensavano altro che a se stessi. Il Re, padre del Principe, fece incoronare suo figlio lo stesso giorno, e baciandogli la mano, lo collocò sul trono, malgrado la resistenza opposta da questo buonissimo figliuolo: ma bisognò ubbidire. Le feste di questi illustri sponsali durarono più di tre mesi; ma l'amore dei giovani sposi durerebbe anch'oggi, tanto si volevano bene, se non fossero morti cent'anni dopo.
La storia di Pelle d'Asino è un po' difficile a pigliarla per vera; ma finché nel mondo ci saranno nonne, mamme e ragazzi, se la ricorderanno tutti con piacere.
Le Fate
C'era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somigliava tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impossibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo... e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l'eguale. E naturalmente, poiché ogni simile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggiore; e sentiva per quell'altra un'avversione, una ripugnanza spaventevole. La faceva mangiare in cucina, e tutte le fatiche e i servizi di casa toccavano a lei. Fra le altre cose, bisognava che quella povera ragazza andasse due volte al giorno ad attingere acqua a una fontana distante più d'un miglio e mezzo, e ne riportasse una brocca piena. Un giorno, mentre stava appunto lì alla fonte, le apparve accanto una povera vecchia che la pregò in carità di darle da bere. "Ma volentieri, nonnina mia..." rispose la bella fanciulla "aspettate; vi sciacquo la brocca..." E subito dette alla mezzina una bella risciacquata, la riempì di acqua fresca, e gliela presentò sostenendola in alto con le sue proprie mani, affinché la vecchiarella bevesse con tutto il suo comodo. Quand'ebbe bevuto, disse la nonnina: "Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, figliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono". Quella era una Fata, che aveva preso la forma di una povera vecchia di campagna per vedere fin dove arrivava la bontà della giovinetta. E continuò:
"Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa". La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo. "Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa...", disse la figliuola tutta umile, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due brillanti grossi. "Ma che roba è questa!...", esclamò la madre stupefatta, "sbaglio o tu sputi perle e brillanti!... O come mai, figlia mia?..." Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono affettuoso. La fanciulla raccontò ingenuamente quel che le era accaduto alla fontana; e durante il racconto, figuratevi i rubini e i topazi che le caddero già dalla bocca! "Oh, che fortuna...", disse la madre, "bisogna che ci mandi subito anche quest'altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono?... Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera." "E non ci mancherebbe altro!...", rispose quella sbadata. "Andare alla fontana ora!" "Ti dico che tu ci vada... e subito", gridò la mamma. Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d'argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l'infingardaggine!... Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d'acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell'altra sorella; ma aveva preso l'aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la malcreanza di quella pettegola. "O sta' a vedere...", rispose la superba, "che son venuta qui per dar da bere a voi!... Sicuro!... per abbeverare vostra Signora, non per altro!... Guardate, se avete sete, la fonte eccola lì." "Avete poca educazione, ragazza...", rispose la Fata senza adirarsi punto, "e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi
vi esca di bocca un rospo o una serpe." Appena la mammina la vide tornare da lontano, le gridò a piena gola: "Dunque, Cecchina, com'è andata?". "Non mi seccate, mamma!...", replicò la monella; e sputò due vipere e due rospacci. "O Dio!... che vedo!...", esclamò la madre. "La colpa deve essere tutta di tua sorella, ma me la pagherà..." E si mosse per picchiarla. Quella povera figliuola fuggì via di rincorsa e andò a rifugiarsi nella foresta vicina. Il figliuolo del Re che ritornava da caccia la incontrò per un viottolo, e vedendola così bella, le domandò che cosa faceva in quel luogo sola sola, e perché piangeva tanto. "La mamma...", disse lei, "m'ha mandato via di casa e mi voleva picchiare..." Il figliuolo del Re, che vide uscire da quella bocchina cinque o sei perle e altrettanti brillanti, la pregò di raccontare come mai era possibile una cosa tanto meravigliosa. E la ragazza raccontò per filo e per segno tutto quello che le era accaduto. Il Principe reale se ne innamorò subito e considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un'altra donna, la condusse senz'altro al palazzo del Re suo padre e se la sposò. Quell'altra sorella frattanto si fece talmente odiare da tutti, che sua madre stessa la cacciò via di casa; e la disgraziata dopo aver corso invano cercando chi acconsentisse a riceverla andò a morire sul confine del bosco.
MORALE
Gli smeraldi, le perle, ed i diamanti Abbaglian gli occhi col vivo splendore; Ma le dolci parole e i dolci pianti Hanno spesso più forza e più valore.
ALTRA MORALE
La cortesia che le bell'alme accende, Costa talora acerbi affanni e pene; Ma presto o tardi la virtù risplende, E quando men ci pensa il premio ottiene.
Cappuccetto Rosso
C'era una volta in un villaggio una bambina, la più carina che si potesse mai vedere. La sua mamma n'era matta, e la sua nonna anche di pìù. Quella buona donna di sua madre le aveva fatto fare un cappuccetto rosso, il quale le tornava così bene a viso, che la chiamavano dappertutto Cappuccetto Rosso. Un giorno sua madre, avendo cavate di forno alcune stiacciate, le disse: "Va' un po' a vedere come sta la tua nonna, perché mi hanno detto che era un po' incomodata: e intanto portale questa stiacciata e questo vasetto di burro". Cappuccetto Rosso, senza farselo dire due volte, partì per andare dalla sua nonna, la quale stava in un altro villaggio. E ando per un bosco s'imbatté in quella buona lana del Lupo, il quale avrebbe avuto una gran voglia di mangiarsela; ma poi non ebbe il coraggio di farlo, a motivo di certi taglialegna che erano lì nella foresta. Egli le domandò dove andava. La povera bambina, che non sapeva quanto sia pericoloso fermarsi per dar retta al Lupo, gli disse: "Vo a vedere la mia nonna e a portarle una stiacciata, con questo vasetto di burro, che le manda la mamma mia". "Sta molto lontana di qui?", disse il Lupo. "Oh, altro!", disse Cappuccetto Rosso. "La sta laggiù, ato quel mulino, che si vede di qui, nella prima casa, al principio del villaggio." "Benissimo", disse il Lupo, "voglio venire a vederla anch'io. Io piglierò da questa parte, e tu da quell'altra, e faremo a chi arriva più presto."
Il Lupo si messe a correre per la sua strada, che era una scorciatoia, con quanta forza avea nelle gambe: e la bambina se ne andò per la sua strada, che era la più lunga, baloccandosi a cogliere le nocciuole, a dar dietro alle farfalle, e a fare dei mazzetti con tutti i fiorellini, che incontrava lungo la via. Il Lupo in due salti arrivò a casa della nonna e bussò. "Toc, toc." "Chi è?" "Sono la vostra bambina, son Cappuccetto Rosso", disse il Lupo, contraffacendone la voce, "e vengo a portarvi una stiacciata e un vasetto di burro, che vi manda la mamma mia." La buona nonna, che era a letto perché non si sentiva troppo bene, gli gridò: "Tira la stanghetta, e la porta si aprirà". Il Lupo tirò la stanghetta, e la porta si aprì. Appena dentro, si gettò sulla buona donna e la divorò in men che non si dice, perché erano tre giorni che non s'era sdigiunato. Quindi rinchiuse la porta e andò a mettersi nel letto della nonna, aspettando che arrivasse Cappuccetto Rosso, che, di lì a poco, venne a picchiare alla porta. "Toc, toc." "Chi è?" Cappuccetto Rosso, che sentì il vocione grosso del Lupo, ebbe dapprincipio un po' di paura; ma credendo che la sua nonna fosse infreddata rispose: "Sono la vostra bambina, son Cappuccetto Rosso, che vengo a portarvi una stiacciata e un vasetto di burro, che vi manda la mamma mia". Il Lupo gridò di dentro, assottigliando un po' la voce: "Tira la stanghetta e la porta si aprirà." Cappuccetto Rosso tirò la stanghetta e la porta si aprì.
Il Lupo, vistala entrare, le disse, nascondendosi sotto le coperte: "Posa la stiacciata e il vasetto di burro sulla madia e vieni a letto con me". Cappuccetto Rosso si spogliò ed entrò nel letto, dove ebbe una gran sorpresa nel vedere com'era fatta la sua nonna, quando era tutta spogliata. E cominciò a dire: "O nonna mia, che braccia grandi che avete!". "Gli è per abbracciarti meglio, bambina mia." "O nonna mia, che gambe grandi che avete!" "Gli è per correr meglio, bambina mia." "O nonna mia, che orecchie grandi che avete!" "Gli è per sentirci meglio, bambina mia." "O nonna mia, che occhioni grandi che avete!" "Gli è per vederci meglio, bambina mia." "O nonna mia, che denti grandi che avete!" "Gli è per mangiarti meglio." E nel dir così, quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone.
La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n'è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere.
Il gatto con gli stivali
Un mugnaio, venuto a morte, non lasciò altri beni ai suoi tre figliuoli che aveva, se non il suo mulino, il suo asino e il suo gatto. Così le divisioni furono presto fatte: né ci fu bisogno dell'avvocato e del notaro; i quali, com'è naturale, si sarebbero mangiata in un boccone tutt'intera la piccola eredità. Il maggiore ebbe il mulino. Il secondo, l'asino. E il minore dei fratelli ebbe solamente il gatto. Quest'ultimo non sapeva darsi pace, per essergli toccata una parte così meschina. "I miei fratelli", faceva egli a dire, "potranno tirarsi avanti onestamente, menando vita in comune: ma quanto a me, quando avrò mangiato il mio gatto, e fattomi un manicotto della sua pelle, bisognerà che mi rassegni a morir di fame." Il gatto, che sentiva questi discorsi, e faceva finta di non darsene per inteso, gli disse con viso serio e tranquillo: "Non vi date alla disperazione, padron mio! Voi non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per andare nel bosco; e dopo vi farò vedere che nella parte che vi è toccata, non siete stato trattato tanto male quanto forse credete". Sebbene il padrone del gatto non pigliasse queste parole per moneta contante, a ogni modo gli aveva visto fare tanti giuochi di destrezza nel prendere i topi, or col mettersi penzoloni, attaccato per i piedi, or col fare il morto, nascosto dentro la farina, che finì coll'aver qualche speranza di trovare in lui un po' di aiuto nelle sue miserie. Appena il gatto ebbe ciò che voleva, s'infilò bravamente gli stivali, e mettendosi
il sacco al collo, prese le corde colle zampe davanti e se ne andò in una conigliera, dove c'erano moltissimi conigli. Pose dentro al sacco un po' di crusca e della cicerbita: e sdraiandosi per terra come se fosse morto, aspettò che qualche giovine coniglio, ancora novizio dei chiapperelli del mondo, venisse a ficcarsi nel sacco per la gola di mangiare la roba che c'era dentro. Appena si fu sdraiato, ebbe subito la grazia. Eccoti un coniglio, giovane d'anni e di giudizio, che entrò dentro al sacco: e il bravo gatto, tirando subito la funicella, lo prese e l'uccise senza pietà né misericordia. Tutto glorioso della preda fatta andò dal Re, e chiese di parlargli. Lo fecero salire nei quartieri del Re, dove entrato che fu fece una gran riverenza al Re, e gli disse: "Ecco, Sire, un coniglio di conigliera che il signor marchese di Carabà", era il nome che gli era piaciuto di dare al suo padrone, "mi ha incaricato di presentarvi da parte sua". "Di' al tuo padrone" rispose il Re "che lo ringrazio e che mi ha fatto un vero regalo." Un'altra volta andò a nascondersi fra il grano, tenendo sempre il suo sacco aperto; e appena ci furono entrate dentro due pernici, tirò la corda e le acchiappò tutte e due. Corse quindi a presentarle al Re, come aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re gradì moltissimo anche le due pernici e gli fece dare la mancia. Il gatto in questo modo continuò per due o tre mesi a portare di tanto in tanto ai Re la selvaggina della caccia del suo padrone. Un giorno avendo saputo che il Re doveva recarsi a eggiare lungo la riva del fiume insieme alla sua figlia, la più bella Principessa del mondo, disse al suo padrone: "Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è fatta: voi dovete andare a bagnarvi nel fiume, e precisamente nel posto che vi dirò io: quanto al resto,
lasciate fare a me". Il marchese di Carabà fece tutto quello che gli consigliò il suo gatto, senza sapere a che cosa gli avrebbe potuto giovare. Mentre egli si bagnava, il Re ò di là; e il gatto si messe a gridare con quanta ne aveva in gola: "Aiuto, aiuto! affoga il marchese di Carabà". A queste grida, il Re messe il capo fuori dallo sportello della carrozza e, riconosciuto il gatto, che tante volte gli aveva portato la selvaggina, ordinò alle guardie che corressero subito in aiuto del marchese di Carabà. Intanto che tiravano su, fuori dell'acqua, il povero Marchese, il gatto avvicinandosi alla carrozza raccontò al Re che mentre il suo padrone si bagnava, i ladri erano venuti a portargli via i suoi vestiti, sebbene avesse gridato al ladro con tutta la forza dei polmoni. Il furbo trincato aveva nascosto i panni sotto un pietrone. Il Re diè ordine subito agli ufficiali della sua guardaroba di andare a prendere uno dei più sfarzosi vestiari per il marchese di Carabà. Il Re gli usò mille carezze, e siccome l'abito che gli avevano portato in quel momento faceva spiccare i pregi della sua persona (perché era bello e benissimo fatto), la Principessa lo trovò simpatico e di suo genio: e bastarono poche occhiate del marchese di Carabà, molto rispettose ma abbastanza tenere, perché ella ne rimanesse innamorata cotta. Volle il Re che salisse nella sua carrozza, e fe la eggiata con essi. Il gatto, contentissimo di vedere che il suo disegno cominciava a pigliar colore, s'avviò avanti; e avendo incontrato dei contadini, che segavano, disse loro: "Buona gente che segate il fieno, se non dite al Re che il prato segato da voi appartiene al marchese di Carabà, sarete tutti affettati fini fini come carne da far polpette". Il Re infatti domandò ai segatori di chi fosse il prato che segavano.
"È del marchese di Carabà", dissero tutti a una voce perché la minaccia del gatto li aveva impauriti. "Voi avete di bei possessi", disse il Re al marchese di Carabà. "Lo vedete da voi, Sire", rispose il Marchese. "Questa è una prateria, che non c'è anno che non mi dia una raccolta abbondantissima." Il bravo gatto, che faceva sempre da battistrada, incontrò dei mietitori, e disse loro: "Buona gente che segate il grano, se non direte che tutto questo grano appartiene al signor marchese di Carabà, sarete stritolati fini fini come carne da far polpette". Il Re, che ò pochi minuti dopo, volle sapere a chi appartenesse tutto il grano che vedeva. "È del signor marchese di Carabà", risposero i mietitori. E il Re se ne rallegrò col Marchese. Il gatto, che trottava sempre avanti la carrozza, ripeteva sempre le medesime cose a tutti quelli che incontrava lungo la strada; e il Re rimaneva meravigliato dei grandi possessi del signor marchese di Carabà. Finalmente il gatto arrivò a un bel castello, di cui era padrone un orco, il più ricco che si fosse mai veduto; perché tutte le terre, che il Re aveva attraversate, dipendevano da questo castello. Il gatto s'ingegnò di sapere chi era quest'uomo, e che cosa sapesse fare: e domandò di potergli parlare, dicendo che gli sarebbe parso sconvenienza are così accosto al suo castello senza rendergli omaggio e riverenza. L'orco l'accolse con tutta quella cortesia che può avere un orco; e gli offrì da riposarsi. "Mi hanno assicurato", disse il gatto, "che voi avete la virtù di potervi cambiare
in ogni specie d'animali; e che vi potete, per dirne una, trasformare in leone e in elefante." "Verissimo!", rispose l'orco bruscamente, "e per darvene una prova, mi vedrete diventare un leone." Il gatto fu così spaventato dal vedersi dinanzi agli occhi un leone, che s'arrampicò subito su per le grondaie, ma non senza fatica e pericolo, a cagione dei suoi stivali, che non erano buoni a nulla per camminare sulle grondaie de' tetti. Di lì a poco, quando il gatto si avvide che l'orco aveva ripresa la sua forma di prima, calò a basso e confessò di avere avuto una gran paura. "Mi hanno per di più assicurato", disse il gatto, "ma questa mi par troppo grossa e non la posso bere, che voi avete anche la virtù di prendere la forma dei più piccoli animali; come sarebbe a dire, di cambiarvi, per esempio, in un topo o in una talpa: ma anche queste son cose, lasciate che ve lo ripeta, che mi paiono sogni dell'altro mondo!" "Sogni?", disse l'orco. "Ora vi farò veder io!..." E nel dir così, si cangiò in sorcio, e si messe a correre per la stanza. Ma il gatto, lesto come un baleno, gli s'avventò addosso e lo mangiò. Intanto il Re che, ando da quella parte, vide il bel castello dell'orco, volle entrarvi. Il gatto, che sentì il rumore della carrozza che ava sul ponte-levatoio del castello, corse incontro al Re e gli disse: "Vostra Maestà sia la benvenuta in questo castello del signor marchese di Carabà". "Come! signor Marchese!", esclamò il Re. "Anche questo castello è vostro? Non c'è nulla di più bello di questo palazzo e delle fabbriche che lo circondano; visitiamolo all'interno, se non vi scomoda." Il Marchese dette la mano alla Principessa; e seguendo il Re, che era salito il
primo, entrarono in una gran sala, dove trovarono imbandita una magnifica merenda, che l'orco aveva fatta preparare per certi suoi amici che dovevano venire a trovarlo, ma che non avevano ardito di entrar nel castello, perché sapevano che c'era il Re. Il Re, contento da non potersi dire, delle belle doti del marchese di Carabà, al pari della sua figlia, che n'era pazza, e vedendo i grandi possessi che aveva, dopo aver vuotato quattro o cinque bicchieri, gli disse: "Signor Marchese! se volete diventare mio genero, non sta che a voi". Il marchese, con mille reverenze, gradì l'alto onore fattogli dal Re, e il giorno dopo sposò la Principessa. Il gatto diventò gran signore, e se seguitò a dar la caccia ai topi, lo fece unicamente per atempo.
Godersi in pace una ricca eredità, ata di padre in figlio, è sempre una bella cosa: ma per i giovani, l'industria, l'abilità e la svegliatezza d'ingegno valgono più d'ogni altra fortuna ereditata. Da questo lato, la storia del gatto del signor marchese di Carabà è molto istruttiva, segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà.
Enrichetto dal ciuffo
C'era una volta una Regina, la quale partorì un figliuolo così brutto e così male imbastito, da far dubitare per un pezzo se avesse fattezze di bestia o di cristiano. Una fata, che si trovò presente al parto, dette per sicuro che egli avrebbe avuto molto spirito: e aggiunse di più, che in grazia di un certo dono particolare, fattogli da lei, avrebbe potuto trasfondere altrettanta dose di spirito e d'intelligenza in quella persona, chiunque si fosse, che egli avesse amato sopra tutte le altre. Questa cosa consolò un poco la povera Regina, la quale non poteva darsi pace di aver messo al mondo un brutto marmocchio a quel modo! Il fatto egli è, che appena il fanciullo cominciò a spiccicar parola, disse delle cose molto aggiustate: e in tutto quello che faceva, mostrava un so che di così aggraziato, che piaceva e dava nel genio a tutti. Mi dimenticava di dire che egli nacque con un ciuffettino di capelli sulla testa: e per questo lo chiamarono Enrichetto dal ciuffo: perché Enrichetto era il suo nome di battesimo. In capo a sette o otto anni, la Regina di uno Stato vicino partorì due bambine. La prima, che venne al mondo, era più bella del Sole; e la Regina ne sentì un'allegrezza così grande, da far temere per la sua salute. La stessa fata, che aveva assistito alla nascita di Enrichetto dal ciuffo, si trovò presente anche a quest'altra: e per moderare la gioia della Regina, le dichiarò che la piccola Principessa non avrebbe avuto neppur l'ombra dello spirito, per cui sarebbe stata tanto stupida, quanto era bella. La Regina rimase molto male di questa cosa: ma pochi momenti dopo ebbe un altro dispiacere anche più grosso, nel vedere che la seconda figlia, che aveva partorito, era talmente brutta da fare paura. "Non vi disperate, signora", le disse la fata, "la vostra figlia sarà ricompensata per un altro verso; essa avrà tanto spirito, da non avvedersi nemmeno della
bellezza che non l'è toccata." "Dio voglia che sia così!", rispose la Regina, "ma non ci sarebbe modo di fare avere un po' di spirito anche alla maggiore che è tanto bella?" "Per quanto allo spirito, o signora, io non ci posso far nulla", disse la fata, "ma posso tutto per la parte della bellezza; e siccome non c'è cosa al mondo che non farei per vedervi contenta, così le concederò in dono la virtù di far diventare bella la persona che più sarà di suo genio." A mano a mano che le due Principesse crescevano, crescevano con esse i loro pregi, fino al punto che non si parlava d'altro che della bellezza della più grande e dello spirito della minore. È vero però che anche i loro difetti si facevano più vistosi, coll'andare in là degli anni. La minore imbruttiva a occhiate, e la maggiore diventava stupida un giorno più dell'altro, e non sapeva rispondere alle domande che le venivano fatte, o rispondeva delle giuccherie. Oltre a questo ell'era così smanierata e senza garbo né grazia, che non era buona di posare quattro vasi di porcellana sul camminetto senza romperne qualcuno, né d'accostarsi alla bocca un bicchier d'acqua senza versarselo mezzo sul vestito. Sebbene la bellezza sia un gran vantaggio per una fanciulla, pure è un fatto che la sorella minore aveva sempre il disopra sull'altra, in società e in tutte le conversazioni. Sul primo, tutti si voltavano dalla parte della più bella per vederla e ammirarla; ma dopo pochi minuti la lasciavano per andare da quella che aveva più spirito, a sentire le cose graziose che diceva: e faceva maraviglia di vedere come in meno di un quarto d'ora la maggiore non avesse più nessuno dintorno a sé, mentre tutti erano a far corona intorno alla sorella minore. La maggiore, sebbene molto stupida, si avvide di questa cosa: e avrebbe dato volentieri tutta la sua bellezza, per avere la metà dello spirito della sorella. La Regina, quantunque fosse prudente, non seppe stare dallo sgridarla piu volte delle sue grullerie: e questa cosa fece tanta pena alla povera Principessa, che si sentì come morire. Un giorno, che era andata nel bosco a piangere la sua disgrazia, vide venirsi
incontro un omiciattolo brutto e spiacente quanto mai, ma vestito con grandissima eleganza. Era il giovane principe Enrichetto dal ciuffo, il quale innamoratosi di lei al solo vederne i ritratti che giravano per tutto il mondo, aveva abbandonato il regno di suo padre per avere il piacere di vederla e di parlarle. Contentissimo di trovarla sola, si avvicinò a lei con tutto il rispetto e la gentilezza immaginabile. E avendo udito che essa era molto afflitta, dopo i soliti complimenti d'uso le disse: "Io non so comprendere, o Regina, come essendo voi così bella come siete, possiate essere triste come apparite; perché, sebbene io possa vantarmi di aver veduto un'infinità di belle donne, posso dire di non averne vista una sola, la cui bellezza si avvicinasse alla vostra". "A voi piace dir così!", rispose la Principessa, e non disse altro. "La bellezza", riprese Enrichetto dal ciuffo, "è un dono così grande, che deve compensare di tutto il resto; e quando la si possiede, non vedo nessun'altra cosa che possa recarci afflizione." "Vorrei", rispose la Principessa, "essere brutta quanto voi e avere dello spirito; piuttosto che avere la bellezza che ho, ed essere una stupida come sono." "Non c'è nulla, o signora, che dia segno di aver dello spirito, quanto il credere di non averne: egli è uno di quei pregi, che per la sua indole singolare, più se ne ha, e più si crede di esserne mancanti." "Io non m'intendo di queste cose", disse la Principessa, "ma so benissimo che io sono una grande imbecille, ed ecco la cagione del dolore, che mi farà morire." "Se non è che questo che vi tormenta, o signora, io posso facilmente metter fine alla vostra afflizione." "E come fare?", disse la Principessa, "Io ho il potere", disse Enrichetto dal ciuffo, "di trasfondere tutto lo spirito, che può desiderarsi, in quella persona che io dovrò amare sopra le altre; e siccome voi siete quella, così dipende da voi di possedere tanto spirito, quanto se ne può
avere, solo che siate contenta di sposarmi." La Principessa rimase come una statua, e non rispose sillaba. "Vedo bene", rispose Enrichetto dal ciuffo, "che questa mia proposta non vi è andata punto a genio: e non me ne faccio nessuna meraviglia; ma vi lascio un anno intero, perché possiate prendere una risoluzione." La Principessa aveva così poco spirito, e al tempo stesso sentiva tanta voglia di averne, che s'immaginò che la fine dell'anno non sarebbe arrivata mai, e così accettò la proposizione che le veniva fatta. Appena ebbe promesso a Enrichetto dal ciuffo che dentro un anno e in quello stesso giorno l'avrebbe sposato, si sentì subito molto diversa da quella di prima; e provò una facilità incredibile a dire tutte le cose che voleva dire, e a dirle in un modo grazioso, spontaneo e naturale. Cominciò da questo momento a metter su una conversazione elegante e ben condotta con Enrichetto dal ciuffo, nella quale essa brillò con tanta vivacità, che a questi nacque il dubbio di averle dato più spirito di quello che se ne fosse serbato per sé. Ritornata che fu al palazzo, la Corte non sapeva che pensare di un cambiamento così improvviso e straordinario; dappoiché, per quante sguaiataggini le avevano udito dire in ato, ora la sentivano dire altrettante cose spiritosissime e piene di buon senso. Tutta la Corte n'ebbe un'allegrezza tale da non figurarselo. Non ci fu la sorella minore, che non ne restasse contenta, perché non avendo più sulla maggiore il disopra dello spirito, faceva ora accanto a lei la figura meschinissima d'una bertuccia. Il Re si lasciava guidare da lei, e qualche volta andava fino a tener consiglio nel suo quartiere. La diceria di questo cambiamento essendosi sparsa all'intorno, tutti i giovani principi degli Stati vicini fecero a gara per arrivare a farsi amare, e quasi tutti la chiesero in sposa ma essa non trovava chi avesse abbastanza spirito, e faceva lo stesso viso a tutte le offerte di matrimonio, senza impegnarsi con alcuno. Intanto se ne presentò uno così potente, così ricco, e così spiritoso e bello della persona, che ella non poté stare dal sentire una certa inclinazione per lui.
Suo padre, che se n'era avveduto, le disse che la lasciava padrona di scegliersi lo sposo a modo suo, e che non aveva da far altro che far conoscere la sua volontà. E siccome accade che più uno ha dello spirito, e più si trova impensierito a pigliare una risoluzione stabile in certe faccende, essa, dopo aver ringraziato suo padre, domandò che le fosse dato un po' di tempo per poterci pensar sopra. E per caso andò a eggiare in quel bosco dove aveva incontrato Enrichetto dal ciuffo, per avere il modo di pensare comodamente alla risoluzione da prendere. Mentr'ella eggiava tutt'immersa ne' suoi pensieri sentì sotto i piedi un rumore sordo, come di molte persone che vadano e vengano, e si dieno un gran da fare. Avendo teso l'orecchio con più attenzione, sentì qualcuno che diceva: "ami codesta caldaia"; e un altro: "Metti della legna sul fuoco". La terra si aprì in quel momento, ed ella vide sotto i suoi piedi come una gran cucina piena di cuochi, di sguatteri e d'ogni sorta di gente necessaria per allestire una gran festa. E di lì uscì fuori una schiera di venti o trenta rosticcieri, che andarono a piantarsi in un viale del bosco, intorno a una lunghissima tavola, e tutti colla ghiotta in mano e colla coda di volpe sull'orecchio si posero a lavorare a tempo di musica, sul motivo di una graziosa canzone. La Principessa, stupita di quello spettacolo, domandò loro per chi fossero in tanto lavorìo. "Lavoriamo", rispose il capoccia della brigata, "per il signor Enrichetto dal ciuffo, che domani è sposo." La Principessa, sempre più meravigliata, e ricordandosi a un tratto che un anno fa, e in quello stesso giorno, aveva promesso di sposare il principe Enrichetto dal ciuffo, credé di cascare dalle nuvole. La ragione della sua dimenticanza stava in questo che, quando promise, era sempre la solita stupida, e acquistando in seguito lo spirito che il Principe le aveva dato, non si ricordava più di tutte le sue grullerie. Non aveva fatto ancora trenta i, seguitando la sua eggiata, che s'imbatté in Enrichetto dal ciuffo, il quale si faceva avanti tutto sgargiante e magnifico,
come un Principe che vada a nozze. "Eccomi qui, signora", egli disse, "puntuale alla mia parola: e non ho il minimo dubbio che voi siate venuta qui per mantenere la vostra, e per far di me, col dono della vostra mano, il mortale più felice di questa terra." "Vi confesserò francamente", rispose la Principessa, "che su questa cosa non ho presa ancora nessuna risoluzione; e ho paura che, se dovrò prenderne una, non sarà mai quella che desiderate." "Voi mi fate stupire, o signora", disse Enrichetto dal ciuffo. "Lo capisco", disse la Principessa, "difatti mi troverei in un grandissimo impiccio, se avessi da fare con un uomo brutale e senza spirito. Una Principessa mi ha dato la sua parola, egli mi direbbe; e una volta che mi ha promesso, bisogna bene che mi sposi. Ma poiché la persona colla quale parlo, è la persona più spiritosa di questo mondo, così sono sicura che vorrà capacitarsi della ragione. Voi sapete che anche allora, quand'ero stupida, non sapevo risolvermi a doversi sposare; e vi par egli possibile che ora, dopo tutto lo spirito che mi avete dato, e che mi ha resa di più difficile contentatura, di quel che fossi prima, possa oggi prendere una risoluzione che non sono stata buona di prendere per il ato? Se vi premeva tanto di sposarmi, avete avuto un gran torto a togliermi dalla mia stupidaggine, e a farmi aprire gli occhi, perché ci vedessi meglio d'una volta." "Se un uomo senza spirito", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sarebbe ben accolto, stando a quello che dite, quando venisse a rinfacciarvi la parola mancata, o perché volete che io non debba valermi degli stessi mezzi, per una cosa nella quale è riposta la felicità di tutta la mia vita? Vi pare egli ragionevole che le persone di spirito debbano trovarsi in peggiore condizione di quelle che non ne hanno? E potete pretenderlo voi? voi che ne avete tanto e che avete tanto desiderato di averne? Ma veniamo al sodo, se vi contentate. All'infuori della mia bruttezza, c'è forse in me qualche cosa che vi dispiaccia? Siete forse scontenta della mia nascita, del mio spirito, del mio carattere, delle mie maniere?" "Tutt'altro", rispose la Principessa, "anzi, tutte le cose che avete nominate, sono appunto quelle che mi piacciono in voi." "Quand'è così", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sono felice, perché non sta che a voi a fare di me il più bello e il più grazioso degli uomini."
"Ma come può accader questo?", chiese la Principessa. "Il come è facile", rispose Enrichetto dal ciuffo. "Basta che voi mi amiate tanto, da desiderare che ciò accada: e perché, o signora, non vi nasca dubbio su quello che dico, sappiate che la medesima fata, che nel giorno della mia nascita mi fece il dono di rendere spiritosa la persona che più mi fosse piaciuta, diede a voi pure quello di far diventare bello colui che amerete, e al quale vorrete far di genio e volentieri questo favore." "Se la cosa sta come la raccontate", disse la Principessa, "vi desidero con tutto il cuore che diventiate il Principe più simpatico e più bello del mondo, e per quanto è da me, ve ne faccio pienissimo dono." La Principessa aveva appena finito di dire queste parole, che subito Enrichetto dal ciuffo apparve ai suoi occhi il più bell'uomo della terra, e il meglio formato, e il più amabile di quanti se ne fossero mai veduti. Vogliono alcuni che questo cambiamento avvenisse non già per gl'incanti della fata, ma unicamente per merito dell'amore. E dicono che la Principessa, avendo ripensato meglio alla costanza del suo cuore e della sua mente, non vide più le deformità personali di lui, né la bruttezza del suo viso: talché il gobbo che egli aveva di dietro, le sembrò quella specie di rotondità e di floridezza d'aspetto di chi dà nell'ingrassare: e invece di vederlo zoppicare orribilmente, come aveva fatto fino allora, le parve che avesse un'andatura aggraziata e un po' buttata su una parte, che le piaceva moltissimo. Fu detto fra le altre cose, che gli occhi di lui, che erano guerci, le parvero più brillanti; e che finisse col mettersi in testa che quel modo storto di guardare fosse il segno di un violento accesso di amore: e che perfino il naso di lui, grosso e rosso come un peperone, accennasse a qualche cosa di serio e di marziale. Fatto sta che la Principessa gli promise, lì sul tamburo, che l'avrebbe sposato, purché ne avesse ottenuto il consenso dal Re suo padre. Il Re, avendo saputo che la sua figlia aveva moltissima stima per Enrichetto dal ciuffo, che egli del resto conosceva per un Principe spiritosissimo e pieno di giudizio, lo accettò con piacere per suo genero. Il giorno dipoi furono fatte le nozze, come Enrichetto dal ciuffo aveva preveduto, e a seconda degli ordini che egli medesimo aveva già dato da molto tempo prima.
Questa sembrerebbe una favola; eppure è una storia. Tutto ci par bello nella persona amata, anche i difetti: tutto ci par grazioso, anche le sguaiataggini. La storia d'Enrichetto dal ciuffo è vecchia quanto il mondo.
La Bella dai capelli d'oro
C'era una volta la figlia di un Re, la quale era tanto bella, che in tutto il mondo non si dava l'eguale; e per cagione di questa sua grande bellezza, la chiamavano la Bella dai capelli d'oro, perché i suoi capelli erano più fini dell'oro, e biondi e pettinati a meraviglia le scendevano giù fino ai piedi. Essa andava sempre coperta dai suoi capelli inanellati, con in capo una ghirlanda di fiori e con delle vesti tutte tempestate di diamanti e di perle, tanto che era impossibile vederla e non restarne invaghiti. In quelle vicinanze c'era un giovane Re, il quale non aveva moglie, ed era molto ricco e molto bello della persona. Quando egli venne a sapere tutte le belle cose che si dicevano della Bella dai capelli d'oro, sebbene non l'avesse ancora veduta, se ne innamorò così forte, che non beveva né mangiava più; finché un bel giorno, fatto animo risoluto, pensò di mandare un ambasciatore per chiederla in isposa. Fece fabbricare apposta una magnifica carrozza per il suo ambasciatore: gli dette più di cento cavalli e cento servitori, e si raccomandò a più non posso perché gli conducesse la Principessa. Appena l'ambasciatore ebbe preso congedo dal Re e si fu messo in viaggio, alla Corte non si parlava d'altro: e il Re, che non dubitava punto che la Principessa non volesse acconsentire ai suoi desideri, cominciò subito a farle allestire degli abiti bellissimi e dei mobili di gran valore. Intanto che erano dietro a questi preparativi, l'ambasciatore, che era arrivato alla Corte della Bella dai capelli d'oro, recitò il suo bravo discorso; ma sia che la Principessa in quel giorno non fosse di buon umore, sia che il complimento non le andasse a genio, fatto sta che rispose all'ambasciatore di ringraziare il Re e di dirgli che non aveva voglia di maritarsi. L'ambasciarore se ne partì dalla Principessa dispiacentissimo di non poterla
condur seco: e riportò indietro tutti i regali, che doveva presentarle da parte del Re: perché la Prilicipessa era molto onesta, e sapeva che alle ragazze non sta bene di accettare i regali dai giovinotti. Per cui non volle gradire né i diamanti né le altre cose; e solo per non scontentare il Re, accettò una carta di spilli d'Inghilterra. Quando l'ambasciatore fu tornato alla capitale dove il suo Re lo aspettava con tanta impazienza, tutti rimasero male dal vedere che non avesse condotto seco la Principessa, e il Re si messe a piangere come un ragazzo, né c'era verso di consolarlo. Si trovava lì, alla Corte, un giovinetto bello come il sole, il più grazioso di tutti gli abitanti del Regno. A cagione appunto delle sue belle maniere e del suo spirito, lo chiamavano "Avvenente". Tutti gli volevano bene, meno gli invidiosi, che si rodevano dalla rabbia perché il Re lo colmava di favori e lo metteva a parte d'ogni suo segreto. Accade che Avvenente si trovò in un crocchio di persone, che parlavano del ritorno dell'ambasciatore e dicevano che non era stato buono a nulla; allora egli disse, senza badarci tanto né quanto: "Se il Re avesse mandato me dalla Bella dai capelli d'oro, son sicuro che ella sarebbe venuta meco". Senza metter tempo in mezzo quei malanni risoffiarono subito queste parole al Re e gli dissero: "Sapete, o Sire, che cosa ha detto Avvenente? ha detto che se aveste mandato lui dalla Bella dai capelli d'oro, egli si riprometteva di condurla seco. Vedete quant'è maligno! e' pretende di essere più bello di voi, e vorrebbe dare ad intendere che la Principessa si sarebbe tanto invaghita di lui, da seguitarlo da per tutto". Ecco il Re che va in bestia e si riscalda in modo da perdere il lume degli occhi: "Ah! ah!", egli dice, "dunque questo bel mugherino si piglia giuoco della mia disgrazia? dunque si stima da più di me? Olà: mettetelo subito nella gran torre, e che lì ci muoia di fame". Le guardie del Re andarono da Avvenente, il quale non si ricordava nemmeno di
quello che aveva detto: lo trascinarono in prigione e gli fecero mille angherie. Questo povero giovine non aveva che un po' di paglia a uso di letto: e certo vi sarebbe morto, senza una piccola fontana, che scaturiva a piè della torre, dove egli pigliava qualche sorso d'acqua per rinfrescarsi un poco, perché la fame gli aveva seccata la gola. Un giorno, non potendone più, diceva sospirando: "Di che mai si lamenta il Re? Fra tutti i suoi sudditi non ce n'è uno che, quanto me, gli sia fedele. Non ho ricordanza di averlo offeso mai!". Il Re, per caso, ando vicino alla torre, sentì i lamenti di colui che aveva tanto amato, e si fermò per stare in orecchio: quantunque i cortigiani, che erano con lui, e che l'avevano a morte con Avvenente, dicessero al Re: "Che idea è la vostra, o Sire? non sapete che è un malanno?". E il Re rispose: "Lasciatemi qui: voglio sentire quello che dice". E avendo sentito i lamenti di lui, gli occhi gli s'empirono di pianto: aprì la porta della torre, e lo chiamò. Avvenente, tutto desolato, andò a buttarsi ai ginocchi del Re, e gli baciò i piedi. "Che cosa v'ho fatto, o Sire", egli disse, "per meritarmi sì duri trattamenti?" "Tu ti sei preso giuoco di me e del mio ambasciatore", rispose il Re, "tu ti sei lasciato uscir di bocca che, se avessi mandato te dalla Bella dai capelli d'oro, ti saresti stimato da tanto da menarla teco." "È vero, Sire", disse Avvenente, "io le avrei raccontato così bene le vostre virtù e i vostri pregi, che son sicuro che ella non avrebbe saputo come resistere; e in tutto questo non mi par che ci sia cosa che possa offendervi." Il Re riconobbe, difatto, di aver torto: dette un'occhiata a coloro, che gli avevano messo in disgrazia il suo favorito, e lo menò con sé, non senza pentirsi amaramente del gran dispiacere che gli aveva dato. Dopo averlo invitato a una lauta cena, lo chiamò nel suo gabinetto e gli disse: "Avvenente, io amo sempre la Bella dai capelli d'oro; il suo rifiuto non mi ha levato di speranza, ma non so che strada mi prendere per indurla a diventare mia sposa. Ho una gran voglia di mandar te, per vedere se tu fossi buono di venirne a
capo". Avvenente rispose che era dispostissimo a obbedirlo in ogni cosa, e che sarebbe partito subito, anche l'indomani. "Oh!", disse il Re, "ti voglio dare una splendida accompagnatura..." "Non mi par punto necessaria", egli rispose, "quanto a me, mi basta e me n'avanza d'un bel cavallo e di qualche lettera da poter presentare da parte vostra." Il Re non poté stare dall'abbracciarlo per la gran contentezza di vederlo così pronto e sollecito a partire. Egli prese congedo dal Re e dai suoi amici un lunedì mattina, e si pose in viaggio per compiere la sua ambasciata da sé solo, senza fare vistosità e senza fracasso. Lungo la strada non faceva altro che studiare tutti i modi per impegnare la Bella dai capelli d'oro a divenire la sposa del Re. Portava in tasca un piccolo calamaio, e quando gli veniva qualche bel pensierino da incastrare nel suo discorso, scendeva da cavallo e si metteva sotto un albero per pigliarne ricordo prima che gli asse dalla memoria. Una mattina, che era partito sul far del giorno, ando da una gran prateria, gli venne in mente un'idea gentile e graziosa; e sceso subito di sella, andò a mettersi sotto una sfilata di salici e di pioppi, piantati lungo un piccolo ruscello che scorreva all'orlo del prato. Quand'ebbe finito di scrivere si voltò a guardare da tutte le parti, tanto era contento di trovarsi in un luogo così delizioso! Quand'ecco che vide sull'erba un Carpione color dell'oro, che boccheggiava e non ne poteva più, perché, per la gola di chiappare dei moscerini, aveva fatto un salto così lungo e così fuor dell'acqua, che era andato a ricascare sull'erba, dove stava quasi per morire. Avvenente n'ebbe comione, e sebbene fosse giorno di magro e potesse fargli comodo per il suo desinare, lo prese e lo rimesse perbenino nella corrente del fiume. Appena il nostro Carpione sentì il fresco dell'acqua, cominciò a scodinzolare dall'allegrezza e andò subito a fondo: ma poi, ritornato a fior d'acqua, disse,
avvicinandosi tutto vispo alla riva: "Avvenente, io vi ringrazio del servizio che mi avete reso; senza di voi sarei morto e voi mi avete salvato. Io non sono un ingrato e saprò ricambiarvi!". Dopo questo complimento sparì sott'acqua: e Avvenente rimase molto maravigliato dello spirito e della buona creanza del Carpione. Un altro giorno, mentre seguitava il suo viaggio, s'imbatté in un Corvo ridotto a mal partito: questo povero uccello era inseguito da un'Aquila smisurata, gran divoratrice di Corvi; e stava lì lì per essere agguantato, e l'Aquila l'avrebbe inghiottito come un chicco di canapa, se Avvenente non si fosse mosso a comione della povera bestia. "Ecco", gli disse, "che al solito i più forti opprimono i più deboli. Che ragione ha l'Aquila di mangiare il Corvo?" E preso l'arco che portava sempre seco, e una freccia, puntò la mira contro l'Aquila e crac! le scagliò la freccia nel corpo e la ò da parte a parte. L'Aquila cadde giù morta, e il Corvo, tutt'allegro, andandosi a posare in cima a un ramo: "Avvenente", gli disse, "voi siete stato molto generoso d'essere venuto in aiuto a me, che sono un povero uccello: ma non avete trovato un ingrato; all'occorrenza saprò ricambiarvi!". Avvenente ammirò il buon cuore del Corvo, e continuò la sua strada. Una mattina, che albeggiava appena e non vedeva nemmeno dove mettesse i piedi, nel traversare un gran bosco, sentì un Gufo che strillava come un disperato. "Ohe! ", egli disse, "ecco un Gufo al quale deve essere capitato qualche brutto malanno." Guarda di qui, guarda di là, finalmente gli venne fatto di vedere alcune reti, che erano state tese la notte per acchiappare gli uccelli. "Che miseria!", egli disse, "si vede proprio che gli uomini sono fatti apposta per tormentarsi gli uni cogli altri, e per non lasciar ben avere tanti poveri animali, che non hanno fatto loro nessun male e nessun dispetto."
Cavò fuori il suo coltello e tagliò le funicelle delle reti. Il Gufo prese il volo, ma ricalando subito a tiro di schioppo: "Avvenente", egli disse, "non ho bisogno di perdermi in parole per dirvi la gratitudine che sento per voi. Il fatto parla da sé. I cacciatori stavano lì per arrivare: senza il vostro soccorso, mi avrebbero preso e ammazzato. Ma io ho un cuore riconoscente, e saprò ricambiarvi". Ecco le tre avventure più strepitose che accadessero al buon Avvenente durante il suo viaggio. Egli aveva tanta ione di arrivar presto, che, appena giunto, andò subito al palazzo della Bella dai capelli d'oro. Il palazzo era pieno di meraviglie. Diamanti ammontati come sassi: abiti magnifici, argenterie, confetti, dolci e ogni grazia di Dio: di modo che Avvenente pensava dentro di sé che se la Principessa si fosse decisa a lasciare tutte quelle magnificenze per venire a stare col Re suo padrone, bisognava proprio dire che gli era toccata una gran fortuna. Si messe un vestito di broccato e delle penne bianche e carnicine: si pettinò, s'incipriò, si lavò il viso: si infilò intorno al collo una ricca sciarpa, tutta ricamata, con un piccolo paniere e con dentro un bel canino, che esso aveva comprato, ando da Bologna. Avvenente era così bello della persona e così grazioso, e ogni cosa che faceva, lo faceva con tanto garbo, che quando si presentò alla porta del palazzo, tutte le guardie gli strisciarono una gran riverenza, e corsero ad annunziare alla Bella dai capelli d'oro, che Avvenente, l'ambasciatore del Re suo vicino, domandava la grazia di poterla vedere. Subito che intese il nome d'Avvenente, la Principessa disse: "Questo nome m'è di buon augurio: scommetto che dev'essere un giovane grazioso e da piacere". "Oh davvero, Signora!", dissero tutte le dame d'onore. "Noi l'abbiamo veduto dall'ultimo piano, dove s'era a mettere in ordine la vostra biancheria: e tutto il tempo che s'è trattenuto sotto le nostre finestre, non siamo state più buone a far nulla." "Vi fa un bell'onore", replicò la Bella dai capelli d'oro, "di are il vostro
tempo a guardare i giovanotti. Animo, via! mi si porti subito il mio vestito di gala, di raso blu, a ricami; mi si sparpaglino con grazia i miei capelli biondi: mi si faccia una ghirlanda di fiori freschi, si tirino fuori le mie scarpine col tacco rilevato e il mio ventaglio; si spazzi la mia camera e si spolveri il mio trono; perché io voglio che si dica dappertutto che io sono davvero la Bella dai capelli d'oro." Ecco tutte le donne in gran moto per abbigliarla come una Regina: e tanto si danno da fare, che s'urtano fra di loro e non concludono nulla di buono. Finalmente la Principessa ò nella sala dei grandi specchi per rimirarsi e vedere se al suo abbigliamento mancasse qualche cosa; poi salì sul trono, tutto d'oro, d'avorio e d'ebano, che mandava un profumo delizioso, e ordinò alle donne di prendere degli strumenti e di mettersi a cantare, ma con una certa discrezione, per non cavar di cervello la gente. Quando Avvenente fu condotto nella sala di udienza, restò così fuori di sé dalla meraviglia, che dopo ha raccontato molte volte che non poteva quasi aprir bocca per parlare. Nondimeno si fece coraggio: disse il suo discorso come non si poteva dir meglio, e pregò la Principessa di non dargli il dispiacere di doversene tornar via senza di lei. "Garbato Avvenente", disse la Principessa, "le ragioni che mi avete dette sono eccellenti e io sarei contenta di fare un favore a voi, piuttosto che a qualunqu'altra persona, Ma bisogna che sappiate che un mese fa andai a eggiare colle mie dame di compagnia lungo il fiume, e siccome mi fu servita la colazione, così nel cavarmi il guanto, mi uscì l'anello dal dito e disgraziatamente cadde nell'acqua. Quest'anello mi è più caro del regno. Lascio immaginare a voi il dispiacere che provai! E ora ho fatto giuro di non dare ascolto a nessuna trattativa di matrimonio, se l'ambasciatore che verrà a portarmi lo sposo non mi riporti prima il mio anello. Tocca a voi a decidere su quello che volete fare; perché se duraste a parlarmene quindici giorni e quindici notti in fila, non arrivereste mai a farmi cambiare di sentimento." Avvenente rimase mezzo intontito a questa risposta: le fece una gran riverenza e la pregò di voler gradire il canino, il paniere e la sciarpa; ma essa rispose che non accettava nessun regalo e che pensasse alle cose che gli aveva dette. Quando fu tornato a casa, se ne andò a letto senza prendere nemmeno un
boccone da cena: e il canino, che si chiamava Caprioletto, non volle cenare neanche lui e andò a cucciarsi accanto al padrone. Tutta la notte, quanto fu lunga, Avvenente non fece altro che sospirare. "Dove poss'io ripescare un anello, che, un mese fa, è cascato nel fiume?", esso diceva. "Sarebbe una pazzia soltanto a provarsi! Si vede bene che la Principessa lo ha detto apposta per mettermi nell'impossibilità di poterla ubbidire." E tornava a sospirare e a dare in tutte le smanie. Caprioletto, che lo sentiva, gli disse: "Caro padrone, fatemi un piacere: non disperate ancora della vostra buona fortuna. Voi siete un giovine troppo carino, per non dover essere fortunato. Appena farà giorno, andiamo subito in riva al fiume". Avvenente gli dette colla mano due buffetti e non rispose sillaba: finché stanco e rifinito dalla ione, si addormentò. Caprioletto, quando vide i primi chiarori dell'alba, cominciò tanto a sgambettare, che lo svegliò e gli disse: "Animo, padrone, vestitevi: e usciamo!". Avvenente non desiderava di meglio. Si alza, si veste, scende nel giardino e dal giardino s'incammina un o dietro l'altro verso il fiume, dove si mette a eggiare col suo cappello sugli occhi e colle braccia incrociate, pensando al brutto momento di dover ripartire, quand'ecco che a un tratto sente una voce che lo chiama: "Avvenente! Avvenente!". Si volta a guardare da tutte le parti e non vede anima viva. Credé di aver sognato. Si rimette a eggiare, e daccapo la solita voce a chiamarlo: "Avvenente! Avvenente!". "Chi è che mi chiama?", diss'egli. Caprioletto, che era molto piccino, e così poteva guardare nell'acqua a piccolissima distanza, gli rispose: "Datemi del bugiardo se non è un Carpione, color dell'oro, quello laggiù in fondo". Detto fatto, un grosso Carpio venne su a fior d'acqua e gli disse: "Voi mi avete salvato la vita nei prati degli Alzieri, dove io senza di voi sarei rimasto morto, e vi promisi un ricambio. Pigliate, caro Avvenente, ecco qui l'anello della Bella dai capelli d'oro".
Egli si chinò e tirò fuori l'anello dalla gola del Carpio e lo ringraziò a mille doppi. E invece di tornare a casa, andò difilato al palazzo, in compagnia di Caprioletto, che era contento come una pasqua per aver consigliato il suo padrone a venire sulla sponda del fiume. Fu annunziato alla Principessa che Avvenente desiderava di vederla. "Ahimè! povero giovane!", diss'ella, "e' vien da me per congedarsi. Avrà capito che ciò che io voglio da lui è impossibile, e partirà per andare a raccontarlo al suo padrone." Avvenente, appena introdotto, le presentò l'anello dicendo: "Ecco, o Principessa, il vostro comando è stato obbedito: sareste ora tanto compiacente di prendere per vostro sposo il mio augusto padrone?". Quand'ella vide il suo anello, sano e salvo come se non fosse stato toccato, rimase meravigliata: ma tanto meravigliata, che credeva di sognare. "Davvero", ella disse, "grazioso Avvenente! Si vede proprio che voi avete una fata dalla vostra altrimenti questi miracoli non si fanno." "Signora", egli replicò, "io non so di fate: ma so che ho un gran desiderio di contentare ogni vostra voglia." "Poiché avete questa buona volontà", ella continuò "rendetemi un altro gran servizio, senza di che non c'è caso che io possa risolvermi a prendere marito. C'è un Principe, non lontano di qui, detto Galifrone, il quale si è messo in testa di volermi sposare. Egli mi ha fatto conoscere la sua intenzione con minacce paurose, dicendo che se io non lo voglio, metterà lo scompiglio e la desolazione ne' miei Stati. Ma ditemi un po' voi, se potrei dargli retta. Figuratevi che è un gigante più grande di una gran torre; ed è capace di mangiare un uomo come una scimmia mangerebbe una castagna. Quando va in giro per la campagna, si mette in tasca dei piccoli cannoni, dei quali poi si serve come se fossero pistole: e quando parla forte, fa diventar sorde tutte le persone che gli stanno vicine. Gli mandai a dire che non avevo voglia di maritarmi e che mi scusasse: ma non per questo ha smesso di perseguitarmi: ammazza i miei sudditi, e prima d'ogni cosa bisogna che voi vi battiate con lui, e che mi portiate la sua testa."
Avvenente rimase sbalordito da questo discorso: stette un po' soprappensiero; poi disse: "Ebbene, o signora! io mi batterò con Galifrone. Credo che ne toccherò io! A ogni modo, morirò da valoroso". La Principessa restò meravigliatissima: e gli disse un monte di cose, per vedere di stornarlo da questa impresa. Ma non valse a nulla. Egli se ne venne via, per mettersi subito in cerca delle armi e di tutto l'occorrente. Quand'ebbe ciò che voleva, ripose Caprioletto nel solito panierino, montò sul suo bel cavallo e andò nel paese di Galifrone. A quanti incontrava per via, domandava a tutti notizie di lui: e tutti gli dicevano che era un vero demonio, e che faceva spavento soltanto a doverlo avvicinare. Caprioletto, per fargli coraggio, gli diceva: "Caro padrone, in quel mentre che vi batterete, io anderò a mordergli le gambe: lui si chinerà per levarmi di tra i piedi, e intanto voi l'ammazzerete". Avvenente ammirava lo spirito del suo canino: ma sapeva bene che il suo aiuto non sarebbe stato in ragione del bisogno. Finalmente arrivò in vicinanza del castello di Galifrone: tutte le strade erano seminate d'ossa e di carcasse d'uomini, che esso aveva divorati o fatti in pezzi. Né dové aspettarlo molto tempo, perché lo vide comparire di dietro al bosco. La sua testa sorava gli alberi più alti, e con una voce spaventosa cantava:
Chi mi porta dei teneri bambini Da farli scricchiolare sotto il dente?
Ne ho bisogno di tanti e poi di tanti. Che in tutto il mondo non ce n'è bastanti.
E subito Avvenente, a botta e risposta, si messe a cantare:
Fatti avanti, c'è Avvenente Che saprà strapparti i denti; Non è un colosso di figura, Ma di te non ha paura.
Le rime non tornavano precise: ma bisogna riflettere che la strofa la improvvisò in fretta e in furia, ed è un miracolo se non la fece anche più brutta, per la paura che gli era entrata in corpo. Quando Galifrone sentì questa risposta, si voltò di qua e di là, e vide Avvenente colla spada nel pugno della mano, che gli disse per giunta tre o quattro parolacce, per farlo andare in bestia più che mai. Non ci mancava altro! Egli prese una furia così spaventosa, che, afferrata una mazza tutta di ferro, avrebbe ucciso con un colpo solo il delicato Avvenente, senza il caso di un Corvo che venne a posarglisi sulla testa e gli dette negli occhi una beccata così aggiustata, che glieli cavò di netto. Il sangue gli grondava giù per il viso: e infuriato da far paura, picchiava mazzate a diritto e a rovescio. Intanto Avvenente, scansandosi a tempo, gli tirava dei colpi di spada, ficcandogliela in corpo fino all'impugnatura: e tanto era il sangue, che il gigante perdeva dalle sue molte ferite, che finalmente stramazzò per terra. Avvenente gli tagliò subito la testa, tutto allegro di avere avuto questa bella fortuna; e il Corvo che s'era posato sul ramo d'un albero, gli disse: "Io non ho dimenticato il servizio che mi rendeste, uccidendo l'Aquila che mi dava addosso. Vi promisi di contraccambiarvi, e credo di aver pagato il mio debito". "Sono io che vi debbo tutto, signor Corvo", rispose Avvenente, "e mi dichiaro vostro buon servitore." Poi montò subito a cavallo, col carico della spaventosa testa di Galifrone.
Quando arrivò in città, tutta la gente gli andava dietro gridando: "Ecco il bravo Avvenente, che ritorna dall'aver morto il gigante Galifrone" e la Principessa, che sentiva questo baccano e tremava dalla paura che venissero a dargli la nuova della morte di Avvenente, non aveva fiato di chiedere che cosa fosse avvenuto. Ma in quel punto ella vide entrare Avvenente, colla testa del gigante, che metteva ancora spavento, quantunque non potesse più fare alcun male. "Signora", egli disse, "il vostro nemico è morto. Voglio sperare che ora non direte più di no al Re, mio augusto padrone." "Ah! senza dubbio", replicò la Bella dai capelli d'oro, "che io gli dirò sempre di no, se voi prima della mia partenza non trovate il modo di portarmi l'acqua della caverna tenebrosa. C'è qui, poco distante, una grotta profonda che gira più di cento chilometri. Ci stanno sull'ingresso due draghi che ne impediscono l'entrata. Buttano fiamme di fuoco dalla bocca e dagli occhi. Quando poi siamo dentro alla grotta, si trova una gran buca nella quale bisogna scendere, ed è piena di rospi, di biacchi, di ramarri e di altri serpenti. In fondo a questa buca c'è una piccola nicchia, dalla quale scaturisce la fontana della bellezza e della salute: io voglio a tutti i costi di quell'acqua. Ogni cosa che si lava con quell'acqua diventa meravigliosa: se siamo belle, si rimane sempre belle: se brutte, si diventa belle: se siamo giovani, si resta giovani: se vecchie, si ringiovanisce. Vedete bene, caro Avvenente, che io non posso lasciare il mio Regno, senza portar meco un poco di quell'acqua lì." "Signora", egli rispose; "voi siete tanto bella, che quest'acqua per voi mi pare affatto inutile: ma io sono un ambasciatore disgraziato, di cui volete la morte. Io vado a cercarvi ciò che voi desiderate, colla certezza nel cuore di non tornare più indietro." La Bella dai capelli d'oro non cambiò per questo di proposito: e il povero Avvenente partì col suo canino Caprioletto per andare alla grotta tenebrosa, a cercarvi l'acqua della bellezza. Tutti quelli che lo incontravano lungo la strada, dicevano: "Che peccato vedere un giovane tanto grazioso correre così spensieratamente in bocca alla morte: egli se ne va alla grotta da sé solo: ma quand'anche fossero cento, non verrebbero a capo di nulla. Perché la Principessa s'incaponisce a volere l'impossibile?". Egli seguitava a camminare, e non diceva parola: ma era triste, molto triste.
Arrivato verso la cima della montagna, si sedette per ripigliar fiato, e lasciò il cavallo a pascere e Caprioletto a correr dietro alle mosche. Egli sapeva che la grotta tenebrosa non era molto distante di là, e guardava se per caso l'avesse potuta scoprire; quand'ecco che vide un enorme scoglio, nero come l'inchiostro, di dove usciva un fumo densissimo, e di lì a poco uno dei draghi che buttava fuoco dagli occhi e dalla gola. Il drago aveva il corpo verde e giallo, dei grossi unghioni e una coda lunghissima, che s'attorcigliava in più di cento giri. Caprioletto vide anch'egli ogni cosa, e non sapeva dove nascondersi: la povera bestia era mezza morta dalla paura. Avvenente, fatto oramai animo di morire, cavò fuori la sua spada e s'avviò colla sua boccetta, che la Bella dai capelli d'oro gli aveva dato, per riempirla coll'acqua della bellezza. Egli disse al suo canino Caprioletto: "Per me è finita! io non potrò mai arrivare a prendere di quest'acqua, che è custodita dai draghi; quando sarò morto, riempi la boccetta col mio sangue e portala alla Principessa, perché ella possa vedere quanto mi costa il servirla: e dopo vai a trovare il Re mio padrone, e raccontagli la mia disgrazia". Mentre diceva così, sentì una voce che lo chiamava: "Avvenente! Avvenente!". Egli disse: "Chi mi chiama?", e vide un Gufo nel buco d'un albero vecchio, che gli disse: "Voi mi avete liberato dalle reti de' cacciatori, dov'ero rimasto preso: e mi salvaste la vita. Promisi di rendervi il contraccambio, e il momento è giunto. Datemi la vostra boccetta: io conosco tutti gli andirivieni della grotta tenebrosa: anderò io a prendervi l'acqua della bellezza". Figuratevi se questa cosa gli fece piacere! Lo lascio pensare a voi. Avvenente gli dette subito la sua boccetta e il Gufo entrò nella grotta, come sarebbe entrato in casa sua. E in meno d'un quarto d'ora tornò e riportò la boccetta piena e tappata. Ad Avvenente parve d'aver toccato il cielo con un dito: ringraziò il Gufo dal profondo del cuore e, risalita la montagna, prese tutt'allegro la strada che menava alla città. Andò subito al palazzo e presentò la boccetta alla Bella dai capelli d'oro, la quale non ebbe più nulla da ridire. Ella ringraziò Avvenente, e diè l'ordine che fosse allestita ogni cosa per la partenza. Poi si messe in viaggio con lui: e strada facendo, finì col persuadersi
che il giovinetto era molto grazioso; e qualche volta gli diceva: "Se aveste voluto, vi avrei fatto Re e non saremmo partiti mai dai miei Stati". Ma egli rispose: "Rinunzierei a tutti i troni della terra, piuttosto che dare un dispiacere così forte al mio Re: sebbene voi siate più bella del sole". Finalmente giunsero alla Capitale, e il Re, sapendo che la Bella dai capelli d'oro stava per arrivare, andò a incontrarla e le presentò i più bei regali del mondo. Furono fatte le nozze, e con tanta gala e magnificenza, che si durò a discorrerne per un pezzo; ma la Bella dai capelli d'oro, che in fondo al cuore era innamorata di Avvenente, non poteva stare senza vederlo e l'aveva sempre sulla bocca. Ella diceva al Re: "Se non era Avvenente, io non sarei dicerto venuta qui: egli ha fatto per me delle cose, da non potersi credere; e voi dovete essergli grato". Gl'invidiosi che sentivano questi discorsi della Regina andavano dopo bisbigliando al Re: "Voi non siete geloso; eppure avreste motivo di esserlo. La Regina è così innamorata di Avvenente, che non mangia né beve più; essa non fa altro che parlar di lui e della grande riconoscenza che voi dovete avergli: come se chiunque altro aveste mandato, nel posto suo, non avesse saputo fare altrettanto". E il Re disse: "Davvero, che me ne sono accorto anch'io. Che sia preso subito e imprigionato nella torre, coi ferri ai piedi e alle mani". Avvenente fu preso e, in ricompensa di aver così bene servito il Re, fu chiuso nella torre coi ferri ai piedi e alle mani. La sola persona che egli vedesse, era il guardiano della carcere; il quale gli gettava da una buca un pezzo di pan nero e un po' d'acqua in una ciotola di terra. Ma il suo piccolo Caprioletto non lo abbandonava mai, e veniva a fargli coraggio e a portargli tutte le nuove che correvano per la città. Quando la Bella dai capelli d'oro venne a risapere la disgrazia di Avvenente, andò a buttarsi ai piedi del Re, e colle lacrime agli occhi lo pregò a farlo levare di prigione. Ma più essa si raccomandava, e più il Re s'intristiva, pensando fra sé e sé: "È segno che ne è innamorata" e così non intendeva né ragioni né preghiere. Il Re finì col mettersi in testa di non essere abbastanza bello agli occhi della Regina: e gli venne l'idea di lavarsi il viso coll'acqua della bellezza, per vedere
se in questo modo gli fosse riuscito di farsi amare un poco di più. Quest'acqua stava sul caminetto nella camera della Regina, che la teneva lì, per averla sempre sott'occhio; ma una delle sue cameriere, volendo ammazzare un ragno con una spazzolata, fece cascare disgraziatamente la boccetta, la quale si ruppe, e l'acqua se n'andò tutta per la terra. La cameriera ripuli ogni cosa in fretta e furia, e non sapendo come rimediarla, si ricordò di aver visto nel gabinetto del Re un'altra boccetta somigliantissima e piena d'acqua chiara, tale e quale come l'acqua della bellezza. Non parendo suo fatto, la prese senza star a dir nulla e la posò sul camminetto della Regina. L'acqua che era nel gabinetto del Re serviva per far morire i Principi e i grandi Signori, quando ne avevano fatta qualcuna delle grosse. Invece di tagliar loro la testa o impiccarli, si bagnava loro il viso con quest'acqua: e così si addormentavano e non si svegliavano più. Una sera, dunque, il Re prese la boccetta e si strofinò ben bene il viso. Dopo si addormentò e morì. Il piccolo Caprioletto, che fu uno dei primi a sapere il caso, andò subito a raccontarlo ad Avvenente, il quale gli disse di andare di corsa dalla Bella dai capelli d'oro e di pregarla a volersi ricordare del povero prigioniero. Caprioletto sgattaiolò fra mezzo alle gambe della folla, perché alla Corte c'era un gran via-vai e una gran diceria per la morte del Re, e disse alla Regina: "Signora, non vi scordate del povero Avvenente". Ella si rammentò subito di tutti i patimenti che aveva sofferti per lei, e della sua gran fidatezza. Uscì senza farne parola con alcuno, e andò diritto alla torre, dove sciolse da se stessa le catene dalle mani e dai piedi d'Avvenente: e mettendogli una corona in capo e un manto reale sulle spalle, disse: "Venite, mio caro Avvenente, io vi faccio Re, e vi prendo per mio sposo". Egli si gettò ai suoi piedi e la ringraziò: e tutti si chiamarono fortunati di averlo per sovrano. Le nozze furono fatte con grandissima magnificenza, e la Bella dai capelli d'oro visse molti anni col suo bell'Avvenente, tutti e due felici e contenti, da non poterselo figurare.
Si vuole che Avvenente lasciasse ai suoi figli un libro di ricordi: un libro curioso,
perché aveva tutte le pagine bianche, meno l'ultima, sulla quale aveva scritto di proprio pugno le seguenti parole: "Se per caso qualche povero diavolo ricorre a te per essere aiutato, tu aiutalo: né badare com'è vestito, né se abbia viso di persona da poterti rendere, un giorno o l'altro, il piacere che gli fai. Sulle opere buone e generose non si mercanteggia mai: né bisogna farle coll'intenzione di ripigliarci sopra il frutto e l'usura. A ogni modo, tieni sempre a mente che un benefizio fatto non è mai perduto".
L'uccello turchino
C'era una volta un Re, molto ricco di quattrini e di terre: la sua moglie morì, ed egli ne fu inconsolabile. Per otto giorni intieri si chiuse in un piccolo salottino, dove picchiava il capo nel muro, tanto era il dolore che gli straziava l'anima; per paura che finisse coll'ammazzarsi, furono accomodate delle materasse fra il muro e i parati della stanza. Così poteva sbatacchiarsi a suo piacere, e non c'era caso che potesse farsi del male. Tutti i suoi sudditi si messero d'accordo per andare a trovarlo e dirgli quelle ragioni credute più adatte, per iscuoterlo dalla sua tristezza. Alcuni prepararono dei discorsi molto seri: altri uscirono fuori con delle cose piacevoli e anche allegre: ma tutte queste ciarle non fecero su lui né caldo né freddo. Esso non badava neppure a quello che gli dicevano. Alla fine gli si presentò, fra gli altri, una donna tutta abbrunata e coperta di veli neri, di mantiglie e di strascichi da gran lutto, la quale piangeva e singhiozzava così forte, e con urli così acuti e sfogati, che il Re ne rimase sbalordito. Ella gli disse che non aveva intenzione di fare come gli altri: e che andava non per iscemargli il suo dolore, ma piuttosto per accrescerlo, perché non sapeva che ci potesse essere una cosa più giusta nel mondo di quella di piangere una buona moglie perduta: e che ella, a cui era toccato il migliore di tutti i mariti, faceva conto di piangerlo, finché avesse avuto lacrime e occhi. A questo punto, raddoppiò le sue grida e i suoi pianti, e il Re, sull'esempio di lei, si messe a berciare come un bambino. Egli la ricevé meglio di tutti gli altri: e le raccontò la storia delle belle doti della sua cara defunta, mentre ella faceva altrettanto dei pregi del suo caro defunto; e discorsero tanto e tanto, che nessuno dei due sapeva più che cosa si dire sul conto della loro grande afflizione. Quando la furba vedovella si accorse che l'argomento era agli sgoccioli, alzò un pochino il velo e il Re poté ricrearsi la vista nel mirare questa bella sconsolata, che sotto due lunghe ciglia nerissime girava e muoveva con moltissim'arte un paio d'occhi, grandi e turchini, come l'azzurro d'un cielo stellato. Il suo carnato era sempre fresco. Il Re cominciò a guardarla con molta attenzione: a un poco per volta, parlò meno della sua moglie, e fini col non parlarne più. La vedova badava a dire di voler piangere
sempre il suo marito: e il Re la consigliava a non voler rendere eterno il suo dolore. Per farla corta, tutti cascarono dalle nuvole, nel sentire che il Re l'aveva sposata, e che il nero s'era cambiato in verde e in color di rosa. Spesso e volentieri basta conoscere il debole delle persone, per impadronirsi del loro cuore e farne quel che ci pare e piace. Il Re, dal suo primo matrimonio, non aveva avuto che una sola figlia, la quale ava per l'ottava meraviglia del mondo; e si chiamava Fiorina, perché somigliava alla Flora, tanto era fresca, giovine e bella. Ella non portava mai vestiti sfarzosi; preferiva invece la seta leggera, con qualche fermaglio di pietre preziose e molte ghirlande di fiori, che facevano una figura magnifica intorno ai suoi bellissimi capelli. Aveva quindici anni, quando il Re si rimaritò. La novella Regina mandò a prendere una sua figlia, che era stata allevata in casa della sua comare, la fata Sussio: ma non per questo era diventata più bella e più graziosa. La fata ci aveva messo un grand'impegno: ma senza concluder nulla di buono: nondimeno le voleva moltissimo bene. La chiamavano Trotona, perché aveva sul viso delle macchie rossastre, come quelle della trota: i suoi capelli erano così grassi e imbiosimati, da non giovarsene a toccarli e dalla sua pelle giallastra gocciolava l'unto. La Regina le voleva un bene dell'anima e non aveva altro in bocca che la sua cara Trotona; e perché Fiorina era stata in ogni cosa molto più favorita della sua figlia, ne sentiva una grande spina al cuore, e faceva di tutto per mettere Fiorina in uggia al padre. Non c'era giorno che la Regina e Trotona non inventassero qualche marachella a danno di Fiorina; ma la Principessa, così dolce di carattere e piena di spirito, ci ava sopra e faceva finta di non darsene per intesa. Il Re disse un giorno alla Regina che Trotona e Fiorina erano tutte e due da marito, e che appena si fosse presentato un Principe in Corte, bisognava fare in modo di dargliene una. "Io voglio", disse la Regina, "che mia figlia sia maritata la prima: ha più anni della vostra, e siccome è anche mille volte più graziosa, così non c'è nemmeno
da esitare e da pensarci sopra." Il Re, a cui non piaceva mettersi a tu per tu, disse che per parte sua era contentissimo, e che la lasciava padrona di fare e disfare. Di lì a poco tempo si venne a sapere che stava per giungere il Re Grazioso. Non c'era ricordanza d'un altro Re più galante e più splendido di lui. Il suo spirito e la sua persona rispondevano a capello al suo nome. Appena la Regina venne a saperlo, messe subito in moto tutte le sarte e tutti i lavoranti di mode, per allestire il corredo alla sua Trotona. Di più, pregò il Re a non fare nessun vestito di nuovo a Fiorina; e, messa su la cameriera di lei, le fece portar via tutti i suoi abiti, le pettinature e le gioie, il giorno stesso in cui arrivò il Principe Grazioso; e così Fiorina, quando andò per vestirsi, non trovò nemmeno il biracchio d'un nastro e mandò alle botteghe, per comprare delle stoffe: ma risposero che la Regina aveva loro proibito che le fosse venduta la più piccola cosa. Ragione per cui ella si trovò con un vestituccio da casa, abbastanza indecente, e n'ebbe tanta vergogna che, all'arrivo del Re Grazioso, andò a rincattucciarsi in un angolo della sala. La Regina lo ricevé con grandi salamelecchi e gli presentò sua figlia, che era più risplendente del sole, e più brutta del solito, a cagione dei tanti fronzoli che aveva addosso. Il Re si voltò da un'altra parte per non vederla: e la Regina intestata a credere che gli pie troppo e che non volesse impegnarsi, cercava tutti i mezzi per mettergliela dinanzi agli occhi. Egli domandò se non vi fosse anche un'altra Principessa, chiamata Fiorina. "Si," disse Trotona indicandola col dito "eccola là che si nasconde, perché è una broccola." Fiorina arrossì e diventò bella, ma tanto bella, che il Re Grazioso ne rimase abbagliato. Si alzò subito, fece un grand'inchino alla Principessa, e le disse: "La vostra bellezza è tale, che non ha bisogno di fronzoli e di altri ornamenti." "Signore", ella rispose, "vi giuro che non è mia abitudine di portare dei vestiti sconvenienti, come questo: e mi avreste fatto un gran regalo a non voltarvi verso di me."
"Impossibile", esclamò Grazioso, "che una Principessa così meravigliosa, trovandosi presente in qualche luogo, si possano avere degli occhi per le altre, e non per lei!" "Ah!", disse la Regina stizzita, "spendo proprio bene il mio tempo a stare a sentire i vostri discorsi. Credetelo a me, signore: Fiorina è già abbastanza civetta e non ha bisogno di essere stuzzicata con tante galanterie." Il Re Grazioso capì per aria le ragioni che facevano parlare così la Regina; ma non essendo uomo da peritarsi o da pigliar soggezione, lasciò libero sfogo alla sua ammirazione per Fiorina, e ci parlò insieme per tre ore di seguito. La Regina che aveva un diavolo per capello e Trotona che non sapeva darsi pace di vedersi preferita la Principessa, andarono tutte e due a lamentarsi risentitamente dal Re e lo costrinsero a consentire che Fiorina venisse rinchiusa in una torre per tutto il tempo che il Re Grazioso fosse rimasto alla Corte, perché così non avessero modo di vedersi fra loro. Detto fatto, appena Fiorina fu tornata nella sua stanza, quattro uomini mascherati la portarono in cima alla torre e ce la lasciarono nella più grande costernazione, perché ella capiva benissimo che con questo tiro si voleva toglierle l'occasione di piacere al Re, il quale piaceva già tanto a lei, che avrebbe desiderato averlo per suo sposo. Il Re Grazioso, che non sapeva nulla della violenza usata alla Principessa, aspettava smaniando l'ora di poterla rivedere. Parlò di lei alle persone che il Re gli aveva messo dintorno per dargli un corteggio d'onore; ma queste, per ordine della Regina, gliene dissero tutto il male possibile: che era una fraschetta, una capricciosa, d'indole cattiva, il supplizio dei conoscenti e dei servitori, che non si poteva essere più sudici di lei e che spingeva la spilorceria fino al segno di vestirsi peggio d'una pecoraia, piuttosto che comprarsi delle belle stoffe, coi denari che le ava suo padre. A sentire tutte queste storie, Grazioso si rodeva dentro di sé, e aveva certi scatti di collera, che durava fatica a frenarli. "No", diceva esso fra sé e sé, "non è possibile che il cielo abbia messo un'anima così volgare in quell'opera così bella della natura. Sia pure che quando la vidi, non fosse vestita con molta decenza, ma il rossore che n'ebbe, prova abbastanza che quella non è la sua abitudine. Come può essere cattiva, con quell'aria di modestia e di dolcezza che innamora? non mi va giù: e credo invece che la Regina ne dica tanto male apposta. Le matrigne ci sono per qualche cosa in questo mondo: e quanto alla Principessa Trotona, è una così brutta versiera, che
non mi farebbe punto specie se invidiasse a morte la più perfetta fra tutte le creature." Mentre egli fantasticava così, i cortigiani che gli stavano dintorno capirono dalla sua cera, che a dirgli male di Fiorina, non gli avevano fatto un gran piacere. Ce ne fu uno più svelto degli altri, il quale mutando linguaggio e registro, per arrivare a conoscere i sentimenti del Re si fece a dire le più belle cose sul conto della Principessa. A quelle parole, egli si svegliò come da un sonno profondo, prese parte alla conversazione e la gioia brillò sul suo viso. Amore, Amore,... quant'è difficile a saperti nascondere! Tu fai capolino dappertutto: sulle labbra di un amante, ne' suoi occhi, nel suono della sua voce: quando si ama davvero, il silenzio e la conversazione, la gioia e la tristezza, tutto palesa quello che si sente dentro. La Regina impaziente di sapere se il Re Grazioso fosse rimasto fortemente preso di Fiorina, mandò a chiamare coloro che egli aveva ammessi alla sua confidenza e ò il resto della notte a interrogarli. Tutte le cose che essi le raccontavano valevano a confermarla sempre più nell'idea che il Re amasse Fiorina. Ma che cosa vi dirò io dell'abbattimento di spirito della povera Principessa? Ella stava distesa per terra nella parte più alta di quell'orribile torre, dove era stata portata quasi di peso dagli uomini mascherati. "Sarei meno da compiangere", diceva essa, "se mi avessero rinchiusa qui, prima di conoscere quel simpatico Re. La memoria che serbo di lui non può servire che a far crescere i miei tormenti. Si vede bene che la Regina mi tratta in questo modo per impedirmi di poterlo vedere. Povera me! quanto mi dovrà costar cara questa po' di bellezza che il cielo mi ha dato!" E dopo piangeva, e piangeva tanto dirottamente, che la sua stessa nemica ne avrebbe avuto pietà, se avesse veduto il suo dolore. E così ò la nottata. La Regina, che voleva amicarsi il Re a furia di moine e di segni particolari di riguardo e d'attenzione, gli mandò degli abiti splendidissimi, d'una magnificenza senza pari e tagliati sulla moda del paese: e più, le insegne dei cavalieri dell' Amore, ordine cavalleresco istituito dal Re, per voler di lei, il giorno stesso del loro matrimonio. Era un cuore d'oro, smaltato color di fiamma, contornato da parecchie frecce e traato da una di queste, col motto: "una sola mi ferisce".
La Regina aveva fatto tagliare per il Re Grazioso un rubino grosso come un uovo di struzzo: ogni freccia era di un solo diamante, lungo quanto un dito, e la catena alla quale era appeso il cuore, tutta fatta di perle, delle quali la più piccola pesava un mezzo chilogrammo: insomma, dacché mondo è mondo, non s'era mai veduto nulla d'eguale. A quella vista il Re rimase così stupito, che per qualche minuto non seppe trovare il verso di dire una parola. Nel tempo medesimo gli fu presentato un libro, di cui i fogli erano in carta velina, con miniature meravigliose e la copertina tutta d'oro e carica di gemme, e dove erano scritti con un linguaggio molto apionato e galante gli statuti dell'Ordine de' Cavalieri d'Amore. Dissero al Re che la Principessa, da lui veduta, lo pregava a voler essere suo cavaliere; e che intanto gli mandava questi regali. A queste parole, egli osò lusingarsi che questa Principessa fosse appunto quella amata da lui. "Come! ", esclamò egli, "la bella Principessa Fiorina pensa a me in una maniera così generosa e cortese?" "Signore", gli dissero, "voi pigliate sbaglio sul nome; noi veniamo qui da parte dell'amabile Trotona." "È la Trotona che mi vuole per suo cavaliere?", disse il Re, con una fisionomia seria e ghiacciata "mi dispiace di non potere accettare tanto onore, ma un sovrano non è padrone di prendere gl'impegni che vorrebbe. Io conosco i doveri d'un cavaliere, e vorrei adempirli tutti: preferisco dunque non avere la grazia, che ella mi offre, piuttosto che dovermene rendere indegno." E rimesse subito nella cestina il cuore, la catena e il libro, e rimandò ogni cosa alla Regina, la quale ci corse poco che, insieme a sua figlia, non affogasse della bile per il modo disprezzante col quale il Re straniero aveva accolto un favore così singolare. Appena Grazioso ebbe il tempo di recarsi dal Re e dalla Regina, entrò nel loro appartamento colla speranza di trovarvi Fiorina. La cercò cogli occhi dappertutto: e quando sentiva qualcuno entrare nella stanza, si voltava subito a guardare; si vedeva che era inquieto, e di cattivo umore. La maliziosa Regina aveva indovinato appuntino quel che il Principe rimuginava nel cuore, ma faceva
l'indifferente come non ne sapesse nulla. Essa gli parlava di partite di piacere; ed egli rispondeva a rovescio. Alla fine Grazioso domandò dove fosse la Principessa Fiorina. "Signore", gli disse fieramente la Regina, "il Re suo padre le ha proibito di uscire dalle sue stanze, fino a tanto che mia figlia non abbia preso marito." "E qual motivo", replicò il Re, "vi può essere, per tener prigioniera la bella Principessa?" "Non lo so", disse la Regina, "e quand'anche lo sapessi non mi crederei punto obbligata a dirvelo." Al Re era salita la bizza fino alla punta dei capelli. Dava delle occhiatacce, di traverso, a Trotona, e pensava fra sé che era per colpa di quel mostriciattolo, se gli era stato tolto il piacere di veder la Principessa. Si congedò in quattro e quattr'otto dalla Regina, perché la sua presenza gli faceva male al cuore. Quando fu tornato nella sua camera, disse a un giovane Principe che lo aveva accompagnato e al quale voleva un gran bene, di spendere tutto quello che ci fosse voluto, pur di tirargli dalla sua qualche cameriera della Principessa, e aver così il modo di parlarle un solo momento. Questo Principe trovò senza fatica alcune dame di Corte che s'intesero con lui: e fra le tante, ce ne fu una che gli dètte per sicuro che quella sera stessa Fiorina sarebbe stata a una finestrina bassa, che dava sul giardino; e che di lì il Principe avrebbe potuto parlarle: s'intende bene, adoperando tutte le cautele da non essere scoperto, perché, diceva essa, il Re e la Regina sono tanto severi, che se scoprissero che io ho tenuto di mano agli amori del Principe Grazioso, per me sarebbe morte sicura. Il Principe, contento da non potersi dire di aver menata la cosa fino a quel punto, le promise tutto quello che volle, e corse a fare la sua parte col Re, avvertendolo dell'ora fissata per il ritrovo. Ma la confidente, che era di malafede, andò subito a risoffiare ogni cosa alla Regina, e si messe ai suoi ordini. Il primo pensiero della Regina fu quello di mandare la propria figlia alla piccola finestra; e la imbeccò così bene, che Trotona, sebbene fosse una grande stupida, non dimenticò un etto di quello che doveva dire e fare.
La notte era così buia, che sarebbe stato impossibile al Re di accorgersi della trappoleria, quand'anche non avesse avuto ragione di credersi sicuro del fatto suo: di modo che si avvicinò alla finestra con un trasporto di gioia incredibile. E lì disse a Trotona tutte quelle cose che avrebbe dette a Fiorina, per assicurarla del suo grand'amore. Trotona, profittando dell'equivoco, gli rispose che era la creatura più infelice di questo mondo, a motivo di una matrigna così spietata e che avrebbe dovuto arne ancora chi sa quante, prima che la figlia di lei non si fosse maritata. Il Re disse e giurò che se ella lo avesse voluto per suo sposo, sarebbe stato più che felice di metterla a parte della sua corona e del suo cuore. E nel dir questo, si cavò un anello di dito e infilandolo nel dito a Trotona aggiunse che quello era un pegno eterno della sua fede, e che stava a lei fissare l'ora della partenza. Trotona rispose, come meglio poté, a tutte queste calorose premure. Egli s'era accorto benissimo che nelle risposte di lei non c'era un chicco di buon senso: la quale cosa gli avrebbe fatto dispiacere, se già non fosse stato persuaso che la paura dell'apparizione improvvisa della Regina doveva essere la cagione di quei discorsi sconclusionati. Egli la lasciò, a patto che sarebbe tornata il giorno dopo: ed ella promise con tutto il cuore. La Regina, saputo il buon esito del primo colloquio, cominciò a sperar bene. Di fatto, fissato il giorno della partenza, il Re la venne a prendere in un cocchio volante, tirato da ranocchi alati, regalo fattogli da un Mago amico suo. La notte era buia di molto. Trotona uscì misteriosamente da una piccola porta, e il Re, che la stava attendendo, la prese fra le sue braccia e le giurò cento e cento volte fedeltà eterna! Ma siccome non si sentiva in vena di seguitare a volare per lungo tempo nel suo cocchio volante, senza sposare la Principessa, che amava tanto, così le chiese dove voleva che si fero le nozze: ella rispose che aveva per comare una fata chiamata Sussio, molto conosciuta, ed era suo avviso di andare al castello di lei.
Il Re non sapeva la strada, ma bastò che dicesse ai suoi grossi ranocchi: conducetemi là. Essi sapevano la carta geografica dell'Universo, e in pochi minuti portarono lui e la Trotona dalla fata Sussio. Il castello era così bene illuminato, che il Re, arrivandovi, si sarebbe subito avvisto del suo errore, se la Principessa non avesse avuto la malizia di coprirsi tutta col velo. Chiese della comare: la chiamò a quattr'occhi, e le raccontò il come e il quando avesse ingannato il Principe Grazioso, pregandola a fare in modo di rabbonirlo. "Ah! figlia mia!", disse la fata, "la cosa non sarà facile: egli ama troppo Fiorina, e son sicura che ci farà disperare, e dimolto." Intanto il Re le aspettava in una sala, le cui pareti erano di diamanti, così nitide e così trasparenti, da lasciargli vedere, a traverso di essi, la Sussio e Trotona, che parlavano fra di loro. Credé di sognare. "Possibile", diceva, "che io sia stato tradito? O sono i diavoli, che hanno portata qui questa nemica della nostra gioia? Vien'ella forse per avvelenare il nostro matrimonio? E la mia diletta Fiorina non si vede venire! Chi sa che il padre suo non l'abbia inseguita fin qui!" Molte altre cose gli avano per la testa, che lo mettevano in grande agitazione; ma il peggio fu quando le due donne entrarono nella sala, e che Sussio gli disse con voce di comando: "Re Grazioso, ecco qui la Principessa Trotona, alla quale avete dato la vostra parola, essa è mia figlioccia, e desidero che la sposiate subito". "Io", esclamò il Principe, "io sposare quel brutto scarabocchio? Si vede proprio che mi avete preso per un uomo di pasta frolla, a farmi certi discorsi. Sappiate intanto che io non le ho fatta nessuna promessa, e se ella dice il contrario, si merita il titolo..." "Non proseguite", disse Sussio, "e badate bene di non mancarmi di rispetto." "Sia pure", replicò il Re, "che io debba rispettarvi, per quanto può meritarlo una fata: ma voglio peraltro che mi rendiate la mia Principessa."
"E non son io la tua Principessa, spergiuro?", disse Trotona, mostrandogli l'anello, "A chi l'hai tu dato quest'anello in pegno di fede? Con chi hai parlato alla piccola finestra, se non con me?" "Come mai?", egli rispose, "dunque sono stato tradito... ingannato? No, mille volte no! Non voglio essere la vittima e lo zimbello degli altri. Su, su, ranocchi! miei bravi ranocchi! voglio partir subito." "Non è una cosa che possiate farla senza il permesso mio", disse Sussio. Ella lo toccò, e i suoi piedi si attaccarono all'impiantito, come se ci fossero rimasti inchiodati. "Quand'anco mi lapidaste", le disse il Re, "quand'anche mi scorticaste vivo, non sarò mai d'altri che di Fiorina; la mia risoluzione è presa, e fate pure di me quello che più vi piace." Sussio messe in opera tutto, dolcezze, maniere, promesse, preghiere; Trotona pianse, strillò, singhiozzò, andò in convulsioni, e si calmò. Il Re non aprì più bocca, e guardandole tutte e due con grandissimo disprezzo, non rispose sillaba alle loro cicalate. E così arono venti giorni e venti notti, senza che le due donne si chetassero un minuto, e senza che sentissero il bisogno di mangiare, di dormire e di mettersi a sedere. Alla fine Sussio, stanca morta da non poterne più, disse al Re: "Ebbene, voi siete un ostinataccio, né c'è verso di farvi intendere la ragione: scegliete dunque: o sett'anni di penitenza, per aver dato la vostra parola senza mantenerla, o sposare la mia figlioccia". Il Re, che fin allora aveva serbato un profondo silenzio, gridò subito: "Fate di me tutto quel che volete, purché io sia liberato da questa sguaiata". "Sguaiato voi", replicò Trotona inviperita. "Ci vuol davvero una bella faccia fresca, come la vostra, sovranuccio da un soldo la serqua, a venire con un equipaggio da ranocchiai fino nel mio paese, per dirmi delle insolenze e per mancarmi di parola. Se aveste un brindello d'onore, terreste forse questo contegno?"
"I vostri rimproveri mi straziano l'anima" disse il Re, in atto di canzonatura. "Capisco anch'io che ho un gran torto a non sposare questa bella fanciulla!" "No, no, non la sposerai mai", gridò Sussio tutta stizzita. "A te non rimane altre che volare da questa finestra, perché per sett'anni interi tu sarai l'uccello turchino." A queste parole il Re cominciò a cambiare d'aspetto; le braccia si vestono di penne e formano le due ali: le gambe e i piedi diventano neri e sottili; gli crescono delle unghie appuntate; il corpo si assottiglia e si cuopre tutto di lunghe piume finissime e macchiate di turchino; gli occhi si fanno tondi e brillano come due soli; il naso ha preso il garbo di un becco d'avorio; sul suo capo spunta un ciuffetto bianco, in forma di diadema; canta da innamorare e parla nello stesso modo. Ridotto in quello stato, manda un grido di dolore nel vedersi così trasfigurato e, pigliando il volo a ali spiegate, fugge dal funesto palazzo di Sussio. Pieno l'anima di tristezza infinita, va svolazzando di ramo in ramo, scegliendo a preferenza gli alberi consacrati all'amore o alla malinconia; e ora si posa sui mirti, ora sui cipressi: e canta delle arie pietose, colle quali piange sulla sua trista sorte e su quella di Fiorina. "Dove l'avranno nascosta i suoi nemici?", egli diceva, "che sarà mai accaduto di quella bella infelice? Il cuore spietato della Regina l'avrà lasciata ancora in vita? Dove potrò cercarla? E sarò dunque condannato a are sette anni senza di lei? Forse in questo tempo le daranno uno sposo, e io perderò per sempre l'unica speranza che mi faccia cara la vita." Questi pensieri accuoravano così forte l'uccello turchino, che gli venne voglia di lasciarsi morire. Intanto la Sussio aveva rimandato Trotona dalla Regina madre, la quale stava in gran pensiero sul come fosse andato a finire lo sposalizio. Ma quando vide la figlia, e che riseppe da lei tutto l'accaduto, prese una furia spaventosa, la quale di contraccolpo andò a ricascare sulla povera Fiorina. "Voglio", ella disse, "che abbia da pentirsi più di una volta di aver saputo innamorare il Re Grazioso."
Ella salì nella torre insieme con Trotona, la quale era vestita de' suoi abiti più sfarzosi: e portava in capo una corona di brillanti e le reggevano lo strascico del manto reale tre figli de' più ricchi baroni dello Stato. Nel dito grosso aveva l'anello del Re Grazioso, quello stesso che aveva dato nell'occhio a Fiorina, il giorno che parlarono insieme. Ella rimase sbalordita e non sapeva cosa pensare, nel vedere Trotona in tutta quella gala. "Ecco mia figlia", disse la Regina, "che è venuta a portarvi i regali delle sue nozze; essa è stata sposa del Re Grazioso, il quale ne è innamorato morto: non c'è da figurarsi una coppia più felice di loro!..." E nel dir così, furono spiegate davanti alla Principessa le stoffe d'oro e d'argento, le trine, i nastri, le pietre preziose che stavano in una gran cesta di filigrana d'oro. Nel presentarla di tutte queste cose, Trotona s'ingegnò di metterle sott'occhio l'anello del Re; per cui la Principessa Fiorina non poteva ormai più dubitare della sua disgrazia. Ella gridò con l'accento della disperazione che le togliessero davanti agli occhi tutti quei regali tanto funesti; che non voleva più vestire, altro che di nero; o piuttosto morire subito. E cadde svenuta. La crudele Regina, contentissima del tiro fatto, non volle che le fosse prestato alcun soccorso; la lasciò sola in quello stato comionevole, e corse malignamente a raccontare al Re che sua figlia era talmente invasata dall'amore, fino al segno di commettere delle stravaganze senz'esempio: e che bisognava stare attenti, perché non potesse fuggire dalla torre. Il Re rispose che era padrona di regolare questa faccenda a modo suo, e che, quanto a lui, non avrebbe avuto nulla da ridire in contrario. Quando la Principessa si fu riavuta dallo svenimento e poté ripensare al contegno, che tenevano con lei, ai mali trattamenti che riceveva dall'indegna matrigna e alla speranza perduta per sempre di sposare il Re Grazioso, il suo dolore si fece così acuto, che pianse tutta la notte: e affacciatasi alla finestra, si sfogò in lamenti che straziavano il cuore. Quando vide albeggiare, richiuse la finestra e seguitò a piangere. La notte di poi aprì la finestra, e sospirando e singhiozzando versò un fiume di lagrime; ma appena fatto giorno tornò a nascondersi nella sua stanza.
Intanto il Re Grazioso, o per meglio dire, il bell'uccello turchino, non finiva mai di svolazzare intorno al palazzo: egli pensava che la sua cara Principessa vi era rinchiusa: e se i lamenti di lei erano strazianti, i suoi non lo erano di meno. Egli si avvicinava alle finestre più che poteva, per metter gli occhi dentro alle stanze: ma la paura che Trotona non lo scorgesse e non le nascesse il sospetto che fosse lui, lo teneva indietro dal fare quanto avrebbe voluto. "Ci va della mia vita", diceva egli fra sé, "e se quelle due versiere mi scuoprissero, sarebbero capaci di qualunque vendetta; e così bisognerebbe o che io mi allontanassi di qui o che mettessi a repentaglio i miei giorni." Questi ragionamenti lo persuasero a pigliare tutte le precauzioni immaginabili, e, per il solito, cantava soltanto di notte. Rimpetto alla finestra, dove stava Fiorina, c'era un cipresso di una grandezza maravigliosa: l'uccello turchino venne a posarvisi sopra. Appena si fu posato, sentì una voce che si lamentava in questo modo: "Dovrò ancora soffrire per molto tempo? e la morte non verrà a liberarmi da queste pene? Quelli che hanno paura della morte, se la vedono arrivare anche troppo presto: io la desidero, e la crudele mi sfugge. Ah! Regina senza cuore! che t'ho io fatto per tenermi così iniquamente imprigionata? Non puoi inventare altri modi per martoriarmi? Oramai non ti manca altro che farmi vedere coi propri miei occhi, la felicità che gode la sua indegna figlia col Re Grazioso". L'uccello turchino non aveva perso una sillaba di questo lamento: ne rimase stupito, e aspettò con una smania indicibile che il sole si levasse, per vedere la donna che si disperava tanto. Ma quando il sole si levò, ella aveva già richiusa la finestra, e s'era ritirata. L'uccello, curioso, fu puntuale a tornare la sera dopo. Era chiaro di luna. E vide una fanciulla alla finestra della torre, che ricominciava la storia de' suoi affanni. "Oh, sorte, sorte!", diceva essa, "tu che mi cullasti nella speranza d'un trono: tu che mi avevi reso l'amore del padre mio, che t'ho mai fatto, per dovermi sommergere in quest'oceano di grandi amarezze? È proprio scritto che si debba cominciare fin da un'età così giovane, come la mia, a provare la tua incostanza? Ritorna, o barbara, ritorna da me: io non ti domando che una grazia sola; poni fine al mio spietato destino."
L'uccello turchino stava tutto in orecchi, e più ascoltava, più si persuadeva che la donna che lamentavasi a quel modo, doveva essere la sua graziosa Principessa. E le disse: "Adorata Fiorina, maraviglia de' nostri giorni, perché volete por fine così repentinamente ai vostri? C'è sempre speranza di trovare un rimedio alle vostre afflizioni". "Come?... chi è che mi volge queste parole di consolazione?" diss'ella. "Un Re infelice", rispose l'uccello, "il quale vi ama e non amerà che voi sola." "Un Re che mi ama?", ella soggiunse, "non sarebbe per caso un laccio teso da' miei nemici? Ma, in fin dei conti, che cosa ci guadagnerebbe la Regina? Se ella vuol conoscere i miei sentimenti, son pronta a dirglieli colla mia stessa bocca." "No, Principessa mia", rispose l'uccello, "l'amante che vi parla non è capace di un tradimento." Nel dir queste parole, andò a posarsi sulla finestra. Fiorina dapprincipio ebbe una gran paura di un uccello così singolare, che parlava con tant'anima, come se fosse un uomo, sebbene avesse una vocina compagna a quella dell'usignolo; ma la bellezza delle sue penne, e più che altro le cose gentili che le disse, la rassicurarono. "M'è egli dunque concesso di potervi rivedere, Principessa mia?", esclamò. "Posso io bearmi in tanta contentezza, senza morire di gioia? Ma, ohimè! quanto questa gioia è avvelenata dal vedervi costì in prigione, e dallo stato, nel quale l'iniqua Sussio mi ha trasfigurito per sette anni!" "E voi chi siete, grazioso uccello?", disse la Principessa, facendogli delle carezze. "Voi avete pronunziato il mio nome", soggiunse il Re, "e fate finta di non riconoscermi?" "Come!", disse la Principessa. "Possibile, che il più gran Re del mondo!... possibile che il Re Grazioso si sia cambiato in quest'uccellino?"
"Ohimè! Pur troppo è così, mia bella Fiorina", egli riprese a dire, "e l'unica cosa che in tanta disgrazia mi sia di sollievo, gli è di sapere che ho preferito questo martirio a quello di dover rinunziare alla gran ione che ho per voi." "Per me?", disse Fiorina. "Ah! per carità, non cercate di ingannarmi. Lo so, lo so, che avete sposato Trotona: ho riconosciuto il vostro anello nel suo dito: l'ho veduta tutta fiammante dei vostri brillanti. Essa è venuta a insultarmi qui, in questa orribile prigione, carica del peso di una corona e di un manto reale, avuto in dono da voi, mentre io ero carica di catene e di ferri!..." "E voi vedeste Trotona in questo abbigliamento?", interruppe il Re, "ed essa e sua madre ebbero tanta sfacciataggine da dirvi che tutti quei gioielli erano un regalo mio? Oh cielo! si può essere più sfacciatamente bugiardi di così? E non potermi vendicare come vorrei!... Sappiate dunque che tentarono di mettermi in mezzo: che, valendosi del vostro nome, mi fecero rapire quella brutta megera di Trotona; ma, appena avvistomi dello sbaglio, l'ho piantata lì, e ho preferito piuttosto diventare per sette anni l'uccello turchino, che mancare alla fede che vi ho giurata." Fiorina provava un piacere così grande, udendo parlare in questo modo il suo caro amante, che non sentiva più i tormenti della sua prigionia. Che cosa mai non gli seppe dire per consolarlo del suo tristo caso e per accertarlo che ella avrebbe fatto per lui, ciò che esso aveva fatto per lei? Il giorno cominciava a farsi chiaro. Molti ufficiali della corte erano già alzati: e l'uccello turchino e la Principessa parlavano ancora fitto fitto fra loro. Alla fine si separarono con gran dispiacere, dopo essersi scambiata la promessa che tutte le notti si sarebbero riveduti. La gioia di ritrovarsi insieme fu tanto grande, da non potersi ridire. Ciascuno, per la sua parte, ringraziava l'amore e la fortuna. Intanto Fiorina stava in pensiero per l'uccello turchino. "Chi me lo assicura dai cacciatori, o dalle grinfie di qualche aquila o di qualche avvoltoio affamato, capace di mangiarselo con tanto gusto, come se non fosse un gran Re? Oh Dio! che sarebbe di me, meschina, se le sue penne fini e leggiere, portate dal vento, giungessero fino nel mio carcere per annunziarmi la sciagura, che io temo sempre?"
Questo tristo pensiero fece sì che la Principessa non poté chiudere un occhio; perché, quando si ama davvero, le paure pigliano l'aspetto di verità, e quel che prima pareva impossibile diventa possibilissimo; e fu così, che ella ò tutta la giornata a piangere, finché non venne l'ora fissata per andare a mettersi alla finestra. Il grazioso uccello, nascosto dentro lo spacco d'un albero, in tutto il giorno non aveva fatto altro che pensare alla sua bella Principessa. "Quanto sono contento", diceva egli, "di averla ritrovata: e com'è premurosa per me! Le gentilezze che mi usa, le sento tutte qui nel cuore!" L'apionato amante contava fino al minuto secondo il tempo della sua penitenza, che gli impediva di sposarla; e si struggeva più che mai dal desiderio di veder finita la sua condanna. E perché voleva usare a Fiorina tutte quelle galanterie, che aveva in poter suo di fare, volò fino alla capitale del suo regno, andò nel suo palazzo, entrò nel suo gabinetto dal buco d'un vetro rotto: prese un paio d'orecchini di diamanti, così belli e così perfetti, da non trovarli eguali, e li portò la sera a Fiorina, pregandola di volerseli mettere. "Me li metterei", diss'ella, "se voi mi vedeste di giorno; ma siccome non vi parlo che di notte, così non me li metterò." L'uccello le promise di fare in modo di venire alla Torre nell'ora che ella avesse voluto: allora s'infilò gli orecchini, e arono tutta la notte in colloqui fra loro, come avevano fatto la sera avanti. Il giorno dopo l'uccello tornò nel suo regno: andò al palazzo, entrò nel suo gabinetto per il solito vetro rotto, e portò via con sé i più splendidi braccialetti che si fossero mai visti: erano formati di uno smeraldo tutto di un pezzo, sfaccettato e bucato nel mezzo per potervi are la mano e il braccio. "Credete forse", gli disse la Principessa, "che il mio amore per voi abbia bisogno di essere coltivato a furia di regali? Ah! si vede proprio che mi conoscete male!" "No, o signora", replicò egli, "io non ho mai creduto che i ninnoli che vi offro sieno necessari per conservarmi il bene che mi volete; ma sarei mortificato, se trascurassi la più piccola occasione per mostrarvi l'attenzione che ho per voi: e
poi, quando non mi avete dinanzi agli occhi, questi piccoli gioielli saranno buoni a richiamarmi alla vostra memoria." Fiorina, dal canto suo, gli disse un'infinità di cose gentili, alle quali egli ne rispose mille altre, più gentili che mai. La notte seguente l'uccello turchino si fece un obbligo di portare alla sua bella un orologio, d'una giusta grandezza, che stava dentro a una perla; eppure la materia era vinta dall'eccellenza del lavoro. "È inutile", diss'ella con grazia squisita, "di venirmi a regalare un orologio. Quando voi siete lontano da me, le ore mi paiono eterne: quando siete con me, ano come un sogno. Come posso fare a dar loro una misura giusta?" "Ohimè, Principessa mia", esclamò l'uccello turchino, "io la penso precisamente come voi su questo punto, perché in quanto a sensibilità di cuore son sicuro di non restare indietro a nessuno. Difatti, vedendo quel che soffrite per conservarmi il vostro cuore, sono in grado di giudicare che avete portato l'amicizia e la stima all'estremo limite, dove possono arrivare." Quando appariva il giorno, l'uccello volava dentro lo spacco del suo albero, e li si nutriva di frutti. Qualche volta cantava delle belle ariette: il suo canto innamorava i anti, che lo udivano, senza che potessero vedere alcuno. Così si sparse la voce che lì dintorno ci fossero degli spiriti. E questa credenza si diffuse tanto, che nessuno aveva più coraggio di entrare nel bosco. Si raccontavano mille avventure favolose, accadute in quel luogo: e lo spavento generale fu cagione della maggior sicurezza dell'uccello turchino. Non ava giorno, senza che egli fe un regalo a Fiorina: ora un vezzo di perle: ora anelli con brillanti, di finissimo lavoro: ora fermagli di diamanti, spilloni, mazzolini di pietre preziose, colorite a imitazione dei fiori, libri piacevoli e medaglie: per farla corta, essa aveva messo insieme un ammasso di ricchezze maravigliose. Con queste si adornava soltanto la notte per far piacere al Re: il giorno, non sapendo dove riporle, le nascondeva dentro al saccone del letto. In questo modo scorsero due anni, senza che Fiorina avesse da lagnarsi una sola volta della sua prigionia. E come poteva lagnarsene? Essa aveva la consolazione di parlare tutte le notti con la persona amata; né c'è ricordanza che fra due
innamorati si sieno mai scambiate tante paroline graziose, come accadeva fra loro. Benché ella non vedesse anima viva e l'uccello asse le giornate rinchiuso dentro lo spacco dell'albero, nondimeno avevano sempre mille cose nuove da raccontarsi; la materia era inesauribile, perché il loro cuore e il loro spirito fornivano abbondantemente il soggetto dei lunghi colloqui. Intanto la maliziosa Regina, che la teneva così crudelmente imprigionata, si dava un gran da fare per vedere di maritare la figlia. Mandava ambasciatori a proporla a tutti i principi, dei quali sapeva il nome: ma appena gli ambasciatori arrivavano, si trovavano congedati senza tante cerimonie. "Oh! se si trattasse della Principessa Fiorina", dicevan loro, "sareste ricevuti a braccia aperte: ma in quanto a Trotona, può farsi monaca se vuole; ché nessuno si opporrà dicerto." A sentire questi discorsi, la madre e la figlia andavano su tutte le furie e se la pigliavano contro la povera Principessa, vittima delle loro persecuzioni. "Come!", dicevano esse, "sebbene chiusa in prigione, quest'insolente sarà dunque per noi un bastone fra i piedi? Come perdonarle i brutti tiri, che ci fa tutti i giorni? Bisogna dire che ell'abbia delle corrispondenze segrete nei paesi stranieri: in questo caso, per lo meno, è rea di Stato: trattiamola dunque come tale, e si faccia di tutto per convincerla del suo delitto." Il loro conciliabolo finì così tardi, che era già mezzanotte suonata, quando si decisero a salire nella torre per interrogarla. Essa per l'appunto stava alla finestra, coll'uccello turchino, ornata delle sue gemme, e coi suoi belissimi capelli pettinati con tutta quella attenzione, che non è punto naturale nella persona afflitta da un gran dolore. La sua camera e il suo letto erano seminati di fiori, e qualche pasticca di Spagna, che essa aveva bruciato pochi momenti prima, spandeva per la stanza un buonissimo odore. La Regina messe l'orecchio alla porta, e le parve sentir cantare un'aria a due voci: perché anche Fiorina aveva una voce angelica. Le parole di quest'aria le parvero molto tenere, e dicevano press'a poco così: "Come è trista la nostra sorte: e quanti affanni ci costa il nostro amore!... Ma invano si provano a vincere tanta fermezza: a dispetto dei nostri nemici, i nostri cuori rimarranno uniti per sempre."
Questo piccolo concerto fu chiuso da alcuni sospiri. "Ah! Trotona mia, siamo tradite!" esclamò la Regina spalancando screanzatamente l'uscio ed entrando nella camera. Come restò Fiorina a quella vista! Chiuse subito la finestra, per dar tempo al real uccello di volar via. Le stava più a cuore la salvezza di lui, che la propria: ma egli non ebbe la forza di allontanarsi: col suo sguardo penetrantissimo, aveva capito il pericolo al quale si trovava esposta la Principessa. Egli aveva vista la Regina e Trotona: che dolore per lui di non essere in grado di difendere la sua bella! Le due megere si avventarono su di essa, come se la volessero mangiare. "Si sanno le vostre trame contro lo Stato!", esclamò la Regina. "Non sperate che il vostro grado basti a salvarvi dal meritato castigo." "E con chi posso aver tramato, o signora?" replicò la Principessa. "Da due anni in qua, non siete forse voi la mia carceriera? Ho mai vedute altre persone, fuor di quelle mandatemi da voi?" Mentre parlava così la Regina e sua figlia la guardavano con tanto d'occhi. Erano rimaste abbagliate dalla sua bellezza meravigliosa e dalla sua acconciatura veramente straordinaria. "E chi vi ha dato, o signora", disse la Regina, "tutte codeste pietre preziose, che brillano come il sole? Volete forse darci ad intendere che in questa torre ci sono delle miniere? " "Ce l'ho trovate", disse Fiorina, "è tutto quello che io ne so." La Regina la guardò fissa negli occhi, per iscuoprire ciò che ava nel fondo del suo cuore. "Noi non ci lasceremo infinocchiare da voi", disse la Regina. "Voi credete di darcela a bere: ma noi sappiamo benissimo, Principessa, tutto quello che fate dalla mattina alla sera: e queste gioie vi furono regalate, per mettervi su, e per impegnarvi a vendere il regno di vostro padre." "Davvero, che sono in uno stato da poter vendere i regni!...", essa rispose, con un
sorriso di sdegno. "Una povera Principessa che languisce nei ferri da tanto tempo, è proprio la persona che ci vuole, per macchinare i complotti di Stato." "E come va dunque", replicò la Regina, "che siete così tutta agghindata, come una civettuola, e che la vostra camera è piena di profumi, e che la vostra persona è così magnifica e risplendente, che a Corte non potreste fare una figura migliore?" "Ho molto tempo da perdere", disse la Principessa, "per cui non c'è nulla di strano se ne spendo un poco a farmi bella: ne o tanto a piangere sulla mia disgrazia, che non c'è ragione di rimproverarmi." "Animo, via", disse la Regina, "vediamo un po' se questa innocentina, non abbia per caso qualche corrispondenza coi nemici dello Stato." E da se stessa si mise a frugare dappertutto: e arrivata al saccone, che ella fece vuotare, ci trovò dentro una quantità così sterminata di diamanti, perle, rubini, smeraldi e topazi, che ella non sapeva raccapezzarsi di dove fossero usciti. E perché aveva fissato dentro di sé di mettere in qualche nascondiglio della stanza alcune carte, che potessero compromettere la Principessa, così quando nessuno ci badava, le nascose nel camminetto; ma per buona fortuna l'uccello turchino, dal posto dove s'era posato, ci vedeva meglio di una lince e udiva ogni cosa; per cui gridò: "Guàrdati, Fiorina: ecco la tua nemica che ti prepara un tradimento". Questa voce così inattesa spaventò la Regina a tal punto, che non osò fare quanto aveva meditato. "Vedete bene, signora", disse la Principessa, "che gli spiriti che volano per l'aria, sono tutti per me." "Io credo piuttosto", disse la Regina fuori di sé dalla collera "che ci sieno dei diavoli, che vi vogliono bene: ma, a loro marcio dispetto, vostro padre saprà farsi giustizia." "Dio volesse", esclamò Fiorina, "che io non avessi da temere altro che il furore di mio padre: ma quello che mi spaventa, è il vostro, o signora." La Regina se ne andò via tutta sottosopra per le cose che aveva vedute e sentite,
e tenne consiglio sul da farsi contro la Principessa. Alcuni consiglieri le fecero notare, che, nel caso che qualche fata o qualche mago avessero preso la Principessa sotto la loro protezione, il vero segreto per irritarli sarebbe stato quello di tormentare più che mai la Principessa; e che, in fin dei conti, bisognava scuoprire a ogni costo la ragione del suo armeggìo. La Regina dette il benestare a questo consiglio: e mandò a dormire nella camera della Principessa una giovinetta, che pareva l'innocenza in persona, col dire che c'era mandata apposta per servirla. Ma come restar presi a un chiapperello così grossolano? La Principessa, fin dal primo giorno, la ritenne per una spia e n'ebbe un grandissimo dispiacere. "Come!", essa diceva, "io dunque non potrò più parlare a questo uccello turchino, che è tutto l'amor mio? Era esso, che mi aiutava a sopportare le mie sciagure: e io lo consolava nelle sue. Il nostro amore ci compensava di tutto. Che avverrà di lui? che cosa sarà di me?" E pensando a tutto questo, piangeva come una vite tagliata. Non aveva coraggio di affacciarsi alla finestra, sebbene lo sentisse svolazzare lì dintorno; perché si struggeva dalla voglia di aprirgli, ma temeva di mettere in pericolo la vita del suo caro amante. ò un mese intero, senza che essa si fe vedere: e intanto l'uccello turchino si dava alla disperazione, e piangeva e si lamentava da far pietà! D'altra parte, come poteva fare a vivere, lui, senza la sua Principessa? Non aveva mai provato, come allora, i tormenti della lontananza e quelli della sua metamorfosi. Invano cercava qualche pretesto per consolarsi: dopo essersi lambiccato il cervello, non trovava nulla che valesse a dargli un po' di conforto. La spia della Principessa, che da un mese non chiudeva occhio né giorno né notte, si sentì alla fine così presa dal sonno che si addormentò profondamente. Quando Fiorina se ne accorse, aprì la sua finestrina, e disse:
Uccello turchino, color del cielo, Vola e ritorna subito a me.
Sono queste le sue precise parole, e non c'è stata cambiata una virgola. Appena l'uccello la sentì, volò subito sulla finestra. Che gioia quando si rividero! e quante cose avevano da dirsi! Mille e mille volte ripeterono le loro tenerezze e i loro giuramenti di fedeltà! La Principessa non poté trattenere le lacrime; l'amante s'intenerì, e fece di tutto per consolarla. Venuta finalmente l'ora di lasciarsi, senza che la carceriera sorvegliante si fosse ancora svegliata, si dettero l'addio più tenero e più commovente che possa immaginarsi. La spia si addormentò anche il giorno dopo, e la Principessa, puntuale, andò alla finestra e disse, come la volta avanti:
Uccello turchino, color del cielo, Vola e ritorna subito a me.
E subito l'uccello venne, e quella notte ò come l'altra avanti, senza rumori e senza improvvisate, con grandissima soddisfazione dei nostri amanti; i quali si figurarono che la sorvegliante avrebbe preso tanto gusto a dormire, da poter ripetere la medesima storia tutte le sere. Di fatto, anche la terza sera ò felicemente: ma alla quarta, la dormigliona avendo sentito un po' di rumore, senza dar segno di nulla si pose in orecchio; e guardando bene, vide al chiaro di luna il più bell'uccello dell'universo, che stava a parlare colla Principessa, e la carezzava colle zampine e le dava delle beccatine amorose: e fra le altre, sentì molte di quelle cosine che si dicevano fra loro e ne rimase molto maravigliata, perché l'uccello parlava come se fosse un innamorato, e Fiorina gli rispondeva con grande tenerezza. Sul far del giorno si dissero addio: e quasi il cuore presagisse loro qualche vicina disgrazia, non trovavano il verso di lasciarsi. La Principessa si gettò sul suo letto tutta piangente, e il Re tornò dentro allo spacco dell'albero. La sorvegliante corse dalla Regina, e le raccontò quanto aveva visto e sentito. La Regina mandò a
chiamare Trotona e la sua confidente, e dopo un lungo ciarlare conclo che l'uccello turchino doveva essere il Re Grazioso. "Che vergogna", esclamò la Regina, "che vergogna, figlia mia! questa Principessa insolente, che io credeva rifinita dai dispiaceri, se ne sta godendo tranquillamente gli amorosi colloqui del vostro ingrato! Ah! voglio vendicarmi, e la vendetta dev'essere di quelle da ricordarsene per un pezzo." Trotona la pregò di non perdere neppure un minuto, e siccome in questa faccenda le pareva di essere più interessata della stessa Regina, così sentiva andarsi in deliquio dalla contentezza, soltanto a pensare al martirio che avrebbero dovuto patire i due disgraziati amanti. La Regina rimandò alla torre la spia, con ordine di non dar segni né di sospetto né di curiosità; e anzi, di mostrarsi più addormentata del solito. Infatti andò a letto di prima sera, e russava e russava, tanto che la Principessa, ingannata a quel modo, aprì la finestra e disse:
Uccello turchino, color del cielo, Vola e ritorna subito a me.
Ma invano essa lo chiamò, per quanto fu lunga la notte: ei non comparve mai, perché la trista Regina aveva fatto attaccare ai cipressi delle spade, dei coltelli, dei rasoi, dei pugnali: motivo per cui, quando egli venne a buttarsi a volo su quelle piante, si tagliò i piedi e le ali: e tutto ferito, com'era, arrivò a stento all'albero suo, lasciando dietro a sé una lunga striscia di sangue! Oh! perché, bella Principessa, non eravate presente per soccorrere l'uccello reale? Ma ella sarebbe morta se l'avesse veduto in quello stato da far comione! Fisso nell'idea che questo brutto scherzo gli venisse fatto per colpa di Fiorina, non volle prendere nessuna cura per la sua vita. "Ah spietata!", diceva egli dolorosamente, "è così che ricompensi la ione più
pura e più tenera, che siasi mai data al mondo? Se volevi la mia morte, perché non domandarmela colla tua bocca? La morte, data da te, mi sarebbe stata cara! Con quanto amore e con quante confidenze io veniva a trovarti! Io soffriva per te, e soffriva senza lamentarmi. Come! e avesti cuore di sacrificarmi alla più crudele di tutte le donne? Essa era la nostra comune nemica, e tu hai fatto la pace con essa a spese mie? Sei tu, Fiorina, sei tu che mi ferisci di pugnale! Tu hai preso in prestito la mano di Trotona e l'hai portata fino al mio cuore!" Questi funesti pensieri lo angustiarono tanto, che risolvé di morire. Ma il Mago, suo amico, avendo veduto tornare a casa i ranocchi volanti, col carro, senza avere nessuna notizia del Re, si mise in così gran pensiero che potesse essergli accaduta qualche disgrazia, che fece otto volte il giro della terra per trovarlo; e non lo trovò. Stava per cominciare il nono giro, allorché traversando il bosco, dov'era l'uccello turchino, suonò a distesa il corno, secondo le regole prescritte: e dopo gridò per cinque volte con quanta ne aveva in gola: "Re Grazioso! Re Grazioso, dove siete voi?". Il Re riconobbe la voce del suo migliore amico: "Accostatevi a quest'albero", egli disse "e vedrete lo sventurato Re, al quale volete tanto bene, immerso nel proprio sangue!". Il Mago, sbalordito, guardò da tutte le parti, senza che potesse veder nulla. "Io sono l'uccello turchino", disse il Re con voce sfinita e languente. A queste parole il Mago lo trovò senza fatica nel suo piccolo nido. Chiunque altro fuori di lui si sarebbe maravigliato molto di più: ma egli conosceva tutti gli artifici della magia. Bastarono poche parole che disse, per far cessare il sangue che grondava ancora: e con alcune erbe trovate nel bosco, e sulle quali mormorò alcune formule magiche, guarì il Re così perbene, che pareva non fosse stato nemmeno graffiato. Quindi lo pregò a volergli raccontare per quale avventura era diventato uccello, e chi l'aveva ferito così crudelmente! Il Re contentò la sua curiosità, e gli disse che era Fiorina quella che aveva rivelato il mistero amoroso delle visite segrete che ei le faceva, e che per amicarsi la Regina, ella aveva acconsentito a lasciar mettere fra i rami del cipresso i pugnali e i rasoi, che l'avevano tagliato e fatto quasi a pezzetti: si sfogò
molte volte sull'infedeltà della Principessa e giurò che avrebbe avuto più caro a morire, piuttosto che conoscere un cuore tanto cattivo. Il Mago, si scatenò contro Fiorina e contro tutte le donne, e consigliò il Re a dimenticarla affatto. "Che disgrazia sarebbe la vostra", diss'egli, "se vi ostinaste a voler bene a quell'ingrata! Dopo quello che vi ha fatto, c'è da aspettarsene di tutti i colori." L'uccello turchino, su questo punto, non andava d'accordo perché egli era ancora troppo innamorato di Fiorina: e il Mago, che gli leggeva nel cuore, sebbene fe di tutto per dissimulare i propri sentimenti, gli cantò una canzonetta graziosa che diceva su per giù così: "Quando si ha nell'anima una grande spina, sono inutili i discorsi e i ragionamenti; si dà retta soltanto al nostro dolore e non ai consigli degli altri. Bisogna lasciar fare al tempo, perché per ogni cosa c'è un momento opportuno, e fino a tanto che questo momento non è arrivato, è inutile tormentarsi lo spirito con ingegnosi ripieghi". L'uccello turchino se ne persuase, e pregò l'amico di portarlo a casa sua e di metterlo in una gabbia, dove fosse al sicuro dalle unghie del gatto e da ogni arme pericolosa. Ma saltò su a dire il Mago: "Vi rassegnate dunque a restare ancora per cinque anni in uno stato così comionevole e si poco confacente ai vostri interessi e alla vostra dignità? Perché dovete sapere che avete dei nemici i quali giurano e spergiurano che siete morto e vogliono invadere il vostro regno; e ho una gran paura che questo regno lo dobbiate perdere avanti di aver ripreso le vostre vere sembianze". "Non potrò andare nel mio palazzo", egli replicò, "e governare secondo il solito, come facevo prima?" "Oh!", esclamò l'amico, "è difficile. C'è chi è contento di obbedire a un uomo, ma non intende obbedire a un pappagallo, c'è chi oggi vi teme, perché siete un Re circondato di grandezze e di fasto, e che domani vi strapperebbe le penne, se vi vedesse trasformato in un uccello." "Ah, umana debolezza! oh, prestigio di un brillante esteriore!...", esclamò il Re, "sebbene tu non significhi nulla per il merito e le virtù, non cessi per questo di avere una potenza affascinatrice, dalla quale è difficilissimo difendersi. Ebbene", egli continuò, "mostriamoci filosofi, e disprezziamo quello che non si può avere:
la nostra risoluzione non sarà delle peggiori." "Io non mi do per vinto così alla prima", disse il Mago, "e spero ancora di trovare qualche buon espediente, che faccia al caso nostro." Intanto Fiorina, la povera Fiorina, desolata di non rivedere il Re, ava le giornate e le nottate alla finestra, ripetendo senza tregua:
Uccello turchino, color del cielo, Vola e ritorna subito a me.
La presenza della sorvegliante non le dava più soggezione; la sua disperazione era arrivata a tal punto, che non aveva riguardi per nessuno. "Che n'è stato di voi, Re Grazioso?", esclamava, "forse i nostri comuni nemici vi hanno fatto provare i tristi effetti della loro rabbia? siete forse stato sacrificato al loro furore? Povera me! me meschina! non siete forse più vivo? non potrò dunque rivedervi mai più? Oppure stanco delle mie tante sciagure, m'avete abbandonata alla dura sorte che mi perseguita?" E quante lacrime e quanti singhiozzi tenevano dietro a questi pietosi lamenti! E come le ore parevano eterne, per la lontananza del caro amante! La Principessa abbattuta, malata, divenuta magra e tale da non riconoscersi più da quella di prima, aveva appena tanto fiato da reggersi in piedi. Ella era persuasa che al Re fosse capitata ogni maggior disgrazia che possa darsi sulla terra. La Regina e Trotona gongolavano e il piacere di vedersi vendicate era più forte in loro del dolore provato per l'offesa ricevuta. E alla fin fine, qual era poi questa offesa? Il Re Grazioso non aveva voluto sposare una brutta befana, che doveva essergli antipatica e odiosa per mille ragioni. In questo frattempo il padre di Fiorina, che era in là cogli anni, si ammalò e morì. La fortuna della Regina e della sua figlia allora cambiò d'aspetto; tutti le riguardavano come due imbroglione che avessero abusato del loro ascendente, e il popolo ammutinato corse al palazzo a domandare la Principessa Fiorina,
proclamandola per sua sovrana. La Regina irritata voleva trattare la cosa con grande alterigia; si affacciò al balcone e minacciò i rivoltosi. In quel punto, la sommossa diventa generale: si sfondano le porte del suo quartiere, si saccheggia tutto, e la lasciano morta a sassate. Trotona si rifugiò presso la Sussio, perché correva lo stesso pericolo della madre. I grandi del regno si radunarono subito, e salirono sulla torre dove era la Principessa molto malata. Ella non sapeva nulla né della morte di suo padre, né della brutta fine toccata alla sua nemica. Quando sentì tutto quel rumore credé in buona fede che venissero a prenderla per condurla alla morte. E non ebbe nessuna paura, perché al giorno che aveva perduto l'uccello turchino, la vita per lei era diventata odiosa. Ma i suoi sudditi, gettandosi ai suoi piedi, le dettero a conoscere il cambiamento che era accaduto nella sua fortuna. Ella non se ne fece né in qua né in là. La portarono nel suo palazzo, e lì la incoronarono. Le grandi attenzioni che le furono usate e la ione che aveva di rivedere l'uccello turchino contribuirono molto a farla rimettere in salute e a darle abbastanza forza per nominare un consiglio che avesse cura del regno durante la sua assenza: quindi prese con sé mille milioni di pietre preziose, e una notte se ne partì, tutta sola, senza che alcuno sapesse per dove s'era incamminata. Il Mago, che aveva preso a cuore gli affari del Re Grazioso, non avendo tanto potere da distruggere l'incantesimo che la Sussio aveva fatto, pensò bene di andarla a trovare e proporle qualche accomodamento, per vedere se ella avesse voluto rendere al Re la sua sembianza naturale; e senza mettere tempo in mezzo attaccò i suoi ranocchi e volò dalla fata, la quale in quel momento stava discorrendo con Trotona. Da un mago a una fata non c'è un grande stacco. Essi si conoscevano già da circa seicent'anni, e in questo lasso di tempo erano stati fra loro mille volte amici e mille volte si erano guastati. "Che desidera il mio compare?", ella gli disse. (È questo il nome che si danno tutti, fra di loro.) "Posso esservi utile in qualche cosa che dipenda da me?" "Sì, comare mia", disse il Mago. "Voi potete far tutto per rendermi contento. Si tratta del mio migliore amico: di un Re, che voi avete reso infelice." "Ah! intendo, compare", disse Sussio, "me ne dispiace proprio nell'anima, ma non c'è da sperar grazia per lui, fin tanto che si ostina a non volere sposare la mia
figlioccia: eccola qui bella e fresca, come vedete. Ora tocca a lui a decidersi." Al Mago gli restò la parola in bocca, tanto la ragazza gli parve brutta: nondimeno non trovava il verso di venirsene via senza aver combinato qualcosa, segnatamente perché il Re, dal giorno che era in gabbia, aveva corso mille pericoli. Il chiodo, dove la gabbia stava attaccata, s'era rotto: la gabbia era cascata per terra, e sua maestà, colle penne, nella caduta s'era fatto molto male. Il gatto, che si trovava presente a questo caso, gli dette una graffiata nell'occhio, e ci corse poco non l'accecasse. Un'altra volta s'erano scordati di dargli da bere, ed era già a tocco e non tocco di beccarsi una bella pipita, se per fortuna non giungevano in tempo a salvarlo con alcune gocce d'acqua. Un frugolo di scimmiotto, scappato non si sa di dove, gli pettinò ben bene le penne attraverso i ferri della gabbia, strapazzandolo senza nessun complimento, come se fosse stata una gazza o un merlo. Ma la cosa più triste di tutte era questa: che egli stava a un pelo per perdere il trono, perché i suoi eredi ne inventavano ogni giorno una delle nuove, pur di provare come e qualmente egli fosse morto e morto davvero. Alla fine il Mago combinò con la comare Sussio, che ella condurrebbe Trotona nel palazzo del Re Grazioso, che lì vi resterebbe alcuni mesi, durante i quali il Re doveva prendere una risoluzione circa allo sposarla: e intanto la fata renderebbe al Re la sua figura naturale, salvo sempre a farlo tornare uccello, nel caso che si fosse ostinato a non voler sposare la sua figlioccia. La fata diede a Trotona dei vestiti d'oro e d'argento; quindi la fece montare in groppa, dietro a sé, sopra un drago, e si recarono al regno di Re Grazioso, il quale vi giungeva, anche lui, in quello stesso punto insieme al Mago suo amico. Con tre colpi di bacchetta, egli ritornò quello stesso che era stato prima, bello, amabile, spiritoso, magnifico: ma gli costava salata questa diminuzione di penitenza, perché il solo pensiero di sposare Trotona gli metteva i brividi addosso. Il Mago aveva un bel persuadere colle migliori ragioni di questo mondo: ma tutti i suoi discorsi lasciavano il tempo com'era! Il Re si dava meno pensiero delle cure di Stato, che di trovare ogni ammennicolo per mandare in lungo il termine fissato dalla Sussio per le nozze con Trotona. Intanto la Regina Fiorina, coi capelli tutti sciolti e arruffati apposta per
nascondersi il viso, con un cappello di paglia in capo e con un sacco di tela sulle spalle cominciò il suo viaggio un po' a piedi e un po' a cavallo, ora per mare, ora per terra. Faceva dappertutto le più minute ricerche: ma non sapendo con certezza che strada prendere, temeva sempre di andare da una parte, mentre il suo Re pigliava da quell'altra. Un giorno, essendosi fermata sull'orlo d'una fontana le cui acque cristalline rimbalzavano sopra un letto di sassolini minutissimi, le venne voglia di lavarsi i piedi. Si sedé sull'erba, e raccolti e fermati i capelli con un nastro, tuffò i piedi dentro l'acqua. A vederla, c'era da scambiarla con Diana che si bagna di ritorno dalla caccia. In quel mentre ò di lì una vecchierella, tutta ripiegata, la quale si appoggiava a un grosso bastone: si fermò, e le disse: "Che fate costì, mia bella figliuola? Mi fa male a vedervi sola così!". "Non son sola, mia buona nonna", rispose la Regina, "sono invece in numerosa compagnia, perché ho qui con me un mondo di disinganni, d'inquietudini e di dispiaceri." E nel dir così, i suoi occhi si empirono di pianto. "Come? così giovine, e piangete!", disse la buona vecchina. "Animo, figlia mia, non vi date alla disperazione. Raccontatemi sinceramente quello che avete, e spero di consolarvi." La Regina non se lo fece dire due volte: le raccontò le sue disgrazie, la parte che in tutta questa faccenda vi aveva avuto la Sussio, e finalmente le disse che andava in cerca dell'uccello turchino. La vecchierella si rizza sulla persona, piglia un altro contegno, cambia improvvisamente di figura e apparisce giovine, bella, magnificamente vestita: poi guardando la Regina con un grazioso sorriso: "Incomparabile Fiorina", le dice, "il Re che voi cercate non è più uccello: mia sorella Sussio gli ha rese le sue prime sembianze: e ora trovasi nel suo regno. Non state a tormentarvi più: perché voi arriverete a veder coronate le vostre speranze. Eccovi quattro uova: nei grandi bisogni della vita le romperete, e ci troverete dentro delle cose che vi saranno di un grande aiuto". Detto questo, sparì. Fiorina si sentì rinascere a queste parole; ripose le uova nel
sacco, e s'incamminò verso il regno di Grazioso. Dopo aver camminato otto giorni e otto notti, giunse a piè di una montagna d'un'altezza prodigiosa, tutta quanta d'avorio e così tagliata a picco, che non c'era verso di arrampicarcisi sopra, senza cadere. Ella fece mille sforzi inutili: sdrucciolava, si affaticava; finché, disperata di vedersi di fronte un ostacolo insormontabile, andò a sdraiarsi appiè della montagna, colla ferma risoluzione di lasciarsi morire; quand'ecco che si ricordò degli uovi avuti dalla fata. Ne prese uno e disse: "Vediamo un po', se promettendomi i soccorsi de' quali avessi avuto bisogna, si fosse burlata di me". Appena rotto l'uovo, vennero fuori alcuni piccoli ganci d'oro, che ella si attaccò ai piedi e alle mani. E con l'aiuto di questi poté salire senza fatica sulla montagna d'avorio; perché i ganci facevano presa, e le impedivano di sdrucciolare in basso. Quando fu sulla vetta, ecco nuove difficoltà per incominciare a calare al piano: perché tutta la vallata non era altro che un grandissimo specchio di cristallo. Vi erano lì dintorno più di sessantamila donne, che si miravano in esso con grandissimo diletto, perché bisogna sapere che lo specchio aveva dieci chilometri di larghezza e venti di lunghezza. Ciascuna vi si vedeva riflessa secondo il suo desiderio: quella di capelli rossi appariva bionda: la vecchia si vedeva giovine: la giovine pareva anche più giovine; in una parola, questo specchio nascondeva così bene i difetti, che le donne correvano a specchiarvisi dalle cinque parti del mondo. Bisogna aver visto le smorfie e i bocchini tondi, che facevano la maggior parte di quelle civettuole; c'era da scoppiar dalle risa. E non per questo gli uomini ci si affollavano in minor numero: perché lo specchio faceva un gran comodo anche a loro. A chi regalava bellissimi capelli: a chi un personale alto ed elegante, o una cert'aria marziale, o una fisionomia simpatica e bella. Essi ridevano delle donne e le donne non se ne stavano dal ridere alle loro spalle: per cui la montagna veniva chiamata con molti nomi differenti. Nessuno era stato mai capace di toccarne la cima: e quando vi scorsero Fiorina, le donne si messero tutte a strillare come tante calandre: "Dove va mai quella sfacciata?", dicevano esse. "Quella lì dev'essere tanto
imprudente, da mettere i piedi anche sul nostro specchio. Vedrete che dopo pochi i, ce lo manderà in bricioli." E così facevano un diavoleto da cavar di cervello. La Regina non sapeva come fare, perché vedeva un gran pericolo nel dovere scendere da quella altezza: allora ruppe un altr'ovo, dal quale uscirono fuori due piccioni e un cocchio, che tutt'a un tratto diventò tanto grande, da poterci entrar dentro comodamente: e in questo modo i piccioni con molta leggerezza calarono giù al basso la Regina, senza che accadesse nulla di male. Ella disse ai suoi bravi piccioni: "Miei piccoli amici, se voi sarete tanto cortesi di portarmi fino sul posto dove il Re Grazioso tiene la sua corte, non troverete in me un'ingrata". I piccioni, cortesi e obbedienti, volarono giorno e notte finché non furono arrivati alle porte della città. Così Fiorina smontò, e diede a ciascuno di essi un dolcissimo bacio, che costava più di una corona reale. Oh, come le batteva il cuore, mettendo il piede in città! Per non essere riconosciuta, si insudiciò il viso; e chiese a quelli che avano per la strada, dove avrebbe potuto vedere il Re. Alcuni si messero a ridere. "Vedere il Re?", le dicevano, "davvero eh! e che vuoi tu da lui, mio bel Musosudicio? Vai, vai piuttosto a lavarti: perché i tuoi occhi non sono degni di vedere un gran monarca a quel modo." La Regina non rispose: si allontanò pian piano: e tornò daccapo a domandare a quelli che incontrava, dove avrebbe potuto mettersi per vedere il Re. "Domani deve venire al tempio con la Principessa Trotona", le risposero, "perché finalmente ha consentito di sposarla." "Cielo, quale notizia! Trotona, l'indegna Trotona sul punto di sposare il Re!", Fiorina credette di morire e non aveva più fiato né per parlare né per andare avanti. Entrò sotto una porta, e sedutasi sopra una pietra, col viso coperto dai capelli e dal suo cappello di paglia, cominciò a dire: "Sfortunata che io sono! Eccomi venuta qui per far più bello il trionfo della mia rivale e per vedere coi miei occhi la sua contentezza! Fu dunque a cagione di lei,
che l'uccello turchino non venne più a vedermi? Era dunque per quella brutta strega, che mi faceva la più nera di tutte le infedeltà, mentre io, rifinita dal dolore, mi logorava dalla ione per la conservazione dei suoi giorni? Il traditore s'era cambiato... Ricordandosi di me, come se non m'avesse visto mai, lasciava che io mi struggessi per la sua lontananza, senza darsi punto pensiero della mia!...". Quando si ha il cuore grosso dai dispiaceri, è raro che si senta il bisogno di mangiare. La Regina cercò un po' di albergo: e si coricò, senza prendere un boccone. Si alzò col sole e corse al tempio; ma prima di poterci entrare dové subire molte manieracce dalle guardie e dai soldati. Vide il trono del Re e quello di Trotona, che era già considerata come Regina. Che dolore per un'anima sensibile e apionata, come quella di Fiorina! Si avvicinò al trono della sua rivale, e lì stette in piedi, appoggiata a una colonna di marmo. Il Re arrivò il primo, più bello e più amabile di quello che fosse stato mai in tutta la vita. Trotona venne dopo, vestita con gran magnificenza, ma brutta da far paura. Ella guardò la Regina con un certo cipiglio "E chi sei tu", le disse, "che ardisci di avvicinarti alla mia augusta persona e al mio trono d'oro?" "Io mi chiamo Viso-sudicio", diss'ella, "son venuta di lontano per vendervi delle cose rare." E cominciò a frugare nel suo sacco di tela, e tirò fuori i braccialetti di smeraldo che il Re Grazioso le aveva regalati. "Oh! oh!", esclamò Trotona, "carini codesti pezzi di bicchiere; me li vendi per cinque soldi?" "Fateli prima vedere a chi se ne intende, o signora, e poi sul prezzo ci accomoderemo." Trotona, che amava il Re con maggior tenerezza di quel che poteva attendersi da quella foca, e non le pareva vero di trovare delle occasioni per parlargli, si avanzò fino al trono di lui e gli mostrò i braccialetti, pregandolo a dire il suo sentimento. Alla vista di quei braccialetti, egli si ricordò di quelli che aveva dato a Fiorina: diventò bianco, sospirò, e stette per un po' di tempo senza rispondere: alla fine, temendo di far vedere il turbamento dell'animo, fece su di sé un grande sforzo e rispose: "Questi braccialetti, secondo me, valgono quanto tutto il mio regno: credevo che
nel nondo ve ne fosse un paio solo; ma ora vedo che ce ne sono degli altri". Trotona tornò sul suo trono, dove ci faceva la figura di un'ostrica attaccata al suo guscio; e chiese alla Regina quanto, senza rubare, avrebbe preteso de' suoi braccialetti. "Se doveste pagarmeli, o signora, vi sarebbe d'un grande scomodo: vi propongo piuttosto un altro patto. Ottenetemi il favore di dormire una notte nella sala degli Echi, che è nel palazzo del Re, e io vi cedo gli smeraldi." "Magari, Viso-sudicio!", disse Trotona, buttandosi via dalle risate come una sguaiata, e mostrando certi denti più lunghi di quelli d'un cinghiale. Il Re non si dette pensiero di sapere di dove venivano quei braccialetti, un po' perché gli era indifferente la venditrice (che non destava davvero nessuna curiosità), ma segnatamente per il disgusto invincibile che provava a discorrere con Trotona. Ora bisogna sapere, che in quel tempo che egli era sempre uccello turchino, una tal volta gli era venuto fatto di raccontare alla Principessa come proprio sotto al suo quartiere reale c'era una piccola sala che si chiamava la sala degli Echi; costruita in un modo così ingegnoso, che tutto ciò che vi si diceva sottovoce, era sentito benissimo dal Re quando si trovava a letto nella sua camera; per cui Fiorina non poteva immaginare un miglior mezzo di questo, per potergli rimproverare la sua infedeltà. Per ordine di Trotona la condussero nella sala degli Echi, dov'ella dette principio ai suoi lamenti e ai suoi rimproveri così: "La sciagura, alla quale non voleva credere, pur troppo è certa, barbaro uccello turchino! tu ti sei scordato di me: tu ami la mia indegna rivale. I braccialetti, che ebbi dalla tua mano reale, non furono capaci di richiamarmi alla tua memoria: tanto io sono lontana dal tuo pensiero!". E qui i singhiozzi le tolsero la parola: quand'essa riebbe fiato da parlare, ricominciò daccapo e continuò fino alla mattina. I camerieri, avendola sentita piangere e sospirare tutta la notte, andarono a raccontarlo a Trotona: la quale le domandò la ragione di tutto il lamentìo che aveva fatto. La Regina rispose che aveva dormito profondamente e che dormendo le accadeva per il solito di sognare e di parlare a voce alta. Quanto al Re, per una strana fatalità non aveva sentito nulla: e questo derivava,
perché dal giorno che incominciò la sua ione per Fiorina, aveva perduti i sonni; e quando la sera andava a letto, gli davano dell'oppio per farlo riposare. La Regina ò una gran parte del giorno così inquieta, da non potersi dir quanto. "Se mi ha sentito", diceva fra sé, "come si può dare al mondo un'indifferenza più atroce della sua? Se poi non mi ha sentito, in qual altro modo potrò far giungere la mia voce fino a lui?" Gioielli e cose d'arte veramente rare e straordinarie non ne aveva più: perché le pietre preziose sono sempre belle, ma ci bisognava qualcosa che sapesse stuzzicare il gusto di Trotona. Allora ricorse ai suoi uovi e ne ruppe uno. Ecco che scappò subito fuori una carrozzina d'acciaio lustro, tutta ornata di fregi d'oro in rilievo; alla carrozzina erano attaccati sei sorci verdi, guidati da un grosso topo color di rosa, mentre il battistrada, anch'esso della famiglia topesca, era d'una bella tinta grigio-perla. Dentro alla carrozza c'erano quattro marionette più vispe e più graziose di quelle che si vedono sui teatrini alle grandi fiere di Padova e di Sinigaglia, e facevano delle cose molto sorprendenti, in specie due piccole egiziane, le quali ballavano la sarabanda e il minuetto meglio di tutte le ballerine della Pergola e della Scala. La Regina rimase a bocca aperta a vedere questo capolavoro dell'arte negromantica: ma non fece motto fino alla sera, che era l'ora che Trotona andava alla eggiata. Allora si mise in un viale a far galoppare i suoi sorci che tiravano la carrozza, gli altri topi e le marionette. Questa novità fece tanta meraviglia a Trotona, che cominciò a gridare: "Viso-sudicio! ehi, Viso-sudicio! li vuoi cinque soldi per la tua carrozza e per il tuo equipaggio topinesco?". "Domandate ai letterati e ai sapienti di questo regno", disse Fiorina "che cosa può valere una meraviglia simile, e io me ne starò al parere del più capace fra loro." Trotona, prepotente in ogni cosa, rispose: "Non mi star più a stomacare colla tua sudicia presenza; dimmi il prezzo, e finiscila". "Dormire ancora un'altra volta nella sala degli Echi", disse Fiorina, "ecco tutto quello che vi domando." "Va', povera bestia", replicò Trotona, "non ti sarà negato." E voltandosi alle sue
dame, disse: "Questa stupida creatura non sa ricavare nessun guadagno dalla vendita di tante belle rarità!". Venne la notte. Fiorina disse tutto quello che si può immaginare di più tenero e di apionato, ma fu lo stesso che dirlo al muro, come la notte avanti, perché il Re non lasciava mai di prendere la sua solita bevanda coll'oppio. I camerieri dicevano fra loro: "Questa campagnola, non c'è caso, dev'esser grulla: che cos'è tutto questo cicalìo che fa la notte?". "Peraltro", osservavano alcuni, "nelle cose che dice, c'è del buon senso e della ione." Fiorina aspettò colla febbre addosso che venisse il giorno, per vedere l'effetto prodotto da' suoi discorsi. "Pur troppo", essa diceva, "questo spietato è diventato sordo alla mia voce! Non riconosce più la voce della sua cara Fiorina? Ah! che vergogna, ostinarsi ancora a volergli bene! Egli mi disprezza, e me lo merito. Sì, mi sta bene." Però tutti questi ragionamenti tornavano inutili. Ella non poteva guarire della sua ione. Nel sacco non le rimaneva che un solo uovo, dal quale potesse sperare qualche soccorso. Lo ruppe e ne uscì fuori un pasticcio di sei uccelli lardellati, cotti e benissimo rosolati; eppure, con tutto questo, cantavano da innamorare, predicavano la buona ventura e sapevano di medicina meglio di Esculapio. La Regina restò stupita di una cosa tanto meravigliosa, e se ne andò col suo pasticcio parlante nell'anticamera di Trotona. Mentr'essa aspettava di poter are, uno de' camerieri le si avvicinò e le disse: "Ma non sapete, mio bel Viso-sudicio, che se il Re non pigliasse l'oppio per dormire, voi lo cavereste di cervello con tutto il chiacchierio che fate nella notte?". Fiorina allora capì subito la ragione perché il Re non l'aveva udita, e disse al cameriere:
"Sono tanto sicura di non disturbare i sonni del Re, che stasera, nel caso che io dorma nella sala degli Echi, se non gli darete nemmeno una goccia d'oppio, tutte queste perle e diamanti saranno per voi". Il cameriere accettò e dette la sua parola. Dopo pochi minuti arrivò Trotona e vide la Regina che faceva finta di voler mangiare il suo pasticcio. "Che cosa fai costì, Viso-sudicio?" le disse. "Signora", rispose Fiorina, "son qui che mangio astrologhi, musici e dottori di medicina." In quello stesso momento gli uccelli cominciarono a cantare dolcemente, come tante sirene; poi gridavano: "Buttateci una piccola moneta d'argento e vi diremo la buona ventura", Un anatrotto, che torreggiava sugli altri, disse più forte di tutti: "Qua, qua, qua, qua; io sono medico, io guarisco la gente da tutti i mali e da tutte le pazzie, fuori che da quella d'amore". Trotona sbalordita da questo portento non veduto mai in vita sua, gridò, sagrando come un vetturino: "Affeddìo, che bel pasticcio! Lo voglio per me. Qua, Visosudicio: quanto ne chiedi?". "Il solito prezzo", ella disse, "dormire nella sala degli Echi, e nient'altro." "Sta bene, e ti voglio dar per giunta anche questa moneta", disse Trotona, fuor di sé dall'allegrezza di avere avuto il pasticcio. Fiorina se ne va via ringraziando, tutta contenta per la speranza che questa volta il Re avrebbe sentita la sua voce. Appena venne la notte, ella si fece condurre nella sala degli Echi, colla ione che la struggeva che il cameriere mantenesse la parola e che, invece di dare al Re il solito oppio, gli mettesse innanzi qualche altra bevanda da tenerlo desto; quando poté figurarsi che tutti dormissero, ella ricominciò i suoi pietosi lamenti: "A quanto pericolo non sono io andata incontro", ella diceva, "per venirti a cercare, mentre tu mi fuggi e vuoi sposare Trotona! Che t'ho io fatto, crudele, per scordarti così i tuoi giuramenti? Rammentati almeno qualche volta della tua
metamorfosi, del mio amore e dei nostri teneri colloqui!". Ella ripeté questi colloqui a uno a uno, e con tanta fedeltà di memoria, da far vedere che per lei non c'era altra cosa al mondo che le fosse più cara di questi ricordi. Il Re non dormiva punto, e sentiva così distintamente la voce di Fiorina e tutte le sue parole, che non sapeva raccapezzarsi da dove venissero: ma il suo cuore, teneramente commosso, gli fece ricordare così al vivo l'immagine della sua incomparabile Principessa, che nel trovarsi ora diviso da lei sentì il medesimo dolore di quando i coltelli lo ferirono fra i rami del cipresso. E anch'esso si mise a parlare sullo stesso tono della Regina, e disse: "Ah! Principessa troppo crudele per un amante che vi adorava! com'è egli mai possibile che mi abbiate sacrificato ai nostri comuni nemici?...". Fiorina udì le cose che il Re diceva, e non si stette dal rispondergli e dal fargli sapere che s'egli avesse voluto degnarsi di chiamare presso di sé Viso-sudicio, avrebbe potuto aver la spiegazione di tanti misteri, fin allora inesplicabili per lui. A queste parole il Re, impaziente, chiamò uno dei suoi camerieri, e gli disse se fosse stato possibile di trovargli subito Viso-sudicio e di condurgliela lì. Il cameriere rispose che la cosa poteva farsi in un batter d'occhio, perché Visosudicio era a dormire nella sala degli Echi. Il Re non sapeva che cosa si pensare. Come poteva mai figurarsi che una sì gran Regina, come Fiorina, potesse trovarsi trasfigurata a quel modo? E come credere che Viso-sudicio avesse la voce della Regina e conoscesse tutti i suoi segreti più intimi, se ella non fosse stata la Regina stessa? Tormentato da questi sospetti si alzò dal letto, si vestì in fretta e furia, e per una scaletta segreta scese nella sala degli Echi. La Regina aveva levata la chiave: ma il Re ne aveva una che apriva tutte le porte del palazzo. La trovò vestita con una veste leggerissima di seta bianca, che essa era solita portare sotto i suoi panni sudici e strappati; i suoi bellissimi capelli le scendevano per le spalle; era distesa sopra un canapè, e una lampada, in lontananza, mandava all'intorno un pallido sbattimento di luce. Il Re entrò dentro all'improvviso; e la ione dell'amore vincendo tutti i suoi risentimenti, appena l'ebbe riconosciuta, andò a gettarsi a' suoi piedi, le bagnò le mani del suo pianto e credette di morire di gioia, di dolore e di mille pensieri diversi che, tutti in una
volta, gli si affollarono alla memoria. La Regina non fu meno commossa di lui; ed ebbe una tal serratura al cuore, che sentiva mancarsi il respiro. Ella guardava fisso fisso il Re, senza dir parola; e quand'ebbe la forza di poter parlare, non ebbe quella per fargli dei rimproveri. La gran contentezza di rivederlo le fece dimenticare per un momento tutte le ragioni, che essa credeva fondatissime, di lagnarsi di lui. Alla fine ogni cosa venne in chiaro, tutti e due a vicenda si trovarono giustificati; il loro amore riprese al disopra, e l'unica spina, che ormai li tormentasse, era la fata Sussio. Ma in questo frattempo giunse il Mago, grande amico del Re, in compagnia d'una famosa fata, la quale era appunto quella che aveva dato le quattro uova a Fiorina. Scambiati i primi complimenti d'uso, il mago e la fata dissero chiaro e tondo che essendosi trovati d'accordo a riunire i loro poteri in favore del Re e della Regina, la fata Sussio non poteva far altro che un bel nulla contro di essi; e che per conseguenza non c'erano più ostacoli per mandare in lungo le loro nozze. Ci vuol poco a figurarsi l'allegrezza dei due giovani amanti. Appena si fece giorno, la voce si sparse per il palazzo, e tutti furono contenti di vedere la bella Fiorina. Il rumore di questa notizia essendo arrivato fino agli orecchi di Trotona, questa corse subito dal Re: e come rimase brutta, quando gli vide al fianco la sua odiata rivale! Mentre stava per aprir bocca e per dir loro un sacco di vituperi, il mago e la fata la trasformarono in una maiala, perché così le rimanesse un poco della sua fisionomia e del suo brutto vizio di grugnire. Ella fuggì via, grugnendo sempre fin giù nel cortile, dove fu accolta da uno scoppio di risate, che la messero all'ultima disperazione. Il Re Grazioso e la Regina Fiorina, liberati finalmente dalla presenza di una così odiosa persona, non pensarono più che a festeggiare le loro nozze: le quali spiccarono per buon gusto e magnificenza: e c'è da immaginarsi facilmente la felicità dei due sposi, dopo tanti dispiaceri e tante traversie.
Domandatelo al Re Grazioso, ed egli vi risponderà: meglio diventare uccelli turchini, corvi e anche anatre palustri, piuttosto che sposare una Trotona, alla quale non si voglia bene. Peccato che non si trovi sempre un mago o una fata per mandare a monte tanti matrimoni, dove l'amore non c'entra per nulla!
La Gatta Bianca
C'era una volta un Re il quale aveva tre figli: tre pezzi di giovanotti forti e coraggiosi; ed egli si era messo paura che volessero salire sul trono prima della sua morte: tanto più, che stando a certe voci che correvano, i suoi figli cercavano dappertutto di farsi dei partigiani per impadronirsi del regno. Il Re cominciava a essere un po' in là cogli anni, ma essendo ancora verde di spirito e sano di mente, non se la sentiva punto di cedere loro un posto, occupato da lui con tanta dignità. Pensò, dunque, che il miglior partito per vivere tranquillo fosse quello di tenerli a bocca dolce a furia di promesse, che egli avrebbe saputo sempre deludere e mandare in fumo. Li chiamò nel suo gabinetto, e dopo aver parlato alla buona di varie cose, saltò fuori col dire: "Miei cari figli, voi converrete meco che la mia età avanzata non mi permette più di accudire agli affari di Stato con lo stesso impegno d'una volta; temo che i miei sudditi ne abbiano a risentire i danni, ed è per questo che ho deciso di mettere la corona sul capo a uno di voi tre. Peraltro è ben giusto che in compenso di un regalo simile, voi dobbiate cercare di compiacermi nel disegno, che oramai ho fatto, di ritirarmi in campagna. Mi pare che un canino vispo, fido, grazioso potrebbe tenermi un'ottima compagnia: così, senza stare a scegliere il figlio maggiore piuttosto del minore, io vi dichiaro che quello che di voi tre mi porterà il canino più bello, quello sarà il mio erede". I principi restarono sorpresi del capriccio del loro padre per un canino, ma i due minori vi trovarono il loro tornaconto ed accettarono con piacere la commissione di andare in cerca di un cane. Quanto al figlio maggiore, era troppo timido e troppo rispettoso per far valere i suoi diritti. Presero quindi congedo dal Re, il quale li fornì d'oro e di pietre preziose, soggiungendo che fra un anno, né più né meno, in quello stesso giorno e alla medesima ora, dovessero tornare a portargli ciascuno il suo canino. Prima di mettersi in viaggio i tre fratelli andarono a un castello, discosto appena
un miglio dalla città. Menarono seco gli amici e fecero gran baldoria, giurandosi tutti e tre amicizia eterna, e restando intesi che in questa faccenda avrebbero ciascuno tirato avanti per il fatto suo, senza gelosie e rancori, e che in ogni caso il più fortunato avrebbe sempre tenuto a parte gli altri due della sua fortuna. E così partirono, dopo aver fissato che al ritorno si sarebbero ritrovati nello stesso castello, per poi recarsi tutti insieme dal Re. Non vollero con sé nessuno, e cambiarono di nome per non essere riconosciuti. Ciascuno prese una via diversa. I due maggiori ebbero molte avventure; ma io racconterò soltanto quelle del minore. Il quale era grazioso, d'umore allegro e piacevole, una bella testa, fisonomia signorile, fattezze regolari, bei denti e moltissima destrezza in tutti quegli esercizi, che completano l'educazione di un gentiluomo. Cantava con gusto, suonava il liuto e la chitarra da incantare, maneggiava la tavolozza, era insomma un cavaliere compitissimo e di un coraggio che rasentava la temerità. Non ava giorno che non comprasse cani grandi, piccoli, levrieri, bull-dogs, da caccia, spagnuoli, barboni. Se ne aveva uno bello e ne trovava un altro più bello, lasciava il primo per tenersi l'altro: perché gli sarebbe stato impossibile, solo com'era, di menarsi dietro trenta o quarantamila cani; ed egli non voleva con sé nessuno strascico di gentiluomini o di servitori o di paggi. Camminava e camminava, senza sapere neanche lui dove andasse, quand'ecco che una volta si trovò sorpreso dalla notte, dai tuoni e da un gran rovescio d'acqua nel mezzo d'una foresta, dove non raccapezzava più nemmeno la strada che doveva fare. Prese il primo viottolo che gli capitò fra i piedi, e dopo aver camminato un pezzo, poté scorgere un po' di luce; e da questa si figurò che, non molto lontano, ci dovesse essere qualche casa, dove avrebbe potuto mettersi al coperto fino al giorno. Guidato così da quella po' di luce che vedeva, giunse alla porta di un castello, il più magnifico che si possa immaginare. La porta era d'oro, coperta di carbonchi, il cui bagliore limpido e smagliante illuminava tutti i dintorni. E questa era la luce che il Principe aveva veduto di lontano. I muri erano di porcellana trasparente sulla quale, dipinta in colori, si vedeva la storia di tutte le
fate dalla creazione del mondo in poi; né vi erano dimenticate le famose avventure di Pelle d'Asino, di Finetta, del Melarancio, di Graziosa, della Bella addormentata nel bosco, di Serpentino Verde e di cent'altri. Gli fece grandissimo piacere di riconoscervi anche il Principe Folletto, perché era suo zio all'uso di Brettagna. La pioggia e la stagione indiavolata gli levarono la voglia di trattenersi più a lungo in un luogo, dove si bagnava tutto fino all'ossa, senza contare che dove non giungeva il riflesso luminoso dei carbonchi, non ci si vedeva proprio di qui a lì. Tornò alla porta d'oro, e vide uno zampetto di capriolo attaccato in fondo a una piccola catena tutta di diamanti: e non poté di meno di restare a bocca aperta, non tanto per la magnificenza di quel cordone da camlo, quanto per la gran sicurezza colla quale vivevano in quel palazzo. "Perché", faceva egli a dire, "che ci vorrebbe per i ladri a staccare la catenella e portar via i carbonchi? Sarebbe il vero modo di diventar ricchi una volta per tutte." Tirò lo zampetto di capriolo: subito sentì suonare una camla, che allo squillo gli parve d'oro o d'argento. Di lì a un minuto la porta si aprì, senza che egli potesse veder altro che una dozzina di mani per aria, ciascuna delle quali teneva una fiaccola accesa. A quella vista restò così intontito, che non sapeva risolversi a entrare, quando sentì altre mani, che lo spingevano per dietro, e anche con una certa tal qual violenza. Egli entrò là dentro a malincuore, e per ogni buon fine e rispetto portò la mano all'impugnatura della spada: quand'ecco, che traversando un vestibolo, tutto incrostato di porfido e di lapislazzuli, sentì due voci angeliche che cantavano così:
Delle man.,che vedete Non vi prenda sospetto: Ché sotto questo tetto Non c'é da temer nulla.
Se non le seducenti Grazie di un bel visino; Caso che il vostro cuore Non voglia rimaner schiavo d'amore.
Egli non poté immaginarsi che lo invitassero con tanta buona grazia, per fargli poi un brutto tiro: per cui, sentendosi sospinto verso una gran porta di corallo, che si aprì al suo avvicinarsi, entrò in una gran sala, tutta di madreperla; e quindi ò in altre sale ornate in mille maniere differenti e così ricche di pitture e di marmi preziosi, da farlo restare sbalordito. Migliaia e migliaia di lumi, che dal soffitto arrivavano fino a terra, illuminavano altri quartieri; anche questi pieni di lampadari, di luci a riflesso e di ventole gremite di candele. Per farla corta, era una tal maraviglia da crederla un sogno. Dopo aver traversato una fila di sessanta stanze, le mani che lo guidavano lo fecero fermare, ed esso vide una poltrona grande e molto comoda, che si accostò da sé sola al camminetto. In quel mentre il fuoco si accese: e le mani che gli sembravano bellissime, bianche, piccole, bofficette e ben proporzionate, cominciarono a spogliarlo: perché, com'ho detto poco fa, era tutto fradicio mézzo e c'era il caso di fargli prendere un'infreddatura. Gli fu presentato senza che egli vedesse alcuno, una camicia così bella, che era proprio una camicia da sposi, insieme a una veste da camera, di stoffa trapunta d'oro e ricamata di piccoli smeraldi, che formavano degli arabeschi e delle cifre. Le mani, senza corpo, gli avvicinarono una toeletta, che era una vera maraviglia: e lo pettinarono con tanta leggerezza e con tanta maestria, che rimase contentissimo. Poi lo rivestirono tutto, non coi panni di lui, ma con gli altri abiti molto più belli. Egli stava ammirando, senza fiatare, tutto quello che accadeva sotto i suoi occhi, e di tanto in tanto aveva qualche brivido di paura, che non poteva vincere a nessun costo. Quando l'ebbero incipriato, pettinato, profumato, vestito in gala, e fatto più bello d'un amore, le solite mani lo condussero in una sala magnifica per i mobili e per le dorature. In giro alle pareti si vedeva la storia dei gatti più famosi. Rodilardo appiccato pei piedi, nel Consiglio dei Topi: il Gatto cogli stivali, marchese di
Carabà: il Gatto scrivano: il Gatto cambiato in donna, i Sorci mutati in gatti: il Sabbato e tutte le sue stregherie; insomma non c'era cosa più originale di questi quadri. La tavola era apparecchiata, con sopra due posate e due tovagliolini, ciascuno dei quali col suo laccetto d'oro: la dispensa faceva restare a bocca aperta per la quantità di vasi di cristallo di monte e di altre pietre preziose. Il Principe non sapeva per chi fossero quelle due posate, quando vide alcuni gatti che andavano a pigliar posto in una piccola orchestra fatta apposta per loro: uno portava un libro pieno di capperi e di note le più strane del mondo: un altro teneva in mano un quaderno arrotolato, per battere il tempo: gli altri avevano delle piccole chitarre. Tutt'a un tratto, ciascuno di essi cominciò a miagolare in diversi toni e a grattare coll'unghie le corde della chitarra. Il Principe avrebbe quasi creduto di esser capitato all'inferno, se non gli fosse parso che il palazzo fosse troppo meraviglioso per dar motivo a simili sospetti: e non potendo far altro, si tappava gli orecchi e si buttava via dalle risate, a vedere i gesti e le boccacce di quei musicanti di una razza nuova. Mentre stava pensando alle tante cose che gli erano accadute in questo castello, vide entrare una figurina non più alta di mezzo braccio. Questa specie di bambolina era coperta dalla testa ai piedi da un lungo velo di crespo nero. L'accompagnavano due gatti, anch'essi abbrunati, col mantello e la spada al fianco. E dietro a loro, un numeroso corteggio di gatti, che portavano trappole e gabbie piene di sorci e di topi. Il Principe era fuori di sé dallo stupore, e non sapeva che cosa pensare. Intanto la bambolina si avvicinò e si tolse il velo: sicché egli poté vedere la più bella gattina, fra quante ce ne furono e ce ne saranno mai. Ella appariva molto giovine e molto afflitta: e faceva un miagolìo così dolce e così carino, che andava proprio al cuore. Ella disse al Principe: "Figlio di Re, tu sei il benvenuto. La mia miagolante maestà ti vede con piacere". "Signora Gatta", disse il principe "voi siete molto buona a farmi sì cortese accoglienza; ma voi non mi avete l'aria di essere una bestiolina come tutte le altre: il dono della parola e il bel castello che possedete, ne sono una prova lampante."
"Figlio di Re", riprese la Gatta, "ti prego, non mi dire dei complimenti. Io sono semplice di modi e di parole: ma ho un buon cuore. Animo!" continuò ella "si serva subito in tavola; e i musicanti tacciano, perché tanto il Principe non intende nulla di quello che dicono." "Dicono forse qualche cosa?", domandò egli. "Ma sicuro", ella soggiunse, "perché qui ci sono dei letterati, che hanno moltissimo spirito: e se resterete un poco fra noi, ve ne persuaderete facilmente." "Basta sentirvi discorrere, per crederlo subito", disse il Principe con molta galanteria, "ed è per questo, o signora, che io vi stimo una gatta veramente singolare." Fu portata la cena: la quale era servita da quelle stesse mani, appartenenti a corpi invisibili. Si rifecero dal mettere in tavola due pasticci: uno di piccioncini e l'altro di sorci grassi come ortolani. La vista di quest'ultimo pasticcio fece perdere al Principe la voglia di assaggiare il primo; per il sospetto che tutti e due fossero stati cucinati dallo stesso cuoco, e con le medesime rigaglie: ma la gattina, vedendogli far boccuccia, indovinò la sua idea e lo accertò che la sua cucina era fatta a parte, e che poteva mangiare tranquillamente le pietanze, che gli avessero messo dinanzi, senza scrupolo di trovarci dentro o topi o sorci. Il Principe non se lo fece dire due volte, persuaso che la bella Gattina non poteva avere nessun motivo per dargli ad intendere una cosa per un'altra. E mentre mangiava gli venne fatto notare che ella aveva un piccolo ritratto in avorio, attaccato a una zampa, e gli fece specie. La pregò se avesse voluto mostrarglielo, credendo che fosse il ritratto di padron Buricchio. Ma rimase oltremodo stupito nel vedere che era un giovine così bello, da non credere che la natura n'avesse formato un altro compagno: e il ritratto somigliava tanto a lui, che se gliel'avessero dipinto apposta, non poteva esser più vero e più parlante. Ella sospirò: e facendosi anche più trista, serbò un profondo silenzio. Il Principe capì che ci doveva esser sotto qualche cosa di misterioso e di straordinario, ma non ebbe cuore di chiedere spiegazioni, per paura di far dispiacere alla Gatta e di affliggerla più che mai. Egli le parlò di tutte le novità che sapeva, e la trovò istruttissima degl'interessi delle case principesche e di tutti i fatti che accadevano nel mondo. Alzati da cena, la Gatta Bianca invitò il suo ospite a voler are in una gran
sala, dove c'era un teatro sul quale davano un balletto dodici gatti e dodici scimmie. Gli uni erano vestiti da mori, le altre da chinesi. È facile immaginarsi i salti e le capriole che facevano, e i graffi e le zampate che di tanto in tanto si scambiavano fra loro. La serata finì così. Gatta Bianca dette la buona notte al suo ospite: e le mani, che l'avevano condotto fin lì, lo ripresero e lo menarono in un quartiere, che era tutto differente da quello che aveva visto. Poteva dirsi più elegante che magnifico: ed era tappezzato, di cima in fondo, di ali di farfalle, i cui variati colori formavano mille fiori diversi. Vi erano pure delle penne di uccelli rarissimi, e che forse non si sono veduti altro che in quel luogo. I letti erano di velo, e ornati con bellissimi fiocchi di nastro; e dappertutto grandi specchi, che andavano dall'impiantito al soffitto, e messi dentro a cornici cesellate d'oro e che rappresentavano migliaia e migliaia di piccoli amorini. Il Principe entrò a letto senza fare una parola, perché era impossibile attaccare un po' di conversazione colle mani che lo servivano. Dormì poco e fu svegliato da un rumore confuso. Le mani, lì pronte, lo tirarono subito fuori del letto e gli messero addosso un vestito da caccia. Dette un'occhiata giù, nella corte del castello, e vide più di cinquecento gatti, dei quali alcuni tenevano i levrieri al guinzaglio, e gli altri suonavano il corno. Era una gran festa: Gatta Bianca andava alla caccia, e voleva che il Principe fosse della partita. Le solite mani, addette al suo servizio, gli presentarono un cavallo di legno, che correva a briglia sciolta e che sapeva andare al o, che era uno stupore. Egli stintignava un poco a montarci sopra, dicendo che era quasi lo stesso che fargli fare la figura di cavaliere errante come Don Chisciotte: ma la sua mala voglia gli giovò poco: si trovò messo di peso sul cavallo di legno, il quale aveva una gualdrappa e una sella a ricami d'oro e di diamanti. Gatta Bianca cavalcava uno scimmiotto, il più bello e il più fiero che si potesse mai vedere; essa aveva lasciato il suo gran velo e portava in testa un berretto da amazzone, che le dava una cert'aria di spavalderia, che metteva paura a tutti i sorci del vicinato. Non c'è stata mai un'altra caccia divertente come quella: i gatti correvano più dei conigli e delle lepri: e così, quando chiappavano qualche animale, Gatta Bianca voleva che lo mangiassero dinanzi a lei, e questa cosa dava luogo a mille giuochi piacevolissimi di agilità e di destrezza. E nemmeno gli uccelli, dal canto loro, erano sicuri: perché i gattini s'arrampicavano su per gli alberi: e il bravo scimmiotto portava Gatta Bianca fin dentro ai nidi dell'Aquile, perché disponesse a piacer suo delle piccole Altezze aquiline.
Finita la caccia, ella prese un corno lungo un dito, ma che mandava un suono così chiaro e sfogato, da farsi sentire benissimo alla distanza di cento miglia. Quand'ebbe fatti due o tre squilli di corno, si vide circondata da tutti i gatti del paese: alcuni arrivarono per aria, portati in cocchio: altri venivano per acqua, dentro le barche: insomma era uno spettacolo non mai veduto. Quasi tutti erano vestiti in diversi modi. Gatta Bianca, accompagnata da questo pomposo corteggio, ritornò al palazzo e pregò il Principe a venirvi anche lui. Egli gradì l'invito, sebbene tutto questo gattaio gli sapesse un po' troppo di sabbato e di stregheria, e la Gatta parlante gli paresse più strana e più inconcepibile di tutto il resto. Appena entrata nel palazzo, le portarono il suo velo nero. Cenò col Principe, il quale aveva una fame che parevano due, e mangiò per quattro. Furono portati dei liquori, che egli gustò volentieri, ma che gli fecero dimenticare, lì per lì, il canino che doveva portare al Re. Da quel momento in poi non aveva altro pensiero che stare a miagolare con Gatta Bianca: o, come chi dicesse, a tenerle buona e fidata compagnia: tutti i giorni arono in feste piacevoli, ora alla pesca, ora alla caccia: eppoi balli, tornei e altri si, che lo divertivano moltissimo. Spesso e volentieri la bella Gatta faceva dei versi e delle canzonette in uno stile così apionato, da far capire che aveva il cuore sensibile e che certe cose non si sanno dire, senza essere innamorati: ma il suo segretario, che era un vecchio soriano, aveva una mano di scritto così brutta, che sebbene le opere di lei sieno state conservate, oggi è impossibile leggerle e raccapezzarvi dentro qualche cosa. Il Principe si era scordato di tutto, perfino del suo paese. Le solite mani, rammentate tante volte, continuavano a servirlo. Qualche volta si pentiva di non essere un gatto, per poter are tutta la vita in così amabile compagnia "Povero me!", diceva egli a Gatta Bianca, "come sarei disperato se dovessi lasciarvi; vi amo tanto! o diventate donna, o fatemi diventare un gatto!" Ella pigliava in chiasso queste parole, e gli dava delle risposte così ambigue e sibilline, da non ricavarci un numero. Un anno a presto, in ispecie quando non si hanno né seccature né pensieri: e quando si sta bene di salute e ci manca il tempo per potersi annoiare. Gatta Bianca sapeva il giorno in cui egli doveva tornare a casa, e perché egli non ci pensava più, credé ben fatto ricordarglielo. "Sai tu", ella gli disse, "che ti restano tre giorni solamente, per cercare il canino
tanto desiderato da tuo padre, e che i tuoi fratelli ne hanno trovati dei bellissimi?" Il Principe ritornò in sé, e maravigliandosi della sua negligenza: "Per quale incantesimo piacevole" disse "ho potuto scordarmi di una cosa, che mi stava a cuore al disopra di tutte le altre? Ce ne va della mia gloria e della mia fortuna. Dove troverò un canino, proprio come ci vuole, per guadagnare un Regno, e un cavallo così scappatore da arrivare in tempo?". E incominciò a inquietarsi e a mettersi di cattivo umore. Gatta Bianca, con una vocina carezzevole, gli disse: "Figlio di Re, non ti dare alla disperazione: io sono fra i tuoi buoni amici: puoi trattenerti qui ancora un giorno, perché sebbene da qui al tuo paese ci sieno più di duemila miglia, il bravo cavallo di legno ti ci porterà in meno di dodici ore". "Vi ringrazio, mia bella Gatta", disse il Principe, "peraltro non mi basta di tornare da mio padre, ma bisogna che gli porti anche un canino." "Tieni", gli disse Gatta Bianca, "eccoti una ghianda, dove ce ne troverai dentro uno assai più bello della stessa canicola." "Via, via, signora Gatta", disse il Principe, "Vostra Maestà si piglia giuoco di me." "Avvicina la ghianda all'orecchio", ella soggiunse, "e lo sentirai abbaiare." Esso obbedì; e sentì subito il canino che faceva: bu! bu! Il Principe saltava dalla contentezza: perché un canino, che può entrare in una ghianda, bisogna che sia piccino davvero. Egli voleva aprirla, perché si struggeva di vederlo; ma Gatta Bianca gli disse che per la strada avrebbe potuto sentir freddo e che era meglio aspettare che fosse dinanzi al Re suo padre. Il Principe la ringraziò mille volte e poi dell'altro: e gli dette un addio che veniva proprio dal cuore. "Vi giuro", egli soggiunse "che i giorni mi son ati come un lampo; volere o non volere, sento che mi dispiace a lasciarvi; e sebbene voi siate qui la sovrana, e i gatti che vi corteggiano sieno più spiritosi e galanti dei nostri, io non mi perito a invitarvi a venir via con me." La Gatta, a questa proposta, rispose con un profondo sospiro. Si lasciarono. Il Principe arrivò il primo nel luogo, dove co' suoi fratelli era stato fissato il
ritrovo. Dopo poco arrivarono anche gli altri e rimasero maravigliati nel vedere un cavallo di legno, che caracollava meglio di quelli delle scuole d'equitazione. Il Principe andò loro incontro: si abbracciarono ripetutamente e si raccontarono le avventure dei loro viaggi: ma il nostro Principe non disse tutta la verità circa a quanto gli era accaduto, e mostrò ai fratelli un canucciaccio mezzo spelacchiato, dicendo che gli era parso così grazioso, che aveva pensato di portarlo a suo padre. Per quanto si volessero bene tra fratelli e fratelli, nondimeno i due maggiori sentirono un gran piacere della cattiva scelta fatta dal minore; e perché erano a tavola, si davano di nascosto nel piede, come per dire che da lui non avevano nulla da temere. Il giorno dopo partirono tutti e tre insieme, nella medesima carrozza. I due figli maggiori del Re avevano in alcuni panieri dei canini così belli e così delicati, che pareva non si dovessero toccare, per paura di sciuparli. Il minore aveva il suo cane spelacchiato, così inzaccherato di mota, che nessuno lo voleva accosto. Appena arrivati al palazzo, tutti furono loro dintorno per dargli il ben tornato: quindi arono nelle stanze del Re. Esso non sapeva in favore di chi decidersi, perché i due cani presentati dai suoi figli maggiori erano pari a bellezza: e già i due fratelli si disputavano il vantaggio della successione al trono, quando ecco che il Principe trovò il mezzo di metterli d'accordo, cavando fuori di tasca la ghianda, che Gatta Bianca gli aveva dato. Apertala in presenza di tutti, ciascuno poté vedere un canino, accovacciato nel cotone, il quale sarebbe ato attraverso a un anello da dito, senza nemmeno toccarlo. Il Principe lo posò in terra, ed egli si mise a ballare la sarabanda con accompagnamento di nacchere e con tanta grazia e leggerezza, come non avrebbe saputo far meglio, la più celebre ballerina spagnuola. Esso era di mille colori, tutti diversi, e il pellame e gli orecchi gli toccavano terra. Il Re rimase un po' male, perché era proprio impossibile trovar da ridire qualche cosa sulla bellezza di quel cagnolino. A ogni modo egli non aveva punta voglia di disfarsi della sua corona: ogni rosone di essa gli era mille volte più caro di tutti i cani dell'universo. Disse dunque ai suoi figliuoli di essere arcicontento di tutto quello che avevano fatto: ma siccome eran riusciti così bene nella prima prova, voleva avere un altro saggio della loro abilità, prima di mantenere la parola data; per cui dava loro tempo un anno a cercargli una pezza di tela così fine e sottile, da ar tutta dalla cruna di un ago, di quelli da ricamo. Tutti e tre
sentirono male la cosa di doversi rifar da capo a cercare. I due principi, i cui cani erano meno belli di quello del fratello minore, si rassegnarono. Ognuno se n'andò per il suo viaggio e senza perdersi in tante tenerezze come la prima volta, perché il bel cagnolino era stato cagione di un certo raffreddamento fra loro. Il nostro Principe rimontò sul suo cavallo, e senza curarsi di altri aiuti, all'infuori di quelli che poteva attendere dalla Gatta Bianca, partì alla gran carriera e ritornò al castello, dov'ella gli aveva fatto così buon viso e lieta accoglienza. Trovò che tutte le porte erano spalancate e le mura risplendenti per centomila fiaccole accese, che facevano un effetto meraviglioso. Le solite mani, che l'avevano servito sempre con tanta puntualità, gli si fecero incontro: e presa la briglia del bravo cavallo di legno, lo portarono alla scuderia, mentre il Principe si avviava verso la camera di Gatta Bianca. Ella stava coricata dentro a una piccola cestina sopra un guanciale di seta, bianca come la neve. La sua pettinatura era un po' trascurata e la fisonomia abbattuta e trista: ma appena visto il Principe, fece mille salti e mille sgambetti, per fargli intendere la gioia che provava. "Per quante ragioni avessi per credere al tuo ritorno", diss'ella, "ti confesso, o figlio di Re, che ci contavo assai poco: per il solito sono così disgraziata ne' miei desideri, che questa volta mi par proprio di aver avuto una vera fortuna." Il Principe, in ricambio, le fece mille carezze: e le raccontò l'esito del suo viaggio, che forse ella già sapeva meglio di lui; e venne a dire come qualmente il Re voleva una pezza di tela che potesse are dalla cruna d'un ago; che questa cosa a lui gli pareva impossibile, ma che a ogni modo voleva tentarla, ripromettendosi miracoli dalla buona amicizia e dall'aiuto di lei. Gatta Bianca, pigliando una cert'aria di serietà, rispose che non era una faccenda da darsene pensiero: che, per buona fortuna, aveva nel suo castello delle Gatte che filavano benissimo: che essa pure vi avrebbe messo lo zampino, per mandare avanti il lavoro; in una parola che egli poteva starsene tranquillo, e che avrebbe trovato lì quello che cercava, senza bisogno di andare a girellone per il mondo. In quel punto apparirono le mani, le quali portavano delle fiaccole: e il Principe andando dietro a esse, insieme con Gatta Bianca, entrò in una magnifica terrazza coperta, che dava lungo un gran fiume, sul quale furono incendiati bellissimi fuochi d'artifizio. Vi si dovevano bruciare quattro gatti, ai quali era stato fatto un
processo in tutte le regole. Erano accusati di aver mangiato l'arrosto preparato per la cena di Gatta Bianca, il suo formaggio e il suo latte: e di aver cospirato contro la sua real persona insieme con Martafaccio e l'Eremita, famosi topi di quella contrada e tenuti per tali anche da La-Fontaine, scrittore degnissimo di fede; ma, con tutto questo, si sapeva che nel processo c'erano stati molti pasticci, e che quasi tutti i testimoni avevano preso il boccone. Fatto sta, che il Principe ottenne per loro la grazia: e i fuochi d'artifizio non bruciarono nessuno: e dei razzi e delle girandole a quel modo, non se ne sono mai più vedute. Dopo i fuochi fu imbandita una cena, che il Principe gustò assai più delle girandole e dei razzi, perché aveva una fame da lupi, per la ragione che il suo cavallo di legno l'aveva fatto correr tanto, come se fosse stato in strada ferrata, e anche più. I giorni avano e si somigliavano: feste dalla mattina alla sera, e sempre differenti, colle quali l'ingegnosa Gatta Bianca teneva allegro il suo ospite: e forse non c'è stato un altro mortale, che si sia tanto divertito, non avendo con sé altra compagnia che quella dei gatti. Gli è vero che Gatta Bianca aveva uno spirito grazioso, seducente e adattato a ogni cosa; ella ne sapeva più di quel che è lecito saperne a un gatto: e il Principe molte volte ne rimaneva stupito. "No", esso le diceva, "le meraviglie che mi vien fatto di notare in voi, non sono punto naturali: se voi mi amate davvero, carissima Micina, ditemi per quale miracolo pensate e parlate con tanta finezza di buon senso, da rendervi degna di sedere fra i begl'ingegni delle più celebrate Accademie." "Finiscila con queste domande, figlio di Re", ella gli disse, "a me non è lecito risponderti: tu puoi almanaccare quanto ti pare e piace: padronissimo! Ti basti soltanto sapere che avrò sempre per te una zampina col guanto di velluto: e che ogni cosa che ti riguarda sarà come se fosse una cosa mia." Questo second'anno ò, senza addarsene, come il primo. Il Principe non aveva tempo di desiderare un oggetto, che le solite mani, sempre pronte, glielo portavano subito: sia che si trattasse di libri, di gemme, di quadri, di medaglie antiche: insomma egli non doveva far altro che dire: "voglio il tal bigiù, che è nel gabinetto intimo del Mogol o del Re di Persia, o la tale statua di Corinto o di Grecia" che subito vedeva comparirsi davanti ciò che desiderava, senza sapere né chi gliel'avesse portata, né di dove venisse. Ecco una virtù magica, che ha le sue attrattive e che, non foss'altro per atempo, ci farebbe nascere la voglia di
diventare i padroni dei più bei tesori della terra. Gatta Bianca, che non perdeva mai d'occhio gl'interessi del Principe, lo avvertì che il tempo della sua partenza si avvicinava e che poteva stare tranquillo in quanto alla pezza di tela tanto desiderata, perché essa gliene aveva tessuta una maravigliosa: aggiungendo che questa volta voleva regalargli un equipaggio degno di lui. E senza dargli tempo di rispondere, l'obbligò a guardar giù nel cortile del castello. E lì, infatti, vi era una carrozza scoperta, tutta d'oro smaltato, color fuoco, con mille imprese galanti dipinte sopra, che facevano piacere agli occhi e alla mente. V'erano attaccati quattro per quattro, dodici cavalli bianchi come la neve, carichi di gualdrappe di velluto rosso fiammante, ricamate a diamanti e guarnite di fibbie e di piastrelle d'oro. La carrozza era foderata dentro colla stessa magnificenza ed aveva un seguito d'altre cento carrozze a otto cavalli, tutte piene di signori di grande apparenza e splendidamente vestiti. V'era di scorta un reggimento di mille guardie del corpo, le cui uniformi erano così coperte di ricami e di alamari, che il panno non si distingueva più: e la cosa singolare era questa: che il ritratto della Gatta Bianca si vedeva da per tutto, sugli stemmi della carrozza, sull'uniforme delle guardie, e perfino attaccato con un nastro all'occhiello dell'abito dei cortigiani, come la insegna di un nuovo ordine cavalleresco, di cui essa gli avesse onorati. "Ora parti pure", diss'ella al Principe, "e presentati al Re tuo padre in codest'arnese abbagliante; e che la tua magnificenza da gran signore lo metta in suggezione tanto da non aver cuore di ricusarti il trono che ti sei meritato. Eccoti una noce: guarda bene di non schiacciarla, finché non sarai alla presenza di lui: dentro ci troverai la pezza di tela, che m'hai domandata." "Graziosa Bianchina", egli rispose, "vi giuro che sono talmente preso dalle vostre gentilezze per me, che, se foste contenta, preferirei di ar la mia vita con voi, a tutte le grandezzate che mi aspettano fuori di qui." "Figlio di Re", ella soggiunse, "io credo alla bontà del tuo cuore, merce rara fra i Principi: perché essi vogliono essere amati da tutti, e non amar nessuno. Ma tu sei l'eccezione della regola. Io ti tengo conto del bene che dimostri di volere a una Gattina Bianca, la quale in fondo in fondo, non è buona ad altro che a prender topi." Il Principe le baciò la zampetta e partì.
Se già non si sapesse come il cavallo di legno gli avesse fatto fare duemila miglia in meno di quarantott'ore, ora si stenterebbe a credere la gran furia che messe per arrivare in tempo. Se non che la stessa potenza che animava il cavallo di legno, spronò talmente anche gli altri, che non restarono per la strada più di ventiquattr'ore. Non fecero neppure una fermata, finché non furono giunti dal Re, dove già i due fratelli maggiori si trovavano: i quali, non vedendo arrivare il fratello minore, gongolavano del suo ritardo e bisbigliavano fra loro sottovoce: "Questa è una bazza per noi: o è morto o è malato: e così avremo un rivale di meno, nella successione al trono". Senza perder tempo spiegarono le loro tele, le quali, a dir la verità, erano tanto fini, da ar dalla cruna di un ago grosso: ma per in quanto alla cruna di un ago sottile, era inutile parlarne; e il Re, tutto contento di aver trovato questo attaccagnolo, mostrò loro l'ago che egli aveva prescelto e che per ordine suo i magistrati avevano recato dal Tesoro della città, dov'era stato gelosamente custodito. Nacque un gran diverbio: e tutti vollero dire la sua. Gli amici de' Principi, e segnatamente quelli del maggiore, la cui tela senza dubbio era la più bella, sostenevano che il Re aveva messo fuori una gretola, dove c'era mescolata molta dose di furberia e di malafede. Alla fine, per troncare ogni pettegolezzo, si sentì per la città il rumore allegro e cadenzato di una fanfara di trombe, timballi e clarinetti: era il nostro Principe, che arrivava col suo splendido corteggio. Il Re e i suoi due figli fecero tanto d'occhio alla vista di uno spettacolo così sorprendente. Appena ebbe salutato rispettosamente il padre suo e abbracciati i fratelli, cavò fuori da una scatola, tutta incrostata di rubini, la noce: e la schiacciò. Egli si aspettava di trovarci la pezza di tela, tanto decantata: ma invece c'era una nocciuola; schiacciò anche questa, e rimase stupito di trovarci dentro un nocciolo di ciliegia. Tutti si guardarono in viso: il Re se la rideva sotto i baffi e si divertiva alle spalle del figlio, il quale era stato tanto baccello da credere di poter portare una pezza di tela dentro a una noce; ma perché non ci doveva credere, quando già gli era stato dato un canino che entrava tutto in una ghianda? Egli schiacciò anche il nocciolo di ciliegia, il quale era tutto pieno della sua mandorlina. Allora cominciò per la sala un gran bisbiglìo: e non si sentiva altro che questo ritornello: "Il Principe cadetto l'hanno preso a godere!...". Egli non rispose nulla alle insolenti freddure dei cortigiani. Aprì in mezzo la mandorlina, e ci trovò un chicco di miglio. Oh! allora poi, per dir la verità, cominciò anch'esso a dubitare e masticò fra i denti, "Ah! Gatta Bianca, Gatta Bianca, tu
me l'hai fatta!..." In questo punto sentì sulla mano un'unghiata di gatto, che lo graffiò così bene da fargli uscire il sangue. Egli non sapeva se quell'unghiata fosse per dargli coraggio o per consigliarlo a smettere: a ogni modo aprì il chicco di miglio, e lo stupore di tutti non fu piccolo davvero quando ne tirò fuori una pezza di tela di mille metri così meravigliosa, che c'erano dipinti sopra ogni maniera d'uccelli, di pesci, di animali, con gli alberi, i frutti e le piante della terra, gli scogli, le rarità e le conchiglie del mare, il sole, la luna, le stelle, gli astri e i pianeti del cielo. E c'erano anche i ritratti dei Re e dei Sovrani che regnavano allora nel mondo: e quelli delle loro mogli, dei figliuoli e di tutti i loro sudditi, senza che vi fossero dimenticati i più infimi, fra gli straccioni e gli sbarazzini di strada. Ciascuno, nel suo stato, rappresentava il personaggio che doveva rappresentare, ed era vestito alla foggia del suo paese. Quando il Re ebbe visto questa pezza di tela, si fece bianco in viso, come s'era fatto rosso il Principe, nel mentre che la cercava. Tanto il Re che i due Principi maggiori serbavano un cupo silenzio, sebbene a più riprese si trovassero forzati a dire che in tutto quanto il mondo non c'era un'altra cosa, che potesse agguagliarsi alla bellezza e alla rarità di questa tela. Il Re lasciò andare un gran sospiro e voltandosi a' suoi figli, disse loro: "Non potete figurarvi la mia consolazione, nel vedere la deferenza che avete per me: io desidero dunque che vi mettiate a una novella prova. Andate a viaggiare ancora un anno, e colui che in capo all'anno menerà seco la più bella fanciulla, quello la sposerà e sarà incoronato Re il giorno stesso delle sue nozze; perché, in fin dei conti, è una necessità che il mio successore abbia moglie: e faccio giuro e prometto che questa volta sarà l'ultima e non manderò più per le lunghe la ricompensa promessa". Questa qui, a guardarla bene, era una ingiustizia bella e buona a carico del nostro Principe. Il cagnolino e la pezza di tela, invece di un regno, ne meritavano dieci; ma il Principe aveva un carattere così ben fatto, che non volle mettersi in urto col padre suo: e senza rifiatare, rimontò in carrozza e via. Il suo corteggio lo seguì, ed egli tornò dalla sua cara Gatta Bianca. Ella sapeva il giorno e il minuto che doveva arrivare; per tutta la strada c'era la fiorita e mille bracieri con sostanze odorose fumavano fuori e dentro al castello. Essa se ne stava seduta sopra un tappeto di Persia, sotto un baldacchino di broccato d'oro in una galleria, dalla quale poteva vederlo ritornare. Fu ricevuto dalle solite mani, che l'avevano sempre servito. Tutti i gatti si arrampicarono su per le grondaie, per dargli il ben tornato, con un miagolio da straziare gli orecchi.
"Ebbene, figlio di Re", ella gli disse, "eccoti tornato qui, e senza corona." "Signora", egli rispose, "la vostra buona grazia mi aveva messo in caso di guadagnarmela: ma ho capito che il Re avrebbe più dispiacere a disfarsene di quello che io avessi gusto a possederla." "Non importa", ella soggiunse, "non bisogna trascurar nulla per meritarla; io ti aiuterò anche questa volta, e poiché bisogna che tu meni alla corte di tuo padre una bella fanciulla, penserò io a cercartene una che ti faccia vincere il premio: intanto divertiamoci, ed è per questo che ho ordinato un combattimento navale fra i miei gatti e i terribili topi del paese. I miei gatti si troveranno un po' impappinati nei loro movimenti, perché hanno paura dell'acqua; ma senza di questo, essi avrebbero troppo il disopra: e, per quanto si può, bisogna cercare di bilanciare le forze." Il Principe ammirò la prudenza della signora Micina: le fece i suoi mirallegri e andò con essa sopra una gran terrazza che dava sul mare, I vascelli dei gatti consistevano in grandi pezzi di sughero, sui quali vogavano abbastanza comodamente. I topi avevan riuniti e legati insieme molti gusci d'ovo e questi erano le loro navi. Il combattimento fu accanito e crudele: i topi si buttavano nell'acqua e nuotavano con più maestria dei gatti: e così ben più di venti volte si trovarono a essere vincitori e vinti: ma Minagorbio, ammiraglio della flotta gattesca, ridusse l'armata topina all'ultima disperazione, e si mangiò con molto gusto il generale della flotta nemica, che era un vecchio topo di grande esperienza, il quale aveva fatto per tre volte il giro del mondo sopra grossi vascelli dove egli non era né capitano, né marinaio, ma semplice leccalardo. Gatta Bianca non volle che quei poveri disgraziati fossero interamente distrutti. Essa aveva politica e pensava che se in paese non ci fossero più stati né topi né sorci, i suoi sudditi sarebbero vissuti in un ozio, che poteva alla lunga diventare pericoloso, Il Principe ò anche quest'anno, come i due precedenti, andando a caccia, alla pesca e giuocando: perché bisogna sapere che Gatta Bianca era bravissima al giuoco degli scacchi. Egli, di tanto in tanto, non poteva stare dal farle delle domande incalzanti, per arrivare a scuoprire per qual miracolo ella avesse il dono di poter parlare. E avrebbe voluto sapere se era una fata, e se fosse stata
cambiata in gatta, al seguito di una metamorfosi: ma siccome non c'era caso che ella dicesse mai quello che non voleva dire, così rispondeva sempre quel tanto che voleva rispondere, e dava delle risposte tronche e senza significato, ragione per cui egli dové persuadersi che Gatta Bianca non voleva metterlo a parte del suo segreto. Non c'è una cosa che i tanto presto, quanto i giorni felici: e se la Gatta Bianca non fosse stata lei a darsi il pensiero di tenere a mente il tempo preciso di far ritorno alla Corte, non c'è dubbio che il Principe se lo sarebbe dimenticato bene e meglio. Alla vigilia della partenza ella lo avvertì che dipendeva da lui, se avesse voluto menar seco una delle più belle principesse del mondo; che era giunta finalmente l'ora di distruggere il fatale incantesimo ordito dalle fate e che per questo bisognava che egli si risolvesse a tagliar a lei la testa e la coda, e a gettarle subito sul fuoco. "Io?", esclamò, "Bianchina! amor mio! e sarò io tanto spietato da uccidervi? Ah! vedo bene che volete mettere il mio cuore alla prova: ma siate pur certa che esso non è capace di mancare alla amicizia e alla riconoscenza che vi deve," "No, figlio di Re", ella riprese, "io non sospetto in te nemmeno l'ombra dell'ingratitudine; ti conosco troppo: ma non sta né a me né a te a regolare in questo caso i nostri destini: fai quello che ti dico e saremo felici. Sulla mia parola di gatta onorata e perbene, ti farò vedere che ti sono amica..." Al solo pensiero di dover tagliare la testa alla sua Gattina, tanto carina e graziosa, il giovane Principe sentì venirsi per due o tre volte le lacrime agli occhi. Disse tutto quel più che seppe dire di affettuoso, per essere dispensato, ma essa, intestata, rispondeva che voleva morire per le sue mani; e che questo era l'unico mezzo per impedire ai fratelli di lui d'impadronirsi della corona: insomma, insisté tanto e poi tanto, che alla fine egli tirò fuori la spada e con mano tremante tagliò la testa e la coda della sua buona amica. In quel punto stesso si trovò presente alla più bella metamorfosi che si possa immaginare. Il corpo di Gatta Bianca cominciò a ingrandire e tutt'a un tratto diventò una fanciulla: meraviglia da non potersi descrivere a parole, e unica forse al mondo. I suoi occhi rubavano i cuori, e la sua dolcezza li teneva legati: la sua figura era maestosa, l'aspetto nobile e modesto, lo spirito seducente, le maniere cortesi: e per dir tutto in una parola, ell'era al disopra di tutto ciò che vi può essere di amabile e di grazioso sulla terra.
Il Principe, a vederla, rimase preso da un grande stupore: ma da uno stupore così piacevole, che credette di essere incantato. Non poteva spiccar parola: pareva che gli occhi non gli bastassero per guardarla, e la lingua legata non trovava il verso di esprimere la sua meraviglia; la quale si accrebbe di mille doppi, quand'egli vide entrare una folla straordinaria di dame e di cavalieri, colla loro brava pelle di gatto o di gatta, gettata sulle spalle, che andavano a prosternarsi ai piedi della Regina, e a darle segno della loro gioia per vederla tornata nel suo primo stato naturale. Essa li ricevé con tutta quella bontà, che rivelava l'eccellente pasta del suo cuore e del suo carattere, e dopo essersi trattenuta un poco con essi, ordinò che la lasciassero sola col Principe, al quale parlò così: Non vi mettete in capo, o signore, che io sia stata sempre gatta: e che la mia nascita sia oscura fra gli uomini. Mio padre era Re e padrone di sei regni. Egli amava teneramente mia madre, e la lasciava liberissima di fare tutto ciò che le ava per la mente, La ione dominante di mia madre era quella di viaggiare: per cui, sebbene incinta di me, intraprese una gita per andare a vedere una montagna, della quale aveva sentito dire cose dell'altro mondo. E mentr'era per via, le fu detto che lì in que' pressi c'era un castello di fate, il più bello fra quanti se ne conoscevano; o almeno creduto tale per una antichissima tradizione; perché non essendovi mai entrato nessuno, non potevasi giudicarne che dal di fuori: ma la cosa che si sapeva per certo era questa, che le fate avevano nel loro giardino certe frutta così delicate e saporite, come non se ne sono mangiate mai. Ecco subito che alla Regina mia madre nacque una gran voglia di assaggiarle, e si avviò verso quella parte. Giunse alla porta di questo magnifico palazzo, tutto risplendente d'oro e di azzurro: ma bussò inutilmente. Non comparve anima viva: si sarebbe detto che erano tutti morti. Quest'indugi servivano a farle crescere la voglia; sicché mandò in cerca di scale per iscavalcare i muri del giardino; e la cosa sarebbe riuscita bene, se i muri non si fossero alzati lì per lì, e senza vedere una mano che ci lavorasse. Si prese allora il ripiego di mettere le scale le une sulle altre! ma finirono di fracassarsi sotto il peso di quelli che ci salivano sopra, i quali, cadendo giù, rimanevano morti o stroppiati. La Regina era disperata. Vedeva i grandi alberi carichi di frutta, che essa credeva deliziose, e voleva cavarsene la voglia, o morire: e per questo, fece rizzare dinanzi al castello parecchie tende signorili e di gran lusso, e vi si trattenne sei settimane con tutta
la sua Corte. Non dormiva né mangiava più: non faceva altro che sospirare, parlando sempre della frutta del giardino inaccessibile, finché si ammalò, senza trovare chi potesse sollevarla del suo male, perché le inesorabili fate non si fecero mai vedere, dopo che ella si era attendata in vicinanza del loro castello. Tutti i suoi uffiziali si affliggevano dimolto: non si sentivano che pianti e sospiri da tutte le parti, mentre la Regina moribonda chiedeva delle frutta a quelli che la servivano, ma non ne voleva di altra specie, all'infuori di quelle che le venivano negate. Una notte, mentre era in un mezzo dormiveglia, aprì gli occhi e svegliandosi vide una vecchiettina decrepita e brutta più del peccato, seduta in una poltrona accanto al capezzale del suo letto. Si maravigliò che le sue dame avessero lasciata are una sconosciuta nella sua camera; quando questa le disse: "A noi ci pare che la tua Maestà sia molto indiscreta, a incaponirsi a voler mangiare per forza le nostre frutta; ma perché ci va di mezzo la tua vita preziosa, le mie sorelle e io acconsentiremo a dartene tante, quante ne potrai portare, finché starai qui: ma a un patto: al patto che tu ci faccia un regalo". "Ah! mia buona nonna", gridò la Regina, "chiedete e domandate! io son pronta a darvi il mio regno, il mio cuore, l'anima mia, purché mi cavi la voglia delle vostre frutta: a nessun prezzo mi parranno care." "Noi vogliamo", diss'ella, "che tua Maestà ci dia la figlia che porti nel seno. Quando sarà nata, verremo a pigliarla e l'alleveremo noi: non c'è virtù, bellezza o sapienza, che essa non possa avere per mezzo nostro, in una parola sarà nostra figlia e noi la faremo felice: ma intendiamoci bene: la tua Maestà non potrà rivederla fino al giorno che non si sarà maritata. Se il patto ti garba, io ti guarisco subito, menandoti qui nei pomari del nostro giardino: non badare che sia notte; ci vedrai abbastanza, per iscegliere le frutta che vorrai. Se il patto non ti va, buona notte, signora Regina e scappo a letto." "Per quanto sia dura la legge che m'imponete", rispose la Regina, "l'accetto piuttosto che morire, perché è più che certo che mi rimane appena un giorno di vita, e morendo io, la figlia mia morirebbe con me. Guaritemi, sapiente fata", ella seguitò a dire "e non mi fate perdere nemmeno un minuto per arrivare al godimento della grazia che mi avete fatta." La fata la toccò con una bacchettina d'oro, dicendo: "Che la tua Maestà sia libera da tutti i mali, che la tengono inchiodata nel letto". A queste parole le parve di
trovarsi alleggerita da una veste di piombo, pesante e dura, che le toglieva il respiro, e che in certi punti sentiva pesarla anche di più, perché forse era lì la sede del male. Fece chiamare tutte le sue dame e disse loro, con viso sorridente, che stava benissimo, che si voleva levar subito, che finalmente le porte del castello, serrate a chiavistello, e a doppia mandata, si sarebbero aperte per lei, perché potesse mangiare le belle frutta del giardino e portarne via con sé, quante ne avesse volute. Fra tutte quelle dame, non ce ne fu una sola la quale non sospettasse che la Regina fosse caduta in delirio, e che in quel momento sognasse a occhi aperti le frutta tanto desiderate: per cui, invece di risponderle a tono, si misero a piangere e fecero svegliare tutti i medici, perché venissero a vederla. Quest'indugio faceva inquietare la Regina, la quale domandava i suoi vestiti, e nessuno si muoveva; e la cosa andò tanto in là che finì col lasciarsi pigliare dalla bizza e diventò rossa come una ciliegia. Alcuni badavano a dire che era effetto della febbre: ma i medici, essendo finalmente arrivati, e dopo averle tastato il polso e fatte le solite cerimonie di uso, non poterono far di meno di dichiarare che era tornata in perfettissima salute. Le sue donne accortesi del granchio a secco che avevano preso per troppo zelo, cercarono di riparare al mal fatto, vestendola da capo a piedi in quattro e quattr'otto. Le chiesero perdono: tutto fu accomodato: ed essa si affrettò a seguire la vecchia fata che l'aveva aspettata fin allora. Entrò nel palazzo, dove non ci mancava nulla per essere il più bel palazzo del mondo: "E voi, o signore, non penerete a crederlo", soggiunse Gatta Bianca, "quando vi avrò detto che è quello stesso, dove oggi io e voi ci troviamo". Due altre fate, un po' meno vecchie di quella che conduceva mia madre, vennero a riceverla alla porta e le fecero un'accoglienza, che pareva proprio una festa. Essa le pregò di menarla subito nel giardino e precisamente a quelle spalliere, dove avrebbe potuto trovare i frutti migliori. "Sono tutti buoni nello stesso modo", risposero le fate, "e se non fosse che tu vuoi cavarti il gusto di coglierli colle tue mani, noi non avremmo da fare altro che chiamarli e farteli venire fin qui!" "Oh! ve ne supplico, signore mie", esclamò la Regina "fate che io abbia la contentezza di vedere una cosa così meravigliosa e fuori dell'usuale." La più vecchia delle due fate si pose un dito in bocca e fece tre fischi: poi gridò "albicocche, pesche, noci, prugnole, pere, poponi, uva mascadella, mele, arance, limoni, uva spina, fragole, lamponi, correte tutti al mio comando!". "Ma", osservò la Regina, "tutte codeste frutta vengono in diverse stagioni dell'anno!" "Nei nostri orti non è così", esse risposero, "noi abbiamo sempre ogni sorta di
frutta della terra: sempre buone, sempre mature, e non vanno mai a male." In quel frattempo le frutta arrivarono, rotolandosi, arrampicandosi le une sulle altre, senza mescolarsi e senza insudiciarsi; sicché la Regina, che si struggeva di levarsene la voglia, vi si buttò sopra, e prese le prime che le capitarono sotto mano. Non le mangiò: ma le divorò. Quando fu piena fino alla gola, pregò le fate di lasciarla andare alla spalliera, per poterle scegliere coll'occhio prima di coglierle. "Volentieri", risposero le fate, "ma rammentate la promessa che avete fatta: ormai non c'è più tempo per tornare indietro." "Io son così persuasa", ella riprese a dire, "che qui da voi si faccia una vita d'oro e mi pare che questo palazzo sia tanto bello, che se non fosse per il gran bene che voglio al Re mio marito, mi metterei d'accordo per restarci anch'io: vedete dunque se è mai possibile che io possa pentirmi di quel che ho detto." Le fate, tutte contente da non si credere, le apersero i loro giardini e i recinti più appartati; e tanto essa ci si trovò bene, che vi si trattenne tre giorni e tre notti, senza allontanarsi di lì un minuto. Fece una gran provvista di frutta e ne colse quante ne poté cogliere: e perché sapeva che non andavano a male, ne fece caricare quattromila muli che condusse seco. Al dono delle frutta le fate vollero aggiungere quello dei corbelli e delle ceste d'oro, d'un lavoro finissimo che pareva fatto col fiato: le promisero che mi avrebbero allevata da Principessa, come io era, che mi avrebbero data un'educazione perfetta, e a suo tempo scelto uno sposo. Le dissero di più che ella sarebbe stata avvertita del giorno delle nozze, e che contavano sul sicuro che non sarebbe mancata. Il Re fu lieto del ritorno della Regina e tutta la Corte le dimostrò la sua gioia. Ogni giorno erano balli, mascherate, tornei e feste, dove le frutta portate dalla Regina venivano distribuite, come un regalo prelibato. Il Re stesso le preferiva a ogni altra cosa. Esso non sapeva nulla del patto che la Regina aveva combinato colle fate, e le domandava in quali paesi era stata per trovare di quelle delizie. Essa ora rispondeva che le aveva trovate sopra un'alta montagna, quasi inaccessibile: ora che nascevano in vallate: e qualche volta inventava che crescevano in un giardino o in mezzo a una gran foresta. Il Re non sapeva spiegarsi tante contraddizioni. Interrogava coloro che l'avevano accompagnata, ma questi non osavano fiatare per avere avuto la proibizione di dire una sola mezza parola su questa avventura. Alla fine la Regina, inquieta della promessa fatta alle fate e vedendo avvicinarsi il tempo del parto, fu presa da un gran mal
umore: non faceva altro che sospirare e si struggeva a vista, come una candela. Il Re se ne impensierì, e incominciò a insistere colla Regina, per sapere la cagione della sua gran tristezza: e batti oggi, batti domani, finalmente essa gli raccontò tutto quello che era ato fra lei e le fate e com'essa avesse promesso loro la figlia che stava per mettere alla luce. "Come!", esclamò il Re, "noi non abbiamo figliuoli: voi sapete quanto io li desideri, e per la gola di mangiare due o tre mele, siete stata capace di promettere vostra figlia? Bisogna proprio dire che non mi volete un filo di bene." E lì cominciò a farle dei rimproveri e ne disse tante e tante, che la mia povera madre fu quasi per morir di dolore. E come se questo fosse poco, la fece chiudere in una torre e messe delle guardie dappertutto perché non potesser barattar parola con anima viva, all'infuori degli uffiziali destinati a servirla: e volle che fossero cambiate tutte quelle persone del servizio che l'avevano accompagnata al castello delle fate. Quest'urto fra il Re e la Regina gettò in Corte una gran costernazione. Ciascuno riponeva i suoi abiti di gala per vestirne dei più adattati all'afflizione generale. Dal canto suo il Re si mostrava inesorabile: non volle più vedere sua moglie: e appena fui nata, mi fece portare nel suo palazzo per esservi allevata, mentre mia madre era sempre in prigione e nel massimo squallore. Peraltro le fate non ignoravano quello che accadeva: e se la presero molto a male e volevano avermi a tutti i costi, perché mi riguardavano come cosa loro, e stimavano che il ritenermi in Corte fosse lo stesso che commettere un furto a loro danno. Prima di pigliarsi una vendetta coi fiocchi e proporzionata al loro dispetto, esse mandarono al Re una celebre ambasceria per ammonirlo a ridare la libertà alla Regina e a riammetterla nelle sue buone grazie, e per pregarlo al tempo stesso di consegnar me ai loro ambasciatori. E questi ambasciatori erano nani schifosi e di una figura così stronca e piccina, che non ebbero nemmeno la sorte di poter capacitare il Re delle loro ragioni. Egli li messe fuori dell'uscio senza tanti complimenti, e se non facevano presto a scappare, chi lo sa come sarebbe finita. Quando le fate seppero il contegno di mio padre, presero una bizza da non si credere: e dopo aver mandato nei sei regni tutti i malanni immaginabili, vi scatenarono un drago orribile, il quale sputava veleno per tutto dove ava; mangiava bestie e cristiani, e soltanto col fiato faceva seccare tutti gli alberi e tutte le piante. Il Re era disperato. Si consultò con tutti i savi dello Stato per trovare il modo di
liberare i suoi sudditi da tante sciagure, dalle quali erano tribolati. Chi gli suggerì di mandare a cercare per tutto il mondo i migliori medici e i rimedi più accreditati: altri invece lo consigliava a promettere la grazia della vita a tutti i condannati a morte, a patto che andassero a combattere il drago. Al Re piacque il consiglio, e lo accettò: ma non ne ricavò nessun vantaggio, perché la mortalità infieriva di bene in meglio, e quanti andavano contro il drago, erano tutti divorati vivi: sicché non gli rimase altro ripiego, che ricorrere a una fata, che lo aveva avuto sempre sotto la sua protezione fin da ragazzo. Essa era vecchia decrepita e non si levava quasi più dal letto: andò a casa di lei e le fece mille rimproveri perché lo lasciava tartassare a quel modo dal destino, senza venire in suo aiuto. "Come volete voi che io faccia?", gli diss'ella, "voi avete inasprite le mie sorelle; esse hanno tanto potere, quanto me, e non c'è caso che fra noi ci si dia addosso. Pensate piuttosto a rabbonirle, dando loro la vostra figlia: questa Principessina è cosa loro. Voi avete chiuso la Regina in un buco di prigione: che vi ha ella fatto quella donna così amabile, per essere trattata tanto male? Animo, da bravo: mantenete la promessa di vostra moglie, e allora vi pioverà addosso ogni felicità." Il Re, mio padre, mi voleva un gran bene: ma non vedendo altro verso per salvare i suoi regni e per liberarsi dal drago fatale, finì col dire alla sua amica che s'era convinto delle buone ragioni e che non aveva più difficoltà a darmi in mano alle fate, tanto più che essa lo assicurava che sarei stata accarezzata e allevata da Principessa, par mio; che avrebbe ripresa con sé la Regina e che la fata non aveva da far altro che dirgli a chi doveva consegnarmi, perché io fossi portata al castello delle fate. "Bisogna portarla", gli rispose, "sulla montagna dei fiori: e voi potete trattenervi lì, a una certa distanza, per assistere alle feste che saranno fatte." Il Re le disse che dentro otto giorni ci sarebbe andato insieme colla Regina; e che intanto poteva avvisare le fate sue sorelle, perché si preparassero a quello che volevano fare. Tornato che fu al palazzo, mandò a riprendere la Regina con tanta premura e tanta pompa, quanta era stata la rabbia colla quale l'aveva fatta imprigionare. Essa era così abbattuta e malandata, che il Re avrebbe penato a riconoscerla, se il suo cuore non gli avesse detto che era quella medesima persona in altri tempi tanto amata da lui. La scongiurò colle lacrime agli occhi di dimenticare i grandi
dispiaceri che le aveva cagionati, col dire che sarebbero stati i primi e gli ultimi. Ella rispose che se li era meritati, per l'imprudenza di aver promesso la figlia alle fate: e che in quel tempo non aveva altra scusa, se non lo stato interessante in cui si trovava. Alla fine il Re le palesò la sua intenzione, che era quella di consegnarmi in mano alle fate; ma la Regina, per la sua parte, si oppose. Era proprio il caso di dire che il diavolo ci aveva messo le corna, e che io doveva essere il pomo della discordia fra mio padre e mia madre. Quando ebbe pianto e singhiozzato ben bene senza ottener nulla (perché mio padre ne vedeva le funeste conseguenze e i nostri sudditi continuavano a morire a branchi, come se fossero responsabili degli errori della nostra famiglia), diceva dunque che quando mia madre ebbe pianto e singhiozzato ben bene, si rassegnò e acconsentì a ogni cosa e si allestirono i preparativi per la cerimonia della consegna. Fui messa in una culla di madreperla, ornata di tutte quelle galanterie che l'arte può immaginare. Erano ghirlande di fiori e festoni in giro in giro: e i fiori erano pietre preziose, i cui vari colori, al riflesso del sole, lampeggiavano in modo da far male agli occhi. La magnificenza del mio abbigliamento sorava, se si può dire, quella della culla: tutte le trine delle mie fasce erano fatte di grosse perle. Ventiquattro principesse reali mi portavano sopra una specie di barella leggerissima; la loro acconciatura usciva affatto dal comune, ma non era stato permesso di usare altri colori che il bianco, come per alludere alla mia innocenza. Tutte le persone della Corte, schierate per ordine e per grado, mi accompagnavano. Mentre si saliva la montagna si fece sentire una sinfonia melodiosa, che si avvicinava sempre; finché comparvero le fate in numero di trentasei; esse avevano pregate le loro buone amiche di pigliar parte alla festa. Ciascuna era seduta in una conchiglia più grande di quella di Venere, quando uscì dal mare; e pariglie di cavalli marini, che non erano avvezzi a camminare per terra, strascicavano quelle brutte vecchie con tanta pompa, come se fossero state le più grandi Regine dell'universo. Esse portarono un ramo d'ulivo, per significare al Re che la sua sommissione aveva trovato grazia al loro cospetto: e allorché mi ebbero presa in collo, furono tali e tante le loro carezze, che pareva non avessero altra ione, che quella di rendermi felice. Il drago, che aveva servito a vendicarle contro mio padre, veniva dietro di loro, attaccato con una catena tutta di diamanti. Esse mi abballottarono fra le loro
braccia, mi fecero mille carezze, mi dotarono d'ogni ben di Dio: e quindi incominciarono la ridda delle streghe. È un ballo molto allegro: né c'è da figurarsi i salti e gli sgambetti che fecero quelle vecchie zittellone: dopo di che il drago, che aveva mangiato tanta gente, si avvicinò strisciando per terra. Le tre fate, alle quali mia madre mi aveva promesso, vi si sedettero sopra, misero la mia culla fra di loro, e toccato il drago con una bacchetta, questo spiegò le sue grand'ali fatte a scaglia, più sottili del crespo finissimo e variopinte di mille bizzarri colori. Fu in questo modo che le fate tornarono al loro castello. Mia madre vedendomi per aria sulla groppa del drago, non poté trattenersi dal mandare altissime grida. Il Re la consolò col dire che dalla fata sua amica era stato assicurato che non mi sarebbe accaduto nulla di male, e che anzi si sarebbe avuto di me la stessa cura, come se fossi rimasta nel mio proprio palazzo. Ella si dette pace, sebbene fosse per lei una grande afflizione quella di dovermi perdere per sì lungo tempo e per cagion sua: tanto è vero che, se non fosse stata presa dalla voglia di assaggiare i frutti del giardino, io sarei cresciuta nel regno di mio padre e non avrei avuto tutti i dispiaceri, che mi resta ancora da raccontarvi. Sappiate dunque, figlio di Re, che le mie custodi avevano fabbricata apposta una torre, nella quale vi erano molti begli appartamenti per tutte le stagioni; mobili magnifici, libri piacevolissimi, ma nemmeno una porta; sicché bisognava entrare dalle finestre, le quali erano a tanta altezza da far venire il capogiro. Sopra la torre si trovava un bel giardino ornato di fiori, di fontane e di pergolati di verzura, che riparavano dai bollori della canicola. In questo luogo le fate mi allevavano con tali cure, da sorare quanto avevano promesso alla Regina. I miei vestiti erano tagliati secondo il gusto della moda: e tanto ricchi e magnifici che, vedendomi, si sarebbe creduto che io fossi in giorno di nozze. Le fate m'insegnarono tutte quelle cose, che si addicevano alla mia età e alla mia nascita; né io davo loro molto da fare, perché avevo la facilità d'imparare alla prima. La dolcezza del mio carattere le aveva innamorate: e perché io non aveva mai veduto nessun altro, intendo benissimo che sarei rimasta tranquillamente in quello stato per tutto il rimanente della vita. Esse venivano sempre a trovarmi, montate sul famoso drago che sapete: non mi rammentavano mai né il Re né la Regina; e siccome mi chiamavano la loro figlia, io credeva di esserlo davvero. Per potermi divertire mi avevano dato un cane e un pappagallo, i quali avevano il dono della parola e parlavano come due
avvocati. Nella torre non c'era con me nessun altro. Un lato di questa torre era fabbricato sopra una strada molto avvallata e tutta coperta di alberi; di modo che dal giorno che vi fui rinchiusa non avevo mai veduto arvi anima viva. Ma un giorno, essendo alla finestra a ciarlare col cane e col pappagallo, mi parve di sentire qualche rumore: guardai da tutte le parti e finalmente mi venne fatto di vedere un giovine cavaliere, che si era fermato per ascoltare la nostra conversazione. Io non avevo veduto altri uomini, altro che dipinti, sicché non mi dispiaceva punto quest'occasione altrettanto propizia quanto inaspettata. Senza pensare alle mille miglia al pericolo che andava unito alla soddisfazione di ammirare un oggetto così piacevole, mi spenzolai in fuori per vederlo meglio; e più lo guardavo e più ci pigliavo gusto. Egli mi fece una gran riverenza, fissò i suoi occhi su me e mi parve che si stillasse il cervello per trovare il modo di potermi parlare; perché la mia finestra era altissima ed egli aveva paura di essere scoperto, sapendo bene che io mi trovavo nel giardino delle fate. Il sole calò tutt'a un tratto: o per dir la cosa come sta, si fece notte senza che ce ne avvedessimo; per due o tre volte egli si portò il corno alla bocca e mi rallegrò con qualche suonatina; poi se ne andò, senza che io potessi vedere nemmeno che strada pigliasse, tanto la notte era buia. Io rimasi come estatica, e non provai più il solito piacere a far conversazione col mio cane e col mio pappagallo. Essi mi dicevano le cose più carine del mondo, perché le bestie fatate sono piene di spirito, ma io avevo la testa chi sa dove, né conoscevo punto l'arte di simulare. Il pappagallo se ne accorse: ma furbo com'era, non fece trapelar nulla di quello che rimuginava per il capo. Fui puntuale a levarmi col sole: corsi alla finestra e fu per me una gratissima sorpresa quella di vedere il giovine cavaliere a piè della torre. Egli vestiva un abito magnifico: e in questo suo lusso mi lusingai di averci un po' di merito anch'io, e colsi nel segno. Egli mi parlò con una specie di tromba, o, come chi dicesse, con un portavoce, e mi disse che essendo stato fin allora indifferente a tutte le bellezze che aveva vedute, ora si sentiva tutt'a un tratto ferito talmente dalla mia, da non sapere quel che sarebbe di lui, se non potesse vedermi tutti i giorni. Questo complimento mi fece un gran piacere, e fui dolentissima di non potergli rispondere, perché mi sarebbe toccato a gridar forte e col rischio di essere sentita prima dalle fate, che da lui. Avevo in mano dei fiori: e glieli gettai; egli gradì il picciol dono come un favore insigne: li baciò più volte e mi ringraziò. Mi chiese quindi se sarei contenta che egli venisse tutti i giorni e alla
stess'ora sotto la mia finestra, e se io volessi essere tanto cortese da gettargli qualche cosa. Io aveva un anello di turchine: me lo levai lesta lesta dal dito e glielo buttai con molta fretta, facendogli segno di andarsene come il vento. E la ragione era che dall'altra parte avevo sentito la fata Violenta che, a cavallo al drago, veniva a portarmi la colazione. La prima cosa che disse entrando in camera mia, furono queste parole: "Sento l'odore della voce d'un uomo: cerca, drago!". Figuratevi se mi rimase sangue nelle vene! Ero più morta che viva dalla paura che il drago, ando per l'altra finestra, non si mettesse a dar dietro al cavaliere pel quale io già sentivo una mezza ione. "Davvero", diss'io, "mia buona mamma (perché la vecchia fata voleva che la chiamassi così), davvero che mi sembrate in venia di celiare, dicendo che sentite l'odore della voce di un uomo: forse che la voce ha un odore? e quand'anche l'avesse, chi volete che sia il temerario da arrisicarsi a salire in cima a questa torre?" "Dici bene, figlia mia, dici bene", ella rispose, "e mi fa piacere di sentirti ragionare a codesto modo. Capisco anch'io che dev'essere l'odio che sento per tutti gli uomini, quello che mi fa crederli vicini anche quando sono lontani." Mi diede la colazione e la rocca; poi soggiunse: "Quando avrai finito di mangiare, mettiti lì e fila; ieri non facesti nulla: e le mie sorelle se l'hanno per male". Difatto il giorno innanzi ero stata tanto occupata col cavaliere sconosciuto, che non toccai né la rocca né il fuso. Appena se ne fu ita, gettai via la rocca con una specie di dispetto e montai su in cima alla torre, per vedere più lontano che fosse possibile. Avevo con me un eccellente canocchiale: nulla all'intorno m'impediva la vista: ero padrona di voltarmi e di guardare da tutte le parti, quand'ecco che mi venne fatto di scoprire il mio cavaliere in vetta a una montagna. Egli si riposava sotto un ricco padiglione di broccato d'oro ed era circondato da una numerosissima Corte. Pensai subito che dovesse essere il figlio di qualche Re, vicino al palazzo delle fate. E perché avevo paura che tornando egli sotto la torre potesse essere scoperto dal terribile drago, così andai a prendere il mio pappagallo e gli ordinai di volare in cima a quella montagna, dove avrebbe trovato quel cavaliere che aveva parlato con me, al quale doveva dire da parte mia di non tornare sotto le finestre a motivo che, da quanto m'ero accorta, le fate stavano con tanto d'occhi e gli potevano fare un brutto scherzo.
Il pappagallo compì la sua commissione da vero pappagallo di spirito. Rimasero tutti stupiti di vederlo venire ad ali spiegate e posarsi sulla spalla del Principe per parlargli sotto voce all'orecchio. Il Principe gradì per un verso l'ambasciata: e per un altro verso gli dispiacque. La cura che mi pigliavo di lui, faceva bene al suo cuore; ma tutte le difficoltà che incontrava per potermi parlare lo disanimavano, senza distoglierlo peraltro dal disegno che egli aveva fatto di piacermi. Rivolse cento domande al pappagallo: e il pappagallo, curioso di sua natura, ne fece altrettante a lui. Il Re gli dette per me un anello in cambio di quello colla turchina: e anche il suo era una turchina, ma molto più bella della mia: era tagliata a cuore e contornata di brillanti. "È giusto", egli soggiunse, "che io vi tratti da ambasciatore. Eccovi in regalo il mio ritratto; ma non lo fate vedere a nessuno, fuori che alla vostra cara padroncina." E dicendo così, attaccò il ritratto sotto l'ala del pappagallo, il quale portò nel becco l'anello che aveva per me. Io aspettavo il ritorno del mio corriere verde, con un'impazienza che non avevo provata mai. Egli mi disse che la persona, dalla quale lo avevo mandato, era un gran Re; che gli aveva fatto un'accoglienza coi fiocchi: che esso non poteva vivere senza di me: e che sebbene ci fosse un gran pericolo a venire sotto la mia torre, io poteva esser certa che egli era preparato a tutto, piuttosto che rinunziare a vedermi. Queste cose mi messero addosso un gran malessere; e cominciai a piangere come una bambina. Pappagallo e il canino Titì s'ingegnavano di farmi coraggio, perché mi volevano un gran bene. Quindi Pappagallo mi presentò l'anello del Principe, e mi fece vedere il ritratto. Confesso che non ho sentito mai tanta consolazione, quanta n'ebbi nel considerare da vicino e sotto gli occhi colui che non avevo veduto altro che da lontano. Mi parve anche più grazioso che non mi fosse parso dapprima; e cento pensieri, parte piacevoli e parte tristi, mi si affollarono nel capo e m'entrò nel sangue un'irrequietezza straordinaria. Le fate vennero a trovarmi e se ne accorsero. Esse dissero fra loro che senza dubbio io doveva annoiarmi e che bisognava cercarmi uno sposo della loro razza. Ne nominarono diversi: ma si fermarono sul piccolo Re Migonetto, il cui regno era cinquecentomila miglia distante di lì, ma questo non era un ostacolo serio. Pappagallo sentì questo bel fissato, e venendo subito a rifischiarmelo, mi disse: "Mi fareste proprio pietà, cara padrona, se vi toccasse per marito il Re Migonetto: egli è un fagotto di panni sudici da far paura: il Re, che voi amate, non lo piglierebbe nemmeno per suo Tira-stivali". "Di', Pappagallo, e tu l'hai visto?" "Se l'ho visto?", egli soggiunse, "figuratevi che sono stato allevato sopra un ramo insieme a lui." "Come sopra un ramo?", domandai io. "Sissignora! perché bisogna sapere che egli ha i piedi di Aquilotto."
Quei discorsi mi fecero un gran male. Guardavo il bel ritratto del Re, e pensavo che egli non lo aveva regalato a Pappagallo se non perché io lo potessi vedere: e quando lo confrontavo con quello di Migonetto mi cascavano le braccia e piuttosto che sposare quello scimmiotto mi veniva voglia di lasciarmi morire. Non chiusi un occhio in tutta la notte. Pappagallo e Titì mi tennero un po' di compagnia. A giorno mi appisolai: ma il canino, che aveva un buon naso, sentì che il Re era giù a piè della torre. Svegliò Pappagallo e gli disse: "Scommetto che già a basso c'è il Re". Pappagallo rispose: "Chetati, chiacchierone! perché stai sempre cogli occhi aperti e cogli orecchi per aria? ti dispiace che gli altri riposino un poco?". "Eppure", insisté il buon cane, "scommetto che c'è." "E io ti dico che non c'è", replicò il Pappagallo, "non sono forse stato io che gli ho proibito di venir qui da parte della Principessa?" "Una bella proibizione davvero!", gridò il canino, "un uomo che ama non consulta che il suo cuore." E nel dir così cominciò a strapazzargli con tanta poca grazia le ali, che Pappagallo perse i cocci sul serio. Gli urli di tutti e due mi svegliarono: e saputo il motivo del battibecco non corsi, no, ma volai alla finestra: e vidi il Re che mi stendeva le braccia e col mezzo del portavoce mi disse non poter più vivere senza di me, e mi scongiurava per ora a fare in modo o di venir via dalla torre o di farci entrare anche lui, chiamando in testimonio tutti gli Dei dell'Olimpo che mi avrebbe sposata subito, e che io sarei diventata una delle più grandi Regine dell'Universo. Ordinai a Pappagallo di andargli a dire che quello che mi chiedeva era impossibile: ma che nondimeno dietro la parola data e i giuramenti fatti, mi sarei ingegnata di renderlo felice: peraltro mi raccomandavo perché non venisse sotto la torre tutti i giorni: a lungo andare la cosa si sarebbe scoperta, e allora le fate non avrebbero avuto né pietà né misericordia. Se ne andò col cuore pieno di gioia e di speranza, e io mi trovai in una grande afflizione di spirito, ripensando a quanto avevo promesso. Come uscire dalla torre, che non aveva neppure il segno di una porta, senz'altro aiuto che Pappagallo e Titì, ed essendo io così giovane, così poco esperta e così paurosa?... La mia risoluzione, dunque, fu quella di cimentarmi a tentare una prova, dalla quale non avrei saputo levarci le gambe, e lo mandai a dire al Re col mezzo di Pappagallo. Egli, di prim'impeto, voleva uccidersi dinanzi ai suoi occhi: ma poi lo incaricò di persuadermi e di andarlo a veder morire o di consolarlo nella sua ione. "Sire!", esclamò l'ambasciatore colle penne, "la mia padrona è più che persuasa
delle vostre parole... Non è che manchi di buona volontà! Se potesse!..." Quando tornò a ridirmi quel che era accaduto, mi afflissi più che mai. Entrò la fata Violenta e mi trovò cogli occhi rossi: allora cominciò a dire che io aveva pianto e che se non confessavo il motivo, mi avrebbe bruciata viva; perché tutte le sue minacce erano sempre spaventose. Risposi, tremando come una foglia, che m'ero annoiata a filare e che avrei preso volentieri un po' di spago, per far delle reti e chiappare gli uccellini che venivano a beccare la frutta del mio giardino. "È questo, figlia mia", ella disse "tutto quello che desideri? allora non piangerai più: ti porterò tanto spago da non sapere dove metterlo." E detto fatto, me lo portò la sera stessa: e intanto mi avvertì di pensare a farmi bella e a non piangere, perché il Re Migonetto stava per arrivare da un momento all'altro. A questa notizia mi vennero i brividi per le spalle, ma non rifiatai. Appena fu fuori della stanza cominciai a fare qualche lacciuolo; ma l'intenzione mia era di fare una scala di corda, la quale mi riuscì benissimo senza che ne avessi mai vedute. Peraltro la fata non mi portava mai tanto spago, quant'era il bisogno, e mi badava a dire: "Ma, figlia mia, il tuo lavoro è come la tela di Penelope: non va avanti di una maglia e sei sempre a chiedermi dell'altro spago". "O mia buona mammina", rispondevo io, "voi discorrete bene: ma non vedete che io non so proprio che cosa annaspo e che butto sul fuoco il mio lavoro? Avete paura che vi faccia fallire per un po' di spago?" Il mio modo ingenuo di fare la metteva di buon umore, sebbene fosse di un carattere insoffribile e veramente crudele. Col mezzo di Pappagallo mandai a dire al Re di venire una tal sera sotto le finestre della torre; che ci troverebbe la scala e che il resto l'avrebbe saputo lì sul posto. Infatti attaccai per bene la scala, risoluta com'ero a fuggirmene con lui; ma appena egli la vide, senza darmi tempo di scendere, salì su in un batter d'occhio, mentr'io stavo mettendo in ordine ogni cosa per la fuga. La vista di lui mi fece provare tanta gioia, che non pensai più al pericolo che ci stava sul capo. Mi rinnuovò i suoi giuramenti e mi scongiurò di non differire più in là ad accettarlo per mio sposo. Pappagallo e Titì, pregati da me, ci fecero da testimoni. Non c'è esempio di una festa di nozze celebrata con tanta semplicità fra due persone di grado così elevato, né c'è ricordanza di due cuori più
soddisfatti e contenti dei nostri. Non era ancora spuntata l'alba, quando il Re mi lasciò: io gli avevo raccontato l'orribile disegno delle fate di volermi maritata al Re Migonetto; gliene feci il ritratto e n'ebbe più ribrezzo di me. Appena partito lui, le ore mi parvero anni. Corsi alla finestra e lo accompagnai cogli occhi, sebbene fe ancora buio. Ma quale non fu il mio stupore, nel vedere per aria un cocchio tirato da salamandre alate, che correvano a rotta di collo, tanto che l'occhio poteva appena seguirle! Questo carro era scortato da un nuvolo di guardie, montate sopra tanti struzzi. Non ebbi tempo di rendermi ragione di chi corresse per l'aria a quel modo, ma mi figurai subito che dovesse essere o un mago o una fata. Di lì a poco, la fata Violenta entrò nella mia camera. "Ho da darti delle buone nuove", ella mi disse, "il tuo amante è arrivato qui da poche ore: preparati a riceverlo; eccoti dei vestiti e dei finimenti di pietre preziose." "E chi mai vi ha detto", risposi un po' risentita "che io voglia maritarmi? Non è davvero la mia intenzione. Il Re Migonetto può tornarsene di dove è venuto, ché per me è padronissimo: fra me e lui non ci pigliamo di certo." "Sentite! sentite!", disse la fata, "o che non mi si mette a far la difficile? vorrei un po' sapere che cosa armeggi con quel cervellino! Alle corte, con me non si scherza; o tu lo sposi, o io..." "O voi?... sentiamo un po' che cosa voi mi farete?", soggiunsi, diventando rossa scarlatta fino alla punta dei capelli per l'impertinenze che mi aveva dette, "che mai mi può accader di peggio che esser tenuta in una torre, in compagnia di un cane e di un pappagallo e coll'obbligo di vedere sette o otto volte il giorno la figura di un drago spaventoso?" "Oh? sconoscente, che non sei altro!", disse la fata, "vai là, che meritavi proprio tutti i pensieri e le pene, che ci siamo date per te! Già, io l'avevo detto da un pezzo alle mie sorelle: ne avremo una bella ricompensa!..." Ella andò a trovarle e raccontò loro quello che era ato fra noi due, e rimasero scandalizzate. Pappagallo e Titì mi dissero, a tanto di lettere, che se io seguitavo a battere quella strada, mi sarei trovata a dei brutti guai. Ma in quel momento mi sentivo così orgogliosa di possedere il cuore di un gran Re, che le fate non mi facevano paura, e che i consigli dei miei piccoli amici mi entravano da un orecchio e mi
avano da quell'altro. Restai vestita, com'era, né mi volli mettere un nastro in più; anzi, per farlo apposta, mi spettinai tutta per parere a Migonetto una vera befana. L'incontro accadde sulla terrazza. Egli vi giunse nel suo cocchio di fuoco. Dei nani piccini ne ho veduti, ma un nanerucolo a quel modo lì, mai! Per camminare si serviva nello stesso tempo delle zampe d'aquila e dei ginocchi, perché non aveva ossa nelle gambe; e si teneva ritto sopra due grucce, tutte di diamanti. Aveva un manto reale di circa un metro di lunghezza: eppure ne strascicava per terra almeno due buoni terzi. Invece di testa, un grande zuccone che pareva uno staio e un naso così screanzato, che ci stavano sopra una dozzina d'uccelli: ed egli si divertiva a sentirli cantare. La barba pareva un bosco e i canarini ci facevano dentro il nido; gli orecchi gli avano di un metro al disopra del capo; cosa peraltro di cui nessuno si avvedeva, a cagione della smisurata corona a punta che portava in testa, per comparire più alto. Le fiamme che mandava il carro arrostivano le frutte, seccavano i fiori e inaridivano le fontane del mio giardino. Egli mi venne incontro a braccia aperte; ma io non mi mossi né punto né poco; per cui bisognò che il suo scudiere gli desse di braccio. E quando si provò ad avvicinarsi scappai in camera e chiusi la porta e le finestre: sicché Migonetto dové andarsene colle fate, le quali mi avrebbero cavato gli occhi dalla bile. Esse gli chiesero mille e mille scuse della mia ruvidezza; e per abbonirlo, perché era un arnese da far paura, pensarono di condurlo la notte in camera mia, mentr'io dormivo: di legarmi i piedi e le mani e di mettermi così nel carro infuocato, perché potesse menarmi seco. Quando ebbero tutto fissato e combinato, tornarono da me; e mi ripresero leggermente della mia condotta, contentandosi solo di dirmi che in qualche modo bisognava rimediare al malfatto. Tutti questi rimproveri giulebbati e in pelle in pelle, dettero nel naso a Pappagallo e Titì. "Volete che vi parli chiaro, padrona?", disse il mio cane, "il cuore non mi dice nulla di buono. Queste signore fate son certa gente... che Iddio ci liberi tutti, e segnatamente dalla Violenta." Io risi di tutta questa paura e stavo sulle spinte aspettando il mio sposo, il quale si struggeva troppo di vedermi per non essere puntuale ai fissati. Gli gettai la scala di corda col fermo proponimento di fuggirmene con lui. Egli montò, leggero come una piuma, e mi disse tante e poi tante cose gentili e apionate, che anch'oggi non ho cuore di richiamarmele alla memoria. Mentre si stava parlando insieme, tranquilli e sicuri, come se fossimo stati nel palazzo di lui, vedemmo sfondare con un gran colpo la finestra della camera. Le
fate entrarono dentro montate sul loro drago: Migonetto le seguiva sul suo solito cocchio di fuoco, tirandosi dietro tutte le sue guardie a cavallo agli struzzi. Il Re, senza impallidire, messe mano alla spada e non ebbe altro pensiero che quello di difendermi nella più terribile avventura che mi potesse capitare. Ebbene... debbo dirvelo, caro signore? quelle spietate creature gli aizzarono contro il drago, che se lo divorò vivo vivo dinanzi ai miei occhi. Fuori di me per la sciagura sua e mia, mi gettai in bocca all'orribile mostro, perché m'inghiottisse, come avea inghiottito la persona che era tutto l'amor mio: e l'avrebbe fatto volentieri: ma le fate, più crudeli di lui, glielo proibirono. Esse gridarono insieme: "Bisogna serbarla a tormenti più lunghi: una morte sollecita e pronta è quasi uno zuccherino per una creatura così indegna e scellerata". Mi toccarono, e mi vidi trasformata in Gatta Bianca: quindi mi condussero in questo palazzo, che era di mio padre, cambiarono in gatti e in gatte tutti i signori e tutte le dame del Regno, e a parecchi lasciarono soltanto le mani: e così mi ridussero nello stato lacrimevole in cui mi trovaste, facendomi sapere il segreto della mia nascita, la morte di mio padre, quella di mia madre, e come io non avrei potuto essere liberata dalla mia figura di gatta, se non da un Principe che somigliasse come due gocce d'acqua a quello che mi era stato rapito. E voi, o signore, siete il suo ritratto vivo e parlante: le stesse fattezze, la stessa fisonomia, perfino lo stesso suono di voce. Appena vi vidi per la prima volta, ne rimasi colpita: io sapevo tutto quello che doveva accadere, come so quello che accadrà, e però vi dico che le mie pene stanno per finire. "E le mie, bella Regina, dovranno ancora durare un pezzo?", domandò il Principe, gettandosi ai suoi piedi, "Io vi amo, o signore, più della mia vita, E questo è il momento di partire per andare da vostro padre: vedremo quali sono i suoi sentimenti verso di me, e se è disposto a rendervi contento." Ella uscì: il Principe le dette la mano: e insieme con lui montò in una carrozza molto più bella e magnifica di tutte quelle che aveva avuto fin allora. Il resto dell'equipaggio non ci scompariva: basti dire che tutti i ferri dei cavalli erano di smeraldi e i chiodi di diamanti. Da quella volta in poi non s'è visto più nulla di simile. Inutile star qui a ripetere i colloqui, che ebbero insieme il Principe e la
Regina. Ella era di una bontà singolare e di uno spirito finissimo: e il giovane Principe valeva quanto lei: sicché non potevano pensare e dire altro che un monte di bellissime cose. Giunti in vicinanza del castello, dove dovevano trovarsi i due fratelli maggiori del Principe, la Regina entrò in un piccolo blocco di cristallo di monte, di cui tutte le sfaccettature erano guarnite d'oro e di rubini. Tutt'all'intorno era circondato di tendine per impedire ai curiosi di guardar dentro, ed era portato a barella da giovinotti di bellissimo aspetto e vestiti splendidamente. Il Principe rimase nella sua bella carrozza; e di lì poté vedere i suoi fratelli che se la eggiavano a braccetto di due Principesse d'una bellezza da sbalordire. Appena lo riconobbero, gli andarono incontro per fargli festa e domandarono se anche esso aveva condotto la sua dama. Al che rispose che era stato così disgraziato, che in tutto il viaggio non si era imbattuto altro che in donne bruttissime; e tutto ciò che gli era capitato di meglio da portar seco, era una gatta bianca. Essi si misero a ridere della sua semplicità. "Una gatta!" dicevano essi "come mai una gatta? avete forse paura che i topi ci mangino il palazzo?" Il Principe soggiunse che capiva bene che non era prudenza di portare un simile regalo a suo padre. E così, fra una parola e l'altra, s'incamminarono verso la città. I due fratelli maggiori salirono colle loro Principesse in due carrozze tutte d'oro e di lapislazzoli: i cavalli portavano in capo dei pennacchi e altri ornamenti: per farla corta, nulla di più splendido di questa cavalcata. Dietro a loro veniva il nostro giovine Principe: e quindi il blocco di cristallo di monte, che tutti guardavano con grandissima ammirazione. I cortigiani corsero subito ad avvisare il Re dell'arrivo dei Principi. "Hanno con sé delle belle donne?", domandò il Re. "Non s'è veduto mai nulla d'eguale!..." A quanto pare, questa risposta non garbò troppo al Re. I due Principi si affrettarono a salire le scale colle loro Principesse, che erano due occhi di sole. Il Re li ricevette benissimo, e non sapeva a quale delle due dovesse dare la preferenza. Voltatosi al minore dei figli, gli domandò: "Come va che questa volta siete tornato solo?". "Vostra Maestà vedrà dentro questo cristallo una gattina bianca, che miagola con tanta grazia e che ha le zampine più morbide del velluto, e son sicuro che le
piacerà", rispose il Principe. Il Re sorrise e si mosse per aprire da se stesso il blocco di cristallo. Ma appena si fu accostato, la Regina toccò una molla, sicché il blocco andò tutto in minutissimi pezzettini ed ella apparve fuori come il sole dopo essere stato un po' di tempo nascosto fra i nuvoli: i suoi capelli biondi erano sparsi per le spalle e in grandi riccioli le cadevano giù fino ai piedi. In capo aveva tutti fiori: e la sua veste era di leggerissimo velo bianco foderato di seta rosa. Si alzò e fece una profonda riverenza al Re, il quale nel colmo dell'ammirazione non poté frenarsi dall'esclamare: "Ecco veramente la donna senza confronto, e che merita davvero la mia corona". "Signore", ella disse, "io non son venuta qui per togliervi un trono che sì degnamente occupate: sono nata con sei regni: permettete anzi che io ne offra uno a voi e uno per uno ai vostri figli. In ricompensa non vi domando altro che la vostra amicizia e questo giovine Principe per mio sposo. I tre regni, che avanzano, sono più che sufficienti per noi." Il Re e tutta la Corte fecero un baccano con urli di ammirazione e di allegrezza incredibile. Le nozze si celebrarono subito, e quelle dei due fratelli ugualmente: motivo per cui per diversi mesi furono feste, baldorie, divertimenti e corte bandita. Poscia ciascuno partì per andare a governare i propri Stati: e la bella Gatta Bianca si immortalò non tanto per la bontà e per la generosità del suo cuore quanto per il suo raro merito e per la sua gran bellezza. La cronaca di quel tempo racconta che Gatta Bianca diventò il modello delle buone mogli e delle madri sagge e perbene. E io ci credo. Dal trist'esempio avuto in casa, essa aveva imparato a sue spese che le follie e i capricci delle mamme spesse volte sono cagione di grandi dispiaceri per i figliuoli.
La Cervia nel bosco
C'era una volta un Re e una Regina che stavano fra loro d'accordo come due anime in un nocciolo: si amavano teneramente ed erano adorati dai loro sudditi; ma alla felicità completa degli uni e degli altri mancava una cosa: un erede al trono. La Regina, la quale sapeva che il Re l'avrebbe amata il doppio se avesse avuto un figlio, non lasciava mai in primavera di andare a bere certe acque che si dicevano miracolose per aver figliuoli. A queste acque ci correva la gente in folla da ogni parte; e il numero dei forestieri era così stragrande, che ci si trovavano di tutti i paesi del mondo. In un gran bosco, dove si andava a beverle, c'erano parecchie fontane: le quali erano di marmo o di porfido, perché tutti gareggiavano a chi le faceva più belle. Un giorno che la Regina stava seduta sull'orlo d'una fontana, ordinò alle sue dame di compagnia di allontanarsi e di lasciarla sola e poi cominciò i suoi soliti piagnistei. "Come sono disgraziata", diceva essa, "di non aver figli! sono ormai cinque anni che chiedo la grazia di averne uno; e ancora non ho potuto averla. Dovrò dunque morire senza provare questa consolazione?" Mentre parlava così, osservò che l'acqua della fontana era tutta mossa; poi venne fuori un grosso gambero e le disse: "O gran Regina! finalmente avrete la grazia desiderata. Dovete sapere che qui vicino c'è un magnifico palazzo fabbricato dalle fate: ma è impossibile trovarlo, perché circondato da nuvole foltissime attraverso alle quali non a occhio mortale: a ogni modo, siccome io sono vostro servitore umilissimo, eccomi qui pronto a menarvici se volete fidarvi alla guida di un povero gambero". La Regina lo stette a sentire senza interromperlo, perché la cosa di vedere un gambero che discorreva, l'aveva sbalordita dalla meraviglia: quindi gli disse che avrebbe gradita volentieri la sua offerta, ma che non sapeva, come lui,
camminare all'indietro. Il gambero sorrise e prese subito l'aspetto di una bella vecchietta. "Ecco fatto, o signora", le disse, "così non cammineremo più all'indietro. Ma vi domando una grazia: tenetemi sempre per una delle vostre amiche, perché io non desidero altro che di esservi utile a qualche cosa." Uscì dalla fontana senza avere una goccia di acqua addosso: il suo vestito era bianco, foderato di seta cremisi, e i capelli grigi annodati dietro con nastri verdi. Non s'era vista mai vecchietta galante a quel modo! Salutò la Regina, che volle abbracciarla; e senza mettere tempo in mezzo, la fece prendere per una viottola del bosco, con molta meraviglia della Regina stessa: la quale sebbene fosse venuta nel bosco migliaia di volte, non era mai ata per quella viottola lì. E come avrebbe fatto a potervi are? Quella era la strada delle fate, per andare alla fontana, e per il solito era tutta chiusa da ronchi e da pruneti: ma appena la Regina e la sua guida vi ebbero messo il piede, le rose sbocciarono improvvisamente dai rosai, i gelsomini e gli aranci intrecciarono i loro rami per formare un pergolato coperto di foglie e di fiori, e migliaia di uccelli di varie specie, posati sui rami degli alberi, sfringuellarono allegramente. Non si era ancora riavuta dallo stupore, che la Regina si trovò abbacinati gli occhi dallo splendore abbagliante di un palazzo tutto di diamanti; le mura, i tetti, i soffitti, i pavimenti, i giardini, le finestre e perfino le stesse terrazze erano tutte di diamanti. Nel delirio della sua ammirazione, ella non poté trattenersi dal mandare un urlo di sorpresa, e chiese all'elegante vecchietta, che l'accompagnava, se ciò che aveva dinanzi agli occhi era sogno o verità. "Non c'è nulla di più vero, o signora", ella rispose. E subito le porte del palazzo si aprirono, e uscirono fuori sei fate: e quali fate! Di più belle e di più magnifiche non se n'erano vedute in tutto il loro reame. Vennero tutte a fare una profonda riverenza alla Regina: e ciascuna le presentò un fiore di pietre preziose, per poter formare un mazzo: c'era una rosa, un tulipano, un anemone, un'aquilegia, un garofano e un melagrano. "Signora", le dissero, "noi non possiamo darvi un maggior segno della nostra venerazione, che permettendovi di venirci qui a visitare: noi siamo molto liete di farvi sapere che avrete una bella Principessa, alla quale metterete il nome di
Desiderata, perché bisogna pur convenire che è un gran pezzo che la desiderate. Quando verrà alla luce, ricordatevi di chiamarci, perché vogliamo arricchirla di tutte le più belle doti; e per invitarci a venire, non dovete far altro che prendere in mano il mazzo, che ora vi diamo, e nominare a uno a uno tutti i fiori, pensando a noi. State sicura che in un batter d'occhio saremo tutte nella vostra camera." La Regina, fuori di sé dall'allegrezza, si gettò al collo alle fate; e gli abbracciamenti durarono una mezz'ora buona. Quand'ebbero finito, pregarono la Regina a are nel loro palazzo, del quale non si possono ridire a parole tutte le meraviglie. Figuratevi che per fabbricarlo avevano preso l'architetto del palazzo del sole, il quale aveva rifatto in piccolo quello che era in grande il palazzo del sole. La Regina, non potendo reggere a così vivo bagliore, era costretta ogni tantino a chiudere gli occhi. La condussero nel loro giardino, e frutta più belle non se n'erano mai sognate! Albicocche più grosse della testa di un ragazzo, e certe ciliegie, che per mangiarne una, bisognava farla in quattro pezzi; e d'un sapore così squisito, che la Regina, dopo che l'ebbe assaggiate, non volle mangiarne d'altra specie in tempo di vita sua. Tra tante meraviglie, c'era anche un boschetto di alberi finti e artificiali, i quali crescevano e mettevano le foglie alla pari di tutti gli altri. Impossibile ridire tutte le esclamazioni di stupore della Regina, i discorsi che fece sulla Principessina Desiderata e i ringraziamenti alle gentili persone che avevano voluto darle una notizia così gradita: basti questo, che non fu dimenticata nessuna parola di gratitudine e nessuna espressione di tenerezza. La fata della fontana n'ebbe la sua parte, come di santa ragione le toccava. La Regina si trattenne nel palazzo fino alla sera: e innamoratissima della musica, le fecero sentire delle voci angeliche. Fu quasi affogata dai regali e dopo aver ringraziato mille volte quelle grandi signore, se ne venne via insieme colla fata della fontana. Tutte le persone della Corte, impensierite, la cercavano di qui e di là: e nessuno poteva immaginarsi dove trovarla. Ci fu perfino chi sospettò che fosse stata rapita da qualche ardito forestiero, tanto più che era ancora giovane e nel fior della bellezza. Quando la videro tornata, com'è da figurarselo fu per tutti una grandissima festa:
e perché anch'essa sentiva nel cuore una consolazione immensa per le buone speranze avute, così nel suo conversare c'era non so che di allegro e di gioiale che innamorava. La fata della fontana la lasciò che era quasi vicina a casa; e nell'atto di dirsi addio, raddoppiarono le carezze e i complimenti. La Regina, trattenutasi ancora per una settimana a bevere le acque, non lasciò un giorno senza ritornare al palazzo delle fate colla sua elegante vecchietta, la quale tutte le volte si mostrava da principio in forma di gambero, e finiva poi col prendere la sua figura naturale. La Regina, partita che fu, divenne incinta, e mise alla luce una Principessa, alla quale dette il nome di Desiderata: e preso subito il mazzo, che aveva avuto in regalo, nominò a uno a uno tutti i fiori che lo componevano, ed ecco che sul momento si videro arrivare le fate. Ciascuna di esse aveva un cocchio differente dall'altro: uno era d'ebano, tirato da colombi bianchi; alcuni erano d'avorio, attaccati a piccoli cervi, e altri di cedro, e altri di legno-rosa. Questo era l'equipaggio che solevano usare in segno d'alleanza e di pace; perché, quand'erano in collera, si servivano soltanto di draghi volanti, di serpenti che buttavano fiamme dalla gola e dagli occhi, di leoni, di leopardi e di pantere, in groppa alle quali si facevano portare da un capo all'altro del mondo in meno tempo che non ci voglia a dire buon giorno o buon anno. Ma questa volta esse erano in pace e di buonissimo umore. La Regina le vide entrare nella sua camera, che avevano una cera molto lieta e maestosa: e dietro di loro, le nane e i nani del corteggio, tutti carichi di regali. Dopo abbracciata la Regina e baciata la Principessina, spiegarono il corredino, fatto di una tela così fine e così resistente da bastare cent'anni, senza pericolo che diventasse lisa; le fate la filavano da sé nelle ore d'ozio. Quanto alle trine erano di maggior valore della tela stessa: vi si vedeva in essa raffigurata, o coll'ago o col fuso, tutta la storia del mondo; dopo di questa messero in mostra le fasce e le coperte, ricamate apposta con le loro proprie mani: e in queste erano rappresentati mille di quei giuochetti svariatissimi, che servono per baloccare i ragazzi. Dacché al mondo ci sono ricamatori e ricamatrici, non s'era mai veduta una cosa meravigliosa come quella tela. Ma quando fu messa fuori la culla, allora la Regina non poté frenarsi dal cacciare un grido di stupore, tanto quella culla sorava, per magnificenza, tutto il rimanente. Era fatta d'un legno che costava centomila scudi la libbra. La sorreggevano quattro amorini: quattro veri
capolavori, dove l'arte aveva vinto la materia, sebbene fossero tutti rubini e diamanti, da non potersi dire quanto valevano. Questi amorini erano stati animati dalle fate; per cui quando la bambina strillava, la cullavano dolcemente e l'addormentavano, e ciò faceva un grandissimo comodo anche alla balia. Le fate presero la Principessina e se la messero sui ginocchi: la fasciarono e la baciarono più di cento volte, perché era di già tanto bella, che bastava vederla, per mangiarla dai baci. Quando si accorsero che aveva bisogno di poppare, batterono la loro bacchetta in terra, e comparve subito una balia, quale ci voleva per una così graziosa lattante. Restava oramai soltanto da dotarla: e le fate si spicciarono a fare anche questo; chi le diede la virtù, chi la grazia; la terza, una bellezza maravigliosa; la quarta, le augurò ogni fortuna; la quinta, buona salute; e l'ultima, la facilità di riuscir bene in tutte quelle cose che avesse preso a fare. La Regina, contentissima, non rifiniva dal ringraziarle di tanti favori prodigati alla Principessina; quand'ecco che videro entrare in camera un gambero così grosso, che ava appena dalla porta. "Oh! ingratissima Regina", disse il gambero, "com'è egli possibile che vi siate dimenticata così presto della fata della fontana e del gran servizio che vi ho reso, menandovi dalle mie sorelle? Come! voi le avete invitate tutte, e me sola avete lasciata da parte? Pur troppo ne aveva un presentimento, e fu per questo che mi trovai obbligata a prendere la figura d'un gambero la prima volta che vi parlai, appunto per farvi notare che la vostra amicizia, invece di progredire, avrebbe camminato all'indietro." La Regina, disperata per la smemoraggine commessa, la interruppe e le chiese perdono. Ella disse che aveva creduto di nominare il suo fiore, come quelli di tutte le altre; che era stato il mazzetto di fiori di pietre preziose quello che l'aveva ingannata: e che essa non era capace di dimenticarsi i grandi favori ricevuti; e che, per conseguenza, la pregava e la scongiurava a non privarla della sua amicizia, e segnatamente a mostrarsi benigna verso la Principessina. Tutte le fate, per la paura che volesse dotarla di miseria e di disgrazie, fecero coro alla Regina per vedere di abbonirla. "Cara sorella", le dissero, "Vostra Altezza non si mostri sdegnata contro una Regina, che non ebbe mai in mente di farvi il più piccolo sgarbo; lasciate, di grazia, codesta buccia di gambero e fatevi vedere in tutta la vostra bellezza."
Come è stato detto, la fata della fontana era un po' civetta, e a sentirsi lodare dalle sorelle si ammansì un poco e diventò più agevole. "Ebbene", disse, "non farò a Desiderata tutto il male che avrei voluto: perché vi giuro che era mia intenzione di rovinarla affatto, e nessuno avrebbe potuto impedirmelo; nondimeno voglio annunziarvi una cosa: se ella vedrà la luce del sole, prima che abbia compiti quindici anni, dovrà pentirsene amaramente e forse ci rimetterà la vita." Il pianto della Regina e le preghiere delle illustri fate non valsero a smuoverla di un capello dalla sua sentenza. Ella si ritirò camminando all'indietro, perché non aveva voluto lasciare la sua sopravveste di gambero. Quando si fu allontanata dalla camera, la povera Regina chiese alle fate se ci fosse verso di salvare la figlia dalle disgrazie che le erano state minacciate. Esse tennero consiglio fra loro, e dopo aver messi avanti parecchi partiti, finalmente si attennero a questo: che, cioè, bisognava fabbricare un gran palazzo senza porte e senza finestre; con una porta d'ingresso sotterranea, e custodirvi lì dentro la Principessina fino a tanto che non avesse raggiunto l'età fatale, per esser fuori da ogni pericolo. Tre colpi di bacchetta bastarono per cominciare e finire questo vasto edifizio. All'esterno era tutto di marmo bianco e verde: e i soffitti e gl'impiantiti tutti di diamanti e di smeraldi, che raffiguravano fiori, uccelli e mille altre cose graziose. Le pareti erano tappezzate di velluto di vari colori, ricamato dalle fate colle loro mani: e perché esse sapevano di storia, s'erano prese il gusto di rappresentarvi i fatti storici più belli e più notevoli: c'era dipinto il ato e l'avvenire, e in parecchi arazzi si vedevano effigiate le gesta dei più grandi Re della terra. Le brave fate avevano immaginato questo modo ingegnoso per insegnare più facilmente alla giovine Principessa i vari casi della vita degli eroi e degli altri mortali. Tutta la casa, nell'interno, era rischiarata soltanto a forza di lampade: ma ce n'erano tante e poi tante, che pareva fosse giorno chiaro da un anno all'altro. Vi furono introdotti tutti i maestri, dei quali ella poteva aver bisogno per istruirsi e perfezionarsi; e il suo spirito, la sua svegliatezza e il suo buon senso arrivavano a intendere molte cose, anche prima che le fossero insegnate: ragion per cui i
maestri rimanevano strasecolati per le cose bellissime che essa sapeva dire in una età, nella quale gli altri ragazzi sanno appena chiamare babbo e mamma. E questa è una prova che le fate non accordano la loro protezione, per tirar su degli stupidi e degl'ignoranti! Se la vivacità del suo spirito innamorava tutti coloro che l'avvicinavano, la sua bellezza non faceva di meno, e sapeva amicarsi le persone più insensibili e i cuori più duri. La Regina madre non l'avrebbe lasciata un solo minuto, se il suo dovere non l'avesse tenuta presso il Re. Di tanto in tanto le buone fate venivano a vedere la Principessa e le portavano in regalo cose rarissime e vestiti sfarzosi ed eleganti, che parevano fatti per le nozze di qualche Principessa, non meno bella di Desiderata. Ma fra tutte le fate che le volevano bene, quella che le voleva più di tutte era Tulipano, la quale non rifiniva mai di raccomandare alla Regina che non le lasciasse vedere la luce del giorno prima di aver toccato i quindici anni. "La nostra sorella, quella della fontana, è vendicativa", diceva Tulipano, "avremo un bel pigliarci tutte le cure per questa fanciulla; ma se ella può, state certa che le farà del male; e per questa ragione bisogna, o signora, che voi siate vigilante, e di molto." La Regina dal canto suo prometteva di vegliare continuamente sopra una cosa di tanto rilievo: ma avvicinandosi il tempo nel quale la sua cara figlia doveva uscire dal castello, le fece fare il ritratto, e il ritratto fu portato a mostra nelle più grandi Corti dell'universo. Al solo vederlo, non vi fu Principe che non si mostrasse preso di ammirazione: ma fra gli altri ve ne fu uno che ne rimase talmente invaghito, da non sapersene più distaccare. Lo portò nel suo gabinetto, e si chiuse dentro insieme col ritratto, e parlandogli come se fosse vivo e potesse intenderlo, gli diceva le cose più apionate di questo mondo. Il Re, non vedendo più il figliuolo, domandò che cosa fe e come asse il suo tempo, e perché non fosse più del suo solito buon umore. Qualche cortigiano, di quelli che chiacchierano volentieri, e ve ne sono parecchi con questo vizio, gli fece intendere che c'era il caso che al Principe desse volta il cervello, perché ava le giornate intere chiuso nel suo gabinetto, e lì discorreva da sé solo, come se vi fosse stato qualcuno insieme con lui. Il Re sentì questa cosa con dispiacere:
"Com'è egli possibile", diceva ai suoi confidenti, "che mio figlio perda così il giudizio? lui, che ne ha avuto sempre tanto! Voi sapete che finora esso è stato l'ammirazione di tutti, e io non vedo ne' suoi occhi alcun segno di pazzia o di aberrazione mentale: soltanto mi pare diventato più pensieroso. Bisogna che io lo interroghi da me: forse cosi arriverò a scoprire qual è la fissazione che s'è messa per il capo". Detto fatto, mandò per esso, e quindi ordinò a tutti che uscissero dalla sala. Dopo vari discorsi, ai quali il Principe non stava attento o rispondeva a rovescio, il Re gli domandò il motivo che aveva portato tanto cambiamento nelle sue abitudini e nel suo carattere. Il Principe, parendogli che gli fosse capitata la palla al balzo, si gettò ai suoi piedi, e gli disse: "Voi avete fissato di farmi sposare la Principessa Nera: in questo legame di parentela voi troverete dei vantaggi, che io non posso promettervi con quello della Principessa Desiderata; ma, o signore, io trovo in questa fanciulla tante grazie e tante attrattive, quante l'altra non ne possiede davvero". "E dove le avete vedute?", chiese il Re. "Tanto dell'una che dell'altra, mi sono stati portati i ritratti", rispose il Principe Guerriero (era questo il suo nome, dacché aveva vinto tre grandi battaglie), "e vi confesso che la mia ione per la principessa Desiderata è così forte, che se voi non ritirate la parola data alla Principessa Nera, non mi rimane altro che morire: felice sempre di perdere la vita, una volta perduta la speranza di essere lo sposo di quella che amo." "È dunque con un ritratto", riprese gravemente il Re, "che ate il vostro tempo a fare certi colloqui, che vi rendono ridicolo agli occhi di tutti i cortigiani? Essi vi credono svanito il cervello, e se sapeste quello che si dice di voi, non avreste faccia di parlare a questo modo di simili ragazzate!" "Io non ho ragione di rimproverarmi una sì bella fiamma", replicò il Principe, "quando avrete veduto il ritratto di questa graziosa Principessa, son sicuro che compatirete la ione che sento per lei." "Andate a prenderlo subito" esclamò il Re, con tanto risentimento, che dava a dividere la bizza che lo rodeva dentro. Se il Principe non avesse avuta la certezza che nessuna bellezza al mondo poteva
stare a fronte di quella di Desiderata, sarebbe rimasto un po' male. Invece andò subito nel suo gabinetto, e poi tornò al Re. Il Re rimase maravigliato quanto il figlio. "Ah!", diss'egli, "mio caro Guerriero, io approvo la vostra scelta; quando alla mia Corte ci sarà una Principessa così graziosa, mi sentirò anch'io ringiovanito. Fin da questo momento mando subito degli ambasciatori dalla Principessa Nera per isciogliermi della parola data: e quand'anche dovessi tirarmi sulle braccia una guerra a morte, preferisco di farla finita una buona volta per tutte." Il Principe baciò rispettosamente le mani del padre e gli abbracciò i ginocchi. La sua gioia era tanta, che pareva diventato un altro. Pregò e ripregò il padre a mandare degli ambasciatori non soltanto alla Principessa Nera, ma anche a Desiderata, raccomandandosi che per quest'ultima fosse scelto l'uomo più capace e più ricco del Regno, perché in questa grande occasione era necessario fare una splendida figura, e ottenere ciò che si voleva. Il Re pose gli occhi su Beccafico. Era un gran signore, eloquente quanto Cicerone, e con centomila lire di rendita. Beccafico voleva un gran bene al principe Guerriero, e per andargli a genio, si fece fare il più splendido equipaggio e le più belle livree che si possa immaginare. La sua fretta per allestire i preparativi del viaggio fu grandissima, perché l'amore del Principe cresceva a occhio di giorno in giorno, ed esso era sempre lì a punzecchiarlo perché partisse. "Ricordatevi", gli diceva in tutta confidenza, "che c'è di mezzo la vita mia, e che io perdo il lume della ragione tutte le volte che penso al caso che il padre di questa Principessa potrebbe impegnarsi con qualcun altro, senza aver modo di tornare indietro: e che allora io dovrei perderla per sempre." Beccafico lo rassicurava, non foss'altro per pigliar tempo; perché dopo le grandi spese alle quali era andato incontro, voleva almeno farsene onore. Menò seco ottanta carrozze tutte risplendenti d'oro e di brillanti, e dipinte con certe miniature, da fare scomparire le miniature più finite che si sieno vedute mai: c'erano, per di più, altre cinquecento carrozze: ventiquattromila paggi a cavallo, vestiti come tanti principi: e il resto del corteggio non era da sfigurare in mezzo a quella magnificenza. Quando l'ambasciatore ebbe dal Principe l'udienza di congedo, questo l'abbracciò come un suo fratello, e gli disse:
"Pensate, mio caro Beccafico, che la mia vita dipende dal matrimonio che andate a combinare: dite tutto quel che più sapete, e conducete con voi la Principessa, che è l'anima dell'anima mia". E gli consegnò mille regali da offrirle, nei quali spiccavano in egual modo l'eleganza e la ricchezza; erano tutte allegorie amorose, incise su gemme e diamanti: orologi incrostati di carbonchi, con sopra le cifre di Desiderata: braccialetti di rubini modellati in forma di cuori: insomma, non c'era cosa alla quale non avesse pensato, per trovare il modo di piacerle. L'ambasciatore portava seco il ritratto del Principe, dipinto con tanta bravura e maestria, che non gli mancava nemmeno la parola, e faceva dei complimenti pieni di grazia e di brio. È vero che non sapeva rispondere a tutto quello che gli si domandava: ma di questo non ce n'era un gran bisogno. Beccafico, per la parte sua, promise al Principe che avrebbe fatto l'impossibile per vederlo contento, e soggiunse che aveva con sé moltissimo denaro: e caso mai gli avessero negata la Principessa, avrebbe trovato il mezzo di comprare qualcuna delle sue cameriere e l'avrebbe rapita. "Ah!", esclamò il Principe, "non lo dite neanche per celia: son sicuro che ella si chiamerebbe offesa da un modo di fare così poco rispettoso!" Beccafico non stette a dir altro, e partì. La gran diceria del suo viaggio arrivò prima di lui: il Re e la Regina ne furono lietissimi, perché stimavano molto il suo sovrano e conoscevano gli atti di valore del Principe Guerriero, e, in particolar modo, il suo merito personale; motivo per cui non avrebbero potuto trovare un partito più degno per la loro figlia, neanche a cercarlo apposta nelle cinque parti del mondo. Fu apprestato un palazzo per alloggiarvi Beccafico, e vennero dati gli ordini perché tutta la Corte si mostrasse in abito di gran gala. Il Re e la Regina avevano pensato di far vedere all'ambasciatore la Principessa Desiderata: ma la fata Tulipano venne a trovare la Regina e le disse: "Guardatevi bene, Regina, da menare Beccafico dalla nostra figliuola", era solita di chiamarla così, "non conviene che egli la veda tanto presto e non bisogna mandarla al Re, che l'ha domandata in sposa, finché non abbia compiti i quindici anni! perché, badate bene a quello che vi dico, se ella esce fuori prima del tempo, si troverà a sentirsi cascare addosso qualche grosso malanno". La Regina abbracciò la buona Tulipano: le promise di darle retta, e senza perder
tempo andarono insieme dalla Principessa. Intanto arrivò l'ambasciatore. Il suo seguito durò ventitré ore a are, perché egli aveva seicentomila muli, colle sonagliere e i ferri d'oro e gualdrappe di velluto e di broccato ricamate in perle. Lungo la strada c'era un pigia-pigia da non farsene idea, e tutti correvano per vederlo. Il Re e la Regina gli andarono incontro, tanto erano contenti della sua venuta. Salteremo a pié pari le cose che egli disse, i complimenti che si scambiarono, perché ci vuol poco a figurarseli: ma quando egli domandò di presentare i suoi omaggi alla Principessa, rimase molto male nel sentirsi negata la grazia. "Signor Beccafico", disse il Re, "se vi ricusiamo una cosa che pare così giusta, credetelo, non è un capriccio: e perché ne siate persuaso, bisogna raccontarvi la strana avventura di nostra figlia. Una fata, dal giorno che nacque, la prese a noia e la minacciò di mille guai, se ella avesse veduto la luce del sole prima di toccare i quindici anni: noi dunque la teniamo chiusa in un palazzo, che ha i suoi quartieri più belli sotto terra. Era nostra idea di menarvici ma la fata Tulipano ci ha comandato di non fare nulla." "Come mai, Sire!", replicò l'ambasciatore, "e io dunque dovrò avere il dispiacere di tornarmene indietro senza di lei? Voi l'accordaste al Re mio signore per il suo figlio: ella è aspettata con vivissima impazienza: e sarà possibile che voi vi lasciate imporre da certe fanciullaggini, come sono le predizioni delle fate? Ecco qui il ritratto del Principe Guerriero, che ho l'ordine di presentarvi: e il ritratto è così somigliante, che quando lo guardo mi par di vedere le stesso Principe in persona." E cosi dicendo, lo scoprì. Il ritratto, che era stato ammaestrato soltanto per parlare alla Principessa, disse: "Bella Desiderata, non potete figurarvi con quanto ardore io vi attenda! venite subito alla nostra Corte, e abbellitela con quelle grazie che vi fanno unica al mondo!". Il ritratto non disse altro: e il Re e la Regina rimasero tanto meravigliati, che pregarono Beccafico a darglielo, per portarlo a far vedere alla Principessa. A lui non gli parve vero, e consegnò subito il ritratto nelle loro mani. La Regina non aveva mai fatto cenno alla figlia di ciò che accadeva in Corte; ed
anzi aveva proibito alle dame che le stavano intorno di dirle la più piccola cosa sull'arrivo dell'ambasciatore: ma esse non l'avevano ubbidita, e la Principessa sapeva già che si stava combinando un gran matrimonio; peraltro era tanto prudente, da fare in modo che la madre non si avvedesse di nulla. Quando questa le ebbe mostrato il ritratto del Principe, che parlava, e che le fece un complimento non so se più tenero o più grazioso, ella rimase molto sorpresa, perché non aveva mai veduto nulla di simile; e la bella fisonomia del Principe, l'aspetto sveglio e la regolarità delle fattezze non la stupivano meno delle cose che aveva dette il ritratto parlante. "Vi dispiacerebbe", le disse la Regina, "di avere uno sposo che somigliasse a questo Principe?" "Signora", ella rispose, "non tocca a me a scegliere: sarò sempre contenta di colui che vi piacerà destinarmi." "Ma pure", insisté la Regina, "se la sorte cadesse su lui, non vi stimereste felice?" Ella arrossì, abbassò gli occhi e non rispose nulla. La Regina la prese fra le braccia e la baciò più e più volte, né poté frenarsi dal versare alcune lacrime, pensando che stava sul punto di doverla perdere, perché non le mancavano oramai che tre mesi soli a compiere i quindici anni: e nascondendole il suo dispiacere, la mise al fatto di tutto quanto la riguardava nell'ambasciata di Beccafico: e fra le altre cose, le dette anche i regali che erano stati portati per lei. Essa li ammirò: lodò con finezza di gusto le cose più singolari; ma ogni pochino i suoi occhi si divagavano, per andare a posarsi sul ritratto del Principe, con un diletto fin'allora non provato mai. L'ambasciatore, vedendo che perdeva il suo tempo a insistere perché gli dessero la Principessa, e che si contentavano soltanto di promettergliela, ma in modo solenne da non poterne dubitare, si trattenne pochi giorni presso il Re, e tornò per la posta a render conto al padrone del suo operato. Quando il Principe venne a sapere che la sua Desiderata non poteva averla prima di tre mesi, dette in tali sfoghi di dolore, che rattristarono tutta la Corte: non dormiva più: non mangiava nulla e diventò tristo e pensieroso: perse il suo bel colore: ava le giornate intere sdraiato su un canapè, nel suo gabinetto, a contemplare il ritratto della Principessa: le scriveva ogni cinque minuti e porgeva
le lettere al ritratto, come se questo le sapesse leggere. Alla fine le sue forze s'indebolirono a poco a poco, e cadde gravemente malato: né ci fu bisogno di medico o di chirurgo per indovinare la cagione del male. Il Re si disperava; egli amava teneramente suo figlio, e si trovava sul punto di perderlo. Che afflizione per lui! Né vedeva rimedio alcuno che valesse a salvargli il Principe, il quale non domandava altro che la sua Desiderata: senza di essa non gli restava che morire. In faccia alla gravità del caso egli prese la risoluzione di andare a trovare il Re e la Regina, che gli avevano promesso la figlia, affine di scongiurarli a muoversi a comione dello stato in cui s'era ridotto il Principe, e a non mandare più in lungo le nozze; le quali non si sarebbero fatte più, quand'essi si fossero incaponiti a volere aspettare che la Principessa avesse compito i quindici anni. Questo o era straordinario per un Re, ma sarebbe stata una cosa anche più straordinaria se egli avesse lasciato morire il figlio, che gli era più caro delle pupille degli occhi. Peraltro s'inciampò in una difficoltà insormontabile: e questa era l'età molto avanzata del Re, la quale non gli acconsentiva se non di viaggiare in portantina: e questa cosa si combinava male coll'impazienza del figlio: per cui egli mandò per la posta il suo fido Beccafico e scrisse delle lettere commoventissime per impegnare il Re e la Regina a contentarlo nei suoi desideri. Intanto Desiderata non provava minor piacere a contemplare il ritratto del Re, che questi non provasse a guardare quello di lei. Ogni tantino ella andava nella stanza dove era stato messo, e sebbene s'ingegnasse di celare i sentimenti del suo cuore, c'era chi sapeva indovinarli; e, fra gli altri, Viola-a-ciocche e Spinalunga, che erano le sue damigelle d'onore, si accorsero di quella specie d'irrequietezza che cominciava a tormentarla. Viola-a-ciocche l'amava di sincero amore e l'era fidatissima; mentre Spinalunga aveva sempre covato una gelosia segreta per le belle virtù e per lo splendido stato della Principessa. La madre di Spinalunga aveva allevata la Principessa, e dopo essere stata sua governante, era divenuta sua dama d'onore. Ella dunque avrebbe dovuto amarla, come la cosa più cara di questo mondo: ma idolatrando essa la propria figlia, e vedendo l'odio di questa per la bella Principessa, non poteva, neanch'essa, volerle bene.
L'ambasciatore, che era stato spedito alla Corte della Principessa Nera, non vi trovò lieta accoglienza, subito che si venne a sapere la bella parte che doveva fare. Questa negra era la creatura più vendicativa che possa immaginarsi; e le parve di non essere trattata troppo cavallerescamente a sentirsi dire sul viso, dopo le promesse e gl'impegni presi, che essa rimaneva ringraziata e messa in libertà. Ella aveva veduto il ritratto del Principe, e s'era fitta in capo di voler lui a ogni costo: perché le donne nere, quando si ragiona d'amore, diventano le donne più ostinate del mondo. "Come, signor ambasciatore", ella disse, "forse il vostro Re non mi crede abbastanza ricca o abbastanza bella? Girate per i miei Stati e difficilmente ne troverete de' più vasti; entrate nel mio tesoro reale e vedrete tant'oro, quanto non se n'è mai cavato da tutte le miniere del Perù; date finalmente un'occhiata al color morato del mio viso, alle mie labbra tumide, al mio naso schiacciato, eppoi ditemi se una donna, per esser bella, non bisogna che sia fatta così!" "Signora", rispose l'ambasciatore, il quale aveva una gran paura d'essere bastonato, peggio che in Turchia, "io biasimo il procedere del mio Sovrano, per quanto è lecito di farlo a un suddito: e se il cielo mi avesse dato il più bel trono dell'universo, saprei ben io la persona alla quale offrirlo!" "Queste parole vi salvano la vita", ella disse, "avevo fissato di cominciare da voi la mia vendetta; ma mi sarebbe parsa un'ingiustizia, perché in fin de' conti non siete voi la cagione dello sleale procedere del vostro Principe: andate, e ditegli da parte mia che mi fa un vero regalo a sciogliersi con me, perché io non me la sono mai detta con le persone poco di buono." L'ambasciatore, che non vedeva l'ora di essere congedato, prese queste parole a volo; e via a gambe. Ma la Negra era troppo stizzita contro il Principe Guerriero, per potergli perdonare. Salì sopra un cocchio d'avorio tirato da sei struzzi, i quali facevano dieci miglia l'ora. Andò al palazzo della fata della fontana, che era la sua comare e la migliore amica che avesse: e dopo averle raccontata la sua avventura, la pregò colle braccia in croce perché l'aiutasse a pigliarsi una vendetta. La fata si lasciò commuovere dal dolore della figlioccia; guardò nel libro, dove si dice tutto, e così venne subito a sapere che il Principe Guerriero lasciava la Principessa Nera per motivo di Desiderata, che egli amava perdutamente, e che era stato perfino malato dalla gran ione di non poterla vedere. Bastò questa
cosa per riaccendere nel cuore alla fata quella collera, che oramai era quasi spenta; tanto che si poteva sperare, che non avendo più veduto la Principessa dal giorno che nacque, non avrebbe più pensato a farle del male, senza gl'incitamenti di quella brutta moraccia. "Come!", gridò la fata, "dunque questa sciaguratissima Desiderata s'è messa in capo di farmi sempre dei dispetti? No, no, vezzosa Principessa: no, carina mia; non soffrirò mai che ti si faccia un affronto. Il cielo e tutti gli elementi piglieranno parte in questa cosa. Torna pure a casa e fidati alla parola della tua buona comare." La Principessa la ringraziò e le fece dei doni di frutte e di fiori, che furono moltissimo graditi. Intanto l'ambasciatore Beccafico si avanzava a spron battuto verso la città, dove stava il padre di Desiderata: e appena giunto andò a gettarsi ai piedi del Re e della Regina; versò un torrente di lacrime e disse con un linguaggio da intenerire i sassi, che il Principe Guerriero sarebbe morto, se gl'indugiavano il piacere di vedere la Principessa: che oramai non mancavano più che tre soli mesi per compire i quindici anni; che non c'era pericolo che in un tempo così corto potesse accadere qualche disgrazia: che si prendeva la libertà di rammentare che questa eccessiva credulità per certe fandonie faceva torto alla maestà reale: in una parola, tanto seppe dire e tanto seppe fare, che finì col persuaderli tutti e due. Prova ne sia che anche essi s'intenerirono e piansero, ripensando al pietoso stato in cui s'era ridotto il Principe: e finirono col dire che pigliavano qualche giorno di tempo prima di dargli una risposta di benestare. Esso allora replicò che non poteva concedere che poche ore, perché il suo padrone era oramai ridotto al lumicino, e s'era fitto in capo che la Principessa non lo potesse soffrire e fosse essa medesima che studiasse tutti gli ammennicoli per rimandare la partenza dall'oggi al domani. Allora gli fu detto che nella serata avrebbe saputo quello che si poteva fare. La Regina corse subito al palazzo della sua cara figlia, e le raccontò ogni cosa. Desiderata sentì un gran dolore: ebbe una stretta al cuore e svenne. Così la Regina poté conoscere tutta la ione del suo amore per il Principe. "Non ti dar tanto alla disperazione, bambina mia", ella le disse, "tu hai la virtù di poterlo guarire: la sola cosa che mi tenga in pensiero, sono le minacce fatte dalla
fata della fontana al momento della tua nascita." "Voglio sperare, o signora", ella riprese, "che ci debba essere qualche ripiego, per ingannare questa fata malandrina. Non potrei, per dirne una, partire in una carrozza tutta chiusa, dove non potessi vedere la luce del giorno? questa carrozza l'aprirebbero soltanto la notte, per darci da mangiare, e così arriverei felicemente a casa del Principe Guerriero." Il ripiego piacque molto alla Regina: ne parlò al Re, il quale lo approvò: e così mandarono a chiamare Beccafico, perché andasse subito a Corte, dove gli dettero per cosa sicura che la Principessa sarebbe partita prestissimo; e gli dissero di recarsi intanto a dare la buona novella al suo padrone, aggiungendo che per amor di far presto, avrebbero tralasciato di farle il corredo e i ricchissimi vestiti, quali si addicevano al suo grado di Principessa. L'ambasciatore, che non capiva nella pelle dalla contentezza, si gettò di nuovo ai piedi delle loro Maestà per ringraziarle, e partì subito senza aver veduto la Principessa. Non c'è dubbio che ella avrebbe sentito un gran dolore nello staccarsi dal padre e dalla madre, se fosse stata meno viva in lei la prevenzione a favore del Principe: ma si danno nella vita certi sentimenti così prepotenti, che fanno tacere tutti gli altri. Le prepararono una carrozza foderata al di fuori di velluto, ornato di grandi borchie d'oro; e al di dentro di broccato ricamato d'argento e color di rosa. Non vi erano cristalli; la carrozza era molto grande, tutta chiusa come una scatola; e uno dei primi signori del Regno teneva in custodia le chiavi, che aprivano la serratura degli sportelli. E perché un seguito troppo numeroso poteva essere d'impiccio, furono scelti pochi ufficiali per accompagnarla: e dopo averle date le più belle gemme del mondo e alcuni ricchissimi vestiti, e dopo gli addii, che fecero quasi soffocare dai pianti e dai singhiozzi il Re, la Regina e tutta la Corte, la chio nella carrozza, insieme alle sue dame d'onore Viola-a-ciocche e Spinalunga. Bisogna ricordarsi che Spinalunga non voleva punto bene a Desiderata; ma invece ne voleva moltissimo al Principe Guerriero, del quale aveva veduto il ritratto parlante. Il dardo che l'aveva ferita era così acuto, che, nel partire, disse a sua madre che morirebbe di dolore, se accadesse il matrimonio della Principessa, e che se voleva salvarla dalla sua tristissima sorte, bisognava trovasse il verso di mandare all'aria ogni cosa. Sua madre, che era dama d'onore, le disse di darsi pace, che avrebbe cercato il modo di consolarla e di farla felice.
Quando la Regina fu sul punto di staccarsi dalla sua figlia, che partiva, la raccomandò, non si può dir quanto, a questa femmina trista. "Questo prezioso deposito", diss'ella, "lo confido alle vostre mani. Mi è più caro della vita! abbiate cura della salute di mia figlia, e soprattutto guardate bene che non vegga mai la luce del giorno. Sarebbe finita per lei! Voi sapete da quali sciagure è minacciata, e però ho fissato coll'ambasciatore del Principe Guerriero che, fino a tanto che non abbia quindici anni compiti, la terranno in un castello, dove non possa vedere altra luce che quella dei lampadari." La Regina affogò di regali questa dama, per impegnarla a stare attaccata fedelmente alle sue istruzioni, ed ella dal canto suo promise di vegliare alla conservazione della Principessa, e di renderle minutissimo conto di tutto, appena fossero arrivate. A questo modo il Re e la Regina, fidandosi di averla raccomandata bene, non ebbero alcun pensiero per la loro cara figlia, e così sentirono meno il dolore del distacco; ma Spinalunga, che dagli ufficiali incaricati di aprire tutte le sere la carrozza per servire la cena alla Principessa, aveva saputo che si avvicinavano alla città dov'erano aspettate, cominciò a metter su la madre perché compisse il suo tristo disegno, prima che il Re e il Principe venissero loro incontro e mancasse il tempo di fare il gran colpo. Cosicché, quando fu circa l'ora del mezzogiorno e quando i raggi del sole saettavano con maggior forza, ella tagliò di netto con un gran coltello fatto apposta, che aveva portato seco, l'imperiale della carrozza dove stavano rinserrate. Fu quella la prima volta che la Principessa Desiderata vide la luce del giorno. Appena l'ebbe vista, mandò un sospiro e si precipitò fuori della carrozza, trasmutata in una Cervia bianca: e a quel modo si messe a correre fino alla vicina foresta, dove si nascose in un luogo folto e oscuro, per potervi piangere, senza essere vista da alcuno, le grazie, i bei lineamenti e la elegante figura, che aveva perduta. La fata della fontana, che dirigeva questa strana avventura, vedendo che tutti quelli che accompagnavano la Principessa si davano un gran moto, gli uni per seguirla, gli altri per correre alla città e fare avvertito il Principe Guerriero della disgrazia accaduta, messe sottosopra cielo e terra: talché i lampi e i tuoni impaurirono anche i più coraggiosi: e in grazia del suo portentoso sapere, riuscì a trasportare quelle persone molto lontano di lì, togliendole in questo modo da un
luogo, dove la loro presenza non le faceva punto piacere. Le sole che restassero, furono la dama d'onore, Spinalunga e Viola-a-ciocche. Quest'ultima corse dietro alla sua padrona, facendo risuonare il bosco del nome di lei e de' suoi acuti lamenti. Le altre due, contentissime di vedersi libere, non persero un minuto per fare quanto avevano già fissato. Spinalunga s'infilò i vestiti di Desiderata. Il manto reale, che doveva servire per le nozze, era d'una ricchezza da non potersi dire, e la corona aveva dei diamanti grossi due o tre volte il pugno della mano. Il suo scettro era d'un rubino d'un sol pezzo: e il globo che teneva nell'altra mano, una perla grossa quanto il capo d'un bambino. Tutte cose bellissime a vedersi e pesantissime a portarsi addosso: ma bisognava non lasciare indietro nessuno degli ornamenti reali, una volta che Spinalunga voleva farsi credere la Principessa. In quest'abbigliamento, Spinalunga, seguita dalla madre che le reggeva lo strascico, si avviò verso la città. La falsa Principessa camminava con o maestoso. Ella era sicura che sarebbe venuta gente a incontrarla; difatti, non avevano ancora fatta molta strada, che scorsero un drappello di cavalleria, e in mezzo due portantine luccicanti di oro e di gemme, portate da piccoli muli, ornati di lunghi pennacchi verdi (perché il verde era il colore favorito della Principessa). Il Re che stava in una portantina, e il Principe malato nell'altra, non sapevano che cosa pensare di queste dame, che venivano incontro a loro. I più curiosi galopparono innanzi, e dalla ricchezza dei vestiti giudicarono che dovessero essere due signore di gran riguardo. Scesero da cavallo e le salutarono con molto rispetto. "Fatemi la grazia" disse loro Spinalunga "di sapermi dire chi c'è dentro quelle portantine." "Signora", essi risposero, "c'è il Re e il Principe suo figlio, che vanno incontro alla Principessa Desiderata." "Allora vi prego", continuò ella, "di andare a dir loro che la Principessa è qui. Una fata, che è nemica della mia felicità, ha sparpagliato e disperso tutti coloro che mi accompagnavano a furia di tuoni, di lampi e di prodigi paurosi: ma ecco qui la mia dama d'onore, la quale è incaricata di presentare le lettere del Re mio
padre e di tenere in custodia le mie gioie." I cavalieri, a queste parole, baciarono subito il lembo della sua veste e andarono di corsa a dire al Re che la Principessa si avvicinava. "Come!", egli esclamò, "ella se ne viene a piedi e di pieno giorno?" Essi gli raccontarono ciò che ella aveva detto loro. Il Principe, che smaniava d'impazienza, li chiamò, dicendo loro con gran premura: "Non è un prodigio di bellezza? un vero miracolo? una Principessa senza confronti?". Nessuno rispose: per cui il Principe ne rimase stupito. "Si vede proprio", egli riprese, "che dovendo dirne troppo bene, preferite piuttosto non dir nulla." "Signore, voi la vedrete da voi", disse il più ardito di essi, "sarà che lo strapazzo del viaggio l'abbia un po' trasfigurita." Il Principe rimase di stucco: se fosse stato più in forze, si sarebbe buttato giù dalla portantina per correre ad appagare la sua impazienza e la sua curiosità. Il Re scese a piedi, e avanzandosi con tutto il corteggio raggiunse la falsa Principessa. Vederla, gettare un grido e tirarsi indietro di qualche o, fu un punto solo. "Chi vedo mai?", egli disse, "ma questa è una vera perfidia." "Sire", disse la dama d'onore avanzandosi a faccia fresca, "ecco qui la Principessa Desiderata con le lettere del Re e della Regina. Io rimetto pure nelle vostre mani la cassetta delle gioie, che mi fu consegnata sul punto di partire." Il Re serbò un silenzio sinistro e cupo; e il Principe, appoggiandosi al braccio di Beccafico, si avvicinò a Spinalunga. Dio degli Dei! come dové egli restare, vedendo una fanciulla di una statura così sperticata da far paura? Essa era così lunga, che gli abiti della Principessa le toccavano appena il ginocchio; secca come un uscio; col naso che somigliava al becco ricurvo di un pappagallo, e rosso e lustro in cima come un peperone. Denti più neri e più disuniti di quelli, non se n'è visti mai: in una parola, ell'era tanto brutta, quanto Desiderata era bella. Il Principe, che aveva sempre dinanzi agli occhi l'immagine della sua cara Principessa, al vedere questa brutta befana rimase imbietolito: non aveva fiato né per muoversi né per dire una mezza parola. Soltanto, dopo averla guardata un
poco cogli occhi fuor della testa, si volse al Re ed esclamò: "Io sono tradito! Il maraviglioso ritratto sul quale ho vincolata la mia libertà non ha che veder nulla con la persona che ci è stata inviata. Hanno preteso ingannarmi? ci sono riusciti: ma a me mi costerà la vita". "Che cosa intendete dire, o signore?", disse Spinalunga. "Chi è che ha cercato di ingannarvi? sappiate, o signore, che sposando me, non vi hanno ingannato davvero." Tanta sfacciataggine e tanta arroganza non aveva esempio. Per parte sua, anche la dama d'onore rincarava la dose: "Oh! mia bella Principessa", esclamava, "dove siamo mai capitate? È forse in questo modo, che si accoglie una Principessa par vostro? Quale incostanza! e che razza di procedere!...Il Re vostro padre saprà farsene render ragione". "Tocca a noi farsi rendere ragione", ribatté il Re, "egli ci aveva promesso una bella Principessa e ci manda invece un sacco d'ossi, una mummia da fare scappare dallo spavento: ora non mi fa più specie che egli abbia tenuto nascosto questo bel tesoro per quindici anni di seguito: aspettava che capitasse il merlotto: e la disgrazia è capitata su noi: ma staremo a vedere come finirà." "Ma quale insolenza!", esclamò la falsa Principessa. "Quanto sono sventurata di esser venuta qui, sulla parola di questa razza di gente! Guardate un po' il gran delitto di essersi fatta ritrattare un po' più bella del vero! Non sono forse cose che accadono tutti i giorni? Se per queste piccole marachelle i Principi rimandassero indietro le loro fidanzate, poche ma poche bene se ne mariterebbero." Il Re e il Principe, colla bizza fino alla punta dei capelli, non si degnarono risponderle: salirono ciascuno nella loro portantina, mentre una guardia del corpo, senza tanti complimenti, messe in groppa al cavallo, dietro di sé, la Principessa: la dama d'onore ebbe lo stesso trattamento: e così furono menate in città, dove per ordine del Re furono chiuse nel Castello delle Tre Punte. Il Principe Guerriero restò così sbalordito da questo colpo, che tutta la pena gli si rinserrò in fondo al cuore. Quand'ebbe fiato per parlare, che cosa mai non disse del suo tristo destino? Egli era sempre innamorato come prima, ma non gli restava per oggetto della sua ione che un bugiardo ritratto. Tutte le sue speranze andate in fumo: tutte le sue illusioni intorno alla Principessa
Desiderata, svanite! Non c'era disperazione da potersi agguagliare alla sua. La Corte gli era divenuta un soggiorno insoffribile, e pensò, appena ristabilitosi un po' in salute, di fuggirsene di nascosto in un luogo solitario e arvi tutto il resto della sua misera vita. Confidò questa sua idea soltanto al fido Beccafico, nella certezza che questi lo seguirebbe dappertutto: e lo scelse apposta per avere una persona colla quale potersi sfogare più liberamente che con chiunque altro, del brutto tiro che aveva dovuto patire. Appena si sentì un po' meglio, partì dalla Corte, lasciando sulla tavola del suo gabinetto una lunga lettera pel Re, colla quale lo avvertiva che sarebbe tornato appena avesse ritrovato un po' di quiete di spirito: ma intanto lo scongiurava di pensare alla vendetta di tutti e due, e di tener sempre in prigione quello spauracchio di Principessa. È facile immaginarsi il dolore del Re nel ricevere questa lettera. Credette morir di dolore per la lontananza di un figlio, così adorato. Mentre tutti s'ingegnavano di consolarlo, il Principe e Beccafico facevano strada: finché in capo a tre giorni si trovarono in una gran foresta, così oscura per la spessezza delle piante e così seducente per la freschezza dell'erbe e per i ruscelletti e i fili d'acqua, che scorrevano in tutti i versi, che il Principe, rifinito dal lungo cammino, non essendosi ancora rimesso perbene in forze smontò da cavallo e si sdraiò malinconicamente per terra, reggendosi il capo con la mano, e per la debolezza avendo appena fiato di parlare. "Signore", gli disse Beccafico, "mentre vi riposate un poco, io anderò in cerca di qualche frutto perché possiate rinfrescarvi: e intanto darò un'occhiata per farmi un'idea del luogo dove ci troviamo." Il Principe non rispose, ma gli fece segno col capo, come per dirgli: "Sta bene". Egli è ormai un bel pezzo che abbiamo lasciata la Cervia nel bosco, voglio dire l'incomparabile Principessa. Ella pianse, come può piangere una cervia all'ultima disperazione, quando si accorse delle sue nuove forme, specchiandosi nell'acqua di una fontana. "Come! e son io, proprio io?", essa diceva, "ed è per l'appunto oggi, che mi trovo ridotta a subire la più trista avventura che possa mai toccare a un'innocente Principessa come me, per capriccio e colpa delle fate? E quanto dovrà durare questa metamorfosi? E dove nascondermi, perché i leoni, gli orsi e i lupi non mi divorino? Come potrò io cibarmi d'erba?" E via di questo o, faceva a se stessa mille domande, e provava il più acerbo dolore che mai si possa.
Se qualche cosa poteva consolarla, era il vedere che essa era una bella cervia, nello stesso modo che era stata una bella Principessa. Spinta dalla fame, Desiderata si messe a mangiar l'erba con molto appetito: e non sapeva intendere come questa cosa potesse stare. Quindi si accoccolò sul muschio: intanto si fece notte, senza addarsene: ed essa la ò in mezzo a spaventi così terribili, da non poterseli figurare. Sentiva le bestie feroci a pochi i di distanza; e scordandosi di esser Cervia, provava ad arrampicarsi su per gli alberi. I primi chiarori del giorno la rassicurarono un poco: ammirò la levata del sole: e il sole gli pareva così maraviglioso, che non finiva mai di guardarlo. Tutte le grandi cose, che ne aveva sentite dire, le sembravano molto inferiori a quel che vedeva. Era questo l'unico svago che avesse in quel luogo deserto. Per parecchi giorni vi restò sola sola. La fata Tulipano, che aveva sempre voluto bene a questa Principessa, si apionava di cuore per la sua disgrazia; ma d'altra parte, essa era molto indispettita che tanto la Regina come la figlia avessero fatto così poco conto de' suoi consigli: perché, se vi ricordate, la buona fata aveva ripetuto loro più volte che se la Principessa fosse partita prima de' quindici anni compiti, sarebbe andata incontro a qualche malanno. A ogni modo non volle lasciarla in balìa alle ire della fata della fontana, e fu essa stessa che guidò i i di Viola-a-ciocche verso la foresta, perché questa fida confidente potesse consolarla nella sua terribile sventura. La bella Cervia se ne andava, un o dietro l'altro, lungo un fiumiciattolo, quando Viola-a-ciocche, non avendo più gambe per camminare, si coricò per pigliare un po' di riposo. Tutta afflitta, stava almanaccando colla testa da qual parte volgersi per potersi imbattere nella sua cara Principessa. Appena la Cervia l'ebbe vista, fece tutto un salto, e ata dall'altra parte del fiume, che era abbastanza largo e profondo, venne a gettarsi addosso a Viola-a-ciocche e le fece un'infinità di carezze. Ella rimase stupita, non sapendo se le bestie di quel luogo avessero una simpatia particolare per gli uomini tanto da diventare umane, o se la Cervia la conoscesse; perché a dirla tale e quale, non accade tutti i giorni di vedere una Cervia che faccia con tanto garbo e con tanta cortesia gli onori della foresta.
Dopo averla guardata attentamente, si accorse con molta maraviglia che da' suoi occhi sgorgavano alcuni grossi lacrimoni; per cui non ebbe più l'ombra del dubbio che quella fosse la sua cara Principessa. Le prese le zampe e gliele baciò collo stesso rispetto e colla medesima tenerezza, come le avrebbe baciato le mani. Provò a parlare e s'avvide che la Cervia la intendeva benissimo: ma non poteva risponderle; e allora le lacrime e i sospiri raddoppiarono da una parte e dall'altra. Viola-a-ciocche promise alla sua padrona che non l'avrebbe abbandonata mai: la Cervia le fece mille piccoli segni col capo e cogli occhi, per farle intendere che ne sarebbe contentissima, e che questa cosa la consolerebbe in parte delle sue pene. Erano state insieme tutta la giornata, quando la Cervietta ebbe paura che la sua fida Viola-a-ciocche potesse aver bisogno di mangiare, e la menò in un certo punto della foresta, dove aveva veduto alcune frutta selvatiche ma saporite. Viola-a-ciocche ne mangiò moltissime, perché si sentiva morire dalla fame; ma quand'ebbe finita la sua cena, fu presa da una grande inquietudine, perché non sapeva dove si sarebbero ricoverate per dormire. Restare in mezzo alla foresta, esposte a tutti i pericoli, non era nemmeno da pensarci. "Non avete paura, graziosa Cervia", ella disse, "a are la nottata qui?" La Cervia alzò gli occhi al cielo e sospirò. "Ma pure", continuò Viola-a-ciocche, "voi avete già percorso una parte di questa vasta solitudine: non vi son, per caso, punte capanne, un carbonaio, un taglialegna, un eremitaggio?" La Cervia fece col capo di no. "Oh Dei!", esclamò Viola-a-ciocche, "domani non sarò più viva: quand'anche avessi la sorte di scansare le tigri e gli orsi, son sicura che basterebbe la paura per uccidermi. E non crediate, mia cara Principessa, che mi dispiaccia per me di perdere la vita: me ne dispiace per voi. Povera me! Lasciarvi in questi luoghi, senza un'anima che vi consoli! Si può immaginare più trista cosa?" La Cervietta si mise a piangere: ella singhiozzava come potrebbe fare una persona. Le sue lacrime toccarono il cuore alla fata Tulipano, che in fondo l'amava teneramente e che, nonostante la sua disobbedienza, aveva sempre
vegliato alla conservazione di lei: per cui, apparendole tutt'a un tratto, le disse: "Non ho nessuna voglia di farvi dei rimproveri: lo stato in cui vi trovate mi fa troppa pena". Cervietta e Viola-a-ciocche la interruppero, gettandosi ai suoi ginocchi: la prima le baciava le mani e le faceva le carezze più graziose di questo mondo: mentre l'altra la scongiurava a muoversi a pietà della Principessa, rendendole le sue sembianze naturali. "Ciò non dipende da me", disse Tulipano; "colei che le fece tanto male ha molto potere; ma io abbrevierò il tempo della sua penitenza: e per addolcirla un poco, appena si farà notte ella lascerà le spoglie di Cervia; ma ai primi chiarori dell'alba, bisognerà che le riprenda daccapo e corra per la pianura e per la foresta, come le altre Cervie." Cessare di essere Cervia durante la notte, era già qualcosa, anzi molto: e la Principessa dette a dividere la sua allegrezza a furia di salti e di capriole, che messero di buon umore la fata. "Pigliate", diss'ella, "per questa viottola, e troverete una capanna abbastanza decente per questi luoghi campestri." Ciò detto, sparì. Viola-a-ciocche obbedì, e insieme con la Cervia entrò nella viottola, che era lì a pochi i, e trovarono una vecchia seduta sulla soglia della porta, che stava ultimando un canestro di giunchi. Viola-a-ciocche la salutò: "Vorreste voi, mia buona nonna", le disse, "darmi un po' d'ospitalità insieme a questa Cervia?". "Ma sì, figlia mia, che ti ospiterò volentieri: entra pure colla tua Cervia." E detto fatto, le menò subito in una graziosa camerina, che aveva le pareti e l'impiantito di tavole di ciliegio: ci erano due letti di tela bianca: biancheria finissima, e ogni altra cosa così semplice e linda, che la Principessa ha raccontato dopo di non aver mai trovato nulla che fosse più di suo gusto. Quando fu notte buia Desiderata cessò di essere cervia: abbracciò più di cento volte la sua cara Viola-a-ciocche; la ringraziò per l'affezione che l'aveva impegnata a seguire la sua fortuna, e le promise di farla felice, appena la sua penitenza fosse finita. La vecchia venne a bussare con molto garbino alla porta e, senza entrare, dette a
Viola-a-ciocche dei frutti squisiti, de' quali ne mangiò anche Desiderata, e con un grande appetito: quindi andarono a letto, ma appena giorno, Desiderata essendo ritornata Cervia, cominciò a grattare coi piedi la porta, perché Viola-a-ciocche le aprisse. All'atto di separarsi, tutte e due si scambiarono i segni di un vivo dispiacere, sebbene il distacco fosse di poche ore: e la Cervia, lanciatasi nel fitto del bosco, cominciò a correre, secondo il suo solito. Mi par di aver detto che il Principe Guerriero si era fermato nella foresta, e che Beccafico girava in qua e in là, in cerca di frutti. Era già molto tardi, quand'esso capitò alla casina della buona donna, di cui si è già parlato. Esso si presentò con modi molto cortesi e le chiese quelle cose che gli abbisognavano per il suo padrone. La vecchina fece in un lampo a empirgli un corbello di frutta, e glielo dette dicendogli: "Ho paura che se ate la notte qui, a cielo scoperto, vi capiterà qualche disgrazia: io non posso offrirvi che una povera stanzuccia: se non altro, sarete al sicuro dai leoni". Beccafico la ringraziò, e le disse che era in compagnia di un amico, e che andava a proporgli di andare a casa di lei: difatti seppe pigliare il Principe così per il suo verso, che questi si lasciò menare alla casa della buona donna. La trovarono, che era ancora sulla porta: ed essa, in punta di piedi, li menò in una camera, compagna a quella della Principessa, e tutte e due così accosto l'una all'altra, che erano separate da un semplice tramezzo. Il Principe ò la notte inquietissimo, secondo il solito: ma appena il sole gli batté nell'imposte della finestra, si alzò, e per isvagarsi dall'uggia che aveva addosso andò nella foresta, dicendo a Beccafico di non seguirlo. Camminò una mezza giornata, senza neanche sapere dove andasse; finché capitò in un praticello, abbastanza grande, tutto coperto d'alberi e d'erba di muschio. In quel punto sbucò fuori una Cervia, ed egli non poté resistere alla voglia d'inseguirla, perché la caccia era la sua ione prediletta: sebbene ora non fosse più come una volta, dacché aveva nel cuore quest'altra spina. Pur nondimeno si messe dietro alla Cervia, e di tanto in tanto le tirava coll'arco dei dardi, che la gelavano dalla paura, quantunque non le fero il più piccolo male: perché bisogna sapere che la sua amica Tulipano vegliava in sua difesa: e non ci voleva di meno della mano soccorritrice di una fata per salvarla dalla morte, sotto una pioggia di
colpi così bene assestati. Non è possibile essere stracchi, come lo era la Principessa delle Cervie, così poco avvezza a questo nuovo esercizio. Alla fine ebbe la fortuna di svoltare a secco per una viottola, dove il pericoloso cacciatore, avendola persa di vista e sentendosi anch'esso stanco morto, non si ostinò a darle dietro. ata in questo modo la giornata, la povera Cervia vide con gioia avvicinarsi l'ora di tornare a casa: difatti s'incamminò verso la capanna dove Viola-a-ciocche l'aspettava con impazienza. Entrata in camera, si buttò sul letto, rifinita e grondante di sudore. Viola-a-ciocche le faceva un monte di carezze e si struggeva di sapere che cosa le fosse accaduto. Essendo venuto il momento di perdere la sua buccia di Cervia, la bella Principessa riprese la sua vera sembianza e gettando le braccia al collo della sua amica del cuore: "Povera me!", disse ella, "io credeva di dover temere soltanto la fata della fontana e le bestie feroci della foresta: ma oggi sono stata insegnita da un giovine cacciatore: l'ho appena veduto, tanto io fuggivo a gambe: mille dardi mi minacciavano una morte inevitabile, e mi son salvata, non so neppur io come". "Non vi conviene più andar fuori, mia bella Principessa"; disse Viola-a-ciocche, "date retta a me: ate in questa camera il tempo fatale della vostra penitenza, io anderò qui alla città più vicina a comprarvi dei libri perché abbiate uno svago: leggeremo i nuovi racconti che hanno scritto sulle fate, e faremo dei versi e delle canzonette." "Taci, mia cara figlia", riprese la Principessa, "mi basta la cara immagine del Principe Guerriero, per farmi are piacevolmente le giornate intere; ma quella stessa potenza che mi condanna durante il giorno alla trista condizione di Cervia, mi forza, malgrado mio, a fare quello che fanno le cervie: io corro, salto e mangio l'erba com'esse, e in quel tempo lì, una camera sarebbe per me una prigione insoffribile." Era così affaticata dalla caccia che chiese da mangiare: e dopo, i suoi begli occhi si chio fino allo spuntar dell'alba. Appena si accorse che faceva giorno, accadde la solita metamorfosi ed ella riprese la via della foresta. Il Principe dal canto suo era tornato sulla sera a raggiungere il suo grande amico. "Ho ato la giornata", gli disse, "a dar dietro alla più bella Cervia che abbia
mai veduto: più di cento volte essa mi ha fatto cilecca con una sveltezza straordinaria: e sì che ho tirato giusto, né so capire com'abbia fatto a scansare i miei colpi. Domani a giorno vo' tornare a cercarla, e questa volta non mi scappa." Infatti il giovane Principe che faceva di tutto per divagarsi da un'idea che oramai credeva un sogno, vedendo che la caccia per lui era una gran distrazione, andò di buonissim'ora nello stesso punto dove aveva trovato la Cervia; ma essa aveva pensato bene di non andarvi, per paura si rinnovasse il brutto caso del giorno innanzi. Il Principe guardava di qua e di là, e seguitava a camminare; finché, essendo un po' accaldato, non gli parve vero di trovare delle mele, che al colore erano bellissime; ne colse, ne mangiò e di lì a poco si addormentò come un ghiro, sdraiato sull'erbetta fresca e all'ombra di alcuni alberi, sui quali molti uccelletti pareva che si fossero dati il punto di ritrovo. Mentre dormiva, la nostra timida Cervia, sempre in cerca di luoghi solitari, ò da quella parte. Se l'avesse veduto subito, forse sarebbe scappata: ma trovandosi, senza addarsene, a are rasente a lui, non poté stare dal guardarlo: e il suo sonno gli parve così profondo, che si sentì tanto sicura da fermarsi con tutto il comodo a contemplarne i bei lineamenti. Oh Dei! Come restò quando l'ebbe riconosciuto! Quella diletta immagine era scolpita troppo nel suo cuore, perché potesse averla dimenticata in sì poco tempo. Amore, amore, che pretendi da lei? Vuoi tu che Cervietta si esponga a perdere la vita per mano del Principe? Non dubitare, lo farà; essa non ha più testa per pensare alla propria sicurezza. Si accovacciò a pochi i distante da lui, e i suoi occhi, innamorati a guardarlo, non sapevano staccarsi un minuto solo: sospirava e mandava dei piccoli gemiti; finché, fattasi un po' di coraggio, si avvicinò tanto, che quasi lo toccava: quand'egli si svegliò a un tratto. La sua meraviglia fu grande. Riconobbe la Cervia che gli aveva dato tanto da fare, e che aveva cercato per tutta la foresta: e trovarsela ora così vicina, gli parve quasi un miracolo. Essa non aspettò che egli tentasse di prenderla, ma fuggì con quanto ne avea nelle gambe; ed egli, dietro alla gran carriera. Di tanto in tanto si fermavano per ripigliar fiato, perché la bella Cervia era stanca del giorno innanzi, e lo stesso era del Principe. Ma ciò che faceva rallentare di più la
corsa della Cervia, era... ohimè, debbo dirlo? era il gran dispiacere di allontanarsi da colui, che l'aveva ferita più coi suoi pregi che colle sue frecce. Egli la vedeva ogni pochino voltarsi col capo verso di lui, come per chiedergli se voleva che ella perisse per i suoi colpi: e quando egli era a tocco e non tocco per raggiungerla, ella ripigliava nuova forza per scappare. "Oh! se tu potessi intendermi, Cervietta mia", gridava il Principe, "tu non mi fuggiresti a questo modo! Io ti amo; io ti voglio dar da mangiare. Tu sei carina, e io voglio aver cura di te." Ma il vento portava via le parole, per cui non arrivavano fino agli orecchi di Cervia. Alla fine, dopo aver fatto il giro della foresta, ella, non avendo più fiato da correre, rallentò il o: il Principe invece raddoppiò il suo e la raggiunse con una gioia, della quale non si credeva più capace. Vide subito che ella aveva finite le sue forze: era tutta sdraiata per terra, come una povera bestiola, mezza morta, non aspettando altro che finire la vita per le mani del suo vincitore. Ma esso, invece di mostrarsi crudele, cominciò a carezzarla. "Bella Cervia", le disse, "non aver paura: vo' condurti meco, e devi star sempre con me." Tagliò apposta alcuni rami d'albero: li piegò con garbo, li ricuoprì di muschi e vi sparse su delle rose, colte da una macchia che era tutta fiorita. Prese quindi la Cervia fra le sue braccia, le fece appoggiare il capo sul collo e andò a posarla amorosamente sul lettino erboso, fatto da lui. Poi si sedette accanto cercando qua e là dei fili d'erba, che le presentava alla bocca, e che ella mangiava nella sua mano. Sebbene non sperasse punto di essere inteso, il Principe continuava a parlare: ed ella, per quanto grande fosse il piacere che provava nel vederlo, s'inquietava per l'avvicinarsi della notte. "Che sarà mai", diceva fra sé e sé, "caso mi vedesse tutt'a un tratto cambiar di sembianza? O fuggirà spaventato, o, se non fugge, che avverrà di me, trovandomi sola sola in mezzo a questa foresta?" Ella si lambiccava il cervello per trovare il modo di mettersi in salvo, quand'egli stesso le agevolò la strada: perché, nel timore che la Cervia patisse la sete, se ne andò a cercare un qualche ruscello, per menarvela; ma in quel mentre che stava cercando, ella se la dette a gambe e giunse alla capanna, dove Viola-a-ciocche l'aspettava. Si gettò di nuovo sul letto; sopravvenne la notte, la sua metamorfosi
cessò e prese a raccontare la sua avventura. "Lo crederai, mia cara?", ella disse all'amica, "il mio Principe Guerriero è qui, proprio qui in questa foresta; è lui che da due giorni mi dà la caccia, e che, dopo avermi presa, mi ha fatto mille carezze. Oh! com'è poco somigliante il ritratto che me ne fecero ! Egli è cento volte più bello; quello stesso disordine, che sogliono avere i cacciatori negli abiti e nella persona, non toglie nulla alla sua fisonomia geniale: anzi, gli dona un certo non so che, da non potersi ridire a parole. Non son io forse una gran disgraziata a dover fuggire questo Principe? egli che mi fu destinato da' miei genitori? egli che mi ama ed è riamato. Non ci mancava altro che una fata, che mi pigliasse a noia fin dalla mia nascita, per avvelenarmi tutti i giorni della mia vita!..." E dette in un gran pianto. Viola-a-ciocche la consolò e le fece sperare che quanto prima le sue pene si cambierebbero in tante allegrezze. Il Principe, appena ebbe trovato una fonte, tornò subito dalla sua cara Cervia: ma la Cervia non era più dove l'aveva lasciata. La cercò dappertutto, ma inutilmente, e se la prese con lei, come se l'avesse creduta capace di ragionare. "Com'è mai possibile", egli esclamò, "che io debba aver sempre dei motivi di lagnarmi di questo sesso volubile e ingannatore?" E tornò dalla buona vecchia col cuore amareggiato: raccontò al suo fido amico l'avventura, e tacciò la Cervia d'ingratitudine. Beccafico non poté far di meno di ridere della bizza del Principe, e gli consigliò di punire la Cervia, la prima volta che gli capitasse sotto. "Rimango qui apposta," rispose il Principe "dopo ripartiremo per altri paesi più lontani." Si fece daccapo giorno, e col giorno la Principessa riprese la figura di Cervia bianca. Ella non sapeva a qual partito appigliarsi: o andare negli stessi luoghi, dove il Principe era solito cacciare; o tenere una strada diversa, per non incontrarlo. Scelse quest'ultimo partito, e si allontanò dimolto, ma dimolto assai: ma il giovane Principe, furbo quanto lei, indovinò che essa avrebbe usata questa piccola astuzia; ed ecco che te la coglie calda calda nel più fitto della foresta, dove essa credeva di essere sicura da ogni pericolo. Appena essa lo vede, schizza in piedi, scavalca le macchie, e impaurita anche di più per il caso del giorno avanti, fugge via come il vento, ma in quella che sta per traversare una viottola, il Principe la mira così giusto, che le pianta una freccia nella gamba. Ella sentì
un gran male, e non avendo più forza per correre, si lasciò cadere per terra. Questa trista catastrofe non poteva scansarsi, perché la fata della fontana l'aveva decretata avanti, come lo scioglimento della strana avventura. Il Principe si avvicinò e fu preso da un vivo dolore nel vedere la Cervia che grondava sangue; strappò alcune erbe, le accomodò sulla ferita, per diminuirne lo spasimo, e preparò un nuovo letto di rami e di foglie. Egli teneva la testa di Cervietta sulle ginocchia: "E non sei tu, cervellino volubile", le disse, "la cagione della disgrazia che ti è toccata? Che ti aveva io fatto di male, ieri, da abbandonarmi a quel modo? Ma oggi non mi scappi, perché ti porterò con me". La Cervia non rispose nulla: e che cosa poteva dire? Aveva torto e non poteva parlare; sebbene non sia sempre vero che quelli che hanno torto, stiano zitti. Il Principe la finiva dalle carezze. "Come mi dispiace di averti ferita", le diceva, "tu mi odierai e io voglio invece che tu mi ami." A sentirlo, pareva che una voce segreta gl'ispirasse quelle cose che egli diceva a Cervietta. Intanto si fece l'ora di tornare dalla buona vecchia. Egli prese la sua preda, e non fu per lui piccola fatica quella di portarla addosso, o di condurla a mano, o di strascinarsela dietro. Essa non voleva in nessun modo andar con lui. "Che sarà di me?", diceva, "come! e dovrò trovarmi sola con questo Principe? No: piuttosto la morte." Ella faceva la morta e gli spiombava le spalle col peso: il Principe era in un lago di sudore e colla lingua fuori dalla fatica: e sebbene la capanna non fosse molto distante, sentiva che non ci sarebbe potuto arrivare, senza qualcuno che gli avesse dato una mano. Pensò di chiamare il suo fido Beccafico: ma prima di abbandonare la preda, la legò ben bene con alcuni nastri a pié d'un albero, per paura che non gli scape. Ohimè! Chi poteva mai figurarsi che la più bella Principessa del mondo sarebbe un giorno trattata in questo modo da un Principe che l'adorava? Essa si provò inutilmente a strappare i nastri; ma i suoi sforzi non facevano che stringerli di più, e stava sul punto di strozzarsi con un nodo scorsoio, che le stringeva la gola, quando volle il caso che Viola-a-ciocche, stanca di starsene chiusa in camera, uscì per prendere una boccata d'aria e ò sul luogo, dov'era la Cervia bianca
che si dibatteva. Come rimase a vedere la sua cara Principessa in quello stato! Non poté scioglierla tanto presto, come avrebbe voluto, perché i nastri erano fermati con molti nodi: e mentre stava per menarla via, ritornò il Principe insieme con Beccafico. "Per quanto grande sia il rispetto che posso aver per voi, o signora", le disse il Principe, "permettetemi di oppormi al furto che volete farmi. Questa Cervia l'ho ferita io, è mia; io le voglio bene e vi supplico di lasciarmela." "Signore", rispose con bella maniera Viola-a-ciocche, che era compitissima e graziosa quanto mai, "questa Cervia apparteneva a me prima che fosse vostra: rinunzierei piuttosto alla vita, che a lei; e se volete vedere come ella mi conosce, non dovete far altro che lasciarla un po' in libertà. Animo, mia bella Bianchina, abbracciami", diss'ella: e Cervietta le si gettò colle zampe al collo. "Baciami qui, su questa gota!", ed essa ubbidì. "Toccami dalla parte del cuore", ed essa ci portò la zampina. "Fai un sospiro" ed essa sospirò. Il Principe non poté dubitare di quanto affermava Viola-a-ciocche. "Io ve la rendo", diss'egli garbatamente, "ma vi confesso che lo faccio a malincuore." Ella se n'andò via subito colla sua Cervia. Tanto l'una che l'altra non sapevano che il Principe albergasse sotto lo stesso tetto: egli le pedinava a una certa distanza, e restò maravigliato vedendole entrare dalla buona vecchia, che stava appunto aspettandole. Dopo pochi minuti vi giunse anch'esso: e spinto da un moto di curiosità, di cui era cagione la Cervia bianca, domandò alla vecchia chi fosse la giovane signora: e questa disse che non la conosceva né punto né poco, che l'aveva presa in casa colla sua Cervia, che pagava bene, e che viveva ritiratissima. Beccafico volle bracare, e domandò dov'era la camera di quella signora: e gli fu risposto che era vicina alla sua e separata soltanto da un semplice intavolato. Quando il Principe fu nella sua stanza, Beccafico gli disse, o che egli s'ingannava all'ingrosso, o quella fanciulla doveva essere stata colla Principessa Desiderata: e che si ricordava di averla veduta a Corte, quando vi andò ambasciatore. "Perché mi richiamate alla mente questi tristi ricordi?", disse il Principe, "per
quale stranissimo caso volete voi che ella si trovi qui?" "Ecco ciò che non vi so dire, signor mio", soggiunse Beccafico, "ma mi struggo di vederla un'altra volta: e poiché siamo divisi da un tramezzo di legno, voglio farci un buco." "Mi pare una curiosità inutile", disse il Principe mestamente, perché le parole di Beccafico gli avevano rinnuovato tutti i suoi dolori: e aperta la finestra, che guardava nel bosco, diventò pensieroso. Intanto Beccafico lavorava, e in pochi minuti fece un buco abbastanza grande da poter vedere la graziosa Principessa, la quale era vestita di un abito di broccato d'argento, sparso di fiori color rosa, ricamati in oro e smeraldi: i suoi capelli cadevano giù in grandi riccioli, sul più bel collo, che si possa vedere; il suo carnato brillava de' più vivi colori e gli occhi innamoravano a guardarli. Viola-a-ciocche stava in ginocchio davanti a lei, e con alcune strisce di tela fasciava il braccio della Principessa, dal quale il sangue colava in grande abbondanza: e tutte e due parevano in gran pensiero per questa ferita. "Lasciami morire", diceva la Principessa, "meglio la morte, che questa vita disgraziata, che mi tocca a fare. Che si canzona! esser Cervia tutto il giorno: veder colui, al quale sono destinata, senza potergli parlare, senza fargli conoscere la mia fatale sciagura. Ahimè! se tu sapessi le cose apionate che mi ha detto, sotto la mia figura di Cervia; se tu sentissi la sua voce, se tu vedessi i suoi modi nobili e seducenti, tu mi compiangeresti anche più che tu non faccia, per essere in tale stato da non potergli spiegare il mio crudele destino." Immaginatevi lo stupore di Beccafico a vedere e sentire di queste cose. Corse dal Principe, e tirandolo via dalla finestra, con un trasporto di gioia indicibile: "Oh signore", esclamò, "spiccatevi a metter l'occhio al buco di quest'intavolato, e vedrete il vero originale del ritratto, che ha formato per tanto tempo la vostra delizia". Il Principe guardò e riconobbe subito la sua Principessa; e forse sarebbe morto di gioia, se non gli fosse venuto il sospetto di esser vittima di qualche incantesimo; difatti, come mettere d'accordo un incontro così maraviglioso col fatto di Spinalunga e sua madre chiuse nel castello delle Tre Punte, una col nome di Desiderata e l'altra con quello di sua dama d'onore?
Ma la ione lo lusingava, senza contare che abbiamo tutti un grandissimo garbo a credere ciò che si desidera. Fatto sta che nel caso suo, non c'era da uscirne: o morir d'impazienza o accertarsi della verità. Senza mettere tempo in mezzo, egli andò a bussare con molta manierina alla porta della camera, dov'era la Principessa. Viola-a-ciocche, non sospettando che potesse esser altri che la buona vecchia, e avendo anzi bisogno del suo aiuto per fasciare il braccio della sua padrona, corse subito ad aprire, e figuratevi come restò nel trovarsi a faccia a faccia col Principe, il quale andò a gettarsi ai piedi di Desiderata. Era tale e tanta la commozione del suo animo, che non poté fare un discorso filato e ammodo: per cui, sebbene mi sia ingegnato di sapere che cosa balbettasse in quei primi momenti, non c'è stato nessuno che me l'abbia saputo dire. La Principessa non fu meno arruffata di lui nelle sue risposte: ma l'amore, che spesso e volentieri fa da interprete fra i mutoli, c'entrò di mezzo e li persuase tutti e due che avevano detto le cose più spiritose e più apionate di questo mondo. Lacrime, sospiri, giuramenti, e perfino alcuni graziosi sorrisi: insomma, ci fu un po' di tutto. La nottata ò così: si fece giorno, senza che Desiderata se n'accorgesse nemmeno, ed essa non divenne più Cervia. Non c'è da potersi immaginare la sua allegrezza, appena se ne avvide: ed essa voleva troppo bene al Principe, per indugiare a dirgliene il motivo: e così cominciò a raccontare la sua storia, e lo fece con tanta grazia e con tanta eloquenza naturale, da mettere in soggezione i primi avvocati del mondo. "Come!", esclamò il Principe, "siete dunque voi, mia graziosissima Principessa, quella che io ho ferito sotto la sembianza di una Cervia bianca? Che cosa debbo fare per espiare un tal delitto? Vi basta che io muoia di dolore, qui sotto i vostri occhi?" Egli era così mortificato, che il dispiacere gli si vedeva dipinto sul viso. Desiderata ci pativa e sentiva più dolore di questa cosa che della sua ferita; e voleva persuaderlo che si trattava di una sgraffiatura da non darsene l'ombra del pensiero e che, in fin dei conti, ella non poteva dolersi di un male che era stato cagione per lei di tanta felicità. Il modo col quale egli parlava era così affettuoso, che non si poteva dubitare della verità delle sue parole. E perché anch'essa, alla sua volta, potesse essere istruita di ogni cosa, il Principe le raccontò la trappoleria usata da Spinalunga e da sua madre, aggiungendo che bisognava mandar subito a dire al Re suo padre la fortuna che egli aveva avuto di poterla finalmente trovare, perché il Re si preparava appunto a muovere una guerra micidiale, per ottenere soddisfazione del grand'affronto che credeva di aver ricevuto. Desiderata lo pregò di scrivergli
una lettera e di mandargliela per Beccafico, e la cosa stava per essere fatta, quand'ecco che la foresta tutt'a un tratto risuonò di una fanfara squillante di trombe, cornette, timballi e tamburi. E parve di sentir are gran gente lì vicino alla capanna. Il Principe si affacciò alla finestra e riconobbe molti ufficiali, le sue bandiere e i suoi alfieri; ai quali ordinò di far alto e aspettarlo. Fu per quei soldati una sorpresa graditissima: perché tutti credevano che il loro Principe si sarebbe messo alla testa, per andare a vendicarsi del padre di Desiderata. Il padre del Principe, sebbene carico d'anni, li comandava in persona. Egli si faceva portare in una lettiga di velluto ricamato in oro: e dietro a lui, un carro scoperto, dov'erano Spinalunga e sua madre. Appena veduta la lettiga, il Principe corse subito là, e il Re, stendendogli le braccia, l'abbracciò con una tenerezza veramente paterna. "E di dove venite, mio caro figlio?", domandò il vecchio, "come mai avete potuto lasciarmi nella grande afflizione, cagionatami dalla vostra lontananza?" "Signore", disse il Principe, "degnatevi di ascoltarmi." Il Re scese subito dalla sua portantina, e ritiratosi in un luogo appartato, il Principe gli raccontò il fortunato incontro che aveva fatto e le furberie di Spinalunga. Il Re, tutto contento di questa bella avventura, alzò le braccia e gli occhi al cielo in atto di rendimento di grazie: e vide in questo frattempo farsi avanti la Principessa Desiderata, più bella e più risplendente di tutti gli astri riuniti insieme. Ella montava un superbo cavallo, che caracollava continuamente: cento piume di diversi colori le ornavano il capo e i più grossi diamanti del mondo erano sparsi sul suo abito, vestita com'era da cacciatrice. Viola-a-ciocche, che la seguiva, non stava meno bene di lei: e questo era tutto effetto della protezione di Tulipano, la quale aveva condotto ogni cosa con molta accuratezza e buon successo. Era essa che aveva fabbricata la graziosa capanna di legno per favorire la Principessa, e sotto le sembianze di vecchia, l'aveva poi regalata per parecchi giorni. Dopo che il Principe ebbe riconosciuti i suoi soldati, e mentre andava a trovare il Re suo padre, la fata entrò nella camera di Desiderata: le soffiò sul braccio per guarirla della ferita: e le diede gli splendidi vestiti, coi quali ella si mostrò agli occhi del Re, che ne rimase tanto meravigliato, da stentare a credere che fosse
una persona mortale. Egli le disse tutto quello che si può immaginare di più grazioso e gentile in un caso simile, e la scongiurò a non differire più a lungo ai suoi sudditi il piacere di averla per Regina. "Perché", egli continuò a dire, "io sono determinato a cedere il mio regno al Principe Guerriero, per renderlo in questo modo più degno di voi." Desiderata gli rispose con tutta quella gentilezza, che c'è da aspettarsi da una persona squisitamente educata: quindi, gettando gli occhi sulle due prigioniere che erano nel carro e che si nascondevano il viso colle mani, ell'ebbe la generosità di chiedere la loro grazia, e che lo stesso carro servisse a condurle dove avessero voluto andare. Il Re acconsentì al suo desiderio; ma dové ammirare il bel cuore di Desiderata e ne fece i più grandi elogi del mondo. Fu dato ordine all'armata di tornare indietro. Il Principe montò a cavallo per accompagnare la sua bella Principessa: e giunti alla capitale furono ricevuti con mille gridi di gioia. Si allestirono i preparativi per il giorno delle nozze: giorno che fu una vera solennità, per la presenza delle sei fate amiche e propizie alla Principessa. Esse le fecero i più ricchi regali, che mai si possano immaginare e fra gli altri, il magnifico palazzo nel quale la Regina era stata a visitarle, apparve a un tratto per aria, portato da cinquantamila Amorini, i quali lo posarono in una bella pianura, sulla riva del fiume. Dopo un tal dono, era impossibile farne altri di maggior valore. Il fido Beccafico pregò il suo signore di mettere per lui una buona parola con Viola-a-ciocche, e di unirlo con essa, quand'egli avesse sposato la Principessa: ed egli lo fece volentieri. E così a questa cara fanciulla non parve vero di trovare un'occasione coi fiocchi, arrivata appena in un paese straniero. La fata Tulipano, che aveva le mani bucate anche più delle sue sorelle, le regalò quattro miniere d'oro nelle Indie, perché non s'avesse a dire che il suo marito era più ricco di lei. Le nozze del Principe durarono parecchi mesi: ogni giorno c'era qualche festa di nuovo, e per tutto non si faceva altro che cantare le avventure di Cervia bianca.
Se tutti i racconti delle fate dovessero aver per forza una morale, questo racconto qui non saprebbe proprio dove andare a pescarla. Salvo sempre il caso che Cervia bianca, colla storia pietosa delle sue disgrazie,
non abbia preteso di far vedere alle giovinette i grandi pericoli che ci sono, a volere uscire prima del tempo fuori dell'ombra delle pareti domestiche, per entrare nella luce abbagliante del gran mondo.
Il Principe Amato
C'era una volta un Re, il quale era proprio una persona tanto perbene, che i suoi sudditi lo chiamavano il Re buono. Un giorno, mentre trovavasi a caccia, accadde che un coniglio bambino, che stava lì per essere ucciso dai cani, venne a gettarsi fra le sue braccia. Il Re fece delle carezze alla povera bestiolina e disse: "Giacché si è messo sotto la mia protezione, non voglio che nessuno gli faccia del male". E portò il piccolo coniglio nel suo palazzo, e gli fece dare una bella stanzina e delle erbe eccellenti da mangiare. Nella notte, quando fu solo in camera, il Re vide apparire una bella donna, la quale non era vestita con abiti ricamati d'oro e d'argento, ma la sua veste era bianca come la neve, e portava in testa una corona di rose bianche. Il buon Re rimase molto maravigliato nel vedere questa signora, tanto più che l'uscio di camera era chiuso, né sapeva capacitarsi come diavolo avesse fatto a ar dentro. "Io sono la fata Candida, e ando per il bosco mentre eravate a caccia, volli vedere se veramente siete quel buon Re, che tutti dicono. A questo fine presi la figura di un piccolo coniglio e mi messi in salvo fra le vostre braccia: perché so che chi sente pietà per le bestie, la sente anche per gli uomini: e se mi aveste ricusato il vostro soccorso, vi avrei tenuto per un cattivo. Vi ringrazio dunque del bene che mi avete fatto, e contate che io sarò sempre vostra buonissima amica. Voi non dovete far altro che chiedere, e tutto vi sarà accordato". "Signora", disse il buon Re, "poiché siete una fata, voi dovete leggermi in cuore quel che desidero. Io non ho che un figlio solo, al quale voglio un bene dell'anima, tanto che lo chiamano tutti il Principe Amato. Se mi volete fare un regalo, pigliate a benvolere questo mio figlio."
"Con tutto il cuore", rispose la fata, "io posso fare del vostro figlio o il più bel Principe del mondo, o il più ricco, o il più potente. Scegliete voi." "Nulla di tutto questo", replicò il buon Re, "quanto a me, vi sarò obbligatissimo se vorrete farne il migliore dei Principi. A che gli servirebbe di esser bello, ricco e padrone di tutti i regni del mondo, se fosse cattivo? Voi sapete meglio di me che sarebbe un disgraziato, perché non c'è che la virtù che renda veramente felici." "Avete mille ragioni", rispose Candida, "ma non è in mio potere di far diventar buono il Principe Amato, a suo dispetto: se vuol esser virtuoso, bisogna che anch'esso ci metta dell'impegno e della buona volontà. Tutto quel più che posso promettervi è di dargli dei buoni consigli, di riprenderlo quando farà male: e anche di castigarlo, se non voglia correggersi o punirsi da sé." Il buon Re fu arcicontento di questa promessa, e dopo poco morì. Amato pianse moltissimo il padre, perché era tutta la sua affezione, e avrebbe dato volentieri regni, oro, argento, ogni cosa insomma, per poterlo salvare: ma non era possibile. Due giorni dopo la morte del Re, mentre Amato era a letto, Candida gli apparve e gli disse: "Ho promesso a vostro padre di esservi buona amica; e in segno che voglio mantenere la mia parola, eccomi qua a farvi un regalo". E nel dir così, infilò un anellino nel dito di Amato e gli disse: "Tenete conto di quest'anello: è più prezioso dei brillanti; ogni volta che sarete per fare una cattiva azione, vi pungerà il dito: ma se nonostante la puntura, vi ostinerete nel male, perderete la mia amicizia e diventerò vostra nemica". Dette queste parole, Candida sparì e lasciò Amato fuori di sé dallo stupore. Per qualche tempo egli fu così ammodo e perbene, che non sentì mai bucarsi dall'anello: e questa cosa lo rendeva tanto contento, che al suo nome di Amato, che già portava, gli venne aggiunto anche quello di Felice. Accadde però che in quei giorni essendo andato a caccia e non avendo morto nessun animale, entrò di cattivissimo umore. Allora gli parve che l'anello gli pigiasse, così non ci badò né tanto né quanto. Entrato che fu nella sua camera, la canina Bibì gli venne
incontro, tutta saltellante in atto di fargli festa, ma egli le disse: "a a cuccia! Ho altro per il capo che le tue carezze". Ma la povera canina che non capiva nulla di quel che diceva, gli tirava il vestito per obbligarlo almeno a voltarsi a guardarla. Questo bastò per fargli perdere la pazienza e le lasciò andare una gran pedata. In quel momento l'anello lo punse così forte, come se fosse stato uno spillo. Egli ne restò confuso, e tutto rosso dalla vergogna andò a nascondersi in un canto della sua camera. E intanto pensava: "Io credo che la fata abbia voglia di burlarsi di me: che male ci può essere a dare una pedata a una bestia che viene a seccarmi? siamo giusti: a che mi servirebbe di essere il sovrano di un grand'impero, se non fossi neanche padrone di picchiare il mio cane?". "Io non mi burlo di voi", disse una voce che rispondeva al pensiero di Amato, "voi avete commesso tre errori, invece di uno: siete entrato di cattivo umore, perché vorreste tutte le cose a modo vostro e perché credete che le bestie e gli uomini sieno creati apposta per ubbidirvi; siete andato in furia, e anche questa è una cosa bruttissima; in terzo luogo, vi siete mostrato crudele con una povera bestiuola, che non si meritava davvero di essere presa a calci. Lo so anch'io che voi siete molto al di sopra di un cane, ma se fosse lecito e ragionevole che i grandi potessero maltrattare la gente che sta al disotto di loro, io potrei in questo momento battervi e anche uccidervi; perché una fata è da più d'un uomo. Il vantaggio di trovarsi padroni di un grande impero, non sta nel poter far tutto il male che si vuole, ma tutto il bene che si può." Amato riconobbe il suo errore e diè parola di emendarsene. Ma fu come dire al vento. Bisogna sapere che fin da bambino era stato allevato da una sciocca governante, che lo aveva avvezzato male. Se voleva una cosa, non doveva far altro che piangere, imbizzirsi, pestare i piedi e quella lo contentava subito, e così ne faceva un ostinato, da non poterci campare. Fra le altre cose, essa ava le giornate intere a dirgli e ripetergli che un giorno sarebbe diventato Re, e che i Re erano felicissimi perché tutti gli uomini dovevano ubbidirli e venerarli, e perché erano padroni di cavarsi tutti i capricci che frullavano loro per la testa. Quand'Amato crebbe e fu in caso di ragionare, riconobbe da sé che non c'era cosa tanto brutta, come quella di mostrarsi disprezzanti, orgogliosi e testardi. E si studiò di correggersi, ma ormai si era tirato su con tutti questi difetti, e quando si
è presa una cattiva piega è difficile abbandonarla. Non si può dire, peraltro, che in fondo in fondo fosse cattivo di cuore: ché anzi, quando aveva commesso qualche errore, piangeva dal dispetto e diceva: "Quanto son disgraziato di dover combattere tutti i giorni contro la mia superbia e contro il mio naturale bizzoso. Se da ragazzo mi avessero sgridato, ora non mi ritroverei a questo dispiacere". L'anello lo pungeva spesso, e allora, se egli stava facendo un'azione non bella, si fermava subito: altre volte invece non ci badava e tirava avanti: e la cosa curiosa era questa: che per i piccoli falli, l'anello lo pungeva poco: ma quando poi si mostrava cattivo davvero, allora gli faceva uscire il sangue dal dito. Alla fine perse la pazienza e volendo essere un malanno quanto gli pareva e piaceva, gettò via l'anello. Liberato dalla seccatura di sentirsi bucare, credé di essere il mortale più felice della terra. Si buttò allo sbaraglio e ne fece di ogni risma e colore: talché diventò un vero rompicollo e nessuno lo poteva soffrire. Un giorno che Amato era alla eggiata, vide una fanciulla tanto bella che esso si messe subito nell'idea di volerla sposare. Si chiamava Zelia ed era una ragazzina tanto perbene, quanto era bella. Amato si figurava che a Zelia sarebbe parso di toccare il cielo con un dito a poter diventare una gran Regina; ma la fanciulla invece gli disse senza tanti complimenti: "Sire, io sono una povera contadinella e senza un soldo di dote: eppure, sebbene nuda bruca, non vi sposerò mai". "Che forse non vi piaccio?", le domandò Amato un tantino commosso. "No, mio Principe", rispose Zelia, "per me siete bellissimo, come lo siete difatti: ma a che vi gioverebbe la vostra bellezza, le vostre ricchezze, i bei vestiti e le belle carrozze che avete, se i vostri cattivi portamenti mi costringessero tutti i giorni a pigliarvi in uggia e dispetto?" Amato s'imbestialì contro Zelia e ordinò a' suoi ufficiali di condurla per forza al palazzo. Quanto fu lunga la giornata, non seppe darsi pace di vedersi così disprezzato da questa fanciulla: ma perché le voleva bene, non trovava il verso di maltrattarla. Fra i cattivi compagni di Amato, c'era un suo fratello di latte, col quale si
confidava in tutto e per tutto. Quest'uomo, che aveva delle ioni volgarissime, com'era volgare la sua nascita, accarezzava le ioni del padrone e lo metteva sempre per la cattiva strada. Nel vedere che Amato era di umore tristo, gli domandò la cagione della sua tristezza. E avendogli il Principe risposto che non sapeva rassegnarsi al disprezzo di Zelia, e che aveva fatto giuro di emendarsi de' suoi difetti, perché per piacere a lei bisognava essere persone oneste e virtuose, quel malanno uscì fuori col dirgli: "Siete molto ma molto buono, a usar tanti riguardi con quella ragazzuccia: se fossi io ne' vostri panni, saprei quel che fare per costringerla a ubbidirmi: ricordatevi che siete Re e che vi farebbe un gran torto a darla vinta ai capricci di una contadina, la quale dovrebbe stimarsi felice di essere ammessa fra le vostre schiave. Cominciate a tenerla a stecchetto, a pane e acqua: rinserratela in una prigione e, se perfidia a non volervi sposare, fatela morire in mezzo ai tormenti, non foss'altro per insegnare agli altri a chinare il capo ai vostri voleri. Se si viene a risapere che vi siete lasciato imporre da una monella, ci rimetterete un tanto di reputazione, e i vostri sudditi non si ricorderanno più che sono al mondo apposta per servirvi". "Ma", chiese Amato, "non sarei ugualmente portato per bocca, se fi morire un'innocente? Perché, in fin dei conti, Zelia non è rea di alcun delitto." "Chi si ribella ai vostri comandi, non è mai innocente", riprese il malvagio consigliere, "ma dato anche che dobbiate commettere un'ingiustizia, è sempre meglio far sapere che siete ingiusto, di quello che s'abbia a dire che sia lecito qualche volta mancarvi di rispetto e di sommissione." Il cortigiano stuzzicava Amato nel suo debole; e la paura di veder diminuita la propria autorità fece tanto effetto sull'animo del Re, da far tacere le buone intenzioni che egli aveva avuto di darsi al buono. Difatti fissò la sera stessa di andare nella camera della villanella e di pigliarla colle cattive, caso si fosse ostinata a non volerlo sposare. Il fratello di latte di Amato, per evitare il pericolo che avesse a pentirsi, riunì tre giovani signorotti, tristi da quanto lui, per fare un'orgia in compagnia del Re: e cenando insieme s'ingegnarono di farlo bere come una spugna, perché questo povero Principe perdesse affatto il lume della ragione. Durante la cena lo messero su contro Zelia e gli rinfacciarono tante e
tante volte la sua debolezza di carattere, che alla fine egli si alzò da tavola giurando e spergiurando che voleva essere ubbidito, e subito: o se no, il giorno dopo l'avrebbe fatta vendere sul mercato come una schiava. Quando Amato entrò nella camera della fanciulla, restò sorpreso di non trovarcela: tanto più che egli stesso aveva la chiave in tasca. Prese una furia bestiale, e giurò lo sterminio di tutti quelli che avessero dato mano alla fuga di Zelia. I suoi compagni di vizio, nel sentire un discorso simile, pensarono di trar partito dal suo cieco furore, per rovinare un gentiluomo, che era stato aio di Amato. Questo brav'uomo si era preso qualche volta la libertà di ammonire il Re de' suoi difetti, perché gli voleva bene come a un figlio. Amato cominciò col ringraziarlo; ma poi impazientitosi di vedersi contraddetto, finì col credere che fosse unicamente per ispirito di opposizione, se l'aio suo lo ripigliava di certi mancamenti: mentre tutti gli altri non facevano che lodarlo e dirne un gran bene. Amato gli ordinò di allontanarsi dalla Corte: peraltro, malgrado quest'ordine, gli rendeva giustizia, ripetendo che era un onest'uomo, e sebbene non lo avesse più nelle sue buone grazie, si sentiva obbligato, a suo marcio dispetto, a doverlo stimare. I suoi amici stavano sempre colla paura che un giorno o l'altro gli pigliasse l'estro di richiamare l'aio; finché credettero di aver trovato il bandolo per levarselo affatto di fra i piedi. E per far questo, dettero ad intendere al Re che Solimano (era il nome di quella degna persona) si era vantato di rendere la libertà a Zelia. Tre individui, comprati con mance e regali, raccontarono di aver sentito questo discorso dalla bocca stessa di Solimano; talché il Principe perse il lume degli occhi: comandò al suo fratello di latte di mandare dei soldati, perché gli conducessero dinanzi il suo aio e governatore, ammanettato come un assassino. Dato quest'ordine, Amato se ne tornò nella sua camera; ma appena fu dentro, la terra tremò: si sentì un tuono spaventoso e Candida apparve dinanzi a' suoi occhi. "Avevo promesso a vostro padre", diss'ella con voce severa, "di darvi dei consigli, e di punirvi, se aveste ricusato seguirli. Questi consigli voi li avete disprezzati e a voi non rimane altro che l'aspetto di uomo; perché i vostri difetti vi hanno trasformato in un mostro da far ribrezzo al cielo e alla terra. È tempo che io mantenga la mia promessa e che vi punisca. Io dunque vi condanno a
diventare simile alle bestie, colle quali avete in comune le inclinazioni. Vi siete reso simile al leone per la collera violenta; al lupo per la voracità; al serpente straziando colui che vi aveva fatto da secondo padre; al toro per la vostra brutalità. Nel vostro nuovo aspetto, serberete un po' delle forme e del carattere di tutti questi animali." Appena la fata ebbe finito di dir così, Amato si vide subito, con suo grandissimo spavento, trasformato e diventato tale e quale aveva ordinato la fata. La sua testa era di leone, le corna di toro, i piedi di lupo e la coda di vipera. E nello stesso tempo si trovò in mezzo a un gran bosco, proprio sull'orlo di una fontana, dove poté specchiarsi e vedere la sua orribile figura: e sentì una voce che gli disse: "Guarda un po' lo stato in cui ti hanno ridotti i vizi: eppure la tua anima è anche più brutta dello stesso corpo". Amato riconobbe la voce di Candida e in un accesso di furore si voltò per lanciarsi contro di lei e divorarla, se avesse potuto; ma non vide anima viva, e la stessa voce gli disse: "Io mi rido della tua impotenza e de' tuoi furori. Io confonderò il tuo orgoglio, rendendoti lo zimbello de' tuoi stessi sudditi". Amato pensò che, allontanandosi da quella fontana, avrebbe trovato un po' di rifrigerio ai suoi tormenti: non foss'altro non avrebbe avuto più dinanzi agli occhi la sua bruttezza e la sua deformità: e detto fatto, s'inoltrò nel bosco; ma dopo pochi i cascò dentro una buca, scavata apposta per prendere gli orsi, e in quel punto stesso alcuni cacciatori, che stavano nascosti sugli alberi, scesero e, dopo averlo incatenato, lo menarono alla capitale del suo regno. E lungo la strada mandava mille imprecazioni, mordeva le catene e faceva la bava dalla rabbia, mentre avrebbe fatto meglio a riconoscere che quel castigo se l'era chiamato addosso unicamente per colpa sua. Nell'avvicinarsi alla città, dove lo conducevano, vide grandi feste di allegrezza pubblica: e i cacciatori avendo chiesto che cosa ci fosse di nuovo, fu loro risposto che quel principe Amato, che si divertiva a tormentare i suoi sudditi, era stato incenerito da un fulmine nella sua camera. Così la raccontavano, e così la credevano. "Gli Dei", aggiungevano altri, "non potevano patire più a lungo gli eccessi della sua malvagità, e ne hanno liberata la terra. Quattro signori, complici di lui,
credevano di profittarne e di spartirsi fra loro il regno: ma il popolo che sapeva che erano stati essi coi loro tristi consigli che avevano traviato il Re, li ha fatti a pezzi ed ha offerto il trono a Solimano, che quel malanno di Amato voleva far morire a ogni costo. Il degno gentiluomo è stato incoronato poco fa, e noi festeggiamo questo giorno, come quello della liberazione del regno: perché Solimano è una gran brava persona e si prepara a ricondurre fra noi la pace e l'abbondanza." Nel sentire questi discorsi, Amato fremeva di rabbia; ma si trovò a peggio, quando giunse sulla gran piazza davanti al suo palazzo. Fu lì che vide Solimano assiso sopra un magnifico trono e tutto il popolo a desiderargli una lunga vita, per riparare al gran male fatto dal suo predecessore. Solimano fece segno colla mano per chiedere un po' di silenzio, e disse al popolo: "Io ho accettato la corona che mi avete offerta, ma l'ho fatto per serbarla al principe Amato. Egli non è morto, come ve l'hanno dato ad intendere. Lo so da una fata, e forse un giorno lo rivedremo buono e virtuoso com'era stato nella sua prima giovinezza. Ohimè!" seguitò a dire colle lacrime agli occhi "gli adulatori lo avevano sedotto. Io conosceva bene il suo cuore, che era fatto per la virtù: e senza i malvagi suggerimenti di coloro che gli stavano accosto, egli sarebbe stato un buon padre a tutti voi. Detestate i suoi vizi, ma compiangetelo; e tutti insieme preghiamo gli Dei perché ce lo rendano. In quanto a me, mi stimerei ben fortunato di dare tutto il mio sangue per vederlo risalire sul trono, con tutte le virtù degne di un gran sovrano". Le parole di Solimano toccarono il cuore di Amato. Egli conobbe allora quanto fosse sincero l'affetto e fedeltà di quest'uomo: e per la prima volta rinfacciò a se stesso la propria colpa. Appena ebbe dato retta a questo segno di ravvedimento, cominciò a sentirsi calmare quella rabbia che lo rodeva vivo; e ripensando ai falli commessi nella vita, si capacitò che non era stato punito in ragione del merito. Smesse, intanto, di sbatacchiarsi dentro la gabbia di ferro dov'era incatenato, e diventò agevole come un agnello. Fu portato in un gran serraglio, dove si tenevano tutti i mostri e gli animali feroci e venne rinchiuso insieme cogli altri. Amato fece allora un animo risoluto e cominciò a voler riparare al mal fatto, col
mostrarsi obbediente e sommesso al guardiano che l'aveva in custodia. Ma costui era un omaccio, e quando aveva le paturne, lo bastonava senza motivo e senza discrezione, sebbene ei fosse docilissimo e alla mano. Un bel giorno che il guardiano s'era addormentato accadde che una tigre, rotta la gabbia, si avventò su di esso per divorarlo. Amato, nel primo momento, provò una specie di contentezza, nel vedere che stava per essere liberato dal suo persecutore: ma si pentì subito di questo sentimento e desiderò di trovarsi libero. "Io sento", diss'egli, "che sarei capace di rendere ben per male, salvando la vita a quel disgraziato." Appena ebbe formato questo desiderio, vide aperta la sua gabbia di ferro: ed egli si slanciò dalla parte di quell'uomo che si era già svegliato e che si difendeva contro la tigre. Quando il guardiano vide anche il mostro, si fece bell'e spedito: ma il suo spavento si cambiò presto in allegrezza, perché il mostro benefico si gettò sulla tigre, la strangolò, e dopo andò ad accovacciarsi ai piedi del guardiano che aveva liberato. In segno di gratitudine, quell'uomo stava chinandosi per fare delle carezze al mostro, che gli aveva reso un sì gran favore, quando sentì una voce che disse: "Una buona azione non resta mai senza ricompensa" e nel tempo stesso, invece del mostro, vide ai suoi piedi un grazioso canino. Amato, lietissimo di questa sua nuova trasformazione, cominciò a fare un monte di feste al guardiano, il quale lo prese in collo e lo portò al Re, a cui raccontò per filo e per segno tutta questa meraviglia; la Regina volle il cane per sé e Amato sarebbe stato felice di questo suo nuovo stato, se avesse potuto dimenticarsi di essere uomo e sovrano. La Regina era tutto il giorno a carezzarlo: ma per paura che crescesse troppo, consultò i medici di Corte, i quali la consigliarono di dargli soltanto del pane e in piccolissima dose. Il povero cane sentiva rifinirsi dalla fame dodici ore del giorno: ma bisognava rassegnarsi, e zitti. Una volta, che gli avevano portato il solito panino per la colazione, gli venne l'estro di andarlo a mangiare nel giardino del palazzo e presolo coi denti si avviò verso un ruscello, che egli conosceva e che era piuttosto lontano: ma arrivato sul posto, il ruscello non c'era più e trovò invece un palazzo, le cui mura esterne risplendevano tutte d'oro e di pietre preziose. Vi vedeva entrare una gran folla di donne e di uomini, magnificamente vestiti: e dentro si cantava, si suonava, si mangiava fior di pietanze: ma tutti quelli che poi uscivano di lì, erano pallidi,
rifiniti, coperti di bolle e mezzi nudi, perché i loro vestiti cascavano a pezzi. Alcuni nell'uscir fuori cadevano morti; altri si allontanavano con grande stento e fatica; altri rimanevano per terra, sfiniti dalla fame, e chiedevano un boccone di pane a quelli che entravano in questa casa; i quali non si voltavano neppure a guardarli. Amato si accostò a una giovinetta, la quale cercava di strappare un po' d'erba per mangiarla. Mosso a comione, il Principe disse fra sé e sé: "Il mio appetito è grande, non c'è che dire; ma non per questo morrò di fame di qui all'ora di desinare: per cui se io mi levassi dalla bocca la mia colazione per darla a quella povera creatura, forse le salverei la vita". Risolvé di dar retta a questa buona ispirazione e andò a mettere il suo panino nelle mani della giovinetta, che se lo portò alla bocca con grandissima avidità. In un batter d'occhio parve riavuta da morte a vita, e Amato, contento di averla aiutata in tempo, stava per tornare al palazzo, quando sentì delle grida acutissime e vide Zelia fra le mani di quattro uomini, che la trascinavano verso questa bella casa, dove la fecero entrar per forza. Amato in quel punto provò un gran dispiacere a non aver più la figura di un mostro, ché allora non gli sarebbe mancato il modo di soccorrere Zelia: ma debol canino com'era, non poté far altro che abbaiare contro i rapitori e provarsi a dar loro alle gambe. Lo mandarono indietro a furia di calci: e nondimeno non si volle allontanare di lì, per la ione di sapere che cosa sarebbe avvenuto di Zelia. Egli si sentiva pesare sulla coscienza tutte le disgrazie di quella povera fanciulla. "Ohimè", diceva dentro di sé, "io son qui che me la piglio con quelli che l'hanno rapita!... ma non commisi anch'io lo stesso delitto? E se la giustizia divina non ci fosse entrata di mezzo, non l'avrei trattata con altrettanta indegnità?" Questi pensieri di Amato furono interrotti da un rumore, che veniva fatto al disopra della sua testa. Si voltò in su, vide una finestra che si apriva, e la sua gioia fu grandissima quando scorse Zelia che da questa finestra gettava giù un piatto di vivande così ben cucinate, da far tornare l'appetito a un morto. La finestra si richiuse subito, e Amato che in tutta la giornata non aveva trovato il modo di sdigiunarsi, pensò che era venuto il momento buono per rimettere il tempo perso. E già si preparava ad attaccare il dente in quelle pietanze, quando la giovinetta alla quale aveva dato il panino, cacciò un grido e avendolo preso fra le braccia:
"Povera bestiolina", gli disse, "non ti accostare alla bocca quella sorta di cibi. Questo è il palazzo della Voluttà; e tutto ciò che esce di lì dentro, è avvelenato". Nel tempo stesso Amato sentì una voce che disse: "Tu vedi come una buona azione non resta mai senza ricompensa". E subito si trovò cangiato in un bel piccioncino bianco. Si ricordò allora che questo era il colore di Candida, e cominciò a sperare che finalmente ella volesse rammentarlo nelle sue buone grazie. Il suo primo pensiero fu quello di avvicinarsi a Zelia, e levatosi a volo per aria, girò intorno a tutta la casa, e vide con gioia che c'era una finestra aperta. Ma ebbe un bel frugare la casa in tutti i cantucci: Zelia non la poté trovare. Disperato di averla smarrita, fece giuro di non fermarsi un momento solo, fino a tanto che l'avesse incontrata. E per più giorni volò e volò, finché entrato in un deserto vide una caverna, e per curiosità vi si accostò. Quale non fu la sua gioia nello scorgere Zelia, che seduta accanto a un venerabile Eremita, faceva con lui un frugalissimo pasto. Amato, nell'impeto della ione, volò sulla spalla della graziosa contadinella, e dava a vedere colle sue carezze il gran piacere che provava nel rivederla. Zelia, innamorata della dolcezza di questo animalino, lo lisciava delicatamente colla mano, e sebbene non pensasse di essere intesa, gli disse che gradiva il dono che le faceva di se stesso, e che gli avrebbe voluto sempre bene. "Che avete mai fatto, Zelia?", le disse l'Eremita. "In questo modo avete impegnato la vostra parola." "Sì, graziosa pastorella", le disse Amato il quale riprese in quel momento la sua forma naturale, "la fine della mia metamorfosi dipendeva dal vostro consenso alla nostra unione. Voi mi avete promesso di amarmi sempre: confermate la mia felicità e io corro a scongiurare la fata Candida, mia protettrice, perché mi renda quella figura, sotto la quale ebbi la fortuna di piacervi." "Voi non dovete temere per nulla la sua incostanza", gli disse Candida, e lasciò cadere le spoglie d'Eremita, sotto le quali s'era nascosta, per apparire ai loro
occhi tale, qual era difatti. "Zelia vi amò appena vi vide, ma i vostri vizi la costrinsero a nascondere la inclinazione che sentiva per voi. Il cambiamento avvenuto ora nel vostro cuore, la fa padrona di dare libero sfogo a tutta la sua tenerezza. Voi sarete felici, perché la vostra unione sarà fondata sulla virtù." Amato e Zelia si erano gettati ai piedi di Candida. Il Principe non rifiniva di ringraziarla della sua bontà, e Zelia, oltremodo contenta di sapere che Amato detestava i propri trascorsi, tornava a ripetergli il grande amore che sentiva per lui. "Alzatevi, figli miei", disse loro la fata, "che io voglio trasportarvi nel vostro palazzo per rendere ad Amato una corona, della quale i suoi vizi l'avevano reso indegno." Appena dette queste parole, si trovarono tutti nella camera di Solimano, il quale lietissimo di rivedere il suo diletto padrone divenuto virtuoso, gli cedé il trono e restò il più fedele de' suoi sudditi. Amato regnò lungo tempo con Zelia: e si racconta che fu così scrupoloso nell'adempimento dei propri doveri, che l'anello che aveva ripreso, non lo punse nemmeno una volta sola, in modo da fargli far sangue.
La Bella e la Bestia
C'era una volta un mercante che era ricco sfondato. Aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine; e siccome era un uomo che sapeva il vivere del mondo, non risparmiò nulla per educarli e diede loro ogni sorta di maestri. Le sue figlie erano bellissime: la minore soprattutto era una maraviglia, e da piccola la chiamavano la bella bambina, e di qui le rimase il soprannome di Bella, che fu poi cagione di gran gelosia per le sue sorelle. Questa figlia minore, oltr'essere la più bella, era anche la più buona delle altre. Le due maggiori, perché erano ricche, avevano molto fumo; si davano l'aria di grandi signore, e non gradivano la compagnia delle figlie degli altri negozianti, ma se la dicevano soltanto col nobilume. Andavano dappertutto: ai balli, alle commedie, alle eggiate; e si ridevano della sorella minore, perché spendeva una gran parte del suo tempo nella lettura dei buoni libri. E perché si sapeva che erano molto ricche, parecchi negozianti, di quelli grossi davvero, le chiesero in mogli; ma la maggiore e la seconda dissero chiaro e tondo che non si sarebbero mai maritate, se non fosse capitato loro un Duca o a dir poco un Conte. La Bella (oramai vi ho detto che questo era il nome), la Bella, dunque, ringraziò con molta buona maniera coloro che volevano sposarla: e disse che era troppo giovane e che voleva tener compagnia ancora per qualche anno al suo genitore. Quand'ecco che tutto a un tratto il mercante fece un gran fallimento e non gli rimase altro che una piccola casa assai lontana dalla città. Disse allora ai suoi figli, colle lacrime agli occhi, che bisognava rassegnarsi e andare ad abitare in quella casetta dove, mettendosi tutti a fare i contadini, avrebbero potuto campare e tirarsi avanti. Le due ragazze più anziane risposero che non volevano saperne nulla di lasciare
la città, dov'avevano molti amanti, ai quali non sarebbe parso vero di poterle sposare, anche senza un soldo di dote. Ma le povere figliuole s'ingannavano all'ingrosso perché, quando furono povere, tutti i loro amanti girarono largo. E siccome, a motivo della loro superbia, non erano in generale ben vedute, cosi dicevano tutti: "Non meritano comione: è giusta che abbiano dovuto ripiegare le corna; che vadano ora a fare le grandi signore dietro le pecore e i montoni!". Ma nel tempo stesso tutti dicevano: "Quanto alla Bella, ci rincresce proprio della sua disgrazia: è una gran buona figliuola! è così alla mano coi poveri, e tanto amorosa e gentile!". Ci furono fra gli altri parecchi gentiluomini che la volevano sposare, sebbene non avesse più un soldo di dote: ma essa disse che non sapeva risolversi a lasciare il suo povero padre nella disgrazia, e che sarebbe andata con lui fra i campi, per consolarlo e dargli una mano nelle fatiche. La povera Bella, da principio, era rimasta molto male dell'aver perduto ogni ben di fortuna; ma poi si consolò col dire fra sé e sé: "Quand'anche mi struggessi dal pianto, non varrebbe a farmi ricattare quello che ho perso: dunque è meglio cercare di essere felici, anche senza un centesimo in tasca". Appena arrivati alla casa di campagna, il mercante e le sue tre figlie si dettero subito a lavorare i campi. La Bella si alzava la mattina alle quattro, avanti giorno, e si dava il pensiero di ripulir la casa e di preparare la colazione e il desinare per la famiglia. Sul primo ci pativa un poco, perché non era avvezza a strapazzarsi come una serva: ma di lì in capo a due mesi si fece più robusta e, faticando tutto il giorno, acquistò una salute di ferro. Quando aveva finite le sue faccende, si metteva a leggere o a suonare la spinetta: o anche canterellava e filava. Le sue sorelle, invece, s'annoiavano da non averne idea: si levavano alle dieci della mattina, girellavano tutto il giorno e trovavano una specie di svago a rimpiangere i bei vestiti e la bella società di una volta.
"Guarda un po'", dicevano fra loro, "come è stupida la nostra sorella minore: e che caratteraccio triviale ! Essa è contenta come una pasqua di trovarsi nella sua disgraziata condizione!..." Ma il buon mercante non la pensava così. Egli sapeva che Bella aveva molto più garbo delle sue sorelle a fare spicco in società: e ammirava la virtù di questa giovinetta e segnatamente la sua rassegnazione; perché bisogna sapere che le sue sorelle, non contente di buttare addosso a lei tutte le faccende della casa, la punzecchiavano continuamente con mille parole insolenti. Era corso un anno dacché questa famiglia viveva lontana dalla città, quando il mercante ebbe una lettera nella quale gli si diceva che un bastimento, carico di mercanzie, di sua proprietà, era arrivato felicemente! Ci scattò poco che questa notizia non fe dar la balta al cervello alle due ragazze maggiori, le quali speravano così di poter lasciare la campagna, dove morivano dalla noia: e quando videro il padre sul punto di partire, lo pregarono che portasse loro dei vestiti, delle mantelline, dei cappellini e altri gingilli di moda. La Bella non gli chiese nulla, perché aveva già capito che tutto il valsente delle merci arrivate non sarebbe bastato a contentare i capricci delle sue sorelle. "E tu non vuoi che ti compri nulla?", le disse suo padre. "Poiché siete tanto buono da pensare a me", ella rispose, "fatemi il piacere di portarmi una rosa: che in questi posti non ci fanno." Non vuol dir già che alla Bella premesse la rosa: ma lo fece, per non criticare col suo esempio la condotta delle sorelle; le quali avrebbero detto che non chiedeva nulla, per farsi distinguere e dar nell'occhio. Il buon uomo partì, ma appena giunto, ebbe a sostenere un processo a causa delle sue mercanzie: e dopo mille seccature, se ne tornò indietro più povero di prima. Gli restavano da fare non più di trenta miglia per arrivare a casa, e già si consolava nel pensiero di rivedere la sua famigliola; ma dovendo traversare un gran bosco, si smarrì e perdé la strada. La neve fioccava da far paura, e soffiava un vento così strapazzone, che lo gettò
per due volte giù da cavallo. Venuta la notte, egli cominciò a credere di dover morire o di fame e di freddo, o divorato dai lupi, che si sentivano urlare a poca distanza. Quando a un tratto, nel voltar l'occhio verso il fondo di una lunga sfilata d'alberi, vide una gran fiamma che pareva lontana lontana. S'avviò da quella parte, e poté distinguere che quella luce usciva da un gran palazzo, che era tutto illuminato. Il mercante ringraziò il cielo del soccorso mandatogli e si affrettò per giungere a questo castello; ma rimase grandemente stupito di non trovarci anima viva. Il suo cavallo, che gli andava dietro, avendo visto una bella scuderia aperta, entrò dentro; e trovatovi fieno e biada, il povero animale, che moriva di fame, vi si buttò sopra con grandissima avidità. Il mercante lo legò alla greppia: e s'avviò verso la casa, dove non trovò nessuno. Ma entrato che fu in una gran sala, vi trovò un bel fuoco , una tavola apparecchiata e con molte pietanze: ma c'era una posata sola. Essendo bagnato fino al midollo dell'ossa, per la neve e la molt'acqua che aveva preso, si avvicinò al fuoco per asciugarsi, dicendo fra sé: "Il padrone di casa e i suoi domestici mi scanno della libertà che mi prendo! Sono sicuro che staranno poco ad arrivare". Aspetta, aspetta e nessuno veniva: finché suonarono le undici e ancora non s'era visto alcuno. Allora non potendo più stare alle mosse, dalla gran fame prese un pollastro e, tremando dalla paura, lo mangiò in due bocconi. Bevve anche qualche sorso di vino, e messo su un po' di coraggio, uscì dalla sala e traversò molti quartieri splendidamente tappezzati e ammobiliati. Alla fine trovò una camera dove c'era un buon letto: e perché era mezzanotte suonata e si sentiva stanco morto, prese il partito di chiuder l'uscio e di coricarsi. La mattina dopo si svegliò verso le dieci: e figuratevi come rimase, quando trovò un vestito molto decente nel posto dove aveva lasciato il suo, che era tutto logoro e cascava a pezzi. "Si vede bene", egli disse, "che in questo palazzo ci sta di casa qualche buona
fata, che si è mossa a comione di me." Si affacciò alla finestra e non vide più un filo di neve, ma pergolati di bellissimi fiori, che innamoravano soltanto a guardarli. Ritornò nella gran sala, dove la sera avanti aveva cenato e vide una piccola tavola, con sopra una chicchera e un vaso di cioccolata. "Grazie tante", diss'egli a voce alta, "grazie tante, signora fata, della garbatezza di aver pensato alla mia colazione." Il buon uomo, quand'ebbe preso la cioccolata, uscì per andare dal suo cavallo; e ando sotto un pergolato di rose si ricordò che la Bella gliene aveva chiesta una, e staccò un tralcio dove ce n'erano parecchie bell'e sbocciate. In quel punto stesso sentì un gran rumore e vide venirsi incontro una bestia così spaventosa, che ci corse poco non cascasse svenuto: "Voi siete molto ingrato", disse la Bestia con una voce da far rabbrividire, "vi ho salvata la vita accogliendovi nel mio castello, e in ricambio voi mi rubate le mie rose, che è per l'appunto la cosa che io amo soprattutto in questo mondo. Per riparare al mal fatto non vi resta altro che morire: vi do tempo un quarto d'ora per chiedere perdono a Dio". Il mercante si gettò in ginocchio e a mani giunte prese a dire alla Bestia: "Monsignore, perdonatemi: non credevo davvero di offendervi a cogliere una rosa per una delle mie figlie, che me l'aveva domandata". "Non mi chiamo Monsignore", rispose il mostro, "ma Bestia. I complimenti non fanno per me; io voglio che ognuno parli come la pensa: per cui non vi mettete in capo d'intenerirmi colle vostre moine. Mi avete detto che avete delle figliuole: ebbene, io potrò perdonarvi a patto che una di codeste figliuole venga qui a morire volontariamente nel posto vostro. Non una parola di più; partite, e caso le vostre figlie ricusassero di morire per voi, giurate che dentro tre mesi ritornerete." Quel pover'uomo non aveva punta intenzione di sacrificare alcuna delle sue figlie al brutto mostro, ma pensò dentro di sé: "Non foss'altro avrò almeno la consolazione di poterle abbracciare un'altra volta".
Fece giuro di tornare, e la Bestia gli disse che poteva partire a piacer suo. "Ma non voglio", soggiunge, "che tu debba andartene colle mani vuote. Ritorna nella camera dove hai dormito; ci troverai un gran baule vuoto; ché io penserò a fartelo portare fino a casa." Detto questo, la Bestia se ne andò, e il buon uomo disse fra sé e sé: "Almeno, se ho da morire, potrò lasciare un boccon di pane a' miei poveri ragazzi". E tornò nella camera dove aveva dormito, e avendovi trovato delle monete d'oro a corbellini, ne empì il baule, di cui gli aveva parlato la Bestia: quindi lo chiuse, e ripreso il cavallo lasciato nella scuderia, uscì dal palazzo con tanto malessere addosso, quanta era la gioia colla quale vi era entrato. Il cavallo prese da sé uno dei viottoli della foresta, e in poche ore il buon uomo arrivò alla sua casetta. I suoi figli gli furono tutti d'intorno: ma invece di mostrarsi lieto alle loro carezze, il mercante li guardava e gli cascavano i lacrimoni dagli occhi. Egli aveva in mano il tralcio di rose, che portava a Bella: e nel darglielo, disse: "Bella, pigliate queste rose: ma costeranno molto care al vostro povero padre!". E così raccontò alla famiglia il brutto caso che gli era capitato. A quella storia le due sorelle maggiori si messero a berciare e dissero mille cosacce a Bella, la quale non piangeva né punto né poco. "Ecco le conseguenze", esse dicevano, "dell'orgoglio di questa monella: perché anche lei non fece come noi e non chiese dei vestiti? Nient'affatto! la signorina voleva distinguersi. E ora è lei la cagione della morte di suo padre e non se ne fa né in qua né in là." "Sarebbe inutile", soggiunse Bella, "e perché dovrei piangere la morte di mio padre? Egli non morirà una volta che il mostro si contenta di accettare in cambio una delle sue figlie; io voglio mettermi in balìa del suo furore: e sono molto felice, perché così potrò avere la contentezza di salvare il padre mio e di provargli il gran bene che gli ho sempre voluto." "No, sorella mia", le dissero i suoi tre fratelli, "tu non morirai: noi anderemo a trovare il mostro, e periremo sotto i suoi colpi, se non saremo buoni di ucciderlo." "Non lo sperate, ragazzi miei", disse loro il mercante, "la potenza di questa Bestia è così sterminata, che non c'è caso di poterla uccidere. Mi fa una vera
consolazione il buon cuore di Bella: ma non voglio mandarla a morire. Io son vecchio; non mi resta che poco tempo da vivere; così, male che vada, posso scorciarmi di qualche anno la vita; cosa che non rimpiango punto, perché lo faccio per amor vostro, miei cari figliuoli." "Vi do la mia parola, padre mio", disse Bella, "che voi non anderete a quel palazzo, senza di me: voi non mi potete impedire di seguirvi. Sebbene giovane, io non sono molto attaccata alla vita, e preferisco esser divorata da quel mostro, che morire dalla pena che mi farebbe la vostra perdita." Ebbero un bel dire, ma la Bella volle a ogni costo partire anche lei per il palazzo del mostro; e alle sorelle non parve vero, perché si rodevano di gelosia per le belle doti della sorella minore. Il mercante era così stonato dal dolore di dover perdere la figlia, che non gli ò per il capo neppure il baule che egli aveva riempito di monete d'oro. Ma appena fu in camera restò grandemente stupito di trovarlo al piè del letto. Risolvette di non dir nulla in casa di essere diventato ricco, per paura che le figlie si mettessero in testa di voler tornare in città, mentre egli aveva fatto conto di voler morire in quella campagna. Peraltro confidò il segreto a Bella, la quale gli raccontò come nel tempo che era stato lontano, alcuni gentiluomini fossero venuti per casa e come, fra questi, ve ne fossero due che amoreggiavano colle sue sorelle. Si raccomandò al padre che le maritasse; perché essa era tanto buona di cuore, che le amava tutte e due, e perdonava loro tutto il male che le avevano fatto. Quelle due cattive si strofinarono gli occhi colla cipolla per farsi venire i lucciconi, al momento che Bella partì con suo padre: ma i fratelli piangevano davvero: e anche il mercante. La sola che non piangesse era Bella, la quale non voleva inciprignire il dolore di tutti gli altri. Il cavallo prese la via del palazzo, e sul far della sera cominciarono di lontano a vederlo illuminato, tale e quale come la prima volta. Il cavallo andò da sé solo nella scuderia: e il buon uomo entrò con sua figlia nella gran sala, dove trovarono una gran tavola magnificamente apparecchiata per due. Il mercante non sapeva da che verso rifarsi per mangiare; ma la Bella,
sforzandosi di parer tranquilla, si messe a tavola e lo servì: poi diceva dentro di sé: "Capisco bene che la Bestia vuole ingrassarmi prima di far di me un boccone! me n'accorgo dalla maniera con cui mi tratta". Quand'ebbero cenato, udirono un gran fracasso e il mercante, colle lagrime agli occhi, disse addio alla sua povera figlia, perché sapeva che la Bestia era lì lì per arrivare. La Bella, alla vista di quell'orribile figura, sentì fare un cavallone al sangue: ma s'ingegnò di non darlo a divedere: e quando il mostro le domandò s'era venuta da lui volentieri, rispose con voce tremante di sì. "Davvero che siete molto buona", disse la Bestia, "e io vi sono riconoscentissimo. Buon uomo! domani partirete, e Dio vi guardi dal tornare in questo luogo. Addio, Bella." "Addio, Bestia", ella rispose. E il mostro sparì. "Oh ! figlia mia", disse il mercante abbracciandola e baciandola, "io son mezzo morto dalla paura. Fai a modo mio; lasciami morir qui." "No, padre mio", rispose la Bella con fermezza, "voi partirete domani mattina, e mi abbandonerete all'aiuto del cielo. Il cielo forse avrà comione di me!..." L'uno e l'altro andarono a letto, coll'idea che in tutta la notte non sarebbero stati buoni a chiudere un occhio, ma invece, appena si furono coricati nei loro letti, si addormentarono come ghiri. E la Bella vide in sogno una Regina, la quale le disse: "O Bella, io son contenta del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando la vita per quella di vostro padre, non rimarrà senza premio". Quando la Bella si svegliò, raccontò il sogno a suo padre, e sebbene questa cosa lo rinfrancasse un poco, non bastò peraltro a trattenerlo dal dare in grandissimi pianti, quando gli fu forza staccarsi dalla sua figlia adorata.
Partito che fu, la Bella andò a sedersi nella gran sala; e anche essa cominciò a piangere; ma essendo molto coraggiosa, si raccomandò a Dio e fece conto di non darsi tanto alla disperazione per quel poco di tempo che le restava ancora da vivere: perché ella credeva fermamente che la Bestia sarebbe venuta a mangiarla nella serata. Intanto, mentre aspettava, pensò bene di girare e di visitare il castello, del quale non poteva starsi dall'ammirare le grandi bellezze. E figuratevi se rimase a bocca aperta, quando vide una porta sulla quale c'era scritto: Quartiere della Bella. Aprì in fretta e in furia questa porta e fu abbagliata dalle magnificenze che vi erano dentro; ma ciò che maggiormente la colpì, fu la vista di una gran biblioteca, di un clavicembalo e di molti quaderni di musica. "Si vede proprio che non vogliono che io mi annoi", disse fra sé e sé; quindi pensò: "Se io dovessi albergare qui un giorno solamente, non mi avrebbero ammannito tutte queste belle cose". Questo pensiero rianimò il suo coraggio. Ella aprì la biblioteca e vide un libro sul quale era scritto a lettere d'oro: "Desiderate e comandate; voi siete qui signora e padrona!...". "Meschina me!", diss'ella, "io non ho altro desiderio che di vedere il mio povero padre e di sapere che cos'è di lui in questo momento! " Queste parole le aveva dette dentro di sé, ma quale non fu il suo stupore, quando gettando gli occhi sopra uno specchio, vi mirò la sua casa, e per l'appunto in quel momento in cui vi giungeva suo padre con un viso da far pietà. Le sue sorelle gli andavano incontro; e malgrado le smorfie che facevano per parere afflitte, mostravano sul viso e a fior di pelle la contentezza provata per la perdita della loro sorella. Dopo un minuto sparì ogni cosa, ma la Bella non poté far di meno di pensare che la Bestia era molto compiacente, e che non aveva nulla da temere da essa. A mezzogiorno trovò la tavola bell'e apparecchiata: e durante il pranzo udì
un'eccellente musica, senza che potesse vedere alcuno. La sera mentre stava per mettersi a tavola, sentì il fracasso che faceva la Bestia e fu presa da un tremito di paura: "Bella", le disse il mostro, "siete contenta che io stia a vedervi mentre cenate?". "Non siete voi il padrone?", rispose la Bella, tremando. "No", replicò la Bestia, "qui non c'è altri padroni che voi; se vi sono importuno, non dovete far altro che dirmelo e me ne anderò subito. Ditemi una cosa: non è vero che io vi sembro molto brutto?" "È vero, sì", rispose Bella, "perché io non sono avvezza di dire una cosa per un'altra; peraltro vi credo buonissimo di cuore." "Avete ragione", disse il mostro, "ma oltre all'essere brutto io non ho punto spirito, e so benissimo d'essere una Bestia." "Non è mai una Bestia", rispose Bella, "colui che crede di non avere spirito. Gl'imbecilli non arriveranno mai a capire questa cosa." "Su dunque, mangiate, Bella", le disse il mostro, "e cercate tutti i mezzi per non annoiarvi nella vostra casa: perché tutto quello che vedete qui, è roba vostra: e io sarei mortificato se non vi sapessi contenta." "Voi avete molta bontà per me", disse la Bella, "e sono contentissima del vostro cuore: quando ci penso non mi sembrate nemmeno tanto brutto." "Oh! per questo", rispose la Bestia, "il cuore è buono: ma io sono un mostro!" "Conosco degli uomini che sono più mostri di voi", disse Bella, "e quanto a me, mi piacete più voi con codesta vostra figura, di tant'altri che, sotto l'aspetto d'uomo, nascondono un cuore falso, corrotto e sconoscente." "Se avessi un po' di spirito", disse la Bestia, "farei un complimento per ringraziarvi: ma io sono uno stupido; e tutto quel che posso dirvi è che vi sono obbligato." La Bella cenò di buon appetito. Essa non aveva quasi più paura del mostro; ma
fu lì lì per morire di spavento, quando egli le disse: "Bella, volete esser mia moglie?". Ella stette un po' di tempo senza rispondere: aveva paura di svegliare la collera del mostro con un rifiuto; a ogni modo disse con voce tremante: "No, Bestia". A questa risposta il povero mostro volle mandar fuori un sospiro e gli venne fatto un sibilo così spaventoso, che ne rintronò tutto il palazzo. Ma la Bella fu presto rassicurata, perché la Bestia, dopo averle detto "addio, dunque, Bella", uscì dalla camera voltandosi indietro tre o quattro volte per poterla ancora vedere. Quando la Bella fu sola cominciò a sentire una gran comione per la povera Bestia, e diceva: "Che peccato che sia così brutta, mentre sarebbe tanto buona!". La Bella, per tre mesi, menò in questo palazzo una vita abbastanza tranquilla. Tutte le sere la Bestia andava a farle visita, e durante la cena si tratteneva con lei, facendo mostra di molto buon senso, ma giammai di ciò che si chiama spirito fra le persone del mondo galante. Ogni giorno che ava, la Bella scopriva nuovi pregi nel mostro. A furia di vederlo, aveva fatto l'occhio alle sue bruttezze, e invece di temere il momento della sua visita, ella guardava spesso l'orologio per vedere quanto mancava alle nove, perché la Bestia a quell'ora era sempre precisa. Una sola cosa metteva di mal umore la Bella; ed era che tutte le sere, avanti di andare a letto, il mostro le domandava se voleva essere sua moglie, e rimaneva mortificatissimo quand'essa rispondeva di no. Ella disse un giorno: "Voi mi fate una gran pena, Bestia; vorrei potervi sposare, ma sono troppo sincera per darvi a sperare una cosa che non sarà mai. Io sarò sempre vostra buon'amica. Contentatevi di questo". "Per forza!" rispose la Bestia. "Io son giusto. Io so che sono orrendo: ma vi voglio un gran bene. A ogni modo, io mi chiamo abbastanza fortunato se vi adattate a restar qui: promettetemi che non mi lascerete mai."
La Bella a queste parole fece il viso rosso. Ella aveva visto nello specchio che suo padre era malato dal dolore di averla perduta, e desiderava rivederlo. "Io potrei benissimo promettervi" diss'ella alla Bestia "di non lasciarvi più per sempre; ma mi struggo tanto di rivedere il padre mio, che morirei di crepacuore se mi rifiutaste questo piacere." "Vorrei piuttosto morire", disse il mostro, "che darvi un dispiacere; io vi manderò da vostro padre: voi resterete con lui e la vostra Bestia morirà di dolore." "No", rispose la Bella piangendo, "io vi voglio troppo bene per essere cagione della vostra morte. Vi prometto di ritornare fra otto giorni. Mi avete fatto vedere che le mie sorelle sono maritate e che i miei fratelli sono partiti per l'armata. Il mio povero padre è rimasto solo; lasciatemi almeno una settimana con lui." "Domattina ci sarete", disse la Bestia, "ricordatevi delle vostre promesse. Quando vorrete tornare, non dovete far altro che posare il vostro anello sopra la tavola nell'andare a letto. Addio, Bella." La Bestia, mentre parlava così, sospirò secondo il suo uso solito, e la Bella andò a letto, tutta dispiacente di avergli dato questo dolore. Quando si svegliò la mattina dopo, si trovò in casa di suo padre; e avendo suonato il camlo accanto al letto, vide venire la serva, la quale cacciò un grand'urlo di sorpresa. Il buon uomo di suo padre, a quell'urlo, corse subito, e nel rivederla, ci mancò poco non morisse dalla contentezza: e stettero abbracciati per più di un quarto d'ora. Sfogate le prime tenerezze, la Bella pensò che non aveva vestiti per potersi levare, ma la serva le disse di aver trovato nella stanzaa accanto un gran baule pieno di vestiti, tutti d'oro e ornati di brillanti. La Bella ringraziò la buona Bestia delle sue attenzioni: scelse fra quei vestiti il meno vistoso e ordinò alla serva di riporre gli altri, dei quali intendeva farne un regalo alle sorelle: ma appena ell'ebbe pronunziate queste parole, il baule sparì. Peraltro suo padre avendole detto che la Bestia voleva che ella serbasse per sé ogni cosa, il baule ritornò al suo posto.
La Bella si vestì, e in questo mentre furono avvertite le sue sorelle, le quali corsero subito insieme ai cari mariti. Tutte e due avevano combinato molto male! La maggiore aveva sposato un gentiluomo, bello come un amore, ma tanto innamorato di sé, che dalla mattina alla sera non faceva altro che guardarsi allo specchio, senza curarsi né punto né poco della bellezza della moglie. La seconda aveva sposato un uomo che aveva molto spirito, ma se ne serviva soltanto per essere la disperazione di tutte le donne, cominciando da sua moglie. Le sorelle di Bella quando la videro vestita come una Regina e bella come un occhio di sole, se non creparono dalla rabbia, fu un miracolo. Ella ebbe un bell'accarezzarle; nulla poté ammansire la loro gelosia; la quale anzi si accrebbe a cento doppi, quando raccontò quanto era felice. La due invidiose scesero in giardino per potersi sfogare a piangere, e dicevano: "O perché quella ragazzuccia è più fortunata di noi? Non siamo forse più graziose e più belle di lei?". "Cara sorella", disse la maggiore, "mi viene un'idea: facciamo di tutto per trattenerla qui per più di otto giorni; la sua stupida Bestia anderà sulle furie per la parola non mantenuta e forse la divorerà per castigarla." "Dici bene, sorella", rispose l'altra, "ma perché la cosa riesca, bisogna cercare di ammaliarla con molte moine." Preso questo partito, risalirono in casa tutt'e due e cominciarono a fare tante e poi tante garbatezze alla sorella, che questa ne pianse di consolazione. ati che furono gli otto giorni, le due sorelle si strapparono i capelli e diedero segni di disperazione per la partenza di lei, che ella finì col promettere di trattenersi altri otto giorni. Intanto la Bella rimproverava a se stessa il dolore che stava per dare alla sua povera Bestia, che essa amava davvero e che ora era dispiacente di non poterla vedere. La decima notte che ella ò in casa del padre, sognò di trovarsi nel palazzo e di vedere la Bestia distesa sull'erba, vicina a morire, e che le rinfacciava la sua ingratitudine. Bella si destò tutt'a un tratto e pianse: "Non son io molto cattiva" essa diceva "di
dare questo dispiacere a una Bestia, che è stata tanto buona con me? È colpa sua se è così brutta e se ha poco spirito? Ella è buona: e questo val più d'ogni cosa. Perché non ho io voluto sposarlo? Io sarei più felice con lui che le mie sorelle coi loro mariti. Non è la bellezza né lo spirito di un marito che rendono felice una donna; ma la bontà del carattere, la virtù e le buone maniere: e la Bestia ha tutte queste belle cose. Io non sento amore per essa ma la stimo, e ho per lei amicizia e riconoscenza. Ma non debbo renderla disgraziata: questa ingratitudine sarebbe per me un rimorso per tutta la vita". Dette queste parole, la Bella si leva, mette l'anello sulla tavola e ritorna a letto. Appena coricata si addormentò e, svegliandosi la mattina, vide con gioia di essere nel palazzo della Bestia. Si messe i vestiti più belli per andarle a genio anche di più, e s'annoiò mortalmente nella smania di aspettare che arrivassero le nove ore di sera: ma l'orologio ebbe un bel suonare le nove: la Bestia non comparve. La Bella allora temé di averle cagionato la morte: e disperata si dette a girare per tutto il palazzo, mandando altissimi pianti. Dopo aver cercato dappertutto, si ricordò del sogno e corse in giardino, vicino al fiume, dove dormendo, l'aveva veduta. E difatti fu lì che trovò la povera Bestia distesa per terra priva di sensi: talché la credette morta. Senza provar ribrezzo di quella brutta figura, si gettò tutta sopra lei, e avendo sentito che il cuore batteva sempre, prese dal fiume un po' d'acqua e le bagnò la testa. La Bestia aprì gli occhi e disse alla Bella: "Voi avete dimenticata la vostra promessa: e il gran dolore di avervi perduta mi ha fatto decidere a lasciarmi morir di fame: ma ora muoio contenta, perché ho avuto la consolazione di potervi rivedere". "No, mia cara Bestia, voi non morirete", le disse la Bella, "voi vivrete per diventare mio sposo: da questo momento io vi do la mia mano, e giuro che non sarò d'altri che di voi. Ohimè! io credeva di non aver per voi che dell'amicizia, ma il dolore che sento mi fa credere che non potrei più vivere senza vedervi." Appena la Bella ebbe pronunziato queste parole, ecco che tutto il castello appare risplendente di lumi: i fuochi di artifizio, la musica, ogni cosa annunziava una
gran festa. Ma queste meraviglie non incantarono punto i suoi occhi: ella si voltò verso la sua cara Bestia, il cui pericolo la teneva in tanta agitazione. E quale fu il suo stupore! La Bestia era sparita, ed essa non vide ai suoi piedi che un Principe bello come un amore, il quale la ringraziava per aver rotto il suo incantesimo. Sebbene questo Principe meritasse tutte le sue premure, ella non poté stare dal chiedergli dove fosse la Bestia. "Eccola ai vostri piedi", le disse il Principe, "una fata maligna mi aveva condannato a restare sotto quell'aspetto finché una bella fanciulla non avesse acconsentito a sposarmi, e mi aveva per di più proibito di far mostra di spirito. Così in tutto il mondo non ci voleva che voi, per lasciarsi innamorare dalla bontà del mio carattere: ed offrendovi la mia corona, non posso sdebitarmi del gran bene che mi avete fatto." La Bella, piacevolmente sorpresa, porse la mano al bel Principe perché si rialzasse in piedi. E andarono insieme al castello, dov'essa ci mancò poco non si sentisse svenire dalla gioia, trovando nella gran sala il padre suo e tutta la sua famiglia, tra sportata al castello da quella bella Signora che le era apparsa in sogno. "Bella", le disse questa Signora, che era una fata e di quelle coi fiocchi, "venite a ricevere la ricompensa della vostra buona scelta: voi avete preferito la virtù alla bellezza e allo spirito, e meritate per questo di trovare tutte quelle cose raccolte in una sola persona. Voi state per diventare una gran Regina: ma spero che il trono non vi farà scordare le vostre virtù. Quanto a voi, mie care signore" disse la fata alle due sorelle della Bella "conosco il vostro cuore e tutta la cattiveria che c'è dentro: diventerete due statue; ma nondimeno serberete il lume della ragione sotto la vostra forma di pietra. Starete alla porta del palazzo di vostra sorella; e non vi impongo altra pena che quella di essere testimoni della sua felicità. Non potrete ritornare nello stato primiero, se non quando riconoscerete i vostri errori: ma ho una gran paura che dobbiate restare statue per sempre. Si può correggere l'orgoglio, le bizze, la gola, la pigrizia; ma la conversione di un cuore invidioso e cattivo è una specie di miracolo." Nel dir così, diede un colpo di bacchetta, e tutti quelli che erano in quella sala, furono trasportati negli Stati del Principe. I suoi sudditi lo rividero con gioia, ed esso sposò la Bella, che visse con lui lungamente e in una felicità perfetta, perché era fondata sulla virtù.
I RAGAZZI GRANDI
I ragazzi grandi
- Bettina, accendi subito il caminetto - disse Clarenza, entrando in salotto e volgendo la sua parola a una donna sulla cinquantina, che stava spolverando con una spazzola di penne i mille ninnoli, di varia maniera, posati per ornamento sopra la mensola di un caminetto, sormontato da un grande specchio. - Nel momento - rispose la Bettina, e chinandosi per accomodare la legna, disse alla sua giovane padrona: - Indovini un po', signora Clarenza, chi ho veduto or ora, per la strada, mentre tornavo a casa. - Sarà un po' difficile. - Glie lo do a indovinare in mille. - Figurati, se voglio stare a lambiccarmi il cervello. Spicciamoci: chi hai veduto? - Il signor conte!... - Come! Mario è qui?.. Mi pare quasi impossibile. A quest'ora sarebbe venuto a trovarci. - Eppure era lui! - Bada, Bettina, avrai sbagliato!... - Era lui in persona... e si mantiene sempre un bell'uomo!... - Lo credo. Sempre elegante?.. - Sempre lo stesso. Mi ricordo di quando, da giovinotto, veniva per casa e che tutti si credeva che fra lui e lei - (nel dir così la Bettina, accennò cogli occhi la sua padrona) - ci fosse veramente qualche cosa... eppoi...
- Eppoi, sul più bello tutte le speranze andarono in fumo, non è vero Bettina?.. Nel profferir queste ultime parole, la Clarenza fece una di quelle risate artificiali, che non fanno ridere nessuno, nemmeno la persona che ride. Dopo dieci minuti di silenzio, la Bettina, scrollando il capo, continuò: - Peccato! che bella coppia sarebbe stata!... - Non lo credere: Mario non era l'uomo per me! Troppo leggero di carattere: troppo volubile! troppo farfallone!... Mario, per tua regola, non sarà mai un uomo serio!... - Ma un gran bell'uomo! - Speriamo che l'Emilia gli avrà fatto metter giudizio!... - Speriamolo davvero. - In ogni modo, val più Federigo in un solo dito... - Dicerto - replicò la Bettina, con accento di sincera convinzione. - Dicerto, il signor Federigo è una gran degna persona... ma ecco... secondo me, non ha la malizia di esser bello come il signor Mario!... In questo mentre, sco si presentò sulla porta, annunziando: - Il signor conte Mario. La Clarenza, colla rapidità del baleno, si dié un'ultima guardata allo specchio: quindi, preso il primo libro che gli capitò fra le mani, andò a sedersi dinanzi al caminetto. - È permesso? - Ma questo è un miracolo! una vera apparizione!... - disse Clarenza, voltandosi sorridendo verso la porta, e stendendo la mano al conte. - Mia buona Clarenza! Anche a me mi pare di sognare! - replicò Mario, con un accento di mal dissimulata afflizione. Clarenza, meravigliata, lo guardò fisso negli occhi: quindi, pigliando un tuono di
voce carezzevole: - Vi è accaduto forse qualchecosa?.. - Perché?.. - Dio mio! Avete addosso una cert'aria di mal umore, che fate proprio pietà... voi, una volta così allegro... così scapato... - Non vi occupate di me, Clarenza, parliamo piuttosto di voi. Gli anni ano e non vi toccano. Sempre bella e fresca, come una camelia sulla pianta. - Diavol mai! - replicò vivacemente Clarenza, un tantino impermalita del complimento - una donna, a venticinqu'anni, ha quasi il dovere di non esser brutta. Anche voi, sapete, Mario: se non aveste codest'aria di salcio piangente, si potrebbe dire che vi siete conservato come un ermellino nella canfora. - No, amica mia - soggiunse il conte, abbassando di nuovo il tuono della voce ormai io sono vecchio, un decrepito di trenta anni!... - Ecco le solite frasi! A proposito: come sta l'Emilia? non mi avete detto nulla.. - Vi prego!... non tocchiamo questo tasto. - Mi fate paura? È forse malata? - domandò Clarenza con vivissima ansietà. - Peggio!... - Mio Dio!... Morta? - Peggio!... - Peggio?.. - Clarenza rimase perplessa, stuonata, come fuori di sé: quindi illuminata quasi improvvisamente da un baleno, che traversò la sua mente, soggiunse piano e con voce comionevole: - Povero Mario! in questo caso comprendo benissimo il vostro dolore e lo rispetto... Il conte si lasciò cascare sopra una poltrona, dove per alcuni minuti secondi rimase immobile e cogli occhi fissi a terra. Quando si risentì, il suo primo
movimento fu quello di portarsi la mano sopra la testa, per assicurarsi colla punta delle dita se la scrinatura dei capelli avesse sofferta qualche perturbazione, in quella violenta scossa di tutta la persona. - Mario!... e lui chi era? - domandò Clarenza esitando e abbassando gli occhi. - Un mio compagno di collegio! l'amico del cuore. - Infami! tutti così gli amici del cuore! - Venne quest'estate a Genova. I medici gli avevano ordinato i bagni di mare. Il giorno stesso che arrivò lo incontrai alla posta. Era pallidissimo e mal'andato di salute. Sei solo? gli domandai. - Sì. - e dove abiti? M'immagino che non sarai sulla locanda. - Anzi sono appunto sulla locanda. - In codesto stato di salute? Tu hai bisogno di qualcuno che ti assista. - Ubbie, mi rispose sorridendo melanconicamente; all'occorrenza, so morire anche da me solo; e senza bisogno di aiuto. - Sciocchezza! tu verrai a casa mia, gli risposi in tuono imperativo. Io abito a venti i di distanza dal mare. Ho un quartiere assai grande e assai comodo, perché ci sia sempre una camera e un salottino per gli amici. Impossibile. - Ti ripeto che t'aspetto, e non facciamo complimenti inutili. Sì. no, no - sì - il fatto sta che lo costrinsi ad accettare. Lo presentai a mia moglie, e dopo pochi giorni diventò di famiglia. La sera mi accompagnava al Club, e alle due dopo la mezzanotte veniva a riprendermi per tornare a casa insieme. arono così due mesi: le bagnature erano finite; l'amico si era completamente ristabilito... ma non parlava d'andarsene... - E in tutto questo tempo non vedeste nulla? Non vi accorgeste di nulla? - Clarenza mia - continuò Mario fremendo e lisciandosi con compiacenza le sue lunghe fedine - i mariti somigliano a quei disgraziati di cui parla il Vangelo: hanno gli occhi, e non vedono; hanno gli orecchi, e non intendono nulla. Una bella mattina, Giorgio... (così si chiamava quel miserabile) riceve un dispaccio da casa. Bisognava che partisse subito. Difatti partì, promettendo che sarebbe tornato dopo pochi giorni per riprendere la sua roba e per ringraziarci della cortese ospitalità che gli si era data. A questo punto, ci furono due minuti di pausa e di raccoglimento, quindi il conte seguitò: - Non starò a dirvi per quale strana combinazione, durante quella breve assenza,
una lettera di Giorgio, che era destinata per l'Emilia, capitasse disgraziatamente nelle mie mani. Si vede proprio che gli innamorati colpevoli son come i ladri: i quali, dopo tanto ingegno e dopo tante cautele, finiscono prima o poi col fare qualche grande sciocchezza, che serve a scuoprirli e a metterli nelle mani della giustizia. - E quella lettera?.. - domandò Clarenza con una curiosità impaziente. - Da quella lettera potei comprendere che il falso amico... che il Giuda insidiava al mio onore!... Voi conoscete il mio carattere impetuoso, violento, subitaneo. Senza metter tempo in mezzo, mi presentai a mia moglie, come una tigre ferita. L'Emilia protestò della sua innocenza: pianse: pregò - e siccome una parola ne tira un'altra, così accadde una scena dolorosissima, al seguito della quale mia moglie ritornò presso sua madre, gridando e spergiurando che non avrebbe più rimesso il piede in casa mia... Partita l'Emilia, mi trovai solo! - solo come un cane. Risoluto, d'altra parte, per la mia dignità, a non fare nessun atto di scusa e di sottomissione, feci allestire la mia valigia, e fino da ieri sera eccomi qua, in un paese dove ho ato gli anni più belli della mia prima giovinezza; dove si può dire che sono conosciuto da tutti, e dove tutti mi vogliono bene. - Povero Mario! E di lui?.. - Non ne ho saputo più nulla, e non voglio saperne nulla. Ma ditemi voi, Clarenza, se si può trovare un uomo più scellerato di quello?!... tradire così vilmente l'ospitalità dell'amico. Giorgio è un mostro. - Giorgio è un uomo, come tutti gli altri. Io non scuso davvero la sua condotta! Dio me ne guardi! Ma Giorgio non è un'eccezione alla regola. Amico mio continuò Clarenza, battendo leggermente e con grazia la sua bella manina sul braccio del conte - tenetelo bene a mente: ammesse certe date circostanze, tutti gli uomini si somigliano fra di loro. - No, Clarenza, no - replicò Mario, quasi sdegnato e con accento vibrato. - Io, per esempio, sono stato un grande scapato: io, per dir come diceva mio padre, ne ho fatte di tutti i colori!... ma, vivaddio, sento che non sarei capace di un'azione indegna come questa!... Però la colpa è mia, tutta mia... e ora tocca a me a farne la penitenza. - È vero la colpa è vostra; ma permettetemi, che ve lo dica: un po' di colpa ce l'ha anche l'Emilia.
- Sono io, io, che ho condotto Giorgio in casa! Dunque tutta l'imprudenza è mia. - Ma una moglie prudente - soggiunse Clarenza, assottigliando la voce con moltissimo garbo e staccando le parole, le une dalle altre - ma una moglie prudente avrebbe dovuto rimediare all'imprudenza del marito. Toccava all'Emilia, scusate se parlo così, a farvi notare la poca convenienza di mettervi un giovinotto per casa... se non foss'altro per riguardo al mondo! - Non ne parliamo più, - interruppe Mario alzandosi e dandosi un'occhiata complessiva nello specchio, appeso al disopra del caminetto. Quindi continuò con un accento d'amarezza infinita. - Se io vi dicessi che questa sciagura domestica ha spento per sempre il sorriso della mia vita. - Fortunatamente non è stata una sciagura irreparabile! Meno male, che ve ne siete avveduto in tempo. - Se io vi dicessi che la condotta abbominevole di Giorgio m'ha nauseato del mondo... mi ha messo in diffidenza con tutta la società!... Se io vi dicessi - (e qui la voce di Mario cominciò a tremare) - che tutte le volte che io mi trovo solo... mi assalgono tristissimi pensieri...e finisco... mi vergogno a dirlo... col vagheggiare il suicidio. - Mario! - gridò Clarenza, impaurita - guardate bene che io non senta più sulla vostra bocca questa brutta parola!... Quanto tempo avete intenzione di trattenervi qui?.. - Non lo so neppur io: giro il mondo come un pazzo. - Volete dar retta a me? - Volentieri. - Promettetelo. - Lo prometto. - In casa nostra, abbiamo un piccolo quartiere che dà sul giardino. È il quartiere destinato per il mio fratello Carlo, quando ritornerà da Berlino, dov'è a finire i
suoi studi... - Vi ringrazio - disse Mario, interrompendola - ma è impossibile, assolutamente impossibile. - Voi avete bisogno di svago, di distrazione… - Pur troppo! - Voi, soprattutto, avete bisogno di non restar mai - solo!... La solitudine è sempre consigliera di tristi pensieri... e segnatamente per voi, per voi che avete un carattere così sensibile, così nervoso! - Non abbiate paura, Clarenza - disse Mario, sorridendo a fìor di labbra, e pigliando per la mano la sua graziosa interlocutrice. - Non ho paura, io: ma se accadesse qualche sciocchezza, v'immaginate il rimorso, che sarebbe per tutti noi?... - Parlatene almeno prima con Federigo. - Non c'è Federigo che tenga; per vostra regola, in questa casa ci sono il marito e la moglie. Contenta io, contenti tutti. - Donna veramente rara!... E dire che tanto tesoro di grazia e di spirito poteva esser mio!... Vi rammentate, Clarenza, di quei tempi famosi?... - Io non mi rammento di nulla! - replicò l'altra con disinvoltura. - Davvero?... Come non vi rammentate nemmeno di quella famosa festa da ballo, in casa di mia zia?... - Vi ripeto che io non mi rammento di nulla: di nulla affatto. Mi rammento soltanto d'un proverbio, che dice: «Acqua ata non macina più». - Ah! Clarenza! I proverbi qualche volta sono crudeli!... - Saranno crudeli - soggiunse Clarenza ridendo, - ma sono molto comodi per troncare i discorsi uggiosi e inconcludenti. Mario, che in quel momento si era dimenticato della sua sciagura coniugale (non
è concesso a tutti di avere un'eccellente memoria!), si morse leggermente il labbro inferiore; poi, riattaccando la conversazione, continuò: - E Federigo sta bene? - Come un pesce nell'acqua - rispose Clarenza, per fargli capire che aveva letto i Masnadieri di Schiller. - E il vostro commercio delle pelli prospera sempre? - Vi avverto, Mario - osservò Clarenza con l'accento freddo di una persona mortificata nella parte più viva del suo amor proprio - che oramai è più d'un anno che Federigo si è ritirato affatto dal commercio. Abbandonò la mercatura per dedicarsi interamente alla vita politica! - Come! - soggiunse il conte, dando in una gran risata. - Avete lasciato le pelli per la politica? Un brutto baratto, cara mia; ve ne avvedrete al bilancio! - Pazienza! D'altra parte, noi abbiamo tanto, e forse qualche cosa più, per poter vivere agiatamente. Prova ne sia che Federigo, non avendo figli, ha fondato a tutte suespese un educatorio per le fanciulle povere del comune. - È una cosa che gli fa onore. - Questo lo dite voi, e lo dicono tutti: ma il Ministero seguita a far l'indiano. Credete voi che quei signori si siano voluti ricordare una sola volta di mio marito?... - Per altro - soggiunse Mario, studiandosi di dare alla sua voce il colore di un dolce rimprovero - se le voci sono vere, sento dire che Federigo è uno dei caporioni del partito dei malcontenti... - Siamo giusti, amico mio - replicò Clarenza vivace mente - come volete che mio marito sia governativo, senon è nemmeno cavaliere? Mario aprì la bocca a mezzo sbadiglio, tanto per nascondere il balenìo d'un risolino impertinente, che gli era spuntato, senza avvedersene, a fior di labbra; quindi riprese: - Ditemi un'altra cosa: e Federigo conserva sempre le stesse abitudini?
- Quali abitudini? - Voglio dire - continuò l'altro scherzando - porta sempre il solito cappello alla calabrese, la solita camicia quasi sempre sbottonata da collo, la solita cravatta di seta in colori?... - Dico la verità - rispose Clarenza, indispettita e mortificata - sono tutte cose alle quali non ho fatto mai attenzione. Del resto - continuò con voce ironica e alzandosi in piedi - non tutti gli uomini hanno avuto dalla natura il dono di esser belli ed eleganti, come il signor conte Mario!... - Domando scusa: non ho inteso punto di offendere, né di far confronti!... - E allora, perché vi occupate tanto della toilette di mio marito?.. - Perché?.. Ah!... mi domandate perché?.. Perché, Clarenza mia, più ci guardo e più mi persuado che avreste dovuto nascere ai fortunati tempi ai Luigi XIV! La vostra mano era degna dei cavalieri più brillanti della corte del gran monarca. - Badate, Mario! se cominciate a canzonarmi, vi lascio qui su due piedi e me ne vado - disse Clarenza, rimettendosi a sedere. - Un'altra curiosità. E vostra sorella? non mi avete ancora detto nulla di quel caro diavoletto della Norina. - Sta in casa con noi. - Si è rimaritata? - No. - Pare impossibile: Così giovine e così graziosa! - Vi dirò: mia sorella è la più buona figliuola di questo mondo: ma sta male un poco qui. La Clarenza, profferendo quest'avverbio di luogo, si toccò coll'indice della mano in mezzo alla fronte. Poi continuò: - Se il giudizio fe da fedi di nascita, la Norina avrebbe appena dieci anni.
Figuratevi, per dirvene una, che in questi giorni ha mandato indietro un magnifico partito. Conoscete, per caso, il signor Valerio? - Se lo conosco! Siamo vecchi amici. Un bravissimo giovine e che sa fare molto bene i propri affari. - Valerio è appunto la persona, alla quale Federigo ha ceduto tutto il suo traffico commerciale. - E la Norina lo ha rifiutato? - Rifiutato veramente, no; ma già è lo stesso: lo ha disgustato... stancato. - E il perché si sa? - Io lo so pur troppo. È un perché da ragazzi. A voi, antico amico di casa, posso anche farvene la confidenza. Nel dir quest'ultime parole, Clarenza si alzò: e con o leggerissimo andò a metter l'occhio allo spiraglio di una porta semichiusa, che rimaneva dalla parete opposta, in faccia al caminetto. - Scusate la mia curiosità - disse il conte, che non capiva nulla in questo brano di pantomima - e tutta questa circospezione, perché?.. Ma sarebbe per caso un segreto di Stato?… - Ho le mie buone ragioni - rispose Clarenza, tornando verso il caminetto; bisogna sapere che la Norina spesso e volentieri si diverte a stare a sentire dietro agli usci. - Nossignora, nossignora! - gridò una voce limpida e squillante come un camlo - la Norina non si è divertita mai a stare a sentire dietro agli usci. Ecco qui perché, mi è accaduto una volta... una sola volta... la mia signora sorella non l'ha fatta più finita! La Norina, che era già entrata in sala improvvisamente, guardò la sorella in un certo modo tragico-comico, quasi volesse dire: carina! ci rivedremmo a quattr'occhi. Quindi, cambiata fisonomia e fattasi tutta sorridente, si volse al conte e
stendendogli la mano: - Buon giorno - gli disse - signor Mario. Buon giorno e bene arrivato! - Si parlava appunto di voi. - Me l'ero figurato. - Raccontavo, giusto, a Mario, lo sproposito che hai fatto - soggiunse Clarenza. - Sproposito?.. quale sproposito? - Quello di esserti disgustato il signor Valerio. - Per carità… - fece la Norina, con l'accento piagnucoloso della persona annoiata - per carità…: non parliamo più di lui. Oramai è un motivo vecchio. Mi è venuto a noia come la pira del Trovatore. - Hai torto! - Pazienza! tanto peggio per me: se non foss'altro il nome di Valerio! Mi è parso sempre un nome da commedia. - Mettiamo da parte le giuccherie: Valerio è un negoziante intelligente, che fra qualche anno sarà un bel signore... - Ma sempre uggioso, sempre antipatico, sempre molesto. Insomma, io sento benissimo, che se lo sposassi, farei due disgraziati!... - disse la Norina, facendo colla bocca una smorfia curiosa, come se avesse parlato d'olio di fegato di merluzzo non depurato. Clarenza guardò in viso la sua sorella; quindi aggiunse con accento ironico e stentato: - Sì!... Sposerai quell'altro!... - Ah! dunque c'è un altro? - domandò il conte, ficcandosi tutte e due le mani nelle tasche della sottoveste e mettendosi fra mezzo alle due giovani donne. - Io non so nulla! - replicò Clarenza.
- Eccovi la spiegazione della favola - soggiunse francamente la Norina. Bisogna sapere che la signora Clarenza si è messa in capo che io abbia ancora qualche speranza sul marchesino di Santa Teodora. - Questa è la favola: io racconterò la morale - replicò Clarenza. - Bisogna sapere che il marchesino di Santa Teodora, dopo esser venuto per qualche tempo in casa nostra con molta frequenza, cominciò un bel giorno a diradare le sue visite... e finì poi come doveva finire.. cioè, col non venirci più! - A buon conto, se n'è andato senza dire addio: dunque potrebbe ritornare. - Sì, aspettalo. - Non lo conosco punto questo Santa Teodora: è un bel giovine? - domandò il conte. - È marchese! ecco tutta la sua bellezza!... - disse Clarenza: e avvicinatasi a Mario, gli sussurrò sottovoce: - Per la smania di un titolo, la Norina sarebbe capace di commettere qualunque sciocchezza. - Volete conoscerlo, Mario? - disse la Norina, tirando fuori da un piccolo portafoglio un ritratto in fotografia. - Vediamolo - rispose il conte: e prese in mano il ritratto, per osservarlo. In quel mentre, la Norina gli bisbigliò velocemente negli orecchi: - Vedete! Se domani, per disgrazia, diventassi marchesa, la Clarenza sarebbe capace di cavarmi gli occhi. Come son curiose certe debolezze! perché è toccato a lei un pellicciaio, così pretenderebbe che tutte le donne dovessero sposare dei negozianti di pelli!... - Dunque, Mario?.. - interruppe Clarenza, che aveva indovinato l'argomento di quel cicaleccio, mormorato a fior di labbra. - Avete ragione - disse il conte, andando a prendere il suo cappello, che aveva posato sopra una sedia. - Poiché volete così, vado subito a prendere la mia valigia.
- A proposito, Norina; ho da darti una notizia gradita: questo signore - (e Clarenza accennò Mario) diventa per qualche giorno ospite in casa nostra. - Lo so! - rispose la Norina sbadatamente. - Chi te l'ha detto? - domandò Clarenza vivacemente. - È stato un caso - replicò la Norina, mendicando una scusa. - Traversava appunto il salotto verde, quand'ho sentito che tu dicevi... - Capisco, capisco: il solito caso!... Del resto, il povero Mario è malatissimo di nervi... ed ha bisogno di svagarsi. Tocca dunque a noi a cercar tutti i mezzi per non dargli tempo di ricordarsi del suo malumore. La sera faremo un po’ di musica: qualche volta un po' di ballo: e appena il tempo si rimetterà, anderemo a are una bella giornata alla nostra villa di Belmonte... - Cara Norina! - disse Mario dandosi alla sfuggita un'occhiata di compiacenza nello specchio - mi è cascata addosso una di quelle disgrazie!... - Pur troppo!... - soggiunse sbadatamente la Norina. - E come l'avete saputa? - Sarà stata la solita combinazione, il solito caso!... - interruppe Clarenza, ridendo e guardando la sorella. - Le forze mi hanno talmente abbandonato! - seguitò il conte, alzandosi con fatica dalla poltrona dov'era più sdraiato che seduto, - le forze mi hanno talmente abbandonato, che io sento benissimo che vado incontro a una gran malattia. - Ubbie! esagerazioni! - disse la Norina. - Se tutti i dispiaceri coniugali portassero necessariamente seco una malattia, a quest'ora tutto il mondo sarebbe uno spedale... - Che disinganno atroce! un amico, capite?.. un amico, che tradisce... - Andate, Mario, andate a prendere la vostra roba. - Avete ragione, Clarenza!... Compatitemi se mi ripeto troppo spesso... e rammentatevi che è un'opera di misericordia quella di sopportare le persone
moleste! A fra poco. E il conte se ne andò. - Povero diavolo! eppure mi fa male! - disse Clarenza con accento di vera comione. - Io dico, invece, che gli sta bene!... Quando un uomo ha per moglie una donna giovane e graziosa, come è l'Emilia, prima di mettersi in casa un amico pericoloso, dovrebbe pensarci venti volte, eppoi non farne nulla. - Bada veh! In questo caso, secondo me, la più colpevole è l'Emilia. Toccava a lei a protestare. - Povera figliola! Chi lo sa! forse non prevedeva nulla di male... forse si credeva sicura di qualunque pericolo... - Eh! cara mia - replicò Clarenza scrollando leggermente il capo - tutte ci crediamo sicure!... E il mondo? non lo conti per nulla? il mondo che è così chiacchierino, così pettegolo, così mettibocca?.. La Norina guardò in viso la sorella: e dette improvvisamente in una grandissima risata, mostrando trentadue denti di sfavillante bianchezza... - E ora, di che ridi? - domandò Clarenza impermalita. - Rido di te! - Imbeci...! Clarenza si riprese a tempo, e non finì la scortese parola. - Tu che critichi tanto il poco giudizio dell'Emilia - continuò la Norina - mi sapresti dire, allora, perché hai ceduto a Mario il quartierino di nostro fratello? - Che discorso è codesto?.. vorresti forse paragonare me coll'Emilia? L'Emilia sarà una buona donna... e una bravissima donna... ma in fondo in fondo, è una donna come ce ne sono tante. Quanto poi a me! (e qui alzò la voce) - posso dirle, cara la mia signora, che io mi sento sicura e sicura davvero...
- Tutte ci sentiamo sicure!... - soggiunse l'altra, con finissima canzonatura! ma poi, non c'è forse il mondo? quel mondaccio che è così lesto di lingua?… - Il mondo sa con chi deve pigliarsela, e chi deve rispettare; il mondo sa che vi sono delle mogli che non ammettono nemmeno il sospetto. Per tua regola io sono come la moglie di Cesare. - Di che Cesare?.. - Di Cesare, romano. - Huh!... - fece la Norina, che era debolissima nella storia romana! forse l'avrò conosciuto questo Cesare, ma ora non ne lo ricordo!... In questo mentre entrò nella sala il marito di Clarenza. Federigo era uomo sulla quarantina: non elegante, ma pulito: vegeto, liscio e colorito, come una melarosa: una di quelle fisonomie comunissime che, quando si vedono la prima volta, pare di averle incontrate le molte volte e conosciute sempre. - Finalmente!... - disse entrando in sala e andandosi a buttare tutto di un pezzo sulla poltrona, che era dinanzi al caminetto. - Che cos'hai fatto?.. - domandò Clarenza, senz'ombra di curiosità, quasiché conoscesse a memoria la risposta. - Non ne posso più... sono stanco, sfinito. Da stamani in poi non ho avuto un momento di respiro. Cara mia - continuò, andosi e riandosi il fazzoletto bianco dal principio della fronte fino a quattro dita dietro la nuca, sopra una strisciata di cranio lucido e pulito, quasi fosse d'avorio - cara mia! la popolarità, non lo nego, ha le sue dolcezze e le sue grandi soddisfazioni, ma pur troppo è seminata anche di noie e di dispiaceri. Se io avessi un figliuolo, gli direi contentati della modesta oscurità, e non far come tuo padre! Quando un uomo ha fatto tanto di diventar necessario al suo paese, addio pace, addio tranquillità, addio benessere. Per lui non c'è più bene, né giorno, né notte. - E ora di dove vieni? - domandò Clarenza. - Esco in questo momento dal Comitato elettorale. Finalmente, se Dio vuole, abbiamo trovato il nostro candidato.
- E sarebbe? - Il marchese Sorbelli.. - Credevo qualche cosa di meglio - fece la Norina, torcendo un po' la bocca - il marchese non è ato mai per un'aquila. - Non sarà un'aquila - riprese Federigo - ma però è un uomo di carattere: tutto d'un pezzo. Non l'ho mai sentito dir bene di nessun Ministero! - Parla bene? - chiese Clarenza. - No - rispose il marito con la serietà dell'uomo che se ne intende - no: parla piuttosto male: ma legge benissimo: e questo è un gran requisito per un oratore. Voglio fargli un partito... - Saprai che fra qualche giorno avremo qui Sua Eccellenza!... - disse Clarenza, appoggiando la voce con ironia su quest'ultime parole. - Lo so, lo so! L'ho visto dai giornali. - M'immagino che verrà qua per le elezioni? - Si capisce bene. Un po' per l'elezione e un po' per albagia. Fa tanto piacere di ritornar ministri, nel paese dove siamo nati, e dove per tanti anni siamo stati uomini, come tutti gli altri. - A proposito dei ministri - interruppe la moglie, con disinvoltura - sai chi abbiamo per ospite in questo momento? - Chi? - Il nipote di Sua Eccellenza. - Mario? - Lui in persona. - Sapevo che Mario era qui - continuò Federigo - ma non sapevo che fosse alloggiato in casa nostra.
- Gli ho ceduto il quartiere di Carlo: ho fatto male? - Hai fatto benissimo; sono avversario politico del ministro: ma voglio bene a quest'altro. Povero Mario!... in questi giorni ha avuto per casa una bella burrasca. - Come lo sai? - Ho ricevuto una lunghissima lettera dalla madre dell’Emilia. - A quanto pare, è stata una cosa seria - disse Clarenza. - Seria no!... - rispose Federigo - ma poteva diventar serissima. Risulta dai documenti che per ora si trattava semplicemente d'una chiassata... d'un amor platonico... - Allora è un'inezia! - soggiunse la Norina, facendo colla bocca un certo garbo, come se volesse dire: «non c'è sugo!». - Un'inezia? - replicò vivacemente Federigo - adagio un poco con quell'inezia!... Bisogna persuadersi, cara mia, che fra l'amor platonico e l'amare... senza Platone, c'è appena la distanza che divide il sigaro dalla cenere. - Pare impossibile - osservò Clarenza, tenendo gli occhi incantati e fissi verso terra. - Non l’avrei mai creduto!... E la madre dell'Emilia che cosa scrive? - Mi scrive un monte di cose... Mi scrive, che questa giuccheria avrebbe potuto benissimo restare abbuiata fra le pareti domestiche... ma quel benedetto figliuolo di Mario, credendo di tutelare il proprio onore, ne volle fare per forza una scena da teatro diurno... Mi scrive che l'Emilia è disperata, che non fa altro che piangere giorno e notte... e finisce in fondo col raccomandarsi a me perché veda di trovare il verso di rimettere d’accordo questi due sciagurati. - Pensaci bene, prima! - disse Clarenza, appoggiando la voce su quest'avvertimento. - A che cosa? - Non ti caricare di legna verde. Se fossi in te me ne laverei le mani. - No davvero: mi ci voglio provare. Se non riesco, pazienza; mi terranno conto
della buona volontà. Si è veduto Valerio? - Valerio? Che deve venir qui? - domandò Norina - Così mi ha promesso! Ho da consegnargli queste carte... - e Federigo si levò di tasca un involto di fogli e andò a posarli sulla mensola del caminetto: poi, voltandosi verso la giovine cognata, che lo guardava fisso, seguitò sorridendo: - Sai, Norina, che or ora, tornando a casa, m'è venuta per il capo una curiosa idea?.. - Un'idea? Sentiamola. - Se io tentassi... - Male! male... - interruppe l'altra. - Lasciami finire, che Iddio ti benedica; se io tentassi - si capisce bene a tutto mio rischio e pericolo - di...riattivare le buone relazioni, come diciamo noi altri uomini politici. - Tempo perso, Federigo! Te l'ho detto mille volte; e oggi te lo ripeto: non mi voglio rimaritare. - Ne sei sicura? - Sicurissima. - Norina! tu fai uno sproposito. - Pazienza! Maritandomi, ne farei due: uno per conto mio, e un altro per conto di quell'infelice... - Ma la ragione di questa tua ostinazione?.. - domandò Federigo, quasi riscaldandosi. - Te la dirò io - soggiunse Clarenza, collocandosi fra il marito e la sorella. - Sentiamo un poco la celebre indovinatrice! - gridò con bizzosa ironia la Norina. - Peccato che tu non faccia anche i lunari e che tu non venda i numeri per il lotto!...
Clarenza, ridendo della bizza della sorella, si piegò verso l'orecchio di Federigo, sussurrandogli abbastanza forte, per essere intesa: - Tutto fiato buttato via: la tua signora cognatina ha sempre qualche speranza!... - Speranza di che?.. Ah! ora capisco! - disse Federigo, in atto di rammentarsi qualche cosa - ma, se non sbaglio, quella oramai è una speranza fallita. - Un momento - interruppe la Norina, facendosi seria: - dichiaro che io non ho nessuna speranza: ma casomai l'avessi, non vedo perché si dovrebbe chiamare una speranza fallita. - Dunque non sai nulla?.. - C'è forse qualche cosa di nuovo? - Mi dispiace doverti dire che il marchesino di Santa Teodora, fino da ieri, è officialmente fidanzato della figlia del console americano. - Lo sai di certo? - Di certissimo. Me l'ha detto un'ora fa, alla Borsa, il segretario stesso del Consolato. Ci furono due minuti di profondissimo silenzio. Poi la Norina, alzando il capo, domandò: - È bella la sposa? - Bella no - replicò Federigo - ma un modello di virtù e di dote. Cinquantamila franchi di rendita. La Clarenza che, vedendo la sorella mortificata e confusa non poteva dissimulare un risolino di consolazione, diffuso per tutta la faccia, disse interrompendo:. - Io vado a prendere la chiave del quartierino di Carlo. Voglio vedere da me stessa se ogni cosa è all'ordine. E uscì dalla sala. Rimasti soli - la Norina e Federigo - quest'ultimo domandò alla sua giovane
cognata, che era rimasta quasi interdetta:. - A che cosa pensi? - Penso a quella povera disgraziata. - A chi? - Alla figlia del console... Secondo me non poteva capitar peggio. Il marchese di Santa Teodora a per un giovane di spirito, ma in fondo non è altro che un imbecille. Figurati se io lo conosco bene!... - Sono tutte cose, che io l'ho dette prima di te. Eppure... scommetto che l'avresti preferito a Valerio... - Domando scusa: fra carattere e carattere non c'è confronto. Valerio è un uomo: e quell'altro è un ragazzo. - Questo si chiama ragionare! Ah! Norina! Peccato che tu non abbia intenzione di rimaritarti!... - Chi l'ha detto? - Io no. - Nemmen'io. - Si vede, che non avrò capito bene! - disse Federigo, con accento di falsa mortificazione. - O forse sono io, che mi sarò spiegata male. Insomma, ho voluto dire che io non intendo di rimaritarmi fino a tanto che non trovo una persona che mi vada a genio. - Dico la verità: vorrei un po' sapere perché quel povero Valerio ti è tanto antipatico? - Ho non ho mai detto che mi sia antipatico... dico soltanto, che non mi piace. È troppo serio, troppo sostenuto... - Ma un'eccellente persona.
- Non c'è che dire: ma suscettibile, permaloso, delicato peggio d'una donna!... - Eppure - continuò Federigo, accostandosi e insistendo con un certo interesse eppure, vedi, quantunque tu l'abbia trattato piuttosto male, sono convintissimo che basterebbe una tua mezza parola, perché... si potessero ripigliare le trattative, come diciamo noi altri uomini politici. - Con un superbiosaccio di quella fatta?... Mi pare un po' difficile. - A buon conto, Valerio è stato innamorato morto di te... e l'amore, quando è stato di quello buono, è come le malattie di petto, ha la convalescenza lunga. Aggiungi poi che Valerio ha per me della gratitudine... della deferenza… Insomma, per farla finita, io scommetto che avrei accomodato ogni cosa. - Bada, Federigo. Io, invece, ho una gran paura che ti saresti fatto canzonare. - Sei contenta che mi ci provi? - Padrone! Provati pure. - Ma se, per caso, arrivo a convertirlo, spero che non mi farai fare la figura del Pulcinella. - Diavol mai! Non son mica una bambina! In questo mentre, sco si presentò sulla porta ed annunziò: - Il signor Valerio. - A tempo! - disse Federigo. - Io scappo! - soggiunse l'altra, sottovoce. - Sarà una vittoria, o un fiasco? Che cosa ti dice il cuore? - Come c'entra il cuore in queste ragazzate?.. - replicò vivacemente la Norina, e sparì. Valerio entrò in sala. Era un giovine fra i trenta e i trentacinque anni: di statura mezzana: né bello, né brutto. Parlava adagio, rideva poco, camminava sempre dello stesso o, e vestiva da un anno all'altro di nero. Queste quattro grandi
qualità gli avevano procurato la reputazione di negoziante onesto, il posto di consigliere municipale e il grado di capitano nella guardia cittadina. - Ecco, Valerio, il nostro piccolo contratto bell'e firmato - disse Federigo, porgendogli il quaderno che aveva posato, un quarto d'ora prima, sul caminetto. - Andava bene? - domandò l'altro. - Egregiamente. - Ora, signor Federigo, non mi resta altro che ringraziarvi del vero favore che mi avete fatto. - Di quale? - Di avere acconsentito a rimanere per una piccolissima parte interessato nella mia casa commerciale. - Si capisce bene, che è un segreto fra noi due. Io non voglio comparire in nulla, né impicciarmi di nulla. - A me, mi basta di sapere che siete mio socio. Ecco la gran parola, la quale, se non foss'altro, mi pare che debba portarmi la buona fortuna. - Oggi non siamo che soci di commercio! - soggiunse Federigo, pigliando a braccetto l'amico. - E dire che avremmo potuto essere qualche cosa di più!... fors'anche parenti!... - La colpa non è stata mia. - Non ci confondiamo. c'è stata un po' di colpa da tutte e due le parti. Ma nulla di serio: il gran nulla. Tant'è vero che io ho creduto sempre - e lo credo anch'oggi che con un po' di buona volontà si potrebbe ristabilire l'entente cordiale, come diciamo noi altri uomini politici. - Impossibile! Assolutamente impossibile!... - E perché? - Facciamoci a parlar chiari, signor Federigo. Io non sono più un ragazzo. Sono
un uomo. La mia dignità personale non mi permette di far simili figure. No, no: quando abbiamo presa una risoluzione - bisogna che sia quella. Caso diverso, che cosa dovrebbe dire il mondo di me? - Benedetto questo mondo! Lasciatelo dire: eppoi finirà col seccarsi la gola. - Non posso! - Ma perché?.. - Perché?.. Ci sono certe cose che si sentono, e che non si possono ridire colle parole. Questi pentimenti, questi ritornelli sono perdonabili nelle persone leggere, negli uomini di poca conseguenza. Quanto a me, vi confesso il vero, mi parrebbe di diventar ridicolo; mi parrebbe di far la parte di Don Fulgenzio negl'Innammorati di Goldoni. - Che ostinato! - Avete ragione: mille ragioni. Disgraziatamente il mio carattere è di quelli che si spezzano, ma non si piegano. Piuttosto soffro: mi rodo dentro di me; ma una debolezza, una ragazzata, mai! - Mi dispiace. Proprio mi dispiace! - Dispiace anche a me: ma, ve lo ripeto, la colpa non è mia: la colpa è tutta della signora Norina... - E con qual diritto il signor Valerio si permette di giudicare le mie azioni? domandò la Norina, entrando improvvisamente nella sala. - Domando scusa: io dicevo... - balbettò Valerio, voltandosi tutto confuso. - È forse lei il mio fidanzato? - No davvero. - Il mio tutore? - Nemmeno per sogno. - Il mio direttore spirituale?
- Dio me ne guardi! - Dunque vorrei un po' sapere con qual diritto il signor Valerio si occupa tanto di me? - Ecco... le dirò... Prima di tutto bisogna sapere che il signor Federigo in questo momento, stava insistendo per persuadermi... - So tutto. - Tutto - replicò Valerio, maravigliato. - Com'è possibile?. - Ripeto, che so tutto... - Ma si tratta di una conversazione confidenzialissima, fatta ora, qui, fra noi due, a quattr'occhi... - Non importa: per una certa combinazione ho inteso tutto. - La solita combinazione... di stare a sentire - borbottò fra i denti Federigo, ammiccando comicamente la sua giovane cognata. - Prima d'ogni altra cosa - seguitò a dire la Norina collo stesso tuono di voce e colla stessa velocità di parola - debbo osservare che Federigo non ha diritto d'impicciarsi degli affari miei; e che ha fatto male, anzi malissimo... - Mi basta la sinfonia: il resto dell'opera me lo figuro! - interruppe Federigo; e colto il pretesto, se la svignò. - Non c'è dubbio. Mio cognato ha fatto malissimo a insistere con tanto calore su questa... scioccheria. Dio sa che cosa vi sarete figurato!... - Io?.. - Che cosa vi sarete messo per la testa! Forse nella vostra infinita vanità, avrete creduto che io mi struggessi proprio dalla ione!... E la Norina accompagnò queste ultime parole con una risata quasi impertinente. - Vi pare! - replicò modestamente Valerio.
- Forse vi sarete immaginato che io non potessi vivere senza di voi. - Prego, signora Norina... - Che, perduto voi, per me non ci fosse più speranza di trovar marito. - Tutt'altro, tutt'altro. - Ebbene, ricredetevi. Vi siete ingannato all'ingrosso. Voi - (e qui la Norina cambiò accento e abbassò leggermente la voce) - voi, ne convengo pienamente, siete una persona rispettabilissima: negoziante onorato... - Troppo buona. - Consigliere municipale... - Grazie. - Capitano della guardia nazionale. Insomma siete un giovine pregevole per mille titoli: ma credete forse di essere il solo? - Non l'ho mai pensato. - Voi valete molto, non c'è dubbio: ma credete forse che non ci sieno molti altri che valgono quanto voi?.. - Chi ne dubita? - Siamo schietti, una volta! - disse Norina, mettendosi a sedere, e accennando a Valerio di accomodarsi. - Raccontiamo la cosa, come sta; voi siete venuto in casa mia: mi avete fatto un po' di corte, come fanno tutti: finché un bel giorno, non so il perché, avete finito col chiedere la mia mano. - Ed ebbi il vostro pieno consenso - soggiunse subito Valerio. - Non corriamo troppo - replicò la Norina. - In quanto a questo pieno consenso, adagio. Non vi dissi veramente né sì, né no. Se ve lo ricordate bene, pigliammo tempo a riflettere e a studiare reciprocamente i nostri caratteri. - Non mi pare che andasse precisamente così.
- Vi dico che andò così. - Sarà come dite - soggiunse Valerio, piegando il capo in atto di sommissione forzata - mi dispiace, che disgraziatamente in certi casi, non si può consultare nemmeno il processo verbale. - In quel frattempo - continuò la Norina, accavallando una gamba sull'altra, e facendo uscire di fondo al vestito la punta di un elegantissimo stivaletto di marrocchino dorato. - In quel frattempo, venne presentato in casa nostra il marchese di Santa Teodora... un giovine educato... distinto... - Anzi, distintissimo. - Era mio dovere mostrarmi gentile con lui, come con tutti gli altri. - Forse... - Forse che cosa? - Forse un po' troppo gentile!... - Troppo?.. Non me ne accorsi mai. - Me ne accorsi io! - Difatti, ne pigliaste ombra... e cominciaste subito a fare l'adirato... il fiero, il cattivo... - Cara Norina, era una questione di sentimento. - Ma che sentimento? era una questione di vanità, tutta di vanità. Vi sono degli uomini che a lasciarli fare, pretenderebbero dalle donne l'adorazione perpetua. - Io non sono di questi uomini! - disse Valerio con fierezza. - Né io di quelle donne! - replicò l'altra. - Il fatto sta che il vostro contegno, sostenuto e quasi disprezzante, cominciò a impormi una certa freddezza... - Norina! chiamiamola freddezza. - Amico mio, se voi andate in cerca di amori a grande effetto, di ioni teatrali,
di sentimentalismi al chiaro di luna, io non sono la donna per voi. Io amo il ritegno e la compostezza, in tutto, anche nell'amore! - Mi sarò ingannato. - Il fatto, mi pare, parla chiaro da sé: dopo poche settimane, il marchese di Santa Teodora, forse in grazia della mia troppa cortesia, a suo riguardo! cominciò a diradare le visite e finì coll'allontanarsi del tutto. Oggi poi, come forse sapete, è promesso sposo della figlia del console americano. - Ma perché, Norina, non vi degnaste allora di togliermi dal mio inganno? di farmi vedere il mio errore? l'insussistenza de' miei sospetti? la stranezza della mia fissazione? - Io? Dio me ne guardi. Piuttosto la morte, che scendere all'umiliazione di giustificare la mia condotta. Non ve lo nascondo, Valerio: i vostri dubbi... i vostri sospetti, mi hanno offeso... mi hanno fatto male! molto male. Ma non importa. Non sentirete mai sulle mie labbra un lamento, né una parola di rimprovero. Oggi che fra noi due tutto è finito - tutto! - posso parlare liberamente... e ne ringrazio Iddio. Questo sfogo, vedete, mi toglie dal cuore un'oppressione dolorosa!... - Norina, e perché avete detto che fra noi tutto è finito? - Curiosa domanda! - E non potrei ridomandare il vostro affetto e la vostra mano? - Valerio! non vi consiglio a farlo. A un uomo, come voi, a un uomo del vostro carattere, certi sentimenti non convengono. Sono cose scusabili appena a diciott'anni. - Non capisco - insisté Valerio, mortificato. - Non sarò dunque padrone di riconoscere che mi sono ingannato? che ho avuto torto? - Padronissimo! Ma il mondo!... che cosa dirà il mondo?... - Il mondo dirà quel che vuole. Alla fin dei conti, io non sono schiavo delle ciarle dei pettegoli e degli oziosi.
- Pensateci bene, Valerio. C'è il caso che i begli spiriti vi paragonino al Don Fulgenzio di Goldoni. - Mi faranno ridere di comione. - Come! voi, così misurato, così pauroso dei cicaleggi e delle cronache dei maldicenti, oggi mi venite fuori a fare l'indipendente?.. l'uomo che se la ride?.. Ditemi Valerio: non volete per caso prendervi giuoco di me? - Norina! - disse Valerio in atto supplichevole, pigliando la mano della sua graziosa interlocutrice, e stringendola con ione. - Non vi credo. Lasciatemi. - Ascoltate!... - Non voglio sentir nulla. - Norina! una parola... una sola parola... vi supplico...vi scongiuro... - e nel dir così accadde a Valerio quel che per il solito accade agli innamorati sulla scena: si trovò, senza avvedersene, quasi in ginocchio dinanzi alla sua bella. In questo punto entrò nella stanza Clarenza. Valerio si rizzò in piedi colla velocità d'una molla d'acciaio. - Scusate, amico - disse Clarenza, ridendo - mi dispiace di avervi scomodato. Restate pure in ginocchio: non fate complimenti. Buone nuove, a quel che pare? - Sì - rispose la Norina. - La pace è firmata: ma non gli ho ancora perdonato il grandissimo torto che mi ha fatto... - Non ne parliamo più - interruppe Valerio. - Sarà mia cura di farmelo perdonare. - E così?.. - domandò Federigo, soffermandosi sulla porta. - Vieni avanti. Tutto è accomodato. Bisogna pensare daccapo a questo regalo di nozze - disse Clarenza, mostrandosi molto più allegra della sorella. - Bravi! così mi piace! - soggiunse Federigo, mettendosi in mezzo ai due fidanzati. - Già io l'avevo detto sempre: fra quei due ragazzi ci dev'essere un
equivoco, un malinteso... - E difatti era un malinteso - disse Valerio. - A proposito - ripigliò il marito di Clarenza - scusa se salto di palo in frasca: ma qui non c'è tempo da perdere. bisogna cominciare a occuparsi di queste elezioni. - Quanto a me, son pronto. Ma... - Ma che? - Debbo dirlo con tutta franchezza? mi pare che il nostro candidato abbia pochissime simpatie, qui in paese. - Gliele procureremo. - Il marchese Sorbelli è un galantuomo: ma bisogna convenire che ha addosso una gran tara. - Quale? - La moglie. La marchesa è antipatica a tutti. - Sta un po' a vedere, da qui in avanti, bisognerà che un candidato abbia anche la moglie simpatica, se vuole essere eletto!... - Non dico questo. - La marchesa, ne convengo anch'io, è un po' superba, un po' cattedratica, ma del resto è una donna di molto merito... e vale molto più di suo marito. Anzi, fra pochi minuti l'aspetto qui. - Che cosa vuole da te? - domandò Clarenza. - Vuol farmi sentire il manifesto elettorale di suo marito... vuol sapere se ci trovo nulla da ridire. Una bella garbatezza, non è vero? Lo spettacolo di questa aristocrazia, che viene a bussare alle porte della borghesia, in cerca di consigli, mi fa sperare bene dell'avvenire del paese. - Sento dire che il deputato governativo ha fatto molti proseliti. Fra qualche giorno avrà anche il rinforzo del ministro in persona - disse Clarenza.
- Che venga questo signor ministro - replicò Federigo - io lo attendo a piè fermo. Non vedo l'ora di misurarmi con lui. - Davvero - soggiunse Clarenza, - che quei signori del Ministero non hanno diritto di averti per amico! Ti hanno trattato, come il bidello del municipio. - Come c'entra l'avermi trattato in un modo piuttosto che in un altro? Qui non è questione di persona; è questione di principii, cara mia: i principii ano, e le persone... - Ovvero - soggiunse Clarenza - i principii restano, e le persone... - Domando scusa! - gridò Federigo. - Sono le persone che restano... - Non voglio contraddirti - osservò modestamente la moglie - ma ho sentito dir sempre: le persone ano, e i principii restano. - Hai sentito dir male; moltissimo male perché io, invece, ho veduto sempre che i principii ano e le persone restano. In ogni modo, che venga il signor ministro e ci riparleremo. - Il signor Mario - disse Bettina, affacciandosi sulla porta di mezzo. - Caro Federigo; io sono tuo ospite - disse Mario, stendendogli la mano. - È un regalo che Clarenza mi ha improvvisato - replicò l'altro, abbracciandolo e baciandolo. Mario, avendo veduto Valerio e la Norina che parlavano fra loro, in strettissimo colloquio, si voltò sorridendo a Clarenza, domandandole sottovoce: - Sbaglio, o mi era stato detto che fra quei due signori?... - Verissimo - rispose Clarenza - ma oggi è cambiato improvvisamente il vento... - Compatisco la Norina! - aggiunse Mario; - è una donna, e la donna è sinonimo di debolezza; ma mi fa meraviglia di lui! - (e accennò Valerio). - Caro mio - replicò la moglie di Federigo - se sapeste alle volte come sono buffi gli uomini seri!
- Ho avuto in questo momento una lettera dalla tua suocera - sussurrò Federigo, avvicinandosi piano piano all'orecchio del conte. - M'immagino che cosa ti avrà scritto! Che ne dici eh? Una donna che adoravo e per la quale avrei messo tutte e due le mani nel fuoco. - Cose di questo mondo, amico mio! Il proverbio lo dice: chi non vuole infarinarsi, non vada al mulino. - E quello scellerato?.. - Tieni a mente, Mario! sono appunto gli amici, dai quali bisogna guardarsi... Ma siamo giusti: come mai un uomo di spirito, che ha per moglie una graziosa donnina, può pensare a mettersi per casa?.. - Lo so! Lo so! - Mario, è stata grossa. A me, dico la verità, non mi sarebbe accaduto dicerto. Ci vuole occhio, capisci, occhio! Debbo per altro dirti che mi son preso l'incarico di aggiustare ogni cosa e di riconciliarvi. - Per carità, non parliamo di riconciliazione. Sento il sangue che mi va alla testa. - Basta così, ne discorreremo a tempo opportuno. - Voltati in qua - disse a un tratto Clarenza, pigliando suo marito per un braccio, e dandogli un'occhiata da capo ai piedi. - Che cosa c'è di nuovo? - domandò Federigo. - Nulla di nuovo - rispose l'altra. - Anzi, le solite cose: la solita camicia sbottonata, la solita cravatta, messa senza garbo né grazia!... Pare impossibile che tu non abbia da avere un po' di amor proprio... Dice bene una certa persona, (e Clarenza guardò alla sfuggita Mario) -a non sapere chi sei, ci sarebbe da scambiarti per un fattor di campagna, o per un negoziante d'olio. - Guarda quanti casi, stamani! Eppure sono stato sempre così. - Hai fatto sempre male!
- Bisognava dirmelo prima. - Te lo dico oggi e basta. Se non vuoi avere nessun riguardo per te, potresti averne almeno un poco per tua moglie... mi pare!... - Io non ci capisco più nulla - disse Federigo sottovoce al conte. - È la prima volta che Clarenza fa una scenata simile. - Donne, caro mio, donne: vale a dire sciarade ritte sopra due graziosi piedini (quando son graziosi): rebus difficili a spiegarsi, e che una volta spiegati, si vede bene che non son altro che una formula di vanità, o un'operazione di calcolo infinitesimale! - Clarenza - soggiunse Federigo - è un'ottima donna: ma, pur troppo, la vanità è stata sempre il suo lato debole. Ella avrebbe avuto bisogno di nascere regina e di avere sposato il re dell'universo. All'opposto di me. Io, invece, posso avere tutti i difetti del mondo; ma la vanità non l’ho mai conosciuta. - Davvero?.. - Mai! e te lo provo col fatto. Vorrei vedere un altro che fosse stato trattato come sono stato trattato io! Tu sai quel che mi costa l'Italia; ebbene, credi tu che lassù al Ministero abbiano dato segno di accorgersi che io sono nel mondo dei vivi?.. - Lo so, è un'ingiustizia; e voglio che ci sia rimediato. Ho scritto apposta al mio zio... riserbandomi poi a parlargliene a voce, quando sarà qui. - Intendiamoci bene - disse Federigo, cambiando tuono di voce - se ti ho fatto questa confidenza inconcludente, non vorrei che tu potessi credere... - Ti pare. - Non ho chiesto mai nulla! e non voglio nulla! Lo sai di che panni ho vestito sempre: non ho dato mai nessun peso e nessuna importanza ai ciondoli. Mi son parsi sempre balocchi per i ragazzi... - Eppure, se te ne mandassero uno... - disse Mario, sorridendo. - Lo rimanderei. Oh! lo rimanderei, senza dubbio: è una questione di principio.
- Quand'è così, è inutile affatto che io spedisca la lettera.. - L'avevi di già scritta? - Eccola qui: leggila e strappala. - To'! mi meraviglio. Non ho mai strappato le lettere degli altri. Ecco una lettera, che entrerà probabilmente nel limbo delle lettere destinate a non aver mai nessuna risposta. - Pazienza. E ora dimmi una cosa. A che ora a di qui il treno postale? - Alle tre precise. - Sono le due e mezzo - disse Mario, guardando l'orologio. - Per oggi, non c'è più il tempo d'impostarla. La imposterò domani. - Sì, sì, - replicò Federigo - puoi impostarla domani, doman l'altro, quell'altro, fra una settimana, fra un mese... Tanto è una lettera di nessuna urgenza. - Di nessunissima. - Per altro... ti faccio osservare che se la lettera premesse davvero... - Ma se ti dico che non preme! - Voglio dire, che se la lettera premesse davvero, si sarebbe in tempo a impostarla anche oggi. - Come? - Basterebbe mandarla alla stazione. Vuoi che la mandiamo?.. - Non mette conto. - Perché vuoi fare dei complimenti con me? - Non faccio complimenti. È una lettera di quelle che non aspettano risposta. La posso impostare domani, o quando me ne ricorderò - disse Mario, facendo lo svogliato.
- Dammi qua la lettera - insisté Federigo. - Così non foss'altro, ti levo un pensiero. - Lascia correre: non c'è premura. - Dammi qua la lettera. Ehi! sco! - E il servitore comparve sulla porta. - Porta subito quella lettera all'ufficio postale della stazione. - E il francobollo? - disse sco. - Non vedi che è indirizzata al ministro? Prendi una vettura e spicciati. - E se non fi in tempo? - Dammi qua, imbecille - disse Federigo, strappandogli la lettera di mano - a lasciarti fare, saresti capace anche di perderla. E il marito di Clarenza prese in fretta e furia il suo cappello e il suo paletot. - Dove vai? - domandò Mario. - Lascia fare a me. A quest'ora, ero bell'e tornato. Se per caso arrivasse in questo frattempo la marchesa Sorbelli, che mi aspetti, fra due minuti son qui. - Dov'è andato Federigo? - chiese Clarenza a Mario. - Alla stazione. Ha voluto portar da sé la mia lettera per il ministro. - Vi ringrazio Mario delle vostre premure... non tanto per me... quanto per mio marito. Quell'uomo oramai se n'è fatta una fissazione. - Buon uomo, quel Federigo - disse Mario, incominciando un colloquio confidenziale e a mezza voce con Clarenza, mentre la Norina e Valerio ragionavano fra loro nell'angolo opposto della stanza - gran buon uomo quel Federigo! - Una perla d'uomo! Per la nostra famiglia è stato qualche cosa di più d'un padre. Insomma, è lui che pensa a tutto, è lui che ha fatto una dote alla Norina, è lui che mantiene Carlo agli studi.
- Eccellente cuore!... Peccato che abbia la figura un po' volgare... un po' ordinarietta... Quanto stacco, Clarenza mia, fra voi e lui. Voi la foglia fine e delicata della camelia, lui, il gambo inelegante di qualche pianta grassa. - Oramai è così - disse Clarenza, sospirando. - Pare impossibile - continuò il conte - che una mano delicata ed aristocratica, come la vostra, abbia voluto fare una scelta così... curiosa. - Vi avverto, Mario, che non ho nulla da pentirmi! - replicò l'altra, assumendo una certa aria di dignità. - Ecco una nobile protesta! una protesta, che fa moltissimo onore al vostro carattere e al vostro bel cuore. Ma ditemi un po', Clarenza, parliamoci qua a quattr'occhi e in tutta confidenza: se certe cose si potessero rifare due volte?.. - Se... se... se... Dando retta ai se, ci sarebbe da perdere la bussola e da dire un sacco di scioccherie. - Creatura divina! E pensare che la Provvidenza mi aveva messo dinanzi agli occhi l'unica fanciulla, che avrebbe potuto essere l'amore e la felicità di tutta la mia vita... e io, imbecille!... sono ati due anni, e ancora non so darmene pace. Vi rammentate Clarenza, di quei tempi famosi?... - Me ne rammento pur troppo. - E di quella famosa festa da ballo?.. - Anche di quella. - Cattiva! eppoi avete il cuore di venirmi a dire che «acqua ata non macina più». - Non son io che lo dico, è il proverbio. - Quante volte ho pensato a voi!... quante volte vi ho veduta ne' miei sogni!... - E l’Emilia? - domandò Clarenza, per dare un altro giro alla conversazione. - Per carità, non me ne parlate - disse Mario.
- Sento dire che si sta già trattando per una riconciliazione. - Mai, e poi mai! Fra me e quella donna c'è una barriera insormontabile. - Lo credete davvero? - Ne sono sicuro. - Povera donna! Più imprudente, che colpevole. Credetelo, Mario, se fossi stata io nei piedi dell'Emilia, il vostro signor Giorgio non avrebbe dicerto trovato un quartiere disponibile in casa mia. Con me, no, mille volte no! A proposito di quartiere - continuò Clarenza, alzandosi in piedi - che cosa vi pare del quartierino che vi ho destinato? - Un'oasi, un nido incantato. - La vostra finestra, sul giardino, è appena due finestre distante dalla mia; tantoché alzandomi, la mattina, potrò darvi il buongiorno. - Così potessi io sperare, la sera... mentre tutti dormono tranquillamente, augurarvi la buona notte - disse Mario, abbassando la voce, e stringendo la mano di Clarenza, con intenzione, come dicono i comici nel loro dialetto di palcoscenico. - Ecco fatto, - disse Federigo, rientrando nella sala, tutto scalmanato - due minuti di più, e la lettera ci restava in tasca. - Poco male - soggiunse Mario, continuando a fare l'indifferente. - Pochissimo! - replicò il marito di Clarenza. - E la marchesa si è veduta? - Ancora no. - Sarebbe bella che mi mancasse. Dico la verità, questa poi me la legherei a dito. - La signora marchesa Ortensia, - disse la Bettina, affacciandosi sulla porta. - Ah! giusto, volevo dire - replicò Federigo, soddisfatto. - E dove l'hai fatta are? - Nel salotto verde.
- È sola? - No, è col signor Leonetto. - Mi pareva impossibile - osservò maliziosamente la Norina. - Vi pare che la marchesa possa uscir di casa una sola volta senza portarsi dietro il paggio? - Con permesso - disse Federigo, aggiustandosi i capelli e il vestito, e uscendo fuori dalla sala. - Bell'originale quel Leonetto - soggiunse il conte - sempre il medesimo sfatato. - Dove l'avete veduto? - domandò Clarenza. - L'ho incontrato ieri sera al Club. - Sapete che è diventato direttore della «Gazzetta della Provincia»? - Me l'ha detto lui. Leonetto non è un'arca di scienza: ma mantiene sempre giovane lo spirito. - A me, mi è parso sempre una bella caricatura - soggiunse Valerio, - ha la smania di fare il cattivo, lo spirito forte, il nemico giurato del matrimonio. - Nemico del matrimonio - domandò la Norina, ridendo, - io, invece, credo che se Iddio non gli tiene le sue sante mani in capo, corre in questo momento un gran pericolo di diventar marito. - Davvero? - esclamarono tutti a una voce. - Ci sono dei sintomi seri, molto seri! - continuò a dire la sorella di Clarenza. - Io so per esempio, che tutte le ore che gli restano libere, le a in casa di quelle due signore (per un momento, le chiamerò così) che sono venute a stabilirsi qui da un mese, circa, e che furono raccomandate a lui. - Non le conosco punto - disse Clarenza. - Sono belle? - La figlia non c'è male: di sera, specialmente, non fa cattiva figura. Bionda, occhi celesti, un bel carnato: una ragazza, insomma, che può piacere. Se Leonetto capita un momento di qua, vi prometto di farlo cantare.
- È permesso! - disse Leonetto, con giuoco comico e confidenziale, entrando in sala. - Venite avanti, scapato - rispose la Norina - ne abbiamo sapute delle belle sul conto vostro. Come vanno gli amori? - Quali amori? - Animo, non fate il forestiero, non mi venite a fare il turco in Italia... - In verità, non capisco... - Come vanno gli amori con quella biondissima persona?... - Gli amori? Ah! capisco bene, signora Norina, che voi mi calunniate. - Tutt'altro. - E potreste supporre che un uomo, come me, possa pigliare una ione per quella povera figliuola?.. - Io la conosco soltanto di vista, ma mi pare una bella ragazza. - Un occhio di sole - replicò scherzando Leonetto. - Figuratevi che fra le tante bellezze, ha anche quella di scambiare un occhio. - Non è vero! Gli occhi mi son parsi bellissimi. - Mi spiego! l'occhio sinistro della signora Armanda... - Ah! si chiama Armanda?.. - Provvisoriamente!... - Che lingua d'inferno!... - Dicevo dunque che l'occhio della signora Armanda è intermittente: scambia soltanto quando il tempo sta per mutarsi. - Proprio? - chiesero tutti dando in una gran risata.
- Figuratevi che io senza guardare il termometro, conosco subito da quell'occhio, se il giorno dopo, uscendo di casa, avrò bisogno di prendere l'ombrello. Un'altra risata generale. - Tant'è vero, che io la chiamo l'occhio-Réaumur! Terza risata prolungatissima. - Siete un gran canzonatore - disse la Norina. - Ma badate, amico, che ne ho veduti cascare de' più forti di voi. - Può darsi benissimo - replicò il giornalista, dondolandosi sulla persona - ma in quanto a me credetelo pure che non ci sono pericoli: il diavolo tentatore con me perde il ranno e il sapone. Vi dirò poi un'altra cosa: la signora Armanda, fisicamente parlando, non risponde punto al mio sogno, al mio tipo della donna ideale. Io amo la donna svelta come il palmizio: l'occhio nero; la fisonomia pallida e sofferente, i capelli neri; e soprattutto, moltissimi capelli. - Non ha molti capelli, la signora Armanda? - Povera figliuola! Ne ha trentatré e mezzo: a quaranta non ci arriva! Altra risata, in coro. - Peraltro - soggiunse la Norina - bisogna convenire che ha un bel carnato. - Questo è vero! Si dipinge con gusto. - Lo sapete di certo che si dipinge? - Mi par di sì. - Eppure - insisté la graziosa vedovella - duro fatica a crederlo. In ogni modo, bisogna convenire che è dipinta molto bene. - Come un quadro del Tiziano - replicò Leonetto, con comica serietà. - Del rimanente poi, è una bravissima e buonissima fgliuola. - Bravissimo. Ora che l'avete demolita pezzo per pezzo, cominciate a dirne bene.
- La verità, sempre la verità! - Mi fate una rabbia!... - Ma il panegirico non è ancora finito. Armanda è istruita, di belle maniere, di un'educazione connpitissima. Parla l'inglese e il se perfettamente. Quando sta al pianoforte, ha la grazia di Chopin, la mano di Fumagalli, il sentimento di Dohler. Canta le cose di Schubert e di Gordigiani con un garbo inarrivabile. Sa tutto Byron a memoria. Disegna, ricama, monta a cavallo... insomma vi dico che nel complesso è una di quelle care donnine che io darei volentieri per moglie a mio fratello minore - se avessi un fratello. - E la vedete spesso? - Quasi tutti i giorni. La sua casa è per me un piede-a-terra, un simpatico rifugio dalle noie della politica... - E dalla seccatura della marchesa Sorbelli. - Per carità, dite piano, che non vi senta. Ha l'orecchio disgraziatamente così squisito! - Avete paura, eh? - disse la Norina, ridendo. - Per altro, vi compatisco: la marchesa non è una donna... è un uomo! - Non è nemmeno un uomo... - replicò Leonetto sottovoce - è un dragone. Quando la natura le dette i baffi, sapeva quello che faceva. - Se vi sentisse, sarebbe capace di mangiarvi!... - Povero amico - interruppe Mario in tuono scherzoso - non ci mancherebb'altro che tu ti dovessi trovare nel brutto caso d'essere inghiottito vivo! - Non ti nascondo - rispose l'altro - che mi dispiacerebbe moltissimo a far da Giona in corpo a quella balena. - A proposito - disse Clarenza - prima che mi i di mente vi avverto, signor Leonetto, che oggi siete a pranzo da noi. Accettate? - Con tutto il piacere.
- È un regalo che faccio al signor conte Mario. - Sempre il tipo della cortesia, quella amabilissima Clarenza - replicò il conte, inchinandosi con galanteria. - Domani sera, poi, faremo un po' di musica. Badate, Leonetto, di non mancare, sapete bene che siete necessario, indispensabile. Vi presento il primo tenore assoluto della nostra piccola Filarmonica di famiglia - disse la moglie di Federigo, volgendosi a Mario, e indicando il giornalista. In questo punto, si udì la voce grave e sonora. - Eccola - disse Leonetto, ricomponendosi, come fa l'alunno quando sente l'avvicinarsi del pedagogo. - Mi raccomando! fatemi il piacere di non scherzare... - Vi pare. State tranquillo. - La signora marchesa Ortensia - disse Federigo, presentando in sala una matrona sui quarant'anni, vegeta, forte, colorita, come un ufficiale di cavalleria di ritorno da una manovra a cavallo in piazza d'arme. - Accomodatevi, marchesa - disse Clarenza, accennandole una poltrona in vicinanza del caminetto. - Mi dispiace, ma non posso trattenermi - rispose la Sorbelli. - Vi saluto e scappo subito. Ho da fare mille bricciche: e prima di tornare a casa, voglio anche are dalla mia amica la marchesa di Santa Teodora. Mi struggo di sapere con precisione le vere cause di questo piccolo scandalo. - Di quale scandalo? - domandò la Norina. - Come! non sapete nulla? - Nulla. - Allora, ve lo dirò io. È andato all'aria il matrimonio, già combinato, fra Rodolfo e la figlia del console americano. - Proprio? - chiese la Norina, con interesse sempre crescente.
- Ve la do per sicura. - E la ragione?.. - Non la conosco bene, ma suppergiù, me la figuro. Quel ragazzo di Rodolfo deve avere qualche amoretto clandestino... qualche'impegno... qualche ioncella misteriosa... - Dico la verità, me l'aspettavo.. - Che cosa? - Che questo matrimonio non dovesse andare a finir bene. Abbiamo alle volte certi presentimenti curiosi!... - osservò la Norina, dissimulando a stento una vivissima compiacenza. - Del resto marchesa - disse Federigo, facendosi in mezzo - in compenso di un matrimonio andato a monte, sono lieto di notificarvene uno, combinato appena un'ora fa! - e il marito di Clarenza accennò la Norina e Valerio. - Scusa, veh, Federigo - soggiunse subito la giovane cognata, quasi fosse rimasta offesa - mi pare che tu abbia corso un po' troppo. Vorrei sapere come si fa a chiamarlo un matrimonio di già combinato? - E non lo è forse? - chiese Valerio, a cui tremava quasi la voce. - Domando scusa - replicò Norina tranquillamente: - è un matrimonio, che probabilmente si combinerà, ma che per ora non è combinato. Vi prego, marchesa, a notare questa piccola differenza. Ne convenite, Valerio? - Convengo di tutto! - rispose l'altro; poi borbottò fra i denti: - Convengo anche che sono il primo imbecille dell'universo. - E voi, signor Leonetto? - domandò Clarenza, tanto per divagare la conversazione. - Quando ci farete mangiare i confetti di nozze? - Io marito? - replicò il giornalista, arricciandosi i baffi e dando in una gran risata. - Io marito? Credo che la cosa sarà un po' difficile. Per vostra regola, in questo mondo vi sono due istituzioni, che mi hanno fatto sempre paura: il matrimonio e il sistema cellulare! Tutte le volte che io penso ai poveri mariti mi
vien fatto naturalmente di spargere una furtiva lacrima sulla loro sorte infelicissima. E dire che in America si è fatta una guerra ciclopica per l'abolizione della schiavitù dei neri, condannati alla coltivazione delle canne da zucchero e del cotone, mentre poi sul vecchio continente abbiamo anche oggi tanti milioni di schiavi bianchi, destinati a coltivare la moglie, una coltivazione, credetelo a me, non meno faticosa di quella delle canne da zucchero e del cotone. Tutti risero per complimento. - Le vostre solite esagerazioni - disse la Norina. - Non sono esagerazioni; è una professione di fede schietta e leale. Io ho amato sempre la mia libertà, la mia indipendenza completa. - Questo è verissimo - affermò la marchesa Ortensia. - È una gran bella cosa - continuò Leonetto, infiammandosi sempre più - quella di sentirsi liberi, come la rondine nell'aria: padroni di sé, della propria volontà, senza dipendere da nessuno, senza nessuno che ci possa comandare!... - Dunque, Leonetto, venite o restate? - domandò la marchesa, interrompendolo. Io me ne vado. - Se non avete bisogno di me, mi tratterrei per un cert'affare!... - rispose il giornalista con un po' d'esitazione. - Fate pure! - replicò la Sorbelli, alzandosi e dandogli un'occhiataccia... Leonetto, che capì l'antifona soggiunse subito: - Cioè, marchesa, se mi permettete, vi accompagnerò fino dalla vostra cugina. - Per me, ve lo ripeto, fate pure il vostro comodo - replicò l'altra con un tuono di voce ugualissimo e tranquillo. - Io sono affatto indifferente. - Allora, Leonetto - disse Clarenza, - rammentatevi che alle cinque precise andiamo a tavola. - Sarò puntuale, come il fato.
- Siete a pranzo qui, Leonetto? - domandò la marchesa, con flemma studiata, e guardando negli occhi il giornalista. - Ho avuto il gentile invito pochi momenti fa... - rispose l'altro, dandosi l'aria della persona franca e disinvolta. - Ma oggi non potete! - insisté la Sorbelli colla stessa flemma e col solito tuono di voce. - Non posso?.. - e Leonetto, imbarazzato, soffiava sulla felpa del cappello, per dissimulare la propria confusione. - Di certo, che non potete!... seppure non siete disposto a pranzare in due case, nello stesso giorno. Pensateci un po' meglio e forse vi ricorderete che mio marito, fino da due giorni fa, vi ha invitato per oggi a casa sua... Leonetto stava per rispondere che non ne sapeva nulla: ma un'occhiata della marchesa bastò per richiamarlo al proprio dovere. Difatti balbettò, imbrogliandosi... - Sì, è vero!... cioè, sarà benissimo: ma si vede che me l'ero dimenticato... Che volete che ci faccia? Sono così astratto, che i pranzi mi ano dalla mente, da un momento all'altro. - Pazienza! - soggiunse la moglie di Federigo, che aveva capito ogni cosa. - Io non voglio privare la marchesa di un commensale così gradito. Sarà per un'altra volta. Fatemi peraltro il favore di non dimenticarvi la chiassata di domani sera. Vi aspettiamo immancabilmente, per cantare insieme il nostro famoso duetto dell'Italiana in Algeri. - Non dubitate, eccovi la mano. - Scusate se metto bocca nei vostri discorsi - osservò la marchesa, stentando la parola, e volgendosi al giornalista, - ma mi pare che domani sera non sarete libero che tardissimo. Rammentatevi che avete preso l'impegno di accompagnarmi al ballo degli Asili infantili. - Io?.. - Voi, voi! - ripeté l'altra, dandogli una occhiata d'intelligenza, che tradotta in
lingua parlata, avrebbe dovuto dire: imbecille, rispondete a tono. - Non mi pareva... - Povero Leonetto! Si vede proprio che la politica vi ha fatto perdere affatto la bussola. Quasi quasi comincio a pentirmi di avervi procurata la direzione della «Gazzetta della Provincia». - Sarà... come voi dite... - rispose Leonetto, stringendosi nelle spalle -...ma vi giuro sull'onor mio che non ne sapevo nulla... cioè, che me l'ero affatto dimenticato!... - Dunque? - domandò Clarenza, annoiata di tutta quella commedia. - Sono dispiacentissimo - rispose il giornalista, che per la vergogna era diventato quasi rosso, - ma domani sera non posso... La marchesa mi assicura che le ho promesso di accompagnarla... al ballo degli Asili infantili...e la colpa è tutta mia, se me lo sono dimenticato... - Signore e signori! - disse la Sorbelli, congedandosi, quindi uscì dalla sala, accompagnata da Federigo e da Leonetto. Mentre il giornalista stese la mano alla Norina, in atto di dire addio, questa gli bisbigliò, sorridente - È una gran fortuna, amico mio, quella di essere liberi e indipendenti, come siete voi! almeno, non siamo mai padroni di far nulla a modo nostro.
PARTE SECONDA
È ato un mese, dal giorno in cui Mario venne accolto in casa di Federigo. - Stasera si è fatto notte più presto del solito. Che ore sono? - domandò Clarenza alla Bettina che aveva un gran lume a e, in mezzo alla tavola. - Le cinque suonate ora - rispose la vecchia.
- La Norina dov'è? - Credo, in camera sua. - Ne sei sicura? - Mi par di sì. - Senti, Bettina, fammi un piacere - soggiunse la giovine padrona, abbassando la voce e con tuono carezzevole. - Vai di là, e con qualche scusa accertati se la Norina è proprio in camera. Appena Clarenza fu sola, cominciò fra sé e sé questo monologo: - Quand'è uscito di casa, or ora, mi ha fatto il solito segno... dunque dietro la cornice ci dev'essere una lettera - (e dicendo così, voltò gli occhi verso un quadretto, chiuso in una cornice e attaccato nella parete di mezzo) -...Già, di queste lettere non ne voglio più... è tanto tempo che lo dico... Questa è l'ultima di certo. Tutte le volte che devo montare sul canapè per frugare dietro a quella maladettissima cornice, m'entra la febbre addosso... Se non foss'altro, la paura! Con un frugolo per casa come la Norina, c'è da essere scoperti, senza neanche avvedersene! Almeno si levasse presto di fra i piedi, quella benedetta figliuola!... - È in camera - disse la Bettina, sottovoce, rientrando nella stanza in punta di piedi. - Mi basta così... voglio farle una celia. Puoi andartene. E la Bettina uscì. - Eppure, neppur'ora mi par d'essere sicura per bene - diceva Clarenza, guardando di qua e di là con so spetto, - un poco, sarà paura della Norina: ma un poco bisogna dire che è anche la coscienza... il rimorso di sapere che faccio una cosa... che non è bella. Dico la verità, io mi credeva più forte... Se credessi alle streghe, dubiterei che mi avessero stregata! Meno male che si tratta di ragazzate, di cose senza conseguenza... Eppoi non lo faccio per me... lo faccio per un altro, per dare a suo tempo una bella lezione a quel donnaiolo di Mario. Intanto Clarenza, dopo aver dato un'ultima occhiata a tutti gli usci, che mettevano in sala, aveva abbassato il lume fino al punto di lasciare un
fiochissimo barlume, ed era salita sul canapè. Colla rapidità del baleno, ficcò una mano dietro al quadro, e prese un foglio che vi era nascosto: ma, quando fu per discendere, si spalancò improvvisamente la porta di faccia. - Scommetto che sei stata tu, che mi hai mandata la Bettina in camera?.. - gridò la Norina, con una voce squillante, che pareva un camlo. - To'?.. - rispose la sorella, rimasta zitta sul canapè e colle spalle voltate al muro. - Prima di tutto, che cosa fai costassù per aria? - Nulla... - soggiunse l'altra, che non trovava le parole per rispondere. - voleva vedere da vicino questa Niobe. - Brava! E per vederla meglio hai abbassato il lume. - Che cosa dicevi della Bettina?… - Dicevo che scommetterei che sei stata tu che me l’hai mandata in camera. - Ebbene, sono stata io…, io in persona: e per questo?.. - disse Clarenza, scendendo dal canapè e andando a rialzare il lume. - Allora vorrei sapere perché quell'imbecille si mette a far la diplomatica, la furba, la misteriosa... - Non capisco. - Figurati, che è venuta a picchiarmi nell'uscio. Che cosa vuoi?, le domando. Niente, mi risponde, voleva sapere se stava bene. Allora ho mangiato la foglia, e ho detto subito: qui c'è sotto qualche cosa... - E, com'è naturale, sei corsa subito in punta di piedi... per vedere... per bracare... Chi lo sa che cosa ti sarai immaginato! - Che cosa vuoi tu che m'immaginassi? Nonostante - seguitò la Norina, con un risolino impertinentissimo - mi ha fatto davvero una gran consolazione di vedere che tu ami la pittura, e che per goderla meglio, sei anche capace di montare sulle
sedie e sui canapè, come fanno i ragazzi. - Ah! se io fossi una gran signora - replicò Clarenza, facendo finta di non capire l'ironia maliziosetta di quelle parole. - Ah! se io fossi una gran signora, tappezzerei tutte le mie stanze di quadri. - Io no: le tappezzerei di stoffa e di raso. È più pulito, e costa meno. I quadri mi piacevano da ragazza. Ti rammenti di quel Mosè sul Sinai, che nostro padre teneva nello studio? Anch'io, tutte le mattine, prima che lo studio si aprisse, avevo preso il vizio di montare sopra una seggiola per vedere il Mosè più da vicino. Ma sai perchè? perché dietro la cornice del quadro ci trovavo per il solito qualche lettera dimenticata. - Adagio un poco cogli scherzi, Norina - disse Clarenza, facendosi seria, - ti prego a credere che dietro la Niobe non c'era nessuna lettera. - Lo credo bene, e quand'anche ci fosse stata, tu avresti avuto abbastanza giudizio per non lasciarla lì col pericolo che andasse nelle mani degli altri! Le due sorelle si guardarono in faccia: e dopo essersi squadrate ben bene da capo ai piedi, finirono tutte e due col dare in una grandissima risata. - A proposito dei propositi. E Valerio ha risposto? - domandò Clarenza, per mutar discorso. - Volevo vedere anche questa che non rispondesse. Alle otto precise sarà qui, per accompagnarci al teatro. - Povero Valerio: è il più buon diavolo di questo mondo. - Fa il suo dovere, e nulla più. - E tu non hai ancora deciso nulla?.. - Per ora no. Non ho nessuna fretta di rimaritarmi. - Dimmi: spereresti per caso che il matrimonio di quella persona - (e Clarenza accompagnò la parola con un curioso balenìo degli occhi) - andasse a monte una seconda volta?...
- Io non ho bisogno di confessarmi. Dico soltanto che i casi sono più delle leggi... e che finché c'è fiato c'è speranza. Lo vedesti l'altra sera? Era in un palco quasi di faccia al nostro, con tutti i suoi futuri parenti... Non mi levò mai i cannocchiali d'addosso. E anche stasera la famiglia del console c'è di certo in teatro: il martedì e il giovedì non manca mai. - E tu lo inviti per farti accompagnare?.. Ah? permettimi che te lo dica; è una cosa che non sta bene e ti fa grandissimo torto. Perché lusingarlo? Perché metterlo in mezzo? perché fargli fare, a sua insaputa una meschina figura? O non sarebbe meglio parlargli francamente e rendergli la sua libertà?.. - Sei curiosa! Sono forse io che lo tengo? - Parliamoci francamente; tu non gli vuoi bene. - Non è vero neanche codesto. Per voler bene, gli voglio bene... - Sì, sì; ma non è di quel bene, come mi intendo - Hai ragione: è un altro bene... per esempio, sul genere di quello che tu vuoi a Federigo. - Norina! - disse Clarenza, facendo il cipiglio - Intendiamoci una volta per tutte; su questo non accetto scherzi. - Calmati, Clarenza, calmati. - C'è poco da calmarsi. Un altro discorso simile, e ci guastiamo per sempre; o fuori di casa tu, o fuori io. - Vieni qua da me e sii buonina - replicò l’altra, ando affettuosamente il braccio intorno alla sorella. - Perché ci dobbiamo guastare? Perché s’ha da far la commedia, quando siamo a quattr'occhi? Pensaci un poco sopra e rispondimi; credi tu che per due donne come noi, colle idee e col carattere che abbiamo e con l'educazione che ci hanno dato in casa, credi tu davvero che Federigo e Valerio fossero gli uomini più adatti per essere i nostri mariti? - Non ti occupare di me; parla piuttosto per conto tuo. - Ebbene, parlerò per conto mio e ti confesserò francamente che può darsi
benissimo che io finisca collo sposare Valerio: ma, Valerio non è il mio ideale. - Dicevi lo stesso del tuo povero Ernesto. Me lo ricordo come se fosse ora. - Ernesto era un angiolo: ma bisogna convenire che aveva un gran difetto: un difetto insoffribile. Impiegato fin da ragazzo ai telegrafi, gli si era attaccato il vizio del proprio impiego. Parlava pochissimo, e quando diceva qualche cosa pareva di sentire un dispaccio telegrafico. Mi rammento sempre di quella famosa sera di quando mi fece la sua prima dichiarazione. «Signora Norina» mi disse «io vi amo; sono onesto: telegrafista; risoluto accasarmi. Desidero conoscere vostre intenzioni». Che burla! mi aspettavo sempre che dicesse «risposta pagata!». - Povero Ernesto! Come morì giovane!... - Pur troppo! ma era tanto infelice! Del resto, sì: se io fossi padrona di scegliere, non mi vergogno a dirlo, sceglierei sempre per marito un uomo del genere del marchese di Santa Teodora. Un po' scapato, un po' leggero, un po' rompicollo!... ma tanto simpatico. Non ti pare che abbia molta somiglianza coll'Artagnan dei Tre Moschettieri? - Gua'; tutti i gusti son gusti!... - disse Clarenza, stringendosi nelle spalle. - E questo - soggiunse l'altra - sia detto per conto mio; ora poi per conto tuo ti dirò... - Non voglio saper nulla!... - Federigo, non c'è che dire, è la più brava persona... - Basta. - Ma per te, per il tuo carattere ci sarebbe voluto... - Basta, ti dico. - Ci sarebbe voluto un uomo del genere... - Basta! basta! basta. Mi sono spiegata, sì o no?
- Eh! quanto chiasso. Non aver paura, non ti dico altro! - e andandosene, borbottò fra i denti «Son venuta qui con un mezzo dubbio, e me ne vado con una mezza certezza. Meno male che ho pensato a rimediarci per tempo!...». - Che la Norina si sia accorta di qualche cosa? - domandò a se stessa la Clarenza, quando rimase sola. - Non ci mancherebbe altro... Ho addosso una smania... una inquietudine, che mi fa battere il cuore e le tempie! Ma perché non piglio una buona risoluzione per tempo? Tant'è: oramai ne son convinta... lui è più forte di me… quel diavolo tentatore esercita sul mio spirito una malìa irresistibile. Non sono più padrona di dirgli una parola o di guardarlo in faccia, senza sentirmi il viso che mi prende fuoco. Quando è in casa, non vedo il momento che vada fuori... Quando è fuori sono agitata, pensierosa, di malumore... fino a tanto che non è tornato a casa…Infame d'un uomo!... eppoi ha il coraggio di lagnarsi di Giorgio, perché tradì l'ospitalità dell'amico! E lui non farebbe anche peggio?.. Ma... ma c'è un caso, signorino bello; io non sono l'Emilia! oh! si persuada pure che io non sono l'Emilia. Animo, animo. Qui ci vuole una gran risoluzione: una risoluzione eroica, e senza mettere tempo in mezzo. Intanto cominceremo dal bruciare questa lettera, senza leggerla. Ho fatto male a leggere le altre... ma questa deve andare sul fuoco. E a Clarenza si voltò risolutamente verso il caminetto, e fece l'atto di gettar la lettera: ma poi si trattenne, pensando: - E se sentissero l'odore del foglio bruciato? La Norina è così sospettosa! Dio, che cosa penserebbe. È meglio strapparla, sì: è meglio strapparla... Ecco fatto: così non ci si pensa più! E la lettera, divisa in due pezzi, rimase fra le dita della Clarenza. - Mi dispiace di non aver guardato la data. Voleva almeno sapere se la lettera era scritta d'oggi o d'ieri. Guardiamo se fosse possibile di raccapezzare il giorno. E così dicendo, riunì alla meglio insieme i due pezzi lacerati della lettera. Mentre Clarenza cercava cogli occhi la data, le venne fatto di posar gli occhi su queste parole: - «Adorata Clarenza!». - «Adorata»!... sfacciato che non è altro. È la prima volta che si prende con me
una simile confidenza. E quaggiù che cosa dice? - «Sono stanco di vedermi trattato con tanta crudeltà». - Se è stanco, tanto meglio: sono stanca anch'io, e così ci troviamo perfettamente d'accordo. Ma la data? È un'ora che cerco la data e non mi riesce di trovarla. Vediamo un poco -. E Clarenza seguitò a scorrere coll'occhio la lettera, e, con visibile agitazione, lesse fra i denti: - «Sono stanco di vedermi trattato con tanta crudeltà. Vi ho supplicato mille volte per ottenere da voi dieci minuti... dieci minuti soli di libertà, per un colloquio intimo...». - Cucù! - fece Clarenza, interrompendosi - io non sono mica l'Emilia! Caro signor conte, per questa volta avete sbagliato - poi continuò a leggere. - «Clarenza! se è vero che non sapete il modo di procurarvi questi dieci minuti di libertà, permettetemi che ve lo suggerisca io. Stasera avete fissato di andare al teatro. Non potreste lasciarvi andare vostra sorella e trovare una scusa per rimanere in casa? dubitereste forse di me? Io credo di meritarmi la vostra fiducia, ed è appunto un atto di fiducia quello che vi domando. Se voi me lo negate, io non son degno di rimanere un'ora di più in questa casa, e faccio giuro a Dio (che vede il candore della mia intenzione) di andarmene questa sera medesima». - Dio volesse - disse Clarenza, gettando i pezzi della lettera nel fuoco. - Almeno così sarò fuori d'ogni pericolo! Così potrò riacquistare la pace e la tranquillità, che ho perduta. Ma se ne anderà davvero? Dovrò starmene alla sua promessa, al suo giuramento? No, no: a scanso di pentimenti, è meglio che ci provveda da me e subito. E suonò il camlo. - Dov'è il padrone? - È nel suo studio col marchese Sorbelli - rispose la Bettina. - Che cosa fanno? - Urlano e strillano come due calandre.
- Ebbene: quando avranno finito d'urlare, dirai a Federigo che i da me: ho bisogno assolutamente di vederlo: hai capito?.. - Buona notte, Clarenza - disse Federigo, entrando in sala col cappello in capo e il paletot infilato addosso, in atto di uscir di casa. - Giusto te! Dove scappi con tanta fretta? - C'è giù, in carrozza, il marchese Sorbelli, che mi aspetta. Ho promesso di presentarlo stasera al nostro piccolo Comitato elettorale. E tu e la Norina che cosa fate? Andate dunque al teatro? - Credo di sì: Valerio almeno ha promesso di venirci a prendere. - Oh! se ha promesso non vi manca di certo. - Volevo dirti una cosa. - Dopo il teatro, se non ti dispiace. Oramai c'è il marchese che mi aspetta, e non voglio fare aspettare. È una cosa d'urgenza. - Ti sbrigo in due parole. È indispensabile, assolutamente indispensabile che Mario domani se ne vada di casa nostra. - Clarenza! ci sarebbe forse qualche cosa? - domandò Federigo, turbandosi e guardando in viso sua moglie. - Il signor marchese lo attende - disse la Bettina, affacciandosi sull'uscio di sala. - Vengo subito. Clarenza raccontami tutto francamente. - E perché ti allarmi così. - Ma dunque che cosa è stato? - Nulla, nulla, il gran nulla. - Voglio saper tutto. - E io ti dirò tutto. In questa casa ci sono due donne...che non sono né vecchie né brutte... Il paese è pettegolo: e io non voglio ciarle intorno casa.
- Dimmi... forse la Norina?.. - Io ti ripeto che non voglio ciarle: e Mario, al più tardi domattina deve uscire di casa nostra. - Bisognerà dirglielo con buona maniera. - Con buonissima. - O non potresti dirglielo tu? - domandò Federigo a sua moglie. - Io no! - Ma chi è che ha messo Mario in casa nostra? - Io. - E tu, allora, licenzialo. - Nossignore: è una parte che tocca a te. - Ma perché tocca a me? - Oh! bella!... parla... perché tu sei il marito. - Clarenza! - Oh! insomma, quando ti dico che non c'è e nulla, mi par quasi un'indiscretezza quella d'insistere!... - Pazienza! la parte da doversi fare è un po' dura, e l'avrei ceduta volentieri a te: ma se la ho da far'io, la farò io. È urgente di molto? - Se si potesse, meglio stasera: se no, domattina di certo. - Il signor marchese!... - disse la Bettina affacciandosi di nuovo sulla porta. - Ha ragione: eccomi subito; dimmi Bettina: il signor Mario è in casa? domandò Federigo, con quella fretta agitata d'un uomo, che vuol levarsi un pensiero, prima di uscir di casa.
- Il signor Mario è andato via alle due - rispose Bettina - e non è più tornato. Son venuti ad avvertirlo che era arrivato suo zio, e che era alloggiato alla Locanda Maggiore. - Suo zio? - replicò Federigo; - dunque il ministro è in paese? - Par di sì - rispose Clarenza. - Sai tu se Mario ricevesse mai risposta a quella famosa lettera? - Credo di no. - L'ho caro! proprio caro! - gridò Federigo, ridendo coi denti. - Io glielo dissi: bada Mario: non la mandare codesta lettera: ti farai canzonare. Nossignore: la volle mandare per forza. Ti rammenterai che si raccomandò a me, perché gliela fi portare all'uffizio postale della stazione. D'altra parte, meglio così: se per disgrazia lo zio ministro, avesse contentato il nipote, oggi mi troverei in un curioso imbarazzo. - In quale? - Capirai bene, che bisognerebbe, che io rimandassi indietro la Croce! - Uhm!... forse no! - Forse, sì. - Forse, no. - Non c'è forse che tenga, cara mia: o siamo uomini, o siamo ragazzi... - Basta, basta; il resto lo so a memoria - disse Clarenza, annoiata. - È una questione di principii... - Se ti dico che il resto lo so. - Padroni, padronissimi, que' signori del Ministero di averla con me... - Se seguiti un altro poco, me ne vado.
- Del resto, - disse Federigo, saltando di palo in frasca, - mi dispiace che questo licenziamento di Mario, sia di tanta urgenza: caso diverso... - Caso diverso, cioè? - Caso diverso era una questione che fra due o tre giorni, tutt'al più, si sarebbe sciolta da se stessa. - Sarebbe a dire? - Mario fra due o tre giorni se ne va di certo. - E dove va? - Probabilmente partirà per un lungo viaggio attraverso la Germania. - Solo? - No, con sua moglie. - Come! coll'Emilia?.. animo via; ma questo è uno scherzo - disse Clarenza, ridendo. - Non è uno scherzo: è storia. - O non si era parlato di separazione?.. - Ma che separazione! se ti dico che tutto quel chiasso non fu altro che una ragazzata di Mario! - Cosicché marito e moglie sono in via d'intendersi, di accomodarsi? - Tutto merito mio! In questi venticinque o trenta giorni, ho avuto un carteggio attivissimo coll'Emilia e con sua madre. - Bravo davvero? e non mi hai detto nulla? - disse Clarenza, nascondendo a mala pena la bizza, che aveva nel sangue. - Avevo il sigillo di confessione, Mario mi aveva fatto giurare che le trattative della riconciliazione sarebbero rimaste un segreto fra noi due!
- Senti! senti! - replicò Clarenza, con un certo risolino di canzonatura, - dunque il signor Mario voleva che la cosa fosse un segreto per tutti? Poi, mutando intonazione, continuò: - Quanto a te, lascia che te lo dica: hai fatto malissimo a entrar di mezzo in questo pasticcio. - Perché? - Perché un uomo prudente non mette mai bocca nei pettegolezzi fra marito e moglie... se si erano guastati, tanto peggio per loro: dovevano pensare a sbrigarsela. - Non ti credevo così cattiva. - Io non son cattiva: credo piuttosto d'avere un po' di giudizio anche per chi non ne ha! Già, vedo bene che sarà una riconciliazione posticcia... Fra un mese, tutt'al più, saranno daccapo: e te la voglio dar lunga. - Io poi, spero di no. Nell'esser di mezzo a questa faccenda, mi son dovuto persuadere che quei ragazzi, in fin dei conti, si vogliono moltissimo bene. - Povero Federigo! come sei ingenuo alla tua età!... - Padrona di darmi dell'ingenuo quanto ti pare. Io, però, ho veduto tutte le lettere che si sono scambiate fra marito e moglie, in questi ultimi giorni, e ti assicuro che mi paiono innamorati, peggio di prima! - Davvero? E tu ci credi sul serio? Gua'; può darsi benissimo che l'Emilia sia innamorata ancora! Non dico di no; povera figliuola, ha un carattere così leggero!... ma in quanto a Mario, ne dubito assai... oh! ne dubito assai. - Anche Mario è innamorato, credilo! - Mario, no. - No? e com'è che lo sai? - Lo so... perché lo so...
- Cioè? - Me l'ha detto lui. - Lui? e perché te l'ha detto? - Oh bella! perché gliel'ho domandato. - A dirti la verità, mi pare una domanda un po' indiscreta. - A me, invece, mi pare naturalissima. - Ebbene, se vuoi saperla tutta, Mario ti ha detto una bugia. - Ci riparleremo a suo tempo. - Ne vuoi una riprova di più? Figurati che la Bettina mi ha raccontato che ieri mattina, essendo entrata improvvisamente in camera di Mario, lo ha trovato col ritratto di sua moglie in mano, che lo copriva di baci. - Imbecille!... lezioso... - fece la Clarenza con un garbo ineffabile di nausea e di dispetto. - Certe svenevolezze in un uomo non le posso soffrire... E poi... resta da vedersi se quel ritratto era veramente quello di sua moglie. - Per codesto, lo era di certo. Tant'è vero che la Bettina mi disse: «Com'è bella la moglie del signor Mario! Somiglia tutta alla signora Clarenza!...». ( - Era il mio ritratto! grande imprudente!... - pensò la moglie di Federigo dentro di sé, facendosi rossa in viso; quindi seguitò a dire). - E questa riconciliazione quando avrà luogo? - Fra due o tre giorni. L'Emilia ha scritto che ci farà sapere, per mezzo del telegrafo, il giorno preciso e il treno col quale arriverà alla stazione. - Voglio sperare che anderanno alla locanda... - È probabile. - Non c'è probabile, né improbabile. Intendiamoci bene che in casa non ce li voglio... Hai capito?.. E i patti di questa conciliazione?
- Semplicissimi. Non una parola, nemmeno una sola parola sull'accaduto. I due sposi, incontrandosi alla stazione, si abbraccieranno, si bacieranno... - Cari!... cari!... veramente cari!... Vuoi che te lo dica? Certe giuccherie mi fanno quasi schifo!... - Quando poi avranno finite tutte le formalità di rigore, si tratterranno una mezza giornata, tanto per avere il tempo di fare i bauli e prendere il volo verso le regioni del Nord. È stabilito e concordato reciprocamente che il pellegrinaggio, all'estero, non debba durare meno d'un anno. - Un anno?.. - Un anno: così è fissato, per la gran ragione che il mondo, che è di lingua lunga e di memoria breve, abbia tutto il tempo necessario per poter dimenticare ogni cosa. - E se Mario non volesse partire?.. - domandò Clarenza, che rideva come una matta; per non far vedere le lagrime, che aveva negli occhi. - Codesta è un'idea - disse Federigo. - Un'idea! Si fa presto a dire un'idea... Chi lo sa: alle volte gli uomini sono così capricciosi:... - Scusa veh, Clarenza: ma se è lui, Mario stesso in persona, che ha messa questa condizione del viaggio d'un anno! (- Infame:... - mormorò fra i denti Clarenza - e vorrebbe che stasera lo aspettassi in casa... Guai a lui, se mi capita dinanzi!). - Il signor marchese Sorbelli... - disse la Bettina, quasi mortificata di dover ripetere la stessa cosa. - Povero marchese! ha mille, duemila ragioni. Ora poi vengo subito... - e Federigo così dicendo, andò a riprendere con grandissima fretta il cappello e il paletot, che, durante la conversazione, aveva posati sulla tavola di mezzo. - Senti vieni un momento qua! - soggiunse la moglie, trattenendolo per un braccio.
- Lasciami andare. - Ho pensato a una cosa. - A che cosa? - Trattandosi di aver pazienza per tre o quattro giorni ancora, credo che sarebbe meglio di aspettare e non dirgli nulla. - Ebbene, aspettiamo... Io faccio a modo tuo... Zitta! se non sbaglio, questo è Mario: è la sua voce di certo. - Animo, Federigo - disse Clarenza, che voleva restar sola, - non far più aspettare quel povero marchese. - Vado subito. Dico una parola a Mario, e scappo. - Al solito. Permettimi che te lo dica: mi pare una bella mancanza d'educazione quella di costringere una persona rispettabile, come il marchese Sorbelli, a farti quasi il servitore. - Non te ne dar pensiero - replicò Federigo sorridendo. - Il marchese per ora è candidato; tocca dunque a lui a fare il comodo mio; quando poi sarà deputato, non dubitare, che toccherà pur troppo a me a fargli l'anticamera. - Sei un grand'ostinato. Ebbene, se non vuoi andartene tu, me ne anderò io - e la Clarenza uscì dalla sala, che aveva un diavolo per capello. - Che c'è di nuovo? - domandò Federigo a Mario, con una curiosità infantile. - C'è qualche cosa - rispose Mario, sorridendo - e avevo quasi paura di non trovarti in casa. - Qualche cosa di premura? Ha scritto l'Emilia? - No. Dall'Emilia oramai non aspettiamo altro che il telegramma dell'arrivo: c'è un'altra notizia... la sai? - Quale? - È arrivato mio zio.
- Ah! è arrivato?.. - soggiunse Federigo, con indifferenza. - Non ne sapevi nulla? - Nulla. D'altra parte, che interesse vuoi tu che abbia per me l'arrivo d'un ministro? fra me e gli uomini del Governo, c'è un oceano di mezzo. - Per carità - disse Mario, scherzando - non parliamo d'oceani! Ho conosciuto certi oceani, in politica, che si sono rasciugati da un momento all'altro, e son diventati tanti rigagnoli da potersi are a piedi asciutti. Come ti sarai figurato, mio zio non rispose mai a quella lettera... - Era facile indovinarlo. - Peraltro ha risposto col fatto. - Col fatto? cioè? come sarebbe a dire?.. - Il signor marchese Sorbelli... - bisbigliò la Bettina, sottovoce, avvicinandosi al suo padrone. - Gran seccatore! Due minuti e scendo subito. - Dice così che non vuole più aspettare - soggiunse pianissimo la vecchia cameriera. - Che se ne vada, allora! - replicò Federigo; quindi rivolgendosi a Mario: - Dunque, mi dicevi?.. - Dicevo che il ministro mi ha consegnato un plico per te. - Un plico per me?.. io non so di dover ricevere alcun plico dal Ministero. - Caro mio; ambasciatore non porta pena - e così dicendo, Mario trasse di tasca un plico, e lo consegnò al marito di Clarenza, il quale, andoci sopra gli occhi, vi lesse con voce quasi tremante: - «Al cavaliere Federigo Fabiani». Ah! finalmente!... - esclamò Federigo. - Cioè?
- Voglio dire - rispose l'altro, frenando a stento la propria emozione. - Voglio dire che finalmente doveva capitarmi addosso anche questo malanno. Mario? abbi pazienza se te lo dico. ma mi hai fatto un brutto scherzo. - Caro mio: io non ci ho colpa. - Vedi un po' in quale imbarazzo mi hai messo. Tu sai benissimo che io sono un uomo logico, un uomo conseguente... - Ebbene. - Ebbene, io non accetterei una distinzione, che mi viene da un Ministero, che ho sempre combattuto. - Se non la vuoi; e tu rimandala. - Rimandarla! è presto detto. E tuo zio?.. è un affronto bello e buono, che farei a lui. - Se fossi in te, non avrei tanti riguardi; rimanderei la croce, e felicissima notte. Federigo rimase muto e soprappensiero, per due minuti: poi, voltandosi all'amico, gli domandò tranquillamente: - Dimmi un poco: come si costuma in queste circostanze disgraziate? Usa scrivere una lettera di ringraziamento?.. - Per il solito, sì. - Ma io, resta inteso che non rispondo nulla - disse Federigo, ingrossando la voce. - Padronissimo - rispose Mario, che aveva capito il debole dell'amico. - Nessuno ti può costringere a fare una cosa contro coscienza. - Tutt'al più potrei rispondere due versi... due soli versi di formalità... tanto per far sapere che ho ricevuto il plico. - Basta, e ce n'è d'avanzo. Federigo andò al tavolino di mezzo, e preso un foglio da lettere, e postoselo
davanti, disse a Mario: - Fammi il piacere: tu che hai pratica in certe cose... dettami queste poche parole. Intendiamoci bene: parole liberalissime e senza ombra di cortigianeria. - Vai pur là, e scrivi - replicò Mario, avvicinandosi al caminetto; e a voce alta, cominciò a dettare: - «Signor ministro». - «Signor...» dimmi un poco - domandò l'altro, alzando il capo e smettendo di scrivere - non sarebbe meglio di dargli un po' d'Eccellenza. - Fai tu: ma la frase «Signor ministro» è molto più franca e più disinvolta. - È vero; ma i ministri, credilo a me, ci tengono all'Eccellenza: le so certe cose. Vuoi fare a modo mio? Diamogli dell’Eccellenza. - Diamogli dell'Eccellenza - soggiunse Mario, ridendo: poi seguitò a dettare: «Sono sensibile all'onore...». - Quel «sensibile» mi pare un po' corto - osservò Federigo. - Se mettessimo invece «sensibilissimo?». - Hai ragione. «Sensibilissimo» è più lungo. Dunque comincia così: «Sono sensibilissimo all'onore...». - Onore... onore! - borbottò fra i denti Federigo. - E non credi che sarebbe meglio detto «all'alto onore?». - Alto? in questo caso mi pare un vocabolo un po' troppo ampolloso. - Ampolloso, no. Anzi mi pare un vocabolo comunissimo e che si adopera continuamente. Diffatti si dice «alta stima» e alta considerazione... anche quando si scrive per non dir nulla. - Vedo, amico mio - disse Mario, annoiato - che ne sai più di me: dunque scriviti da te la tua lettera: eppoi, se credi, gliela posso portar io. - Mi farai un vero regalo - rispose Federigo. Quindi scrisse la lettera in pochi minuti, la chiuse in una busta, e, consegnandola al conte, gli disse con un tuono di voce cupo e malinconico: - Ora ho bisogno che tu mi dia una prova di vera
amicizia. - Parla. - Tu sai il peso, che io ho sempre dato a questi gingilli, a questi giuocattoli da fanciulli... - Lo so! lo so... - interruppe l'altro, ridendosela sotto i baffi. - Orbene: vorrei che questa cosa restasse un segreto fra noi due: che non la sapesse nemmeno l'aria. Che vuoi che ti dica? Sento qualche cosa qui che mi ripugna - (e si toccava lo stomaco dalla parte del cuore). - Capisco che l’uomo è un animale di abitudine, e che in questo mondo ci si avvezza a tutto: ma, ora come ora, dico la verità, sento che non saprei rassegnarmi a sentirmi chiamare cavaliere. - Intendo benissimo la tua ripugnanza... ed eccoti la mano. Giuro solennemente di non parlarne a nessuno. - Siamo intesi: a nessuno! - A nessuno! Clarenza entrò in sala: forse credeva di trovarvi Mario solo: ma visto che c'era anche Federigo, rimase piuttosto male; e voltasi con garbo dispettoso verso il marito, gli disse: - Come? sei sempre qui? - Sempre qui! - rispose l'altro, senza alzare il capo, e accompagnando la risposta con una specie di sospiro. - Che cos'hai? che cosa ti è accaduto? - Nulla, nulla. - Ditelo voi, Mario; che cosa c'è stato? - domandò Clarenza, un poco impensierita. - Ti ripeto, che non c'è stato nulla - gridò Federigo, arrabbiandosi. - Una delle
mie solite fortune. Guarda! - e, nel dir così, si cavò di tasca il plico del Ministero, e lo ò in mano alla moglie. Clarenza posò gli occhi sull'indirizzo: e dopo aver vista la provenienza, e dopo aver letto sulla sopraccarta «Al cavalier Federigo Fabiani» restituì la lettera al marito, esclamando con vera consolazione: - Oh! sia ringraziato il cielo! Finalmente sarai contento! - Contento io? io? Vai pur là, che l'hai indovinata. - Quanto a me, lo dico francamente, sono contentissima. - Tutte uguali le donne! - disse Federigo, ingrossando la voce. - Avete una vanità che a qualunque misura. Per altro, Clarenza, intendiamoci bene. Ti avverto una volta per tutte. Sappi che questa cosa deve restare un segreto fra noi tre (accennando anche a Mario). - Dunque bada bene di non lo dire a nessuno! A nessuno, e specialmente a quella ciarliera della Norina. - Signor cavaliere, i miei rispetti - disse la Norina, saltando in sala, e inchinandosi comicamente dinanzi cognato. - Ah! Norina! - replicò Federigo, facendo l'impermalito - questa tua indiscretezza... questa tua smania di ficcare il naso dappertutto mi comincia a seccare. Con una donna, come te, fra i piedi. è inutile che in una casa ci sieno gli usci e le porte. - Inutile? - Inutilissimo. Perché almeno ho sentito dir sempre che gli usci erano fatti apposta per impedire agli altri che sappiano ciò che vogliamo che non si sappia. - È un'idea anche codesta - soggiunse la Norina, ridendo. - Non tutti si pensa allo stesso modo. Io, per esempio, ho creduto sempre che gli usci fossero fatti unicamente per poter stare a sentire ciò che dicono gli altri. È un'opinione come la tua, e va rispettata. - Non ne discorriamo più per oggi. Ti avverto di serbare il segreto: e non ne facciamo parola con nessuno! con nessuno. A proposito: ma che il marchese Sorbelli sia sempre giù ad aspettarmi? Sentiamo un poco.
E Federigo suonò il camlo. - Ha suonato lei, signor Federigo?. - disse la Bettina, entrando in sala. - Brava, Bettina! Così mi piace: chiamami sempre Federigo. - O come vuol che lo chiami? - Guai a te, se una volta, una volta sola, ti scappa detto cavaliere. - Come! come! - gridò la vecchia cameriera, tutta allegra - che è stato fatto cavaliere, lei? l'ho caro davvero! era tanto, povero padrone, che se ne struggeva!... - Mi struggevo, un corno! Non discorrer tanto, e guarda piuttosto a quel che ti dico: ti ripeto dunque che io mi chiamo Federigo, che voglio esser chiamato Federigo, e in casa mia non ci debbono essere né cavalieri, né commendatori. Dillo subito anche a sco e al cuoco. - Non dubiti, signor cavaliere. - Basta così. Volevo ora domandarti una cosa; il marchese è partito? - Sarà quasi una mezz'ora - disse la Bettina. - Soffiava come un istrice. Se sapesse quante cosacce ha detto!... - Contro me? - Contro lei! - Bravo signor marchese: faremo i conti a suo tempo. Lo aspetto, all'urna, non dubiti, lo aspetto all'urna! Curiosi questi nobilucci di vecchia data. Perché hanno un po' di titolo, trovato fra i ragnateli di casa, gli par d'essere Dio sa che!... Quant'a me, per esempio, non baratterei la mia modestissima croce di cavaliere con tutti i loro stemmi gentilizi: dico bene?.. - Santamente! - soggiunse Mario; - dimmi una cosa: e ora, verso qual parte sei indirizzato? - Che si domanda? - rispose Federigo, guardando l'orologio. - È la mia ora: io,
secondo il mio solito (un'abitudine oramai di dieci anni), vado in casa Appiani a far la mia partita a scacchi. - Non puoi lasciarla per una sera? - chiese il conte. - Impossibile: son sicuro che questa notte non potrei dormire. - Non ti dissimulo, che mi dispiace. - Ti dispiace? e perché? - Perché il ministro avrebbe desiderato di vederti. - Me?.. - domandò Federigo, a cui la troppa e improvvisa contentezza fece mandar fuori una nota di falsetto. - Te in persona. E aggiungi che io gli avevo promesso di accompagnarti stasera da lui! - Hai fatto male... cioè, non dico che tu abbia fatto male... ma, insomma, che cosa vuole il signor ministro da me? - Non lo so! - Il conte non lo sa - interruppe Clarenza - ma è facile supporlo. Il ministro sa che tu sei un brav'uomo, un uomo onesto, una persona moltissimo influente... ed è naturale che desideri di conoscerti personalmente e di stringerti la mano. - Troppo buono, il signor ministro: ma non ci vado! - disse Federigo, atteggiandosi a uomo inflessibile e resoluto. - Pazienza! - replicò Mario, facendo l'atto di non voler più insistere. - Ti prego, peraltro, di fargli le mie scuse. - Non c'è bisogno di scuse. Hai le tue buone ragioni per non volerci venire, e basta così! - E perché non ci vai? - domandò Clarenza, alla quale dispiaceva questa strana cocciutaggine del marito.
- Oh! bella! non ci vado, perché non mi conviene. È una questione di fierezza di carattere e di sentimento della propria dignità, e le donne non possono intendere certe cose. - Io ti comprendo benissimo! - disse Mario, soffiandosi il naso, per tappare una risata insolentissima. - E tu, quando ritorni da tuo zio? - Ci ritorno subito: appena che esco di qui. Intanto gli porterò la tua lettera e gli farò le tue scuse. - Se mi aspetti due minuti, possiamo fare un pezzo di strada insieme. - Ho fretta. - Due minuti soli. - Ti prego dunque di far presto. - Il tempo che ci vuole, per cambiarmi questo soprabito, che comincia a essere un po' troppo grave per la stagione. E Federigo uscì dalla sala. - Ditemi, Mario, e vostro zio si trattiene molto? - domandò Clarenza, tanto per dir qualche cosa, e per dissimular la sua stizza per la Norina, che si ostinava a non volersene andare. - Mio zio parte stasera col treno delle otto e mezzo per San Giusto. - Senti! - E, probabilmente, io gli terrò compagnia. - Partite anche voi?.. - chiese Clarenza, strascicando la voce con un po' di canzonatura. - Non è punto difficile. - E quando sarete di ritorno?
- Chi lo sa. Non lo so nemmeno io. Dipende tutto da una risposta, che aspetto... disse, guardando negli occhi la graziosa moglie di Federigo, quindi soggiunse subito, per non dar tempo alla Norina di fantasticare: - E queste due belle signore vanno poi stasera al teatro? - Sì - rispose la Norina. - Aspettiamo giusto il signor Valerio, il quale ha promesso di accompagnarci. - C'è una bella commedia? - Non lo so davvero: io vado al teatro, per andare al teatro. - E io vado al teatro per non restare in casa - soggiunse Clarenza, accentando leggermente le ultime parole. - Scommetto che avete un po' di paura a restar sola in casa? - domandò il conte, sorridendo con intenzione. - L'avete indovinata! Ho paura della noia. Tre ore di solitudine sono troppo lunghe. Che ora avete, Mario? - Le otto vicine. - Se indugiate un altro poco, perderete il treno, e non potrete più accompagnare vostro zio. - Aspetto quel benedetto uomo di Federigo... Oh! Ma c'è tutto il tempo necessario: il treno dovrebbe are alle otto e mezzo, e ritarda sempre nove o dieci minuti...Scusate, signora Clarenza: e perché ridete? - Rido a vedervi dire le bugie con tanta serietà. - Cioè? - Per vostra regola, voi stasera non partite! - Vi giuro che parto. L'ho promesso a mio zio. E perché, scusatemi, dovrei dirvi una cosa per un'altra?.. - O San Giusto! - continuò a dire Clarenza, ridendo sguaiatamente di un riso
forzato. - Guarda, per l'appunto!... E che cosa andate a fare a San Giusto?.. - Ho là qualche piccolo affaretto. - Non è vero. - Scusate Clarenza: ma perché mi date una mentita? - Io non vi do nessuna mentita: vi dico semplicemente che non è vero! - replicò Clarenza, che, senza avvedersene, era diventata seria e quasi dispettosa. - Il signor Leonetto! - disse il giornalista, affacciandosi in sala, e annunziando se medesimo. - Oh! che miracolo è questo? - domandò la Norina, facendogli segno di venire innanzi. - Scusatemi, mie belle signore, se vi disturbo: Federigo è uscito? - Federigo sarà qui fra minuti - rispose Clarenza. - Ho bisogno di vederlo per una certa cosa... d'urgenza... Intanto profitterò dell'occasione per stringergli la mano e per dargli il mi-rallegro. - Come l'avete saputo? - La Bettina mi ha detto tutto. Anzi, se vi contentate, vorrei fargli una specie di sorpresa... Vorrei annunziare la sua nomina nel giornale di domani. E nel dir così trasse di tasca una matita e un pezzetto di carta; e, dopo avere scritto pochi versi, si voltò alla padrona di casa, dicendole: - Scusate, signora Clarenza: vi dispiacerebbe di mandare il vostro sco alla stamperia del giornale con questo piccolo avviso? - Figuratevi!... E Clarenza chiamò la Bettina, e le dié il biglietto, con ordine premuroso di farlo portar subito da sco alla stamperia del «Giornale della Provincia». - Son pronto! - disse Federigo, entrando in sala, tutto vestito, in abito nero,
cravatta bianca, guanti perlati e paletot chiaro sul braccio. - Bene! bene! - gridò Mario ridendo - dunque ti sei pentito? vieni anche tu dal ministro? - E perché?.. - Me lo figuro! ti vedo in abito di visita officiale!... - Officiale?.. tutt'altro che officiale! Mi son cambiato vestito, perché con quell'altro scoppiavo dal caldo. - Dunque, vieni o non vieni? - Impossibile, credilo, impossibile! Chiedimi piuttosto un bicchier del mio sangue, e non ti dico di no... ma dal ministro... - Ebbene, non se ne parli più: dunque io posso andarmene? - Se mi aspetti, si fa la strada insieme e ti accompagno fin là. - Fino a dove? - Fino alla Locanda Maggiore. Per me, è tutta strada. - Siamo giusti! Quando hai fatto tanto di arrivar lì, puoi anche salire le scale disse Clarenza. - Non salgo! quando ho detto che non salgo, non salgo. Tutt'al più, posso aspettarti giù abbasso, nella stanza del burò. - E se il ministro, per caso, viene a sapere che sei giù ad aspettarmi... - Oh! insomma: non salgo. Ti accompagno, ti aspetto, ma... ma non salirò mai le scale del potere. Federigo, credendo di aver detto una bella cosa, si accarezzò il mento, con visibile compiacenza. - Dunque, Federigo, ti si può stringere la mano? - domandò Leonetto, facendosi avanti.
- Caro mio. è un tegolo che mi è cascato all'improvviso sulla testa. Io ti giuro che non ne sapevo nulla! proprio il gran nulla!... - Vedrai annunziata la tua nomina nel giornale di domani! - soggiunse il giornalista, per dirgli subito una cosa gradita. - Hai fatto malissimo. - Davvero? - Avrei desiderato che di questa cosa se ne fe un segreto! Non ti nascondo che mi hai dato un vero dispiacere!... - Quand'è così, si fa presto a rimediarci... - disse Leonetto, avviandosi in fretta, per uscir dalla sala. - E ora dove scappi? - gli domandò Federigo, trattenendolo per un braccio. - Corro alla stamperia, a far sospendere l'annunzio. Siamo sempre in tempo. - Oramai lascia andare - soggiunse il marito di Clarenza. - Poco bene e poco male: tanto si tratta del giornale della provincia. È un giornale che non lo legge nessuno. - Il biglietto è già alla stamperia - disse sco, presentandosi sulla porta, con una sacca da viaggio in mano. - Dica signor Mario, questa sacca dove la devo portare? - Alla stazione: e lasciala in consegna al signor Pietrino. - È deciso davvero! - bisbigliò sottovoce Clarenza, mordendosi per la bizza il labbro di sotto. - Dunque, mie belle signore, avete comandi da darmi per San Giusto? - disse il conte, con grazia e con moltissima indifferenza. - Grazie, Mario - rispose la Norina. - Allora buona notte e buon divertimento... - E a rivederci a quando? - domandò Clarenza, ingegnandosi di far la disinvolta.
- Chi lo sa!... forse domani e forse fra una settimana. Clarenza, che si era alzata in piedi, si avvicinò al conte, e cogliendo un momento che tutti gli altri parlavano fra loro, gli domandò pianissimo, ma con accento vibrato: - Partite davvero?.. - Andate proprio al teatro? - sussurrò Mario, dando alla moglie di Federigo un'occhiata significantissima. - Sbrighiamoci Mario - gridò Federigo, voltandosi a un tratto. - Ho fatto tardi; e gli scacchi mi aspettano. E il conte e Federigo si congedarono in fretta e se ne andarono. Norina si affacciò sulla porta, per accertarsi se Mario era proprio uscito; quindi uscì anche lei, dicendo alla sorella: - Io vado, intanto, di là a prendere la mantiglia e il cappuccio: e tu? - La mia toelette è bell'e fatta - disse Clarenza, guardandosi nello specchio. - Per quel teatro lì, è anche troppo lusso!... Appena Leonetto rimase solo con la moglie di Federigo, prese una certa aria di collegiale vergognoso: e, quasi avesse avuto bisogno di cercare le parole adatte, per incominciare, balbettò confusamente... - Ditemi... signora Clarenza, vorreste mettere una buona parola per me con vostro marito? - Figuratevi; - rispose l'altra. - Con tutto il piacere. E di che si tratta?.. - Ecco di che si tratta… voi sapete dicerto... o anche se per caso non lo sapete, ve lo dico io, che c'è vacante il posto di direttrice nell'Istituto Azeglio... Vostro marito, come uno dei principali sovventori di quell'Istituto, ha molta voce in capitolo... Vorreste raccomandargli per quel posto una persona di mia conoscenza?.. - Di Vostra conoscenza? - replicò Clarenza, guardando il giornalista con una
specie di curiosità maligna. - Di mia conoscenza - soggiunse Leonetto seriamente - e che... m'interessa moltissimo!... - Forse una vostra parente? - Qualche cosa di più! - Di più?.. e questa persona sarebbe?.. - La signorina Armanda, quella stessa della quale abbiamo parlato insieme qualche tempo fa. - Ah! signor Leonetto! - disse Clarenza, alzandosi in piedi e coll'accento della persona offesa. - Dico la verità: mi fa meraviglia che possiate raccomandarmi per un impiego tanto delicato una persona... di quel genere! - Domando scusa! - riprese il giornalista, che era diventato rosso come una ciliegia (bel fatto per un giornalista!). - Vi giuro, sull'onor mio, che quella giovine... - E perché volete sciupare il tempo a giurare? Non vi rammentate che mi avete detto voi stesso, capite bene, voi stesso, che quella signorina girava per il mondo, facendosi chiamare provvisoriamente Armanda. Tocca forse a me a dirvi a qual famiglia appartengono le donne...senza domicilio fisso, e che cambiano di nome come di pettinatura? - Signora Clarenza, avete ragione: - disse Leonetto confuso e mortificato. - Ma se io vi rispondessi che quel giorno, parlando con tanta leggerezza di Armanda, credevo di essere un giovane di spirito, mentre dopo mi son dovuto persuadere che non ero altro che un imbecille e un volgarissimo calunniatore? - Non c'è dubbio - osservò Clarenza con grazia: - è una ritrattazione spontanea e fatta lealmente... ma ha un piccolo difetto... - Quale? - Giunge un pochino tardi.
- Non ho altro da aggiungere! - disse il giornalista, alzandosi in atto di volersi congedare. - Sentite, Leonetto: non fuggite; ho anche io bisogno di chiedervi un favore. - Son qua. - Parlatene direttamente con mio marito di questa...persona... che v'interessa tanto; ma dispensatemi me dal metterci bocca. - Ebbene, signora Clarenza - disse Leonetto con accento franco e risoluto - la mia delicatezza non mi permette di lasciarvi sotto la triste impressione che io abbia voluto abusare della vostra buona fede e della vostra squisita cortesia. - Abusare?.. no davvero. - A giustificazione della raccomandazione che vi ho fatto, sento il bisogno assoluto di confidarvi una cosa, che finora è un segreto per tutti. Fra qualche giorno Armanda porterà il mio nome! - Come?.. voi?.. - È così, signora Clarenza... - In questo caso, amor mio, sono mortificatissima di aver detto qualche parola forse un po'... acerba, ma spero vorrete convenir meco che la colpa, in fin dei conti, non è tutta mia. - Ve lo ripeto: avete mille ragioni. Io sono stato un gran ragazzo: e oggi pago il fio della mia leggerezza... - Consolatevi, Leonetto! - disse Clarenza sorridendo e stendendogli la mano non siete il solo! Ne ho conosciuti degli altri, che hanno finito collo sposare la donna, della quale si erano lavati la bocca. - E questo signor Valerio non si è veduto ancora? - domandò la Norina, entrando in sala, colla mantiglia sul braccio. - Eccomi qua - disse Valerio presentandosi sulla porta di fondo. - Vi ho fatto forse aspettare?
- No davvero. Anzi possiamo trattenerci un altro poco. Quanto a me, non mi è piaciuto mai di arrivare in teatro, all'alzata del sipario. Sì, par di quella gentuccia, che va al teatro, proprio per lo spettacolo, non è vero?... E tu, Clarenza, che cosa fai che non mandi a prendere intanto la tua roba? - Oramai non vengo più - rispose la moglie di Federigo, facendo l'annoiata, e appoggiandosi con stanchezza il capo alla spalliera della sedia. - Per questa sera, rimango in casa. - Rimani in casa? - replicò vivacemente la sorella. - Mi par fatica a uscire!... eppoi a dirti la verità, io sono come Valerio: mi diverto moltissimo alla musica: ma la prosa... oh! Dio!... la prosa!... - Per me, - disse Valerio, - la prosa è sempre prosa. - Anche quand'è in poesia! - soggiunse ridendo la moglie di Federigo. La Norina era rimasta incantata: pensava a qualche cosa con una fissazione insolita in lei. Quando si riscosse, mormorò fra i denti: L'affare si fa serio... e di molto!...Speriamo che la mia lettera sia giunta in tempo! E se no, pazienza! Sono cose di questo mondo. Quindi, data una scrollatina di spalle, riprese la sua solita spensieratezza e il suo solito buon umore, e rivoltasi verso il giornalista, gli domandò ridendo: - E così, Leonetto, come funziona quel famoso vecchio termometro?.. Il giornalista voleva fare l'astratto, l'uomo assorto in gravi pensieri, ma la Norina, con una sbadataggine infantile e petulante, insisté: - E quei poveri capelli? Sono rimasti sempre a trentanove e mezzo, oppure in questo tempo han figliato? La sapete, Valerio, la storia dei trentanove capelli e del vecchio termometro? - (e qui una grandissima risata). - Basta, basta, Norina - disse Clarenza, impietosita dalle ineffabili torture, che pativa il povero Leonetto. - Come sei prolissa! quando cominci, non la finisci più! In questo mentre, la Bettina entrò tutta frettolosa in sala, annunziando:
- La signora contessa Emilia. Quadro di stupore e di sorpresa universale! Dopo tutti i baci e tutti gli abbracci, che si scambiano in simili circostanze, tutte le donne che si vogliono bene e quelle che non si possono soffrire fra loro, Clarenza, per la prima, gridò, tenendo l'amica per tutte e due le mani. - Ma questa è una carissima improvvisata! - E Mario dov'è? - domandò l'Emilia. - Mario per questa sera non lo potrai vedere! - soggiunse la Norina, tutta contenta che la sua lettera fosse arrivata in tempo. - E perché non lo posso vedere? - Perché partiva col treno delle otto e mezzo per San Giusto. Accompagnava il ministro. - Lo zio dunque è stato qui? - Si è trattenuto poche ore. - L'avrei veduto tanto volentieri. E Federigo?.. Quella perla d'uomo di tuo marito? - disse volgendosi a Clarenza. - Sta benissimo: ma anche lui è fuori. A quest'ora sarà in casa Appiani a fare la sua solita partita a scacchi fino a mezzanotte. - Scommetto, Clarenza, che tu non mi aspettavi... stasera?... - Io no!... - rispose l'altra, un po' sconcertata dalle occhiate indagatrici e penetranti, colle quali la saettava la moglie di Mario. - Stasera non ti aspettavo... ma però sapevo che saresti stata qui fra due o tre giorni al più lungo. - È vero!... ho voluto anticipare la mia gita di qualche ora... e ti dirò perché. È stato un capriccio... m'ero messa nell'idea di arrivare qui all'improvviso, senza che nessuno ne sapesse nulla... e specialmente Mario... - Una sorpresa?
- Precisamente. Così dicendo, l'Emilia prese per la mano le due amiche, e dopo averle condotte con molta disinvoltura verso il pianoforte, situato in un angolo della sala, disse loro pianissimo, e con un certo garbo comico della fisonomia: - Con voi non ho misteri, e posso anche dirvi il motivo di questa bizzarra risoluzione. Pochi giorni addietro ho ricevuto per la posta una lettera, che veniva di qui...una lettera anonima e curiosissima... - La mia lettera! - bisbigliò dentro di sé la Norina.. Ero certissima che avrebbe fatto il suo effetto. - Comincerò dal dirvi che la lettera era firmata Folletto. -. e che, fra le altre cose, era piena di spropositi d'ortografia!... - Sguaiata! - mormorò la sorella di Clarenza: poi aggiunse forte: - Bada veh! che forse saranno stati spropositi fatti apposta... per nascondere la mano della persona che scriveva. - No, no - replicò vivacemente la contessa - ti assicuro che erano spropositi spontanei, legittimi, cascati giù dalla penna con tutta naturalezza. Ma questo importa poco. Io so benissimo il conto che si dovrebbe fare delle lettere anonime: ma bisognerebbe aver la forza di poterle strappare prima di leggerle. Una volta lette, è finita: ti paiono più vere delle lettere vere. Il fatto sta che Folletto si diverte a darmi dei ragguagli curiosi... molto curiosi sulla vita, che mio marito conduce qui -. (E l'Emilia, con una volubilità prodigiosa, fissava gli occhi in viso ora alla Clarenza, ora alla Norina: ma particolarmente poi alla Clarenza). - La lettera, chi lo sa perché, è scritta tutta in un linguaggio bizzarro; come quello delle favole del Clasio e del Pignotti. Figuratevi, per darvene un'idea, che parla d'un certo farfallone che per ingannare la solitudine e il mal umore si è messo a far la corte e a svolazzare intorno a un fiore: beninteso, dice Folletto, intorno a un fiore di giardino chiuso. Il farfallone e il fiore stanno vicinissimi di casa: quasi, sotto il medesimo tetto... Il fiore, per ora, ha resistito a tutte le tentazioni: ma se la sua virtù lo abbandonasse? Venite subito qua, conclude l'autore della lettera; la vostra presenza metterà giudizio alla farfalla: e così salverete l'onore del fiore e la tranquillità di quel buon uomo del giardiniere... Anzi mi ricordo benissimo, che, invece di giardiniere, c'è scritto gardinere, senza l'i.
- Gardinere? - ripeté la Norina impermalita. - Mi pare impossibile! - Cioè? - Voglio dire - soggiunse, ripigliandosi in tempo - mi pare impossibile che il signor Folletto non sappia che c'è bisogno dell'i per scrivere giardiniere. Sono i primi principii della lingua italiana, che sappiamo tutti a memoria come l'Avemmaria. - Sia favola o storia? - domandò l'Emilia, senza perder d'occhio la fisonomia delle due sorelle. - che cosa ne dici, Clarenza?.. - Per me è tutta una favola - rispose la moglie di Federigo, studiandosi di dissimulare l'agitazione che aveva addosso. - Ma, bada! potrebbe anche darsi che ci fosse un po' di storia. - Nessuna di voi si è accorta mai di nulla?.. - Di nulla! proprio di nulla! - replicarono all'unisono le due sorelle. - La credo una favola anch'io! - continuò a dire la contessa. - Più ci penso, e più mi pare impossibile che Mario potesse esser capace... specialmente ora... in questo momento... - Per codesto, cara mia, io credo gli uomini capaci di qualunque cosa... fuori che d'una buona azione! - disse Clarenza con l'accento della bizza mal repressa. - Con tutti i vostri discorsi, mi fate far la mezzanotte in casa! - soggiunse la Norina, contentissima di poter interrompere una conversazione, che minacciava di diventar pericolosa. - Io vado al teatro. Vuoi venire anche tu? - domandò all'Emilia. - In quest'arnese da viaggio? - Stai benissimo. - Ebbene, verrò al teatro anch'io. Così la serata erà più presto. - Addio a poi, Clarenza! - disse la Norina, mettendosi la mantiglia sulle spalle.
- Come! tu rimani in casa? - chiese la contessa con un accento di curiosità singolarissima. - Sì rimango in casa. Non mi sento benissimo. - Ti senti male? Oh povera Clarenza! In questo caso, non vado al teatro neanch'io! Voglio restare a farti un po' di compagnia. - Ti prego, Emilia, non far complimenti con me! - Ti dico che non vado! - Bada, ti annoierai. Debbo avvertirti che quando mi prende questo maledettissimo dolor di capo, ho bisogno di dormire almeno un par d'ore. - Dormi pure. Dormirò anch'io! Ne ho tanto bisogno. Figurati che mi sono alzata alle otto!... - Fai come credi!... - Eppoi... te ne voglio dire un'altra: qui, nel cuore, ho un presentimento curioso! Lo so da me che è una scioccheria, una cosa senza senso comune... ma pure mi son messa in capo che Mario... debba tornare a casa da un momento all'altro. - Se ti dico che è partito!... - Avrà detto di partire... ma poi è così sfatato!... Chi ti dice a te che non abbia fatto tardi? - Dov'è, dov'è questa signora Emilia? - gridò Federigo, entrando in sala e andando a stringere la mano alla contessa. - Come avete saputo del mio arrivo?.. - Quella buona donna della Bettina! Appena sono entrato in casa, la Bettina mi ha detto: sa, cavaliere, chi è arrivato? - Cavaliere!... - domandò l'Emilia in atto di rallegrarsi. - Per carità, contessa, chiamatemi Federigo, come mi avete chiamato finora! o ci guastiamo. Peccato del resto che siate arrivata un po' tardi.
- Tardi?.. e perché? io spero, invece, di essere arrivata in tempo... almeno non voglio perder quest'illusione! - soggiunse l'altra con quel fare sbadato della persona che parla a caso: e nello stesso tempo lanciò alla Clarenza un'occhiata rapidissima, che parve uno di quei baleni di luce, prodotti da un piccolo specchio agitato sotto uno spiraglio di sole. - Un'ora più presto - continuò Federigo - e avreste trovato Mario in casa. Ormai per questa sera ci vuol pazienza. - E quando ha detto di tornare?.. - Forse, domani, col treno di mezzogiorno. - È proprio partito? - L'ho accompagnato io fino alla stazione: o per dir meglio, li ho accompagnati tutti e due, lui e il ministro. - E avete aspettato che il treno partisse? - No! - Allora, ho sempre una speranza! - Avrei aspettato volentieri, ma quel benedetto uomo di Mario ha cominciato a dire che l'aria era rinfrescata, e che io avrei fatto bene a venir subito a casa a mutarmi di vestito. - È così pieno d'attenzioni mio marito, alle volte! - A proposito di attenzioni, sapete che il vostro Mario mi ha fatto stasera una di quelle birichinate, che me ne ricorderò per tutta la vita! - Che cosa vi ha fatto? - Sentite, e giudicate voi se non a quasi il limite dello scherzo. Appena uscito di casa, un'ora fa, siamo andati alla Locanda Maggiore, dove era albergato il ministro. Premetto che io gli aveva dichiarato anticipatamente che in nessun modo volevo esser presentato a Sua Eccellenza. Avevo le mie ragioni per serbare questo contegno e basta. È tutta una questione di principii, e coi principii non si
scherza! Giunti che siamo alla locanda dico a Mario. «Vai pur tu, e fai tutto il tuo comodo: io ti aspetto qui fuori, eggiando e pigliando una boccata d'aria.». Dopo pochi minuti, che ero lì sulla porta dell'albergo, eccoti che scende le scale un giovine, pulitamente vestito, il quale, presentandosi a me e titubando, mi dice: «Scusi: è il cavaliere Fabiani?». «Per ubbidirla» rispondo io. «Cavaliere! il signor ministro la prega di salire un momento da lui». «Grazie... non posso davvero... eppoi in questo abito». «Io la prego, cavaliere, da parte di Sua Eccellenza». «Un'altra volta... stasera è impossibile». Insomma, cavaliere di qui, cavaliere di là, cavaliere di sotto, cavaliere di sopra, ho dovuto arrendermi, e ho finito col rassegnarmi a salire le scale della Locanda Maggiore. Quelle scale saranno sempre il più gran rimorso della mia vita! - Se indugiamo dell'altro - disse la Norina, alzando la voce - vedo bene che arriveremo a commedia finita. - Io son pronto - replicò Valerio, infilandosi i guanti. - E voi, Leonetto, ci accompagnate? - domandò la sorella di Clarenza. - Sarei venuto volentierissimo anch'io: ma per l'appunto sono impegnato. Bisogna che fra un quarto d'ora mi trovi al municipio. - Qualche matrimonio forse? - domandò Federigo. - Precisamente - rispose il giornalista. - Sono testimonio alle nozze del marchesino di Santa Teodora con miss Edwige Clarence, la figlia del console americano. - Stasera?.. proprio stasera? - chiese la Norina con una vivacità apionata, che non seppe dissimulare. - Fra una mezz'ora - replicò Leonetto. - Sia ringraziato il cielo! - sclamò la furba vedovella, mutando istantaneamente di fisonomia, e diventando tutta tranquilla e sorridente. - Sia ringraziato il cielo! e ora ditemi un poco, signor Valerio, vi pare che le vostre paure fossero ragionate? - Compatitemi, cara mia, sapete bene che chi ama, teme.
Intanto nelle stanze d'ingresso si udì una voce d'uomo, e un rumore di i. - Possibile! - gridò Federigo - ma se non sbaglio, questa è tutta la voce di Mario. - Finalmente!... - disse il conte precipitandosi in sala, e correndo ad abbracciare sua moglie: - Questa è stata proprio una combinazione fortunata!... Pareva proprio che il cuore me lo dicesse!... - E io che, a quest'ora, ti credevo già arrivato a San Giusto!... - Debbo ringraziare il caso: il caso, stasera, è stato il mio angelo tutelare: figurati che mio zio ed io eravamo già entrati in vagone: la macchina soffiava: il treno stava per partire: quand'io mi accorgo, a un tratto, di aver dimenticata la sacca da viaggio nel caffè della stazione. Salto in terra, e corro verso il caffè... la sacca era sparita. «Chi ha preso la mia sacca?». «L'ho consegnata ad una guardia» risponde il caffettiere. «E dove me l'avrà portata?». «Forse nella stanza del capostazione». E via di corsa nell'ufficio del capostazione. L'ufficio era chiuso. Busso, chiamo, bestemmio... finalmente... la porta si apre... prendo la sacca... e torno in cerca del vagone... ma in quel momento la macchina fischia, il treno si muove... e io... - E tu, com'è naturale, corri subito a casa, sapendo che qui ti aspettava... tua moglie... - Non lo sapevo, di certo, ma ti giuro che me l'ero figurato - replicò Mario con quella naturalezza che acquista l'uomo quando ha imparato a dire la bugia collo stesso candore della verità. - E ora che cosa facciamo? - domandò Federigo, consigliandosi colla conversazione sul modo migliore di are il rimanente della serata. - Propongo una cosa - disse Clarenza: - andiamo tutti al teatro. - Io non ci vengo davvero - rispose la Norina con aria svogliata. - Oramai è tardi! - C'era forse qualche commedia nuova? - domandò l'Emilia. - Nuova? Non lo so. Ho visto sui giornali che stasera recitavano i Ragazzi grandi.
- Allora ho capito - disse Leonetto, sorridendo - è una commedia vecchissima, ma diverte sempre.
Il giorno dopo, il conte Mario e sua moglie, dovevano partire, giusta il loro fissato, per un lungo viaggio (un viaggio almeno di un anno, così dicevano i patti della riconciliazione) attraverso ai principali paesi della Germania. Ma la contessa, per buona fortuna, fece osservare che era di venerdì: e le persone prudenti debbono scansare di mettersi in viaggio, nel giorno più funesto di tutta la settimana! Concordi su questo punto, i due coniugi, invece di prendere il volo per Vienna, stimarono ben fatto di tornare per qualche giorno in famiglia - e la sera stessa partirono alla volta di Genova. Il cerimoniale degli addii fu cordialissimo - e qualche volta commoventissimo. La Clarenza, colto un frattempo, disse piano al conte, ridendo tutta contenta: Povero Mario?... vi ho dato una bella lezione!... - A me? - Voglio sperare che non ve ne sarete avuto a male. -E potrete credere, Clarenza, che sarei stato capace?.. Ah! no, mille volte! la mia adorazione per voi aveva un limite sacro, inviolabile... l'amicizia per Federigo! E Clarenza e il conte, in quel momento, parlavano in buona fede e credevano tutti e due di dire la verità. Valerio com'era facile a prevedersi, finì collo sposare la Norina... per più motivi, e specialmente per far vedere che era un uomo di carattere serio, e non già un ragazzo - mentre la Norina, dal canto suo, si compiaceva di raccontare alle amiche intime (e tutte le amiche diventano amiche intime per una donna che ha bisogno di far sapere un segreto), si compiaceva, dunque, a raccontare che se avesse voluto, avrebbe potuto sposare il marchesino di Santa Teodora; ma che, invece, per dar retta al cuore, si era sacrificata (sic) e aveva fatto un matrimonio d'inclinazione.
Leonetto, il giornalista, innamorato fino agli occhi di Armanda - forse appunto perché dapprincipio ne aveva detto moltissimo male - l'avrebbe sposata anche subito - ma non osava farlo, per paura della marchesa Ortensia. Per buona sorte la Provvidenza (si vede proprio che c'è una provvidenza anche per quelli che pigliano moglie), si recò a visitare la marchesa, sotto la forma di una bronchite acuta: e il giornalista, profittando della favorevole occasione, condusse dinanzi al sindaco quella fanciulla adorata, che il cielo manifestamente aveva creata apposta per lui. Quando la notizia si divulgò per il paese, la Sorbelli, ch'era già in via di guarigione, dissimulò con disinvoltura il proprio risentimento. Il marchese, invece, andò su tutte le furie. Il pover'uomo non sapeva capacitarsi, come mai un amico suo di casa, come Leonetto, avesse potuto meditare e concludere un matrimonio, senza dirne prima una mezza parola almeno alla marchesa - alla marchesa che aveva fatto tanto per lui! Dopo nove mesi, Armanda dié alla luce una bambina - alla quale Leonetto volle per forza che fosse imposto al fonte battesimale il nome di Ortensia. La cosa dispiacque vivamente alla giovine madre: ma fece piacere alla Sorbelli, la quale, appena riseppe quest'episodio intimo di famiglia, dismesse il suo contegno fin'allora freddo e riservatissimo, e andò a far visita alla puerpera, parlandole per mezz'ora dei grandi pensieri della maternità e prognosticando da certi segni particolari, che la bambina, fatta grande, avrebbe avuto degli occhi bellissimi e una quantità di capelli straordinaria - come suo padre! Da quel giorno in poi, Leonetto e la marchesa Ortensia ritornarono buonissimi amici, come prima; e quel galantuomo del marchese, riacquistata un po' di tranquillità in casa, e detto addio alla politica (il paese non era ancora maturo per lui), si dedicò interamente allo studio del filugello, proponendosi di sciogliere il problema, se durante la malattia del seme, si potesse ottenere dal baco da seta almeno del cotone di primissima qualità! Quanto alla Clarenza e all'Emilia, la commedia durò per quasi un anno: si scrivevano di tanto in tanto; si baciavano per lettera - ma, in sostanza, fra di loro non si potevano soffrire. Venne finalmente un bel giorno, in cui la moglie di Federigo cessò improvvisamente ogni relazione e ogni corrispondenza amichevole colla
contessa - e la ragione, a quanto pare, fu questa. La Clarenza era venuta a sapere che Giorgio - quel Giorgio delle bagnature e dell'amor platonico coll'Emilia - per un seguito di combinazioni (tutte combinazioni, l'una meno combinazione dell'altra) aveva nuovamente riattaccato il cappello in casa di Mario. Questo fatto, la stomacò (sono sue parole testuali); tant'è vero che parlandone a quattr'occhi con suo marito, era solita dire facendo colla bocca un atto di disgusto ineffabile: - Non mi fa meraviglia dell'Emilia, l'Emilia oramai è... quel che è! Chi davvero mi sorprende, è Mario!... E io che lo credevo un uomo d'onore!... Che roba!... che roba!... Accadde in questo tempo che, una sera, Mario, arrivando da Genova, andò tutto pallido e trasfigurato a bussare alla casa dell'amico Fabiani. Cos'è, cosa non è, alla fine Federigo poté capire che il conte, avendo giuocato pazzamente alla Borsa, si trovava dinanzi a un pauroso dilemma (pauroso, s'intende bene, in modo molto relativo!) vale a dire, o pagare - o far la figura del giuocatore onorato... che non paga i suoi debiti di giuoco!... Federigo, che per date e fatto di Mario, si era trovato nominato cavaliere - poi sindaco - e che, per l'assistenza del medesimo santo, si sentiva già in odore di grand'ufficiale o di commendatore, proclamò il gran principio, che «l'amico all'occorrenza, deve sacrificarsi per l'amico», e il giorno dopo, col portafoglio pieno di fogli di Banca, partì per Genova, dicendo al conte: «Aspettami qui; al mio ritorno, ti dirò tutto, e aggiusteremo ogni cosa fra noi due!». La consolazione di Mario, in quel momento, fu tanta e tale, che non potendo resistere a un impulso del cuore, gettò le braccia intorno al collo dell'amico, e lo baciò ripetutamente, bagnandogli le gote con qualche lacrima di profonda e incancellabile riconoscenza. Federigo credeva di trattenersi a Genova un giorno o due, tutt'al più; invece si trattenne quattro. Quando ritornò a casa, la prima cosa che disse a Mario fu questa: - Tutto è accomodato!. - ed era allegrissimo e soddisfatto, come se si fosse trattato di cosa sua.
Il conte, forzato da circostanze imperiose, dové partire la sera stessa. Nell'atto di congedarsi e di uscir fuori dalla porta di casa, la Clarenza gli sussurrò, con un certo accento di voce e con una certa guardata d'occhi, che davano molto da pensare: - Appena arrivato, rammentati di scrivermi subito!... Federigo, che per prudenza doveva essere un poco più distante, e che invece, per una inavvertenza imperdonabile, si trovava molto vicino, intese quelle parole, o almeno gli parve d'intenderle; - il fatto sta che, ripensandoci su, non poté chiudere un occhio in tutta la notte! Meno male che la sera dopo andò a letto alle dieci, e si svegliò la mattina seguente a mezzogiorno preciso!
STORIE ALLEGRE
L'omino anticipato
Ossia la storia di tutti quei ragazzi che vogliono parere uomini prima del tempo.
1. Il signor Gigino.
Quando lo conobbi io, aveva appena dieci anni. Di nome si chiamava Gigino. Non era né bello né brutto. Aveva un par d'occhietti cerulei: i capelli biondissimi, d'un biondo chiaro come la stoppa: il naso un po' ritto e voltato in su e le gambe un tantino magre più del bisogno. Nell'insieme, poteva dirsi un buon figliuolo. A scuola non faceva miracoli, ma il maestro mostravasi contento: in casa poi era il cucco della mamma e l'occhio diritto del babbo. Guai se le sorelle e i fratelli maggiori avessero torto un capello a Gigino! C'era da far nascere una specie di finimondo. Volete che vi dica il più gran difetto di questo ragazzo? Durerete fatica a crederlo, eppure è così: il suo più gran difetto era quello di vergognarsi a ar per un ragazzo: voleva per forza parere un giovinotto, un uomo fatto! A domandargli quanti anni avesse, per il solito rispondeva: “Il babbo e la mamma dicono che ne ho dieci: ma lo dicono per farmi arrabbiare...” “O dunque quanti anni hai?” “A dir poco poco, ne devo avere dodici per i diciotto: un altr'anno sarò di leva...” “Come fai a saperlo?”
“Chi può saperlo meglio di me? Gli anni sono miei, e nessuno me li può levare.” Fatto sta che Gigino, mentre pretendeva di essere un giovinotto e un omino maturato prima del tempo, si dava a conoscere per un ragazzo più ragazzo di molti altri. Era bizzoso, capriccioso, svogliato, ghiotto di zucchero e di pasticcini: un po' bugiardo: prepotente e permaloso co' suoi compagni di scuola, e fanatico dei balocchi fino al segno di pigolare tutti i giorni qualche soldo per comprarsi un burattino o un cavallo di terra cotta col fischio nella coda. Voi forse mi domanderete: “In qual modo, dunque, il signor Gigino mostrava questa sua gran ione di farsi credere un giovinotto?” Ve lo dico subito: la sua ione stava tutta nel desiderio di potersi vestire da uomo, come il suo fratello maggiore che aveva oramai vent'anni compiti: vale a dire, invece del solito berrettino, avrebbe preferito un bel cappello a tuba: invece della giacchettina, un soprabito di panno nero, e invece della golettina rovesciata, che lascia libero il collo, un bel golettone ritto e inamidato, come il collare dei preti.
2. Il cappello a tuba.
Fra tutte queste galanterie, la più agognata per il nostro Gigino era il cappello a tuba. Un giorno, sfogandosi con la Veronica, la cameriera che per il solito lo accompagnava a so, arrivò fino a dire: “Credilo, Veronica, per un cappello a tuba darei tutti i miei libri di scuola.” “O perché non se la fa comprare dal babbo?” ripigliò la cameriera, ridendo come una matta. “E perché ridi?” domandò Gigino impermalito. “Rido, perché a vedere un ragazzo, come lei, col cappello a tuba, mi parrebbe di vedere un fungo porcino.”
“Povera donna! ti compatisco...” “La mi compatisca quanto la vuole, ma a me i ragazzi vestiti da ominini grandi mi somigliano tante maschere fuori di carnevale...” La mattina dopo (era per l'appunto giovedì, giorno di vacanza per la scuola) il nostro Gigino, frugando nell'armadio di guardaroba, gli venne fatto di trovare un vecchio cappello di felpa, tutto bianco dalla polvere. Era un vecchio cappello del suo babbo. Tutto allegro, come se avesse trovato un tesoro, se lo portò via di sotterfugio; e ritiratosi nella sua camera, si pose a spazzolarlo e a strigliarlo, come se fosse stato un cavallo. Quel povero cappello in alcuni punti era diventato bianchiccio a cagione del pelo andato via: ma Gigino, senza perdersi d'animo, vi rimediò subito, e presa la boccettina dell'inchiostro, restituì alla felpa del cappello il suo bellissimo color morato. Poi se lo pose in testa: ma il cappello era così largo, che gli calava fino al principio del naso. Gigino non se ne dette per inteso: e andandosi a guardare nello specchio, cominciò a dire gongolando dalla gioia: “Ecco qui... non sono più il medesimo: paio proprio un altro... neanche la mamma mi riconoscerebbe!... Bisogna convenire che il cappello a tuba è quello che fa parere uomini... Se gli uomini portassero i berretti, come noi, sarebbero tanti ragazzi... Che cosa pagherei di farmi vedere con questo cappello dai miei compagni di scuola!... Chi lo sa come m'invidierebbero!... E il maestro?... Scommetto che, se andassi a scuola con questo cappello, anche il maestro avrebbe un po' di soggezione di me... Oh! che bell'idea!...”. Detto fatto, Gigino ebbe lì per lì una bellissima idea. Levatosi il cappello, corse da sua madre e le disse: “Ti contenti, mamma, che vada qui dal cartolaro, sulla cantonata, per comprare un quinternino di carta?” “Mi prometti di tornar subito?” “In un lampo.”
“E non ti fermare dinanzi alle vetrine delle botteghe.” “Che mi credi un ragazzo?” E senza stare a dir altro, Gigino ritornò in camera; e dopo due minuti era giù in mezzo alla strada, con in testa il suo bellissimo cappello a tuba, ritinto a nuovo. La gente si voltava a guardarlo, e rideva: ma lui si pavoneggiava ed era contento come una pasqua. Per altro le contentezze in questo mondo durano poco: tant'è vero che prima di arrivare alla bottega del cartolaro, il nostro Gigino incontrò due monelli di strada, che incominciarono a girargli d'intorno e a fargli delle grandi riverenze e dei grandi salamelecchi, gridando con quanto fiato avevano in gola: “Sor Dottore, buon giorno a lei!... Ben arrivato sor Dottore!” Altri monelli sopraggiunsero strillando: “Guarda che bel Cappellone!... Sor Cappellone, la si rigiri!... Evviva Cappellone!...”. E lì grandi risate, urli, fischi, un baccano indiavolato, da levar di cervello. Il povero Gigino, che avrebbe pagato Dio sa che cosa per aver le ali come un uccello e tornarsene volando a casa dalla sua mamma, si provò più volte a farsi largo e a svignarsela, ma i monelli, riunitisi in cerchio, gli chiudevano ogni via di salvezza. “Mi pare una bella porcheria!” gridò piangendo. “Io vado per i fatti miei, e non do noia a nessuno... e non voglio che nessuno dia noia a me...” “Bravo Cappellone, urlò un ragazzaccio, più sbarazzino degli altri. Bravo Cappellone!... tu ragioni meglio d'un libro stampato... e meriti la mancia.” E nel dir così, gli diè sul cappello un colpo così screanzato, che il cocuzzolo volò via di netto, e il povero Gigino rimase con la sola tesa penzoloni intorno alla testa. Figuratevi lo scoppio delle risate!
Appena tornato a casa, il nostro amico si chiuse in camera per bagnarsi con l'acqua fresca un bel graffio sul naso, raccapezzato in mezzo a quel gran parapiglia.
3. Il goletto insaldato.
Il graffio del naso non era ancora guarito per bene, che già il nostro amico Gigino, per la solita grulleria di vestire da uomo fatto, ne meditava un'altra delle sue. Una mattina, avendo trovata la Veronica in guardaroba, che rassettava della biancheria, le disse con una manierina incantevole: “Dimmi, Veronica, mi faresti un piacere?” “Si figuri!” “Ma prima mi devi promettere...” “Che cosa?” “Di non dir nulla alla mamma.” “Si comincia male” osservò la cameriera, alzando la testa e guardando in viso il ragazzo. “Dev'essere dunque un segreto?” “Un segreto, no... ma ecco, vorrei...” “Animo via: sentiamo di che si tratta.” “Si tratta di un goletto da collo del mio fratello Augusto.” “Come c'entra il suo fratello Augusto?” “Bisogna sapere che Augusto mi ha regalato uno de' suoi goletti da collo: ma per me è troppo grande... e vorrei che tu mi fi il piacere di ristringerlo.”
“E un ragazzino, come lei, vuol mettersi un golettaccio alto e insaldato a quel modo, che pare un collare? Quei goletti, abbia pazienza, staranno bene agli uomini e ai giovinotti, perché oramai la moda vuole così, e con la moda non ci si ragiona: ma i ragazzetti della sua età fanno miglior figura con la goletta arrovesciata, e che lascia scoperto e libero il collo. La tenga a mente, sor Gigino, che i ragazzi bisogna che vestano da ragazzi: se no, c'è da scambiarli per tanti uomini rimasti nanerucoli e piccini.” “O che sarebbe una vergogna? Io sento che il babbo e la mamma, quando vogliono dire un gran bene di qualche ragazzo, lo sai come dicono? Dicono sempre: quello è un ragazzo che par proprio un omino.” “Verissimo: ma non intendono dire che paia un omino, perché porta i goletti ritti e insaldati, come usano gli uomini: neanche per sogno! Intendono dire che il tale o il tal altro ragazzo pare un omino, perché non è bizzoso, perché non è scapato, perché ha giudizio, perché studia e si fa onore e perché preferisce i libri ai balocchi.” “Basta, basta, Veronica: il resto me lo dirai un'altra volta. Me lo fai dunque questo piacere?” “Eppure scommetto che se il suo babbo fosse tanto buono da comprarle un cappello a tuba, lei non si vergognerebbe a farsi vedere in mezzo alla strada con quella cupola in capo!” Gigino guardò in viso la Veronica, e abbassando la voce domandò: “Hai saputo forse qualche cosa?...”. “Di che?” “Del cappello...” “Cioè?” “Dunque non sai nulla?... Meno male... Che cosa, dunque, dicevi?” “Dicevo che lei sarebbe capacissimo di mettersi in testa un cappello a tuba e di andare magari a farsi vedere da tutti!...”
“Sicuro che ci anderei.” “Ma non pensa ai fischi e alle risate dei monelli di strada?” “Dimmi, Veronica, che hai saputo per caso qualche cosa?...” “Di che?” “Meno male: non hai saputo nulla!... Dicevi dunque?” “Dicevo che i ragazzacci di strada sono anche impertinenti... e non so se si contenterebbero soltanto di ridere e di fischiare.” “E che vuoi tu che mi fero di peggio?” “Chi lo sa! Potrebbero alzare le mani e sentirsi il pizzicorino di lasciar cadere sul suo cappello qualche solennissima latta...” “Latta?... E che roba sono le latte?” “Sono quei colpacci a mano aperta affibbiati per celia o per davvero sul cappello degli altri.” “E se qualche ragazzaccio si pigliasse la confidenza di sciuparmi il cappello, tu credi che io non ne avrei il coraggio?...” “Il coraggio di far che cosa?” “Di scappare e di andar subito a raccontarlo alla mamma?... Per tua regola, io non ho paura di nessuno.” “Lo so che lei è dimolto coraggioso: tant'è vero che la sera, quand'è entrato a letto, vuol sempre la candela accesa. Guai a lasciarlo al buio!” “Che cosa c'entra la candela col coraggio? Il coraggio è una cosa, e la candela è un'altra: ne convieni? E poi devi sapere che il mio maestro di ginnastica ha promesso fra sei o sett'anni d'insegnarmi la scherma... e quando saprò la scherma... allora, te lo dico io, non avrò più paura di nessuno. Ma insomma, Veronica, me lo fai questo piacere, sì o no?” Gigino, mi dispiace a doverlo dire, aveva un altro difetto, comunissimo del resto
a molti ragazzi, quello, cioè, che quando cominciava a chiedere una cosa, non la finiva più, fino a tanto che non l'aveva ottenuta. E a furia di ripetere e di pigolare la medesima cosa diventava così noioso e così seccatore, da sfondare lo stomaco. Prova ne sia che la Veronica, pur di levarsi di torno quel tormento, prese dispettosamente il goletto, e tagliatone un pezzo e ricucitolo alla meglio con pochi punti, lo ridusse adattato al collo del suo padroncino. Chi più beato, chi più felice di Gigino? Ballando e saltando corse a rinchiudersi nella sua camerina, e lì tanto fece e tanto annaspò, che finalmente poté guardarsi nello specchio col suo nuovo goletto intorno al collo. Ma il nuovo goletto era così alto e così duramente insaldato, che il povero figliuolo sentiva tagliarsi la gola! Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo! La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all'infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss'altro, scansando il pericolo d'incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto. Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo. “Che cos'ha Melampo?” gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. “Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?” “Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola?... Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch'io... Da ieri a oggi, l'è così imbruttito... con rispetto parlando!” “Imbruttito?... Sarebbe a dire?...” “Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo... Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?”
“È meglio che me ne vada, senza risponderti... se no, te ne direi delle belle” masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato. Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi i in un secchione pieno d'acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale. E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè, tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco. Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c'è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!
4. La scherma.
E qui bisogna ritornare un o indietro, come dicono i raccontatori di novelle. Dovete dunque sapere, miei piccoli e carissimi lettori, che il brutto caso di quel povero cappello a tuba, strapazzato, percosso e diviso in due pezzi sulla pubblica via, non rimase un segreto per i compagni di scuola del nostro amico Gigino. Uno scolaro, per combinazione, venne a saperlo: e quando un ragazzo sa qualche cosa, potete aspettarvi che dopo cinque minuti lo sanno anche tutti gli altri ragazzi. Così sapessero tutti l'Aritmetica, la Storia e la Geografia! Fatto sta, che fra i compagni di scuola di Gigino trovavasi un certo Amerigo chiamato di soprannome il Biondo, perché di capelli e di carnagione era biondo come un cannello di brace. Il Biondo non aveva che una sola ione (bruttissima ione): quella di
divertirsi e di ridere alle spalle degli altri ragazzi. Inventava per tutti qualche canzonatura o qualche scherzo impertinente. A chi le dava, e a chi le prometteva. Figuratevi la sua contentezza, quando gli raccontarono la storia della famosa latta cascata sul cappello a tuba del povero Gigino! Prese subito di mira l'amico, e non gli dètte più pace; non lo lasciò più ben'avere un minuto solo. Tutte le volte che nell'andare a scuola s'imbatteva in lui, affibbiavagli subito un bello scappellotto sul berretto: e poi, fingendosi dolente e mortificato, diceva con voce di piagnisteo: “Scusa, sai: mi pareva che tu avessi in testa il cappello a tuba!... Non lo farò più!...”. Il nostro Gigino, a questi scherzi sguaiati ci soffriva, proprio ci soffriva: e avrebbe dato volentieri una buona lezione al suo accanito persecutore: ma la paura era quella che lo tratteneva: e la paura è stata sempre una gran tara per tutte quelle persone che vorrebbero aver coraggio. Alla fine, non potendone più, fece un animo risoluto, e disse al suo maestro di ginnastica: “Senta, signor maestro, io vorrei che lei m'insegnasse subito la scherma”. “Che cosa vuoi far della scherma?” “Voglio battermi...” “Con chi?” “Con nessuno.” “Benissimo: il signor Nessuno è l'unico avversario adattato per te!” urlò il maestro, dando in una gran risata. “Eppure anche il babbo dice sempre che, quando sarò più grande, dovrò imparare la scherma...”
“Quando sarai più grande, sì: ma che cosa vuoi far oggi della scherma? oggi che sei un ragazzino alto poco più d'un soldo di cacio? oggi che non hai nemmeno la forza di reggere in mano il fioretto?...” “Scusi: che cosa sarebbe il fioretto?” “Te lo spiegherò un'altra volta.” “Scusi, signor maestro: non potrebbe darmi qualche lezione, tanto per cominciare?...” “Voglio contentarti. Per oggi t'insegnerò il modo di stare in guardia.” “Mi dispiace... ma in guardia oggi non ci posso stare, perché dopo la scuola, mi aspettano a casa”. Il maestro fece di tutto per non dare in uno scoppio di risa: quindi riprese: “Animo! Mettiti là, ritto, impettito della persona. Benissimo! Ora porta la mano sinistra dietro la schiena... Nossignore! codesta non è la mano sinistra: codesta è la destra... Va bene così: ora con la destra impugna questo bastoncino, che farà da fioretto”. “Scusi, signor Maestro, che cos'è il fioretto?” “Te lo spiegherò un'altra volta. Ora allunga il braccio destro, e facendo un o in avanti, muoviti verso di me, come se tu volessi colpirmi.” “E poi?” “E poi la lezione è finita.” “È tutta questa la scherma?” “Per la tua età, ne hai imparata anche troppa e te ne avanza”. Dopo quella lezione di scherma, Gigino diventò una specie di gigante Golia. Nessuno gli faceva più paura. Tant'è vero che un giorno, essendosi preso a parole col Biondo, gli disse sul viso: “Sono stufo delle tue sguajataggini: dopo la scuola ci batteremo”.
Detto fatto, i due avversari si ritrovarono insieme sopra una piazzetta deserta, uno di faccia all'altro. “Attento!” disse Gigino al Biondo. “Allunga il braccio destro, e a la mano sinistra dietro la schiena.” “Parli con me? Io per tua regola non ho tempo da perdere in tanti complimenti, e mi sbrigo subito.” E senza aggiungere altre parole, caricò sulle spalle dell'avversario un carico di pugni, quanti potrebbe portarne un ciuchino. Il nostro amico tornò a casa tutto indolenzito: e lungo la strada si consolava di tanto in tanto, dicendo fra sé: “È vero che ne ho toccate! Ma quella lì non era scherma, quelli erano pugni”.
5. La cascata da cavallo.
Venuto il tempo delle vacanze, Gigino andò a are due mesi in campagna insieme con la sua mamma. Il babbo rimase in città, perché essendo il tempo delle elezioni, e volendo riuscire eletto deputato alla Camera, aveva bisogno di girare dalla mattina alla sera come un fattorino della posta. A poca distanza dalla villa del nostro amico c'era una casa colonica abitata dalla famigliola del contadino: vale a dire padre, madre e due ragazzetti. Il maggiore di questi due ragazzi aveva forse la stessa età di Gigino, e si chiamava Cecco, il minore era un bambinetto di quattr'anni appena. “Come si chiama questo bimbo?” domandò Gigino alla mamma. “Il suo nome vero sarebbe Brandimarte: ma noi, qui in famiglia, gli si dice Formicola, perché egli è piccino come un baco da seta.”
Gigino, come potete immaginarvelo, ava tutte le sue giornate in casa del contadino, ed era diventato l'amico indivisibile di Cecco. Una volta, fra le altre, gli domandò: “Che cosa si potrebbe fare per divertirsi un poco?” “Senta, sor Gigino, vuol dar retta a me? Io ci ho un bel carrettino di legno a quattro ruote: lei c'entri dentro, e farà da padrone, e io farò da cavallo e tirerò il carretto.” “Codesti mi paiono balocchi da ragazzi!” disse Gigino, pigliando l'aria d'un uomo serio e sbadigliando senza averne voglia. “O che lei è vecchio?” “Non ti dirò di esser vecchio: ma oramai tutti mi scambiano per un giovinotto.” “Io, per esempio”, soggiunse Cecco, “se dovessi scambiarlo con qualcuno, lo scambierei con un ragazzo...” “Un ragazzo io?... Ma non sai che fra dieci anni sarò di leva e mi toccherà a fare il soldato?” “Io non ci ho colpa”, rispose Cecco stringendosi nelle spalle. “E fuori del carretto a quattro ruote, non avresti nessun altro atempo?...” “L'anno ato ce l'avevo...” “Che cosa avevi?” “Un cavallino bianco così addomesticato e alla mano, che veniva dietro come un pulcino, quando gli si butta il panico...” “E ora è morto?” “È lo stesso che sia morto, perché il padrone l'ha venduto.” “E quando lo ricomprate il cavallo?”
“Il cavallo ce l'abbiamo, ma sarebbe quasi meglio di non averlo. Di quei cavallacci cattivi!... La si figuri, che a fargli una carezza, abbassa subito gli orecchi e mette fori certi dentoni, che paiono manichi di coltello.” “E corre dimolto?” “Gli è uno scappatore peggio di un berbero. Se l'avessi a montar io!... Neanche se mi ci cucissero sopra con lo spago.” “Non ti vergogni di esser tanto pauroso?” “No”. “Hai torto: un ragazzo della tua età dovrebbe avere molto più coraggio...” “Lo so anch'io: ma per aver coraggio, bisognerebbe non aver paura.” “Quando avevo la tua età, non c'era cavallo che mi mettesse in soggezione: anzi quanto più erano scappatori e focosi, e più ci avevo piacere.” “Mi levi una curiosità”, rispose Cecco, guardando il padroncino con un'aria un po' canzonatoria, “che ne ha montati dimolti lei dei cavalli?” “Te lo lascio immaginare!...” “Per esempio... quanti?” “Ci vorrebb'altro a contarli tutti!...” “Dunque lei monterebbe anche il matto?” “Chi è il matto?” “Gli è appunto quel cavallaccio, che abbiamo nella stalla.” “E perché lo chiamate il matto?” “Perché è una bestia, con la quale non si può ragionare.” “Mi conduci a vederlo?”
“La si figuri!” I due ragazzi, senza far altre parole, si alzarono dalla panchina dove stavano seduti e si avviarono verso la stalla. Giunti alla porta, Gigino disse a Cecco: “Mena fuori il matto!” Cecco ubbidì. Quando Gigino ebbe visto l'animale, disse scrollando il capo in atto di comione: “Questo, caro mio, non è un cavallo: questa è una pecora.” “Eppure scommetto che lei...” “Io?... Io per tua regola ho cavalcato certi cavalli, che tu non te li sogni nemmeno.” (Si capisce bene che Gigino, parlando così, diceva un sacco di bugie: ma le diceva per la sua solita smania di farsi credere un giovinotto.) “Vuol provare a montarci sopra, a bisdosso?” “A bisdosso? cioè?” “Vale a dire, senza sella.” “Volentieri. Va' a prendermi una sedia.” “Che cosa ne vuol fare?” “Ora lo vedrai.” “Ma che un cavallerizzo, come lei, ha bisogno della sedia? Io, quando voglio montare a cavallo, mi attacco ai peli della criniera, spicco un bel salto, e in men che si dice, mi trovo con una gamba di qui e una di là...” “Ognuno ha le sue opinioni: io, senza una sedia, non posso montare a cavallo.” Cecco portò una seggiolaccia tutta sgangherata: Gigino vi si arrampicò, e
inforcando il cavallo con la gamba sinistra, invece che con la destra, si trovò col viso e con tutta la persona voltata verso la coda dell'animale. Allora Cecco, sbellicandosi dalle risa, cominciò a gridare: “No, sor Gigino, no, l'ha sbagliato uscio: la si rigiri di lì; perché la testa del cavallo è da quell'altra parte”. “Lo so, lo so” rispose Gigino con molta disinvoltura “ma per tua regola quando io monto a cavallo, ho la precauzione di voltarmi prima dalla parte della coda...” “Perché?” “Perché, caro mio, le precauzioni non sono mai troppe.” “Ora ho capito”, disse Cecco, che non aveva capito nulla. Intanto, a furia di sforzi inauditi, Gigino si rivoltò con tutta la persona verso la testa del cavallo: e compiuta appena questa difficile manovra, sarebbe sceso volentieri: ma gli mancò il tempo. L'irrequieto animale, senza aspettare l'invito del cavaliere staccò subito un mezzo galoppo. Figuratevi Gigino! lui, che non aveva cavalcato mai altri cavalli, che un bellissimo puledro di legno, compratogli dalla sua mamma per regalo del Capo d'anno! Quanti salti e quanti balzelloni sulla groppa secca del Matto! Il povero figliuolo ora dondolava da una parte, ora dondolava dall'altra... e Cecco! Quella birba di Cecco, a gambe larghe in mezzo alla strada, godendosi la scena del suo padroncino, che da un momento all'altro era lì lì per fare un gran capitombolo, si mandava a male dalle grandi risate. E il momento del capitombolo arrivò pur troppo. Gigino cadde, come un fagotto di cenci, fra la polvere della strada, e il cavallo, senza darsene per inteso, andò a mangiar erba nel campo vicino. “S'è fatto molto male?” gli domandò Cecco, che era corso a gran carriera per aiutarlo. “E perché mi dovrei esser fatto male?” “È stata una brutta cascata!”
“Povero grullo! Che credi che sia cascato? Neanche per sogno. Volevo scendere, e nello scendere ho messo un piede in fallo e sono sdrucciolato. È una disgrazia che può accadere a tutti.” “Davvero! L'altro giorno, per esempio, sdrucciolai anch'io...” “Scendendo da cavallo?” “No: mettendo un piede sopra una buccia di fico. E questo corno, che gli è venuto qui sulla fronte?...” Gigino si toccò la fronte con la mano, e sentito che c'era davvero un piccolo gonfio, disse con la solita disinvoltura: “Si vede che, nello scendere, ho battuto un ginocchio. Basta che io batta un ginocchio, perché mi venga subito un corno nella testa. Ho la pelle così delicata!...”.
6. Il sigaro.
Volete saperne un'altra? Pochi giorni dopo, sull'ora del desinare, il nostro amico entrò in casa del contadino e trovò tutta la famigliola a tavola: vale a dire, Tonio, il capoccia, la sua moglie Betta, e i due ragazzi Cecco e Formicola, quest'ultimo chiamato così, perché (come già sapete) era piccolino e minuto quanto un baco da seta. Che cos'era andato a fare il signor Gigino? Oh! non abbiate paura che il suo bravo perché ce l'aveva! Altro se ce l'aveva! Tonio e la Betta, tanto per far vedere il buon cuore, gli domandarono subito se voleva favorire, ossia se voleva prendere un morso di pane e di formaggio fresco. Gigino ringraziò, e atteggiandosi a persona annoiata, s'intrattenne a cinguettare del più e del meno. Appena però si accorse che il desinare stava per finire, tirò
fuori di tasca un bel sigaro toscano, e spezzandolo nel mezzo col garbo di un vecchio fumatore, ne offerse la metà al capoccia Tonio. “Mi dispiace”, disse il contadino tutto complimentoso, “mi dispiace di non poter fare onore alle sue grazie...” “Perché?” “Perché non fumo, e non ho mai fumato.” “Davvero?” “Il sigaro, con rispetto parlando, m'è parso sempre una gran porcheria. Lo dice anche il nostro medico...” “Bravo furbo! E tu sei tanto bono da dar retta al medico?” “Gli do retta sicuro! Cred'ella che il nostro medico sia uno zuccone? La se lo levi dal capo: è un omo che la sa lunga dimolto e ci vede bene, e quando i suoi malati moiono, gli è proprio segno che non volevano più campare.” “E che cosa dice il vostro medico dei sigari?” “Dice che i sigari sono la peste del genere umano e la sorgente di tutti i malanni che vengono sulla lingua, in gola e in fondo allo stomaco.” “Grullerie! Ti pare che se i sigari fero male davvero, il governo li lascerebbe vendere in tutte le botteghe?” “Scusi: e lei che fuma?” “Altro se fumo!” Gigino, dicendo così, diceva al solito una grossa bugia, perché fino a quel giorno non aveva fumato mai. “E il sigaro non gli guasta l'appetito?” “Guastarmi l'appetito? a me? Per tua regola ho una salute di bronzo, e quando ho fumato un mazzo di sigari, sto meglio di prima. E tu, Cecco, sei fumatore?”
“Vorrei vedere anche questa!”, gridò la Betta inviperita, alzandosi in piedi e puntando le mani sulla tavola. “Io”, rispose il ragazzo ridendo, “fumo qualche volta: ma fumo i sigari di cioccolata...” “Ti compatisco!”, disse Gigino. “Sei ancora troppo ragazzo per i nostri sigari... Mi vuoi dare un fiammifero ?” “Volentieri.” Cecco accese un fiammifero di legno e lo presentò al padroncino; il quale, trovandosi oramai all'impegno, si armò di un coraggio da leoni e ficcatosi mezzo sigaro fra le labbra, cominciò a fumarlo. Tutti, com'è naturale, lo guardavano con maraviglia, come si guarderebbe una bestia rara: quand'ecco il bambinetto chiamato Formicola, che voltandosi alla mamma, disse con una vocina piagnucolosa: “Mamma, lo fai smettere il sor Gigino?” “Che cosa ti fa il sor Gigino?” “Mi fa le boccacce!” E Formicola aveva ragione: perché il nostro amico, fra una fumata e l'altra, faceva con la bocca certi versacci sguaiati, da metter quasi paura. Poi tutt'a un tratto diventò bianco come un panno lavato. Avrebbe voluto rizzarsi in piedi, ma le gambe gli si ripiegavano. “Si sente male?” gli domandò premurosamente la Betta. Gigino si provò a rispondere qualche cosa: ma non ebbe fiato. Invece sbadigliò, e dopo uno sbadiglio lungo lungo, sputò tre o quattro volte e fece con la bocca un certo garbo... mi sono spiegato? Allora Tonio corse subito a prendere una catinella... Fosse almeno arrivato a tempo!
Povero Gigino! Dopo un'ora di trambusto di stomaco, che somigliava alla morte, se ne tornò alla villa mezzo intontito: e salendo le scale, diceva fra sé e sé: "Quanto avrei fatto meglio a fumare un sigaro di cioccolata!..."
7. La giubba a coda di rondine.
Finita la villeggiatura, il bravo Gigino dové presentarsi agli esami per essere ammesso alla terza ginnasiale. A sentir lui, era sicurissimo di uscir vittorioso: ma invece, come suol dirsi, rimase schiacciato. Credete forse che se ne accorasse? Nemmeno per sogno. Anzi, quando il babbo e la mamma lo rimproverarono per aver fatto una meschina figura e per aver perduto inutilmente un anno di scuola, volete sapere come rispose? “Che cosa fa un anno di più o un anno di meno? Sono forse un vecchio? Ho appena nove anni, e non mi manca il tempo per ricattarmi.” Sissignori! Quel monello, quando era spinto dalla vanità di vestirsi da giovinotto, si cresceva gli anni a manciate: quando poi voleva scusarsi della poca voglia di studiare, allora, a lasciarlo discorrere, ridiventava un bambino di nove o dieci anni appena. Per altro, trovandosi qualche volta solo, andava rimuginando col pensiero la storia burrascosa del famoso cappello a tuba, la risata delle galline per il suo golettone inamidato, gli scapaccioni avuti dal Biondo, sebbene il Biondo non sapesse la scherma, la cascata da cavallo con l'accompagnamento d'un bel corno in mezzo alla testa, e le fumate di quel sigaro traditore, che lo aveva costretto a fare i gattini... modo pulito per non dire che lo aveva costretto a rimetter fuori alla luce del sole tutta la colazione divorata con tanto gusto poche ore prima. E ripensando a tutte queste cose, e facendo nella sua testina un piccolo calcolo a mezz'aria, venne finalmente a capacitarsi che questa vanità di atteggiarsi a
giovinotto prima del tempo, gli aveva fruttato più dispiaceri, che vere consolazioni di amor proprio soddisfatto. E giurò sul serio di voler mutar vita e di rassegnarsi oramai a rimaner ragazzo fino a tanto che il calendario non gli avesse regalato qualche anno di più. E mantenne il giuramento per parecchi mesi. Ebbe in questo periodo di prova molte tentazioni: ma riuscì a spuntarle, e rimase sempre padrone del campo. Ma purtroppo una sera... Vi racconterò quest'ultima disgrazia di Gigino, ma ve la racconterò con parole quasi allegre per non farvi piangere. Una sera, in casa sua, c'era festa da ballo. Gigino, non volendo sfigurare di fronte agli altri, andò per tempo a chiudersi in camera: e lì si pettinò, si lisciò, e si agghindò, come un vero figurino di Parigi. Aveva una bella camicia bianca, col goletto rovesciato, e una giacchettina di panno nero, che gli tornava a pennello. Quando sentì che il pianoforte accennava i primi preludi della polca e della marzurka, corse subito... ma prima di entrare in sala, fece capolino alla porta e vide... Vide un brulichio di cravatte bianche e di giubbe a coda di rondine. La giubba a coda di rondine era stata sempre la sua gran ione, il suo sogno dorato. Prova ne sia che una volta, essendo venuto il sarto a riportargli una giacchettina di velluto, gli domandò in tutta segretezza: “Scusi: a questa giacchettina non si potrebbero attaccare di dietro due falde?”. “Volendo, si può far tutte: ma le pare che la giubba sia un vestito adattato per i ragazzi della sua età?”
“Quanti anni bisogna avere per mettersi la giubba?” “Per lo meno, diciotto o vent'anni.” “Mi pare una bella prepotenza! Dunque, perché siamo ragazzi, dovremo sempre vestire a modo degli altri?...” “Arrivedella sor Gigino.” E il sarto se ne andò scrollando il capo e mordendosi i baffi. La sera della festa da ballo, il nostro amico sentendosi rinfocolare la ione per la giubba, almanaccò col suo cervellino di grillo questo bellissimo ragionamento: “Se mi mettessi la giubba del mio fratello Augusto?... Augusto è a Roma... e fino a lunedì non ritorna. La sua giubba mi torna benissimo... un po' larga, se vogliamo, un po' lunga... ma in mezzo a quella folla di ballerini e di ballerine, chi se ne avvede?”. E lì, fatto un animo risoluto, entrò nella camera del fratello, prese la giubba e se la infilò. Figuratevi quando fece la sua comparsa in sala! Scoppiò una risata, che non finiva più. Ridevano tutti: anche il pianoforte. Una signorina, fra le altre, rise tanto e poi tanto, che venne presa da un singhiozzo convulso, e fu portata fuori della sala quasi svenuta. Allora nacque un mezzo scompiglio. Il pianoforte smesse di suonare: le coppie che ballavano, si sciolsero: la quadriglia rimase a mezzo, e tutti si affollarono per conoscere la causa di quello svenimento. “Povera giovinetta! Ha riso troppo! e il troppo ridere qualche volta fa male!”, dicevano alcuni. “E il motivo di quel riso convulso?” domandavano altri. “La giubba del sor Gigino.”
“Vediamola questa famosa giubba.” “Vediamola davvero.” E lì dintorno a Gigino, il quale impermalito di far da zimbello ai curiosi, dètte in uno scoppio di pianto e fuggì dalla sala come un gatto frustato. Da quella sera in poi, Gigino, messo il capo a partito, si liberò dalla ridicola ione di vestirsi a uso giovinotto, prima del tempo. E fece bene: perché i ragazzi, vestiti da ragazzi, figurano molto più di quel marmocchi, che hanno la pretesa di mascherarsi da omini anticipati.
Pipì
O lo scimmiottino color di rosa
1. Perché a Pipì fu dato il soprannome di “scimmiottino color di rosa”
Nel famosissimo bosco di Vattel'a pesca, c'era una volta una piccola famigliola composta di sette scimmie: il babbo, la mamma e cinque scimmiottini alti quanto un soldo di cacio. Questa famigliola abitava fra i rami di un albero gigantesco, in mezzo a una foresta, e pagava quindici susine l'anno di pigione a un vecchio gorilla prepotente, che si era messo in capo di essere il padrone di casa. Dei cinque scimmiottini, quattro avevano il pelame di un colore scuro come la cioccolata; ma il quinto, invece, ossia il più piccolo di loro, fosse scherzo di natura o altro, fatto sta che era tutto ricoperto, salvo il musino, da una finissima lanugine di color vermiglio carnicino, come le foglie della rosa maggese. Ed è per questa ragione che in casa e fuori di casa lo chiamavano tutti in canzonatura col soprannome di Pipì, parola che nella lingua parlata delle scimmie, vuol dire precisamente color di rosa. Pipì non somigliava punto né a' suoi fratelli, ne agli altri scimmiottini del vicinato. Aveva un musino vispo e intelligente; un par di occhietti furbi, che non stavano fermi un minuto: una bocchina che rideva sempre, e un personalino asciutto e flessibile, come un gambo di giunco. Era, insomma, come suol dirsi, uno scimmiottino fatto proprio col pennello. Vedendolo così di prim'acchito, si poteva quasi scambiarlo per un ragazzino di
otto o nove anni, per la gran ragione che Pipì faceva il chiasso e i balocchi, come un ragazzo: correva dietro alle farfalle e andava in cerca di nidi, come i ragazzi: era ghiottissimo delle frutta acerbe, come i ragazzi: mangiava ogni cosa e mangiava sempre, come i ragazzi: e dopo aver mangiato ben bene, si ripuliva la bocca con le mani, come fanno i ragazzi e segnatamente i ragazzi poco puliti. Ma la più gran ione di Pipì volete sapere qual era? Era quella di scimmiottare tutto quello che vedeva fare agli uomini. Un giorno, fra gli altri, mentre andava per la foresta a caccia di cicale e di grilli, vide a poca distanza un giovanetto seduto a piè d'un albero, che se ne stava tranquillamente fumando la sua pipa. A quella vista, Pipì spalancò tanto d'occhi e rimase come incantato. "Oh!" diceva dentro di sé "se potessi avere una pipa anch'io!... Oh se potessi anch'io farmi uscire que' bei nuvoli di fumo dalla bocca!... Oh se potessi tornarmene a casa, fumando come un camminetto ! Chi lo sa con che occhi d'invidia mi guarderebbero i miei quattro fratelli!" Mentre allo scimmiottino frullavano per il capo queste bellissime cose, ecco che il giovinetto, un po' per la stanchezza e un po' per il gran bollore della giornata, lasciò andare due sonori sbadigli, e posata la sua pipa sull'erba, si addormentò. Che cosa fece allora quel birichino di Pipì? Si avvicinò pian pianino, in punta di piedi, al giovinetto che dormiva: e rattenendo perfino il fiato... allungò adagino adagino una zampa... prese con una velocità incredibile la pipa che era posata sull'erba... e poi, via a gambe come il vento. Appena arrivato a casa, chiamò subito, tutt'allegro, il babbo, la mamma e i fratelli; e in presenza a loro, infilatosi quel pipone fra i labbri, cominciò a fumare con lo stesso garbo e con la stessa disinvoltura, come avrebbe fatto un vecchio marinaio. La mamma e i fratelli, a vedergli uscir di bocca quelle nuvole di fumo, ridevano come matti: ma il suo babbo che era uno scimmione pieno di giudizio e di esperienza di mondo, gli disse in tono di avvertimento salutare:
“Bada, Pipì! A furia di scimmiottare gli uomini, un giorno o l'altro diventerai un uomo anche tu... e allora! Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi!” Impensierito da queste parole, Pipì gettò via la pipa di bocca e non fumò più. Eppure bisogna convenire che quella pipa rubata gli portò disgrazia. Difatti, pochi giorni dopo, Pipì venne colpito da un orribile infortunio! Lo sciagurato perdé per sempre la sua bellissima coda: una coda così bella, che bastava averla vista una volta, per non potersela mai più dimenticare. Come andò che Pipì perdé la sua magnifica coda? È una storia crudele e dolorosa, che fa venire le lacrime agli occhi soltanto a pensarvi; e io ve la racconterò in quest'altro capitolo.
2. Come andò che Pipì perse la sua bellissima coda
Bisogna dunque sapere che, appena usciti fuori di quella foresta, dove stavano di casa Pipì e la sua famigliola, si trovava subito un gran lago abitato da un vecchio coccodrillo, che contava oramai duemil'anni di vita. Arabà-Babbà (così chiamavasi il vecchio coccodrillo), divenuto cieco degli occhi a cagione dell'età decrepita, e non potendo più guadagnarsi un boccon di pane col sudore della sua fronte, era condannato a starsene dalla mattina alla sera rasente alla riva del lago, con la testa fuori dell'acqua e con la bocca sempre spalancata, aspettando che tutti quelli che avano di là, uomini o bestie che fossero, mossi a comione di lui, gli gettassero in bocca qualche cosa di masticabile, tanto da non morir di fame e da tirarsi avanti almeno per un altro migliaio d'anni. E tutti i anti, uomini o bestie che fossero, bisogna dir la verità, non mancavano mai di fare un po' di elemosina al povero vecchio. E anche Pipì lo soccorreva frequentemente: ma quella birba, spesso e volentieri,
invece di dargli o una frutta o un pesciolino morto, si divertiva a mettergli in bocca ora una manciata di sassolini, ora un fastello di stecchi e di ortica, ora un chiodo o un arpione arrugginito, trovati per caso lungo la strada. Ma il vecchio coccodrillo non si arrabbiava per questi scherzi sguaiati. Tutt'altro. Risputava tranquillamente i sassolini, gli stecchi, le ortiche e i chiodi, e soltanto scoteva leggermente il capo, come per dire: “Bada, monello! O prima o poi, una le paga tutte!...”. Un giorno Pipì, quasi impermalito di vedere che i suoi scherzi non facevano né caldo né freddo, domandò al coccodrillo, atteggiandosi a ingenuo e a innocentino: “Dite, Arabà: dacché siete al mondo, ne avete trovati mai degl'impertinenti, che vi abbiano fatto qualche dispetto o qualche burla sgarbata?” “Se ne ho trovati, scimmiottino mio! Nel mondo, per tua regola, c'è più impertinenti che mosche.” “Dite, Arabà: e quando i monelli vi fanno qualche dispetto, voi non vi risentite mai?” “Caro mio! In tanti anni di vita ho imparato che la più gran virtù dei vecchi è quella di saper sopportare i giovani con pazienza e rassegnazione.” “Dunque, dacché siete al mondo, non vi siete arrabbiato mai, mai, mai?” Il coccodrillo, prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse: “Una volta sola. E sai chi fu che mi fece andare su tutte le furie? Fu uno scimmiottino, su per giù, della tua età....” “E che cosa vi fece questo scimmiottino?” domandò Pipì, con una curiosità vivissima. “Questo monellaccio, non saprei dirti come, era venuto a sapere che io curavo moltissimo il solletico sulla punta del naso. Allora che cosa inventò per darmi noia? Salì sopra uno di questi alberi, che circondano il lago, e, calandosi di ramo
in ramo, arrivò con la punta della sua coda a farmi il pizzicorino sul naso. Figurati io! Mi trovai attaccato da una tal convulsione di riso, che durai a ridere e a ballare nell'acqua per una settimana intera! Credevo quasi di morire!” “Davvero?... Oh povero Arabà!...”, disse Pipì con falsa comione. E dopo se ne andò di corsa: e a quante scimmie e scimmiottini incontrava per la strada, ripeteva a tutti ridendo queste parole: “Volete divertirvi? volete veder ballare il vecchio Arabà? Venite domattina sul lago e io vi farò assistere a questo bellissimo spettacolo”. La mattina dopo, come potete immaginarvelo, c'era sulla riva del lago una folla immensa. Tutti aspettavano che Arabà ballasse il trescone. Quand'ecco Pipì che salito sopra un albero sporgente sull'acqua, cominciò a calarsi giù di ramo in ramo, e tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese tanto, da poter toccare con la punta della sua coda il naso del coccodrillo. Ma il coccodrillo, appena sentì la coda di Pipì, chiuse la bocca e zaff... con un semplice morso dato a tempo, gliela staccò di netto fin dal primo nodello. Lo scimmiottino cacciò un grido acutissimo di dolore: e buttandosi di sotto all'albero, si dette a scappare verso la foresta. Arrivato vicino a casa, vi lascio pensare come rimase, quando, portandosi una mano di dietro, si accorse che la sua coda non c'era più. La coda era rimasta in bocca al coccodrillo, che a quell'ora l'aveva bell'e digerita. Preso dalla disperazione e vergognandosi a farsi vedere dalla sua famiglia in quello stato comionevole di scimmiottino scodato, Pipì infilò per una viottola solitaria, camminando all'impazzata fino a notte chiusa, senza sapere neanche lui dove andasse a battere il capo. Finalmente, non potendone più dalla stanchezza e dal sonno, si sdraiò sopra un monticello di frasche secche per riposarsi un poco.
E in quel mentre che era lì lì per appisolarsi, sentì negli orecchi una voce minacciosa, che gli gridò imperiosamente: “Rendimi la mia pipa!...”. Lo scimmiottino, svegliandosi tutto spaventato, voleva fuggire; ma non poté: perché in men che non si dice, si trovò preso, rinchiuso in un sacco e caricato sulla groppa di una bestia con quattro zampe, che cominciò a correre di gran carriera. "Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?", pensava lo scimmiottino tremando dalla paura. "Se per caso è un leone, sono bell'e perduto!... Se per disgrazia è una tigre, peggio che mai!... Se è una iena o un leopardo, non c'è più scampo per me!... Oh me disgraziato! Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?..." Per buona fortuna, la bestia ragliò... e allora Pipì sentì allargarsi il cuore dalla contentezza. Quel raglio fu l'unica consolazione che avesse il povero Pipì durante il suo misterioso viaggio, rinchiuso in un sacco!
3. Pipì cade in un gran fiume e vien ripescato
Dopo aver camminato tre giorni e tre notti, senza prendere un minuto di riposo, finalmente la bestia che portava in groppa il sacco con lo scimmiottino dentro, si fermò tutt'a un tratto, e data una gropponata, scaricò il sacco in mezzo a una solitaria campagna. E la gropponata fu così brusca e violenta, che il sacco, cadendo a terra, seguitò a ruzzolare sull'erba per un mezzo chilometro. Figuratevi quante capriole dové fare, al buio, il povero scimmiottino. Ma il momento più brutto per lui fu quando si provò a rompere il sacco per uscir fuori.
Adoperò gli unghioli, e non concluse nulla: adoperò i denti, e nulla. Rifinito allora dallo strapazzo e dalla fame, cominciò a piangere come un bambino. “Chi è che piange?”, domandò un grosso topo, che ava per caso da quella parte. “Sono io!... sono un povero scimmiottino che muore di fam...” Ma non poté finire la parola, perché gli fu troncata a mezzo da un lunghissimo e sonoro sbadiglio, che gli scappò di bocca. “Esci fuori, e mangerai.” “Si fa presto a dire esci fuori: ma la vuoi intendere che non posso uscire?” “Perché?” “Perché non mi riesce di rompere il sacco.” “Lascia fare: il sacco lo romperò io.” Detto fatto, il topo si distese lungo sull'erba, e cominciò a rosicchiare con quanta forza aveva ne' denti. Ma il sacco non cedeva, perché era più duro del cuoio. “Quanto tempo ti ci vorrà per bucarlo?”, domandò lo scimmiottino. ”Il sacco resiste: ma in quattro o cinque mesi spero di averlo bucato!” “Cinque mesi?”, strillò di dentro il povero Pipì, “ma dopo cinque mesi troverai nel sacco appena i miei ossi e i miei unghioli!...” E ricominciò a piangere più forte che mai. “Chi è che piange?”, domandò un vitello, che pascolava lì vicino. “È un disgraziato scimmiottino, che non può uscire di dentro da quel sacco”, rispose il topo. “Perché non può uscire?”
“Perché il sacco è così duro, che non c'è verso di romperlo.” “Lascia fare a me, che con un cozzo delle mie corna, lo sfonderò, come se fosse fatto di foglie di lattuga.” E il vitello, senza stare a dir altro, si tirò indietro; e presa la rincorsa, andò a testa bassa a battere una terribile cornata nel sacco. “Ohi! son morto!...”, gridò di dentro il povero Pipì: e non disse altro. Intanto il sacco, a quell'urto screanzato, riprese di nuovo a ruzzolare per terra, come una vescica piena d'aria: e il topo e il vitello a corrergli dietro per fermarlo: e il sacco via... ruzzolava sempre più lesto... e il topo e il vitello a rincorrerlo a salti e con la lingua di fuori. E dopo aver corso una giornata intera, e, quando erano proprio lì lì per raggiungerlo, il sacco fece altri due ruzzoloni e giù... cadde in un fiume così profondo e così largo, che non si vedevano le sponde da una parte all'altra. La mattina dopo alcuni pescatori bussarono alla porta di un bel palazzo, e al servitore che veniva ad aprire, chiesero premurosamente: “È alzato il padroncino Alfredo?” “Il padroncino”, rispose il portiere, “è nella sala terrena, che prende il caffè e latte.” “Avvisatelo, che stamani all'alba abbiamo pescato nel fiume il famoso sacco...” “Che cos'è mai questo sacco?” “Gli è quello che il padroncino aspetta da parecchi giorni.” Appena il portiere ebbe fatta l'imbasciata, tornò in un attimo sulla porta e disse ai pescatori: “ate subito.” I pescatori entrarono col sacco sulle spalle, e giunti alla presenza del padrone, lo posarono delicatamente sul pavimento.
“Apritelo!”, disse il giovinetto Alfredo. “È impossibile, signor padrone. Ci siamo provati a sfondarlo con gli scalpelli, con le scuri e co' trapani... ma il sacco è più duro del macigno.” “Prendete questo spillo, e bucatelo.” E nel dir così, il giovinetto Alfredo si levò dal fazzoletto da collo uno spillo d'oro, sormontato da una grossa perla, sulla quale (cosa singolarissima!) si vedeva dipinta la testa di una bella bambina coi capelli turchini. I pescatori presero lo spillo in mano, e guardandosi fra loro stupefatti, pareva che volessero dire: "Com'è possibile che con questo spilluccio d'oro si possa forare un sacco, che ha resistito ai trapani e agli scalpelli?". “Bucate subito quel sacco” ripeté Alfredo con voce di comando. I pescatori, per atto di ubbidienza, si chinarono, provandosi a infilare la punta dello spillo: e immaginatevi quale fu la loro meraviglia, quando si accorsero che lo spillo entrava con tanta facilità, come se il sacco fosse stato di polenta o di panna montata. Appena bucato leggermente, il sacco si aprì in due parti, e lasciò vedere un povero scimmiottino, tutto malconcio, che dava appena gli ultimi segni di vita. Alfredo prese lo scimmiottino in collo e gli bagnò la bocca con un po' di latte tiepido. A poco per volta Pipì si riebbe ed aprì la bocca. Allora Alfredo gli pose in bocca una pallina di zucchero e un crostino imburrato. Pipì inghiottì il crostino e lo zucchero, senza far nemmeno l'atto di masticarli. Poi aprì gli occhi e li fissò negli occhi di quel simpatico giovinetto, che aveva per lui tante cure e tante attenzioni: e pareva quasi che volesse ringraziarlo. Alla fine, quando a furia di latte, di crostini e di palline di zucchero, Pipì ebbe ripreso tutte le sue forze, allora saltò in terra, e stando ritto sulle gambe di dietro, cominciò a coprir di baci la mano del suo piccolo benefattore.
I pescatori, tutta gente d'ottimo cuore, commossi a questa scena, facevano i luccioloni e si rasciugavano gli occhi: ma il padroncino Alfredo disse loro: “Andate alle vostre faccende e chiudete la porta di sala: ho grandissimo desiderio di parlare a quattr'occhi con questo scimmiottino”.
4. Pipì diventa l'amico del giovinetto Alfredo
Quando Alfredo e Pipì si trovarono soli, cominciarono a guardarsi l'uno con l'altro, senza fiatare e senza fare il più piccolo gesto. E si guardarono per un pezzo. Alla fine Alfredo, non potendo più star serio, dette in una gran risata: e lo scimmiottino fece altrettanto. E risero tutt'e due sgangheratamente, senza sapere il perché, come ridono i ragazzi un po' giuccherelli, quando si lasciano prendere dalle convulsioni del riso. Sfogati che si furono, Alfredo disse allo scimmiottino: “Come ti chiami di nome?” “Pipì.” “E il tuo casato?” Lo scimmiottino ci pensò un poco; e poi, grattandosi lesto lesto il capo, rispose: “Pipì senza casato.” “Quanti anni hai?” “Sono il più piccino de' miei fratelli.” “E i tuoi fratelli che età hanno?”
“Sono più giovani del babbo e della mamma.” “Ho capito tutto”, disse il giovinetto ridendo. Poi gli domandò: “E la coda dove l'hai lasciata?” “Non lo so.” “Come non lo sai?” “L'avrò perduta per la strada! Sono così scapato!...” “Eh via! ti par possibile che uno scimmiottino possa perdere la coda per la strada?” “Allora vuol dire che l'avrò lasciata a casa. Sono partito con tanta fretta, che non ho avuto il tempo di vedere se avevo preso con me tutto il bisognevole.” “Dimmi Pipì; le dici mai le bugie?” “Qualche volta... specialmente quando mi vergogno a dire la verità...” “Ti fa torto: le bugie non vanno dette mai.” “Non le dirò più.” “Raccontami dunque la verità. Com'è che hai perduta la coda?” Pipì, invece di rispondere, cominciò a strofinarsi gli occhi, poi disse piangendo: “Me... l'hanno... mangiata!...”. “E chi te l'ha mangiata?” “Arabà-Babbà, un coccodrillaccio, che mangerebbe anche il fuoco!...” “E come avvenne che te la mangiò?” “Io volevo fare il chiasso... e lui fece per davvero.” “Oh povero Pipì!”
“E che bella coda! Una coda, lo creda, signore... Come si chiama lei?” “Alfredo.” “E il casato?” “Alfredo senza casato.” “Lo creda, signor Alfredo senza casato, una coda che faceva gola soltanto a vederla. Quella coda era tutto il mio patrimonio.” “E perché sei scappato di casa?” “Non sono scappato... mi hanno chiuso in un sacco e mi hanno portato via.” “E ora che cosa pensi di fare?” “Qualche cosa farò. Io mi accomodo a tutto.” “Per esempio?” “Io mi contento di poco. A me mi basta di mangiare, di bere e di andare a so. Non domando nulla di più.” “Sei discreto davvero! Ma chi ti darà da mangiare?” “Io confido in lei.” “Perché no? Io son pronto a darti da mangiare: a patto però che tu sappia guadagnartelo. Sei avvezzo a lavorare?” “Se debbo dir la verità, invece di lavorare, io mi diverto molto più a veder lavorare gli altri.” “Vuoi prendere il posto di mio cameriere?” “Si figuri!”, rispose Pipì, stropicciandosi insieme le due zampine davanti per la grande allegrezza. “Fra pochi giorni”, rispose il giovinetto Alfredo, “io partirò per fare un lungo viaggio. Durante questo viaggio, vuoi tu essere il mio cameriere, il mio
compagno di avventure?” “Si figuri!” “A colazione ti darò ogni mattina cinque pere, cinque albicocche e un bel cantuccio di pan fresco: ti piace il pan fresco?” “Si figuri!” “A desinare mangerai alla mia tavola, e ti farò portare un piatto di pesche, di susine e di albicocche: ti piacciono le albicocche?” “Si figuri!” “A cena mangerai otto noci e quattro fichi dottati: ti piacciono i fichi dottati?” “Si figuri!” “Tutte le volte poi che farai qualche balordaggine o qualche cattiveria, allora con questo frustino ti affibbierò una carezza sulle gambe: ti piacciono le carezze fatte col frustino?” “Mi piacciono di più i fichi dottati”, mugolò Pipì grattandosi il capo con tutt'e due le zampe. “Accetti dunque i miei patti?” domandò Alfredo. “Accetto tutto... fuori però che quelle carezze...” “Anche le carezze col frustino: se no, vattene!...” “Ma le carezze... me le affibbierà adagino... senza farmi male... non è vero?” “Te le affibbierò secondo i tuoi meriti. Dunque?...” “Dunque fin da questo momento, io sono il suo cameriere, il suo segretario e il suo compagno di viaggio.” Allora Alfredo andò verso la tavola e sonò un camlo d'argento. A quella chiamata si presentò il solito servo sulla porta.
“Fate are subito il sarto, con la paniera di tutto il vestiario.” Il servo uscì: e dopo due minuti entrò il sarto con la paniera. “Vestitemi quello scimmiottino con la livrea di mio cameriere”, disse Alfredo. Il sarto, senza farselo ripetere, prese dalla paniera due scarpine scollate di pelle lustra, con un bel fiocchetto di seta sul davanti e le calzò in piedi a Pipì. Poi gl'infilò un paio di calzoncini rossi da legarsi al ginocchio: e dal ginocchio in giù gli abbottonò un paio di piccole ghette color di uliva fradicia. Poi gli avvolse intorno al collo un fazzoletto bianco, inamidato e stirato a uso cravatta: lo aiutò a infilarsi una sottoveste di panno giallo e una giubbettina a coda di rondine, di panno nero, che gli tornava una pittura: e finalmente gli accomodò in testa un cappellino a cilindro, col suo bravo brigidino da una parte, come hanno tutti i camerieri dei grandi signori. Quando Pipì fu vestito tutto da capo ai piedi, Alfredo gli disse: “Su, da bravo, vieni qua da me e va' a guardarti in quello specchio”. Lo scimmiottino si mosse franco e spedito; ma non essendo avvezzo a portare le scarpe, fece un bellissimo sdrucciolone e cadde lungo disteso. Figuratevi le risate di Alfredo e del sarto. Il povero Pipì faceva di tutto per rizzarsi, ma non gli riusciva. Puntava con sforzi inauditi i piedi in terra, ma i piedi scivolavano sui mattoni inverniciati: ed era subito un'altra musata battuta sul pavimento. Alla fine si rizzò: e toccandosi il naso che era tutto sbucciato, disse piangendo al padroncino: “Io... con le scarpe non so camminare... Io voglio andare scalzo”. “Fatti coraggio”, disse Alfredo, “con un po' di pazienza ti avvezzerai anche alle scarpe. In questo mondo ci si avvezza a tutto.” “Ma io ci patisco troppo.”
“Pazienza! In questo mondo ci si avvezza anche a patire, diceva il mio babbo. Su, su: vieni a guardarti allo specchio.” Lo scimmiottino si mosse una seconda volta: ma camminava a sentita, con o di formica, pianin pianino, come se avesse camminato sulle uova. Giunto dinanzi allo specchio, diè appena una prima occhiata a volo; e tiratosi indietro spaventato, cominciò a strillare disperatamente: “Oh come sono brutto!... Oh povera mamma mia, come hanno sciupato il tuo scimmiottino!... Non sono più io!... Non sono più Pipì!... Mi hanno vestito da uomo... e sono diventato un mostro da far paura. Non voglio più star qui: voglio andarmene... voglio tornarmene a casa mia. Non voglio più questi vestitacci; no, no, no!...”. E, gridando e avvoltolandosi per terra, si levò le scarpe e le buttò nel camminetto: tirò il cappello sul viso del sarto, si strappò il fazzoletto bianco dal collo: e spiccato un gran salto, uscì fuori dalla finestra e si dette a correre per i campi. Povero Pipì! correva e correva: ma non aveva ancora fatto cento i, che sentì afferrarsi per i calzoncini dalla parte di dietro, e si trovò sollevato da terra, in bocca a un grosso cane di Terranuova.
5. Pipì promette all'amico Alfredo di accompagnarlo in un lungo viaggio, ma promette, senza credersi obbligato a mantenere
Il cane di Terranuova era uno di quei cani pasticcioni, intelligenti, amorosi, che si affezionano al padrone, come l'amico all'amico. Non gli mancava altro che la parola per essere quasi un uomo. Di soprannome lo chiamavano Filiggine, a motivo del suo pelame nero morato, come la cappa del camino. Quando Alfredo si accorse che Pipì tirava a scappare, fece un fischio a Filiggine: e Filiggine, in quattro salti, raggiunse lo scimmiottino, e presolo, come già s'è
detto, per i calzoncini dalla parte di dietro, lo riportò pari pari in casa del padrone. “Perché volevi scappare?”, gli domandò Alfredo in tono di rimprovero. “Perché... perché...” “Su, su! Rispondi con franchezza.” “Perché io voglio tornare a far lo scimmiottino insieme col mio babbo, con la mia mamma e coi miei fratelli... e non voglio mascherarmi da uomo...” “E allora perché, poco fa, hai accettato di essere il mio compagno di viaggio?” “Perché credevo che fosse una cosa... e invece è un'altra.” “Vuoi dunque proprio andartene?” “Anche subito... Ma lei mi faccia il piacere di non mandarmi dietro quel solito canaccio nero... perché se no, Filiggine, dopo cinque minuti, mi riporta di peso in questa stanza.” “Non aver paura. Filiggine senza il mio comando, non si muove di qui. E quanto sei lontano da casa tua?” “Dimolti, ma dimolti chilometri.” “E prima di metterti in viaggio, non senti bisogno di mangiar qualche cosa?” A dirla schietta, lo scimmiottino non aveva l'ombra della fame: ma tentato dalla sua gran ghiottoneria, rispose abbassando gli occhi e facendo finta di vergognarsi: “Un bocconcino lo mangerei volentieri...”. Alfredo sonò il camlo d'argento, e il servo portò in tavola un cestino pieno ricolmo di bellissime pesche. Lo scimmiottino non le mangiò, ma le divorò in un baleno. Dopo le pesche, vide presentarsi un canestro di ciliegie così grosse, così mature
e così rilucenti, che facevano venire l'acquolina in bocca soltanto a guardarle. Pipì se le sgranocchiò tutte, a tre e quattro per volta: ma non volendo are per uno scimmiottino ineducato, lasciò nel canestro i nòccioli, le foglie e i gambi. Quando si sentì pieno fino agli occhi, allora si alzò da tavola, e fatta una bella riverenza, disse al padroncino di casa: “Arrivedella signor Alfredo: scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia.” “Addio, Pipì. Fa' buon viaggio, e tanti saluti a casa.” Lo scimmiottino si avviò per andarsene: ma in quel mentre vide entrare il cameriere con un paniere di frutta, che mandavano un odorino da far resuscitare un morto. “E quelle che frutta sono?”, domandò, tornando due i indietro. “Quelle son nespole del Giappone”, rispose Alfredo. “Le avevo fatte preparare per la tua cena di stasera.” Pipì rimase un po' pensieroso: e poi disse: “Pazienza!”. E fattosi un animo risoluto, si avviò di nuovo per partire. Giunto però sulla porta di sala, si trattenne alcuni minuti. Quindi, volgendosi al giovinetto, gli chiese: “Scusi, signor Alfredo, che ore sono?” “Mezzogiorno preciso.” “Mezzogiorno?... A dir la verità, mi pare un po' tardi per mettersi in viaggio.” “Tutt'altro che tardi. Ti restano ancora sette ore di giorno chiaro, e in sette ore si fa dimolta strada.” “Ha ragione e dice bene. Dunque arrivedella, signor Alfredo, scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia.”
E questa volta partì davvero. Ma dopo un quarto d'ora Alfredo se lo vide ricomparire in sala, tutto ansante e trafelato. “Che cosa c'è di nuovo?”, gli domandò il giovinetto. “C'è di nuovo”, rispose Pipì, “che questo sole sfacciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?” “Volentieri.” Alfredo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi. Pipì prese l'ombrellino, l'aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi. “Amico mio”, disse allora Alfredo, “se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio.” “Io di giorno non so camminare”, rispose Pipì. “O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?” “Padronissimo di fare come credi meglio.” E nel dir così, Alfredo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dire:" Caro il mi' ghiottone! Ho bell'e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!". Quando fu l'ora della cena, Pipì, senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedersi alla tavola dov'era seduto Alfredo: ma questi pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse: “Che cosa fate costì?” “Vengo a cena anch'io.” “Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba.”
“Io... con la giubba... non so mangiare. La giubba non me la metto.” “Allora ritiratevi là, in fondo alla sala, e contentatevi di assistere alla mia cena.” Quando Pipì si accorse che Alfredo diceva sul serio, si dette a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma dopo poco tornò. Quando rientrò nella stanza, aveva la sua giubbettina infilata e tutta abbottonata, come un piccolo milorde. “Così va bene”, disse Alfredo. “Mettetevi ora a sedere, e buon appetito!” Il canestro delle nespole fu portato in tavola. Inutile starvi a dire che, dopo un quarto d'ora, il canestro era vuoto, e lo scimmiottino era pieno, da non poterne più. “Ora poi me ne vado davvero”, disse alzandosi da tavola con grandissima fretta. Ma nel mentre che stava armeggiando per levarsi di dosso la giubbettina, il cameriere si presentò in sala con un magnifico vassoio di melagrane. “Che odorino!”, gridò Pipì, annusando e lasciando gli occhi sul vassoio delle frutta. “O quelle melagrane per chi sono?” “Erano per la tua colazione di domani. Ma ormai tu parti, e le mangerò io.” “Io... partirei volentieri, ma di notte non so camminare. O non sarebbe meglio che partissi domattina, dopo fatto colazione?” “La tua camerina è già preparata. Buona notte.” La mattina dopo, all'ora di colazione, lo scimmiottino si presentò puntualmente vestito con la giubba di panno nero: ma il signor Alfredo, dopo averlo squadrato da capo ai piedi, gli disse con accento vivace e risentito: “Chi vi ha insegnato a presentarvi alla tavola di un gentiluomo, senza scarpe ai piedi e senza fazzoletto al collo? Andate subito a mettervi le scarpe e la cravatta.” Pipì, confuso e mortificato, cominciò a grattarsi la testa e il naso, e
piagnucolando disse: “Ih... ih... ih... le scarpe mi fanno male... e il fazzoletto mi serra la gola. Piuttosto voglio andar via subito... voglio tornarmene a casa mia.” “Levatevi dunque dalla mia presenza.” Pipì si avviò mogio mogio verso la porta della sala: ma prima di uscire, si voltò per dare un'ultima occhiata al vassoio delle melagrane. Poi se ne andò. “Questa volta è partito davvero”, disse Alfredo tutto afflitto. “E me ne dispiace. Gli volevo bene a quello scimmiottino. Che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l'ho scacciato? Eppure, era lei che me l'aveva fatto capitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio!... Ma oramai quel che è fatto, è fatto, e ci vuol pazienza.” Mentre Alfredo parlava in questo modo fra sé e sé, gli parve che fosse bussato alla porta della sala e nel tempo stesso si udì una vocina di fuori che disse: “Signor Alfredo, che mi ha chiamato?” “Chi è?”, gridò il giovinetto rizzandosi in piedi. “Sono io.” La porta si aprì e comparve lo scimmiottino. Aveva in piedi le sue scarpettine scollate e portava la testa ritta e impalata, perché il fazzoletto da collo, moltissimo inamidato, gli segava terribilmente la gola. A quella vista inaspettata, è impossibile immaginarsi l'allegrezza di Alfredo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbero a un carissimo amico, dopo vent'anni di lontananza. Giurarono di non lasciarsi mai più e di fare insieme questo gran viaggio intorno alla terra. Il bastimento sul quale dovevano imbarcarsi, era aspettato di giorno in giorno.
Finalmente il bastimento arrivò. La sera della partenza, Alfredo e Pipì pranzarono insieme, come erano soliti di fare. E durante il pranzo parlarono di mille cose, dissero un visibilio di barzellette, e risero e stettero allegrissimi come due ragazzi alla vigilia delle vacanze autunnali. Alzatisi da tavola, Alfredo disse guardando l'orologio: “Il bastimento parte a mezzanotte. Dunque abbiamo appena un'ora di tempo per dare un'occhiata ai bauli e per vestirci tutti e due in abito da viaggio”. In cinque minuti io son pronto, disse Pipì, e ballando e saltando entrò nella sua camerina. E quando fu lì, cominciò subito a levarsi la giubbettina di panno nero per infilare una piccola giacca di tela bianca; invece delle scarpine calzò un paio di stivaletti a doppio suolo, e invece del solito cappello si ficcò in testa un elegante berrettino di seta celeste. Poi andò a guardarsi allo specchio: ma nel mentre che se ne stava tutto contento, pavoneggiandosi e facendo con la bocca e con gli occhi mille versacci grotteschi, sentì un piccolo rumore, come se qualcuno di fuori si arrampicasse per salire fino alla sua finestra di camera. Da principio ebbe una gran paura: ma, fattosi coraggio, aprì la finestra e vide... vide due zampe che lo abbracciarono stretto intorno al collo e intese una voce soffocata dalla consolazione e dalla gioia, che mugolava teneramente. “Oh mio povero Pipì!... Finalmente ti ho ritrovato.”
6. Pipì mancando alla sua promessa, corre a far baldoria
Pipì riconobbe subito la voce di suo padre e tutto commosso gridò: “Che cosa fate qui, babbo mio, a quest'ora?”
“È un mese che ti cerco da per tutto.” “E la mia mamma, dov'è?” “È laggiù!” “Dove?” “In fondo a questo campo.” “E i miei fratellini?” “Sono laggiù anche loro.” “E che cosa fanno in fondo al campo?” “Ti aspettano a braccia aperte.” “Oh come li rivedrei volentieri!” “Vieni dunque a vederli!” “Se ci verrei!... Figuratevelo voi! Ma in questo momento non posso... proprio non posso...” E dicendo così lo scimmiottino cominciò a piangere dirottamente e a graffiarsi per disperazione gli orecchi. “E perché non puoi?”, gli domandò singhiozzando il vecchio genitore. “Perché ho promesso a un amico...” “E che promessa gli hai fatto?” “Gli ho promesso di partire questa sera con lui, e di accompagnarlo in un gran viaggio che egli deve fare intorno al mondo.” “E tu, per tener compagnia a un amico, avrai il coraggio di abbandonare la tua povera famiglia? Senza di te, noi moriremo tutti di dolore!” “Oh! non dite così: se no mi metterete al punto di mancare alla promessa...”
“E a che ora dovresti partire?” “Fra pochi minuti.” “Vieni almeno a dire addio a' tuoi fratelli, che ti aspettano in fondo al campo.” “E se il signor Alfredo in questo frattempo mi chiamasse?” “Chi è il signor Alfredo?” “È l'amico.” “Se ti chiama... e tu lascialo chiamare.” “E se il bastimento partisse?...” “E tu lascialo partire.” Lo scimmiottino, tutto contento di aver trovato una buona scusa per non mantenere la sua promessa, rispose scotendo il capo: “Sarà quel che sarà... A buon conto prima di partire per questo gran viaggio, voglio rivedere la mia mamma e i miei fratellini.” Detto fatto, montò sulla finestra, e spiccando un gran salto, si buttò di sotto. Allora si sentì un tonfo, come quello di un grosso pietrone cascato in un fosso pieno d'acqua e di mota. “Babbo mio, aiutatemi, se no son morto!” grido Pipì con urlo disperato. Che cos'era avvenuto? Era avvenuto che la terra di quel campo, a cagione delle grandi piogge dei giorni precedenti, era così rammollita e fangosa, che lo scimmiottino, cadendovi sopra, vi era rimasto affondato fino alla gola. Per buona fortuna suo padre fece in tempo a salvarlo: ma quando Pipì uscì fuori dal pantano, non aveva più in piedi gli stivaletti. Gli stivaletti erano rimasti seppelliti un metro sotto terra. “Pazienza!”, disse ridendo. “Me ne ricomprerò un altro paio, prima di montare
sul bastimento.” E senza stare a perder tempo, babbo e figliolo presero una viottola lungo il campo, e cominciarono a correre. Ma non avevano ancora fatto venti i, che Pipì sentì volarsi al disopra della testa un uccello notturno, il quale con una beccata gli portò via il berrettino da viaggio. “Uccellaccio del mal'augurio, rendimi subito il mio berretto”, urlò lo scimmiottino. “Cucù!”, fece l'uccello, e continuò il suo volo. “Pazienza! Mi ricomprerò un altro berrettino prima di montare sul bastimento.” E babbo e figliolo ripresero a correre: ma sul più bello, un grosso pruno uscito dalla siepe, afferrò co' suoi spunzoni i calzoncini e il giubbettino di Pipì, e li ridusse in minutissimi stracci. “Ora eccomi qui senza calzoni e senza giubbettino!...” “Pazienza!”, gli disse il suo babbo. “Te li ricomprerai prima di montare sul bastimento.” “Oh povero me! povero me!”, gridò lo scimmiottino simulando un gran dispiacere. “Di tutto il mio bel vestiario da viaggio, non mi è rimasto altro che la camicia e il fazzoletto da collo.” E nel dir così, fece l'atto di cercarsi la camicia, ma invece della camicia si trovò addosso un camiciotto di foglie d'ortica. Tastò con le mani per accertarsi se almeno il fazzoletto da collo c'era sempre, ma invece del fazzoletto sentì sgusciarsi fra le dita una serpe grossa come un'anguilla di mare.
7. Pipì comincia a pentirsi di aver mancato alla sua promessa
Il povero Pipì, nel toccar quella serpe, che si trovò avvoltolata al collo invece della cravatta, fu preso da uno spavento indicibile.
Avrebbe voluto urlare, ma la lingua gli era rimasta appiccicata al palato: avrebbe voluto correre e fuggir via, ma le gambe gli facevano giacomo-giacomo, ossia gli ciondolavano avanti e indietro, tale e quale come se fossero le gambe d'un morto, che si fosse provato a camminare. Alla fine, non potendosi più reggere in piedi, si lasciò cascare per terra come un cencio, dicendo con un fil di voce: “Muoio!...”. “Che cosa ti senti?”, gli domandò suo padre, tutto sgomento.” “Un gran male!...” “E dove lo senti?” “In tutta la persona.” “E che male sarebbe?...” “Il male della paura!...” “Un gran brutto male, bambino mio: l'unico male per il quale i medici non abbiano saputo trovare ancora una medicina. Prova a farti un po' di coraggio...” “Ho provato.” “E ora come ti par di stare?” “Peggio di prima.” “Ma qual è la cagione di tutto questo spavento?” “Una gran disgrazia, babbo mio, sta per cascarmi addosso!” “E come fai a saperlo?” “Ho avuto, in pochi minuti, troppi indizi... troppi segnali. Vi ricordate i miei stivaletti nuovi rimasti affogati nella mota? E il giubbettino e i calzoni fatti in pezzi da quel dispettosaccio di pruno? E la camicia di tela fina diventata, tutt'a un tratto, di foglie di ortica? E quella brutta serpe, che or ora mi è scappata di
mano? Eccola sempre lì, eccola sempre lì!... Guardatela!...” “Chi?” “La serpe...” Il babbo di Pipì si voltò a guardare verso il punto indicato, e vide difatti in mezzo alla profonda oscurità della notte, una grossa serpe, che risplendeva tutta di vivissima luce rossa, come se fosse stata una serpe di cristallo, con in corpo un lampione da tranvai. La serpe, stando a collo ritto, teneva i suoi occhi fissi in quelli dello scimmiottino. “Che cosa vuoi da me?”, gli domandò Pipì, facendosi un coraggio da leone. “Vengo a portarti i saluti del signor Alfredo”, rispose la serpe. “Povero signor Alfredo!... È forse partito per il suo viaggio?” “È partito pochi minuti fa, e mi ha raccontato che tu avevi promesso di accompagnarlo.” “È vero, è vero, è vero!... Domani forse partirò anch'io e spero di poterlo raggiungere in alto mare.” “Speriamolo davvero! A buon conto, ricordati, scimmiottino mio bello, che quando si promette una cosa, bisogna mantenerla! Hai capito?” Appena dette queste parole, la serpe sparì nel buio della notte e non si vide più. Allora Pipì, tormentato in cuore da una specie di rimorso, fu quasi sul punto di dire addio a suo padre e di prendere la strada più corta, che menava alla spiaggia del mare: ma mentre stava lì per decidersi, vide lontano lontano alcune fiaccole accese, che si movevano in qua e in là, e sentì una musica allegra di pifferi, di tamburi e di mandolini. “Che cos'è quella musica e quei lumi?”, domandò tutto meravigliato. “Come? Non ti riesce d'indovinarlo?”
“No.” “Sono i tuoi fratellini, che vengono a incontrarti con la fiaccolata e a suon di banda!...” “Oh che piacere! Oh che bello spettacolo! Corriamo, babbo, corriamo...” E tutti e due si dettero a correre lungo la viottola: e Pipì, che aveva riacquistata in un attimo la forza delle sue gambine svelte e sottili, non solo correva, ma si sarebbe detto che volava come un uccello. E ora chi mi dà le parole adatte per descrivere la scena del primo incontro? Credetelo a me: fu una scena così affettuosa e commovente, che è impossibile immaginarsela senza averla veduta coi propri occhi. Basti dire che l'allegrezza dei quattro fratelli nel rivedere il loro fratellino minore, che oramai credevano perduto per sempre, fu così tempestosa e smodata, che gli saltarono addosso tutti insieme e ci corse poco che non lo soffocassero sotto un diluvio di baci, di abbracciamenti e di carezze. Quand'ebbero sfogati gli affetti del loro cuore, cominciarono a strillare in coro: curacà! curacà! curacà! (nel dialetto familiare delle scimmie bisogna sapere che curacà vuol dire: a cena! a cena! a cena!). Detto fatto, si posero seduti per terra intorno a una gran cesta di pesche, di albicocche e di fichi d'India, e lì, ridendo, grattandosi e facendo con la bocca mille smorfie e mille versacci in segno di grande esultanza, mangiarono a più non posso, come se fossero digiuni da due settimane. E non solo mangiarono, ma bevvero allegramente: e bevvero un certo liquore spiritoso, fatto d'uva rossa strizzata, che somigliava come due gocciole d'acqua al nostro vino. E ne bevvero così a spugna, che dopo mezz'ora, dormivano tutti e russavano come tante marmotte. Quand'ecco che, sul più bello del sonno, furono svegliati da un'orribile voce che gridò: “Guai, a chi si muove!...”.
8. Il terribile assassino Golasecca e i suoi compagni. Golasecca si mette in tasca il povero Pipì e lo porta via
Lascio ora pensare a voi come rimanessero, quando, balzando in piedi e spalancando gli occhi, si videro circondati da una masnada di brutti figuri, neri come l'inchiostro e tutti armati di sciabole e di bastoni. “Pover'a noi, siamo bell'e morti!”, gridarono gli scimmiottini. “Che morti e non morti?”, replicò Pipì. “Per vostra regola, a morire c'è sempre tempo.” “Ma chi saranno quei ceffi affumicati?”, domandò un di loro. “Ci vuol poco a indovinarlo: saranno assassini” rispose un altro. “E che cosa vogliono da noi?” “Ci vorranno derubare.” “Derubare?”, disse Pipì, ridendo. “Scusate, miei cari fratelli: quanti quattrini avete?” “Nemmen'uno.” “Allora il più ricco di tutti sono io...” “O tu quanto hai?” “A me”, rispose Pipì, “mi mancano solamente cinque centesimi per fare un soldo.” Poi continuò, grattandosi il naso: “Che assassini originali! Nessuno di loro ha il coraggio di farsi avanti”. E diceva la verità. Difatti, tutti que' brutti figuri, che riuniti assieme formavano una specie di cerchio, se ne stavano lì ritti impalati, senza fare un gesto, senza batter occhio, senza brontolare una mezza parola. Allora Pipì, avanzandosi in mezzo, disse con bella maniera: “Scusino, signori assassini; che ci farebbero il piacere di lasciarci are?”.
Nessuno rispose: nessuno fiatò. “Grazie tante della loro cortesia”, soggiunse lo scimmiottino. “Debbono dunque sapere che noi siamo una povera famiglia: il babbo, la mamma, e cinque figlioli, e vorremmo tornare a casa nostra: che si contentano lor signori?” Al solito, nessuna risposta. “Ho capito: e grazie tante della loro cortesia. Su, babbo, da bravo! Poiché questi signori sono contenti, spiccate un bel salto, e ando loro di sopra al capo, andate ad aspettarci sulla strada.” Lo scimmione fece il salto: e dopo lui, lo fece la moglie: poi i quattro figlioli. “Ora tocca a me”, disse Pipì, che era rimasto solo in mezzo al cerchio formato dagli assassini: ma quando fu sul punto di prendere la rincorsa e di slanciarsi... che è, che non è... tutti quegli assassini diventarono così lunghi e così alti, che parevano tanti campanili. “Pipì! Pipì!”, gridavano di fuori i suoi fratelli, chiamandolo con urli disperati. Ma il povero scimmiottino non aveva più fiato di rispondere. “Che cosa pensi di fare?”, gli domandò allora il capo della masnada, uscendo finalmente dal suo ostinato silenzio. “Penso di tornarmene a casa mia...” “T'inganni, povero Pipì! Tu non tornerai a casa.” “Pazienza! Resterò qui.” “Nemmeno: tu verrai con me...” “Con lei?... Neanche se mi fa legare...” “Tu verrai con me.” “Neanche se mi regala cento panieri di ciliegie.” “Tu verrai con me.”
“Neanche morto!” Il capo della masnada, senza aggiungere altre parole, si chinò, e preso il povero scimmiottino per la collottola, se lo pose nella tasca della sua casacca. Poi abbottonò la tasca con tre bottoni, che parevano tre ruote da carrozza. “Ora possiamo andare”, disse ai suoi compagni: e tutti insieme si avviarono verso la strada maestra. È impossibile ridire la disperazione, i pianti e gli urli dei fratellini di Pipì. Lo chiamavano con acutissime grida: ma non ebbero altra consolazione che quella di vedere le zampettine del povero scimmiottino, che uscivano fuori dalla tasca del capo-masnada, e si movevano con una lestezza vertiginosa, come se volessero raccomandarsi e chiedere aiuto.
9. All'Osteria delle Mosche.
Quando gli assassini si furono allontanati una ventina di chilometri, il terribile Golasecca (era questo il soprannome del capo-masnada) si fermò in mezzo a un campo e, voltandosi ai suoi compagni, disse loro con una vociaccia roca, che pareva il brontolio d'un tuono lontano: “Ora potete ritornarvene alla Capanna Nera. Aspettatemi là, e fra quattro o cinque giorni ci rivedremo”. “Scusate, maestro”, gli domandò uno di quei brutti ceffi, “avete pensato a portare con voi qualche cosa da mangiare?” “Non ho portato nulla.” “Male! E se per la strada vi viene un po' d'appetito?” “Pazienza! Se non trovo altro, mi rassegnerò a mangiare questo scimmiottino, che ho qui in tasca.” Il povero Pipì, udendo tali parole, cominciò dalla ione a grattarsi il naso e gli
orecchi. “Ma se voi mangiate lo scimmiottino”, riprese il solito brutto ceffo, “che cosa vi dirà la Fata dai capelli turchini?” “La Fata non potrà farmi nessun rimprovero: perché io le ho promesso di portarglielo vivo o morto. In ogni caso se mi verrà voglia di mangiarmelo per la strada, serberò intatta la pelle, perché la Fata possa vederla con i propri occhi e accertarsi così che ho adempito lealmente i suoi comandi.” “Avete ragione, maestro. Dunque buon viaggio e sollecito ritorno.” Appena gli assassini ebbero preso congedo dal loro condottiero, si attaccarono sotto le braccia delle grandi ali di tela incerata e, spiccato il volo, si alzarono in aria con grandissimo fracasso, come un branco di corvi spaventati. Golasecca, rimasto solo, seguitò il suo viaggio attraverso ai campi, ai fiumi, e alle boscaglie, senza fermarsi mai, mai, mai! Dopo aver camminato due giorni e due notti, sentì uscire dalla tasca della sua giacca una vocina soffocata, che pareva venisse di sottoterra, la quale disse con tono di piagnisteo: “Ho fame!... Ho tanta fame!”. Golasecca, invece di rispondere, si accarezzò la sua lunghissima barba di caprone, e raddoppiando il o, tirò diritto per i fatti suoi. Ma dopo pochi minuti, ecco la solita vocina, che diceva raccomandandosi: “Sor assassino, che mi darebbe un chicco d'uva, o una ciliegia, o anche una mezza pera solamente? Sono digiuno da tanti giorni, e sento che lo stomaco mi va via. Lo creda, sor assassino, ho una fame così grande, che la vedo anche al buio!...”. “Se hai fame”, rispose Golasecca, ridendo di un riso sguaiato e canzonatore, “fruga nella mia tasca, e ci troverai tante ghiottonerie, da prendere un'indigestione.” “Sono tre giorni che frugo: ma non mi riesce di trovarci nulla.”
“Allora mangia la fodera della mia tasca.” “La prima fodera l'ho bell'e mangiata: la seconda è troppo dura e non mi riesce di roderla.” “L'hai mangiata davvero?”, urlò Golasecca, andando su tutte le furie. “Brutto scimmiottino! Lasciami arrivare all'Osteria delle Mosche, e non dubitare che aggiusteremo i nostri conti!...” Intanto si era fatto notte. E che notte orribile e indiavolata! Il cielo appariva tutto coperto di nuvoloni; lampeggiava e tonava: e gli alberi della foresta, sbatacchiati da un violentissimo vento, si divincolavano, cigolavano e urlavano, come tante anime disperate. A mezzanotte in punto, Golasecca arrivò dinanzi all'Osteria delle Mosche: ma l'osteria era chiusa. Picchiò alla porta una volta, due volte, tre volte: e nessuno rispose. Allora, con quanto fiato aveva ne' polmoni, si diè a gridare: “Apri, Moccolino!... Apri!... Sono io!”. Moccolino era il nome dell'oste; e tutti lo chiamavano così, perché a cagione della sua figura sottile sottile, lunga lunga, e sbiancata sbiancata, somigliava tale e quale a un moccolino di cera gialla. La sua osteria stava aperta solamente di giorno. Appena si faceva notte, Moccolino a scanso di seccature e di dispiaceri, chiudeva prudentemente la porta, spengeva il fornello e i lumi e se ne andava a letto. E una volta entrato a letto, non apriva più a nessuno, anche se fosse rovinato il mondo. Dato il caso che qualche disgraziato, smarritosi di nottetempo nella foresta, avesse bussato all'osteria, Moccolino non se ne dava per inteso: o dormiva o faceva finta di dormire. Quando Golasecca si accorse che l'oste, prendendosi gioco di lui, si ostinava a non volergli aprire, che cosa fece? Cominciò a distendere le braccia e le gambe, e a furia di distendersi e di allungarsi, diventò di una statura così alta e
gigantesca, che il tetto dell'osteria gli arrivava appena a mezza vita. Allora, lavorando con tutte e due le mani, si dette a scoperchiare il tetto; e i mattoni, gli embrici e i tegoli volavano via, come foglie portate dal vento. Moccolino, impaurito da tutto quel fracasso infernale, cacciò il capo fuori delle lenzuola, e fingendo di essersi svegliato lì per lì, gridò con voce tremante: “Chi è che mi chiama?” “Sono io”, rispose Golasecca, piegandosi e infilando il capo dentro la buca che aveva aperta nel tetto. Per l'appunto questa buca rispondeva nella stanza dove dormiva l'oste, il quale sentì gelarsi il sangue, quando al fioco chiarore del lumino da notte, vide affacciata al soffitto della sua camera la minacciosa ghigna del terribile capomasnada. “Che cosa volete da me, maestro Golasecca?”, domandò Moccolino, che dallo spavento non aveva più fiato in corpo. “Che cosa voglio?... Voglio prenderti per un ciuffo dei capelli e scagliarti lontano mille miglia.” “Deh! non lo fate!... Abbiate pietà di me.” “Non meriti pietà.” “Abbiate almeno pietà del mio bambino. Povero Guiduccio! Se rimanesse solo in questa casa, me lo mangerebbero i lupi.” “No, no... io non voglio essere mangiato... dai lupi”, disse fra il sonno il figlioletto dell'oste, che dormiva nella stessa camera del babbo, in un lettino a parte. Alle parole di quel bambino, Golasecca mutò fisonomia: e preso un tono di voce un po' più umano, disse all'oste: “Su da bravo! Salta subito il letto e preparami da cena.”
Moccolino ubbidì alla prima: ma era tanta la paura e la confusione che aveva addosso, che non sapeva nemmeno lui come fare a vestirsi. Credé di aver preso le calze, e invece si ostinava a infilare i piedi nel berretto da notte. Accortosi dell'errore, si messe le scarpe, e sopra alle scarpe infilò le calze. Poi infilò la giacchetta, e sulla giacchetta la camicia, e sulla camicia la sottoveste, finché trovandosi in mano i calzoni e non rammentandosi più a che cosa servivano, li ripiegò perbene e li chiuse dentro l'armadio. Scese quindi al pianterreno e aprì la porta dell'osteria. Golasecca, che aveva ripresa la statura d'un uomo comune, entrò dentro scotendosi i panni che gocciolavano: e postosi a sedere dinanzi a una tavola apparecchiata, domandò all'oste: “Che cosa mi dai per cena?”. “Tutto quello che desidera Vostra Signoria. Non deve far altro che comandare.” “Che cosa c'è di carne?” “Nulla di carne.” “E di formaggio?” “Nulla di formaggio.” “E di pane?” “Nulla di pane.” “Che cosa posso dunque mangiare?”, domandò l'assassino, tentennando il capo e cominciando a perdere la pazienza. “Se Vostra Signoria desidera della frutta...” “Che cos'hai di frutta?” “Ciliegie, mandorle e pesche.” “Dammi un bel piatto di pesche.”
“E a me, un bel piatto di ciliegie”, disse una vocina, che uscì dalle tasche del vestito di Golasecca. “Chi è che ha chiesto le ciliegie?”, balbettò l'oste, tutto impaurito e maravigliato. “Sono io”, rispose la solita vocina. “Non dubitare”, interruppe Golasecca, e digrignando i denti, “non dubitare, Pipì, che le ciliegie te le darò io... e ti darò qualcos'altro! A buon conto, esci subito fuori, e facciamo i nostri conti.” “Così dicendo, il capo-masnada sbottonò la tasca della sua giacca, e lo scimmiottino, senza tanti complimenti, saltò in mezzo alla tavola e si pose a sedere sopra una zuppiera di porcellana.
10. Come andò che Nanni, il gatto dell'Osteria delle Mosche, prese il posto di Pipì nella tasca dell'assassino
Allora Golasecca voltandosi a Pipì con un cipiglio da far paura, gli domandò: “Chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?.” Lo scimmiottino, come se non dicessero a lui, cominciò a guardare in qua e in là: ma poi, fissando i suoi occhietti mobilissimi e irrequieti in faccia al capomasnada, disse con voce carezzevole: “Vi contentate, sor assassino, che vi parli sinceramente? Io non ho veduto mai una barba così bella come la vostra! Voi avete la più bella barba del mondo!”. “Lasciamo star la barba e rispondiamo a tono: chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?” “E se fosse la barba solamente, vorrebbe dir poco”, soggiunse lo scimmiottino. “Egli è che tutti dicono che voi siete la più buona pasta d'uomo di questo mondo! Un vero cuor di Cesare! La perfetta cortesia travestita da brigante!...”
“Lasciamo stare il buon cuore e la cortesia: chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?” “E se foste buono soltanto, sarebbe poco o nulla: egli è che siete anche bello! Volete che ve lo dica? Degli uomini belli ne ho veduti dimolti; ma un uomo bello come voi, non l'ho visto mai!” “Bisognava avermi visto trent'anni fa!”, replicò Golasecca lisciandosi i baffi e il barbone e ingegnandosi di apparire grazioso. “Allora ero bello davvero! Eh, Moccolino? Ditelo voi.” “La prima volta, che vi ho conosciuto io, eravate un sole! un sole di mezzogiorno!”, rispose l'oste. “Oggi siete un sole sul tramonto!”, soggiunse Pipì, “ma un tramonto magnifico! un tramonto che val più di un'aurora!...” “Mi avvedo, caro scimmiottino, che tu hai molto spirito e molto ingegno: e per questo ti voglio bene” disse Golasecca commosso. “Scendi giù dalla zuppiera e vieni a sederti accanto a me. Ceneremo insieme. Moccolino! Porta subito in tavola un piatto di pesche e un piatto di ciliegie per il mio amico Pipì. L'amico Pipì è uno scimmiottino sincero e amante della verità, e se per caso incontra un uomo veramente bello, non ha nessuna paura a dirgli in viso: "Tu sei il più bell'uomo di questo mondo!"”. Fatto sta che mangiarono tutt'e due con grande appetito: e la cena fu piuttosto lunghetta. Sul finir della cena, lo scimmiottino domandò al capo-masnada: “Se non fossi troppo indiscreto, potrei sapere dove volete portarmi?”. “A casa della Fata dai capelli turchini.” “E che vuole da me questa buona donna?” “Essa è adirata.” “E la ragione?”
“Perché dice che tu avevi promesso di accompagnare il suo figlio Alfredo in un lungo viaggio: e che poi hai mancato alla tua promessa.” “Quanto è lontana di qui la casa della Fata?” “Più di mille chilometri.” “Io non ci voglio venire.” “Padrone tu di non volerci venire” rispose Golasecca, facendosi serio “ma io ti ci porterò per forza!” “Voi non mi ci porterete...” “Perché?” “Perché io scapperò!” “Scapperai?”, urlò l'assassino, mugghiando come un toro ferito. “A buon conto, rientra subito dentro la mia tasca, e domani all'alba partiremo.” Così dicendo, Golasecca abbrancò con una mano lo scimmiottino e lo ripose al buio, assicurando la tasca con quei soliti tre bottoni grandi e spropositati, come tre ruote da carrozza. Poi, cavatasi la giacca, la gettò sopra una sedia: e appoggiando il capo al muro, disse a Moccolino: “Io farò un sonnellino su questa panca: e tu bada bene all'alba di venirmi a svegliare.” “Dormite tranquillo”, rispose l'oste: e presa la candela, se ne tornò su, nella sua cameretta. Ora bisogna sapere che Golasecca aveva un bruttissimo vizio: quello cioè di russare: e russando, faceva con la bocca un certo fischio lamentevole e prolungato, come quello che fanno gli uccellini quando vedono calare il falco. Nel sentir questo fischio, Nanni, il bellissimo gatto soriano di Moccolino, entrò in punta di piedi nella stanza, annusando qua e là, forse con la speranza di trovare qualche uccelletto scappato di gabbia.
Ma, invece dell'uccelletto, trovò una giacca sopra una seggiola, e sentì che dalla tasca della giacca usciva un calduccino e uno strano odorino di carne. "Che animale ci sia rinchiuso qui dentro?", cominciò allora a dire fra sé: "Un topino, no dicerto: perché sarebbe troppo grosso. Forse un pezzo di vitella arrosto? Nemmeno, perché questo non è odore di carne cotta. O dunque?...". E tornò ad annusare: e dopo avere annusato e annusato, quell'odore era per lui come un libro stampato: non ci capiva nulla. Ma intanto che stava lì almanaccando e leccandosi le basette, gli parve di udire un piccolissimo rumore. Rizzò subito gli orecchi e postosi in ascolto, sentì dentro la tasca un canto fioco fioco, che fece: “Chicchirichì!”. “È un galletto”, disse allora Nanni, miagolando dalla gran contentezza, “è un galletto di certo. L'odore veramente non parrebbe di carne gallinacea; ma questi gallettacci sono così furbi e traditori!... Mi ricordo sempre che una volta sul palcoscenico d'un teatro, portai via un galletto cotto in umido con le patate; e, nell'andare a casa, mi diventò ripieno di stoppa, di borraccina e di altre porcherie.” “Chicchirichì!”, si udì fare una seconda volta. “Mi chiami, eh?”, disse Nanni dentro di sé. “Ora vengo subito a trovarti; non dubitare. È tanti giorni che mi tocca a mangiar lucertole e grilli!... Un po' di carne di galletto mi rimetterà lo stomaco a nuovo!” E cominciò a lavorare di unghie e di denti per aprire i bottoni della tasca. Appena, però, ne ebbe aperto uno, vide saltar fuori uno scimmiottino tutto garbato e complimentoso, il quale gli disse: “Ho sentito, mio caro gatto soriano, che tu desideri di mangiare un po' di carne di galletto: ed è per farti piacere che ti ho lasciato in fondo a quella tasca un mezzo gallettino di primo canto. Se vuoi cavarti questa voglia, entra dentro, e buon appetito”. Nanni, senza farsi ripetere l'invito, entrò di corsa nella tasca: ma non era ancora finito d'entrare, che il bottone della tasca si richiuse subito sopra di lui.
“Ci sei dentro? e tu stacci!”, disse Pipì, stropicciandosi tutt'allegro le zampe davanti. “E mentre che tu, povero Nanni, cerchi nella tasca il gallettino di primo canto... che non c'è stato mai, io me ne anderò lontano di qui... e tanti saluti a casa.” Quando lo scimmiottino ebbe borbottato fra i denti queste parole, aprì pian piano la porta dell'osteria e disparve fra gli alberi foltissimi della foresta. Per l'appunto quella notte era una nebbia così fitta, che non ci si vedeva da qui a lì.
11. Golasecca, dopo essere stato accecato, ritrova lo Scimmiottino color di rosa
Lo scimmiottino poteva essersi allontanato dall'Osteria delle Mosche appena un cento di i, quando l'oste Moccolino, saltando giù dal letto e affacciandosi a capo della scala, gridò con quanta ne aveva in gola: “Ehi, maestro Golasecca, se volete partire, spicciatevi, perché fra poco è giorno!”. “Me ne vado subito”, replicò il capo-masnada, “e la cena ve la pagherò al mio ritorno.” “Padron mio riveritissimo! Buon viaggio e scarpe larghe!” Golasecca cercò al buio la sua giacca: e dopo averla trovata e messa addosso, portò subito la mano sulla tasca per assicurarsi dello scimmiottino. Ma nel far questa mossa, cacciò un grido acutissimo di dolore, sentendosi portar via la pelle della mano da una terribile unghiata. “Brigante d'uno scimmiotto! Ti diverti anche a graffiarmi? Guai a te se ti provi a ripetere lo scherzo! Faccio giuro di strapparti le unghie a una a una!...” E così dicendo, uscì dall'osteria, e chiuse la porta dietro di sé.
Dopo aver fatto tre ore di strada, tornò a guardarsi la mano, e vide che la mano sanguinava sempre. Allora andò su tutte le furie, e tanto per avere un po' di sfogo, tirò sulla tasca un solennissimo pugno. “Gnaoooo!”, gridò di dentro una voce, con miagolìo lamentevole. “Ah! ti prendi gioco di me? Ti diverti a farmi il verso del gatto?... To'! Allora prendi anche questo!” E giù un secondo pugno, più forte del primo. “Gnaooo... gnaooo... gnaooo...”, ripeté la solita voce con un miagolìo bizzoso e arrabbiato. “Dunque non vuoi smettere? Non vuoi farla finita?” E stava già per lasciar cascare il terzo pugno, quando, invece si diè a guaire come un can frustato, a cagione di un'altra unghiata traditora, che gli aveva lacerato tutto il fianco in modo da far comione. Allora Golasecca, fuori di sé dal dolore, perse la pazienza: e tirate fuori un paio di forbici arrotate, borbottò minacciosamente fra i denti: “Ora, ora ti guarisco io dalla malattia delle unghie. Da oggi in là, brutto scimmiottino, sta' pur sicuro che non graffierai nemmeno la pappa bollita!”. E levatasi la giacca, e sbottonati i bottoni della tasca, si preparava a ficcarci dentro le mani... quando tutt'a un tratto, uscì fuori un grosso gatto soriano, che avventatosi colle zampe agli occhi del capo-masnada, non c'era verso che volesse staccarsi. Era Nanni, il gatto dell'oste Moccolino. Alla fine si staccò, e fuggì via per i campi. Golasecca, urlando dalla rabbia e dallo spasimo, avrebbe voluto inseguirlo: ma lo sciagurato non ci vedeva più! I feroci unghioli del gatto lo avevano accecato! Golasecca vagò per cento giorni e cento notti in mezzo ai boschi, senza incontrar mai un pastore o un taglialegna, da potergli domandare la strada per ritornare a casa. Una volta, quando i lupi lo vedevano di lontano, se la davano a gambe per la gran paura che avevano di lui: ora sapendolo cieco, e incapace di difendersi, gli facevano mille lazzi e mille dispetti. Una volta, gli uccelli e le lepri,
all'avvicinarsi di questo spaventoso cacciatore, sparivano come tante ombre: ora gli stessi erotti, perfino i erotti di nido, andogli accanto, gli sbattevano per divertimento le loro ali sul naso, e le lepri e i leprottini gli ballavano fra i piedi la polca e la tarantella. Che bel coraggio! e che bella bravura non è vero, miei piccoli lettori?... Eppure è così: anche fra i ragazzi, se ne trovano pur troppo di questi erotti e di questi leprottini, che si prendono mille confidenze sguaiate con tutti quegli infelici, che per ragione di età e di malanni non possono più difendersi né farsi rispettare. Fatto sta che, una notte, mentre Golasecca andava giù per una viottola, fra gli alberi altissimi della foresta, cercando al tasto chiocciole e lumache per mettere insieme un po' di cena, si trovò sbarrata la strada dal muro di una piccola casa. Bussò, tutto contento, alla porta. “Chi è?”, domandò una voce di dentro. “Sono un povero cieco, smarrito nel bosco, che cerca un po' di ricovero per ar la nottata.” “Povero ciechino! Entrate pure!”, ripeté quella voce: e la porta si aprì. Lascio ora pensare a voi come rimase il nostro amico Pipì, quando si accorse di aver ricevuto in casa il suo tremendo persecutore.
12. Pipì è fatto imperatore
Come mai Pipì si trovava in quella casina solitaria, framezzo ai boschi? Che cos'era stato di lui, dopo la sua famosa fuga dall'Osteria delle Mosche? Per rispondere a queste domande bisogna ritornare un o indietro. Dovete dunque sapere che lo scimmiottino, appena ebbe rinchiuso a tradimento il povero Nanni nella tasca di Golasecca, si diè a fuggire attraverso gli alberi della foresta, senza curarsi dove sarebbe andato a battere il capo. Il desiderio acutissimo che lo pungeva, era quello di trovare la strada che doveva ricondurlo a casa: ma, invece, correva all'impazzata di qua e di là, dove le gambe e la paura
lo portavano. Ad ogni soffio di vento e ad ogni stormir di foglie, gli pareva sempre di aver dietro ai calcagni il terribile capo-masnada, col gatto in tasca. Alla fine, sul far del giorno, incontrò una tribù intera di scimmie, che urlavano, strillavano e si picchiavano fra di loro. Informatosi della cagione di tanto diavoleto, venne a sapere che la tribù era adunata per eleggere il proprio imperatore. Allora Pipì, entrato in mezzo alla folla, accennò di voler parlare. Si fece subito un gran silenzio: e Pipì prese a dire così: “Miei carissimi confratelli! Sento che volete eleggervi un capo, e che a questo capo volete dare il titolo d'imperatore. Fin qui, nulla di male: perché oramai si sa che tutti i gusti son gusti, come diceva quel filosofo, che provava piacere a farsi pestare i piedi. Ma finora, fra quanti siamo qui presenti, non ne vedo che uno solo, il quale sia veramente degno di essere nominato imperatore...”. “Chi sarebbe mai questo tale? Pronunzia subito il suo nome”, urlarono mille voci. Pipì abbassò gli occhi, e non rispose nulla. “Chi sarebbe questo tale?”, ripeterono le solite voci, urlando più forte. “Vogliamo sapere il nome... il nome... il nome!...” “Volete proprio saperlo?”, disse allora Pipì. “Mi dispiace doverlo confessare in pubblico: ma l'unico che sia degno di essere eletto imperatore... sono io!...” “Viva Pipì! Viva il nostro imperatore! Viva l'imperatore di tutte le scimmie!”, gridò quella immensa folla entusiasmandosi e battendo le mani. Fu portata subito in mezzo alla piazzetta una vecchia seggiola impagliata che, veduta di dietro somigliava moltissimo a un trono imperiale: e Pipì vi si assise sopra con sussiego e maestà. Intanto una numerosa fanfara musicale, composta di cento cembali e di cento corni di bove, cominciò a sonare l'inno dell'incoronazione. Quattro scimmiotti, vestiti da paggi, presentarono al nuovo imperatore un bel vassoio tessuto di giunchi, sul quale vedevasi la corona e lo scettro imperiale.
La corona era fatta di mele lazzarole infilate in un cerchietto di ferro: e lo scettro era una canna di zucchero bell'e candito. Pipì prese la corona dal vassoio, e dopo averla con molta dignità annusata, se la pose in capo. Quindi afferrò lo scettro, e non potendo reggere alla tentazione, cominciò a succiarlo e a masticarlo: ma, per buona fortuna, uno scimmiotto, che era lì accanto e che faceva da cerimoniere, gli dette nel gomito per avvertirlo dell'atto sconveniente. Allora il nuovo imperatore smesse subito di succiare; e per rimediare allo scandalo dato, pensò bene di durare un quarto d'ora a leccarsi le dita. In quel mentre, si fecero avanti sedici scimmioni, che portavano sulle spalle una magnifica lettiga, adorna di foglie, di fiori e di bellissime frutta. La scimmia, che faceva la parte di gran cerimoniere, dopo avere strisciato due profondi inchini, disse rispettosamente al nuovo imperatore: “Maestà, su, da bravo! Ora tocca a voi”. “Tocca a me? E che cosa debbo fare?” “Per amore o per forza, degnatevi di saltare su quella lettiga.” “E quando sarò saltato lassù, dove mi condurrete?” “Al palazzo imperiale, dov'è la vostra residenza e il vostro letto.” Pipì, a queste parole, fece una certa smorfia, che tradotta in lingua parlata, pareva che volesse significare: "A dir la verità, io dormirei più volentieri sopra un ramo d'albero, come ho fatto finora, che sopra un letto imperiale". Tant'è vero che rivoltosi al gran cerimoniere gli domandò con tono agro-dolce: “Scusate, amico: io sono il vostro imperatore, non è vero?”. “Verissimo.” “E che cosa vuol dire imperatore?” “Vuol dire che voi siete una scimmia, che comandate a tutte le altre scimmie, e che ogni vostro cenno e desiderio dev'essere immediatamente obbedito.”
“Quand'è così, dichiaro francamente che, invece di andare in lettiga, preferisco di camminare a piedi.” “Mi dispiace, Maestà: ma voi non potete farlo.” “Perché non posso farlo?” “Perché un imperatore, che cammina a piedi, non è più un imperatore. Camminando a piedi, diventa una scimmia come tutte le altre scimmie.” “Eppure avete detto che ogni mio desiderio dev'essere contentato.” “Verissimo. Ricordatevi però, Maestà, che la più bella prerogativa che abbiano i regnanti, è quella di non poter far nulla a modo loro.” “Ho capito, e vi ringrazio”, disse Pipì. E, spiccato un salto, andò a sedersi sulla lettiga. La fanfara, allora, cominciò a sonare alla viv'aria, e l'immenso corteggio si mosse con grand'ordine e con solennissima pompa. Giunto al palazzo, l'imperatore si assise subito ad una tavola bell'e apparecchiata nella gran sala da pranzo. Il povero Pipì, sebbene fosse diventato imperatore, aveva un appetito che somigliava moltissimo alla fame, come un fratello potrebbe somigliare a una sorella: ma non riuscì a contentare il brontolio del suo stomaco, perché i vassoi pieni d'ogni ghiottoneria, appena portati in tavola, erano subito vuotati e spolverati dai commensali, che gli facevano corona. “Il pranzo finì: e lo scimmiottino aveva più fame di prima.” “Pazienza!”, disse fra sé e sé. “Ora me ne anderò a letto, e dormendo, mi dimenticherò che non ho mangiato.” Detto fatto, entrò nella camera imperiale: e dopo poco russava come un ghiro. Quand'ecco che sul più bello, si trovò svegliato da una sinfonia indiavolata di cembali e di corni e da migliaia e migliaia di voci, che gridavano: “Viva l'imperatore! Fuori l'imperatore!”.
“Maestà”, disse il gran cerimoniere, entrando in camera, “alzatevi e affacciatevi al balcone. I vostri sudditi vogliono vedervi.” “Peccato!”, brontolò Pipì, stropicciandosi gli occhi. “Dormivo così bene!” E sbadigliando e barcollando si affacciò al balcone. “Viva il nostro imperatore!”, gridò novamente quell'immensa folla di scimmiotti radunati sotto le finestre della reggia. “Grazie, amici”, rispose Pipì, dimenando la testa in atto di salutare. “Sento che avete una bellissima voce, e me ne rallegro tanto con voi. E non avendo altro da dirvi, buona notte e ci rivedremo domani.” A queste parole, la folla si sciolse tranquillamente, e Pipì tornò ad accovacciarsi sul suo letto imperiale. Ma in quel mentre che stava lì per riprendere il sonno, ecco una nuova sinfonia di corni, di cembali e di urli popolari. “Che cos'è stato?”, domandò alzando il capo. “Maestà”, rispose il gran cerimoniere, entrando in camera “i vostri sudditi desiderano vedervi un'altra volta. Degnatevi affacciarvi al balcone.” “Eccomi subito”, disse Pipì. “Pregate intanto i miei amici a concedermi un minuto di tempo, tanto che io possa lavarmi il viso.” ò un minuto, ne arono due, cinque, venti, e l'imperatore non si vedeva apparire. Andarono allora a cercarlo in camera, e non lo trovarono più. L'imperatore era sparito.
13. Pipì riceve una lezione dal coniglio
Che cos'è stato dell'imperatore Pipì? Nessuno l'aveva veduto: nessuno sapeva
darne contezza. Che fosse fuggito via da qualche finestra? Impossibile: perché le finestre, riscontrate a una a una, furono trovate tutte chiuse dalla parte di dentro. Dunque?... Fatto sta, che lo cercavano da per tutto. Lo cercarono nell'armadio di camera, nella dispensa della sala da pranzo, nelle stanze di guardaroba, nei sottoscala, in tutti gli sgabuzzini e perfino nelle cantine del palazzo: ma inutilmente. Alla fine, fruga di qui, guarda di là, a qualcuno venne in capo l'idea di dare un'occhiata sotto il letto imperiale. Volete crederlo? Sissignori: l'imperatore era per l'appunto nascosto sotto il letto e se la dormiva saporitamente. Quale scandalo! Quale orrore!... “Sire! Che cosa fate costì?”, gli domandò il gran cerimoniere, pigliandolo rispettosamente per un orecchio. “Dormo”, rispose Pipì, sbadigliando e allungandosi. “Svegliatevi, e rizzatevi subito in piedi! Non vi vergognate?” “A dir la verità, quando ho sonno davvero non mi sono mai vergognato a dormire.” “Ma perché addormentarsi in quel luogo? Dov'è, o Sire, la vostra dignità imperiale?” “L'avrò forse dimenticata sotto il letto”, rispose ingenuamente Pipì, il quale non sapeva che cosa fosse questa dignità tanto decantata. Poi, chiamando in disparte il gran cerimoniere, gli bisbigliò in un orecchio: “Volete, amico, che vi parli francamente? Avevo creduto finora che il far da imperatore fosse il più bel mestiere di questo mondo: ma oggi mi avvedo pur troppo di essermi ingannato. Oh fortunati gli scimmiottini che si contentano di rimanere semplici e modesti scimmiottini per tutta la vita! Almeno potranno levarsi il gusto di mangiare, quando hanno fame, di dormire quando hanno sonno, e sul più bello del sonno nessuno verrà mai a svegliarli, per costringerli a ringraziare dal balcone una folla di sfaccendati, che non hanno voglia di andare a letto”. Nel tempo che Pipì faceva questa confidenza intima al gran cerimoniere, il cielo
s'era fatto nero come la cappa del camino, e l'acqua veniva giù a catinelle. Allora si sentì sotto le finestre del palazzo imperiale uno strombettio di fanfare e un baccano di voci e strilli scimmiotteschi, che gridavano: “Vogliamo il sole! Vogliamo il bel tempo!... Se no, abbasso l'imperatore!...”. “Amici miei”, disse Pipì affacciandosi al balcone e parlando alla folla delle scimmie radunate in piazza. “Amici miei; come volete che io faccia a darvi il sole e il bel tempo, finché dura quest'acquazzone che pare un diluvio?” “No, no! Vogliamo il sole a ogni costo, e lo vogliamo subito!” “Confidate in me!”, soggiunse Pipì. “Appena la pioggia cesserà e il tempo si rimetterà al buono, io prometto di darvi il sole e il bel tempo.” Poche ore dopo, neanche a farlo apposta, la pioggia cessò e venne fuori un bellissimo sole. Ma quando gli scimmiotti si accorsero che il sole scottava troppo, chiamarono le fanfare e recatisi dinanzi al palazzo dell'imperatore, presero a gridare: “Vogliamo l'acqua! Vogliamo la pioggia!”. Pipì, annoiato da questa storia, aveva fatto giuro di non affacciarsi: ma poi sentendo che gli urli raddoppiavano sempre più, cacciò fuori il capo e disse: “Volete proprio la pioggia?”. “Sì, sì! Vogliamo la pioggia, se no, abbasso l'imperatore!” “Aspettatemi allora costì, e fra un minuto vi manderò la pioggia desiderata.” A queste parole tenne dietro un gran battìo di mani e il suono della marcia imperiale. Detto fatto, dopo pochi minuti, Pipì si affacciò novamente al balcone, gridando: “Eccovi la pioggia: e chi ne vuol di più, se la vada a prendere alla fontana!”. E nel dir così, rovesciò sul capo dei dimostranti una gran catinella d'acqua. Impossibile immaginarsi il tumulto che ne avvenne. Il palazzo fu invaso e preso
d'assalto. Si cercò l'imperatore per tutte le stanze: ma non si riuscì a trovarlo. Che cosa rimaneva da fare? Non trovando l'imperatore, la folla dové contentarsi di bastonare il gran cerimoniere. È sempre così! Nelle cose di questo mondo ne soffre sempre il giusto per il peccatore! Intanto Pipì, scappato di nascosto da una porticciola segreta, che restava dietro il palazzo, si era dato a correre per le viottole della boscaglia, come se avesse avute le ali ai piedi. E dopo aver corso due giornate intere, trovò in mezzo agli alberi una piccola casa senza finestre. Sulla porta della casa c'era seduto un bel coniglio che aveva il pelame turchino (come i capelli della Fata): il quale, vedendo Pipì, si alzò da sedere e lo salutò garbatamente, portandosi la zampa destra all'altezza del capo, a uso del saluto militare. “Che cosa fai costì, mio bellissimo coniglio?”, gli domandò lo scimmiottino. “Stavo appunto aspettando Vostra Signoria.” “Chi è questa Vostra Signoria?” “È lei.” “Sono io? Ah intendo, intendo! Compatiscimi, amico; perché i poveri, come me, quando sentono darsi di Vostra Signoria, credono sempre che si parli di qualcun altro. Non avresti per caso da offrirmi un po' da mangiare e un po' da dormire?” “Si degni di ar dentro, e troverà l'uno e l'altro.” Pipì, com'è facile figurarselo, accettò di gran cuore l'invito: e appena messo il piede sulla soglia di casa, vide nella stanza terrena una tavola apparecchiata e una materassina ripiena di penne di uccello, distesa per terra. Senza far complimenti, si pose subito a tavola, e dopo aver divorato in un attimo un piatto intero di nespole e di fichi verdini, principiò a dire sospirando: “Ho sofferto tanto, amico mio! La mia vita è tutta un'iliade...”. “Che cosa vuol dire iliade?” “Non so nemmen'io e non m'importa di saperlo. Io sono come certi ragazzi
figlioli degli uomini: ripeto a caso quel che sento dire e non mi curo d'altro.” “Non mi pare una cosa fatta bene.” “Pazienza! Cercherò di correggermi! Se tu conoscessi però tutte le mie disgrazie!...” “Le conosco.” “Come fai a conoscerle?”, domandò lo scimmiottino maravigliato. “Le ho lette nel Giornalino dei Bambini, che si stampa a Roma. Scusi, signor Pipì, la mia curiosità: ma lei non aveva promesso al padroncino Alfredo di tenergli compagnia in un gran viaggio intorno al mondo?” “Mi spiego: gliel'avevo promesso... e non glielo avevo promesso...” “Come sarebbe a dire?” “Mi spiegherò più chiaro. Devi sapere che io fui tentato a far quella promessa... lo sai da chi? dalla gola.” “Cioè?” “Il signor Alfredo, per sedurmi, mi fece portare in tavola delle frutta così belle e così saporite... che io, a quella vista...” “Ho capito, ho capito”, disse il coniglio ridendo. “Lei fece su per giù come fanno certi ragazzi figliuoli degli uomini, i quali, pur di ottenere dai loro babbi e dalle loro mamme qualche ghiottoneria o qualche balocco, promettono di esser buoni, di studiare e di farsi onore alla scuola... e poi? E poi, appena ottenuta la grazia, dimenticano subito le belle promesse fatte e chi s'è visto, s'è visto: non è vero?” “Ho paura, mio caro amico, che tu l'abbia indovinata.” “Vuol sapere, signor Pipì, come diceva il mio nonno? Il mio nonno diceva sempre che "quando si promette una cosa, bisogna mantenerla, e che quelli che mancano alle promesse fatte, non meritano di essere rispettati dagli altri, né assistiti dalla fortuna". Ha capito? Arrivedella, signor Pipì.”
E il coniglio, dopo queste parole, fuggì via come un baleno.
14. Pipì ritrova finalmente Alfredo e parte con lui
Intanto lo scimmiottino si persuadeva ogni giorno di più che quella casina fosse fatta apposta per lui: e dicerto vi sarebbe rimasto per tutto il resto della vita, se una sera, come già sapete, mosso a comione di un ciechino che domandava per carità un po' di ricovero, non avesse aperto la porta al suo terribile persecutore. “Potrei sapere”, disse Golasecca, appoggiandosi con le spalle alla porta che aveva richiusa dietro di sé, “potrei sapere chi è quel pietoso benefattore, che si è degnato di ospitarmi?” “Quel benefattore sono io”, rispose Pipì, alterando un poco la voce, per non essere riconosciuto. “E voi come vi chiamate?” “Mi chiamo... io!” "Questa voce la riconosco!", masticò il cieco fra i denti: quindi soggiunse: “Ditemi, mio caro benefattore, avete mai veduto per questi dintorni uno scimmiottino color di rosa?”. “Degli scimmiottini ne ho veduti dimolti: ma non erano color di rosa: erano tutti di un colore verde e giallo, come la frittata cogli spinaci.” "Questa è la sua voce!... è lui dicerto!" “Fra questi scimmiottini ne avete per caso conosciuto qualcuno che avesse nome Pipì?” “No!... anzi, sì... Mi pare di averne conosciuto uno. Ma quel Pipì era una birba matricolata... un vero malanno.” “Pur troppo! Figuratevi che io gli avevo fatto un monte di carezze e l'avevo
perfino tenuto a cena con me, alla mia tavola... e sapete come mi ricompensò? Mi ricompensò col saltarmi agli occhi a tradimento e coll'accecarmi, come se fossi un filunguello!” “Questo poi non lo credo.” “Non lo credete?” “No. Pipì era una birba: ma non aveva il cuore così cattivo da commettere una simile scelleraggine.” “Eppure è lui che mi ha accecato.” “No, no, no.” “Sì, sì, sì.” “Credetelo, Golasecca, quello che vi ha accecato non sono stato io; sarà stato Nanni, il gatto di Moccolino.” “Ah! finalmente ti sei scoperto!”, urlò il capo-masnada, con un grugnito di feroce allegrezza. Pipì si pentì subito della sua imprudenza: ma oramai era tardi! “Sono bell'e morto!”, disse girando gli occhi in cerca di una finestra per poter fuggire. Quella casina disgraziatamente non aveva finestre! Intanto Golasecca, brancolando in qua e in là con le mani, riuscì a prendere lo scimmiottino: e dopo averlo acciuffato, lo legò con una catenella di ferro e se lo pose a cavalluccio sulle spalle. Poi uscì di casa, e prese la prima straducola che gli capitò davanti ai piedi. “Che mi conducete a morire?”, domandò il povero Pipì con un filo di voce che si sentiva appena. “Fra poco te ne avvedrai! A buon conto, tu che hai gli occhi buoni, mi farai da guida lungo la strada.” “Dove volete andare?”
“Dove le gambe mi portano.” Camminando giorno e notte, fecero un lunghissimo tragitto senza fermarsi mai: finché una bella mattina si trovarono in una grossa città posta in riva al mare, e nel cui porto brulicavano cento e cento bastimenti a vapore. Golasecca, sedutosi sopra una panchina lungo la spiaggia, cominciò a frugarsi tutte le tasche del vestito: ma non avendovi trovato nemmeno un soldo per comprarsi un boccon di pane, si volse verso Pipì che era mezzo morto di fame e di stanchezza, e gli domandò con garbo dispettoso: “Dimmi, brutto scimmiotto, hai saputo mai far nulla nel tuo mondo?”. “Vale a dire?” “Vale a dire, sai cantare qualche canzonetta? Sai sonare qualche strumento? Sai fare i salti e le capriole? Sai mangiare la stoppa accesa?” “La stoppa accesa”, rispose Pipì, “la lascio mangiare a voi. Io, però, so ballare benissimo la polca e so rifare con la bocca il suono della tromba e del violino.” “Mi basta questo”, disse Golasecca: e senza mettere tempo in mezzo, con quella sua vociona, che pareva una cannonata, si diè a gridare sul pubblico eggio: “Avanti, avanti, signori! Vedranno il celebre Scimmiottino color-di-rosa, il quale ebbe l'onore di ballare al cospetto di tutti i regnanti, nonché, viceversa, delle principali Corti di genuino emisfero. Il mio scimmiottino balla, canta, suona e fa mille altre scioccherie, come potrebbe farle un uomo e qualunqu'altra bestia ragionevole. Avanti, avanti, signori! La spesa è piccola e il divertimento è grande”. Dopo questa parlantina calorosa, ebbe principio lo spettacolo dinanzi a un pubblico numerosissimo e, come si suol dire, molto scelto e intelligente. Il nostro amico Pipì non solo piacque, ma fece furore: tant'è vero che gli spettatori, a furia di urlare e di gridar bravo, erano rimasti fiochi e senza voce. Dopo finito lo spettacolo e sfollata la gente che si accalcava d'intorno, Golasecca sentì toccarsi in un braccio; e voltandosi burbanzosamente, si trovò dinanzi un bel giovinetto, in abito di viaggiatore, che gli domandò con graziosa maniera:
“È vostro quello scimmiottino?”. “È mio!... pur troppo è mio!” “Volete venderlo?” “Magari! Con tutto il cuore!” “Quanto ne volete?” “Mille lire; se vi pare un prezzo capriccioso, sono qui per accomodarmi.” “Eccovi mille lire: e lo scimmiottino è mio.” Quando il giovinetto ebbe pagato, si volse allo scimmiottino, dicendogli: “Non mi riconosci più?”. “Altro se vi riconosco, mio caro signor Alfredo!... Vi riconosco e vi voglio sempre un gran bene.” E il povero Pipì, dalla gran contentezza che sentiva nel cuore, cominciò a piangere come un bambino. Quella sera medesima, il giovinetto Alfredo e lo scimmiottino (rivestito tutto da capo ai piedi, s'intende bene, come un bel signore) partirono insieme, sopra un bastimento della Società Rubattino per un lungo viaggio d'istruzione. E quanto a me, confesso il vero, non mi farebbe nessuna meraviglia se, un giorno o l'altro, vedessi annunziato nel "Giornalino dei Bambini", un racconto con questo titolo: Il Viaggio intorno al mondo, raccontato dallo Scimmiottino color di rosa. Negli annali della stampa, non sarebbe questo il primo caso di qualche scimmiotto che ha la sfacciataggine di far gemere i torchi, e, occorrendo, anche i torcolieri.
La festa di Natale
La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina. Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata. La contessa ava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata. Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno! Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non ava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo: “Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene”. E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava
mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
Alberto, il fratello minore, aveva un'altra ione. La sua ione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare. Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua. E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi: “Buon giorno, Pulcinella”, gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. “Buon giorno, Pulcinella.” E Pulcinella non rispondeva. “Buon giorno, Pulcinella”, ripeteva Alberto. E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui. “Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.” E Pulcinella, duro! “Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso” diceva Alberto un po' stizzito. E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava. “Ma perché”, gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, “ma perché se ti dico "guardami" allora mi guardi; e se ti dico "buon giorno" non mi rispondi?” E Pulcinella, zitto!
“Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!” E Pulcinella alzava una gamba. “Dammi la mano!” E Pulcinella gli dava la mano. “Ora fammi una bella carezzina!” E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso. “Ora spalanca tutta la bocca!” E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno. “Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.” Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno. Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!... e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba. “Povero Pulcinella!”, disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, “se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio... e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d'oro e mezza d'argento.”
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s'intende bene, de' loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell'Ada. Otto
giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio. Luigino, com'è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato. L'Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo. In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni. Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a so per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c'era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia. “Zio Bernardo, ho fame”, disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l'interno della stanza terrena. Nessuno rispose. In quella stanza terrena c'era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani. “Zio Bernardo, ho fame!...”, ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena. “Insomma vuoi finirla?”, gridò l'uomo dalla barbaccia rossa. “Lo sai che in casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!” E nel dir così, quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.
Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo. Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce: “Grazie... ora non ho più fame...”.
Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso comionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più. Alberto, per altro, non se l'era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola: “Oh come dev'essere cattivo il freddo! Brrr...”. E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte “Oh come dev'esser cattivo il freddo!” si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina. Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa. “Sor Albertino, buon giorno signoria”, disse la Rosa: “quanto tempo è che non è ato dalla casa dell'Orco?” “Chi è l'Orco?” “Noi si chiama con questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.” “O il suo bambino che fa?” “Povera creatura, che vuol che faccia?... È rimasto senza babbo e senza mamma,
alle mani di quello zio Bernardo...” “Che dev'essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?”, soggiunse Alberto. “Pur troppo! Meno male che domani parte per l'America... e forse non ritornerà più.” “E il nipotino lo porta con sé?” “Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio”. “Brava Rosa.” “A dir la verità, gli volevo fare un po' di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.” Alberto stette un po' soprappensiero, poi disse: “Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.” “Non dubiti.”
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre salvadanai. Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo. “Il tuo salvadanaio”, gli disse la mamma, “è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca voglia di studiare.” “La voglia di studiare l'ho avuta”, replicò Alberto, “ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi asse subito.” “Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo stesso” soggiunse la mamma: poi
volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: “Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.” "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo. "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola. "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella. Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava: “Sor Alberto! sor Alberto!”. Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più volte: “Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!”.
Otto giorni arono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini. Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli: “Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo”. Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da
fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani. “Non c'è che dire”, osservò la mamma, sempre sorridente “quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto... il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.” “No, no”, gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, “prima di me, tocca all'Ada.” E l'Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo figurino. “Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!”, disse l'Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola. “Quelle scarpine sono un amore!”, replicò la mamma. “Peccato però che debbano calzare i piedi d'una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!”
“E ora, Alberto, vediamo un po' come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.” “Ecco... io volevo... ossia, avevo pensato di fare... ossia, credevo... ma poi ho creduto meglio... e così oramai l'affare è fatto e non se ne parli più.” “Ma che cosa hai fatto?” “Non ho fatto nulla.” “Sicché avrai sempre in tasca i danari?” “Ce li dovrei avere...” “Li hai forse perduti?” “No.”
“E, allora, come li hai tu spesi?” “Non me ne ricordo più.” In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse: “È permesso?.” “Avanti.” Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo. “È tuo, Rosa, codesto bambino?”, domandò la Contessa. “Ora è lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.” “E chi è quest'angelo di benefattore?”, chiese la Contessa. L'ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta: “Eccolo là.” Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare: “Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!...”. “La scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto una bell'opera di carità come la sua?” “Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!”, ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.
La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.
Dopo il teatro
Alfredo, Gino e Ida entrano tutti e tre insieme nella stanza preceduti da Bettina, che va a posare il lume sulla tavola.
ALFREDO (levandosi il cappello e il paletò): Com'hanno recitato bene! ma proprio bene!... IDA: Quanto ci siamo divertiti, Bettina mia!... Che bella commedia!... GINO: E la farsa dove la lasci? Se tu avessi visto, Bettina, il brillante della farsa! Chi sa quanto tu avresti riso! Figurati! gli è venuto fuori in maniche di camicia, e ha detto che dal freddo tremava tutto come un pezzo di gelatina. Te lo immagini un brillante di gelatina! (Ridendo di genio.) BETTINA: E la commedia era bella davvero? IDA: Alfredo, diglielo tu. ALFREDO: La commedia era bellissima: ma io, dico la verità, avrei sentito più volentieri un dramma. IDA: Perché un dramma? ALFREDO: Perché i drammi mi piacciono di più. GINO: Anch'io mi diverto di più ai drammi: almeno si piange. Ma, più di tutto, mi piacciono le tragedie. ALFREDO: Le tragedie? O dove le hai viste tu, le tragedie? IDA: Povero figliolo, se l'è sognate! GINO: Hai sentito, Bettina? E' voglion dire che le tragedie me le sono sognate!...
Non è vero che l'anno ato mi conducevi quasi tutte le sere ai burattini nel Parterre? BETTINA: Verissimo. CINO: Non è vero che una sera i burattini fecero due tragedie di fila? BETTINA: Sarà vero, ma io le tragedie non le conosco: a me mi paiono tutte commedie. ALFREDO: E com'erano intitolate queste due tragedie? GINO: Ora non me ne rammento: gli è ato tanto tempo! Una mi pare che la fosse intitolata, Filippo Vu Re di Spagna. ALFREDO (ridendo): Ma che Filippo Vu? Sarà stato Filippo Quinto. GINO: Sarà stato Filippo Quinto: io però mi ricordo che sul cartellone c'era scritto Filippo, e dopo Filippo c'era un V in stampatello grande come la mia mano. ALFREDO: Sta bene che ci fosse un V: ma quel V in numeri romani vuol dir quinto. GINO: Cosa vuoi tu che io sappia dei numeri romani? Non ci sono mica stato a Roma, io. ALFREDO: E quell'altra tragedia? GINO: Quell'altra l'aveva un certo titolo curioso... te ne ricordi te, Bettina? BETTINA: Che vuol che mi ricordi? GINO: Mi pare che fosse una specie di Spazzolino Tiranno di Padova. ALFREDO: Ma che spazzolino, buacciòlo? Vorrai dire Ezzelino tiranno di Padova. GINO: Insomma, o lui o un altro, io so che a quella tragedia mi sono divertito dimolto. Ti rammenti, Bettina, che piacere quando tutti cominciarono a dare addosso al tiranno? Giusto te, Alfredo, levami una curiosità: mi dici perché tutti i
tiranni hanno la barba nera? ALFREDO (con serietà): Già: perché se la tingono apposta per far paura. GINO: Ah!... ora capisco. Del resto io so che se domani avessi cento milioni di patrimonio... IDA: Sentiamo un po': che cosa vorresti fare? GINO: Prima di tutto vorrei mettere ogni mattina nel Caffè-e-latte più di mezza tazza di zucchero, e poi vorrei andare tutte le sere ai burattini. IDA: Tutte, tutte le sere? GINO: Tutte le sere: anche quando piovesse. IDA: A me poi i burattini mi piacciono, sì, ma fino a un certo segno: io più di tutto mi diverto al teatro, e specialmente a stare in un palco. ALFREDO: si dice i gusti! Io, invece del palco, anderei più volentieri in una poltrona d'orchestra. A stare in un palco ci ho rabbia, e sai perché? perché ci guardano tutti. IDA: Lasciali guardare. Io so che mi diverto moltissimo a vedermi guardare co' cannocchiali. ALFREDO: Finiscila, giuccherella! Chi vuoi che perda il suo tempo a guardare co' cannocchiali una moccichina come te? IDA (risentita): Non cominciare, Alfredo! Tu hai sempre il vizio di offendere!... ALFREDO (ridendo): Mi dispiace: ho sbagliato a dir moccichina: volevo dire un bel pezzo di donna come te. IDA (impermalita): C'è poco da canzonare. Ora sono piccola! ma poi crescerò anch'io. Il babbo dice che gli anni ano per tutti. Per noi altri ragazzi, però, questi anni benedetti non ano mai. La mi pare una bella ingiustizia! Oramai gli è un secolo che ho sempre dieci anni!... BETTINA: si consoli: fra pochi mesi ne avrà undici.
IDA: Bella consolazione! Prima d'arrivare a quindici anni, figurati se c'è da allungare il collo. Però, se si guarda alla statura, sono grande quasi quanto Alfredo. ALFREDO: Cucù! (In canzonatura.) IDA: Quanto vuoi scommettere che ci corre appena un dito? ALFREDO: Cucù. BETTINA: Vediamo un po', Idina: la vada a misurarsi con Alfredo. ALFREDO (con serietà): Sai, Bettina, potresti anche dire col signor Alfredo: ti ho già avvertito che questo tono di confidenza non mi piace punto. Capirai che non lo faccio per me: lo faccio per riguardo del mondo. GINO (in caricatura): Oh! l'illustrissimo signore Alfredo ha mille ragioni. Da qui in avanti gli darò del signore anch'io. Anzi, gli voglio dare dell'eccellenza (ridendo). ALFREDO: Bada, Gino! non far tanto lo spiritoso. Ti avverto, per tua regola, che le mani mi cominciano a prudere... GINO (scherzando): Che paura che mi hai fatto!... Ora non parlo più. Scusa, Bettina: ma la cena non è ancora preparata? Io ho un appetito che paion due. BETTINA: La cena è preparata: ma il babbo legge il giornale, e quando avrà finito li farà chiamare. GINO: Vuoi sapere perché il teatro mi piace tanto? perché dopo il teatro, ci tocca la cena. BETTINA: O che forse non cena anche le altre sere? GINO: Sì: ma l'altre sere io e l'Ida ci fanno cenare alle otto, per poi mandarci a letto. Cenare alle otto mi pare una cena da polli. ALFREDO: Che cosa vorresti fare tutta la sera levato? Dopo le ventiquattro ti addormenteresti sul canapè.
GINO: Io, anzi, non ho mai sonno. ALFREDO: Bravo! Meno male che ti sei addormentato anche stasera. GINO: Dove? ALFREDO: Nel palco. GINO: Quando? ALFREDO: A metà del second'atto: non è vero, Ida? IDA: M'è parso anche a me. GINO: Nossignori: sbagliano, non dormivo. ALFREDO: O allora che cosa facevi? GINO (un po' confuso): Pareva che dormissi... ma invece pensavo. ALFREDO (ridendo): O che per pensare c'è forse bisogno di chiudere gli occhi? CINO: Secondo i naturali delle persone. Per esempio, anche il nostro maestro di scuola qualche volta, specialmente nelle ore calde dell'estate, ci dice: “Ragazzi, siate buoni e non fate tanto chiasso, perché ho bisogno di pensare cinque minuti a una cosa”; e quando ha detto così, appoggia la testa alla spalliera della poltrona, chiude gli occhi, apre la bocca e comincia a pensare... ALFREDO: Ossia, comincierà a dormire. GINO: Nossignore, non dorme: tant'è vero che, se urliamo troppo forte, si sveglia subito e ci fa una strapazzata di quelle co' fiocchi... Ma dunque, si va o non si va a cena? Ho una fame che la vedo. BETTINA: Abbia pazienza altri due minuti. ALFREDO: Intanto che si aspetta, si fa una bella cosa? GINO E IDA (insieme): Sentiamo. ALFREDO: si ripete fra noi tre quella bella scena della commedia, dove il figlio
riconosce sua madre? IDA: Ripetiamola davvero. GINO: No, no: io voglio prima ripetere alla Bettina il discorso che ha fatto il brillante, quando è venuto sulla scena in maniche di camicia. Vuoi sentirlo, Bettina? (si leva la giacchettina, la butta sul canapè e rimane in maniche di camicia.) BETTINA: Perché si è levata la giacchettina? GINO: Voglio farti vedere il brillante tale e quale. BETTINA: Io non voglio vedere tanti brillanti. Io voglio che si rimetta subito la giacchettina. Ma non lo sa che a questi freddi potrebbe prendere un'infreddatura come nulla? GINO: Un'infreddatura? non mi parrebbe vero di prenderla. Almeno il babbo mi comprerebbe le pasticche di lichene. IDA: Vergognati, ghiottonaccio! GINO: Mi piacciono tanto le pasticche di lichene!... E, invece, a farlo apposta, non infreddo mai. Si vede proprio che sono nato disgraziato! (Rimettendosi la giacchettina.) ALFREDO: Dunque si fa questa scena, dove il figlio riconosce la madre? GINO: Scusa, Alfredo: spiegami prima una cosa, che non ho potuto capire. Nella commedia di stasera, la madre sa fin dal principio che Carlo è suo figlio, non è vero? ALFREDO: Sicuro che lo sa. GINO: E se lo sa, mi dici perché aspetta a farsi riconoscere da lui, proprio all'ultima scena dell'ultimo atto? ALFREDO: Povero figlio! Bisogna proprio dire che non hai nemmeno l'ombra del genio drammatico! O non capisci che se la madre si fe riconoscere alla prima, la commedia finirebbe subito, e noi a quest'ora saremmo tutti a letto da un
bel pezzo? Invece la madre, aspettando a farsi riconoscere proprio all'ultimo atto, costringe il pubblico a rimanere in teatro fino alle undici sonate: e così la gente, quando torna a casa, è tutta contenta, perché sa di avere spesi giustificati i suoi quattrini per il biglietto d'ingresso: mi sono spiegato? GINO: Ora ho capito tutto. E io m'ero figurato invece che quella mamma di Carlo fe un po' di burletta. ALFREDO: Diavol mai! O che si fanno le burlette anche nelle commedie serie?... Non ci mancherebb'altro! IDA: Dunque si recita o non si recita questa scena? ALFREDO: Lasciatemi distribuire le parti a me. Io farò da Carlo, ossia da figlio, e tu, Ida, farai la parte della madre. GINO: E io? ALFREDO: E tu farai da marito, ossia farai la parte di quello che arriva da ultimo e che tira la revolverata. GINO: Fossi matto! Io non le faccio quelle brutte cosacce! ALFREDO: S'intende bene che, invece di tirare colla pistola, tu farai il colpo con la bocca. GINO: Come sarebbe a dire? ALFREDO: Tu farai colla bocca: bum! GINO: E quando lo debbo fare? ALFREDO: Quando sarà il momento. GINO: Ho capito. ALFREDO: Dunque attenti. Io starò da questa parte: tu, Ida, mettiti là, vicina a quella tavola, per poterti appoggiare, quando dovrà venirti lo svenimento. GINO: E io?
ALFREDO: E tu nasconditi dietro quella porta: e quando sarà il momento, uscirai fuori tutt'a un tratto e farai: bum! IDA: Se io faccio la parte di madre, tocca a me a incominciare. ALFREDO: Comincia pure: io son pronto. IDA (movendosi e gestendo drammaticamente): “No, Carlo, voi non partirete... Oh! Dio!... se voi poteste... oh! Dio!... vedere i tormenti... e lo strazio... oh! Dio... di quest'anima!... Oh! Dio, pietà... di questa povera infelice...” IL CAMERIERE (affacciandosi sulla porta): Signorini, il babbo li chiama a cena. ALFREDO: Eccoci subito. Su, Ida; riattacca subito la tua parte, ma mettici un po' più di ione... un po' più di singhiozzo... molto singhiozzo. IDA (declamando): “Oh! Carlo! Se poteste leggere... Oh Dio... in questo cuore... Oh!... Se poteste contare le lacrime...” GINO (uscendo fuori): Bum! ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no! GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena. ALFREDO: Avanti, Ida, avanti! IDA (declamando): “No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete... voi non potete partire di qui...” ALFREDO (declamando): “Sì, o donna, io partirò... io lascerò questi luoghi fatali... io fuggirò lontano, lontano, lontano...” GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum! ALFREDO: Ancora no, t'ho detto! GINO: Ho fame, la volete capire?
ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita. (declamando) “Sì, il mio destino vuole così... noi non ci rivedremo mai più... mai più!” IDA: “Voi, Carlo, non partirete!” ALFREDO: “Io partirò!” IDA: “No...” ALFREDO: “Sì: chi potrà impedirmelo?” IDA: “Io!” ALFREDO: “Voi?... e chi siete voi?” IDA (con molto singhiozzo): “Sciagurato!... io... so... no... tua...” GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa). ALFREDO: Quand'è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.
Chi non ha coraggio non vada alla guerra
proverbio in undici parti
I.
Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni. “Perché questo nome di Leoncino?”, domanderete voi. La storia sarebbe un po' lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole. Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone. Napoleone!... Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C'è quasi il pericolo di soffocarlo! Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino. Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo. Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava. Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne. L'unica sua ione erano le sciabole di latta con l'impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in
tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia. Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l'uniforme di generale d'armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d'argento. Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna. Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni. Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli. Com'è naturale, pensarono subito, tutti d'accordo, di fare i soldati. Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d'esercito, sonando la tromba con la bocca. Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria. Tonino guidava i carri dell'ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell'ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino... Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.
II.
Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa. Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull'erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s'intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il
grido d'allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all'improvviso. Ma l'uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché. Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett'anni finiti. Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz'ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio. E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c'è l'esempio d'un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui. Da quel giorno in poi, in quel corpo d'armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l'ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d'insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto... e tutti pari. E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano? Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l'esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a o di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent'anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l'ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: “Avanti! Coraggio, marmotte!... Serrate le file!... Alla baionetta!”. Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita. E la quercia?... La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:
“Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!...”.
III.
Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò. Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico. Quando, tutt'a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di i, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa. La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d'argento. Che cos'era mai accaduto di strano?... Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo. E per l'appunto la prima persona, in cui s'imbatté, fu lo zio. Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più. Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d'uva. Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello. Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c'è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece... Invece è una bonissima pasta d'uomo, burlone, allegro, di buon'umore, tutt'amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.
Tant'è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito: “Che cos'è stato? Perché hai il viso così ?... Dove sono rimasti i tuoi cugini?...”. Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse. “Dunque?...”, insisté lo zio, alzando sempre più la voce. “Ecco... dirò... una bestia così brutta...” “Quale bestia?...” “Io...” “Come? tu sei una bestia?...” “Io, no: quell'altra... che ho trovata nel bosco...” “Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!... Dov'hai lasciato i tuoi cugini?...” “Fra poco verranno...” “Eccoci qui! eccoci qui!”, gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti camli. E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate. Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon'umore, disse allora con accento risentito: “Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?”. “Si ride di lui!...” E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte. “Del nostro coraggioso generale!” E qui una risata più lunga. “Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d'acqua!” E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.
E Leoncino?...
IV.
Leoncino aveva perduto la voce. Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell'occhiatacce ai suoi compagni, come dire: "Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!...". “Dunque, si può sapere che cos'è accaduto?”, domandò il babbo. “Te lo racconterò io”, disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria. “No: io!”, gridò Gigino, il rappresentante la fanteria. “Nossignori, tocca a me”, strillò Arnolfo, il trombettiere. “Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.” “Lasciate parlare Arnolfo”, disse il babbo, “e zitti tutti!” Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto: “Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: "Avanti!" noi tutti si rispose: "Andiamo!". “Andiamo? Ma dove volevate andare?”, domandò il babbo. “O che non lo sai? S'andava a far la guerra...” “La guerra contro chi?” “La guerra contro Cartagine.” “E chi è questa Cartagine?”
“È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.” “E perché la chiamate Cartagine?” “Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.” “Ora ho capito tutto!”, disse il babbo. “Prosegui pure il racconto.” “Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: "Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me". Ma questa l'è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti... ne convieni?... Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.” “Via! via! via!”, gridò il babbo. “Non ci perdiamo in tante lungaggini.” “Mi spiccio in due parole. Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a o di corsa. Quando tutt'a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma... fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare. E come scappava!... Se tu avessi visto come scappava!... Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.” “E la cagione di questo spavento?” “Figurati! Aveva visto fra l'erba una tartaruga!”
V.
Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch'esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:
“Soldati! In riga di battaglia!”. A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle. Allora il signor Giandomenico riprese: “Visto e considerato che un generale d'armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d'Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale. Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d'onore.” Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po' di trotto e un po' di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l'atto di chiedergli la spada. Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso. Alla fine, visto che non c'era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l'ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria. Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita. E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l'altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale. E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria. E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace. E la pace fu firmata. Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest'atto d'umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale. Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell'idea.
Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: "Domani o doman l'altro sarò generale daccapo... e allora, guai a Raffaello... Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!...”. Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!
VI.
Indovinate un po', ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale? Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso. Figuratevi che bel giudizio! “Io”, disse subito Arnolfo, “scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.” “Bella bravura davvero!”, replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo. “Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.” “E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile”, disse Raffaello. “E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino”, dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria. “Io poi scommetto di saltare una buccia di fico”, disse ridendo Tonino, capitano d'ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s'era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca. Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò
con aria baldanzosa di sfida: “Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell'orto dalla terrazza del primo piano?”. “Io no davvero: c'è da rompersi una gamba”, rispose uno dei ragazzi. “Nemmen'io; c'è da spaccarsi la testa”, rispose un altro. “Della testa me ne importerebbe poco”, soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l'appunto oggi ho i calzoncini nuovi!” Leoncino sorrise allora d'un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un'occhiata di comione a' suoi cugini, disse con aria di smargiasso: “Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l'avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo... e poi, perché? perché l'altro giorno all'improvviso ebbi paura di una tartaruga. Dicerto, gua', se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.” “O per chi l'avevi presa?”, domandò Arnolfo ridendo. “L'avevi forse presa per un elefante?...” “Non dico un elefante... però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l'erba, mi fece una certa impressione... un certo non so che... Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio...” “Tutt'altro” replicò Arnolfo col solito risolino “vuol dire solamente che avesti paura!...” “Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.” “Canta, canta, canarino!” “Arnolfo, non offendere!” “Io non t'ho offeso.” “Mi hai detto canarino.” “Canarino non è un'offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.”
“Ma io le penne gialle non ce l'ho!”, gridò Leoncino, iscaldandosi. “Se non le hai, le potresti avere.” A quest'ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.
VII.
Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l'atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca: “La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!”. E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena: “La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!...”. E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui. Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò: “Mi dici perché te la prendi sempre con me?”. “Io me la prendo con te? Neanche per sogno. Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.” “Perché?” “Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata. E me ne ricorderò sempre!... ma oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più. Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina... o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi... ma oramai ti ho bell'e perdonato e non ci penso più! E
per l'appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!... Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo... Meno male che oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più!...” “Basta, basta!” interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi. “Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?” “Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!” gridarono tutti. Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova. Il suo amor proprio non gliel'avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c'è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.
VIII.
Leoncino esitò un minuto... due minuti... poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell'uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell'altre birbe: “Dove andate con tanta fretta?”. “Si va su in terrazza.” “In terrazza? A far che cosa?” “A... a... a prendere una boccata d'aria.” “Non è vero, sai, babbo!”, disse subito Arnolfo, “non si va a prendere una boccata d'aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare
giù nell'orto.” “È proprio vero che hai fatto questa scommessa?” disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote. “Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell'affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice atempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all'impazzata sulle spallette dei fiumi? nell'arrampicarsi in vetta agli alberi? nell'andare a bagnarsi dove l'acqua è più alta, senza saper nuotare?... No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!” A questa parlantina fatta co' fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio. Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé: "E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!... mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!...". Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere. Ora bisogna sapere che, dall'oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe. Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.
IX.
Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio: “Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?”. “Le volpi” rispose il guardaboschi “somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola. Non le ha mai vedute, lei, le volpi?” “Mai.” “Vuol vederne una?” “Una volpe viva?...” “No, morta. La trovai cinque anni fa nel bosco, l'ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare... ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l'è impagliata così bene, che c'è da scambiarla per una volpe viva. Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.” “Quando posso venire?” “Anche domattina.” “A che ora?” “Di prima levata, avanti che io vada al bosco.” Leoncino non intese a sordo. La mattina dopo si alzò di bonissim'ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi. Quando fu là, l'amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c'era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti. Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d'ispirazione improvvisa... e voltandosi al guardaboschi, gli disse:
“Come è bella! Me la vuoi vendere?”. “Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.” “Davvero?” “E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c'è il caso che, una volta o l'altra, me la mangino i topi.” “Dunque la posso prendere?” “La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?” “Sicuro che la voglio portare da me. La villa dello zio è così vicina!” “Guà: faccia lei.” Leoncino, con l'aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.
X.
Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c'era. Aspettarono un quarto d'ora, mezz'ora, un'ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand'ecco che finalmente Leoncino tornò. “Dove sei stato finora?”, gli domandarono tutti insieme. “Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d'incontrare la volpe.” “La volpe non c'è più: è sparita da un pezzo”, disse Raffaello. “Come lo sai?”
“Sono cinque giorni che non s'è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.” “E se la incontravi davvero?”, disse Arnolfo. “Se la incontravo? Tanto peggio per lei. Che avete paura, voialtri, della volpe?” “Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi...” “A me poi”, disse Leoncino, “la volpe non mi fa paura.” “Guarda un po' quanto coraggio hai messo fuori tutt'a un tratto: o chi te l'ha prestato?”, disse Arnolfo ridendo. “Arnolfo, non ricominciare!... se no, ci guastiamo davvero. Dunque si va o non si va?” “Dove?” “A far la nostra eggiata militare e il solito rancio.” “Eccoci pronti!” “Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov'è quella foltissima macchia, che si chiama... aiutatemi a dirlo.” “La macchia di Tentennino”, urlarono i cinque ragazzi. “Bravi! la macchia di Tentennino. Dunque sacco in spalla, e via!” Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt'a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa: “Alto! e fermi tutti!...” “Che cos'è stato?...” “Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che
sbuca fuori?” “Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!...” “È una volpe davvero!...” “Per me, torno subito indietro”, disse Arnolfo impaurito. “Anche noi, anche noi!”, dissero gli altri fratelli. “Dunque avete paura?...”, gridò Leoncino. “Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!” “Leoncino, da' retta a noi, torna indietro anche tu”, dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a o di carica.
XI.
Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato. Questa lotta disperata durò un buon quarto d'ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli: “Dunque? Come è andata a finire?”. “Bene.” “Ti ha graffiato? ti ha morso?” “Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.” “L'hai ammazzata?”
“Mi è fuggita sul più bello... ma è fuggita in uno stato da far pietà... se campa fino a domani è un miracolo.” A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio. Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone. Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll'impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d'argento. Quand'ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c'era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino. “Fatelo ar qui” disse lo zio Giandomenico. E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato. “Che cosa vuoi, Michele?”, domandò lo zio. “Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l'ha presa col dire che l'avrebbe portata alla villa... ma viceversa poi, l'ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino...” “Dove?”, gridarono i ragazzi a una voce. “Nella macchia di Tentennino?...” E nel dir così, si scambiarono fra loro un'occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: "Ora abbiamo capito tutto!...". Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.
“E guardi, padron lustrissimo”, continuò il guardaboschi, “come me l'hanno conciata questa povera bestia!... Se sapessi chi s'è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover'a lui!...” Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera. Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso. Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po' monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio: “Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: "Chi non ha coraggio, non vada alla guerra"”.
L'avvocatino difensore
dei ragazzi svogliati e senza amor proprio
Il suo nome era Tommaso: ma, in casa e fuori di casa, lo chiamavano Masino. Masino aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico dell'acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti che portava addosso, spacciatore di bugie all'ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola. La mamma lo sgridava: il babbo lo rimproverava: il maestro lo puniva, i compagni di scuola lo canzonavano della sua buaggine; ma il nostro Masino non se ne faceva né in qua, né in là. “Quando avranno detto ben bene, si cheteranno!” E con queste parole, accompagnate da una spallucciata o da una scrollatina di capo, rimetteva l'animo in pace. Un giorno, per altro, si ficcò in testa di essere perseguitato ingiustamente, e tenne fra sé e sé questo curioso ragionamento: "Tutti mi sgridano... tutti l'hanno con me!... E la ragione? Alla fin de' conti, io faccio quel che debbono fare tutti i ragazzi. La colpa, dunque, non è mia. La colpa è della mamma, la quale non si cheta mai; la colpa è del babbo, che urla sempre... la colpa è del maestro, che ha bisogno di farmi scomparire tutti i giorni dinanzi a' miei compagni di scuola. Oh che bella cosa se i babbi e le mamme qualche volta si correggessero della loro smania di brontolare!... Oh! che bella cosa se i maestri si persuadessero che dai ragazzi si può pretendere tutt'al più che vadano a scuola... Ma pretendere che vadano a scuola e che studino, mi pare una bella esigenza! Due cose a un tempo, chi è che possa farle?".
Batti oggi e batti domani con questi ragionamenti, Masino ebbe finalmente una bellissima idea, e disse tutto contento: “Se mi fi il difensore dei ragazzi come me? Se scrivessi un libro per dare una buona lezione ai babbi e alle mamme, e per correggere questi signori maestri, che sono peggio di tutti? Io non ho mai imparato a scrivere, ma ho sempre sentito dire che si scrive come si parla. Io parlo bene, dunque debbo sapere scrivere!... E pensare che il babbo e la mamma si ostinano a mandarmi a scuola! Un momento: e che cosa potrei scrivere? una Commedia col titolo I brontoloni?... Per la commedia, non toccherebbe a me a dirlo, ci ho avuto sempre molta vocazione. Anche la mamma, quando invento qualche bugia, dice sempre che somiglio al Bugiardo di Goldoni. Dunque, se somiglio al Goldoni, vuol dire che le commedie le so fare anch'io. E poi, quando ho fatto la Commedia, chi me la recita? E se per disgrazia me la fischiano? E il caso c'è, perché i babbi e le mamme, con la scusa di condurre noialtri ragazzi al teatro, vanno sempre alla commedia e alla farsa: e loro mi fischierebbero dicerto. O non sarebbe più liscia se scrivessi invece un bel raccontino, da mettersi sui giornali? Così mi salverei dal pericolo dei fischi, e se mi scape qualche sproposito, nessuno ci guarderebbe, perché il babbo dice sempre che i giornali sono pieni di spropositi e di notizie false. Sì, sì, voglio provarmi e subito”. Detto fatto, il nostro Masino, si chiuse in camera: e presa la penna e un foglio di carta, cominciò il suo racconto con questo titolo:
UN RAGAZZINO MODELLO
ossia una buona lezione per i genitori e per i maestri di scuola.
Poi seguitò così: Masino era il più buon figliolo di questo mondo. Il suo babbo e la sua mamma lo sgridavano sempre, e lui li lasciava sgridare: il suo maestro, per cavarsi il gusto
di punirlo, gli levava la colazione, e lui per prudenza faceva colazione prima di andare a scuola. Ma venne finalmente un giorno, in cui i suoi genitori e il suo maestro si accorsero d'avere un gran torto a fargli sempre de' rimproveri, e allora le cose andarono di bene in meglio. Quando Masino qualche volta si dimenticava di lavarsi le mani e il viso, la sua mamma, invece di sgridarlo, cominciò a dirgli: “Bravo Masino! Vedo che non ti sei lavato né il viso né le mani, e hai fatto bene. Coll'acqua, bambino mio, non bisogna pigliarsi mai confidenza. È così facile beccar delle infreddature e dei mal di petto!... A quanto pare, ti sei alzato ora dal letto, non è vero?” _“Sì, mamma.” “Sai che ore sono? sono le nove: e tu alle otto avresti dovuto andare a scuola...” “Che vuoi? Avevo sonno, e dormivo così bene!...” “Capisco, poverino! Il proverbio dice che chi dorme non piglia pesci, ma tu, carino mio, non devi fare il pescatore: dunque, se ti fa piacere, puoi dormire fino a mezzogiorno. E la lezione l'hai fatta?...” “La volevo fare, ma poi me ne sono scordato...” “Tale e quale come me! Anch'io volevo andare dalla mia sorella, e poi me ne sono scordata. Si vede proprio che sei figliolo della tua mamma. E per colazione che cosa prenderesti?” “Prenderò il solito Caffè e Latte...” “Ma rammentati, carino mio, di metterci dentro dimolto ma dimolto zucchero. Lo zucchero si compra apposta per finirlo subito, se no, va a male.” “E c'inzupperò due fettine di pane.” “No, angiolo mio, ci devi inzuppare due semelli, e bene imburrati, perché il burro fa bene alla gola e aiuta la digestione. E a scuola ci vuoi andare oggi?”
“Senti, mamma, non ci anderei...” “È appunto quello che volevo dirti io. Per andare a scuola c'è sempre tempo. Sai piuttosto che cosa farei, se fossi in te? Anderei a giocare a palla fino a mezzogiorno: poi tornerei a casa a fare uno spuntino con una bella fetta di rosbiffe, un piatto di maccheroni con sopra due dita di cacio parmigiano, e una bella torta ripiena di panna montata. E se dopo lo spuntino, vorrai studiare un po' la lezione...” “Ecco, mamma, se invece di studiar la lezione, andassi a giocare a trottola nei viali delle Cascine?” “Benissimo! Si vede proprio che sei un ragazzino pieno di giudizio. La trottola, alla tua età, è molto più utile della Geografia e della Storia. Che bisogno c'è di studiare la Storia quando tutto il mondo è pieno di storie? Dunque, addio carino: io scappo a fare una visita alla mia sorella, e tu cerca di divertirti più che puoi, e non studiar tanto!... (tornando indietro) Mi raccomando: non studiar tanto! (tornando indietro una seconda volta) Non studiar tanto, perché a studiare c'è sempre tempo!...”
Fra babbo e figliolo
Masino, pochi giorni dopo, andò in camera a cercare il suo babbo (il quale si era corretto del bruttissimo vizio di brontolare) e gli disse: “Sai, babbo, che cosa mi ha fatto il maestro?”. “Che ti ha fatto?” “Con la scusa che ho sbagliato a rispondere nell'Aritmetica, mi ha messo in penitenza...” “Ma queste son cose orribili!... Lo racconterò ai carabinieri!...” “Senti, babbo; io non voglio più andare a scuola.”
“Io farei come te. A che serve la scuola? La scuola non è altro che un supplizio inventato apposta per tormentare voialtri poveri ragazzi.” “Capisci? Mettermi in penitenza perché l'Aritmetica non vuole entrarmi nella testa! Sta' a vedere che un libero cittadino non è padrone di non saper l'abbaco? Perché anch'io sono un libero cittadino, ne convieni, babbo?” “Sicuro che ne convengo.” “Il mio maestro è un buon omo: ma è un omo piccoso. Figurati! pretenderebbe che i suoi scolari dovessero studiare!...” “Pretensioni ridicole! Se viene a dirlo a me, non dubitare che lo servo io.” “Dovresti andare a trovarlo!” “Vi anderò sicuro: e gli dirò che i maestri possono pretendere che i loro scolari sappiano la lezione... ma obbligarli a studiare, no, no, mille volte no.” “La volontà è libera, ne convieni, babbo?” “Sicuro che ne convengo, e quando un ragazzo dice: "Io non voglio studiare" nessuno può costringerlo.” “Figurati! Pretenderebbe che, durante la lezione, i suoi scolari stessero tutti zitti! Com'è possibile di stare zitti quando si sente la voglia di parlare?” “Hai mille ragioni! Che forse la parola venne data all'uomo, perché a scuola stesse zitto? Lascia fare a me: domani vado a trovarlo, e gli dirò il fatto mio.”
A scuola
E il babbo andò davvero a trovare il maestro, e gli fece una bella lavata di capo, da ricordarsene per un pezzo: tant'è vero che quando Masino tornò a scuola, il maestro gli si fece incontro tutto mortificato, e tenendo il berretto in mano, gli disse:
“Scusa, sai, Masino, se l'altro giorno ti messi in penitenza. Fu uno sbaglio, perdonami: tutti si può sbagliare in questo mondo. Che cosa avevi fatto, povero figliuolo, da meritarti quel gastigo? Non avevi imparato la lezione... Ma è forse questa una mancanza? Che forse gli scolari hanno l'obbligo di saper la lezione? Non ci mancherebb'altro! Animo, via, perdonami e non se ne parli più! Fammi intanto vedere i tuoi quinterni! Benissimo! Sono tutti coperti di scarabocchi! Gli scarabocchi sui quinterni provano che lo scolaro è un ragazzino pulito e che studia bene. Ti darò sette meriti per gli scarabocchi. I ragazzi di buona volontà, come te, vanno sempre incoraggiati. Vediamo ora i tuoi libri. Arcibenissimo! Questi libri tutti strappati e sbrindellati, sono una bella prova che sai tenerne di conto. La prima cosa che deve fare uno scolaro perbene e veramente studioso, è quella di sciupare i libri di scuola. Ti darò cinque meriti per i libri sciupati. Se domani poi, venendo a scuola, ne perderai qualcuno per la strada, ti aggiungerò altri cinque meriti, perché la cosa possa servir d'esempio a' tuoi compagni. E questa macchia, che hai qui sul davanti della camicia, come mai te la sei fatta?”. “Me la son fatta stamani, nel leccare lo zucchero in fondo alla chicchera.” “È una macchia che ti torna benissimo a viso. Io ho avuto sempre a noia gli scolari con la camicia pulita. Gli scolari mi piacciono, come te, tutti coperti di macchie e di frittelle. Ti darò sei meriti per quella bella macchia di caffè e latte. Ne meriterebbe di più, ma per oggi tiriamo via. Dimmi, Masino: hai studiato la lezione di Grammatica?” “Sissignore.” “Dimmi, dunque, quante lettere ci vogliono per formare una sillaba?” “Così, all'improvviso, non saprei dirlo...” “Benissimo. Me lo dirai un'altra volta. E l'Abbaco l'hai studiato?” “Sissignore.” “Che cosa rappresenta una crocellina così + posta fra due numeri?” “Ecco... dirò... che rappresenta una croce...” “Oggi non sei in vena a rispondere. Mi risponderai un'altra volta. E la Geografia l'hai imparata?”
“Sissignore.” “Sentiamola. In quante parti si divide comunemente l'Italia?” “In quattro parti: Italia di sopra, Italia di sotto, Italia nel mezzo, e Italia...” “Italia come?...” “Italia... da una parte.” “Non è precisamente così, ma mi risponderai meglio un'altra volta. Eccoti intanto dieci meriti per la franchezza, con la quale hai risposto a tutte le mie domande.” Agli esami della fin dell'anno, il bravo Masino si fece moltissimo onore, e il suo babbo e la sua mamma gli regalarono venti pasticcini e un panforte di Siena.
La morale della Favola
L'autore offrì questo suo Racconto a parecchi giornali, ma nessuno volle accettarlo. I più benigni si contentarono di ridergli in faccia. Allora il nostro amico si consolò dicendo: “Peccato che nessuno abbia voluto pubblicarmi questo Racconto! Che bella lezione sarebbe stata per i genitori brontoloni e per i maestri tiranni!... Ma oramai ci vuol pazienza! e i ragazzi, con la scusa di farli studiare, si troveranno sempre perseguitati!...”.
Quand'ero ragazzo!
Mille anni fa, anch'io ero un ragazzetto, come voi, miei cari e piccoli lettori: anch'io avevo, su per giù, la medesima vostra età, vale a dire fra gli undici e i dodici anni. E com'è naturale, dovevo ancor'io andare tutti i giorni alla scuola, salvo il giovedì e la domenica. Ma i giovedì, nel corso dell'anno, erano così pochi!... Appena uno per settimana! E le domeniche?... Le domeniche era grazia di Dio, se ritornavano una volta ogni otto giorni. Anch'io andavo a scuola: ma non saprei dirvi se la mia scuola fosse elementare, o ginnasiale, o liceale, perché mille anni fa, ossia a' miei tempi, la scuola si chiamava semplicemente scuola, e quando noi altri ragazzi si diceva scuola, s'intendeva parlare di una stanza piuttosto grande e quasi pulita, nella quale eravamo costretti a are circa sei ore della giornata, e dove qualche volta s'imparava anche a leggere, a scrivere e a far di conto. La scuola, alla quale andavo io, era una bella sala di forma bislunga, rischiarata da due finestre laterali, e con un gran finestrone nella parete di fondo, il quale stava sempre chiuso, rimanendo nascosto dietro una grossa tenda di colore verdone-cupo. Presso le due pareti, a destra e a sinistra della cattedra del maestro, ricorrevano due lunghissimi banchi per gli scolari. Gli scolari seduti a destra si chiamavano Romani, e quelli a sinistra, avevano il soprannome giocoso di Cartaginesi. Tanto gli uni che gli altri erano capitanati da un imperatore: e per la dignità d'Imperatore si capisce bene che venivano scelti i due scolari, che nel corso del mese avevano ottenuto un maggior numero di meriti, sia per buoni portamenti, sia per lodevole prova fatta nelle lezioni giornaliere.
Una volta, me lo rammento sempre, il posto d'Imperatore dei Romani, toccò anche a me: ma fu una gloria eggera. Dopo due ore appena di regno, per una delle mie solite birichinate, il maestro mi fece scendere dal seggio imperiale, e fui riconfinato in fondo alla panca. Eppure, sia detto per la verità, ebbi tanta forza da sopravvivere a quella sciagura, e in pochi minuti seppi darmene quasi pace. Si vede proprio che, fin da ragazzo, io non ero nato per far l'imperatore. E ora indovinate un po', in tutta la scuola, chi fosse lo scolaro più svogliato, più irrequieto e più impertinente? Se non lo sapete, ve lo dirò io in un orecchio: ma fatemi il piacere di non starlo a ridire ai vostri babbi e alle vostre mamme. Lo scolaro più irrequieto e impertinente ero io. Non ava giorno che non si sentisse qualche voce gridare: “Signor maestro, che fa smettere Collodi?”. “Che cosa fa Collodi?” “Mangia le ciliegie, e poi mi mette tutti i nòccioli nelle tasche del vestito.” Allora il maestro scendeva dal suo seggio: mi faceva sentire il sapore acerbo delle sue mani secche e durissime, come se fossero di bossolo, e mi ordinava di cambiar posto. Dopo un'ora che avevo cambiato posto, ecco un'altra voce che gridava: “Signor maestro, che fa smettere Collodi?”. “Che cosa ti fa Collodi?” “Acchiappa le mosche e poi me le fa volare dentro gli orecchi.” Allora il maestro, dopo avermi dato un altro saggio della magrezza e della durezza delle sue mani, mi faceva mutar posto daccapo. Fatto sta che a furia di mutar posto tutti i giorni, sulla panca dei Romani non c'era più un romano che volesse accettarmi per suo vicino.
Fui mandato, per ultimo ripiego, fra i Cartaginesi: e mi trovai accanto al più buon figliolo di questo mondo, un certo Silvano, grasso come un cappone sotto le feste di Natale, il quale studiava poco, questo è vero, ma dormiva moltissimo, confessando da se stesso che dormiva più volentieri sulle panche di scuola che sulle materasse del letto. Un giorno Silvano venne a scuola con un paio di calzoni nuovi di tela bianca. Appena me ne accorsi, la prima idea che mi balenò alla mente fu quella di dipingergli sui calzoni un bellissimo quadretto, a tocco in penna. Tant'è vero che quando l'amico, secondo il suo solito, si fu appisolato coi gomiti appoggiati al banco e con la testa fra le mani, io, senza mettere tempo in mezzo, inzuppai ben bene la penna nel calamaio, e sul gambale davanti gli disegnai un bel cavallo, col suo bravo cavaliere sopra. E il cavallo lo feci con la bocca aperta in atto di mangiare dei grossi pesci, perché così si potesse capire che questo capolavoro era stato fatto di venerdì, giorno in cui generalmente tutti mangiano di magro. Confesso la verità: ero contento di me. Più guardavo quel mio bozzetto, e più mi pareva di aver fatto una gran bella cosa. Così, però, non parve al mio amico Silvano: il quale, svegliandosi dal suo pisolino e trovandosi sui calzoni bianchi dipinto con l'inchiostro un soldato e un cavallo che mangiava i pesci, cominciò a piangere e a strillare con urli così acuti, da far credere che qualcuno gli avesse strappato una ciocca di capelli. “Che cosa ti hanno fatto?” gridò il maestro, rizzandosi in piedi e aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Ih!... ih!... ih!... Quel cattivaccio di Collodi mi ha dipinto tutti i calzoni bianchi!...” E dicendo così, alzò in aria la gamba, mostrando il disegno fatto da me con tanta pazienza e, oserei dire, con tanta bravura. Tutti risero, ma il maestro disgraziatamente non rise. Anzi, invece di ridere, scese giù dal suo banco, tutto infuriato come una folata di vento; e senza perdersi in rimproveri e parlantine inutili... Basta! per un certo sentimento di pudor naturale, rinunzio a descrivervi i diversi argomenti maneschi, che egli pose in opera per farmi guarire dalla strana ione di dipingere i calzoni de' miei compagni.
Peraltro, finita la scuola, il povero Silvano non voleva a nessun costo tornare a casa, vergognandosi a farsi vedere in mezzo alla strada con quella pittura, a tocco in penna, sulla gamba sinistra. Allora che cosa immaginai? Tanto per abbonirlo, gli appuntai sul davanti un foglio di carta bianca: il qual foglio, scendendogli giù fino al ginocchio, a guisa di grembiule, nascondeva agli sguardi indiscreti del pubblico e dei ragazzacci di strada il mio bellissimo capolavoro.
Il giorno dopo fu per me una giornata nera, indimenticabile. Appena entrato nella scuola, il maestro, con un cipiglio da far paura, mi disse, accennandomi un banco solitario in fondo alla scuola: “Prendi i tuoi libri e i tuoi quaderni, e va' a sederti laggiù! Così ti troverai sempre solo e isolato da tutti... e così pagherai caro il bruttissimo vizio di molestare i compagni, che hanno la disgrazia di starti vicini”. Mogio, mogio, come un pulcino bagnato, chinai il capo e ubbidii. Per il primo e il secondo giorno tollerai con rassegnazione la mia solitudine: ma il terzo giorno non ne potevo più: proprio non ne potevo più. I compagni mi guardavano e ridevano: mi pareva di essere in berlina. Dietro le mie spalle, come sapete, rimaneva un gran finestrone sempre chiuso e sempre coperto da una tenda di grossissima tela verdone-cupo. In un momento di gran noia e mentre cercavo qualche atempo per divagarmi, ecco che mi venne fatto di accorgermi che in quella tenda e precisamente all'altezza del mio capo, c'era un piccolissimo bucolino. Appena visto quel bucolino, il mio primo pensiero fu quello di allargarlo un poco per giorno, e di allargarlo fino al punto, da poterci ar dentro con tutta la testa. Questo lavoro durò quasi una settimana, perché la tela della tenda era molto ruvida e resistente. Alla fine, quando il bucolino diventò una buca, feci subito segno ai miei compagni di scuola di stare attenti, perché avrebbero visto un magnifico
spettacolo. Detto fatto, approfittando di quel momento che il maestro stava rileggendo i nostri componimenti, entrai dietro la tenda e cominciai a lavorare col capo. La buca era grande: ma il mio capo era più grande, e non ci voleva entrare: io, però, pigiai tanto e poi tanto, che finalmente il capo c'entrò. Figuratevi la risata sonora che scoppiò in tutta la scuola, quando la mia testa fu vista campeggiare in mezzo a quella tenda verdona, come se qualcuno ce l'avesse attaccata con quattro spilli. Ma il maestro, al solito, non volle ridere: e invece, movendosi dal suo banco, venne verso di me in atto minaccioso. Io, come è naturale, mi provai subito a levare il capo dalla tenda: ma il capo, che c'era entrato forzatamente, non voleva più uscire. La mia paura in quel punto fu tale e tanta, che cominciai a piangere come un bambino. Allora il maestro si voltò agli scolari, e in tono canzonatorio disse loro: “Lo vedete là, il vostro amico Collodi, tanto buono, tanto studioso, tanto garbato co' suoi compagni di scuola? Non vedete, poverino, come piange? Movetevi dunque a comione di lui: alzatevi dalle vostre panche e andate a rasciugargli le lacrime!”. Vi lascio immaginare se quelle birbe se lo fecero dire due volte! Ridendo e schiamazzando, si schierarono in fila a uso processione: e ando a due per due dinanzi a me, mi strofinarono tutti il loro fazzoletto sul viso! E pensare che fra quei fazzoletti da naso, ve n'erano parecchi che non avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora. Meno male che, a quell'età, tutti i nasi son fratelli fra loro!
La lezione fu acerba, ma salutare. Da quel giorno in poi mi persuasi che a fare i molesti e gl'impertinenti, si finisce nelle scuole per perdere la benevolenza del maestro e la simpatia dei nostri compagni. Diventai un buon figliuolo anch'io: rispettavo gli altri, e gli altri rispettavano me: e dopo un mese di lodevoli portamenti, fui nominato daccapo Imperatore dei Romani. I romani, però della mia scuola, invece di darmi il titolo di Maestà, continuarono sempre a chiamarmi col modestissimo nome di Collodi.
Una mascherata di Carnevale
ossia i sotterfugi
I.
Ogni volta che Cesarino andava o tornava dalla scuola, aveva preso il vizio di fermarsi a tutte le cantonate per leggere i cartelli dei teatri. Questa era la sua grande ione. E se per caso i cartelli annunziavano qualche commedia tutta da ridere, allora Cesarino cominciava subito a spappolarsi dalle risa, tale e quale come se si fosse trovato in teatro. Un giorno (sul finire di Carnevale) gli venne fatto di leggere un gran cartellone che diceva così:
R. TEATRO PAGLIANO
Domenica sera gran Festa di Ballo con ingresso alle Maschere.
La mascherata che sarà giudicata
più bella e più sfarzosa Riceverà un premio di Cento lire.
Appena letto quel cartello, il nostro Cesare non ebbe più bene di sé. Nel tornare a casa, andava fantasticando: “Se quelle cento lire le potessi vincere io!... Che bel signore che diventerei!... Metterei su carrozza e cavalli!... comprerei una bella villa con tanti poderi... e poi, tutti i quattrini che mi rimanessero in tasca, li darei alla mamma per le spese di casa... Eppure!... se avessi coraggio, tenterei davvero la fortuna! Chi mi dice che la mascherata inventata da me non riuscisse la più bella di tutte?... Per inventare una mascherata non ci vuol poi un gran talento!... Non è come il latino o la grammatica, ché quelle sono due cose uggiose, e per impararle bisogna essere sgobboni... Qui basta avere un po' di genio! A buon conto, non bisogna dir nulla a nessuno; specialmente a' miei fratelli. Guai se Orazio e Pierino sapessero qualche cosa!”. Nel dir così, si trovò quasi senza avvedersene alla porta di casa, e sonò il camlo. Orazio, per l'appunto il suo fratello Orazio, fu quello che aprì. “Giusto te!”, disse Cesare con aria di gran mistero appena entrato in casa. “Che t'hanno fatto?” “Nulla... Ho detto così per ischerzo.” “Eppure, a vederti in viso, si direbbe...” “Nulla, ti ripeto, nulla. Se fossi matto a confidarmi con te!...” “Hai forse qualche segreto?” “Vedi! Se te lo dicessi, saresti capacissimo di andarlo subito a raccontare alla mamma. La mascherata la farò... oramai ho detto di farla... e la farò: ma te e
Tonino non dovete saperne il gran nulla.” “Quale mascherata?” “Quella per andare domenica al teatro Pagliano, a vincere il premio...” “E il premio sarebbe?” “Cento lire alla più bella maschera della serata. Non lo dire a nessuno... ma la più bella maschera sarò io... capisci?...” “Allora voglio mascherarmi anch'io...” “Ma zitto, per carità: e non dir nulla a nessuno: specialmente a Pierino, che anderebbe subito a rifischiarlo alla mamma.” “Ti pare che voglia dirlo a Pierino? Piuttosto mi taglierei la lingua... Eccolo!... è lui!” In quel mentre entrò nella stanza, ballando e saltando, un ragazzetto di circa nove anni. Era Pierino, il minore de' tre fratelli: il quale, senza perder tempo, gridò strillando come una calandra: “Ditemi, ragazzi, si fa a mosca-cieca?”. “Abbiamo altro per la testa”, rispose Cesare. “Giusto a mosca-cieca!”, soggiunse Orazio. Pierino guardò maravigliato i suoi fratelli: e poi domandò: “Che vi è accaduto qualche disgrazia?.” “Finiscila, gua', giuccherello!”, disse Orazio. “O dunque?...” “Tu sei un gran curioso! E a farlo apposta non devi saper nulla!...” “Nulla! il gran nulla!...”
“E poi, siamo giusti, le mascherate non sono cose per te.” “Non sono cose da ragazzucci della tua età.” “Che vuoi che il premio lo diano a te?” “Sarebbe dato benino, e non canzono!” “Ma di che premio parlate?” “Delle cento lire, che daranno domenica sera al teatro Pagliano...” “A chi le daranno?...”, domandò Pierino, spalancando gli occhi. “A te no di certo. Ma forse a me...”, disse Cesare. “E a me, soggiunse Orazio.” “Che andate in maschera, voialtri?” “Lo dicono.” “E dove andate?” “Al teatro Pagliano.” “E quando?” “Domenica sera.” “Oh! bene! oh bene!”, gridò Pierino. “Allora ci vengo anch'io.” “Ma zitto! E non dir nulla a nessuno: specialmente alla mamma.” “Per chi mi avete preso? per una spia?” “A proposito”, disse Cesare, “come ci dovremo mascherare?” “Io non lo so”, disse Pierino. “Neanch'io”, soggiunse Orazio.
“Silenzio tutti! M'è venuta in capo una bella idea! Ma proprio bella...” “Sentiamola.” “Ditemi, ragazzi; le volete davvero queste cento lire?” “A me mi pare che tu ci canzoni...” “Io non canzono nessuno. Le volete, sì o no, queste cento lire?” “Io son contento se me ne dai quaranta”, disse Pierino, ma le voglio tutte in soldi, perché le mi fanno più figura.” “Se volete queste cento lire, date retta a quel che vi dico. Domenica sera ci dobbiamo mascherare tutti e tre, e la nostra mascherata deve somigliare a quella stampa colorita, che portò a casa l'altro giorno lo zio Eugenio...” “Quale stampa?...”, domandò Orazio. “Quella che rappresenta la famiglia del gobbo Rigoletto.” “E chi è questo Rigoletto?”, chiese Pierino. “Non lo conosci? Gli è quel gobbo rifatto in musica dal maestro Verdi... quello che dice:
La donna è mobile Col fiume a letto...”
“S'è capito, s'è capito”, disse Orazio. “Io, com'è naturale”, riprese Cesare, “mi vestirò da Re di Francia, e tu...” “Mi dispiace di non essere gobbo”, disse Orazio, “perché mi vestirei tanto volentieri da Rigoletto!”
“Al gobbo ti ci penso io: lascia fare a me...” “E io?”, domandò Pierino. “Tu ti vestirai da Gilda, figliola di Rigoletto.” “Io da figliola? Io per tua regola non faccio da figliola a nessuno: sono nato uomo e voglio mascherarmi da uomo: ne convieni?” “Benissimo: vuol dire che invece di vestirti da figliola ti vestirai da figliolo di Rigoletto... Che vuoi che Rigoletto non avesse in famiglia nemmeno un maschio?” “Così mi piace e ci sto.” E i tre fratelli, contenti di questa bellissima trovata, cominciarono a ballare in tondo per la stanza, come se avessero già guadagnato le cento lire del premio. Quand'ecco che Pierino, fermandosi tutt'a un tratto, domandò a' suoi fratelli: “Scusate, ragazzi, e i quattrini per comprare i vestiti da maschera dove sono?”. Nessuno rispose. E i quattrini per entrare in teatro, chi ce li da? La solita risposta.
II.
Quella sera andarono a letto mogi mogi. Cesare dormiva solo, e in un altro lettino accanto al suo, dormivano Orazio e Pierino. “Peccato!”, disse Cesare con un gran sospiro, prima di addormentarsi. “Quelle cento lire erano proprio nostre! Nessuno ce le poteva levare...” “Sfido io!...”, brontolò Orazio.
In quanto a Pierino non poté dir nulla, perché russava come un ghiro. La mattina dopo, sul far del giorno, Cesare svegliò i suoi fratelli gridando: “Allegri, ragazzi, allegri!... Ho bell'e trovato il modo di far la mascherata!”. “Davvero?”, disse Orazio, allungandosi e sbadigliando. “Quale mascherata?”, domandò Pierino, col capo sempre fra il sonno. “Ora vi dirò tutto. Volete sapere chi ci darà il vestiario?... Indovinatelo! Ce lo darà lo zio Eugenio.” Lo zio Eugenio (un gran capo-ameno) era fratello della mamma dei ragazzi, e stava con gli altri in famiglia, avendo nella medesima casa anche il suo Studio di pittura. “E come fai a sapere che il vestiario ce lo darà lui?” “Ne sono sicuro... perché glielo porteremo via di nascosto.” “Lo zio, dunque, ha tutto il vestiario per il Rigoletto?” “Non è precisamente il vestiario del Rigoletto, ma ci corre poco. Sono strisce di raso rosso, verde, turchino, di tutti i colori: e con quelle strisce noi ci faremo i calzoni, i vestiti e i berretti...” “Ma se tu fai da Re di Francia, ti ci vorrà la corona di Re”, disse Orazio. “Come sei ignorante!”, replicò Cesare con una scrollatina di capo. “Ma non sai che i Re di una volta, quando andavano a so, non portavano in capo né corona né cappello?” “O quando pioveva, come facevano?”, domandò Pierino. “Pigliavano l'ombrello, o se no, rimanevano in casa. Anche noialtri si sarebbe fatto così, ne convieni?” “Tu discorri bene”, soggiunse Pierino, “ma nella Storia Romana non c'è detto che gli Imperatori andassero fuori con l'ombrello...”
“E tu ci credi alla Storia Romana? Povero bambino, lo spendi bene il tu' tempo!...” Per farla breve, i tre fratelli entrarono nello studio dello zio, mentre lo zio era sempre a letto, e da una vecchia cassapanca gli portarono via un grosso fagotto di calzoni di seta, di sottoveste e di giubbe di raso e altre anticaglie d'ogni modello e colore. Poi corsero a dare un'occhiata a quella famosa stampa che rappresentava - per dir come dicevano loro - tutta la famiglia di Rigoletto: e presi i necessari appunti, si rinchio in camera a lavorare. Pierino, dopo averci pensato ben bene, si rassegnò a vestirsi da figliuola, invece che da figliuolo, e Cesare, avendo trovata una corona reale di cartone dorato, si rassegnò a portarla in capo. La mattina dopo... volete crederlo? tutto il vestiario, a furia di spilli, di aghi e di punti infilati a caso, era già in ordine. Come fero, non saprei dirvelo davvero. Io so una cosa sola, ed è questa: che i ragazzi, anche quelli di poca levatura, dimostrano sempre moltissimo ingegno quando lavorano per i loro balocchi. E i quattrini per entrare a teatro? Dove trovarli? Da chi farseli imprestare? Chiederli alla mamma era inutile, perché sarebbe stato lo stesso che scoprire tutto il sotterfugio combinato fra loro. A buon conto, avevano saputo che il biglietto d'ingresso al teatro costava una lira: dunque, essendo in tre, ci volevano almeno tre lire. Inventando una scusa di libri da comprare, si provarono a chiederle allo zio Eugenio: e lo zio, famoso per queste burle, rispose subito: “Volete tre lire sole? Io non faccio imprestiti così meschini! Chiedetemi cento, duecento, mille lire... e allora c'intenderemo...”. “Gua'”, disse Pierino, “se lei ci fida anche cento lire, noi le si pigliano volentieri.”
“Sicuro che ve le fido! E perché non ve le dovrei fidare?” “Dunque la ce le dia.” “Portatemi il calamaio e un pezzo di foglio bianco.” Quand'ebbe l'occorrente, lo zio scrisse sopra il pezzo di foglio:
Pagherete ai miei nipoti Cesare, Orazio e Pierino lire cento, che segnerete a mio debito.
Lo zio
“E ora”, domandò Cesare, “da chi si vanno a prendere queste cento lire?” “Alla Banca de' Monchi.” “E dov'è questa Banca?” “Qui svolto. Appena usciti di casa, tirate giù a diritta, poi trovate una piazza, poi svoltate a sinistra, poi girate in dietro, traversate il ponte e appena fuori della barriera, lì c'è subito la Banca de' Monchi.” I tre ragazzi stettero attentissimi: ma non capirono nulla. Fatto sta che Cesare, invece di andare a scuola, girò per tutta la città; e a quanti domandava della Banca de' Monchi, tutti lo guardavano in viso e ridevano. Tornato a casa, disse a' suoi fratelli: “Lo zio ce l'ha fatta!”. “Cioè?” “La Banca de' Monchi è una sua invenzione.”
“E ora come si rimedia?” “Il rimedio ce l'avrei...” “Dillo, dillo subito!”, gridarono Orazio e Pierino. “Ci state voialtri a vendere i libri di scuola?” “Magari!... e poi come si ricomprano?” “Con le cento lire del premio!” “Benissimo! E così li avremo tutti novi.” “E tutti rilegati...” A furia di discorrere e di ragionarci su, quei tre monelli finirono per persuadersi che, a vendere i loro libri di scuola, facevano un'operazione d'oro. Lo stesso giorno, Cesare, con un fagotto sotto il braccio, andò in cerca di un rivenditore di libri usati: e quand'ebbe in tasca le tre lire, gli parve di aver toccato il cielo con un dito.
III.
La sera che dovevano andare al teatro, finsero tutti e tre di avere un gran sonno: e come fecero bene la loro parte in commedia!... “Io non posso più tenere gli occhi aperti”, diceva Cesare. “Io dormo e cammino”, diceva Orazio. “Un sonno come stasera, non l'ho avuto mai”, diceva Pierino. “Se avete sonno”, disse la loro mamma, “è una malattia che si guarisce presto! Andate a letto e non se ne parli più.”
I tre ragazzi non se lo fecero ripetere: presero il loro candeliere e si chio in camera. “È meglio che ci vestiamo subito”, disse Cesare. “E poi?” “E poi s'entra a letto.” “E quando viene la mamma a darci il solito bacio di tutte le sere?... Se ci trova vestiti da Rigoletti?...” “Che discorsi! Prima di chiamar la mamma, si spenge la candela.” “E se la mamma entra in camera col suo bravo lume ?” “Hai ragione. Bisogna ricordarsi di star coperti perbene fino al collo...” I tre ragazzi, in un batter d'occhio, s'infilarono i loro calzoni e le loro gualdrappe di seta, e si nascosero sotto i lenzuoli, lasciando fuori solamente la testa. Dopo poco venne la mamma, e dato loro un bacio e la buona notte, accostò la porta di camera. “Ora”, disse Cesare, “bisogna stare in orecchio, per sentire quando la mamma va a letto. Attenti, dunque, e non ci lasciamo prendere dal sonno.” “Dal sonno?”, disse Orazio. “Io per tua regola, son bono a stare sveglio fino a domani.” “O io?”, disse Pierino. “Quando devo andare al teatro, non c'è caso che mi addormenti mai.” Lascio pensare a voi come rimasero la mattina dopo, quando svegliandosi, si trovarono tutti e tre nel letto, mascherati! “Meno male”, disse Cesare, “che domani sera c'è un'altra festa da ballo. Anderemo a quella.” “E il premio delle cento lire?”, domandarono Orazio e Pierino.
“C'è anche il premio.” Lesti lesti saltarono il letto, lesti lesti si spogliarono da Rigoletti e si rivestirono da ragazzi, e lesti lesti nascosero tutto il loro bagaglio in fondo a un piccolo armadio a muro. Arrivati alla sera dipoi, ripeterono la medesima scena della gran sonnolenza e dell'entrare sotto i lenzuoli bell'e vestiti cogli abiti da maschera. Appena, però, si accorsero che la mamma, dopo averli baciati, era rientrata nella sua camera, saltarono dal letto e si posero a girandolare in su e in giù, tanto per non lasciarsi tradire dal sonno. Aspetta, aspetta, aspetta, finalmente dopo un secolo sonarono le dieci. “Dunque si va, o non si va? Se vogliamo andare, questa sarebbe l'ora”, disse Cesare. “E la chiave di casa l'hai presa?”, domandò Orazio. “Eccola qui.” “E tu, Pierino, a che cosa pensi?” “Per me, se si deve andare, andiamo: ma il core mi dice che questi sotterfugi ci porteranno disgrazia. Se la mamma, nel tempo che siamo al teatro, la si svegliasse?...” “E perché si dovrebbe svegliare?” “I casi son tanti! E se una volta svegliata, la venisse in camera nostra e non ci trovasse nessuno?...” “Come sei uggioso! Benedetti i ragazzi e chi ci s'impiccia!”, brontolò Cesare sottovoce. Senza perdersi in altre chiacchiere, aprirono l'uscio di camera e parve loro di sentire qualcuno che si allontanasse in punta di piedi. “Che sia lo zio Eugenio?”, domandò Pierino, rattenendo il fiato.
“Quante paure! Lo Zio, per tua regola, è andato a letto prima di noi.” E, per esserne più sicuri, nel are davanti alla camera dello zio, stettero un po' in ascolto, e lo sentirono russare come un contrabasso. Giunti nella strada, richio la porta adagio adagio e senza far colpo. La serata era freddissima, ma bella: uno stellato, che faceva innamorare a guardarlo! I tre fratelli, tenendosi per la mano come tre buoni ragazzi che andassero a scuola, camminavano sul marciapiede: quand'ecco che sentirono dietro a loro una vocina di galletto che faceva: Chiù-chiù-chiù! Si voltarono e videro una figura magra e tutta nera, con un paio di corna in testa, che saltava e faceva mille sgambetti. “Che sia il diavolo?”, domandò Pierino, cominciando a tremare. “Ma che ti vai diavolando?”, dissero i suoi fratelli. “Non vedi che è una maschera? Fermiamoci e lasciamola are avanti.” E si fermarono: ma il diavolo si fermò anche lui. Allora i tre ragazzi, per non compromettersi, traversarono la strada e andarono dall'altra parte. E il diavolo, anche lui, andò dall'altra parte. “Che cosa vuole da noi?” gli domandò Cesare ingrossando la voce e facendo finta di non aver paura. “Chiù-chiù!” rispose il diavolo facendo uno sgambetto. “Noi andiamo per la nostra strada, e non si dà noia a nessuno.” “Chiù-chiù.” “Si levi di torno, sor impertinente, se no lo dico alle guardie.” “E io lo dico alla mamma”, urlò Pierino piangendo dalla paura.
“Chiù-chiù! Chiù-chiù! Chiù-chiù!...” E il diavolo cominciò a urlare e a saltare in un modo spiritato. I tre ragazzi impauriti si dettero a correre: e corri, corri, corri, arrivarono finalmente alla porta del teatro. Entrati in platea, fra mezzo alla folla, credevano di essersi liberati da quel diavolaccio che li perseguitava: ma invece, dopo due minuti, sentirono intronarsi gli orecchi da un chiù-chiù che parve una fucilata a bruciapelo. Che cosa dovevano fare?... A furia di spinte e di spintoni, e ando magari fra le gambe della gente, arrivarono a mettersi in fila davanti al palco della Commissione, che doveva giudicare le mascherate più belle. Poveri figliuoli! Non l'avessero mai fatto!... Appena arrivati lì, furono salutati da un fischio acutissimo e da una vociona che strillò: “Chiù-chiù!... Fuori i ragazzi! Via i ragazzi! A letto i ragazzi!” A questo grido sonoro e ripetuto, tutto il pubblico dei palchi e della platea si voltò: e vedendo quelle tre mascherucce, che pretendevano al premio, cominciò a sbellicarsi dalle risa e a ripetere in coro: “Fuori i ragazzi!” “Via i ragazzi!” “A letto i ragazzi!” Figuratevi il chiasso, il baccano e lo scompiglio, che nacque da un momento all'altro. In mezzo a quel pigia-pigia si sentì una voce di donna, che gridò: “Mi hanno rubato il vezzo!” Corsero subito le guardie: le quali, in tanto tramestìo, non sapendo su chi mettere le mani addosso, arrestarono le tre mascherucce che scappavano spaventate verso la porta del teatro.
“Ma perché ci arrestano?... Noi siamo innocenti!...” gridavano piangendo quei poveri ragazzi. “Fra poco ne riparleremo”, risposero le guardie, incamminandosi verso la Questura. “Lo creda... noi non siamo ladri”, diceva Cesare. “Di chi siete figlioli?” “Del nostro babbo e della nostra mamma.” “Che mestiere fanno i vostri genitori?” “Il babbo gli è fori di Firenze a far l'ingegnere e la mamma l'è a letto, che dorme...” “E che cosa siete venuti a fare al teatro?” “A vincere il premio.” “Il premio ve lo daremo noi. Come mai siete scappati di casa?...” “L'è una storia lunga...” “I ragazzi, che scappano di casa, non possono esser nulla di bono...” “Su questo l'ha ragione lei... non c'è nulla da dire... Ma la creda che siamo ragazzi perbene... e incapaci...” “Lo vedremo fra poco.” Nel dir così, le guardie spinsero i tre ragazzi dentro la porta di Questura: e un po' con le buone e un po' con le cattive, li fecero entrare nella stanza del Delegato. Il Delegato per l'appunto dormiva. Quando lo svegliarono, domandò: “Che c'è di nuovo?”
“Tre ragazzi arrestati al veglione...” “Ragazzi?”, ripeté il Delegato, sbadigliando. “Metteteli in prigione. Domani ne riparleremo.” Que' poveri figliuoli piansero, pregarono, si raccomandarono... Ma inutilmente. La guardia aprì una porticina e tutti e tre furono cacciati in gattabuia. Trovandosi soli e al buio, si presero l'uno con l'altro per la mano, stringendosi forte forte, per farsi fra loro un po' di coraggio. E intanto che Cesarino e Orazio si sfogavano a piangere dirottamente, Pierino balbettò singhiozzando: “Io te lo dissi, Cesarino... ma tu non mi volesti dar retta....” “Icché tu mi dicesti?...” “Quel che diceva la nostra povera nonna... che i sotterfugi portano sempre disgrazia.” “Allora vuol dire che tutta la colpa è tua”, gridò Cesare, arrabbiandosi. “Sissignore, tutta la colpa è tua!”, ripeté Orazio stizzito. “Ma perché la colpa è mia?...” “Perché dovevi raccontare il fissato della mascherata alla mamma, che ci avrebbe sgridato ben bene... e così ora, invece di trovarci qui in prigione, si sarebbe a casa a dormire ne' nostri lettini.” “E se dopo mi davi di spia?...” “Che spia e non spia? Se tu avessi raccontato ogni cosa alla mamma... ci avresti risparmiato un monte di dispiaceri. La colpa è tutta tua.” “Sissignore, tutta tua, tutta tua!”, ripeté Orazio. “Bella forza! Ve la pigliate con me, perché sono il più piccino!...” E chi sa mai questo dialogo quanto sarebbe durato, se la porticina della prigione non si fosse aperta, e una vociona di fuori non avesse gridato.
“Su, su, ragazzi! Potete andarvene a casa vostra. Sveltezza nelle gambe e via!” Come mai questo cambiamento di scena all'improvviso?... Si fa presto a capirlo: essendo stato scoperto e arrestato il ladro del vezzo, i tre ragazzi, riconosciuti innocenti, venivano lasciati in libertà. Figuratevi la loro contentezza, quando si trovarono in mezzo alla strada, padronissimi di tornarsene a casa! Non sapendo che cosa dire, piangevano, ridevano e si abbracciavano. E strada facendo, borbottavano fra loro: “Ora, appena arrivati a casa, si sale le scale in punta di piedi.... E poi s'entra in camera... E adagino adagino ci spogliamo... E nascondiamo questi panni sotto il letto.” “E domani si fa vista di aver dormito tutta la notte, e ci leviamo...” “E poi di nascosto si riportano questi cenci nella cassapanca dello zio...” “E poi si fa colazione come tutte le altre mattine...” “E poi si va a scuola...” “E i libri?...” “Si dice alla mamma che li abbiamo perduti...” “E così di questa brutta nottata, che c'è toccato a are...” “Nessuno ne saprà nulla...” “Nemmeno la mamma.” Con questi e con altri discorsi, si trovarono quasi senza avvedersene davanti alla porta di casa. Ma sugli scalini della porta c'era seduto... indovinate chi?... C'era seduto il diavolo, quel diavolo, loro accanito persecutore.
“Chiù-chiù! Dove andate?”, domandò l'omo nero. “Si vorrebbe andare in casa.” “Di qui non si a.” “Scusi, sor diavolo”, disse Pierino, “ma queste non sono azioni da persone di garbo.” “Se volete are, pagate il dazio.” “Ma che dazio! La si figuri che in tutti e tre, non abbiamo un centesimo.” “Chiù-chiù! Mi contenterò di questo spillone d'oro.” E nel dir così, il diavolo prese un bello spillone che Pierino teneva appuntato sul petto. “La mi renda lo spillone”, gridò il ragazzo. “Lo spillone non è mio, e lo voglio rendere alla mamma...” “Lascia correre, Pierino, se no ci rovini tutti!”, dissero i suoi fratelli. Il diavolo si tirò da parte, e i ragazzi entrarono in casa, richiudendo subito la porta. La mattina dopo, lo zio Eugenio, prima di uscir di camera, chiamò Pierino e gli disse ridendo: “Questa notte il diavolo è venuto a trovarmi e mi ha lasciato questo spillone d'oro per te.” “Come?... quel diavolo?...” “Io non posso dirti altro, perché non so altro.” Il povero Pierino rimase di stucco. Raccontò subito il fatto ai fratelli: e tutti insieme, a furia di ragionarci sopra, finirono per persuadersi che il loro diavolo persecutore doveva essere stato lo zio Eugenio.
FINE