Joss Wood
LA PERICOLOSA ARTE DI AMARE
Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Little Secrets: Unexpectedly Pregnant Harlequin Desire © 2018 Joss Wood Traduzione di Roberta Canovi
Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A.
Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.
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© 2019 HarperCollins Italia S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5899-512-9
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1
«Perché questa scultura mi fa pensare al sesso?» Sage Ballantyne guardò la donna che sperava sarebbe diventata sua cognata, ma non rispose a quel commento irriverente. Le opere di Tyce Latimore, che si trattasse di pitture a olio o di sculture di legno e acciaio, suscitavano sempre una reazione veemente. Era uno degli artisti più capaci della sua generazione. Di molte generazioni. Grazie al cielo era anche l'unico artista che si rifiutava di partecipare ai suoi vernissage; se ci fosse stata anche la benché minima possibilità che si fe vedere, Sage sarebbe rimasta alla larga dalla galleria. Fece scorrere gli occhi sulla scultura di quasi due metri. Era piuttosto inconsueta, diversa dalle linee solitamente fluide di Tyce. «Non c'è una curva in vista, eppure trasuda ione e ardore» reiterò Piper. Sage sollevò un sopracciglio. «Non trovo.» Al che Piper la prese per il gomito per trascinarla di qualche o. «Prova da questo punto di vista» le suggerì, le guance che si tingevano di rosso. Sage rise del suo imbarazzo prima di voltarsi a guardare di nuovo l'opera. In effetti, da quell'angolazione potevano sembrare due persone piegate su una scrivania, e Piper aveva ragione: una volta fatta la connessione, la ione era evidente. Quella scultura sarebbe stata oggetto di parecchie chiacchiere, negli articoli sull'artista; i critici avrebbero scritto fiumi di inchiostro sulla visione di Latimore della sessualità umana. Sage sapeva per esperienza cosa ne pensava del sesso: gli piaceva. Frequente, in qualunque circostanza. «Ma perché la rana?» domandò Piper prima di procedere verso l'opera
successiva in esposizione. Ogni muscolo nel corpo di Sage si irrigidì. Oh, no, dimmi che non l'ha fatto. Non poteva, non doveva. Nemmeno Tyce Latimore avrebbe avuto il fegato di... Studiò di nuovo la scultura e già, eccola lì, sulla scrivania, una piccola ranocchia d'acciaio, la superficie trattata in modo da assumere una sfumatura verdastra. In un lampo la mente di Sage tornò a tre anni prima...
Erano arrivati al party separati, perché non volevano far sapere della loro relazione – l'ereditiera e l'artista avrebbero fatto notizia – e avevano ato la serata fingendo di non conoscersi. La tensione era alle stelle e, ora che Tyce le aveva sussurrato all'orecchio di raggiungerlo nello studio, lei era un ammasso vibrante, accaldato e sovraeccitato che non desiderava altro che essere posseduto. Non erano trascorsi neanche venti secondi da quando era entrata nella stanza che la porta era stata chiusa a chiave, Tyce le aveva sollevato l'abito su per i fianchi e le aveva sfilato il tanga. Dopodiché aveva abbassato la cerniera dei pantaloni, l'aveva fatta piegare sulla scrivania e l'aveva presa da dietro, rapido ed energico. La rana di giada sulla scrivania del loro ospite li aveva osservati per tutto il tempo, nella totale indifferenza...
Sage risucchiò un respiro mentre il cuore cercava di arrampicarsi fuori dal petto. Come aveva osato? Quello che avevano fatto insieme non era per il pubblico godimento. Esattamente un'altra ragione per cui aveva fatto bene ad allontanarsi da lui, tre anni prima. «È stata una scultura difficile da realizzare.» L'inconfondibile voce di Tyce, profonda e vellutata, le giunse dalle spalle. «Continuavo a lasciarmi distrarre dai ricordi di quella notte. E di altre notti.» Quelle parole erano pronunciate solo per le sue orecchie, nessun altro avrebbe
potuto sentirle. Sage non si voltò, ma percepì il calore che emanava dal suo corpo e inspirò il suo odore di pulito, sensuale e maschio. Si sentì avvampare. Come al solito, ebbe l'impressione di essere stata collegata alla più vicina presa di corrente. La pelle fremeva, il cuore inciampava e la mente aveva perso l'equilibrio. Tre anni e lui ancora aveva la capacità di portarla dalla compostezza alla follia alla velocità della luce. Tre anni e il suo primo istinto era di supplicarlo di portarla a letto. Tre anni e, invece di essere furiosa con lui perché aveva raffigurato il loro incontro, per quanto in maniera effettivamente astratta, avrebbe voluto baciarlo. O prenderlo a schiaffi... Allora, come in quel momento, l'attrazione che provava per lui era irresistibile, così come la tentazione di avvicinarsi sempre di più. Generalmente Sage non aveva difficoltà a cambiare strada quando incrociava uomini che trovava troppo attraenti o troppo interessanti; intrecciare la propria vita a quella di qualcun altro non valeva la pena, considerando l'inevitabile dolore che le avrebbe procurato alla fine. Determinata a proteggersi, Sage raramente lasciava che i rapporti, soprattutto quelli con gli uomini, si prolungassero per più di una o due settimane. Con Tyce, le ci erano volute sei settimane per convincersi ad andarsene. Lui era estremamente pericoloso, una tentazione costante che causava dipendenza. Perciò baciarlo era fuori questione. Sage si voltò di scatto sui tacchi a spillo e il palmo aperto andò a impattare sulla sua guancia. Immediatamente pentita e mortificata, osservò quel viso fin troppo bello indurirsi, gli occhi di ossidiana che, se possibile, si facevano ancora più scuri. Tyce aprì la bocca per dire qualcosa, ma invece di parlare la afferrò per i fianchi e la strattonò contro il proprio petto muscoloso. La bocca disegnata dalla collera coprì la sua, la lingua che le scivolava tra le labbra, e Sage si perse, spazzata via verso un luogo dove solo Tyce sapeva portarla. Gli affondò le unghie nelle braccia, sentendo i muscoli potenti attraverso la stoffa leggera della sua camicia nera e, desiderando di più, lasciò vagare le mani sul suo petto ampio, verso quegli addominali scolpiti che lei aveva sempre amato tormentare e assaporare. Tyce staccò la bocca dalla sua. «Vieni con me.»
Lei si guardò intorno alla ricerca di Piper, incrociò il suo sguardo, e l'amica con un cenno le diede il permesso di andarsene senza di lei. Non avrebbe dovuto; davvero, non era una buona idea. Invece di dire di no, però, invece di liquidarlo o di voltargli le spalle – frapporre distanza tra sé e le persone era, dopotutto, ciò che le riusciva meglio – mise la mano nella sua e gli permise di scortarla fuori dalla galleria.
Tyce scivolò dal letto matrimoniale e si diresse al favoloso bagno privato della camera. Tre anni dopo e il sesso con Sage era ancora fantastico. Non aveva mai avuto un'intesa migliore, con nessuna, considerò mentre si liberava del preservativo. Il sesso non era mai stato un problema... tutto il resto sì. Si chinò in avanti e appoggiò le dita sulla guancia, controllando se lo schiaffo gli aveva lasciato dei segni. Esalò il fiato: solo loro potevano volare da uno schiaffo a un bacio al sesso selvaggio nel giro di un'ora. Lui e Sage erano, erano sempre stati, una combinazione esplosiva. C'era un motivo se si erano evitati per tre anni; se si ritrovavano nella stessa stanza, una qualche tempesta di fuoco era inevitabile. Tyce si aggrappò al piano del lavabo. Dalla sua espressione allibita quando si era voltata, era chiaro che Sage non si aspettava di incontrarlo al vernissage, e non poteva biasimarla. La comparsata alla galleria era stata un'aberrazione. Detestava parlare del proprio lavoro, trovarsi in mezzo a gente che osannava lui e la sua arte. Per Tyce, l'equazione era semplice: ti piace quello che faccio? Compra le mie opere. Non ti piace? Non è un mio problema. Non c'era alcun bisogno di discussioni infinite sulle influenze e sulle ispirazioni per ogni pezzo. Per sua fortuna, gli amanti dell'arte sembravano apprezzare ciò che produceva e, a detta di Tom, il suo agente, quella attitudine schiva nei confronti della pubblicità e dei critici d'arte e la sua natura solitaria, quasi da eremita, non facevano che aggiungere fascino al suo personaggio. Era andato alla mostra solo perché Tom aveva insistito che incontrasse un ricco CEO che voleva una scultura per l'atrio di ingresso del nuovo quartier generale della sua azienda. Era una commissione che avrebbe rimpolpato un bel po' le casse spoglie e non era un'offerta che poteva trascurare. Ogni considerazione sulla commissione, sull'agente e sulla mostra però era
evaporata quando aveva posato gli occhi su Sage, per la prima volta in tre anni. Un secondo dopo averla notata, la testa aveva cominciato a pulsargli, la pelle a scaldarsi e il suo mondo a inclinarsi. Dannazione! Era ancora attraente, interessante, persuasiva e bella da impazzire quanto lo era stata la prima volta. Il mondo era sparito e lui aveva voltato le spalle al CEO – che guarda caso era molto femmina, molto interessata a lui, e molto propensa ad affidargli la commissione – e si era fatto largo tra la folla per raggiungerla. Sarebbe stato facile definire i suoi capelli neri, in realtà non lo erano. Non proprio. Erano del castano più scuro che avesse mai visto. Gli occhi, invece, erano dello stesso azzurro delle mattonelle marocchine e il suo corpo, il prodotto di una vita ata a studiare danza classica. Sage, accidenti a lei, riusciva senza alcuno sforzo a essere incredibilmente aggraziata e, nel contempo, sensuale. Era l'unica donna che gli avesse mai mandato il battito cardiaco alle stelle, che gli avesse tolto l'aria dai polmoni e ripetere nella mente mia, mia, mia. Mentre si avvicinava a lei aveva in mente lenzuola di cotone e un letto immenso e gli era parso naturale esordire con una battuta allusiva. Lei, ovviamente, non era stata della stessa idea e aveva risposto con quello schiaffo. Ma, poiché aveva visto il desiderio nei suoi occhi e l'aveva sentito nel sussulto eccitato quando le labbra si erano toccate, aveva ignorato la guancia offesa e... e poi si era scatenato l'inferno. Un'ora dopo erano entrambi nudi e ansimanti e bene o male era così che erano rimasti per tutta la notte. Tyce si ò le mani sul viso. La sera prima avevano lasciato parlare i corpi, ormai, però, il sole si era levato e la realtà bussava alla porta. Letteralmente. Tyce aprì la porta del bagno e si ritrovò faccia a faccia con Sage. Era splendida, considerò, già sentendo l'eccitazione montare. Avevano appena fatto sesso per la maggior parte della notte e ne voleva ancora. Si irrigidì, aspettandosi che lei gli chiedesse quando si sarebbero rivisti, o se lui l'avrebbe chiamata nei giorni a venire. Non poteva fare né l'una né l'altra cosa. C'erano fin troppi segreti tra di loro, un ato che non lo rendeva possibile. «Dovrei mandarti all'inferno per quella scultura» esordì invece lei, «ma non ho
l'energia necessaria se non per un caffè. Peccato che qui non ce ne sia. Ho controllato. Ci vivi sul serio, qui dentro?» L'aveva chiesto per scherzo, tuttavia andava un po' troppo vicino al vero per riderci sopra. Come avrebbe reagito se Tyce le avesse detto che usava quell'appartamento a Chelsea solo di tanto in tanto, dato che era di proprietà di un suo cliente? Era più facile incontrare Sage a Manhattan che spiegare, a lei come a tutti gli altri, che a lui, nonostante le sue opere fossero quotate fino a cinque milioni di dollari, il denaro bastava appena per produrre altre opere, per comprare l'acciaio per le sculture e per pagare il mutuo e le utenze del magazzino a Brooklyn dove lavorava. E dove in realtà abitava. Sage aspettò che replicasse poi, visto che lui restava in silenzio, scrollò le spalle. «Be', poiché non hai il succo della vita, me ne vado.» Lui avrebbe voluto protestare, però sapeva che era la cosa migliore, perciò si limitò ad annuire. In fondo, non era cambiato nulla. Sage infilò le gambe snelle in un paio di jeans e agganciò la chiusura del reggiseno lilla. Tyce, a proprio agio anche nudo, varcò la porta e osservò la tensione che le si arrampicava sulle spalle. Sapeva cosa stava pensando: come potevano essere così perfettamente in sintonia tra le lenzuola, e incapaci di parlarsi fuori dalla camera da letto? Ci erano già ati. Erano stati fantastici a letto, e inutili fuori. Abituato a stare per conto suo, Tyce aveva faticato a suddividere equamente la propria attenzione tra lei e l'arte. E l'arte, a dirla tutta, aveva sempre vinto la partita. Aveva bisogno di vendere il maggior numero possibile di opere, come sempre. A un livello più fondamentale, però, Tyce sapeva che doveva mantenere una distanza emotiva. Una relazione, con Sage o con chiunque altra, richiedeva più di quanto lui avesse da dare. Le sue amanti avevano sempre da ridire sul suo bisogno di isolarsi, di are ore e giorni nello studio uscendone solo per il cibo, per una doccia e... per il sesso. Volevano attenzione, affetto, e Tyce, più di ogni altra cosa, voleva essere lasciato in pace, contento di comunicare attraverso le sue vivide, cupe pitture e le sue sculture di legno e acciaio. Non era bravo con le connessioni personali. Aveva speso tutta l'energia emotiva di cui era stato in possesso prendendosi cura della madre depressa e crescendo la sorellina, e non voleva mai più sentirsi su una zattera malsicura in un mare in tempesta. Aveva tenuto Sage a
distanza, incapace di lasciarla andare pur sapendo che lei aveva bisogno e meritava di più da lui. La morte del padre che l'aveva adottata era stata il loro punto di svolta: dato che non riusciva a vedersi in una relazione, che non voleva avere legami stabili, aveva usato il decesso di Connor Ballantyne come scusa per prendere le distanze e Sage, stranamente, l'aveva lasciato fare senza cercare di ricongiungersi. Aiutarla a superare la morte di Connor avrebbe trasformato il loro rapporto da casuale a serio, dallo sfiorare la superficie al gettarsi tra le onde e lui era stato troppo terrorizzato di affogare per correre quel rischio. Si sfregò il viso con le mani. La situazione con i Ballantyne era già fin troppo complicata – lui e la sorella, Lachlyn, erano gli unici al mondo a sapere che Lachlyn era la figlia illegittima di Connor Ballantyne – e la sua attrazione per Sage non era, e non era mai stata d'aiuto. L'arte, le tele e le sculture intricate, erano le uniche cose in vita sua che avessero un senso. Con l'arte sapeva esattamente cosa faceva. Facendo un o indietro, afferrò un asciugamano e lo cinse ai fianchi, tenendo gli occhi su Sage che stava infilandosi le scarpe. Lei prese la borsa e la mise in spalla, prima di puntargli un dito contro. «Allora vado.» Tyce vide il luccichio nei suoi occhi che tradiva le lacrime e provò una stretta al cuore. Non era mai stata sua intenzione ferirla, né quel giorno, né tre anni prima. «Sage, io...» Non completò la frase, non sapeva come. Non andare? Grazie per la splendida notte? Proviamo di nuovo? Perché la seconda era trita e ritrita e l'ultima impossibile, perciò si limitò a farsi avanti e a posarle un bacio sulla tempia. «Abbi cura di te» le mormorò. Lei gli puntò il dito dritto nello stomaco. «Se trovo qualcosa nelle tue opere che si riferisca a questa notte, giuro che ti sbudello.» Senza darsi la pena di guardarlo di nuovo, uscì dalla camera, un mix perfetto di classe e sfacciataggine, la schiena dritta come un fuso.
Tornato in bagno, Tyce sollevò la testa per guardare il proprio riflesso nello specchio, niente affatto colpito dall'uomo che rispondeva al suo sguardo. Lachlyn, meritava di avere qualcosa della compagnia che aveva creato suo padre, e inseguire e comprare tutte le quote della Ballantyne & Company che aveva potuto gli era sembrata la cosa giusta da fare, la cosa onorevole. Andare a letto con Sage, quel giorno come tre anni prima, non aveva fatto parte del piano. All'inizio aveva solo voluto conoscerla per scoprire quanto più poteva sull'iconica famiglia di Manhattan, perché intendeva usare quella conoscenza a proprio vantaggio, o a vantaggio di Lachlyn. Non aveva fatto conto sulla loro alchimia, sul desiderio che aveva subito preso vita tra loro. Aveva pensato che sarebbe stato facile voltare pagina una volta toltosi lo sfizio, invece si era dimostrato molto più difficile del previsto. La notte precedente aveva mandato in frantumi ogni cosa, perché dimostrava che avrebbe desiderato Sage Ballantyne finché avesse avuto vita... Rapido come il morso di un serpente, il pugno si scagliò contro lo specchio e pezzi di vetro si staccarono dalla cornice per finire nel lavabo e sul pavimento. Notando il proprio riflesso distorto nelle poche schegge che restavano alla parete, Tyce annuì, soddisfatto. Quello rappresentava molto meglio l'uomo che sapeva di essere.
2
Tre mesi dopo...
«Hai intenzione di schiaffeggiarmi di nuovo?» «La notte è ancora giovane. Chi può dirlo?» Tyce si accomodò sullo sgabello accanto a Sage, ordinò un whisky al barista e studiò l'ex amante. Aveva legato i lunghi capelli in una coda ordinata, permettendo agli occhi di dominare il viso. Quella sera le sue iridi erano di un azzurro pervinca con un anello blu intorno. A seconda del suo umore, avano dal blu, al colore dei jeans e a quella sfumatura insolita dell'azzurro marocchino. Ogni singola volta, i suoi occhi avevano la capacità di metterlo in ginocchio. Dio aveva giocato sporco quando aveva combinato quegli occhi incredibili con un viso che rasentava la perfezione – a forma di cuore, con zigomi alti, bocca sensuale, mento testardo – e poi, ciliegina sulla torta, aveva piazzato quella testa in cima a un corpo snello, intensamente femminile, assolutamente sensuale. Tyce adorava il suo viso, adorava il suo corpo e per la miseria adorava far l'amore con lei... Voleva baciare quella bocca, lambire la sua pelle, lasciar vagare le mani su quel corpo caldo. Era ato così tanto tempo e, dopo tre anni di inferno puro, una notte trascorsa con lei era stato come offrire una goccia d'acqua a un uomo disidratato. «Suppongo dovrei scusarmi per lo schiaffo» riprese lei dopo aver sorseggiato il suo drink e storto il naso in quel modo che lui aveva sempre trovato adorabile, «ma l'incidente è finito su tutte le pagine dei giornali, facendo ancor più pubblicità alla tua mostra già di successo e mandando alle stelle i prezzi
esagerati delle tue opere.» Esagerati? Tyce fece una smorfia, poi alzò le spalle. Non è che lui non avesse pensato la stessa cosa, almeno un paio di volte. I prezzi richiesti per i suoi lavori erano folli. Non era un Picasso o un Rembrandt, in fondo. Era solo un tizio che amava mettere insieme acciaio e legno, e che disponeva i colori su una tela in un modo che evidentemente alla gente piaceva. I critici d'arte, il suo agente e i proprietari delle galleria sarebbero rimasti scioccati se avessero scoperto quanto poco sforzo infondeva nell'arte che tutti riverivano. Nessuno sapeva, né sospettava che la maggior parte del tempo Tyce la ava a dipingere ritratti dettagliati, accurati fino all'ultima pennellata. I suoi ritratti, intimi, sinceri, estenuanti nella produzione, erano i lavori in cui lui si perdeva e si ritrovava. Molti di quei ritratti che nessuno aveva mai visto erano di Sage, e Tyce non sapeva, né intendeva riflettere su cosa potesse significare. Tra loro cadde il silenzio e lui si guardò intorno. Era rimasto sorpreso quando aveva ricevuto un messaggio da parte di Sage che lo invitava a partecipare al cocktail party dei Ballantyne che celebrava la mostra di gioielli e non si era neanche chiesto se fosse il caso di andare. Se uno era invitato ad ammirare una delle migliori collezioni di gioielli al mondo, incredibilmente rari e visibilmente costosi, non si lasciava certo sfuggire l'opportunità. Inoltre voleva anche dare un'occhiata alla nuova linea che Sage aveva disegnato, che era, come si era aspettato, fantastica... Fantasiosa e moderna, femminile e forte. Proprio come lei. E poiché era un uomo, sperava che la richiesta di Sage sarebbe sfociata in un'altra notte di sesso esplosivo. C'era solo un modo per scoprirlo. «Allora, mi hai chiamato per fare sesso?» Sage sbatté le palpebre. «Come?» «Mi hai chiesto di venire per andare a letto insieme?» «Che razza di bastardo arrogante!» Gli occhi scintillarono di irritazione, il rossore le salì alle guance. «Sei impazzito?» Probabilmente. Nel qual caso, la colpa era da affibbiare ai suoi occhi incredibili
e al suo corpo da favola e ai ricordi di quanto erano stati bene insieme. Peccato che la mente fosse propensa a sconfinare in territori pericolosi. Infatti si chiedeva come sarebbe stato svegliarsi accanto a lei la mattina, sentire il suo dolce buonanotte prima di addormentarsi... Si concedeva solo la più breve delle fantasie su come sarebbe stata una vita insieme a Sage, ma poi scacciava quei pensieri senza indugi. Sage apparteneva a una famiglia di successo, e non si riferiva all'immensa ricchezza dei Ballantyne: lei e i fratelli conoscevano il vero significato della parola famiglia, e come farne parte. Tyce no, e non ne aveva la più pallida idea. La famiglia Ballantyne, da quel che aveva capito, funzionava come una macchina ben oliata, ogni parte diversa ma essenziale al processo. Tyce, invece, era stato l'unico motore a spingere la sua famiglia: un motore sempre sull'orlo della rottura. Aveva fatto del proprio meglio per dare a Lachlyn ciò di cui aveva bisogno, ma era stato così impegnato a cercare di sopravvivere che, emotivamente, aveva trascurato la sorella. Il compagno di vita di Sage sarebbe dovuto essere un tipo solido a livello emotivo, capace di trovarsi un posto all'interno della famiglia sapendo quale fosse il modo migliore di agire, di rispondere. L'uomo che lei avrebbe sposato avrebbe saputo come gestire e come contribuire al clan. Tyce non era così, ed era stupido perdere più di un minuto a pensare di poterlo essere. «No, Tyce» riprese Sage, e i suoi occhi fiammeggiavano di collera, «non ti ho chiesto di venire per fare sesso.» Tutt'a un tratto, lei parve... nervosa? «Ma avevo... ho qualcosa da dirti.» Deluso di vedere le sue aspettative stroncate, lui non riuscì a trattenere la propria irritazione. «Allora spara e facciamola finita» sbottò in tono brusco. Sage espirò dalla bocca e chiuse un attimo gli occhi; quando li riaprì, lui notò la sua determinazione, e quando finalmente formulò le parole, il loro effetto gli tolse la terra da sotto i piedi. «Non mi aspetto niente da te, né denaro né tempo né impegno. Comunque devi sapere che sono incinta e che il bambino è tuo.» Tyce stava ancora cercando di assimilare quella dichiarazione, di decifrarla, quando lei gli piazzò un bacio
all'angolo della bocca. «Addio, Tyce. È stato... divertente. Tranne quando non lo è stato.»
Avendo detto ciò che doveva dire, Sage approfittò del suo stordimento per alzarsi. Stava per prendere la borsa e andarsene ma lui la afferrò per il polso. Si voltò e vide che i suoi occhi erano puro fuoco. «Siediti. Resta.» Quegli occhi, diavolo, avevano ancora il potere di farle tremare le ginocchia. Erano gli occhi di un guerriero. «Non sono un cucciolo che stai cercando di addestrare» gli fece notare sulla difensiva. «Per la miseria, Sage, dammi un secondo...» ribatté lui. «Mi hai appena detto di essere incinta, ho bisogno di un dannato minuto! Perciò ripeto: rimetti quel tuo bel sederino sullo sgabello, okay?» Fu la nota di panico nella sua voce che la convinse a fare come diceva. Attese che lui ordinasse un altro whisky e che gli tornasse un po' di colore in viso. «Abbiamo bisogno...» cominciò poi. Lui però la interruppe scuotendo il capo e alzando una mano. «Un altro drink e un po' di tempo.» Sage annuì. Era sollevata di averlo informato, finalmente. Aveva dovuto racimolare ogni briciolo di coraggio per mandargli quel messaggio, già sapendo che lui avrebbe pensato si trattasse di sesso. Del resto, poteva forse biasimarlo? Tutto il loro rapporto era stato basato sull'attrazione fisica. Roteò la testa, cercando di sciogliere la tensione nel collo. Ancora qualche minuto, il tempo di sostenere quella che sperava sarebbe stata una conversazione civile, dopodiché avrebbe potuto mettersi tutto questo alle spalle. Anche se era stato breve, il loro tempo insieme era stato intenso. Si erano conosciuti all'inaugurazione di una piccola galleria d'arte vicino a casa sua e l'attrazione era subito stata palpabile. Sage la attribuiva alle origini,
coreane e si di Tyce, ai suoi scuri occhi dal taglio orientale, al mento squadrato e al sorriso abbagliante, oltre che a un corpo alto e muscoloso. Tuttavia era cresciuta circondata da uomini attraenti e l'aspetto non aveva mai fatto così presa su di lei. No, era la sua calma, il suo controllo e il suo essere sfuggente che l'avevano attratta. Fin dall'inizio, Tyce le aveva detto chiaro e tondo che voleva portarsela a letto, ma che non era il tipo da accasarsi o da regalarle dei fiori. Potevano divertirsi insieme, però lei non avrebbe dovuto aspettarsi niente di più. Sage aveva apprezzato la franchezza e presto si era resa conto di essere attratta dalla versione più giovane, più cupa e meno espansiva dell'adorato Connor. Connor era stato devoto e premuroso nei confronti dei figli adottivi, si era sempre preso cura dei suoi impiegati ed era stato un uomo d'affari attento, tuttavia una relazione monogama non era mai stata tra le sue priorità. Cercare di avere uomini come Connor e Tyce era come cercare di catturare del fumo con un setaccio. E forse l'aveva trovato irresistibile proprio perché sapeva che Tyce non le avrebbe mai offerto ciò che la spaventava di più: un rapporto intimo. Lei era stata la luce degli occhi dei suoi genitori, la bimba che aveva avuto l'intera famiglia nel proprio, piccolo pugno, amata e adorata finché una mattina si era svegliata e aveva scoperto che la parte più importante della sua vita era scomparsa e non sarebbe più tornata. Aveva evitato di stringere rapporti profondi con le persone che non vivevano in quella che Connor chiamava la Tana... i suoi fratelli, Connor, e Jo, la madre di Linc nonché la donna che Connor aveva ingaggiato perché lo aiutasse a crescere tre orfani. Aveva avuto delle amiche, certo, ma le aveva sempre tenute a distanza e non era mai stata fanatica degli appuntamenti galanti. Con Tyce era stato difficile resistere. Sage era stata innamorata della sua arte per anni. Il suo lavoro era pieno di sentimento ed emozione. Fin dal loro primo incontro, l'ammirazione e l'attrazione si erano intrecciate e non aveva esitato quando lui l'aveva invitata a cena. Non c'erano neanche andati, al ristorante; erano finiti a letto insieme e Sage aveva finalmente compreso il potere della dipendenza. Bramava Tyce con una
ferocia che la spaventava. Dopo sei settimane di sesso fantastico, però, si era resa conto che rischiava di innamorarsi di lui, e non voleva, non poteva permettere che accadesse. Terrorizzata, aveva pianificato la fuga comprando un biglietto per Hong Kong, con la giustificazione degli affari. Il giorno prima del volo, però, Connor era morto e tutto il suo mondo era cambiato. Quella drammatica circostanza le aveva dato la possibilità di frapporre un po' di distanza tra sé e Tyce, e le aveva anche ricordato perché fosse così fondamentale evitare di affezionarsi a qualcuno: faceva troppo male perdere una persona cara. Aveva già abbastanza persone cui volere bene, di cui preoccuparsi. E a quel punto – considerò posandosi una mano sul ventre – aveva anche un figlio in arrivo, una creatura che sarebbe diventata il centro del suo mondo. Il suo bambino, dovette ammettere mestamente, era l'unica persona che non avrebbe potuto evitare di amare, che non avrebbe potuto allontanare. Bel colpo, Universo. Che cos'avrebbe significato, per Tyce, avere un figlio? Sage avrebbe voluto chiederglielo, dalla sua espressione, però, non sembrava troppo comunicativo, in quel momento. Se ne sarebbe andato? Avrebbe voluto essere coinvolto? E se avesse voluto avere dei contatti con il bambino, come avrebbe funzionato? E se avesse voluto fargli da genitore? Quando gli aveva mandato il messaggio, il suo unico pensiero era stato quello di informarlo, temendo solo il momento della verità. Non era andata oltre. Di punto in bianco, Tyce si alzò, rischiando di far cadere lo sgabello per lo slancio del movimento. «Ho bisogno di andarmene da qui.» «Okay, d'accordo...» Sage si mordicchiò il labbro, guardandosi intorno. «Chiamami se vuoi parlarne di nuovo.» Tyce aveva tutta l'aria di un guerriero pronto alla battaglia. «Oh, no, te lo scordi. Tu vieni con me.»
L'ordine le fece corrugare la fronte. Quel cocktail party, con la mostra della collezione di gioielli di famiglia, era il culmine della loro ultima campagna pubblicitaria per conquistare nuovi clienti. I suoi erano tutti presenti e anche lei avrebbe dovuto fare la sua parte. Non che qualcuno avrebbe notato se se ne fosse andata... I fratelli Jaeger e Beck stavano entrambi ballando con le rispettive compagne, Piper e Cady; di Linc, che era arrivato accompagnato da Tate, la bambinaia provvisoria del figlio, si erano perse le tracce. Per di più non le andava a genio prendere ordini a quel modo. «Non credo proprio» rispose. «Vieni via con me o giuro che ti metto in spalla e ti porto fuori come un sacco di patate.» La sua arroganza la eccitava solo quando non avevano vestiti addosso, e non era quello il caso. D'altra parte, non aveva alcun dubbio che avrebbe fatto proprio ciò che aveva minacciato, e non voleva provocare una scenata in una serata così importante. Questo però non le impedì di fulminarlo con gli occhi mentre prendeva la borsa e si incamminava con lui verso il foyer della sala da ballo. Recuperato il cappotto al guardaroba, entrò con lui in ascensore e azionò il pulsante per il pianoterra. Quando le porte si chio, la spaziosa cabina parve rimpicciolirsi dovendo contenere un uomo imponente e... sgomento. Non appena l'ascensore si mosse, però, lui pigiò lo stop di emergenza. «Che cavolo, Sage? Sei incinta?» Evidentemente, gli ci voleva un po' di tempo per metabolizzare la notizia. Sage deglutì a quella esclamazione, le parole che rimbalzavano sul rivestimento in legno delle pareti. «Okay, adesso calmati, Tyce.» Per quanto fosse patetico, non le venne in mente altro da dire. Anche perché, persino furioso, lui era talmente attraente da farle perdere la concentrazione. Lui spinse indietro la giacca per piazzarsi le mani sui fianchi, l'espressione aggressiva come una tempesta estiva. «Stai giocando con me?»
Sage riuscì a stento a impedirsi di sbarrare gli occhi. «Certo, Tyce» replicò con malcelato sarcasmo. «Bramo la tua attenzione al punto da inventarmi una storia del genere solo per farti andare fuori di testa!» Notando che lui manteneva un'espressione scettica, scosse il capo e si appoggiò alla parete dell'ascensore. «Sono incinta. Dal momento che tu sei l'unico con cui sono andata a letto negli ultimi tre mesi...» Tre anni, in realtà, ma non aveva alcuna intenzione di rivelarglielo. «Penso sia lecito dedurre che il bambino sia tuo.» «Abbiamo usato i preservativi» le rammentò Tyce andosi le mani tremanti nei capelli. Sage arrossì. «Non la prima volta, no. Ci siamo... ehm, lasciati un po' prendere dal momento, se ricordi.» Tyce rimase a fissarla, le dita intrecciate dietro la testa e l'espressione sconvolta in un misto di panico e timore. «Non posso diventare padre, Sage. Non voglio diventare padre. Non voglio figli!» Sage l'aveva immaginato. Allungò un braccio dietro di lui per rimettere in moto l'ascensore. «Come ti ho detto, non è un problema. Non mi aspetto niente da te. Puoi continuare a vivere la tua vita come hai sempre fatto.» «Non puoi fare tutto da sola!» protestò però lui, e per la prima volta Sage lo vide esitare. Pressò di nuovo il pugno sul pulsante di emergenza e la cabina vibrò ancora una volta prima di fermarsi. «Sono giovane, in salute, ho una famiglia numerosa che mi sostiene e le risorse per assumere tutto l'aiuto di cui posso aver bisogno per crescere questo bambino» gli fece notare puntandogli un dito sul petto. «Non ho bisogno di niente da te.» Un po' di o sarebbe stato gradito, una parola carina, tuttavia era una speranza vana. Tyce non era quel tipo d'uomo, lo sapevano entrambi. Lo aveva informato della gravidanza solo perché era la cosa giusta da fare; per il resto, se la sarebbe cavata alla grande anche da sola. «Signorina Ballantyne?» Sage sussultò al sentire la voce incorporea che proveniva da un altoparlante sopra la sua testa. «Va tutto bene?»
Fece un cenno d'assenso verso la telecamera nello spigolo dell'ascensore. «Tutto bene, grazie. Stiamo solo chiacchierando.» Chiacchierando? Stavano portando avanti una di quelle conversazioni che cambiano la vita, altro che chiacchiere. «D'accordo, allora.» La voce suonava dubbiosa. «Ehm, crede che potreste, ehm, chiacchierare da qualche altra parte, per cortesia? Ci sono persone qui che aspettano l'ascensore.» Lei annuì di nuovo, si frappose fra Tyce e il pannello di controllo e azionò il pulsante per riprendere il movimento. Inspirò a fondo prima di voltarsi a guardarlo. «Tyce.» Lui aveva lo sguardo inchiodato al tappeto, e non lo sollevò, perciò lei lo chiamò di nuovo. Alla fine fissò su di lei quegli occhi scuri pieni di dolore. «Ti sto dando una via d'uscita. Tu sei stato chiaro fin dal principio: non vuoi una relazione seria. E io da parte mia non sto cercando qualcuno con cui sistemarmi. Perciò accetta la mia offerta e prosegui per la tua strada. Questo bambino crescerà come un Ballantyne, non c'è bisogno che nessuno sappia che è tuo. Ti do il permesso di scordarti che questa conversazione abbia mai avuto luogo.» Qualcosa lampeggiò negli occhi di Tyce e Sage si accigliò, non riuscendo a interpretare ciò che aveva visto. Prima che potesse aggiungere altro, le porte si aprirono e si ritrovarono davanti un gruppo di persone in attesa. Stampandosi in faccia il solito sorriso Sage si fece largo tra la gente e procedette nell'atrio, annuendo quando il portiere le chiese se voleva un taxi. Infilò il cappotto e cercò di ignorare Tyce che l'aveva raggiunta. Era appena uscita sul marciapiede quando un taxi si fermò davanti a lei e
l'usciere si affrettò ad aprirle la portiera. Salì in auto e sospirò nel momento in cui Tyce si accucciò nello spazio tra la portiera aperta e il suo sedile. «Il discorso non è ancora chiuso, Sage» la ammonì con espressione cupa. «Oh, invece credo proprio di sì, Tyce. Non cercarmi più. Tra noi è finita.» «Puoi anche pensarla così, se vuoi» replicò lui sollevandosi, «tuttavia ti sbagli. Ti sbagli di grosso.» La portiera che sbatteva fu un punto esclamativo al termine di quella dichiarazione.
3
Le immense finestre del magazzino davano a Tyce tutta la luce di cui aveva bisogno per lavorare. Era a casa da un'ora, e non era ancora riuscito a superare lo shock della notizia che gli aveva dato Sage. Aveva bisogno di tempo per digerire il fatto che sarebbe diventato padre, e per capire cosa fare. Seduto a gambe incrociate sul pavimento macchiato di pittura, afferrò l'ultimo dipinto che aveva terminato, un ritratto di Sage al suo banco di lavoro, la fronte corrugata per la concentrazione, la matita in mano. Era la riproduzione artistica di una foto che aveva trovato su una rivista, ed era altrettanto realistica. L'idea che suo figlio stesse crescendo dentro di lei, che il suo DNA si fosse mescolato a quello di lei per creare una nuova vita era straordinario, spaventoso e folle. Cosa diavolo pensava di fare, la sorte, chiedendo a lui – la persona più emotivamente limitata del pianeta – di diventare padre? Da bambino era stato consumato dall'ansia, dalla responsabilità, sopraffatto da un mondo che pretendeva da lui di occuparsi di troppe cose, troppo presto. L'età adulta e la morte della madre gli avevano concesso una qualche forma di sollievo, ma poiché non voleva sentirsi mai più così precario, così spaventato, aveva stabilito di evitare di investire i propri sentimenti nelle situazioni e nelle persone, perché il farlo l'avrebbe reso vulnerabile. Per Tyce la vulnerabilità portava solo dolore e sofferenza, e andava evitata a ogni costo. La conclusione logica, perciò, era evitare del tutto i sentimenti, come aveva fatto con Sage tre anni prima, e non lasciarsi coinvolgere, come aveva imparato a fare con la madre. Tyce supponeva che il mondo intero lo ritenesse una persona normale, felice e soddisfatta di avere tutto ciò che poteva desiderare. Nessuno sapeva, nemmeno Lachlyn, che si sentiva svuotato, inaridito. Mandare al tappeto il partner al taekwondo e portare il proprio corpo al limite lo faceva sentire vivo, ma le endorfine facevano presto a dissiparsi. Era l'arte, perlopiù, a procurargli una
certa distrazione e, di tanto in tanto, dipingere o scolpire gli regalava una scarica di adrenalina. Soprattutto, lo trovava un processo facile e intellettualmente rilassante. Tyce piegò la testa all'indietro. Invece che vedere le travi in legno e le condutture, però, vide i muri sbiaditi del bilocale in cui aveva vissuto per la maggior parte della sua vita. Era seduto sul pavimento freddo, fuori dalla porta della camera della madre, e cullava una Lachlyn in lacrime, pregando che la madre aprisse la porta e gli dicesse che stava bene. Che sarebbe andato tutto bene. Si era sempre chiesto cosa fe di sbagliato, perché la madre sentisse il bisogno di nascondersi da lui e dalla sorella. Ricordava le centinaia di disegni che aveva fatto per lei, nella speranza che, almeno una volta, riconoscesse i suoi sforzi, nel disperato desiderio di avere una qualche attenzione da parte sua. Con la punta dell'indice tracciò il contorno del mento di Sage. Un tempo vendere ritratti – schizzi veloci fatti a matita o a penna – gli aveva permesso di mantenere un tetto sopra la testa e il cibo nel frigorifero. Non ancora diciottenne vendeva i suoi disegni agli angoli delle strade e in Central Park, e in seguito alle donne che frequentavano le lezioni di arte dove lui posava, nudo, come modello. Ricordava chiaramente l'ansia mentre la mano volava sul foglio, i calcoli per capire quanto poteva chiedere, quanti disegni doveva vendere per coprire l'ultima spesa imprevista. Un bambino che faticava a mettere insieme i soldi per l'affitto. Alla fine aveva trovato il modo di tenere l'ansia sotto controllo, così come il risentimento, e aveva imparato a farlo non lasciandosi coinvolgere. Dalle cose, dal bisogno di o e di affermazione, e, alla fine, dalle persone. Sage era l'unica che avesse mai minacciato quel controllo, che l'aveva tentato ad avvicinarsi, a entrarle nella testa e a permettere che lei entrasse nella sua. Non poteva farlo, non poteva permettersi che accadesse. E il fatto che la tentazione per lei fosse così forte era l'esatto motivo per cui tre anni prima se l'era lasciata sfuggire tra le dita: era stato istinto di sopravvivenza. Era stato un adulto per tutta la vita, aveva affrontato situazioni che nessun bambino avrebbe dovuto affrontare, e aveva cresciuto la sorella al meglio delle sue capacità. Non c'era molto che lo spaventasse, ma Sage che aspettava un bambino lo terrorizzava. Tyce portò le ginocchia al petto e le cinse tra le braccia, la paura, scottante, che
gli ribolliva in uno spazio appena sotto il cuore. E, che gli pie o no, come madre di suo figlio Sage avrebbe per sempre fatto parte della sua vita... proprio lei, l'unica persona al mondo che si fosse mai avvicinata all'incrinare la sua armatura. Il che significava che era estremamente pericolosa. Non gli piaceva affatto, tuttavia la situazione non poteva essere cambiata e l'unica cosa che poteva fare a quel punto era gestirla. Come? Tyce si alzò e andò alla scrivania, tirando fuori la vecchia sedia scalcinata e lasciandocisi cadere. Innanzitutto... dato che sarebbe rimasto legato alla famiglia Ballantyne nel futuro, doveva farsi avanti. Svelare tutti i segreti. Prima a Sage, poi ai suoi fratelli. E certo, sarebbe stato divertente quanto mettersi a correre, nudo, per le strade della Siberia in una notte d'inverno. D'altra parte non poteva essere evitato e doveva essere fatto, e presto.
Infastidita per essere stata distratta dal proprio lavoro, Sage si tolse i jeans e la maglietta che portava in laboratorio per indossare pantaloni neri di lana e un top elegante sopra gli stivaletti con il tacco. Era abbastanza addentro alle questioni gestionali dell'azienda per poter contribuire durante le riunioni del consiglio, ma la conduzione quotidiana era affidata ai fratelli, di cui lei si fidava ciecamente, proprio come loro si fidavano della sua capacità di tradurre le vaghe richieste dei clienti per qualcosa di speciale in vere e proprie opere d'arte orafa. Di tanto in tanto, però, come partner della Ballantyne & Company, era chiamata a partecipare alle riunioni convocate da Linc, ed era per questo che ora si trovava davanti ad Amy, la segretaria di Linc e Beck. «Perché il tuo telefono è spento?» la assalì la ragazza, scrutandola da sopra la montatura degli occhiali trendy. «Per tua informazione, i segnali di fumo sono notoriamente inattendibili, di questi giorni.» Sapendo che sotto la facciata di eleganza e sarcasmo batteva un cuore d'oro, Sage si sporse sulla scrivania per darle un bacio sulla guancia. «Mi dispiace averti fatto preoccupare.»
«Ho addirittura valutato di venire a casa tua. Detesto quando non rispondi al telefono.» Amy scostò la sedia dalla scrivania, gli occhi che si illuminavano. «Allora, cosa ne pensi del fidanzamento di Linc e Tate? Non è fantastico?» D'accordo, la sua vita era in tumulto, ma Sage era davvero felice per i fratelli. A parte il fidanzamento, c'erano altre belle notizie in arrivo: Piper e Jaeger aspettavano due gemelli, Tate avrebbe adottato il figlio di Linc, Shaw, e Linc avrebbe adottato Ellie, la nipote di Tate, che l'aveva in affido; in più, Beckett aveva deciso di crescere il figlio non ancora nato di Cady come suo. Un'offerta generosa, di cui però nessuno si era stupito: nella famiglia Ballantyne, i legami di sangue erano un concetto piuttosto nebuloso. L'amore... l'amore trionfava sempre sul DNA. «Stai bene? Sembri ansiosa e stressata.» Come sempre, Sage scosse il capo e, per distrarre la segretaria, accarezzò il petalo di una rosa prima di chinarsi ad apprezzarne il profumo. «Un regalo di Jules?» le domandò quindi, riferendosi a Julie, la promessa sposa di Amy. La ragazza sorrise dolcemente. «Già. È molto più romantica di me.» Su questo Sage era d'accordo. E poi, aveva problemi più pressanti del romanticismo... o della sua mancanza: era incinta, e solo Tyce ne era a conoscenza. E a proposito del padre di suo figlio, non poteva continuare a ignorare le sue chiamate e i suoi messaggi. Prima o poi avrebbero dovuto parlare... Quando il figlio fosse partito per il college? Sage fece una smorfia. Aveva ato due settimane con la testa infilata nella sabbia, e non poteva andare avanti così. Finita l'imminente riunione, avrebbe chiamato Tyce, si sarebbero fatti una chiacchierata condividendo desideri e aspettative, dopodiché lei avrebbe informato il resto della famiglia. Come piano faceva acqua da tutte le parti, ma perlomeno era un piano. Amy alzò gli occhi sull'immenso orologio alle spalle di Sage. «È meglio che tu
vada, altrimenti arriverai in ritardo alla riunione.» «Hai idea di che cosa si tratti?» «No, non lo so.» Si accigliò, chiaramente infastidita. Non le piaceva essere lasciata fuori dal giro. «So solo che si terrà nella sala riunioni di Connor.» Sage si voltò lentamente, gli occhi sbarrati. La sala in questione, all'ultimo piano del palazzo, era poco meno di una leggenda: raggiungibile solo attraverso un ascensore riservato o una scala esterna, veniva utilizzata per clienti di alto profilo che volevano restare anonimi, compratori e venditori di preziosi che richiedevano che i loro movimenti non fossero di dominio pubblico. Sage si agitò. «Dannazione.» Significava che avrebbe dovuto scendere al pianoterra per poi risalire, e che avrebbe fatto tardi. Con un rapido saluto ad Amy, marciò verso l'ascensore. Non le sfuggì l'occhiata desolata della ragazza, ma aveva imparato a farsene una ragione. Amy sarebbe voluta essere sua amica, davvero, ma Sage aveva stabilito all'età di sei anni, quando aveva perso entrambi i genitori, che le relazioni interpersonali profonde non facevano per lei. C'era in gioco troppo dolore, e lei non voleva rischiarlo. Allontanare le persone, tenersi a distanza, era diventato il suo modo di fare abituale. Tyce era stato il più facile e, al contempo, il più difficile da cui allontanarsi. Facile perché sapeva che non voleva niente di serio da lei; difficile perché era stata a un soffio dal gettare al vento l'innata cautela e l'istinto di sopravvivenza. Lui l'aveva tentata a provare, a vedere che basi avesse tutto questo gran parlare di relazioni e di impegno, a correre il rischio. E se Tyce le avesse dato il benché minimo incoraggiamento, sarebbe tranquillamente potuta cadere nella trappola dell'amore. Lui, però, non l'aveva fatto e lei se n'era andata. Fine della storia. Perché lui l'aveva lasciata andare. Sage scosse il capo, infastidita dai propri pensieri. Non serviva a niente concentrarsi sul ato. Tyce poteva anche essere il padre di suo figlio e lei poteva essere follemente attratta da lui ma, bambino o no, intendeva tenerlo alla periferia della propria vita. Doveva, comunque, trovare un modo per interagire con lui perché, a giudicare
dal numero infinito di chiamate e messaggi che le aveva lasciato sul cellulare, non sarebbe sparito tanto facilmente. Raggiunto il retro del negozio al pianoterra, salì sull'ascensore riservato e digitò il codice di sicurezza, tamburellando il piede sul pavimento per tutto il tragitto fino all'ultimo piano. Quando le porte della cabina si riaprirono, si ritrovò nella piccola sala. Lo stomaco si ribellò immediatamente all'aroma di caffè che la investì e si guardò freneticamente intorno alla ricerca di un cestino della spazzatura, nel caso le nausee mattutine volgessero al peggio. Una mano sulla schiena le fece ritrovare l'equilibrio. Lentamente, Sage alzò gli occhi per guardare quel viso familiare, gli zigomi alti, la barba lunga che gli sporcava il mento. Gli occhi, neri e duri. «Stai bene?» le domandò Tyce, sostenendola. L'avrebbe presa se fosse caduta, considerò lei, sollevata. Se le ginocchia avessero ceduto, non sarebbe finita per terra. «Che cosa ci fai qui?» sussurrò, chiedendosi se fosse caduta nel buco verso il Paese delle Meraviglie. Negli occhi di Tyce balenò un'emozione indecifrabile. «Questa è una lunga storia. Siediti, così cominciamo.»
4
Tyce scortò Sage a una sedia prima di allontanarsi dal tavolo, scegliendo di andare ad appoggiarsi alla parete più lontana. Era una posa insolente, una manovra deliberata per tenere i fratelli Ballantyne sul filo del rasoio. Anche la scelta dell'abbigliamento aveva lo stesso scopo: jeans consunti macchiati di pittura, stivaletti piatti e una maglietta nera con sopra una camicia nera, le maniche arrotolate. Linc e Beck indossavano abiti di sartoria, Jaeger era un po' meno formale con dei pantaloni con la piega e un pullover color crema. Sage... be', Sage era straordinaria con quel rosso e quel rosa a contrasto nel top, i capelli raccolti blandamente sopra la testa con le ciocche che le ricadevano intorno al viso e lungo la schiena. Aveva uno stile innato, eppure la gente pensava che asse ore davanti allo specchio per ottenere quell'aspetto perfetto. Niente di più lontano dalla verità. L'aveva vista all'opera: poteva raccogliere i capelli in trenta secondi, e vestirsi in meno di un minuto. Tyce la guardò in viso e storse il naso al vedere i segni sotto gli occhi e il pallore della sua pelle. Sembrava anche che avesse perso peso, cosa che non poteva certo permettersi. Continuava a tormentarsi il labbro inferiore, lanciandogli occhiate nervose. Tyce, deliberatamente, mantenne un'espressione neutra, il viso una maschera. Sage avrebbe potuto evitare quella riunione. Se avesse risposto a una delle sue numerose telefonate, avrebbero potuto affrontare la cosa in modo diverso. Ma, dopo aver provato a parlarle per due settimane, il suo rifiuto totale non gli aveva lasciato scelta. Era stato praticamente costretto a contattare Linc e a convincerlo che un incontro sarebbe stato utile a entrambe le parti. Tyce osservò Linc farsi avanti e posare entrambe le mani sulle spalle della sorella. La stretta gentile comunicava il suo o. Jaeger e Beck si erano posizionati uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, braccia conserte e mascelle tese. I fratelli erano molto protettivi nei suoi confronti e Tyce poteva solo sperare che la conversazione non prendesse una brutta piega. «Dato che hai chiesto tu questo incontro, Latimore, vuoi cominciare?» gli
domandò Linc, la voce gelida come un congelatore. Lui annuì, si raddrizzò e si avvicinò al tavolo, andando a sedersi in cima al tavolo, un altro gesto deliberato. Era un ulteriore insulto alla scala gerarchica, per chiarire fin da subito che non si sarebbe lasciato catalogare secondo i loro canoni. Appoggiando le braccia sul tavolo, si voltò per guardare Sage; sarebbe voluto essere solo con lei, per poter assaporare quella bocca invitante, tracciarle il profilo gentile del mento, cospargerle di baci il collo e le spalle, prima di spogliarla... Tyce sospirò. Si ò una mano sul volto, quindi incrociò il suo sguardo. «Sarebbe potuta andare diversamente, Sage. Se avessi risposto alle mie telefonate, alle mie mail... se mi avessi parlato. Per la miseria, non sarei stato costretto a ricorrere a questo.» Ignorando la sua espressione allarmata, allungò un braccio per recuperare la cartellina che aveva posato prima sul tavolo. La aprì e recuperò dei fogli che lanciò vagamente in direzione di Linc. «Certificati azionari che dimostrano che la Lach-Ty possiede il quindici per cento della Ballantyne.» Quattro schiene si raddrizzarono, quattro mascelle si indurirono. Linc raccolse i documenti, li esaminò, quindi li ripose sul tavolo, capovolti. «Ti dispiacerebbe spiegare» cominciò poi con una voce pericolosa quanto l'inferno, «perché possiedi il quindici per cento della nostra azienda?» «Tecnicamente, le quote non sono mie. Io le ho solo pagate.» Linc afferrò il bordo del tavolo fino a far sbiancare le nocche. «Allora di chi sono, e perché diavolo le hai comprate?» «Sono di mia sorella, e le ho comprate perché pensavo fosse giusto che possedesse una percentuale dell'azienda che suo padre ha lasciato a voi.» Esitò un istante, poi valutò che valesse la pena tirare fuori tutto in una volta, in modo da poter procedere senza altri intoppi. «Ho pensato che, dato che tua sorella
porta in grembo mio figlio, fosse ora di scoprire le carte.» E quello, considerò osservando i quattro visi stupefatti che si ritrovava davanti, era un modo da manuale per scaricare una bomba. Orrore, shock, sorpresa, collera... Nelle loro espressioni trovò tutte le emozioni che si era aspettato di trovare, che permeavano le loro domande, le loro pretese gridate di avere maggiori informazioni. Tyce le ignorò in toto, mantenendo lo sguardo su Sage, che lo fissava con il fuoco negli occhi. Si era alzata, sbattendo i palmi aperti sul tavolo e sporgendosi verso di lui. «Come hai osato rivelarlo ai miei fratelli senza il mio permesso?» Lui sostenne il suo sguardo, scrollando una spalla. «Se te ne avessi lasciato l'incombenza, saresti entrata in travaglio senza ancora aver deciso cosa dire e come e quando.» «Non avevi alcun diritto...» Tyce però la interruppe puntandole un dito sullo stomaco. «È anche mio figlio, quello che hai lì dentro, e se avessi accettato di vedermi invece che ignorarmi, avremmo risolto questa questione e anche il resto.» «Il resto? Di che cosa parli?» ribatté con voce carica di paura e preoccupazione. Linc le posò una mano sulla spalla per invitarla a tornare a sedersi. «Parla delle quote e allude al fatto che Connor avesse una figlia.» «Cosa? Connor non ha mai avuto figli» intervenne Beck. «È una follia!» «Sei incinta?» gridò invece Jaeger. «Fate silenzio, tutti quanti!» ordinò Linc prima di rivolgersi alla sorella. «Prima finiamo con Latimore, così possiamo togliercelo dai piedi e parlare del tuo bambino.» «Il tuo ottimismo è commovente, Linc» sogghignò Tyce. «È anche il mio bambino e, mi dispiace deluderti, ma mi avrete tra i piedi per molto tempo.»
Linc ignorò il commento. «Perché pensi che tua sorella sia figlia di Connor?» gli domandò invece, i lineamenti tesi. «Non penso che sia sua figlia, lo so per certo» lo corresse Tyce. Prima che l'altro potesse ribattere, alzò una mano. «Ascolta, fammi cominciare dal principio così dipaniamo ogni dubbio.» In modo rapido e conciso, raccontò della madre che aveva lavorato come donna delle pulizie alla Ballantyne & Company, proprio in quell'edificio. Le pulizie venivano fatte la sera, e poiché Connor lavorava fino a tardi i due avevano finito per diventare amici. Quando la madre e il patrigno si erano separati, lei e Connor avevano avuto una relazione che era sfociata in una gravidanza. «Mia madre sapeva di non aver alcun futuro con Connor, perciò tornò dal mio patrigno, sperando che accettasse di crescere Lachlyn come sua.» Il patrigno, originario della Giamaica, aveva dato un'occhiata alla neonata, bionda con gli occhi azzurri, e aveva perso la ragione. Quello stesso giorno era sparito dalle loro vite per sempre. I mesi che ne erano seguiti erano stati i peggiori della sua vita. La madre era sprofondata in una depressione post-parto, aggravata da una depressione cronica. Prendersi cura della piccola era stato uno sforzo immane per lei, così non aveva avuto alcuna energia residua per un bambino confuso di otto anni. «Tua madre ha mai informato Connor di aver avuto una figlia?» volle sapere Beck, la voce tinta di scetticismo. «No» sbottò Tyce, frustrato. «Sul certificato di nascita di Lachlyn aveva fatto mettere il nome del nostro patrigno, e immaginava che Connor non le avrebbe creduto.» «Il che è esattamente quello che faremo noi» gli fece presente Linc, gli occhi duri come la pietra. Era la risposta che si era aspettato, ed era per questo che era venuto preparato. «Ho acquistato abbastanza quote della Ballantyne per guadagnarmi un posto nel consiglio. Intendo reclamare quel posto, e oppormi a qualunque decisione venga presa, votare contro ogni mozione che farete a meno che non accettiate di verificare seriamente se Lachlyn è figlia di Connor o no. Non sottovalutare i
problemi che posso causare. Minerò la tua posizione fino a portare avanti una campagna per la tua sostituzione nel ruolo di CEO.» Al sentire quella minaccia, Linc impallidì. Dato che era un uomo d'affari e uno stratega, però, gli pose la domanda che Tyce si era aspettato. «Quindi, se Lachlyn risultasse essere la figlia di Connor, quanto vorresti?» Ah, i ricchi! Pensano sempre che si possa risolvere tutto con il denaro. «Non voglio i vostri soldi» replicò invece Tyce, godendosi la sorpresa sui loro volti. «Se l'esame del DNA stabilirà che Lachlyn non è figlia di Connor, venderò le quote; ma se invece il risultato sarà positivo, voglio che le diate la possibilità... di conoscervi, di far parte della vostra famiglia. Non ne ha mai avuta una, praticamente.» Aveva avuto lui, ma non era la stessa cosa. Lachlyn aveva ato l'infanzia e l'adolescenza in una casa decrepita permeata della tristezza di una madre costantemente depressa, accanto a un fratello troppo teso, troppo chiuso. Meritava la chance di far parte di una famiglia affettuosa e felice e nessuno, a quanto pareva, conosceva la parte migliore dei Ballantyne. Tyce si alzò, ma tenne lo sguardo inchiodato su Linc, che non riuscì a nascondere la confusione. «Non capisco» replicò infatti dopo un minuto, la fronte corrugata. «Spendi decine di milioni di dollari per comprare le quote della nostra azienda, ma tutto quello che vuoi da noi è che diamo a tua sorella la possibilità di conoscerci?» Lui annuì. «Vi farà piacere sapere che è molto più gentile e carina di me.» La bocca di Linc fremette in quello che sembrava una smorfia divertita. Si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto. «Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito, Latimore.» «È probabile» convenne lui, azzardando un'occhiata a Sage, che fumava ancora per la collera. Il che gli fece ricordare... «C'è un'altra cosa. Voi tre dovete lasciare Sage e me in pace. Avere un bambino, diventare genitori, è qualcosa di nuovo per entrambi e non abbiamo bisogno di parenti irascibili e protettivi che ci incombano addosso.»
Diavolo, era stanco di quella discussione, stanco di tutto. Voleva solo infilarsi in un letto con Sage e prenderla tra le braccia; avrebbe addirittura soprasseduto sul sesso, pur di poterla stringere e dormire. Sage sollevò una mano per stroncare sul nascere quella che senza dubbio sarebbe stata una risposta da parte di Jaeger. Sembrava che dei tre, lui fosse la testa calda. «Non c'è bisogno che combattiate le mie battaglie» ricordò ai fratelli, la voce chiara e determinata. «Tyce e io gestiremo la situazione da soli. Non...» aggiunse poi, lanciandogli un'occhiata mirata a incenerirgli i gioielli di famiglia, «... che ci sia molto da discutere.» «Sei sicura, piccola?» si accertò Jaeger con voce dubbiosa. «Assolutamente.» Sage annuì. «Posso tenerlo a bada.» «Se ti mette un dito addosso, gli strappiamo gli arti uno a uno e lo seppelliamo in una fossa così profonda che nessuno troverà mai il suo cadavere» dichiarò Beck, la voce atona e piatta al punto che Tyce non poté far altro che credergli. «Tyce è un bastardo, ma non è violento» li rassicurò allora Sage. Carino sapere cosa pensa davvero di me. «Comunque sia...» Gli occhi di Beck incrociarono i suoi e Tyce annuì, accettandone l'implicita minaccia: se le avesse fatto del male, sarebbe morto. Afferrato. «Una lacrima di Sage, Latimore, e l'affare salta» puntualizzò Linc alzandosi in piedi. «Avremo bisogno di una settimana o due e del DNA di tua sorella per i relativi esami. Se l'esito sarà positivo, ci rivedremo per concordare un percorso.» Non avrebbe ottenuto di meglio e, sinceramente, era più di quanto avesse sperato. «Abbiamo un accordo, allora?» ribadì tendendo la mano, chiedendosi se Linc gliel'avrebbe stretta. L'altro gliela prese con forza, sostenendo il suo sguardo. «Abbiamo un accordo.» Dopodiché gli ò accanto e aprì la porta della sala riunioni. «Ti farò sapere per l'appuntamento in laboratorio» aggiunse mentre digitava il codice
dell'ascensore. Le porte si aprirono, il che significava che Tyce era stato ufficialmente congedato. Ignorò l'espressione impaziente del maggiore dei Ballantyne e oltreò Jaeger per accovacciarsi davanti a Sage, appoggiandole le braccia sulle ginocchia. Attese finché lei non lo squadrò con occhi di ghiaccio. «Dopo aver parlato con i tuoi fratelli, vai a casa e riposati un po'. erò da te questa sera, così parleremo.» «Non ci sarò.» Tyce resistette all'impulso di alzare gli occhi al cielo. «Dobbiamo parlare, Sage. Possiamo farlo oggi o domani, però dobbiamo parlare.» Lei borbottò un'imprecazione tra i denti. «D'accordo, allora. Oggi pomeriggio alle cinque.» Annuendo, Tyce si alzò e si chinò per posarle un bacio sulla testa. Non volendo vedere la sua reazione, il suo disgusto, si girò ed entrò in ascensore. Appena prima che le porte si richiudessero, però, incrociò il suo sguardo e, come sempre, l'elettricità si accese tra di loro. Avrebbe voluto tornare di corsa nella stanza, prenderla tra le braccia e scappare con lei, e al diavolo Lachlyn e i suoi fratelli, al diavolo l'arte e il fatto che fosse una delle donne più ricche al mondo. Al diavolo tutto quanto. Purtroppo, scappare non era mai la soluzione.
L'incontro si era protratto più a lungo del previsto e Beck e Jaeger se ne andarono pochi minuti dopo Tyce, non prima però di aver assicurato alla sorella che erano dalla sua parte, che l'avrebbero aiutata in qualunque modo possibile. «Compreso riempire Latimore di botte» fu la battuta di congedo di Jaeger. Quando lei e Linc restarono soli, Sage si avvicinò alla piccola finestra,
appoggiando la mano al vetro freddo. Gocce d'acqua ghiacciata scivolavano lungo il pannello e le basse nuvole grigie all'esterno minacciavano neve. Tardo inverno a New York, considerò; si sentiva gelata dentro e fuori. «Stai bene, piccola?» le domandò il fratello. Sage si voltò, appoggiò la schiena alla parete e guardò Linc, che aveva spinto indietro la sedia per allungare le gambe. «Fisicamente o psicologicamente?» «Entrambe» rispose lui senza esitare. Sage scrollò una spalla, mordicchiandosi il labbro. «Sono incinta di dodici, tredici settimane. Non mi vedo con Tyce. È successo e basta.» L'espressione di Linc era seria. «Vuoi tenere il bambino?» Quella sì che era una domanda alla quale non aveva alcun problema a rispondere. «Con ogni mio respiro.» Il fratello parve rilassarsi. «Okay, allora. Se vuoi tenere il bambino, ti daremo tutti una mano. Lo sai, vero?» Lei annuì. «Sì, lo so. E lo sa anche Tyce, a quanto pare.» Tamburellò un dito sulla coscia. «Sono davvero sorpresa che voglia essere coinvolto. Pensavo che avrebbe accettato la mia offerta di sparire.» «Ce ne sono state parecchie di sorprese, oggi» considerò Linc con una smorfia, «quella è solo una delle tante.» Prese la cartellina che Tyce aveva lasciato sul tavolo e ne estrasse la fotografia di Lachlyn, appoggiandola sul tavolo in modo che entrambi potessero guardarla. «Non si può negare che assomigli a Connor; ha i suoi occhi.» «E il suo naso» contribuì Sage. Linc incrociò di nuovo le braccia. «Ha fatto anche parecchie minacce, oggi. Pensi che le porterebbe avanti?» Sage ne aveva la certezza: Tyce non diceva mai nulla tanto per dire. «I media sono affascinati da lui e, visto che è poco meno di un eremita, quando parla il
mondo si siede ad ascoltarlo.» «Diavolo.» «Se sua sorella è davvero la figlia di Connor...» «Ha diritto a una parte della sua eredità. È questo che stavi per dire?» Lei annuì. «Noi non siamo i suoi figli naturali, Linc. Ci ha adottato, è vero, tuttavia non siamo sangue del suo sangue» borbottò. «Se avesse saputo di lei, l'avrebbe accolta a braccia aperte.» «Però non ci avrebbe mai messi da parte» la ammonì il fratello, la voce piena di convinzione. «Connor aveva un cuore enorme.» Appoggiò le braccia sul tavolo. «È importante fare un o alla volta, senza lasciarci trasportare. Per prima cosa dobbiamo fare il test del DNA.» Refrattaria com'era al cambiamento, per Sage l'idea di avere una sorella era sconvolgente. Tuttavia c'era un'altra considerazione che le stava togliendo il fiato, fin da quando Tyce aveva aperto bocca. Perché da quanto aveva detto, quello che lei aveva ritenuto un incontro fortuito alla galleria d'arte ora sembrava molto più probabilmente il primo o di un piano ben orchestrato: Tyce aveva stabilito di conoscerla per carpirle delle informazioni sull'azienda di famiglia. E, stranamente, questa era la cosa che faceva più male, che le faceva mettere in dubbio tutto quello che era successo tra loro. C'era davvero stata quell'intesa unica e irresistibile, oppure lui aveva solo finto? Era attratto da lei quanto lei lo era da lui? O era stata tutta solo un'orribile, ben pianificata recita? Per la miseria, il solo pensare che le sei settimane che avevano ato insieme potessero essere state una finzione le faceva venire la nausea. Tyce aveva riso di lei? Stava ancora ridendo? La considerava un'idiota credulona? Facile da manipolare? Doveva saperlo. Subito. Prese il cellulare e digitò il suo numero; lui rispose al primo squillo.
«Sì?» «Dove sei?» «Nel vicolo dietro il negozio, sono uscito dalla porta sul retro» rispose lui perplesso. «Perché?» «Resta lì» gli ordinò, la pelle le bruciava per l'imbarazzo. Chiuse la telefonata e recuperò il cappotto. Poteva cavarsela con un bambino, con l'essere una madre single, ma non sapeva se sarebbe riuscita ad accettare di essere stata solo un mezzo per uno scopo. E una conquista fin troppo facile. Non si era mai sentita tanto precaria in vita sua. «Devo andare» si congedò dal fratello preferito. «Ci sentiamo dopo.» Linc le posò una mano sulla spalla e la strinse. «Che ne dici di cenare tutti insieme alla Tana, stasera, in modo da informare il resto della famiglia? Così potrai rispondere alle domande che io non saprei come gestire.» Sage annuì. «Mi sembra una buona idea.» Il fratello allora la prese tra le braccia, sfregandole il mento sulla testa. Quando riprese la parola, la sua voce era commossa. «La nostra piccola sta per avere un bambino. Com'è possibile? Com'è successo?» Le bruciavano gli occhi per le lacrime che si rifiutava di piangere. Per riuscirci, però, doveva alleggerire l'atmosfera. «Be', Latimore e io ci siamo conosciuti e poi ci siamo spogliati e...» Linc fece un rapido o indietro, tappandosi le orecchie con le mani. «Taci, piccola. Diamine, ora dovrò lavarmi il cervello con la candeggina per togliermi quell'immagine dalla mente.»
Sage era un ammasso di nervi.
Sarebbe voluta scappare a nascondersi, recitare la parte dello struzzo che le veniva tanto bene. Infilare la testa nella sabbia... ma allo stesso tempo aveva bisogno di sapere, di veder confermate le sue peggiori paure. Perché a quel punto, finalmente e senza un'ombra di dubbio, avrebbe potuto lasciarsi alle spalle la fatidica domanda se lasciare Tyce, tre anni prima, era stata la cosa giusta da fare. Lasciarsi alle spalle i se e i ma. E se fosse stata più coraggiosa? Se avesse corso il rischio? Era così presa dai propri pensieri che quando diede uno spintone alla porta che si apriva sul vicolo inciampò sui due gradini di cui si era scordata. «Ehi, attenta» la ammonì Tyce, afferrandola per le braccia per impedirle di cadere. Sage strattonò via le sue mani e gli lanciò un'occhiata fulminante. «Tre anni fa hai stabilito deliberatamente di conoscermi?» Tyce si accigliò, l'espressione che si faceva imperscrutabile. «All'inizio, sì.» «E dopo?» insistette, pur sentendo la nota stridula nella propria voce. «Hai continuato a venire a letto con me per ottenere informazioni sull'azienda e sulla mia famiglia?» «Non mi hai mai dato alcuna informazione» le fece presente lui. «Non è questo il punto! Mi hai usata per ottenere informazioni?» ripeté gridando, sbattendogli le mani sul petto. «Hai continuato a fare sesso con me perché ero un mezzo per arrivare a un obiettivo? Sei mai stato davvero attratto da me?» Sage sentì le costole stringerle il cuore e i polmoni, la pelle che sembrava di una taglia troppo piccola. Si esortò a respirare, rassicurandosi di poter accettare la risposta che le avrebbe dato la forza di cui aveva bisogno per smetterla di pensare a lui, di sognare di lui, di essere tentata da lui. «È questo che pensi?» chiese però Tyce di rimando, afferrandole i polsi e immobilizzandole le mani contro il proprio petto. E, come niente, il fuoco divampò dentro di lei, le dita che fremevano per il bisogno di toccare ed esplorare. Poteva sentire il battito frenetico del proprio cuore contro la gabbia
toracica e i capezzoli che si tendevano allo spasimo, alla disperata ricerca di attenzione. Tyce la stava toccando ed era l'unica cosa che contava... «Sul serio mi stai chiedendo se stavo fingendo di essere attratto da te?» La domanda di Tyce le ricordò che erano in un vicolo pubblico sotto l'assalto del vento e della pioggia. Oh, e che era furiosa con lui. «Sei impazzita?» riprese lui, il viso una maschera di frustrazione. Di punto in bianco le mollò i polsi per pressarle una mano sulla schiena e attirarla a sé. Sage rilasciò un sussulto di sorpresa quando lo stomaco incontrò la sua virilità. Era una sensazione così bella... Tyce la prese per i gomiti e la sollevò da terra, trasportandola finché con la schiena non andò a sbattere sui mattoni grezzi del muro del palazzo. Tenendole entrambi i polsi in una mano, le fece sollevare le braccia sopra la testa, i seni che premevano contro il suo petto. Gli occhi scuri e profondi incontrarono i suoi mentre le scostava i capelli dalla guancia. Sage trattenne il fiato quando lui, lentamente, troppo lentamente, chinò la testa e quelle labbra finalmente coprirono le sue. Fu un'esplorazione dolce e lenta, la lingua sapiente si avvolgeva alla sua. Si era aspettata il fuoco, si era aspettata il calore, si era aspettata la tempesta di desiderio e di bramosia che sempre si scatenava tra di loro... non si era aspettata tenerezza, né rassicurazione. Non voleva provare né l'una né l'altra. Voleva essere in grado di lasciarselo alle spalle, non essere tentata di avvicinarglisi un po' di più... Per la miseria, come poteva farla sentire così? Sage staccò la bocca dalla sua e gli lanciò un'occhiata che sperava fosse furiosa e accusatoria, non trasognata. «Mi hai baciato per evitare di rispondere?» insistette, pregando il proprio cuore di smetterla di tentare di uscirle dal petto. Abbassò lo sguardo e, sentendo la sua potenza ancora pressata al proprio stomaco, cercò di liberare le mani.
Tyce le fece risollevare il mento perché lo guardasse in faccia. «Ammetto di averti incontrato di proposito, ma questa...» Esitò. «Questa folle tensione tra noi non ha niente a che fare con la Lach-Ty e con le quote della Ballantyne. Eri, sei solo tu.» Le spinse il bacino contro il ventre e chiuse gli occhi. «E io. Tu entri in una stanza e subito comincio a pensare a quanto velocemente posso averti nuda.» Dannazione. La sua voce era profonda e gutturale e le faceva venire la pelle d'oca. Le faceva venir voglia di banchettare su di lui, di divorarlo tutto intero. Alla faccia del prendere le distanze. All'improvviso, Tyce le lasciò i polsi e indietreggiò, andosi le mani tra i capelli. «Fa freddo e...» Accennò alla telecamera sopra le loro teste. «Non è il luogo migliore per baciarsi o per parlare. Ci vediamo più tardi.» Sage annuì, la testa che voleva scoppiare per la quantità di informazioni e sensazioni. Due pensieri però si inseguivano nella sua mente: lo voglio alla follia ed è una follia volerlo.
5
Da artista, Tyce notò immediatamente le finestre a tutt'altezza e i grandi lucernari che inondavano il loft di luce. Quell'appartamento rappresentava Sage alla perfezione, considerò. Il pavimento era costituito da tavole di legno chiaro con una vaga sfumatura di rosa, mentre le travi erano state sverniciate fino a ritrovare parte del loro colore naturale. Lo spazio era unico, fatta eccezione per un divisorio in fondo alla stanza, che suggeriva un letto e un bagno alle sue spalle. Alzò lo sguardo e osservò la camera principale. C'erano due divani chiari, qualche poltrona a sacco sparsa sul pavimento, e nell'angolo opposto il banco di lavoro e una grande lavagna di sughero dove erano appuntati gli schizzi. Dato che la apprezzava come artista, si avvicinò immediatamente, esaminando i progetti: c'era un intricato choker di diamanti, un bracciale che gli ricordava un serpente che si arrampica su un braccio e degli orecchini a lacrima. Tyce scorse gli appunti annotati su ogni schizzo, dov'erano specificate le pietre che avrebbe usato. Smeraldi da quattro carati, un diamante da sei... Sage non scherzava. Sollevò un dito sulla foto di un anello con una grossa pietra rossa al centro circondata da delicati petali di diamante. Persino per lui, che non ci capiva niente, era evidente che fosse un gioiello unico. «È un rubino?» «Un diamante rosso» lo corresse Sage, avvicinandosi e fermandosi accanto a lui. «È ridicolo da tanto è raro, praticamente perfetto. È...» Si posò una mano sul cuore e Tyce notò che sembrava commossa, «...la stessa composizione chimica del carbone, eppure la pressione e milioni di anni l'hanno trasformato in questo splendore.» «È davvero così rosso?» volle sapere, intrigato. Sage gli offrì un mezzo sorriso. «La foto non gli rende giustizia. È di un rosso profondo che sfida ogni descrizione.»
«Deduco che l'anello sia di proprietà dei Ballantyne.» Sage annuì. «Allora perché non è stato esposto insieme al resto della collezione?» Sage raccolse un paio di pinzette per esaminarne l'impugnatura, quindi le rimise sul tavolo. «Abbiamo deciso di non mostrarlo al mondo.» «Perché no? È rubato?» Lei gli lanciò un'occhiataccia. «No, non è rubato.» Sospirò, e Tyce notò che i suoi occhi si incupivano per qualcosa di simile alla sofferenza. «Sono stata io a chiedere a Linc di escluderlo dalla mostra. Per motivi personali.» Prima che lui potesse indagare oltre, lei sollevò una mano per fermarlo. «Di cui non intendo parlare, né ora, né mai.» Già, ottima idea. Parlare era un modo perfetto per socchiudere la porta e permettere a tutti quei fastidiosi sentimenti di strisciare oltre la soglia. Avevano già abbastanza da gestire senza bisogno che le emozioni rimestassero le acque. I piedi nudi facevano capolino dall'orlo dei jeans, Sage tornò nel centro della stanza e si sedette su uno dei divani. Tyce prese posto sull'altro, il più lontano possibile. Se l'avesse avuta a portata di mano, c'era una probabilità fin troppo alta che avrebbe rinunciato del tutto alla conversazione per portarla a letto. Come era stato dimostrato quel giorno nel vicolo dalla sua mancanza di autocontrollo. Resistere a Sage non era una delle sue doti migliori. E, doveva ammettere, far l'amore con lei sarebbe stato come aggiungere la dinamite a un falò: stupido e folle. «Sei ancora arrabbiata per l'imboscata della riunione di oggi?» le domandò, la voce pacata. «Tu mi hai usato!» All'inizio sì, non poteva negarlo. L'aveva invitata a cena perché era Sage Ballantyne, perché aveva appena scoperto che Lachlyn era la figlia di Connor e, nella sua collera, aveva considerato che Sage stesse vivendo la vita della sorella. Si era aspettato di trovare una principessa viziata, una persona da disprezzare,
invece lei si era dimostrata tutta l'opposto: divertente, con i piedi per terra, un po' matta. «Mi è bastata un'ora per capire che, anche se adori la tua famiglia, non ne avresti parlato. Ho anche notato piuttosto in fretta che non ti interessano gli affari dell'azienda.» Notò la sua espressione di sfida, ma sapeva che lo stava ascoltando. «Se fossi stato interessato solo alle informazioni, non mi sarei preso il fastidio di richiamarti» dichiarò. «Ho pagato un prezzo salato per ogni quota che ho acquistato. Ne ho comprate a sufficienza per portare Lachlyn alla vostra attenzione, che era il mio obiettivo originario. Sapere che sei incinta mi ha solo fatto accelerare un po' i tempi. Non ho ingannato nessuno.» «Ci stai ricattando!» protestò lei, ma il dubbio si era insinuato nella sua espressione. «Ho chiesto che sia fatto un test del DNA. Ho chiesto che mia sorella possa conoscere te e i tuoi fratelli. Non ho chiesto denaro, né tempo, né coinvolgimento.» Appoggiò le braccia sulle cosce, gli occhi inchiodati al suo viso. Sage tormentò uno strappo nei pantaloni, aprendo un buco che prima non c'era. Sembrava persa e sola, un pesce fuor d'acqua. Tyce conosceva fin troppo bene quella sensazione. Ignorando l'insistenza del cervello che lo esortava a essere superiore, attraversò lo spazio che li separava e si accucciò davanti a lei. «Volevo dirlo prima a te, Sage, ma tu non hai risposto alle mie telefonate.» Lei aprì la bocca per replicare, poi la richiuse di colpo. Già, non c'era molto che potesse obiettare a riguardo. «Visto che non mi volevi parlare, sono ato al piano B.» Rialzando il viso, Sage fissò lo sguardo su un punto alle sue spalle, un dipinto appeso alla parete più lontana, e lui si voltò a guardare. Rappresentava una ballerina vista da dietro, ma a differenza della resa perfetta ed elegante di Degas, l'opera di Tyce era piena di struggimento, e catturava ogni sfumatura del dolore e della fatica che una ballerina deve affrontare per raggiungere la perfezione. Era uno dei suoi primi quadri, ma trasudava sentimento. Era buono, supponeva. Non grandioso, ma buono. Si chiese quando Sage l'avesse acquistato, e perché; sapeva che amava il balletto, dopotutto, però, non era un Degas, un artista che lei poteva comunque permettersi.
«Parlami di tua sorella» lo invitò lei, riportando gli occhi nei suoi. «Cosa vuoi sapere? E perché?» «Be', vuoi che la incontriamo, no? Com'è? Cosa fa?» Tyce rifletté un istante. Voleva molto bene a Lachlyn, tuttavia non era sua abitudine parlare di lei. O della famiglia in generale. «Ehm... Ha otto anni meno di me. È un'archivista.» «Sul serio? E le piace il suo lavoro?» La bocca di Tyce si addolcì in un sorriso. «Lo adora. Lei va matta per la storia, e per i libri.» Nervoso, si alzò di nuovo in piedi e attraversò la stanza per guardare le foto incorniciate appese a una parete. Sorrise alla vista di una Sage molto giovane in tutù, che abbozzava una piroetta, di Beckett su un trampolino, pronto a tuffarsi, e di Jaeger e Linc in smoking a un matrimonio. In tutto il mondo c'erano milioni di pareti come quella, che contenevano miliardi di ricordi. Lui non aveva una parete così, e nemmeno Lachlyn. Come la maggior parte dei newyorkesi, aveva visto i Ballantyne crescere e prosperare. La stampa era sempre affascinata da quanto di più vicino a una famiglia reale avesse la città. Tyce ricordava il giorno in cui erano morti i loro genitori, aveva divorato gli articoli sull'incidente aereo. Ricordava di aver letto di Connor, scapolo conclamato, che si era fatto avanti e aveva adottato i nipoti rimasti orfani. I Ballantyne erano stati, erano ancora una costante fonte di meraviglia per gli umili mortali della Grande Mela. Era rimasto stupito quando Connor aveva adottato anche Linc, il figlio della sua governante. Si era chiesto che tipo d'uomo fe una cosa del genere. Né suo padre, che era sparito prima che lui fosse abbastanza grande da ricordarlo, né il
patrigno si erano mai presi cura di altri se non di se stessi. Erano stati entrambi talmente immaturi e inaffidabili che non c'era da stupirsi che la pronta accettazione da parte di Connor di figli che non erano suoi gli avesse fatto una certa impressione. All'epoca, la madre riusciva a malapena a tenersi un lavoro, ma questo la prosciugava di ogni energia. Non le restava niente da dare al figlio e alla bambina piccola. Un mese dopo che Tyce si era diplomato, la madre aveva avuto un prevedibile crollo e si era rifiutata di lasciare la propria stanza, di andare al lavoro, di parlare e interagire. Erano ate sei settimane, e Tyce aveva capito che non sarebbe migliorata e che sarebbe toccato a lui mantenere la famiglia. Aveva rinunciato alla borsa di studio per la scuola d'arte e si era trovato un lavoro per nutrire, vestire e mandare a scuola la sorellina di dieci anni. Dato che faceva due mestieri e la madre dormiva il più possibile, Lachlyn era cresciuta da sola, desiderando ardentemente una famiglia, dei fratelli, risate e sostegno, ma ritrovandosi invece una madre che aveva smesso di parlare e un fratello che si ritirava in un guscio impenetrabile, i pensieri consumati dalla fatica di tirare avanti. Lui e Sage non sarebbero potuti essere più diversi; provenivano da situazioni che erano l'una l'opposto dell'altra. «Cosa ti ricordi di Connor, di quando lui e tua madre si sono conosciuti?» Tyce sprofondò le mani nelle tasche posteriori dei jeans. «Come ho detto, mia madre faceva le pulizie alla Ballantyne & Company. Usciva di casa nel tardo pomeriggio e rientrava quando io mi preparavo per andare a scuola.» «E chi badava a te?» Tyce corrugò la fronte. «Cosa vuoi dire, chi badava a me? Avevo sette anni, badavo io a me stesso.» Sage sbarrò gli occhi. «Ti lasciava da solo?» «Non è che avesse una scelta, Sage» sbottò tagliente. «Non c'erano soldi per una babysitter.»
Lei si posò una mano sul cuore, l'espressione inorridita. Diavolo, avevano avuto un'infanzia così diversa... A sette anni, probabilmente Sage non poteva neanche starnutire da sola. «Ha mai provato a dire a Connor di tua sorella?» Tyce scosse il capo. «No. Dopo la sua morte, abbiamo trovato una lettera che ha lasciato a Lachlyn, dove le raccontava la verità. Ha scritto che sapeva di aver già raggiunto la fine del percorso, con Connor. Sapeva che l'avrebbe scaricata.» «Connor non stringeva relazioni durature» confermò lei, la voce che tremava. «Era fatto così. Si sentiva intrappolato dalle persone, dalle donne. Non si è mai sposato, non si è mai fidanzato.» Tyce poteva capirlo. Lui stesso aveva avuto ben pochi rapporti che si erano protratti oltre qualche incontro, perché anche lui finiva sempre con il sentirsi intrappolato. Strano che non avesse provato quella sensazione con Sage. Probabilmente si erano lasciati prima che cominciasse a sentirsi claustrofobico. Tuttavia non aveva alcun dubbio che sarebbe successo, che alla fine avrebbe avuto l'impressione che gli mancasse l'aria per respirare. «Quando ho saputo che Lachlyn era la figlia di Connor ho cercato di contattarlo, ma non sono riuscito a are oltre i suoi avvocati. Mi hanno detto che molte donne avevano cercato di incastrarlo, sostenendo di aver avuto un figlio da lui. Mi hanno detto di procurarmi un mandato per ottenere il suo DNA, io, però, non avevo alcuna prova per richiederlo.» «Così hai deciso di procurarti delle quote della Ballantyne.» Sage si mordicchiò il labbro inferiore, le sopracciglia inarcate. «Santo cielo, Tyce, devono esserti costate una fortuna.» Praticamente tutto quello che aveva. «Già, ma è giusto che Lachlyn abbia qualcosa di ciò che ha creato suo padre.» «E non volete altro.» «No.» Sostenne il suo sguardo, senza alcuna esitazione. Era importante che lei si
rendesse conto che non voleva niente da lei o dalla sua famiglia. Voleva solo che Lachlyn avesse la possibilità di conoscerli; il resto sarebbe stato in mano al destino. Pioveva. Si sentiva il ticchettio delle gocce sul tetto. La luce fioca illuminava l'appartamento di rosa e di crema e faceva sembrare Sage più giovane e più dolce. Erano soli. Tyce sentiva il cuore battere contro la gabbia toracica, il sangue che pompava nelle vene. Gli si rizzarono i peli sul collo e sulle braccia quando tutto quel calore si diresse a... sud. La voleva. L'aveva sempre voluta, l'avrebbe sempre voluta... La guardò e colse l'attimo esatto in cui anche la mente di Sage si spostò da Lachlyn all'attrazione tra loro. Le sue guance si arrossarono, la bocca si ammorbidì e lui notò il battito accelerato nella delicata V alla base della gola. Sage accarezzò il bracciolo del divano, le dita che scivolavano sul tessuto come già erano scivolate sulla sua virilità. Non si era resa conto che, inconsciamente, aveva sollevato il petto, che i capezzoli spingevano contro la maglietta. Un'occhiata ed erano entrambi eccitati per il bisogno reciproco. Doveva baciarla di nuovo, non poteva resistere. Tyce attraversò rapidamente la stanza, fermandosi davanti a lei e appoggiando le mani sullo schienale del divano, ai lati della sua testa. Sage sollevò il mento e scosse la testa. «Scordatelo, Latimore.» Non sembrava molto convinta, però. Aveva visto il lampo di interesse nei suoi occhi, il blu annebbiato che suggeriva che stesse ricordando come lui la faceva sentire. I pantaloni tutt'a un tratto stretti gli ricordarono anche che erano ati mesi dall'ultima volta in cui aveva fatto sesso. Sage era l'ultima donna che aveva avuto nel suo letto ed era ancora, accidenti a lei, l'unica che voleva. «Preferirei camminare scalza su dei frantumi di vetro piuttosto che venire a letto con te» borbottò lei, abbassando gli occhi a guardare le unghie dei piedi tinte di
rosa. Persino i suoi piedi erano sensuali, con il terzo dito decorato da un grazioso anello. Imperterrito, dando retta più ai segnali che alle parole, Tyce le sfiorò una guancia con le nocche di una mano, dallo zigomo alla mascella. «Al momento non ti piaccio. Sei arrabbiata e confusa e ti senti un po' sopraffatta perché sei incinta e perché mia sorella potrebbe essere una Ballantyne, comunque mi vuoi e io voglio te.» Anche se sapeva che era una pessima idea, Tyce si chinò. Il bacio in quel vicolo non era stato abbastanza; aveva bisogno di assaporarla di nuovo, una volta, magari due, e sarebbe stato soddisfatto. Coprì la bocca con la sua e sospirò alla perfezione di quelle labbra vellutate. Ingoiò un gemito quando lei le socchiuse per lasciar libero accesso alla sua lingua. Le prese il labbro inferiore tra i denti, lo mordicchiò e vi ò sopra la lingua per attutire il dolore. Sage gli aveva posato una mano sulla nuca per trattenerlo, la lingua che danzava con la sua mentre con l'altra mano gli sollevava la camicia per trovare la pelle nuda. Doveva fermarsi, subito, ma non poteva, non voleva. Non era soddisfatto. Voleva di più. Quando c'era in ballo Sage, voleva sempre di più: un bacio, una notte di sesso, non erano mai abbastanza. Era come la droga che dà più assuefazione al mondo. Dubitava che ci sarebbe stato un momento in cui non avrebbe voluto Sage Ballantyne e questo complicava immensamente le cose. Doveva fermarsi... Tyce si tirò indietro, rimettendosi in piedi, e sollevò le braccia per aria. Gli occhi di Sage lentamente si rimisero a fuoco e, appena fu tornata in sé, scosse la testa emettendo un gemito di frustrazione. «Cosa diavolo abbiamo che non va?» protestò. «Incapacità di dialogare, desiderio di evitare qualunque cosa suggerisca l'intimità combinate a una ione al calor bianco» rispose Tyce infilandosi le mani tra i capelli. Si voltò verso le finestre, guardando la strada sotto di loro. Stava calando la sera e lui e Sage non avevano fatto neanche un o avanti. «Dobbiamo trovare un modo per coesistere» borbottò infilando le mani in tasca. Nel riflesso del vetro la vide scostarsi i capelli dal viso, tirare su le gambe e
stringersi le ginocchia al petto. «Direi che dovremmo cercare di essere amici però è ridicolo. Sappiamo entrambi che in genere gli amici non vogliono strapparsi i vestiti di dosso.» «Non sono molto brava a fare l'amica.» Intrigato dallo strano commento, Tyce si voltò a guardarla. «Che cosa vuoi dire?» Sage fece la mossa di guardare l'orologio. Vista l'ora, però, sussultò sul serio e schizzò in piedi. «Sono in ritardo! Devo andare alla Tana a informare Jo che sono incinta...» «Jo?» «La madre di Linc. Connor l'ha assunta come governante quando ci ha adottato ed è diventata una seconda madre, per noi. E le compagne dei miei fratelli saranno così offese di non averlo saputo per prime...» Tyce inarcò le sopracciglia. «Hai evitato la mia domanda.» Lei gli rivolse un'occhiata infastidita, ma con gli occhi lo supplicò di non insistere. «Sono davvero invitata a cena e sono davvero in ritardo» spiegò andando alla porta. Mentre recuperava giacca e sciarpa, Tyce prese una decisione, basata semplicemente sul fatto che non era ancora pronto a lasciarla andare, e quella era una considerazione della quale si sarebbe preoccupato in seguito. «E se venissi con te per annunciare la notizia?» Sage, che aveva preso in mano una scarpa, lo fissò con occhi colmi di panico. «Non puoi. Non sono pronti per te, per noi... Devo dirglielo da sola.» Tyce però scosse il capo. «Prima si abituano all'idea di vedermi in giro, più facile sarà per tutti.» E poi, irritare i suoi fratelli sarebbe stato un bonus aggiunto.
«Tyce...» Inchiodò gli occhi nei suoi. «Per favore, ho bisogno di un po' di tempo. Ci sono state già troppe sorprese, per un giorno solo.» Seppure riluttante, dovette concederglielo. «Come vuoi» accettò mentre le apriva la porta. «Ma abbiamo ancora molto di cui parlare.» «Lo so, lo so... non abbiamo concluso molto, oggi» convenne infilando un cappotto blu e avvolgendo intorno al collo una sciarpa di cashmere. «Tuttavia ho bisogno di tempo e di spazio, Tyce. Ti chiamo io.» Avrebbe voluto protestare, andarsene con un appuntamento già prefissato, ma sapeva che se avesse insistito lei si sarebbe richiusa nel suo guscio. Dopotutto, era quello che avrebbe fatto lui. «Sarà meglio che tu lo faccia, però. E presto» la ammonì chinandosi a posarle un bacio sulla tempia. Poi indietreggiò di un o e le sfiorò lo stomaco con la punta delle dita. Suo figlio cresceva dentro di lei. Che follia. «Prenditi cura di te, Sage. E chiamami se hai bisogno.» Sage gli rivolse un'occhiata confusa, come se aver bisogno di lui fosse la cosa più assurda che avesse mai sentito. Entrati in ascensore, Tyce guardò il loro riflesso nelle superfici a specchio mentre lei si sistemava i capelli, il trucco nel giro di pochi secondi e voilà... ecco di nuovo Sage Ballantyne, l'ereditiera, pronta ad affrontare il mondo. Lei viveva in un mondo tutto suo: era divertente, intelligente, generosa e, per assurdo, era anche la donna più ingenua che avesse mai conosciuto. Non aveva idea che il suo sorriso potesse bloccare il traffico, che le sue gambe potessero far piangere un uomo, che i suoi occhi fossero un'arma letale. E lui? Tyce era un artista in jeans e bomber che aveva già visto un po' troppi inverni, che pensava sinceramente che un giorno il mondo si sarebbe svegliato dal suo stato di trance e si sarebbe reso conto che non era bravo neanche la metà di quello che sostenevano che fosse, e che di sicuro non valeva i prezzi astronomici delle sue opere. Sage per lui era un pericolo costante, perché aveva la capacità di metterlo in ginocchio con un'occhiata, ed era l'unica persona che avesse fatto sorgere in lui la tentazione di aprirsi, di esplorare un mondo che andava oltre il divertimento in
camera da letto. Tyce sbatté il retro della testa sulla parete della cabina, sentendo la gola che si chiudeva. Era frastornato, travolto da mille pensieri turbolenti come un fiume in piena. Lei era sempre riuscita a scombussolarlo, a disturbare il suo equilibrio. Gli aveva chiesto tempo e spazio ma forse, a giudicare dal formicolio che avvertiva sotto la pelle e dal respiro accelerato, era più lui quello che ne aveva bisogno. Meglio tenersi a distanza per un po', rimettere in riga i pensieri, trovare un modo per avere a che fare con Sage a lungo termine. Un modo che, purtroppo, non comprendeva averla nuda fra le braccia.
6
Sage rilesse per l'ennesima volta il breve messaggio che Linc le aveva inviato cinque minuti prima.
Il test del DNA conferma che Lachlyn Latimore è la figlia naturale di Connor. Riunione di famiglia?
Riunione di famiglia? Che cosa voleva dire, a quel punto? Intendeva solo lei e i fratelli? I fratelli insieme alle compagne? Lachlyn? Tyce? A quel punto erano tutti connessi. Lei era connessa a Lachlyn perché Connor era suo padre e a Tyce grazie al DNA del loro bambino. Era una follia, troppo da assimilare. Aveva una specie di sorella, che era anche la zia di suo figlio. La notizia di per sé non era una sorpresa: dal momento in cui aveva visto la foto di Lachlyn aveva saputo chi era suo padre. Come interagire con lei, cosa fare, come approcciarla era stato il suo unico pensiero negli ultimi dieci giorni. Be', quello e Tyce. Perché non riusciva proprio a toglierselo dalla testa. Gettò la matita sul tavolo e sollevò lo schizzo sul quale stava lavorando; storse il naso, appallottolò il foglio e lo lanciò dietro la schiena. La sua concentrazione era inesistente; non sarebbe riuscita a disegnare un quadrato neanche con una pistola puntata alla tempia. Scostò la sedia e andò alla finestra. Sage non era un'amante dei cambiamenti. Nella sua esperienza, il cambiamento portava sempre tristezza e dolore. Ogni volta che un cambiamento bussava alla sua porta, faceva male: la morte dei genitori, la morte di Connor... Cambiamento significava lacrime ed era piuttosto convinta di averne già versate abbastanza.
Per via del legame che Lachlyn aveva con la sua famiglia, però, Sage avrebbe dovuto compiere lo sforzo di conoscerla, di accettarla nella cerchia ristretta dei parenti. Era una richiesta immane. Santo cielo, si stava ancora abituando alle compagne dei fratelli, cercando la strada giusta con loro. Adorava Piper, Cady e Tate, ma non le capiva. Come potevano essere così aperte, così coraggiose? Vivevano vite audaci, convinte – a torto, secondo lei – che sarebbero state sempre e soltanto splendide. Anche i suoi genitori avevano vissuto così: senza paura, osando, senza preoccupazioni per il futuro, senza temere che il destino potesse prenderli a schiaffi in mille e una maniera diversa. Nessuno capiva che la paura la lasciava al sicuro, che mantenersi a distanza dalle persone le dava un certo controllo. Una piccola barriera per ripararsi dal pugno nello stomaco della gente che moriva, che la lasciava, che se ne andava... che cambiava. Sage sentì le prime note della suoneria e guardò lo schermo del telefono. Avrebbe dovuto rispondere a Tyce, tuttavia la paura e la frustrazione le tennero le mani salde nelle tasche dei jeans. Sospirò attraversata dal senso di colpa. Aveva promesso di chiamarlo, ma stava ancora cercando di metabolizzare la situazione, sperando disperatamente che comparisse la fata madrina e con la sua bacchetta magica restituisse un senso alla sua vita. Sarebbe stato più facile se avesse saputo cosa voleva da Tyce, come voleva crescere quel bambino, come poteva riuscire a dialogare con lui. Il problema era che ogni volta che gli posava gli occhi addosso, il suo cervello andava in corto e il corpo cominciava a fremere di desiderio. E lo stress delle circostanze, in quel caso specifico, non aveva alcun effetto sulla sua libidine. Avrebbe voluto biasimare gli ormoni della gravidanza, ma sapeva che era tutta colpa di Tyce, solo di Tyce. Osservò la giornata grigia fuori dalla finestra. Magari una eggiata all'aria fresca le avrebbe fatto bene. Anche se stava nevicando, le avrebbe schiarito la mente e l'avrebbe aiutata a dissipare un po' della tensione che non la lasciava respirare. Presa la decisione, infilò stivali e giacca pesante, sciarpa e berretto e guanti e uscì.
Faceva più freddo di quanto avesse immaginato. Affondò il mento nella sciarpa e si incamminò per la strada pressoché deserta. In estate i marciapiedi erano invasi dai tavolini dei bar occupati da ogni genere di clienti, ma un pomeriggio d'inverno come quello, i residenti di quel quartiere se ne stavano o in vacanza in Florida, o al lavoro, o al calduccio del loro appartamento. Solo gli sciocchi e i pazzi facevano eggiate nel freddo. Stabilì di non restare fuori a lungo; un isolato o due, giusto per sgranchirsi le gambe, e una volta di ritorno a casa sarebbe stata più che giustificata una bella tazza di cioccolata calda. Accidenti, il marciapiede era proprio viscido, considerò scivolando su una lastra di ghiaccio. Forse non era stata una grande idea. Voltandosi verso il proprio palazzo, vide una figura alta avvicinarsi alla porta d'ingresso e corrugò la fronte, pensando che lo sconosciuto aveva la stessa costituzione di Tyce. Quando salì gli scalini e premette il dito sul citofono riconobbe il suo profilo, seppure distratta dai fiocchi di neve che gli si fermavano tra i capelli. Tyce non aveva ancora tolto il dito dal camlo... alla faccia dell'impazienza, considerò attraversando di nuovo la strada che aveva appena oltreato. Dato che stava guardando Tyce, però, non vide la lastra di ghiaccio sulla quale aveva posato il piede destro e sentì l'appoggio venire meno. Il sinistro fece la stessa fine e senza neanche rendersene conto cominciò a mulinare le braccia, cercando disperatamente di mantenere l'equilibrio. Non posso cadere, non posso cadere, ripeté tra sé, preoccupata per il bambino. Cercò di attutire la caduta, e quando la mano andò a sbattere sull'asfalto sentì l'inconfondibile crack. Il dolore al coccige fu il primo a investirla. Si riverberò per tutta la schiena. Non volendo fare da secondo, il polso seguì a ruota, irradiando brevi ma concise fitte che le fecero vedere dei puntini neri negli occhi, e il fiato intasarle la gola. Sage sapeva di non aver chiamato Tyce – non aveva fiato per parlare, figuriamoci per gridare – ma per miracolo lui comparve al suo fianco e si inginocchiò accanto a lei. «Per la miseria, Sage, stai bene? Che cosa diavolo è successo?» Ancora sopraffatta dal dolore, Sage non riuscì a trovare il fiato per rispondere.
La mano di Tyce sulla guancia riuscì a rianimarla e la sua voce calma e profonda la tranquillizzò. «Okay, tesoro, cerca solo di respirare. Lentamente. Dentro e fuori.» Sage si concentrò per mandare aria ai polmoni, vagamente consapevole che Tyce aveva il cellulare all'orecchio, e la stava guardando. Sentì qualcosa riguardo un'ambulanza con una certa urgenza. Cercò di tranquillizzarlo, che sarebbe stata bene. Aveva solo bisogno di un minuto per riprendersi. E, si disse, anche di un nuovo coccige e di un nuovo polso. A quel punto sarebbe stata benone. «Già, è incinta, circa quattro mesi» stava dicendo Tyce. «Respira, dannazione.» Okay, l'ultima parte era diretta a lei. Sage inspirò ancora e la testa smise di girare, ma il dolore si intensificò. Era anche, si rese conto, lunga e distesa sulla schiena e ogni centimetro del suo corpo stava congelando, fatta eccezione per il sedere e il braccio, che erano in fiamme. Tyce rimise il telefono in tasca e le tolse i capelli dagli occhi. «Devo sedermi» annaspò lei. «Ho freddo.» «Hanno detto di non muoverti» replicò lui tenendole una mano sullo stomaco. «Sto congelando, Tyce.» Sage sentì il lamento lontano di una sirena. «È per me?» Lui alzò gli occhi e annuì. «Già.» «Sono sicura che non sia necessaria.» «Quello che non era necessario era che tu uscissi in una giornata gelida mettendoti in pericolo» brontolò lui di rimando proprio mentre l'ambulanza si fermava accanto a loro. «Avevo bisogno di aria» protestò Sage. «Allora dovevi aprire la finestra!» ritorse Tyce mentre i paramedici si
avvicinavano. «Abbiamo bisogno che lei si faccia indietro, signore.» Quando si alzò, Sage notò che aveva i jeans inzuppati dalle ginocchia in giù. Il che significava che lei doveva essere bagnata dalla testa ai piedi. «Sente dei crampi? Ha l'impressione che potrebbe sanguinare?» le chiese l'operatrice mentre le puntava una penna luminosa negli occhi. «No» rispose Sage. «Sono caduta sul sedere. Ascolti, il mio appartamento è proprio qui di fronte. Se qualcuno mi aiuta ad alzarmi, salgo di sopra e starò benone.» Il paramedico sollevò la testa e Sage la vide scambiare un'occhiata con Tyce. «Dato che è incinta e si sta cullando il braccio come un neonato, le suggerisco vivamente di andare in ospedale.» Sage annuì, sospirò e si voltò verso casa, così vicina ma così lontana. A quel punto aveva proprio, proprio bisogno di quella tazza di cioccolata calda.
«Mi hanno fatto una lastra al polso e ho una frattura di Greenstick, il che è il motivo per cui mi hanno messo questo stupido gesso.» «Puoi fare una lastra quando sei incinta?» Tyce sentì la domanda di Linc e si rese conto che Sage stava parlando con il fratello in vivavoce, perciò attese per sentire la risposta. Si fermò fuori dalla porta socchiusa della camera d'ospedale, reggendo in mano una piccola borsa con dei vestiti asciutti e le scarpe. Per fortuna l'ospedale non era lontano dal suo appartamento e Sage gli aveva dato la chiave in modo che potesse recuperarle un cambio. «Ho chiesto, mi hanno detto che era sicura al cento per cento» rispose Sage, la voce che tradiva tutta la sua stanchezza. Tyce si ò una mano sugli occhi, senza riuscire a cancellare dalla mente l'immagine del volo che le aveva visto fare, il tonfo quando aveva sbattuto per terra. D'accordo, non era stata investita da un'auto, ma aveva fatto una brutta caduta e lui continuava a temere di vedere del sangue sporcarle i jeans.
All'idea, lo stomaco gli si incastrò in gola. Fino a poche ore prima aveva compreso la gravidanza a un livello puramente intellettivo: sesso e un bambino più in là nel tempo. Quando, però, era caduta, era stato assalito dalla paura. Quanto si era fatta male? Come poteva aiutarla? Cosa poteva fare? E se avesse perso il bambino? Come si sarebbe sentita? Come si sarebbe sentito lui? Malissimo, stabilì. Il bambino di Sage, il loro bambino, non era qualcosa che avrebbe voluto cancellare. Quand'era successo? E come? «Sei sicura di non volere che venga lì? Posso essere in ospedale in mezz'ora» riprese Linc. Tyce trattenne il fiato, in attesa della risposta. «Sono sicura che ci penserà Tyce ad accompagnarmi a casa. Era con me quando sono caduta.» «Allora non ha fatto un gran bel lavoro nell'afferrarti» borbottò il fratello. «Era alla porta e io stavo attraversando la strada. Non è Superman, Linc.» Ci fu un silenzio prolungato e Tyce fece per entrare nella stanza, ma si fermò quando Linc riprese la parola. «Se hai il polso ingessato e hai dolore a camminare, non puoi stare da sola.» Linc aveva ragione, rifletté Tyce. Per un po' Sage aveva bisogno d'aiuto e probabilmente sarebbe dovuto essere lui a offrirglielo. D'accordo, vivere con lei e non poter far l'amore sarebbe stata una tortura, la verità, però, era che non potevano continuare a girarci intorno: a un certo punto avrebbero pur dovuto cominciare a parlare. Tyce sapeva bene di essere un lupo solitario, di non aver bisogno delle persone, d'altra parte aveva già un legame con quel bambino e tramite lui con Sage.
Dubitava di essere in grado di dare al figlio ciò di cui avrebbe avuto bisogno, ma di sicuro ci avrebbe provato. Solo così avrebbe potuto continuare a guardarsi allo specchio. E parte di quel suo nuovo ruolo comprendeva prendersi cura della madre di suo figlio. Se questo comportava trasferirsi da lei e aiutarla mentre era convalescente, era quello che avrebbe fatto.
7
«Fammi parlare con gli altri e stabiliamo dei turni in modo che uno di noi stia sempre con te, finché non tornerai a essere autosufficiente» dichiarò Linc. «Non ho cento anni, Linc! Non ho bisogno di un badante. Sai che non mi piace quando la gente invade il mio spazio.» Mi spiace per te, considerò Tyce, nonostante potesse comprendere alla perfezione quel sentimento. Neanche lui amava avere persone nel proprio spazio, ma Sage avrebbe semplicemente dovuto farsene una ragione. «Stanotte mi fermo da te...» Quella era la battuta per il suo ingresso; nessuno sarebbe stato da lei, se non lui. Entrò nella stanza, posò per terra la borsa con i vestiti e girò intorno al letto per guardare il volto preoccupato di Linc nello schermo del telefonino di Sage. Prendendoglielo di mano, ignorò le sue proteste. «Scordati i turni Linc. Resto io da lei.» «Latimore» riconobbe l'altro, il tono distaccato. «Sage è d'accordo?» A giudicare dalla sua espressione contrariata, Sage avrebbe preferito ospitare uno scarafaggio mutante, ma non gli importava. Si sarebbe preso cura di lei in modo che lei potesse prendersi cura del bambino. E magari lo fai anche perché hai bisogno di sapere che lei sta bene? Tyce ignorò il pensiero errante. Si rivolse a Sage, che stava mostrando tutto il proprio dispiacere. «Rassegnati, Sage. Ormai è deciso, Linc» salutò prima di terminare la telefonata. Con occhi annebbiati per il dolore, Sage cercò di traarlo con lo sguardo. «Tu non vieni a casa con me e non ti fermi a dormire da me!» Tyce infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans. Discutere con lei era uno
spreco di energia, e comunque il suo viso pallido e gli occhi lucidi gliene avevano fatto are la voglia. «Poche storie, Sage. Come stai, sul serio?» Lei aprì la bocca, poi la richiuse, come se avesse ripensato a quello che voleva dire. «Il bambino sta bene. Non sono a rischio di un aborto spontaneo, se è questo che ti preoccupa» lo informò a bassa voce. Evidentemente non aveva idea che lui fosse molto più preoccupato per lei che per il bambino; il piccolo aveva il suo airbag naturale, Sage aveva preso una bella botta. «Sage...» Con le nocche di una mano le fece sollevare il mento, aspettando che i loro sguardi si incrociassero prima di parlare di nuovo. «Questo lo so, voglio sapere come stai tu.» «Il polso è indolenzito ma sopportabile. È il fondoschiena che fa un male della miseria. Non riesco a stare seduta.» Tyce doveva toccarla, perciò le posò il palmo aperto sulla guancia. «Ti hanno dato degli antidolorifici?» «Solo del paracetamolo. Mi hanno anche dato una pomata per la botta» aggiunse con un'occhiata perplessa al gesso. «Di sicuro non riesco a metterla da sola» terminò con un sospiro rassegnato. Tyce le posò un bacio in fronte, indugiando più a lungo del necessario. Sta bene, si ricordò per allentare la morsa del panico che gli serrava la gola. Sta bene... e il bambino sta bene... Respira. Tirandosi indietro, riuscì a trovare un sorriso per lei. «Guarda caso nutro un certo apprezzamento per il tuo fondoschiena e non ho alcun problema a toccarlo, con o senza pomata.» Come aveva sperato, Sage spalancò gli occhi e abbozzò un sorriso storto. «Sei sicuro di volerti prendere cura di me per un paio di giorni? Non sarebbe più semplice se se ne occue la mia famiglia?» Tyce raddrizzò le spalle. «Probabilmente sì. Il fatto è, Sage, che tu e io abbiamo bisogno di un po' di tempo per parlare, per conoscerci di nuovo. Non abbiamo
ato troppo tempo a comunicare, tre anni fa.» Quando arrossì, Tyce seppe che stava ricordando le ore, i giorni ati a letto senza comunicare... a parole. «Tra meno di sei mesi» aggiunse, «ci sarà questo bambino che sarà influenzato da ogni nostra azione, da come ci rivolgeremo l'uno all'altro, da come ci tratteremo, da come interagiremo. Credo sinceramente che dovremmo cercare un modo razionale di convivere.» «E ritieni che trasferirti da me e spalmarmi la crema sul sedere sia un modo razionale per farlo?» ripeté, scettica. «Se sto da te per qualche giorno, avremo tutto il tempo per dialogare, per trovare un modo per andare avanti, per parlare del bambino e di come cambierà le nostre vite. Possiamo discutere le tue aspettative, le mie...» Tyce si infilò le mani nei capelli, frustrato. Gli adulti che avevano fatto parte della sua vita erano ati da una crisi all'altra, avevano reagito agli eventi, piuttosto che pianificarli. Se andava a stare da lei, Sage non avrebbe più potuto evitarlo e lui avrebbe potuto capire che tipo di padre voleva che fosse, e se sarebbe stato in grado di diventarlo. Potevano costruire qualcosa di piccolo ma significativo, tra loro, una sorta di rapporto che li avrebbe aiutati a fare i genitori in modo efficace. Certo, lui avrebbe dovuto abbandonare la propria zona di comfort, aprirsi un po', tuttavia suo figlio meritava uno sforzo da parte sua. Inspirò a fondo. Avevano bisogno di un piano, perché con un piano da seguire c'erano meno possibilità di andare a braccio e avventurarsi nell'ignoto, spaventoso territorio delle emozioni. «Non sei d'accordo?» «Purtroppo sì.» «Il tuo entusiasmo è commovente» commentò lui con tono asciutto. Quando cercò di tirar giù le gambe dal lettino, Sage si lasciò sfuggire un lamento. Chiuse gli occhi, e Tyce sentì il cuore contrarsi. «Cavoli, fa male.» Visto che il modo più facile per metterla in piedi era sollevarla, le infilò un braccio sotto le ginocchia e uno dietro la schiena, quindi la prese tra le braccia. Scostandosi dal letto, abbassò gli occhi sul suo bel viso. «Okay?»
«Sì.» Lei gli strinse la mano intorno al collo, e un brivido di desiderio gli corse lungo la schiena. «Sto bene. Mettimi giù.» Dopo averla appoggiata per terra, Tyce recuperò la borsa e tirò fuori i vestiti che aveva portato per lei. Quando tornò a guardarla, notò che aveva le guance lievemente arrossate. Dopo tutto quello che avevano fatto insieme, a letto, possibile che si sentisse in imbarazzo? «Tesoro, ho baciato, gustato ed esplorato ogni centimetro del tuo corpo. Qual è il problema se ti vedo in reggiseno e mutandine?» Lei però sollevò le spalle. «Quello era sesso. Questo è... Non so come spiegarlo, è... è diverso.» Era più intimo, si rese conto Tyce. E l'intimità la spaventava, proprio come spaventava lui. Le piaceva avere il controllo di ciò che condivideva con lui e di quanto si concedeva, e tutt'a un tratto si ritrovava in una situazione in cui doveva cedergli quel controllo. Tyce poteva capirla: nemmeno a lui piaceva perdere il controllo. Le posò una mano sulla spalla e le diede una stretta prima di sollevare con l'altra un paio di pantaloni della tuta, inarcando un sopracciglio come a chiedere il permesso. Lei fece un cenno d'assenso borbottando un Grazie, poi, con la mano sinistra, cominciò a sciogliere i lacci dei pantaloni da ospedale, imprecando tra i denti. «Per la miseria, fa male anche solo a stare in piedi.» Al che Tyce si accovacciò davanti a lei, aiutandola a sfilare l'orribile indumento cercando al contempo di ignorare quelle lunghe, splendide gambe che ricordava in posizioni ben più interessanti. Stroncando l'assalto dei ricordi erotici, le fece infilare un piede nella gamba della tuta, poi ripeté dall'altro lato. Limitati a portare a termine il compito, Latimore. Le sollevò i pantaloni fino alla vita, notando l'enorme livido che le si stava formando sul fondoschiena. «Che diavolo, Sage! Che razza di botta hai preso?» «Come?» «Hai un livido gigantesco sul sedere. È per questo che ti fa male stare seduta» le spiegò prima di dedicarsi alle calze e alle scarpe da ginnastica. Si rimise in piedi per toglierle la casacca dell'ospedale, cercando di non indugiare con lo sguardo su quei seni rotondi celati soltanto a metà dal reggiseno di pizzo rosa polvere che
faceva da completo al tanga. Dio, dammi la forza! «Stai bene?» gli domandò Sage prima che lui la aiutasse a infilare una maglietta a maniche lunghe. «Neanche un po'» borbottò Tyce tra i denti. Prese la felpa con il cappuccio e la aiutò a indossarla. Fissando il gesso le disse: «Dovrò renderlo un po' più fico». «Eh?» Tyce indicò il gesso. «È bianco e noioso. Dovremo lavorarci un po' su.» Lei sorrise. «Sarà il gesso più costoso della storia. Farai meglio a firmarlo, così una volta rimosso qualcuno potrà venderlo e fare una fortuna.» Tyce terminò di vestirla, la aiutò a mettere il braccio al collo e prese il cappotto di riserva che aveva portato con sé. «Okay, vediamo di uscire di qui.» Sage fece un o e impallidì, ne fece un altro e gemette. Senza prendersi il fastidio di chiederle il permesso, Tyce la sollevò e la sostenne contro il proprio petto, la tempia contro la sua testa. «Meglio?» «Parecchio» mormorò lei cingendogli il collo con il braccio buono. «Anche se insisteranno perché usi la sedia a rotelle... politica dell'ospedale e tutto il resto.» «Possono insistere finché vogliono, non ho nessuna intenzione di lasciarti andare» le assicurò lui uscendo in corridoio. Non ho alcuna intenzione di lasciarti andare. Perché quell'affermazione risuonò a lungo dentro di lui? Tyce non riusciva a capire perché quel particolare ordine di parole avesse un significato profondo, fondamentale. Era quello il problema di avere Sage vicino, considerò, e il motivo per cui tre anni prima si era tirato indietro. Accanto a lei, nella testa gli si sviluppavano strani e pericolosi pensieri. Averla vicino, si ammonì in silenzio e con determinazione, non era una possibilità, non lo sarebbe mai stata. A Tyce piaceva stare per i fatti suoi. Gli
piaceva la libertà di non essere legato a una donna, a un luogo. Se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare New York e andarsene a Delhi o a Gibuti. Sarebbe potuto andare ovunque volesse. Lachlyn se la sarebbe cavata. Avrebbe venduto o affittato il suo spazio e avrebbe preso il volo. Poteva farlo perché era libero da impegni; non aveva un'altra persona da prendere in considerazione, con i suoi sentimenti e i suoi desideri. Non avrebbe dovuto spiegare... Magari, una volta che Sage avesse recuperato in pieno le forze, sarebbe partito zaino in spalla per un paio di mesi. Poteva viaggiare, tornando a casa una settimana o due prima che nascesse il bambino. In quel caso, però, rifletté mentre depositava Sage sul sedile posteriore di un taxi, non avrebbe potuto assistere alla crescita del suo pancione, si sarebbe perso le ecografie, le visite ginecologiche... Avrebbe potuto farlo? Sarebbe potuto andarsene? Più di ogni altra cosa avrebbe voluto rispondere di sì, convincersi che lei sarebbe stata bene, ma aveva lo stomaco contorto per l'incertezza. L'istinto gli diceva che non sarebbe andato da nessuna parte, che avrebbe fatto parte di quel processo fino in fondo. Quindi niente Delhi, niente Gibuti. Non sarebbe stato un problema, pensò sedendosi accanto a Sage. Poteva anche accettarlo.
Molto più tardi, quel pomeriggio, Sage riaprì gli occhi e inspirò l'odore tipico del suo appartamento... Era a casa, in un letto. Ruotando su un fianco, sussultò. Le faceva male ogni centimetro del corpo, dalla nuca alle spalle, al coccige, alle gambe. Il polso pulsava. Abbassò gli occhi sul gesso, e risucchiò un respiro allibito: non era più bianco, ma ricoperto di mini-ritratti, tutti terribilmente accurati: Linc, Jaeger, Beck, Jo, Connor... Santo cielo, l'immagine di Connor era incredibilmente realistica, con quel viso patrizio e il largo sorriso. Tyce aveva disegnato anche i nipoti, e le compagne dei fratelli. Era chiaro che lo aveva fatto in fretta, ma erano comunque tutti fantastici.
Un altro monito, se ne avesse avuto bisogno, che era dotato di uno straordinario talento. «Mi stavo annoiando.» Sage sollevò gli occhi di scatto e vide Tyce appoggiato alla parete che separava la camera degli ospiti dal resto dell'appartamento. Avevano valutato che non fosse il caso di azzardare la scaletta che portava al soppalco. Notò immediatamente le sbavature di carboncino sulla maglietta bianca e sui jeans sbiaditi. Tracciando il profilo del viso di Connor con un dito, notò, però che il disegno restava nitido. «Sono fantastici. Come hai fatto a fissarli?» «C'era una latta di smalto trasparente sotto il tuo banco da lavoro.» Tyce scrollò le spalle. «Grazie alla tua ossessione per le foto incorniciate, ho potuto ritrarli tutti quanti.» «Sono incredibili, davvero. Quanto ti ci è voluto per farli?» «Non molto» rispose lui alzando di nuovo le spalle. «Avrei fatto anche prima, ma continuavi a distrarmi?» «A distrarti? Se stavo dormendo!» protestò lei. «Sei sempre stata bella, tuttavia non ti avevo mai osservato mentre dormi. Sei semplicemente straordinaria» commentò lui con sincerità. E l'attrazione mai sopita schizzò dall'uno all'altro. Era una strana sensazione svegliarsi con qualcuno in casa; si sentiva un po' in imbarazzo, eppure avere Tyce nell'appartamento la faceva sentire protetta, al sicuro. Al sicuro? Non è possibile, obiettò subito. Era da anni che non si sentiva al sicuro, non davvero, non da prima dell'incidente che le aveva strappato i genitori. Stava fraintendendo ciò che provava. Doveva essere così, perché al sicuro non era una sensazione che si aspettasse di provare, che si sarebbe permessa di provare, mai più. In ogni caso, era ora di stroncarla.
Si rimise sulla schiena e fece una smorfia, usando il braccio sinistro per sollevarsi. In un lampo, Tyce le fu accanto, le braccia forti che la aiutavano ad appoggiarsi alla testata del letto. Scomparve in bagno e ne tornò pochi secondi dopo con un bicchiere d'acqua e due pillole. «Paracetamolo» la rassicurò. «Grazie.» Sage ingoiò le pillole. Era il momento di riprendere il controllo. Doveva riavere casa sua, frapporre un po' di distanza tra sé e quali che fossero i sentimenti che provava per Tyce. «Apprezzo molto che tu mi abbia accompagnato a casa e tutto il resto, ma è ora che tu te ne vada.» Per tutta risposta, Tyce inarcò un sopracciglio. «No.» Lei lo fulminò. «Tyce, non mi piace avere gente tra i piedi.» «Neanche a me, tuttavia...» Scrollò le spalle. «Dovrai abituartici.» Quindi indicò il suo stomaco. «Tra meno di sei mesi avremo tutti e due una persona nuova nelle nostre vite, una creatura piuttosto esigente, da quello che ne so. Forse dovremmo provare, e abituarci, all'idea di condividere lo spazio per non morire dal trauma.» Sage rimase a bocca aperta. Era talmente allibita che lui riprese la parola prima che lei potesse ribattere. «Resterò qui per qualche giorno, così... sarà meglio che tu te ne faccia una ragione.» Accidenti. Tyce sembrava del tutto a proprio agio. «Allora, mentre dormivi ho risposto a un mare di telefonate dei tuoi parenti.» Le tolse il bicchiere vuoto dalla mano per posarlo sul comodino. Si sedette sulla sponda del letto, sollevando un ginocchio sul materasso e appoggiando una mano accanto alla sua gamba. L'altra gliela posò sulla coscia. «Non parlo con così tanta gente in un mese, figuriamoci in un pomeriggio.» Sage stava tentando di seguire il discorso, davvero, però la sua mano sulla coscia le stava trasformando il cervello in pappa. Se l'avesse mossa un po' più su, un po' più al centro, avrebbe trovato...
Argh! Scherziamo? Si diede il proverbiale schiaffo in faccia, e riportò la propria attenzione sulla conversazione. «Be', questo non mi sorprende. Non sei mai stato un chiacchierone.» «Oh, quando voglio sono perfettamente in grado di intrattenermi con chiunque, parlando del più e del meno. Di solito però non voglio, e non ne ho bisogno.» «E ammettiamolo, alla gente piace il tuo atteggiamento scontroso e scorbutico. A quanto pare risulta sensuale» mormorò lei. «A quanto pare?» Si protese in avanti, gli occhi fissi sulla sua bocca. A Sage mancò il fiato in gola mentre lui si avvicinava e il battito schizzò alle stelle. Incombette sopra di lei, prolungando la frenetica attesa, e poi la bocca incontrò la sua in un bacio che fu tanto seducente quanto dolce. C'era ione, sì, ma era trattenuta. Era un bacio per dare conforto, per riscoprire, per sedurre. Tyce non l'aveva mai baciata così e Sage non seppe come rispondere. Avrebbe voluto esortarlo ad andare più a fondo, a prendere di più, ad alimentare le fiamme, allo stesso tempo, però, non voleva perdersi tutta quella dolcezza. Era pura seduzione, fascino totale. E fin troppo breve. Tyce sollevò il viso e si tirò indietro, gli occhi neri che scintillavano nella bassa luce della stanza. Sage fu sorpresa nel sentire il tremore della sua mano quando tornò a posargliela sulla gamba. «Vederti cadere... Mi hai spaventato a morte, Sage.» La capacità di parola l'aveva abbandonata perciò si limitò ad annuire. Non era in grado di distogliere lo sguardo dalla tempesta emotiva che leggeva nei suoi occhi. Era la prima volta che vedeva Tyce senza il suo mantello di reticenza, oltre le sue barriere. C'era così tanto sentimento in quelle scure profondità che le fece mancare il fiato, accelerare il cuore. Sollevò una mano per sfiorargli il viso. Avrebbe voluto accarezzargli i possenti bicipiti, sollevargli la maglietta e gustare la perfezione del suo torace. Avrebbe
voluto insinuarsi dentro di lui, esplorare la sua mente, il suo genio creativo, sbirciare fino alla sua anima. Tyce le faceva scordare di mantenere le distanze; la tentava in modi che la pietrificavano. «Dicevi, le telefonate...» tentò con un filo di voce. E come per magia, i suoi scudi si innalzarono di nuovo. «Hanno detto tutti che sarebbero ati a trovarti questa sera, così ho proposto che, invece che arrivare a spizzichi e bocconi, si presentino tutti per cena.» Sage annuì, rassegnata. Si ò una mano sul viso, il dolore che le riverberava dalla testa fino al sedere e nel braccio come cassa di risonanza. «Non c'è un granché in frigorifero. Dovrò ordinare qualcosa.» Tyce le pizzicò la gamba per attirare la sua attenzione. «Ho preparato un arrosto ed è più che sufficiente per tutti.» Sage si accigliò. «Tu sai cucinare?» «Certo.» «Da quando?» «Da quando ero bambino e l'unico modo per mettermi un pasto decente in pancia e, più importante, metterlo nella pancia di Lachlyn, era imparare a prepararlo da solo» rispose d'istinto, anche se dall'espressione infastidita era evidente che si era pentito all'istante di aver rivelato qualcosa di tanto personale. Tuttavia, dato che lui aveva aperto la porta... «Dov'era tua madre? Non vi dava da mangiare?» «Solo quando stava abbastanza bene per farlo» replicò alzandosi. Avrebbe voluto chiudere lì l'argomento, ma Sage non era dello stesso avviso. «Era malata?» Fissando la pittura astratta sopra la sua testa, lui scrollò le spalle.
«Soffriva di depressione. C'erano giorni in cui non si alzava dal pavimento, si dondolava per ore e ore. La maggior parte delle volte riusciva, a malapena, ad andare a lavorare, ma quando tornava a casa collassava. Se non avessi badato io a me stesso, e a Lachlyn quando è arrivata, se non avessi preparato io da mangiare, semplicemente avremmo saltato il pasto. È stato... Sì, è stata dura.» «Dov'è lei adesso? È...» Sage esitò, mantenendo un tono neutro. Doveva fare attenzione: se fosse stata troppo indifferente sarebbe sembrata insensibile, ma se avesse mostrato troppa comione Tyce avrebbe subito smesso di parlare. «Ancora viva?» «È morta di polmonite molto tempo fa.» Sage si prese il labbro tra i denti. «Mi dispiace molto, Tyce.» Lui alzò le spalle. «Così è la vita.» Quando lo vide guardarsi attorno, capì che stava cercando un modo per cambiare argomento. C'era poco da stupirsi: le aveva detto più in dieci minuti che per tutto il tempo che erano stati insieme. Tornò a sedersi sul letto e le tolse una ciocca di capelli dalla guancia per infilargliela dietro l'orecchio. «Continuo a guardare quella foto dell'anello a fiore con il diamante rosso. È incredibile. Adesso tocca a te parlare: raccontami la sua storia e dimmi perché non volevi che fosse esposto alla mostra.» E quello era il prezzo che doveva pagare: aveva sollevato il coperchio del suo vaso di Pandora e lui pensava di poter fare lo stesso. Accidenti a chi aveva inventato il concetto di occhio per occhio. Con un sospiro, Sage sistemò il resto dei capelli dietro le orecchie e fissò un punto, prima di riportare lo sguardo su di lui. «Esistono solo dai venti ai trenta veri diamanti rossi, al mondo, e la maggior parte di questi è di meno di mezzo carato. Come Jaeger, mio padre era un cacciatore di gemme e mia madre spesso lo accompagnava nei suoi viaggi. Comprò quel diamante da un agricoltore brasiliano. Per quel che ne sappiamo è il diamante rosso più grande al mondo. È stata la sua scoperta più grande, e ricordo quanto erano eccitati lui e Connor. Mia madre pensava che l'avrebbero
venduto, invece mio padre voleva regalarlo a lei per il loro decimo anniversario di matrimonio. Connor disegnò e realizzò l'anello. I petali del fiore rappresentano ognuno dei suoi figli.» Tyce corrugò la fronte. «Ci sono quattro petali, e voi siete solo tre.» Nei suoi occhi espressivi balenò la tristezza. «Mia madre era incinta del suo quarto figlio quando morì.» Lui imprecò e si sfregò una mano sul viso, quindi gliela fece scivolare dietro la nuca e appoggiò la fronte contro la sua. «Ora tocca a me dire che mi dispiace.» Lei abbozzò un piccolo sorriso. «Uno dei ricordi più vividi che ho di lei è quando guardava quella pietra, misurandola in controluce. Il volto le si illuminava. Era affascinata da quel diamante, e avrebbe adorato l'anello.» Si lasciò sfuggire una breve risata. «Quella pietra valeva milioni e milioni di dollari, mio padre, però, era pronto a regalargliela perché a lei piaceva tanto. Erano fatti così, sai. Le persone prima delle cose, prima del denaro.» E, visto che era una vigliacca quando si trattava di uomini e relazioni, lei non avrebbe mai sperimentato quello che avevano avuto i suoi genitori. Non avrebbe mai conosciuto il vero significato di una connessione a livello dell'anima. Magari quel bambino l'avrebbe resa migliore, più forte, più coraggiosa. Magari, di lì a un anno, di lì a dieci anni, sarebbe riuscita a superare le sue paure, a smetterla di equiparare l'amore al dolore e avrebbe corso il rischio. Non sarebbe stato con Tyce, comunque. Amarlo non era una possibilità reale. Nonostante l'incredibile attrazione fisica, lui non era tipo da sistemarsi. Come per Connor, per Tyce le relazioni erano in fondo alla lista delle priorità. «L'esistenza di questa pietra è di dominio pubblico o devo scrivere una promessa con il sangue che non rivelerò mai il suo segreto?» scherzò lui con gli occhi che brillavano. «Recupera un coltello affilato e un foglio di carta.» Con tutte le sue attuali preoccupazioni, che Tyce parlasse a sproposito non rientrava nel quadro. Si fidava di lui, non era il tipo da raccontarlo in giro.
«Per il servizio fotografico della Ballantyne ho usato un altro diamante rosso, spiegando che era la pietra preferita di mia madre. Non ho raccontato tutta la storia. Non volevo usare l'anello perché avrebbe generato uno tsunami di pubblicità. Volevo, voglio solo ricordarlo come la pietra che mia madre amava, parte di un anello che mio padre aveva fatto fare per lei, un simbolo della famiglia che adorava.» Con il pollice, lui le accarezzò il mento. «Posso capirlo. I tuoi genitori dovevano essere brave persone, Sage.» Lei annuì, e lui le asciugò una lacrima che le era sfuggita dall'angolo dell'occhio. «Lo erano davvero, Tyce. E anche Connor. So che ha messo incinta tua madre, però se avesse saputo di Lachlyn avrebbe...» «Ssh» la zittì lui con un bacio sulla tempia. «Va tutto bene, tesoro.» No, non andava tutto bene, ma lì, mezzo appoggiata a lui, a Sage sembrava quasi che fosse vero. Le sembrava che niente potesse ferirla, che ci fosse un solido muro tra sé e la botta successiva che la vita aveva in serbo per lei. Sì, si sentiva decisamente al sicuro, considerò Sage, chiudendo gli occhi. Dannazione. Così non andava bene per niente. Avrebbe dovuto allontanarsi, allontanarlo, farlo andare via, tuttavia non ne aveva né l'energia, né la voglia. Voleva solo starsene lì, ad assorbire il calore di Tyce e la sua forza, concedendosi all'abbraccio del sonno.
8
Tre giorni dopo, Sage era seduta sul divano, le gambe sollevate su un pouf. Tyce era ancora da lei e stava finendo di rimettere in ordine dopo cena. Era un cuoco favoloso, molto più bravo di lei. Abbassò gli occhi sui fogli che aveva in mano e storse il naso: a seconda delle risposte che avrebbe dato al questionario, sarebbe anche potuto essere considerato un genitore migliore di lei... Distratta, si accorse che lui si era avvicinato solo quando sentì il suo respiro caldo sulla guancia. «Pensi davvero che dei test trovati online su come fare i genitori possano servire a qualcosa?» Guardandolo negli occhi, lei scrollò le spalle. «Non lo so, ma potrebbero aiutarci a capire le differenze nel nostro modo di vedere il ruolo di padre e di madre. Io penso di essere più portata ad agire d'istinto, mentre ho l'impressione che tu sarai il genitore disciplinato.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Oh, non so... magari il fatto che pratichi Tai Chi all'alba? Che fai Taekwondo quattro giorni alla settimana? Che corri sei miglia ogni giorno?» «Otto» la corresse lui, e Sage vide la fossetta della sua guancia quando curvò le labbra in un sorriso. Poi notò anche che aveva in mano un sacchetto di piselli congelati, che le scaricò in grembo. «Mettili sul sedere» la esortò, sorseggiando il vino rosso che aveva nell'altra mano prima di posare il bicchiere. Sage cercò di girare il torso per arrivare al punto giusto. Tuttavia, anche se non era più dolorante come lo era stata la sera della caduta, le faceva ancora male. «Fatti un po' avanti» la invitò allora Tyce riprendendo i surgelati e posandole l'altra mano sulla spalla. Lei si piegò in avanti, ma le sfuggì un'altra smorfia quando, una volta messo in posizione il sacchetto, il gelo le penetrò attraverso i pantaloni della tuta. «Accidenti, non so se sia peggio il freddo o il livido.»
Tyce si sedette accanto a lei, la gamba muscolosa pressata alla sua, e il suo corpo cominciò a fremere. «Fidati, il livido è peggio» le rispose. «È così brutto?» In fin dei conti, era in un punto in cui proprio non poteva vedersi. «Ha le dimensioni di un pallone da calcio ed è di un blu intenso.» Dopodiché le prese dalle mani una copia del questionario e arricciò il naso. «Okay, togliamoci il pensiero. Prima domanda: cambiare i pannolini è compito della madre, del padre o di tutti e due?» Gli fremettero le labbra. «Questa è facile. Se è sporco, è compito tuo.» «E se io non ci sono?» stette al gioco Sage, già distratta dal calore del suo corpo, dal suo profumo fresco e virile che le arrivava alle narici. I seni cominciarono a reagire, il sangue a surriscaldarsi. «Allora il bimbo dovrà tenersela» replicò impenitente, prima di regalarle uno di quei suoi sorrisi fin troppo rari. «Scherzo. Farò la mia parte, ma ti avverto: cercherò sempre di convincerti a farlo al posto mio, se ci riesco. Potrei anche arrivare a supplicare.» E probabilmente avrebbe avuto successo, rifletté Sage prima di sentire le goccioline di condensa che dal sacchetto surgelato le scivolavano sul sedere. Tese un braccio all'indietro, ma Tyce glielo bloccò scuotendo la testa. «Ancora cinque minuti. Per favore?» Ritirando la mano, lei annuì riluttante. La mano di Tyce invece le finì sulla spalla, così lei si girò appena, giusto il necessario per appoggiargli la testa al petto. «Le due caratteristiche più importanti che voglio che mio figlio possegga? Mmh, questa è difficile.» Tyce non ebbe la minima esitazione. «Capacità di recupero e determinazione.» Sage annuì, intuendo immediatamente che la sua infanzia sarebbe stata più difficile se non avesse avuto notevoli dosi di entrambe. «E per te?» le domandò lui. Sage si mordicchiò l'interno del labbro. «Vorrei che nostro figlio fosse audace e
coraggioso. Che fosse sicuro di sé.» «Proprio come sua madre.» Al che lei piegò la testa all'indietro. Vide il calore nei suoi occhi, e avrebbe voluto spiegargli che lei non era né audace né coraggiosa. Aveva paura di vivere una vita piena, paura di ciò che la vita aveva in serbo per lei, paura di amare, di aprirsi agli altri, ai sentimenti. Avrebbe voluto spiegare a Tyce che era sua abitudine scappare dalla gente e dalle situazioni che la mettevano a disagio, che ogni giorno che ava con lui era una curiosa combinazione di terrore ed esaltazione. Lui la faceva sentire viva, come se fosse attaccata a un'invisibile fonte di energia che la rinvigoriva e la rinnovava costantemente. Aveva anche un nodo allo stomaco, però, perché sapeva che non sarebbe durato, che i suoi lividi sarebbero sbiaditi e Tyce sarebbe tornato alla periferia della sua vita, lasciandola vuota e sola. Sage lo vide deglutire, notò che serrava le dita sul foglio, sentì la tensione che irradiava da lui. Si schiarì la gola e quando parlò la voce che emise era bassa e roca. «Prossima domanda... So che il mio partner sarà uno splendido genitore perché... Diavolo.» Nei suoi occhi balenò un lampo di paura, di insicurezza, e Sage si accigliò. «Aspetta un attimo... Tu non pensi che sarai un bravo genitore?» L'espressione di Tyce si fece imperscrutabile, e questo era il suo modo di troncare la discussione. Sage però non ne voleva sapere: gli prese il questionario dalle mani e lo appoggiò per terra, insieme al sacchetto di piselli congelati; quindi si voltò a guardarlo e gli posò la mano sul cuore. «Perché pensi di non essere un bravo genitore?» Lui si prese un lungo momento prima di rispondere. «Perché ho avuto un'infanzia orribile? Perché non ho mai avuto la possibilità di essere un bambino, e quindi non so come comportarmi con loro? Come posso avere a che fare con dei bambini quando riesco a malapena a tollerare le persone?» «Sembra che tu riesca perfettamente a tollerare me» sottolineò Sage.
«Già, be'...» Si ò una mano tra i capelli. «Tu sei l'eccezione che conferma la regola.» Sarebbe stato facile fare una battuta per alleggerire l'atmosfera, spazzare via la nuvola che incombeva sopra le loro teste. Però Sage non voleva, non quella volta. Così sollevò la mano per fargli scorrere le dita lungo la mascella. «Tyce, tu sei un uomo che sa essere sempre all'altezza, che accetta le sue responsabilità, che fa la cosa giusta. D'accordo, non sarai il più chiacchierone al mondo, tuttavia quando parli, hai sempre qualcosa di interessante da dire. Sei intelligente, hai talento...» Le dita arrivarono sulla sua bocca e lei gli rivolse un sorriso. «E sei uno schianto. Il nostro bambino starà alla grande, e anche tu.»
Tyce sentì le parole che gli si riversavano addosso, tonificanti come una fresca pioggia estiva. Strano come, con poche frasi, Sage fosse riuscita a fargli sentire la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto. Aveva letto infiniti articoli positivi su di sé, aveva ricevuto numerosi premi, milioni di apprezzamenti sulla sua arte, ma non gli avevano mai fatto i complimenti per l'uomo che era. Tutto questo gli provocò una capriola allo stomaco, il cuore accelerò e l'anima sospirò. Di sicuro diminuì la sua resistenza nei confronti di Sage, gli fece venire voglia di gettare la cautela alle ortiche e di prendere ciò che bramava. Con il polpastrello del pollice le tracciò il profilo delle labbra... se l'avesse baciata, in quel momento, non sarebbe più riuscito a fermarsi. La voleva con un'intensità che lo sconvolgeva fin nelle viscere. Sage si sporse verso di lui, posandogli le dita intorno al collo e appoggiandogli la fronte sulla guancia, illuminandolo di scintille. «Fai l'amore con me, Tyce. Solo un'altra volta.» Aveva riecheggiato il suo pensiero, cogliendo inconsciamente il suo desiderio. Tyce gemette e scosse la testa. «Non è una buona idea, Sage. Sei ancora convalescente e non farebbe altro che rendere la situazione ancora più complicata.»
«Ho bisogno di non pensare, ho bisogno di uscire dalla mia testa» mormorò lei. «Solo tu puoi farmelo fare.» «Sei ferita...» «Sto bene e ti voglio. Voglio ricordare quanto stiamo bene insieme e voglio scordare tutte le complicazioni, almeno per un po'. Sei la medicina migliore per ciò che mi affligge, Tyce.» Non avrebbe dovuto. Non era una buona idea. Dovevano crescere insieme un figlio, navigare insieme le acque da genitori, proteggere dei cuori. «Far l'amore con te mi ha sempre fatto sentire più forte, migliore. Voglio sentirmi di nuovo così, Tyce.» Era solo un uomo, e neanche troppo forte quando c'era di mezzo lei. Diamine, non era forte per niente, quando si trattava di Sage. Lei lo faceva sentire, lo faceva fremere, lo faceva uscire da dietro le barriere che aveva innalzato tutt'intorno a sé. Non avrebbe dovuto farlo. Non era assolutamente saggio eppure, come lei, pulsava per il bisogno disperato di averla e assaporarla, di perdersi dentro di lei. Un'ultima volta. Tyce salutò la cautela che volò fuori dalla finestra quando la bocca toccò la sua. Immediatamente le labbra di Sage si socchio e lui la invase con la lingua. Sì, questo. Sage, la sua mano sul petto, le dita dell'altra che gli scompigliavano i capelli... questo era ciò cui non poteva resistere. La sua bocca era più dolce del miele e avrebbe potuto baciarla fino alla fine dei tempi. Doveva procedere lentamente, si ricordò però mentre le abbassava la cerniera della felpa. Separò i lembi e lasciò le sue labbra giusto il tempo per poterla ammirare. I capezzoli spingevano attraverso il reggiseno, e lui doveva assaporarli. Abbassò il tessuto elastico e risucchiò quel tenero bocciolo nella propria bocca, stuzzicandolo con la lingua prima di andare ancora più a fondo. Era straordinaria, familiare eppure diversa.
Sage emetteva dei gemiti lievi che lo facevano eccitare allo spasimo. Impaziente, le tolse la felpa e il reggiseno, gettandoli a terra prima di sospingerla gentilmente in modo che si ritrovasse supina sul divano. Appoggiandosi sulle mani ai lati della sua testa, scrutò attentamente il suo bel viso. «Stai bene? Sei sicura di volerlo fare?» «Sì e sì.» Non era del tutto vero, era evidente nella traccia di sofferenza che riusciva a leggere sotto la ione. «Dimmi se vuoi che mi fermi.» La sua bassa risata gli danzò sulla pelle. «Scordatelo.» Poi gli batté una pacca sul petto. «Hai troppi vestiti addosso, Latimore.» Ritraendosi, Tyce sfilò la maglietta da sopra la testa e trattenne il fiato quando lei gli accarezzò i pettorali, scivolando sopra un capezzolo per finire sullo stomaco. Gli strattonò la cintola dei jeans. «Via.» «Prima tu.» Le accarezzò la schiena con le mani, facendogliele scivolare sui fianchi, agganciando i pollici all'elastico dei pantaloni della tuta per tirarli giù. Fissò il triangolino di stoffa che copriva le sue parti più segrete, ma poi non poté fare a meno di alzare lo sguardo sul suo stomaco. Deglutì, quindi la baciò sul piccolo rigonfiamento appena visibile, prima di appoggiarvi l'orecchio. Sage gli sfiorò i capelli con la mano e lui capì che anche lei pensava al loro bambino, al fatto che avevano creato un piccolo essere facendo ciò che riusciva loro meglio, ossia amarsi l'un l'altro... regalarsi piacere reciproco. Tyce si sollevò di nuovo. Avendo notato la smorfia di sofferenza quando lei aveva alzato il bacino per sfilare i pantaloni, decise di strappare i lacci laterali del tanga, facendoglielo poi scivolare tra le gambe. Una volta nuda, rimase incantato a guardarla, ma quando la mano di Sage si mosse sul suo ventre diretta verso il basso, si riscosse da quella trance ed entrò in azione.
In pochi secondi si liberò dei pantaloni, la mente che turbinava. Sarebbe dovuto essere creativo, per non farle male... e, in effetti, se c'era qualcosa che non gli mancava era la fantasia. E poi, l'importante era regalare a lei il piacere, portarla all'orgasmo, a prescindere da lui. Finalmente nudo, Tyce fece scivolare le dita nel centro della sua femminilità. Era così eccitante sapere che lo voleva quanto lui voleva lei. Avevano combinato dei gran pasticci, questo, però, era davvero ciò che gli riusciva meglio. Con la mano Sage pressò le sue dita sul proprio fulcro più sensibile. «Ho bisogno di te, Tyce. Ho bisogno di questo.» Le sue parole intime e sensuali fecero convergere altro sangue, se possibile, nell'erezione già pulsante. Lei spostò la mano e lo afferrò con una stretta e Tyce fu certo che se avesse proseguito per quella via si sarebbe perso in breve tempo. A giudicare dal tremore del suo corpo, dalla sua espressione apionata, però, anche Sage era già sull'orlo del precipizio. Si spostò per incombere su di lei, le braccia che sorreggevano il suo peso. Si strofinò su di lei, la sua potenza che andava a tormentarla. Sage gemette la propria approvazione e lui ripeté il movimento. Era una sensazione stupenda. Trovarsi dentro di lei sarebbe stato ancora meglio. Sollevando una mano, le scostò i capelli dal viso. Voleva vedere i suoi occhi mentre scalava la cima. I loro sguardi si incrociarono e lui si perse nell'azzurro ora annebbiato. Sage tentò di sollevare il bacino, ma lui scosse il capo. «Lascia fare a me, tesoro.» «Allora muoviti» sibilò lei. Diavolo, aveva scordato quanto poteva essere prepotente quando si trovava sull'orlo del baratro e lui non le concedeva ciò che voleva. In ato si era divertito a tormentarla, tuttavia quello non era il momento. Incapace di resistere oltre, sprofondò tra le sue gambe, conquistando la sua
intimità. Non poteva muoversi nella massima libertà ma era congiunto a lei e bastava questo a farlo sentire in paradiso. Sage gemette e lui affondò dolcemente, brevi spinte che risultarono più erotiche di quanto avesse creduto possibile. Appoggiò i gomiti sui cuscini accanto alla sua testa, le prese il viso tra le mani e la baciò. La lingua che seguiva il ritmo dei suoi fianchi. Sentì il suo respiro farsi più rapido, la sentì tremare, e poi contrarsi. Non aveva bisogno d'altro e si tese mentre il piacere lo attraversava dalla testa ai piedi. Gemette nella sua bocca e poi di nuovo, tenendola stretta, i fremiti che avano da un corpo all'altro e viceversa. Mentre corpo e cervello cercavano di rimettersi insieme, accarezzò lo splendido corpo di Sage e le tempestò il viso di baci. La mano si fermò nel momento in cui raggiunse il suo addome, andando a coprire il lieve rigonfiamento. Mio. Il pensiero gli giunse dal cuore per diffondersi in tutto il corpo. Il bambino era suo, e anche lei. In un modo o nell'altro sarebbero sempre stati suoi.
La mattina successiva, entrata nella doccia, Sage sollevò il viso per accogliere il getto d'acqua calda. Era indolenzita in punti che non sapeva neanche di avere, ma erano punti buoni, che aveva trascurato troppo a lungo. Si sentiva come dopo aver ato una giornata alla SPA, il corpo languido e rilassato. E la mente... era come se avesse raggiunto una sorta di Nirvana. Cosa significava aver fatto l'amore con Tyce? Cos'era successo alla sua vita calma e ordinata? Tre mesi prima aveva avuto il pieno controllo su ogni cosa e una notte – una
notte! – con Latimore le aveva ribaltato il mondo. Tyce era un amante straordinario, ma era anche un uomo bravo. Bravo sembrava un aggettivo blando, invece Sage lo riteneva ampiamente sottovalutato e frainteso. Bravo significava che era disposto a fare la cosa giusta, a imboccare la strada meno frequentata, anche se significava andare contro le convenzioni. Bravo, per lei, significava responsabile, rispettoso e onesto. Le piaceva... Sospirò. Aveva scordato quanto apprezzasse la sua compagnia anche fuori dalla camera da letto. Lei parlava di più di lui tuttavia, negli ultimi giorni, Tyce non si era fatto pregare per esporre la propria opinione. Avevano discusso di film e di politica, di libri e, naturalmente, di arte. Qualunque fosse l'argomento, are il tempo con Tyce era... divertente, stimolante e rilassante. Aveva l'impressione di potergli dire qualunque cosa, perché lui non l'avrebbe giudicata. Connor era fatto allo stesso modo e ancora una volta Sage si trovò a considerare quanto fossero simili. Forti, maschi alfa, uomini d'onore. Onesti... su tutto, compresa l'avversione nei confronti delle relazioni e degli impegni stabili. Come tre anni prima, Tyce la tentava ad aprirsi, a concedergli di più di se stessa, a lasciarlo are oltre la corazza che la proteggeva. E, come tre anni prima, era una strada troppo pericolosa da percorrere, e Sage non poteva permettersi di intraprenderla. Non poteva abbassare gli scudi e dargli libero accesso al proprio cuore, così facendo sarebbe andata incontro a dolore e delusione. Tyce aveva il potere, come nessuno aveva mai avuto su di lei, di mandarle la vita a gambe all'aria. Amarlo e perderlo l'avrebbe devastata e dover interagire con lui
nel crescere un figlio insieme sarebbe stato come cercare di evitare il fuoco attraversando l'inferno. Sinceramente, era uno scenario che avrebbe preferito evitare. Se fosse stata furba, l'avrebbe ringraziato e l'avrebbe cacciato fuori da casa sua e dalla sua vita. Il problema era che... non voleva farlo. Voleva altro sesso, con lui, ma anche altre conversazioni e, rifletté sentendo lo stomaco borbottare, altri dei suoi favolosi piatti. Magari avrebbe potuto avere un'avventura con lui. Poteva godersi il suo corpo e la sua mente e, una volta esaurita la ione – perché prima o poi si sarebbe esaurita – sarebbero tornati a essere amici e genitori. Lei sarebbe stata razionale e avrebbe tenuto il cuore al di fuori delle loro interazioni. Poteva farlo, stabilì. Era una donna moderna e intelligente e sapeva che il sesso non era una dichiarazione d'amore, bensì solo un dare e ricevere piacere. Poteva tenere il cuore fuori dall'equazione e restare emotivamente protetta. O no?
9
Tyce si voltò quando Sage finalmente fece la sua comparsa, la mattina dopo. Aveva un aspetto migliore della sera prima, ma la discesa per la scala di ferro battuto lasciava intendere che fosse ancora un po' rigida. Fermo davanti alle finestre, la osservò andare dritta alla macchinetta del caffè, gli occhi annebbiati dal sonno. Erano stati insieme solo molto poco, tre anni prima, ma alcune cose non erano cambiate: il sesso straordinario, ovviamente, il fatto che spremesse il tubetto del dentifricio dal mezzo, e che il suo cervello non cominciasse a funzionare prima delle nove di mattina e di tre tazzine di caffè, ora decaffeinato per via del bambino. Adocchiò l'orologio: erano le nove in punto e lui era in piedi dalle cinque, aveva fatto un salto a casa a recuperare dei vestiti ed era tornato prima delle sei; dopodiché si era creato uno spazio spostando i mobili per praticare un'ora di Tai Chi prima di uscire a correre. E Sage si era appena svegliata. Attraversò la stanza, i piedi nudi che non facevano rumore sul pavimento di legno. «Buongiorno» la salutò fermandosi a un o dalla sua schiena. Sage sussultò. Si voltò in fretta e, mano sul cuore, lo guardò storto. «Santa miseria, Latimore! Vuoi proprio farmi venire un infarto?» «Scusa.» Sembrava più divertito che pentito, però. Stava per posarle le mani sui fianchi, per posare la bocca sulla sua, quando lei riprese a parlare. «Suppongo dovremmo discutere di quello che è successo ieri sera.» Diavolo, era proprio l'ultima cosa che avesse voglia di fare. Cedendo al bisogno di toccarla, le posò una mano sul collo, usando il pollice per farle sollevare il viso. «Preferisco sempre l'azione alla discussione.» Sage sorrise a metà. «Lo so, tuttavia penso che questo sia stato uno dei problemi, tre anni fa. Mi dispiace per te, ma ho qualcosa da dire.»
Dannazione. Tyce fece un o indietro. Si comincia: Non penso che sia una buona idea... Non dovremmo complicare la situazione... Ho parecchie cose per la testa... Sicuramente avrebbe tirato in ballo almeno una scusa per cui non sarebbero più dovuti andare a letto insieme, magari anche tutte e tre. «Ti interessa fare ancora sesso con me?» Eh? Era una domanda seria? A giudicare dalle tracce di insicurezza che le vide negli occhi e dal tremore nella sua voce, doveva esserlo. Diavolo, sì che voleva fare ancora sesso con lei, tutte le volte che era umanamente possibile. «Ehm... sì?» «Non mi sembri così sicuro» replicò Sage. «Credimi, sono più che sicuro» borbottò a quel punto con maggiore convinzione. «Che cosa succede, Sage?» Lei posò la mano sul bordo della tazza e cominciò a farla ruotare sul piano. «Be', possiamo farlo, se vuoi.» Possiamo... «Lo vuoi anche tu?» Conosceva la risposta, ma aveva bisogno di sentirglielo dire. «Sì, ma...» Deglutì, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. «Ma non può essere più di questo, Tyce» aggiunse poi in fretta. «Il sesso è ciò che ci riesce bene, il resto no. Non voglio stare di nuovo male, e non voglio fare male a te» concluse incrociando le braccia sul petto. «Concordo, Sage. Neanch'io voglio farti del male. D'altra parte non c'è bisogno di etichettare quello che c'è tra noi, né di porci delle restrizioni. Niente
aspettative, niente pressione» chiarì. «Siamo solo due persone fisicamente attratte l'una dall'altra, che stanno per avere un bambino e vanno a letto insieme.» Tyce non poté non notare il sollievo nei suoi occhi. Sage era ancora incredibilmente vulnerabile, e avrebbe dovuto fare molta attenzione con lei. Sarebbe toccato a lui tenere d'occhio fino a che punto e a che velocità procedere, perché a prescindere dalle dichiarazioni, c'era sempre la possibilità che la situazione sfuggisse loro di mano. Avevano un figlio da crescere insieme e non se ne sarebbero potuti occupare come si deve se avessero finito con l'odiarsi o con il provare risentimento. «So che siamo equamente responsabili per la gravidanza» riprese Sage, «tuttavia ho comunque l'impressione di doverti chiedere scusa per averti incasinato la vita con un bambino.» Oddio, era questo che pensava? Che lui recriminasse per la gravidanza? Diavolo, non poteva essere più lontana dalla verità. Era pentito di molte cose, soprattutto di non poter essere il tipo d'uomo di cui lei aveva bisogno, ma non aveva alcun rimpianto sulla creatura che cresceva dentro di lei. Forse perché cominciava a considerare il figlio come un ponte verso una qualche sorta di normalità, un'occasione per modificare le proprie idee sulla famiglia e sul suo significato. Gli veniva offerta una seconda chance, da adulto, per creare un'unità che avesse tutte le persone giuste nei posti giusti. Lui e Sage non avrebbero vissuto insieme, ma quel figlio avrebbe avuto una madre e un padre e loro avrebbero fatto gli adulti e il bambino avrebbe avuto la libertà di fare il bambino. E sì, forse era anche l'unica persona con cui avrebbe potuto stringere una connessione emotiva; una persona sicura da cui cominciare. Quel bambino sarebbe stato suo figlio, ossia una parte fondamentale della sua vita almeno per i diciotto anni a venire, giusto? Tyce le prese il viso tra le mani. «Abbiamo incasinato parecchie cose, Sage, ma
che tu aspetti un figlio da me? Non fa parte del gruppo.» «Sei sicuro? Un figlio ti ribalta la vita.» «Non è sempre una brutta cosa, e comunque ho allacciato la cintura di sicurezza.» Le diede un bacio sul naso prima di abbracciarla. «Il bambino è un dono per il quale non ti ho ancora ringraziato, quindi... grazie. Ho molti rimpianti, Sage, ma il mio piccino non sarà mai uno di questi.» Sentendo che la tensione abbandonava il suo corpo, Tyce chinò la testa e lentamente, dolcemente le baciò un angolo della bocca, lasciando indugiare le labbra, inspirando il suo profumo unico. Le posò una mano sulla schiena, per pressarla a sé, l'erezione che le premeva lo stomaco, i suoi seni contro il petto. Sage sospirò e, ancora una volta, lui tracciò il contorno delle sue labbra. Avrebbe voluto invaderla e conquistarla, permettere alla loro folle ione di schizzare alle stelle, ma sapeva che se le avesse dato campo libero l'avrebbe persa. Quel bacio era una promessa, qualcosa di diverso da ciò che avevano condiviso fino ad allora. Non era il caso di lanciarsi a rotta di collo verso la camera da letto, sarebbe successo dopo, e Tyce poteva aspettare. Era un momento troppo importante per rovinarlo. Si tirò indietro e si ò le mani tra i capelli, azzardando un'occhiata verso di lei. Sage aveva le dita sulle labbra, gli occhi spalancati e trasognati. L'istinto di riprenderla fra le braccia fu quasi irresistibile, tuttavia alla fine prevalse il buon senso. Se non avesse posto un freno alle emozioni avrebbe liberato qualcosa che sarebbe stato difficile rinchiudere di nuovo. Più tardi, l'avrebbe amata quando i sentimenti non fossero stati tanto vicini alla superficie, quando il cuore non avesse minacciato di uscirgli dal petto. Già, era meglio darsi una calmata. Una bella calmata.
Sage aveva finito le scuse per rimandare l'incontro con Lachlyn. Di proposito si era persa la cena alla Tana in cui la ragazza era stata presentata al clan e aveva posticipato l'appuntamento per un caffè. Due volte. Le sue scuse erano così deboli che ci si vedeva chiaramente attraverso. Cedendo alla pressione verbale dei fratelli, e a quella più sottile e silenziosa di Tyce, alla fine aveva chiesto a Lachlyn di incontrarsi alla Tana. Linc, Tate e i bambini erano fuori città e aveva pensato che la casa dov'era cresciuta fosse il posto giusto per il loro primo incontro. Quando entrò nell'ingresso e fece per togliere la sciarpa, però, fu assalita dai dubbi. «Magari avremmo dovuto incontrarci al bar.» Tyce, che si era offerto di accompagnarla per presentarle prima di lasciarle sole, non rispose. Se ne stava lì nell'atrio a doppia altezza, gli occhi che vagavano sullo spazio magnificente. La sua presenza la faceva sentire più coraggiosa e le faceva venir voglia di farsi valere un po' di più; lui era sempre forte e sicuro e lei voleva essere la migliore versione di se stessa, per il bambino, ovviamente, ma anche per Tyce. «Stai bene, Sage?» Gli rivolse un'occhiata veloce e alzò le spalle. Stava bene? Probabilmente viveva una sensazione simile a quella di un bimbo adottato che incontri la madre biologica per la prima volta. «Sono nervosa, ansiosa, eccitata e ho la nausea.» Un sorriso sensuale gli incurvò le labbra. «È lo stesso per lei.» «Dovresti stare con lei, Tyce. Questo è un grande o per tua sorella» considerò allora sentendosi in colpa. «Lach è nervosa ed eccitata, tu sei nervosa e terrorizzata» replicò lui. «Lachlyn non scapperà come un coniglio, ma tu potresti farlo.»
Vero. Le piacerò? Sage si piazzò una mano sullo stomaco. Mi piacerà? Capirà le mie battute? Cavolo, sperava proprio che Lachlyn avesse il senso dell'umorismo. Mi chiederà in prestito dei soldi, o dei vestiti, o, santo cielo, dei gioielli? No, certo che no. Era la sorella di Tyce, per l'amor del cielo, e Tyce non l'avrebbe cresciuta così. Le piacerò? Mi piacerà? Sage stava perdendo la testa. Guardò l'orologio: mancava un minuto, se Lachlyn era puntuale. «Respira, Sage.» «Perché non lo sto facendo?» «È una domanda retorica, vero?» ribatté Tyce, le mani nelle tasche della giacca di pelle. «Lachlyn potrebbe fiondarsi nella mia vita, restarci per un po' e poi sparire di nuovo.» Avvicinandosi, lui le strofinò le braccia. «Perché pensi una cosa del genere?» «Perché è quello che fa la gente!» Corrugò la fronte. «E se diventassimo amiche, se arrivassimo a volerci bene, e poi lei morisse? Di cancro, o in un incidente di elicottero?» «Siamo un po' drammatici, eh? È un'archivista, Sage. Lavora con i documenti. Potrebbe morire cadendo da una scala o soffocata dalle scatole di uno scaffale, ma non morirà in un incidente di elicottero.» Lei arricciò il naso. «Mi stai prendendo in giro.» «Solo un po'.» Tyce non capiva e probabilmente non avrebbe mai capito. D'accordo, era eccessiva, tuttavia era la sua vita che era stata distrutta. Aveva sperimentato sulla pelle la morte e la desolazione, e sapeva che le cose brutte accadono quando
meno te le aspetti. Non poteva farlo, stabilì. Non poteva lasciar entrare Lachlyn. Preso il cappotto da dove l'aveva lanciato sulla poltrona, infilò il braccio in una manica. Se avesse fatto in fretta, sarebbe potuta andarsene prima del suo arrivo. Il camlo della porta risuonò nell'atrio e Sage si pietrificò, senza sapere cosa dire o cosa fare. Lo sguardo schizzò su Tyce. «Resti?» gli domandò con aria supplice. «Sei sicura che sia quello che vuoi?» «Per favore...» «Solo un secondo, Lach» disse allora lui alla sorella alzando la voce. Quindi posò una mano sulla nuca di Sage e le fece appoggiare la fronte sul proprio petto. «È spaventata quanto te» le ribadì nell'orecchio. «Proprio come te, desidera solo essere accettata. E vuole sapere di suo padre, della sua famiglia. È lei l'intrusa, Sage. Questa è casa tua, la tua famiglia. Non hai motivo di essere spaventata.» «Non mi piace lasciar entrare le persone, Tyce.» Era un'ammissione gigantesca e si chiese se lui capisse che non si riferiva né alla casa né alla famiglia, ma alla propria vita. «Neanche a me, tesoro. Tuttavia non possiamo neanche restare immobili. Dobbiamo imparare e dobbiamo crescere. E possiamo farlo solo accogliendo nella nostra vita nuove persone e nuove esperienze.» Le posò un bacio tra i capelli. «È una brava persona, Sage. Potresti affezionarti a lei.» E quello, considerò Sage, era proprio il problema. Voler bene a qualcuno era qualcosa che poteva fare, però non voleva dover affrontare la sofferenza quando quel qualcuno smetteva di volerle bene e spariva dalla sua vita, in qualunque forma. «Apri la porta, tesoro» la invitò Tyce, indietreggiando e rivolgendole un sorriso incoraggiante. «Ce la puoi fare.»
Sage scosse il capo. Non ne era affatto convinta.
Grazie al cielo, la prima cena ufficiale di benvenuto in famiglia per Lachlyn si era conclusa e Sage finalmente poteva andare a casa. Si guardò intorno nell'ingresso affollato della Tana, ripensando a quante altre cene erano finite in un turbinio di saluti proprio in quell'ambiente. Connor si fermava sempre sulla sinistra dell'imponente porta d'ingresso, l'ultima persona che tutti vedevano prima di uscire di casa. Cambiamenti, considerò Sage stringendo la cintura del cappotto. Diamine, quanto li odiava. «Se la stringi ancora un po' interromperai il flusso d'aria ai polmoni» la avvertì Tyce posando la mano sulle sue. Irritata, lei la allontanò. «È da un po' che ho imparato ad allacciarmi il cappotto da sola.» «Che succede?» le domandò allora lui a bassa voce. «Sei stata irritabile per tutta la sera.» Da dove avrebbe potuto cominciare? Invece di rispondere, si guardò intorno e deglutì il nodo che le serrava la gola. Aveva appena avuto il tempo di riprendersi, di digerire l'incontro con Lachlyn quel pomeriggio che Linc se n'era saltato fuori con l'idea della cena di famiglia, e aveva lui stesso invitato Tyce. Se così non fosse stato, lei gli avrebbe chiesto di accompagnarla? Probabilmente no. Si era resa conto che era fin troppo facile contare sulla sua presenza e sulla sua forza, ed era un'abitudine pericolosa. Era il suo amante, d'accordo, ma si rifiutava di innamorarsi di lui e contare su di lui per qualcosa che non riguardasse il bambino era sciocco. Si stava preparando da sola a una brutta caduta e doveva smettere immediatamente. E poi, le sembrava di prendere in giro tutta la famiglia: lei e Tyce non erano una
coppia, nonostante tutte le occhiate allusive che avevano ricevuto quella sera. Solo che... Per la miseria, ogni volta che ava del tempo con i fratelli e le relative compagne cominciava a pensare che avrebbe potuto desiderare l'amore che loro avevano trovato. Ed era questo il vero motivo della sua irritazione. Aveva cominciato a pensare a come sarebbe stato uscire dalla Tana mano nella mano con Tyce, tornare a casa, sereni all'idea che stavano creando una famiglia all'interno della famiglia. Anche se fosse stata pronta a correre il rischio di amare, però – non lo era, era solo una speculazione ipotetica – non sarebbe stato Tyce l'uomo a cui rivolgersi: lui non voleva una relazione come quelle che avevano i suoi fratelli. Non voleva il quotidiano, gli alti e bassi. Voleva semplicemente essere il padre del bambino, e fare sesso con lei fino a che entrambi ne avessero avuto voglia. Tuttavia più tempo ava con lui, più Sage rischiava che i suoi sentimenti per Tyce si approfondissero, più voleva ciò che avevano le cognate: un uomo forte, sensuale e innamorato accanto, pronto a combattere per e con loro. Sage adocchiò Lachlyn e vide che Linc le aveva posato un braccio sulle spalle. Il fratellone stava prendendo sotto la propria ala protettrice un altro, povero Ballantyne sperduto. Era fatto così, e allora perché lei sentiva la gola contrarsi, perché aveva l'impressione che in famiglia non ci fosse più posto per lei? Oddio, quanti anni aveva, tredici? «Ho bisogno di andare a casa» borbottò avviandosi verso l'ingresso. «Sage, aspetta!» la fermò però Linc e non poté non notare la punta di eccitazione nella voce. Il fratello si era fermato sul primo gradino della scala, e Lachlyn era ancora al suo fianco. «Allora, come regalo di benvenuto» annunciò, «abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere avere l'anello preferito di Connor.» Abbiamo? Abbiamo chi? Lei non era stata consultata! E il suo anello preferito? Quello che Sage e Connor avevano ato ore e ore a progettare e a realizzare insieme dal momento che le fasce di ambra, i pezzi di un antico meteorite e il platino avevano richiesto arte pura?
Che diavolo? «Ha sempre detto che era il suo preferito» stava proseguendo Linc. «L'ha disegnato e portato ogni giorno.» Scusa? Su quell'anello Sage aveva ato tante ore quanto lo zio, se non di più. Rimase attonita a osservare il fratello che porgeva l'anello a Lachlyn e ricacciò indietro le lacrime. Ecco quella era la condivisione, considerò. La sua casa, i suoi fratelli, i ricordi di suo padre... Sinceramente, era un incubo. Dio, che giornata. Ne aveva avuto abbastanza. Aprì la porta e uscì nel buio, lanciando alle proprie spalle un saluto generico. Era a malapena arrivata al cancello quando sentì Tyce afferrarle la mano. Immediatamente la strattonò via, infilandola in tasca. «Non sono stato io a darle l'anello, Sage.» «Sei stato tu a portarla nelle nostre vite» replicò lei. Colpo diretto, si rese conto, ma non le diede alcuna soddisfazione vederlo sbiancare, gli occhi lampeggiare. Tyce deglutì e distolse lo sguardo, e Sage seppe che stava cercando di controllare la propria collera. «Mi rendo conto che è stata una giornata difficile per te. Non è facile accogliere una persona che entra nella tua vita, nella tua famiglia e manda tutto sottosopra.» «È tutta colpa tua» lo accusò lei, la collera ormai irrefrenabile. «Anni fa mi hai cercato per insinuarti nella mia famiglia...» «Ti ho spiegato com'è andata» le ricordò. «Poi sei venuto a letto con me e hai comprato milioni di quote della Ballantyne.» «Anche tu sei venuta a letto con me.» Sage lo ignorò e si tuffò a fondo nell'ira, sapendo che si stava scagliando contro di lui perché non era in grado di darle ciò che i fratelli davano alle loro mogli.
Non che lei potesse accettare il suo amore... Sapeva di comportarsi in modo irrazionale, e lui era un bersaglio a portata di mano. Non era giusto né corretto tuttavia, se non si fosse sfogata, sarebbe esplosa. «E poi mi hai messo incinta!» gridò. «Ti sei scordata di darmi la colpa della povertà del terzo mondo, del cambiamento climatico e dell'aumento del prezzo del petrolio» rispose lui afferrandole le braccia. Inspirò l'aria gelata e quando riprese a parlare era più calmo. «È stato Connor a concepire Lachlyn, quindi prenditela con lui. Siamo responsabili alla pari per la gravidanza. Ho capito che le novità non ti piacciono e che sei spaventata. Tutti quanti stiamo cercando la strada in un campo minato, ma prendersela l'uno con l'altro non serve a niente. Dobbiamo trovare un modo per andare avanti.» Sage avrebbe disperatamente voluto lasciare libere le lacrime, appoggiargli la testa sul petto e piangere, prendendo forza dalle sue braccia. Avrebbe voluto baciarlo, lasciare che la trascinasse via da quel luogo e da quel momento, per portarla dove non avrebbe dovuto pensare al bambino, al fatto che non avrebbe mai avuto la sicurezza emotiva che una persona forte abbastanza da rischiare una relazione stabile poteva trarne. «Concedi una possibilità a Lachlyn, alla situazione. Lascia che la vita si dipani e abbi fede che ognuno possa trovare la sua strada.» Nauseata e triste e ancora irritata – la collera era molto più facile da affrontare della paura – Sage sollevò il mento e lo inchiodò con un'occhiata sardonica. «Esci dalla mia testa, Tyce. Non ti ho mai dato il permesso di entrarci. E tieni per te le tue opinioni sulla mia famiglia. Tu non ci conosci e non sai cosa ci fa andare avanti. Non sai un bel niente di cosa significhi avere una vera famiglia!» Tyce si ritrasse di scatto, chiaramente scioccato. Non poteva biasimarlo: sembravano le parole di una strega, dette per ferire senza motivo. Sage chiuse gli occhi e sollevò una mano; prima che potesse scusarsi, Tyce si girò e si allontanò.
Lei allungò un braccio per prendergli il gomito e lui si fermò. «Tyce...» La sua espressione stroncò le parole che aveva in gola. «Capisco che hai avuto una brutta giornata, Sage, questo, però, non significa che tu possa trattarmi come il tuo pungiball personale. Ho vissuto con una madre che era di gran lunga più brava di te, in questo. Da adulto, tuttavia, non sono più obbligato a incassare.» Dannazione, l'aveva davvero fatto arrabbiare ma, peggio ancora, lo aveva ferito. Si sentiva orribile. Tyce si incamminò lungo la strada, e fermò un taxi. «Dove vai?» gli chiese con una punta di disperazione. «Il tuo braccio sta bene e non hai più bisogno di me. Probabilmente un po' di spazio farà bene a entrambi.» Aprì la portiera e le fece segno di salire. «Vai a casa, Sage. Parleremo un'altra volta.» Si infilò una mano tra i capelli, l'espressione spenta. «Quando?» «Oh, non so, un giorno o l'altro prima della nascita del bambino. Perché, sai, sono solo uno che non sa niente di niente, soprattutto della famiglia.» Richiuse la portiera sbattendola e Sage lo fissò attraverso il vetro bagnato. Lui le diede le spalle e se ne andò, la schiena dritta come un'asse di legno. Sage sentì una lacrima scivolarle lungo la guancia e appoggiò la tempia al finestrino mentre il taxi si metteva in marcia. La sua collera non aveva niente a che fare con Tyce, dipendeva completamente dai suoi problemi e dalla sua insicurezza. Si era scagliata su di lui, proiettando tutta la propria infelicità nella sua direzione. Era stato un altro tentativo inconscio di allontanarlo? Probabilmente sì, dovette ammettere. Era stata aggressiva e ingiusta, e l'aveva ferito. Sage si sentì sopraffare dall'umiliazione e dal rimorso. E da una buona dose di disgusto nei confronti di
se stessa.
10
Assordato dal rock pesante proveniente dalle casse al pian terreno del magazzino, Tyce sollevò la visiera del caschetto da saldatore e guardò storto il segnale luminoso che era la sua versione del camlo d'ingresso. Erano ate le dieci di una fredda serata di marzo, e dato che poche persone erano a conoscenza di quell'indirizzo, o che lui ci abitasse, non aveva idea di chi potesse essere alla porta. Depositati gli attrezzi e tolto il casco, si ò le mani tra i capelli e raggiunse la piccola porta laterale adiacente alle grandi ante scorrevoli. Aprendo il battente, corrugò la fronte nel vedere una figura minuta che batteva i piedi sul marciapiede per riscaldarsi. Riusciva a vedere solo due occhi grandi e un naso arrossato. «Sage? Che diavolo ci fai qui?» Spalancò la porta per lasciarla entrare, e una volta all'interno lei tolse le mani dalle tasche per liberarsi della sciarpa. Tyce però la bloccò scuotendo la testa. «Di sopra. Fa molto più caldo che qui.» Sage accettò la mano che le offriva e si lasciò condurre su per la scala che portava al secondo livello, che aveva convertito in appartamento. Una volta lì, fu lui a toglierle la sciarpa e ad aiutarla a sfilare il cappotto. Sage teneva gli occhi fissi su di lui, e Tyce si chiese se avesse sfidato il ponte di Brooklyn solo per continuare a litigare. Sperava proprio di no: non aveva l'energia mentale per una discussione, in quel momento. Appoggiò cappotto e sciarpa sulla sedia accanto alla porta e la osservò avvicinarsi al camino, dove tese le mani verso le fiamme finte. Sage sospirò, le spalle sottili che si alzavano e si abbassavano. Si voltò lentamente, lo sguardo triste quando incrociò il suo. «Mi dispiace. Sono stata cattiva e irragionevole e hai tutto il diritto di essere
arrabbiato con me.» Tyce si sfregò il mento, allibito. Le scuse erano l'ultima cosa che si aspettava. «I cambiamenti mi spaventano» proseguì lei. «Perdere il controllo mi terrorizza. Incontrare Lachlyn è stato difficile e poi la cena...» «Sei una donna di successo. Come può sconvolgerti conoscere mia sorella, che è la persona più normale del mondo?» «Tengo la gente a distanza e se ho la sensazione che qualcuno si avvicini più di quanto ritengo ragionevole, mi viene l'ansia. E lo stress. E poi, come hai visto, perdo la testa.» Questo spiegava un paio di cose. «Hai provocato la lite nel tentativo di allontanarmi?» Lei annuì. «Già, probabilmente sì. È quello che mi riesce meglio.» Per la prima volta, Tyce vide la vera Sage, spogliata di tutte le costruzioni: non era la principessa Ballantyne, né la ricca orafa di successo. Era solo una donna che si trovava di fronte a importanti cambiamenti e la cui esistenza era stata ribaltata da capo a piedi. D'accordo, era stata una strega di proporzioni bibliche, quella sera, tuttavia la sua insicurezza e le sue paure la facevano sembrare più reale, più autentica. Commosso dalle scuse e dalla sua onestà, Tyce chinò il capo e la baciò. Sentì il suo sussulto, percepì la lotta istintiva per tirarsi indietro, ma quando le risucchiò dolcemente il labbro inferiore, si lasciò cadere su di lui. Tyce la prese tra le braccia e la strinse, accarezzandole la schiena fino a palparle le natiche, con movimenti sempre più espliciti. Sage lo voleva quanto la voleva lui e il pensiero lo faceva sentire debole come un vitellino appena nato e forte come un toro allo stesso tempo. Era la sua salvezza e la sua distruzione, il suo piacere e il suo dolore. E la desiderava con la ferocia di un lupo affamato. Questo però non significava che avrebbero dovuto precipitarsi sulla prima
superficie orizzontale disponibile. Avevano una montagna da scalare, un milione di parole da scambiare, questioni da dipanare. La discussione di qualche ora prima ormai era alle loro spalle e, ora che capiva cos'aveva alimentato la sua collera, Tyce non aveva alcun problema ad accettare quelle scuse sincere. Tuttavia aveva ancora qualcosa da dire, perciò si ritrasse, sapendo che non sarebbe riuscito a pensare razionalmente se avesse continuato a toccarla. «Ascolta, faremo parte della vita l'uno dell'altro per molto tempo...» Avrebbe voluto pensare per sempre e in ogni modo possibile, ma era poco probabile. «Dobbiamo essere amici. Questo significa essere onesti, su tutto. Se stai male o ti senti stressata o sopraffatta, voglio saperlo. E io sarò più aperto che posso...» Prese un profondo respiro. «Detto questo, c'è una cosa che dovrei dirti.» «Okay, cosa?» «Questo magazzino... è tutto quello che ho. Non posseggo un conto in banca da nababbo.» In tutta onestà, non sembrava che a Sage importasse più di tanto. «Posso chiederti perché?» replicò dopo un attimo di esitazione. «Sei probabilmente l'artista più pagato al mondo.» «Quelle quote della Ballantyne mi sono costate parecchio, Sage. È da due anni che non ho molto come contanti. Vivo nella menzogna... l'appartamento a Chelsea? È di uno dei miei maggiori clienti, che mi permette di usarlo di tanto in tanto.» «Questo spiega la mancanza di personalità e di qualsiasi forma d'arte» considerò lei con aria decisamente ottimista. «Non mi è mai piaciuto quel posto. Non lo trovo tuo.» Tyce quasi si concesse un sorriso. Aveva colto esattamente nel segno: non era proprio da lui. Il vero lui era in quel magazzino, mattoni rossi e acciaio, un pungiball e un materasso nell'angolo, macchine saldatrici e seghe elettriche. Era divani comodi e tappeti consumati.
Era Brooklyn. Tyce ripensò al loft di Sage. Gemme dispendiose e design delicati, divani color crema e cuscini morbidi, la struttura in ferro battuto del letto punteggiata di tulle e piccole lucine. Sage era costosa, lui era funzionale. «Sto lavorando su un paio di pezzi che dovrei riuscire a vendere nel giro di un mese o due. Voglio pagare per il bambino, per le spese mediche, qualsiasi cosa tu o lui abbiate bisogno.» Alzò la mano. Sapeva che non avrebbe mai potuto competere con la sua ricchezza. Era stupido provarci, ma voleva essere in grado, almeno, di offrire il meglio a lei e al figlio. «So che puoi permetterti di tutto e di più senza il mio aiuto, ma... voglio farlo, okay?» Sage annuì, l'espressione imperscrutabile. «Okay, troveremo un modo.» Dopodiché gli rivolse un sorriso incerto. «Quindi... siamo a posto, io e te?» Lo erano, eccome. Anzi, Tyce cominciava a sentirsi più che a posto, cominciava a sentirsi meravigliosamente fantastico. Aveva l'impressione che avessero appena abbattuto due enormi barriere, che la loro lite avesse appianato almeno alcuni degli ostacoli che li separavano. O forse, più semplicemente, gli girava la testa perché non riusciva a smettere di guardarla, di divorarla con gli occhi. Esigente, un po' pazza, calda, generosa, divertente, era tutto ciò che aveva mai desiderato. Tyce cercò di far funzionare il cervello. Era consapevole che avrebbe dovuto dire qualcosa, perché aveva l'impressione che avessero dato una svolta al loro rapporto, che, forse, avrebbero avuto una possibilità per creare... qualcosa. Qualcosa di più grande di quello che avevano in quel momento. Avvertì un bruciore sotto la gabbia toracica quando quell'idea mise radice nel cervello. Il terrore, il suo compagno d'infanzia, arrivò, accompagnato dal dubbio, suo vecchio alleato.
Sarebbe mai stato in grado di respingere entrambi abbastanza a lungo da poter stare con lei, da essere l'uomo di cui lei aveva bisogno? Cambiare registro nella relazione con Sage significava perdere la propria libertà ma, allo stesso tempo, non riusciva più a immaginare una vita senza di lei. Si sentiva confuso, come se avesse le vertigini. Troppo, troppo presto, si ammonì. Sei stanco e non ragioni come si deve. Pensa alla monogamia e all'impegno e al per sempre e a quello che vuoi da lei quando non sei ubriaco di stanchezza e sopraffatto dall'emozione. Domattina potresti pensarla diversamente. Questa potrebbe essere una reazione eccessiva, un frutto della tua immaginazione. Fai un bel respiro e datti una calmata. Tyce sprofondò le mani nelle tasche anteriori dei jeans e ritrovò la voce. «Vuoi del caffè? Ho il decaffeinato.» Sage annuì e lo seguì nella piccola cucina appoggiata alla parete di fondo dell'appartamento. C'erano anche un soggiorno e una zona pranzo e due camere da letto. Alzando gli occhi, osservò con attenzione le tubature che zigzagavano per il soffitto e le grosse travi lignee che contrastavano con la struttura di mattoni. «Mi piace. Questo posto ti rappresenta. È proprio il tuo spazio: virile e minimalista.» Una volta preparato il caffè, Tyce considerò che lui aveva bisogno di qualcosa di più forte. Si versò un bicchiere di whisky. Sorseggiandolo, sentì il bruciore in gola, il calore nello stomaco, e il cuore rallentò mentre i polmoni finalmente si dilatavano per accogliere più aria. Oh, sì, così andava molto meglio. Sage continuava a guardarsi in giro, incuriosita. «Allora, dov'è il tuo studio? Dov'è che dipingi?» Sapeva che gliel'avrebbe chiesto, era inevitabile.
Il problema era che, se fosse entrata nel suo studio, avrebbe trovato tutti i ritratti che la rappresentavano e a quel punto ne sarebbe rimasta sconvolta. Probabilmente l'avrebbe preso per un maniaco. Non le aveva appena detto, però, che dovevano essere sinceri l'uno con l'altro? «È dall'altra parte del magazzino. Oltre quella porta c'è una erella che a sopra l'officina, e in fondo c'è il mio studio.» Gli occhi di Sage si illuminarono. «Posso vederlo?» Non poté far altro che annuire. Aperta la porta, le prese la tazzina di mano perché potesse aggrapparsi al corrimano dello stretto aggio. Aveva appena iniziato una nuova scultura e tutta l'officina era cosparsa di barre d'acciaio piegate in qualche modo e pezzi di legno. «Che cosa sarà?» si informò Sage. Tyce scrollò le spalle. «Non ne sono ancora sicuro. Sto aspettando che abbia un senso.» Lei annuì. Era un'artista lei stessa, perciò non c'era bisogno che le spiegasse il processo, l'istinto che doveva seguire, confidando che alla fine si sarebbe risolto in qualcosa. «Cavolo, fa freddo qui dentro» considerò lei stringendosi tra le braccia. «È un incubo riscaldare tutto il magazzino, di solito, però, io mi muovo parecchio, o facendo esercizio o dedicandomi alle sculture, perciò non mi dà fastidio più di tanto. Lo studio invece è riscaldato.» Avevano raggiunto la porta che portava al suo spazio più privato e Tyce trattenne il fiato quando Sage la aprì. «L'interruttore è a sinistra.» Lei lo azionò e la luce invase la stanza disordinata. Tyce le restituì la tazza, sorseggiò il proprio whisky e si chiese cosa pensasse la prima persona che aveva accesso a quello spazio. Si guardò intorno, cercando di guardarlo con occhi nuovi. Le finestre erano incredibili, lasciavano entrare ogni briciolo di luce disponibile. Tele immacolate
erano impilate contro una parete e su quella opposta era appoggiato un dipinto a olio non ancora terminato, un'immagine astratta nelle sfumature del blu. Sage lo fissò a lungo, sorseggiando il caffè prima di abbassare gli occhi sulla pila di tele accostate al muro. Ah, diavolo. Be', era impossibile che non succedesse, no? «Posso?» Tyce annuì e lei si accucciò per terra, appoggiando la tazzina e girando la prima tela. Lui diede un'occhiata e tirò un sospiro di sollievo: era un ritratto di Lachlyn, il naso affondato in un libro. Sage non fece commenti e voltò un'altra tela e Tyce risucchiò il fiato. Era della madre, a terra accanto al letto che si abbracciava le ginocchia, lo sguardo vacuo. «Assomiglia a Lachlyn... È tua madre?» gli domandò Sage, alzando gli occhi. «Già. Come ti ho detto, soffriva di depressione cronica. Restava così per giorni.» Grazie al cielo Sage continuò a non commentare, limitandosi invece a girare le tele una dopo l'altra, storcendo il naso quando trovò rappresentata la propria immagine china sul tavolo da lavoro. Adocchiò la data e sollevò lo sguardo su di lui, le sopracciglia inarcate. Tyce si sentì arrossire. «Ho visto la tua foto su una rivista, ho deciso di copiarla» si giustificò. Ancora nessun commento. Mentre lei studiava ritratto dopo ritratto, molti dei quali erano suoi, gli pareva di avere le formiche sotto la pelle. Terminata la pila, Sage appoggiò le braccia sulle ginocchia. Quando gli occhi si voltarono verso di lui, Tyce vi lesse la collera. «Perché non li hai mai esposti? Sono fantastici, Tyce, probabilmente migliori anche delle tue sculture. Sono pieni di sentimento e, a volte, difficili da guardare, ma così dannatamente reali!»
Tyce fece scorrere un dito sul bordo della maglia, cercando di seguire il filo. «Non posso farlo» ammise. «E perché mai?» protestò Sage alzando la voce. «Sono incredibili. L'emozione salta fuori dalla tela.» Sincerità, sincerità... Cominciando a marciare avanti e indietro davanti al quadro non finito, Tyce strinse il bicchiere in una presa mortale. «Quando avevo circa tredici anni ho scoperto che potevo vendere i miei ritratti. Prendevo il mio album e me ne andavo a Central Park, a fare schizzi alla gente che ava. Poi gli infilavo il disegno sotto il naso e loro mi pagavano... non so ancora se pagavano perché pensavano che fosse un bel disegno, o perché avevano pena di un ragazzino troppo magro che aveva addosso vestiti vecchi.» Sage sorseggiò il caffè, il suo silenzio lo incoraggiava a continuare. «L'ho fatto per un po' di anni. Ho finito il liceo e mi hanno offerto una borsa di studio per la scuola d'arte, io, però, dovevo lavorare e l'unico impiego che ho trovato è stato nelle costruzioni. Per arrotondare, ho accettato di posare nudo per delle lezioni di arte frequentate per lo più da donne che volevano cimentarsi nel disegno.» Niente affatto sconvolta, Sage inarcò un sopracciglio come a chiedere: E allora? «Ho cominciato a ritrarre quelle donne, che acquistavano i miei disegni. Mi portavano a casa e posavano nude, dicendomi che i ritratti erano per i loro mariti o i loro amanti.» «E tu hai finito con l'andare a letto con loro» concluse lei in tono prosaico. Tyce si sfregò la nuca. «Ho venduto un'infinità di disegni e ho fatto sesso con parecchie di loro.» Sage piegò la testa da una parte e lo guardò perplessa. «E allora?» Quando lui non le rispose fissandola con aria confusa, lei proseguì. «Mi spiace, ma non riesco a trovare il nesso tra il fatto che tu sia andato a letto con alcune donne e il fatto che ti rifiuti di vendere i ritratti che fai.»
Come faceva a essere tanto ottusa? «Ho fatto sesso con loro, Sage!» «Avevi diciannove anni e saresti andato a letto con un gorilla, se avesse avuto il rossetto» replicò lei impaziente. Poi però la confusione le sparì dagli occhi. «Oh... aspetta, ho afferrato. Ti è venuto il dubbio che usassero i tuoi disegni come scusa per pagarti per il sesso.» Appunto. Tyce si voltò e sentì che lei si alzava e che appoggiava la tazzina sulla scrivania, dopodiché gli posò la mano sulla schiena. Attese le sue parole, il cuore che gli rimbalzava nella gabbia toracica. «Tu non ti rendi conto di quanto sei bravo, vero? È per questo che non ti fai vedere alle mostre, che non rilasci interviste... Tu non pensi di meritare tutti gli ammiratori, tutti i soldi.» Voltandosi di scatto, lui indicò il dipinto. «Mezza giornata, Sage; mi ci è voluta solo mezza giornata per quello! Ho spalmato un po' di colore su una tela senza neanche pensarci e degli idioti sarebbero disposti a pagarmi duecentocinquantamila dollari, se non di più. Le sculture sono più impegnative, ma solo in termini di tempo, e di sicuro non valgono il cartellino che espongono le gallerie sui miei pezzi. I ritratti... quelli sì che vogliono dire qualcosa, eppure ogni volta che penso di venderne uno, mi sembra di essere tornato a essere quel ragazzo confuso, che cerca di tenere la testa fuori dall'acqua, senza sapere se è pagato per il suo lavoro o perché è uno stallone.» Inspirò il fiato prima di continuare. «L'arte... L'arte è il luogo dove mi rifugiavo quando mia madre non parlava, quando non si muoveva per giorni e giorni. Era il mio nascondiglio, dove potevo fingere che andasse tutto bene. Facendo schizzi e disegnando perdevo la cognizione del tempo. Era come cadere in una sorta di trance creativa dove niente poteva toccarmi.» «E non ci cadi più?» Sage indicò il dipinto. «Perché secondo me succede ancora.» «È solo che è così facile, Sage.»
Lei gli posò le mani sul petto e piegò la testa all'indietro per guardarlo, gli occhi colmi di calore... Amore? Affetto? «Tyce, hai avuto una vita difficile. Hai badato a tua madre, a tua sorella. Hai sacrificato tutto per loro. Credi che non ti sia permesso avere qualcosa nella vita che sia facile? Non pensi che magari la vita ha deciso di ripagarti di tutto quello che ti ha tolto?» Chinando il capo, lui appoggiò la fronte sulla sua, il fiato corto. Possibile che lei avesse ragione? Avrebbe finalmente potuto accettare che non tutto doveva essere una lotta, una battaglia da vincere? «Tu hai un talento immenso, Tyce; sei l'artista migliore che conosca.» «Non sei obiettiva» protestò ancora lui, nonostante volesse crederle con tutto se stesso. Al che lei indietreggiò per inchiodarlo con lo sguardo. «Ti ricordi quando hai dipinto la Ballerina Stanca?» Il quadro che aveva lei nel suo loft. No, non lo ricordava, ma era stato abbastanza presto nella sua carriera. «L'hai fatto nove anni fa. Io sono sempre stata ossessionata dalla danza e avrei voluto avere il talento per diventare una ballerina professionista. Quando ho visto quel dipinto me ne sono subito innamorata. Avevo diciannove, vent'anni. Ho supplicato Connor di comprarmelo, ma lui non ha voluto. Quando ho compiuto ventun'anni lui ha liberato dei fondi del mio conto. Ho rintracciato il proprietario e gli ho dato il triplo di quello che l'aveva pagato. All'epoca non ti conoscevo, ma volevo quel quadro più di quanto volessi l'aria da respirare.» Toccato, Tyce aprì la bocca per replicare, ma lei lo fermò. «Ho convinto i miei fratelli a regalare a Jaeger una delle tue sculture per il compleanno, e Connor, su mia insistenza, ha comprato altri tuoi tre quadri per la sua collezione privata. Uno è appeso nella reception della Ballantyne & Company. Non gli è mai piaciuta la Ballerina, ma adorava le tue opere più recenti. Diceva che saresti diventato uno degli artisti migliori e più influenti del Ventunesimo secolo e vuoi sapere una cosa? Aveva ragione, perché lo sei. Vali ogni centesimo di quello che ti pagano. Se non credi a una parola di quello che ti ho detto da quando ti
conosco, ti prego, credi a questo.» Tyce chiuse gli occhi, perché non voleva che lei vi leggesse la sua stessa anima. Affondò le dita nella sua pelle, pregando che non sentisse il loro tremore. Si sentiva stanco e rinvigorito insieme, svuotato ed energico. E libero, per la miseria. Le parole di Sage lo facevano sentire emancipato, potente. Lei lo faceva sentire come se potesse affrontare il mondo con una mano sola, e vincere. Avrebbe voluto dirle quanto era importante ciò che gli aveva appena detto, ma le parole gli si incastrarono in gola. Perciò chinò la testa e sperò di poter trasmettere ciò che pensava con la bocca, con le mani, con tutto se stesso. Sage però era un o avanti a lui. Sollevandosi sulle punte dei piedi, posò le labbra sulle sue, la lingua che gli tracciava i contorni della bocca pretendendo libero accesso. Si lasciò sfuggire un Diavolo, sì, e lei ne approfittò per far scivolare la lingua contro la sua alzando immediatamente la temperatura, esigendo una risposta. Tyce la strattonò contro di sé, le mani che cercavano la pelle nuda. Le stava sfilando la maglietta dai jeans quando Sage affondò le dita nei suoi addominali, i pollici che strofinavano la pelle tra l'ombelico e la cinta dei pantaloni. Contrasse i muscoli dello stomaco e lei borbottò la propria approvazione, i baci che si facevano frenetici e selvaggi. Poi le sue mani attaccarono il bottone dei jeans. Chi era quella donna che aveva assunto il controllo? Che gli stava infilando le mani nei boxer per stringerlo e tormentarlo? Era stata riservata, a volte timida nel confessargli ciò che la eccitava, quel giorno, però, sapeva esattamente cosa voleva. Tyce sentì il sangue affluire verso il basso e si trasformò in granito nella sua stretta.
Con un altro mormorio Sage si staccò dalla sua bocca per togliergli la maglietta. Non appena gli ebbe liberato il torace, posò la bocca sulla sua pelle, la lingua che tracciava un sentiero di fuoco lungo il corpo. Per la miseria, non stava forse pensando di... Tyce l'aveva avuta così, tuttavia sapeva che lei non si sentiva a proprio agio a restituire il favore. Aveva ato molte, molte notti a fantasticare su di lei in quella posizione, ma la sua immaginazione, non era nulla in confronto alla realtà. Sage assaporò con la lingua i suoi addominali e, a quel punto, con un ringhio soffocato, Tyce si afferrò allo scaffale alle proprie spalle, temendo che le ginocchia non lo reggessero. Lei gli fece scendere i pantaloni lungo le gambe e infilò le dita sotto l'elastico dei boxer. L'aria fredda sulle sue parti intime era in netto contrasto con il calore delle labbra di Sage sulla pelle. Non sapeva se sarebbe riuscito a resistere; i suoi sogni non avevano reso la minima giustizia a come lo faceva sentire. Nei sogni, il suo cuore non rischiava di esplodergli dal petto, il cervello non era privo della minima scintilla di razionalità, e il mondo intero non era ridotto alla sua bocca su di sé. Non poteva farcela... era troppo. Poi Sage prese in bocca il suo membro eccitato e il cervello si spense del tutto. Si tenne saldo al ripiano e rovesciò la testa all'indietro, perché se l'avesse guardata avrebbe perso ogni possibilità. Ansimava e aveva il corpo imperlato di sudore. Essere amato da lei in quel modo era la sua più scabrosa fantasia. Il suo desiderio e la sua speranza che si avveravano. Oh, non era solo il sesso – che era eccezionale a dir poco – ma tutto quanto.
Lei era nel suo studio e aveva detto quello che lui aveva bisogno di sentire sulla sua arte, aveva messo in prospettiva le sue azioni ate, gli aveva aperto un nuovo mondo. Tyce voleva tutto questo, tutto. La voleva nella sua vita, voleva essere una parte fondamentale della sua, voleva crescere il loro bambino insieme a lei. Ne era sicuro, non c'era bisogno di ripensarci la mattina dopo, a mente lucida. Aveva bisogno di lei. Ne aveva sempre avuto bisogno. La afferrò per le spalle per farla alzare e pressò la bocca alla sua. Tra baci ardenti e apionati, riuscirono a spogliarsi reciprocamente, sparpagliando i vestiti sul pavimento sporco di pittura. Quando furono entrambi nudi, la prese per le natiche e la sollevò, sospirando nel momento in cui lei gli avvinghiò le gambe intorno alla vita. Senza poter più aspettare, la calò su di sé e la penetrò. Sage sussultò e Tyce vide le stelle dietro le palpebre. Temendo di non riuscire a stare in piedi, la fece appoggiare contro un dipinto, e Sage lasciò cadere la testa all'indietro. Lui si fermò a guardarla, gli occhi chiusi, i lunghi capelli che si spargevano sulla pittura ancora fresca della sua creazione, le spalle candide contro le varie sfumature di blu. Sapendo di non poter resistere a lungo, le ordinò di aprire gli occhi. Quando lo fece, sospirò e si innamorò ancora un po' di più. «Voglio guardarti negli occhi quando esplodi. Ma fallo in fretta, okay? Per favore.» Lui la penetrò ancora più a fondo con una spinta possente. Annaspando, lei gridò e si contrasse intorno a lui e Tyce si perse. E volò via in un vortice di milioni di sfumature di blu.
La mattina dopo, Tyce la accompagnò al taxi e lei notò il suo sguardo divertito mentre le infilava un berretto in testa. «Che c'è?» volle sapere. Tyce aveva gli occhi cerchiati – non avevano dormito molto – ed era dieci volte più sexy di quanto non fosse stato la sera prima,
perché le ombre nel suo sguardo erano sparite. «Stavo pensando alle strisce di blu cobalto sul tuo sedere» le confidò ridendo. Sage però si accigliò. «Mi disturba di più aver rovinato il tuo quadro, che avere il sedere macchiato.» La sera prima, quando erano stati di nuovo in grado di tirare il fiato e di avere un minimo di pensiero razionale, Sage aveva sentito la pittura fresca sulle natiche e si era voltata a guardare il dipinto, che ne recava l'impronta perfetta. Invece che essere turbato per il danno, però, Tyce era scoppiato a ridere. «Mi inventerò qualcosa» la rassicurò, sollevando una mano per accarezzarle la guancia. «Magari. O magari lo tengo così com'è, a ricordo del sesso più straordinario della mia vita. E della conversazione più importante.» Lei gli sorrise. «Basta che ti ricordi che sei favoloso.» «Un artista favoloso?» specificò inarcando un sopracciglio, ma lei notò la punta di incertezza nei suoi occhi. «Un uomo favoloso.» E a quel punto lui sorrise, prima di baciarla dolcemente. La sua bocca recava una sfumatura di ione, ma andava ben più a fondo di questo. Sage poteva assaporare la promessa, il suggerimento di un futuro insieme. La speranza che questa volta potessero funzionare, che potessero essere migliori e più coraggiosi. Tyce le aprì la portiera e, una volta che lei si fu accomodata, si chinò a baciarla di nuovo. Quando si scostò da lei, i suoi occhi ridevano. «Oh, magari dovrei dirti che hai anche i capelli tinti di blu.» Richiuse la portiera, ma Sage sentì lo stesso la sua risata. Tolse il berretto e si tirò una ciocca davanti al naso... e sì, il blu cobalto aveva colpito ancora. Si voltò per guardare Tyce dal finestrino e vide che aveva il volto chino sul telefono. Dieci secondi dopo, il suo cellulare vibrò con un messaggio in arrivo.
Vuoi tornare? Potrei dare qualche pennellata a una tela e poi rotolarmici sopra insieme a te. Sarebbe un pezzo per la mia collezione molto privata.
Sage sorrise, rabbrividì per il desiderio e si guardò di nuovo alle spalle, ma Tyce era tornato nel magazzino.
Sono molto tentata, rispose. Ma dubito che la principessa saudita che aspetta il mio anello, o mio fratello, sottoscriverebbero la mia diserzione a una riunione importante per giocare con la pittura. Un'altra volta?
11
«Ti va un caffè?» offrì Tyce a Lachlyn quando uscirono dal palazzo nel vento gelido che soffiava a raffiche per le strade. Lachlyn l'aveva invitato ad accompagnarla a vedere una nuova galleria d'arte che aveva scoperto, pensando che il fratello avrebbe apprezzato i pezzi eclettici raccolti in tutto il mondo. Aveva avuto ragione. «Certo.» Si guardò intorno. «C'è un bar in fondo alla strada.» «L'appartamento di Sage è proprio girato l'angolo. Lei aveva una riunione alla Ballantyne, ma il suo caffè è straordinario.» La sorella annuì e si incamminarono insieme in quella direzione. «Come sta Sage?» gli domandò lei. «Bene. Perché me lo chiedi?» «Oh, solo perché dopo la caduta hai detto che saresti rimasto da lei per un paio di giorni, e invece sono ate due settimane e sei ancora lì. Si è rotta la spina dorsale? Ha il braccio paralizzato?» Tyce socchiuse gli occhi. «Molto divertente.» Era una domanda lecita, però. Perché viveva ancora da Sage? Ogni giorno compiva il tragitto fino a Brooklyn, lavorava nel suo studio e la sera tornava a SoHo. Perché fare l'amore con Sage era come una droga di primo livello di cui era ormai dipendente. Non riusciva a immaginare una giornata senza di lei, non svegliarsi accanto a lei, non esplorare il suo corpo ogni notte. Dio, sembrava proprio che fosse... No, non dirlo, non pensarlo nemmeno. Il suo bisogno di stare con lei non aveva niente a che fare con l'amore, con un futuro che avrebbero potuto trascorrere insieme, una vita che avrebbero potuto costruire. Tyce era ancora l'artista
riservato e taciturno che era sempre stato, e aveva bisogno di stare da solo. Solo che le sue azioni, ogni santo giorno, contraddicevano quelle parole. «Allora, cosa ne pensi della Tana?» le domandò per cambiare argomento. Non avevano ancora avuto occasione di parlare della cena dai Ballantyne, né di come si sentiva la sorella dopo aver conosciuto la sua nuova famiglia. Sentirla raccontare della Tana, e del giro turistico che Jo le aveva fatto fare dell'edificio, era un modo come un altro per arrivare all'argomento. Ascoltò divertito il racconto di Lachlyn, che lasciava trapelare tutta la sua meraviglia, e tese le orecchie al sentir nominare la palestra da mille e una notte di Linc e la cantina a temperatura controllata nel seminterrato. «E Sage?» indagò quindi, il cuore che accelerava nel petto. «Cosa ne pensi di lei?» Sage e Lachlyn erano le due donne che sarebbero rimaste nella sua vita molto a lungo. Era importante che si piero. «L'ho trovata un po' permalosa.» La sorella arricciò il naso. «Forse non è la parola giusta... Spaventata? Vulnerabile?» «Ma ti piace?» insistette Tyce. «Sì, suppongo di sì.» Lachlyn corrugò la fronte. «Dovevamo cenare insieme questa settimana, ma ha rimandato. Le ho mandato un paio di messaggi... dice che al momento è troppo presa.» Tyce si accigliò al sentire la nota di dolore nella voce della sorella. Cercando di rassicurarla, le appoggiò un braccio sulle spalle e la strinse a sé. «Ho sentito parecchie imprecazioni su una principessa saudita rompiscatole che pare non riesca a prendere una decisione.» Svoltarono l'angolo dell'isolato e, come un faro nella nebbia, gli occhi di Tyce furono attirati da una figura alla fine della strada, che indossava pantaloni neri infilati negli stivali e un cappotto rosso. Sage aveva lo sguardo abbassato sul cellulare e non prestava attenzione a ciò che la circondava.
Tyce diede una gomitata a Lachlyn. «Pare che Sage sia tornata presto, devono aver rinviato la riunione. Dai, raggiungiamola.» La sorella però parve nervosa. «Forse è meglio prima avvertirla.» Senza aspettare la risposta, prese il telefono e compose il suo numero. Tyce guardò dall'altra parte della via, notò Sage che faceva una smorfia – probabilmente alla vista del numero chiamante – e che invece di rispondere rimetteva il telefono in tasca. Sentì la collera ribollire e nel momento in cui vide l'espressione ferita della sorella gli bruciò lo stomaco. Lachlyn si proibì di piangere, cercando invece di sorridere. «Come immaginavo, non credo che il problema sia il lavoro.» «Lach...» Non seppe come proseguire, però, perché in quel momento la sua sorellina aveva esattamente la stessa espressione sconsolata che era stata sua compagna inseparabile durante l'infanzia. Ti voglio bene, mamma. Cosa c'è di sbagliato in me che ti impedisce di volermi bere? Ti rendo triste? Sono io il problema? Lachlyn si sollevò sulle punte per baciargli la guancia. «Non importa, Tyce. Davvero. Magari non è ancora pronta per me.» Gli diede un colpetto sul braccio. «Ci sentiamo dopo, okay?» Lui la osservò allontanarsi, sopraffatto dall'ira e dalla delusione. Che erano entrambe dirette verso Sage. Senza pensarci due volte, prese il cellulare e la chiamò.
Quando vide il nome di Tyce sul display, Sage si voltò per dare le spalle al vento. «Ciao.» «Ehi.» La voce di Tyce era strana, lei però, pensò che potesse essere il vento che
faceva strani giochi con le linee. «Sono con Lachlyn e pensavo che potremmo are a bere un caffè. Torni a casa presto?» Oh, sì, sembrava decisamente strano. Quasi arrabbiato, considerò. Sfregandosi la nuca, cercò di allontanare la tensione. La sua principessa era arrivata con dieci minuti di ritardo e se n'era andata sbuffando dopo altri cinque, dichiarando che i disegni di Sage erano spazzatura, roba da plebei, e che odiava tutti quanti. Era esausta e avvilita e non voleva far altro che infilarsi in una vasca d'acqua bollente e andare a letto presto. Non aveva voglia di parlare con nessuno, nemmeno con Tyce. Le sembrava di non aver avuto un attimo per sé, nell'ultimo mese. Voleva solo un po' di pace e un appartamento vuoto. «Sage? Ci sei?» «Sono ancora al lavoro.» La bugia le uscì fin troppo facilmente dalle labbra, ma l'avvilì. Tuttavia se gli avesse detto la verità, Tyce avrebbe preteso di sapere perché aveva bisogno di tempo per se stessa, che cosa la turbava, e perché evitava lui e la sorella. E Sage non aveva l'energia per affrontare tutto ciò. «Ne avrò ancora per un bel pezzo, perciò...» Esitò. «Magari ti conviene restare a casa tua, stasera.» «D'accordo.» Fece una smorfia quando lui chiuse bruscamente la telefonata. Odiava mentire e non avrebbe voluto farlo. Avrebbe semplicemente dovuto dirgli che aveva bisogno di un po' di tempo. Tra tutti quelli che conosceva, Tyce era quello che più degli altri poteva capirlo. Se le avesse chiesto qual era il problema e lei avesse risposto che non aveva voglia di parlarne, avrebbe lasciato perdere. Non c'era bisogno di mentire... eppure l'aveva fatto. Sage sentì la bile risalirle in gola e si vergognò di se stessa. Inspirando a fondo, cercò di giustificarsi, ma la verità, l'unica verità era che era impaurita... no, in realtà era terrorizzata. Da ciò che provava per Tyce, da ciò che avrebbe potuto provare per Lachlyn. Di essere ferita, lasciata sola, perduta.
Ma soprattutto, aveva paura di vivere. Di amare. Si strinse tra le braccia mentre copriva gli ultimi metri che la separavano dal portone d'ingresso. Nella mente le balenò una serie di immagini dell'ultima vacanza che aveva fatto con i genitori. Erano volati alle Hawaii e ricordava che avevano preso tutti lezione di surf. I fratelli avevano imparato immediatamente, invece lei e il padre avevano avuto difficoltà a trovare l'equilibrio. Nella propria testa, rivide la madre, californiana, che cavalcava quella che a lei sembrava un'onda mostruosa. I suoi capelli scuri volavano nel vento, esultava entusiasta e aveva un enorme sorriso stampato in faccia. Il padre aveva seguito il suo sguardo e aveva sorriso. «Guarda che spettacolo è tua madre, Sagie. Selvaggia e libera, così innamorata della vita.» Sage si asciugò una lacrima dagli occhi e pensò che poteva anche assomigliare fisicamente alla madre, ma non aveva preso niente del suo carattere. Era cauta, riservata e prigioniera delle proprie paure. Certo, aveva provato sulla propria pelle l'incredibile dolore della perdita, ma era sopravvissuta e se fosse successo di nuovo sarebbe sopravvissuta di nuovo. I cuori si possono spezzare, ma non si muore per questo. Si rese conto che avrebbe dovuto fare una scelta: are la vita in una gabbia sicura e noiosa, oppure scappare di prigione e cominciare a esplorare il mondo. Era giovane, ricca, ragionevolmente intelligente; poteva avere una vita fantastica se avesse trovato un briciolo del coraggio della madre, del suo spirito di avventura. Un giorno – ma non quel giorno – avrebbe dovuto provare. Lo doveva al ricordo dei genitori, a Connor... «Così lavori fino a tardi, eh?» Sage si lasciò sfuggire un urlo quando Tyce comparve accanto a lei, a un metro
dagli scalini che portavano alla sua porta. Si sbatté una mano sul cuore e riprese fiato. «Maledizione, Tyce! Odio quando fai così!» «Ah, sì?» I suoi occhi erano freddi e duri come carbone congelato. «Per la cronaca, anch'io odio quando menti.» Oh, cavolo. Sage si toccò la fronte, cercando le parole giuste. Tyce non le diede il tempo di trovarle. «Allora, chi volevi evitare? Me? Lachlyn? Entrambi?» Aveva le mani che le tremavano, perciò le infilò in tasca. Prima che potesse rispondere, le squillò il cellulare e lei benedì Linc per l'interruzione, accettando la chiamata. Il fratello aveva bisogno di una babysitter per quella sera. «Mi dispiace, Linc, non stasera. Sono esausta e ho mal di testa e non desidero altro che un bagno caldo e il mio letto.» Si costrinse ad alzare lo sguardo su Tyce, sospirando alla vista della sua espressione impietrita. Era questo che avrebbe dovuto dirgli, invece di quella stupida menzogna. «Ho bisogno di stare un po' da sola.» «Nessun problema, chiedo a Beck e Cady. Ci sentiamo.» Terminata la telefonata, prima che potesse aprir bocca Tyce la anticipò. «Così hai bisogno di stare un po' da sola, eh? Nessun problema.» Fece per andarsene, ma lei lo trattenne per un braccio. Tutt'a un tratto non voleva più restare sola. Voleva essere stretta tra le sue braccia, perché la sua forza e la sua solidità scacciassero la tensione dal suo corpo. Tra le sue braccia, si rese conto, era dove si sentiva più al sicuro. «Tyce...» Lui si voltò di scatto. «Sono così furioso con te, Sage» la interruppe qualunque cosa lei stesse per dire. «Mi hai mentito e la cosa non mi va affatto, tanto per cominciare. Peggio ancora, hai ferito mia sorella. Non so a che gioco tu stia giocando, però non mi piace.» Indicò un punto sul marciapiede opposto. «Ti abbiamo vista. Lachlyn ti ha chiamato e tu hai fatto una smorfia appena ti sei
resa conto che era lei. Quello è stato il primo strike. Non hai risposto alla sua telefonata proprio davanti ai suoi occhi... secondo strike.» Per Sage fu come se la stesse pugnalando al cuore. Ah, no, dannazione no! «Se n'è andata in lacrime, Sage. E poi hai mentito a me. Terzo strike.» «L'hai fatto apposta!» lo accusò lei. «Volevi vedere cos'avrei fatto.» «E questa sarebbe la tua giustificazione?» La afferrò per le braccia, chinandosi in modo che il viso fosse al pari col suo. «Pessima mossa, Ballantyne. Lachlyn e io abbiamo trascorso la nostra infanzia con una madre che non ci voleva abbastanza bene da desiderare di guarire, che non ci voleva intorno e non badava a noi. Di sicuro non aveva alcuna voglia di conoscerci. Era più divertente essere una depressa cronica. Il punto è che capiamo quando non siamo voluti.» La sua voce, così calma e controllata, la traò come una freccia. Le lacrime le solcarono le guance. «Tyce, mi dispiace. Non volevo farvi sentire così, nessuno dei due.» Lui però la lasciò andare, facendosi indietro. «Come ho detto... Vuoi startene da sola? Eccoti accontentata.» Con il pugno in bocca, Sage restò a osservarlo allontanarsi. Provò a chiamarlo, ma per tutta risposta lui affrettò il o che lo portava via da lei, e lei rimase lì impietrita sotto le sferzate del vento gelido. Imbarazzata, vergognandosi di se stessa, guardò il portone e considerò di entrare. Poteva farsi quel bagno caldo che bramava e andare a letto presto, ma sapeva che avrebbe avuto ben poche probabilità di prendere sonno. Era esausta, ma non sarebbe riuscita ad addormentarsi se prima non avesse sistemato le cose con Tyce. E per farlo, c'era un'altra persona con cui, prima, doveva scusarsi.
«Pronto?» Contrariamente alle sue aspettative, Lachlyn le rispose al primo squillo. «Lach?» La sua voce si ruppe all'uso del diminutivo che Tyce usava per la sorella. «Ho fatto un gran casino, e mi dispiace. Innanzitutto volevo scusarmi per aver ignorato la tua chiamata. Non sono molto brava ad accettare le persone e mi sono spaventata. Sono davvero, davvero desolata.» «Okay» rispose Lachlyn, ma il tono era ancora guardingo. «Tu sei proprio come Connor, sai? Mi ci vuole del tempo per abituarmi a questo.» «Non posso farci niente» le fece notare Lachlyn, la voce rigida. «Lo so» replicò Sage. «Puoi darmi solo un po' di tempo, per favore? Mi sento un po' sopraffatta.» «Anch'io, Sage.» Diavolo, non aveva mai considerato la situazione dal suo punto di vista. Non si era mai fermata a pensare quanto potesse essere difficile per lei entrare in una nuova famiglia, chiedersi se sarebbe piaciuta, se le avrebbero voluto bene. Presa dalla propria situazione, Sage era stata un'egoista bella e buona. Questi Latimore di sicuro avevano un segreto per far vedere le situazioni più chiaramente alle persone. «Posso perdonarti per aver fatto del male a me, Sage» riprese Lachlyn, «ma non ti perdonerò mai se farai del male a Tyce. Se mi chiedi di schierarmi, tra te e i tuoi fratelli o Tyce, sceglierò sempre Tyce. Puoi starne certa.» Sage apprezzava il sentimento e rispettava la lealtà nei confronti del fratello. «Sto andando al suo studio per scusarmi» la informò. Lachlyn però la fermò. «Non credo che sia una buona idea. Dagli un po' di tempo per smaltire la collera» le suggerì.
«Okay.» Sage si sfregò la nuca. «Mi dispiace davvero per prima, Lachlyn. E devi sapere che non è mia intenzione ferire Tyce.» «Davvero?» La voce suonava scettica. «Perché per essere una che non agisce di proposito, devo dire che stai facendo comunque dei gran danni.»
La sera dopo, Sage si ritrovava in piedi sulla soglia del soggiorno della Tana con Ellie in braccio. Guardò nella stanza, adocchiando le donne Ballantyne: Piper e Cady erano sedute sul tappeto persiano, a fianco di Amy, e Tate era sul divano di pelle vicino a loro. Ognuna aveva in mano un campionario di tessuti ma solo Amy stava sfogliando il proprio, imprecando come un marinaio. C'erano quattro altri campionari aperti sul tappeto, e cinque sul tavolo. Dalla porta, Sage riusciva a trovare solo minuscole differenze nelle sfumature di beige. Strofinò la guancia contro i riccioli della bimba e la strinse un po' più forte. Linc gliel'aveva messa in braccio non appena era arrivata, spiegando che per sbaglio Shaw aveva svuotato un intero flacone di bagnoschiuma nella vasca. Per sbaglio... sì, certo. «Che cosa fate?» domandò al clan. Quattro teste si voltarono verso di lei e Tate si alzò per andare ad abbracciare lei e la figlia. Ellie la tradì, protendendosi subito verso le braccia della madre. Salutando tutte, Sage fece un cenno ai campionari. «Cosa state decidendo? Posso dare una mano?» «Il colore delle tovaglie.» Dietro Amy, Cady sbarrò gli occhi, e Sage nascose un sorriso. Aveva sentito alcune voci secondo le quali la segretaria si era trasformata in una futura sposa paranoica, ma fino a quel momento non vi aveva dato credito.
«Jules dice che la sto facendo impazzire con i preparativi per il matrimonio e minaccia di rapirmi e di portarmi a Las Vegas.» Amy sporse il labbro inferiore. «Voglio solo che sia tutto perfetto.» Sage si chinò ad abbracciarla. «Così diventi matta per niente. Scegline uno. Sono tutti più o meno uguali.» Amy fulminò i campionari con gli occhi. «Lo farò, dopo che avrò dato un'ultima occhiata a quelli sul tappeto. Tu come stai?» Lei alzò le spalle; non aveva senso mentire. «Malissimo.» Si lasciò cadere sull'angolo del divano e si sfregò la nuca. «Ho davvero rovinato tutto, questa volta. Di nuovo.» Al vedere quattro espressioni dispiaciute e affettuose, per la prima volta si confessò e spiegò quanto fosse stata idiota e come avesse ferito sia Lachlyn, sia Tyce. «Mi sono scusata con Lachlyn e ho cercato di chiamare Tyce, ma ignora le mie telefonate» concluse infilandosi le mani nei capelli con un sospiro. «Non siate troppo dispiaciute per me, però. È tutta colpa mia, me la sono cercata: sapevo che se mi fossi concessa di attaccarmi a lui ne avrei sofferto.» Fissò gli occhi pieni di lacrime sui campionari di tessuti. «Io lo amo. Sul serio. Penso di averlo sempre amato, tuttavia non appena si avvicina troppo, lo caccio via con qualche scusa. Avrò la sindrome del riccio...» Tate si accovacciò per terra accanto alle sue gambe e le appoggiò la testa sul ginocchio. «Oh, tesoro. Che cosa pensi di fare?» Lei scrollò di nuovo le spalle. Dato che era la prima volta che ammetteva apertamente di essere innamorata di Tyce, con se stessa e con la famiglia, non aveva riflettuto molto sul o successivo. «Non lo so. Devo scusarmi con lui, tuttavia non posso farlo se lui non mi parla. E non so se posso continuare a fare sesso con lui. Voglio dirgli che lo amo, però ho paura di farlo scappare, a gambe levate.» Sage si posò una mano sullo stomaco. «E cavolo, quello farebbe male sul serio e voi sapete quanto mi
impegni per evitare di farmi male.» «Insomma sei innamorata di lui?» volle precisare Tate. Lei annuì. «Sì, lo amo.» Di questo era sicura. «L'ho sempre amato.» «Allora fallo» la esortò la cognata decisa. Sage corrugò la fronte. «Scusa, come?» «Okay, sei spaventata. Okay, lui potrebbe scappare. Fallo lo stesso» insistette Tate appoggiandole una mano sulla gamba. «Pensiamo tutti di doverci prima liberare delle nostre paure, in realtà, però, bisogna prima agire. Solo così le paure svaniscono.» Cady annuì. «L'unico modo per smettere di aver paura di amare qualcuno è amarlo.» Sage non sembrava ancora convinta. «E cosa succede se se ne va?» domandò a bassa voce. «Se muore?» «Se se ne va, se ne va. Se muore, muore» le rispose Piper. Si alzò in piedi, spostandosi dietro di lei e chinandosi per abbracciarla da dietro, appoggiandole il mento sulla spalla. «Non possiamo essere responsabili, o cercare di controllare quello che fanno le altre persone. Possiamo solo controllare le nostre azioni. E ha senso preoccuparsi solo di ciò che possiamo controllare.» Sage strinse a sé le braccia di Piper, gli occhi che si riempivano ancora di lacrime. Era quello che significava avere un o, far parte di una famiglia di donne forti. Quelle erano le donne Ballantyne – Sage aveva sempre pensato che Amy avrebbe dovuto cambiare il cognome e farla finita – erano un'unità. E, considerò spostando lo sguardo sulla nipote seduta in braccio alla madre, stavano crescendo un'altra generazione di forti donne Ballantyne. Il loro saggio consiglio aveva un senso e lei gliene fu grata. Non era ancora sicura che l'avrebbe seguito, ma perlomeno ci avrebbe riflettuto. Parecchio. «Vino!» esclamò Amy. «So che di recente Linc ha comprato una cassa di
Domaine de la Romanée-Conti. Non sentirà la mancanza di una bottiglia, o di tre.» Tate gemette. «Ci ucciderà, Ames. È uno dei vini più costosi al mondo.» «E allora?» ribatté l'altra ammiccando. «Tocca il mio vino e sei licenziata» sentenziò Linc entrando nella stanza. Si fermò, posò un bacio sulla testa della moglie e sorrise quando la figlia tese le braccia, il visino allargato in un ampio sorriso alla vista del papà. Sage cercò di controllare le lacrime e di non immaginare suo figlio che guardava Tyce a quel modo. Lo doveva al bambino, e a se stessa. Doveva dire a Tyce ciò che provava, spiegargli ciò che desiderava. Se non l'avesse fatto, se ne sarebbe pentita per il resto della vita. Doveva essere coraggiosa perché, se non lo fosse stata, chi avrebbe insegnato a suo figlio a essere coraggioso, a correre il rischio? Sì, era spaventoso; sì, il terrore le congelava il sangue, ma per Tyce valeva la pena di provare un po' di paura. Poteva farcela. Doveva farcela. La determinazione scacciò la paura in un angolo, imprigionandola. Alzandosi dal divano, sorrise alle altre e si diresse alla porta. L'ultima cosa che sentì fu la voce soddisfatta di Tate. «Questa sì che è la nostra piccola. Ames, la cassa di vino è ancora nell'ingresso... né Linc, né io abbiamo avuto tempo di portarla in cantina. Vai a prendere una bottiglia. O tre.»
12
Dobbiamo proprio parlare
Tyce diede un'occhiata al display del telefono e sospirò. Oh, sì, dovevano parlare eccome.
Dove sei?
Attese la risposta e non si sorprese che fosse alla Tana. Ovvio: quando il suo mondo cadeva a pezzi, aveva un luogo, delle persone dove rifugiarsi. Lui no, e neanche Lachlyn.
Posso venire da te. Sei in studio?
Tyce scosse la testa. Gesto inutile, dato che lei non poteva vederlo.
Ho appena finito di cenare con il mio agente. Vengo io da te
Okay. Ti aspetto
Appoggiata la testa al finestrino del taxi, Tyce osservò senza vederla la città
bagnata di pioggia, distratto dal mal di testa che gli impediva quasi di pensare. Troppe parole, dedusse. La sua discussione con Sage gli aveva lasciato l'amaro in bocca, e una macchia nell'anima. Ogni volta che gli sembrava di fare un o avanti Sage li rispingeva indietro. La tensione gli annodò lo stomaco; era sicuro che lei avrebbe posto fine al loro accordo, comunque si volesse chiamare, riportandoli senza compromessi alla categoria di amici e futuri co-genitori. Non poteva biasimarla, del resto: chi poteva sopportare di fare continuamente cinque i avanti e sei indietro? Stavano insieme da quasi un mese e la data di scadenza era ormai prossima. Probabilmente Sage cominciava a sentirsi nervosa e, come in ato, voleva troncare. Tyce ordinò al cuore di risollevarsi dal pavimento. Troncare non era un male, ragionò, perché sapeva che stare soli era molto più facile. Quando era da solo non si sentiva svuotato. Solo? Certo. Emotivamente esaurito? No. Non si era sentito così perso da prima che la madre morisse, e si era scordato cosa si provava ad avere dei sentimenti. Non era divertente. Aveva l'impressione di procedere lungo il bordo di un precipizio, un o falso e sarebbe caduto rompendosi l'osso del collo. Certo, potevano superare quella discussione, ma ce ne sarebbe sempre stata un'altra, e poi un'altra, e poi un'altra... Era fuggito da una vita piena di drammi. Era scappato dalle relazioni perché odiava sentirsi un recipiente che veniva continuamente svuotato, e mai riempito. Quelle liti, avere a che fare con i problemi di Sage, lo prosciugavano. I suoi pensieri erano a mille miglia dalla sua arte, dal suo sostentamento, e non poteva permettersi distrazioni. Doveva rimpolpare il conto in banca e aveva bisogno di ogni briciolo di energia per concentrare i propri sforzi nel diventare il padre migliore che potesse essere. Perciò quando Sage lo avesse piantato, le avrebbe dato un bacio sulla guancia e se ne sarebbe andato perché, dannazione, stava meglio da solo. Sapeva come
stare da solo. La solitudine non lo spaventava... i sentimenti sì. Da solo, aveva il controllo. Sage e questa relazione di alti e bassi, lo trascinavano fuori dalla zona di conforto. Aveva cominciato a fare affidamento su di lei, quando per tutta la vita aveva potuto contare solo su se stesso. Questo lo spaventava a morte. Che cosa gli era ato per la testa? Basta così, stabilì deciso. Non poteva, non l'avrebbe più fatto. Se lei, se loro si fossero lasciati quella sera – ed era ciò che sarebbe successo – avrebbero avuto ancora quattro o cinque mesi per abituarsi all'idea di non andare più a letto insieme, di non condividere una vita. Sarebbero stati in grado di comportarsi da persone mature e avrebbero trovato un modo per crescere il figlio insieme. Tuttavia lui l'avrebbe sempre voluta... Non pensarci. Non infilarti in quel vespaio... Devi farlo o altrimenti starai male per il resto della tua vita. Okay, peggio, si corresse. Decisione presa. Diavolo, poteva anche essere quella giusta, ma faceva male! Tyce ò al problema numero due. Prima della fine della settimana le loro vite – le vite di tutti: la sua, quella di Sage, quella di Lachlyn e del resto dei Ballantyne – sarebbero state ribaltate. Era in arrivo una tempesta e non c'era modo di evitarla. Quel pomeriggio la sorella era stata avvicinata da un giornalista che l'aveva tempestata di domande sui suoi legami con i Ballantyne, sulla Lach-Ty e su Connor in particolare. In lacrime, lei aveva chiamato Tyce che l'aveva raggiunta in un battibaleno e aveva affrontato il reporter, scoprendo purtroppo che conosceva già tutta la storia.
Quando erano riusciti ad allontanarlo, lui aveva ato un'ora con Lachlyn, osservandola camminare nervosamente per il soggiorno e ascoltando le sue argomentazioni sui Ballantyne e i suoi dubbi sull'opportunità di diventare un membro di quella famiglia. Avrebbe voluto, perché le piacevano tutti. Era solo sconvolta dall'attacco verbale del giornalista. Comunque, ormai non avrebbe più avuto scelta. La storia sarebbe stata pubblicata e l'unica cosa che potevano fare era gestirla. Dannata stampa. Perché non poteva lasciarli in pace? Non avevano già abbastanza problemi da risolvere? Tyce si accorse che il taxi si era fermato davanti a casa Ballantyne; pagò la corsa e varcò il cancello imboccando l'imponente scalone. Sarebbe stata l'ultima volta, almeno per qualche tempo, che si sarebbe trovato davanti a quella porta, l'ultima volta che avrebbe visto Sage. Dovevano farlo, si rammentò mentre posava la mano sulla maniglia. Perché un piccolo dolore quel giorno avrebbe evitato un'operazione a cuore aperto in seguito. Non aveva bisogno di lei. Non aveva bisogno di nessuno. Non aveva mai avuto bisogno di nessuno.
Sage, seduta su uno scalino a metà della rampa, vide Linc aprire il portone della Tana e guardò attraverso la balaustra verso l'ingresso, dove Tyce stava entrando nella casa dove lei era cresciuta. Ci siamo, considerò. Ora o mai più. Sapeva che se non avesse chiesto ciò che desiderava, non avrebbe avuto alcuna possibilità di ottenerlo; che se non avesse mosso il primo o sarebbe rimasta sempre nello stesso punto. Era un concetto facile da assimilare, tuttavia per are dalla teoria alla pratica ci voleva un coraggio da leoni.
Oddio... stava per mettere a rischio il proprio cuore, il proprio orgoglio, la propria stessa sicurezza... Che cosa diavolo pensava di fare? Era impazzita? Fallo comunque, la esortò una vocina nella mente. Che sia folle oppure no, sicuro oppure no, fallo comunque. Sage si alzò e Tyce sollevò subito lo sguardo, gli occhi pieni di frustrazione e di qualcos'altro che sarebbe potuta essere paura. La mano appoggiata al ventre, lei scese le scale, notando le strisce purpuree che aveva sotto gli occhi. Già, neanche lei aveva dormito molto. «Ehi» esordì fermandosi sull'ultimo scalino, la mano aggrappata alla balaustra. «Ehi.» «Grazie per essere venuto.» Tyce sprofondò le mani nelle tasche dei jeans e scrollò le spalle. «Figurati.» Sentendo dei i, Sage guardò dietro le spalle di Tyce. Oh, cavolo... tutti i parenti si erano radunati nell'atrio, i visi accesi di curiosità. Si aspettavano davvero che mettesse a nudo la propria anima davanti a loro? Non era poi così remota, come possibilità. «Noi usciamo» annunciò però Amy con un campionario di tessuti sotto il braccio. «Dacci cinque secondi per prendere i cappotti e ci togliamo di torno» aggiunse Piper, gli occhi che schizzavano dall'uno all'altro. Tyce però fece un gesto d'invito. «Ma prego, restate pure» li accolse in tono sarcastico. «Quando mai Sage e io abbiamo sostenuto una conversazione di cui voi, in un modo o nell'altro, non avete fatto parte?» Sembrava disinvolto, tuttavia Sage notò la tensione nel suo corpo, la collera nei
suoi occhi. «Questo non è giusto!» protestò d'istinto, poi si trattenne e si concentrò sulla respirazione. Se avessero cominciato a litigare, se avessero aspettato che gli altri se ne andassero, non avrebbe più trovato il coraggio di dire ciò che doveva dire. Ignorando il parentado, Sage si concentrò su Tyce, andandogli incontro e piazzandogli una mano sul cuore. «Mi dispiace. Ho esagerato e ti chiedo di perdonarmi.» Agitato, Tyce infilò una mano tra i capelli e fece un o indietro, spezzando il contatto. Vedendo che lei non proseguiva, inarcò un sopracciglio. «È tutto?» domandò allora indicando la porta. «Perché se è così, sarà meglio che me ne vada. Sono piuttosto a pezzi.» Sage sentì, e ignorò, il sussulto collettivo del pubblico. «No, non è tutto» rispose imponendosi di essere forte. Mettendo le mani dietro la schiena, intrecciò le dita. «Non posso più andare avanti così.» Scelse le parole con cura, una a una. Tyce rispose con un cenno secco del capo. «Già, neanch'io. Piantiamola qui prima che ci scoppi tra le mani.» Oddio. Oh, santo cielo. Sage si posò una mano sullo stomaco nel momento in cui lui disse quelle parole. La stava lasciando? Che cavolo? Resistette all'istinto di battere in ritirata, di accettare la conclusione. Sarebbe stato così facile sorridere, annuire, concordare con la sua valutazione della situazione. Permettergli di andarsene. Tuttavia non era quello che voleva: Sage voleva un amante, un compagno, qualcuno con cui condividere la vita, i momenti importanti e quelli quotidiani. Lo voleva nella sua vita ogni giorno.
Scosse la testa. «Mi dispiace che la pensi così, perché non era quello che intendevo dire.» Tyce corrugò la fronte. «Scusa?» «Non voglio che ci lasciamo; anzi, vorrei che ci mettessimo insieme. Sul serio, in modo permanente.» Lui rimase a fissarla, sconcertato. Sage non sapeva cos'altro aggiungere, come esprimere ciò che sentiva nel cuore, come chiedere ciò che voleva. Non capiva che era disposta a rischiare la propria vita stabile e sicura per una piena di ione, ma anche di incertezza e di rischio? Non capiva quanto fosse difficile per lei trovarsi in quella posizione. Amare qualcuno così tanto e avere paura di essere rifiutata? Parole, supplici e disperate le vennero a galla in gola, ma esplodevano in mille pezzi prima di prendere il volo e tutto ciò che le restava era l'amaro in bocca. Se non avesse parlato, però, se le avesse lasciate morire, se gli avesse permesso di uscire da quella porta senza esprimerle, avrebbe perso per sempre l'occasione. Tyce fece un o indietro e, agendo d'istinto, Sage gli afferrò i lembi della giacca per tenerlo fermo. Lui fece per sciogliere la sua presa, lei però la aumentò e scosse il capo. «Ti chiedo solo di ascoltarmi. Per un minuto, al massimo due. So che sei arrabbiato, ma devi ascoltare quello che ho da dire. Devi ascoltarmi.» «Hai due minuti, non uno di più» borbottò Tyce. «Okay, sarò breve.» Sage prese un profondo respiro e cercò il proprio coraggio. Era troppo importante per sbagliare, tuttavia la lingua non riusciva a modulare le parole. Con voce roca, pronunciò la prima frase.
«Io ti amo. Penso di essermi innamorata di te la prima volta che ti ho visto, e non ho mai amato nessun altro. Mai. Ti voglio, Tyce. Voglio che stiamo insieme. Tu, io, il nostro bambino... una famiglia.» Lui non reagì, rimase immobile come una statua. «Sii la mia famiglia, Tyce, dentro questa famiglia. Sì, i miei fratelli possono essere pressanti, tu, però, sei perfettamente in grado di tenerli a bada.» Ancora nessuna risposta. Sage rilasciò il fiato, lasciò cadere le mani e fissò il pavimento. «Se il mio amore non è abbastanza, allora esci da quella porta e comunicheremo riguardo il bambino tramite avvocati.» Era un ultimatum, ma doveva sapere, non poteva vivere con i forse e le possibilità. O Tyce la amava, oppure no. O voleva una vita con lei, oppure no. In effetti era una scelta piuttosto semplice. Tyce scosse il capo. Le sue parole, quando alla fine parlò, furono come acido gettato sulla sua anima. «Non funzionerebbe, Sage. Mi dispiace.» «Stai dicendo che questa volta sei tu ad allontanarmi?» Lui annuì. «È più facile stare da soli... lo sappiamo entrambi.» Con la coda dell'occhio, Sage vide la mano di Tate scattare sul braccio di Linc, che aveva fatto un o avanti. Sul serio? Il fratello pensava di poter costringere Tyce a restare? Scioccata, Sage osservò Tyce che apriva la porta d'ingresso con uno strattone. Si fermò sulla soglia, però, e lei provò un sollievo immediato, un moto di speranza. Forse aveva cambiato idea. Forse era disposto a concedere loro una possibilità. Invece che tornare da lei, però, Tyce si rivolse a Linc. «È giusto che tu sappia che, non so come, alcuni membri della stampa hanno avuto informazioni su Lachlyn, sulla Lach-Ty e sul suo legame con Connor. Gestisci l'informazione come meglio credi.» «Tyce...» Linc fece un o avanti, ma Tyce scosse il capo e uscì. Sage fissò la porta a lungo prima di voltarsi verso la sua famiglia. Cercò di sorridere, ma sentiva il mento che tremava, le lacrime che le rigavano il viso.
«Allora» cominciò cercando un tono spigliato, ma fallendo miseramente, «qualcuno sa dirmi cosa posso fare di questo immenso vuoto sanguinante che mi ritrovo al posto del cuore?»
In piedi davanti alla tela, Tyce rilasciò una violenta imprecazione e con tutta la forza che aveva, lanciò la tavolozza, che andò a rimbalzare contro la parete. Infastidito e frustrato, colpì con un pugno il grande dipinto astratto blu prima di infilarsi le mani nei capelli. Doveva uscire da quello studio, da quel magazzino. Non poteva pensare, lì dentro, non poteva creare, non poteva dipingere. I ritratti di Sage erano tutti voltati verso la parete, però lui sapeva che erano lì ed era costantemente tentato di girarli, di gettar via minuti e ore a guardare quello splendido viso, a ricordare come si erano amati. Decisione tua, idiota. Erano ate due settimane da quando l'aveva vista e aveva sentito la sua mancanza ogni minuto di ogni giorno. La notizia che Lachlyn era una Ballantyne era stata rilasciata alla stampa e i media erano impazziti, come si era aspettato. Per fortuna, non si faceva nessun accenno alla gravidanza di Sage. Aveva chiamato la sorella per controllare che stesse bene, per chiederle se aveva bisogno il suo aiuto per gestire la faccenda, ma lei si era trasferita alla Tana e aveva anche saputo che Linc aveva ingaggiato una guardia del corpo che la accompagnasse ovunque finché l'assalto dei giornalisti non si fosse placato. I media si erano accampati fuori dal suo magazzino per mezza giornata, tuttavia la pioggia mista a neve che era caduta li aveva rispediti nei loro buchi. Tyce doveva uscire di lì, prendere una boccata d'aria fresca. Era ormai sulla erella quando sentì delle voci sotto di lui. «Sapete che questa è violazione di domicilio, vero? Potremmo essere arrestati per questo.» Tyce riconobbe immediatamente la voce di Beckett, perciò appoggiò i gomiti alla balaustra e aspettò di vedere quali fossero le loro
intenzioni. Una voce che non aveva mai sentito prima replicò in tono laconico. «Io potrei essere arrestato e potrebbero revocarmi la licenza di investigatore privato, dato che sono stato io a forzare la serratura.» Linc procedette più addentro nel magazzino, seguito da Jaeger e Beckett e, buon ultimo, da un tizio che Tyce non riconobbe. A differenza dei fratelli di Sage, gli occhi dell'uomo, con tutta evidenza un ex militare, schizzavano da una parte all'altra alla ricerca di possibili minacce. Ci mise pochi secondi a individuare Tyce sulla erella. Il tizio gli fece un cenno col capo. «Di chi è stata quest'idea cretina?» borbottò Jaeger. «Mia» rispose Linc, la voce dura come la pietra. «Sono stufo di come stanno le cose e ho intenzione di sistemarle. Non mi interessa se ha sei cinture nere e una spada laser, quell'imbecille dovrà ascoltarci. Se perché succeda uno di noi dovrà prendersi un sacco di botte, okay.» Tyce inarcò un sopracciglio alla rabbia che percepì nella sua voce, ma rimase comunque in silenzio. «Parla per te» commentò Jaeger. «Può pensarci Reame» aggiunse Beck. «Non mi avevate parlato di cinture nere» osservò Reame divertito, prima di alzare lo sguardo verso Tyce. «È vero?» Tyce quasi sorrise quando tre teste scattarono verso l'alto. «Due. Taekwondo e Krav Maga.» Reame imprecò e alzò le mani. «È tutto vostro» comunicò ai fratelli Ballantyne ma Tyce sapeva chi avrebbe aiutato se si fosse venuti alle mani. Di certo non lui... come sempre, era solo. «Che cosa diavolo volete?» domandò loro. «E cos'è così importante da irrompere
in casa mia per dirmelo?» «Nessuna irruzione, solo violazione. Io sono Reame Jepson, per la cronaca.» Aveva sentito parlare del vecchio amico di Linc, l'uomo che i fratelli Ballantyne conoscevano da quando erano bambini. Non solo erano grandi amici, ma la ditta dell'ex soldato si occupava della sicurezza per la Ballantyne & Company, oltre che di molte altre importanti aziende. Tyce gli rivolse un breve cenno del capo ma tenne gli occhi inchiodati su Linc. «Dite quello che avete da dire, e poi andatevene dal mio magazzino.» Linc annuì. «Okay. Questo è quello che devi sapere: Sage ti ama.» L'aveva detto lei stessa e forse ne era convinta, però non era abbastanza. L'amore, il sesso, l'attrazione fisica non erano abbastanza. Era più facile, più sicuro stare da soli. «E allora?» «Siamo venuti qui perché mia sorella sta malissimo e sembra un cadavere.» «Di nuovo, e allora? Che cosa volete che faccia?» «Mi sembrava che avessi detto che era sveglio» considerò Reame rivolto a Jaeger. «Mi sono sbagliato» rispose l'altro. «Ha il cervello di una gallina.» Linc borbottò un'imprecazione e sollevò le mani in aria. «Possiamo concentrarci, per favore?» Quindi si pizzicò la radice del naso. Ripreso il controllo, tornò a rivolgersi a Tyce. «Quello che io, noi vogliamo che tu faccia è dirle che la ami e poi comunicare al mondo che sei entusiasta di essere il padre di suo figlio. Voglio poter annunciare che la nostra famiglia sta crescendo e che siamo felici che tu e Lachlyn ne facciate parte. In realtà, però, io... noi vogliamo semplicemente che Sage sia felice.» Tyce si sentì come se fosse stato colpito da un acero canadese. Rimase a fissare Linc, cercando di assimilare le sue parole. Sapeva che Linc era felice di accogliere Lachlyn come parte della famiglia, tuttavia non aveva mai pensato che i fratelli di Sage potessero pensarla allo stesso modo su di lui.
Jaeger si schiarì la voce e gli occhi di Tyce si posarono su di lui. «Hai mai considerato che magari ti sei sforzato tanto per trovare una famiglia a Lachlyn perché eri tu che, inconsciamente, ne avevi bisogno? Magari hai proiettato su di lei il tuo bisogno di avere una famiglia.» «Ah, andiamo sul profondo» lo prese in giro Reame, sollevando un angolo della bocca in un sorrisetto divertito. «Taci, cretino» borbottò Jaeger. Tyce ignorò quel battibecco, considerando invece l'osservazione. C'era qualcosa di vero, in quello che aveva detto Jaeger? Si aggrappò alla balaustra mentre considerava la domanda e si ritrovava davanti l'ovvia verità: sì, anche lui avrebbe voluto far parte di una famiglia, avrebbe voluto avere delle persone alle quali appoggiarsi, persone che lo avrebbero difeso, che avrebbero lottato per e con lui. Era abituato a camminare da solo, a combattere le sue battaglie. Era quello che sapeva fare, che lo metteva a suo agio, e quando Sage gli aveva offerto qualcosa di più grande, qualcosa che lui non sapeva come gestire, l'aveva stroncata sul nascere. Aveva pensato che, un giorno, sarebbe andato tutto bene. Dopotutto, sapeva come far parte di un esercito di un solo uomo. Invece le cose non stavano affatto andando bene e voltarle le spalle gli aveva strappato il cuore e l'anima in due. Non per essere melodrammatici, certo. «Hai idea del coraggio che le ci è voluto per aprirsi così, per chiederti qualcosa di più?» lo provocò Linc. «Non fa che allontanare le persone» protestò allora Tyce, cercando di aggrapparsi a uno specchio che però non gli dava alcun appiglio. «Certo, finché non ti ha chiesto di entrare sul ring con lei. Non hai ancora capito che quando Sage spinge più forte è quando vuole che l'altro spinga con altrettanta forza, che non accetti un no come risposta?» Jaeger gli rivolse un sorriso arrogante. «Sarà anche nostra sorella, ma è un ottimo partito, Latimore. E tu te la sei lasciata scappare? Sei un idiota.»
Il pugno di Linc finì sul braccio del fratello. «Così non sei di nessun aiuto.» Tyce non stava prendendo nota della discussione sotto di lui. Era come se Linc gli avesse offerto un nuovo paio di occhiali e il mondo che prima era sfocato e confuso apparisse tutt'a un tratto definito alla perfezione. Le parole di Linc gli riverberarono nel profondo, perché erano la pura verità. Sage aveva abbandonato la propria zona di sicurezza per chiedergli di amarla e, per la miseria, adesso finalmente poteva apprezzare il suo coraggio. Con quella nuova presa di coscienza, gli ultimi pezzi del puzzle che costituivano l'intera immagine del suo unico amore, andarono a posto. Sage era quella giusta, quell'indefinibile, straordinaria parte migliore della sua anima. Doveva andare da lei, sistemare le cose, ma... Diavolo. C'era una più che concreta possibilità che avesse mandato all'aria tutto, che lei si sarebbe rifiutata di accoglierlo di nuovo nella propria vita. Tyce raddrizzò le spalle, rinvigorito dalla determinazione. Al diavolo tutto quanto. Lui la amava e Sage aveva bisogno qualcuno che la sostenesse con altrettanta forza, e che non accettasse un no come risposta. Era lui quel qualcuno. Aveva fatto a pezzi il sistema per tutta la vita tuttavia, in un momento emblematico, si era lasciato alle spalle la cosa più importante che gli fosse mai capitata. Jaeger, una volta tanto, aveva ragione: Tyce era un idiota. Percorse la erella e scese le scale, andando a fermarsi davanti a Linc. «Ci sono arrivato.» «Arrivarci è una cosa, ma hai intenzione di agire a riguardo?» Tyce annuì. «Assolutamente sì.» Beck si schiarì la gola e gli rivolse un sorriso che gli fece venire la pelle d'oca. «Buono a sapersi. Ora, c'è solo un'altra piccola faccenda...»
«E sarebbe?» Jaeger inclinò la testa. «Hai fatto piangere Sage» gli ricordò, con la stessa voce che avrebbe potuto usare per ordinare un caffè. Oh, diavolo. Avevano detto che l'avrebbero fatto a pezzi se l'avesse fatta piangere e, a giudicare dalle loro espressioni, aveva pianto parecchio. Be', era un combattente. Poteva anche incassare tre pugni. Una volta sistemata la questione, avrebbero potuto tutti voltare pagina. «Che diavolo» borbottò davanti ai tre fratelli Ballantyne, preparandosi psicologicamente ai colpi. «Okay, fate quello che dovete.» Jaeger e Beck si scambiarono un'occhiata e Reame si limitò a sogghignare. Jaeger alzò un sopracciglio, gli occhi scuri e gelidi. «Sistemerai le cose con Sage?» Tyce annuì. «L'ho già detto, no? Sì, sistemerò le cose.» Dannazione, aspettare un pugno era peggio del pugno stesso. «Se le farai male di nuovo, scateneremo Reame e sappi che è un autentico bastardo con capacità da non credersi. Farà dei danni» aggiunse Beck, facendo eco all'atteggiamento gelido del fratello. «Afferrato.» Annuì di nuovo, quindi si voltò verso Linc, sollevato di aver evitato di essere preso a pugni dai fratelli di Sage che avevano la testa più calda. Erano stati più comprensivi di quanto sarebbe stato lui se qualcuno avesse fatto del male a Lachlyn, tutto considerato. Linc appariva come sempre, calmo e controllato. Okay allora, botte schivate. Tyce tirò il fiato, fece per togliere le mani di tasca, pensando di invitarli di sopra. Il cazzotto arrivò dal nulla, impattando contro la mascella e facendolo cadere all'indietro, il sedere che finiva sul cemento freddo e decisamente duro. Per la miseria, faceva male eccome. Tyce alzò gli occhi su Linc, che aveva stampato in faccia un sorrisetto soddisfatto.
Okay, questo non l'aveva previsto, considerò massaggiandosi la mascella. «Fa un male cane» si lamentò. «Meglio.» Linc gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi. «Hai del caffè? Abbiamo ancora degli affari di cui discutere prima che tu torni strisciando da Sage. E dovrai strisciare.» «Striscerò» confermò Tyce, accettando il suo aiuto per rialzarsi. «Quali affari?» Linc indicò i fratelli. «Ti ripaghiamo di quanto hai speso comprando delle quote della Lach-Ty. Abbiamo ereditato il denaro di Connor e lo spenderemo per rimborsarti, perché quelle quote sarebbero andate comunque a Lachlyn. Aggiungeremo anche il suo nome come comproprietaria dei beni che possediamo in maniera congiunta, come la collezione d'arte, le proprietà e la collezione di gioielli.» Per la miseria, adesso sì che vedeva le stelle. Tyce esercitò la mascella e li condusse su per le scale. Non era ancora sul secondo scalino, però, che gli venne un'idea. «Se ve lo chiedo, pensate di riuscire a portare Sage in un posto?» «È possibile» rispose Linc. «E invece che rimborsarmi il denaro speso per le quote, potremmo fare uno scambio?» «Che genere di scambio?» intervenne Jaeger, lo sguardo ancora divertito. Già, ci avrebbe messo un po' per far scordare quel pugno. «Nella vostra collezione di famiglia c'è un diamante rosso che Sage adora. Preferirei avere quella pietra che il denaro, perché vorrei mettere quell'anello al dito di vostra sorella.» Linc lo scrutò un istante, poi si voltò verso i fratelli. Ci fu una sorta di comunicazione silenziosa perché alla fine annuì. «Penso che potremo metterci d'accordo.» Reame era l'ultimo in fondo alla fila e Tyce lo sentì ridacchiare. «Devo dire che la vita con voi Ballantyne non è mai noiosa.»
E quella era un'affermazione con cui Tyce poteva essere pienamente d'accordo.
13
Sage non aveva nessuna voglia di andare a una mostra ed era profondamente infastidita con le cognate – purtroppo, i fratelli stavano ando loro le brutte abitudini – che si erano presentate a casa sua e l'avevano praticamente infilata sotto la doccia. Amy era sempre stata prepotente, perciò quella non era una novità. Una mostra d'arte, qualche cocktail e una serata per distrarsi, le avevano detto. Solo loro cinque a godersi Manhattan. Bleah. L'ultima cosa che voleva era are una serata tra ragazze, il cui obiettivo principale era sempre stato trangugiare eccessive quantità d'alcol – cosa che lei non poteva permettersi – per dimenticare i problemi e racimolare il coraggio di ballare e possibilmente baciare il primo bel ragazzo che ava. Sage era incinta, e l'idea di baciare qualcuno che non fosse Tyce le faceva venire la nausea. Quello che voleva davvero era andare al magazzino di Tyce per supplicarlo di rivalutare la sua offerta, per implorarlo di amarla. Stupido cuore, che voleva ciò che non poteva avere. Perciò, senza scuse per potersene restare a casa – essere incinta e depressa non era motivo sufficiente, per le donne Ballantyne – si ritrovava a zonzo per la città, con indosso quello stupido vestito che metteva in bella mostra i seni più prorompenti del normale. «Riportatemi a casa» scongiurò le altre quando scesero dal taxi davanti alla galleria dove lei e Tyce si erano incontrati di nuovo qualche mese prima. Poi corrugò la fronte, rivolgendosi a Piper. «Perché siamo qui? Non c'è alcuna mostra, sul programma. E perché le luci sono spente?» «È l'installazione di un artista norvegese, qualcosa che ha a che fare con la bioluminescenza» spiegò Piper, infilandole la mano sotto il braccio. «Dev'essere tutto buio per comprendere l'effetto delle opere.» «Non ci voglio andare» piagnucolò Sage, puntando i piedi e guardando malinconicamente il taxi. «Sono stanca, ho le caviglie gonfie e mi fa male la schiena.»
Okay, stava facendo i capricci, tuttavia proprio non se la sentiva di avere a che fare con l'arte. Qualsiasi tipo di arte. Era chiedere troppo essere lasciata in pace per poter curare il cuore sanguinante? La mente era piena di Tyce... Ricordi di ciò che avevano fatto e si erano detti continuavano a ripetersi senza sosta nella sua testa, e tornare in quel luogo, dove si erano rivisti, era davvero troppo, per lei. Le mancava da impazzire, tanto che le sembrava di andare in giro con solo metà del proprio cuore nel petto. «Non sei abbastanza in là nella gravidanza per lamentarti delle caviglie gonfie e del mal di schiena» la riprese Cady, piazzandole una mano sulla schiena per sospingerla verso la porta. «E non aspetti due gemelli, perciò non mi fai nessuna pena» rincarò Piper. Tate strofinò il pancione della cognata e sorrise. «Un quarto d'ora, Sage, e poi ti portiamo dovunque tu voglia andare.» A quelle parole, lei raddrizzò le antenne. «A casa?» «Se è quello che vuoi» replicò Tate mentre salivano gli scalini dell'ingresso. Aprì la porta e si fece da parte per lasciarla entrare nel buio della galleria. Sage spalancò gli occhi nella totale oscurità: alcune installazioni moderne erano semplicemente ridicole, e nel tentativo di fare qualcosa di diverso e di fantasmagorico si scordavano la praticità. Come avrebbe potuto apprezzare delle opere d'arte se non riusciva a vedere a un palmo dal naso? Chiunque avrebbe potuto inciampare, andare a sbattere contro altra gente... E a proposito, perché non sentiva alcun mormorio? Perché la sala era così silenziosa? La luce inondò lo spazio e Sage sbatté le palpebre, gli occhi che avevano
bisogno di un attimo di tempo per ritrovare il fuoco. Be', questo di sicuro avrebbe rovinato l'impatto della luminescenza. D'istinto, si voltò verso destra, verso il punto dove aveva trovato Tyce e spalancò gli occhi nel vedere il grande dipinto astratto blu appeso alla parete. Ritraeva la sagoma di quelli che sembravano la schiena e il sedere di una donna, e sulla destra di dove sarebbe dovuta essere la testa c'era uno strappo chiaramente provocato da un pugno. Sage sussultò, riconoscendo la tela contro la quale Tyce l'aveva spinta quando aveva fatto l'amore con lei nel suo studio. Respirando appena, si guardò intorno, lentamente, e quando notò le altre opere appese alle pareti, la stanza cominciò a girare. Esposti c'erano tutti i ritratti fatti da Tyce, una buona parte dei quali aveva lei come soggetto. Ce n'erano alcuni della madre, altri di Lachlyn, molti di newyorkesi qualunque – dalla gente di strada ai musicisti, ai camerieri – ed erano tutti eccezionali. Il grande dipinto astratto blu e i ritratti, avevano tutti il cartellino Non in vendita. Sage si prese il viso tra le mani, meravigliata dal suo talento. Era una piccola esposizione, messa insieme in modo rapido e sbrigativo, ma proprio per questo era ancora più efficace. Non era una mostra studiata e patinata, era spartana e... aperta. Questo era Tyce che permetteva al mondo di dare un'occhiata alla sua anima. Mostrare tanta vulnerabilità richiedeva coraggio e cuore. Così tanto cuore. Peccato che lei non lo potesse reclamare per sé. Sage sentì dei i alle proprie spalle e si voltò a guardare Tyce che attraversava la stanza diretto verso di lei, le mani nelle tasche di un paio di eleganti pantaloni neri, la camicia bianca infilata nella cintola. Dio, era così bello. E virile. Essenziale e determinato, con gli occhi enigmatici e l'espressione forte. Il primo istinto fu di gettarsi tra le sue braccia, di complimentarsi per la sua arte, di chiedere perché aveva deciso di mettere in mostra i ritratti. Perché in quel momento? Perché in quel luogo, che era un ricordo del loro
ato? Poi rammentò che quello era l'uomo che aveva rigettato il suo amore, che aveva rifiutato il suo cuore. Non sapeva perché si trovava lì. Le sue cognate si erano cacciate in un bel guaio. Sopraffatta, si voltò di nuovo e si incamminò verso la porta, le lacrime che le bruciavano gli occhi. «Per favore non piangere. E per favore non andartene» le chiese Tyce a bassa voce, e lei sentì la commozione e l'incertezza nella sua voce. Si fermò, ma continuò a dargli la schiena, asciugandosi furiosamente le lacrime con le dita. Sage sentì le sue mani grandi sulle spalle prima che lui gliele fe scivolare sulle braccia e la abbracciasse, stringendola a sé. «Per favore, non andartene» ripeté in un sussurro, la bocca vicina alla sua tempia. «Perché dovrei restare?» «Dovresti restare...» La sua voce le riverberò nell'orecchio, «perché sono il peggior idiota al mondo per averti lasciato andare, prima e ora. Dovresti restare perché tu rendi il mio mondo più brillante, le mie idee più chiare, la mia vita più felice. Dovresti restare perché abbiamo un figlio da crescere e vorrei che lo fimo insieme.» Sage sentì le prime scintille della speranza e le stroncò spietatamente. Si divincolò tra le sue braccia e lui la lasciò andare. Appariva stanco, tirato, il viso più pallido del solito. Gli occhi luccicavano di incertezza e preoccupazione e di un'emozione che andava ancora più a fondo. Poteva essere... poteva essere amore? «Mi dispiace di non essere stato coraggioso.» Tyce le prese il viso tra le mani e la baciò dolcemente, le labbra che offrivano una rapida carezza. Sage voleva di più e, a giudicare dalla tensione nel suo corpo, anche lui, ma si tirò indietro e sollevò la bocca dalla sua. «Voglio che smettiamo di sperare e di sognare e che diventiamo qualcosa di più.» Sage rimase a fissarlo, senza capire. «Ti voglio nel mio letto e nella mia vita, voglio che tu sia la prima persona che vedo ogni mattina e l'ultima che vedo ogni sera. Voglio che sia così per il resto della vita. Voglio che nostro figlio, o i nostri figli, corrano in camera nostra e saltino sul letto, tra le nostre braccia. Voglio che ci sia un noi, Sage. Tu e io. Ho
bisogno di te.» Diavolo, si sentiva così lusingata, così affascinata dal suo coraggio di aprirsi di nuovo a lei. «So che il tuo istinto ti dice di cacciarmi via, Sage, tuttavia ti chiedo di non farlo. E ti comunico che se lo fai, se lo farai, ogni volta che lo farai, io ti stringerò un po' più forte, ti amerò un po' di più.» Tyce le scostò i capelli dalla fronte per appoggiarvi la sua. «Ancora una volta, Sage. Ti prego. Sii coraggiosa, per noi. Corri il rischio con me.» «Tyce.» Gli afferrò le braccia, la testa che le girava. «È un altro no?» le domandò allora lui, la preoccupazione negli occhi. No, non preoccupazione, vera e propria paura. «No, non è un no. Cioè... sì. Ti prego.» Sage sapeva che stava facendo un gran pasticcio con le parole e maledì la propria lingua. «Dovrai essere un po' più chiara di così, tesoro.» Sì, se ne rendeva conto. Aggrappandosi alle sue braccia per sostenersi, alzò gli occhi sul suo bel viso, quello che le era mancato così tanto. «Sarò coraggiosa. Non ti caccerò via, promesso.» «E tu mantieni sempre le tue promesse» mormorò Tyce mentre gli occhi tornavano a brillare. «Prometto di amarti, sia che davanti a noi ci siano sei settimane, o sessant'anni.» «Io voto per i sessant'anni» dichiarò lui senza esitazione. Sage sollevò le braccia per cingergliele intorno al collo. Tyce le baciò la tempia, la guancia, l'angolo della bocca mentre lei mormorava le parole che aveva bisogno di dire, che lui aveva bisogno di sentire. «Ti amo. Mi sei mancato. Mi dispiace così tanto averti ferito.» I loro baci erano dolci, gentili, un semplice pregustare il nuovo inizio, per avere un'idea del sapore che aveva l'amore alla luce del sole, invece che nell'ombra. La
ione si fece sentire, ma entrambi la tennero a bada; ci sarebbe stato tempo più tardi, per la ione. Quello era qualcosa di nuovo, qualcosa che aveva bisogno di un po' d'attenzione, di un po' di cura. Cinque, dieci o venti minuti dopo, Tyce staccò la bocca e le mani da lei, ma continuò a tenerla stretta a sé. Sage gli appoggiò la guancia sul petto e sospirò. Era esattamente dove voleva essere. Tyce le accarezzò i capelli. «Dobbiamo comunque parlare, tesoro.» Lei storse il naso. «È proprio necessario? Mi piace stare così.» Con gli occhi che risplendevano quanto un sole, Tyce le sorrise. Quelle ombre se n'erano andate ed era ora che fosse così. «Anche a me, tuttavia ci sono un sacco di persone nel retro che aspettano e staranno cominciando a preoccuparsi.» «Cosa? Chi? Carol e i suoi assistenti?» domandò Sage, pensando alla direttrice della galleria e al suo staff. Poi indicò le pareti. «E questa è una vera mostra? Hai intenzione di vendere i tuoi ritratti?» Tyce si guardò intorno. «Sì, credo di sì. Pensi che farei meglio a tenere un profilo basso o ad affidarli a una galleria importante?» «Mi piace così» rispose Sage, procedendo nel mezzo dalla sala, ma tenendo la mano nella sua. «Penso che i ritratti abbiano bisogno di uno spazio più contenuto, più intimo. Penso che dovresti lasciare tutto così com'è ma...» aggiunse indicando il dipinto astratto, «quello deve sparire.» Gli rivolse un'occhiata divertita. «Pensavo fossimo d'accordo che non avresti mai più esposto niente che fosse connesso alla nostra vita sessuale.» Tyce la prese di nuovo tra le braccia. «Quello resta. Mi fa ridere.» «È orribile, Tyce» protestò lei. «Già, però tutti si chiederanno cosa c'entra e tireranno fuori ogni sorta di idea folle come spiegazione e solo tu e io sapremo la verità.» Lasciare quell'orribile dipinto alla parete era il suo modo di dire a lei, e al mondo, che finalmente era sicuro del proprio talento come artista, del proprio
posto nel mondo. «Perché c'è quel buco?» volle sapere. «Ce l'avevo di fronte, e stavo pensando a te, ed ero così arrabbiato che gli ho sferrato un pugno.» «A proposito di pugni, perché hai un livido sulla mascella?» indagò socchiudendo gli occhi. «Oh, questo è un regalo di tuo fratello» rispose Tyce disinvolto. «Jaeger ti ha preso a pugni?» «No, è stato Linc, ed è successo cinque minuti prima che mi dicesse che i Ballantyne intendono ripagarmi le quote che ho comprato per Lachlyn. È stata una tua idea?» «Se Connor avesse saputo di lei, quelle quote le avrebbe avute comunque. Il denaro dovrebbe venirti liquidato nel giro di un mese. Linc te l'ha spiegato?» Con la mano lui le accarezzò la schiena. «Sì, be', in realtà il mio conto in banca non cambierà di molto.» Sage indietreggiò di un o e si piazzò le mani sui fianchi. «Che cosa vorresti dire? Abbiamo firmato tutti i documenti per liquidare i beni per il trasferimento.» «Già» confermò Tyce infilando le mani in tasca, «ma parte di quella cifra ritornerà immediatamente nelle casse della Ballantyne. O meglio, Linc e io ne stiamo ancora discutendo. Lui sostiene che l'oggetto in questione ti appartiene, che è giusto che sia tu ad averlo, io però insisto a volerlo pagare.» Oggetto? Quale oggetto? Di che cosa stava parlando? Tyce aprì la mano e Sage abbassò gli occhi sul piccolo involucro di seta bianca che aveva nel palmo. «Cercare di acquistare un anello per un'artista orafa è un incubo, perciò ho pensato di cavarmela con un'alternativa.» «Un anello?» ripeté lei, intontita. Stava facendo la figura della sciocca, lo sapeva, tuttavia non riusciva a credere alle proprie orecchie.
Tyce aprì l'involucro e rivelò lo splendore dell'anello a fiore con il diamante rosso. «Come questa pietra, tu sei rara e preziosa e mi fai mancare il fiato. Sage, ti prego, vuoi sposarmi?» Sage fissò l'anello, le lacrime che le bruciavano gli occhi. «L'anello di mia mamma... Oh, mio Dio, Tyce, quello è il diamante rosso di mia madre!» Allungò il braccio per afferrare il gioiello, ma lui chiuse la mano a pugno. La testa che scattava verso l'alto, lei vide il luccichio malizioso nei suoi occhi. «Voi Ballantyne... Vedete delle pietre preziose e subito tutto il resto sparisce.» Tyce le dondolò il pugno chiuso davanti al viso. «Dimmi di sì e potrai avere l'anello.» «Mi stai comprando?» domandò Sage, sorridendo, la mano che gli stringeva il pugno. «A quanto pare. Allora, mi sposerai per avere l'anello di tua madre?» Sage gli prese il viso tra le mani. «Ti sposerò perché sono innamorata persa di te ed è così che voglio restare per il resto della mia vita. Perché non riesco a immaginare di stare con chiunque altro non sia tu.» Sorrise, provocandolo. «Comunque non posso mentire, l'anello contribuisce.» Tyce la baciò, le labbra che si curvavano contro la sua bocca. «Posso accettarlo. Ti amo, piccola.» «Era ora!» Sage si voltò di scatto verso i fratelli, le cognate, Amy, Reame e Lachlyn, tutti che stavano uscendo dal locale sul retro, gli uomini con le bottiglie di champagne in mano e le donne con i bicchieri. Dopo aver abbracciato Lachlyn – aveva una sorella, che bello! – Sage socchiuse gli occhi e fissò Tyce. «Perché sono qui?» «Ho avuto bisogno del loro aiuto per organizzare il tutto, per farti venire qui» spiegò lui alzando le spalle. «A quanto pare, possono anche servire a qualcosa.»
Sage percepì l'affetto sotto quel sarcasmo e capì che lui e i suoi fratelli sarebbero andati d'amore e d'accordo. Lei, invece, non altrettanto. Si avvicinò a Linc e gli puntò un dito sul petto. «Cosa diavolo ti è ato per la testa? Prendere a pugni Tyce... Sul serio, che ti è preso?» Linc non si scompose. «Se lo meritava.» Quindi le baciò la guancia e la abbracciò. Mentre ricambiava l'abbraccio, Sage però lo sentì irrigidirsi. Si ritrasse e vide che stava fissando il dipinto a olio. «Che cos'accidenti è quello?» domandò. Jaeger piegò la testa da una parte prima di rivolgere a Tyce un'occhiata confusa. «Non ci arrivo, Latimore. Ti pagano per questa spazzatura?» Tyce e Sage si scambiarono un'occhiata piena di ciò che si sarebbero ripetuti per tutta la vita. Ti amo. Sei splendido. Non vedo l'ora di averti. Tyce scoppiò a ridere e scrollò le spalle. «Proprio così. Strano ma vero.» «Come si chiama?» indagò ancora l'altro, avvicinandosi alla parete per ispezionarlo da vicino. Gli occhi di Sage non si spostarono dal viso di Tyce mentre rispondeva. «Si chiama Amore, perso e ritrovato.» L'espressione di Tyce si scaldò e si addolcì nel sentire la sua risposta. Finalmente, Sage aveva trovato il suo guerriero e, per la miseria, era una sensazione straordinaria. «Voi Ballantyne siete proprio strani» commentò Reame stappando la prima bottiglia di champagne. Si rivolse a Lachlyn e inarcò le sopracciglia. «La loro pazzia è molto contagiosa. Ti conviene scappare, prima che sia troppo tardi.» Tyce gli sorrise divertito. «Non è pazzia, è amore.» Spostò l'attenzione da Reame a Lachlyn e nel suo sorriso comparve qualcosa di diverso. «Voi due dovreste
provarlo... Non è così male.» Reame e Lachlyn inorridirono entrambi, e Sage sorrise alla loro espressione. In effetti, a pensarci bene, la sorella e l'uomo che lei considerava una sorta di quarto fratello stavano proprio bene insieme...