La Maledizione Del Drago 554q16

Carlo Milani La maledizione del Drago

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© 2012 Carlo Milani

A Uffern nascono strani bambini

Quando dodici anni prima era stata condannata all’Isola Sacra, con in tasca una ricca dote e le raccomandazioni del padre sul buon nome della famiglia, la prima cosa che le avevano insegnato era stata l’arte dei nodi. Eileen sapeva, o meglio a quel tempo poteva solo immaginare, che sarebbe stata adottata da muri di carta, piogge d’incenso e sonnacchiose preghiere. Il ricordo più piacevole dei primi anni, le mattine in cui i novizi si mettevano in fila come tanti gabbiani sul molo ad ascoltare i marinai: vecchie barbe bianche, impazienti con i rampolli di nobili badeliani che non avevano mai respirato l’odore di un’onda o trattenuto il respiro di una risacca.

Anni più tardi, quando moline e scorsoi erano ormai filastrocche per le dita, le erano stati rivelati i fili invisibili che intersecano il mondo degli uomini e degli Dei. Fili che si potevano tessere e disfare, con il canto e la musica, o il muto linguaggio dei boschi, delle pietre e delle acque cristalline.

“Stringendo un nodo si lega il destino di qualcosa, scioglierlo significa libertà. Si viene al mondo con un nodo. Anche stanotte” rifletté prima di chiedere alla sua piccola guida di fermarsi e abbassare la torcia.

L’oscurità si era già mangiata tutto. Dai tetti delle case che non fumavano da un pezzo, alle cime degli alti fusti, che parevano braccia di giganti minacciosi quando gli scherzi del vento si rincorrono tra le fronde.

Con la punta del bastone tracciò davanti all’uscio un segno, né grande né piccolo, e lo racchiuse in un cerchio, il più perfetto possibile. Arò ancora due volte i solchi, da nord a sud, da sud a nord, e pronunciò il nome segreto della

Dea.

Dalla casa giunse un grido atroce.

— Resta qui e fai entrare solo il padre — ammonì la bambina che, spaventata, si era ritratta.

Le si aprì un’ampia sala, riscaldata da un fuoco adulto che gettava le sue ombre su un arredamento semplice ma curato. Una vecchia era curva su un calderone, tra le mani un rametto di vischio. Un’altra donna, dai lunghi capelli sciolti sulle spalle, la salutò squadrandola da capo a piedi. Teneva per mano la ragazza, asciugandole con un panno la fronte imperlata di sudore. Avevano inclinato il letto sistemandoci sotto la testa una vecchia cassapanca annerita.

— Come ti chiami? — Eileen le accarezzò la guancia. I segni del dolore solcavano una bellezza ancora acerba: dimostrava non più di sedici primavere.

— Gwennifer — rivelò un sussurro appena distinguibile.

Eileen piegò l’angolo della bocca in una smorfia. — Datele subito della verbena, non ha le forze per reggere fino in fondo.

— Il vischio è quasi pronto. Altro non occorre, figliola — ribatté la vecchia, piegando l’ultima parola tutto meno che in segno di ossequio.

— Butta quella roba. Pesta insieme una misura di foglie di camomilla con tre di lampone. Aggiungici anche un po’ di miele all’infuso — rispose tastando il collo della giovane. Vedendo che l’altra non si muoveva, picchiò il bastone bianco sul pavimento. — In nome di Aurora, non avete fatto chiamare una levatrice?

La vecchia brontolò qualcosa nel suo dialetto ruvido e andò a rovistare nella dispensa. Solo allora Eileen si accorse che tutti i cassetti della casa erano aperti. Scuotendo il capo, prese dalla veste un fazzoletto e legò i capelli a Gwennifer, che aveva ripreso a gemere più forte.

— Quando sentirai il pianto del tuo bambino tutto questo strazio si muterà in gioia, e tu ti trasformerai in madre. Ogni bimbo nato è una nuova speranza per il mondo, e per molti il riscatto di un'esistenza — cominciò a dirle mentre le asciugava la fronte. In un angolo era pronta la culla, il fondo cosparso di petali di rosa e altri fiori.

— Come si chiama?

La giovane scosse la testa e rantolò. Eileen cercò invano gli occhi della donna che l’assisteva, la madre probabilmente. Il pallore del suo viso era mortale, non doveva riposare da giorni.

Il silenzio di quella notte più calda del solito era rotto ogni tanto dai versi di qualche rapace o dal latrare nervoso di un cane. Con il are dei minuti, la ragazza era scossa da doglie sempre più frequenti finché prese a urlare.

— Ci siamo. Coraggio Gwen, tu sei più forte — cercò di farle coraggio, e si chiese se non lo stesse dicendo a se stessa. Non era la prima volta che assisteva a

un parto, una figlia della Dea era iniziata a dovere all’arte ostetricia. Ma anche l’ultimo rematore ubriaco avrebbe capito che Kleros aveva messo il piede invisibile in quella casa, e puntava la nera falce sia alla madre che al nascituro.

Gwennifer prese a gorgogliare parole e frasi incomprensibili. In principio Eileen non ci fece troppo caso e le strinse ancora più forte la mano, mentre le altre donne la tenevano da dietro la testa del letto. Un gemito straziante e prolungato invase la stanza finché tutto tacque in un silenzio irreale. Eileen balzò all’indietro, urtando contro il bastone appoggiato alla parete. Si portò una mano alla bocca, inchiodata dal terrore. Le falconer erano scoppiate in un pianto a dirotto, sostenendosi l’una con l’altra. Gwennifer sembrava svenuta. Il petto si alzava appena, ma respirava.

Senza perdere d’occhio la creatura, Eileen s’inginocchiò e recuperò il bastone. Con un’estremità allontanò la bacinella facendo attenzione a non toccare il corpo. Si dimenava e si contorceva in quella culla di sangue e argilla appena sufficiente a trattenerla.

Era una cosa orribile. Eppure sacra, forse un presagio. Cercò l’aiuto delle altre ma la vecchia, gonfiando le guance, la investì con una serie di accuse e d’ingiurie.

— Tu! Sei stata tu a portare la sventura in questa casa, con le tue pozioni, i tuoi segni! Tu non sei figlia della Dea, sei una schiava dell’Ingannatore!

Istintivamente Eileen cercò la porta, la spalancò. Si ritrovò di fronte la bambina che l’aveva svegliata nel cuore della notte e condotta lì, a far nascere quella cosa. Tremava come un fuscello.

— Cos’hai fatto, sciagurata! — esclamò Eileen indicando la runa di Beithe scomposta sotto i suoi sandali.

La piccola corse via, urlando, verso la via principale, dove si distingueva ora un baluginare di torce. Di nuovo le salì l’impulso di fuggire. Era appena stata testimone di un evento immondo, e gli abitanti di questa valle lontana dalla civiltà stavano addirittura incolpando lei. Mentre le fiaccole si avvicinavano e cominciava a distinguere elmi e volti barbuti, chiuse gli occhi e respirò profondamente una, due volte.

“Calma” si disse. “Sono una sacerdotessa e Clareville mi ha affidato una missione, di cui ora inizio a distinguere gli oscuri contorni. Reagire, riportare la luce di Aurora”. Le tornarono le ultime parole dell’abate. “Salvare almeno un’anima”.

Si ripeté meccanicamente queste ultime parole, perché si trasmettessero dallo spirito a tutto il corpo. Stringendo con più vigore il bastone bianco affrontò per prima gli uomini.

— Gwennifer è viva, anche se è molto debole. Devo parlare con il padre del bambino. Se è qui.

— Abbiamo udito grida orrende, visto bambini fuggire — disse il primo della fila, trattenendosi dall’afferrarla per il braccio non appena distinse il Giglio luccicarle sul petto.

— Seguici.

Eileen, invece, gli voltò le spalle e rientrò nella casa. Cercò un sacco di quelli in cui si raccoglievano le sementi e, facendosi coraggio, vi rovesciò il contenuto della bacinella dopo averlo costretto ad attorcigliarsi attorno al bastone. Richiuse il sacchetto con una cordicella e una parola di Potere, augurandosi che bastasse. La grossa serpe si dimenò cercando l’uscita e affondò le fauci inermi nella stoffa.

— Possiamo andare.

Non aveva ancora avuto modo d’incontrare il capo villaggio: Logan delle Zanne era rimasto a caccia tutto il giorno e si era guardato dal cercarla.

La vasta sala era per metà occupata dalla base di un gigantesco tronco attorno al quale avevano edificato la casa. Le pareti di pietra erano ricoperte su un lato da una teoria di scudi di varie effigi. Sulla parete opposta pelli e teste impagliate: cervi, daini, lupi e altre povere vittime.

Logan era là, sul fondo, abbarbicato su uno scranno di legno che a fatica ospitava la sua mole. La stava guardando sottecchi: non si perdeva ogni movimento, una fiera pronta a balzare sulla preda.

Eileen avanzò fino al tavolo, si tirò indietro il cappuccio liberando la massa di capelli, e affrontò il suo sguardo. Padre Robert l’aveva messa in guardia. Quei falconer non l’avrebbero affatto aiutata: erano gente schietta come pietre dure da levigare. Ma questa era la sua missione, e il pagamento del suo debito personale alla Dea.

Alla fine fu Logan a cedere e si avvicinò, a grandi i, sovrastandola in altezza. Una ferita oscena gli solcava il volto. Una lama si era conquistata parte delle labbra, fino a mozzargli la parte destra del naso, così da lasciargli scoperti i denti aguzzi in un ghigno a metà tra il grottesco e l’animalesco.

— Strega! Come osi portare nella mia casa la creatura del Maligno!

Con una rapidità incredibile, staccò da una parete un’ascia. Eileen si ritrasse e levò d’istinto il medaglione d’argento. Con un ringhio Logan abbassò l’arma. Il sacco che reggeva ancora nella destra si gonfiò nervosamente.

— Logan delle Zanne, ascolta bene quanto ti dico poiché non lo ripeterò una seconda volta — cominciò ma la voce uscì meno ferma del voluto. — Non osare mai più puntare un’arma su una sacerdotessa della Madre di tutti, o accusarla di connivenza con il Maligno. Il tuo atteggiamento, i tuoi uomini pronti a prendermi, le donne che assistevano quella poveretta: questo… prodigio non è il primo. Per questo, in nome dell’amore e della responsabilità che hai verso la tua gente, devi raccontarmi cosa sta accadendo in questo villaggio, se vuoi salvarlo.

— Mettilo sul tavolo.

Il tono non lasciava dubbi. Obbedienza o violenza. Anche a costo di commettere sacrilegio. Eileen depose il fagotto sul tronco lavorato e lanciò un grido quando Logan alzò l’ascia e l’abbatté con una potenza impressionante. Una macchia scura cominciò a spandersi sulla tela, sul tavolo, fino a gocciolare sulle assi del pavimento.

— Così finisce la mia vergogna — sospirò. — Ora, sappi che se non sei ciò che

dici di essere ma, come credo, parli alle fiere e ai serpenti, la mia terra sarà l’ultima che vedrai.

— Potente Logan, l’abate di Clareville mi ha inviato qui per aiutarti, non per aggiungere male al male — addolcì la voce e sembrò fare effetto. Estrasse dalla veste un rotolo, ruppe il sigillo di Santa Clare e gli porse la pergamena dal verso sbagliato.

Logan protese le dita dubbiose, come se stesse toccando un animale velenoso. Eileen, riuscendo a mascherare un sorriso, acquistò coraggio.

— Acconsentirai di aiutare la tua gente e riportare la luce di Aurora in questa valle?

Logan si fece più vicino, e ancora, fino a qualche centimetro dal volto. L’odore del vino era insopportabile. Sentì che inspirava nelle narici il suo odore, mentre digrignava le fauci.

— Tu non sei riuscita a impedire questo — indicò la pozza nera di sangue. — Perché devo credere ai tuoi poteri?

Stavolta Eileen temette il peggio. Le si serrò un nodo in gola, non riuscì a spiaccicare parola. Chiuse gli occhi e girò il capo di lato. Quando sentì cigolare lo scranno deforme riprese a respirare.

— Padre Robert deve avere molta fiducia in te per averti assegnato a Uffern.

Oppure non aveva nessun altro da sacrificare — un ghigno osceno lo apparentava più a un cinghiale che a un uomo.

— Se tra cinque soli non mi porterai buone notizie — proseguì tendendo il palmo aperto verso di lei — prega di avere gambe lunghe quanto la lingua, perché sono un bravo cacciatore e non ti salveranno né segni, né ciondoli, né suppliche.

Il suo sguardo parlava più di quanto convenisse a un uomo con un minimo senso di pietà religiosa. Ma non aveva scelto lei il campo della sfida: prima o poi era inevitabile che avrebbe dovuto fare i conti con il capo di Uffern, e purtroppo questi era Logan delle Zanne.

Alberi che piangono sangue

Quando le creste dei monti avevano già separato la linea tra la notte e il giorno e la valle era ancora adagiata sotto una morbida ombra, Eileen tornò alla casa di Gwennifer. Bussò invano per minuti, finché la vecchia rugosa la scacciò in malo modo. Qualsiasi traccia della runa era stata ripulita a dovere. In cambio, su ogni porta e finestra delle case circostanti, si moltiplicavano rametti di vischio.

Le donne che uscivano a raccogliere qualche ceppo dalla legnaia per riaccendere il focolare, o quelle che andavano a mungere le capre per la colazione, non appena la incrociavano abbandonavano le loro faccende e si rifugiavano in casa. Alcune addirittura si segnavano, si segnavano con il segno del Giglio, contro lei che lo portava per voto.

I boschi circondavano il villaggio, tranne sul lato dove si spalancava uno strapiombo sopra il fiume che dava nome all’intera valle. Si tuffò nella macchia quasi di corsa, come quando faceva da piccola per fuggire gli alterchi interminabili dei suoi.

Quando era giunta dalla strada che collegava Uffern al mondo civile, non aveva sperimentato quell’originale sensazione di disagio che ora le scivolava sulla pelle, sotto forma di un brivido cupo e freddo. Percepiva la morte intorno a sé: poteva perfino respirarla, odorarla. Non riusciva a credere ai propri sensi. Eppure quel rosso scarlatto, troppo simile a sangue, eppure le foglie ormai morte che rimanevano aggrappate ai rami come impiccati, erano lì davanti a lei, così maledettamente reali.

Si strinse al bastone, le cui rune avevano il Potere di infondere coraggio. Avanzò

a piccoli i verso i sorbi, tanti appestati al centro di una piazza di sani. Le cortecce grigiastre erano piene di ferite, alcuni avevano perso la chioma in molti punti, come vecchi cui cadono ciocche di capelli in modo disordinato. Ora la corteccia era sollevata, e ciondolava penzoloni come arti morti, ora presentava venature rossastre. Le più profonde, di colore più scuro, erano piene di orribili pustole ed escrescenze. Dentro s’intravedevano spicchi biancastri, come se la malattia fosse giunta a smangiargli le ossa.

Il fenomeno più singolare era che solo una specie era stata colpita. Ontani, faggi, betulle, perfino gli arbusti che crescevano intorno, erano scampati al morbo.

Si avvicinò a un fusto ricoperto di piaghe, e trattenendo il respiro appoggiò il palmo sulla sua pelle rugosa, facendola scorrere, lentamente. Prima ancora di aver richiamato il Potere avvertì subito un lieve calore, come se la pianta scottasse.

Chiuse gli occhi e fece pulizia di pensieri e inquietudini, finché il suo spirito divenne un vaso libero di accogliere il Dono della Dea. Si concentrò sull’albero, sussurrandogli il nome segreto di Aurora. Luce colori e suoni del mondo si dissolsero in un lampo. Si ritrovò in una caverna pervasa dal gemito sommesso di un bambino. Sulle pareti venature cremisi pulsavano di una luce calda e sinistra. Il loro intrico si espandeva in ogni direzione soffocando o contagiando tenui linee verdognole.

Eileen concentrò lo spirito sul proprio centro, per non essere sopraffatta dalle emozioni e perdere la comunione con la pianta. Non c’erano parole umane o arcane da scambiare, ma il muto linguaggio della Madre, quando le basta uno sguardo o una rapida sensazione per capire se il figlio sta male. Il lamento divenne più forte, ed Eileen percepì dentro di sé il dolore che stava provando.

Invocò il Cuore della Dea per farsi Spirito di Vita e sanare quel cancro dall’interno. La sua essenza sprigionò un bagliore bianco, che s’intensificava istante dopo istante, conquistando la tenebra della caverna, illuminando le vene rossastre. Alcune cominciarono a ritrarsi, o a rimpicciolire, mentre le linee verdi acquisivano nuova linfa: si ingrossavano, inglobavano il morbo dentro di sé. Lo spirito di Eileen esultò. Stava invertendo il processo, l’albero stava guarendo!

Fu distratta da qualcosa che proveniva da lontano, un rimbombo cupo che fece tremare le pareti della caverna. Eileen temette che tutto le stesse per caderle addosso, imprigionandola in quel labirinto di filamenti. La paura le fece perdere la concentrazione e con essa la simbiosi.

I suoi occhi ritrovarono la corteccia malata. Attorno c’era il bosco. Non era più sola. La lama di un’accetta era conficcata nel legno un metro sopra la sua testa. Si girò levando d’istinto il bastone sacro verso la figura, che scattò all’indietro.

— Che stai facendo?

Due falconer alti e robusti torreggiavano su di lei. Una lunga fusciacca nera e rossa ricopriva di traverso un abito pratico. Il più giovane teneva per un lembo una lunga tela in cui era avvolta una massa di rami. L’altra mano era già appoggiata sul manico di una ronca che gli pendeva dalla cintura.

— Volevo capire la natura della piaga che ha colpito questo albero. E stavo anche per guarirlo — li affrontò con occhi duri.

— Guarire? Questi sorbi faranno tutti la stessa fine — osservò il falconer più vicino, accennando con il mento all’arma infilata di traverso nel tronco.

— No! — protestò Eileen. — Bisogna trovare una cura, possono essere salvati, c’ero quasi…

— Se non li tagliamo infesteranno tutti gli altri — allargò le braccia. — Ormai sono buoni solo per il fuoco. Se Tierney non è riuscito a trovare una soluzione, non c’è più niente da fare.

— Tierney?

— Il custode dei boschi, anche se non lo vediamo in giro da parecchio — intervenne l’altro.

— Vorrei parlare con lui. Sapete indicarmi dove vive? — Una fievole luce di speranza si accese nella testa di Eileen. Forse non era sola in quella battaglia.

I due uomini si lanciarono un’occhiata fugace. — Segui quel sentiero che sale in cima, là c’è il suo rifugio.

Il falconer recuperò l’accetta e si preparò a sferrare un altro colpo.

Eileen sentì ancora dentro di sé quel pianto di bimbo e frappose il suo corpo tra la pianta e l’arma. — No, ti prego! Non farlo… torna tra una settimana. Se non noterai miglioramenti, allora potrai abbatterlo.

Il boscaiolo fece spallucce. — Cominciamo dagli altri.

Eileen diede un’ultima carezza al sorbo e prese il piccolo sentiero che s’inerpicava sul fianco della montagna. Dietro di lei colpi forti e ritmati ponevano fine all’agonia degli alberi, come rintocchi di campana a un funerale.

Doveva incontrare il vecchio di cui avevano parlato i boscaioli. Conoscere l’origine del morbo forse non l’avrebbe aiutata nella risoluzione del mostruoso parto di Gwennifer, ma almeno le avrebbe fatto guadagnare un po’ di rispetto da parte dei falconer, cosa assolutamente necessaria per proseguire le ricerche.

A mano a mano che saliva aiutandosi con il bastone, si scoprivano tra gli alberi nuovi lembi della vallata, incorniciata a ovest dal profilo imponente dei monti Danegald. L’Uffern era una coda bianco azzurra che serpeggiava tra le insenature di un mare verde. L’abitato si concentrava proprio sotto di lei, arroccato su un costone come un artiglio a difesa dell’entrata nella valle. Più a nord il Falchion era protetto dal Grande Scudo, mentre questo o di montagna era stato lasciato in custodia ai predecessori di Logan.

E se un giorno gli eserciti di Nergul avessero davvero minacciato il Falchion, come da troppi mesi si sussurrava nei corridoi di marmo della capitale? Se lo domandava ogni volta che dalle mura dell’abbazia di Clareville si fermava ad ammirare il Grande Scudo. Quei sette metri, che andavano dai monti dei Nani al Mare del Nord, avrebbero retto alle armate con il vessillo del Teschio di Kleros? Mai era caduto, mai sarebbe caduto, finché fosse rimasto un figlio di Pridain alle sue porte. Era la prima storia che imparavano i bambini falconer.

Nonostante il Re Buono avesse sempre mantenuto discreti rapporti con i nerguliani, quelle voci non avevano cessato di tessere ragnatele. Certo, c’erano stati i casi di quei Mietitori di Kleros che erano stati imprigionati, rei di aver

compiuto presunti miracoli. Neppure la Regina Bianca di Delion poteva riportare indietro i morti dall’oscuro Regno di Kleros. Così le autorità, con il tacito accordo della Chiesa d’Aurora, avevano scelto il cappio piuttosto che permettergli di seminare false idee e impossibili speranze. In tempi di crisi, si faceva presto a finire martiri o eroi.

Tra il limitare delle ultime conifere e una pietraia che scendeva in un dirupo, apparve una casa fatta di pietra e ardesia, grande quel tanto da ospitare un uomo che aveva scelto la solitudine. Ceppi di legna erano accatastati alla parete sotto una piccola tettoia sfatta, altri erano sparsi in una distesa d’oro solcata da un ruscelletto dai riflessi argentei. Più in là un recinto senza ospiti.

Eileen provò a chiamarlo. Si avvicinò alla porta, era spalancata. Dall’interno giungeva un lezzo insopportabile, che l’indusse a tornare nel prato. Si chinò sui piccoli fiori gialli. Non si era sbagliata. Sfilò il coltello donatole da Padre Rupert e cominciò a raccogliere qualche pianticella. Scossa la terra dalle radici, le avvolse in una piccola tela e le radunò in una delle borsette appese alla cintura.

Osservò il fine intaglio sul manico del coltello. Il vecchio monaco l’aveva trovato in gioventù e conservato per imprese importanti. Le aveva raccontato che, al pari delle più nobili armi sensibili al Potere, la sua lama rifletteva l’anima del portatore. Questa, benedetta da Aurora, sarebbe diventata nera non appena avesse strappato la vita a un innocente.

“Se Aurora non l’ha ancora chiamata a sé, puoi cercare Morra. Ha l’anima di una moffetta affamata ma vanta un’ottima conoscenza dei segreti delle erbe. Mi deve un piccolo favore, non scordare di fare il mio nome” era stato il consiglio del Padre erborista.

Provò a fare il giro sull’altro lato della casa. Oltre gli ultimi resti di un muretto si

aprì una vista magnifica sulla valle. Nuvoloni grigi accalcati sui Danegald promettevano pioggia entro il tramonto. Si chiese per quale ragione gli Dei avessero concesso a gente così povera di spirito di vivere in un posto così meraviglioso.

Appoggiò il bastone di betulla a una fontana e si sedette sul bordo, creando con le mani piccoli mulinelli d’acqua. Su Delion le piccole novizie giocavano a riprodurre con pezzetti di legno le grandi navi che affollavano il porto.

Il boscaiolo aveva ragione, adesso era in un vicolo cieco. Era sola ad affrontare gli orrori e la gente di Uffern. Sperava di ricevere un aiuto, un indizio, anche un fievole lume che potesse dare una svolta. Già, una luce. Non era lei la figlia di Aurora? Padre Robert non aveva inviato lei a risollevare il destino di quel paese ai confini del mondo civile? Le tornarono alla mente volti ingialliti, antichi fallimenti, quella scatola di pietra che era stata la sua cella a Whitesun. E tutte le lacrime che l’avevano purificata. Li scacciò subito, e tornò a osservare i colori della valle.

Chi poteva voler male a tanta pace e bellezza? Il suo nemico non aveva ancora un volto e un nome. Quasi certamente un servitore di Teras: solo una persona succube dell’Ingannatore traeva piacere dal rovinare la vita serena e armoniosa.

Il giorno prima della sua partenza dall’abbazia, era ato da Clareville il Messaggero degli Dei. Era stato un onore incontrare il grande Cy’Prin.

Dopo aver intrattenuto la gente del villaggio con una ballata del ciclo di Pridain, aveva insegnato che non solo segni e invocazioni di grande Potere, ma anche emozioni particolarmente intense lasciano, nel punto in cui si manifestano, una scia sommersa che può permanere anche a distanza di secoli, secondo il livello di energia e il numero di esseri presenti nell’area. Una grande ione o una

tragedia tra le mura domestiche, una folla di devoti o un’epica battaglia conservano vestigia invisibili ai sensi comuni, eccetto ai bardi. I figli di Lyra avevano il potere di rievocare, dalla Memoria del Maestro che tutto conserva, fatti volti parole sensazioni, addirittura di riviverli dentro di sé, come se quel momento fosse stato presente. Ma lei non era un figlio di Lyra, e in verità neppure come sacerdotessa valeva molto.

Raccolse il bastone e si avvicinò al parapetto. Guardò di sotto, evitando di sporgersi, ma si rese conto troppo tardi del rumore secco di pietre e legni spezzati. Il terreno si squarciò in più punti, il muro cominciò a franare nella scarpata tirandosi dietro tutto.

Eileen cerca di afferrare un arbusto, le dita mancano la presa, è trascinato via con lei. Investita da una massa di terra e sassi, si trova a rotolare giù per la scarpata: la pelle è tagliuzzata da mille spilli, i polmoni sacchi pieni di terra. Le mani disperate trovano una radice che fuoriesce dal terreno, vi si aggrappa con la fede di un naufrago a una trave in mezzo alla tempesta. Prima di sputare fango e perdere i sensi, il mondo sembra scivolare nell’abisso.

Un aiuto dal ato

Non c’era punto del corpo che non le dolesse. Perfino aprire gli occhi le faceva male e subito dopo ripiombava nel sonno. Era certa di sognare o di esser già morta: quei brevi attimi in cui si era destata le era parso di essere tornata a Whitesun.

Dopo la consacrazione su Delion, il Vicario della Regina Bianca l’aveva voluta con sé nella capitale. Eileen non aveva mai dubitato che fosse stato suo padre a trovarle un posto di rilievo, sfruttando il nome della casata e l’amicizia con il Re Buono, piuttosto che vedere la figlia minore in giro per l’Oriente. Erano stati i due anni più belli della sua vita. Che l’avevano cambiata per sempre.

— La mia inguaribile pasticciona.

Ecco la voce delle fughe al chiar di Luna, ecco il volto dell’angoscia che riaffiorava dal sogno o dalla morte, sempre che Kleros al principio dei tempi vi avesse posto una pietra di confine.

Un raggio caldo filtrava dalla finestra e incendiava un bacile d’acqua su un tavolino. C’era anche una bella mela rossa.

— Ne andavi matta, se non sbaglio.

Ancora la voce. Dolce e umida come quella sera, prima che dal lobo

dell’orecchio scendesse… Eileen trasalì. No, stava ancora sognando Whitesun. A fatica girò la testa. Una lunga chioma nera fluiva lungo l’ampia schiena. Stava armeggiando qualcosa in cucina.

Eileen cercò di alzarsi ma le forze vennero meno. Solo allora si rese conto che le sue ferite erano state lavate e fasciate. Arrossì violentemente e si tirò la coperta fin sopra il mento. Lui si voltò, il sogno finì.

— Che ci fai qui?

Devon ridacchiò e le porse una ciotola di brodo con qualche pezzo di carne. — Mangia, sei debole — disse, dilaniando un tozzo di pane.

— Grazie per avermi tirato fuori.

— Per fortuna stavo cacciando in quella zona, anche se tu diresti che la Dea ti ha voluto salvare. — Girò una seggiola e si sedette appoggiando i gomiti sullo schienale.

Eileen ò lo sguardo da lui alla casa. Piccola ed essenziale. Su una parete era appeso un arco lungo con una faretra piena.

— Da quando ci vivi?

— Dallo scorso inverno. Un mercante del Lauren è interessato a questa valle per

raggiungere prima Ilirium e fare affari con le popolazioni locali. Così mi ha mandato avanti per spianargli la strada.

— Spianargli la strada?

Devon allungò la punta dello stivale fino a un pezzo di legno, lo fece rotolare a sé e lo gettò nel caminetto. — Forse per lo stesso motivo per cui Clareville ti ha spedito in questa valle di tagliapietre.

— Devon, sono una figlia di Aurora, e ho una grande stima per Padre Robert Melkbrayan. Qui stanno accadendo eventi che non hanno nulla di naturale e non c’entrano affatto con i commerci.

— Non ho scordato che sei una sacerdotessa — la guardò dritto negli occhi. — Ma cerca di vedere le cose in modo distaccato. Clareville ha una nuova chiesa, che è una delle più belle e ricche del Falchion. Melkbrayan non ha pagato solo i migliori architetti e scultori: quell’uomo ha l’occhio lungo. Ha allestito in pochi anni una fiera nota fino a Mara, capace di attrarre merci oltre che pellegrini. Il tuo abate e il mio patrono sono giunti alla stessa conclusione: questa valle può valere di più. Molto. Non sei contenta? Abbiamo un obiettivo comune.

Eileen gli osservò la profonda cicatrice che gli correva lungo il braccio. Si era irrobustito parecchio. Le sembrava una coincidenza impossibile: davvero la Dea, tra tutte le persone, doveva scegliere proprio lui per aiutarla? Ora la missione sarebbe stata ancora più improba: avrebbe dovuto misurarsi anche con il ato.

— Devon, il mio compito è liberare questa gente dal male che l’ha colpita. Credo che neppure a Clareville immaginano la gravità. Tu non hai visto…

— Gli alberi? La malattia ha colpito solo i sorbi, e stanno già provvedendo a tagliarli per evitare che si diffonda. A proposito, se sei andata lassù a cercare il vecchio, se n’è andato l’ultima Luna. Ha capito che se le cose continuavano a peggiorare, Logan sarebbe andato a cercarlo.

— Ora ha trovato me — commentò Eileen con una punta di sarcasmo.

Devon sorrise di rimando. — Somiglia più a una bestia che a un uomo ma non è stupido. E’ il primo ad avere interesse che tutto torni nella normalità.

Anche ammettendo che avesse ragione sugli alberi, restava il caso di Gwennifer. Ma Eileen non riusciva a trovare le parole per dirglielo. Ripensare a quella notte la dava un senso di vertigine, e stentava a credere al coraggio che aveva dimostrato. O, meglio, dovuto esibire.

— Forse il vecchio se n’è andato per un altro motivo. Il capo villaggio aveva già individuato un responsabile e mi ha chiesto di dargli la caccia.

Lo guardò incredula mentre si allacciava sopra la cintura una giubba di cuoio. Così Logan non le aveva detto nulla, lasciandola brancolare nel buio, quando aveva già affidato la ricerca a un altro?

— Secondo una leggenda — continuò il laureniano — tra queste montagne vivrebbe un essere antico e potente. Ha sempre lasciato in pace gli uomini, accontentandosi di bestie o animali allontanatisi dal pascolo. Ogni volta che nella storia di Uffern sono accaduti episodi strani, gli abitanti hanno cercato di

placarlo.

Eileen inarcò un sopracciglio. — Logan intende placarlo con la sua morte, o la tua?

Devon estrasse un pugnale ricurvo, esaminò la lama e poi lo fece scivolare dentro la custodia con uno scatto secco.

— Vado a cercarti qualcosa da mettere. Chissà, le falconer potrebbero scambiarti per una di loro — le strizzò un occhio. In risposta lei prese la mela e gliela tirò contro.

— Cominci a stare meglio.

Eileen d’un tratto si ricordò che le mancava qualcosa d’importante. — Non hai trovato un bastone bianco? — gli chiese allarmata.

Devon scosse il capo. — Se ci fosse stato, l’avrei sicuramente visto. Più tardi tornerò in cima a cercartelo.

— Non fa niente — disse a bassa voce, ma si pentì subito dell’assurdità di quella risposta. Il bastone sacro era una fonte di Potere. Erano due anni che non le capitava di mentire. Dai tempi di Whitesun.

Devon aveva ragione. La veste, per quanto le andasse un po’ stretta in vita e

accentuasse le linee del corpo oltre la convenienza, la faceva apparire una giovane del villaggio. Almeno le risparmiò qualche sguardo curioso o addirittura ostile.

La casa di Morra era tra le ultime, apparteneva già all’avanguardia del bosco. Trovò la vecchia in un discreto orticello, che circondava la capanna su tre lati. Stava riassestando con la zappa i canaletti d’irrigazione che dividevano le colture. Scorse non solo ortaggi ma anche ranuncoli, mughetti, ciclamini. Semplicemente gradevoli per i profani, ricchi di arcano interesse per i conoscitori di erbe.

Si avvicinò a piccoli i. La sua attenzione era stata attratta, alcune decine di metri più in là dal sentiero, da un quadrato nero. Terra ed erba schiacciati insieme sotto il volume del fuoco.

— Lì non troverai più risposte — gracchiò una voce stridula. Curvata sul lato della zappa, le fece segno d’avvicinarsi.

— Non ha visto il nuovo anno. Terribile, terribile, povera Arlene — mugugnò scuotendo la testa. Un fazzoletto legato sul capo le tratteneva a stento cespugli grigi appiccicati tra loro.

— Non sembra aver toccato il bosco o le abitazioni vicine, per fortuna — commentò Eileen osservando i confini precisi della conflagrazione.

— No, no. La foresta non brucia mai.

Eileen si fece più vicina e le porse il fagotto di erbe. — Ho pensato che potevano tornare utili alla guaritrice del villaggio.

La vecchia l’afferrò con mani rapaci. Per un attimo le brillarono gli occhietti scuri. — Verghe d’oro!

— Padre Rupert era sicuro che avresti apprezzato.

La vecchia la fissò in modo strano. Di colpo lasciò cadere la zappa e la tirò per una manica con insospettabile energia dentro un capanno. Una montagna di assi marce ospitavano file di steli, radici e fiori essiccati. Le investì un nugolo di mosche e un odore nauseante.

Per quanto avvezza a serre e laboratori, Eileen non smetteva di tossire, anche quando Morra cominciò a chiedere a quale pianta appartenesse questa o quella radice.

— Tamaro. Dal bulbo si estrae un buon purgativo, le bacche di solito si conservano nell’acquavite e sono buone contro i geloni.

La vecchia annuì. — Con il succo di queste invece potresti prepararmi una tisana per il mio mal di schiena, più tardi?

Eileen piegò la bocca in una smorfia ma lasciò perdere e accettò la sfida. — La celidonia ti farebbe solo venire un gran bruciore alla gola e alla pancia. Ti consiglierei, piuttosto, di far bollire insieme foglie di olmaria, betulla e bardana.

— Con qualche foglia di primula per migliorare il sapore, però! Brava, figliola. Quel grassone di Rupert ti ha insegnato bene — le sorrise con complicità. — Fammi un favore, aiutami a cercare un po’ di rafano per stasera. La mia testa oggi è una brocca sopra il dorso di un asino. Dovrebbe essere lassù.

Eileen recuperò dallo scaffale più alto una cassetta di legno. Quando l’aprì ritrasse immediatamente le mani. — Vecchia, stai cercando di ammazzarmi?

Morra fece un o indietro e il fazzoletto che aveva in testa cadde sulla terra battuta. Eileen richiuse la cassetta e la rimise al suo posto. — A Clareville, come in nessun posto caro alla buona Madre, non si raccoglie quella roba.

— Rupert non lo conosce difatti, ma tu sì — sibilò Morra, con un sorriso sdentato.

— Non è un mistero che i barbari del Cornwall cospargono di aconito le punte delle frecce — si schermì Eileen.

Morra scattò in avanti e le prese la sinistra. Girandola su e giù, studiò le dita affusolate, tastò le linee del palmo. — Se tu vieni da una tribù di Wallers, io il sabato faccio il bagno alle terme di Mara.

Eileen si divincolò. — E’ vero, ma ho sufficiente titolo per intentare un processo per stregoneria.

Morra non parve per nulla intimidita. La sua voce acquistò perfino una punta di dolcezza. — Sei esperta nel Potere delle erbe ma non sai ancora distinguere gli amici dai nemici.

— Rupert disse che di te potevo fidarmi.

— E io dovevo fidarmi di te.

Eileen la guardò allibita.

Morra raccolse il suo copricapo, piegando la schiena con un gemito. — In questa parte di Experya ci sono solo due categorie di persone che sanno distinguere una radice di aconito: quelle, come noi, che conservano la vita, e quelle, come loro, che la strappano via.

La condusse sul retro, sotto un piccolo pergolato ombroso.

— Da qui mi piace ascoltare i rumori del bosco — disse lasciandosi andare su una panca di legno grezzo smangiucchiato dai parassiti.

— Prima ti riferivi ai servi del Crepuscolo, non è vero? — Eileen osservò le rughe incresparsi sul volto. Ora non le appariva più una minaccia ma una vecchina stanca e malata di solitudine.

— Giovane, troppo giovane e inesperta — mormorò a denti stretti. — Ti sei

chiesta per quale ragione Clareville ti ha spedito qui?

Eileen chiuse gli occhi. Le ritornò il volto dell’abate Melkbrayan, le sue parole ferme e gentili mentre con una mano le stringeva il braccio e con l’altra le dispensava il segno del Giglio. Come tali le ripeté di nuovo: — Uffern ha perduto il cammino della Dea. Ma bada, per il successo della tua missione dovrai salvare almeno un’anima.

Morra inspirò rumorosamente. — Per caso, non ti ha parlato di cosa avvenne a Greenyard, prima dell’avvento dei Berallion?

Eileen scosse la testa e gli occhi di Morra sembrarono più grigi.

— Allora lascia che ti racconti una storia.

La maledizione del Drago

— Alcuni anni dopo la vittoria di Pridain nella Guerra dei Giganti, Greenyard visse alcuni anni nell’anarchia. I capi delle gilde erano insorti rifiutandosi di riconoscere l’autorità di Whitesun, debole e prostrata dalla guerra.

Si dice che i reggenti subirono il fascino oscuro del clero di Teras, e la città divenne presto tana di banditi, lestofanti e trafficanti d’ogni risma. La Chiesa d’Aurora non poteva accettare un postribolo nel cuore del Falchion e invitò ufficialmente la popolazione ad abbandonare Greenyard, pena la scomunica. Nel frattempo aiutava in segreto Mark Berallion, un cavaliere dello Scudo d’Argento fuoriuscito, a radunare un piccolo esercito.

Dalla città, ormai in preda al caos della guerra civile, uscivano voci inquietanti. Prodigi e orrori che spinsero gli Illuminati di Whitesun ad affrettare i tempi e ordinare a Berallion di porre l'assedio.

Dalle poche storie che i bardi hanno tramandato, fu una delle peggiori carneficine mai viste sotto il cielo del nord. Due lupi neri rimasero da allora sull’insegna dei Berallion. I roghi bruciarono per giorni, dalle mura penzolavano corpi mutilati, nelle vie devastate dalle rovine si aggirava la pestilenza a prendersi chi era scampato alla picca. Mark Berallion divenne reggente di una città divisa tra morte, odio, vendetta.

— Alberi che sanguinano, donne che partoriscono serpenti, fiumi che scorrono sangue. Anche Uffern porta i segni della maledizione del Drago! — Morra spalancò gli occhi, come se la Bestia fosse stata lì, nascosta ma lesta a balzar loro addosso.

La maledizione del Drago. Eileen non ne aveva mai sentito parlare. Ma la sensazione che Logan fosse in parte responsabile, in qualche modo ancora da scoprire, cresceva di ora in ora. Se chi era chiamato a guidare le genti, dal più piccolo villaggio all’Impero mariano, si allontanava dal cammino della Dea Madre, la terra avrebbe sofferto. Se fosse stato buono e giusto, avrebbe dato il doppio dei frutti. Era la Legge che Libra aveva posto al Principio dei tempi.

— Morra, gli ultimi draghi visti in Oriente, per non dire in tutta Experya, sono confinati alle storie dei bambini — fece notare con pacatezza.

La vecchia scoppiò in una risata convulsa. — Ti sbagli, è intorno a noi, il suo occhio tutto vede... forse proprio in questo momento ci sta ascoltando!

Eileen sentì un brivido correrle lungo la schiena e istintivamente guardò in direzione del bosco, alla ricerca di un movimento, o di un rumore traditore, oltre la parete spessa e oscura che si ergeva dietro la prima fila di alberi.

— Morra, devi aiutarmi. Gli abitanti del villaggio, per proteggersi l’uno l’altro non mi riveleranno mai la verità. Come posso collegare gli alberi, a Gwennifer… agli orrori?

— Le persone temono ciò che non comprendono, e per preservare le loro certezze arrivano perfino a trasformarsi in lupi. Se brancolano nel buio, tu dai loro una pista credibile. Se darai un senso al mistero, non esiteranno a seguirti.

Si alzò e dopo pochi minuti ricomparve con due piccole boccette in mano. —

Gwennifer prima del calar del sole va a pregare alla piccola grotta all’ingresso del villaggio. Avrete bisogno l’una dell’altra.

Eileen le prese le mani piccole e grinzose tra le sue. — Grazie Morra. Perdonami se ti ho giudicata male.

I suoi occhi tornarono vacui, persi dietro ombre e voci invisibili. — Sono solo una povera vecchia.

Si sedette su una panchina all’ombra di un ciliegio. A suo giudizio era il punto più bello di Uffern: da qui si poteva ammirare uno splendido panorama sui monti circostanti. Davanti a lei si stendeva un prato che aveva come confini un filare di meli e una staccionata oltre la quale si precipitava nello strapiombo. Un gruppo di bambini stava giocando a palla.

I loro schiamazzi in un’altra occasione non l’avrebbero aiutata a concentrarsi e riflettere, ma adesso le sembravano come il miele quando si deve prendere una medicina amara. In quel villaggio oppresso dal più blasfemo dei mali, che aveva barattato la fede con la paura, ecco la Vita, la Vita da difendere, la Vita per cui lottare, la Vita per cui, una volta indossata per costrizione la veste di Illuminata, aveva accettato il ciondolo d’argento che portava al collo non come una catena ma come la speranza di trovare un senso in fondo a una via.

Ora capiva la gioia del Maestro Cy’Prin, che a Clareville si circondava di bambini desiderosi di ascoltare le sue storie e le sue melodie. Quant’erano belli i borbottii di Belegor, quando i più piccoli s’intrufolavano nella fucina del fabbro nano e giocavano a tirargli la lunga barba o nascondergli gli arnesi.

Un bambino rincorse la palla che era finita nella sua direzione ma si bloccò subito.

— Aiuto, la strega! — gridò una voce femminile dal gruppo. Sembrava la ragazzina che l’aveva condotta alla casa di Gwennifer.

— Scappiamo presto! — fece un altro e cominciarono a correre a perdifiato.

— No, aspettate! — Eileen si alzò dalla panchina di legno, allargando le braccia. Solo il bambino a pochi metri da lei era rimasto come paralizzato.

Eileen gli si avvicinò, fissandolo negli occhi sbarrati. — Non aver paura, non ti mangio — provò a dirgli con dolcezza.

Un lungo ciuffo biondo si staccò dagli altri e gli coprì l’occhio sinistro. Sembrò destarsi e, raccogliendo un sasso da terra, lo vide alzare il braccio sopra la testa, pronto a tirarglielo.

— Perché mi vuoi colpire?

— Sei la strega che trasforma i bambini in serpenti. Vai via!

— Le streghe attirano i bambini con dolci e giocattoli. Se davvero fossi una strega, pensi che quel sasso mi farebbe male?

Il bambino ci pensò un po’ su, poi abbassò la mano. — Mio fratello è morto per colpa tua.

— Non lo conosco. Sono arrivata da poco al tuo villaggio. — Tornò a sedersi e batté una mano sul legno. — Dai, raccontami di tuo fratello. Ti prometto che non ti farò nulla.

Il bambino trotterellò fino alla panchina e si sedette sul bordo. Eileen notò che si era infilato il sasso in tasca e nascose un sorriso.

— La casa è caduta addosso a Iorwerth dopo che tu… cioè la strega — si corresse — ha maledetto il bambino di Arlene.

— Come ti chiami?

— Faolan, ma tutti mi chiamano Faol.

— Faol, io sono una figlia di Aurora, che è la Madre di tutte le cose che vivono. Aiuto i bimbi a venire al mondo. Se fossi stata qui quel giorno, avrei aiutato Arlene.

— Anche Gwennifer ha perso il bambino — osservò con tagliente semplicità.

Già, aveva fallito. — Gwennifer è viva — rispose asciutta. — Faol, la casa è crollata per un incidente. Non è stata colpa di nessuno.

— Non è vero! — gridò, mentre le lacrime gli salivano agli occhi.

— Raccontami di Iorwerth. Che lavoro faceva?

— Tornava a casa sempre con più legna di tutti gli altri boscaioli. Era bravo a cacciare i cervi. Questa estate ha vinto la gara con l’arco e ha regalato a me il bracciale di cuoio di Logan. Mi ha detto che tra qualche anno l’avrei messo per andare a caccia con lui, perché era magico e avrei preso anch’io tanti cervi.

Eileen gli tirò su il ciuffo biondo e osservò quell’innocenza rotta dal dolore. Non aveva neanche nove primavere.

— E’ senz’altro magico e sono sicura che diventerai un cacciatore più bravo di tuo fratello. Ogni volta che entrerai in un bosco, Iorwerth sarà lì al tuo fianco, a guidare il tuo braccio.

Faol annuì. — Sì, è vero. Quando sono in mezzo agli alberi, ricordo quando mi portava con lui, mi sembra di risentire la sua voce.

— Vuoi che il tuo desiderio si realizzi? Vieni con me.

Eileen gli prese la mano e l’accompagnò alla staccionata. Sotto, una parete di

massi, arbusti e alberi perennemente sul punto di precipitare, s’immergeva nel baratro oscuro da cui saliva un’aria fredda e pungente. Sentì Faol tirarla indietro per la mano.

— La mamma dice di non venire qui, è pericoloso. Qualcuno ci è finito dentro e non è più risalito.

— Se vuoi che Iorwerth un giorno sia orgoglioso di te, butta quel sasso dentro il precipizio. Ma dovrai lanciarlo più in là che puoi, e urlare il nome di tuo fratello con tutto il fiato che hai dentro.

Faol estrasse il sasso dalla tasca, prese una piccola rincorsa e con tutta la forza che aveva lo fece scomparire nell’oscurità, mentre il suo grido riecheggiava tra le pareti del canalone.

Eileen gli pose le mani sulle piccole spalle. — Ogni volta che lo penserai, lui sarà con te e ti darà forza.

Faol si strofinò gli occhi arrossati e le regalò finalmente un sorriso. — Lo sapevo. Sei una strega.

Eileen gli schioccò un bacio sulla fronte che lo fece avvampare. Ora aveva un motivo in più per completare la missione a Uffern.

— Una strega buona.

Per dare un simbolo

Percorrendo il piccolo sentiero che dalla strada principale s’immergeva nella boscaglia si giungeva a un piccolo anfratto, alto quanto un uomo e profondo nemmeno due metri, che ospitava una piccola statua della Dea, raffigurata nella giovane con in braccio fiori e spighe e una colomba appoggiata sulla spalla. Al crepuscolo, il sole basso attraversando i rami colpiva minuscole gemme incastonate nella pietra, e le pareti ricoperte di muschio assumevano una colorazione quasi arcana.

Eileen si era fermata a invocarne la benedizione appena era giunta a Uffern. Aveva apprezzato, in quell’angolo di montagna, la scelta dell’artista di riproporre il verde acqua delle pietre che ornavano la fontana sacra a Delion. Le stesse che Padre Robert aveva voluto nella nuova chiesa di Clareville, dove la fonte occupava il centro dell’edificio, sotto la cupola vestita degli affreschi che glorificavano la vittoria di Lady Galadrin. I servitori di Teras un nido di serpi schiacciate sotto la lancia infallibile della vergine guerriera. La punta autentica di quella lancia, storta e arrugginita, poggiava sul palmo della statua della Dea, dai cui piedi sgorgava acqua benedetta.

Ricordava come fosse ieri lo stupore quando era entrata nella chiesa di Santa Clare per la prima volta. Robert Melkbrayan aveva ritrovato la reliquia di Galadrin. Sopra ci aveva eretto una meraviglia, richiamando artisti da tutto l’Oriente. Attorno alla chiesa aveva coltivato una fiera operosa, perché la fama e la bellezza dell’abbazia corressero da una bocca all’altra, dal Falchion fino all’antica Mara.

Erano in molti a pronosticare Melkbrayan sullo scranno più elevato di Whitesun. L’aveva conosciuto di persona solo il giorno in cui le aveva chiesto di partire per Uffern. In punta di piedi era entrata nel suo studio, già grande quanto quello del

Vicario nella capitale. Lui l’attendeva a braccia conserte, accanto alla vetrata da cui ammirava il sagrato e l’entrata della chiesa, la sua creatura.

Una luce bianca gli accendeva i capelli biondi striati d’argento. In molti pensavano che l’abate fosse stato toccato da Aurora, in quanto sembrava riuscirgli tutto: dal trattare con i potenti per ottenere fondi, all’incantare folle di fedeli raccolte per ascoltare la sua voce. Forse la Dea aveva davvero inviato uno dei suoi Angeli sulla terra a restaurare potenza e speranza, in un’epoca in cui le tenebre si addensavano a occidente e gli umili vivevano ogni giorno di più delle provviste dell’anno prima.

— Osserva il Grande Scudo, giovane Eileen. Da centinaia di anni il muro eretto ai tempi di Pridain divide il Falchion dalla barbarie d’Occidente. Oggi ci chiediamo se riuscirà a respingere l’invasore nerguliano, se davvero un giorno i folli seguaci del Dio del Non Ritorno decideranno di trasformare il mondo in un altare sacrificale. Per quale ragione credi abbia costruito questa chiesa?

Era una domanda inattesa, potenzialmente pericolosa. Si diceva che l’abate fosse uomo intelligente e ambizioso, ma poco incline alle lusinghe. Di certo Robert sapeva che suo padre era un uomo influente a Corte.

— Per dare un simbolo — rispose Eileen.

Non aveva potuto decifrare l’espressione di Melkbrayan perché la luce della finestra la costringeva a socchiudere gli occhi.

— E’ il terzo anno che sfioriamo la carestia. L’Occidente è un campo di battaglia, i barbari del Cornwall ci minacciano a nord. Il denaro e le merci

circolano sempre meno. In tempi come questi, gli uomini, prima di pane e armi, hanno bisogno di segni. Dagli un nemico comune e tutti lo fronteggeranno, dagli una speranza e il loro cuore batterà più forte. Se non riempiamo l’incertezza di ogni giorno con la visione di qualcosa di più grande, le menti saranno più docili alle tentazioni di altri idoli. Senza la fede in Aurora, quel muro resisterà meno di una pergamena.

Si era seduto dietro la scrivania e con la calma di un Giudice aveva impresso il suo anello sulla ceralacca che chiudeva il suo destino. Robert Melkbrayan sapeva delle voci che correvano su di lei a Whitesun, sapeva che suo padre aveva preferito allontanarla dalla capitale per non destare scandali, sapeva che, come figlia di Aurora, aveva bisogno di un’opportunità di riscatto agli occhi degli uomini e della Dea. E di se stessa. Era stato semplice come dare un sorso d’acqua a un assetato.

Ristette molto tempo ad aspettare Gwennifer, anche se non poteva definire quanto. Seduta su un masso, era concentrata a districare i nodi che le ostruivano la mente.

Quando sentì un tocco sulla spalla, fece un balzo che per poco non sbatté la testa contro la pietra. Devon era piegato in due sulle ginocchia.

— Non ci trovo nulla di ridicolo, a parte vederti in un luogo di preghiera — gli rinfacciò a denti stretti.

Devon provò a scusarsi ma siccome non riusciva a smettere, questo non fece che aumentare la sua rabbia. Sentì il viso ardere.

— Non dirmi che stavi cacciando.

— Proprio te. Logan mi ha fatto chiamare, ci sono novità. Finalmente abbiamo un traccia. Un esploratore ha trovato la carcassa sventrata di un cavallo, sulla via per la Colmine. Qualcuno ti ha già raccontato la leggenda del drago che vive su queste montagne?

Eileen annuì debolmente. Decine di domande e di risposte cominciarono ad affollarsi nella sua mente. Se Morra avesse avuto ragione? Se la maledizione del drago fosse da ricondurre proprio a… no, scosse la testa. Guardò Devon, la sua espressione non lasciava molti dubbi.

— Sai come la penso — l’anticipò come se le stesse leggendo nel pensiero. — I soli mostri che conosco sono umani. Le fiere uccidono per cacciare, noi cacciamo per uccidere.

— Ma, se anche non fosse una leggenda, Devon… non può essere rimasto nascosto per tutto questo tempo senza che nessuno… è assurdo!

— Logan ha radunato gli anziani e li ha convinti che le disgrazie del villaggio potrebbero cessare con la morte della bestia. — Le tese una mano. — Partiremo domani prima dell’alba. Vieni con me, no?

La proposta spazzò via i pensieri di Eileen come un vento secco e gelido spazza la brughiera. Guardò il suo viso, ora serissimo e in attesa, ma la sua mente volava lontano, indietro nel tempo.

— Ci vediamo all’Alba.

Più volte era ritornata sui suoi i, finché sotto l’insegna della locanda ce l’avevano portata più le gambe che il cuore. Alla fine Eileen si disse che un tentativo andava fatto. Alzò gli occhi e sorrise di nuovo. Agli abitanti di Uffern non mancava comunque il senso dell’umorismo. Il collo dell’oca, a circa metà della sua lunghezza, esibiva un grosso rigonfiamento a guisa d’incudine che le faceva fuoriuscire le orbite dagli occhi.

Non appena spinse (e ci vollero entrambe le mani) la porta di quercia, fu investita dall’odore acre della specialità locale che aveva già avuto modo di rifiutare alla sua prima cena nel villaggio. Attorno a lunghe tavolate uomini di ogni età erano impegnati nel loro combattimento serale: gorgheggiare birra scura e strappare con avidità pezzi di stufato di cinghiale condito da patate speziate e un pasticcio di pancetta, erbe e formaggio di capra.

Il volto dell’oste dell’Oca golosa era più che eloquente, come se nella sua locanda fosse appena entrato un fantasma o uno dei mostriciattoli che abitavano gli incubi dei bimbi della valle. L’avrebbe anche scacciata, se la moglie, cuoca dal grembo capace di aver generato l’intero villaggio, non gli avesse posato una mano sul braccio e avesse indicato ad Eileen un tavolo in un angolino lontano dal fuoco, protetto da una soffice penombra.

Furono dieci metri interminabili. La sala non le risparmiò sguardi gelidi e scongiuri, qualcuno sputò anche per terra. Ma non era giunta per nascondersi.

Intingendo pane nero in una zuppa di farro e cipolle, rimuginò dentro di sé le parole più adatte per quella platea. Infine si decise. Bevve un sorso d’acqua fresca e fece segno al giovane figlio dell’oste, che serviva tra i tavoli, di avvicinarsi.

— Ti chiedo di annunciare nel vostro dialetto, in modo che sentano tutti, che il capo villaggio mi ha incaricato di andare a caccia del drago. Sono stati avvistati segni del suo aggio sulla Colmine e… — la voce zoppicò un po’ sulle ultime parole — pensiamo che possa avere a che fare con le sventure di Uffern.

Il ragazzo, un viso paffutello di dodici anni costellato di lentiggini, sgranò gli occhi e restò con un boccale a penzoloni. La schiuma scivolava sul pavimento, finché un falconer lo soccorse strappandogli la birra dalle mani e vuotandone metà in un secondo.

— Ho sentito, faccio io.

Prima ancora che finisse, Eileen si trovò addosso occhiate tra derisione e ostilità. Del resto non si aspettava grida di giubilo, ma almeno aveva l’attenzione di tutti gli avventori.

— Avete capito bene, uomini di Uffern. L’antico male si è risvegliato, e dobbiamo combatterlo. Non io, non Logan, ma tutta Uffern è chiamata a questa lotta. Da voi dipende il futuro di questo villaggio, di questa valle, dei vostri figli.

Per qualche istante credette di aver fatto presa sull’orgoglio. Tra la gente delle grandi città e quella di confine, specie sui monti, non era mai sbocciata simpatia. Eileen non riusciva ancora a staccarsi da questo pregiudizio, benché come sacerdotessa di Aurora era chiamata ad amare tutte le creature. Non dubitava nemmeno che quegli uomini, per quanto duri come le lastre di pietra che intagliavano, avessero a cuore la loro comunità. Soprattutto, e si vergognò un poco di quel pensiero, gli servivano.

— Sono certa che la Dea Aurora e le generazioni future ricorderanno i nomi e il coraggio di chi mi aiuterà in questa impresa — concluse, guardandoli uno ad uno.

Gli uomini più giovani parlottarono tra loro in dialetto serrato. Un uomo vestito di abiti semplici e sgualciti, caracollando un po' per l’età e un po' l’alcol, si portò a qualche metro da lei.

— I nostri figli, e la nostra valle, li abbiamo sempre protetti con queste mani. Così sarà anche stavolta. Io non so cosa ci vai a fare davvero sulla Colmine, perché di draghi in cinquant’anni non ce ne sono mai stati, e ce ne saremmo pure accorti! — La battuta scatenò grasse risa. — Bestie feroci, anche di grossa taglia, si sono sempre accontentate di una pecora o di qualche vitello che si era perduti, ma il villaggio ha sempre ripagato il loro padrone. Ora ti dico una cosa che mi ripeteva sempre il buon Tierney: temiamo più l’oro dei draghi. I guai sono iniziati quando il tuo abate ha costruito quella chiesa, adesso sono arrivati anche qui. Per questo, ti dico, signorina: torna a casa, stai cercando il diavolo nel posto sbagliato.

Eileen si morse il labbro. Stava per replicare quando incrociò lo sguardo di un uomo che non aveva notato finora. Il riveliano scosse impercettibilmente la testa, Eileen riprese posto. ò qualche minuto, e quando i falconer sembrarono essersi dimenticati di lei, l’uomo si avvicinò al suo tavolo con due bicchieri di vino.

— Permette? — chiese nella lingua del Sud, con un accento che si sarebbe detto del Lauren. — Non era affatto male il discorso. Il problema è il pubblico — sussurrò facendo tintinnare il bicchiere contro il suo.

Eileen trangugiò il liquido rosso e gustò il sapore permettendosi, in quel posto, di sbattere la lingua sulle labbra.

— Viene dalle pianure a nord di Lous, giusto?

L’uomo si appoggiò allo schienale, divertito. — Oh, sì il vino, i miei complimenti. Io, di grazia, no.

Eileen ridacchiò alla battuta. — In effetti non avete le sembianze di un Giudice severo e morigerato. Non credevo di trovare una persona così affabile qui. Siete un nobile o un mercante, signore? — chiese fissando il prezioso farsetto color amaranto che doveva aver visto la luce in una delle più raffinate botteghe mariane.

L’uomo fece un rapido cenno con il capo alla persona con cui era intrattenuto prima. — Sono riuscito, finalmente, ad ottenere l’aumento di produzione della conceria e poter vendere tessuti anche qui. Questa valle è rimasta chiusa in se stessa da secoli, ha bisogno di aprirsi al mondo, se non vuole scomparire. Ho proposto a Logan di vendere anzitutto i prodotti del villaggio alla fiera di Clareville. Che ne dite?

— Mi sembra un’ottima idea. Difficile nei primi tempi…

— Per il carattere di questi montanari, certo — annuì, finendo per lei — ma fattibile. Alla fine anche Logan ha accettato. Penso che anche il vostro abate ne sarà felice.

Eileen piegò la bocca in una smorfia. — Conosce Padre Robert? — chiese subito pentendosi per l’ingenuità di quella domanda.

Il mercante si lisciò il pizzetto perfettamente ritagliato sul mento. — Da qualche tempo. Nel Lauren mi giunse voce di un abate che voleva ricostruire la più bella chiesa di Aurora del Falchion e stava allestendo una fiera ambiziosa. Oggi ospita prelati da Delion, maestri scalpellini dall’Headion, intagliatori di Gadar, mercanti che giungono fin dalle città Libere del Sud. Perdonate la franchezza, reverenda figlia, ma è difficile trovare persone così lungimiranti e apionate nel clero. Aiutarlo a inserire Clareville nella rete dei grandi traffici è stato un… interessantissimo piacere.

Prese il bicchiere, finì il vino e restò qualche istante a soppesarla. Dentro i suoi occhi verdi brillavano pagliuzze dorate, che pungevano però come spilli. Eileen si sentì a disagio e si sistemò meglio sulla seggiola.

— Scusami, è ovvio che non puoi essere stata educata a Clareville. Non avevo capito subito i tuoi natali… ogni giorno di più che o in questa valle mi fa dimenticare le buone maniere — sorrise e fece per chiedere dell’altro vino. — Whitesun, giusto?

— Per me basta così, grazie. Stimo molto Padre Melkbrayan, ma conosco ancora poco l’abbazia, non sono giunta da molto.

— Se ti ha scelta per la missione ad Uffern significa che la tua fede è ripagata.

Eileen si ò una mano sui capelli e si riassestò frettolosamente la frangia. Più che un premio era la punizione da scontare, pensò tra sé, mentre sentiva ancora

addosso quello sguardo indagatore. Era certamente un bell’uomo ma le notti a bassa voce delle novizie di Delion erano piene di storie di affascinanti e infedeli mercanti riveliani.

— Prego Aurora che sia così, anzitutto per il bene di questa valle e della sua gente. Ora, vi prego di scusarmi ma preferirei andare a riposare, considerato il viaggio di domani.

— Capisco e mi auguro davvero che Logan si sbagli sul drago, per voi e per tutti noi! — le strizzò un occhio. — E’ stato un piacere conoscervi, speriamo di rivederci, chissà qui, a Clareville o dove gli Dei vorranno.

Eileen uscì rapida dalla locanda, sentendosi ancora addosso gli occhi di tutti, e in particolare di una persona. Non le aveva detto il suo nome ma forse sarebbe stato facile scoprirlo.

La caccia sulla Colmine

Eileen con la punta del bastone fece segno in direzione del ruscello che scorreva un centinaio di piedi sotto di loro. Devon gliene aveva preparato uno nuovo, su cui erano intagliati, non senza una certa perizia, figure floreali. Il legno di quercia lo rendeva robusto e al contempo maneggevole.

— Fiumi di sangue — sussurrò, ripensando a Morra.

Quando si era presentata al capanno nella foresta, Devon era già pronto, con in spalla l’arco e una faretra traboccante di frecce dalle solide aste. Si aspettava almeno cinque o sei uomini ad accompagnarli. La loro unica compagnia era una capra con una corda al collo. Logan non aveva rischiato nessuno dei suoi guerrieri. Si rifiutava di credere che fossero sulle tracce di un drago, e anche Devon era dello stesso avviso: non era persona da accettare rischi inutili.

Il laureniano guardò giù e le toccò una spalla. — Non lasciarti ingannare. Sono le foglie e le bacche rosse dei sorbi che crescono sulle rive dei torrenti. Quando cadono, danno quella colorazione rossastra.

Eileen ci rifletté un po’ sopra. Era più plausibile che tronchi rosi dalla malattia fossero caduti a contatto con l’acqua.

— Conosci anche tu la leggenda dalla Foresta di Goulan — continuò lui. — Si dice che i corsi d’acqua che attraversano la foresta bianca siano le lacrime di sangue per i Cento cavalieri di Pridain. Non sono altro che le foglie di alcuni alberi.

— Non pensavo avessi sostenuto la Prova dei cavalieri dello Scudo d’Argento — lo canzonò lei.

Ripresero il sentiero appena marcato. Devon stava seguendo una mappa piuttosto dettagliata della valle, sulla quale si distinguevano note di suo pugno. Quando Eileen l’aveva scorta la prima volta le aveva suscitato una strana impressione, che però non era riuscita a focalizzare: a Devon bastava un’occhiata veloce e la richiudeva subito.

Costeggiarono il ruscello finché, quando gli alberi iniziarono a diradarsi lasciando spazio ad ampie volte di cielo azzurro, dovettero inerpicarsi sulla costa, scavalcando rocce e arbusti. Sentendola ansimare, Devon le tese una mano per aiutarla nella salita ma lei, facendo leva sul bastone e abbassando le ginocchia, lo scartò di lato.

Eileen sentì uno schiocco secco sotto il piede. Scostandolo, vide due incavi rotondi che la fissavano sopra una mascella ormai divelta in una smorfia grottesca. Balzò indietro finché due braccia forti non la trattennero. Davanti a loro si apriva una pietraia di sassi misti a ossa, femori, frammenti di spine dorsali.

Notò un piccolo teschio, forse di un gatto. Cosa era salito a fare lassù? Anche lei ne aveva avuto uno, a Whitesun. Lo ricordava con grande affetto: era stato la sua più grande compagnia quando i corridoi del Tempio si erano riempiti di bisbigli e sorrisi maligni. Se n’era andato dopo neanche un anno, all’epoca della moria di animali che aveva colpito la regione. Kleros si prendeva prima i semplici.

Trasse un lungo respiro e si staccò da Devon che, allacciata la corda dell’arco, ne

saggiò la tensione. Osservando le loro povere armi, nella sua mente si affacciò l’immagine di quelle creature che anche i bardi evitavano di evocare nei loro racconti. Inconsciamente sfiorò con un dito il Giglio. Non era mai stato tanto freddo.

Devon cominciò a risalire appiattendosi tra le rocce, ma nel cuore di Eileen ogni o allargava una voragine di paura.

Il sole, ormai alto nel cielo, non sembrava pago del calore di quella giornata. Per fortuna un gregge di tozzi nuvoloni si era messo in marcia, proiettando la loro ombra sulle schiene verdi e rocciose dei monti.

Devon fece are un giro di corda attorno a un pino e strinse la benda attorno agli occhi della capra, che liberò un gemito prolungato. Guardò nella direzione di Eileen, che scosse con decisione il capo. Facendo spallucce grattò un’ultima volta la testa all’animale e raggiunse il costone ombroso, sufficiente a nascondere entrambi.

— Avevo detto niente sacrifici! — protestò a denti stretti.

— Meglio lei che me.

Eileen si appoggiò con la schiena alla roccia fredda e chiuse gli occhi, concentrandosi su un punto invisibile davanti a sé. Doveva controllare il respiro per riprendere padronanza del suo corpo, come le avevano insegnato a Delion. Ma la sua istruzione era stata votata alla meditazione, alla preghiera, alla faticosa esegesi dei testi sacri ricamati con fili d’oro e argento. Non era un Guaritore, che riceveva la consacrazione sul campo di battaglia, inginocchiato nel fango

arrossato di sangue a tamponare emorragie. Non era nemmeno un Cavaliere dello Scudo, l’ordine creato da Pridain per difendere la pace tra gli uomini.

C’era troppo silenzio e questo rendeva ancora più difficile i suoi sforzi. Ogni tanto Devon lanciava un sasso verso la capra, che rispondeva con un verso irretito. Eileen lo osservò mentre controllava per l’ennesima volta le sue armi. Era un modo diverso per scaricare la tensione, ma dentro di lei non smetteva di domandarsi se era davvero maturato. Molti dei suoi atteggiamenti le ricordavano ancora il giovane frivolo di Whitesun, per cui ogni cosa era un gioco. Allora perché aveva accettato di seguirlo in questa folle gita in montagna, che poteva rivelarsi mortale per entrambi? Il tempo delle avventure giovanili e dei desideri personali era svanito nella capitale.

I loro sguardi s’incrociarono. Devon piegò la bocca in un sorriso. Fece un o avanti e lei fece per indietreggiare, ma non avendo spazio si schiacciò ancor più contro la roccia, sentendosi in trappola. Lui le premette il petto contro il suo e le portò un dito sulla labbra. Un’ombra ò nei suoi occhi verdi. La capra gemette, nervosamente. Una, due volte. Eileen tremò e Devon la serrò ancora più stretta. Le urla si mutarono in agonia ed Eileen lo guardò con occhi imploranti, mentre cercava di scacciare dalla mente l’immagine del corpicino straziato. Presto il suo avrebbe fatto la stessa fine.

Con il cuore che le rimbombava come un torrente, seguì con lo sguardo Devon scalare due massi, guadagnando più di un metro di visuale, estrarre un dardo dalla faretra. Altri due i, ormai era quasi interamente allo scoperto. Imbracciò l’arco e incoccò la freccia, piegandosi su un ginocchio. Dopo secondi interminabili la corda sibilò, e subito dietro un altro dardo e poi un altro ancora. Con un balzo scavalcò il costone. Sentì i suoi stivali sulla pietraia, un urlo di guerra. Le grida dell’animale intanto erano cessate.

Espirò tutta l’aria che aveva dentro e si lanciò fuori dal nascondiglio. Fu abbagliata dalla luce del sole, prima di riuscire a distinguere le sagome

avvinghiate sotto il pino.

E’ grande quasi quanto un mulo, la pelle brunastra. Il corpo squamoso si sta sciogliendo con rapidità dai miseri resti della capra, e già le fauci, da cui sporgono denti lunghi un cubito, s’avventano come scatti di tagliola contro Devon. Il cacciatore, abbandonato l’arco, pungola il muso del mostro con la punta della spada.

Eileen conta meno di venti metri tra lui e il dirupo. Si concentra sugli arbusti che in quel momento vengono schiacciati dal corpo del serpente, invoca il Potere. Non è difficile, lo ha fatto altre volte. Cerca di nuovo di unirsi alle piante, di penetrare nel loro essere, e dall’interno piegare la loro forma alla sua volontà. Immagina rovi acuminati avvinghiare il corpo viscido, trattenerlo, ferirlo quanto più quello si sforza di uscire dalla morsa.

Il sangue pulsa più veloce, Eileen raddoppia gli sforzi. Non è neppure riuscita ad entrare, a prendere il contatto. Riunisce di nuovo le energie invocando la Dea, quando un grido giunge da lontano.

Devon stava urlando il suo nome. La bestia l’aveva spinto sull’orlo del precipizio. Lo vede fare un salto di lato, evitare il morso letale per un soffio a scapito della presa sulla spada. Con un altro balzo si getta oltre il corpo serpentino, rotolando sulle pietre. Il mostro si rigira sulle spire e cerca di nuovo la preda. Devon sfrutta quell’attimo per conficcargli il pugnale ricurvo dietro il capo. Il mostro, prima di esalare l'ultimo respiro, riesce ad affondargli i denti nella spalla.

Il laureniano urlò di dolore, cercò con una mano il pugnale ma riuscì solo a sfiorare l’impugnatura. Le fauci cercarono ancora le sue carni, ma Devon raccolse una pietra e gli sferrò uno, due colpi sotto la mascella. La serpe si

ritrasse, dimenandosi nervosamente, consentendo a Devon di scivolare verso la daga.

Il fianco sinistro dell’amico era coperto di sangue, la testa del mostro attraversata da rivoli d’icore scuro. Aveva assistito al combattimento trattenendo il fiato, interamente rapita dai due corpi avvinghiati nella lotta.

Un pesante rumore di rami spezzati la fece voltare di scatto. Il terrore le serrò la gola impedendole di gridare. Con forza devastante l’essere si fece largo tra due conifere e si lanciò su di lei.

Eileen getta d’istinto il bastone tra le fauci spalancate: i denti acuminati spezzano il legno come se fosse burro. Corre indietro, ma inciampa in una radice che fuoriesce dal terreno, sbatte con violenza a terra. Zampe possenti le cercano furiose le gambe, gli artigli le aprono rivoli di sangue lungo i polpacci. Il terrore le strozza l’urlo in gola, si aggrappa a un masso e si trascina in avanti. Tra qualche istante la bestia le sarà addosso e sarà tutto finito. Voltandosi sulla schiena, incrocia due fessure gialle cariche di odio e dolore. Grida il nome segreto dello Spirito della Luce con tutto il fiato che le resta.

Le pupille del rettile si spensero, le orbite diventarono due pozzi biancastri e lattiginosi. Emise un sibilo acuto e scosse la testa, quindi balzò in avanti ma Eileen si era già rialzata e zoppicando stava raggiungendo Devon.

Il cacciatore estrasse il pugnale dal corpo senza vita del piccolo. — Non ce la faremo con la madre — disse, piegando la bocca in una smorfia di dolore quando si toccò la spalla. La carne era lacerata in più punti. Le loro ferite andavano pulite e richiuse al più presto.

— Provo a distrarla. Tu usa questo. — Da una delle borsette legate in vita estrasse la boccetta dal contenuto violaceo.

Devon non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa. Osservò prima il punto doveva aveva lasciato l’arco, quindi il mostro che si stava avvicinando a zigzag, guidato dal fiuto e dall’istinto di uccidere.

— Due colpi, due vite.

— Vai!

Eileen contò di nuovo i i che la separavano dal rettile. Un dolore lacerante la trascinò in ginocchio. Non ce l’avrebbe fatta, ma forse avrebbe salvato almeno Devon. Almeno un’anima.

Con una calma e una risoluzione che non aveva mai trovato dentro di sé, alza le braccia al cielo. “Madre, non abbandonarmi proprio ora” invoca la Dea prima di focalizzarsi sul terreno che rimane tra lei e la bestia. Il suo spirito diventa pietra, il respiro vento di montagna. Una cascata di pietre si solleva verso il cielo, restando sospesa a qualche metro da terra, mentre da sotto continua ad alimentarsi senza sosta, come se il cielo reclamasse a sé la terra.

— Eileen, vieni via da lì! — urlò Devon. Inutilmente.

La bestia, ignara della difesa eretta da Eileen, caricò. L’impatto fu tremendo. Il muro andò in frantumi in un’esplosione di ciottoli e schegge di pietra, che

ferirono anche lei, destandola dalla trance mistica.

Eileen spalancò gli occhi dal terrore. L’enorme rettile incombeva su di lei, ferito in più punti ma la barriera pareva averlo solo rallentato. La gamba le faceva male e non aveva tempo per invocare Aurora un’altra volta. Il mostro esplose un ruggito che raggiunse il cielo. Un dardo gli si era piantato nel collo: la freccia non era entrata in profondità, bloccata dalle spesse scaglie, ma l’aveva comunque costretto a fermarsi.

Devon corse verso di lei, mentre la bestia sembrava impazzire dal dolore e cercava con le fauci di strapparsi di dosso il proiettile. Eileen riuscì ad alzarsi in piedi, proprio mentre il drago, rotolandosi su un fianco, spezzò in due il dardo e con un’agilità impossibile si avventò nuovamente sui suoi nemici.

Un secondo colpo, precisione tremenda, si conficca tra l’occhio e la mascella. Il drago agita le fauci ma il veleno si è già riversato sul palato, e la lingua succhia l’umore letale spingendolo nelle viscere. Un nuovo boato a sopra le chiome degli alberi, sale fin sulle creste dei monti. La testa crolla a terra, gli occhi si chiudono debolmente.

Eileen emise un profondo respiro. Vide con la coda dell’occhio Devon esultare, e stancamente cominciò a raggiungerlo. Ringraziò la Dea, che li aveva salvati da una morte certa. Era felice, perché lei e Devon, insieme, ce l’avevano fatta. Era felice, perché la missione era conclusa e ora poteva tornare a Clareville. Lui le sorrise di rimando ma il suo volto mutò in una maschera d’orrore.

Eileen segue il suo sguardo. Il rettile. Una schiuma olivastra gli scende tra i denti e la lingua biforcuta, ma solo all’ultimo s’avvede del guizzo maligno che serpeggia tra gli occhi spenti. In un istante se lo trova addosso. Può solo gettarsi di lato, sfruttando la gamba buona. Viene colpita con violenza al fianco, l’urto la

sbalza da terra, mentre la mole del mostro piomba addosso al pino, sradicandolo e precipitando con esso nel baratro.

Eileen si tiene aggrappata con tutta l’energia che le rimane a un arbusto, sentendo sotto di sé il vuoto che l’attira. Solleva la sinistra per aiutarsi, ma quando tocca i rami e cerca di fare forza, le radici si staccano da terra.

— Devon!

Devon le afferrò il polso e la sollevò appena in tempo.

— E’ finita, piccola — la strinse forte tra le braccia.

Non solo lo lasciò fare, ma fu l’unica cosa che avrebbe voluto in quel momento. Non si vergognò di singhiozzare contro il suo petto, di lasciarsi accarezzare i capelli come una bambina, e quando provò a ringraziarlo, e lui le prese il mento e l’attirò a sé, tutte le paure, i ricordi, i voti e i divieti, scomparvero nel calore umido e antico delle sue labbra. Lo tempestò di baci e quando il suo corpo premette contro quello di lei a terra, assieme a Devon tornò anche la donna che aveva abbandonato a Whitesun.

Chierico senza fede

Eileen stava perdendo i suoi poteri. Non per un’offerta sgradita, una parola oltraggiosa o una bestemmia appena sussurrata. Non per aver mancato un chiaro di Luna o il soccorso a un’amica. No, la Madre le avrebbe perdonate tutte. Il Potere, che scaturiva dal richiamare i segni della Dea nel mondo, era come la marea. Ripensava agli incantesimi falliti negli ultimi giorni, dalla guarigione del sorbo alla battaglia con i rettili sulla Colmine: non avevano combattuto i draghi delle leggende, come aveva sostenuto pure Devon, ma avevano sottovalutato il pericolo ed erano scampati per poco.

Non era riuscita neppure a suturare completamente le ferite di Devon. Prima aveva sentito una specie di blocco. Poi il suo spirito prosciugarsi, come un torrente, perse le sue acque, giace riarso alla calura con il letto frantumato in una miriade di spaccature. Come figlia di Aurora, chiamata dalla fede e dagli uomini a salvare la terra e le sue creature dalla sofferenza, era inutile.

Guardò le cicatrici lungo la gamba. Zoppicava un poco: probabilmente i segni dello scontro l’avrebbero accompagnata per tutta la vita. Considerato il pericolo, un sacrificio accettabile.

Devon in quel momento era a rapporto da Logan. Non c’era attimo che non pensasse a lui. Da quando l’aveva salvata la prima volta, una voce aveva cominciato a tintinnare sul fondo della sua anima che sarebbe riaccaduto. Era fuggito da Whitesun per lei: per non metterla in difficoltà con la Gerarchia, per non compromettere la sua posizione e la sua famiglia. Ma le era rimasto dentro, finché gli Dei, per un crudele gioco, non li avevano fatti incontrare due anni dopo in quella valle per mettere a repentaglio la vita. Stavolta, insieme, ce l’avevano fatta.

Levò la testa verso il volto materno, mai così freddo, della Dea sotto l’arco della piccola grotta. E ora? La missione era conclusa, il mistero risolto. Si poteva perdere la grazia della Dea della Vita a causa dell’amore? Lei sarebbe tornata a Clareville. Lui scomparso di nuovo nelle ombre, dietro gli interessi di un nobile o di qualche mercante facoltoso. Il destino li aveva fatti ritrovare: non era invece segno che dovevano restare, in qualche modo, insieme?

Una mano le sfiorò la spalla.

— Volevo ringraziarti — disse timidamente Gwennifer, inginocchiandosi al suo fianco. Aveva raccolto i capelli ramati in una lunga treccia sul petto. I segni e il dolore del parto erano lontani: adesso rimaneva uno splendido virgulto falconer.

Eileen le accarezzò una guancia. Quando aveva varcato la soglia del Palazzo di Primavera, sull’Isola, era più giovane di lei.

— E’ tutto finito.

Le due ristettero qualche attimo in silenzio, fingendo di pregare. L’aurea glauca abbandonò il capo e le braccia aperte della statua e il fondo della nicchia ritornò un pozzo oscuro.

Gwennifer trovò il coraggio. — La vostra impresa è già sulle bocche di tutti. Ora il nostro villaggio forse vivrà in pace. E mio padre potrà tornare quello di un tempo — aggiunse dopo, anche se il suo volto tradiva insicurezza e un tormento interiore non ancora placato.

Eileen, sorpresa da quella rivelazione, squadrò i suoi lineamenti. — Porta un carico di responsabilità notevole, dovresti stargli vicino. — Non le fu facile quella cortesia, ma pensò che non doveva essere facile essere la figlia del capo villaggio.

— E’ cambiato molto nell’ultimo anno. Non si fida più di nessuno. Perfino i vecchi amici lo temono.

— Logan è stato vittima di una potente maledizione, che non poteva vincere da solo — l’interruppe Eileen con il chiaro tentativo di provocarla. La ragazza aveva un gran bisogno di aprirsi, e lei avrebbe avuto le risposte che cercava.

— Morra l’aveva avvertito. Poi è successo… ad Arlene. Ma mio padre teme la vecchia levatrice, anche se non lo ammetterà mai.

— Logan ha vietato a Morra di aiutarti, forse più per paura della sua reazione che per speranza nei miei poteri. Parlami di Arlene.

— Mio padre non voleva, te lo giuro! Siamo cresciute assieme fin da bambine, era come una sorella. Gli anziani erano divisi, ma decisero su consiglio di mio padre di esiliare lei e Iorwerth. Quella notte i ragazzi… a me avevano detto che le torce servivano solo per spaventarli e farli fuggire. — Gwen non resistette e scoppiò in lacrime. — Papà aveva capito. Lui li voleva salvare, capisci?

Eileen la prese tra le braccia. Le tornarono alla mente le celle buie, i singhiozzi, i giorni in cui si fingeva malata per scappare sulla scogliera a guardare il mare,

pregandolo che la portasse con sé in Occidente o in qualsiasi altra parte del mondo. Capiva Gwen, come chi non ha una persona cui poter aprire interamente il cuore. Ma era anche il momento di fare la domanda più difficile.

— Chi è il padre?

Gwennifer abbassò gli occhi e scosse la testa. — No! Non posso, ti prego. Lo ucciderebbero.

— Era anche il padre del figlio di Arlene? — incalzò Eileen. — Devo sapere tutto quello che potrebbe aver unito le vostre sorti.

Un velo di tristezza le ò sopra gli occhi e scosse la testa. — E' scappato per evitare di fare la fine di Iorwerth. E' stato meglio così, anche se mi manca... prego la Dea di ritrovarlo un giorno. Ma tu devi stare attenta, Eileen, lascia Uffern ti prego! — la supplicò.

— Non c’è più nulla da temere, Gwen. I mostri della Colmine non sono più una minaccia… — ma mentre pronunciava quelle parole una voce dentro di lei la spingeva a fidarsi di Gwennifer. — Se ritieni che ci sia ancora un pericolo nel villaggio, dammi allora un segno perché possa difendermi, e riconoscerlo.

Gwen si mise una mano sul cuore e trasse un lungo respiro. — Un drago tatuato sul polso.

Quella sera in ogni casa del villaggio si accesero, come non si vedevano da

tempo, centinaia di fiaccole. Alcune donne sfilavano dalle ceste il pane e lo deponevano sulle lunghe tavolate, altre portavano verdure e carni fresche agli uomini che rintuzzavano larghi bracieri. I bambini si rincorrevano per le vie o giocavano a nascondersi dietro le abitazioni, abbigliate a festa da lunghe strisce rosse e nere. Qualche ragazza in età da marito indossava una veste leggermente stretta in vita, alla maniera riveliana, distinguendosi per quell’intrigante arancione che prende nel crepuscolo velature carminio.

“Cos’è il merito?” si chiese Eileen sulla via verso il suo alloggio. Gli abitanti, che finora l’avevano evitata come un morbo o una megera, ora fermavano il o e la ringraziavano: chi con un semplice cenno, chi con un sorriso più o meno abbozzato, chi con una stretta di mano o perfino un mezzo inchino. Due anziane si fecero il segno del Giglio. Solo due giorni prima l’avrebbero fatto per scongiuro.

Ma lei, che non si era mai sentita così lontana da Aurora, meritava quell’onore? Sorrise tra sé al pensiero che quando aveva ancora Potere e fiducia nei propri mezzi era disprezzata, e per ben due volte si era trovata un’ascia puntata alla gola. Stasera, che era un’Illuminata di Aurora solo perché portava un ciondolo d’argento, la sua autorità era ripristinata.

Eccoli i simboli di padre Robert, coppe destinate a non esser mai troppo vuote o piene. Era questa la bramata gloria, dea che i cavalieri e i guerrieri del Falchion, anzi di tutta Experya, adoravano a costo della vita propria e altrui? Valevano medaglie e armature decorate la morte di qualcuno che aveva scelto, oppure era stato costretto a intraprendere, un’altra strada?

Si fermò a osservare da lontano i giochi che gli uomini di Uffern avevano organizzato al campo. Erano soprattutto scontri individuali o prove di abilità: martello, tiro con l’arco, tiro della fune e altre competizioni. Due ragazzi stavano gareggiando nella lotta a terra. Erano coperti di fango dalla testa ai piedi e gli amici intorno li incitavano, ridendo ogni volta uno dei due precipitava nella

pozza sollevando altri schizzi.

Non avrebbe partecipato ai festeggiamenti. Il suo animo era una burrasca per cogliere e godere un’occasione di gioia. Stava per rincasare quando sentì degli applausi. Il cuore prese a battere più forte: doveva senz’altro essere Devon, venuto a prendersi la sua, meritata, parte di onori.

Fu investita da un’ondata di aromi e odori forti, di spezie e carni abbrustolite. La luce dei fuochi la prelevò dall’ombra e tutti non poterono non notarla. Stava parlando Logan, un gigante sopra i convitati. Dal modo in cui incespicava sulle parole aveva perso lucidità da un bel pezzo.

— Salutiamo, fratelli, la grande sacerdotessa della Dea! Vieni, Eileen, siedi in mezzo a noi e onoraci della tua presenza.

L’ultima cosa che avrebbe desiderato era sedersi al centro di una tavola di guerrieri alticci. D’altro canto, se avesse rifiutato, non era difficile immaginare la reazione di Logan e dei suoi, proprio ora che era riuscita a conquistarsi fiducia e attenzione. Cercò con lo sguardo Devon e si morse il labbro. Dove si era cacciato?

Con i incerti accentuò l’andatura claudicante. Un omaccione si precipitò a porgere il suo braccio, ma lo fece con tanta irruenza che ribaltò la panca dov’erano rimasti seduti i suoi compagni. Si levarono le risa generali, mentre Eileen ringraziava il giovanotto dalla folta barba rossiccia.

Dalla tavola del capo villaggio pronunciò un breve discorso di rito e impartì la benedizione della Dea. Mentre parlava, lanciò uno sguardo implorante a

Gwennifer, che sedeva poco lontano.

— Ti ringraziamo, giovane e coraggiosa Eileen — prese la parola Logan. — Uffern ha ancora bisogno di te. Perché non rimani tra noi? L’esperienza che abbiamo vissuto ci ha insegnato che ci serve una… guida con la tua fede.

Ondeggiò sul lato sinistro finché trovò con la mano la spalla del vicino, che ciondolava la testa in avanti. — E la protezione della Dea! — concluse scatenando gli applausi, mentre riacquistava goffamente l’equilibrio.

Fu Gwen a salvarla. — Padre e voi, fratelli miei, vi prego, ascoltatemi. La sacerdotessa è molto stanca e, come vedete, è ancora provata dal terribile scontro. Lasciamola riflettere e riposare, sono sicura che Aurora le ispirerà la decisione migliore.

Il capo villaggio emise una specie di grugnito, a metà tra la sorpresa e il compiacimento. — Si vede che ha ereditato la saggezza di suo padre! — se ne uscì provocando alcune risa.

Eileen abbassò il capo e si avviò verso casa. Quando fu lontana dalle luci e dagli schiamazzi, prese il viottolo che saliva leggermente verso il bosco.

Sui soffici prati e sui tetti d’ardesia, sui ruscelli argentati e sulle cime frondose posava il suo sguardo benigno la Luna. Benedetta la notte, tranne il quadrato nero vicino alla casa di Morra. La Dea della Vita perdonava tutto, meno chi la strappa agli innocenti.

La lama nera

L’unica persona del villaggio che non avrebbe preso parte alla festa era Morra. La sua casa sprofondava nell’oscurità del bosco. I versi dei rapaci segnalavano l’apertura della caccia notturna.

Avvicinandosi scoprì la porta socchiusa, anche se non trapelavano luci dall’interno. La chiamò un paio di volte ma senza risposta. Distrattamente mise un piede sopra una bottiglia che per poco non la fece cadere a gambe all’aria. Si rimproverò per non ricordarsi mai di tenere un lucernino. Del resto, un vero iniziato di Aurora non ne avrebbe mai avuto bisogno.

Aromi sconosciuti impregnavano l’aria, densa e calda. Chiamò Morra ancora una volta, e stava per tornarsene indietro, quando distinse un quadrato d’argento ritagliare il buio sulla destra. Appoggiandosi alla parete lignea raggiunse lentamente la finestra e spinse le imposte all’infuori.

Una ventata d’aria fresca le fece correre un brivido piacevole lungo le braccia. La luce della Dea si distese gentile nella stanza, scalzando la presa delle tenebre. Subito i suoi occhi riconobbero la sagoma di una sedia rovesciata in un angolo.

— Morra!

Riconobbe la forma di un piede far capolino sull’uscio della camera in fondo al corridoio. Il corpo della vecchina era riverso su un fianco, raggomitolato contro lo stipite. Quando le sollevò il capo, dalla bocca fuoriuscì una bava biancastra. Mentre cercava altri segni sul cadavere e sul pavimento, per quel poco che i suoi

occhi, appena abituatisi al buio, riuscivano a percepire, udì un suono di i provenienti dall’esterno.

Si morse il labbro per reprimere un grido e sgattaiolò in un angolo vicino alla finestra, con la schiena appoggiata alla parete. Era l’oscurità stessa a pulsare nervosamente al ritmo del suo cuore, come se fili invisibili partissero da lei e animassero i suoi peggiori incubi. Rammentò le parole di Morra sui servi del Crepuscolo, conoscitori di erbe e veleni, maestri assassini. Forse uno di loro era a pochi metri, consapevole che lei stava tremando e non aveva armi per fronteggiarlo.

Una parte di sé provò ad arginare la paura, riunire i pensieri, focalizzarli in modo razionale. Ma al pari dei poteri, stava perdendo anche la lucidità. Si sentì stanca, il corpo a pezzi, dopo quei giorni durissimi. Desiderò un letto, vero, su cui lasciarsi andare e chiudere gli occhi, senza pensieri. Ecco la tela del ragno, la soave resa a Teras, Signore d’ignavia e melliflui inganni.

Un altro o, poi un altro, poi nulla. Forse era uscito dalla serra e ora si trovava nel giardino. Aveva tutto il vantaggio di aspettare che lei uscisse per tenderle un agguato. Bastava uno stiletto, un tiro di balestra per spedire la sua anima all’Oscuro Traghettatore.

arono momenti interminabili, finché non ne poté più di rimanere immobile. Sfilò dal fodero il coltellino di Rupert. Con sua meraviglia, acquistò una debole luminescenza argentea, sufficiente a illuminare una parte della stanza. Lo fece scivolare dentro l’orlo della manica per attutirne la luce.

Un orcio non troppo grande nella dispensa le fece venire un’idea. Rischiosa, anzi ingenua, se il suo avversario apparteneva davvero a Teras. Mentre faceva ruotare il recipiente verso la finestra pregò che non fosse nascosto più di un uomo là

fuori. Sollevò con tutte le sue forze il vaso sul davanzale, spalancò con forza le imposte e lo fece cadere.

Senza perdere un istante guadagnò il corridoio. Lanciato uno sguardo fugace dalla finestra già aperta che dava sul lato opposto, la scavalcò e iniziò a correre per il prato. Non si voltò nemmeno una volta verso la casa e il giardino per vedere se era inseguita. Dietro di sé giunse un fragore, forse legna spezzate.

La gamba ferita presto le cedette e inciampò. Rovinò a terra. Strinse l’erba tra le dita e si rialzò sul ginocchio buono, scacciando il dolore e il pensiero che era finita, che in un secondo le sarebbero stati addosso. Riprese la corsa come poteva, stringendo i denti e raggiunse finalmente il viottolo.

Più avanti una piccola fiamma ondeggiava nell’aria e sembrava venirle incontro. La gioia le diede nuova energia per raggiungere una coppia di falconer. Alzò un braccio per chiamarli, ma quelli, forse per il fatto di vedersela sbucare trafelata dal nulla a quell’ora della notte, si rifugiarono lesti in casa.

— No, aspettate! — li supplicò, battendo il pugno sulla porta.

Ricacciando le lacrime si gettò di nuovo in strada ma non aveva più fiato né forza nelle gambe. Si trascinò verso casa, il cuore ormai un martello in testa, appiattendosi appena poteva al muro di un edificio e guardandosi intorno per avvertire un rumore di i, un movimento improvviso fendere l’oscurità. Sapeva che era tutto inutile ma andò avanti, finché il suo viso sporco e ansimante fu illuminato dalle torce di un gruppo di paesani di ritorno dalla festa. Rincasando ringraziò Aurora, pregandola di sorgere presto da dietro i monti e scacciare le tenebre.

Impossibile sprangare le finestre: poteva solo spingere la cassapanca contro la porta. Tuffò il viso una, due, tre volte nel vaso d’acqua fredda e si strofinò le mani fin quasi a farsi male. Aveva poca legna nel camino e ancor meno rametti per attizzare il fuoco. Finora non le erano serviti, grazie al Potere. “Usalo con saggezza”. Quanto era vera la massima sul Potere che il grande arcimago Daìkelorn aveva lasciato in eredità ai maghi di Vestmar!

Indossò la veste più pesante che aveva e si strinse nelle coperte. Davanti a sé fluttuavano gli occhi fissi e spenti di Morra, la fuga, le ombre che si stavano infittendo attorno alla sua casa in attesa che i falconer dormissero per chiudere il conto.

Due colpi leggeri alla porta le rimbombarono nella testa, appiattendola al letto. Altri due colpi. Facendosi coraggio, impugnò il coltello di Rupert e si avvicinò alla porta.

— Eileen, stai dormendo?

Devon! Lasciò cadere a terra l’arma, spostò in fretta il mobilio dalla porta, si buttò nelle sue braccia.

— Dove ti eri cacciata, è tutta sera che ti cerco! — la rimproverò. — Ho chiesto in giro e mi hanno detto che sei scappata lasciando su due piedi il povero Logan. Tieni, ti ho rubato un po’ di torta.

Eileen scosse la testa, ma mutò subito la smorfia in un sorriso. Gli prese il volto tra le mani e lo ribaciò a lungo. Era la terza volta che la salvava. La Dea aveva bisogno di altre prove?

— Se bastava un dolce, non mi mettevo a cercare un drago.

— Sei tu che eri in ritardo. Dov’eri piuttosto, a sedurre qualche ingenua falconer? — l’apostrofò seguendolo con lo sguardo in cucina. Aveva ancora nelle narici uno strano, gradevolissimo odore che aveva avvertito abbracciandolo.

— Da quando sono qui non m’hanno mai regalato tutto questo ben di Dio — arrivò la sua voce in mezzo a un rumore di scartoffie.

Lo raggiunse mentre stava sollevando una cesta colma di recipienti e vasetti. Non aveva fatto neppure caso alla cesta sopra il tavolo. Chi poteva averle fatto quel dono? Gwennifer, probabilmente. C’era della farina scura, un unguento profumato e un vasetto di salsa in cui Devon aveva già immerso con avidità il dito e se lo stava portando alla bocca.

— Un po’ asprigna… ma niente male. Ci fanno di tutto con le sorbe — commentò leccandosi le dita. — Adoro la marmellata.

— Lo so — gli sorrise con complicità. Un dito dietro l’altro, ne aveva già svuotata metà. Si strinse a lui, alle sue spalle forti e larghe come una quercia frondosa.

Per l’ennesima volta la sua presenza aveva ribaltato la situazione. Morra, la fuga, l’assassino, erano svaniti nella sua radiosa e rassicurante ingenuità. Si trovò felicemente impreparata in quel contesto così domestico, familiare. Lontana era

la Luna d’Argento: questo Sole l’aveva trasformata e fatta rinascere. Aveva perso i suoi poteri, ma ne aveva trovato uno più grande che l’avrebbe rinnovata. Forse Aurora le stava suggerendo che la sua via, la sua dimensione autentica non era Clareville, non Whitesun, non la fredda cella di un convento. Quella casa.

Quando però Devon le disse di aver saputo che Logan le aveva chiesto di restare, e secondo lui era una proposta da prendere in considerazione, la testa si trovò ancora a zittire il cuore.

— Logan vuole solo rinforzare la sua posizione. Mi à come ha fatto con il guardiano dei boschi e con Morra.

Nel nominare quest’ultima, cui entrambi dovevano la vita, Eileen gli raccontò del cadavere, dell’assassino e della fuga precipitosa. Devon l’ascoltò con attenzione e infine la cinse in una culla di baci.

— Anche le pietre sanno che Morra e Logan non si sopportavano. Dopo i fatti sulla Colmine, con il paese in festa… ora inquadro meglio anche la sua offerta. Scusa, sto ragionando a voce alta.

— Logan avrebbe chiesto a qualcuno di… secondo te si sarebbe spinto a tal punto?

Devon inarcò il sopracciglio. — Penso che Logan ha raggiunto tre obiettivi in uno: ha ritrovato il controllo sulla valle, non ha più nemici interni, e con te ha il sostegno di Clareville.

Le appoggiò le mani sulle spalle e la guardò negli occhi. — Eileen, ascoltami. Se rimaniamo uniti possiamo arginare Logan. Il mio committente e il tuo abate faranno i loro interessi e noi potremo restare insieme.

— Lo hai già incontrato? La tua missione qui ora è conclusa — disse sommessa, quasi per cambiare discorso. Le sue ultime parole avevano avuto lo stesso effetto di un sasso gettato in uno stagno una notte d’estate.

— Ho un appuntamento con Merqalt domani alla conceria — rispose, quindi tacque, improvvisamente pallido, come se stesse dialogando con una parte di se stesso. — So cosa stai pensando: che sono un mercenario e me ne andrò come è accaduto due anni fa. Stavolta è diverso, credimi. In questa valle non dobbiamo nasconderci da nessuno.

Merqalt. Le parve un nome familiare, ma Eileen non riuscì a ricordare dove l’avesse sentito (o letto?) prima. Un tonfo pesante all’esterno interruppe i suoi pensieri.

Devon raccolse il coltello di Rupert e aprì la porta tendendolo in avanti con uno scatto fulmineo. A terra giaceva un grosso falconer che aveva scelto un’aiuola come letto e ora russava come un bue.

— E questo villaggio non è Whitesun — commentò Devon ridendo.

Eileen provò la sensazione di un fulmine che si fosse abbattuto su di lei e l’avesse prima svuotata e poi schiantata al terreno. La lama del pugnale. Era completamente nera.

Il tributo di Logan

Da un momento all'altro sentiva che le sarebbe scoppiata la testa, come se gli Dei l’avessero riempita di tutti i venti del mondo e da un momento all’altro fossero sul punto di liberarli. C’era una parte di lei che non smetteva di ronzarle domande e metterle davanti agli occhi il volto di Devon. Doveva dare credito a Rupert o al proprio cuore?

Che sciocca. Devon non era rimasto sconvolto per la morte di Morra, o che un assassino girasse per il villaggio. Gli sovvenne la sua faccia stupita sulla Colmine, quando gli aveva dato l’aconito da cospargere sulle frecce. Devon conosceva i veleni? Morra era morta avvelenata, e lui aveva indosso uno strano odore quando l’aveva abbracciata. Altro dubbio, altro tassello da sistemare: lui aveva sempre difeso Logan, perché dunque quell’inattesa, sovversiva, proposta?

La difesa: non aveva alcun drago tatuato sul polso, e non avrebbe affrontato tutti quei rischi. Ma soprattutto non l’avrebbe salvata in così tante circostanze, anche a costo della propria vita.

Le corse un brivido lungo la schiena: e se avesse voluto solo indebolirla? Se, quando l’aveva trovata nel dirupo sotto la casa di Tierney, avesse mentito e si fosse sbarazzato lui stesso del suo bastone sacro? Se l’avesse quindi seguita, a casa di Morra, e avesse ascoltato di nascosto la loro conversazione e la leggenda del drago? Erano ate solo poche ore e se n’era uscito con la pista per la Colmine, senza nemmeno aspettare che lei gli rivelasse che Morra aveva accennato addirittura a un drago.

La ione le aveva offuscato la ragione. Eccolo, se lo immaginava, andare a

rapporto da Logan. L’incarico che il capo villaggio gli aveva affidato era spiare lei! Avevano architettato tutto assieme, finché Logan probabilmente le aveva chiesto di toglierla di mezzo. E lui non c’era riuscito. Questo almeno, una parte in fondo al suo cuore, lo sperava.

L’aveva mandato a casa subito tranquillizzandolo con una scusa, dicendo che avrebbe messo una protezione magica sulla casa. Naturalmente Devon aveva protestato, che non poteva andarsene sapendo che lei era in pericolo, che avrebbe fatto almeno piantonare la casa dai guerrieri falconer. Che la voleva. Sincero o no, di fatto Eileen non aveva chiuso occhio tutta notte, pungolata dalla paura e torturata dai dubbi che si mangiavano la coda l'un l’altro.

Ogni volta che apriva gli occhi sulla sagoma scura della porta si stringeva ancor più nelle coperte. A irrompere non erano Devon, un falconer o un assassino di Teras. Era la fiaccola della Madre Superiora di Whitesun, che illuminava il volto della vecchia costernato alla visione dei due amanti ansimanti, intrecciati come due serpenti. Eileen aveva lanciato un grido e sommerso il viso tra le mani. Devon imboccò la via di fuga trascinandosi dietro il lenzuolo bianco. ando davanti alla Madre, privo di qualsiasi pudore, sussurrò “è colpa mia”.

Immerse la testa nell’acqua gelida ed espirò tutta l’aria che aveva dentro. Mille aghi uccisero tutti i demoni che aveva in corpo. O almeno li fece tacere.

Sbocconcellò qualche pezzo di pane e formaggio, poi tuffò le dita nel vaso di marmellata di sorbo. Il vasetto con l’unguento attirò la sua attenzione. A prima vista l’aveva giudicata una semplice crema. Provò a spalmarla sulla parte della gamba che ancora le doleva: sentì molto presto un effetto benefico trasmettersi a tutto l’arto.

Facendo per chiudere il recipiente, una parte rimase sollevata. Guardò sotto al

coperchio: c’era una piccola pergamena ripiegata e attaccata con della cera.

Perché Gwen le aveva dato una piccola mappa della valle? Era molto vecchia, quasi identica a quella di Devon. Questa aveva un maggior numero di segni: erano indicati i tipi di foreste, i campi con le loro colture, i nomi dei torrenti. La maggior parte dei boschi erano sorbi: le piante malate, dai cui frutti avevano prodotto quei doni. Morra! Era stata lei a portarle quei doni, non Gwennifer! Probabilmente si sentiva in pericolo, e poiché si trovava lontana dal villaggio, aveva voluto darle un ultimo messaggio. “Cosa volevi dirmi Morra?” si chiese scorrendo più attentamente la mappa, in cerca di un segno, o una scritta che poteva averle lasciato.

“Ci fanno di tutto con le sorbe” ripeté mentalmente le parole di Devon. Puntò il dito sul bosco più vicino, quindi scese sul prossimo, e su un altro ancora. Un angolo retto, poi un altro… la disposizione dei boschi non era casuale.

Quando ebbe completato la figura, il segreto dei sorbi le apparve in tutta la sua nitida chiarezza. Sulla mappa di Devon i segni erano stati rimossi, con perizia. Iniziò a unire nella sua testa pensieri, ricordi, frammenti dei dialoghi dell’ultima settimana, secondo un ordine preciso, in cui ogni coccio combaciava alla perfezione. Alla fine le si mostrò un quadro diabolico quale solo il suo peggior nemico avrebbe potuto escogitare con tanta malizia. Ora comprendeva il sacrificio di Tierney, e perché Morra aveva pagato con la vita, e perché lei, al pari di tutti, era in grave pericolo.

Due battute provennero dalla porta. Eileen ripiegò frettolosamente la mappa e la fece scivolare in una tasca della veste. Altri due colpi, più forti e veloci.

— Sono Gwennifer, fai in fretta!

La ragazza aveva il fiato rotto. — Devi fuggire, le guardie stanno venendo a prenderti! Alcune persone ti hanno vista questa notte correre via dalla casa di Morra.

Eileen sentì girarle la testa e si appoggiò a Gwen. Troppo facile, tremendamente ingenua. Logan prima l’aveva elogiata in pubblico e adesso, dopo aver fatto eliminare Morra, aveva la giustificazione per togliere di mezzo lei.

— Io ti credo — disse Gwen, con la semplicità autentica di un raggio di sole che trafigge nubi cariche di pioggia.

Eileen la baciò e le tracciò il segno del Giglio sulla fronte. Questo gesto istintivo le ricordò chi era e cosa rappresentava, che la forza della verità era dalla sua. Che non poteva esistere amore senza onestà. Si voltò a guardare la casa. Sarebbe potuta diventare la sua nuova dimora. Teras l’aveva illusa una notte. Nella freschezza del mattino, era certa che non vi avrebbe più fatto ritorno.

— Andiamo.

Logan delle Zanne smontò da cavallo facendo risuonare i dischi di ferro attaccati alla giubba di cuoio, e raggiunse a lunghi i la tettoia tenendolo per le briglie. Il grosso muso della bestia scivolò nella fontanella, sollevando piccole onde oltre lo scolo di pietra, quindi sfiorò la guancia del padrone per ottenere il permesso di brucare nel prato.

Il falconer gettava occhiate qua e là, sembrava quasi fiutare l’aria. Accarezzò gli

uncini degli stenditoi vuoti, i pilli, i frusci e le azzimatrici, ormai buone come vecchie sdentate che smangiano le asperità della lana. Mentre li sfiorava con le dita, il suo viso si distese fin quasi ad addolcirsi e tornare, per un momento, umano.

— Hai sempre mandato qualcuno a controllare i lavori.

Devon comparve zigzagando tra vasche e tinozze da cui saliva, ancora, l’antico odore delle pelli.

Dapprima Logan sembrò ignorarlo. Girò su se stessa una lunetta, saggiandone la lama innocua prima di riporla sul tavolo.

— Questa serve ad ammorbidire. Non saprei se sono più sorpreso dell’operosità di questi tuoi amici nerguliani, o del tradimento dei miei uomini. Il tuo mercante deve pagare davvero bene, se stimano più il suo argento della mia ascia.

— Potresti chiederlo direttamente a lui, al calar del sole verrà qui.

— Questo la tua amica si è dimenticata di farmelo dire da mia figlia. Non fare quella faccia, anzi, ora puoi anche tirarla fuori dal nascondiglio.

— Non so di cosa stai parlando, Logan — allargò le braccia l’altro.

— E va bene. Puoi uscire, non ti sarà fatto del male — gridò al vento. — Basta

che domani te ne vai dalla mia valle — ringhiò più sommessamente e si sedette su uno dei massi squadrati antistanti la fossa principale.

— Stai prendendo un abbaglio, grande capo — commentò Devon.

Il falconer puntò l’ascia bipenne sul terreno e cominciò a farla roteare su se stessa, come un coltello. — Adesso mi diverto — sogghignò con quel suo riso animalesco guardando oltre le spalle del laureniano, incrociando gli occhi di Eileen.

— Perché Devon.

Devon si girò di scatto e incontrò il suo sguardo.

— Perché — ripeté lei in un sussurro, coperto dalle ghigna di Logan, in crescendo.

Devon mise le mani avanti, le afferrò le braccia. — Eileen, sta cercando di metterci contro, ha organizzato tutto per dividerci, capisci?

Lei scosse la testa, ricacciando indietro le lacrime e affrontandolo direttamente. — Sono stanca. Stanca delle menzogne, dei doppi giochi, dei falsi sorrisi.

— Dovevi ascoltarmi, ragazzo — intervenne la voce di Logan. — Una così o l’ammazzi o non la piegherai mai.

Eileen inarcò un sopracciglio e si divincolò dalla sua stretta, puntando la mappa di Morra verso il falconer. — Mi avevi dato cinque giorni, capo villaggio. Eccomi qui, con la verità sul palmo della mano.

— Avete messo in mezzo pure mia figlia per tendere questa ridicola trappola — ribatté sprezzante. — Comunque sono qui con l’ascia in pugno.

— Se avessi dato retta a Tierney e Morra, non avresti consegnato la tua valle a Teras. Invece la tua avidità ha lasciato che lanciassero la maledizione su Uffern. Hai lasciato che la migliore amica di Gwennifer e suo marito bruciassero vivi. Hai messo in pericolo perfino tua figlia!

Logan si levò in piedi come una vetta sormontata da nubi di tempesta. — Frena la lingua, femmina. Nessun drago, nessuna maledizione. La mia valle è libera. E tu faresti bene e tornartene dal tuo abate.

Eileen fece un altro o verso di loro. — Il drago da scacciare non è la bestia cantata nelle storie di questi monti che abbiamo sacrificato per nulla, ma la Serpe che ti ha corrotto il sangue, e ti sta usando per avvelenare la tua gente. Possibile che non vedi quanto tua figlia è preoccupata per te?

ando per un sentiero noto a pochi, Gwen l’aveva guidata alla casa dei boscaioli. Mentre Eileen si teneva nascosta, la coraggiosa ragazza assegnava ai presenti un nuovo incarico, che andava trasmesso a tutti i boscaioli della vallata entro due giorni. I falconer erano rimasti stupiti, poiché contravveniva al precedente ordine di Logan, ma disubbidire a sua figlia poteva essere peggio.

Quindi avevano raggiunto il sorbo che Eileen aveva tentato di guarire il secondo giorno.

— Quando sono stata mandata in questa valle — aveva confidato a Gwennifer — mi fu affidato un compito, molto preciso. Salvare almeno un’anima. Questo albero è rinato perché sono riuscita a donargli un po’ d’amore prima che il morbo lo consumasse, e il dubbio indebolisse i miei poteri. Così succederà con gli altri sorbi. Non devi permettere che muoiano, Gwen, o la valle, e con essa la tua gente, sarà perduta.

La fanciulla sembrava non capire, così continuò. — Il tuo spirito è limpido e generoso, non aveva bisogno di essere salvato. Sei stata tu a salvarmi, perché hai creduto in me fino all’ultimo, sfidando le apparenze, tuo padre e le leggi del tuo villaggio. Mi hai fatto recuperare la fede nella Vita, e la voglia di riaffermare la verità, anche a costo del sacrificio. Comunque andranno le cose, ora so che la mia missione non è stata un fallimento ma una sfida che la Dea mi ha lanciato per ritrovare me stessa.

Il richiamo all’affetto della figlia sembrava aver scosso il capo falconer. — Puoi ancora tornare indietro, Logan. Non è ancora tardi per salvare Uffern.

Eileen stese la mappa su uno dei massi su cui si usava battere le pelli.

— L’economia di questa valle vive sui sorbi. La legna abbondante rifornisce costruzioni e camini. Dai frutti ricavate farina, salse, medicine, sostanze per trattare le pelli. Niente di strano, è la specie di alberi più diffusa. Finché questa mappa mi ha aperto il sentiero verso la verità. Queste piante assolvono un’altra funzione, preservata fin dai tempi remoti da un custode dei boschi.

Eileen tracciò un segno sulla pergamena. — Unendo i punti in cui sono riportati i boschi di sorbi, appare la runa di Beithe. Questa valle è stata protetta fin dall’antichità da un invisibile sistema di difesa naturale contro gli spiriti e i demoni della Notte. Un sigillo perfetto, in quanto coincide con la valle stessa. Morra mi disse che la foresta non brucia mai. Ma se il bosco intero venisse abbattuto, il Potere dell’intera runa svanirebbe. I tuoi predecessori elessero un custode ma non avrebbero mai immaginato che la follia umana potesse distruggere tutto.

— Erano malati, non restava che tagliarli! — cercò di difendersi Logan. Quando infine capì, afferrò un cespuglio di capelli dalla fronte e tirò fin quasi a strapparseli.

— Ora la magia della runa è debolissima. Per questo la maledizione ha effetto.

— E il sangue che scorre nei torrenti?

Eileen si avvicinò a una delle vasche seminterrate e fece per spingere la pesante tavola di legno che la ricopriva. Inaspettatamente intervenne Devon ad aiutarla. Immerse la mano e mostrò a Logan l’indice, coperto di sangue.

L’enorme falconer dapprima inorridì, poi si avvicinò e constatò che era il liquame tratto dalle sorbe con cui si preparava la tintura.

Eileen cercò di decifrare quel mezzo sorriso sul volto di chi aveva rischiato con lei, forse per lei, la vita sulla Colmine. Era stato proprio Devon a metterla sulla giusta strada.

— Chi ha gettato la maledizione ha pensato bene di aggiungere qualche trucco per spaventarvi.

La mano di Logan scivolò verso l’impugnatura dell’ascia. — Sorbi e torrenti non generano la creatura che mi hai portato quella notte.

— Diglielo pure che di notte mi trasformo in un serpente o una specie di licantropo — sbottò Devon con un’espressione carica di sarcasmo ma anche d’intima malizia.

Eileen scosse la testa, infastidita. — E’ la manifestazione più perversa del Drago. Ogni nuova anima che viene alla luce è sacra ad Aurora, perché è la speranza di un mondo migliore. La notte scorsa, alla festa, mi sono stupita ancora una volta del piacere che il dio del Crepuscolo prova nel corrompere le cose belle della Vita.

Sentiva lo sguardo dell’ex amante su di sé e abbassò il capo. “L’amore vero è verità, e la verità è libertà” si ripeté. Non poteva indietreggiare, doveva percorrere il sentiero fino in fondo. Mancava l’ultimo o. Trasse un lungo respiro prima di rivolgere a Devon il sorriso dal sapore d'inverno di chi sceglie di dirsi addio.

— E’ stato il tuo mercante a introdurre quelle vesti color ruggine nel villaggio, vero?

Stavolta la sua consueta maschera, quel viso solitamente spensierato o poco

incline a lasciar trasparire le sue vere emozioni, cadde in frantumi.

La luce del Tramonto

Il sole incendiava i contorni aguzzi del Dente Affilato e prima di ritirarsi dalla propria corsa, trascinò sui boschi e le balze una coltre oscura e silenziosa. Quando la linea d’ombra risalì il declivio e sul prato scese una morbida frescura, il destriero di Logan lanciò un nitrito, spezzando la tensione che si era creata all’ingresso della conceria.

— Mi avevate promesso che questa conceria sarebbe servita a… era questo lo scambio! — tuonò contro Devon il capo villaggio.

— La conceria non è mai stata riavviata, Logan. A loro interessava solo questo — chiosò Eileen sfregandosi il dito — per poter ribaltare il suo Potere contro di voi. Si dice che la Società del Crepuscolo produca a Mavost ogni sorta di oggetti in cui condensa le peggiori fatture per soggiogare la volontà e il destino degli uomini.

Sia Arlene che tua figlia erano incinte dei rispettivi fidanzati, ma quelle vesti hanno corrotto il frutto dell’amore che portavano in grembo. Iorwerth ha subìto insieme con la compagna la sentenza del tuo villaggio; il ragazzo che amava Gwennifer è scappato per evitare la stessa sorte. Non deve essere stato facile, Logan, attendere nove lune, con l’angoscia di scoprire se anche a tua figlia sarebbe toccata la condanna di stregoneria. Ma tu sei il temuto capo di Uffern, e per salvarla hai messo l’ascia davanti alla legge. Gli innocenti da sacrificare sull’altare questa volta sono state due bestie sulla Colmine, che ci hanno quasi ammazzato. In verità, avevano più diritto di vivere di noi…

Eileen sapeva di aver guadagnato posizioni su Logan, ma era altrettanto

consapevole che era giunto il momento risolutivo e sia lui sia Devon erano imprevedibili. Eppure dal cuore non le saliva una crescente paura, ma una rinnovata pietà per le miserie umane, che trovavano il centro più triste e oscuro proprio nell’uomo che pensava fino a un giorno prima di poter amare per tutta la vita. In cambio della Vita.

— Notevole, sacerdotessa. I miei complimenti.

Dalle ombre della conceria emersero i tratti preziosi di un fisico longilineo e piuttosto alto. Un pizzetto curatissimo terminava un viso riveliano in cui spiccavano due pagliuzze dorate.

— Robert sarebbe fiero di te. Hai completato la tua missione — finì di plaudire tenendo congiunte le mani il mercante conosciuto nella locanda. — Ora ti invito a riflettere, come ho già proposto a Logan e all’abate, nei termini dell’unica soluzione ragionevole di questo conflitto. L’utilità.

— Il tuo oro e le tue parole velenose non attaccheranno con me — ribatté Eileen.

Il riveliano non le badò. — L’utile è ciò che ha spinto Robert a investire su una fiera che è diventata la più promettente del Falchion. L’utile ha trasformato Logan da vile capotribù di una valle sperduta a un uomo politico che potrebbe diventare determinante per le sorti della sua nazione.

Tu non comprendi, Eileen — riprese con la sua voce melliflua. — Non comprendi, perché il tuo sguardo si sofferma su questo villaggio, sulla tua piccola vittoria, sulla necessità di dare un senso alla tua esistenza frustrata. Non riesci ad abbracciare il movimento della storia, un vento mai stanco che

confonde per il mondo migliaia di voci smaniose di soffocarsi le une sulle altre.

— L’utile sono le armi con l’impronta del Teschio nascoste dentro quelle vasche e quei barili?

Eileen le aveva scoperte perquisendo i locali, prima che arrivassero gli altri. Mentre sentiva il suo viso accendersi per l’ira, pensò da dove fosse sbucato il mercante. E se avesse una scorta in attesa di colpire.

Il riveliano la fissò intensamente negli occhi, senza darsi cura che Logan stava avanzando verso di lui come un toro infuriato.

— Melkbrayan ha accettato il fatto che una reliquia di Aurora non fermerà i nerguliani, ma una ricca fiera farà risparmiare Clareville. Dimmi cosa è più importante: una chiesa o la vita dei suoi abitanti? Se Logan resta dalla mia parte — si rivolse direttamente al falconer, che ormai l’aveva quasi raggiunto nella sua carica e stava per calare l’ascia inesorabile — sa che lui e la sua gente saranno risparmiati quando gli eserciti del Teschio, aggirando il Grande Scudo, eranno da questa valle per invadere il Falchion. Questi boschi, e il loro segreto, il prezzo da pagare. Prendere o lasciare.

Logan si arrestò di colpo. Abbassando lentamente l’ascia digrignò i denti come un cane trattenuto dalla catena.

— Non ci guadagno nulla da un paese di morti. Io ho salvato Clareville e Uffern — esclamò Merqalt trionfante. — Il Crepuscolo annuncia l’oscurità, ma è pur sempre luce.

Logan esplose un muggito che riecheggiò nella valle. Si girò di scatto roteando la pesante ascia a mezza altezza, ma non trovò la testa di Devon, che si era già abbassato e lo colpiva con un secondo pugnale, conficcandoglielo sopra la milza. Devon balzò all’indietro ma non fu sufficiente ad evitare il calcio che lo investì in pieno petto, facendolo ruzzolare verso il torrente.

L’urlo le morì in gola, quando il falconer calò l’ascia come una saetta ma trovò il terreno. Eileen fece per correre verso i duellanti ma la bloccò la voce beffarda del riveliano.

— I tuoi sentimenti tradiscono la tua fede. Quanto odio nei tuoi occhi, figlia di Aurora. Stai pensando di sfogare su di me la tua solitudine di donna o il tuo senso di inutilità come sacerdotessa? Torna a casa, Eileen. Non voglio la tua vita, mi è più cara la tua anima sempre incerta.

Eileen vede il pugnale ricurvo di Devon scheggiare la corazza di Logan all’altezza della spalla. L’esperto guerriero falconer non ha abboccato alla finta e dà una spallata in pieno petto a Devon, che cade all’indietro ma con incredibile destrezza appoggia un braccio al terreno e con la gamba destra sferra un calcio alla rotula di Logan. Il gigante ricade pesantemente sulle ginocchia.

“Non sai ancora distinguere gli amici dai nemici” le rimbombano nelle orecchie le parole di Morra. I due uomini sembrano due serpi avvinghiate nella lotta. Dove sta la verità? Stringe il pugno, lo rivolge all’odiosa espressione di Merqalt.

“Mi è più cara la tua anima”. Ma certo! Ecco dove aveva sentito quel nome che non le era tornato nuovo dalle labbra di Devon. Una lancia gelida le attraversa la schiena e si trasmette a tutte le membra.

Il viso del mercante si fece improvvisamente serio, come se avesse compreso di essere stato riconosciuto. — Non hai i tuoi poteri, comunque insufficienti per sconfiggermi. Te lo ripeto per l’ultima volta, la tua missione è finita. Per te c’è solo morte qui.

Un urlo d’agonia di Devon riportò la sua attenzione allo scontro. Entrambi erano ai bordi del torrente. Insanguinati, si reggevano a stento in piedi. Logan aveva perduto la sua ascia e numerose ferite costellavano la massiccia corporatura. Come un leone di montagna era pronto a sferrare l’ultimo assalto. Devon, ansimante, era inclinato dal lato sinistro, dove una chiazza cremisi si allargava sul costato. Teneva nella destra il pugnale ricurvo, a testa in giù, nero messaggero di morte.

— O Dea, l’amore è amore — sussurrò Eileen alle prime stelle che si erano affacciate nel firmamento prossimo alla notte. Si strappò la catenella d’argento dal collo e rivolse il Giglio verso Merqalt. Invocò il nome segreto dello Spirito di Luce con la volontà di avvolgere, annullare quell’essere di eterna oscurità.

Il mercante si portò le mani agli occhi ed emise un sibilo acuto, che aveva ben poco di umano.

Eileen non perse tempo. Lo superò mentre imprecava contro di lei e bestemmiava il nome della Madre. Rovistò tra le casse nascoste sotto uno spesso telo nero, ne aprì una. Le sue dita trovarono il ferro gelido e lo sollevarono.

Uscì dalla notte della conceria, giusto in tempo per vedere il coltello di Devon penetrare tra le costole dell’avversario. Logan s’inarcò all’indietro ma anziché cedere, si spinse in avanti centrando con una tremenda testata il naso del

laureniano, che cadde nel torrente. Logan con un balzo entrò in acqua e lo afferrò per la giubba, riportandolo a galla. La faccia di Devon era ridotta a una maschera di sangue.

— Una figlia di Aurora brandisce una spada forgiata per le truppe del dio dei Morti. Questo è un piacere che non avevo ancora provato!

— Merqalt! — esclamò. Ancora lui, con quegli occhi che pungevano l’anima. La sua luce non aveva avuto effetto, oppure l’oscurità dentro quell’essere aveva prevalso.

— Se Devon è stato così stupido, allora merita davvero l’Averno — sentenziò a voce bassa il mercante, divenuto d’un tratto cupo, quasi preoccupato.

Merqalt. Eileen rivide davanti a sé l’espressione accigliata di Devon quando la sera prima gli era scappato il nome del suo patrono. Quando era giunta alla conceria, era convinta che l’avesse fatto apposta per attirarla in una trappola. E se avesse detto la verità, se il suo piano di staccarsi dal mercante e da Logan, e di vivere insieme a lei, fossero stati sinceri? Se il mercante avesse soggiogato la sua anima, divisa tra la fedeltà al patrono e l’amore per lei?

Disperata si volta ancora una volta al fiume. I due erano immersi fino alla cintola nell’acqua. Le dita di Devon cercano il pugnale conficcato nel fianco di Logan, Logan sta per calare una pietra sulla testa di Devon. Eileen chiude gli occhi, si riempiono di lacrime. E’ stata lei a condurre Logan contro di lui.

— Questa è la Vita che ti hanno costretto a onorare e servire, piccola sacerdotessa — le giunge la voce di Merqalt distante come un ricordo. —

Davanti alla fine ti illude che c’è sempre stata e ci potrà ancora essere la facoltà di scegliere. Devon pare aver scelto il suo destino. Tu Eileen, dimmi, quale illusione, quale egoistica spinta emotiva desideri ammantare di gloria?

Eileen riapre gli occhi, giusto per vedere le acque tingersi di cremisi. E’ proprio quel torrente dove i sorbi, le aveva detto Devon, lasciano cadere le loro foglie e le loro bacche. Lacrime di sangue.

Si avventa con la punta della spada diretta al cuore del riveliano.

— Maledetto mostro! —

Merqalt, con un movimento veloce ed elegante, si gira all’ultimo sul fianco, le afferra il polso e stringendolo le fa cadere l’arma di mano. I loro sguardi s’incrociano.

— Lascia la guerra agli uomini senza dubbi.

Non odio o sarcasmo, ma un’inattesa rassegnazione nella sua voce. Eileen coglie sul suo polso linee sinuose. Le linee formano un disegno, il disegno evoca un drago.

— Ora di dubbi non ne ho più, e tu hai perso, demone. Perché conosco il tuo nome e perché almeno un albero è sopravvissuto. Gwennifer ha già trasmesso l’ordine di sospendere l’abbattimento. La runa di Uffern tornerà presto attiva.

— Cosa? Non osare inganni con me!

— In nome di Aurora e degli Spiriti celesti, sparisci Merqalt, Demone del Crepuscolo, Mercante d’Anime dell’Averno!

Con la mano libera gli premette sul petto, all’altezza del cuore, il simbolo del Giglio e ripetè la formula d’esorcismo nell’antica lingua di Delion.

Merqalt contrasse i lineamenti fini e nobili del volto perfetto, allungandolo in un ghigno orrendo e diabolico. Spalancò la bocca in un grido muto, cercò con le fauci serpentine la gola di Eileen ma il fuoco gelido del Giglio gli traò le vesti e la carne di tenebra. Un istante dopo la sua manifestazione terrena scomparve, assieme all’ultima luce del Tramonto dietro le sagome oscure dei gioghi. Restò solo notte e infinito silenzio.

Eileen era distrutta dalla fatica. Restò distesa a terra per chissà quanto tempo finché sentì una mano posarsi sopra la sua spalla. Chiunque fosse, avrebbe voluto che le trasmettesse un po’ di conforto e di quella speranza che lei era riuscita a dare al sorbo malato. Un piccolo aiuto per allontanare le ombre dall’anima stanca, e sbocciare in una nuova Alba.

Una strega buona.

Ringraziamenti

Questo piccolo sforzo letterario è solo una foglia di un grande albero che è cresciuto negli anni: il mondo di Experya. Ogni storia fantasy che si rispetti si fonda e si sviluppa su un setting precostruito e in sé coerente.

Experya è un’adolescente nata nel lontano 1996, quando io, Pierluigi Bertolini, Emanuele Rinaldi, Marco e Matteo Sacchi, Matteo Maggiolini e Daniele Bonfiglio eravamo compagni di viaggio in un mondo fantastico che costruivamo pezzo per pezzo. Quel lavoro è terminato, ma le storie continuano, rese più grandi dall’amicizia e dalla volontà di condividerle con un numero sempre maggiore di persone.

Experya.com vorrebbe diventare un progetto “open”: una community dove altri viandanti si incontrano per scambiarsi le loro esperienze, o per scrittori o apionati che potrebbero utilizzare la nostra ambientazione come o alla loro fantasia.

Sperando di non aver annoiato nessuno, il mio ringraziamento va a queste persone e a coloro che vorranno prendere il cappello da viaggio e diventare cantastorie di Experya.

C.M.

L’autore

Umanista di cuore e formazione, ha “tradotto” l’amore per l’antichità classica per tutto ciò che inizia con “www”. Carlo Milani è Project manager di Futuraweb, l’agenzia di comunicazione multimediale milanese che ha fondato nel 2002, per la quale ha vinto anche premi tecnici nazionali.

Si occupa dello sviluppo di applicazioni web e più in generale del coordinamento di progetti di comunicazione integrata. Le sue ioni sono la scrittura, la fotografia e i giochi di ruolo. Nei momenti liberi si rifugia in mezzo alla natura con la sua reflex o il suo arco. I generi letterari e cinematografici preferiti sono il fantastico, la fantascienza e il romanzo storico.

Il suo sogno segreto? Fondare una casa comune per giovani talenti circondata da un’immenso parco in cui ospitare animali abbandonati.

www.carlomilani.eu