- BIBLIOTECA DELL’ANIMA -
Collana diretta da Bruno Cerchio
4
Ugo di Fouilloi (Hugone de Folieto)
La medicina dell’anima
(De medicina animæ)
a cura di Mario Serio
In copertina: calligrafia araba a forma di vascello.
ISBN: 978-88-96720-09-7 © 1998 Edizioni Il leone verde Via della Consolata 7, Torino Tel/fax 011 52.11.790 e-mail:
[email protected]
Introduzione
Il sistema dei quattro umori
La civiltà greca ebbe, fin dal V sec. a. C., l’inquietante particolarità di intrecciare l’adesione allo spirito tradizionale con impulsi verso posizioni eteroclite e contrastanti. La cosa, com’è noto, fu a suo tempo sottolineata (con scandalo dei contemporanei) da R. Guénon, parlando di quello che egli chiamava il “pregiudizio classico”¹, ma era già stata stigmatizzata in antico². È facile dunque immaginare come negli aspetti del sapere riguardanti il mondo naturale (connesso solo di riflesso alla conoscenza metafisica) potessero in simile civiltà convivere e scontrarsi istanze sapienziali e proto-scientifiche (e dunque, tradizionali e antitradizionali), massime nella medicina, che riguarda un campo di studio molto particolare: l’uomo come oggetto naturale. Da questo punto di vista è molto interessante considerare la nascita del sistema³ dei quattro umori, originato da un lungo processo storico di sussunzioni e sincretismi, nel quale si integrarono (non sempre senza fatica) dati tradizionali ed empirici, fino a pervenire ad una sorta di “ritraduzione” tradizionale nel Medioevo, ritraduzione di cui il De medicina animæ costituisce un capitolo di particolare interesse. Le due anime di questo sistema le rileviamo già separando l’idea numerologica del Quattro (di origine pitagorica) dal concetto di “umore”. Non possiamo identificare un’origine storica precisa del concetto di “umore” (chymos⁴), e dobbiamo perciò considerarlo appartenente alla prestorica tradizione asclepiadea; la prima scuola medica greca di cui invece abbiamo contezza, quella di Cnido (fiorita tra il VI e il V sec. e contraddistinta da un forte empirismo), considera gli umori, ma solo in senso patologico: durante la digestione, parte delle sostanze andavano a rigenerare il corpo, parte erano indigeribili e formavano i rifiuti, che se non adeguatamente espulsi potevano formare questi umori negativi, da cui si generavano le malattie: Eurifronte li immaginava innumeri, mentre Erodico ne distingueva due, uno acido e l’altro amaro – quelli che più tardi saranno chiamati flegma ⁵ (pituita, catarro) e cholé (bile).
Per quanto concerne il numero Quattro, esso ebbe grande importanza per i Pitagorici i quali (in accordo con la Tradizione) vedevano in esso il principio dell’Immanenza: essi giuravano sulla divina Tetraktys, il Quaternario la cui somma dà la decade (1+2+3+4=10): il Quattro dunque esprime (direttamente) la possibilità della Manifestazione e (implicitamente) la Pienezza del mondo e la sua Perfezione (cioè la sua possibilità del ritorno a Dio). Fu però Empedocle (490 ca. -430 ca. a.C.) a sviluppare la dottrina dei “quattro elementi” (che egli chiamava rizòmata, radici⁷), connettendoli con quattro entità cosmiche: sole, terra, cielo e mare – che poi diverranno, per trasposizione, fuoco, terra, aria e acqua. Come nel mondo l’armonia era data dal giusto combinarsi (krasis) di queste quattro “radici”, così era per l’uomo, sia per la sua costituzione fondamentale (di tutto il corpo, come di ogni sua parte: per esempio, un’ottima krasis della lingua era propria all’oratore) che per quanto riguardava il suo ritorno alla salute. Per quanto possa sembrare strano, i medici di estrazione pitagorica, precedenti o contemporanei a Empedocle, non videro applicazioni in campo fisico del numero Quattro; tra di loro, Alcmeone di Crotone (che fiorì intorno al 500 a.C.) occupa una posizione particolare: egli parlò di qualità (dynàmeis) in numero indefinito (anche se vengono citate il caldo, il freddo, il secco e l’umido, il dolce, l’amaro) – questi principi attivi mantengono la salute se permangono in equilibrio (isonomìa), ma il predominio (monarchìa) di uno genera la malattia⁸ . Contemporaneo e concittadino di Alcmeone, Filolao fu anch’esso pitagorico. Nelle sue concezioni eziologiche, considerò come agenti patogeni bile, sangue e flegma (in ciò influenzato dalla scuola cnidia), elaborando invece una teoria dei principi egemonici del corpo ispirata al quaternario: questi principi risiederebbero nel cervello (principio pensante), nel cuore (principio sensibile) , nell’ombelico (principio vegetativo) e nel sesso (principio fecondativo) – il primo è egemone nell’uomo, il secondo negli animali, il terzo nei vegetali e il quarto è comune a tutti i viventi. La sintesi di questo coro eterogeneo fu operata all’interno della scuola di Ippocrate di Cos (460 ca. -370 ca. a.C.). La vicinanza geografica e culturale (Cos e Cnido erano colonie microasiatiche di origine dorica) fece sì che la scuola di Cos si considerasse ad un tempo continuazione e superamento di quella cnidia. Per l’argomento che ci concerne, Ippocrate parla di “umori” (per lui non ancora quantitativamente definiti) che agiscono nel corpo e negli organi, determinando con il loro equilibrio e squilibrio la salute e la malattia, ma anche producendo
con la diversità dei loro rapporti le differenze individuali di tipo fisiologico e psicologico (è la nascita del “tipo” psicosomatico). Negli umori agiscono le dynàmeis, concetto che egli riprende da Alcmeone, ma trasformandolo, poiché la dynamis cessa di avere connotazioni sostanziali e diventa una manifestazione della fysis corporea. Morto il suo capostipite, la scuola ippocratica si trovò a dover attraversare una comprensibile crisi, aggravata dal contemporaneo fulgore della scuola italica (ove era preminente Filistione di Locri). Sta all’acume e all’intelligenza del genero di Ippocrate, Polibo, l’aver dimostrato la sostanziale compatibilità delle concezioni ippocratiche e italiche; è così che nel suo importantissimo trattato La natura dell’uomo(Perì fysios anthropou) troviamo finalmente definito il sistema dei quattro umori che rimarrà in auge nella medicina occidentale – e non solo in quella¹ – per più di duemila anni. Lo riassumiamo nella tabella seguente:
UMORE
STAGIONE
QUALITÀ
Sangue Bile gialla Bile nera Flegma
Primavera Estate Autunno Inverno
Caldo e umido Caldo e secco Freddo e secco Freddo e umido
Al di là della riuscita di questa sistemazione – che integra con successo gli aspetti cosmologici empedoclei con quelli eziologici e fisiologici dell’ippocratismo, fornendo una valida chiave di lettura, anche tradizionale, alla natura fisica dell’uomo – appare chiara la natura sincretica del sistema, che presenta dal punto di vista teorico alcune incongruenze. La prima e più evidente consiste nell’intromissione del sangue, il quale non può essere considerato alla stregua di un semplice umore, visto che era ritenuto la parte più nobile ed essenziale del corpo, sede e veicolo della vita¹¹. Non si negava che il sangue potesse provocare delle malattie, ma il suo prevalere costituzionale (a differenza di quanto avveniva per gli altri umori) non era considerato morboso, bensì la disposizione sana per eccellenza¹² . La seconda incongruenza sta nella bipartizione della bile. Già prima di Polibo si consideravano innumerevoli sottospecie (o alterazioni) della bile: l’attenzione dunque si focalizzò sulla sua degenerazione patologica più nota, la “bile nera” (mélaina cholé), che venne distinta dalla bile vera e propria, o “bile gialla” (cholé xanté). Si vede quindi come il sistema origini dall’evoluzione di un criterio diarchico (bile-flegma)¹³ , ando con l’aggiunta del sangue a uno triarchico¹⁴ e finalmente al quello tetrarchico. Un ulteriore o fu compiuto con Galeno (130 ca. -200 d.C.), con il quale venne formalizzato il concetto di “temperamento” (krasis¹⁵); come abbiamo visto sopra, già con Ippocrate si ipotizzava che i differenti rapporti tra i vari umori producessero tipi umani, e nei secoli a lui seguenti venne considerato un dato di fatto. Galeno accoglie e chiarisce in modo decisivo il concetto: il temperamento del corpo è determinato dalla mescolanza delle qualità elementari e non degli umori; non sarà dunque la predominanza di un umore a determinare il temperamento, ma sarà questo ad avere come conseguenza la predominanza di un umore. Il temperamento acquista così una centralità nel sistema diagnostico: esso condiziona tutta la vita (fisica e psicologica) dell’individuo e i suoi tipi di risposta esterna e interna. Tra i primi compiti del medico sarà determinare con maggiore precisione il temperamento del paziente, e ciò potrà farlo solo per via deduttiva (cosa che si inquadra molto bene con la natura postulativo-ipotetica della medicina galenica¹ ), inferendo dal quadro caratteriologico e sintomatico
gli squilibri momentanei e tipologici. La sottigliezza della diagnosi si rifletterà nella cura: la medicina galenica andrà famosa per la matematica precisione delle sue miscele di farmaci¹⁷ . I rimedi (come tutti gli altri mezzi terapeutici) sono assegnati, giusta il metodo ippocratico, con criterio allopatico (contraria contrariis curantur), per cui, ad esempio, un farmaco caldo e secco curerà un eccesso di umido e freddo (un morbo flemmatico): questo criterio, vedremo, sarà seguito costantemente nel De medicina animæ. I temperamenti principali considerati da Galeno sono nove: quattro semplici (diskrasìai aplai) dove è una sola qualità a prevalere, quattro composti (diskrasìai synthetoi) dove è una delle quattro coppie classiche di qualità (caldo-secco, caldo-umido, freddo-secco, freddo-umido) a prevalere, e un nono temperamento (eukrasìa), rarissimo, dove tutte le qualità si trovano in equilibrio. Posteriormente a Galeno, mercé anche la confusione tra “temperamento” (indicante una mescolanza di qualità) e “complessione” (kataskeyé, legata al prevalere di un umore nell’organismo), furono le quattro discrasie composte a divenire i quattro temperamenti classici, nominati, mercé l’affinità, dagli umori corrispondenti; ecco com’erano definiti questi tipi nella celebre Techne iatriké di Galeno:
Caldo + umido (“Sangue”) Non possono essere svegliati per parecchio tempo, quando si sono abbandonati al sonno; sono insieme dormiglioni e insonni, ed esuberanti nei sogni, e hanno occhi poco acuti e sensi ottusi. Disposti ad agire non meno <dei tipi caldi e secchi>, non hanno però un animo violento, ma solo facile alla collera.
Caldo + secco (“Bile gialla”) Di sensi acuti e molto soggetti all’insonnia, diventano calvi presto. Pronti ad agire, impetuosi, lesti, violenti, feroci, impudenti, sfrontati, tirannici nel comportamento e invero iracondi e difficili a calmarsi.
Freddo + secco (“Bile nera”)
I loro sensi in gioventù sono acuti e del tutto eccellenti, ma col are degli anni deperiscono rapidamente e (…) tutti sono precoci in ciò che riguarda la testa, per cui anche incanutiscono presto. Costoro più di tutti sono alieni dall’ira; per altro, se costretti ad arrabbiarsi con qualcuno, controllano l’ira.
Freddo + umido (“Flegma”) Cerebralmente tardi (…) e dormiglioni e torpidi di reazioni (…) tuttavia costoro non diventano calvi. Il modo di comportarsi è timido e pusillanime e indolente (…) e s’infuriano assai di rado, non essendo nemmeno pronti all’ira.
Dal testo di Galeno alle classificazioni medievali, il sistema dei quattro temperamenti si chiarisce sempre più come una tipologia psicofisiologica delle costituzioni fondamentali sane¹⁸, non essendo la preponderanza di un umore di per sé meno morbosa dello stesso predominio delle sue qualità in un epoca dell’anno o della vita umana, che infatti le sono collegate secondo questo schema:
SANGUE
BILE GIALLA BILE NERA
FLEGMA
Primavera
Estate
Autunno
Inverno
Infanzia
Giovinezza
Maturità
Vecchiaia
Il predominio di un umore sarà, comprensibilmente, collegato al temperamento di base: per fare un esempio, la preponderanza del sangue in primavera e nell’infanzia sarà molto più accentuata nel temperamento sanguigno che negli altri. Così, pure l’aspetto fisico sarà influenzato dall’umore, a cominciare dall’incarnato:
SANGUIGNO Sangue rosso Colorito roseo
COLLERICO Bile gialla colorito chiaro, giallognolo
MELANCONICO FLEMMATICO Bile nera Flemma bianca¹ carnagione colorito scura pallido²
Il Medioevo si affannerà soprattutto a specillare in modo sempre più attento e sottile le caratteristiche dei quattro temperamenti, sia fisiche, sia psicologiche, attitudinali e comportamentali: ecco come nel VII secolo ce li descrive Beda:
SANGUIGNI²¹
COLLERICI
MELANCONICI
Ilari, lieti, soccorrevoli facili al riso e alla parola
Macilenti, Stabili, gravi, tuttavia di di modi composti, grande ingannatori appetito, veloci, audaci, iracondi, agili
FLEMMATICI Tardi, sonnolenti, smemorati
Giungiamo così ad un autore molto importante per il nostro discorso: Guglielmo di Conches. Nella Philosophia mundi e nel Dragmaticon Philosophiæ²² le considerazioni sul sistema umorale sono integrate in una più ampia visione micromegacosmica. Gli umori – secondo Guglielmo – sono il risultato di un processo metabolico del cibo, che inizia nello stomaco e termina nel fegato: le componenti sottili dei cibi vengono qui “cotte” e separate nelle loro parti, diventando così i quattro umori, ognuno dei quali prenderà sede in un organo specifico: la bile rossa²³ nella cistifellea, la bile nera nella milza, il flegma nei polmoni, mentre il sangue rimane nel fegato. Le qualità (e quindi gli umori) erano miscelate in proporzione perfetta nel primo uomo che, una volta fuori dal Paradiso, perse però questa perfezione originaria; da questo relativo squilibrio ebbero origine le varie complessioni, fermo restando che l’uomo è di per sé caldo e umido²⁴ (cosicché il temperamento sanguigno risulta in qualche modo più vicino alla natura umana fondamentale²⁵). Queste due qualità (caldo + umido) sono quelle fondamentali, poiché il calore fa crescere in altezza e l’umido in larghezza² ; i disequilibri producono dunque i caratteri costituzionali dei temperamenti: “I collerici sono lunghi e gracili: lunghi ad opera del calore cui è proprio tendere verso l’alto, gracili ad opera del secco. I sanguigni sono lunghi a causa del calore, e pingui a causa dell’umidità. I flemmatici sono piccoli a causa del freddo, e pingui a causa dell’umido. I melanconici a causa del freddo sono piccoli, e gracili a causa del secco. Tuttavia, queste diverse caratteristiche mutano ad opera di variazioni accidentali: i collerici e i melanconici, a causa dell’ozio e del mangiare, spesso diventano grassi; i sanguigni e i flemmatici, a causa del lavoro e del mangiar poco, sono magri; e ancora, i collerici e i sanguigni, a causa della piccolezza della matrice e del seme, sono piccoli, mentre i flemmatici e i melanconici, per la ragione opposta, sono alti²⁷”.
Il De medicina animæ
Se per comprendere bene il De medicina animæ²⁸ occorre avere qualche nozione sul sistema dei quattro temperamenti, esso tuttavia non è un trattato di medicina nel senso consueto del termine, ma, appunto di “medicina dell’anima”. Non bisogna però immaginare un’impostazione psicologica in senso moderno: Ugo
dice di scrivere “a edificazione dei claustrali”, e quest’indicazione non va mai dimenticata. Il trattatello è infatti uno dei più begli esempi lasciatici dal Medioevo di lettura morale. Il Medioevo pensava che nella Scrittura (ma anche in ogni cosa di quella “megascrittura” che è il Mondo) possano invenirsi quattro sensi: letterale, allegorico, morale, anagogico. Se l’evidenza è il senso letterale, più difficile a volte risulta separare gli altri tre sensi; in linea generale si può dire che (applicati alle cose) gli altri tre sensi indicano precise facoltà e virtù. L’allegoria è ciò che in una cosa è segreto e criptico (in ciò opposta all’evidenza), l’anagogia è quanto nella cosa riesce a trasportare verso l’alto, e dunque a trascendere la cosa stessa; il senso morale è invece l’aspetto “antropomorfico” della cosa. L’anagogia è il cielo, il senso morale la terra, ma in senso positivo: noi scorgiamo un senso morale nella cosa quando essa ci rimanda un nostro “oggetto” interiore, una nostra qualità, come “suo” aspetto, però ricollocato grazie ad essa nell’Ordine cosmico. Quindi leggere l’aspetto morale delle cose è leggere l’aspetto dell’Ordine (interiore ed esteriore) che più ci riguarda. La lettura anagogica opera una sorta di “riunificazione ascendente” delle cose al loro principio, le riconnette alla loro Radice prima, supera le divisioni tra le parole per attingere alla Parola primordiale (in ciò antitetica alla filologia moderna² ). Allo spirito occidentale (che ama le relazioni biunivoche segnosignificato e la mentalità storico-sistematica) sembra povertà la riunificazione simbolica delle cose e delle parole³ , e pericolo di fantasia il distacco continuo dal dato letterale³¹ – per questo, esso è particolarmente lontano dal senso anagogico. Il senso letterale è l’aspetto esteriore delle cose, il senso allegorico quello interiore; il senso anagogico è l’aspetto trascendente, il senso morale quello immanente. Ciò ci permette di comprendere l’abbondanza di letture morali medievali: il primo importante o è infatti conoscere il proprio Ordine (come riflesso di quello cosmico) e realizzarlo in sé – solo allora si potrà superare l’Ordine stesso e unirsi direttamente al Divino (come avviene nell’anagogia). I “claustrali” a cui si rivolge Ugo sono appunto sulla prima via³² . Il De medicina animæ è un caso particolarissimo di lettura morale, poiché l’oggetto non è un testo sacro o un oggetto, ma le cognizioni mediche dell’epoca dell’autore. Le fonti di Ugo di Fouilloi sono Beda, Isidoro di Siviglia, ma soprattutto Vindiciano³³ – gli erano con tutta probabilità anche noti gli scritti
della contemporanea scuola di Chartres, soprattutto quelli di Guglielmo di Conches. Ugo parte dalla convinzione che tra l’incolumità dell’anima e la salute del corpo corrono relazioni dirette e indirette, per cui i suoi consigli hanno un duplice fine; ma, se mantenere sano il corpo non vuol dire automaticamente salvare l’anima, è altrettanto vero (per la similitudine che li lega) che la medicina del corpo dev’essere immagine di quella (ben più importante) dell’anima, così come le guarigioni miracolose del Cristo (lungi dal loro semplice fine taumaturgico o mirabolante) dovevano avere scopi morali e spirituali: dovevano cioè spingere all’ædificatio morum e al sanamento dell’anima. Dello scritto ci rimangono i primi 22 capitoli, e la parte mancante doveva essere ampia almeno il doppio della residua, ando in rassegna i principali morbi, in accordo con le intenzioni espresse nel Prologo. Contrariamente a quanto, con modestia, premette l’autore, lo scritto appare procedere con sistematicità, secondo un piano che possiamo così esplicitare:
[Prologo] 1) L’uomo come microcosmo (cap.I) 2) I quattro elementi, gli umori e i temperamenti (capp. II - VI) 3) La commistione degli elementi (cap. VII) 4) Le quattro virtù o facoltà naturali (cap. VIII) 5) Il medico e la prognosi (capp. IX - XVIII) 6) I singoli mali e la loro cura (capp. XIX -XXII …)
1 - 2) Dopo un capitolo dove pone le basi per l’analogia microcosmica (vista sia in senso fisiologico sia psicologico), Ugo a a trattare del sistema degli umori e temperamenti. Ciò che qui pare utile sottolineare è la duplicità di ogni qualità e
l’uso sistematico dell’allopatia spirituale: non vi è infatti per Ugo una qualità buona o cattiva in assoluto, ma di tutte (si tratti anche dell’amarezza o del freddo) è possibile una lettura morale positiva o negativa, cosicché ognuna può essere male o cura. Questa cura sarà di carattere allopatico, cioè ogni aspetto negativo di una qualità sarà curato dall’aspetto positivo della qualità contraria: così, per fare un esempio, l’umido dei flemmatici – che significa in negativo il torpore a compiere le opere – può essere curato ricordando come le opere degli Eletti sono accese dall’ardore dello Spirito Santo. Viceversa, l’ardore eccessivo e disequilibrato può condurre ad una forma di aridità spirituale, che si potrà calmare con l’umido delle lacrime del pentimento. È da notare anche la lettura morale dell’anno e dei segni zodiacali, per cui la rivoluzione solare diventa, interiorizzata, una vera e propria “rivoluzione dell’anima” in senso platonico³⁴ .
3) Il cap. VII, oltre ad essere in qualche modo isolato dal contesto, presenta alcuni problemi di comprensibilità che è opportuno affrontare. Il capitolo tratta di come tutti gli esseri derivino da una commistione degli elementi e delle loro qualità; si procede dunque ad un’esemplificazione di scala delle creature, esemplificazione che viene nella seconda parte del capitolo letta in chiave morale, dove ad ogni tipo di creatura corrisponde un tipo d’uomo più o meno spiritualmente avanzato. Ugo afferma che, dei quattro elementi, due sono leggeri e due pesanti, e ognuno di essi ha due estremità (la superiore e l’inferiore) e un medio; ci aspetteremmo dunque una suddivisione in base duodenaria (4 elementi x 3 parti di ognuno = 12) delle creature, ma non è così: dopo aver consegnato la natura ignea agli astri, Ugo considera solo più il criterio leggero-pesante, per cui ognuna di queste due qualità viene spezzata ternariamente secondo lo schema superiore-medioinferiore, che viene poi replicato in un’ulteriore suddivisione. Ne risulta uno schema di 19 (= 1 + 2 x 3 x 3) tipi di esseri, secondo il prospetto seguente (non per ogni tipo Ugo dà un esempio):
In questa sorta di aurea catena Homeri, che lega tutte le creature mercé la commistione delle qualità elementari, non è chiaro se l’apparente incongruenza è voluta o meno: la si può peraltro spiegare, tenendo conto che l’elemento fuoco (astri) è separato dagli altri sottostanti: in tal modo, a ogni elemento della triade aria-acqua-terra possono collegarsi sei specie di creature, per cui una relativa prevalenza dell’aria si osserverebbe in uccelli e quadrupedi, dell’acqua in rettili e pesci, della terra nei vegetali e nei minerali. Ciò che salta immediatamente agli occhi è l’assenza dell’uomo in questa classificazione, ma il motivo è evidente: essendo l’uomo un microcosmo, la stessa miscela di leggero-pesante che si legge in questa classificazione creaturale e naturale la si riscontrerà in senso spirituale nell’insieme dell’umanità, per cui il consorzio umano anche in tal senso collettivo riflette il creato.
4 - 5 - 6) Il cap. VIII si sviluppa sul parallelismo tra virtù naturali e virtù spirituali, grazie alle quali l’uomo metabolizza il “cibo celeste” della dottrina. I capitoli dal IX al XIX trattano della prognostica spirituale, con cui si può prevedere il decorso e la gravità del male spirituale, o la virulenza del vizio. I restanti quattro capitoli ci permettono di comprendere sia la vastità sia la struttura proprie alla parte purtroppo perduta del testo. Ugo infatti inizia a trattare gli specifici mali corporali (con relativa lettura morale), seguendo questo ordine: testa (in generale), sommità del capo, capelli, fronte. È dunque presumibile che si continuasse con occhi, orecchie, naso, bocca, denti, ecc., fino ai piedi, e dunque con grande dovizia di capitoli.
M.S.
Mario Serio è studioso di scienze tradizionali.
Note
¹ Si tratta del pregiudizio per cui il mondo greco-romano rappresenterebbe “la” civiltà, di cui l’Occidente si sente erede, e questo per la sua unicità rispetto alle altre culture: Guénon non nega la specificità della civiltà greca, ma la legge in senso negativo: “Il cosiddetto «miracolo greco», come viene chiamato dai suoi ammiratori entusiasti, si riduce tutto sommato a ben poca cosa, o per lo meno, là dove esso implica un cambiamento profondo, tale cambiamento è un decadimento: esso si riduce all’individualizzazione delle concezioni, alla sostituzione della razionalità alla pura intellettualità e del punto di vista scientifico e filosofico al punto di vista metafisico” (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cap. 3, ed. it. p. 30, Torino, 1965). Guénon sta ovviamente parlando solo di quella parte della cultura greca in tal senso più caratteristica.
² cfr. Corpus Hermeticum, XVII, 2.
³ Usiamo volutamente il termine “sistema” (nel senso di aggregato di parti che hanno un senso anche prese isolatamente), piuttosto che “teoria” (=contemplazione [della verità]) o “dottrina” (=insegnamento logicamente ordinato).
⁴ Derivando dal verbo cheô (scorrere, fondere), chymos vale per “succo, umore” ma anche “sapore” – in ciò corrisponde perfettamente ai significati del sanscrito rasa, per cui dal primo si ebbe chymìa, alchimia, e dal secondo rasayâna (l’alchimia indiana).
⁵ È davvero paradossale che l’umore riunente le qualità del freddo e dell’umido
significhi “incendio, fiamma” (deriva da phlégô, brucio): essa indicò inizialmente la schiuma prodotta dalla bocca degli animali quando si riscaldano, e poi il catarro che si origina durante le infiammazioni frequenti nei mesi freddi.
In antico si vedeva nel termine la metatesi di chloé, quindi con riferimento al colore verde, ma non è da escludersi nemmeno un riferimento al già citato cheô (ved. nota 5).
⁷ Col dirli “radici” Empedocle vuole sottolineare come il Tutto si nutra (qualitativamente e sostanzialmente) dal mondo supersensibile: solo da Democrito in poi si parlerà di stoicheia, elementi; il termine deriva da stoichos (=appartenente a una serie), in cui è presente la stessa radice di stìchos (propr. “o”, poi “fila, schiera di persone”; cfr. col lat. vestigium) – la definizione democritea, apprezzabile nel tentativo di riduzione alla parte ultima del sensibile – perde l’intensità simbolica di quella empedoclea.
⁸ I termini usati da Alcmeone sono indicativi, poiché la situazione normale è vista come “democratica” (isonomìa era un termine politico indicante la parità di diritti democratica), mentre il nome del “governo perfetto” è spostato a indicare una situazione di squilibrio. Non è che uno dei tanti indizi dell’atteggiamento antitradizionale del personaggio, il cui radicale empirismo è in contrasto con le sue radici pitagoriche.
L’inversione della predominanza gerarchica tra cuore e cervello (che fu per prima proclamata da Alcmeone) è un grave indizio di perdita delle concezioni intellettuali tradizionali.
¹ Non bisogna dimenticare infatti la medicina araba, fondata sul Canone di medicina di Avicenna, una lucida esposizionerielaborazione della medicina greco-ippocratica. Grazie alla medicina araba le teorie ippocratiche sono ancora
vive: in Pakistan lo Unani Tibb (lett. “medicina ionica”, cioè greca) è ben diffuso, praticato e riconosciuto legalmente.
¹¹ Bisogna distinguere tra il senso generico di “vita” come potenza della Natura (per la quale l’intero cosmo è vivo) e quello più ristretto di “vita” come aspetto energetico-sottile dell’essere, contrapposto a quello materiale-grossolano. Veicolo privilegiato di questa “anima-vita” (psyché) è il sangue, ed è grazie ad esso che gli animali sono “animati” (empsychos): tutti i riti in cui è presente il sangue hanno attinenza con ciò, come pure molte prescrizioni alimentari tradizionali (vedasi ad es. in Deuteronomio, 12, 23-4: “Ma guardati bene dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita, e tu non devi mangiare la vita con la carne”). Da questa “anima-vita” va distinta l’anima umana, per cui Cassiodoro (De anima), pur riportando la corretta etimologia (dal greco anemos, vento), inventa l’espressiva paretimologia di anaima (“senza-sangue”), che verrà riportata anche da autori posteriori (cfr. Rabano Mauro, Tractatus de anima, I: “Propriamente si deve parlare di anima solo per gli uomini, non per le bestie. L’anima degli uomini, infatti, è molto diversa dalla vita degli animali. Questa sussiste nel sangue, cosicché, venendo meno il sangue e morendo il corpo, ha termine la vita stessa e lo spirito vitale. L’anima dell’uomo, invece, non finisce con il sangue. Perciò giustamente si chiama anima, o meglio anaima, cioè ben distinta dal sangue, poiché, anche dopo la morte del corpo, essa continua a sussistere nella propria sostanza.”)
¹² Ciò, come vedremo, ritornerà nel successivo sistema dei temperamenti.
¹³ Un sistema umorale diarchico è, ad es., quello in uso presso la medicina tradizionale degli Indios dell’America Latina, ove i due opposti principi patogeni sono il “caldo” e il “freddo”: vi sono interessanti analogie con le concezioni greche arcaiche di un umore caldo (bile) e uno freddo (flegma).
¹⁴ Un sistema triarchico è quello dell’Ayurveda (la medicina tradizionale indiana, diffusa con modalità simili anche in Tibet): due dosha (=umori) – pitta (“bile”) e
kapha (“muco”) – presentano analogie con i primitivi due umori greci, mentre il terzo – vata (“vento”) – non è paragonabile al sangue.
¹⁵ Krasis (a differenza di mìxis) indica una mescolanza dove le parti si confondono a formare qualcosa di nuovo.
¹ Ciò lo si evince bene dall’evoluzione del concetto di dynamis, diventato da “forza, potenza, virtù” semplicemente una facultas, cioè un modo d’agire della natura. Centrale nella concezione di Galeno, la facultas è al contempo il suo vero tallone d’Achille, da un lato perché è tautologica (che nello stomaco risieda la facoltà digestiva e nel cuore quella pulsatile, a ben guardare non ci dice niente), dall’altro perché è ipotetica (“finché non conosciamo l’essenza della causa che opera, la chiamiamo facoltà”, De naturalibus facultatibus). Inoltre, si finisce per concepire il corpo in modo ivo (Galeno, a differenza di Ippocrate, non accetta il potere di auto-guarigione del corpo, la vis medicatrix naturæ) e parcellizzato (poiché ogni parte del corpo agisce autonomamente, secondo la propria facoltà, che può anche entrare in contrasto con le altre).
¹⁷ Nella medicina galenica, a differenza di quella ippocratica, il fattore farmacologico è preponderante su quello dietietico (nel senso originario di regime di vita).
¹⁸ Non bisogna infatti confondersi con la sovrabbondanza patologica di un umore, per cui la casistica si moltiplicherà, giacché saranno considerate almeno quattro risposte di base ad ogni fattore morboso.
¹ È interessante notare come i colori dei quattro umori corrispondono ai quattro colori delle fasi dell’Opera alchemica (nero, bianco, giallo, rosso), in evidente connessione.
² I dati di questo schema e del precedente sono tratti da Della costituzione dell’universo e dell’uomo (Perì tes tou kòsmou kataskeyes
anthròpou), un trattatello della tarda antichità, di difficile datazione, ma interessante anello di congiunzione tra le concezioni galeniche e le loro evoluzioni medievali.
²¹ Il temperamento sanguigno registra una valutazione più positiva rispetto alla corrispondente krasis galenica; gli è che nel sistema dei temperamenti esso viene ad assumere i caratteri della complexio temperata (il temperamento ideale), non esistendo più la galenica eukrasìa.
²² Di queste due opere è disponibile una traduzione italiana (parziale per quanto concerne la prima) in Il divino e il megacosmo, a cura di E. Maccagnolo, Milano 1980.
²³ Con il tardo Medioevo la bile cessa di essere definita “gialla”, per assumere lo stesso colore del sangue: il fatto (probabilmente dovuto al collegamento psicologico bile-ira) altera il simbolismo cromatico citato alla nota 19.
²⁴ La donna è invece relativamente più fredda (e dunque più flemmatica) dell’uomo: “calidissima <mulier> frigidior est frigidissimo viro” (Dragm. Phil., VI). Guglielmo la cita come tradizione ippocratica, ma in realtà deriva da Galeno (cfr. De usu partium, VII, 22).
²⁵ In Guglielmo non è ben chiara la distinzione tra la proporzione perfetta originaria dell’uomo e il suo partecipare del temperamento sanguigno: ciò risulta in modo evidente ove parla della creazione degli animali: “Pertanto, mentre sono stati creati diversi animali melanconici e infiniti flemmatici e collerici, un solo uomo fu creato, poiché (come dice Boezio nell’Aritmetica) «ogni realtà
composta di parti uguali è limitata e finita, mentre ciò che è disuguale è numeroso e molteplice»” (Phil. mundi, I, 26). Come esempio di animale collerico viene portato il leone, mentre il bue e l’asino sono melanconici e il maiale flemmatico. Considerazioni simili sono riportate in Bernardo Silvestre, Cosmographia, 2, 13, 8.
² Non sfugga che, delle quattro qualità fondamentali, due hanno in realtà valenza negativa, essendo il freddo carenza di calore e il secco carenza di umidità. In tal senso dunque può non esservi contraddizione tra il far coincidere la complexio sanguinea con quella temperata, volendosi solo indicare l’equilibrio perfetto delle due qualità positive. Non sfugga la somiglianza di queste due con i due principi alchemici (Zolfo e Mercurio): caldo e umido esaltano inoltre la natura cruciforme dell’uomo, essendo il primo simbolicamente connesso con la trascendenza e il secondo con l’immanenza.
²⁷ Dragm. phil., VI, tr. it. cit. p. 421.
²⁸ Testo molto diffuso nel Medioevo, attribuito a lungo a Ugo di S. Vittore, il De medicina animæ fu restituito dal Migne (P.L. CLXXVI, 1185 segg.) al piccardo Ugo di Fouilloi (Hugone de Folieto). Questi, che prese il suo nome da un sobborgo di Corbie, fu monaco prima dell’ordine di S. Agostino presso il monastero di S. Pietro in Corbie, ando poi all’ordine benedettino e al monastero di S. Lorenzo nei dintorni di Amiens, dove fu anche priore. La sua erudizione e la grande stima di cui godette presso i suoi contemporanei contribuirono certo alla sua nomina a cardinale, avvenuta nel 1140. Morì intorno al 1174.
² La filologia moderna (di cui, peraltro, non si vuole disconoscere l’utilità puramente strumentale che può ritenere in casi specifici) è viziata da un pregiudizio positivistico e letteralistico, evidente soprattutto in questi fatti: 1) confusione tra antico e arcaico (in ambito tradizionale la datazione di uno scritto può perfettamente non coincidere con l’arcaicità del pensiero retrostante); 2)
pericolo di letture ideologiche (per quanto in buona fede, il filologo applica sempre una chiave di lettura, che ritiene la più vicina al testo stesso, ma può essere smentita da ulteriori studi – e ciò all’infinito); 3) la pretesa di una lettura esatta (mentre il testo tradizionale, proprio per il discorso che stiamo facendo, prevede sempre più possibilità e livelli di lettura).
³ Se ne ha la costante riprova in studi di simbologia non impostati secondo i principi della Tradizione: interpretazioni psicologistiche, storico-socialiletterarie, infarcite di elaborazioni fantastiche individuali, creano un effetto caleidoscopico e una falsa impressione di ricchezza, che possono risultare attraenti quanto fuorvianti: per una certa mentalità “colta” non v’è nulla di più pericoloso del labirinto dei simboli utilizzato come fine e non come mezzo.
³¹ Il pericolo, come abbiamo detto nella nota precedente, è reale: per questo l’interpretazione anagogica è un’operazione puramente intellettuale, frutto di retto giudizio, abbandono di tutto ciò che è psicologico, ionale, materiale – in una parola, discendente – nell’uomo.
³² Non a caso dall’Alto Medioevo si usò il termine ordo per indicare una congrega religiosa provvista di una regola, cioè di un mos rigorosamente determinato a purificare gli aderenti dai loro aspetti disordinati e caduchi.
³³ Vindiciano visse nell’Africa del Nord nella seconda metà del IV sec. e fu amico di S.Agostino. La sua Lettera a Pentadio è un trattatello di impostazione galenica che ebbe una notevole diffusione nel Medio Evo.
³⁴ cfr. Timeo, 47 d-e.
LA MEDICINA DELL’ANIMA
PROLOGO
La duplice cura, cioè la medicina dell’anima e del corpo,di cui si tratta nel seguente opuscolo
Fratello carissimo, mi preghi di trasmetterti quanto sulla medicina dell’anima cominciai a scrivere, conformemente al medico Giovanni, poiché lo credi utile a molti. Se lo si considererà con attenzione, esso potrà conservare l’anima incolume e ad un tempo garantire la salute del corpo, insegnando in breve quanto giovi o nuoccia sia alla prima sia al secondo. Prima, però, vorrei propiziarmi la tua benevolenza, perché per negligenza ho abbandonato tutto ciò che su questo argomento principiai a scrivere: comunque, carissimo, ti sarà trasmesso senza dilazione quanto potrò ricondurre alla mia memoria. Non guardare, però, se riunisco insieme con poco ordine e sunteggiando ciò che avevo sistemato al proprio posto con grande fatica. Chi pensasse che queste son cose nuove, tenga presente che sono scritte nella pagina divina: è proprio perché stanno in essa che raccolsi queste preziosità a edificazione dei claustrali, giacché nel Vangelo si legge del lebbroso, del paralitico, dell’ossesso e di molti altri mirabilmente curati dal Signore; e non credo che ciò fosse fatto solo a riparazione dei corpi, ma anche a edificazione dei costumi e risanamento degli animi. In altri libri pure trovai scritto dell’olio, dell’unguento e di certo collirio che seppi essere intesi dai Santi Padri in senso spirituale; e nemmeno mi sono vergognato a riportare i detti di altri. Soddisferò così la tua richiesta, rendendo il debito a lungo differito.
I. L’uomo, che è detto microcosmo, cioè piccolo mondo
Gli antichi chiamavano l’uomo microcosmo, cioè piccolo mondo, per la somiglianza della sua figura al mondo maggiore. Inoltre, sia la composizione del corpo umano sia la costituzione del mondo possiedono grande armonia, cosicché il cielo si assimila alla testa, l’aria al petto, il mare al ventre e la terra alle estremità del corpo. Dio risiede in cielo e la mente umana tiene principato nel capo; in Dio sono tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo – e nella testa risiedono tre potenze: intelletto, ragione e memoria¹. Nel cielo stanno pure due grandi luminari, il sole e la luna – così nella testa due occhi illuminano il firmamento del volto. Il sole e la luna, illuminando il dì e la notte, assicurano agli uomini col loro chiarore il lume cognitivo delle cose; similmente, gli occhi assumono in sé con la loro acutezza le immagini delle cose e in tal modo, annunciandole alla ragione tramite l’intelletto, ci rendono certi di ciò che vediamo. E come nell’aria volano le nubi, così avviene dei pensieri nel petto, che talvolta ci portano il chiarore della letizia, talaltra l’oscurità della tristezza; o vi insorgono i venti delle tentazioni, che turbano l’animo: così nell’aere squarciato balena il lampo dell’ira, seguito dal fuoco dell’odio – una combustione dell’animo che tanto si estende dall’alto, quanto danneggia tutto ciò che trova sotto di sé. Ma come a volte le piogge, le nevi o la grandine trattengono queste tempeste, così un sermone di santa esortazione, un blando lenimento consolatorio o un aspro rimprovero placano quelle [dell’animo]. E come l’acqua si raccoglie nel mare, così fanno nel ventre gli umori. Ivi si produce dal fegato l’inondazione del sangue, l’effusione della bile o (come avviene a Cariddi) l’emissione e l’attrazione del flegma nei polmoni o (come a Circe) l’indurimento della milza. Nel movimento di questo mare (cioè nel ribollire del ventre) vi sono flussi ed espulsioni, quando per la regione superiore, quando per quella inferiore, la prima essendo il vomito, e la seconda la defecazione. E come il mare non tollera a lungo nulla di fetido, così il ventre, che ogni giorno necessita di cibo, nulla trattiene a lungo in sé di putrefatto, ma si purga per il condotto naturale.
Le estremità dell’uomo, i piedi, si assimilano alla terra, e come quella sono di natura fredda e secca; perciò si raffreddano all’uomo malato le estremità, poiché ne annunciano la morte e si appressano alla terra, assumendone la natura.
II. I quattro elementi del mondo. I quattro umori del corpo umano,e le quattro stagioni, applicati all’animo e all’anima²
Quattro sono gli elementi del cosmo: fuoco, aria, terra e acqua. Quattro umori ha il corpo umano: sangue, collera rossa, collera nera e flegma. Quattro anche i tempi dell’anno: primavera, estate, autunno e inverno. Il fuoco è di natura calda e secca, l’aria calda e umida, la terra fredda e secca, l’acqua fredda e umida. Così il sangue è caldo e umido, la collera rossa è calda e secca, la collera nera è fredda e secca, il flegma freddo e umido. La primavera pure è calda e umida, l’estate calda e secca, l’autunno freddo e secco, e l’inverno freddo e umido. Gli elementi dunque corrispondono agli umori, e gli umori alle stagioni. Ma si può ugualmente dire, per similitudine, che l’anima ha i suoi elementi: si può paragonare al fuoco la sottigliezza dell’intelletto, all’aria la purezza della mente, alla terra la stabilità della ragione, all’acqua la mobilità dell’ingegno³. Così l’animo grazie all’intelletto ha giuste idee sulla fede, [con la mente] discerne con purezza, [con la ragione] fermamente crede, [con l’ingegno] obbedisce pronto ai precetti della fede⁴; in tal modo bene agendo, vive sano, perché la fede senza le opere è morta (Giacomo, 2): è del resto necessario che la sottigliezza temperi la purezza e la purezza la sottigliezza, che la stabilità temperi la mobilità e la mobilità la stabilità: infatti, come il fuoco si dirige verso l’alto e l’aria tiene il mezzo, così bisogna curare che l’intelletto non sperimenti eccessivamente le altezze, né abbandoni la verità per le frivolezze, ma sia vigorosamente trattenuto dalla purezza, che gli dica: Non conoscere più di quanto è giusto, ma solo ciò che è prudente tu sappia (Romani, 12). Occorre pure che la stabilità non sia disfatta dal moto, e il moto dalla stabilità, ma sii pronto all’udire, e tardo alla parola e all’ira (Giacomo, 1)⁵. In modo simile l’animo si serve dei quattro umori : col sangue mostra la dolcezza, con la collera rossa l’amarezza, con la collera nera la tristezza e con il flegma la compostezza della mente⁷. Dicono infatti i medici che i sanguigni sono dolci, i collerici amari, i melanconici tristi, e i flemmatici composti negli atteggiamenti. Similmente, vi è dolcezza nella contemplazione, amarezza nel ricordo dei peccati, tristezza nel commetterli, compostezza nel purgarsene. Si deve inoltre badare che la dolcezza spirituale non sia turbata dall’amarezza temporale, o
l’amarezza ottenuta dal pensiero dei peccati non sia corrotta dalla dolcezza carnale; che l’utile tristezza non sia turbata dall’ozio o dall’inerzia e l’armonia della mente sconvolta da cose illecite. Anche l’anima si dice abbia le sue stagioni: la carità sta per il calore dell’estate, il torpore della tentazione per il freddo invernale, la temperanza e la moderazione per l’autunno e la primavera. Sii dunque temperato nel cuore e moderato nell’azione, poiché l’anima che custodisce il proprio equilibrio vive salubremente.
III. La flemma e i flemmatici
A edificazione dell’anima vorrei dissertare brevemente, ma nel modo più accurato che mi è possibile, sui quattro umori del corpo umano, e su come le diversità dei costumi possano più facilmente essere distinte grazie agli effetti degli umori. Comincerò dalla flemma, come esordio del discorso sul freddo e sull’umido. La flemma ha sede nel polmone, che ha appunto natura fredda e umida, per cui essa rende gli uomini lenti, smemorati e sonnolenti, imitando così la natura dell’inverno, dell’acqua e della vecchiezza. Si purga dalla bocca e cresce nell’inverno, tempo che favorisce i collerici e peggiora i flemmatici, migliore per i giovani che per gli anziani. Pessima è la malattia portata dalla flemma, cioè la febbre quotidiana, seppur meno maligna di quella dovuta alla collera, la febbre terzana: entrambe si giovano del caldo e del secco. La natura della flemma si può paragonare alla compostezza della mente⁸. La flemma ha sede nei polmoni, quasi come nella distinzione: e così pure la mente trae giovamento dal distinguere, perché, come il polmone attrae ed emette l’aria, così il discernimento trattiene il buono ed emette il cattivo. Questa natura fredda e umida ci rinfresca col suo freddo dal bruciore dei vizi e ci monda col suo umore di compunzione dalle macchie dei peccati. Di quel freddo si dice: Cessa un poco da me, che io abbia refrigerio prima di andarmene e venir meno (Salmo 38); e dell’umore di compunzione: Bagno di lacrime ogni notte il mio letto, irrigo il mio giaciglio (Salmo 6). [Da questa flemma] sono resi gli uomini lenti, smemorati e sonnacchiosi: lenti ad operare il male, smemorati affinché dimentichino il loro popolo e la casa del padre [terreno] (Salmo 44 [45,11]), sonnacchiosi affinché dormano e riposino nella Sua pace (Salmo 4 [9]). Il freddo e l’umido si possono però intendere altrimenti, significando nel primo il torpore della carità, nel secondo il torpore delle opere. Quando infatti abbonderà l’iniquità, si rinfrescherà in molti la carità (Matteo, 24), e così la flemma corrotta, cioè l’armonia corrotta della mente, renderà gli uomini lenti ad operare il bene, dimentichi del loro Signore creatore, sonnacchiosi nel sonno della morte (se mai prevarrà il Nemico). Lo stato della mente è inoltre simile all’acqua, pericoloso per l’inondazione, turbato dalle onde e instabile nelle
inclinazioni: eccitato dalle tempeste delle tentazioni, imita così le tempeste invernali e assomiglia alla vecchiaia, perché la debolezza e la disobbedienza a stento abbandonano la mente dell’uomo vecchio, cioè l’Adamo. La respirazione avviene tramite la bocca, e similmente le superfluità della mente si purgano con la bocca dell’intima confessione. [La flemma] cresce anche d’inverno, quando si moltiplica la tribolazione delle tentazioni: [perciò] in questo tempo stanno meglio i collerici dei flemmatici, meglio i giovani dei vecchi, perché giovani e collerici sono caldi e secchi, vecchi e flemmatici invece freddi e umidi. Non c’è dunque da stupirsi che si considerino flemmatici coloro che piangono i loro peccati, ma non ardono per questo infiammati d’amore celeste; il loro stato mentale è facilmente soggetto alla tentazione e alla corruzione. Pessima è l’infermità che si produce dalla flemma, come pure dalla corruzione della mente; difatti da quest’ultima nasce la febbre quotidiana, cioè l’ardore carnale continuo. In questa stagione, l’inverno, sono utili il caldo e il secco, e senza dubbio l’esempio degli Eletti: infatti le opere degli Eletti sono accese dell’ardore dello Spirito Santo. Bisogna notare che il freddo di questa stagione nasce da un eccezionale abbassamento del sole; esso entra infatti nel Capricorno, che è detto essere il segno più basso. Osserva la natura dell’animale da cui il segno prende nome, e traine insegnamento. La capra infatti ha analogia coi delinquenti, perché, come essa puzza per un umore corrotto da una febbre continua, così avviene del peccatore, corrotto dall’abitudine al peccato. Quella tuttavia pascola sulle alte rupi, e dunque il peccatore può trarre giovamento dall’esempio degli uomini più eccelsi. Come il sole entra nel Capricorno, così il Sole di Giustizia [Cristo] illumina coi raggi dello Spirito Santo il peccatore; e dopo il Capricorno entra nell’Acquario, che lava il fetore della carne con le lacrime. Ascende infine ai Pesci, portando a termine l’inverno, perché come il pesce vive nell’acqua, così il peccatore vive nelle lacrime.
IV. Il sangue e i sanguigni
Dopo il freddo e le piogge dell’inverno – dopo il fresco e le lacrime della compunzione del cuore – si giunge all’equilibrio della primavera, vale a dire alla purezza della mente nella conversione appena raggiunta; quindi, dopo aver detto della flemma, possiamo parlare della natura del sangue. Il sangue ha sede nel fegato, è di natura calda e umida, cresce nella primavera quando dannosa è la febbre quartana e pessima quella che giunge dal sangue e dalla sincope. Ottimo tempo per i vecchi, cattivo per i giovani, e meglio stanno gli anziani dei fanciulli; in esso si trae giovamento dal freddo e dal secco. Come dicemmo sopra, il sangue è la dolcezza della contemplazione, e ha sede nel fegato come nella sua sorgente; dal calore e fervida digestione di questa esso si dirige nelle membra, che con il loro ardore operano una terza digestione: la prima infatti ha luogo nello stomaco, la seconda nel fegato e la terza in tutte le membra. [Similmente], dall’ardore d’amore (quasi come dal calore del fegato succede per il sangue) fluisce la dolcezza spirituale del contemplante: essa è calda e umida, nascendo il suo calore dall’amore e l’umidità dal timore. Grazie a questo calore e umore crescono i fanciulli da poco convertiti, simili all’aria e alla primavera. [Questa dolcezza sanguigna] cresce in primavera, così come si compiace in modo molteplice della dolcezza spirituale chi è da poco convertito. In questo tempo è brutta la malattia che giunge dalla melanconia e dalla febbre quartana, e pessima quella che giunge dal sangue: la sincope. Infatti, all’inizio della conversione, quando l’animo del contemplante si diletta, può darsi che nasca abbondanza di buone opere, così come dall’inondazione del sangue si genera il turgore dell’esaltazione; ma il sangue si può corrompere e generare la sincope della febbre: capita così che il sangue, amico della natura, diventi nemico della vita. Per questo i medici dicono che gli apoplettici sono amici della morte. In questa stagione stanno meglio i vecchi e i decrepiti, peggio i giovani e i fanciulli, ed essa è per sua natura occasione di più malattie. Ma quando un’infermità nasce in un tempo ad essa contrario, il dolore è lenito da cose ad essa contrarie, giacché il contrario cura il contrario; quindi in primavera
conviene usare il freddo e il secco. Affinché dunque il sangue non ribolla fervido per desiderio di vana gloria, ci si deve ricordare il freddo della tentazione e la sterilità della siccità, trarre beneficio dal tenore di vita più sano in primavera, e all’inizio della conversione non desiderare le lodi. Osserva inoltre come in primavera, per il calore e l’umidità del tempo, si aprano i pori della terra: le diverse erbe generino fiori, cioè le varie virtù, così che nella nostra mente è quasi una nuova primavera, per cui fu detto: L’estate e la primavera tu le plasmasti (Salmo 53). Vedi [simbolizzati] nella primavera i conversi recenti, temperati dalla mansuetudine, e nell’estate quelli provetti, ardenti nel fuoco della carità. Nella primavera il sole, ascendendo, tocca tre segni: l’Ariete all’inizio, il Toro a metà, i Gemelli al termine. Bada nell’Ariete al comando, nel Toro al giogo e nei Gemelli alla partecipazione: il comando di scegliere il bene, il giogo di sottometterti ad esso, la partecipazione di farne parte gli altri; sappi, in questi modi, comandare, soggiogare e partecipare. Impara anche con amore nel timore e nel dolore, poiché questa è la temperanza della primavera e la mansuetudine della mente appena convertita. Questa stagione è anche incostante, quando piovosa e parente dell’inverno, quando secca e parente dell’estate, ora fredda, ora calda; nello stesso modo, i nuovi convertiti sono agitati da moto incostante e capita che i loro cuori, aperti dal nuovo amoroso calore, si corrompano all’occasione per il freddo di un improvviso suggerimento e talvolta, come da pioggia, siano inumiditi dall’inondazione dei vecchi errori, talaltra siano asciugati, come dai raggi del sole, da genuino desiderio del cielo. Occorre dunque provvedere che la malattia nata nel freddo dell’inverno non ritorni a marzo (cioè all’inizio della conversione), uccidendo il malato.
V. La collera rossa e i collerici
Giustamente, dilettissimo, parliamo ora, dopo l’umore sanguigno, della collera rossa. Essa ha sede nel (cholé), cioè nella cistifellea. La sua natura è calda e secca e rende gli uomini iracondi, ingegnosi, acuti e lievi; è anche simile al fuoco, all’estate e alla gioventù: ha respirazione attraverso le orecchie e cresce d’estate. In questa stagione stanno meglio i flemmatici e peggio i collerici, meglio i vecchi e peggio i giovani: pessima è la malattia che [in tal tempo] giunge dalla collera, e meno dannosa quella che giunge dal flegma, perciò in questo periodo si trarrà giovamento dal freddo e dall’umido. Come sopra dicemmo, converrà assegnare alla collera rossa la virtù dell’amarezza: come facemmo per la dolcezza nel sangue, ravvisiamo nella collera l’amarezza, affinché tu non solo ti dedichi alle cose spirituali, ma ti amareggi anche dei tuoi vizi. È calda e secca: calda del fervore della buona volontà e asciugata dell’umidità del fluido pensiero. Rende gli uomini irosi contro i vizi, ingegnosi per distruggere le macchinazioni del diavolo, acuti nel sentire sottilmente le cose, lievi per udirle velocemente. È anche simile al fuoco, all’estate e al calor di gioventù: tutte queste cose sono infatti calde e secche. Perciò consegui dalla collera rossa l’amarezza contro il peccato, dalla gioventù la forza contro il diavolo, dal fuoco la chiarezza per conoscere Dio con l’intelletto, e dall’estate l’ardore per amare il prossimo. Si purga dalle orecchie: mentre infatti ascolti ciò che devi fare, purghi con le orecchie del cuore le superfluità della collera rossa. Cresce d’estate: tanto più infatti abbonda la carità quanto si odia l’iniquità, perché gli uomini si debbono amare senza amare i loro errori. In questo tempo stanno meglio i flemmatici ed i vecchi, peggio i collerici ed i giovani. I vecchi sono flemmatici, i giovani collerici: quelli sono di natura fredda e umida, questi caldi e secchi. Andrà dunque meglio ai vecchi e ai flemmatici che si ammalano d’estate, cioè in tempo contrario, perché si potranno curare più velocemente, il contrario convenendo al contrario. I giovani e i collerici avranno dunque la peggio se in tal tempo gusteranno cose troppo elevate, bruciando accesi da un eccessivo desiderio di scelta. In questo tempo è perciò pessima la
malattia che giunge dalla collera, e meno dannosa quella che proviene dal flegma, perché la materia della malattia aumenta quando è simile alla stagione: ecco perché in tal periodo conviene usare il freddo e l’umido. In tanto ardore di carità conviene pensare al freddo del precedente inverno, cioè alla caduta dei delinquenti a vantaggio dei buoni. Se stai in piedi, guarda di non cadere (I Cor, 10), poiché tanto più si è in alto, tanto peggiore è la caduta. E allora tempera il caldo col freddo, il secco con l’umido, e per non riscaldarti troppo considera il caso di Pietro, consideralo e lacrima. Pietro cadde, e una volta caduto pianse amaramente Ci giova pensare a quel caso e a quelle lacrime, per cui usa di quell’unguento, poiché non sei certo migliore di Pietro. Di troppo calore ardeva Pietro, dicendo: E se sarà necessario che io muoia con te, non ti rinnegherò (Marco, 14). L’immensità del calore giungeva dall’eccessiva confidenza del troppo affetto amoroso; e poiché arse più del dovuto, si esaurì finché disse: Non conosco quell’uomo (Matteo, 26). Occorreva che temperasse l’aridità ed estinguesse l’eccessiva confidenza: uscito fuori difatti pianse amaramente (ibid.). Interpretando Pietro come “colui che conosce”, siamo riportati al responso dell’Apollo Delfico: , conosci te stesso. Se infatti ti consideri come eri prima della conversione, presto infonderai la rugiada delle lacrime nella tua aridità, temperandola col riconoscere l’eccesso di calore caduco. Nella detta stagione, cioè nell’estate, il sole sale al Cancro, cioè al solstizio estivo. Questa è l’altissima via indicata a noi dall’Apostolo, della quale è detto: Fede, speranza e carità: ma la maggiore è la carità (I Cor., 13). Perciò il solstizio significa la perfezione della carità, che consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa. Si chiama Cancro il segno tropico, cioè di conversione, poiché dall’amore di Dio ti devi volgere all’amore del prossimo¹ : il regresso dal Cancro alla Vergine è infatti quello dal fervente amore di Dio al casto amore del prossimo. Il sole tocca nell’estate infatti tre segni: all’inizio il Cancro, a metà il Leone, alla fine la Vergine, poiché nel Cancro la carità si deve convertire in comione per il prossimo, nel Leone la vigilanza in circospezione, nella Vergine l’amore in castità. Il Cancro si muove retrocedendo, il Leone dorme con gli occhi aperti, la Vergine ignora la commistione carnale: vigili dunque, chi si converte all’amore del prossimo, di amare questo prossimo non per altro, ma solo per amore di Dio. In questa stagione le radici degli alberi e delle erbe si seccano; nello stesso modo i devoti non nutrono le menti con l’umidità dei piaceri terreni.
VI. La collera nera, o atrabile, e i melanconici
Rimane ancora da dire brevemente della collera nera. Essa domina il lato sinistro [del corpo], ha sede nella milza, è fredda e secca, rende gli uomini iracondi, timidi, sonnolenti, ma talvolta vigili. Si purga dagli occhi e cresce in autunno: in tale stagione stanno meglio i sanguigni e peggio i melanconici, peggio i vecchi e meglio i fanciulli. Pessima in tal tempo è la malattia che nasce dalla melanconia, e meno dannosa quella generata dal sangue: si usi dunque del caldo e dell’umido. Possiamo intendere come collera nera (atrabile) la tristezza, per la quale siamo tristi del male compiuto. Ma v’è anche un altro tipo di tristezza, quando la mente è tormentata dal desiderio di are a Dio. Le è proprio il fianco sinistro perché è soggetta ai vizi, che sono nella parte sinistra; ha sede nella milza perché, pur rattristandosi della lontananza dalla Patria celeste, tuttavia nella milza quasi gode di speranza¹¹: ricordo infatti d’aver letto che i medici sostengono che il riso si genera nella milza; e mi sembra che ciò corrisponda a sufficienza al fatto che i melanconici talvolta ridono, talaltra piangono. È fredda e secca, e il freddo e la siccità possono avere significato buono o cattivo; un esempio di accezione negativa si ha là dove è detto: Già se ne va l’inverno, e arretra (Cantico, 2), perché per freddo dell’inverno si intende il torpore della devozione. Un esempio in positivo si ha invece là dove è detto: ammo per il fuoco e per l’acqua e ci conducesti al refrigerio (Salmo 65), poiché dopo la calura e la dissoluzione giungiamo alla quiete: il fuoco, infatti, brucia e l’acqua dissolve – quello brucia le avversità della tribolazione, questa dissolve la lusinghiera prosperità del mondo. Ma il vaso consolidato dal fuoco non teme l’acqua, e perciò dopo aver superato la tribolazione il Signore ci conduce a rinfrescare lo spirito [mens]. Anche il secco può essere inteso in due modi. [Il primo si ha, ad esempio] quando il Salmista dice: E secca la formarono le mani sue ,chiamando“secca” la terra del nostro cuore, perché resa arsa dai cattivi umori. Ma si può altrimenti intendere il secco, quando l’arida mente difetta della celeste rugiada, cioè lo Spirito Santo. Rende gli uomini irosi, secondo il detto: Adiratevi e non peccate (Salmo 4);
timidi perché beato è l’uomo sempre timoroso (Proverbi, 28); talvolta sonnolenti (quando gravati di preoccupazioni), talaltra vigili (quando attenti ai desideri del cielo); simili all’autunno, alla terra e alla vecchiaia, imitando in terra la stabilità terrestre, conseguendo in vecchiaia la stabilità degli anziani, e nell’autunno la maturità delle messi. Si purga per gli occhi: così, grazie alle lacrime, ci purghiamo dai vizi che ci resero tristi e rigettammo con la confessione. Cresce nell’autunno, cioè nella maturità del giudizio: e invero, quanto più badi alla maturità del giudizio e dell’età, tanto più deve crescere l’immenso dolore di commettere il peccato. In questa stagione stanno meglio i sanguigni e peggio i melanconici, peggio i vecchi e meglio i fanciulli. Come col sangue avesti la dolcezza della carità, hai ora con la collera nera (o melanconia) la tristezza per i peccati. Vedi nella primavera la giovinezza della vita e nell’autunno la sua maturità: la maturità tempera la giovinezza, e questa tempera la saggezza della maturità; similmente, colui che è convertito da poco desidera giungere alla maturità della perfezione, e l’anziano pensa a quanto fervore pose nell’inizio della sua conversione. Se dunque tu presti attenzione all’alternanza delle età e degli umori nella primavera e nell’autunno, conserverai incolumi le loro nature nei tempi contrari. Conviene infatti usare nell’autunno cose calde e umide; non ti basta quindi, per conservare la salute dell’anima, essere secco dall’umidità della voluttà e fresco dopo l’arsione dei vizi: devi altresì essere irrorato dalla rugiada della celeste contemplazione e dall’amore dello Spirito Santo. Il sole d’autunno percorre tre segni: Bilancia all’inizio, Scorpione a metà e Sagittario alla fine. Sai bene, o carissimo, che l’autunno coglie i frutti al massimo della maturazione, e che in questo tempo anche giunge l’equinozio: se dunque sei giunto alla maturazione, se non rinunci volontariamente a spremere la tua uva, se sei vino – e di buon sapore – se vuoi venire alla dispensa del Sommo Re per dire: Voglio dissolvermi ed essere in Cristo (Filipp., 1), poni mente al segno della Bilancia e all’equinozio¹² . La Bilancia difatti pesa con ago uguale i giorni e le notti, cioè le buone e le cattive azioni. Lo Scorpione minaccia con la coda e punge con l’aculeo che – come il dolore – sta in fondo alla coda: quando infatti giungi alla vecchiaia, temi la morte che s’approssima. Dopo lo Scorpione il sole entra nel Sagittario, che consta di due nature, ferina e umana – umana la parte superiore e ferina quella inferiore: infatti, coloro che vivono secondo ragione sono degni del cielo, mentre gli altri che vivono bestialmente son giusti per l’inferno. Tiene l’arco¹³ e scaglia le frecce: l’arco è duplice, c’è l’arco del
Signore e l’arco del diavolo – al primo s’appoggiano gli spirituali, al secondo gli animali. Infatti tendono i peccatori il loro arco per saettare in segreto i puri di cuore (Salmo 10), perché il diavolo non cessa di infestare con occulte insidie coloro che sono nascosti dalla purezza dell’abito e del sito religioso. I peccatori hanno un arco di occulta malizia e una corda di nequizia; hanno la faretra, una teca dove tengono le frecce (i pensieri perversi) perché i peccatori tesero il loro arco e prepararono le frecce nella faretra (ibid.). Preparano le frecce perché i perversi di proposito si studiano di sovvertire, ma il Signore spezzerà l’arco e romperà le frecce (Salmo 45): l’arco spirituale dei giusti è l’intelligenza, la corda è la dottrina, le frecce le parole della dottrina e la faretra la memoria¹⁴. Il Signore ha preparato quest’arco, e lo tende quando sviluppa la nostra comprensione della Sacra Scrittura; da questo arco sono lanciate le aguzze frecce del Potente (Salmo 119), che feriscono trafiggendo il cuore: “Il Signore sa saettare d’amore”, dice Agostino. Nessuno sagitta meglio d’amore di chi lo fa con la parola: saetta infatti per far diventare amante, e da questa saetta è ferita la sposa. Dice: Sono ferita dalla carità [languo d’amore] (Cantico, 2); che possa morire a questo mondo chi è percosso da simile dardo!
VII. La commistione degli elementi
Conosciamo quattro elementi di cui si compone ogni corpo, due più leggeri e due più pesanti, e ognuno di essi ha due estremità e un medio. Il fuoco ha due estremità, la superiore è più agile, sottile e lieve di quella inferiore, che lo congiunge all’aria, e tra i due sta il temperamento. Così avviene per l’aria e per l’acqua, la cui estremità superiore (congiunta all’aria medesima) è meno pesante, confusa e ottusa dell’inferiore; di nuovo, medio tra i due elementi è il temperamento. Lo stesso avviene per la terra, e le stesse cose possono constatarsi tra le qualità di detti elementi, cioè caldo, freddo, secco e umido. Nei corpi avvengono (secondo che li spinga la necessità e la diversità) le loro commistioni, poiché le cose pesanti si mescolano alle lievi, le calde alle fredde, le umide alle secche. In alcune prevale la leggerezza, in altre la pesantezza. [Senza contare che] vi sono creature totalmente di natura ignea, come gli astri, quelle che sono all’estremo della leggerezza hanno una preminenza degli arti superiori, come gli uccelli; tra questi vi saranno i più agili e leggeri (come l’aquila), i medi (come le gru) e quelli con le ali pesanti (come oche e struzzi). [A un gradino sotto] stanno le creature di media leggerezza, come i quadrupedi, e tra questi sono più lievi quelli in cui prevale la parte superiore del corpo, medi quelli in cui prevale la media, gravi quelli in cui prevale la parte ultima. All’estremità inferiore del lieve stanno i rettili: anche tra loro vi sono i più leggeri (come i serpenti), i medi (come i rospi) e i grevi (come le tartarughe). Tra le creature pesanti, le più lievi sono i pesci, anch’essi distinti in più lievi, medi e più pesanti. [Ad un gradino più in basso] stanno gli esseri di media pesantezza, come gli alberi e le erbe, che sono sempre attaccati alla terra, e tuttavia crescono: tra essi, quelli in cui prevale la parte superiore crescono più elevati (come il pino e l’abete), quelli in cui prevale la parte media hanno media altezza (come il nocciolo), quelli in cui prevale la grave rimangono bassi (come i virgulti). Al gradino inferiore della pesantezza stanno i gravissimi, come le pietre e i metalli. Vedi dunque, carissimo, come dalla commistione degli elementi si genera la differenza delle cose.
Alle stelle, completamente di natura ignea, assimiliamo i prescelti, perché le loro menti bruciano di amore spirituale e brillano per i buoni esempi. Di loro infatti si dice: quelli che educano i molti alla giustizia brilleranno come stelle in eterno (Daniele, 12). Non solo essi illuminano le nostre tenebre con la parola della predicazione, ma pure conservano una posizione eminente, eccellono in vita e bene operando conservano i limiti della rettitudine. Vi sono pure dei prescelti di merito minore, che paragoniamo all’aquila: essa vola più in alto di tutti gli altri uccelli, spinge i suoi piccoli a volare e li costringe a figgere gli occhi direttamente nel sole, nutrendo poi quelli che lo fanno volentieri e buttando invece fuori dal nido i nolenti¹⁵. Come l’aquila vola più in alto di tutti gli uccelli, così il prescelto si allontana dai desideri terrestri. Spinge a volare i suoi piccoli quando invita, con parole ed esempi, quelli a lui sottomessi a operare il bene. Costringe i piccoli a fissare gli occhi direttamente nella chiarezza del sole: così egli porta le menti dei discepoli a contemplare lo splendore della Sostanza divina. Nutre i volenterosi, perché pasce col verbo della dottrina i desiderosi di vedere Dio. Estromette i nolenti, perché preannunzia a quanti hanno distolto i loro occhi dalla conoscenza di Dio che saranno espulsi dal Regno. Le gru e le oche¹ sono categorie di sottomessi che, volando in gruppo, mantengono l’ordine: esse significano quanti mantengono la rettitudine della giustizia e amano il convento. Le gru hanno lunghe tibie e lunghi colli, stanno rialzate da terra e sono silenziose. Le oche invece sono uccelli garruli che possiamo assimilare a quelli che, pur vivendo in un certo qual modo ordinatamente, tuttavia non sanno mantenere la virtù del silenzio: si lacerano coi becchi schiamazzando e si feriscono trascinandosi a vicenda, e talvolta per l’animo irato si combattono ingiuriandosi. Nel mezzo tra i volatili e i rettili abbiamo i quadrupedi, che un poco si alzano verso l’alto, ma non si staccano mai troppo da terra, e sono utili all’uomo per i suoi lavori. Ad essi possiamo paragonare gli uomini più semplici che, pur anelando alle cose terrene, onorano tuttavia quanti vivono spiritualmente. Nel gruppo inferiore abbiamo i rettili che, strisciando sul petto e sul ventre, [ricordano quanti] stanno congiunti ai loro intimi desideri sia con la volontà del cuore sia col desiderio della carne. I più agili, all’estremità superiore, sono i serpenti; in mezzo i medi, come i rospi; all’inferiore i tardi, come le testuggini. Questi rettili hanno feccia¹⁷, veleno e aculeo. Il serpente, il rospo e la testuggine
designano le qualità di uomini che stanno nel mondo: il serpente gli astuti, il rospo i superbi, la tartaruga i pigri¹⁸. Gli oziosi hanno la feccia del piacere terreno, gli orgogliosi il veleno della livida maldicenza, gli astuti l’aculeo dell’invettiva pungente. ando agli esseri pesanti, abbiamo le gradazioni già ricordate tra pesci, erbe, metalli e pietre. I pesci vivono nell’acqua e giacciono nel fango; le erbe e gli alberi aderiscono alla terra con le radici; pietre e metalli – se non estratti con la forza – stanno nascosti sotto terra. Stanno come pesci nell’acqua quelli agitati dalle faccende fluttuanti del secolo; altri, quali erbe e alberi, si attaccano come avessero radici a tutti i desideri e cupidità terrene; nelle pietre e nei metalli si figurano i cuori duri e incorreggibili dei carnali.
VIII. Le quattro virtù al servizio del complesso umano
I medici insegnano che vi sono quattro virtù¹ al servizio del complesso umano, cioè l’appetitiva, la ritentiva, la digestiva e l’espulsiva: esse servono la virtù nutritiva, e quest’ultima serve la generazione. Quando il bambino è appena nato, necessita di latte per essere nutrito, mentre col ar del tempo gli ci vogliono cibi più robusti. Invero, come il bimbo si nutre di latte, così il convertito recente si ammaestra con l’umiltà di Cristo: quella mammella che, per dir così, si stacca dal seno della divina pietà, abbevera la nostra puerizia [spirituale] col latte della vera umiltà, dopodiché possiamo cibarci del pane di caritಠgrazie a cui – se t’ingegni d’esserne nutrito – da nulla sarai mai vinto. La carità infatti sopporta tutto, sostiene tutto (I Cor., 13), conservando così forte e sana la mente. Vi è, inoltre, differenza tra le delizie del corpo e le delizie del cuore: quando infatti non abbiamo nel presente il cibo corporale, il corpo si tormenta per il grave desiderio e la ione della carne; e quando invece l’abbiamo mangiato, la sazietà ci appesantisce. Al contrario, quando non si ha il cibo spirituale, si diventa spregevoli, mentre chi ne gusta prova sempre maggior desiderio di cibarsene. Nel cibo corporale, dunque, l’appetito porta alla sazietà e la sazietà produce fastidio; invece in quello spirituale l’appetito porta alla sazietà, ma la sazietà mantiene vivo il desiderio. In quello corporale la sazietà nuoce e il fastidio crea malessere; nello spirituale né la sazietà appesantisce, né il desiderio tormenta²¹. La parola della dottrina è il cibo della vita che, mentre serve ordinatamente le virtù sopra citate, conserva intatto lo stato del complesso umano²². L’animo appetisce il cibo della dottrina, ascolta volentieri il verbo della predicazione e lo ritiene cosicché, quando è percepito con l’orecchio del cuore, è ritenuto nel ventre della memoria. Desidera, trattiene e ama, mentre quanto era stato accolto e trattenuto è convertito in diversi umori, cioè in buoni costumi²³ . Non solo desidera, trattiene e digerisce, ma anche espelle, se abbia saputo rigettare ciò che non conviene ai suoi costumi; se invece resta dentro quanto doveva essere espulso, anche i buoni comportamenti ne patiranno corruzione. Vi sono, poi, coloro che non desiderano alcun cibo e hanno disgusto di tutto; altri, invece, desiderano ogni sorta di cibo ma, appena ingerito, subito lo vomitano; altri ancora appetiscono e trattengono, ma non digeriscono; altri,
infine, appetiscono, trattengono, digeriscono, ma non espellono quanto dovrebbero attraverso i recessi naturali. Coloro che non desiderano il cibo della dottrina, ma ne provano disgusto, non possono assolutamente vivere a lungo; di essi si dice: Ogni cibo schifavano, ed erano presso le porte della morte (Salmo 106). Chi infatti rinuncia alla parola della predicazione, già si affretta verso la dannazione eterna. Quanti hanno desiderio ma non trattengono il cibo, rigettandolo dal ventre della memoria e dallo stomaco irritato della mente, languono a lungo. Altri appetiscono e trattengono ma non digeriscono, perché non convertono in buone azioni ciò che il ventre della memoria trattiene. Quelli che non espellono ciò che doveva essere espulso sono coloro che fanno proprie cose a loro sconvenienti; mentre infatti non servono le virtù secondo il loro ordine, mutano natura [e perdono] la loro incolumità. Occorre notare come le quattro dette virtù, che procedono dai quattro elementi, attraggono gli uomini. Gli elementi, infatti, si congiungono in un corpo con parti a loro adatte e – poiché [nel corpo] il fuoco caldo e secco è la virtù appetitiva, la terra fredda e secca quella ritentiva, l’aria calda e umida quella digestiva, l’acqua umida e fredda quella espulsiva – avviene di necessità che per propria natura il fuoco attragga, la terra per propria natura trattenga quanto il fuoco ha attratto, l’aria per propria natura dissolva ciò che la terra trattiene e l’acqua ammolli quanto l’aria dissolve. Bisogna inoltre considerare, come sopra dicemmo, che per fuoco si può intendere la chiarezza dell’intelletto, per terra la stabilità della mente, per aria la purezza della vita, per acqua la mobilità del discernimento. Invero, mentre l’intelletto, di ardore spirituale, medita le cose celesti, produce un appetito spirituale nella mente e insinua nel cuore dell’uomo il desiderio della santa esortazione. Quanto il desiderio attrae attraverso l’intelletto, la stabilità dell’animo custodisce fermamente; e quanto l’animo così conserva, la purezza della mente regola grazie al retto agire, per cui la discrezione separa, rimuove ed espelle ciò che è sconveniente²⁴. Così l’animo non si allontana dall’equilibrio, lo conserva invece e non soccombe al male del peccato.
IX. Il medico e i nove tipi di segni benigni e maligni
Il medico deve essere quasi un profeta: non solo gli tocca conoscere il presente, ma anche poter giudicare il ato e il futuro. Del presente deve conoscere le infermità e il loro avvicendarsi, onde poter giudicare materia e causa del morbo; e poi da questi segni presenti prevedere la fine del male, cioè la morte o il risanamento. Vi sono inoltre nove tipi di segni benigni o maligni, che Ippocrate ricorda ne I pronostici, dove ne tratta ampiamente. Il primo tipo è la forza con cui il malato sopporta facilmente il male – o, al contrario, la debolezza con cui non lo sopporta. Il secondo è la facilità con cui il malato si muove – o, al contrario, il suo movimento pigro, pesante e la sua inerzia. Terzo, l’aspetto sano delle membra – o, al contrario, il loro aspetto malsano. Quarto, la sanità della mente e un buon appetito – o, al contrario, una mente perturbata e un difficile appetito. Quinto, un buon sonno, fatto a tempo debito e giovevole all’infermo – o, al contrario, un cattivo sonno, fatto nel momento sbagliato e nocivo. Sesto, lo spirito sereno o angustiato. Settimo, un polso regolare e naturale; oppure disuguale, ora grande, ora piccolo, ora forte, ora debole. Ottavo, una robusta virtù digestiva, oppure una debole. Nono, una utile purgazione con sudore e urina, oppure una nociva. Come abbiamo detto sopra, il medico deve essere quasi profeta e giudicare non solo del presente, ma anche del ato e del futuro. È medico in senso morale colui che è stato prescelto a curare gli spiriti, così come il medico cura i corpi, poiché ciò che la malattia è per la carne, il peccato è per la mente. Occorre pertanto che il medico spirituale consideri la materia del peccato, la sua causa [profonda], l’occasione da cui procede e ciò a cui tende, e poi distrugga la causa ed elimini gradualmente la materia [del male], considerando ciò da cui il peccato era derivato. Le cattive conversazioni corrompono i buoni costumi (I Cor., 15, [33]²⁵). Si tolga l’occasione del peccato e si espella il fratello perverso dal consorzio dei buoni affinché “non serpeggi il contagio – come dice Sant’Agostino – e parecchi non siano perduti per il contagio pestifero”. Il medico deve pertanto scrutare nell’aspetto del malato i segni della coscienza, come dice Ippocrate ne I pronostici : “Primo, considera attentamente l’aspetto del malato”. E Ippocrate, per il noto motivo del nome, è tradotto “auriga”² . Pronostici si dicono, infatti, propriamente, i giudizi sui segni riguardanti il futuro
oppure, impropriamente, il presente; per cui Ippocrate è detto “auriga”. I medici credono che il cavallo sia di natura temperata, poiché è quieto nella pace ma pronto alla guerra²⁷ , essendo i cavalli armati per la guerra (Eneide, 3). È necessario anche che il cavallo sia governato con le redini; nello stesso modo il medico spirituale, o chi ne prende il posto, regga l’animo dell’uomo interiore con le redini del discernimento, affinché non incorra nel male della dissoluzione abbandonando l’equità²⁸ . Perciò del sommo Medico si disse: Vide il suo volto l’equità (Salmo 10); vede l’equità perché ama l’equilibrio dell’animo; vede l’equità perché apprezza colui che rimane nell’intenzione di fare il bene. Equa è infatti la via del Signore, e la via dell’equità è la vita equilibrata. Perciò Davide dice: Vivificami nella tua equità (Salmo 118): l’equità di vita è la vivificazione dell’anima.
X. Il primo tipo in particolare
Il primo tipo di segni benigni o maligni è la forza con cui l’infermo sopporta il morbo, o la debilitazione con cui lo patisce. È malato chi è tentato, e muore chi si dispera. Se dunque qualcuno talora pecca, e tuttavia rimane forte abbastanza da continuare a operare il bene, è questa forza dell’infermo un buon segno; se invece l’animo del malato sarà stato così debole da cessare di operare il bene, è segno di morte e futura dannazione.
XI. Il secondo tipo
Il secondo tipo di segno è la leggerezza con cui il malato si muove, o la gravità del suo fiacco andare. Quando l’uomo interiore cede sotto la spinta di qualche tentazione, se questa è così lieve che egli possa facilmente tornare alla virtù, allora è data speranza che recuperi la salute; se invece tale è la gravità del male da non poter abbandonare l’ostinato peccato, ciò è cattivo segno, premonitore d’eterna rovina.
XII. Il terzo tipo
Il terzo tipo è l’aspetto delle membra, sano o malato. Nell’uomo interiore, l’aspetto delle membra è l’ordine morale, e nell’esteriore coincide con la distribuzione delle azioni. Le membra dell’uomo avranno apparenza sana finché le sue azioni seguiranno il temperamento di uno spirito religioso; viceversa, tali non parranno quando egli se ne distaccherà per opera della perversità.
XIII. Il quarto tipo
Il quarto tipo è la sanità di mente e il facile appetito, o la mente perturbata e l’inappetenza. È detto di mente sana quegli che non si distacca dal saggio consiglio, e facilmente brama il cibo chi si accosta volentieri alla parola di vita (che è il cibo dell’anima); ma chi ha la mente turbata e l’appetito difficile, se non desidera la parola di vita, di sicuro incorrerà nella morte e dannazione eterna.
XIV. Il quinto tipo
Il quinto tipo è il sonno dolce, fatto a tempo debito e giovevole all’infermo, oppure un sonno cattivo, incongruo e nocivo. Dorme al tempo giusto chi dorme di notte, cioè chi mantiene lo spirito calmo nelle avversità; in questa quiete sogna Dio, e in tal modo il sonno giova al malato. Dorme invece in modo sbagliato chi dorme di giorno, cioè chi gode della ricchezza mondana: questo sonno infatti, quanto più piace, tanto più è nocivo.
XV. Il sesto tipo
Il sesto tipo è la dolcezza o l’angustia dello spirito. La dolcezza di spirito è il discorso consolatore, che leggermente afferra il peccatore e lo corregge; l’angustia di spirito è l’eloquio duro, di cui si dice: Voi invece li dominerete con austerità e potenza (Ezech., 34).
XVI. Il settimo tipo
Il settimo tipo è il polso uguale e simile a quello naturale, oppure la sua ineguaglianza, di modo che è grande o piccolo, forte o debole. Le arterie procedono dal cuore, e l’eguaglianza del polso nelle arterie è l’identità della vita che procede dalle condizioni del cuore; ma quando l’animo si volge nel contrario, allora la sua diseguaglianza designa, attraverso movimenti alterati, un pericolo di morte.
XVII. L’ottavo tipo
L’ottavo tipo è una forte oppure debole virtù digestiva. Il primo luogo della digestione è lo stomaco, il secondo il fegato, il terzo le altre membra. Quando il cibo dell’anima è digerito nello stomaco della memoria attraverso il ricordo, nell’ardore del fegato attraverso l’amore e nelle altre membra attraverso l’azione, allora si ha una forte virtù digestiva. Se essa invece è debole, è segno di morte.
XVIII. Il nono tipo
Il nono tipo è una purgazione attraverso il sudore, lodevole o riprovevole. Come infatti in ogni infermo si aprono i pori della carne, così attraverso la confessione del peccato avviene una lodevole purgazione dell’animo. Si approva anche un sudore lieve, purché avvenga in tutte le membra, poiché un sudore che emana dall’intero corpo è segno di forza generale; similmente è opportuno che il sudore della confessione sia prodotto per ogni operazione del peccato. Ma quando proviene molto sudore da una certa parte del corpo, come la testa, ciò avviene per debilitazione delle membra. In senso morale, il malato significa l’animo, la testa l’intenzione, il resto del corpo la distribuzione delle azioni successive, e il sudore la confessione. Quando dunque qualcuno si confessa elogiando la propria intenzione e ritenendosi consapevolmente estraneo ai propri cattivi comportamenti, allora si ha una purgazione biasimevole, perché il sudore di questa confessione non apre i pori, che restano chiusi per la discolpa e l’ostinazione.
XIX. Il mal di testa
Mi duole la testa, disse il fanciullo al proprio padre (IV Re, 4). Essendo la testa il membro principale dell’uomo, essa significa l’opera più importante della mente; perciò il mal di testa è il desiderio della felicità mondana. Si dice che questa sia un dolore perché la si cerca con fatica, si possiede con paura e si perde con mestizia. Il fanciullo significa la purezza di un’anima penitente: al fanciullo dunque duole il capo quando la purezza dell’anima si affligge per la trasgressione della mente. Ma al detto fanciullo il capo doleva doppiamente, finché pianse per il piacere dell’anima e il consenso al peccato. Dice Davide: Il suo dolore ricade sul suo capo (Salmo 7). Il mal di testa è il morbo dell’eccessiva cupidigia: ricade il dolore sul capo quando la mente si angustia ansiosa per il desiderio delle cose temporali. Ecco – dice David – partorì l’ingiustizia, concepì il dolore e generò l’iniquità (ibid.). Concepì il dolore pensando il desiderio malvagio, partorì l’ingiustizia raggirando i fratelli con le parole, generò l’iniquità prendendo possesso delle azioni malvagie. Questo dolore nasce talvolta dal calore, talaltra dal gonfiore: il calore è l’ardere dell’eccessiva cupidigia – dunque mantienti sano e non trascurare di sottrarti all’occasione della malattia. Spandendo – dice [David] – diede ai poveri, e la sua carità rimane nei secoli (Salmo 111). Chi dona ai poveri non ricerca il profitto temporale: se dunque, elargendo quanto possiedi, disistimi il mondo, diminuisci l’assalto dell’ansia della cupidigia. Non solo sottrai occasione al morbo, ma anche ungi il capo d’olio di rosa, giacché si dice che l’olio di tal fatta sia di natura fredda. L’olio di rosa è, infatti, il sangue dei martiri² , e leggendo le ioni dei santi ti ungi il capo con olio di rose. Ma, prima di spargere l’olio, conviene radere il capo, cioè tagliare il superfluo: così facendo distruggi le cause stesse del male, e col sollievo dell’olio freddo fermi il calore bollente. Fuggi, dunque, il bruciore della carne e cerca l’ombra della protezione divina. Prega il sommo Medico, dicendo: Signore, Signore, forza della mia salvezza, che copristi il mio capo nel dì della guerra, non abbandonarmi al desiderio del peccato (Salmo 139). La ripetizione del [Suo] nome suscita la condizione della pietà; e dice la forza della mia salvezza poiché è Egli stesso che dà ad ogni uomo la forza per salvarsi ed è un rifugio e una forza, un soccorso sempre pronto per ogni affanno (Salmo 45). Copristi il mio capo nel dì della guerra: il giorno della
guerra è la fortuna mondana – è detta “giorno della guerra” perché in esso quotidianamente la carne combatte con lo spirito, e spesso si superano vicendevolmente. Il calore di questo giorno è quello del desiderio del male, e perciò si pone sul capo (cioè sulla mente) l’ombra del sommo Medico (cioè la forza della pazienza), affinché non gravi sulla mente il troppo ardore del desiderio malvagio, e in esso il giusto non si confermi peccatore. Il dolore di testa nasce [invece] dal gonfiore ogni volta che l’animo si gloria per l’abbondanza del bene compiuto, essendo quell’enfiagione del capo l’arroganza della mente. Quelli che ti odiarono levano il capo (Salmo 82). Sollevare il capo è la superbia della mente; poi si dice che ti odiarono perché chi odia non obbedisce, mentre chi ama obbedisce lieto. Perciò il Signore dice: Se mi amate, osservate i miei comandamenti (Giovanni, 14). Esibire il proprio operato è segno di compiacimento: occorre dunque ungere il capo con olio di viola, per mitigare il fuoco di quest’enfiagione. La viola³ è un’erba umile che, crescendo, poco si distacca dal livello del terreno³¹; così l’olio dell’umiltà placherà la superbia della mente. Attento che l’olio del peccatore non unga il capo tuo (Salmo 140): l’olio del peccatore è la lusinga dell’adulazione, ed esso non distrugge il gonfiore del capo, ma anzi l’accresce e nutre; perché tu invece possa pienamente sanarti da questo morbo, abbi con te l’olio di Salomone. Egli dice infatti (come poi anche Gregorio): Non manchi l’olio dal tuo capo (Ecclesiaste, 9), cioè la carità dalla tua mente.
XX. Il dolore della sommità del capo
Il dolore ricadrà sul suo capo, e la sua iniquità scenderà sulla sommità della sua testa (Salmo 7). Più sopra dicemmo che la testa dell’uomo interiore è la mente, e ora possiamo chiamare sommità del capo l’intelligenza³² della mente: come infatti la sommità del capo spartisce i capelli a destra e a sinistra, così l’intelligenza discerne i buoni dai cattivi pensieri. L’iniquità discende sulla sommità del capo quando la malvagità del peccato schiaccia l’intelligenza, assoggettandola. Questa malattia della sommità del capo si produce in modo tale da separare il capo in due parti³³: il capo si divide in due poiché l’intelligenza si rivolge a cose opposte. Se dunque a qualcuno capita questa infermità, raccomandiamo di avvolgergli il capo con bende o fasce, cioè panni di lino. Il capo stretto dal panno di lino [significa] la mente legata con la dottrina correttrice³⁴: questa infatti agisce da medicina affinché la mente si riunifichi. Per questo il Salmista dice: Nondimeno Dio spezza il capo ai Suoi nemici, e il vertice del capo a chi percorre le strade del delitto (Salmo 77). Le teste dei nemici sono le menti dei superbi, e il vertice della chioma è la scaltrezza d’argomento nella sottile disputazione, poiché la sottigliezza del capello si paragona moralmente a quella scaltrezza. Ma quando la mente si disperde su questioni contrastanti, nascono le controversie, cosicché – come si dice – si risolve una controversia per mezzo di un’altra. Non bisogna trascurare poi di offrire a questa infermità l’ausilio della medicina, perché un morbo di tal fatta si diffonde come un cancro. Così l’Apostolo dice a Timoteo: Evita i discorsi profani e futili, perché conducono all’empietà, e la loro parola rode come un cancro (2Tim., 2). E poco dopo: Evita le discussioni insensate e inutili, perché generano discordia. Il servo di Dio non deve litigare, ma essere mansueto con tutti (ibid.). La conversazione danneggia infatti chi soffre di un’infermità al vertice del capo: a lui possiamo prescrivere come elettuario e rimedio perfetto il silenzio della bocca.
XXI. La caduta dei capelli
Il capello nasce da un vapore grossolano e caldo, proprio agli umori ignei e ardenti: crescendo quello, crescono anche i capelli, da esso nutriti, e chi avrà perso quel vapore perderà pure i capelli³⁵. I capelli avranno quindi la qualità di quel vapore, così come vediamo nelle erbe, che per la siccità della terra si rarefanno, o aumentano con l’umidità; per cui, se questo vapore manca completamente, gli uomini perdono i capelli e diventano calvi: a essi nessuna medicina vale a far ricrescere una folta chioma. Se invece questo vapore non manca del tutto, ma è solo danneggiato da qualche umore, nasce una certa infermità detta alopecia; ed è detta così perché le volpi³ (in greco nominate ) ne soffrono spesso. In senso morale il detto vapore significa la previdenza del futuro: i capelli che coprono il capo, difatti, crescono quotidianamente grazie a quel vapore, e dalla previdenza nascono i pensieri distinti che celano il segreto della mente. Chi manca di quel vapore diventa calvo: similmente, l’animo che non ha previdenza nell’agire, appare calvo; né i pensieri distinti coprono la mente, lasciando invece apertamente visibile ciò che è nascosto all’interno. E non vi saranno rimedi se mancano questi pensieri discreti. Se il vapore non manca del tutto, ma è solo disturbato da qualche umore, nasce l’infermità detta alopecia, e si può conoscere dal colore cutaneo di quel luogo quale sia l’umore responsabile del male: se essa è attiva, calda e secca, non dubitiamo sorga dalla collera rossa – così, come leggiamo nel ionario, la possiamo medicare col mirobalano (cioè la ghianda profumiera), con la viola, l’assenzio o erbe simili. Il mirobalano giova agli occhi, la viola è umile e l’assenzio amarissimo. Infatti questi tre coi loro simili giovano alla previdenza della mente, affinché i capelli (cioè i pensieri distinti) crescano e non cadano. Occorre infatti che diligentemente fissi il tuo sguardo con gli occhi del cuore sul morbo del peccato, che ti confessi umilmente e ti penta amaramente. Usa questa medicina perché non ti cada la chioma (cioè i pensieri previdenti). I capelli, talvolta cadono dal capo per terra, e ciò avviene quando i pensieri della mente bramano e desiderano le cose terrene; aderiscono invece alla testa quando non si staccano dalla contemplazione della Maestà divina, onde nel Cantico è detto: I capelli tuoi sono come greggi di capre sul monte Galaad (Cant., 4). Per capelli si intende la sottigliezza del pensiero, comparata alle capre³⁷ perché, come queste
ultime, cerca i luoghi elevati e non viene meno alla volontà del bene eterno, nemmeno quando la costringe la necessità temporale.
XXII. Il dolore della fronte
La tua fronte di meretrice non ha voluto arrossire (Geremia, 3). Il profeta parla di una donna adultera, lamentandosi dolente di essa: con l’immagine della fronte la parola divina intende talvolta l’anima che – desiderosa di vedere Dio – era avvezza a coprirsi la fronte col velo della pudica semplicità. Ma se la medesima sarà colpita dal morbo del peccato, andrà con la fronte scoperta per l’impudicizia, e colei che prima era vissuta giustamente non cesserà, una volta buttato il velo della semplicità, di esaltare il peccato; ché, se in religione qualcuno commette una colpa piuttosto grave (e tanto più alto il grado, maggiore è la colpa), viene incitato dai secolari. Perciò dice Isaia: Vergognati Sidone, dice il mare (Isa., 23); e Gregorio dice: “L’azione dei religiosi è sconvolta dall’agire dei secolari quando i primi non vivono la loro regola secondo il cuore e i secondi attribuiscono l’operato [dei religiosi] alla loro condizione”. In Sidone certo si raffigura la stabilità dei religiosi e nel mare la vita dei secolari; Sidone, infatti, è condotta alla verecondia dalla voce del mare quando, per comparazione alla vita dei secolari, si rimprovera ai religiosi la loro vita – ad essi che dovrebbero essere un esempio di forza e stabilità. Non volesti arrossire, dice [il profeta]: non vuole arrossire chi rifiuta di pentirsi, poiché il rossore della fronte è il pudore del penitente. Chi dunque vorrà curarsi da questa infermità, deve porre sulla fronte l’unguento della misericordia. […]
[nota del Migne: Qui finisce il libretto sulla medicina dell’anima, o ciò che ne rimane: infatti doveva trattare di più malattie e dei metodi di cura spirituale, come appare dal prologo]
Note
¹ La Trinità è connessa con la triade Potenza -Sapienza -Volontà; vi è dunque solo un’analogia indiretta con i tre aspetti della mente considerati. L’intelletto può richiamare il Padre poiché come quello contiene i principi, la ragione ha affinità col Figlio grazie alle sue funzioni intermediative, la memoria è una “presenza continua” della mente in se stessa, così come lo Spirito Santo è la presenza continua di Dio nel creato.
² Con animus bisogna intendere la sede della facoltà volitiva e dei sentimenti (“stati d’animo”), con anima invece qui si intende la sede delle facoltà mentali.
³ Le facoltà dell’anima, che nel capitolo precedente erano considerate in senso triadico (cioè rivolte ai principi), vengono ora considerate in senso tetradico (cioè rivolte alle cose); anche dunque l’uso di termini identici va ridefinito nel contesto di un loro aspetto applicativo – con “intelletto” bisogna perciò intendere la facoltà mentale penetrativa, con “mente” quella discretiva, con “ragione” quella valutativa, con “ingegno” quella inventiva. Possiamo così schematizzare le analogie proposte da Ugo:
intelletto mente fuoco aria sottigliezza purezza
ingegno acqua mobilità
ragione terra stabilità
⁴ È dunque chiaro il rapporto tra anima e animus: l’anima, con le sue facoltà, è quasi un’ancella dell’animo che, contenendo il principio volitivo, è responsabile dell’azione – azione che sarebbe cieca senza le illuminazioni delle facoltà mentali. Del resto, la prima retta unione tra conoscenza e azione è la fede, come rettamente sottolinea Ugo.
⁵ L’azione di temperamento delle facoltà dell’anima avviene dunque a coppie, una “calda” e l’altra “fredda” (cioè una volta agli aspetti cognitivi-solutivi, l’altra agli aspetti creativicoagulanti). Così la mente dà forma alle intuizioni intellettuali (cosa che da sola non potrebbe fare, essendo qui la “mente” intesa come il principio speculativo per eccellenza), mentre la ragione concretizza le concezioni dell’ingegno.
Si noti bene che è l’animo a servirsi dei quattro umori, e non questi a dominare l’animo: sin da qui l’autore intende proporre una sorta di “allopatia spirituale”, per cui gli stati d’animo apparentemente negativi (come la tristezza) non sono repressi, ma utilizzati per le loro valenze morali.
⁷ La dolcezza e la tristezza sono attributi tradizionali per il sangue e la melancolia; il collegamento tra bile e amarezza non ha precedenti, ma si spiega evidentemente con le caratteristiche organolettiche del fluido; la valutazione positiva del flegma deriva da Vindiciano, che definisce i flemmatici “composti negli atteggiamenti, di poco sonno, riflessivi”. È interessante notare che, secondo l’Ayurveda, kapha (corrispondente al flegma nel nostro sistema) è il dosha più adatto alle pratiche di meditazione.
⁸ L’autore riprende e amplifica in questo e nei seguenti tre capitoli le attribuzioni morali agli umori date nel capitolo precedente; bisogna dunque intendere “mente” nel senso generale di “sede dei pensieri”, la quale in tal senso – come farà l’autore più sotto – può essere paragonata all’acqua.
Il duplice valore simbolico della capra era noto al Medioevo: da un lato simbolo di perfezione, penitenza e purgazione (i cristiani purganti confezionavano il cilicio con pelle di capra, così come i sufi islamici si vestivano di lana di capra), dall’altro cavalcatura diabolica.
¹ Nel segno del Cancro, dopo il solstizio d’estate, il sole converte il suo moto da ascendente in discendente (il simbolo fu evidentemente preso per il particolare modo di muoversi del crostaceo). Ugo gioca sul senso spirituale del termine tropé (“conversione”, onde il Cancro è un segno tropico), per cui la conversione viene intesa moralmente come volgersi verso l’amore del prossimo, in accordo con la direzione discendente di questo tropico. La prima conversione, quella in senso ascendente dal peccato verso l’amore di Dio, era avvenuta nel primo segno tropico, il Capricorno (vedi cap. III).
¹¹ Gioco di parole tra splen (milza) e spes. Ricordiamo che il termine inglese spleen significa sia “milza” che “malinconia”.
¹² Il testo riporta, per un’evidente svista, “solstizio” invece di “equinozio”.
¹³ Il Medioevo conosceva il gioco simbolico degli antichi Greci che comparavano l’arco alla vita (essendo che la parola indicante il primo – biòs – si mutava nella parola indicante la seconda – bìos – tramite un semplice cambiamento di accento); così pure era noto all’Ermetismo medievale che la lettera ebraica caf indicava secondo la Cabala l’impulso vitale. Dante paragona all’arco l’istinto (inteso nel senso arcaico) grazie al quale tutte le creature tendono alla perfezione divina (“né pur le creature che son fore / d’intelligenza quest’arco saetta, / ma quelle c’hanno intelletto ed amore.” Paradiso, I, 118-120).
¹⁴ In queste parole è un’immagine tecnica tradizionale ben precisa; la si confronti con quanto dice la Mundaka Upanishad (II, 3, 3-4): “Avendo afferrato come un arco quella grande arma che è l’arcano insegnamento [upanishad], incocca in esso la freccia acuita dalla meditazione: avendolo tratto mediante lo spirito concentrato nella meditazione dell’Essere riconosci questo indefettibile come il bersaglio
, o mio caro.
“Il Pranava [la sillaba Om] è denominato arco, lo âtman freccia, il brahman bersaglio. Senza farsi distrarre, questo bisogna colpire, essendosi reso simile ad un dardo”.
”Nel Cristianesimo l’intenzione del cuore (che è il contenuto interiore della preghiera) viene sovente paragonata a una freccia: l’Anonimo di The Cloud of Unknowing parla in più luoghi della “freccia acuminata del desiderio d’amore” (cap. 6, cap. 12 e A pistle of Discrecioun, 7), ma già Agostino diceva: “La mia preghiera si sprigioni con l’intensità di un dardo per il desiderio dei tuoi eterni benefici” (Enarr. in psalmos, 86, 5).
¹⁵ Dionigi Areopagita (Cœl. hier., 15, 8) attribuisce all’aquila “il carattere regale, lo slancio verso l’alto, il volo rapido e l’acutezza”. La capacità di fissare il sole era già riportata dal Fisiologo, mentre il diverso trattamento riservato ai figli era credenza tipicamente medievale, raffigurata sovente su capitelli e vetrate: in tal modo l’aquila era legata al Giudizio e alla Giustizia.
¹ Nella simbolica medievale le gru incarnano la lealtà e le oche la vigilanza.
¹⁷ Il testo riporta erroneamente lumen per limum.
¹⁸ Come è evidente, i tre animali sono qui utilizzati solo come allegorie morali negative. Il Medioevo ha utilizzato enormemente gli aspetti simbolici positivi e negativi del serpente, considerando invece il rospo solo in senso spregiativo come emblema della lussuria e degli spiriti immondi. La tartaruga è invece pressoché dimenticata dall’iconologia simbolica del periodo.
¹ Corrispondono alle quattro facoltà naturali (dynamis) galeniche.
² Il Cristianesimo considera il latte simbolo di purezza spirituale (“Come bambini neonati, desiderate il latte senza astuzia calcolata, per crescere in esso in salute” 1 Pietro, 2, 2), e il pane come la dottrina divina, incarnatasi nello stesso Cristo-pane eucaristico (è il caso di ricordare che Beth-lehem, luogo natale di Gesù, significa “casa del pane”). Di là dunque dalla lettura morale, preponderante nel testo di Ugo, la successione latteumiltà / pane-carità sottolinea le due fasi (l’annullarsi di sé e il riempirsi del Sé) della realizzazione spirituale.
²¹ Con modalità lievemente diverse, S. Giovanni della Croce à la medesima metafora: “La caratteristica di chi ha appetiti è infatti d’esser sempre scontento e stizzoso come chi ha fame. Ma che ha a che vedere la fame causata da tutte le creature con la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Infatti questa sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non si scaccia l’altra fame creata dell’appetito dell’anima; poiché, come abbiamo detto, in uno stesso soggetto non possono esserci due contrari, che in questo caso sono la fame e la sazietà.” (Subida del monte Carmelo, I, 5, 2).
²² La frase è il nocciolo del capitolo. Il “pasto sacro” – quale è l’eucaristia, cioè letteralmente l’“abbondanza di grazia” – si attua riconvertendo le quattro facoltà citate in senso spirituale e operando un’assimilazione descritta nella nota seguente. L’uomo è uno solo (pur consistendo di corpo, anima e spirito), e dunque intimamente legati sono i suoi processi vitali; ma, come ciò che è maggiore domina ciò che è minore, egli è tale solo se nutre il suo spirito – per lo stesso motivo egli può sussistere anche se nutre solo il suo spirito, mentre, se
nutre solo il suo corpo, si riduce ad uno stadio puramente animale.
²³ Gioco di parole tra humores e mores.
²⁴ Il richiamo a quanto detto sopra al cap. II non è letterale, e può a prima vista indurre in confusione; là le attribuzioni erano:
fuoco=intelletto aria=mente acqua=ingegno terra=ragione mentre qui sono diventate: fuoco=intelletto aria=vita (mente) acqua=discernimento terra=mente (animo)
L’apparente contraddizione può essere spiegata tenendo conto della fluidità discorsiva e simbolica medievale. Al cap. II Ugo stava parlando del rapporto tra l’anima (le facoltà cognitive) e l’animo (facoltà sentimentali-volitive), al fine di raggiungimento e consolidamento della fede. Qui invece, l’anima in tal senso specifico non è più considerata (né nominata), ma si tratta dell’assimilazione della dottrina-cibo da parte dell’animo. Essendo un processo sostanziale, l’animo è considerato come un “corpo spirituale” e la dottrina un “cibo spirituale”, il pane supersostanziale senza il quale l’uomo non può vivere (“panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie”, Mt, 6, 11). Le facoltà sono dunque qui considerate nel loro parallelo spirituale del processo nutritivo-assimilativo: le facoltà “secche” sono il primo perno (il fuoco-desiderio intellettuale appetisce e la terrafondo dell’animo trattiene) mentre il processo metabolico avviene grazie alle facoltà “umide” (l’aria-vita della mente “digerisce”, cioè rende proprio dell’animo quanto prima gli era esterno, e l’acqua-discrezione espelle dall’animo quanto è estraneo al nuovo cibo spirituale).
²⁵ S. Paolo sta citando un detto dalla Taide di Menandro.
² Il testo ha equi rector, “governatore del cavallo” che è la traduzione letterale di Hippokratés : sono però circonlocuzioni, poiché il latino usa auriga e il greco eniochos.
²⁷ Quanto Ugo dice del cavallo ricorda ciò che S. Bernardo afferma dei cavalieri Templari: procedunt ad bella pacifici (De Laude Novæ Militiæ, 8).
²⁸ Da qui alla fine del capitolo si gioca sull’assonanza tra equus ed æquitas.
² L’assimilazione della rosa al sangue dei martiri è usuale nella Patristica.
³ Il color viola (mescolanza di rosso e blu) indica la temperanza; in senso morale, i paramenti violacei vogliono invitare al contenimento delle ioni. Nella simbolica medievale la viola indica il sacramento della confessione.
³¹Humilis deriva da humus (terra); l’aggettivo indicò inizialmente le piante che sorgono poco dal terreno, e poi figuratamente l’uomo d’animo volgare o di bassi natali: fu il Cristianesimo a nobilitare la parola.
³²ratio
³³ Probabile allusione all’emicrania.
³⁴ Il Vangelo di Giovanni (19, 40) dice che il corpo di Cristo fu avvolto in bende di lino con aromi (mirra e aloe): il lino è la Santa Dottrina, imbevuta dell’umanità di Gesù (la mirra).
³⁵ La stessa idea sulla nascita dei capelli è in Guglielmo di Conches (Dragm. Phil., VI, ed. it. cit. p. 424).
³ Nel Medioevo la volpe è simbolo dell’eretico o del peccatore astuto: in Luca (13, 32) Cristo paragona Erode alla volpe.
³⁷ cfr. nota 9.
Indice
Introduzione LA MEDICINA DELL’ANIMA
PROLOGO La duplice cura, cioè la medicina dell’anima e del corpo, di cui si tratta nel seguente opuscolo
L’uomo, che è detto microcosmo, cioè piccolo mondo I quattro elementi del mondo. I quattro umori del corpo umano,e le quattro stagioni, applicati all’animo e all’anima La flemma e i flemmatici Il sangue e i sanguigni La collera rossa e i collerici La collera nera, o atrabile, e i melanconici La commistione degli elementi Le quattro virtù al servizio del complesso umano Il medico e i nove tipi di segni benigni e maligni Il primo tipo in particolare Il secondo tipo Il terzo tipo
Il quarto tipo Il quinto tipo Il sesto tipo Il settimo tipo L’ottavo tipo Il nono tipo Il mal di testa Il dolore della sommità del capo La caduta dei capelli Il dolore della fronte