sco Chiantese
In limine
Si ringrazia per la presenza
Natasha Bonavolontà
L'immagine in copertina è della fotografa
Daniela Neri
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sco Chiantese
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Officine d'Elsa
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Ringraziamenti
alla mia famiglia,
a cui non ho saputo dedicare ancora nulla;
ai compagni di viaggio
a cui ho rubato quel che ho;
al Taddo,
che sta suonando in Africa,
ne sono sicuro.
Prefazione
Seppellitemi dunque sulla cima di un albero che abbia radici nelle vostre mani ed io vi mostrerò i miei inferni, nelle vostre, infinite certezze. Che solo una foglia staccata dal ramo che si lasci piegare dal vento può contenere in sé, come in un pugno schiuso, una parte di mare
Il teatro è una forma di artigianato; un artigianato delle relazioni. Credo di aver ripetuto più volte, negli ultimi anni, questa affermazione come si ripete con perseveranza a se stessi, e con gioia agli altri, una verità quando la si riconosce come tale, quando la si usa come appiglio quotidiano.
Così, la mia famiglia, diviene quella dei falegnami, dei calzolai, dei tagliatori di pietra; anzi, per essere più corretto, dovrei dire che la mia famiglia "torna" ad essere quella di chi lavora quotidianamente. È chiara in me l’immagine di mia nonna che mi dice: "Hai le mani grandi perché vieni da una famiglia di gente che lavora, anche se spero tu non le debba mai usare". Ricordo l’entusiasmo di mio padre, quando da bambino mi mostrava case, ponti, dighe, centrali elettriche e mi diceva: "Guarda! Lì c’è anche il mio lavoro"; di quello stesso entusiasmo, sono figlie queste pagine. Non credo di avere cose importanti da raccontare, ma so quanto sia importante per me trasformare in racconto una parte del mio lavoro, cercare di costruire dialoghi attorno a delle intuizioni, fare arrivare ad altri il mio entusiasmo. Ci tengo a precisare che, questo, non è un libro di teatro; a dire il vero, non credo possano esistere libri "di teatro". Non si può trasporre il teatro fuori dal suo spazio ristretto e dal suo tempo misurato; il teatro non è in un libro, in un video, in un dialogo. Questo è un breve libro di cose che "riguardano" il teatro, di cose che "stanno attorno" al teatro, ma che non sono il teatro.
Da un teatro urgente
Primo manifesto per un teatro urgente
Scritto a Siena nell’autunno del 2000 a pocbi mesi della nascita dell’Accademia Minima del Teatro Urgente, questo breve documento aveva lo scopo di fare da timone, di guida, per un gruppo di persone con esperienze culturali, motivazioni ed abilità estremamente differenti. Tutte però unite dalla ione per il teatro. Esso fu inserito come monologo di Lucky nel mio allestimento di Aspettando Godot.
L’Accademia Minima nasce dalla necessità, di un gruppo di giovani attori, di avere un luogo (fisico e non) dove poter far confluire le proprie precedenti esperienze e nello stesso tempo avere il "diritto di rubare" quelle degli altri. Una serie di ricerche espressive individuali che trovano, nell’esperienza di un collettivo teatrale, il giusto momento di confronto, maturazione, forza. Indubbiamente il collettivo nasce come luogo di studio dell’espressione, come luogo di sperimentazione; la materia di studio, ovviamente, non può essere che l’uomo stesso, dalla cui analisi, l’attore trae il materiale strutturale su cui costruire i propri personaggi, le proprie finzioni. Un teatro laboratorio. Un teatro dove isolare aspetti del quotidiano, controllarne i parametri per meglio conoscerli. Un laboratorio dove contenere l’uomo per analizzarne da vicino le pulsioni, le reazioni, le intime urgenze. Il palco come osservatorio privilegiato, come altare scomodo, come piazza del mondo.
Luogo di analisi ma anche di denuncia. Perché le grandi intuizioni, le grandi scoperte che sono figlie del teatro non hanno utilità se non diffuse apertamente e largamente a tutti. Il teatro degli urgenti è quella casa troppo grande in cui spesso ci si perde ed in cui convivono musica, parola, movimento, forma, errore. Quel grande gioco che fa parte della vita nella stessa misura in cui la vita ne fa parte. Gli Urgenti hanno come vocazione naturale la sperimentazione, la trasgressione, consapevoli però che solo chi ha delle regole può trasgredirle, solo chi è figlio della tradizione ed in essa affonda le proprie radici,può concedersi l’esigenza dello sperimentare. Consapevoli del fatto che in teatro, ad oggi, è stato visto di tutto; e l’unico modo che abbiamo per fare un teatro "diverso" è quello di fare un teatro che ci assomigli. Un teatro del minimo. Un teatro che si sofferma sui dettagli, quei dettagli che sono servili al aggio che l’uomo fa dalla vita al "grande teatro". Minimo è anche il termine che meglio restituisce all’esperienza di questo collettivo il senso del mettersi in gioco senza pretese. Si sta in Accademia per fare teatro, poco importa se i percorsi di ciascuno condurranno su strade diverse, poco importa se qualcuno solcherà i palchi di grandi teatri e qualcun altro continuerà a recitare nelle scuole, nelle palestre, nelle chiese sconsacrate o negli altri piccoli spazi di cui può appropriarsi in Italia il teatro popolare.
Secondo manifesto per un teatro urgente
Questo secondo manifesto, fu scritto nella primavera del 2006. È un testo scritto da me, che nasce dopo un lavoro di condivisione durato qualche mese a cui hanno partecipato tutti i membri del collettivo dell’Accademia Minima, più alcuni intellettuali invitati a partecipare al dibattito. Il gruppo di lavoro ha dettato, quindi, le parole chiave attorno a cui sarebbe nato questo nuovo documento programmatico. Esiste un teatro che nasce dalle differenti urgenze della comunità che vive con esso. Le donne e gli uomini che gli danno la vita scelgono il dubbio come madre della propria azione e la ricerca come linguaggio per dialogare con le proprie urgenze. Questo teatro ha scelto come propri antenati tutti coloro che hanno fatto ricerca e come propria geografia la geografia appartenente a tutti coloro che fanno ricerca. Lo spazio di lavoro di questo teatro è il limite della donna e dell’uomo, ed allo stesso tempo il limite della società in cui essi sono inseriti. Questo teatro sceglie di avere il limite come casa e vi sta con tutta la sacralità con cui i nomadi abitano i posti che scelgono per la notte. Questo teatro non ha bisogno di nulla ed ha necessità di tutto. I suoi attori costruiscono attorno a se una tenda per poter lavorare tranquilli senza distrarsi, né chiamarsi fuori, dal mondo di cui fanno parte. Essi dialogano tra loro con le parole, i gesti, i segni, ed i riti che gli appartengono come singoli artisti; e dialogano con il territorio che li ospita, e in esso con le persone, attraverso gli elementi della nuova tradizione che appartiene loro in quanto comunità che crea. Gli Urgenti si dedicano quotidianamente al loro artigianato, mettendosi alla
ricerca di una nuova grammatica: in questo il loro è un teatro profetico, perché coniuga parole antiche per dire cose nuove. Essi rivendicano per il loro teatro il ruolo di osservatorio del quotidiano, di altare scomodo su cui salire per scoprire ed annunciare che il re è ancora una volta nudo; in questo il loro teatro è eretico, in quanto vive della necessità di prendere posizione rispetto alla vita che incontra. Il loro Teatro Urgente è una pratica umana che li mette in dialogo con gli aspetti più intimi della loro umanità, per ascoltare l’uomo e raccontarlo agli uomini; in questo il loro teatro è sacro
Godere del non espresso
Questo breve articolo è stato pubblicato sul numero zero della rivista luoghicorporei.it a cui ero stato invitato a dare un contributo da Lorenzo Marvelli ed i Teatri Off-esi di Pescara all’indomani di una delle prime riunioni del Forum Europeo dei Teatri. E’ stato scritto però, nel 2003, durante il baratto culturale realizzato a Novara di Sicilia durante una notte insonne in una splendida casa, piena di oggetti di epoche diverse, di gatti, e di stanze. Ecco. Io vi invito a godere del non espresso. La pelle come orizzonte, come linea d’ombra, come luogo della scelta e dell’azione, ma anche come deposito della vita della contaminazione tra noi ed essa, luogo di riflessione. In luogo di questo va rivalutato il contatto. Va nuovamente capito questo strumento di comunicazione comunione contaminazione, imprescindibile dalla natura umana. Andiamo, per assurdo, a compararlo al ben più abusato mezzo espressivo che è la parola ma che qui usiamo nella sua natura più effettiva, cioè come paradigma indiziario delle cose del mondo, come struttura rappresentativa sterile ma utile. Il mio invito parte da una riflessione sul non detto, su ciò che si sottace volontariamente o involontariamente in un dialogo a parole. Spesso, è banale dirlo, è ciò che veramente conta in un discorso, ciò che veramente comunica con efficacia se saputo leggere: basti pensare alle pause nel discorso spontaneo tra due amanti, nel modo in cui un padre davanti ad un figlio che ama ma che si sente in dovere di punire perde le parole, al piccolo silenzio che tutti inventiamo ogni qualvolta stiamo per esprimere quella che per noi è assoluta verità o grande dubbio.
Ecco. Io vi invito a godere del contatto "non espresso". L’attimo prima di una carezza, quando la pelle è effettivamente orizzonte del movimento, del gesto, quando non è ancora confine reale tra noi ed il corpo dell’altro, l’oggetto, la sostanza. Il silenzio del tatto, quello che precede l’azione, come per la parola è magazzino delle tensioni che poi si scioglieranno nel compiersi del gesto. Pensate alle carezze rituali che si fanno due amanti. Sempre le stesse, arrivi delle volte a conoscere così bene una persona da sapere esattamente in che modo, ed in che luogo del tuo corpo, stia per toccarti ed allora godi infinitamente di quell’istante che precede la carezza, così come il bambino conosce la sensazione dell’istante che precede lo schiaffo curatore del padre. La ricchezza del non espresso, il silenzio del mondo, sono il suo respiro. Pensate ai grandi silenzi montani o del mare, quando hai coscienza di una grande densità di comunicazione che però non riesci a capire, ed allora contempli. Perché privare noi stessi di una porzione meno conosciuta ma altrettanto forte del silenzio?
Sul diritto all'improduttività
Questa è una lettera scritta ai membri del collettivo dell’Accademia Minima nel 2004, esattamente il 6 aprile, ed è stata scritta nel padiglione dei Chille de la Balanza presso l’ex manicomio di San Salvi a Firenze. Erano i primi anni in cui cominciavamo a parlare di teatro come mestiere, e ci confrontavamo con noi stessi, con le difficoltà quotidiane di questo lavoro, e con le aspettative delle persone che ci stavano attorno. . Amici miei Urgenti, in questi giorni sto pensando molto a me, e consapevole del fatto che non riesco più a pensare a me senza pensare a noi, ho deciso di scrivervi queste righe in cui credo profondamente per poter poi parlare insieme di questi argomenti con più calma e confondere senza paura i miei pensieri con i vostri, i vostri con i miei come altre volte il nostro teatro ha fatto deliziosamente accadere. Dobbiamo rivendicare il nostro diritto ad occuparci delle cose inutili di questo mondo. Viviamo tra donne ed uomini che sanno guardare il mondo in chiave economica, valutando per ogni traccia di storia quotidiana gli ingressi e le uscite; viviamo in mezzo ad uomini che hanno imparato a fare di conto. Dobbiamo rivendicare il nostro diritto ad occuparci delle cose improduttive. Le cose belle sono i petali del mondo. Gli attori sono cose belle, sono donne ed uomini belli. Gli attori sono i petali del mondo. Noi siamo petali fragili e rami che frustano il cielo.
Non possiamo, come coloro che sanno fare di conto, gonfiarci d’orgoglio per l’essere steli flessibili e tronchi forti. Noi non siamo così. A cosa servirebbero però gli steli ed i tronchi se non avessero nulla da reggere? A cosa servirebbe il mondo se non fosse così bello? Dobbiamo rivendicare il diritto di avere pensieri inutili. Non possiamo avere orgoglio; dobbiamo avere l’umiltà. Per umiltà non intendo il sentirci dipendenti, inferiori, legati a coloro che sanno calcolare. Per umiltà intendo che dobbiamo essere pronti ad accettare quello che siamo, ad accettare il compito che questa arte, questa malattia, ci chiede di assolvere nei confronti del nostro tempo. Il nostro Teatro adesso è necessario, urgentemente necessario. Il mondo ha necessità di Bellezza ora. Il mondo, ora, ha bisogno di dubbi. Il mondo ha bisogno di domande, ora. Perché la bellezza è sempre figlia di una ricerca, e la ricerca, più della risposta, è figlia del dubbio. Essere umili vuol dire accettare il nostro compito di portare al mondo i dubbi. In un mondo sazio abbiamo il compito di essere l’odore caldo del pane che esce dal forno la mattina. Ad un mondo che guarda orizzonti vicini, dobbiamo proporre l’ipotesi di una splendida isola che si trovi oltre la linea dove il cielo e la terra si confondono. Dobbiamo illudere tutti che esista una meta, affinché affrontino il viaggio e le spese crude del viaggio.
In questo il nostro teatro deve essere politico. In questo il nostro teatro deve essere profetico. Convincere le donne e gli uomini a cambiare la propria quotidianità in virtù di un obiettivo che non conosceranno mai: questo è il compito oggi di un teatro che si voglia definire urgente. Ma noi siamo soltanto una riga di pelle sulle mani del mondo. Viviamo facendoci abbracciare ogni giorno da coloro che ci chiedono ragione della nostra vita, da coloro che hanno bisogno di scrivere sui propri registri contabili cosa produce ogni nostro sforzo. Noi non siamo ancora attori decisi. Non sappiamo ancora affrontare ogni nostro movimento, senza domandarci durante l’azione, se stiamo sbagliando qualcosa. Ecco perché ci affanniamo a mostrare agli altri che il nostro lavoro, che la nostra vita, serve a produrre. Non abbiamo l’umiltà del nostro lavoro, e rimpiangiamo il diritto che ci è negato di essere orgogliosi. Siamo stupidi. Non siamo coerenti. Ci riempiamo la bocca gridando che le nostre parole saranno incise nella nostra carne e non sappiamo presentare, al momento giusto, la nostra schiena nuda al nostro teatro. Siamo falsi. Siamo come bambini che scoprono che la rivoluzione può far male, e piagnucolano a se stessi "non sapevo". Ma dove sono i frutti del nostro lavoro? Il frutto del nostro lavoro è il dubbio silenzioso che si infila tra il pubblico, tra
chi viene a fare esercizi con noi; il frutto del nostro lavoro è la sensazione che prova chi riscopre il proprio corpo, e si sente insoddisfatto quando si accorge di adoperarlo in maniera così insulsa; il frutto del nostro lavoro è un risata breve; il frutto del nostro lavoro è una lacrima nascosta di commozione; il frutto del nostro lavoro è così piccolo che si perde nel corpo delle persone che incontriamo durante gli spettacoli e nei laboratori. Cosa possiamo pretendere di mostrare agli altri? Solo chi si lascia incuriosire si accorge dell’obiettivo ultimo dei nostri sforzi. Il mondo spesso ha paura di farsi incuriosire. Non abbiamo nulla da mostrare vuotando una tasca. Non possiamo far capire ad un mondo che non investe più nell’arte il valore del nostro lavoro. Abbiamo solo l’umiltà del nostro lavoro. Non abbiamo l’orgoglio dei tronchi che reggono il mondo, di coloro che sanno fare di conto. Non abbiamo strumenti per essere compresi. L’unica possibilità che abbiamo di essere, per assolvere al nostro dovere nei confronti della bellezza, è rivendicare il nostro diritto a fare teatro. Rivendicare il nostro diritto ad impegnarci in cose inutili, improduttive. Non possiamo convincere il mondo che siamo utili a lui, possiamo solo pretendere da lui che si lasci amare da noi. C’è un solo modo di amare: essere se stessi. Se non si ama con tutto noi stessi, si tradisce l’oggetto del nostro amore, ma si tradisce anche l’amore. C’è un solo modo di amare: essere se stessi. E se noi siamo veramente teatranti, l’unico modo che abbiamo di amare è il
Teatro. Riempirci la bocca con un teatro urgente, produce ferite ancora più dolorose, se questo teatro non è per noi realmente un’urgenza. Soprattutto voi ragazze potete ricordare a tutti gli Urgenti cosa sia il teatro. Il Teatro è capibile molto più dalle donne, dalle madri. Egli si nutre di noi senza darci nulla in cambio, se non continue trasformazioni nel corpo e nell’anima; vive del nostro seno legandoci indissolubilmente a lui, figlio nostro, e costringendoci a piangere ed a ridere per lui. Anche dare alla luce un figlio, oggi, è spesso visto come inutile, perché ci richiede sforzi senza sapere se ci darà mai frutti. Ma un figlio è egli stesso un frutto. Ma un pensiero è esso stesso un frutto. Il teatro è esso stesso un frutto. La bellezza è essa stessa un frutto. Un attore che si dica urgente deve quindi rivendicare a se stesso ed al mondo il diritto di produrre questo frutto inutile, perché deve credere profondamente nella sua utilità nascosta. Se si ha fame infatti, e si sa che sul tavolo sotto una tovaglia si nasconde il pane, ci si affretta a scoprire il tavolo anche se il pane non si vede.
Appunti in media via
In limine
Il buio era fortissimo, tanto forte, da rendere difficile anche l’atto di richiamare alla memoria delle parole ripetute tante e tante volte; eppure la sensazione che maggiormente ricordo, di quella volta, è una vertigine. Lo spazio si restringeva velocemente davanti a me, si accartocciava come un tappeto sotto i miei piedi, ed in breve mi trovai dritto su di un filo di spago. Potevo sentire il loro umore; potevo sentire la loro paura che io cadessi, potevo sentire il desiderio sarcastico di una mia caduta. Potevo sentirli felici per me, e pronti a punire la mia arroganza. Mi concentrai sul rumore che faceva il selciato sotto i miei piedi mentre facevo piccoli i fermo sul posto. Dissi tutte le battute una dopo l’altra, ed alla fine, come per respirare aprii gli occhi. Eravamo in pieno giorno, e c’erano diversi metri di strada vuota davanti a me, ed oltre c’era un pubblico distratto e distante.
Fin dalla mia primissima esperienza di scena, la sensazione forte e concreta di cui adesso ho il ricordo, è una sensazione spaziale. Certo, non l’avrei definita così a quel tempo; come spesso accade il vocabolario arriva successivamente all’esperienza concreta che ti fa avvertire l’esistenza di un "qualcosa". Non avrei parlato, quindi, assolutamente di "spazio", non mi sarei posto interrogativi sulla "percezione" dello spazio; ed in effetti, per lungo tempo, ho giustificato quelle sensazioni, le ho categorizzate, come sintomi di una forte emotività.
Per anni ho concepito lo spazio teatrale come una questione logistica. Sapevo che esisteva uno spazio attoriale, (banalmente quella porzione di spazio, appunto, dove si muovono gli attori) ed uno spazio destinato agli spettatori (dove, per inciso, era concesso loro di stare). Niente di più. Ovviamente ero affascinato dalle miriadi di possibilità che un regista poteva far nascere dalle combinazioni, dalle intersezioni, dalle invenzioni legate a questi due "spazi" ed alla loro relazione. Ripercorrendo inconsapevolmente le esperienze teatrali dello scorso secolo ho collocato spettatori al posto degli attori, ho mescolato e sovrapposto i due spazi, ho infilato spettatori in una fossa con gli attori in alto ed ovviamente ho fatto anche l’opposto, ho messo spettatori attorno ad una tavola pronti a fare banchetto degli attori, ed ho messo attori attorno ad un tavolo a condividere il pasto con gli spettatori, ho costruito spazi circolari, a forma di croce, cuneiformi e somiglianti a lunghissimi corridoi.
Ora, quando ripenso a queste energie sprecate non troppi anni fa, sorrido; eppure, se non fossi ato da queste partite a scacchi con lo spazio, non sarei mai riuscito ad andare oltre ed a vedere da più vicino la natura dello spazio.
Esiste uno spazio interno all’attore; uno spazio vuoto e colmo allo stesso tempo. Esiste, allo stesso tempo, uno spazio esterno all’attore, in cui e su cui esso agisce. Se osserviamo il teatro da questo punto di vista, possiamo definire l’attore come qualcosa che sta sul margine tra uno spazio interiore ed uno esteriore, uno spazio che egli comprende, di cui ne definisce i margini ed uno spazio da cui egli è compreso, ed in un certo senso, da cui egli è definito.
Se prendiamo per vere queste affermazioni (e lo sono, l’osservazione del quotidiano su cui tra un po’ ci soffermeremo, ce lo conferma) allora scopriamo che un attore porta in sé e con sé il proprio spazio. Non potremo più entrare in una sala e decidere, più o meno arbitrariamente, qual è lo spazio destinato all’attore; è l’attore che apporterà con il proprio ingresso nella sala il proprio spazio. Credo che, buona parte del lavoro dell’attore, nella propria fase di formazione, di studio, di ricerca, debba essere dedicata alla capacità di gestione del proprio spazio. L’attore deve vivere lo spazio come espansione naturale del proprio corpo, ed il proprio corpo come dettaglio dello spazio in cui è immerso. L’attore è testimone del proprio spazio, ne ha tutte le responsabilità; può ridurlo, espanderlo, renderlo accessibile, inaccessibile, costruirlo, decostruirlo, lo spazio è materia viva del suo lavoro, non può pretendere di agire a prescindere da esso. L’attore e lo spazio stanno l’uno all’altro in una relazione di marginalità; non è possibile definire l’uno senza la funzione dell’altro. L’attore è anche colui che agisce nello spazio e sullo spazio per stabilire relazioni con gli altri individui. In che relazione sta lo spettatore con lo spazio dell’attore? Qual è il "suo" spazio? Questo, ovviamente, deve poter dipendere dall’attore. Mi piace qui ripescare dall’esperienza quotidiana un termine che possa esserci utile come unità di misura della relazione tra lo spazio dell’attore e lo spazio dello spettatore: il pudore. Un tempo, le case italiane, avevano tutte un "ingresso"; l’ingresso, la sua funzione, se la rispolveriamo può rendere molto bene l’idea del "pudore" come unità di misura.
Un tempo, l’estraneo, veniva "incontrato" sul pianerottolo di casa, o sull’aia del proprio podere; un luogo "estraneo" alla casa, alla sede della propria intimità. Successivamente, se la relazione veniva fatta crescere nel tempo, allora si aveva accesso agli spazi "diurni" della propria casa; un più profondo livello di conoscenza dava accesso agli spazi privati, quelli notturni, le proprie camere. Nella fase intermedia tra estraneità e intimità la relazione esisteva nello spazio dell’ingresso. Più il padrone di casa aveva "pudore" più era lento il aggio da uno spazio all’altro della casa, maggiore era la frazionabilità del percorso che portava all’intimità. Se prendiamo per buona le metafora della casa, per parlare del corpo dell’attore, del suo spazio, capiamo anche come il pudore si possa considerare un’unità di misura dello spazio dell’attore. Ho condotto per qualche anno in giro per l’Italia dei seminari dal titolo "il pudore". È stato interessante scoprire quanti attori ci siano in giro che nutrono un, del tutto sincero, terrore nei confronti del pudore; non appena posti di fronte all’evidenza del proprio pudore, del proprio "residuo" di pudore (nel più fortunato dei casi), si precipitano immediatamente a nasconderlo, o meglio, a volerlo distruggere. Il fantoccio dell’attore spudorato si aggira ancora oggi nelle nostre sale aggredendo quel residuo di umanità che ogni attore porta in sé e che è necessario al suo lavoro. Eppure, il pudore, la gestione dello spazio di prossimità tra il proprio corpo e quello dello spettatore è uno strumento portentoso; imparare a gestirlo ti consente di avvicinare ed allontanare da te lo spettatore, senza farlo muovere dalla sua poltrona, cogliendolo di sorpresa, senza che l’invasività di certe regie lo faccia mettere sulla difensiva. Quando penso alla relazione tra lo spazio attoriale e quello dello spettatore mi viene in mente uno dei aggi iniziali del secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio.
Mi riferisco a quel aggio noto ed abusato, di cui anche io qui abò, detto del Naufragio con Spettatore.
Suave mari magno turbantibus aeqoure ventis e terra magnum alterius spectare laborem non quia vezari quemquamst iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suaves (vv. 1-4)
È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, guardare da terra il grande travaglio di altri; non perché l’altrui tormento procuri giocondo diletto, bensì perché t’allieta vedere da quali affanni sei immune.
(Lucrezio,De rerum natura, traduzione di Alessandro Marchesetti, a cura di M. Saccenti, Einaudi, Torino 1975.)
Lo spettatore è tanto più partecipe quanto più sente sicura la terra su cui è seduto ad osservarci; credo che non si possa prescindere da questo quando ci si occupa della relazione attore-spettatore che è, innanzitutto, una relazione spaziale.
Senza la superstizione della comprensione
Requiem popolare’, un mio spettacolo del 2010, realizzato assieme al contrabbassista Maurizio Costantini, rappresenta per me una svolta fondamentale. Per la prima volta decido, in concerto con Maurizio, di realizzare uno spettacolo senza la superstizione della comprensione. Avevamo entrambi in mente uno spettacolo che superasse il pregiudizio della comprensione e provasse ad arrivare a tutti, senza dover tener conto di estrazioni sociali, culturali, abitudine al linguaggio teatrale, e tutte quelle variabili relative al pubblico che un buon regista tiene in considerazione. Volevamo uno spettacolo che fosse per tutti, uno spettacolo veramente popolare. Ma chi ha detto che un teatro popolare sia, necessariamente, un teatro facilmente comprensibile dallo spettatore medio? Non credo. Un teatro che per la sua natura decostruttiva è difficilmente comprensibile, può arrivare allo spettatore molto più del teatro "del capire" in quanto, supera il pregiudizio della comprensione, e le sue forme. Questo ci appare facile da accettare, se prendiamo in considerazione la grande opera lirica o la grande musica; benché queste forme d’arte non si siano poste il problema della comprensione sono state nella storia espressioni della cultura popolare. Il teatro, invece, che si è negato reiterando al proprio pubblico il culto latino e greco della comprensione, fa apparire per se stesso questa considerazione impossibile. Generazioni di teatranti "del dire" hanno castrato il teatro della sua natura
procreatrice. Lo hanno ridotto a veicolo di messaggi. Il teatro come strumento per dire "qualcosa", ma cosa? Da parte di chi? Di un attore, di due, di un autore, di un regista? Perché un artigiano del teatro deve avere la presunzione di dover "dire qualcosa" più di quanto non ne abbia un falegname? Il teatro dev’essere fedele alla propria natura essendo creativo per chi lo fa, e procreativo per chi vi partecipa da spettatore. Il suo scopo deve essere quello di concepire in loro, con loro, un’esperienza. Ed in questa sua caratteristica, il teatro può riscoprire la propria natura rivoluzionaria, la propria natura di azione sulla cultura, sulla società. In questa sua caratteristica, solo in questa, esso è vivo. Altrimenti si avrà un teatro morto, con tutta l’affascinazione della morte, con tutta la bellezza della morte, senza la capacità di generare che hanno solo i vivi. Più che ogni spiegazione, ogni tentativo di far comprendere, di veicolare messaggi, l’esperienza diretta delle emozioni, una sorta di cognitio dei experimentalis, è l’obiettivo a cui il teatro deve tendere. Il teatro deve essere un’esperienza collettiva; non deve dire, deve essere. Il mio più grande sogno, quello che qualora raggiunto mi renderebbe appagato, è quello di incontrare uno spettatore e dialogare con lui di uno spettacolo come di un’esperienza condivisa. Come un frammento di vita condivisa, così come si condivide lo spazio ed il tempo della recita. Eppure, questo mi appare impossibile. Impossibile soprattutto perché noi stessi abbiamo diseducato lo spettatore; lo abbiamo relegato alla figura di astante o, nella migliore delle ipotesi, di destinatario di un messaggio. È difficile condividere un’esperienza viva con qualcuno che, si aspetta che tu gli
voglia dire qualcosa; o peggio, si aspetta che tu sia lì per farlo emozionare (che si parli di riso o di commozione). La condizione attuale è quella di dover concepire un’esperienza viva con qualcuno che si aspetta una risposta senza conoscere la domanda. L’inconsuetudine è l’unico strumento che conosco per riportare lo spettatore alla verginità dell’esperienza percettiva, alla verginità dell’ascolto. L’inconsuetudine, il percorso sghembo, il suono che non dice, ma che è; il gesto che non dice, ma che è; la parola che non si preoccupa di comunicare ma di essere, di esistere, ed in questo senso di vivere, di creare, di generare. Ricordo come rivoluzionaria, almeno nella mia esperienza con il teatro, l’espressione di Artaud: "Il pubblico: innanzitutto occorre che questo teatro sia", quasi in appendice al suo teatro della crudeltà. Innanzitutto occorre che questo teatro sia, e perché il teatro sia occorre che l’attore sia, che i suoi segni siano. Il teatro è sempre un atto di fede; ogni sogno, ogni scrittura, ogni segno che il teatrante compie è da considerarsi un atto di fede; di fede verso se stessi. Occorre ritornare al culto sacro della fedeltà nei confronti della propria poetica, di una poetica che sia fedele all’individuo a cui appartiene. Solo questa fedeltà ci consente di dialogare con ciascuna persona ed a tutte contemporaneamente. Senza compromessi che rendano la nostra poetica maggiormente commerciabile, maggiormente addomesticabile, maggiormente fruibile, maggiormente capibile, maggiormente della maggioranza. Senza cedere tutto alla superstizione della comprensione. Se i nostri segni saranno vivi, porteranno cioè dentro il bios della nostra biografia, allora potremo essere fecondi.
Collocarsi in una tradizione
Relazione di sco Chiantese al margine di una dimostrazione di lavoro (Tratta da Requiem Popolare) nel corso del convengo dal titolo "Spettacoli di tradizione in Toscana. presenze, trasformazioni, prospettive" Montepulciano, 3031 ottobre 2009
Devo ammettere che, in questa sala, provo una sensazione duplice che ricorderò per molto tempo e di cui, dal principio, vi ringrazio; da una parte un gran senso di familiarità, per l’essere assieme a dei ricercatori e a degli artigiani che si occupano come me di teatro; dall’altra parte di profonda estraneità, perché fino ad ora nessuno aveva mai collegato il mio lavoro alla tradizione teatrale in toscana, ne di rimando alle sue trasformazioni o a delle sue prospettive. Io stesso, difficilmente avevo avuto occasione di riflettere sulla collocazione dei miei lavori e della mia ricerca, nel solco di qualche tradizione di questa regione [la Toscana] che mi ospita da anni ma in cui non sono le mie origini biografiche e culturali. Mi sono trovato, quindi, a domandarmi: in che relazione è il mio artigianato con il Teatro Popolare Tradizionale Toscano? La prima volta che mi sono posto questa domanda è stato nell’istante in cui Costanza Lanzara mi ha comunicato il suo interesse nel vedermi partecipe al convegno sul Teatro Popolare Tradizionale con una mia dimostrazione di lavoro. Non mi veniva richiesta dunque la mia “opinione” come addetto ai lavori sul tema del convengo, ma veniva richiesta la presenza di una mia dimostrazione di lavoro su cui poi “altri” partecipanti avrebbero eventualmente fatto delle riflessioni. Si presumeva, quindi, che tra il mio lavoro e la tradizione teatrale popolare toscana vi fosse qualche relazione; ed effettivamente non poteva non essere che
vero. Vivo e lavoro da anni nell’area senese dove i segni vivi di questa tradizione sono fortissimi; com’è possibile che non abbiano contaminato ed arricchito il mio lavoro? Partirei da una affermazione che per molti di voi sarà banale, ad altri non piacerà, ma di cui ho bisogno per far chiarezza. Il Teatro Popolare Tradizionale Toscano è morto. Voglio essere preciso; il fatto che sia morto non vuol dire che non sia stato prolifico, e difatti noi prendiamo oggi in considerazione i “figli” di quello che è stato il Teatro Popolare Tradizionale in Toscana, anche se l’aggiunta della parola “tradizionale” a certe forme di teatro contemporaneo, ci fa erroneamente inserire padri e figli nella stessa categoria. L’evidenza di questa morte mi è apparsa alla nascita, in Monticchiello, di un museo che ne celebra, di fatto, la memoria; il Museo del Teatro Popolare Tradizionale Toscano (il Tepotratos) è un meraviglioso mausoleo vivo; come per le pietre tombali la sua presenza è l’evidenza di una vita che “è stata” e che ora non è più; o meglio non lo è più nella forma che lo rendeva popolare, tradizionale e toscana. Ho seguito il Teatro Povero di Monticchiello per anni, da quando nella mia adolescenza ho avuto la fortuna di vivere per un anno immerso nella comunità del piccolo paese della provincia senese; non mi ha stupito affatto che, la nascita del museo, abbia coinciso con l’allargamento della messa in scena ad attori e registi che non appartenevano di fatto alla comunità. Non parlo di nuovi membri della comunità inseriti, come sempre con grande bellezza, all’interno delle dinamiche del Teatro Povero; parlo di attori dilettanti, ma anche professionisti o aspiranti tali, cooptati per “necessità” dello spettacolo (l’invito, gentilmente declinato, è stato rivolto alcune volte anche a me o ai miei collaboratori di quegli anni). Uno spettacolo che ha delle necessità a cui la comunità deve poter rispondere, anche guardando fuori da se, è di fatto molto differente da uno spettacolo che risponde, in se, alle necessità di una comunità.
Le forme tradizionali del teatro popolare toscano, avevano questa caratteristica fondamentale: nascevano in risposta a delle necessità di una comunità. Il Teatro Povero di Monticchiello è ancora oggi una esperienza meravigliosa e fortissima, che va salvaguardata, amata, vissuta; ma i suoi protagonisti non sono più “cittadini”. Accanto ad alcuni anziani che hanno veramente vissuto le prime esperienze del Teatro Povero di Monticchiello, ci sono molti giovani ed in alcuni casi veri attori, che hanno frequentato laboratori teatrali, seminari, sono guidati da un regista professionista, e tutti assieme negli anni hanno messo in scena anche Čechov, Pirandello, Marivaux. Anche se le tematiche su cui si interrogano nell’autodramma che una volta l’anno mettono in scena rientrano nel filone della relazione tra “mondo rurale/mondo cittadino” c’è una distanza enorme rispetto al rapporto tra comunità e scena che c’era agli inizi della loro esperienza. Anche l’autodramma non è una vera scrittura collettiva, ma è da anni un testo scritto da un unico individuo, inserito e consapevole della comunità di cui è al servizio, che viene al massimo modificato in sede di prova come qualsiasi compagnia teatrale professionale fa. Non fraintendetemi; è un’esperienza teatrale che amo, faccio in modo di non mancare mai alle loro rappresentazioni principali, e conosco l’amore con cui vi si dedicano nonostante le difficoltà. Ne faccio una questione di definizione. Possiamo ascrivere il loro lavoro nel solco della Tradizione Teatrale Toscana? Non credo. Quello di cui possiamo essere sicuri è che alcuni di loro sono dei testimoni viventi di una tradizione scomparsa perché cambiata nelle sue caratteristiche fondanti, e gli altri sono degli attori amatoriali o professionisti che hanno la fortuna e l’onore di poter fare del teatro contemporaneo accanto a questi testimoni viventi. Perché di questo si tratta: teatro contemporaneo di cui si dichiara ad alta voce la paternità. Mi piace molto il lavoro di Matteo Marsan, a Castelnuovo Berardenga, di cui ho sentito stamani un intervento e di cui abbiamo visionato alcuni video.
Quello di Castelnuovo Berardenga è ancora un altro esempio di relazione con la tradizione. Lì si è utilizzata la “struttura” tradizionale per creare qualche cosa di nuovo tradendola, deformandola, arricchendola per corrispondere alle necessità di un territorio che ha bisogno di ricostruire una comunità. Plasmare la tradizione per ricreare una comunità. E’ una operazione importante. Anche lì, però non si può parlare di “Teatro Tradizionale Popolare” Voglio però subito contraddirmi. Alle mie spalle, nel manifesto di questo convegno, c’è una foto dei Maggiaioli di Castiglione d’Orcia; una foto non recente, non di ieri, ma di neppure troppi anni fa. Mi sono soffermato prima ad osservare volti un po’ più giovani di maggiaioli che conosco bene. Bene; io credo che, per quel che riguarda il Maggio di Castiglione d’Orcia, si possa effettivamente continuare a parlare di Tradizione Teaatrale Popolare Toscana. Lo dimostra il fatto che, sebbene ce ne sia una foto in locandina, nessuno di loro è in questa sala; non so se gli organizzatori hanno pensato di invitarne qualcuno, ma so di certo che l’impresa (essendoci ato anche io) non sarebbe stata facile. Non esiste una “fondazione” che ne preserva l’esistenza, ne una associazione, e non hanno bisogno di finanziamenti pubblici per continuare ad esistere. Il Maggio di Castiglione d’Orcia esiste perché non è morta la comunità dalle cui esigenze nasce. Non fraintendetemi: credo che possa resistere ed avrà lunga vita quanto sarà lunga la vita degli attuali maggiaioli, difficilmente sarà ata questa tradizione ad una nuova generazione senza che essa venga trasformata in qualcos’altro.
Ho tenuto un laboratorio di un anno ai ragazzi di Castiglione d’Orcia, all’interno delle scuole, sulla realtà del Maggio Tradizionale Toscano; in quell’occasione mi sono confrontato con i Maggiaioli. Con tutti loro, perché al loro interno non esiste una vera organizzazione; morto da poco il loro ultimo “capomaggio”, quella figura non è stata occupata da nessun altro, per scelta del gruppo. Erano un po’ restii alla mia presenza. Perché un professionista voleva occuparsi del loro Maggio? Perché non limitarsi a studiarlo, come da anni viene fatto, ma volerne parlare ai bambini? Nel gruppo dei Maggiaioli si entra quasi per cooptazione, dopo un periodo di osservazione reciproca molto lungo, dopo aver per anni seguito la cantata notturna del Maggio, dopo averne imparato silenziosamente le melodie e le parole, ci si avvicina al gruppo. Mi accettarono di buon grado, e di questo ancora li ringrazio, quando ho precisato loro che non mi sarei mai permesso di cambiare questo meccanismo di ingresso nel mondo del Maggio, e che neppure avrei insegnato ai ragazzi di Castiglione d’Orcia il loro cantar maggio. Fondai il laboratorio sui maggi di tutta la tradizione toscana citando soltanto quello che apparteneva alla comunità i cui ragazzi stessi appartenevano. Furono loro a tirarne fuori relazioni, differenze, ad interrogarsi sulle necessità che avevano portato in principio i contadini a fare la questua, a eggiare nel corso di tutta una notte da podere in podere, sul bisogno di cantare e sui motivi di quel modo strano di intonare la voce. Alla fine preparammo coi ragazzi un “loro” rito del maggio; appresero la relazione tra le loro esigenze, i loro bisogni, e la costruzione di un rito. A sorpresa concordammo coi Maggiaioli che loro entrassero in teatro cantando il Maggio alla fine della rappresentazione dei ragazzi, per suggerire a bassa voce, una relazione tra quello che avevamo fatto assieme io ed i ragazzi, e quello che secoli prima aveva dato il via alla tradizione del Maggio di Castiglioni. Molti ragazzi compresero, fu bellissimo per me. Anche in quel caso, però, del piccolo gruppo di Maggiaioli solo alcuni
intervennero; cantare il Maggio, in una sala con del pubblico, in un giorno diversa da quello prescritto dalla tradizione era uno strappo troppo grosso. Non vestono da vecchi contadini i Maggiaioli di Castiglione d’Orcia, alcuni mettono un fiore all’occhiello raccolto a caso, altri no; non si spostano in carri; da un podere all’altro ci vanno in automobile. Non scimmiottano una tradizione. Alcuni dei loro canti sono stati riscritti, da loro stessi, pensando alle loro mogli alle loro famiglie. E’ finito il mondo rurale dove sono nate le loro tradizioni, e loro hanno modificato di conseguenza il rito del maggio. E’ cambiato con loro, ma ancora gli appartiene; salva è la relazione tra le motivazioni personali ed il rito collettivo. Nel loro caso non possiamo parlare di rievocazione, ma di continuità di una tradizione. E’ un caso raro. Quando osservo i Maggiaioli di Castiglione d’Orcia resto affascinato, nel senso letterario del termine, cioè mi sento avvolto dal loro sentirsi necessari, una sensazione che sale come un profumo da un piano che sta ben sotto al loro linguaggio teatrale, il piano che contiene i sintomi della loro necessità di essere lì in quel momento. Essendo il mio teatro senza una chiara collocazione storica è nel solco di questa tradizione che voglio pormi; nella tradizione di un teatro che senza tralasciare segni e simboli lascia intravedere anche un piano sintomatico, che lascia intuire (perdonate il gioco di parole) quelle necessità che lo rendono necessario.
Si segni e di sintomi
Non possiamo prescindere dall’essere donne ed uomini. Nessuna delle teorie del teatro, nessuna delle sue pratiche neppure le più azzardate hanno mai potuto immaginare un attore che non sia prima completamente un essere umano. Eppure, in teatro, capita sempre a tutti prima o poi di sentirsi fantasmi; energie che riempiono altri uomini, corpi che fanno agire altre donne. L’altro, in teatro, il primo che un attore incontra è il personaggio. L’altro in cui ti trasformi, l’altro a cui dai vita. Successivamente arriva il collega di lavoro, il regista, il costumista, ed infine il pubblico, lo spettatore…preceduto solo dall’idea dello spettatore con cui l’attore accompagna parte del suo lavoro. Il primo altri, che si incontra, è quello che si deve indossare; anche se, questa parola indossare dovrebbe essere sostituita da un’altra parola, più corretta, forse un sinonimo di permeare…non so, ma credo che ci siamo capiti.
Il fatto stesso di essere uomini, di avere una propria bios, una propria vita che scorre. Possiamo prendere il nostro corpo, coprirlo di ottimi costumi, farlo agire in gesti e segni studiatissimi, animarlo della psicologia del personaggio, eppure…eppure non possiamo liberarci totalmente del nostro vissuto di uomini che, con quello del personaggio, condivide il corpo. Non parlo qui di un vissuto ato, conosciuto, rielaborato, pronto ad essere il cibo di cui si nutre la forza del personaggio; parlo del vissuto contemporaneo che inevitabilmente traspare da noi.
Quando ci muoviamo in uno spazio scenico, quando siamo in quel luogo sacro definito dalle nostre azioni e dallo sguardo dello spettatore, portiamo con noi il nostro vissuto ed esso traspare,, si manifesta. Ho visto moltissimi ottimi attori lottare contro questo evento della natura; praticare discipline di qualsiasi tipo per raggiungere l’abnegazione di se stessi, per sparire sotto il personaggio. L’idea che mi sono fatto è che sia una lotta impari, impari e sbagliata.
Impari perché siamo vivi, e la vita non si può nascondere. Un vecchio motto orientale consigliava agli attori di non recitare mai in scena con bambini ed animali, perché loro sarebbero stati sempre più vivi di qualsiasi personaggio ben fatto.
Soprattutto questa idea è, come dicevo, completamente sbagliata. Cercando di eliminare quello che traspare da noi, di noi, si rischia nella peggiore delle ipotesi di rendere sterile il nostro lavoro, mentre nella migliore non si sfrutta un canale comunicativo aperto e privilegiato.
Parlo di quel piano della comunicazione che scavalcando la comprensione possiamo chiamare piano dei sintomi, o se permettete, teatro dei sintomi.
Il nostro essere animali, prima che essere uomini (e soprattutto prima di essere attori), ci ha donato una naturale propensione ad ascoltare questo piano sintomatico negli altri. Nel quotidiano, possiamo avere tante prove di questo; è il piano di allerta, il piano in cui comunichiamo facendo interagire tra di loro le nostre esigenze, i nostri bisogni, le nostre urgente, le nostre necessità tramite i loro sintomi.
Il piano sintomatico è uno spazio di lavoro che l’attore non dovrebbe mai trascurare. I corpi, attraverso i sintomi, dialogano tra di loro ad un piano sottostante quello linguistico e culturale; vale a dire che i sintomi non hanno una lingua e non hanno una cultura. Sono transculturali, sono intelligibili da chiunque.
Il piano dei sintomi è qualcosa di paragonabile al mito di Atlantide; chi crede nell’esistenza di questa antichissima civiltà trova in essa i nodi centrali da cui si sono sviluppate le differenti culture, trova le radici comuni, le necessità in risposta al quale è nato il linguaggio.
Leggevo in questi giorni che, l’essere umano, ha sviluppato in un epoca relativamente recente la capacità di vedere i colori; esattamente con l’inizio della sua pratica di raccoglitore di bacche. Prima poteva limitarsi a vedere in una specie di banco e nero, dato che non doveva distinguere tra una pallina rossa ed una viola per potersi cibare sicuro di non morire. Bene; pensate adesso a quanto sia complesso, proprio per l’uomo, il linguaggio simbolico collegato ai colori, come sia cambiato nelle epoche, e come cambi nelle culture. Ci sono certi colori che, addirittura, hanno un significato particolare e differente anche solo all’interno di una coppia per un evento bello o brutto ad esso collegato.
Da una necessità si è sviluppato un linguaggio, che poi aderendo a gruppi sociali differenti, si è particolareggiato fino alla nascita del mito della Torre di Babele.
Una esigenza è portatrice di un sintomo che poi si trasforma in segno linguistico quando si ha la necessità di comunicare.
Tra Atlantide e Babele, però, c’è un soffio della storia dell’uomo.
Ecco, quando stiamo sul piano dei sintomi, siamo ancora ad Atlantide e ci capiamo tutti tra di noi; anzi. Essendo questo piano di comunicazione riservato, solitamente, alle necessità primarie dell’uomo è un canale privilegiato che si apre al primo segnale d’allarme. Da un po’ di tempo mi domando questo, e so che sarà la base del mio prossimo percorso di ricerca: come sfruttare il piano sintomatico in teatro? Perché combatterlo e non cercare di utilizzarlo nel nostro dialogo con il pubblico? In altre parole: può esistere un teatro dei sintomi? Un teatro in cui accanto ai più alti livelli espressivi a cui l’uomo è saputo arrivare si lasci libero di interagire anche questo piano fatto esclusivamente di sintomi? Non potrebbe servire questo a scavalcare la superstizione della comprensione, andando oltre le culture ed i linguaggi, per poter contribuire alla nascita di un teatro che sia realmente popolare?
Una conversazione
Anatomia di un superamento
di Natasha Bonavolontà
Laboratorio di Colle Val d’Elsa. Prima lezione sul teatro.
“Con il teatro rivivo una sensazione che conosco, che mi arriva dal ato, che mi arriva dalla mia natura. Io credo fermamente che ciascuno di noi sia quello che è già stato. Non possiamo esimerci da essere quello che siamo già stati. E questo è per me il teatro…” Ricordo solo questo della prima lezione. Ricordo di esser tornata a casa con questa considerazione nella testa. Non pensavo al teatro, no, ancora non speravo di trovare il teatro dentro di me. Pensavo piuttosto a come conoscessi anch’io una sensazione ‘che arriva dal ato’, che conosco da quando sono bambina e che non so spiegarmi. Non è legata al teatro ma vive dello stesso stupore. Scrissi una mail, ne inviai circa la metà per paura di aver frainteso. Ma lo feci di getto, come nelle occasioni che si sente di non poter perdere, come i segnali che si sente di non poter ignorare. Non si tratta di un déjà vu – spiegai – si tratta piuttosto di una sensazione che conosci da sempre, di cui hai un ricordo nitido nella mente; una sensazione che non riesci a trovare nella vita di tutti i giorni perché non esiste in nessun campo sensoriale. Poi un giorno la incontri, all’improvviso, e la riconosci subito. Non puoi fare altro che seguirla, perché capisci che ti sta indicando la strada… Ne nacque un dialogo che superava il limite del pudore tra due sconosciuti, ci scusammo l’uno con l’altra per averlo fatto e lo superammo ancora. Come se fe parte di un gioco di rimandi e di scambi.
Così nacque la proposta di una conversazione sul teatro, un dialogare di vite e di sensazioni che si incontrano a metà strada tra lo spazio interiore e il vuoto che separa due ‘sconosciuti’.
Conversazione
dialogo con Natasha Bonavolontà
Vorrei iniziare parlando del tuo mestiere, il teatro. Ognuno è quello che è sempre stato e tu sei un attore; ma lo hai sempre saputo?
Non credo di avere una risposta precisa a questa domanda. Non ho mai amato però l’idea di una vocazione al teatro, non credo si nasca con una particolare predisposizione; o, almeno, io non ne ritrovo tracce nel mio vissuto.
Mi sono ritrovato a fare teatro per caso, non era il teatro quello che cercavo, piuttosto uno strumento; uno strumento di espressione, di ribellione, di dialogo. Io cercavo uno strumento, e mi fecero incontrare il teatro. Il teatro mi è stato prestato, in un certo senso, e debbo ancora restituirlo. Sto parlando del mio primo incontro con il teatro come, in un certo senso, ancora oggi lo concepisco.
Avevo già conosciuto il teatro in precedenza, io sono nato in provincia di Napoli, e tutti incontrano il teatro prima o poi da quelle parti; era da bambino, per me, uno strumento di aggregazione sociale, lo facevamo noi bambini in parrocchia, lo facevano anche gli adulti nelle tante filodrammatiche di periferia; e poi,
ricordiamoci, quelli erano anni in cui ancora c’era spazio in televisione per un po’ di teatro, soprattutto quello di De Filippo, di Scarpetta. Natale in casa Cupiello, Filumena Marturana, Questi fantasmi; una replica di queste commedie data in prima serata era in casa mia un evento mondano ed assieme una tradizione: era impossibile non fermarsi a guardarle. Chissà quante volte sono stato svegliato con quello "scitate Francischiè taggia fatt’ o’ zuppone" apostrofato alla maniera di Pupella Maggio.
Ma, fino ai miei dodici anni, ero cresciuto in un ambiente controllato, protetto; avevo frequentato le elementari in una scuola privata, le medie inferiori in una pubblica, ma non avevo ancora incontrato la realtà suburbana di Napoli. In quegli anni il mio paese di nascita (Melito di Napoli) era effettivamente ancora un paese, con dinamiche di paese, e logiche di paese.
Arrivato alle medie superiori, frequentate per una prima parte nel centro di Napoli, mi è accaduto quello che accade alla protagonista del racconto di apertura di ‘Il mare non bagna Napoli’ della Ortese. Mi sono stati regalati occhiali nuovi, con cui potevo finalmente vedere liberamente, ma quello che vedevo mi ha subito spaventato.
Prima ho reagito scappando, in qualche modo, da questo nuovo universo in cui ero immerso; ma questo era impossibile, non si scappa mai realmente dalla città in cui si vive, e poi non amavo l’alienazione che spesso nei miei coetanei era l’unica forma di fuga dal brutto. Non potevo alienarmi; era una condizione che mi spaventava ancora di più del resto. Ho cercato allora degli strumenti di dialogo con quella realtà a cui mi sentivo estraneo.
Qualcuno è arrivato e con sé aveva la musica ed il teatro.
Ecco il primo incontro vero con il teatro. Il teatro per me è stato per qualche anno un gruppo di adolescenti che sperava di agire con esso sulla cultura della propria città, aiutarla a riconoscersi nella sua faccia bella, aiutarla a strapparsi di dosso il suo peggior cancro.
Gli spettacoli erano dei piccoli manifesti di denuncia o delle dichiarazioni accorate d’amore nei confronti della propria terra; si tenevano per strada, nei centri sociali, nei quartieri il cui solo nome per me, fino a pochi mesi prima, era un tabù.
Fu un’esperienza durata due anni circa. Il più grande di noi aveva sedici anni. Ogni volta che racconto di questa parte della mia vita, dei nostri sogni e delle nostre aspettative, qualcuno sgrana gli occhi e mi dice: "eravate solo bambini". Ed è vero; verissimo. È ridicolo che questo scandalizzi. Se racconto che un mio compagno in quella esperienza aveva la sorella di quindici anni che si prostituiva e che un’altra ragazza del gruppo qualche anno prima (verso i suoi dieci anni) aiutava la famiglia facendo da corriere tra il deposito del clan locale e le piazze di spaccio del centro storico, le persone si scandalizzano meno. Napoli è una città che, senza meriti, spinge ogni giorno a delle scelte; forse da bambini è solo più facile protendere verso gli estremi.
Tutto questo, per tornare alla tua domanda, non vuol dire aver scelto il mestiere
dell’attore. In quegli anni il teatro, come la poesia e la musica si intrecciavano alla mia vita, erano presenze costanti, ma se me lo chiedevi io avrei voluto fare il chimico. Forse l’amore per la ricerca c’era già, adesso che ci penso, o forse è una riflessione fatta col senno di poi. Non so. Le scienze, la chimica, la biologia erano quello che stavo preparando per il mio futuro lavorativo.
Una volta in toscana, un paio d’anni dopo, ho cominciato a voler studiare teatro; forse, fuori dal contesto in cui l’avevo conosciuto come strumento, per la prima volta mi incuriosiva; volevo saperne di più. Studiandolo ho cominciato a conoscere donne ed uomini che ne avevano fatto il loro mestiere, ho cominciato a seguirli, ad innamorarmi di quell’ambiente, e così è diventato il mio mestiere. In fondo è l’unica cosa che so fare, e non riesco ad immaginarmi altrove; per me è il più bel mestiere del mondo, perché mi consente di incontrare ogni giorno donne ed uomini curiosi di sé e degli altri, individui che non si soffermano a guardare un quadro, ad ascoltare una musica, ad osservare un paesaggio o una città se possono guardare un’altra donna o un altro uomo.
La tua dimensione è dunque quella di un ricercatore e il teatro è l’oggetto dello studio, ma il soggetto è l’attore?
Possiamo dividere il mio lavoro in due parti; separiamo per comprensione il ricercatore dall’attore. Il lavoro del ricercatore termina non appena entro in uno spazio scenico, durante lo spettacolo non posso essere altro che un attore. Ci tengo a precisare questo perché se il soggetto della ricerca può essere il teatro, soprattutto nel suo aspetto di linguaggio, ma posso occuparmi anche dell’essere umano interamente, o soffermarmi su alcuni dei suoi aspetti; quando sono un attore io sto cercando
esclusivamente di entrare in relazione, di dialogare con un altro individuo, con ciascuno degli spettatori.
Il teatro è il tuo strumento di dialogo con te stesso e con il mondo, è giusto dire che in un certo senso la tua è una ricerca interiore?
Si potrebbe, nel senso comune del termine difatti lo è; non amo però l’espressione ricerca interiore, la trovo riduttiva. Sebbene non sia questo l’obiettivo del teatro, è indubbio che chi fa teatro è spinto per necessità ad una maggiore conoscenza di sé. Ecco, io parlerei di ricerca di sé, per alcuni di noi questa ricerca ha portato ad una riscoperta della propria interiorità, ma non stupisca che per altri ha significato un riconoscere il valore dell’esteriorità. Per cultura tendiamo a dare maggiore rilievo alla parte di noi che non si vede, e per convenzione la collochiamo all’interno. Il teatro qualche volta sconvolge le nostre collocazioni.
Posso chiederti quanto questa ricerca interiore abbia a che vedere con la ricerca spirituale?
Le due cose possono avere dei punti coincidenti. Questo ovviamente nella misura in cui si concepisce la ricerca spirituale come la ricerca di senso in se stessi. Se l’obiettivo della propria ricerca spirituale è un’entità esterna al sé, qualche divinità ad esempio, o se il proprio percorso spirituale porta ad indentificare parti di sé concettualmente contrapposte, ad esempio un concetto di anima da contrapporre ad un concetto di corpo o un concetto di cuore da contrapporre a
quello di mente, siamo molto distanti dal territorio di ricerca del teatro che non può avere altro obiettivo che l’essere umano nella sua pienezza e nelle sue relazioni. Il rapporto tra teatro e spiritualità incuriosisce molto ma a me fa molta paura. Si tende, affrontando questo argomento, a dimenticare che il teatro è una forma di artigianato molto concreta e mai una religione. Ha altri obiettivi. Cosa differente è parlare del rapporto tra teatro e sacro perché questa relazione invece è certa ed evidente; in teatro si è sempre in relazione con ciò che non è visibile, con quello che conosciamo soltanto per intuizione, che riconosciamo dal profumo senza averne una certezza. Il rapporto con il sacro è ordinario in teatro.
Quanto ti stupisci di te stesso grazie al teatro?
Ah, sempre moltissimo! E ne sono felice; il giorno in cui sparirà questo stupore, il teatro per me perderà qualsiasi attrazione. Per fortuna, la strada è ancora così lunga, che questo non accadrà (se accadrà) in tempi brevi. E’ lo stupore che fa superare tantissime difficoltà in teatro. Ogni nuovo progetto appare impossibile; se ci dovessimo fidare delle nostre capacità certe, non progrediremmo, ripeteremmo il solito spettacolo per anni, anni, ed anni. Invece tentiamo ogni giorno di andare oltre a quel che conosciamo di noi, ed ogni giorno restiamo stupiti di noi stessi. Questa è un’esperienza condivisa da chiunque faccia teatro.
Anche nel rapporto con gli allievi, lo stupore, è fondamentale; finché non riusciranno a stupirsi di se stessi, il loro agire, sarà sterile e progrediranno verso un teatro che è già morto.
Infondo un buon attore deve avere questa capacità – guardando un seme deve immaginare il fiore, e forse anche il frutto -.
Lo spettatore si identifica nelle emozioni del teatro, ma come mai a teatro si commuove, prova emozioni più forti che nella vita reale? Il teatro dilata l’emozione?
Mi verrebbe spontaneo risponderti di sì. Subito. Perché quella che tu racconti è una realtà, un’esperienza concreta, che oscilla tra la soggettività e l’oggettività, ma che ciascuno di noi può sperimentare. Vorrei dirti "se per te è così allora puoi risponderti da sola", ma dato che anche per me è così, e dato che molte altre persone mi hanno fatto notare questa loro esperienza, cerchiamo assieme di trarne una riflessione.
Occorre però fare una premessa; vorrei distinguere il "perché" questo avviene dal "come mai" questo avviene. Partiamo dal "perché".
Generalmente, nella vita quotidiana, viviamo ponendoci una serie di obiettivi, e lavoriamo per raggiungere questi obiettivi come se le emozioni fossero
secondarie, fossero conseguenze di un percorso. In teatro le emozioni sono un obiettivo, il linguaggio teatrale è fatto in modo da condividere con le emozioni la loro grammatica, esso ha spesso lo scopo di coniugare le emozioni. Possiamo dire che il teatro usa la grammatica delle emozioni.
Nella vita fuori dalla scena, in quella quotidiana, normalmente, non agiamo per "emozionare", mentre questo è uno degli scopi che si mette davanti un attore. Quindi, se non abbiamo davanti un attore sterile, possiamo attribuire a questo la "dilatazione" delle emozioni, come la chiama tu, con un termine [dilatazione] con cui spesso abbiamo a che fare in teatro.
Facciamo finta che questo non basti, dunque, per andare ad approfondire il "come" questo accade.
La prima cosa su cui mi soffermerei è che in teatro, attore e spettatore condividono uno spazio; e questo non è poco. Ricordo qualche anno fa il racconto di un antropologo, quasi un aneddoto (spero in un aneddoto), su una piccola comunità tribale di cui, ad essere sincero, non ricordo nulla fuorché ciò che mi è piaciuto ricordare. Questa comunità credeva in una divinità calata sulla terra scivolando lungo il tronco di un albero; il loro totem era, così, un lungo palo. Da questo oggetto totemico derivava anche la loro misura territoriale. Il loro territorio era una circonferenza avente come raggio un certo numero di i dal palo; questa comunità era dedita al cannibalismo e la morale comune imponeva loro di non mangiare i propri familiari ma solo gli stranieri.
Chi erano per loro gli stranieri? Erano coloro che risiedevano all’esterno della loro circonferenza. Fin qui tutto normale...se non fosse che si sta parlando di una comunità nomade il cui capo, in un qualsiasi momento del giorno, tira su il palo/totem e se ne va in giro. Chi resta fuori, ovviamente, cambia il proprio status da familiare a straniero, cosa non piacevole se si ha a che fare con una comunità cannibale. Il racconto, che sia reale o fantastico (o che sia reale e reso fantastico dalla mia memoria e dalla mia abitudine annosa di raccontarlo), batte però su un tasto di cui tutti abbiamo esperienza. Tra coloro che condividono uno spazio si stabilisce una relazione, solitamente di familiarità, da cui non si può prescindere; c’è un senso di appartenenza spontaneo che stabiliamo con chi si trova dallo stesso nostro lato di un limite spaziale. Converrai con me che siamo molto più disponibili a metterci in gioco, a farci avvicinare, da chi già condivide con noi lo spazio. Qualcosa di atavico ce lo rende più simile, più familiare, e ci rende più disposti ad abbassare con lui le nostre difese. In teatro ci confrontiamo tutti da molto tempo con la questione della suddivisione dello spazio; abbiamo già visto in questo campo un po’ di tutto. Attori nello spazio degli spettatori, spettatori nello spazio degli attori, attori e spettatori nello stesso spazio, spettatori ed attori che non sanno quale sia il loro spazio, spettacoli che diventano faticose opere di pellegrinaggio di attori e spettatori alla ricerca di una collocazione. Abbiamo smontato e rimontato decine di volte lo spazio fisico teatrale, soffermandoci poco su quello che è lo spazio percepito da attori e spettatori; dimenticando infondo che la percezione delle cose agisce sull’essere umano più della realtà delle stesse cose. Forse potevamo lasciare gli attori sul palco, gli spettatori in sala, e concentrarci su altre cose; ma se non avessimo fatto questo percorso, non avremmo potuto dedurne di aver sbagliato strada.
Di recente poi la neuroscienza è arrivata a dare man forte ai nostri sospetti sulla relazione tra individui che condividono lo stesso spazio, che si trovano nella possibilità di poter comunicare a vista. Penso ai neuroni a specchio, di cui recentemente è stata confermata l’esistenza anche negli esseri umani; attraverso degli studi di risonanza magnetica si è appurato che i medesimi neuroni attivati dall’esecutore durante l’azione, vengono attivati anche nell’osservatore della medesima azione. Il cervello che osserva si attiva alla stessa maniera del cervello che agisce. Questo è ritenuto vero sul piano visivo, ma io ho il sospetto che la scienza arriverà presto a dimostrare una relazione tra chi agisce e chi osserva ben più radicata.
In attesa di queste nuove prove possiamo far parlare la nostra esperienza quotidiana, per osservare che i corpi comunicano profondamente tra di loro quando sono in compresenza, quando condividono uno spazio. Tutti abbiamo condiviso lo spazio almeno una volta con una persona ansiosa, con un amico entusiasta, con qualcuno che, vivendo un’emozione forte, ce l’ha trasmessa o almeno ci ha condizionato con il profumo, con l’energia, che emanava in quel preciso momento.
Ricordo l’inizio di un allestimento di ‘Aspettando Godot curato da me una decina di anni fa; lo spazio era una grande croce tara ritagliata in mezzo al pubblico, avevamo scelto come musica di incipit degli esercizi vocali di Demetrio Stratos, ed avevo chiesto agli attori che lavoravano con me di percorrere ripetutamente lo spazio, in tutta la sua ampiezza, per alcuni minuti prima di iniziare lo spettacolo. Non avevo spiegato loro a cosa servisse, gli avevo chiesto solo di fidarsi di me. In quella eggiata iniziale loro scaricarono buona parte della loro tensione mista alla loro titubanza (la fiducia non poteva essere totale) e queste sensazioni arrivarono fortissime a spiazzare il pubblico.
Un secondo ricordo è l’istante che precedeva il finale dello spettacolo ‘Linea d’Ombra’, sempre di una manciata di anni fa. La scena precedente era la rievocazione di una tempesta navale; gli attori correvano e gridavano lungo tutto lo spazio, salendo e scendendo da dei grossi cubi di legno, ruotando su se stessi e tendendo contemporaneamente una grossa corda, c’era tanta energia e grandissimo sforzo nel compiere tutte quelle azioni a tempo, coordinandosi, e senza distruggere le lampade ad olio con cui era illuminato lo spazio; all’improvviso tutti sapevano di doversi fermare e cadere a terra. In quella scena recitavo anche io. La sensazione vissuta dall’interno, nell’istante della pausa, era quella di quando si taglia il traguardo alla fine di una maratona; la stessa sensazione, vissuta in quell’istante, ci è stata raccontata dagli spettatori nel dialogo che seguiva lo spettacolo.
In queste due occasioni (come in altre) non avevo lavorato, con gli attori, sul messaggio da far arrivare agli spettatori, non avevamo lavorato a livello di linguaggio, eppure molto era arrivato al pubblico. I corpi dialogano tra di loro, in compresenza ad un livello sottostante il linguaggio; tra spettatore ed attore non c’è solo una relazione fatta di linguaggio, di segni, di simboli. Esiste qualcosa al di sotto di questo, che comunica ad un livello più elementare, non sul piano della comprensione ma su quello dell’intuizione. Questo qualcosa io lo chiamo sintomo.
Se il teatro dilata le emozioni, per usare un’espressione tua, che da oggi diventerà anche mia, è perché non agisce solo sul piano della comprensione ma arriva ad un piano sintomatico.
Questo piano sintomatico agisce anche nel quotidiano, nell’ordinario; se noi
ponessimo questo livello comunicativo come obiettivo, per tornare al discorso iniziale, vivremmo sempre le sensazioni con la stessa forza con cui le viviamo in teatro; ma ovviamente, è molto complesso vivere così, forse sarebbe maniacale, forse addirittura sbagliato e disumano.
Il teatro però è solo un frammento della nostra esistenza e, in un frammento, possiamo permetterci di vivere così pienamente.
Mi aspettavo una risposta diversa.
Ah, bene, quale? (risata reciproca).
Pensavo all’uso che la gente fa nel quotidiano della parola "teatro", sempre collegata alla parola "finzione"…
Beh, certo, non sbaglia fino in fondo ma neppure ha ragione. Sta in quella finzione, la grande forza del teatro.
Ti fa abbassare la guardia?
In un certo senso sì; è una convenzione, ti mette a tuo agio, ti rende più disponibile. Andando a teatro per convenzione (anche se forse non si è più consapevoli di questo) si sceglie di essere più disponibili, si sceglie di abbassare la guardia.
L’errore non va ricercato nella parola finzione, ma nella sua accezione comune; chi ha deciso che un’emozione generata da un evento reale debba essere più forte di una generata da un evento fatto accadere per finzione? Nella vita di ogni giorno facciamo esperienza della situazione opposta.
Spesso nei tuoi spettacoli gli spettatori sono estremamente vicini al pubblico; lo fai per ampliare quest’idea di spazio comune?
Probabilmente sì; ma forse corrisponde più ad un mio bisogno (quando sono in scena, e riflesso sui miei attori quando curo solo la regia) che ad una scelta tecnica. Mi dà molta sicurezza la vicinanza fisica, mi sento più capace di amministrare l’attenzione del pubblico quando lo sento vicino.
C’è anche una certa possibilità che questo mio comportamento, questa scelta registica, derivi da qualche cosa che non controllo; ho un leggero handicap agli occhi che mi impedisce di avere una corretta visione della profondità di campo. Ad una certa distanza tutto mi appare abbastanza piatto, da vicino, al contrario, la profondità di campo che percepisco è eccessivamente marcata.
Comunque non parto mai con presupposti di questo tipo quando lavoro; osservo i materiali che ho tra le mani, all’inizio della lavorazione, dopo un periodo di studio e di ascolto e lascio che siano loro a suggerirmi il percorso artigianale che porta allo spettacolo ultimato.
Quindi non escluderei un domani di realizzare spettacoli con grandi scene corali ed allestiti per teatri all’italiana o palazzetti dello sport o perché no, da fare su una zattera mentre il pubblico segue dalla spiaggia.
Anzi, ti dirò. Uno degli spettacoli che ho maggiormente invidiato è un lavoro di Pippo Delbono del 1999 (credo) e che si chiamava ‘Esodo’. Era un lavoro dal montaggio perfetto, composto da grandi scene corali in cui l’uso sapiente di luci, musiche e la direzione degli attori ti proiettava sul palco; sentivi veramente di essere accanto ai personaggi sul palco, tra le macerie della scenografia, anche se come me eri sul palchetto di secondo livello.
Una cosa a cui non vorrei rinunciare, però, è la possibilità di coinvolgere il pubblico lasciando loro una grande autonomia di fruizione durante lo spettacolo; la vicinanza mi dà questa possibilità in maniera molto semplice. Se osservi una scena da lontano, la visione stereoscopica ti permette di abbracciare per intero la scena; e dato che la scena la costruisco io, posso anche dire che la visione stereoscopica ti costringe a vedere tutto quello che io ho messo sulla scena. Ti costringe a vedere quello che io ho deciso di mostrarti.
Da vicino, invece, per quanto io possa calcolare tutto, tu puoi scegliere, anzi sei costretto a farlo, la porzione di scena da osservare; puoi concentrarti sulla sinistra, sulla destra, puoi scostare lo sguardo, poi distrarti osservando un dettaglio di un costume. Questo solitamente, rende il pubblico molto partecipe, molto reattivo. In ‘Disamistade’ (progetto Andersen) avevo dato la possibilità estrema al pubblico di scegliere il punto di vista; lo spettacolo si svolgeva all’interno di una scatola di tessuto non tessuto di quattro metri per quattro. C’erano degli strappi lungo le pareti, a varie altezze, di varie dimensioni, ed il pubblico per poter osservare doveva infilare la testa all’interno della scatola.
Quindi un buon regista, ti lascia scegliere cosa vedere, o ti impone il suo punto di vista?
Mah; io credo che un buon regista rimandi lo spettatore a casa con la sensazione di aver vissuto un’esperienza vivida, reale, concreta; proprio per Disamistade ho ricevuto uno dei complimenti che ho maggiormente apprezzato nella mia vita. Lo spettacolo era inserito in un progetto particolare, una rassegna itinerante ideata da me, Fabrizio Pallara (Teatro delle Apparizioni, Roma) e Stefano Tè (Teatro dei Venti, Modena), che si muoveva come una carovana da circo in tre città Montepulciano (Siena), Roma e Modena. Tecnici, artisti, registi, tutti si spostavano assieme e convivevano durante il periodo di durata del progetto. Dopo una delle repliche, credo a Roma, Pino Dieni un polistrumentista modenese che faceva parte della carovana, e quindi aveva visto più repliche dello spettacolo, mi disse di averlo sognato; anzi, di averlo trasformato in un proprio incubo. Il sogno è un contenitore dove finiscono elementi del vissuto quotidiano del sognatore...alcune scene di Disamistade erano riuscite ad entrare nella sfera del sogno di Pino. Ne fui felicissimo; è esattamente uno degli obiettivi che mi propongo quando lavoro ad uno spettacolo.
Quindi Pino ha trasformato un’emozione vissuta a teatro in un’esperienza onirica; per te invece che legame c’è tra teatro e sogno?
In un certo senso sì; ci siamo trovati nella situazione ideale, quella in cui il bios di uno spettacolo dialoga direttamente, interagisce e si interseca, alla biografia dello spettatore.
La relazione tra sogno e teatro è profonda ed atavica. Moltissimi si sono occupati di questa relazione, molti testi giocano attorno a
questa relazione, ma soprattutto moltissime regie a cui ho assistito. Spesso il teatro contende al sogno il tempo; e per me che sono spesso insonne, questa è una realtà quotidiana. Moltissimi miei lavori sono nati da riflessioni notturne strappate al sonno. Qualche volta capita che i miei spettacoli entrino nei miei sogni, che io ci lavori durante il sogno; altre volte, invece, intere scene (in un caso di cui non parlerò, un intero spettacolo) sono nate da immagini arrivate durante il sogno. Ovviamente, la cosa difficile, e rendere concreta una cosa che arriva da un mondo dove non ci sono regole, neppure leggi fisiche, soprattutto niente problemi di budget. Credo che, comunque, la relazione sia da trovare sul piano dei sintomi; durante la notte componiamo i nostri sogni con le esperienze vissute, quelle attese, quelle desiderate…beh, posso dirti che questa è una cosa che auguro al mio teatro. In un certo senso gli auguro di essere così. Una composizione dei sintomi di cose accadute e cose desiderate.
Da quello che dici appare la figura di un attore che è più indifeso dello spettatore, che si mette a nudo, che dà tutto…
In effetti credo che buona parte del lavoro di preparazione di un attore sia quello di imparare a gestire la distanza tra sé ed il pubblico, la relazione tra lo stare nudi e l’avere addosso un costume. Non è semplice, credo sia proprio il nodo del nostro mestiere. Non si sta mai sul palco, nello spazio scenico, fuori dalla convenzione teatrale; non si attraversa mai lo spazio scenico come sco, Natasha, Salvatore. Sempre lo si attraversa come personaggio.
E guarda, che questa cosa qui, oggi come oggi è la regola più tradita in teatro. Quando non la vedo applicata, avrei voglia di uscire dalla sala (e talvolta lo faccio) e dire "questo non è teatro". Se guardando una prova capisco quanto c’è dell’attore nel personaggio, se vedo la sua faccia trasparire dalla maschera, vuol dire che bisogna lavorare ancora, ed ancora, ed ancora. Eppure, questo stupro della convenzione teatrale, spesso viene visto come ricchezza. "È così bravo che non riesce a trattenersi dal ridere delle sue stesse battute" oppure "Guardalo: è così bravo che si commuove davvero" sono considerate attestazioni di grande stima. Ma solo una donna oppure un uomo travolti da questa cultura della trasparenza, del visibile, dell’esposizione, possono andare a teatro per vedere un attore commuoversi. Io vado in teatro per vedere un personaggio; e suonerà piuttosto antica come affermazione, ma dell’attore, della sua emotività più o meno mostrata, non mi importa proprio nulla; anzi, distrugge la convenzione, la magia del teatro, che rende possibile emozioni impossibili, "dilatate" come dicevi tu prima. Le emozioni del personaggio sono "dilatate", quelle dell’attore sono le emozioni che quotidianamente possiamo osservare nelle persone che ci stanno attorno. Ecco che il primo compito dell’attore diventa riuscire a sparire, a rinunciare a sé, ad annullarsi per poter tenere sempre il filo della magia. Eppure, il suo personaggio vive di sé. Ah, ecco il difficile, ecco quello che Artaud chiamava crudeltà.
Tu sei una donna, ed io ho sempre creduto che le donne possano capire il lavoro dell’attore meglio degli uomini, perché portano in loro l’esperienza (vissuta o pregressa) della maternità. Il personaggio si nutre di te, ti divora dall’interno, non ci sono posti dove puoi
nasconderti da una creatura affamata che ti cresce dentro; non puoi spogliarti un istante della tua maternità per poter riprendere fiato. Per nove mesi, il bambino, è lì che si nutre di te. Poi giunge il momento in cui devi prestargli il tuo corpo, la tua voce, fargli spazio. È come quando negli ultimi giorni prima del parto, tutti hanno una gran voglia di toccare la pancia per vedere se scalcia o accostare l’orecchio per sentire se batte il cuore. Ecco. Stare sul palco è un po’ permettere a tutti di avvicinarsi, di toccare, di origliare, di accostarsi ai tuoi occhi; non per vedere te, ma per vedere dentro di te, oltre l’attore, scovare il personaggio. È qui che l’attore deve apprendere l’arte dello stare nudi; preservando però la propria individualità, il proprio essere se stessi, la propria intimità.
In teatro spesso si è considerato il pudore come un qualcosa di cui vergognarsi; e la sua assenza qualche cosa da manifestare e da gridare al mondo. Tutto questo è uno sbaglio. Ho portato in giro per qualche anno un seminario per attori proprio dal titolo ‘Il pudore’. Proprio il pudore è al contrario uno strumento necessario per l’attore. Deve saper spostare e manovrare agevolmente l’assicella tra la propria intimità e la manifestazione di essa.
Ci siamo soffermati sulla relazione tra attore e spettatore, ma non su quella che si stabilisce tra attori.
Hai ragione; ed è bello che tu me lo chiedi proprio in questo momento in cui siamo arrivati a parlare del pudore. Uno spettacolo è qualche cosa di vivo. Non è la somma della mia vita, più la vita di un collega, più la vita dell’autore, e quella del regista, e quella del costumista, dei musicisti, dei tecnici e di tutti quelli che partecipano alla sua realizzazione. Uno spettacolo è qualche cosa di vivo, nel senso che ha un proprio bios. Egli è una creatura con una propria energia, un proprio vissuto, una propria esperienza (piccola o grande che sia), egli è vivo. E come tale interagisce con la vita degli spettatori. È un bios che dialoga con un altro bios. Quanta bellezza c’è in questo, quando avviene. Ed allora quale può essere il rapporto tra gli attori se non quello che intercorre tra una donna ed un uomo che devono far nascere nuova vita? Ovviamente qui per attori intendo tutti quelli che partecipano alla creazione. Generare uno spettacolo non è dissimile da un atto sessuale; possibilmente senza protezioni. Per questo non riesco a concepire alcuni gruppi teatrali che si incontrano senza finalizzare il loro lavoro alla nascita di uno spettacolo; mi danno la stessa tristezza di un gruppo che pratica la masturbazione collettiva e reciproca, per sempre, rassegnandosi alla sterilità. Tra gli attori deve avvenire una relazione squisitamente procreativa; occorre che la vita, il bios di ciascuno scivoli nell’altro, fecondando e lasciandosi fecondare; e questo è un grandissimo esercizio di umiltà. Se nella vita reale io vivo la sessualità completamente concentrato su me stesso,
ripetendo dei clichè, senza l’ascolto dell’altro, non mi inebrierò mai di piacere, tanto meno lo farà la mia compagna, ma potrò comunque fecondarla e dare la vita ad un bambino; in teatro, senza l’ascolto, non ci sarà nuovo bios ma tanta energia sprecata e lo spettacolo nascerà già morto. E certo di teatro morto prima di nascere se ne vede veramente tanto in giro.
Se osservi la vita di un gruppo teatrale puoi notare tutte le fasi necessarie; c’è un incontro, la curiosità reciproca, l’affascinazione, il primo bacio, la prima volta, la conoscenza reciproca, la promessa di fedeltà, qualche tradimento, la riappacificazione, qualche divorzio; e se tutto va bene si fanno tanti figli.
Per molti anni ho creduto possibile un teatro vivo solo all’interno di un teatro di gruppo dove i componenti, gli attori, scelgono di vivere l’esperienza teatrale assieme per anni; ora credo che sia possibile ritrovare la stessa vita anche in gruppi formati esclusivamente per la nascita di uno spettacolo. Quello che conta è la disponibilità di ciascuno a mettersi in gioco per creare nuova vita.
Baudelaire ha scritto diversi saggi sul teatro, eppure durante la sua attività di autore teatrale afferma di non aver mai raggiunto l’idea da egli stesso descritta nei suoi saggi.
Beh, questo mi appare molto normale. Si può affermare la stessa cosa di Artaud, ma io credo che la si possa affermare di qualsiasi regista, attore, musicista. Il teatro è una forma di artigianato; non ha bisogno di una saggistica collegata, per esistere. Per fare teatro non è necessaria una cultura del teatro; conosco registi squisitamente felici di leggere pochissima saggistica o critica teatrale.
Eppure tu ti soffermi spesso a parlare di teorie teatrali…
Sì, a me piace, piace molto. Il mio percorso di formazione è un percorso sghembo, fatto soprattutto di incontri e di dialoghi con colleghi; per poter dialogare, però, c’è bisogno di un linguaggio comune, c’è bisogno di una visione d’insieme, di capire qual è lo stato dell’arte del proprio lavoro, dove è possibile collocare il proprio approccio, quali sono gli elementi distintivi e quali quelli che accomunano la mia poetica, il mio artigianato, a quello dei colleghi. Mettiamola così: quando lavoro, mi isolo molto, e sono come un pittore che si avvicina alla tela e si concentra sulla sua tecnica per definire i dettagli, per dare la vita alla propria opera; ogni tanto, però, ho bisogno di riposare, mi allontano dalla tela, guardo la mia opera nell’insieme. Continuo, poi, allontanandomi sempre di più e cercando di trattenere nello stesso unico colpo d’occhio il lavoro dei tanti giovani italiani bravissimi, delle compagnie internazionali che ho conosciuto, cerco insomma di vederci tutti assieme. Da questa veduta a volo d’uccello nascono le mie riflessioni sul teatro, nasce la parte saggistica del mio lavoro.
Quindi i tuoi spettacoli non sono realizzati nel rispetto delle regole teatrali che tu delinei, in cui credi?
No, assolutamente. Non sarebbe teatro ma esercizio di autocompiacimento. Il teatro è una cosa viva, ed in quanto tale, deve necessariamente superare quello che la teoria può individuare. Hai mai conosciuto qualcosa di reale che fosse meno complesso di qualcosa di
ideale? Quello che deve accadere è il perfetto contrario; sono le mie teorie che devono essere, il più possibile, fedeli ai miei segni. Per tornare all’esempio fatto prima, una madre che non si stupisce quotidianamente osservando il figlio, non è una vera madre oppure, il figlio, non è abbastanza vivo, non è libero. Se un mio spettacolo, nascendo, contraddice tutto quello che ho teorizzato il giorno prima...ben venga! Evviva la vita! Per adesso accade spesso, quasi sempre, ma confido di potermi vantare di questo anche tra moltissimi anni. Spesso, ci sono dei aggi dei miei spettacoli di cui io stesso non ho completa consapevolezza. In un certo senso non sono "miei", come non sarà "mio" del tutto il figlio che un giorno avrò. Posso rintracciare al suo interno il mio sangue, i miei semi, ma è una vita a parte. Non sono io, quindi non può essere totalmente mio. Può addirittura capitare che io non capisca una parte di un mio spettacolo; capita, capita. Come capita di scontrarsi con un proprio spettacolo, discuterci, entrare in crisi, aver bisogno di riappacificarsi con esso, o tagliarlo fuori dalla propria vita. Una volta creato, uno spettacolo, è sempre in dialogo con chi ha partecipato alla sua creazione.
In questo caso, se qualcuno esce da uno spettacolo dicendo: ‘non ho capito nulla’?
Succede. Succede anche questo, e non ci vedo nulla di male. Del resto non sempre l’obiettivo di uno spettacolo sta sul piano della comprensione, spesso si sposta su quello del sentire o del percepire.
Prendiamo Neruda, il poeta cileno; possiamo grossolanamente suddividere la sua poesia in due filoni, quella politica e quella d’amore. Se leggi i suoi testi, i due filoni, corrispondono spesso a registri linguistici differenti. La sua poesia politica ha il compito di scaldare gli animi, ma di fornire anche dei concetti; in certi punti è quasi didattica perché (lo sappiamo da sue dichiarazioni) si poneva come autore lo scopo di creare un’identità nazionale per il suo popolo. In quel caso il suo linguaggio, pur restando nel campo della poesia, è forte ma comprensibilissimo. Nella sua poesia d’amore, al contrario, è veramente difficile uscire dal giro di metafore con la sicurezza di aver compreso un messaggio; probabilmente, per esclusione, perché in quel caso lui non aveva alcuna intenzione di essere comprensibile, non si poneva il problema di esserlo, non aveva nulla da "dire". Stava solo suggerendo emozioni. Lo stesso, per me, possiamo applicarlo in teatro. Ci sono alcuni miei spettacoli, come "Cicuta!" (Una apologia di Socrate), in cui comprendere è necessario; è uno spettacolo, in un certo senso, fortemente politico. In ‘Danae’ (madre di madre) io non avevo nulla da dire; anzi, parlavo della maternità, di cui per il semplice fatto di essere uomo, non posso realmente sapere tutto. Cosa avrei potuto dire io sulla maternità? Però avevo bisogno di raggiungere e condividere col pubblico il mio rapporto con la maternità sul piano del sintomo.
Ti ho spesso sentito parlare sia di spazio teatrale che di spazio interiore. Che rapporto c’è tra i due?
Il rapporto tra i due spazi è l’attore; possiamo proprio definire, un attore, quel corpo che sta tra uno spazio interiore ed uno spazio esteriore. Lo spazio interiore è lo spazio su cui si modella l’attore, lo spazio teatrale (o esteriore, se vuoi) e quello in cui l’attore si modella. Lo spazio interiore è quello della costruzione e quello esteriore è quello dell’azione; anche questa non è una teoria, ma una osservazione dalla realtà. Il respiro si prepara all’interno per divenire suono all’esterno; l’azione si prepara fuori per essere agita e quindi vivere nello spazio esterno. Gli attori che curano il solo spazio interiore, sono informi; quelli che curano solo lo spazio esteriore, sono vuoti. Se non ci preoccupiamo di entrambi gli spazi, allora siamo sterili.
Postfazione
Criptico e tortuoso. Lo scriveva sempre il mio professore di lettere alla fine dei miei temi ed ancora oggi, quando scrivo, mi chiedo: quanto sarò stato criptico e tortuoso? Del resto non è affatto semplice cercare di mettere assieme un percorso volutamente breve che vada dalle mie prime riflessioni sul teatro alle ultime. Eppure quando ho provato a proporre a me stesso di scrivere un saggio contenente le ultime riflessioni queste mi sono apparse sterili e senza radici se non collegate a quelle primissime datate oramai qualche anno fa. Sghembo. Sghembo è invece il termine che mi piace usare per ogni mio percorso; non che non sia paragonabile a quello del mio professore di lettere, ma mi fa più simpatia, lo accetto, quasi mi piace. Sì, questo è un saggio sghembo. Al lettore che è arrivato a questo punto di questo libretto sono ati tra le mani manifesti programmatici, lettere, articoli, stralci di appunti, ed una conversazione anch’essa sghemba ed incompleta. La speranza è che qualche cosa vi abbia incuriosito, o vi abbia irritato, o vi sia apparso stupido e fuoriluogo; il desiderio è che, qualora sia accaduto questo, abbiate la cortesia di cercarmi, di mettervi in contatto con me, di farne nascere un dialogo. Soprattutto da questa esigenza nasce questo libretto. Far arrivare le mie riflessioni un po’ fuori dalla provincia delle province in cui vivo, un po’ più lontano di dove non mi faccia arrivare la mia proverbiale pigrizia.
Indice
Ringraziamenti Prefazione
Da un teatro urgente
Primo manifesto per un teatro urgente Secondo manifesto per un teatro urgente Godere del non espresso Sul diritto all'improduttività
Appunti in media via
In limine Senza la superstizione della comprensione Collocarsi in una tradizione Si segni e di sintomi
Una conversazione
Anatomia di un superamento Conversazione Postfazione