Il Piede Di Dio Non Lascia Impronte Sulla Sabbia 2t6o2v

Il piede di Dio non lascia impronte sulla sabbia racconti

Michele Zuccante

Meligrana Editore

Copyright Meligrana Editore, 2012 Copyright Michele Zuccante, 2012 Tutti i diritti riservati

ISBN: 9788897268857

Copertina a cura di Enrica Dalla Guarda

Meligrana Editore Via della Vittoria, 14 - 89861, Tropea (VV) Tel. (+ 39) 0963 600007 - (+ 39) 338 6157041 www.meligranaeditore.com [email protected]

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Michele Zuccante

Il piede di Dio non lascia impronte sulla sabbia

ANDATA… ANCHE A MEZZOGIORNO IL SOLE PUÒ TRAMONTARE PAREGGIO O SOPRUSO? BALLATA LA FABBRICA DELL’AMORE LA PARRUCCA IL PLAYBOY PECCATO SIA PECCATO

PRIMI ROUND/AMORI ULTIMA OCCASIONE FIORI RITORNO

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Michele Zuccante

Michele Zuccante è nato a Schio, in provincia di Vicenza, il 7 gennaio del 1988. Nel 2007 consegue la maturità scientifica. Grande apionato di sport, pratica per molti anni il pugilato a livello agonistico. Attualmente frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università di Trento. Nel 2011 ha pubblicato Acuti di un tenore stonato (poesie e racconti), Rupe Mutevole Edizioni. Il piede di Dio non lascia impronte sulla sabbia (ebook 2012) è la sua pubblicazione per la Meligrana.

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ANDATA…

Sedici scatole. Le aveva ordinatamente disposte sopra al tavolo della cucina, una di fianco all’altra, in fila, a formare una sorta di strada. L’ultima l’aveva messa proprio sull’orlo del tavolo; l’ultimo o, poi il vuoto. Da troppo tempo ormai sentiva di essere di troppo a questo mondo. Sentiva forte, sulle spalle, l’insostenibile peso della sua esistenza. L’orribile sensazione di essere sempre fuori posto e inopportuno lo accompagnava sempre. E non perché avesse dei problemi ad accettare il suo corpo, perché si sentisse troppo grasso o troppo magro. No, niente di tutto questo. Si sentiva semplicemente inutile, un essere nato per niente contro cui il mondo aveva deciso di accanirsi. Per questo aveva deciso di farla finita. Aveva tutta l’intenzione di ingerire quelle sedici confezioni di tranquillanti fino a morire. Era rimasto stupefatto di quanto, al giorni d’oggi, fosse facile, per un aspirante suicida, procurarsi il veleno necessario al suo scopo. Gli era bastato collegarsi a internet e leggere, su uno dei tanti siti dedicati ai disturbi psichiatrici, i sintomi legati all’ansia. Poi aveva dato appuntamento a uno psichiatra, si era recato nel suo studio e gli aveva fatto l’elenco di tutta la sintomatologia trovata in rete. «Dottore, la prego mi aiuti. Mi sveglio di notte con il cuore che batte a mille, mi sento sempre in pericolo, sempre sotto attacco. Temo di non essere in grado di affrontare il futuro… mi aiuti, mi aiuti, la prego.» «Certo, signore, non si preoccupi. Ci penserò io a lei.» Lo psichiatra gli aveva compilato una bella ricetta ripetibile che gli dava diritto ad acquistare due scatole di un potente ansiolitico al mese. A quel punto era bastato recarsi periodicamente in farmacia e, in poco tempo, aveva messo da parte una quantità tale di pillole da stendere un cavallo. E ora sentiva che era venuto il momento di usarle. Guardò fuori dalla finestra. Il cielo era plumbeo e prometteva una forte pioggia. Quando lei lo aveva lasciato, aveva provato un dolore tanto forte da avere la

sensazione che quest’ultimo fosse un qualcosa di tangibile, di solido. Mentre, tra i singhiozzi, mormorava: «No, no, no» - gli era sembrato che questo dolore crescesse dentro di lui a tal punto da squarciargli il petto. Mai aveva provato una cosa simile. Era innamorato di lei, e in quell’amore aveva risposto tutte le sue ultime speranze. «Mi dispiace» - gli aveva detto - «ma non sei il tipo giusto per me. Spero che tu possa essere comunque felice.» Incominciò ad aprire le scatole dei farmaci, mettendo le pillole dentro un barattolo di caffè vuoto. Appoggiata sul tavolo c’era anche una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo. Quando ebbe finito, e tutto il barattolo fu pieno di compresse, iniziò a ficcarsene in bocca a manciate, buttandole giù con lunghe sorsate di acqua minerale. La fine era incominciata. Ben presto una sensazione di calma e benessere si diffuse in lui. Sentiva ogni muscolo del suo corpo rilassato. Ingurgitò qualche altra manciata di pillole. Un grande intorpidimento e una pesantissima sonnolenza s’impadronirono di lui. Sentiva che il vortice lo stava risucchiando. Non più ricordi, né dolore, né ato, né futuro. Proprio quello che voleva. Fuori aveva incominciato a piovere. Gli sembrava di sentire il rumore delle gocce che cadevano sull’acciottolato, ma forse era un rumore che esisteva solo nella sua testa. Con uno sforzo immane riuscì a deglutire ancora un po’ di pillole. Ecco, c’era quasi, lo sentiva. Le palpebre erano macigni, impossibile tenere gli occhi aperti. Tutta la stanza ora gli girava attorno. Ma c’era ancora una stanza? Non percepiva neanche più il suo corpo. Che fosse già morto? Provò ad allungare una mano per prendere ancora qualche altra compressa, ma alzò il braccio solo di qualche centimetro, poi lo sentì ricadere sul tavolo. Era come muoversi dentro l’acqua. Provò ad alzarsi dalla sedia. Cadde sul pavimento con un pesante tonfo. L’ultima cosa che vide fu il bianco del soffitto. O era forse la cupola del Paradiso? Poi fu solo il buio e il nulla…

ANCHE A MEZZOGIORNO IL SOLE PUÒ TRAMONTARE

Quel giorno, per Antonio, non sembrava essere poi tanto male: il cielo era limpido e di un azzurro , soffiava una leggera brezza primaverile che gli accarezzava dolcemente i capelli e i raggi di un sole già caldo gli riscaldavano la faccia. Già, quel giorno non sembrava essere poi tanto male, pensava, mentre con o svelto si dirigeva verso il suo luogo di lavoro. Era un meccanico d’auto in un’officina bene avviata della città dove viveva e il suo stipendio era più che buono. Aveva anche una ragazza e a breve, quando il suo capo gli avrebbe dato l’aumento che già più volte aveva chiesto, le avrebbe chiesto di sposarlo. Sicuramente Laura avrebbe risposto di sì. Era veramente una ragazza d’oro, gentile e premurosa e, per di più, lo amava alla follia. Presto si sarebbero sposati, ne era certo. Già, neanche i giorni a venire sembravano essere poi tanto male. Quel mattino fu il primo ad arrivare in officina; una cosa che succedeva abbastanza spesso, a dire il vero. Era un tipo piuttosto mattutino lui. Con calma aprì il portone d’ingresso, accese le luci al neon, indossò la sua tuta con i colori un po’ sbiaditi e i bordi delle maniche un po’ consumati e si mise a disporre sul suo tavolo di lavoro gli attrezzi e gli strumenti che quel giorno gli sarebbero serviti: mise le chiavi in ordine di grandezza, preparò i cacciaviti. Si sentiva come un generale che chiamava in adunata le truppe prima della battaglia. Era pronto a incominciare. Di lì a poco arrivò anche il titolare. Entrò in officina con il suo solito modo di fare rumoroso e sguaiato, sbattendo le porte e urlando: «Ehi Antonio! Oggi c’è da correre, abbiamo un mucchio di lavoro da fare, un sacco di macchine da riparare, perciò è meglio che ti metti subito a lavorare. Forza ragazzo!» Antonio, per nulla intimorito dalle parole del suo capo, si mise subito al lavoro di buona lena.

«Non si preoccupi capo, per stasera avremo fatto tutto, glielo garantisco» - disse mentre già stava mettendo in moto un’auto per metterla sopra all’elevatore. «Ah, Antonio, un’altra cosa. Oggi inizia a lavorare qui anche un altro ragazzo. Ha fatto domanda mercoledì mattina e il colloquio venerdì sera. Mi è sembrato in gamba e ho deciso di assumerlo. È giovane ma sa già il fatto suo riguardo ai motori. Dovrebbe essere qui tra poco. Da oggi e per i prossimi giorni lavorerà al tuo fianco. Naturalmente dovrai essere così gentile da dargli qualche dritta sul mestiere, sarai un po’ il suo maestro per così dire.» A quelle parole Antonio si sentì indispettito e turbato. Che bisogno c’era di un altro meccanico? A lui sembrava che in due riuscissero a sbrigarsela benissimo. Certo, a volte doveva fare qualche straordinario e fermarsi in officina anche fino a sera inoltrata, ma per lui non c’erano problemi, anzi lo faceva molto volentieri poiché voleva dire ritrovarsi qualche soldo in più nella busta paga a fine mese. Allora perché, perché assumere uno nuovo? Un atroce sospetto cominciava a prendere forma dentro di lui. Dopo circa dieci minuti, durante i quali Antonio se n’era stato chino su un cofano aperto di una berlina, a darsi da fare con il cacciavite e a sporcarsi le mani d’olio, il ragazzo nuovo arrivò. Era giovane, snello, dalla faccia pulita e gentile. Si presentò educatamente ad Antonio. «Buon giorno. Io sono Marco, il nuovo assunto. Lei deve essere Antonio, molto piacere.» Così dicendo porse ad Antonio una mano pulita e ben curata, dalle dita sottili ma dall’aspetto forte. Antonio sollevò la testa dal motore sul quale stava lavorando e, con fare asciutto e sbrigativo, salutò il ragazzo, stringendogli la mano linda con la sua, tozza e nera d’olio. «Ciao, piacere Antonio.» Poi, tornando a infossare la testa sotto il cofano alzato della berlina, incominciò, con fare autoritario, a dare ordini al ragazzo. «Controlla l’olio di quelle quattro FIAT parcheggiate là in fondo, e cerca di fare le cose fatte bene, capito?»

E tutta la giornata trascorse così, tra le direttive e le offese pronunciate da Antonio a denti stretti, e le risposte sottomesse di Marco che docilmente eseguiva gli ordini senza controbattere. Giunta la sera, ad Antonio era già tutto chiaro. Il capo lo voleva licenziare. Già da un pezzo aveva il sospetto che qualcosa non andasse. Da tempo, infatti, credeva che il principale avesse qualcosa da recriminargli. Con i motori nessun problema, con quelli ci sapeva proprio fare. Era con le persone che Antonio aveva le difficoltà più grosse. Non essendo esattamente ciò che si potrebbe definire un bell’uomo, con quel corpo tozzo, quella pancia prominente e quella faccia butterata dagli occhi piccoli e dallo sguardo schivo, da cane braccato, Antonio aveva dei problemi a rapportarsi con il prossimo. Gli sembrava che tutti lo guardassero con aria schifata o che evitassero di guardarlo per non offenderlo. Per questo, per un meccanismo di difesa, trattava tutti in maniera brusca e sbrigativa, al limite della scortesia. Perciò il principale gli evitava il contatto con i clienti dell’officina, svolgendo lui stesso la parte del lavoro che richiedeva di rapportarsi con la gente. Ora, evidentemente stanco di questa situazione, aveva deciso di sostituirlo con quel bel damerino dai modi cortesi e dalla pelle liscia, tanto bravo a discutere di centraline elettroniche e di spinterogeni con i clienti maschi quanto a lanciare sorrisi accattivanti alle signore di mezza età. Maledizione, sapeva che sarebbe successo prima o dopo. Merda, merda, merda. Comunque, per vederci un po’ più chiaro in questa faccenda, senza tuttavia affrontare direttamente l’argomento, decise di parlare al principale di quell’aumento di stipendio che già più volte aveva chiesto. Così entrò in ufficio, dove il capo, seduto alla scrivania, stava armeggiando con il computer, e disse senza preamboli: «Senti, capo. È da un po’ che sto lavorando sodo, che mi faccio il culo dalla mattina alla sera. Non pensi che sarebbe venuto il momento di concedermi quel piccolo aumento che ti ho chiesto tante volte. Sai com’è ho anch’io i miei progetti: vorrei sposarmi, prendere casa. Lo sai che vivo ancora con i miei, no? E ormai ho quasi trent’anni…» «Eh Antonio, io te lo darei volentieri se potessi quell’aumento, ma non posso. Questo non è un bel momento: la concorrenza e sempre più serrata, le tasse

sempre più alte e poi, adesso, ho anche assunto una nuova persona. Come pensi che potrei permettermi di…» Quelle parole furono troppo per Antonio che uscì dall’ufficio sbattendo la porta con forza, si tolse di dosso la tuta, la gettò per terra e uscì in strada. Il sole era tramontato, il cielo era grigio e un vento freddo gli colpiva la faccia. Sentì crescere dentro una rabbia e una frustrazione terribili. Dalla pancia sentiva nascere un sentimento d’ira e d’impotenza che s’irradiava per tutto il corpo, fino alla punta delle dita e dei capelli. Avrebbe voluto prendere a calci ogni auto parcheggiata sul bordo della strada e a pugni ogni ante che incontrava. Riuscì a trattenersi. Dannazione. Sarebbe stato sicuramente licenziato. Quella scenata sarà sicuramente servita a togliere ogni dubbio al capo. Si sarebbe ritrovato in mutande. Maledisse se stesso, il mondo e la sorte. Quella sorte che gli aveva dato quell’orrida faccia butterata, quel corpo sproporzionato e quell’enorme pancia. Mandò tutto a fare in culo. Arrivato a casa, ancora in un profondo stato di agitazione, si sedette sul divano e sua madre gli chiese: «Antonio! Che hai? C’è qualcosa che non va? Siediti a tavola che ormai è pronto da mangiare.» Cercando di sembrare il più calmo possibile rispose: «No, no, mamma. Non ho fame. Vado subito a letto perché sono molto stanco.» E così dicendo si diresse in fretta e furia verso la sua stanza, dove, dopo essersi spogliato, si mise a letto. Naturalmente non riuscì a chiudere occhio. Una rabbia mai provata prima lo spingeva a contorcersi senza sosta come una serpe alla quale è appena stata mozzata la testa. Incominciò persino a ringhiare come un cane rabbioso, in preda a spasmi che lo scuotevano fin nel profondo delle viscere. Il senso di inadeguatezza lo portava ad aver voglia di strapparsi la pelle della faccia con le

unghie. Ben presto le coperte, le lenzuola e persino le mutande incominciarono a dargli un senso di oppressione, a farlo sudare, tanto che, emettendo un grido agghiacciante, se ne liberò gettando tutto fuori dalla finestra. Dopo di che si precipitò giù per le scale di casa, fino alla strada dove, con indosso solo la propria pazzia, si mise a correre a perdifiato, urlando e latrando come una bestia ferita a morte. «Che qualcuno provi solo a fermarmi, - pensava - che qualcuno provi solo a toccarmi e lo ammazzo, lo squarto, lo sbudello. Io ho il diritto di fare questo, ne ho tutto il diritto. Io sono stato derubato, beffeggiato, sfigurato. Che vadano tutti a farsi fottere. Arghhhhh!!!» Continuò così, gridando, correndo e prendendo a calci tutto ciò che gli si parava davanti per circa una ventina di minuti, poi, nei pressi di un cimitero, si accasciò a terra, sull’erba bagnata dall’umidità della notte e si addormentò piangendo, fra i singhiozzi e le lacrime, nudo come un infante non ancora ferito dalla vita. Si risvegliò imbottito di tranquillanti, in un letto d’ospedale. La stanza era completamente bianca e la mobilia che l’arredava, di truciolato ricoperto di formica, era di uno spento colore grigio-verde. Fuori il cielo era limpido, privo di nubi e, dalla finestra aperta a metà, entrava una tiepida brezza mattutina che annunciava l’arrivo di una calda primavera. Da quel giorno la sua mente non fu più quella di una volta, non riuscì più ad uscire dalla nebbia che gli si era addensata dentro alla testa, non riuscì più a distinguere tra la realtà ed i pensieri suggeriti dalla sua paranoia, non seppe mai che il suo principale non aveva mai avuto la minima intenzione di licenziarlo, non seppe mai che Laura non aveva voluto più avere contatti con lui dopo che ebbe letto sul giornale in che stato era stato trovato, non seppe mai che suo padre si era suicidato pochi mesi dopo il suo ricovero. Da quel giorno Antonio visse per sempre in un bianco e lattiginoso presente. Lode ad Antonio.

PAREGGIO O SOPRUSO?

Il locale era piccolo e buio, costituito solamente da una stanza lunga e stretta occupata quasi completamente da un grosso bancone di legno chiaro con il ripiano in marmo. A ridosso della parete di fronte al bancone, negli spazi tra una finestra e l’altra, c’erano due tavolini a cui erano appoggiate delle sedie poco costose. René se ne stava seduto su una di queste seggiole, con i gomiti appoggiati sul piano in plastica del tavolo, a sorseggiare un Montenegro. Era già al terzo drink, e stava incominciando ad affondare tranquillamente e lentamente in un piacevole stato d’ebbrezza. A parte il barista, un uomo alto e secco, sulla quarantina, che stava asciugando dei bicchieri con uno strofinaccio logoro, René era l’unica persona presente all’interno del bar. Ad un certo punto la porta si aprì facendo tintinnare un camlo ad essa collegata, ed una bella ragazza mulatta entrò nel locale. René la squadrò da capo a piedi. Era giovane, sui ventiquattro, non altissima ma dalla figura snella e comunque slanciata. I suoi occhi erano grandi e scuri, i capelli neri e lisci, i seni tondi e sodi; il fondoschiena era semplicemente un sogno. Indossava un paio di shorts in jeans e un’attillata maglietta gialla di cotone, con le maniche corte, che lasciava scorgere la presenza del reggiseno sottostante. Sotto il braccio teneva una piccola borsa, una specie di pochette. La ragazza si sedette al tavolo libero, alle spalle di René, ed ordinò una vodka con acqua tonica. René con una sorsata decisa finì quello che restava del suo Montenegro e, facendo un cenno al barista, ne ordinò un altro. Diede un’altra occhiata alla ragazza: era proprio uno schianto. Dopo un po’ il barista arrivò con l’ordinazione di René, e gli appoggiò stancamente il bicchiere davanti al naso. René mormorò piano, tra i denti: «Grazie», buttò giù un bel sorso di liquore, si alzò dal suo tavolo ed andò a piazzarsi, con un movimento lento, proprio di fronte alla ragazza. «Posso sedermi?» - chiese con tono suadente.

La ragazza sorrise e rispose con fare cortese. «Certo, fa pure.» René allora le si sedette di fronte, appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Piacere, mi chiamo René» - le disse porgendole la mano e sfoggiando un sorriso. La ragazza gli sfiorò appena la punta delle dita con le sue, continuando a sorridere. I suoi denti erano bianchi e perfetti. A René ricordavano delle perle. «Io sono Camilla, molto piacere.» «Camilla» - disse René con aria sorniona - «ma che splendido nome. Come tutto il resto d’altra parte…» René aveva già finito il suo liquore ed ormai era andato. Incominciò a dire stronzate a ruota libera. «Ma di dove può essere originaria una bellezza come la tua? Dov’è possibile cogliere dei fiori così rari e delicati?» Camilla emise un suono quasi impercettibile, che poteva essere interpretato come una risatina e rispose: «In Portorico.» «Oh, il Portorico. Che splendido paese. Pieno di fiumi, laghi e monti innevati. E pensare che io, vedendo lo splendido color ambrato della tua pelle, ho immaginato che venissi da un posto caldo.» «Ma in Portorico fa molto caldo. È un’isola tropicale. Ci sono tante spiagge, ed il mare è qualcosa di assolutamente fantastico.» «Davvero? - rispose René con tono meravigliato - Allora mi sono sbagliato con qualche altro posto. Ah, ah, ah. Non è divertente?» Intanto Camilla, per reggere questa conversazione, si era rapidamente scolata tutta la sua vodka-tonic. René se ne accorse subito.

«Oh, ma vedo che sei rimasta a secco. Posso avere l’onore di offrirti da bere?» «Certo» - rispose Camilla e fece un cenno al barista, che in breve tempo arrivò con un'altra vodka con acqua tonica. René si fece portare un altro amaro. Rimasero così per qualche minuto, a sorseggiare piano le loro bevande e a scrutarsi a vicenda, con un’aria un po’ imbarazzata. Fu René a rompere il silenzio. «Su, Camilla. Perché non mi parli un pochino di te. Cosa fai nella vita? Hai un lavoro?» «Ma certo che ho un lavoro» - rispose decisa Camilla. «Oh, bene» - mormorò René - «e che lavoro fai?» «Sono una prostituita.» René fu preso leggermente in contropiede. Fu soprattutto la spontaneità con la quale la ragazza aveva pronunciato quelle parole a spiazzarlo un po’. «La pros…tituta?» - disse senza nascondere la sua sorpresa. «Sì, sono una prostituta, - ribatté Camilla, un po’ seccata dalla sorpresa del suo interlocutore - faccio sesso per soldi.» René ridacchiò sotto i baffi. Seguì qualche altro istante di silenzio, che questa volta fu Camilla a spezzare. «Beh, allora cosa vuoi fare?» - chiese. «Cosa voglio fare in che senso?» - ribatté René con un ghigno stampato sulla faccia. «Non fare il finto tonto, per piacere. Hai voglia di scoparmi o no?» René rise. «Ma certo che ho voglio di scoparti. È da quando sei entrata qui dentro che non penso ad altro.»

«Allora andiamo. Mi porti a casa tua e per cinquanta euro puoi scoparmi.» «Dannazione, Camilla. Se la metti su questo piano, come può un pover’uomo come me rifiutare un’offerta simile. Andiamo, perdio.» I due si alzarono, lui pagò al barista le consumazioni, mentre lei si riaggiustava i pantaloncini, e uscirono dal bar. Fuori, parcheggiata al lato opposto della strada, c’era la vecchia auto di René ad attenderli. Salirono a bordo e René, dopo aver controllato sugli specchietti che non sopraggiungessero altre macchine, partì in direzione di casa sua. Percorse solo poche decine di metri, René fece partire un’occhiata furtiva alle gambe di Camilla. Cavolo, cominciava già ad eccitarsi.

Non appena varcata la soglia del suo appartamento, René era già fuori controllo. Agguantò Camilla fra le braccia ed iniziò ad armeggiare per sfilarle la maglietta. Lei lo bloccò e si staccò da lui. «Ehi, fermo. Pagami prima.» «Oh sì. Giusto, giusto» - borbottò lui, con la voce resa roca dall’eccitamento. Estrasse dal portafogli le cinquanta euro e le diede alla ragazza. «Ecco qua. Tutti per te, cara.» Camilla prese la banconota e se la infilò nella borsetta, che poi appoggiò sul tavolo del salotto. René attese con impazienza che lei effettuasse queste operazioni e, non appena le ebbe concluse, le fu di nuovo addosso con impeto incontrollato. Le tolse la maglietta, le slacciò il reggiseno, ed incominciò a baciarle e leccarle i seni, soffermandosi in particolar modo sugli scuri capezzoli. Lei, accondiscendente, lo lasciava fare. «Mmm. Sì, Camilla, brava. Lo sai che mi stai facendo eccitare come una bestia, cazzo?» Dai seni si spostò, con i suoi baci e le sue succhiate, fino al collo e da lì puntò dritto alla bocca. Camilla voltò la testa per evitare il contatto delle proprie labbra con le sue.

«Ho detto che mi puoi scopare, non baciare.» «Scusa, scusa» - mugugnò René. La alzò da terra e la trasportò fino alla sua camera. Qui la gettò sul letto, e le tolse gli short, che gettò in mezzo alla stanza. Iniziò, da sopra le mutandine, a baciarle il sesso, fiore umido ad un prezzo ragionevole. «Bene ora togliti le mutandine, ma fallo piano che voglia guardarti bene mentre lo fai.» Lei eseguì l’ordine, e si sfilò gli slip con una mossa lenta e calcolata. «Sì, proprio così. Brava puta.» Camilla bloccò di scatto ogni suo movimento. Nel suo sguardo non c’era più alcuna traccia di pazienza o di accondiscendenza. I suoi begli occhi scuri ora emettevano solo lampi di rabbia ed odio. «Come mi hai chiamato, scusa?» Lì per li, René rimase un po’ interdetto e sorpreso da questo repentino cambio di modi di Camilla, e non rispose. «Come cazzo è che mi hai chiamato? Eh, stronzo?» La sua voce era carica di disprezzo e furore. Camilla si lanciò contro René ed iniziò a tempestarlo di schiaffi e di sputi in faccia. «A me nessuno mi chiama puttana! Hai capito, pezzo di merda?» René incassò un bel po’ di schiaffoni in faccia, poi la bloccò afferrandola per i polsi ed urlò: «Che cazzo ti è preso, brutta troia? Io ti pago e ti chiamo come cazzo mi pare. Hai capito?» Le mollò i polsi e le mollò un pugno in pieno viso. Camilla cadde pesantemente sul letto, semisvenuta.

«Sei proprio un bel tipo. Io ti pago e non posso neanche chiamarti puttana. Ma non credere di cavartela così, perché adesso io ti fotto di brutto. Mi hai sentito, puttana?» René si sfilò i pantaloni e le mutande e le saltò addosso con il membro bello eretto. Camilla si era un po’ ripresa dallo stordimento e, quando sentì su di sé il peso di quell’odiato corpo, iniziò a scalciare e a divincolarsi come un’ossessa. «No, no. Stai fermo, ti prego. Non mi toccare.» René le sganciò altri due bei cazzotti in faccia, che risuonarono forte nel silenzio dell’appartamento vuoto. Camilla ricadde all’indietro sul letto, quasi priva di sensi. Dal naso le scese un denso fiotto di sangue, che le imbrattò tutto il seno di rosso. René, con la forza delle sue cinquanta euro, glielo infilò dentro con violenza ed iniziò a spingere. Le dava colpi secchi e forti, ad intervalli regolari. «Ti piace, puttana? Dimmi che ti piace, bella puta.» Camilla non aveva più la forza per lottare e si limitava a mormorare, piano e sommessamente. «Basta, ti prego, basta. Basta, smettila, ti prego.» Quando ebbe finito, René la prese per un braccio e la scaraventò a terra. «Ora puoi pure andartene, puttana.» Lo scossone riscosse Camilla che si affrettò a raccogliere la sua roba, si rivestì e si fiondò verso la porta d’ingresso. «Stai certo che questa la paghi» - disse prima di uscire. René si rimise le mutande e diede un’occhiata schifata al coprimaterasso: era tutto macchiato di sangue. Senza fare una piega lo tolse dal letto e lo buttò per

terra. Poi si distese direttamente sul materasso. Era abbastanza soddisfatto. A volte gli piaceva farlo in maniera un po’ violenta.

Il mattino dopo René si svegliò di buonumore. Si alzò, si vestì, fece una buona colazione ed uscì di casa per andare al lavoro. Sceso in strada s’incamminò verso la direzione di sempre, senza notare che, dopo essere usciti da uno stretto vicolo fra due palazzoni, due uomini incominciarono a seguirlo da breve distanza. René prosegui tranquillo la sua strada, sempre senza accorgersi di niente, ma, quando fu nei pressi di un altro vicoletto, i due si misero a correre e, dopo averlo raggiunto, senza far troppi complimenti, lo afferrarono, uno per un braccio ed uno per l’altro, e lo trascinarono a forza dentro quel vicolo. René non ebbe neanche il tempo di sorprendersi di quel che gli stava accadendo, che si ritrovò inchiodato al muro, con un gomito che gli premeva sul collo. «Allora, stronzo - disse uno dei due uomini - te la sei sata stanotte, eh?» René, raccapezzatosi un po’ dalla sorpresa, guardò i suoi assalitori. Erano due sudamericani alti e muscolosi, con i colli taurini. «Nostra sorella ci ha detto che, stanotte, non ti sei comportato proprio da gentiluomo.» «Ah, era vostra sorella quella là?» Quello che non lo stava tenendo inchiodato al muro lo colpì allo stomaco con un pugno tremendo. René emise un lungo gemito. Provò a piegarsi su se stesso ma l’altro lo teneva dritto in piedi. «Guardate che io l’ho pagata vostra sorella. Sono stato ai patti» - disse René ansando, dopo essersi un po’ ripreso. «Ma tu allora non hai proprio capito un cazzo» - disse quello che lo stava tenendo fermo e, con un brusco strattone, lo fece voltare e staccare un po’ dal

muro, e lo afferrò da dietro per le braccia. L’altro incominciò a tempestarlo di pugni allo stomaco. All’iniziò René tentò di limitare i danni contraendo più che poteva gli addominali, ma ben presto le forze gli mancarono ed ogni colpo gli faceva sempre più male. Quando si fu stufato della pancia, l’assalitore lo colpì al volto. Con il primo pugno gli ruppe il naso, facendone sprizzare fuori un fiotto di sangue che sporcò la camicia del picchiatore e rese la faccia di René una maschera scarlatta. Il fratello di Camilla, il suo vendicatore, continuò a colpire finché non rese completamente irriconoscibile quel malcapitato e violento uomo libidinoso. Poi l’altro lo lasciò cadere a terra e gli mollò qualche bel calcione al busto. Così, tanto per rompergli qualche costola e concludere al meglio il lavoro. Quando furono soddisfatti, i due si allontanarono di corsa lasciando René lì disteso a terra, più morto che vivo. Tra i tetti dei palazzi comparve un pallido sole mattutino. I raggi del sole colpirono il volto di René e fecero brillare, di un rosso quasi irreale, il suo sangue sull’asfalto.

BALLATA

Quando Sandro si svegliò il sole era già tramontato da un pezzo. Ormai per lui le parole oggi, domani e ieri non avevano più nessun senso, nessun significato. Da quasi un anno e mezzo non aveva un lavoro fisso, ma viveva di espedienti e dei quattro soldi dell’assegno di disoccupazione che ogni mese andava a ritirare. La sua vita si trascinava in un eterno presente, mangiava poco e, a volte, quando riusciva a scroccare qualcosa da bere, si ubriacava. Non che la sua si potesse definire un’esistenza esaltante ma, in fin dei conti, a lui andava bene così. Grazie ad uno scalcinato bilocale, che un vecchio e lontano parente gli aveva lasciato in eredità, aveva un tetto sotto la testa, un posto dove rincasare e, per il momento, non desiderava altro. Si alzò dal letto e si diresse in cucina, verso il lavabo. Mise la bocca sotto il rubinetto, aprì l’acqua e bevve qualche sorso. L’intenso sapore di cloro gli provocò un conato di vomito che represse a stento. S’affacciò alla finestra e guardò in alto. Il cielo era sereno e, nonostante la forte luce dei lampioni, si riusciva ad intravedere comunque qualche stella. A Sandro erano sempre piaciute le stelle, gli trasmettevano la sensazione che esistessero altri mondi, altre realtà. E poi com’erano belli quei puntini luminosi che bucavano le tenebre. Ogni volta che guardava le stelle ripensava alla sua infanzia. Ricordava che, quando da piccolo ava l’estate in campagna nella grande casa dei suoi poveri nonni, spesso usciva di nascosto di notte per stendersi nel grande prato dietro casa. Lì disteso, con gli occhi fissi sul firmamento, immerso nell’umidità della notte, si era sentito spesso felice. Scese in strada e si incamminò verso il centro della città. Doveva aver piovuto da poco poiché l’asfalto era umido e rifletteva le luci dei lampioni e dei fari delle auto che avano. Questo fece sentire Sandro immerso in un mare di luci artificiali. Sopra di lui i lampioni accessi, ai suoi piedi il loro riflesso; si sentì soffocare. Ripensando alla luce delle stelle provò una grande tristezza. Continuò a camminare. Arrivò in piazza. Qui c’erano pochissime persone, pochi ritardatari che si affrettavano a tornare nelle loro case il prima possibile per non rimanere in giro nelle ore tarde. Era un giorno feriale e i bar erano tutti chiusi. Saranno state le dieci e mezzo di sera e su tutto si era distesa un’ombra di desolazione. Era incredibile quanta tristezza potesse nascere da una città abitata da migliaia di

persone. Forse era proprio questo il problema; in città c’era un’alta concentrazione di abitanti, e ognuno di loro portava con sé la sua tristezza, e queste tristezze si sommavano creando un’unica, grande ombra triste che si aggirava indisturbata tra i tetti e le case scure. Sandro si fermò a guardare una vetrina di un negozio d’abbigliamento. Manichini senza volto indossavano capi firmati all’ultimo grido. Pantaloni, giacche, camice. Metri e metri di stoffe e tessuti di ogni foggia e colore avvolgevano le membra di plastica dura di quelli inconsapevoli indossatori a tempo pieno. Improvvisamente sentì un rumore di i che si avvicinavano a lui. Si voltò verso la direzione da cui proveniva quel suono e vide una ragazza bionda in minigonna che camminava sbattendo nervosamente i lunghi tacchi a spillo sull’acciottolato. Sandro la guardò avvicinarsi e, quando i loro sguardi si incrociarono, lei distolse il suo. Evidentemente lui, con i suoi jeans sgualciti e la maglietta scolorita, la spaventava. Le guardò il culo mentre si allontanava, e dovette ammettere che non era per niente male. Sandro si diresse verso una zona più periferica della città. Camminava su un marciapiede pieno di buche, che costeggiava un gruppo di bassi caseggiati popolari. Qui le luci dei lampioni erano più fioche e questo, inspiegabilmente, gli fece piacere. A furia di camminare arrivò all’imbocco di una via stretta e scura e, strano ma vero, trovò un bar aperto. Controllò il portafogli: dieci euro. Sarebbe riuscito a farsi un paio di birre. Il soffitto del locale era basso ed un lungo bancone occupava quasi tutto l’ambiente. Tre o quattro sgabelli in legno si trovavano a ridosso del bancone ed il resto del bar era occupato da un paio di tavolini unti. Sandro si sedette su uno degli sgabelli ed ordinò una media ad un tipo grande e grosso dall’aria annoiata che doveva essere il barista. La spinò con calma e gliela mise davanti senza parlare, emettendo una specie di grugnito. Incominciò a sorseggiare piano. Da uno dei tavolini, quello più in ombra di tutti, sentì una voce che lo chiamò: «Sandro, ehi Sandro! Sei proprio tu?» Si voltò verso il punto dal quale proveniva la voce e vide un uomo magro che si avvicinava. Subito, immerso nella penombra, non capì chi fosse quel tipo ma, quando si spostò sotto la luce, lo riconobbe: era Paolo, un vecchio amico con il quale aveva lavorato in una fabbrica di lampadari.

«Ciao, Paolo. Come te la i, vecchio mio?» Paolo si sedette sullo sgabello di fianco a Sandro. «Io abbastanza bene, grazie. Ma lascia che ti offra un goccio.» - ordinò altre due birre - «Ma dimmi un po’ di te, piuttosto. Stai ancora lavorando?» «Oh, no, - rispose Sandro - è da più di un anno che sono disoccupato. Ma non me la o poi tanto male in fondo. Con l’assegno di disoccupazione riesco a mangiare e un vecchio parente che è morto mi ha lasciato un buco dove rintanarmi… che altro può volere un uomo?» «Ah, ah, ah!» - ghignò Paolo - «Sei sempre la solita testa di cazzo.» Seguirono un paio di un minuti di silenzio. «E tu che fai? - chiese Sandro - Sei sempre in quel bel magazzino a buttare di qua e di là pezzi di lampadari per tutto il giorno?» «Oh, no. Ho chiuso con quel lavoro del cazzo - disse Paolo con un tono tra il divertito e il rassegnato - Ora ne ho uno ancora peggiore. Sono in una catena di montaggio. Metto le forchette e i coltelli di plastica da imbustare sul nastro trasportatore. Una vera merda.» «Certo che io e te non siamo mai riusciti a trovarci un lavoro decente,» - fece Sandro sorridendo e buttando giù un sorso di birra. «Già, ma che vuoi farci. Il mondo è così. C’è chi punta in alto e vuole sempre il massimo e chi, come noi, si accontenta di quello che trova per tirare avanti. Comunque non cambia niente. Tanto, alla fine, non c’è mai nessuno che sia felice.» Rimasero lì, a rimuginare per qualche istante su quest’ultima frase detta da Paolo, che ad entrambi pareva una constatazione molto saggia ed acuta. Poi Sandro disse: «Senti Paolo. Non ho voglia di andare a dormire stanotte. Perché non ce ne andiamo su in Colombaia a guardare il panorama e ad aspettare il mattino? Potremmo vedere l’alba, il sole che sorge. Che ne dici?»

Sulla faccia di Paolo si stampò un ghigno difficile da decifrare e rispose: «Dai, Sandro. Ormai siamo vecchi per queste stronzate, abbiamo quasi quarant’anni. E poi io domani mattina devo andare a lavorare.» «E dai. Per una volta che ti frega? Facciamola una cazzata ogni tanto, no? Tu suoni ancora la chitarra? Potremmo are per casa tua a prenderla e suonare e cantare alla luna per tutta la notte.» «Sandro, io te lo ripeto: tu sei sempre la solita testa di cazzo.» «Lo prendo come un sì o come un no?» «Come un sì.» I due uscirono dal bar e si diressero verso la casa di Paolo. Paolo abitava in un palazzone grande e grigio, costruito a semicerchio, che incorniciava un piccolo cortile con in mezzo una fontana dalla quale non zampillava neanche una goccia di acqua. «Aspettami qui, - disse Paolo - vado di sopra a prendere la chitarra.» Sandro si sedette per terra, al centro del cortiletto, con la schiena appoggiata alla fontana. Guardò in alto, verso il palazzo che lo sovrastava. Non c’era neanche una luce accesa. Ormai era tardi e tutti dovevano essere già a letto. Dopo un po’ Paolo scese. In una mano teneva la chitarra, nell’altra due bottiglie di vino rosso. «Coraggio, andiamo allora. Arrivati in cima ci faremo anche un goccetto.» disse sorridendo e agitando le bottiglie. La Colombaia era una terrazza panoramica posta sulla collina che sovrastava la città. La si raggiungeva percorrendo una grezza scalinata scavata nella roccia e lastricata di pietra. Paolo e Sandro salirono quegli scalini in silenzio, sbuffando un po’. Arrivati si sedettero sul muretto che cingeva l’intero perimetro del terrazzamento, bevvero qualche sorso di vino direttamente dalla bottiglia, e guardarono il panorama. La città illuminata si stendeva come un velo di luce sulla pianura. Accesero due sigarette e continuarono ad osservare in silenzio. Da

lì le stelle non si riuscivano a vedere poiché il riverbero delle luci era troppo forte. Bevvero ancora. «Ehi, Paolo. Perché non inizi a suonare qualcosa che poi io ti vengo dietro? Suona una ballata, dai.» «Va bene» - rispose Paolo ed iniziò a strimpellare qualche nota sulla chitarra. Erano accordi tristi, suonati lentamente. La musica si alzava piano in direzione del cielo scuro. Sandro incominciò a cantare. Era una vecchia canzone degli anni Sessanta, di cui non ricordavano neppure il titolo. Sandro cantò per qualche minuto poi smise e bevve un altro paio di sorsate decise dalla bottiglia. Paolo continuò a suonare senza parlare, con lo sguardo perso nel vuoto e la mani che sembravano muoversi contro la sua volontà. Ad un certo punto Sandro si alzò, si mise in posizione di guardia ed incomincio a menare qualche pugno all’aria; i suoi colpi sibilavano veloci nel silenzio della notte. «Dannazione - fece Paolo - Certo che ti è rimasta ancora un bel po’ di classe. Perché diavolo hai smesso con la boxe?» Sandro, in ato, era stata un ottimo peso medio, ed era anche riuscito a disputare qualche incontro da professionista. «Ma di che classe parli? Sono un vecchietto, ormai ho quarant’anni. Il pugilato è un capitolo chiuso. Ho smesso perché, quando arriva il momento, tutto finisce, e per me, il momento di smettere era arrivato.» «Però te la cavavi bene. Hai messo a nanna più di qualche tizio.» «Eh, eh, certo. Ero proprio una tigre, una vera e feroce tigre.» Così dicendo Sandro continuò a tirare colpi a vuoto, un po’ esaltato anche dal vino. «Dai, Paolo. Continua a suonare e scendiamo giù. Questo posto mi ha rotto.» Si incamminarono verso la strada del ritorno, sempre suonando e cantando.

Questa volta, però, in maniera più sguaiata ed eseguendo pezzi più movimentati. Ormai le due bottiglie di vino le avevano già finite da un pezzo. Arrivarono davanti a casa di Paolo, dove si sedettero per terra con la schiena appoggiata al muro e continuarono a suonare e a cantare. Cantarono forte e sguaiati senza preoccuparsi né del domani, né di nessuno. Improvvisamente, al quarto piano, si accese una luce e si spalancò una finestra, da cui si affacciò un uomo urlando: «Avete finito di fare tutto questo cazzo di casino? La smettete da voi o devo venire a farvi smettere io?» Sandro si alzò in piedi ed urlò di rimando: «Chi cazzo è che vuoi far smettere, tu? Eh, brutto stronzo? Scendi giù se hai le palle, coglione!» Paolo sembrava spaventato. «Sandro, ma che fai? Sei impazzito? Lascia perdere, non andare in cerca di rogne…» Sandro pareva non sentirlo nemmeno e continuò a sbraitare in direzione della finestra aperta, con gli occhi fuori dalle orbite. Lui era così. A volte bastava poco per farlo incazzare. Si aprì la porta del caseggiato e ne uscì un omone grande e grosso che si diresse verso Sandro. L’uomo era tarchiato, sul quintale e dieci, con il collo taurino che formava quasi un blocco unico con la testa, e le braccia grosse e corte. Sandro lo guardò avvicinarsi. Non aveva paura. La paura è sempre stata una prerogativa di chi ha qualcosa da perdere. «Chi è che hai chiamato stronzo? Eh, coglione?» L’uomo si avvicinò ancora; Sandro continuava a fissarlo, immobile. Improvvisamente il bestione sferrò un destro che centrò Sandro proprio alla mascella. Il colpo risuonò secco tra le mura dei palazzi. Sandro fece un o

indietro, un po’ stordito, e puntò lo sguardo a terra scuotendo il capo. Quando risollevò gli occhi questi ultimi erano iniettati di sangue. Si avventò contro l’uomo con la velocità di un falco, fintò un diretto destro al volto che disorientò il suo assalitore, poi, approfittando del momento opportuno, gli mollò un potente montante sinistro proprio sul fegato. Il bestione si piegò in due emettendo un gemito sordo, appena percettibile. Sandro, allora, lo finì con un bel calcione proprio sul naso. Ora l’uomo era disteso a terra privo di sensi, il volto completamente coperto di sangue. Paolo era in preda ad una folle agitazione. «Cazzo, cazzo. Che hai fatto? Che hai fatto? Questo è morto. L’hai ammazzato.» La faccia di Sandro era una maschera di tranquillità. «Ammazzato, dici? Secondo me è ancora vivo. E poi che cosa cambierebbe se fosse morto? Niente. Solo uno stronzo di meno a questo mondo.» «Sì, ma se è morto ti mettono in galera. Non ci hai pensato a questo? La galera è proprio uno schifo, non lo sai?» «E se andassi in galera, che cosa cambierebbe? Niente. Solo uno stronzo di meno in giro per le strade» - rispose Sandro con un tono calmo e quasi assente. «Tu devi essere pazzo. Ma io non voglio aver niente a che fare con questa storia. Ora me ne salgo su a casa mia, prima che qualcuno chiami la polizia. E tu non azzardarti a fare il mio nome se vai in mezzo ai casini, ci siamo capiti?» «Oh, no. Non ti preoccupare» - lo rassicurò Sandro. Paolo si precipitò su per scale, a rifugiarsi nel suo appartamento. Sandro guardò in alto. Il cielo s’era rannuvolato e non si vedeva più neanche una stella. Si incamminò per la strada dalla quale era arrivato prima con Paolo. Era diretto di nuovo verso il centro della città. Si rimise in cammino e quella notte fattasi scura lo inghiottì.

LA FABBRICA DELL’AMORE

L’aveva aspettata a lungo ed ora, finalmente, era arrivata. Era andato a ritirare il pacco proprio quella mattina all’ufficio postale. Non era stato facile vincere l’imbarazzo che l’andare a ritirare una scatola grossa quanto un uomo comportava. Gli era sembrato che gli sguardi perplessi e curiosi degli impiegati postali gli trafiggessero la carne. Comunque, alla fine, ce l’aveva fatta e adesso lei era in camera ad aspettarlo. Lui, invece, era ancora in cucina e stava bevendo birra in lattina inframmezzata ogni tanto da un bicchierino di vodka. Cercava di ubriacarsi. Mentre l’alcol entrava in circolo nel suo corpo, la sua mente rievocava i volti delle donne che aveva desiderato e che non aveva avuto, di quelle che non aveva desiderato ma che aveva avuto suo malgrado e anche di quelle poche che aveva avuto dopo averle desiderate. Ora però aveva chiuso con l’altro sesso. Dopo troppe disavventure si era arreso nei confronti dell’amore. Si era chiuso in un disilluso cinismo e adesso, alla soglia dei cinquanta, si sentiva vecchio, grasso e solo. Non era stato facile decidersi a farla arrivare a casa sua. Troppe indecisioni e colpi di coda di un amor proprio ormai defunto. Ma ora, dopo tanti ripensamenti, lei era al piano di sopra. L’aveva scelta fra tanti modelli, ognuno con caratteristiche diverse. Si era collegato al sito internet dell’azienda e, dopo aver visionato pagine e pagine di tette finte, labbra di plastica e occhi inespressivi, aveva creato la sua donna ideale, una donna in plastica e silicone, a grandezza naturale, pronta a tenergli compagnia. Tuttavia, non riusciva a decidersi ad andare in camera e a tirarla fuori dall’imballaggio. Aveva fantasticato per mesi e mesi sul come potesse essere fare sesso con una bambola ma, ora che era venuto il momento, gli pareva una cosa troppo innaturale e malata per poterla fare. Per questo aveva bisogno di ubriacarsi, e per questo tracannò un altro bicchierino di liquore. Alla fine si decise, salì le scale lentamente e con circospezione entrò nella stanza da letto. Il pacco, assolutamente anonimo e discreto come promesso dai

venditori, lo attendeva con aria imibile. Quando accese la luce il nylon dell’imballaggio si illuminò come il pallido sole di una fredda mattina invernale. Si avvicinò e con violenza strappò via l’involucro esterno. Poi prese un coltellino e con un colpo secco trafisse la scatola che si aprì lasciando cadere una valanga di polistirolo bianco. Infine tirò fuori la ragazza. Un prodigio della scienza e della tecnica. In tutto e per tutto simile ad una vera donna: stesse dimensioni, stessa consistenza, quasi stesso peso. Per di più era proprio bella con quel vestitino nero, molto corto e attillato, che aveva scelto per lei. C’era solo una cosa che non funzionava in tutta questa faccenda: i suoi occhi. Quello sguardo vitreo rovinava tutto. La bambola se ne stava lì in piedi, immobile, e con aria assente lo fissava. Sembrava un robot. Si sentì male. Dannazione. In una donna in carne e ossa è proprio lo sguardo a farti eccitare, ma in quel caso… beh, era veramente impossibile non rabbrividire. A quel punto sentì una rabbia incontenibile crescergli dentro ed esplose in un urlo sguaiato: «Brutta troia! Che hai da fissarmi in quel modo? Eh?» Lei non rispose. «Parla! Non sai fare niente altro che startene lì in piedi?» Stette ancora zitta. Lui si calmò. In fondo era bella, con quei lunghi capelli biondi, quelle gambe perfettamente tornite e quel paio di tette enormi che sembravano infischiarsene delle leggi della gravitazione universale.

Le si rivolse con più dolcezza: «Su dai piccola, non t’arrabbiare adesso. Sono stato un po’ aggressivo. Lo so, sono uno stronzo. Ma sai com’è … il lavoro, la birra, la vita … sono molto stressato. Vieni qui.» Le si avvicinò, le mise una mano dietro alla nuca, la attirò a sé e la baciò sulle labbra. Erano morbide ma fredde. Soppresse a stento un conato di vomito. Le afferrò un seno. Era stato fatto in maniera proprio realistica. «Sì bambina fammi eccitare un po’ adesso» Non successe niente. Giù da basso niente si muoveva. Provò allora con il culo. Anche questa parte l’avevano fatta proprio bene, era molto piacevole al tatto. Quei ragazzi ci sapevano veramente fare con il silicone. Tuttavia neanche questa volta andò bene. L’inquilino del piano di sotto non voleva saperne di svegliarsi. La baciò di nuovo, provando a usare anche la lingua. La nausea lo colpì ancora, stavolta in modo troppo duro. Non riuscì a trattenersi e corse in bagno a vomitare. Scaricò nella tazza tutta la birra, la vodka, la rabbia e l’amarezza che aveva dentro. Appena finito incominciò a piangere. Si abbandonò ad un pianto disperato. Pianse per il tram delle sette e quarantadue del mattino, per le graffette dell’ufficio, per le strisce pedonali, per i barboni della stazione, per le auto blu dei parlamentari, per la neve sulle montagne che persiste ancora in giugno, per tutti i pesci rossi morti del mondo. Pianse anche per se stesso. Un uomo troppo solo per essere felice. Con le lacrime che gli rigavano il volto si diresse di nuovo verso la camera e, con furia omicida, afferrò quella dannata bambola per i capelli e la scaraventò contro il muro. «Maledetta!» - urlò.

Le prese un braccio e glielo staccò dal corpo e, con una rabbia che può derivare solo da una profonda disperazione, lo utilizzò per colpire qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: la lampada sul comodino, i libri sulla scrivania, il letto e i cuscini. Tutto venne travolto dall’impeto di quell’uomo armato di arto. Concluse l’opera strappandole di netto la testa e gettandola fuori dalla finestra. Atterrò sull’asfalto con un tonfo sordo. Ora, in mezzo alla strada, giaceva una testa di plastica, silicone e chissà quale altro materiale e, con quel suo immobile sguardo artificiale, fissava la fermata dell’autobus. Lui si era disteso sul letto. Si era calmato ormai. Se ne stava lì a fissare il soffitto e pensava: «Ma che diavolo mi è ato per la testa? Che razza di mostro mi sono fatto spedire a casa? Come ho pensato di scoparmi una cosa del genere? Come? Come? Come?» Non riusciva a trovare delle risposte a queste domande e continuava a torturarsi. «Sono uno sciocco, un pazzo, un maniaco.» - ripeteva tra sé e sé. Improvvisamente suonò il camlo. Din don. Din don. Quel suono gli martellava il cervello. Gli entrava dentro sconquassandolo come un uovo strapazzato. A stento si mise in piedi. La testa gli girava. Lentamente si avviò verso la porta. Suonò di nuovo. Din don. Din don. «Arrivo, arrivo. Solo un attimo» - gridò. Aprì. Era la sua vicina di casa. Una vecchia strega curiosa ed impicciona. «C’è qualcosa che non va? - chiese- Ho sentito un fracasso infernale provenire

da casa sua. E’ tutto a posto?» «Certo signora. Non si preoccupi. Non è successo niente.» «Come niente? Ho sentito un tale frastuono che ho pensato stesse crollando il palazzo.» «Ma no. Ho solo fatto a pezzi una specie di bambola gonfiabile super tecnologica perché non riusciva a farmi eccitare.» Lo guardò con uno sguardo allibito. «Ma è sicuro di stare bene? Ha un aspetto...» «No, non ne sono sicuro». Le sbatté la porta in faccia. «Che si fotta quella vecchia rinsecchita!» Tornò a stendersi sul letto. Si addormentò. Sognò la bambola che lo rincorreva urlando: «Vieni qui bastardo! Vieni! Ti cavo le braccia, ti strappo gli occhi dalle orbite, ti do fuoco alle palle! Adesso ti prendo brutto porco! Non mi scappi.» Fortunatamente era solo un sogno.

LA PARRUCCA

Quella sera Gianni si stava esibendo ad una festa nel cortile di un hotel sulla Riviera Romagnola. Era una calda serata di metà luglio ed il giubbetto di pelle beige e la grossa parrucca alla Elvis che indossava lo stavano facendo sudare enormemente. Gianni stava letteralmente morendo di caldo, aveva la testa che gli girava, ed ogni tanto gli pareva perfino di svenire. Ora stava cantando “Riderà”, ed una ventina di ottantenni abbronzati ballavano facendo continuamente piroettare le loro signore, mentre le suole dei loro mocassini in scamosciato scivolavano rumorosamente sul lastricato crepato del cortile dell’hotel. Erano quasi quarant’anni che Gianni faceva l’imitatore di Little Tony in queste feste un po’ patetiche ed ora, alla soglia dei settanta, cominciava ad averne abbastanza. La grande ione della sua vita era sempre stata la musica. Aveva imparato a suonare la chitarra a dieci anni, quando uno zio, che suonava in una banda alle feste di paese, gliene aveva regalata una vecchia e scolorita che lui non usava più. Suo zio gli aveva anche insegnato i primi rudimenti dello strumento. Poi Gianni aveva perfezionato la tecnica da autodidatta, suonando sopra alla radio e ai dischi che, nei primi anni cinquanta, giravano nel jukebox del bar del paese. A diciotto anni aveva incominciato a scrivere qualche canzone. Ricordava ancora perfettamente le serate d’estate ate sul terrazzo di casa a strimpellare la chitarra e a scrivere improbabili testi. Era sempre stato un patito del rock’n’roll: Chuck Berry, Gene Vincent, Little Richard e Elvis Presley erano gli idoli di cui, nei suoi brani, cercava di imitare l’inconfondibile stile. Purtroppo non era mai riuscito a crearne uno tutto suo di stile, e questo gli aveva precluso la possibilità di affermarsi come cantante. E non che non ci avesse provato: aveva ato quasi tutti gli anni Sessanta a proporre le sue canzoni alle più svariate case discografiche ma quasi nessuna di queste si era mai dimostrata interessata a lui. Per qualche tempo si era persino trasferito a Milano, dove si era mantenuto facendo il cameriere, e dove aveva consumato quasi tutta la suola delle sue vecchie scarpe a furia di girare per gli uffici di ogni produttore musicale del capoluogo lombardo. Solo una volta era andato vicino a realizzare il suo sogno. Ricordava ancora chiaramente quella mattina in cui la padrona dell’alberghetto dove stava, era venuta a svegliarlo dicendogli che Venuti, un importante discografico al quale qualche giorno prima aveva proposto un pezzo, aveva

appena telefonato chiedendo lui. Gianni, ancora intontito dalla nottata ata a servire ai tavoli, non aveva potuto credere ad una cosa simile e aveva pensato che la padrona si fosse sbagliata, o di essere ancora addormentato e che quello fosse un sogno. Invece, quando aveva richiamato Venuti, aveva scoperto che era tutto vero e che quel produttore era davvero interessato al suo pezzo. Sfortunatamente Venuti, uomo dedito da tempo al fumo e ai cibi grassi, il giorno dopo quella telefonata era stato stroncato da un infarto fulminante. In seguito, per Gianni, non si erano più presentate occasioni simili e, dopo un altro po’ di anni ati a tentare, aveva deciso di accantonare il suo sogno. Intanto la festa all’hotel era quasi giunta al termine. Ormai i villeggianti erano quasi andati tutti a dormire, e i pochi superstiti si trascinavano stanchi sulla pista da ballo cullati dalla note della sua versione de “La spada nel cuore”, un po’ più lenta e suadente dell’originale. Quando finì la canzone si congedò dal suo pubblico, dicendo al microfono: «Bene, ragazzi, la festa è finita. Tanti saluti dal vostro Giaaanniii!» Il tono della sua voce era così impostato da sembrare quasi caricaturale. Al suo annuncio la maggior parte dei partecipanti alla festa, distrutti da quella sfiancante serata di ballo, si affrettò a salire nelle loro stanze; qualcuno si fermò a fargli i complimenti; altri, i più arzilli, ebbero l’ardire di chiedergli addirittura un bis, proposta che Gianni, visto il modo in cui il proprietario dell’hotel si sbracciava per intimargli di smettere di suonare, fu costretto a declinare con cortesia. Rientrò nel monolocale che aveva preso in affitto che erano quasi le due del mattino. Per prima cosa si spogliò di quei pesanti abiti di scena e della parrucca che lo stavano soffocando. Rimase in mutande e canottiera, e si guardò allo specchio. Ormai la situazione della sua pancia era andata oltre i livelli di guardia e, tonda e fiera, testimoniava lo stato della sua decadenza. Per di più i suoi capelli, un tempo folti e castani, erano stati sterminati dalle potenti colle che usava per tenere ferme le parrucche che era costretto ad indossare. Ora sulla sua testa era rimasto solo qualche sparuto ciuffo grigio che si ergeva a sfidare il tempo e la vita. Aveva incominciato ad esibirsi come imitatore negli anni Settanta, dopo che il

suo sogno di far successo come cantante era sfumato. All’inizio si era proposto come sosia di Elvis Presley, ma poi, vista la maggiore richiesta, era ato a Little Tony, ed ormai questo personaggio era diventato una parte di lui. Si accese una sigaretta e ne aspirò una lunga boccata, poi si distese sul letto. I primi tempi non erano stati poi tanto male. Aveva una band che lo accompagnava e, dopo i concerti, riusciva anche a conoscere parecchie ragazze. Era stato proprio in una di quelle occasioni che aveva conosciuto Paola. Era successo durante una festa di paese, in una calda sera d’estate, all’aperto. Gianni, mentre cantava, l’aveva tenuta sempre d’occhio. Si era detto, fra sé e sé, che quella era proprio la più bella ragazza che avesse mai visto, con quei lunghi capelli biondi e quel modo di camminare e di muoversi quasi etereo, come se stesse sempre ballando al suono di una celestiale melodia suonata da un’arpa. Ovviamente, quella sera, era anche stata la più corteggiata, ed una decina di ragazzi l’avevano invitata a ballare. Lei aveva ballato con tutti senza però dare troppa confidenza a nessuno. Per questo Gianni, dopo la sua esibizione, era andato a parlarle. Lei si era dimostrata subito molto gentile con lui ma, tuttavia, Gianni era riuscito a restare in sua compagnia soltanto per pochi minuti poiché dopo un po’ lei lo liquidò dicendo che doveva per forza rincasare presto, o suo padre si sarebbe arrabbiato da morire. Fortunatamente, prima di lasciarsi, si erano dati appuntamento per il giorno dopo, al bar del paese. L’indomani, seduti ad un tavolino di quel piccolo bar, avevano parlato per ore ed ore. Lui, prima di allora, non aveva mai sentito una persona così vicina alla sua anima, da cui si sentiva compreso fin nel profondo. Quel giorno le aveva confidato tutte le sue sconfitte e le sue speranze, e se ne era perdutamente innamorato. Quella sera stessa, prima di salire sul palco a cantare, si era dichiarato, le aveva detto che la amava, le aveva chiesto di diventare la sua ragazza e di seguirlo nei suoi spostamenti con il gruppo. Lei, tutta rossa, dopo un po’ di titubanza, gli aveva detto che anche lei lo amava e aveva accettato la sua proposta. La loro storia era andata avanti per qualche anno, con lei, fedele, che lo seguiva ad ogni concerto. Poi, sul più bello, quando lui le aveva chiesto di sposarlo, Paola lo aveva lasciato. «Come posso sposarti? - gli aveva detto - Dimmi come posso farlo? Hai quasi quarant’anni e vivi ancora come un ventenne, spostandoti da una festa paesana

all’altra sempre con quella ridicola parrucca in testa.» «Ma, Paola, - aveva risposto Gianni trattenendo a stento le lacrime - come puoi dirmi questo? Lo sai che la musica è la mia vita. Proprio tu lo dovresti sapere, meglio di qualsiasi altro essere umano al mondo.» Dopo quel giorno Gianni non la rivide mai più, ma i suoi occhi gli restarono sempre nel cuore. Gianni spense la sigaretta sul posacenere appoggiato sul comodino, e tornò a distendersi cercando di dormire. Proprio mentre si stava addormentando, il suono del camlo lo destò di soprassalto. Balzò in piedi, si precipitò al citofono e, con un tono un po’ seccato, chiese: «Chi è?» Dall’altra parte dell’apparecchio gli rispose una voce, resa un po’ gracchiante dal citofono, che riconobbe già dalla prima sillaba che pronunciò. «Sono Paola.» Si affrettò ad aprire e si infilò il primo paio di pantaloni che gli capitarono tra le mani. Quando udì i suoi i salire le scale, il fiato, per un attimo, gli mancò. Temette addirittura di fare un infarto. Alla sua età poteva benissimo capitare. Paola varcò timidamente la soglia del monolocale. «Ciao» - bisbigliò. Ormai aveva più di sessant’anni, ma per Gianni era sempre bellissima. La pelle del viso era fresca e priva di rughe, i capelli erano ancora lunghi e sempre biondi, solo di un biondo più chiaro rispetto a quando era giovane, e gli occhi, beh… i suoi occhi erano rimasti quelli di sempre. «Ciao» - fu l’unica parola che Gianni riuscì a pronunciare.

«Come stai, Gianni?» - chiese lei con un sorriso. «Io bene, abbastanza bene, direi. E tu?» «Oh, bene anch’io. Scusa tanto l’orario, ma sono ata per caso davanti all’hotel in cui stavi suonando e così, quando te ne sei andato, sono tornata per chiedere al proprietario di darmi il tuo indirizzo.» «Ah, ho capito. Ma non potevi venire a salutarmi direttamente là?» - chiese Gianni che ora incominciava a riprendersi dallo shock iniziale. «Ho preferito di no. Ero con mio marito, e non mi pareva il caso.» «No, hai ragione. E così ti sei sposata, alla fine. Bene, sono contento per te» disse Gianni con un tono inespressivo. «Sì, lui è un medico. È tanto caro. Abbiamo anche due figli ed un nipotino.» «Oh, complimenti.» «Ma tu piuttosto, Gianni, come stai? Dimmi di te. Vedo che sei sempre in giro a cantare Little Tony con in testa le tue parrucche. Non ti sei mai sposato? Non hai dei figli?» «Oh, no, non mi sono mai sposato, non ho più trovato nessuna dopo di te. Ho continuato sempre e solo a cantare e, come hai visto, non ho ancora smesso. Forse non la smetterò mai. Mi dovranno seppellire con la mia parrucca.» Pronunciate queste parole Gianni tentò una risata, ma il riso gli si spezzò subito in gola. «Bene, Gianni. Devo andare, adesso. Sono ata solo per vedere come stavi.» «Paola, -disse Gianni avvicinandosi a lei - aspetta solo una attimo.» «Dimmi, Gianni.» Ora i due si trovavano proprio uno di fronte all’altra. «Sei sempre bellissima» - disse Gianni e le diede un bacetto sulle labbra.

Paola sorrise ed arrossì un po’. «Grazie, sei sempre molto gentile.» Detto questo si voltò ed uscì. Gianni rimase in piedi sull’uscio, fino a quando non udì più i suoi i scendere le scale. Poi si accese un’altra sigaretta e si distese di nuovo sul letto. Domani sera avrebbe dovuto di nuovo indossare la sua parrucca.

IL PLAYBOY

A sessant’anni, dopo il divorzio e la pensione, Antonio era pronto a ritornare sulla piazza. Era in bagno, davanti allo specchio. Stava dando gli ultimi ritocchi ai capelli grigi che, per l’occasione, aveva pettinato all’indietro con abbondanza di gel. Indossava un completo blu scuro, una camicia bianca inamidata di fresco e, dopo averci riflettuto a lungo, aveva deciso di non mettere la cravatta. Trovava che questa assenza lo ringiovanisse molto, dandogli un’aria più informale e, con la camicia leggermente aperta a scoprire un po’ il petto, si sentiva sufficientemente virile. Di lì a poco sarebbe dovuto arrivare Paolo, un ex collega di lavoro di dieci anni più giovane, con cui Antonio aveva stretto una cordiale e discreta amicizia. Aveva chiamato Paolo il giorno prima, chiedendogli di portarlo fuori, in giro per locali, a bere, a divertirsi, a tentare di abbordare qualche bella signora allegra. Antonio dopo trentacinque anni di letargo, trascorsi a lavorare nel reparto contabilità di una ditta di trasporti e a sopportare le scenate di una moglie intemperante che non aveva mai amato, aveva voglia di tornare a sentirsi vivo. Conclusi i preparativi, Antonio entrò in soggiorno, si diresse verso il mobile-bar e si versò due dita di whisky in un bicchiere, allungandolo con un po’ di acqua. Si sedette sul divano a sorseggiare il drink, aveva bisogno di rilassarsi. L’idea di ributtarsi nella mischia, dopo tanti anni di tranquilla rassegnazione, lo innervosiva. Chissà se la notte era ancora quella di quarant’anni fa, dolce e suadente come il tocco di una dea. Chissà se per i viali soffiava ancora quel vento freddo, carico di promesse e speranze, che ti accarezzava il viso e la mano tenuta fuori dalla tasca per tenere la sigaretta. Suonò il camlo. Din don. Doveva essere Paolo. Vuotò il bicchiere con una sorsata decisa. Sentì un leggero

e piacevole calore scorrergli dentro. Andò ad aprire. L’amico entrò nell’appartamento con piglio deciso, stringendo in mano il collo di una bottiglia di spumante e gettando sull’attaccapanni il cappotto. «Ehilà, vecchio mio. Come va? È da una vita che non ci si vede. Da quando sei andato in pensione non ti sei più fatto vivo.» «Già, hai proprio ragione ma sai come vanno queste cose… la pigrizia, la routine…» - mormorò Antonio un po’ spaesato dall’esuberanza dell’amico. Paolo sembrò non sentirlo nemmeno. «Sono proprio contento che finalmente tu sia riuscito a liberarti di quella vecchia strega che ti portavi appresso da sempre. E bravo il mio Antonio. Hai fatto proprio bene! Stasera bisogna proprio festeggiare.» Mentre pronunciava, tutto d’un fiato queste parole, aveva tolto la capsula e allentato la gabbietta di metallo della bottiglia, che ora stappò con un gesto deciso e vagamente plateale. «Forza, vai a prendere due bicchieri.» Paolo, cinquantenne con ancora in testa una folta capigliatura castano scuro tendente al nero, era, da sempre, uno scapolo incallito e si atteggiava pomposamente da navigato viveur. Quando Antonio lo aveva chiamato per dirgli del divorzio e chiedergli di uscire, si era dimostrato entusiasta e pienamente disponibile a reintrodurre l’amico a quei piaceri della vita che sembrava, da troppo tempo, aver dimenticato. Evidentemente anche per lui non era più tanto facile trovare valorosi compagni disposti a seguirlo nelle sue notti brave. Antonio prese due fluttini da un ripiano del mobile in salotto e Paolo versò il vino. «Allora un brindisi al ritorno alla vita» - proruppe Paolo. «Cin» - rispose un po’ timidamente Antonio, facendo tintinnare il suo calice contro quello dell’amico. I due si sedettero sul divano, sorseggiando lo spumante.

Antonio allungò le gambe, buttò giù una lunga sorsata e sospirò. Forse non era stata una buona idea chiamare Paolo. Forse, a sessant’anni, avrebbe fatto meglio a restarsene a casa a guardare la televisione. Forse sarebbe parso ridicolo a farsi vedere in giro per locali, con quell’abito blu un po’ vecchio ma ancora in buono stato che indossava. «Allora, vecchio mio. Cosa vuoi fare stasera? Hai già in mente dove andare?» chiese Paolo. «No, non ho idee. Lascio a te la scelta. Sei tu l’esperto. Io è da un po’ troppo che sono fuori dal giro» - rispose Antonio tentando di sfoggiare un sorriso il più possibile ammiccante. «E fai bene ad affidarti all’esperto. Tu non preoccuparti che stasera ti faccio divertire io. Allora, per prima cosa, pensavo di fare un giretto da “Remo”. Lì c’è sempre qualche gruppetto di donne in cerca di divertimento. Poi, se lì va male, possiamo andare da “L’elefante”. Non farti ingannare dal nome però, ci si possono trovare certi fiorellini a volte. Ah, ah, ah! Ci divertiremo stasera. Vedrai che serata. Ce la godremo proprio!» Paolo assestò ad Antonio una vigorosa e cameratesca pacca sulla spalla. Bevvero ancora un altro po’. Qualche altro bicchiere di spumante e un paio di drink belli forti. Adesso erano entrambi leggermente brilli; la serata poteva finalmente avere inizio. «Bene, Antonio. Ora è meglio andare. Stasera guido io. Tu devi solo pensare a bere, divertirti e a sedurre qualche signora. Forza, gambe in spalla.» Infilarono i cappotti e uscirono.

Erano entrambi appoggiati al bancone, da “Remo”, sorseggiando un Martini bianco lentamente, facendo scivolare lo sguardo da una parte all’altra del locale. Paolo aveva una sigaretta che teneva tra le dita della mano destra, e ne aspirava ogni tanto una boccata, soffiando fuori il fumo cercando di mostrare un’aria il più possibile soddisfatta e vagamente compiaciuta. Antonio si guardava attorno nervosamente.

«Che ne dici di quella?» Paolo indicò una bionda sui quaranta, appoggiata al muro in fondo al locale. Le gambe lunghe, i capelli cotonati, la scollatura che scopriva un generoso decolté sembravano echi di desideri lontani, di antiche melodie che ora tornavano ad addolcire anche gli animi più disillusi. «Caspita, Paolo. Quella è proprio un gran bel pezzo di donna. Guarda che gambe che ha, e che seno poi. Indossa anche un bel vestito, da donna di classe. È veramente un sogno.» «Allora perché non vai a dirle qualcosa? Prova un po’ ad attaccare bottone.» «Cazzo, ma ti sei ammattito? Avrà quindici o vent’anni meno di me. Cosa vuoi che ci faccia quella con un vecchio come il sottoscritto?» «Stai scherzando, spero. Le donne adorano i tipi attempati. Li trovano affascinanti, intriganti. Con quel capello grigio poi… puoi fare scintille, scintille ti dico.» «Meglio di no… sai com’è… penso d’aver perso il tocco» - farfugliò Antonio. «Non dire fesserie. Va’!» - replicò Paolo mettendogli in bocca una sigaretta e accendendola un pretenzioso accendino argentato. Antonio si diresse verso il fondo del locale, verso la bionda, verso il suo destino. Aspirò una boccata di fumo. Represse a stento un colpo di tosse, erano ventidue anni che aveva smesso di fumare. Camminava cercando di mostrarsi disinvolto, perfettamente a suo agio. Ma sentiva i pantaloni, che ormai erano diventati troppo stretti, stringergli in vita, e sulla camicia, in corrispondenza delle ascelle, gli si erano formate due macchie di sudore. Fortunatamente indossava la giacca. Si avvicinò alla donna e con un sussurro le disse: «Buonasera, signora. Ero là al banco e…» «Come scusi?» - lo interruppe bruscamente la bionda. Antonio si schiarì la voce e riprese il discorso, questa volta con un tono di voce

leggermente troppo alto. «No, niente. Le dicevo che ero seduto al banco, con un amico, e mi chiedevo come mai una graziosa signora come lei se ne sta così, in disparte a…» «Vuoi provarci?» Questa domanda lo spiazzò, non seppe rispondere. «Ti ho chiesto se vuoi provarci» - chiese nuovamente e un po’ sgarbatamente la donna. «Io veramente, signora… beh… veramente no. Volevo solo…» Antonio non sapeva più a che santo votarsi. «Senti, bello. È meglio che giri al largo. Sono qui col mio fidanzato e ha un brutto carattere. Vattene se non vuoi che succeda un casino.» «Certo, certo, signora. Mi scusi. Ora vado. La prego di nuovo di scusarmi.» Antonio tornò al bancone, da Paolo, con la coda tra le gambe, le mani presero a tremargli leggermente. «Cazzo, Paolo. Quella è accompagnata. Ma perché mi ci hai mandato? Te l’avevo detto che era meglio lasciar perdere.» «Ma la vuoi piantare! È così quando si è a caccia. Ci provi con una e, se non ci sta, vai da un’altra. Senza paura e senza rimpianti.» «Senti, sarà meglio andare a casa. Penso di essere troppo vecchio per …» «Ma la pianti con questa storia?! Te l’ho già spiegato. Con quell’aria vissuta hai grosse possibilità. Dammi retta.» Antonio spense la sigaretta, fumata solo a metà, nel posacenere e ordinò un altro Martini. «Senti quello che faremo ora - continuò Paolo con un tono che ricordava quello di un generale in procinto di esporre un piano di guerra - vedi quelle tre ragazze sedute a quel tavolo? Bene, ora andremo da loro, offriremo loro da bere e, alla

fine, le porteremo a casa tua? Ok? Guarda il maestro e impara. Lascia fare al vecchio Paolo e vedrai che bomba di serata salterà fuori.» Paolo si diresse con o sicuro e deciso verso il tavolo delle ragazze. Si muoveva in modo sinuoso, quasi strisciante. Sembrava un vecchio serpente che si trascinava per il sottobosco, alla ricerca delle ultime prede della sua ordinaria esistenza. «Buonasera signorine - fece esibendo un sorriso il più possibile suadente - Io e il mio amico vorremmo offrirvi qualcosa da bere. Possiamo sederci qui al vostro tavolo?» «Certo, certo, fate pure» - rispose con noncuranza una delle tre. Evidentemente doveva essere già ben abituata a questo tipo di approcci. Ad Antonio quelle tre sembravano delle ragazzine. Avrebbero potuto benissimo essere sue figlie, avranno avuto sì e no trent’anni. Si sentiva patetico. «Cominciamo con le presentazioni, allora. Io sono Paolo.» Paolo si alzò dalla sedia e, stringendo loro la mano, diede due baci sulla guancia ad ognuna delle ragazze, le quali risposero dicendo il loro nome. Anche Antonio si presentò, ma distrattamente, e senza baciarle. «Bene. Allora ordiniamo una bella bottiglia di champagne.» Oramai le danze erano iniziate, e, Paolo, non appena ebbe a tiro un cameriere, ordinò una fra le più costose bottiglie del ricercato nettare se. Arrivò il vino e Paolo lo stappò con platealità, e riempì i calici di tutti i presenti emettendo degli insulsi gridolini di gioia. «Evviva, alla nostra.» Antonio beveva piano, ascoltando distrattamente gli inconcludenti discorsi che l’amico stava facendo alle tre giovani. Era bravo, però. Lui non sarebbe mai riuscito a tenere in piedi una conversazione sul nulla più totale. Anche quella era un’abilità.

Sorbì un altro sorso di champagne, e osservò meglio le ragazze. Erano tutte molto belle. Due more e una bionda. I loro seni, sodi e fieri, premevano voluttuosamente contro le camicette un po’ troppo strette; le loro labbra, leggermente umide, gli ricordavano morbidi cuscini. Antonio sbadigliò sommessamente. Intanto Paolo continuava ad intrattenere le tre, dandosi continuamente arie da vecchio e consumato playboy; arrivò ancora da bere. Incominciava a sentirsi veramente ubriaco. L’alcool, tuttavia, non lo fece diventare più disinibito ed euforico, ma, al contrario, lo fece scivolare in un dolce torpore. I suoni arrivavano alle sue orecchie attenuati e lontani, come se venissero da un altro mondo. Le immagini erano sfuocate e confuse. Era pervaso dalla sensazione, piacevole ma allo stesso tempo angosciante, di trovarsi in un sogno. Ad un certo punto le ragazze, visibilmente alticce, si alzarono ed una delle tre disse: «Bene ragazzi. S’è fatto tardi. Ora dobbiamo veramente andare. Grazie per la serata.» Paolo esibì una faccia sconcertata. «Ma come? Ve ne andate di già? Non volete venire a casa nostra a bere un ultimo drink?» «No, no, ragazzi. È proprio tardi. Buona notte e a presto.» E si avviarono verso l’uscita. «Puttane» - mormorò Paolo.

I due, ora, si trovavano in macchina, a percorrere lentamente i viali. Paolo, che era alla guida, si fermò improvvisamente davanti ad una ragazza. La sua minigonna era cortissima, il suo top attillatissimo e gli stivali bianchissimi, riflettendo la luce del lampione sopra di lei, risplendevano nella notte nerissima. I suoi occhi, vagamente spaventati, incrociarono quelli di Antonio. A lui parvero

bellissimi. Provò disgusto per se stesso e per il mondo. «Dai, Paolo. Che diavolo fai? Non vedi che può essere mia nipote. Avrà vent’anni. Portami a casa per favore.» «Ma non rompere le palle. Non vedi che pezzo di ragazza? Forza, chiedile quanto vuole.» «Portami a casa, ti ho detto.» Il tono, fermo, risoluto e vagamente astioso, con il quale Antonio pronunciò queste parole, convinse Paolo a non ribattere, e si diresse verso la casa dell’amico. Ora Antonio era più tranquillo e guardava, fuori dal finestrino, le case che rapidamente gli scorrevano davanti. Non era così che si era immaginato questa serata. Non sapeva dire esattamente come se l’era rappresentata nella sua mente. L’aveva sperata più, per così dire, leggiadra, più vellutata, più impalpabile in un certo senso. Forse era proprio questo il problema. Spesso l’idea che ci si faceva delle cose era infinitamente appesantita dalla loro insostenibile materialità. Arrivarono a casa sua. Antonio scese dall’auto, salutò e ringraziò l’amico e salì nel suo appartamento. Non appena varcata la porta dell’abitazione, Antonio si tolse i vestiti troppo stretti, e si buttò sul letto, scivolando in un profondo sonno senza sogni.

PECCATO SIA PECCATO

Giada era nel camerino delle ragazze e si stava preparando per il lavoro. Indossò un perizoma nero, calze autoreggenti sempre nere ed un vestitino rosso attillatissimo ed esageratamente corto; non mise il reggiseno. Poi si guardò allo specchio. A trentatré anni qualche ruga incominciava ad apparire sul bel volto dagli occhi scuri, ed il seno, un tempo sodo e fiero, ora appariva leggermente cadente. Tuttavia, con le sue gambe ben tornite ed il suo bel sedere tondeggiante perfettamente avvolti dal tessuto elasticizzato dell’abitino, faceva ancora una superba figura ed era ancora in grado di far girare la testa a più di qualche uomo, anche ben più giovane di lei. Per ultima cosa indossò le scarpe. Sempre che quella specie di trampoli in plastica trasparente, dalla zeppe e dal tacco altissimi si potessero definire scarpe. Con il suo metro e cinquantacinque d’altezza non poteva lavorare con addosso un paio di normali calzature, sarebbe stata troppo poco appariscente. Per questo era stata costretta a comperarsi, in un sexy shop, quel paio di sandali orribili e scomodissimi che, a detta di molti clienti, la facevano sembrare ancor più sensuale. Alla fine di ogni serata però i piedi le dolevano a tal punto che le risultava difficile camminare. Entrò nella sala. Erano solo le undici e mezzo di sera, e l’ambiente era quasi vuoto. C’erano solo un paio di clienti; uno era seduto in un divanetto a bere con una ragazza, l’altro se ne stava appoggiato al bancone del bar a guardarsi attorno e a sorseggiare una birra. Le altre ragazze erano sedute sparse un po’ per tutto il locale; qualcuna sugli sgabelli davanti al bancone, qualcun’altra sui divanetti, una stava ballando sul cubo al centro della sala strusciandosi contro il palo della lap dance. Giada si sedette a sua volta su un divanetto, in attesa di clienti, con le cosce in bella mostra. Di lì a un poco entrò un gruppetto di quattro uomini di mezza età, tutti un po’ alticci, che si sedettero al banco ed ordinarono da bere. Tra grida, risa e sorsate si misero a squadrare le ragazze. Guardavano tette, culi e gambe come una massaia attenta avrebbe scrutato le bistecche prima di acquistarle dal macellaio. Uno di loro si mise a fissare insistentemente Giada. Lei gli sorrise accavallando le gambe. L’uomo continuò a guardarla per un altro po’, poi le rivolse un cenno

di saluto agitando in aria una mano. Giada si alzò e, camminando piano ed ondeggiando il sedere, gli si avvicinò. Dopo averlo raggiunto, si sedette sullo sgabello accanto al suo e gli porse la mano sorridendo. «Piacere, mi chiamo Giada.» «Piacere mio, cara. Io sono Alfredo» - rispose l’uomo cercando di pronunciare quelle parole con un fare sensuale. «Come mai qui, questa sera?» - chiese Giada appoggiando, con una mossa esperta, la propria gamba a quella di Alfredo. «Mah, così tanto per divertirci un po’ fra amici, per fare qualcosa di diverso.» Gli altri tre suoi compagni intanto erano stati circondati da altrettante ragazze che, come Giada, avevano già incominciato le classiche manovre di abbindolamento. «E per divertirti cosa fai? Non mi offri qualcosa da bere?» Pronunciando queste parole Giada aumentò le pressione della sua gamba contro quella di Alfredo. Alfredo le sorrise e la guardò negli occhi. Aveva i capelli grigi tagliati di fresco, la pelle ancora liscia e una bella pancetta. «Ma certo che ti offro da bere, cara.» Chiamò il barista che arrivò con o svelto, prontissimo a prendere le ordinazioni. «Allora, porta un whisky con acqua per me e qualcosa per la signorina, per favore.» Laura ordinò un gingerino con un po’ di prosecco. In men che non si dica i due drink arrivarono. Alfredo, con fare lascivo, appoggiò una mano su una coscia di Giada. «Senti, bella. Perché non andiamo a sederci in un posto un po’ più appartato? Mi sento troppo in bella mostra qui davanti al banco.»

«Va bene. Andiamo a sederci di là.» Così dicendo indicò un piccolo sofà in un angolino buio del locale. Poi si alzò e, prendendo per mano Alfredo, lo accompagnò a sedersi. Non appena seduti i palpeggiamenti di Alfredo incominciarono a farsi più insistenti e decisi. «Mamma mia, Giada, che bella che sei.» Le toccava i fianchi e le gambe. «Mio Dio che corpo che hai. Mi fai fare un infarto.» Lei era ormai abituata a questo tipo di trattamenti, e non ci faceva più molto caso. Con una sorsata decisa finì il suo drink. «Non mi offri più niente da bere? Io ho ancora sete…» - disse Giada agitando il bicchiere vuoto. «Oh, ma certo che sì, cara.» Alfredo fece un cenno al barista: «Un altro per la signorina, grazie.» In un attimo il barista arrivò con l’ordinazione su un vassoio color rosso. Alfredo ormai era fuori controllo. Toccava Giada dappertutto. Le dava pizziconi sul sedere e la baciava sul collo. Si arrischiò persino ad allungare una mano su uno dei suoi seni. Giada lo bloccò. «Lì no, carino. Non qui.» «Qui no? E dove, allora?» - chiese Alfredo con un sorriso ebete stampato sulla faccia. «Ma nel privè, bello.» «E come si fa ad andare nel privè?» «Basta che mi dai cinquanta euro e ci andiamo quando vuoi. Là puoi toccare tutto. Che ne dici?»

«Va bene, cavolo. Andiamoci. Ho proprio voglia di…» Le urla di uno dei suoi compagni interruppero Alfredo: «Ehi, maiale. Torna qui, che dobbiamo andare. Sbrigati!» Lui sembrò starci un po’ male. «Caspita, mi dispiace Giada, ma devo andare. Sarà per la prossima volta.» Le diede un bacio sulla guancia. «Certo, alla prossima, allora. Ci conto, mi raccomando. Alfredo si allontanò da lei, e si diresse verso l’uscita in compagnia dei suoi amici. Giada rimase lì seduta per qualche altro minuto, poi tornò in camerino a darsi una rinfrescata al trucco.

Quando tornò in sala, c’era un ragazzo seduto su uno sgabello, da solo, con le braccia appoggiate al bancone ed il corpo incurvato in avanti. Sembrava molto giovane, e Giada fu colpita dallo sguardo triste e assorto con cui fissava la bottiglia di birra che aveva davanti. Sembrava assente, perso in chissà quali pensieri. «Chissà cosa vede nell’etichetta di quella bottiglia?» - si chiese Giada. Si avvicinò a lui e si posizionò al suo fianco rimanendo in piedi. Gli tese una mano sorridendo. «Ciao, come ti chiami?» Il ragazzo la guardò. Era incredibilmente bello, con i lineamenti dolci e armoniosi e quei due occhi scuri profondi, dentro i quali era facile perdervisi. I suoi capelli erano neri. Prese la mano che lei gli stava porgendo. «Sono Riccardo, piacere. Tu?» «Io Giada, piacere mio.»

Riccardo la baciò sulle guance, con un fare dolce ma automatico, come se assecondasse una prassi ormai consolidata da tempo. «Come mai sei qui da solo?» - chiese Giada avvicinandosi ancora un po’ a lui. «Così, non avevo niente da fare!» - rispose lui senza abbandonare quella sua aria assorta e un po’ sconsolata. «Ti vedo triste. C’è qualcosa che non va?» «No, no, è tutto a posto.» Giada incominciò ad accarezzargli i capelli ed appoggiò il proprio corpo al suo. Lui le cinse la vita con un braccio e l’attirò ancor più stretta a sé. «Mi offri da bere?» «Sì, certo. Ordina pure.» Giada si fece portare un altro gingerino con il prosecco. «Andiamo a sederci da un’altra parte, in un posto più tranquillo…» - propose lei. «D’accordo, andiamo.» Andarono a sedersi nello stesso divanetto che Giada aveva occupato prima con Alfredo. Riccardo le mise un braccio attorno alle spalle, lei si strinse a lui. «Che cos’hai stasera? Non ti vedo bene» - disse Giada. «Niente di particolare, - rispose Riccardo - è solo che non sono dell’umore giusto per fare troppo casino.» Giada incominciò ad accarezzargli una guancia, lui le strinse una mano nella sua. «Ma che motivo hai per essere così?» Riccardo posò la testa sulla spalla di lei.

«Nessun motivo, - disse lui con voce flebile, quasi in un sussurro - forse è solo il vento che fuori soffia molto forte.» Seguirono alcuni minuti di silenzio. Giada sorbì una piccola sorsata del suo drink. «Da quanto tempo è che lavori qui?» - le chiese lui di punto in bianco. «Mah, saranno due o tre mesi, non di più.» «E ti piace?» «No, - rispose lei con decisione - lo faccio solo per arrotondare. Vedi io sono divorziata e ho un figlio da mantenere. Con i mille euro al mese che prendo lavorando come operaia non ce la farei mai a pagare tutto: l’affitto, le bollette ed il resto.» «Già, nelle fabbriche siamo sfruttati tutti quanti. Sprechiamo la nostra esistenza a sputare sangue su una macchina, e ci danno a malapena i soldi per mangiare. Intanto loro si fanno ricchi fottendo i nostri culi.» «Almeno qui se uso bene il mio culo qualcosa ci ricavo» - disse Giada con un sorriso. Sorrise anche Riccardo. «Ma non è mai entrato qui, come cliente, qualche tuo collega di lavoro? Penso che sarebbe una cosa abbastanza imbarazzante.» «Finora, no. Ma anche se succedesse non me ne importerebbe poi tanto. Io qui non faccio niente di illegale e lavoro con il mio corpo, non sfrutto quello di qualcun altro. La gente può dire quello che vuole. A giudicare sono capaci tutti.» «Giusto» - disse Riccardo e l’attirò a sé e la baciò. Le loro lingue si incontrarono, scambiandosi vicendevolmente la loro umidità. Quella di Giada era fresca e a Riccardo ricordò l’erba bagnata dalla rugiada. «Vuoi che andiamo nel privè?» - domandò Giada. «Sì, va bene, andiamoci» - rispose Riccardo. Parlando ansimò leggermente.

I due si appartarono in una stanzetta con tre mura. Il vuoto lasciato dall’assenza del quarto muro era colmato da una tenda. All’interno c’erano solo un piccolo divano consunto e un tavolinetto con le gambe in ferro ed il piano di vetro. Riccardo pagò le cinquanta euro e Giada si tolse l’abitino rosso, rimanendo in perizoma. Lui la strinse e la baciò di nuovo, stavolta con un maggior impeto. Giada sentì il membro premere sul proprio corpo, e sentì anche la rabbia che lui mise in quel bacio. Con una spinta lo fece sedere sul divanetto e gli si sedette sopra a cavalcioni, muovendo ritmicamente i fianchi. Lo baciò ancora, poi gli chiese sussurrando: «Ti ha lasciato la tua donna, eh?» «Sì» - rispose lui ansimando pesantemente, e la baciò ancora, stavolta infilando tutta la lingua nella sua bocca. Quando si staccarono Giada disse: «Ma ricordati che io non sono lei.» «No, no, non sei lei per fortuna.» Giada si alzò ed incominciò a ballare in maniera sensuale di fronte a Riccardo. Lui fissava il vuoto. Lei lo schiaffeggiò. «Riprenditi da questo amore, riprenditi!» «Non posso, non ce la faccio» - sibilò lui. Lei lo schiaffeggiò ancora, stavolta più forte. «Dimenticala.» «No!» Riccardo si alzò, la fece voltare e si appoggiò con vigore contro le sue natiche, strusciandovisi contro. Tentò di sfilarle le mutandine. Giada fermò le sue mani. «Fermo. Non sono lei, io non sono lei. Capito?» «No, non sei lei» - disse lui e uscì di corsa dal privè. Giada rimase in quello stanzino, da sola e quasi nuda. Chissà se Riccardo sarebbe riuscito a scordarsi di

quell’amore, o avrebbe lasciato che quell’amore lo ammazzasse. Concluse la serata intrattenendo un altro paio di clienti. Poi andò in camerino a cambiarsi e a struccarsi, quindi uscì dal locale e si diresse verso casa in macchina. Rientrò nel suo appartamento che mancavano solo pochi minuti all’alba. Di lì a due ore suo figlio si sarebbe svegliato. Si svestì piano, indossò la sua camicia da notte bianca e andò a letto senza fare rumore. Era stanchissima e si addormentò quasi subito.

Fu svegliata da Stefano che saltava sul suo letto gridando: «Mamma, mamma, sveglia. Svegliati mamma!» Saranno state appena due o tre ore che era andata a dormire. «Ciao, amore della mamma. Come stai? Hai dormito bene?» «Sì, mamma. Benissimo. Ma cos’hai? Sembri stanca. Sei malata, mamma?» «No, no, caro. Va tutto bene.» Stefano le buttò le braccia al collo, si distese di fianco a lei, le appoggiò la testa su una spalla e chiuse gli occhi. Ora Giada era lì, distesa sul suo letto. Una Madonna peccaminosa con bambino. In breve tempo si riaddormentò. Era ancora molto stanca, ed il giorno dopo sarebbe dovuta tornare in fabbrica per lavorare di nuovo.

PRIMI ROUND/AMORI

Quella sera sco arrivò in palestra abbastanza tardi. Gli altri ragazzi avevano già incominciato l’allenamento, e stavano correndo in cerchio attorno alla palestra. sco buttò a terra, di fianco al ring, il suo borsone, ne estrasse un paio di lunghe fasce di cotone color blu ed incominciò a fasciarsi le mani ed i polsi. Massimo, il suo allenatore, un uomo basso e tozzo sulla cinquantina, dai capelli già grigi e dal volto duro e plasmato dai pugni, gli si avvicinò e disse: «Ciao Fra. Come stai oggi?» «Oh, bene. Abbastanza bene, dai» - rispose sco con aria mesta. «Mi raccomando stasera non sforzarti tanto, fra due giorni combatti. Intanto comincia a scaldarti un po’. Fai qualche minuto di corsa e muoviti davanti allo specchio in scioltezza, senza forzare. Poi vengo io e ti faccio fare un po’ di figure, così ti do anche qualche ultima dritta. Ok?» «Perfetto. Incomincio subito, allora.» sco iniziò a correre con gli altri ragazzi. Partì piano poiché sentiva i muscoli ancora tutti intirizziti e freddi a causa del viaggio in bicicletta, nell’aria gelida di febbraio, che aveva affrontato per venire in palestra. Carlo, un ragazzo di qualche anno più vecchio di lui ma già abbastanza esperto nel campo del pugilato, gli si affiancò e con fare allegro e vagamente paternalistico attaccò il discorso. «Allora, sei pronto per il grande debutto? Come ti senti? Agitato?» «Dannazione, Carlo. Sono molto agitato. È tutta la settimana che mi sembra di avere qualche migliaio di farfalle che mi volano dentro allo stomaco.» Carlo sorrise con l’aria comprensiva di uno che la sa lunga.

«Non ti preoccupare, schino. Tutti siamo agitati e abbiamo paura prima di combattere. Prima di salire sul ring io ho paura, il tuo avversario ha paura, anche Tyson, ai suoi tempi, aveva paura. È normale. Assolutamente normale. L’importante è non farsi vincere dall’emozione, ma cercare di dominarla.» «Certo, certo. Capisco benissimo quello che vuoi dirmi, Carlo. È che è il mio primo incontro e sai com’è… sono solo un po’ dubbioso. Ecco, non sono sicuro di essere pronto, di essere all’altezza.» «So bene come ti senti, Fra. Tu non preoccuparti e pensa a combattere bene. Vedrai che il resto verrà da sé.» Detto questo, Carlo aumentò la velocità della sua corsa e lo superò. sco continuò a correre ancora per qualche minuto, fino a quando non si sentì bello caldo e pronto per cominciare. Si fermò davanti allo specchio ed incominciò a tirare qualche pugno all’aria, a fare vuoto, come si diceva in gergo pugilistico. Si muoveva molto sulle gambe e saltellava con grazia sulle punte dei piedi. Con torsioni e rapidi movimenti del busto simulava delle schivate e, ad ogni colpo che portava, immaginava di dover stendere un avversario brutto ed incazzato. Accidenti, come si muoveva bene. Sembrava quasi Alì quando danzava sul ring. Chissà cosa avrebbe detto Laura se l’avesse visto in questo momento. Forse avrebbe detto che era molto bravo e molto veloce nello sferrare pugni. Chissà. Dopo un po’ l’allenatore lo chiamò sul quadrato. Portava, alle mani, i guanti da ata. «Forza, sco. Adesso sali a fare un po’ di figure con me.» In gergo, le “figure” erano quell’esercizio in cui l’atleta doveva colpire degli appositi guantoni indossati dall’istruttore. sco salì sul ring ed incominciò a girare attorno al suo maestro. «Bene. Bene, così, sco. Tieni alta la guardia. Bravo. E muoviti tanto sulle gambe.»

sco girava in tondo con agilità. Non appoggiava mai i talloni a terra e spostava il peso da un piede all’altro ritmicamente, sempre pronto a portare i suoi colpi. Improvvisamente Massimo alzò una mano, invitandolo a colpirla. «Forza!» sco sferrò un jab sinistro, cercando di metterci tutta la forza che aveva in corpo. «No, non così, - lo corresse Massimo - non pensare a colpire forte che diventi lento. Colpisci veloce. Pensa veloce. La potenza verrà da sé. Coraggio, riprova!» E sollevò di nuovo la mano. sco, questa volta, la colpì in maniera rapida. L’allenatore sembrò soddisfatto. «Bravo, molto bene. È così che fai male. Svelto, svelto. Ora vai con un “unodue”. Sinistro e destro. Sempre veloce.» Così dicendo sollevò entrambe le mani e sco le colpì con i suoi pugni. Questa volta fu ancora più veloce di prima. Entrambi i colpi, al contatto con i guanti da ata, produssero un secco tonfo che risuonò per tutta la palestra. «Bravissimo, Fra!» I due andarono avanti così per un’altra mezz’ora circa. Con sco impegnatissimo ad effettuare al meglio le mosse che Massimo gli ordinava, e con l’allenatore altrettanto impegnato a correggere gli sbagli e a dare suggerimenti al ragazzo. Quand’ebbero finito, si tolsero entrambi i guantoni, scesero dal ring e, mentre sco si asciugava il sudore con l’asciugamano, Massimo gli disse con tono serio: «Ascoltami, ragazzo. Non preoccuparti per l’incontro di sabato. Rimani tranquillo. Sfrutta la tua altezza, il tuo allungo, la tua velocità. Tienilo lontano, non farlo avvicinare e vedrai che non avrai problemi. Sicuramente sarà molto più basso di te.»

Poi un largo sorriso si dipinse sul suo volto e, con un tono bonariamente burbero, disse: «Ora vai a fare la doccia. Puzzi come un caprone.» sco sparì nello spogliatoio.

Era la mattina del sabato dell’incontro, e sco si trovava a scuola. Era l’ora prima della ricreazione, l’ora di matematica. Il professore stava parlando, un po’ svogliatamente, di funzioni. Tuttavia la mente di sco era lontanissima dal pensare ai limiti o alle tangenti. Davanti ai suoi occhi vedeva soltanto un temibile pugile senza volto che lo incalzava incessantemente, colpendolo, con vigorosi ganci e montanti, al volto e al corpo. Nella sua testa immaginava di schivare, di tenerlo a distanza, di muoversi sulle gambe. Non conosceva il suo avversario, non lo aveva mai visto, non sapeva neppure il suo nome. Con ogni probabilità si sarebbe trovato di fronte uno più basso e grosso di lui. Pertanto la sua strategia, da pugile alto e longilineo qual era, sarebbe stata di colpirlo da lontano senza mai farlo avvicinare. Semplice a dirsi. Sperava soltanto di non rimanere senza fiato. Suonò la camla, che lo riscosse dalle sue fantasticherie. L’ora era finita ed il professore, raccogliendo la sua roba per rimetterla in borsa, salutò i suoi studenti. Era incominciata la ricreazione e sco decise di rimanere in classe. Non aveva voglia di gettarsi nella confusione e nel caos del cortile. Aveva bisogno di rimanere tranquillo. I suoi migliori amici, Paolo e Andrea, erano seduti sopra i banchi in fondo all’ aula. Quel giorno, con loro, c’era anche Laura. sco conosceva Laura fin dai tempi delle elementari. Non avrebbe saputo descrivere con esattezza i sentimenti che provava per lei. Tra di loro c’era sempre stato un rapporto di grande simpatia e fiducia reciproca. Una sorta di

muta complicità. Da un po’ di tempo, tuttavia, aveva incominciato a guardarla con occhi diversi. Ora, alla gamma di sensazioni che lei aveva da sempre suscitato in lui, si era aggiunta una sorta di consapevolezza della sua femminilità, un sentore del profumo della sua discreta sensualità. Ultimamente, infatti, si sorprendeva spesso a fantasticare su quelle sue labbra carnose, che gli davano la sensazione di essere sempre un po’ umide. «Allora, campione, come va? È stasera che hai l’incontro, giusto?», gli chiese Andrea dandogli una pacca sulla spalla. «Sì, stasera» - rispose sco con aria assente. «E come ti senti? Sei in forma?» «Certo. Sono abbastanza in forma. Mi sono allenato bene. Sono solo un po’ agitato.» «Oh, ma non ti preoccupare. Vedrai che stasera lo stendi» - disse Paolo con fare rassicurante. «Ma sai contro chi devi combattere?», domandò Andrea. «Veramente non lo so. So solo che è un ragazzo che si allena in una palestra qui vicino. Ma io non l’ho mai visto. Non so neanche come si chiama, a dire il vero.» Laura alzò le mani davanti al viso, come per mettersi in guardia, ed incominciò a saltellare di fronte a sco e a colpirlo scherzosamente alle braccia. Lui non poté fare a meno di notare la sua figura snella e aggraziata, perfettamente disegnata, e i suoi lunghi capelli scuri che incorniciavano il volto grazioso e dagli occhi grandi, marroni e profondi. «Forza, pugile. Difenditi», disse Laura. Anche sco assunse la posizione di guardia e, con finta goffezza, tentava di parare i colpi sferrati dalla ragazza. «Oh, no. Non farmi male ti prego.»

Provò il desiderio di abbracciarla ma si trattenne e disse: «Sentite, ragazzi. Perché stasera non venite a vedermi? Così… tanto per fare un po’ di tifo, per caricarmi un po’.» «Per me va bene. Non ho niente da fare stasera» - rispose subito Laura. «Anch’io vengo volentieri. Ma solo per vedere che le prendi» - fece Andrea sorridendo. «Ovvio che ci sono anch’io - disse Paolo.- Credevamo che il pensiero di avere qualcuno che ti guarda ti rendesse più nervoso, ma se dici che ti fa piacere ci saremo. Ma dov’è che si tengono gli incontri, scusa?» «Ah sì, dimenticavo. La manifestazione è al Palazzetto Comunale. Quello vicino alle scuole elementari.» In quel preciso momento suonò la camla. Le lezioni dovevano ricominciare, e i quattro ragazzi si risedettero ai loro posti.

Mancavano pochi minuti all’inizio del suo primo match. sco era nello spogliatoio, con Massimo, il suo allenatore, che gli stava spalmando la vasellina in faccia e gli dava le ultime raccomandazioni. «Allora, sco. Ricorda bene i movimenti che abbiamo provato in palestra. Tienilo lontano con il diretto sinistro e, appena lui è a tiro, vai con il destro. Se si avvicina troppo legalo come ti ho insegnato. Stai tranquillo che andrà tutto bene. Tu pensa solo a fare un bell’incontro. Capito?» sco fece un cenno d’assenso con la testa, cercando di dimostrare il massimo della sicurezza che poteva. «Bene. Allora andiamo» - disse Massimo mentre gli allacciava il caschetto protettivo e gli infilava in bocca il paradenti. Si diressero verso il corridoio che, dagli spogliatoi, portava al campo da basket in mezzo al quale era stato allestito il ring.

Poco prima dell’entrata sco e il suo allenatore si fermarono. Aspettavano che lo speaker chiamasse il suo nome. «…e all’angolo blu… sco De Vincenzi.» sco fece il suo ingresso nell’arena, cercando di farsi vedere il più disinvolto possibile. Massimo lo seguiva con in mano l’asciugamano. Il suo avversario era già salito sul quadrato e, quando lo vide, sco si irrigidì dalla paura. Un uomo fatto e finito, sui trenta, tozzo, non molto alto, con i muscoli pieni e sodi e con la pelle lucida delle braccia decorata da innumerevoli e complessi tatuaggi. sco quasi tremava dal timore e dalla tensione. Ebbe quasi la tentazione di voltarsi e di tornare negli spogliatoi, ma ormai era in ballo, e si diresse verso i piedi del ring, dove Massimo lo aiutò ad infilarsi i guantoni. Poi salì sul quadrato e si mise al suo angolo. L’arbitro ò da lui e fece i controlli di rito. Guardò i guantoni e si assicurò che indossasse il sospensorio. Poi si diresse al centro del ring e, dopo il comando «Fuori i secondi» ed il suono della campana, gridò «Boxe». Il match iniziò. L’avversario incominciò subito a pressarlo e a cercare di chiuderlo all’angolo. sco continuava a muoversi sulle gambe e cercava in tutti i modi di tenerlo lontano con i suoi jab. Qualche volta riuscì anche a colpirlo alla fronte, ma con colpi non molto potenti. Che sensazione strana provava a colpire un avversario durante una gara ufficiale! Era una sensazione quasi irreale, come se, in quel momento, non ci fosse stato lui lì a combattere su quel ring. «Bravo, continua così. Non farti inquadrare» - gli urlò Massimo dall’angolo. Facile a dirsi, ma assolutamente difficile da mettere in pratica. Il suo avversario non gli dava respiro, continuava a farsi sotto. Lo martellava continuamente con potenti ganci e montanti sia al corpo sia alla figura e, in due o tre occasione, era riuscito a portare a segno dei colpi che lo avevano leggermente stordito.

Verso la metà della prima ripresa, sco incominciò a sentirsi a corto di energia. La tensione e il movimento continuo stavano cominciando a sfinirlo. In più occasioni perse il tempo giusto e non riuscì a schivare la carica del suo avversario, e fu costretto a legare per impedirgli di portare colpi. La prima volta che legò rimase impressionato dalla forza del rivale. Non riusciva a spostarlo, era come fatto di roccia. Suonò la campana. Fine della prima ripresa. sco tornò all’angolo. Massimo non sembrava contento. «Cazzo, Fra. Cosa combini? Stavi andando così bene all’inizio. Qualche problema? Di fiato ne hai ancora?» «Sì» - mentì sco, ma in cuor suo sapeva che non ce l’avrebbe fatta a sostenere un’altra ripresa. Suonò di nuovo la campana. Inizio seconda ripresa. L’avversario, resosi conto delle sue difficoltà, gli fu subito addosso ed incominciò a tempestarlo di colpi. sco, con la forza della disperazione, riuscì a fuggire da quell’assalto e scappò il più lontano possibile da quella furia, finendo contro le corde. Lì fu in trappola. Il suo rivale gli fu addosso in un attimo e, con una precisa combinazione di montanti e ganci, lo mise al tappeto. sco vide, per un attimo, tutto buio e si ritrovò a terra, non capendo esattamente come ci era finito. L’arbitro incominciò a contare. Al suo «quattro» sco si rialzò, ma lui non se la sentì di farlo continuare e, agitando in aria le braccia, dichiarò che l’incontro era finito.

sco era di nuovo negli spogliatoi. Aveva appena finito di fare la doccia e,

in accappatoio, si stava guardando allo specchio del bagno. La sua faccia era abbattuta, e un grosso e vistoso livido era apparso sotto l’occhio sinistro. Si sentiva molto demoralizzato, credeva di non avere dato il massimo. Ma, allo stesso tempo, in cuor suo, si sentiva sollevato dal fatto che era tutto finito e che era riuscito a togliersi da quella brutta situazione senza aver subito grossi danni. Si rivestì con calma. Massimo lo aveva consolato, gli aveva detto che non era andato male per essere stata la prima volta, che poteva sentirsi comunque soddisfatto della sua prestazione. Il boccone, tuttavia, era molto amaro da ingoiare. Raccolse la borsa e uscì dalla palestra. Nel parcheggio i suoi amici lo stavano aspettando. Andrea gli diede una vigorosa pacca sulla spalla. «Oh, non te la prendere» - gli disse. Paolo gli scompigliò i capelli. «Per me, sei andato forte.» Laura si avvicinò e, appoggiandogli le mani sulle spalle, gli diede un bacetto sotto l’occhio, proprio sul livido che ormai era diventato viola. sco guardò verso l’alto e sorrise. Le sue labbra erano davvero un po’ umide come sembravano. A questo mondo nessuno può perdere sempre.

ULTIMA OCCASIONE

E Russel, nella sua vita, non aveva mai fatto altro se non il pugile. Nato a New York, figlio di un lavavetri e di una cameriera di una tavola calda, aveva ben presto abbandonato la scuola per unirsi a una di quelle tante bande di perdigiorno che, a quel tempo, popolavano il quartiere. Aveva incominciato a praticare la boxe a quindici anni, in una palestra vicina al palazzone nel quale viveva con i suoi. Non si era mai distinto per grandi doti tecniche o per una particolare intelligenza tattica, non danzava con grazia attorno all’avversario sulla punta dei piedi, e non era neanche molto veloce. Le sue uniche qualità erano una mascella d’acciaio e un potente destro, un destro che avrebbe steso anche un cavallo se solo fosse riuscito a portarlo a segno un po’ più spesso. Infatti, il suo più grande limite era il portare i colpi un po’ a casaccio, con grande foga, ma quasi sempre chiudendo gli occhi, alla cieca. Si era però sempre distinto per le sue doti di incassatore che, unite alla sua grande resistenza fisica e al suo temperamento da indomito combattente, gli avevano permesso di intraprendere una carriera da professionista e di rivelarsi sempre un avversario ostico per chiunque, mai pago e in grado di concludere in piedi anche gli incontri più duri. Negli ultimi tempi, però, superati i trentacinque, Ed incominciava ad essere stufo di quella vita carica di sacrifici ma, fino a quel momento, molto avara di soddisfazioni. Le sedute di corsa alla mattina presto, la sala pesi, le sessioni al sacco e lo sparring ultimamente gli sembravano essere diventate delle attività intollerabili, quasi nauseanti. Per questo era nata in lui l’idea di smettere con lo sport, di piantarla di prendere sempre un sacco di botte e di trovarsi un lavoro più tranquillo, uno qualsiasi, senza pretese, che gli avesse permesso di guadagnare quel tanto che bastava per mantenersi. Con questi pensieri nella testa, Ed aveva deciso di parlare al suo allenatore e di comunicargli la sua idea di piantarla con la boxe.

Quella sera, in palestra, l’allenamento era stato duro: dieci riprese di lavoro intervallato al sacco, salto della corda e poi ate fino a sentirsi bruciare le braccia ed esplodere il cuore. Dannazione, incominciava a sentirsi vecchio per queste faccende. Conclusi tutti i suoi esercizi, Ed prese da parte Martin, il suo vecchio coach, e gli disse: «Senti Martin, io incomincio ad essere stanco, veramente stanco, di tutto questo.» I ragazzi della palestra erano ormai tutti sotto la doccia e nella stanza, freddamente illuminata da una tremolante luce al neon, regnava un silenzio quasi irreale intervallato, ogni tanto, da qualche tonfo sordo prodotto da un atleta ritardatario che si stava ancora allenando al sacco. «Stufo di cosa? Maledizione, di cosa? Di vivere?» - rispose Martin guardandolo con i suoi occhi acquosi che parevano essere stati incollati malamente alla faccia. Una faccia consumata dal tempo e dai cazzotti, a cui erano attaccate delle chiazze di barba grigia ed alcuni peli scuri. «No, non di vivere, -fece Ed - sono solo stanco del sacco, dei guantoni, delle botte, del pugilato insomma.» «E perché mai ti devi essere stancato? In fondo sei sempre stato un buon peso massimo, un vero e proprio torello, e la boxe, alla fine, ti ha sempre dato da mangiare.» «Certo. Hai ragione, Martin. È che sono veramente stufo di darmi tanto da fare per niente, per non vincere mai nulla di importante, se non qualche incontro del cavolo che non interessa a nessuno. Dannazione. Ormai ho più di trent’anni, è ora che la smetta, che mi metta il cuore in pace, che mi trovi un altro lavoro. Ormai non è più tempo di sognare.» «Ragazzo ti capisco. È dura andare avanti quando la vita è tanto restia a darti un po’ di successo. Non hai mai vinto alcun titolo, d’accordo, e l’ultima volta che la tua faccia è andata sul giornale ormai non se la ricorda più neanche tua madre; ma io ti chiedo un ultimo sforzo, un’ultima fottutissima fatica e poi ti lascio smettere.»

«No, no Martin. Lascia perdere. Non credo di potercela fare. Non ho gli stimoli, non ne ho più la voglia, non mi arde più quel fuoco sotto al culo, cazzo.» Il tono della voce di Martin si fece più basso, più confidenziale, più paterno in un certo senso. «Ascoltami ragazzo. Ieri mi ha chiamato il manager di Larry Miller e mi ha chiesto se…» «Larry Miller?! Ma ti sei ammattito, Martin? Quello è uno forte, ma uno forte veramente. Quello mi ammazza Martin, mi fa male sul serio.» Larry Miller era un giovane nero californiano che stava rapidamente scalando il ranking mondiale dei massimi, una promessa. Era un pugile molto tecnico, veloce e possedeva anche una buona potenza. Martin riattaccò il discorso cercando di parlare nel modo più suadente e persuasivo che riusciva ad un vecchio pugile come lui. «Stai tranquillo Ed, per favore fammi finire di parlare. Ieri mi ha chiamato il manager di Miller e mi ha chiesto se tu hai voglia di fare un incontro con Larry. Lui deve combattere per forza tanto, se vuole avere qualche chance per il titolo. Mi ha assicurato che con te ci andrà piano, che non forzerà più di tanto la mano.» «Lo sai meglio di me che queste stronzate si dicono ogni volta, poi, quando ci si ritrova là in cima, sul ring, si combatte sempre sul serio, è matematico.» Martin incominciò a scaldarsi leggermente. «Per la miseria. Ma sei diventato un vigliacco tutto ad un tratto? Il match si farebbe al Garden. Ti rendi conto che cosa vuol dire combattere al Madison Square Garden, cazzo? E per non parlare della borsa. Gli organizzatori metterebbero sul banco ben un milione di dollari. Naturalmente la percentuale più grossa andrebbe a Miller, ma tu ti porteresti comunque a casa qualche centinaio di migliaia di dollari. Un treno così a solo una volta nella vita, lo capisci questo Ed?» Ed non sapeva cosa rispondere, era roso dai dubbi. Certo che se un’occasione così gli fosse capitata qualche anno prima, non avrebbe esitato neanche un

secondo ad accettare. Combattere al Garden… il sogno di ogni pugile che diventava realtà. E poi con una borsa del genere solo un pazzo avrebbe potuto rifiutare. Ma ora era diverso. Si sentiva stanco, finito, privo di munizioni da sparare. «Martin, non so neanch’io che cosa dire. Un’offerta così…» «Ragazzo! Sei forse impazzito?» - tuonò Martin - «Ma come cazzo fai ad essere indeciso di fronte a una valanga di soldi come questa?» «È che sono stufo di allenarmi, prendere cazzotti, farmi male e poi perdere. Perché fino ad oggi le battaglie più importanti le ho sempre perse. E con Larry Miller non so veramente che altro potrei fare se non andare al tappeto. Ho paura, cazzo! Ho veramente paura.» Martin alzò il capo e si mise a fissare con aria assorta il soffitto. «Io non capisco, Ed. Non ti sei mai tirato indietro di fronte a nessuno. E ora ti caghi sotto per questo finocchietto di Los Angeles? Non ti lascerò mandare a puttane un’occasione del genere. Ascoltami, ragazzo. O combatti o sei fuori, con me hai chiuso. Non solo non potrai più entrare qui dentro ma non potrai neanche più rivolgermi la parola. Per me sarai morto. Ci siamo intesi?» Ed sospirò. Martin aveva ragione, doveva combattere, combattere per l’ultima volta, intascare il grano e poi ritirarsi. Ritirarsi sensi rimpianti, senza ripensamenti ed incominciare un’altra vita lontano dalla boxe. «Ok. Chiama il manager di Miller e digli che faremo quest’incontro.» Il vecchio Martin, udendo queste parole, si illuminò ed esplose in un radioso sorriso. «Oh, bravo, bravo ragazzo. Sapevo che avresti fatto la scelta giusta. Domani chiamo e porto a termine le trattative. Tu non preoccuparti che il tuo Martin sistema tutto. Ti faccio prendere un bel po’ di soldini, Ed. Bravo, bravo. Sapevo che ti è rimasto un po’ di cervello dentro quel testone. L’incontro sarà fra circa tre mesi; abbiamo tutto il tempo per prepararci. Non ti preoccupare, andrà tutto bene.» Di lì a qualche giorno iniziarono gli allenamenti. Ed si comportava bene,

eseguiva diligentemente tutti i suoi esercizi, ma senza metterci quella ione, quell’impegno, quella voglia di superare i propri limiti che è tipica di chi vuole arrivare, di chi è determinato a sfondare. Il suo progetto era semplice: sarebbe salito sul ring, avrebbe cercato di concludere il match in piedi, senza rischiare troppo e cercando di farsi male il meno possibile, poi avrebbe intascato i soldi della borsa e si sarebbe ritirato. Semplice.

I tre mesi di allenamento arono in fretta, tra sessioni di corsa e sedute di sparring, e la sera del grande evento arrivò presto. Il Madison Square Garden era qualcosa di straordinario, di monumentale. Entrarci voleva dire essere investiti dalla storia, dalle imprese dei grandi campioni del ato, roba da togliere il fiato. Ora Ed si trovava nello spogliatoio, Martin gli stava facendo gli ultimi massaggi e le ultime raccomandazioni. «Bene ragazzo. Sai quello che devi fare. All’inizio fallo stancare, lascialo sfogare un po’, poi, al momento giusto, chiudilo all’angolo e buttalo giù. Semplice no? Non ci sono problemi. Tutto andrà per il verso giusto stasera, vedrai.» Ed era teso, nervoso. Fino a qualche ora prima era convinto di tentare di portare a casa la pellaccia con il minor sforzo possibile, senza rischiare. Ma ora che era al Garden, e che era entrato in contatto con tutta la sua gigantesca maestosità, si sentiva diverso. Ora sentiva alle mani uno strano prurito, e la voglia di mettercela tutta per portare a casa quell’incontro iniziava ad impadronirsi di lui. Quando fu il momento di entrare nell’arena, Ed aveva già bene in chiaro nella sua testa il tipo di strategia che avrebbe usato quella sera. Non l’avrebbe lasciato sfogare, non gli avrebbe dato il tempo di studiarlo, di prendergli le misure. Avrebbe tentato il tutto e per tutto e, rischiando grosso, gli si sarebbe subito avventato contro con foga, cercando di metterlo al tappeto il prima possibile. O

la va o la spacca, facile no? Ora i due pugili erano al centro del ring. L’arbitro stava dando loro le ultime raccomandazioni di rito. Larry Miller era giovane. Il suo fisico muscoloso ed incredibilmente asciutto e definito incuteva un certo timore, il suo sguardo era freddo e risoluto, senza una traccia di incertezza. Al cospetto del suo più giovane e statuario avversario, Ed, con i suoi trentasei anni suonati, il suo filo di pancetta, e i suoi fianchi un po’ appesantiti, si sentiva leggermente inadeguato. Uscirono i secondi, il gong suonò e l’arbitro gridò «Boxe.» L’incontro era incominciato. Ed mise subito in pratica la sua strategia, si avventò come un cane arrabbiato su Miller e, senza guardare, sparò un potente destro di prima intenzione in faccia al rivale. Un colpaccio lento, caricato, prevedibile ma potente, molto potente. Miller si trovò spaesato, non si aspettava di certo un avvio così deciso da parte di quel vecchio e poco quotato avversario. Si fece sorprendere come un dilettante ed il gancio di Ed Russel lo colpì in pieno, al mento. Il tonfo si sentì fin dalle prime file. Quando Ed riaprì, gli occhi vide Larry Miller lungo disteso a terra, con l’arbitro sopra di lui che lo stava contando. «Uno… due… tre…» «Giù, stai giù, cazzo.» «Quattro… cinque… sei… sette… otto…» «Dai Larry, non fare scherzi. Rimani a nanna, per favore.» Miller si rialzò a fatica, le gambe gli tremavano. «No, no. Che fai Larry? Torna giù, da bravo.»

Ora Larry Miller era in piedi; l’arbitro lo guardava in faccia e gli stava facendo alcune domande per capire se era in grado di continuare l’incontro. Alla fine si decise e, con un gesto della mano, fece segno ai due atleti di ricominciare a combattere. Ed si gettò come una furia contro l’avversario ed iniziò a tempestarlo di colpi. Potenti ganci e montanti, al corpo e al volto, colpirono Larry Miller che non sembrava in grado di reagire. L’arbitro si buttò in mezzo ai due e, agitando in aria le braccia, pose fine allo scontro prima che si trasformasse in un massacro. Ed non riusciva a crederci, aveva vinto. Una vittoria veloce, ottenuta grazie ad un iniziale colpo di fortuna. Ma chi se ne fotteva. Aveva vinto, cavolo. Vittoria, vittoria, vittoria. Che dolce suono aveva quella parola. Corse ad abbracciare Martin che era già saltato sul ring. Lo strinse forte, fino a quasi a soffocarlo. Una volta tanto le cose erano andate bene anche a lui, finalmente.

FIORI

Quel pomeriggio me ne stavo a casa tranquillo, senza pensieri. Ammazzavo il tempo senza sensi di colpa, in quanto, prima o poi, sarebbe stato lui ad ammazzare me. Mi stavo tranquillamente occupando di giardinaggio. Seminavo degli impatiens dentro a un piccolo vaso pieno di terra scura frammista ad un po’ di ghiaino, da mettere alla finestra del salotto. Ero completamento assorto in questa delicata operazione, quando, improvvisamente, sentii il rumore di un motore accesso provenire proprio da sotto casa mia, all’entrata del condominio. Mi affacciai alla finestra e vidi che un grosso furgone era stato parcheggiato proprio davanti alla porta d’ingresso e, da quest’ultimo, tre operai stavano tirando fuori una gran quantità di mobilia ed oggetti vari, che poi facevano rapidamente sparire su per le scale. Evidentemente i proprietari dell’appartamento al primo piano, vuoto da alcuni anni, avevano finalmente trovato degli inquilini. Con la scusa di sistemare il mio vasetto, rimasi ancora un po’ alla finestra a curiosare. Ben presto arrivò una macchina, una berlina scura, dalla quale scesero due persone, un ometto di mezza età ed una ragazza sui vent’anni, che si misero, di buona lena, a dare una mano agli operai nelle manovre di trasloco. «Ecco i miei nuovi vicini» - pensai. Mi venne in mente che non avevo ancora innaffiato il mio vaso. Allora mi diressi in cucina, riempii l’annaffiatoio, e me ne tornai di là a bagnare la terra sotto la quale avevo appena messo i semi. La terra, colpita da quel getto d’acqua, divenne più scura.

Mentre ero alla scrivania a sbrigare del lavoro che mi ero portato dall’ufficio, sentii il camlo suonare. Allora mi alzai ed andai ad aprire la porta.

Erano i nuovi vicini. L’uomo, sulla cinquantina, aveva un aspetto del tutto anonimo. Era piuttosto basso e tarchiato, semicalvo, dagli occhi acquosi. La figlia, invece, era slanciata e alta, più alta del padre, con due occhi scuri penetranti, e coi capelli un po’ mossi, di un bel biondo scuro. «Buongiorno, - fece l’uomo tendendomi la mano - mi chiamo Sergio e questa è mia figlia Linda. Siamo i nuovi vicini.» Gli strinsi la mano. «Lieto di conoscervi, io sono Michele - dissi con un sorriso - Ma prego entrate pure. Posso offrirvi un caffè?» «Oh sì certo, con molto piacere» - rispose Sergio. I due entrarono e si diressero verso il divano. Linda si muoveva con i leggeri e rapidi, e, nel camminare, dava l’impressione di non toccare nemmeno il pavimento. La trovavo molto bella. «Sedetevi pure, non fate complimenti. Io intanto vado in cucina a fare il caffè.» Sergio e Linda si sedettero. Il divano era posizionato davanti alla finestra sulla quale avevo messo il vaso di impatiens, e, andando di là, vidi Linda che lo osservava. Mentre preparavo i caffè pensai ai suoi occhi. Dopo un po’ tornai in salotto, con un vassoio d’argento sopra il quale avevo appoggiato tre tazzine fumanti, una zuccheriera e tre cucchiaini. Appoggiai il tutto sul tavolino e mi sedetti a mia volta. «Beh, -dissi - non posso che augurarvi il benvenuto in questo palazzo. Vedrete che qui vi troverete benissimo. È un posto molto tranquillo.» «Già, - rispose Sergio - spero proprio che sia tranquillo. Deve sapere che io e mia figlia veniamo da un piccolo paese sulla costa calabrese. Non siamo abituati al frastuono e al caos della città.» «Oh, non si preoccupi, vedrà che qui non avrà problemi. Ma… se non sono troppo indiscreto… posso chiedervi perché avete deciso di trasferirvi proprio in questa città?»

Fu Linda a rispondermi, ed io potei sentire per la prima volta la sua voce. Era calda, rassicurante ed armoniosa. Una bella voce, insomma. «Ci siamo trasferiti per me. Devo frequentare un corso presso l’università di questa città.» «Ed io l’ho seguita - le fece eco Sergio - Vede, io sono rimasto vedovo da poco, così, per non rimanere solo ad affogare nei ricordi, sono venuto via di casa anch’io.» «Caspita mi dispiace, - dissi - vi faccio le mie condoglianze. Comunque penso che abbia fatto bene a trasferirsi; spesso è più saggio allontanarsi il più possibile dal ricordo.» Sergio annuì pensieroso. «E tu che cosa fai nella vita, come lavoro?» - mi chiese Linda rompendo il silenzio che era venuto a crearsi. Fui sorpreso dalla naturalezza con la quale mi parlava, dalla confidenza che subito mi aveva concesso dandomi immediatamente del tu. «Oh, niente di particolare. Lavoro per una grossa casa editrice. Faccio il correttore di bozze sostanzialmente.» «Sembra un lavoro interessante» - osservò Sergio. «Sì, a volte lo è. Ma per lo più è noioso» - dissi io. Seguirono altri istanti di silenzio. «Bene, ora dobbiamo proprio andare. Sono stato molto lieto di fare la sua conoscenza.» Così dicendo, Sergio si alzò e si diresse verso la porta. Linda rimase seduta sul divano per qualche altro istante, poi si alzò anche lei e raggiunse il padre all’ingresso. «Vi saluto, allora. Grazie per la visita.»

«Grazie a lei» - disse Sergio uscendo. «Ciao» - disse Linda ed uscì anche lei. Rimasto solo andai a dare un’occhiata al mio vasetto. Dei germogli verde chiaro stavano lottando per vincere il peso e la pressione della scura terra che li copriva. Erano estremamente fragili e delicati, ma anche, allo stesso tempo, forti di una implacabile e risoluta volontà di vedere la luce per la prima volta.

arono un paio di settimane. In questo periodo non vidi più né Linda né suo padre. Evidentemente eravamo tutti troppo occupati a vivere la nostra quotidianità. Poi un giorno, per caso, incontrai Linda. Stavo tornando a casa dal lavoro e, casualmente, ero a piedi. Lei era seduta al tavolino di un bar, all’aperto, da sola, a sorseggiare una bibita. Mi sedetti anch’io al suo tavolo, di fronte a lei, senza chiederle il permesso. «Ciao» - le dissi. «Oh, ciao» - rispose lei, alzando gli occhi un po’ sorpresa. «Allora come ti trovi qui?» «Abbastanza bene, devo dire. Però ammetto che a volte sento un po’ la nostalgia di casa.» «Penso sia normale. Anche perché immagino che tu prima abitassi in un posto davvero splendido.» I suoi occhi si fecero sognanti, sembravano guardare cose a me invisibili. «Uh, splendido è dir poco. Casa mia è veramente un posto fantastico. Faccio veramente fatica anche solo a trovare le parole giuste per parlarne. Lì splende quasi sempre il sole e fa sempre caldo, ma è un caldo che non ti soffoca, un caldo dolce in un certo senso, un caldo che quasi ti coccola... poi il c’è il mare… beh… il mare non riesco proprio a descrivertelo.»

Sorrise e rimase in silenzio, a ripensare al mare e al caldo e al suo paese. Io, per qualche minuto, la seguii in questo suo silenzio, poi le chiesi: «E all’università come va? Ti piace il corso che stai facendo?» Alle mie parole ebbe un piccolo sussulto, come se si ridestasse da un sogno. «Sì, mi piace molto. C’è molto da studiare però, e non mi rimane il tempo per fare quasi nient’altro.» Io, istintivamente, senza pensare, la presi per una mano e la guardai negli occhi. Lei rispose al mio tocco e, a sua volta, prese la mia mano. Sentii sulle dita una pressione delicata ma, allo stesso tempo, decisa. La guardai negli occhi e le sorrisi. «Ora devo andare» - dissi un po’ imbarazzato. Mi alzai e la salutai dicendole: «A presto». Poi mi diressi verso casa. Entrato nel mio appartamento andai verso la finestra del salotto per controllare la mia piantina. Erano sbocciati i primi fiori. Erano di un bianco un po’ sporco, con i petali sottili e delicati, di forma un po’ irregolare. Gli trovai davvero belli.

Trascorse qualche altro giorno senza che io Linda ci vedessimo. Poi, un sabato pomeriggio, mentre stavo sonnecchiando sul divano, improvvisamente, suonò il camlo. Andai ad aprire; era Linda. «Ciao, - mi disse - avevo un momento libero e sono ata a salutarti. Spero di non averti disturbato.» «No, -risposi - non mi disturbi affatto. Non stavo facendo niente neanch’io. Ma ti prego entra. Accomodati pure sul divano.» Linda entrò, sempre muovendosi con quei suoi i leggeri e rapidi ed anche decisi, e si sistemò sul divano. Io andai ad appoggiarmi sul davanzale della finestra, accanto ai miei fiori. «Posso offrirti qualche cosa da bere?» - le chiesi.

«No, non prendo niente. Grazie lo stesso» - mi rispose. Stemmo entrambi per un po’ in silenzio, poi lei mi chiese: «Hai detto che lavori per un casa editrice, giusto?» «Sì» - risposi - «mi occupo di correzione di bozze, editing ed altri lavori abbastanza noiosi.» «Ma oltre a questo, scrivi anche? Qualcosa di tuo intendo.» «Vuoi sapere se sono uno scrittore? Oh no, non ho mai scritto niente.» «Perché no?» - mi chiese. «Mah… non mi sono mai posto questa domanda, a dire il vero. Credo di non aver mai scritto niente perché penso di essere uno che vive la vita e le emozioni troppo intensamente, mentre, per descrivere bene le cose, credo che occorra essere più freddi e distaccati. Ma questo è solo un mio pensiero; probabilmente non sono mai stato uno scrittore solo perché non ho abbastanza creatività.» «Penso tu abbia ragione» - disse e prese a guardarmi negli occhi. Sostenni il suo sguardo per un po’, poi mi girai verso il vaso e staccai un rametto dalla piantina. Un rametto bello lungo che aveva attaccato alla sua estremità un fiore. Mi avvicinai a Linda e le misi quel fiore tra i capelli, mi sedetti accanto a lei sul divano, l’attirai a me e la baciai. La sua bocca sapeva di speranza, terra e ione. Gustai quel bacio come l’acqua nel deserto. Quando ci staccammo guardai verso la finestra. I miei fiori erano davvero belli, dei fiori di vetro bianchi con l’azzurro del cielo come sfondo. Baciai Linda di nuovo. Ero felice.

RITORNO

Si svegliò in un letto d’ospedale. Dalla finestra vedeva il verde della vegetazione del giardino. Alberi, foglie e fiori colorati. Le tende erano tirate ed un tiepido raggio di sole gli batteva sulla faccia, senza però abbagliarlo. Si sentiva molto intontito, una generale sensazione di intorpidimento lo avvolgeva, la gola era secca, in bocca un forte sapore amaro. Si avvicinò a lui un’infermiera di mezza età, vestita di bianco. Gli occhi di lui seguirono il suo spostamento, ma lui non dette l’impressione di vederla. «Si è svegliato? È stato in coma per due giorni. Fortuna che è stato portato qui in tempo. Se tardavano un altro po’ a farle la lavanda gastrica, ora si troverebbe praticamente senza fegato e reni. Ma quante pillole ha preso per ridursi così, benedetto ragazzo?» Lui la fissò ma non le rispose. Cosa aveva fatto? Come aveva potuto essere tanto sciocco, tanto presuntuoso ed arrogante? Credere che il mondo ce l’avesse con lui: che disgustosa dimostrazione di tracotanza. Il mondo non ama e non odia nessuno. Non si cura della felicità o dell’infelicità dei suoi abitanti, lui gira e va avanti per sé. Non c’è uomo alcuno tanto grande da suscitare il suo interesse o il suo accanimento. Il mondo distribuisce fortuna e rovina a caso, senza logica. Non vi è alcun motivo per cui un uomo, colpito per lunghi anni dalla malasorte più nera, non possa un giorno sperare di godere della più rosea fortuna. Il segreto è proprio questo: aspettare, sperare e resistere, dando tempo alla vita. Se non si concedono giorni alla vita, quest’ultima non potrà mai premiarci. Si sistemò il cuscino e le coperte e si mise più comodo. Chiuse gli occhi. Era riuscito a sopravvivere a sé stesso. Ora, probabilmente, avrebbe vissuto in eterno.

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