UBERTO CERETOLI
IL SIGILLO DEL FUOCO I QUATTRO SIGILLI – LIBRO III
Youcanprint – Self Publishing
Titolo | Il sigillo del fuoco Autore | Uberto Ceretoli ISBN | 9788891135438 Prima edizione digitale: 2014
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
[email protected] www.youcanprint.it
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
PARTE VII
La più grande debolezza degli elfi? Essere privi di debolezze. Aforismi - Éireamhón, profeta elfico
I – Il coraggio perduto
Sono allo stremo delle forze. Seguo il mio coraggio da così tanto tempo che non bramo più riprenderlo, quanto capire dove stia fuggendo. Volteggia nel cielo, è una diafana liquescenza che non accenna a fermarsi: dopo la fuga dalla piana di Antioch ha valicato le Alpi di Yorak, sfiorandone le vette imbiancate, controvento, ed è sceso sui pendii ricoperti dalla neve e dalle nubi; ha raggiunto il fiume Camar e ne ha seguito l’alveo tortuoso, ha serpeggiato tra lugubri boschi di aghifoglie schiacciate dalla neve ed è giunto sino a foreste scheletriche di latifoglie inghiottite dalla bruma. L’inesplicabile volo del mio coraggio non mi concede tregua: di giorno è un cirro di seta che sguscia nel cielo malaticcio dell’inverno, la notte è uno strascico dai vibranti riflessi che scintilla tra le pieghe dell’oscurità. Ora l’impalpabile scia è stata inghiottita dai miasmi della palude di Gòlmas dove, imputridita dalla foschia marcescente, si ferma a coalescere sopra una costruzione indistinta, un agglomerato di pietra bruna che spicca tra gli alberi contorti e la melma. L’inseguimento sembra concluso e mi concedo il tempo di osservare questa plaga sconvolgente, un luogo come credevo non ne esistessero più nel mondo dominato dai tristi esseri mortali: fatiscenti catapecchie appoggiate a bubboni di terra e basalto affiorano tra melma e sabbie mobili, costruzioni ridicole e primitive abitate da mostri della medesima risma, esseri indegni e disgustosi che mani impietose non hanno stritolato; la penombra di Gòlmas è densa, scura, l’aria è pestilenziale, gli alberi contorti e malati. Questo luogo è putrido e malsano come pochi altri; è una plaga degna di essere
governata. Quando la nebbia si dirada e il mio incedere mi reca presso di lei, posso ammirare la costruzione più grande della palude, la struttura di pietra, un prodigio le cui vestigia disvelano una lingua tanto antica che è pronta a risorgere. Mi avvio verso il portone dell’edificio dove si è raggrumato il mio coraggio, ne afferro il bronzeo battente tra le unghie e busso con un colpo leggero. * Il Terzo Cantore si concesse una pausa per gustare la battaglia di Antioch descritta dai sentimenti perduti di coloro che l’avevano combattuta; rientrato nella sua camera con un librone, lo appoggiò sulla scrivania e accese il candelabro per avere maggior luce. Il tomo era stato appena terminato dal Terzo Rilegatore ed era spesso una spanna e aperto occupava metà della scrivania. Il Terzo Cantore spostò su uno sgabello a tre piedi la teiera che si era fatto portare prima di recuperare il librone e riempì d’acqua calda la tazza di maiolica, affogandovi le erbe e una zolletta di zucchero. Pace finalmente. Fece tintinnare il cucchiaino, quindi sorseggiò l’infuso assaporando il tepore dell’acqua aromatizzata da foglie di menta, nocciolo e timo. Cosa macchinano gli Anziani di Kaerwood? Ripose la tazza sopra il piattino, tornò alla scrivania e aprì il volume. Chi non darebbe le sue ricchezze per conoscere le verità intime precluse ai molti? Quanto vale sapere che Maldock “il Coraggioso” ha provato paura nell’affrontare l’eroe degli orchi Ghar Emrar ma che ha preferito la morte all’idea di ritirarsi? Quanto può valere sapere una cosa del genere... e quanto conoscere ciò che ha reso immortali gli eroi di Arhanien? Si ò le dita sulla nuca per afferrare una ciocca dei lunghi riccioli scuri e cominciò a torturarla, avvolgendola intorno all’indice. Un istante prima che si gettasse nella lettura, un rumore sordo lo distrasse e il tintinnio del cucchiaino sulla tazza lo insospettì. Uno schianto più rumoroso del precedente fece tintinnare tutte le porcellane.
Il Terzo Cantore aprì la porta ogivale e si affacciò sul corridoio; attese nella penombra delle pareti di pietra e, dopo un terzo schianto, si diresse verso l’uscita. Il Secondo Scaffaliere sbucò da un angolo e lo urtò per la fretta. «Eccellenza, abbiamo un problema» si scusò. «Lo sento, grazie. Ci stanno assediando con dei trabucchi?» Domandò con un sorriso di fiele. «Si tratta di un visitatore pericoloso» confidò il ragazzo dalla testa calva, trafelato. «Allora, non esistono visitatori pericolosi. Esistono soltanto visitatori: nessun visitatore pericoloso ha mai trovato la Biblioteca di Gòlmas.» Giunse il rumore di vetri infranti dal refettorio. «Egli vuole che usciate, eccellenza. Quando ha bussato la prima volta gli abbiamo detto che deve essere lui a entrare, ma egli non ha voluto saperne delle nostre regole: ha preso un albero e ha cominciato a picchiarlo contro le pareti.» Due bifore andarono in frantumi. «Allora, chi è tanto stolto da disturbare la quiete della Biblioteca dei Sentimenti Perduti? Chi è il barbaro che mostra un’improntitudine di tale proporzione?» Urlò mentre si avvicinava alla porta d’entrata, divelta. «Annunciati e mostrati» il cantore uscì all’aperto. Sembrava che un ciclone avesse sconquassato l’isola su cui era edificata la biblioteca: le mangrovie e i salici erano sradicati, i giunchi e le canne inghiottiti da onde di melma. Gli scaffalieri stavano come un gregge abbrancato da un cane pastore. «Sei tu il padrone di questi patetici schiavi?» La sagoma dello straniero e la sua voce infida emersero dalla nebbia, ingigantite dalla penombra. Ecco, questo è uno straniero pericoloso, pensò il cantore mentre gli scaffalieri indietreggiavano a ogni o dello straniero sino a terminare alle proprie spalle.
«Io sono il Terzo Cantore ma non sono un padrone e costoro non sono miei schiavi. Cosa vuoi?» «Pare che voi topi di biblioteca abbiate rubato il mio coraggio: lo rivoglio» lo straniero gettò il tronco della mangrovia usato come ariete dentro la palude, si avvicinò al cantore e lo disgustò con il proprio mefitico alito. «Allora, non lo abbiamo rubato, sei tu che lo hai perso: noi lo custodiamo soltanto. E lo facciamo con i sentimenti di tutti.» «Ebbene, ridatemelo o sarò ancora più scortese di quanto sia già stato.» «Devi entrare nella biblioteca e cercarlo, da solo, come tutti hanno sempre fatto, come fanno, e come faranno sempre. Così è scritto che sia. Noi possiamo aiutarti ma dovrai essere tu a cercarlo perché queste sono le regole della Biblioteca dei Sentimenti Perduti.» «Regole!» Lo straniero sghignazzò. «Immagino che non siano concesse eccezioni» tornò serio. Il Terzo Cantore valutò la risposta a lungo. «Sono mortificato ma non ci è consentita alcuna deroga. Tu devi entrare, tu devi cercare, tu devi trovare.» «E chi sarebbe colui che vi ha imposto tali regole? Forse una sua intercessione renderebbe le cose più semplici.» «È la tradizione. Non è importante chi abbia posto le regole perché esse gli sopravvivono.» «Capisco… vorrà dire che dovrò essere più persuasivo di questa vostra tradizione» gli occhi dello straniero baluginarono erubescenti ed egli fissò gli scaffalieri, uno a uno, poi si rivolse a un ragazzo segaligno che non aveva ancora compiuto vent’anni. «Tu, chiodo, come ti chiami?» «Non ho più un nome, sono il Settimo Scaffaliere» il ragazzo balbettò e il gruppo fece un o indietro, isolandolo. «Bene, Settimo Scaffaliere, rientra e portami il mio coraggio: da adesso sei alle mie dipendenze.»
Lo scaffaliere ebbe un sussulto ma fissò il volto serio del Terzo Cantore e non cedette alla minaccia. «Io veramente… ecco, sono desolato ma non posso obbedirvi.» Lo straniero sospirò e parve cedere, poi allungò il collo squamoso e ghermì il giovane con i denti affilati, diede uno strattone al corpo che si dimenava, lo scaraventò in alto, lo afferrò di nuovo, lo spappolò e l’inghiottì. Gli scaffalieri rimasero pietrificati dalla paura ma l’indignazione del Terzo Cantore lo fece urlare e scattare verso lo straniero. «Questo tuo comportamento è inammissibile, sei un pazzo che non ha idea di quello che ha fatto!» Il drago ruttò, un braccio insanguinato gli sgusciò fuori dalla bocca e cascò sull’erba giallastra; il puzzo del sangue e dei succhi gastrici coprì quello dell'umidore mortifero della palude. «Ascoltami bene, Terzo Cantore, perché non hai inteso ciò che ho detto. Io confidavo che un empito di saggezza ti convincesse a fare un’eccezione piuttosto che obbedire a regole controproducenti, ma così non è stato. D’ora in avanti la Palude di Gòlmas sarà il mio regno e voi, e tutti coloro che vi dimorano saranno miei sudditi. Adesso tornerete alle vostre polverose cartacce e recupererete il coraggio che ho perduto, tutti quanti. Ulteriori detrattori saranno trattati alla stregua del defunto e superfluo Settimo Scaffaliere. Sono stato abbastanza chiaro o c’è qualcuno che non ha compreso gli ordini?» Nessuno ha mai osato tanto, il Terzo Cantore tremò per la rabbia, guardò gli scaffalieri e li immaginò fatti a pezzi dal drago, poi fissò l’amata Biblioteca e l’immaginò con i muri frantumati, le pagine dei libri imputridite nell’acqua e i sentimenti persi per sempre. Devo guadagnare tempo. «Allora straniero, per trovare il tuo coraggio dobbiamo sapere qual è il tuo nome» domandò disgustato. Mi occorre un trucco, sì, un trucco. «Come mi chiamano?» «Esatto, senza un nome non è possibile recuperarne alcunché.» Il drago alzò il mento e il collo sinuoso e guardò il cielo di metallo che ruggiva in lontananza. «Tenete bene a mente il nome del vostro nuovo padrone, perché non mi ripeterò. Io sono Gorogol, Gorogol delle Scaglie Nere.»
Tu possiedi un dono troppo prezioso perché non venga coltivato. Tu sei un mago istintivo, tu riesci a comunicare con il mana senza formule. Il tuo dono può concederti di apprendere gli incantesimi dalle tracce che questi lasciano nella forza magica. Tu puoi domandare alla natura di piegarsi ai tuoi voleri spingendoti oltre i limiti che frustrano tutti noi miseri maghi. Di individui come te ne nascono uno ogni millennio! Ebbene, mio caro Gabriel, io posso iniziarti all’Arcana Arte e insegnarti tutto ciò che conosco, ma non fatico a credere che non ci vorranno lustri come con un normale apprendista. No, lo so bene, io ti mostrerò un incantesimo e tu riuscirai a replicarlo ascoltando le formule e replicando i movimenti. Un giorno non lontano realizzerai che non sono abbastanza preparato per trasformarti nel mago che meriteresti: quando verrà quel giorno io sarò soltanto un impedimento. La tua strada sarà più gloriosa della mia, poiché sei destinato a diventare il mago più potente di Arhanien. Ecco, prendi questa, è una lettera di presentazione. Dovrai recarla a Mirgram di Leboran, un vecchio amico che insegna presso l’Università di Amaradantis: quello è l’unico luogo dove potrai migliorarti. Inoltre Mirgram ha un debito con me e ti darà tutto l’aiuto di cui hai bisogno. Ricorda una cosa, tuttavia, e ricordala bene: non dovrai rivelare il tuo dono a nessuno, non dovrai esporti, non dovrai prendere le parti di nessuno e non dovrai mostrare di eccellere. I maghi tradizionali, la stragrande maggioranza dei praticanti di arti magiche come io sono, odiano i maghi spontanei: i tuoi orizzonti sono così vasti che essi non riescono neppure a immaginarli. Diffida dei professori e non confidarti neppure con gli studenti: l’Università di Amaradantis è un covo di serpi velenose e di checche invidiose che con una mano si complimentano e nell’altra reggono un pugnale. Per ogni praticante dell’Arte Arcana, tu sei pericoloso: tienilo bene a mente e agisci di conseguenza. Consigli - Yowen
II – Amaradantis
Un carro trainato da due buoi arrivò davanti a una casa dalle facciate a graticcio, posta sull’angolo del cardo che portava verso Ponte dei Ratti e una strada soffocata da bancarelle che pullulava di gente nonostante il Vaenert, il vento inclemente del nord. «Proprio in un quartiere tanto trafficato dovevi prenderla?» Il terraltiano che guidava il carro lo fermò; l’uomo, una quarantina d’anni e un viso tondo pieno di frinzelli, indossava un mantello di bue muschiato che gli arrivava a metà del kilt. «Era l’unica abbastanza grande e libera subito, Llywelyn, ma se non ti piace sei libero di farti tagliare la gola in una taverna malfamata» Gabriel, il ragazzo dai capelli neri che gli sedeva accanto sulla cassetta, scese con un balzo. Dietro di lui, nel carro colmo di sacche e casse, una fanciulla, una bambina e un giovane terraltiano si lasciarono andare a risa cristalline. «Almeno è in buono stato» gli occhi piccoli e chiari di Llywelyn osservarono i muri di grosse pietre e il tetto spiovente di tegole scure retto da belle travi; gli abbaini erano antichi ma avevano gli scuri ben chiusi, le finestre del primo piano erano tappate dalle assi, quelle del pianterreno erano poco più grandi di feritoie e la porta di quercia appariva solida. «O così sembra» il terraltiano batté le mani per scaldarle. Il ragazzo disfece con i piedi una gobba di neve accatastata davanti alla porta. «Lo è più delle vostre case tozze dalle pareti di legno e dai tetti di scandole. Caen, tira giù le casse per favore» armeggiò con i lucchetti e i chiavistelli. Il giovane terraltiano scese dal carro, aiutò prima la fanciulla, Elisabeth, poi la sorellina, Marian, e quindi obbedì agli altri ordini. Dalla folla che sciamava fuori dalla viuzza emersero due soldati a cavallo e si avvicinarono al carro; le guardie indossavano una surcotta a strisce gialle e rosse sopra un’armatura di pelle, portavano una spada, una cervelliera e lo scudo di legno era legato alla sella. «Tutto bene signori?» Domandò il più anziano, un uomo di cinquant’anni con la barba ispida. «Tutto bene soldato, stiamo solo traslocando» Llywelyn fece un saluto militare. «Sì, questo lo vedo anche da solo. Da dove venite?» Domandò ancora la guardia,
a muso duro. Rispose Gabriel. «Veniamo da Eskiliar, siamo qui per affari.» I cavalli sbuffarono, irrequieti. «Immagino che non avrete difficoltà a mostrarmi l’atto di locazione» il soldato più giovane, i connotati ravvicinati al centro di un viso laido e sproporzionato, spostò il cavallo verso Gabriel, strattonando le redini. «Non ho alcuna difficoltà, sono un onesto suddito» Gabriel estrasse una pergamena dalla gabbana e la consegnò alla guardia, che ne lesse soltanto l’indirizzo e le firme. «Addirittura comprata? Dovete essere molto ricchi per permettervi una casa in questa zona» la diffidenza del soldato si trasformò in stupore. «Il carro non ci rende giustizia, in effetti» si affrettò ad aggiungere Llywelyn, sdrammatizzando con una grassa risata. La guardia più anziana guardò i kilt dei terraltiani con sospetto. «Voi due siete del nord.» «Siamo mercenari. Anzi, lo eravamo. Comunque veniamo da Eskiliar» ribadì Llywelyn mantenendo un tono innocente e bonario. «È vero quel che si dice?» La guardia si avvicinò al terraltiano, credendolo a capo dell’insolito gruppo. «Che si dice... a proposito di cosa?» La guardia sbuffò. «A proposito di Alesia, la Perla delle pianure: dicono sia caduta e che gli orchi siano arrivati sino ad Antioch.» «Si dice il vero, ma il popolo della montagna ha resistito e gli orchi sono stati sconfitti» precisò Llywelyn. «E Alesia?» «La Perla delle pianure è in mano agli orchi» s’intromise Gabriel. «E vi rimarrà
perché il Regno di Alesia ha perso molti nobili e tutti i reparti della Legione: non c’è altro da dire. Gli orchi sono stati decimati e non attaccheranno Eskiliar, è già molto se riusciranno a difendere le terre che hanno conquistate. Ora, se volete scusarci...» Gabriel allungò la mano per recuperare l’atto di locazione. La guardia più anziana si voltò verso il compagno, sogghignò e gli ò la pergamena. «Io non sono molto convinto che questi documenti siano in regola. Tu che ne dici?» Il giovane rigirò la pergamena sopra e sotto e finse stupore. «Io non ci capisco niente: non so leggere.» «Allora è meglio portarli al comando e fare qualche controllo. Approfondito.» «Sei spietato» il giovane finse sdegno. «Potrebbero rimanere dei giorni in prigione per un banale controllo! Certo che se non ti convincono...» guardò Gabriel e i membri della sua compagnia. «Forse avete altro che può convincerci della bontà del vostro documento, qualcosa di più pesante e con valore maggiore.» Caen stava per intromettersi ma Llywelyn ne bloccò sdegno e impeto sul nascere. Gabriel guatò con rabbia i soldati, estrasse una sacchetta di pelle dalla nera gabbana e la gettò al più infido dei due. «Credo che bastino.» L’anziano fece tintinnare la sacchetta e fece cenno al giovane di rendere la pergamena. «È sempre un piacere aiutare sudditi in difficoltà. Buona giornata» le guardie diedero di sprone e si allontanarono tra la folla. «Buona giornata anche a voi» dissero a mezza voce gli uomini del gruppo. «Maledetti farabutti» si arrabbiò Caen appena le guardie scomparvero tra la folla. «Benvenuti nell’Impero Malgiusiano» chiosò Gabriel. «Spero che Giulius VII li mandi al fronte per prendere le terre che furono di Alesia. Voi due invece» guardò in tralice i mercenari «non vi avevo detto di mettervi i calzoni? Quel tartan dà troppo nell’occhio: blu, verde, rosso, bianco, troppi colori.»
«Dà troppo nell’occhio per cosa?» Domandò Caen, offeso. «Sono i colori del mio clan!» «Non voglio altre complicazioni come queste» Gabriel aprì il penultimo lucchetto. «Fatti fare un paio di calzoni.» «Che ne dici di farci entrare invece di blaterare sciocchezze sui nostri abiti? Non è colpa nostra se la corruzione degli ufficiali è a questi livelli» Llywelyn raggiunse Gabriel, che spalancò la porta ed entrò, seguito dalle cugine. Nella sala c’era odore di vecchiume. Un tavolo rotondo con sei sedie stava al centro ed era illuminato a malapena dalla luce che s’insinuava nelle feritoie. Gabriel creò una sfera di fuoco e la scagliò verso il camino, lacerando la penombra e accendendo saggina e ceppi. «Al pianterreno c’è un salone e una dispensa» indicò una porta chiusa sulla parete a sinistra dell’entrata, prospiciente le scale. Dentro la stanza c’erano armadi e cassapanche alle pareti, mobili coperti di polvere e ragnatele. Il tiepido profumo della legna si diffuse nella stanza, stemperando l’umidità accumulata in anni di abbandono. «Le scale portano alla cantina e sopra ci sono tre camere: una la occuperanno Llywelyn e Caen, l’altra è per voi due» disse alle cugine. «La più piccola è riservata a me, non dovrete mai entrarci, nemmeno a pulire. All’ultimo piano c’è un solaio pieno di cianfrusaglie.» I terraltiani portarono i pacchi e le casse dentro la casa e li accatastarono lungo le pareti. «Ti ringraziamo per aver pensato a noi, ma gli accordi presi terminano oggi» Llywelyn si riposò dopo aver traslocato una grossa cassa. Elisabeth guardò Caen ed egli ricambiò il sospiro. «Ma non ha senso che andiate via» disse con voce strozzata la giovane e bella cugina di Gabriel: «i reclutamenti non cominceranno a primavera? Cosa farete nel frattempo?» Llywelyn mugugnò, si rialzò e uscì a prendere un nuovo baule; quando rientrò, buona parte delle casse e delle credenze erano aperte e gli oggetti fluttuavano nell’aria ando dalle prime agli scaffali delle ultime.
Le dita di Gabriel danzavano nell’aria e comandavano le mani invisibili che trasportavano gli oggetti. «Vi garantisco vitto e alloggio fino a primavera» gli scatoloni rimasti chiusi cominciarono a svuotarsi, creando un vortice di oggetti che fluttuavano nel salone. «In cambio eviterete che le mie cugine facciano brutte amicizie.» Un orgoglioso guerriero delle terre alte costretto a far da balia, Llywelyn storse il naso, guardò Caen e fece un no vistoso con la testa; il giovane gli rispose invece annuendo, entusiasta. Il mercenario sospirò, cedette e allungò la mano al mago, che ricambiò. «Allora affare fatto.» «Bene, è ora che ci salutiamo» Gabriel si mise a tracolla la sacca dove teneva la sua roba. «Dove vai?» Domandò Marian, preoccupata. «Vado a vendere il carro coi buoi e poi a iscrivermi all’Università, come avevo detto» le diede un buffetto sul naso. «Ogni momento che perdo è prezioso.» «Anche mio papà è morto in battaglia per cercare ricchezza, Gabriel: la conoscenza che cerchi è più preziosa che stare con noi?» Le parole di Marian ferirono Gabriel più di una pugnalata. «Tornerò di tanto in tanto, te lo prometto, e poi l’Università è aperta alle visite, potrai venirmi a trovare quando vorrai. Ti prometto che starò via solo per apprendere gli incantesimi che mi servono per dominare il fuoco» Gabriel la rassicurò, salutò e uscì prima di dover affrontare altre spiacevoli verità. Il mago portò il carro con i buoi da un mercante cui lo vendette a un prezzo onesto e si diresse verso l’Università, nei quartieri più antichi di Amaradantis. La capitale dell’Impero Malgiusiano era un groviglio di costruzioni di differenti stili e materiali. La parte centrale di Amaradantis, la Città Vecchia, aveva edifici di pietre calcaree e di granito che rosseggiavano a ogni tramonto: la maggior parte delle abitazioni erano addossate le une alle altre, piccole e modeste, mentre gli edifici pubblici e i palazzi dei nobili giganteggiavano in splendore e altezza. La Città Nuova, sul limitare della quale si trovava la casa di Gabriel, era invece un susseguirsi di edifici dal gusto gotico, casupole con le facciate a graticcio, opifici militari e condomini in grezzi mattoni d’argilla, torri e tratti delle antiche mura inglobate in strutture più complesse, sfarzosi palazzi rivestiti di marmo e
travertino. Il giovane mago scivolò tra la folla sino ad arrivare al centro del mercato, una piazza dal pavimento di blocchetti di porfido con al centro la statua di Giulius I: il monumento, un gigante di marmo bianco, ritraeva l’Imperatore con la spada sguainata e lo scudo ai piedi, ed era alto quanto i sei piani del palazzo della Gilda dei Mercanti, che gli rimaneva alle spalle. Gabriel si infilò sotto i portici della Gilda, interdetta alle bancarelle e affollata da crocchi di borghesi che discutevano accanto alle colonne di marmo. Il calore sprigionato dai bracieri e i profumi delle spezie dei banchi fecero dimenticare al giovane mago l’inverno inoltrato ma, dopo i cento i necessari a percorrere due lati dell’edificio, Gabriel ripiombò nella fredda e umida realtà. Il giovane si strinse nella nera gabbana, si diresse verso la Città Vecchia e prese un borgo deserto e silenzioso, chiuso da dimore massicce ma ingentilite da balconcini e verande variopinte. La casa più appariscente era un edificio a tre piani sormontato da una cupola tonda con trifore scolpite nell’arenaria e ballatoi sospesi e colmi di piante; a dividere i piani restava una decorazione perimetrale di pietre quadrate bianche alternate a gemelle nere; dietro la sagoma della casa si ergeva una torre realizzata con marmo bianco e nero, un capolavoro di archi e colonne che sfidava le altre torri in virtù della raffinatezza. Gabriel ammirò la casa e lo stemma posto sulla porta, una serpe che stritolava un leone, il blasone dei Mazzenstein-La Tour. Il giovane riprese il cammino e seguì il vicolo, che si piegava verso destra e si gettava nel quartiere dell’Università. * «Amaradantis è chiamata la Città dalle Centoventi Torri. Non trovi affascinante come l’ingegno degli esseri umani influenzi anche i linguaggi delle genti?» La voce calda e antica del rettore dell’Università di Magia ne riempì l’ufficio. «Ed è affascinante, maestro Mirgram: l’uomo brama lasciare la propria impronta sul mondo e ha compreso che le parole possono sopravvivere alla pietra.» Il rettore annuì alla risposta mentre una penna d’oca correva su un foglio e s’infilava nel calamaio, appuntandone i pensieri.
È un ragazzo appena fatto adulto, è magro ma in buona salute. Veste abiti scuri e modesti, ma puliti. Durante la chiacchierata che abbiamo fatto, l’ho esaminato a fondo, senza trovare quei comportamenti strambi o quei segni di tensione che suggeriscono di scartare il candidato. Siede con le mani alle ginocchia nonostante i comodi braccioli, e ha le gambe unite, ferme. È composto e c’è una certa inquieta regalità nella postura. La voce è l’unica cosa che mi ha lasciato perplesso: non è quella entusiasta di un fanciullo che deve affrontare il futuro ma piuttosto quella disincantata di un uomo che fa i conti con il ato. Il che, in un ragazzo di nemmeno diciassette anni, è abbastanza curioso. Nonostante l’età avanzata confido che possa diventare un buon mago. Yowen, amico mio, hai fatto un buon lavoro. Mirgram di Leboran era un uomo alto e rigido; aveva un’età inarrivabile agli umani del suo tempo e il mana che gli scorreva nelle vene lo ringiovaniva di lustri. «Ebbene, visto che sei nuovo di Amaradantis, te ne illustrerò la vera, duplice natura. È bene che tu sappia che questa città, benché non ne abbia l’aspetto, è un campo di battaglia. Chiunque cerchi pace e tranquillità, ovviamente è giunto nel posto sbagliato: nella capitale nobili e patrizi si affrontano erigendo torri che ne riflettono il prestigio e il benessere. Sei nel bel mezzo di una guerra dove i colpi scorretti e i sotterfugi vengono condonati poiché recano lustro alla città più bella dell’Impero» si massaggiò il bianco pizzetto. «È incredibile che questa sia la vera storia di una città dominata da centoventi capolavori.» Un sorriso ironico diede luce al volto smagrito del rettore. «In realtà sono centoventotto, da ieri mattina. È terminato il tempo nel quale i blasoni rivaleggiavano con le armi, ora c’è Arte, non più stolida barbarie. Ovviamente questo criterio pacifico e raffinato di competizione ha fatto dell’Impero la culla della civiltà umana: fioriscono la pittura, la metallurgia, l’edilizia; dove un tempo c’erano spade, armature e soldati, ora puoi ammirare stucchi, affreschi, marmi e artigiani; dove un tempo finivi appestato dal tanfo delle bestie e dall’afrore di sangue e sudore ora l’aria è sana e profumata di incenso e spezie.» Mirgram si alzò dallo scranno di quercia di palude e andò alla trifora che dava luce allo studio. Il silenzio scolpì nel cuore del rettore ciò che il ragazzo gli aveva raccontato prima della vaga chiacchierata sulla capitale.
«Un tempo Amaradantis era a fianco del fiume, sulla riva destra, uno spicchio della zona che oggi viene chiamata Città Vecchia e, tra le due ampie anse, si trovavano le Gilde e i palazzi del governo. Ovviamente con il are degli anni e dei secoli, la città si è espansa anche sulla riva sinistra, dove adesso gravitano gli affari degli artigiani e un mercato che attira gente e merci anche dai Regni Liberi e dalle montagne dei nani. Non credere che io pecchi in presunzione ma se cerchi qualcosa, al mercato di Amaradantis la troverai. Puoi immaginare una tale ordinata magnificenza?» Mirgram teneva le mani giunte dietro la schiena ma non riusciva a tenerle ferme; i capelli bianchi erano raccolti in una foresta di treccine che arrivavano alla cintura. «Lo terrò a mente maestro. C’è qualcosa che vi turba?» Caro amico, la torre che disegnasti non è rimasta la più alta, ma senza dubbio alcuno è ancora la più bella. Svetta tra le altre, esile ma forte. Le bifore e le trifore dagli archi a ferro di cavallo mi risultano, oggi come allora, strani e affascinanti con i loro conci di arenaria grigia e di giallo granito; eppure rivaleggiano in bellezza con il nuovo stile gotico inaugurato dalla Gilda dei Mercanti. I merli a punta le conferiscono l’aspetto austero di un forte e la cupola tonda quello solenne di un tempio. Proporrò che le venga cambiato di nome in tuo onore: la ribattezzeremo Torre di Yowen. «Il tuo maestro insegnava incantesimi di movimento, ed era uno dei docenti più stimati: se quando litigammo io fossi stato meno intransigente, egli sarebbe rimasto all’Università e non sarebbe morto per mano di un’elfa oscura» il rettore rimase ad ammirare la capitale e le sue torri. «Forse avete ragione, eppure Yowen era un uomo felice e mi costrinse a scappare per cercarvi» inventò una storia plausibile per nascondere i legami con la negromanzia di Eskiliar. «Mi ha trasmesso la sua integerrima e schietta dedizione all’Arcana Arte: spero che ritroviate in me ciò di buono che vi mancava di lui.» Gabriel ammirava la stanza: alle pareti dello studio ottagonale c’erano librerie colme di testi rari e pregiati; una scrivania stava in posizione centrale, su un tappeto dalle insolite decorazioni, ed era realizzata con lo stesso stile delle librerie, sobria ma imponente; soltanto i tre scranni davano una vaga idea di leggerezza con il loro profilo di clessidra ingentilito da cuscini di porpora.
«Qualcuno ti dirà che lo studio rappresenta bene il mio carattere ma io non darei peso a questi fanfaroni: sono le acque più calme a nascondere le peggiori insidie. Ovviamente non pretendo che mi rechi il rispetto che avevi per Yowen, io non ne sono degno. Non ancora almeno» il rettore si irrigidì ma non si voltò. Un mago del mio livello non può mostrare sciocche nostalgie, i vaghi ricordi del ato di Mirgram si sgretolarono come ossa raschiate dal tempo. «All’Università di Magia di Amaradantis vigono sani principi di meritocrazia» ricominciò con voce impostata. «I docenti sono i migliori maghi dell’Impero e valutano solo ed esclusivamente l’impegno e i progressi degli alunni. Ovviamente essere stato un allievo di Yowen non costituirà alcuna raccomandazione ai loro occhi. “Non importa quanto possa essere ricco tuo padre o quanto nobile la tua stirpe: solo i più dotati accedono ai grandi segreti dell’Arte Arcana”, questo dico a tutti coloro che vogliono seguire la strada del mana.» Gabriel continuò a guardarsi attorno; l’odore della cera e della carta era piacevole ma gli ricordava per contrasto gli ambienti in cui aveva vissuto a Eskiliar, stanze anguste pervase dalla malvagità dove la luce era affidata alle candele e dove il fetore delle mummie e della decomposizione scorticava l’olfatto sino a renderlo inutile. «Dovrai impegnarti negli studi più degli altri se vorrai eguagliarli: non sono mai stati fatti favori» sottolineò affinché il ragazzo si impegnasse al massimo e non sorgesse il sospetto di quanto lo inorgoglisse avere come alunno l’allievo di un vecchio amico. «Yowen vi apprezzava per il vostro carattere integerrimo ed equo, maestro. Egli si esprimeva con rammarico ogni volta che non riusciva a mostrarmi i vostri medesimi rigore e fervore: sarebbe d’accordo con voi.» Il rettore era assorto a contemplare la città ma le parole dell’allievo di Yowen lo accesero, quasi costituissero una sfida. «L’anno accademico finirà tra tre settimane, con la festa di Shamhna, e quindi comincerà il successivo. Ti consiglio di seguire le lezioni per farti un’idea su corsi e professori; la segreteria si aspetta che tu definisca un percorso indicando gli insegnamenti che sei intenzionato a seguire e quali sono i traguardi che intendi raggiungere. Ci sono percorsi predefiniti che gli alunni riescono a seguire
senza problemi.» «Percorsi?» «Mago incantatore, taumaturgo, ricercatore, mago da battaglia, specialista in incantesimi elementali, eccetera. Ovviamente sono indicazioni generiche e sei libero di modificare il percorso di studi secondo le tue necessità, abbiamo decine di insegnanti e migliaia di magie. Ovviamente diamo per scontato che tu conosca gli incantesimi base delle discipline che vorrai frequentare, e dovrai imparare tutti quelli che ti mancano per proseguire. Non vige l’obbligatorietà delle lezioni, ma seguirle ti aiuterà a comprendere i fondamenti della magia; i professori ricevono gli alunni nei loro uffici per aiutarli con gli incantesimi che richiedono settimane o addirittura mesi di studio. Purtroppo non posso dilungarmi oltre: l’Imperatore mi reclama a corte e io non posso evitare gli impegni di Consigliere. Parleremo ancora, in un’altra occasione» richiamò una pergamena, che sgusciò tra i libri e si aprì sulla scrivania. La penna d’oca si levò dal calamaio e danzò guidata dai pensieri del mago. «Come hai detto che ti chiami, ragazzo?» «Gabriel, maestro, mi chiamo Gabriel» la penna scrisse il nome con un’elegante grafia. «Gabriel e basta?» Il ragazzo annuì ma non era la risposta che Mirgram s’attendeva. «D’accordo, come si chiama tuo padre?» Gabriel riesumò i ricordi della famiglia e dello sterminio del villaggio di Coverbridge da parte dell’elfa Raylyn. «Lester, maestro. Mio padre si chiamava Lester» pose l’accento sul verbo al ato e Mirgram comprese. «Bene figliolo, da oggi sei Gabriel figlio di Lester, quando diventerai famoso, se lo diventerai ovviamente, i posteri ti ricorderanno con questo nome» la penna fece l’aggiunta e tornò a infilarsi nel calamaio, «firma la richiesta e portala in segreteria. Saremo noi la tua nuova famiglia.» Gabriel ubbidì, prese pergamena e penna, e firmò. «Perché non usi la magia, Yowen non ti ha insegnato i fondamenti di levitazione?» «Per dare la caccia a una faina si usa un cane agile, non una muta di segugi,
maestro.» «Vero, ma tu non devi catturare una faina, devi porre una firma su un foglio.» «Ciò che rende svelta la nostra mente non deve indebolire il nostro corpo, maestro.» Mirgram sorrise. «Concordo: i maghi migliori non abusano dell’Arte e mostrano umiltà. Ovviamente non avrai difficoltà ad assicurarti una borsa di studio per pagarti la retta» era una promessa d’aiuto per conseguirne una. «Mio caro Gabriel figlio di Lester, ti auguro buona fortuna» il rettore strinse la mano al ragazzo e fu la stretta di un amico. «Appena ti sarai registrato chiedi della professoressa Rachel: ti accompagnerà ai tuoi alloggi ed è probabile che la sceglierai come insegnante.» * «Ora ci troviamo nell’edificio degli alloggi maschili: ha sei piani e un sottotetto adibito a palestra. C’è un altro dormitorio, femminile, è la copia di questo e si trova dalla parte opposta; in mezzo stanno le aule, il refettorio, i chiostri e poi la grande biblioteca, che è l’edificio circolare che puoi vedere dalle finestre, e l’ala dove si trovano la presidenza, gli uffici, la segreteria, eccetera» attraversarono un corridoio dalla volta a crociera sostenuta da ventotto colonne, prima che Rachel riprendesse. «Allora Gabriel, ti piace l’Università?» «È curiosa.» «Bene, seguimi» arrivati al penultimo piano, Rachel sbucò in un salone affrescato con scene di caccia con protagonisti leggendari. La stanza, lunga due volte la larghezza, era arredata con tappeti, poltrone, sofà, e colma di ragazzi che discutevano con enfasi dei rapporti tra magia e politica. «Un corridoio parte e ritorna alla Sala Comune facendo il giro del fabbricato, collegando tutte le camere. Qui potrai studiare e fare conoscenza con i compagni» Rachel richiamò gli alunni, che nel frattempo si erano zittiti e la ammiravano. «Signori, vi presento un nuovo compagno: si chiama Gabriel figlio di Lester. Viene da Eskiliar.» «Eskiliar? Non è la città che pullula di eretici? Non bastava Joelle?» Chiosò un ragazzo dai capelli fulvi strappando una risata ai compagni più smaliziati.
«Tåron, non è conveniente fare insinuazioni di questo genere, né su una vostra compagna né su chi è appena arrivato» lo riprese l’insegnante. «Tåron scherzava, lady Rachel. Se Gabriel fosse veramente un eretico non sarebbe certo arrivato sin qui. Vivo almeno» i presenti sghignazzarono ma quello che aveva appena parlato si alzò e raggiunse Gabriel, porgendogli la mano. «Sono Thomas dei Mazzenstein-La Tour, piacere» gli occhi piccoli e freddi del ragazzo stemperarono la cordialità delle parole; indossava una veste di broccato biavo che faceva specchio al colore degli occhi. Sorrise con la spocchia di un generale che affronta una battaglia vinta sulla carta. «Piacere mio» Gabriel strinse la mano senza entusiasmo ma il tono fu più tagliente di una squarcina. «Ottimo, lo spirito di gruppo è quello giusto, non siete qui per mettervi i bastoni tra le ruote ma per raggiungere una meta assieme. Ora vieni con me, Gabriel, ti accompagno in camera; avrai tutto il tempo che vuoi per conoscere i tuoi compagni» Rachel si incamminò lungo la atoia di tessuto rosso del corridoio est. La professoressa aveva occhi scuri e lineamenti dolci e ancheggiava con disinvoltura, calamitando gli sguardi osceni degli studenti più grandi; aveva capelli cinerei, lucidi, che le arrivavano alle orecchie, e il corpo formoso era a stento frenato da un abito aderente di pelle che non aveva precedenti nella storia della sartoria. «Questa è la tua camera» Rachel indicò una porta anonima con il numero cinque stampato a fuoco. Schioccò le dita, la chiave girò nella toppa e l’uscio si aprì. «Sono stanze modeste ma gradevoli.» «Non è la dimensione di una stanza che ne reca la qualità» commentò il giovane strappando un sorriso alla donna. «Bravo, così mi piaci, gli altri hanno tutti espresso commenti poco costruttivi. Sono convinta che l’ottimismo sia la malta che fa dei nostri giorni una costruzione solida e degna di essere chiamata vita.» Non hanno mai abitato nelle catacombe di Eskiliar, pensò Gabriel esaminando la stanza, quattro mura distanti lo stretto necessario a contenere un letto, una scrivania, una libreria, un armadio, un baule e uno specchio. «Mi è concessa una domanda?» «Non ti è concessa, è un tuo diritto. Voi alunni dovete porre domande e noi
insegnanti siamo qui per rispondervi» Rachel giunse la mani dietro la schiena, sorridendo, e le sue forme di donna divennero come fuoco dopo una notte ata all’addiaccio. «Voi siete riuscita a usare la magia ma io mi trovo in difficoltà: sono le pietre inibitrici delle quali mi hanno detto in segreteria?» Gabriel indicò uno dei cristalli dalla forma a goccia che stavano sul muri e che recavano una tiepida luce azzurra. Rachel rise di gusto. «Sì, e quelle pietre sono dappertutto: abbassano il livello del mana e stemperano i poteri dei meno dotati. Fanno anche una discreta luce. C’è ne è una anche nella tua stanza, si accende e si spegne quando lo desideri.» «Siamo presi in una ragnatela, dunque: è come sei noi fossimo farfalle e voi ragni.» Rachel apprezzò l’immagine. «È proprio una cosa del genere. Noi insegnanti ne conosciamo i fili e riusciamo a eluderli mentre gli alunni vi finiscono invischiati e riescono a utilizzare soltanto gli incantesimi che conoscono alla perfezione, ovvero i meno complessi e pericolosi» fece comparire una bolla d’acqua tra le sue mani. Poi la vece volteggiare fino al soffitto. «Siamo in gabbia, quindi» Gabriel fece are i polpastrelli sul legno levigato della porta. «Che brutta espressione, diciamo che avete una muola: siete cuccioli che non sanno usare al meglio le proprie zanne: vi impediamo di far del male ai vostri compagni e, soprattutto, di farne a voi stessi» agitò l’indice, sorridendo. «Voi giovani siete intraprendenti, sopravvalutate le vostre capacità e fate gli sbruffoni con le vostre compagne. Per evitare spiacevoli contenziosi gli unici posti dove potete usare la magia sono le aule e i laboratori» la bolla tornò sulle dita di Rachel, che la fece sparire. «La magia è come il mare, è instabile, pericolosa: se ne perdi il controllo non avrai il tempo per pentirtene.» «Sì, lo so bene.» «Ti è successo qualcosa di grave?» Rachel diventò seria. «Preferirei non parlarne, non adesso almeno» glissò Gabriel nascondendosi dietro una smorfia.
«Perdona la mia invadenza e la mia curiosità, quando vorrai parlarne non farti scrupoli a confidarti: io sono dell’avviso che sia compito di noi insegnanti imparare a conoscere gli alunni per intraprendere con loro un costruttivo percorso di crescita.» Gabriel aveva cominciato a osservare la stanza. «La pensa davvero così?» «Certo» la voce e la postura dell’insegnante si irrigidirono, «noi docenti non dovremmo spiegarvi com’è il mondo, dovremmo invece aprire i vostri occhi affinché possiate coglierne le sfumature. Chissà che non sia qualcuno di voi, un giorno, a mostrarci qualcosa che noi stessi fatichiamo a discernere.» «Che cosa insegna, professoressa Rachel?» «Rachel e basta, dammi del tu. Io sono un’insegnante della scuola dell’Acqua. Ho letto che hai superato l’esame di ammissione per un soffio e i miei colleghi non ripongono in te molte aspettative: i ragazzi della tua età che vogliono apprendere i segreti della magia devono essere più dotati di quanto hai mostrato. Io però sono convinta che i conti si facciano alla fine di un percorso di studi, non all’inizio. Io stessa sono molto giovane per fare l’insegnante: ognuno ha il diritto di provare, anche coloro che appaiono meno dotati. Con la magia non esistono tentativi, non esistono mezze misure e imparare è come il giorno e la notte, non esistono albe o tramonti.» «Spero di non venir intrappolato dalla ragnatela, allora» Gabriel fissò la donna. Rachel era più alta di Gabriel di una spanna e più anziana di almeno quindici anni. «No, verrai stritolato dalla muola» lo corresse e gli ò la mano sulla zazzera, spettinandolo. L’insegnante portava dei guanti di pelle, ma sul polso destro si intravedeva un tatuaggio a forma di ippocampo. «Voi giovani siete molto carini ma di solito non vi applicate con la giusta costanza e non seguite le lezioni con il dovuto zelo. Sei interessato alla Scuola dell’Acqua?» «Sono interessato a tutti gli incantesimi» rimase vago. «Volerne apprendere il maggior numero è lodevole, ma difficoltoso: non puoi eccellere in ogni argomento, nessuno ne è mai stato in grado» gli diede un altro buffetto. «Ti aspetto nel pomeriggio, aula due. Sono convinta che avrai bisogno
di un po’ per ambientarti ma se hai domande da farmi ritieniti libero di pormele come e quando vorrai.» «Qualsiasi domanda?» «Qualsiasi» rispose con un sorriso complice. «Non è scomodo il cuoio?» Domandò Gabriel. Rachel si ò una mano sui fianchi. «Qualcuno trova più comodo il fustagno, la seta o il broccato, ma io preferisco la pelle, è come se non l’avessi, non so se hai capito quello che intendo» gli fece l’occhiolino. «Ora devo andare, perdonami, ho un impegno. Didattico» Rachel si congedò e sparì per il corridoio. Gabriel chiuse la porta e rimase solo con la sua nuova stanza. Sospirò rassegnato a sentire distante il gusto del mana, un sapore amareggiato dalle pietre inibitrici che lo respingevano. Poggiò la valigia sul letto, aprì l’armadio e ammirò la libreria, un reliquiario che attendeva di essere colmato di conoscenza. Dalla borsa, un cilindro di tre cubiti di lunghezza e uno di diametro, Gabriel prese e sistemò nell’armadio le vesti e le scarpe, quindi ò a riempire la libreria, posizionando per argomento i libri più comuni che aveva sottratto dalle cripte di Eskiliar, prestando attenzione a lasciare nella borsa i titoli proibiti che l’avrebbero messo in difficoltà. Impiegò dieci minuti a riempire il mobile di noce e lasciò dentro la borsa un numero di testi pari a due volte quelli esposti. Di tutti i manufatti che aveva recuperato dalle catacombe dei negromanti, dopo che l’elfo Gwyllywm e i compagni ne ebbero sterminati gli appartenenti, estrasse il pugnale usato per i sacrifici: era un secespita dalla lama curva, argentina, ricca di iscrizioni votive e con un impugnatura anatomica di ebano. Gabriel se lo ò tra le mani immaginando un combattimento poi, soddisfatto e affascinato dal potere dell’arma, la ripose e si coricò sul materasso di lana, scoprendo un comodo giaciglio. Silenzio. Da quanto tempo il silenzio non mi era così prezioso! Tacciono le voci umane e riposa il mana, inibito.
Sono stanco, molto stanco. Troppo. Non dovevo combattere a Tumblane: se il drago che ho umiliato è sopravvissuto, mi cercherà per vendicarsi; i draghi non dimenticano l’odore di una preda, lo riconosco a miglia di distanza. Le Scaglie Nere possono serbare rancore per l’eternità. Maestro Yowen, avevate ragione: chi ambisce alla conoscenza, chi brama di essere al di là del bene e del male non deve mai schierarsi: quanti altri errori mi farà compiere la mia avventata giovinezza? Gabriel socchiuse gli occhi per riposare ma l’aria della camera si raffreddò e si impregnò di miasmi solforosi; una folata umida e malaticcia spirò dallo specchio appeso alla parete e il vetro si tramutò in una superficie vibrante e appiccicosa. Il mago si rizzò sul letto, sudato, e il simbolo che gli era stato impresso sulla spalla cominciò a dolergli come se un ferro rovente cercasse di marcarlo una seconda volta. «Ci ho messo un poco a trovarti, schiavo. Pensavi di essere sfuggito ai miei poteri?» Allo specchio si affacciò una figura muscolosa e piacente, un volto sorridente e occhi chiari incorniciati da una bionda criniera. «Avevo un disegno preciso che non è terminato con la tua istruzione presso i negromanti di Eskiliar e i piacevoli accadimenti del tuo mondo. Credevi di esserti liberato di me?» Jaquish di Anquelot, il demone metà umano, sogghignò. Gabriel cadde genuflesso di fronte allo specchio, incapace di resistere alla coercizione del demone. «No padrone, sono felice di vedervi» sussurrò tra i colpi di tosse per l’odore nauseabondo. «Non mentire: il fatto che io abbia riassunto le mie sembianze umane non significa che in questo momento sia il patetico mago che si è fuso con me. Cosa ci fai ad Amaradantis, schiavo?» La voce gli percuoteva i pensieri, insana, muta, assordante. «Sono qui per apprendere, padrone» il volto di Gabriel si era gonfiato come un frutto maturo. «Non ti era stata ordinata una cosa del genere, non ti era stato chiesto di
rivaleggiare con una Scaglia Nera, non ti era stato chiesto di fare nulla di ciò che hai avuto la sragionante intraprendenza di fare. L’iniziativa è un dono soltanto quando porta a buoni risultati, altrimenti è un difetto. Tienilo bene a mente.» «Lo so padrone, e lo ricorderò. Eppure la conoscenza è il bene supremo: se diventerò più abile sarò uno schiavo più utile, non credete?» Gabriel rialzò la testa. «Sono un demone maggiore, non mi occorrono schiavi saccenti che prendano decisioni per me.» Il dolore al simbolo di dominio si rincrudì, respirare divenne insostenibile e Gabriel ricadde sul pavimento, prostrato. «Lo terrò a mente padrone, lo giuro.» Jaquish lasciò che il dolore crescesse ancora. Gabriel si rivoltò schiumando dalla bocca e gorgogliando come una fontana occlusa. La morsa cessò quando il demone concepì un piano ancora più malefico di quello che l’aveva spinto a marchiare il giovane. «Bene dunque, ti ordino di imparare, e di migliorare: ho faccende da sbrigare su altri mondi ma quando tornerò da te, allora dovrai evocarmi, perché è giunto il momento del mio ritorno. Mi hai compreso, schiavo?» Gabriel si riprese con fatica e annuì, l’escreato che gli insudiciava il mento. L’immagine nello specchio sfumò in un vortice di colori ululanti e la stanza tornò alla temperatura iniziale. L’odore pestilenziale del demone scomparve, lasciando spazio al profumo della biancheria pulita. Gabriel allargò le braccia, spossato, la spalla che ancora doleva. Come ha fatto a trovarmi, come riesce a mostrarsi senza che lo invochi? Come riesce a compensare la scarsità del mana? Pensò ai libri che aveva studiato senza trovare risposte e alla voce che riteneva la Biblioteca dell’Università pregna di tutto il sapere magico dell’umanità. Devo arginare le sue intrusioni, devo allontanarlo da qui. Ora sarà tutto dannatamente più complesso. Peggio di così non poteva andare.
Si rialzò dolorante, si distese sul letto ma, non appena socchiuse gli occhi, qualcuno bussò alla porta; Gabriel ciondolò sino all’uscio. «Chi è?» Domandò senza aprire. «Comitato di benvenuto» la voce di Thomas dei Mazzenstein-La Tour era stentorea ma non nascondeva le risate di Tåron. Gabriel rimase appoggiato alla porta. Pensò fosse più opportuno non mostrarsi schivo ma, non appena girò la chiave e aprì la porta, Thomas e Tåron spalancarono l’uscio, entrarono di forza e lo spinsero per terra. Tåron chiuse la stanza e rimase nell’ombra di Thomas, che appoggiò il piede destro sulla branda e iniziò il discorso di benvenuto. «Caro Gabriel, vecchio amico mio, non so quale sia il tuo percorso di studi e nemmeno quali siano le tue ambizioni, tuttavia ci sono alcune regole che devono essere messe in chiaro prima che tu possa commettere errori troppo gravi da rimediare.» «Già, sei inesperto e rischi di pestare i piedi alle persone sbagliate» lo pizzicò la voce di Tåron. «Dopo ingenuità del genere, le scuse potrebbero non essere sufficienti. Sai, all’interno dell’Università vige una sana e meritocratica gerarchia che tutti sono tenuti a rispettare. Ci sono il rettore, gli insegnanti, il personale accademico, gli alunni anziani, quelli più giovani e infine gli ultimi arrivati. Gli sfigati come te.» Thomas porse a Gabriel la mano e lo invitò a rialzarsi ma il nuovo arrivato rifiutò la finta cortesia e il bullo lo agguantò, stringendolo al collo col gomito destro. «Ecco vecchio mio, io e Tåron siamo proprio due tra i più anziani ed esperti e tu sei tenuto a portarci sempre rispetto. Siamo un po’ i fratelli maggiori, non conviene a nessuno litigare con noi.» Tåron andò a spulciare tra i libri di Gabriel, li sfogliava a casaccio e li lasciava cadere sul pavimento. Gabriel provò a sganciarsi dall’abbraccio di Thomas e a trattenersi dal desiderio di verificare l’efficacia delle pietre inibitrici polverizzandolo con gli incantesimi appresi dai negromanti. «Non vorrai ribellarti, vero?» Si divertì la voce disgustosa di Thomas, mentre l’amico terminava di accatastare i libri, per terra.
Se apri la borsa ti disintegro, pensò Gabriel. Il ragazzo dai capelli rossi si fermò e rabbrividì, quasi avesse percepito la minaccia nello sguardo del nuovo arrivato. «No, non voglio ribellarmi. Non voglio problemi» supplicò Gabriel. Thomas lasciò la presa. «Ecco, bravo, questo è l’atteggiamento giusto: chi è che comanda?» «Voi due, comandate, voi due. I miei fratelli maggiori.» «Bravo, i tuoi fratelloni» Tåron uscì con o svelto. «E ricordatelo bene, che non ti venga in mente di prendere iniziative senza il nostro permesso, siamo stati chiari?» «Sì, chiarissimi» annuì Gabriel un attimo prima che Thomas sbattesse la porta. Ottimo, pensò il giovane dai capelli corvini, se c’era un fondo alla parabola discendente della mia buona sorte, l’ha davvero toccato.
La biblioteca dell’Accademia di Magia di Amaradantis era un edificio dalla pianta rotonda costruito al centro del complesso universitario. Venne eretta utilizzando incantesimi per spostare pietre, per tagliarle e incastonarle a secco, e consiste in cinque piani fissati a una enorme colonna centrale, come i rami lo sono a un tronco, e distanti un lungo o dalla parete circolare. Al muro è appoggiata una libreria che l’abbraccia tutto e che sale dal pavimento sino al tetto, che è una gigantesca cupola di vetro che illumina l’ultimo piano. La libreria circolare è fitta di ripiani e volumi che contengono il sapere magico dell’intera umanità; dieci scale spiraliformi si spostano a fianco delle librerie per consentire agli studenti di raggiungere i libri e i piani superiori, avvolgendo la stanza con le loro forme sinuose di legno. Non esiste sul continente un’altra costruzione opera degli umani che sia tanto affascinante e funzionale. Le meraviglie di Arhanien – Il Secondo Cantore
III – Joelle Greyfire
Il cielo era una lastra d’ebano venata di fulmini forcuti e mandava tuoni come un vecchio che imprecava dopo una sbornia. In ritardo, sono in ritardo. Una fanciulla attraversò il chiostro in fretta, la veste e i capelli spettinati da folate umide di temporale; rallentò non appena vide due ragazzi che sostavano appoggiati alle colonne, le braccia incrociate e gli sguardi sordidi da guardie corrotte. Thomas e Tåron, ci mancavano solo loro, pensò la fanciulla quando l’ostacolarono. «Guarda chi si vede, la bella Joelle» Thomas esplorò con occhi freddi le forme della fanciulla. «La bella Joelle? L’eretica Joelle, vorrai dire» chiosò Tåron.
«Non sono un’eretica» si difese lei, «e non ho mai fatto nulla di male.» «Già. Hai ragione, non sei un’eretica, non ancora almeno. Però sei la cugina di un’eretica» la piccò Tåron, ghignando, «un’eretica che è stata condannata e bruciata!» La fanciulla non rispose e fece per scansarli ma Thomas la bloccò. «Mi spieghi come mai sei in ritardo tutte le mattine? Cosa combini in camera, tutta sola? Magari complotti come quell’eretica di lady Viviane. Se ci invitassi e ti mostrassi carina potresti convincerci che...» «Lasciatemi stare, non ho bisogno né di voi né delle vostre opinioni» la fanciulla cercò senza successo di farsi spazio tra i due. «Ho fretta, lasciatemi andare, devo riare le magie del fuoco» Joelle pensò a scappare tornando indietro e facendo l’altro lato del chiostro. «Puoi venire a studiare con noi» propose la voce viscida di Thomas: «Tåron è bravissimo con gli incantesimi del fuoco, non è vero?» «Già, ammira» l’interpellato aprì la mano, mosse le dita come serpenti e generò cinque lingue di fuoco che si insinuarono sibilando tra i libri e gli appunti della fanciulla. «Stupidi, siete due stupidi!» Joelle lasciò cadere i libri e lanciò un incantesimo della terra per coprirli di sabbia. «Fiamme, fiamme! Aiuto, pericolo!» I due disgraziati starnazzarono con le voci in falsetto. «Non c’è abbastanza mana per bruciare dei libri, sei una sfigata! Gli eretici finiscono tra le fiamme, fai bene a temerle» il biondo Thomas strisciò verso la biblioteca ridendo a crepapelle. «Che ne dici di sederti tra noi?» Gli fece eco il rossiccio Tåron con una luce cupa negli occhi. «Sarà divertente: potresti stare sulle mie ginocchia e strusciarti.» «Siete due serpi, sparite!» I due mostri si infilarono sogghignando in una porta ogivale.
Sono una sfigata, Joelle si chinò, prese i libri, li poggiò sul muro del colonnato e si legò i capelli a coda di cavallo con un frenello. Era la prima volta che si trovava sola e il chiostro privo del chiacchiericcio e del frusciare degli abiti dai colori vivaci le parve una sudicia gabbia. Le severe grottesche delle colonne e gli animaleschi doccioni agli angoli la guatavano con sproporzionati occhi di pietra, i pilastri tortili del chiostro di Malbany sembravano muoversi, ingannando la vista con la loro forma unica, e il sibilo del Vaenert pareva fecondato dai cachinni dei grugni di pietra. Inutile affrettarsi se sono in ritardo, Joelle liberò i libri dalla sabbia magica, fece un bel respiro e si asciugò gli occhi umidi. Quando entrò, l’aria calda della biblioteca la investì, dandole un brivido, e l’odore del freddo e del temporale venne spazzato via dal tepore del legno e dal sapore dei libri; Joelle socchiuse la porta e il sommesso mormorio degli studenti che studiavano sostituì l’ululato del vento e la catapultò nella ricerca di un posto; si avvicinò al banco dove studiava la sua vicina di stanza ma questa allungò i libri in modo da occupare anche quello libero. Joelle non si scoraggiò e salì le scale che ruotavano attorno alla parete; al primo piano trovò altri posti liberi ma le compagne e i compagni fecero di tutto per distribuire i testi e occupare più spazio possibile. Salì al secondo, poi al terzo e al quarto ma le patetiche scene si ripeterono seguendo lo stesso squallido copione. Al quinto e ultimo piano, sopra la cupola di vetro danzavano nubi di piombo. Qui non c’è nemmeno un tavolo libero. La fanciulla si arrese quando Thomas si fece notare andosi la lingua sulle labbra e la pugnalò con i suoi occhi di ghiaccio. Il mana vibrava turbato da una tempesta di emozioni e Joelle intuì come i compagni più meschini la stessero legando al letto delle loro fantasie per spogliarla e profanarla. Puoi andare nella sala dei professori, o tornare in camera tua. La sua coscienza ciarlava prodiga di consigli superflui, eppure la distraeva dalla squallida sensazione di fare capolino nei pensieri perversi dei maschi. Rinuncia, è meglio che sedersi con Thomas o con chiunque ti disprezzi.
Joelle attraversò la stanza a o spedito mentre il brusio degli studenti diminuì e nella biblioteca non risuonarono più nemmeno i rumori delle penne che s’intrufolavano nei calamai o che graffiavano le pagine per prendere appunti. Un posto, ecco un posto! La fanciulla raggiunse il tavolo quando uno studente appena sceso da una scala depositò un librone sulla propria metà. Joelle rimase a fissarlo in un lungo silenzio di cartapesta, inebetita; si sentì avvampare e tremò, poi poggiò i libri alla scrivania. «Perdonami, è libero?» La ragazza parlò con un tono strozzato che non le apparteneva; sussurrò ma le parole riecheggiarono come martellate di un fabbro sull’incudine. Il ragazzo aveva capelli scuri e occhi stanchi; si guardò attorno stranito, senza capire il perché della domanda. «Vedi qualcun altro che lo occupa?» Sedette e guardò il libro appena aperto. Joelle sorrise ma rimase in piedi. Fissò i capelli del ragazzo che gli ricaddero sulla fronte nascondendo i lineamenti dolci del viso; poi si scosse dal torpore che l’aveva presa e si sistemò cercando di fare il minor rumore possibile. «Grazie, io mi chiamo Joelle.» Il ragazzo spulciava il tomo, ignorandola. «Io sono Gabriel» rialzò la testa e la fissò il tempo necessario a poterla riconoscere in futuro. La fanciulla aveva labbra piene, occhi e capelli castani; indossava una guarnacca dimidiata, cremisi e morella, con le maniche a sbuffo che le ricadevano sin sulle nocche. «Ti chiami Gabriel? È un bel nome. Sei nuovo, non ti ho mai visto?» Joelle gli appiccicò gli occhi addosso e non badò alle domande che faceva. Gabriel rialzò la testa e sbuffò. «No, non sono nuovo: è che prima ero invisibile.» «Mi pareva che fossi nuovo, non ti avevo mai visto» pigolò Joelle. Gabriel lasciò cadere le mani sulle pagine aperte, poi fece un lungo sospiro. «Mi piacerebbe molto chiacchierare con te, ma credo che gli altri non
apprezzerebbero. Spero di non sembrarti maleducato se mi getto nella lettura. D’altronde, non siamo qui per questo? Buon lavoro» fece un sorriso di cortesia e abbassò la testa. Joelle riprese fiato e chiuse la bocca, spalancata come porte di città da cui fiumano migliaia di invasori. Analizzò Gabriel, il volto di nuovo nascosto dietro una cascata di capelli neri, e una veste bruna di una povertà tale da confonderlo ai sacerdoti tristi di un dio diseredato e pessimista. «Sì, scusami, hai ragione. Buon lavoro anche a te.» Sei una scocciatrice, hai turbato il mana come nemmeno i Pastori Infernali hanno fatto a Westhill, Gabriel alzò lo sguardo quando capì che la ragazza aveva distolto il proprio e ne scoprì il fascino che era prossimo a sbocciare. Il corpo snello di Joelle si sistemò sulla seggiola e le sue mani accarezzarono i libri e i quaderni, impilandoli dal più largo al più stretto. La fanciulla aprì un testo, poi si mise una volta ancora in ordine i vestiti, poggiò i gomiti al tavolo e portò dietro l’orecchio un ciuffo di capelli sfuggito alla coda. Spostò un libro da dove l’aveva messo e quindi risistemò i capelli. Lesse un paio di righe dal grimorio, poi lo ripose e urtò con il gomito un brogliaccio che cadde dalla scrivania. Tentò inutilmente di afferrarlo e rabbrividì immaginando il tonfo che avrebbe squassato la biblioteca e gli sguardi che l’avrebbero trafitta. Il quaderno rimase sospeso a mezz’aria. Gabriel mosse le dita della mano e il brogliaccio tornò nella posizione da cui era caduto, silenzioso come un fantasma. Joelle inarcò le sopracciglia sottili e fissò il compagno con gli occhi curiosi e impertinenti dei propri diciassette anni. «Se sei nuovo non avrai fatto alcuna lezione con il professor Gamelien: come fai a conoscere la levitazione tanto bene da non subire le pietre inibitrici?» Sussurrò. Il ragazzo avvicinò l’indice alle labbra e fece l’occhiolino. Ma rimase serio come una statua. Un sorriso diede luce agli occhi di Joelle ma Gabriel abbassò lo sguardo e, quando lei fece altrettanto, si soffermò a fissarla mentre riaggiustava i capelli.
Quando il gioco di sguardi a rincorrersi di Joelle e Gabriel terminò e i due ragazzi si scoprirono a occhieggiare, non osarono più distrarsi dallo studio. Sopra la cupola, le nubi si erano aggrovigliate sino a diventare un’opprimente lastra uniforme e, dopo un brontolio sommesso, iniziarono a vomitare cristalli di neve. * Le pietre inibitrici annunciarono l’inizio delle lezioni pomeridiane e gli studenti lasciarono la biblioteca. Joelle entrò nell’aula e il chiacchiericcio si congelò; la fanciulla ignorò la scarsa empatia dei compagni che avevano smesso di fare comunella e si andò a sedere in fondo all’aula. Quando cominciò a sistemare i libri, entrò il professore. «Questo è il silenzio che si addice a un’aula dell’Università!» L’insegnante dispensò un sorriso soddisfatto e si avviò alla cattedra; era un uomo magro, di mezza età e portava i capelli lunghi e curati, un vanto che mostrava i primi segni dell’età. «Bene, vedo con piacere che ci sono facce nuove. Ebbene il mio nome è Arwin di Lonwin e insegno incantesimi elementali della scuola del fuoco» indossava un giustacuore di camocato cremisi dall’asola dorata e fitta di bottoni d’argento. «Comincio subito con il dire ai nuovi che provo immenso piacere riguardo alla scelta di inserire il mio corso nel vostro percorso di studi: forse ancora non ve ne rendete conto ma ciò che avete fatto è importante, è molto importante» Arwin si allontanò dalla cattedra e cominciò a girarvi intorno con le mani giunte dietro la schiena, il o regolare. L’aula era semicircolare e aveva dodici file da venti banchi, ognuna sopraelevata rispetto alla precedente, una cavea dalla quale tutti potevano seguire le evoluzioni dell’insegnante. «Gli incantesimi del fuoco sono quelli più utili a un mago che si troverà a combattere nelle file dell’Esercito Malgiusiano. Come ben sapete, il fuoco spaventa i cavalli e i soldati e crea grande scompiglio sul campo di battaglia: l’impiego dei maghi, non della cavalleria, si è dimostrata la strategia vincente dell’Impero. Durante il mio corso imparerete non solo quanto la conoscenza degli incantesimi sia essenziale, ma anche e soprattutto quanto lo sia l’obbedienza agli ordini. Il rispetto della gerarchia è indispensabile alla forgia di sudditi modello: le mie lezioni non hanno lo scopo di insegnarvi soltanto quali
siano le magie più efficaci, ma anche come tali incantesimi debbano servire l’Impero. La disciplina, non dimenticherò mai di ricordarvelo, è la cosa più importante che imparerete: per inculcarvi meglio il concetto, d’ora in avanti pretendo che i nuovi si rivolgano alla mia persona usando la formula “signor professore” oppure “maestro”. Che tra l’altro è ciò che già fanno tutti gli iscritti alle mie lezioni.» Gabriel ascoltò Arwin disgustato dalla propaganda; le spiegazioni furono di una ovvietà tale che il giovane non capì come fosse necessario imparare tutti i fondamenti quando per spingere il fuoco ad accendersi gli era sufficiente immaginare le fiamme per trasformarle in realtà. Dopo la soporifera spiegazione sulle virtù del fuoco, Arwin accese gli animi proponendo un’esercitazione. «Vediamo se avete compreso l’esecuzione di questo banale incantesimo» fissò gli studenti e scoprì come la maggior parte bramasse di essere scelta per mettersi in evidenza; cercò a lungo la persona giusta e infine la trovò. «Tu, là in fondo» la scelta scatenò la delusione dei più, che rumoreggiarono. «Io, maestro?» L’alunno simulò stupore e sperò che l’insegnante cambiasse idea. «Sì, tu devi essere uno dei nuovi, ricordami il tuo nome, per cortesia.» «Sono Gabriel figlio di Lester, maestro.» «Bene Gabriel, vieni qui alla cattedra, hai già perso troppo tempo, ragazzo mio. Sbrigati, forza, scattare, scattare» lo richiamò Arwin, severo. Gabriel si alzò e scese senza entusiasmo fino al predellino. «Bene ragazzo mio, se non sbaglio, e io non sbaglio mai, questa è la prima volta che provi un incantesimo davanti ai colleghi: sei emozionato?» Gabriel guardò i visi disgustati dei compagni e pensò che ognuno avesse un motivo per odiarlo. «È la prima volta ma non sono emozionato» la voce piatta e lo sguardo assente di Gabriel sbalordirono gli studenti più suscettibili. «D’accordo, ragazzo mio, ricordi quanto abbiamo detto circa le magie del fuoco? Qual è la cosa più importante che dobbiamo ricordare?»
«Che il fuoco divora la materia» rispose ciò che aveva imparato dai negromanti di Eskiliar ma Arwin fece una smorfia. «Non esattamente, c’è anche quanto hai menzionato ma se così fosse, ebbene avresti sempre bisogno soltanto di combustibile. Mentre non è proprio così: qualcuno vuole aiutare il vostro compagno?» Arwin si rivolse alla platea, dove cadde un macigno di silenzio. «Nessuno?» Joelle incontrò lo sguardo di Gabriel ma il ragazzo lo volse altrove. «Perché nessuno vuole aiutare Gabriel?» Arwin alzò la voce. «Sono sconcertato, sono disgustato. È questa la dedizione che mostrate? Siete tutti qui per imparare e un compagno in difficoltà non è uno sfortunato contro il quale si è accanito il destino: durante le mie lezioni il fallimento di uno soltanto per me conta quanto il fallimento di tutti. Se qualcuno abbandona il sentiero virtuoso disvelato dall’istruzione, tutti i compagni di viaggio si perderanno con lui» Arwin si infervorò. «Immaginate un mago che in preda alla follia abusi del potere che gli è stato consegnato per trarre vantaggi personali: se egli consumasse tutto il mana per i suoi scopi, cosa rimarrebbe agli altri? E ancora, se costui si macchiasse di crimini tanto gravi da far bandire l’uso della magia, se l’avessimo lasciato agire potremmo dire di essere estranei alle sue azioni? Possiamo rimanere indifferenti a una difficoltà, quando sappiamo che da essa non può nascere che un turbamento?» Thomas e Tåron si misero a chiosare sottovoce la catilinaria del docente, che non se ne avvide, intento com’era a dare la stura alla visione che aveva dell’Impero e dei rapporti tra i sudditi. «Non è nella filosofia dell’Università di Amaradantis istruire e promuovere il miglior mago di Arhanien: un fabbro che sappia forgiare la miglior spada ma non riesca a replicarla per un intero esercito è un fallito! L’Università deve temprare i migliori maghi del continente, non il miglior mago, non uno soltanto, tutti. Se uno di voi è in difficoltà e non l’aiutate, tutti avete fallito.» Quando il discorso terminò, si alzò una timida mano. Arwin gonfiò il petto e alzò il mento. «Guarda bene i tuoi compagni, Gabriel, guardali tutti, scolpisci le loro facce nella tua memoria meglio che puoi: tra loro ci sono molti ragazzi che hanno già raggiunto l’età per farsi chiamare uomini, eppure nessuno di loro ne è degno perché sarà una fanciulla a soccorrerti. Forza
Joelle, mostra ai tuoi compagni quanto tu valga più di loro: qual è la prerogativa essenziale del fuoco?» «Il fuoco si nutre di aria» rispose la fanciulla imbarazzata dalla lode. «Esatto, brava ragazza mia. Bene Gabriel, ora sappiamo che il fuoco divora un altro dei quattro elementi fondamentali della magia: l’aria.» «E l’aria non è forse un tipo di combustibile?» Obiettò il ragazzo. «Come hai detto?» La replica spezzò la voce ad Arwin, che gracchiò. Il ragazzo fece un cenno di diniego col capo e il professore continuò. «Il primo elemento che divora il fuoco è una trasmutazione della terra, il secondo è l’aria. Quindi il fuoco, distrugge l’acqua, il suo opposto, trasformandola in vapore sfruttando aria e terra. Adesso, poiché sei all’inizio del tuo percorso formativo, ci mostrerai come sia possibile generare fuoco tra le mani. Forza ragazzo mio, dacci dentro, voglio vedere una fiamma in grado di attizzare un camino zeppo di legna» esortò. Gabriel rimase inoperoso per secondi interminabili. «Occorre comprimere il mana fino a convincerlo a esplodere» lo esortò Arwin. «È una questione di forza, devi dominare il fuoco perché la forza è l’essenza della magia!» Il giovane si rassegnò, si concentrò, simulò l’impegno nel ricordare l’incantesimo e nel metterlo in pratica e, tra lo stupore dei molti e le risate di alcuni, concretizzò tra le mani una fiammella dalle dimensioni di un’unghia. «Bella fiamma ragazzo, ti avevo chiesto di accendere una pipa?» Arwin ostentò calma e riportò l’ordine tra gli studenti che rumoreggiavano. «Non è bene esagerare, maestro: il fuoco è adirato» si giustificò Gabriel con una freddezza che impaurì parecchi compagni. «Bene, anzi, male ragazzo mio» disse il docente applaudendolo, «vorrà dire che ci mostrerai i tuoi progressi sulle magie del fuoco quando sarà meno arrabbiato con te. Puoi andare adesso, forza, sparisci» Gabriel scese dal predellino. «Un’ultima cosa, attendi» Arwin lo richiamò. «Mi rivolgo a te ma è come se parlassi a tutti quelli che seguono il mio corso per la prima volta. Quando vi
viene richiesto un incantesimo e un risultato, quello dovete ottenere: non dovete provare, ma riuscire. Quando domani chiederò un incantesimo del fuoco dovrete tutti obbedirvi alla stregua dell’ordine di un generale a un soldato, sul campo di battaglia. Disobbedire o mancare dell’impegno necessario sono considerati diserzione, sono stato chiaro? Voi non seguite questo corso per stupire me o i vostri compagni: credete che nella mia carriera di insegnante esista ancora qualcosa in grado di meravigliarmi? La magia può ogni cosa, può sgretolare intere montagne o trasformare la polvere in una gustosa torta. Tuttavia non siete voi che decidete cosa fare, sono io a farlo, e il rispetto per il mio ruolo e per i miei ordini è la cosa che ritengo più importante tra tutte. Ora il fuoco era adirato con Gabriel» lo chiosò, «ed egli era la prima volta che ci mostrava la sua abilità e sorvolerò sullo scarso risultato ottenuto ma voglio che ricordiate quanto vi sto per dire: è infinitamente più meritevole un mago mediocre ma ubbidiente piuttosto che un eccentrico virtuoso. Sottostare agli ordini più che la dedizione allo studio farà di voi alunni modello. Quando avrete imparato a obbedire con celerità e precisione, solo allora sarete maghi affidabili e degni di stima. Ora vai al posto Gabriel, ma se hai intenzione di seguire il mio corso queste sono le regole e quella è la porta» indicò l’uscio di mogano. «Il fuoco non mostra pietà, il fuoco non perdona, il fuoco divora ogni ostacolo che gli si para davanti.» Gabriel abbassò il capo e chiuse gli occhi per quieto vivere. Quando ò a fianco di Tåron, il ragazzo dai capelli fulvi e arruffati lo urtò con una gomitata. «Bella figura, complimenti» sghignazzò. «Tåron, ragazzo mio, un uomo non fa il gradasso trincerandosi dietro i compagni, credi che non ti abbia visto? Tu che sei due anni più anziano degli altri e dovresti dare il buon esempio, ti nascondevi come un vigliacco mentre toccava alla tua compagna Joelle mostrarti come si comporta un vero mago. E dire che con le magie del fuoco dovresti essere abbastanza ferrato da dedicarti ad altro: vieni un po’ alla cattedra.» «Obbedisco professor Arwin» il ragazzo guatò Joelle, poi si dipinse sul volto un falso sorriso e andò a fare sfoggio della propria abilità. * Era ato il tramonto quando il bibliotecario si avvicinò a Joelle per destarla dalla lettura. «Devi scusarmi» disse la voce da lettore consumato, «ma sei rimasta l’ultima ed è ora che chiuda.»
Joelle alzò la testa e scoprì come la maggior parte degli alunni tornati in biblioteca dopo le lezioni, se ne fosse già andata. Alla luce del giorno morente si era sostituita quella costante delle pietre inibitrici. «Sì, mi scusi, ero presa dallo studio» Joelle si alzò e raccolse i quaderni alla rinfusa. «Lascia pure i libri che hai preso, li risistemo io.» «Grazie» la fanciulla dispensò all’anziano bibliotecario una dolce gratitudine. Chissà quando se ne è andato Gabriel, la fanciulla uscì dalla porta ogivale dell’edificio rotondo e il freddo la punse con dita acuminate, strappandole un lungo brivido; Joelle vide le nubi strette sulla capitale minacciare altra neve, e il grosso cedro al centro del chiostro di Malbany che si prostrava, sferzato dalle folate, la bruna corteccia porosa e disgustosa. Salì al primo piano per evitare il freddo e andò verso il dormitorio femminile ando per i corridoi deserti che collegavano le aule sopra i chiostri. L’eco di voci distanti venne spezzato dai i che rimbombarono sui mattoni di cotto e le pietre luminose alle pareti presero a giocare con l’ombra della fanciulla, ingigantendola e affusolandola. La porta posta nell’angolo dove il corridoio piegava a sinistra si aprì e, dall’edificio che al pianterreno ospitava il refettorio e al primo gli uffici dei professori, uscirono due alunni. No, le due serpi no! Pensò Joelle. «Ma tu sei sempre, sempre, sempre l’ultima» Thomas e Tåron si fecero avanti sghignazzando. «Spostati Thomas, il tempo che potevo buttare con te è finito» Joelle si fece coraggio ma i due la bloccarono come quella mattina, nel chiostro. «Ma come siamo scortesi» il biondo le si avvicinò al volto sfoderando un sorriso affilato. «Si può sapere cosa ci fai in giro a quest’ora?» Tåron emerse dalle spalle dell’atletico compagno.
«Potrei farvi la stessa domanda.» «Noi staremo in giro parecchio, cerchiamo una dama per la Festa di Inizio Inverno. Cioè, io più che altro perché per Thomas fanno tutte la fila. Ma forse tu potresti aiutarmi...» insinuò il rossiccio Tåron. «Preferisco la solitudine a una serata con te.» «Sei davvero molto sgarbata» la riprese Thomas, «quello che ti sta offrendo Tåron è un grande onore: credi che troverai uno straccio di ragazzo disposto a farsi vedere assieme a un’eretica? Magari potresti ringraziarlo per la proposta e are questa notte con lui» il sorriso di Thomas rese ancora più laida la bravata. La porta che dava sull’edificio dove ricevevano i professori cigolò, sbatté e un alunno si avvicinò al terzetto, dalla parte dei ragazzi. «Ciao.» Salutò tutti e nessuno e ò oltre, nonostante l’occhiata supplichevole di Joelle. Gabriel, sei un vigliacco, l’iniziale stupore della ragazza mutò in rabbia. Lui fece altri due i, un lungo sospiro e si fermò, come se le avesse letto nei pensieri; strinse i libri e si voltò. «È meglio che non vi facciate trovare qui, voi due.» «Te lo ha chiesto qualcuno? Ti abbiamo già detto che devi imparare a stare al tuo posto!» Lo ammonì Tåron. Gabriel si mise tra Joelle e i molestatori. «Mi è chiara ogni cosa e non cerco guai. Ma ribadisco che non mi sembra saggio che vi facciate sorprendere a molestare una ragazza.» Guardò Joelle, la trovò spaventata ma guardò i compagni con un volto avaro di emozioni. «Non la stiamo molestando, la stiamo “intrattenendo”. E non mi stupisce che tu non sappia riconoscere la differenza: non sei nemmeno in grado di accendere un fuoco decente» sghignazzò Tåron. Lo sguardo di Gabriel si fissò prima su Thomas e poi su Tåron iniziando un duello silenzioso. La finestra a vetri di una bifora si spalancò, un refolo invase il corridoio con il
gelido odore dell’inverno e recò agli studenti brividi improvvisi. «La professoressa Rachel sta scendendo» Gabriel indicò con gli occhi la porta dalla quale era uscito. «Davvero? E tu credi che crederà alla nostra versione oppure che darà retta a voi, che siete più giovani?» Grugnì Tåron. «La professoressa Rachel è più abile di me con gli incantesimi del fuoco e capirà subito la differenza tra molestare e “intrattenere”» chiosò Gabriel. «Andiamo Tåron, non ne vale la pena. Lasciamo i due fidanzatini alla loro intimità» Thomas tirò via dalla contesa l’amico, fece a Joelle una smorfia con la lingua e imboccò il corridoio che conduceva al dormitorio maschile. «Con te facciamo i conti dopo.» Tåron indicò il rivale e seguì l’amico. I due bulli sparirono, Gabriel richiuse la finestra e nel corridoio tornò il languido tepore che era stato frustato dall’inverno. «A quanto pare devo ringraziarti, mi hai tolto da una situazione scomoda» Joelle fece un timido sorriso, felice che Gabriel non avesse ceduto all’omertà. «Dovresti dire agli insegnanti che quei due ti “intrattengono”.» Joelle fece spallucce. «Non sono la sola a subire le angherie di quegli sbruffoni.» «E allora perché non siete in molti a lamentarvi?» «Qualcuno l’ha fatto con Arwin e il professore ha organizzato uno scontro di magia per stabilire chi fosse il più forte tra i litiganti. L’ha chiamata ordalia e ha vinto Tåron: da allora non si è più lamentato nessuno e Thomas fa il bello e il cattivo tempo con gli alunni più vulnerabili» sospirò. «La cosa più triste è che il suo modo di fare piace alle ragazze.» «Capisco. E nessuno si è rivolto a Mirgram?» «Thomas appartiene a una delle famiglie più influenti di Amaradantis. E poi è scaltro e non prende di mira sempre le stesse persone, e si stanca alla svelta. Tra qualche giorno avrà qualcun altro da importunare e non si ricorderà neppure che
esisto. Devo soltanto pazientare un po’» Joelle guardò il pavimento per nascondere la vergogna. «Anche tu sembri vittima delle loro angherie e non dici nulla.» «Il quieto vivere ha un prezzo che non è quieto per niente. Però non voglio grane, non voglio preoccupazioni. Se Thomas si crede il padrone del mondo che continui a pensarlo: basta che non mi disturbi. Buonanotte» Gabriel salutò con un cenno del capo e si diresse al dormitorio. Joelle guardò il ragazzo scomparire lungo il corridoio mentre le pietre azzurre si accendevano al suo aggio e si spegnevano subito dopo. «Gabriel» lo richiamò. «Che c’è?» «Grazie ancora. Davvero. E stai attento a quei due, non sai di cosa sono capaci.» E loro non sanno ciò di cui sono capace io, Gabriel sorrise e scomparve nella direzione presa dai due sbruffoni. Sembra in gamba anche se è arrivato da poco, Joelle attraversò la parte di corridoio che le rimaneva, arrivò al dormitorio femminile, salì al quinto piano, entrò nel salone comune e si tirò dietro la porta ogivale in noce. Le sue compagne si erano stese a circolo su divani, triclini, poltrone e interruppero il ciarlare che le allietava non appena videro la ragazza dai capelli castani. Joelle si fermò e fece un timido saluto ma nessuna lo ricambiò; la fanciulla si diresse alla propria camera e, non appena scomparve, il chiacchiericcio riprese. Joelle rimase nascosta dietro l’angolo del corridoio, e, quando realizzò di come le compagne la chiamassero eretica e la deridessero, corse in camera piangendo. * Gabriel rientrò in camera, ripose il libro che aveva sempre con sé e si gettò sul letto. Mi sono schierato, ancora una volta. Non ci si schiera: quante volte dovrò ripetermelo? Prendere una posizione inimica tutti coloro che non la
condividono. La non-scelta paga più della scelta. Guardò il soffitto di travi di legno, alto. Sospirò e scoprì il fiato condensarsi per il freddo; si alzò e fissò lo specchio, che vorticava. «Accorri schiavo, ho bisogno di te» la turpe voce di Jaquish di Anquelot lo avvolse con le sue gelide spire. «Io…» «Accorri ho detto!» Gabriel fu attirato dallo specchio e rimase sospeso in volo. «Ho terminato il mio fare e ora che nessuno mi molesta con spregevoli suppliche, posso dedicare tutte le mie attenzioni alla vendetta contro quell’elfo che comanda il Vento. Richiamami: è giunto il giorno.» «Ho bisogno di tempo, padrone, non posso evocarvi adesso.» «Stai disobbedendo» uno spasmo colse Gabriel, gli bloccò il respiro e gli fermò il cuore. Dopo un interminabile minuto di morte, Jaquish lasciò che la costrizione del marchio degli schiavi cessasse. «Non tollero che mi si disubbidisca.» Gabriel vomitò contro lo specchio e cadde sul pavimento, redivivo e stremato; rimase a braccia aperte a fissare il soffitto mentre il buio della morte si diradava mitigato dalla luce del cristallo appeso alla parete, sopra lo scrittoio. Recuperò il controllo del corpo con lunghi spasmi. «Evocami» la voce di Jaquish riportò Gabriel alla sconvolgente realtà. «Lo farei padrone» il ragazzo tossì, inebetito, «ma ci sono maghi molto potenti» lo specchio rimase inerte e Gabriel si inginocchiò, lentamente. «La sentirebbero are nel nostro mondo, troverebbero il modo di ostacolarla.» «Mi suggerisci un diversivo?» «Sì, suggerisco proprio questo: occorre distrarli, dare loro altri problemi.» «D’accordo, mio pavido schiavo. Creerò abbastanza terrore e sangue da farli impazzire.»
«Non è necessario, posso provvedere io.» «Lo so che mi aiuterai, Gabriel. E tu non sai nemmeno quanto…»
Lo vedemmo tagliare il cielo con una coda fiammeggiante capace di accecare anche il sole. Il rombo era tale da assordarci e da far tremare gli alberi. I più potenti degli elfi agirono per impedire che distruggesse il nostro pianeta e, dopo un impatto contenuto, ritrovammo il meteorite adagiato sul fondo di un lago che aveva svuotato con il calore della discesa. Lo chiamammo il meteorite di Ulash Biner perché era in questo luogo che cadde ma non era un grosso sasso alla deriva nello spazio. Si trattava di un oggetto metallico, artificiale e soprattutto, portava la firma di coloro che lo aveva spedito o abbandonato. Sopra una placca d’oro c’erano le informazioni per replicare la struttura genetica dei suoi creatori e, probabilmente, le informazioni per raggiungerli. Agli scienziati che erano alla ricerca di una nuova arma da scatenare sugli orchi, l’accaduto parve come un messaggio mandato da Shana e non faticarono a seguire il codice genetico contenuto nel meteorite e a creare l’arma definitiva. Ora saremmo da biasimare e da punire per la perversione di quanto facemmo ma in quei giorni terribili, in quei giorni nei quali la nostra razza rasentò l’estinzione, l’essere deprecabile non ne inficiò la necessità.
Ricordi - Éireamhón, profeta elfico
IV – Il prigioniero o l’ospite
Gwenaelle uscì dalla tenda che il sole era giunto allo zenit; l’elfa aveva riposato a lungo, rapita da sogni variopinti e da eccessi erotici che ricordava soltanto per alcuni piacevoli particolari: nel primo sogno si spogliava in riva a un lago e il suo amato Erwmysh giungeva portato da un refolo tiepido e la possedeva sopra uno scisto a picco su una cascata; nel secondo Erwmysh era suo nipote Ergwel ed era anche una stella cadente che precipitava ad amarla contro l’Albero della Vita, violando ogni tabù; il terzo sogno infine diveniva il primo, ricominciando nel momento più piccante e piacevole con Ergwel che si era sostituito al padre possedendola con rinnovato vigore e, soprattutto, con maggior perversione. Gwenaelle si prese i capelli biondi e li raccolse in una complessa treccia. Non ho ancora iniziato e già ho il mal di testa, Gwenaelle ripensò a quanto le fu
spiacevole destarsi. In sogno, tuttavia, era stata folgorata da un’intuizione circa gli esperimenti che intendeva condurre sul berserker che avevano recuperato a Bosco Nebbioso e desiderava informarne Ergwel. Quelli che ho fatto non sono sogni degni di chi sta a capo della fazione degli intellettuali, prese la direzione del cromlech dove aveva imprigionato il berserker. Devo riprendere gli studi a mente serena; non sono che eccessi onirici da giovincella in calore . Il vento che spirava dal bosco era pungente e sapido di muschio. Gwenaelle si strinse nel mantello di lana e si affrettò a are tra le tende degli ortodossi, deserte. Giunta alla tenda riservata al padre del popolo, vi entrò senza perdere tempo in formalismi: all’interno, seduti davanti al fuoco, sedevano Ergwel, Maolóráin, che era l’elfo ortodosso più anziano, e gli intellettuali che seguivano gli studi sul berserker. «Ben svegliata Gwenaelle, hai riposato bene?» Ergwel le porse un calumet . L’elfa incrociò lo sguardo del Gran Sacerdote, il padre degli elfi ortodossi, arrossì e rifiutò la pipa. «Stanotte ho sognato che riuscivamo a ridurre la complessità del problema prelevando dal berserker il midollo spinale.» Maolóráin tossì come se avesse ispirato il fumo per la prima volta; si ò il palmo della mano sulla fronte, sollevando i capelli biondi che gli coprivano le prime rughe. «E da dove intenderesti prelevarlo?» Gwenaelle si irrigidì. «Tra le prime due vertebre lombari, è ovvio. Tu non lo prenderesti da lì?» «Non intendevo contestare la tua intuizione» precisò l’elfo, «tuttavia mi pare azzardato: si tratta di un’operazione delicata che potrebbe danneggiare il sistema nervoso dell’esemplare.» «Comprendo le tue paure ma ritengo che i neuroni siano la chiave per capire il lavoro di Erwmysh. Inoltre, anche se dovessimo danneggiare la cavia, l’importante è che viva, non che sia funzionante. Senza contare che un’eventuale regressione di una menomazione ci darebbe importanti informazioni sulle capacità rigenerative dei tessuti. In ogni modo tocca a nostro padre decidere cosa ne sarà dell’esemplare.»
Il calumet arrivò a Ergwel che fumò a lungo prima di prendere una decisione. «Che probabilità abbiamo che la tua intuizione sia esatta?» Gli occhi grigi di Ergwel fissarono l’intellettuale. «Non ne ho idea, ciò che abbiamo recuperato degli studi di Erwmysh non è sufficiente a capire come abbia fatto a ottenere un simile risultato: procedo per tentativi, cercando di capire la metodologia.» Ergwel sospirò e tornò a fumare. «Maolóráin, tu che ne dici?» «Gwenaelle è la più erudita tra gli intellettuali: se dice che occorre analizzare il sistema nervoso, allora è sul midollo che dobbiamo concentrarci. In fondo è solo un essere umano dal genoma potenziato.» «Voi due che ne pensate?» Si rivolse agli altri elfi, che si trovarono concordi con l’ipotesi di Gwenaelle. «Puoi procedere allora. Mi raccomando, con tutti voi, da quello che scoprirete dipendono le sorti del nostro credo.» Un fastidioso chiacchiericcio arrivò a disturbare la riunione nella tenda. Lwnarmysh, l’elfo che aveva rischiato la vita combattendo contro il berserker a Bosco Nebbioso, entrò nella penombra della tenda, sapida di tabacco, sfoggiando un’espressione inebetita. «Padre, Ashleen ed Edwcht sono di ritorno dalle terre di Alesia.» «Falli entrare, che aspetti?» Lo esortò Ergwel. «Sì, sì, d’accordo» uscì stranito e per poco non inciampò. Da fuori giunse il chiasso degli ortodossi che parlavano uno sull’altro. Edwcht aprì la tenda e fece entrare Ashleen, che raggiunse il circolo e sedette, inginocchiata. «Salute a voi fratelli, e a te, padre.» «Salute a voi tutti» aggiunse Edwcht, sedendole accanto nella medesima posizione.
«Salute a te, Ashleen, e a te, Edwcht» Ergwel ò ai due elfi il calumet ed essi fumarono, scambiandoselo più volte. «Che notizie recate dai regni degli umani?» «Alesia è caduta» iniziò Ashleen mentre il trambusto, fuori, non accennava a diminuire, «e gli orchi sono giunti sino ad Antioch, dove i nani e gli umani li hanno sconfitti nella più grande battaglia che la loro storia ricorderà. Il nostro fratello Erwmysh, il lich evocato dagli orchi, è morto e la sua anima ora è in pace» vide Gwenaelle struggersi per la sorte dell’elfo che amava. «Gli orchi hanno risvegliato le Scaglie Nere ma queste sono state sterminate dalle Scaglie di Rame, che si sono schierate contro Kaerwood. Gli orchi controllano il territorio che fu di Alesia, sino al fiume Spin, e una tregua è stata stipulata con i nani e con gli umani. Il Sigillo della Terra appartiene ora a Laoden di Alerbia, il bastardo.» «Ho percepito grandi cambiamenti anche nel Vento» indagò Ergwel, cui era tornata la pipa. «È così» intervenne Edwcht. «A tal proposito infatti, rechiamo un prigioniero. O forse è un ospite.» Gwenaelle scattò in piedi, sbalordita, inviperita. «Avete portato un estraneo tra noi? Come vi è saltato in mente? Ashleen, tu eri stata mandata con lui per evitare che commettesse scempiaggini di tali proporzioni.» Edwcht non rispose, guardò Ergwel, che fece cenno all’elfa di tornare a sedere e a lui di spiegarsi. «È un elfo, padre.» «E immagino che sia lui che ha creato questo seccante trambusto.» «Tu lo dici.» «Bene dunque, portate questo prigioniero, o questo ospite, presso di noi.» «Chi è?» Domandò la voce greve di Gwenaelle. Edwcht si alzò e andò verso la pelle che fungeva da entrata alla tenda e invitò l’estraneo a seguirlo nella penombra della tenda, sino a inginocchiarsi tra lui e Ashleen.
L’elfo portava i capelli lunghi, scuri, raccolti in una coda che, inginocchiandosi, sfiorava terra; aveva gli stessi occhi grigi di suo padre Erwmysh, il medesimo sorriso di suo figlio Ergwel e il naso dal profilo sfuggente di Raylyn, sua sorella e madre di Ergwel. «Salute a voi tutti, chiedo di essere ascoltato» disse con voce argentina. «Gwyllywm?» La grinta mostrata da Gwenaelle evaporò, l’intellettuale strabuzzò gli occhi e svenne. Maolóráin scattò in avanti e afferrò l’elfa prima che cadesse a terra, sorreggendola tra le braccia. «Tu, mio caro ragazzo, prima ancora che venga stabilito se sei prigioniero od ospite, hai un discreto numero di vicende da raccontarci.»
*
Quando Gwenaelle riprese i sensi, si trovò distesa su un giaciglio di pelli d’orso che avevano l’odore di Ergwel. L’elfo che le stava al capezzale si rallegrò non appena la vide rialzarsi. «Piano, maestra» l’elfo, un giovane dagli occhi castani e i capelli neri pettinati a treccine, le porse le mani ma Gwenaelle le spostò, stizzita. «Dwmnal?» L’elfa avanzò verso l’entrata della tenda, barcollando. «Dove sono gli altri?» «Sono al cromlech dei cromlech, maestra, sono già riuniti perché sei rimasta svenuta a lungo.» Gwenaelle scostò il lembo di pelle che fungeva da porta e seguì il vociare degli elfi mentre il giovane Dwmnal cercava di aiutarla. Arrivata al circolo di monoliti bluastri, vi entrò facendosi largo tra gli ortodossi che si erano zittiti e raggiunse il posto che era stato lasciato vuoto per lei; si sedette in corrispondenza del sole malaticcio che precipitava sull’orizzonte. «Va tutto bene Gwenaelle?» Ergwel la seguì con lo sguardo, turbato dallo
svenimento. L’elfa fece un bel respiro e preparò una voce distaccata. «Tu dovresti essere morto da quasi un secolo. Erwmysh e Raylyn erano stati mandati a ucciderti» ignorò la domanda e ne pose all’ospite. «Ho già spiegato quel che è accaduto e» Gwyllywm fu interrotto subito. «Fai silenzio, voglio risentirlo dalla tua bocca, voglio leggerlo nei tuoi occhi» ruggì Gwenaelle. Karkfwyn, il portavoce dei guerrieri stava per interrompere quando Ergwel lo quietò e fece cenno a Gwyllywm di accontentare l’elfa. «Erwmysh e Raylyn mi rinchio in una delle due spade che ho consegnato.» «Disubbidirono agli ordini del consiglio, dunque.» «Lo fecero per non perdere gli esiti delle mie ricerche sulle mutazioni dei berserker.» «Questo è irrilevante. Come sei uscito da quella spada?» «Gli umani che attaccarono il popolo, coloro che divennero miei compagni nel mio vagabondare da revisionista recuperarono la spada dove ero prigioniero e, otto anni fa, venni liberato. Poi giunsi a controllare il potere del Sigillo del Vento.» «Che cosa ci fai qui, perché sei tornato? Tu sei un traditore, sai qual è la sorte che ti aspetta?» «Come ho già detto prima che arrivassi, mio nonno Glwmwn e mio padre Erwmysh alterarono i miei ricordi per convertirmi alla loro rispettiva religione. L’ultimo ricordo, quello che faceva di me un ortodosso a pieno titolo, lo strappai a Erwmysh, tre settimane or sono, al termine della battaglia di Antioch.» Gwenaelle tremò, poi sentì la rabbia avvampare. «Sei tu che hai ucciso ciò che rimaneva di Erwmysh?» Gwyllywm abbassò lo sguardo e confessò. «Sono io che l’ho ucciso anche la
prima volta.» Gwenaelle guardò Ergwel e Karkfwyn, e non vide meraviglia nei loro occhi. «Il corpo di Erwmysh tornò tra noi, ma egli volle essere sepolto» Gwenaelle lo disse con voce che tremava. «Raylyn non partì solo per vendicarne la morte, ma per impedire che scoprissimo che non ti aveva giustiziato.» «Raylyn non tornerà» Gwyllywm fissò Gwenaelle. «Lo sappiamo, forse lo ignori ma i sedici guerrieri delle tribù erano giunti a proteggerti quando l’affrontasti, nella Foresta del Vento. Ora dovremmo essere noi a giustiziarti, non capisco perché tu sia tornato» la voce di Gwenaelle tagliava come un pugnale. «Comprendo bene il tuo astio, ma vi reco la mia arte. Sono tornato con il Sigillo del Vento, per mantenere la promessa fatta al popolo. Il Gwyllywm che vi ha tradito, quello che ha ucciso Erwmysh e Raylyn, ebbene, non sono io.» Gwenaelle rimase a fissarlo esterrefatta e, quando lo sguardo spavaldo le divenne odioso, ò a guatare i volti dei compagni. «Voi tutti non mostrate i miei dubbi: cosa c’è che non so?» «Conosco il modo di replicare gli esperimenti di Erwmysh» puntualizzò Gwyllywm. Gwenaelle rabbrividì. «E dunque?» «Egli è venuto con me e con Ashleen senza opporre resistenza» si azzardò a spiegare Edwcht, l’elfo che aveva aperto le porte di Alesia agli orchi di Karm-At-Oll. «Ha condiviso con noi un lungo viaggio, non è il traditore che conoscevamo.» «Le tue parole sono prive di senso» l’interruppe Gwenaelle, «come pensi che si sarebbe dovuto comportare un traditore?» «Non ne ho idea, ma considerando il potere che detiene avrebbe potuto fare ciò che più desiderava» Ashleen appoggiò il compagno. «Invece è qui a subire le tue minacce.»
«Siete due faciloni» Gwenaelle fece sussultare i due elfi che avevano risparmiato Gwyllywm durante la battaglia di Antioch, «e nessuno dotato di un briciolo di cervello farebbe la pelle a due creduloni disposti a condurlo nella tana del nemico senza fare troppe domande.» «Sei ingiusta con noi» Ashleen alzò la voce. «Noi abbiamo seguito Erwmysh soffocando nel puzzo insostenibile del sudore degli orchi, nell’afrore dei lupi giganti e del loro sterco; abbiamo parlato con lui ed egli era lucido nella sua nonmorte, egli aveva la saggezza dei vivi e il limpido disincanto di chi non tempera le proprie visioni con la paura della morte. Erwmysh ci disse che aveva visto il futuro e che saremmo tornati presso il popolo con Gwyllywm.» Edwcht continuò a spiegare da dove si era interrotta la compagna. «Erwmysh ci disse che avrebbe fatto ogni cosa, anche affrontare la fine della non-morte affinché Gwyllywm ne condividesse il dolore e ne comprendesse gli intenti» riportò ogni cosa che gli era stata detta. «Erwmysh ci disse che il suo sacrificio era necessario e che l’ortodossia ne avrebbe tratto vantaggi come mai prima di quel giorno. Tu, mia cara, non vedi l’orizzonte che ci ha offerto.» «Tutto questo è ridicolo. Tu Edwcht, proprio tu che ti sei fatto are sotto al naso un intero esercito di orchi presso l’Albero della Vita, mi accusi di cecità?» Ringhiò Gwenaelle anticipando qualsiasi intervento di Ashleen. «Tu invece» indicò il figlio di Moad, «tu sei un traditore, sei un mistificatore!» Il popolo rumoreggiò ma nessuno si intromise. «Mia cara Gwenaelle, sarebbe d’uopo che il popolo conoscesse le vere ragioni dell’astio che provi nei miei confronti» la piccò poiché conosceva il sentimento che la legava a Erwmysh e l’amore che egli nutriva ancora per sua moglie Moad. «Mio padre e mio nonno agirono sui miei ricordi per inculcarvi verità viziate: sono io che ho subito un inganno, non questi due compagni che mi hanno riconosciuto. Dopo che ho ritrovato l’ultimo frammento dal mosaico mnestico che mio padre aveva ricomposto per me, essi hanno creduto. Sono io che devo chiedere giustizia per un torto subito.» «Tu hai ucciso Erwmysh» pronunciò il nome dell’elfo con un singhiozzo strozzato, «colui che fu tuo padre secondo le usanze del popolo ma che lo era anche secondo le leggi della natura. E hai ucciso Raylyn, che fu tua madre ed era tua sorella. Non abbisogno di citare altri tuoi crimini per rendere l’idea di quanto
sia stato mostruoso il tuo comportamento e di quanto sia deprecabile il tentativo di giustificarlo.» «Parli di cose che ignori: soltanto attraverso il sacrificio di Erwmysh ho compreso chi sono. Egli non è morto, egli vive in me e nelle scelte che farò. Egli mi ha trasmesso la sua conoscenza, il suo livore, la sua possanza. Io non sono il Gwyllywm che vi abbandonò e che uccise suo padre e sua sorella. Tu vedi soltanto il contenitore materiale di quel Gwyllywm.» «Non credo a una sola delle tue parole, voglio un confronto» Gwenaelle aveva il volto di una cariatide. «C’è una questione più importante da esaminare» la richiamò Ergwel, il grande sacerdote, l’attuale padre del popolo. «No, padre, permettimi di dissentire: siamo qui tutti e mi sembra il momento migliore per dibattere questa questione. Costui che è stato portato presso di noi è un traditore, è un elfo che ha rinnegato suo padre, sua sorella, tu che sei suo padre e suo figlio, e tutti noi per abbracciare il credo revisionista. Egli dovrebbe essere sottoposto alla stessa pena che gli fu inflitta alla sua fuga: la morte.» Gli elfi rumoreggiarono ma Ergwel li zittì. «Mia cara Gwenaelle, potresti avere ragione circa il comportamento di Gwyllywm se non fosse corretto ricordare che a Erwmysh e a Raylyn fu dato il compito di ucciderlo e che essi ci ingannarono.» «Allora lasciami aggiungere che proprio perché il popolo è vittima di molteplici inganni è ora che si faccia giustizia una volta per tutte. Ci era stato detto che Gwyllywm di Si’phir era tornato un nemico e che era stato ucciso. Ora non mi interessa giudicare il tradimento di Raylyn o di Erwmysh» sussultò nel dire queste parole, «mi interessa invece sapere se costui pagherà per i crimini che commise contro di noi» qualcuno tra gli ortodossi diede ragione a Gwenaelle, a voce alta. «Come vedi io non sono l’unica a sentirsi in pericolo. Gwyllywm di Si’phir» pronunciò il nome a denti stretti «ha ucciso nostra madre Raylyn e nostro padre Erwmysh ben due volte.» «Egli non sembra il Gwyllywm di Si’phir che ci abbandonò decenni or sono, egli sembra piuttosto il figlio di Moad che apparteneva al popolo. Non credo di essere l’unico a percepire questa differenza.» «Non raccontare fandonie, Ergwel!» Gracchiò Gwenaelle sbalordendo i presenti
per la mancanza di rispetto. «Né tu, né io, e nemmeno egli stesso» indicò Gwyllywm, «possiamo dire con certezza chi sia. Ricordiamo tutti benissimo cos’è successo. Eravamo a un o dal sintetizzare l’alchimia per ottenere i berserker quando è scomparso per fare comunella con dei sudici esseri umani. Adesso la sua mente sarà una palude dove si mischiano le acque melmose della menzogna a quelle cristalline della verità. Suo padre e suo nonno hanno creato ricordi nuovi e modificato quelli esistenti: egli non sa in cosa credere, o meglio, sa in cosa credere ma a questo punto non possiamo essere noi a credere che egli vi creda.» «Quest’ultimo aggio non è molto chiaro» chiosò Ergwel con un bieco sorriso. «Lo è invece! Egli era un ortodosso anche quando ci tradì: era uno di noi anche allora. Io mi rivolgo al popolo» disse allargando le braccia. «Io credo che la decisione di lasciarlo agire tra di noi come se nulla fosse successo richieda una votazione e non l’opinione singola di nostro padre. Per rimanere tra noi, Gwyllywm figlio di Moad deve essere assolto dalle accuse sul suo conto.» Ergwel chiuse gli occhi, poi comprese di avere addosso gli sguardi di tutti. Non si attendevano da lui una decisione per seguirla, attendevano un’opinione per giudicarla. «Vuoi un processo con un giudizio del popolo?» «Ci fu già un processo che terminò con la sua condanna, ma se ne abbiamo bisogno ancora, allora che sia fatto» annuì Gwenaelle, soddisfatta. «Chiedo di potermi difendere da solo, padre» la voce chiara di Gwyllywm fece sussultare molti dei suoi nuovi compagni. Ergwel si voltò verso Gwenaelle e poi verso il popolo. «Volete che si difenda da solo?» Un rumoroso plebiscito acconsentì. «Bene Gwyllywm, il popolo ti concede la parola» gli elfi si sedettero per assistere alle arringhe. Il figlio di Moad si portò accanto a Gwenaelle. «Ricordo i giorni che precedettero la mia fuga. Ricordo che per molti anni sono stato vostro padre, come lo è Ergwel ora e come lo fu Erwmysh prima di me. Ma non farò appello a
quel ato per difendermi. Il corpo che vedete ha ucciso Raylyn e Erwmysh e combattuto contro l’ortodossia. Ashleen ed Edwcht mi hanno visto combattere contro l’Orda e hanno visto come ho ucciso mio padre. Essi sono stati partecipi delle scelte di Erwmysh e di quanto ho appreso dai cristalli permanete che egli mi lasciò. Potrei raccontarvi per ore ciò che è stato e che fu, ma non lo farò perché ho con me tali cristalli e invito a prenderli per scoprire cosa sono diventato. Il Gwyllywm che giudicate oggi non è quello che giudicaste un secolo or sono, tuttavia, deve bastarvi la mia parola riguardo alle mie future intenzioni. Non posso biasimare coloro che pensano che potrei tradirvi ancora, che potrei fuggire con il berserker, distruggere ogni scoperta e tagliarvi la gola nel sonno: so che pensieri assalgono coloro che mi disprezzano, ma ciò vuol dire guardare al ato senza conoscere nulla del bene generale. Eppure, occorre che coloro che mi temono votino senza paura e che coloro che mi stimano votino disincantati, perché oggi il popolo affronta il bene generale: i vantaggi che avrete dal mio ritorno sono superiori a quelli che avrete dalla mia morte» Gwyllywm si risedette e rimase in silenzio, cupo. «Mi è concesso dire due parole?» Un elfo si alzò, ma rimase dove si trovava. Aveva uno sorriso gentile e spostò i lunghi capelli biondi che gli ricadevano sul viso. «Maolóráin, parla pure.» «Io sono il più anziano ma sentite raramente la mia voce. Eppure non faccio più caso alle volte in cui i più giovani parlano e vedono nel mio silenzio una conferma della bontà delle loro tesi. Ebbene, io ho visto crescere tutti voi e ricordo i volti di coloro che diedero vita allo scisma. Sono abbastanza anziano da avere qualche capello bianco e piccole fossette attorno agli occhi, e abbastanza da non agire contro l’interesse comune. Gwyllywm è un elfo astuto e la sua arringa mi costringe a spiegare ai più giovani cosa significhi bene generale. Io e Gwyllywm ci conosciamo bene, sembra ieri il giorno in cui comparve per abbracciare l’ortodossia e unirsi al popolo, e ciò acuisce in me il sospetto che il callido figlio di Moad abbia macchinato la sua arringa preparando il mio intervento. Ebbene, ogni volta che ci esprimiamo circa il bene generale, è in vista di questo che dobbiamo ragionare: ognuno di noi non dovrebbe votare come sé stesso, ma come fosse un rappresentante dell’ortodossia. Molti di voi pensano che sia la stessa cosa, ma non è così: il bene di tutti noi non è la somma di ogni singolo bene, bensì qualcosa che va oltre. Credo che Gwenaelle abbia delle buone ragioni per il voto che intende dare, e credo che ne abbia anche
Ergwel; eppure entrambi non dovrebbero votare come se fossero Gwenaelle o Ergwel, ma come due membri del popolo» prese una breve pausa, poi vide che alcuni tra i più giovani non capivano. «Se ognuno di voi cercasse di far are il proprio interesse non avremo il bene generale ma una somma di interessi particolari, il che è diverso e pericoloso: avremmo infatti un gruppo di elfi dove ognuno cerca di imporre il proprio interesse. Ricorrerò a un esempio: millenni or sono decidemmo di limitare la potenza degli incantesimi più distruttivi per non consumare troppo mana. Se a quel tempo gli elfi avessero deciso di non autolimitarsi, inseguendo gli utili particolari, ora il mana sarebbe appena sufficiente a una fiammella. Gli elfi di quei tempi scelsero per il bene generale e non per quello individuale: quella decisione ha recato enormi svantaggi a ognuno di loro e ne reca tuttora a ognuno di noi, ma ha portato un grande giovamento a tutti perché usiamo ancora la magia. Oggi saremo costretti a decidere con lo stesso metro» l’elfo si risedette mentre gli altri iniziarono a borbottare. Gwenaelle si insospettì e per evitare che Maolóráin convincesse qualcuno a schierarsi contro di lei, scoccò l’ultima freccia del suo arco. «Posso chiedere una votazione palese, padre?» Fino a questo punto arriva il tuo odio? Vuoi anche vedere in faccia coloro che non ti appoggeranno? Lo sguardo di Ergwel parlò per lui ma quello di Gwenaelle sembrò rispondergli a tono. «Che alzino le mani dunque coloro che sono contrari a una votazione palese» alla domanda di Ergwel si alzarono soltanto le mani di Gwyllywm e Maolóráin. Prevedibile, pensò Gwenaelle, soddisfatta. «Bene dunque: che alzino le mani coloro che vogliono giudicare Gwyllywm figlio di Moad per i crimini che tutti conosciamo» domandò allora Ergwel. Gwenaelle alzò la mano e attese a lungo, e invano, che qualcuno la imitasse; dopo un’attesa silenziosa e sterile, si schierò con lei soltanto il giovane Dwmnal. Sgomenta e disgustata, l’elfa abbassò il braccio e strinse i pugni; i suoi occhi si fiammeggiarono e le sue labbra sensuali disegnarono una smorfia raccapricciante. «Voi dovete essere tutti impazziti» sentenziò. «Vi pentirete di questa scelta. Ve ne pentirete quando sarà troppo tardi.» «Gwenaelle, che ti è preso?»
«Siete tutti dei pazzi» berciò lei «e siete talmente pazzi che è impossibile scorgere l’orizzonte del vostro delirio.» «Cosa c’è che non va, vorresti anteporre al bene generale i tuoi interessi?» «Tu sei pazzo come loro Ergwel, e sei il primo sul quale il germe della follia ha fatto presa. E in quanto al bene generale, Maolóráin è un furbone che dimentica come una combriccola organizzata di scriteriati non abbia diritto di decidere per un sano di mente. Non voglio are notti insonni finché questo traditore giungerà a pugnalarmi nel sonno.» «Ora le tue accuse diventano ridicole.» «Davvero credi questo? Davvero il popolo crede che io sia impazzita?» Nessuno osò fiatare. «Bene dunque» sentenziò Gwenaelle, il volto tirato, gli occhi gonfi. «Io sono convinta che stiate tutti sbagliando» Maolóráin ebbe un brivido, «e quando la maggioranza prende una decisione che la minoranza ritiene sragionante, allora c’è una sola cosa che può essere fatta dai pochi per far ragionare i molti.» «Ti invito a desistere da quello che stai per chiedere, Gwenaelle» Maolóráin balzò in piedi ma lo sguardo dell’elfa era duro quanto l’odio che provava. «Io sono convinta che stiate tutti sbagliando e chiedo il giudizio di Shana» ci fu un sussulto tra tutti gli ortodossi. «Invoco l’ordalia.» «Gwenaelle, sorella, il tuo accanimento non è più legittimo, è patetico» la piccò Gwyllywm. «Davvero? Davvero?» Alzò la voce. «Se è davvero come tu dici, figlio di Moad, allora non hai nulla da rischiare.»
*
«Ti ripeto che stai commettendo una follia, maestra» Dwmnall era l’ultimo elfo entrato nella fazione degli intellettuali ed era da poco arrivato presso il popolo, dopo aver compiuto il pellegrinaggio ad Anchor Seinan dalla tribù dei Lash’Ka; non aveva ancora compiuto settant’anni e Gwenaelle lo aveva preso come allievo. «Sapete che non sono uno di molte parole, maestra, tuttavia oso parlare in virtù della paura che ho di perderti.» «Stanno tutti commettendo una follia e sarà l’esito della sfida a mettere a nudo l’entità dei loro errori» Gwenaelle si massaggiava i muscoli andovi una crema estratta dalla spremitura del tabacco spiniforme. «Non può restare tra noi.» «Dicono che sia più forte di te» l’elfo dai capelli biondi tagliati corti ò la cote sulla daga, un’arma dalla lama curva e dal manico d’avorio intarsiato, «e che sia più abile di te con la spada.» L’elfa fece una smorfia. «Dicono anche che sia più agile di te e più dotato nonostante tu sia la rappresentante degli intellettuali.» «Si vede che non hai mai assistito a un’ordalia» Gwenaelle raccolse i capelli biondi in una coda di cavallo sulla testa. «È un duello, non capisco che ci sia di difficile da capire.» Gwenaelle si svestì e Dwmnall ebbe un sussulto quando ne vide il corpo nudo e sodo. «Che hai da guardare, non hai mai visto una femmina?» Rise. «Sei ingenuo, mi stupisco di come vi abbiano imbonito i saggi delle Sedici Tribù. I revisionisti stanno creando checche incapaci di badare a loro stesse» si rattristò. «Siamo l’ombra del popolo fiero che eravamo un tempo.» «Credete davvero che sia un elfo effeminato, maestra?» Gwenaelle fissò il corpo atletico dell’allievo, poi volse lo sguardo altrove per non provocare alcun fraintendimento. «Io e Gwyllywm di Si’phir combatteremo nudi, usando soltanto la daga e una rotella» l’ortodossa indicò un piccolo scudo tondo di legno e pelle. «Come credi che sarebbe possibile per una femmina
reggere il confronto di un maschio altrimenti?» Gwenaelle prese a massaggiarsi e mentre si distraeva per spalmare la crema Dwmnall ne approfittava per ammirarla di nascosto. «Lo scontro sarà al primo sangue?» Domandò il giovane per spezzare il colpevole silenzio dove si era rifugiato bramandola. «No, proseguiremo finché uno di noi non si arrenderà o non sarà più in grado di reggere le armi. Sarà decretato sconfitto anche chi utilizzerà incantesimi: capisci adesso perché l’ordalia viene considerata un giudizio di Shana? Non importa quanto sia più forte di me, se la mia lama sarà ben affilata procurerà più dolore.» «Ma perché lo odi tanto? Se quello che dice è vero, i suoi poteri ci farebbero comodo.» «Silenzio! Non voglio più sentire una parola su di lui. Gwyllywm non sa nulla di come si convive ed è opportunista oltre ogni immaginazione. Non è lui che aiuterà noi, siamo noi che serviamo a lui. Egli non ha esitato a mettersi contro di noi, o di nuovo con noi per raggiungere i suoi scopi: un’alleato come lui è meglio perderlo che trovarlo. E poi» si fermò e guardò nell’angolo della tenda, dove teneva un diadema che le fu donato dall’elfo che amava. Me lo ha portato via, pensò. E sua madre Moad è sempre rimasta nel cuore di Erwmysh. «E poi?» La incalzò Dwmnall. «Niente di importante. Dammi il pugnale e vattene, ho bisogno di concentrarmi.» Dwmnall annuì servizievole e uscì dalla tenda. Gwenaelle afferrò una radice di aconito e vi affondò la lama più volte, sincerandosi che tutta la lama ne venisse a contatto. «Bene figlio di Moad, vediamo se sarai in grado di resistere anche a questo» rinfoderò il pugnale, disintegrò la radice velenosa e si preparò a sconfiggere l’elfo che gli aveva strappato l’amato Erwmysh.
Carissime cugine, approfitto di una pausa serale per scrivervi. La vita all’Università trascorre lenta e monotona. Mi sono iscritto a molti corsi ma ho fatto poche amicizie: il tempo che impiegherei per nuove conoscenze mi precluderebbe gli approfondimenti necessari affinché la mia Arte cresca come spero. Perdonate se non sono tornato a farvi visita ma dedico tutto il mio tempo a leggere, prendere appunti e studiare. Gli insegnanti sono tipi eterogenei e fuori di testa. Ve ne descriverò alcuni acché possiate farvi un’idea del calderone di svitati dove sono finito. Arwin insegna le magie del fuoco ed è fissato con la gerarchia e il rispetto degli ordini; credo che si toglierebbe la vita se gli ordinassero di farlo. Rachel insegna magie dell’acqua, è una vanesia che gioca a fare la seduttrice con tutti i colleghi ma è l’unica che cerca di affinare più il nostro estro che lo stile. Isabella è l’insegnante di magie curative, è una donna attraente ma sovrappeso che ha superato di poco l’età per maritarsi e possiede un istinto materno senza precedenti. Alioth insegna magia dell’illusione ed è convinto che la realtà non sia che un insieme ordinato di illusioni. Simon è l’insegnante delle magie della terra e alterna momenti in cui incita l’estro ad altri di cieca rigidità. Nel corso di studi che ho scelto c’è addirittura uno gnomo che insegna alchimia! Perdonate ancora se non mi faccio vivo, presto tornerò a trovarvi, lo prometto. Un bacio. Lettera a Marian e Beth – Gabriel
V – Due solitudini
«La collaborazione e il rispetto degli ordini sono essenziali» Alioth alzò il dito fingendo una marzialità che non gli apparteneva. Camminò rigido scimmiottando l’andatura, le movenze e le espressioni del collega Arwin, poi tornò a sedere. «Certo, conosco molti colleghi che vi avranno fatto una testa così con le loro teorie» era un uomo prossimo ai cinquant’anni ma ancora vigoroso e, nonostante l’importante stempiatura, non aveva un solo capello bianco. Il fisico atletico era ingigantito da una cotta di pignolato chiaro e da un farsetto sbiadato dai bottoni e dalle guarnizioni dorate. «Siamo ormai al termine dell’anno e molti
di voi sanno bene qual è la mia opinione circa questo indottrinamento. Lasciate che lo spieghi a coloro che stanno ancora decidendo se inserire la mia materia nel percorso di studi dell’anno che verrà. Ebbene, sentire blaterare di rispetto incondizionato degli ordini, delle regole e della prassi, mi fa defecare.» Gabriel strabuzzò gli occhi. «Sì, e sono stato gentile. Ebbene, il mio corso si occupa dell’illusione, e la sola idea che i miei illustri colleghi si facciano sostenitori dalla cosiddetta illusione del controllo, mi fa appunto defecare; e come nemmeno l’elaterio saprebbe fare. Siamo maghi, non macchine ossidionali» Alioth batté il pugno sulla cattedra. «L’illusione è il punto di contatto tra ciò che è magico e ciò che non lo è» si alzò e prese un libro che stava sulla cattedra. «Ecco, potete tutti vedere questo oggetto ma siete certi della sua esistenza?» Afferrò il libro con entrambe le mani e lo portò dietro la schiena. «La realtà potrebbe non essere come credete» allargò le braccia, senza libro, poi schioccò le dita e questo gli ricomparve tra le mani; lo fece roteare sostenendolo con il polso, trattandolo come lo strumento di un giocoliere e infine lo trasformò in una rosa, che sfiorì. «Nulla di ciò che avete visto è mai esistito concretamente. Chi di voi è riuscito a percepirlo?» Uno studente alzò la mano. «Bene Thomas. Vediamo se sei soltanto uno sbruffone o hai davvero intuito» Alioth attirò un altro libro, che fluttuò sino a lui dalla cattedra. «Dimmi Thomas, questo esiste?» L’alunno si concentrò ma rispose dopo un silenzio fatto di sorrisi recitati. «Sì.» «Questo è vero. Ne siete certi tutti? Tu laggiù. Joelle, ti chiami Joelle, giusto?» «Sì» la fanciulla arrossì. «Bene allora, esiste o è un’illusione?» «Esiste.» «Esiste» ribadì Alioth, stringendo gli occhi a fessura. «Tu, con la veste scura: come ti chiami?» «Mi chiamo Gabriel, maestro» sbuffò il figlio di Lester.
«Sei uno dei nuovi, giusto? Se sei qui, sei interessato al mio corso, e se lo sei è perché ti senti portato per questa faccia della magia. Dimmi dunque, credi che esista oppure no?» «Il libro non si è mai mosso dalla cattedra» rispose come si trattasse di un’ovvietà. La classe si voltò verso il giovane e poi verso il professore. «L’illusione ragazzi: essa scava nelle aspettative e si incunea dove le percezioni diventano certezze e il terreno è più fertile per l’inganno. Quando la mente si focalizza su un concetto, il bravo mago ha già fatto breccia con l’illusione, ma altrove, e prima» Alioth fece scomparire il libro, che riapparve dove era sempre stato. «Il libro esisteva, ma voi siete stati ingannati dalla domanda, vi siete fatti turlupinare dalle parole: ho voglia di vomitare» simulò versi ributtanti. «Soltanto Gabriel è pronto a sostenere l’esame. Peccato che non sia iscritto e che dovrà sorbirsi tutte le noiose lezioni del prossimo anno» fece un ghigno vigliacco e tornò a sedere. «Eravate concentrati sul testo che avete percepito soltanto quello, senza cercare la distorsione creata per traslarne l’immagine» guardò gli alunni dalla cattedra, uno per uno, attendendo che abbassassero lo sguardo. «Tralasciamo la vostra triste incapacità odierna e veniamo alle importanti illusioni delle quali voglio parlarvi. Esse sono le più efficaci e le più difficili da dissimulare. E avvengono senza l’impiego di incantesimi, sebbene la loro stessa esistenza faccia supporre qualcosa di soprannaturale» agitò le mani nel vuoto, allargandole. «Le più grandi illusioni sono le parole e agiscono come vi ho appena mostrato: creano realtà alternative facendo leva sulle aspettative che inducono. Ora prendete appunti: le illusioni più grandi sono le convenzioni e i ruoli. Voi pensate che io sia un insegnante, eppure ciò che è oggettivamente percepibile è che sono un uomo che parla. Siamo in un’aula rettangolare dalle pareti rivestite di legno, con tre grosse bifore che danno luce ai banchi degli ascoltatori, disposti su quattro file discendenti verso una cattedra; cattedra che in realtà è un tavolo più grosso disposto in posizione contraria a tutti gli altri. Questo è ciò che vedrebbe un osservatore esterno se fosse all’oscuro delle convenzioni che per noi danno valore al tutto: noi interpretiamo gli accadimenti alla luce dei presupposti cui siamo stati educati. Tali presupposti sono illusioni, potremmo definirle “primitive”: sono il principio degli inganni che dovrete smascherare; un buon mago riconosce le illusioni per crearne di nuove e migliori.»
Alioth sedette e accavallò le gambe. «Con la magia potete creare un’illusione che spinga una persona a comportarsi come volete: potete creare un mostro che terrorizzi la fanciulla che amate e intervenire a sconfiggerlo, ma come imporre gratitudine a migliaia di persone? Potete creare un pericolo che spaventi un popolo intero, per costringerlo a credere che abbisogni dei vostri servigi? Potreste diventare consiglieri di un ambizioso feudatario creando i presupposti del vostro intervento: potreste generare una carestia che soltanto la vostra magia può interrompere. Oppure potreste seminare zizzania per condurre i popoli a conflitti che solo voi potete pacificare. E il più delle volte senza magia. Se qualcuno minacciasse in tale maniera l’Impero, voi sapreste affrontarlo?» Alioth si alzò e eggiò intorno alla cattedra, galleggiando nell’aula intrisa di silenzio. «Secoli prima di oggi si ebbe un periodo caratterizzato da grandi guerre e immensa povertà. Gli abitanti delle città del nord dell’Impero si ribellarono, sobillate dai nobili: l’Imperatore istituì la leva straordinaria e nuove tasse e nella stessa Amaradantis il dissenso portò l’Impero sull’orlo del tracollo. Nessuno voleva più morire e pagare dazi per l’orgoglio dell’Imperatore. Un mago dell’Università scongiurò la ribellione coniando una parola nuova. Stato. Le guerre si combattono ancora in base alle scelte del Consiglio Militare, e le tasse vengono imposte dalla Tesoreria Imperiale ma non si pagano le tasse per arricchire l’Imperatore ma per rinforzare lo stato; e si combatteva per rendere un servigio all’Impero. L’Imperatore regna e decide ma il volgo lo crede la pedina di un gioco che ne trascende gli interessi. Ordini e tasse non sono più percepite come imposizioni ma l’espressione inevitabile di una suprema coerenza ed efficacia cui ogni suddito deve attenersi. Ora vi confido che deve sussistere un motivo valido per obbedire a un ordine, poiché esistono soltanto parole: sono ordini se credete che lo siano» Alioth alzò un dito e attese. «Obbedire a un ordine ha senso se questo è dato con cognizione di causa: obbedire a un ordine che crea inutili complicazioni è sbagliato quanto darlo. Per questo ognuno di voi deve essere erudito in ogni arte: un mago deve vedere con spirito critico, deve saper contestare gli ordini e cercare alternative: è questo che consente alle idee e alle strutture di perfezionarsi, ed è il confronto che spinge gli uomini a diventare migliori. La cieca sudditanza è schiavitù: obbedire a un comando fatto su una materia che ignorate non vi rende migliori di un cane; il suddito virtuoso risolve un contenzioso per consentire al signore di non errare. Un regno dove i sudditi
temono coloro che li governano e cedono all’ignavia, appagando la loro sordida omertà con la prospettiva di un piacere subitaneo è un regno di servi paurosi e illusi; è un regno eretto in attesa che cada» batté il pugno sulla cattedra. «I soldati rifuggiranno la battaglia quando troveranno un orrore maggiore di quello che intima loro di combattere. È confidare nell’utilità dell’agire che vi conferisce una forza che nemmeno il più raccapricciante degli orrori può svanire, ed è a tal fine che le illusioni come lo Stato sono state concepite. Io non conosco quale sarà il prossimo inganno che spingerà il volgo a pagare e a morire per l’Imperatore, conosco tuttavia il luogo dove sarà concepita e chi ne sarà padre: sarà un mago formato dall’Università di Amaradantis, sarà un giovane che ha seguito le mie lezioni» fece depositare sulla sentenza un breve silenzio. «Ricordate che i sudditi hanno disperatamente bisogno delle illusioni e invocano a gran voce qualcosa in cui credere. Noi abbiamo, voi avete il dovere di illudere gli uomini, di fornire panacee per i loro mali, Dei in cui credere, miti nei quali riconoscersi, eroi da imitare. E avete il dovere di riconoscere le finzioni per quello che sono e di smascherarle quando divengono nocive. Essere maghi non vuol dire marciare con le truppe per affiancare la fanteria con incantesimi offensivi, vogliono ridurci a essere macchine ossidionali? I maghi non devono pasticciare con decotti e pozioni e nemmeno sostituire i dottori con incantesimi rigenerativi. Non si è maghi perché si vomitano dardi di ghiaccio dalla bocca o si scagliano palle di fuoco dal culo. Ditemi, ha senso dominare la materia quando il volgo si ribella? Quanti incantesimi potrete opporre a migliaia di forconi? Esseri maghi vuol dire discernere nella realtà ciò che è falso e ciò che è vero perché un giorno del futuro prossimo venturo, le guerre si combatteranno deformando la percezione degli individui, non soggiogandoli con le catene. Il mio corso serve a prepararvi a questo» terminò indicando gli studenti con entrambi gli indici. * «È libero?» L’orario di chiusura della biblioteca era prossimo e l’aria dell’ultimo piano era densa del tanfo di sudore. Gabriel alzò la testa dal libro e mostrò un volto svilito da una lettura feroce. «Accomodati.» «Sei stato forte con Alioth, questo pomeriggio» Joelle sedette depositando il fagotto di libri e quaderni.
Gabriel voltò il foglio. «Eravate troppo presi a far bella figura per capire che fossero le parole, l’inganno. Talvolta occorre guardare le cose a mente fredda, dall’esterno.» «Senti, non vorrei farmi i fatti tuoi, però...» «Però te li stai facendo» sospirò il ragazzo, interrompendola. Joelle tacque, abbassò lo sguardo e si rinchiuse in un silenzio di pietra. «Perdona la mia scortesia, sono ore che studio e sono molto stanco. Cosa stavi dicendo?» Gabriel abbozzò un sorriso ma i suoi occhi ricaddero sulla pagina. Joelle lo perdonò, appoggiò i gomiti al tavolo e il mento alle mani aperte. Le maniche a gozzetti dell’abito scesero, rivelando mani affusolate e polsi sottili. «Niente, volevo dirti che non è molto saggio studiare gli incantesimi avanzati del fuoco se non hai dimestichezza con quelli di base.» Gabriel leggeva l’elenco dei reagenti per incrementare la potenza di uno degli incantesimi più complicati. «Io studio qui da due anni e non ci provo nemmeno con la pioggia di fuoco. Tu riesci a malapena ad accendere una fiammella, se fossi in te mi concentrerei su qualcosa di più facile. Poi ognuno è libero di fare quello che gli pare» Joelle gli fece l’occhiolino. «Ero curioso di sapere fino a che punto ci si può spingere» Gabriel mentì, sbuffò e chiuse il libro. «Io frequento le lezioni di Arwin da quando sono qui. Più studio gli incantesimi del fuoco, più ne cresce la potenza. Per esempio, la fiamma che accendevo l’anno scorso non era calda e vigorosa come adesso. Credo che non abbia senso parlare di limiti alla potenza degli incantesimi: più sei bravo, più sono potenti.» «Mi convinci sino a un certo punto: una pioggia di fuoco è più potente di una fiammella.» «Non è più potente, è diversa.» Gabriel sospirò. «Credo che tua abbia ragione» fece un sorriso falso. «Penso che
mi concentrerò su qualcosa alla mia portata. Un o alla volta, giusto?» «Bravo, un o alla volta. Se vuoi» Joelle cercò il contatto con gli occhi di Gabriel, «se vuoi posso darti una mano.» Il ragazzo si guardò intorno. La sala andava svuotandosi e i pochi alunni rimasti erano chini sui libri, affaccendati, silenziosi. «Non voglio in alcun modo recarti disturbo, lo studio ti darà spunti molto più interessanti che fare da balia a un impiastro come me.» «Non è un problema, non lo è davvero» Joelle si alzò e raggiunse Gabriel dall’altra parte della scrivania. «Fammi un po’ di posto» lo scansò e gli sedette accanto; riaprì il libro nelle prime pagine e appoggiò l’indice destro all’inizio di una delle prime formule. Con l’altra mano sistemò una ciocca ribelle di capelli castani. «Talvolta non è necessario dire proprio le parole giuste» sussurrò, «basta sapere bene ciò che fa la magia e ciò che esprime.» Gabriel fece un cenno di assenso, seguì l’evoluzione delle mani e si scoprì attratto dal profumo di Joelle, che proseguiva con la spiegazione. «Hai capito allora?» Concluse lei. Gabriel fece un altro cenno di assenso e si ritrovò a fissare la fanciulla, che sorrise. «Se hai bisogno di una mano fammelo sapere» si alzò, sgambettò al proprio posto e Gabriel le fissò il fondoschiena, sodo nella guarnacca aderente. «Hai già qualcuno con cui cenare?» Joelle raccolse le sue cose. «Non mangio, è tempo perso» Gabriel indugiò sulle labbra della fanciulla. «Non dirmi che sei uno di quei fissati che lenisce la fame con la magia.» «È uno dei pochi incantesimi consentiti...» «Guarda che i cuochi sono bravissimi: non dirmi che non hai mai provato la mensa.» Gabriel sospirò. «Te l’ho detto, ho cose più importanti da fare.»
«Io di solito mangio da sola ma mi farebbe piacere un po’ di compagnia» si rattristò. «Sarà per un’altra volta» Joelle prese i libri. «Allora ciao, Gabriel.» «Ciao» mormorò il mago, guardandola allontanarsi. Joelle scese, arrivò al bancone della biblioteca e firmò l’uscita; Gabriel firmò appena dopo di lei e la raggiunse nel corridoio che conduceva al chiostro di Malbany. «Scusami Joelle, i cuochi sono davvero bravi?» La fanciulla fece danzare gli occhi castani sui lineamenti del viso di Gabriel, poi riprese a camminare con i libri trattenuti contro il bacino. «A me piace come cucinano, ma se non provi di persona non potrai mai saperlo.» «Devo portare i libri in camera.» «Anch’io, ci vediamo tra dieci minuti in refettorio?» Gli occhi della fanciulla vibrarono. Gabriel annuì, Joelle gli sorrise e scappò verso l’ala femminile. * Il refettorio era un sala lunga sei volte la larghezza e chiusa da volte a crociera. Sul lato ovest, accanto al muro spezzato dagli archi ciechi delle semi-colonne che reggevano il soffitto stuccato, restava un tavolone addobbato con una tovaglia color panna e colmo di cibo presentato su scodelle di ceramica; i tavoli riservati agli studenti erano disposti a distanza regolare e abbastanza grandi da tenere sei posti ognuno. Sul lato opposto al buffet, un colonnato apriva vetrate ogivali sugli archi del Chiostro delle Vergini, il giardino piantumato accessibile alle sole fanciulle. Un profumo speziato metteva l’acquolina in bocca e i servitori servivano porzioni generose. Gabriel seguì Joelle e la imitò. Prese un piatto a un capo del tavolone e si fece versare della zuppa di farro nella scodella centrale e poi spezzatino, patate e carote sulla parte esterna del piatto, quasi orizzontale. Joelle si attardò a prendere dell’insalata e Gabriel si avviò verso un tavolo libero. ò accanto al tavolo occupato da Tåron e Thomas e quest’ultimo sporse il piede dalla sedia, facendolo inciampare.
Gabriel finì a terra e il piatto in mille pezzi; il giovane guardò le mattonelle esagonali del pavimento e si rialzò piano. Le risate di Thomas e del suo tirapiedi Tåron furono ingigantite dall’eco del refettorio, sprofondato nel silenzio. Ho evocato abomini da inferni perversi e sono rimasto sospeso tra il mondo degli uomini e universi che a pochi è dato conoscere senza impazzire: esiste una sola ragione valida per non fare carne putrida di questo demente? Gabriel generò un’impercettibile luminescenza nella mano sinistra e fronteggiò il biondo piantagrane; quando fu pronto a mostrargli cosa aveva imparato dai negromanti di Eskiliar, la mano di Joelle prese la sua. «Lascialo stare, non ne vale la pena: lui e Tåron sono soltanto due stupidi.» «Dai retta all’eretica, Gabriel, non ne vale la pena. E in ogni modo non ne saresti capace» sghignazzò Thomas: «non riesci nemmeno ad accendere un fuocherello.» Gabriel mosse le dita simulando un manrovescio e la crema di porri nel piatto del biondino gli imbrattò i vestiti, sospinta da un refolo magico. «Come osi!» Thomas si alzò e afferrò Gabriel per il bavero della cotta. «Voi due, che state combinando?» Un uomo segaligno comparve alle spalle dei ragazzi e incrociò le braccia. Aveva due ipnotici occhi di fuliggine che spiccavano su un volto dai lineamenti tagliati, incorniciato da capelli corti, biondi e arruffati. «Thomas, lascialo andare.» «Gabriel figlio di Lester è inciampato e ha rotto il piatto, professor Simon. Poi mi ha incolpato di averlo sgambettato per non sfigurare davanti a Joelle e infine mi ha sporcato con un incantesimo» la voce glaciale di Thomas apparve sincera. «Non è vero, ti ho visto benissimo: sei stato tu a sgambettarlo per primo» Joelle si infervorò. «E poi che incantesimo avrebbe usato sul tuo piatto? Nessuno potrebbe farlo.» «Che c’entri tu? Non hai visto niente: eri dietro» Tåron si alzò e difese l’amico. «Bene, fate silenzio tutti e tre. Gabriel» Simon invitò il ragazzo a dire la sua.
L’interpellato si ricompose e guardò in terra. «Se mi dice dove sono gli stracci, pulisco.» Le labbra sottili di Simon di Gomblear si infossarono nella barba chiara che gli arrivava sino al collo del lucco di camocato morello. «Gabriel figlio di Lester, ne ho conosciuti di studenti della tua risma. L’atteggiamento ivo e colpevole non mi incanta: questa non è una faccenda che vi lascerò risolvere in privato» l’insegnante si frappose tra i ragazzi. «Sono inciampato, niente di più» Gabriel si chinò a raccogliere i cocci del piatto. «Visto?» Thomas allargò le braccia. Simon attirò due spazzoloni e un secchio d’acqua. «Pulirete entrambi, e senza usare la magia» si rivolse a Gabriel. «Tu perché non hai prestato attenzione con la cena e tu» si rivolse a Thomas «perché invece di aiutare un compagno ti sei messo a deriderlo. Inoltre» aggiunse alzando la voce per sopprimere sul nascere le repliche dei ragazzi, «domani mattina vi voglio da me alle dieci, per una chiacchierata. E non importa se a quell’ora avete lezione. Sono stato chiaro?» Thomas e Gabriel annuirono scocciati e si fulminarono con lo sguardo. «E ora pulite e finite di mangiare. E senza fare altro casino» Simon consegnò ai ragazzi gli spazzoloni e tornò a sedere al tavolo che divideva con Rachel. «Che c’è, sono stato troppo severo?» Simon guardò la collega, che rideva di gusto. «No, è che sei buffo quando fai finta di essere arrabbiato. Sai farmi ridere: è per questo che mangio con te» Rachel inclinò la testa e si ò le mani tra i capelli chiari. «Pensavo che lo fi per l’irresistibile attrazione nei miei confronti» Simon abbozzò una goffa spavalderia. Rachel fece un sorriso materno e Simon tornò a mangiare, sconsolato. Thomas aveva iniziato a spazzare e, non appena Gabriel si chinò sullo spazzolone per raccogliere i cocci, lo colpì alla schiena.
«Scusami, è che non sono pratico con questi arnesi» agitò il manico dello strumento, «non quanto te almeno: sai, a casa mia, i lavori umilianti sono svolti dai domestici.» Gabriel fece un lungo sospiro e iniziò a pulire ma prima che il lavoro terminasse venne per altre due volte colpito da Thomas e sfiorato dall’idea di polverizzarlo; riposti secchio e spazzoloni, il giovane mago riempì un nuovo piatto e andò a sedere accanto a Joelle. «Devi scusarmi, è colpa mia» la fanciulla abbassò il capo, «non sarebbe successo se non avessi insistito a venire in refettorio. Faccio solo casini.» Gabriel infilzò con lo spiedo un pezzo di stufato. «Non devi mortificarti, non potevi sapere come sarebbe andata. Se ti ho seguita è perché ne avevo voglia.» Il viso turbato di Joelle si rasserenò e i suoi occhi nocciola trovarono nuova luce. «Ti ringrazio, sei gentile.» «Non pensarci più, sono cose che capitano» Gabriel infilzò una patata arrosto e terminò di mangiare senza dire più nulla. Joelle osservò il ragazzo e prese a giocare con gli avanzi. Prese un pezzo di patata che non le andava e lo mosse sulla patina di zuppa, disegnando la lettera G, che subito cancellò. Picchiettò con la patata infilzata sul bordo del piatto, mordendosi le labbra, e infine, quando scoprì che Gabriel non sembrava intenzionato a parlarle, ruppe l’insostenibile silenzio. «Allora, che ne dici dell’Università?» «In che senso?» Domandò lui dopo aver masticato. «Ma sì, dai: dei compagni, dei professori, di tutto insomma.» «Mi aspettavo qualcosa di diverso. Ci sono un sacco di studenti e libri ma praticare la magia al di fuori delle lezioni è impossibile.» «Te li immagini Thomas e Tåron che usano gli incantesimi senza restrizioni?» Gabriel pensò prima ai più giovani che si bruciavano i vestiti, che si paralizzavano a vicenda o che davano sfogo a ogni curiosità, poi ai più anziani
che facevano le medesime cose ma con malizia e perversione. Poi pensò a colpi magici di ritorno, a distorsioni del tempo e dello spazio che fagocitavano materia e che la ributtavano, diversa, e a demoni che scorrazzavano tra i corridoi, facendo a pezzi chiunque. «Direi che è molto meglio così» tornò a guardare il piatto e addentò un pezzo di carne. «Hai già deciso con chi andare al ballo di Shamhna?» Joelle sfoderò la domanda che le premeva. Gabriel alzò gli occhi. «No» tornò a mangiare. Joelle si sentì sollevata. «Dovresti trovare una dama, è la tradizione. Io non ho ancora un cavaliere» gli occhi frugarono in quelli di lui. Gabriel sospirò. «Non andrò al ballo, la Festa di Inizio Inverno è tempo perso: l’indomani saranno tutti a letto per smaltire i bagordi e io non ho intenzione di rinunciare allo studio per danzare sulle note di un’orchestra mentre quelle galline acide delle ragazze si pavoneggiano per stabilire chi è la più desiderata.» «Dunque secondo te ci pavoneggiamo?» Joelle si irrigidì e si gettò contro lo schienale della sedia, incrociando le braccia e guardando altrove. «Certo, voi ragazzi cercate sempre di circuire la più bella che vi capita. Che c’è, hai già invitato un’altra?» Lo guardò in tralice e si morse le labbra. Gabriel scrollò le spalle. «Veramente io parlavo delle altre ragazze, le altre si pavoneggiano. In ogni modo non è che non voglio accompagnare te: non andrò a quella festa con nessuna ragazza, ho cose più importanti da fare.» «Bene, visto che ritieni più interessante un libro che una ragazza, ti auguro buono studio, Gabriel figlio di Lester. A domani» Joelle si alzò, prese il piatto e si avviò di fretta a riporlo. Ma che le è preso? Gabriel la guardò mentre scappava ed ebbe l’agghiacciante presentimento di esser divenuto la pedina di un gioco a lui ignoto. * Gli appartamenti dei professori restavano nell’edificio tra il dormitorio femminile e la biblioteca, di fronte a quello con le aule e il refettorio, ed erano composti da due stanze grandi dalle tre alle quattro volte quelle degli studenti;
sebbene il principio ispiratore dei fondatori dell’Università imponesse che fossero fatte meno differenze possibili tra alunni e professori, la mobilia delle camere di questi ultimi era più ricercata, i letti erano più grandi e comodi e lo studio che faceva da anticamera aveva armadi e librerie capienti e in gran numero. «Che fai?» La voce di un uomo spezzò il silenzio che aveva placato una tempesta di gemiti. «Mi rivesto, non vedi?» Rachel prese i vestiti dalla sedia accanto al camino che intiepidiva la camera. «Te ne vai già?» L’uomo sbadigliò, unì le mani dietro la nuca e si appoggiò alla testiera. «Ti sta venendo sonno: è chiaro che la mia compagnia non è più di tuo gradimento.» «Scherzi?» L’uomo si alzò dal letto mostrando il fisico asciutto e teso; raggiunse la donna per svanirne l’irritazione e le rubò un baciò sul collo, salendo sino alle labbra, deliziandola con baci lievi e preziosi. «Non andare, ho ancora bisogno di te.» Rachel evitò lo sguardo magnetico dell’uomo e le sue effusioni e seguitò a rivestirsi. «Se non l’avessi capito, ho bisogno di stare un po’ da sola» quando chiuse i bottoni i seni sodi vennero inghiottiti dall’abito di pelle ma il profumo del suo corpo e dei suoi umori rimasero a eccitare l’amante. «Ti accompagno» lui fece per vestirsi ma lei non gliene diede il tempo. «Cosa credi, che non sappia ritrovare la strada?» «Amore, voglio starti accanto il più a lungo possibile» una vestaglia di seta sfuggì all’appendiabiti, avvolse l’uomo e la cintola gli si annodò in vita. «Eccomi. Sono tutto tuo.» Rachel si fermò sulla porta. «Perché mi chiami amore soltanto quando sono arrabbiata?» «E tu perché ti arrabbi per farti chiamare amore?» Lui la strinse ma ne sentì il
corpo rigido, allora le ò le dita sul collo, fin sul mento e la baciò sulle labbra. Rachel assecondò l’effusione senza entusiasmo ma l’interruppe quando la lingua cercò la sua. «Sai che tu sei tutto per me» disse lui, «sai che non posso affrontare alcuna difficoltà se non mi sei accanto. Ma sai anche che quando porti il broncio diventi ancora più bella?» Rachel sospirò. «Devo andare, ho sonno. E non ti azzardare a venirmi dietro: non voglio che qualcuno pensi male vedendoci assieme.» «Nessuno penserebbe male di noi, al più i miei colleghi morirebbero d’invidia» si rassettò. «Soprattutto quegli sfigati che fanno tanto i gradassi e che ci provano con te.» Rachel sospirò. «Sono l’ultima arrivata e non voglio dare problemi.» «Non stiamo facendo nulla di male, non ci sono regole circa i rapporti tra docenti.» «E allora non voglio essere io quella che sarà ricordata per averle rese necessarie. Buonanotte» il corpo sinuoso di Rachel scivolò sui tappeti sino alla porta, l’aprì e sparì nel corridoio. * Joelle ripose il libro sulle magie del movimento, si coricò sul letto e spense la pietra inibitrice che dava luce alla stanza schioccando le dita. Era stata una giornata pesante e la fanciulla si coricò gustando il tepore delle coperte e l’inerzia del riposo. Stava per addormentarsi quando un gelo maligno ghermì la stanza, come se le imposte fossero state divelte dall’inverno: Joelle riaccese la pietra magica ma vide che la finestra era chiusa come l’aveva lasciata. E da dove viene questo freddo? Si strinse nella coltre di lana e contemplò il fiato che si condensava a ogni respiro. Quando si alzò, giunse una folata ancora più gelida che la schiaffeggiò e la fece tremare. Non è possibile, fa troppo freddo.
Si alzò per muoversi e per cercare la scaturigine di quel gelo mortale. Sentì una folata secca e putrida provenire da sotto la porta: girò la chiave nella toppa ma nel momento in cui impugnò la maniglia, l’uscio si spalancò il freddo irrorò la stanza con le sue spire mortifere. Una figura ammantata d’oblio giunse a cavallo del gelo e ghermì la fanciulla. Aiuto! Joelle gridò ma la voce si congelò in un refolo contorto che cadde a terra spezzandosi con un sordo sussurro; intrappolata in un’inafferrabile placenta di gelo, la ragazza gridò ancora, gridò con tutta la voce che aveva. Nuovi mormorii congelati si spezzarono sul pavimento. La figura serrò la stretta delle dita sottili attorno al collo ma, quando giunse a un o dall’ucciderla allentò la presa, costrinse Joelle sul letto in un silenzio di tenebra scarlatta, le strappò gli abiti esponendola al freddo mortale e la prese con tutta la violenza di cui era capace. «La paura aprirà bersgrundi fiammeggianti nella mente degli umani e li condurrà lungo la strada della pazzia: vedo vicoli lastricati d’odio, ornati da forche dondolanti e accesi da lumi di sangue» la figura non emise alcun suono ma la voce cupa e sragionante squassò Joelle attraverso le dita che le scorticavano la pelle. «Verranno scritte nuove leggi per sconfiggere il male e, per farle rispettare, gli uomini commetteranno malvagità più abominevoli di quelle che li affliggevano. Sarà uno so.» La fanciulla venne sollevata e scaraventata fuori dalla finestra; il suo corpo strappò il tendaggio, distrusse i vetri, gli scuri di quercia e precipitò nel vuoto, cadendo sotto gli alberi scheletrici del Chiostro delle Vergini. I rumori e le grida della fanciulla ricaddero, bruma scintillante alla luce lunare; le tenebre ingorde eruttarono dalla stanza e la figura le planò accanto. «Rimanere attaccata alla vita con tale maestosa tenacia è strabiliante» la figura estrasse da una tasca della gabbana un pugnale d’argento e divaricò le cosce della fanciulla, «ma non sempre è invidiabile.» Joelle gridò con le poche forze che le rimanevano ma il suono divenne un lampo
di muto cristallo. La punta del secespita danzò sulla pelle liscia e livida della gamba sinistra e la ricamò con un arabesco vermiglio; lo strumento arrivò al ventre, scese sul pube, indugiò accanto a un batuffolo di peli raggrumati, penetrò con un colpo deciso e cominciò a tagliare avanzando a strappi. * Che cosa c’è di attraente in quel farabutto? La voce della conoscenza di Rachel le fece breccia tra i pensieri ma fu arginata dalla fugace ione che l’aveva travolta e dal quieto appagamento che la tormentava. È pieno di difetti, intollerante e pieno di sé. Eppure la donna bramava congiungersi al corpo di lui, senza compromessi, desiderava accarezzare i muscoli scattanti e da essi sentirsi desiderata, afferrata, violata, posseduta, umiliata. Rachel entrò nella propria stanza e si appoggiò alla porta mentre la sua coscienza briganteggiava tra i piacevoli ricordi della notte. Nonostante l’impeto e la ione appena scemati, si strinse le spalle per cercare un po’ di quel calore che l’amante le aveva dato ma non le aveva trasmesso. Già, che cosa c’è di attraente in quell’uomo? La sua ferrea volontà e la sua testarda determinazione? Oppure il suo grosso membro? Rachel si spogliò e si infilò nuda sotto le coperte. Le lenzuola erano tiepide e un gradevole profumo di lavanda la rasserenò. Ripensò ai momenti di piacere appena terminati ma, prima che infilasse le dita roventi tra le cosce umide per ravvivarli, un infido tremore nel mana la scosse. Balzò dal letto, disorientata, come chi cerca l’origine di un refolo dal movimento delle ombre proiettate dalla fiamma di una candela. Cosa può generare un turbamento simile? Rachel si infilò una vestaglia e si avviò al pianterreno, dove la tensione le sembrava più viva.
Le pietre inibitrici rischiaravano il buio dei corridoi al aggio della maga, ma la luce le mancò appena arrivò nel Chiostro delle Vergini, dove i cristalli non funzionavano. Rachel avvicinò i polpastrelli alla superficie traslucida e levigata delle gocce luminescenti che languivano, spente, e le trovò insolitamente fredde. È come se avessero prosciugato l’energia delle pietre. Non avevo mai visto una cosa del genere: chi può averle disattivate, e perché? Un’acre zaffata colpì Rachel, disgustandola. Sangue? Il vento prese a ululare tra le colonne del chiostro; Rachel seguì l’afrore, uscì nel giardino e, nella penombra lacerata dalla falce della luna, ebbe un sussulto quando realizzò di aver calpestato qualcosa di viscido. Sei una stupida. Si era mossa guidata dall’immagine mentale che aveva del chiostro ma c’erano dettagli che non ricordava; si concentrò, aprì le dita e generò un globo che brillò come un minuscolo sole. Le piante del chiostro e le colonne disegnate da Malbany aprirono un ventaglio di ombre grottesche e Rachel distinse quel che aveva calpestato. Un bulbo oculare. Si guardò intorno, le braccia che tremavano, le gambe che cedevano, il respiro spezzato. Umano. * Mirgram stava alla finestra e guardava le torri di Amaradantis risplendere alla luce lunare. «Ed è lecito sapere che cosa ci facevi sveglia?» Il rettore la piccò con una domanda cui Rachel non reputò saggio rispondere.
«Siamo stati fortunati, se per disgrazia uno qualsiasi dei ragazzi avesse scoperto l’omicidio si sarebbe diffuso il panico in tutta l’Università» rispose la donna, il volto provato dal sonno e dal pianto. «I tuoi elementali hanno lavorato bene e in fretta.» «Rachel, che cosa ci facevi in giro a quell’ora?» Mirgram si voltò e mostrò quanto dover distogliere lo sguardo dalla città lo irritasse. «C’è il coprifuoco, Mirgram?» I lembi della vestaglia si distanziarono quanto bastava a svelare le sue forme perfette e Rachel accavallò le gambe con un’eleganza e una sensualità cui non avrebbe resistito alcun uomo. «Non c’è alcun coprifuoco, ovviamente» Mirgram accusò il colpo basso e cercò di distogliere lo sguardo che aveva insinuato tra le cosce vellutate della donna. «Ma non è usanza dei professori lasciare la stanza a tarda notte.» «Ho avuto un pessimo presentimento e sono uscita a indagare. Mi stupisce piuttosto constatare di esser stata l’unica.» Mirgram andò a sedere, poggiò i gomiti sui braccioli e giunse le dita formando un triangolo. «Non sei capace di mentire, Rachel: quando qualcosa non va cominci a giocare con le mani e a dondolarti. Sei stata una mia alunna, ricordalo, ti ho cresciuta come una figlia. E ovviamente conosco i tuoi punti deboli» avvicinò le mani al viso e allungò le gambe. Rachel si rassettò come un vestito sgualcito stirato sotto un ferro cavo ripieno di brace: richiamò all’ordine ogni movimento nervoso, ogni sfuggente pensiero, riaccavallò le gambe con una provocante stilettata e resse il gioco del rettore. «Non sto mentendo: sei stato il mio maestro, conosco i tuoi trucchi come una brava figlia conosce quelli del padre.» Mirgram e Rachel rimasero sospesi in un lungo sguardo. «Per quello che ne so potresti essere implicata in quanto accaduto.» «Saresti un pessimo padre se dubitassi di tua figlia.» «Non è il padre che esita, ovviamente. È il rettore che deve mostrarsi dubbioso: che direbbero gli altri professori se non dubitassi?»
«Se vorrai darmi una mano, anche assieme a qualcun altro dei miei colleghi, assieme a Simon per esempio, potremo usare un incantesimo di veggenza e capire cosa è successo. Non ho nulla da nascondere e non c’entro con la morte di quella ragazza: Joelle era una delle mie alunne più dotate.» «Ti vedi con Simon?» «Per favore, Mirgram!» Eruppe lei, scossa dall’insinuazione. «Ti pare il momento di rovistare nella mia vita privata?» «D’accordo, non sono affari miei con chi ti trastulli, voglio soltanto che non sbrecchi gli equilibri della mia scuola» Mirgram non aveva la voce sincera di un padre comprensivo ma quella tagliente di un maschio invidioso e ferito. «Non rovinerò la tua scuola. Non più di quanto rischia con quanto è accaduto.» «Cosa intendi dire?» Mirgram si accigliò. «È chiaro che un magistrato verrà incaricato di indagare, l’Università non erà bei momenti.» Mirgram rabbrividì all’idea che la sua scuola venisse stuprata da barbari funzionari. «Non interverrà nessun magistrato: avvierò un’indagine interna alla quale parteciperò di persona. emo gli incantesimi di veggenza, come hai suggerito, e cercheremo di capire cosa è successo. Non voglio interferenze esterne, l’Inquisizione di Rhiannon potrebbe screditarci agli occhi del popolo. Non voglio magistrati o uomini di fede, sono integralisti insensibili al relativismo della nostra arte. Non voglio interferenze, devo ripeterlo ancora?» Si alzò e prese a girare intorno alla scrivania con i piccoli e rapidi. «Perdonami Mirgram, ma proprio un’indagine esterna può garantire l’imparzialità della raccolta delle prove.» «L’Università di Amaradantis non abbisogna di pareri esterni. Formiamo i migliori maghi dell’Impero, chi meglio di noi ha diritto di giudicare? Un magistrato? Un uomo cooptato da altri magistrati suoi amici e approvato da un Imperatore che non si cura della giustizia? Preferisci che giudichi un uomo fallace e corrotto o un chierico obnubilato dalla sua fede negletta?» Ruggì il rettore, sbracciandosi.
«Questo tuo atteggiamento mi meraviglia» squittì Rachel. «Posso comprendere la paura verso gli inquisitori dopo le rivolte di Eskiliar, ma un omicidio non può essere ignorato: i ragazzi, la famiglia di quella povera fanciulla devono essere messi al corrente.» Lo sguardo di Mirgram avvampò come la chioma di un uomo-albero che ha assaggiato l’alito di una Scaglia di Rame. «Nessuno dovrà sapere quanto è accaduto» scandì le parole. «Ma come puoi nascondere un omicidio?» «Ho già preparato tutto nei minimi dettagli, ovviamente. Mentre discutevamo, gli elementali dell’aria hanno portato altrove ciò che rimaneva della povera Joelle.» «Che cosa hanno fatto?» Rachel sussultò. «Mirgram, il tuo comportamento non è degno della carica che ricopri.» «Nulla deve interferire con il nostro lavoro» ripeté il rettore, ringhiando. «Ed è in virtù della mia carica che devo tutelare gli interessi dell’Università. Verrò io a fare la veggenza con te e ogni cosa dovrà rimanere tra noi due.» «Mi stai obbligando a tacere un accaduto di una gravità senza precedenti: c’è un assassino tra i nostri alunni o forse, peggio, tra i nostri professori.» Il rettore batté i palmi sul tavolo, mostrando a Rachel come un uomo della sua età e nella sua posizione fosse ancora soggetto a scatti d’ira. «Sai quanto devi a me e all’Università?» Sì, lo so bene: vi devo tutto, Rachel abbassò lo sguardo e tremò per la rabbia. «Vuoi fare un’indagine interna?» «Un’indagine interna. Ovviamente.» «Allora ti aspetto nel Chiostro delle Vergini» si alzò e uscì sbattendo la porta.
L’aconito è una pianta perenne estremamente velenosa e rara. Ha fiori azzurri caratterizzati da cinque petali identici e un sesto petalo dalla forma a elmo; le foglie sono di un colore verde, scuro e brillante; il fusto è alto quasi quanto un uomo e dispone di un tubero nei pressi delle radici; i frutti contengono numerosi semi. Le sostante velenose secrete dalla pianta si concentrano nel tubero, una rapa di colore scuro, e il suo utilizzo risale con molta probabilità al periodo in cui la magia era ancora sconosciuta ai popoli di Arhanien. Proprietà delle erbe medicamentose e velenose di Arhanien – ch.mo prof. Eurimetispide
VI – L’ordalia
L’ordalia si svolse al calar del sole presso il circolo dove si allenavano i guerrieri, una superficie circolare bianca ottenuta rimuovendo l’erba e la terra dalla roccia calcarea sottostante. Non c’erano fuochi o bracieri che riscaldassero l’aria gelida dell’inverno e la bruma vigliacca scorticava la pelle. L’unica luce era la luminescenza bluastra che proveniva dai monoliti dei cromlech adiacenti. Gli elfi si radunarono attorno al cerchio, una processione lenta di spettri cerulei dalle facce dipinte con i colori della battaglia, spirali, animali dalle forme stilizzate ed elicoidali. «Ricorderò le regole affinché siano chiare ai combattenti» Ergwel parlò per dare tempo a Gwyllywm e Gwenaelle di sistemarsi prospicienti presso il centro del cerchio. «Si combatte nudi e sono concessi soltanto uno scudo piccolo e un pugnale. Non è consentito l’utilizzo di alcun incantesimo, né offensivo, né difensivo, né curativo. Sarà in torto colui che si arrende, che si rifiuterà di rientrare nel cerchio una volta uscitone o che farà uso della magia. Non ci sono altre regole.»
Il fiato dei duellanti si condensava ma i loro corpi tonificati dall’olio di tabacco spiniforme non risentivano delle condizioni avverse. «E ora porgetemi le armi» in seguito all’ordine di Ergwel, Gwyllywm gli consegnò il fodero con il coltello e Gwenaelle fece altrettanto. Il padre del popolo sembrò confrontare il peso delle armi poi estrasse la lama di Gwyllywm la fece roteare tra le mani, la trovò bilanciata e veloce, la rinfoderò e ricominciò l’esame con quella di Gwenaelle. «Qualcosa non va, padre?» La voce di Gwenaelle era rilassata. Ergwel guatò i duellanti, poi storse il naso, insoddisfatto. «Maolóráin, avvicinati.» L’anziano ortodosso obbedì ma mostrò stupore per la richiesta. «Che accade, padre?» Ergwel ò le armi a Maolóráin. «Dimmi che ne pensi.» L’ortodosso tenne a lungo i coltelli, quindi li restituì. «Non penso nulla: sono due lame identiche, il peso di quella di Gwenaelle è leggermente inferiore ma è normale per un’arma che à una donna: non ne trarrà particolare svantaggio, o vantaggio, la differenza è ridicola.» Ergwel non riconsegnò le armi e Maolóráin gli si avvicinò. «Cosa ti turba?» Sussurrò. «Guardali, ti sembrano due guerrieri che devono affrontare un’ordalia?» Ergwel parlò in modo che il dialogo non giungesse ad altri. Maolóráin fissò i duellanti, nudi. Gwyllywm era ritto, il suo corpo era lucido per l’olio ricavato dalla spezia; i muscoli non erano tirati, non erano ancora pronti alla scontro. Gwenaelle mostrava senza pudori la propria bellezza e sosteneva con invidiabile dignità gli sguardi che cercavano di ghermirla; il suo corpo snello e tonico sembrava pronto all’accoppiamento più che alla battaglia.
«No, non sembrano individui pronti a congiungersi con la morte. Ma questo che vuol dire?» «Gwenaelle è l’incantatrice più in gamba dell’intero popolo mentre Gwyllywm è il Signore del Vento.» «Ora ho capito. La malizia talvolta difetta all’arguzia.» Ergwel si concesse un sorriso. «Se hanno incantato queste armi, vi avranno posto barriere e c’è il rischio che nessuno riesca a scoprirlo.» Un consiglio, mio padre vuole un consiglio. Maolóráin rimase a pensare mentre gli elfi iniziavano a borbottare. «Lascia fare a me» si fece dare le armi da Ergwel e le riconsegnò ai legittimi proprietari, che le ripresero senza tradire emozioni. «Immagino che entrambi non abbiate problemi ad accettare una richiesta equa.» «Nessun problema» Gwyllywm e Gwenaelle risposero assieme, come se la battuta fosse stata provata e riprovata. «Ciò vi fa onore. Vi chiedo dunque di scambiarvi le armi» la voce stentorea dell’anziano fece rabbrividire entrambi i duellanti. «Hai detto che la mia lama è più pesante, Gwenaelle potrebbe esserne svantaggiata» replicò Gwyllywm, «tuttavia non ho davvero alcun problema a cederla» si avvicinò di un o alla rivale e le porse l’arma. «Sono del suo stesso avviso: Gwyllywm con un’arma troppo leggera potrebbe essere in difficoltà. Ma non è un problema mio» la voce di Gwenaelle non vacillò, nemmeno quando, a sua volta, porse l’arma all’avversario. Lo sguardo tra i duellanti fu breve, intenso e colmo di rabbia. Maolóráin guardò Ergwel che fece un no con il capo. «Perdonate l’intrusione di questo diffidente anziano e tenete le vostre armi» Maolóráin si fece da parte, liberando il cerchio di calcare. Edwcht e Dwmnall erano stati scelti come paggi e porsero le rotelle, l’unica
difesa. Il popolo osservò i duellanti senza fiatare, poi Ergwel diede l’ordine di iniziare. Gwyllywm e Gwenaelle si abbassarono sulle ginocchia, i piedi allineati, il braccio dello scudo avanti, l’elfo impugnava il pugnale in maniera classica, Gwenaelle invece con la lama verso il basso; i loro corpi danzarono ando dai fasci di luce bluastra ai coni d’ombra dei monoliti inerti. I duellanti si avvicinarono e le lame lacerarono la ragnatela di luce: la rotella di Gwyllywm parò l’affondo di Gwenaelle e quella dell’elfa fece altrettanto con il fendente dell’avversario. L’elfa fintò un montante, mandò a vuoto la difesa di Gwyllywm e cercò un fendente dalla parte opposta. Il colpo sfiorò l’elfo, che reagì con un affondo che colse il coltello dell’avversaria, strappandoglielo dalle mani e scaraventandola fuori dal cerchio di calcare. L’arma avvelenata affondò nell’erba umida. È il momento di mettere la parola fine a questa pagliacciata, Gwyllywm attaccò ma Gwenaelle schivò un primo fendente, ne parò un secondo con la rotella, e schivò un terzo mandritto; il balletto difensivo allontanò l’elfa dall’arma perduta. L’elfo fintò l’attacco ben tre volte: mirò alla spalla sinistra, alla testa e quindi al ventre. L’avversaria cercò di evitare ogni finta e scivolò sulla roccia calcarea. Gwyllywm si protese per colpirla e Gwenaelle alzò la rotella per proteggere il petto mentre tentava di rialzarsi; il ventre piatto era indifeso e così le gambe, lunghe, sinuose e sode, divaricate a tal punto da lasciare che fossero soltanto le lunghe ombre livide a preservarne gli intimi segreti: lo sguardo di Gwyllywm esitò tra le sue cosce strusciate da lingue di luce quanto le bastò per accucciarsi, sbracciare con la rotella e disarmarlo. Gwyllywm fece un capriola all’indietro e raccolse l’arma perduta; Gwenaelle uscì dal circolo e ritrovò il pugnale avvelenato nella voragine che si era aperta tra gli ortodossi che assistevano. Scesero fiocchi di neve spessi e radi e l’odore della notte annullò quello dell’olio della spezia; il freddo era mitigato dal tabacco spiniforme ma più lo scontro si prolungava e il sudore lo diluiva, più le grinfie dell’inverno si facevano acuminate e inibivano i sensi e l’agilità dei combattenti, tornati a studiarsi nelle rispettive posizioni difensive.
Gwenaelle ruppe gli indugi e azzeccò una finta che sbilanciò il Signore del Vento; tentò un fendente con il pugnale, cercò un’azione di sfondamento con la rotella, terminò addosso a Gwyllywm, lo sbilanciò, lo spinse ma entrambi finirono a terra, all’esterno del circolo. Gwenaelle piantò il pugnale contro il corpo dell’elfo ma Gwyllywm sgusciò di lato sull’erba viscida e l’arma si conficcò nel terreno coperto dalla neve caduta. I guerrieri recuperarono una terza volta la posizione difensiva all’interno della arena di calcare, il respiro sincrono, i movimenti in affanno, i muscoli irritati dal freddo. Karkfwyn avvicinò Lwnarmysh, il rivale al ruolo di campione dell’ortodossia. «Altro che intellettuale, possiamo prenderla tra i guerrieri» sussurrò sbalordito dalla grinta dell’elfa, «se sopravvive.» «Più che altro è lampante perché nessuno abbia mai osato corteggiarla» replicò Lwnarmysh che non riusciva a staccare gli occhi dal corpo dell’elfa. Gwenaelle trovò un affondo vincente dopo una finta ma Gwyllywm frappose la rotella tra il costato e la lama avvelenata, che traò il legno e si piantò nella maniglia di pelle, sfiorando le dita dell’elfo. Gwyllywm sfruttò il colpo di fortuna, sbracciò con lo scudo e strappò il pugnale a Gwenaelle. Sogghignò, giocò con il coltello e tentò un montante, un fendente, un nuovo montante ma l’elfa li eluse, indietreggiando. «Vediamo se ho ancora una buona mira» Gwyllywm afferrò il coltello per la punta e lo scagliò contro l’avversaria, che si accucciò, intuì la direzione del colpo e portò la rotella sul proprio petto. Dopo tutto il tempo ato a incantare quel coltello, questo non sarebbe dovuto succedere, l’elfo fece una smorfia ma strappò l’arma dell’elfa dallo scudo e la attaccò. Gwenaelle sussultò, tentò di estrarre il pugnale di Gwyllywm ma era così ben conficcato nello scudo che vi riuscì quando l’elfo l’ebbe raggiunta; schivò il primo affondo rialzandosi con una capriola, eluse un fendente indietreggiando ma quello successivo la colse alla coscia sinistra, tracciando una scia di sangue che si mischiò all’olio della spezia e al sudore. Gwyllywm tentò l’affondo decisivo ma l’elfa si rannicchiò in una posizione
difensiva claudicante. L’elfo attese e provò a sbilanciarla con una serie di finte: Gwenaelle abboccò alla terza, mise un piede in fallo sulla neve che si accumulava e scivolò. Gwenaelle cadde frastornata dal veleno della radice di aconito: la lingua le si era incollata alla mandibola rendendo il respiro simile al rantolo di una fiera denutrita e i muscoli parevano stalattiti di ghiaccio. Se uso un incantesimo curativo perdo l’ordalia ma sopravvivo, obnubilata dalla rabbia e dal veleno, Gwenaelle scelse un ultimo affondo nonostante lo svantaggio e smosse con rabbia il corpo che le obbediva a fatica. Gwyllywm evitò la lama, colpì l’elfa al ventre, scheggiò una costola e tracciò l’alveo di un fiume che si colmò di sangue. Dopo l’affondo l’elfo colpì il volto di Gwenaelle con il gomito, poi la afferrò mentre barcollava e serrò la gola tra bicipite e l’avambraccio. Gwenaelle sputò sangue, si afflosciò e prese a sussultare con tale veemenza che Gwyllywm la lasciò scivolare a terra. Gli elfi si scostarono dal cerchio e gli spasmi di Gwenaelle scemarono nel tremore della morte. Gwyllywm fissò la lama del pugnale, comprese l’inganno e si chinò sulla moribonda. La neve aveva reso il campo degli elfi ortodossi un unico, immenso bianco circolo di scontro. Chiamo a raccolta gli spiriti della Luce, invoco il supremo potere di Shana, madre della Terra e degli elfi: chiamo l’arcano potere della guarigione, il calore che risana le ferite e spegne i veleni Una luce benigna e forte scaturì dalle mani di Gwyllywm, rigenerò le ferite dell’elfa e sciolse il veleno che la macerava.
Gwenaelle riaprì gli occhi che le mani dell’elfo baluginavano sul suo petto; si coprì gli occhi per proteggerli dalla luce improvvisa, poi scansò Gwyllywm e lo guatò con occhi incendiati. Dwmnall tremava e irruppe all’interno del circolo. «Ha usato la magia» gridò il paggio di Gwenaelle dando la stura a un diffuso chiacchiericcio. «Non dire sciocchezze, Dwmnall» Edwcht entrò nel circolo a sua volta. «È chiaro che l’ha usata per salvarla.» «Gwenaelle non si era arresa, Gwyllywm ha fatto tutto da solo e le regole spiegate da nostro padre erano limpide. Sei tanto stolto da non ricordarle?» «Sei un ingenuo, Dwmnall: è chiaro che l’uso delle magie è interdetto per evitare che se ne tragga vantaggio. E Gwyllywm non l’ha usata per vincere. Il buon senso va oltre le regole.» «Se fosse come dici, basterebbe il buon senso e le regole non ci sarebbero» chiosò Dwmnall. Ergwel entrò nel cerchio e i paggi interruppero il diverbio, si separarono, presero pellicce di bisonte e le deposero sui corpi provati dei duellanti. Maolóráin seguì il padre del popolo e si improvvisò custode delle armi, requisendole. «Gwenaelle, sei stata sconfitta» sentenziò Ergwel. L’elfa si rialzò a fatica, i nobili lineamenti del viso distesi, un sorriso infido che dava luce agli occhi. «Sbagli padre. Io non mi sono arresa né ho domandato pietà. L’esito dello scontro è davanti agli occhi di tutti: l’uso della magia è vietato, Dwmnall si è espresso a ragione.» Ergwel squadrò Gwyllywm rimproverandogli l’imprudenza commessa, ma lo difese. «Hai l’impudenza di dichiararti vincitrice? Senza l’aiuto di Gwyllywm ora saresti morta, anche questo è sotto gli occhi di tutti. Senza considerare che ci devi spiegare come è possibile che un semplice taglio ti abbia ridotto in quello stato...» sogghignò. Gli elfi ortodossi iniziarono a ragionare a gruppetti, poi Gwyllywm prese parola. «Gwenaelle ha ragione» l’ammissione lasciò tutti gli elfi esterrefatti: «ho usato la magia e mi ritengo sconfitto. Le regole che avevi proclamato erano molto
chiare e le ho infrante, sapendo ciò cui andavo incontro.» Gwenaelle ebbe un brivido e l’ammissione di Gwyllywm la terrorizzò più di un attacco diretto. «E per quale ragione lo hai fatto allora?» L’elfa fece un o verso di lui, come se abbreviando la distanza la risposta risultasse più limpida. «Perché nonostante tu ti accanisca a non riconoscerlo, io sono un membro del popolo e voi tutti siete miei fratelli. Se ho perso ne vado fiero perché ti ho salvata: la vita di ognuno di voi vale più della tradizione: tu non vi rinunceresti per salvare la vita di un tuo fratello?» Che siate maledetti, tu e il tuo pragmatismo. L’elfa strinse i pugni, poi guatò i membri della religione ortodossa che li circondavano, uno a uno, senza trovare la fedeltà di cui abbisognava. Sono sola, pensò, e più continuerò sulla mia strada, più mi isolerò. La vittoria di oggi sarà la sconfitta di domani. «Io sono colei che guida la fazione degli intellettuali» disse Gwenaelle alzando la testa. «Se vuoi rimanere presso di noi fa pure, Gwyllywm figlio di Moad. Non reclamo alcuna vittoria» si strinse nella pelliccia di bisonte, si allontanò dal circolo e soffocò il pianto che la colse. * Gwenaelle riposava alla cascata, sullo scisto dove si erano sbizzarriti i suoi sogni la notte precedente. Guardava il cielo, l’alba rosseggiava a est, le nubi si erano diradate e un vento caldo e inaspettato aveva sciolto la neve. «Un negromante di Eskiliar mi disse che ero Raylyn. Era un umano appena diventato adulto ma ora penso che non avesse tutti i torti» Gwyllywm apparve sulla riva del fiume e balzò sullo scisto; rimase in equilibrio sulla gamba destra e fissò l’elfa sorridendo. Gwenaelle ringhiò, lo sbilanciò con un incantesimo di movimento e lo fece precipitare dalla cascata. L’urlo di Gwyllywm si perse nel fragore delle acque, ma l’elfo ricomparve galleggiando nel vuoto e riprese la posizione dalla quale era stato sbalzato. «Sei senza cuore, avrei potuto sfracellarmi» scherzò e le sedette accanto. «Se il Signore del Vento non è capace di muoversi per aria non è degno di
esserlo» Gwenaelle evitò ogni contatto visivo e continuò a fissare l’orizzonte in fiamme. Tra i due scese un brusco silenzio e il fragore delle acque si fece insopportabile. «Hai orchestrato una sconfitta plateale per ridicolizzarmi davanti a tutti: avevi previsto come sarebbe andata a finire, non è così?» Gwenaelle si intristì. «Se credi che io rovisti nel futuro mi hai preso per uno stolto: il futuro cambia già con il solo gesto di leggerlo. Io controllo il Sigillo del Vento, non mi occorre conoscere il futuro: ho il potere di esserne immune.» «È questo dunque, ciò che gli altri vedono in te e che mi disgusta tanto? Vedono in te qualcuno in grado di eludere l’ineluttabile?» «Se mi aveste perso sarebbe stato peggio per voi» le fece eco con un sorriso. «Ci sono scelte che vanno prese seguendo logica o ideologie. E poi ci sono scelte che vanno oltre, e devono essere illogiche, pragmatiche: accettarmi è una di quelle.» Gwenaelle si allontanò da lui, strusciando sullo scisto. «Guardami, e dai, guardami» l’esortò lui. «La guida degli intellettuali ha paura?» Gwenaelle si voltò e si scoprì a fronteggiare il ricordo di Erwmysh e dell’amore impossibile con lui; fu turbata da una scossa al petto quando riconobbe negli occhi tristi e indagatori di suo figlio il medesimo cipiglio di chi scava nell’animo delle persone. «Quel mago aveva ragione: forse sei davvero come tua sorella.» «Sei una testarda. Io non sono Gwyllywm di Si’phir e non sono nemmeno Gwyllywm del popolo.» «E chi sei allora? Forza, chi saresti?» «Lo sai chi sono, ma non credi nei miei poteri: io sono il Signore del Vento e sono colui che può comprendere il lavoro di Erwmysh e Raylyn. Io sono l’unico che conosce le antiche pratiche con cui i genetisti trasformarono gli umani in berserker. Sono l’ultima speranza che abbiamo.» «E in virtù di questo ritieni che il tuo ego valga più della tradizione?»
«E non è così? Mi sembra che tu mi abbia concesso la vittoria, nell’ordalia.» «L’hai vinta solo perché ero pressata dalle aspirazioni dei nostri fratelli. Sei il primo che vince uno scontro dopo averne infranto le regole. Al Signore del Vento deve essere concesso ogni capriccio? La tradizione è uno straccio che pretendi di insudiciare con i tuoi vezzi?» «Sei un’intellettuale, Gwenaelle, dovresti sapere che la tradizione altro non è che l’ego delle vecchie generazioni tramandato alle nuove: non dovremmo temere di demolire la tradizione perché i nostri padri non esitarono a imporcela rinnegando quella che li precedette.» «Le tue ragioni non sono molto convincenti» Gwenaelle sedette gambe al petto, sul bordo dello scisto. «Tu rifiuti la tradizione a favore di un mutamento che ne è figlio.» Gwyllywm le si avvicinò ma l’elfa si scostò ancora. «Hai paura che ti scaraventi giù?» Scherzò lui. «Non si sa mai. Sei così pericoloso che non te ne rendi nemmeno conto» abbozzò un sorriso ma si tenne a distanza. «Sei un’arma impazzita.» Gwyllywm guardò il cielo. «La cascata può ruggire e inghiottire i rumori del vento e della notte, ma non intimidirà la luce schietta dell’alba. Tu difendi sovrastrutture cristallizzate che sono figlie di un vulcanico mutamento che hanno rinnegato. Tu sei il grido della cascata e io la luce dell’alba.» «Non fare il poeta e non parlare con similitudini: gli equilibri non si spezzano come una forma di pane, gli equilibri sono una magnifica vetrata: se ne rimuovi anche il più minuscolo dei tasselli, finirai con il distruggerla.» «Ho capito, non ti convincerò con le parole, ma con i fatti. Forza, dammi le mani.» Lei lo guardò in tralice. «Dammi le mani ho detto: abbisogno della tua arte per perfezionare i berserker e conosco un solo modo per convincerti delle mie buone intenzioni.» «Che vuoi fare?» Gwenaelle rimase ad abbracciarsi le ginocchia.
Una cometa azzurra fece della notte morente due lapidi di stelle. «Farò ciò che nessun elfo farebbe nemmeno con l’elfa che ama. Dammi le mani.» La voce di Gwenaelle tremò. «Cosa intendi?» «Hai detto che sono un po’ di Erwmysh, hai detto che ti ricordo Raylyn e che in me vedi anche l’impertinente giovane che fui un tempo. Guarda nella mia mente, guarda i miei ricordi, scruta nei miei pensieri: troverai ogni cosa che ho visto e che sono. Vedrai la luce che vantano i revisionisti, vedrai il coraggio dei draghi, sentirai il sapore amaro della stoltezza degli umani, il sapido orgoglio dei nani e l’ottusità del Consiglio di Kaerwood. Guarda i sogni di un fanciullo, l’amore di un adolescente, la saggezza di un adulto.» Gwenaelle rabbrividì. «Non lo farai: nessun elfo farebbe mai una cosa del genere, nemmeno con l’elfa che ama, l’hai detto tu.» «Io non sono come gli altri elfi, non ho più le loro paure. Io sono il Signore del Vento e non temo nulla» Gwyllywm le prese le mani e le pose sulle tempie. Attese una manciata di secondi, il tempo necessario affinché il mana e gli incantesimi di lettura mentale garantissero la sincronia con Gwenaelle. «Ecco, che cosa vedi?» Gwyllywm provò un dolore singolare, chiuse gli occhi e attese che fosse l’elfa a interrompere la magia. La cometa azzurra si fermò nel cielo. Quando Gwyllywm riaprì gli occhi, le mani di Gwenaelle si erano appena staccate e l’elfa aveva il volto imperlato dalle lacrime. «Questo vuol dire possedere un Sigillo?» L’elfa singhiozzò. «Vuol dire conoscere la materia sapendo che non ha un fine ultimo? Significa conoscere la ragione che ci spinge a camminare ma non il luogo dove siamo diretti?» Gwyllywm annuì. «È ciò cui mi aveva preparato mio padre, è ciò che aveva intravisto nella sua non-morte.» Gwenaelle l’abbracciò. «Erwmysh ti ha ato ogni cosa.» «Ogni cosa, come ogni padre dovrebbe fare con i figli.»
Gwenaelle baciò Gwyllywm sul collo, sulla guancia. «Ti ha ato ogni cosa» trovò negli occhi di lui quel calore che non aveva saputo mostrarle il padre. «Ogni cosa che era sua, ora è anche mia, anche ciò che provava per te e che non ti ha mai mostrato. Ora capisci perché sono tornato?» Gwenaelle cercò le labbra di Gwyllywm con le sue e si coricò sullo scisto, trascinandolo sopra di sé; sotto lo sguardo lucente di una cometa, le speranze dell’elfa divennero le fantasie indicate dai sogni.
Shamhna è un antico rito pagano diffuso in tutto l’Impero e coincide con il giorno in cui le ore di luce tornano ad aumentare. Nei villaggi e nelle città vengono allestiti falò in cui vengono gettati gli oggetti che non sono stati impiegati per immagazzinare riserve. All’ombra delle fameliche fiamme, il volgo danza e si ubriaca e negli sfarzi dei palazzi i nobili e i borghesi fanno merce dei loro corpi e di favori politici. Shamhna è una festa blasfema e corrotta. Rhiannon è stata riconosciuta come Dea Unica dell’Impero Malgiusiano, ed è a lei che dovrebbe essere dedicata una ricorrenza di tale importanza: i festeggiamenti dovrebbero svolgersi presso i Templi, officiati dai chierici dell’ordine. L’anno prossimo faremo coincidere la festa di Shamhna con la prima rivelazione di Rhiannon. L’anno successivo i chierici apriranno la ricorrenza, quello dopo il Tempio diverrà il luogo di aggregazione. Modificare i calendari e alterare la percezione del tempo che hanno gli uomini è la chiave per riscrivere il loro ato e tenerli in pugno. Discorsi – Lady Aylyonóra, inquisitrice di Rhiannon
VII – Complicazioni
Gabriel si alzò dolorante, con i muscoli fiacchi e tra le gambe una debolezza nuova ma piacevole. Aprì la finestra e scoprì il vento frizzante di un’alba fiammeggiante. Aveva una spalla indolenzita e, proprio nel punto dove sulla pelle chiara si stagliava il marchio lasciato da Jaquish, il dolore si faceva più intenso. Mentre si rivestiva scoprì le braccia doloranti, come se le avesse allenate nella palestra tutto il giorno, ma non badò alla strana stanchezza e scese nel chiostro di Malbany che molti compagni non erano ancora svegli. Quando entrò in biblioteca il custode, un ometto distinto, pelato ma con folte basette e mustacchi, lo invitò a raggiungerlo.
«Ciao ragazzo, da oggi dovete firmare questo modulo e segnare orario di entrata, di uscita e i libri che prenderete» il bibliotecario indossava un farsetto di lana cremisi. «Curioso, non era mai accaduto prima» Gabriel guardò il foglio con sospetto. «Sono cambiate le regole. E dopo quello che è accaduto stanotte, chi può dar torto a Mirgram?» Il bibliotecario fece spallucce ma il suo fare e le smorfie erano quelle di chi non ne condivideva la rigidità. Si sistemò i baffoni scuri e prese un modulo che compilò a sua volta. Gabriel non fece caso alla spiegazione ma simulò comprensione. «Dovrai lavorare molto di più, adesso.» «Puoi dirlo ragazzo, adesso devo controllare chi entra e chi esce e tutto quello che accade» si lamentò. «Aveva ragione mio nonno, ragazzo mio: si stava meglio quando si stava peggio.» «Terrò a mente questa massima, Marnin, la terrò a mente. Buona giornata.» «Buona giornata a te» il bibliotecario lesse il nome lasciato sulla copia, «Gabriel figlio di Lester.» Il giovane mago salì all’ultimo piano, prese il solito posto, i testi più complessi e cominciò a leggerli e toccarli; la concentrazione era tale che il mago riusciva a ignorare le combriccole che si formavano per riare le lezioni, ma quel giorno la regola del silenzio non venne rispettata e le opinioni febbricitanti dei compagni trasformarono la biblioteca in una gabbia di domande e di risposte diffuse, rapide, trafelate. «Hai sentito?» «Dove?» «È stata fatta a pezzi.» «L’hanno trovata delle guardie, in una cassa.» «Ma era una studentessa?»
«Che corsi seguiva?» «Nei bassifondi, dove bazzicano i diseredati.» «Chi può aver fatto una cosa tanto brutale?» «Come si chiamava?» «Dicono che sia scappata per gli scarsi risultati.» «Sono stati dei briganti.» «Joelle.» «E come ha fatto a scappare?» «Chissà come si sentono gli amici.» Joelle? Gabriel sentì il cuore battere più dei tamburi degli orchi che assediarono Tumblane, settimane prima, e si impaludò nel riordinare un discorso di senso compiuto dalle frasi che pizzicava ai compagni. Un’incudine di paura gli cadde tra il cuore e lo stomaco ma svanì non appena vide una gonna scura danzare verso il tavolo con il suo malloppo di carta, quaderni e libri. «Buongiorno, è libero?» La voce era scocciata. Gabriel annuì con un cenno della testa e la ragazza si accomodò sulla sedia. «Dopo quello che hai detto ieri non so se meriti ancora la mia compagnia. Però ho deciso che ti darò un’altra opportunità» Joelle sistemò i capelli dietro l’orecchio e lasciò che il suo volto sorridente illuminasse l’incredulo Gabriel. «Hai sentito cos’è successo ieri?» «No, studiavo» Gabriel deglutì, liberandosi dal peso dell’incudine. «Studiavi? Come fai a studiare dopo quello che è successo, si può sapere dove vivi?» Joelle abbozzò un sorriso che si spense subito. «Ieri notte Joelle di Newbury è scappata e l’hanno trovata stamattina, nei bassifondi di Amaradantis, trucidata. C’è un gran fermento e i professori fanno domande a tutti per sapere se
avevano rapporti con lei.» «Era una ragazzina dai capelli ricci?» «Era lei. Allora non è vero che studi sempre: il tempo per guardare le ragazzine lo trovi! Volevi andare con lei al ballo?» Joelle si accese e si imbronciò. «Ancora con questa storia? È che sedeva accanto a me alla lezione di Arwin, l’altro giorno e...» il ragazzo si stupì del bisogno che aveva di giustificarsi. «Lascia perdere.» È come se conoscessi la sua carne, come se sentissi la sua vita sfilare tra le mie dita e il suo sangue imbrattarmi l’anima, Gabriel si schiacciò le tempie tra le mani. «Stai bene?» Joelle parlò con voce materna. «Non ho niente, credo sia mal di testa, perdonami. Ci vediamo a lezione, forse» Gabriel raccolse libri e quaderni e se ne andò. Firmò il foglio di uscita, attraversò i chiostri e i corridoi con o lesto e arrivò al penultimo piano del dormitorio maschile. Entrò in camera, un otre gonfio della fredda luce invernale, diede due giri di chiave e si appoggiò alla porta, scivolando a terra. Che Jaquish sia uscito durante la notte? Non è possibile, non ho aperto alcun portale. E se ne fosse uscito poi, perché rientrarvi? Un brivido gli congelò la schiena. E se non fosse rientrato? Oppure se avesse usato il mio corpo come tramite? Cosa intendeva quando ha detto che l’avrei senz’altro aiutato? Non posso crederci, no non posso. Quello che è accaduto non è citato all’interno di alcun trattato. E se nessuno ne parla, non può essere vero. Rimase a rimuginare pensieri sconnessi, poi andò alla borsa, la aprì e impugnò il secespita che aveva preso dall’altare delle catacombe di Eskiliar: il pugnale d’argento che il negromante Kovart usava per sventrare bambini e fanciulle per sacrificarli a innominabili divinità sembrava pulito, ma possedeva un raccapricciante magnetismo. Gabriel lo scaraventò dove l’aveva preso, poi guardò lo specchio, un pezzo d’argento e vetro inerte. Dopo un’attesa immota e snervante scoprì le mani che gli tremavano come se qualcuno cercasse di entrarvi. Il mago prese il Della segregatione et evocatione delli spiriti et delle
anime del negromante Liryam, spulciò l’indice scritto con il sangue delle vittime dell’evocatore pazzo ma non trovò nulla che fosse riconducibile al suo caso. Sono il primo a vivere un incubo di tali proporzioni? È possibile che un essere vivente marchiato da un demone possa fungere da portale? Cominciò a tremare, richiuse il testo proibito e lo ripose nella borsa; si gettò sul letto, le membra che faticavano a obbedirgli, che sembravano penetrate da spine roventi. Riposò facendo grandi respiri ma non prese sonno e, dopo un tempo che gli parve indefinibile, riuscì a lenire il dolore con i pochi incantesimi curativi che riusciva a lanciare. Riaprì gli occhi e balzò in piedi quando vide la camera allontanarsi e dilatarsi. Attraversò la polverosa luminescenza in sospensione, dirigendosi verso lo specchio che era fuggito a un distanza indefinibile ma, più avanzava, più scopriva di essere lontano. Non è un effetto ottico. Camminò tra fasci di luce danzanti mentre il mana si contorceva attratto dalla superficie dello specchio. È un effetto temporale. Devo vedere. Devo scoprire. Devo comprendere. Quando Gabriel dimezzò la distanza che lo separava dallo specchio, vide la trama di luce che irrorava la stanza ondulare, perdere intensità e deformarsi. Sentì i muscoli delle gambe deboli e rallentati ma i pensieri fluidi. La mente guizzò libera dai vincoli che ostruivano il corpo fino a quando lo scarso mana lasciato nelle stanze dell’Università raggiunse una densità tale da invischiarlo come la marmellata di una pignatta rovente. «Che cosa hai fatto? Come sei uscito?» La voce di Gabriel si condensò in un triangolo frattale che venne risucchiato dallo specchio mentre l’eco si moltiplicava. «Voi umani siete tra le razze più strane» la voce greve di Jaquish di Anquelot,
distrusse ogni aspettativa sensoriale di Gabriel, lo afferrò e lo trascinò contro la fredda superficie argentata; «siete più stolti delle falene che si avvicinano al fuoco e vi precipitano a morire. Che senso ha la conoscenza se rivela la vostra misera inadeguatezza alla verità? Da dove scaturisce la necessità di capire se le sconvolgenti rivelazioni distruggono la vostra fragile mente?» La luce vorticò ma un istinto indefinibile e malvagio la divorò. Gabriel sentì il tatuaggio rattrappirsi, ma era un dolore nuovo, quasi piacevole. «Cosa è successo stanotte, che cosa è accaduto?» La voce si fuse in un caleidoscopio di turbini che precipitavano dentro lo specchio. «Da dove scaturisce il desiderio di comprendere? Rispondi.» «È insito nella mia natura.» «Ma a che scopo desideri sapere che esistono verità che non possono essere comprese ma accettate soltanto nella loro sconvolgente sacralità?» «E non è meraviglioso sviscerare l’esistenza di qualcosa che non è sviscerabile?» «Non sei uno schiavo, Gabriel figlio di Lester, sei uno scocciatore. E dei peggiori.» «Cosa è successo?» «Evocami e liberami, ho bisogno di vendicarmi.» «Il momento non è propizio, mio signore.» «Se tu avessi ragione, qualcuno dei ridicoli insegnanti che tanto ti spaventano, ieri notte mi avrebbe sentito. E invece la mia potenza è tanto grande da risultare al di là della loro percezione.» «Eravate voi dunque. Come avete fatto?» «Grazie a te: sei il tramite, il marchio impresso nella tua carne è il punto di arrivo e questo specchio quello di partenza.»
«Ma come siete riuscito a varcare lo specchio?» Gabriel rabbrividì quando il tempo venne deformato dalla risata del demone. «Io non sono mai uscito, tu operi in mia vece attraverso il marchio.» «Io non ho mai ubbidito ad alcun ordine!» Berciò Gabriel nello specchio. «Non ho mai ucciso, non ne ho il ricordo, e non ho nemmeno il sentore della distruzione di ricordi.» «È stato mentre riposavi.» Gabriel tremò. «Quando dormi il tuo corpo non è più sotto il dominio della volontà ed è libero di finire imprigionato dalle mie catene.» «Ma perché, perché uccidere quella ragazza? Così avete scatenato indagini e allarmi: ora sarà tutto più difficile.» «È colpa tua, Gabriel.» «Colpa mia?» «Io giungerò nel tuo mondo soltanto quando mi richiamerai. Di solito mi basta promettere ricchezze inimmaginabili e ma tu sei diverso. A te obbedisce il mana e la tua cultura magica è troppo raffinata perché la possa sedurre, quindi devo costringerti: è chiaro a entrambi che non vuoi evocarmi, perciò, sino a quando non lo farai, io verserò sangue attraverso di te» la voce di Jaquish fu un ruggito. «Ucciderò sino a quando non mi farai uscire.» «Io, io non…» «Non hai via di scampo, non puoi sottrarti al mio richiamo. Ovunque ci sarà magia, ebbene, lì arriverò.» Quando Gabriel realizzò quanto fosse raccapricciante la minaccia, qualcuno bussò. *
Il sole invernale stava allo zenit ma il freddo ghermiva ancora i vicoli di Amaradantis. Una carrozza si fermò davanti all’entrata, un arco a tutto sesto con grandi conci e una pietra di culmine scolpita con un albero sormontato da un libro: il tomo era aperto e recava la scritta “la conoscenza davanti a ogni cosa”, il blasone dell’Università di Amaradantis. Il portone era di legno rinforzato da borchie e spuntoni di metallo, più simile a quello del mastio di un castello che di un luogo di cultura. La pietra sfaccettata e diafana che stava sul pilastro di destra si illuminò. «Università di Arti Magiche di Amaradantis. Chi devo annunciare?» Chiese la voce piatta con la quale era stato incantato il cristallo. «Reco in visita lady Aylyonóra, inquisitrice di Rhiannon» rispose il cocchiere. La pietra ritornò inerte, il portone scricchiolò e si aprì rivelando il cortile principale dell’Università: un rettangolo chiuso da edifici di pietre scure caratterizzati da tetri e slanciati finestroni. Il cocchiere fermò i cavalli nello spiazzo e un maggiordomo sbucato da una postierla aprì lo sportello della carrozza facendo l’inchino agli inaspettati visitatori, un ragazzo segaligno e un’anziana minuta, che indossavano vesti sacerdotali. Il chierico portava una barba sottile, sui capelli castani alti un dito era dipinto con guado il simbolo di Rhiannon; la donna aveva una treccia di capelli bianchi e un volto che mostrava i segni di una lontana e dimenticata bellezza. «A cosa dobbiamo la vostra visita, miei signori?» Domandò il maggiordomo. «Portaci dal rettore, dobbiamo conferire con lui» il chierico indossava un’armatura ad anelli e portava la surcotta dell’inquisizione con il simbolo della Dea ricamato con tessuto scarlatto. La voce era sottile ma forte. Il maggiordomo esitò, poi lo sguardo dell’inquisitrice conferì all’ordine del giovane accompagnatore l’autorità di cui mancava. «Vi prego di seguirmi, dunque» il maggiordomo era vestito con brache scure e una giacca bruna. Era un uomo di una cinquantina d’anni con i capelli rilegati in
lunghe trecce, alla moda dei nani. Fece strada ai visitatori e li condusse verso l’edificio dei professori senza are dai chiostri, affollati di alunni. Il maggiordomo imboccò lo scalone principale dell’edificio sino al piano riservato agli uffici dei docenti e del rettore, l’ultimo, e salì con o costante, senza mai voltarsi. Un professore incrociò il gruppetto scendendo verso le aule; indossava una cotta chiara e un farsetto turchese. «Buongiorno Valtus» il docente salutò il maggiordomo e ignorò i religiosi camminando a testa alta, attendendo di essere salutato. Non appena venne superato, il chierico si voltò per riprenderlo. «Tu, perché non ci hai recato il saluto che ci spetta?» «Come dici?» Il professore sfoderò un sorriso da attaccabrighe, risalì sullo scalino del chierico e lo fissò da una posizione di parità. «Sei al cospetto di lady Aylyonóra, inquisitrice di Rhiannon, china il capo e omaggiala come si conviene a un personaggio del suo rango» ruggì il giovane. «Di che rango vai ciarlando, ragazzo mio? Alioth si inchina soltanto davanti all’Imperatore perché è a lui che ha giurato fedeltà.» Il chierico era di poco più alto di Alioth e l’afferrò per il bavaro del farsetto. «Sei al cospetto di un’inquisitrice! Poni freno alla tua superbia e prestale rispetto o nel nome di Rhiannon io» il chierico non terminò la frase: Alioth gli afferrò la mano e l’accese con una fiammata. «Niperth!» Lady Aylyonóra gracchiò e scese in aiuto dell’accompagnatore, che lasciò la presa, strinse la mano nella mantella e scoprì come le fiamme fossero un’illusione. Alioth fece un ghigno sagace e si licenziò con un inchino. «Mio giovane e inesperto Niperth, spero che la tua fede sia superiore alla tua intelligenza.» «Tu non ti rendi conto dell’affronto che ci hai recato» berciò l’inquisitrice. Alioth scrollò le spalle. «Siete ospiti, mia signora: malgrado il rango che vantate non vi conviene comportarvi da padroni di casa. Voi per giunta, non rappresentate Rhiannon: siete soltanto suoi servi. E ho studiato abbastanza la vostra teologia da sapere che lo siamo noi tutti, senza differenze» ingaggiò lo
sguardo dell’inquisitrice, reggendone il confronto con un sorriso tagliente. «Nella misericordia di Rhiannon, siamo per lei come tanti figli; e i bravi fratelli non fanno i gradassi. Le illusioni che proiettano le vostre vesti sono disvelate come tali. Buona giornata» alzò il braccio e non attese repliche. «Pagherai, per questo, puoi starne certo» ringhiò Niperth. «Signori, da questa parte» il maggiordomo si era fatto cadaverico in volto ma continuò a fare strada verso lo studio di Mirgram, ne aprì la porta e invitò a entrare soltanto la donna. La richiuse, si congedò con una scusa ed evitò le domande del chierico riguardo all’irriverente Alioth. «Che Rhiannon ti sorrida, Mirgram di Leboran» l’inquisitrice salutò il rettore, assorto alla trifora. «Che sorrida a te, lady Aylyonóra. La vostra visita giunge davvero inaspettata: a cosa devo l’onore di ricevervi?» «Ho fatto un brutto sogno, Mirgram di Leboran, rettore dell’Università di Arti Arcane di Amaradantis» la veste bianca dell’inquisitrice frusciò sul tappeto. «Devi perdonare la mia scortesia, accomodati» con una magia il rettore aiutò l’anziana sacerdotessa a spogliarsi del mantello e le avvicinò la poltrona più comoda dello studio. «Vedo che non hai dimenticato le buone maniere, a differenza dei tuoi insegnanti.» «Ti hanno mancato di rispetto, mia signora?» «Se lo hanno fatto, sarà un problema di cui dovranno preoccuparsi quegli sventurati... a meno che tu non voglia prendere le loro difese e finire invischiato in interrogatori poco piacevoli» un fosco bagliore fece dello sguardo della donna una lama di selce. «Ricordo che gradivi il tè» glissò Mirgram facendo bollire l’acqua nella teiera e sistemando le porcellane su un vassoio d’oro che volò su un tavolino raccogliendo in volo i pezzi del servizio. «Zucchero?» «Due zollette, grazie» l’anziana si lasciò andare sulla poltrona senza allentare la
tensione che aveva stretto. «Ho fatto un sogno, dicevo. C’era una fanciulla dagli occhi vispi e dai bei capelli riccioli. Questa fanciulla danzava in un prato, sotto un cedro verdissimo, circondata da cinquantasei mostri di pietra che la fissavano e la bramavano. Una luna cupa brillava nel cielo squarciando l’aria gelida con raggi d’argento. La fanciulla si sedeva sotto l’albero, quindi giungeva un’oscura forma che l’avvolgeva e la macellava.» Mirgram rabbrividì. «La macellava?» «Come un norcino che fa frattaglie dei tagli meno pregiati. La forma oscura afferrava i raggi taglienti del sole e li affondava nel corpo della fanciulla, imbrattando di sangue e carne umana il giardino. Intorno a lei i mostri di pietra sghignazzavano come sordidi complici. O forse li erano, qui il sogno non è stato chiaro. Dopo, giungeva la neve ad ammantare il prato, il cedro e ciò che rimaneva della povera vittima. Per nasconderli in eterno.» «Decisamente un brutto sogno, mia signora.» «Decisamente» lady Aylyonóra sorseggiò il tè e lasciò che il silenzio incombesse su Mirgram per spingerlo a esporsi. «Tuttavia il sottoscritto non è un esperto di oniromanzia e non può spiegartene il significato, se esiste. Forse potrei consigliarti qualcuno dei miei insegnanti, ovviamente se è qualcuno che ho già mandato a un corso di galateo.» «Non sono ata dai chiostri, prima, ma ricordo per certo che c’era un bel giardino contornato da un colonnato con degli ampi archi ogivali.» «Ti riferisci al chiostro di Malbany.» «Già, ha dei pilastri tortili sormontati da preziosi e grotteschi capitelli. Se non conoscessi bene la storia di questa Università e di Amaradantis non l’avrei ricordato. Né avrei pensato di venirti a trovare.» «Sono molto belli, effettivamente.» «Le colonne sono citate nei libri di architettura e alcuni ne riportano bozzetti molto fedeli. Sai quante sono le colonne del chiostro?» «Quattordici?»
«Già, le ho guardate dai finestroni dei corridoi e le ho contate mentre salivo. Ci sono quattordici colonne, quattordici serpenti che si attorcigliano su ognuno dei quattro lati: cinquantasei pilastri. E sui cinquantasei pilastri, altrettanti gretti mostri scolpiti secondo gli schizzi di Malbany.» «Curioso» Mirgram assaggiò il tè ma sostenne lo sguardo dell’inquisitrice. «Già, hai detto bene» la sacerdotessa sorseggiò, «e la cosa è tanto curiosa che al centro del giardino c’è un cedro; come nel mio sogno.» «È un bell’albero, credo abbia più di mille anni. Sai che è diventato uno dei simboli della nostra Università?» «Stamattina, nei bassifondi, le guardie hanno trovato una ragazza uccisa. Ti assicuro che non invidio quei soldati, ho visto ciò che rimaneva di quella disgraziata. Eppure non mi stupisce che sia stata trucidata con cieca malvagità, quanto piuttosto che sia accaduto poiché la ragazza era una maga. E non era un’incantatrice che si dilettava a fare la buffona con qualche trucco per racimolare spiccioli, era un’alunna dell’Università.» «Si chiamava Joelle di Newbury. Ovviamente sono al corrente di quanto accaduto e ho indetto una settimana di lutto. I ragazzi sono molti scossi dall’accaduto e, come avrai notato lo sono anche i docenti: non è raro che qualcuno si mostri scortese» Mirgram posò la tazza e continuò la disputa mostrando sincero dolore. «Non riesco a capacitarmi dell’accaduto. Non posso fare a meno di pensare che se gli studi non fossero tanto rigidi, Joelle non sarebbe scappata e saremmo a qui a discutere dei tuoi sogni a cuor leggero. Ovviamente la sicurezza dell’Università non è più sufficiente ma ha la priorità su ogni altra cosa. Il collegio dei professori ha disposto che da oggi gli studenti debbano registrarsi quando vanno in biblioteca, nelle aule e in refettorio. E così dovranno fare tutte le volte che entreranno o usciranno dal complesso universitario. Mi trovo tuttavia nella difficoltà di conciliare la sicurezza con il diritto di ogni studente di non essere oppresso da una disciplina troppo ferrea» anticipò le rimostranze dell’inquisitrice. «Tu credi nelle premonizioni, Mirgram?» Lady Aylyonóra terminò il tè. «Gli elfi usano tabacco spiniforme per crearle.» «Io sono una sacerdotessa anziana, che si è formata sui vecchi testi teologici e
Rhiannon mi concede visioni che sono miracoli: la Dea ha cercato di condurmi verso una verità che non riesco a discernere. La visione non è stata molto chiara, eppure ho sentito che quella fanciulla non è stata assassinata da volgari balordi: è stata massacrata da un’impalpabile malvagità che alberga tra queste mura e che sono intenzionata a scovare e punire come merita: mi occorre la totale collaborazione dei tuoi professori e degli alunni. Questa Università è malata e io devo curarla.» «Capisco le tue motivazioni eppure non condivido i sospetti. Rivoltare l’Università, che per giunta non risiede sotto la giurisdizione del Tempio, e soltanto a causa di un incubo, ha ovviamente il sapore di un pretesto per insinuarsi all’interno delle classi per deformare il ruolo dell’istruzione e alterarne gli scopi. I ragazzi potrebbero sentirsi intimoriti dalla presenza dei chierici, potrebbero rimanere turbati dagli interrogatori e maturare una sorta di ostilità verso l’istituzione universitaria che non li tutela. E, lo ribadisco, con il vacuo pretesto di un sogno.» Il volto di lady Aylyonóra sembrò congelarsi e sbriciolarsi, divenne rubizzo e sbiancò di colpo, solo il contegno rimase immutato. «Rhiannon è la religione ufficiale dell’Impero, non c’è luogo dove il verbo della Dea non possa entrare e non c’è motivo che possa turbare sudditi virtuosi. Se tali sono» squittì la donna. «Mi chiedo come sia possibile che studenti che formate con tanta prudenza, che si applicano con tanta dedizione e sviscerano argomenti così delicati possano essere disturbati dalle innocenti domande di una sacerdotessa.» «L’Inquisizione ha già informato i magistrati circa il tuo incubo?» Mirgram abbozzò un sorriso. «Solo in questo caso, e se essi lo riterranno necessario, potrei far intervenire i sacerdoti. Ci sono alunni che appartengono a importanti blasoni di Amaradantis, non so quanto i loro patroni saranno felici delle innocenti domande che farete loro.» «Purtroppo non ci sono ancora i requisiti necessari per avviare un intervento della magistratura, mi sono rivolta a te per evitarli. Ma forse desideri che il male che affligge l’Università l’incancrenisca... se non collaborate, l’Inquisizione prenderà una posizione ufficiale con tutto ciò che ne consegue. Oggi non sono giunta per imporre nulla, ma se domani lo fossi, capisci bene che con un ordine della magistratura ci sarebbe molto più trambusto; sì, chiamiamolo così: trambusto.»
«Bene» Mirgram si alzò mostrando una solennità regale, «direi che non abbiamo più nulla da dirci» il mago si alzò per accompagnare l’inquisitrice alla porta. «Sappi che voglio evitare che qualcuno dei nuovi e zelanti inquisitori trasformi la tua Università in una seconda Eskiliar» vagheggiò. «Tu sai bene che io sono una tra le più moderate. E sai che ti conviene collaborare oggi con me che rispondere domani alle pressioni dei torturatori.» «Lo so bene, mia signora. Ci lega una lunga amicizia ma tu rimani un’inquisitrice, e sei una donna di fede, mentre io sono un mago, un uomo di scienza. Ma in una cosa ci rassomigliamo: entrambi siamo disposti ad anteporre a ogni cosa ciò che più ci preme: ti assicuro che se allungherete le mani sulla mia Università, farò di tutto per tagliarvele» Mirgram mosse le mani e la mantella di lady Aylyonóra le si adagiò sulle spalle, recandole un piacevole tepore. «Allora ho paura che dovrai dar fondo a tutto il tuo estro per riuscirci» gli rispose con disprezzo. «Se così dovrà essere, così sarà» fu una quieta minaccia. Ristagnò un pesante silenzio e il profumo del tè. «Gli inquisitori non si fermeranno davanti a nulla, Mirgram» la voce di lady Aylyonóra divenne quella di una madre ansiosa: «infervorati dall’ardore di Rhiannon incateneranno gli studenti meno collaborativi e li tortureranno per avere risposte. Vedrai i chierici correre per i corridoi della tua università brandendo le armi e scagliando maledizioni. È questo che vuoi?» «Sono sicuro che i chierici correranno per i corridoi, ma perché spegnerò le pietre inibitrici: sono curioso di vedere come affronteranno il vigore di duecento studenti messi con le spalle al muro e liberi di esprimere tutto il loro potere.» «Divertente, credi di poter militarizzare questi ragazzini per competere con l’élite clericale di Rhiannon? Siamo diventati il culto ufficiale dell’Impero, credi che avremo difficoltà a far are la vostra resistenza come il patetico teatrino di un vecchio e ambizioso ciarlatano?» «E tu credi che i nobili e i patrizi di Amaradantis rimarranno imibili quando sapranno i figli imprigionati nelle segrete del Tempio? Credi che l’Imperatore rinuncerà all’Università che forma uno dei corpi militari più efficienti di tutta
Arhanien per accontentare una bacucca isterica?» Lady Aylyonóra divenne paonazza. «Presto vedremo se il mero calcolo in base al quale ti vanti di eccellere è superiore alla fede in Rhiannon. Quella spregevole mostruosità tornerà a uccidere, ho visto anche questo in sogno: tornerà la notte di Shamhna, tornerà per divorare un altro innocente: sei disposto ad accollarti il fardello di questa tragedia?» «Mi stupisce che ti stia preoccupando del mio futuro: avere i chierici all’interno dell’Università ti tornerebbe comodo, ovviamente» le mani e gli occhi di Mirgram indicarono in alto, una verità appena rivelata. «Così potresti controllare l’unico centro che diffonde una sapienza differente dalla tua.» «Ne vuoi fare una questione di potere?» «Non sono io quello che si è insinuato in casa altrui.» «Fai come vuoi allora, vecchio cialtrone. Non sarò io ad avere problemi quando le profezie di Rhiannon si avvereranno.» «Parli spesso di Rhiannon ma mi domando se tu abbia mai visto il suo sfavillante splendore o se le tue parole siano dettate soltanto dalla vecchiaia che ti obnubila» Mirgram scagliò il suo ultimo attacco. «Certo che l’ho vista» lady Aylyonóra si rattristò invece di inorgoglirsi. «Aveva capelli d’oro, occhi di mare e risplendeva di una dolcezza senza precedenti. Il suo volto era dolcissimo ma non fu mai rasserenato da un sorriso.» «Bene, chiedi dunque a Rhiannon di intervenire per dipanare questa matassa, o di mostrarsi in sogno a me, per convincermi. E ora ti prego di perdonarmi, ma devo tornare ai miei affari. Ti apro io, mia signora» Mirgram schioccò le dita e la porta si spalancò. Lady Aylyonóra si morse un labbro e uscì prima che il mago si accorgesse che stava piangendo. Certo che ho visto Rhiannon, vecchia carogna impotente. Mi si è mostrata radiosa nel vigore della giovinezza e splendente di una bellezza irraggiungibile. E aveva il volto infelice e supplichevole di lady Viviane di Eskiliar. Era lei Rhiannon, e l’abbiamo uccisa.
* Simon, professore di incantesimi della terra, bussò alla porta numero cinque per la seconda volta. «Non capisco che cosa stai aspettando» sbuffò Arwin, fermo sulla soglia. «Forse non c’è.» «Gabriel non si è presentato al colloquio con te: potrei anche chiudere un occhio se non fosse che non è venuto neppure alla mia lezione. Non dovrei essere io quello che deve spiegarti che noi insegnanti dobbiamo assodare che non ci siano seccature di sorta» Arwin lanciò un incantesimo di conoscenza. «E poi la stanza non è vuota: devo incenerire la porta?» «No, ti credo, è che il rispetto degli spazi degli alunni è fondamentale. Non possiamo invaderli senza che siano loro a concedercelo.» Arwin sbuffò di nuovo. «Se volevi qualcuno che ti desse ragione allora dovevi chiedere ad Alioth di aiutarti. Tu fai lo spavaldo quando c’è Rachel e poi cali le brache.» «Avere rapporti con persone che hanno idee differenti circa l’interazione degli individui non dovrebbe recarti fastidi, dovrebbe migliorarti» Simon fece una sostenuta cantilena mentre si massaggiava la barba bionda. «E non faccio lo spavaldo per pavoneggiarmi con Rachel: ieri sera Gabriel e Thomas sarebbero venuti alle mani se non fossi intervenuto.» «Ascoltami bene, Simon» Arwin giunse le mani sotto il naso e lo guatò con occhi gelidi. «Non so cosa sia successo ieri e non lo voglio sapere. Quello che so è che tu ed io te siamo molto diversi. Durante le mie lezioni gli alunni sono silenziosi, si applicano, apprendono l’obbedienza e la reciproca stima. Le tue sono un bordello dove estro e caos vanificano i miei sforzi di ottenere bravi maghi prima e onesti cittadini poi. Le tue lezioni sembrano quelle di Rachel, mi domando chi abbia copiato chi, e se gli alunni abbiano davvero bisogno di sentirsi spronati a migliorarsi piuttosto che essere obbligati a farlo. Tuttavia io non critico i tuoi metodi di insegnamento e di intendere l’interazione tra gli individui, e non lo faccio anche se sono sbagliati: pretendo da te il medesimo rispetto e, soprattutto, non sentire la morale da chi la chiude fuori dall’aula quando fa lezione. Ora, non mi interessa nulla dell’intimità degli studenti: se
Gabriel avesse cose da nasconderci, sarebbero poco lecite.» «A parte la tua illuminante opinione circa i miei metodi didattici, il rispetto degli spazi personali coincide con quello per la persona: come faccio a insegnare il valore delle libertà se io per primo non le rispetto?» «La tua digressione non mi incanta: il rispetto è obbedienza, niente di più. Ora rispondi: c’è qualcosa che Gabriel figlio di Lester può nasconderci?» Simon capitolò dopo una lunga e vana resistenza. «No.» «Bene, la pensiamo allo stesso modo.» Arwin allungò la mano sulla maniglia della porta e Simon fece altrettanto, bloccandolo. «Che penseresti se fosse Gabriel a invadere i tuoi spazi?» Fu l’ultima sortita di Simon. «Sono un insegnante, non ho nulla da nascondere e pretendo che per gli alunni sia lo stesso. Sei libero di venire a vedere quello che faccio nella mia stanza a qualsiasi ora del giorno. Possiamo entrare, adesso, caro collega?» Simon lasciò la mano di Arwin, che forzò la serratura con un incantesimo, spalancò la porta e irruppe nella camera. La stanza era una botte di aria calda e viziata e Gabriel stava alla scrivania, chino su un libro. Il giovane interruppe la lettura e si voltò, preoccupato. «Che accade?» «Non hai sentito bussare?» Tuonò Arwin, deluso dalla normalità delle cose. «Chiedo perdono maestro, ero preso dalla lettura del vostro bellissimo testo sul richiamo degli elementali» fu una risposta creata ad arte e sortì l’effetto di inorgoglire Arwin. «Non ti si è visto per tutto il giorno» l’accusò Simon. «Dovevi venire con me assieme a Thomas, alle dieci.»
«Insomma Simon, studiava il mio trattato, è da capire: non è roba per bambini» lo giustificò Arwin, che gonfiò il petto. «Come ti sembrano i capitoli?» Simon tossì e ignorò Arwin. «Gabriel, l’atteggiamento che hai assunto è disdicevole.» Gabriel guardò in basso. «Avevo paura di essere bersagliato da altri scherzi. Ho cominciato a studiare e non mi sono reso conto del tempo che trascorreva.» «Quali scherzi?» Arwin si indignò. Gabriel sostenne lo sguardo del professore. «Ho litigato con un compagno che mi ha fatto inciampare in mensa. Non sono stato lucido, non avrei dovuto assecondarlo. Io sono nuovo e per di più provengo da una città dove sono avvenuti fatti molto gravi. Credo che sia normale che i compagni mi guardino con sospetto. Sono l’ultimo arrivato, dopotutto.» «Episodi di questo genere sono intollerabili» Arwin strinse i pugni. «Dimmi chi ha mostrato una tale scortesia: la stima verso i superiori e il rispetto verso coloro che hanno pari rango è essenziale per la proficua convivenza. Chi ti ha preso di mira ha insultato l’intero corpo scolastico, i docenti, l’Università tutta.» Gabriel guardò Simon e lo vide fissare Arwin con il volto accartocciato dai dubbi. Sta mentendo, sa benissimo cosa è accaduto e che non possiamo richiamare Thomas senza che suo padre smuova conoscenze influenti, Simon rimase in silenzio per reggere il gioco di Arwin ma fece a Gabriel un impercettibile no con la testa. «La ringrazio per l’interessamento maestro, ma vorrei evitare ripicche peggiori degli scherzi. In fondo siamo ragazzi e vivere a stretto contatto genera interminabili incomprensioni. Coloro che si prendono gioco di me si stancheranno in fretta: velocemente come si propaga, così la menzogna svanisce. È davvero tutto a posto, vi ringrazio per l’interessamento e mi scuso se vi ho recato fastidio.» Arwin approvò la decisione di Gabriel con un sorriso soddisfatto. «Siamo noi a doverci scusare per l’irruzione. Se ti può far sentire meglio, credo
che la tua scelta sia la più saggia. Per il nostro colloquio non ti preoccupare, ne parleremo più avanti. Ti lasciamo allo studio, perdonaci» Simon fece cenno ad Arwin di andare ma, prima che il professore delle magie del fuoco uscisse, qualcosa ne attirò l’attenzione. Arwin si avvicinò allo specchio e fissò la sua immagine riflessa, come se stesse cercando improbabili differenze. Fissò i capelli scuri che divenivano steli argentini e gli occhi azzurri che cercavano risposte a domande poco chiare. «Qualcosa vi turba, maestro?» Domandò Gabriel. Arwin avvicinò il polpastrello dell’indice destro alla superficie argentata, vi premette contro il dito e lo strisciò per metà della lunghezza generando un rumore fastidioso. Gabriel rabbrividì e Arwin si fermò. «Dovresti pulirlo, ragazzo mio, è coperto di polvere.» * «Va tutto bene, mia signora?» Il chierico che accompagnava lady Aylyonóra le porse il braccio e si inquietò. «Avete gli occhi umidi.» Nel Chiostro di Malbany ululava un vento carico di neve. «Non è nulla, giovane Niperth, lascia stare» il giovane riparò la sacerdotessa con il mantello ma questa lo scostò. «Il freddo che provo non è fisico. Ho freddo dentro: la colpa della sconsiderata ignoranza degli uomini che confidano nell’Arte Arcana. Gli incantesimi li abbandoneranno un giorno, ed essi si scopriranno intristiti e sofferenti; le loro menti costruiranno nuovi idoli da adorare mentre la vera fede li abbandonerà nel buio soffocante della loro autoreferenziale inutilità.» «Mirgram di Leboran ha rifiutato di collaborare?» «Non è un problema, non lo è affatto. Ricordati che se porto un nome elfico è perché sono testarda e orgogliosa come il popolo dei boschi.» «Non c’è nulla che possiamo fare per fermare l’influsso malvagio di quella cosa?»
«Mirgram è scaltro ma ciò che crede essere forza è debolezza. L’apparenza non è sostanza, mio giovane Niperth: egli parla come se ignorasse quanto accaduto e, sebbene questo lo possa salvare dalle accuse, non può eliminare il problema. La cosa tornerà a colpire perché il male va estirpato alla radice, non ignorato. Qualsiasi cosa abbia in mente Mirgram, le sue arti magiche non basteranno a placare il mostro che si è impossessato del suo giocattolo. Stasera prepareremo le carte per i magistrati ed entreremo in questa Università, non in silenzio alla stregua di supplici ma con l’assordante clangore dei ferri purificatori. È giunto il momento di mostrare che sei pronto a guidare gli inquisitori.» Gli occhi di Niperth baluginarono foschi e le sue labbra sottili si curvarono in un sorriso malvagio. «Mi sono preparato tutta la vita, mia signora: non sarei capace di deludervi.»
Cosa accadrebbe se ognuno avesse diritto a essere ascoltato indipendentemente dalla bontà delle proprie parole? Se non esistesse un filtro, quali nefandezze udirebbero le nostre orecchie! E immaginate dover ascoltare le opinioni di tutti circa il benessere dell’Impero: se ognuno pretendesse di perseguire i propri interessi, non giungeremmo a inevitabili malumori, a scontri, a omicidi? Per prevenire questi mali è necessario che pochi comandino e molti ubbidiscano. E non mi riferiscono alle moltitudini umane comandate da un Re ma, soprattutto, alle élite. È necessario che si organizzi un direttorio di illustri tra i potenti, i più nobili tra i nobili: individui che comandino coloro che comandano. È altrettanto necessario che tali illustri non facciano virtù dei propri intenti e ruolo ma che, anzi, millantino come le decisioni siano assunte nel nome di tutti e negli interessi comuni. Se così non avverrà, e se gli illustri saranno così stolti da mostrarsi, allora le rivolte, gli omicidi e l’impurità travolgeranno le virtuose intenzioni. Sono i cavalli che tirano, eppure è il cocchiere che impone il percorso: ed essi debbono illudersi di correre liberi, come se la direzione impostata sia l’unica possibile. A questo servono i paraocchi: se non esistessero il carro non arriverebbe a destinazione e i cavalli si disperderebbero, fuorviati da subitanei interessi. Di paraocchi quindi, gli illustri, dovranno metterne parecchi: ai loro pari e al popolo. Nulla di ciò che deve essere fatto nel nome di tutti può are per la libera espressione di tutti, eppure, è necessario che se ne abbia l’illusione.
Discorsi circa le Illusioni – ch.mo prof. Alioth
VIII – Il circolo degli illustri
L’Aula dell’Alchimia era l’unica predisposta per il corso tenuto da Eurimetispide, uno gnomo che aveva dedicato la propria vita alla vana ricerca di un oggetto capace di trasformare il piombo in oro. Gabriel seguiva il corso per scoprire se fosse più conveniente usare i reagenti magici per creare pozioni o per amplificare il potere degli incantesimi. Quel giorno Eurimetispide, che faceva della puntualità un tormento, entrò nella sala in ritardo; alto meno di un nano ma proporzionato nelle dimensioni, indossava una palandrana cremisi foderata in pelliccia di vaio, unta e bruciacchiata, che strusciava per terra, e un’infula di lana che per briga non aveva mai lavata. Il viso di Eurimetispide era un campo arato, il naso era uno sperone roccioso, la barba e i capelli una bianca cascata. Gli occhi neri e vispi d’intelletto baluginavano tra le orbite scavate e le sopracciglia folte scattavano da una parete all’altra dell’aula-laboratorio. «Bentrovati signori» la voce svelta di Eurimetispide punse gli alunni più del tanfo dell’esperimento fallito dal quale giungeva. La predella, la cattedra e la sedia erano proporzionate in modo che il professore non dovesse scomodarsi e ricordavano la perfezione dei giocattoli dei figli dei patrizi di Amaradantis. Eurimetispide salì sul predellino e sedette alla cattedra; starnutì e tirò su con il naso, asciugandolo nella pelliccia della manica, controllò il registro con le presenze e il numero degli alunni e si strofinò le mani, soddisfatto. «Benissimissimo, vedo che oggi siete più del solito: le mie lezioni fanno proseliti. Cominciamo subitissimissimo dunque! Alzate il piano di lavoro del vostro posto e prendete i manuali che, lo ricordo tutte le volte, sono fondamentalissimissimi al corretto svolgimento del vostro lavoro. Oggi proveremo a unire i numerosissimissimi reagenti di una pozione per curare malattie. Non ditelo a lady Isabella o mi farà una testa così perché le tolgo il lavoro! Ora aprite il manuale a pagina centoventotto» gli alunni obbedirono. «Ecco, qui trovate indicati i reagenti e la loro quantità. Prendete il mortaio e il pestello d’olivo dal fondo del vostro banco e posizionatelo davanti a voi» le mani affusolate di Eurimetispide anticiparono i gesti degli alunni, aprirono la cattedra ed estrassero strumenti e libro delle pozioni. Sornacchiò, preparò il piano di lavoro, afferrò una camla e la scosse fino a quando un assistente non entrò con un carrello colmo di albarelli e putisse di ceramica decorata.
«Benissimissimo, ora scendete, uno alla volta, prima la fila destra, dal basso verso l’alto e poi la sinistra, con la medesima modalità. Come sempre del resto. Una volta presi tutti i reagenti, vi spiegherò come ottenere l’utilissimissima pozione. E mi raccomando, signorina Batilde Pallert» si rivolse a una bella ragazza dai capelli biondi, «non faccia esplodere tutto come l’ultima volta» lo gnomo fece arrossire Batilde e strappò una risata alla classe, poi tirò su con il naso. Gabriel sarebbe stato uno degli ultimi a scendere e ne approfittò per dare una scorsa veloce al libro, un tomo che aperto era grande metà del banco; le dita arono sulle pagine e percepirono come il volume non fosse che una copia ottenuta con la magia. Il libro conteneva un gran numero di essenze da realizzare sotto forma di polvere, liquido, pastiglia o da accoppiare a una formula magica. In appendice il libro conteneva pregevoli disegni delle erbe riguardo alla forma del fusto, delle foglie, del fiore. Il manuale del druido perfetto! Sperò che qualcosa mi torni utile, Gabriel cercò, ma l’elenco di infusi e decotti gli diede il voltastomaco. Scese a procurarsi i reagenti, seguì le indicazioni del professore e la lezione terminò senza nessuno degli intoppi che l’avrebbero resa divertente. Dopo aver riconsegnato gli alambicchi e recuperato le sue cose, Gabriel si fermò alla cattedra. «Buonasera professor Eurimetispide, avrei bisogno di un consiglio per un decotto. Sono Gabriel figlio di Lester.» Eurimetispide soffocò uno starnuto nella manica della palandrana, «Ma certissimissimo! Però la invito a seguirmi nel mio studio: lei non sa quanto i bidelli si innervosiscono se gli stiamo tra i piedi quando fanno le pulizie serali» Eurimetispide scese dal predellino e fece strada trascinando la tonaca puzzolente per i corridoi sino al dipartimento dei professori. Risalita la corrente di studenti che si avviavano alla biblioteca, Eurimetispide aprì la porta dell’ufficio e invitò Gabriel a sedersi su un cuscino viola posto su una struttura di libri e fascicoli uniti con corde di budello nella forma di poltrona. L’ufficio dello gnomo era ridotto a un ripostiglio dove i libri erano utilizzati come elementi architettonici. Una torre conica fatta di copertine e pagine giungeva alla sommità della stanza e l’occupava per metà della superficie, le librerie di contorno erano composte da libri che ne sorreggevano altri, i muri stessi erano rivestiti di volumi impilati in modo che i più piccoli si insinuassero
nei pertugi tra i grandi. «Bene Gabriel figlio di Tester, cosa le serve di preciso?» Eurimetispide salì su una sorta di trono di libri, aprì uno scrigno che fungeva da cassetto e ne trasse un bocchino e una foglia arrotolata. «Gabriel figlio di Lester, professore.» «Sì, figlio di Mester, e io che ho detto?» Eurimetispide svuotò la foglia sulla copertina del libro che aveva davanti, tracciando un segmento con una polvere bianca e fine. «Mi perdoni professore, ho un problema: mi capita di addormentarmi spesso, anche di giorno. La testa mi cade sui libri e mi ritrovo a ronfare invece che a studiare» Gabriel vide lo gnomo sistemare la polvere più volte sino a comporre un lungo segmento, umettarsi le labbra e infilare il bocchino nel grosso naso a patata. «Se continua così non credo che la mia carriera di mago sarà molto lunga: volevo chiederle se esistevano sostanze che potessero risolvere il mio problema.» Eurimetispide si grattò la barba e socchiuse gli occhi. «Un secondo per favore» appoggiò il bocchino sull’inizio del segmento e aspirò la polverina; sgranò gli occhi, fece un sorriso ebete e si sedette sul trono di libri, appagato. ò il successivo minuto a soffocare sornacchi e risa e quando rispose, lo fece accavallando le parole e tremando in preda a un’ innaturale eccitazione. «Sì, sì, ecco, ecco, dovrei proprio avere quello che fa per lei» fu la prima frase dotata di senso. «Ecco, sì dovrei. Dovrei proprio, dunque, vediamo, dunque, dunque. Sì, ecco, vediamo» saltò giù dal trono con invidiabile agilità, girò attorno alla torre, ciondolando e ridendo, poi raggiunse un librone aperto su un leggio di legno: lo aprì tre o quattro volte, capovolgendolo a ogni chiusura, cercando il verso giusto di lettura, lo sfogliò con riverenza, poi si fermò a leggere, gli occhi sgranati e le palpebre che non sbattevano più. «Bene, ora so dove cercare» tirò su con il naso, scattò verso un piano di legno che reggeva altri libri e afferrò un secondo tomo, che iniziò a sfogliare. Eurimetispide riemerse dalla lettura, chiuse il libro e si tuffò all’interno della torre conica, dalla quale riemerse dopo alcuni minuti di silenzio spezzati da starnuti e sornacchi. «Ecco qualcosa che fa al caso suo» lo gnomo apparve da una finestra della torre
di libri, sorridente; scese i gradini fatti di volumi e invitò Gabriel ad avvicinarsi. «Siete stato fortunatissimissimo, Gabriel figlio di Rester. Ho messo in ordine soltanto la settimana scorsa e aggiornato l’elenco dei libri e le loro posizioni.» «Ha fatto un elenco con la posizione di ogni testo?» «Ma no, che dice? Ho fatto più elenchi, ovviamente: uno solo non basterebbe. Così ho un elenco, il primo, che indica in che elenco, il secondo, è censita la posizione dei libri» si starnutì nelle mani e le pulì sulla costa del libro che aveva trovato. Gabriel si voltò disgustato e si imbambolò a fissare i tomi ammassati nella torre conica e usati per costruire la mobilia. «Un’idea davvero geniale.» «Vero? Ognuno si ingegna come può» Eurimetispide si inorgoglì. «Arwin mi aveva proposto uno dei suoi libri parlanti, una di quelle diavolerie che ti dicono dove stanno gli altri ma io ho voluto mostrargli che una buona idea può sostituire la magia. Veniamo a noi, Gabriel figlio di Cester» lo gnomo aprì il volume miniato dove aveva smoccolato. «Le occorrono venti grammi di foglie di tarrasaco o del suo tubero, dieci grammi di foglie di rosmarino, dieci grammi di rizoma essiccato di rabarbaro, una foglia di damiana. Li batte con il pestello in un mortaio e fa un infuso con un cucchiaino di questa miscela.» «Quanto deve bollire?» «Cinque minuti in un bicchiere d’acqua calda, poi lo assume secondo necessità» scrisse le indicazioni su un foglio pescato tra i libri. «Vada dallo speziale e si faccia dare gli ingredienti. Mi raccomando, non ne abusi per alcuna ragione e non ecceda con la damiana.» «Perché, cos’ha di particolare la damiana?» Eurimetispide si sincerò che nessuno lo ascoltasse. «È una pianta eccitante, in dosi elevate aumenta la libido. Non ecceda.» «Dosi elevate?» «Oltre le quattro foglie è una dose elevata, ecciterebbe anche una vecchiaccia, zitella e frigida.»
«Farò come ha detto, l’infuso mi serve soltanto quando devo studiare.» Eurimetispide si incupì mostrando quanto gli si potesse aggrovigliare la ragnatela di rughe del volto. «Se ne abà rischia di avere difficoltà a prendere sonno, in futuro: mi raccomando, stia attentissimissimo. Non si scherza con le piante, non ci si burla dell’alchimia.» «Sarò accorto professore, non temete» il ragazzo ringraziò. «Gabriel figlio di Sester, un’ultima cosa.» «Mi dica.» «Molti maghi hanno usato quella pozione insieme all’incantesimo che attenua il bisogno di sonno. Non fatelo, sono tutti impazziti. Inoltre, in molti hanno ricercato formule per destare l’attenzione, ma riuscirvi non li ha resi migliori di prima» starnutì nella manica. «Sono tutti diventai schiavi delle loro scoperte. E ciò che è peggio» prese a ridere, «ciò che è peggio» rise ancora più forte, «ciò che è peggio è che ora ne saranno pure entusiasti» la testa di Eurimetispide cominciò a dondolare avanti e indietro, gli occhi ancora sbarrati. «Non è mia intenzione fare una cosa del genere. E poi è impossibile usare quel genere di incantesimi per via delle pietre.» Eurimetispide lo congedò con un sorriso assente e il ragazzo uscì dalla stanza, dall’edificio della presidenza e scappò verso il dormitorio, ando per i chiostri abbandonati dagli studenti e sferzati dal vento. Andò alla spezieria e reperì gli ingredienti suggeriti dallo gnomo, tornò in camera ma, prima di concentrarsi sull’infuso, si dedicò allo specchio. Adesso vediamo se il marchio che porto ti consente davvero di muoverti come desideri; vediamo se riesci a eludere gli incantesimi del negromante Liryam. Gabriel si accasciò e tracciò sul pavimento della stanza la prima delle punte di un pentacolo, mormorando una litania inascoltabile e malvagia; il gessetto segnava le mattonelle brune ma la mano e le parole incedevano incerte. La temperatura della stanza si era abbassata e, quando il pentacolo fu chiuso, Gabriel fu preso dalla fretta di terminare: prese della polvere gialla, fine e preziosa e la ò sui segni bianchi, ripetendo l’operazione con il proprio sangue, dopo essersi procurato un taglio sulla mano con il secespita. Prese la
pietra del potere che aveva caricata a fatica con il poco mana a disposizione, si curò la ferita, aprì il libro di Liryam e recitò la formula costrittiva più potente, gridandone a denti strette le ultime strofe.
Gli spiriti immortali che lacerano il cuore e la mente impongano catene d’oro e sangue al pentacolo maledetto: Che danzi sulle spire della notte la vendetta dei morti; Che giunga il putridume dei cimiteri e delle bare violate; Che si diffonda l’afrore delle ossa esumate dai riti necrofagi; Ma che l’Oscuro Nemico non si desti, non bussi, non i.
Gabriel si accasciò per terra, sudato. Due settimane ate ad accumulare mana per avere una pietra del potere appena sufficiente, fissò lo specchio ma l’assenza di palpabili reazioni e l’intiepidirsi della stanza lo convinsero che l’incantesimo era andato a buon fine. O così gli parve. La scarsità del mana lo costrinse a raggiungere polle isolate che andavano a raggrumarsi lontano dai cristalli ma era un lavoro lento, sfiancante. Gabriel trovò l’energia che gli occorreva dopo dieci minuti di inerte attesa, poi la usò per lanciare un incantesimo che irrobustisse il pentacolo e sostò dirimpetto allo specchio. «Non ci sei adesso?» Fissò la propria immagine, le mani giunte, i capelli neri, gli occhi concentrati sulla perfezione dell’immagine. «Sei in qualche sfortunato mondo a portare devastazione?» La finestra si spalancò di colpo e un refolo s’intrufolò a gelare la stanza.
Gabriel ansimò, vide il fiato condensarsi ma non osò muoversi; attese nella speranza che Jaquish di Anquelot si rivelasse e che il pentacolo potesse contenerne l’influsso. L’immagine di Gabriel risultava nitida e i movimenti venivano replicati come se lo specchio fosse stato soltanto tale. Sei bloccato dall’incantesimo o stai fingendo che funzioni? Gabriel si avvicinò alla finestra, sorvegliando lo specchio, e la chiuse; attese che accadesse qualcosa ma, dopo un’immobilità silenziosa e frustrante, si gettò sul letto. Cullato dal mana che tornava a uniformarsi, il ragazzo si addormentò senza aver preparato la pozione.
*
La notte era caduta sull’Università, scorticandola con le sue fredde spire e il dormitorio femminile era diventato chiassoso come un pollaio attaccato da una volpe; non un piano era sfuggito alla trasformazione, le studentesse ciarlavano, si pavoneggiavano, sparlavano a gruppetti sugli accompagnatori delle rivali e dei vestiti che avrebbero indossato. Quando Joelle entrò nel salone comune del quinto piano, le ragazze che spettegolavano si zittirono e la fissarono disgustate. «Buonasera» Joelle le salutò senza entusiasmo e andò verso la camera. «Ciao» una ragazza rispose, venne guardata male dalle altre ma infine anche le meno educate ricambiarono il saluto, scocciate, per tornare a sparlare di ragazzi non appena la cugina di Viviane si allontanò. Joelle entrò in camera ma chiudere la porta non bastò a isolarla dall’eco delle voci delle compagne. Potrei andare lo stesso alla festa: non è obbligatorio avere un accompagnatore, aprì l’armadio e ammirò l’abito che aveva scelto; sedette sul letto, le ante aperte a mostrare la cotta di broccato color panna, bordata di liste d’oro, aderente e con le maniche a sbuffo; un bustino le avrebbe strizzato la vita e inorgoglito il seno e il mantello di seta bianca ornato di perle avrebbe ricordato a ogni invidiosa studentessa la ricchezza della famiglia Greyfire.
Certo, potrei andare: sarà una triste serata che erò in compagnia della mia ombra, abbandonata in un angolo ad ammuffire ed evitata da tutti. Mi abbufferò di dolci per compensare la rabbia e per finire, il giorno dopo, dovrò affrontare le facce entusiaste delle mie compagne, ingrassata e piena di brufoli. Una lacrima scese, arandole la pelle. L’anno scorso ho fatto fatica a scegliere un cavaliere, oggi i ragazzi che prima mi corteggiavano scappano non appena mi avvicino. Scappano da Joelle l’eretica. Diede un calcio all’armadio facendolo traballare. Balzò verso il vestito, intenzionata a distruggerlo, poi si quietò e andò davanti allo specchio, per guardarsi piangere. Non sono un’eretica, non c’entro nulla con mia cugina Viviane! Gettò la testa sotto il cuscino per attutire il chiacchiericcio e per minuti lenti e rassicuranti riuscì a non pensare a niente e a sentirsi lontana dai taglienti pettegolezzi delle compagne. Gabriel riuscirebbe a ignorarle, a non far caso a loro. Gabriel... Gabriel. Joelle emerse dal cuscino e sospirò. Gabriel, nel ricordarlo sentì una fitta al ventre, una strana eccitazione e desiderò che il ragazzo si fosse offerto di accompagnarla al ballo. Desiderò che fosse lì con lei, desiderò che l’accarezzasse, e che la baciasse. Joelle si rigirò sul letto, la testa schiacciata sotto il cuscino e le viscere in subbuglio; cercò di prendere sonno ma le voci gracchianti delle studentesse martellavano senza pietà. Ora basta, mi sentiranno, Joelle uscì dalla stanza e si avviò al salone. Le ragazze stavano distese sui tappeti e accomodate sui divanetti e non appena la videro si zittirono. Il muro di silenzio ne frenò l’empito ma Joelle non esitò a farsi valere. «Si potrebbe avere un poco di silenzio? Sto studiando.»
Nessuna ragazza le rispose, poi Batilde, una fanciulla bionda tra le più grandi e attraenti, si alzò. «Ma non ti stai preparando per la festa? Non dirmi che non hai trovato nemmeno un cavaliere!» Gli occhi chiari di Batilde mostrarono una tagliente malizia. «Mi domando dove siano finiti tutti i baldi giovani che ti morivano dietro!» «Forse sono morti davvero» sogghignò una compagna. «Non è di questo che si parlava e non mi interessano le vostre digressioni: fate troppa cagnara e mi disturbate. Prendetemi in giro quanto volete ma abbiate il buon gusto di farlo a bassa voce.» «Ma come sei scontrosa... o dovrei dire invidiosa?» Le ragazze del quinto piano presero a ridere e Joelle avvampò. «Non sono invidiosa, fate chiasso e basta.» «Povera Joelle!» Batilde giunse le mani facendole schioccare, poi si rivolse alle amiche. «Così carina e simpatica da non avere nemmeno uno straccio di maschio con il quale trastullarsi. Sarà questo che le rode?» Joelle fece per replicare ma Batilde l’anticipò. «Ebbene, mentre noi saremo al ballo, lei sarà chiusa in camera a masturbarsi con un manico di scopa!» «Stai zitta» Joelle divenne paonazza, «sei così acida che non appena bacerai il tuo cavaliere lo trasformerai in un rospo!» Batilde mantenne un irritante distacco. «Mi fa pena, poverina. Noi andremo a divertirci mentre lei non avrà il coraggio di farsi vedere. Quelle come lei sono capaci soltanto di tramare nell’ombra: la sua è una famiglia di eretici» concluse sottovoce prima di tornare a volgersi a lei. «Vattene e non rovinare anche noi con le tue trame: sei come quella sgualdrina di tua cugina Viviane che si accoppiava con i demoni.» Joelle sbiancò e si sentì privata di ogni forza; scoppiò a piangere, prese la porta del salone che dava sulle scale e corse di sotto. «Ma dove vai, non si può uscire a quest’ora» la ragazza che in ato aveva condiviso con lei molte ore di studio provò a trattenerla ma Joelle aveva già chiuso la porta.
«Lasciala perdere Samantha» la riprese Batilde: «se vuole farsi ammonire dai professori, che faccia.» «Credo che tu sia stata troppo dura con lei, Batilde.» «Davvero? Non eri tu quella che le faceva da confidente? Non sei stata tu a dirci di come ci disprezzava e di come si sentiva migliore soltanto per quattro o cinque infoiati che la corteggiavano?» «È vero, però...» «Ebbene, se non riesce a soddisfare i suoi pruriti perché tutti la evitano, che non venga da noi a lamentarsi» gli occhi di Batilde si fecero piccoli. «Non è che sarai ancora amica di quella cagnetta?» Samantha si arrese. «No, non le sono mai stata amica.» «Bene allora, quelle come lei ano di moda molto in fretta. Che si diceva?» Batilde rise e le ragazze ripresero a fantasticare sul ballo e a sparlare di ragazzi.
*
Mi sveglio nel buio della stanza, schiaffeggiato da un’energia glaciale che si insinua nell’ombra. Balzo dal letto: la pozione! Vado al tavolo dove restano il boccale di ceramica e gli ingredienti suggeriti da Eurimetispide. L’odore delle foglie essiccate ridotte in polvere diventa pungente. Stropiccio gli occhi e sorveglio lo specchio: la superficie del vetro argentato è immota; forse l’incantesimo del negromante Liryam è sufficiente. Spero che lo sia.
Creo acqua per riempire il bicchiere e lo scaldo con un incantesimo. Getto la polvere ottenuta da tarrasco, rosmarino, rabarbaro e damiana nell’acqua bollente e, nell’attesa, mi preoccupo dello specchio: gli avvicino la mano e mi accorgo di tremare. Tocco il freddo vetro. Il corpo prova paure che lo spirito non percepisce. Il cuore sussulta. Qualcosa mi spinge a ritrarre la mano ma resisto, ipnotizzato dal potere che si cela oltre il foglio d’argento. È una sensazione soltanto, non accade nulla. Forse l’energia che sentivo giungeva da altre fonti. Una luna ghignante fa capolino nel cielo tra batuffoli di nubi che rotolano via. La scorgo tra le tende, tirate a metà. La forza sconosciuta che mi ha destato si ripresenta, è indebolita ma se mi concentro riesco a percepirne lo strascico, seguendola posso giungerne all’origine. A un nome. Arwin. Non è un giro di ronda. Toccava a Simon questa sera, l’ho sentito lamentarsi con Rachel, in refettorio. Arwin prosegue con circospezione, si ferma a ogni angolo; controlla ma non si comporta da controllore. Percepisco altre energie. Indosso le scarpe e la gabbana, bevo il decotto e preparo gli incantesimi illusori che conosco, quelli di conoscenza e quelli di percezione. Rimanere a letto nonostante la rivelazione sarebbe la cosa più comoda, eppure la perturbazione creata da Arwin è losca: devo sapere. Esco, mi avvicino a una delle pietre azzurre che illumina il corridoio. C’è un freddo inusuale e il piano è silenzioso e deserto. Non appena tocco la pietra e la
spengo, il bagliore delle altre scema sino a spegnersi. Adesso posso seguire la traccia di Arwin. Posso conoscere.
* «È senza ombra di dubbio alcuno una delirante ed esecrabile follia» Arwin stava sdraiato su una poltrona di pelle nella stanza tonda al centro del piano segreto della biblioteca dell’Università. «Quanto è accaduto è vergognoso, e questa considerazione va al di là di qualsiasi opinione personale» Gamelien si lisciava il pizzetto puntuto e i baffoni neri. «Signori, signori, per favore, un po’ di silenzio, sono tediato dal vostro ciarlare a vanvera» Alioth alzò la testa dal libro che stava leggendo, un volume miniato grande quanto la scrivania dove era poggiato. «A te è piaciuto quanto è successo, Alioth?» Gli occhi neri del mago non si staccarono dalle evoluzioni dell’inchiostro. «Carissimo Gamelien, non ho detto questo, ho esternato un commento circa le vostre sterili considerazioni: starnazzate come oche incapaci di volare» voltò la pagina che aveva terminata e riprese a leggere. «La vostra indignazione è di scarso interesse: ci occorrono risposte, non nuove domande. Con le vostre lamentele mi ci pulisco le natiche.» Un macigno di silenzio si schiantò sui membri del Circolo degli Illustri, Arwin e Gamelien scattarono in piedi, furibondi, ma non replicarono perché Mirgram fu lesto a zittirli. «Quello che è accaduto deve essere fonte di insegnamento, non di malumore: mai prima d’ora qualcuno aveva aggirato il controllo dei nostri incantesimi» il rettore dipanò i dubbi. «E benché l’accadimento sia intollerabile, ricordarlo o spendere altre parole al riguardo è senz’altro tempo sprecato, se non ci impegniamo a trovare una soluzione.» «Appunto» Alioth riunì i pochi capelli che gli rimanevano e li agganciò con un
monile d’oro bianco. «Quanto detto fino ad ora dai miei illustri colleghi è carta da culo.» «Rimane il fatto» ringhiò Mirgram «che un piano comune deve essere formulato, adesso» guardò storto Gamelien e Arwin che risedettero. «E in ogni modo le domande possono avvicinare alle risposte» aggiunse con un’occhiata in tralice ad Alioth, che nemmeno lo guardava. «Che cosa sappiamo dell’assassino?» L’illusionista sospirò. «Non sappiamo nulla» Mirgram abbassò il capo. «Ho effettuato rilevazioni con Rachel, che ha scoperto il cadavere ieri notte. Ovviamente è rimasta scioccata dall’accaduto, ma io devo capire cosa ci fe sveglia a quell’ora» guatò gli insegnanti per cogliere segnali d’irrequietezza e scoprire se l’amante di Rachel fosse tra loro. «Non avete trovato nessun indizio?» Arwin sfidò il rettore. «Joelle è stata scagliata fuori dalla finestra dall’assassino» spiegò Mirgram. «Ovviamente, se era una sua compagna, lasciatemi dire che era dotata di una forza straordinaria. Dopo averla gettata nel Chiostro delle Vergini, l’ha raggiunta e l’ha…» esitò sino a socchiudere gli occhi «l’ha squartata. Tuttavia, le tracce magiche erano tanto flebili da farci ipotizzare quanto vi ho appena detto.» «Allora una cosa sull’assassino l’avete scoperta» Alioth fece una smorfia ma non staccò gli occhi dalla lettura. «È più abile dei nostri incantesimi.» «Su questo hai ragione, ma in parte» aggiunse Mirgram: «in realtà gli incantesimi hanno mostrato qualcosa: un’ombra.» «Un’ombra?» Domandarono i tre professori con una voce sola. «Esatto, un’ombra senza volto e composta da pura malvagità. Su questo forse lady Aylyonóra ha ragione.» «La megera che crede che basti un simbolo sacro a essere sacerdoti?» Alioth emerse una terza volta dalla lettura del testo miniato. «Ovviamente» Mirgram raccontò quanto si erano detti.
«Lady Aylyonóra è un problema» esordì Gamelien al termine del racconto. «No, l’inquisitrice non è un problema» s’affrettò a spiegare il rettore: «se si azzarda a mettere piede nella nostra Università non la erà liscia.» «Si può sapere perché non condivido la medesima fiducia?» Alioth ò le dita sull’angolo della pagina e la voltò con cautela. «Cosa stai leggendo, un testo sull’umiltà e il rispetto?» Arwin riprese il collega. «Non ti rispondo neanche» Alioth riprese a leggere. «L’hai appena fatto» sogghignò Arwin. Odio essere distratto mentre leggo, Alioth strinse i pugni e guatò il ghigno del collega. Stava per dirgli quel che pensava di lui quando intervenne Gamelien. «Cari colleghi, non voglio sorbirmi le vostre evoluzioni dialettiche, perché so che è quello che state per fare. Lo sconvolgimento subito dall’Università non è ripristinabile con la magia, nemmeno con una delle perfette illusioni di Alioth. Abbiamo perso una valida allieva ma questo non è un problema, né legale, né didattico perché possiamo ancora lavorare e formare altre risorse. Il problema è come impedire che la cosa si verifichi ancora una volta. il problema è scoprire chi ha commesso l’omicidio e come ha fatto a eludere la sorveglianza. Mirgram, che sospetti abbiamo?» Altre parole spese per nulla, Alioth girò pagina e seguitò nella lettura. Il rettore fissò a turno Gamelien, Alioth e Arwin, severo. «Noi quattro non possiamo dubitare di noi stessi, nessuno del Circolo degli Illustri può aver fatto una cosa del genere senza violarne le regole.» «Già, e per quale ragione, poi?» Aggiunse Arwin. «Sembri teso, carissimo, c’è un perché?» «Alioth, per favore: ho appena detto che non possiamo dubitare gli uni degli altri.» «È vero Mirgram. Gamelien ha appena detto che non avremo problemi legali,
però il tanfo dei ferri roventi degli inquisitori si intensifica un giorno dopo l’altro» le labbra sottili di Alioth si allungarono in una smorfia. «Ho fiducia in tutti voi, anche in Arwin, sebbene non condivida con lui molte opinioni. I chierici sono degli invasati: la loro gerarchia e il loro potere non ha nulla a che vedere con il nostro; un chierico è imprevedibile, un inquisitore è un lupo libero di agire dentro un ovile. Dobbiamo impedire che si ripresenti questo increscioso accaduto.» «Abbiamo aggiunto nuove regole: occorre firmare quando si entra ed esce dalla biblioteca, dal refettorio e dalle lezioni, ed è vietato farsi trovare fuori dal dormitorio dopo le nove. A breve daremo un giro di vite anche alle visite dei parenti e alle libere uscite degli studenti» Arwin contava sulle dita il numero degli interventi presi dalla presidenza dell’Università ma fu interrotto. «Bella idea quella di militarizzare l’Università: è mai possibile che tu non riesca a comprendere come quella del controllo sia soltanto una stolida illusione?» Alioth alzò la voce. «Il controllo è efficace soltanto se esiste un controllore altrimenti le norme stupide, scomode e ingiuste non vengono rispettate.» «Ma sei fuori di testa?» Arwin balzò in piedi. «Le leggi vivono di vita propria: il loro spirito è impresso sulla pelle di ogni suddito.» «È un’idea di merda» Alioth sbuffò. «Come?» «È un’idea di merda: hai trattenuto una scoreggia, il gas si è espanso nelle budella, ti è risalito lungo la spina dorsale, è giunto al cervello e hai concepito una cagata di questo genere. Mi spieghi come fai a sapere se i ragazzi rispettano il tuo coprifuoco?» «Non è un coprifuoco» la voce di Arwin tremò di rabbia. «Chiamalo come ti pare: hai pensato a come farai a capire se lo rispettano? Che farai, erai a bussare alle porte di tutti per controllare?» «C’è Simon che fa la ronda, te lo sei dimenticato?» «Simon deve tenere lezione domani. Credi che starà alzato tutta la notte?» Alioth si concesse una risata.
«Deve, abbiamo stabilito così» Alioth si indignò. «Ti alzi tu a controllare che Simon controlli?» Lo sbeffeggiò Alioth. «Potremmo incantare le pietre affinché tengano traccia di chi è ato» Gamelien soffocò una risata e interruppe il litigio. «Richiederebbe troppo tempo» Mirgram si insinuò nella discussione per reggerne le redini. «Non se ci lavorano tutti gli insegnanti» puntualizzò Gamelien. «Siete degli illusi. Ricordate le magie che abbiamo posto sulla terrazza vietata? Quella di poter controllare gli alunni attraverso le pietre è un’illusione. Occorrerebbe una discreta quantità di mana per farle funzionare e dovremo alzare il livello attuale» sbuffò Alioth, tornando a sedere. «E facciamolo allora» Arwin lo sfidò. «Perché devi concimare i dubbi che nutro sulla tua sanità mentale? Abbiamo abbassato il mana per impedire sfaceli durante lo studio, se ne ripristiniamo un livello sufficiente a evocare delle palle di fuoco, chiunque potrà farlo.» «Come fai a esserne tanto sicuro?» Ruggì Arwin. «Crea un regno tanto facile da governare che possa essere retto da uno squilibrato e vedrai che uno squilibrato si troverà a reggerlo.» «Silenzio. Andrò a parlare con l’Imperatore» Mirgram mise tutti a tacere. «Ovviamente farò le opportune pressioni affinché gli inquisitori ci lascino stare.» «E credi che ti ascolterà? È vero che sei uno dei suoi consiglieri, ma dopo aver ufficializzato il culto di Rhiannon gli sarà impossibile tornare sui propri i» Arwin storse il naso. «Detengo argomenti abbastanza convincenti.» «E quali sarebbero, se è appropriato saperli?» Alioth si insospettì. «La questione è chiusa, non è opportuno che sappiate altro. Ci sono altre
questioni da dibattere in questa sede?» Alioth si rialzò. «Mi sembra che nessuno abbia ancora menzionato una questione della massima importanza: mancano due settimane al ballo per la Festa d’Inverno.» «E quindi?» Arwin si accigliò. «Ma scusate, prendiamo tutte queste precauzioni per cercare l’assassino di Joelle, per evitare l’intervento degli inquisitori e poi festeggiamo Shamhna come tutti gli altri anni, come se nulla fosse?» «Vuoi proporre di saltare la festa? Dopo quanto si sono impegnati nei preparativi i ragazzi» Arwin inorridì ma Alioth continuò a esporre l’idea. «Se tra le mura di questa università si nasconde un assassino, la Festa di Shamhna sarà un’occasione d’oro per uccidere ancora. Io propongo di estendere il periodo di lutto e di saltare la festa.» «Gli alunni non apprezzeranno» Gamelien sospirò. «Mi ci pulisco le natiche con ciò che penseranno gli alunni! Volete concedere a un assassino una tale occasione?» «Il problema è più complesso di quel che vi appare» la voce scura di Mirgram fece rabbrividire i tre professori: «se facciamo saltare i festeggiamenti, lady Aylyonóra si insospettirà.» «Avevi detto che la sacerdotessa non era un problema» contestò Alioth. «E non lo è, ma se non le diamo motivi per dubitare nella nostra buona fede e non le concediamo appigli per giustificare l’astio nei nostri confronti. Se invece facciamo i falsi, questi saranno esposti agli occhi di tutti. Posso fare pressioni sull’Imperatore per disincentivare il Tempio di Rhiannon dall’impicciarsi nelle nostre questioni, ma non posso impedire che i chierici insinuino dubbi nelle famiglie degli alunni; e se tali dubbi venissero alimentati dal nostro comportamento, perderemmo gli iscritti, uno dopo l’altro» vide l’espressione combattuta di Alioth. «Insomma, mettiti nei panni di un genitore: se il Tempio insinuasse che l’omicidio di un’alunna è stato insabbiato dall’Università, quanto peso daresti alla sospensione della Festa di Shamhna?»
«Siamo l’unica istituzione che forma maghi su tutta Arhanien. I blasoni non hanno alternative, e lo sanno» Alioth tornò a sedere in silenzio. «I maghi dell’Impero Malgiusiano studiano da noi, o non studiano» Alioth mostrò i palmi delle mani, ne allargò le dita e infine le intrecciò. «C’è una simbiosi perfetta e noi abbiamo bisogno di loro per sopravvivere come loro hanno bisogno di noi per esprimersi. Se però è deciso che non sussistono le ragioni per sopprimere Shamhna, allora dovremo aumentare la sorveglianza, e occorrerà provvedere acché bidelli e professori siano pronti a fronteggiare qualsiasi situazione. Non sarà facile.» «Nessuno ha detto che lo sarebbe stato» Gamelien sospirò. «E quindi?» Arwin sbadigliò. «Quindi che cosa?» Alioth allargò le braccia. «Ho sonno, se non ci sono altre questioni io mi ritirerei.» «Che c’è, cominci a sentire la vecchiaia?» Alioth si fece beffe di lui ma Arwin non abboccò alla provocazione e guatò Mirgram. Il rettore teneva una sfera luminosa nel pugno e la ripose non appesa comprese di essere osservato. «La festa di Shamhna si farà. Aumenteremo la sorveglianza, terremo d’occhio gli alunni per quanto sarà possibile. Dichiaro la nostra riunione conclusa» il rettore licenziò i professori e uscì di fretta. Arwin e Gamelien lo seguirono, Alioth rimase ultimo e prima di alzarsi ò una mano sul libro che aveva lasciato aperto, depositandovi uno strato di polvere artificiale.
*
Gabriel si appoggiò alla porta ogivale della biblioteca, chiusa. Ovvio, che cosa mi aspettavo, un comitato di accoglienza?
Poggiò il polpastrello sulla toppa, percepì le molle, i tiranti del meccanismo e la chiave che era stata lasciata all’interno, comandata da una magia; Gabriel prosciugò il mana in quel tratto di corridoio per aprire la porta; il primo tentativo andò a vuoto ma il secondo piegò il mana. Il giovane fece girare la maniglia cercando di non far rumore, entrò e scoprì la biblioteca soffocata da latebre tiepide, acri, amorfe. Accese una fiammella grande come una noce, che dardeggiò nel buio creando una fossa di luce. Richiuse la porta e lanciò la fonte luminosa tre i avanti, in modo che anticie i suoi movimenti, e inseguì una reminiscenza appena percettibile. Questa non è solo la traccia di Arwin: sono ati altri. Gabriel inseguì il residuo di energia magica verso la colonna che reggeva i piani e il tetto trasparente. Alioth. Si fermò. Gamelien e... Mirgram. Si avvicinò al pilastro attorno al quale era costruita la biblioteca, un gigante che dodici uomini robusti non sarebbero riusciti ad abbracciare, e appoggiò la mano alla nuda pietra. Le tracce magiche conducono dentro. Si scostò dal pilastro. Adesso? Il profilo di una porta si disegnò tra le pietre e si illuminò di azzurro. Gabriel spense la noce di fuoco che gli faceva da torcia e si infilò sotto un banco, trattenendo il respiro e annullando ogni incantesimo che teneva pronto. Dal portale corrusco uscirono il rettore e i professori dei quali aveva intuito la presenza; Alioth uscì per ultimo ma, dopo aver richiuso la porta magica, vide Arwin pensieroso e si trattenne con lui.
«Che hai?» Domandò Alioth, che raggiunse il collega tra i banchi. «Non lo so» Arwin affogò la biblioteca con un’onda di luce magica che generò ombre appiccicose e false. «Mi è capitato anche con Simon, in camera di Gabriel figlio di Lester.» «Ti è capitato che cosa?» Alioth lo incalzò. «Ti ho detto che non lo so: è stato un sentore, un brivido» Arwin scrutò nel buio. «È come se cercassi un capello biondo tra la paglia.» Alioth tese i sensi, poi diede una pacca al collega. «Avrai avuto un’allucinazione: sono un esperto di queste cose.» «Non fare lo spiritoso con me. Non ci provare nemmeno» Arwin alzò l’indice destro. «Andiamo, sarai provato: lo siamo tutti dopo quello che è accaduto.» Arwin ringhiò e seguì Alioth malvolentieri, chiudendo la porta della biblioteca con due giri di chiave. Gabriel attese la scomparsa di ogni turbamento nel mana, uscì dal nascondiglio, riaccese la noce luminosa e andò dove era apparso il portale. Poggiò la mano sulla pietra nuda e inerte e si concentrò sino a scovare i residui dell’incantesimo che aveva aperto il aggio; navigò tra le pieghe del mana, si abbandonò alla squisita percezione che era preclusa a qualsiasi altro mago e riattivò il portale. Con il cuore in gola per l’emozione attraversò il varco, scese le scale a chiocciola che si dipanavano all’interno della colonna e arrivò a una porticina; ò la mano sopra l’arco ogivale, dove restava un bassorilievo che rappresentava una pergamena. Non è stata scolpita da nessuno, è nata spontanea dal mana, rabbrividì. Benvenuto nella Sala della Conoscenza Un luogo di pace dove le idee si danno battaglia
È dalle ceneri di questi scontri che nasce la sapienza Solo gli iniziati comprenderanno; soltanto essi apprenderanno
Verificò l’assenza di trabocchetti con un incantesimo, aprì la porta e trasformò la noce in un globo di luce. La Sala della Conoscenza emerse dalle tenebre: era circolare, aveva un soffitto a volta, affrescato, dove colori vivaci e forme pantagrueliche danzavano miti dimenticati. I libri recanti le formule più preziose e segrete della storia della magia erano ordinati sugli scaffali alle pareti e su altre librerie arcuate che erano disposte su undici circonferenze, creando un labirinto di ripiani e conoscenza; al centro, dove restava l’entrata nel pilastro, c’erano tavoli, triclini, tappeti, divani e poltrone. È dunque questa una delle strabilianti illusioni dell’Università, professor Alioth? Nel luogo dove vengono formati i maghi più potenti dell’umanità, esiste una biblioteca segreta che preclude la più raffinata magia alla maggioranza di loro? Gabriel si avvicinò a una libreria e ne studiò i testi. Trovò un autore che conosceva, ne toccò il libro e lanciò un incantesimo di conoscenza per cercarne altri, trovando facile l’uso della magia. Sorrise compiaciuto quando afferrò una copia di un libro del quale non sospettava l’esistenza. Vedo con piacere che la saggezza di coloro che la frequentano è stata tanto sconsiderata da raccogliere anche la perversa filosofia del negromante Liryam.
*
Prima che Viviane fosse condannata avevo un gran numero di amiche e di pretendenti; adesso le ragazze mi trattano come un’estranea e i ragazzi hanno paura di farsi vedere con me.
Forse sono io a essere sbagliata. Forse gli altri si sono fatti di me l’opinione che ho lasciato si fero. Forse mi sono mostrata sgarbata e ho evitato tutti quando avrei dovuto confidarmi. Però Gabriel non mi evita, lui non mi guarda con disprezzo. Ci fu un rumore e Joelle rialzò la testa. Era seduta tra le radici del cedro nel chiostro di Malbany, le braccia a cingere le ginocchia. Non tirava vento ma l’aria profumava di freddo. C’è qualcuno? Joelle guardò nella direzione del corridoio che portava alla biblioteca, alle sue spalle. Aveva percepito un cigolio, si alzò e ne prese la direzione, senza prudenza, entrando in un corridoio dove sei celle dalle porte di legno interrompevano la regolarità della parete di sinistra. Gli sgabuzzini. Le gemme azzurre alle pareti emanavano una luce fioca, insufficiente anche a distinguere il pavimento; le lugubri sculture appollaiate sui capitelli delle semicolonne che reggevano la volta acuta, scaturivano dalle tenebre con i loro grugni deformi. Eppure il rumore veniva da qui. Joelle aveva raggiunto la quarta cella quando la porta si aprì di colpo, una mano sbucò dalle tenebre e le coprì la bocca mentre l’altra l’afferrava per la vita e la trascinava nel buio del loculo.
Non è normale che le pietre siano tanto fioche. Non è affatto normale. Simon entrò nel corridoio che portava alla biblioteca. Reggeva un bastone con incastonata una pietra magica che illuminava a giorno l’ambiente e studiava le ombre muovendolo a destra e a sinistra; fece alcuni i sino a metà
dell’androne, per illuminare bene le semi-colonne e le cellette anche da quella posizione. Forse c’era qualcuno e si è nascosto in uno degli sgabuzzini. Si avvicinò alla prima porta del corridoio, girò la maniglia e la aprì di scatto. Trovò un ripostiglio di scope e sudici stracci. Perché qualcuno dovrebbe infilarsi in uno sgabuzzino? Perché dovrebbe essere fuori a quest’ora? E perché non dovrei percepirlo? Aprì una seconda porta, fece luce con il bastone magico e scoprì banchi rotti e sedie sgangherate. Richiuse e afferrò la maniglia della porta dove era stata trascinata Joelle. Simon, sei paranoico! Bramare Rachel ti rende uno straccio. Diede un pugno all’uscio e tornò a fare la ronda nei corridoi delle aule, al primo piano.
All’interno dello sgabuzzino, Gabriel allentò la presa e lasciò andare Joelle. «Se Simon ti beccava avresti dovuto spiegare un sacco di cose» il loculo era umido e stipato di cianfrusaglie; il soffitto era basso, le pareti opprimenti e il profumo del sapone alla lavanda non annullava quello della muffa e del vecchiume. «Tu devi essere molto stupida.» «E tu allora?» Non appena riconobbe il ragazzo, Joelle l’allontanò. «Rischi quanto me, ti credi più scaltro?» «Vero, ma io a differenza di te, Simon riesco a evitarlo.» «Ti meriteresti un ceffone per la paura che ho preso» sussurrò la ragazza. «Invece devo ringraziarti» fece un o verso Gabriel e, quando le mani incontrarono il petto di lui, non le ritrasse ma si avvicinò ancor di più, sino a poggiargli le labbra sulla guancia. Gabriel si tirò indietro e arrossì nelle tenebre; Joelle si impietrì e si vergognò di avergli concesso tanta confidenza.
«Cosa ci facevi fuori a quest’ora?» Domandò lei, per sfuggire all’imbarazzo. «Io? Tu, piuttosto?» «Non vale: l’ho chiesto prima io» Joelle percepì che Gabriel le si era riavvicinato e sussurrò con dolcezza. «Ho sentito il movimento dei professori, mi sono incuriosito e sono sceso a controllare.» «Ma dai: se ti beccava Simon avresti dovuto spiegargli un sacco di cose» chiosò lei. «Hai rischiato per una sciocchezza del genere?» Gabriel sbuffò. «Come direbbe Alioth, le scuse sono un’illusione: possiamo valutarne solo la plausibilità. Tu invece che scusa hai? Hai rischiato più di me.» «Io scappavo dalle mie compagne: mi odiano» si dondolò in avanti, affranta, e si appoggiò alla spalla di Gabriel. «Non ti sei mai sentito odiato da tutti e schivato come un brutto male?» Gabriel infilò una mano tra i capelli di Joelle. «Sì, capisco come ti senti. È capitato anche a me.» «E che cosa hai fatto?» «Niente, io non mi curo del giudizio degli altri e il mana mi comunica una quieta concordia. Non ho bisogno di altro. Siamo maghi, la nostra scienza è superiore alla tristezza che inganna le persone comuni. Non mi importa quello che pensano di me gli altri, l’importante è che non agiscano contro di me. Un mondo pieno di sciocchi non mi rattrista, basta tenerli a bada.» «E se invece ti fero del male?» «Se avessero la follia di toccarmi, assaggerebbero tutto il raccapricciante splendore della mia vendetta.» «Vuoi tenere a bada mille forconi con una magia?» Joelle usò le parole di Alioth. «Se accadrà dovrai pregare per loro.»
«È divertente» constatò Joelle con rammarico. «Non lo è invece, se lo dici in questo modo.» «Però fa sorridere pensare che io mi disperi per avere giudizi che tu invece disprezzi.» Gabriel le prese le mani. «Cosa c’è che non va, è la festa di Shamhna? Oppure è colpa dello spilungone dalla testa di paglia e del suo compagno dai capelli di carota?» Le strappò un sorriso. «No, Thomas e Tåron non c’entrano. È colpa di mia cugina.» «Tua cugina ti ha rubato tutti i cavalieri? Dev’essere bellissima per aver compiuto un’impresa tale» cercò di farla sorridere ma ottenne il risultato opposto. «In un certo senso è così» Joelle gli lasciò le mani. «Che vuoi dire?» «Tu non abitavi a Eskiliar prima di trasferirti qui?» «Sì, e dunque?» La voce di Gabriel tremò, pensando alle menzogne che avrebbe dovuto inventare. «Ebbene, mia cugina era la Grande Sacerdotessa di Rhiannon, lady Viviane Greyfire, giustiziata per eresia.» Gabriel rimase invischiato nei turpi ricordi di quando aveva massacrato i chierici a Westhill e il destino aveva fatto cader le colpe sull’innocente Sacerdotessa. «Hanno detto era a capo dei Negromanti e adesso pensano tutti che sia un’eretica anch’io.» «Si sbagliano: conoscevo i negromanti uno per uno, e non c’era nessuna lady Viviane.» Joelle si appoggiò di nuovo a Gabriel, credendolo uno scherzo. «Sei gentile ma non riesco a ridere. L’Inquisizione ha interrogato tutta la mia famiglia:
all’Università non si è parlato d’altro per settimane, ero sulla bocca di tutti e c’è stato un fiorire di teorie di complotti e di odio nei miei confronti che i professori sono dovuti intervenire. È il periodo più brutto della mia vita: i compagni mi evitano e non potrò nemmeno divertirmi alla festa.» Gabriel sbuffò. «La festa è un illusione. Comincio a condividere le idee di Alioth.» «Cosa vuoi dire?» Joelle si irrigidì. «Vai a una festa per divertirti con le persone che ti stanno a cuore oppure per far bella mostra di te?» Joelle non rispose. «Shamhna è un evento ridicolo, ed è patetico che l’Università lo festeggi a porte chiuse. No, non fa per me. Non ho nulla da dividere con Thomas o con quelli che attendono le esperienze mondane per pavoneggiarsi.» «Ma ci saranno tutti, si ballerà e si farà baldoria: ho capito che questo genere di cose non ti piace, però dovrai riconoscere che sono divertenti: tutto l’Impero festeggerà Shamhna. Tutti tranne me.» «Hai davvero voglia di condividere una serata con quei prepotenti? Credevo li odiassi.» «Non sono io che li odio, sono loro che hanno paura di me.» «Non ti meritano Joelle. E non sei tu che rinuncerai alla festa, è la festa che rimarrà orfana di te. Lascia che si compiacciano del loro piccolo mondo fatto di repentina felicità. Se la festa è il momento che hai bramato per un anno barcamenandoti nella mediocrità, allora la gioia non è che l’altra faccia di una prolungata tristezza. Bisogna attendere Shamhna per trascorrere momenti felici assieme a qualcuno?» La voce di Gabriel fu così dolce da stregare Joelle, che alzò la testa, si sentì vicina alle sue labbra, chiuse gli occhi e tentò di baciarlo. «Vieni adesso, la strada è libera» chiusi al buio, Gabriel non vide gli intenti della compagna e aprì la porticina che dava sul corridoio, facendo piano per evitare che cigolasse. Il corridoio era immerso nell’immota penombra generata dalle pietre inibitrici. «Andiamo, non c’è più nessuno» Gabriel afferrò la mano di Joelle e se la tirò
dietro sino al chiostro di Malbany, dove le loro strade si sarebbero divise. «a una buona notte» le disse, congedandosi. «Sì, ala anche tu» Joelle si allontanò piano, cercando di vedere se Gabriel voltasse a guardarla di nascosto, ma il ragazzo procedette spedito sino alla porta che conduceva al dormitorio maschile. Sei una stupida. Dovevi baciarlo nel ripostiglio: ogni lasciata è persa, intristita, Joelle si avviò verso la propria stanza. Nella quiete della sua camera, Gabriel bevve un sorso dalla pozione di Eurimetispide e controllò lo stato del pentacolo, che aveva nascosto con un incantesimo illusorio. E ora cominciano le produttive notti d’insonnia, Gabriel prese un libro di incantesimi dalla sacca, sedette alla scrivania e cominciò a studiare.
*
Mirgram serrò l’uscio e pose sulla serratura l’incantesimo più restrittivo che conosceva e, quando aprì la porta-finestra che dava sul balcone, rabbrividì per il refolo freddo che irruppe nella stanza. «Vento.» Tornò verso il proprio letto. «Fuoco.» Ravvivò con una sfera fiammeggiante i ceppi nel camino. «Acqua e Terra.» Prese una brocca e la svuotò lanciando il liquido contro l’arco cieco murato da mattoni d’argilla. L’acqua rimase sospesa sulla superficie della vecchia porta ogivale e creò una polla verticale.
Invoco la chiave della porta nascosta
La superficie argentina che penetra lo spazio Il aggio di giunchi che resiste alla marea La spiaggia di sabbia che deforma il tempo
Si alzarono marosi che sciabordarono contro le colonne e l’arco della porta cieca e l’odore della salsedine ricordò a Mirgram le alte scogliere di Fasnacloich, dov’era nato e cresciuto. Andiamo, Kaerwood aspetta soltanto me. Mirgram pensò alla destinazione da raggiungere, cercò un faro nel buio indistinto che si celava nella tempesta e lo trovò; la superficie della porta liquida si placò, il mago vi infilò un dito, la mano, il braccio, prese un bel respiro e la attraversò. Il duello è uno dei momenti più tragici nella vita di un mago. La natura poliedrica della magia implica che tu non possa sapere di quali incantesimi si avvalerà il tuo avversario. Potresti diventare un mago che eccelle nella scuola del fuoco ma potresti trovare qualcuno in grado di sconfiggerti con i più banali incantesimi dell’acqua, o di quelli animali. Una bella beffa dopo gli sforzi fatti, non trovi? E non è finita qui: se esageri con magia complicate impiegherai molto tempo e ti esporrai in caso di errore.
Insomma, quello che voglio dirti è che in un duello di magia non è la conoscenza degli incantesimi ciò che farà la differenza, quanto l’estro, la capacità di improvvisare e di interpretare in maniera imprevedibile le situazioni e gli scontri. Consigli - Yowen
IX – L’arte del duello
Quando Arwin schioccò le dita, sedia e scrivania andarono ad accatastarsi contro il muro. «Orbene, ragazzi miei» cominciò a catechizzarli, «oggi non parlerò solo di incantesimi ma di qualcosa che rappresenta il secondo aspetto dei miei insegnamenti. Ma prima di fare questo, permettetemi di dilungarmi in alcune considerazioni. Avete mai pensato a qual è la ragione che vi vuole qui, ragazzi miei? Avete mai considerato quale sia il vostro ruolo?» eggiò con le mani giunte dietro la schiena, il giustacuore cremisi che frusciava nel silenzio sepolcrale. «Alcuni di voi sono figli di servi della gleba e invece di essere a lavorare la terra affrontano un futuro più roseo di quello dei propri padri, altri invece sono giovani rampolli delle famiglie più nobili o ricche della città: ma cosa vi accomuna? E perché l’Università non fa distinzioni di censo o blasone? Qualcuno di voi potrebbe pensare di essere qui per apprendere, ma a che fine, a quale scopo?» Strinse i pugni. «La conoscenza non è fine a sé stessa, è un virgulto che scaturisce nel terreno fertile della concretezza, vi pianta solide radici, ne sugge l’indispensabile nutrimento per trasformarlo nella linfa che le consente di protrarsi verso il sole della giustezza» lasciò che coloro che stavano scrivendo terminassero di prendere appunti, poi riprese la catilinaria. «Ragazzi miei, voi non dovrete disquisire sul senso della magia o diventare cultori di filosofia o maestri di retorica: voi dovete apprendere le nozioni che permetteranno all’Impero di trarre da voi proficuo giovamento. Voi siete risorse, come lo sono i servi che si rompono la schiena, come i cavalieri pronti a coprirsi
di gloria, come i fanti che avanzano nel fango, come le donne chine a marcire nelle risaie. Ognuno di voi è la tessera di un mosaico che raggiunge il suo titanico splendore soltanto nella somma dei singoli. Ora ascoltatemi bene, ragazzi miei» si fermò: «un mago non è un inconcludente impiccione che cerca di agguantare la sfuggente scaturigine di ciò che lo circonda; un mago è un suddito dell’Impero desideroso di obbedire. E di combattere. Chi di voi è pronto?» Fissò i ragazzi, in trincea dietro i banchi, e sogghignò. «Qualcuno di voi ha idea di cosa voglia dire misurarsi con un avversario? E non intendo prendere a pugni il vostro vicino di stanza perché studia ad alta voce» ci fu qualche timida risata. «Vi assicuro che in ato sono accaduti episodi del genere» gli alunni si zittirono. «E per combattere non intendo nemmeno gli allenamenti con il bastone che fate in palestra con il mio collega Knötien. Qualcuno di voi ha mai partecipato a una guerra o ne ha mai vista una?» Era una domanda retorica e tutti tacquero; Arwin riprese a camminare in cerchio. «Bene ragazzi miei, ormai credo che abbiate capito dove voglio andare a parare: la lezione di oggi verterà sui fondamenti del combattimento magico. Sì, come in ogni cosa ci sono principi da seguire, e mi dispiace che qualcuno delle ultime file storca il naso, ma se esistono regole, vanno rispettate. Quando discuto con gli altri insegnanti di cosa sia la vita, la mia risposta è sempre la stessa: la vita è la sintesi delle regole che gli Dei hanno imposto al creato» Arwin fece alcuni i senza dire nulla, poi riprese. «La prima regola di uno scontro magico è la seguente: non si usa subito l’incantesimo più potente. Sì, avete capito bene» rimproverò i volti stupiti, «un buon mago non apre le danze con l’incantesimo più distruttivo, nemmeno se ha il tempo necessario a prepararlo. Ci sono due buoni motivi per non farlo: il primo è che l’Arcana Arte non è diversa dalle altre e iniziare scatenando una tempesta di fuoco equivarrebbe a correre una corsa senza concedersi alcun esercizio di riscaldamento; il secondo motivo è che se usate l’incantesimo più potente, il vostro avversario avrà il vantaggio di conoscere i vostri limiti. Ascoltatemi bene» alzò gli indici: «usare incantesimi complessi è pericoloso. Ciò che fa la differenza tra successo e fallimento è il controllo che esercitate sul mana, ma questo non dipende esclusivamente dalla vostra concentrazione: il mana è la superficie cristallina di un lago ghiacciato, come procedereste senza conoscerne lo spessore? Vi gettereste su un lastrone a piedi pari, coperti da una pesante armatura, oppure avanzereste il più leggeri possibile? Ebbene, i maghi più esperti riescono a discernere a quale sforzo
possono sottoporre il mana ed è questo che decreta il loro successo. Chi non l’abbia ancora fatto scriva quanto ho appena detto.» Gabriel obbedì senza entusiasmo. «C’è poi la seconda regola: capire quanto mana avete a disposizione. La terza regola, altrettanto importante, è intuire quanto tempo avete a disposizione. La quarta regola riguarda lo spazio di manovra che avete: ci sono fanti che vi offrono copertura con lo scudo? Siete in mezzo alla pugna o siete nelle retrovie? Siete in una situazione di calma apparente oppure le frecce sibilano e crivellano i corpi dei vostri compagni? Immaginate la carica di un cavaliere: vi conviene creare un muro di pietra, lanciare una palla di fuoco, piegare un arbusto che faccia inciampare il cavallo oppure abbagliarlo con un lampo?» Arwin si fece scrocchiare le dita. «Bene, entriamo nel vivo della lezione di oggi. Quale modo migliore di spiegarvi le regole di un combattimento tra maghi che combatterne uno? Forza, due volontari» nonostante la prospettiva di mettersi in mostra, gli alunni si guardarono bene dall’alzare le mani. «Non abbiate timori, non sarà uno scontro tra me e voi: voglio che due di voi combattano tra loro. È un’eccellente occasione per mostrarmi di che pasta siete fatti.» Nonostante l’esortazione nessuno accolse la richiesta. «Bene, sceglierò io qualcuno» ringhiò Arwin contrariato dai pavidi alunni. «Tu, terza fila, secondo posto. Scendi per favore.» Thomas dei Mazzenstein-La Tour si alzò e scese dalle scale di legno tra le file dei banchi, il mento alzato, il portamento nobile, lo sguardo deciso; le ragazze trattennero il fiato e lo guardarono incantate. «E poi, vediamo» Arwin ò in rassegna le facce immobili degli alunni; stava per sceglierne uno quando cambiò idea, puntò lo sguardo dalla parte opposta e indicò un ragazzo dai capelli scuri. «Tu, ricordami come ti chiami.» Il ragazzo si alzò e l’aula vibrò per un sospiro di sollievo collettivo. «Sono Gabriel figlio di Lester, signor professore.» Arwin stava per ordinargli di scendere ma con un cenno della mano gli ordinò di tornare a sedere. «No, mi sono ricordato che sei incapace persino di accendere una fiamma degna di questo nome» Gabriel sospirò e Arwin ò oltre.
«Sarebbe molto ingiusto confrontarti con chi segue le mie lezioni con la dedizione di Thomas. Ho in mente qualcos’altro: tu laggiù, ti chiami Joelle giusto?» L’interpellata rimase pietrificata dalla domanda e non rispose ma Arwin prese il silenzio come un sì. «Forza Joelle Greyfire, vieni qui» la ragazza dai capelli castani scese senza entusiasmo e si posizionò prospiciente a Thomas, evitando con lui ogni contatto visivo. «Bene ragazzi miei, non vi lascerò combattere senza regole lasciandovi sfogare la vostra bravura, e questo per tre motivi.» Thomas si sporse verso Joelle. «Sarebbe stato molto più appagante affrontarsi su un letto» sussurrò mentre il professore aveva ripreso a indottrinare i compagni. «Come ai bei tempi.» «Sarebbe una pena visto che sei incapace di soddisfare una donna» Joelle rispose senza guardarlo. L’astio di Thomas venne placato dalla voce di Arwin. «Il primo motivo è che il rispetto delle regole e degli ordini viene innanzi ogni altra cosa, il secondo è che devo mostrarvi i sottili meccanismi dell’arte del duello magico e la terza è che se lasciassi ai ragazzi libertà totale, Thomas farebbe un sol boccone della nostra timida Joelle» Arwin sogghignò ma tornò serio non appena vide l’espressione cruda dell’allieva. Raggiunse Thomas. «Bene, ragazzo mio, nonostante quello che vi ho spiegato, tu comincia con un incantesimo molto potente e preparati a usare lo scudo magico» sussurrò. «Con piacere» Thomas pensò a una raffica di sfere infuocate. Arwin si avvicinò a Joelle, e parlò sottovoce anche a lei. «Conosci lo scudo difensivo, ragazza mia?» La fanciulla fece un sì con la testa, ma non staccò gli occhi dal pavimento. «Bene, preparalo e usalo quando Thomas attaccherà. Lasciagli l’iniziativa e rispondi con la palla di fuoco, senza impiegare molta energia. Hai capito?» Joelle fece un cenno con la testa e si ò una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Adesso mostriamo a quello sbruffone di Thomas come si combatte» Arwin si congedò facendo l’occhiolino e si portò a metà tra
gli alunni, a un o dalla linea di tiro. «Potete cominciare.» Le mani di Thomas sfavillarono e quattro palle di fuoco rotearono come soli in miniatura; il ragazzo prese la mira e scagliò i proietti verso Joelle che seguì gli ordini e creò uno scudo magico che attutì l’impatto: le fiamme dell’esplosione avvolsero la fanciulla ma la versatilità del baluardo la riparò dal brusco innalzamento di temperatura. Le fanciulle applaudirono la bravura di Thomas, credendo che avesse vinto, ma Joelle sbalordì tutti, emergendo dalle fiamme con una sfera di fuoco che scaraventò verso Thomas, il quale la bloccò come gli era stato suggerito. «Ottimo ragazzi miei, ottimo davvero. Ora attaccate con la medesima dinamica» Arwin esaminò i movimenti degli alunni, valutò l’energia profusa e rimase pronto a intervenire. Thomas tirò un lungo respiro e generò sei sfere di fuoco, che scagliò con rabbia contro l’avversaria. Joelle ricorse per la seconda volta all’incantesimo dello scudo, gli attacchi la sommersero con fiammeggianti marosi ma uscì indenne e replicò con una palla infuocata che Thomas bloccò a fatica. «Fermi ragazzi miei, ottimo lavoro. Avete visto?» Arwin allargò le braccia e si posizionò tra i duellanti. «Thomas ha il fiato corto, e non potrebbe essere altrimenti poiché ha impiegato molte energie per un incantesimo dispendioso che gli ho suggerito. Joelle invece, nonostante sia una fanciulla, è fresca perché ha usato un incantesimo meno potente. Entrambi hanno usato lo stesso quantitativo di mana per difendersi ma Thomas ne ha impiegato di più per attaccare. Cosa abbiamo imparato?» La platea tacque e Arwin sbuffò, contrariato. «Abbiamo visto quel che accade quando cominciamo con l’incantesimo più potente: se l’avversario elude l’attacco, ci siamo infilati in una situazione di svantaggio. Gli incantesimi difensivi sono più versatili di quelli offensivi, ragazzi miei, e lo scudo magico può deflettere attacchi di ogni tipo. Ci sono domande?» Nessuno ne pose. «Bene, proseguite ad attaccarvi come meglio credete.» Thomas preparò tre sfere infuocate e le scagliò con tutto l’astio che serbava. Joelle usò lo scudo magico per bloccare l’attacco, vide Thomas affaticato, usò lo stesso incantesimo e scagliò quattro palle di fuoco contro Thomas, prendendo confidenza con il piacere di vederlo soffrire.
Thomas parò l’attacco con lo scudo ma arretrò, irritato dal calore delle fiamme che la magia difensiva non aveva attutito per la stanchezza. «Miei cari ragazzi, conoscete soltanto incantesimi del fuoco?» Domandò Arwin. «In una battaglia sono la varietà e l’estro che consentono di superare l’avversario, non la loro potenza. Sentitevi liberi di usare qualsiasi magia.» Thomas cercò un’idea e, quando vide Tåron indicargli i libri sul primo banco, afferrò il suggerimento; preparò una palla di fuoco e la lanciò contro Joelle, che attivò ancora una volta lo scudo magico: la sfera esplose sulla barriera ma la fanciulla fu colpita dai libri che Thomas le gettò addosso, alle spalle. «Ottimo: versatilità ed efficienza. Era questo che volevo, bravo.» Thomas preparò una sfera infuocata per chiudere lo scontro. «Se fossimo in battaglia dovrei finire il nemico?» Era provato dalla fatica ma sorrideva eccitato dalla vittoria. «No, ragazzo mio. Joelle è un mago che ha obbedito a ordini ben precisi: prendere un’iniziativa non è un’idea saggia.» Thomas annuì e spense la fiamma magica mentre Joelle giaceva a terra. «Ora aiutala a rialzarsi» ordinò Arwin. Thomas obbedì malvolentieri e Joelle si riassettò l’abito sgualcito; appena la ragazza fu in piedi, Arwin scaraventò Thomas a terra e lo bloccò con due incantesimi di movimento. «Ora Joelle! Ora che giace alla tua mercé. Finiscilo.» «Cos’è, uno scherzo?» Thomas provò a liberarsi ma la gabbia magica di Arwin era perfetta. Joelle esitò. «Forza, che aspetti?» La esortò l’insegnante. «No» la fanciulla trovò la forza per prendere una decisione.
«E perché no?» Domandò Arwin mentre lasciava svanire l’incantesimo che tratteneva Thomas. «Perché il nostro nemico è un mago come noi che obbedisce a degli ordini ben precisi. L’ha detto poco fa.» «No, no!» Il viso del professore divenne paonazzo e le sue mani implorarono un Dio silenzioso soltanto a lui noto. «Ho detto che è deprecabile l’uccisione di un nemico di propria iniziativa. Io però ti ho dato l’ordine di infierire e gli ordini vengono prima di tutto, essi sono la cosa più importante che avete.» L’aula affogò in un duro silenzio, poi la rabbia di Arwin sbollì. «Tornate al vostro posto, avete combattuto bene, vi ringrazio» sistemò i capelli d’argento che gli si erano appiccicati alla fronte, sudata per la sfuriata. «Bene, ci sono domande?» Quando Joelle riprese posto, Gabriel si complimentò con lei, strappandole un sorriso, ma la cosa non sfuggì ad Arwin. «Gabriel figlio di Lester, cos’hai da borbottare?» Il ragazzo rispose con prontezza. «Mi chiedevo se il principio di obbedienza agli ordini avesse delle deroghe, maestro.» «Cosa intendi per deroghe?» Arwin si insospettì. «Esistono degli ordini che possiamo non rispettare?» Il docente si mise a sogghignare. «Mi stupisco della tua leggerezza, Gabriel. Non esistono ordini da non rispettare, non sarebbero ordini. In ogni modo seguendo le mie lezioni dall’inizio dell’anno, ti apparirà tutto più chiaro.» «Non ne dubito, maestro. Ma escludendo la retorica linguistica, intendevo come occorre comportarsi con un ordine controproducente o insensato.» «Ragazzo mio, tu fai fatica a comprendere le mie spiegazioni perché ti mancano i fondamenti. In ogni modo, chi ti comanda conosce cose che tu non sai e quindi un ordine che ti sembra controproducente o insensato è tale perché hai una visione limitata della problematica. Ora hai capito?» «Posso farle un esempio, maestro?»
Qualcuno rumoreggiò per la stranezza del dialogo e l’ostinazione dell’ultimo arrivato. «Concesso ragazzo mio, fammi un esempio che mi aiuti a comprendere le tue difficoltà.» «Immaginiamo di essere sul campo di battaglia.» «Immaginiamo» Arwin afferrò la sedia con una magia, vi sedette e arroccò le gambe. «Piovono i proiettili delle catapulte, la cavalleria nemica ha sfondato le linee dei lancieri e carica le retrovie, dove siamo schierati. Lei, maestro, sta dirigendo i maghi quando un cavaliere la trafigge. Eccoci al punto. Io giungo a soccorrerla, ma entrambi realizziamo che se uso un incantesimo curativo riuscirò soltanto a prolungarle l’agonia, nella speranza che giunga qualcun altro ad aiutarci. Però se la curo, lei avrà la forza sufficiente per trasmettermi nuovi ordini, ma io non avrò più energia per aiutare i compagni i quali, essendo per giunta lontani da noi, e non sentendoci per il clangore della battaglia, potrebbero non credere che lei mi abbia impartito degli ordini» Gabriel attese una domanda che Arwin non fece e quindi continuò. «A un tratto il dolore diventa tale che lei mi ordina di darle una morte veloce. Io che faccio, obbedisco?» Arwin rimase accigliato per un tempo che parve interminabile. «Non ti verrà mai dato un ordine del genere» sentenziò liquidando la questione. «Sì, ma se mi venisse dato?» «Non ti verrà dato.» «Ma dal punto di vista umano io» fu interrotto. «Non ti verrà dato, te lo ripeto» Arwin alzò la voce. «Pensa a studiare e non a inventare sciocchi paradossi. La lezione è terminata.» * Era mattina inoltrata quando Mirgram si presentò al cospetto dell’Imperatore, nella Sala delle Udienze.
L’ambiente era un ottagono di pareti di archi ciechi a ferro di cavallo sorretti da colonne tortili di blocchi di marmo rosa alternati a blocchi di marmo bianco. Sulle pareti stuccate, a inframezzare gli affreschi di caccia, battaglia e conquista, c’erano finestre lanceolate disposte in modo che la luce si diffondesse a fasci e si concentrasse in prossimità del lato opposto all’entrata, dove restava una pedana di marmo rosso ageminato da opali e che reggeva un trono di oro massiccio. La cupola dell’ottagono era formata da alveoli sovrapposti rivolti verso il basso e dipinti con colori sgargianti posizionati a creare una sensazione visiva di infinità e movimento. Giulius VII stava ritto davanti al trono, gli occhi fissi a un punto sospeso, le braccia abbandonate, la luce sulla fronte spaziosa. Atletico, alto, elegante nella postura, l’Imperatore indossava una cotta di broccato argentino, accollata e con sfarzosi ricami. Un pittore stava lavorando a una grande tela dove mancavano soltanto i dettagli del volto: gli occhi e i capelli castani che l’Imperatore aveva ereditati dal padre e il naso a uncino e le sopracciglia arcuate appartenuti alla madre. Accanto al pittore, uno scultore lavorava a un busto di argilla a grandezza naturale. Alle spalle dei due artisti ne rimaneva una terza, una donna orientale dalla pelle di bronzo e dai capelli e gli occhi neri; adagiata su un triclinio, la bellezza barbara faceva danzare le dita sulle corde di un’arpa colmando la sala di note celestiali; accanto a lei sedeva un paggio, un ragazzino dalla zazzera bionda e dagli occhi chiari, vestito con un farsetto giallo e calzabrache dimidiate, nere e gialle, preposto a un vassoio di frutta e un calice d’oro per servire l’Imperatore. «Mio buon consigliere Mirgram, cosa ti reca a palazzo?» La voce di Giulius era calda e antica nonostante egli non arrivasse a quaranta primavere. «Gradirei conferire con voi in privato, mio signore» Mirgram giunse le mani davanti alla tonaca, un lucco purpureo foderato di ermellino. «Ciò di cui devo parlare riveste la massima importanza non solo per l’istituzione universitaria che rappresento ma per l’Impero stesso.» «Più in privato di così? Non c’è nessuno degli altri consiglieri» l’Imperatore si guardò attorno, allargò le braccia, inarcò un sopracciglio e fece sospirare il pittore, che interruppe il lavoro. Mirgram si fece serio. «Io non sono che un supplice che chiede aiuto al suo
signore.» Giulius sbiancò in volto e si irrigidì; fissò il soffitto dai colori e dalle forme sfuggenti. «E noi saremo un signore che reca aiuto al pellegrino» con un cenno della mano congedò il paggio, gli artisti e i due cavalieri della scorta. «Andate per favore, lasciateci soli» sedette sul trono e si mise comodo, evitando le rigidità formali imposte dal protocollo. «Spero tu non sia venuto a comunicarci la tua nomina ad Anziano: le voci tra i gradi bassi di Kaerwood corrono più in fretta dei tuoi incantesimi» l’Imperatore ammirò gli anelli della propria mano, oro che incastonava lapislazzuli e zirconi. «Mio signore, giungo per un problema più grande che soltanto voi potete risolvere.» «Problemi, sempre problemi. Mai che noi possiamo rimanere in pace ad amministrare il nostro Impero» Giulius aggrottò le sopracciglia. «Che cosa ti assilla, Mirgram?» «L’Inquisizione di Rhiannon minaccia l’Università.» Giulius VII gettò la testa all’indietro, si appoggiò ai braccioli del trono e sbuffò. «Sapevamo che vi saremo giunti.» «Se lo sapevate perché avete acconsentito che» Mirgram fu interrotto da un cenno dell’Imperatore. «No. No, basta. Non voglio più parlare di questa storia: siete tutti insidiosi, insolenti, sfiancanti. Il Tempio mi garantisce servigi più veloci ed efficienti di Kaerwood: sappiamo bene cosa ha combinato Atar-Al-Karem con gli orchi.» «Ciò non toglie che il Tempio mi stia recando problemi.» «Abbiamo appena dichiarato Rhiannon religione ufficiale, non possiamo ritrattare questa concessione.» «Mio signore, sono costretto a ricordarvi il terzo principio del Consiglio, ovvero che» l’Imperatore lo interruppe ancora. «Ogni nostra azione, qualunque essa sia, non dovrà recare danno a un
confratello» Giulius sbadigliò. «Lo ricordo bene, maledizione» picchiettò le dita della mano destra sul bracciolo del trono. «Posso darvi un consiglio, mio signore?» Giulius allungò le gambe, incrociandole. «È concesso, Mirgram, ma che non ci crei nuovi grattacapi.» «Suggerisco di dichiarare l’Università zona franca.» «Ci chiedi di sottrarla anche ai magistrati competenti?» Mirgram tirò le labbra in un sorriso. «Ovviamente.» Giulius VII sospirò. «E chi giudicherebbe un crimine ivi avvenuto?» «Prima il Consiglio dei docenti da me presieduto, poi da voi in persona in caso di ricorso. Niente magistrati, niente inquisitori: la magia è materia pertinente ai maghi. I nobili non vengono forse giudicati da una giuria di loro pari?» L’Imperatore si guardò le unghie delle dita, curate alla perfezione. Sospirò e chiuse gli occhi, pesando le parole della risposta. «Vai pure, Mirgram, e chiedi a un paggio di presentarsi a noi affinché scriva quello che ci siamo detti.» Il rettore fece un grande inchino e si congedò.
I demoni sono abitudinari. Amano la quotidianità più di qualsiasi altra cosa. L’ho imparato fondendomi con l’esecrabile malvagità che ora permea metà del mio essere. I demoni combattono tra loro per eccellere in una gerarchia in continua mutazione, e per farlo non solo si scontrano tra loro ma distruggono pianeti e sistemi solari appartenenti a universi paralleli al mio, e tutto per vantarsi del loro innominabile potere e della loro irraggiungibile perversione. Però ci sono regole, vincoli sfuggenti cui devono attenersi. Sono cose che esistono da prima che l’idea stessa di malvagità potesse formarsi, nel qualcosa che li precedeva. Io sono alla ricerca di uno di questi principi, e c’è uno soltanto tra i demoni che conosco che può essermi d’aiuto. Ricordi – Jaquish di Anquelot
X – Il Palazzo di Giapeto
C’è un soldato con una cotta d’arme nera sopra un vestito blu scuro. Ha un elmo tondo, bianco, con uno stemma che nella forma ricorda una stella, forse il blasone del suo padrone Giapeto. Quando mi avvicino gonfia il petto. «Hai bisogno?» Sfodera un sorriso disgustato e continua a masticare tabacco al sapore di menta. Ha il volto abbronzato e la fronte sudata per il solleone. «Cerco Giapeto.» «Chi cerchi scusa?» La guardia accarezza la mazza scura che penzola dalla sua cintura ma non l’impugna. «Giapeto, è uno dei capi» porgo un rettangolo di un materiale liscio, rosso e flessibile, che ho raccattato su un mondo in rovina, scritto in una lingua che non comprendo, ma con la sua immagine. «È un badge» il soldato sputa. «Non è un biglietto da visita, serve a chi lavora là dentro» indica l’edificio alle sue spalle, una costruzione bassa rivestita di mattonelle di argilla, con grandi porte trasparenti. «Una bottega?»
Il soldato fa un sorriso strano che sembra compatirmi. «Sì, una bottega, ma tu da dove vieni, da una recita?» «Una cosa?» «Senti, io non mi occupo di queste cose: entra nella “bottega” e vai dalle signorine del banco clienti, sono pagato per far la ronda, non la badante a tutti i pazzi che girano nel parcheggio.» Ho una mezza voglia di disintegrarlo ma ho il sospetto che Giapeto non apprezzerebbe la mia premura. Vado verso la bottega e scopro di non essere solo. Da carrozze di metallo lucente prive di cavalli escono individui assortiti senza un criterio apparente e che non vestono neppure divise riconducibili a Giapeto, o nemmeno a Kat’Sabatheh, il primo tra tutti i demoni per seguito di fedeli. Gli avventori si avvicinano a carretti di metallo traforato, li spostano dalla loro scuderia e li guidano verso il Palazzo di Giapeto; quando mi notano si scostano, spaventati o stupiti. Sono l’unico a indossare una tunica, gli altri sono abbigliati con giustacuori e calzabrache di colori vari e male accostati. Una donna con il figlio si mette d’impegno per entrare prima di me, e per evitarmi. La guardia che mi ha indicato la bottega si è messa una scatoletta davanti alla bocca e farfuglia parole che non saprei ripetere, accostate ad altre completamente fuori luogo. Seguo il flusso degli avventori e quando arriviamo alle porte a vetri, queste si aprono, introducendoci un androne basso, dipinto di bianco e rinfrescato da un getto d’aria che scaturisce da una scatola sul soffitto. In un angolo, due persone con la stessa divisa e un povero scossale stanno oziando davanti ad armadi luminosi e rumorosi, hanno in mano dei bicchieri minuscoli e bianchi. Anche questi due scansafatiche mi guardano e, quando si accorgono che li ho notati, fanno finta di niente, gettano i bicchierini dentro un contenitore tondo e puzzolente e tornano a parlare dei fatti loro. Dentro il palazzo di Giapeto c’è un freddo intenso. La curiosità mi spinge a seguire il flusso degli avventori che, con i loro carretti di fili metallici e piccole ruote, si gettano su scaffalature colme di cesti di frutta allestiti dietro sbarre in metallo che si aprono da sole.
C’è una musica di sottofondo ma non riesco a scorgere i suonatori e la mia ricerca è viziata dal fatto che le note sono avvolgenti, come se gruppi di musici disposti ai punti cardinali suonassero accordati alla perfezione. Accanto all’entrata della bottega c’è una sorta di banco, allestito con un legno pessimo ma presidiato da due ancelle pettinate e truccate secondo gli usi di questo mondo. Mi appoggio al banco e, non appena mi vede, una bionda sovrappeso ma piena di curve e con una scollatura che non sembra avere fine, abbandona un quadretto di immagini cangianti e mi presta la sua attenzione. «Buongiorno, posso esserle utile?» Ha un sorriso di cortesia. «Buongiorno» io invece sfodero un sorriso da seduttore e le consegno il rettangolo di materiale liscio, «cerco Giapeto.» «Ecco dov’era finito il badge del capo. È stato molto gentile a riconsegnarlo. Grazie mille» ripone il badge dentro una scatola, si inchioda alla mandibola un’espressione preconfezionata e mi scruta con i grandi occhi azzurri. «Desidera altro?» Comincio a spazientirmi. «Ecco, io vorrei parlare con Giapeto, se fosse possibile.» La signorina si volta perplessa verso l’altra, che fa spallucce e le risponde con una voce da cornacchia. «E chiamalo, che cosa vuoi che ti dica? Magari è un amico. Con tutti i tipi strani che frequenta quello!» Mentre la signorina prende una scatoletta simile a quella della guardia, gli avventori riempiono i loro carretti di metallo con frutta e verdura, ma proseguono lungo un percorso che intuisco snodarsi all’interno del Palazzo di Giapeto. «Il direttore è desiderato al servizio clienti. Ripeto, il direttore è desiderato al servizio clienti» la voce calda della donna rimbalza in tutto il palazzo. «Grazie, è stata molto gentile» annuisco dopo che ha riposto la scatoletta. Attendo Giapeto che, dopo un’attesa che in altri tempi avrei ammazzato stuprando ogni femmina e seminando morte tra gli avventori, finalmente si
presenta, sbucando dalle pareti del dedalo del Palazzo; nonostante una divisa inconsueta tra cui balza all’occhio un’inutile striscia di tessuto rosso appesa al collo e che gli penzola sulla smisurata pancia, è il Giapeto che ricordavo, orribile come un tempo. Borbotta parole sconclusionate che ingoia non appena mi riconosce. «Tu qui?» La voce cruda di Giapeto è musica per le mie orecchie. «E cosa sei venuto a fare, sei impazzito?» «Possiamo parlare?» Si guarda intorno e fulmina con lo sguardo le due ancelle che ha messo all’entrata. «Vieni nel mio ufficio, non puoi rimanere sulla soglia del supermercato, mi spaventi i clienti. Seguimi» mi fa un cenno e si incammina tra gli avventori. «Gli hai dato un nome strano» gli dico non appena lo raggiungo lungo un corridoio dove penzolano pezzi di carne essiccata e un numero incalcolabile di contenitori raggruppati in base al loro colore. «Un nome strano? A cosa?» Grugnisce. «Al tuo Palazzo. Mi immaginavo qualcosa tipo “Reggia morente del divoratore di Sglurg” oppure “Palazzo delle esecrabili torture”, “Fossa degli assassini necrofagi”. “Supermercato” è una parola senza senso.» «Stai zitto per favore» alza un braccio, «tu non hai idea di che razza di inferno sia questo, mio caro, no, non ne hai assolutamente idea» Giapeto varca una grossa porta rettangolare protetta da un uscio di una sostanza trasparente, pesante e grezza. Usciti dal labirinto del Palazzo, la temperatura torna rovente come all’esterno. C’è un odore schifoso che ricordo simile a quella del mondo morto dove ho trovato il badge di Giapeto. E rumori sordi di macchine che non riesco a vedere. Uno degli schiavi di Giapeto spinge un carretto giallo sovraccaricato di bottigliette bianche e colorate, con una specie di tappo arancione, racchiuse in una pelle trasparente, opaca; deve avere una forza impressionante perché fischietta mentre spinge il carretto che è dieci volte più grande di lui.
Giapeto infila una porticina per metà di vetro smerigliato e per l’altra di legno pessimo. «Vieni, accomodati» si infila dietro un tavolo dall’apparenza instabile e si acculatta su una poltrona gialla dalla forma a uovo. Per me c’è una sedia di ferro e vetro; quando mi siedo mi accorgo che non è vetro, è un materiale più caldo, più flessibile. Giapeto si accorge del mio stupore. «Si chiama plastica.» «Plastica? Senti un po’ Giapeto, con tutti i multiversi possibili, proprio in questo postaccio dovevi finire?» «Senti, non mettertici anche tu, sono in punizione. Kat’Sabatheh non ha gradito la mia capatina sul pianeta che usava come bacino idolatrale, quel lurido sasso dove hai trovato il mio badge. Miliardi di fedeli in meno... se i suoi tirapiedi non mi avessero beccato lo avrei scavalcato in classifica. Peccato. E adesso mi aspetta una cattività in questo delirio.» «Ma che razza di mondo è?» Giapeto sgrana gli occhi da rettile sul volto bitorzoluto da scaglie, infila una mano sotto la scrivania, apre un cassetto e schiaffa sulla scrivania un foglio di carta lucente. «È il mondo che ha generato Kat’Sabatheh. Qui ogni cosa gli appartiene: le case sono costruite da lui, gli abitanti lavorano per lui, comprano da lui con soldi che lui presta loro. Lo pregano e lo invocano di renderli più ricchi e potenti: ogni fottutissimo giorno dai templi e dalle case di questo mondo, il nome di Kat’Sabatheh viene pronunciato con reverenza e innalzato al silenzio gravido di questo sordo universo.» «Perché hai una gigantografia di Kat’Sabatheh nel cassetto della scrivania?» Fisso disgustato lo sguardo sognante del grande demone. «È un manifesto elettorale: Kat’Sabatheh è l’amato presidente federale di questo ripugnante mondo allo sbando.» «Non era più semplice massacrare questi patetici esseri che costringerli a sopravvivere in una farsa?» «No, vedi, no, tu non capisci. Kat’Sabatheh si ciba di ansia e ambizione e il
risultato è che ha un numero maggiore di fedeli rispetto a te e a me che ci nutriamo di dolore e disperazione.» «E tu sterminali.» «No, non capisci» scuote le corna, «se li stermino, se faccio loro del male, essi pregheranno Kat’Sabatheh di togliermi di mezzo. Lo pregheranno, capisci? E se lo pregano sale in classifica. L’unica speranza che ho è quella di fare del mio meglio e arrivare al punto di sottrargli fedeli.» «Ma in che razza di mostro ti sei trasformato?» «Lascia stare: se tu non fossi stato a maramaldeggiare come un poppante su mondi popolati da bestie capaci solo di grugnire, ora ne sapresti un po’ di più. Su tutto.» «Ti assicuro che se sapessi da dove vengono gli elfi del mio mondo, non faresti così tanto lo spavaldo.» «Sì, certamente. Ora però dimmi che ci fai qui, Jaquish di Anquelot.» Mi accorgo che la sedia può dondolare. «Mi serve una consulenza» rispondo. «Basta...» si a le mani sulle corna e gratta via uno strato di forfora. «Ho già abbastanza problemi con il bilancio di questo supermercato. Dopo la faccenda di Kat’Sabatheh gli altri demoni mi vogliono declassare. Lo sai che mi hanno fatto fare un corso di marketing? Ho ancora la pelle d’oca quando ci ripenso!» La coda pelosa gli si rizza come l’astile di un’arma immanicata. «Un corso di cosa?» Mi guarda, poi si risponde da solo. «Già... tu eri quello specializzato in mondi a basso livello tecnologico. Prima che ti fondessi con... con quello che sei adesso...» «Ecco, è proprio di questo che volevo parlarti. Mi devi aiutare.» «Senti Jaquish, o Alchibunazar, come ti chiamavi un tempo: tu eri un mito per tutti, ora invece nessuno sa cosa sei diventato. Come puoi chiedere a me qualcosa su di te che nemmeno tu sai?»
Prima che possa replicare un oggetto rettangolare simile a quello usato dalle ancelle e della guardia manda un suono strano e una fastidiosa luce gialla. «Scusami» Giapeto lo afferra. «No, sono occupato» attende. «Non me ne frega un cazzo se vuole lamentarsi con me. Fatele fare un reclamo scritto» attende di nuovo. «Non me ne frega un cazzo se è amica del sindaco. Non me ne frega un cazzo di niente. Se ha problemi chiamate la guardia giurata e fatela cacciare a calci nel culo» diventa paonazzo e abbassa lo strumento. «Che cosa vuoi da me?» Sospira. «Come faccio a separarmi da lui?» Mi guarda strano. «Insomma, come divido Jaquish da Alchibunazar?» «Tu chi sei dei due in questo momento?» «Non ne ho idea.» Giapeto si concentra, fa una smorfia, scoreggia e tira un bel sospiro. In un paio di secondi l’aria dentro lo stanzino diventa irrespirabile. «Dunque, io non so nulla di voi due, nessuno sa niente, se non che vi siete uniti in seguito a un incantesimo che vi ha risucchiato da quel mondo dove stavi.» «Arhanien.» «Si va bene, quello. Ora, è possibile che separarvi non sia una cosa difficile, se c’è consensualità.» «Non c’è a quanto pare. Ma perché Alchibunazar non vorrebbe separarsi da Jaquish?» «Sta bene così, evidentemente. Voi due depredate e spargete dolore e morte in mondi di universi molto meno complessi di questo. Sono mondi più facili, più appaganti, più luridi; la fusione lega Alchibunazar a realtà meno complesse. Siete un demone molto invidiato, siete dei paraculi, dei raccomandati. Sono millenni che non fai un corso di aggiornamento, che non ti fai vedere alle riunioni del Direttorio dei dieci, dico: sei l’unico che non deve rendere conto del suo operato e che si sollazza spargendo distruzione dove più gli aggrada.» Devo avere un’espressione ridicola a giudicare dal sogghigno di Giapeto. Mi invidia.
«Sentimi bene» ricomincia. «Se Alchibunazar non vuole separarsi da Jaquish, trovagli un motivo valido.» «Per esempio?» «E che ne so? Trova un ospite più potente.» Ospite. Non è la parola migliore per definirmi, ma l’idea è buona. Ottima. «Non conosco nessuno che... aspetta, uno c’è ma è pacato, riflessivo, un topo di biblioteca che intende acquisire la conoscenza necessaria per liberarsi di me e per porsi al di là del bene e del male. Lo sto “convincendo” a evocarmi.» «Idealisti, li odio!» Giapeto stringe i pugni e scuote le corna. «Comunque sembra il candidato ideale.» «Lui sarebbe in grado di mostrare il suo vero potere soltanto se si alterasse: se perdesse la ragione il potere che serba esploderebbe in tutta la sua magnificenza.» «E tu fallo incazzare.» «Sì, bel suggerimento. Sto pensando a come.» «Sei un demone Alchibunazar, o Jaquish, o quello che sei: prendi la cosa cui tiene di più e distruggila. Il resto lo farà lui. E adesso alza i tacchi e levati dalle palle, ho un bilancio da chiudere e la settimana del tre per due da inaugurare.»
L’Università si regge su regole ben definite, dettami che alunni e professori devono rispettare. Il mio collega Arwin è certo che basti definire un divieto affinché gli studenti virtuosi lo rispettino, non importa quanto sia esso frivolo. Il mio collega Gamelien è invece dell’avviso opposto, egli ritiene che senza il dovuto controllo le regole, per quanto tali, non saranno rispettate. Io sono d’accordo con Gamelien, ho osservato la loro disputa con bieco cinismo e ho proposto loro di giocare uno scherzo agli studenti per rintracciare i più valenti e coraggiosi. Oppure quelli più reprobi. Davanti alla scala che conduce alla torre più alta, nell’edificio dei professori, ho realizzato una porta magica. Tale porta è soltanto un’illusione ma chiunque cercherà di aprirla resterà macchiato dal mio incantesimo e tutti sapranno che ha cercato di infrangere il divieto. Abbiamo poi sparso tra i ragazzi la voce che sulla terrazza vietata fosse avvenuto un suicidio e che fosse stata interdetta. Il mito della terrazza vietata – ch.mo professor Alioth
XI – Antichi rancori
La biblioteca si andava svuotando ma Gabriel rimaneva chino sul testo che aveva preso; sudato, leggeva con avidità l’ennesima pagina, finché rialzò la testa, rabbrividendo. Un incantesimo davvero potente, si guardò attorno cercando di capire da dove provenisse la magia che l’aveva distratto. L’ultimo piano era appestato da aria lurida di sudore e idee. Gabriel chiuse gli occhi e i pochi rumori dei sospiri, dei fogli piegati e dei pennini che scorrevano, scomparvero; si concentrò ancora e perse ogni sensazione tattile e riuscì a vedere il mana, come se ribollisse in un calderone. Prima percepì un pignatta di bronzo piena di stufato, poi un paiolo abnorme capace di contenere tutti i metalli estratti dai nani, infine un oceano di melma bollente rimescolato da ondate di liquidi viscidi, densi e di diverso colore. Riaprì gli occhi e vide brividi che si agitavano attorno agli studenti. Ogni fremito deformava le immagini di ciò che lo circondava, alterava lo spazio, la luce, il
tempo. La magia era un fuoco fatuo che si espandeva e si contraeva in proporzione alla potenza che serbava; l’incantesimo che l’aveva scosso aveva illuminato la stanza con una corrusca e vivida luminescenza. Un incantesimo di Alioth, comprese. Un’illusione che rasenta la perfezione e supera ogni umana immaginazione. Tanto potente da sfuggire alla mia comprensione. Il potere unico di Gabriel gli consentiva di parlare al mana una lingua che trascendeva le formule, di improvvisare incantesimi e di appropriarsi di quelli che percepiva. Il ragazzo si alzò, sbalordito dalla sfuggevolezza della magia di Alioth e andò verso gli alti scaffali per capire se fosse stata trascritta. Individuò le tracce dell’incantesimo sulle pagine di un libro al terzo piano: andò dal bibliotecario per richiederlo, salì su una scala per prenderlo, ne carezzò la preziosa rilegatura, lo poggiò sulla scrivania, percepì l’energia sopita tra i ricami dell’inchiostro e il sapore della pergamena. Voltò le prime pagine, le dita che tremavano mentre le scorreva sulle righe, i polpastrelli che si inumidivano di sudore a contatto con le miniature e pizzicavano quando il sapere vi rifluiva. Le gambe presero a tremargli, scaricando la frenesia della conoscenza appresa grazie al contatto; le mani scattarono sul bordo della pagina per disvelare una nuova, folgorante pagina intrisa di inchiostro e sapere. Un’ingordigia che si ripeté sino al momento in cui chiuse il libro, ebbro del contenuto. Gabriel ricordava il piano deserto e non si curò di riporre il tomo come l’aveva preso ma lo fece discendere con un incantesimo; fu la prima leggerezza dopo settimane di perfezione. «Questa è bella: come fai a conoscere la levitazione tanto bene?» Joelle fissava Gabriel, in piedi dietro di lui. Gabriel sussultò. «Quando sei arrivata?» «Sei una continua sorpresa, Gabriel. Però riesci a far lievitare un libro del genere, e con pochissimo mana, ma non ti accorgi di una fanciulla che ti siede accanto.» «Ero preso dalla lettura.»
«Questo l’avevo capito, ti ho salutato e non mi hai nemmeno risposto.» «Sono stato tanto scortese?» «Leggevi… anzi, palpeggiavi il libro come fosse stato una bella donna» lo disse con invidia. Gabriel fece una smorfia. «Si può sapere che cosa facevi con quel testo? Voltavi le pagine con gli occhi immobili. Non voglio farmi gli affari tuoi ma non è palpeggiando una pagina che si studia» si accomodò nel posto davanti al suo e gli mostrò i quaderni. «Non so chi ti abbia insegnato l’esegesi arcana ma bisogna leggere i testi più volte per permearne il significato. Pensa che quando non riesco a ricordare una formula, devo trascriverne la forza vitale sul grimorio, con parole mie, per rivisitarla. Tu vai in giro soltanto con un libercolo ma non prendi appunti: dove sono gli incantesimi che hai studiato?» Gabriel sorrise e si picchiettò sulle tempie. Joelle fece una smorfia. «E così sarebbero tutti lì dentro?» «No, sono fuori: qui c’è la chiave.» «Sei uno sbruffone» Joelle appoggiò il mento al palmo delle mani. «E come faresti?» Gabriel voleva rispondere ma si fece cupo. «Studio molto, nulla di più.» Qualcuno sibilò invitando al silenzio. «Ma davvero?» Gli occhi nocciola della ragazza frugarono in quelli scuri del compagno. I due ragazzi si sarebbero fissati senza cedere se uno studente dai capelli fulvi non avesse interrotto i loro sguardi con la mano. «Allora hai deciso di venire al ballo con me?» Tåron si chinò sulle ginocchia e diede la schiena a Gabriel. «Sarò generoso, questa è la mia ultima offerta» fece l’occhiolino a Joelle, che si voltò disgustata.
«È curioso che tu la ritenga un’eretica e poi voglia portarla al ballo» Gabriel rispose per lei. Tåron si irrigidì e si voltò. «Nessuno ti ha interpellato.» «Non mi hai interpellato, infatti: mi hai interrotto.» I sibili di dissenso aumentarono e Tåron si rialzò. «Sarai mia» indicò Joelle, fece un turpe sorriso e se andò. Joelle si portò una mano alla fronte e sospirò. «Tåron ti ronza intorno parecchio» sussurrò Gabriel. «È colpa di quella serpe di Thomas: Tåron lo fa per tenermi lontani gli altri ragazzi» sospirò. «Non capisco: allora perché non ti invita Thomas alla festa?» «Non lo farebbe mai, è troppo egocentrico; sai... prima eravamo molto amici.» «E perché ora ti molesta?» «Insomma, eravamo molto, molto amici, poi lui mi ha fatto certe cose e voleva che io ne fi delle altre… io non me la sono sentita e abbiamo litigato.» «E che genere di cose voleva che fi?» Gabriel fece una faccia ingenua. «Ma non hai capito?» «No, scusami, non riesco a immaginare. Ti ha fatto del male?» Joelle si mise a ridere. «Sì e no.» «Si, o no?» «Sì e no. Te l’ho detto.» Ci fu un nuovo, lungo sibilo di dissenso. «Voi ragazze siete strane.»
«No, Gabriel, tu sei strano» gli diede un buffetto sul naso, sorridendo. «Vieni con me, andiamo a parlare da un’altra parte.» «Dove di preciso?» «Dovresti essere curioso, non sospettoso» Joelle si imbronciò. «Ci vuole molto tempo?» Joelle raccolse libri e taccuini. «Senti, io cerco di farti una cortesia e tu mi riempi di domande?» «Scusami» il ragazzo prese il suo libercolo. «Dov’è che voi andare?» Firmarono il foglio delle presenze e uscirono dalla biblioteca. «Sei curioso, per essere un maschio» Joelle gli fece l’occhiolino. «Non sono curioso. Non mi piacciono i segreti, tutto qui. I segreti sono pericolosi.» «I segreti ci rendono l’uno diverso dagli altri: se nessuno li avesse, perché dedicare tempo alle persone per scoprirli?» Gabriel si incupì. «I segreti che ho scoperto non mi sono mai piaciuti.» «Questo invece ti piacerà.» «Se mi piacerà, dimmi di cosa si tratta.» Joelle sbuffò, si fermò e si irrigidì. «Cosa devo fare con te, Gabriel figlio di Lester?» Lo redarguì. «Ciò che rende bello un segreto è il piacere di svelarlo, poi.» «Arguta considerazione, ma la conoscenza di tale segreto è soltanto una questione temporale: il tuo segreto non è tale in quanto a conoscenza, poiché intendi svelarmelo, ma lo è in quanto alla prossimità temporale che abbiamo con esso.» «È Bastian di Leion che insegna retorica, tu non sei bravo a imitarlo» gli fece la lingua; poi controllò che non li seguisse nessuno. «Vieni con me.»
«Dove mi porti?» «Stai zitto e seguimi. E controlla che nessuno ci veda» Joelle fece strada sino all’edificio dei professori; il sole che filtrava dai finestroni dipingeva sulle pareti di legno ombre complici e languide; i ragazzi arrivarono alla torre in prossimità dello spigolo nord-est dell’edificio, dove un cordone rosso e attorcigliato ne bloccava la porta, che reggeva un cartello di divieto. «Conosci la storia di questa porta?» «La conoscono tutti: conduce a una terrazza vietata agli studenti.» «Sei informato per essere l’ultimo arrivato» Joelle si prese gioco di lui. «Però hai dimenticato la cosa più importante.» «Non c’è una parte più importante.» «Sbagliato. Perché non si può aprire la porta?» Gabriel sbuffò. «C’è un incantesimo che rivela coloro che l’aprono: è una trappola magica che segnala l’infrazione e chi verrà sorpreso non se la erà bene.» «Ti fidi di me?» Non mi fido di nessuno, pensò Gabriel. «Che razza di domanda è?» Joelle agguantò Gabriel per una mano e lo trascinò contro la porta. Il ragazzo reagì e si liberò dalla presa che era già sbucato sulle scale a chiocciola che portavano di sopra. Joelle si mise a ridere. «Tu sei pazza: sapranno cosa abbiamo fatto!» «E cosa abbiamo mai fatto? È vietato aprire la porta ma non c’è alcuna porta» Joelle continuò a ridere. «Ti ricordi il discorso di Alioth sulle illusioni?» Gabriel ebbe i brividi e quando si voltò vide il corridoio. «Vuoi dire che…» «Esatto. Non esiste alcuna porta: la storia continuano a metterla in giro, e di anno in anno diventa sempre più ricamata. Però non c’è un incantesimo che
segnala chi a: i professori non hanno mai richiamato nessuno.» «Ce ne sono altre?» «Così si dice, ma questa è una di quelle che hanno trovato» si rattristò. «L’ha trovato Thomas a dire il vero.» «La porta sembra vera» Gabriel tornò nel corridoio e osservò la perfezione dell’incantesimo: appoggiò la mano sul legno e ne avvertì la consistenza ma, quando spinse con convinzione, la mano ò oltre. «Dai, andiamo di sopra» Joelle trascinò Gabriel su per le scale a chiocciola, sino a una porta ogivale; tirò il chiavistello, strinse entrambe le mani di Gabriel e lo trascinò fuori, sorridendo. I ragazzi sbucarono su una terrazza piastrellata da mattonelle di varie tonalità d’azzurro; una balaustra in ferro battuto correva attorno alla torre, cingendola, una poltrona con dei morbidi cuscini era stata sistemata a fianco della garitta, sotto una tettoia di scandole, e un tavolino con il piano di marmo stava al centro del terrazzo. Sopra, una scacchiera con una partita già iniziata. «Vieni, ti presento Amaradantis» Joelle lo portò alla balaustra per ammirare la capitale. Le guglie d’oro del Tempio di Rhiannon rifulgevano erubescenti e il loro splendore superava quello dei palazzi e della reggia fortificata dell’Imperatore. «Quando ero bambina e non sapevo nulla della magia, mi domandavo come fosse possibile che gli umani avessero eretto costruzioni tanto meravigliose» Joelle fissò i vetri decorati della cupola del Palazzo del Parlamento, dove le Gilde contrattavano le leggi con l’Imperatore. «Quella è la reggia di Giulius, ti rendi conto di quanto è grande? Occupa uno spazio che sarà dieci volte quello dell’Università» disse indicando la fortezza arroccata sull’isola al centro del fiume. «Non apprezzo l’architettura militare» Gabriel fece una smorfia ma ammirò le torri tonde e robuste, gli edifici alti con una spessa scarpa, le bertesche che coprivano il cammino di ronda, i tetti spioventi ricoperti di tegole brune, «eppure devo dire che nel costruirlo hanno usato un certo stile.» Joelle guardò l’Università: la luce del sole baciava i bruni mattoni mentre le
tegole erano una fulva e scarmigliata zazzera; i finestroni delle aule con le tende di tela bianca tirate sembravano ammiccare mentre il sole vi si specchiava senza pudore. Gabriel si era seduto sulla poltrona e guardava l’orizzonte, una foresta fitta di torri e palazzi di ogni stile architettonico, giganti ammantati dalla luce tiepida del tramonto e dalle lunghe ombre che invischiavano le strade nelle languide tenebre. «C’è qualcosa che non va?» Joelle si sedette sul bracciolo della poltrona di pelle, una comoda alternativa al cuscino. «Prima di studiare ero convinto che il mana fosse un oggetto. Ora penso che sia vivo e che gli incantesimi non siano abilità, ma forme di vita. L’Università mi ha aperto gli occhi su molte cose, su altre invece si mostra criptica.» Il vento recava il profumo della neve delle montagne e della legna divorata dai camini. «Un’analisi profonda per uno che è qui da pochi mesi» la fanciulla accavallò le gambe, scoprendo le bianche caviglie. Si appoggiò sullo schienale in modo che il proprio petto fosse all’altezza dello sguardo di Gabriel. «E quali sarebbero questi misteri?» «Ecco, mi stai prendendo in giro» il ragazzo alzò la testa per fissarla negli occhi. «Sei strano, te l’ho detto: qui nessuno si pone domande. E forse è un bene così» un refolo arcigno scompigliò i capelli di Gabriel, sciolti. «Da quanto sei qui, Joelle?» «Tre anni, e a quanto pare i miei genitori si sono dimenticati di avere una figlia» Joelle si incupì. «D’altronde che posso pretendere? Non sono un maschio e non posso entrare all’accademia militare. Figuriamoci se mi avessero riserbato una sorte simile a quella di mia cugina» sospirò. «Mi dispiace, non volevo rievocare brutti ricordi. Sono stato uno sciocco.» «No, lascia stare, non preoccuparti. Mi dicevi dei misteri.»
«Sì, mi sembra tutto finto. Gli insegnanti sembrano falsi, soltanto Rachel e Simon mostrano una certa umanità, e per umanità intendo difetti, ambizioni, sentimenti. Gli altri paiono alla mercé di un copione: sembrano recitare una parte, insomma.» «Non ti seguo: hanno un calendario di lezioni, che cosa dovrebbero fare?» «Non ne ho idea ma mi hanno mostrato cosa non si deve fare. Ci trattano come fardelli, come se non importasse loro chi siamo e cosa pensiamo. Ci fanno sedere ad ascoltare la loro lezione e ci dicono cos’è che dobbiamo sapere; ci guardano eppure non ci vedono. Arwin crede di avere a che fare con dei soldati, a lezione non fa che impartire ordini come un sergente e gli interessa avere materiale organico dove trascrivere gli incantesimi e il proprio modo di intendere il mondo: non sembra un insegnante ma un’ideologia che cerca terreno fertile sul quale attecchire, crescere e riprodursi. Sembra che voglia contaminarti e trasmetterti parte di sé, non insegnarti come guardare il mondo.» «Gabriel, non sei solo strano, lo è anche quello che dici.» «Le idee di Arwin sembrano una malattia. Ho già vissuto una situazione simile, e non è stata piacevole» ricordò i giorni di Eskiliar. «Alioth poi, non ne parliamo: tronfio della propria bravura a tal punto da inventarsi illusioni di illusioni pur di mostrare quanto è abile.» «Sì, sei decisamente strano. Focalizzati su ciò che c’è di piacevole e ignora il resto.» «Per esempio?» Lo sguardo di Gabriel si incollò a quello di Joelle. «Cosa c’è di piacevole?» «Ci siamo noi, qui, adesso» la fanciulla si lasciò scivolare sul bracciolo e finì seduta sulle gambe del giovane mago; sciolse i capelli e Gabriel li accarezzò. «Sai, c’è un’usanza per il ballo di Shamhna...» sussurrò Joelle, avvicinandosi. «Ce ne sono tante.» Il crepuscolo sfiorò i visi dei due fanciulli, si insinuò e danzò tra i loro corpi, colmando la distanza che li separava.
«Non può essere una fanciulla a cercare il proprio cavaliere, ma viceversa. Così, anche se volessi invitare qualcuno, io dovrei farglielo capire affinché sia lui a fare il primo o» Joelle fissò le labbra di Gabriel e si impose di baciarlo se avesse ricominciato con le lamentele sullo studio. La festa di Shamhna è una gran perdita di tempo. È un gioco inutile e doloroso. Lo sai e dovrei dirtelo. Gabriel vide gli occhi di Joelle inumidirsi, il volto accarezzato dalla luce calda del giorno morente. «Senti Joelle io non credo che…» La porta della garitta sbatté contro il muro. «Non è uno spettacolo meraviglioso?» Sulla terrazza scivolò la voce viscida di Thomas. «Guarda un po’ chi c’è! Abbiamo disturbato due piccioncini» la voce tagliente dell’avvenente Batilde sorprese Joelle, che si alzò dalle gambe di Gabriel. «Non avete interrotto nulla, stavamo guardando il tramonto» si giustificò Joelle, aggiustandosi i capelli castani. La bionda criniera di Batilde danzò al vento freddo e suoi occhi chiari squadrarono Gabriel dalla testa ai piedi. «E così questo sarebbe il cavaliere che hai rimediato? I capelli sono trasandati e la tunica è più trasandata: non spicca certo per la cura del proprio aspetto.» «Direi invece che è quello che si merita» la voce di Thomas si fece dura. «Cosa vuoi che possa permettersi una come lei, se non circuire l’ultimo arrivato? Con chi, se non con qualcuno che non la conosce potrebbe are il suo tempo? Meglio l’ultimo arrivato che niente, non è così Joelle?» La ragazza strinse i pugni e desiderò colpire Thomas con tutta la forza che aveva. Gabriel fronteggiò il biondo sbruffone, a modo suo. «Sono meno prestante e più sciatto di te: non valgo un minuto solo del tuo tempo prezioso. Non perderne dunque, non ne trarrai alcun divertimento» andò verso la garitta e urtò di proposito Thomas. Joelle corse dietro a Gabriel e Batilde la guardò con disgusto mentre scendeva.
«Che hai, sembri un cadavere?» Domandò l’avvenente studentessa al suo cavaliere, sbiancato in volto. «Quando mi ha colpito» Thomas si mise a tremare e fu costretto a sedersi per non svenire. «È come se avessi assaggiato la morte.» Gabriel scese e Joelle lo raggiunse appena attraversò la porta illusoria e sbucò nel corridoio. «Gabriel, aspetta. Io non ci sto provando con te» arrossì. «Cioè, non perché sei l’ultimo arrivato, mi piace davvero condividere il mio tempo con te.» «Devi scusarmi se mi usano per prendersi gioco di te e per metterti in difficoltà» le disse lui. «Non devi darmi alcuna spiegazione: se non fossi simpatica ti eviterei.» La ragazza lo abbracciò. «Allora sei tu che devi scusarmi se ti insultano per colpa mia.» Gabriel asciugò le lacrime che bagnavano la guance di Joelle, poi la fissò, serio. «Posso farti da cavaliere alla festa di Shamhna?» * Il sole era appena tramontato e, nell’Ufficio del Rettore, Mirgram, Arwin e Gamelien discutevano dei progressi degli studenti. L’aria era densa del profumo del tabacco e Arwin stava cercando di convincere Gamelien a cedergli alcuni giovani promettenti. Alioth sbatté la porta e irruppe nella stanza, aveva la pelle d’oca e respirava a fatica. «Che ti è capitato, ti sei guardato allo specchio?» Lo piccò Arwin. «Chi di voi è entrato nella Sala della Conoscenza e ha letto il trattato sulle illusioni tattili?» I tre maghi si guardarono e poi negarono. «Vi prego di essere sinceri» Alioth aveva gli occhi fuori dalle orbite e la fronte calva madida di sudore.
Mirgram leggeva un trattato di pedagogia e lo lanciò nella libreria, si alzò dalla poltrona accanto a una trifora e raggiunse l’insegnante appena entrato. «Qual è il problema, non possiamo leggerlo?» Alioth tirò un sospiro di sollievo. «Sei stato tu, allora. Bene.» «No, non sono stato io» Mirgram negò. «E non siete stati nemmeno voi?» Alioth si allarmò di nuovo. «Insomma, vuoi calmarti?» «Siete stati voi?» Si rivolse a Gamelien e Arwin che negarono di nuovo. «Insomma, Alioth!» «Il trattato sulle illusioni tattili era nella Sala della Conoscenza e se voi non l’avete toccato, allora qualcuno ha superato gli incantesimi che proteggevano l’entrata.» La pipa sfuggì dalle mani di Gamelien, che la recuperò con la magia prima che rovesciasse il tabacco rovente sul tappeto. «Qualcuno li ha rimossi, vorrai dire» Arwin commentò l’uscita del collega e prese una tazza di porcellana decorata dal tavolino a fianco della poltrona. «Curioso che rimanga illuso il professore di magie d’illusione.» «Perché metti in discussione tutto ciò che dico? Se qualcuno avesse tolto gli incantesimi, ora non ci sarebbero più» ringhiò Alioth. «Invece ci sono, sono ancora quelli originali, si può percepire ogni dettaglio di quella magia, c’è il profumo dell’incantatrice che li pose, settecentocinquantatré anni or sono. Era un giorno di pioggia e se ne sentiva il ticchettio sui vetri della cupola: lei era bionda, aveva occhi chiari e non era felice di fare ciò che ha fatto.» «Alioth, stai straparlando» Arwin alzò la voce. «Se quegli incantesimi ci sono ancora, come hai fatto a capire che qualcuno li ha superati? Non ci sarebbero più.» Alioth divenne rosso in volto, sedette su una sedia e si mise le mani sulla testa; chiuse gli occhi, poi sospirò. «Ebbene, vi sarete accorti che io esco sempre per
ultimo dalla Sala della Conoscenza.» Mirgram, Arwin e Gamelien si guardarono, straniti. «Non ve ne siete mai accorti?» Alioth parlò con voce strozzata. «A dir la verità no» Gamelien rispose per primo. «Lavoro con dei dilettanti, maledizione» Alioth gettò gli occhi al cielo. «Avresti la cortesia di essere meno criptico?» Mirgram si portò al centro della stanza. «Quando esco dalla Sala della Conoscenza uso un incantesimo e posiziono uno strato di polvere sul libro che leggo» spiegò Alioth. «E perché questa stravaganza?» Arwin si accigliò. «Se qualcuno lo sfogliasse, la polvere si accumulerebbe al centro, lasciando le pagine pulite.» «E a cosa serve un incantesimo del genere?» Arwin si mise a ridere. Alioth lo fronteggiò, serio. «Serve a capire se qualcuno tocca la mia roba.» Arwin si alzò. «Hai così poca fiducia in noi da dover ricorrere a trucchi del genere?» «Arwin» Alioth deglutì, «se tu non hai toccato il mio libro e non l’ha toccato Gamelien e neppure Mirgram, chi è stato?» «È impossibile che qualcuno abbia eluso i controlli» Mirgram rabbrividì: «se così fosse ci sarebbe un mago con una virtù magica superiore alla nostra. Lo sentiremmo subito.» Arwin, Mirgram e Gamelien si fissarono, poi quest’ultimo allargò le braccia. «Polvere… si può sapere perché hai usato un trucco del genere?» «Non è questo il punto, è possibile che non capiate?» Alioth si trovò a urlare e gesticolare come un folle, guatò i colleghi ma l’assenza di una reazione lo fece imbestialire: si avvicinò a una scrivania, gettò per terra libri e lampada. «Ma è
mai possibile che non riusciate a comprendere?» «Rilassati, Alioth» Mirgram alzò il braccio destro e fece roteare il gomito; la mano scintillò e un incantesimo sedativo si diffuse per la stanza. Il professore di magie illusorie sedette sulla poltrona, infilò ancora la testa tra le mani e sospirò. Gamelien rimise i libri e la lampada sul pavimento e Arwin andò verso Mirgram. «Alioth, mio caro» disse l’insegnante di incantesimi del fuoco, «in tutta l’Università non esiste alunno che sia più dotato di noi o che abbia una conoscenza della magia superiore alla nostra.» «Voi continuate a ritenermi un demente» Alioth sorrise, la rabbia svanita dall’incantesimo di Mirgram. «È per questa ragione che mi pulisco il culo con quello che dite» fece un altro sorriso. «Se non esiste un mago più esperto di noi perché lo scoveremmo, ci troviamo di fronte a un mago non convenzionale.» Gamelien si alzò dalla sedia, tremando. «Non dire eresie.» Mirgram sbiancò. «Tu temi che…» il rettore venne interrotto. «Esatto, penso che tra gli alunni ci possa essere un mago spontaneo.» Arwin sentì una botta di calore irrorargli il volto. «È impossibile. Sono secoli che non si vede un mago spontaneo.» «Non si può trovare un mago non convenzionale a meno che egli non riveli di esserlo. Vi rendete conto che un mago spontaneo non sarebbe ostacolato dalle pietre inibitrici ma soltanto infastidito?» Alioth aveva ritrovato un volto sereno nonostante la pericolosità della prospettiva che delineava. «Ti sei sbagliato con quel tuo trucco della polvere, ti inganni da solo e ci crei un sacco di problemi» Arwin diede a tutti la schiena e la stanza ristagnò in una palude di silenzio. «Non abbiamo prove per sostenere che esista un mago spontaneo» la voce calda di Mirgram cercò di rasserenare i colleghi.
Alioth fece un sorriso che gli illuminò il volto. «Già, se esistesse un mago spontaneo sarebbe per esempio capace che so… di muoversi per l’Università e commettere un omicidio senza che nessuno lo individuasse: un mago spontaneo è in grado di sfuggire agli oggetti incantati poiché ne riesce a percepire la zona di influenza, un mago spontaneo può percepire le pieghe del mana e chi le usa mentre egli può rimanere nascosto.» Tornò il silenzio ma fu freddo e tagliente. «Un mago spontaneo è in grado di percepire gli incantesimi usati da coloro che gli sono accanto?» Gamelien provò a dare un senso a quel delirio. «Se c’è un mago spontaneo, potrebbe aver appreso tutti gli incantesimi che abbiamo usato da quando è arrivato» ammise Mirgram pettinandosi la folta barba. «Sì, e magari in questo momento è giù che si legge uno dei libri proibiti» Arwin lo disse per ridere ma ottenne il risultato opposto. Mirgram, Gamelien e Alioth si precipitarono fuori dalla stanza, si diedero un contegno nel corridoio, quando Arwin li raggiunse, poi scesero tutti e quattro in biblioteca, prestando attenzione a non insospettire gli alunni e i colleghi; cacciarono il bibliotecario intimandogli di impedire che entrasse chiunque, chio a chiave, attivarono il portale celato nella colonna portante e scesero nella sala segreta. Entrati nella Sala della Conoscenza, accesero candele e cristalli, poi cominciarono le indagini. Arwin si soffermò su un libro di uno scaffale che aveva consultato di recente. «Sono sicuro di averlo spinto più a fondo» disse convocando gli altri. «Di solito faccio in modo che i libri, una volta riposti, siano paralleli a quelli vicini, in modo da avere un fronte di copertine allineate. In realtà questo sporge di quasi un dito. Lo avete preso voi?» Tutti negarono, ripresero a cercare indizi e trovarono un gran numero di stranezze: per ultimo Gamelien scoprì che le fonti di luce magica erano più fioche. «Venite tutti qui» il rettore radunò i professori, «non ho intenzione di prendere provvedimenti contro nessuno di voi se dovesse emergere, adesso, che si tratta di una burla. Ovviamente sarò di una severità esemplare se dovessi scoprirlo in
seguito» i docenti negarono e Mirgram si alterò. «E allora spiegatemi come sia possibile questo delirio!» «Ai ragazzi del settimo livello, la settimana scorsa ho persino mostrato l’incantesimo dell’invisibilità» Alioth sospirò, i colleghi lo guardarono e Arwin prese a ridere; fu una risata al limite della follia. «Nessuno si è mai degnato di controllare che non ci fossero pericoli?» Mirgram li riprese con voce severa. «Perché, tu l’hai fatto?» Polemizzò Gamelien. Alioth disegnò un arco con la mano. La luce arriva ovunque, ma esistono entità che le sfuggono, che dimorano nelle tenebre, per paura o per diletto. Che si rivelino ora, che si mostrino. Vi fu uno sbuffo d’aria e la luce delle candele proiettò nuove ombre lunghe, vibranti. Tutti si guardarono attorno cercando le tracce di un intruso invisibile rivelato, ma erano soli. Arwin fece una grassa risata. «Spero che in questo momento il mago spontaneo non fosse concentrato» si buttò su uno scranno. «Se lo era, ora conosce anche il modo per trovare le creature invisibili.» Ristagnò un silenzio di selce. «Orbene, ci sono due problemi, dunque, ma forse uno solo. Può darsi che questo mago spontaneo sia colui che si cela dietro l’omicidio di Joelle. Non è detto ma, ovviamente, domani sera dovremo prestare maggior attenzione a quanto accadrà» Mirgram si rassegnò. «E come intendi procedere?» Alioth sospirò.
«Divieti!» La voce cupa di Arwin raggelò il sangue nelle vene di tutti. «Dobbiamo impedire che chiunque esca o entri dall’Università; dobbiamo essere ancora più severi sul rispetto degli spazi comuni, quelli dei chiostri, del refettorio e delle aule, nonché dei dormitori.» «Questi provvedimenti non piaceranno» si lamentò Alioth. «Dobbiamo vietare l’accesso ai piani a chi non vi ha diritto» continuò Arwin. «Dobbiamo imporre un orario di termine della festa di Shamhna e controllare il rispetto delle disposizioni che daremo. In più dobbiamo invitare gli studenti a comunicare a noi ogni comportamento sospetto.» «Vuoi militarizzare l’Università?» Eruppe Gamelien. «Sarà soltanto per una notte» Arwin gonfiò il petto: «le precauzioni disincentiveranno l’assassino.» Mirgram sedette al posto che occupava di solito e rimase pensieroso a lungo. «Faremo come dice Arwin. E che la sorte ci sia propizia.»
Era come la luna. Alta nel cielo, vegliava sul mio sonno. Nel buio era la luce, l’unica. Inafferrabile, era un sorriso, uno strappo di felicità nel tessuto scabro del buio. Gabriel – Joelle
XII – Un giorno di mercato
Una lama di luce filtrava dalle tende e nella stanza ammantata d’ombra, la polvere danzava lieve. Elisabeth fece uno sbadiglio e si stiracchiò; aveva sentito un cigolio e si voltò verso la porta, le palpebre e le membra ancora pesanti. Vide una sagoma che la guatava, si tirò le coperte sui seni prosperosi e urlò con tutto il fiato che aveva. Caen, steso a fianco della fanciulla, sussultò, cercò sotto il letto della stanza di Gabriel la fransisca che era invece sotto il suo, e scivolò in terra, nudo. «Avevo detto che nessuno doveva entrare nella mia stanza» la voce piatta dell’intruso fece venire i brividi alla fanciulla. Caen afferrò il kilt sulla sedia che fungeva da comodino e si coprì. Fece un sorriso falso. «Ciao Gabriel, ecco… Beth aveva freddo a dormire da sola…» «Non mi interessa quel che facevate» mosse la mano destra e fece ruzzolare la camicia addosso al terraltiano, poi con un cenno delle dita lanciò l’abito alla cugina. «Vestiti, devi darmi una mano, al mercato.»
Elisabeth si ricompose. E si adirò. «Una mano? Non ti fai vedere per mesi e quando torni pretendi che» fu interrotta da Gabriel, che le tolse la voce schioccando le dita. «Mi serve un vestito per Shamhna. Non posso stare a lungo fuori dall’Università e non ho tempo da perdere: ogni istante che non o su un libro è un o che mi allontana dal mio scopo.» Gabriel uscì dalla stanza e scese nella cucina, saturata dall’aroma di carne arrostita. «Sei stato molto cattivo: te l’avevo detto di bussare» Marian ruppe due uova nella padella che stava appesa sul fuoco, nel camino. «Da quanto tempo usano la mia stanza?» Gabriel fece volare nella sua scodella di legno un tozzo di pane dalla cesta, accanto alla dispensa, poi distribuì pancetta e salsiccia anche alla cuginetta. «Non ne ho idea. Sono tre giorni che Beth e Caen hanno smesso di agire di nascosto. Una notte di due settimane fa non riuscivo a prendere sonno e ho visto Beth che usciva senza far rumore, poi una mattina l’ho vista rientrare di soppiatto. Si vedono da molto tempo.» «Llywelyn ha detto qualcosa?» «Tira delle frecciatine a Caen, e non è felice di quello che succede.» «È di sopra?» Gabriel tagliò la pancetta e vi appoggiò un mozzicone di pane per insaporirlo. «Di solito dorme fino a metà mattina; sta fuori tutto il pomeriggio e la sera va alla locanda dove lavora Beth, in fondo alla strada, e la riporta a casa.» «Non può andarci Caen a prenderla?» Marian sedette di fronte al cugino e lo servì con metà dell’uovo che aveva strapazzato. «Le prime volte andava lui, ma poi ha preso a cazzotti un cliente che allungava le mani.» Gabriel si strofinò le tempie con i pollici. «E tu che cosa fai tutto il giorno?»
«Io sto imparando a leggere» Marian si inorgoglì. «E per una ragazza di dodici anni è una gran cosa.» «Leggere?» «Mi sta insegnando Llywelyn: dice che una fanciulla deve saper leggere e far di conto per non farsi ingannare dagli approfittatori.» «Questo dice?» «Sì. E anche che non vede l’ora che arrivi la primavera così lui e Caen potranno cercare una compagnia di ventura oppure tornare nelle Terre Alte.» «E Caen è d’accordo?» «Dice sia a Beth che a Llywelyn che non li lascerà mai» Marian guardò nel piatto e non aggiunse come la pensava. Gabriel assaggiò l’uovo da solo e poi con il pane e la carne. «Perché voi donne create sempre problemi?» Marian si guardò le mani. «Lo pensi davvero?» «Non ne sta forse creando Elisabeth?» «Sì, hai ragione» Marian guardò il camino. «Ma non sarebbe così senza di Caen.» Gabriel si mise a ridere. «Sì, forse siamo noi uomini il problema.» Elisabeth e Caen scesero le scale, presero da uno spiedo la carne che Marian aveva preparato loro, si unirono alla colazione ma rimasero a mangiare in silenzio. «Devo comprare un abito e mi servono i tuoi consigli, Elisabeth» esordì Gabriel. «Forse ti servono anche quelli di un uomo» Caen parlò con la bocca piena. «Non vorrai vestirti come quelle checche di nobiluomini di Amaradantis.» Gabriel aveva terminato la colazione e fece volare il piatto e le posate sino al lavandino. «Caen, gradisco molto la tua offerta, ma ti ricordo che indossi una
gonna.» Il terraltiano quasi soffocò. «Starai scherzando, spero: non è una gonna, è un kilt. C’è una bella differenza: per portare questo ci vuole l’autorizzazione del clan, è concesso soltanto a un guerriero. Il kilt per un terraltiano è come la barba per i nani. Non scherziamo.» «Ti ringrazio allora, ma andrò con mia cugina soltanto» si alzò. «Elisabeth?» La fanciulla svuotò il piatto e lo seguì senza entusiasmo; mandò un lungo sguardo a Caen e si morse la lingua per esser stata tanto imprudente. * Il mercato di Amaradantis brulicava di ambulanti e compratori. Il gelo dell’inverno aveva allentato la morsa e l’entusiasmo per il giorno di Shamhna era dilagato come una putrida malattia. Le botteghe dei sarti erano colmi di clienti incerti sull’abito e fuori dalle locande gli osti preparavano tavoli da imbandire a sera per accogliere più avventori possibili. «Che tipo di abito cerchi?». «Non ne ho nessuna idea» Gabriel sfiorò un saltimbanco che danzava sulle mani mentre il compagno gettava fuoco dalla bocca. «E quanto vuoi spendere?» Elisabeth ò accanto a un gruppo di teatranti che si esibiva nello spazio creatosi tra due banchi di frutta. Gabriel prese la mano della cugina e l’avvicinò. «Il denaro è l’ultimo dei miei problemi» sussurrò dopo aver controllato che nessuno si avvedesse di lui. «Allora seguimi» Elisabeth guidò Gabriel risalendo la corrente di corpi che si intralciavano e si accalcavano sui banchi e puntò verso la piazza dove restavano la Gilda dei Mercanti e le botteghe più lussuose. In prossimità della statua di Giulius I il vociare della folla calò e alla puzza di sudore si sostituì il profumo delle spezie; attorno al gigante di marmo c’era meno gente, più guardie e più freddo e il palazzo della Gilda dei Mercanti, sullo sfondo, era addobbato con i gonfaloni delle famiglie più ricche: in posizione centrale Gabriel riconobbe il serpente che divorava il leone.
«Puoi permetterti il vestito di un nobile?» Elisabeth soffiò sulle mani per riscaldarle e si diresse verso il fondaco di un mercante, d’angolo sull’edificio porticato che stava prospiciente alla Gilda. Gabriel guardò l’uomo che sostava sulla porta del negozio, un omone con lunghi baffi, che indossava un cappello di pelo dal taglio raffinato. «Te lo ripeto» disse alla cugina, «il denaro non è un problema.» Elisabeth guardò gli abiti esposti dietro la cancellata sull’ingresso a volta del fondaco. «Solitamente i nobili vestono su misura, però è troppo tardi per un abito del genere. Dai, vediamo cosa hanno dentro» lo trascinò sotto il portico, davanti al mercante. «In cosa posso esservi utile, miei signori?» La voce servizievole dell’uomo era accoppiata a un sorriso di cortesia. «Cercavamo un vestito per mio cugino» Elisabeth indicò Gabriel e il mercante li invitò dentro il fondaco, dove l’odore della pelle si faceva pungente. «Per Shamhna avete detto?» L’omone si mostrò perplesso. «Ho abiti eleganti, ma sono molto costosi.» «Il denaro non un problema» disse Gabriel mentre la vista gli si adattava alla penombra; nella bottega, il mago riconobbe due armadi dalle ante intarsiate, una cassapanca ben lucchettata, un recipiente di vimini per i tessuti, un telaio, una bilancia e, dentro ceste di varia grandezza, un gran numero di abiti da finire. «Allora prendo la merce migliore, miei signori» il mercante si strofinò le mani e aprì uno dei due armadi di quercia. Gabriel ò una mezz’ora che gli parve interminabile a indossare cappelli, camicie con maniche a sbuffo, calzabrache di ogni gusto, tuniche, giornee, farsetti, cioppe e guarnacche foderate. Al termine dell’estenuante prova dei capi, il ragazzo ripiegò su una camicia di broccato bruschino con le maniche a gozzetti, un farsetto scuro abbinato a calzabrache aderenti e una giornea di damasco nero con frange di seta argentata. Quando andò al banco, dove il mercante impacchettava l’abito, si soffermò a esaminare una pietra bruna che palpitava all’interno di una sfera di vetro. «Carina vero?» Gli fece il mercante. «È l’antifurto» sogghignò.
«Antifurto?» «Tu non sei di Amaradantis, vero ragazzo?» «Si nota parecchio?» «Eccome» l’uomo poggiò la grassa mano sulla sfera e la sfregò, «siamo in una città piena di maghetti e di aspiranti tali: è fondamentale per un mercante del mio livello avere uno strumento che impedisca agli incantesimi di raggirarlo.» «Se qualcuno usa una magia si accende?» «Esatto, fa una gran luce e suona, e a quel punto chiamo le guardie.» Gabriel guardò la pietra, di un minerale fatto da concrezioni esagonali e violacee che pulsavano, sincrone. «E ha mai preso qualcuno, questa spiona?» «Due stranieri che viaggiavano in coppia, ieri al tramonto. Allora, impacchetto l’abito?» «Certo» Gabriel vide come la cugina ammirava una cotta di ottima fattura. «Elisabeth, c’è qualcosa che ti piace?» «Vuoi dire che posso provarlo?» La voce di Elisabeth si sciolse come miele e indicò la veste di pignolato verde; la moglie del mercante, una donna grassa più di lui lui ma dagli abiti e dalla pettinatura più ricchi e dai modi signorili, l’aiutò a indossarla. Una farfalla uscita dal bozzolo, pensò Gabriel quando la cugina si mostrò. «Ottimo, prendiamo anche quello. E in più un vestito simile ma di tre taglie più piccolo.» Il mercante lasciò che fosse la moglie a impacchettare anche il secondo e il terzo abito e si dedicò alla parte che amava di più. «Ebbene, mio signore, ora possiamo accordarci sul prezzo finale» si mise dietro il bancone, ben vicino al cristallo. «Avevamo detto che duecento monete sarebbero bastate per il vostro abito ma per quello della vostra dama e per l’altro ne occorrono più del doppio, ciascuno. Posso farvi un prezzo finale di mille monete, un prezzo onesto, non trovate?»
Gabriel guardò in alto, si finse pensieroso e infine annuì. «È un prezzo onesto, concordo. Queste possono bastare?» Il giovane consegnò una moneta d’oro e ò una mano davanti agli occhi del mercante e della moglie, che rimasero inebetiti a fissarla. La pietra violacea non alterò il suo ritmico baluginare. «Sì, vanno più che bene, mio signore» il mercante gli strinse la mano e accompagnò il ragazzo alla porta. «È un piacere fare affari con voi, mio signore. E mi raccomando, non esitate a tornare da me per qualsiasi cosa.» «Beth, i pacchi per favore...» La ragazza aveva il volto esterrefatto ma obbedì e si affrettò a uscire; attese che fossero molto lontani e mischiati alla folla, prima di aprir bocca. «Come ci sei riuscito? C’era la pietra.» Gabriel fece strada in direzione di casa. «Strumenti di quel genere sono come le ragnatele.» «Cosa intendi?» «Le ragnatele fermano ciò che è molto piccolo, eppure si spezzano con tutto ciò che è abbastanza forte. Come le leggi, come gli eserciti, come i tiranni.» «Hai ingannato la pietra?» «Quasi, ero troppo potente perché mi sentisse.» «Quello che hai fatto non è stato bello» Elisabeth lo riprese. «Tu e Marian avete vestiti nuovi.» «Sì, ma li hai rubati.» Gabriel si fermò. La gente andava di fretta e un gendarme liberò la strada per consentire il transito a una fila di carri trainati da buoi, che trasportavano enormi botti, casse, pelli e cacciagione per la residenza dell’Imperatore. «Non mi pare, ho pagato al mercante una moneta d’oro.»
I soldati che scortavano i carri vennero sostituiti da altri che indossavano la livrea della festa di Shamhna, una surcotta a scacchi viola e dorati priva di fronzoli. «Ma ti aveva chiesto un prezzo mille volte più grande.» «Elisabeth, con la moneta avrei potuto comprare un oggetto qualsiasi da un mercante, parlare al mercante successivo elencando le bontà del prodotto e venderglielo a un prezzo di poco superiore a quanto avevo speso. Poi avrei potuto prendere un nuovo oggetto e continuare allo stesso modo comprando e barattando fino a ottenere i soldi necessari ad acquistare il vestito.» «Ma questo sarebbe stato onesto.» «No Elisabeth, sarebbe stato lento, non onesto. Avevo poco tempo, ho eliminato i aggi intermedi: comprare a una moneta e rivendere a dieci sfruttando la forza delle parole per imbonire un cliente è un inganno come quello che ho usato io.» «Non è un inganno, Gabriel, è lecito.» «È lecito perché è un inganno tanto piccino da essere trattenuto dalla ragnatela cui qualcuno ha dato il nome di legalità» riprese a camminare. «Il mercante usa la sua abilità con la favella per convincermi che un prezzo è onesto, io uso la mia abilità con la magia. Chi stabilisce che duecento è giusto? Andiamo ora, è sciocco discutere con chi non riesce a comprendere.» «Non metterò il vestito che hai comprato.» Gabriel si fermò di nuovo, guardò la cugina e fece un sospiro guardando in terra; alzò la testa, fissò Elisabeth e le ò la mano davanti agli occhi. «Lo metterai invece, perché è stato acquistato onestamente. Andiamo adesso, non ho altro tempo da perdere.» Elisabeth rimase qualche secondo con gli occhi sbarrati, poi si ridestò. «Gabriel, perdonami, non ricordo di cosa stavamo parlando.» «Parlavamo di te e di Caen: a primavera se ne andrà con Llywelyn.» A Elisabeth caddero i pacchi sul selciato.
Perché le donne creano sempre problemi? Gabriel raccolse i pacchi per lei. «Che c’è, adesso?» «Non è possibile, non è vero. Caen rimarrà con me: apriremo una locanda.» «Tu non aprirai una locanda con lui: è un mercenario, partirà per una guerra.» «Mi ha promesso che resterà: noi ci amiamo.» Gabriel sospirò e guatò la cugina. Alzò la mano destra ma Elisabeth l’afferrò. «Conosci incantesimi tanto potenti da farmelo dimenticare?» Gabriel gettò gli occhi al cielo. «Sì, li conosco.» «E li esti?» Lo sguardo divenne supplichevole. «Tu esti un incantesimo per farmi dimenticare Caen anche se non voglio?» «Se servisse per renderti più felice, sì.» Elisabeth sbiancò in volto. «E ti sembra giusto? Non hai mai pensato che qualcuno potrebbe farlo a te?» Gabriel pensò a Joelle. «Non avrebbe importanza, l’amore viene e a come le stagioni. Senza si è meno deboli.» «Ebbene, l’amore che proviamo io e Caen rimarrà sempre una bella estate. Non ti azzardare a farmi qualcosa con le tue magie. E non farla nemmeno a lui.» «Caen se ne andrà: tornerà nelle Terre Alte.» «Non lo farà, me lo ha promesso. L’amore è più forte di ogni cosa. L’amore non ti rende debole, ti fortifica, ti fa fare cose che altrimenti non faresti. È più forte di una guerra, è più forte persino della tua voglia di apprendere.» «La conoscenza viene prima di ogni altra cosa. La magia è più forte dell’amore perché può cancellarlo.» «Ma davvero?» Elisabeth fece un sorriso da vecchia megera. «E perché adesso non sei a studiare invece che a cercare un bel vestito per impressionare una ragazza?»
Gabriel avvampò. «Andiamo cugino, è ora di trovare un barbiere.» «Un barbiere?» Balbettò lui. «Non vorrai presentarti con quei capelli? Dobbiamo sistemarli.» «Lo posso fare benissimo da solo, mi basta uno specchio e un incantesimo» rabbrividì. «Non farai niente da solo, lasceremo che se ne occupi un professionista. Vieni» Elisabeth lo trascinò verso un chiosco di legno, «laggiù ce ne è uno.»
Non è distinguere luce e tenebre che vi renderà liberi: è l’opportunità di poterlo fare. Aforismi – Éireamhón, profeta elfico
XIII – La morte del revisionismo
Gwyllywm si chinò sulla cavia, un ragazzo di sedici anni, alto, glabro, e che pareva divorato da un male incurabile. «Non ti farò nulla di male, Yumath. Non devi preoccuparti» gli prese il gomito destro e cominciò un’approfondita palpazione. «Me lo hanno detto tante volte» l’umano rispose nella lingua degli elfi, ma guardò altrove. «Può darsi, ma stavolta è vero» Gwyllywm gli sorrise mentre con le dita cercava una minuscola escrescenza ossea impiantata sull’olecrano dell’ulna. «Pizzica se schiaccio?» La trovò. «Un poco» Yumath strinse i denti. Gwyllywm terminò l’esame e Gwenaelle, che gli stava accanto, gettò i vestiti al ragazzo. «Tu sei l’elfo che ha distrutto il mio villaggio e ucciso il mio padre Erwmysh. Viaggiavi con un guerriero altissimo: che ne è stato di lui, l’hai ucciso come hai fatto con noi?» Domandò Yumath mentre si rivestiva. «Perché mi chiedi di Hulbert se ti preme la sorte di Amber? Comunque sta bene, ma non credo che la rivedrai» Gwyllywm sentì il ragazzo tirare un sospiro di sollievo. «In quanto a me, non sarebbe accaduto nulla se non ci aveste attaccato.» «E noi non ti avremmo fatto nulla se Erwmysh non ce l’avesse ordinato» sbottò il ragazzo. «Ed egli non ci avrebbe ordinato nulla se tu non avessi ficcato il naso
nei suoi studi.» «Ti va di fare un giro?» L’elfo aprì la tenda. «Dove?» Il ragazzo si massaggiò il gomito. «Nell’accampamento: ti mostro dove viviamo.» «Che ti salta in mente?» Gwenaelle riprese Gwyllywm. «Non hai l’autorità per una tale concessione.» Gwyllywm tolse le catene al ragazzo, lo fece uscire per primo e Yumath sentì sulla pelle il sole pallido e il vento freddo dell’inverno. L’elfo cinse alla vita Gwenaelle, che arrossì e lo scansò. «Mia cara, tu sei troppo tesa e non riesci a godere dei momenti belli della vita. Guarda lui: poteva spezzare le catene ma non l’ha fatto. Forse rimanere imprigionato era meglio della solitudine.» Gwenaelle sbiancò. «Tu straparli, abbiamo incantato quei ferri in modo che fosse impossibile spezzarli.» «Non ti parlo di possibilità, ti parlo di opportunità. Yumath non ha mai provato a forzare le catene. Per sapere se bastavano a trattenerlo poteva provare, ma non l’ha fatto.» «E per quale ragione secondo te? Per are più tempo con i suoi carcerieri?» Chiosò Gwenaelle. «Oppure ci sta studiando?» «Sei più acuta di quel che pensi: fa ciò che facciamo noi con lui.» Gwenaelle si fermò. «Ci sta studiando e gli permetti di farlo?» «Ho bisogno che abbia fiducia in noi.» «Ho capito, sei impazzito. E a questo punto devo esserla anch’io, dato che ti presto ascolto.» Gwyllywm si lasciò sfuggire una risata. «I berserker a Bosco Nebbioso non obbedivano per paura di una punizione: obbedivano perché credevano in ciò che
aveva mostrato loro Erwmysh.» Gwenaelle ebbe un fremito e il cuore le sussultò. «Cosa intendi?» Cacciò il padre di Gwyllywm dai suoi ricordi. «I nuovi berserker non sono soltanto più forti dal punto vista genetico, lo sono anche da quello psicologico. Erwmysh non era loro padrone, era loro padre: la comunità che aveva organizzato viveva secondo regole ferree ma agli abitanti non mancava di cosa crescere i figli. È la felicità la chiave.» «Un sentimento? Millenni di ricerche eugenetiche per rinchiuderne il segreto in un sentimento? Ridicolo. Ridicolo e pericoloso.» «No mia cara, il segreto non è nell’emozione, è nei neurotrasmettitori che essa produce. Non è romanticismo, è biochimica.» Yumath si fermò al centro del cromlech e le pietre azzurre scolpite ad artiglio pulsarono. «Ti piace qui?» Gwyllywm si avvicinò all’umano. «Toccale.» Yumath appoggiò la mano a un monolite, trovandolo poroso e caldo; il circolo pulsò ancora ed egli si sentì invischiato in una tiepida sensazione di pace. «Bentornato a casa Yumath, questo è uno dei luoghi dove l’umanità mosse i suoi primi i. Possiamo farti una domanda?» Gwyllywm sedette sulla pietra orizzontale che fungeva da altare. «Ditemi» il ragazzo ò la mano sulla superficie della pietra, dove un’abile scalpellino aveva realizzato la figura di un lupo intrecciando due linee che si chiudevano su loro stesse: l’animale si illuminò mentre il monolite rimaneva inerte e, di rimando, apparvero le figure stilizzate su ognuno degli altri quindici monoliti. «Perché sei rimasto a Bosco Nebbioso e non sei fuggito?» Gwenaelle sedette accanto a Gwyllywm e guatò gli elfi che si avvicinarono per sbirciare. Yumath rimase imbambolato ad ammirare gli animali intrecciati e gli elfi attesero che rispondesse. «Non avevo altro posto dove andare» disse infine.
Gwyllywm guardò il cielo, insudiciato dalla foschia. «Non è vero. Lo hai fatto perché era un ordine di Erwmysh.» Yumath ò i polpastrelli sull’immagine di un corvo, scolpita nel monolite successivo. «È vero invece» parlò senza distogliere lo sguardo dall’incisione, che seguiva con le dita. «Difendevo la mia casa dagli intrusi.» «Un essere umano se ne sarebbe andato, avrebbe cercato altri simili cui aggregarsi. Tu non ti sei comportato ubbidendo alla tua programmazione genetica. Perché sei rimasto?» Domandò ancora. Yumath guardò in terra, poi i monoliti, poi fissò Gwyllywm e ne sostenne lo sguardo. «So che puoi leggere nella mia mente: fallo e trova la risposta.» «Lo farò io» Gwenaelle scese dall’altare ma Gwyllywm la bloccò. «No, voglio che me lo dica tu, Yumath. Non voglio leggerlo, voglio sentirlo.» «Poi controllerai» profetizzò l’umano. «No, non controllerò, e impedirò a chiunque di farlo. Perché sei rimasto? Potevi cercarmi e ritrovare Amber. E invece sei rimasto.» «Le ossa, la cenere. Era tutto ciò che avevo, non potevo allontanarmene» guardò nel vuoto. «Volevo, ma non potevo. C’erano notti nelle quali piangevo, e cercavo di andarmene: correvo nel bosco inseguito dai lupi ma dopo una corsa sfiancante dovevo tornare. C’era qualcosa che mi richiamava, che mi impediva di fuggire, una forza posta da Erwmysh, uno dei suoi incantesimi.» «Però ora sei qui» aggiunse Gwyllywm, «che fine ha fatto quella forza?» «Quando Gwenaelle mi ha catturato e mi ha trascinato via, quella magia è svanita.» Gwyllywm fece un sorriso soddisfatto. «Ti ringrazio Yumath.» * «Vorrei che ci spiegassi a cosa è servita quella pantomima» Gwenaelle incrociò le braccia e gli intellettuali raccolti nel circolo di monoliti rimasero ad attendere
la replica, seduti a gambe incrociate, lo sguardo fisso su Gwyllywm. «Hai messo Karkfwyn di guardia ma quello non aspetta altro che Yumath scappi per divertirsi un poco: gli hai anche facilitato il compito, lasciando il prigioniero senza catene. Perché questa patetica sequenza di errori?» Il sole si andava a coricare dietro le alte conifere, che tremavano al vento gelido del tramonto. «È un nuovo processo?» Rise Gwyllywm. «Fino a ora sono stata clemente con te. Lo è stato Ergwel, lo siamo stati tutti. Se hai migliaia di idee, non puoi tenerle per te: devi condividerle.» «La pantomima non serviva a comprendere il comportamento del berserker, quello potevo leggerlo dalla sua mente: mi occorreva fargli comprendere che mi fidavo di lui. Ora la cosa è reciproca, non scapperà.» «Scapperà.» «No, vuole capire per quale ragione mi fido di lui.» All’interno del circolo il freddo del vento era mitigato dal tepore generato dai monoliti; nevicava, ma i fiocchi che danzavano in ogni direzione evitavano il cromlech come fosse coperto da una cupola invisibile. «Però non sappiamo se ha mentito» Gwenaelle sospirò. «Non lo ha fatto. Tu mentiresti a qualcuno che può controllare se menti? Tu scapperesti a qualcuno che può riprenderti l’istante successivo?» La replica di Gwenaelle si fece attendere e gli intellettuali presero a borbottare a gruppetti. L’elfo che stava seduto accanto a Maolóráin gli si avvicinò. «Perché il tono mi sembra più adatto a un litigio tra innamorati, piuttosto che a una riunione di intellettuali?» Sussurrò trattenendo una risata ma il più anziano tra gli ortodossi lo fulminò con lo sguardo. «Farò finta che tu abbia ragione» Gwenaelle rispose. «Ora però c’è una cosa che devi dire agli intellettuali, ed è l’informazione principale di cui abbiamo
bisogno: puoi replicare gli esperimenti di Erwmysh?» «Sì, ma c’è un problema.» «La resistenza all’incantesimo di auto-distruzione?» Chiese l’elfa. «Proprio quello: era stato introdotto per evitare che i revisionisti utilizzassero una magia per eliminarli.» «Ma se lascerai questa prerogativa non potremo impedire che i berserker si rivoltino» aggiunse Gwenaelle. «Tutto ha un prezzo» commentò Gwyllywm. «È per tale ragione che mio padre ha cercato di amplificare il loro senso di gratitudine: voleva che obbedissero ma che non fossero più soggetti a un incantesimo che li disintegrasse. E c’è altro: la trasformazione degli umani in berserker non avviene più grazie alla riproduzione selettiva ma con un rituale magico che può essere praticato dopo la pubertà. Inoltre la berserkrang regredisce se un umano ne utilizza il potere sino ai limiti.» Gli intellettuali ripresero a rumoreggiare e Gwyllywm giunse le mani e attese che qualcuno dicesse la sua. Fu Maolóráin ad alzarsi e parlare per primo. «Mi sembra di capire che Erwmysh abbia creato un’arma che risulta meno controllabile e più complessa da usare rispetto alla versione precedente. Mi sembra folle che abbia ricercato con tanta maniacale dedizione un risultato del genere: che cosa non ci hai detto?» «Che è più versatile» specificò Gwyllywm. «E lo è in virtù di cosa?» Domandò l’elfo più anziano. «Non devi allevare generazioni di esseri umani e selezionarli per ottenere un’arma biologica efficace: basta sviluppare un incantesimo che usi gli umani già presenti.» «Fammi capire bene» la voce cupa di Gwenaelle fece rabbrividire molti intellettuali. «Si potrebbe andare in una città umana e, con un incantesimo di un’estensione sufficiente, trasformare gli abitanti in truppe pronte a combattere?»
«Dovremmo usare anche un incantesimo che li obblighi a fidarsi di noi, ma il principio è proprio questo.» Il volto di Gwenaelle si illuminò. «Qualcuno vada dire a nostro padre Ergwel che oggi muore il revisionismo.» Maolóráin si incupì. «Posso sapere che intenzioni hai, Gwenaelle?» «Dwmnal» appena l’elfa lo chiamò, il giovane scattò in piedi. «Prendi un cristallo permanete, collegalo a Yumath e trasportaci il contenuto della sua memoria: voglio avere accesso ai ricordi sulla fiducia che aveva in Erwmysh in modo da replicarne la polarizzazione neuronale con un incantesimo.» «Che intenzioni hai?» Maolóráin alzò la voce e Gwenaelle lo fissò, trasfigurata dall’entusiasmo. «Trasformiamo gli umani in ubbidienti soldatini. Te l’ho detto, l’ho detto a tutti: oggi muore il revisionismo.»
La verità è schietta, solare, incontrollabile. Ma si può sconfiggere. Se si ripete una menzogna un numero di volte sufficiente a obnubilare la verità, allora si scalzerà quest’ultima dal proprio ruolo. Che vantaggi offre la menzogna rispetto alla verità? La menzogna è subdola e fedele. La menzogna non si ribella mai, lo fa soltanto quando non viene studiata e preparata con sagacia. La menzogna è un lago artificiale chiuso da una diga, la verità è un torrente di montagna. Il saggio governatore sa quando usare la prima e quando invece la seconda. Riflessioni – Barsanofio da Colle Alto
XIV – Shamhna
Joelle si denudò davanti allo specchio e rimase ad osservare il riflesso del suo corpo diciassettenne. Aprì l’armadio e sfilò l’abito preparato per Shamhna. Prese un’interula di seta e la indossò, aderente ai seni e ai fianchi. Sono dimagrita ancora. Rimirò il proprio sedere allo specchio e vi diede due sonore pacche. Afferrò il bustino e ne strinse i legacci, incrociandoli dal ventre sino ai seni, che sembrarono ingigantirsi, sospinti ancor in alto; si ò le dita tra le cosce e congedò le sue ioni con un sospiro. Prese la cotta con le maniche a sbuffo e l’indossò prestando attenzione a non piegare le liste d’oro che l’adornavano. Appoggiò il mantello parato di perle all’angolo dell’anta e, sedendo davanti allo specchio, provò a pettinarsi con alcuni incantesimi che conosceva alla perfezione. Soddisfatta del risultato indossò la mantella, guanti di broccato come l’abito e uscì emozionata come se la festa di quella sera fosse la prima. Nel salone comune le fanciulle che sfoggiavano i propri abiti si zittirono non appena la videro: molte rimasero a bocca aperta, incantate, e Joelle le salutò con un inchino appena accennato. Bene streghe, stasera vedremo chi è la più bella del reame. *
Gabriel rientrò in camera dopo un pomeriggio di studio. Le lezioni erano state sospese ma la biblioteca era rimasta aperta per una manciata di studenti la cui dedizione allo studio sfociava nel fanatismo. Le erubescenze del crepuscolo scomparivano fagocitate da una tersa oscurità mentre un sole livido si schiantava sull’orizzonte. Il pacco con i vestiti presi al mercato giaceva sul letto e l’ora decretata per l’inizio dei festeggiamenti sarebbe scattata con la scomparsa del sole. Ho poco tempo. Joelle ci tiene alla cerimonia d’apertura e all’inizio dei balli, il ragazzo si spogliò e rivestì con gli abiti comprati al mercato, poi fu costretto a sostare davanti allo specchio per valutare il risultato degli acquisti. I capelli tagliati corti gli davano un aspetto maturo ma, nonostante l’entusiasmo di Elisabeth, non lo convincevano. La superficie argentata dello specchio vibrò come una pozza colpita da un sasso; l’immagine di Gabriel vorticò e i colori si fo in una poltiglia rotante che prima sprofondò in un risucchio putrescente e poi eruttò dallo specchio: l’escrescenza malefica cercò di afferrare il giovane ma impattò contro il limite invisibile del pentacolo e parve rinunciare a ulteriori affondi. «Vedo che non lasci nulla al caso e che ti diverti alle mie spalle, schiavo. Sbaglio o dovevi evocarmi?» Gabriel era caduto all’indietro. «Non ti richiamerò. No, non oggi. Non stasera.» L’immagine nello specchio si ricompose nel volto di Jaquish di Anquelot. «Mi domando per quanto tempo riuscirai a resistere. Hai smesso di dormire con quell’intruglio druidico e potenzi i rituali di contenimento del pentacolo ogni volta che puoi. La tua dedizione è davvero lodevole, tuttavia stai confrontandoti con un essere immortale: ti basta un solo, piccolo errore per scatenare la mia più spregevole vendetta. Evocami e dimenticherò la tua disdicevole insubordinazione. Anche io sono capace di mostrarmi generoso.» Gabriel si rialzò e si sistemò di fronte allo specchio. A fianco del volto sofferente del demone, l’immagine riflessa era fedele e il mago l’utilizzò per sistemarsi. «Non sarà oggi.» «Se non mi evocherai, farò in modo che tu possa pentirtene amaramente. Se non mi evochi adesso, la prossima volta che ci sentiremo sarai tu a pregarmi di
venire nel tuo mondo.» «Allora immagino che in virtù della tua immortalità non avrai difficoltà ad attendere quel momento, non è così?» «Prega di non addormentarti per un solo istante, schiavo.» Gabriel rafforzò gli incantesimi attorno al pentacolo fino a quando il volto furente di Jaquish non sbiadì nel metallo argentino. Quanto tempo ho perso allo specchio? La stanza si era rabbuiata e la notte aveva ghermito la sera: Gabriel scappò fuori dalla stanza, attraversò il corridoio aggrovigliato nel silenzio e si affrettò a scendere. Dovevo essere giù al tramonto, dovevo partecipare alla cerimonia dove i cavalieri si presentano alle dame: Joelle mi ucciderà. Quando arrivò nel chiostro di Malbany, la musica allegra annunciava che i festeggiamenti erano cominciati da un pezzo. Sulla panchina posta di fronte al grande cedro, Gabriel vide Joelle che attendeva, scura in volto ma splendente come una Dea della bellezza; il ragazzo rimase senza fiato: una cotta color panna le giungeva sino alle caviglie, affusolate e nobili, la snelliva e le enfatizzava il seno, e i capelli erano liberi sulla fronte, e un frenello d’argento li legava sulla nuca in una lunga coda; sul capo risaltava una lenza con un diadema d’oro bianco e perle. Joelle si morse le labbra, si alzò e andò incontro al suo cavaliere ritardatario; Gabriel si attese una sfuriata degna di un perfido negromante ma Joelle allungò la mano destra, attendendo il baciamano. Gabriel era frastornato dallo splendore della sua dama e dal timore di un rimprovero, e rimase immobile e inebetito. Joelle allungò la mano ancor di più, il ragazzo si ridestò dallo stordimento e strinse il guanto di seta, avvicinando le labbra con un inchino. «Sei in ritardo. Pensavo non arrivassi più» ringhiò lei, gli occhi come due falò. «Perdonami, ho studiato fino a tardi.» «Mi hai lasciato sola durante tutta la cerimonia: le altre mi guardavano e
ridevano» disse arida. «Ti guardavano perché sei bellissima» si scusò il mago. «E ridevano perché erano frastornate dal tuo irraggiungibile splendore.» «Con i complimenti te la cavi, ma hai preferito studiare che essere puntuale» il volto di Joelle era cupo come una nube carica di grandine. Gabriel si morse la lingua ma non si scusò oltre. «Non so come farmi perdonare, forse non c’è modo. Io però non ti ho chiesto di farmi da dama perché volevo farmi vedere dagli altri o perché mi interessa il loro giudizio: volevo soltanto stare con te. L’apparenza sembra essere tutto a Shamhna, ad Amaradantis, in tutto l’Impero e in questa triste Università. A me non me ne frega niente. Niente, hai capito? Non mi interessa quello che pensano gli altri: voglio soltanto stare con te. Posso fare qualcosa per farmi perdonare?» Joelle guardò in alto e portò la mano destra sotto il mento, chiusa. «Vediamo: io chiuderò un occhio per il tuo disastroso ritardo, farò finta di non essere rimasta in prestito mentre gli altri sghignazzavano e che abbia versato lacrime amare nell’attesa di un cavaliere inesistente e tu, invece, tu ti impegnerai a non dirmi mai di no.» «Stasera?» «Esatto, sarai un cavaliere a mia totale disposizione. Non voglio mai sentirti dire di no a una richiesta.» «Vuoi che obbedisca a ogni ordine?» «Come un burattino» precisò sfidandolo con lo sguardo. Gabriel chinò il capo. «Me la sono cercata e me lo merito. Però non farò follie, ti avviso. Perdonato?» «Perdonato» Joelle si rasserenò e si incamminò verso i balli infilando il braccio sotto quello del suo cavaliere. «Stai bene vestito così, dovresti dismettere la tunica più spesso. Vieni dai, andiamo a ballare.» arono dal refettorio, sapido dei profumi dei piatti, dove i tavoli imbanditi erano saccheggiati da ragazzi soli o golosi, ed entrarono nel Chiostro delle
Vergini, dove era stata allestita un’orchestra di servitori magici, e nessuno fece caso a loro. «Dai che questa musica è bellissima, presto» Joelle trovò uno spazio libero tra le coppie che piroettavano e Gabriel si ritrovò a ballare una ridda; i due ragazzi si presero per le mani e cominciarono a girare su loro stessi e attorno alle altre coppie mentre il ritmo incalzante sostenuto dai liuti, dalla ghironda e dal salterio li travolgeva. Le arpe e le vielle a cinque corde accompagnarono la ribeca che vibrò le ultime note acute consegnando la canzone all’accordo finale dei liuti; ci fu un breve silenzio che consentì alle coppie di rifiatare, poi gli strumenti cominciarono una musica allegra. «Non credevo che saresti stato capace di ballare tanto bene» Joelle sussurrò all’orecchio di Gabriel quando la musica si addolcì. «Sei una miniera di sorprese, ti credevo capace soltanto di studiare.» A un tratto il salterio impose un ritmo pomposo di una formalità snervante. «In realtà è la prima volta che ballo» confessò lui: «ma ho letto come fare su un libro.» «Ma dai! Allora sei davvero capace soltanto di studiare» Joelle si mise a ridere: «non si impara il ballo dalle pergamene.» «E tu dove avresti imparato allora?» La ghironda e la ribeca si zittirono e i servitori magici che le suonavano le tennero a mezz’aria in attesa di ricominciare. «C’è un corso apposta, lo tiene Rachel. Ma tu sei concentrato soltanto sulla magia...» «Vediamo se hai ragione» Gabriel prese la mano sinistra di Joelle con la destra e con l’altra la cinse in vita. «D’accordo: vediamo. Come si chiama questo ballo?» Domando lei. «Ha il nome di una regina: una certa Joelle.» «Sei un sbruffone» rise lei, lusingata: «è l’“alta regina”.»
«E io che ho detto?» Sorrise. Gabriel e Joelle si sfiorarono nell’eseguire i i cerimoniosi, ma al momento di una piroetta il ragazzo assaporò il profumo dei capelli di lei e bramò un contatto maggiore, intimo. Gabriel piroettò assieme a Joelle e non lasciò che le mani si separassero, sentì il cuore battere al ritmo della melodia e appagato e felice come quando controllava il mana. Lei lo fissava negli occhi ogni volta che la musica li avvicinava e le sue mani si muovevano con grazia ancestrale, stuzzicando il palmo della mano di Gabriel, o accarezzandogli la schiena e il collo, strappandogli brividi. Al termine dell’ultima piroetta la melodia si interruppe di colpo e Gabriel si ritrovò con la caviglia della sua dama che strusciava la sua, le mani nelle mani. Joelle appoggiò la guancia alla spalla di lui. «Stai rendendo questa serata splendida» gli sussurrò all’orecchio e si allontanò, strusciando il naso sul suo collo, lasciando una traccia intensa di profumo. Ci fu una breve pausa, poi il servitore magico addetto alla ribeca fece danzare l’archetto sulle corde e i liuti lo inseguirono con una melodia lenta che attendeva il sussulti del salterio. «Questa c’era sul libro che hai studiato?» Joelle prese Gabriel per mano e seguì il serpentone di coppie che si trascinava e batteva il piede quando si imponeva il salterio. «La stampita: un classico» Gabriel seguì il ritmo senza perdere una battuta, ammirando il volto di Joelle illuminato dalle perle del diadema sulla fronte. La ghironda si inserì nella melodia, stravolgendola, e i liuti si adattarono al nuovo ballo mentre le due arpe si aggiungevano una dopo l’altra. Joelle lasciò le mani di Gabriel e, assieme alle altre fanciulle, si dispose in un cerchio di dame al centro del chiostro e Gabriel le rimase prospiciente, in un cerchio esterno formato dai cavalieri, che fecero un inchino, imitati dalle dame; le coppie ripresero a danzare ma evitando i contatti e mantenendo la figura dei due cerchi e le rispettive posizioni. Joelle e Gabriel seguirono il salterello che seguì, poi una nuova stampita e ancora un’alta regina: i corpi si cercavano con ostinazione e vigore, gli sguardi si intrecciavano con prolungati sospiri in un silenzio più loquace di qualsiasi
rivelazione. Dopo mezz’ora di evoluzioni, sedettero sfiniti su uno dei sofà del refettorio e Joelle, sorridente, fissò Gabriel mentre rifiatava. «Non mi sono mai divertita tanto: quella storia di imparare a ballare dai libri sembra aver funzionato.» Gabriel sorrise. «Non dovevo?» Le danze ripartirono e le coppie si lanciarono nelle evoluzioni più ardite concesse dalla ridda e le gonne e le pettinature delle fanciulle ripresero a piroettare in un caleidoscopio di tinte e tessuti. «Dovremo continuare anche noi?» Domandò Gabriel, provato. Joelle l’abbracciò, poggiò la guancia sul suo petto e ascoltò il cuore del ragazzo, che picchiava come un gladiatore. «Non è necessario, anzi, ho in mente qualcosa di più appagante.» «Volentieri, che cosa?» «Vieni come me» Joelle si alzò e prese Gabriel per mano. «Dove?» «Andiamo in camera mia» sussurrò. «E a fare che? Non posso entrare nel dormitorio femminile, è vietato» Gabriel fece un’ingenua resistenza. «Hai promesso, ricordi? Avresti fatto qualsiasi cosa ti avessi chiesto» Joelle fece un sorriso scaltro. «Sì, ma questo va contro le regole.» Lo sguardo di Joelle si fece languido. «Ti assicuro che non ci vedrà nessuno. E che non te ne pentirai.» «Ma… se ci vedono» Joelle poggiò l’indice sulle labbra di Gabriel. «Sono tutti impegnati nelle danze, o a corteggiarsi. Dai, vieni con me, l’hai promesso. Io e te, da soli. Possiamo fare qualsiasi cosa ci i per la testa.
Qualsiasi.» Il ragazzo annuì, ma non furono le parole a convincerlo, quanto lo sguardo di lei. Gabriel e Joelle attraversarono corridoi deserti e bui, scappando da musiche e bagordi, inseguiti dall’eco dei i; arrivati al quinto piano del dormitorio femminile scivolarono nella penombra della sala comune, si infilarono nella stanza e serrarono la porta. Dopo secondi di immoto silenzio, un ragazzo con un giustacuore cremisi, sbottonato, si alzò da un divano della stanzone. «Ma non erano Joelle e Gabriel?» «Che te ne frega, Thomas? Torna a finire quello che stavi facendo: mi piaceva come muovevi la lingua.» Il ragazzo sistemò i capelli guardò la sua dama. «Non si possono portare ragazzi nel dormitorio femminile.» «E tu allora?» Batilde sbuffò. «Lasciali perdere e andiamo in camera anche noi, non capisco questa tua mania di farlo nei posti più rischiosi.» «Amore, è proprio il sapore della trasgressione che rende la vita degna di essere vissuta.» «E allora lascia trasgredire anche quella puttanella. Che te ne frega di quelli con cui se la sa?» «Ma non la odiavi anche tu?» Thomas si riabbottonò il giustacuore. «Sì, ma preferisco il piacere mio al dispiacere suo» la ragazza sganciò di nuovo i bottoni del farsetto del suo cavaliere. «Si può sapere che cosa ti ha fatto?» «Dobbiamo trovare un professore e avvisarlo di quello che abbiamo visto.» «Thomas dei Mazzenstein-La Tour, sei un guastafeste.» «Scendiamo e diciamo al primo professore che incontriamo che li abbiamo visti entrare nell’edificio mentre facevamo una pausa dai balli.»
«Sei cattivissimo» Batilde continuò nel suo gioco e ò le dita sul petto muscoloso di Thomas: «così li puniranno.» «Te ne importa qualcosa?» Batilde allungò la mano sul sedere di lui, lo accarezzò, salì sulla schiena e afferrò i capelli. «No, e sono d’accordo con te, ma lo faremo dopo. Dopo. Adesso ci siamo soltanto noi due. Credi che quella cretina valga più di noi due?» Thomas rispose strappandole un lungo bacio ma interruppe sul nascere la danza delle lingue. «Dopo potrebbe essere troppo tardi.» «Thomas dei Mazzenstein-La Tour, ascoltami bene: se non mi mostri lo stallone che ti vanti di essere non ti degnerò mai più di uno sguardo, figuriamoci trastullarti il membro come mi hai chiesto.» Thomas sospirò e tornò a dedicare le attenzioni alla sua dama. «Ora vedrai com’è che si soddisfa una donna.» * La pietra inibitrice si accese il necessario a mantenere una languida penombra e Gabriel riconobbe una stanza identica alla sua: un letto, un armadio, una sedia, una scrivania più pulita ma una libreria più povera. «Che cosa c’è che non potevamo fare giù?» Gabriel smise la giornea piegandola sulla sedia e Joelle fece altrettanto con il mantello, poi appoggiò la mano destra alla guancia di lui, lo fissò sorridendo e quindi lo baciò con una veemenza che fece brandelli della sua infantile timidezza. Il ragazzo ricambiò il bacio, assecondò le evoluzioni della lingua di lei e scoprì di possedere istinti e sicurezze nuove; la mano sinistra di Joelle si fermò sul petto di lui mentre il bacio ardeva e le lingue danzavano, poi entrambe le mani di lei scesero a stringergli la schiena mentre le labbra si ostinavano a congiungersi senza trovare pace. Gabriel accarezzò Joelle sul seno, goffamente, poi scese con le mani sul ventre piatto, sui fianchi, poi le strinse il sedere con decisione. Joelle fece altrettanto e scoprì un’inaspettata mascolinità nel corpo dell’amante;
risalì a carezzare la schiena, gli ò le mani tra i capelli e spense il bacio, tambureggiando con la lingua sulle sue labbra; Gabriel stava per dire qualcosa ma Joelle gli mordicchiò il lobo dell’orecchio destro e vi insinuò la lingua, zittendolo con brividi intensi e ravvicinati. Gabriel scese a baciarla sulle spalle, assaporando la pelle, i fremiti, il sudore, poi la carezza di baci risalì sulla guancia e giunse alla bocca, delicata come uno struscio di petali. Dopo un bacio che imprigionò le lingue dei ragazzi e le loro mani avide, Joelle spinse Gabriel sul letto, sbottonò e sfilò il farsetto; gli infilò le mani sotto la camicia, l’arruffò sul collo e gli baciò il petto, scuotendolo con brividi lunghi e improvvisi. Gabriel non riusciva a capire cosa dovesse fare. Joelle gli accarezzò il petto, fece danzare le dita sottili sulla pelle tesa ed eccitata, le fece scivolare attorno all’ombelico, le insinuò sotto le brache e brandì ciò che cercava. Il respiro di Gabriel fu strozzato da un gemito e il calore dei polpastrelli che lo eccitavano ovattò ogni altra percezione. Joelle baciò Gabriel con foga, poi sorrise, scese dal letto, gli sfilò le calzabrache, gli si inginocchiò tra le gambe e aggiunse baci alle carezze. Gabriel cadde all’indietro, sul letto, e cominciò a sospirare, e tremare; a un tratto guardò Joelle e scoprì che lei lo fissava e che continuò sino a quando fu sul punto di farlo scoppiare. La ragazza diede tregua all’amante, risalì a baciarlo sulle labbra, a condividere con lui una saliva più densa e sapida; strofinò il naso con quello di lui, si scostò, sfilò la cotta di broccato, slacciò il busto e sfilò l’interula, la tunica che indossava sopra la pelle. Liberati i seni piccoli e sodi, Joelle li avvicinò al volto di Gabriel che, dopo una goffa esitazione, ò a stringerli, a baciarli e infine a suggerne i capezzoli inturgiditi. Joelle infilò le mani tra i capelli di lui, guidandolo su un seno e quindi sull’altro e poi, quando comprese che esitava, sedette accanto a lui, gli prese una mano e la guidò tra le cosce, umide.
«Usa la lingua, Gabriel» ansimò. Il mago si inginocchiò su di lei, stordito, ma le obbedì, ne assaporò l’umore e le strappò gemiti e sussulti. «Le dita, Gabriel» supplicò Joelle con voce strozzata, «infila anche quelle.» Gabriel le obbedì, e obbedì anche quando Joelle si stancò di quel gioco e lo invitò a giacere sopra di lei; le obbedì quando gli impose di entrare, e quando sussurrò di muoversi adagio, e quando lo abbracciò con le gambe e lo implorò di spingere, di spingere più forte, di spingere ancora più forte, di continuare a spingere; inebetito dai sospiri sofferenti e sincroni, dal magnetismo dei corpi sudati, dal sibilo umido dello sfregamento, Gabriel obbedì anche quando Joelle gli graffiò la schiena con le unghie e gli urlò di sfondarla, e obbedì ancora ad ogni ordine che gli venne impartito, senza capire, senza porsi domande quando venne chiamato Thomas e quando Joelle si dimenò, mandò un grido prolungato, appagato, e le cosce si fecero ancora più umide; Gabriel obbedì e basta sino a quando sentì le forze fluire, comprimersi, esplodere e zampillare dentro il corpo rovente di lei. Prosciugato, il ragazzo mandò un sospiro e si coricò, ma Joelle non gli diede requie, tornò prima a trastullarlo, con le dita e con la lingua, poi inghiottì il suo sesso e lo preparò a una seconda, appagante, insaziabile, estenuante, interminabile fatica. Gabriel si ridistese, stremato, e il volto appagato di Joelle gli si appoggiò al petto; dimentico di dove si trovasse, delle precauzioni prese per arrivarvi, degli incantesimi lanciati sul lurido pentacolo che gli insudiciava la stanza, delle pozioni per rimanere vigile e della creatura immonda che abbisognava del sonno per impossessarsi del suo corpo, il giovane si addormentò. Nel buio, abbracciato a Joelle, gli occhi di Gabriel si aprirono un attimo dopo esserci chiusi e le labbra si dilatarono in un ghigno ricolmo di pura malvagità. * «Chiedo scusa» Thomas attirò l’attenzione dei professori che stavano accanto agli strumenti che suonavano da soli; Batilde rimase dietro di lui, serena. «Cosa c’è Thomas?» Rachel fece uno di quei sorrisi che bastavano a sedurre un
uomo. L’alunno si guardò intorno, fingendo incertezza. «Siete entrambi i professori più discreti e quelli che si preoccupano più per il nostro apprendimento e siamo felici di avervi trovato assieme.» Simon di Gomblear si agitò. «Cosa c’è?» «Ecco, ci era stato detto di segnalare qualsiasi comportamento sospetto o le infrazioni delle regole da parte dei nostri colleghi» Thomas si curvò verso i professori e abbassò la voce, nonostante gli acuti delle ribeche magiche «io però non vorrei essere preso come quello che fa la spia.» «Cosa è successo, dove e quando?» Rachel aggrottò le sopracciglia. «Qualche minuto fa, io e Batilde abbiamo fatto una pausa dal ballo e ci siamo ritirati nel chiostro di Malbany alla ricerca di un po’ di tranquillità e abbiamo visto Gabriel figlio di Lester e Joelle Greyfire che si appartavano. So che non mi fa onore, tuttavia a causa del richiamo che mi aveva fatto il professor Simon per colpa di Gabriel ho convinto Batilde a far loro uno scherzo per vendicarmi. Volevamo spaventarli, soltanto questo, niente di più, lo giuro; così li abbiamo seguiti senza farci notare e li abbiamo visti infilarsi nel dormitorio femminile.» «Entrambi?» Gli occhi di Simon luccicarono. «Sì, entrambi» confermò Batilde. «E voi siete rimasti ad aspettare che Gabriel uscisse?» Rachel li riprese. «No, siamo corsi qui subito, non abbiamo aspettato» Batilde si affrettò a rispondere. «È successo un attimo fa.» Rachel negò con il capo. «Voi restate qui. Anche tu Simon. Vado a parlare con Isabella e ci pensiamo noi. Magari Gabriel è uscito subito dopo.» «Forse dovremmo dirlo anche al rettore» Thomas si prodigò con malvagio zelo non appena Rachel si allontanò. Simon rimase ad ammirare le movenze e le natiche di Rachel. «No, lasciate stare. Controlleranno Rachel e Isabella, poi vedremo. Grazie dell’aiuto ragazzi,
tornate a divertirvi.» Thomas e Batilde annuirono e si licenziarono. Rachel ò al refettorio dove Isabella coordinava il personale di servizio e i cuochi che avevano preparato il rinfresco. L’insegnante di incantesimi curativi sembrava una fata sovrappeso e l’abito chiaro, la folta chioma di capelli biondi raccolti a vespaio e il viso rotondo la rendevano più gonfia di quanto non fosse in realtà. «Vieni con me Isabella» la sensuale Rachel la trascinò via, a fatica. «Che c’è, che accade» la voce di Isabella, la voce di mamma meravigliata sempre pronta a placare i capricci, fecero venire i brividi alla docente di magie dell’acqua. «Gabriel figlio di Lester potrebbe essere penetrato nel dormitorio femminile con Joelle Greyfire.» «Se ha penetrato soltanto quello allora che male c’è?» Isabella stupì la collega con un sorriso malizioso. Rachel si mise a ridere e smise di tirarla che erano giunte al chiostro di Malbany. «Dai, non fare la scema. Dobbiamo controllare.» «Come vuoi, cara» Isabella si infilò per prima nel corridoio che andava al dormitorio femminile. Giunte al quinto piano, Rachel e Isabella irruppero nella stanza di Joelle, scardinando la serratura con una magia, e la luce della pietra irrorò la stanza come un’alba. Isabella si fermò sulla soglia, dove rimase a fissare il letto; Rachel fece un o avanti e sbatté la porta contro il muro. Joelle si svegliò, mandò un urlo e si coprì il seno con il corpetto, che giaceva accanto a lei. Isabella si avvicinò al letto e si chinò sulla fanciulla. «Chi c’era con te Joelle?» La voce materna dell’insegnante non strappò alcuna confessione. «C’era Gabriel?» L’incalzò dopo il silenzio. «No, non c’era nessuno, ero da sola» nonostante lo stordimento per la paura e la sorpresa, Joelle ebbe l’istinto di negare.
«Vi hanno visto assieme» commentò Isabella. «No, no, Gabriel non è mai salito con me.» Joelle balbettava e Isabella preferì non usare alcun incantesimo per percepire se mentisse o meno. «Perdona la nostra intrusione Joelle, ma siete stati visti salire nel dormitorio, assieme.» «Non è vero» Joelle proseguì con le bugie. «Se Gabriel mi avesse accompagnato ora sarebbe qui con me… ma lui no, io sono salita da sola.» «Sai che possiamo usare un incantesimo per capire se dici la verità o meno?» Rachel sedette sul letto ma il viso non era duro come le parole. «Gabriel non è salito con me» Joelle cominciò a singhiozzare. «Possibile che ce l’abbiate tutti con me? Mia cugina Viviane ha già pagato per il suo crimine» fece un urlo isterico mentre piangeva. «Cosa c’entro io? Che cosa c’entro?» Le professoresse si scambiarono un cenno di intesa con la testa, Rachel abbracciò Joelle e Isabella fece un’ultima domanda. «Cosa è successo prima che se ne andasse?» Joelle rimase in silenzio, soffocò il pianto e abbandonò lo sguardo sulle scarpette bianche, posate accanto al letto. «Ero stanca, Gabriel mi ha soltanto augurato buona notte.» «Bene, ti crediamo» Rachel si rialzò e fece cenno a Isabella di seguirla. «Ritorna a dormire, Joelle. Buona notte e perdona l’intrusione.» Isabella chiuse la porta e prese Rachel sottobraccio. «Andiamo a sentire Gabriel adesso.» Come ha fatto a uscire? Perché mi ha abbandonata senza una parola? Perché? Nel buio della sua camera, Joelle ricominciò a piangere. * Rachel bussò con veemenza ma non ottenne risposta. Bussò una seconda volta e,
dopo una vana attesa entrò usando l’incantesimo che aveva aperto la porta della camera di Joelle. Gabriel era seduto alla scrivania, vestito con un saio scuro. «Perdonate, non vi ho sentito» aveva una voce piatta, distante. «Entrate pure» rimase chino sul libro. «Buona sera» Rachel fece alcuni i nella stanza. «Qualcuno dice di averti visto con Joelle.» «Quel qualcuno dice il vero, ma ora sono qui e non con lei.» «Ti hanno visto nel dormitorio femminile» Rachel fece un o verso di lui. «Se così fosse sarei lì e non qua, non vi pare?» La voce di Gabriel vibrava di un carisma antico che intimorì le insegnanti. «Dicono che tu sia salito con lei, in camera.» Gabriel si rinchiuse in un silenzio vibrante. Socchiuse gli occhi e afferrò un tremore nel mana. «L’ho lasciata sulla soglia del dormitorio.» «Davvero?» Rachel si avviò verso la scrivania ma, all’altezza dello specchio si fermò, spaventata da un freddo innaturale. «E come ti sei congedato?» Gabriel affogò in un nuovo, snervante silenzio. «Le ho augurato buonanotte, sono una persona educata. Le è successo qualcosa?» Isabella fece un cenno di intesa con Rachel, che ritornò in corridoio. «No, non le è successo nulla. Scusaci per l’intrusione. Hai intenzione di uscire dalla tua stanza?» «Può darsi. Perché?» «Quando i festeggiamenti termineranno dovremo controllare che siate tutti in camera.» «Allora non mi muoverò, vi ringrazio.» Rachel e Isabella uscirono e chio la porta.
«E adesso?» Sbottò Rachel. «Non possiamo certo incolparli per qualcosa che forse non hanno fatto.» «Mirgram potrebbe decidere di interrogarli con incantesimi di conoscenza» sospirò Isabella. «Tu come la vedi?» «Thomas e Batilde hanno detto che appena li hanno visti entrare sono corsi da noi.» «Ebbene?» «Ebbene, a mio avviso un istante dopo che Thomas e Batilde sono scappati, Gabriel è uscito ed è tornarono in camera sua.» «In pratica hanno tutti ragione ma nessuno ha violato le regole» Isabella camminò con le mani giunte dietro la schiena. «Deve per forza esserci qualcuno che non le ha rispettate?» Rachel fece un sorriso di circostanza. «Dobbiamo necessariamente trovare un colpevole anche quando siamo vittime della malizia?» «Speriamo che sia ciò che Mirgram vuole sentirsi dire» concluse Isabella con un sospiro. «Sono davvero dispiaciuta per Joelle» mormorò Rachel. «Per l’irruzione che abbiamo fatto?» Si preoccupò Isabella. «No» Rachel fece un sorriso sfuggente, «perché Gabriel è penetrato soltanto nel dormitorio.» * Le tenebre invischiavano l’Università e un vento freddo e mortifero raschiava le tegole, le finestre, le colonne dei chiostri. Il corpo di Gabriel scivolava nei corridoi soffocando la luce bluastra delle pietre inibitrici, diretto verso il dormitorio femminile; oltreò i controlli di Arwin, le trappole magiche di Alioth, le ronde del personale dell’Università e, arrivato alla porta sbarrata dell’edificio, la oltreò come fosse stato soltanto un’ombra.
Salì le scale senza far rumore, generando tenebra e freddo, arrivò al quinto piano e puntò alla stanza di Joelle, entrandovi senza difficoltà. Dalle tende mezze aperte filtrava il riverbero lunare sulle nubi che appestavano il cielo e la luce pallida dei falò della campagna; la notte di Amaradantis sussurrava di festini e bagordi che sarebbero continuati sino all’indomani, sino all’eccesso, sino allo sfinimento. Il respiro di Joelle era placido ma i segni sulle sue guance raccontavano di un pianto lungo e amaro; il profumo della fanciulla saturava la stanza, nascondendo l’odore dell’aria viziata. La mano sinistra di Gabriel si avvicinò al corpo di Joelle e la destra liberò dalla tasca la lama decorata del secespita. «Ecco l’ultimo o, quello che darà la stura alla follia degli umani. L’ultima tessera del mosaico, l’ultimo, inevitabile, sublime inganno.»
Come potevo intuire l’imponenza del male che ci aveva colpiti? Avevo mille sospetti, uno per ogni nemico della nostra Università, uno per ogni alunno, uno per ogni collega. E penso che fosse così per tutti. Farete fatica a crederlo ma noi professori eravamo prigionieri delle aule e della vanagloria. Ma vorrei che una cosa fosse chiara, ovvero che noi non eravamo complici, come piace supporre agli inquisitori: noi eravamo parte lesa. Mirgram usò le parole più accorte che ricordo: l’Università e l’intero corpo docente è come una fiera cui minacciano i cuccioli. In virtù di cosa vi ostinate a puntare il dito contro di noi? Estratto – Interrogatorio di Alioth, docente del corso di incantesimi illusori
XV – Il sogno rivelatore
Vedo la creatura, è davanti a me. Non è un mostro, non lo sembra affatto. Sembra uno di noi, sembra una di noi. Non capisco se è maschio o femmina, ma capisco che è giovane, e che non è la creatura, sebbene agisca in sua vece. Capisco che è un’ombra fatta di odio. E l’odio non ha un sesso. Io vedo il tramite del mostro che attacca la nostra fede, e lo vedo vagare per corridoi lugubri, silenziosi, opprimenti. Giunge a una stanza, vi entra senza aprire la porta, giunge a un letto e ghermisce la vittima. Il tramite la coglie nel sonno e la trascina giù per le scale mentre grida impazzita e non un solo gemito si ode. La vittima conosce il tramite, lo conosce bene ma ogni volta che ne grida il nome, il silenzio la travolge. Il tramite trascina la preda attraverso il chiostro di Malbany, mentre i capitelli vomitano le grottesche che prendono a volteggiare, a ghignare.
Il tramite giunge alla porta della biblioteca, la spalanca mentre i mostri alati rigurgitati dalle colonne si insinuano sotto la pelle d’ebano della femmina, gonfiandola, strappandola, facendola a brandelli e rivelando una seconda pelle, d’avorio, lucida, profumata, seducente. La biblioteca è strana, ha un soffitto di pietra e non di vetro, ed è soffocata da cumuli di libri aperti, rovistati, strappati. Il tramite getta la vittima su una branda di volumi scritti in lingue che non hanno nulla di umano, un giaciglio che contiene tutto lo scibile. Sul letto che trasforma le bestie in esseri senzienti, il tramite sfoggia il perverso artiglio d’argento della creatura, l’arma ricamata d’odio, l’avvicina all’ombelico di lei e fa brandelli del suo sesso, del suo ventre, dell’intestino. Con maniacale e spregevole malvagità si accanisce sul corpo che ancora sussulta di fragile vita, lo penetra con il metallo sacro e lo lacera con arcobaleni di sangue che sparpagliano ovunque linfa, pelle, muscoli e budella. Ora che carne e sangue inghirlandano la biblioteca, il tramite riprende fiato e compie la più degenere perversione di cui è capace: mi sfida. Lady Aylyonóra gridò parole prive di senso, madida di sudore, sconvolta dal tremore e dal pianto. Afferrò il campanaccio che stava sul tappeto, accanto al letto, e prese a scuoterlo con tutta la forza che aveva. Senza attendere aiuto, si alzò e indossò la prima tonaca che trovò; poi, non appena chiuse la cintola, una giovane chierica entrò, trafelata. «Chiamami l’inquisitore Niperth» disse la sacerdotessa; la chierica non fece domande e si congedò con un inchino. Il fuoco nel braciere della camera ardeva stanco e le ombre erano sussurri strappati alle tenebre: l’inquisitrice vi gettò dell’incenso, il cui sapore forte la prese alla gola, strappandole colpi di tosse. «Tardi, è troppo tardi» si asciugò le lacrime mentre cercava di afferrare i contorni dell’incubo. «Troveranno soltanto carne macellata.» La porta cigolò. «Mi ha fatto convocare, mia signora?» Il giovane Niperth entrò e si inchinò. «È accaduto ciò che temevo.»
«All’Università?» Il volto di Niperth si incarognì. «L’ho sognato, distintamente, pulsa nella mia testa come se stesse accadendo ora. Non è stato soltanto un incubo, è accaduto davvero, ne sono certa. Con i chierici impegnati a curare gli eccessi dei bagordi di questa festa pagana, non mi stupisce che quella cosa abbia colpito» lady Aylyonóra sedette sul letto e guardò in terra, con occhi umidi. «E noi non possiamo fare nulla.» «Sono pronto a intervenire, mia signora: ho tenuto al Tempio forze sufficienti a fronteggiare questa evenienza.» «Una premura degna di lode, mio giovane Niperth»» l’inquisitrice ritrovò una fugace serenità, «eppure il tuo zelo è inutile.» «Mia signora, posso radunare gli inquisitori e partire subito» Niperth si rialzò. «L’Università è zona franca: non ci verrà concesso di entrare.» «E dunque entreremo senza chiedere permesso e troveremo la mostruosità che si annida nei chiostri maledetti.» «Mirgram terrà fede alle minacce: à gli incantesimi, chiamerà le guardie e si rivolgerà all’Imperatore.» «Mia signora, l’intrusione sarà legittimata dal risultato che otterremo» Niperth strinse i pugni. «E ha poca importanza quali incantesimi sfoggeranno quella cariatide del rettore e quegli arroganti dei suoi professori: sono un chierico cresciuto nella grazia di Rhiannon, non temo nulla.» «La tua voce reca la fierezza e la vanagloria di un guerriero, non il pio fatalismo di un uomo di fede. Non occorre compiere una vendetta ma imporre la giustizia di Rhiannon: non è l’odio che ti deve guidare, ma il fervore religioso» l’inquisitrice fece una smorfia. «No, non è saggio che tu vada, perdonami se ti ho dato preoccupazioni e torna a riposare. Per svolgere questo ingrato compito la tua fede deve essere cristallina.» «Mia signora, vi prego» la voce di Niperth tremò, «non è odio il mio e nemmeno spirito di rivalsa. Il mio è il più puro e sincero fervore.» Lady Aylyonóra impose la mano sulla fronte del chierico. «Non posso
permettere che siano commesse violenze nel nome di Rhiannon: occorre purificare, non uccidere. La perfezione della fede deve fare capolino nei tuoi pensieri, che devono essere come acqua di fonte. Non posso rischiare che le tue azioni siano guidate da tornaconto personale, odio, o vendetta.» «Mia signora, agisco soltanto nel nome della Dea» la supplicò ancora, abbassando la testa sino a toccare il pavimento, deciso a umiliarsi pur di agire e mettersi in mostra. Per tre interminabili anni dopo aver compiuto il ventunesimo, Niperth era stato chino sui libri di teologia per affrontare la carriera di Inquisitore. Aveva studiato con cieca disperazione, aveva macerato rabbia e rivalsa verso coloro che l’avevano scartato all’Accademia Militare, e i suoi sforzi erano stati ripagati dalla Grande Inquisitrice Aylyonóra che l’aveva notato e scelto come suo pupillo. Non posso farmi scartare come un novellino, non dopo tutti i miei sforzi. La sacerdotessa sospirò con fatalità. «Mio giovane Niperth, non sono le parole cui devo credere, ma a fatti che testimonino il tuo fervore.» «E dunque mi sottoporrò a qualsiasi prova, vi prego: datemi l’occasione di agire nel nome di Rhiannon.» Il volto di lady Aylyonóra si intristì. «Che così sia, dunque, saggiamo il tuo fervore» la sacerdotessa slacciò la cintola della tonaca, che le scivolò di dosso, mostrando il suo corpo nudo, secco e divorato dai lustri: «ricordi come eseguire un accoppiamento rituale?» * Niperth uscì dalla stanza di lady Aylyonóra e si diresse verso la propria. Nel corridoio, la luce delle torce si rifletteva sulle pareti di marmo bianco, creando uno spettrale lucore. L’inquisitore incontrò una sacerdotessa dalla faccia assonnata e le ordinò di radunare i sedici chierici che aveva scelto, poi si chiuse in camera, una cella appena sufficiente al giaciglio, a una cassapanca con le armi, all’armadio con gli affetti personali e a un treppiede che reggeva uno specchio, un acquamanile colmo e una scodella di porcellana. Niperth si chinò sul treppiede, appoggiò il mento al bordo della scodella, si infilò due dita in gola, sussultò sconvolto da spasmi disgustosi e infine vomitò umori appiccicosi e succhi gastrici.
Vecchia puttana. Calò le brache e, senza lesinare acqua, si pulì pene e testicoli. Non c’è prezzo troppo alto per il potere. Non c’è compromesso inaccettabile. Sfilò la tunica, aprì l’armadio e indossò il giustacuore, poi la cotta di maglia e ne allacciò i coietti; si mise l’infula in testa, poi il camaglio e infine la surcotta nera; prese da una ciotola di legno il guado e si pitturò i capelli. Andiamo a mostrare a tutti quegli stolti che mi hanno osteggiato che faccia avrà il nuovo Grande Inquisitore: andiamo a seminare paura e facciamo tremare tutti quelli che mi hanno ignorato e trattato con disprezzo. Scese verso la piazza che dava accesso al Tempio e si fermò ad ammirare i chierici, sedici tra uomini e donne, con le cotte di maglia che tintinnavano nel freddo della notte. Sedici compagni pronti a qualsiasi cosa. «Andiamo a prendere il mostro che dimora nell’Università. Andiamo a scrivere un pezzo di storia del Tempio, nel nome di Rhiannon.» I chierici chiassarono, entusiasti di are all’azione e raggiunsero le stalle, presero i cavalli e sciamarono per i vicoli meno frequentati dagli abitanti che continuavano a festeggiare. * Chi osa disturbare il mio sonno? Mirgram venne svegliato dal grido delle pietre inibitrici che segnalavano l’intrusione nel cortile quadrato d’ingresso. Si alzò di malavoglia, accese le luci con un gesto della mano e con un altro gesto proiettò sugli specchi che decoravano le ante dell’armadio le immagini delle pietre che si erano attivate per prime. «Il Tempio osa penetrare nella mia Università?» Guardò i chierici in armatura che, dopo aver divelto il portone, sostavano nel mezzo del cortile cercando una direzione. «Maledetti, non avete idea della follia che avete commesso» con un gesto secco serrò tutte le porte del piano terra, facendo scattare le chiavi. Deviò l’allarme sulle pietre, nelle stanze dei professori e si vestì. Nelle pause del
ritmico ululare delle pietre, Mirgram sentì bussare e aprì la porta, stizzito. «Che cosa succede Mirgram?» Alioth indossava l’usuale tunica sbiadata, aveva il volto appena rasato e sembrava non essersi neppure coricato. «Dobbiamo radunare i ragazzi prima che quei pazzi arrivino al chiostro di Malbany.» Alioth fece una smorfia e Mirgram attivò le pietre inibitrici in modo che svegliassero anche gli alunni e le gocce azzurre presero a lampeggiare come rubini al sole. «Gli alunni sono invitati a uscire dalle stanze e a portarsi nel refettorio, il più in fretta possibile. Non è un’esercitazione, non è uno scherzo. Non prendete nulla con voi, uscite subito» la voce pacata di Mirgram rassicurò gli studenti dell’Università, che obbedirono. «E adesso che si fa?» Dietro ad Alioth comparvero Arwin, Simon e Isabella. «Fermateli, con qualunque mezzo» ordinò Mirgram. «Fermarli dici?» Sbraitò Arwin, che si fece spazio e ò avanti ad Alioth. «Ci chiedi di bonificare una palude con una sassola.» «Spengo le pietre» Mirgram fece una smorfia e lo sguardo del docente si accese. «Stai scherzando, non è vero?» Arwin sogghignò. «Non sto scherzando. Se si attacca una femmina con i cuccioli nella sua tana, combatterà sino alla morte.» «Vedrai un’alba di fuoco» replicò Arwin, la voce che fremeva. «Prendi i ragazzi e accecate quegli stolti; e se sarà necessario, inceneriteli.» Arwin scrocchiò le dita. «Non vedevo l’ora.» «Mi è consentito dire la mia opinione?» Alioth aveva i brividi.
«Sì, ma non l’ascolterò» Mirgram liquidò il disertore. «Obbedite ad Arwin, conosce meglio di tutti noi come comportarsi in questi casi.» * Nel refettorio i tavoli e le sedie erano stati addossati alle pareti e le pietre inibitrici mandavano una luce fioca appena sufficiente a riconoscere le persone. «Abbiamo riunito gli studenti» Simon aggiornò Arwin e i professori si riunirono attorno a lui. «Molto bene, adesso i migliori del mio corso eranno davanti agli altri e scateneranno una pioggia di palle di fuoco sui chierici, nel frattempo Rachel farà preparare dardi di ghiaccio ai suoi studenti. Isabella si terrà pronta con gli incantesimi di guarigione e...» Arwin si interruppe, fissò i colleghi e divenne pallido. «Dov’è Rachel?» Tutti guardarono Isabella. «Perché fissate me?» Chiese l’insegnante. «Non avete radunato assieme le ragazze?» La voce di Arwin tremò. «No, l’ho fatto da sola.» Arwin si fece largo tra i professori e raggiunse gli alunni, che parlavano tra di loro, intimoriti. «Qualcuno ha visto la professoressa Rachel?» Gli studenti si zittirono non appena Arwin urlò la domanda una seconda volta, guardandoli spaesato. «Arrivano!» Simon richiamò l’attenzione di tutti sulla porta, serrata. Nel refettorio scese un silenzio freddo e limaccioso; dall’esterno giunse il fragore dei chierici e lo sferragliare delle armi e delle armature. Mirgram fece schierare gli alunni che eccellevano nei corsi di Arwin davanti a tutti e prese il controllo di quelli che erano rimasti orfani di Rachel; Isabella mise dietro a tutti quelli che brillavano nelle arti curative e Simon affiancò Alioth e gli altri professori che avrebbero usato incantesimi da battaglia. «Arwin, devi darci il via» Mirgram chiamò a sé il docente, che lo raggiunse con gli occhi fuori dalle orbite.
«Dov’è Rachel?» Arwin ingoiò la voce. Scese un silenzio spettrale, talmente forte da ingigantire il ticchettio del metallo e il rumore sordo dei i; professori e alunni rimasero tesi come il sartiame di una caracca che è appena uscita dalla bonaccia. Quando il trepestio dei chierici si allontanò, il refettorio affogò nell’attesa inerte che accadesse qualcosa. Gli alunni immaginarono la porta che esplodeva in mille pezzi, mille schegge impazzite che li colpivano; immaginarono gli inquisitori che irrompevano avvolti da auree ostili e accecanti, e che cantavano prosopopee inascoltabili e malevoli. La quiete arcigna ristagnò come una malattia, pulsante, lurida e maledetta; fu la voce di Mirgram a spezzarla. «Non vengono a cercare noi.» «E allora cosa cercano? Cosa cercano se siamo tutti qui?» Domandò Gamelien. Arwin uscì dalla linea dei suoi alunni e scattò verso la porta. «Arwin, dove corri?» Mirgram ordinò a Simon e Alioth di fermarlo ma quando i due gli furono a un o, l’insegnante degli incantesimi del fuoco aveva tolto le assi che sbarravano la porta e l’aveva spalancata. Arwin si gettò nel corridoio, vuoto e impaludato dalla penombra. «Arwin! Arwin, dove cazzo vai?» La voce di Alioth risuonò minacciosa ma il collega continuò a correre verso il chiostro di Malbany. Simon superò Alioth, che con i suoi cinquant’anni sentiva i primi acciacchi, ma non riuscì a raggiungere Arwin, che si fermò soltanto davanti alla porta della Biblioteca, divelta, da cui filtrava un cono di luce gialla e vivida. Alioth raggiunse i due colleghi, che entrarono, uno dopo l’altro. * «Ecco, è qui» il ragazzo segaligno che aveva accompagnato l’inquisitrice Aylyonóra alla sua prima visita sostava di fronte al pilastro che reggeva i cinque piani della Biblioteca; vi poggiò la mano ma fece una smorfia e intimò ai sedici chierici che l’accompagnavano di non muoversi. «Potete venire avanti, non vi verrà fatto alcun male, avete la mia parola» disse ai maghi.
«Voi non dovreste essere qui» commentò Simon, velenoso. «Lascia perdere le tue doleanze, voglio sapere che cosa nascondete» intimò Niperth. «Siete degli sprovveduti, c’è soltanto pietra» commentò Simon. «Sei tu lo sprovveduto, credi che le mie preghiere non rivelino i vostri segreti? Qual è il tuo nome?» Niperth alzò il mento e si rivolse a Simon ma fu Alioth a rispondere. «Io non mostrerei arroganza, non nella situazione in cui ti trovi. Che volete? L’Università di Amaradantis è zona franca: avete violato un editto imperiale.» Niperth si mise a ridere, i sedici fecero altrettanto e smisero un secondo dopo di lui. «Il male si è insinuato dentro queste mura, e non è soltanto un modo di dire» picchiò il palmo contro il pilastro. «Io non conosco i vostri incantesimi e non conosco i vostri segreti, ma so che è qui. Aiutatemi e io non vi farò pentire di esservi schierati dalla parte giusta» la voce malevola di Niperth sibilò nel silenzio. Simon gli si avvicinò, prestando attenzione che i chierici non tramassero, e batté con il pugno sui sassi. «Ebbene, qui ci sono soltanto sassi, non capisco che cosa vuoi.» «Spostati» Arwin raggiunse il collega e l’inquisitore, pronunciò una litania e aprì la porta magica che dava accesso alla Sala della Conoscenza. «C’era una porta segreta?» Simon guardò Arwin, esterrefatto. Alioth sospirò e si coprì le labbra con la mano destra. «Seguitemi» il mago del fuoco scese le scale ricavate nel pilastro, sino all’entrata della biblioteca segreta. «È qui che vi riunite?» La voce di Niperth rimbombò, odiosa e viscida. «È qui che vi riunite? Che cos’è la Sala della Conoscenza?» Simon aveva letto l’iscrizione e strattonò Arwin, che se lo tolse di dosso con un manrovescio. «Fate entrambi silenzio» Arwin aprì la porta e dal buio della sala eruppe l’afrore
rivoltante del sangue: il professore prese a tremare, entrò barcollando e accese le pietre magiche che davano luce all’ambiente. Simon entrò per secondo, si guardò attorno e soffocò un conato di vomito; Niperth lo seguì e fece altrettanto. La Sala della Conoscenza sembrava squassata da un terremoto: le librerie disposte a circonferenza erano state disallineate e svuotate, le scrivanie divelte, i tappeti imbrattati dal sangue. «Ecco quello che cercavo» commentò Niperth, disgustato dall’odore di morte. Festoni di pelle e intestino erano appesi alle librerie e stracci di carne e ossa spezzate erano sparpagliati sulle poltrone e sulle sedie demolite. Arwin si inginocchiò, raccolse qualcosa da terra e cominciò a balbettare parole incomprensibili strozzate dai singhiozzi. Simon e Niperth si chinarono su di lui e videro che stringeva tra le mani un cilindro bianco raschiato a un’estremità; a quella opposta penzolavano tendini strappati e una mano senza due dita. Su un lembo della pelle del polso, il tatuaggio di un ippocampo. «Rachel» fu l’unica parola riconoscibile nel delirio di Arwin. Simon si rialzò, raggiunse un angolo sfuggito alla follia e lo sommerse di vomito. Niperth appoggiò la mano guantata alla spalla di Arwin. «Posso seguire le tracce dell’assassino.» Arwin si raggomitolò in terra, sul tappeto graveolente, strinse il moncherino e iniziò a frignare. «Posso trovare l’omicida, hai capito?» Il chierico si inginocchiò e strattonò il mago. «Rialzati, non è così che si comporta un uomo.» Arwin abbandonò il moncherino, afferrò Niperth al collo, per la cotta di maglia e con entrambe le mani, lo sbilanciò e lo schiantò a terra, rotolando sopra di lui. Il mago fissò il chierico negli occhi, mentre le lacrime gli irroravano il viso. «Se non trovi chi l’ha uccisa, giuro che non uscirai vivo di qui, mi hai capito bene? Mi hai sentito?» Lo tirò verso di sé e lo schiantò ancora sul pavimento facendolo tintinnare come le monete di un forziere divelto. Niperth fece un bieco sorriso. «D’accordo. Prima però c’è una cosa che devi fare
per me.» «Che cosa? Che cosa vuoi?» Berciò Arwin. «Devi tirarmi su.» Arwin obbedì e il chierico pregò sottovoce, gli occhi chiusi, il volto teso. «Andiamo» disse Niperth risalendo le scale, «ho trovato la traccia.» Arwin seguì l’inquisitore asciugandosi le lacrime e stringendo i pugni per trattenere le fiamme che gli turbinavano tra le dita. Simon e il gruppetto dei sedici religiosi li seguivano in silenzio e dopo un attimo si aggiunse Mirgram, che era stato informato da Alioth. Il rettore raggiunse Simon, lucido nonostante la scoperta, e seguì il gruppo su per le scale degli alloggi mentre le pietre inibitrici davano luce e mitigavano la morsa del gelo che aveva ghermito gli ambienti. Niperth e Arwin divorarono gli scalini sino al penultimo piano, dove il professore buttò giù la porta accostata e attraversò la sala comune, la sofferenza rincrudita da rabbia e dolore. Arwin imboccò un corridoio camminando come un segugio che aveva smarrito le tracce di una preda e, a ogni porta che ava, si voltava per osservare se Niperth la indicava. Arrivò alla sesta stanza, poi vide l’inquisitore arrestarsi a quella prima. «Qui. È qui dentro» Niperth si fece da parte e Arwin incenerì la porta con un pugno. «Comodo per aprire. Per richiudere poi?» Niperth fece un sorriso disgustoso ed entrò; superò il letto, l’armadio e lo specchio e si chinò su una borsa abbandonata accanto alla scrivania: la aprì davanti agli occhi di Arwin, che gli era rotolato dietro, ed estrasse un pugnale d’argento ancora macchiato del sangue di Rachel. Arwin guardò il secespita, se lo fece consegnare e ne accarezzò la lama, sporcandosi con il sangue della donna che aveva amato. «Di chi è questa stanza?» Arwin cacciò il pugnale sul letto e si precipitò da Mirgram, che esitava, sulla soglia. «Talvolta il destino organizza scherzi diabolici» rispose il rettore, contrito.
«Di chi è, Mirgram?» Gli occhi di Arwin erano gonfi di pianto e parevano voler schizzar via per non veder più alcuna barbarie; la pelle del volto lo trasfigurava, il mento era tirato, le guance schiacciate contro gli zigomi. «Si prende gioco degli uomini, si burla di loro nel modo peggiore che conosce e li frastorna con beffarda fatalità.» «Mirgram di chi è?» Arwin balbettava e tremava. «Resta nascosto, acquattato negli anfratti della demenza per ridestarsi improvviso e sconvolgente, come un maremoto. Questo è il destino» il rettore deglutì e Arwin si fermò a un o dall’afferrarlo e scaraventarlo contro il muro del corridoio. «Di chi è, Mirgram?» Berciò con voce isterica. «Penultimo piano, quinta stanza» Arwin annuì dondolando la testa e l’invitò a proseguire. «Siamo nel dormitorio femminile e questa è la stanza di Joelle Greyfire, la cugina della sacerdotessa eretica di Eskiliar.» Arwin si catapultò verso le scale, dove due chierici lo bloccarono. «Vi ammazzo se non mi lasciate subito. Mi avete sentito?» Mirgram, Simon e Niperth raggiunsero il professore e cercarono di calmarlo. «Non spetta a te giudicare quella ragazza: spetta al Tempio» gli disse l’inquisitore. «L’ammazzo con le mie mani, non mi interessano le tue regole, hai capito chierichetto?» Arwin grugnì con la voce impastata di rabbia e pianto ma Niperth lo calmò con un pugno alla bocca dello stomaco. Arwin cadde a terra singhiozzando e Mirgram ne prese le difese. «Il tuo comportamento è inaccettabile: potrai anche essere un inquisitore ma un editto Imperiale affranca l’Università dalla giustizia del Tempio. Andate fuori di qui. Tutti. Adesso. Uscite o giuro sulla testa della vostra Dea che...» Mirgram non terminò la frase che Niperth l’aggredì. «Dillo, forza. Forza vecchio pazzo, bestemmia. Dammi l’occasione per incatenarti.»
Mirgram si zittì, Niperth sogghignò e lo spintonò. «Ora ascoltami bene, perché non mi ripeterò. Non mi interessa nulla dei tuoi editti. Quella ragazza è legata ai culti eretici dei negromanti di Eskiliar e questo oggetto rituale ne è la prova» alzò il secespita. «La giudicheremo noi: con l’Università non c’entra nulla.» Mirgram divenne paonazzo. «Tu stai violando ogni regola e dovrai are sul mio corpo per fare una cosa del genere.» Niperth afferrò Mirgram per il bavaro della tonaca. «Credi che esiterei a farlo, vecchio relitto?» L’inquisitore lasciò andare il mago e ordinò ai chierici di seguirlo e di disinteressarsi degli insegnanti a meno che non avessero attaccato per primi. Il gruppetto scese sferragliando per le scale, e, quando giunse al refettorio, dei sedici religiosi sette avevano impugnato le armi mentre gli altri erano pronti a usare le preghiere. «Dov’è Joelle Greyfire?» Niperth fronteggiò i docenti che attendevano, e gli alunni si aprirono a ventaglio, scansandosi dalla fanciulla che era stata chiamata. Joelle rimase pietrificata dalla paura; Gabriel le era accanto e, ancora sgomento per essersi risvegliato nella propria stanza con l’ululato delle pietre inibitrici, le stringeva la mano. Niperth mostrò il secespita. «Riconosci questo?» Joelle negò, terrorizzata, ma fu del tutto inutile.
E una cosa bisogna sempre ricordare quando si richiama un demone: bisogna affidargli un compito, il più preciso possibile, e porre le condizioni per il ritorno. Nulla deve essere tralasciato, altrimenti l’essere immondo ne approfitterà per rimanere. E ancora: se potrà ingannarvi, se potrà recarvi danno o nuocervi senza contravvenire agli ordini, ebbene, lo farà. Regole d’evocazione – Liryam il negromante
XVI – Errori
La superficie argentina brilla di una luce che supera la dimensione visiva, è musicale. Un rettangolo aperto nel buio, nel cielo avvolto dalle tenebre perenni. Sento freddo, e sebbene sia qualcosa privo di senso per un essere mio pari, lo percepisco in virtù del retaggio umano della mia metà. Chi è forgiato per provocare dolore e trascinare sul putrido sentiero della morte non può temere il freddo, eppure l’insignificante idea che possa esistere un limite è sufficiente a crearlo. E a cercare di valicarlo. La mente degli esseri mortali è affascinante. I loro mondi bislacchi lo sono. Vorrei avere il tempo per esaminarla, per comprendere i loro pensieri ma questo non è possibile: l’eternità non è sufficiente e lo scopo è futile. A che serve comprendere l’autoreferenziale? I mortali non riescono a comprendere come la Volontà a essi superiore non possa essere sviscerata. Chi è abituato a marcire in uno stagno non può comprendere la vastità dell’oceano. Eppure i mortali ci provano, miseramente, creando religioni e ideologie. E da esse, poi, si fanno dominare. Ecco un’altra delle cose che non riesco a spiegarmi: come un pensiero possa comandare. A me occorre una luce, un sentiero, un tramite per giungere nel mondo degli umani e seminarvi morte e distruzione. Ora che il mio faro si è spento non posso are. Non c’è nulla di filosofico, profetico, logico in tutto questo, è così e basta. È ciò che è stato imposto dal Creatore: le mie catene sono reali anche se
non possono essere percepite. I mortali invece, le catene le progettano, le forgiano, le stringono ai loro stessi polsi. Nel mio universo non esiste il libero arbitrio, non esiste la scelta, eppure io non lo cerco, non lo bramo. I mortali hanno questo grandissimo dono che rifuggono, forse in virtù di un’ancestrale codardia: evitano di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e le demandano a comode e funzionali sovrastrutture. Io sono stato creato per la distruzione e il dolore. Sono un paradigma, sono una faccia di una medaglia che è necessaria per riconoscere l’altra. Sono la tenebra indispensabile alla luce. Solo una cosa è mia per libera scelta, il piacere che provo nell’odiare i mortali per lo spreco che fanno del loro dono. Ora attendo, inquieto. La porta d’argento che mi guida verso l’universo che voglio stravolgere con la mia ferrea malvagità dista un respiro che non posso compiere senza il mio faro. Il viaggio nel Palazzo di Giapeto è un’esperienza che non voglio ripetere e tormentare le misere termiti senzienti che sul loro mondo mi adorano non provoca più il piacere che mi dava un tempo, forse mi sono rammollito, forse la mia parte umana dispensa quella cosa chiamata pietà che non riesco a metabolizzare. O forse l’ho già fatto senza rendermene conto. Non è facile essere la metà di sé stessi. * Gabriel attaccò i palmi delle mani allo specchio, facendolo traballare. La fredda liquescenza dell’argento si intorbidì e si rimescolò in un turbine eccitato; un gemito indefinibile scaturì dalle immonde profondità che si rifugiavano oltre il vetro, seguito da altri spasmi, ritmici, sofferenti. «Sei stato tu!» Tuonò Gabriel, sudato. Dal sudicio vorticare della liquida malvagità arrivò un gemito. «Sei stato tu, non è così?» Domandò ancora il mago. «Potresti tornare più tardi? Sono indaffarato.»
Gabriel appoggiò la fronte, madida, allo specchio, freddo; ò una frazione di secondo e il volto ghignante di Jaquish di Anquelot fece capolino nel metallico turbinio; il giovane si gettò all’indietro e cadde seduto sul pavimento mentre il vetro si gonfiava, si deformava come il ventre teso di una donna gravida. Jaquish non riuscì a spezzare il portale, si diede pace e il volto incorniciato dalla bionda chioma comparve, scocciata. «Stavo sodomizzando una compiacente succube: spero che il motivo per cui mi hai richiamato sia più eccitante della ginnastica cui mi hai sottratto.» Gabriel ansimò e si rialzò. «Hai macchinato ogni evento per giungere sino a questo punto?» Si scoprì a gridare e abbassò la voce. «Come al solito fai domande inutili. Domande sciocche la cui risposta non può alterare lo stato delle cose. Mi aspettavo qualche miglioramento dopo mesi di studi: sei una delusione, schiavo.» «Domande inutili dici?» Gabriel controllò la resistenza del pentacolo. «Non è inutile sapere cosa a per la testa di una mostruosità capace di manipolarmi: tu avevi previsto ogni cosa.» «Disquisisci pure di queste questioni con gli spettri dei filosofi, sui loro marmorei sepolcreti ricoperti d’edera e dimenticanza: le domande giuste, sono altre.» Gabriel si sentì soffocare dalla malvagità del suo padrone ultraterreno. «Una, per esempio, potrebbe riguardare il perché tu non abbia difeso la tua fidanzatina. Questa sì, sarebbe una domanda interessante.» Gabriel ansimò. «C’erano i chierici, e gli insegnanti, e avevano riattivato le pietre inibitrici. Non avevo abbastanza mana.» «Scuse. Voi umani siete buoni soltanto ad accampare scuse. Da quando gli elfi vi hanno insegnato a mentire, avete elevato la menzogna a una specie di competizione. Scommetto che la tenevi per mano e che vi siete guardati un istante prima che venisse portata via. I suoi occhi avranno cercato i tuoi per trovare un aiuto che non hai saputo darle. Disgustosamente romantico e strappalacrime. Tragicamente inutile. Abominevolmente patetico.»
Gabriel rabbrividì e soffocò i singhiozzi. «Ma dopotutto ti capisco sai? Non te ne faccio una colpa: tu sei ancora giovane e il coraggio non è certo il tuo forte, tu sei un mago, non un condottiero. Non è la spada la tua arma, è la favella; tu non eccelli nella forza, piuttosto nell’intrigo. In fondo è molto meglio se te la sei tolta di torno, ora non ti darà tutte quelle frivole complicazioni ormonali che ti hanno allontanato da me. Le donne sono inutili mio caro, sono carne da gustare soltanto una notte.» Gabriel fissò il pentacolo sul pavimento, la striscia di gesso e sangue che nessun altro poteva vedere. «A pensarci bene c’è un’altra domanda interessante, tra tutte quelle che mi potresti fare: che ne sarà di lei? Oppure, meglio ancora: come faccio a salvarla? Direi che è proprio questa la domanda più importante, perché ciò che le succederà, lo sai bene, è la stessa sorte che è toccata a lady Viviane. Una sorte che, volente o nolente, hai plasmato tu.» «Come faccio a salvarla?» «Bravo, impari in fretta, l’imitazione riesce bene all’uomo. Avete imitato gli elfi, sottraendo loro la conoscenza e avete elevato a virtù tutti i difetti che avevano.» «Come faccio a salvarla?» Gabriel ringhiò. «È facilissimo. Sciogli il pentacolo e mi invochi. Al resto penserò io.» Gabriel si lasciò sfuggire un’amara risata. «Era a questo che volevi giungere? Non farò mai una cosa del genere.» «Fai come meglio credi. D’altronde non è la tua vita in gioco. Già mi immagino quello che le faranno.» «Taci.» «La bruceranno.» «Stai zitto.» «Sì, ma prima la scoperanno in ogni pertugio con i loro ferri roventi. Peccato
perdersi la scena. La carne del suo sesso sfrigolerà e si accartoccerà mentre la soffice peluria si accenderà con una gran fiammata: sarà indimenticabile!» «Fai silenzio» Gabriel scandì le lettere strappandole alla rabbia. «Faranno questo, li conosci meglio di me. Ma sarà un insperato e positivo epilogo: tu continuerai a diventare più forte e la tua potenza vale il piccolo, insignificante sacrificio della baldracca con la quale ti trastullavi» il riso sardonico di Jaquish riempì la stanza. «Su, non fare quella faccia: di femmine disposte ad accogliere il tuo membro ne troverai quante ne desideri. Illusioni, menzogne o denaro, le donne parlano molti linguaggi e gli uomini li conoscono alla perfezione.» Gabriel si mise le mani nei capelli, sedette sul letto e iniziò a singhiozzare; Jaquish si quietò e lasciò che il silenzio ammorbasse la stanza. «Se hai intenzione di continuare a frignare, fai pure. Io torno a fottere. Con permesso.» «Aspetta.» «Sì?» Il sibilo del demone si insinuò nella spina dorsale del ragazzo, squassandola. «Tu hai la faccia di Jaquish ma mesi fa dicesti che la tua parte umana stava languendo nel dolore.» «Devo aver detto una cosa del genere. Sì, potrebbe essere.» «Cosa sei adesso, la parte buona o quella cattiva?» «Ricominci con le domande sbagliate. Sono la parte buona, se vuoi una risposta inutile a una domanda inutile: lo direi anche se fossi quella cattiva.» «E allora se non fossi tu ma fossi l’altro, che cosa mi risponderesti?» «Ti direi che sono quello cattivo. Ma è un giochetto che non ti aiuterà a capire. Devi evocarmi se vuoi che risolva i tuoi problemi; discutere ne creerà soltanto di nuovi.»
Gabriel guardò il volto splendido e ignobile di Jaquish di Anquelot, demone maggiore, e strinse i pugni con tutta la forza che aveva. «Per evocarti l’elfa oscura ha sacrificato il mio villaggio in un sanguinario rituale. Non posso ripetere lo scempio che fece Raylyn.» «Non è necessario» lo sguardo di Jaquish si accese come quello di un cane pronto a inseguire un legnetto. «Tu sei il mio tramite, devi soltanto pregarmi di venire nel tuo mondo.» «Porrò dei vincoli che dovrai rispettare.» «Li rispetterò. Invocami.» «Porrò le condizioni affinché tu possa ritornare da dove sei venuto senza dilungarti in esecrabili deliri.» «Ritornerò. Invocami.» «Ti seguirò e farò in modo che tu non possa fare più di ciò che ti ho ordinato.» «Mi seguirai, d’accordo: conosco la manfrina. Adesso invocami.» La strada in discesa è la meno dura sinché non comincia la salita, pensò Gabriel mentre avvicinava la mano alla traccia di gesso e sangue. Ho altre possibilità? «Invocami!» «Il tuo compito è quello di salvare Joelle Greyfire senza recarle danno e il più in fretta possibile. Non dovrai uccidere nessuno, non dovrai disintegrare o distruggere animali o persone o cose in modo che possano recare danni ad altre persone. Dopo che l’avrai salvata non andrai da nessuna parte, il tuo compito sarà terminato e rientrerai nel tuo mondo, senza trascinare con te niente e nessuno.» «Ho capito e presterò fede alle tue richieste. Invocami adesso.» «Sono Gabriel, figlio di Lester, e ti invoco nel mio mondo, Jaquish di Anquelot, demone triste.»
Lo specchio si sbriciolò e dalla carcassa di legno uscì il biondo mago che divideva il proprio corpo con Alchibunazar, demone maggiore. «Manca il pentacolo» la voce argentina di Jaquish risuonò nella stanza, minacciosa. Gabriel si abbassò e annullò l’incantesimo che tratteneva il demone. Jaquish sorrise e la stanza si allungò deformando le proporzioni delle cose. «Cos’è questo inganno?» Gabriel sentì il cuore imbizzarrirsi e scoprì che anche il tempo risentì dell’alterazione creata da Jaquish che fece un o fuori dall’inservibile pentacolo; il mago percepì il demone triste a un o da lui ma impalpabile e distante come i torridi giorni d’estate. «Non ti sei mai chiesto perché nessun libro esamina il rapporto tra un demone e uno schiavo che ne porta il marchio?» La voce degenere di Jaquish sospese il ragazzo in lembo di brividi. «Non c’è nulla perché tu sei uno dei pochi cui è accaduta una cosa del genere: è raro che un evocatore ceda la vita di qualcuno a un demone, come ha fatto Raylyn a Coverbridge» Jaquish fece un sorriso putrido e si avviò verso la porta della stanza, attraversando lo spazio e il tempo senza difficoltà. «Non sono tenuto a rispettare nessuna delle tue imposizioni e farò quello che mi pare e piace: hai mai visto un signore obbedire agli ordini dei suoi schiavi? A presto Gabriel, devo vedere se la carne di questa tua Joelle merita il daffare che ti sei dato» aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Gabriel si era messo a correre che il demone non aveva oltreato il letto ma arrivò a metà stanza dopo una corsa interminabile e sfiancante. Mentre procedeva ad ampie falcate, il giovane scagliava tutti gli incantesimi protettivi consentiti dal mana lasciato dalle pietre inibitrici. Quando afferrò la maniglia e aprì la porta, i cardini cigolarono e Gabriel dovette lottare come se Jaquish la trattenesse dalla parte opposta per impedirgli di uscire. L’immondo effetto di dilatazione fisica e temporale terminò e Gabriel vinse la resistenza, spalancò l’uscio e brancicò lungo il corridoio cascando contro la parete; si scoprì madido di sudore, fiacco, e si appoggiò alla parete per rifiatare, poi la sua attenzione venne calamitata da un segno di sangue che si allungava e si ingrandiva. Deglutì e vide che metà del corpo di Tåron era adeso al muro, in fondo al corridoio, mentre la carne strappata alle ossa era grattugiata contro le pietre. Errori, maledizione, quanti ne commetterò ancora? Gabriel diede un pugno al muro e si diresse verso l’area comune nella direzione del corpo straziato del tirapiedi di Thomas.
La sorte toccata ai ragazzi che avevano incontrato Jaquish fu peggiore di quella riservata al rossiccio Tåron: i corpi erano stati divorati o fatti a brandelli, ma non ad opera di zanne o artigli, bensì di qualcosa la cui forza orribile impregnava i mobili, i tappeti, i muri porosi. Riesce a usare la magia nonostante le pietre inibitrici, è incredibile. È affascinante, Gabriel si precipitò giù per le scale e si catapultò nel corridoio che portava al chiostro di Malbany, attraversando la porta, divelta. Trovò ad attenderlo uno spettacolo ancora più cruento del precedente e non riuscì a distinguere coloro che avevano fronteggiato Jaquish: i corpi erano irriconoscibili, fatti a brandelli come se un mago avesse generato un turbine con una brigata di scimitarre rotanti e l’avesse sguinzagliato contro un gruppo di bambini. Sangue, arti e poltiglia vermiglia erano sparpagliati ovunque, sulle pareti, sulle porticine delle celle, sul pavimento di mattoni rettangolari. Gabriel fece un o nell’arida penombra, singhiozzò e un gemito emerse dalle membra affastellate contro la seconda, piccola porta ogivale delle celle. Il mago si precipitò presso le frattaglie, le scostò disgustato e liberò l’uomo che ne era stato sepolto: un individuo magro, alto e con i lunghi capelli di cui si faceva vanto trasformati in un ammasso indistricabile e insudiciato dal sangue. Gli occhi piccoli e chiari si aprirono, imploranti. «Salvami» la voce strozzata di Arwin di Lonwin uscì appena udibile. Gabriel cercò di alzare il professore e scoprì che aveva le gambe ridotte a stracci di carne penzolanti da ossa spappolate. «Non c’è mana sufficiente, non per queste ferite.» «È un ordi» la tosse soffocò le parole. «Non ho abbastanza energia per salvarvi, maestro» le grida dei ragazzi e degli insegnanti si rincorrevano nei corridoi ed eruttavano dalle porte divelte. Arwin fece una smorfia. «Prendi i ragaz» tossì e vomitò poltiglia sanguigna, «ovatelo e uccidetelo» alzò le mani e afferrò la tunica dell’alunno. Gli occhi di Gabriel si intristirono. «I miei colleghi non crederanno alle mie parole, o avranno paura, maestro.» Arwin fece un ghigno e il suo ultimo pensiero andò al corpo sensuale e
profumato di Rachel che sussultava sopra il suo. «Prendi il mio bastone e damm» tossì «un» vomitò ancora «orte veloce.» Gabriel guardò l’arma che giaceva accanto al professore ma non la prese. «Non mi serve un’arma. Conosco la morte abbastanza bene, purtroppo» ò una mano sugli occhi di Arwin, li chiuse con un incantesimo e il corpo si irrigidì. «Aveva detto che non avrebbe mai dato un ordine del genere» sospirò. «Odio avere ragione. E odio commettere errori. Non ne commetterò più, lo giuro.» Prima di rialzarsi guardò il bastone che gli aveva indicato Arwin. Era un’arma metallica, con a un lato una lama retrattile, esposta, e all’altra una pietra del potere ancora carica, racchiusa in un castone tortile dalla forma a fiamma. Questo mi sarà utile, quando strinse l’oggetto sull’impugnatura zigrinata, gli parve un’appendice del corpo riscoperta dopo mesi di inattività. La punta retrattile rientrò nella base del bastone, obbedendo alla volontà del nuovo padrone. Gabriel si alzò e seguì la striscia di morte e sangue nel chiostro di Malbany, nel cortile quadrato d’ingresso e uscì per le strade di Amaradantis, dove i festeggiamenti volgevano al termine sotto la prima luce dell’alba. * Il tempio di Rhiannon di Amaradantis sfiorava il cielo che albeggiava con i suoi quattro minareti, affusolati e traforati da una spirale di finestre gotiche, e con la gigantesca cupola rivestita d’oro, che restava sulla crociera dell’edificio principale; il tempio aveva pianta a croce, era circondato da una teoria di contrafforti, archi rampanti, pinnacoli, e affiancato dagli edifici di servizio del culto, una città nella città: alloggi, refettori, granai, mulini, orti, prigioni. Attorno al perimetro del tempio correva una siepe di piante dalle foglie verdi e dalle gemme rosse interrotta in prossimità delle quattro entrate poste in corrispondenza dei punti cardinali. Jaquish entrò nel giardino del Tempio attraverso il viale est, un corridoio di ciottoli bianchi che attraversava prati chiazzati di neve e irrorati dalla luce dorata di pilastri di marmo che reggevano grandi gemme. Verdi abeti, nobili querce e salici scheletrici svettavano nella luce e proiettavano ombre cupe e multiple, gigantesche tuie erano potate per rappresentare Rhiannon come una donna formosa e circondate di fiori nonostante la stagione. Il demone triste si avvicinò al chierico che stava di guardia a uno dei grandi portoni metallici, un giovane
che esibiva con disinvoltura la surcotta sopra l’armatura di maglia. «Cosa ti reca presso il Tempio, fratello, sei un supplice che cerca ristoro?» Il novizio ripeté la formula di accoglienza e allargò le braccia; il demone triste allungò il braccio, aprì la mano e schiantò il sacerdote contro la porta, sparpagliandone il sangue e le membra indifese contro il marmo che rivestiva l’edificio. «Cosa ti teneva presso il Tempio, fratello, non eri troppo giovane per morire?» Jaquish chiuse la mano e il torso del chierico ricadde sul selciato, sferragliando. Il demone appoggiò le mani alle ante, aprì la porta ed entrò nello splendore del tempio. «Benvenuti nel luogo di culto più frequentato dagli umani e più disertato dagli Dei» urlò ai due chierici esterrefatti che lo videro fradicio di sangue e che accorsero per i rumori. Il primo religioso che realizzò il pericolo fu il più anziano, un omone calvo e con una cinquantina di anni sulle spalle; invocò Rhiannon, generò un tripudio di luci tra le mani e lo lanciò verso il demone. Jaquish fu irrorato dalla luce calda della preghiera ma ne uscì attraverso uno squarcio di tenebra; raggiunse il sacerdote prima che potesse reagire, l’afferrò per il collo flaccido e lo scaraventò contro la porta opposta a quella da cui era entrato: il chierico attraversò la navata centrale del transetto, ululando e agitandosi a mezz’aria, e si sfracellò come una lumaca schiacciata dal tacco di un contadino. Il secondo chierico, un ragazzino che aveva appena preso i voti, balbettò qualcosa e cominciò a tremare; Jaquish lo afferrò e gli riservò lo stesso trattamento del compagno, ma la mira fu peggiore e il giovane finì con l’urtare i fasci del dodicesimo dei sessantaquattro titanici polistili del transetto e rimbalzò contro il tredicesimo, imbrattandolo con il sangue e la carne che si sfracellò. Jaquish osservò la magnificenza della struttura, tanto alta da superare tre volte il tempio di Eskiliar, che egli ricordava stuccato e ricoperto di affreschi: il Tempio di Amaradantis era invece di marmo bianco alternato a marmo rosso cesellati con bassorilievi e altorilievi, come le sale dei sovrani dei nani di Mag Nagorak, di Minar Nagir o di Mag Caeldar. «Colmare con il vostro pietoso credo un tale splendore è un crimine che la vita non basta a pagare» il ghigno fece tremare i chierici rimasti.
«Formate una linea» il giovane con i capelli corti riportò l’ordine tra i cinque sacerdoti che pregavano accanto all’altare e li riunì in una formazione di bianche tonache e tintinnanti armature di maglia di ferro, che iniziò a salmodiare quando venne dato l’ordine. Chiamo la luce di Rhiannon per illuminare il mio cammino, la invoco per scacciare i miei nemici. Rhiannon, Signora misericordiosa e amante sincera, supplico il tuo nome con cuore puro e generoso. Bandisci da questo mondo le immonde creature, allontana colui che reca morte e distruzione! Le voci si propagarono, cristalline, e la loro eco divenne al demone dolorosa e insostenibile. Jaquish fu colpito dal bagliore invocato dai chierici e si accasciò, privo della vista e stordito per attimi che gli parvero eterni. Quando riacquistò la vista e i cachinni scemarono, il chierico che aveva iniziato le preghiere lo afferrò e lo sollevò con le mani gonfie di luce. Era un giovane dallo sguardo velenoso e digrignò i denti in un sorriso insolente e primitivo. «Sono Niperth, Primo Inquisitore di Rhiannon: dimmi cosa sei prima che ti rispedisca nell’empia desolazione che ti ha partorito.» Jaquish tossì e gli vomitò addosso una poltiglia putrida e verdastra che puzzava di zolfo e sterco. «E io sono Jaquish di Anquelot, il demone triste» infilò le dita nella luce emanata dal chierico, poi tra le maglie di ferro della cotta e le separò come fossero state di tessuto. «Sono impressionato dal tuo coraggio, Niperth, e sono impressionato dal tuo fervore» lacerò il giustacuore dell’inquisitore con le mani artigliate, gli infilò le dita nel ventre, prese le viscere e le trascinò fuori. «Ma la cosa che mi impressiona di più è la tua irraggiungibile stupidità» afferrò le costole e le tirò, aprendo la cassa toracica di Niperth e stracciando giustacuore e armatura. L’inquisitore gridò finché Jaquish non gli infilò gli artigli nei polmoni, li sgonfiò e li strappò via in un’onda di sangue caldo e graveolente.
«A Eskiliar c’era la reincarnazione di Rhiannon a fronteggiarmi» il demone afferrò il cuore che palpitava tra brandelli di carne, ossa e metallo, vi affondò la bocca e lo divorò. Niperth l’inquisitore si spense con un grido muto di dolore irraggiungibile. «Non ce la farete» Jaquish soffocò le risa, il volto sfigurato dal sangue e dal muscolo cardiaco ridotto a poltiglia. «Non ce la farete nemmeno se mi attaccherete tutti insieme. Però fatelo, vi prego» si pulì la bocca con la manica della tonaca, riducendola a una pezza vermiglia «è tanto tempo che non mi diverto.» «Vedremo se è come dici» la voce roca di lady Aylyonóra sopraggiunse dalla porta che univa il tempio agli altri edifici. «Sei in ritardo, e il tuo lacchè non era all’altezza del suo compito.» «Adesso, colpite!» La luce sprigionata dalle mani di lady Aylyonóra e dalle tre sacerdotesse che l’avevano seguita accecò il demone ma i chierici in armatura allineati da Niperth gli arrivarono addosso con tale ritardo, goffaggine e timore, che Jaquish si riprese. Con la spada che aveva assaggiato il sangue dei sacerdoti di Eskiliar, il demone staccò la gamba destra al primo che l’affrontò, sbuzzò il secondo, un nanetto tutto pelle e ossa che combatteva senza armatura, e tagliò il braccio dell’arma all’ultimo che gli si presentò davanti un uomo barbuto, che berciava più per la paura che per il coraggio. I primi tre chierici caddero sul pavimento di marmo insudiciandolo di sangue; i due rimasti tentennarono quel tanto che bastò a Jaquish per decapitare il primo e aprire la difesa del secondo, infilare la lama della spada sotto l’ascella e spingere sino a spezzare la clavicola, uscire e staccare l’orecchio. Chiamo la luce della speranza, l’alba che affranca dagli incubi, il Fuoco Sacro di Rhiannon, la purezza della Fiamma Danzante.
Lady Aylyonóra scagliò la maledizione più efficace che conosceva, le fiamme di un’aurora avvolsero il tempio ma il loro calore non bastò a imbrigliare l’immonda creatura, e nemmeno le preghiere delle tre sacerdotesse impedirono al demone di attaccarle e di soffocarne nel sangue le grida mentre le faceva a pezzi. «Vecchia baldracca, la tua fede non è che una briciola di quella di Viviane» Jaquish fissò il terrore sul volto di lady Aylyonóra, immobile tra i corpi appena dilaniati. Impossibile, come può resistere alle mie preghiere? È dunque invincibile oppure è la mia fede a essere insufficiente? «Porta i miei saluti a Rhiannon» il demone colpì l’inquisitrice con un manrovescio che le spostò la mandibola e le gettò la testa di lato e poi all’indietro. Lady Aylyonóra cadde tra i corpi macellati delle tre sacerdotesse. Jaquish scrocchiò il collo. «E adesso andiamo a mettere in scena l’ultimo atto di questa appagante tragedia» prese la porta da cui erano uscite lady Aylyonóra e le sacerdotesse e si ritrovò in un androne affrescato dove uno scalone saliva agli edifici di servizio e scendeva nei sotterranei. Seguì i lamenti percepiti dalla metà che fu Alchibunazar e percorse corridoi angusti e illuminati da rade fiaccole ai muri: nei sotterranei il freddo dell’inverno era mitigato dal calore della terra ma permeato dall’odore greve della morte. Il demone distrusse la porticina che chiudeva la sala delle torture, uno stanzone rotondo dalla volta altissima sorretta da pilastri mastodontici e sgraziati. Le scale, larghe appena una persona, scendevano lungo la circonferenza della sala, ripide e viscide. Gli strumenti di tortura, ruote, gogne e gabbie sospese, erano inerti e squallidi; nella piccola forgia per arroventare i ferri le braci baluginavano intiepidite. I lamenti insensati e gutturali di Joelle condussero il demone a una cella chiusa a chiave, che aprì mandando la porta in mille pezzi. Incatenata al muro per le caviglie e i polsi, la ragazza gemeva, vestita di una tunica putida e macchiata di sangue. Jaquish spezzò le catene, afferrò Joelle per i capelli e la trascinò fuori dalla cella, tirandola per le scale mentre piangeva disperata. «Non ci hanno presentati e capisco che questa situazione non è la migliore ma vorrei che sapessi che non sono venuto a salvarti» la fanciulla disse qualcosa di incomprensibile tra
i singhiozzi. «Ti hanno strappato la lingua? Non devi preoccuparti: domani la faranno ricrescere, per mozzarla di nuovo. Il problema, mia cara, è capire se arriverai a domani» Jaquish si fermò su un pianerottolo di mattoni crudi e alzò il volto della fanciulla, che piangeva. «Sono ancora indeciso sulla tua sorte ma voglio che tu sappia che tutto questo non dipende da me: sono un demone maggiore, non dovrei essere qui, non avrei dovuto girare per l’Università a sventrare fanciulle e far ricadere la colpa su di te. Se sono qui, è perché qualcuno mi ha evocato. E questo scriteriato, tu lo conosci molto bene.» Gabriel! Jaquish lesse terrore negli occhi castani di Joelle e riprese a tirarla. «Sono scosso dai brividi di piacere quando gli incubi diventano realtà. Ti sei scelta un pessimo cavaliere: forse è bravo a letto, ma non è certo coraggioso, visto che non ha nemmeno cercato di aiutarti mentre ti portavano via. E dire che non avrebbe incontrato troppe difficoltà se avesse usato a fondo i suoi poteri: sai, Gabriel è un mago spontaneo, uno di quelli che cui basta vedere o sentire un incantesimo per saperlo replicare. Sulla spalla ha un marchio che lo rende mio schiavo ma, nonostante questa sfortuna, è molto più forte di quel che sembra. Già, nemmeno io scommetterei un soldo bucato su di lui, eppure è sopravvissuto all’epurazione della setta dei negromanti di Eskiliar» Jaquish sentì Joelle sussultare e grugnire qualcosa. «Non lo sapevi? Coppie moderne! Non vi confidate nulla, pensato solo a scopare... ebbene il tuo fidanzatino era uno dei negromanti che hanno complottato per uccidere lady Viviane. Lei si che era una gran femmina, celestiale. Ci ho fatto un pensierino a fottermela, sai? Lei era lì, nuda e con la pelle vellutata, i capelli profumati e il pelo rizzato. Stavo per assaggiarla quando si è scatenato il delirio; e se te lo dice uno che divide con Alchibunazar da migliaia di anni la stessa carne, puoi crederci! C’erano chierici che fiumavano da tutte le porte, un possente guerriero, un inguardabile goblin, una fanciulla berserker, un nano traditore, un elfo saccente e persino la reincarnazione di un arcangelo. Ho fronteggiato questo variegato serraglio e non me la sono scopata: concorderai sul fatto che sia una terribile onta per una mostruosità con il mio pedigree. Veniamo a te, ora: cosa c’entri tu in tutto questo?» Jaquish di Anquelot entrò nel Tempio. «Già, credo che sia questa la domanda che ti sta ando per il cervello. Ebbene, mia cara, tu sei la chiave di volta, sei ciò che esorcizzerà la mia immonda metà. Ho cercato un modo per separarmi dal demone con cui mi sono
fuso negli abissi insondabili e marcescenti del pensiero, nei pozzi interminabili e roventi degli inferni più maledetti, sulle vette cinte da nubi di mondi sconosciuti e vergini. Voglio soltanto tornare su Arhanien, per questo ho marchiato Gabriel: per creare un faro che mi fe luce nelle tenebre degeneri dove sguazzavo. Languivo tra i deliri e ho afferrato verità sfuggenti e ho visto cosa è accaduto, cosa sta all’origine di ogni cosa e ho avuto paura. Sì, io ho visto gli Dei. O meglio, non li ho visti perché ho scoperto che non esistono: ho visto che sono stati inventati. C’è qualcosa, una sorgente, un inizio. Ma è idiota, ed è senza senso.» Jaquish gettò Joelle sull’altare che stava al centro del tempio, sotto l’immensa cupola dorata. La fanciulla urlò e gettò sangue dal naso, si ruppe un dente, si tagliò le labbra e tossì per non finire soffocata dal sapore ferroso del sangue. «Ebbene, ho scoperto che non posso separare il demone che migliaia di anni fa si fuse con me» riprese. «Ma qui è giunta l’illuminazione inaspettata, e me l’ha data Giapeto, un demone più potente di me ma ridotto a fare il custode di una grossa bottega: occorre consensualità. In pratica devo convincere colui che sta dentro di me ad andarsene, e c’è un solo modo per farlo» fissò il volto di Joelle che grondava lacrime: «devo sposarti.» Jaquish tirò Joelle per i capelli e la voltò verso i corpi massacrati dei chierici. «Non sono meravigliosi, amore?» Le grattò la testa contro il marmo freddo e macchiato di sangue e le strappò la sudicia tonaca graffiandole la schiena; slacciò la cinghia di cuoio della propria veste, lasciando cadere la spada, e la infilò tra i denti della ragazza, stringendola, poi le forzò le braccia sulla schiena sin quasi a spezzarle, e le prese con la mano sinistra, per i polsi. «In realtà non è il matrimonio che mi separerà da lui, ma è ciò che accadrà in seguito. Nel frattempo, mi auguro di essere un buon compagno: accetta il sangue di questi chierici come pegno nuziale. Ora che ne dici di consumare la nostra unione? Un po’ di sana attività riproduttiva inibirà la voce perversa di Alchibunazar e mi concederà un poco di tregua» il demone divaricò le cosce di Joelle e vi insinuò le dita della mano destra. «Vedrai, ce la seremo.» La ragazza chiuse gli occhi, morse la cinghia e uggiolò con la voce che gli inquisitori le avevano lasciato.
«Amore, sei una lurida sgualdrina!» Il demone leccò le dita adunche. «Non hai avuto nemmeno la decenza di preservare la virtù per il tuo sposo. Vediamo se con l’altro pertugio sono più fortunato» infilò il dito medio tra le natiche della ragazza. Joelle buttò un urlo e il demone si abbandonò a un riso isterico. «Vedo con immenso piacere che hai avuto l’accortezza di non concedere questo privilegio. Molto brava, Joelle, sei stata premurosa a serbarlo per me. Ebbene, sappi che non sarò gentile come il tuo ex-fidanzatino» Jaquish sollevò la propria veste e schiacciò contro l’altare Joelle, che gettò un nuovo gridò, lungo, strozzato. «Suvvia, rilassati» ghignò mentre la batteva contro il marmo duro e freddo: «ti farà sempre meno male» si piegò su di lei e le divorò un orecchio. «E visto che sono uno sposo devoto e amorevole, ti ucciderò prima di terminare.»
Esistono azioni malvagie, non anime malvagie. A parte Alchibunazar. Pensieri – Jaquish di Anquelot
XVII – Il padre di tutti gli inganni
Gabriel entrò nel Tempio di Rhiannon stremato dalla corsa: la vista dei corpi macellati e l’odore del sangue gli ricordò le celle dove Kovart e Vinglan si dilettavano a sezionare i cadaveri, pareti maledette di catacombe dove l’umanità invocava spregevoli entità dalle quali faticava ad affrancarsi. «Fermati, per gli Dei, fermati!» Il mago si precipitò verso la crociera, dove il demone si accaniva su Joelle. «Sei arrivato appena in tempo» Jaquish deformò il viso con un ghigno che gli unì le orecchie. Il corpo di Joelle sussultava sull’altare in modo innaturale, smosso dai colpi di bacino del demone. «È morta ma è ancora calda: vuoi assaggiarla?» Gabriel sentì le forze mancare, le gambe gli cedettero e il bastone gli cadde; si appoggiò con le mani al pavimento e vomitò per il dolore. «Dai non abbatterti a questa maniera. Era soltanto un buco con un po’ di carne intorno!» Gabriel fissò il volto di Joelle: gli occhi sbarrati cercavano un appiglio che non aveva trovato, le labbra livide e la pelle vellutata erano lacerate dalla cinghia. Il giovane mago spontaneo pensò a un incantesimo ma il marchio degli schiavi gli incendiò la pelle e lo tenne in ginocchio. «E dai, non fare quella faccia, non ha sofferto molto. Non dopo almeno. Certo, subito si è messa a urlare come una scrofa sgozzata, ma poi le ho mostrato un po’ dell’umanità che mi resta e l’ho sgozzata sul serio» Jaquish si scostò dall’altare, recuperò la cinghia e si rassettò l’abito.
Gabriel diede un pugno sul marmo e si asciugò le lacrime; raccolse il mana che lo circondava e, con un incantesimo curativo, vinse il dolore del marchio. Guardò ciò che rimaneva di Joelle tremando e la rabbia montò sino a prosciugargli il dolore. «Morirai» si rialzò a fatica. Jaquish rise. «L’astio è un sentimento forte, ma non lo è più del vincolo che ci lega» raccolse il fodero con l’arma abbandonata e sistemò la cintura. «Ti uccido» fece un o verso Jaquish, che strinse un pugno e lo fece rantolare in ginocchio. «Hai il mio marchio, non puoi ribellarti. Prostrati.» Gabriel si rialzò. «Prostrati.» Jaquish strinse la mano con più forza e Gabriel ricadde in ginocchio. Gabriel buttò sangue dal naso e dalla bocca, e si rialzò. Chiuse le mani, che tremavano, e sentì esplodere cuore e polmoni; il calore parve divorarlo e il tatuaggio bruciò come i ferri che marchiavano il bestiame. Ma trovò l’energia che cercava: mentre Jaquish cercava di trattenerlo in ginocchio, generò una bolla scura e viscida che lanciò di lui; il demone sentì il calore spropositato di una stella appena nata e l’impatto lo schiantò contro il muro. L’incantesimo sciolse i bassorilievi e li mischiò in una poltiglia che fu sbalzata verso l’alto in onde di marmo incandescente. La risata di Jaquish scorticò il silenzio che seguì l’esplosione. «Ma non ti hanno insegnato che non si usa l’incantesimo più potente all’inizio di uno scontro?» Jaquish ciondolò verso Gabriel, il corpo stracciato dal calore ma che rigenerava, recuperando l’aspetto originale. «Un incantesimo potente necessita di lunghi tempi di recupero, o sei tanto abile da non subire contraccolpi? In ogni modo, e nonostante la raffinatezza della tua Arte, non andrai molto lontano se è soltanto questa la potenza che riesci a generare» il demone metà umano scagliò un fulmine che Gabriel deviò a fatica con uno scudo magico. «A difenderti sembri bravo, ma quanto resisterai?» Jaquish tempestò Gabriel di fulmini che schioccavano ed esplodevano contro il baluardo; l’ultima saetta fece breccia nell’incantesimo difensivo, lo perforò e colse il giovane a una spalla, incendiandogli la veste. «Certo, le difese magiche sono meno sfiancanti degli attacchi, ma l’esito dello scontro dipende dalla quantità di mana che riesci a
utilizzare.» Gabriel cadde a terra e spense le fiamme ma Jaquish lanciò un ultimo fulmine che rimbalzò sul marmo, lo colpì e lo buttò contro una colonna. «Come può un misero fante bloccare con lo scudo di legno il masso scagliato da una catapulta?» Il ragazzo stabilizzò il volo ed evitò l’impatto, atterrando a una spanna dal polistilo, frastornato. «Sei patetico. E tu avresti seguito lezioni di battaglie magiche: mi fai pena» Jaquish raggiunse Gabriel con un balzo, l’afferrò al collo, lo sollevò e lo schiantò contro le nervature dei pilastri e strinse la morsa. «Il mana che puoi utilizzare è quello che ti circonda, se è poco non puoi farci nulla. Però puoi incrementare la velocità con cui lanciare l’incantesimo oppure quella con cui accumulare mana» serrò la stretta e le unghie perforarono la carne. «Tu hai sempre cercato l’equilibrio ma porsi a metà strada tra il bene e il male, senza scelte, non facilita l’accumulazione e il rilascio del mana. La tranquillità di una baia non ha ragione di uno tsunami, ne viene travolta» il ragazzo tossì mentre il respiro gli mancava e il marchio gli scioglieva la carne. «Non puoi arginare il mio potere, non puoi contenerlo, devi fronteggiarlo con uno maggiore.» La carcassa sventrata dell’inquisitore Niperth si rialzò; dopo di lui, si levarono anche gli altri corpi, tranne uno. L’ammasso di carne che un tempo obbediva all’anima di Niperth afferrò la mazza stretta alla cintola e si mosse verso il demone, beccheggiando con l’andatura tipica dei non-morti. Jaquish scoppiò a ridere. «Non ci posso credere! Pensi di affrontare un demone maggiore con una manciata di zombie? Ti ha dato di volta il cervello?» Gabriel afferrò le mani del demone che gli stringevano il collo. «Diversivo» sussurrò mentre le mani generavano fiamme azzurre che avvamparono la veste del demone, «serviva a distrarti.» Jaquish lasciò la presa e soffocò il fuoco. Gli zombie accerchiarono il demone e diedero il tempo a Gabriel di defilarsi e di recuperare il bastone di Arwin. «Quante volte vuoi morire Niperth?» Jaquish guardò il corpo del chierico, con le costole bianche che sporgevano oltre l’armatura dismagliata. «Una volta di troppo?» Rispose per lui, gli appoggiò la mano al cranio e lo disintegrò. Lo zombie ricadde a terra e la medesima sorte toccò agli altri corpi ciondolanti e monchi: i chierici e le sacerdotesse di lady Aylyonóra finirono spappolati o disintegrati dalla furia di Jaquish e, dopo che l’ultimo tornò a imbrattare il
pavimento, il demone esaminò la penombra rischiarata dalle prime luci dell’alba che filtravano dal cleristorio. Il mana si era quietato e l’aura di Gabriel era scomparsa. «Bene, vediamo dove ti sei nascosto» Jaquish spinse un pilastro a fasci sino a far saltare i ganci metallici delle pietre: il polistilo si spezzò una spanna sotto all’arco ogivale, s’inclinò con un boato, si abbatté contro il successivo, fu deviato verso il corridoio della navata centrale e cadde squassando le fondamenta. Il pilastro colpito si inclinò a sinistra e cadde a sua volta, senza colpirne altri ma generando un rumore assordante e sollevando una seconda cortina di polvere e schegge di marmo. Dalla volta piovvero decorazioni, altorilievi, grottesche. «Devo distruggere tutto il tempio per trovarti?» «Lo farai ugualmente, dopo avermi ammazzato» Gabriel spuntò dal primo polistilo dopo la coppia distrutta. «Credevo fossi scappato, mi hai stupito.» «La rabbia e il dolore che provo sono superiori alla paura di morire» l’aura del mago si incendiò e generò una cupa luminescenza. «Bene ricordo che con gli incantesimi del vento non te la cavi molto bene.» Jaquish scagliò un fulmine contro Gabriel, che si impuntò e la fermò con la mano sinistra. L’umano serrò il pugno, compresse la saetta e fasci accecanti gli sfuggirono dalle dita; scaraventò a terra il fulmine, che si disperse in un grappolo di corrusche radici. «Hai già usato questo incantesimo: conosco le tracce che lascia nel mana e ne vedo le evoluzioni. Non scapperò più e per ogni attacco che farai, dovrai mostrare un incantesimo nuovo. Vieni», gli puntò contro il bastone magico, «ti aspetto.» Jaquish si incarognì e scagliò una tempesta di fulmini contro Gabriel, illuminando il Tempio con lividi bagliori; il giovane mago annullò le saette generando un turbine di sabbia magica che gli roteò attorno, imbrigliò le folgori e le scaricò a terra. Jaquish ringhiò, agitò le braccia, pronunciò parole nella lingua perversa e inascoltabile dei demoni e scagliò una pioggia di stalattiti di ghiaccio contro Gabriel; il mago sfruttò i poteri del bastone ed eresse una parete di fuoco abbastanza spessa da sciogliere i proiettili.
I duellanti rifiatarono, mentre le fiamme scemavano e le ombre cupe dei polistili si infittivano. «Vediamo come te la cavi con gli incantesimi di movimento» Jaquish allargò le braccia puntando con le mani i polistili che reggevano la navata a destra e a sinistra di Gabriel, li fece tremare come alberi squassati dagli arnesi dei tagliaboschi e staccò i blocchi alla base dei piedistalli, gettandoli contro l’avversario. Gabriel deviò il blocco di destra, poi schivò quello di sinistra, arretrando. Jaquish ghermì i blocchi superiori, a coppie di marmo bianco e rosso, e li scaraventò verso il giovane, mentre dal soffitto precipitavano pezzi di volta, vetri e i pezzi scolpiti del cleristorio. Gabriel balzò sul primo immenso proiettile rosso giunto da sinistra e deviò con un incantesimo il secondo; questo finì con il colpire il blocco che recava appoggio al giovane e generò una nube di schegge e uno scoppio simile a quello delle armi da fuoco dei nani che avevano avuto ragione dei draghi nella battaglia di Antioch. Gabriel saltò su un terzo blocco, di marmo bianco, e si abbassò per schivare il quarto, che piombò contro gli archi ciechi della navata di sinistra, squassò la struttura del Tempio e gettò schegge in ogni direzione. Gabriel evitò il primo dei successivi blocchi di marmo rosso mentre quello su cui si reggeva schizzava verso la navata di destra. Balzò verso l’alto, nel vuoto, mentre il secondo gigante di marmo rosso cozzava contro quello di marmo bianco che aveva appena lasciato, ingigantendo la nube di polvere e detriti e riempiendola di riflessi cremisi. Ridiscese su un nuovo blocco, ne schivò un secondo, e deviò la traiettoria di quello su cui era atterrato, dirigendolo verso il demone triste. Jaquish fece esplodere il proiettile di marmo e il fragore riempì il tempio di echi sordi e di una nuova nube di polvere; si liberò dei detriti con un refolo magico ma scoprì Gabriel che piombava su lui, senza più il bastone e con le braccia divaricate e le mani infiammate da globi verdi. Il demone allargò le mani a sua volta e bloccò il giovane mago, che atterrò senza riuscire a scagliare gli incantesimi: le mani dei duellanti si ritrovarono una contro l’altra, divise dalle sfere turbinanti, mana tanto concentrato da obbligare un mago a controbilanciare ogni movimento dell’altro. Jaquish cercò di forzare la situazione di stallo con un
affondo della mano sinistra ma Gabriel fu abbastanza lesto da arretrare la sfera verde di destra e portarla a collidere con quella di sinistra generando un’acre esplosione che lo allontanò. «Mesi di studio ti hanno reso abbastanza potente per servirmi come desidero» sogghignò Jaquish. «Servirti dici?» Gabriel si concentrò. «Vediamo chi è abbastanza forte da comandare.» Invoco la suprema voracità del fuoco, le fiamme che ardono negli inferni più putridi, il calore che dimora nella caldera dei vulcani, l’energia che smuove la terra e gli oceani. Gabriel concentrò nelle mani magma fuso e turbinante e lo scagliò contro il demone; l’impatto illuminò a giorno il Tempio, i giganteschi pilastri tremarono e la magia sommerse Jaquish con una coltre viscosa e fluorescente che si indurì e si spense. «È ora di mettere la parola fine alla tua permanenza sul nostro mondo» Gabriel si avvicinò al bozzolo di lava solidificata e vi concentrò tutte le energie cui poteva accedere. Non mi occorrono parole di fuoco, è sufficiente il mio desiderio, la mia integerrima e cieca ambizione. Una fiamma cremisi prese vita tra Gabriel e la lava e si ingigantì vorticando a spirale come una galassia. Sono Gabriel figlio di Lester, sono il Signore del Fuoco. Sono colui che ne detiene il potere, e ne dispongo a mio piacimento. La mia parola è scolpita dalle stelle nel buio del cosmo.
Le fiamme dardeggiarono, in ogni direzione e in ogni colore, dando vita a un arcobaleno che si riunì in un glifo trilobato di splendore inavvicinabile. Invoco il distruttore per eccellenza, invoco colui che scalda e trasforma il vento, invoco colui che scioglie il ghiaccio del tempo, invoco colui che inaridisce e innalza le montagne. Invoco il potere supremo del Fuoco, ne apro e ne controllo il Sigillo. Ora. Gabriel mosse le dita tra i lobi fiammeggianti del Sigillo, ne afferrò le estremità corrusche che danzavano in un tripudio di calore, luce e fascino. Strinse il fuoco, ne sentì la forza e la purezza e lo invitò a cedergli ogni irraggiungibile potenza. Il potere del Sigillo si abbandonò al suo padrone, fluì attraverso i suoi polpastrelli e irrorò il suo corpo con un vigore nuovo, inavvicinabile; un istante prima che questo potere si trasformasse in azione, rifluì, schizzò fuori dal corpo di Gabriel e si perse tra le onde di fuoco del glifo, morente. Gabriel vide un individuo rifulgere attraverso il Sigillo, e lo vide armeggiare con il glifo in direzione contraria e con il medesimo cipiglio: era un elfo dal viso affusolato, incorniciato da un lunga chioma castana, lo sguardo era nobile e duro, la voce ruggì come una cascata. «Sono Vortigern “il Redentore”: non ai il Sigillo del Fuoco, non finché lo controllerò anch’io» l’elfo scandì le parole, gesticolò sulle escrescenze di fiamma, chiuse il glifo e impedì a Gabriel di vedere oltre e di disporre dell’energia necessaria a mettere fine allo scontro contro Jaquish di Anquelot. «A un o» il ragazzo fissò le proprie mani tremare, «ero a un o dalla meta.» L’oscuro feretro di lava si riempì di una ragnatela di crepe, Jaquish lo disintegrò e ne uscì claudicante, la veste bianca e i biondi ricci in preda alle fiamme. Si
gettò addosso a Gabriel, lo colpì con un manrovescio e lo scaraventò contro l’altare dov’era riverso il cadavere di Joelle. Gabriel riuscì a controllare il volo e atterrare prima dell’impatto ma il demone lo raggiunse e l’afferrò. «Era un incantesimo affascinante. Dove l’hai imparato? Nella Sala della Conoscenza?» Grugnì mentre il volto divorato dal magma fumante si rigenerava e i capelli ricrescevano nel loro splendente colore dorato. Gabriel penzolò, sollevato dalla stretta del demone. «Domande senza senso, hai imparato anche tu a porle? Ha importanza conoscere qualcosa che non riuscirai mai a possedere?» «Davvero?» Ringhiò Jaquish. «L’incantesimo appartiene al Sigillo del Fuoco» mormorò il ragazzo. «E solo a coloro che lo controllano è consentito disporne.» «I Sigilli degli elfi? Ridicolo. Sei diventato tanto sciocco da usare incantesimi capaci di mettere a repentaglio la tua vita?» Sogghignò. «Non andrai da nessuna parte con quelli: i Sigilli non possono avere due padroni e consumano troppa energia. Ascolta il mana, non lo sentì flebile e stremato?» Gabriel colpì ancora le mani di Jaquish, con le proprie accese. «Dimmi se è ridicolo anche questo!» Jaquish lasciò la presa, sentì le dita bruciare dall’interno e le ossa diventare lame vibranti desiderose di uscire; arretrò di un o fissando le mani, mentre il dolore si propagava alle braccia e al gomito, e cadde all’indietro, lanciando ogni incantesimo curativo che conosceva. Gabriel si rialzò e richiamò il bastone magico, che gli balzò tra le mani. «Se il mana scarseggia, ti finirò in un altro modo» fronteggiò il mostro, che si era ripreso. «Ottimo Gabriel, finalmente un bell’incantesimo. Ma è un peccato che il mana non sia sufficiente per i colpi più potenti del tuo grimorio» un turbine di energia limacciosa e putrida ruggì alle spalle del demone. Il giovane strinse il bastone e dalla gemma scaturì una lama di fuoco che trasformò l’arma in un’alabarda. «Genera tutte le tenebre di cui sei capace. La
mia luce le dissiperà come neve al sole.» «L’arma inutile di Arwin» chiosò. «Quel tuo professore non è andato molto lontano con quella» Jaquish brandì la spada e la fece roteare. «Sono un demone e ne ho la forza» attaccò con un fendente ma il colpo fu parato dall’alabarda senza difficoltà. «Sei un demone e nei hai la forza, ma ho appreso come la tua potenza dipenda dalla quantità di mana» il mago roteò l’arma, lo attaccò ma Jaquish schivò il fendete con un balzo laterale. «Forza, Jaquish di Anquelot, vediamo quanto diventi forte mentre il mana viene assorbito dall’alabarda.» Il demone vibrò un montante mentre con la mano sinistra preparava un fulmine; Gabriel fermò la spada con il bastone e la saetta con la mano: l’energia dell’incantesimo, compressa dall’empito magico dei duellanti, esplose e li allontanò. Jaquish balzò all’attacco ma Gabriel evitò l’affondo, colpì il demone al volto e incendiò i suoi lunghi capelli biondi. «Alchibunazar è nato plasmando argilla, mestruo, odio e fuoco. Ci vuole altro che le magie del tuo mondo per distruggerlo» Jaquish aveva il volto divorato dalle fiamme e, nonostante gli occhi avvizzissero e la carne sfrigolasse, assestò un fendente che, parato da Gabriel, lo ricacciò lontano. Quando le fiamme cessarono, il teschio bruno e graveolente si ricoprì dei muscoli perduti, dei vasi sanguigni, della pelle e infine gli occhi azzurri di Jaquish e la bocca carnosa tornarono a sorridere. La lama di fuoco dell’alabarda singhiozzò e si spense. «Come combatterai senza il tuo giocattolo?» Jaquish vibrò un nuovo attacco ma Gabriel lo parò con la parte alta del bastone; ne seguì un rumore metallico e la lama inserita nella fondo del bastone scattò fuori: Gabriel alzò la nuova punta del bastone e l’infilò sotto l’ascella sinistra di Jaquish, che gridò. Il giovane mago rigirò l’arma e con la gemma colse la mano destra, che mollò la spada. Adesso. Gabriel fece per finire Jaquish con la punta retrattile ma si fermò, il bastone gli cadde, la lama rientrò ed egli fu costretto in ginocchio dal dolore del marchio degli schiavi, che si propagò per tutto il suo corpo.
«Perché?» Urlò Gabriel tra le fitte. «Perché soltanto adesso?» Jaquish tossì. «Una domanda sensata, finalmente: un po’ tardi ma l’hai fatta.» «Perché hai il potere di piegare il mio corpo e non mi hai ancora distrutto?» Gabriel sentì dolore del marchio rincrudirsi e si scostò dal demone che prese a vibrare, agitato da una poltiglia purpurea che gli fuoriusciva dagli orifizi. Jaquish cadde a terra e prese a ridere senza sosta, poi le risate divennero grida e il demone sussultò in preda a spasmi che lo contorcevano in pose sofferenti e innaturali. Il corpo si attorcigliò, poi si alzò, tirato per i piedi dalla nube di poltiglia che si era addensata sopra di lui, e fece tre i all’indietro, camminando su un gomito e sulla testa. Jaquish cadde e la nube viscosa e putrida che fluttuava a un metro da terra, ghermì Gabriel, insinuando un tentacolo gonfio di saette nel marchio. Jaquish tossì. «Avresti dovuto capirlo prima. Davvero pensavi che il mio fine ultimo fosse quello di portare morte e distruzione nel tuo lurido mondo?» Vomitò. « Come se voi umani non foste capaci di nuocere a voi stessi...» si rialzò. «No, la distruzione non è fine a sé stessa, nemmeno la morte la è, c’è un disegno superiore e sfuggente. Per liberarmi di Alchibunazar dovevo trovargli un ospite più forte.» Gabriel urlò, squassato dai fulmini che si insinuavano sotto la sua pelle, profanato dalla poltiglia che si fondeva con la sua carne. «E non dovevo soltanto trovare qualcuno più potente di me, dovevo convincere il demone che lo fosse. Potevo indurti a mostrare tutta la tua forza solo in questo modo, mi spiace. Anzi no, non mi dispiace per niente: è l’unica strada che avevo.» «Questa è follia: solo uno scriteriato può ideare una barbarie tanto sragionante» la voce di Gabriel uscì gutturale, deformata. «Non è stata follia, è stata disperazione» Jaquish fissò Gabriel, sorrise e guardò oltre gli occhi del ragazzo. «La disperazione che proverai tra migliaia di anni quando anche la tua anima verrà divorata da quell’abominio.» «Aiutami: insieme possiamo sconfiggerlo» lo implorò Gabriel mentre la sostanza lo penetrava e si fondeva con lui.
«Questo è probabile. Ma sai che cosa accadrà in seguito? Accadrà che penserai a vendicarti. No grazie, guarda al lato positivo della cosa: non sei curioso di sapere cosa si prova a essere due?» Jaquish di Anquelot fece un nuovo, folle sorriso, e si allontanò. Non andò all’uscita ma tornò nella navata che dava accesso all’edificio dei servizi e si chinò sul corpo di una donna che non aveva ceduto alla morte. «Mi ha stupito non trovarti tra i non-morti: sei più forte di quel che credevo. Questo però ti farà soltanto soffrire di più» piegato sulle ginocchia, Jaquish fissava gli occhi di lady Aylyonóra, accesi da un flebile guizzo di vita che non si arrendeva. «Era meglio se morivi come tutti gli altri.» «Tu non sei quell’abominio» riuscì a sussurrare l’inquisitrice. «No, non lo sono più, non sono più la sua metà umana, sono tornato quello che ero; Jaquish di Anquelot, il mago che amò la regina Elyon.» L’inquisitrice tossì. «Non ti crucciare, so cosa vuoi dirmi. Vuoi chiedermi di aiutarlo» Jaquish sospirò e incrociò le braccia. «Ebbene, se ti ascoltassi, lascerei su questo mondo un mago molto più potente e vendicativo di me.» «Potrebbe dist» la voce della sacerdotessa fu strozzata dalla fatica. «Quel demone potrebbe distruggere l’intera Amaradantis. Certo, lo so. Tuttavia ciò che accadrà non suscita in me alcun interesse. Anzi, sarà molto meglio che ne nasca un immenso caos: più l’umanità soffrirà, più sarà facile controllarla» fece un sorriso e si rialzò. «Addio, non vi basterà tutta la buona sorte di questo mondo.» «Aspetta, come puoi pensare cose tanto spregevoli?» L’inquisitrice reagì, rinvigorita da una preghiera silenziosa. «Non sono spregevoli, sono utili. Aiutarti torna a mio svantaggio, non avrebbe senso farlo.» «Se non ci aiuti non ce la faremo.»
«Peggio per voi, se il vostro sacrificio comporta un bene per me, non vedo perché osteggiarlo.» «Come puoi odiarci tanto?» La voce arrochita della sacerdotessa non scalfì gli occhi freddi del mago, che sbuffò. «Suvvia, non è odio, è tornaconto. Voi non stavate torturando Joelle Greyfire per giustificare il vostro ruolo? Provare sulla propria pelle i patimenti che avete inflitto a quella fanciulla vi farà comprendere cosa significa disprezzare il prossimo. Forse. In ogni modo mi fa sentire davvero appagato» se ne andò senza attendere repliche. «Un’ultima cosa, giusto per aggiungere disperazione a quella che ho scatenato: Joelle non c’entra nulla con i negromanti, così come non c’entrava nulla sua cugina Viviane. Addio, spero che Rhiannon ti perdoni. Anzi no, non te lo meriti» Jaquish la salutò con un cenno frivolo e uscì dal Tempio. Lady Aylyonóra aveva il volto irrorato dalle lacrime; quando si alzò, i polmoni le parvero esplodere e le vecchia membra spezzarsi come cristallo; Alchibunazar, chino su Gabriel, iniziò un lamento greve che lo percosse e lo avvolse in un vuoto vertiginoso e repellente. La sacerdotessa abbandonò le macerie imputridite dal sangue dei chierici e trascinò le sue membra sino a raggiungere la creatura. Il relitto grigio e morente di lady Aylyonóra si fermò nei pressi di Gabriel e sostò al cospetto dell’essenza vaporosa che aveva profanato il Tempio di Rhiannon, un indistinto strappo di tenebra violacea ricolmo di fulmini forcuti e di assurda malvagità. «Mai una cosa di tale mostruosità aveva osato tanto!» Gridò con voce sofferente ma rediviva. «Sono Aylyonóra, un’anima sporca di sangue ma colma di dolore. Ti ordino di lasciarlo nel nome di Rhiannon» pensò al volto triste di lady Viviane di Eskiliar. Il demone che aveva posseduto Jaquish di Anquelot vomitò bestemmie di una follia tanto inconcepibile da assordare la sacerdotessa; lady Aylyonóra si ribellò alle oscenità e protese le braccia verso il demone. Chiamo la luce della speranza, l’alba che affranca dagli incubi, il Fuoco Sacro di Rhiannon,
la purezza della Fiamma Danzante. Alchibunazar roteò come una galassia di luci oscure e un’amorfa escrescenza colpì il braccio della sacerdotessa, spappolando la carne e schiantandola sul pavimento in una pozzanghera viscosa e livida. Le ossa le ricaddero lungo il corpo ma lady Aylyonóra non interruppe la preghiera. «Arrenditi, vecchia baldracca» la voce antica del demone fu un tuono che squassò il tempio, fece vacillare le alte colonne, i contrafforti, la cupola, e precipitare blocchi dalle zone prive del sostegno dei polistili. «Non puoi opporti alla luce di Rhiannon, non puoi resistere al potere della Dea. Ella è moglie, è amante, è madre. E ora che la riconosco è più potente che mai.» «Invocala ora, e che si mostri più forte di me» la nera galassia si protese verso la sacerdotessa, vorticando e straziando la carne di Gabriel, che urlò con tutto il fiato che aveva. Alchibunazar avvinghiò la sacerdotessa in un tripudio di fulmini lividi: la pelle, i muscoli e la carne di lady Aylyonóra vennero liquefatti e spruzzati sul pavimento e sui pilastri di marmo; le ossa schizzarono dappertutto, spolpate, frantumate, il cranio rimbalzò due volte, si spezzò e il cervello della sacerdotessa si sfracellò in una macchia ellittica. L’abnorme mostruosità si fermò, pulsò e tremò, poi una lama di luce la squarciò e la fece arretrare dal corpo di Gabriel; il grido che ne venne, arrivò a pugnalare gli spiriti di ogni abitante di Amaradantis, destando chi dormiva e spezzando i respiri di coloro che ancora festeggiavano. La figura diafana di lady Aylyonóra riluceva di una purezza irraggiungibile. «Puoi prendere il mio corpo, banchettare con la mia carne e suggere ogni goccia del mio sangue» la voce stentorea dello spettro della sacerdotessa attraversò i decenni guadagnando la forza immortale della gioventù. «L’unica cosa che non puoi prendere è il mio spirito.» Questa è la luce di Rhiannon, la luce imperitura dei giusti. Il potere di resistere al dolore,
è più forte di quello di infliggerlo. Alchibunazar eruttò un nuovo grido che sconvolse l’edificio ma le sue spire non riuscirono a sottrarsi al potere irrorato dallo spettro di lady Aylyonóra. «Ora, ragazzo!» Una seconda lama di luce scagliata dalla sacerdotessa rischiarò le tenebre dell’abominevole Alchibunazar e Gabriel, redivivo, usò l’incantesimo più potente che aveva appreso. Invoco le fiamme sacre che divorano i cadaveri, invoco l’ardore fatuo che imputridisce la notte, invoco il fuoco che ghermisce anche il nulla, giunga la forza delle stelle, inesauribile, pura. Un globo fiammeggiante sfavillò tra le mani di Gabriel, che l’indirizzò contro la perversione che ammorbava il tempio di Rhiannon, imberciandone l’essenza sproporzionata e ributtante. Alchibunazar si contorse, vorticò, generò un rumore viscerale e collassò in una vertiginosa implosione. Il fuoco di una stella inghiottì le tenebre e si spense. Gabriel si accasciò al suolo, madido e ferito; il tatuaggio sulla spalla era sparito per sempre. Il mago guardò la figura diafana, pervasa dalla bellezza erosa dal tempo, un corpo flessuoso e una chioma ardente. «Grazie» sussurrò con un filo di voce. «Non ringraziarmi, ragazzo: fuggi! Fuggi perché coloro che verranno, vedranno te e questo macello. E non crederanno che ai loro occhi.» Gabriel si rialzò; il fantasma della sacerdotessa divenne una nebbia impalpabile e si spense in uno sbuffo lucente. Il giovane disobbedì, andò all’altare, si inginocchiò al cospetto del corpo di Joelle e scoppiò in un pianto amaro che gli bruciava nei polmoni; asciugò le lacrime, chiuse gli occhi della fanciulla e le carezzò una guancia, gelida. «Non ti lascerò alle loro grinfie» singhiozzò, vinse il tremore che lo sconvolgeva e sollevò il corpo tra le braccia. «Ti porterò dove non ti troverà nessuno. E
scoverò un modo di riportarti in vita, dovessi aprire tutti i Sigilli ed evocare tutti i demoni di Arhanien, lo giuro!»
Vortico tra le ombre di un mondo depredato e morto, il mio corpo diafano e liquido volteggia su plaghe desolate e polverose dove carcasse incancrenite che furono regni, si aprono come pustole e si stagliano nella luce vaga e putrida di stelle ormai spente. Mi avvolge un silenzio greve, un’abominevole e totale vuoto che inghiotte e divora il ricordo del delirio che si è consumato. Venti cosmici giungono da profondità siderali, e spazzano, e decompongono le torri innalzate dal popolo con le orecchie a punta, individui meschini che avevano eletto la scienza a sordida religione; eppure il popolo dalle orecchie a punta non è morto, sopravvive dentro bare di cristallo raccolte in una esecrabile diaspora, un viaggio di sepolcri in un limbo dal quale esiste un ritorno. La verità è sotto i miei occhi, è tangibile ma priva di senso, è maledetta. Ultimo volo su un mondo senza nome – Jaquish di Anquelot
XVIII – La più grande illusione di Alioth
Jaquish di Anquelot entrò nell’Università dopo aver ucciso la guardia all’ingresso. Varcò l’arco sormontato dal blasone, attraversò il cortile quadrato e si diresse verso il chiostro di Malbany. La fredda morsa della notte si stava allentando e l’orizzonte rosseggiava, pallido. L’Università languiva nella luminescenza sinistra delle pietre inibitrici, quasi scariche dopo la battaglia magica combattuta da Arwin e i suoi alunni. Appena Jaquish entrò nel corridoio del chiostro, vide che i corpi erano stati rimossi e che l’odore della morte era stato spazzato da quello meno pungente della neve. Un professore con cinque alunni rimaneva in piedi lungo il aggio che conduceva alla biblioteca, era un uomo alto, magro e con i capelli neri e lunghi nonostante la vistosa stempiatura. «Tu sei quello che ha ucciso Arwin» Alioth interruppe la rinettatura dei segni del massacro e fece cenno agli studenti di scappare. Jaquish lo guardò in tralice. «Ti sbagli, non so nemmeno di cosa stai parlando.»
Il professore si mosse verso di lui con i lievi. «Non prendermi per il culo: sei un pitale ricolmo e il fetore della tua magia è rimasto impresso sin nella pietra. Arwin non mi era simpatico ma se non liberi dalla tua ingombrante presenza il mio onorevole scroto, non mostrerò alcuna pietà.» «Mi stupisce come tu non comprenda il pericolo che sei in procinto di fronteggiare: tra un attimo di tutte le tue chiacchiere non rimarrà nemmeno un fugace ricordo.» «Mi fai sbracare dal ridere: liberarmi di te mi darà più soddisfazioni di una bella defecata.» Jaquish preparò gli incantesimi offensivi più potenti che conosceva. «Toglimi una curiosità, patetica caricatura di un mago: che razza di magie insegneresti in questa ridicola scuola?» «Sono Alioth» abbozzò un inchino, «e insegno incantesimi illusori.» Jaquish fece una grassa risata. «Fantastico! E come hai intenzione di affrontarmi, con incantesimi finti? Vedrò finte palle di fuoco che simuleranno di incenerirmi?» «Per la quantità di stronzate che stai vomitando meriteresti di essere spazzato via da un’enorme scoreggia ma penso che ti degnerò con i miei incantesimi più articolati.» «Se il tuo linguaggio rispecchia la raffinatezza del tuo pensiero non faticherò a liberarmi di te.» Alioth allargò le braccia e si chinò in avanti ma l’avversario non si lasciò impressionare. «Ti avviso che ho una certa familiarità con le illusioni» Jaquish copiò la posizione di attacco. «Sei un millantatore e le tue parole valgono meno dello sterco di cane» Alioth inarcò le labbra: «la mia illusione è cominciata non appena ti ho visto.» Jaquish si irrigidì e le colonne disegnate da Malbany presero a torcersi e a zufolare; il corridoio quadrato che girava intorno al chiostro si impennò e giunse
a sfidare le leggi della gravità e della geometria; ogni corridoio colonnato si innalzò, chiudendo una struttura visionaria. I cachinni delle colonne si chiosarono, rincorrendosi in una claustrofobica cacofonia di echi, suoni, rumori. Fu un tripudio di immagini impossibili e di suoni sragionanti e vertiginosi che culminarono in un chiostro dalle proporzioni irrazionali e dalla dimensione temporale indefinibile. Jaquish lanciò lingue di fiamme che abbracciarono il corridoio e vorticarono verso Alioth, sciogliendo le colonne, zittendo le grida dei capitelli e delle gargolle ma, un attimo prima che colpissero Alioth, le vampate impennarono e si spensero contro un muro che non poteva essere dove si trovava. «Si dice che un dolore abbastanza acuto possa uccidere un essere vivente. E non parlo della distruzione fisica di un corpo ma dell’essenza che ci rende vivi» Alioth fece un o verso Jaquish e, stringendo le mani, contorse il chiostro, distorcendo le proporzioni delle cose e trasformando le linee rette in un delirio elicoidale. «Il corpo non sopravvive alla follia in cui precipita la mente.» «Ho sentito anch’io una cosa del genere, ma erano le fantasie di vecchi maghi che si fecero imbalsamare nella speranza che l’anima sopravvivesse in un corpo posticcio» Jaquish scagliò una serie di contro-incantesimi che riuscirono a contrastare l’effetto rotativo di quelli di Alioth e dopo un braccio di ferro magico, riuscì a creare un punto fermo attorno ai propri piedi: il delirio visivo e sonoro che lo tempestava gli diede tregua. «Se questa teoria fosse vera» aggiunse Alioth mentre cambiava le proporzioni delle allucinazioni rivestendo le immagini di una patina color seppia «forse basterebbe l’illusione di un tale dolore.» «Non nascondo che potresti essere nel giusto: se fosse vero, tuttavia, ti occorrerà mettere in pratica questa intuizione prima che comprenda le regole del tuo gioco» Jaquish lanciò una sequenza di incantesimi che arrivarono a sciogliere le proporzioni deformate da Alioth, rivelandone le forme reali. «Non sono poi tanto complessi i tuoi inganni: sei un pagliaccio, sei un vericida della peggior specie» cancellò la patina color seppia, riportò la geometria alla regole classiche e raggiunse il mago. «I mattoni che compongono la realtà si distinguono facilmente da quelli fasulli che hai impiegato per il tuo inganno: mi avevi preso per un bambino?» Jaquish balzò verso Alioth ma prima di afferrarlo, un lampo lo
accecò e lo costrinse a fermarsi per non cadere; sentì un dolore lancinante alla nuca e quando riaprì gli occhi, vide una bambina con un grembiule bianco che gli muoveva la mano davanti al naso. «Maestra! Jaquish è svenuto ancora» la bimba aveva occhi celesti, riccioli neri e labbra carnose. Accanto a lei si radunò il cerchio dei suoi piccoli compagni. «Jaquish, tutto bene?» L’insegnante era una donna bionda dalla faccia piena, preoccupata, e mi aiutò ad alzarmi. Non riuscii a dire una parola e rimasi a guardarla, inebetito, mentre si rasserenava. «È successo ancora? Hai visto quelle cose?» La maestra mi prende in braccio e con la mano destra mi tiene il viso accanto al suo. I miei compagni di gioco mi guardano con facce scure. Dietro di loro un giardino fiorito annuncia una primavera ricolma della sua virtù e una siepe verde ci separa da un orizzonte bigio e graffiato da grattacieli che si innalzano sin dove riesco a guardare. I profumi delle rose, dei tulipani e dei glicini è sopraffatto dall’odore del legno che brucia nella caldaia di un treno che trasporta capi di bestiame mugghianti, fischia e si ferma dietro la siepe. «Hai visto ancora quelle cose?» La bambina dai capelli riccioli mi guarda con stupore, invidia e quindi entusiasmo. «Racconta, dai racconta» le brillano gli occhi. «Silenzio bambini» la maestra li redarguisce, la voce è calda come il maglione di lana che indossa. «Non è bello che Jaquish racconti quello che vede. Lasciatelo stare e tornate a giocare» i bambini fanno un coro di dissenso, poi tornano sulle altalene, sugli animali di legno, sulle costruzioni di plastica e corda. Un suono assordante proviene da un gruppo di macchinari che lavorano ad altri macchinari che lavorano ad altri macchinari che a loro volta armeggiano con lo scheletro metallico di un titano di calcestruzzo. La maestra mi porta dentro la casa di mattoni rossi e il tetto di tegole brune sfiorata dalle ombre gigantesche delle macchine. «Hai avuto paura, Jaquish? Ora è tutto finito, non devi preoccuparti, non succederà più. Vai da Corinne, si occuperà di te.» Corinne è un’enorme signora di mezza età che indossa un camice bianco che le arriva alle caviglie. Ha una faccia che pare esplodere e capelli scuri, lunghi, unti.
Porta due occhialoni neri che la sgraziano e ha un cartellino, con il nome e con una sua foto da giovane, che penzola dal taschino della divisa. Mi fa sedere su un divano di pelle ricoperto da uno strato di carta scabra e mi regala una caramella al miele. «Ti è capitato ancora, Jaquish?» Si accomoda su una sedia di pelle dello stesso stile del lettino e fa un sorriso sdentato. «È la terza crisi isterica questa settimana, ed è soltanto giovedì» ha una voce piatta e scrive qualcosa su un blocco di foglio bianchi. La stanza della dottoressa Corinne ha le pareti bianche ricoperte dai disegni sproporzionati fatti da noi bambini; appesa dietro la scrivania c’è la foto sgualcita di un cane e un calendario di isole tropicali. Dal neon appeso al soffitto si diffonde una luce fredda, morta. L’odore pungente dei medicinali impregna la stanza. «Allora raccontami quello che ti è successo stavolta. L’altro ieri hai attraversato una palude infestata da coccodrilli e stregoni mentre ieri eri alla guida di una goletta pirata che prendeva all’arrembaggio un galeone. Non c’è male per un bambino di cinque anni. Stavolta che cos’hai sognato di essere? In cosa si trasformava l’asilo, che mostri diventavano i tuoi compagni?» Balbetto qualcosa, poi la vedo inarcare un sopracciglio e fare una smorfia feroce. «I tuo compagni hanno detto che prima di svenire raccontavi di un mondo con draghi e cavalieri e che eri una sorta di mago, uno stregone metà demone o qualcosa del genere. Tu possiedi una fantasia vulcanica, eppure coltivarla non fa altro che peggiorare la tua malattia: soffri di intensi sdoppiamenti della personalità, non dovresti dare corda alle tue fantasie» fa un’espressione comprensiva. «Perché continui a raccontare favole? Non credo che un bimbo della tua età debba cimentarsi in imprese del genere. Non puoi giocare come tutti gli altri bambini invece che sviscerare la cosmogonia di un universo tutto tuo? Ammesso che tu sappia che cosa sia la cosmogonia, non potresti fare castelli di sabbia invece che per aria? Potresti cavalcare un pesce di legno invece che un drago e potresti dondolarti sull’altalena invece che balzare da un estremo all’altro della tua fantasia? Non devi scherzare con queste cose. La tua è una malattia. Ed è anche seria» si imbroncia. «C’è qualcosa che non ti piace nei tuoi compagni?»
«No, non c’è niente che non va» la mia voce è un sussurro. «Se non c’è niente che non va, perché ieri durante il riposino del pomeriggio hai legato Gabriel al letto? Hai detto che doveva fare un giro di chiglia. Non è una cosa bella. Non è vero che non la è?» Il mio silenzio altera Corinne. «Ho capito. Non vedo altra soluzione che darti le medicine» lascia il blocco e la penna sul tavolino che sta tra la sedia e il divano, va all’armadietto di metallo a fianco della scrivania e prende una boccetta di vetro con un’etichetta fitta di parole. «La tua mamma e il tuo papà non saranno contenti di sapere che ti ostini a non voler guarire. La tua mamma piange tutte le volte che le raccontiamo le storie che inventi; il tuo papà inveisce e manca poco che non bestemmi. Lo sai che i tuoi genitori ti vogliono tanto bene? Il tuo papà dice che diventerai un bravo ingegnere, che seguirai i suoi i» Corinne versa il contenuto su un cucchiaio e torna da me. «Con questo spariranno tutte le visioni, almeno per oggi. Adesso fai il bravo e apri la bocca. Dopo, se prometti di non raccontare altre storie, ti farò tornare a giocare con gli altri. Su da bravo, non vorrai far piangere la mamma, vero?» Afferro la penna sul tavolino e la conficco nel collo di Corinne, sotto il mento, affondandola tutta nella pelle tirata dal grasso. La cicciona gorgogliò, barcollò all’indietro e precipitò sulla scrivania spingendola contro la sedia e la parete, facendo un gran trambusto. Jaquish estrasse la spada con cui aveva trafitto Alioth al ventre. «Ti faccio i miei complimenti, sei il primo che ne esce» Alioth sputò sangue mentre la lama gli torceva le budella. «Colui che dovrei chiamare padre era un invasore che ha stuprato mia madre durante un saccheggio, e mia madre invece, lei è morta mettendomi al mondo.» Alioth afferrò le braccia di Jaquish e lo immobilizzò. «Decisamente una vita sfortunata, la tua.» Jaquish lo colpì con una testata, si liberò, estrasse la spada dalla ferita e con un fendente strappò la veste sbiadata di Alioth e gli squarciò il ventre. «I tuoi inganni non sono granché. Una mente forte non ha alcuna difficoltà a distinguerli dalla realtà.»
Alioth cadde a terra e si portò le mani sul ventre, che grondava sangue e budella. «Eppure anche tu ci sei cascato.» «Cascato?» Jaquish si guardò attorno ma vide che il chiostro di Malbany era tornato al suo reale splendore. «La mia più sublime illusione, l’illusione perfetta» Alioth tossì e vomitò sangue; Jaquish diede un calcio alla mano con cui l’insegnante proteggeva la ferita e vi infilò la punta della spada, srotolò un pezzo d’intestino e lo lasciò cadere, sbalordito. «La vita» il corpo del docente esplose in una nuvola di polvere vetrosa. Jaquish cercò il vero Alioth, o chiunque si nascondesse dietro quella cosa, ma il mana era quieto e non rivelò la presenza di burattinai. «I miei complimenti, dovunque tu sia adesso. Se mi senti, sappi che non ho il tempo di cercarti ma che è un vero peccato...» Jaquish abbandonò il chiostro di Malbany e si diresse verso la biblioteca controllando che non giungessero sorprese dal vero Alioth, dovunque si trovasse. * Gabriel entrò nella Sala della Conoscenza pronto a combattere l’ultima battaglia. Le gemme luminose erano accese e la loro luce bluastra illuminava le librerie riaggiustate e i libri risistemati. Del corpo di Rachel e dell’odore del sangue non c’era più traccia e nell’aria aleggiavano i ghirigori di una bacchetta di incenso profumata, accesa. Può essere ovunque, il giovane mago si mosse sorvegliando a destra e a manca, ma il mana era placido, rilassato come non lo sentiva da tempo. Strinse il bastone di Arwin, e lo percepì pronto a divorare l’energia magica per trasformarla in fiamme danzanti. «Chi è?» La voce fiacca di Mirgram attirò Gabriel dalla parte opposta all’entrata; il rettore era steso su un divano, lo sguardo che errava alla ricerca di risposte sconosciute. «Maestro, va tutto bene?» Gabriel lo raggiunse senza prestare attenzione. Mirgram tossì. «Ovviamente no. i decine di anni ad apprendere, a migliorarti, a diventare uno dei maghi più potenti di Arhanien e poi spunta dal
nulla un tizio senza nemmeno un filo di barba che si rivela tanto più forte di te che non ti distrugge per pietà. Sì, ti mostri tanto vecchio e attaccato alla vita da fargli pena» i suoi occhi fissarono il vuoto. «Era un mago di una potenza indescrivibile, era giovane ma anziano allo stesso tempo; alto, capelli biondi a boccoli sulle spalle, gli occhi come il ghiaccio, il sorriso laido, la tonaca imbrattata di sangue. Mi ha guardato, ha riso e mi ha lasciato stare. Come un leone che ignora un topolino. Come un drago con un corvo.» «Che cosa ha fatto, cosa ha preso?» Mirgram rimase a fissare il punto irraggiungibile, oltre gli scaffali. «Libri, ovviamente, ma non tutti quelli che poteva prendere, non i testi più antichi e nemmeno quelli proibiti. Ha preso soltanto alcune copie di ciò che gli occorreva. Sapeva ogni cosa, era come se... come se...» Mirgram si riebbe: «come hai trovato questa sala?» Gabriel si guardò intorno e finse stupore. «Non lo so, ho seguito le tracce magiche che conducevano qui. Avevo visto quell’intruso ma la paura mi ha trattenuto e sono sceso solo adesso.» «Sì, capisco. Ovviamente hai avuto paura. Ne ho anche io, adesso» il rettore si alzò a fatica. «Figliolo, la conoscenza deve avere dei limiti. Quel mago li ha superati, non capisco bene come e quando sia riuscito ad accumulare una conoscenza tale: la sua aura era terrificante» Mirgram prese a tremare, «bisogna porre fine al delirio di quell’uomo: sono convinto che ci sia lui dietro tutto quanto è accaduto. Non so bene in che modo ma ovviamente lo scoprirò.» «Maestro, avete appena detto che devono esserci limiti alla conoscenza: forse stavolta è meglio non sapere che disvelare verità.» Mirgram rimase pensieroso e risedette, quasi l’osservazione gli avesse procurato dolore fisico. «Che limiti ha la conoscenza? Chi li ha posti, chi li ha decisi?» Rimuginò, vago. Kaerwood, il rettore prese una sfera trasparente che teneva nella tasca del lucco. Kaerwood può aiutarmi. Deve aiutarmi: un danno recato a un membro è fatto all’intero Consiglio degli Anziani. Mirgram balzò in piedi, rinvigorito. «Devo andare Gabriel, sì, devo andare. Prima dall’Imperatore per fargli emettere un dispaccio di cattura in tutto l’Impero. E poi... poi in un altro posto. Tra un’ora ci sarà una riunione nell’Aula Magna. Ovviamente non dovrai mancare,
spiegheremo quanto è successo e decideremo sul futuro dell’Università. Non temere, non vi accadrà più nulla. Andiamo.» Gabriel osservò il rettore che si precipitava su per le scale e, dopo una manciata di secondi, ne udì l’eco della voce. «Sbrigati a uscire Gabriel, non puoi rimanere giù» il giovane ubbidì e Mirgram richiuse la porta magica. «Tu non dovresti essere a conoscenza di questo luogo. Se giuri di non farne parola con nessuno posso consentirti di accedervi.» «Lo giuro» Gabriel annuì con un sorriso falso e Mirgram lo ringraziò. «Io vado adesso, tu raggiungi gli altri.» «Si maestro, obbedisco» Gabriel mentì, andò nella sua stanza e prese tutte le sue cose. Non posso rimanere, ho una vendetta da compiere. * Gabriel aprì la porta di casa e sorprese la cugina Marian intenta a preparare la colazione. Il profumo della pancetta e delle uova saturava la cucina e il mago sedette al tavolo dove Elisabeth e Caen si erano appena accomodati. Llywelyn era steso su una panca e Gabriel lo svegliò rovesciandogli in faccia una brocca d’acqua. «Credevo che il letto fosse comodo.» «Devo ancora andare a letto» grugnì il mercenario, sconvolto dai bagordi. «Allora sali e preparati, dobbiamo partire.» «Partire? Ma cosa dici?» Elisabeth si alzò in piedi, scura in volto. «Non puoi sbatterci a destra e a manca come pacchi.» «Io e Llywelyn dobbiamo partire, cugina. Soltanto io e lui.» «E perché noi due e basta?» Llywelyn si lamentò e Caen fece finta di niente, picchiettando il cucchiaio di legno contro la ciotola. «Perché Caen deve rimanere a proteggere le mie cugine.»
Caen ed Elisabeth si rasserenarono e Gabriel apparecchiò anche per sé, agitando le dita. «Dove dobbiamo andare?» Domandò Llywelyn. Gabriel lanciò al terraltiano una coperta con la quale asciugarsi e Marian aggiunse della pancetta alla padella appesa nel camino. «Ha importanza?» Domandò il mago, sedendo a tavola. «Dobbiamo soltanto fare alla svelta: prendi l’indispensabile, viaggiamo leggeri.» «E quando tornerete?» Marian travasò le colazioni già cotte su un tagliere e lo portò a tavola. «Prima di quanto possiate immaginare.» «Hai combinato qualcosa di grave?» Elisabeth non ebbe la forza di guardare il cugino. «No. Devo trovare una persona che mi impedisce di fare ciò che desidero. I nostri destini sono incrociati: se non lo trovo io, sarà lui a trovare me.» Llywelyn si infilò in bocca un tozzo di pane e una fetta di pancetta abbrustolita. «Talvolta difendersi risulta vincente sull’attaccare» ironizzò il mercenario. «Talvolta vince chi fa la prima mossa» rispose Gabriel, cupo. «Allora come è andata con la tua dama?» Domandò Elisabeth, per alleggerire la discussione. «All’Università sono successe cose mostruose stanotte» spiegò Gabriel. «Qualcuno ha esagerato con un incantesimo, è apparso un mostro che ha ucciso molte persone.» Elisabeth e Marian sbiancarono. «Io so come distruggere questo mostro e devo trovarlo.» Llywelyn si alzò e prese le scale. «Riempio una sacca e arrivo» disse mentre masticava.
«Ma perché devi andare proprio tu?» Il pianto strozzò la voce di Marian. «Te l’ho detto: conosco il modo di affrontarlo.» «E non puoi delegare nessuno, non puoi istruire le truppe dell’Imperatore a farlo?» Marian lo supplicò. «Non è semplice come sembra» Gabriel divorò la pancetta e non disse più nulla. «Avremo bisogno di cavalli» Llywelyn scese con lo zaino dell’armatura, la fransisca, le altre armi e una borsa. «Avevo detto il minimo indispensabile» lo riprese il mago, con la bocca ancora piena. «È il minimo indispensabile. I cavalli?» «Sono qui fuori.» Llywelyn salutò Caen con un abbraccio potente e quindi Marian ed Elisabeth, con un bacio pieno di calore, e altrettanto fece Gabriel. Il mercenario e il mago uscirono in strada, accompagnati, e salirono sui cavalli, legati all’occhiello ricavano nello stipite. L’aria del mattino era frizzante e la capitale ferveva dell’agitazione del popolo e dell’andirivieni di soldati che avano da un vicolo all’altro. «Non fate caso a quanto accade e non mischiatevi alla gente» sentenziò Gabriel salutando per l’ultima volta le cugine. «E non fate parola con nessuno di un parente iscritto all’Università. Evitate qualsiasi complicazione. A presto.» «Che cosa è accaduto, tu c’entri qualcosa?» Ansimò Marian. «Io non ho fatto nulla ma non è bello discutere della propria innocenza con i ferri roventi di un inquisitore. Non date nell’occhio, torneremo presto» il giovane diede di sprone e lanciò il cavallo verso il Ponte dei Ratti. Llywelyn affiancò il mago e fece un sorriso astuto. «Mi hanno detto che c’era una fanciulla cui facevi la corte. Dobbiamo are a prenderla?» Gabriel non rispose e lanciò il cavallo nella bruma che si diradava.
«Anch’io ho perso una donna, l’ho persa da tanto tempo» il terraltiano continuò nonostante il mago lo ignorasse. «Lei era splendida, aveva capelli di fuoco e occhi come il cielo. Non come questo, ovviamente» Llywelyn rise mentre indicava il cielo, una tavola di nubi grigie come acciaio impolverato. «È per non vederla tra le braccia di nessun altro che l’ho ammazzata.» Gabriel lo guardò stranito. «L’hai uccisa?» «Allora mi ascolti» il terraltiano rise di gusto. «Non l’ho ammazzata, cioè, l’ho fatto dentro di me. E da quel giorno non penso a ciò che ho lasciato, penso a ciò che ho trovato. Non mi importa quello che è stato, il ato ha la sua importanza, come negarlo, ma il presente e il futuro valgono molto di più. Non conta ciò che ho perso: conta ciò che ho tenuto. La vita non è un villaggio da raggiunge, è una strada che si affronta senza indicazioni.» «Sono belle parole, Llywelyn. Il problema è che mi hai appena sconsigliato di seguire indicazioni.» «Bravo» il terraltiano si lasciò sfuggire un pingue sorriso, «vedo che hai capito. Allora, dove si va?» La porta est di Amaradantis si avvicinava, incastonata nelle mura ciclopiche e tra le torri tonde che sfidavano il cielo; gli abbaini sui tetti spioventi delle case a ridosso delle mura sembravano costruiti per esseri minuscoli. «Si va a nord, verso le Terre Alte.» Gli occhi di Llywelyn si accesero. «È per questo che non l’hai detto a Caen.» «Devo uccidere un mago, ma prima devo controllare un’arma che si chiama Sigillo del Fuoco e per farlo devo trovare un altro mago che mi impedisce di usarla.» «Sembra una caccia al tesoro. Prendi questo per trovare quell’altro: le nostre leggende sono piene di eroi che si impaludano in cerche del genere. Come sai dove si trova il secondo mago?» «Lo sento ogni volta che usa un incantesimo. E potrei anche vedere con i suoi occhi: se lo faccio, se mi concentro abbastanza, egli riesce a vedere con i miei.»
«Voi maghi avete poteri terribili. E inutili quando non sono dannosi.» «Non sono poteri di tutti i maghi: io li possiedo in virtù di un dono che mi sembra sempre più una maledizione. E tu non ti sei lamentato dei miei poteri quando ti ho salvato la vita a Tumblane» Gabriel tornò cupo, spronò il cavallo e lo lanciò fuori dalla città, nei campi coperti dalla neve e ovattati dalla bruma, gli alberi dei frutteti ridotti a scheletri contorti. * Speravo di trovare ad Amaradantis una nuova vita permeata d’estro, e un’istituzione universitaria che premiasse questo e l’invettiva. Credevo che la ricerca dei limiti, che la scoperta, fossero ciò cui ambivano i miei simili. Ebbene, mi sbagliavo. La magia nel nostro tempo non è più la ricerca di ciò che viene oltre la nostra percezione. L’esperienza presso i negromanti di Eskiliar avrebbe dovuto aprirmi gli occhi, non creare false illusioni: la magia è uno strumento. L’Università di Amaradantis è un opificio, è un luogo dove gli apprendisti non fanno che imparare incantesimi per mettere le proprie arti al servizio dell’Imperatore, o di qualcuno abbastanza ricco da pagarne i servigi o da reclutarlo come consigliere. La conoscenza viene subordinata all’interesse del mecenate: siamo come i contadini, il nostro bastone è magico e il nostra vomere è di parole anziché metallo, eppure questo è il concetto. Avevo un’idea diversa del mondo. Credevo di potermi meravigliare, di potermi stupire nell’ammirare il fulgore del mana. Mi immaginavo l’Università come un luogo dove la magia venisse praticata al suo estremo: pensavo a studenti che potessero volare, a muri e tappeti parlanti. Pensavo alla magia come arte della meraviglia, e invece l’ho scoperta militarizzata e assimilata a una scienza come la matematica, resa una merce. Noi non siamo maghi, siamo contenitori di magia privi di fantasia, di meraviglia, di eccessi; non c’è niente di niente, soltanto un medio squallore cui adeguarsi. La società umana rifugge l’idea che qualcosa possa sorprendere: per l’estro, per la fantasia esistono i bardi, i cantastorie, gli scrittori di novelle. Noi
maghi siamo scienziati della magia, e la magia è una cosa seria, codificata. Il mio cavallo trotta verso nord, al mio fianco un terraltiano che ha conosciuto gli uomini come sono in realtà: mercenari e puttane. Disgustosi ammassi di carne in putrefazione pronti a vendere la propria arte in cambio di denaro, in cambio di un misero tornaconto enfatizzato dal loro squallido e artificioso stato di necessità. Io, a mio malincuore, sono come loro. Serbo l’amore di una fanciulla che ho contribuito a distruggere e mostro lo sguardo disincantato di un mago che ha ceduto di fronte a un orrore inimmaginabile. Gli eventi che mi attendono sono più grandi di ciò che ho già ato, ma il futuro non mi spaventa e non mi eccita. È come se avessi davvero raggiunto quel punto sulla linea che unisce il bene e il male e se ne trova equidistante. Seguo le tracce del Signore del Fuoco, ascolto il sussurro degli incantesimi che proferisce e che il mana mi reca. Mi preparo a uno scontro che devo sostenere senza entusiasmi o paure: ho una vendetta da compiere e se dovrò are sul cadavere di Vortigern, che così sia! Non mi importa più di niente, ciò che di più importante avevo, mi ha preso e mi ha abbandonato.
PARTE VIII
Prendete gli oggetti che possedete e gettateli; se non lo farete apparterrete ad essi. Il possesso è schiavitù e coloro che lo promuovono, in verità hanno interesse a produrre i manufatti attraverso i quali dominano. Abbandonate ogni cosa: il mana vi farà da guida, non il denaro, non la terra, non le luride dottrine della proprietà, sovrastrutture postulate per giustificare i sacrifici necessari ai molti per l’opulenza dei pochi. Ciò che vi lega a questa terra vi impedisce di vivere quieti. Io non possiedo nulla che non possa essere creato dalla mia Arte. È in virtù di tale povertà materiale che sono intoccabile e libero. Parabola – Éireamhón, profeta elfico
XIX – Nuove promesse
Monto la guardia su una grande roccia a picco sul vuoto. Il vento sferza le vette e mi schiaffeggia con mani adunche e gelate. Per fortuna ha smesso di nevicare e posso tornare al mio posto di scolta, sulla cima della Montagna di Yín Lóng delle Scaglie d’Argento: io sono Eric, la Guardia del Drago, il mio signore dorme al tepore della sua grotta e io veglio su di lui. La chiostra di monti davanti ai miei occhi è di un bianco accecante ma concede tregua dove i rami delle conifere si sono liberati dal peso della neve. Il cielo sgombro di nubi è una pietra preziosa di sfavillante cobalto. Un punto giunge dall’orizzonte, sfidando i vortici d’aria: aguzzo la vista mentre il cuore sussulta e i ricordi mi parlano del giorno in cui un mezz’elfo biondo mi sconfisse scaraventandomi nell’onta e nel ludibrio. Il mio signore si è mostrato clemente e comprensivo, e i suoi insegnamenti hanno creato un nuovo Eric. La mia vera prova è adesso. *
Un grifone atterrò gracchiando sulla radura incorniciata dai picchi; un mezz’elfo scese dal mostro alato, aveva il volto livido per il freddo e indossava abiti cuciti con le pelli delle vacche pelose delle Terre Alte. Tolse un grosso paio di occhiali dalla montatura di pelle e pulì la barba bionda e i capelli impastati dal ghiaccio che sfuggivano a grumi dal cappuccio. «Sono Eric, Guardia del magnificente Yín Lóng, e ti reco il benvenuto nella sua magione, Laoden di Alerbia» Eric si prodigò in un profondo inchino: sopra gli abiti di lana indossava una pelle di lupo adattata alle sue misure di bambino. «Molto bene, vedo che Ynlown ti ha insegnato le buone maniere, soldatino» Laoden fissò la testa di lupo che penzolava dalle spalle di Eric e si lasciò scappare una risata. «Se è tua intenzione conferire con il mio signore, dovrai confrontarti con me. È la regola.» Laoden sospirò. «Abbiamo già avuto una discussione del genere, soldatino. E ricordo che non è finita molto bene, per te. Vuoi subire nuove umiliazioni?» «Armati, Laoden di Alerbia, io devo svolgere il mio compito e tu devi rispettare la tradizione» Eric sollevò lo scudo di bronzo e puntò la sarissa. Laoden estrasse la spada. «Guardami bene, soldatino, non ò la lancia dalla testa a martello perché la spada è più che sufficiente per un avversario come te. Mostrami quello che sai fare» Laoden fece roteare l’arma intorno al corpo, poi intorno al polso, mostrando l’agilità e l’abilità che l’avevano reso famoso. Eric rimase immobile, lo scudo tondo che proteggeva gran parte del corpo, il tallone della lancia appoggiato a terra e la cuspide in direzione del nemico. «Che aspetti soldatino? Non ho tutto il giorno da perdere» Laoden lo istigò ma Eric non abboccò. «Sei tu che devi conferire con Yín Lóng, non io. Se hai davvero tanta fretta devi…» Laoden attaccò mentre Eric rispondeva: balzò in avanti, colpì l’astile della sarissa con un montante e la spostò di lato; fece un secondo o e con un fendente dal basso scardinò la difesa dello scudo.
La spada del mezz’elfo cercò la Guardia del Drago per umiliarla ma Eric aveva assecondato il movimento dello scudo, aveva girato su sé stesso e colpì la spada di Laoden con un scudata. Il mezz’elfo arretrò ma la Guardia del Drago estrasse una daga e gliela puntò al ventre. «Non parlerai con il mio signore. Non oggi» sentenziò Eric. «E mi domando come tu abbia fatto a sconfiggermi, mesi fa. Il mio maestro mi ha parlato della tua leggenda: è tanto ingombrante che l’hai lasciata a valle.» Laoden sbatté le palpebre, una volte, due volte, incredulo. Invoco l’Arte ultima del Sigillo della Terra, invoco il potere serbato dalle foreste millenarie, invoco la forza dello sguardo che non lascia scampo, voglio il potere che soltanto a me spetta: lo sguardo della Cocatrice, l’uccello del mito. Laoden chiuse gli occhi e scelse la via più rapida per vendicare l’affronto. In un istante infinito percepisco ogni essenza che assorbe o riflette il mana. Percepisco la fredda e inanimata pietra, e l’umida e grassa terra. Percepisco i famelici insetti intorpiditi dal freddo, i viscidi lombrichi che strisciano nel sottosuolo e percepisco il piccolo Eric, d’innanzi a me, che è scosso dal terrore; percepisco Aghinulf, alle mie spalle, che bercia con la sua voce acuta, e percepisco Ynlown delle Scaglie d’Argento, il sovrano di queste vette, che intuisce lo scatenarsi di questo potere e sguscia fuori dalla grotta. Ogni essere vivente è una minuscola fonte di luce nel buio totale, una stella contornata da un alone corrusco. Se attendo il mio potere si allunga come radici e la percezione raggiunge e oltrea confini in costante mutamento. La mia Arte genera un’onda che dirada la quiete e disvela dettagli che non mi concede di contemplare: il bersaglio che cerco è davanti a me, indifeso e minuscolo. È stupido e complesso colpire un fringuello con una catapulta; ma non è impossibile.
Il mezz’elfo scagliò l’incantesimo riservato al Signore della Terra contro la giovane Guardia del Drago e gli occhi generarono una luce che offuscò il sole e abbagliò le montagne. «Non devo mai sottovalutare un avversario: dal punto in cui mi trovo posso soltanto cadere.» Yín Lóng uscì dalla grotta che la luce si era appena dissolta; salì sulla radura dove Eric accoglieva i visitatori e si fermò davanti a Laoden, che rifiatava per lo sforzo. «Noto con profondo dispiacere che hai ritrovato la rabbia» il drago sbuffò nero vapore dalle grandi narici; il collo nobile e lungo era teso, le squame argentine brillavano e le gigantesche ali si erano spiegate rendendo al rettile la sua mostruosa magnificenza. «Tu che dici?» Laoden indicò con un cenno il risultato dell’incantesimo. «Dico che ne hai ritrovata troppa: sei un mezz’elfo ma non conosci mezze misure» il drago osservò ciò che ne era stato del corpo di Eric e ringhiò mostrando le zanne aguzze. «Dovrei farmi prestare da Gwyllywm la sua spada magica e provare a toglierti un poco di tutta questa rabbia: adesso sei pericoloso.» Laoden si avvicinò al drago, tossendo per il fetore delle zaffate. «Non ho fatto nulla di male: il tuo domestico se lo meritava.» Il drago si accomodò sulla neve, piegando le mastodontiche zampe e chiudendo le ali. «Hai usato un incantesimo tanto potente con un ragazzino? È una macchia per la tua leggenda» guardò altrove e parlò con tono distaccato. Laoden si voltò verso ciò che rimaneva di Eric. «Potresti spostarlo davanti alla tua grotta: farebbe un figurone.» «Non mi occorre un telamone: riportalo com’era. Subito.» «Ho un’idea fantastica: ti trovi altre badanti e poi, ogni volta che vengo a trovarti, aggiungiamo una statua. Tra qualche anno vanterai una bella collezione di guerrieri di pietra.» «Riportalo allo stato originale.» Le narici del drago sbuffarono fumo dai riflessi argentini. «Non è facile» scherzò il mezz’elfo.
«Non prenderti troppe libertà: conosco poteri e limiti dei Gingilli. E conosco contro-incantesimi abbastanza potenti da rendere velleitaria qualsiasi tua pretesa» sbuffò ancora. «Allora cedo alla violenza.» Laoden alzò le braccia e tornò da Eric, ridotto a una statua di marmo bianco dalle venature azzurre. «Lasciami però dire che sarebbe un buon acquisto per la tua disadorna grotta. Non lo pietrificherò una seconda volta.» «Non mi servono statuette da giardino, mi serve una Guardia del Drago.» «Che fine ha fatto il tuo senso per gli affari? I mastri cesellatori del popolo della montagna chiedono un sacco d’oro per un lavoro del genere. Conosco giusto un nano abbastanza antipatico da» Laoden non terminò la frase perché una lingua di fuoco riscaldò l’aria, a due i da dove si trovava, e sciolse una striscia di neve rivelando l’erba verde che nascondeva. «Potresti prendere il suo posto: non sembri avere faccende importanti da sbrigare» il cupido ghigno di Yín Lóng e il fumo che gli saliva dalla bocca furono convincenti: Laoden sciolse l’incantesimo. «La prossima volta che mi manchi di rispetto non sarò così clemente» sussurrò il mezz’elfo al ragazzino dandogli uno scappellotto. Eric rispose con il volto tirato in una smorfia di sana ira. «È mio compito combattere chi vuole parlare con il mio signore: ti ho sconfitto, sei sleale.» «Mamma mia, il ruggito di un gattino» Laoden afferrò la testa di lupo del mantello e vi infagottò il capo del giovane. Fece fare un mezzo giro a Eric e quindi lo liquidò con un calcio nel didietro. «Questo ti insegnerà a scegliere gli avversari: la mia leggenda non si esaurisce a chiacchiere da osteria. Non so cosa ti abbia insegnato il tuo padrone, ma un guerriero non si ferma al suo braccio. E ora lasciaci, dobbiamo parlare di affari.» Eric si liberò dalla pelliccia, si presentò dal suo signore e chinò il capo. «Rialza la testa, mia giovane Guardia, perché oggi mi hai reso orgoglioso. Non è da tutti sconfiggere il grande Laoden di Alerbia» sentenziò il drago. «Ora vai ad allenarti, mi occuperò io di questo scorbutico ospite.»
Il ragazzo si illuminò e obbedì. «Non mi ha sconfitto» precisò il mezz’elfo. «Come dici?» Yín Lóng fece il vago. «Dicevo che Eric non mi ha sconfitto, era tutto sotto controllo.» «Capisco…» le labbra del drago disegnarono un sorriso di scherno, «ma se fosse stato più abile e meno giovane…» «Se fosse stato più abile l’avrei affrontato con impegno maggiore.» «D’accordo, mi hai convinto» il ghigno di Yín Lóng disse l’opposto. «Comunque, nonostante le tue perfide previsioni ti ho portato ciò che volevi» Laoden porse al drago un plico di fogli arrotolati. Yín Lóng sfogliò i documenti con un incantesimo e li archiviò nella grotta, facendoli scomparire. «Ho notato che sono cambiate molte cose su Arhanien da quando hai deciso di interferire nelle vicende degli umani.» «Cosa farai di quelli?» «Ciò che farò, non sortirà effetto sul tuo futuro.» «In mezzo ci sono i sentimenti perduti dall’Imperatore: dubito che una svolta nel comportamento di un individuo tanto importante non avrà effetti sulla mia vita.» Il drago sbuffò. «È affar mio ciò che farò con i miei documenti.» «Così ti riconosco!» Laoden apprezzò la sincerità. «Ora ho bisogno di un’altra cosa da te.» «Ancora? Sei insaziabile! Questo però implica un nuovo accordo.» Il mezz’elfo estrasse un secondo plico dal mantello di pelle di vacca delle Terre Alte. «Ho trovato informazioni che potrebbero interessarti e che non erano contemplate nell’accordo.» Gli occhi di Yín Lóng divennero fessure. «Cosa sono?»
«Sei curioso. Te le darò tra un attimo, ma questo implica un nuovo accordo» sentenziò Laoden con voce cupida. «Se è un inganno non te ne vanterai a lungo.» «E tu rischi pesanti abbagli se oltre ai sentimenti dell’Imperatore non consocerai quelli di chi gli sta accanto.» «Cosa vuoi?» «Come ben saprai, visto che hai occhi e orecchie dappertutto, mio padre Vortigern ha esagerato. Devo mettere la parola fine al suo delirio, ma per farlo dovrò sapere quale sarà la sua prossima mossa.» «E vieni a chiederlo a me?» «Non mi sembra che Kaerwood segua un disegno preciso ma se è così, io non riesco a intuirlo dal comportamento degli Anziani. Sembrano allo sbando: pensavo che il ritorno del Gran Maestro Ywig avesse riportato chiarezza nei loro intenti invece, nonostante il loro rigido comportamento, sembra che complottino tutti ai danni di tutti. Vortigern non ha agito come un Anziano quando ho ucciso Atar-Al-Karem. Doveva difenderlo, combattermi.» «E di che ti lamenti? Se l’avesse fatto non saresti qui.» «Cosa sai di Kaerwood?» Domandò Laoden a bruciapelo. Le pupille del gigante alato si dilatarono. «Non conosco i piani degli Anziani, stai chiedendo alla persona sbagliata. Può darsi sia in corso una lotta per la successione a Ywig.» «Ywig è tornato. Non abbisogna di successori.» «Un buon motivo per complottarne la successione» sogghignò il drago. «Che dicono gli altri?» «Gli altri draghi? E che ne so io?» Yín Lóng fece una smorfia. «Mi vuoi far credere che le Scaglie d’Oro, d’Argento e di Bronzo non si sono
schierate? Che non si sono neppure riunite dopo l’apparizione delle Scaglie Nere? I draghi dalle Scaglie di Rame hanno combattuto e riaperto vecchie ferite. Le Scaglie Rosse, le Verdi, le Azzurre e le Bianche non si sono mostrate?» «Il continente di Arhanien è un burattino» spiegò Yín Lóng: «le corde sono tese, ma il burattinaio non ha idea di quale spettacolo inscenare. Oppure, più semplicemente, non esiste alcun burattinaio. Le Scaglie Nere sono asservite all’Orda, eppure né le Scaglie Rosse, né le Verdi e neppure le Azzurre si sono schierate. Delle Bianche non si sa mai nulla: scendono da Nord, sono sempre le ultime e arrivano quando i giochi sono già fatti. Se i draghi metallivori si schiereranno, lo faranno anche quelli gemmivori. Perciò attendiamo.» «Attendete? Kaerwood agisce nell’ombra: l’attesa è sfavorevole.» «Lo è per te» Yín Lóng gli puntò contro l’indice sinistro. «Per me riposare senza vedere il muso grifagno di una Scaglia Verde o non volteggiare tra picchi e dirupi inseguito da una Scaglia Azzurra è un successo. È ato il tempo in cui i draghi si occupavano degli interessi dei comuni mortali. Mantenere lo status-quo è più appagante. Se i metalliferi non azzarderanno altre mosse, credo che i gemmivori faranno altrettanto. Attendere giova a tutti noi.» «È dunque finito il tempo della fratellanza? È finito il periodo in cui i draghi affiancavano i mortali nelle loro guerre?» Laoden rievocò un periodo ricco di leggende. «Direi che è finito il tempo dello sfruttamento» Yín Lóng rovistò nel torbido ato delle antiche alleanze. «In ogni modo questa situazione torna anche a vostro vantaggio: non avrete le Scaglie d’Oro che combattono dalla vostra parte ma non sentirete il fiato delle Scaglie Rosse schierati dall’altra.» Laoden sospirò. «D’accordo, Yín Lóng delle Scaglie d’Argento, torniamo ai nostri affari: ti offro questi documenti se mi indicherai la strada da seguire per sconfiggere mio padre.» «Gòlmas» suggerì la voce affettata del drago. «La biblioteca? Ancora? Quel bacchettone del Terzo Cantore mi stordirà con le sue filippiche.» «Lo so» sogghignò il drago. «Tuttavia, quando Vortigern perderà un sentimento,
tu saprai dove si trovava e cosa faceva.» «Ma non ha senso: anche se scopro dove si trova, mi occorrerà un sacco di tempo per raggiungerlo ed egli, non sarà più dove ha perso il sentimento.» «Tracciane gli spostamenti, verifica i luoghi dove sosta e troverai Kaerwood. Non ho idea di dove si ritrovino gli Anziani: pretendi che faccia io tutto il lavoro?» «A stare alle leggende, gli uomini-albero crearono il Consiglio di Kaerwood per sconfiggere il negromante Morg Kroth e si radunarono nel Bosco dei Sospiri, più a Nord di Antioch e delle Terre Alte.» «Vedi che hai già un indizio?» Sibilò Yín Lóng. «Vai alla Biblioteca, cerca ciò che riguarda Vortigern e trai le conclusioni che devi. Mi stupisce che tu non l’abbia fatto quando ne avevi il tempo.» «Non ne avevo il tempo» sbottò Laoden; «tu non sai cosa vuol dire avere davanti agli occhi le storie dei tutti i viventi: basta una minima distrazione e ti perdi a leggere una frase di più, una pagina di più, un capitolo di più, un intero libro. Non puoi sfuggire al richiamo della conoscenza, al fascino di ciò che soltanto tu puoi scoprire.» «Mi sembra che tu ne sia sfuggito benissimo. In ogni modo, è tutto quello che posso fare per te.» «Con il valore di quello che ti ho portato potevi impegnarti di più» gli consegnò il plico. Il drago sbuffò altro fumo dai riflessi argentini. «Verrà un giorno in cui dovrò scendere in campo, Laoden di Alerbia. E quello sarà il giorno nel quale faremo i conti, non prima di allora. Non conviene a nessuno.»
Nel periodo che succedette la caduta di Alesia, i senatori si trasferirono a Spinwirth, che divenne la nuova capitale del Regno di Alesia. In seguito alle pressioni esercitate dalla nobiltà, al presunto fallimento della Legione e alla perdita dei territori conquistati dagli orchi, il Senato impose una riorganizzazione militare concedendo maggior spazio alla cavalleria, reclutata nei feudi del nord a scapito della Legione reclutata negli scomparsi distretti del sud. Oltre alla riorganizzazione dell’esercito, il Senato varò riforme che contrassero il potere detenuto da Re Karl I, il figlio minorenne di Kollert IV, eroicamente deceduto nella difesa di Alesia, a vantaggio del nuovo collegio senatoriale, che concentrò nelle mani dell’assemblea dei senatori non solo la funzione di redigere leggi ma anche quella di applicarle. Un membro eletto dal Senato, e denominato Grande Educatore, venne affiancato al giovane Re nelle decisioni, assunse il ruolo di Primo Consigliere e lo sottrasse alle premure materne. L’entità delle riforme approvate da Re Karl I e il raffronto con l’ordinamento precedente è disponibile nell’ALLEGATO III, APPENDICE 3, LETTERA B. Trattato sulla diversità delle culture del continente di Arhanien –Terzo Cantore
XX – Il nuovo signore di Brora
Il feudo di Brora è sulla strada che conduce da Spinwirth alle Montagne di Cristallo. Forse colui che ha sconfitto il campione degli orchi si aspettava una fortezza circondata da campi e frutteti che si estendono a perdita d’occhio, eppure questo è quanto ti ha concesso il Senato di Alesia e tu devi essere fiero che il tuo valore sia stato riconosciuto e che il tuo nome venga ricordato dagli storici del tuo nuovo paese. Ma torniamo al feudo di Brora, sir Hulbert. Ci sono tre villaggi, Halkirk, Manacol e Shepster, che distano meno di un giro di clessidra dal tuo maniero, che poi sarebbe un mastio a pianta quadrata dove abitava il precedente feudatario, sir Golahaff, che ha combattuto con onore al fianco di Blake “il Distruttore”. La casa-torre sorge su una motta ed è circondata da un aggere di legno, se non ricordo male. Comunque, anche se riterrai la fortificazione
sufficiente ai tuoi bisogni, dovrai fortificarla ritagliando tempo dalle corvée. Attorno al castello sorge un villaggio che bastava al fabbisogno della precedente corte: ci sono un tempio, una mascalcia, un fabbro, un mulino, una stalla, una locanda e le coltivazioni comuni. Gli altri tre villaggi che rientrano nel tuo feudo, ovvero Halkirk, Manacol e Shepster, hanno simile morfologia: ci sono un mulino, un tempio, una sala per l’adunanza, magazzini e una casa-torre la cui manutenzione spetta alla piccola nobiltà, che dovrà renderti omaggio. Non ricordo quanti sono gli abitanti dei tre villaggi ma ricordo invece che la loro produzione tra frumento, ortaggi, maiali, pecore e vacche garantiva a sir Golahaff una buona rendita. Nei boschi si trovano querce e castagni e dalle scorze di betulle e ontani si ricava il tannino, richiesto dai tintori delle città per fissare i colori. Ti affido un feudo piccolo ma in buona salute. È in virtù di questa rendita che hai il dovere di rispondere alle chiamate alle armi con quattro cavalieri armati secondo gli usi della cavalleria di Spinwirth, otto cavalli da guerra, quattro ronzini e quattro scudieri. I tre valvassori di sir Golahaff sono periti nella battaglia di Antioch, ma le loro famiglie sono tenute a fornire un cavaliere ciascuna, il quarto dovresti essere tu. In caso di chiamata alle armi da parte del Senato hai anche il dovere di fornire dodici fanti armati con picche, oppure quattro in armatura di maglia e abili con spada e scudo, oppure tre arcieri oppure devi provvedere alla costruzione e al mantenimento di sei complete panoplie per un legionario, anche se credo che il Senato provvederà a breve a sciogliere quel poco che resta della Legione. Queste regole, escluse quelle relative alla Legione, valgono anche quando sarò io, sir Aaron da Glenduarel, a chiamarti alla guerra. Ho redatto un contratto con i tuoi doveri verso di me. I miei doveri verso di te sono l’intervento militare a tuo favore in ogni caso di aggressione esterna, che venga da parte dei nemici stranieri oppure di qualche vicino troppo intraprendente. * «La situazione politica è difficile» Hulbert spronò Argento, il cavallo che fu dell’elfo Gwyllywm, lungo un sentiero grigio che strisciava tra brulle colline. «Questo me lo hai già detto tre volte, amore. Devi essere più chiaro» Amber
cavalcava al suo fianco; rallentò il o quando una folata gelida le spettinò i capelli castani e la costrinse a coprirsi con il cappuccio foderato di vaio. «I senatori non vogliono riprendere le ostilità con gli orchi. Non la prossima primavera, almeno: hanno smantellato quel che rimaneva della Legione e affidato feudi ai capitani. I nobili come Aaron invece non vedono l’ora di indossare le armi e di riconquistare Alesia» Hulbert sembrò non soffrire il freddo e lasciò che il vento gli spettinasse i capelli biondi. «I vecchi feudatari hanno visto i domini rimpicciolirsi e non approvano la cautela del Senato. Re Karl pare non aver voce sulle decisioni politiche e un ristretto numero di senatori tiene in mano le redini del regno. Questo almeno a stare alle chiacchiere giunte ad Aaron da Glenduarel. Tu che ne pensi?» Il guerriero fissò la moglie, che l’aveva superato. «Diventare vassallo di un uomo come Aaron da Glundariel e vedersi affidare un castello è un motivo di vanto per ogni umano di Arhanien. Saremo più ricchi e potenti ma non potremo più disporre della nostra vita. E oltre a questo...» Amber fermò il cavallo prima che il sentiero scendesse verso un ponte a schiena d’asino che univa le labbra di una profonda gola. «Penso che siamo arrivati.» Hulbert vide dalla parte opposta del burrone due soldati che si avvicinavano e li sentì intimare l’alt. Erano ate meno di due mesi dalla sconfitta dell’Orda e per l’intera mattina l’eroe di Antioch aveva cavalcato pensando all’investitura a cavaliere e al giuramento di fedeltà prestato al suo nuovo signore. «Cosa c’è che non va? Ti ho messo di malumore?» Amber stava al fianco del biondo guerriero e con un sorriso ne riaccese l’entusiasmo. «Nulla» il giovane nascose le preoccupazioni, «sono solo stanco, Vieni, andiamo a vedere la nostra nuova casa.» I soldati a cavallo arono il culmine del ponte, domandarono le ragioni del transito e pretesero il pagamento del pontatico ma, quando Hulbert spiegò le proprie ragioni e mostrò il documento con cui veniva insignito del titolo di Signore di Brora, le guardie smontarono, si scusarono con inchini servili e si affrettarono a scortare i nuovi padroni al castello. Hulbert e Amber attraversarono il ponte che il vento fischiava e le acque del
torrente gridavano e sussultavano, quindi cavalcarono di buona lena su un sentiero strappato alla foresta di buie conifere dal costante lavoro dei guardaboschi. Uscirono su un’ampia radura che d’estate doveva esplodere dei colori del grano, dell’orzo e del mais, ma che in quel periodo dell’anno era punteggiato di nude latifoglie dai rami rinsecchiti e contorti che si protendevano a graffiare il cielo grigio e malaticcio. I campi erano imbiancati dalla nevicata del giorno prima e i cespugli che crescevano lungo i canali erano moncherini pallidi e ritorti. «Benvenuti a Castel Brora, miei signori» Jeff, la prima guardia, un uomo di quarant’anni dal naso arcigno e dallo sguardo guercio, sollevò la sciarpa che teneva sul volto e indicò con orgoglio la rocca che difendeva, costruita su un’ansa di un fiumiciattolo che nasceva dalle vicine montagne. Castel Brora era un mastio quadrato con una torretta tonda per le scale, disposta sul lato esposto al sole, che terminava in una garitta, sul cammino di ronda sorretto da beccatelli; il tetto del dongione e quello della torretta erano di pietre piatte, nere, che sbucavano appena da chiazze di neve, e i merli erano larghi e minacciosi. Il fossato che correva intorno al recinto di pali di frassino e betulla era appena distinguibile, colmo di neve, il ponte levatoio che introduceva al villaggio era abbassato e, per il fumo che usciva dai tetti di fuscelli delle casupole, era chiaro che non si risparmiava legna. Gowden, il soldato che accompagnava Jeff, era un ragazzo dagli occhi onesti che aveva appena raggiunto la maturità. La giornea che indossava gli andava larga e copriva abiti invernali di fustagno che avevano l’alone degli sgargianti colori di un tempo; la cervelliera sull’infula di crini di cavallo ballava e il giovane la spostava a destra e manca ogni volta che il nasale gli finiva davanti agli occhi. Dopo essersi riassestato l’ennesima volta, Gowden prese un corno dal tascapane e annunciò l’arrivo del nuovo signore. Un suono balordo spezzò il silenzio della giornata e animò il villaggio: il soldato che stava su una delle torri di legno che spezzavano l’aggere issò la bandiera di Alesia, i tre leoni blu in campo giallo, abbassò il ponte levatoio e impartì ordini senza lesinare insulti a chi non mostrava la dovuta solerzia. Hulbert e Amber entrarono nel villaggio e gli abitanti, una trentina di contadini assortiti per età, si raccolsero su due file: tutti chinarono il capo e gli uomini tolsero i berretti e le cuffie; nessuno rivolse ai nuovi padroni parola, intimoriti
delle occhiate in tralice delle guardie. Maiali e capre pascolavano tra le case e l’odore dello sterco e della legna bruciata arrivava a folate, trasportata dall’aria gelida e tagliente del Vaenert, il vento del nord. «Buongiorno a tutti» quando Amber salutò, i sudditi la osservarono sbalorditi finché un bimbo vestito di sudici stracci non rispose agitando la mano; dopo quel gesto, gli abitanti di Brora fecero un saluto corale. «Non dovreste concedere parola alla plebe con tanta facilità, mia signora» azzardò il guercio Jeff mentre i cavalli avano tra le case dai muri di mattoni e i tetti di legno e paglia. «E per quale ragione?» Amber si mostrò disgustata dal consiglio. Jeff sembrò a disagio. «Non sono cose convenienti a persone del vostro rango, mia signora. Il precedente sovrano non si rivolgeva ai sudditi: eravamo noi a far rispettare gli ordini.» Hulbert e Amber replicarono con un cenno del capo. Tra il villaggio di Brora e la motta del castello c’era un secondo fossato che seguiva la forma circolare della collina artificiale ma non era allagato, e un ponte retrattile di legno che univa il selciato alle scale di pietre che giravano attorno alla motta. Arrivati ai piedi della collina Jeff e Gowden scesero da cavallo e ressero le briglie ai destrieri dei loro nuovi signori. «Alle bestie pensiamo noi, le portiamo alle stalle» si affrettò a dire Gowden per anticipare il compagno. «Trattatelo meglio che potete» Hulbert tolse armi e bisacce, «si chiama Argento ed è una buona bestia.» «Sarà fatto, mio signore» replicò Gowden, desideroso di mettersi in luce. «Dentro il castello troverete Oddone, è il siniscalco» Jeff indicò la porta di legno del barbacane che interrompeva la palizzata sulla motta e si offrì di portare le armi e gli zaini ma, quando Hulbert rifiutò, lasciò che i signori provvedessero come meglio credevano ai bagagli e si prodigò in un sorriso sdentato e
servizievole. «Ricordami cosa fa il siniscalco, amore, ti prego» sussurrò Hulbert mentre salivano le scale. «È quello che sovrintende alla cura del castello» ad Amber scappò un sorriso: «controlla il lavoro della servitù, dei cuochi e dei soldati e, se necessario, amministra le finanze. Vedo che non hai studiato.» Terminati gli scalini di pietra, Hulbert aprì la porta socchiusa del barbacane e attraversò la struttura di legno, alta quattro uomini ma all’apparenza poco robusta. «È quello che si occupa di tutto, in pratica.» «La persona più importante dopo di noi» annuì Amber. Hulbert fece una smorfia, il tozzo e imponente mastio ricordava le alte e massicce mura di Antioch. «Quella più importante dopo la morte di sir Golahaff.» Un sentiero realizzato con le medesime pietre piatte e nere del tetto affiorava dalla neve che chiazzava un prato verdissimo. Sulle mura, prospiciente al barbacane, restava una porta semichiusa, cui si accedeva da una discesa interrata e rivestita di pietra. Quando Hulbert andò verso la porta, questa si aprì rivelando un uomo emaciato e dal volto spigoloso che in quanto ad altezza non arrivava al naso di Amber. Il siniscalco aveva occhi freddi e capelli scuri, scialbi e sporchi, e la barba nera e rada pareva uno straccio unto; era un ometto di mezza età dai lineamenti azzannati dal tempo e sussultò non appena vide Hulbert, che era il doppio di lui in altezza e altrettanto in larghezza. Sistemò il collo impellicciato del lucco nero, un indumento lussuoso e pulito, alzò il mento e gonfiò il petto per apparire più nobile di quanto fosse. «Il mio nome è Oddone, sono il regio siniscalco e vi do il benvenuto a Castel Brora. Perdonate se non ho provveduto ad accogliervi come meritate ma vi attendavamo in primavera.» Hulbert si chinò ed entrò nel castello, mentre il siniscalco si spostava. «Chiedo scusa, miei signori ma...» squittì l’ometto.
«Che c’è?» Hulbert si affossò nel buio della sala. «Queste sarebbero le cucine» disse Oddone dopo che anche Amber entrò nella sala illuminata a fatica da due torce appese al muro. Quando la fanciulla riaccostò la porta, Hulbert credette di aver perso la vista e di essere caduto in una trappola mortale. «Buio vero? Di solito il camino è e reca la giusta luce» Oddone li sorprese, la voce come lo scatto di una tagliola. Indicò il focolare che occupava metà della parete di destra rispetto alla porta. «La servitù ha smesso di lavorare da qualche giorno, ma sono tutti pronti a rimboccarsi le maniche: ora che siete arrivati il lavoro non mancherà» indicò le casse, le botti, i calderoni e i paioli sparpagliati per la stanza. L’aria delle cucine puzzava di stantio e di un odore confuso di carne e legumi, eppure il tiepidume era un toccasana dopo il viaggio. Gli occhi azzurri di Hulbert si abituarono alla semioscurità ed egli si diresse verso la porta ogivale alla propria destra. «Da lì si sale?» «No, mio signore, non per di là: quella va alle celle. Le cucine sono collegate al resto del castello da quella botola» indicò un’apertura rettangolare nella volta di pietra, chiusa da assi di legno. «Per salire dobbiamo usare la scala esterna» il siniscalco tornò verso la porta appena chiusa da Amber. «Vi prego, lasciate che sia io a farvi da guida.» Oddone tornò all’esterno e fece strada lungo il sentiero di pietre scure e, giunto sul lato opposto, salì una scala di legno e senza corrimano che portava a un ballatoio di legno dal quale si accedeva alla porta chiodata del primo piano. Il siniscalco entrò nel mastio e Amber gli andò dietro mentre Hulbert appoggiò alla struttura lignea l’armatura, la spada e lo scudo, facendola traballare; il guerriero diede un pestone alla erella che vibrò ancora, inquietandolo. «Vieni amore, sbrigati» il guerriero sentì la voce entusiasta di Amber, varcò la porta e si ritrovò in un’anticamera separata dal resto del piano da drappi di tessuto scuro; una scaletta di legno portava di sopra ma il Signore di Brora seguì il richiamo della moglie e uscì dalle sargie. «Non è meraviglioso?» La fanciulla accolse l’amato indicando il salone che occupava tutto il primo piano. Una volta ogivale di pietra reggeva il secondo piano e un quarto della stanza era occupato dall’anticamera, un soppalco ad archi
attrezzato per ospitare musici e saltimbanchi. La fanciulla piroettò al centro della stanza e i suoi capelli castani danzarono, alzandosi assieme alla gonna di lana sbiadata dai fulvi ricami. L’odore di tessuti polverosi, fumo e legno di antichi mobili permeava la stanza, ma l’aspetto del salone lasciò senza fiato il giovane signore di Brora. Sul pavimento di mattonelle d’argilla facevano bella mostra tappeti di pelle d’orso mentre le pareti erano coperte di arazzi; un tavolo rettangolare stava a tre quarti della stanza, davanti a due scranni intarsiati di legno scuro e a un camino grande metà parete, dove scoppiettava un fuoco vivace. Ai quattro angoli, i fuochi di altrettanti bracieri di metallo riscaldavano e davano luce all’ambiente. «Questo è il Gran Salone. Sir Golahaff» Oddone disse il nome senza celare nostalgia «lo usava per le udienze, le ricorrenze importanti e per i giudizi sui reati, pochi a dire il vero. C’è un bel tepore, non trovate, miei signori?» Attese una risposta che non arrivò. Allora batté le mani e proseguì. «Quando avremo terminato il giro chiamerò i servi per far apparecchiare e da là tireremo su le vostre cose e le vivande» indicò la botola che comunicava con le cantine, accanto a una parete. «Venite, c’è tanto da vedere» Oddone prese una delle torce appese alle pareti e andò verso la scala a chiocciola ricavata nella torretta tonda e salì al piano superiore. Amber seguì il siniscalco ma Hulbert si attardò, guardò con sospetto le feritoie che erano state riempite con maschere di legno e stracci e i ripidi gradini di pietra che si attorcigliavano nelle ombre della torcia di Oddone. «Questo piano è diviso in due camere, questa è l’anticamera della vostra guardia privata, ma non è mai stata usata» una branda con un piumazzo era sistemata sulla parete opposta a un caminetto, pulito, il soffitto era di legno e le mattonelle della pavimentazione erano persino più pregevoli di quelle del Gran Salone. «Mentre questa conduce ai vostri appartamenti» il siniscalco indicò una porta di assi irrobustite da borchie metalliche. «Vi invito però a salire ancora e a riposare più tardi» si prodigò in un sorriso equivoco. «Che fine ha fatto la famiglia di sir Golahaff?» Domandò Hulbert. «Sir Golahaff non aveva famiglia, era un giovane feudatario, come voi. Cioè, non precisamente come voi, voi avete una moglie» attese e guardò in terra. «A dire il vero c’era una donna con lui, una concubina» disse con disgusto, «una donnaccia che gli aveva rubato il cuore con un filtro magico.»
«Un’alchimista?» Domandò Amber, sbalordita dalla rivelazione. «Una strega» precisò Oddone. «Aveva imposto sostanze con cui concimare i campi, o polveri da mettere nelle pietanze o nelle bevande. Faceva tutto ciò che una moglie devota non dovrebbe azzardarsi nemmeno a pensare: prima che il signore partisse per la guerra si era fissata che la rendita del feudo fosse bassa e controllava e ricontrollava i conti che facevo, come se non sapessi svolgere il mio lavoro. Su, venite.» «E dove si trova adesso?» Si preoccupò Amber. «Si trova nella fossa, è ovvio. Siete voi i nuovi signori» Oddone fece spallucce. «Venite, vi faccio strada al piano di sopra» Oddone fece per salire al terzo piano. «Aspetta, cosa vuol dire? Cos’è la fossa?» Amber si interessò. «Sono le celle, giù, sotto le cantine» riprese a salire. «E come si chiama? Per quale ragione è stata imprigionata?» «Ecco» il siniscalco si fermò sulle scale «si chiama Emirith e quando è giunto il dispaccio recante la morte di sir Golahaff, la donna ha avanzato pretese ereditarie. In attesa che arrivaste, l’amministrazione del feudo spettava a me e l’ho bandita dal castello: le avevo offerto una sistemazione ma ha dato di matto e abbiamo dovuto rinchiuderla.» «E Aaron da Glenduarel non aveva dato disposizioni circa il suo trattamento?» «Mia signora» si giustificò il siniscalco, «il nostro signore Aaron non sapeva nulla di quella concubina. Ora venite, forza» Oddone salì al terzo piano e continuò la cantilena. «Qui riposa e si allena la guarnigione. La stanza non è mai stata usata molto, non dopo la conquista del Regno di Spinwirth da parte di Alesia, almeno» Oddone mostrò una camera con sei pagliericci e un caminetto, e quindi una stanza di poco più grande con armadi aperti e pieni di panni e rastrelliere, povere di armi. Il pavimento era ricoperto da formelle rettangolari di legno intrecciate a lisca di pesce e le stanze, sebbene i camini fossero spenti, erano intiepidite dalle canne fumarie dei piani sottostanti. «Un tempo era zeppa di armature, e scudi, e spade. Poi il signore è andato in guerra e si è portato via tutto» Oddone si mise a rincorrere ricordi spiacevoli.
Hulbert indicò il soffitto a campata. «Sopra c’è il cammino di ronda?» «Volete vederlo?» Il siniscalco ritornò in sé. «No, era soltanto una curiosità. Credo piuttosto che mi coricherò.» «È un peccato, miei signori, tra poco arriverà la servitù e ci tenevo a presentarvela.» «Durante la cena, magari, che ne dici Oddone?» Il siniscalco rimase spaesato, era il primo ordine che riceveva dall’inizio della guerra contro gli orchi. «Come preferite, a dopo, miei signori» obbedì simulando un sorriso. «Oddone, perdonami, mi occorre sapere un’ultima cosa.» «Dite, signore.» «Tu dove abiti?» «Io? Io abitavo… io abito nella prima casa appena scesi dalla motta, quella sulla sinistra con le pareti di pietra e il tetto di scandole, mio signore. Se avete bisogno di me potete mandare una guardia a chiamarmi.» «Quali sono gli ordini vigenti per le ronde?» Si informò Hulbert. «C’è un solo turno di scolta, sul mastio: c’è una guardia di sopra, si chiama David. È anziano, non ha la vista acuta ma sa riconoscere un nemico quando ne vede uno. Se ci date il vostro vessillo provvederemo a issarlo al più presto. Avete un vessillo, non è vero?» «Sì, dopo però. Dopo lo faremo anche tessere da una brava sarta» vagheggiò Hulbert, che non aveva la minima idea di che blasone adottare. «Continua Oddone, mi dicevi delle ronde.» «Le ronde, sì. David è addetto al turno giornaliero sul mastio. Mattion e Valiant si alternano alle torri del primo ponte levatoio mentre Gowden di giorno è al ponte per le gabelle.»
«E di Jeff che mi dici?» «Lui è il capitano delle guardie dopo che il precedente ha seguito il nostro vecchio signore. A dire il vero non dovreste occuparvi di lui: di solito sono io a impartirgli gli ordini che poi lui a ai soldati.» «Non c’è una ronda notturna, immagino.» «Era prevista solo in caso di pericolo, e non d’inverno. Non sono molti i viaggiatori e le carovane che si fermano in questo periodo.» «Quattro soldati, di cui due giovani, le nostre forze non sono certo impressionanti.» «È tutto ciò che rimane, mio signore. Ma auspico che a ciò sapremo trovare rimedio, ci sono giovani che debitamente addestrati potranno fornire un valido aiuto. Ma di questo parleremo più avanti. Vi auguro buon riposo» si licenziò con un inchino e ridiscese le scale a chiocciola. * La camera del signore di Brora era un gioiello incastonato nella scura pietra del mastio. Un letto a baldacchino stava al centro della stanza mentre sulle pareti si alternavano arazzi, cassapanche, armadi. Un insolito profumo di pulito si mischiava al sapore della legna divorata dal camino, sulla parete opposta all’entrata. Oltre a una monofora sbarrata da imposte abborracciate c’erano soltanto balestriere chiuse da assi intagliate sulla loro forma a croce e stracci. «Come mi aspettavo, questa stanza è la più calda del castello» Amber si avvicinò a un treppiede di bronzo che reggeva una scodella di porcellana, e una brocca d’acqua. Si sciacquò il viso nell’acquamanile, poi scostò la pesante sargia sulla parete e scoprì un incavo nel muro con la latrina a caduta. «Abbiamo anche il bagno in camera» tornò nella stanza e vide Hulbert coricato sul letto. «Non ti va di vedere l’altra “stanza”, amore?» «No, non adesso» Hulbert rimase ad ammirare il soffitto a cassettoni decorato da stucchi dipinti. «A cosa stai pensando?» Domandò Amber, raggiungendolo.
«Ti preoccupa davvero la situazione di quella donna?» Amber lo raggiunse sul letto. «Era seduta su questo letto e capiva la morte dell’uomo che amava perché entravano le guardie e la catturavano, l’ho immaginata piangere mentre la trascinavano di sotto e la imprigionavano: è stata una specie di visione. Dovremmo capire quanto la decisione di Oddone sia stata affrettata e quanto la sua versione attendibile. Le persone che perdono coloro che amano sono vulnerabili e possono commettere un sacco di sciocchezze.» I pensieri di Hulbert andarono a quando Gwyllywm lo salvò dall’inquisizione dei reivoniani cui egli non era riuscito a strappare Helenoire. «Allora andremo a parlare con lei e vedremo che si deve fare» Hulbert ammirò la moglie, che si sfilava la cappa invernale e la cotta dimidiata, fulva e sbiadata. «Adesso siamo noi che amministriamo la giustizia e dovremmo capire quello che è stato fatto, se è stato fatto bene o se invece bisogna porre rimedio agli errori commessi.» Amber si stese accanto all’amato e gli ò la mano tra i capelli biondi e poi sulla barba fine. «Dopo, ti prego, adesso ho voglia di stare con te. Noi due soltanto.» Hulbert la abbracciò, la tirò su di sé e la baciò. * Oddone uscì dal mastio grugnendo e trovò Jeff seduto ad aspettarlo su un ceppo, al di là del ponte levatoio che dava accesso alla motta. La cervelliera del capitano stava sottosopra, nella neve, e i neri capelli spettinati di lui obbedivano ai capricci del vento. «E così non sei più il governatore di Brora: è finita la pacchia» un sorriso di scherno si disegnò sul viso trascurato della vecchia guardia. «Hai poco da ridere, guercio. Se cado, tu sarai il primo a seguirmi.» Fu uno schiaffo che mostrò a Jeff lo spettro di nuove fatiche. «Che dobbiamo fare allora?» Guaì. «Non dobbiamo far niente, avevo previsto una cosa del genere e dobbiamo solo evitare che questi giovinastri vengano a contatto con gli abitanti. Poi sfrutteremo i difetti dei nuovi signori per trarne vantaggio. Brora è mia» si corresse «è
nostra, ricordalo bene. Nostra soltanto.» «Ma quel gigante è il nuovo signore, come lo terremo lontano dalla gente?» «Impauriremo la plebe con pessime storie su di lui e il resto verrà da sé: vedrai che a parte la famiglia di David, tutti li eviteranno.» «Pessime storie? Non capisco.» Il siniscalco sbuffò, infastidito. «Insomma, la compagna del nostro nuovo signore è una bieca strega che strappa gli occhi ai bambini per farne ingredienti per gli incantesimi mentre il gigante è sopravvissuto alla guerra solo in virtù della propria brutalità. Si dice che abbia strappato i denti dalle mascelle degli orchi per farne collane.» «Per gli Dei!» Jeff si scostò disgustato. «Abbiamo a che fare con due mostri del genere?» «Era per dire, sciocco» lo riprese Oddone: «sono bugie per spaventare i faciloni. Metti in giro queste voci e vedrai come la gente si terrà alla larga da loro! Vai citrullo, vai» Oddone si liberò dell’ottuso capitano e rientrò nella sua vecchia casa. A un giovinetto incapace di curarsi la barba e i baffi, a uno straniero, ecco a chi ha affidato il mio feudo! Aaron da Glenduarel è un ingrato che non capisce nulla. Chi ha tenuto i conti? Il sottoscritto. Chi ha sempre fatto in modo che sir Golahaff pagasse le decime con puntualità? Il sottoscritto. Chi faceva produrre e forniva il dovuto per la chiamata alle armi? Il sottoscritto. Sir Golahaff ava le sue giornate a compiacere le voglie di quella cortigiana e quell’ingrato di Aaron lo sa, perché fu suo padre a inviarmi in questo buco per risanarlo. È questo il ringraziamento per la mia fedeltà? Il siniscalco chiuse la porta e andò al camino, incedendo nella polverosa penombra. Il freddo dell’abitazione e l’odore di chiuso erano fastidiosi e Oddone si affrettò ad accendere il fuoco e a dar aria allo stanzone. Maledetti nobili, credono di aver diritto a fare ciò che vogliono soltanto perché sanno brandire una spada. Per gestire un feudo occorre ingegno, non forza! Gettò ceppi più grandi nel fuoco appena nato dai ramoscelli e infine i migliori.
Si appoggiò su uno sgabello, davanti al fuoco che cresceva e gli procurava ristoro. Chi è che ha lavorato per mantenere il feudo produttivo? Il sottoscritto. Chi ha convinto quell’inetto di sir Golahaff che i villaggi andavano risistemati? Il sottoscritto. E questo è il ringraziamento: un nuovo padrone cui obbedire. No, non posso permetterlo. Non dopo i sacrifici che ho fatto per arricchire Brora. Parte delle decime spetta a me, non a un gigante e una smorfiosa che hanno fatto bella figura in battaglia. Oddone batté il pugno sulle gracili ginocchia. Solo perché non ho il vigore e l’età per portare un’armatura e un cavallo vengo escluso dai diritti feudali. No, devo inventare qualcosa. Brora è tutto ciò che mi è rimasto. Le fiamme intiepidirono l’unica ampia stanza che componeva la casa. Oddone andò al tavolo, dove erano accatastate brocche e terraglie, e spostò il disordine in un angolo, dove ammucchiò anche i panni accumulati sul giaciglio. Dopo la fatica si coricò inviperito per lo smacco e cercò di rasserenarsi. Non devo commettere azzardi, la fretta non ha mai dato buoni consigli. Se gli accadimenti si metteranno come penso, quella strega di Emirith potrà persino tornarmi utile.
In virtù di quale criterio la volontà concorde di un mucchio di sciocchi che commettono errori dovrebbe valere più dell’opinione di un saggio che agisce nella rettitudine? Non c’è nulla di propizio o di equo nel consentire a una moltitudine di stolti di decidere della vita di una minoranza di illuminati. Aforismi – Vortigern l’Anziano
XXI – Una minuscola, palpitante ghianda
Gli Anziani di Kaerwood si erano radunati al limitare del Bosco dei Sospiri, alle pendici delle Montagne di Cristallo, sotto la sagoma sbiancata di quello che fu il Tempio Scarlatto, la cittadella maledetta eretta dal negromante Morg Kroth, a sud del fiume Nev’Tair. La luce pallida della luna filtrava appena dalle chiome delle aghifoglie e gli Anziani sedevano a circolo. Ywig, colui che ricopriva il ruolo di Gran Maestro, scosse la folta chioma di quercia colpita dalla neve caduta da un abete, si alzò scricchiolando e prese parola. «Mmh, siamo riuniti ad approvare l’ingresso tra gli Anziani del Consiglio di un nuovo membro e discutere circa la politica del Regno di Alesia» la voce del Gran Maestro era sorda e antica. «Poiché è prassi che oltre a noi quattordici vi siano sette individui appartenenti alle altre razze. Che si presenti Mirgram di Leboran, rettore della Magnifica Università della Magia di Amaradantis, consigliere dell’Imperatore Giulius VII.» Mirgram fece un o avanti ed entrò nel cerchio degli anziani. Indossava un lucco di porpora foderato di ermellino e aveva una benda nera sugli occhi. Joshua la quercia, che era stato Gran Maestro durante la cattività di Ywig, fece le funzioni di cerimoniere. «Qual è il tuo nome, umano?» «Sono Mirgram di Leboran, questo è il nome che mi è stato dato.» «E cosa sei giunto a fare tra noi, Mirgram di Leboran?» Domandò Joshua seguendo il rituale.
«Io non sono che un supplice che chiede aiuto al suo signore.» «E per quale ragione Egli dovrebbe agire a tuo vantaggio?» «Dovrebbe perché è la somma dei vantaggi di ognuno che reca il vantaggio di tutti.» «Noi siamo il Consiglio degli Anziani di Kaerwood» la voce piena di Joshua fece venire i brividi all’umano. «Lo siete, e io mi inchino davanti alla vostra luce. Mi inchino in silenzio, affinché la mia voce non vi rechi disturbo» si inginocchiò sull’erba soffice e umida. «Parlerò, ma soltanto se lo desiderate.» «Ti è concessa parola: cosa hai da dire al Consiglio degli Anziani di Kaerwood?» «Credo nell’esistenza di un Essere Supremo, il cui fine sono Ordine e Giustizia. Prometto di consacrare la mia vita al perseguimento dell’Ordine e della Giustizia senza recare danno alcuno ai confratelli che come me agiscono. Giuro di sottostare all’operato del Gran Maestro e di obbedire alle decisioni del Consiglio degli Anziani di Kaerwood, nelle mani del quale rimetto le decisioni circa il mio operato e la mia nomina. Che la mia lingua sia mozzata, che i miei denti vengano sradicati uno per uno, che la mia gola venga tagliata, che le dita delle mie mani siano staccate e date in pasto ai vermi se rivelerò le intenzioni degli Anziani.» «Kaerwood ha ascoltato le tue parole.» «Allora vi supplico di essere riconosciuto, oppure cacciato» Mirgram si rialzò e rimase in attesa che gli Anziani esprimessero un giudizio sulla promessa di obbedienza che aveva fatta. Sentiva il freddo pungente della foresta nonostante la pelliccia di ermellino, e il profumo del muschio e del vischio. Bogar, l’uomo dalle ali di pipistrello e la voce a ultrasuoni giunse le mani e chinò il capo, senza dire una parola; Vortigern, l’elfo revisionista Signore del Fuoco fece altrettanto; Gatahal di Smirne, lo scienziato gigante perennemente imbronciato, unì le grandi mani di pietra e socchiuse gli occhi gialli da rettile. L’upupa Tabith restava su un ramo di Ywig e quando giunse il suo turno annuì chinando il capo; la Signora del Mare, Noa dai capelli d’argento e la pelle
olivastra, sfoderò un sorriso seducente e i quattordici uomini-albero che per secoli erano stati soli nel Consiglio di Kaerwood annuirono, uno dopo l’altro, fino a quando non giunse il turno di Dayrinn il salice, di Joshua la quercia e infine di Curchach il castagno, che rimase immobile, lasciando gli altri membri sospesi in una ruvida attesa. Curchach guatò il circolo e fece schioccare gli spogli rami; una smorfia attraversò la sua scorza scura quando vide lo sguardo rincresciuto di Ywig e quello teso di Mirgram di Leboran, che rimaneva esterno al cerchio, in silenzio, ancora bendato nell’attesa del verdetto. «Un altro mortale dunque?» Il castagno si alzò e le nodose radici scricchiolarono. «Dopo Atar-Al-Karem un nuovo membro che appartiene a una delle razze più fertili e pericolose di Arhanien: mi domando se questa sia una scelta oculata, Gran Maestro Ywig.» Il vento che stormì tra le fronde della foresta recò il sapore della neve e fece precipitare blocchi di neve dai rami più carichi. Mirgram di Leboran sentì un tuffo al cuore e rivisse la tensione che provò agli esami, quand’era un giovane mago. «Mmh, non capisco dove vuoi arrivare: il Consiglio include già membri appartenenti ai regni umani o alle stirpe degli orchi. Non hanno la carica di Anziani ma vi possono accedere come tutti noi.» «Questo è vero» replicò Curchach, socchiudendo i grandi occhi che sbucavano appena dalla corteccia, «tuttavia tra gli appartenenti a queste due razze, soltanto Atar-Al-Karem fu promosso alla carica di Anziano; e ricordiamo tutti fin troppo bene come terminò il suo operato.» Joshua la quercia si alzò, le fronde sussultarono e il suo carisma ruppe gli indugi rispondendo per le rime al castagno che tramò contro di lui prima del ritorno di Ywig. «Mirgram di Leboran non è Atar-Al-Karem. Le decisioni del Consiglio devono essere prese all’unanimità e non è questo il momento delle discussioni. C’è stato un tempo per proporre, uno per discutere, e ce ne è uno per scegliere. Dov’eri quando abbiamo discusso? Accetti tra gli Anziani Mirgram di Leboran?» Curchach guatò gli altri uomini-albero e tornò a infilare le radici nella terra umida di neve. Attese per secondi che a Mirgram parvero pesanti come i ceffoni ricevuti da bambino e, infine, giunse le mani e chinò i rami scheletrici mostrando
un contenuto assenso. «Mmh, puoi togliere la tua benda, confratello Mirgram. E che la luce di Kaerwood sia da questo momento l’unica che guiderà le tue azioni.» L’umano tirò un sospiro di sollievo, sciolse il fazzoletto e Ywig lo invitò a entrare nel circolo e di prendere posto tra lui e Vortigern, che stava alla sua sinistra. Dopo che il mago sedette su una grossa pietra che sembrava essere stata preparata ad uopo, scaricò la tensione accumulata e ripensò ai problemi lasciati all’Università di Amaradantis, allo spregevole assassino che tramava tra le mura delle classi, ai litigi di Alioth e Arwin e alle beghe sulla festa di Shamhna; si riebbe quando Vortigern prese la parola e si alzò. «La mia opinione è cambiata, non lo nego e non mi vergogno di riconoscerlo, soltanto gli stolti non cambiano idea; o la cambiano spesso. Lo sguardo colmo d’odio e le minacce di Titania delle Scaglie di Rame non mi hanno lasciato indifferente. Ciò che vorrebbe fare alle vostre chiome con il suo alito credo abbia tolto il sonno a molti di noi: sarebbe opportuno prendere in considerazione l’eventualità che Atar-Al-Karem non fosse rimasto vittima di un abbaglio quando decise di appoggiare l’Orda.» «Mmh, immischiarsi ancora in una vicenda tanto spigolosa è un azzardo inopportuno.» «Se seguissimo il tuo consiglio, Gran Maestro, ci piegheremmo di fronte all’ostilità mostrata nei nostri confronti dal Senato di Alesia. Sarebbe la prima volta che Kaerwood cede a pressioni esterne» la voce odiosa di Curchach accolse consensi. «Mmh, ribadisco quanto dissi prima che Atar-Al-Karem prendesse parte a quella sciagurata guerra: l’iniziativa è stata di Atar, era consentita dal Consiglio, non appoggiata.» «Non è tuttavia ciò che hanno inteso le Scaglie di Rame, a stare a quanto ha riportato Vortigern» chiosò Curchach il castagno. «La nostra filosofia è troppo complessa per i draghi metallivori, figuriamoci per gli umani. Con tutto il rispetto possibile verso il nostro nuovo confratello.» «Mmh, attaccare Alesia? E con quale esercito? Non abbiamo truppe da schierare.»
«Ci obbediscono i troll che infestano il Bosco dei Sospiri, oppure gli spietati sudditi di Noa. Possiamo coinvolgere i sovrani di altri Regni Liberi.» Noa, la giunonica regina dai lineamenti tagliati prese parola si alzò, mostrando una gravidanza che non ne attenuava la bellezza. «Mio carissimo Curchach, non sarò io la Signora dell’Oceano che obbligherà tritoni e sirene a salire sulla terraferma a morire per i tuoi capricci» attaccò il castagno con una voce affilata. «Impedire i rifornimenti marini è il massimo che ti possiamo concedere.» «Abbiamo appena aggiunto un membro al nostro Consiglio: è rifiutando un aiuto che mostri a Mirgram di Leboran come si difendono gli interessi dei confratelli?» La attaccò Curchach. Noa guardò in tralice il castagno e rispose per le rime. «Ed è chiedendo il sacrificio dei miei sudditi che tu mostri a Mirgram di Leboran come si difendono i miei, di interessi?» Dayrinn soffocò con un colpo di tosse una risata sfuggita alla sua flemma di salice. Curchach scambiò un cenno di intesa con Vortigern, che intervenne dopo che Noa risedette. «Forse basterebbe irretire i nobili rimasti ad Alesia e corrompere i senatori più ambiziosi. E se fosse necessario combattere contro Alesia, voglio ricordare a tutti che è con la sottile arte del sotterfugio che si è sempre mosso il Consiglio» fu per un curioso riflesso che tutti i membri del consiglio fissarono l’uomo pipistrello Bogar, che mostrò un assaggio lucente delle lame dei due kukri. «Non è necessaria una battaglia campale per vincere una guerra. Non dobbiamo dimenticare che alcuni membri del Senato hanno accettato di entrare nel Consiglio come iniziati: potremo insinuarci nei castelli dei nobili riluttanti ed eliminarli. Non è complesso distruggere gli interessi economici, rovinare i raccolti, affondare i mercantili e saccheggiare le carovane ma in questo modo recheremo svantaggio a tutto il Regno.» «Alesia deve pagare e le Scaglie di Rame devono recare al Consiglio le loro scuse» Curchach il castagno incalzò il Gran Maestro Ywig. «Ricordo che questa era la questione posta all’ordine del giorno, non vorrei che il Consiglio si chiudesse senza definire una linea politica per il Gran Maestro. Sarebbe opportuno prendere una decisione operativa al riguardo.»
«Cosa intendi per operativa?» Joshua la quercia si accigliò. «Intendo dire che dovremmo mettere ai voti la proposta di Vortigern. C’è stato il momento per discutere, adesso è giunto quello per decidere. Domando che venga posto un embargo al Regno di Alesia.» Scese un silenzio glaciale e il vento freddo del Nord stormì tra le fronde delle scure aghifoglie. Gli uomini albero tacquero uno a uno, in senso orario a partire da Curchach. «Io mi oppongo» fu Joshua il primo a dire come la pensava; dopo di lui, Ywig fece altrettanto. «Mmh, già un voto contrario è stato trovato, anche io, nella carica di Gran Maestro mi oppongo ad azioni repressive. Possiamo continuare con i giudizi, Curchach, ma sai benissimo che ne basta uno contrario per bocciare la mozione.» Il castagno grugnì e inabissò le radici nella terra. «Desidero che anche gli altri Anziani esprimano il loro parere.» Gli occhi di tutti si fissarono su Mirgram di Leboran. «Mmh, puoi dire ciò che pensi al riguardo, se sei contrario» lo incalzò Ywig. Mirgram schiarì la voce con un colpo di tosse. «Un’azione che mini la solidità di Alesia torna a mio vantaggio. Non ho motivo di oppormi a una tale risoluzione.» L’intervento dell’umano meravigliò Curchach, che si rianimò. Bogar e Vortigern rimasero in silenzio, Tabith, Gatahal di Smirne, Noa, Dayrinn il salice e altri quattro uomini-albero si schierarono contro la mozione. «La maggioranza di Kaerwood è favorevole all’intervento» disse Curchach quando la parola gli tornò. «Ma questo non vuol dire nulla, perché l’unanimità non è stata raggiunta. Mi dispiace che coloro che portano opinioni contrarie non la mutino in virtù della loro palese inferiorità.» «Mmh, non è con i numeri che si prendono decisioni, Curchach, lo sappiamo tutti molto bene.»
«Hai ragione, Gran Maestro, e me ne rammarico.» Scese di nuovo un silenzio tagliente. «Mmh, se non ci sono altre mozioni, dichiaro la seduta conclusa» Ywig attese interventi che non arrivarono e lasciò il cerchio, decretando la fine della riunione. «Io posso tornare alle mie faccende, Gran Maestro?» Mirgram camminò accanto a Ywig, tra le fronde penzolanti che dondolavano. «Mmh, ti avviseremo con la sfera luminosa ogni volta che ci saranno novità ma quando vuoi tornare al Tempio Scarlatto o necessiti di promuovere una mozione sei il benvenuto, Mirgram di Leboran. Hai mostrato carattere prima.» «Vi ringrazio Gran Maestro, spero che la mia opinione non vi abbia fatto cambiare idea sul mio valore.» «Mmh, l’ha aumentata, amico mio, l’ha aumentata invece. È dal confronto che gli esseri senzienti plasmano il futuro: soltanto mufloni, stambecchi e caribù si prendono a cornate. E i draghi, ogni tanto.» «Se me lo concedete, io prenderei congedo, ho questioni importanti da risolvere ad Amaradantis.» «Mmh, a presto confratello Mirgram.» «A presto, Gran Maestro» il mago si affrettò a raggiungere il Tempio Scarlatto per riaprire il portale che l’avrebbe riportato all’Università. Ywig venne raggiunto da Noa, che si insinuò tra i suoi rami carichi di foglie scure. «Mmh, noto con felicità che il tuo grembo cresce, mia signora.» Noa sorrise e si accarezzò il ventre. «Mi hanno strappato Gwyllywm ma ne porto un figlio che potrà contendergli il Sigillo del Vento nel futuro prossimo. Il controllo dei Sigilli è soltanto una questione di tempo.» «Mmh, nessuno voleva che il tuo zelo arrivasse a tanto e mi spiace che tu abbia
percepito un tale accanimento verso la necessità di controllare il Vento. Non era negli intenti di Kaerwood, perdonami.» Noa ripensò alla cattività di Gwyllywm presso l’Isola della Felicità, alla sua fuga, alle donne che erano con lui e che l’avevano aiutato. «È stato il precipitare degli eventi, Gran Maestro, non c’è stata una bieca premeditazione da parte mia, oppure l’intenzione di piegarmi a un ordine frainteso: sono felice di ciò che ho fatto.» «Mmhi domando se il tuo erede sarà più vicino a te o al padre. Se lo sapessero, gli elfi ortodossi farebbero follie per sottrartelo e studiarlo. Cosa serba il tuo grembo, una nuova razza, un incrocio ritenuto impossibile tra il Popolo del Mare e quello della terra?» «Qualunque siano le qualità di mio figlio, o di mia figlia» accarezzò ancora il pancione, «non sono ottenute manipolando la vita come fanno gli oscuri. Sono frutto dell’amore che è stato tra un maschio e una femmina, non dell’egoismo di uno scienziato.» «Mmh» Ywig guardò il Tempio Scarlatto, il cui marmo bianco rifulgeva dei bagliori lunari. «Credo che Kaerwood si stia sgretolando» si confidò, meravigliando Noa. «Dev’essere una cosa molto grave e palpabile se ti fa uscire dalla tua proverbiale riservatezza.» «Mmh, sono restio a mostrare agli altri membri i miei timori ma tu hai sempre palesato un attaccamento prezioso all’equilibrio. L’atteggiamento di sfida di Curchach rasenta l’intollerabilità ma riscuote consensi che non posso ignorare. Ho ato anni rinchiuso nel bozzolo creato da una famiglia di ragni giganti e non riesco a interpretare l’astio che il castagno prova per Joshua.» «Il Consiglio non si è riunito per molti anni e quando era Gran Maestro Joshua ma non si sono verificati grandi occorrenze o pericoli, se si esclude la profanazione del Tempio da parte dell’elfa Raylyn e dal nano che ti ha liberato. E in quell’occasione Joshua e Curchach hanno litigato e non è stata presa una decisione unanime.» «Mmh, Joshua non si è mostrato pronto per succedermi. Sento che Curchach ambisce alla mia carica, e io la cederei al castagno se non fosse troppo inquieto
per ricoprirla. Dopo quanto accaduto con Atar-Al-Karem serve equilibrio, non spregiudicatezza. Se venisse fatta richiesta di un nuovo Gran Maestro, non sarebbe saggio da parte mia proporre Joshua come successore. Non riscuoterebbe i consensi di coloro che mi appoggiano e attirerebbe l’odio di chi mi osteggia.» «Hai pensato a Vortigern? Non è un uomo-albero ma non ricordo vincoli per la carica.» «Mmh, veramente avrei pensato a te.» Noa sussultò. «Io? Sono la meno presente, e avrei ben poche occasioni per interagire con i membri del Consiglio.» «Mmh, è proprio questa eventualità che spingerebbe anche i seguaci di Curchach a scegliere te. Devo offrire al castagno e ai suoi sostenitori un’alternativa valida alla mia. Devo accogliere anche le loro richieste di cambiamento per non perderli.» «Ma se non ci fosse accordo unanime sul successore, rimarresti tu in carica, o sbaglio?» Ywig guardò le guglie che erano state aggiunte alle torri tonde che interrompevano le mura del Tempio, tetti ricoperti da lastre di ardesia blu che baluginavano ai raggi lunari. «Mmh, non sbagli, ma come ho già detto io devo abbattere le barriere che mi separano da Curchach, non erigerne di nuove. Tabith mi ha riferito che sono molti i membri che vorrebbero riformare la regola dell’unanimità con una più sbrigativa maggioranza. Temo anche questo, ciò che trova la sua forza nell’unità deve rimanere unito. Se dovessi proporti come mio successore, accetteresti?» Noa guardò altrove e socchiuse gli occhi, poi decise. «Accetterò, Gran Maestro. E voglio che tu sappia che è un grande onore quello che mi concedi.» Ywig si rilassò e si sciolse in un sorriso paterno. «Mmh, ti ringrazio Signora del Mare. Buona notte» camminando avevano oltreato le mura del Tempio e la grande quercia infilò i piedi nel tappeto d’erba soffice. «a una buona notte, Gran Maestro» Noa evitò le scale volando sino all’entrata.
* «Non riesco a comprendere i vostri dubbi e le vostre paure» la voce arcigna di Curchach riportò l’ordine tra i sei uomini-albero che sussurravano nel Bosco dei Sospiri. «La decisione che deve essere presa non è tra le più semplici» Tarmagh il tasso fu il solo a esporre i dubbi che ottenebravano gli altri Anziani. «Insomma, volete che le Scaglie di Rame piombino giù dal cielo a incenerirvi le chiome oppure preferite che un colpo di mano mostri a tutti quanto Kaerwood possa rinascere dalle proprie ceneri?» Ricordò Curchach. «Forse non sono necessarie azioni drastiche come quelle che proponi» Tarmagh fece vibrare i grandi rami. «Qualsiasi provvedimento contro i nobili di Alesia non verrà appoggiato dal Gran Maestro, nemmeno dal suo tirapiedi Joshua, che per anni ha tenuto il Consiglio senza polso. Un tempo gli umani avrebbero venduto le mogli, le figlie e le madri pur di entrare nel Consiglio, ora siamo giunti al punto che ci disdegnano: è giunto il momento di are dalla politica delle opportunità a quella delle punizioni.» «Paura e odio, Curchach. Tu sei soltanto capace di ragionare in virtù di questi sentimenti?» Domandò Tarmagh. «È ora di cambiare registro. Prima degli umani, prima degli elfi e prima dei nani e degli orchi Arhanien era nostro. Non c’erano guerre, non c’erano opifici, non c’era lo sterco degli esseri di carne ad appestare l’aria. Ritornare ai quei tempi ora è impossibile, così come è impossibile procedere speditamente verso un brillante futuro se occorre trovare una soluzione che compiaccia tutti. Noi siamo più di coloro che preferiscono non far nulla.» «Hai ragione, ma a Kaerwood non vige un principio maggioritario ma l’unanimità dei consensi» ricordò il tasso. «E ti sembra equo e corretto che i pochi tengano in scacco i molti?» Tarmagh rimase in silenzio e curvò i rami; d’improvviso come si era spento, si riaccese. «Non riuscirai a promuovere una mozione per cambiare le regole di
votazione.» «È per tale ragione che deve essere cambiato nocchiero: la nave è da troppo tempo alla deriva» Curchach scricchiolò, eccitato. «Potremmo destituire Ywig, ma senza ucciderlo» il tasso cercò ancora di mitigare l’ira e la determinazione del castagno. «Confratelli carissimi, io ho già agito contro Ywig, tendendogli una trappola nel Bosco dei Sospiri, lustri prima di oggi» si vantò il castagno. «Lo feci imprigionare in un’erta, all’ombra e all’umidità, e vi portai una tribù di ragni che abitò tra le sue fronde, segregandolo come un albero qualsiasi. Eppure sono stato troppo mite credendo che bastasse farlo sparire per sistemare le nostre questioni. Io mi sono assunto il rischio, lo ricordate? Eppure la carica di successore è stata data a Joshua, che avete ritenuto più moderato. Siete tutti convinti come me che Kaerwood debba cambiare, ma non avete il coraggio di appoggiare le scelte necessarie.» «Anche tu votasti per Joshua se non ricordo male» insinuò Tarmagh. «Sarei stato l’unico a oppormi: non farò il capro espiatorio per nessuno di voi, sia chiaro. Oggi non si può più agire come allora, Ywig deve essere eliminato. E tu puoi risolvere il problema in un battito di ciglia» Curchach si rivolse all’elfo che fumava il calumet su un masso. «Potresti avere ragione, oppure potrei creare nuovi grattacapi» Vortigern fece un ghirigoro dal sapore di tabacco. «Se ti imporrai come successore di Ywig alla carica di Gran Maestro, si potrebbe sospettare che sei stato implicato nella sua sparizione. Gli altri membri potrebbero non seguirti e potrebbe nascere un conflitto insanabile. Talvolta le piccole ferite incancreniscono e conducono alla morte l’intero organismo.» «No, vedo che nessuno di voi ha capito. Innanzitutto non mi interessa cosa penseranno gli altri confratelli: non devono ammirarmi e condividere le mie opinioni, devono temere me e le mie scelte. La morte di Ywig deve essere un messaggio a Joshua e a tutti coloro che si oppongono alle decisioni della mia fazione: devono tutti temere di fare la sua stessa fine se appoggeranno Joshua. Se non è più il consenso che tiene uniti gli Anziani, lo farà la paura.» «E dunque tu vuoi che venga ucciso?» La voce a ultrasuoni di Bogar irritò tutti.
«Non sarà una cosa facile.» «Lo è più del previsto invece» sogghignò Curchach: «le Arti del Signore del Fuoco non hanno nulla da invidiare all’alito delle Scaglie di Rame.» * Tabith volò tra le fronde di Ywig e si sistemò accanto ai lobi della vecchia quercia. «Hanno appena terminato.» «Mmh, e non ti hanno scorto.» «Come sempre, sono un tipo discreto.» «Mmh, ebbene, che cosa hanno deciso i cospiratori, vogliono cambiare le regole?» Il Gran Maestro era rimasto sveglio a meditare. L’upupa si pulì il piumaggio fulvo del petto e scosse il capo con la lunga cresta. «No, niente cambiamento di regole. Hanno deciso che è ora di cambiare Gran Maestro.» «Mmh, lo immaginavo» sospirò la quercia. «E quando hanno intenzione di agire?» «Stanotte stessa.» «Stanotte?» Ywig storse tronco e rami per fissare Tabith. «Che vuol dire? Non ci saranno riunioni stanotte.» «È questo il problema. Forse è il caso che raccogli coloro che ritieni più fedeli alla tua causa.» Ywig provò un brivido e la clorofilla gli si ghiacciò nei rami. «Cosa hanno intenzione di fare?» «Curchach ha convinto i cospiratori a liberarsi di te. Stanno arrivando Vortigern e Bogar.» Ywig si alzò in fretta, scricchiolando e svellendo zolle d’erba fine. «Mmh, ciò che dici rasenta la follia.»
Tabith dondolò sul ramo e aprì le ali per rimanere in equilibrio. «Non credo che Gatahal e i suoi topi ti saranno di aiuto. Io chiamerei Joshua e Dayrinn, e Noa, sì: anche se è incinta i suoi poteri sono complementari a quelli di Vortigern.» «Mmh, e tu invece?» «Le Scaglie di Rame sul piede di guerra non mi fanno comodo, ciò che vuol fare Curchach ha un senso» confessò l’upupa. «Eppure sarò con te, se non saremo i soli, perché sarebbe questa la vera follia.» «Mmh, sei come tutti quelli della tua razza.» «Ringrazia il cielo che mi nascondo in un’upupa, altrimenti faresti molta fatica a sorreggermi.» Dal buio, oltre le porte aperte delle mura, Ywig percepì avvicinarsi un’ombra furtiva e silenziosa. «Vado a chiamarli?» Domandò Tabith. Ywig attese che l’ombra si avvicinasse. «Mmh, no. Vattene di qui, rimani a guardare ciò che accadrà ma non raccontare agli altri alcunché, poiché così è meglio che sia. Verrà il momento nel quale dovrai dire cosa è accaduto, ma non sarà domani né il giorno successivo.» L’upupa decollò dalla chioma del Gran Maestro e si appollaiò tra l’ardesia che ricopriva il tetto della torre più vicina della cinta posta a difesa del Tempio Scarlatto. «Mmh, chi striscia nel buio come una serpe senza averne le movenze ma soltanto il veleno?» L’ombra si fermò, attese, poi uscì dall’oscurità proiettata dalle mura per are alla penombra lunare. «Non immaginavo che gli uomini-albero avessero una vista e un udito tanto raffinati.» Ywig scosse le fronde. «Mmh, non sono la vista o l’udito, è il propagarsi dei i sull’erba che è giunto alle mie radici.» «Come un sasso scagliato in un lago.»
«Mmh, che cosa cerchi Vortigern di Tseller?» «Vengo in nome della maggioranza di Kaerwood.» «Mmh, Kaerwood non ha maggioranze, non le ha mai avute. Kaerwood è sempre stato uno. Uno e uno solo. E a quanto pare morirà tra poco.» «Non morirà» le mani di Vortigern si accesero con fiamme gialle, «il fuoco la riforgerà in uno splendore privo di precedenti.» «Mmh, ciò che fate oggi non dona nuova vita a Kaerwood, ma lo distrugge. Se il Consiglio vivrà ancora abbastanza da consentirti di raggiungere i tuoi scopi è perché io, adesso, cedo alla violenza senza replicarvi.» «La tua retorica mi sfugge.» «Mmh, se Kaerwood sopravvivrà al tuo insano gesto è perché sono io a mettere gli interessi del Consiglio davanti alla mia vita, non in virtù della tua scelleratezza. È perché accetto la follia con un barlume di ragione suicida che Kaerwood sopravvivrà a questa notte. Tu che giungi nel buio come un sicario, ricordalo ai mandanti che si macchiano della mia linfa. A loro toccherà la medesima sorte: i frammenti che scaturiscono dalla disgregazione dell’Unico non sono che polvere; l’odio e l’inganno si pagano con la stessa moneta.» Vortigern rimase perplesso. «Perché non chiami in tuo aiuto qualcuno?» «Dovrei farlo?» «Potresti combattere e portare alla luce gli inganni di Curchach. A coloro che lascerai e che ti appoggiano non servirà il tuo sacrificio» Vortigern mostrò indecisione. «Mmh, è per questo che sei venuto, per capire se sarò io a distruggere l’unità di Kaerwood? Ebbene, Vortigern di Tseller, se lo fi, se io medesimo dividessi Kaerwood, mi macchierei della sua distruzione. Comunque vada, che io viva o che io muoia, Kaerwood finirà divisa. Io sono uno dei primi, uno di coloro che hanno affrontato Morg Kroth e che ricordano l’orrore che dimorava in questa plaga. Fai ciò che devi fare, elfo, e fallo alla svelta, senza farmi soffrire. Ma se non ne hai la forza o hai ancora dei dubbi, allora vattene e lasciami riposare: domani sarà una giornata lunga per tutti.»
* Il sole era sorto in punta di piedi, occhieggiando con un pallore mortale oltre la nebbia confusa della foresta, e nubi sfilacciate come bende consunte macchiavano l’orizzonte che si accendeva di malaticcio lucore. Gatahal di Smirne si svegliò di buon’ora, ò in rassegna il plotone di topi ai suoi ordini e riprese a catalogare i manufatti del Tempio Scarlatto con il loro aiuto. I roditori si infilarono tra i gioielli, le armi, gli alambicchi e i vasi di porcellana, cercando di dare un ordine allo sconclusionato marame accumulato da Morg Kroth fino alla sua distruzione per mano dell’elfa Raylyn e del nano Meldor figlio di Mellor. Il gigante di roccia aprì il libro magico che utilizzava come catalogo ma non terminò di sistemare due spade magiche e un diadema d’oro bianco e lapislazzuli che Tabith giunse in volo e si depositò sul trespolo d’oro di cui si era appropriato. «Stanotte è accaduta una cosa che nessuno avrebbe immaginato» disse l’upupa dopo essersi lisciata il piumaggio bianco e nero delle ali. Gatahal alzò lo sguardo dal libro per fissare l’interlocutore ma non mosse la testa. «Curchach ha visto la luce della saggezza e ha mostrato nuovo attaccamento all’operato di Ywig?» Tornò a leggere prima di aver finito la frase. «Avremo un nuovo Gran Maestro» rispose l’upupa, sconsolata. Gatahal alzò la testa. «Ywig si arrende alle pressioni?» «Ywig non può più arrendersi» Tabith si alzò in volo e uscì dalla stanza che Morg Kroth usava per i suoi blasfemi rituali cognitivi. «E per quale ragione?» L’uomo dalla pelle di roccia seguì l’upupa con lo sguardo e poi gli corse dietro, facendo rimbombare i i nei corridoi ripuliti dai fantasmi degli avventurieri attirati dai tesori del Tempio. Arrivò all’esterno dove tredici uomini-albero si stavano radunando, irrequieti. Il Vaenert che soffiava impetuoso diede un brivido all’uomo-roccia: gli odori umidi e aspri del musco e dell’inverno coprivano il puzzo penoso della combustione di qualcosa di enorme. «Lo hai saputo soltanto adesso?» Noa sorprese l’uomo-roccia e scosse i suoi
funesti pensieri. «Saputo che cosa?» Gatahal si unì agli uomini-albero che si erano assiepati attorno a un mucchio di cenere dall’odore stomachevole che copriva zolle smosse; li guardò uno a uno, fissando le loro fronde tremanti e le facce smunte e penose. Mancava il Gran Maestro. «Autocombustione» la voce di Curchach risuonò stentorea e gli uomini alberi dondolarono come gli inutili burattini relegati allo sfondo di uno spettacolo di pupazzi. «Ywig è morto per autocombustione.» «Sta scherzando» Gatahal guardò Noa, che fece spallucce. «Sembra che sia una cosa frequente tra gli uomini-albero» spiegò la Signora del Mare. Gatahal fissò Noa con occhi tanto stupiti che la Regina dell’Isola della Felicità pensò di aver ripreso il suo aspetto di abitante delle immensità oceaniche. «Ma dico, siete tutti impazziti?» Gatahal guardò i giganti di legno che borbottavano tra loro. «Credete che abbia preso fuoco spontaneamente?» «La colpa è mia» Curchach il castagno si affrettò a rispondere: «devo avergli dato troppe preoccupazioni e me ne rammarico. Ywig era assillato da problemi troppo grandi per lui e il mio dissenso deve essere stato come la goccia che ha fatto traboccare il vaso.» Gatahal rimase con la mascella e gli occhi spalancati. «Joshua, puoi spiegargli tu cosa è accaduto? Io sono troppo provato» il castagno completò la sua pantomima e la quercia si piegò verso l’uomo-roccia. «L’eccessivo ragionamento comporta un’accelerazione incontrollata del flusso della linfa: questa surriscalda le foglie e i rami più sottili, i quali aumentano di temperatura sino a prendere fuoco.» «Vi state burlando di me» Gatahal si prese l’enorme testa pelata ricoperta di pietre. «È il motivo per il quale discutiamo lentamente e senza enfasi» continuò Joshua:
«infervorarsi non è mai una condotta buona per un uomo-albero.» Gatahal di Smirne fissò esterrefatto Bogar, poi Vortigern, Tabith e infine Noa. Scoprì di essere l’unico a esternare meraviglia e sospetti. «Visto che siamo tutti riuniti, chiedo che il Consiglio degli Anziani venga riconosciuto da tutti come in pieno svolgimento» Curchach approfittò della situazione e all’uomo-roccia cominciò ad apparire in tutta la propria chiarezza l’evoluzione e il senso degli accadimenti. «Mancherebbero due membri» Gatahal strinse i pugni. È possibile che sia il solo a provare rabbia per quanto accaduto? «Li abbiamo già consultati e non possono giungere in breve tempo» rispose l’odiosa cantilena di Tarmagh il tasso. «E quanto è accaduto impone discutere questioni indispensabili per il bene di Kaerwood.» «E quali sarebbero le questioni da porre all’attenzione del Consiglio?» Chiese Gatahal con la voce che divenne un sussurro. «Propongo Curchach alla carica di Gran Maestro» continuò Tarmagh. «C’è qualcuno contrario?» Coloro che erano fedeli a Ywig non dissero nulla, nemmeno Joshua, che era rimasto a fissare, inamovibile e inquieto, il luogo dove restava la cenere. «Molto bene, vi ringrazio della fiducia che mi date e spero che il mio operato si riveli probo e puntuale almeno la metà di quanto fece il mio predecessore. Uno dei punti su cui volevo spingere era l’intervento del Consiglio riguardo alla politica di Alesia: qualcuno è contrario all’uso di ogni mezzo necessario a sottomettere i nobili di Alesia?» Nessuno osò fiatare. Ecco dove voleva arrivare, Gatahal strinse le dita di pietra e le fece scricchiolare. Ha ordito ogni cosa affinché il terrore accecasse ognuno di noi. «Bene, qualcuno è contrario all’impegno degli Anziani Bogar e Vortigern al riguardo?» Un prolungato silenzio stabilì il nuovo corso della politica del Consiglio di Kaerwood. «Bene, la riunione è sciolta, che ognuno torni ai propri
impegni» gli uomini-albero si diressero verso la foresta mentre Vortigern, Noa, Tabith e Bogar rientrarono nella piramide a gradoni eretta da Morg Kroth. Gatahal fece alcuni i verso il Tempio, poi un sussurro portato dalla terra che vibrava lo bloccò e lo terrorizzò. «Mmh. Sì, Gatahal di Smirne: vieni qui, ma senza che vedano.» «Che fai Gatahal, rimani fuori?» Vortigern parlò con voce affilata mentre saliva i gradini. «Vi raggiungo, voi andate» l’uomo dalla pelle di roccia si avviò verso la cenere che fu Ywig la quercia e vi scrutò con attenzione; si sincerò che nessuno lo guardasse e vi infilò le mani, con un misto di deferenza e disgusto, e dopo una penosa ricerca afferrò qualcosa che era sfuggito alla combustione del Gran Maestro: la ammirò serbandola nelle mani e quindi la infilò in una tasca della veste bianca che indossava. Era una minuscola, palpitante ghianda.
Il destino non esiste, chiunque può cambiare il corso degli eventi. Aforismi – Terzo Cantore
XXII – Emirith di Spinwirth
Quando Hulbert e Amber scesero nel salone del primo piano, la tavola era stata apparecchiata con terraglie di ceramica e stoviglie d’argento. Nel camino scoppiettava un fuoco ricco di ceppi e tre candelabri dalle decorazioni fogliate erano stati disposti sulla tavola, equidistanti. Jeff, il capitano delle guardie, sostava a ridosso dell’entrata mentre David, un uomo dai capelli unti e la folta barba rossa aveva appena tolto le assi della botola lasciando che il profumo di carne salisse dalle cucine. Appena riconobbe i nuovi signori, la guardia che aveva terminato il turno di scolta sul mastio tolse l’infula, si inchinò e attese di essere chiamato. «Tu devi essere David» disse Hulbert, invitandolo ad alzarsi. «È come voi dite, mio signore» l’uomo aveva un naso a patata che prendeva tutto il viso e una voce arrochita da una vita di stenti. «Sono molti anni che servi i signori di Brora?» «È da quando sono diventato un uomo» disse con rara dignità. «Saranno trenta e a primavere, mio signore. Ero qui prima che arrivasse sir Golahaff e prima di sir Berogray, suo predecessore.» «Bene David, noi scendiamo» disse Hulbert avviandosi alla porta. Jeff il guercio aprì la porta e i signori di Brora uscirono dal mastio che il Vaenert impetuoso aveva spazzato il cielo dalla grigia coltre di nubi; le Montagne di Cristallo sulle cui pendici si abbarbicavano i castagneti e i querceti della contea di Brora riflettevano il rosseggiare del cielo al tramonto, le cime spruzzate dalla prima neve dell’inverno.
Amber si strinse nella pelliccia del mantello e Hulbert balzò tra lei e la direzione del vento, proteggendola con la sua mole di guerriero. La ragazza gli prese la mano e non la lasciò sino alla discesa delle cucine, sulla parte in ombra del castello, dove il freddo si fece affilato come una squarcina. Hulbert stava per bussare quando Amber lo fermò. «Che fai? Siamo i signori, è casa nostra adesso» la fanciulla spalancò la porta e il calore della stanza uscì con violenza, portando il sapore speziato della carne. Dentro le cucine, illuminate dal fuoco nel camino alto due metri, stavano due donne e un ragazzino. La cuoca, una donna anziana dal volto consumato dalla fatica di una vita ata a cucinare, stava mostrando all’aiutante, molto più giovane di lei, come dovevano essere posizionati i vari tagli di carne e le altre pietanze dentro la pignatta che borbottava; il garzone stava seduto davanti al fuoco e sagomava un ceppo di legno con un coltello. La donna anziana fu la prima a inchinarsi e i più giovani la imitarono, zitti. «Buonasera» Hulbert salutò con umiltà ma rimediò una gomitata da Amber, che alzò il mento e sguainò una voce adulta e solenne. «Sono Amber e lui è Hulbert, siamo i signori di Brora» alle parole della ragazza, il garzone e le cuoche si intozzarono e parvero scomparire nelle proprie ombre. «Quali sono i vostri nomi?» «Io sono Jasmine» balbettò la più anziana, le rughe profonde, la veste scura, sgualcita, e un fazzoletto a legarle i capelli «e questa è mia figlia Julia.» La giovane cuoca aveva un abito di fustagno, simile a quella della madre e che nascondeva ogni attributo femminile, e una cuffia cremisi, sbiadita, dalla quale riccioli rossi sbucavano a ciocche disordinate. Le labbra e gli occhi erano identici a quelli della madre, sottili e tirate le prime e azzurri i secondi, mentre il naso sgraziato mostrava una somiglianza con quello di David. Il ragazzo aveva una tunica rattoppata, rimase in silenzio, chinò il capo, rivolse lo sguardo a terra e unì le mani dietro la schiena. Era di poco più giovane di Hulbert ma era alto quanto Amber e rasentava la denutrizione. Era scalzo e la zazzera scura e gli occhi neri erano in netto contrasto con quelli nordici delle donne. «Lui invece? Perché sta zitto?»
Jasmine mostrò stupore e rispose la figlia Julia. «Lui è uno schiavo» gracchiò la fanciulla. «E gli schiavi non parlano?» Domandò Hulbert ricevendo un’altra gomitata. «Non ha mai proferito parola con i vecchi signori, a meno che non fosse stato interpellato» precisò la cuoca. «Come ti chiami, ragazzo?» Disse allora Hulbert. «Mi chiamo Tommy, signore» rispose incollando lo sguardo alle pietre del pavimento. «E perché non hai scarpe?» «Non ho mai avuto scarpe, signore» la voce del fanciullo tremò. «Allora come prima cosa dovremo rimediare a questa ingiustizia» sentenziò Amber. «Dovremo chiamare una delle guardie per ordinargli di reperire un paio di calzature.» «Vi prego di lasciar fare a me, miei signori» Julia si prodigò in un sorriso soddisfatto e si posizionò sotto la botola. «Papà» fece squillare la voce e dal piano di sopra apparve una sagoma. «Per tutta la neve delle montagne, che vuoi, donna?» Rispose la voce arrochita di David. «I signori desiderano che tu vada a prendere un paio di scarpe per lo schiavo.» «Che cosa blateri, donna?» «Non far finta di non capire» la voce di Julia si inasprì. «Vogliono delle scarpe per Tommy, corri a prenderne un paio, vecchio fannullone.» David mugugnò qualcosa e la sua sagoma scomparve dalla botola. «Così impari a bighellonare» borbottò Julia tornando alla pignatta. Jasmine si prostrò davanti ai nuovi signori e parlò con tono supplichevole. «Cosa desiderate da queste umili servitrici, miei signori?»
«Le prigioni, dove sono?» Domandò Hulbert. «Le prigioni? Ma mio signore, che cosa cercate nelle prigioni che» la cuoca venne interrotta da Amber. «Dicci soltanto dove sono le prigioni.» «Perdonate, mia signora, ecco, seguitemi» la cuoca si ingobbì, aprì la porticina che stava sulla parete opposta a quella dell’entrata e diede aria a una stanza immersa nell’oscurità. «Tommy, prendi una torcia» ordinò Hulbert. Lo schiavo portò quanto richiesto ed entrò nella dispensa, seguito dai padroni. Dentro la stanza ristagnava un odore confuso di provviste e dal buio affioravano carni affumicate appese alle travi e cassapanche stipate di grano. A differenza del pavimento della cucina, di pietra, quello della dispensa era di legno e si reggeva sul soffitto della prigione, agibile da una botola che Tommy indicò con la torcia. «La devo sollevare, mio signore?» «Sembra che la cosa ti spaventi» commentò Hulbert dopo aver visto la faccia dello schiavo. «La signora è una strega» sussurrò. «Che cosa intendi per strega?» Domandò Amber. «È malvagia.» «E cosa ha fatto di preciso?» Si incuriosì il signore di Brora. «Il siniscalco ci raccontava che» Hulbert lo interruppe con una nuova domanda. «Come sarebbe a dire: non l’hai mai vista comportarsi da strega?» «No, mio signore» il fanciullo tremò. «Noi non avevamo contatto con i signori, cioè, soltanto Julia perché sparecchiava, serviva in tavola e rifaceva le camere. Noi tutti obbedivamo al siniscalco che ci riferiva cose tremende sulla signora.» «Sei sicura di ciò che stiamo facendo?» Disse sottovoce Hulbert alla moglie.
Amber gli prese la mano e la strinse. «Credo che Oddone abbia commesso un sacco di errori. Dovremo rimediare.» «Allora rimedieremo. Fammi luce Tommy, alla botola ci penso io» Hulbert ordinò al servo dove mettersi, afferrò l’anello di metallo e scoperchiò la prigione. «Che Cernunnos vi benedica» una voce armoniosa ma provata dal digiuno giunse appena udibile dal buio della fossa. «Vi tireremo fuori, ma non dovete fare follie.» «Abbiate pietà di me, farò qualsiasi cosa mi direte» promise la donna. Amber prese una corda con l’estremità legata a cappio e la srotolò nella cella, buia e puzzolente: la donna vi infilò un piede e si resse con tutte le poche forze che le rimanevano. * Julia aveva apparecchiato per quattro persone da un capo del tavolo e servito con carni, legumi, patate e una pasta ottenuta con acqua, uova e farina era stata fatta bollire e proposta come contorno. Emirith mangiava con gusto ma con una armonia che Amber cercò di imitare; la donna indossava una cioppa di fustagno rimediata tra gli abiti che le appartenevano, i riccioli neri erano ancora insudiciati dalla prigionia mentre gli occhi chiari, leggermente strabici, studiavano i nuovi signori con una discrezione esemplare. «Pensavo di morire là sotto, come un ladro» disse dopo aver lenito i morsi della fame e della sete. «Cernunnos sia ringraziato per avermi mandato a liberarmi.» «È la seconda volta che citi Cernunnos, è il Dio in cui credi?» Chiese Amber. «È il Dio dei boschi, in queste zone ha molti proseliti» rispose Emirith con voce musicale. «È uno dei vecchi Dei soppiantati da Reivon nelle città del Nord» si intromise Oddone, che era stato convocato e mangiava al capo opposto degli altri, cupo e
guardingo: «lo adorano bracconieri e briganti; è un Dio oscuro.» «Veramente» Emirith alzò la voce ma la riabbassò subito. «Chiedo perdono, ho parlato senza essere interpellata» appoggiò lo spiedo e il coltello dentro il piatto. «No, dicci pure, Oddone non voleva zittirti» Hulbert la invitò a proseguire e il siniscalco si nascose dietro un sorriso di cortesia. «Cernunnos non è oscuro, è scomodo. Egli protegge le fonti, gli animali selvatici, il bosco. Senza la Sua intercessione non avremmo mangiato questa sera» scostò il piatto, vuoto. «Capisco quello che dici» le diede man forte Hulbert: «io adoro Shana, la Dea Madre degli elfi.» Il volto di Emirith si illuminò e la voce si addolcì. «Allora voi potete comprendere, mio signore. Si dice che Shana sia madre di Cernunnos.» Amber tossì per riavere l’attenzione di Hulbert. «In verità quello che vorremmo capire è per quale ragione sei stata imprigionata.» «Credevo di avervi fornito un’esaustiva spiegazione» Oddone pulì il piatto con un pezzo di pane. «Certo, ma vorremmo conoscere anche la sua versione» spiegò Amber indicando la concubina di sir Golahaff. «Vi chiedo scusa, mia signora» Oddone fu pugnalato dallo sguardo di Amber e la voce gli si affossò, «ma la mia parola è messa in discussione?» «Assolutamente no» si affrettò ad aggiungere Hulbert, «vogliamo solo verificare che non si siano verificate incomprensioni.» Incomprensioni! Un ragazzo che non sa nulla del mondo e fatica a domare la propria barba mi parla di incomprensioni. Oddone scostò il piatto e si alzò da tavola. «Se mi è consentito, ritengo che la mia presenza sia superflua, anzi dannosa perché non consente a lady Emirith di esprimersi senza riserve. Con permesso, mi ritiro.» Hulbert e Amber si guardarono ma non fermarono il siniscalco, che si avviò
verso l’uscita del mastio e si infilò tra i drappi del soppalco. «Aprimi, me ne vado a dormire» disse stizzito a Jeff che montava la guardia alla porta; prima di uscire, Oddone, chiamò a sé il capitano delle guardie. «Ascolta ogni cosa e riferisci a me. Presta più attenzione che puoi» sussurrò. Jeff annuì e richiuse il portone. * Oddone sistemò la poltrona davanti al camino, prese lo scrigno dove teneva pipa e tabacco e riattizzò le fiamme con nuovi ceppi. Le imposte tremavano tanto che il siniscalco disperò che il vento volesse squassare la casa e sradicarla; quando Jeff entrò, un’ora dopo la fine della cena, una folata s’insinuò nella casa e ingigantì le fiamme. Il capitano delle guardie chiuse la porta e sedette su uno sgabello, accanto alla poltrona. «Che hai da sogghignare?» Oddone gettò un nuovo ceppo dentro il camino. «Non immagini ciò che ho da dirti» Jeff si strofinò le mani. «Che aspetti allora?» Il siniscalco si accomodò e accese la pipa. «Emirith ha raccontato che cosa faceva e quale era il suo rapporto con sir Golahaff; ha dato consigli su come amministrare il castello, le cose che sono state fatte e quelle che sarebbero da fare. Si è mostrata affabile e sottomessa come mai ha dimostrato in questi anni. Per ultima cosa ha detto di aver rivendicato Brora inviando una lettera con la ceralacca di sir Golahaff a sir Aaron da Glenduarel e di averla affidata a voi in persona, affinché la consegnaste al paggio che è giunto la settimana scorsa.» La pipa di Oddone cadde in terra. «Lurida puttana, è una menzogna.» «Se la è» sogghignò Jeff, «il signore ha abboccato quando lei si è messa a singhiozzare.» Il siniscalco recuperò la pipa, riprese a fumare e si soffermò a guardare la danza del fuoco. Non è con le parole che mi screditerà: che vendetta ha in mente? «E non è finita, il signore le ha concesso la stamberga a ridosso del fossato,
accanto all’entrata.» «Stai scherzando» Oddone guardò in tralice il capitano delle guardie, che rispose con un sorriso sdentato. «L’ho scortata io poco fa: Emirith starà lì sino a quando non sarà appurato che fine ha fatto la lettera spedita a sir Aaron. Sir Hulbert vi convocherà domani per ufficializzare la decisione. Se ti può interessare, alla signora non piace che suo marito chiacchieri con quella strega.» Questa è un’informazione da sfruttare, rimuginò il siniscalco prima di avvampare. «Sono la persona più importante dopo di loro e sarò l’ultima a saperlo?» «Vuoi che mi occupi di lei? È molto che non mi diverto con una donna» il riflesso del fuoco accentuò i torbidi caratteri del volto di Jeff. «Taci, bestia!» Oddone scagliò la pipa contro il capitano delle guardie. «Se la ucciderai saremo i primi sospettati: che ne hai fatto del cervello, lo hai lasciato nel mastio?» Jeff si pulì dal tabacco e rimase in silenzio. Oddone si quietò e riprese a complottare. «Dobbiamo farla punire in modo che, dopo, tutti si convincano della pericolosità dei signori e ci aiutino a deporli.» «Ma non abbiamo bisogno dell’aiuto di nessuno per ucciderli.» «Sei uno sciocco. Se li uccidiamo Aaron manderà altri nobili e farà delle indagini, soltanto se avremo l’appoggio di tutta Brora potremo inscenare una tragedia. Pensa a cosa sarebbe successo se avessimo ucciso Emirith invece di imprigionarla e qualcuno l’avesse detto ai signori. Ci saremmo noi adesso, nella fossa! Vattene, la tua ignoranza mi ha snervato» il capitano rimase davanti al fuoco. «Vattene, non mi hai sentito? Devo pensare.» Jeff obbedì e lasciò la stanza. * «Ho visto che Emirith ha attirato il tuo interesse» Amber piccò Hulbert, che riponeva gli abiti.
Il fuoco del camino si era appena spento e le braci dardeggiavano, ancora erubescenti; nella stanza aleggiava l’odore del fumo insaporito dalle erbe aromatiche che Julia aveva sistemato nei bracieri, anch’essi ormai spenti. «In che senso?» La stanza si stava raffreddando e il guerriero si affrettò a sistemare il lucco purpureo ai piedi del letto, sul cofano di cipresso dipinto con una scena di caccia, e raggiunse la moglie, che gli dava le spalle, nascosta dalle coltri. «Mentre parlava pendevi dalle sue labbra» la fanciulla rinnovò le critiche con voce cruda e si allontanò dal guerriero quando cercò di abbracciarla. «Mi faceva pena, invece» si giustificò lui dopo uno starnuto. «Nonostante governasse prima di noi ci ha parlato con un riguardo imbarazzante. Non sembrava una donna che ha perso tutto a causa della morte dell’uomo che non l’aveva sposata, sembrava soltanto una disgraziata salvata dalla prigione, rassegnata all’amaro destino che si era ritorto contro di lei e felice di non essere morta in un freddo e umido pozzo.» «Il tono della sua voce mi ha dato i brividi. Quella donna non mi piace.» «E cosa c’era di strano?» «Nulla. Mi sarei aspettata gratitudine, paura, qualsiasi cosa. Invece mi è sembrata fredda, come un mercante che sta calcolando il prezzo di una merce. È questo che mi ha messo i brividi. E il modo in cui ti ha guardato.» «E com’è che mi ha guardato, scusa? Non ti capisco.» «Ti ha guardato come Meldor quando una cameriera gli porge un boccale di birra ambrata.» «Mi ha guardato come una birra?» Amber sbuffò e si rigirò nel letto. «Forse era meglio lasciarla dov’era.» «Ma se sei stata tu a chiedere di liberarla» Hulbert accarezzò la moglie tra le cosce ma lei gli scostò la mano in malo modo. «Me ne sono pentita: tra lei e Oddone non so più chi sia il peggiore. Forse è
davvero una strega.» «Se lo fosse, l’avresti capito: voi maghi non riuscite a percepirvi a vicenda?» «Sì, ma in questi ultimi giorni non mi sento bene. Adesso dormi» scansò ancora la mano di Hulbert, che la desiderava, «ho tanto sonno.»
Cosa, più che rabbia e dolore, può trasformare inetti in eroi? Aforismi – Terzo Cantore
XXIII – Il regno di Gorogol
«È rimasto il posto allegro che ricordavo» Laoden scese da Aghinulf e tossì, disgustato dal puzzo delle acque ristagnanti e solforose della palude di Gòlmas; guardò il sole allo zenit, ma era offuscato dai vapori salmastri e incastonato in un cielo di scuro granito. Questa non è la puzza della palude, dov’è che l’ho già sentita? «Mi ci vorrà un attimo, bello.» Accarezzò il grifone, irrequieto. «Parlo con quel pazzo del Terzo Cantore, recupero due o tre documenti e ce ne andiamo, te lo prometto.» Il grifone rispose gracchiando, le piume del suo muso vibravano. «No, non farò come l’altra volta, al massimo riposiamo e partiamo con il giorno nuovo» Laoden accarezzò le penne blu e le soffici piume bianche della bestia e il suo becco ricurvo e rapace. Si avviò verso la Biblioteca ma dopo pochi i il fruscio delle canne attirò la sua attenzione. Ancora i guardiani della palude? Non mi riconoscono? Laoden seguì con lo sguardo un’onda melmosa che si propagava tra i giunchi. Sentì il mormorio della fanghiglia smossa, dalla parte opposta a dove guardava, si voltò e scoprì un’increspatura che si insinuava tra le contorte radici di uno schieramento di mangrovie. Aghinulf gracchiò e la sua voce fu l’unico rumore che scosse la quiete mortifera di Gòlmas. No. Non è come l’altra volta: allora potevo percepire l’essenza dei guardiani, potevo distinguerne ogni movimento. Ora è come se si muovessero tutti assieme in modo da sembrare un solo, gigantesco essere. Perché fanno una cosa del genere?
Laoden proseguì prestando attenzione a entrambe le sponde create dal sentiero di tronchi. La notte si avvicinava e i miasmi lasciavano filtrare sempre meno luce. Le fiaccole, perché sono spente? Laoden arrivò alla prima delle torce legate ai paletti di canna e l’accese con un incantesimo; si concentrò e propagò la fiamma anche sulle altre fiaccole, generando un’onda di fiamme minuscole ma rassicuranti. «È così che accogliete Laoden di Alerbia, il Signore della Terra?» L’urlo spezzò lo spettrale silenzio e riecheggiò nella nebbia. Il mormorio dei movimenti dei guardiani appariva e scompariva quasi giocassero a rendersi presenti al mezz’elfo soltanto per confonderlo. Laoden camminò verso la biblioteca quando un nuovo gorgogliare di fanghiglia lo distrasse; quando il mezz’elfo si fermò giunse un rumore più forte ancora, simile a quello di un pollo che viene lasciato cadere e affonda dentro una pentola di melassa. Il Signore della Terra aveva preparato un incantesimo offensivo, si voltò per affrontare lo stolto che aveva osato sfidarlo ma quando vide quanto era accaduto, rabbia e paura lo squassarono. «Aghinulf» berciò il mezz’elfo precipitandosi verso il punto dove era atterrato. «Aghinulf!» Incespicò tanto correva e si fermò. Il grifone era scomparso e piume azzurre planavano in placide spirali. «Aghinulf!» Laoden strillò con le lacrime agli occhi. La melma era tornata immobile, poi alcune grosse bolle salirono a galla e scoppiarono in un laido mormorio: l’odore malsano della morte si sprigionò dalle gigantesche pustole e appestò l’aria del villaggio di catapecchie. «Esci allo scoperto, assassino!» Laoden impugnò la lancia dalla testa a martello, che gli comparve tra le mani. Ansimò, carico d’adrenalina e disgustato dall’afrore, scosso dalla ritrovata rabbia che reclamava una subitanea vendetta. «Esci e combatti, nel nome di Shana!» Girò su sé stesso cercando di sorvegliare l’intera palude. Le braccia non riuscivano a stare ferme e bramavano colpire l’odiato nemico con tutta la forza che serbavano. Il rumore di una serpe che sgusciava tra le erbacce richiamò il mezz’elfo, che si voltò ma vide soltanto un’increspatura nell’acqua bituminosa. «Esci carogna, esci se ne hai il coraggio!»
La melma cominciò a ribollire e, quando sembrava che la palude potesse eruttare fango, tutto tornò in uno stato di apparente quiete e Gòlmas sembrò rifuggita alla morsa del tempo e alle regole dell’universo. Laoden attese, avvolto nella bruma e nell’irritante silenzio. «Se non esci, verrò a prenderti e sarà peggio!» La putrida brezza che spirava da ovest tornò a flagellare la palude; gli steli delle canne ripresero a sussurrare, i carici a fischiare e i rami spogli degli alberi ad artigliare la nebbia. Laoden si concentrò e l’incantesimo più potente della Terra scivolò tra i suoi pensieri. Bravo, aspettavo soltanto che ti concentrassi sulla magia più complessa che conoscevi, Gorogol emerse dalla palude come una stella fora il tessuto scuro della notte; era alle spalle di Laoden e lo colpì con una codata che lo scaraventò in cielo. «Ti avrei dato retta, se non fosse proprio di coraggio che manco» la Scaglia Nera osservò la traiettoria del proiettile, una parabola che terminò sulla biblioteca: il mezz’elfo precipitò sulle tegole, sfondò il tetto, le assi della capriata e ricadde sul pavimento di pietra della sala di lettura sottostante. «Ecco l’uscita di scena degna di una leggenda.» * Quando il soffitto cadde, gli Scaffalieri fuggirono in ogni direzione e, soltanto dopo che la polvere alzata dai calcinacci si depositò, uno di essi, il Primo, un uomo di quarant’anni dalla faccia piena, gli occhi scuri e pochi capelli, afferrò il coraggio a due mani e si azzardò a soccorrere lo straniero, depositandolo su una poltrona; aprì la pelliccia di vacca delle Terre Alte e cercò se c’era battito nel petto. «È ancora vivo!» «È un bel buco» sospirò il Quarto Scaffaliere, preoccupato più dalla voragine che dalla salute del mezz’elfo. «Ci vorranno settimane per ripararlo.» «Informa il Cantore dell’arrivo di Laoden di Alerbia» gli ordinò il Primo Scaffaliere quando vide che il mezz’elfo non si riprendeva. «Ci a quasi il drago» il pragmatico Quarto cantore non staccò gli occhi dalla voragine aperta nel tetto.
Il Primo Scaffaliere ebbe un brivido, valutò l’ampiezza del buco e cambiò idea sul da farsi. «Aiutami.» Il Quarto Scaffaliere obbedì, i due depositarono il corpo di Laoden su un tappeto e lo trascinarono verso l’ingresso, dove restava il corridoio che conduceva agli edifici di servizio: il Terzo Cantore lo fece portare nella propria stanza, lo fece deporre sul letto e lo affidò al Sesto e al Secondo Scaffaliere, i più esperti di medicina. «Prestategli le cure necessarie e nascondetelo a Gorogol. E non mi interessa cosa dovrete fare» sbottò il Cantore quando vide i volti perplessi dei due, «fatelo e basta.» Ci fu un nuovo schianto di legno, tegole e stucchi, i lettori si misero a urlare e un tonfo squassò i tappeti e alzò la polvere depositata nei secoli. Il cantore tornò nel salone d’ingresso, guardò il lungo corridoio che conduceva alle sale e distinse la sagoma nera e grondante fanghiglia che si era infilata dalla voragine nel tetto. «Tenetelo a bada o prendete tempo» ordinò agli Scaffalieri, immobili sulla soglia dell’ingresso. «Che si è visto un mezz’elfo da queste parti?» Il ringhio di Gorogol arrivò quando cessarono le grida dei lettori che si erano gettati dietro ogni riparo. Il Terzo Cantore si precipitò nella stanza dove i Rilegatori lavorano alle monografie e confezionavano i grandi libri con i sentimenti perduti. «Come siamo messi con Gorogol?» I Rilegatori raccolsero il materiale trovato su uno dei tavoli dove le pagine venivano miniate. La biblioteca tremò per il crollo di una libreria. «Non c’è abbastanza tempo» il cantore esaminò gli incartamenti e il volume vergato. È un lavoro splendido ma non basterà, pensò mentre un’altra scossa svuotava le librerie dove i Rilegatori avevano sistemato i volumi. Non sarà sufficiente a ciò che ho in mente. Se voglio salvare questo stupido mezz’elfo dovrò scatenare quel sentimento. E c’è un solo modo che viene in mente. Crollarono nuove librerie, il Terzo Cantore afferrò il libro incompleto, si avviò verso l’ingresso e raggiunse gli Scaffalieri, nascosti dietro la sua scrivania. Oltre l’arco che introduceva nella libreria, il drago scatenava la propria rabbia contro il mobilio.
«Quarto Scaffaliere, Primo Scaffaliere, seguitemi» gli interpellati deglutirono. «Perché proprio noi?» Il Quarto Scaffaliere aveva la testa rasata madida di sudore freddo. «Siete quelli che corrono più veloci» i due si rassegnarono e rotolarono dietro al cantore. «Io lo attirerò con il libro, poi ve lo lancerò, e voi dovrete essere lesti a prenderlo, a fuggire e a arvelo mentre corriamo verso l’entrata. Dopo che lo avremo attirato all’ingresso, io lo condurrò fuori. Se non dovessi tornare» sorrise al Primo Scaffaliere, «gli altri scaffalieri obbediranno a te.» «Non capisco, perdonatemi» l’uomo rabbrividì e sbiancò in viso. «Avrei voluto salutarvi in modo migliore ma il mio tempo è stato fin troppo rapido. Salvate Laoden di Alerbia, gli sto spianando la strada.» «Perché Cantore, perché?» Singhiozzò lo scaffaliere. «Consegnateli il mezz’elfo, è questo che vuole quel mostro.» «No, ciò che quel mostro vuole sono sudditi supplichevoli e duttili, pronti e felici di prostrarsi e obbedire. La ricchezza della biblioteca non è fatta per un balordo come lui: gli erò il sentimento che avete reperito ma temo che se non avverrà un sacrificio, ebbene non ci liberemo di quella piaga. Abbiate cura di tutti e adesso concentratevi, non dobbiamo sbagliare nulla» il drago distava centinaia di scaffali ma i bibliotecari fecero un o e si ritrovarono d’innanzi a lui. «Mio caro Terzo Cantore! Ce ne hai messo prima di degnarti di ricevermi» sogghignò Gorogol; la sua figura incorniciata dagli scaffali divelti e dai libri sparpagliati, giganteggiava nel corridoio sfiorando le travi della capriata; le ali erano ripiegate sulla schiena, le gambe robuste tese, le mani artigliavano due colonne prospicienti e il drago si dondolava avanti e indietro, il collo proteso verso gli umani. «Se avevi fretta potevi venire di persona» il Terzo Cantore tremava nonostante la fermezza della voce. «Ci ho provato ma più correvo, più sembravate allontanarvi. È un bel trucco, ed è tanto bello e raffinato da non sembrare neppure magico.»
«Non è appropriato che ti rimanga qui.» «Non ti preoccupare per il rispetto delle tue inutili regole, me ne andrò subito: cerco un mezz’elfo.» «E pensi di trovarlo dentro una scaffalatura?» Gorogol esplose in una risata sinistra. «Se me lo state nascondendo, sarò costretto a rieducarvi.» «Ti reco qualcosa di più interessante di Laoden di Alerbia» mostrò il tomo rilegato in pelle nera: «abbiamo il tuo coraggio.» Le pupille tagliate ed erubescenti del drago si dilatarono e, dopo aver ammirato l’opera, le palpebre si strinsero in un’espressione gretta e avida. Gorogol lasciò le colonne, si appoggiò anche sulle zampe anteriori e la coda si alzò come quella di uno scorpione. «Consegnamela allora, che aspetti?» «Non qui, noi due usciremo e quindi te la consegnerò.» «Non sei tu che detti le regole. Dammi il libro» Gorogol sogghignò, avanzò di un o e finì stretto tra due colonne prospicienti. «Se lo vuoi, esci dalla biblioteca» intimò il Terzo Cantore. Il collo di Gorogol scattò in avanti, le fauci graveolenti divaricate per ghermire il cantore, ma questi si gettò nella navata di sinistra e scavalcò una scrivania. Il Terzo Cantore attese che il drago raggiunse il mobile e lo fe a pezzi con la mano artigliata, quindi lanciò il libro verso la navata opposta; Gorogol osservò il volume sorvolarlo e non riuscì ad arpionarlo con la coda; si voltò e demolì una colonna con le natiche. Il Primo Scaffaliere prese l’opera al volo ma non ebbe la prontezza di scappare; si ridestò dal torpore della paura quando si ritrovò davanti il volto arcigno del drago: urlò e prese a correre verso l’uscita, evitando le sedie, le poltrone e le scrivanie. Il Quarto Scaffaliere e il Cantore fecero altrettanto, separandosi lungo il corridoio diviso in tre navate dalle colonne e dalle librerie. «Tutto questo non è divertente!» Gorogol si infilò dietro il Primo Scaffaliere e
fece a pezzi ogni mobile che incontrava, seminando schegge di legno e libri dappertutto. Quando il Primo Scaffaliere si trovò davanti a una libreria disposta come una parete sulla navata, si bloccò: Gorogol distava un balzo e sulla sinistra si apriva una sala di lettura. Il bibliotecario si gettò nello stanzone laterale e lanciò il libro al Quarto Scaffaliere, che lo attendeva nella navata centrale. Gorogol curvò dietro allo Scaffaliere ma col collo seguì la traiettoria del suo coraggio perduto. Le dita artigliate si contrassero e, per cambiare direzione, le unghie afferrarono tappeti, stridettero sulla nuda pietra ma Gorogol brancicò senza controllo e ruzzolò contro la libreria, mandandola in frantumi e gettando i libri per aria. «Vi ucciderò, vi ucciderò tutti» il drago rialzò il collo, furibondo, sputò acido verso il Quarto Scaffaliere, ma la schizzata si appiccicò a una colonna e mandò uno sfrigolio e un odore ributtante di succhi gastrici e vecchiume. «Fuori, dobbiamo portarlo fuori!» Il Terzo Cantore ordinò al Quarto Scaffaliere di scambiarsi di posto con lui. Il drago riprese l’inseguimento, guadagnò terreno e si spostò nella navata di destra senza badare agli ostacoli e sfondando un’altra libreria; grugnì, protese il collo sino a far scrocchiare le grandi vertebre cervicali e ghermì il Quarto Scaffaliere. Le zanne giallastre del drago strattonarono lo scaffaliere e lo trascinarono a terra, la veste scura si strappò e il giovane dalla testa rasata rotolò sul tappeto, si schiantò contro il muro ma quando il drago gli fu addosso per macellarlo, egli trovò uno spiraglio e lanciò il libro facendolo scivolare sulla pietra del pavimento. «Non perdere tempo con me, non perdere tempo con me!» Lo scaffaliere si coprì il volto con le braccia e trattenne il respiro, spezzato dal terrore; strinse gli occhi sino a sentire le guance tirare e, quando li riaprì tremando, realizzò che il drago aveva preferito inseguire il libro. Il Terzo Cantore afferrò il volume, raggiunse l’entrata, ordinò agli scaffalieri di nascondersi, uscì alla penombra fetida di Gòlmas e si fermò a una decina di i dall’entrata; l’odore della fanghiglia, delle canne marcescenti e delle radici imputridite della mangrovie lo pizzicò, più graffiante da quando il drago aveva eletto la palude a sua dimora. Gorogol si infilò sotto l’arco di pietra dell’entrata e
il suo impeto fu tale da scaraventare nel fango i battenti della porta e a divellere i cunei e la chiave di volta; affondò le zampe anteriori nel fango, trovando terra solida, si impuntò con quelle posteriori e fece crollare l’arco e la facciata della Biblioteca dei Sentimenti Perduti. «Non sarò clemente» la voce gracchiante del drago tagliò più del del vento che si era alzato. «Ti porgo il tuo coraggio, Gorogol delle Scaglie Nere.» Il drago ruggì e con il fiato putrido quasi non fece dar di stomaco il Cantore; Gorogol ansimò e digrignò le fauci raccapriccianti. «Dov’è il mezz’elfo?» Gli occhi erubescenti sfavillarono di una malvagità inarrivabile. Il Terzo Cantore fu folgorato dal terrore di non riuscire nel proprio intento. Scelse di attaccare e fece un o verso il drago. «Hai atteso tanto per ricongiungerti con esso» mostrò un libro rilegato in pelle e zeppo di allegati «vuoi attendere ancora per cercare un guastafeste che forse è già morto?» Il cantore aprì il libro. «Narro la leggenda delle Scaglie Nere, sepolte nella Grotta dei Dragoni, sulle sponde placide del Lago d’Arail, punite dopo aver perso l’ultima delle Grandi Guerre e riscoperte da Karm-A-t-Oll, del Clan della Zanna» il drago si placò e guatò l’uomo che decantava le sue gesta. «Narro le vicende di Ygyghna, la matriarca, e di Gorogol, che la salvò a Tumblane. Narro dei giorni in cui Gorogol si liberò dell’orco che lo cavalcava, e di quando venne ferito ad Alesia. E narro il suo valore sapendo che» il drago lo interruppe. «Dai qua, faccio da me» Gorogol prese il librone e si sedette, appoggiando la schiena bitorzoluta a due contrafforti, che per poco non cedettero. Non c’è un posto dove scappare quando avrà scoperto l’inganno; non c’è più modo di sottrarsi a questo destino. Il Terzo Cantore guardò la biblioteca e il sentiero che si infilava nel villaggio di luride catapecchie scomparendo inghiottito dalla bruma puzzolente; una fitta gli scaturì dalle viscere, giunse ad attanagliargli il cuore e gli spezzò il respiro. Sentì le gambe deboli, la fronte madida e fredda, le guance che invece ribollivano. Scappare non ha alcun senso, deglutì e si scoprì a piangere. Ero un capitano di ventura: possibile che sia rammollito al punto di temere la morte? Non è da codardi leggere i più turpi pensieri di Arhanien ma temere l’ira di un drago?
Gorogol sfogliò il libro con foga crescente, si ritrovò a strappare le pagine e infine lo scaraventò nelle acque melmose. «Questo non è il mio coraggio!» Dalle narici abnormi scaturì l’odore putrido dell’acido. Uccidimi adesso. Il cantore vide il rettile protendere le dita artigliate. Dopo il mio sacrificio quel sentimento rinascerà, il sangue lo rinfocolerà, lo farà esplodere nelle vene e ti stritolerà le budella. Il Cantore chiuse gli occhi, allargò le braccia e attese che Gorogol lo fe a pezzi. Il sentimento che ti abbiamo ridato è il rimorso.
Il matrimonio di Hulbert e Amber si svolse a Spinwirth, una settimana dopo la vittoria di Antioch e fu celebrato da Aaron da Glenduarel. I popoli di razza umana non hanno un Dio unico come Mahorn e l’unione tra un uomo e una donna non ha carattere religioso: mi sembra di aver capito che si tratti di una sorta di contratto. La cerimonia è stata talmente rapida che la descriverei come uno scambio di promesse di fedeltà e di anelli d’oro (anelli... considerato il ridicolo valore artistico, li chiamerei piuttosto “cilindretti”). Era appena giunto l’inverno e non c’erano fiori o festoni ad allietare la veste amaranto che indossava Amber ma la sobrietà della festa è stata ravvivata da ottimi suonatori, da birra e idromele e da una cena discreta. La selvaggina non era male ma la raffinata cucina degli umani è troppo ricercata per il mio palato. Certo, il cervo è buono impreziosito da quella specie di crema di lamponi ma io lo preferisco così com’è, gettato sulla griglia rovente; le fettine di mele cotte impreziosivano le costine di cinghiale ma il suo sapore selvatico è già piacevole schietto. Una cosa mi ha impressionato, tuttavia, una cosa che ancora sfugge alla cultura dei nani ma che mi propongo di introdurre. Pasta ripiena. Subito ho pensato che fosse un’idea ridicola e disgustosa, poi mi sono dovuto ricredere. Si trattava di una sorta di “foglio” ottenuto mischiando farina, uova e acqua, tagliato a tondini, riempiti di pane e formaggio grattugiato e bolliti dentro un paiolo colmo di brodo. Pare sia un cibo molto povero ma io l’ho trovato celestiale al punto da farmi cacciare dalla cucina pur di richiederne l’ennesima porzione. Nel nome di Mahorn! Ho affrontato un esercito di orchi, devo temere una cuoca bisbetica? Memorie – Meldor l’“Ammazzaorchi”
XXIV – Tormenta
Hulbert si svegliò, si rigirò nel letto, cercò il corpo di Amber e si scoprì solo. «Amore, dove sei?» Si alzò ancora stordito, e cercò una veste nella penombra della stanza. Sentì un gorgoglio provenire dal loculo ricavato nel muro per la
latrina e riconobbe Amber che vomitava. «Amore, va tutto bene?» Amber rientrò in camera, disgustata, la testa che girava come una quintana imberciata dalla lancia di un cavaliere. «Apri la finestra, ti prego: non senti che puzza?» Hulbert fece cinque respiri pesanti. «Amore, non sento niente.» Amber tossì, l’odore della carne e della cenere che impregnava i vestiti e quello delle calzature di Hulbert le davano il voltastomaco. «Potevi almeno allontanare gli stivali.» «Amore, sono dall’altra parte della stanza.» Amber guardò l’accozzaglia di vestiti lasciata dal marito in un angolo e le parve di riconoscere ogni oggetto dal fetore che emanava; si grattò la testa e si infilò sotto le coltri. «Cambia l’aria, ti prego.» «Torni a letto?» «Non sto bene, non mi alzo.» «Non vieni a mangiare?» «Non sto bene» ripeté con voce debole. «Scusami, è che siamo arrivati da una settimana e non abbiamo ancora» Amber zittì il marito. «Lo so» disse sofferente, «dovevamo far visita ai nobili. Sono sicura che te la caverai benissimo da solo.» Hulbert sospirò. «C’è qualcosa che non va?» «Sto male, non capisci?» La voce di Amber era carica d’odio. «Non ce la faccio a cavalcare, non ce la faccio a stare in piedi, non ce la faccio a fare niente e» si interruppe, scattò in piedi, corse verso la latrina e vomitò un’altra volta. Hulbert sospirò, aprì le imposte della monofora ad arco acuto e recò nella stanza la luce malaticcia dell’inverno. Indossò il lucco cremisi e prese un mantello
invernale. «Vado da solo, allora?» «Vai» sospirò Amber, ritornando, sbiancata in volto e sacrificata. «Ordina a Julia di portarmi dell’acqua calda, non ho nemmeno la forza di usare la magia» si nascose sotto le coperte. Il signore di Brora si fermò sulla soglia della porta appena aperta. «Amber, ti amo.» Amber riemerse dalle coltri e abbozzò un sorriso sofferente. «Ti amo anch’io; vai adesso e non preoccuparti per me.» * Hulbert uscì dal mastio assieme a David, dopo che la figlia Julia servì per colazione carne affumicata; il nobile e il soldato scesero dalla motta, arono sul ponte di legno che la separava dal resto dell’abitato e trovarono il siniscalco davanti alla sua casa; Oddone li salutò con uno dei suoi più infidi sorrisi e li seguì lungo l’acciottolato. Il cielo ribolliva e le nubi scure che si addensavano recavano l’odore ovattato della neve. «Nevicherà?» Domandò Hulbert quando arrivarono al pozzo, al centro del villaggio, davanti alla mascalcia dove il fabbro picchiava sull’incudine per preparare nuovi ferri di cavallo. David stava per rispondere ma Oddone lo zittì con uno sguardo di selce. «No, mio signore» disse il siniscalco. «Se le nubi arrivano dalla forcella è improbabile che nevichi» indicò una zona tra due picchi imbiancati. «Improbabile o impossibile?» «Improbabile, mio signore, ma io non comando al tempo: non sono una strega» disse Oddone quando furono davanti al tempio, dove Emirith stava pregando. «Ma la signora Amber non viene con voi?» «Mia moglie si sente poco bene e non ha voglia di viaggiare.» «Mi dispiace, devo far cercare un guaritore?» Oddone si mostrò preoccupato. «No, ti ringrazio per la premura ma Amber preferisce i suoi incantesimi.»
Arrivati alle scuderie, Hulbert prese le briglie di Argento dalle mani del palafreniere, un giovane segaligno dalla fulva zazzera, e accarezzò il muso del cavallo. «Ho sistemato le armi come avete richiesto ieri sera» disse il ragazzo. «Bene Isac, possiamo andare» Hulbert controllò che scudo e spada fossero al loro posto e congedò il siniscalco. «Vi auguro buon viaggio» Oddone salutò con un ghigno dipinto sul viso, raggiunse Jeff e gli diede ordini precisi, mentre camminavano verso il mastio. Giunti nei pressi del tempio, Oddone si defilò, Jeff si pulì la faccia e vi entrò di malavoglia. Il tempio era una costruzione quadrata di pietra, posta tra le scuderie e la mascalcia, con il tetto a doppio spiovente di tegole brune; aveva un’entrata ad arco ogivale sprovvista di porta e all’interno c’erano due inginocchiatoi e un altare di nuda pietra. Come imponevano le tradizioni politeiste di Alesia, il tempio di Brora non era consacrato a nessuna divinità. Emirith stava pregando e Jeff si inginocchiò accanto a lei. Nella penombra gelida, i due supplici si guardarono per un istante, poi la donna si voltò, disgustata; il capitano delle guardie si sincerò che nessuno li vedesse dall’entrata e si avvicinò alla donna, che si scansò. «Il signore di Brora va in visita ad Halkirk. Senza la moglie» sussurrò prima di alzarsi. «Verrà neve dal nord, parecchia neve.» «Perché me lo dici?» Emirith fermò Jeff che era già sulla soglia. «Forse hai più possibilità di Oddone di aiutarmi in futuro» tirò la bocca in un sorriso tagliente e orribile si allontanò. Emirith fece un sospiro, uscì dal tempio e si diresse verso le stalle: Hulbert aveva risistemato spada e scudo sul cavallo e si era stretto nel mantello; David era appena montato. «Chiedo scusa, mio signore» la donna si avvicinò. «Dite lady Emirith» Hulbert la accolse con un sorriso innocente. «Sarebbe sfrontato se vi chiedessi dove andate?»
«Non lo è: vado ad Halkirk, da lady Amandine e dai figli. Devo presentarmi loro e ricevere l’omaggio vassallatico.» Emirith si accese in volto. «Lady Amandine ed io siamo care amiche e confidenti, potrei chiedervi la cortesia di recarle i miei saluti? Lo farei di persona ma» lasciò cadere la frase. «Ma?» Dopo il silenzio Hulbert la esortò a proseguire. «Ebbene, non sono più nella condizione di decidere dove andare e quando farlo» disse abbassando la testa. «Le rechereste la notizia che sono in buona salute e che ora servo sotto di voi? Se le servisse una dama di compagnia, per lei o le sue figlie, sarei ben felice di mettermi al suo servizio, se voi lo permetterete, naturalmente.» Hulbert esitò; guardò David, che si voltò verso il barbacane dove Gowden montava la guardia, poi il palafreniere, che gettò lo sguardo a terra. «Porta un cavallo per lady Emirith» ordinò al ragazzo dai capelli rossi, che si precipitò dentro le scuderie. «Mi consentite di seguirvi, mio signore?» La donna si inchinò. «Se avete così tante cose da dire a lady Amandine, è meglio che parliate con lei di persona, non trovate?» Hulbert montò a cavallo; il palafreniere uscì con un ronzino pezzato e lo trattenne mentre la donna montava. David alzò la lancia con lo stendardo di Hulbert di Brora, uno scudo bianco con al centro una torre con una finestra da cui usciva un braccio che brandiva uno spadone. Oddone guardò il gruppo allontanarsi da Brora, sistemò il collo impellicciato del lucco nero e si strofinò le mani, soddisfatto. Quando si incamminò verso casa, Jeff lo raggiunse e rimase in silenzio, mostrando un inquieto sospetto. «Che hai da guardare?» Domandò il siniscalco, disgustato dall’espressione guercia del capo delle guardie. «Non riesco a capire il tuo piano» rispose Jeff con voce affettata. «La tua scarsa sagacia non mi stupisce» Oddone entrò in casa e gettò nuova legna nel camino.
«Adesso che Emirith è assieme al padrone, gli racconterà un sacco di menzogne» Jeff prese uno sgabello e si sistemò davanti al fuoco. «È proprio quello che spero: che complotti come meglio crede, quella sgualdrina! Più frottole racconterà, più farà la mia fortuna.» «Adesso ho capito: sei diventato pazzo» commentò Jeff. Oddone lo fissò con un sorriso malvagio. «Nevicherà nel pomeriggio e, se l’esperienza non mi inganna, sarà una vera e propria tormenta di neve. Ci sono buone probabilità che Hulbert rimanga ad Halkirk a are la notte. Con Emirith» sogghignò: «lady Amber non apprezzerà ciò che le racconteremo quando inizierà a nevicare.» Jeff rimase a bocca aperta. «E se non nevicasse?» Oddone sospirò. «La signora non apprezzerà ciò che le diremo, in ogni modo.» * Un sentiero largo quanto due cavalli affiancati serpeggiava nel bosco chiazzato dalla neve che precipitava dagli abeti e il vento fischiava tra i rami, pungente. Gli abeti neri avevano tronchi mastodontici e cortecce grinzose, e una selva di rami che si chiudevano gli uni sugli altri creando teorie d’ombra umida e spettrale. «Quanto dista Halkirk?» Domandò Hulbert quando la sagoma del mastio di Brora scomparve inghiottito dalle punte danzanti degli alberi. «Meno di un’ora, se procediamo al trotto, mio signore.» «Non è la strada da cui sono arrivato a Brora» Hulbert guardò con sospetto il sottobosco di arbusti intricati che si soffocavano a vicenda, stritolati dalla neve. «Quella che avete usato è la principale, si arriva anche da lì, ma questa è più veloce» rispose David, che stava in testa al gruppo. «Quando sono arrivato a Brora ho visto delle fattorie isolate lungo il tragitto dal ponte; nel bosco non abita nessuno?»
«Veniamo a far legna e a cacciare i cervi ma ci sono linci, lupi, e orsi» rispose David: «la foresta non è proprio un posto dove erei la notte. Abbiamo delle capanne a ridosso delle montagne, nel querceto e nel castagneto ma d’inverno non le usa nessuno.» I cavalli si agitarono. «Che c’è bello?» Hulbert tirò Argento per le briglie e si guardò attorno. «Lupi» Emirith indicò un movimento del sottobosco ma Hulbert vide soltanto delle ombre sfuggenti e indistinte. «Si muovono come spettri, galleggiano sulla neve soffici come un refolo d’aria calda. Ci tengono d’occhio.» «Che se ne restino dove sono quelle bestiacce!» David diede di sprone e accelerò il o del cavallo dal pelo nero, inaugurando un viaggio che durò tre quarti d’ora di silenzio. Quando la foresta si diradò, il cielo si era scurito e il vento aveva portato nubi minacciose. Usciti dalla selva, Hulbert riconobbe Halkirk, un villaggio grande quanto a Brora ma privo di mura; un aggere con un fossato restava al centro dell’agglomerato e difendeva una casa-torre che aveva soltanto il pianterreno e il primo dei tre piani realizzati in muratura. Come a Brora, le bestie pascolavano libere nei prati e nel villaggio e a capre e maiali si aggiungevano pecore e vacche dal pelo lungo. «Vado ad annunciarvi, mio signore» David alzò lo stendardo di Hulbert e partì al galoppo in direzione dei soldati che si avvicinavano. «Mi è stato detto che eravate alla corte di Re Kollert» Hulbert ruppe il silenzio del viaggio quando David si allontanò. Emirith sorrise. «Il vostro silenzio mi aveva convinto che la mia compagnia vi disgustasse, mio signore.» «No, no, no» balbettò Hulbert. «Vi sbagliate, ero io piuttosto a temere che fosse sconveniente parlare, visti i recenti accaduti.» Emirith guardò le case fumanti di Halkirk, intristita. «Ebbene, prima di seguire sir Golahaff, ero una delle dame di compagnia della regina Ermelinda» sorprese Hulbert a fissarla.
«E che cosa facevate presso la regina?» «La seguivo nelle sue giornate: la vestivo, giocavo con lei, le ero di sostegno quando cresceva il principino Karl. Io e lei siamo coetanee ma lei si è sposata che era ancora quattordicenne.» «Eravate anche una sorta di confidente?» Hulbert guardò gli armigeri che ridevano e calcolò che l’età di Emirith non doveva arrivare a trent’anni. «Siete acuto, mio signore. Ma non ero solo la sua dama di compagnia: mi era stato affidato il compito di intrattenere le moglie dei feudatari e dei sovrani che facevano visita a Re Kollert.» «La regina deve aver riposto in voi una gran fiducia.» «Già» rise. «E sono a conoscenza di numerosi segreti, oltre a intrattenere le mogli dei feudatari ho avuto il compito di intrattenere essi stessi.» «Intrattenere?» «Intrattenere» il leggero strabismo di Emirith sfoderò una tagliente sensualità. «Intendete con giochi e chiacchiere» Hulbert si mostrò inquieto e Argento sbuffò, facendo un o in avanti. «È esattamente come dite voi» rise ancora la donna, «ma era necessario sedurli per strappar loro qualche confidenza.» Hulbert arrossì. «E vi spifferavano i loro segreti?» «Molti uomini non sanno usare la lingua tra le lenzuola di un letto a baldacchino come dovrebbero. Così ciarlano come pettegole se vengono stuzzicati nel giusto modo» Emirith sfidò con lo sguardo Hulbert, che si arrese e lo volse altrove. «Perdonate l’ardire, mio signore, ma spero per la felicità di vostra moglie che voi sappiate come usare la vostra.» David arrivò assieme a uno dei soldati di lady Amandine mentre l’altro ritornava al villaggio. «È ora di andare, mia signora» Hulbert spronò il cavallo e sfuggì all’inopportuna chiacchierata.
Non tornerò a far da dama di compagnia, men che meno a quella serpe di Amandine. Emirith si mise a ridere e mosse il cavallo verso il villaggio. Quella ragazzina non è tipa da soddisfare il suo prestante marito: forse il destino mi ha concesso una seconda occasione per tornare a essere la signora di Brora. Le abitazioni di Halkirk non erano che capanne tonde o rettangolari dai tetti di paglia che trasudava fumo filiforme; se si escludevano i primi piani del castello e una sassaia chiazzata di neve, l’uso della pietra sembrava una pratica estranea ai villici. Hulbert ò tra le casupole e venne accolto dagli abitanti, raccolti nella piazza, e da un giovane che spiccava per la bionda chioma e una pelliccia d’orso. «Sono Ardengo, il primogenito di Flodris di Halkirk, mio signore» il ragazzo, di un anno più anziano di Hulbert, aveva occhi chiari e un fisico robusto. «Siamo onorati della vostra visita e speriamo che il soggiorno presso di noi si riveli piacevole e proficuo» si produsse in un inchino raffinato. «E io vi sono grato per l’accoglienza» Hulbert spiazzò il palafreniere che si stava avvicinando e scese da solo, consegnandogli Argento. David scese a sua volta ed Emirith diede un colpo di tosse per prendersi l’attenzione che riteneva di meritare. «Chiedo perdono, mi aiutereste a scendere, mio signore?» Hulbert rimase stupito dalla richiesta ma obbedì e, quando la donna portò le gambe su un fianco del cavallo, la prese alla vita e venne inondato dal profumo dei riccioli scuri. «Avete mani grandi ma delicate, mio signore» sussurrò mentre la depositava a terra. Hulbert avvampò e arrossì. Lady Emirith si avvicinò ad Ardengo che improvvisò il baciamano. «Mia signora, la mia felicità nel rivedervi sarà pari a quello di mia madre non appena saprà della vostra visita. Se volete seguirmi» il giovane fece strada verso il dongione. «A che punto siete con la costruzione?» Hulbert indicò centine e impalcature. «Abbiamo iniziato i lavori al mastio in legno, secondo le disposizioni varate dal senato prima dell’invasione» rispose Ardengo. «Abbiamo un ottimo ingegnere e a primavera riprenderemo i lavori e inizieremo quelli al perimetro delle mura esterne. Pensavamo di realizzare un fossato e un aggere di legno con torri dai basamenti in muratura nei pressi delle entrate. Credete che saranno sufficienti
contro le scorrerie degli orchi?» «Il problema non saranno gli orchi» Hulbert fissò il torrione rotondo circondato dalla palizzata, sul quale spiccava la struttura di legno, quadrata. «piuttosto l’Impero o i regni confinanti.» «Ne siete sicuro?» Ardengo salì per primo sulla erella retrattile che consentiva di accedere al mastio. «Conosco i nani di Antioch e ho conosciuto gli orchi, e ti posso assicurare che questi ultimi non arriveranno mai sin qui. Ma non ho idea di quel che voglia fare l’Imperatore e so che ha dei trattati con i nani, che potrebbero lasciar are le sue truppe in direzione delle montagne. In ogni modo gli ordini sono di fortificare i villaggi e noi ubbidiremo, giusto?» Il giovane Ardengo annuì. «Abbiamo realizzato un’entrata al primo piano copiando l’esempio di Brora ma l’ingegnere ha preferito che il pianterreno rimanesse inagibile se non dall’alto» si avvicinò alle scale che conducevano al dongione: «in questo modo è più complesso portare in cucina e nelle celle le riserve ma non c’è modo di accedere al mastio se non dall’unica porta» indicò l’uscio robusto di legno borchiato. «Il salone al primo piano ha un tetto di legno che sostiene i piani superiori, che smantelleremo quando saliremo con le mura» la torre in legno aveva altri due piani ed era ciò che rimaneva delle precedente struttura. «La torre è provvisoria e nemmeno bella a vedersi ma è funzionale» fece una smorfia. «Perdonate l’intrusione, mio signore» Emirith interruppe la spiegazione, «ma con il vostro permesso andrei a salutare vostra madre, così potrete illustrare a sir Hulbert il villaggio e i dintorni senza la mia ingombrante presenza.» Ardengo acconsentì e lasciò che Emirith fosse introdotta da una guardia nel mastio; un istante prima di entrare, la donna si voltò indietro, guardò Hulbert e gli sorrise. Il salone di Halkirk occupava l’intera superficie rotonda del primo piano; un camino alto come un uomo e largo altrettanto era stato realizzato sopra quello cucine, largo il doppio, e aveva accanto una scala a chiocciola ricavata nel muro, che ad esse conduceva. La circonferenza della stanza era interrotta da grosse semicolonne disposte a esagono che, una volta innalzate, avrebbero retto le nervature di una volta in pietra; i sei capitelli erano adornati con gli altorilievi di
un montone, un cavallo, un cane, una vacca, un drago e un cigno, e reggevano i sostegni in legno del soffitto improvvisato in attesa dei nuovi lavori. Il pavimento non era terminato e alle mattonelle rettangolari di argilla se ne alternavano in legno, grezze e nascoste per quanto possibile sotto un buon numero di tappeti in pelle di vacca dal pelo lungo. Un grosso tavolo di noce stava parallelo al camino e preparato per la cena ma le seggiole erano state raggruppate davanti a un predellino sul quale restava il trono che fu di sir Flodris, uno scranno in legno di quercia lavorato da un cesellatore all’apice del successo. Quando Hulbert e Ardengo entrarono nel dongione dopo la visita ad Halkirk, la nevicata era iniziata da mezz’ora e si stava trasformando in una bufera. Il signore di Brora trovò il salone caldo e accogliente, e assaporò un aroma indefinito ma piacevole che proveniva dalle cucine: i preparativi per la cerimonia di vassallaggio fervevano e lady Amandine si presentò a Hulbert, annunciata da un paggio in tenuta dimidiata rossa e verde. La madre di Ardengo era una donna alta, dai capelli biondi e gli occhi chiari, e pareva che il figlio avesse preso da lei tutto ciò che c’era di amabile nel proprio viso e nulla che invece la rendesse distaccata e superba; lady Amandine mostrò verso Hulbert una sofferta deferenza ma non abbassò lo sguardo per prima e mantenne la testa alta e modi distaccati e formali. La donna che un tempo faceva da confidente a Emirith indossava una cottardita di panno scarlatto con maniche morelle a gozzetti; i capelli, sciolti sulla fronte alta, erano ordinati da un frenello di tessuto rosso ornato di perle. «Vi abbiamo fatto preparare una camera, mio signore» disse dopo aver decantato a Hulbert il valore del figlio e avergli ricordato quali erano le concessioni che suo marito Flodris aveva strappato a sir Golahaff. «Mia moglie sta poco bene e pensavo di non attardarmi oltre la cerimonia di vassallaggio.» «Ma sta giungendo una tempesta, mio signore, affrontarla è molto rischioso» lady Amandine prese sotto braccio Hulbert e lo portò accanto alla grossa bifora disposta a sud; la signora spostò la sargia di lana grezza, aprì le ante di legno e fece entrare l’ululato del vento e i fiocchi che turbinavano. Il ragazzo guardò nella direzione di Brora, dove la tormenta pareva accanirsi con maggior vigore e il cielo era scuro come la sabbia degli arenili dei torrenti.
«Volete che vi lasci andare con questo tempaccio?» Lady Amandine sfoderò un tono materno. «Non potrò dormire sapendo che può accadervi qualsiasi tipo di disgrazia: la neve può intrappolarvi nella foresta ed esporvi a una notte gelata o all’attacco dei lupi. Ormai non sono più tanto giovane, mio signore, vorreste recarmi una preoccupazione così dura?» «Siete ancora splendida, mia signora, e non è affatto mia intenzione turbarvi con tali preoccupazioni, tuttavia è mio dovere tornare presso mia moglie e...» Hulbert abbozzò una timida resistenza. «Mio signore, voi siete giovane e ci sono molte cose che dovete apprendere» lo interruppe ancora, ma con tono risentito e pignolo. «Mio marito Flodris è stato un feudatario molto amato perché non ha trascurato i doveri che aveva verso i sudditi. E il primo obbligo che ha un uomo del vostro rango è rimanere in vita e non commettere azzardi. Ne convenite? Credo che vostra moglie Amber sia più felice di sapervi qui, in salvo, che ad affrontare una tormenta in una foresta zeppa di fiere» chiuse la finestra facendo sbattere le imposte. «O volete farne una vedova per non aver saputo attendere qualche ora?» «Si, credo che abbiate ragione, mia signora.» Amandine tenne il braccio di Hulbert e lo condusse al predellino. «Cominciamo con la cerimonia?» Domandò con occhi lucidi. «Sì, concordo» il signore di Brora salì davanti al trono e si rivolse ai presenti, che si erano radunati sulle sedie. «Che giunga a me sir Ardengo, figlio di Flodris, signore di Halkirk.» Ardengo si spogliò della armi e dei vestiti rimanendo con l’interula, candida e pregiata; si presentò davanti a Hulbert, si inginocchiò e pose le proprie mani nelle sue. «Mi rimetto a voi, sir Hulbert di Brora, e consacro a voi la mia persona» chinò il capo e attese. Hulbert strinse forte le mani di Ardengo, lo invitò a rialzarsi e lo baciò sulla bocca; quindi si fece consegnare dal paggio la spada e la consegnò al vassallo, reggendola per il manico e la punta. «Io ripongo questo brando nelle vostre mani, Ardengo di Halkirk...» attese qualche secondo cercando parole che aveva dimenticato.
«Acché...» sussurrò Emirith, in prima fila, accentuando il labiale. «Acché si mostrino forti nel combattere ed eque nella giustizia. Io vi presterò soccorso e voi amministrerete le terre e combatterete al mio fianco.» Ardengo baciò la spada, la riconsegnò al paggio e porse la mano al suo nuovo signore: entrambi la strinsero sull’avambraccio dell’altro. Il legame era creato e coloro che avevano assistito gridarono per la felicità; il bardo di corte attaccò con il liuto e i servitori entrarono dalla porticina accanto al camino reggendo le portate. «Era il vostro primo rituale di vassallaggio, mio signore?» Emirith si avvicinò a Hulbert e si mostrò sorridente. «Sono andato molto male?» «Poteva andare peggio» confessò la donna. «Non mi piace baciare un uomo.» «Certo, immagino siano più soddisfacenti le labbra di una donna» Emirith sfoderò un sorriso malizioso che fece arrossire il suo signore. «Sapete, anche mio mari...» si interruppe e rattristò, «anche sir Golahaff non aveva buona memoria con i rituali, e non amava la parte del bacio. Gli somigliate, sapete?» Il profumo della carne e delle spezie riempì la stanza. «In che senso, perdonatemi?» Domandò Hulbert avvicinandosi al posto che gli era stato riservato a un capo del tavolone rettangolare. «Come carattere: siete forte come lui era, e anche voi non vi curate delle questioni del mondo, dei rituali, delle convenzioni e disprezzate tutto ciò che è legato alla mera apparenza e a chi si cura del giudizio altrui; siete uno spirito nobile nel vero senso della parola.» * Oddone entrò nel salone del mastio, uscì dal soppalco e vide Jeff sistemato con la schiena al camino; il capo delle guardie stava con lo sguardo fisso sul volto di Julia, che spiegava alla signora di Brora un gioco con pedine nere e bianche su
un tavoliere composto da triangoli neri, rossi e bianchi. «Mia signora, ha preso a nevicare» il siniscalco fece un profondo inchino. «Mio marito è rientrato?» Amber si accese. «No, mia signora, a questo punto spero che rimanga ad Halkirk per la notte: sta per scatenarsi una tormenta e sarebbe pericoloso viaggiare.» Amber si rabbuiò. «Bene, meno vedo mio padre, meglio sto» Julia mosse una delle pedine tonde lungo una linea che congiungeva i triangoli rossi. «Tocca a voi, mia signora.» «Si può sapere che ci fai qui?» Oddone riprese la cameriera. «Chi ti ha permesso di disturbare la signora con i tuoi stupidi giochi?» «Le ho chiesto io di farmi compagnia, distrarmi mi fa bene» ruggì Amber. «Hai detto che dovrò attendere domani per vedere mio marito?» «Temo proprio di sì, a meno che la tormenta che si sta alzando si plachi in fretta. Certo che è ben strano: è difficile che arrivi brutto tempo dalla forcella» mentì per dare il via al proprio piano. «Forse è stata quella strega di Emirith» Jeff era rimasto in silenzio accanto al fuoco e non sbagliò l’attacco della parte che gli era stata spiegata. Amber si voltò verso il capo delle guardie. «Emirith? Che cosa c’entra lei?» «Emirith ha accompagnato il signore ad Halkirk» insinuò Jeff con voce affettata. Amber fece cadere la pedina che doveva muovere. «Ha accompagnato mio marito? E per quale ragione non sono stata informata?» La voce le morì in gola. «Chiedo perdono, mia signora» il siniscalco si avvicinò al tavolo da gioco; «non ci erano state date disposizioni di questo genere. Emirith conosce lady Amandine di Halkirk e desiderava farle visita.» «E mio marito non ha detto nulla?» Amber sbiancò e si carezzò il grembo. Jeff contò fino a quattro prima di parlare e cercò di apparire credibile. «Il signore
le ha concesso un cavallo per accompagnarlo: mi è sembrato felice di avere compagnia.» «Vai ancora avanti con questa storia? Non ti permetto di continuare con le tue insinuazioni» Oddone riprese il capitano. «Insinuazioni?» Amber lo invitò invece a continuare. «Di che cosa parlate?» Oddone affondò con il suo piano. «Jeff non conosce nulla di quello che dice: sono voci che giravano ad Alesia sul conto di lady Emirith. Ma sono soltanto voci.» «Voci? Quali?» Amber riprese colorito e cominciò a sudare. «Vi prego Jeff, parlate.» Il capitano delle guardie si guardò in giro prima di attaccare con la storiella preparata. «Pare che sir Golahaff abbia ripudiato la precedente moglie per prendere Emirith. Ma come dice Oddone sono soltanto voci» si affrettò ad aggiungere dopo lo sguardo aspro di Amber. Il fuoco scoppiettò feroce e l’aria viziata della sala sembrò scendere a ghermire la ragazza, lacerandola con dubbi e paure. «Si tratta soltanto di una casualità senza significato» disse Oddone in tono paterno «io stesso credo di aver sbagliato a giudicare la signora e sono mortificato di averla imprigionata. Mi sono scusato con lei e vi sono grato che abbiate raddrizzato il torto che aveva subito.» «Ti sei scusato perché la temi» aggiunse Jeff rispettando il copione: «Emirith è una strega e comanda il tempo; non mi stupirei se fosse stata lei a far venire la neve. Quel dio pagano che adora, Cernunnos, chissà quali altri poteri ha» Jeff sputò nel fuoco. «Non ti permetto di rivolgerti con me a questa maniera» si agitò Oddone. «Che motivo avrebbe lady Emirith per far nevicare?» Per rimanere con Hulbert, Amber tremò e si strinse nella veste impellicciata. «Oddone, Emirith disse di avervi consegnato una lettera da portare a sir Aaron.»
Il siniscalco gonfiò la propria figura minuta, si mostrò risentito e parlò scandendo le parole. «Non ho mai ricevuto nulla del genere. Forse Emirith si ricorda male, o si è sbagliata. Oppure...» Oppure avevi ragione tu e non è stata una buona idea liberarla, Amber prese un bel respiro e sperò che i suoi brutti pensieri fossero soltanto tali. * La notte giunse di colpo e la tormenta che si abbatteva su Halkirk non allentò la morsa. Emirith aprì la porta della camera e aiutò Hulbert a entrarvi. Il gigante biondo abbassò la testa e barcollò ingobbito sino al letto a baldacchino, facendo scricchiolare le assi del pavimento. «Vi prego di perdonarmi» farfugliò, «devo aver dato uno spettacolo pietoso.» «Veramente eravate l’uomo più sobrio tra tutti: non siete nemmeno caduto sulle scale» Emirith ridacchiò e chiuse la porta. «Maledetto Ardengo: regge bene il vino» Hulbert dondolò imbambolato davanti al letto. «Appoggiatevi a me, mio signore» Emirith accomodò Hulbert sul lettone e l’aiutò a togliere gli stivali. «Non c’è bisogno che mi aiutate, posso farcela da solo. Vi ringrazio per la vostra pazienza ma credo che possiate andare.» «Veramente non avrei un posto dove riposare, c’è soltanto questa camera.» Hulbert sbiancò e si guardò intorno, preoccupato come una recluta che in battaglia vede lo schieramento dei veterani cedere. «Non c’è una camera di sopra?» «Sì, ma la occupano Ardengo e lady Amandine. Questa era la stanza della signora: dovremo dividere il suo lettone» la dama abbandonò gli stivali vicino a uno scrigno scuro, contro la parete dove una spessa sargia copriva il vetro di una monofora.
«No, no, no» Hulbert, cercò di rialzarsi «non possiamo dormire assieme, non possiamo. Non possiamo proprio.» «Mio signore, non dannatevi, voi dormirete a un capo del letto e io dall’altro.» «Non posso, non posso» biascicò ancora il signore di Brora: seduto in precario equilibrio sul lettone dal baldacchino di seta sbiadata si teneva alla coperta a scacchi verde e gialla. «Datemi una coperta, dormirò sul tappeto.» «Lady Amber non saprà nulla di questa sera, se è questo che temete» replicò la donna, complice. «Diremo a tutti che avete dormito su uno scomodo giaciglio e potrete vantarvi di galanteria e integerrima fedeltà.» «Io» l’espressione storta di Hulbert si rasserenò, «vi chiedo perdono se dico cose insensate e sono intrattabile, ma è che ho un tale mal di testa!» Premette le mani alle tempie. «Comunque dormirò per terra.» «Avete dolore? Lasciatemi vedere, mio signore.» «No, vi ringrazio, non è necessario.» La dama sedette sulle ginocchia di Hulbert, che sussultò, gli prese le mani e le scostò. «Suvvia, non fate il bambino» sorrise e gli massaggiò le tempie, recandogli un subitaneo sollievo. Hulbert si rilassò e si ritrovò a sbirciare nella scollatura sbottonata di Emirith. «Così va meglio mio signore?» «Sì, sì, vi ringrazio» balbettò Hulbert mentre seguiva il respiro della donna. «Tuttavia dovete perdonarmi, ma non posso rimanere tutta la notte a massaggiarvi la testa» scese con le mani sino al mento di Hulbert, gli ò l’indice destro sulle labbra e si rialzò. «Conosco una tisana che potrà recarvi sollievo. Se lo desiderate mi farò portare dell’acqua e la preparerò.» «Una tisana?» «Certo, vi assicuro che il mal di testa erà in un battibaleno. E dopo potrete dormire per terra.»
Hulbert rimase inebetito dalla falsa castità della donna. «Credo che sia una buona idea» le disse. Emirith fece un breve inchino, uscì e rientrò dopo pochi minuti con un boccale di legno, colmo di acqua fumante, che appoggiò sul comò; dalla scarsella che aveva lasciata accanto al baule prese uno stelo fogliato di damiana e una foglia di salvia divinorum: mise a mollo la foglia di salvia per prima, poi spogliò lo stelo di damiana delle sue otto foglie e lo usò per mescolare il decotto. «Bisogna avere un poco di pazienza, mio signore.» «Siete fin troppo gentile con me, non credo di meritare le vostre cure» Hulbert fece di tutto per evitare lo sguardo di Emirith, che lo fissava mentre continuava a mescolare. «Ora, vi chiedo di pazientare mentre mi svesto» la donna si nascose dietro il paravento di tessuto cremisi, si sfilò la veste e la cotta e sciolse l’acconciatura, liberando la prepotenza dei riccioli scuri; rassettò l’interula e ne sbottonò l’asola sin quasi ai seni, poi uscì, ripose gli abiti sul baule, prese il decotto e lo porse a Hulbert. «Mi raccomando, bevetelo tutto, mio signore» Hulbert obbedì e svuotò il bicchiere a grandi sorsi. «Bravissimo. Come vi sentite, ora?» Hulbert rialzò la testa e la schiena curvata. «Mi sento molto meglio» strinse i pugni e li sentì pieni di forza. «È fantastico, che cosa mi avete dato?» «Ve l’ho detto: è un rimedio contro il mal di testa» Emirith tornò al comò e Hulbert ne ammirò l’ampio ancheggio. «Posso fare altro per voi, mio signore?» «Io» Hulbert balbettò, paonazzo, «ho molto caldo, credo sia un effetto della tisana» mise mano al lucco scuro e cominciò a sbottonarlo. Emirith sedette accanto a lui e gli prese le mani. «Non sono lavori per un signore provato dagli eccessi del vino: lasciate fare a me» sbottonò i rimanenti bottoni d’argento, aiutò Hulbert ad alzarsi, gli sfilò il lucco e lo ripose accanto ai propri abiti. «Rimante in piedi, farò prima.» «No, non credo sia una buona idea» Hulbert fece per risedere ma Emirith lo trattenne. «Suvvia, non fate il bambino.»
Hulbert obbedì ed Emirith lo strusciò mentre sbottonava anche il giustacuore di pignolato cremisi. «Siete incredibilmente muscoloso e forte, mio signore» gli sussurrò all’orecchio dandogli un brivido. «Vi ringrazio» drogato dalla tisana eccitante e inebriato dallo sguardo e dalla voce della donna, Hulbert non riuscì a staccarle gli occhi di dosso. E si scoprì a desiderarla. Emirith si umettò le labbra, sbottonò il colletto dell’interula e infilò la mano sinistra sotto il tessuto, accarezzando il petto del ragazzo. Hulbert fermò la mano ma lo sguardo di lei, fisso nel suo, lo fece prima vacillare e poi lo accese. Vi prego, non andate oltre, fu un desiderio tanto rapido e dubbioso da rimanere pensiero. «Vedo che avete sfoderato il vostro brando» la mano destra di Emirith scese ad accarezzare la virilità del guerriero, che gonfiava a dismisura la veste; la donna risalì il petto muscoloso con baci lievi e ravvicinati e, giunta al collo, assaggiò la pelle con la lingua, salì sino al mento e assaporò ogni singolo brivido del suo signore. «Vi prego, non» Hulbert si allontanò e cascò seduto sul letto ma la damiana gli ottenebrava i pensieri e dava voce solo all’istinto. «Vi prego» balbettò e rimase a fissare la donna, i seni, i fianchi, il profilo. «Vi» sentì il petto esplodere a ogni stilettata degli occhi chiari. «Vi voglio.» Emirith si inginocchiò tra le gambe di Hulbert, gli sollevò l’interula sino alla vita e accarezzò il ventre del guerriero con le mani piccole, dirigendole verso le cosce. «E io vi appartengo.» * Un sole bello e vigoroso aveva spazzato le nubi ma la luce che sfuggiva alle tende illuminava a stento la camera e i bracieri coperti di cenere. «Miei signori, è tarda mattina» il paggio dei signori di Halkirk bussò alla porta e parlò con voce timida. Hulbert si destò, mugugnò qualcosa di incomprensibile e il paggio si congedò; l’eroe di Antioch si allungò nel letto e si voltò verso la donna coricata accanto a lui, assaporandone la freschezza della pelle e il profumo dei capelli; ò la
mano sulle gambe del corpo nudo di lei e la insinuò tra le cosce serrate, accarezzando la soffice peluria. Amber, pensò all’amata ma venne squassato dal ricordo della notte. «Non ho mai avuto un uomo come voi» Emirith baciò l’amante sulle labbra con dolcezza diabolica, gli accarezzò il petto ma quando arrivò all’ombelico, egli si gettò fuori dal letto. «No, no, vi scongiuro, state lontana» la voce del signore di Brora implorava pietà. Emirith lo fissò nella penombra e si ò un dito sulle labbra. «Ma si direbbe che abbiate ancora voglia di me.» Hulbert afferrò un cuscino, nascose l’erezione e arretrò sino a raggiungere l’interula che gli era stata sfilata la notte ata: la infilò in fretta, cercando di darsi un contegno mentre Emirith rideva di gusto. «L’avete indossata alla rovescia» Emirith scese da letto, mostrando il corpo nudo e avvenente. «Lasciate che vi aiuti.» «No, non avvicinatevi» la donna non gli diede ascolto. «Non avvicinatevi, è un ordine!» Emirith si fermò e divenne seria. «Come desiderate mio signore. Se mi è concesso, tuttavia, vi consiglierei di non agitarvi.» «Non sono agitato» il signore di Brora cercò di sistemare l’interula sfilando le maniche e facendola girare, ma il tessuto gli si impigliò tra le cosce. «Siete un pasticcione, mio signore» Emirith rise ancora e si avvicinò a Hulbert, imprigionato nella veste. «Vi ho detto che» Hulbert tacque quando la dama gli afferrò la virilità da sotto la veste e liberò quest’ultima, alzandola. Emirith inchiodò lo sguardo agli occhi del suo signore e parlò con voce melliflua. «Se lo desiderate potremmo ricominciare da dove avevamo interrotto ieri sera e...»
«No, non lo desidero» la interruppe il signore di Brora, scosso dal corpo nudo della donna. Emirith si scostò avvilita. «Le mie cure non sono state di vostro gradimento, mio signore? Non vi ho soddisfatta?» Hulbert si umettò le labbra e abbottonò il colletto dell’interula. «No, cioè, io... io ho fatto una sciocchezza.» «Non avete fatto alcuna sciocchezza, mio signore, siete stato un amante splendido. Completo.» Hulbert sedette sul letto, intontito. «Io non dovevo fare quello che ho fatto.» Emirith gli si avvicinò ancheggiando. «E per quale ragione non avreste dovuto? È normale per un nobile del vostro rango» gli sostò davanti, avvicinando i seni piccoli e sodi al suo volto. «No, non è affatto normale. Io non dovevo» Hulbert si nascose il volto tra le mani. Emirith sospirò e andò a rivestirsi. «Non ho condiviso il letto con il signore di Brora, stanotte?» Domandò dopo essersi abbottonata l’interula. «Voi... voi mi avete sedotto, voi avete approfittato di me: è stato quell’intruglio.» «Approfittato di voi?» Emirith parlò con distacco. «Da quando sono le donne ad approfittare degli uomini?» «Nessuno deve sapere cosa è successo» borbottò disperato mentre si grattava la testa. «E per quale ragione non si dovrebbe? Sareste il primo nobile a vergognarsi di chi accoglie nel proprio letto» Hulbert rimase in silenzio ed Emirith affondò con l’ultimo atto della sua recita. «Voi siete il mio amato signore, io mi sono donata a voi completamente, mi sono fatta prendere senza alcuna riserva: pretendete che io mi comporti come se non fosse accaduto nulla?» Finse di piangere e si nascose al volto di Hulbert. «È tanto meschino e privo di cuore l’uomo che mi ha sottratto alla prigionia di un siniscalco assetato di potere? Perché ridonarmi la luce, e la libertà, e la vita, per poi distruggermi il cuore come avete appena
fatto?» Singhiozzò. «Suvvia, non fate così, mia signora. Io ho commesso un errore ma vi prometto che rimedierò.» «Rimedierete? E come pensate di rimediare?» Continuò con i falsi singhiozzi. «Io... io posso creare un villaggio per voi. Sì, posso darvi della terra.» «Avete un pessimo giudizio di me, se pensate che abbia concesso le mie virtù per guadagnarmi una manciata di terra. Io voglio stare con voi, mio signore.» «Allora posso tenervi a Brora, posso trovarvi una sistemazione più consona a quella che avete adesso. Ma ciò che è accaduto deve rimanere tra noi: io non posso... io non voglio perdere Amber.» Per oggi basta, mio giovane Hulbert, tasterò il tuo polso nei giorni a venire, Emirith si alzò e fece una faccia sconsolata. «Farò come voi dite, mio signore, ma voi dovrete mostrarmi la vostra buona fede dedicandomi attenzioni.» «Attenzioni?» Hulbert pronunciò la parola a fatica. «Sì, dovrete mostrarmi che mi stimate e che mi rispettate.» «Ve lo prometto» Hulbert balbettò. «Sì, ve lo prometto.» «Allora alzatevi e lasciate che vi aiuti a rivestirvi.» * «La notte è ata tranquilla?» La voce smaliziata di lady Amandine saettò come il verrettone di una ballista. «Tormentata» rispose Emirith, subito, lasciando perdere la frugale colazione. «Il mio giovane signore ha mostrato tutto il vigore della propria giovinezza russando sino a mattina. Avrei dovuto accoglierlo nel mio letto invece che lasciarlo su una branda.» Ardengo di Halkirk si lasciò andare in una bella risata. «Grande e grosso come siete, mio signore, mi stupisco di non essermi svegliato io stesso!»
Hulbert aveva spiluccato di malavoglia tra i vassoi di peltro carichi di carne affumicata, patate e dolci avanzati dal banchetto della sera precedente, e si rifugiò in un mesto silenzio che spezzò soltanto lo stretto necessario per consentire i preparativi per la partenza. «E portate i miei saluti a lady Amber, mio signore, e ditele di riguardarsi» si raccomandò lady Amandine quando i suoi ospiti scesero alle stalle e rimontarono a cavallo. «Sono ansiosa di conoscerla di persona.» Hulbert fece un sorriso di cortesia, si congedò con una smorfia e si allontanò per primo, spronando il cavallo; imboccò il sentiero che ava per la foresta, dove la tempesta aveva creato tra gli alberi un intrico di balze, dune e muraglioni di neve. La giornata era splendida e il sole allegro filtrava dai rami carichi delle conifere, creando fasci e giochi di luci irripetibili. Nella parte più fitta del bosco il sentiero scomparve inghiottito da una coltre bianca e omogenea e Hulbert lasciò che fosse David a fare strada nell’intrico inintelligibile di neve, rami e alberi. Lady Emirith se ne rimase alle spalle del suo signore, in un silenzio foriero soltanto di cattivi presagi. Quando il sole giunse allo zenit e prese a precipitare a occidente e, dopo due ore di marcia, il castello di Brora comparve tra le punte delle aghifoglie piegate dal peso delle neve e Hulbert si sentì sull’orlo di un abisso spalancato da mostri invincibili. Arrivati in prossimità del castello, David annunciò il signore di Brora suonando un grosso corno. Amber attendeva il marito sulla soglia del mastio e, quando il gruppo rientrò al villaggio e Hulbert lasciò lo sfinito cavallo Argento al palafreniere, non resse alla trepidazione, gli corse incontro e gli si gettò al collo. Hulbert abbracciò la moglie con tutta la forza che aveva ma, un istante prima di risalire con lei, volse lo sguardo verso Emirith che, dalla piazza, occhieggiava con un crudele sorriso. * Il giorno trascorse con spietata calma e Amber riempì il marito di domande su quanto era accaduto, sui luoghi che aveva visto e sulle persone conosciute. L’arrivo della cena non liberò il Signore di Brora dall’incalzante interrogatorio della sua sposa e nemmeno quando si ritirarono nelle loro stanze, le domande cessarono. Hulbert sistemò gli scaldaletto, gettò foglie di alloro e incenso nel camino per rendere più sopportabile il fumo che scaldava la stanza. Amber sedette al centro del letto, le gambe appoggiate al mento, l’interula che saliva oltre le caviglie. Hulbert le sbirciò tra le gambe ma la penombra ne nascose le
grazie. «Mi hanno detto che la foresta somiglia a Bosco Nebbioso, dove sono nata, è così?» Amber sollevò la veste pian piano, in modo che Hulbert potesse scorgere ciò che desiderava e badasse meno a come rispondeva. «Gli alberi e il sottobosco ricordano Bosco Nebbioso in effetti» il signore di Brora rimase imbambolato, poi Amber lo invitò sul letto. «Non ci avevo fatto caso» concluse sedendo accanto alla moglie. «Me lo faresti vedere?» Amber si allungò verso il marito e protese la mani verso le sue tempie. «In che senso?» Hulbert si scostò, sgomento. «Attraverso i tuoi ricordi. ò una magia di lettura della mente, così vedrò il bosco con i miei occhi» la voce di Amber tradì i suoi fondati sospetti. «Ti ci porterò domani, andremo a vederlo assieme. Ora sono stanco.» «Su, lasciami guardare» disse con voce languida. «Quando Gwyllywm mi ha letto nel pensiero per trasmettermi le sue abilità con la spada mi ha fatto molto male.» «Io non te ne farò, dai lasciami leggere.» «Non ti manca Gwyllywm, non ti manca l’avventura?» Chiese prendendo tempo. «Non cambiare discorso, fammi leggere» Amber scherzò come si trattasse di un gioco ma Hulbert non si mosse dalla sua posizione. «Abbiamo visto dei lupi e ho fatto pensieri terribili, non voglio che ti spaventi. Domani andremo nel bosco, te lo prometto.» «Si direbbe che tu abbia qualcosa da nascondere» Amber incrociò le braccia e mise il broncio. «E tu perché vuoi leggermi nei pensieri, non ti fidi di quello che ho detto?» La finta rabbia di Amber si trasformò in apprensione, seria. «No, mi fido. Perché
dovresti raccontare bugie?» Si morse le labbra, mentì e trattò l’atteggiamento del marito come una prova di colpevolezza. «Buonanotte allora» la ragazza si infilò sotto le coperte e trattenne la tristezza e il pianto che crescevano.
Un’illuminata e mite schiavitù non è migliore di una imprevedibile libertà. Aforismi – Laoden di Alerbia
XXV – La dura scelta
La campana rintoccava senza sosta chiamando alle armi tutti gli uomini del castello di Glenduarel. La luce delle fiaccole gettava ombre scure e cangianti nel salone principale, lo stanzone rettangolare che occupava per intero il primo piano della fabbrica a sinistra del cortile d’armi, dopo le torri rotonde del barbacane. «Perché vuoi abbassarti a trattare? La strategia usata fino ad ora mi pare efficace» il pigolio di Bogar perforò i timpani di Vortigern. «Dei sette feudatari di questo Aaron da Glenduarel, nessuno ha accettato di giurare fedeltà a Kaerwood» l’elfo rispose parlando l’incomprensibile lingua a suoni acuti dell’uomo-pipistrello. «Voglio conoscerlo e capire che cosa affascina i suoi vassalli al punto di spingerli al sacrificio piuttosto che rinnegarlo in segreto» roteò la spada e tranciò la gamba destra di un soldato che l’aveva sfidato. «A mio modesto parere è più vantaggioso liberarsi di tutti i nobili di Alesia: evitiamo una discussione patetica e risparmiamo tempo» Bogar parò con il sinistro dei kukri l’affondo di una guardia che maneggiava con goffaggine un roncone e, con il destro, lo colse al collo, stracciando la carne sino alla colonna vertebrale. «C’è un balestriere, me ne occupo io.» «Lascia stare, sta mirando a me.» Quando l’arco di corno della balestra scattò, Vortigern ne rallentò il dardo con una magia e le maglie fittissime dell’armatura forgiata dagli antichi elfi lo deviarono. Ci vuole più che una verretta per are l’armatura degli avi, l’elfo lanciò un
palla di fuoco che accese il balestriere come un ramo secco. Due soldati con le armature di pelle, armati di spada e di uno scudo tondo di legno attaccarono gli intrusi, ma mostrando cautela. «Dovremo sbrigarci, ci sono ottime probabilità che Aaron riesca a scappare. Altro che ascoltare le nostre ragioni» Bogar fronteggiò il primo soldato, lo attaccò con un fendente a destra e quindi con uno a sinistra, scheggiando con entrambi i colpi lo scudo. La guardia provò un timido affondo, curando di non aprire la difesa ma Bogar diede un colpo d’ali, piroettò sopra di lei e la pugnalò alle spalle con le due lame ricurve. «Siamo al suo castello, è questo il luogo dove dovrebbe scappare» spiegò l’elfo con tono pedante. «In ogni modo tu lascia parlare me. Questo Aaron da Glenduarel è uno dei nobili più importanti di Alesia, voglio capire se in lui c’è qualcosa che può essere utile a Kaerwood» Vortigern finse di aprire la guardia e provocò l’avversario ad attaccarlo; schivò il fendente rovescio e insinuò la spada sotto la spalla destra della guardia, spezzò la clavicola, stracciò il muscolo pettorale e arrivò a sfondare il collo. «I suoi vassalli rifiutano di rinnegarlo ma se lui diventasse un confratello, controlleremmo uno dei vertici della struttura feudale di Alesia.» Tre fanti armati d’ascia ruppero la riga che avevano formato e si gettarono gridando verso l’elfo e l’uomo-pipistrello. Bogar lanciò un kukri contro il soldato che gli stava più vicino, schiantandoglielo in mezzo alla fronte. «Questo è vero, tuttavia il vero vertice è re Karl, non questo Aaron. E poi perché promuovere qualcuno che possiamo uccidere?» Schivò l’asciata del secondo avversario e gli infilò il kukri nella coscia destra sino a raggiungere il femore, a una spanna dalla cotta di maglia. «E perché uccidere qualcuno che possiamo corrompere?» Vortigern deviò l’asciata del terzo fante con uno scudo magico e il montante che vibrò strusciò l’armatura di maglia in corrispondenza del petto, lacerò il collo del soldato e gli scardinò la mascella, uscendo in corrispondenza dell’orecchio sinistro. I due Anziani si guatarono senza condividere le opposte ragioni. «Faremo come dici tu» Bogar accettò con un sorriso, una chiostra di denti affilati. Gli occhi, scarlatti e infossati in orbite sproporzionate, lasciarono
sfuggire intenti più sordidi di quelli dichiarati e strapparono a Vortigern un sospiro. «Ma se questo tuo Aaron non accetta, peggio per lui» l’uomo-pipistrello aprì la mano sinistra e il kukri vi tornò, sfuggendo al cranio del fante riverso sull’assito. «Pare che il comitato di accoglienza abbia terminato» Vortigern liberò il pavimento con un incantesimo e schiantò contro le pareti i tappeti, i tavoli, le armi e i corpi dei soldati uccisi, lasciando sulle asse lividi graffi di sangue. Prima che l’elfo raggiungesse la porta nascosta dai drappi scarlatti che incorniciavano il tavolo del signore di Glenduarel, le orecchie pelose e flosce dell’uomopipistrello si rizzarono e vibrarono. «Nove persone, armate» Bogar indicò il soffitto. «Pensavo peggio: sarà una eggiata.» Vortigern sentì il clangore dei soldati si radunavano nel cortile d’armi, alla rinfusa, interpretando gli ordini frammentari che erano giunti quando il barbacane era stato espugnato. «Un’arma concepita per combattere un drago è inefficace contro una pulce» sogghignò. «Che hai detto?» Bogar aveva aperto la porta ogivale che dava accesso alle scale a chiocciola. «Niente, saliamo» Vortigern lo raggiunse e fece strada sguinzagliando una lingua di fuoco che si attorcigliò lungo la scala sino a esplodere al piano superiore, dove incenerì un soldato che tendeva un agguato. I due sicari sbucarono in un andito quadrato abbellito da arazzi, bracieri di bronzo e sedie di legno; dirimpetto alla porticina ogivale delle scale, un arco ribassato era chiuso da un portone di legno rinforzato da borchie di metallo. Bogar diede un calcio a un mucchio di ossa annerite da carni fumanti e armi scure e raggiunse l’uscio, gli si sistemò a fianco e fece un inchino. «Benvenuto presso gli appartamenti privati di Aaron da Glenduarel.» Vortigern toccò la maniglia ma non aprì. Sbiancò in volto e fissò in tralice il compare. «Dentro non c’è un briciolo di mana.» L’uomo-pipistrello sogghignò. «ai le magie più piccole» la voce si ridusse a uno snervante pigolio.
«Neanche quelle, maledizione: non c’è una goccia di mana, sono vulnerabile come il più miserabile goblin.» «Non ti vanti del potere dell’armatura degli avi?» «Senza incantesimi sono come un’aquila privata della vista.» «Allora abituati, è la situazione della maggior parte delle persone» pigolò Bogar. Vortigern sentì il trambusto degli armati. «Non entro» sentenziò. Scuse, il Signore del Fuoco accampa scuse. Il sospiro di Bogar fu un sibilo. «Andrò io. Il mana non mi serve» le orecchie pelose dell’uomo-pipistrello si drizzarono. «Hanno delle balestre, c’è da divertirsi.» «Lancio uno scudo magico qui fuori.» Bogar scosse la testa e poggiò la mano fredda e adunca su quella dell’elfo, che reggeva ancora la maniglia. «Fatti da parte, me ne occupo io.» «Aaron non deve essere ucciso.» «Come vuoi» gli occhi di Bogar baluginarono cupi. «Non subito almeno.» L’uomo-pipistrello spalancò l’uscio, che si aprì verso l’interno dello stanzone, e le balestre dei nobili riuniti da Aaron scattarono. Bogar spalancò le fauci zannute e lanciò un grido acuto, al limite dell’isteria, e allargò le mani, fermando i dardi con uno scudo diafano che non era magico. I cavalieri, Aaron e lo stesso Vortigern rimasero appesi allo stupore. Bogar estrasse i kukri e si gettò sul primo nobile, un uomo alto, biondo e vestito con una tunica sbiadata, che getto la balestra ma non riuscì a estrarre la spada prima che l’arma esotica gli squarciasse la gola. Quando Aaron ordinò ai due cavalieri in armatura di affrontare l’aggressore, questi attese che gli fossero abbastanza vicini e gridò ancora, protese le mani verso di loro e scaraventò il più vicino contro il tavolo al centro della stanza e l’altro contro la sedia sulla parete di sinistra. I cavalieri persero i sensi e gli altri nobili si gettarono sull’avversario come un sol uomo, brandendo spade raffinate ma privi d’armatura. I kukri di Bogar danzarono nell’aria spargendo sangue sui muri e seminando corpi sul
pavimento. Si fermarono dopo aver disarmato l’ultimo nemico, quando la lama gelida e insudiciata giunse a contatto con la gola del signore di Glenduarel. «Come sei riuscito a usare la magia?» La voce di Aaron tremò, il corpo immobile e teso. «Magia? Ti sbagli» la voce di Bogar fu tanto acuta da mandare in pezzi due calici sistemati su un vassoio d’argento, su a una cassettiera: «questa non è magia, è un’arte che ha raggiunto la perfezione quando gli elfi non l’avevano ancora creata, la magia.» «Che aspetti, ammazzami» Aaron sfidò l’aggressore. «Non ripeterlo o ubbidirà.» Vortigern entrò nella stanza e chiuse la porta, sbarrandola. Si era alzato il vento e le assi che chiudevano le feritoie e le finestre battevano come i denti di un vigliacco davanti a un pericolo; il sapore denso della cera delle candele si mischiava all’afrore zuccherino e rivoltante del sangue. «Hai una bella casa.» Vortigern ammirò l’arredamento, casse dipinte, cofani, forzieri, cassettiere, un tavolo di quercia con un unico piedistallo centrale, arazzi alle pareti e un camino affrescato. «L’hai arredata con gusto, sarebbe sciocco perdere tutto come hanno fatto i tuoi cocciuti vassalli.» «Dunque siete voi le serpi che strisciano nel mio ducato.» Vortigern guatò Aaron, un uomo alto e muscoloso, di mezza età, con occhi scuri capaci di sostenere ogni sguardo e di vendicare qualsiasi affronto; la fronte era alta, spaziosa, le guancia sinistra e il naso offesi da una profonda cicatrice. «Cosa sai del Consiglio di Kaerwood?» Aaron guardò Bogar e quindi di nuovo Vortigern. «Siete due Anziani?» L’elfo andò alla sedia di Aaron, si sedette e appoggiò le gambe sul tavolo, muovendosi come se l’armatura di maglia non gli recasse impaccio. «Ascoltami bene, perché io non mi ripeterò e il mio compagno preferisce la sopraffina arte dell’assassinio a quella più affilata del sotterfugio. Ti offro la possibilità di servire Kaerwood.»
«Vuoi che diventi uno di voi?» Aaron si calmò e Bogar gli allontanò il kukri dal collo. «Non ti sto offrendo di diventare un Anziano, bada bene» spiegò l’elfo. «La maggior parte dei nostri confratelli vanta gradi minori ma è tenuta a mostrare le medesime fedeltà e abnegazione degli Anziani; nondimeno, ne assapora i medesimi benefici.» «Io sono fedele al senato di Alesia» la voce di Aaron uscì nobile e profonda. «Non scendo ad alcun compromesso.» «Non è saggio mostrarsi poco conciliante. È difficile trovare persone dotate del tuo carisma. Io stesso sento un brivido quando parli, e mi ritrovo affascinato dal coraggio che nascondi nello sguardo, dal modo in cui il tuo collo si mostra fiero nonostante la patetica situazione in cui ti trovi. Non mi stupisce che tu sia sopravvissuto alla battaglia di Antioch e agli intrighi del senato di Alesia, un marame di geronti intoccabili e stolti che non esiterebbe un secondo a sacrificarti. Già li vedo, nella riunione dei prossimi giorni. Aaron è morto» l’elfo arrochì la voce nella caricatura del dialetto di Alesia, «dirà un vecchiardo dai capelli sudici; era un vero eroe, gli farà eco un ciccione che ha ato la notte a copulare con luride concubine avute in cambio di illeciti favori» cambiò voce ancora. «Dobbiamo subito trovare un altro duca!» Allargò le braccia e fece danzare le mani. «Un altro si sprecherà nel proporre i nomi degli amichetti che soddisfano la sua sodomia. È costoro cui sei fedele, Aaron da Glenduarel?» Non obbedisco a due padroni. Gli occhi dell’umano si accesero di speranza quando sentì il trambusto dei soldati che si radunavano. Doveva solo guadagnare tempo. «Parlami di questo tuo Consiglio di Kaerwood e di che cosa vuol dire farne parte.» Vortigern sogghignò. «Tante cose da dire e poco tempo per farlo. Funzionerà la tua bieca idea di strapparci una manciata di minuti?»
Ho sentito una leggenda tanto azzardata e incredibile che nemmeno io che la racconto, vi presto fede eccessiva. Secondo questa leggenda i draghi avevano tutti uno stesso colore, indefinibile e tanto strano da non trovare parole adatte a descriverlo in nessuna delle lingue degli esseri mortali. Un giorno i draghi assaporarono i metalli preziosi e le gemme, ne divennero ghiotti secondo il proprio carattere e le proprie attitudini e accadde che le loro scaglie presero il colore di ciò che divoravano: le Scaglie Rosse, mangiatrici accanite di rubini, divennero irose e vendicative mentre le Scaglie d’Oro, all’opposto, crebbero sagge e nobili. La leggenda, insiste su un fatto curioso, ovvero che una malvagia Scaglia Verde, ostinata divoratrice di smeraldi, non trovandone più si abbassò a mangiare argento rubato ai nani e le sue scaglie e il suo carattere si adeguarono di conseguenza, rendendola affabile e generosa. La leggenda del drago fallito – Teuyth il bardo
XXVI – Il sentimento ritrovato
Laoden di Alerbia uscì dalla Biblioteca dei Sentimenti Perduti rinvigorito dagli incantesimi curativi e dalla collera per la morte di Aghinulf. A credere a quanto gli avevano detto i pavidi Scaffalieri erano ate due ore da quando il Terzo Cantore aveva ingannato Gorogol, ma nessuno degli atterriti bibliotecari aveva abbastanza coraggio da uscire a sincerarsi della sua sorte: gli attacchi della bieca Scaglia Nera erano cessati e questo, come inizio, a loro bastava. Il mezz’elfo aveva indossato la cotta di maglia e il pettorale con il grifone istoriato ed era armato con l’ascia del Re dei nani di Antioch, coperta di rune magiche, e con lo scudo di legno appartenuto allo orco-sciamano Nag’Thariel, del Clan del Lupo, rinforzato da ossa di bufali e adornato da piume di corvo e pelle di lupo; la spada bastarda forgiata dagli elfi della tribù del padre Vortigern penzolava, appesa a sinistra della cintura. Bastano armi magiche per affrontare un drago? Laoden fu squassato da un brivido quando un refolo irrespirabile gli sferzò le guance, la barba corta e gli spettinò i biondi capelli.
Non si viene sconfitti due volte dallo stesso nemico, pensò mentre procedeva a i piccoli e calcolati sul sentiero ovattato dalla spietata caligine e invaso dall’erba giallognola e umida. A ogni o serrava la presa sul cuoio dell’impugnatura dell’ascia in un modo diverso dal precedente. I guardiani, qualunque cosa siano, sono lontani, alle orecchie a punta del mezz’elfo giungeva soltanto il sibilo del vento tra le radici gigantesche delle mangrovie e tra i rami delle latifoglie, moncherini spogli e contorti, protesi verso il cielo come dita scheletriche intente a ghermire sfuggenti fantasmi di bruma. Laoden giunse al centro dell’abitato, un grumo di spelonche cadenti e ammuffite con le pareti di giunchi e legno di piante malsane, e con i tetti di scandole difformi e canne embricate. Attese in un silenzio puzzolente e fragile che la quiete posticcia di Gòlmas rivelasse il mostruoso aguzzino del grifone Aghinulf e del Terzo Cantore. L’altra volta ha percepito il mio potere magico, Laoden cercò di decifrare quali incantesimi gravassero sulla zona, gettando nel frattempo sguardi svelti in ogni direzione per controllare più palude possibile; scoprì mana placido e vide topaie che, sebbene fossero poco robuste, offrivano un riparo in caso di attacco a sorpresa. Batté l’ascia sullo scudo di legno, come usavano i nani per provocare i nemici. «Goro-schifo-gol delle Scaglie Nere, ti sei nascosto sotto i sassi come un ramarro?» La voce del mezz’elfo riecheggiò sinistra nella palude, tra l’intrico di radici, rami e foschia. «Silenzio, fai silenzio» da un sentiero soffocato tra due luride catapecchie giunse una voce cupa. Il Terzo Cantore? Laoden si preparò a fronteggiare ogni inganno e imboccò un aggio strozzato da pareti cadenti di legno marcito. Oltre le due topaie restava un ponticello di assi sconnesse e malsane protese nella palude; al culmine di quello che aveva l’aspetto malconcio di un approdo, attendeva la sagoma del Terzo Cantore. «I tuoi tirapiedi ti credono morto» sussurrò Laoden. «Allora» mormorò il cantore, senza voltarsi; stava ritto verso la putrida plaga e si arricciava i capelli scuri «ho detto di fare silenzio.»
Sai dove puoi metterteli i tuoi ordini, topo di biblioteca? Gli occhi di Laoden cercavano dappertutto e la tensione accumulata dal mezz’elfo arrivò al punto da fargli azzardare un incantesimo di conoscenza. Che il mana quieto si scuota un istante. Che vibri, che danzi, che salti, che palpiti! E che riveli i nemici, dove sono e cosa fanno. «Ti avevo detto di stare zitto» il cantore sospirò e continuò ad attorcigliarsi i capelli. «Se ne è andato» Laoden abbassò le armi. Il cantore sospirò ancora. «Non troverai nemici a Gòlmas, non ora, non più.» Laoden intravide la melma incresparsi e pensò alla cresta sulla schiena del drago. «Perché non l’ho percepito?» «Faresti silenzio, per cortesia?» Laoden si avvicinò al cantore. «Se è un trucco, sappi che ho ucciso per molto meno.» «Voglio parlargli, ma non si mostra. Ora che ha sentito la tua voce petulante sarà ancora più diffidente.» «Che razza di sentimenti gli hai reso: viltà e vergogna?» Il cantore squadrò il mezz’elfo, gli occhi severi. «Rimorso» spiegò tornando con lo sguardo alla palude. «E gli è tornato prima che mi ammazzasse.» «Questo mi torna utile» Laoden sogghignò: «lo faccio uscire e vendico Aghinulf.» «Sei uno sbruffone: credi che non abbia cercato in mille modi di parlargli? È due ore che si nasconde tra la melma e le canne, come fosse lui il prigioniero e non viceversa.» «Sarà prigioniero di sé stesso, allora. Però si dà il caso che io conosca un trucco
per sfidare un drago. Lasciami fare, ho battuto la Scaglia Rossa Thugumsher, provocandolo nel modo giusto» Laoden tornò sull’isolotto e si sistemò nel punto che giudicò più favorevole: alle spalle una spelonca offriva riparo a un attacco a sorpresa, mentre a destra e sinistra c’era abbastanza terra emersa e solida da evitare brutte sorprese. Rinfoderò l’ascia nella cinghia legata alla schiena ed estrasse la più comoda spada; fece un bel respiro e riò mentalmente le parole. Poi iniziò, con voce stentorea. Sangue, fuoco e acciaio. In questo tempo buio e in questo mondo oscuro la mia è la voce del coraggio, è il delirio della forza e della follia. È la preghiera del cacciatore di Draghi: sangue, fuoco e acciaio. Non porterò rancore se mi ucciderai, non proverò pietà se ne chiederai; non ti concederò tregua e non ne domanderò: vengo nel regno di Gorogol recando l’acciaio. Siamo sangue, fuoco e acciaio. Sangue, fuoco e acciaio. La melma si aprì davanti al Terzo Cantore, e il drago ne emerse, lentamente, con il muso coperto di fanghiglia puzzolente, canne e rami marcescenti. Laoden di Alerbia fissò gli occhi di Gorogol, un tempo rubini sfavillanti e ora tondini di metallo arrugginito, quindi ebbe un brivido che lo squassò e gli tolse il respiro: vide quella cosa, solitaria e impossibile, ai lati delle zanne che deformavano le fauci; tremò come un bambino alla prima storia di fantasmi quando ne scorse una seconda, sul mento; e poi ancora ne vide sul collo oblungo, tra le scaglie nere come pece e le chiazze di poltiglia, ne riconobbe una striscia, o una forma
irregolare. Il mezz’elfo fece un o indietro, accecato dallo sfavillio dei minuscoli e magnificenti deliri che risaltavano sulla pelle squamosa di Gorogol. «Non è possibile» balbettò Laoden con il terrore che lo faceva inciampare e finire col sedere per terra. «Pensi che sia mutato per colpa di quelle cose o che esse siano invece l’effetto della mutazione?» La voce del cantore era calma, come se ciò che vedeva non potesse sfiorarlo, o l’avesse già reso pazzo. «Non è possibile, non è possibile» berciò Laoden mentre brancicava per rialzarsi. «Lo ho pensato anch’io» la voce un tempo graffiante di Gorogol riecheggiò nella palude con una musicalità nuova e inverosimile. «Ci sono leggende circa il nostro colore, e si dice che sia ciò che mangiamo che altera le nostre scaglie e inaridisce i nostri sentimenti. Non si è mai visto l’opposto» il drago sollevò le zampe anteriori e guardò i palmi, chiazzati come se un morbo piagasse l’epidermide. Tra le nere scintillavano quelle cose impossibili e sconvolgenti: le scaglie d’argento.
Ti prometto che non ti abbandonerò. Ti starò accanto e sarò la tua ombra, sempre. Hulbert ad Amber – Notte prima della Battaglia di Antioch.
XXVII – Tradimento
Il ventre continua a dolermi e i giramenti di testa non mi hanno abbandonata, nonostante siano ati quasi due mesi, e continuo a vomitare disgustata dagli odori e dai sapori più abituali. Non sono ingrassata ai fianchi ma a credere alle dicerie dovrebbe essere una femmina, i maschi non fanno soffrire tanto. Le stranezze mi stanno tormentando, con la gravidanza i poteri magici si sono affievoliti e l’odore della pelle di Hulbert mi ripugna e mi costringe a tenerlo ancor più distante da me: sono settimane che dividiamo il letto soltanto per riposare, i suoi baci sembrano distanti e il suo sguardo assente. È entusiasta che aspetti un figlio ma si comporta come se io non fossi più la stessa. O forse non lo è più lui. Dopo la visita ai feudatari si interessa di come gestire il feudo al meglio, pianifica ingrandimenti del villaggio, rinforzi alle mura e al mastio; ha moltiplicato le battute di caccia nonostante la stagione e si assenta spesso dal castello. La compagnia di Julia non basta a riempire le mie giornate: è una brava ragazza, è puntuale e precisa ma la sua cultura si limita a Brora, a come accendere un fuoco, cucinare e pulire una stanza. Nemmeno i libri magici sono in grado di distrarmi, da quando sono in dolce attesa gli incantesimi faticano a funzionare e il mana disubbidisce la maggior parte delle volte che provo una magia. Questa mattina è giunto un paggio da Spinwirth, ha cavalcato giorno e notte, cambiando il cavallo alle stazioni di posta e ha recato notizie terribili. Molti feudatari del nord sono stati assassinati e lo stesso Aaron è caduto dopo che i sicari sono penetrati nel suo castello. Si dice che abbia giurato e spergiurato di diventare fedele a Kaerwood per consentire ai suoi soldati di giungere in suo soccorso e che abbia ingaggiato una battaglia furibonda con gli aggressori. Il Senato di Alesia ha ordinato di raddoppiare la sorveglianza e di fare qualsiasi
cosa per catturare gli assassini. Ho paura. Tanta quanta non ne avevo neppure prima della battaglia di Antioch: è possibile sconfiggere i nemici che ti affrontano a viso aperto ma non quelli che agiscono con sotterfugi, al buio come incubi. Le preoccupazioni si stanno facendo fardelli troppo pesanti da quando ho notato che se Hulbert esce da solo, la sua assenza coincide con quella di Emirith. Ho i brividi ogni volta che prende la strada dei boschi, vorrei seguirlo ma il bambino mi reca dolori lancinanti e mi costringe a un frettoloso e assoluto riposo. Ogni volta che Hulbert torna, gli chiedo cosa ha fatto, ma glissa, racconta banalità esasperanti e le poche volte che gli ho chiesto di lasciarmi leggere nella sua mente si è rifiutato. In questo mese le sue assenze si sono ripetute tre volte e mi è sembrato che Emirith appoggiasse uno straccio alla maniglia della porta: sembrerebbe un segnale ma non ne ho la certezza e non mi fido abbastanza di qualcuno per impartirgli ordini troppo precisi. Nonostante Oddone mi abbia messa in guardia, e nonostante si sia mostrato accondiscendente e servizievole sino alla nausea, non ha sminuito la diffidenze nei suoi confronti: ho la sensazione che trami qualcosa; gli sguardi in tralice che mi mandano le guardie mi fa temere anche circa la loro fedeltà. Rimpiango i viaggi, le notti all’addiaccio, la paura e l’adrenalina della battaglia. Qualche giorno fa Emirith è giunta al castello, ha detto di aver visto una fattoria disabitata e decrepita, verso nord, fuori dalla vista del mastio per via di un boschetto, e ha chiesto che le venisse affidata per darle l’occasione di aumentare le rendite del feudo e mostrarsi utile a qualcosa. Mentre la strega parlava, Hulbert pendeva dalle sue labbra e i loro sguardi si intrecciavano come steli di rampicanti. Il sorriso maligno di Emirith cessò per inventare un’espressione provata e disperata dal disprezzo che gli abitanti di Brora provavano per lei. Mio marito ha mostrato sdegno e si è detto disponibile ad accettare la richiesta con il sopraggiungere della primavera. Sono stata male all’idea che fosse un discorso preparato e che fossi soltanto una iva spettatrice di un inganno che si sbrogliava davanti ai miei occhi. Quando ne ho parlato a Oddone, mi ha detto che Emirith tenta di insinuarsi nella struttura di potere per macchinare i perfidi sotterfugi ai miei danni. Lo ha detto con un tono viscido quanto il presunto tradimento di Emirith.
Ovunque mi volti, vedo nemici sorridenti che mi tendono una mano e con l’altra brandiscono un pugnale. * La luce del sole filtrava da una coltre di nubi dal colore dell’acciaio. Quando Hulbert entrò nel tempio, Emirith era inginocchiata a pregare e si interruppe per bruciare una foglia di damiana sulla candela accesa sull’altare. «Pregate con me, mio signore» lo invitò. Hulbert si inginocchiò accanto a Emirith ma non disse nulla. «Quando uscirò, lascerò un panno fuori dalla finestra. Vi aspetterò alla fattoria, vi prego, raggiungetemi» la donna fece ondeggiare la foglia secca, che ardeva senza fiamma, e il profumo sapido della damiana riempì il tempio. «Io non credo che sia prudente vederci oggi» Hulbert tossì per i fumi eccitanti e ipnotici. «Ho una moglie che rispetto e che amo.» «Mio signore, non vi sembra azzardato scegliere il proprio destino quando non si hanno che diciassette anni?» «Alla mia età ci sono nobili che guardano gli eredi brandire la prima spada di legno.» «Ne sono convinta ma non si chiama amore, si chiama ragion di stato» Emirith fece oscillare ancora la foglia di damiana, che mandava un fumo grigiastro. «Non verrò.» «Ma io ho bisogno di voi, mio signore» Emirith se ne usci con voce spezzata. «Ho bisogno del vostro corpo, mio signore, ho bisogno del vigore dei vostri muscoli. La vostra donna non vi può soddisfare, mio signore: mi disdegnate al punto da preferire il nulla?» Hulbert diede violenti colpi di tosse e quando si riebbe, sentì il desiderio irrorargli il corpo. «Vostra moglie vi fa mancare il suo affetto e vi priva delle sue grazie e del suo corpo. Io no, mio signore, io voglio accogliervi dentro di me e concedermi senza riserve. Voi non bramate il sapore del mio corpo, non bramate più la mia carne?» Hulbert guardò la donna e immaginò di stringerle i seni e di possederla. «Voglio sentirvi, mio signore: voglio baciare la vostra pelle, voglio le carezze delle vostre grandi mani. Non è questo che dovrebbe fare una sposa devota, non è appagare ogni vostro piacere e
destarne di nuovi?» Hulbert si sentì avvampare. «È ciò che desidero anch’io» disse dopo aver balbettato parole incomprensibili, «ma un grave pericolo incombe su Brora e su di me. Ci sono assassini che potrebbero giungere, non è saggio uscire da solo, non è saggio vederci.» Emirith accarezzò la mano di Hulbert, trasmettendogli brividi intensificati dall’effetto eccitante della damiana. «Siete disorientato da cattivi pensieri, mio signore; lasciate che le mie carezze allontanino i dubbi e le paure. Un’ultima volta, vi prego, poi attenderemo che questi fatti incresciosi cessino.» Hulbert annuì con la testa, obnubilato dall’erba stimolante. «Alla vecchia fattoria, dunque: partirò dopo aver appeso il canovaccio alla finestra» Emirith controllò che dall’esterno nessuno guardasse verso il tempio, si alzò, e strappò un bacio sulle labbra al suo signore. * Amber si affacciò alla bifora del salone e guardò il marito abbandonare Brora a cavallo di Argento, dirigendosi prima verso la foresta ma piegando verso nord. Quando Hulbert scomparve tra gli alberi e le chiazze di neve sfuggite al sole dell’inverno che allentava la morsa, Oddone entrò, annunciandosi. «Il signore è uscito a cavallo per cercare svago» fece un inchino. «Il Senato ha ordinato di muoverci con cautela per evitare pericoli.» Amber andò al camino, dove riscaldò le mani. «Chi c’è nella scorta?» «Non ne ha voluta, mia signora: ha detto che sarebbe stata un’innocua e rapida cavalcata.» «E quella sgualdrina di Emirith, dov’è?» La voce fece rabbrividire il siniscalco ma lo riempì di gioia. «È uscita da un po’ e prima di andarsene ha appeso uno straccio alla finestra: sembrerebbe una cosa normale ma le volte che l’ha fatto ed è uscita, il signore ha fatto altrettanto» la voce di Oddone liberò tutto il suo veleno.
Amber strinse i pugni e chiuse gli occhi; il dolore al grembo che l’aveva infastidita nei giorni precedenti le stava dando tregua. «Fammi sellare un cavallo.» Oddone trasalì. «Mia signora, se mi è concesso dire la mia...» «Fammi sellare un cavallo. Devo vedere se ciò che sospetto è vero.» «Devo farvi accompagnare? Posso ordinare a David di lasciare il turno di guardia e...» «Andrò da sola. Fammi soltanto sellare un cavallo e fallo portare sotto la motta. Alla svelta.» «Come desiderate» il siniscalco si congedò con un inchino e si avviò fuori. «Oddone» Amber lo richiamò. «Dite, mia signora» si fermò al limitare del palco dei musici, tra le rosse sargie aperte. «Perdonami se ho dubitato di te e se non ti ho dato ascolto sin dall’inizio.» Oddone strozzò il bieco sorriso che serbava. «Siete giovane e inesperta, mia signora, ma diventerete una grande regina se seguirete i consigli delle persone giuste. Vado a farvi sellare un cavallo.» Amber scese dopo aver indossato gli abiti maschili con i quali aveva combattuto ad Antioch e un mantello pesante; Calénanes, la Spada del Vento appartenuta a Moad, madre di Gwyllywm, le penzolava dalla cintola. Il palafreniere tenne le briglie del cavallo e Amber montò senza mostrare esitazioni o ripensamenti. Oddone stava sulla porta della propria casa e la trattenne. «Mia signora, non fate sciocchezze e ricordate: non esistono questioni che non possano essere affrontate con la dovuta calma dalla consorte di un feudatario del vostro rango.» Amber si morse le labbra e abbozzò un saluto con la mano. «Le auguro buona caccia, mia signora, qualunque cosa voglia dire.» Amber spronò il ronzino al galoppo e attraversò il villaggio di Brora che ferveva di attività nonostante il cielo minacciasse neve. Diresse il cavallo verso nord e
cercò la macchia d’alberi che nascondeva la fattoria alla vista del castello. Cavalcò per minuti interminabili con il cuore che le rimbalzava in gola e con una voce spettrale che le lacerava lo stomaco e che tentava disperatamente di convincerla che era tutto un equivoco, che Oddone aveva inventato tutto e che Hulbert cacciava da qualche parte, da solo. Quando l’agitazione rasentò il dolore fisico, Amber vide il boschetto descritto da Emirith, lo aggirò e scoprì quel che temeva di trovare. Un sentiero tortuoso sbucava dalla selva nereggiante e serpeggiava tra campi abbandonati e frutteti avvizziti; la fattoria restava al centro di quella desolazione spettrale, era un edificio di pianta rettangolare lunga abbastanza da contenere una numerosa famiglia, aveva pareti di pietra basse e assalite dai rampicanti e un tetto a doppio spiovente di scandole ancora in buono stato. Non è una catapecchia come sosteneva Emirith. Accanto alla fattoria c’era un pozzo in sasso e un edificio di legno adibito a granaio e a stalla, sudicio e vecchio ma risanabile con qualche settimana di lavoro. I campi attorno alla fattoria erano abbandonati all’incuria e le pecore appartenute ai vecchi proprietari pascolavano allo stato brado; accanto alla porta, un uscio di legno sgangherato alto quanto bastava per non entrare in ginocchio, Argento riposava legato all’occhiello di una grossa pietra. Si è fermato soltanto a riposare. Solo a riposare, oppure a controllare lo stato della casa. Amber scese dal ronzino, a debita distanza e si avvicinò di soppiatto, rallentando a ogni o e cominciando a tremare non appena li sentì. Gemiti? Amber serrò le mani nei guanti di pelle, più per paura che per rabbia; si avvicinò alla porta socchiusa. Sentì il cuore e lo stomaco che bruciavano e poi, dopo un grido prolungato e soddisfatto di una voce che pareva quella di Emirith, sbirciò nella penombra della casa dalle assi sconnesse dell’uscio. Le gambe le cedettero e si appoggiò alla parete per non cadere; riuscì a trattenere le lacrime e si allontanò, mordendo la lingua per non gridare. La incenerisco.
Amber si voltò verso la casa, il ventre non le doleva e una sfera di fuoco le fiorì tra le mani con una naturalezza che aveva dimenticata. Il Vaenert le spettinò i capelli castani e le sferzò le guance scorticate dalle lacrime; la sfera di fuoco le vorticò nelle mani sfidando le fredde folate e l’umidità. E se il fuoco uccidesse anche lui? E se invece Hulbert la salvasse da me? Tremò all’idea che il suo uomo l’abbandonasse per difendere Emirith e lo immaginò nudo, che le impediva di prendere la sua giusta vendetta, gridando frasi senza senso, spergiurando, dandole dolori ancora più acuti di quello che provava. La sfera infuocata si spense. No, affronterò questo problema come deve la moglie di un feudatario del mio rango. Ricordò il suggerimento di Oddone e corse verso il ronzino, lo montò e lo lanciò al galoppo verso Brora, piangendo tutte le lacrime di cui era capace. Basta una sola menzogna per cancellare tutte le verità e le buone intenzioni? Costruisci una casa con mattoni solidi e con grandi pietre: è sufficiente il masso scagliato da un trabucco ad abbatterla? Ricordò Hulbert stretto dalle cosce di Emirith e la immaginò morire tra le fiamme, e penetrata da ferri acuminati, e divorata dai lupi, e seppellita viva in una tomba ricolma di sterco. Sì, è sufficiente: la menzogna è un sasso e la verità è un vetro.
Gli elfi fanno uso di tabacco spiniforme per accrescere la visione che hanno del futuro. Le foglie della spezia vengono fumate con un calumet ma una dose più pura del tabacco migliora la visione e gli elfi masticano la spezia, che risulta più efficace. Pare che nel momento in cui arrivano le visioni, tuttavia, l’essenza (o spirito) del soggetto si separi dal corpo e per tale ragione, qualcosa di incontrollabile, e che prende il nome poco rassicurante di istinto primordiale, sia in grado di usarlo se lo stato di quiete del rituale viene disturbato. Le più accreditate leggende elfiche narrano che quando accade, l’istinto primordiale tornerà a tormentare l’elfo anche senza l’assunzione della spezia. Proprietà delle erbe medicamentose e velenose di Arhanien – ch.mo prof. Eurimetispide
XXVIII – Khayn ed Éibhleann
Glewmwn non è sicuro sulla decisione da prendere. Lo dico a mio padre, che sogghigna e mi chiarisce che non ho ancora cento anni e che ciò che a me sembra indecisione in realtà è la saggezza di un anziano che sta ponderando alternative. Spiego a mio padre che Glewmwn sbatte spesso le palpebre quando ha dei dubbi e che un saggio dovrebbe avere la risposta pronta, non un cumulo di incertezze. Mio padre mi ordina di fare silenzio e di stare attento a ciò che dice la nostra guida. Quando scuoto la testa, mi riprende dicendo che una conoscenza smisurata conduce a comprendere soltanto la propria ignoranza. Illuminante. Il brivido che provi quando giunge una decisione sbagliata che non puoi contestare è senza eguali: ti fa pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nelle fondamenta che reggono la convivenza dei membri del tuo popolo. Quel brivido che ti fa accapponare la pelle ti fa pensare che a te non è mai stato chiesto nulla, e che i dettami cui soggiaci non sono stati approvati con la tua opinione. Ti senti una vittima degli eventi e pensi che nulla possa più essere giusto. Il mio malumore viene rinfocolato da quella masnada di pazzi, orchi tanto
stupidi da penetrare nella foresta, da brandire armi e muoversi come ladri nell’illusione che i Si’phir non si accorgano di un tale affronto. «Cinque giovani attendono che sia formulato il giudizio circa la loro maturità» la voce di Glewmwn è un fulmine e i tuoni sono lo sdegno degli altri anziani. «Propongo che verifichino le intenzioni degli orchi, sorvegliandoli di nascosto e senza ingaggiar battaglia» specifica con un’occhiata più tagliente di una spada al suo giovane e intraprendente nipote, Gwyllywm figlio di Moad, che gli risponde con un sorriso a tono. Gli anziani votano appena Glewmwn ha terminato e si trovano d’accordo, tutti e subito. Il resto è un caleidoscopio di immagini e rumori, di odori ed emozioni squillanti. Glewmwn ci riunisce accanto a lui, ci consegna una spada e ci chiede di non usarla. Geniale. I nostri padri e le nostre madri hanno sguardi tronfi di orgoglio. Alywya ha occhi d’ambra ricolmi di apprensione. «Non fate sciocchezze» ripete sia a me che a Gwyllywm, baciando entrambi sulle guance. «Che Shana vi illumini e vi assista.» Io, Gwyllywm e gli altri tre fortunelli ci incamminiamo verso la zona dove sono stati visti gli orchi. Il figlio di Moad si pone in testa al gruppo ma io lo incalzo per impedire che la sua esuberanza sia foriera di pessimi eventi. Pádrayg, Flwnnwyt e Crón ci seguono in quest’ordine. Camminiamo in un silenzio fatato, muovendoci silenziosi e invisibili tra le frasche di alberi che ci nascondono come fossero appendici ai nostri ordini. Un istante dopo che Gwyllywm intima al gruppo di fermarsi, giunge l’odore pestilenziale degli orchi: ci acquattiamo presso una quercia immensa dalle radici ritorte dove sgomitano cespugli dai rami attorcigliati e spinosi. «Un centinaio di orchi» Gwyllywm ci chiama attorno a sé, «tutti con il necessario per bivaccare. Armature e armi leggere, accette e berdiche.» «Quello dev’essere il capo» Pádrayg indica un orco con una cotta di maglia che sta alla guida del grosso delle truppe, un serpentone che si snoda dietro un’avanguardia di cinque orchi armati con scudi tondi e accette. «Risalgono il fiume muovendosi come ladri.» «Venti a testa, non sono molti» le parole di Gwyllywm sollevano intensi brividi:
vuole mettersi in mostra per impressionare Alywya, ne sono certo. «Non dobbiamo ingaggiarli, dobbiamo soltanto riferire al consiglio» ricordo ai miei compagni. «Sei un ingenuo, Khayn: se mio nonno... se Glewmwn non voleva che li ingaggiassimo perché darci le spade?» Ribatte Gwyllywm con tono saccente. Flwnnwyt prende arco e frecce. «Pensi che sia questa la prova?» «Ragionate» insisto: «non abbiamo armature, abbiamo soltanto archi e spade, come potete pensare che ci abbiano mandato a combattere?» «Ma allora perché darci le spade?» Crón non sostiene la mia posizione. «Se dovevamo soltanto guardare e riferire, perché acconsentire affinché portassimo archi e frecce?» «Conosco bene il vecchio: vuole vedere se siamo in grado di agire con la nostra testa oppure se sappiamo soltanto obbedire» la replica di Gwyllywm mi irrita per il riguardo di cui manca verso Glewmwn. Eppure il suo carisma mi intriga nonostante le sue osservazioni insidiose. Pádrayg si gratta la testa. Lo fa tutte le volte che sta per cedere alle pressioni altrui. «Che sia questa la prova dunque? Il libero arbitrio e la facoltà di disporre della propria vita?» «Siete impazziti tutti?» Sto quasi ringhiando. «Vivere in comunità vuol dire essere pronti a sacrificare la propria gloria in virtù di quella altrui. Non c’è nulla di saggio nell’attaccare gli orchi.» Gwyllywm sospira e mi fissa con un sorriso malvagio. «Comportarti da codardo non ti renderà migliore agli occhi delle ragazze.» «Che cosa stai insinuando?» Alzo la voce, involontariamente. «Nulla Khayn, è che quando c’è Alywya mostri più coraggio. Senza di lei sei un mollacione.» «Io non» mi protendo verso Gwyllywm ma Pádrayg fa da paciere.
«Non litigherete adesso. E non lo farete o rivelerete la nostra presenza» Pádrayg prende l’arco e si sistema a fianco di Flwnnwyt. «Quattro tiri prima che capiscano dove siamo.» «Dissento. Due, massimo tre, poi cercheranno copertura» Flwnnwyt fissa dall’intrico di rami e radici la colonna di orchi che serpeggia lungo il fiume. Crón e Gwyllywm prendono gli archi e si dispongono in linea con gli altri; i quattro pazzi mi fissano come se quello pazzo fossi io. «Tiriamo a “scalare”» l’ordine di Gwyllywm trova d’accordo gli altri. «Forza Khayn.» «Dai, non costringerlo, forse non è ancora pronto» l’insinuazione di Crón mi fa gettare alle ortiche ogni precauzione e lo raggiungo. Il “tiro a scalare” consiste nel colpire il nemico più vicino corrispondente alla propria posizione nella fila. Io sono il quinto, quindi dovrò mirare al quinto orco più vicino. Soltanto una linea di arcieri elfici riesce a eseguire con precisione questa tecnica: ogni tiratore ha un bersaglio differente, ogni freccia fa cadere un nemico. Gli orchi distano più di cento i quando Gwyllywm ordina di uscire dal nascondiglio per attaccare. Ci alziamo, prendiamo la mira e i primi cinque orchi cadono nel fiume, uccisi da frecce che li trafiggono al collo; dei successivi cinque soltanto tre muoiono sul colpo e del gruppo dei successivi soltanto due, ma gli altri giacciono a terra moribondi e ululanti. Gli orchi non si nascondono ma caricano, perdendo altri quindici guerrieri. Ci sono quasi addosso ma altri cinque rovinano a terra, colti ancora al collo, negli occhi o al centro della fronte alta, verdastra e sproporzionata. Gwyllywm è il primo a lasciare l’arco ed estrarre la spada. Si getta sul primo orco e lo scaraventa contro un albero con un incantesimo di movimento, sorprendendoci tutti. Pádrayg, Crón e Flwnnwyt gli corrono dietro, urlano e roteano le spade come se si trattasse di una gara di abilità. Gwyllywm non mostra esitazioni o pietà ma è abbastanza saggio da lasciarsi guidare dal mana: scatena fulmini che creano un intrico mortale di energia che rizza i capelli e cuoce i mostri, rimbalzando tra le loro armi e i loro bracciali di metallo. Ci sa fare.
Più gli orchi risalgono la collina e più gli incantesimi li ricacciano indietro: le palle di fuoco e i fulmini li divorano, le radici li ghermiscono come fossero artigli di fiere. Mentre scendo dalla riva e infilo la spada nella carne verdastra di questi mostri, schivando i fendenti, i rami degli alberi e gli arbusti che limitano il loro movimento, il rumore della pelle che crepita mi spaventa più dell’odore rivoltante del grasso che frigge. Le grida e le bestemmie degli orchi sono simili ai versi di animali intrappolati che percepiscono l’imminente macello. Pádrayg si mostra abbastanza abile con la spada da infilzare gli orchi prima che la potenza dei loro muscoli riveli quanto i nostri corpi di elfi non siano adatti a sostenere un prolungato scontro fisico. Flwnnwyt e Crón attaccano usando gli incantesimi del fuoco quando la spada fallisce; quanto a me, la mia spada non ha ancora fallito e non ne ho ancora avuto bisogno della magia. Non ho il tempo di usarla, non ho il tempo di pensare: intorno a me i grugni deformi e urlanti degli orchi appaiono e scompaiono mano a mano che la spada li massacra. Combatto quasi a caso fino a quando uno schiocco ci fa precipitare tutti a terra e i fulmini di Gwyllywm rimbalzano tra gli alberi, scaricandosi al suolo e trasmettendoci un lieve torpore. Flwnnwyt combatteva contro un orco alto una spanna più di lui e largo almeno due volte: il mostro l’ha aperto in due con l’ascia ed è ricoperto dal sangue livido e da fasci muscolari del mio compagno. L’orco allarga le braccia sollevando la grossa ascia e grida qualcosa nella sua lingua incomprensibile. Realizzo come tra i nemici, uno sia rimasto protetto, e soltanto adesso la sua figura emerge, facendosi spazio attraverso un muro di rozzi guerrieri: cammina ingobbito, appoggiandosi a un bastone troppo pesante per i suoi muscoli sottili che rasentano l’atrofia; i canini sporgenti sono sproporzionati e sono l’unica cosa che risalta su un volto anonimo e privo di emozioni. Soltanto quando mostra il ghigno sdentato capisco che non si tratta di uno storpio ma di un vecchio, un orco incredibilmente anziano, saggio e potente. Un lucore spaventoso scaturisce dalle sue mani, ci coglie di sorpresa una volta di più, ci acceca, ci fa fuggire come pecore raggiunte da un lupo. Pádrayg non ce la fa, sento le sue urla e quando riesco a ragionare e a preparare incantesimi difensivi, il suo corpo trafitto da tre lance cade al suolo. Una lancia si pianta nel tronco di un albero tanto vicino da farmi pensare che sia stato un miracolo a salvarmi. Mi fermo, mi volto e sfido l’orco che agogna
vendicare i compagni caduti. Sento la voce di Crón, ma sta gridando un incantesimo che fa del suo avversario una torcia umana. Io non ho il tempo di scagliare alcuna magia: evito l’affondo e sfregiò il naso orribile dell’orco con un colpo doloroso. Quando provo a incenerirlo con una palla di fuoco, la mia magia svanisce, annullata dal potere dello sciamano. L’orco-guerriero grugnisce un insulto nella sua lingua barbara e tenta un nuovo affondo, costringendomi ad arretrare. Finisco contro un albero e mi abbasso abbastanza in fretta da evitare l’ascia, che si conficca nel tronco; mi rialzo e la spada schizza verso il cielo, incrociando il corpo dell’orco tra le gambe, strappandogli l’abito di pelle e i testicoli. Nonostante l’inerzia magica sviluppata dagli incantesimi dello sciamano, Crón ha ucciso altri due orchi e attacca i tre che gli fanno da scorta. Io ne affronto un altro, lo mando fuori tempo con una finta e quando la sua ascia scende a terra, la mia spada è tanto veloce e tagliente da staccagli entrambe le mani, strette attorno al manico di pelle della grande arma bipenne. Sospiro disgustato dall’afrore del sangue, degli orchi inceneriti dai fulmini e dalla puzza dei reagenti usati dallo sciamano. Crón ingaggia i sopravvissuti e io convergo sul gruppetto, urlando un incantesimo che lo sciamano neutralizza lanciando per aria una polvere luccicante. Crón fronteggia due avversari e, sebbene riesca a ferire quello a lui più prossimo, l’altro gli straccia il braccio sinistro con un fendente. Bestemmio e mi getto contro l’orco che ha appena colpito Crón, gli infilo la spada sotto la spalla, perforandogli i polmoni e scheggiando le costole: l’orribile pelle-verde si sgonfia vomitando sangue e Crón riesce a uccidere l’orco che ha ferito. Un istante dopo, il mio compagno crolla in un lago di sangue. Lo sciamano lancia un incantesimo con voce tremula ma la mia spada lo zittisce un istante prima che lo completi, aprendogli una linea rossa in mezzo al collo. Barcollo, stremato, incapace di reggere la spada, che scivola a terra. La morte si è presa anche il clangore della battaglia e nella foresta ristagna una penetrante quiete. Rovino in terra, esausto, e i miei respiri ravvicinati e i miei lamenti scolpiscono nel silenzio di roccia vividi petroglifi. Mi rialzo a fatica. Vomito, inciampo nel corpo di un guerriero zannuto e finisco in una pozza di sangue e piscio. Brancico sino a rialzarmi, tra i singhiozzi.
Se era questa la prova, e arla significa essere adulti, preferivo non esserne mai stato degno: gli orchi sono stati sterminati ma tre di noi giacciono sul campo. Crón. Pádrayg. Flwnnwyt. Di quest’ultimo sapevo tanto poco che ricorderò soltanto che è morto. Manca Gwyllywm, ma non lo trovo. Lo chiamo. Grido il suo nome nell’aria fredda e pregna dell’afrore degli orchi. Risalgo la riva sino al punto dal quale abbiamo attaccato e lo trovo tra le radici di una quercia, schiacciato dal corpo di un orco: lo raggiungo, lo scopro vivo e lo aiuto a rialzarsi. Che cosa ci fa così distante dalla battaglia? Per un istante ho il dubbio che sia scappato come un vigliacco. Ma è soltanto un dubbio. E dura un istante. * Quando Khayn aprì gli occhi, le immagini del ato scomparvero. Rimase soltanto la voce del suo istinto primordiale, che si divertì a tormentarlo ancora. «Bei ricordi, Khayn, e adesso? Attenderai che l’elfa che ami ritorni a miti consigli e realizzi come colui che ama non tornerà da lei, nonostante gli abbia dato una figlia? Quanti motivi devi avere per cercare di uccidere chi cammina nell’oscurità, Khayn? Quanti segni deve mandarti Shana perché tu comprenda l’impalpabile trama che vedi scorrere davanti ai tuoi occhi? Ti sei rimbecillito? Soltanto tu puoi fermare Gwyllywm: il suo carisma e la sua retorica possono ingannare chiunque.» Khayn dondolava le gambe su un masso erratico scivolato presso le rive del lago dove, quasi un anno prima di quel giorno, affrontò Gwyllywm, lo sconfisse ma perse l’amore di Alywya. «Non sempre i segni di nostra madre Shana sono chiari come vogliamo credere. Decenni prima di oggi ho fallito una prova che avrei superato se non avessi fatto nulla. Sono morti tre elfi e ho perduto un amico.» La notte aveva allungato le fredde spire e la luna ristagnava nello specchio d’acqua dove onde placide ne deformavano l’immagine, tonda e perfetta.
«No. Mi fai schifo, sei patetico. Dove intendi arrivare procedendo con tanta esasperante lentezza?» Khayn si guardò i piedi. «Sono mai partito, piuttosto? È questa la domanda che dovresti pormi, non dove vado.» «Vero, ma che hai deciso di fare della tua vita? Vuoi essere ricordato come colui che insidia una femmina altrui?» Khayn gettò la testa e la schiena all’indietro, reggendosi con le braccia. «Anche a Gwayn furono mosse simili accuse quando corteggiava Moad. Ora nessuno osa mettere in dubbio la sua caratura morale e il proprio valore.» «Ma tu non sei Gwayn e Alywya non è Moad. Vuoi attendere in eterno una femmina che non ti desidera?» «L’amore sa farsi inalterabile come la pietra.» «Eppure la pietra è scalfita dall’acqua ed erosa dal vento. Le tue considerazioni sono stupide chimere: tu sai qual è l’unica cosa saggia che puoi fare.» L’istinto primordiale continuava a parlare a ruota libera. «Lo hai già sconfitto una volta, puoi farlo ancora, perché reprimere una giusta vendetta? Non ti servirà che altra spezia: una dose piccola, è sufficiente un ciuffetto di tabacco spiniforme per liberarmi. Non devi trovare che un’altra occasione di affrontarlo, uno contro l’altro. E allora tutti sapranno quanto sei più forte.» Khayn prese un sasso piatto e lo lanciò nel lago facendolo rimbalzare dodici volte. «Che direbbero di me gli altri Si’phir se mi sentissero parlare da solo?» «E che direbbero i tuoi genitori, se ti sapessero schiavo di Alywya, la compagna del tuo peggior nemico? E che direbbero di te i tuoi amici? Khayn, l’elfo che non sa conquistare una femmina e che insidia una giovane madre.» «Taci!» Khayn lanciò un altro sasso, che affondò dopo sedici impatti, tagliando la luna nel lago. «Non hai il diritto di pensare queste cose. Lei è schiava di quel farabutto come io lo sono di lei. Non c’è differenza. Credi che l’amore renda liberi?» «Eccola, la ragione che obnubila i sensi. Mi dai il voltastomaco: non sei più un fanciullo estasiato e impaurito dalla prima cotta, dal primo fermento ormonale,
dal primo approccio goffo e fallimentare. Vuoi guardare la realtà invece che rannicchiarti per procurarti i piccoli e infimi piaceri con cui colmerai le tue vuote notti? Ascoltami bene: Gwyllywm non ha fatto ritorno e il vento reca l’odore marcescente dell’oscurità. Segui la puzza del tuo rivale, scovalo e liberami. Penserò io a tutto, come l’ultima volta che l’abbiamo affrontato. Ricordi quei momenti? Ricordi quando lo sconfissi per te? Soltanto Glewmwn con il suo potere, e cogliendomi alla sprovvista, è riuscito a fermarmi. Nonostante quella cocente ingiustizia io non ti ho mai abbandonato. Sono il tuo migliore amico.» «Fai silenzio!» Berciò Khayn. «Sono mesi che mi tormenti con il tuo divagare su essere e dover essere: ne ho abbastanza delle tue idee su cosa devo fare della mia vita.» «La tua vita è la mia. Io e te siamo uno. Io rappresento la tua parte più genuina e schietta: sono ciò che di te non è stato contaminato dall’opprimente educazione dei Si’phir, un modello imperativo e pedante che ti ha piegato a regole vecchie di generazioni. Tu rappresenti ciò che di coercitivo e di penosamente vetusto ancora rimane nella vostra elaborata formazione intellettuale: l’impronta culturale che i padri vogliono lasciare sui figli. Mi fa pena pensare che la mia forza debba soggiacere a paradigmi perdenti e capziosi.» «Dev’essere una forza davvero impressionante la tua, se bastano preconcetti e pregiudizi a fermarla» Khayn serrò le tempie tra le mani sino a provare dolore, strinse i denti e continuò sino a quando l’impertinente voce dell’istinto primordiale svanì lasciando posto a un appagante silenzio. La luna era scomparsa dietro una coltre di nubi, il vento era un ghiotto gigante che stormiva tra le fronde e i ricordi inseguivano l’elfo come lupi, pronti a scatenare a ogni indecisione la voce melliflua e spossante dell’istinto primordiale. * «Ho esaminato i risultati dei tuoi studi e le risposte che hai dato mentre discutevamo» un elfo dalla testa rasata e tatuata sedeva a gambe incrociate davanti al fuoco della tenda. Dalla parte opposta alla sua, una giovane elfa strusciava le dita delle mani, impaziente. «Non è stato facile formulare il
giudizio circa la tua maturità: le tue risposte apparivano ora vaghe ora invece precise, come se la direzione del tuo pensiero non fosse sempre corretta ma emergesse a tratti, come cime di alberi avvolti dalla foschia» l’elfo appiccicò il calumet alle labbra e aspirò con forza. «Non è un caso che ci abbia messo l’intera giornata.» «E quindi?» Chiese la candidata arricciandosi un ciuffo di capelli scuri. «Ecco, questa è una delle cose che più mi dà da pensare.» «Cioè?» «Non hai capito.» «Che cosa non ho capito?» L’anziano lasciò che il silenzio diventasse snervante. «Non hai capito quello che non hai capito.» «Lascia perdere i sofismi, Glewmwn.» L’elfo si lasciò scappare un sorriso. «Ritengo tu sia impaziente.» «Io? Impaziente!» L’elfa alzò il tono della voce, sbigottita. «Non sei pronta. No, non ancora.» L’elfa si quietò e fece un lungo respiro; l’aria nella tenda era intiepidita e insaporita dal fumo. «Bene dunque, e sulla base di quale lunga disamina lo hai dedotto?» Il sorriso beffardo di chi è pronto a una nuova battaglia si dipinse sul volto dell’elfa. «Spiegarti quali sono i principi che i Si’phir e le sedici tribù adottano risulterebbe tedioso e prolisso, credimi» sentenziò l’anziano, convinto che la giovane avrebbe desistito. «Abbiamo cose migliori cui dedicare i nostri sforzi.» Una nuvola di tabacco dalla forma a spirale si allargò ruotando su se stessa. «Avocare la motivazione temporale da parte di un individuo che rasenta l’immortalità ha tutto l’aspetto di una scusa ingiustificabile» la fanciulla non si
mostrò intenzionata a cedere, convinta che l’assalto all’ennesimo rifiuto sarebbe stato anche l’ultimo. «Quando sarai pronta per il pellegrinaggio ad Anchor Seinan, allora capirai anche perché prima non lo eri, Éibhleann.» «Sei un prontuario di filosofia spicciola, Glewmwn. Io sento di essere pronta. Ho studiato la nostra storia, ho studiato la nostra scienza in modo approfondito. Ho già quarant’anni, per quanto ancora dovrò attendere?» La guida dei Si’phir osservò l’elfa. Gli occhi castani di Éibhleann erano battaglieri e il volto le risplendeva del vigore della gioventù. «Hai appena quarant’anni.» «Non prendermi in giro, Glewmwn, il tempo non esiste: conosco la storia del nostro popolo meglio di alcuni adulti e ho una sensibilità scientifica superiore a quella di molti anziani.» «Sensibilità magica.» «Scientifica, Glewmwn, o intendi suggerirmi un’interpretazione alternativa all’evoluzione delle nostre facoltà?» «Gli incantesimi vengono dal mana e il potere di possederli si chiama arte, non scienza.» «Ha poca importanza come la chiami tu, come la chiamo io o come la chiamava Éireamhón. La tua Arte spezza gli intimi legami della materia sempre nel medesimo e ripetibile modo: la magia non è un’opinione, la magia è scientifica.» «Non sei che all’inizio del tragitto che conduce alla conoscenza e la tua claudicante preparazione ne è la dimostrazione. La magia non è certa: il risultato di un incantesimo non è un concatenamento di causa ed effetto ma un dato statistico. E anche la statistica è un’opinione che vacilla sotto la pressione dei dati che usi e di chi la interpreta, e non puoi smentirmi. Per citare Zoe ti direi che parliamo di miracoli, piuttosto che di relazioni ripetibili e dotate di senso. Hai tralasciato le sue lezioni per studiare storia?» Éibhleann serrò le dita sottili. «Non mi interessano le nostre diversità di veduta circa la magia: hai sviato la questione, ora discutiamo di metodo e non di
sostanza.» «Anche questo ti dimostra come tu non sia pronta a una sfida dialettica. Non credo di dover aggiungere altro.» «E invece dovresti: la tua digressione dimostra quanto tu non sia pronto a una sfida dialettica. Tu sei ricorso a stratagemmi linguistici per avere ragione delle mie considerazioni.» Glewmwn sospirò e riassaporò il tabacco. «Non sono io che ho deciso quali sono i criteri per discernere chi è pronto da chi non lo è. E non sono contrario al tuo prematuro pellegrinaggio anche se lo impedisco.» «Non sei tu ad aver definito i criteri ma sei tu ad applicarli il che, in caso di un errore iniziale, errore che comunque ti ostineresti a non rettificare, non ti rende migliore di chi l’ha commesso. Inoltre “prematuro” è una tua personale valutazione.» «Una valutazione fatta applicando le regole. Non capisco cosa sia difficile da capire» sospirò ancora. «E se le regole sono sbagliate non è disapplicandole che si otterranno risultati corretti. Due ingiustizie non danno una giustizia. Due errori non danno una cosa giusta.» Éibhleann trasse un lungo respiro. «Ebbene, Glewmwn, le regole delle quali parli, e che non mi vuoi illustrare, non mi risultano essere condivise.» «Come hai detto?» Glewmwn sussultò. «Vedi? Non mi stupisce che sia tu a non capire quello che voglio dire» Éibhleann si infervorò. «Coloro che formularono le regole che adotti non sono più tra noi. Perché dobbiamo rispettarle? E perché non si ha notizia di coloro che le hanno scritte? Perché devo rispettare le loro regole come fossero mie? Io le contesto.» «Tu fai che cosa?» Il calumet per poco non sfuggì dalle mani dell’elfo. «Le contesto! Voi anziani millantate una condivisione ma a me non è mai stato chiesto nulla. I Si’phir tengono decine di comportamenti illogici che perpetuiamo senza che nessuno di noi abbia mai deciso se è giusto farlo.» «Sbagli Éibhleann, le regole sono condivise» il tono cristallino della voce
dell’elfo venne sbreccato dalle rimostranze della giovane. «Sono condivise quelle regole che vengono sottoposte all’attenzione di tutti e da tutti vengono accettate. Non mi risulta che siano stati seguiti questi aggi per quelle che applichi. Le tue regole erano condivise da chi le ha approvate, soltanto da loro.» Nella tenda della guida di Si’phir scese un gravido silenzio. Glewmwn incrociò le braccia e chiuse gli occhi. Forse l’ho convinto, forse stavolta ce la faccio. Éibhleann parlò soltanto quando l’attesa era diventata insostenibile. «Io voglio andare ad Anchor Seinan. Io voglio conoscere la verità sul meteorite di Ulash Biner. Non voglio aspettare ancora, Glewmwn. Sono pronta. Dici che sbaglio? Lasciami andare, se è come dici comprenderò il mio errore.» Glewmwn riaprì gli occhi; Éibhleann sperava di leggervi rabbia, costernazione o rassegnazione; invece, nei diamanti grezzi dell’anziano vide soltanto una distaccata apatia. «No. Éibhleann, tu non sei pronta. Ti consiglio di tornare ai tuoi studi e di attendere con serenità il prossimo responso. Buonanotte.» * Alywya dondolava la culla sospesa nella tenda quando Éibhleann entrò. «Un altro fallimento?» Interruppe la nenia e abbracciò la sorella, che si mise a piangere sul suo petto gonfio di madre. «Dai, non fare così. Vedrai che presto Glewmwn ti troverà pronta.» Éibhleann singhiozzò e si asciugò le lacrime. «Lui non considera i miei progressi, pensa soltanto che sono giovane. Ritiene che quarantuno anni siano pochi per lasciare la tribù e andare ad Anchor Seinan. Lo odio sorellina, lo odio.» «Non dirlo nemmeno per scherzo» Alywya si fece seria. «Se dovessi odiare io tutti quelli che hanno qualcosa contro di me, metà dei Si’phir domattina non si sveglierebbe.» «Dorme?» Éibhleann guardò nella culla, un guscio di vimini foderato da cuscini di lana.
«No. Guardala: non è un amore?» Gli occhi di Alywya si fissarono sulla figlia, fuggendo dalla realtà. «È tutta Gwyllywm» il viso rubicondo e tondo della bimba non aveva nulla in comune con quello del padre; gli occhi erano sgranati e sorridenti, le orecchie puntute lo erano più del normale e la bocca era un minuscolo bocciolo di rosa. «Speriamo che non sia così, altrimenti scapperà abbandonando tutti coloro che la amano.» «Questa potevi risparmiartela» Alywya liquidò la frecciatina della sorella con un sorriso dolce verso la figlia. «Mi spieghi perché non ti arrabbi mai?» «Perché sono una madre e se mi arrabbio Téide percepirebbe la mia inquietudine» fece cenno alla sorella di abbassare la voce e carezzò con la mano il ventre della bimba, suscitandole una risata argentina. «No, la verità è che tu sei sempre stata più posata di me» si rassegnò la giovane elfa. «Tu hai fatto il pellegrinaggio a trentacinque anni.» «Un tempo eravamo maturi prima, c’erano meno cose da apprendere. Ora i giovani pensano più a loro stessi che alla tribù, e questo è un errore.» «E tu dici che anch’io sono tra quelle che sbagliano?» Alywya continuò ad ammirare la figlia, infagottata in una tutina azzurra di un tessuto che sarebbe cresciuto con lei. «Sei impulsiva Éibhleann, e le persone impulsive sbagliano spesso strada.» Éibhleann si avvicinò alla sorella, lo sguardo indagatore. «Non mi risulta che mio cognato Gwyllywm sia l’elfo più prudente di Si’phir.» «Ti ostini a parlare male di lui? Il cuore non guarda con gli stessi occhi della mente. Il cuore percepisce ciò che sfugge agli altri sensi. Se non avessimo un cuore, saremmo come le armature degli antichi o come le macchine da calcolo che le hanno forgiate.» «Le macchine da calcolo? Non è la prima volta che le sento nominare, ma non riesco a immaginarle: come sono?»
«Lo saprai quando arriverai ad Anchor Seinan. Ora limitati a sapere che sono esistite, che le abbiamo sfruttate sino al punto in cui non potevamo farne a meno e che adesso fanno la polvere.» Téide allungò le braccia e cercò di afferrare la madre, che subito si chinò per prenderla in braccio. «Guardala, non è incredibile come ci si senta inermi a stringere un esserino così indifeso?» Éibhleann si avvicinò alla sorella. «Hai visto Téide? Questa è la zia. La zia: se cresci in fretta riuscirai ad andare in pellegrinaggio ad Anchor Seinan prima di lei.» L’infante fece un largo sorriso ed emise una squillante vocale. «È un colpo basso» Éibhleann tambureggiò sul ventre della piccola. «È incredibile la vita, non trovi?» Commentò orgogliosa della nipotina. «Se i maschi sentissero crescere i figli nel loro ventre capirebbero quanto sia sbagliato combattere e uccidere» replicò Alywya. «Sarebbero più dolci, più comprensivi. Certo, ecco la soluzione» eruppe Éibhleann. «La soluzione? Ma di cosa stai parlando?» «La soluzione per ammansire Glewmwn: devo metterlo incinto!» Alywya si mise a ridere. «Idea ingegnosa, ma temo che Cadhla non te lo lascerebbe fare.» «Ma te lo immagini Glewmwn con il pancione?» Le sorelle presero a ridere una sull’altra, poi Éibhleann ritrovò un momento di serietà e si congedò. Quando uscì dalla tenda, una sagoma sbucò della foresta e la fanciulla l’avvicinò, illuminandosi in volto. «Buonasera Khayn, come stai?» «Buonasera Éibhleann, i tuoi occhi vibrano come le stelle che indicano il nord. È dunque giunto il grande giorno?» La fanciulla si rattristò e l’elfo si incupì. «Ti chiedo scusa, immagino che non ti vada di parlarne. Perdona la mia invadenza.» «Glewmwn non vede che sono pronta.»
«Glewmwn non vede molte cose» sussurrò lui, di rimando. «Ecco, non sono l’unica a pensarlo!» Éibhleann esplose di felicità ma Khayn si guardò intorno, sospettoso. «Può essere come tu dici, ma io lo terrei per me: gli elfi non sono esenti da invidie e antipatie.» Éibhleann controllò a sua volta, ma non vide nessuno. «Ti va di chiacchierare?» «Se vuoi una spalla su cui piangere sono qui, se vuoi un petto da prendere a pugni sono qui, se hai bisogno di orecchie amiche che sappiano ascoltare allora sì, mi va di chiacchierare.» L’elfa si quietò, prese il guerriero a braccetto e si avviò lontano dalle tende. * «È concesso?» Khayn scostò la tenda sulla porta della capanna di Alywya. «Buonasera, qual buon vento ti porta?» La voce dell’elfa e il suo sorriso lenirono i cupi pensieri di Khayn come una dolce medicina. «Come sta Téide?» Il fuoco diffondeva un tiepido calore e una tenue luminescenza. «Lei sta bene» l’elfa fece cenno di abbassare la voce indicando la culla sospesa al soffitto. «E tu invece?» Sussurrò lui accomodandosi sopra le stuoie dai colori sgargianti disposte attorno alle braci. «Non sono mai stata meglio» Alywya aveva recuperato i postumi del parto grazie agli incantesimi curativi delle nutrici. «Nascondere la verità non ti sarà d’aiuto. Sai benissimo che Téide ha bisogno di un padre» Khayn intrecciò le dita, intimorito dalla bellezza della donna che amava. «Certo che lo so, ma Téide ha già un padre.»
«Lui non tornerà» non pronunciò il nome del rivale per disprezzo. «Lui, come dici tu, ha un nome. E tornerà. Gwyllywm tornerà, puoi starne certo.» «Sei più cocciuta di Glewmwn: lui vi ha raggirato tutti e due.» «Percepisco invidia nelle tue parole.» «A lui è stato concesso di violare ogni regola senza subirne le conseguenze» Khayn strinse i pugni per contenere la collera. «O lui deve essere punito oppure anche agli altri deve essere concesso ciò che a lui fu consentito: voglio soltanto equità, niente altro, è così meschino ciò che provo? È deplorevole prodursi affinché venga ripristinata l’uguaglianza?» Alywya gli prese la mani. «Non lo è, Khayn, perdonami. Non sono nello stato migliore per discutere di filosofia, devi perdonarmi.» «Sei una spiaggia che non ha perduto un solo granello della sua bellezza» Khayn ammirò il volto di Alywya e i riccioli che le ricadevano sulle spalle, «e i tuoi occhi sono il mare che non ha smarrito una sola onda. Io desidero soltanto essere l’orizzonte che ti abbraccia: perché vedi del male in tutto questo?» L’elfa arrossì e abbassò lo sguardo. «Sei sempre stato dolce con me, ma Téide non ha bisogno di un padre che non sia Gwyllywm. E io non abbisogno di un altro compagno. Ci sono fanciulle più belle di me e più gentili di quanto io sia. Io le ho conosciute, e molte di esse sospirano indispettite e invidiose quando vedono come guardi me e come invece non degni loro delle attenzioni che meriterebbero. Il mio cuore non ti appartiene, Khayn, non insistere» l’elfa volse la testa altrove. «Tu sei un elfo capace di grande amore, dedicalo a qualcuna che desideri accettarlo, non a me che sono già madre.» Khayn non esitò a piccarla, rivelando tutto il disprezzo che provava per Gwyllywm. «Ricordi cosa accadde a Moad? Erwmysh suo marito era un elfo oscuro e pur di condurre alle tenebre i loro figli non ha esitato a ucciderla per il suo estremo rifiuto.» «Non si ripeterà la medesima disgrazia: io non sono come Moad, tu non sei come Gwayn e Gwyllywm non è come suo padre. Egli tornerà, ne sono sicura, e crescerà Téide nella luce. Tornerà, come tornano le comete che spezzano il cielo
e generano nuove speranze. Perché vuoi convincermi del contrario? Se il tuo amore è davvero tanto incontaminato e sincero, perché ti ostini a non vedere cos’è meglio per me?» Fu la stilettata che squarciò le ultime speranze del giovane elfo, lasciandolo ammutolito, inerme, sconfitto. Téide si mise a frignare e offrì a Khayn l’occasione di ritirarsi senza troppo disonore. «Hai ragione Alywya, tornerà come una cometa e brillerà di una luce che ci lascerà tutti senza parole. Quel giorno, quando scoprirete di esservi sbagliati e mi chiederete aiuto, non ve ne darò» sospirò uscendo. Non eri un eroe da imitare Gwayn figlio di Zoe, eri un monito.
Avete il compito di organizzare le ore di lavoro e le mansioni dei vostri sudditi. Avete il diritto di emanare leggi, purché non siano in conflitto con quelle stabilite dal Senato, e dovrete farle rispettare decidendo sui contenziosi tra i vostri sudditi: ricordate che siete una guida per loro, ricordate che dovrete rendere loro giustizia, i torti non devono essere ignorati ma vanno sanati poiché coloro che vi obbediscono continueranno a farlo soltanto se chi non lo fa verrà punito. Il perdono è il più nobile dei sentimenti ma non si addice a coloro che governano: i vostri sudditi possono perdonare chi recherà loro danno ma pretenderanno che voi lo condanniate. Dei feudatari – Aaron da Glenduarel
XXIX – Morte a Brora
«Il signore è appena partito per Halkirk» Oddone fece un inchino. Dentro il salone l’aria era appesantita dal fumo del camino che bruciava legna con gran lena. Amber stava alla bifora e guardava il marito, che scompariva nella foresta assieme a David. Il cielo, cupo e basso, gorgogliava all’orizzonte e il Vaenert non concedeva tregua da giorni. «La strega è a Brora?» «Dovrebbe essere in casa, forse pianifica altri inganni. È sconveniente chiedere che cosa avete scoperto ieri, mia signora?» Oddone vide Amber irrigidirsi e il silenzio che seguì la sua domanda confermò come fosse giunto il momento di accelerare l’ardito tradimento. «Quella strega vi ha forse procurato dolore o recato un danno?» Amber singhiozzò e pulì il voltò nella manica azzurre della cioppa dimidiata, rossa e verde. «Diciamo che ha fatto entrambe le cose; e che intende fare un furto ai miei danni.» Oddone strinse le labbra. «Siete sicura di quello che dite?» «Sì, e parte di questo furto, è già avvenuta.»
Oddone giunse le mani e gli occhi si accesero di una perfida luce. «In questo caso me ne posso occupare io, mia signora. Il crimine di cui si è macchiata la strega sembra molto grave.» «Cosa intendi fare?» «Intendo punirla come si conviene a chi attenta alla serenità e al patrimonio dei miei signori» disse con il tono di uno scolaretto che ria la lezione: «come un traditore, come un brigante, come un invasore.» «Dev’essere una punizione dura.» «Sarà esemplare.» Amber si allontanò dalla bifora e andò a consolarsi con il calore del camino. «Procedi e fai alla svelta, quando tornerà mio marito dovrà essere tutto finito.» «Sarà fatto» Oddone si congedò con un inchino, uscì dal mastio e scese dalla motta incrociando Jeff, che lo attendeva appoggiato al muro della sua casa; il vento del Nord gli scompigliò i capelli ma era troppo preso dal gusto della vendetta per fare caso al gelo che gli raschiava la pelle e che gli si insinuava negli abiti. «La signora ha deciso?» Domandò il capitano delle guardie, un cane che attendeva l’osso dalla mensa del padrone. «La signora si è comportata come previsto.» «È un peccato» disse Jeff con voce affilata: «Emirith era una bella donna.» Il siniscalco si fermò e tirò il capitano delle guardie per un braccio. «Quale spregevole richiesta stai serbando?» «Mi conosci bene» Jeff il guercio si umettò le labbra e fissò Oddone, con un occhio solo. «Posso divertirmi un po’ con la strega?» «Cosa intendi fare?» Oddone conosceva la risposta ma voleva che il favore fosse palesato. «Insomma, non ho una donna e sono stufo di usare le capre.»
Oddone allontanò il capitano delle guardie e si pulì le mani nella veste. «Ma che schifo, stammi lontano.» «Allora, posso?» Lo sguardo sghembo di Jeff vibrava. «Deve essere imbavagliata, incappucciata e portata sulla forca che farò preparare a Gowden: non voglio sapere cosa farai, ma devi farlo alla svelta.» Jeff ringraziò, sogghignò soddisfatto e corse alla capanna di Emirith, presso il barbacane di legno che proteggeva l’ingresso di Brora; trovò la porta socchiusa ed entrò con calma nella penombra. Emirith stava armeggiando su un paiolo al centro della stanza e guardò con disprezzo il capitano delle guardie. «Chi ti ha dato il permesso di entrare? Esci immediatamente o quando tornerà il tuo signore ti farò scorticare dalla frusta!» Jeff si catapultò addosso alla donna, la picchiò in capo e la fece cadere a terra. «Non ho dubbi che il nostro signore ti darebbe ascolto. Non sei uscita per fottere con lui?» La colpì con un calcio sul ventre. «Cosa dici, lurida cagna, non sei uscita a fottere?» Le diede altri calci, con quanta forza aveva. Si abbassò, arrotolò il sacco con il quale doveva incappucciarla e, dopo averla battuta con questo, legò le mani della donna dietro la schiena e la imbavagliò con uno dei sudici stracci che asciugavano davanti al camino. L’odore delle erbe ipnotiche che ribollivano nel calderone mischiavano dolore a piacere e rendevano la capanna accogliente come la lussuosa dimora di un mercante. «Sarebbe un peccato impiccare una donna come te senza averle recato un po’ di piacere, non credi?» Jeff gettò Emirith contro il tavolo, le piegò la schiena e la picchiò sino a quando non smise di dimenarsi. «Ti piace fottere, non è così?» Ringhiò mentre le alzava la cioppa di fustagno. «Provvederò io, così non ti sentirai trascurata» le strappò l’interula e le divaricò le gambe. «Volevi farmi scorticare dalla frusta? Non sarò io quello che chiederà pietà» si slacciò le brache, si coricò sulla donna e prestò fede alle minacce. * La poveraglia di Brora si era radunata al crocicchio del pozzo, dove il giovane Gowden stava allestendo uno squallido patibolo. I contadini discutevano
cercando di capire chi avesse oltraggiato i nuovi signori al punto di essere condannato alla forca: quando il ragazzo ebbe terminato con il cappio, fece per allontanarsi ma i villici lo circondarono e lo seppellirono con le domande. «Non so niente, non so assolutamente niente. Andate via» quando Gowden mise mano all’impugnatura della spada, la poveraglia si disperse. «So soltanto che non sono io e non voglio averci nulla a che fare» nel tornare verso il barbacane si fermò accanto alla capanna di Emirith. Attese qualche istante, raggiunse la scala a fianco del portone d’ingresso e salì sulla torre di legno. I contadini attesero mormorando finché le donne, impaurite, presero i figli e rientrarono nelle case. Scese un silenzio cupo e irreale che si spezzò quando qualcuno indicò il capitano delle guardie, appena uscito dalla casa a fianco del barbacane; Jeff trascinava per i piedi il corpo di Emirith, che si dimenava inutilmente. «Via di qui, via, levatevi di mezzo, è un ordine della signora» ringhiò il capitano quando i villici gli andarono incontro. «Volete che faccia arrestare anche voi, volete subire la stessa sorte?» Dopo la minaccia i contadini si ricongiunsero alle famiglie e sbarrarono le porte delle case. Feccia. Schifosi vigliacchi. Ammazziamo una donna inerme e voi chinate il capo e scappate. Meritereste la morte, tutti quanti, Jeff schiantò Emirith contro la quercia cui era stata attaccata la corda e la fece salire prima su una cassa e quindi sulla botte che era stata sistemata sotto un ramo abbastanza resistente; sputò in terra, palpeggiò per l’ultima volta la donna, che mandò un verso da sotto il cappuccio, e le strinse il cappio al collo. «Addio puttana. È stato divertente» le sussurrò all’orecchio prima di scendere dalla cassa e spostare la botte con un calcio. * Il tramonto era prossimo quando Hulbert e David entrarono a Brora. Quando il giovane feudatario vide il corpo incappucciato penzolare dall’albero fu scosso da un brivido. Sceso dal cavallo, lo affidò al giovane palafreniere, l’unico rimasto nella piazza. «Cosa è successo, chi è?» Gli domandò cupo. «Non so niente. Non c’ero. Lo giuro» il ragazzino dai capelli rossi prese i cavalli e scappò verso la scuderia, senza voltarsi.
Hulbert si fece aiutare da David per tirar giù dalla forca la donna, la depose sull’erba sotto la quercia e le unì le braccia al petto, tremando. Shana, Dea Madre, fa che non sia lei, con le mani che tremavano sollevò il cappuccio. Rimase immobile mentre contemplava il volto gonfiato dalle botte e sfigurato dalla morte, poi le forze lo abbandonarono e si lasciò rotolare sull’erba, trattenendo le lacrime. «Mio signore, va tutto bene?» David fece per aiutarlo ma Hulbert scostò la mano, fece da solo e prese a pugni la quercia. Ragiona, ragiona. Appoggiò la testa al tronco rugoso, singhiozzò e tirò su col naso, poi cercò di comportarsi come un nobile e non come un diciassettenne preso a ceffoni. «Prendi Gowden e una pala, e andate a seppellirla nel bosco.» David si fece pallido, guardò la donna e quindi il suo signore, poi la foresta. «Mio signore, sta giungendo la notte, ci sono i lupi e...» «Prendi Gowden e una pala, e seppellitela sotto una quercia» scandì le parole, con gli occhi arrossati e lucidi. David annuì e si avviò verso il barbacane. E adesso cerchiamo di capire cosa è accaduto, Hulbert si avviò al mastio, avvolto dall’ululato impetuoso e gelido del Vaenert, e trovò riparo nel tepore del salone, dove il fuoco scoppiettava nel camino e Julia sparecchiava; la cameriera sussultò non appena lo vide e rischiò di rompere i piatti che reggeva. «Mio signore, bentornato» Julia balbettò, lasciò i piatti sul tavolo e fece un profondo inchino. «Perché sei spaventata?» «Non sono spaventata, mio signore» rispose tremando. «Mia moglie dov’è?» Domandò Hulbert con voce strozzata. «Lady Amber è nei vostri appartamenti, mio signore: ha già cenato. Farò preparare a mia madre qualcosa anche per voi.» Hulbert annuì, si diresse alla scala a chiocciola, salì al piano di sopra ed entrò in camera.
«Bentornato» Amber stava seduta sul letto e salutò il marito a denti stretti, senza interrompere la lettura del grimorio. «C’è freddo» Hulbert chiuse la porta, che cigolò. Amber lo guardò con un sorriso falso e ravvivò il fuoco nel camino con un cenno della mano. «Vedo che puoi usare di nuovo la magia» Hulbert deglutì e si avvicinò al letto con cautela. «Pare che la rabbia produca miracoli» Amber non guardò il marito e voltò la pagina del grimorio. Hulbert fu inondato dal calore del fuoco e scosso da rabbrividì. Guardò il letto e vide che la sua parte era stata rifatta e coperta di cuscini; i bracieri erano stati sistemati tutti dalla parte di Amber e relegavano la zona attigua alla porta entro tenebre fredde e torbide; Hulbert cercò le proprie cose e vide gli abiti accatastati sul grosso forziere dove teneva l’armatura e le armi magiche. «Amber... che cosa è accaduto?» Si appoggiò al letto. «Emirith è stata giustiziata» Amber alzò la testa e lo fissò come se quelle parole appartenessero a una sentenza pronunciata contro di lui. «Sì, questo l’ho visto. E ho visto anche che lo spettacolo ha gettato i contadini nel panico. David ha suonato il corno ma quando sono rientrato sembrava che il villaggio fosse sotto assedio. Le case avevano porte e finestre sbarrate, persino il maniscalco non era al lavoro.» «Vedo che ti dispiace che sia morta: preferivi che fossi morta io al suo posto?» Hulbert si sentì mancare e la sua voce vacillò. «Amber, non capisco cosa stai dicendo.» «D’accordo, fingiamo ancora.» Amber fissò il marito, disgustata. «Emirith è stata sorpresa nel commettere un furto ai miei danni ed è stata punita come si conviene per un crimine di quella entità.» «E da quando chi commette un furto viene impiccato?» Hulbert mosse le mani in
modo goffo e scoordinato, la voce gli tremò. «Cosa avrebbe rubato poi? E chi è che l’ha accusata?» Amber si alzò e, nonostante fosse molto più bassa di Hulbert, la sua figura giganteggiò e lo intimidì al punto da farlo arretrare verso la porta, invischiato nell’ombra proiettata dai bracieri. «Emirith mi ha rubato te. E sono stata io a coglierla sul fatto» la voce di Amber tremava e tratteneva a stento la rabbia. Hulbert sbiancò e arretrò ancora, poi Amber esplose in un pianto doloroso. «Godevi tra le cosce di quella puttana, vi ho visto, in quella fattoria che dovevi regalarle! Era quello il prezzo?» La frase le uscì spezzata dal pianto, poi la rabbia la ricompose. «Era quello il prezzo che hai pagato per una scopata?» «Amber, io...» «Fuori di qui, schifoso» il bacile e l’acquamanile poggiati al treppiede di bronzo fluttuarono nell’aria, vennero catapultati verso Hulbert ma si schiantarono con un suono metallico contro la parete. «Lasciami spiegare» evitati i proiettili, il signore di Brora cercò un’inutile mediazione. Una sfera di fuoco nacque tra le mani di Amber, vorticò e si ingigantì nutrendosi di rabbia e vendetta. «Ti ammazzo» la voce di Amber fu un suono isterico e altri oggetti contundenti si alzarono in volo proiettando ombre spropositate e vorticanti. Hulbert raggiunse la porta e uscì un istante prima che le suppellettili lo colpissero e che il fuoco sfuggisse al controllo della moglie. * La luna giocava a rimpiattino con il vento, occhieggiando tra le nubi. Un’ombra ò a bussare ad alcune porte e altre quattro le si unirono, generando una losca processione diretta verso il mastio; prima di giungere al barbacane ai piedi della motta, le cinque figure entrarono in casa di Oddone dopo aver bussato tre volte. Dentro, il camino divorava grossi ceppi e illuminava la grande stanza. «Benvenuti a tutti» Oddone aveva preparato sulla tavola dei boccali di peltro e una brocca. «Per l’occasione ho preso il vino migliore» riempì i boccali e invitò gli uomini a sedersi non appena il capitano sprangò la porta.
Valiant si sedette e parlò per primo. «Perché ci hai convocati?» Jeff andò a sedere a fianco di Valiant e anche le altre guardie presero posto. «Noi non c’entriamo con quello che è successo a Emirith, abbiamo soltanto obbedito ai tuoi ordini» si affrettò a giustificarsi Gowden, prima di scostarsi dagli altri, inquieto. «Lo so bene» Oddone lo rinfrancò con l’espressione più paterna del suo repertorio di vissuto mentitore, «abbiamo tutti obbedito agli ordini e, se siamo qui, è per evitare di dover commettere ancora atti tanto spiacevoli.» «La vecchia signora non mi era mai piaciuta, però ucciderla così...» David bevve per primo dal calice, affogando la frase in una bella sorsata. «Sono d’accordo, dobbiamo impedire che atti di questo genere si ripetano, per questo ho convocato voi, che siete i soli a brandire armi» Oddone bevve a sua volta. «Spiegati» Valiant estrasse il coltello e giocherellò con il suo nasone riflesso nella lama. «Quello che è successo a Emirith, potrà accadere anche a noi. Domani? Dopodomani? Chi può dirlo?» Oddone attizzò un moto di paura. «Ma Emirith avrà fatto qualcosa per essere giustiziata» a Valiant sfuggì il coltello, che cadde sul pavimento. «Certamente, e io stesso ho avuto il penoso compito di scrivere la sentenza» sospirò il siniscalco. «Vedete, Emirith ha attentato alla salute della signora e tramato contro di lei.» «Ma cosa ha fatto di preciso?» Chiese Gowden. «Non ne ho idea» mentì il siniscalco. «Ma hai detto di aver scritto la sentenza» si preoccupò Valiant. «Certo, ma si accennava a un vago furto subito dalla signora. Ascoltatemi tutti bene» alzò l’indice e lo fece vibrare, «è proprio per questo che siamo tutti in
pericolo. Se domani la signora si svegliasse e si convincesse che tu le rechi fastidio» indicò David, «mi ritroverò a compilare una seconda condanna a morte. Oppure potrebbe essere Jasmine a risultarle antipatica, o quella pettegola di Julia potrebbe dire una parola di troppo o macchiarle la veste con la zuppa, mentre serve a tavola.» «Ho moglie e due figli, non posso vivere con il terrore che la signora si inventi delle punizioni per riempire la sua giornata» Valiant prese a disperarsi con Mattion, seduto accanto a lui. «Ma non possiamo fare nulla?» Jeff approfittò della situazione per reggere il gioco a Oddone. «Tu sei sempre stato prodigo di consigli e generoso con noi. Non hai un’idea?» «No, io...» Oddone si alzò e prese a camminare in cerchio, fingendo di pensare. «Un modo ci sarebbe.» Valiant si eccitò e mise a tacere gli altri con il suo vocione. «Parla, che aspetti.» «Dicevo che c’è una possibilità, ma dovremmo essere tutti molto uniti nel perseguirla.» «Lo saremo, non farti pregare» Valiant diede un pugno al tavolo e lo fece tremare. «Vedete, è giunta notizia che Aaron da Glenduarel sia stato ucciso da un sicario, e che la stessa sorte sia toccata ai feudatari a lui più fedeli. Io non ho idea se questo assassino erà da Brora ma se lo farà, è probabile che non farà male alla signora, perché le mogli sono state risparmiate. In ogni modo, se con questo assassino libero di agire dovesse accadere una disgrazia, nessuno dei futuri signori inviati dal Re si sincererà di cosa è accaduto.» «Suggerisci di ucciderli?» Domandò Gowden, preoccupato. «Disgrazie, accadranno delle disgrazie» precisò il siniscalco. «Siamo pochi e fedeli gli uni agli altri. Dovranno sembrare incidenti per ingannare anche i contadini e le loro famiglie. Tutti noi dovremmo agire sotto il giuramento di non rivelare mai quanto accadrà. Mi è venuta un’idea su come agire» sogghignò e illustrò nei dettagli il piano che aveva macchinato.
* Un sole pallido rosseggiava all’orizzonte e si trascinava come un ferito prossimo alla morte. Oddone entrò nel mastio di Brora di soppiatto, varcò le sargie rosse entrando nel salone buio e si diresse al camino, dove trovò Hulbert sdraiato sotto a una coperta. «Mio signore, va tutto bene?» La voce viscida di Oddone svegliò Hulbert che biascicò qualcosa, poi si alzò, intontito dalla brutta dormita. «Come mai dormite quaggiù?» «Lascia perdere, sono accadute cose spiacevoli. Ed è mia la colpa» il giovane gettò un ceppo nel camino, sedette al tavolo e vi appoggiò la fronte, logorato dai ricordi. «Signore, Jeff, Valiant e Gowden conoscono una zona ben frequentata dalla selvaggina e pensavano di andarli a cacciare: potreste unirvi a loro per distrarvi da questi incresciosi problemi.» Hulbert agitò la mano in un blando rifiuto, poi picchiò la testa contro il tavolo. «Non è rifuggendo i problemi che li risolverò.» «Avete ragione, ma si ripara un castello dopo che gli assedianti hanno levato le tende, non mentre i trabucchi colpiscono» continuò Oddone. «Nella foresta vivono bei cervi con i quali potrete banchettare questa sera» Hulbert strinse la fronte nelle mani, lo sguardo assente. «Andate, mio signore. Darò disposizioni affinché la signora non manchi di nulla e le dirò che vi ho convinto a distrarvi per dimenticare le tristi vicende che vi affliggono. Per un feudatario del vostro rango non è grave commettere errori, sarebbe grave non riconoscerli o vivere nella paura di commetterli di nuovo.» Hulbert afferrò il piatto dove aveva cenato e finì un pezzo di carne avanzata. «Sarebbe una buona occasione per tenersi in forma e per distrarsi» il siniscalco tornò alla carica. «I ragazzi sono pronti a partire ma l’aspetteranno volentieri.» Hulbert bevve un sorso di vino dalla caraffa. «Ringraziali ma non andrò» disse pulendosi la bocca con la veste. «Devo parlare con mia moglie.» Oddone unì le braccia dietro la schiena, poi si strinse un gomito sino a farsi male
e improvvisò un sorriso. «Come comandate, mio signore» si congedò con un inchino e uscì dal mastio sbattendo la porta. Scese dalla motta rimuginando maledizioni e raggiunse il capitano delle guardie con i due soldati che avrebbero dovuto tradire, acculattati sulla panchina di legno davanti alla propria abitazione. «Hai convinto il signore?» Jeff sputò in terra e si alzò. «Silenzio» ringhiò Oddone, «quel pazzo vuole parlare con la moglie. Il piano deve essere rivisto.» «Rivisto? Sono d’accordo» Valiant balzò in piedi, ringalluzzito: «io non voglio far parte del gruppo di cacciatori, ho il compito più pericoloso.» «È il più rischioso perché sei il più forte tra tutti» Oddone alzò il braccio e lo puntò sul petto della guardia barbuta «sei una spanna più basso del signore, sei l’unico che può rivaleggiare con lui.» «Sono d’accordo anch’io: rivediamo i piani» Gowden si mostrò sollevato per l’imprevisto. «Che hai tu, sei contento che non si agisca? Sei un codardo» lo riprese Jeff. «Ti sbagli, non sono un codardo» Gowden si avvicinò al capitano delle guardie ma prima che i due si fronteggiassero, uno scoppio proveniente dal mastio calamitò l’attenzione di tutti. Le assi che chiudevano la bifora della camera dei signori furono scaraventate oltre il recinto della motta da un getto di fuoco; le fiamme che scaturirono dalla stanza risucchiarono le sargie rosse, che presero a svolazzare con le estremità fumanti. Dopo quell’attimo di delirio tornò il silenzio dell’alba ma né il siniscalco né le guardie si azzardarono a muovere un muscolo, pietrificati dallo stupore e con i peli ritti per la paura. Dopo il primo terrore per l’accaduto, il siniscalco provò un rigurgito di speranza. «La mediazione parrebbe fallita» sussurrò Oddone. «Forse posso parlare al padrone» si avviò con o lesto verso il mastio ma si fermò quando comparve Hulbert, che prese a scendere. «Verrò a caccia con voi» disse il signore di Brora quando fu abbastanza vicino ai soldati, «fate sellare Argento e preparate una spada e un arco.»
* La foresta era un intrico di rami di conifere piegate dalla neve e di scheletri umidi di latifoglie; un sottobosco putrido e malsano sembrava non aver mai visto la luce del sole e si aggrovigliava alle radici contorte come una penosa malattia. Il sentiero era libero dai rovi e dai cespugli e, tra le chiazze della neve, si intravvedeva il tappeto di aghi scuri e foglie decomposte. Hulbert guardò le sagome degli alberi malconci, i biancospini ricoperti di musco e neve e il sole che si era impaludato dietro nubi marmorine. «Siete sicuri che i cervi si nascondono qui?» «È la zona che preferiscono, sono ghiotti di muschio» rispose Valiant, «ora ci avvicineremo a una gola e da lì eremo alla radura dove vanno a pascolare.» Il gruppo rimase in silenzio finché il fragore dell’acqua del torrente non giunse dal burrone; erano il luogo e il momento previsti per l’omicidio. «Ci siamo quasi, ora sarebbe meglio proseguire a piedi: saremo più silenziosi» Jeff smontò per primo, alle spalle di tutti, prese l’arco e una freccia e colpì Hulbert alla spalla sinistra. Il signore di Brora gridò e cadde in ginocchio. Traditori. Hulbert si rialzò e afferrò la spada legata alla sella di Argento, facendosi scudo con il corpo della bestia. Jeff scagliò una seconda freccia ma questa colpì di striscio il cavallo, che si impennò, fece cadere il suo padrone e la spada, e scappò lungo il fetido sentiero che costeggiava la gola. Hulbert ruzzolò a terra e gridò quando la freccia si spezzò, allargando la ferita; riuscì ad allungarsi verso la spada, ad afferrarla e a nascondersi dietro il lurido tronco di una quercia caduta prima che Jeff potesse scagliarne una terza. «Ammazzatelo, che aspettate?» Berciò il capitano delle guardie quando vide che i suoi uomini non si erano mossi. Valiant si fece coraggio, prese la spada, aggirò il tronco orizzontale dalla parte delle radici divelte, balzò oltre un cespuglio scheletrico e si fermò davanti a
Hulbert, sdraiato con la schiena appoggiata al tronco. «Che aspetti, attaccalo» Gowden sbucò dall’intrico di rami contorti e infradiciati dalla neve, bloccando a Hulbert la via di fuga opposta a Valiant. «Ho moglie e due figli, attacca tu per primo» rimbrottò Valiant assumendo una posa difensiva e goffa. «Attaccate, codardi. Attaccate!» La voce di Jeff coprì il rombo del torrente che ruggiva nella gola e spinse Gowden a rompere gli indugi: il giovane si avvicinò al signore di Brora facendo i piccoli e puntando la spada davanti a sé, brandendola come fosse una lancia. «Non è tardi per ravvedervi» Hulbert teneva la spada con la punta appoggiata a terra. «Attaccate, dannazione» le urla di Jeff info coraggio alle due guardie. Il signore di Brora tossì un grumo di sangue e finse un cedimento, Gowden scattò in avanti e cercò un affondo; Hulbert scattò verso di lui, serrò la mano sull’impugnatura di cuoio della spada e la alzò tranciando la gamba sinistra del soldato, all’altezza del ginocchio: il sangue schizzò come vino da un orcio caduto e l’urlo di Gowden fece rabbrividire Jeff e immobilizzò Valiant. Gowden ricadde addosso a Hulbert, tremando e gridando ma il signore di Brora lo spinse a terra e gli conficcò la spada all’altezza del cuore, affondandola con il suo peso finché il grido di Gowden non si spense in un gorgoglio. «Vuoi fare la stessa fine?» Tuonò Hulbert verso il secondo traditore, ansimando per la fatica di combattere ferito. Recuperò la spada, lasciando scorrere la punta insanguinata sul cadavere. «È questo che vuoi? Crepare come un lurido traditore?» Valiant gridò e si gettò contro il suo signore, sfiorandolo con il fendente; Hulbert si scostò dal tronco, sollevò la spada e reagì con un montante che la guardia parò a fatica, indietreggiando. Jeff aveva preparato una freccia e attendeva che Hulbert sbucasse dall’intrico di tronchi e rami che rendevano velleitario qualsiasi tiro. Aveva sentito il clangore delle spade ma la sagoma di Hulbert rimaneva ben coperta a destra di Valiant, oltre i ripari. Quando Valiant indietreggiò di un altro o, dopo uno scambio di
colpi rumorosi ma inutili, la figura del signore di Brora spuntò sopra la linea della corteccia della quercia caduta: Jeff tese la corda di budello e la rilasciò prima che la mano gli raggiungesse il volto. La freccia colpì un ramoscello ma raggiunse Hulbert alla nuca, lacerando l’orecchio sinistro: il Signore di Brora si inginocchiò e portò la mano alla ferita; strinse i denti e gli parve che la foresta fosse stata risucchiata in un silenzio inviolabile. Guardò avanti a sé e vide Valiant che lo incalzava, rincuorato e ingannato dalla freccia che l’aveva colpito soltanto di striscio; si rialzò e percepì l’afrore e la paura della guardia nonostante gli odori marcescenti dell’inverno inoltrato. Valiant attaccò terrorizzato: tentò un fendente che mancò pietosamente il bersaglio, si sbilanciò in avanti e a Hulbert bastò assecondarne il movimento per raggiungerlo con un colpo che gli squarciò il ventre. Valiant morì con gli occhi sbarrati nel vuoto e l’ultimo pensiero che vagava alla ricerca della moglie e dei figli; il corpo cadde su un grumo di grossi cespugli che sostennero il cadavere mentre l’intestino inzuppava una macchia di neve. Hulbert si lasciò scivolare a terra per trovare nuova copertura dietro il gigantesco tronco. Jeff prese una freccia dalla faretra e l’incoccò, tenne l’arco pronto ma non lo tese e si spostò per aggirare il tronco e trovare un bersaglio facile. Nasconditi pure, non c’è fretta: vengo a prenderti io. * Brora è ammantata da una luce fredda e incolore. Esco dal mastio senza scorta, nonostante Oddone abbia insistito sino a farmi venire la nausea. Il Vaenert concede una tregua ma l’aria sembra carica di pioggia. Mi dirigo verso la casa della strega, accanto al barbacane, e mentre sfilo tra le case, le donne mi guardano con disprezzo, non incrociano il mio sguardo e credo sia la paura che le spinge a fare profondi inchini e a raccogliere i figli alle loro gonne; il maniscalco smette di battere non appena mi vede e ricomincia quando le capanne mi sottraggono alla sua vista. Cammino in gelida solitudine sino alla baracca dove abitava Emirith. È una casa dal muro alto meno di un metro, circolare, e pali di legno sorreggono la paglia e gli sterpi del tetto, privo di camino; la porta è fatta di assi incrociate e si regge su cardini malsani che cigolano non appena la spingo. Dentro l’unica
stanza è rimasto un vago tepore; le cose della strega sono sparpagliate ovunque e dalle seggiole a terra e dal tavolo sghembo capisco che deve aver lottato prima che i soldati la prendessero. L’idea che possa essere successo qualcos’altro mi fa prima rabbrividire e poi sorridere: se l’hanno presa con la forza era quello che si meritava. Al centro della stanza un paiolo è sospeso a un treppiede di bronzo e manda un odore nauseante: mi azzardo a usare un incantesimo cognitivo per comprendere cosa sia il liquido salmastro che vi ristagna: percepisco una pozione in grado di inibire la mente ed esaltare istinto e libido. Svuoto sulle braci morte il contenuto della marmitta e dopo una breve riflessione cerco tra le cose che furono di Emirith: trovo recipienti colmi di foglie e radici essiccate, terraglie insudiciate da sostanze organiche e pelli di animali scritte con pigmenti ricavati dalle piante; ma nulla di ciò che trovo presenta tracce di incantesimi. Emirith non era una strega, era una specie di druido oppure un’alchimista. Siedo sull’unica sedia rimasta intera. Emirith ha davvero usato degli intrugli per ingannare Hulbert e farlo impazzire per lei: questo spiega molte cose ma getta rovinose ombre su molte altre. Forse non dovevo cacciare mio marito con tanto impeto, avrei dovuto ascoltarne le ragioni. Ho la pessima sensazione di correre un pericolo più grande di quello che volevo debellare. * Vediamo se il tuo arco è più veloce della mia spada. Hulbert balzò oltre le radici del riparo e si diresse verso un grosso abete che stava tra lui e il capitano delle guardie; la freccia scagliata da Jeff sibilò nell’aria e lo sfiorò, stracciandogli un lembo di mantello. Hulbert balzò dal secondo riparo, scavalcò dei cespugli spinosi e si gettò contro il capitano delle guardie. Jeff aveva incoccato una freccia ma la scagliò senza prendere la mira, terrorizzato dal ragazzo alto due metri che gridava e lo puntava come un bufalo impazzito. Fece un tiro fortunato e il dardo colpì Hulbert alla spalla destra; il gigante biondo perse l’arma ma afferrò il capitano delle guardie, trascinandolo a terra. Jeff ruppe l’arco e perse le frecce nell’azzuffarsi con il suo signore; i due ruzzolarono sul sentiero menando pugni e calci a vuoto, poi si rialzarono uno
sull’altro e caddero in un roveto umido e aggrovigliato. Jeff menò un calcio a Hulbert, poi vide la freccia spezzata che spuntava dalla spalla insanguinata e vi picchiò contro con la mano, spostandola come fosse una leva con la quale svellere un ostacolo ingombrante. Hulbert urlò per il dolore e Jeff continuò ad armeggiare con ciò che rimaneva del dardo, producendo nuovo dolore e nuove grida. Il giovane scatto in piedi e rifilò una testata sotto il mento al capitano, guadagnando un istante di tregua; Jeff barcollò ma si gettò ancora contro il suo signore e i due scivolarono, caddero a terra e rotolarono sul sentiero in direzione del dirupo. Hulbert tirò una gomitata al volto del capitano e gli ruppe lo zigomo sinistro; Jeff si rialzò e spinse il suo signore con tutta la rabbia che aveva, schiantandolo contro un abete che cresceva sbilenco, incastrato sulla parete della gola: l’albero tremò ma le radici e le pietre tra le quali erano incastrate ressero l’urto. Jeff alzò le braccia cercando di strozzare Hulbert ma questi lo colpì al ventre con un cazzotto, si liberò dalla morsa e lo allontanò dalla pericolosa posizione dove l’aveva costretto. Il capitano delle guardie ringhiò e impugnò la spada. «Avrei dovuto farlo prima» fissò quel giovane cui arrivava malapena alle spalle e lo incalzò per spingerlo verso il burrone. «Ma se la maneggi come una donnicciola!» Jeff si gettò verso il ragazzo e menò un fendente che Hulbert evitò lasciandosi cadere sulle gambe; la spada del capitano delle guardie si piantò nella corteccia dell’abete e Hulbert colpì il nemico con un pugno nelle reni e lo ricacciò indietro, disarmato. Hulbert cercò di estrarre la spada dal tronco ma Jeff si riebbe e si gettò contro di lui. «Crepa maledizione, crepa» Jeff spinse contro il tronco ritorto, che cedette sotto il suo peso: l’abete si inclinò verso il baratro e Hulbert scivolò giù, lungo i rami. Jeff si avvicinò all’albero, recuperò l’arma e vide che il signore di Brora si era aggrappato a rami robusti e cercava la risalita. «Sei uno che non si arrende!» Iniziò l’assurda impresa di recidere le radici a colpi di spada. Hulbert afferrò un ramo più in alto, appoggiò i piedi al tronco che scricchiolava e tremava e si issò, stringendo i denti. Il fragore delle acque turbinanti gli parve il ruggito di una fiera affamata.
Jeff colpì con fendenti rabbiosi le radici dell’abete, che tremò ma non cadde. Hulbert risalì di un ramo ancora, raggiungendo uno scisto protruso sul burrone cui si aggrappò per tornare sul sentiero. Jeff si gettò sullo scisto e cercò di colpire il signore di Brora con un fendente impreciso; Hulbert si abbassò e si buttò contro il capitano delle guardie, spingendolo a terra. Jeff colpì Hulbert alla schiena, con il pomo della spada, ne sciolse il violento abbraccio, quindi menò un fendente a casaccio che lo colpì, strappando il tessuto della manica destra e scorticandogli il braccio. Hulbert arretrò dolorante e Jeff l’incalzò, lo colpì al petto con un montante e riuscì a spingerlo ancora verso il burrone. Il signore di Brora mise il piede in fallo e scivolò lungo il tronco dell’abete che stava accanto allo scisto; si aggrappò ai rami, scivolando più giù della prima volta, e riuscì a fermarsi stringendo rami piccoli ma flessibili. L’abete smise di ondeggiare e Hulbert pensò che la fortuna non l’avesse abbandonato. ò un tempo interminabile e la faccia di Jeff sbucò dal labbro del burrone, ringhiando. «Ma non muori mai?» Hulbert raccolse le forze e si aggrappò ai rami più in alto, cominciando la risalita. «Ho sconfitto un minotauro, credi che mi lascerò ammazzare da un pivello come te?» Quando il signore di Brora afferrò un ramo più resistente, l’albero scricchiolò, si spezzò e precipitò nel burrone. Jeff vide Hulbert colpire le pareti del baratro e perdersi nelle acque gelide e tumultuose del torrente. Così muore Hulbert di Brora, il capitano delle guardie rifiatò, sputò nel fiume e tornò ai cavalli che erano rimasti dopo la fuga di Argento. E adesso andiamo a divertirci con la sua bella vedova. * «E se fallissero?» Mattion si strofinava le mani, le gambe e le spalle, seduto davanti alla casa di Oddone, che camminava avanti e indietro da quando i traditori avevano lasciato Brora. C’era freddo ma non era l’inverno a far tremare il soldato. «Non falliranno» il siniscalco si fermò per un istante, poi riprese a camminare. «E, se oltre a fallire, parlassero?» La voce di Mattion tremò.
«Fai silenzio!» Oddone pareva una fiera ferita. «Sì, ma...» «Mentiremo. Diremo che si sono inventati tutto. Ho pensato anche a questo.» «Non ho più la fiducia che avevo ieri sera» confessò il giovane. «Il fabbro ha sentito dire che il signore abbia abbattuto un minotauro alto tre metri con la sola forza delle braccia.» «Sciocchezze! Esagerazioni fatte dai bardi per rimediare qualche obolo» Oddone si fermò ancora. «Non temi di più le arti magiche della signora e i suoi sbalzi d’umore?» Il suono del corno di David gelò il sangue nelle vene di entrambi i cospiratori. «Non erano due suoni se Jeff tornava vincitore?» Oddone era sbiancato in volto e la testa gli cadde in avanti in un sì terrorizzato. Arrivò un secondo muggito del corno e il capitano entrò a Brora, cavalcando e reggendo le redini degli animali. «Briganti» urlò Jeff agli abitanti di Brora, «il signore è caduto.» Le donne raccattarono i bambini e scapparono nelle case. Il capitano delle guardie smontò e andò da Mattion e Oddone, al centro della piazza di Brora; appariva mostruoso e sfigurato dalla lotta: lo zigomo rotto gli deformava la faccia, gli occhi erano bordati da lividi penosi e lacerazioni che rigurgitavano sangue, la bocca era piegata in un sogghigno che aveva perso qualsiasi umanità. «Devo fottere la sua puttana» sputò tra i denti spezzati. «Che cosa è successo? Ci avete messo un sacco di tempo.» «Sono tornato al piccolo trotto, ero stanco» Jeff infilò la testa nel secchio colmo d’acqua che il palafreniere aveva appena issato per abbeverare i cavalli. «Vai a tirare su il ponte, tu» ordinò al ragazzo dopo essersi rinfrescato. «Sbrigati Isac, che aspetti?» Tuonò quando lo vide esitare. Isac scappò via come un cane preso a calci.
«Dove sono Valiant e Gowden?» Mattion si appiccicò al capitano che si era avviato verso il mastio e che lo allontanò con uno spintone. «Sono morti.» «Come sarebbe a dire morti?» Frignò Mattion. «Sono morti, sei diventato sordo?» Berciò Jeff a metà della scala che si arrampicava sulla motta. «Le leggende sul signore erano fondate: non fatico a credere che abbia ammazzato un minotauro» cominciò a nevicare e, quando Oddone e i traditori arrivarono sulla porta del mastio, Jeff scansò Julia con tale veemenza da farla cadere; la fanciulla si lamentò della scortesia ma il capitano delle guardie la mise a tacere con una minaccia. «Vattene e non farti trovare in giro o assaggerai quello che riserberò alla signora» lo sguardo terrorizzò la figlia di David più delle parole. Jeff spalancò la porta con un calcio ed entrò nel salone uscendo dalle tende, sfigurato e rabbioso come un mostro. «Che succede?» Amber riposava accanto al camino e balzò in piedi, scioccata dall’intrusione. «Jeff, che modi sono questi? Che ti è successo? Dov’è mio marito?» Il capitano delle guardie si gettò addosso ad Amber e la colpì con un manrovescio, facendola cadere. «Il signore di Brora è morto» la colpì con un calcio, poi la sollevò. «E tu lo seguirai tra un attimo. Dammi solo il tempo di divertirmi.» «Non perdere tempo, potrebbe usare i poteri!» Ordinò il siniscalco. «Stronzate, non ha mai avuto poteri. Non li ha mai avuti» Jeff scansò Oddone, e scaraventò Amber sul tavolo, di schiena. «Hai visto il fuoco anche tu stamane, lo hai dimenticato?» Lo riprese il siniscalco. Jeff impugnò il grosso coltello che aveva infilato nella cintura e strappò la cotta dimidiata di Amber. «Non si era parlato di questo» Mattion prese il braccio destro del capitano. «Sei disposto a ucciderla e ti fai problemi a divertirti un po’?» Ringhiò Jeff.
«Se è davvero una strega può scagliare delle maledizioni: dalle una morte veloce» Mattion si voltò verso Amber, che tossiva, stesa sulla tovaglia. Jeff fece un sorriso scaltro, allontanò il coltello dal corpo dai vestiti di Amber e lo affondò due dita sotto le costole di Mattion. «Non sei mai stato un buon soldato. Non sentiremo la tua mancanza» diede uno strattone e sbuzzò il soldato. Oddone guardò con orrore il sangue che sgorgava dall’intestino divelto di Mattion, che cadde sul tappeto. «Maledizione Jeff, sei impazzito?» Squittì. Il capitano delle guardie, si calò le brache, strappò la sottoveste e l’interula di Amber e le separò le cosce. «Quanto casino per una scopata» Jeff sputò sangue e accarezzò il ventre di Amber con le sudice mani. La ragazza si riebbe quando il freddo improvviso le serrò l’ombelico, gridò, invocò il fuoco magico e incendiò i testicoli del capitano, strappandogli un urlò agghiacciante; Amber prese a calci il pervertito, allontanandolo un istante prima che le lingue danzanti del fuoco gli ghermissero i vestiti e lo trasformassero in un torcia ululante. La signora di Brora si alzò dal tavolo e barcollò, frastornata, terrorizzata. Oddone afferrò uno degli alari dal camino e lo picchiò sulla testa di Amber, colpendola di striscio. «Muori, accidenti a te, muori!» Picchiò la donna sul petto, con la rabbia che centuplicava le sue forze di vecchio. Amber provò a incendiare il lucco del siniscalco ma il tempo impiegato non era sufficiente e l’incantesimo fallì. Oddone alzò l’arma improvvisata per dare il colpo di grazia. * Isac stava aiutando David a issare il ponte levatoio di Brora quando vide la sagoma di un cavallo giungere dal sentiero. Interruppe il lavoro e si precipitò sul cammino di ronda del barbacane per ridiscenderne dopo qualche istante. «Che cavolo hai visto, si può sapere?» Domandò David. «Argento» rispose eccitato il giovane dai capelli fulvi, «è il cavallo di sir Hulbert. È il signore» il palafreniere sganciò la ruota dentata e lasciò ridiscendere il ponte.
«Sei sicuro di quel che dici?» La voce di David tremava quanto quella del ragazzo era entusiasta. Il vecchio soldato si affacciò alla feritoia e socchiuse gli occhi ma vide soltanto una sagoma avvicinarsi. Il palafreniere arrivò a metà della scala a pioli che univa il mezzanino con il terreno e ne saltò gli scalini. Si precipitò fuori dal borgo e raggiunse il cavallo. Hulbert si era trascinato sulla sella e vi era rimasto appeso come un sacco di segale; era fradicio e pieno di ferite. «Signore, sono Isac. Come state?» Il giovane guidò Argento sul ponte levatoio e infine dentro le mura di Brora. Hulbert aprì gli occhi quanto bastava per distinguere il ragazzo. «Aiutami» ordinò con un filo di voce. Isac obbedì e resse il suo signore mentre smontava; trasalì non appena vide le ferite e ciò che rimaneva delle frecce che lo avevano colpito. «Mio signore, che ne è dei briganti: li avete sconfitti?» La voce di Isac si riempì di ammirazione. «Non li ha uccisi, i peggiori sono ancora in vita» David era appena sceso dalle scale, sguainò la spada e si avvicinò a Hulbert: «sono stati i traditori sobillati da Oddone» il soldato afferrò la lama dell’arma e la porse al suo signore. «Sono andati al castello, per occuparsi della signora.» Hulbert guardò il viso pieno di vergogna di David. «E tu perché non sei a difenderla?» Afferrò la spada e la puntò al collo del soldato, che si irrigidì. «Io... io cercavo soltanto di... sopravvivere» ammise David fissando la lama. Chi non si oppone al male ne diventa complice, Hulbert ricordò la sentenza contro il soldato di Garlik di Margland ucciso da Gwyllywm, quando l’elfo gli salvò la vita, mesi prima di quel giorno. Guardò gli occhi di David, pensò alla figlia Julia e alla moglie Jasmine, e alla miseria e alla tristezza in cui avevano vissuto. «Non ho tempo da perdere, andiamo.» David tirò un sospiro di sollievo, poi aiutò Isac a reggere il suo signore sino al castello. Il portone era stata lasciato aperto e, entrato nel salone, il signore di Brora sentì la moglie gridare. Hulbert si precipitò oltre le tende stringendo i denti per i dolori; irruppe nella stanza che Oddone stava in piedi, di fronte ad Amber,
con l’alare alzato. Scagliò la spada di David contro il siniscalco, trafiggendolo al petto e scagliandolo dentro il grande camino. Oddone venne afferrato dalle fiamme e scomparve in un immoto silenzio. In un angolo della stanza un altro corpo immobile era divorato dal fuoco. Amber si rialzò a fatica e raggiunse Hulbert, che si aggrappò alle sargie e scivolò in ginocchio, coperto di ferite, fradicio di fango, sudore e sangue. «Avevano detto che eri morto» balbettò lei tra i singhiozzi mentre gli stringeva il volto. «Dev’essere stata Shana a proteggermi» sussurrò lui, mostrando il medaglione in legno che mandava una tenue luminescenza; «sono caduto nel fiume ma c’era un fondone, la corrente mi ha trascinato a riva e Argento mi ha trovato. Prima di svenire sono riuscito a montarlo e lui mi ha riportato da te» Hulbert tossì e Amber gli carezzò le ferite con la mano destra che sfavillava di luce azzurra. «Tornerà tutto come prima» Amber poggiò la fronte contro quella di Hulbert e appoggiò il naso al suo. «Un sassolino non può nulla contro il più spesso dei vetri» gli trovò le labbra e lo baciò come se fosse stata la prima volta.
Verranno dette un sacco di cose. Sì, potete starne certi, sarà come vi dico. Le vostre orecchie udiranno distorsioni della realtà tali che vi metteranno i brividi. Sentirete gli ortodossi rivelarvi una verità e i revisionisti quella opposta. Non ascoltate nulla, non credete a niente: potete leggere le mie parole in mille modi ma non capirete che io vi ho mostrato qualcosa. Quel qualcosa, figli miei tutti, soltanto da coloro che sono destinati a comprendere, sarà compreso. Parabole – Éireamhón, profeta elfico
XXX – Lo strappo
I Si’phir erano riuniti attorno a un fuoco, al centro del villaggio. Glewmwn, Zoe e molti altri elfi avevano illustrato l’uso degli incantesimi ai più piccini e nei momenti di silenzio che precedevano lo scioglimento della riunione, Khayn prese parola. «Mi preme discutere circa gli ultimi accadimenti di Arhanien» il silenzio lo spronò a proseguire. «Sappiamo tutti della caduta della Perla delle Pianure e della battaglia di Antioch. Gli orchi guidati da Atar-Al-Karem, l’anziano che apparteneva a Kaerwood è stato sconfitto dagli eserciti di Alesia, dai nani delle Montagne di Cristallo e dai Paladini di Towerthrough. Nonostante la scelta delle sedici tribù di non esporsi, gli antichi equilibri sono stati sconvolti» Khayn attese ancora ma nessuno spezzò le sue pause. «Non avete opinioni? Non siete a conoscenza di fatti vitali per la nostra comunità?» «Alludi a qualcosa in particolare?» Glewmwn si mise sulla difensiva. «Cos’è che conosci tanto bene da voler porre alla nostra attenzione con quest’astuzia?» Khayn sogghignò. «Glewmwn, tu mi sopravvaluti, sei il primo che sento lodare la mia retorica, io sono famoso per l’impulsività e l’azione, non per la dialettica. Mi è tuttavia giunta voce di come il nostro stimato Gwyllywm, colui che controlla il Sigillo del Vento» avrebbe detto anche “tuo nipote” se non avesse pensato che l’aggiunta avrebbe influito negativamente sui giudizi altrui, «pare essere tornato all’oscurità; esattamente come qualcuno aveva predetto. Cosa c’è di vero?»
«Gwyllywm non ha ancora fatto ritorno tra noi» Glewmwn vagheggiò ma aveva il volto teso, «quando tornerà dimostrerà come le voci che ti sono giunte siano false.» Un coro di assensi percosse Khayn fin nel midollo, disgustandolo. Non avrebbe mai sconfitto Glewmwn con i giri di parole: attaccò. «Non tornerà, Glewmwn, non mentire a te stesso ma soprattutto non mentire a noi. Avremmo dovuto intervenire a o di Alesia e di Antioch, non languire, ignavi e indifferenti come un popolo decaduto.» Glewmwn strinse la testa tatuata e rasata, sospirando. «Devi perdonarmi se non comprendo questo astio. Secoli prima di oggi facemmo un giuramento, vi stiamo tenendo fede. Noi non saremmo intervenuti nelle alleanze di Arhanien e gli oscuri avrebbero fatto altrettanto.» L’assemblea degli elfi rumoreggiò come lo stomaco di un viaggiatore digiuno e Khayn si alzò, affinché tutti lo vedessero. «Lo ricordo bene, Glewmwn, ma lo ricordo in virtù degli insegnamenti dei quali questa assemblea è prodiga; ma so anche una cosa, ovvero che io, e molti come me, non erano ancora nati ai tempi di quel giuramento.» «Osi discutere la tradizione? Chi sei per arrogarti tale diritto?» Erano anni che Glewmwn non alzava la voce e il fatto intimorì molti degli elfi più anziani e coprì di vergogna i parenti di Khayn. Zoe fu invece l’unica irritata dall’inopportuna sfuriata. «Tu sei un maestro della retorica e saresti in grado di argomentare tutto e il contrario di tutto» il tono rassegnato di Khayn divenne snervante. «Io sono giovane ma c’è una cosa che intendo molto bene, ovvero il fatto che nessuno ha il diritto di prendere impegni a mio nome. Non importa quanto saggi e dotati potete essere, e non importa che fossero presenti tutti coloro che condividono il mio sangue» girò su sé stesso per sfidare la tribù: «se avete preso degli impegni con gli oscuri, ebbene, essi si sono guardati bene dal rispettarli. Voi che siete qui riuniti, oggi, state imponendo ai vostri figli patti che il nemico non rispetta. Io non condivido la vostra indifferenza e lamento che non mi è mai stato chiesto di esprimermi su questi patti.» Il silenzio schiacciò l’assemblea e cominciò una dura lotta di sguardi.
«Noi elfi non possiamo intervenire nella storia di Arhanien, non dobbiamo interferire con le altre culture: la forza dei nostri incantesimi è sproporzionata e terribili sarebbero gli esiti del loro impiego e di un colpo di ritorno» Khayn stava per contraddirlo e Glewmwn accelerò l’intervento. «Disponiamo di un grandissimo potere e da questo ne deriva un immenso sacrificio. Noi siamo il faro delle altre civiltà: Arhanien non ci appartiene, la terra è un amica che dobbiamo rispettare, e le altre culture e gli altri popoli ne sono il variegato e scomodo carattere.» «Sono belle parole, Glewmwn, le più belle che ho sentito. Riusciresti a convincermi se non ci fossero fatti gravi che incombono, e mentre tu blateri sfoggiando la tua retorica, gli oscuri continuano a sfidarci a un tiro alla fune dove cediamo corda a ogni assalto. Non te ne rendi conto? Non se ne rende conto nessuno? Mi sembra ieri quando Ergwel, il loro padre, veniva a ricordare la reciproca non-belligeranza. Ebbene, mentre lui era qui a ciarlare e voi a dargli ascolto, i suoi figli interferivano aiutando gli orchi! Insomma, sono l’unico a percepire le tensioni che sconvolgono il mana? Sono l’unico a essere preoccupato dalla paura che palpita come uno spirito ostile?» «Hai detto di essere giovane, Khayn, e dimostri di esserlo. Cosa avremmo dovuto fare, a tuo avviso? Armarci e scendere in guerra? Ricordi la disputa tra Raylyn e Gwyllywm? Tu stesso evitasti una guerra mostrando a Ergwel quanto infondate fossero le sue pretese. Che ne è stato dell’elfo accorto che ha dato tanto lustro ai Si’phir? Dov’è quell’elfo che ha mostrato come la virtù della parola fosse superiore a quella della spada?» «Quell’elfo è sempre qui, davanti ai tuoi occhi. Sei tu che volgi lo sguardo altrove per non vederlo. Ci sono momenti in cui occorre alzare la voce e avere una mano dura e altri in cui invece bisogna dispensare carezze e sussurrare parole dolci. Non era il momento per le effusioni quando avete ceduto alle promesse di Ergwel, bensì quello nel quale mostrare all’oscurità che non si sfida impunemente la luce.» «Se avessimo agito come proponi, sarebbe stata guerra.» «E non lo è già forse? Non sono i colpi di mano degli elfi oscuri atti di guerra? Credi che Ergwel esiterà a violare le regole se ne avrà occasione? La stesso perdurare della religione oscura è in contrasto con i nostri principi e con il nostro modo di vivere. Credi che Ergwel esiterebbe a tagliarci la gola nel sonno?»
«Proponi di violare le regole che abbiamo sottoscritto?» Lanciò la sfida. «Quelle regole sono già state violate: la nostra è soltanto una legittima reazione.» «La violenza preventiva non è la soluzione ai nostri problemi. L’istintivo stato di guerra che vai predicando è un deprecabile azzardo che si ritorcerà contro di noi. Se attacchiamo, nuovi nemici invaderanno i nostri boschi.» «Ci sono già nemici nei nostri boschi! Gli oscuri sorvegliano i confini con gli altri popoli, controllano l’Albero della Vita e hanno accesso agli antichi santuari dei popoli di Arhanien. Glewmwn, chi credi di abbindolare con la tua scialba retorica?» L’anziano sgranò gli occhi e i tatuaggi parvero vibrare sulla sua testa rasata. «Gli oscuri sono già tra noi! Loro padre Ergwel è giunto qui come un amico e si è seduto tra i sedici guerrieri senza che nessuno gli abbia contestato alcunché. Invece che discutere liberamente di ciò che deve essere, la nostra linea politica dipende dalle loro scelte. Elfi di Si’phir, mi rivolgo a voi: noi non agiremmo in questo modo se fossimo padroni della nostra vita.» Glewmwn si alzò e l’intera tribù sussultò. La tunica candida e l’espressione risoluta ma comprensiva lo assunsero al ruolo di profeta. «Io ti comprendo, ma sei precipitoso e la tua impulsività non recherà nulla di buono.» «Ho sperato invano che la politica dei Si’phir mostrasse una logicità che non vedevo. Gli oscuri sono più forti che mai e se non mi avessi fermato, avrei ucciso Gwyllywm e ora non saremmo a questo punto.» «Ribadisco ora quello che ti dissi allora: non ho salvato lui, ho salvato te.» «Ma se non l’avessi fatto, il Sigillo del Vento non sarebbe nelle loro mani.» «Mi contesti il crimine di averti salvato la vita?» «Ho un altro dubbio» deglutì poiché quanto stava per dire non sarebbe piaciuto a nessuno. «Io temo che tu stia facendo il loro gioco: sei il nonno di un traditore e il bisnonno del padre degli oscuri.» Zoe si alzò, indignata. «Mi vergogno per quello che hai detto, Khayn: le tue non sono insinuazioni, sono oltraggi. Mio figlio Gwayn ha educato Gwyllywm, credi che agisca anch’io contro l’interesse dei Si’phir?»
Khayn guardò i Si’phir e vide facce allibite, scure, indignate. «Non posso sopportare oltre la vostra placida inerzia. Me ne vado.» «Cosa fai?» La voce di Zoe si affievolì come una fonte inaridita. «Non ho più un motivi per restare con voi. Vantate la nostra estraneità ai fatti di Arhanien ma Gwyllywm, e Gwayn, ed Erwmysh, e tu stesso Glewmwn, vi siete tutti adoperati per alterarli» Khayn fissò il volto sconvolto dei genitori. «Sei stordito, giovane Khayn. La tua mente non vede ciò che ovviò ed elucubra sovrastrutture sciocche e infantili per discernere la verità.» «Non sono stordito Glewmwn, sono abbastanza sveglio da vedere un vecchio elfo vigliacco che propone le sue verità per tacere quelle degli altri.» Gli elfi più anziani tremarono, Glewmwn stesso rimase sbalordito dalla sfacciataggine dell’elfo ribelle ma rispose a tono, e fu la risposta più infamante e vergognosa che seppe trovare. «Non è mettendoti in mostra in questo modo che otterrai il prestigio che cerchi. Tu che insidi una madre pretendi di spiegarci cosa sia una scelta morale?» Il cuore di Khayn vibrò come la membrana delle ali di un drago al decollo; egli sussultò, arrossì e le mani gli tremarono, incapaci di stritolare la rabbia che provava. Qualcuno dei presenti spettegolò alle sue spalle mentre i suoi parenti lo fissavano furibondi. «Fallo, liberati di loro, non ti servono!» L’istinto primordiale affiorò tra i pensieri di Khayn, che lo ascoltò: portò le mani alle trecce e sciolse le piume d’aquila e di grifone che attestavano il proprio rango di guerriero. I Si’phir si zittirono, inorriditi. «Non farlo Khayn» la voce cupa di Zoe rimbombò nel silenzio. «Non farlo perché non potrai più tornare indietro.» «A cosa serve un guerriero se non può combattere? E a cosa serve una tribù se non è in grado di scegliere?» L’elfo gettò le penne nel fuoco e si allontanò dall’assemblea. Zoe raggiunse Glewmwn. «Cosa fai? Perché non lo fermi? Sta rinunciando ai Si’phir davanti a tutti! Non ho memoria di una cosa del genere.»
«Il giovane Khayn è libero di commettere i propri errori, se è ciò cui aspira» la cupa voce di Glewmwn fu soffocata dal mormorio degli elfi. «Non possiamo perderlo, non possiamo permetterci di perdere nessuno» i Si’phir presero a discutere a voce alta mentre Zoe cercava una soluzione. «Andrò a convincere i suoi genitori a parlargli: deve invocare il perdono e tornare sui suoi i.» «Lascia stare» Glewmwn la strinse. «Non capisco, lo perderemo.» «No, soltanto Alywya può convincerlo della bontà delle nostre scelte.» Zoe lo guardò disgustata. «È proprio ciò che voglio evitare» si liberò della stretta dell’elfo e si avviò verso la famiglia di Khayn. Poi si voltò, colta da un brivido. «Se hai l’idea che temo, ti imploro che rimanga tale o li perderemo entrambi.» * «Che fai, scappi?» Éibhleann si insinuò nella tenda di Khayn trovandolo intento a infagottare libri e pietre magiche. «Fai come i marinai che abbandonano la nave?» «Se la nave non va alla deriva, allora il capitano cerca lidi che non voglio raggiungere. Non ne posso più di indicare una direzione diversa e venire deriso: se sono in errore sbaglierò io soltanto. Se sono nel giusto pagherete per gli errori del vostro capitano: non c’è nulla di sbagliato in quello che faccio.» «Vero, ma se hai ragione come dici, allora sarà peggio per noi.» «È un rischio che lasciate assumere a Glewmwn in vostra vece. E ha il diritto di farlo, come voi avete il diritto di concedergli di sbagliare» chiuse un robusto zaino di un materiale lucido ed elastico che non aveva nulla che vedere con le fibre naturali. «Dove hai intenzione di andare? Abbiamo bisogno di te.» «Non lo so, ma è meglio soli che accompagnati da qualcuno che ti può pugnalare alle spalle.»
«Tu ascolti le mie parole ma non senti la mia voce: quello che voglio dire è che i Si’phir non saranno più gli stessi se te ne vai» confessò Éibhleann. «Nulla dura in eterno, forse nemmeno l’amore che si promettono due elfi. Perché dovrebbe durare la permanenza di un pulcino al proprio nido?» Éibhleann prese a girare intorno al fuoco che scoppiettava al centro della tenda. Tenendo le mani ora dietro la schiena, ora davanti, facendole oscillare. «Parli per frasi fatte, quando fai così sei odioso. Però non puoi farcela da solo, per questo ho deciso di aiutarti.» «Aiutarmi? Che vai dicendo?» «Io so perché prediligono Gwyllywm» disse la fanciulla. «Davvero, io mi sono scervellato per settimane senza venire a capo di questo dilemma. Posso capire Glewmwn e Zoe, che sono suoi nonni, ma gli altri» si lasciò andare a un sorriso ironico. «Ma tu forse hai visto più lontano del mio naso, dimmi dunque.» «Lo apprezzano perché è tornato indietro, perché è ato dalle tenebre ed è tornato nella luce. Ciò che gli è accaduto testimonia che è possibile redimersi. O li illude che sia possibile. Gwyllywm è la speranza di tutti: non c’è nulla di bello nelle persone integerrime e perfette. È nell’imperfezione che ritroviamo i nostri difetti, è nell’imperfezione che ci avviciniamo alle persone e le comprendiamo come fossero una parte di noi. Sono le imperfezioni che rendono attraenti le persone e le vite degne di essere raccontate.» «Sì, lo pensavo anch’io, ma egli è tornato tra gli oscuri e la mia speranza di rivederlo come amico è morta» si caricò lo zaino sulle spalle. «Addio Éibhleann, comportati bene.» «Non andartene Khayn, per favore, qui ci sono persone che hanno ancora bisogno di te» si preparò a liberare i propri sentimenti. «Ci sono persone che morirebbero se te ne andassi.» «Mi è concesso?» Una voce inattesa irruppe nella tenda e fece brandelli della dichiarazione di Éibhleann. «Alywya, entra pure» Khayn la invitò con voce stupita ma piena di speranza.
«A quanto pare io sono diventata di troppo, adesso. È meglio se vi lascio soli» Éibhleann uscì dalla tenda, cupa come un temporale. «Ma che cos’ha?» Domandò l’elfo. «Non ha nulla, abbiamo avuto una discussione» Alywya licenziò gli umori della sorella con una mezza verità e Khayn non volle approfondire. «Se sei venuta per trattenermi, sappi che non è tra le mie intenzioni rimanere» Khayn si mostrò risoluto ma sperava che Alywya cadesse ai suoi piedi implorandolo di non andarsene. «Hai mostrato molto coraggio quando hai parlato davanti a tutti» esordì Alywya. «Sono gli impavidi coloro che mostrano coraggio, non i padri che abbandonano le famiglie» insinuò con disprezzo. «Lo so, hai ragione» l’uscita lo sorprese. «Volevo dirti che la tua richiesta mi ha tenuta sveglia notti intere e sono giunta alla conclusione di aver frainteso le tue intenzioni» Alywya lo prese per mano generando un ciclone di ioni. «Credevo che ogni tua parola fosse dettata dall’egoismo, credevo che tu fossi mosso soltanto da rivalsa o vendetta; credevo che odiassi Gwyllywm e che le tue parole fossero cariche di falsità e invidia. Ora che hai deciso di andartene ho colto la rabbia amara e la purezza delle tue intenzioni. Hai ragione quando dici che Gwyllywm non ha più dato sue notizie, nemmeno attraverso il vento di cui è padrone. Non mi è giunta la sua voce, o il profumo della sua pelle, o il suo genuino desiderio. E hai ragione quando dici che la piccola Téide abbisogna di un padre e credo che tu sia la persona più adatta a questo ruolo» Khayn vacillò e lasciò cadere lo zaino. «Perciò, se tu decidessi di rimanere, io so che lo faresti per me e per lei.» Khayn sentì le mani di Alywya tremare ed ebbe un tuffo al cuore; fissò l’elfa negli occhi, e vi riscoprì il mare intenso e burrascoso che lo trasportava alla deriva. Alywya l’abbracciò e gli poggiò la testa al petto. Fu un attimo vigoroso come l’eternità. Khayn percepì la fragranza dei capelli dell’amata e vacillò nel ricambiare l’abbraccio che aveva atteso tutta la vita: il sangue era lava e lo stomaco una polla d’acqua vulcanica. Alywya cercò con le labbra quelle dell’elfo, per suggellare la promessa, ma un attimo prima che la ione li unisse, Khayn evitò il bacio e le si avvicinò con dolcezza all’orecchio.
«Sei qui per ordine di Glewmwn, non è così?» Lo disse soffocando le lacrime. Alywya sussultò, la ione di Khayn si spense ma l’elfa rinvigorì l’abbraccio. «E se anche fosse? Se anche fosse come tu dici, farebbe differenza se il risultato è il medesimo?» «Che bisogno può avere un individuo della concessione di amare? L’amore nasce spontaneo, è una rosa selvatica che cresce senza le cure di alcun giardiniere, rinvigorita dalle avversità. Io non ho bisogno della licenza di amarti, ho bisogno di essere amato» Khayn baciò Alywya sulla fronte, afferrò lo zaino e uscì dalla tenda. * «Cerco quel farabutto di Glewmwn» Zoe minacciò la bella Cadhla, prossima al parto, che liberava la tenda dalla neve con la magia. L’anziana si aspettava che la moglie di Glewmwn si indignasse ma l’elfa avvampò per la vergogna. «Cosa ha combinato stavolta? Sta fumando, accomodati» Cadhla evitò lo sguardo di fuoco della madre di Gwayn e si fece da parte, introducendola nella tenda. «Tu non hai idea dell’entità della macchinazione che ti è sfuggita di mano: devi essere completamente pazzo! Io... io...» Zoe rabbrividì «io non riesco nemmeno a sfogare la rabbia: sei un incosciente! Ecco, se volevi farlo scappare ce l’hai fatta davvero. Non volevi che avesse rimorsi? Ebbene, ci sei riuscito, dannazione! Mi chiedo se Khayn non abbia ragione e tu non sia davvero in combutta con gli oscuri» berciò, velenosa. «Khayn se ne è andato senza un saluto e senza rimpianti. Lo sai dove andrà? Andrà a cercare Gwyllywm.» «Può darsi» Glewmwn lasciò il bocchino del calumet e soffiò il fumo in un ampio cerchio. «Se combattono, nostro nipote lo farà a pezzi.» «E chi può dirlo? Il giovane Khayn ha più risorse di quante immaginiamo» aspirò dal calumet e soffiò a lungo, creando un grifone di fumo. «Perché non ti vedo preoccupato? Non provi nemmeno un briciolo di rimorso per quello che hai fatto ad Alywya?» Gli occhi di Zoe si fecero piccoli e carichi
di rabbia. «L’hai costretta a fingere di amarlo! Spregevole, quello che hai fatto è spregevole.» «Io e lei sapevamo che Khayn non avrebbe accettato. Non l’ho obbligata a recitare, quello che Alywya prova per Khayn va oltre l’amicizia: avevamo concordato l’inganno ai suoi danni, ella stessa voleva capire che posto occupava nel cuore di Khayn.» Zoe storse le labbra. «Quindi Khayn avrebbe perso Alywya anche se fosse rimasto.» «Esatto, ma non lo ha fatto. Lo ammiro.» «Mi pongo domande circa la tua sanità mentale, Glewmwn» Zoe fu di una serietà imbarazzante. «Della sanità mentale tua e di quella di Alywya.» «Dovrai pazientare per avere le risposte: non senti l’alterazione del mana?» Glewmwn non degnò di uno sguardo l’anziana Zoe e seguì il fumo che saliva. «Glewmwn, che stai dicendo?» «Sta arrivando, non lo percepisci? Non lo hai visto nei tuoi sogni, non lo hai riconosciuto nei tuoi deliri?» «Glewmwn, tu stai diventando pazzo» Zoe gli strappò il calumet e ne annusò il contenuto. «Tabacco spiniforme? Glewmwn, quanto ne hai fumato?» L’elfo sorrideva e cercava di afferrare il fumo con le esili dita; gli occhi parevano inseguire i sogni di un fanciullo. «È arrivato, Zoe, vai ad accoglierlo assieme a Cadhla, per cortesia. Egli sarà molto più felice se vedrà delle belle femmine piuttosto che un maschio come me» allungò una mano per afferrare un grumo di fumo, chiuse i pugni a vuoto un paio di volte e infine sembrò averlo preso. «Non è arrivato nessuno, Glewmwn, che assurdità dici?» In quel mentre Cadhla riaprì la tenda che copriva l’entrata e un ospite entrò al cospetto dei due elfi più anziani della tribù di Si’phir. Zoe esaminò lo straniero da capo a piedi, esterrefatta di non averne percepita l’aura: egli era alto, robusto e dotato di due splendide orecchie affusolate; l’ospite fece un inchino e sedette con leggerezza, nonostante gli abiti pesanti. Fuori, i ragazzini e i giovani
avevano preso a chiassare. «Io sono Glewmwn di Si’phir, e ti reco il benvenuto, così come si conviene a un fratello» l’elfo riprese le proverbiali flemma e dignità e fissò i biondi capelli dello straniero. «Io sono Zoe e ti do il benvenuto tra i Si’phir, come si conviene a uno di noi» l’elfa si sbalordì e si rassegnò all’intrusione ma non riuscì a non fissare la barba curata dello straniero. «Vi sono grato per l’ospitalità che mi accordate. Sono Laoden di Alerbia e vi reco la mia leggenda.»
Ho seguito i suoi spostamenti nel Regno di Alesia, un cavaliere su un destriero di fuoco a otto gambe; Vortigern ha recato quest’ultima a tutti coloro che rifiutavano di accettare la sua legge, la legge di Kaerwood. Quando la sua Arte brillava, io percepivo il suo potere e quando lo cercavo, era come se vedessi con i suoi occhi, se sentissi con il suo cuore. Il sortilegio era reciproco e per ogni o con il quale mi avvicinavo e lo conoscevo, così era per lui. Ero al corrente delle sue intenzioni, delle sue mosse e dello spazio che ci separava. Sapevo ogni cosa di lui. E lui la sapeva di me. Pensieri – Gabriel
XXXI – Il Signore del Fuoco
Le tenebre avanzavano da oriente come una pervicace malattia e il mastio di Brora svettava sulla motta con le sue pietre grezze baciate dal rossore pallido del sole morente. «È l’ultimo che dobbiamo convincere?» La voce ultrasonica di Bogar frantumò il silenzio dell’umida foresta. «È l’ultimo» rispose Vortigern, «tuttavia fino a ora non ne hai convinto nessuno.» «Ha poca importanza come ho agito se otterremo ciò che desideriamo. È la nuova politica di Kaerwood» i denti acuminati di Bogar disegnarono un sorriso tagliente, «l’hai inaugurata tu stesso. Andiamo, ho fretta di tornare al Tempio Scarlatto» spiegò le membrane delle lugubri ali da pipistrello. «Hai troppa fretta, amico mio» l’elfo frenò lo smanioso compagno. «Agiremo come abbiamo sempre fatto.» «Se lo faccio ci metteremo un sacco di tempo!» Si lamentò. «Che differenza può fare un umano in più o uno in meno? Con il loro ritmo riproduttivo sommergerebbero il continente se non li contenessimo con guerre ed epidemie.»
«Sono esseri viventi come me e te, non dimenticarlo mai» lo riprese l’elfo. «Non sono come noi ed è ridicolo sentire parole come queste pronunciate da un elfo adulto. La verità è differente, e tu la conosci bene. Andiamo, non ho altro tempo da buttare in sterili discussioni» Bogar decollò seguendo una traiettoria irregolare. Vortigern guardò la sagoma dell’uomo pipistrello e le lunghe ali che battevano e spingevano come incubi. «La scintilla che anima il loro corpo è la medesima che anima il nostro. Non c’è differenza, non importa chi ci abbia creati» sospirò e spronò il destriero infuocato a divorare la distanza che lo separava da Brora. Vide Bogar cambiar traiettoria, come per evitare un proiettile, e quindi picchiare contro il barbacane, afferrare il soldato di guardia e trascinarlo a terra, oltre la palizzata. «Maledizione, forza Artax!» L’elementale del fuoco obbedì all’ordine con tale energia che la sua corsa lasciò una scia di fuoco sul sentiero umido; Artax spiccò un balzo e oltreò il fossato e l’aggere. «Si era detto che avremmo discusso!» Vortigern scese nella piazza di Brora. «Non è colpa mia, il vecchio ha attaccato senza sentire le mie ragioni» i piedi artigliati di Bogar avevano aperto in due la faccia della guardia, un uomo dai capelli unti, il naso sproporzionato e la barba rossiccia; un ragazzo dai capelli fulvi, neppure armato, giaceva sventrato contro il pozzo. L’uomo che dai vestiti aveva tutta l’aria del maniscalco era appena stato reso irriconoscibile dai kukri. Un bambino e la sua giovane madre si erano nascosti dietro un uomo alto due metri, vestito con un lucco vermiglio e impellicciato, e una donna dalle vesti altrettanto pregiate. «Tu devi essere il signore di Brora» Vortigern guatò Hulbert e quindi Amber, percependo la vita che serbava in grembo, «ebbene, consiglia a tua moglie di abortire l’incantesimo offensivo o abortirà tuo figlio. Se è tuo» insinuò. «Giungete nel mio feudo recando la morte, mi insultate e pretendete che mi arrenda?» «Sei senza armatura, signore di Brora, impugni uno spadone che è appena nato» indicò la punta incandescente dell’arma «e pensi di intimorirci? Siamo giunti per parlare.» «Uccidete i miei sudditi come se fossero bestie e vi azzardate a domandare udienza? Non ve ne andrete con le vostre gambe, lo giuro.»
«Ha lasciato un varco nella difesa, se riesci a distrarlo lo faccio secco prima che capisca che mi sono mosso» suggerì Bogar nella sua lingua pigolante. «Il mio amico potrebbe uccidervi anche subito, se lo ordinassi. Tuttavia intendo trattare, come ho fatto con gli altri feudatari di Aaron e con lui medesimo» propose l’elfo. «Io sono Vortigern l’Anziano e rappresento il Consiglio di Kaerwood.» «Allora siete gli squallidi assassini che hanno massacrato i nobili di Alesia: perché tanto odio verso di noi?» «Non è saggio continuare la guerra contro gli orchi ma siete restii a farvi una ragione di quanto accaduto.» «Ci siamo difesi dagli invasori, non abbiamo fatto nulla che un popolo libero non avrebbe fatto: sei un ortodosso mandato dagli orchi?» Hulbert si sincerò che le difese magiche di Amber fossero attive e puntò l’arma incandescente verso Vortigern. «Gli orchi non c’entrano, gli orchi erano un mezzo. Non credo che un essere umano possa comprendere; forse uno dotato di una intelligenza fuori dal comune, forse uno dei maghi più potenti della tua razza. Ma ci proverò: esiste un Ordine che non si può discutere o modificare, viene da un mondo diverso al vostro, superiore, migliore. L’Ordine cui vi viene proposto di aderire e che dovrete rispettare è superiore ad Alesia, al suo sovrano, al suo senato, viene prima di ogni cosa.» «E quest’Ordine sarebbe Kaerwood?» «No, l’Ordine di cui ti parlo è superiore persino alla Fratellanza, L’Ordine mostra la proba direzione, l’Ordine è ineluttabile e giusto. Kaerwood cammina nella luce ma non è la luce.» «L’Ordine di cui parli uccide se non viene riconosciuto» Amber accartocciò le labbra. «Occorrono scelte» la voce di Vortigern si indurì. «E le ultime sono state prese con sofferenza. I nobili di Alesia vogliono nuove guerre e nuove morti mentre i senatori sono disposti a trattare una pace duratura con gli orchi.»
«Posso crederci, la maggior parte dei senatori era di Spinwirth, che è stata conquistata da Alesia decenni fa. Molti degli abitanti della Perla delle Pianure sono morti e questa può addirittura sembrare una rivincita di coloro che un tempo governavano queste terre» Hulbert percepì come Amber fosse a sua volta pronta a dar battaglia. «Non è forse legittimo riprendere ciò che ci è stato tolto?» «Le tue sono le stesse parole degli orchi, e di Atar-Al-Karem che ha ordito l’invasione dell’Orda. In questo momento Arhanien ha bisogno di equilibrio, di stabilità, di scelte ponderate prese da sovrani illuminati, pragmatici, concordi» ricominciò Vortigern. «Solo Kaerwood può rendere armonica la politica dei Regni in virtù di un nuovo periodo di pace. Senza Kaerwood i Re litigheranno, perché la materia di cui sono fatti è la medesima dei più infimi criminali. Ciò che fa litigare due bambini viziati o due vecchi rimbambiti apre una guerra tra due regni. Tu puoi accettare che il sacrificio che pagheranno gli uomini per i deliri dei loro sovrani sia un prezzo accettabile e necessario: Kaerwood crede che potare i rami malati farà crescere sana la pianta. Non ti dirò altro, perché non è necessario e perché il mio amico non vede l’ora di macellarti. Se non accetti l’Ordine di Kaerwood, la nostra discussione finisce adesso.» «Non è vestendo il tuo Ordine coercitivo con gli abiti ricamati dell’equilibrio che ci illuderai. Gli uomini nascono liberi, ed è l’opportunità di scegliere che li rende tali. Il tuo Ordine crollerà perché Kaerwood vuole sostituirsi al destino, ma il destino non esiste, esistono soltanto opportunità: questo mi ha insegnato il Signore del Vento, Gwyllywm di Si’phir.» «La mediazione è finita: posso ucciderli?» pigolò Bogar. Vortigern non rispose e rimase a guatare Hulbert, che ne sosteneva lo sguardo. «No» bloccò con un gesto l’uomo-pipistrello, «quest’uomo lo convincerò io. E sarà uno scontro leale.» Lo sguardo di Amber si colmò di apprensione. «Ti proteggerò dalla magia. Ma non commettere azzardi: è più forte di quel che sembra, il mana del fuoco sembra impazzito.» «Non farò sciocchezze» Hulbert puntò la spada contro l’elfo, che estrasse la sua. «Promettilo, non potrò vivere senza di te» la voce di Amber tremò. Hulbert prese la moglie per la mano, la tirò a sé e la baciò sulle labbra, con
ione. «Lo prometto» la fissò negli occhi e la lasciò andare. Fece fare alla spada un cerchio, roteando il polso, e si concentrò per affrontare Vortigern. «È soltanto un elfo» sussurrò alla moglie, «basta tenerlo impegnato per non fargli usare la magia: è un gioco da ragazzi.» * «Manca molto?» Llywelyn attraversò il ponte di pietra a schiena d’asino e proseguì lungo l’umido sentiero inghiottito dalla foresta. Il Vaenert soffiava senza tregua e gli spettinava i capelli rossi e la barba. «Potremo almeno riposarci per la notte.» «Se riposeremo non lo troveremo a Brora. Ho faticato molto per carpire i suoi spostamenti senza che si accorgesse di essere spiato, non getterò alle ortiche un’occasione come questa» la voce del mago arrivò alle orecchie del mercenario come se il giovane fosse da un’altra parte. «Sono due giorni che cavalchiamo, Gabriel. La sella mi ha appiattito le chiappe e le bestie sono stremate» protestò il terraltiano. «Il villaggio è al termine della strada» il mago chiese un ultimo sforzo. «Per essere un mercenario ti lamenti come una donnicciola.» Un ululato riecheggiò tra gli abeti e le scheletriche latifoglie. «Non ti ingannare, è un kilt, non una gonna» risero entrambi, poi Llywelyn tornò serio. «Dimmi come devo aiutarti perché se quell’elfo è potente come hai raccontato non ce la farai da solo.» «Vortigern viaggia con un mostro alato che appartiene alle antiche razze di Arhanien. Dovrai tenerlo lontano da noi. Non sottovalutarlo, non osare. Giungerò in tuo aiuto non appena mi sarò sbarazzato dell’elfo.» «Parli come se avessi letto il futuro.» Gabriel rallentò l’andatura e attese che il terraltiano fe altrettanto. «Ascoltami bene, Llywelyn» parlò come se fosse una minaccia. «Il Fuoco mi ha scelto, non sono stato io a cercarlo o a decidere di affrontare Vortigern: il Fuoco lo ha impresso nel mio destino. Andiamo adesso e non fare più domande, sto cercando di concentrarmi.»
Ne ho visti giovani come te, capaci e intraprendenti, tutti illusi che il mondo fosse creato per loro e che le genti fossero incapaci di vivere senza la loro guida. Sono morti tutti come fessi, il terraltiano spronò il cavallo lungo il nero sentiero. La differenza è che se non presto attenzione, stavolta ci lascerò anch’io la pelle. * Le spade si incrociarono l’ennesima volta. «Sei abile e il tuo stile appartiene al mio popolo: ti ha insegnato Gwyllywm?» Vortigern ritrovò la posizione difensiva e fintò prima un montante e quindi un fendente, ma l’umano non aprì la guardia quanto gli occorreva per trarne vantaggio. «Ha importanza?» Hulbert provò a fintare a sua volta per saggiare la reattività dell’elfo ma ne trovò la difesa pronta. «No, non ne ha» il sorriso di scherno sparì dall’espressione dell’elfo, che fintò un fendente e si concentrò sul successivo montante ma il movimento dello spadone di Hulbert fu perfetto e lo bloccò. Non devo concedere tregua a un elfo, ricordò l’umano, non devo dargli tempo di ricorrere alla magia. Hulbert ricacciò indietro l’arma di Vortigern e lo incalzò menando un fendente a destra e, scopertosi parato, roteò lo spadone sulla testa e provò a forzare le difese dell’elfo, dalla parte opposta, ancora senza successo. Il signore di Brora abbassò la lama incompleta dell’arma a due mani e provò con un colpo dal basso verso l’alto ma di nuovo la spada dell’elfo si fece trovare sulla traiettoria. Maledette armi magiche, Hulbert provò una nuova finta a destra per affondare a sinistra ma Vortigern ne intuì e vanificò le intenzioni. «Intendi giocare ancora molto?» La voce ultrasonica di Bogar pungolò il Signore del Fuoco. «E non mettermi fretta!» L’elfo si voltò verso l’uomo-pipistrello e tornò allo scontro giusto in tempo per parare un affondo dell’umano. «C’è una melodia che guida la voce delle spade» spiegò Vortigern dopo che Hulbert parò un fendente rovescio. «Questa melodia ha un inizio preciso e una fine pertinente» fintò un attacco dall’alto e, dopo un movimento laterale, lo ritentò dal basso senza
ottenere altro risultato che riportare le lame a contatto. «Noi elfi impariamo a decifrare il Canto delle Spade, e studiamo le parti di cui si compone» fece roteare la spada nella mano e tentò un nuovo fendente impugnandola anche con la sinistra; Hulbert parò e rispose con uno sterile affondo. «Gwyllywm ti avrà insegnato tutto questo, ma si è senz’altro tenuto un segreto per sé» le lame si picchiarono ancora. «Non ti ha rivelato come è possibile trasformare una melodia perdente in una vincente» Vortigern guatò Hulbert mentre le lame si allontanavano. «Questa melodia non ti sarà più favorevole» l’elfo fintò un montante e sbilanciò l’umano, gli si avvicinò di un o e lo colpì al volto con il pomo trilobato della spada. Hulbert cadde a terra ma balzò in piedi dopo una capriola. Si strinse il naso rotto con la mano sinistra quando riconobbe il sapore del sangue che gli finiva sulle labbra. «Non puoi rivaleggiare con il Signore del Fuoco» Vortigern affondò il fendente finale all’altezza del collo dell’avversario ma la spada non trovò alcuna resistenza: Hulbert evitò il colpo piegando la schiena all’indietro e si rialzò cogliendo al ventre Vortigern con un montante. Lo spadone sferragliò sull’armatura degli avi che proteggeva l’elfo ma la potenza del colpo lo scagliò nel fango. «Conosco anch’io l’Arte di alterare il Canto delle Spade e l’ho praticata non appena avete iniziato» la voce di Amber fece rabbrividire l’elfo. «A quanto pare siamo stati più abili.» «Lo scontro è finito, Signore del Fuoco» Hulbert alzò lo spadone. «L’ultima nota canta per me.» La lama entrò nel petto, spezzò due costole e affondò nel polmone destro; uscì con rapidità, e sollevò un’onda di sangue livido, squarciando le vesti ricamate del signore di Brora. Bogar affondò il secondo kukri nel ventre di Hulbert e lo spinse così a fondo che rischiò di perderlo per l’empito. L’uomo-pipistrello attese che l’umano abbandonasse lo spadone, poi si spostò e lo lasciò cadere. L’urlo di Amber squarciò la notte. «Doveva essere uno scontro leale» Vortigern balzò in piedi, afferrò Hulbert e lo resse. «Non avevo bisogno di te per sconfiggerlo, era tutto sotto controllo» si lamentò con Bogar.
L’uomo-pipistrello guatò l’elfo, severo. «Sei un irresponsabile. Il tempo per giocare con gli esseri umani è finito.» Vortigern guardò il volto dell’avversario, sfigurato dalla morte. «Questa macchia ti perseguiterà in eterno» sussurrò Hulbert; la vita lo lasciava e le mani non riuscivano a trattenere le viscere nella ferita. «Io non sapevo quel che avrebbe fatto» sospirò Vortigern. «Ti chiedo perdono.» «Allora risparmia mia moglie e mio figlio» l’elfo esitò e il suo sguardo scappò da quello dell’umano. «Risparmiala e avrai il mio perdono» ringhiò il ragazzo con le ultime forze. «Lo prometto» dopo il giuramento di Vortigern il volto di Hulbert si distese e il corpo scivolò a terra, privo di vita. L’elfo raggiunse Bogar e afferrò la mano che stava per colpire Amber. «Non uccideremo la donna» disse nella lingua pigolante dell’uomo-pipistrello. «E per quale ragione?» «Non l’ho sconfitto lealmente, monderò questa macchia risparmiandola.» «Il codice etico degli elfi?» Bogar sospirò disgustato. «Ci è stato ordinato di uccidere tutti i feudatari» la voce odiosa dell’uomo-pipistrello sottolineò la parola “tutti”. «Il come era un dettaglio.» «Ebbene, quella donna non compare tra i feudatari.» «Costei è più pericolosa di quello che abbiamo ucciso.» «Ho promesso di risparmiarla. Andiamo» l’uomo-pipistrello attese fissando la rabbia che inaspriva il volto piangente di Amber. «Bogar, andiamo!» «Tu hai promesso, Vortigern, non io» l’uomo-pipistrello si liberò dalla stretta e fece roteare i kukri nelle mani. «Tu hai un codice etico perché il tuo popolo si è macchiato di ingiustizie e violenza. Io appartengo alle antiche stirpi di Arhanien che l’uomo ha sterminato per vivere nell’opulenza. Non devo nulla a individui come questi, nulla. E se tu non hai il coraggio per rimanere a guardare come l’ammazzo, levati di torno.»
L’elfo serrò i pugni e si allontanò. * Io ho rispettato la mia promessa, Hulbert di Brora, Vortigern guardò le stelle affacciate alla volta scura della notte, si avviò al barbacane ma si fermò presso una figura china che si infangava le dita. «Dimmi pezzente, come mai non sei a tremare dentro la tua spelonca?» Il giovane che tracciava segni nel fango alzò la testa, nascosta sotto un cappuccio foderato di pelliccia; imberbe, portava capelli trasandati, vestiva una gabbana scura e se non fosse stato per il bastone magico sarebbe ato per lo scemo del villaggio. «Dunque tu sei lo scriteriato che vuole sfidarmi. Non ti aspettavo così presto: muori dalla voglia di morire?» Vortigern sogghignò. Il giovane si alzò, strinse il pugno destro e lasciò cadere perle di sangue sul terriccio umido: il diffondersi di una livida e malsana luminescenza lungo le nette linee che aveva tracciato fu la risposta. L’elfo rise. «Per quanto potente possa essere la negromanzia, un bamboccio come te non la padroneggerà mai a sufficienza per renderla efficace» le mani del giovane si illuminarono e il bagliore si spense. «Una volta imboccato il cupo sentiero della magia della morte, non vi è ritorno: la tua Arte è il tuo limite.» Il ragazzo lo guardò senza espressione. «Chissà se è veramente come dici, Vortigern di Tseller. Chissà se domina lo spettro del ato oppure quello della predestinazione» le tracce si riaccesero e la luminescenza rimbalzò sui volti, creandovi zone verdastre e nere. «Sei patetico come tutti gli esseri umani. Il destino non esiste: esiste un viluppo inestricabile di mezzi e fini, nulla di più. Non esiste una rappresentazione, esistono attori su un palcoscenico» Vortigern percepì una perversa reminiscenza nella traccia lasciata dall’incantesimo del giovane; storse il naso ma la ritenne inoffensiva. «Che fine ha fatto Artax?» «Il tuo stallone di fuoco?» Gabriel aggrottò la fronte e spiegò come se quanto accaduto lo dispie. «L’ho congedato, si è disperso nel mana, com’era giusto che fosse.»
«Ho impiegato molto tempo per invocarlo» le mani di Vortigern si accesero: «il danno che mi hai recato non sarà ripagato dal sangue che ti spillerò.» Gabriel parlò come se si rivolgesse a un demente. «Gli elementali sono liberi, obbligarli a seguirti è una costrizione indegna di un mago del tuo livello. Fossi in te non mi preoccuperei per lui: quando avrò finito, Artax avrà un nuovo padrone. Llywelyn, aiuta, la donna» il terraltiano corse da Amber. Vortigern si abbandonò a una grassa risata. «Esilarante!» Attorno alle sue mani il fuoco vorticava in grumi cangianti. «No, dico sul serio, davvero pensi che un ragazzino possa spuntarla contro di me?» Le sfere danzanti si ingigantirono divorando le tenebre. «All’inizio volevo ignorarti» Gabriel avanzò verso l’elfo seguendo le tracce iridescenti nel fango. «Ho persino pensato che potevi tenerti in Sigillo, che mi sarei potuto accontentare e limitarmi nell’uso degli incantesimi più complessi e potenti. È stato mentre ti cercavo, mentre la notte vedevo le fiamme proiettare ombre languide e penose: ho pensato di abbandonare i miei propositi e di dedicarmi al mago che mi ha rovinato la vita. Poi ho capito che senza disporre dei poteri del Sigillo affrontare Jaquish di Anquelot sarebbe stato proibitivo.» Vortigern si lasciò scappare un sorriso sfacciato. «E quindi devi strapparmelo per prenderti un’altra vendetta.» Gabriel scosse il capo. «Non devo sconfiggerti, non è necessario, e lo sai bene. È sufficiente che rinunci al Sigillo. Non voglio la tua vita, voglio che tu smetta di interferire con me.» Vortigern scoppiò a ridere. «Vorresti convincermi a dividerlo con te? Un Sigillo non ha mai avuto due padroni.» «Lo so bene. Ti chiedo di lasciarmelo. Ci sono alcune magie che una volta dimenticate ti impediranno di usarlo: cancellale dalla tua memoria e lasciami il Sigillo per un po’. Tra qualche mese le studierai e ne riparleremo.» Le risate di Vortigern si spensero. «Tu non hai la faccia di uno che sta scherzando» disse con riluttanza. «Tu credi veramente alla follia che mi stai proponendo.» Gabriel aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrei scherzare? Io non ho nulla
contro di te, mi occorre il Sigillo e basta. La mia proposta è onesta.» «Esilarante» lo disse senza ridere. «Non cederò il Sigillo, a nessuno, mai.» «Nel mio destino è scritto che controllerò il Sigillo del Fuoco. Gli Dei mi hanno eletto a questo compito. Opporsi non è una scelta sensata nemmeno per un essere dotato del tuo potere.» «Sai che cos’è il destino, Gabriel?» Vortigern lo fissò tra i sospiri. «Il destino è la strada che gli Dei ci spianano davanti.» Vortigern negò con un vistoso cenno del capo e la sua voce divenne antica e profetica. «Il destino non esiste, ragazzo mio. Il destino è la parola che voi umani date al caso che si realizza. Perché proprio il Fuoco? Perché non il Vento, o l’Acqua, o la Terra. Guarda, il Sigillo della Terra è nelle mani di un mio figlio bastardo: se mi aiuterai a sconfiggerlo, potrai comandare la Terra. È una proposta onesta.» «Ne riconosco l’equità. Ma è praticabile anche la mia.» Vortigern si accigliò. «Che cos’è che ti impedisce di trattare? Cosa c’è nel Sigillo del Fuoco che non c’è negli altri?» «Il Sigillo del Fuoco mi è stato promesso dagli Dei.» «Mi domando se tu abbia mai combattuto un duello magico» Vortigern si fece triste. «A breve lo capirai da solo.» «Se avessi mai combattuto, sapresti che un duello tra maghi dura gli attimi necessari al più debole per rendersi conto della propria inferiorità. Se lo scontro dura di più è per colpa dell’imbecillità del più debole che si ostina a sfidare il più forte: cambia il tempo impiegato, non cambia l’esito. Dopo una frazione di secondo o un giorno intero, vincerà sempre colui che era già più forte.» «Non è questo che mi è stato insegnato. Lo scontro tra maghi è come una battaglia tra grandi eserciti, è l’imprevisto che fa la differenza.»
Vortigern rise. «Vediamo dunque se la ragione si schiera dalla tua parte!» Vortigern scagliò le sfere vorticanti contro Gabriel, i proiettili lo colpirono e alzarono un cono di fiamme danzanti. «Tutta questa la potenza di un elfo della tua età?» Gabriel cristallizzò le lingue di fuoco e le fece esplodere in una nebbia fitta e luminosa che incendiò i tetti di paglia e scandole delle capanne vicine. «Sento il mana pulsare, lo sento scorrere, lo sento vivere. So cosa farà, e so cosa farai tu» Gabriel afferrò la nebbia danzante, «non puoi nulla contro il mio dono» la deformò sino a ottenere un disco fiammeggiante «e non puoi ostacolare il mio cammino.» Il volto di Amber era deturpato dal dolore e dalla rabbia; le lacrime gli aravano le guance e i singhiozzi le spezzavano il respiro. Bogar la colpì con il kukri in mezzo al petto ma lo scudo magico alzato dalla donna deviò l’attacco producendo un rumore metallico e un bagliore argentino. «Resistere non farà che prolungare la tua sofferenza» l’uomo-pipistrello parlò nella lingua degli umani, mostrando un tono sibilante e odioso. Amber brancicò all’indietro e si rialzò a fatica, piangendo ma mantenendo lo scudo. Llywelyn scagliò la fransisca ma i sensi dell’uomo-pipistrello intuirono l’attacco e Bogar la deviò con un kukri. Il terraltiano si scagliò contro il mostro alato brandendo la spada e lo scudo. Bogar rimase ad attenderlo e gli balzò alle spalle con una capriola, sbattendo le grandi ali nere. Non sottovalutarlo, non osare, Llywelyn ricordò le parole di Gabriel e rabbrividì mentre immaginava i kukri che gli squarciavano la schiena. Bogar allungò le lame delle sue armi esotiche ma, quando Amber scattò verso Llywelyn, lo scudo magico avvolse anche il terraltiano e deviò i colpi. Llywelyn allungò un fendente ma i kukri si congiunsero a croce e gli bloccarono la spada. Bogar gridò e la sua voce a ultrasuoni si infranse sullo scudo magico, lo incrinò, lo sbreccò, lo fece esplodere in una nube di cristalli scintillanti e spinse a terra la maga e il guerriero. Llywelyn ringhiò, balzò in piedi, fintò un attacco con la spada e sbracciò con lo scudo ma Bogar evitò il colpo e rifilò un calcio in pieno petto al terraltiano, gettandolo ancora a terra, oltre Amber. Bogar rimase a contemplare il terrore della donna; allargò le lugubri ali e puntò i
kukri contro il suo petto. «Ti ricongiungo a tuo marito.» La raggiunse con un battito d’ali. Calénanes! Amber richiamò l’arma magica donatale da Gwyllywm, roteò sul piede sinistro, eluse l’affondo di Bogar e calò la spada con tutto l’empito che aveva: l’arma che appartenne a Moad, Signora del Vento, trovò le lunghe dita che tendevano la membrana dell’ala sinistra dell’uomo-pipistrello e le mozzò dalla prima all’ultima. L’urlo di Bogar assordò gli abitanti di Brora rintanati nelle loro capanne come conigli. «Non si sottovaluta mai l’avversario. Mai.» Amber creò un nuovo scudo magico. Bogar scagliò maledizioni nella sua lingua incomprensibile, protese le braccia verso Amber e con il suo potere sbriciolò l’incantesimo appena innalzato dalla maga. Fece un o verso e scagliò i due kukri. L’elfo creò un murò d’acqua che ridusse l’incantesimo offensivo a un anello di fumo sfrigolante. «Sei patetico, Gabriel figlio di Lester: la magia non è un dono, è una maledizione. Potresti chiamare altrimenti qualcosa che ti inizia all’intima natura delle cose e ti mostra che non esiste un perché?» Vortigern pestò un piede e una lingua di fuoco si alzò da terra, correndo verso l’umano. «Tu chiami dono un tormento del genere?» Gabriel smorzò l’incantesimo di Vortigern, che scemò sino a spegnersi davanti ai suoi piedi, poi gli diede nuovo vigore e lo rispedì indietro, generando una nuova onda corrusca. «Vuoi che unisca terra e cielo in un’aurora di fuoco? È questo che vuoi?» Vortigern annullò il contro-incantesimo con una sbracciata. «Fallo pure. Non ti recherà vantaggio. Così come non te ne daranno i trucchi illusori che stai creando per distrarmi. Li percepisco senza che mi rechino alcun fastidio.» Vortigern si fermò e attese; aveva imbastito quattro illusioni, una più invadente della precedente, cercando di coinvolgere più sensi possibili mentre sferrava attacchi con incantesimi del fuoco. Non ne è riuscita una, pensò mentre le sue creazioni sfiorivano senza aver neppure preso vita. Ha percepito ogni illusione mentre prendeva forma nella mia mente.
«L’ho immaginata mentre tu la immaginavi» Gabriel terminò i pensieri di Vortigern. «Il tuo pensiero naviga sul mana: ogni volta che vi accedi per dare sostanza all’idea di un incantesimo, io lo so. Non puoi sconfiggermi, nessuno è in grado di farlo.» Vortigern sogghignò. «Eppure esiste un modo per sconfiggere un mago spontaneo.» «Ti inganni» Gabriel non mostrò le esitazioni che Vortigern voleva suscitare. «Esiste invece, ed è il modo che gli umani usano per risolvere le pendenze da quando sono stati creati» l’elfo estrasse la spada magica e preparò gli incantesimi difensivi che conosceva. «Un elfo del tuo rango è tanto vigliacco da sfidarmi con il vile metallo?» Vortigern balzò verso Gabriel sospinto dalla magia e l’umano innalzò un muro di fiamme largo un o; l’elfo sfidò la parete infuocata con una folata che l’aprì il tempo necessario per attraversarla, e piombò addosso all’umano. Vibrò un fendente rovescio che Gabriel parò grazie al bastone magico e giunse a guatarlo negli occhi, sogghignando e spingendo il proprio naso sino a un dito dal suo. «La fortuna ha un limite, ragazzino, e tu l’hai raggiunto» Vortigern allontanò Gabriel con un fendente che gli strappò il bastone e gli puntò la lama al collo. L’umano appoggiò i piedi nel fango e scivolò all’indietro; percepì il calore sprigionato dagli incantesimi di movimento che usava l’elfo e reagì bloccando la spada con una rete magica appiccicosa e puzzolente che i negromanti usavano per contenere anime immonde. «Versatilità e inventiva, le doti migliori per un mago» grugnì Vortigern mentre liberava la spada con una preghiera a Shana, Dea Madre degli elfi. «Oppure sei a corto di idee e ricorri ai trucchi più beceri del tuo repertorio?» Pulita l’arma l’elfo partì all’attacco cercando un affondo che Gabriel evitò teletrasportandosi accanto al pozzo. Vortigern rigirò l’arma con un gioco di polso. «Se conosci magie che ti consentono di battermi in un battito di ciglia, ebbene è giunto il momento di usarle. Stupiscimi.» Llywelyn balzò verso Amber e protese lo scudo tondo bloccando i kukri, che si
piantarono nel legno. «Sei una maga, vero? Dimmi che conosci dei trucchi per farlo secco.» «Ce ne sono un gran numero, ma mi servirebbe troppo tempo» Amber cercò il corpo di Hulbert. «Concentrati» urlò Llywelyn quando le vide gli occhi inondati di lacrime. «Concentrati sul mostro o siamo spacciati!» Amber guardò ancora il corpo di Hulbert e singhiozzò. «Se non sopravvivi, la sua morte è stata inutile.» Amber fece un lungo respiro, deglutì la rabbia e la disperazione che la stritolavano e fissò i movimenti di Bogar. «Seguimi» disse al terraltiano, «seguimi e fai come ti dico.» Bogar attirò a sé i kukri e con un urlo ultrasonico assordò i due umani e fece a pezzi lo scudo del terraltiano. «Attaccalo!» Amber scattò verso l’uomo-pipistrello con la spada alzata sulla testa, da destra. Llywelyn la imitò ma attaccò dal lato opposto e vide Bogar preparare i kukri per il lancio ma esitare. «Lanciali stronzo» berciò il terraltiano, «lanciali!» Bogar digrignò i denti acuminati in un’espressione raccapricciante e gridò con tutta la voce che aveva, generando un’onda energetica che scaraventò Llywelyn a terra per la terza volta. Il terraltiano cadde di schiena nel fango e vide i kukri che scintillavano alla luce delle fiamme; si rialzò nonostante la botta gli avesse tolto il respiro. Un terraltiano muore guardando negli occhi la morte, non sdraiato come una baldracca ubriaca. Si tirò in piedi a fatica e vide Amber che evitava i kukri di Bogar con lo scudo magico. Rifiatò. Non ce la farà da sola, trovò l’impugnatura della spada ma prima che decidesse come agire, i bagliori sprigionati dallo scontro tra Gabriel e Vortigern illuminarono un oggetto scintillante abbandonato a un o da lui. La lama della fransisca. Llywelyn raccolse l’arma e studiò come attaccare.
A tre i da lui scaglio l’ascia; avanzo e se quello stronzo ha evitato la fransisca lo faccio secco con le mie mani. Quando il terraltiano si gettò contro l’uomo-pipistrello, Amber ne aveva accarnato il braccio destro con la spada magica. Calénanes tranciò il braccio di Bogar, strappandogli un grido assordante; la fransisca di Llywelyn giunse un attimo dopo e si infilò all’altezza delle scapole del mostro, tra le ali. Bogar cadde in ginocchio e la spada magica della signora di Brora gli penetrò il petto, spezzando le costole e piantandosi nel cuore. Llywelyn strappò la fransisca dalla schiena del mostro, l’alzò al cielo scuro coperto di nubi e la piantò sulla nuca pelosa dell’uomo-pipistrello, spaccandogli il cranio. Fiamme livide divennero poltiglia corrusca. «Questo è il vero potere del fuoco» sussurrò Gabriel, «questa ne è l’essenza» protese le mani vibranti e spinse contro l’elfo la magia. «È giunto il tuo tempo: cedi il o.» Il magma prese a ruotare e si schiantò contro le mani aperte di Vortigern: la pelle delle dita venne stracciata, la carne sfrigolò, le ossa delle falangi si incenerirono. «Tu sei l’essere più incredibile che abbia mai conosciuto» la voce gli uscì spezzata dal dolore «sei l’essere più potente, più dotato, più erudito, più spregiudicato. Ma sei giovane, e hai commesso un errore, un grave errore.» L’elfo affrontò il magma e ne frenò la rotazione con la propria aura e le dita ridotte a moncherini fumanti. «Hai creduto che bastassero la predestinazione, l’estro, la potenza e la raffinatezza della tua Arte a sconfiggere un elfo che prepara questo momento da diecimila anni.» Vortigern mosse ciò che rimaneva delle sue mani nella direzione opposta a quella imposta da Gabriel e urlò con il volto trasfigurato dallo sforzo. «Non sarò io a cedere il o, non sarò io a rinunciare al Sigillo. Io sono Vortigern di Tseller, io sono il Signore del Fuoco» la lava esplose vorticando, generò escrescenze tentacolari, spire corrusche e livide che invertirono la rotazione e si protesero verso l’umano, «e non è ancora giunto il mio tempo.» Gabriel si mosse per comandare i bracci del Sigillo del Fuoco e bloccò le spire del magma quando gli sfiorarono i polpastrelli. I muscoli del giovane si tesero e vibrarono, il volto si deformò per la sofferenza ma la lava turbinante si fermò prima di ghermirlo. Per un tempo che parve rasentare l’infinito il magma rimase inerte, immobile, ma una frazione di secondo dopo quell’eternità, esplose una seconda volta, avvolse il giovane mago che aveva sconfitto Alchibunazar e lo
incenerì. Llywelyn vide Gabriel disperdersi in una nube di polvere puzzolente. Impugnò la fransisca con mani tanto sudate che per poco l’arma gli sfuggì. Amber preparò un incantesimo difensivo che potesse deflettere un attacco a distanza ma l’elfo dalla chioma castana si diresse verso una casa incendiata; la fanciulla lo osservò mentre cercava tra le fiamme con le mani che si rigeneravano. «Quanto è vulnerabile?» Domandò il terraltiano, inquieto. «Le sue difese magiche sono attive. Non è distratto, è pronto a ogni attacco» Amber singhiozzò, mentre i pensieri rimbalzavano dal corpo di Hulbert, inerte, a quello di Vortigern, che strappava le fiamme dalla costruzione, come si fosse trattato di abiti ritirati dalle lavandaie. L’elfo piegò il fuoco danzante e le racchiuse in qualcosa che si dimenava e si deformava in figure incomprensibili di colori che attraversarono l’intera iride, fino al momento in cui rosse lingue dalle gialle escrescenze non trovarono un equilibrio che ricordava un cavallo con otto gambe. «Qui Artax, qui bello.» L’elementale del fuoco si avvicinò a Vortigern, che lo accarezzò sul collo, lo montò e lo diresse verso i due sopravvissuti. «Non ho niente contro di te e non ero amico del mostro che hai ucciso» disse rivolto al terraltiano, «e ho giurato a tuo marito che ti avrei risparmiata» guardò Amber. «Non farmi pentire di onorarlo» Vortigern diede di sprone e Artax si allontanò da Brora, sfavillando nelle fitte tenebre. Amber raggiunse il corpo di Hulbert, crollò in ginocchio, si stese su di lui e scoppiò a piangere. Llywelyn la raggiunse, si chinò su di lei, le poggiò una mano sulla spalla. «Mi dispiace» rimase immobile accanto a lei finché la fanciulla non terminò le lacrime. Amber si rialzò, gli occhi azzurri trasfigurati, gonfi; tremava e Llywelyn la strinse forte, come un padre. Amber singhiozzava, controllava a stento il respiro, scossa da spasmi violenti e improvvisi. Llywelyn la strinse più forte che poteva, finché non sentì la donna placarsi. Gli abitanti di Brora che si erano rifugiati nelle capanne presero a uscire e a raccogliersi attorno alla loro signora, che li vide e ritrovò il rassegnato contegno
che le era imposto dalla propria carica. «Ti ringrazio per quello che hai fatto, straniero» prese le distanze da Llywelyn e si chiuse nel proprio dolore. «Io sono Amber di Brora e ti esprimo tutto il mio rammarico per la perdita di quel ragazzo con cui viaggiavi: io lo conobbi nel giorno dei tumulti di Eskiliar» disse con la voce spezzata dai singhiozzi. «Ed è incredibile come le nostre strade si siano incrociate in un altro terribile giorno di morte.»
Il triskelion è un’arma utilizzata dagli elfi oscuri; si tratta di uno scudo dotato di tre lunghe lame che permettono a chi lo porta di difendersi e di attaccare. Trattato sulla diversità delle culture del continente di Arhanien – il Terzo Cantore
XXXII – Il negoziato
«Cosa cerca da noi il più avido mercante di Arhanien?» Zoe esaminò il mezz’elfo. Laoden fece un grasso sorriso. «Vedo che la mia leggenda è adombrata da tristi episodi che non le recano la giustizia dovuta.» «Grandi sono i racconti delle tue gesta, Laoden, e più grandi ancora sono quelli riguardo ai pagamenti che pretendesti» Zoe accese il tabacco nel proprio calumet e generò una ghiotta fiamma con un gesto della mano. «Cosa sei venuto a cercare?» La voce arrochita del redivivo Glewmwn scosse il mezz’elfo. Laoden impostò la voce. «Immagino che voi sappiate cosa sia Kaerwood.» Zoe riunì i capelli, li separò in due parti uguali e realizzò una treccia elaborata con un incantesimo; Glewmwn non rispose e gli occhi di Laoden saltellarono tra il suo sguardo ombroso e quello disinteressato di Zoe. «Non vedo perché la cosa dovrebbe riguardarti» rispose infine Glewmwn. «Alcuni dei guerrieri delle sedici tribù sono compromessi.» «Compromessi?» Zoe si rabbuiò. «Vortigern di Tseller è un Anziano di Kaerwood e controlla il Sigillo del Fuoco.» Calò un freddo silenzio.
«E tu come sei a conoscenza di questi dettagli?» Zoe appoggiò il gomito che reggeva il calumet al palmo della mano sinistra. «Io sono il Signore della Terra» confidò senza trattenere un moto d’orgoglio. Glewmwn sussultò e per poco la pipa non gli scappò dalla bocca. «La tua accusa è molto grave» sussurrò Zoe, il volto da una bellezza che le prime rughe non avevano sfiorito. «Hai prove che Vortigern agisca negli interessi del Consiglio di Kaerwood e non per quelli degli elfi di Tseller?» «Ho combattuto contro di lui ad Antioch, era assieme ad Atar-Al-Karem, l’Anziano che rappresentava gli orchi. Se questo non bastasse, sappiate che sono stato alla Biblioteca dei Sentimenti Perduti. E che ho letto.» Glewmwn allontanò la pipa dalle labbra, divenute secche come un campo di grano mietuto. «Quanto e che cosa, di preciso?» «Abbastanza» fece il vago. «Ho letto i trucchi che tu ed Erwmysh inventaste per ottenere la fiducia di Gwyllywm e ciò che stanno macchinando mio padre e tuo nipote.» Zoe e Glewmwn rabbrividirono. «Mio nipote è di nuovo un elfo oscuro?» La voce di Zoe perse sicurezza e l’elfa cominciò a comprendere le parole e lo sdegno di Khayn. «Tuo nipote è con gli ortodossi e collabora con loro.» «Cosa cerchi da noi?» Glewmwn andò al dunque. «Voglio la testa di Vortigern di Tseller.» Glewmwn fece una faccia disgustata e riprese a fumare la pipa. «Quello che ci chiedi è inaccettabile» rispose Zoe dopo il silenzio di Glewmwn, «ed è oltraggioso. Per giunta noi siamo elfi di Si’phir e Vortigern non appartiene alla nostra tribù.» «Vortigern è pericoloso. Sebbene sia uno dei sedici guerrieri del revisionismo,
non sarà fedele alla vostra causa se Kaerwood appoggerà gli ortodossi.» «Perché cerchi Vortigern da noi?» Glewmwn fece ghirigori con il fumo. «Tu puoi convocare i sedici guerrieri e offrirmi l’occasione di tendergli una trappola. Sei il nonno di Gwyllywm, sei colui che può trarre maggior vantaggio dalle informazioni che ti ho dato.» Zoe stava per replicare quando un cenno di Glewmwn la fermò. L’elfo e il mezz’elfo si guardarono in silenzio. «Tu vuoi che io convochi le sedici tribù e intendi assne Vortigern a tradimento. Non ti rendi conto di quanto siano spregevoli i tuoi intenti?» Laoden si irrigidì. «I miei intenti non sono più spregevoli di ciò che egli ha fatto a mia madre.» «Comprendo il tuo dolore, comprendo l’arsura che la sete di vendetta ti reca, ma non posso fare una cosa del genere: romperei il patto di reciproca fedeltà stipulato dalle sedici tribù. Non metto in dubbio che la tua vendetta sia legittima, ma non incrinerò il rapporto dei Si’phir con i Tseller per risanare il torto che dici di aver subito.» «Continui a non capire, Glewmwn di Si’phir» il mezz’elfo rise: «sarò io a recarvi un favore uccidendo Vortigern. È un traditore, e il fatto che sia un Anziano di Kaerwood ne è la prova. Non vengo soltanto a domandarti un servigio, vengo a offrirtene uno» terminò con voce melliflua. «Appartenere a Kaerwood non è la prova di un bel niente» Glewmwn si fece serio. «Gli Anziani hanno fatto molto per le razze di Arhanien: hanno preservato la pace e» Laoden lo interruppe. «Non mi sembra che la guerra tra l’Orda e Alesia possa essere definita pace con la leggerezza con cui l’hai appena fatto.» «E quando non hanno preservato la pace» Glewmwn arrochì la voce, riprendendo la frase interrotta da Laoden, «quando non l’hanno fatto è stato per ripristinare un’ingiustizia subita da qualcuno. Gli Anziani hanno combattuto contro Morg Kroth, non dimenticarlo, ragazzino.»
Laoden sbuffò. «La sconfitta di Morg Kroth risale a secoli or sono. Parte degli Anziani nemmeno c’era a quel tempo. Sono sicuro che l’impegno di Kaerwood sia stato grande, e penoso, e riconosco che gli uomini-albero abbiano sacrificato la loro vita per sorvegliare il Tempio Scarlatto, ma oggi Morg Kroth è un ricordo e le grinfie che il Consiglio ha allungato nei regni di Arhanien costituisce una minaccia per tutti. Senza contare che gli ortodossi hanno collaborato con gli orchi di Atar-Al-Karem. Tu sai chi guidava l’orda, ti sei chiesto perché?» Glewmwn guardò Zoe, che sospirò. «Tu come conosci questi dettagli?» Sembrò rassegnarsi ad ascoltare le proposte di Laoden. «Ti ho detto che sono stato a Gòlmas: ho visto i sentimenti perduti da coloro che hanno vissuto i tribolati eventi degli ultimi mesi. Ad Antioch ho visto tuo nipote Gwyllywm tornare un ortodosso e anche di questo dovremo parlare perché non posso continuare ad armeggiare con il Sigillo della Terra per contenere il suo folle disegno di distruzione.» «Questi non sono problemi nostri o dei Si’phir: ti sei impossessato di un Sigillo e ora devi pagarne l’onere» lo riprese Zoe. «E se non lo fi?» Laoden si ritrovò ad alzare la voce. «Se decidessi di non impedire l’apertura del Sigillo del Vento quando Gwyllywm ne palpeggerà le turbinanti escrescenze?» «Il Sigillo del Fuoco e quello dell’Acqua interverranno al tuo posto. Coloro che hanno creato i Sigilli lo hanno fatto affinché fossero soltanto una minaccia, non armi utilizzabili a piacimento da chi li controllava. L’equilibrio è l’essenza di tutta la nostra cultura.» «Già, ma devo ricordarti che Vortigern è un elfo e che Noa è regina del Popolo del Mare? Nessuno di loro sarebbe toccato dallo scatenarsi del Vento. Se lo lasciassero fare?» «Il tuo è uno stramaledetto inganno. Vortigern non è un oscuro e tu stesso rischi la vita se un Sigillo si apre» Glewmwn si surriscaldò. «Mio padre appartiene a Kaerwood, dannazione! Dove lo classifichi, tra gli amici o tra i nemici?» «Se appartiene a Kaerwood avrà gli interessi di altre razze da salvaguardare, non
lascerà mai che gli ortodossi dominino Arhanien.» «Hai parlato con Vortigern di recente? È la cosa che più si avvicina a un ortodosso, di elfico gli rimangono soltanto le orecchie a punta e l’orgoglio.» «La tua “proposta” ha il sapore di un ricatto» la voce di Zoe divenne un acre sussurro che quietò il diverbio. «Non convocheremo le sedici tribù per appagare la tua sete di vendetta. Si può sapere perché ti tormenta una ione tanto ardente? Perché ti sei imposto di spezzare gli equilibri?» «Gli equilibri sono già stati rotti» proruppe il mezz’elfo, «possibile che non ve ne rendiate conto? Non siete in guerra con gli ortodossi, siete in guerra con tutto Arhanien! Kaerwood è pronto a lanciare una nuova offensiva e la guerra iniziata da Atar-Al-Karem ha indebolito quelle forze che possono opporsi al Consiglio. Una nuova campagna militare di Kaerwood, o una più subdola coercizione di personaggi chiave, porterà soltanto a nuovi disequilibri. Avete gli orchi a nord e a ovest, l’Impero Malgiusiano a est, i Regni Liberi a nord, cosa ti fa pensare che nessuno cercherà di infilare l’Albero della Vita in una fornace per fondere metallo? Hai visto le nuove armi dei nani? Mettono in fuga i draghi, stracciano il tessuto del mana e sono efficaci quanto lo xelentsio. Quante altre verità ancora vuoi sentire? Uccidere Vortigern e sfibrare Kaerwood è un favore a tutti i popoli di Arhanien.» «Affrontalo dunque» lo incalzò Glewmwn, irritato: «vai presso la tribù di Tseller, di Tseller, non Si’phir» puntualizzò scocciato «e pretendi un’ordalia. Che cosa sei venuto a fare da noi?» «Basta una cosa del genere?» Laoden rimase sbalordito. «È sufficiente chiedere un’ordalia per ottenerla?» Zoe sospirò e spiegò la procedura. «Devi fare una pubblica accusa, portare prove della sua colpevolezza e invocare il giudizio della sua tribù. Qualora il giudizio sia negativo, cosa molto probabile in virtù del ruolo di tuo padre e della scarsità delle tue fonti, puoi invocare un’ordalia: non è detto che ti sia concesso, dipende dal tuo valore e dalla fiducia che daranno alla tua parola. Ma non conosci le regole degli elfi?» «No, non le conosco» si arrabbiò Laoden, «e tuttavia sono regole insensate: chiunque può giungere presso di voi e chiedere un’ordalia? Ma che senso ha?»
Zoe scosse la testa. «Sì, non conosci le nostre regole. L’ordalia può richiederla soltanto un membro della stessa tribù.» «Ma io non sono un membro della tribù di Tseller.» «Se sei figlio di Vortigern, sei anche membro della sua tribù» precisò Glewmwn, lezioso. Laoden sospirò. «Ero un membro degli elfi di Tseller, ma mi hanno cacciato quando hanno scoperto che non ero un elfo.» Glewmwn e Zoe guardarono Laoden stupefatti. «Ti hanno cacciato o ti sei fatto cacciare?» Laoden glissò. «Ho vissuto per un breve periodo assieme a loro, mi depilavo ogni giorno per far scomparire ogni traccia di ciò che avevo ereditato da mia madre. Alla fine mi hanno scoperto e me ne sono dovuto andare. Non posso invocare il loro giudizio e neppure a un’ordalia. Oltre a questo non mi basta la vita di mio padre. Devo distruggere Kaerwood.» Glewmwn sospirò. «Sei una sorpresa continua: perché vuoi distruggere Kaerwood?» «Il Consiglio ha condizionato la storia di Arhanien per secoli nel ato e lo farà per secoli nel futuro. Tutto è collegato, come il sangue che lega i membri di una tribù, come l’acqua di un fiume, non è questo ciò in cui credete voi elfi? Sono le idee di Kaerwood che devono essere sconfitte: è l’ambizione di coloro che desiderano imporre alle nostre vite le loro regole attraverso mezzi subdoli e impalpabili, che deve essere annichilita. Non esiste mediazione con una congrega che agisce nell’ombra soltanto nel proprio interesse.» «Cos’è che ti reca tanto fastidio?» «Sono sensibile a ogni ingiustizia commessa, ovunque e contro chiunque. Io che ho il potere di fermarla, ho il dovere di farlo.» «È un intento nobile. Ma pecchi in presunzione, mio giovane Laoden.» Il mezz’elfo si accigliò. «Cosa intendi?»
«Che talvolta non è sufficiente avere il potere di fermare un’ingiustizia. Talvolta occorre capire se coloro che trarranno vantaggio dal nostro aiuto ne siano meritevoli.» «Perdonami ma non mi è chiaro dove vuoi arrivare.» «Quanto più aiuto fornirai a un bambino, tanto più egli dipenderà da te e meno si impegnerà a crescere» specificò Zoe. «Non parliamo di bambini, parliamo di popoli.» «Ed è diverso forse? Potrai intervenire e debellare il pericolo che chiami Kaerwood ma non l’avranno fatto coloro che ne trarranno beneficio, se ne trarranno. Un popolo che abbisogna di eroi o di monumenti per ricordarli non è un popolo.» «Gli oscuri hanno aiutato Kaerwood, non vi basta questo? Voi dovreste osteggiarli, voi dovreste contrapporvi alle loro macchinazioni.» Zoe e Glewmwn condivisero un’intesa di sguardi che non avveniva da tempo: l’una annuì con un cenno e l’altro rispose. «La realtà non è una moneta a due facce. La realtà è un continuum. Né bianco, né nero; solo tantissimi grigi, un grigiore pallido e senza fine. L’uccisione di tua madre è un fatto gravissimo ma non legittima la tua vendetta, legittima la sua.» Laoden aggrottò un sopracciglio. «Sostenere che io non posso risanare un torto subito da chi non può più è dare ragione a colui che l’ha commesso.» «È per questa ragione che si deve creare un mondo dove non avvengano torti piuttosto che uno dove tali torti sono ripagati da faide o da patetici succedanei» Zoe intervenne ancora una volta. «La nostra discussione finisce qui.» Laoden sbiancò, ingoiò l’amara conclusione e si alzò. «Voi pensate soltanto a voi stessi e non vedete quel che sarà: tutto Arhanien si pentirà della vostra scelta.» «Non sarà la prima volta e non sarà neppure l’ultima.» «Concordo» Laoden fece ondeggiare la testa in un triste sì. «L’unica differenza è che stavolta siete stati informati e avete fatto una scelta priva di discernimento.»
«Non vincerai contro tuo padre, Laoden» aggiunse Zoe. «Cosa vuoi dire?» «Che per farlo dovrai diventare come lui.» Laoden si avvicinò a Zoe, fissandola negli occhi. «Ma se non lo affronto, se non lo combatto, la mia vita rimarrà per sempre segnata dalle sue scelte. Vivrò nel tormento di sapere impunito colui che ha tradito mia madre e l’ha abbandonata.» «Le tue scelte sono già segnate: le tue azioni sono rivolte a lui e non guidate dal tuo libero arbitrio. Stai inseguendo tuo padre su una strada che lui stesso ha tracciato. Non sei tu che scegli dove andare.» «Hai ragione Glewmwn, e hai ragione anche tu Zoe. Ma darò a mio padre ciò che si merita anche senza il vostro aiuto» il mezz’elfo prese l’uscita e sollevò la pelle che la copriva. «Laoden di Alerbia» Glewmwn lo richiamò e l’elfo attese, speranzoso. «Tu non sconfiggerai tuo padre.» «Ne sei tanto convinto?» Ruggì il mezz’elfo. «Tu sei venuto da noi per chiedere aiuto ma non sei pronto per affrontare Vortigern. Potrai cercare aiuto altrove e potrai anche trovarlo, ma ciò non toglie che vincerà lui.» «È una triste profezia, la tua, Glewmwn, la terrò a mente quando la sfaterò» sogghignò Laoden. «Non sfaterai un bel niente, sei soltanto un essere umano.» Laoden divenne paonazzo e si scagliò verso l’elfo. «Ti sembrano umane queste?» Berciò toccandosi le orecchie, lunghe, affusolate, identiche a quelle di un elfo. Glewmwn rimase immobile a fumare. «Lo è la barba che porti, lo è la tua iracondia, lo è la tua smisurata sete di vendetta. Se qualcuno che come me ti vede per la prima volta ed è in grado di alterare con tanta facilità il tuo equilibrio, che cosa potrà fare Vortigern?» Glewmwn si concesse un sorriso e
offrì la pipa al mezz’elfo, che la rifiutò e uscì dalla tenda. Laoden salutò Cadhla, che badava ai bambini che si erano assiepati attorno al drago, e si fece spazio tra questi. Gli elfi più giovani erano senza parole e i meno timidi si azzardavano a sfiorare Gorogol; a debita distanza, gli elfi più anziani lo rimiravano perplessi o sbalorditi. Il drago alzò il collo nero deturpato da chiazze e strisce argentine; da quando aveva lasciato la palude di Gòlmas, molte scaglie erano mutate perdendo l’originario colore lucido degli opali a favore del metallo scintillante; il carattere di Gorogol si era fatto meno crudo e le pupille, un tempo simili a rubini, erano di un colore che mischiava il verde del rame con l’azzurro del cielo. Il muso del drago si era affusolato, le ali si erano irrobustite e la massa muscolare stava diventando quella di un drago capace di affrontare un nemico a viso aperto e non con biechi sotterfugi. «Mandali via, ti prego» disse Gorogol con voce nobile ma ancora sibilante. Laoden gli giunse vicino. «Non dirmi che non sopporti queste piccole pesti.» «Le mani paffute dei piccoli posso anche sopportarle» digrignò le zanne, che si erano allungate, «sono i genitori il vero problema.» «Sei tu il suo compagno?» Un’elfa si fece avanti, aveva riccioli biondi che le ricadevano sulla schiena come una cascata. Laoden annuì senza parlare. «Gli elfi non hanno memoria di un miracolo del genere, se la richiesta non vi offende, vorremmo conoscere la vostra storia.» «La sua storia oppure la mia?» Domandò Laoden quando scoprì le numerose espressioni colme di pena. «Quelle di entrambi. La fama di un eroe cui assomigli ti ha preceduto» l’elfa parlò con un sorriso che parve sincero. «Sono Laoden di Alerbia, sono quella leggenda. Ed era mia madre a essere umana, perché è questo che volete sapere tutti.» L’elfa posò lo sguardo a terra, poi ebbe un ripensamento e sostenne quello di Laoden. «Questo non cambierà il modo con cui ti guarderemo o ascolteremo le tue parole.»
Laoden fece un sorriso falso. «Di solito è il contrario. Se la madre di un mezz’elfo è un elfa, vi mostrate più caritatevoli e pensate che soltanto uno stupro possa aver originato un obbrobrio come me. Se invece la madre è un umana, ebbene, vi mostrate più freddi, come se quelli come me fossero il prodotto dell’ovvia debolezza umana che ha ceduto al vostro fascino.» «Non farne un motivo di scontro con motivazioni socioli o antropologiche, a nessuno interessa la dialettica tra matriarcato elfico e patriarcato umano» l’elfa si avvicinò a Laoden, gli occhi che luccicavano. «Vogliamo sapere la storia di questo drago poiché il suo spirito è pieno di tormenti.» «Li supererà» taglio corto il mezz’elfo mentre Gorogol si era messo a osservare il dialogo con vivo interesse. «Ha subito la muta delle scaglie dopo un trauma?» Domandò l’elfa, presa. «Ha importanza?» Laoden sussurrò affinché quel discorso rimanesse tra loro. L’elfa gli giunse a un o, annunciata dal suo profumo di fiori. «Se è cambiato dopo un trauma, corre il rischio di tornare com’era: se non gli sarai vicino come un fratello, i suoi sentimenti e le sue scaglie torneranno come prima.» «Gli darò da mangiare dei lingotti d’argento» si inventò un sorriso spavaldo; l’elfa sospirò. «Noi potremmo aiutarlo più di te.» «Voi potreste plagiarlo, intendi. Egli ha un debito con me: deve ripagarmi del grifone che mi ha ucciso e terrà fede all’impegno. Sei molto bella e apprezzo le tue premure, sei un’elfa degna di viaggiare in mia compagnia: ti accetterò con me, se vorrai legare il tuo nome alla mia leggenda» propose con ritrovata arroganza. L’elfa sfoderò un sorriso languido, poi i suoi occhi chiari come diamanti si intristirono. «Sei abile a inimicarti le donne che temi. Ti auguro buon viaggio Laoden di Alerbia» ritornò tra gli elfi, che la subissarono di domande circa quello che si erano detti. «Andiamo bello, abbiamo un sacco di strada da fare» Laoden montò sulla sella di Gorogol, salutò con un cenno Cadhla e i piccoli elfi che si sbracciavano e
decollò. Le zampe muscolose del drago lo spinsero verso l’altro mentre le ali robuste spiegarono le membrane lucenti per sbatterle con vigore; gli artigli d’argento vivo si ritrassero tra le grosse scaglie, il collo e la coda si allungarono stabilizzandolo, e il rettile si levò come un raggio di luce che torna al suo sole. «Dove andiamo?» Domandò Gorogol. «Torniamo ad Alerbia, a casa. Troverò altre carte da giocare.» * Il sole tramontò dietro le cime degli alberi e la notte ghermì la foresta con le sue fredde spire. L’Albero della Vita non era lontano ma Khayn preferì riposare e si sistemò ai piedi di un grosso abete, sotto un ramo piegato che gli avrebbe fatto da tetto. Si inventò un giaciglio che asciugò con la magia, appoggiò lo zaino in un anfratto tra le grandi radici e preparò un incantesimo che l’avrebbe protetto dai predatori. Sistemò una coperta sulle frasche e si coricò. Socchiuse le palpebre, pesanti, ma non riuscì a prendere sonno, tormentato dalla decisione di abbandonare i Si’phir e dal pensiero che avrebbe potuto avere Alywya se avesse finto di crederla innamorata e di accettare l’inganno preparato da Glewmwn. Sono onesto o stupido? I ricordi non gli davano tregua ma prima che riuscisse a sopraffarli, percepì qualcosa. i nella neve. Rimase immobile e cercò di capire. No. Qualcuno che annulla il rumore di i nella neve ma non è abbastanza abile. Attese che i non-i fossero vicini, che giungessero sino a lui e che si fermassero. A noi due. Khayn balzò addosso alla figura che si era fermata accanto a lui, la scaraventò a terra e la bloccò, puntandole un pugnale alla gola.
«Éibhleann» l’elfo sospirò dopo aver riconosciuto l’incauta inseguitrice. «Non è saggio che tu mi abbia seguito» si rialzò e le porse la mano; l’elfa la strinse e si fece aiutare. «L’ho fatto per impedirti di commettere sciocchezze» sentenziò. «Sei tu quella che compie imprudenze» Khayn rispose scocciato. «Non sei nemmeno in grado di nascondere la tua presenza.» «Non fare lo spaccone» replicò lei, alzando l’indice destro e concedendosi un sorriso furbetto: «le altre notti mi sono avvicinata ma non hai sentito nulla.» «Da quanto sei sulle mie tracce?» L’elfo si scoprì vulnerabile. «Da quando sei partito.» «E Glewmwn non ha mandato nessuno a cercarti?» «Si vede che siamo entrambi molto bravi a nasconderci. Che fai, mi inviti sotto il tuo tetto o mi lasci fuori?» «Chissà come te la sei cavata le altre notti» Khayn sbuffò le fece spazio nel giaciglio. «Le altre notti non erano così fredde» Éibhleann si sistemò accanto all’elfo e subito si sentì avvampare per l’eccitazione. «I Si’phir saranno in pensiero per la tua scomparsa.» «Lo dici perché comprendi la mia scelta o per l’esatto opposto?» Sospirò lei. «Buonanotte» Khayn si girò nel giaciglio. «Mi potresti portare ad Anchor Seinan?» sussurrò Éibhleann senza ricevere risposta. «Dai, portami ad Anchor Seinan, sono pronta» ribadì. «Domani, ne parliamo domani. Ora dormi.» Éibhleann socchiuse gli occhi, soddisfatta, ma una bieca inquietudine la stuzzicò e, quando l’elfa li riaprì, scoprì che il sole era già alto e Khayn era sparito.
Ci sono momenti nei quali ho inseguito il destino, lo ho braccato come un mastino, senza arrendermi, senza mollare mai; in quei momenti il fato mi ha evitato, si è negato, è fuggito. Per afferrarlo ho dunque aspettato che fosse lui a cercarmi, e sono scappato, e mi sono nascosto. Gli elfi ritengono che la Dea Madre Shana offra soltanto opportunità, gli umani invocano una predestinazione che gli Dei impongono mischiando le carte del loro futuro. Io conosco la verità, l’ho afferrata controllando il Sigillo della Terra. E la verità è che l’Origine ride alle nostre spalle. Introduzione per autobiografia – Laoden di Alerbia
XXXIII – Re Karl I di Alesia
Gorogol volteggiò in ampi cerchi e scese sull’alta scogliera. La brughiera di Alerbia precipitava nel mare come se un leviatano l’avesse addentata nei giorni della formazione del mondo. Faraglioni di arenaria si stagliavano a un’altezza che nessuna costruzione era in grado di eguagliare; dalla falesia, una punta chiazzata di neve si incuneava nel mare e, all’estremità, si ergeva una torre merlata, tonda e insignificante, con ai piedi un cimitero di lapidi bianche sferzate dal vento. Gorogol scese, atterrò fuori del camposanto e ripiegò le ali argentine; l’odore della salsedine lo infastidiva ma il drago si soffermò ad ammirare il mare che riluceva all’alba, un’infinita tavola di zaffiri apparecchiata di spuma sfuggente. «Manawyddan?» Il drago fissò la torre, un tempio. «Manawyddan: il Dio che protegge i naviganti, il terzo dei figli di Shana» Laoden smontò. «E quell’uomo?» Gorogol indicò un giovane che riposava sotto una tenda, appoggiata alla torre. «Non ne ho idea» Laoden impugnò la lancia con l’estremità a martello e si avviò al tempio; guardò le tombe e vide che erano state ripulite dalla neve e che le lapidi erano lustrate; le statue alate e le gigantesche croci di pietra
giganteggiavano, lucenti del sole che si levava. Questo cimitero non ha custodi, e i familiari delle vittime che vi riposano sono ati a miglior vita. A parte me. Laoden arrivò alla tenda e vide un ragazzo di nemmeno vent’anni avvolto in coltri pesanti. Il fuoco era morto e braci bianche ricoprivano i ceppi che avrebbero dovuto riscaldare il paiolo appeso al treppiede. Laoden puntò la cuspide della lancia al collo del giovane, raggomitolato nella coperta foderata di pelliccia. «Svegliati straniero» urlò, «non è un buon posto dove are la notte.» Il giovane sussultò, scattò all’indietro, deglutì, fissò la lama e quindi l’astile, poi incollò i suoi occhi castani al volto del mezz’elfo. «Hai pulito tu le lapidi, perché?» Laoden riportò la cuspide a contatto con il collo del giovane. «So che tra esse vi è quella di vostra madre, mio signore. Non sapevo qual’era, così le ho pulite tutte: mi hanno detto che dovevo fare così se volevo parlarvi.» Laoden guardò la terza lapide della quarta fila, posta accanto a una croce trilobata, e abbassò la punta della lancia. «Chi ti ha detto questo?» «Ho fatto domande, ad Alerbia: ho chiesto come contattarvi, e come giungere a voi. Mi è stato detto che di tanto in tanto tornate in questo luogo e così vi ho atteso» il giovane si alzò e uscì dalla tenda, era alto quanto Laoden ma appariva ingigantito dalla folta pelliccia che indossava sopra un’armatura di cuoio. «Da quanto tempo sei qui?» Laoden fissò le armi del giovane, abbandonate tra la tenda e la torre: c’erano uno scudo, rosso a strisce gialle, una sarissa e una spada bastarda. «Due settimane mio signore» il giovane aveva una barba trascurata, un volto provato ma lo sguardo di chi ha visto compiersi un miracolo. «Non hai un cavallo? Sei arrivato sin qui a piedi?» «Le informazioni costano più di quanto immaginassi, qui al nord» il giovane si grattò la testa, poi tese la mano, tremando per l’eccitazione. «Sono Miguel, mio signore, e sono uno dei Leoni di Alesia.»
«Hai venduto il cavallo per pagarti le informazioni? E come pensavi di tornare?» Laoden allungò la propria mano e i due si strinsero l’avambraccio. Il ragazzo rimase imbambolato a fissare Laoden e a scuoterne il braccio in silenzio. «Puoi lasciare la presa adesso» Laoden tirò le labbra, il giovane arrossì e obbedì. «Mio signore, voi siete una leggenda vivente.» «Lo so ragazzo, perché mi cerchi?» Laoden si gonfiò e alzò il mento. «È per il mio Re, è per Re Karl I di Alesia. Egli domanda i vostri servigi.» Laoden accese il fuoco schioccando le dita. «Prosegui» sedette su una grossa pietra tombale. «Re Karl vi deve molto per quello che avete fatto contro gli orchi e dopo che Blake “il Distruttore” è morto, non c’è più un campione nel quale possa confidare. Aaron da Glenduarel era un uomo di provata fedeltà ma è stato ucciso e la stessa sorte è toccata ai suoi vassalli.» Laoden pensò a Hulbert e Amber. «A tutti i vassalli?» «A tutti» il giovane annuì con un vistoso cenno del capo. «Il Re teme che Kaerwood sia il mandante degli omicidi e che abbia convinto i senatori a tradirlo. Quello che vi ho detto è riportato qui» Miguel estrasse da una tasca nella pelliccia una pergamena con il timbro di Karl I sulla ceralacca: Laoden l’aprì e vi scoprì molte delle vicende narrate dal soldato. «Il mio Re è giovane ed è stato allontanato dalla madre e dalla vita pubblica. Eppure il suo senso dell’onore e il desiderio di vendicare il padre sono rimasti intatti. Egli vanta ancora la fedeltà di coloro che come me amavano Re Kollert, la Legione e i Leoni di Alesia. Re Karl non può guidare eserciti, non può decidere come le truppe debbano essere schierate nei suoi domini, non può far nulla se non rimanere a guardare un senato di vecchi cialtroni che si spartiscono il regno e governano per ingrassare i propri patrimoni invece di ricacciare gli orchi oltre il fiume Hirvin. Nonostante la propria impotenza, Re Karl vi implora di guidare una spedizione contro Kaerwood fatta di soldati a lui fedeli e degli eroi che hanno difeso Alesia ad Antioch.» Laoden lesse la pergamena senza prestare attenzione alle parole del giovane; alzò lo sguardo, aggrottò un sopracciglio e fece un bieco sorriso.
«Quanti anni hai, ragazzo?» «Ne ho appena compiuti diciassette, mio signore, ero nella Legione prima che venisse soppressa dal Senato.» «Bene Miguel, hai mai cavalcato un drago?» Il soldato negò e rimase imbambolato di fronte al gigantesco rettile. «Attendi, allora. Ci metterò un attimo.» Laoden raggiunse la terza lapide della quarta fila, si inginocchiò e la baciò. Quando si rialzò, il cimitero era un prato fiorito. «Vado a vendicarti, mamma.» * Re Karl era seduto sul trono a un’estremità della sala, sorvegliato da due soldati con la livrea leonina di Alesia e affiancato da un senatore ingobbito dall’età. Preceduto di un o da Miguel, Laoden di Alerbia ammirò la Sala degli Ambasciatori della reggia di Spinwirth, un ambiente freddo con pianta rettangolare, alto quanto il lato lungo; una volta a sesto acuto, a crociera e affrescata, era retta da sei giganteschi pilastri posti agli angoli e sulla metà del lato lungo e abbelliti da capitelli fogliati. Arazzi con scene di battaglie erano appesi alla pareti di mattoni cotti e ingentilivano il sobrio abbandono della stanza; sulla parete opposta all’entrata, disposta sul lato corto, sopra un predellino di marmo bianco restava un trono ricavato da un unico blocco di legno, ma ancora grezzo. L’assito del pavimento pareva abborracciato in attesa di lavori definitivi e dalla volta pendeva una catena arrugginita che un tempo poteva aver retto un maestoso lampadario; la luce era assicurata da candelabri d’argento disposti negli intervalli di parete lasciati scoperti dagli arazzi ed era appena sufficiente a distinguere i volti dei presenti. «Re Karl, illuminato sovrano di Alesia, ti reca il suo splendore e attende il tuo saluto, illustre straniero» la voce affettata del vecchio riempì la stanza. Laoden guardò disgustato i capelli unti del consigliere che gli ricadevano ai lati di una fronte calva e piena di rughe; gli occhi piccoli del vecchio si fissarono su di lui, si strinsero per metterlo a fuoco e attesero. Il mezz’elfo abbozzò un inchino e si rivolse al re, un undicenne vestito con un lucco blu ricamato a leoni d’oro e con un mantello rosso foderato di ermellino. «Sono Laoden di Alerbia, mio Re, vi reco la mia leggenda e giungo presso di voi come mi è stato richiesto» il mezz’elfo fece un sorriso di sfida verso il consigliere, che sussultò
alle ultime parole. «Lo avete mandato a chiamare voi, mio sire?» L’anziano guatò il suo Re, preoccupato. Karl I brillò come un monile riscoperto tra i ruderi di una città date alle fiamme. «Sì, Moriak, sono stato io a convocarlo.» «Agire senza consultarmi non è stata una cosa saggia, mio sire» si lamentò il senatore che più tra tutti aveva odiato Re Kollert e aveva agito contro di lui. «Vedrai altre cose che riterrai poco sagge, infida cariatide» Laoden di Alerbia fece sbiancare il consigliere con un ghigno pungente «ma ne vedrai soltanto le ombre, sfuggenti e lontane, perché le carpirai dopo che saranno accadute, non più prima. E ora vattene: al tuo re non occorrono più i tuoi falsi servigi.» «Come» balbettò «come osi insultarmi in tale maniera? Bada a come parli mezz’umano o ti farò tagliare la lingua per questa insolenza» il vecchio gracchiò, le due guardie fecero un o verso Laoden ma si fermarono non appena Re Karl alzò la mano destra. «Fate come dice lui, andatevene tutti e tre» il volto del ragazzino era compiaciuto. «Mio signore, questo azzardo è inaccettabile e» Moriak fu interrotto da Laoden ancora una volta. «Dai retta al tuo re, mummia, trema e scompari.» Il consigliere fece una faccia truce, serrò le dita scheletriche e ingioiellate ma uscì dalla porticina ogivale che si apriva sul muro, a destra del palco; le due guardie si trascinarono dietro di lui, come inutili marionette. «Un consigliere o una spia del Senato, mio signore?» Laoden giunse le mani dietro la schiena. «L’uomo che permette al Senato di governare in nostra vece» il giovane re sorrise, libero da catene. «Ora sarà andato da qualche parte a spiarci e origliare. Questo pomeriggio riunirà i senatori e racconterà di come l’impudente figlio di Re Kollert abbia osato sfidarli. Ma tutto questo non ha importanza perché tu
sarai già partito e sei abbastanza scaltro e potente da non doverne temere gli inganni.» Laoden si chinò sul Re per sussurrare. «Voi mi adulate, mio signore. Miguel mi ha raccontato ogni cosa, ho letto e distrutto la vostra pergamena. Accetto il vostro incarico e i cavalieri che mi affidate. Temo tuttavia che essi non basteranno per fare ciò che chiedete.» Il giovane si incupì. «E cosa ci proponete, dunque?» «Ho sentito che Aaron da Glenduarel è stato assassinato: devo sapere se sono morti anche sir Hulbert e sua moglie Amber, signori di Brora.» Re Karl socchiuse gli occhi. «Brora è stato l’ultimo feudo dei vassalli di Aaron a essere attaccato ma Lady Amber è ancora viva. Eravate amici?» «Avevamo amici in comune» puntualizzò Laoden con fatalità e senza dispiacere, «ed è questi amici che, dopo essermi recato a Brora, cercherò di convincere ad aiutarvi.» «Apprezziamo molto che tu abbia accettato la nostra richiesta; qualcuno dice di te che sei più simile a un mercenario che a un eroe» Re Karl fissò Laoden negli occhi. «Noi abbiamo veramente molto poco da offrirti, adesso. Ma se ci libererai da Kaerwood e dal giogo dei senatori, potremo accedere a ricchezze sufficienti a ripagarti dei tuoi servigi.» Laoden guardò quel re in miniatura, un bambino intraprendente deciso a cogliere la propria vendetta. «Posso prendere un piccolo anticipo?» Karl si stupì. «Anticipo? E di che tipo?» «Ho notato i candelabri che danno luce alla stanza: sono d’argento se non sbaglio.» «Sì, è esatto» il re si mostrò perplesso, «intendi portarli via? Desideri che li facciamo sistemare dentro dei forzieri?» «No, nessun pacchetto, ho un amico affamato che li gradirà molto.»
Le donne dei nani? Non ne ho mai vista una. Si dice che nel Popolo della Montagna nasca una femmina ogni dieci maschi e che l’evento sia accolto con pantagruelici festeggiamenti. Dopo la frenesia e l’eccitazione iniziali, tuttavia, le famiglie serbano le figlie come fossero più preziose dei gioielli e dell’oro. Le donne dei nani vengono sacrificate a una vita da madri: imparano le buone maniere, la politica, l’arte di mercanteggiare e di tener di conto; e ad essere sottomesse al futuro marito. Trattato sulla diversità delle culture del continente di Arhanien – il Terzo Cantore
XXXIV – Convocazioni
Il nome del mercante era scolpito sulla piattabanda di un arco a sesto acuto e, appoggiato a uno dei piedritti, restava uno stendardo dell’Orda che aveva osato attaccare Antioch: era il vessillo del Clan del Lupo, una pelle intera ripiegata sui bracci del manico, tesa sopra un gonfalone di tessuto amaranto, con la testa della fiera protesa in avanti. Un paggio accarezzò con rispetto la pelle, le ossa e i sacchetti che adornavano lo stendardo ed ebbe un brivido quando ripensò all’odore del sangue e al clangore della battaglia che era giunta sino alle porte della città. Socchiuse gli occhi e rivide i colpi del mangano che spargevano una pioggia di fuoco sull’Alleanza, il minotauro che trafiggeva a morte re Maldok “il Coraggioso” e la furia degli orchi che vorticavano le armi senza mostrare un briciolo di paura. Mahorn sia ringraziato per aver donato al nostro popolo la forza di vincere, il paggio entrò nella bottega annunciato da uno scamlio. Il padrone si faceva attendere e, nell’attesa di essere ricevuto, l’emissario ammirò le armi in esposizione: azze, accette, picconi e asce decorate erano disposte in bella mostra, appese a fianco di scudi e armi estranee alla cultura bellica dei nani come spade, lance, balestre; i manichini di legno erano disposti a intervalli regolari lungo le pareti e vestiti da cotte di maglia, brigantine e pettorine di piastre che attendevano soltanto di essere decorate con il blasone del futuro padrone. Il paggio esaminò le armature affascinato da panoplie che, se fosse rimasto un emissario, non avrebbe mai indossato. Guardò la divisa che portava
e sospirò, imbellettato dentro un abito cremisi stretto sopra una camicia bianca a sbuffi. Dal retrobottega proveniva un sordo martellio; l’odore del grasso che lubrificava le armi e le armature impregnava la grande stanza. Il paggio andò davanti a uno scudo lucidato come uno specchio e ne approfittò per controllare di essere in ordine. Chiuse l’ultimo bottone della giacca, si irrigidì e mostrò di portare con disinvoltura i capelli tagliati cortissimi e la barba priva di ornamenti. «Benvenuto nella nostra modesta bottega» una bella voce femminile attirò l’attenzione del paggio verso il bancone. «Porto notizie di Sua Maestà, mia signora. Vostro marito è in negozio?» Il paggio si inchinò. La nana, appena entrata dal retrobottega, si irrigidì e il viso paffuto dai lineamenti dolci le si abbassò per posare a terra lo sguardo degli occhi castani. Indossava uno scossale di fustagno scuro e largo, che le ingentiliva le forme morbide, e portava i capelli raccolti a vespaio da graziose spille. «Adesso lo chiamo, attendete» ritornò da dove era sbucata e, quando aprì la porta, giunsero una zaffata di carbone e il bercio del martello che picchiava sull’incudine. La porta si richiuse, il rumore cessò e il calore intiepidì il negozio. Il paggio non ebbe tempo di interessarsi ad altro che dalla porta sbucò un nano dalla barba e dai capelli fulvi, raccolti a treccia per agevolare il lavoro alla forgia. Meldor “l’Ammazzaorchi” si tolse degli occhialoni scuri e mostrò occhi piccoli e chiari. «Che notizie rechi?» La sua voce era forte ma cordiale. Il paggio fece un nuovo inchino e allungò la pergamena arrotolata che serbava nel tascapane di pelle. «Sua Maestà l’illustre Elben “il Saggio” vi desidera a corte» il paggio si inchinò ancora. Meldor afferrò la pergamena, la srotolò e la lesse assieme alla moglie, turbata. «Potete seguirmi, mio signore, la convocazione è immediata.» «Meldor, non voglio che te ne vada» la giovane nana afferrò il braccio del marito ma questi la tranquillizzò con un sorriso, le prese la mano e la baciò.
«Non c’è nulla di cui temere, Elsie: il nostro saggio Re cerca un guerriero, ma colui che ha convocato è morto da tempo.» * Nella Sala del Trono di Elben “il Saggio” gli scalpellini avevano terminato da una settimana il restauro delle statue abbattute dagli orchi che vi erano entrati, ando dalle montagne. Il re aveva ordinato che il restauro rimanesse visibile in modo che tutta Arhanien ricordasse ciò che era accaduto. Alla fila di destra era stata aggiunta la statua di Maldok “il Coraggioso”, padre di Elben, ucciso dall’Orda durante la Battaglia di Antioch e rimanevano vuote soltanto tre delle nicchie ricavate negli archi ciechi che reggevano le volte ogivali a crociera della sala. Elben sedeva sul trono con un corona di xelentsio ageminata in oro, un manufatto sobrio per la raffinata arte orafa dei nani ma con la caratteristica di proteggere da qualsiasi magia. Quando Meldor entrò, annunciato dal paggio che l’aveva convocato, trovò altri due nani in piedi davanti a Elben in silenziosa attesa; il mercante li raggiunse e riconobbe il fratello Kjeldor e Galem, il chierico di Mahorn che aveva salvato la vita a Hulbert prima che la Scaglie di Rame ribaltassero le sorti della Battaglia di Antioch. «Bentrovato Meldor “l’Ammazzaorchi”» la voce di Elben riecheggiò stentorea nella sala. «Che Mahorn sia con voi, mio signore» replicò Meldor con un inchino. Il buio era vinto da un grosso braciere posto al centro della sala e le ombre immense delle statue ammantavano la stanza con sacche di buio profondo. Quando la vista di Meldor si adattò dopo il lavoro alla forgia, egli distinse ogni particolare. Re Elben aveva eliminato molte delle ricchezze che il padre amava ostentare: candelabri d’oro, armi magiche, vasi di giada, arazzi, tappeti, ogni suppellettile dotata di fascino ma inutile era stata chiusa in forzieri portati negli ambienti scavati alle spalle del trono. La sala, disadorna, non appariva più quella di un sovrano ricco e potente delle Montagne di Cristallo. «Lady Amber di Brora e Laoden di Alerbia mi hanno inviato questa lettera in cui porgono i loro saluti e domandano un favore al nostro popolo. È in ragione di tale richiesta che siete stati convocati, Meldor “l’Ammazzaorchi”, Galem figlio
di Hamer “il Nuovo” e Kjeldor figlio di Mellor, figlio di Allor “Rocciasicura”, pretoriano di Galenor “Barbagrigia” Re delle Montagne di Cristallo» la voce del re spezzò il silenzio di pietra. «Il Consiglio di Kaerwood, nella persona di Vortigern, ha attaccato Brora e ucciso sir Hulbert. Lady Amber è viva soltanto in virtù di fortuite coincidenze.» Meldor sbiancò e rimase senza fiato, torturato da una fitta alle viscere. «Lady Amber e Re Karl I di Alesia hanno intenzione di vendicare gli omicidi commessi da Kaerwood portando un attacco al cuore del Consiglio, presso il Tempio Scarlatto, con un manipolo di cavalieri. Laoden di Alerbia sarà al comando della spedizione e domanda aiuto» Elben lasciò che il silenzio tornasse padrone della sala, poi fece squillare la sua voce. «Lady Amber e sir Hulbert di Brora sono stati decorati come eroi di Antioch, ma noi non dobbiamo loro nulla» le parole di Elben scossero Meldor. «Antioch e il Popolo della Montagna non devono alcunché a Re Karl I di Alesia o a Laoden di Alerbia, sono essi piuttosto che sono in debito con noi per il tributo di sangue che abbiamo versato per aiutarli» il re attese che qualcuno dei tre convocati dicesse qualcosa ma il rispetto che provavano superava la curiosità e lo stupore. «Ebbene, nonostante questo mi piace aggiungere» disse sottovoce, «che nessuno, nemmeno io, può impedire a chi si senta personalmente obbligato nei confronti di costoro, di recarsi a Brora per incontrarli...» Elben “il Saggio” fece l’occhiolino ai tre nani «ho dato disposizione che tre pony e una delle nuove armi siano preparati per l’alba di domani, perché so già che qualcuno di voi muore dalla voglia di valicare le Montagne di Cristallo per portare soccorso a lady Amber» il re si lasciò andare a un sorriso paterno. Meldor guardò il fratello e lo trovò pronto; si volse verso Galem e lo trovò entusiasta. «Io non posso andare, mio signore» la voce dell’“Ammazzaorchi” fu fredda come l’acqua di una cascata e Kjeldor e Galem lo fissarono, esterrefatti. «È nelle tue facoltà» la voce di Re Elben uscì strozzata. «La cosa mi meraviglia assai, ma visti i termini che ho delineato la tua scelta è legittima. È troppo chiedere le ragioni di tale decisione?» Meldor giunse le mani e attese ma lo sguardo duro del re lo convinse che non avrebbe accettato un colloquio più intimo. «Ho una moglie, mio signore. Chi è
sposato è svincolato da oneri che portino rischi alla genesi della sua stirpe. Mia moglie è giovane ma le leggi del nostro popolo non le consentirebbero di avere un nuovo compagno se dovessi morire. E io non ho ancora generato un erede.» Ristagnò un silenzio di ghiaccio. «Non hai ancora generato un erede?» Galem parlò con tono incredulo e se ne pentì dopo l’occhiataccia di Kjeldor. Meldor non rispose e il fratello lo trasse dall’impaccio. «Basterò io, mio signore. Se egli ritiene di non avere più debiti con Alesia o con i suoi vecchi amici, ne ho invece io perché essi hanno contribuito a difendere la nostra patria. Non presi le parti di mio fratello quando venne cacciato per l’ignominioso crimine di cui si era macchiato ma le prendo ora. Andrò io a nome di entrambi.» «Sì, questo è accettabile» Elben sembrò deluso dal comportamento del suo campione. «In realtà io confidavo che tu potessi guidarli all’interno del Tempio Scarlatto, Meldor.» «Il Tempio non è che una piramide con un corridoio che conduce alle stanze centrali. C’erano pericoli ma sono stati rimossi da un’elfa di nome Raylyn. Se mi ordinerete di farlo, mio signore, allora io li accompagnerò» deglutì. «Non posso farti una richiesta del genere, Meldor» si grattò la barba e guardò il campione con dispiacere. «No, ufficialmente non posso. Tu invece, Galem figlio di Hamer il “Nuovo”, che intenzioni hai?» «Io sono rimasto il chierico di Mahorn con il grado più elevato di tutta le Montagne di Cristallo. Tuttavia sono soltanto un diacono: abbiamo sette novizi e posso convocare un vescovo da Mag Nagorak che sarebbe felice di trasferirsi ad Antioch per il tempo necessario a rimpinguare la nostra gerarchia. Io posso andare, conosco quella fanciulla, ho combattuto al suo fianco e salvato il suo defunto marito. Sarà un onore vendicarlo.» Defunto marito, le parole e il ricordo di Hulbert calarono su Meldor come la scure su un ceppo. «Allora è deciso, andrete in due soltanto, ma andrete» Elben chiamò il paggio e licenziò i sudditi.
* «Sei stato silenzioso tutto oggi, non vuoi raccontarmi cosa è successo?» La moglie di Meldor si girò verso di lui, tra le coltri tiepide e lo fissò, preoccupata. «È andata bene, Elsie» Meldor aveva lo sguardo fisso nel vuoto del soffitto. «Sono una moglie impicciona a domandare che cosa vi hanno chiesto?» La nana gli cercò la mano sinistra e la prese tra le sue. «Alesia vuole combattere contro Kaerwood, chiedevano il mio aiuto» Meldor sentì Elsie tremare. «E hai accettato?» La voce le uscì sommessa, il volto sbiancò. «Non abbiamo ancora generato un erede. Non potevo accettare.» La moglie riprese colore e tirò un lungo sospiro di sollievo. «Ma avresti voluto?» Gli occhi chiari e piccoli di Meldor si fissarono su quelli grandi e castani della moglie; poi guizzarono per un afferrare un fugace assaggio di un ricordo ato. «Ha poca importanza ciò che desidero: non sono più uno scapolo che deve riscattare il proprio nome. Ho doveri verso di te e verso il figlio che dobbiamo generare. Dormi adesso, è tardi e non voglio che tu faccia brutti sogni.» Quando Meldor si svegliò, si rigirò nel letto per abbracciare la moglie ma si scoprì solo. Le coperte serbavano il tepore della consorte e il nano sbadigliò, si alzò e infilò le pantofole. La candela sopra il mobile che reggeva la scodella dell’acqua era accesa, Meldor la raggiunse e si lavò il viso; trovò l’acqua freddissima. «Elsie, dove sei, amore?» «Sono in cucina.» Meldor raggiunse la moglie e la vide vestita in bianco e con il volto duro. Tra lui e lei stava un manichino di legno con l’armatura che il nano aveva indossato proteggendo Antioch. Sul resto della mobilia erano stati deposti le armi rimanenti. Nel camino il fuoco scoppiettava e diffondeva il profumo della legna bruciata.
«Che cosa vuol dire, Elsie?» La nana prese una veste di lana scura che stava ripiegata sul tavolo e l’aprì, allargandola. Fissò Meldor negli occhi tradendo vergogna e, abbassando i suoi, gli fece capire che l’avrebbe aiutato a indossare la panoplia. Meldor si avvicinò alla moglie e si girò di schiena. Elsie gli tolse la vestaglia, gli carezzò la pelle segnata dalle cicatrici e lo coprì con la veste bruna che strinse in vita, con dolcezza; poi ò al marito le brache di lana e, dopo che le ebbe indossate, il giustacuore porporino di pelle imbottita che gli era stato donato da Elben “il Saggio”. Meldor strinse i bottoni e slacciò i coietti cui andava fissata la cotta di maglia e si mise di fronte alla moglie, piegando la schiena. «Questa prima, se no ti si annoda ai capelli» Elsie porse al marito l’infula di crini di cavallo ed egli la indossò prima della cotta, che scese sino alle ginocchia, tintinnando. Elsie girò attorno al marito e legò i coietti del giustacuore all’armatura, poi gli porse la cinture e i borselli. Meldor rimosse l’infula ed Elsie prese un pettine e cominciò con lo spazzolare i capelli del marito e poi la barba: fece con gli uni e con l’altra grosse trecce che chiuse con nodi di spago e pietre runiche forate. Il nano rimise l’infula sul capo e la moglie gli porse il camaglio e quindi la grossa pettorina e lo schienale che riportavano il simbolo di Antioch e di Elben: martelli d’oro in campo d’argento, la pettorina degli eroi. Elsie ò a Meldor l’ascia a due mani e l’aiutò a fissarla a tracolla, gli porse l’accetta, poi il martello che aveva recuperato al Tempio Scarlatto. Per ultimo Elsie prese l’elmo degli eroi, una barbuta ricoperta di rune: quando il marito l’ebbe indossato lei gli ò i guanti di pelle e l’aiutò a indossare gli stivali. Mancava lo scudo di xelentsio che era stato sbreccato dagli orchi di Karm-A-tOll e che Meldor aveva riparato, ed Elsie si affrettò a darlo al marito, che l’impugnò con la mano sinistra. «Tu sei Meldor “l’Ammazzaorchi”, mio signore. Sei l’eroe di Antioch, sei il campione di Elben “il Saggio”. Nel mio grembo cresce già il tuo erede» vide sul volto del marito un’espressione mai vista prima, «non voglio che alcuno lamenti di come i capricci di una femmina vi hanno sottratto ai doveri verso il nostro sovrano. Che nessuno accusi Elsie figlia di Durkan di essere una pessima moglie e una pessima madre» si portò una mano al ventre e gli occhi di Meldor luccicarono. «Torna da me brandendo lo scudo, mio signore, oppure ritorna
sopra di esso.» Meldor asciugò le lacrime della moglie, le prese le mani e la baciò. «Che una morte dolce colga colui che non vanterà la vostra bontà di moglie e di madre, mia signora, perché sarà la mia lama a prenderlo, dovessi abbandonare il banchetto di Mahorn per rendervi la giustizia che meritate» Meldor prese lo scialle di Elsie, se lo legò al braccio destro e infilò la porta di casa. Non appena il nano chiuse l’uscio, Elsie si accarezzò il ventre. «Tuo figlio sarà orgoglioso di te, mio signore: che Mahorn ti protegga e ti riporti da me.» * Il sole spuntò dietro le Montagne di Cristallo e stese le sue tiepide dita sulla città di Antioch, fondendo le tenebre della notte con le ombre lunghe degli edifici. Le abitazioni ricavate dai pinnacoli di bianco granito che si staccavano dalla montagna sembravano fiorire, con i tetti, gli abbaini, i balconi e gli archi polipori che si tingevano di languido rossore. I vicoli della città erano avvolti nella nebbia degli ultimi giorni d’inverno e Kjeldor attendeva presso l’entrata principale della città, chiacchierando con le guardie della ronda notturna, le briglie di due pony serrate nella mano destra. Galem figlio di Hamer il “Nuovo” sbucò da un viottolo cavalcando un pony pezzato e reggendo le redini di un altro pony, nero e carico di due botti. «Hai bevuto di prima mattina?» Kjeldor guardò in tralice il chierico che sorrideva per niente. «Non devo invocare Mahorn, non quest’oggi, signore» si giustificò il figlio di Hamer esponendo la falange di denti bianchissimi. «Hai preso la polvere?» Domandò Kjeldor, parlando piano, con sospetto. «Ovviamente, per chi mi hai preso?» Galem allargò le braccia. Kjeldor guardò il suo secondo pony che portava dentro delle bisacce il cannone smontato e dentro una botte la polvere e i proietti. «D’accordo, possiamo andare.»
«Non aspettate il terzo?» Domandò la guardia indicando una figura appena spuntata dalla bruma che si diradava. Kjeldor si voltò e vide il fratello avvicinarsi, imperioso nella divisa degli eroi del suo popolo; le guardie e Galem rimasero senza fiato. Meldor si presentò davanti a loro, la trecce che precipitavano dalla barbuta come una cascata di fuoco, gli occhi chiari che erano due stelle nel buio. Al suo seguito due pony, uno con due pesanti botti. «Che tu sia benvenuto, Meldor “l’Ammazzaorchi”» disse Galem, eccitato dall’idea di viaggiare con l’eroe di Antioch. Kjeldor si avvicinò all’eroe e gli strinse le mani. «Che tu sia benvenuto, fratello.» Meldor tolse l’elmo a barbuta, girò la testa per sciogliere i muscoli e fece un sorriso marziale. «Diventerò padre.» Kjeldor lo abbracciò con forza, poi gli strinse le spalle. «Anche tu hai un secondo pony?» «Ho saputo che avete uno dei nuovi cannoni e ho preso altra polvere da sparo» Meldor diede una pacca a una botte, che fece un rumore pieno. «Bene allora, aprite le porte!» Uno sbuffo di fumo nero uscì dalla ciminiera dell’edificio che era stato costruito accanto all’entrata di Antioch e una sirena fischiò interrompendo i convenevoli. Gli sbuffi aumentarono, iniziò il trambusto di ruote dentate dentro la sala macchine e gli alberi, le pulegge e le cremagliere che erano agganciate all’enorme porta di Antioch si smossero aprendone i battenti. * L’upupa arrivò sui picchi e si posò su uno sperone roccioso battuto dal vento. Si sistemò il piumaggio infradiciato dalla neve con il becco sottile e con gli occhietti d’argento guardò tra le guglie di pietra. «So che siete qui, Scaglie di Rame» la voce cristallina dell’uccello vinse il vento che ululava tra le cime. «Il mio nome è Tabith e parlo a nome del Consiglio di Kaerwood.»
Una dragonessa uscì da una caverna nascosta tra le fenditure della roccia, un riparo invisibile e sicuro; aveva il collo alzato e un portamento nobile che non risentiva dell’impeto della tormenta, ma il corpo pesante e ingrassato affondò nella neve accumulata dalla conca tra le vette. «Sono Titania e parlo a nome delle Scaglie di Rame. Hai un bel coraggio a svegliarci con queste parole e a presentarti da solo al cospetto di cinque draghi.» L’upupa roteò la testa quasi sottosopra. «Non è coraggio il mio, è follia la vostra se sperate che il numero basti a sopperire alla differenza tra noi. Quanto a te, Titania figlia di Kamwlyn e Galiana, sappi che io ti ho vista nascere, ho visto quando il tuo uovo si è schiuso tra le vette delle Montagne di Cristallo, seimilacentocinquantuno anni prima di oggi» Oberon era uscito per seguire la sorella ma si bloccò, preoccupato e guardingo. «So che avete preso una posizione dopo anni di non belligeranza, e che vi siete schierati contro Kaerwood. Avete preso parte alla battaglia di Antioch e se non fosse stato per questa vostra imprudenza, ora Arhanien sarebbe un continente molto diverso.» «Che cosa vuoi da noi?» Titania ringhiò, ma fu il verso di un predatore che sa di fronteggiarne uno più pericoloso. «Voi avete preso contatti con le Scaglie d’Argento e con le Scaglie d’Oro. Era nei vostri diritti e io avrei fatto la stessa cosa nella vostra situazione.» «Sei venuto a biasimarci?» Oberon si intromise ma la sua voce tremava. «Immagino che Laoden di Alerbia vi abbia chiesto di agire contro Kaerwood» Tabith parlò ignorando le parole del drago, «e immagino che abbiate preso con il mezz’elfo precisi accordi su come incontrarvi e su come attaccare.» «Parli per dare forma alle tue fantasie oppure vanti prove a suffragio dei tuoi sospetti?» Il collo di Titania si alzò e la dragonessa cercò di apparire più grande. «Kaerwood ha più membri e informatori di quanto possiate sospettare. In ogni modo si tratta di sospetti che avreste solo sconvenienza a confermare. Voi non agirete contro Kaerwood: se lo farete, i gemmivori entreranno nel conflitto e tutto ciò per cui abbiamo lavorato negli ultimi secoli sarà reso vano.» «Ma senti un po’ chi viene a farci il predicozzo» Oberon raggiunse Titania e, offeso dalla scarsa considerazione ottenuta sino a quel momento, mostrò una spregiudicata spavalderia. «Tu fai il gioco dei gemmivori: l’Orda ha reclutato le
Scaglie Nere con il benestare di Kaerwood per riabilitarle dopo quello che combinarono. È il nostro intervento che ha portato equilibrio.» Lo sguardo di Tabith fu sufficiente a far arretrare Oberon. «Ciò che è funzionale a un risultato prescinde dalla propria natura» la voce dell’upupa riecheggiò tra le vette, cupa. «Le Scaglie Nere, per quanto tu possa intenderle reprobe e spietate, avrebbero servito un disegno positivo e virtuoso. Un Ordine che stiamo perseguendo nonostante la pessima considerazione che avete di noi. Ora voglio che mi ascoltiate bene tutti, voi due e quegli altri tre che se ne stanno al caldo della loro tana a origliare come sorci: lasciate il tepore del vostro giaciglio per combattere contro Kaerwood e io vi assicuro che troverete Scaglie Bianche a volteggiare su questi picchi per depredare i vostri tesori e dovrete fuggire dalle Scaglie Azzurre che vi inseguiranno per divorarvi. Sono Tabith, Anziano di Kaerwood e questa è la promessa che faccio alle Scaglie di Rame» l’upupa spiegò le ali al vento che sferzava i picchi, decollò, si impennò e scomparve nella tormenta.
Ho sentito dei problemi che sono sorti tra te e Curchach dopo la morte di Bogar e comprendo come avesse ragione Ywig quando diceva che il Consiglio era morto. Ormai è chiaro che coloro che osteggiano la politica di Curchach rischiano di fare la stessa fine del vecchio Gran Maestro. Tu non sei più al sicuro al Tempio Scarlatto ed è necessario trovare suolo fertile per Ywig nella speranza che risorga e che la Fratellanza ritorni a incarnare i principi fondatori. Fuggi questa notte e raggiungi l’affluente del Nev’tair che scorre a nord: manderò un mio suddito a prenderti e con lui raggiungerai il mare. Brucia la lettera e fai in fretta, non ti rimane molto tempo. Comunicazione a Gatahal di Smirne – Noa, Signora del Mare e Regina dell’Isola della Felicità
XXXV – La fuga di Gatahal
Via da qui, il prima possibile. Gatahal aveva raccolto i libri indispensabili dentro una sacca che aveva messa a tracolla; aveva ordinato ai topi che lo servivano di darsi alla macchia e di disperdersi, promettendo loro che sarebbe tornato per riprendere il lavoro interrotto. Prima di uscire dal Tempio ammirò la ghianda che era sopravvissuta al rogo del Gran Maestro Ywig e la sentì pulsare con vigore. Sarà interessante scoprire se rinascerà o se ne nascerà un essere soltanto simile. Gatahal uscì dal salone colmo delle ricchezze accumulare da Morg Kroth dove gioielli, dipinti, arazzi, abiti, suppellettili di ogni genere erano stati catalogati e quasi tutti ripuliti dalle maledizioni che l’evocatore pazzo vi pose. Scrutò nella penombra del corridoio con i suoi occhi gialli per sincerarsi che non vi fosse nessuno e si incamminò verso l’uscita seguendo le torce, appese a grande distanza l’una dall’altra. Silenzio maledizione, devo fare silenzio, se qualcuno mi scopre a uscire non sarà facile dare spiegazioni, camminò cercando di essere più leggero che gli riusciva ma i suoi piedi di pietra generavano piccoli echi che si propagavano per tutta la
struttura piramidale. «Va tutto bene?» L’upupa Tabith sorprese Gatahal e gli si appoggiò sulla spalla destra. «Buonasera, Tabith» Gatahal salutò a denti stretti. «Sembri stupito di vedermi» le pupille dell’upupa si fecero piccole. «Io? No, è che credevo che foste andati tutti nel Bosco dei Sospiri per preparare i troll all’attacco di Alesia.» «Sono andati Vortigern, Curchach e gli altri uomini-albero. Che hai? Sembri teso.» «Sono successe cose strane negli ultimi giorni» guardò in terra. «Ho con me gli appunti sulle ultime scoperte fatte dai miei aiutanti. Sono le maledizioni poste sulle armi magiche. Tre sorci sono morti preda di atroci tormenti dopo che le hanno maneggiate senza la dovuta prudenza» vide lo sguardo perplesso di Tabith e abbozzò un inganno. «Ho proprio qui i dettagli sugli oggetti magici» sollevò la borsa con le sue cose, «che ne dici di darmi una mano a catalogarli?» «No, ti prego, non oggi» Tabith scostò il becco, disgustato. «Ne riparliamo domani, forse. Ora voglio soltanto un posto caldo dove riposare.» «Ti trovo al trespolo?» «E dove altrimenti?» L’upupa si alzò in volo e ritornò nella sala riservata al tesoro. È fatta, ora la via è sgombra. Gatahal uscì all’aperto e trovò l’aria gelida del Vaenert che gli raschiava la pelle di pietra senza riguardi. La luna era alta nel cielo e le nubi ne riflettevano la luce in un confuso lucore. Gatahal entrò nella foresta che si estendeva sino ai territori dell’Arail e prese ciò che rimaneva di un antico sentiero. La neve sulle fronde degli alberi precipitava a terra a ogni folata e si alzava formando una coltre luminescente e spettrale; i i dell’uomo di roccia sul sottobosco umidiccio erano suoni ovattati e crepitii
quando calpestava arbusti piegati dalla neve. Gatahal prese la direzione del nord, come gli era stato indicato e, al compimento della seconda ora di cammino, raggiunse il fiume, un affluente senza nome che confluiva nel Nev’tair e sfociava a sud, nella baia a nord di Alesia; si fermò su una spiaggia di sassi bianchi, presso un’ansa, e guardò la luna, all’apice del cammino. Ora devo soltanto aspettare, speriamo si sbrighi. Appoggiò a terra la sacca, raccolse un sasso, piccolo e tondo, lo portò alla bocca, lo frantumò con i denti e lo divorò con gusto. «È davvero una bella serata per una fuga» una voce antica e roca fece sussultare l’uomo di roccia, che lasciò cadere dalla bocca briciole calcaree. Gatahal fece un o all’indietro, verso il fiume, e i suoi piedi affondarono nell’arenile facendo scricchiolare i ciottoli. «Vortigern, che cosa ci fai qui?» L’elfo uscì dalla boscaglia e si avvicinò al fuggitivo. «Ti ho seguito. Tu, piuttosto, perché hai lasciato il Tempio?» «Io...» l’uomo di roccia balbettò, poi colse un’idea. «Sono venuto per recuperare alcuni ingredienti necessari per decifrare le maledizioni poste sulle ricchezze di Morg Kroth. Sì, ecco, è proprio questo che sono venuto a fare.» «Ingredienti» Vortigern si avvicinò e scrocchiò le dita allungando le braccia. «Sì, quest’acqua per esempio» Gatahal indicò il fiume, libero dalla morsa del ghiaccio. «Acqua? Non ce ne è forse in abbondanza nelle fonti presso il Tempio?» «Questa» esitò, «questa è particolare. Ecco, è ricca di sostanze che le altre non possiedono.» L’elfo si lasciò andare a una risata. «Esilarante! Nemmeno se non avessi scoperto i tuoi topi darsela a gambe mi avresti convinto.» «Hai visto i miei assistenti?» Gatahal deglutì. «Certo, e non dovrai più preoccuparti di loro: credo di averli inceneriti tutti.»
«Che cosa hai fatto?» La voce dell’uomo dalla pelle di roccia fu strozzata dal dolore. «Sei sordo? Eppure oltre a muscoli possenti e pelle coriacea dovresti avere un buon udito. Li ho inceneriti: correvano pigolando, minuscole palle di pelo infuocate. Ho sofferto quando le ho viste spegnersi, sfrigolavano nella neve come un pezzo di grasso nell’olio bollente.» Gatahal cadde in ginocchio sui ciottoli bianchi. «Perché? Non avevano colpa, non avevano fatto nulla di male.» «Lo so, erano esserini innocenti, operosi e obbedienti. Averli persi ti ricorderà come la tua scorrettezza mi abbia costretto a uccidere loro per punire te. Sono giorni che ti comporti in modo strano: nascondi qualcosa che dovrebbe essere di dominio di tutti? Curchach si è accorto di questa tua recente circospezione e mi ha incaricato di tenerti d’occhio. Cosa sai che non sappiamo?» Gatahal sentì il rumore di un onda, mandò uno sguardo furtivo al fiume e vide qualcosa che increspava l’acqua risalendo la corrente. Fissò Vortigern e improvvisò per guadagnare tempo. «Se ti rivelo questo segreto, dovrai tenerlo per te e farmi tornare al mio lavoro.» Vortigern mise gli occhi a fessura ma poi si prodigò in un infido sorriso. «Mi può star bene, avrò un piccolo vantaggio sugli uomini-albero.» Era ciò che temevo. Gatahal deglutì. «Sto fuggendo perché Kaerwood è finito: è questo il segreto che cercavi.» «Non dire sciocchezze!» Vortigern si inviperì. «Sarebbe questo il motivo per cui scappi? Se temi la patetica spedizione intrapresa da Alesia, sappi che perirà nel Bosco dei Sospiri dopo l’imboscata dei troll. Kaerwood non corre alcun pericolo.» «Sei un elfo dalla saggezza smisurata, mi stupisce che tu non capisca. Non esiste più il concetto di Fratellanza nelle nostre menti: ognuno agisce per i propri interessi. Kaerwood è un trucco per mantenerci ricchi e potenti, non una luce per guidare gli Imperi attraverso il buio della storia.» «Hai trovato qualcuno cui vendere i tuoi servigi, non è così? Questo è tradimento
e la pena è la morte» Vortigern accese due gigantesche sfere infuocate nelle proprie mani. Gatahal guardò il fiume e vide l’increspatura ancora troppo distante da lui. E se fosse un ramo infilato tra i sassi che la mia immaginazione ha visto più vicino? Deglutì. Devo affrontarlo, non c’è altra soluzione. Devo affrontare il Signore del Fuoco. Vortigern incrociò le braccia fiammeggianti e rise quando le mani di pietra di Gatahal si illuminarono di un lucore azzurrognolo. «Esilarante! Vuoi rivaleggiare con me? Sei un misero incantatore, un mago che è capace soltanto di incastonare magie dentro gli oggetti.» L’azzurra luminescenza aumentò. «Ho anch’io i miei colpi, credi che sia un Anziano soltanto perché conosco ogni oggetto magico di Arhanien?» Vortigern lanciò la sfera infuocata di destra e Gatahal rispose alzando una barriera azzurra; l’impatto fece scivolare l’uomo di roccia all’indietro sull’arenile e, quando anche la seconda sfera di fuoco cozzò contro lo scudo magico, egli ricadde sulla riva. «Sei patetico, ho visto statue più agili» Vortigern preparò una nuova sfera di fuoco ma Gatahal, sdraiato, afferrò i ciottoli con le grandi mani luminescenti e li scaraventò contro l’elfo, generando una rosa di proiettili azzurri. «Vuoi farmi morire dal ridere! Nemmeno i cuccioli degli elfi sprecano il loro tempo a giocare con incantesimi del genere» Vortigern corse verso la riva, attraversò la sassaiola schivando i ciottoli e balzò sulla riva con la spinta di un incantesimo. «Vediamo se la tua pelle di pietra è abbastanza resistente per questo» l’elfo atterrò e l’impatto generò un anello di fiamme che si appiccicarono all’uomo di roccia. Gatahal urlò quando il fuoco aggredì la sua pelle di granito ma un’onda si alzò dal fiume, lo infradiciò e scongiurò l’incantesimo; dal greto si alzò una figura poderosa, più alta e massiccia dell’uomo di roccia, un gigante dalla pelle azzurra ricoperta di luccicanti squame. Vortigern si allontanò e ammirò l’essere che emerse dal fiume spingendosi con la
lunga coda spinosa. «Scelte tanto avventate non sono accettabili in momenti difficili come quello che viviamo. Perché la tua regina è così folle?» Disse all’intruso. La coda del tritone serpeggiò stridendo sui ciottoli e rombando sulle chiazze di neve; sul busto antropomorfo l’essere indossava un’armatura scintillante di corallo rosso, intrecciato da tendini di squalo, e le mani brandivano un tridente e uno scudo d’oro. Il tritone si pose a baluardo dell’uomo di roccia e fissò Vortigern con occhi vitrei, freddi e distanti; la mascella quadrata e sporgente del lungo muso era fitta di escrescenze spinose e si incurvò in un sorriso beffardo. «Non riderai quando ti farò alla griglia» sogghignò Vortigern. Il tritone non raccolse la provocazione e parlò all’uomo di roccia. «Cavalcalo sino al mare» indicò un grosso lamantino che emerse alle sue spalle. La voce dell’essere era sibilante, umida e spiacevole. «Di lui mi occupo io.» Gatahal obbedì, balzò nell’acqua gelata, montò sopra la schiena del cetaceo e lo spronò lungo il fiume. Un istante dopo che il lamantino cominciò a nuotare verso il mare, una sfera di fuoco illuminò a giorno la foresta infrangendosi contro lo scudo dorato del tritone. Gatahal si strinse al cetaceo, che scodava e procedeva a scatti; guardò lo scontro soltanto quando gli scoppi degli incantesimi di Vortigern si erano fatti troppo intensi e luminosi da lasciar intendere che il tritone avesse la meglio. L’uomo di roccia vide bagliori lividi propagarsi tra i tronchi e rifulgere sulla neve, sui sassi bianchi, sull’acqua, e sempre più distanti, lontani tra le anse dell’affluente che scendeva verso il Nev’tair. Il fiume piegò in una radura e, tra gli alberi sfrondati dal vento e dal peso della neve, Gatahal intravide il tritone volare in acqua dopo uno scoppio e Vortigern montare l’elementale del fuoco che usava come cavalcatura. Spero tu sia più veloce di Artax, l’uomo di pietra strinse le redini del lamantino e gli si appiccicò alla schiena. Le acque del Nev’Tair scivolavano nel lago dove confluiva anche il fiume Spin, a nord di Alesia, e ne uscivano proseguendo verso il mare con un placido tragitto che attraversava una lingua di terra brulla e spoglia, rinverdita dalle conifere affastellate lungo il greto del fiume. In prossimità del mare le chiazze di neve scomparivano e gli scheletri di cespugli solitari anticipavano il suolo sabbioso. Il lamantino cavalcato da Gatahal non si era concesso pause ed era giunto allo
stremo delle forze. L’uomo di roccia si voltò verso il lago e vide il bagliore dello stallone di fuoco di Vortigern sempre più vicino. «Forza bello, un ultimo sforzo» accarezzò la schiena bagnata del cetaceo, accanto alla pinna dorsale. Un istante dopo la gentilezza, una sfera di fuoco rivaleggiò con l’alba nascente e si schiantò sulla riva, schivando il fuggitivo soltanto perché il lamantino si era immerso più del solito. Maledizione! Gatahal si voltò e vide il destriero fiammeggiante di Vortigern divorare la sabbia alzando una scia di polvere luminosa. «Forza bello, forza!» Si schiacciò alla schiena del cetaceo cercando la posizione più idrodinamica che gli era concessa dai sobbalzi e dalla propria mole rocciosa; una sfera infuocata gli esplose sopra la testa asciugandolo e regalandogli intensi e indesiderati brividi. «Forza, forza!» Gatahal vide la foce avvicinarsi, e bramò il ruggito delle onde e il sapore della salsedine che gli si appiccicava alla pelle rocciosa; poi, quando l’odore della spuma dei cavalloni gli riempì le narici, una sfera infuocata lo colpì alla spalla sinistra, lo spinse in avanti e di lato e lo fece scivolare sulla pelle viscida del lamantino. Ce l’avevo quasi fatta, gli occhi gialli dell’uomo di roccia videro il fondale attraverso l’acqua torbida; c’erano sassolini arrotondati e conchiglie di ogni forma e dai tenui colori. Tra un momento Vortigern mi tirerà in secca e mi disintegrerà. Gatahal guardò le conchiglie più grandi e allungò la mano ma, prima che le toccasse, un’ombra si insinuò sotto di lui, risalì e lo sostenne. L’uomo di roccia afferrò la pinna laterale destra del lamantino e quella dorsale. Salvo, sono salvo! «Fermo Artax, riposa» Vortigern smontò dal cavallo di fuoco e cercò la sagoma di Gatahal che fuggiva sotto l’acqua limacciosa rimescolata dalle onde. Sospirò mentre la sua preda si allontanava e allargò le braccia. «Mi avete costretto voi a farlo.»
Invoco il vento sussurrante del crepuscolo il Vaesalt che giunge d’estate, che turbina e che travolge terra e mare. Invoco la forza e il vigore del tifone. Vortigern spinse le mani verso il mare, la sabbia esplose e le acque si separarono; alte pareti di vento turbinante si opponevano alla forza delle onde che ruggivano e il lamantino di Gatahal rimase sospeso nel vuoto, in balia dell’incantesimo. «Fine della fuga» il cetaceo e l’uomo di roccia fluttuarono all’indietro verso la spiaggia, dimenandosi in un’inutile resistenza. «Hai avuto la tua occasione per arrenderti, Gatahal, ora non ti concederò alcuna clemenza.» A una decina di i dalla spiaggia, l’uomo di roccia e il lamantino si fermarono e le pareti di vento sussultarono e cedettero alla pressione delle acque. Vortigern sudò freddo e digrignò i denti. «Quello che stai facendo non è saggio» urlò all’indirizzo dell’oceano, che ruggì, scavalcò i muri di vento magico e colmò il corridoio, ripristinando il dominio del mare. «Tu mi contesti saggezza?» Un muggito sordo che divenne acuto uscì dalle acque e assordò l’elfo; tra la onde che ribollivano emerse la coda di una megattera e infine l’intero animale balzò fuori, roteò su sé stesso e rimase sospeso, grondante d’acqua e spuma. «Tu che hai osato uccidere un membro del Popolo del Mare, tu che non hai esitato a trucidare uno dei miei sudditi più devoti, tu mi contesti saggezza?» Vortigern fissò la megattera che lo guatava, immobile, maestosa, furibonda. Fece un lungo respiro e trattenne l’ira per essersi lasciato sfuggire Gatahal. «Tu stai proteggendo un traditore» sentenziò. «Mia cara, il tuo comportamento non si addice a un regina del tuo rango e il tuo atteggiamento è pericoloso per una femmina incinta.» Le risate della Signora del Mare perforarono i timpani dell’elfo. «Curchach è il traditore e lo sono tutti coloro che hanno contribuito all’assassinio di Ywig. Non mi dilungherò in sciocche discussioni con te: non ho tempo da perdere. Gatahal di Smirne è sotto la mia protezione e ogni azione nei suoi confronti verrà intesa
come un attacco verso il Popolo del Mare. Dammi un’occasione, anche il più timido dei pretesti, per riunire le mie tribù e le scatenerò contro la terraferma.» Vortigern si irrigidì. «Questo tua presa di posizione viola la Fratellanza e i patti che furono stipulati dopo l’Era delle Grandi Guerre. Farò rapporto al Consiglio: dovrai rispondere delle tue azioni.» «Sei un elfo Vortigern. Uno tra i primi, tra coloro che dovrebbero mostrare più lungimiranza» gli occhi scuri e profondi della megattera si fecero sottili e presero la luce spettrale e decisa che caratterizzava lo sguardo della sua forma umana. «Parlerò alle sedici tribù del tuo popolo e narrerò le tue gesta, se saprò che hai agito contro di me. Vedremo cosa penseranno di Kaerwood, della guerra contro Alesia, del tuo agire contro le razze antiche di Arhanien» la Regina del Mare sogghignò quando vide l’elfo stringere i pugni. «Sparisci adesso, il tuo brutto muso mi irrita.» Pagherai per questo affronto, Noa; pagherai tu, pagherà Gatahal e pagherà tutto il tuo popolo. Vortigern fissò il lamantino che scompariva in lontananza e ritornò nella foresta. E ciò che vi accadrà servirà da lezione a tutti coloro che si rifiuteranno di obbedire a Kaerwood.
All’inizio erano Shana e Tenebra, e quest’ultima era tutto ciò che non poteva essere la prima. Successe che Shana venne attanagliata dalla solitudine e chiamò Tenebra per giocare con essa, ma questa non rispose e non gioiva per la sorella che la bramava; Shana creò allora un sole-stella, affinché potesse vedere dove fosse nascosta Tenebra e perché non rispondesse alle suppliche. La luce svelò Tenebra ed essa fu sorpresa a tal punto che fuggì e cercò di non farsi prendere per la vergogna che provava. Ma Shana voleva giocare e creò altri soli-stella, per illuminare Tenebra ovunque fuggisse, e più essa rifuggiva, più soli-stelle nascevano e più lontano arrivava lo sguardo di Shana. Nell’attesa di trovare Tenebra, Shana si scoprì ancor più avvilita poiché i solistella la guardavano e la riscaldavano ma non potevano parlare né giocare con lei; allora Shana intravide una scia di polvere lasciata da Tenebra, la prese, la unì alle proprie lacrime e fece due statue d’argilla, che gettò nel fuoco del primo sole-stella creato. Dopo che le statue furono cotte, Shana vi soffiò donando loro la vita e creò i primi elfi, “coloro-che-non-hanno-mai-avuto-un-nome”. Shana pose le due creature sul suo grembo e giocò con esse, e giocare le piacque a tal punto che creò altri elfi, a centinaia, a migliaia. Venne il giorno in cui gli elfi si intristirono, poiché erano tutti uguali e non avevano altri pensieri che per Shana. Allora ella li prese e li divise in due gruppi, e creò maschi e femmine, e stabilì che i maschi avrebbero pensato alle femmine e viceversa. Guardare gli elfi e condividere le proprie emozioni le piacque a tal punto che Shana concesse loro il potere di generare altri elfi senza il suo intervento. Anche gli elfi apprezzarono il dono e lo onorarono: si riprodussero, e crebbero, e divennero tanto numerosi da non poter più abitare sul suo grembo. Shana li mise su una gigantesca nave bianca dalle ali di fuoco, li spinse e li mandò ad abitare nelle numerose case che aveva realizzato per loro e che ruotavano intorno ai soli-stella. Gli elfi scesero così sul continente di Arhanien, lo popolarono e resero gloria a Shana e al suo amore. Mito della creazione – Elfi di Si’phir
XXXVI – L’antica capitale
Éibhleann vide le prime alte e tonde torri di marmo bianco di Anchor Seinan fare capolino tra le aghifoglie; quando le raggiunse, sbirciò nelle finestre dei piani bassi dagli archi ogivali sorretti da colonne tortili da dove sbucavano i rami dei tassi e degli abeti. Al culmine delle torri, le stanze in aggetto avevano i tetti a spiovente sfondati dalla vegetazione e privati delle tegole d’argento, sparpagliate a terra, infilate tra le radici degli alberi e i cespugli nodosi dell’umido sottobosco. «È meravigliosa. E il nostro popolo viveva in città del genere?» Éibhleann entrò da un arco ancora in buono stato e eggiò sulle pietre chiare che vibravano e si tingevano d’azzurro quando ava. «Anchor Seinan è l’ultima rimasta, e si dice che fosse la più bella» rispose Khayn. «E perché le abbiamo abbandonate? Guarda quella torre, si erge ancora splendida e solida» indicò la più alta, che aveva il tetto intatto, le tegole che rifulgevano al sole e gli abbaini chiusi da vetri decorati. L’elfo fece un sorriso. «Glewmwn aveva ragione, non sei pronta.» «E tu sei antipatico come lui. E per di più non sei nemmeno abile a scappare» Éibhleann gli fece la linguaccia e proseguì in direzione della torre, verso il centro della città, attraversando i quartieri morti e le meravigliose case disabitate. Attorno alla torre più alta e bella la natura aveva ripreso gli spazi che le furono tolti e olmi giganteschi e sequoie crescevano alla rinfusa, con le radici intrecciate, con i rami che si sovrapponevano e cercavano spazio per afferrare più luce possibile. Allori, pruni e noccioli crescevano dentro le case più basse e ne avevano sfondato i tetti d’argento. «Non posso credere che abitammo in un luogo del genere» l’elfa si fermò sulla soglia di una costruzione di marmo arabescato dalle finestre irregolari e i muri tondeggianti. «Non ho mai visto nulla di simile, non c’è una casa uguale all’altra, le porte, le finestre, il tetto, nulla è simmetrico, nessuna casa ricorda l’altra se non per questo stile incredibile» si avvicinò alle finestre sfondate di un’abitazione dove la vegetazione aveva attecchito con maggior vigore. «Guarda
queste, sembrano sciolte, sembra che qualcuno le abbia disegnate in preda alle visioni della spezia.» Khayn si appoggiò su una panchina di granito indaco davanti a un’abitazione di marmo rosa con venature vermiglie. «Guarda questa allora» indicò la casa alla sue spalle. «Ma come è possibile?» Éibhleann ammirò la dimora, che pareva modellata dal vento. «Architettura vegetale» spiegò Khayn. «Le case furono realizzate prendendo spunto dalla natura. «Quella ricorda una chiocciola» indicò una casa dalle forme a spirale, «quella un fiore, e così via. E siamo soltanto alla periferia, vieni, andiamo nella città vecchia» Khayn guidò l’elfa lungo la strada maestra, sulla quale si affacciavano edifici dalle forme ancora più inconsuete e ardite, sino a mura megalitiche di granito. Éibhleann rimase senza fiato e si avvicinò per insinuare le dita tra le gigantesche pietre accostate a secco. «Non vi a nemmeno un’unghia» disse sbalordita. «Le magie della terra a quel tempo dovevano essere più evolute delle nostre.» «Così si dice. In ogni modo lo erano anche quelle del mondo vegetale perché qui cresce una varietà infinita di piante che non risentono delle stagioni» Khayn indicò degli aceri dalle foglie di un verde lucente nonostante l’inverno inoltrato. Giunto davanti a una porta ad arco, non l’oltreò e invitò Éibhleann a proseguire da sola. «Non mi accompagni?» L’elfa guardò gli edifici bizzarri della città vecchia soffocati dalle piante, dubbiosa. «A che servirebbe? Io ho già visto e conosco la verità, non occorre che tocchi ancora con mano ciò che è stato. Lui non approverebbe.» «Lui chi?» «Il guardiano: tra poco lo conoscerai.» «Se devo conoscerlo tra poco, dimmi chi è: che differenza fa?» Khayn gettò gli occhi al cielo. «Ora capisco perché Glewmwn non ti riteneva
pronta. Vai e non fare storie.» Il sole era allo zenit ma brillava timido e freddo. Éibhleann entrò nella città vecchia, il cuore della capitale Anchor Seinan e di quello che fu l’Impero degli Elfi prima dell’Era del Tradimento. * La città di Anchor Seinan è un fantasma sorridente. Ovunque scorgo le tracce di un ato ricco di vicende da narrare, un ato glorioso che nonostante la triste fine ha la forza per svettare in tutto il proprio vigore artistico. Ho camminato lungo una strada che dopo millenni era ancora liscia e scintillante, come se fosse stata appena costruita, e ho ammirato costruzioni in bilico tra genio e follia, capolavori di marmo la cui ardita leggerezza si faceva persino struggente. Ho seguito la strada sino a una piazza, guidata dal suono ipnotico e triste di un flauto e, finalmente, incontro il guardiano. L’elfo è seduto su un capitello caduto a terra, al centro di un’aiola di erba tagliata, sotto le fronde di un grande salice; ripone il flauto traverso che suonava e accarezza un cane di piccola taglia dalle orecchie lunghe e pelose, nero e marrone. Non c’è traccia di umidità e l’aria profuma di resina. Il salice ha il tronco inclinato, le radici affondano in una voragine apertasi alla base di un muro di pietre bianche, accostate a secco. L’elfo alza la testa e mi fissa con occhi smeraldini. Ha capelli d’argento che gli arrivano alle orecchie, intrecciati come vimini, un naso perfetto e un volto che racchiude tutti i canoni indicati dai libri d’arte circa la bellezza. Non ho mai visto un elfo dotato di un tale fascino e tanto anziano: se le rughe di cui si lamenta Zoe sono pieghe in un tessuto appena stirato, ebbene, costui è un abito spiegazzato. L’elfo lascia andare il cane e si alza. La sua veste di candida canapa è adornata di fregi cremisi, i suoi movimenti sono posati. Il cane arrivò ai piedi dell’ospite, muovendo la coda a spolverino, le sedette dirimpetto, la puntò con il suo musetto simpatico e sembrò sorridere. Quindi attese. Gagnolò quando Éibhleann non gli diede attenzione e inclinò la testa; fece un o avanti, si sedette di nuovo e, insoddisfatto, uggiolò di nuovo, si avvicinò e si rimise a sedere, poi si alzò e le appoggiò le zampe anteriori sulle cosce.
L’elfa scese e coccolò il cane che, non ancor pago dalle premure, alzò la testa per farsi accarezzare sotto il collo. «Buongiorno Éibhleann, ben trovata» l’elfo vantava una voce di seta e il carisma di un filosofo. L’elfa smise di carezzare il cane, che tornò dal padrone trotterellando. «Come sai il mio nome?» «Sarei un guardiano ben misero se non avessi la facoltà di cogliere i pensieri di chi mi fa visita, non trovi? Éibhleann è un bel nome, mi piace.» «Chi sei?» «Sono il guardiano, l’ho appena detto» sorrise e prese il cane in braccio, riempiendolo di coccole. L’elfa sbuffò. «Lo so che sei il guardiano, voglio sapere come ti chiami.» «Allora hai sbagliato domanda, figlia mia. Sei in un posto dove vengono date risposte: dovresti prestare molta attenzione a quali desideri.» «E tu saresti colui che reca tali risposte?» «Per la maggior parte delle tue domande i reperti che vedrai ti mostreranno la verità. Comunque sì, io sono colui che reca le risposte.» «Bene, rispondi dunque alla mia prima domanda.» «Sarà un piacere, figlia mia. Vieni» si mosse verso un arco di pietra bianca che si apriva sulle mura megalitiche. «Chi sei?» Éibhleann scandì le parole dietro un sorriso beffardo. L’elfo rise di gusto, poi rispose. «Mi chiamo Éireamhón.» Éibhleann gli si avvicinò e carezzò ancora il cane, steso tra le braccia del padrone. «Il tuo è un nome importante, i tuoi genitori dovevano attendersi molto da te.»
«Ogni genitore si attende molto dai propri figli: è questo che li rende inadatti a educarli.» «Porti il nome del più antico profeta della nostra religione: non ti sei mai sentito a disagio?» «No. E perché avrei dovuto? Sono l’unico ad averlo mai portato.» Éibhleann ebbe un brivido. «Già, è come temi di chiedere» disse Éireamhón intuendo la domanda. «No, tu non puoi essere quell’Éireamhón.» L’elfo sorrise. «E perché non potrei essere l’elfo più vecchio del continente di Arhanien? Dovrei essere immortale?» «Sei davvero l’elfo più vecchio di Arhanien?» S’affrettò a domandare di rimando. «Lo sono. E mentre molti sono morti, io non ho potuto.» Éibhleann si allontanò da lui. «Ti intimorisco?» «Non puoi essere lui: le cronache riportano che è morto dopo aver catechizzato i sedici discepoli che fondarono le tribù» precisò l’elfa. «Le Antiche Cronache riportano che Éireamhón se ne andò, non che morì» precisò il profeta. «Se è come tu dici perché ci viene insegnata una verità differente?» «Non è differente, è che voi interpretate ciò che deve essere preso per quello che è. Io non sono morto, attendo il compimento della mia ultima parabola. Ricordi? Io sono il primo di coloro che sono partiti...» «Sì, ricordo la profezia» guatò l’elfo con diffidenza. «Mi farebbe molto piacere che ti rilassassi e che disattivassi tutti gli scomodi incantesimi difensivi che hai alzato. Sei qui per una tua libera scelta, se non riesci a percepirmi amichevole, non crederai a niente di quello che vedrai. Ci sono pensieri che ti inquietano, pensieri troppo grandi per te.»
«Ho una confessione da farti» Éibhleann abbassò gli occhi per non soggiacere al giudizio di Éireamhón ma non abbassò le magie. «Allora ti sarò di conforto, se posso» l’elfo cominciò a camminare. «Ecco» tentennò Éibhleann, seguendolo «sarebbe grave se io affrontassi la prova senza che gli anziani della mia tribù mi abbiano ritenuta pronta?» Éireamhón si fermò e l’elfa si morse un labbro per punire la propria sincerità. «Cosa vuol dire essere ritenuta pronta, figlia mia? Nessuno è pronto quando arriva da me» commentò il profeta. «Come sarebbe a dire?» Éibhleann si sentì avvampare. «Ebbene, nessuno può essere pronto ad affrontare una prova a meno che non l’abbia già affrontata o a meno che non gli sia stato detto in cosa consiste tale prova, ma questo vorrebbe dire averla già superata, in un certo senso. E in ogni modo, ciò che ti attende non è una prova.» «Ma Glewmwn mi ha sottoposto a esami e a discussioni filosofiche per comprendere se ero pronta» si infervorò. Éireamhón rise di gusto. «Qualsiasi prova cui ti abbia sottoposto Glewmwn attesta quanto tu sia stata brava nel superare quella prova, non quanto sarai abile nel superarne una diversa. La vita è imprevedibile e unica, e non è una sequenza di esami. La vita viene trasformata in un avvicendarsi di prove da coloro che si sono arrogati il potere di giudicare.» «Ma allora...» «Esatto. Non sei stata educata per comprendere, sei stata educata per assorbire ciò che ti avrebbe reso più malleabile e incline a giustificare le scelte condivise dai tuoi educatori. Non è strano che, statisticamente parlando, coloro che sono nati tra gli ortodossi scelgano l’ortodossia e coloro che sono nati tra i revisionisti rimangano tali. È evidente che Glewmwn non riteneva che fossi stata abbastanza condizionata dai principi revisionisti per rimanere revisionista» Éibhleann strinse i pugni ma Éireamhón la riprese. «Non odiarlo per questo, se tu fossi una madre, non vorresti per i tuoi figli lo stesso bene che tu hai avuto?» «Può darsi, ma ora sono una figlia, non una madre. E sarei più felice di prendere
le mie scelte senza costrizioni o condizionamenti.» «Sarebbe bello. Solo che non ti sono concesse scelte libere: esse sono condizionate dalle opinioni e queste si formano confrontando la novità con le conoscenze pregresse» Éireamhón sorrise. «Mia cara Éibhleann, ciò che penserai del nuovo sarà già vecchio. Tutto ciò che pensiamo del nuovo non lo è.» «Sembri rassegnato a questa cosa» lo sfidò lei. «Sono disincantato, non rassegnato. Io mostro ciò che è stato, mostro la storia antica del nostro popolo. Voi elfi giungete, guardate e vedete ciò che volete. Non mi stupisce più nulla.» «E non è forse questo il libero arbitrio? Vedere ciò che si vuole?» «Libero arbitrio? Non esiste una cosa del genere» rise: «il libero arbitrio implica una visione nuova di qualcosa di nuovo, invece voi vedete il nuovo come fosse uno specchio del vecchio. Vedete il vecchio in una forma diversa. Non c’è nulla di libero.» «Non sei chiaro.» «Non devo esserlo. Tu giudichi il nuovo dal vecchio» sospirò e poi sorrise. «I revisionisti indottrinano perché basta una misera debolezza per ripiombare nell’ortodossia. Non è paradossale che proprio questa intolleranza verso una debolezza ne costituisca un’altra?» Accartocciò le labbra, disgustato. «Vieni, ti mostrerò ciò che è stato. Ti mostrerò ciò che separa la luce dalle tenebre, percorrerai la strada della conoscenza, come gli anziani hanno fatto prima di te e come i giovani faranno nei secoli a venire. Presta attenzione a ciò che vedrai perché se guarderai il dito, non vedrai ciò che esso indica.» Éireamhón si fermò sulla soglia di una edificio a cupola realizzato con gigantesche colonne di metallo che reggevano impressionanti specchi triangolari. «Questa era l’antica biblioteca di Anchor Seinan. O qualcosa molto simile a una biblioteca: la chiamavamo museo. Ora devi entrare, da sola. Ci sono delle stanze, e un percorso guidato da frecce luminose. Potrai tornare in ciascuno delle stanze e dei livelli che attraverserai, ma per comprendere è necessario seguire il percorso sino alla fine. Ti senti pronta?» Éibhleann guardò la costruzione con soggezione. «Troverò delle prove da
superare?» Éireamhón rise. «Niente prove, vedrai soltanto la verità come la fotografammo e la registrammo.» «E se non fossi pronta? E se mi rivelassi incapace di proseguire?» «Stai dando troppa importanza alla forma e ciò va a scapito della sostanza. Ciò che conta, te lo ripeto, è ciò che vedrai e ciò che stai vedendo. Se tuttavia non credi alle mie parole, e temi ancora il giudizio di Glewmwn, allora non ti biasimerò se ti tirerai indietro.» Éibhleann chiuse gli occhi e decise. «Entro.» «Buon viaggio» Éireamhón la guardò entrare e scomparire, inghiottita dalla luce che si accese nella costruzione. L’atrio dell’edificio era una stanza circolare con nicchie contenenti statue di marmo bianco alte sino al soffitto, rappresentanti individui dai fisici slanciati, i volti nobili e sorridenti. Si trattava di scienziati e di artisti ma di loro, Éibhleann non riconosceva alcun nome. Al centro della sala una scrivania a mezzaluna aveva due sedie azzurre e dall’aspetto comodo posizionate davanti a quelli che all’elfa parvero specchi scuri. Un grande arco si apriva sul muro bianco ed era indicato da frecce azzurre e luminose sistemate sotto le grandi piastrelle trasparenti e gommose del pavimento. «Parte Prima – Origini e tipi di società» Éibhleann lesse il titolo impresso sotto il pavimento della sala che si illuminò quando entrò. Si avvicinò a una colonna sulla quale erano state impresse immagini corredate di descrizioni; erano di un realismo che non aveva nulla di paragonabile ad alcun dipinto. Éibhleann accarezzò una delle immagini protette da un vetro sottile. È come se qualcuno avesse imprigionato le immagini su un foglio sottile, non ho mai sentito di una magia del genere. Al aggio delle dita, la colonna lampeggiò e uno scomparto si ribaltò rivelando un piccolo cristallo permanete di colore viola.
Toccare il cristallo per ammirare la ricostruzione didattica di una palafitta. Lesse la scritta e lo toccò. * Éibhleann uscì dalla biblioteca che era giunto il tramonto e tornò della piazza dove Éireamhón giocava con il cane. «Bentornata» l’elfo le si avvicinò, piano, e la guardò come se dovesse esaminare un essere appartenente a una specie sconosciuta. «Ho visto ogni cosa» l’elfa lo anticipò. «Davvero? Le tue parole non mi giungono nuove. Dimmi dunque: cos’è che hai visto?» «Ho visto l’Era della fondazione, quando pochi elfi hanno procreato e dato vita all’Impero più vasto che sia mai stato conosciuto. Ho visto l’Era delle Grandi Guerre, quando fummo attaccati dai draghi e li combattemmo assieme ai nani e agli orchi. Ho visto l’Era del Tradimento, quella in cui gli orchi si schierarono con i draghi e i nani si ritirano nelle montagne lasciandoci soli a combattere. Poi ho visto l’Era dell’Uomo. E ho toccato il meteorite di Ulash Biner. O meglio, ciò che recava.» «E che ne pensi?» Éireamhón assunse il piglio di un saggio che si confronta con un suo pari. «È un ammasso di detriti fumanti che custodiva una targa d’oro con le istruzioni per creare l’uomo.» «So che cos’è» rise lui. «Voglio sapere cosa ne pensi.» «Penso che soltanto dei pazzi possono aver affidato all’Universo l’intimo segreto della loro essenza. Ma più pazzi sono stati gli elfi che hanno preso quel codice per costruire armi biologiche che li aiutassero contro gli orchi» Éibhleann tratteneva a stento le lacrime. «Ho visto gli esperimenti, i primi esseri umani progettati dei genetisti del nostro popolo: prodotti organici sospesi dentro cilindri di vetro colmi di liquido amniotico. Esseri deformi cui è stato dato come nome un codice progressivo. Tentativi imperfetti e penosi che hanno spianato la strada
ai prototipi più efficienti e simili all’uomo come lo conosciamo» la voce le si strozzò in gola. «Poi ho visto combattere quelle creature, le ho viste morire al posto nostro, le ho viste macellate dagli orchi e dai draghi e quindi ricreate dalle provette dei genetisti, tanti soldati quanti ne occorrevano. Ho visto gli orchi mostrarsi più coriacei degli umani nonostante il loro grande numero, e sopraffarli; ero piena di pena per loro finché non iniziò l’Era dei Sigilli e i grandi maghi del nostro popolo li crearono per dominare gli elementi e scatenarli contro i nostri nemici. Ho visto gli orchi e i draghi arrendersi prima che i Sigilli venissero aperti, li ho visti invocare la pace e accettare gli umani, quando li affrancammo come bestie ormai inutili» l’elfa guardò in terra, poi in cielo e infine perse lo sguardo per i vicoli e le case pur di non incontrare quello di Éireamhón. «Conosco già la domanda che vuoi pormi.» Lui la invitò a seguirlo mentre camminava tra i profumi del bosco che si era ripreso la capitale. «Hai visto l’Era della Riforma, hai assistito al Grande Scisma tra Ortodossi e Revisionisti. Hai sentito le registrazioni delle ragioni dei primi, che ritengono di dover usare i Sigilli per dominare le altre razze e per sbarazzarsi dell’uomo, una piaga della quale si sentono gli sconsiderati artefici» l’elfa annuì con la testa. «E hai sentito le ragioni dei Revisionisti che ritengono gli umani esseri che possono ambire alla medesima libertà che noi elfi reclamiamo. Hai capito perché vi attendo e vi mostro ciò che è stato del nostro popolo?» «Sì, io credo di aver capito.» «Ti ho mostrato ciò che il nostro popolo chiama Luce e Tenebra, Éibhleann» la voce di Éireamhón era piena di speranza. «Che cosa hai imparato da tutto questo? Che cosa c’è ad Anchor Seinan? Che cosa hai visto?» Éibhleann rimase in silenzio per un tempo che al profeta degli elfi parve interminabile. «Ho imparato che il cammino che ho intrapreso nella luce» tentennò, «ebbene» quasi pianse, «ebbene, è quello corretto. Ad Anchor Seinan c’è la Luce.» «Tutti guardano la mano e non ciò che indica.» Éireamhón chiuse gli occhi e sospirò; prese la fanciulla per le spalle e quindi la fissò, affranto. «Vai adesso, figlia mia, e segui con dignità e coraggio la tua strada. Ti auguro buon viaggio e pregherò che nessun pericolo ti attenda lungo il cammino.» Éibhleann sfidò lo sguardo del profeta. «Che vengano i pericoli, non sono sola,
con me viaggia un compagno.» «Davvero?» Éireamhón si mostrò eccitato. «Di chi si tratta, dimmelo, ti prego.» Éibhleann rimase stupita dall’entusiasmo del profeta. «È Khayn di Si’phir, un elfo che ha scelto la luce.» «Mandamelo allora, mandalo da me, ti prego!» Éibhleann annuì e si avviò verso la periferia.
Amber lo ha fatto seppellire nella foresta. Abbiamo visitato la tomba, una spada piantata tra due grandi querce dal tronco rugoso in una selva che scuote l’animo per quanto è quieta e dolce. Le ho detto che avremmo potuto esumare e sistemare Hulbert sotto un mausoleo che avrei fatto costruire dai più abili muratori del Popolo della Montagna; Amber mi ha preso le mani e mi ha detto che a Brora non sarebbe sorto nessun santuario. Allora le ho detto che avremmo potuto trasportarlo ad Antioch e inumarlo nelle sale che accolgono coloro che hanno difeso e amato il nostro popolo, perché i nani non dimenticano chi ha combattuto per loro. Amber mi ha indicato la foresta, un intrico di cupi abeti e di scheletriche latifoglie e mi ha detto che Shana avrebbe vegliato su Hulbert meglio della pietra delle tombe e del metallo delle armi. Mi sono attardato presso il tumulo e il Vaenert ha preso a ululare tra gli alberi. In lontananza un arcangelo dalla spada fiammeggiante mi ha fissato con i suoi occhi beffardi. Cernunnos, il figlio di Shana che ha protetto la mia vita, ora avrà cura della tua anima, Hulbert, amico mio. Che Mahorn ti procuri una seggiola comoda e un boccale sempre pieno! E attendimi, perché presto giungerà l’ora in cui ci rincontreremo. Pensieri – Meldor “l’Ammazzaorchi”
XXXVII – Partenza da Brora
«Sedici cavalieri» la voce di Meldor riempì la sala e il commento terminò con un’amara risata. «Non sono pochini per dar battaglia?» Rigirò il boccale di birra tra le mani e fissò la schiuma rimasta sul fondo. «Ci siete anche voi: tre coriacei nani delle montagne con un cannone. E ci sono io» gli fece eco Laoden di Alerbia, acculattato su una sedia e con le gambe sopra il tavolo. «E ci sono quattro paladini di Towerthrough, non dimenticatelo» la voce di Amber era vigorosa nonostante gli accadimenti che l’avevano sconvolta.
Derek Wellfire lasciò il posto davanti al fuoco e si affiancò alla signora di Brora. «Le nostre preghiere alla Dea Aurora saranno più preziose di cento fanti» gli occhi verdi del chierico erano fissi sulle sargie dell’ingresso, ed egli pareva non parlare a nessuno. La pelle olivastra del viso si piegò in un sorriso. «Avete già lodato il nostro zelo guerriero e la nostra fede durante la battaglia di Antioch.» «Che Mahorn mi accechi se non l’ho visto!» La faccia piena di Galem emerse dal piatto di fagiano che si era fatto riscaldare; il nano seguitò a parlare con la bocca piena. «Le vostre alabarde hanno fatto più vittime dell’inutile carica di quel Blake che si è fatto sventrare dal minotauro.» «In ogni modo non sarà una battaglia, Meldor» Amber fece un cenno a Laoden di Alerbia, che si ricompose e abbassò i piedi dal tavolo. «Sarà una cavalcata, un’incursione tesa a sorprendere gli Anziani nella loro roccaforte e ucciderne quanti più possibile.» Il nano diede un ultimo sorso a ciò che rimaneva della birra e rovesciò il bicchiere sul tavolo, senza che ne scendesse una goccia; appena alzò la testa fu stuzzicato dal profumo della carne arrostita che copriva l’odore del fumo del camino. «Cosa sappiamo di coloro che dobbiamo uccidere, a parte Vortigern?» «Qualche uomo-albero e poco più» rispose Laoden. «E tu come ne hai la certezza?» Kjeldor parlò per la prima volta, emergendo dalla penombra ovattata e amichevole del salone del mastio di Brora. «Ho i miei informatori. E se ti dicessi chi sono, non mi crederesti» il mezz’elfo rimase vago. «Dopo aver visto il tuo compagno di viaggio, posso credere a qualsiasi cosa» il nano mandò un’occhiata in tralice a un elfo dalla pelle d’argento e dai capelli corvini che si era sistemato oltre l’arco del camino, a una spanna dalle fiamme che sbranavano i ceppi d’ontano. «Abbiamo già affrontato questo discorso» l’elfo dagli occhi cerulei si voltò verso il tavolo. Il suo vestito di broccato d’oro sfiorò le fiamme senza risentirne. «Non sono uno dei draghi che aiutarono gli orchi: quelli avevano scaglie nere come la notte, le mie sono scintillanti come la luna» aprì le mani con i palmi rivolti verso l’alto e mentì per evitare ogni patetica discussione sul suo ato.
«Nessuno mette in discussione il tuo valore e la tua fedeltà, Gorogol» Laoden calmò il drago, insofferente nella sua forma antropomorfa. «Torna a scaldarti, lucertola» ringhiò Meldor prima che Amber lo riprendesse. «Egli è un alleato, non un nemico» ricordò la signora di Brora. «Si, è un alleato» sbuffò Meldor, di rimando, «però l’ho beccato mentre mangiava una posata d’argento. Per la barba di Mahorn, ho ancora i brividi!» Fissò il boccale, di coccio dipinto da scene di caccia. «Non ho idea di quello che farebbe se giungesse alle mie borse.» «Non sono un ladro, e questo tuo insulto ferisce il mio nobile animo. Avevo chiesto e ottenuto il permesso per quello spuntino» si giustificò Gorogol. Spuntino, a Meldor si rizzarono i peli sulle braccia. «Litigare non è buono» Derek Wellfire riprese parola. «L’aiuto di una Scaglia d’Argento è prezioso, indispensabile aggiungerei, per il raggiungimento del nostro scopo.» Scese un silenzio arcigno e infruttuoso. Un grosso ceppo rotolò giù dal cumulo e il fuoco crepitò, minaccioso. «Seguiremo i sentieri che attraversano le Montagne di Cristallo e arrivano al Bosco dei Sospiri, dove Meldor ha trovato il Bastione Scarlatto. Saresti in grado di guidarci?» Laoden guardò il nano, che divenne paonazzo. «Che razza di domanda è?» Meldor parlò dove aver balbettato e tossito. «Un nano non dimentica mai un sentiero!» Meldor grugnì e allontanò il boccale di birra, facendolo scivolare sul tavolo. «In ogni modo avrete ben poco da cavalcare: soltanto i pony dei nani, piccoli e pelosi, possono affrontare i i delle Montagne di Cristallo; i sentieri sono troppo ripidi e le cime troppo fredde per i vostri destrieri» parlò un uomo con addosso un kilt rosso e verde che sedeva in disparte; aveva il volto segnato da molte cicatrici e la voce di un capo. «Potreste cercare un dûn nelle Terre Alte e barattare dei cavalli dal pelo lungo.» «Ma questo si potrà fare soltanto una volta svalicati» commentò Kjeldor.
«L’ascesa dovremmo farla a piedi: sui nostri nove pony metteremo le salmerie.» «Sarà meglio che niente» rispose il terraltiano. «Hai parlato come se non fi parte della spedizione, Llywelyn. Non si era detto che ci avresti accompagnati?» Lo piccò Laoden. «Si era detto così, in effetti. Tuttavia meglio vi conosco e più crescono i miei dubbi sull’esito dell’impresa.» Il mercenario delle Terre Alte tornò a nascondersi nell’angolo buio dal quale era emerso. «E se aggirassimo lo montagne a nord, dopo il Nev’Tair?» La domanda di Derek Wellfire affogò nel silenzio. «Ho detto una sciocchezza?» «No, no, è fattibile» rispose Kjeldor, affilandosi i baffi rossi. «Se procediamo a tappe forzate arriveremo a Kaerwood anche prima dell’estate.» «La tua ironia è fuori luogo» Laoden riprese il generale di Antioch: «i cavalli ci consentiranno di viaggiare più spediti che a piedi e il tempo impiegato potrebbe risultare equivalente.» Gorogol sbuffò. «Se viaggiamo lungo le strade di Alesia, Kaerwood può scoprire i nostri movimenti: dovremo usare sentieri poco battuti e ritarderemmo di parecchio. Se invece iamo dalle Montagne del Regno di Elben saremo al sicuro da sguardi indiscreti.» «Quanti giorni di volo ci sono tra Brora e il Bosco dei Sospiri?» Gli occhi azzurri di Meldor si fecero piccolissimi. «Uno o due, dipende dalle condizioni atmosferiche, perché?» Rispose Gorogol. «Se ci porti a piccoli gruppi ci evitiamo inutili sfacchinate.» L’elfo in cui si era trasformato il drago raggiunse il tavolo e si sedette a una sedia girata, appoggiando il petto all’imbottitura dello schienale. «Sappi che ho divorato per molto meno.» «Montagne di Cristallo, dunque?» Derek Wellfire anticipò la domanda che stava per fare Laoden, che lo guatò.
«Montagne di Cristallo» confermò il mezz’elfo. Meldor allargò le mani. «Montagne di Cristallo, è deciso. Si ritorna a casa. Quasi.» «Partiremo domattina: darò ordini affinché ogni cosa sia preparata a dovere» concluse la signora di Brora. «Partiremo?» Laoden fissò Amber esterrefatto. «Che cosa vuoi dire con “partiremo”?» «Che verrò anch’io» gli occhi della signora di Brora mostrarono la determinazione che l’aveva resa famosa in tutto il regno. «Attacchiamo Kaerwood anche per quello che ha fatto a Hulbert. Non posso tirarmi indietro.» «Mi permetto di esprimere tutto il mio disappunto al riguardo» il giovane Ardengo, figlio di lady Amandine, si alzò in piedi. Indossava un abito scuro che evidenziava la sua folta chioma bionda ed era il più anziano tra i sedici cavalieri. «La vostra vita e quello del vostro erede è troppo preziosa per Brora: devo insistere affinché riconsideriate la decisione.» «Ho già considerato la questione, mio buon Ardengo. Non c’è nulla che possa nuocermi ora che la magia è tornata.» «E se scomparisse di nuovo?» La voce di Laoden era minacciosa e Amber abbassò lo sguardo. «La possibilità è remota e» la signora di Brora fu interrotta. «Rimarrai a Brora, non mi interessa se sei una feudataria e non mi interessa quale aiuto credi di poterci dare» la voce di Meldor schioccò come una frusta, poi il nano addolcì la sua posizione con un sorriso. «Vedi Amber... io non sono abbastanza forte da proteggerti. E non lo è nessuno qui, non lo è Laoden, non lo è nemmeno Gorogol. Saremo tutti più tranquilli se ti sapremo a Brora, al sicuro. Vendicheremo noi Hulbert e ti assicuro che Vortigern e il Consiglio di Kaerwood pagheranno tutto quello che c’è da pagare.» «Dunque è deciso» Laoden di Alerbia anticipò qualsiasi replica. «Partiremo domani mattina, sedici cavalieri, tre nani, quattro Paladini di Towerthrough, un mezz’elfo e un drago: il successo è assicurato, sarà una eggiata!»
* Il Vaenert ululava tra le cime aguzze spingendo la neve in ogni direzione. «Sarà una eggiata!» La voce di Meldor riempì un istante di pausa concesso dal freddo vento del nord. «Non si è mai vista una tormenta del genere sulle Montagne di Cristallo!» «Sarà il tuo amico Signore del Vento che ce l’ha con me» tuonò Laoden, che camminava in testa al gruppo assieme all’eroe di Antioch su un sentiero schiacciato tra dirupo e montagna. «Quanto dista il posto di guardia?» la voce di Llywelyn fu strappata dal Vaenert che riprese a fischiare tra picchi e burroni. «Ancora poco» Meldor continuò sull’erto sentiero che andava stringendosi, tirando i due pony dal pelo lungo carichi di botti e vettovaglie che rallentavano, frustati dalle folate. «Poco quanto? La via è sempre più dura» Laoden fermò il gruppo dietro di sé ma l’eroe di Antioch non si voltò e continuò a camminare. «Meldor, fermati!» La voce di Laoden rivaleggiò con la tormenta. «Se non ti fidi puoi rimanere qui» Kjeldor scansò il mezz’elfo e lo ò con i suoi due cavalli piccoli e ispidi. Quando il generale sparì tra la neve alzata dal vento, anche Galem il chierico ò Laoden ma allargò le braccia e alzò le sopracciglia in una scusa eloquente e fatalista. Il biondo Ardengo fu il primo a seguire i nani, intabarrato nella pelliccia d’orso e inclinato verso la montagna per patire meno il vento. Gorogol fece spallucce e si incamminò dopo il cavaliere, dando una gran pacca sulle spalle di Laoden. Il mezz’elfo si rassegnò e guidò la colonna dei cavalieri che avevano atteso il da farsi; Llywelyn chiuse la fila e il gruppo risalì la montagna arrancando sul sentiero pendente e scivoloso. I picchi e i ghiacciai che davano nome alle Montagne di Cristallo erano sommersi da una coltre di nubi; la neve veniva risucchiata dai crepacci, poi vomitata verso l’alto e infine turbinava contro le pareti, sferzando gli impudenti viaggiatori che affrontavano le vette in pieno inverno. Un rombo lontano annunciò una parete di roccia che cedeva sotto il peso della neve accumulata.
Quando Laoden disperò che la morte per fatica lo stesse attendendo dietro la curva, una struttura ricavata nella roccia sbucò dalle nubi e la neve turbinante. Gli ultimi metri del sentiero erano ricavati in aggetto sul fianco delle montagna e il ballatoio terminava contro un arco di pietra chiuso da battenti di granito, la porta di una struttura scavata nella montagna per regolare l’accesso al Regno di Elben, Re delle Montagne di Cristallo. Laoden vide le balestriere aperte sopra la porta mandare luce tenue e i tre nani confabulare davanti all’entrata; oltreò Gorogol, Ardengo e i cavalli zuppi di neve e li raggiunse. «Che accade, perché non entriamo?» «La porta è sbarrata e non risponde nessuno.» «E non potete aprirla con qualche magia?» I tre nani guatarono il mezz’elfo con un’espressione a metà tra il disprezzo e il compatimento, un sopracciglio alzato, gli occhi a fessura e le labbra tirate. «Va bene, fatevi da parte» Laoden allungò le mani sulla porta di gelido granito. «È fatta tutta di pietra, meccanismi compresi?» I nani scossero la testa in un blando “sì”, all’unisono. «Lasciate fare al Signore della terra.» Meldor si avvicinò a Laoden e lo sentì proferire una decisa litania nella lingua degli elfi. Lo guardò mentre le sue mani tremavano sulla pietra, si illuminavano e la attraversavano. Il nano agguantò il mezz’elfo e lo tirò indietro. «Fai attenzione orecchie a punta: dall’altra parte ci sono borchie di xelentsio, ci hai preso per fessi?» Sogghignò l’eroe. Laoden sospirò. «Avete rivestito di xelentsio tutta la montagna?» Kjeldor e Galem si guardarono preoccupati mentre Meldor rimaneva a bocca aperta. Laoden tirò le labbra in un sorriso, spostò la mano sul fianco della montagna, accanto alla porta, e vi entrò attraversando la pietra come fosse stata l’acqua di una cascata. «Non siamo al sicuro, non lo siamo mai stati» borbottò Meldor non appena Laoden scomparve. Dopo minuti che parvero ore agli umani esposti alla tormenta, la porta si aprì stridendo e i nani sgattaiolarono dentro con una rapidità inaspettata.
«Che cos’è accaduto?» Meldor fece una faccia disgustata per l’odore putrido che lo investì. «Le sentinelle sono di sopra» commentò Laoden, scuro in volto. «Ciò che ne rimane almeno.» «Galem, sistema dei cavalli» ordinò Kjeldor gettandosi sulle grandi scale a chiocciola che univano i piani. «Galem, sistema dei cavalli» chiosò il chierico figlio di Hamer, imitando la voce del generale quando questi non poteva più sentirlo; uscì dopo che tutti gli umani furono entrati nello stanzone del piano terra, una sala rettangolare che aveva le due porte d’accesso prospicienti, accanto agli angoli esterni della struttura. Il primo piano della struttura era ricavato sulla stessa pianta del pianterreno e dalle feritoie cruciformi sopra i portoni spiravano gelidi spifferi. Kjeldor rabbrividì non appena riconobbe gli scheletri dei due nani, spolpati e affastellati sopra i pagliericci. «Cosa può averli ridotti così?» Meldor si avvicinò ai resti delle guardie. «Che fai?» Kjeldor fermò il fratello. «Porta rispetto verso la loro morte.» «La morte di chi?» Urlò Galem, sbucando dal piano di sotto, seguito da Derek Wellfire. I due fratelli si voltarono, severi e il chierico si zittì, contrito. «Dobbiamo seppellirli» fu Kjeldor a spezzare il silenzio che si era creato. «Non abbiamo il tempo per fare un funerale come si conviene. Non conosciamo nemmeno i loro nomi» commentò Galem, dubbioso. «Per i nomi basta guardare nel registro. Per il tempo, ebbene ce lo prenderemo: questi soldati non stringevano nemmeno le loro armi e Mahorn non li avrà accettati al suo desco. Non possiamo lasciarli così» concluse Kjeldor. «Non dico di lasciarli come stanno» Galem si inventò una voce accademica, «dico soltanto che non possiamo impiegare due giorni per allestire banchetto e funerali.»
«Non siamo qui a discutere su ciò che faremo, Galem figlio di Hamer “il Nuovo”» lo piccò Kjeldor, «il mio è un ordine. Ci fermeremo il tempo necessario per i funerali e ripartiremo dopo che avremo scoperto cosa è successo. E dopo aver mandato un dispaccio a Re Elben.» «Non vorrei intromettermi nei vostri acidi litigi» Laoden di Alerbia sbucò dalle scale e si avvicinò a Kjeldor, «ma non sei tu che guidi la missione» il nano divenne paonazzo. «Fermarci oltre stanotte è fuori discussione.» «Tu» Kjeldor tartagliò «tu… chi sei tu per prendere una decisione del genere? Questi nani sono morti e dobbiamo dar loro una degna sepoltura!» Laoden guardò Galem. «Quanto ti occorre per una dignitosa sepoltura?» «Un’ora, non di più» confermò il chierico. «Faccio un rito abbreviato.» «Io non vi lascerò compiere un sacrilegio di questa portata. Tu, Galem, il tuo deplorevole comportamento verrà riportato a Elben “il Saggio”» tuonò il generale di Antioch. «Meldor, nel nome di Mahorn, dì qualcosa!» «Credo che Galem e Laoden abbiano ragione» l’opinione del fratello fu una doccia gelata per Kjeldor. «Per quanto io sia costernato per la loro morte, la nostra missione viene prima. E non abbiamo soltanto questo problema, dobbiamo anche scoprire che cosa è accaduto e se non corriamo il medesimo pericolo.» Kjeldor sbiancò e, quando i suoi occhi si chio a fessura e sembrò aver ingoiato tutto l’astio e la rabbia che provava si girò e, senza proferire parola, scese al piano inferiore. * «Questa è berkana, la runa del fuoco» dopo aver sistemato i pony dal pelo lungo nella stalla adiacente alla stanza d’ingresso, Galem accarezzò un’incisione su una delle lampade che fornivano luce senza bruciare combustibile. «Incisa su un oggetto lo rende luminescente.» «Basta una procedura tanto semplice per ottenere una tale meraviglia?» Ardengo di Halkirk ammirava la lampada.
«In realtà non basta una runa sola: l’ho fatta facile. Occorre una combinazione di rune e un chierico di Mahorn» specificò Galem, «ma in generale basta invocare il nostro Dio nel modo corretto per ottenerne la benedizione.» «Basta che il chierico non si comporti da scriteriato come tu hai fatto» la voce greve di Kjeldor riprese Galem, che non rispose. Il silenzio che nacque dallo screzio fu spezzato dalla voce argentina di Gorogol. «Dovremo fare dei turni di guardia.» «Io non mi sento tranquillo» si lamentò uno dei sedici nobili di Spinwirth, un giovane con occhi e capelli scuri, «non sappiamo chi o cosa abbia ammazzato quei disgraziati.» «Li avrà uccisi la paura, Albion. E questo ti candida come prossima vittima» si prese gioco di lui un compagno che stava prendendo uno spiedino di carne salata dal camino, un altro giovane alto e biondo come Ardengo ma con un’orribile cicatrice sull’occhio. I cavalieri risero e Albion divenne paonazzo. «Preferirei certo la morte» replicò stizzito, «alla disgrazia di ritrovarmi una faccia come la tua, Sirkor.» Il biondo minacciò Albion brandendo lo spiedo come un’arma. «Mi sono procurato questa cicatrice guadagnandomi gli speroni, cosa che tu non hai fatto perché sei abbastanza ricco da pagare per l’investitura. Stammi lontano e non ti azzardare a rivolgermi la parola o vedrai che cosa significa combattere.» «Via, via, vi prego di calmarvi» Laoden fece da paciere e si frappose tra i litiganti. «Ci aspettano altri giorni di faticosa marcia e una dura battaglia. Il momento per mostrare il vostro valore deve ancora venire.» «Sì, vi conviene tacere a tutti e due» tuonò la voce cavernosa di Kjeldor, raggiungendo il centro del semicerchio composto dai giacigli dei cavalieri; il nano si infilò tra gli zaini con le armature e raggiunse il giovane Sirkor, guatandolo con gli occhi chiari colmi di rabbia. «E in quanto a te, pappamolla dalla lingua lunga, sappi che è più facile che un drago si prenda la briga di defecare sul tuo inutile blasone che un nano possa morire di paura.» «Bene, ora che abbiamo unito il gruppo con parole grondanti reciproca stima, possiamo metterci a mangiare» Laoden raggiunse Kjeldor e gli diede una pacca
sulla spalla. «Questo gruppo non si unirà mai» sussurrò Ardengo a Meldor: «Re Karl appartiene alla stirpe dei sovrani di Alesia che hanno conquistato Spinwirth e ci sono troppi nobili desiderosi di farsi belli ai suoi occhi.» «Intendi dire che qualcuno potrebbe fare sciocchezze per mettersi in mostra?» Meldor lo guardò come se esaminasse un oggetto magico. «Ho ato molto tempo tra voi umani ma ogni volta mi apparite più strani di prima.» «Non più di voi nani. Voi stavate litigato su come seppellire un mucchietto d’ossa.» «Porta rispetto, quelli erano nani di Antioch!» Meldor si alterò. «Vi pregherei di quietarvi e di evitare altre inconcludenti discussioni, il vostro sudore sta appestando l’aria» la voce di Gorogol mise tutti a tacere. «E lo dico senza voler innescare altre polemiche: non costringetemi a defecare sulle insegne di qualcuno di voi» disse rivolto ai cavalieri, «qualche nano potrebbe morire di paura» tirò le labbra in un sorriso e tra gli umani scoppiò qualche risata. «Bene dunque» Laoden sbatté le mani e afferrò uno spiedino di carne salata dal camino; «c’è qualcuno che conosce una bella storia per conciliarmi il sonno?» Kjeldor raggiunse il mezz’elfo. «C’è l’ho io qualcosa da dire, ma non è una storia e non ti concilierà il sonno.» «No. Ancora?» Galem storse il naso, perché sapeva che cosa li attendeva. «Sì, ancora, perché voglio che tutti siano pronti» replicò il generale, duro. «Che cosa intende?» Chiese Ardengo a Meldor, che aveva fatto una faccia scocciata. «Rieremo il piano di attacco al Tempio Scarlatto.» «Ancora?» Gli umani rumoreggiarono. «Ne abbiamo parlato ieri sera, e fino alla noia» si lamentò Sirkor.
«E allora ti annoierai anche stasera» ringhiò Kjeldor. «Non voglio che qualcuno di voi pivelli rovini la sorpresa perché non ricorda quel che deve fare» fu uno schiaffo ma gli umani non replicarono. «Dunque» cominciò il nano, «ci si presentano due scenari. Nel primo la sorveglianza del Tempio è scarsa a tal punto che riusciamo a penetrarvi senza colpo ferire: la nostra azione è tanto inaspettata quanto efficace e ci liberiamo degli Anziani abbattendoli uno alla volta, senza difficoltà. Questo significa che ci divideremo in gruppi, una volta entrati, e saremo io, Meldor, Galem e Laoden a guidarli; ci saranno quattro cavalieri e un chierico in ogni gruppo. Se non sarà possibile entrare a causa della sorveglianza, dovremmo combattere contro gli uomini-albero all’esterno: il cannone e Gorogol provvederanno a eliminarli ma è necessaria una linea protettiva che gli umani dovranno fare attorno alla bocca da fuoco. Laoden se ne andrà a zonzo per cercare Vortigern e distoglierlo dalla pugna e i chierici anno le loro preghiere per inibire gli Anziani e migliorare i nostri attacchi.» «Io non vado a zonzo» si lamentò Laoden a mezza voce. «Effettuo una manovra di disturbo.» «È la terza volta che ci ripeti la storiella» si lamentò ancora Sirkor. «Ed è la terza volta che tu ti lamenti» replicò Kjeldor. «Domani sarai tu a raccontarla, visto che pensi di conoscerla tanto bene.» «La ricordo, la ricordo. Non ti preoccupare» ringhiò Sirkor. «Il problema è che non c’è battaglia che sia andata secondo i disegni di coloro che l’avevano pianificata: sulla carta sei bravo, nano, ma saprai improvvisare, se ce ne sarà bisogno? E lo sapremo fare noi se abbiamo nella mente soltanto la tattica pianificata?» * Meldor socchiuse senza far rumore la porta che separava le stalle dall’ingresso. Controllò i compagni che dormivano per sincerarsi che nessuno si fosse svegliato e si fosse accorto di quel che aveva fatto. Guardò la sabbia nella clessidra e valutò che fosse giunto il momento di svegliare chi avrebbe fatto il torno di guardia successivo. «Sveglia Laoden» Meldor diede una botta al mezz’elfo, che si rigirò nelle coltri e rimase a riposare. Il nano scrocchiò le dita e diede un violento scossone al Signore della Terra, che si mise in piedi di malumore. «E fai piano» lo riprese
Meldor, «vuoi svegliare gli altri?» Laoden sbadigliò e si andò a sedere sullo sgabello usato da Meldor, davanti al camino, senza far rumore. «Questi turni sono inutili, chi ha ucciso i tuoi compagni non si farà più vedere» sbadigliò di nuovo. «Hai ragione, è sarò felice di darti ragione, domani mattina e vivo.» Laoden sbadigliò ancora, afferrò un ciocco di legna e lo gettò nel fuoco, ravvivandolo con una magia. «Tu non detesti Vortigern per quello che ha fatto a Hulbert: il tuo è un odio più antico» sussurrò Meldor dal suo giaciglio, un letto di paglia con due coperte. «Dormi, domani dobbiamo essere in forma.» «Ci ho pensato molto. Ad Antioch avevi il tuo bel tornaconto: hai affrontato quell’orco sciamano di Kaerwood che controllava il Sigillo della Terra e ti sei fatto dare una bella ricompensa. Resta da capire se tu sei stato utile all’Alleanza oppure viceversa. Ma questo è un dettaglio. Mi domando invece che cosa ci guadagni stavolta.» L’elfo sbadigliò. «Dormi, Meldor.» «Che cosa ti ha fatto Vortigern? Posso capire Amber, io stesso sento il sangue ribollire quando penso alla morte di Hulbert, ma tu? Tu non eri legato a noi e persino quel traditore di Gwyllywm avrebbe più ragioni e serberebbe più rancore di te per quanto è accaduto.» «Dormi...» «Cosa non ci hai detto, Laoden?» Il mezz’elfo sospirò. «Vortigern ha ucciso mia madre» guardò il fuoco che divoravano la legna. «L’ha amata e l’ha abbandonata quando ha saputo che dovevo nascere. Mia madre mi ha cresciuto insegnandomi che chi ha la forza di raddrizzare i torti ha il dovere di farlo. Verso la fine dei giorni di quel battito di ciglia che gli umani chiamano vita, iniziò a dire frasi sconclusionate, a non ricordare gli accadimenti e le persone. Nessuna magia è servita per lenire il suo delirio; è spirata guardandomi in volto e chiamandomi con il nome di mio padre,
l’elfo che amò e che la abbandonò. Avrebbe dovuto esserci lui al suo fianco, non io.» Le fiamme avvamparono e un calore improvviso si diffuse per la stanza. «Abbandonai Alerbia e lo cercai e, quando lo trovai, e dopo le mille avventure che mi resero una leggenda, egli mi promise un posto tra gli Anziani Kaerwood. Mi disse che se mi aveva strappato mia madre, mi donava un futuro» Laoden si guardò le mani. «Non posso riavere mia madre e non mi servono i doni di chi l’ha fatta soffrire. Vortigern dovrà pagare.» Meldor raggiunse Laoden e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ho lasciato mia moglie e mio figlio per seguirti. Ho abbandonato anch’io le persone che amavo. Forse Vortigern ha dovuto fare la stessa cosa, forse ha sofferto nel» fu interrotto da uno sguardo di rabbia. «Tu tornerai, Meldor, perché vuoi tornare. Lui non si fece più vedere» il nano abbassò la mano e fece per tornare a dormire. «Quando saremo al Tempio Scarlatto dovete lasciarlo a me. Lasciatemi “andare a zonzo” e occupatevi degli Anziani: lui deve essere mio» il nano annuì con un sospiro e mosse la testa in un gesto posato di assenso. «E visto che siamo in vena di segreti e di confidenze, ho anch’io una domanda da porti.» «Che vuoi sapere?» Meldor si accigliò. «Mi è stato detto che conosci il Tempio Scarlatto perché ci sei stato: dovevi recuperare un artefatto per lavare una grave onta. Era una missione suicida perché al tempo c’era lo spettro di Morg Kroth che sorvegliava le stanze.» «Vuoi sapere come ho sconfitto il mago?» «No, voglio sapere che cosa hai fatto per meritare una punizione del genere.» Meldor si guardò intorno, sospettoso. «È una cosa da nani. Gli altri non possono capire.» «Capirò» Laoden gli si avvicinò. «Dovrai tenerlo per te.» «Lo terrò» gli occhi di Laoden si fecero avidi. «Ebbene» Meldor si avvicinò al mezz’elfo e gli sussurrò il segreto all’orecchio.
Laoden ascoltò preso, poi, quando il nano terminò, fu preso da un moto di riso. «Hai detto che avresti capito!» Tuonò Meldor. «Sì, sì, capisco» Laoden soffocò le risate dandosi un pizzicotto sulla mano. Meldor grugnì qualcosa, scosse la testa e tornò a dormire. «Meldor» Laoden ritrovò una composta serietà e fermò il nano. «Che c’è?» Rispose questi, scocciato. «Tu puzzi di birra.» «Birra?» Il nano si pulì la barba con un gesto deciso, quasi isterico. «Impossibile: non ci sono botti di birra. Lasciami dormire adesso, domani sarà un giorno duro.» * Il fuoco moriva e le ombre languide e sproporzionate affogavano nel buio. Jesper di Navion era di guardia ma si era assopito, la testa appoggiata alla parete che dondolava ora su una spalla, ora sull’altra. Fu destato da un ronzio, si alzò stordito e si avviò verso le scale a chiocciola, dove il rumore pareva più forte. Fece uno scalino, attratto da un bagliore bluastro, si fermò quando li vide ma non ebbe il tempo di urlare perché lo aggredirono sciamando dal piano superiore. Erano poco più grandi di un pollice, tozzi e con grandi ali luminose; la testa, piatta e con quattro occhietti azzurri simili a quelli delle mosche, serviva soltanto a reggere quattro paia di robuste mascelle. Dal corpo bombato degli insetti uscivano sei zampette adunche, pelose e umide di neve. Jesper cadde all’indietro, rotolò giù per le scale e gridò per il dolore mentre gli insetti gli entravano nella bocca per scendergli nello stomaco e divorarlo dall’interno. Gli insetti azzurri si insinuarono nelle narici, nelle orecchie, negli occhi e in ogni altro pertugio che trovarono o che si ricavarono strappando lembi di pelle. Ardengo fu il primo ad alzarsi e gridò non appena vide il corpo di Jesper ricoperto dagli insetti luminescenti scomparire dentro una pozza di sangue che veniva succhiato via. I cavalieri si alzarono storditi dal sonno ma il giovane Sirkor insultò i compagni e si rigirò nelle coperte. «All’armi!» Ardengo afferrò la spada e menò un fendente verso un pugno di
insetti che lo puntava. Il colpo andò a segno ma lo sciame si disperse verso gli altri cavalieri. Dopo una manciata di secondi dalla morte di Jesper, dentro lo stanzone si ritrovarono tutti a menar inutili fendenti. «Fermi, dannazione, smettetela con le spade» Laoden prese la coperta di lana dove dormiva e la usò come una rete per afferrare e schiacciare contro il muro gli insetti: ci fu un rumore sordo, come di nocciole aperte da un sasso ma il mezz’elfo non aveva ucciso che una manciata di parassiti. «Ce li ho nelle mutande» Albion starnazzò come una ragazzina e prese a saltare con le mani dentro i pantaloni. Sirkor sembrava essere quello più fortunato perché si infagottò nelle coperte senza che gli insetti si degnassero di lui, ma la danza scoordinata di Albion lo portò a calpestarlo e a cadergli addosso. Una fiammata d’argento sfuggì alla bocca di Gorogol e illuminò a giorno la stanza. «Chiudete gli occhi, tutti, adesso!» Berciò Laoden, sbracciandosi per schiacciare gli insetti. «Non ce li ho più gli occhi, non ce li ho più» gridò Meldor picchiando con le mani nelle orbite vuote per uccidere gli insetti che vi si erano annidati. Invoco l’Arte ultima del Sigillo della Terra, invoco il potere serbato dalle foreste millenarie, invoco la forza dello sguardo che non lascia scampo, voglio il potere che solo a me spetta: lo sguardo della Cocatrice, l’uccello del mito. Ci fu un bagliore caldo e intollerabile, poi ridiscese il freddo silenzio della notte. Galem riaprì gli occhi e sentì le palpebre pesanti, appena sfiorate da un potere immenso. Il nano prese un grande respiro, poi si voltò verso Meldor, e vide Derek Wellfire chino su di lui, in preghiera. «Non muoverti» il paladino di Towerthrough cacciò via una massa di minuscoli insetti di pietra che si erano ammucchiati sul corpo dell’eroe di Antioch.
«Per la barba di Mahorn, fai qualcosa!» Meldor aveva il volto impiastricciato dal sangue. «Stai fermo» le mani luminose di Derek Wellfire vibrarono sopra la nuca del nano e gli chio le palpebre; il paladino lo aiutò a rialzarsi e lo portò al suo pagliericcio. «Adesso siedi e riposa.» «I miei occhi» gridò il nano stringendosi il volto, «torneranno?» «Torneranno» lo rassicurò il paladino. «Devi attendere qualche giorno e torneranno.» «State tutti bene?» Galem vide gli altri tre paladini che curavano altrettanti cavalieri. Kjeldor si ripuliva dagli insetti in pietra che gli si erano infilati sotto il giustacuore; Laoden e Gorogol erano chini in terra ed esaminavano le statuette. «Curiosi, guarda che belle mandibole, è incredibile come un insetto così piccolo riuscisse a volare con attributi tanto sproporzionati» spiegò il drago. «Che cosa facciamo di Jesper?» Ardengo di Halkirk richiamò l’attenzione del mezz’elfo, che abbandonò il drago all’esame degli insetti. Galem si avvicinò al mucchietto d’ossa spolpate affastellate sotto le scale. «Ci penso io» sbuffò, «una bara nelle Montagne di Cristallo e una cerimonia veloce ma intensa» raccolse le spoglie del sedicesimo cavaliere di Re Karl in una coperta, impugnò il piccone con il quale aveva combattuto e uscì nella tormenta per scavare una terza fossa. «Non si può morire così, nel nome di tutti gli Dei!» frignò Albion tenendosi la fronte. «Jesper era un cavaliere, era un uomo d’armi. Non è ammissibile una morte del genere.» «Per lui no, e nemmeno per noi» sentenziò Sirkor. «Per altri che invece il titolo l’hanno comprato…» «Da chi viene la predica!» Tuonò Albion asciugando le lacrime. «Tu ti sei sottratto alla pugna nascondendoti come un verme!» Lo fronteggiò. «Silenzio, fate tutti silenzio» ruggì Ardengo di Halkirk. «Non è il momento di litigare.»
«E se dovessero tornare?» La voce sofferente di Meldor gettò lugubri ombre sulla notte che doveva ancora trascorrere. Laoden riattizzò il fuoco con numerosi ceppi. «Andrò a chiudere il camino e le feritoie del piano superiore, quindi sigillerò questa stanza con un incantesimo.» «Bella idea» ringhiò Meldor, «avresti potuto pensarci prima.» «Prima non sapevo con cosa avevamo a che» la replica di Laoden fu interrotta da Gorogol, che gli pose una mano sulla spalla. «Vai pure a chiudere ogni entrata del piano superiore, ma non torneranno.» «E tu come fai a esserne tanto sicuro, lucertola?» Grugnì Meldor. «Insomma, vuoi riposare?» Lo redarguì Derek Wellfire. «Quegli insetti non erano esseri senzienti» rispose Gorogol. «Ha attaccato l’intero sciame.» «Non si erano mai visti esseri simili sulle Montagne di Cristallo» Galem figlio di Hamer si intromise nel discorso. «Hai idea del luogo da dove provengono?» Domandò al drago. «No, non ho mai sentito di esseri simili.» «Sarà meglio premunirsi» Kjeldor prese a rompere le statuine di pietra con il martello da guerra, «non si sa mai.»
Il mio compito è ingrato, poiché sono colui che dovrà indicare la strada. Io sono colui che guida ma sono anche colui che serve. Io sono il primo di coloro che sono partiti e sarò l’ultimo che tornerà. L’ultima parabola – Éireamhón, profeta elfico
XXXVIII – La verità
Quando Khayn raggiunse Éireamhón, il profeta stava lanciando una pallina gialla e pelosa al cagnolino, che la riportò scodinzolando. «Buongiorno Khayn. La tua visita mi riempie di gioia: tu sei il primo a tornare.» Fece un nuovo lancio e il cane scodinzolò felice e corse dietro la palla. «Buongiorno a te, Éireamhón, mi fa piacere rivederti.» «In realtà non ero intenzionato a farti visita» allargò le braccia e fece spallucce. «Ho fatto da guida a Éibhleann.» «Ma non hai accettato di vedermi soltanto per educazione. Tu non sei il primo che torna ma la tua giovane età ti rende migliore di molti anziani che hanno capito ma non hanno ancora trovato il coraggio di tornare. Ma tu non sei felice di essere qui per il mio brutto muso o per una visita di cortesia. C’è dell’altro. C’è una domanda.» Éireamhón si accese. «Ho scoperto che molti di coloro che si reputano revisionisti sono più ortodossi di quanto credono. Ho udito le loro parole, ma ho visto le loro scelte e, nel riflettere circa l’incongruenza del loro agire, ho immaginato che questa discrepanza tra pensiero e azione fosse imputabile a un’eccessiva focalizzazione sul risultato da conseguire e non sui mezzi ottenuti per farlo. Io stesso ho fatto un simile errore.»
«Talvolta la conoscenza acceca e molti si compiacciono solo di conoscere, non di ciò che conoscono. Ma perché sei tornato: qual è il vero motivo? Non lo avrai fatto per confessare a qualcuno questa tua leggerezza.» Éireamhón accarezzò il cagnolino. «Continua, non ti curare del piccolo Tlwnyl: adora giocare.» «Ho ricordato quando venni ad Anchor Seinan. Scelsi il revisionismo e tu commentasti che tutti guardavamo la tua mano e non ciò che indicava. Solo adesso mi rendo conto dell’enfasi che ponevi sulla parola “tutti”. Significa che, qualora avessi scelto l’ortodossia, avresti avuto il medesimo sfogo,» Éireamhón si impettì e accarezzò il cagnolino. «E cosa mi dici al riguardo?» «È un’altra delle tue prove?» «Prove? E quando mai ti ho sottoposto a una prova? Ti ho solo mostrato la verità.» «E allora dimmi: perché non alloggi presso le tribù e spieghi con chiarezza che cosa sono l’ortodossia e il revisionismo invece di mostrare ciò che fu?» «Perché mostrare è meglio che dire?» Il profeta rispose con una domanda e si incamminò su una strada lastricata da pietre bianche che gettavano una soffice luce azzurra al suo aggio. «Ho pensato anch’io che fosse per questa ragione, ma non ne ero soddisfatto: perché mostrare due punti di vista sulla medesima realtà? Se tali visioni sono in conflitto tra loro, una delle due è senz’altro sbagliata. Perché inserire tra le scelte di vita una filosofia sbagliata?» «Ottimo, mio giovane amico, e ti sei dato una risposta?» Alte colonne sormontate da statue di illustri personaggi incombevano sulla via, avvinghiate da alberi contorti dalle radici affioranti: rami nodosi e deformi abbracciavano le statue, si infilavano tra i loro pertugi, le svellevano sorreggendole. Khayn si sentì schiacciato dalla forza che aleggiava tra le rovine ma, quando comprese, l’istinto primordiale smise di tormentarlo e scomparve cancellato dall’ovvietà della risposta. «Subito ho pensato che nemmeno tu conoscessi la verità.» Éireamhón rise di gusto. «E poi?»
«Era così lampante che quando scelsi il revisionismo nemmeno mi posi il problema: ciò che ci rende pronti a vivere è comprendere che abbiamo il dovere di prendere una posizione e che tale posizione è una libera scelta.» «Questo è quello che concludono tutti, e nonostante io li metta in guardia sulla fallacia del libero arbitrio. Tu però sei tornato, quindi hai trovato un’altra risposta.» «Perché non sei andato dalle tribù a raccontare la storia del nostro popolo? Può essere davvero soltanto il fatto che un il racconto delle prove è meno incisivo delle visione delle prove stesse? E allora mi sono domandato perché rimani qui.» «E perché rimango qui, Khayn?» Éireamhón sedette su una panchina baciata dal sole che si insinuava a fatica tra le frasche dei sempreverdi. «Non è una questione di messaggio, non è una questione di prove, è qualcosa che va oltre. È il contesto che non può essere cambiato perché tu sei il messaggio, anzi, lo è quello che fai. Tu non ci mostri che ortodossia e revisionismo sono due modi di vedere la realtà, perché il nocciolo non è che esistono scelte che io posso prendere, il nocciolo è che non puoi farlo tu. Noi non siamo un popolo diviso perché esistono luce e oscurità: noi siamo divisi perché non abbiamo capito il tuo messaggio.» Éireamhón rise, allargò le gambe e giunse le mani, fissando a terra. «Immaginavo che altri sarebbero giunti prima di un giovane. Non mi fraintendere, la mancanza è mia, mi domando dove abbia sbagliato.» «Non hai sbagliato, siamo noi che abbiamo faticato a capire. Éireamhón, noi non meritiamo che tu rimanga a mostrarci quale è la strada che non riusciamo a vedere né a percorrere» Khayn si accasciò. «Devi riunirci» lo supplicò. «Se non fossi rimasto, tu non avresti capito: se non rimango, non capiranno gli altri. Ma se veramente hai a cuore quel che hai compreso, devi fare ciò che io non posso.» «Ma io sono uno solo.» «Lo so, mio caro amico, e ti attende un compito più gravoso del mio, poiché tu sei quello che mostrerà agli altri dove sbagliano. E questo è possibile soltanto se io attenderò qui.»
«Come posso fare, da dove devo cominciare?» «In che punto attaccheresti un nemico?» «Dove è più forte.» «E perché non dove è più debole?» «Perché se lo sconfiggo là dove è più forte, dove è più debole non troverò resistenza.» «Bene, mio giovane Khayn. Hai già capito da dove dovrai illuminarli.» Khayn si voltò, fece alcuni i, poi si fermò. «In una tua parabola dicesti che soltanto coloro che dovevano capire avrebbero capito. Se io spiego le tue parole...» «La parabola serviva a spiegarvi senza farlo. Ed è servita perché tu hai capito. Vai adesso e dai senso alla mia attesa.» * Khayn raggiunse Éibhleann, che lo attendeva fuori dalle mura. «Che vi siete detti di bello?» L’elfa aveva appena terminato i preparativi per la partenza. «Vedo che hai fretta di tornare dai Si’phir.» Éibhleann guardò Khayn, battagliera. «Da Glewmwn, piuttosto: voglio vedere la sua faccia quando gli dirò che ho compreso il messaggio di Éireamhón senza bisogno del suo permesso. Lo fronteggerò e gli dirò che le regole che gli anziani applicano vanno rivotate, dalla prima all’ultima: nessuna delle leggi dei padri può vincolare i figli senza il loro consenso.» «Ti auguro buona fortuna, ne avrai bisogno. Glewmwn è un osso duro» Khayn indossò il proprio zaino. «Come sarebbe a dire, tu non torni?» L’entusiasmo di Éibhleann si spense. «No, vado a cercare gli ortodossi.»
Éibhleann sbiancò e trattenne Khayn per un braccio. «La tua è una decisione affrettata.» «Non voglio unirmi a loro, per chi mi hai preso?» disse Khayn con cautela. «Voglio andare da loro, prendere Gwyllywm e riportarlo da tua sorella a calci nel sedere.» «Sei uno sbruffone e non ce la farai» Éibhleann pizzicò Khayn al naso, con l’indice. «Gwyllywm è più abile, più forte e ancora più testone di te.» «Lo so bene, ma ho la certezza che sia così perché manca di un ricordo. E io conosco il modo per farglielo avere» strinse tra le mani una gemma rossa, un cristallo permanete dove gli elfi registravano conoscenze e ricordi. «Devo soltanto trovare il modo per convincerlo ad ascoltarmi.» «Non preoccuparti, ci penseremo strada facendo» Éibhleann prese la via della foresta con entusiasmo. «Tu non vieni. Dovevi tornare da Glewmwn.» Éibhleann fece un sorriso, come se si fosse aspettata quel rifiuto. «Mi spiace ma non vai da nessuna parte senza di me: sono scappata con te e sei responsabile per quello che farò.» «Sei avventata» rise lui: «ora che hai visto il meteorite sei un’elfa matura, non dipendi più da un adulto. Salutami Glewmwn.» «Dimentichi un dettaglio.» Éibhleann fece un sorriso losco. «Nessuno dei Si’phir sa che ho visto il meteorite. Glewmwn pensa che io non sia ancora matura e che tu ti prenderai cura di me. E lo penserà anche mia sorella Alywya: non vorrai darle un dispiacere del genere.» Khayn si incamminò nella foresta grugnendo. «Aspettami e non fare l’orso. Come intendi trovare gli ortodossi?» «Andiamo all’Albero della Vita e aspettiamo. Ci troveranno loro» Khayn si mise in marcia. Éibhleann rimase sbalordita. «Non ci posso credere. È davvero tanto facile?» «Non è complicato entrare nelle Tenebre, è difficile uscirne.»
Due giorni or sono è giunto un mezz’umano di nome Laoden di Alerbia e ha preso accordi segreti con Re Karl I. Lo stretto riserbo in cui è caduto il giovinetto mi ha fatto temere che il mezz’umano tramasse contro il Senato e, nonostante un ristretto numero di nobili fedeli sia stato scelto per accompagnarlo nella sua missione, sono riuscito a corromperne uno che ci comunicherà i loro spostamenti: ve li farò pervenire con la dovuta solerzia poiché pare che gli obiettivi di Laoden siano suo padre Vortigern e il Bastione Scarlatto. Ho dato ordine al cavaliere di asslo qualora se ne verificasse l’occasione. Lettera a Kaerwood – Moriak, senatore di Alesia e consigliere di Re Karl I
XXXIX – Il Bosco dei Sospiri
Siamo scesi dalle Montagne di Cristallo lungo una valle sferzata dal vento e dalla neve. È la medesima che ho percorso per raggiungere il Bastione Scarlatto, i miei sensi la riconosco nonostante gli occhi non vedano altro che chiazze indistinte dai colori cupi. Ieri era il quinto giorno che ho camminato appeso al braccio di Derek Wellfire, che reggeva anche i miei cavalli e che mi diceva tutto quello che dovevo fare. Mancava soltanto che mi imboccasse e dell’eroe di Antioch non sarebbe rimasta che l’ombra di un patetico cieco invalidato da una manciata di mosche carnivore. Inutile: per la prima volta mi sono sentito un fardello per i miei compagni. Ho parlato poco e poco gli altri si sono rivolti a me. Forse hanno compatito lo stato pietoso e indegno di un guerriero del mio valore. La vista è ritornata questa mattina, all’alba del sesto giorno. Eravamo alle pendici delle Montagne di Cristallo, sul limitare del Bosco dei Sospiri. Avevo dormito come un sasso e quando mi sono alzato, ho aperto gli occhi e ho visto le querce che incombevano come guardiani secolari, schiacciate da un cielo simile a metallo lucido. Il vento stormisce tra gli aghi e porta il profumo di resina delle conifere. Contemplo il bosco, scuro, intricato e silenzioso; gli alberi e i grigi cespugli mi fissano con gli occhi di un vecchio malvagio che attende.
«Tutto bene?» La voce di mio fratello è carica di speranza. «Vedi quel buco laggiù? Lì ho liberato un uomo-albero di nome Ywig che era stato imprigionato dai ragni giganti. Dobbiamo prestare attenzione, non conosco quali pericoli si annidino tra i tronchi.» Lo fisse mentre mi sorride. «In ogni modo sì, tutto bene.» * «Ti vedo pensieroso, c’è qualcosa che non va?» Derek Wellfire raggiunse Laoden, che guardava il cielo, in ogni direzione. «Attendevo una comunicazione» confessò il mezz’elfo. «Da chi?» «Ricordi le Scaglie di Rame? Avevano promesso di aiutarci ancora una volta» il paladino lo invitò a continuare. «Dovevano farsi vive o farmi giungere un messaggio circa la loro posizione.» «Ci sono cinque draghi dalla nostra parte e non ci hai detto nulla?» Derek alzò la voce ma Laoden si mise a tossire per coprirlo. «Fai silenzio, sei impazzito? I cavalieri devono combattere e dare il meglio di loro, non bighellonare pensando che ci penseranno i draghi a risolvere la questione. In ogni modo ho un brutto presentimento, avrebbero già dovuto farsi sentire.» «Temi che facciano come ad Antioch, presentandosi quando il rischio sarà ridotto al minimo?» «No. Temo inganni da parte di Kaerwood. Ve l’ho detto, dobbiamo aspettarci qualsiasi cosa da loro, dall’inganno al tradimento.» * Meldor fermò la colonna di soldati e guatò il bosco, umido e scuro. «Problemi?» Kjeldor raggiunse il fratello e gli strinse il braccio.
«C’è qualcosa.» «Alberi, cespugli, neve, foglie marcescenti e roditori. Sì, ci sono un sacco di cose» Kjeldor guardò la foresta silenziosa e non rinunciò a piccare il fratello. «Tra queste, qual è quella che spaventa l’eroe di Antioch?» Meldor tirò le labbra. «Tu non approvi la carica che ho meritato.» Kjeldor si irrigidì e parlò con il tono di un ufficiale che impartisce ordini. «Te l’ha conferita Re Elben “il Saggio”, non ho alcun diritto di non approvarla. Rimane il fatto che non c’è nulla.» «Tu non vedi nulla.» «Direi che è la stessa cosa. Se ci fosse la vedrei.» «Eppure i cavalli sono irrequieti.» Kjeldor fissò nella medesima direzione di Meldor ma non distinse altro che l’intrico dei rami soffocati dalla neve e il sottobosco ricoperto da chiazze bianche dove gli alberi erano meno fitti. Il generale di Antioch liquidò i dubbi del fratello con un’alzata di spalle. «I cavalli si inquietano ogni volta che la lucertola a loro accanto.» Indicò Gorogol. «Dopo quello che è accaduto non mi fiderei della tua vista» sogghignò. Meldor non afferrò la beffa. «Sento qualcosa nell’aria» tirò su con il naso: «c’è un odore indefinito e malvagio, è una puzza arcigna che ho già sentito da qualche parte, ma non ricordo dove.» «Se i tuoi dubbi fossero più concreti o precisi non faticherei a crederti.» «Non è proprio lo stesso odore, ma era simile» Meldor continuò il suo discorso come se non avesse udito la replica. Kjeldor annusò l’aria pungente del Vaenert. «Sì, in effetti sento qualcosa.» «Che cosa?» Meldor si accese. «Paranoia» sogghignò Kjeldor.
«Piantala.» Meldor rifilò una gomitata al fratello. «C’era la neve anche allora» l’eroe di Antioch si sforzò di ricordare, sembrò illuminarsi e quindi si incupì. «C’era la neve e il vento portava folate di questa puzza. Mandami Derek e ordina di stare in guardia: la foresta ci guarda e non sono gli occhi ionali di una femmina.» Kjeldor parlò con i cavalieri di Alesia e infine mandò il paladino di Towerthrough dal fratello. «Mi cercavi?» Domandò Derek. «Ho già sentito quest’odore, a te dice nulla?» Meldor indicò con lo sguardo la boscaglia intricata. Anche il paladino annusò la puzza portata dal Vaenert e rimase pensieroso. «Cældarein, l’ho sentito a Cældarein, quando sono usciti dalle miniere. Lo stesso allucinante fetore.» «Quindi è come ricordavo» sospirò il nano. «Troll delle nevi» confermò il paladino, deglutendo. «Puoi lanciare un incantesimo che ti dica quanti sono?» «Sono un Paladino, non un mago. Forse Laoden» Derek convocò il mezz’elfo, che usò l’incantesimo che a Gòlmas non aveva identificato Gorogol. «Percepisco sei auree ostili, a nord. Ma non sembrano interessate a noi» precisò il mezz’elfo. «Possono essere avanguardie o ricognitori. Ma se non sono interessate a noi, tu come fai a sapere che sono ostili?» Meldor socchiuse gli occhi per fissare in tralice il mezz’elfo. «È difficile da spiegare a chi non percepisce il mana, ma è come ti dico.» «Va bene, proseguiamo, ma fate attenzione a qualsiasi stranezza» Meldor ritornò verso i cavalieri allertati da Kjeldor e prese il sentiero che aveva percorso con la quercia Ywig.
Il gruppo camminò con circospezione e o lento finché raggiunse una radura abbastanza grande e difendibile dove attendarsi per la notte. Gli umani ripulirono dalla neve la zona e vi deposero le frasche che erano state ricavate dai nani con il loro fine lavoro d’accetta. Accesero un fuoco al centro dell’accampamento dopo aver discusso una buona mezz’ora su quanto fosse o meno opportuna l’idea di farlo. Galem cucinò un delizioso stufato con la carne salata e Gorogol conciliò il sonno raccontando la leggenda delle Scaglie Nere che combatterono contro gli elfi e furono sconfitti e imprigionati in una grotta, sulla rive del lago d’Arail. I cavalieri si divisero i turni di guardia e, quando ormai la notte aveva allungato le sue fredde spire sul Bosco dei Sospiri, si coricarono per riposare. Meldor raggiunse Laoden, che stava sistemando delle strane armi dentro due cinturoni. «Che roba è quella?» «Kwhilink di Lovrareim» rispose Laoden mostrando un pugnale con la lama stretta e slanciata e un manico corto che terminava in un anello. «Sono dardi da lancio, armi umane.» Meldor alzò un sopracciglio. «Perché di due tipi?» «Questi sono normali» Laoden prese i dardi che teneva in una sacca di pelle di vacca e li ripose con cura nelle fodere di uno dei due cinturoni. «Mentre questi sono la ricompensa che ho chiesto a Re Elben “il Saggio” per aver aiutato Antioch» prese altri kwhilink, identici nella forma ma più lucidi, e li ripose nel secondo cinturone. Poi prese un dardo di ognuno dei due tipi e li consegnò al nano, che ne saggiò il peso con le mani. Meldor riconsegnò quello più pesante e ammirò l’altro, quello più lucido. «Vale una fortuna ma non è molto resistente» gli occhi luccicarono. «Sono purissimi: cosa pensi di farci?» Laoden indossò a tracolla il cinturone di quelli più pesanti e meno lucidi, si alzò in piedi, allungò le braccia per sgranchirsi, poi infilò l’anello del primo dardo con il pollice, l’estrasse, appoggiò l’indice e il medio sulla lama e scagliò l’arma contro un albero grazie a una torsione del polso e un manrovescio. «Visto?» Meldor guardò Laoden dubbioso. «Siamo in una foresta: è pieno di tronchi, anche un bambino ne colpirebbe uno.»
Il mezz’elfo sospirò, quindi estrasse e lanciò in rapida successione i dardi che rimanevano nel cinturone, piantandoli tutti accanto al primo lanciato. «Ora hai capito?» Meldor applaudì. «Sei bravo. Però abbiamo spade, scudi, lance, archi, accette, martelli da guerra, incantesimi, preghiere, draghi e cannoni. A cosa ti servono delle freccette?» Laoden prese il cinturone con i dardi realizzati dai fabbri di Re Elben “il Saggio”. «Mi servono contro qualcuno che non potrà evitarli.» Raccolse quelli lanciati con un incantesimo che li rinfoderò uno alla volta. «Vortigern non sarà tanto stupido da cadere in un tranello del genere» Meldor si lasciò scappare una risata cristallina ma rimase turbato dal bieco sorriso di Laoden. «Lo sarà invece?» * La luna era una moneta d’argento dentro un calamaio e lo stormire del vento tra le foglie era un lamento ininterrotto, perfido e ipnotico. La foresta era impregnata di un lucore sinistro e minaccioso e Ardengo sedeva su un sasso trasformato in poltrona da Laoden e sorseggiava una bevanda speziata preparata da Llywelyn. Il fuoco lo scaldava ancora, vivace, ma il freddo che gli si infilava sotto il pellicciotto aveva reso la cotta di maglia un pezzo di ghiaccio. Il vento cessò e il silenzio si fece totale. Ardengo guardò la foresta ed ebbe la sensazione che qualcosa si fosse mosso davanti a lui. Si concentrò per averne la sicurezza e gli parve che le fronde più basse degli alberi si muovessero come fossero animate. Uomini-albero? Il giovane vassallo di Amber tremò all’idea di dover fronteggiare i giganti di legno. No, impossibile, farebbero un gran baccano con le radici. Attese e, quando i movimenti si fecero numerosi, si avvicinò a Laoden di Alerbia, fingendo una normale ronda, e gli diede un colpetto con il piede, sugli
stivali. Il mezz’elfo sembrò non aver sentito ma poi si rigirò e diede un calcio a Derek, che si destò e fece altrettanto con il vicino. Mi desto per lo strattone di mio fratello Kjeldor. La birra ambrata che ho sorseggiato di nascosto mi ha rintronato e sono l’ultimo ad alzarsi. La prima cosa che sento sono i sordi grugniti degli aggressori e il piano di Laoden mi rimbalza in testa come il rumore dei picconi che spezzano la roccia in cerca di metalli. Afferro una delle picche che abbiamo preparato mentre allestivamo i giacigli e mi stringo ai miei vicini, completando il cerchio di lancieri. I troll sbucano tra gli alberi e sciamano verso di noi brandendo clave puntute grandi quanto me. Non riesco a capire quanti sono ma i primi si conficcano sulle nostre picche, che li ano da parte a parte. Il fetore del loro sangue e della loro pelle ripugnante genera un conato che soffoco a fatica. Lascio la picca e brandisco l’ascia a due mani. Calpesto il primo troll, roteo l’arma dal basso verso l’alto e la conficco tra le gambe di quello che lo seguiva; lo sventro e genero una cascata di intestini lividi e schifosi. Il troll grugnisce, cade di schiena e il suo corpo si dimena come un pesce appena pescato. I miei compagni hanno avuto il mio stesso zelo guerriero e gli aggressori attendono, frastornati dall’inattesa resistenza. Laoden intuisce che è l’occasione per sgominarli e ordina l’attacco; nonostante gli umani siano frenati dalla notte appena rischiarata dal fuoco, si scagliano addosso ai corpi giganteschi, bitorzoluti e puzzolenti dei troll. I Paladini e Galem usano le loro preghiere per sparare un anello di luce che investe le nostre schiene e acceca le creature; i cavalieri di Alesia gridano per farsi coraggio e trafiggono i nemici con le alabarde, i mazzapicchi, le spade e le lance. L’ascia di Llywelyn cala senza pietà e il suo kilt si macchia col sangue schifoso dei troll. Mio fratello Kjeldor alza le mani al cielo e conficca la sua piccozza nella fronte di un troll e lo trascina a terra come fosse un sacco di carbone; Laoden si premura di incenerire i corpi dei caduti con un incantesimo che non genera fiamme. Un cavaliere osa troppo, viene colpito in pieno petto da una delle grandi mazze e scivola; la sua armatura ad anelli regge il colpo successivo e il giovane ha l’occasione di rialzarsi ma il troll gli piomba addosso e lo colpisce alla testa, schiacciandolo a terra. Sento la mazza fracassare il cranio e la vedo scendere e rialzarsi più volte, cercando la sicurezza della morte. Il troll non finisce la sua opera che un altro cavaliere lo aggredisce e gli mozza un braccio.
Mi dedico alla bestiaccia che mi sta di fronte, un ammasso di muscoli sudici di fango e tatuaggi rossi. Le gambe corte sorreggono un ventre sproporzionato e dalla sua testa allungata penzolano orecchie triangolari con orecchini di legno e pietra. La bestia ha una bocca piatta, larga e con zanne tozze; porta al collo una collana d’ossa con un teschio che sembra umano. Mi guarda sbalordito da come sia riuscito a evitare la sua goffa clavata. Mi fa pena. Quando gli stacco una gamba finisco invischiato nel sangue putrido e graveolente che gli sgorga dall’arteria e lo finisco squarciandogli il petto. Rifiato e scorgo mio fratello che con il piccone ha aperto la faccia di un altro troll ma non avanza, anzi attende che gli umani riprendano le loro posizioni difensive. Una saggia mossa. Ci sono secondi di tragica attesa, poi parte la fiammata di Gorogol che trasforma in torce sette troll; dopo che i mostri illuminano la foresta, un fulmine lanciato da Laoden attraversa e frigge quattro troll ed esplode dentro un quinto, smembrandolo. L’odore ripugnante della carne bruciacchiata stomaca a tal punto il giovane Ardengo che questi si piega e rovescia in terra succhi gastrici e stufato. Rampollo della nobiltà umana o dilettante allo sbaraglio? I troll sono dimezzati in numero e dalla mia parte non ne scorgo più alcuno. Decido di spezzare il cerchio per convergere accanto a mio fratello, quando scorgo con la coda dell’occhio un cavaliere che abbandona il gruppo e ne segue un secondo, che arretra. Attendo e riconosco il biondo Sirkor, che alza la spada per colpire alle spalle lo scuro Albion. Sirkor è il vigliacco dalla faccia deturpata che ha minacciato il compagno dai ricchi natali! Abbandono la pugna, piombo addosso a Sirkor e lo colpisco alla testa con l’ascia, ma di piatto, per stordirlo. Dopo che il giovane e vendicativo cavaliere di Alesia è caduto a terra, mi accorgo di come anche Albion brandisse la spada per colpire. Un brivido mi rizza i peli su tutto il corpo. Albion è a due i da me e trafigge Laoden di Alerbia. Sono un fesso. E la vista è un senso inutile.
Dopo un colpo netto, la leggenda del Signore della Terra si spegne davanti ai miei occhi.
Sono gli anziani che stabiliranno chi di voi è pronto per visitare Anchor Seinan e il loro giudizio è inappellabile. Non c’è un’età fissa per questa maturità, ma io vi dico che più attenderete, più le cose vi appariranno nella loro limpidezza: non abbiate fretta, perché arrivare impreparati può divorarvi la coscienza e consegnarvi all’oscurità. E a quel punto odierete i vostri amici, i vostri fratelli, arriverete a desiderare la morte delle persone che amate e vi applicherete per realizzarla. Lezioni – Glewmwn di Si’phir
XL – L’ultimo scontro tra ortodossi e revisionisti
«È stato per noi un grande stupore vederti entrare, Glewmwn di Si’phir. Credevamo che in tua vece sarebbe giunto il giovane Khayn. Cosa è accaduto?» Glydwrnas di Tyral’Areb interpellò l’elfo di Si’phir non appena si accomodò nel cerchio dei sedici guerrieri; l’attesa per la risposta che non arrivava generò un silenzio cupo. «Credo che affrontare la questione alla larga non farebbe altro che tediarvi e allungare a dismisura il mio intervento, perciò andrò al dunque» Glewmwn fece una breve pausa a occhi chiusi. «Khayn ha abbandonato i Si’phir.» «Quindi ci hai convocato per intrattenerci con i resoconti dei tuoi fallimenti?» Una voce cupa lo interruppe. «Vortigern di Tseller, tu sei l’ultimo elfo che ha il diritto di criticarmi.» «Senti, Glewmwn di Si’phir» Glydwrnas di Tyral’Areb prese parola, «non ci siamo riuniti per estorcerti il motivo della convocazione. Sono convinto, e credo che lo siano tutti, che non ti faccia piacere esporre le preoccupazioni del tuo cuore e renderci partecipi di quelli che Vortigern ha definito fallimenti. È ato più di un anno da quando ci schierammo presso la radura di Al Wnyar per fronteggiare i sedici guerrieri ortodossi giunti a dar man forte e Raylyn. Ricordo l’intraprendenza del tuo giovane successore Khayn, che evitò un inutile scontro; ricordo il suo coraggio e la sua collida favella: cos’è cambiato in questi
brevissimi mesi, quali eventi negativi hanno sconvolto la mente del giovane Khayn?» «Non è questo il motivo per cui ho convocato le tribù» ringhiò Glewmwn. «Si vocifera che Khayn si sia recato ad Anchor Seinan una seconda volta» un elfo dai capelli ricciuti e dagli occhi scuri parlò sui due compagni. «Era forse intenzionato ad abbracciare la fede ortodossa?» «Capisco le tue preoccupazioni, Láimhseach di Tyral’phir. Ma non è questo il motivo per cui vi ho convocato» Glewmwn scandì le parole e attese che tutti tero per autorizzarlo a parlare. «E per cosa ci hai convocato dunque?» Lo incalzò Vortigern. «Il mio tempo è prezioso, ho ricerche molto importanti da terminare.» «Abbiamo un grosso problema, ben più grosso degli sbalzi di umore e delle follie del giovane Khayn.» «Glewmwn, stai diventando prolisso come un uomo-albero» Glydwrnas incrociò le braccia e i suoi occhi chiari si fecero severi. «Nemmeno io ho tutta la notte per ascoltare il tuo resoconto.» «Kaerwood.» Glewmwn mise alcuni dei sedici a disagio. E se ne accorse. «Molti di voi sanno cos’è Kaerwood, quali fini persegue e con quali mezzi.» «Vorrei che fossi più esplicito» Vortigern lo affrontò con le labbra tirate. Che fine ha fatto il tuo sorriso spavaldo? Glewmwn prese il calumet, vi infilò del tabacco e l’accese, diffondendone il sapore dolciastro. «A chi rispondi delle tue azioni, Vortigern?» «Alle mie azioni di che tipo?» L’interpellato prese tempo ma gli elfi che formavano il cerchio assieme a lui si erano irrigiditi e avevano cominciato a prosciugare il mana per usare tutti gli incantesimi cognitivi che conoscevano. «Se combatto al vostro fianco ne rispondo prima a voi e quindi alla mia tribù, altrimenti rispondo alle regole degli elfi.» «Bene, alla luce di questo, gradirei sapere se sei un Anziano di Kaerwood» Glewmwn aprì una ferita nel clima che dominava la riunione.
Vortigern si incupì e ponderò a lungo come rispondere. «Non c’è nulla di male nell’appartenere al Consiglio di Kaerwood, non dimentichiamo di come gli uomini-albero che lo istituirono portarono la pace a tutte le genti di Arhanien.» «Concordo con te» Glewmwn attaccò ancora, «tuttavia Atar-Al-Karem, colui che spinse l’Orda ad aggredire Alesia e che risvegliò le Scaglie Nere, era un Anziano di Kaerwood.» «Atar ha commesso degli errori» la voce di Vortigern divenne dura, «e il Consiglio non ha mai approvato quello che ha fatto: ha soltanto riconosciuto la legittimità delle sue richieste e delle sue azioni. Kaerwood lavora per mantenere equilibrio tra le forze di Arhanien. Ritieni che le finalità del Consiglio, che ha sconfitto e rinchiuso Morg Kroth e vegliato per secoli sulla pace, siano ora da ritenersi pericolose?» «Kaerwood lavora nell’ombra per mantenere un conveniente equilibrio, questa è la verità. In ogni modo non ho dubbi su quelli che furono i meriti del Consiglio, eppure mi domando chi abbia usato chi» Glewmwn arrivò alla domanda che gli premeva. «Atar ha usato Kaerwood o viceversa?» «E per te che differenza fa? Dovevi convocarci per esternare il tuo malumore circa i recenti accadimenti?» Glewmwn fece un sorriso perfido. «Mio caro Vortigern, io credo che Atar-AlKarem abbia agito nell’interesse del suo popolo, e ritengo che lo sterminio commesso dall’Orda ai danni degli umani abbia ricordato a tutti quanto non sia stato giusto infierire sugli orchi. Equità ed equilibrio sono i principi che dovrebbero sempre guidare le scelte di coloro che detengono il potere. Ma la questione che mi preme è un’altra: io devo sapere se tu stai usando noi per gli scopi di Kaerwood o se partecipi alle riunioni degli Anziani per avvantaggiare noi e la tua tribù.» Un torbido silenzio ristagnò sull’accusa. «È per questo motivo che ci hai convocato, Glewmwn?» Láimhseach di Tyral’phir spezzò l’attesa e, quando il rappresentante dei Si’phir annuì, si sistemò i lunghi riccioli castani in una lunga treccia e si alzò. «Allora ritengo la seduta conclusa, non c’è più nulla che occorre sapere a nessuno di noi. Vortigern» guatò l’elfo che rappresentava la tribù di Tseller, «non mi interessa ciò che dirai a tua discolpa: diventare un Anziano di Kaerwood era una scelta
che avresti dovuto condividere con noi quando ti fu proposta. La mancanza di fiducia e di chiarezza nei nostri confronti ti compromette. Non ti voglio al mio fianco in battaglia e non parteciperò ad alcuna riunione dei sedici se anche tu sarai presente.» «Sei patetico» Vortigern si lasciò scappare una risata. «Sono un Anziano da secoli e non solo non ve ne siete mai accorti; ma non ho mai agito contro di voi.» Láimhseach accartocciò il volto in una smorfia ma continuò come se l’interruzione non fosse mai avvenuta. «Confido che questa mia scelta sia condivisa dagli altri rappresentanti e che non sia ritenuta da te un infido e spregevole attacco alla tua persona. Auspico che tu possa lasciare la carica che ricopri nel Consiglio di Kaerwood, oppure che ti farai sostituire come rappresentante degli elfi di Tseller ai quali reco i migliori saluti da parte dei Tyral’phir» Láimhseach si allontanò dal cerchio e si avviò verso il suo grifone. «Glewmwn, attendi per cortesia» Glydwrnas raggiunse il rappresentante dei Si’phir accanto al proprio grifone, che chinò il muso per farsi carezzare sul becco. «Che cosa non potevi chiedermi assieme agli altri?» «Perché quelle domande, perché questa presa di posizione contro Vortigern? Siamo a un o dallo spaccarci in due fazioni» il rappresentante dei Tyral’Areb prese sottobraccio quello dei Si’phir e indicò quello dei Tseller, che montò su un grifone dalle piume rossastre senza salutare nessuno. «Guardalo, non l’avevo mai visto così: sembra una belva ferita. Se volevi creare delle tensioni ce l’hai fatta.» «Láimhseach ha detto cose che avrei detto io al suo posto: Vortigern è compromesso. E non ho creato tensioni» Glewmwn fece un sorriso composto «ho svelato il gesto che le ha create, ma non ne sono io l’autore.» «A mio avviso e a giudizio di molti altri, la sua appartenenza a Kaerwood non mette in discussione il suo valore e la sua fedeltà» sentenziò Glydwrnas. «E invece dovrebbe, e tu dovresti essere preoccupato come me e come gli altri. Vortigern non obbedisce alle nostre stesse regole. Vortigern non ragiona con le nostre misure.»
«Kaerwood non ha mai ostacolato gli elfi.» «Non è questo il punto» Glewmwn alzò la voce. «Se Kaerwood un giorno si dovesse schierare con gli oscuri, da che parte starebbe Vortigern?» Ringhiò. Glydwrnas di Tyral’Areb si chiuse in un cupo silenzio e i suoi occhi vagarono in cerca di risposte che non riuscì a scorgere. «Ascoltami bene» Glewmwn gli si avvicinò per sussurrare. «Gli oscuri hanno pronta un’arma creata da mio nipote Gwyllywm. Khayn lo sta cercando per mettere fine al suo delirio con il tassello mancante alla sua memoria di revisionista.» «Hai detto che Khayn era fuggito» Glydwrnas lo afferrò a un braccio. «Quando quel giorno arriverà» Glewmwn non si interruppe, «noi dovremo opporci agli oscuri e io devo avere la certezza che tutti coloro che combatteranno assieme a me siano schierati dalla mia parte e non facciano doppi o tripli giochi. Láimhseach l’ha capito subito: o gli elfi di Tseller trovano un nuovo sedicesimo, oppure correremo rischi che nessuno vorrebbe correre.» «Quello che mi hai appena detto genera nuove domande» Glydwrnas lo lasciò. «Che domande?» «Ti stai comportando come se tutto quello che dovrà accadere fosse già scritto.» «Tabacco spiniforme.» «Hai usato la spezia? Glewmwn, sei un tossicomane.» «Non fare il sostenuto con me» lo attaccò l’elfo dalla testa rasata tatuata di guado, «è una pratica cui siamo abituati da molto, molto tempo.» Glydwrnas incrociò le braccia e gonfiò il petto. «Io non mi fido delle visioni. Nemmeno delle mie.» «E per quale ragione, se non sono indiscreto?» «Ho incontrato la morte sulla strada presa per evitarla. Vi sono sfuggito soltanto
perché la visione era stata incompleta, precludendo al sogno l’intervento curativo che mi salvò. Realizzavo il futuro con le scelte prese per evitarlo: non è stato solo frustrante, è stato pericoloso. Il destino esiste Glewmwn, dai retta a me.» «Non dire eresie. Esistono soltanto scelte.» «E le tue e quelle di Khayn sono corrette?» Glewmwn strinse gli occhi e guardò oltre il rappresentante dei Tyral’Areb. «Se lo sono, allora dovremo essergli il più vicino possibile per sostenerlo.» «Intendi riunirci in assetto da guerra?» Glewmwn annuì e Glydwrnas proseguì. «L’ultima volta, quando abbiamo sostenuto proprio Gwyllywm contro Raylyn, è stato facile perché erano qui vicino e perché le vibrazioni nel Vento erano tali che ogni elfo poteva distinguerle. Questa volta è diverso: il mana è placido, non percepisco alterazioni fatte da Khayn.» «A Inverlory, un paese al di là delle montagne che separano la Foresta del Vento dall’Impero Malgiusiano. Khayn e Gwyllywm si scontreranno lì, questo ho visto. E ho visto anche mio bisnipote Ergwel, padre del popolo, e l’arma con cui credono di oscurare la Luce.» «E che cosa ci fa Khayn laggiù?» «Non ne ho idea, la visione non è stata precisa. Ho visto che avremo l’occasione di distruggere l’arma e di consentire a Khayn di mostrare agli ortodossi qual è la vera interpretazione delle parabole di Éireamhón.» «Vuoi prendere due grifoni con un daino?» «Tre giorni, attendi ancora tre giorni» Glewmwn si strofinò le mani: «e vedrai la morte dell’ortodossia.» * Nonostante la tormenta, il grifone di Gwyllywm salì di quota per guadagnare le cime delle montagne che separavano la Foresta del Vento dall’Impero Malgiusiano. La bestia gracchiò, intimorita dalla tempesta, ma le sue piume d’azzurro e di cobalto afferrarono l’aria per spingerlo ancora più in alto. Quando
i grifoni dei quindici ortodossi che lo seguivano incontrarono serie difficoltà, il Signore del Vento allargò le braccia e spalancò un canale tra le nubi che erano calate dal nord: un corridoio simile all’occhio di un ciclone si aprì vorticando tra nubi e fulmini e gli ortodossi si infilarono dietro a Gwyllywm, ma con scarso entusiasmo. Il grifone di Gwenaelle affiancò quello del Signore del Vento e usò la magia per comunicare. «Sei cocciuto come pochi. Dovevi darmi retta e puntare su un villaggio nella provincia di Watergal.» «E tu sei superficiale» Gwyllywm fece un sorriso smargiasso. «Quelli di Watergal sono feudi di frontiera, sono più sorvegliati di quelli oltre le montagne» il grifone dell’elfo seguì la voragine che perforava le nubi e scese verso la foresta che copriva le pendici della stretta valle del fiume Flasen, verso Gòlmas. «E in ogni modo ne avremo già parlato cento volte, non sono io quello cocciuto.» Gli elfi uscirono dalle nubi e presero la direzione di un villaggio posto al centro di una vasta pianura sfuggita alla presa dei boschi. «Benvenuti a Inverlory» Gwyllywm indicò il villaggio, un grumo di casupole di pietra bianca dai tetti di paglia o ardesia, tanto ammassate da creare un intrico di viuzze strette e difendibili. Una torre dall’ultimo piano in legno e con il tetto di scandole stava a un estremità del villaggio, verso le montagne, su una collina dov’erano abbarbicate le case più antiche. Lontani dall’agglomerato e collegati dalla trama di sentieri che dividevano i campi, i poderi erano disposti a caso fino al limitare della foresta. «Atterriamo là, c’è un certo movimento» il Signore del Vento scese verso il centro del villaggio, una piazza rotonda con una fontana rettangolare e un monumento di Malgius I con la spada protesa verso il cielo. Quando i grifoni atterrarono accanto alla statua, gli abitanti di Inverlory si erano rifugiati nelle bianche casette. Un gruppo di otto soldati con armature di cuoio, pellicce, scudi e lance si avvicinò ai sedici ortodossi seguendo un cavaliere con un mantello di pelle di lince. «Impressionante, non trovate?» Ynysh, l’elfo che non aveva mai accettato la nomina a padre di Ergwel indicò la statua e ne scimmiottò la posa. «Ma davvero pensano che questo gigante di marmo li proteggerà?» Gwyllywm scaricò dal grifone l’arma che aveva realizzato assieme ai filosofi
che obbedivano a Gwenaelle: una piramide di porcellana a sette lati con un piedistallo dello stesso materiale. «Sono sir Lothar di Inverlory, stranieri» il nobile aveva un volto dalle guance piene e una barba nera poco curata; fece due i oltre i suoi uomini, con la spada sguainata. «Siete nei territori dell’Imperatore Giulius VII e confido siate giunti in pace.» «Ci parlo io, padre?» Ynysh si lisciò i lunghi capelli castani, si avvicinò sir Lothar e prese il silenzio di Ergwel come un sì. Guardò l’umano e fece un bel sorriso. «Fa la voce grossa ma trema come un pulcino» disse in elfico agli altri. «Sbrigati, non abbiamo tutto il giorno» Gwenaelle aiutò Gwyllywm a preparare l’arma e usò un incantesimo che aprì le pareti di porcellana come petali. All’interno della piramide si trovavano due pietre magiche, una azzurra grande come una testa e una rossa, grande come un pugno, che pulsavano come cuori. «Siamo giunti a reclamare quello che ci appartiene:» Ynysh parlò in lingua comune con un accento umano perfetto «le vostre vite.» Aprì il palmo della mano e scaraventò sir Lothar addosso a tre suoi uomini, che caddero sotto il peso suo e dell’armatura ad anelli. Le finestre socchiuse per sbirciare vennero serrate e i villici che stavano sulla soglia delle case rientrarono più in fretta che riuscì loro. Gwenaelle premette la pietra del potere azzurra e un’onda d’energia del medesimo colore irradiò il villaggio e prosciugò l’oggetto magico. Gli umani rimasero frastornati dall’incantesimo, iniziarono a tremare e a deformarsi: gli otto soldati e il nobile divennero più alti e stracciarono le pelli che li ricoprivano o slabbrarono le maglie dell’armatura; i volti si affusolarono, capelli e peluria si allungarono a dismisura, la massa muscolare crebbe a vista d’occhio, placche ossee ricoprirono i punti vitali ed escrescenze simili a lame scaturirono in prossimità dei gomiti e delle ginocchia. Gli umani di Inverlory gridarono e si riversarono fuori dalle case sfondando le finestre e le porte, rotolando in terra tra il fango e i mucchi di neve per trovare pace al dolore generato dalla mutazione. Gwyllywm premette la gemma rossa e una nuova onda d’energia investì gli umani, che si contorsero sino a una fredda immobilità simile alla morte. «Non era così che doveva funzionare» commentò Ynysh avvicinandosi al corpo riverso a testa in giù di sir Lothar.
«Silenzio. I loro corpi e le loro menti devono assorbire gli incantesimi» la voce di Ergwel zittì l’elfo e tutti compagni rivolsero lo sguardo a Gwyllywm e Gwenaelle, che avevano richiuso lo strumento. Ynysh si chinò sul corpo del nobile e lo scosse con un calcio. «Però questa variante a me non dispiace, affatto» l’elfo sogghignò e diede un nuovo calcio all’umano. Sir Lothar si mosse. Ynysh balzò indietro e guardò il berserker che si rialzava, sostando davanti a lui. «Sono in attesa di ordini, mio signore» il nobile che amministrava Inverlory parlò con una voce finta e scura, gli occhi sbarrati, le braccia penzolanti ma pronte all’azione. I berserker nati dagli umani che si trovavano all’esterno delle abitazioni si alzarono e si radunarono presso gli elfi, poi uscirono le donne e i vecchi dalle case, ma non ciondolavano come gli altri e apparivano meno pacifici. «C’è qualcosa che non va» Gwenaelle indicò a Gwyllywm i berserker più reattivi e lui ne studiò movimenti e comportamento. «Io vi ordino di difenderci» il Signore del Vento parlò ai berserker dopo che il primo di quelli che erano usciti dalle case aveva attaccato uno degli altri. Sir Lothar e i suoi berserker si scagliarono contro gli altri dando luogo a una battaglia serrata. «Questo non era previsto» Gwenaelle riaprì lo strumento. «Non va bene per niente.» «Che accade, perché gli altri non rispondono agli ordini?» Ergwel raggiunse l’elfa a capo degli Intellettuali. «Nel trasformatore non troverete alcuna risposta» Gwyllywm lasciò che Gwenaelle armeggiasse con la piramide di porcellana e si concentrò sui berserker che si fronteggiavano. «Hanno obbedito ai nostri ordini tutti quelli che ci hanno visto prima di essere trasformati.» «Quindi la macchina non funziona» Ynysh fece un bieco sorriso. «Vedo anche
dei bambini che sono rimasti tali» Ynysh impugnò l’arco e, con la freccia incoccata, imberciò al collo un bimbo che scappava dai genitori. «Invece la macchina funziona, è normale che chi non abbia superato la pubertà non ne subisca gli effetti» Gwyllywm guatò Ynysh. «Tu non hai studiato prima di partire» riserbò allo scettico il medesimo, tagliente sorriso. «Il problema è che la seconda pietra del potere non è sufficiente ai nostri scopi» i berserker seguitavano a massacrarsi e i corpi mutilati e decapitati giacevano dappertutto, nel fango e nella neve insudiciata dal sangue. «La prossima sarà perfetta» Gwyllywm tornò da Gwenaelle ed esaminò la pietra rossa che aveva ripreso a pulsare e a caricarsi. «Dobbiamo trovare una pietra grande quanto l’altra.» Ergwel trasalì. «E dove pensi di trovarla?» Ci fu un silenzio infido, poi Gwyllywm annuì tre volte, piano. «La prenderemo da Anchor Seinan. Riutilizzeremo una di quelle usate da Éireamhón.» «Questo costituisce un problema» Gwenaelle dissentì, «non ce le lascerà prendere.» «Lo farà invece» Gwyllywm serrò i pugni, «perché non gli concederemo alternativa.» «Padre» Lwnarmysh raggiunse i compagni che parlottavano presso il trasformatore, «abbiamo visite» indicò un gruppo di grifoni che scendeva verso il villaggio. * Láimhseach di Tyral’phir volò accanto al grifone del rappresentante dei Si’phir. «Non scorgo Khayn al villaggio e neppure in lontananza.» «Già, non era come ci avevi detto» Glydwrnas di Tyral’Areb si avvicinò con ricercata puntualità. «È ovvio che non è ancora arrivato» Glewmwn provava la medesima inquietudine dei compagni. «O forse non arriverà mai» Glydwrnas alzò il proprio grifone in posizione predominante. «Odio avere ragione Glewmwn, e mi preme ricordarti come ti
avessi detto che non mi fido delle visioni.» «Non possiamo rimanere a volteggiare in tondo come degli avvoltoi: andiamo a vedere che cos’era quella scarica d’energia e prepariamoci ad affrontarli» propose Láimhseach. «È l’invenzione di mio nipote» Glewmwn parlò a denti stretti. «E ho paura che non sarà nulla di bello» l’elfo dalla testa rasata e tatuata con i colori della guerra gettò il grifone in picchiata per primo, dopo di lui scese l’elfo dai capelli biondi che aveva preso il posto di Vortigern di Tseller e che fremeva dal desiderio di mettersi in mostra. «Andiamo e tener d’occhio testa pelata» Glydwrnas indicò Glewmwn, lo seguì e Láimhseach fece altrettanto. «Sei cupo, che cosa temi?» «Mio caro Láimhseach, ricordi che Glewmwn ha più volte usato incantesimi di condizionamento con suo nipote Gwyllywm?» «Ebbene?» Glydwrnas di Tyral’Areb toccò l’armatura degli avi e questa gli coprì la testa con il camaglio, serrando le maglie in previsione della battaglia. «Che ne sarebbe di tutti noi se fosse accaduto il contrario?» I grifoni dei revisionisti atterrarono nella piazza di Inverlory nello stesso istante e i sedici rappresentanti degli elfi della luce smontarono dalle selle, a destra, e i loro stivali toccarono il fango tutti assieme. «La coreografia non è niente male» Ynysh strinse il triskelion e dopo aver alzato il cappuccio del proprio mantello invisibilizzatore, scomparve. «Ci hai preso per dei novellini, ragazzino?» Glewmwn mosse la mano davanti a sé, da destra a sinistra e un’onda opaca riportò Ynysh visibile. Ynysh scostò il cappuccio, sogghignò ed eseguì un profondo inchinò. «Vedremo se sarai abbastanza veloce da lanciarlo in battaglia, vecchiardo.» «Sono Glydwrnas di Tyral’Areb e rappresento le sedici tribù.» L’elfo fece un
o avanti ai compagni, allargò le gambe e si prese la mano destra con la sinistra, dietro la schiena. «Sappiamo chi sei Glydwrnas, lascia perdere i formalismi, non è il caso. Non oggi» Ergwel ò avanti ai suoi figli e i ventun berserker sopravvissuti si radunarono intorno a lui, «perché oggi il revisionismo muore.» «La tua affermazione è di una certa importanza» Glydwrnas rispose a denti stretti. «Andrebbe annunciata con le fanfare, non con le armi.» «Mi domandavo se foste intenzionati a morire con esso, oppure a riconoscere quanto avete appena visto» Ergwel allargò le braccia. «Illuminaci, Ergwel figlio di Raylyn» Glydwrnas fece un o avanti, «perché non siamo sicuri di quanto abbiamo visto.» Bravo Glydwrnas: guadagna tempo, Glewmwn si guardò intorno, alla ricerca di una traccia di Khayn, poi incrociò lo sguardo del ricciuto Láimhseach che, come Glydwrnas, aveva l’armatura in assetto da battaglia. Non arriverà Glewmwn, che razza di inganno è questo? I pensieri del rappresentante dei Tyral’phir rimbombarono come tuoni nella mente di quello dei Si’phir. Arriverà, l’ho distinto chiaramente nella visione, replicò Glewmwn. «Oggi le tenebre spengono la luce. Oggi l’Ortodossia vi mostra come le ricerche che i genetisti fecero prima dell’invenzione dei Sigilli fossero corrette. Ecco gli umani, come dovevano essere nei progetti originali e come saranno» i berserker si schierarono davanti a Ergwel con le braccia stese lungo il corpo, i pugni in avanti e le lame ossee che uscivano dai polsi e dai gomiti, pronte a colpire. «È opera di quell’oggetto?» Glydwrnas alzò il mento e indicò con un cenno il trasformatore. «Questo non cambia la sostanza delle cose: non alteriamo il genoma degli umani, lo liberiamo.» Glydwrnas scoppiò a ridere e perse la posa di sfida che aveva costruita. «Non capirete mai. Un martello è sempre un martello: hai disvelato caratteristiche
degli umani che riposavano sopite ma questo non ne pregiudica la libertà.» «Li abbiamo creati noi» Ergwel alzò la voce. «E dunque?» Glydwrnas riprese la posizione di sfida. «Sappiamo tutti cosa fecero i nostri antenati con il meteorite di Ulash Biner, sappiamo tutti da dove vengono gli esseri umani. Non è questo il punto. Il punto è che la loro natura è simile alla nostra. La loro mente, il dono che hanno di sognare e di costruire mondi con il loro pensieri li rende liberi come noi.» «Hai parlato di un martello poco fa, ebbene essi sono i martelli, sono oggetti» Ergwel ringhiò. «Se lo sono non dovevamo farli tanto simili a noi.» Glydwrnas chiuse gli occhi. «Gli ordinerò di attaccarvi, di uccidervi, di dare la caccia al vostro sangue ed essi ubbidiranno come fiere fedeli.» «Non ne dubito» Glydwrnas sfoderò la spada e i revisionisti dietro di lui fecero altrettanto, «ma al medesimo ordine, e con il medesimo zelo, obbedirebbe anche Gwenaelle figlia di Ariel» Glydwrnas pronunciò l’ultimo nome con rammarico, fissando l’elfa. «Non capiranno mai, padre» Ynysh si avvicinò a Ergwel: «sono come i daltonici, la realtà che vedono è diversa e immutabile a parole.» I muscoli dei berserker si contrassero e le loro pupille si assottigliarono. «Non lasciatene uno solo vivo» Ergwel diede l’ordine e i berserker attaccarono. «Se non muore il revisionismo, uccideremo tutti i revisionisti.» I berserker balzarono addosso agli elfi guidati da Glydwrnas ma le armature di maglia forgiate nell’Era delle Grandi Guerre si rivelarono più resistenti delle loro escrescenze ossee e i revisionisti più abili di quanto la magia non li avesse resi. Lo scontro fu impari e Láimhseach decapitò l’ultimo berserker con un fendente che tagliò di netto l’escrescenza che l’avrebbe dovuto bloccare. «Mio caro padre, i tuoi berserker sono meno resistenti dell’acciaio e meno abili di loro» Ynysh strinse il triskelion e guatò i revisionisti, che si erano schierati di nuovo. «Dobbiamo usare le buone, vecchie maniere.»
«Non serve» Ergwel fermò il suo energico contestatore. «Abbiamo vinto» indicò Glewmwn che avanzava verso di loro. «Diglielo tu, Glewmwn. Racconta a tutti perché avete perso.» Glewmwn piantò la spada a terra e l’armatura degli avi ritirò il camaglio, i guanti di maglia e le protezioni alle gambe. Guardò il nipote Gwyllywm e il bisnipote Ergwel, fece un bel respiro e annuì più volte. «Abbiamo sempre pensato che gli oscuri avrebbero sterminato ogni razza del continente, iniziando dagli esseri umani. Ci sbagliavamo e oggi ne abbiamo avuta la dimostrazione.» «Cosa intendi dire» Glydwrnas avanzò verso il rappresentante dei Si’phir brandendo la spada come se dovesse attaccarlo. «Gli oscuri non uccideranno gli umani: li trasformeranno in berserker e ce li scaglieranno addosso. Saremo noi, noi che vogliamo salvarli, a distruggerli.» Glewmwn abbassò lo sguardo. «Come abbiamo appena fatto.» Gwyllywm ò avanti a suo figlio Ergwel. «Glydwrnas di Tyral’Areb, elfi revisionisti tutti. Oggi vi sono state mostrate due strade: la prima implica accettare l’inferiorità degli esseri umani, guidarli e sfruttarli per i nostri scopi; la seconda implica non accettare questo dato di fatto e sterminarli quando li incontrerete sotto forma di berserker. Andate ora, tornate alle vostre tribù e raccontate come l’ortodossia ha ricalcato le orme dei genetisti e ricreato gli esseri umani. Raccontate a ogni revisionista che incontrerete che sono i nostri principi, quelli giusti.» «No, Gwyllywm figlio di Moad, il fatto che i vostri principi siano più efficaci non implica che siano giusti» Glydwrnas difese il revisionismo. «Perdonerai il mio pragmatismo ma se continuerai a mantenere le tue obsolete posizioni ideologiche, dovrai difenderle con il metallo e dimostrare come soltanto forza e violenza garantiscano sostanza alle idee. Oggi muore il revisionismo, fattene una ragione e porta ai Tyral’Areb il mio saluto, il saluto del Signore del Vento. E riferisci a ognuno, alle femmine e ai cuccioli, che gli esseri umani sono soltanto macchine da guerra.»
È impossibile far punire da una tribù i crimini di coloro che possono cambiarne le regole. Aforismi – Khayn di Si’phir
XLI – Prigionieri!
Gli uomini-albero si schierarono davanti alle mura del Tempio Scarlatto quando Tabith comunicò l’arrivo dei prigionieri: legati gli uni agli altri per i polsi, gli sventurati camminavano in tre gruppi, trascinando i piedi come bambini che hanno appena imparato a reggersi in piedi. Sei cavalieri, un terraltiano e due paladini era tutto quanto rimaneva delle speranze di Re Karl I di mondare Alesia dagli intrighi e dagli inganni di Kaerwood. L’unico cavaliere che non era legato e che camminava davanti ai troll raggiunse l’uomo-albero che giganteggiava tra un grosso salice e una quercia; l’elfo che restava dietro di loro si strofinò le mani, compiaciuto della piega che avevano preso gli eventi. Giunto al cospetto del castagno, l’umano si inginocchiò, chinò la testa e attese. Il Vaenert fischiava tra i merli delle mura che difendevano il Tempio e portava l’odore umido della pioggia. Gli uomini-albero dondolavano sulle gambe fatte da radici nodose e avevano chiome che ondeggiavano e foglie che stormivano, accarezzate dalle dita adunche del gelido vento del nord. «Il mio nome è Curchach e sono il Gran Maestro di Kaerwood» il castagno aveva occhi neri allineati sopra un naso che pareva un ramo spezzato. «Io sono Albion di Spinwirth, mio signore, e reco coloro che Re Karl ha mandato contro di voi.» Curchach guardò gli umani, che erano stati disposti uno di fianco all’altro: erano per la maggior parte giovani, se si escludeva un terraltiano, che aveva tra i capelli rossicci i primi segni della vecchiaia; l’aspetto avvilito dei prigionieri fu per il castagno fonte di impagabile piacere. «Non c’erano dei nani?» Domandò il Gran Maestro senza avvedersi di come i
troll ciondolassero dietro ai prigionieri. «Non si sono arresi, mio signore: hanno preferito combattere fino alla morte» il cavaliere non alzò lo sguardo. «Tipico di quei patetici esseri dalle gambe corte. Ora pronuncia forte il tuo nome, affinché gli Anziani ti riconoscano e i tuoi servigi vengano giustamente ricompensati» il castagno fece cenno all’umano di alzarsi e il cavaliere obbedì. «Sono Albion di Spinwirth, e la mia spada è al vostro servizio» il cavaliere si alzò e sguainò l’arma, «se riuscirete a fermarla» fece un balzo e menò un fendente contro quello che doveva essere il naso di Curchach e lo staccò, scagliandolo contro il salice. «Tradimento!» Vortigern balzò davanti al Gran Maestro generando un getto di fuoco che investì Albion. Le fiamme avvolsero il corpo del cavaliere per un tempo sufficiente a sciogliere un lingotto e, quando scemarono, la figura dell’umano apparve come una statua di cera deformata dal sole. «Temevo che per ucciderti non sarebbe bastato un inganno» ringhiò Vortigern quando la figura posticcia di Albion si staccò e rivelò un guerriero dai capelli lunghi e la barba bionda, le orecchie a punta e l’armatura con lo stemma di un grifone. Laoden di Alerbia si concesse un sorriso spavaldo. «Non basta una spada per uccidere una leggenda.» I nani avevano assemblato il cannone consegnatogli da Elben e uscirono dalla foresta quando Laoden colpì il Gran Maestro. Kjeldor aveva regolato l’alzo in modo che puntasse all’uomo-albero che stava alla sinistra di Vortigern, la quercia. Galem aveva tolto il grosso tappo di stracci che copriva il primo colpo con cui era stato caricata la bocca da fuoco prima della partenza da Antioch. «Accendiamogli la faccia!» Kjeldor diede fuoco alla miccia e dopo interminabili secondi d’attesa lo scoppio dell’arma seminò una nube nera e pestilenziale che fornì copertura ai tre cavalieri umani che uscirono allo scoperto portando armi ai compagni. Il colpo sparato dai nani si infilò sopra il naso di Joshua, gli sventrò la faccia e appiccò fuoco ai rami. Il boato e il grido dell’uomo-albero che cadeva all’indietro terrorizzò tutti compagni.
«Prendili, maledizione, muoviti!» Curchach diede uno spintone a Dayrinn il salice e si ritirò verso il bastione, bestemmiando. Dayrinn scattò con le sue flessuose radici verso i nani mentre gli altri dieci uomini-albero si gettavano contro i nove umani che si erano liberati dalle corde e avevano ripreso le armi custodite dai troll ipnotizzati. «Presto ricarichiamo!» Kjeldor urlò non appena si riprese dalla detonazione e abbassò l’alzo del cannone per mirare al salice che si avvicinava a grandi ma lente falcate. Meldor avvicinò un proietto alla bocca da fuoco. «Forza Galem, porta i tuoi barili.» Galem sbiancò e biascicò parole confuse e prive di senso. «Insomma, che ti è preso?» Berciò Kjeldor. «Porta la polvere da sparo.» Galem deglutì, guardò ovunque pur di evitare lo sguardo del generale ma dopo un silenzio di pietra, confessò. «Non c’è polvere da sparo nei miei barili.» Meldor abbandonò la palla di cannone, che affondò nella terra chiazzata di neve. «Come sarebbe?» La voce gli uscì strozzata e simile a un pigolio. «Che cosa stai dicendo, sei impazzito?» Kjeldor scattò verso il chierico e l’afferrò per la barba. «Ecco, io credevo che la vostra polvere sarebbe stata più che sufficiente e allora» Galem prese le mani del generale e cercò di liberarsi. «E allora cosa?» Kjeldor berciò, rosso come la punta di una piccozza estratta dalla forgia e battuta sull’incudine. «Ecco, io ho riempito le due botti con birra ambrata. Una botte per l’andata e una per il ritorno. Per festeggiare. D’altronde basta la polvere che avete preso voi due» il chierico si liberò dalla presa di Kjeldor e si massaggiò il mento. «Usiamo quella di Meldor.» «Tu» Kjeldor balbettò e minacciò Galem con l’indice alzato, «tu pagherai caro questo scherzo» tornò al cannone e lo abbassò per riadattarlo alla distanza del salice deambulante che barcollava su gambe goffe e instabili; si rivolse al
fratello, che era rimasto immobile. «E tu, si può sapere che stai aspettando?» Lo rimproverò. «Porta la tua polvere, non abbiamo molto tempo!» «Anhenimeibrlicerdlbir» farfugliò Meldor a mezza voce. «Che cosa hai detto?» Un dolore freddo scorticò la spina dorsale di Kjeldor. «Ho detto che anche nei miei barili c’era della birra» Meldor scandì le parole tenendo gli occhi chiusi e i denti stretti. «Come sarebbe che c’era birra nei tuoi barili?» Galem ululò, gli occhi fuori dalle orbite. «Ecco… io credevo che sarebbe bastata la vostra polvere da sparo. Io non dovevo nemmeno venire! Ho preso la birra ambrata di Antioch per festeggiare. Un barile per l’andata...» «E uno per il ritorno» Kjeldor completò la frase del fratello. «Tu non hai idea di quello che hai fatto» divenne paonazzo: «questo supera di gran lunga ogni sciocchezza che hai commesso nella tua dissennata esistenza.» «Io?» Meldor balbettò. «Sì, tu, tu, tu, proprio tu. Potevi diventare un grande generale se non avessi i tarli che ti rodono il cervello! Ti sei fatto cacciare per quel crimine insulso ed è un miracolo che Re Elben ti abbia riabilitato. Io mi vergogno di essere tuo fratello! Pagherai! Anche tu pagherai questa trovata!» «Sei ingiusto: il mio vecchio sgarro non c’entra nulla con oggi. Mi sono riscattato, ho difeso Antioch dagli orchi. Credi di essere migliore di me soltanto perché porti la coccarda di un generale?» «Insomma, pace ragazzi, pace» Galem si frappose tra i fratelli, che erano giunti alle mani. «Per sparare un paio di colpi è sufficiente la polvere contenuta nella botte di Kjeldor.» Il generale chiuse gli occhi, appoggiò le mani alla canna dell’arma e cominciò a picchiarvi la testa generando un suono fesso. Galem afferrò la botte dal pony di Kjeldor e la poggiò a terra, senza sforzo. «È piena soltanto a metà. Ma sembra ci sia del liquido.» Il chierico guardò Meldor, che chiuse gli occhi e allargò le
braccia, e quindi Kjeldor, che continuava a picchiare la testa contro il cannone. La terra tremò sotto i i del gigantesco salice dai rami spogli e sottili. «Kjeldor, cosa c’è nella tua botte?» Meldor afferrò il fratello per le spalle, interrompendo lo sfogo. «Che fine ha fatto la polvere da sparo?» Lo guardò dritto negli occhi. Kjeldor fece un sorriso storto e folle. «Ho preso una botte di birra ambrata anch’io. D’altronde la polvere era nelle due botti di Galem...» Dayrinn il salice calò sui nani e le sue fronde schioccarono come fruste. L’affusto del cannone dei nani venne spezzato e la bocca da fuoco volò nella foresta. «Che male. Che male. Per la barba di Mahorn, che male» Galem si rialzò accanto al tronco di un abete che aveva spezzato nel rovinoso atterraggio. Si toccò la faccia e i guanti di pelle si macchiarono di sangue. Kjeldor rotolò in piedi dopo l’atterraggio in un cespuglio di rovi senza curarsi del viso scorticato dalle spine. Meldor balzò in piedi in un attimo: era stato appena sfiorato dalle fronde di Dayrinn ma gli era rimasto a un o e fece appena in tempo a evitare le radici del salice che aprirono una voragine nella terra umida, accanto a lui. «Ti schiaccio, parassita» Dayrinn barcollò, il suo corpo di legno scricchiolò per compiere il secondo o e schiacciò Meldor, che si era appena riparato dietro il suo grosso scudo di xelentsio. Kjeldor urlò e si catapultò verso il fratello ma fece solo due i prima che le radici del salice sventrassero la terra e trascinassero il corpo dell’eroe di Antioch giù, seppellendolo. Dayrinn si voltò verso il generale di Elben e alzò la radice che aveva schiacciato Meldor per muoversi verso di lui. «Ma non dovevate occuparvi voi degli uomini-albero?» Una voce sibilante uscì dalla foresta e una fiammata accese la notte e i rami cadenti di Dayrinn, che barcollò, gridando, come una torcia. Gorogol balzò da dove stava nascosto, piantò i grandi artigli e le zanne d’avorio scintillante nella corteccia del salice e lo spinse a terra. Il drago alzò e abbassò il muso con le fauci che si spalancavano e si serravano, strappando i connotati all’uomo-albero.
Kjeldor e Galem si precipitarono nella buca dove era finito Meldor; presero a scavare tra le terra smossa dal salice. «Giuro che non ti rinfaccerò più nulla» gridò Kjeldor mentre spostava la terra umida con i guanti. «Ti ho appena ritrovato, non voglio perderti di nuovo» frugò disperato, finché dalla terra smossa non emerse del metallo lucente. Lo scudo di xelentsio di Meldor si mosse, la mano dell’eroe di Antioch si alzò tra le zolle di terra e i due nani lo estrassero dalla tomba di torba. «Ti credevo morto, farabutto!» Kjeldor abbracciò il fratello, coperto di terriccio. «Lo saremo tutti se non troveremo il modo di abbatterli» Gorogol raggiunse i nani e indicò i dieci uomini-albero che stavano costringendo gli umani a ripiegare, «siete troppo piccoli per affrontarli.» «E non puoi pensarci tu, lucertola?» Meldor ritrovò la sua lingua dura. Gorogol ringhiò. «Abbiamo riato un piano tutte le sere e adesso dobbiamo improvvisare?» Valutò un uomo-albero, un abete, che si era isolato dagli altri. «Posso puntare a quello, ma non sarà facile. E poi c’è il fetore rilasciato dalla vostra polvere nera che mi scombussola tutto. Fatico a respirare» tossì, «e a ragionare.» «Non c’è nulla di diverso rispetto a prima allora» sogghignò Meldor. «Andate a prendere quella torre» i nani guardarono la struttura indicata dal drago, una delle torri che facevano parte del barbacane del Tempio Scarlatto: «sopra c’è una ballista, armatela e tirate contro gli alberelli. Non sarà efficace come il vostro cannone ma li terrà occupati.» Vortigern brandì la spada che portava alla cintola, un’arma magica dalla lama lucente e dall’elsa ageminata con oro, piropi, diamanti e rubini. «Che ne dici di affrontarmi con quella ridicola arma immanicata?» Laoden impugnò la spada a una mano e mezza, l’arma agile che usava quando la lancia dalla testa a martello non gli garantiva un vantaggio. «Per te basterà questa, non mi occorre tutta la potenza della mia lancia.» «Sbruffone e bugiardo sino in fondo!» Vortigern allungò la spada colmando metà dello spazio che lo separava da Laoden e questi fece altrettanto, portando le
spade a contatto. «La resa dei conti» sogghignò l’elfo. «Il giorno della vendetta» ringhiò il mezz’elfo. Vortigern roteò il polso e colpì la lama di Laoden dalla parte opposta a quella da cui si era staccata. «Vendetta: una parola tanto abusata da non significar più nulla. Hai un velo davanti agli occhi che ti impedisce di vedere ciò che è giusto.» Laoden avanzò con il piede sinistro, con grazia, abbozzando un fendente rovescio. «Risparmiami la filippica, non si tratta più di giustizia. Ciò che perseguo va oltre questa distinzione accademica.» «Ma davvero?» Vortigern parò e allontanò la spada di Laoden, spingendola con la sua. «Ciò che cerco va al di là del bene e del male: è quello che ti meriti» il Signore della Terra si gettò su quello del Fuoco e, dopo un mandritto e un fendente rovescio, i due Signori dei Sigilli si ritrovarono con le lame a contatto. «Mostrami quali sono stati i tuoi progressi, sono curioso di vedere come il figlio di un incrocio intenda superare la purezza del padre» Vortigern tentò un montante e con la rotazione del corpo puntò la spada verso il collo del figlio. Laoden parò il colpo con la spada in verticale, poi fece esplodere la propria aura, che si gonfiò di riflessi bianchi e bruni. «Immagino che i nostri poteri si equivalgano e si annullino.» L’aura rossa e gialla di Vortigern sorse a compensare quella del figlio. «Solo l’acciaio, mezz’elfo» lo piccò con disprezzo, «solo quello stabilirà chi è il migliore.» Gorogol spiegò le ali e si scagliò contro l’abete che cercava di aggirare Ardengo e Sirkor, i cavalieri più esterni al gruppo degli umani. Il collo flessuoso del rettile indirizzò una fiammata argentina verso gli uomini-albero più vicini tra loro: non riuscì a colpirli ma li rallentò e li distrasse quanto gli bastava per afferrare con le lunghe e possenti zampe la punta dell’abete e trascinarla a terra, trattenendola con il proprio peso. L’uomo-albero provò a reggersi in piedi ma quando Gorogol si spostò verso di lui, l’abete si spezzò con un sordo schiocco: la parte con le
radici emise un bercio inascoltabile, barcollò mentre la sua voce raccapricciante scemava, e infine si rovesciò nella terra con rumore di innumerevoli rami che si spezzavano. «Ne rimangono otto, pensavo peggio» sogghignò Gorogol guatando il disprezzo e l’orrore negli occhi gli uomini-alberi rimasti. «Sottovalutare l’avversario è un grave errore, fratello» una voce giunse dal becco sottile di un’upupa, che si posò su un ramo della carcassa dell’abete. «La tua scelta di assecondare la stoltezza dei mortali ti costerà la vita.» Gorogol guardò l’upupa e scoppiò a ridere. «E tu che razza di animale saresti?» L’upupa roteò la testa, poi il suo corpo cominciò a vibrare e a gettare un cupo lucore. «Io sono colui che domina i cieli e che reca la morte» la sagoma corrusca dell’uccello notturno si ingigantì, raggiunse le dimensioni di Gorogol, le superò di una volta e mezza, quasi di due. Le penne delle ali dell’upupa divennero una membrana lucente, cerulea, il collo si allungò e la testa tonda e il becco sottile divennero un muso grifagno, pieno di escrescenze ossee, corna acuminate e di denti aguzzi e seghettati. Gorogol spalancò le fauci per lo stupore mentre il ventre che fu dell’upupa si ingigantiva e le scaglie turchine apparivano in tutto il loro raccapricciante splendore. Gli occhi d’oro del mostro apparvero sotto le palpebre di puro cobalto e lo sguardo freddo del gigante dei cieli raggelò il sangue del drago d’argento. «Il mio nome è Tabith delle Scaglie Azzurre. Attendo il tuo, fratello dalle Scaglie d’Argento, per ricordarmi di te quando ti divorerò» la coda uncinata del drago guizzò nell’aria e le zampe gonfie di muscoli si piegarono e scattarono, spingendolo contro la Scaglia d’Argento. Il collo di Tabith si allungò verso quello di Gorogol e le fauci si chio un istante dopo che quest’ultimo riuscì a sfuggire alla morsa. La Scaglia d’Argento si rotolò in terra, rischiando di spezzarsi le ali ma riuscì a sfruttare la spinta della Scaglia Azzurra per levarsela di dosso e spingerla verso la muraglia del Tempio Scarlatto. Tabith intuì la manovra evasiva, roteò in aria per atterrare sulle zampe posteriori; durante la capriola afferrò la coda di Gorogol, la stritolò e scaraventò il drago d’argento contro la cinta di mura, mandando in pezzi le bertesche e sbreccando i merli.
«Per la barba di tutti i nani ubriachi» Galem era arrivato sulle mura per primo e stava aiutando Kjeldor a issarsi a sua volta, «e quello da dove sbuca?» Indicò il drago che stava massacrando Gorogol. «La ballista, andate alla ballista» l’urlo di Meldor riportò i compagni alla loro missione ma Kjeldor vi scappò da solo e lasciò che Galem aiutasse suo fratello a salire. «Ti avevo detto di andare alla ballista» l’“Ammazzaorchi” atterrò sul cammino di ronda e trascinò il chierico verso la torre. «Ma il generale Kjeldor mi ha ordinato di aiutarti» si giustificò il chierico. «Sì, però io» la replica di Meldor venne interrotta dal fratello. «È un’arma normale, farà il solletico agli uomini-albero» Kjeldor fu zittito dal grido di Gorogol, che finì schiantato contro una delle torri a guardia dell’entrata, l’ala sinistra spezzata dalla furia di Tabith. L’impatto sollevò una nube di detriti e schegge di legno e pietra, il corpo della Scaglia d’Argento impattò sulla terra battuta e il lungo collo sinuoso si afflosciò a terra. La spada di Laoden incrociò quella di Vortigern sopra la testa, poi davanti alla gamba destra, davanti al petto a sinistra, di nuovo sulla testa a destra e quindi in basso a sinistra. I duellanti spinsero sulla lama dell’avversario e si allontanarono. Laoden roteò la spada nella mano, Vortigern fece altrettanto; i due fintarono un affondo per sbilanciare l’avversario e attaccarono: le armi impattarono di nuovo all’altezza dei volti, poi l’elfo spinse le spade verso il basso, roteò sul piede destro per finire con la schiena contro il petto del mezz’elfo e gli infilò il braccio sinistro sotto il suo, torcendolo. Laoden fece perno sul piede sinistro e seguì la stretta; liberò la spada e, ando il braccio sopra la testa, cercò di colpire Vortigern, che lo lasciò per parare la spadata. Di nuovo prospiciente al figlio, l’elfo generò una sfera di fuoco e protese il palmo sinistro verso Laoden, che reagì spingendo una sfera di pietra spigolosa e pulsante contro l’incantesimo di Vortigern. «Solo l’acciaio deciderà chi è il migliore» Laoden chiosò l’elfo imitandone tono e voce. La palla fiammeggiante ghermì la sfera di pietra e, quando terminò di divorarla, si spense. «Sei patetico.» Vortigern gonfiò una nube di fiamme pulsanti nella mano. «Vediamo quanta energia riesci a prendere al Sigillo senza aprirlo.»
Laoden diede vita a scisti di pietra che si allungavano da un unico centro nel suo palmo aperto e guatò il padre negli occhi. «Ci sto. Vediamo a chi dei due sfugge il controllo prima, vediamo chi distruggerà Arhanien.» «Sei un buffone» ringhiò il padre. «Noa mi fermerà se non lo controllo» le fiamme della nube si ingigantivano e danzavano come sciamani invasati. «Puoi dormire un sonno tranquillo, allora: io non credo che Gwyllywm farà altrettanto.» Le punte multicolori dei marmi e dei graniti crescevano in numero e dimensione; presero a tremare e si sgretolarono quando Vortigern spense la nuvola di fuoco. «Non ti è mai parso paradossale come il potere che deteniamo sia perfettamente inutile?» Domandò l’elfo. Laoden si accigliò. «Li avete creati voi, quattro armi legate per opposti e accoppiate in modo che chiunque ne controllasse una, non potesse utilizzarla senza il consenso degli altri. Equilibrio, lo avete chiamato.» «Era una lezione: è dalla comunione degli intenti e non dal conflitto che si costruisce il futuro.» Laoden tirò le labbra in un sorriso sinistro. «Parli troppo per i miei gusti: sei stanco e vuoi arrenderti?» Vortigern menò un fendente rovescio e quindi un mandritto a due mani ma l’arma di Laoden si fece trovare pronta. «Sei troppo impudente persino per essere mio figlio. Chiedevo la tua di resa, una soluzione onorevole, alla luce di quanto sta per accadere.» «Cos’è che sta per accadere?» Laoden alzò un sopracciglio mentre il padre sogghignava, poi udì il boato sopra la sua testa e quindi un verso agghiacciante che non aveva nulla di umano; alzò lo sguardo e vide Gorogol schiantarsi contro la torre sotto la quale combatteva e precipitare a terra, l’ala sinistra floscia come un pendente. Il drago d’argento protese il braccio sinistro per attenuare l’impatto e Laoden vide la mano separare le gigantesche dita artigliate proprio sopra di lui. «Schiacciato da un drago, che brutta fine per una leggenda!» Vortigern rise e alzò uno scudo magico per ripararsi dalla polvere, da frammenti di assi e dal
pietrisco. Tabith atterrò sulla torre sfondata da Gorogol e si resse sulle zampe posteriori, allungò il collo verso l’alto, spiegò le ali e si mostrò in tutto il terrificante splendore di drago azzurro. «Non tiriamo agli alberelli» Meldor voltò verso il drago l’assito girevole che ancorava la ballista: «tiriamo al lucertoloide!» «Il verrettone farà il solletico anche a lui!» Berciò Kjeldor regolando l’alzo dell’arma con l’apposita manovella. «Taci e spara» Meldor gridò con una ferocia tale che fu Galem a spingere la leva che azionava il meccanismo di rilascio del verrettone, lanciandolo verso il gigante azzurro. Tabith sentì il dardo sibilare nell’aria, lo evitò ma rimase indeciso sull’opportunità di finire la Scaglia d’Argento e quella di liberarsi dei nani che avevano osato tanto. Il colpo di grazia può attendere, Tabith spinse con le gambe, si avvitò e spiegò le ali, catapultandosi verso i minuscoli scocciatori. «Per la barba di vostro nonno Allor!» Gridò Galem. «Ci frigge.» «È quello che volevo» Meldor aveva sfilato lo scudo e ne aveva infilati i lacci con la punta di un secondo verrettone, fissando questa contro il legno della parte interna. «Volevi che ci friggesse?» Berciarono all’unisono i suoi compagni. «Sì, tacete e ricaricatela, alla svelta» Meldor tagliò un pezzo di corda da una matassa e l’avvolse attorno allo scudo per fissarlo meglio che poteva. Galem e Kjeldor afferrarono le manovelle del crocco e tesero gli archetti. «E adesso?» Domandò Kjeldor al fratello, che aveva infilato il proietto improvvisato sul teniere. «Adesso siamo fritti» Galem deglutì guardando il gigantesco rettile che piombava sulla torre.
«Tirate per Mahorn, tirate!» Meldor diede l’ordine quando le fauci della Scaglia Azzurra vomitarono fulmini taglienti e forcuti. Il verrettone deviò le scariche e imberciò il petto del drago, che si rivoltò e precipitò. Prima che i nani avessero il tempo di esultare, i fulmini scagliati da Tabith li raggiunsero. «Tutto bene?» Sussurrò Gorogol. «Tutto bene, grazie di cuore» Laoden uscì dalla fessura tra l’indice e il medio della Scaglia d’Argento, illeso. «È snervante avere a che fare con avversari fortunati come te» Vortigern fece roteare la spada come la torcia di un saltimbanco, mentre arretrava per allontanarsi dal drago. «Tuttavia la battaglia non si sta mettendo bene, per voi.» «Sciocchezze, mi basta un attimo per farti fuori» Laoden balzò verso il padre, annullando la distanza da lui creata. «Voglio soltanto divertirmi un poco.» «Esilarante! La tua spavalderia è sosa.» «Quando scoprirai che non hai scampo, proverai la stessa triste rassegnazione che ha ucciso la mamma» Laoden si fece serio. «Allora vedrai gli occhi di Kiyamira che è giunta a reclamare la tua vita.» Vortigern ebbe un brivido ma non fu per l’umana che aveva amata; fu per la figura alta e cupa che comparve alle spalle di Laoden, un’orchessa con un tabarro di velluto scuro che impugnava una falce da battaglia. Kiyamira, la guerriera scelta dagli Dei per rubare l’immortalità agli esseri viventi, si portò tra Laoden e Vortigern; la sua arma scintillante roteò e recò l’olezzo dei cadaveri mietuti. «Immagino che tu conosca il Canto delle Spade» Vortigern fece roteare l’arma e cercò una falla nella difesa di Laoden. «Mi stupisce che tu non abbia ancora capito che suona per me. Kiyamira è giunta, ma è indecisa: è una curiosa spettatrice.» «Attende il momento in cui ti ghermirà» Laoden sogghignò. «Se così fosse, Laoden di Alerbia, la sua presenza avvalorerebbe le tesi circa l’esistenza del destino. Ma sappiamo entrambi che il destino è il nome che usano uomini per mascherare la loro triste incapacità.»
«Siamo morti?» Kjeldor si rialzò, frastornato, con i capelli e la barba fumanti. Meldor barcollò, scivolò e si resse al fratello. Quando i due figli di Mellor si voltarono verso Galem realizzarono quanto accaduto: il chierico aveva proteso le mani verso i fulmini per deviarli con una preghiera a Mahorn. Kjeldor deglutì e Meldor bestemmiò. L’invocazione di Galem aveva attenuato la forza del fulmine di Tabith ma delle braccia del chierico non rimanevano che moncherini anneriti ancora percorsi da scariche elettrice. «Nel nome di Mahorn, Galem!» Meldor scattò verso l’amico che cadde di schiena, con gli omeri divorati dalle saette che sfuggivano verso il cielo che albeggiava. «Le mie mani no, non le mani» il chierico fissava qualcosa all’orizzonte, le sopracciglia consumate, la barba ridotta a ciuffi di peli fumanti, la pelle coperta di bolle e piaghe. «L’arma, devo impugnare l’arma» la voce scemò in un sussurro mentre i moncherini si agitavano. Meldor rintracciò l’accetta piena di rune di Galem e si chinò su di lui. «Guardami negli occhi, per Mahorn, guardami» gli strinse il laccio dell’arma a quel che rimaneva del braccio. «Guardami, guardami!» Meldor bloccò il volto del chierico affinché gli occhi lo fissassero. «Io ci sono stato in Paradiso, le leggende sono vere, ma non devi combattere il guardiano. Ascoltami! Non devi combatterlo, baratta l’arma per attraversare il ponte, non sfidarlo: non sfidarlo!» Gli occhi di Galem baluginarono di sommessa gratitudine e si spensero. «Come sarebbe a dire che non devi affrontare il guardiano?» Kjeldor scosse il fratello. «Siamo guerrieri, dobbiamo sconfiggerlo.» Meldor lo guardò con le lacrime agli occhi. «È tutto sbagliato, e chi deve lo capisce soltanto alla fine.» «Quello che avete fatto non è stato carino» il sibilo cadaverico della Scaglia Azzurra emerse dal cortile del Tempio e il suo muso grifagno comparve da dietro il cammino di ronda. Gli occhi d’oro erano rossi di rabbia e le narici fumavano come le ciminiere dei cancelli di Antioch. L’odore pungente dei fulmini e dei succhi gastrici appestarono la torre e le zampe artigliate afferrarono e sbriciolarono la merlatura. Tabith si alzò, piano. Lo xelentsio dello scudo aveva perforato ogni resistenza magica usata dal drago e il verrettone dalla punta improvvisata gli aveva squarciato il petto, fuoriuscendo dalla schiena, a una
spanna dal cuore. «Qual è il piano» sussurrò Kjeldor. «Non c’è un piano» Meldor sputò ma non distolse lo sguardo dal drago. «Balle, c’è sempre un piano» replicò Kjeldor. «Io lo distraggo, tu lo aggiri e lo ammazzi» borbottò Meldor. «D’accordo» Kjeldor annuì, «io lo distraggo e tu lo ammazzi.» «Io lo distraggo» precisò Meldor. «Distrarlo è il compito più ingrato e pericoloso, e tu aspetti un erede. Tocca a me.» «Proprio perché è il più ingrato e pericoloso è un onore che mi devi lasciare.» Kjeldor mise la mano sulla spalla del fratello. «Sono Kjeldor figlio di Mellor, figlio Allor “Rocciasicura” pretoriano di Galenor “Barbagrigia”, Re delle Montagne di Cristallo e sono un generale di Elben “il Saggio”: ti ordino di aggirarlo mentre lo distraggo.» Meldor scostò la mano del fratello. «E da quando obbedisco agli ordini?» L’eroe di Antioch impugnò l’ascia bipenne, l’alzò e si rivolse al drago. «Il mio nome è Meldor “l’Ammazzaorchi”» si gonfiò e strinse l’impugnatura di pelle con entrambe le mani, «ma da domani mi chiameranno Meldor “lo Sterminadraghi”. Fatti sotto e muori, lucertola.» Kjeldor scattò verso ciò che rimaneva della merlatura pensando a un modo di lanciarsi contro il drago. Tabith alzò il lungo collo azzurro e spalancò le fauci, rivelando scintille forcute che dardeggiavano tra le zanne d’avorio. «Sarà un piacere ridurti a frattaglie fumanti, pulce.» Meldor allargò le braccia e mostrò l’ascia coperta di rune. «Io vanto il coraggio del Popolo della Montagna, io sono l’eroe di Antioch, io sono colui che chiede vendetta: a coloro che mi recano un danno, io ne porterò uno dieci volte più
grande.» «Sei patetica, pulce barbuta: saresti venuto a morire per una stolta e delirante vendetta?» Le pupille di Tabith si dilatarono diventando rosse e pulsanti come quelle delle Scaglie Nere che assaltarono Alesia. «L’orgoglio è un sentimento che conduce soltanto a una morte prematura.» «Se piego la schiena, se chino la testa, se non vendico un affronto, non sono un nano.» «Muori da nano, allora» i fulmini saettarono tra i denti del drago, caricando un colpo di rara potenza. Tabith spalancò le fauci ma la saetta che avrebbe ucciso i figli di Mellor si spense, le sue ali si afflosciarono, il collo si irrigidì e quindi perse tono muscolare, gli occhi dorati rotearono all’indietro e la testa cadde in avanti, schiantandosi sulla torre a un o da Meldor. «Bisogna essere precisi quando si usa una ballista, molto precisi» dietro al corpo gigantesco della Scaglia Azzurra emerse la sagoma di Gorogol della Scaglie d’Argento: aveva un’ala spezzata che gli ricadeva lungo la schiena con le ossa bianche esposte, l’altra aveva la membrana forata, lacerata, inutilizzabile. Sul collo lucente aveva tagli d’artiglio impaludati da sangue raggrumato e scaglie strappate, sulla spalla destra uno squarcio aperto da zanne feroci. Tra le mani reggeva il verrettone modificato da Meldor che; l’aveva recuperato e conficcato nella schiena di Tabith sino a raggiungergli il cuore. «Bel trucco farlo parlare, ma non è da usare con una Scaglia Nera o una Bianca.» «Tutto l’argento che chiederai, Gorogol» Kjeldor liberò la tensione in un sorriso: «avrai tutto l’argento che chiederai.» «Non dirlo due volte, nano. Potrei accettare.» Vortigern menò un fendente rovescio, poi un montante, un altro fendente e infine strappò la spada dalle mani di Laoden, che evitò l’affondo seguente con un salto all’indietro. «Il Canto delle Spade è giunto alla sua conclusione. Cosa farai ora, mezz’elfo?» E adesso mi gioco tutto. Laoden non recuperò la spada ed estrasse due kwhilink d’acciaio dalla cintura a tracolla di destra. Vediamo se sei presuntuoso come un elfo dev’essere.
«Non dirmi che sei caduto così in basso! In te c’è così tanto degli esseri umani da farti usare le loro patetiche armi da assassini?» Laoden lanciò i dardi, e fece in modo che il primo mancasse il bersaglio mentre il secondo fosse preciso, quindi si spostò a sinistra, afferrando con i pollici i manici di altri due kwhilink d’acciaio. Vortigern schivò il dardo e accorciò la distanza con il figlio, per finirlo. Laoden lanciò gli altri due kwhilink con precisione, mirando al cuore, e ne impugnò altri due d’acciaio; Vortigern deviò i colpi con uno scudo magico, poi alzò la spada sulla testa per calarla su quella del figlio. Ora. Laoden bloccò la lama incrociando i kwhilink sulla testa, allontanò la spada e cercò di colpire il collo di Vortigern con il dardo che impugnava con la mano sinistra. L’elfo si piegò all’indietro e si allontanò con un balzo magico. Quando atterrò, vide i dardi scagliati da Laoden tanto vicini da dover usare una nuova barriera magica. Laoden estrasse l’ultimo kwhilink dalla cintura di destra e quindi uno da quello di sinistra. «Tu e i tuoi inutili giocattoli mi fate pena.» Laoden scagliò il dardo d’acciaio ma Vortigern lo bloccò a mezz’aria e, agitando la mano sinistra con un gesto stizzito, lo scagliò via. «Forza Laoden, provaci ancora» Vortigern allargò le mani e rinforzò lo scudo, «il prossimo che lancerai tornerà indietro e ti colpirà al cuore.» Il Signore della Terra esitò, poi scagliò il kwhilink. Il Signore del Fuoco sogghignò ma il dardo attraversò lo scudo magico e gli si conficcò nel palmo della mano; il lucore dell’incantesimo che l’elfo aveva pronto si spense, divorato dal materiale lucido dell’arma. L’elfo fissò il mezz’elfo con tutto il disprezzo che gli irrorò le vene. Laoden impugnò altri due dardi presi dalla cintura di sinistra e balzò nella guardia del padre. «È xelentsio» li conficcò nel petto e nel collo dell’elfo, che cadde in ginocchio. «Nessuna magia ti è ora possibile» ringhiò Laoden, esultando alla vista del sangue che sgorgava dalle ferite: «lo xelentsio ti divorerà.»
Gli occhi di Vortigern bruciarono la rabbia che aveva in corpo ma ogni incantesimo che bramava veniva annullato dall’effetto venefico del materiale più prezioso di Arhanien. L’elfo liberò un sorriso amaro mentre il sangue si imputridiva. «Secoli di studi per capitolare a causa di un trucco.» «È ciò che meriti» Laoden si chinò sul padre morente quando lo udì sussurrare un incantesimo. «Provaci pure: non c’è magia che puoi usare quando lo xelentsio ti ha lacerato la carne.» «Mai sottovalutare il nemico.» Vortigern gettò la testa indietro, strinse i pugni e il sangue marcescente schizzò fuori dalle ferite. Invoco l’ultima Arte del Signore del Fuoco, invoco la forza serbata dai vulcani e dai fulmini, invoco la vita che corre su strade lastricate di morte, esigo il fuoco purificatore che uccide e che rigenera: il fuoco della Fenice, l’uccello immortale. «No» Laoden si gettò sul padre ma le fiamme che ne avvolsero la figura lo ricacciarono. «Non può riuscirci, c’è lo xelentsio. C’è lo xelentsio!» Gridò mentre i dardi si scioglievano e il corpo di Vortigern si inceneriva in un lucore accecante che assumeva le forme dell’uccello del mito. «Che accade, per Mahorn!» Meldor e Kjeldor erano scesi dalla torre e “l’Ammazzaorchi” aveva raggiunto Laoden per sorreggerlo. «È l’incantesimo concesso al Signore del Fuoco: la Fenice, l’uccello che rinasce dalle proprie ceneri» mormorò il mezz’elfo, stremato. «Che vuol dire, non capisco un piffero di magia.» «Rinascerà. Vortigern tornerà più forte di prima» il volto di Laoden si coprì di lacrime. «È stato tutto inutile. Guerre, morti, distruzioni. Tutto inutile. Madre, perché? Perché non posso vendicarti?» Pigolò, stremato. La fenice alzò il collo, una lingua di fuoco danzante, le ali si spiegarono, vaste,
maestose, e il becco cangiante si aprì emettendo un grido allucinante e terribile; le piume di fuoco dardeggiarono nell’alba, rosse, gialle, nere, e rivaleggiarono con lo splendore dell’aurora. Il Vaenert che giungeva da nord schiaffeggiò le grandi e lunghe piume della coda della fenice e divenne una tiepida brezza primaverile. «Quel tuo potere, usalo» Meldor strattonò Laoden, che lo guardò con occhi lucidi e lo sguardo fesso. «Quel tuo potere, quello dell’animale simile al suo: usalo!» Laoden si rialzò, rinvigorito dal suggerimento. «Chiudi gli occhi e reggimi amico» disse al nano, «perché dopo non potrò più lanciare alcun incantesimo» Meldor annuì e sorresse Laoden. «Chiudete gli occhi, tutti» ordinò. Invoco l’Arte ultima del Sigillo della Terra, invoco il potere serbato dalle foreste millenarie, invoco la forza dello sguardo che non lascia scampo, voglio il potere che solo a me spetta: lo sguardo della Cocatrice, l’uccello del mito. La luce che scaturì dagli occhi di Laoden rabbuiò la fenice, spense le piume livide e fiammeggianti e, tra le grida assordanti e deliranti dell’uccello immortale, lo trasformò in una statua di granito. «Sei un mito! Nessuno, nemmeno il miglior cesellatore del Popolo della Montagna sarebbe capace di scolpire una statua del genere» il nano rifiatò e il mezz’elfo lo abbracciò. «È finita amici, stavolta è davvero finita» Kjeldor abbracciò il fratello e l’elfo, liberando una felicità rara per l’etichetta dei nani. Laoden sciolse per primo l’abbraccio e i due fratelli si strinsero l’uno all’altro, ritrovando un’intimità e una complicità che soltanto da bambini fu loro concessa. Ce l’abbiamo fatta. La giusta ricompensa per i nostri sforzi e per la fede in un mondo migliore. Laoden sospirò e si lasciò cadere seduto.
«Ora dovremo ricostruire un futuro nel nome dell’equilibrio, della giustizia e della libertà di ogni individuo, nano, elfo o umano che esso sia» le parole del Signore della Terra info nuovo coraggio ai compagni. A tutti tranne uno. «Sogni un mondo dove tutti siano uguali, senza nessuna differenza?» Kjeldor fronteggiò il mezz’elfo, con il volto duro. «Sì, senza distinzioni» confermò Laoden, fiero. «Quindi tu vorresti un guerriero uguale a un contadino, a una cameriera o a uno sguattero che tiene i cavalli e pulisce le latrine?» Kjeldor sputò in terra. «Tu riusciresti a vivere senza qualcuno che coltiva la terra, che ti serve una birra o che pulisce la camera dove riposi?» la voce del mezz’elfo era un profetico sussurro. «Se i guerrieri non saranno migliori degli altri, tutti avranno diritto a sedersi al banchetto di Mahorn. È questo che vuoi?» Kjeldor si gonfiò di rabbia. Laoden si irrigidì. «Se è necessario perché si diventi tutti uguali, sì.» «Cavoli» l’espressione rigida di Kjeldor svanì in un sorriso, «Mahorn dovrà allargare il tavolo e fare un sacco di sedie nuove.» Laoden si mise a ridere e spostò i capelli fradici di sudore dalla fronte. «Certo, ma è molto probabile che Shana vi darà una mano e che altrettanto faranno gli Dei degli umani e degli orchi. Guardami Kjeldor, sono un mezz’elfo e ho sconfitto un elfo, non è la nostra natura che ci rende migliori, è il nostro spirito.» Gli uomini albero si ritirarono nella foresta e Derek Wellfire, Ardengo e gli umani sopravvissuti raggiunsero i nani e il mezz’elfo e, quando tutti cominciarono a scambiarsi abbracci o strette di mano e a scherzare, un rumore sordo si intrufolò nella loro gioia. Laoden fissò la fenice e la sua espressione si fece dubbiosa e mutò in orrore quando una crepa si aprì nel collo della statua. «No» disse il mezz’elfo, sfinito, «non è possibile!» Una lama di luce lacerò il granito e aprì una ragnatela di crepe che si propagò in tutto il corpo dell’uccello di pietra e che si allargò generando fiumi di luce.
Meldor impugnò d’istinto l’ascia bipenne ma, quando il lucore delle fiamme si fece doloroso, lasciò cadere l’arma coperta di rune e rinunciò a combattere. Non ha senso, non possiamo farcela. È immensamente più forte di noi. «È finita» Laoden guardò inerme la fenice che si liberava della prigione di pietra e si coprì il viso quando la fiamme divennero un secondo sole che nasceva. Dopo quella che a tutti parve un’accecante eternità, i superstiti sentirono la luce perdere d’intensità, videro la fenice svanire e una nera figura stagliarsi nella luce morente. Il Signore del Fuoco avanzò tra le fiamme che scemavano, gli occhi accesi come stelle, i movimenti posati, la testa alzata; si fermò davanti a Laoden, al drago, agli umani e ai figli di Allor. Il nano e Gorogol spalancarono occhi e bocca. «Non è possibile» dissero ondeggiando come marionette. La voce che li sorprese era apatica e disillusa. «Non credete che sia arrogante e sciocco, credere che sia sufficiente allenarsi diecimila anni per compensare l’estro, la potenza e la raffinatezza dell’Arte di colui che è predestinato?» «Tu sei quello nelle catacombe di Eskiliar, quello che ci portò fuori» la voce di Meldor sfiorì in un sibilo appena udibile. «Tu sei quello che mi ha sconfitto a Tumblane» Gorogol ingoiò un grumo di saliva acida. La figura sorrise e la voce si fece amichevole. «Non so dove mi trovo e nemmeno cosa abbiate fatto. Ma è ovvio che sia io, qui, ora, perché io sono Gabriel figlio di Lester, e sono io, il Signore del Fuoco.»
Mise i ricordi di quel giorno in un cristallo permanete. Sapeva che avrebbe potuto perderli ma vi impresse tutta la paura che provò quando scese a combattere gli orchi al fiume, vi impresse del terrore che lo scosse quando vide i corpi dei compagni giacere con le ossa spappolate. Vi impresse il rammarico e la vergogna che provò quando lui e Gwyllywm ritornarono dai Si’phir e non furono giudicati ancora maturi per il pellegrinaggio. Ma la cosa più importante che fece è imprimervi tutto l’amore che provava per Alywya perché sapeva che su questo si sarebbe giocata ogni cosa. Prima di lasciare Anchor Seinan parlò con Éireamhón e gli raccontò che cosa avrebbe fatto ed egli cercò in tutti i modi di dissuaderlo dall’affrontare Gwyllywm; quando comprese che non sarebbe riuscito a trattenerlo, lo portò in quella che doveva essere l’armeria degli elfi e gli fece dono di una delle spade che vennero usate durante le grandi guerre. Quando Khayn gli chiese se era magica o potente, Éireamhón rise e rispose che a quei tempi gli incantesimi non facevano la differenza, il materiale di cui era fatta la spada, invece, sì. Biografia di Khayn di Si’phir – Éibhleann di Si’phir
XLII – L’ultima verità
Ashleen resse le briglie del grifone di Ergwel, appena atterrato; la bestia chinò il muso e i suoi occhi cerulei fissarono l’elfa, che gli carezzò le grandi piume azzurre e grigie che contornavano il becco. «Abbiamo una grande novità, padre» il volto di Ashleen era dalla felicità. «Ne abbiamo anche noi» Ergwel smontò, «ma dimmi tu, prima.» «Edwcht ha trovato due revisionisti che hanno fatto il pellegrinaggio a Ulash Biner e chiedono di abbracciare l’ortodossia. Dopo Dwmnal con questi sono tre in un anno: non era mai successo» l’entusiasmo dell’elfa ne esaltava la bellezza facendola rifulgere come una pietra preziosa. «E tu vedrai miracoli ancora maggiori: il trasformatore funziona» Ergwel abbracciò l’elfa. «Portami da costoro. A che tribù appartenevano?»
«Si’phir, erano elfi di Si’phir» rispose Ashleen. «Gwyllywm, vieni, ci sono alcuni membri della tua tribù che hanno abbracciato l’ortodossia» il Signore del Vento obbedì, ma con scarso entusiasmo. «Non sei felice che qualcuno dei tuoi abbia scelto prima ancora del ritorno di Glewmwn?» «Ho un brutto presentimento» il Signore del Vento si rabbuiò. «Sei cupo nonostante la nostra grande vittoria?» «Non saprei spiegarti. Mi sembra di cavalcare una bestia della quale ho perso le briglie.» «Rilassati, non c’è più nulla che ostacoli l’ortodossia. Non abbiamo bisogno di Sigilli o guerre. La verità giungerà alle orecchie di ogni elfo di Arhanien.» Era pomeriggio inoltrato, il Vaenert concesse una tregua e l’odore della vita che riprendeva sopraggiunse dalla foresta e dai ruscelli che gorgogliavano. Ergwel entrò nel cromlech dei cromlech ma Gwyllywm si fermò sulla soglia non appena riconobbe gli ospiti. «Ciao Gwyllywm, bentrovato» la voce di Khayn aveva la sicurezza di quella di un anziano; l’elfo di Si’phir era seduto a gambe incrociate in mezzo al circolo, su una stuoia, e indossava un lungo cappotto di pelle scura; accanto a lui c’era Éibhleann, la sorella di Alywya, che teneva le braccia incrociate e si guardava intorno come se i monoliti curvi avessero potuto schiacciarla da un momento all’altro; l’elfa indossava una mantella di lana impreziosita da ricami di forma leonina. «Uscite dal cromlech, tutti, subito. È una trappola.» Gwyllywm fece rabbrividire il popolo, che ubbidì senza fiatare. «Certo che ne hai di faccia tosta per venirmi a cercare proprio qui» sfoderò la spada magica Hawkeye e ne attivò i poteri magici generando fulmini che guizzarono attorno alla lama. Ergwel e i guerrieri stavano per armarsi quando Gwyllywm fece loro cenno di attendere. «Khayn non erà mai all’ortodossia, è di uno zelo revisionista senza eguali. È qui per vendicarsi di me ma non farà altro che comprendere quanto enorme sia il divario tra noi.» «Vai, esci anche tu» Khayn intimò a Éibhleann di obbedire e questa si alzò in silenzio e si portò accanto alle pietre azzurre scolpite.
«Tu sei la sua donna?» Gwenaelle raggiunse la revisionista e si appoggiò al monolite, spalla a spalla con Éibhleann. «Ne avete avuto di coraggio. Oppure è stata follia? Quando il tuo uomo morirà, cosa farai, combatterai al suo posto?» «Non ci sarà alcun combattimento, Khayn non morirà e io non sono la sua donna» Éibhleann lo disse con tristezza: «io sono la sorella della compagna di Gwyllywm.» Gwenaelle sgranò gli occhi e si irrigidì, colta da un intenso brivido. «Menti. Sono io la sua compagna» serrò la voce come se dovesse stritolare la revisionista. Éibhleann la guardò con gli occhi pieni di pietà. «Téide è figlia di Gwyllywm ed è nata da mia sorella Alywya meno di un anno fa. È stata concepita quando Gwyllywm sembrava ritornato quello di un tempo.» Vide Gwenaelle sbiancare e sorreggersi alla pietra luminosa. «Non mi stupisce che ti abbia detto nulla: ormai è un maestro della menzogna.» «Cosa siete venuti a fare?» Gwenaelle parlò con rabbia spezzata. «Khayn e Gwyllywm hanno un conto in sospeso.» Al centro del cromlech Khayn si alzò piano e aspettò che Gwyllywm gli si avvicinasse ancora. «Sai, credevo che scappare da tua figlia Téide fosse un’azione davvero indegna persino per uno come te, poi ho ricordato quel giorno, al fiume, più di un secolo fa. Non è la prima volta che scappi e non è la prima volta che abbandoni qualcuno.» «Parli di Pádrayg, Flwnnwyt e Crón» Gwyllywm lo interruppe. «Bravo: scappare è la cosa migliore che sai fare» Khayn estrasse la spada ma Ergwel entrò nel circolo. «Khayn di Si’phir, mi ricordo di te adesso. Tu sei colui che mi sfidò quando Gwyllywm fronteggiò Raylyn nella Foresta del Vento» il padre del popolo parlò con voce stentorea. «Non so quali pieghe della vita ti leghino a Gwyllywm ma non mi interessano: non lascerò che tu lo infastidisca. A quanto sostiene Gwyllywm sei un revisionista, quindi un nemico. Deponi le armi e sarai trattato come un ospite.»
«Accuso Gwyllywm di Si’phir di aver procurato la morte di tre compagni.» «Il popolo è come una tribù ma non è una tribù. L’accusa che vanti non mi interessa.» Khayn rinfoderò la spada. «Chiedo un’ordalia.» «Tu non appartieni al popolo e i crimini che vorresti perseguire appartengono al revisionismo. Oggi è un giorno di grande felicità per noi e vi lasceremo andare senza torcervi un capello.» «Tu mi neghi giustizia, padre del popolo?» «La ricerca del giusto ti rende onore ma non ne avrai perché per primo ti schieri dalla parte del torto. Oggi il revisionismo è morto.» «Come dici?» Khayn trasalì. «Oggi è morto il revisionismo» ribadì Gwyllywm con voce tagliente. «Ho costruito una macchina che trasforma gli umani in berserker, una volta che saranno diventati tali li scateneremo contro di voi e sarete costretti a ucciderli. Farete ciò che per scelta non vorreste fare.» Khayn scoppiò a ridere. «Che ha, è impazzito?» Domandò Ergwel a Gwyllywm. Khayn alzò la testa al cielo e liberò una risata cristallina che risuonò per tutto l’accampamento. «Non ci posso credere» riuscì a dire trattenendo i singhiozzi per le risa e per le lacrime di gioia. Era rosso in volto e senza fiato quando si concesse una tregua. «Sono stato ad Anchor Seinan, per la seconda volta. E ho capito. Se non vuoi batterti, ascoltami.» «Capito cosa?» Maolóráin emerse tra gli ortodossi e ò avanti a tutti, accigliato. «Ho capito che non avete capito. Ortodossia e revisionismo non esistono» il volto di Khayn era sconvolto da risa sionate e sincere. «È impazzito» Ergwel fece roteare l’indice ma Gwyllywm accartocciò la faccia
in un’espressione cupa. Maolóráin fece un o verso Khayn, uscendo dal gruppo di compagni che ascoltavano sbalorditi. «Tu non hai l’aura di qualcuno che mente o ama scherzare.» «Perché non mento e non sto scherzando» Khayn soffocò un nuovo spasmo di risa. «Ortodossia e revisionismo non esistono. Le abbiamo inventate noi. Si pensava che occorresse una dicotomia per spiegare la verità. La verità è un’altra, e non è dialettica.» «Non dire eresie!» Maolóráin alzò la voce. «Credi che i tuoi occhi vedano meglio dei nostri e di quelli di tutte le tribù? Credi che l’idea di un ragazzino come te possa tener testa a quelle di un intero popolo?» «La verità è un’altra» lo sguardo di Khayn vantò una sicurezza disarmante. «Voi guardate la mano e non ciò che indica: tornate ad Anchor Seinan e capirete.» «Non c’è proprio nulla di più da capire» berciò Maolóráin. «C’è un solo messaggio che ci è stato lasciato dalle generazioni che popolarono Arhanien.» Khayn allargò le gambe, incrociò le braccia e si concesse un sorriso smargiasso. «Davvero? E quale sarebbe, questo messaggio?» «C’era una dicotomia che ora non vale più perché l’ortodossia ha vinto» Ergwel si intromise ma Maolóráin lo interruppe in malo modo. L’ortodosso più anziano parlò sopra il padre del popolo. «Il messaggio di Anchor Seinan è la libertà di scelta.» Khayn gonfiò il petto e trattenne le risate. «Certo, ne ero convinto anch’io, e ho fondato la mia vita su questa verità, ma non è così: credevo che essere liberi di vedere mi avrebbe mostrato ciò che era giusto. Il messaggio di Anchor Seinan non è filosofia, è un nome.» «Stai sragionando. È solo quello il messaggio» iniziò Maolóráin: «a noi vengono demandate scelte fondate sulla libera interpretazione che diamo dei fatti. È questa libertà che ci ha condotto dove siamo ora, è la libertà di aver fatto certe scelte che ha stabilito la superiorità dell’ortodossia sul revisionismo.»
«La tua interpretazione del libero arbitrio è soporifera: ti ho detto che il messaggio di Anchor Seinan è un nome. La verità è un nome.» «Un nome? Ti ha dato di volta il cervello? Quello che abbiamo visto ad Anchor Seinan è stato reso possibile dal desiderio di informare. Ma se proprio vuoi un nome, questo potrebbe essere equità.» «Sei un facilone, e dire che nonostante l’età avanzata dovresti essere il più saggio. Anche tu hai guardato la mano e non ciò che indicava» lo derise Khayn. «Che sciocchezze stai blaterando? L’esistenza del meteorite di Ulash Biner testimonia che gli umani sono nostri schiavi perché li abbiamo fabbricati noi.» «Se fossi stato onesto avresti detto che ciò che si deduce è che abbiamo la facoltà di pensare che gli umani siano schiavi in virtù di quanto abbiamo visto. Ma anche questo non è il punto: il punto è che la tua libertà è tale in virtù di una schiavitù. E umani ed elfi non ci azzeccano nulla.» Maolóráin si accigliò ma invitò Khayn a proseguire. «Tu puoi scegliere cosa fare soltanto perché qualcuno non può farlo. E così tu vedi libertà dove invece ci sono catene, tu vedi ciò che libera i tuoi pensieri ma non ciò che imbriglia la vita altrui. Ti ho detto che mi occorreva un nome. Ora puoi capire quale. Anchor Seinan non serba un messaggio. Serba un nome. Serba una persona. E non è il luogo che reca agli elfi la libertà: è una prigione.» Gli occhi di Maolóráin si spalancarono come le imposte della camera di una malato appena guarito. «Éireamhón.» «Éireamhón» Khayn si avvicinò a Maolóráin annuendo. «Il pellegrinaggio ad Anchor Seinan non è concepito per mostrarci ciò che è stato e quanto grande sia la nostra libertà di interpretare il ato del nostro popolo: Anchor Seinan ci racconta la schiavitù di un elfo che può custodire verità e libertà soltanto perdendo la propria. Il meteorite di Ulash Biner e l’antica capitale con le sue torri bianche come spettri non ci racconta una storia da imitare o da disprezzare, ci racconta solo una storia: è la mano che indica il sacrificio di Éireamhón. Tutti voi avete guardato le testimonianze del nostro ato, le prove di quel grande popolo che furono gli elfi ma nessuno di voi ha visto Éireamhón che custodisce la capitale da tempo immemorabile, e da solo. Non c’è equità, non ci sono dicotomie. Ad Anchor Seinan c’è la solitudine di elfo il cui amore e la cui dedizione per noi arriva al punto da lasciarci giocare a ortodossi e revisionisti.»
«Questo non cambia la realtà delle cose» ringhiò Gwyllywm, «le nostre opinioni sono quelle corrette e la genetica lo dimostra.» «Non c’è nulla da dimostrare» Khayn allargò le braccia e fece un sorriso triste. «E non deve importare a nessuno che tu sia ortodosso o revisionista: se non comprendi il sacrificio di Éireamhón non sei un elfo.» Un silenzio di ghiaccio pugnalò l’intero popolo ma Gwyllywm si sentì costretto a spezzarlo. «Non so quali deliri ti ottenebrino la mente ma non puoi ingannarci.» «Zitto, Gwyllywm» la voce di Maolóráin fu un sussurro. Il Signore del Vento sbiancò. «Vi sta ingannando, come è possibile che crediate alle sue parole?» «Silenzio, Gwyllywm» ribadì Ergwel, che guardò Maolóráin annuire. «L’ortodossia non esiste più. Tornate ad Anchor Seinan, poi alle vostre tribù e riunitevi a coloro che amavate. Abbiamo combattuto tra di noi, tra fratelli, quando solo il reciproco sacrificio poteva unire il nostro popolo.» «Vi ha dato di volta il cervello?» La voce di Gwyllywm zittì lo stormire del vento tra le foglie e il borbottare degli elfi che avevano cominciato a disquisire a gruppetti. «Io non riesco a credere che vogliate gettare secoli di storia e decenni di ricerche proprio quando avevamo raggiunto il traguardo. E per che cosa, per le parole di un eretico? Un minuto di delirio cancellano tutto quello che abbiamo fatto? Nessuno di voi replica? Nessuno ha nulla da dire? Arriva Khayn, dice due parole e disintegra i ragionamenti di millenni di religione?» Il popolo non ascoltò l’accusa e gli elfi si dispersero per raccattare le proprie cose. «Ma siete impazziti?» Berciò Gwyllywm agitando la spada. «La verità sarà compresa soltanto da coloro che dovranno comprendere» Ynysh fu l’unico a rispondere, con mesto fatalismo. «Ora capisco e non mi stupisce che tu non comprenda perché abbiamo capito» chinò il capo e si allontanò a i corti e incerti. «Andiamo, Gwyllywm» Khayn tese la mano all’avversario di sempre, «ti riporto a casa.» Il Signore del Vento guardò Gwenaelle: l’elfa aveva stretto i pugni e si era morsa
le labbra sino a provare dolore e i suoi occhi trasmettevano soltanto una rabbia incapace di esplodere. Colei che fino a pochi minuti prima rappresentava la fazione degli Intellettuali ortodossi voltò le spalle all’amante e si allontanò singhiozzando. «Tutto è crollato in un istante, come un gigantesco castello di carte eretto dentro una stanza raggiunta dagli spifferi. Pagherai» Hawkeye si illuminò di saette rosse e blu e Gwyllywm la puntò verso Khayn. L’elfo sospirò. «Sei incorreggibile: Alywya e Téide ti aspettano, si può sapere perché non capisci?» «Lo ha detto Ynysh, poco fa» Gwyllywm inclinò la testa e il suo sguardo rasentò la follia: «forse non sono tra quelli che devono comprendere. O forse è corretto non vedere. Forse tutto ciò con cui Éireamhón ti ha ingolfato le orecchie sono le sciocchezze di un elfo distrutto dalla solitudine. Forse il sacrificio di uno è necessario per la libertà di tutti. E se lo fosse, perché non potresti chiamarla libertà? L’unica cosa che comprendo, e che mi disgusta e mi sbalordisce è come sia possibile che tutti si arrendano quando avevamo afferrato la vittoria.» «Ma che cos’è la vittoria? È la distruzione del revisionismo? È la distruzione degli esseri umani? È il fuoco e il sangue? Se anche così fosse, nessuno la pensa più così: essere solo non ti suggerisce che potresti avere torto?» Khayn allargò le braccia. Gwyllywm strinse gli occhi e il cielo rumoreggiò. «Io sono il Signore del Vento: se esistono torto e ragione, io li trascendo.» «Ho capito» Khayn si rassegnò, «c’è un solo modo per farti cambiare idea» gettò il cappotto sulla stuoia dove aveva seduto e rivelò la cotta di maglia degli avi che indossava. Impugnò la spada battezzata con il sangue degli orchi nel giorno maledetto in cui scese al fiume assieme a lui, Pádrayg, Flwnnwyt e Crón e la puntò verso Gwyllywm, che richiamò un triskelion. «Mi stupisco di te, credevo preferissi combattere con la spada che divora l’anima.» «Uno come te non merita il potere di Soulslayer» lo piccò Gwyllywm, «Hawkeye basta e avanza. Senza droghe non sei nessuno» allungò la spada toccando la lama dell’avversario e preparò lo scudo dotato di lame a colpire. Khayn si spostò a destra, descrivendo un cerchio attorno a Gwyllywm e tenendo
la spada dritta e pronta all’offesa, Gwyllywm ne seguì i movimenti con un losco sorriso. «Sei venuto per mostrarmi quanto sei abile a danzare?» Il Signore del Vento abbassò lo scudo fingendo di aprire la guardia ma Khayn non abboccò. Gwyllywm si voltò allora verso Éibhleann. «Dovrai farti una ragione di quel che rimarrà di lui quando avrò terminato» non aspettò una risposta e si scagliò contro l’avversario e menò un fendente che per poco non lo disarmò. Khayn parò la spadata con difficoltà, schivò la sbracciata del triskelion che ne seguì e indietreggiò rifiutando il corpo a corpo; Gwyllywm ne comprese le difficoltà, lo incalzò e lo spinse contro la ruvida pietra di un monolite del cromlech dei cromlech. «Fine della fuga» il Signore del Vento colpì con il triskelion, di piatto, la lama colpì il granito e generò una cascata di scintille: Khayn si era abbassato, quindi rotolò alla propria destra e scomparve dietro la grande pietra. Gwyllywm balzò dalla parte opposta ma Khayn si era dileguato. L’elfo guardò Éibhleann per capire se tradisse il compagno, cercandolo, ma scoprì l’elfa che fissava lui, e con tutto il disprezzo che era capace di provare. La ignorò, fece alcuni i, posati, con i sensi all’erta ma non udì alcun rumore; soltanto il Vaenert spirava, pungente, intenso. Gwyllywm scattò verso la pietra con l’incisione del lupo e vi si adagiò, toccò il petroglifo e l’accese. Chiuse gli occhi e dopo un’attesa che gli parve senza fine, percepì Khayn che si portava all’interno del cromlech. D’accordo, giochiamo. Il Signore del Vento si mosse in senso orario, all’esterno, di una, due, tre pietre, poi si adagiò a quella con il petroglifo a forma d’orso, che si illuminò di luce bluastra. «Intendi fuggire ancora per molto? Ho conosciuto un goblin molto più coraggioso di te!» Il respiro si condensò davanti a lui, riflettendo il lucore dell’incisione. «Parla quello che ha attaccato un gruppo di orchi ed è stato il primo a fuggire.» Dietro di me, bene. Gwyllywm si accovacciò e quindi balzò sospinto da un incantesimo; quando oltreò l’estremità del monolite fece una capriola e continuò a salire a testa in giù: vide Khayn, appostato dall’altra parte, interruppe l’ascesa e gli piombò addosso. Khayn attese l’ultimo istante prima di fare perno sulla gamba sinistra, girare verso il centro del cromlech e alzare la spada. Sentì i fulmini di Hawkeye
crepitare accanto alla testa ma fu abbastanza lesto da infilare la lama della propria spada tra quella di Gwyllywm e il triskelion, facendola scivolare sulla sua armatura degli avi. Éibhleann gridò. Aveva temuto che l’elfo che amava si fosse fatto cogliere alla sprovvista, poi vide Gwyllywm accovacciarsi e curare con un incantesimo una ferita all’orecchio sinistro. «Mi pareva di non aver sbagliato...» Khayn alzò la spada e mostrò il rivolo di sangue che ne imbrattava la punta. «Ti farò a pezzi» ringhiò Gwyllywm. Si rialzò, si gettò contro Khayn, vibrò un fendente rovescio che fu parato e quindi strappò l’arma dalla mano dell’avversario con un fendente del triskelion. Rigirò la spada per tentare un montante ma Khayn balzò all’indietro con una capriola. Gwyllywm alzò il triskelion e guatò Khayn attraverso gli spazi tra le lame. «Non recuperi la tua spada?» «No» Khayn riprese a girare attorno a Gwyllywm. «A quanto pare non basta a sconfiggerti.» «Ne deduco che intendi affrontarmi disarmato.» Khayn allungò la mano sulla schiena e afferrò il manico rivestito in pelle dell’arma che gli aveva donato Éireamhón, la sfoderò e la fece brillare alla luce soffice dell’ultimo sole invernale. Gwyllywm ebbe un sussulto. «Un’arma degli avi?» Khayn fece fare un giro completo alla spada con un gioco del polso e sogghignò mentre la lama bianca e lucida fendeva l’aria generando un suono cristallino. L’arma degli avi era lunga quanto una spada bastarda ma la lama era più stretta: la superficie era liscia, uniforme e pareva che fosse stata fusa e stampata piuttosto che battuta su un’incudine; l’elsa era un semicerchio dello stesso materiale della lama ed era rivolto verso il basso dove la parte piatta proteggeva la mano; il pomolo era identico all’elsa ma sottosopra. Khayn fece fare un nuovo giro alla lama e il suono aumentò d’intensità. «Bene, vediamo se le armi degli avi sono capaci di trasformare un buono a nulla
in un eroe» Gwyllywm si gettò contro Khayn menando un fendente con il triskelion. Khayn evitò l’attacco e il successivo fendente rovescio tirato con Hawkeye. «Se vuoi farmi vedere la potenza della tua arma devi usarla, non fuggire come un coboldo» lo canzonò Gwyllywm. Khayn fece un balzo indietro, e si portò accanto al monolite azzurro scolpito con l’effige del corvo. Gwyllywm lo incalzò con un affondo di Hawkeye che Khayn evitò con un rapido spostamento laterale, poi eseguì una rotazione per colpire con le lame del triskelion. Il clangore delle lame che impattarono fece gridare Éibhleann. Una lama spezzata s’infilò nella terra umida e il metallo baluginò alla luce bluastra del cromlech; la spada bianca di Khayn aveva una striscia rossa all’estremità. Gwyllywm ò un dito sulla guancia sinistra e cauterizzò il taglio aperto dalla spada che aveva spezzato il triskelion. Khayn fece roteare la spada e ridiede voce al suo canto ipnotico. «A quanto pare le armi degli avi possono davvero trasformare gli inetti in eroi» Gwyllywm slacciò il triskelion e se ne disfece. «Ora tuttavia confidi troppo in quella spada e sconfiggerti sarebbe facile: Soulslayer non ha mai fallito un colpo» toccò il manico di pelle della spada che non osava estrarre. «Tuttavia non ho né tempo da perdere, né voglia di divertirmi. Devo ricostruire l’Ortodossia e riunire il popolo dopo il delirio cui li hai portati» Khayn prese un o ulteriore di distanza. «Vedi, gli elfi antichi non avevano soltanto armi potenti: avevano incantesimi tanto sconvolgenti che i revisionisti li bandirono. È giunto il momento di mostrarti come combatte un ortodosso» Gwyllywm parlò la lingua affascinante e potente degli avi. Invoco le tenebre dei cuori, l’oscurità della notte, la luce oscura di Tannaether, la freccia che inghiotte la luce. Il mana gli vorticò sulla mano destra raschiando la luce e Gwyllywm scagliò una lancia dalla cuspide di tenebra contro Khayn, che provò a colpirla con la spada, senza successo: l’arma nera squarciò il giorno come un raggio di luce fa con la
notte, imberciò Khayn in pieno petto, dismagliò l’armatura degli avi e lo scaraventò a terra. Quando la lancia scomparve rivelando un’orrenda ferita, Gwyllywm allungò Hawkeye contro il collo di Khayn. «Fermati!» Éibhleann accorse, sollevò Khayn e lanciò un incantesimo di cura. «Fermati o dovrai vedertela con me.» «Togliti o farai la sua stessa fine» la minacciò Gwyllywm. L’aura di Éibhleann si gonfiò minacciosa. «Fallo allora, uccidimi. Uccidimi e vantati di come hai ammazzato la zia di tua figlia, un’elfa inerme. Dai modo a Zoe e Glewmwn di vergognarsi ancora di te. Dai modo a tutti i Si’phir di sputare sul tuo nome. Sciogli i dubbi di quei pochi che ancora non nominano con disprezzo il nome del figlio di Moad.» Gwyllywm spostò la lama di Hawkeye contro il collo di Éibhleann. «Credi che farebbe differenza? Credi che il Signore del Vento abbisogni di amici, di una famiglia, di sentirsi accettato da una tribù? Chi ha visto ciò che si nasconde dietro la creazione dell’universo è solo: credi che la tua morte peserà sulla mia coscienza? Credi che le stelle che scintillano nel cielo ma sono scomparse da millenni» si interruppe perché vide una pietra rossa baluginare al collo di Khayn e spostò la lama sulla catenina. «E questa da dove viene? Da quando possiedi un cristallo permanete?» Khayn fece per stringere il monile ma un lesto movimento della spada lo bloccò. «Questa è una cosa che non ti riguarda» ringhiò l’elfo, soffocando i colpi di tosse per la ferita che la magia curativa di Éibhleann cominciava a lenire. Gli occhi di Gwyllywm si socchio, indagatori. «Chissà se è davvero come dici» aprì la mano sinistra per attirare il cristallo permanete; il monile si sollevò, la catenina si irrigidì ma non sfuggì al collo del proprietario. «Non l’avrai» Khayn abbozzò una resistenza che spinse Gwyllywm a bramare ancor più la pietra. Il Signore del Vento puntò Hawkeye contro il collo di Éibhleann. «La collana, Khayn, lasciala. Non costringerla a mostrarmi se è capace di sacrificarsi per infangare il mio nome» fece un sorriso sordido. Khayn attese in silenzio, poi abbassò le difese magiche e lasciò che il rivale afferrasse la pietra. La superficie fredda, liscia e sfaccettata del cristallo permanete toccò il palmo sudato della
mano di Gwyllywm rilasciando tutti i ricordi che conteneva. Il Signore del Vento vide; la sua espressione si fece terrorizzata, poi si rasserenò. Khayn cominciò a tossire, e a ridere, e Éibhleann lo guardò perplessa, poi comprese l’intricata e azzardata trama dell’inganno. «Cosa c’era in quel cristallo?» Gridò. «C’era l’amore che avevamo per tua sorella Alywya» rispose il Signore del Vento. «C’erano i dubbi sul mio coraggio quando combattemmo contro gli orchi, e ci sono tutti gli screzi che io e Khayn abbiamo avuto durante la nostra rissosa adolescenza» guatò l’amico e rivale di un tempo. «Il duello era una farsa, non è così? Hai accettato perché vedessi la pietra e hai perso per farmela prendere. Avevi calcolato tutto o avevi visto il futuro?» «Il futuro cambia non appena lo vedi. E i calcoli che facciamo sono soltanto illusioni» sospirò Khayn. «Amavi Alywya quanto e più di me: non sei tornato da lei perché ti mancava qualcosa. E ciò che avevi perso, o ciò che ti era stato tolto, lo ricordavo soltanto io: questo era l’unico modo che conoscevo per farti riprendere quei ricordi. Speravo di arrivare e convincervi tutti, così anche tu saresti tornato dai Si’phir e non avremmo incrociato le spade ma avevo un piano di riserva. Ora hai visto il sentiero della luce e ciò che ti ha condotto verso l’ortodossia. Ti ho reso l’odio che provavo per te, l’evento che l’ha scatenato e l’amore per Alywya che avevi dimenticato. Torna da lei perché è questo che volevate entrambi» Gwyllywm deglutì e Khayn continuò. «Ora hai tutto ciò che ti serve per tracciare la tua strada, non ti manca nulla se non la lucidità per prendere una scelta che sarà soltanto tua. Niente più inganni, soltanto verità.» «Non dire assurdità: ciò che mi hai ato non sono io come sono, ma come tu mi hai visto.» «E non è forse così? Tu non sei forse ciò che vedono gli altri?» «Delirio, il tuo è soltanto uno sconnesso e stolido delirio. In me c’è di più di ciò che tu hai visto, c’è più di quello che mi hanno trasmesso le sensazioni di quel cristallo» ringhiò. «Se sei più di quei ricordi dimostramelo!» Khayn sussultò «Hai una figlia e una compagna che ti aspettano, non esistono sovrastrutture ideologiche, o battaglie combattute per inculcarti la propaganda di tuo padre e di tuo nonno: ciò che
provavi è davanti ai tuoi occhi. E se davvero non è ciò che eri ma come io ti vidi, che ti serva di lezione e che ti aiuti a comprenderti. Non esistono elfi ortodossi o elfi revisionisti, esistono soltanto elfi! E gli elfi guardano il mondo con spirito onesto e vergine. Non badare a ciò che hai visto con il tuo Sigillo: cambiare il rapporto con gli altri in virtù del segreto della Vita ti rende libero o schiavo di esso? Non lasciare che nessuno prenda in mano il tuo destino: è tuo, tuo soltanto.» Un silenzio scabro scorticò i tre elfi rimasti nel cromlech. Gwyllywm guardò le nubi che si addensavano, poi Éibhleann, che rifuggì il contatto degli sguardi. Sospirò, si chinò su Khayn e gli porse la mano ma lui la scansò, con rabbia. «Vattene, non ho bisogno di te, non ne ho mai avuto. Non so neanche più chi sei.» «A presto allora, amico» Gwyllywm abbozzò un sorriso e si tramutò in una brezza leggera che spirò alta nel cielo. «L’addio del Signore del Vento» commentò Khayn soffocando la tosse. «Gli hai donato l’amore che provavi per mia sorella» gli occhi di Éibhleann si inumidirono e l’elfa allentò l’abbraccio sul collo di Khayn: «adesso cosa provi per lei?» «Non provo più nulla.» «E perché l’hai fatto? Gli hai ceduto l’unica cosa cui davi importanza.» «Lui ne aveva più bisogno di me. E tua sorella apprezzerà.» «Volevi immolarti con un sacrificio degno di Éireamhón? O volevi emulare Gwayn?» Éibhleann non riuscì a nascondere i singhiozzi. «Mia sorella non merita l’amore di cui l’hai degnata.» «Non c’è stato nessun sacrificio; egoismo, piuttosto.» «Egoismo?» Éibhleann si irrigidì e sciolse l’abbraccio. «Non l’ho fatto per loro, l’ho fatto per me: l’amore per tua sorella mi impediva di apprezzare il tuo» si voltò verso Éibhleann e, quando le vide gli occhi
arrossati dal pianto, allungò le dita per asciugarle le lacrime. «Ho odiato Gwyllywm perché aveva un amore che bramavo e non riuscivo a ottenere; l’ho affrontato senza badare alle regole e se Glewmwn non mi avesse fermato avrei commesso uno dei crimini peggiori che un elfo può commettere. Ho fatto tanti errori e tanti ne commetterò. L’unico che ora non posso permettermi è quello di perderti.» Éibhleann chiuse gli occhi e baciò Khayn con tutto l’impeto che aveva.
Epilogo
Esco, la luce del sole che filtra nella palude è tiepida sulla mia pelle. L’elfo mi attende e rimira la costruzione che egli ha eretto, all’origine dei tempi. Si dice che egli incontri i Cantori una sola volta nella loro breve vita. Il mio mentore mi ha parlato di lui, me lo ha descritto, mi ha detto il suo nome. Quando lo vedo, egli è proprio come mi era stato narrato. «Hai finito, Terzo Cantore?» L’elfo dagli occhi di smeraldo ha capelli d’argento, intrecciati sino alle spalle e mi parla come se mi conoscesse da una vita. Mi lascio andare a un sospiro soddisfatto e gli consegno i tre libri che mi ha richiesto con la sua magia. «Non c’è nulla da cercare oltre quello che ho trovato. Ho fatto il possibile per rendere le storie più scorrevoli e avvincenti possibile.» L’elfo prende i libroni che gli porgo con un incantesimo, li rimpicciolisce e li infila nel tascapane che porta a tracolla, sopra una tunica di canapa adornata di fregi cremisi. «Che cosa puoi anticiparmi di quegli eroi?» Guarda il profilo della Biblioteca Perduta, come se la risposta non gli interessasse. «Amber ha partorito un bel maschietto cui ha dato il nome del padre» fa una smorfia. «Anche l’erede di Meldor è un maschio e i suoi vagiti notturni destano intere gallerie di nani» stavolta l’elfo si abbandona a un sorriso. «E gli altri?» «Derek Wellfire è tornato a Towerthrough e i Paladini si attendono da lui un grande futuro.» «Gli umani danno giudizi affrettati sulle persone. E su tutte le altre cose: oggi uccidere è un atto di eroismo, domani un omicidio. Che mi dici del mago?» «Gabriel? Egli è tornato ad Amaradantis e continua gli studi, sebbene non ne
abbia bisogno. Si sta preparando per affrontare Jaquish di Anquelot e non ho dubbi che lo sconfiggerà. Mi turba soltanto il suo desiderio di riportare in vita l’amata Joelle.» «Quel ragazzo diventerà un problema molto presto, temo che qualcuno prima o poi interverrà. E di Gwyllywm?» «Il Signore del Vento è tornato da Alywya. Éibhleann aspetta un figlio da Khayn e presto un gran numero di elfi abbandonerà le tribù per venire ad Anchor Seinan.» «E dei draghi?» «Delle Scaglie d’Oro e di quelle di Rame non si sa nulla. Gorogol e Ynlown si incontreranno con le Scaglie Nere e con le Scaglie Azzurre per mediare su quanto accaduto a Kaerwood. Temo che la rinascita di Ywig porterà tempi bui.» L’elfo sorride. «E non ne vengono forse, dopo un periodo di luce? Le tenebre scendono, avvolgono ogni cosa ma dopo l’ennesimo buio, il chiarore dell’alba è più intenso di prima.» «Vorrei davvero che fosse così. Mi concedi una domanda?» «Dimmi pure» guarda le catapecchie disabitate dopo la distruzione recata da Gorogol. «Perché farmi scrivere la storia di questi uomini? Perché farne dei libri, per quale ragione? Perché narrare queste vicende e parlare dei Sigilli? Non sarebbe meglio tenere tutto segreto e dimenticare queste pagine tristi della nostra storia?» «Però, ne hai di domande» ride. «E perché» lo incalzo, «perché hai costruito questa biblioteca?» «Non trovi che sia stata una buona idea?» L’elfo sorride guardando i pinnacoli della struttura restaurata. «Contengono storie importanti e meravigliose.» «Certo, ma quelle migliori sono tramandate dai druidi e reinventate dai bardi. Le vicende si fanno fumose, i protagonisti mutano nomi e aspetto, ogni cosa si
adatta ai tempi. Qui non ci sono storie o racconti, qui ci sono i sentimenti, rudi, ruvidi. C’è la verità, e la verità è immensamente triste: deve essere aggiustata, rielaborata, riscritta per giovare a chi la leggerà. Quando i mortali sapranno che il mondo dove vivono nasce da un’ingiustizia ne commetteranno altre, perché la loro storia e i loro sentimenti dimostrano che il crimine e l’ingiustizia pagano.» «Tu temi gli esseri mortali, e temi il loro agire» mi sorride come un padre affettuoso, «ma ti inganni: c’è del buono e ciò che tu hai raccolto ne è la prova.» «No, invece» sfogo tutti i miei dubbi. «Giungerà un nuovo crepuscolo per gli esseri mortali, ne sono certo. Saranno giorni tristi, cupi e malvagi. Ho imparato questo da ciò che appare nella Biblioteca: gli umani perdono ciò che hanno di buono. Tutti dovrebbero essere messi a conoscenza di Gòlmas e dovrebbero venire a riprendere ciò di cui mancano.» «Sei giovane, Terzo Cantore e nemmeno quando i tuoi capelli saranno bianchi come la neve e il tuo corpo chino come i rami dei salici piangenti afferrerai la verità. Io ho ato millenni, invano, ad attendere che il mio popolo comprendesse il mio sacrificio: ho costruito la Biblioteca dei Sentimenti Perduti perché ero solo» l’elfo si rattrista, «ero solo e curioso. Conosci qualcosa di più forte della curiosità? Non ho creato questa Biblioteca per aiutare gli umani, l’ho eretta per avere qualcosa da leggere nell’attesa che il mio popolo torni» mi sento cadere le braccia ma l’elfo cerca di rincuorarmi. «Gli esseri mortali non sono così malvagi come tu li dipingi. Tu stesso hai abbandonato la spada per la penna, mio caro» la sua mano si posa sulla mia spalla, amichevole, e mi trasmette una serenità vergine. «Ora io leggerò le ultime storie che hai raccolto, le storie dei Sigilli, e tu tornerai al lavoro, amico mio, e confiderai nel futuro perché presto, molto presto, non vedrai i bagliori di un perfido sole morente, ma una forte e splendida aurora. Presta fede alle mie parole, le parole di Éireamhón, colui che è stato il primo degli elfi e che ne sarà l’ultimo.»
Ringraziamenti
Ho impiegato quattordici anni a completare i Sigilli. Desidero ringraziare tutti coloro che hanno letto le bozze, che hanno trovato errori, che hanno suggerito migliorie, che hanno suscitato perplessità e che mi hanno indicato soluzioni; ringrazio chi mi ha affiancato nelle presentazioni, coloro che mi hanno fornito importanti e illuminanti consulenze e tutto il personale delle fiere e delle librerie dove ho presentato. Ringrazio tutti senza fare nomi perché sarebbe scorretto verso coloro dei quali per destino non ho memoria. Ringrazio i miei lettori, ringrazio quelli che mi hanno sostenuto e ringrazio quelli che mi hanno criticato; ringrazio quelli che hanno amato i miei personaggi e ringrazio quelli che li hanno odiati e che hanno gioito delle loro disgrazie. Ringrazio coloro che mi seguono sul blog e mi hanno spronato a scrivere. Ringrazio mia moglie perché mi concede corda e ringrazio mio figlio per la gioia che mi trasmette ogni volta che sorride. Se ogni storia è un viaggio, voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno camminato a fianco. A presto, Uberto Ceretoli
Elenco di personaggi ed eventi apparsi nei Sigilli
Amber: umana nata a Bosco Nebbioso e trasformata dall’elfo Erwmysh in berserker. Viene salvata dall’elfo Gwyllywm e dal suo compagno umano Hulbert. Dapprima infatuata dell’elfo, matura per Hulbert un affetto che diventa amore. Perde i poteri di berserker combattendo contro il demone Jaquish di Anquelot ma sviluppa notevoli capacità magiche. Alywya: elfa della tribù di Si’phir innamorata di Gwyllywm, di cui rimane incinta. Berserker: esseri umani modificati geneticamente dagli elfi ortodossi; quando si trasformano vengono ricoperti da scaglie ossee ed escrescenze affilate sulle gambe e sulle braccia. Derek Wellfire: giovane e promettente paladino di Towerthrough, monacoguerriero. Conosce a Cældarein Hulbert, Amber e Meldor i quali lo aiutano a debellare una famiglia di troll che infestava le miniere dell’antica città nanica di Mag Kaeldarae, sulla quale sorge Cældarein. Partecipa con loro alla battaglia di Antioch. Elisabeth: cugina di Gabriel, più anziana e in età da marito. Erwmysh: un tempo patriarca degli elfi ortodossi. Sposa Moad di Si’phir fingendosi revisionista, la uccide dopo il rifiuto di lei di are all’ortodossia e rapisce i due gemelli Gwyllywm e Raylyn. Ostacolato da Glewmwn e Gwayn riesce a rapire soltanto Raylyn. Ucciso da Gwyllywm a Bosco Nebbioso e seppellito sotto l’albero della vita viene resuscitato dagli orchi per aiutarli a conquistare Alesia. Ucciso di nuovo da Gwyllywm ad Antioch, riesce a donargli il ricordo che lo fa tornare ortodosso. A Bosco Nebbioso ha sviluppato un incantesimo per rendere gli umani berserker. Elben “Il Saggio”: re dei nani di Antioch, succeduto al padre, morto durante la difesa della città. Revoca l’esilio cui era condannato il nano Meldor per i suoi meriti in battaglia.
Ergwel: figlio di Gwyllywm e Raylyn, patriarca degli elfi ortodossi. Gabriel: mago spontaneo, capace di piegare il mana al suo volere senza bisogno di incantesimi. Assiste alla distruzione del suo villaggio da parte dell’elfa oscura Raylyn, che evoca il mezzo-demone Jaquish di Anquelot, che gli pone un marchio per dominarlo. Diventa allievo di Kovart, presso la setta dei negromanti di Eskiliar. È suo malgrado responsabile dell’inganno che porta alla cattura di Lady Viviane Greyfire. Conosce Gwyllywm, Amber, Meldor e Hulbert quando li aiuta a sconfiggere il demone che sorveglia l’uscita delle catacombe di Eskiliar. A causa delle mostruosità cui assiste, si rifugia in un atteggiamento di totale pragmatismo e distacco. Capace fin da bambino di lanciare incantesimi del fuoco, si convince di essere predestinato a dominarne il Sigillo. Glewmwn: patriarca dei Si’phir, nonno materno di Gwyllywm, padre di Moad. Professa un odio viscerale nei confronti dell’ortodossia. Glydwrnas: patriarca dei Tyral’Areb; ha guidato i sedici guerrieri delle tribù revisioniste contro i sedici del popolo degli ortodossi. Gorogol: drago della famiglia delle Scaglie Nere, risvegliata dagli orchi per combattere al loro fianco contro gli umani. Dopo la sconfitta di Antioch, fugge abbandonando i fratelli e insegue il coraggio che ha perso. Gwenaelle: elfa ortodossa innamorata, non ricambiata, di Erwmysh. Gwyllywm: elfo della tribù di Si’phir, figlio di Moad ed Erwmysh, fratello gemello di Raylyn, dalla quale viene separato alla nascita quando Erwmysh uccide Moad e fugge dalla tribù. Affidato all’istruzione di Gwayn figlio di Zoe, cresce credendosi erede del Sigillo del Vento, detenuto dalla madre. Si innamora di Raylyn, della quale ignora ogni verità. a dal revisionismo professato dal nonno Glewmwn all’ortodossia professata dal padre, quindi gli vengono rubati i ricordi, torna revisionista ma dopo aver incontrato il padre durante la battaglia di Antioch, torna ortodosso e abbandona i compagni. Comanda il Sigillo del Vento. Hulbert: giovane boscaiolo salvato da Gwyllywm; diventa un abile spadaccino e si mette in mostra durante la battaglia di Antioch uccidendo il minotauro campione degli orchi. Istinto primordiale: stato mentale di autodifesa assunto da ogni elfo in meditazione trascendentale grazie alla spezia (tabacco spiniforme); il corpo
degli elfi è difeso da un istinto primitivo che sfrutta l’intero potenziale biologico degli elfi. Khayn: elfo di Si’phir amico di Gwyllywm, combatte contro di lui per amore dell’elfa Alywya, che gli preferisce Gwyllywm. Come Glewmwn odia l’ortodossia e professa un rispetto delle regole che sfocia nel fanatismo. Kjeldor figlio di Mellor, figlio di Allor, pretoriano di Galenor “Barbagrigia” Re delle Montagne di Cristallo: fratello maggiore di Meldor; si era adoperato per la condanna del fratello affinché l’onta non ricoprisse il buon nome della famiglia. Kiyamira: orchessa che secondo le leggende svolge il ruolo di morte. Quando gli esseri tutti giovavano dell’immortalità, Kiyamira perde l’amato per una disgrazia e, impazzita, erra per togliere la vita a tutti coloro che incontra. Gli Dei la nominano signora della morte e revocano il dono dell’immortalità. Lady Viviane Greyfire: Gran Sacerdotessa della Dea della Fertilità Rhiannon e dai più creduta la reincarnazione di questa. In seguito a un complotto viene bruciata sul rogo dagli inquisitori prima che Gwyllywm e i suoi compagni riescano a salvarla. Laoden di Alerbia: mezz’elfo, figlio di Vortigern. Dongiovanni incallito, di lui parlano numerose leggende di elfi e umani. Perde la rabbia durante uno scontro con Gwyllywm e deve recuperarla presso la Biblioteca dei Sentimenti Perduti. Una volta recuperata fronteggia gli orchi ad Antioch e sconfigge Atar-Al-Karem, l’orco che comandava il Sigillo della Terra. Odia il padre elfo che non ha mai degnato la madre umana dell’affetto che meritava. Llywelyn: capo dei mercenari terraltiani che difesero il villaggio di Tumblane dall’attacco degli orchi. Sconfitto e rimasto solo con Caen, affronta il drago Gorogol, che rifiuta lo scontro con il mago Gabriel. Il mago assolda i due per fare da guardie del corpo alle cugine Elisabeth e Marian. Marian: cugina di Gabriel, più giovane. Meldor “l’Ammazzaorchi”: nano ripudiato da Antioch per un increscioso reato, viene ammaliato da Raylyn con un incantesimo che lo porterà a tentare di uccidere l’elfo Gwyllywm, cui si era unito. Stringe una profonda
amicizia con Hulbert e Amber e si rifiuta di tradire i compagni. Sconfigge, assieme a Gwyllywm, Jaquish di Anquelot. Prende parte a fianco di Gwyllywm, Amber, Hulbert, Laoden di Alerbia e Derek Wellfire alla battaglia di Antioch. Affronta da solo un gruppo di orchi penetrato ad Antioch e viene ucciso; giunto al desco di Mahorn, il paradiso dei nani, gli viene ridonata la vita da Cernunnos, arcangelo di Shana, che aveva il compito di proteggerlo. Per il suo coraggio Re Elben “Il Saggio” lo riammette ad Antioch. Morg Kroth: negromante pazzo che per anni, dal Bastione Scarlatto, ha sacrificato esseri viventi di ogni specie per evocare demoni che gli svelassero i segreti dell’Universo. Imprigionato dagli Anziani di Kaerwood nel Bastione stesso, viene ucciso da Meldor e Raylyn. (Il) Popolo: nome con cui si autodefiniscono gli elfi ortodossi. Noa: regina dell’Isola della Felicità, luogo senza tempo dove vengono imprigionati coloro che finiscono inghiottiti dal mare. È anche regina dei tritoni, delle sirene e delle creature degli abissi. Controlla il Sigillo dell’Acqua. Nel cercare di condurre Gwyllywm ad aderire a Kaerwood, di cui è Anziana, lo seduce e ne rimane incinta. Terzo Cantore: carica detenuta da colui che sovrintende alla Biblioteca dei Sentimenti Perduti, luogo nella palude di Gòlmas dove vengono trascritti gli eventi che portano alla perdita dei sentimenti da parte di tutti gli esseri senzienti. Comanda gli Scaffalieri. Yín Lóng (Ynlown in elfico): drago delle Scaglie d’Argento ma avido come una Scaglia di Rame. Consiglia a Laoden come ritrovare la rabbia e ha fatto da custode per Gwyllywm di armi e incantesimi. Ywig: uomo-albero, Gran Maestro di Kaerwood, liberato da Meldor dalla prigionia di una famiglia di ragni giganti. Vortigern: elfo revisionista, appartiene alla setta degli Anziani di Kaerwood. Padre di Laoden di Alerbia. Comanda il Sigillo del Fuoco. Zoe: madre di Gwayn, padre adottivo di Gwyllywm. Posata e riflessiva, è una delle elfe più anziane dei Si’phir.
Indice
Il sigillo del fuoco - I quattro sigilli - Libro III PARTE VII I – Il coraggio perduto II – Amaradantis III – Joelle Greyfire IV – Il prigioniero o l’ospite V – Due solitudini VI – L’ordalia VII – Complicazioni VIII – Il circolo degli illustri IX – L’arte del duello X – Il Palazzo di Giapeto XI – Antichi rancori XII – Un giorno di mercato XIII – La morte del revisionismo XIV – Shamhna XV – Il sogno rivelatore XVI – Errori
XVII – Il padre di tutti gli inganni XVIII – La più grande illusione di Alioth PARTE VIII XIX – Nuove promesse XX – Il nuovo signore di Brora XXI – Una minuscola, palpitante ghianda XXII – Emirith di Spinwirth XXIII – Il regno di Gorogol XXIV – Tormenta XXV – La dura scelta XXVI – Il sentimento ritrovato XXVII – Tradimento XXVIII – Khayn ed Éibhleann XXIX – Morte a Brora XXX – Lo strappo XXXI – Il Signore del Fuoco XXXII – Il negoziato XXXIII – Re Karl I di Alesia XXXIV – Convocazioni XXXV – La fuga di Gatahal XXXVI – L’antica capitale
XXXVII – Partenza da Brora XXXVIII – La verità XXXIX – Il Bosco dei Sospiri XL – L’ultimo scontro tra ortodossi e revisionisti XLI – Prigionieri! XLII – L’ultima verità Epilogo Ringraziamenti Elenco di personaggi ed eventi apparsi nei Sigilli