IL FILO CHE CI LEGA
A Carmelina.
E a tutte le donne della mia vita.
Prefazione di Bruno Vallepiano:
Davanti a voi c'è un proscenio e voi siete gli spettatori.
Siete seduti davanti alla ribalta ed il velario è ancora chiuso.
L'aria del teatro si è fatta silenziosa ed anche l'ultimo brusio si è spento perché si sta per aprire il sipario. E' una cosa che si intuisce, non ve lo dice nessuno che sta per accadere ma voi lo sentite, ed è così. Si apre infatti; le luci in sala si affievoliscono fino a spegnersi. Solo il palco è illuminato.
Finalmente appare tutto il proscenio e di fronte a voi compaiono due figure: la prima è una giovane donna che esprime, attraverso l'espressione del suo volto e le sue movenze, un ato pesantemente vissuto. Ma anche lasciato indietro, abbandonato con due righe scritte in fretta e buttate lì. L'altra è una donna anziana che vive un momento drammatico della sua vita perché è sola e deve lasciare la sua graziosa casa per ritirarsi nella stanza di una casa di riposo.
La casa; il nido che è rifugio, consolazione. Il luogo dove ci si nasconde, dove ci si ripara, dove si conosce ogni centimetro di muro e di pavimento, dove il corollario, per tutti, ma in special modo per un anziano, è fatto degli oggetti più o meno importanti che rappresentano qualcosa della vita, un aggio, un momento bello o brutto, un evento. La casa profanata, forzosamente abbandonata.
Questa donna, poi, ha girato il mondo calcando le scene dei più importanti teatri col o etereo e vellutato da ballerina. Immaginate quanti ricordi accumulati in
quella casa.
Lei, di fatto, ce l'ha una famiglia; ma sono parenti collaterali che non vedono l'ora di liberare quell'alloggio e di togliersi l'impaccio di una vecchia che, in quanto tale, può solo dare dei fastidi. C'è un'eccezione, Michela, ma è schiacciata dal timore di contraddire quella famiglia che profana il tempio sacro, la casa, e porta dritta Marina (così si chiama l'anziana) alla casa di riposo.
Dove Clara (la donna giovane) fa la o.s.s.
Seduti davanti al palcoscenico assisterete ad una sorta di danza dei sentimenti delle due donne, fatta di pensieri individuali che in un primo momento si incrociano senza toccarsi e poi, in un incedere garbato ma denso di emozioni e di piccole e grandi scoperte, finiscono per fondersi.
E' quasi un romanzo epistolare quello che Graziella Dotta ha sviluppato, attraverso pensieri messi lì come lettere mai spedite, come pagine di un diario.
A leggerle, queste pagine, si prova quasi il disagio della profanazione di qualcosa di intimo, di segreto.
Ed è proprio l'immagine di un proscenio quella che viene in mente quando la scena è staticamente rappresentata dalla camera dove Marina ha ricostruito un po' della sua casa. E dove Clara entra in punta di piedi per trovarsi poi ad attraversare una delle più intense e toccanti esperienze della propria vita.
Quel che sorprenderà voi, spettatori comodamente seduti ad osservare la scena, sarà il fatto che questo proscenio andrà ampliandosi e, quasi senza che voi ve ne accorgiate, vedrete che le sue dimensioni avranno abbattuto ogni parete per estendersi verso altri spazi, verso altri luoghi. Verso altri tempi. La scena ora si svolgerà tutt'intorno a voi in modo sorprendente poiché l'incedere quieto dell'inizio lascerà in modo graduale spazio ad un'azione diversa. Mai affannata, ma incalzante, sulla quale appaiono nuovi visi, nuovi scenari, nuove storie.
Autunno
CLARA
Una settimana di ferie e la o a piangere. E se lo racconto a qualcuno so già che mi darà dell’idiota. Piangere la morte di una persona amica è una causa di tutto rispetto ma se dico che la persona aveva 93 anni e viveva in una casa di riposo dove io lavoro allora ti guardano storto, come se la morte in un pensionato fosse meno grave, come se fosse un ovvio effetto collaterale di un qualsiasi lavoro. E forse hanno anche ragione. Ecco perché sono qua a piangere sul mio letto con l’unica compagnia della mia gatta che pare comprendere le mie ragioni e mi abbuona una dose di coccole in più. Proprio lei che di solito è isterica. Mi era già un po’ ata, non è la prima volta, ormai sono due anni che non vado da nessuna parte e prendo una settimana di ferie ogni volta che qualcuno dei miei amici viene a mancare. Non succede per tutti, non mi basterebbero le ferie… E come se non bastasse ieri sera sono pure andata a cena con i miei ex compagni di scuola. Erano anni che ne parlavamo, non potevo mancare anche se non ero in perfetta forma. Io non potevo mancare… Ma quella perfida creatura che occupava l’ultimo banco con la stessa vitalità di un’ameba, doveva proprio venire lì e rovinarmi la serata? Non aveva di meglio da fare??? Ha cominciato col chiedermi del mio lavoro e la sua espressione valeva più di mille parole quando le ho detto che sono assistente agli anziani in una casa di riposo. Forse temeva che non avessi avuto il tempo di lavarmi le mani prima di raggiungere gli amici, o che avessi qualche pannolone in borsa… o forse gli è balenata in mente l’immagine di lei fra 30 anni nella mia casa di riposo… Fatto sta che la sua faccia si è trasformata in una maschera di sdegno e si è allontanata per andare a sedersi tra i medici e gli avvocati. Ma la cosa non mi ha creato il minimo fastidio, anzi. Ormai sono abituata alla reazione della gente. Sono tre anni che ho lasciato quello che era il mio lavoro e ho iniziato questa sfida con me stessa. Prima ero responsabile dell’Ufficio Acquisti di una multinazionale, a un niente da un ulteriore avanzamento di carriera. Quando si è trattato di fare il fatidico o avanti l’ho fatto, ma in direzione contraria. Mi sono dimessa lasciando tutti di stucco. Ho capito che mi
ero persa, non esistevo più come persona, lavoravo dodici ore al giorno, sempre reperibile anche di notte, ho sacrificato gli affetti e le amicizie. Ho creato il vuoto attorno a me, tutta proiettata verso il lavoro e la carriera. Quando è mancato mio papà ero a Lione, sapevo che sarebbero stati i suoi ultimi giorni ma sono partita lo stesso. Sono rientrata in fretta e furia a funerale già iniziato. Non l’ho più visto, non gli ho tenuto la mano quando se ne andava, non l’ho baciato per l’ultima volta, non gli ho accarezzato i capelli ma soprattutto, lui non mi ha più vista. Mi ha aspettata ma io non sono arrivata. Da quel giorno mio fratello e mia cognata non mi hanno più parlato. Hanno ragione, l’ho capito tardi, al momento mi sono offesa perché non prendevano sul serio il mio lavoro. E non ho ancora trovato il coraggio di rimediare, di scusarmi. Mia mamma ha cercato di comprendere e ha mantenuto i rapporti con me ancora per circa sei mesi, poi è stata ricoverata in ospedale per una frattura al femore. E dov’ero io? A Parigi per una convention di una settimana. E potevo mollare tutto e tornare a casa da mia mamma? Ma scherziamo??? Quando sono arrivata lei era già a casa, mio fratello se ne era preso cura. Io le ho fatto una visita veloce perché dovevo ripartire subito per Lione per relazionare sugli esiti della convention di Parigi. Ora lei abita con mio fratello e tratta mia cognata come se fosse la figlia che sente di avere perso. Posso biasimarla? La chiamo a Natale per farle gli auguri e lei mi chiede come sto, ma non possiamo parlare più di un paio di minuti perché mio fratello mette giù la cornetta. L’ultima volta che l’ho chiamata ha risposto lui e mi ha detto di non chiamare più perché le faccio del male, dice che appena mette giù comincia a piangere e ci vogliono due giorni per rasserenarla. Bel casino che ho combinato. E non basta, avevo anche un marito che mi amava. Ho fatto fuggire anche lui. Voleva un figlio da me ma io non avevo tempo per nessuno figuriamoci per un bambino. L’ha fatto il figlio, con quella che era la mia parrucchiera, hanno fatto anche il bis e ora lei fa la mamma a tempo pieno e, ovviamente, non è più la mia parrucchiera. Che bella persona ero, eh? Avrò fatto bene a lasciare quel meraviglioso lavoro? Almeno di questo sono convinta, è stata la prima decisione giusta della mia vita. Un po’ in ritardo però. Lo sfascio era già completo, senza possibilità di recupero. Prima o poi troverò il coraggio per provare a riannodare i fili. E speriamo che non venga scambiato per faccia tosta… Comunque non mi considero certo un esempio per le generazioni a venire. Almeno non nei primi 32 anni della mia vita. Ora non mi riconosco più, ho fatto un lavoro grandioso su me stessa, ho riconosciuto i miei errori, ho cambiato valori. Ma le scuse, quelle non ho ancora trovato il modo di farle. Mi succede a volte di non portare a termine i compiti che mi sono imposta. Arrivo a fare 30 ma non riesco a fare 31, anche se ne sento un disperato bisogno. Lo farò, metto ancora un po’ d’ordine e poi lo farò.
Intanto non è proprio vero che ho fatto terra bruciata attorno a me, un’amica mi è rimasta. Una di quelle che ti amano incondizionatamente, che ti giustificano qualunque cosa tu faccia e ti spronano a ricominciare. Lei c’è ma è lontana, anche lei aveva un po’ di quesiti irrisolti ed è partita cinque anni fa per l’Africa, doveva essere un anno sabbatico e invece si è trasformato nella sua vita. Ora è con Medici Senza Frontiere e, aiutando gli altri, si è lasciata finalmente i suoi problemi alle spalle. Ci sentiamo su Skype un paio di volte a settimana. Benedetto Skype… Tornando a ieri sera la simpatica iena, lei che fa la segretaria in uno studio notarile e che ricordava il mio vecchio lavoro, non ha mancato di far notare a tutti i presenti quanto io sia caduta in basso. Dall’essere a un soffio dal manager al pulire il culo ai vecchi rimbambiti del ricovero. Li ha definiti proprio così “vecchi rimbambiti”. A parte il fatto che se c’è qualcuno di rimbambito è sicuramente lei, vorrei farle capire quanto ci ho guadagnato io da questo cambio. Quanto mi danno questi vecchi rimbambiti in termini di affetto e conforto. E insegnamento e sostegno. Ieri sera ho anche pensato per un attimo di tentare di spiegarlo ma ho desistito subito. Sono persone dedite al guadagno e alla carriera, come ero io prima. Non capirebbero. Io non avrei capito. Ci sono traguardi nella vita a cui devi arrivare da solo, soluzioni che gli altri non ti possono dare. Momenti in cui devi sentirti finito per ricominciare a credere in qualcosa. Per me è stato così. Quando ho realizzato la gravità della mia situazione ormai non avevo più il tempo per rimediare. Da sola ho guardato mio marito prepararsi le valigie per trasferirsi da lei. Da sola l’ho sentito parlare con lei e rivolgerle quelle attenzioni che io non avevo voluto e che in quel momento mi mancavano come mai prima. Da sola ho sopportato le sue giustificazioni anche se sapevo che non aveva bisogno di giustificarsi. L’ho visto scegliere i suoi cd, staccare le sue foto dai muri, prendere il maglione che a volte indossavo anch’io, fare piazza pulita della sua presenza nella mia vita. E lasciare le sue chiavi sul tavolo prima di uscire. Come a dire “per me non esisti più e io non voglio più esistere per te”. Ho pianto solo quando la porta si è chiusa dietro di lui. Non so neanche se per lui che mi lasciava o per me stessa e per quello che ero diventata. Non avevo nessuno da chiamare, nessuno con cui poter parlare, nessuno che sentendo la mia voce non avrebbe messo giù la cornetta… Avrei potuto cadere ancora più in basso in un momento del genere. Avrei potuto accettare la polverina bianca che girava nell’ambiente dei miei super impegnati colleghi e che io ho sempre fermamente rifiutato. Avrei potuto cercare sollievo nell’alcool. Invece ho cercato e trovato conforto in una pallina di pelo grigio bagnata e miagolante che ho trovato per strada il giorno dopo sotto una pioggia battente. La stessa che ora mi
sta guardando e sbatte la coda a destra e sinistra in evidente segno di nervosismo. Quel giorno di tre anni fa stava per essere investita da un’auto davanti a me quando io l’ho vista e mi sono precipitata in strada per salvarla. Due giorni prima non l’avrei fatto, probabilmente non l’avrei neanche vista. Non sarei stata lì, ferma sotto la pioggia, a pensare alla mia vita, senza preoccuparmi di bagnare le mie Prada o di rovinare il mio trench Burberry. L’auto che stava arrivando ha inchiodato slittando sulla pioggia. Il conducente mi ha apostrofato in malo modo ma a me non importava, io ero felice perché avevo salvato qualcuno. E lei, infreddolita, bagnata e spaventata, mi ha guardato con i suoi occhi grandi e mi ha sussurrato un “miao” così dolce che ho deciso all’istante di occuparmi di lei per tutta la vita. Era la prima parola dolce che sentivo in due giorni e non importa che fosse solo un “miao”. Le sarò sempre grata per quella prima parola che mi ha costretta ad uscire dal tunnel che mi ero scavata con le mie mani. La prima espressione di affetto dopo giorni. La prima creatura che voleva stare con me. Sono cambiata prima per lei, poi per me stessa e poi per tutti gli altri, compresi quelli che non lo sanno ancora. All’inizio è stata una botta, ritrovarsi disoccupati così da un giorno all’altro, a 32 anni, senza sapere cosa fare della propria vita, in un momento che non era dei migliori… Ero sicura di aver fatto la scelta giusta ma la sensazione di aver dato un calcio alla fortuna per un po’ non me la sono tolta. Ero come intossicata dalla mia attività, mi sentivo orfana, come un tossico in crisi d’astinenza. Mi spiace solo che nulla prima mi abbia aperto gli occhi, non la morte di mio papà, non l’incidente di mia mamma, non il biasimo dell’intera famiglia. Solo mio marito che se n’andava… Forse perché mi era rimasto solo lui. E quando mi sono guardata attorno c’era il vuoto. La decisione è stata quasi immediata, c’ho pensato su durante la mia prima notte da single. Per la prima volta non ho dormito. Prima crollavo esausta e nel giro di cinquanta secondi ero già in fase REM. Quella notte invece mi è servita per rivedere tutta la mia vita. Le mie priorità, i miei valori, nulla di quello che mi avevano inculcato i miei genitori era rimasto. Avevo eliminato tutto per fare spazio alle mie nuove dottrine. Il mattino dopo ero un’altra me, molto simile a quella che sono adesso. Sono andata in ufficio con gli occhi pesti e, per la prima volta, il cuore gonfio… Sì, il cuore gonfio. Lo stesso organo che fino ad allora avevo pensato servisse solo a pompare il mio sangue nelle vene e a far sì che tutto funzionasse nel migliore dei modi. Quel mattino me lo sentivo strano, come fosse stato pieno di lacrime, allo stesso modo dei miei occhi che non volevano saperne di smettere di lacrimare. Non ho dovuto inventare fantasiose
giustificazioni per il mio stato perché a nessuno importava, lì. Niente rapporti personali, solo competizione esasperata. Sono andata dritta alla mia scrivania, ho il pc e ho scritto lì sul momento la più breve lettera di dimissioni della storia. Con decorrenza immediata. L’ho stampata e l’ho consegnata al mio superiore in carica che ha firmato senza neanche guardare cosa gli stavo proponendo, tanto si fidava di me. Poi sono tornata alla mia postazione e con un solo movimento della mano ho fatto cadere all’interno della mia borsa tutti quelli che erano i miei effetti personali. Non ho mai avuto foto di famiglia o gadget personali sulla mia scrivania, solo un calendario e la foto-cartolina di Oriana Fallaci sull’aereo militare che la portava in Vietnam. Mi facevano ridere quelli che si portano la scatola di cartone come se dovessero affrontare un trasloco. Non ho dovuto cancellare mail o messaggi personali come solitamente si fa, non avevo nulla di personale, la mia vita era il lavoro. Ho spento per l’ultima volta il p.c., mi sono alzata e sono uscita senza voltarmi indietro. Prima che i superiori si rendessero conto di ciò che avevo fatto io ero già fuori dall’edificio a respirare aria pulita. Dopo mi hanno cercata, prima per convincermi a tornare e poi, vista la mia resistenza, per farmi sentire in colpa per averli lasciati nella merda. Come se a loro importasse qualcosa di me… Alla terza chiamata ho impostato il telefono in modalità silenziosa, giusto per eventuali emergenze, e l’ho lasciato così per due settimane, tanto non mi avrebbe chiamata nessuno… In seguito hanno avuto gioco facile perché io ho accettato tutte le loro condizioni pur di non entrare più in quell’edificio, quasi fosse colpa di quei muri… I primi due giorni sono stata in catalessi assoluta, uscivo solo per non essere a casa da sola, eggiavo nel parco, pensavo alla mia vita commiserandomi. Non mi accorgevo neanche della pioggia. Per fortuna. Perché se me ne fossi accorta non sarei stata fuori e non avrei incontrato la mia Bisy. Il primo gradino della mia risalita. Da quel momento è cambiato tutto. Non potevo più andare alla deriva, avevo qualcuno di cui occuparmi. Qualcuno che dipendeva da me. Ho pensato subito che se volevo dare un’impronta diversa alla mia vita dovevo cambiare radicalmente. La scelta non è stata premeditata, è stata assolutamente casuale, sempre che non sia intervenuto il destino a mia insaputa. Ho preso un volantino al super, non so neanche io perché, pubblicizzava un corso da O.S.S.
(Operatore Socio Sanitario) che sarebbe iniziato di lì a poco nella mia città. Prevedeva un paio di mesi di teoria e poi studio ed esperienza sul campo. Ho telefonato ed era fatta. Quando è arrivato il momento di decidere la specializzazione ho pensato a mio papà e ho scelto gli anziani. E ho avuto gioco facile perché tutte le mie compagne di corso hanno scelto i bambini. Io invece volevo are il mio tempo con chi poteva insegnarmi qualcosa. E sono stata la migliore del corso perché, al contrario di molte mie colleghe, per me non è stato un ripiego. Io c’ho creduto fin dal primo momento e c’ho messo lo stesso impegno che dedicavo al vecchio lavoro, la stessa dedizione. Mi si è aperto un mondo nuovo con loro. Niente competizione, niente arrivismi. Vivere ogni giorno come fosse l’ultimo perché in effetti potrebbe essere così. Cercare di non perdere nulla di ciò che ti possono dare. E stringere nuove amicizie con persone più grandi, anzi con delle grandi persone. Unico neo: sono amicizie che non possono durare a lungo e proprio per questo bisogna viverle intensamente. E questo mi riporta qui, su questo letto, con Bisy accanto a me, su questo cuscino bagnato di lacrime. E chissenefrega di quella paracula di segretaria di ieri sera, non è certo lei il mio problema. Non so neanche se la rivedrò mai, di certo non mi mancherà come invece mi manca Agnese.
MARINA
Che bella cosa è la vita!!!
Lavori, ti sfianchi, guadagni, non ti sposi per essere indipendente, decidi per te stessa per più di 70 anni, e poi? Ti ritrovi a 76 presa e sbattuta tra un nipote e l’altro, come fossi un pacco postale, le tue cose ammassate in una casa che sembra non essere più tua. E adesso dovrei pure essere felice perché finalmente si è liberata una camera alla casa di riposo? Felice? E poi sono io quella che sragiona??? Posto bellissimo, non ho dubbi. Personale gentilissimo, cibo eccellente. Però andateci voi! Io non ci voglio andare. Io voglio tornare nella mia casetta, da sola. Voglio finire i miei giorni circondata dalle mie cose, le cose che mi hanno accompagnata nella mia vita, che ho comprato nei miei viaggi. Le stesse cose che per i miei nipoti sono un fastidio. Per me sono la vita stessa. E
quando il Signore mi vorrà è lì che voglio farmi trovare.
Zia di qua, zia di là… ma chi vi ha mai chiesto niente? Ma perché tutto a un tratto vi siete ricordati di me? Io stavo benissimo senza di voi, quasi come voi senza di me. Una telefonata a Natale e poi per un anno potevo fingere di essere sola al mondo. Ché poi in questa situazione forse sarebbe meglio… Come siamo arrivati a questo? E’ bastata la debolezza di un momento, un collasso, la vicina che mi trova riversa sul pavimento e chiama uno di voi. Un paio di settimane di disorientamento e io non sono più padrona della mia vita… Io che ogni sera mettevo su il valzer viennese e facevo due giri di danza con me stessa prima di andare a dormire, tra il tavolino e il divano, facendo attenzione a non sbattere nella poltrona. Adesso me ne guardo bene, me ne sto ferma in poltrona o sulla sedia, a seconda di chi mi ospita, con la mia copertina sulle gambe. Le mie bellissime gambe che mi hanno resa famosa. Mi hanno portata in tutto il mondo, perché adesso non hanno la forza di portarmi lontano di qui? Perché io non ho il coraggio di alzarmi e improvvisare qui in mezzo a loro due giri di valzer? Mi prenderebbero per pazza sicuramente ma, tanto, che importa? Cosa cambierebbe?
So già che farò quello che mi diranno di fare, accetterò tutte le loro imposizioni, alla faccia di quello spirito ribelle che ha contraddistinto la mia vita e che ora mi ha lasciata sola con me stessa.
Sono qua, a casa del figlio maggiore di mio fratello, seduta su questa poltrona scomoda per la quale mi dovrei pure sentire in colpa perché era quella che ospitava il deretano del capo famiglia che ora è costretto sulla sedia perché il divano è di proprietà esclusiva dei suoi figli. Questi sconosciuti tiranni in miniatura di cui non ricordo neppure i nomi. Non ho mai amato i bambini, dovrei cambiare idea ora, solo perché sono ospite in casa d’altri? L’unico pregio che gli riconosco è quello di capire al volo quali sono le persone con le quali possono interagire, come i cani che entrano subito in sintonia con le persone che amano gli animali. Hanno questo sesto senso che li avvisa quando si trovano di fronte una persona come me che non si lascia tiranneggiare da loro. Quindi ci
ignoriamo reciprocamente. Ma come ignorarli quando iniziano a urlare tra di loro e nessuno riesce a zittirli??? Alle loro urla si uniscono quelle dei genitori che dopo aver provato a calmarli con le buone ora non ce la fanno più e sbottano pure loro… Mi viene da piangere. Questi sono tutti pazzi, tutti, non escludo nessuno, neanche il gatto… Dov’è il mio silenzio? Dov’è la mia musica, le mie luci soffuse? Altro problema le luci… io amo la luce bassa, quella che rende tutto più intimo, più tranquillo… Qui sembra di essere sempre sotto il neon di una camera operatoria, qui tutti i dettagli devono essere nitidi, qui tutto va in piena luce. Anche la mia età. Da quando non sono più a casa mia evito accuratamente di guardarmi negli specchi di queste case che mi ospitano temporaneamente e che sono tutte così illuminate. Non so più come sono, preferisco ricordarmi com’ero. D’altronde se non mi ricordo io chi si ricorda di me? Questi incompetenti che mi circondano? Per loro la danza vuol dire andare a ballare in discoteca il venerdì o, peggio, quegli incontri terrificanti che ora si chiamano rave party… Ai miei tempi si chiamavano assembramenti non giustificati e la polizia interveniva sollecita per disperdere le persone. Chi faceva resistenza veniva trascinato al fresco e lasciato a meditare per qualche giorno, magari anche con qualche livido. Ora intervengono genitori, avvocati, associazioni, tutti a difendere Caino quando Abele giace ormai morto e dimenticato da tutti. Non credo di essere una vecchia bigotta nostalgica ma questo mondo non mi piace, non mi ci trovo. Ai miei tempi i ragazzi ti corteggiavano per anni prima di ottenere qualcosa e quando uscivano erano sempre tirati a lucido, puliti e profumati, magari i vestiti erano lisi ma la domenica erano sempre puliti. Ora la domenica si vestono peggio degli altri giorni e mi tocca pure vedergli le mutande che spuntano fuori da quei jeans che tengono così bassi in vita che sembra un miracolo che stiano su… E tutti quei tatuaggi, tutti quegli orecchini che si appendono dappertutto… Se mai qualche corteggiatore si fosse presentato a me in quelle condizioni lo avrei buttato fuori a calci in culo.
Lo so che non sono affari miei. Io sono anziana, devo sopportare e devo ringraziare tutti questi nipoti che si prendono cura di me. Lo so ma ribadisco di non aver chiesto niente a nessuno. Chiedo solo di poter tornare a casa mia, in compagnia delle mie cose e dei miei ricordi. Da sola.
Chiedo solo che si dimentichino di me.
Credevo di aver scampato ogni pericolo di controllo sulla mia vita con la morte del mio ultimo fratello ma mi sbagliavo. Io ero la quarta di cinque fratelli, il più piccolo era Leonardo, un ragazzino tenero e delicato che non avrebbe avuto vita facile nella mia famiglia. Si ammalò a nove anni e un anno più tardi se ne andò accompagnato dalle lacrime di mia mamma, dalle mie, e dall’indifferenza di mio padre e dei miei fratelli che vedevano in lui solo un motivo di vergogna. Fu allora che decisi di partire e lo feci senza voltarmi indietro. La mamma non era una persona cattiva ma era debole e accettava le angherie di tutti i suoi uomini senza proferire parola. Ho imparato presto cosa volevo dalla vita e non era quello che avevo. Per tutta la mia esistenza ho sentito chiaro e forte il biasimo dei miei famigliari per le mie scelte. Per tutta la vita ho evitato di cadere in mano loro. Ho anche soddisfatto qualche loro richiesta di denaro pur di tenerli lontani. Ora che non ci sono più, l’ultimo ci ha lasciati un paio di anni fa, hanno ato le consegne ai figli. E i figli, anche se tentano di nasconderlo, sono ancora più bigotti dei genitori. E io, che credevo di averla scampata, mi ritrovo invischiata in questa palude di rancore e non so come uscirne.
CLARA
Sto tremando. Me ne accorgo e non posso farci niente. E quando sono in queste condizioni i sintomi peggiorano. Vanno di pari o con lo stress e con il mio umore nero. Più sono giù e più si acuiscono. E più si acuiscono e più io vado in depressione. Mi sembra che tutti mi guardino, che siano tutti lì per notare il mio tremore, anche quelli che mi ignorano, come se mi stessero ignorando per il semplice fatto che non osano guardarmi fisso. Di solito, in condizioni normali, io non me ne accorgo se non dalle mani. E allora cerco di mascherare, comincio a non versare più da bere quando sono a tavola, se mi porgono il bicchiere faccio finta di niente, non prendo il caffè, non ordino cibo liquido per non tenere il cucchiaio in mano… Non è per niente piacevole, a volte ne parlo, a volte preferisco non farlo. Anche perché mi chiedo come si evolverà questa cosa, come sarà tra vent’anni? Ho fatto tutta una serie di visite neurologiche dopo che
delle compagne di corso mi hanno avvisato del problema. Il tremore alle mani non mi ha mai creato grossi problemi prima, ci convivevo abbastanza pacificamente. Non mi sono mai accorta del tremore alla testa. Quando altre ragazze mi hanno confermato che l’avevano notato è stato un duro colpo. Non bastava la mia vita a pezzi, ci voleva anche questo subdolo problema fisico. Anzi, molto probabilmente ne è stata la diretta conseguenza. Dalle visite è emerso che soffro di un tremore essenziale su base familiare, così lieve da non meritare al momento alcun trattamento. Mi hanno fatto anche una TAC cranio basale per escludere eventuali altre patologie. Fortunatamente non c’è nient’altro. Devo farmene una ragione, è un fattore ereditario, mio nonno tremava, mia zia tremava, mia mamma trema… Mi tocca… Quando sono a casa provo a curarmi con la pet terapy, nel senso che costringo Bisy a starmi vicina e lei collabora con piacere. Non so dal punto di vista terapeutico quanto valore possa avere, dal mio punto di vista ha un valore immenso e l’infermiera grigia ne è perfettamente consapevole, tanto da ricattarmi con la richiesta di pappe sempre più ricercate. Richieste peraltro da me prontamente esaudite, se mi molla anche lei che faccio??? Speriamo che quella iena di ieri sera non se ne sia accorta, ho usato tutti i miei sotterfugi soliti per evitare che qualcuno lo potesse notare. Al massimo avranno pensato che sono una tipa molto viziata, una che non si versa neanche da bere da sola… boh… meglio stronza che sfigata… Non voglio pensare a quando non riuscirò più a mascherarlo. Cosa farò? Mi chiuderò in casa e non uscirò più con nessuno? Al bando tutte le cene e le occasioni mondane? E quando comincerà a tremare la mia testa e io non me ne accorgerò? Lo so che succederà. Ma quando? Per il momento, anche se per me rappresentano già un problema, mi hanno detto che i sintomi sono troppo lievi per iniziare già una cura efficace. E quindi? Devo peggiorare per iniziare a curarmi? Con la speranza di regredire forse? Questa è un’altra questione che prima o poi dovrò affrontare.
MARINA
Oggi siamo andate a casa, mi ha portato Michela, la moglie di mio nipote, abbiamo ato il pomeriggio tra quello che resta delle mie cose. Ero così entusiasta quando me l’ha detto, ho sperato per un attimo che avessero cambiato idea, ho pensato di poter tornare a casa, come quando ero piccolina e aspettavo Gesù Bambino nella mia cameretta. E, come allora provai una delusione enorme nello scoprire che era mio padre a lasciare le caramelle in fondo al letto, la stessa sensazione ho provato oggi nell’entrare a casa mia. Spoglia, desolata. Macchie più chiare alle pareti dove erano i miei quadri, le mie foto. Quelle macchie sembrava che mi guardassero, che mi chiedessero com’è potuto succedere? Come ho potuto lasciare che succedesse? Non ho più neanche le chiavi. Hanno fatto scempio di casa mia, delle mie cose. Per questo dovrei ringraziarli? Sono andata in camera e vi ho trovato i miei vestiti ammassati sul letto, il baule con i miei costumi di scena aperto, una delle mie amate scarpine a terra, sul pavimento, da sola. In quel momento mi sono sentita come quella scarpina, vecchia, lacera, stanca. Sono tornata in salotto e mi sono seduta sul mio divano, le lacrime mi offuscavano gli occhi. Avrei voluto morire. Michela si è seduta vicino a me. “Mi dispiace zia… Davvero, io ho tentato di far cambiare loro idea ma non sentono ragioni… Dicono che non puoi più stare da sola… Di sentirsi responsabili per te… Lo so che non è giusto ma non vogliono ascoltarmi, dicono che io non faccio parte della famiglia, che non ho il diritto di giudicarli…” Allora è umana! Una su tutti c’è, è vero che non ha gli stessi geni degli altri ma forse è proprio grazie a questo che si è rivelata una persona buona. Mi ha fatto piacere, è stata l’unica nota positiva in questa tristissima giornata. Però non servirà a nulla, l’ha detto lei stessa che non riuscirà a imporsi sugli altri, non ho speranze con quei generali della Gestapo dei miei nipoti. Avrò una spalla su cui piangere, meglio di niente. Anche se oggi piangeva più lei di me. E mentre pensavo queste cose mi sono girata alla mia destra e, anziché trovare conforto nell’immagine della mia personale madonna, ho ricevuto l’ennesima mazzata della giornata. Isadora! Dov’è finita la foto di Isadora Duncan? Il mio mito, la mia icona, l’unica donna che aveva il potere di confortarmi nei momenti peggiori… Guardavo la sua foto e pensavo a lei, a quanto sia stata grande, ai suoi successi, ai suoi amori sfortunati e alla sua fine tragica. Due bambini morti prematuramente. Un marito morto tragicamente a tre anni dal matrimonio. Lei strangolata dalla sua sciarpa le cui frange rimasero impigliate nella ruota dell’auto che doveva portarla verso la gloria, una Amilcar GS 1924. “Addio amici, vado verso la gloria!” furono le sue ultime parole. Pensava di andare verso quel futuro radioso che le era stato sempre negato ma non ci riuscì, neanche quella volta. Chi meglio di lei poteva dare conforto nei momenti difficili? Oggi avrei voluto avere la sua sciarpa, avrei voluto che si impigliasse
sotto il divano, che non mi permettesse di andare via da casa mia, anche a costo di morirne. Dov’è la sua foto? Mi ha tenuto compagnia per tutta la vita, l’ho tenuta con cura, l’ho imballata per ultima in ogni mio trasloco, l’ho portata con me in tournée, era la prima cosa che mettevo sul comodino per sentirmi un po’ a casa. E adesso dov’è?
L’ho detto a Michela ma non so se ha capito l’importanza della cosa, per lei è solo una vecchia foto un po’ ingiallita, forse non sa neanche chi rappresenta, forse non sa neanche chi sia stata Isadora Duncan. Se l’è fatta descrivere e mi ha detto che la cerca in garage. Dio, che pena.
Prima di uscire sono andata in camera per raccogliere la scarpina a terra, l’ho tenuta fra le mani per un attimo, il tempo dei ricordi, poi ho cercato nel baule sua sorella, ho avvolto i nastri attorno alla coppia e l’ho riposta con cura all’interno del baule. Ho cercato di fare un po’ d’ordine e ho chiesto a Michela di chiudere a chiave e di consegnarmi la chiave. L’ha fatto. Poi a casa dirà di averla persa per evitare guai. Guai per avermi consegnato la chiave del MIO baule con i MIEI costumi di scena…
In realtà quello di oggi era un sopralluogo per scegliere quello che voglio portare con me nella mia futura sistemazione. Pare che si sia liberata una camera nella casa di riposo che loro hanno scelto per me. Come si sia liberata non ho voluto saperlo anche se lo immagino. Me l’ha detto Michela anche se gli altri le avevano proibito di farlo, non volevano che io sapessi prima del giorno fatidico, hanno paura che io possa creare dei problemi, forse pensano che io possa imbracciare uno dei fucili che piacciono tanto a mio nipote e che possa fare una strage…
Ci sono momenti in cui lo farei. Se solo potessi camminare senza aiuti, se le mie gambe non mi avessero tradita…
Comunque devo ringraziare Michela perché ha voluto darmi l’opportunità di scegliere le mie cose, al contrario degli altri che avrebbero deciso per me senza interpellarmi, pescando a caso tra la mia roba, prendendo il meno possibile.
E’ difficile però, come faccio a scegliere? Tutto quello che ho preso con me durante la mia vita mi sembra indispensabile. Ogni oggetto rappresenta un ricordo, un viaggio, un amore, ogni foto, ogni quadro, ogni libro. I mobili, i miei vestiti, il baule con i costumi di scena, le scarpette, come posso scegliere un oggetto tra mille? E la quantità? Quanta roba posso portare con me? Quanto sarà grande la mia camera? Quanto sarà squallida? Quanto potrò renderla mia? Quanto resisterò? Chi verrà a salvarmi? Chi verrà? Verranno tutti un giorno, Isadora, Martha, Margot, Rudolf, Balanchine, tutti lì per me. E Rudolf finalmente ballerà con me. Io sarò Giulietta e lui Romeo sulla musica di Sergej Prokofiev E sarà la rappresentazione migliore che sia mai stata eseguita. Tutto il pubblico si alzerà in piedi per noi, un’ovazione, dieci minuti di applausi ininterrotti e lacrime di gioia negli occhi degli amici. I giornali ne parleranno per settimane e noi vivremo nel cuore del nostro pubblico per sempre.
CLARA
Sono tornata al lavoro. Ho fatto prima il giro dei reparti per salutare gli amici vivi, quelli che mi aspettavano, i sopravvissuti, come li chiamo io. Poi sono andata in quella che era la camera di Agnese. Vuota, bianca, il letto spoglio, soltanto la rete e il materasso macchiato chissà quando e chissà da chi, con sopra una borsa di carta con i suoi pochi oggetti. Mi sono seduta sul materasso. E’ entrata la mia vecchia collega Anna, lei è un po’ la mamma di tutte noi, mi ha abbracciata, lei prova quello che provo io da una vita ormai e non si è ancora assuefatta. Mi ha detto che la borsa con gli oggetti di Agnese l’ha preparata lei per me, le figlie non hanno voluto prendere nulla e lei non ha avuto il coraggio di buttarli. Ha pensato a me perché era al corrente del nostro legame e sapeva che a me avrebbe fatto piacere possedere i suoi effetti personali. Le sue figlie non hanno voluto nulla… Povera Agnese. Mi mancherai.
Ho chiuso la borsa nel mio armadietto senza sbirciare all’interno. Non me lo sono permesso fino a stasera. Non potevo far vedere le mie lacrime agli altri, per quanto mi è possibile cerco di regalare loro soltanto allegria e conforto. Mai le lacrime, di quelle ne hanno già in abbondanza dentro di loro. Ora sono sul mio letto con Bisy di fianco e una scorta industriale di fazzolettini di carta. Posso aprire la borsa. Le foto delle figlie. Queste le tengo solo per rispetto a lei, fosse per me le strapperei, brucerei i pezzi e ne disperderei le ceneri. Ma non lo farò. Lo stesso con le foto dei nipoti, per quanto ne so potrebbero anche essere false, non li ho mai visti, non sono mai venuti a trovarla. I suoi fazzoletti. Quante lacrime in questi fazzoletti, quanti anni, quanta tristezza. Agnese era la persona più dolce del mondo, amava parlare solo con me. Non ha legato con i suoi compagni di sventura. Ha sempre avuto un senso di vergogna dentro di sé, un senso di colpa nei confronti del mondo intero per il solo fatto di esistere. Ho cercato in tutti i modi di convincerla che lei non aveva colpe ma non credo di esserci riuscita. Non ha mai smesso di chiedere perdono a Dio, alla Madonna, alle sue figlie, ai nipoti, a tutti quanti. A volte provavo una rabbia sorda a vederla così, così rassegnata al suo destino. Ma poi la rabbia si trasformava sempre in tenerezza e l’abbracciavo e aspettavo che smettesse di piangere tra le mie braccia. Non le ho mai confessato di avere una brutta situazione familiare, di non avere più rapporti con i miei. Me ne vergognavo e me ne vergogno tuttora quando penso a lei che ha sofferto così tanto. La foto che le ho scattato io. Questa è bellissima. Sorrideva, lei con la sua lunga treccia bianca che avvolgeva intorno alla testa, con il golfino azzurro che le avevo regalato e che le metteva allegria. Per fare sì che lo accettasse ho dovuto dirle che era di mia mamma e che non le andava più, probabilmente non ci ha creduto neanche per un attimo ma quella bugia le rendeva la cosa accettabile. Lei non comprava mai nulla di nuovo per sé, sempre solo per figlie e nipoti. Era abituata a indossare i vestiti smessi, non si sentiva a suo agio con qualcosa di nuovo. Quando le sue figlie le hanno chiesto del golfino lei ha potuto rispondere che era usato e non ha avuto problemi. Quante volte sono entrata prima dell’orario per aiutarla a fare la treccia, aveva dei capelli lunghissimi, bianchi e luminosi. Sembrava un angelo con le rughe. Il suo portamonete. Dentro ci sono 80 centesimi. Due pezzi da venti, due da
dieci, e poi quelli piccoli, da cinque, da due e da uno che lei odiava perché non riusciva a riconoscerli. Non aveva mai più di un euro nel portamonete. Le poche volte che chiedeva alle figlie qualcosa in più la guardavano male, secondo loro la casa di riposo è un covo di ladri, orde di vecchietti pronti a sgraffignare gli averi dei loro colleghi. E, sempre secondo loro, anche noi assistenti non scherziamo. Loro no, loro che andavano a ritirare la sua pensione e portavano a lei solo gli spiccioli, loro sono onesti. Delle perle. Una volta l’ho accompagnata dal parrucchiere, ovviamente ho anticipato io, e quando mi hanno rimborsato i soldi è scoppiato un putiferio. E perché, e come, e quello non andava bene, troppo caro, e non l’ha neanche pettinata bene… e, e, e… e che due palle! E lei ha aggiunto alla sua già folta schiera di sensi di colpa anche questo. E un po’ l’ha fatto venire anche a me perché mi dispiaceva vederla così desolata per una cosa così banale che io l’avevo spinta a fare. Il libro che le avevo prestato. Se solo fosse vero, di Marc Levy. Spero che sia riuscita a leggerlo tutto. Lei che non leggeva mai, qui con me ha scoperto il piacere della lettura, inforcava gli occhiali e non mollava il libro finché si addormentava perdendo il segno ogni volta. Le avevo prestato Niente e così sia, di Oriana Fallaci, quello sulla guerra in Vietnam, quello della mia foto. Le era piaciuto ma aveva pianto così tanto per quei poveri ragazzi che mi sono ripromessa di portarle solo storie a lieto fine. E quello di Marc Levy secondo me era proprio adatto perché allegro, simpatico, anche commovente a tratti ma finisce bene. Vediamo dov’è il segnalibro… Tra le pagine non c’è quindi dovrebbe avere avuto il tempo di finirlo… Ah, sì, è nella borsa, credo che l’abbia letto tutto. Cos’è questa macchia sull’ultima pagina??? No, non è una macchia, è una parola… “Grazie”. Può averla scritta solo lei. Dolcissima Agnese. Dolcissima… I suoi occhiali. Io non potrei mai lasciare gli effetti personali dei miei a degli sconosciuti… Adesso. Un tempo forse l’avrei fatto. Quindi non ho il diritto di giudicare. Però non ci riesco, mi sembra così lontano il tempo in cui anch’io ero una merda. Mi sembra un’altra vita, la vita di qualcun altro. Anzi adesso darei tutto quello che ho per poter avere il pettine di mio papà o per stare vicina a mia mamma che non vogliono più farmi vedere… Forse un giorno le figlie di Agnese si renderanno conto degli errori commessi, forse mi rintracceranno e mi chiederanno di restituire le sue cose, di poterle tenere loro. Io le custodirò in attesa di quel momento perché Agnese è stata punita dalla vita in modo
totalmente ingiusto. Aveva tredici anni quando è stata mandata dai genitori a servizio presso una famiglia benestante del posto. Erano gli anni ‘trenta, era normale che i figli dei contadini si trovassero a servizio nelle famiglie ricche. Chi aveva la fortuna di andare a scuola frequentava magari un paio d’anni e poi veniva ritirato da scuola e mandato a lavorare. Anche lei seguì la stessa sorte dei suoi coetanei senza mai lamentarsi. La differenza tra lei e gli altri stava nel fatto che lei a tredici anni era già una signorina e il padrone di casa se ne accorse presto. A neanche un anno dal suo arrivo in quella casa si scoprì già incinta con estremo sgomento e terrore riguardo al futuro. Ovviamente tutte le colpe ricaddero su di lei. Lei che aveva sedotto il capofamiglia, lei che era stata accolta come una figlia, lei che aveva tradito la fiducia della signora. Venne allontanata con sdegno, ripresa in casa dai suoi genitori con vergogna, suo papà e il caro padrone di casa stipularono un accordo secondo il quale la famiglia se la sarebbe ripresa a patto che il vero colpevole avesse pagato un qualche poveraccio per prenderla in sposa prima che il bimbo venisse alla luce. E così fu. Trovarono un loro degno compare che in cambio di una bella somma acconsentì a prendersi la ragazzina incinta. Il vero colpevole non fu mai punito, neanche dalla moglie. Agnese sì, Agnese fu punita da tutti, per la vita intera. L’uomo che la prese in moglie, lo fece esclusivamente per la bella somma che depositarono sul suo conto in banca, non l’ha mai amata, l’ha sempre disprezzata e mai, in tutta la vita, perse un’occasione per dimostrarlo a lei e agli altri. Anche perché la notizia venne fuori e la gente non smise mai di mormorare. Quando fu il momento Agnese diede alla luce una bella bambina che però venne allontanata subito dalle sue braccia perché il marito non poteva sopportare la sua vista. Venne data a balia in un’altra famiglia e rimase a crescere con loro. Più tardi Agnese ebbe altre due bambine dal marito ma le bambine crebbero e fu presto chiaro da chi avevano preso il carattere e la considerazione per la loro mamma. Quando furono grandi Agnese raccontò loro tutta la verità, sperando che potessero comprendere. Non lo fecero, anzi. Se mai commise un errore fu quello di aver parlato loro troppo tardi, quando ormai avevamo entrambe captato dai discorsi dei parenti che c’era qualcosa che non andava tra i loro genitori. Forse il papà è stato più scaltro e ha saputo accattivarsele meglio. Però non riesco a capire la reazione di queste due che di fronte alla madre che confessa loro di essere stata violentata a quattordici anni, anziché abbracciarla e darle quel conforto che le è sempre mancato, le girano la schiena e le tolgono la parola. Entrambe. Non una stronza e l’altra umana, no. Tutte e due stronze. Possibile che mai abbiano avuto un cedimento, un dubbio? Possibile. Per tutta la vita hanno strappato tutto ciò che pensavano fosse un loro diritto senza mai dare alcunché. Si sono sposate, hanno avuto dei figli ma mai hanno capito il dramma della madre ed hanno
allevato i loro figli nella più totale indifferenza nei confronti della nonna che invece li amava tanto. E così per tutta la vita Agnese si sentì in colpa, nei confronti del padrone di casa per essere stata troppo provocante, nei confronti della prima figlia per averla dovuta allontanare, nei confronti del marito per non essersi presentata pura al matrimonio, nei confronti delle figlie per non aver saputo farsi amare, nei confronti dei nipoti per non essere stata la nonna che loro avrebbero voluto, infine nei confronti di se stessa per essere stata troppo debole per protestare. Una persona normale potrebbe obiettare che una bambina ingenua negli anni trenta non poteva fisicamente essere provocante con dei vestiti vecchi e laceri chiusi fin sotto il mento, se non nella mente di un vecchio malato che ora verrebbe accusato di pedofilia. Che lei era una vittima, che il matrimonio riparatore è stato accettato dal marito solo in vista di un cospicuo assegno, che lei non doveva nulla a quell’uomo gretto e incattivito, che lui non aveva il diritto di trattarla come una sgualdrina e neanche come una sguattera, che le sue amate figlie dovevano comprendere e aiutarla a dimenticare, che i suoi nipoti non avevano nulla da rimproverarle. E soprattutto che lei non doveva assolutamente sentirsi in dovere di amare incondizionatamente tutte quelle persone come invece ha fatto per tutta la vita. Ho cercato di dirle questo, ho cercato di farle capire che lei era la vittima. Ma non ci sono riuscita e non ho insistito perché era chiaro che parlare di tutto ciò le faceva male. Ho preferito distrarla con la mia allegria, insegnarle altri piaceri, farla sentire amata da qualcuno. E non le ho mai mentito, le volevo bene davvero. E’ stata con noi diversi anni, era già qui quando sono arrivata io e, almeno nei miei confronti, non si è mai sentita in colpa. Le lacrime scorrono ormai a fiumi, ho due torrenti che nascono dai miei occhi e arrivano direttamente al letto, bagnando anche il pelo della mia piccola Bisy. Adesso rimetto tutte le sue cose nella borsa e vado a riporla nell’armadio, nella scatola dei miei ricordi segreti, insieme ai ricordi che conservo di Rosa e di Beppe. E’ diverso perché le cose che ho di Rosa mi sono state regalate da sua figlia che si è accorta di quanto ci volevamo bene. Invece Beppe non aveva più nessuno, ha lasciato solo i documenti e gli occhiali, non potevo buttarli. Ora, per le cose di Agnese, prometto che sarà una custodia temporanea, fino a quando qualcuno verrà a reclamarle se mai dovesse succedere.
MARINA
Non riuscivo a pensare correttamente, ho dovuto fare una lista delle cose che voglio con me. Che vorrei con me… E adesso dalla lista dovrò dare delle priorità e depennare quelle cose che non sono indispensabili. Il baule lo voglio con me, non transigo, c’è dentro tutta la mia vita artistica, non potrei vivere senza. Non lo lascio lì, sono sicura che lo forzeranno e prenderanno i miei costumi per giocare, mi vedo già le ragazzine che giocano infilando i miei body, che strappano e rovinano senza alcuna cura, che provano le mie scarpette senza ammorbidirle prima, che sghignazzano con i miei costumi addosso come se il baule fosse una sorta di scatola delle meraviglie. Non succederà, almeno non fino a che io sarò in vita. Finche ci sarò io sarò la sola a godere della bellezza dei miei vestiti di scena. Sognerò. Mi basterà tenere in mano le scarpette per tornare a ballare sulle punte, stringere il tutù bianco per essere un cigno nel Lago di Odette e sentire la musica di Tchaikovskij e chiudere gli occhi per immergermi nei miei ricordi. L’unica cosa che non possono portarmi via. La Scala, l’arena di Verona, la Fenice, Parigi, New York, ho ballato anche al Vittoriale di Gabriele D’Annunzio , possono solo immaginare la grandeur della mia vita, possono invidiare il mio ato, possono deridermi perché io vivo ancora del mio ato. Che cosa dovrei fare? Vivere nel presente? Con queste gambe e questi piedi che si sono ribellati a me? Queste rughe che non mi rispecchiano? Questo corpo fragile che non è il mio? Io ero la più bella della seconda fila e ora devo appoggiarmi ad un bastone da eggio per camminare. Avrei così tante cose da raccontare, da insegnare… e invece per questi sono solo un peso. Credono di sapere tutto della mia vita e invece non sanno nulla.
Le foto, quelle non devono mancare, se non potrò appenderle le chiuderò dentro al baule, tutte, tranne quella di Isadora che starà sul mio comodino. Sto pregando perché Michela la trovi. Le altre sono foto mie, delle mie rappresentazioni più famose, dei miei amici, dei miei amori, anche dei teatri che amo. Quasi tutte in bianco e nero, quasi tutte scattate dal mio amore se che era fotografo di scena. Nessuno sa di lui. Se n’è andato qualche anno fa. E’ stato un grande. Il migliore prima del grande amore. Anche se non sempre ho avuto questa opinione di lui. La nostra è stata una relazione burrascosa, un tira e molla durato anni, lui corteggiato da tutte le ballerine di fila e io che mi perdevo nei i dei grandi interpreti di allora. Però insieme facevamo scintille, eravamo legati da un filo incandescente, vittime di una ione devastante. Le sue foto, alcune in particolare, mi provocano ancora dei brividi. Lo so che una signora attempata non dovrebbe provare queste cose, non dovrebbe neanche parlarne. Agli occhi
della gente le signore attempate non dovrebbero aver vissuto, come se l’età avesse il potere di cancellare tutto. Come se certe emozioni si provassero solo adesso, come se noi ai nostri tempi vivessimo sotto campane di vetro… Beh, non era così. Con quell’uomo ho fatto del sesso spettacolare. E non solo con lui…
I quadri di Giorgio, anche quelli non posso lasciare. Rappresentano Parigi, uno la tour Eiffel e l’altro Pigalle e il Moulin Rouge, non sono bellissimi e non hanno un particolare valore artistico ma hanno un grande valore affettivo per me. Entrambi sono stati dipinti per me, c’è anche una dedica che lo conferma sul retro. C’è scritto “A Marina. La più bella delle ballerine. La più dolce delle amiche…”
Giorgio era italiano ma viveva a Pigalle in una topaia come i veri artisti di allora, ava il suo tempo sulle panchine della piazzetta, dipingeva, scriveva, collaborava con qualche giornale. Guadagnava così poco da non potersi permettere neanche il cibo a volte ma era così solare che gli si perdonava tutto. Pur di uscire con lui quando eravamo a Parigi in tournée, pagavamo noi ragazze. Si usciva tutti insieme e lui aveva delle attenzioni particolari per ognuna di noi.
I mobili… Il mio tavolino col piano in vetro… lo scrittoio con la ribaltina che ho fatto arrivare da Il Cairo… quanti ricordi, quanta corrispondenza, sorrisi e lacrime… il letto e l’armadio liberty, quelli non potrò portarli, lo so da me che non ci entrano nella camera che mi è riservata… i comodini potrò? I miei tappeti… Ogni centimetro quadro della mia casa è coperto da tappeti, le scarpe rimangono nell’ingresso, sui tappeti posso danzare a piedi nudi, mi permetteranno di portarli? La poltrona Luigi XIV che ho preso dall’antiquario di Venezia, a due i dalla Fenice, contro il parere di tutti i miei amici intenditori, tutti concordi nel sospettare sull’autenticità dell’oggetto. Io però mi ero innamorata di quella stoffa, di quella fattura così accurata… non ho sentito ragioni e l’ho presa pagandola probabilmente più di quanto si aspettasse lo stesso antiquario. E non mi sono mai pentita dell’acquisto.
Le lampade liberty sui comodini, con il vetro decorato da fiori colorati. Anche quelle le ho prese a Venezia, quell’anno avevo scovato dei negozi fantastici con pezzi unici che i proprietari tenevano da parte per me. Come farò con i lampadari? Ognuno con una storia da raccontare… Sarò costretta a lasciarli e a sopravvivere alla luce di un neon…
I cuscini. I miei cuscini. Sono centinaia a casa, sono sul letto, a terra sui tappeti, ricoprono il divano per il quale non nutro particolari emozioni essendo stato acquistato di recente e senza entusiasmo. Ne prendo una decina? Basteranno? Saranno troppi?
Credo che sceglierò lo scrittoio insieme alla poltrona e almeno un tappeto. Ci proverò anche con il tavolino e i comodini ma non nutro molte speranze. Le lampade le prendo, se non potrò avere i comodini le metterò sullo scrittoio. E dieci cuscini. E i libri? Quali prendere e quanti? Quelli sulla danza sono dei compagni, non posso lasciarli indietro. I romanzi, quelli che mi hanno fatto sognare, ridere, sperare. Lascerò qui quelli che mi hanno fatta piangere, non ne avrò bisogno in quel posto. Fare delle scelte, questo sì, questo no. Nessuno di noi dovrebbe mai essere sottoposto a questo tormento.
E per ultimo il mio vecchio impianto stereo e la mia musica. Per sognare.
Per i vestiti dovrò vedere quanto spazio avrò. Quante occasioni avrò di uscire. Quale sarà l’ambiente. Mi viene da piangere.
Martha Graham a 76 anni ballava ancora. Io alla stessa età non sono più libera neanche di ricordare.
CLARA
Anna mi ha detto che stanno imbiancando la camera di Agnese. Per la prima volta nella storia del ricovero hanno intenzione di cambiare il colore delle pareti. Le faranno rosa, una tonalità di rosa antico che pare abbia richiesto la signora che sta per arrivare. O i suoi parenti. Deve essere una tipa facoltosa per convincere i proprietari a seguire le sue istruzioni… Sicuramente pagherà una bella cifra… Per puro caso la camera di Agnese è quella più ampia, tra le singole è la più grande. Nel caso di Agnese è stata una coincidenza, le è stata assegnata semplicemente perché non ce n’erano altre libere e poi ci è rimasta solo perché nessuno era disposto a pagare la retta più alta degli altri. Effettivamente è un po’ più grande delle altre, è più luminosa perché c’è una grande finestra che dà sul cortile e, soprattutto è lontana da quelle occupate dai non autosufficienti e non si sentono i loro lamenti. Lo dico con cognizione di causa perché per qualche giorno sarò in servizio proprio lì, l’ho chiesto io per tenermi alla larga dalla camera di Agnese perché are di lì mi fa ancora male. Le mie colleghe sono state felici di accordarmi il cambio perché questo è il reparto più triste. Loro ormai ci hanno fatto il callo, io arrivo a sera stanca e depressa. Cerco di aiutare, di intervenire ad ogni richiesta ma è fisicamente impossibile, i camli dei letti suonano ininterrottamente sempre, 24 ore al giorno. E’ altamente probabile che, mentre stai intervenendo al capezzale di quello che suona per abitudine, tralasci di intervenire da quell’altro che sta male veramente. Io non ho ancora imparato a conoscerli a fondo. Le colleghe che sono qua sanno distinguere le chiamate dai numeri dei letti. Se chiama il 4 lasciamolo suonare, tanto non ha niente. Se chiama il 23 corriamo perché è la signora che non chiama mai, se schiaccia il pulsante vuol dire che veramente ha dei problemi seri. Se chiama ancora il 15 andiamo di là e gli urliamo di piantarla. Io non le so queste cose e non voglio neanche saperle perché non mi sembra giusto. Cerco di correre ad ogni chiamata però non ce la faccio e così è successo che mentre io ero dal 4 e cercavo di capire qual’era il problema, e non ne sono venuta a capo, il signor 15 se l’è fatta addosso perché suonava per essere accompagnato in bagno… Quindi l’ho ripulito tutto e nel frattempo mi sono sentita dare della ragazzina incompetente. E la signora del 12 mi ha fatta impazzire perché voleva il thè e non poteva aspettare. Mentre quella del 13 ha preso le sue pillole con un’ora di ritardo e non si è lamentata di nulla. Ce ne sono alcuni che ti stimolano l’istinto omicida, ma ce ne sono altri che vorresti abbracciare e non lasciare più. Come le due signore che sono sempre insieme, si tengono per mano e girano per tutti i
reparti. Qui tutti le chiamano Flic e Floc, forse soltanto io conosco i loro veri nomi. Si chiamano Caterina e Lucia. Sono molto dolci ma bisogna stare attenti perché se dai loro ascolto ti si aggrappano, ti prendono la mano e non ti mollano più ma, quel che è peggio, ti chiedono con insistenza di portarle via, di portarle a casa. E ti si spezza il cuore. Lo fanno con tutti, in particolar modo con i parenti degli altri che vengono in visita. Gli altri nostri ospiti ormai le prendono in giro, loro vivono in un loro mondo ma le loro richieste di aiuto a me sembrano sincere e ogni volta che le vedo mi rimane dentro una sensazione amara. E dopo delle giornate così dovrei aver voglia di uscire? Sono talmente stanca e rincoglionita che ho solo voglia di stendermi. D’altronde l’ho chiesto io il cambio mica posso adesso tirami indietro. E’ solo una settimana, terrò duro. Il prossimo lunedì torno al mio posto. Giusto in tempo per conoscere questa facoltosa pensionata che ama il rosa antico. Anna mi ha detto che arriva lunedì. I lavori sono quasi finiti. E’ tutto pronto per accoglierla.
MARINA
Mi stanno aspettando. Lo immagino. Sai che felicità…
L’unica che ha ancora il coraggio di parlarmi è Michela. Però anche lei mi sta innervosendo, cercano di indorarmi la pillola, come se io dovessi essere grata al mondo perché mi hanno preparato la camera con le pareti rosa antico… Brutti ipocriti. A casa mia ho le pareti rosa antico! Non mi frega niente di averle lì! Non ci voglio andare! Come devo dirlo? L’ho già detto a tutti, in tutte le lingue che conosco… e loro fingono di non capire. Fingono che io non sia più in grado di decidere della mia vita, fingono che io abbia bisogno di loro per sopravvivere. Si riuniscono tutti insieme per prendere decisioni che mi riguardano e io, se non fosse per Michela, neanche lo saprei. All’inizio presenziava anche lei poi, da quando si è permessa di dichiarare il suo disaccordo, si sono ricordati che lei è solo una nipote acquisita e quindi non ha il diritto di partecipare alle riunioni. Suo marito non è cattivo ma è un debole, segue la corrente, non vuole attirarsi le ire dei cugini, preferisce attirarsi le mie perché è convinto che saranno più
brevi… per ovvie ragioni…
Da queste riunioni in stile massonico sono venute fuori delle frasi che sono state per me delle pugnalate alle spalle. Non che io prima mi fidassi di questi miei nipoti però non mi aspettavo tanta cattiveria e tanta avidità nei miei confronti e nei confronti del mio patrimonio e della mia casa. Stanno già prendendo accordi per dividersi la torta, i gioielli a te, i mobili a me, tutto ciò che non si può dividere, come la casa, lo venderanno e poi si spartiranno equamente i proventi, come si spartiranno quel che rimarrà sul mio conto in banca. E faranno il possibile perché rimanga corposo. Faranno il possibile per abbreviare la mia sofferenza e il numero di rette da pagare per la mia nuova sistemazione. Purtroppo quando sono stata male mi sono affidata a loro, gli ho consegnato le chiavi di casa perché dovevano portarmi in ospedale i miei effetti personali. E quando mi hanno dimessa mi hanno accompagnata subito in banca per prelevare quanto serviva a pagare l’ambulanza. E, già che eravamo lì, mio nipote più grande ha insistito per aggiungere il suo nome sul mio conto, perché non si sa mai, perché succedesse qualcosa, perché sei sola zia, perché non posso credere che non ti fidi di me, perché per me è un peso, lo faccio solo per te. E il bancario dall’altra parte della scrivania annuiva ad ogni sua parola, tant’è che mi ha convinta e l’ho fatto. Dopo un paio d’ore ero già pentita e ora sono sempre più convinta di aver commesso l’errore più grande della mia vita. Ma non ho la forza di ribellarmi. Ogni volta che chiedo la restituzione delle mie chiavi mi dicono che se voglio andare a casa non ho che da dirlo e loro mi ci accompagnano, che da sola non ci posso più andare, che potrei perderle, che potrei sentirmi male. E intanto non me le restituiscono. Mi fanno sentire come una bambina capricciosa che non sa qual è la cosa migliore per lei. A volte mi dico che hanno ragione loro, che sono fortunata ad avere dei nipoti che si preoccupano per me, che se non ci fossero loro sarei completamente sola, che mi devo fidare di loro, che sicuramente fanno il meglio per me e sono io che sono sospettosa di natura. In questi momenti mi lascio andare, mi faccio trasportare dagli eventi, non ho più voglia di combattere e neanche di alzarmi. Come un soldato durante la tregua. Non ho più voglia neanche di pensare, lascio che lo facciano gli altri per me. Non posso dire di stare male qui, ogni settimana fanno a gara per ospitarmi, in ogni casa ho la mia poltrona fissa, la mia copertina per coprirmi le gambe, mi portano il tè alle cinque, mi preparano la tisana alla sera, mi danno le pillole… Sembra quasi che mi vogliano bene e mi viene da illudermi che sia così.
Ho detto bene, sarei veramente un’illusa se pensassi di risolvere tutto così, di approfittare della loro ospitalità fino a che non starò meglio e poi di riprendere la mia vita di prima. Dovrei evitare di illudermi per non patirne troppo quando sarò costretta ad affrontare la verità. Ma come faccio? Io continuo a pensare al mio nido, alle mie cose, alla mia vita di prima. Ho voglia di sentire la mia musica, di scaraventare lontano questa coperta che mi copre le gambe e di ballare sulle punte con gli occhi chiusi. Perché si deve invecchiare? Siamo sicuri che l’alternativa sia peggiore?
Intanto lunedì si avvicina e io non riesco ad abituarmi all’idea. Se fino ad ora potevo pensare che la mia situazione fosse provvisoria, da lunedì dovrò accettare il cambiamento. Una sola camera per contenere tutto di me…
CLARA
Finalmente è finita questa settimana infernale! Ora mi spettano due giorni di riposo e poi rientro alla mia postazione. Dovrei essere felice, non capita sovente di avere un intero week end libero con i turni che facciamo. Invece non me ne frega niente. Non ho famiglia, non ho amici coi quali uscire, potrei andare al cinema ma con questa pioggia mi scappa ogni voglia. E poi ogni volta che esco da sola ho l’impressione che tutti mi guardino. Io odio attirare l’attenzione. Quindi telefoniamo a Pizza express e ordiniamo una stracchino e rucola e una tonno e cipolle. Sì, sono entrambe per me, se poi Bisy vuole assaggiare sarò generosa anche con lei. Per quanto riguarda le cipolle posso mangiarle tranquillamente, non avrò nessuno da baciare nei prossimi due giorni a meno che non si verifichi un miracolo tipo Richard Gere che mi sale su dalla scala antincendio, o magari il moroso di quella di sotto che ha sbagliato piano… Beh, il moroso di quella di sotto lo rispedirei al mittente ma Richard lo farei
entrare e lo sequestrerei per tutta la vita. Lo so che ce ne sono altri più giovani e carini ma il suo fascino non ce l’ha nessuno. Ecco, magari in attesa che arrivi, mangio le pizze e mi guardo un suo film... Mi sa che posso dormire sonni tranquilli, nessuna ombra si è materializzata dietro la mia finestra, Bisy è già sul letto che sta dormendo, mi unisco a lei e cerco di riposare. Domani è sabato, che faccio in questi due giorni? Potrei chiamare qualcuno per avere un po’di compagnia ma i miei amici sono tutti in struttura e non posso farli uscire. Magari qualche vecchio compagno di scuola che ho visto a cena il mese scorso? Direi di no, ho evitato accuratamente di scambiare i numeri di telefono. Molto meglio anche per loro perché sarei una pessima compagnia. Ecco, se avessi il suo numero potrei chiamare la ex compagna iena, per il gusto di rovinarle il week end. Più realisticamente credo che erò il fine settimana da sola con Bisy. Magari, se c’è un po’ di sole uscirò per una eggiata e mi occuperò delle provviste per le prossime settimane. Tutto in attesa di tornare al lavoro lunedì. Quando rientrerò alla mia postazione abituale e dovrò accogliere la nuova ospite. Immagino che per lei non sia una festa, come non lo è per nessuno, quindi cercherò di essere gentile e disponibile anche se mi urta un po’ che prenda il posto di Agnese.
MARINA
Eccolo il grande giorno. Eccola la mia nuova vita. La mia nuova casa. La sensazione dell’avvicinarsi della fine. Inutile dire che non sono allegra, dovessi descrivere il mio stato d’animo direi che assomiglia a un giorno di pioggia all’inizio dell’inverno. Mai nella mia vita ho pensato di poter finire i miei giorni così. Mai ho pensato di poter accettare una cosa del genere senza combattere, mai ho pensato a una possibile sconfitta. E’ così difficile da accettare, così tristemente malinconico…
Hanno voluto accompagnarmi qui in mattinata perché, dicono, ho tutta la giornata per ambientarmi, posso pranzare con i miei nuovi compagni di vita, rompere il ghiaccio, stringere qualche amicizia… In realtà non vedevano l’ora di
sbarazzarsi di me. Alle sette il soggiorno era già un campo di battaglia, borse dappertutto, vestiti sui divani, un paio di scatoloni nell’ingresso. I mobili che volevo li hanno portati ieri con l’aiuto di un amico col furgone. Sembrava una festa, si respirava un’aria così allegra, da famiglia felice. Posso biasimarli? Per loro oggi è un gran giorno, finalmente si liberano della vecchia zia e danno inizio ufficialmente alla razzia nel mio appartamento. Ormai le cose che non si possono toccare sono tutte qui, il resto cadrà nelle loro mani avide. Le chiavi non le hanno mai restituite ma, ormai, se anche lo avessero fatto non avrebbe più importanza. Hanno avuto tutto il tempo per fare innumerevoli copie. Una per ognuno di loro.
Ora inizierà anche la loro lotta interna, fino ad oggi si erano coalizzati contro di me, tutti concordi sulla mia fine. Ma da domani ognuno di loro tornerà un singolo individuo. Tutti contro tutti. Dovrei tranquillizzarmi e assistere alla loro lotta, se io riuscissi ad estraniarmi potrei godermi lo spettacolo con tanto di colpi di scena. Però non ce la faccio, non posso dimenticare che si stanno contendendo le mie cose. Non credo che potrei godermi lo spettacolo neanche fosse il più cruento mai visto. Provo un senso di desolazione infinita che non mi vuole lasciare. Stamattina non volevo vestirmi, ho fatto colazione in vestaglia e ho tergiversato a lungo prima di tornare in camera a vestirmi. Oggi è il giorno della mia disfatta, la mia Waterloo. Chissà se Napoleone a fine giornata si sentiva come mi sento io ora. Lui almeno all’alba era pieno di speranza, io no. Io ho ato la notte in bianco, avevo mille pensieri, ho provato a inserirne tra quei mille almeno un paio positivi ma non ce l’ho fatta. Sono uscita di casa, ho seguito i miei nipoti come un condannato a morte segue i suoi carcerieri. In silenzio. Durante il tragitto hanno avuto la decenza di non rivolgermi la parola se non per chiedermi se ero comoda e se il finestrino leggermente aperto mi dava fastidio. Quando siamo arrivati invece, forse per darsi un tono di fronte al personale del ricovero, hanno iniziato a delirare. “Zia guarda che bel parco! Gli alberi, le panchine! Vedrai quest’estate con i fiori! Te l’avevo detto che era bellissimo! Ti innamorerai di questo posto! E vedrai al piano di sopra! La tua camera con le pareti del tuo colore preferito…, hanno fatto un ottimo lavoro! Potessi venirci io a finire i miei giorni qui!”. A quest’ultima chicca è partita una gomitata di Michela che era rimasta in silenzio fino a quel momento. Ha evitato a fatica di dare del coglione al suo caro maritino di fronte alla direttrice, mi ha preso la mano e mi ha accompagnata su in camera. E’ vero che hanno fatto un bel lavoro, con le pareti e con i miei mobili, ma io non riesco ad apprezzarlo,
non ancora… Mi sono seduta sul letto, appoggiandomi piano, come quando si va all’ospedale in visita, sul copriletto bianco. Michela si è seduta accanto a me e mi ha guardata negli occhi. In quel momento le ho chiesto di proteggere la mia casa e le mie cose. Di non lasciare che i miei ricordi vengano profanati. Di fare quanto le è possibile. Lei ha promesso, mi ha assicurato che non mi lascerà sola e che continuerà a parlare con gli altri per convincerli a farmi tornare a casa. In un altro momento forse le avrei creduto, io so che lei pensava veramente le cose che mi ha detto ma sono anche sicura che non accadrà mai. Intanto che noi parlavamo il coglione ha portato su le borse e gli scatoloni. Michela ha cercato il mio copriletto, quello colorato, e lo ha cambiato subito appallottolando quello bianco e lasciandolo cadere nelle mani di un’esterrefatta assistente che ci guardava con gli occhi sgranati. Avrà pensato che sono una pazza ma in questo momento non importa. I commenti degli altri sono l’ultimo dei miei problemi. Quando l’assistente è uscita abbiamo sistemato le mie cose. Ho detto abbiamo ma non è vero, ho lasciato fare a Michela, io non avevo la forza di muovermi. Di lei mi fido, so che il suo cuore è buono, ha messo i vestiti nell’armadio orribile che mi hanno assegnato, con le ante verdi, quel verde chiaro che ti fa balzare in mente all’istante i malati e gli ospedali… Verde… con i miei rosa, i miei bordeaux… Poi ha sparpagliato i miei cuscini per dare un po’ di colore e rendere accogliente la mia cella. I miei libri e le lampade sui comodini. Per ultima ha estratto dalla sua borsa la foto di Isadora. Che bella sorpresa! Mi ha regalato un attimo di gioia, non ci speravo proprio che la ritrovasse. Le ho detto di metterla sul mio scrittoio così potrò sedermi sulla mia poltrona, davanti al mio scrittoio a guardarla e potrò sognare, dando le spalle a tutto il resto, di essere a casa mia. Mio nipote si è limitato a portare su il baule, appendere i miei quadri, collegare l’impianto stereo, il tutto in religioso silenzio, guardato a vista da sua moglie. Ho chiesto a Michela di portarmi altri tappeti, voglio coprire tutto questo freddo pavimento. Ho colto lo stupore nello sguardo dell’assistente quando si è affacciata per avvisarmi che il pranzo era pronto, però non era uno sguardo maligno, era solo una sana meraviglia. Non sono scesa a pranzare, non voglio pranzare, non ho fame. Michela e quell’idiota di suo marito se ne sono andati, ho salutato lei ma lui non l’ho degnato di uno sguardo.
Sono sola in questa camera camuffata che rimane pur sempre una camera di ospizio. Nessuno vuole mai chiamare le cose col proprio nome, come se cambiasse la realtà. Come se fosse migliore soggiornare in un alloggio per anziani che in un ospizio. Non è forse la stessa cosa? Non è forse l’ultima
spiaggia per gli ospiti che vi abitano?
Questa è la mia giornata più nera, non vedo nulla di luminoso davanti a me, è un lutto, un distacco dalla mia vita fino a ieri. Forse solo il giorno in cui mi hanno comunicato la morte di Rossano ho sofferto così. Erano anni che non pensavo a lui, dopo la sua morte ho voluto cancellare ogni sua traccia, ho sofferto così tanto che l’unico sistema per sopravvivere era sigillare la porta dei ricordi, chiudere, sprangare e buttare via la chiave. E così ho fatto per tutti questi anni. Grazie alla disciplina che ho imparato nel mio lavoro. Perché mi torna in mente proprio ora? E’ tempo di bilanci? E’ vero che alla fine ripercorriamo tutta la nostra vita, ritroviamo tutti i nostri amici, i nostri amori? Che riviviamo i momenti più importanti della nostra vita? Forse è per questo che il ricordo di Ross è tornato da me. Se potessi rivivere anche un solo momento con lui potrei fermarmi per l’eternità…
La solita assistente si è appena affacciata un’altra volta. Ora di cena. Alle 17.30… Io prendo il thè alle 17, non ceno mai prima delle 20. Non posso vivere con gente che cena alle 17.30. Non se ne parla. Che venga qui quell’ idiota di mio nipote a cenare a quest’ora. Io non ci penso proprio.
«Marina, che fa, non viene?» di nuovo lei. Non ho niente contro di lei ma comincio a non sopportarla più. «Non ho fame. Non insista la prego.» Non ha insistito, mi ha sorriso e ha richiuso la porta. E ora che faccio? Sta scendendo la notte ed io mi sento svuotata. Questo è il momento peggiore, la luce che muore per far posto alla tenebra. Che malinconia. Mi siedo in poltrona davanti allo scrittoio e mi concentro sul quadro di Giorgio, la Tour Eiffel…
Metto su il CD più adatto al momento, Il lago dei cigni di Tchaikovsky, chiudo gli occhi e ascolto. Dentro di me danzo.
Alle 21 si affaccia di nuovo la ragazza, «Posso entrare? Le ho portato qualcosina… dovesse venirle un po’ di fame…». In effetti qualcosa lo mangerei, per chiudere un pochino questo buco che ho nello stomaco… però non ho voglia di risponderle, mi alzo e la invito a entrare. Lei sorride, mi lascia un piatto sullo scrittoio con due tramezzini, si guarda attorno stupita e se ne va. Buonanotte.
CLARA
Che tipa strana. Marina… Un nome che evoca il mare, mi viene in mente anche quella canzone famosissima degli anni sessanta. Certo non è una da ricovero. Alta, slanciata, si vede che ha fatto la ballerina, sembra che viva sulle punte, delicata e leggera, porta i capelli corti di una tonalità di grigio molto chiara con un taglio sfilato da ragazzina. Due begli occhi verdi arrossati e angosciati. Però sono convinta che sia forte come l’acciaio anche se fragile all’apparenza. Certo quando la donna che era con lei mi ha lasciato cadere fra le mani il copriletto bianco appallottolato ho avuto un moto di stizza, ho pensato “Ma questa chi si crede di essere???” però poi ho capito che per lei era importante. E in fondo a noi cosa cambia? Mi sono affacciata con discrezione un paio di volte e sono rimasta sbalordita da quello che ho visto, varchi la soglia e sembra di entrare in un altro mondo. Effettivamente ha personalizzato la camera in modo impressionante. Tappeti, quadri, cuscini in ogni angolo, tonalità di rosa e di bordeaux ovunque. Si è portata i comodini e le lampade. Parecchie foto, appese e appoggiate, alcune credo siano sue, di quando ballava. Ha uno scrittoio che sembra di ebano, bellissimo, e davanti una poltrona in stile Luigi XIV. E c’è un grande baule intarsiato con su un paio di cuscini di raso bordeaux. Completamente diversa da Agnese che non osava neanche spostare una sedia. Questa si è ricreata un pezzo di casa sua qui. Non posso dire che abbia fatto male, forse questa cosa le allevia
un po’ il dolore del distacco. Mi incuriosisce tantissimo ma non voglio essere indiscreta. Avrò tutto il tempo per conoscerla meglio se lei lo vorrà. E’ una donna molto bella, portava un abitino di lana beige, morbido, al ginocchio, con sopra una stola di lana color cacao, credo di cachemire. Intanto oggi per lei deve essere stata una giornata terribile, non è scesa per il pranzo e neanche per cena. A dirla tutta quando l’ho chiamata per cena mi ha guardato con un’espressione tra il sorpreso e l’indignato… forse la cena alle 17.30 non fa per lei… Prima di venire via le ho portato un paio di tramezzini che ho preparato io, credo che abbia apprezzato perché mi ha invitata ad entrare. E’ stato lì che ho potuto vedere la camera in tutto il suo splendore, credo che il mio sguardo sbalordito sia trapelato ma non importa perché spero di averla indotta ad un leggero sorriso. Forse l’unico della giornata. Mi spiace vedere quella tristezza infinita nei loro occhi. I primi giorni sono uguali per tutti, non importa chi siano stati e cosa abbiano fatto nella loro vita di prima. Si sentono soli e sperduti. Vorrei aiutarla ma lo devo fare in punta di piedi. Ci sono persone che non tollerano ingerenze esterne anche se ne hanno un disperato bisogno. Spero che stanotte riesca a dormire, che il letto le consenta di trovare una posizione comoda, che la tristezza svanisca, che i sogni l’aiutino a sopportare la sua nuova vita. Da stasera avrò una persona nuova da salutare. Ora mi metto a nanna da sola, tanto lo so che tempo cinque minuti arriva Bisy a leccarmi il naso e a spingere per entrare sotto le coperte con me. E’ bello addormentarsi con lei contro di me, cullata dal suo ronf ronf. Lei poi se ne va perché ha caldo ma intanto mi ha fatta addormentare. Come fosse una mamma con la sua bimba.
MARINA
Stanotte ho avuto degli incubi terribili. Non so se dovuti ai tramezzini di ieri sera
o a tutto quello che è accaduto ieri. Cos’è successo alla mia camera dei ricordi? Quella che avevo chiuso con tanta cura? Qualcuno ha scardinato la porta o l’ho fatto io stessa? Proprio ora che mi sento così fragile. Non posso rivivere certi momenti. Ma non posso neanche evitare di sognarli.
Ero a Parigi, nel quartiere Pigalle e dietro la vetrina di un bar vedevo Giorgio seduto a un tavolino, stava parlando con Francois il mio fotografo di scena, stavano ridendo e io volevo raggiungerli e mi sembrava strano perché non sapevo si conoscessero. Parigi era quella degli anni sessanta, soleggiata e allegra. Francois e Giorgio non potevano che vivere lì. Erano perfettamente a loro agio in quel luogo e in quel tempo. Io li guardavo felice a mia volta di vederli sorridenti. Ad un tratto la vetrina del bar è esplosa e la Parigi degli anni sessanta si è trasformata nella Milano degli anni settanta. Polvere, fumo, gente che correva in ogni direzione, sangue, sirene della polizia. E in mezzo a tutto questo caos, Rossano. Rossano che attraversava la piazza di corsa, venendo verso di me e urlandomi di mettermi al riparo. Io assistevo impietrita, incredula, incapace di fare qualsiasi movimento. Spettatrice come in un film che non mi apparteneva, immobile in mezzo al tumulto. Cercavo con gli occhi qualcosa che mi rivelasse la sorte dei miei due amici ma non vedevo più nulla, non c’era più neanche il bar, non c’era Pigalle, c’era solo una piazza di Milano, con le vetrine frantumate e le auto in fiamme. Rossano mi raggiungeva e mi buttava a terra nel momento esatto in cui esplodeva un’altra vetrina. Giusto in tempo per salvarmi la vita e fermare con la sua schiena la scheggia di vetro che era destinata a me. Cadeva sopra di me e non si rialzava. Vedevo il suo sangue sull’asfalto. La macchia rossa sempre più grande, sempre più scura… Io urlavo, urlavo… ma dalla mia bocca non usciva alcun suono. Cercavo di chiamarlo, di abbracciarlo, di baciarlo. Ma lui moriva così, tra le mie braccia. Rossano…
Vorrei averlo avuto tra le mie braccia quel giorno. Ma non c’ero. Stavo per arrivare e lui era venuto a prendermi alla stazione.
Mi sono svegliata singhiozzando. Credevo di aver dimenticato, di avere sbarrato la porta che dava su quei ricordi. Cosa mi succede? Sono troppo fragile ora per
riuscire a convivere col ricordo di quei momenti.
Ho una faccia che mi pare di essere un pugile al risveglio dopo una pesante sconfitta, me la sento gonfia, dolorante e vecchia. E soprattutto stanca. Per fortuna ho il bagno in camera, non devo uscire, posso rinfrescarmi prima che qualcuno mi veda così.
Non che la situazione sia molto migliorata ma almeno sono presentabile, non ho intenzione di lasciarmi andare alla deriva. Forse questa notte così difficile mi ha portato dei sani consigli, non posso e non voglio dichiararmi sconfitta. Con tutti i cari nipoti che non aspettano altro. So bene che dopo una settimana di soggiorno qui la maggior parte dei miei coetanei non sa più distinguere tra il giorno e la notte, stanno seduti tutto il giorno e interrompono la loro veglia solo per i pasti. Il pranzo e la cena diventano per loro l’unico motivo di vita. Guai a ritardare quei momenti. Qualcuno finge di guardare la tv, qualcuno, i più tenaci, gioca a carte. Non sarà così anche per me. Non diventerò un vegetale. Non assumerò nessun farmaco prescritto da loro, nel modo più assoluto. Vedrò solo il mio dottore di fiducia e mai, per nessun motivo, mi affiderò alle cure di questi incompetenti… che magari sono pure in combutta con i miei parenti… Sarà meglio chiarire subito le mie intenzioni. Lo faccio subito con la ragazza sul piano e poi lo farò quanto prima con la Direzione. Tanto cosa possono fare? Mandarmi a casa??
CLARA
Che buffa… Mi fa una tenerezza… Stamattina ho bussato piano alla sua porta, erano le 8.30 e non so quali fossero le sue abitudini prima di venire qui, mi ha aperto lei appena le mie nocche hanno sfiorato la sua porta. Come se mi stesse aspettando. Non è stato un buongiorno molto cordiale, anzi non mi ha dato neanche il tempo di augurarle il buongiorno, mi ha investita subito con un fiume di parole. Ci teneva a chiarire che lei non avrebbe mai, e sottolineo mai, ingerito
alcun tipo di medicinale da noi fornito, che in caso di suo malore esige di essere visitata solo ed esclusivamente dal suo medico personale, che nessuno di noi, dipendenti dell’Istituto, deve permettersi di sfiorarla anche solo con un dito. Tutto questo perché non nutre la minima fiducia nei nostri confronti e non ha intenzione di collaborare. Aveva gli occhi gonfi, umidi, mentre sbraitava contro di me in qualità di rappresentante di questo inferno. Ma non mi ha ingannata, non sono più quella di una volta, ora cerco di comprendere le persone, di andare al di là di quello che vogliono manifestare. Dietro la facciata c’era una tristezza enorme, un’angoscia infinita. Ho atteso pazientemente che finisse di sputare il suo veleno, le ho detto solo «Va bene Marina, faremo come dice lei» poi l’ho abbracciata prima che crollasse, andando contro a tutto quanto mi aveva appena detto. L’ho tenuta stretta per darle il tempo di ricomporsi. Intanto le ripetevo «Va tutto bene, va tutto bene…» per rassicurarla anche se so benissimo che per lei poteva suonare come un’offesa. Ho fatto quello che mi dettava il cuore, non so se le sono stata di aiuto, credo che avesse bisogno di conforto e ho fatto quello che avrei voluto che qualcuno fe con me quando sono rimasta sola. Quando ho avuto la sensazione che si fosse un po’ ripresa l’ho lasciata piano e mi sono defilata, non voglio infastidirla. Voglio che pensi a me come persona, non voglio che mi veda come la sua guardia carceraria. Ho bussato di nuovo alla sua porta a mezzogiorno per avvisarla del pranzo, stavolta era più tranquilla e mi ha dato modo di spiegarle come funziona qui con i pasti, gli orari e la routine da seguire. Le ho anche spiegato che non è obbligata a scendere ogni volta per i pasti, se me lo dice posso portarle io su qualcosa. Capisco bene quanto sia difficile inserirsi in un gruppo quando sei totalmente estraneo. Qui poi, come credo succeda dappertutto, i gruppi sono abbastanza chiusi, quando si invecchia si diventa diffidenti e non si prova più alcuna curiosità nei confronti degli altri. Ci si concentra sui propri dolori e non si vede più null’altro. Non è cattiveria, è solo l’istinto di sopravvivenza, il “meglio a te che a me…” Comunque ha deciso di scendere al piano terreno per pranzare. Avevo quasi paura di accompagnarla, paura che potesse sentirsi come un’aliena in mezzo agli altri, paura che fosse ancora troppo fragile per affrontarli. L’ho fatta sedere al tavolo di Angela, una signora pacata e gentile che con la sua bella voce suadente riesce a confortare tutti. Angela sa che se io sono in zona i nuovi arrivati li affido a lei e svolge il suo compito nel migliore dei modi. Infatti ho visto che parlavano, non fitto fitto, ma un minimo di conversazione c’è stata. E’ un inizio. Nel pomeriggio ho avuto altro da fare e non sono riuscita a are da Marina ma forse è meglio così. L’ho salutata quando sono uscita. Spero sia scesa anche a cena, domani chiederò alla collega. Però non ho dimenticato di parlare
con Angela per chiedere cosa ne pensasse. Mi ha detto che le è sembrata una ragazzina, una che ha voglia di vivere e che soffrirà molto rinchiusa qui dentro. E’ riuscita anche a farla parlare un po’ del ato. Nei prossimi giorni ci proverò anch’io. Deve avere un mare di cose interessanti da raccontare.
MARINA
Secondo giorno al “lager”.
Stamattina quando è entrata la ragazza, ancora non so il suo nome, l’ho investita immediatamente con le mie accuse e con le mie condizioni imprescindibili. Lei mi ha spiazzata perché ha lasciato che terminassi di inveire e poi mi ha abbracciata. E tutta la corazza che mi ero preventivamente costruita al fine di farle un discorso duro e deciso è crollata in quell’abbraccio. È stata buona perché ha prolungato l’abbraccio fino a che non si è accorta che avevo riacquistato un po’ di serenità, forse non ha voluto vedere le mie lacrime, forse non sapeva come reagire. Mi spiace di averla conosciuta in un momento così difficile, probabilmente fuori di qui mi sarebbe piaciuta, mi sembra una persona dotata di umanità e so che non è una qualità comune. A pranzo mi ha accompagnata nel salone a piano terreno e mi ha trovato posto accanto a una adorabile nonnina di nome Angela. E’ una donna davvero speciale, gentile e accomodante, ma non vorrei mai diventare come lei, non vorrei mai essere una amabile vecchina e non mi ci faranno diventare. Gli altri non sono degni di nota, mi sono sembrati un branco di vecchi curiosi e maligni. Infatti a cena non sono scesa, ho chiesto che mi venisse portato qualcosa in camera. C’era una ragazza nuova e non mi è sembrata molto disponibile però, pur protestando, ha eseguito i miei ordini. Nel pomeriggio è ata Michela. E’ stata una visita breve perché era in incognito, si è ritagliata mezz’ora di tempo tra i suoi impegni ed è venuta senza avvisare nessuno. Neanche i bambini perché si sa come sono i piccoli, alla prima occasione raccontano tutto a papà. Mi ha detto che i miei nipoti carissimi si sono di nuovo riuniti per parlare del mio destino e, soprattutto, del destino delle mie cose. La prossima settimana hanno programmato l’ennesima visita a casa mia per fare il punto della situazione.
Le ho chiesto di partecipare a ogni costo, l’ho anche autorizzata a fingere di odiarmi per uniformarsi al gruppo. Ho bisogno che lei sia presente al saccheggio. E’ l’unica che può tenermi al corrente di quello che succede. Non potrà portarmi delle belle notizie e io ne soffrirò ogni volta che mi racconterà qualcosa ma preferisco così che essere all’oscuro di tutto. La sua visita mi ha fatto molto piacere. Mi sono sentita un po’ meno dimenticata.
Ho l’impressione di essere parcheggiata in un luogo inaccessibile, dietro una finestra, a guardare il mondo fuori che respira senza di me, che vive, ride, piange senza di me. Che nasce e muore senza di me. A guardare il sole senza poterne sentire il calore, a guardare la pioggia senza potermi bagnare il viso. Che brutta sensazione quella di sentirsi dimenticati dalla vita.
CLARA
È ata ormai una settimana dall’arrivo di Marina in Istituto, credo sia tempo di approfondire la nostra conoscenza. Domattina vedrò di sondare il terreno e, se apprezza, nel pomeriggio cercherò di are un paio di ore con lei. Intanto le sue giornate credo che si stiano trascinando tutte uguali, ha ricevuto la visita di una nipote il secondo giorno e poi il nulla. Penso abbia deciso di relazionarsi almeno un minimo con gli altri perché ho notato che ha preso l’abitudine di scendere per i pasti principali anche se la cena viene servita dalle 17.30 alle 18, orario che sospetto non si accordi per nulla con le sue vecchie abitudini. Ormai il suo posto a tavola è accanto ad Angela. Devo ringraziarla, non credo che qualcuno l’abbia mai fatto in tutti questi anni. Nessuno le ha mai detto grazie per il lavoro eccelso che fa, pur se occulto, e che contribuisce non poco a mantenere l’armonia tra gli inquilini. Io sono convinta che ognuno di noi sia qui per svolgere un compito. Non sono una cattolica invasata, sono solo convinta che ognuno abbia un incarico da svolgere inconsapevolmente, che tutti noi abbiamo un’utilità nella vita. Non so se esista un Dio che orchestra tutto questo dietro le quinte, potrebbe essere anche solo la nostra natura che per risarcire i danni
causati ci costringe alle buone azioni. O potremmo essere noi stessi a voler lasciare un buon ricordo in almeno qualche persona che ci sopravvivrà. Non sono in grado di fornire una spiegazione ma ci credo fermamente anche perché ne ho riscontrato le prove in alcuni casi di persone che giudicavo totalmente inutili e ho poi scoperto che ognuno di loro aveva avuto un ruolo di rilievo in qualche momento della loro vita. Quello di Angela potrebbe essere questo. Intanto io oggi ho preso un giorno di ferie per fare la mia solita visita annuale dal neurologo per monitorare lo stadio della mia cara malattia. Buon caro vecchio Parkinson. Ho ato la mattinata in coda nelle varie corsie dell’ospedale, coda per il prelievo, coda per la cassa, coda per la visita. Ho contato a ritroso per una dottoressa che aveva mille altri interessi e mentre mi colpiva con il martelletto rispondeva ai vari sms degli amici. Ho contrastato le sue spinte con la mia forza cercando di mantenere l’equilibrio, riuscendoci. Ho risposto a mille domande banali, ho immaginato di vedere numeri e figure all’interno di schemi composti da pallini colorati. Tutto questo per sentirmi dire che la mia malattia ha raggiunto un livello di stabilità tale da non consentire ancora una cura farmacologica adeguata. In altre parole per iniziare a curarmi devo aspettare di peggiorare. Quindi non ho modo di migliorare, anzi. Continuerò a cercare di nascondere il tremore e più lo nasconderò più mi innervosirò e più lui si manifesterà… Che bello. Con questo spirito non accetterò più inviti a cena da nessuno, non che ne abbia ricevuti molti ultimamente però mi sto precludendo anche quelle poche chances che mi rimanevano. A volte ho la sensazione di rimandare la mia vita, come quando si rimandano le cose difficili da risolvere. Mi occupo degli altri per non occuparmi di me stessa. E quando riprenderò in mano la mia esistenza sarà troppo tardi. Il tempo avrà risolto per me molti dei miei problemi anche se non nel modo che avevo scelto. Mia mamma non ci sarà più, mio fratello sarà vecchio, non avrò permesso a nessuno di rimanermi vicino e sarò vecchia e malata, pronta per occupare una delle camere dei miei amici di adesso, nel posto in cui o molto più tempo di quanto dovrei. Non mi piace per niente. Devo fare qualcosa.
MARINA
Quanto sono lunghi i giorni rinchiusa qui dentro? Prima non mi bastavano mai le ore della giornata, avevo mille interessi, mille cose da fare, arrivavo a sera sfiancata ma felice. Ora sono qui immobile ad aspettare che il tempo i. A volte mi scopro a fissare i miei quadri, la foto di Isadora, la parete, come se non contassero nulla. Non è possibile, i miei oggetti sono sempre stati la mia salvezza, non posso cambiare così. Questo posto ha il potere di destabilizzarmi e io non voglio che questo accada. Devo scuotermi, non devo permettere a niente e nessuno di rendermi un vegetale… Anche la solitudine prima non mi pesava, l’ho vissuta sempre come un privilegio, in realtà non mi sentivo sola, ero in compagnia dei miei oggetti, delle mie piante, della mia musica. Nei momenti di malinconia accendevo l’impianto stereo e diffondevo la mia melodia per tutte le camere, poi abbracciavo un cuscino e cominciavo a volteggiare ad occhi chiusi tra mobili di cui conoscevo perfettamente la disposizione. Fino a crollare esausta sul letto o sul divano o in poltrona, esausta ma felice, dimentica di qualsiasi inquietudine. Come potrei farlo qui? Come potrei ballare ad occhi chiusi in questa stanza di tre metri per quattro, ingombra di mobili che ancora non conosco, su questo pavimento freddo come il mio cuore? Con queste gambe che sento lamentarsi ad ogni movimento?
Sono così frastornata che mi pare di sentire bussare alla porta ma non può essere, sono le tre del pomeriggio, a quest’ora tutti i miei colleghi dormono. Sembra che non facciano altro, si svegliano per mangiare e mangiano in fretta per correre a riposarsi.
Eppure la porta si schiude anche se io non mi alzo a rispondere, si schiude e si affaccia un viso che conosco… Michela, buon Dio, che piacere rivederla… credo sia ata solo una settimana dalla sua visita ma mi sembra un secolo. Mi alzo per abbracciarla, è sola, per fortuna, ed è carica di sacche. Ha portato i miei tappeti… ne sono felice anche se mi conferma che non sarà una permanenza breve. Vuol dire che potrò nascondere questo pavimento freddo che mi mette tristezza. Vuol dire che potrò camminare scalza e magari anche improvvisare qualche piccolo o di danza ad occhi chiusi. Appena le mie gambe me lo permetteranno.
Michela è il mio unico contatto con il mondo esterno, l’unica persona che mi ricorda la mia vita. Mi racconta che ha lottato con tutti per ottenere i miei tappeti, secondo i miei amati parenti non mi servono. Che cari. Ormai è un dato di fatto che posso fidarmi solo di lei, alla faccia di chi decanta il tanto sopravvalutato legame di sangue. L’unica persona che tiene a me in quel branco di lupi è una parente acquisita…
Abbiamo disteso i tappeti sul pavimento e già mi sentivo meglio. Ho voluto lasciare solo lo spazio per poter aprire la porta ed entrare, come fosse una immaginaria linea gialla oltre la quale si entra nel mio mondo. Chiunque voglia oltrearla dovrà chiedere il permesso e togliere le scarpe. Quando Michela se n’è andata ho chiuso la porta a chiave, ho messo su la musica di Tchajkovskij, lo Schiaccianoci, e mi sono stesa a terra con gli occhi chiusi. Appena le note sono arrivate al culmine i miei piedi hanno iniziato a muoversi da soli, sempre persa nella musica mi sono alzata e ho ballato. Come in trance. Le gambe mi sostenevano, il dolore, la pesantezza erano svaniti. Che sensazione meravigliosa, ho speso tutta la mia vita per quella sensazione. Quando la musica è cessata ero al centro della camera, in piedi, ancora sulle punte. Stanca ma pervasa dall’euforia di quel momento. Sono io, sono sempre io. Qualunque cosa mi facciano non potranno mai togliermi questa consapevolezza. Le mie ali sono dentro di me nascoste agli altri ma io so come raggiungerle.
Immersa in questi pensieri non mi sono accorta che c’era qualcuno alla porta. La solita ragazza. Ma io ero talmente felice che l’ho invitata ad oltreare la mia linea gialla.
CLARA
Ho sentito il volume altissimo della musica che proveniva dalla camera di Marina e mi sono preoccupata. Era musica classica, ho sempre creduto che quel tipo di musica vada ascoltato nei momenti di relax quindi a volume basso, seduti
in poltrona magari con un buon bicchiere di whisky in mano da assaporare. E’ strano perché io non ho mai amato i superalcoolici e non vedo cosa ci sia da assaporare a parte il bruciore di stomaco… Fatte queste considerazioni, il volume così alto mi sembrava strano e ho bussato alla porta. Ovviamente nessuno mi ha aperto e io, dopo aver bussato un paio di volte, ho provato ad aprire. Il fatto che la porta fosse chiusa a chiave mi ha allarmata ancora di più. Ho pensato subito ad un gesto estremo, avevo i battiti a mille quando improvvisamente la musica è cessata. Ho continuato a bussare finché la porta non si è aperta. Sono rimasta senza parole. Quella camera ha su di me una sorta di effetto ipnotico. Non riesco a non farmi catturare da tutti quegli oggetti, da quei colori. Marina mi ha invitata a entrare con lo sguardo rivolto ai miei piedi, quando ho notato i tappeti ho capito che dovevo lasciare gli zoccoli nel piccolo spazio delimitato dal battente della porta. Li ho sfilati e sono entrata richiudendomi la porta alle spalle. Tutto il pavimento è stato coperto di tappeti, l’unico spazio libero è proprio quello che consente alla porta di aprirsi. Lei è tornata al centro della stanza, scalza, in piedi, con una strana luce nello sguardo, una luce che non le avevo mai visto e che mi ha conquistato all’istante. Il sole che filtrava attraverso la finestra la illuminava come una visione. Era stupenda. In quel momento sono stata sua, senza remore, senza esitazioni. Avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa e io avrei dato la mia vita per esaudirla. A pensarci ora mi spaventa, è un sentimento che non ho mai provato, credevo che i colpi di fulmine potessero colpirmi solo nei confronti di qualche bel rappresentante dell’altro sesso e invece scopro che non è così. Ovviamente è un altro genere di innamoramento, è una specie di comunione di anime, un’infatuazione platonica. E’ come sentirsi a casa con una persona che non conosci ma che aspettavi da anni. Le ho confessato subito il motivo della mia impazienza, la paura di un suo gesto estremo, ma era talmente fuori luogo in quel momento che mi scappava da ridere. Anche lei ha sorriso e mi è sembrata felice. Mi sono sentita autorizzata a guardarmi in giro con calma. Quadri, colori, mobili e ricordi. Si è costruita un’isola in mezzo al nulla, un rifugio dai dolori che si incontrano appena fuori dalla porta. Non le dico nulla, perché il contesto è e rimane il peggiore che si possa immaginare, però vorrei avere anch’io un posto così se fossi costretta a vivere qui. Anzi vorrei che ce lo avessero tutti, sarebbe bello che ognuno di loro potesse ricrearsi un pezzo di casa propria in cui rifugiarsi, invitare gli amici, fingere di non essere qui. Magari non sarei costretta a vederli seduti abbioccati sulle sedie nel salone per tutto il pomeriggio, tutti i pomeriggi, settimana dopo settimana, mese dopo mese, vorrei dire anno dopo anno ma non tutti rimangono
qui per un periodo così lungo… Tra tutti gli oggetti che ci sono, uno in particolare ha attirato la mia attenzione: una fotografia. La foto di una donna che risale agli anni ’20 in una posa da diva. Non è nuova, anche la cornice è logora, si vede che rappresenta qualcosa di profondo. E’ un’immagine che ho già visto, mi sembra di riconoscere quella bellissima donna, potrebbe essere Isadora Duncan, la sventurata ballerina degli anni ’20. E non sarebbe neanche troppo strano trovarla qui. La prendo in mano dopo averle chiesto il permesso, la soppeso sotto il suo sguardo enigmatico. Sta aspettando un mio commento, mi sento un po’ sotto esame. Ci provo, che sarà mai? Le chiedo se si tratta di Isadora Duncan e i suoi occhi tornano a ridere. C’ho preso. Ho detto la cosa giusta. Ora mi spetta di diritto la sua spiegazione e io mi bevo ogni parola. Mi ha raccontato prima di Isadora e poi di quanto quella foto significhi per lei. Io non sapevo molto, ricordavo solo che la Duncan morì strangolata dalla sciarpa che portava al collo che si impigliò in una ruota della macchina sulla quale era appena salita, certa di andare incontro alla gloria. Che fine beffarda. Ho saputo da Marina che aveva già perso due figli piccoli e anche il marito in circostanze misteriose. Ma quel che più importa, a parte le sue tragedie personali, è il rinnovamento che portò nella danza. Abolì dalle sue scene le scarpette a punta e i costumi di scena dell’epoca, per danzare a piedi nudi e con abiti leggeri che lasciavano libero il suo corpo e i suoi movimenti. Danzava su musiche di Chopin, Beethoven e fu la prima ad ideare la danza teatrale. Influenzò a tal modo quel mondo che Lenin in persona la invitò a Mosca per aprire una scuola di danza. Ora capisco il motivo per cui Marina ne è così affascinata, dice che questa foto la accompagna da quando ha iniziato a danzare, fu un regalo della sua prima insegnante. L’ha sempre accompagnata in ogni suo viaggio, in ogni hotel, in ogni teatro. Mi ha detto che i suoi nipoti l’avevano persa quando lei si è sentita male, forse l’avevano già buttata, chissà… Resta il fatto che l’unica nipote degna di questo titolo, Michela, l’ha ritrovata e gliel’ha portata. Le ho chiesto che musica fosse quella che sentivo prima e mi ha spiegato che era il secondo atto dello Schiaccianoci, su musica di Tchaikovskij, il momento in cui la bambina Clara si risveglia dal suo sogno con il Principe Schiaccianoci tra le braccia. Clara… Come me… Dove sarà il mio principe? Dove sono i miei sogni? Mi piacerebbe poter trasformare tutta la mia vita nei sogni ma evidentemente non mi è concesso… I genere i miei sogni sono cupi e angoscianti. Prima o poi dovrò affrontare la situazione. Per un attimo ho pensato che volesse prendermi in giro, quando ho sentito il mio nome abbinato a un balletto ho creduto che se lo fosse inventata sul momento.
Invece è vero, la bambina della storia si chiama proprio così, sono io che sono totalmente ignorante in materia. E questa è solo la prima delle coincidenze che ci legano, l’altra è il giorno del nostro compleanno, lo so perché ho sbirciato i fogli della sua accettazione, siamo nate entrambe il 21 di giugno, il solstizio d’estate, lei nel 1936 e io nel 1976. Non le ho detto nulla, mi riservo di dirglielo quando il nostro rapporto sarà più profondo. Intanto le ho chiesto di istruirmi un poco sul mondo della danza, mi pare che sia un universo a sé, del tutto slegato dalla realtà che lo circonda. Vedo le ballerine come fossero esseri di un altro pianeta, eteree, leggere, costantemente vestite di tutù e scarpette con la punta di gesso. Le vedo camminare, muoversi, sempre con questa grazia estrema che le contraddistingue. E’ un mondo che mi ha sempre affascinata eppure non ho mai visto una rappresentazione, so che la danza è sacrificio ma non ho mai approfondito. Credo di aver visto da qualche parte, probabilmente in TV, il balletto dei cigni, quello con la morte del cigno, momento che mi ha rattristata per il semplice fatto che la morte di un animale mi commuove sempre. Conosco Carla Fracci, forse la più grande in Italia, conosco Alessandra Ferri e Eleonora Abbagnato. E Roberto Bolle, chi non lo conosce? So chi sono perché sono personaggi pubblici, non sicuramente perché li ho visti ballare. Ho visto e apprezzato molto il film Billie Helliot. Ho sentito periodicamente le polemiche sull’anoressia delle danzatrici e non sono riuscita a farmi un’opinione mia. Punto. La mia conoscenza sul mondo della danza classica finisce lì. E al cospetto di Marina mi sono un po’ vergognata nel confessare la mia ignoranza. Lei però è stata gentile e mi ha detto che sarà felice di mettere a mia disposizione le sue poche nozioni di danza. Poche nozioni di danza… Ha detto proprio così… Mentre mi guardavo in giro per nasconderle la mia espressione sorpresa, l’attenzione mi è caduta sul grande baule che avevo già visto coperto di cuscini, era aperto, non mi sono avvicinata ma si vedevano alcune scarpine spuntare con i loro nastri di raso. Due erano bianche, lontane l’una dall’altra, come fossero state usate da poco. Altre due, rosa, erano strette tra loro in un abbraccio avvolto dai quattro nastri rosa. Marina ha notato il mio sguardo e si è avvicinata al baule per richiuderlo. Prima però ha raccolto le due scarpette bianche e con infinita delicatezza le ha avvolte insieme con i loro nastri, le ha tenute per qualche secondo strette a sé e poi le ha riposte all’interno del baule chiudendolo. Ha raccolto i cuscini che erano a terra e li ha sistemati di nuovo come li avevo già visti.
Mi è sembrato per un attimo di violare la sua intimità. Ho cercato qualcos’altro che attirasse la mia attenzione e il mio sguardo si è posato su un’altra foto. Questa era sua, era lei, giovane, su un palco, impegnata a salutare il pubblico. L’ho riconosciuta subito, gli stessi occhi, lo stesso sorriso, anche se non ho avuto modo di vederlo molte volte. La foto è in bianco e nero e questo la rende ancora più suggestiva, la posizione è quella classica delle ballerine quando ringraziano, quella sorta di inchino grazioso con la gamba in avanti e il busto piegato. Dietro di lei si intravede tutto il corpo di ballo. A terra sul palco alcune rose che paiono bianche. Come il tutù. Sembra una farfalla bianca su un palco grigio. Mi ha spiegato che il suo fotografo di scena amava ritrarla in quei momenti, questa immagine l’ha scattata al teatro dell’Operà di Parigi, nel 1961, lei era Bathilde in Giselle, per la prima volta aveva un ruolo di primo piano sulla scena, la prima di tante rappresentazioni successive. Un’emozione unica. Ho omesso di dirle che non so minimamente chi siano Bathilde e Giselle ma mi sa che se n’è accorta. Mi ha guardata con gli occhi lucidi e io mi sono sentita in colpa un’altra volta. Ho cambiato discorso chiedendole quando fosse disposta ad iniziare le lezioni. Ci siamo accordate per iniziare dopo le feste, ormai manca poco a Natale, e sono uscita con gli zoccoli in mano.
MARINA
Che coincidenza. Si chiama Clara. Come la bambina dello Schiaccianoci che stavo ascoltando. Mi è sembrata una ragazza sincera con quei suoi occhi verdi curiosi. E pure simpatica perché ha ammesso di essere totalmente ignorante nel campo della danza e mi ha chiesto di istruirla. Lo farò, ma solo se vedrò in lei un interesse reale. Nel momento stesso in cui mi parrà di leggere un accenno di noia nel suo sguardo sospenderò la cosa. Non sono mai stata una buona insegnante, la mia pazienza è molto limitata. Mi piace il suo sguardo quando entra qui e la sua discrezione nonostante la curiosità. E mi piace il fatto che abbia riconosciuto Isadora, non me lo sarei mai aspettata. Ovviamente conosce la Duncan per via della sua tragica storia, però è già un primo o. I giovani conoscono solo Roberto Bolle e ignorano chi sia stato Nureyev… In effetti quando le ho parlato di Giselle e di Bathilde le si leggeva chiaramente in faccia che ignorava chi fossero però voglio darle una possibilità. Servirà anche a me per impegnare un po’ di questo tempo che prima non bastava mai e ora sembra fermarsi. Sono stata
sgarbata quando ho visto il suo sguardo posarsi sul mio baule aperto, ho raccolto le scarpine e l’ho richiuso. Mi spiace ma sono cose mie che non mi sento di condividere con nessuno per il momento. Ho già detto troppo quando le ho raccontato della foto di scena, per un attimo sono stata sommersa dai ricordi e dalla nostalgia. Dalla consapevolezza che quel tempo è ato e non ci sarà mai un ritorno. Per fortuna è uscita in punta di piedi, senza soffermarsi sui miei occhi lucidi, senza scavare nel mio dolore.
Inverno
MARINA
Natale. Il mio primo Natale da reclusa. Per molti anni della mia vita ho ato le feste lontana dalla mia famiglia. Le tournée di questo periodo erano solitamente quelle che mi portavano più lontano. Tuttavia non ho mai sofferto di solitudine perché i miei colleghi erano diventati la mia famiglia, non ho mai sofferto la lontananza finché non ho incontrato il grande amore della mia vita. Quelli sì sono stati Natali difficili, ore e ore al telefono o a scrivere lettere per alleviare un po’ la distanza. Sempre con il timore di non riuscire a sentire neanche la sua voce a causa delle linee disturbate o interrotte. Negli anni successivi ho cercato di tenere la mente occupata per evitare di pensare. Per oltre trent’anni il 25 dicembre e il 1 di gennaio sono stati per me giorni anonimi. Mi costringevo a fare qualche telefonata di rito, a rispondere con gentilezza agli auguri che mi venivano fatti. Niente di più, anche se le luci della città vestita a festa mi hanno sempre affascinata. Quest’anno le luci della città mi devono raggiungere qui, io non posso uscire a eggiare nella notte. E questa cosa mi manca come se fosse l’ultimo Natale che vivrò. Credo che sia per via delle privazioni imposte da queste nuove regole di vita, del mio rifiuto di accettarle.
Le ragazze hanno appeso ai corridoi delle decorazioni sbiadite, sospetto che siano sempre le stesse ormai da anni. Nel salone in cui i miei coinquilini si riuniscono hanno allestito un albero di Natale con le lucine che si accendono di sera. Considerando che la maggior parte di noi la sera la trascorre in camera mi chiedo chi vogliano rallegrare quelle lucine.
In un altro angolo c’è anche il Presepe, con le statuine spaiate e di dimensioni diverse tra loro, cosicché le oche risultano più grandi delle pecore e Gesù Bambino ha le stesse dimensioni dei pastori in visita. Mi infonde una tristezza
infinita ma anche un po’ di curiosità. Tornerò a guardarlo da vicino quando sarà il momento di inserire i Re Magi con il cammello perché voglio vedere se le tradizioni verranno rispettate e soprattutto voglio vedere le dimensioni del cammello.
Oggi pomeriggio poi, hanno anche organizzato una festicciola per noi e i nostri parenti con panettoni, pandori e spumante a fiumi. Che desolazione.
Mi rifiuto di partecipare a queste farse che hanno il solo scopo di alleviare il senso di colpa dei parenti. Io non mi sento una di loro. Mi spiace perché ho imparato a voler bene a qualcuno qui ma non sono e non sarò mai una di loro. So che non dovrei dirlo ma vederli tutti lì felici, accanto a parenti che si ricordano di loro una volta all’anno, mi ha fatto pena e rabbia. Pena per i miei “colleghi”, rabbia per i parenti. Vorrei che si strozzassero tutti con le loro fette di panettone, i loro bicchieri di spumante da due soldi e i loro sorrisi.
Per fortuna Michela mi ha chiamata un paio di giorni fa e le ho vietato di venire, facendo così un grosso favore a tutti gli altri.
Questo è dunque il regalo di Natale che ho fatto ai miei parenti. Non so se sarò così buona da ripetermi negli anni a venire.
CLARA
Natale, Capodanno, questo è il periodo dell’anno in cui i colleghi mi apprezzano maggiormente. Sanno perfettamente che sono ben lieta di accollarmi qualsiasi turno difficile, dal 24 di dicembre al 6 di gennaio. Per loro diventa una lotta a chi me lo chiede per primo, per me di solito si trasforma in un tour de force per
cercare di accontentarli tutti. Chissà se si sono mai chiesti perché lo faccio. Non è poi così importante. L’essenziale per me è are le feste con le persone a cui tengo di più; e sono tutte qui. Per Natale la Direzione organizza una festicciola alla quale vengono invitati i parenti. In questa occasione il mio compito si limita a controllare che tutti abbiano almeno un visitatore e, nel caso in cui il visitatore non ci sia, a cercare di sdrammatizzare il momento con la mia compagnia e qualche chiacchiera leggera. Per il Capodanno invece mi viene data carta bianca, nessuno ha voglia di venire a rinchiudersi qui e questo mi permette di trascorrere la sera del 31 dicembre come preferisco: insieme ai miei amici nottambuli a giocare a carte, dopo aver salutato chi non ha voglia di aspettare il nuovo anno e se ne va a letto prima di mezzanotte. Ogni anno organizzo una sorta di torneo a coppie, stando attenta a non ripetere mai la formazione delle coppie degli anni precedenti, per evitare che certe assenze possano rovinare il clima festoso. La più richiesta è Angela perché, nonostante lei affermi di non saper giocare, puntualmente ogni anno viene baciata da una fortuna sfacciata che la porta immancabilmente sul podio. I premi per i vincitori li porto io, spendo parte della mia tredicesima per fare delle targhette che poi i miei amici appenderanno alle pareti delle loro camere e mostreranno con orgoglio a quei parenti che li hanno lasciati soli. Sono riuscita a far sì che subito dopo la tristezza del party di Natale scatti il fermento per il torneo di Capodanno. Ho cercato di coinvolgere più gente possibile, non solamente i giocatori incalliti, e cosa c’è di meglio delle penitenze per incuriosire i semplici spettatori? Dunque ad ogni girone i perdenti devono sottoporsi a delle penitenze che decido io in qualità di organizzatore e giudice unico, al riparo da interferenze esterne (è incredibile il numero di proposte che ricevo tra Natale e Capodanno circa le penitenze da adottare, sempre più fantasiose…). Solitamente le mie penitenze consistono in baci da scoccare sulle guance dei nemici, in rari casi anche sulle labbra. Questa cosa li diverte tantissimo. Mettiamo su anche un po’ di musica, caso mai qualcuno volesse ballare, tutti devono sentirsi liberi di farlo. Ovviamente quest’anno ho invitato anche Marina ma non pensavo che fosse una cosa adatta a lei. E’ stata una piacevole sorpresa vederla arrivare tra i primi e vederla partecipare attivamente al torneo. Si è rivelata una esperta giocatrice di scala 40 e ha fatto coppia con il geometra Rivera, uomo d’altri tempi, sempre gentile e premuroso con tutti. Sono arrivati terzi scambiandosi sorrisi e gentilezze per tutto il tempo. Come previsto Angela si è classificata al secondo posto in coppia col signor Franco che non ha perso occasione per fare il cascamorto con lei. Ha vinto la coppia formata
dall’Ingegner Tronis e dal suo dirimpettaio Carlo, per l’occasione l’ingegnere ci ha regalato uno dei suoi rari sorrisi. Io ho partecipato ma, come ogni anno, sono arrivata ultima. Sta diventando un problema trovare un partner, nessuno vuole più fare coppia con me. Io continuo ad accampare la scusa della sfortuna ma sospetto che abbiano mangiato la foglia. A mezzanotte abbiamo interrotto le partite per brindare tutti insieme, alcuni con lo spumante, altri con l’aranciata, altri ancora con l’acqua frizzante. Non importa quello che c’è nel bicchiere, l’essenziale è bere alla salute di tutti i presenti. I baci delle penitenze sono stati fonte di divertimento per tutti i partecipanti. E’ stata tutto sommato una bella serata, non credo che mi sarei divertita così tanto se fossi rimasta a casa, senza nulla togliere alla mia Bisy. Alle due di notte ho mandato quasi tutti a nanna, poi ho messo un po’ in ordine stando attenta a non disturbare quei due seduti in un angolo a parlare fitto: Marina e il geometra Rivera. Che sorpresa. Me ne sono andata in punta di piedi. Alle tre del mattino del primo giorno dell’anno ho finalmente abbracciato e fatto gli auguri alla mia famiglia: la mia gatta Bisy.
MARINA
Ho ato il più bel Capodanno dei miei ultimi trentatré anni. Mi duole dirlo ma è innegabile. All’inizio sembrava una riunione massonica, già alcuni giorni fa qualcuno accennava con estremo riserbo al torneo di Capodanno ma io, in quanto appena arrivata, non sono stata coinvolta. Me ne ha parlato Clara invitandomi a partecipare. Dalla sorpresa che ho letto ieri sera nel suo sguardo non credo si aspettasse di vedermi lì. E’ stata una sorpresa anche per me, non avevo neanche considerato di partecipare, non so cosa mi abbia spinto a farlo, me lo chiedo ancora adesso. Ho anche avuto modo di conoscere meglio il geometra Rivera, uomo gentile ed educato, ci siamo divertiti molto a giocare in coppia. Devo convenire che i ragazzi qui non sono tutti così rimbambiti come credevo. Con il geometra siamo arrivati terzi e abbiamo vinto una bella targhetta da appendere alle pareti delle nostre camere. Dopo la premiazione io e il geometra siamo rimasti un altro po’ a parlare. Devo smettere di chiamarlo geometra, ha insistito tanto perché lo chiamassi Aldo. Credo di piacergli un po’,
so ancora riconoscere un uomo che fa il galante. Fuori da questo contesto saremmo anacronistici ma qui siamo perfettamente a nostro agio. Lui è rimasto vedovo cinque anni fa e ha voluto trasferirsi qui per non essere di peso ai due figli che vivono fuori città con le loro famiglie. Ha un anno più di me e una dote ormai rara: è un buon ascoltatore. Ci siamo raccontati parte delle nostre vite, finché l’orologio nel salone ha battuto le tre. A quel punto mi ha accompagnata alla mia camera e ci siamo salutati augurandoci buon anno.
Se il mio cuore fosse libero potrebbe forse nascere qualcosa ma non lo è. E’ occupato, sbarrato da così tanti anni ormai che non sarei più in grado di aprirlo.
CLARA
Oggi mi ha chiamata mio fratello. Non riesco neanche a chiamarlo per nome, devo dargli una definizione anche con me stessa. Non mi viene da dire “oggi mi ha chiamata Gianni”, nonostante io sappia benissimo di essere la sola e unica causa del nostro allontanamento. Nonostante io sappia che a lui deve essere costato tantissimo comporre il mio numero di telefono. Ho paura che non sia stata una sua idea, penso che sia stato spinto da sua moglie e forse anche da mia mamma. Forse ha saputo che sono cambiata, che non sono più quella di prima. Purtroppo io non riesco a dimenticare la nostra ultima telefonata, quando mi ha detto di non chiamare più. Questo maledetto orgoglio mi impedisce di perdonargli quelle parole, quando so benissimo che lui ha molto di più da perdonare a me. Dovrei ripetermelo come un mantra quando parlo con lui. Ci parlo così poco. Mi coglie sempre impreparata. Non credo che lui si aspetti di sentirmi affettuosa, anzi probabilmente non si stupirebbe neanche un po’ se io lo mandassi a quel paese. Però io non voglio, mi sono ripromessa di riallacciare i rapporti e ora mi viene servita l’occasione giusta. Mi sento malissimo, come se dovessi risolvere il peggiore dei problemi. Come se dovessi affrontare uno sforzo immane. Invece dovrei solo andare da lui ed abbracciarlo, come faccio con i miei amici. Con loro però ho la certezza di essere apprezzata. Con lui ho paura di essere
respinta e così lo respingo io per prima. Dio, com’è complicata la mente umana… Comunque, tra un silenzio e l’altro, sono riuscita a capire che mia cognata è incinta del loro primo bambino e sono molto felici per questa cosa. Quindi mi offrono l’occasione per rientrare in famiglia in punta di piedi col capo cosparso di cenere. A condizione che io lo voglia e che io prometta solennemente di impegnarmi a mantenere i contatti anche in futuro. Mi ha detto proprio così, testuali parole, mi ha posto questa condizione. E io che ho già dichiarato più volte che è proprio questo quello che voglio, di fronte a questa imposizione mi blocco e non vado oltre. Sono permalosa, lo so. Avrei voluto rientrare nella mia famiglia dalla porta principale, con tutti quanti ad aspettarmi a braccia aperte, ma non sarà così e non posso biasimarli. Rientrerò dalla porta di servizio e ringrazierò questo bambino che me ne ha dato la possibilità. Devo solo scrollarmi di dosso questa sensazione sgradevole, magari sparirà col tempo, magari fra un paio di giorni la situazione mi sembrerà diversa. Per la prima volta sento il bisogno di parlare con qualcuno che non sia la mia gatta, qualcuno che possa darmi delle risposte o perlomeno dei consigli. Al lavoro nessuno sa della mia vita più di quanto abbia voluto far sapere io e questo equivale a dire che nessuno sa cosa facevo e chi ero prima, sanno semplicemente che vivo da sola con la mia gatta, che non ho molti amici e che sono un tipo solitario. I più attenti si sono senz’altro accorti dei rapporti che instauro con alcuni ospiti dell’Istituto e dei miei giorni di ferie che casualmente richiedo quando questi ci lasciano per are a miglior vita. Nessuno però ha mai obiettato nulla anche perché vedono in me una dedizione assoluta nei confronti del mio lavoro che, davvero, non cambierei con nessun altro al mondo, anche se ogni volta ci soffro maledettamente. Soltanto una volta una persona mi ha detto che dovrei allentare un po’ i miei rapporti con loro, prendere le distanze da ciò che succede al lavoro. Era un infermiere di servizio al pronto soccorso la sera in cui ho accompagnato Agnese, la quale aveva avuto la pessima idea di sentirsi male in un momento in cui le sue figlie erano occupate e non avevano assolutamente il tempo di accorrere al suo capezzale. Potevo forse mandarla da sola??? Lui ha creduto che fossi la figlia e quando gli ho spiegato la situazione mi ha appunto consigliato, per il mio stesso bene, di mollare un po’ le catene che mi legano a loro. Mi aveva già vista con altri prima di lei e si era chiesto quale fosse il mio ruolo. Lo so che aveva ragione ma io non ci riesco, non sempre le cose ragionevoli
sono le migliori da fare. Tutta la mia vita ne è la dimostrazione. Chissà se Marina ha voglia di rimandare le nostra prima lezione e di ascoltare la mia storia. Chissà se ha voglia di dimenticare per un attimo i suoi problemi per concentrarsi sui miei. Non dovrei farlo, lo so, proverò a concentrarmi su quanto mi dirà lei, ad allontanare temporaneamente i miei dubbi. Ma mi conosco, non credo che ce la farò.
MARINA
Mi ero preparata per bene. Oggi avevo la prima lezione sul balletto e la danza classica con Clara. Avevo preparato il cd e il dvd dello Schiaccianoci, sapevo di averlo in fondo al baule dei miei ricordi. Mi sembrava giusto partire dalla musica che ascoltavo il giorno in cui mi sono accorta di lei. Tchaikovskij. Ero pronta ad iniziare la mia lezione sul ato quando gli occhi di Clara mi hanno fatta tornare al presente. Aveva uno sguardo triste che credo di non averle mai visto. Ho finto per un po’ di non essermi accorta di nulla, ho parlato della bambina Clara che riceve in regalo Lo schiaccianoci a forma di soldatino, ma quando ho capito che ogni mio sforzo sarebbe stato vano e che la sua espressione non sarebbe cambiata, ho deciso io di cambiare la mia lezione. “Nonostante avesse ricevuto il suo regalo la bambina Clara era infelice e non riusciva a sorridere, nonostante qualcuno di fronte a lei tentasse di farla ridere i suoi occhi rimanevano tristi. Secondo te, perché? Perché questi occhi?”. Lì per lì non ha afferrato, lei pensava davvero alla bambina Clara e ha improvvisato un “Non so, forse desiderava qualcos’altro?” “E’ vero, lei desiderava qualcos’altro ma non è la sola Clara che desidera qualcos’altro. Vogliamo parlarne?” Allora ha capito ed è evidente che non vedeva l’ora di parlare perché non si fermava più. Mi ha raccontato la sua vita per poi chiedermi un consiglio sul comportamento da tenere ora. Se pensavo di aver vissuto una vita complicata devo ammettere che anche lei non scherza. Però non riesco a vedere in lei la persona che dice di essere stata. Per come la conosco ora mi sembra incredibile che possa essere stata una persona fredda, venale e distaccata. Eppure che motivo avrei per dubitare delle sue parole? Non me la vedo nei panni di una mitomane… Qualcuno dice che non si cambia mai nella vita, io invece penso che sia possibile, che esistano delle circostanze capaci di mutare le persone, degli
episodi di fronte ai quali siamo costretti a cambiare per non soccombere. Per me è stato così. Probabilmente anche per lei, forse ha solo ignorato volontariamente le prime avvisaglie finché il suo mondo le è imploso attorno. E in quel momento l’unica via di uscita era trasformarsi. Peccato che l’abbia fatto con troppo ritardo, quando ormai aveva già perso le persone che contavano di più per lei.
Le ho detto di seguire il suo cuore. Dio solo sa che io non sono la persona più adatta a elargire consigli di vita vista la mia esistenza solitaria e visti i rapporti che mi legano ai miei parenti più stretti. Sono consapevole di essermi costruita un’immagine arida agli occhi di chi mi conosce, ma lei non è così, le è stata offerta l’occasione di rimediare e io credo che debba approfittarne anche se sarà difficile. Il primo o è fatto, Clara riconosce di essere stata la causa della rottura di tutti i rapporti con la sua famiglia. Questo è l’ostacolo più alto, tutto il resto verrà da sé, anche se sarà dura chiedere scusa. Riconoscere i propri errori e chiedere scusa alle persone che abbiamo ferito è sempre la soluzione più difficile ma anche la migliore se il nostro cuore è sincero. E io so quanto sia importante nella vita avere accanto delle persone che ci amano anche se non necessariamente devono avere legami di sangue. Questo bambino ha probabilmente offerto a tutti quanti l’occasione per chiarire un mare di questioni irrisolte, senza costringere qualcuno in particolare a colpevolizzarsi troppo. Sarebbe da ringraziare solo per questo. Perché senza di lui nessuno avrebbe trovato la forza di riavvicinarsi. Certo, è facile parlarne da fuori, dare consigli quando non si è coinvolti. Capisco che Clara si senta forzata nei modi e nei tempi, perché lei non si sente ancora pronta, ma non può rimandare e perdere quest’occasione. Se lo fa se ne pentirà per tutta la vita e non si sentirà mai pronta. Chi di noi si sentirà mai pronto a cospargersi il capo di cenere e a chiedere perdono per i propri peccati??? Aspetterà il secondo figlio? E se non dovesse esserci? Il tempo che a poi rende tutto più difficile. Clara non può rimandare, deve assolutamente cogliere quest’occasione. Spero lo faccia.
Per convincerla ho usato anche l’arma del ricatto, le ho detto che per seguire le mie lezioni il suo cuore deve essere leggero, quindi l’insegnamento è sospeso fino a quando lei avrà risolto la sua situazione. O almeno fino a quando avrà iniziato il processo di riavvicinamento.
Nel frattempo vorrei che mi tenesse aggiornata, non solo per crearmi un diversivo ma perché ho scoperto di tenere a lei più di quanto credevo. Non voglio vederla infelice.
CLARA
Parlare con Marina mi ha fatto bene. Mi ha anche sorpresa un po’ questo suo interesse. Io solitamente non mi aspetto mai nulla dalle persone e questo è il motivo per cui non mi deludono mai. A volte poi qualcuna mi sorprende piacevolmente come ha fatto ieri Marina. L’ho vista partecipe e mi ha dato alcuni consigli che ho deciso di seguire. Anche perché, dentro di me, avevo già deciso di agire così. Ho scelto la via più facile anzi la meno difficile. Ho scritto un sms a mio fratello. A voce sarebbe stato troppo arduo. Il testo era molto semplice: “Grazie”. Solo quello, credo che possa bastare e credo che sia più di quanto si aspettasse. Mi è arrivata ora la sua risposta: “Ok. Ci sentiamo. Ti aggiorno.”. Bravo. Chiaro e conciso, senza fronzoli. Mandiamo avanti questa cosa senza doveri imposti, sarà più facile per tutti. Io, dal canto mio, prometto che ce la metterò tutta.
MARINA
Altra lezione saltata, comincio a credere che Clara non abbia così urgenza di entrare nel mondo della danza teorica, ho il sospetto che sia maggiore la sua necessità di dialogare con qualcuno. Nel pomeriggio, quando è venuta da me, stavo leggendo per l’ennesima volta alcune pagine di un libro che mi accompagna ormai da anni, è un libro leggero, poco impegnativo ma tenero quanto basta per riconciliarmi con il mondo esterno e per strapparmi qualche sorriso. Si intitola “Se solo fosse vero” di Marc Levy e racconta di un architetto che si innamora del fantasma di una dottoressa in coma, la loro storia,
contrariamente alla mia, finisce abbastanza bene. E continua in un secondo romanzo che però non ha saputo donarmi le stesse emozioni.
Quando Clara ha visto il libro tra le mie mani si è come impietrita, stava lì immobile a fissarmi con uno sguardo incredulo senza dire una parola. Non credo che questa situazione paradossale sia durata a lungo ma, dopo pochi minuti che mi sono sembrati un’eternità e che sono bastati per formulare dentro di me almeno una decina di domande, sono sbottata: “Cosa c’è che non va? Credevi che non sapessi leggere?” Ammetto di essere stata un po’ brusca ma dovevo sbloccare la situazione. “No, non è questo. Ma quel libro… Se solo fosse vero…” E qui si è interrotta senza più riuscire a proseguire scossa dai singhiozzi. Non mi aspettavo una reazione del genere, mi sono addolcita all’istante e l’ho fatta sedere sul letto accanto a me. Le persone in lacrime, specie se donne, suscitano in me un immediato senso di protezione perché, a prescindere dal motivo per il quale si sta piangendo, è indubbio che in quel momento si sta vivendo un grande disagio ed è un dovere di tutti cercare di alleviarlo. Anche nella speranza di venire poi ricambiati.
Le ho dato qualche minuto per ricomporsi, come aveva fatto lei con me quando ero arrivata qui da un giorno appena. Poi le ho chiesto dolcemente una spiegazione.
E’ così che ho saputo di Agnese, la donna che occupava questa camera prima di me, la stessa che andandosene ha reso così felici i miei nipoti e così triste me. Non abbiamo nulla in comune io e Agnese se non questa camera e questo libro che a lei era stato prestato da Clara e a me è stato regalato da un amico e autografato dall’autore. Ora capisco la reazione di Clara, Agnese le era amica ed è stato difficile per lei vedere stravolto in così poco tempo l’ambiente in cui viveva, si spera, più serenamente di me. Il libro le ha fatto tornare in mente prepotentemente la sua amica scomparsa, il rammarico per la sua perdita, il suo ricordo. E’ strano che, tra tutti i libri in commercio, abbiamo scelto noi tre proprio quello. Un’altra di quelle coincidenze che ci legano, come il compleanno. Come un testimone che a da una mano all’altra e ci dimostra
che qualcosa di noi rimane sempre. Un filo che ci lega.
Mi ha fatto piacere conoscere Agnese anche se non posso dire che la sua vita mi abbia entusiasmato, anzi mi chiedo come sia possibile odiare tanto una madre al punto di renderle la vita un inferno. Non ho mai amato le persone deboli e qualche volta ho anche pensato che si siano scelti ciò che hanno avuto, ma non questa volta, dopo averne sentito parlare con così tanto trasporto da una ragazza che l’ha conosciuta in così tarda età.
La vera incognita però, per me, rimane questa ragazza, Clara. E’ possibile che esista una persona così, che si prende cura totalmente degli altri? E’ possibile che proprio io l’abbia incontrata in questo posto? Non sarà il solito fuoco di paglia? La solita persona che prima ti conquista e poi, alla prima occasione, ti delude? Nonostante tutte le mie domande, ho già deciso di darle una chance perché mi sembra sincera e spero con tutto il cuore di non sbagliarmi.
CLARA
Le ho detto di Agnese, è la prima volta che parlo con qualcuno dei residenti di qualcuno degli assenti. Fino a ieri era una delle mie regole non scritte “Non parlare ai nuovi di chi c’è stato prima di loro”. Non ho mai trasgredito. Il cenno a chi non c’è più può essere per loro fonte di stress e di turbamento ed è perfettamente inutile, specie se le persone non si conoscevano. Ecco, appunto. Ci sono cascata in pieno e mi correggo: non avevo mai trasgredito fino ad oggi. A mia difesa, anche se non è una valida giustificazione, posso dire che una situazione del genere non mi era mai successa. Quando ho visto quel libro tra le mani di Marina non credevo ai miei occhi, qualcuno potrebbe dire che sto esagerando, che è perfettamente normale vedere lo stesso libro tra le mani di due persone così diverse, soprattutto se è stato un grande successo editoriale. Tutto
vero ma per me non è così. Per un attimo ho rivisto Agnese, ho rivisto me stessa quando gliel’ho consegnato e il suo sorriso nel riporlo sul comodino. In quell’istante la camera così colorata e sontuosa di Marina è tornata ad essere quella povera e austera di Agnese, spariti i tappeti, i mobili, i quadri, le foto e il baule. Ho rivisto il pavimento nudo, il copriletto bianco con la copertina fatta all’uncinetto piegata ai piedi del letto, il comodino in formica con le pillole della sera e il suo solito bicchiere di tè senza sapore, e Agnese che sorridendo appoggiava il mio libro su quel comodino. E’ già tanto se non sono stramazzata al suolo, questa visione ha lasciato in me una malinconia immensa, non volevo piangere ma non ce l’ho fatta a resistere. Mi sono arresa alle lacrime e alle parole che spingevano per uscire. Sembrava quasi che fosse la stessa Agnese a volerlo, forse aveva bisogno di sentirmi parlare di lei, di sentire che non l’ho dimenticata. O forse voleva farmi notare che abbiamo qualcosa in comune, io, lei e Marina: questo libro così tenero e pieno di speranza, come un filo che ci lega. Marina è stata molto dolce, la sto apprezzando ogni giorno di più. Non ha voluto che mi scusassi con lei per questo momento di debolezza. Spero che nessuno mi abbia visto uscire in lacrime. Riusciremo prima o poi ad iniziare queste benedette lezioni di danza che avevamo in programma?
CLARA
Oggi finalmente abbiamo parlato di danza. Deve amarla proprio tanto perché si illumina quando ne parla, come se stesse parlando di un innamorato. Prima di cominciare ha voluto sapere se avessi il cuore e la mente sgombra ma io ero preparata e le ho assicurato che ero serena e pronta per la mia prima incursione nel suo mondo. A riprova di quanto avevo appena affermato le ho mostrato il sms che ho inviato ieri a mio fratello Gianni: “Ciao, come state?” e la sua risposta: “Qui tutto bene, spero sia tutto ok anche per te.” Certo non si può dire
che siamo persone prolisse ma questo scambio di frasi che per qualcuno potrebbero essere insignificanti per noi rappresenta un primo gradino verso la cima di quella montagna che ci siamo accuratamente costruiti e che ora ci divide. Non importa che io abbia compiuto questo o spinta anche dal fatto che oggi già sapevo che Marina mi avrebbe chiesto notizie, l’importante è che io questa volta ci sia riuscita e non mi sia bloccata, come tutte le altre volte, prima di premere il pulsante “invia”. Accantonate queste formalità, abbiamo iniziato aprendo il suo baule delle meraviglie, ne sono usciti i costumi di scena, le foto, alcuni libri, cd e dvd, e le sue scarpette. Marina ha scelto un paio di costumi e le scarpette abbinate e ha cominciato a parlare. Io ero rapita dalla bellezza di quegli oggetti e dall’intensità delle sue parole. Mi ha illustrato Lo Schiaccianoci, ha voluto iniziare da quel balletto in omaggio al mio nome che è anche il nome della bambina che ne è la protagonista. Dunque non mi aveva preso in giro, è proprio vero... La storia si svolge durante la vigilia di Natale a casa del borgomastro di Norimberga, i cui figli, Clara e Fritz, stanno adornando l’albero. Arrivano gli invitati con i regali, per Clara c’è un piccolo schiaccianoci a forma di soldatino ma suo fratello Fritz, geloso, lo strappa dalle sue mani e lo scaglia a terra rompendolo. L’ospite che lo aveva portato lo recupera e lo aggiusta per la felicità di Clara. La notte Clara si addormenta stringendo il suo schiaccianoci e sogna. Tutti i giocattoli diventano enormi, la stanza cresce e viene invasa da una moltitudine di grossi topi. Anche il soldatino schiaccianoci però è cresciuto e affronta i topi con l’aiuto del suo esercito fino a metterli in fuga. Rimane soltanto il re dei topi che viene affrontato dal soldato schiaccianoci ma è Clara a metterlo in fuga lanciandogli una pantofola. A quel punto il soldatino si trasforma in un principe e invita Clara nel castello magico, la stanza si trasforma in un bosco con i fiocchi di neve che danzano. Al castello vengono accolti dalla Fata Confetto e inizia una grande festa con cioccolata, pasticcini e fiori che danzano. Danzano anche il Principe e Clara. Poi tutto torna normale e Clara si risveglia abbracciata al suo schiaccianoci. Dopo avermi raccontato la trama Marina ha messo su la musica di Tchaikovskij e mi ha spiegato ogni scena mentre io con gli occhi chiusi cercavo di figurarmela sul palco. “Ascolta, qui Fritz ha scagliato a terra il soldatino rompendolo… qui il sig. Drosselmeyer lo sta riparando… Clara è felice, inizia la danza del nonno”,
“Senti, ora la stanza diventa enorme, i giocattoli prendono vita, entrano i topi… Clara ha paura ma il suo soldatino la difende…” “Attenta, qui siamo nel bosco, Clara e il suo principe lo attraversano tra i fiocchi di neve che danzano attorno a loro…” “Eccoli dalla Fata Confetto nel castello incantato, si scatena una danza impetuosa, caffè, thè, cioccolate, pasticcini e fiori partecipano alla danza…” “E qui Clara si risveglia nel suo letto il giorno di Natale, abbracciata al suo schiaccianoci”. E’ stata un’emozione intensa, ho sempre amato chi ti racconta la musica come fosse un romanzo, mi ha riportato agli anni di scuola, quando la prof di musica ci spingeva a cogliere il suono della goccia che cadeva ascoltando La goccia d’acqua di Chopin, o quando ci illustrava le peripezie dell’apprendista stregone sulla musica di Paul Dukas. Credo che sia il modo migliore per farti apprezzare quello che stai ascoltando, per farti entrare davvero nella storia come un protagonista e non come un semplice spettatore. Quando la musica è cessata e io conoscevo ormai la storia di Clara e del suo principe Schiaccianoci ho potuto prendere in mano i costumi e le scarpette e le ho chiesto quale fosse il suo ruolo. Mi ha risposto che è stata una bambola, poi un fiocco di neve, poi un pasticcino, fino ad arrivare alla Fata Confetto. Era lei che accoglieva i due al castello incantato… Poi, con le scarpette in mano, le ho fatto una domanda che mi ronza in testa ormai da anni: “Com’è possibile? Come possono ballare, saltellare, piroettare sulle punte dei piedi? Come può il piede umano sopportare queste sollecitazioni in una posizione così innaturale?”. A questo punto mi ha fatto vedere i suoi piedi e mi ha parlato di quello che lei reputa il più grande handicap di questa splendida disciplina. In effetti i suoi piedi sono martoriati, i suoi alluci tendono all’interno come fossero piegati. La pratica intensa delle punte ti regala tutta una serie di malanni che vanno dalla deformazione degli alluci alle unghie incarnite, alle unghie che cadono, nonostante tutte le cure e gli accorgimenti adottati negli anni per attenuare almeno un poco il problema. Le scarpette vanno acquistate con estrema attenzione e sottoposte ad alcuni procedimenti per ammorbidire le solette e indurire le punte prima di indossarle. Le dita dei piedi vanno fasciate una ad una con delle garze e della bambagia per proteggerle. Immagino la sofferenza nel ballare sulle punte con le unghie incarnite… Siamo state interrotte da Michela, la moglie di un nipote di Marina, l’unica che lei considera degna del suo rispetto. Mi è parso che avessero delle cose
importanti di cui parlare quindi me ne sono andata anticipando di qualche minuto la fine della nostra prima lezione. Ma tutto questo non ha intaccato la magia di quelle ore, non avrei mai creduto di poterlo dire ma è stato fantastico, molto suggestivo. La prossima volta parleremo del Lago dei cigni, uno dei balletti più famosi al mondo. Per il momento le ho chiesto in prestito la musica dello Schiaccianoci per poterla risentire a casa e appurare se davvero, anche da sola, posso riconoscere le situazioni e i cambi di scena.
MARINA
Qual è stato l’evento più importante di questa giornata? La prima lezione con Clara? O piuttosto la visita inaspettata di Michela? Sicuramente è stata più piacevole la prima. Per fortuna Michela è venuta nel tardo pomeriggio, se fosse venuta in mattinata temo che sarebbe saltata anche la nostra lezione di oggi poiché il mio stato d’animo dopo la sua visita è cambiato di molto. Poverina, lei non ne ha colpa, anzi, la ringrazio per le notizie che mi porta anche se non sono quelle che vorrei ricevere. Pare che i miei cari nipoti si siano riuniti a casa mia per parlare di me. A casa mia. Michela non è stata invitata ovviamente, ma è riuscita a strappare qualche cenno a suo marito. Potenza dell’amore… Ma come avrà fatto poi a sposarsi con uno così?
Sembra che la struttura che mi ospita abbia richiesto, prima di dare inizio ai lavori per quella che sarebbe stata la mia camera, una garanzia circa la mia permanenza qui. Non li biasimo per questo, è ovvio che lo facciano prima di affrontare delle spese. Quelli che biasimo sono i miei parenti che, pare, all’unanimità hanno indicato nel marito di Michela il soggetto adatto per la firma del contratto nel quale ha dichiarato che la mia permanenza qui sarà a tempo indeterminato, non interrotta da cause personali se non dal mio decesso, pena l’applicazione di una sanzione pari all’importo delle spese sostenute per i lavori suddetti, maggiorato di una percentuale a titolo di penale per la rescissione
anticipata del contratto. Michela ha sbirciato nelle carte di suo marito e si è appuntata alcuni aggi. Dunque sono qui a tempo indeterminato, curiosa espressione rubata al mondo del lavoro per dire che non tornerò più a casa. Non so quanto possa essere legale un contratto del genere, soprattutto se sottoscritto da una persona che non mi rappresenta affatto legalmente. Devo quindi aspettarmi che il loro prossimo o sia dichiarare la mia incapacità di intendere e di volere? Con l’ausilio di medici compiacenti lo potrebbero fare.
Michela mi è stata molto utile, conoscere in anticipo le intenzioni del mio nemico mi servirà per contrastare i loro attacchi nascosti. Mai come ora il mio proposito di non assumere farmaci prescritti da operatori della struttura, mi è sembrato così sensato.
Potrei agire per vie legali se Michela riuscisse a portarmi le prove di tutto ciò ma cosa ne sarebbe di lei e della sua famiglia? Si sta già esponendo troppo, non posso chiederle anche questo, sarebbe un sacrificio troppo grande. E, ad essere sincera, non ho voglia di affrontare una battaglia legale in questo momento.
Non ho voglia neanche di approfondire la cosa in questo momento perché sarei costretta a leggere dentro me stessa, a verificare quali sono le mie condizioni effettive, a chiarire con me stessa che forse non riuscirei più ad occuparmi di me come facevo prima del malore.
Primavera
CLARA
Stavolta mi sono giocata tutte le carte che avevo in mano, ho rischiato anche il posto probabilmente ma sono felice di averlo fatto. Ero dalla finestra del salone quando l’ho vista arrivare, sola, strizzata nel suo cappotto, con quell’incedere ondeggiante e leggero che la contraddistingue. Sorrideva al sole che se ne stava andando, sorrideva alle persone che incrociava, sorrideva alla sua idea di libertà. In quel momento ho saputo con certezza che l’avrei rifatto altre mille volte. Per quel sorriso. Quando mi ha raccontato del contratto che suo nipote ha sottoscritto con i titolari mi sono indignata. Avrei capito se l’avessero proposto a lei, sarebbe stato legittimo. Ma farlo firmare a una terza persona è stato meschino. Una persona a cui quella firma non ha cambiato nulla, che comunque ogni sera torna a casa dalla sua famiglia, che si erge a rappresentante di un manipolo di mascalzoni senza averne la minima autorità. Non pensavo che i miei titolari potessero scendere a questi livelli, avevano la mia stima e mi hanno delusa. Ho cercato nello schedario di Marina e il contratto era lì, alla mercé di chiunque cercasse qualsiasi altra informazione su di lei. Per questo motivo non ho avuto bisogno di coinvolgere nessuno, l’ho semplicemente preso e sono andata nell’ufficio del dirigente a chiedere spiegazioni. Non mi avevano mai vista così, indignata, delusa, arrabbiata. Hanno tentato una debole difesa asserendo che l’unico referente della signora era il nipote, che avevano sempre parlato con lui e che erano certi della sua buona fede. Ho minacciato di sottoporre il contratto all’attenzione di un mio amico avvocato e magicamente ho ottenuto la loro totale disponibilità. Unica condizione il contratto deve sparire, ne va del buon nome della struttura. “Parliamo con la signora e vediamo cosa si può fare, saremo felici di continuare ad ospitarla ma solo con il suo pieno consenso.”. Il contratto è sparito, letteralmente andato in fumo grazie ad un accendino che, casualmente, si trovava nella tasca del mio
camice, rischiando anche di far scattare l’allarme antincendio. l nipoti sono stati avvisati ma gli accordi sono stati definiti direttamente con la nostra ospite “La signora potrà uscire ogni volta che ne sentirà la necessità, potrà disporre delle sue giornate come meglio crede, potrà pranzare e cenare fuori, potrà stare fuori per tutto il tempo che vorrà. La Direzione sarà felice di ospitarla per tutto il tempo che lei vorrà senza alcuna condizione particolare tranne quella di avvisare il personale delle sue assenze per ovvi motivi.”. Non so come l’abbiano presa i nipoti, ho anche un po’ paura che lei ora se ne vada, torni a casa, anche se mi ha confidato di non sentirsi ancora pronta ad occuparsi pienamente di sé stessa. Non so neanche se questa cosa si ripercuoterà sul mio contratto e sul mio lavoro qui. Spero di no ma non lo so. Ho temuto oggi di non vederla tornare, ho avuto la tentazione di chiederle di accompagnarla ma non sarebbe stato giusto. La libertà ritrovata va assaporata da soli. Qualunque cosa succeda ora, ne è valsa la pena. Vederla tornare da me è stato uno dei più bei momenti della mia vita, ora so che per lei non sono più la sua guardia carceraria, sono la sua amica. L’ho capito dal lungo abbraccio silenzioso che ci siamo scambiate sulla soglia del salone.
MARINA
Uscire da sola da quella che credevo fosse la mia galera non ha davvero prezzo.
Sentire il sole diretto sul viso, respirare l’aria anche un po’ inquinata della città, camminare da sola per le vie del centro guardando le vetrine, raggiungere il parco, comprare il giornale e riposarmi qualche minuto su una panchina, ai piedi di questo esile albero che oggi mi sembra un tronco millenario. Da sola. Non
credevo di poterlo fare. La libertà oggi è poter rimanere qui altri dieci minuti senza preoccuparmi di fare tardi. La libertà oggi è rivolgere il viso al sole e chiudere gli occhi per sentirne i raggi sulla pelle, senza il vetro che si frappone fra noi. La libertà oggi è osservare le famiglie al parco, la gente che si diverte e non sa che esisteva un carcere a pochi metri da qui. Oggi, la libertà è fingere di far parte di loro, di avere una casa a cui tornare, una famiglia che mi aspetta.
Io tornerò in quel posto ma ora non lo vedo più come un carcere, qualcuno ha allentato le sbarre.
So che potrei alzarmi da qui e sparire, prendere un taxi, andare in aeroporto e salire sul primo volo, senza destinazione, solo per fuggire. So che se non lo farò oggi potrei farlo domani oppure fra un mese o fra un anno. Non lo farò credo, ma è bello sapere che potrei farlo. Che la mia vita mi appartiene di nuovo. E’ stata dura, è stata una battaglia in cui ho dovuto coinvolgere Clara, non avrei potuto farcela da sola. Lei è l’unico legame che mi rimane, l’unico debito che sento, l’unico obbligo che ho. Non deluderla.
Ha rischiato molto per ottenere questa mia semilibertà, ha garantito in prima persona, contro il parere di molti. Per questo motivo ora mi alzo e ripercorro i miei i per tornare alla mia camera rosa in tempo per cenare con gli altri ospiti più sfortunati e meno agguerriti di me. Respiro a pieni polmoni quest’aria di libertà ma non sono triste perché so che la potrò respirare ancora domani e ogni qualvolta lo vorrò. Anzi sorrido quando la vedo alla finestra del salone, chissà cosa si aspettava da me.
MARINA
Finalmente ci stiamo lasciando alle spalle questo lunghissimo inverno. La primavera con le sue prime belle giornate mi mette sempre di buonumore.
Tornano a me i ricordi di quando ero bambina, rivivo quelle eggiate di una volta. L’aria fresca, il sole caldo. Le primule e le viole da raccogliere per portarle alla maestra. Chissà se oggi i bambini lo fanno ancora. Chissà se le maestre sono ancora così amate e temute come ai miei tempi. Per noi era una gara a chi portava il mazzolino più bello, il nostro premio era il sorriso della maestra, quel sorriso che lei dispensava a tutti esattamente nello stesso modo. Anche a chi non le portava mai nulla e io non capivo perché il sorriso riservato a me dovesse essere uguale a quello rivolto ad Andrea che non portava mai niente. Comunque eravamo felici. Ogni minima cosa scatenava il nostro entusiasmo. Allora il mio compagno di giochi era il mio piccolo Leo, il fratello che mi fu strappato da una malattia a soli dieci anni. Ci siamo divertiti tanto insieme. Ricordo le corse nei prati, il torrente popolato da quelle strane creature che noi ci divertivamo a disturbare, i boschi con il sole che filtrava tra i rami degli alberi. I nostri posti segreti, quello più nascosto lo conoscevamo solo noi, chissà se esiste ancora. L’inverno lo avamo in casa, accanto alla stufa a giocare con la mia bambola che aveva un braccio rotto e gli occhi dipinti da me. Leo però era a disagio per via delle occhiate dei nostri fratelli e di papà, per questo motivo aspettavamo con impazienza che la neve si sciogliesse, per poter finalmente uscire e rimanere da soli. Quando Leo si ammalò le nostre giornate cambiarono nettamente, la mamma non voleva più farlo uscire e io volevo stare con lui, non volevo allontanarmi neanche per andare a scuola perché sentivo che qualcosa di orribile stava per accadere. Mi rendo conto ora che non so se la mia vecchia casa esiste ancora o no.
Non mi sono mai sentita legata a quella casa, la vedevo più come una prigione, quando Leo mi ha lasciata me ne sono andata anch’io. Avevo undici anni e non sono più tornata. Nei miei ricordi più belli la mia casa non c’è. C’è il torrente sempre impetuoso con le pietre scivolose e gli alberi piegati verso l’acqua che d’estate ci permettevano di arrampicarci e di lasciarci cadere. Ci sono i prati sempre verdi, tempestati di papaveri, mille macchie rosse nel verde infinito. Ci sono le viole e le primule sempre là, pronte per essere raccolte e portate alla maestra. Ci sono i tre alberi con i loro tronchi uniti che si aprivano verso il cielo come una corolla nascondendo al loro interno il nostro posto segreto, sempre pronti ad accogliere me e il mio piccolo fratello. Sono più di sessant’anni che non torno in quei luoghi e non ho intenzione di farlo. Probabilmente visti con gli occhi di oggi quei luoghi non sarebbero più così seducenti, quasi certamente ne rimarrei delusa. Ci torno raramente anche con il pensiero, non so perché oggi
l’ho fatto. Anzi lo so, oggi ho fatto un’eccezione per Aldo. Siamo andati insieme al parco e eggiando abbiamo parlato delle nostre vite. Devo ringraziarlo per i pomeriggi e le sere che abbiamo trascorso a giocare a carte in questo inverno che sembrava non voler finire. E’ stato importante per me, all’inizio avevo paura che lui volesse qualcosa in più da me, qualcosa che io non avrei potuto dargli. Ma ora che ci conosciamo meglio so che anche il suo cuore è occupato da un’altra persona che non c’è più. Mi piace ascoltarlo quando parla di sua moglie, quando ricorda i loro momenti felici. Sono le parole di un uomo innamorato che ha bisogno di parlare del suo amore per farla rivivere. Io lo ascolto volentieri, faccio domande, voglio sapere. Sono stata anche tentata alcune volte di parlargli della mia vita ma ci ho ripensato. Gli ho parlato di me, del mio lavoro, oggi anche della mia infanzia. Ma non del mio amore. Ci sono cose di cui non riesco a parlare. Mi spaventa troppo farlo. Sono arrivata fino a qui sbarrando il mio cuore a chiunque, sono sopravvissuta. Cosa succederebbe se io adesso mi aprissi a qualcuno? E perché qui e adesso? In trent’anni non ho mai conosciuto nessuno che si interessasse a me al punto di rendermi vulnerabile. Ora in questo posto ho trovato delle persone che mi fanno dubitare delle mie scelte.
CLARA
Ieri sono venuti in struttura un gruppo di ragazzi con i loro cani, li ho richiesti io ma ci sono voluti due mesi per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie, manco fossero stati un gruppo di pericolosi criminali. Per fortuna godo di un certo credito presso i vertici e ho tenuto duro senza scoraggiarmi di fronte ai primi inevitabili dissensi, anche perché conosco i miei responsabili e so che sotto la scorza batte un cuore tenero, basta saperlo trovare. Dopo mi hanno detto che avevo ragione e questa per me è la più bella delle vittorie. E’ stata una giornata stupenda, questi ragazzi con i loro animali ci hanno regalato gioia e spensieratezza. Abbiamo iniziato in salone per dare la possibilità a tutti di partecipare, poi siamo usciti in giardino, complice anche la bella giornata di sole. Alcuni purtroppo non hanno voluto prendere parte all’esperimento, sono rimasti rintanati nelle loro camere fino a sera, negandosi la gioia di quel momento come se avessero paura di sorridere ancora. Per fortuna erano pochi, tutti gli altri erano entusiasti, qualcuno magari solo curioso. I ragazzi fanno parte di un’associazione animalista e tutti, umani e non, sono in possesso di una formazione specifica che
consente loro di entrare in strutture come la nostra per proporre le loro lezioni di pet teraphy. C’erano sette cani e altrettanti umani a nostra completa disposizione, anche tra loro qualcuno era più timido e ritroso, proprio come i nostri ospiti. La prima a rompere il ghiaccio è stata Angela. E chi se non lei? Ha chiamato a sé una piccola meticcia che immediatamente le è saltata in grembo ed ha iniziato a leccarle il viso scodinzolando. Nel vederla così felice alcuni scuotevano la testa ma altri hanno voluto provare e spontaneamente si sono messi in circolo per aspettare, ognuno di loro, la propria dose di coccole. Brontolando pure tra loro se qualcuno tratteneva un po’ più a lungo il suo pet terapista. Marina era con noi e si è unita agli altri mettendosi in circolo e chiacchierando amabilmente con i suoi vicini di sedia. La scena che avevo di fronte era quanto di più bello potessi mai vedere: umani di tutte le età che si relazionano gioiosamente con cani di ogni razza e dimensione. Angela con la meticcia Lolita e l’ing.Tronis, terrore di ogni infermiera, con l’alano Max, tranquillo e pacifico. E Marina con la boxerina Clara… Mi sono sentita onorata nel sentire il mio nome nel suo, era bellissima e molto dolce. E anche molto giovane e intimorita da tutte quelle persone che la chiamavano. Ha scelto di stare accanto a Marina e non c’è stato verso di farla spostare, anche quando siamo usciti in giardino le è rimasta accanto mentre gli altri giocavano felici. Un vero colpo di fulmine. La ragazza che la accompagnava, che era anche l’organizzatrice di questi incontri, sorrideva nel vedere questo amore appena sbocciato. Questo è il mio sogno: una struttura che accolga le persone anziane con i loro compagni di vita, senza costringerli a dolorosi distacchi. Un sogno, appunto. Però per qualche istante ho pensato che potrebbe avverarsi. Oggi sono ata in sede, dalla ragazza che accompagnava la mia omonima, per darle la bella notizia: l’entusiasmo è alle stelle, lo rifaremo, diventerà un appuntamento fisso per i nostri ospiti. Restano da stabilire la cadenza e i dettagli economici ma sono appunto dettagli. In sede hanno parecchi gadget che offrono a prezzi irrisori per autofinanziare la loro causa, quando ho visto un peluche uguale alla boxerina non ho saputo resistere. L’ho preso per Marina.
MARINA
Quante Clara dovrò ringraziare nella mia vita? Ieri ne ho conosciuta un’altra. Dolcissima. Quattro zampe e un muso umido. Da baciare. E un affetto negli occhi che non vedevo più da tempo immemorabile. E’ stata con me per un paio d’ore. Sono sempre stata una sostenitrice della pet teraphy anche se non ho mai avuto un animale domestico. All’estero è molto più praticata e ne sono stati riconosciuti gli effetti benefici già molti anni fa. In Italia purtroppo siamo più lenti a recepire queste novità, ogni tanto viene fuori la notizia di qualche ospedale o casa di riposo che utilizza la pet teraphy ma poi cade di nuovo tutto nell’oblio fino al prossimo caso sempre più sporadico. Io credo che due ore di terapia con un animale siano molto più utili di una giornata intera davanti ad uno schermo che rimanda immagini incomprensibili magari con l’audio spento per non disturbare. Ieri ho viso delle persone che ano la loro giornata tra la camera e il salone, uscire in giardino per la curiosità di vedere i cani giocare. Ho visto l’ing.Tronis, persona scostante per eccellenza, coccolare un alano più alto di lui. Se non è una prova questa dell’utilità di questa terapia… Certo quando se ne sono andati ho provato una fitta al cuore nel salutare la mia piccola Clara tigrata, anche perché non sapevo se l’avrei rivista. E ora sono qui a stringere questo suo emulo di peluche che mi ha regalato la mia Clara numero uno. E ad aspettare di rivederla di nuovo al prossimo appuntamento che so che ci sarà. Quanta gioia ti sanno dare gli animali. Mi sa che stanotte Claretta dormirà con me. Ora mi devo preparare per la lezione di domani con Clara, voglio parlarle del Lago dei Cigni. Spero di rivedere nei suoi occhi lo stesso luccichio dell’altra volta, per me è stata una grande soddisfazione, lei è l’allieva ideale, curiosa e attenta. Dunque io da insegnante non posso permettermi di sbagliare.
CLARA
La lezione di ieri era su Il Lago dei cigni. L’unico balletto al mondo di cui credevo di sapere qualcosa, mi ricordavo anche un po’ di musica. Ovviamente ho scoperto di non sapere nulla. Mi sono sempre commossa nel vedere questo cigno che muore sbattendo le ali in un crescendo di musica sempre più incalzante, ma non conoscevo la storia, non conoscevo Odette, né Odile, né tantomeno Sigfried. Sigfried è un principe che vive in un castello, per il suo ventunesimo
compleanno riceve in regalo una nuova balestra e con questa si lancia all’inseguimento di uno stormo di cigni bianchi. Sul far della sera arriva nei pressi di un lago e qui ritrova i cigni che nel frattempo si sono trasformati in fanciulle. Il cigno più bello si rivela essere la principessa Odette, vittima, insieme con le altre ragazze, di un incantesimo del perfido mago Rothbart. Tutte le ragazze sono state trasformate in cigni e possono riacquistare le loro sembianze umane soltanto di notte. Sigfried e Odette si innamorano perdutamente e lei gli confida che un amore sincero e fedele potrà spezzare l’incantesimo. Sigfried le giura eterno amore e la invita al ballo per il suo compleanno ma lei non potrà partecipare perché nel frattempo si sarà ritrasformata in cigno. La scena cambia, inizia il ballo, la Regina madre invita il figlio a trovarsi una fidanzata tra le invitate ma lui rifiuta tutte le pretendenti. Finché non arriva un nobile sconosciuto accompagnato dalla figlia. Il nobile altri non è che il mago Rothbart il quale porta con sé la figlia Odile che ha le stesse sembianze di Odette. Il principe balla con lei e, credendola Odette, la chiede in sposa, tradendo così ogni speranza di salvezza per la sua amata. Sigfried si rende conto troppo tardi dell’inganno e fugge disperato verso il lago. Qui trova Odette affranta tra le sue compagne, ormai solo la morte può liberarla dall’incantesimo. Sigfried implora il suo perdono e insieme si immergono nelle acque del lago. Rothbart scatena una tempesta, i due innamorati muoiono ma le loro anime si innalzano al di sopra del lago e si allontanano insieme. La scena che io avevo impressa nella memoria era quella di Odette che sta morendo tra le sue compagne. Ho esternato a Marina alcune mie considerazioni personali su questo principe che, ricevuta la balestra in regalo, sente l’impellente necessità di trafiggere una qualsivoglia creatura vivente, e che ci da prova della sua sventatezza cadendo a piè pari nel tranello del mago e di sua figlia. Lei ha sorriso e mi ha detto che “Nessuno mai, durante le mie lezioni ha sollevato queste contestazioni, rispettabili peraltro, ma ti ricordo che questo balletto è andato in scena per la prima volta al Bolshoi di Mosca nel 1877, ispirato a racconti del folklore slavo e tedesco ed è stato riarrangiato varie volte ma Sigfrido non è stato mai messo in discussione. Anzi il suo ruolo è stato rivalutato negli anni fino a farne il protagonista assoluto con l’interpretazione di Nureyev… Ah, se potessi parlare con i coreografi Petipa e Ivanov e riferire loro ciò che tu mi hai appena detto… Vedere la vicenda da un punto di vista totalmente diverso, sono tutti sempre
talmente coinvolti dalla triste storia d’amore da sorvolare sugli altri aspetti. La colpa ricade sempre per intero sul cattivo Rothbart e su sua figlia Odile e nessuno nota la dabbenaggine del nostro Sigfried…”. Per fortuna tutta la paternale è stata pronunciata col sorriso sulle labbra. Una volta tratteggiata la storia abbiamo visto insieme il dvd e di nuovo si è ripetuto l’incanto dell’altra volta, lei mi ha parlato dei ruoli che ha interpretato negli anni e ha commentato per me ogni scena, ogni virtuosismo dei ballerini sul palcoscenico. E ha ironizzato con me quando Sigfrido ha ballato con Odile senza accorgersi dello sguardo letale di lei.
MARINA
Ora che posso uscire quando voglio non ne sento più la necessità, è vero che quando la porta è aperta la gabbia si trasforma in un nido. Posso decidere di andare al parco e rinunciarvi perché ho freddo. Posso decidere di fare shopping e rimandare a domani perché oggi voglio finire il libro che sto leggendo. Posso anche chiedere a Clara, come ho appena fatto, di accompagnarmi a trovare la boxerina che si chiama come lei perché mi manca e ho voglia di vederla. Questo vetro adesso mi protegge, mi difende dal freddo, dal sole, dalla pioggia. Non può più tagliarmi fuori dal mondo perché posso mettere il cappello, i guanti e la sciarpa, prendere l’ombrello e uscire. Oppure mettere una delle mie camicette di seta leggere, inforcare gli occhiali da sole e uscire.
Estate, autunno, inverno e primavera. Rimanere nel nido o uscire. Che bella parola.
Clara è stata felice di accompagnarmi alla sede della associazione e lì abbiamo trovato Claretta che subito mi ha riconosciuta e mi ha salutato scodinzolando e leccandomi le mani. Loredana, la ragazza dell’associazione, era entusiasta all’idea di affidarmela per una eggiata perché lei non avrebbe trovato il tempo. Ed eccomi qui, dopo una serie infinita di raccomandazioni, trasformata in
una perfetta dog sitter e felice di esserlo. Chi l’avrebbe mai detto? Il tempo minaccia pioggia e Lori, prima di farci uscire, ha infilato a Claretta un bellissimo impermeabilino rosa, dice che è freddolosa e va protetta. D’altronde anch’io ho l’ombrello in borsa, ognuno si protegge come può. Sta attirando gli sguardi dei anti e si pavoneggia nel suo cappottino rosa come una bambina vanitosa. Non tira il guinzaglio, mi cammina al fianco come se fosse abituata a me. Siamo sole, Clara è tornata di corsa al lavoro, questa magnifica creatura mi guida in direzione del parco e io non riesco a non rivolgermi a lei parlando ad alta voce. Mi viene naturale, non mi importa se mi guardano strano, non è certo la prima volta. Si ferma in un punto del parco che evidentemente le aggrada, si siede e mi guarda negli occhi. Credo voglia dirmi che ora posso toglierle il guinzaglio, esagero e le tolgo anche il cappottino, non credo che pioverà a breve e lei ora ha bisogno di fare il cane. Mi siedo sulla panchina e ripiego sulle mie ginocchia quel suo strano indumento. Lei corre felice ma non troppo lontano dal mio sguardo, ogni tre minuti è qui da me, come se volesse rassicurarmi. Annusa il terriccio, le foglie, gli alberi, all’improvviso si lancia in una corsa spensierata che la riporta da me. Mi diverto a guardarla giocare. Nel frattempo sono arrivati altri cani e scopro che ognuno di loro si comporta nello stesso identico modo, appena arrivati nel posto giusto si mettono seduti ad aspettare che il loro accompagnatore li liberi dai loro vincoli per poi scorazzare felici. Gli accompagnatori invece si comportano come me, occupano le panchine vicine alla mia e si accingono ad aspettare, come fanno i nonni con i bambini. Li lasciano giocare senza per questo perderli di vista, intanto parlano fra di loro a gruppi già ben collaudati. Mi inserisco anch’io nei loro discorsi e mi faccio dei nuovi amici in men che non si dica. Dopo quaranta minuti di corse Claretta torna e si accomoda accanto a me sulla panchina. Ha lo sguardo soddisfatto. Ha due bavette agli angoli della bocca che asciugo prontamente prima che si vadano a depositare sulla mia giacca. E’ veramente una cagnolina educata, le prendo il muso fra le mani e le schiocco un bel bacione sul naso nero. Come mi piace questa sensazione. Quanta gioia mi sono persa nella vita?
E’ ora di rientrare, le rimetto il cappottino facendo sorridere tutti i presenti perché è evidente che non sono pratica ed è lei stessa che mi aiuta assumendo le giuste posizioni.
Salutiamo tutti e ci incamminiamo sotto un cielo plumbeo e minaccioso. La lascio tra le braccia di Loredana che cominciava a preoccuparsi per il nostro ritardo. Mi congedo da loro con la promessa di tornare presto. Torno a casa sorridendo. Ho detto casa? Non avrei mai pensato di poterla definire casa… Il sorriso rimane però, potenza della spensieratezza che mi ha regalato Claretta. La felicità è anche occuparsi di una creatura che vuole solo le tue attenzioni, che ti ama senza condizioni, anche se sei vecchio, sei hai le rughe e sei stanco. Sono grata al mondo intero per avermi concesso questa rivelazione prima che fosse troppo tardi.
MARINA
Ormai è diventata una piacevole consuetudine. Ogni mercoledì alle 14.30 Aldo viene a bussare alla mia porta e insieme andiamo a eggiare. Non importa dove, a volte al parco, a volte in città per vetrine, se il tempo è brutto andiamo al bar Novecento che con i suoi arredi old style ci fa tornare indietro nel tempo, a volte andiamo al centro commerciale a fare un po’ di spesa per noi, qualche dolcetto, un po’ di tè, qualche bibita da nascondere alle nostre carceriere. Non vale per me ma per lui perché è diabetico e deve tenersi alla larga da tutto quello che contiene zuccheri. Allora lui compra i dolcetti e le bibite ma le lascia nella mia camera e si serve con moderazione quando viene a trovarmi. Clara sa tutto ma finché limitiamo il consumo ha promesso di non dire nulla. Il rientro con la refurtiva è sempre uno so, ogni volta ci inventiamo nuovi sotterfugi e quando arriviamo in camera scoppiamo a ridere come due ragazzini. Credo che le persone che ci incontrano durante le nostre eggiate ci scambino per marito e moglie ma non mi importa. Lui poi è un campione nell’attaccar bottone, sembrava così riservato e invece celava un carattere estroverso e gradevole. Ho avuto anche occasione di conoscere i suoi figli e ne ho ricavata un’ottima impressione. Sono venuti a trovarlo lo scorso sabato, figli, nuore e nipoti. Tutti insieme. Sono andati a pranzo fuori e poi sono tornati nel pomeriggio e si sono fermati nel salone a rallegrare un po’ gli animi. E’ una bella famiglia, allegra e unita. Una delle nuore è incinta ed era un po’ stanca ma il marito e i cognati facevano a gara per sostenerla ed aiutarla. I due hanno già una bambina molto carina, bionda, educata. Quando se ne sono andati ho notato che tutti avevano gli occhi lucidi e mi è sembrato strano perché in questo posto i lucciconi vengono a
chi rimane e non a chi sta andando via. Sapevo che la decisione di trasferirsi qui è stata di Aldo e che i suoi figli erano contrari ma, a dirla tutta, non ci credevo. Ora che li ho visti sì, ci credo. Anche i bambini erano felici di rivedere il nonno, la piccola prima di andarsene gli ha chiesto: “Quando torni nonno? Ci sarai quando nasce il fratellino nuovo?”. A quel punto sono uscita io dal salone perché i lucciconi stavano venendo a me e non volevo che qualcuno se ne accorgesse.
Clara è felice di questa nostra amicizia, lei spera che possa nascere qualcosa di più tra noi, non sa che non ci sono spazi disponibili nei nostri cuori.
CLARA
Non ero entusiasta dell’idea. Io non sono una di quelle persone raffinate che seguono la stagione teatrale, sia essa lirica o balletto o concerto sinfonico, non faccio parte di quell’élite. La prima alla Scala di Milano per me è sempre stata un evento da seguire in TV, nei servizi che inquadravano la protesta degli animalisti dietro le transenne, con la speranza che almeno qualche lancio di uova andasse a segno sulla pelliccia di qualche altezzosa signora. Ho gioito dentro di me per questi coraggiosi ragazzi che volevano dare un segnale forte contro questa ostentazione di arroganza e spregio nei riguardi dei più deboli. Non ho mai partecipato attivamente alle proteste ma le ho sempre condivise. Ora vorrei aver trovato il tempo di farlo, ora che i miei valori sono cambiati, vorrei essere stata là almeno una volta, dietro quelle transenne ad urlare slogan in cui credo ciecamente. E invece sono stata invitata a una prima. Certo non la prima famosa di dicembre, quella con il presidente del consiglio e i ministri. Non quella per fortuna. Ma la prima di un balletto e ovviamente non posso dire di no. Marina ha ricevuto l’invito come ogni anno, gliel’ha recapitato Michela con la posta che le consegna ogni quindici giorni, e mi ha chiesto di accompagnarla. Confesso che sono anche un po’ incuriosita, lei ne parla con un tale rispetto, con una tale deferenza, da riuscire a mettermi in soggezione. Nei suoi racconti sembra sia un luogo mistico, un tempio.
Con tanto di regole per l’abbigliamento giusto e per il comportamento adatto da tenere durante lo spettacolo. Mancano due settimane e già ho ato in rassegna tutto il mio armadio senza trovare un capo che mi soddisfi. Cosa mi metto? La fatidica domanda… I miei vecchi abiti mi sembrano tutti troppo aggressivi, più adatti a una serata in discoteca che a una prima a teatro, da qualche anno a ‘sta parte poi i miei acquisti si limitano a capi sportivi e comodi, tute, jeans, come se volessi nascondermi al mondo. Dovrò comprare qualcosa per l’occasione ma per non rischiare grossolani errori chiederò a Marina di accompagnarmi. Con il suo aiuto non dovrei sbagliare. Nel frattempo le ho strappato una promessa, quella di accompagnarmi a un concerto di musica leggera, mi sembra un giusto compromesso e lei, un po’ riluttante, ha accettato.
MARINA
Sono anni che mi invitano alla prima del balletto che apre la stagione alla Scala di Milano. E sono anni che io fingo di non ricevere l’invito. Non avevo voglia di rivedere i vecchi amici, temevo che rivederli mi avrebbe riportato a quegli anni e inevitabilmente al mio dolore. Quest’anno invece sento che potrei farcela, per questo ho chiesto a Clara di accompagnarmi. Con lei accanto mi sento più forte e meno sola, non mi farà male rivedere La Scala, respirare di nuovo la sua aria. Potrei chiedere anche ad Aldo di venire, potremmo fingere di essere una famiglia, così eviterò quelle domande sulla mia vita privata che tanto temo. Chissà, potrebbe essere una buona idea. Clara ha già accettato la mia proposta, vedremo che dice Aldo. Se lo conosco solo un pochino sarà divertito dal sotterfugio e si unirà a noi con piacere.
CLARA
Oggi andiamo in cerca degli abiti giusti. Io, Marina e Aldo. Sì perché viene
anche Aldo. Marina vuole che i suoi vecchi amici la credano sposata, vuole evitare che le facciano troppe domande. Né io né Aldo ne abbiamo compreso appieno il motivo però le reggeremo il gioco. E se per me sarà divertente credo che per Aldo sarà un vero piacere. Si sta già allenando per calarsi nella parte, il serioso geometra Rivera che fa il cascamorto con la ballerina. Se me lo raccontassero non ci crederei. Contro ogni previsione mi sa che ci divertiremo. L’appuntamento è in centro, direttamente sul campo di battaglia, loro mi raggiungono a piedi, li accompagnerò semmai al ritorno, quando saremo carichi di pacchi. Il negozio che abbiamo scelto su indicazione di Marina è un grande atelier che si affaccia sul corso principale da prima che io nascessi. Mi sono sempre chiesta chi fossero i suoi clienti ed ora eccoci qui. Mi ricorda un po’ quei grandi negozi dove si vestono le spose e tutta la loro famiglia, con l’unica differenza che qui è tutto più personale e che tutti qui conoscono Marina. Ci accoglie la titolare in persona che, dopo aver salutato la nostra amica e parlato brevemente con lei, rivolge a noi tutta la sua attenzione. Per non dividere il nostro gruppetto decidiamo che prima penseremo alle ragazze e poi ci occuperemo di Aldo, contando sul fatto che gli uomini sono statisticamente molto più sbrigativi nella scelta dell’abbigliamento, sia pure per le occasioni speciali. La titolare ci fa accomodare su un divanetto mentre alcune indossatrici sfilano davanti a noi con i modelli che potrebbero fare al caso nostro. Esattamente come in un film. Marina, che aveva ben chiaro il tipo di vestito che stava cercando, nel giro di quindici minuti ha già fatto le sue scelte indicandone due che le verranno consegnati per provarli di persona. Io, ovviamente, ho molte difficoltà. Sono tutti bellissimi ma non li ritengo adatti a me. Non mi ci vedo proprio. Alla fine opto anch’io per due modelli da provare, i più semplici e lineari, uno nero e uno blu notte, entrambi lunghi perché pare che così debbano essere. Aldo si è perfettamente calato nel ruolo di spettatore e si diverte a commentare, non solo i modelli ma soprattutto le modelle. Ora aspettiamo sul divano l’entrata in scena di Marina con le mises da lei scelte. All’unanimità scegliamo la prima, un vestito lineare azzurro polvere con una giacchina in shantung di seta grigia, perfetto per il suo fisico esile. Ora tocca a me, i miei due spettatori si dimostrano entusiasti delle mie scelte ma io mi sento più a mio agio col modello blu notte, ha le maniche in pizzo, la cintura alta in vita e una provvidenziale piega nascosta sul retro che mi permette di camminare come una persona abbastanza normale, evitandomi la camminata stile geisha.
Sopra, anche per me una giacchina dello stesso tessuto illuminata da alcuni strass cuciti in punti strategici. Completano i nostri look le scarpe e le pochette abbinate. Sono preoccupatissima per il costo di questa follia ma cerco di nascondere la cosa. I prezzi sono tabù, non se ne parla finché non si è scelto tutto quanto, e chi mai si tirerebbe indietro a quel punto? Finalmente iamo al reparto uomini e qui Aldo deve fare la sua scelta tra una rosa molto limitata di modelli. La scelta, quasi obbligata, cade sul classico smoking nero con la immancabile sciarpa bianca. Lo prova e sembra un altro uomo, nato per vestire lo smoking. Sembra un bambino felice, dice che ha sempre sognato di avere uno smoking ma non ha mai avuto occasioni per metterlo. Siamo tutti serviti e, sempre accompagnati dalla titolare, prendiamo accordi con la sartoria per le modifiche e gli orli, erò io a ritirare tutto la prossima settimana. Ora il momento più temuto: il conto. Marina è cliente da una vita e quindi approfittiamo tutti dello sconto a lei riservato. Me la cavo con l’equivalente di uno stipendio, si può fare. Ho il sospetto che finirà appeso nell’armadio e non lo metterò mai più ma, in fondo, chi può dirlo? Marina ha insistito per pagare lei anche i nostri acquisti ma io e Aldo siamo stati irremovibili. Prima di lasciarci affrontiamo ancora la questione viaggio, di qui a Milano sono circa due ore di auto, ovviamente mi propongo come chauffeur. Sarò lo chauffeur più elegante del mondo, dovrò solo cambiarmi le scarpe.
MARINA
Mancano due giorni alla prima e non sono più così sicura che sia stata una buona idea. Se non avessi trascinato Clara e Aldo nell’atelier di Livia, se non li avessi costretti a spendere tutti quei soldi, se solo mi avessero permesso di pagare tutto, ora manderei tutto al diavolo. Ho paura che al Teatro non si ricordino di me. Ho
paura che invece si ricordino fin troppo bene e mi chiedano della mia vita. Ho paura di sentirmi fuori posto e di costringere le uniche due persone che mi sono amiche ad entrare in un mondo che non appartiene loro. Però ho voglia di tornare in quel posto che mi ha dato tanto. Ho voglia di rivedere quel palcoscenico, di respirare quell’atmosfera. Ho voglia di rivedere i colleghi di una volta, scoprire se anche loro ritornano per rinnovare i ricordi. Ho voglia anche di rivedere Roberto Bolle, l’ho lasciato che era un ragazzino ambizioso e promettente e lo ritrovo etoile. Chissà se si ricorda di me.
Lo farò. Vada come vada. Ho già i posti assegnati, sono posti ambiti, in terza fila, platea. Clara e Aldo non avranno altre occasioni per vivere il balletto da così vicino.
CLARA
Durante il viaggio Marina ci ha spiegato il Regolamento di Sala, sembrava il decalogo per il perfetto pellegrino in Terra Santa. Tuttavia io e Aldo abbiamo ascoltato in religioso silenzio. Abbigliamento consono, biglietto sempre a portata di mano da esibire al personale di sala che lo richieda, occupare il posto assegnato e numerato, non si entra a spettacolo iniziato, se si è in ritardo si attende nel foyer il primo intervallo e poi si raggiunge il proprio posto. I bambini con meno di sei anni non possono entrare, figuriamoci gli animali. Ombrelli, borse, cappelli, foto e videocamere, telefoni cellulari, tutto categoricamente da depositare in guardaroba, compresi soprabiti e cappotti per gli spettatori di sesso maschile. In sala silenzio assoluto. Niente foto, né telefonini, né sigarette. Si possono consumare alimenti o bere solo nei locali bar, è vietato introdurre bicchieri o generi commestibili in sala. Per qualsiasi esigenza ci si deve rivolgere al personale di sala. Forse i pellegrini in Terra Santa hanno meno regole, comunque ci siamo impegnati a rispettarle tutte. Abbiamo parcheggiato alle porte della città, nel parcheggio di un hotel a cinque stelle dove ci aspettava l’auto con l’autista che ci avrebbe accompagnato in centro, direttamente davanti al Teatro. Mi sentivo tanto
Cenerentola al ballo, con quel vestito, in mezzo a tutte quelle personalità. Per fortuna siamo venuti via ben prima di mezzanotte altrimenti avrei temuto di assistere alla trasformazione dell’auto in zucca. Vedere La Scala di sera, illuminata dalle luci della Prima, è tutt’altra cosa dal vederla di giorno. Più volte mi ci sono ritrovata di fronte durante i miei viaggi di lavoro nel quadrilatero della moda e mai l’ho vista così. La prima volta mi sono chiesta: “Ma è tutto qui???”. Mi aspettavo chissà ché e non ho trovato nulla. L’ho trovato stasera quel chissà ché. Il palazzo che ospita il Teatro Alla Scala di Milano, la scalinata, il tappeto, le luci. Era tutto lì, di fronte a me, stasera.
Marina si muoveva con estrema sicurezza infondendo fiducia anche in noi che ci guardavamo attorno con occhi meravigliati. E’ bastato un suo sguardo complice per farci entrare nella parte, appena varcata la soglia Aldo è diventato il suo compagno e io la nipote che ha sempre desiderato. Siamo stati presentati a una moltitudine di persone, amici, ex colleghi di Marina, allievi. Tutti felici di vederla e di sapere che sta bene. Tutti a chiederle il motivo della sua scomparsa, la causa del suo isolamento volontario. Lei ha risposto con racconti di viaggi che sospetto non siano mai esistiti, con la storia del suo primo incontro con Aldo su una nave da crociera, con la vicenda di questa nipote che si è trasferita a vivere con loro, nella loro grande villa alle porte della città, con un parco infinito abitato da ogni genere di animali. Ha trasformato le nostre vite raccontandole così bene che quasi ci credevamo anche io e Aldo. Terminati i convenevoli nel foyer siamo stati accompagnati ai nostri posti dal personale di sala in religioso silenzio. Si udivano dei mormorii indistinti qua e là, immediatamente messi a tacere dagli sguardi assassini delle maschere. Ho pregato che Aldo non manifestasse problemi di prostata tali da costringerlo a sfidare il personale per alzarsi e attraversare la sala durante lo spettacolo. Per quanto mi riguarda ero decisa a trattenere ogni mia funzione corporale fino alla fine dell’esibizione, ero pronta a tutto pur di non attirare su di me lo sdegno di tutti i presenti. Devo ammettere però che essere lì mi provocava una sensazione particolare, come quando arrivi a Parigi dal metrò e salendo le scale anonime ti ritrovi nel bel mezzo di Place de l’Operà, come se ti avessero catapultata nel centro del mondo. Indimenticabile.
Non sono riuscita a nascondere la mia meraviglia quando siamo entrati in sala. Che splendore, che incanto! Luci soffuse, lampadari sontuosi, rosso in ogni angolo, dal sipario alle poltrone, dai tendaggi ai loggioni, pavimento lucido in parquet… Ora capisco come una struttura del genere possa indurti in soggezione, sembra di tornare indietro nel tempo. Svanito ogni pensiero irriguardoso. Ho cercato di catturare con i miei occhi quanta più struggente bellezza possibile. Farò di tutto per ritornare perché è troppo bello, è magico, anche a sipario chiuso. Ulteriore incanto quando il sipario si è aperto svelando il palcoscenico in tutta la sua maestosità. Ed ecco lo spettacolo, ennesima rappresentazione del Lago dei cigni in chiave moderna, con una scenografia eccezionale e un Roberto Bolle che portava in scena un principe Sigfried talmente splendido da conquistarmi. Lo stesso Sigfrido che ho considerato uno sprovveduto fino a ieri, oggi mi ha incantato nella versione di Roberto Bolle. Magnifico.
Nessuno di noi ha avuto bisogno di lasciare il nostro posto durante lo spettacolo, anzi, siamo rimasti seduti anche tra un tempo e l’altro, tempestando di domande la nostra insegnante di danza che rispondeva con un sorriso compiaciuto, felice della meraviglia che leggeva nei nostri occhi. Al termine dello spettacolo siamo stati invitati a cena dal direttore con tutto il corpo di ballo ma Marina ha declinato l’invito con perfetta diplomazia. Ha fatto bene perché si è fatto tardi e ci aspettano un paio d’ore di viaggio di ritorno.
MARINA
Le luci soffuse, il rosso delle poltrone e dei loggioni, il sipario, i tendaggi, il legno caldo del parquet, il brusio basso degli spettatori che prendono posto. Le note solitarie di chi sta accordando gli strumenti per l’ultima volta prima dell’esibizione.
Contesti che mi sono familiari anche dopo anni di inattività. Posso solo immaginare i drammi che si stanno consumando dietro le quinte, sempre gli stessi, che precedono il fatidico momento del segnale “In Scena”. La prima ballerina che si sente male, quella di fila che non riesce a chiudere il costume perché la zip si è inceppata, il tendine del ballerino che fa i capricci, il trucco che sbava, i nastri delle scarpette che si allentano, il ritardo della comparsa, la calza smagliata. Mille e più problemi di questo genere che, tanto misteriosamente quanto miracolosamente, si risolvono con l’accensione del display che chiama tutti immediatamente in scena. L’adrenalina scorre a fiumi dietro le quinte per liberarsi poi sul palcoscenico durante le esibizioni. In quei momenti esibirsi diventa un bisogno fisico, quasi una liberazione.
E questo io l’ho vissuto sempre, ogni volta, da quando ero una comparsa a quando ero prima ballerina, a quando insegnavo e lo vivevo di riflesso per i miei allievi.
E’ questo che mi manca di più: il panico, il cuore a mille, l’eccitazione estrema degli istanti che precedono e il sollievo di entrare in scena.
CLARA
All’uscita dal Santuario mi sono girata un’ultima volta per ammirare ancora la sala. Se chiudo gli occhi rivedo ogni cosa. Ma è meglio di no perché sto guidando sulla via del ritorno. Marina è accanto a me con gli occhi chiusi, si è sfilata le scarpe e ha appoggiato i piedi sulla borsa a terra davanti al sedile. Aldo è seduto dietro, si è allentato il papillon e sta russando sommessamente. Che due magnifici compagni d’avventura! Avrei voglia di guidare fino alla villa alle porte della città, quella con il parco enorme, dove vivono loro e occasionalmente mi ospitano, parcheggiare nel vialetto d’ingresso ed accompagnarli in casa, fino alla
loro camera prima di ritirarmi in quella riservata a me. Non importa che io non sappia neanche di quale città si tratta, lo farei con tutto il cuore, dovessi guidare fino alla fine dei miei giorni, per trattenere qui all’interno di quest’auto, quest’amicizia intatta, questo momento perfetto. Ma non lo posso fare. La realtà bussa alla mia porta sotto forma di semaforo. Rosso. L’unico in questa notte stellata. Mi fermo, e li guardo un’ultima volta prima di svegliarli. Siamo quasi arrivati.
Estate
CLARA
Oggi è il 21 giugno. Inizia un’estate che potrebbe essere splendida. Solo un anno fa mi sentivo ancora sola e persa dentro me stessa. Non sapevo che di lì a pochi mesi la vita mi avrebbe regalato una persona speciale, talmente speciale da cambiare le mie prospettive. Pare che soltanto l’amore sia in grado di migliorare l’esistenza delle ragazze, ma non è così, anche l’amicizia fa miracoli, soprattutto quando è vera. Il fatto che io e Marina siamo due persone così diverse forse intensifica il nostro rapporto, abbiamo molte cose da dirci, da imparare l’una dall’altra, da dividere. A cominciare da oggi, il nostro compleanno. Da quando ci siamo conosciute siamo cambiate entrambe, ci stiamo aprendo al mondo che avevamo chiuso fuori dalle nostre vite, io per paura di soffrire e di causare ulteriori angosce ad altre persone, lei per paura di vivere per cause che ancora non so. Ho pensato così tanto a questo giorno, voglio ringraziarla per essermi amica, voglio che sia un giorno memorabile. Ho organizzato, disdetto e riorganizzato più volte ogni momento della giornata. Mi chiedo se le piacerà. Per quanto mi riguarda ho preso un giorno di ferie, mi vedranno in struttura solo per prelevare lei e per riaccompagnarla, spero, a notte fonda. Le ho detto di prepararsi per le nove del mattino e di prendersi un cambio d’abito, qualcosa di elegante, non si sa mai. Non potevo essere più precisa. Ho anche fatto un lungo discorso con la mia Bisy, oggi avremo un’ospite e le ho chiesto di comportarsi bene. Non succede così di frequente che io riceva ospiti in casa mia. Ho parlato con Loredana, la quale mi ha assicurato che la mia omonima a quattro zampe sarà pronta verso le dieci e potrà restare con noi anche durante la pausa pranzo. Il cinema si collegherà in diretta con il Bolshoi alle sedici per cui direi che avremo il tempo per are a casa e metterci in tiro. Poi cena da me. E qui entra in scena Bisy che dovrà intrattenere la nostra ospite mentre io cucinerò per loro. Non ci saranno colpi di scena, nessun pacco enorme dal quale far uscire lo spogliarellista di turno, soltanto un giorno tra amiche. L’apprezzamento di Marina, se ci sarà, sarà il mio regalo.
MARINA
Che giornata! Clara mi aveva detto che voleva festeggiare il nostro compleanno insieme, mi aveva anche dato un paio di dritte sul cambio d’abito da portare con me, ma non mi aspettavo nulla del genere. Mi ha stupita. Questa è un’altra delle qualità che amo in lei, non mi delude mai. E’ stato un grande compleanno, mi viene voglia di viverne altri cento se fossero tutti così.
Alle nove era qui, puntuale come un orologio svizzero. Peccato che io non ero ancora pronta, più che altro perché non sapevo che cosa intendesse con quel suo “Prenditi un cambio d’abito, qualcosa di elegante, non si sa mai…”. Con tutti gli abiti eleganti che ho portato qui, nonostante fossi sicura che non li avrei mai messi, mi ha mandato in confusione. Lungo? Pizzo? Sobrio? Leggero? Mezza stagione? E sopra? Alle nove avevo ridotto la scelta ai tre che mi sembravano più adatti, il migliore l’ha scelto lei quando è arrivata. Grigio, di cachemire leggero da abbinare alla pashmina rossa. Mi sta molto bene anche perché ha la stessa tonalità di grigio chiaro dei miei capelli. Scarpe e borsa rosse, come la pashmina. Le ha scelte Clara, io non avrei osato. Collant velato e per ripararmi dall’aria frizzante della sera una cappa di lanetta nera da drappeggiare sulle spalle. Ripiegato il tutto con cura e infilato in un portabiti adatto che mi accompagna da anni, ero pronta. Sono uscita in pantaloni di gabardine blu e camicia azzurra sotto alla giacca di maglia leggera. Scarpe comode e foulard colorato al collo. Tutto azzeccato visto che Clara era in jeans e maglioncino. Dopo aver riposto il mio cambio d’abito in macchina ci siamo dirette verso la sede dell’Associazione di Loredana. Ero già felice quando ho visto Claretta e la sua mamma sulla soglia. Claretta era già pronta con la sua pettorina e il suo guinzaglio rosa. Niente cappottino per oggi, è una bella giornata e nulla fa pensare che debba peggiorare. Siamo salite tutte tre in macchina e siamo andate al parco. Claretta si è posizionata sul sedile dietro stando attenta a non appoggiare neanche uno dei suoi adorabili piedini sul mio cambio d’abito. Non capivo perché siamo andate in macchina e non a piedi ma non volevo fare troppe domande. Sicuramente Clara aveva le sue ragioni e io le avrei scoperte presto. Al parco abbiamo ritrovato qualcuno degli amici che conoscevamo, abbiamo
eggiato e abbiamo dedicato tutta la nostra attenzione alla boxerina del mio cuore. Ho confessato a Clara che, per quanto possa sembrare strano, lei è il primo cane della mia vita, non ho mai avuto tempo da dedicare ad altro che non fosse il mio lavoro. Ho taciuto il fatto che non avevo amore da dedicare a nessuno. Ora però ho intenzione di recuperare, è una gioia che non posso più negarmi. Trascorse un paio d’ore Clara ci ha invitate entrambe a visitare un mercatino un po’ distante, dove tutte quante saremmo state ben accolte, per fare alcuni acquisti e magari mangiare qualcosa al tavolo di qualche bar. Ecco spiegata la necessità di avere l’auto vicina. Erano anni che non mangiavo pranzo seduta nel dehor di un bar, con le sedie e i tavoli in ferro battuto e i fiori su tutti i tavoli, le tovagliette rosse come i cuscini, la gentilezza dei camerieri che prima ancora di prendere la nostra ordinazione hanno portato una ciotola di acqua fresca per Claretta. Davanti a noi la piazzetta con tutti i colori e i profumi del mercato. Mi sembrava di essere tornata indietro di anni. Alla Francia e ai suoi bar con i tavolini piccoli sulle piazzette. Non sapevo che esistesse questo posto così carino e così vicino a casa mia. Clara voleva fare un po’ di acquisti per la cena di stasera, dopo il pranzo abbiamo eggiato tra le bancarelle cercando i prodotti giusti, soppesando le verdure, annusandole, tirando sui prezzi e riempiendo un paio di borse che aveva con lei. Con tutti i negozi e i centri commerciali a cui siamo abituati abbiamo perso la sensazione di freschezza che ti dà il mercato. Non ultima la libertà di portare con noi i nostri amici a quattro zampe senza l’obbligo di lasciarli in auto o fuori dai locali ad aspettare il nostro ritorno. Prima di stringere amicizia con Claretta non avevo mai notato quanti posti ci siano vietati ai cani e agli animali in genere. La maggior parte dei negozi, dei ristoranti, dei locali pubblici, persino dei parchi! Tutti con l’adesivo alla porta o con il cartello che ci ricorda che “Noi qui non possiamo entrare”. Non condivido e ascolto con piacere Clara quando mi dice che i tempi stanno cambiando. Per fortuna. Dopo aver riaccompagnato Claretta dalla sua mamma umana Clara mi ha accompagnata a casa sua. E’ un bell’appartamento in centro, al secondo piano di una villetta ristrutturata da poco, molto luminoso e arredato con gusto in stile moderno. Pare che sia l’unica cosa rimastale dalla sua vita precedente. Qui ho incontrato per la prima volta la famosa gatta Bisy, quella che ha il merito di averla sottratta al baratro in cui si era cacciata lei stessa. Ci aspettava sul davanzale della finestra, l’abbiamo vista da fuori. Quando Clara ha aperto la porta è corsa da lei a farle le fusa, ha salutato anche me strusciandosi contro le mie gambe. Una perfetta padrona di casa. Oltre che uno splendido esemplare di felino grigio cenere. Mentre Clara riponeva gli acquisti nella dispensa io e Bisy ci siamo sedute sul divano e abbiamo approfondito la nostra reciproca conoscenza. Tempo dieci minuti e ci siamo appisolate entrambe in
attesa della nostra comune amica. Che bella sensazione avere una creatura che ti si addormenta in grembo fiduciosa.
Dopo il pisolino Clara mi ha svelato i programmi per la giornata: cinema e poi cena da lei. Mi sembrava un po’ strano doverci mettere eleganti per andare al cinema ma, per l’ennesima volta durante tutta questa giornata, ho lasciato correre ho indossato l’abito e gli accessori che avevo con me.
Nel frattempo si è cambiata anche lei, sembrava il mio negativo: tubino rosso e accessori grigi. Con un paio di scarpe tacco dodici che al solo vederle mi davano le vertigini, e poi chiede a me come facciamo a danzare sulle punte! Bellissime, niente da obiettare, ma proprio non sono il mio genere. Lei invece ci camminava tranquillamente e, come nulla fosse, ha pure guidato l’auto. Abbiamo fatto il nostro ingresso poco prima delle sedici insieme a un manipolo di persone eleganti come noi. Qualcuno bisbigliava e si dava di gomito guardando proprio noi. Ma io, che non mi sono accorta di nulla, non capivo cosa ci fero lì a quell’ora di pomeriggio. Io ancora credevo di essere lì per vedere un qualche film scelto per me dalla mia amica. Lei aveva già i biglietti e siamo entrate direttamente in sala accomodandoci in seconda fila. Davanti a noi non c’era nessuno. Buio in sala. Voce fuori campo che annunciava lo spettacolo: “In collegamento via satellite con il magico Teatro Bolshoi di Mosca direttamente per voi trasmettiamo Lo Schiaccianoci su coreografie originali di Marius Petipa nella nuova versione coreografica di Yuri Grigorovich. Interpretato da Svetlana Lunkina e Dmitry Gudanov e dal celebre corpo di ballo del Bolshoi. Buona visione”. Che emozione! Rivedere le scene che ho calcato tanti anni fa, il Bolshoi, il tempio della danza classica di tutti i tempi, il nostro santuario d’oltre oceano, l’obiettivo a cui tutti aspiriamo. Non puoi definirti ballerino fino a che non hai danzato su quel palcoscenico.
Questo piccolo cinema, grazie ai collegamenti via satellite, è riuscito a crearsi una nicchia di clienti assidui permettendo loro di coltivare la loro ione per la danza classica senza allontanarsi troppo dalle loro case. Un’altra delle tante cose che non sapevo. Ecco spiegate le loro occhiate verso di noi, forse qualcuno si
ricordava di me ma gli spettatori della danza sono troppo discreti per disturbare i loro idoli. O forse sono io che devo tornare con i piedi per terra…
Considerate le mie attuali condizioni di vita Clara mi ha fatto il regalo più bello.
E’ stato singolare vedere il balletto da spettatrice per la seconda volta in pochi mesi. Questa volta però non ero preparata, mi ha colta di sorpresa, mi ha evocato il ricordo di quando mi scartavano e andavo a sedermi in prima fila alle prove per capire dove stavo sbagliando e per carpire i segreti dei più grandi. Arrancavo dietro a Carla Fracci che aveva la mia età ed era già prima ballerina. Ho aspettato, pianto e sudato finché le soddisfazioni sono arrivate anche per me.
Lacrime, dolore e sudore. E gioia. Gioia per i successi tanto rincorsi. Per le parti tanto desiderate. Per le coreografie perfette. Adrenalina per le prime, in qualsiasi ruolo tu danzi la prima è sempre un nuovo esordio. Dovere. Il dovere di non mollare mai, di non trascurare mai gli allenamenti, di non pensare mai che le repliche non siano importanti. Il dovere di impegnarsi ogni giorno al massimo, di dare ai nuovi spettatori le stesse emozioni che hai dato alle prime perché loro ti vedono per la prima volta. Ricerca. Per perfezionare ogni movimento perché tu sai che c’è sempre un margine per migliorare. Studio. Per interpretare i personaggi e trasmettere al pubblico le sue emozioni. Piacere. Quando sai che i fiori che arrivano sul palcoscenico sono anche per te. Quando sai di aver dato il massimo. Come si fa a spiegare tutto questo a chi non lo ha mai vissuto?
Signore Iddio! Quanti ricordi, quante emozioni in un giorno solo!
La cena è stata leggera ma molto saporita, Clara cucina benissimo, ennesima qualità di questa ragazza che non si rende giustizia. Lei minimizza e afferma che si tratta della solita fortuna del principiante. Dopo mesi finalmente ho cenato alle venti, non sopporto di cenare alle diciotto, mi devasta, non ho fame a quell’ora e
poi mi viene quando tutti stanno già dormendo. Orari assurdi. Mentre lei cucinava io mi sono intrattenuta con la mia nuova amica pelosa. Ho ottenuto il permesso di aiutare soltanto dopo cena, quando abbiamo sparecchiato, lavato ed asciugato i piatti. Mi sembrava di essere a casa, non c’era nulla di strano, avremmo potuto essere una qualsiasi famiglia in un qualsiasi appartamento in una qualsiasi serata. Anzi in una serata di festa. Abbiamo anche brindato con il moscato ai nostri compleanni. A quel punto ho consegnato a Clara il mio regalo per lei. E’ una foto che ci ha scattato Loredana il giorno che è venuta in struttura con i ragazzi e i cani della pet teraphy. C’è Clara in primo piano e dietro, sedute in poltrona, io e Claretta che la guardiamo. Sorridiamo tutte, anche gli occhi della boxerina. Loredana ha saputo catturare la gioia di quel giorno. Mi ha consegnato la foto il primo giorno che sono andata da lei, in realtà voleva darla a Clara ma l’ho presa dicendole che gliela avrei data io. E così ho fatto oggi. Le ho messo una cornice e gliel’ho consegnata.
Siamo tornate in struttura alle ventidue e trenta ate, tardissimo per gli orari del posto.
L’amicizia è una cosa fantastica.
CLARA
L’amicizia è una cosa fantastica. Da quando Mara è partita per l’Africa non ho più avuto una vera amica. E’ vero che ci sentiamo un paio di volte a settimana su Skype ma non è come averla qui, non possiamo continuare a mentire a noi stesse, le nostre strade hanno preso direzioni diverse. Ci siamo accompagnate, aiutate e sostenute per un periodo della nostra vita e questo nessuno potrà mai contestarlo. Ma la distanza fisica che c’è tra noi ci sta allontanando anche mentalmente. Io non posso capire appieno quali siano le condizioni in cui si muove lei e lei, che vive in una sorta di
emergenza perenne, non può condividere i miei stupidi problemi. Non avrei voluto dirlo mai, credevo di essere in grado di sostenere questo rapporto a distanza, ero fiera di lei quando è partita anche se sapevo che mi sarebbe mancata. In quel momento ci siamo raccontate entrambe un mare di frottole, ci siamo promesse che nulla sarebbe cambiato, ci siamo sforzate entrambe di crederci. Ma ora so che non è così. Un’amica è quella che ti ascolta nei momenti bui ma anche in quelli felici. E’ quella che ti racconta i suoi dubbi e le sue speranze ma anche le sue serate e le sue sciocchezze. E’ quella che ti accompagna a fare shopping, ti chiede e ti dà consigli sul vestito da mettere al primo appuntamento con un ragazzo. E’ quella che ti prende in giro ma ti incoraggia nelle tue scelte. E’ quella che ti aiuta semplicemente restandoti vicina. E’ stato sempre così fra noi, finché lei è stata qui. Ma lei non tornerà e io non mi trasferirò da lei per starle accanto. E’ stata molto importante per me ma ora non è più così. Ora quando ci sentiamo non le parlo dei miei problemi, mi sentirei un’idiota a farlo. Lei laggiù in prima linea e io che le chiedo consigli sul comportamento da tenere con la mia famiglia. Lei laggiù in mezzo a morti e feriti di ogni età e io qui a piangere per la morte di una persona di 93 anni. Non mi sento meno importante per questo, semplicemente apparteniamo a due mondi diversi. Per il mio compleanno ci siamo collegate a notte fonda, lei era stanchissima, ha avuto giusto il tempo di urlarmi i suoi auguri. Si vedeva che era stravolta, potevo chiederle di stare a sentire qualcosa di me? No, non potevo. Ho staccato con un po’ di amarezza e sono andata a dormire con Bisy, comunque felice per la giornata. Marina avrà anche il merito di avermi spinta a queste considerazioni, la sua presenza, le sue attenzioni, il suo aiuto, hanno reso possibile che io finalmente prendessi atto della natura del mio rapporto con Mara. Era importante che io me ne rendessi conto, credo che lei l’abbia fatto già da tempo, non sono più la sua persona speciale e lei non lo è più per me. Rimane il fatto che lo è stata e che sono fiera di lei e di quello che sta facendo. Il 21 di giugno è stata una giornata eccezionale. Il regalo di Marina per il mio compleanno è stata la sua amicizia, io speravo solo nel suo apprezzamento e ho avuto molto di più. Senza dimenticare la bellissima foto che ci ritrae insieme. La nostra prima foto.
MARINA
Mercoledì. Ore 14.30. Aldo bussa alla mia porta. Usciamo come d’abitudine ma mi accorgo subito che è strano. Non è triste, no, ma ha qualcosa che lo preoccupa, qualcosa da dire che temo non sarà una bella notizia. Almeno per uno di noi. Glielo chiedo subito, è inutile eggiare in silenzio fino a raggiungere la solita panchina e intanto rimandare il momento cruciale. Avevo ragione, è una notizia bellissima che però non so come accogliere. Lui è un mio amico dunque sono felice per lui. Per me però sono un po’ triste come succede sempre quando una persona che ci piace si allontana da noi. Aldo infatti se ne va. Torna a vivere con suo figlio. L’hanno convinto dicendogli che c’è bisogno di lui. Con un secondo bambino in arrivo, perché assumere una baby sitter quando si ha un nonno parcheggiato in un posto come questo? Immagino che il vero obiettivo di suo figlio sia quello di riportarlo a casa senza che lui si senta un peso per la sua famiglia. E’ un uomo fortunato. Mi dice che ci sta pensando su da due giorni ormai, ora è certo di poter essere d’aiuto e ha deciso di tornare a casa con loro. Ha voluto parlarne con me prima. Stasera suo figlio lo chiamerà per avere una risposta. Naturalmente l’ho spinto verso quella direzione. So che mi mancherà, mi mancheranno questi mercoledì, mi mancheranno le serate ate a giocare a carte. Ma la sua vita è più importante, quella che trascorriamo qui non è vita, è attesa. Un’attesa, più o meno lunga, di qualcosa che generalmente non è il ritorno a casa.
“Vai Aldo. Sei fortunato ad avere una famiglia così. Vai da loro e fai il nonno. Se io fossi in te sarei già partita senza voltarmi indietro.”
“Lo so. Sono sicuro di poter dare una mano ai miei figli con i miei nipoti. Fino a qualche mese fa nulla mi avrebbe trattenuto ma ora ci sei tu. Tengo davvero alla nostra amicizia. Se torno a casa non so quando potrò venire a trovarti. Davvero non so Marina.”
“Verrai. Quando avrai il tempo, quando i tuoi nipoti ti lasceranno libero. O mi chiamerai. Ogni volta che avrai voglia di sentire la mia vecchia voce. Io sarò qui.”
“Grazie Marina. Vorrei averti conosciuta tanto tempo fa…”
“No Aldo. E’ giusto così. Tu e tua moglie avete cresciuto dei figli stupendi. E’ andato tutto come doveva andare. Ora però basta con le malinconie, vieni, eggiamo.”
Stasera suo figlio chiamerà. Ed avrà la risposta che desidera.
CLARA
Ma allora non è vero che di qui si esce solo orizzontali! E’ un vecchio adagio che va per la maggiore tra i miei colleghi, purtroppo è vero quindi non posso dissentire. E’ la prima volta che mi capita di smentirlo. Il geom. Rivera se ne andrà di qui camminando sulle sue gambe e non tornerà più. Sono felice per lui ma mi spiace per Marina. Ero così entusiasta della loro amicizia! Speravo nascesse qualcosa di più profondo tra loro, mi sembravano davvero ben assortiti. E ora sono qui a parlare al ato di questa immaginaria storia d’amore che si è svolta solo nella mia testa. Marina infatti non ha mai ammesso nulla, ha parlato più volte di amicizia ma ha scansato ogni mia richiesta di approfondimento. Meglio così. Se davvero si fossero innamorati ora la separazione sarebbe insostenibile. Io parlerei con i figli di Aldo, li farei ragionare, farei in modo di farlo rimanere qui con noi. Ma non lo farò perché non c’è nessuna storia d’amore in corso da salvaguardare e perché Aldo ha avuto un’opportunità che non capita molte volte in un sola vita ed è giusto che la colga al volo.
Starò attenta alla reazione di Marina e interverrò se ci sarà bisogno.
MARINA.
Primo mercoledì del dopo Aldo. Sabato è andato. E’ venuto suo figlio con la Station Wagon e si è portato via lui e tutta la sua roba. Io non ero qui, sono uscita nel primo pomeriggio perché non volevo vederlo partire e non volevo che lui vedesse me. Ci siamo salutati prima, sulla panchina fuori in giardino. Con una serie di promesse che non riusciremo a mantenere. Mi rimangono di lui due lattine di coca cola nascoste in camera mia. E oggi, come ogni mercoledì alle 14.30, tendevo l’orecchio per sentire la sua mano leggera bussare alla mia porta. Mi ha interrotta lo squillo del telefono. Era lui. Che uomo adorabile. Abbiamo eggiato insieme pur essendo lontani, io gli descrivevo le vetrine che tante volte abbiamo visto insieme, lui mi raccontava il giardino di suo figlio con le rose e le siepi di ligustro. ..
Mi sentivo come quelle adolescenti che vivono costantemente con il telefono incollato all’orecchio, però è stato bello. L’ho sentito vicino. E anche felice.
In serata è ata Clara. Agitatissima, turbata dalla nascita improvvisa del suo nipotino. Bè, proprio improvvisa non direi, anzi era stata ampiamente annunciata. Ciò non toglie che Clara non sia ancora pronta. Avrebbe voluto più tempo per prepararsi, avrebbe voluto una gestazione di diciotto mesi. Peccato che sua cognata invece fosse risoluta a terminare la sua gravidanza in soli nove mesi, convinta di appartenere alla specie umana. Che ragazza presuntuosa. Con questo gesto sconsiderato ha costretto la mia povera amica a prendere atto della situazione e a reagire adeguatamente.
Sinceramente non volevo prenderla in giro, volevo solo scuoterla un po’. So che per lei sarà una prova difficile ma ci sono occasioni che vanno colte quando
arrivano, anche se ci colgono di sorpresa.
CLARA
Salgo le scale dell’ospedale con le gambe che sembrano di marmo. E’ un’occasione felice, è nato il mio primo nipotino. Ma io non voglio andare, non voglio vederlo, né voglio vedere suo papà o sua mamma. Non voglio vedere neanche la neo nonna. Non sono ancora pronta, voglio rimandare ancora, non so cosa dire. Marina rideva alle mie lamentele “Santo Iddio! Non puoi dire che ti ha colta di sorpresa! Da che mondo è mondo la gravidanza degli umani dura nove mesi! Oppure pensavi che tua cognata appartenesse a un’altra specie?”. E’ vero, lo sapevo che sarebbe arrivato questo momento ma ho rimandato fino all’ultimo, non volevo pensarci, non c’entro niente con tutti loro. Loro sono felici così, non hanno bisogno di me. Vorrei nascondermi in un altro reparto e aspettare l’ora di uscita, dire che mi sono persa tra tutti questi corridoi, che non ho trovato il reparto di maternità… E invece sono proprio qui davanti alla porta della nursery, con la mia tutina azzurra infiocchettata tra le mani. Mentre l’istinto mi spingeva a fuggire la ragione mi ha guidata a destinazione. E ora che faccio? Dio, fai che non entri qualche mio parente proprio ora, lasciami ancora qualche minuto per prepararmi, per pensare a cosa dire. Ci sono stati solo dei messaggi tra di noi, pochi e brevi. Dovrò fare le congratulazioni ai genitori? Dovrò abbracciare qualcuno? Dovrò dire che il bimbo è bello anche se non mi piace? Non è come andare a trovare un’amica che ha partorito, c’è mio fratello in quella camera, mio fratello, mia cognata e forse anche mia mamma. L’unico che non ha ancora nulla da rimproverarmi è proprio il neonato. E io sto tremando, non so se per la mia malattia o per l’ansia. Arriva un gruppetto di ragazze in visita, sono allegre e ridono fra di loro. Spalancano la porta del reparto e ano oltre. Entro anch’io, non ho più scuse. Non ho bisogno di cercare nessuno perché in fondo al corridoio c’è mio fratello che parla con un’infermiera sulla soglia di una camera. Lui non mi ha ancora vista perché è girato di schiena, potrei ancora girare i tacchi e fuggire, non saprebbe neanche che sono stata qui. Ma non lo farò. Respiro a fondo e avanzo verso di lui. In quell’istante si gira e mi vede. Gianni. Il cuore salta un battito, è tanto che non ci vediamo. Ha perso un po’ di capelli ma lo riconoscerei ancora
tra mille, alto, magro, appoggiato al telaio della porta con il braccio alzato, la stessa posizione che assumeva quando voleva dirci qualcosa di importante. Era in quella posizione quando ci ha detto che voleva cambiare lavoro, la stessa di quando ci ha detto che ci avrebbe presentato la sua ragazza, la stessa di quando ci ha detto che l’avrebbe sposata. Per lui è un momento felice, lo so perché stava sorridendo quando si è girato. Ora che mi ha vista il suo sorriso si è spento per lasciare spazio a un’espressione che non voglio definire. Eccolo lo sguardo che temevo. Biasimo allo stato puro. Lo merito ma non riesco ad accettarlo. Fingo di non accorgermene, che altro potrei fare? Sono io a rompere il ghiaccio. “Ciao” “Ciao” “Come sta tua moglie?” “E’ stanca. Entra. C’è anche mamma.” Che fortuna, tre paia di occhi che mi perforano, mi fa già abbastanza male lo sguardo di Gianni, dovrò sopportare anche gli altri due? “Ciao Giulia, come stai? Ciao mamma.” Mia cognata mi sorride con benevolenza, è stato un parto difficile ed è molto stanca. “Ciao Clara, mi fa piacere che tu sia qui.” “Ti ho portato una cosa per il piccolo.” “Non dovevi disturbarti. Puoi darla a tuo fratello per favore? Gianni, puoi prendere il pacco di Clara?” Gianni è già accanto a me, le nostre mani si sfiorano durante la consegna del pacco. Entrambi indietreggiamo come se avessimo paura di toccarci. Ed è proprio così. Ora guardo mamma, lei non è cambiata, il suo sguardo è sorpreso e felice, non sembra accusarmi di nulla. Forse è talmente felice di essere diventata nonna che
tutto il resto non conta più nulla. Non c’è traccia nei suoi occhi di tutto il male che le ho fatto. Viene verso di me e prima che mi abbracci le chiedo “Come stai mamma?” “Bene Clara. Tu invece sei dimagrita. Vivi sempre sola?” “Sola con la mia gatta.” “Ma mangi abbastanza?” Cuore di mamma. Tra un po’ scoppio a piangere e potrei non essere l’unica. “Il piccolo l’hai visto? Hai visto quant’è carino?” “No, non ancora.” “Non ti preoccupare, tra cinque minuti lo portano qui, Giulia deve allattarlo. Gianni ti ha detto come si chiama?” “Non ancora mamma, come si chiama?” “Pietro. L’abbiamo chiamato Pietro, come papà.” Pietro, come mio padre. Non avrebbero potuto scegliere un nome migliore. Gli occhi di tutti si fanno lucidi. Per fortuna arriva il piccolo a interrompere questo momento. Giulia è ovviamente la prima a riprendersi, accoglie il suo bambino tra le braccia e il suo viso si distende. Il piccolo si attacca subito al suo seno e comincia a poppare beato. E’ talmente impegnato che la sua fronte si imperla di sudore. Mio fratello e mia mamma sono totalmente rapiti da questa visione. E’ arrivato il momento di salutare. “Mamma, io devo andare. Abbi cura di te.” “Rimani con noi Clara. Non sparire più, fatti sentire.” “Ciao Giulia, ciao Gianni. Questo bambino è fortunato ad avere voi.” “Ha anche te. Non te ne dimenticare” Con queste parole mi saluta mia cognata, è una bella frase, mi rimarrà dentro a lungo. Gianni mi saluta con un “Ciao Clara. A presto.” Si vede chiaramente che non si aspetta nulla da me.
Devo scappare. E’ fatta. Esco fuori e respiro a pieni polmoni, come se avessi trattenuto il fiato fino ad ora. Questo potrebbe essere un nuovo inizio se solo io non fossi così testarda, se non avessi così paura di manifestare i miei sentimenti.
MARINA
Non saprei dire se dopo la visita al piccolo Pietro, Clara fosse felice o disperata. Probabilmente si stava chiedendo cosà succederà ora. Il suo viso, mentre mi raccontava l’accaduto, tradiva mille emozioni diverse. Il panico prima di arrivare, la felicità di aver rivisto la sua famiglia, il senso di colpa per aver creato questa situazione assurda, la rabbia per il biasimo del fratello, la paura di essere abbracciata dalla madre, il terrore di scoppiare in lacrime di fronte a loro, la voglia di fuggire lontano. Mi sono sentita in colpa per averla un po’ presa in giro sulla durata della gravidanza di sua cognata, non volevo assolutamente infierire.
Non so come aiutarla, le ho già detto qual è la mia opinione al riguardo. Io credo che questa possa essere l’occasione giusta per riavvicinarsi, l’occasione che tutti aspettavano magari inconsapevolmente. Però ognuno di loro deve fare la sua parte, tutti, nessuno escluso, devono giocare nel loro ruolo rinunciando alle ripicche inutili, alle rivalse del ato. Non sarà facile. Lo so.
Per cercare di tirarla un po’ su le ho detto che intendo onorare la promessa che mi ha strappato quando l’ho invitata alla Scala di Milano. Aveva un po’ l’aspetto di un ricatto ma ho ceduto e ora mi sento in debito. Io mantengo sempre le mie promesse.
“Allora cosa stiamo aspettando? Non vorrai trascinarmi ad un concerto pop in autunno, o, peggio, in inverno? Si era detto in estate ma non ho ricevuto alcuna proposta da te. Hai forse cambiato idea?” “Stai scherzando?”
“Mai stata così seria. Ho proprio voglia di sentire cosa mi proponi, cosa ci sarà mai che le mie orecchie non abbiano già sentito…”
“Stasera controllo quali sono i concerti in zona e domani ti dico. Spero di poterti proporre un po’ di nomi diversi così puoi scegliere tu.”
Bene. Non sarà un sacrificio così grande se vale il sorriso di un’amica. Intanto il primo obiettivo è stato raggiunto, sono riuscita a distrarla dai suoi problemi e a farla sorridere.
CLARA
Vederla cantare insieme a noi le canzoni di Tiziano Ferro è stato impagabile. Le ragazze del bar erano sorprese, nonostante le avessi avvertite della sua presenza. Io stessa ero meravigliata, credevo fosse venuta solo per tener fede alla promessa che ci eravamo scambiate tempo fa “io vengo alla Scala di Milano e tu vieni a un concerto” e invece lei sapeva anche le canzoni e le ha cantate con noi. Bellissima. Ha scelto lei Tiziano Ferro, è rimasta talmente colpita da una frase di una sua canzone che ha voluto leggere tutti suoi testi e sapere tutto di lui. Mi spiace un po’ perché, nonostante la stagione, pioveva a dirotto e abbiamo dovuto aspettare l’apertura dei cancelli all’esterno sotto la pioggia. Ma sono seccature che poi, una volta raggiunti i nostri posti, abbiamo dimenticato in fretta. Anche il momento era quello giusto, dopo la partenza del suo amico Aldo mi sembrava che avesse bisogno di distrarsi un po’. Ora quando andrò a trovarla non ascolteremo più solo Tchaikovski ma anche qualche autore italiano che piace a me senza nulla togliere alla musica classica. Non avrei mai osato sperare in questa trasformazione di Marina, solo qualche mese fa mi sembrava misteriosa e irraggiungibile e ora invece continuo a
scoprire i suoi lati piacevoli. Lei non è solo danza classica o Isadora Duncan o i suoi ricordi di scena, come ero indotta a pensare all’inizio. Lei è anche i consigli che mi dà, la sua amicizia con il Geom. Rivera, il suo amore per gli animali, la boxerina Claretta, le eggiate al parco, i discorsi tra amiche, il nostro compleanno, e ora anche il concerto di Tiziano Ferro. Lei è la persona che mi dice “Tiziano Ferro ha scritto quello che io penso di te: hai delle isole negli occhi e il dolore più profondo riposa almeno un’ora solo se ti incontro.”
MARINA
Ho scoperto un mondo con Clara. Non so se le confesserò mai questa cosa ma la ringrazierò dentro di me per sempre. Io non sono una persona molto estroversa, non mi piace rivelare troppo di me. Però a volte vorrei stringerla e baciarla in fronte, benedetta ragazza. Con la sua forma di ricatto mi ha estorto la promessa di seguirla a un concerto e mi ha fatto un grande favore. Prima mi sono sempre rifiutata di interessarmi alla musica moderna, o pop come dicono loro. Convinta della superiorità della mia amata armonia. E sbagliavo. Ho voluto prepararmi, io sono così, non ho mai improvvisato, sono sempre arrivata preparata, tranne una volta perché alla vita e alle sue sorprese non ci si prepara mai abbastanza. Ho chiesto aiuto a Michela, le ho chiesto di portarmi i cd di quelli che vanno per la maggiore in questo periodo e ho voluto anche tutti i testi. Ce ne sono di bellissimi, non avrei mai creduto, ho trovato delle poesie messe in musica, dei testi profondi e molto piacevoli. Uno in particolare mi ha catturata: “Hai delle isole negli occhi e il dolore più profondo riposa almeno un’ora solo se ti incontro”. Questa è Clara per me. Questo è riuscita a fare per me. Quindi è lui che ho voluto vedere: Tiziano Ferro. Il primo concerto di musica leggera della mia vita. Neanche da ragazza c’ero mai stata perché non avevo mai il tempo, mentre le mie amiche andavano a vedere Massimo Ranieri io ero a danza. Mentre andavano al cinema a vedere Love Story io andavo a danza. Mentre andavano in pizzeria io andavo a danza. La danza è stata la mia vita e la mia vita è stata solo danza. La musica degli anni 60, il Piper, la Capannina, i complessi musicali, tutto vissuto di riflesso, nei racconti degli amici. Con questo non sto dicendo di essere pentita della mia scelta, io ho amato la danza sopra ogni cosa e lei mi ha ricambiata nei momenti più difficili assorbendomi totalmente.
Però ci sono cose che mi sono persa e che non potrò mai recuperare. Per questo motivo voglio vivere almeno quelle che sono recuperabili come la musica. Ieri sera è stato emozionante, ho visto gli sguardi stupiti delle ragazze ma non me la sono presa, era ovvio che il primo impatto non fosse semplice, data la mia età anagrafica. Mi guardavano come un’aliena. Devo dire che l’attesa fuori dai cancelli è stata snervante, un’ora e mezza fuori sotto la pioggia battente, con ogni sorta di umanità che mi ava accanto, dietro, di fianco. E faceva pure freddo. Sicuramente il mio dottore non avrebbe approvato. Ma noi non glielo diremo… Per quanto riguarda l’ora tarda del rientro, essendo in compagnia di una delle mie assistenti, non ho avuto problemi. Se Aldo fosse stato ancora qui quasi certamente ci avrebbe accompagnate, gli ho insegnato a sciogliersi un po’, spero non dimentichi i miei consigli. Certo all’Istituto non avevano mai sentito parlare di ospiti che vanno ai concerti e se i miei nipoti lo dovessero mai scoprire scatenerebbero l’inferno. Ma io non ho bisogno di nessuno di loro, sono padrona di me stessa ed è giunto il momento di dirglielo. Anzi, mi fa quasi piacere il fatto di dovermi nascondere dai parenti, mi sembra di essere tornata bambina, quando andavo a comprare il gelato di nascosto coi soldi che mia mamma mi dava per il latte…
CLARA
“Ciao! Che bello vederti! Scusa, non mi fraintendere, mi spiace vederti qui ma sono felice di vederti accompagnata. Per una volta non sei tu che accompagni gli altri. Volevi fare la protagonista eh? Dai, entra. Cos’è successo? Puoi dire a tua mamma di entrare con te se vuoi…”. Così mi ha accolta l’infermiere del Pronto Soccorso, lo stesso delle altre volte. Ora, a parte il dolore lancinante al polso, fa sempre piacere essere accolti con un bel sorriso ed è sempre utile per pavoneggiarsi agli occhi di un’amica che è appena stata scambiata per tua madre. Appena ha sentito che poteva entrare Marina si è alzata senza esitazioni e mi ha raggiunta, aveva uno sguardo divertito quindi le ho retto il gioco e ho finto che fosse davvero la mamma. Dopo un paio d’ore di attesa i dottori mi hanno confermato che non c’è nulla di rotto. Una banale lussazione che mi costringerà a una settimana di riposo forzato per infortunio. Non avrei mai pensato che una
semplice eggiata pomeridiana nel parco potesse celare delle pericolose insidie. Nulla di straordinario però, sono semplicemente caduta e ho appoggiato la mano a terra in modo poco consono. Sta di fatto che io e Marina eravamo in città e quindi è stata lei a doversi occupare di me. Ed è stata bravissima. Ha preso lei ogni decisione, mi ha aiutata a rialzarmi, ha chiamato un taxi e siamo corse in ospedale. E io, che di solito mi occupo degli altri, mi sono accorta di quanto avrei bisogno di qualcuno che si occue di me. Ci sono momenti in cui questo bisogno si avverte di più, di solito quando si sta male. E’ la necessità di avere qualcuno che ci prenda per mano e ci guidi, che decida per noi, che ci coccoli e ci renda la vita più facile, e soprattutto che ci permetta di riposare un po’. Io non vorrei avere sempre vicino una persona così perché diventerebbe invadente e perché non mi piace sentirmi debole, non mi piacciono le persone deboli. Però una volta ogni tanto sì, per sentirmi come la principessa delle favole protetta dal cavaliere, stare ferma all’angolo e vederlo combattere contro il drago. Ma non funzionerebbe a lungo perché parteggerei per il drago…
MARINA
Non ho mai pensato che una donna per essere felice debba avere un uomo accanto a sé. Non credo che una persona si debba sentire sminuita per il semplice fatto di non avere un compagno. Non sopporto le persone invadenti, quelle che, dopo mesi che non ti vedono, esordiscono chiedendoti se sei fidanzata, come se fosse una priorità assoluta. Ci sono stati momenti nella mia vita in cui avrei messo al rogo queste persone come gli eretici ai tempi della Santa Inquisizione. Momenti in cui quella stupida domanda mi precipitava in un abisso di disperazione. Dunque non sarò io a spingere Clara tra le braccia di qualcuno, però…
Però credo che tutti, e lei in particolare, debbano provare almeno una volta quelle meravigliose sensazioni che ti regala l’innamoramento, quella certezza di poter contare sulla persona che ami e che vorresti accanto in ogni momento della tua vita. Vorrei che ci fosse qualcuno accanto a lei, non importa se uomo o donna, non sono bigotta. Mi basterebbe vedere i suoi occhi brillare per qualcuno,
vederla innamorata perché è la cosa migliore che potrebbe capitarle. A volte mi sembra che sia lei stessa a volersi punire per il suo ato. Come farle capire che tutto questo è profondamente ingiusto? Quella ragazza non esiste più, quella che l’ha sostituita è una donna che merita il meglio dalla vita.
So quanto sia rischioso, so che l’amore può far soffrire, ma non possiamo nasconderci per tutta la vita, non si può rinunciare a vivere per paura di soffrire.
Dicono che sia tutta una questione di chimica, che siamo noi a voler dare un po’ di poesia a quella che sarebbe solo una semplice reazione tra elementi. Può darsi che sia così, chi sono io per oppormi a queste teorie? Io so solo che, prima di congelare il mio cuore, l’ho vissuto. Mai, in seguito, il mio corpo o la mia mente sono riusciti a ricreare quella stessa reazione.
Vorrei che Clara potesse provare quelle stesse sensazioni. Ma non glielo ripeterò, l’ho fatto oggi perché le voglio bene e perché l’occasione era quella giusta con il ragazzo del Pronto Soccorso così carino e gentile.
Purtroppo dallo sguardo di Clara ho capito che non è ancora il momento e non mi ripeterò. Non credo di essere la persona più adatta a dirle queste cose, dopo che ho vissuto in apnea per più di trent’anni.
Forse è vero che c’è un momento per tutto, basta saper aspettare.
CLARA
Sapevo già prima di varcare la soglia che sarebbe stato un disastro. Ho voluto dare retta a Marina e ho accettato di uscire con Mauro, il ragazzo che ci consegna i medicinali tre volte a settimana e che me lo chiedeva da sei mesi almeno. Ho sempre declinato i suoi inviti accampando le scuse più assurde ma lui non si scoraggiava e così, spinta dall’idea di Marina che vorrebbe vedermi felicemente accasata, mi sono chiesta: perché no? Ero già pentita trenta secondi dopo aver accettato la sua proposta ma lui era talmente entusiasta che non me la sono sentita di tirarmi indietro. Ho sempre dedicato così poco tempo ai nostri precedenti incontri che non avevo in mano grossi elementi per valutarlo se non il lato estetico, lato che non era affatto male. Siamo andati a cena in una trattoria e al dolce eravamo già nemici giurati. Ovviamente abbiamo parlato delle nostre vite, o meglio, lui ha parlato della sua. Conosco ogni dettaglio, da quando frequentava la prima elementare a quando si è diplomato ragioniere, non mi ha risparmiato neanche i particolari del suo primo lavoro, del secondo e del terzo. Una cosa è certa: ha una memoria di ferro. Quando mi ha vista sbadigliare ha capito che forse non era il caso di raccontarmi tutti i suoi trentacinque anni di vita nella prima sera e mi ha chiesto di me. “Adesso basta parlare di me. Raccontami qualcosa di te. Come fai a lavorare in quel posto con quel branco di anzianotti avvizziti?”. Anzianotti avvizziti. Ho pensato subito a Marina, proprio lei che vuole vedermi felice con qualcuno, che mi spinge ad uscire e fare nuove amicizie. Che direbbe sapendo di essere stata definita anzianotta avvizzita da questo baldo giovane? Con questa frase si è giocato il nostro futuro insieme, non posso condividere nulla con chi insulta i miei migliori amici. Mi sembrava giusto dirglielo “Quegli anzianotti avvizziti come li chiami tu sono il mio mondo, sono le persone con le quali ho deciso di condividere il mio percorso, sono le persone che mi hanno insegnato tutto quello che so. E mi spiace che tu non ti sia mai fermato a parlare con loro, avrebbero insegnato un mare di cose anche a te e Dio solo sa quanto ne avresti bisogno… E se posso essere sincera ti informo che ci sono cose ben più importanti della tua vita minuto per minuto. E, sincerità per sincerità, non ho più voglia di sentire la tua voce. Non credo che ci sia altro da dire”. Abbiamo finito in silenzio il dolce che avevamo già ordinato, ci siamo alzati, abbiamo pagato ognuno per la sua cena e siamo finalmente usciti tra lo sconcerto del personale della sala.
Una volta fuori ognuno di noi si è diretto alla propria auto senza un saluto. Per fortuna avevamo l’appuntamento di fronte al ristorante. E così ora c’è una persona in più al mondo che non vorrà più sentire il mio nome per tutta la sua vita, che mi odierà a morte e che farà il possibile per evitarmi. Non che la cosa mi turbi particolarmente però poteva essere evitata. Una cosa però l’ho imparata: non lascerò più che nessuno, e sottolineo nessuno, mi spinga a fare cose di cui non sono convinta.
MARINA
Ok Clara messaggio ricevuto. Mi spiace un po’ per quel povero ragazzo di cui non conosco neanche il nome ma credo anche che se la sia cercata definendoci “anzianotti avvizziti”.
Ci penserà su un bel po’ di volte prima di ripetersi con qualcun’altra. Non voglio sprecare il mio tempo ad arrabbiarmi con lui, ci penserà la vita a farlo. Chissà se ricorderà ancora questa definizione quando sarà lui qui al nostro posto.
In ogni caso, non lo farò più, non spingerò più nessuno ad uscire, a fare nuove amicizie, a dedicarsi a persone più vicine in termini di età e, teoricamente, di vita.
Capitolo chiuso.
Meglio parlare di ciò che conosco meglio, di danza. Oggi parliamo di Giselle.
Finalmente Clara scoprirà chi è Bhatilde, l’avevo menzionata in uno dei nostri primi incontri e mi ero accorta dal suo sguardo che non aveva idea di chi fosse.
CLARA
Finalmente ho scoperto chi è Bathilde. La prima volta che Marina mi ha parlato di lei ho assunto la mia espressione dottorale alla “E chi non conosce Bhatilde???”, nella speranza di celare la mia totale ignoranza, ma oggi ho scoperto che non era caduta nel mio tranello, neanche per un attimo, mi aveva sgamata fin dal primo istante. Comunque, per quei pochi che non lo sapessero, Bathilde è la rivale di Giselle, giovane ragazza con il cuore malato innamorata della danza. Vive in un paese di campagna circondato da boschi abitati dalle Villi, spiriti di ragazze morte a causa delle promesse infrante dei loro innamorati, che di notte vagano nella foresta alla ricerca di uomini con i quali danzare fino all’alba, fino alla loro morte. Anche in questo caso arriva il solito principe a far precipitare la situazione, anzi un duca, il duca di Albrecht che, pur essendo fidanzato con Bathilde, si presenta sotto falso nome e seduce Giselle. La giovane, nonostante i consigli della madre, si innamora perdutamente di questo ragazzo di cui ignora la vera identità ed è talmente affascinata da lui da morirne quando la verità le viene rivelata. Inutili ormai la disperazione e il pentimento di lui, le Villi lo catturano ma Giselle, che è diventata una di loro, lo nasconde e lo sorregge fino all’alba quando lei e gli altri spiriti spariranno, lasciandolo disperato ma vivo. Lasciarsi incantare della musica sarebbe bellissimo se non fosse che questa situazione della fanciulla dolce e ingenua che perde la vita a causa di un cosiddetto principe, mi provoca un profondo fastidio. Questo poi è già bugiardo da subito, non serve a nulla poi il pentimento postumo, al suo cospetto Sigfrido diventa l’uomo che tutte vogliamo. Marina dice che molti di questi balletti derivano dalla antica tradizione popolare tedesca popolata da fanciulle indifese, elfi, fate, principi a cavallo e cacciatori.
Sarà. Ma io sogno un balletto alla Lara Croft, senza principi. I principi non esistono.
Autunno
CLARA
Ho visto Michela entrare nella camera di Marina con un pacco in mano. Era un pacco marrone legato con lo spago, pieno di polvere, sembrava uno di quei pacchi che si ritrovano dopo averli persi e dimenticati per anni. E forse lo era. La visita è stata breve e io non ho esitato ad entrare perché pensavo che Marina mi stesse aspettando per un’altra delle nostre lezioni sulla danza. Non c’erano ombre sul viso di Michela quando se n’è andata. Evidentemente non ha colto ciò che a me è risultato così evidente. Marina era sconvolta, seduta sul letto si stava accasciando piano piano, se non fossi entrata in quel momento e non fossi accorsa a sorreggerla sarebbe scivolata a terra priva di sensi. Il pacco era ancora sul letto, ancora legato, chiuso come l’ho visto tra le mani di Michela. Possibile che il malore di Marina sia dovuto a questo pacco? Cosa contiene? Cosa nasconde di così grave? L’ho aiutata a distendersi sul letto e ho spostato il pacco sul baule facendomi spazio tra i cuscini. Lei piangeva piano, senza singhiozzare, il suo viso rigato dalle lacrime, l’espressione addolorata. E io non sapevo cosa fare né tantomeno cosa dire. Mi ha colta impreparata, gli ultimi giorni erano stati sereni e ora tutto questo dolore apparentemente inspiegabile. Le ho chiesto cosa fosse successo, le ho chiesto dei suoi parenti, di Michela, della sua casa. Ma non aveva voglia di parlarmi. Mi ha chiesto soltanto di lasciarla sola e io non ho potuto fare altro che eseguire. E ora sono qui con i miei mille dubbi e le mie mille domande. Vado da lei? Le chiedo qualcosa? Oppure la lascio sola e rio domani? E’ tardi, dovrei già essere a casa. La mia Bisy mi starà aspettando affamata, non voglio farla preoccupare. In realtà non è affamata perché le crocchette sono sempre a sua disposizione però potrebbe essere in pensiero. Devo prendere una decisione. Provo a bussare alla porta di Marina e la chiamo piano. Socchiudo la porta ma lei mi dice che sta bene e di non preoccuparmi per lei. Mi liquida immediatamente dandomi la buonanotte. Vederla così mi angoscia ma non posso fare nulla per lei se lei non vuole. Me ne vado, torno a casa dalla mia gatta che sicuramente mi da più soddisfazione di qualsiasi persona al mondo. Mi sono innervosita e non lo nascondo. Mi sento stanca, non posso continuare ad addossarmi tutto il dolore di chi non vuole essere aiutato. La vita è
troppo difficile e io sono troppo stanca. In questi momenti vorrei avere un interruttore per spegnere i miei pensieri, spegnere adesso e riaccendere domattina o forse riaccendere tra una settimana, tra un mese, chissà…
MARINA
Scusami Clara. Mi spiace che tu ti innervosisca, mi spiace davvero. Ormai ho imparato a conoscerti un poco e so che sei la sola persona qui con la quale potrei parlare. Ma non adesso. Non oggi. Oggi per me si è riaperto un abisso. Dopo oltre trent’anni mi si è riaperta una ferita letale. Sono sopravvissuta allora ma ero giovane e forte. Ora non lo sono più. Allora non ho voluto parlarne con nessuno, ho chiuso la mia vita in questo pacco e l’ho archiviata tra le cose inutili, come ho fatto da piccolina con il mio vecchio cane di peluche. Ma lì non c’è un vecchio giocattolo. Lì ci sono i miei giorni migliori intrecciati a quelli peggiori. Oltre trent’anni fa ho voluto dimenticarli tutti, ho volutamente cancellato quelli belli per non essere costretta a ricordare quelli brutti. E ora sono tornati prepotentemente a me, racchiusi all’interno di quel pacco che non so se voglio aprire o no. Ormai i ricordi mi hanno vinta, si sono impadroniti di me. Posso solo lasciarmi andare e ricordare. Forse Rossano in sogno voleva avvisarmi e io non ho capito. Ma se anche avessi capito cosa avrei potuto fare? Gli eventi si susseguono e io non sono altro che una spettatrice. Quando Michela è entrata non ho realizzato subito, lei era entusiasta per essere riuscita a strappare il pacco dalle mani avide dei parenti. E’ corsa da me per consegnarmelo pur non sapendo cosa contenesse. Aveva capito che si trattava di qualcosa di importante, lo ha trovato lei nel mio garage. Non mi ha detto dove ma io so che era nell’armadio dove tenevo le vecchie coperte. Lo avevo infilato sotto a tutte le coperte. Credevo di aver rimosso il ricordo e invece in un attimo mi sono rivista nel momento in cui lo coprivo e chiudevo le ante dell’armadio nel garage di quella che allora era la mia casa nuova. Chissà se hanno trovato le chiavi o se hanno scardinato le ante pur di aprirlo e scoprirne il contenuto. Cosa sarebbe successo se l’avessero trovato loro?
L’avrebbero aperto? Avrebbero letto le lettere? Avrebbero riso di noi senza
cogliere la tragedia? Non posso sopportarne neanche il pensiero. E’ stata una fortuna che Michela li abbia anticipati anche se ora sto soffrendo. Anche se ora mi sento costretta a fare i conti con il mio ato, conti che ho rimandato per tutta la vita.
L’ho congedata in fretta Michela, senza spiegazioni, l’ho ringraziata e le ho detto che le mie nuove amiche mi stavano aspettando giù in salone per il nostro poker quotidiano. Me lo sono inventata sul momento e non so se lei ci abbia creduto o meno, comunque fortunatamente ha funzionato. Non avrei potuto resistere un secondo di più, appena la porta si è chiusa la mia espressione imibile si è sciolta, le mie gambe si sono piegate, mi sono appoggiata al letto e mi sono accasciata come per un riflesso incondizionato. Non riuscivo a imporre al mio corpo di non cadere, ai miei occhi di non piangere. In quel momento è entrata Clara e mi ha vista così. E’ per questo che devo scusarmi con lei, per averle permesso di vedermi così e per non averle dato alcuna spiegazione.
Ora devo decidere che fare, qualcuno, credo Clara, ha spostato il pacco sul mio baule, è ancora chiuso. Che faccio? Lo apro ora, stasera, da sola? Lo so cosa c’è dentro, e allora perché questi indugi? Ho paura che il mio cuore non possa reggere, lo sento andare a mille e non mi sono ancora avvicinata. Non ho il coraggio neanche di toccarlo, come se il solo tatto potesse scatenare in me una tormenta. O, più esattamente, un tormento. Ma ormai è qui. Sono tornata indietro di trent’anni, se mi guardassi ora allo specchio non sono sicura di quello che vedrei riflessa. Forse me stessa a quarant’anni. Slego lo spago, avevo legato anche il mio cuore e ora, slegandolo, non provo sollievo ma solo angoscia.
Sposto la sedia davanti al baule ma le mie mani si rifiutano di proseguire, i miei occhi stanno fissando il contenuto del pacco attraverso un velo di lacrime. La carta è un po’ ingiallita dal tempo ma le buste sono tutte là, credo non ne manchi neanche una ma non ho la forza di controllare. Le avevo lasciate in ordine cronologico con le ultime due sopra, provo a prendere quella sotto, dovrebbe essere la prima, mi stendo sul letto e la apro. E’ datata 3 giugno 1977. Sono le parole di un uomo innamorato, l’ha scritta dopo il nostro primo bacio. “Non
avevo voglia di lasciarti andare, contrariamente a ciò che mi succede di solito, accompagnarti a casa alle tre di notte, vedere la tua figura allontanarsi di schiena è stato molto difficile. Per fortuna ho trovato il coraggio di baciarti prima di lasciarti andare. Per fortuna? E se tu invece non ricambi? Se per te fosse stata solo una serata piacevole e nulla più? Se tu non ricordassi neanche il mio nome? Oddio, non ci voglio pensare, sarei perduto”. Le sue parole mi riportano indietro. Chiudo gli occhi e sento il suo sapore sulle labbra.
Ciao Rossano, amore mio, dopo tutti questi anni sei tornato da me. E’ come se avessi dormito per tutto il tempo, ho vissuto, danzato, riso e pianto, ma non sono mai stata viva. Soltanto ora mi risveglio e ti ritrovo qui accanto a me. Portami con te, ti prego, portami via con te.
CLARA
Dopo una notte insonne stamattina sono entrata nella camera di Marina, lei era ancora a letto, gli occhi gonfi a dimostrare che anche per lei non era stata una notte facile. Sul baule il pacco marrone aperto, conteneva delle lettere, vecchie lettere che il tempo ha ingiallito ma che, a quanto pare, non sono state dimenticate. L’ho aiutata a mettersi in piedi e l’ho accompagnata in bagno. Sembrava improvvisamente invecchiata, come se quelle lettere le avessero aggiunto anni di vita difficile. Non potevo non chiederle nulla, non avrei resistito, ho rispettato la sua privacy e mentre era in bagno mi sono sforzata di non guardare la causa di tutto quel dolore, anche se i miei occhi sbirciavano quei fogli pieni di una calligrafia veloce e nervosa. Ho resistito per circa dieci minuti, cioè il tempo che le serviva per la toilette, poi ho sfidato la mia sorte e le ho chiesto di raccontarmi tutto. E l’ha fatto, contro ogni mia previsione l’ha fatto. Non ne parlava da trent’anni. Mai. Con nessuno. E ha scelto me per farlo. Non ho avuto bisogno di convincerla, era lei che aveva la necessità di parlare. Spero che la sua scelta non sia caduta su di me solo perché ero con lei in quel particolare momento. Comunque ora so cosa rappresentano quelle lettere. E quello che so non è molto allegro. Sono le lettere del suo grande amore. Era un commissario di polizia, era sì, perché non c’è più. Quando ne parla le si
accendono gli occhi. Che bello dev’essere provare un sentimento così. Ma che tragedia quando ti viene strappato improvvisamente. Mai, per niente al mondo, vorrei vivere un dolore così grande. Lo so che si sopravvive, noi ci abituiamo a tutto, ma ne sarei annientata com’è successo a lei. E ora, a distanza di anni, quelle lettere le hanno riconsegnato il suo dolore. Intatto. Non è riuscita a dirmi molto di più. Però mi ha consegnato il pacco di lettere. Le ha richiuse, ordinate, impilate e richiuso sopra di loro la carta marrone che le ha custodite negli anni. Poi me le ha affidate perché io possa leggerle e capire cosa è successo. Ma devo farlo lontano da lei. Non se la sente di stare ferma a guardarmi leggere la sua vita, a chiedersi quale momento sto leggendo ad ogni mio cambio d’espressione e ad aspettare che io abbia finito per cercare nei miei occhi il mio giudizio. Ora sono qui sul mio letto, le lettere accanto a me, e mi sto chiedendo cosa farò in questi due giorni liberi per i quali non mi ero ancora organizzata. In realtà la risposta alla mia domanda me la sono data nell’attimo in cui Marina mi ha consegnato il pacco. Per l’ennesima volta mi calerò nel mondo di qualcun altro con tutto quel che ne consegue. Se il mio letto potesse parlare non racconterebbe di incontri bollenti, di situazioni al limite del riferibile. Racconterebbe di lacrime, di vite consumate, di anime sole. Voglio iniziare subito, anche sono stanca, è un’urgenza che non posso e non voglio ignorare. Bisy ha già mangiato ed è qui vicino a me, i fazzoletti di carta mi guardano dal comodino, sanno per esperienza che prima o poi avrò bisogno di loro. Devo capovolgere il pacco per iniziare dalla prima. Sono pronta. “Milano, 3 giugno 1977 Ciao Marina, non so ancora come chiamarti, vorrei chiamarti amore ma ho paura di rovinare tutto, di correre troppo. Eppure quel bacio per me è stato importante. Credo di essermi innamorato di te al primo istante. Non cesserò mai di ringraziare la nostra amica Carla che mi ha trascinato alla Scala per vedere il tuo spettacolo. Sai, credo che lei avesse delle mire su di me, forse voleva impressionarmi con un invito alla Scala, pensava che uno sprovveduto giovane commissario di polizia potesse cadere ai suoi piedi nello scoprire l’armonia dei vostri movimenti. Un po’ mi spiace per lei perché aveva ragione, però non aveva previsto che sarei caduto a tuoi piedi anziché ai suoi… Non so perché ma fin dalle prime scene ho visto solo te, lo so che non eri la protagonista ma secondo me eri la più brava. Più tardi Carla ha insistito per raggiungerti in camerino per un saluto e io per un attimo ho fatto il reticente. Solo per un attimo però perché dentro di me esultavo al pensiero di conoscerti. Ero già innamorato di te alla
prima stretta di mano. E quando Carla ti ha chiesto di uscire a cena ho fatto il possibile per farmi invitare. Ho più di quarant’anni e mi comporto come un ragazzino... Ho addotto una scusa con Carla per raggiungervi con la mia macchina, per non doverla portare a casa. E ho sperato ardentemente che tu venissi coi mezzi pubblici. Il resto lo conosci, lo hai vissuto con me. Posso solo dirti che per la prima volta nella mia vita solitaria ho provato delle sensazioni che credevo esistessero solo nei fotoromanzi. Non avevo voglia di lasciarti andare, contrariamente a ciò che mi succede di solito. Accompagnarti a casa alle tre di notte, vedere la tua figura allontanarsi di schiena è stato molto difficile. Per fortuna ho trovato il coraggio di baciarti prima di lasciarti andare. Per fortuna? E se tu invece non ricambi? Se per te fosse stata solo una serata piacevole e nulla più? Se tu non ricordassi neanche il mio nome? Oddio, non ci voglio pensare, sarei perduto. Ora che sei lontana ti scrivo queste cose e non so come reagirai. Ho deciso di farlo perché la mia vita improvvisamente mi sembra vuota. Non sentirti in dovere di ricambiare i miei sentimenti ma non deridere le mie parole. Io mi sento un principiante nelle questioni di cuore e voglio giocare con le carte scoperte assumendomi tutti i rischi che questo comporta. Se dieci giorni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pronunciato queste parole gli avrei dato del cretino e invece da una settimana non faccio che pensare a te.
Sul lavoro avrei mille pensieri, sono giorni tragici qui a Milano come in tutto il resto d’Italia, tutte le istituzioni si sentono in pericolo, attaccate da un nemico invisibile, adesso poi sono ati ai giornalisti, ieri proprio qui alcuni componenti delle Brigate Rosse hanno sparato a Indro Montanelli ferendolo alle gambe. Sicuramente non volevano ucciderlo, è stato un avvertimento per tutti noi. Non so cosa succederà ma le previsioni generali non sono per niente rosee. Dovrei sentirmi stanco e sfiduciato e invece ho te. Tu hai la facoltà di rendermi la vita meno cupa. Ti devo ringraziare per questo. Per avermi fatto respirare un po’ di aria pulita. Rossano”
Il 3 giugno del 1977 io avevo quasi un anno. Nel bel mezzo di quelli che i
giornali di allora ribattezzarono Anni di piombo, il nostro Paese veniva devastato da violenze e sommosse. E’ strano pensare che un poliziotto possa pronunciare queste parole in tali frangenti. Ed è ancora più strano pensare che, in luoghi diversi del nostro paese ma nello stesso momento, io ero appena nata e loro due si stavano innamorando. La ballerina e il poliziotto.
“Milano, 21 giugno 1977 Buon compleanno amore. Siamo stati insieme fino a poco fa ma voglio raccontarti alcune cose che non potevo dirti di persona, non sono bravo con le parole, soprattutto quando tu mi sei vicina. Sono come un ragazzino alla prima cotta, lo so che non ne ho l’aspetto ma ti assicuro che è così. Non so cosa mi succeda quando siamo vicini ma so che vorrei stringerti a me e non lasciarti più. E invece mi trattengo, anche se non so fino a quando ci riuscirò. In questi anni di rivoluzione sessuale, di liberazione delle donne, di femministe che bruciano il reggiseno in piazza, io mi trattengo. Ma sarò scemo?? Non mi è mai successo, non mi sono mai posto il problema… E’ che non so come la pensi tu e non so come affrontare il discorso. Non posso chiederti di fare l’amore con me così, su due piedi. Però io non ce la faccio più, sono stanco di docce fredde. E magari tu intanto ti stai chiedendo cosa c’è che non va in te, cosa mi induce a frenare il mio, chiamiamolo così, entusiasmo… Allora ho deciso, domani ti consegnerò questo biglietto e vedremo cosa succede. Non posso più aspettare, non ora che mi hai detto che fra dieci giorni partirai con il corpo di ballo per una tournée che ti terrà lontana almeno un mese. Se, prima di decidere, vuoi essere sicura dei miei sentimenti, sappi che non ho mai provato per nessun’altra quello che provo per te. Mai in tutta la vita. Mi sei entrata dentro e non vuoi saperne di uscire. Sei sempre con me, in ogni istante, e riesci a rendermi migliore. Io non credo di amarti, ne sono proprio sicuro. E se vorrai aspettare, aspetteremo. Ora vado a fare quella che spero sia l’ultima doccia fredda della mia vita… Ti amo. Ross.”
Tenero. Non lo dirò a Marina ma mi sa che mi sto innamorando un po’ anch’io del suo Rossano. Pagherei oro per avere un uomo che mi dice queste cose.
Chissà com’è finita, sono curiosa di sapere cos’è successo quando Marina ha letto questa lettera. Vorrei essere stata lì a vedere. Che dolce. Dovrò chiederle com’è andata, ovviamente faccio il tifo per lui. Bisy si è avvicinata e reclama le mie attenzioni, gli occhi mi si chiudono ma sono felice di non aver avuto bisogno dei miei fazzoletti. Ci sarà tutto il tempo, per questa notte voglio lasciarli felici. E’ come se questo loro amore appena accennato mi circondasse e mi proteggesse dalla realtà. Buonanotte Bisy, buonanotte Marina, buonanotte Rossano.
Stamattina il risveglio è stato piacevole, con la mia piccola che strofinava il suo naso contro i miei capelli, è stata una notte serena. Dopo aver pensato alle colazioni voglio vedere cosa contiene il pacco, voglio vedere quante sono le lettere, capire quando sono state scritte. Forse dovrei documentarmi sul periodo storico, fare alcune ricerche su quegli anni per identificarmi con loro due. Il cenno a Indro Montanelli della prima lettera mi ha già fatto dubitare di quanto siano limitate le mie conoscenze. Io lo conoscevo come il Grande Vecchio del giornalismo italiano ma non ricordavo che gli avessero sparato. Quante sono le cose che non so su quegli anni bui? Li ricordiamo come “gli anni di piombo” e questa definizione, da sola, dovrebbe farci riflettere sul clima di terrorismo e di lotta armata che li vide protagonisti.
Nel pacco ci sono altre lettere piene di frasi d’amore, penso le abbia scritte quando erano lontani per via delle tournée di Marina. C’è dentro la sua vita, il suo lavoro, i suoi trasferimenti, i suoi progetti. E tutto il suo amore per lei. Io sono sempre più convinta che lei sia e sia stata una donna eccezionale perché una persona mediocre non può meritare tanta ione. E’ stato un rapporto meraviglioso, di quelli che pensavo esistessero solo tra le pagine dei romanzi. E’ confortante sapere che esistono anche nella realtà. Sarebbe bello poter leggere anche le lettere di lei ma non ci sono. Evidentemente non le sono state consegnate. Sono certa però che sarebbero state simili a queste, sono sicurissima che anche lei era innamorata e forse lo è ancora adesso, dopo oltre trent’anni. Vorrei sapere com’era quest’uomo così dolce. Biondo, moro, alto, basso, occhi scuri o chiari. Ho bisogno di una descrizione per immaginarmelo, non ci sono foto sue. Al contrario di Marina che è ritratta da giovane in molte foto appese o
appoggiate in camera sua, di Rossano non c’è nulla. Perché? Se davvero è stato così importante per lei, perché non c’è traccia tra i suoi ricordi più cari? Chiederò a Marina di descrivermelo, le chiederò che cosa l’ha fatta innamorare.
“Milano, 24 dicembre 1977 Ciao amore, buon Natale. Per la prima volta nella mia vita vorrei are il Natale con la persona che amo ma non si può fare. Quindi, come ogni anno andrò da mia sorella per la cena della vigilia e accompagnerò i suoi bambini alla Messa di Mezzanotte. E loro mi prenderanno in giro come ogni anno perché a 40 anni non ho ancora trovato uno straccio di donna da sposare. Ma quest’anno li sorprenderò. Ho deciso di parlare di te con la mia famiglia, stasera con mia sorella e mio cognato e domani con i miei genitori. E’ un modo per sentirti più vicina. Avrei voluto correre da te a Vienna ma il mio collega mi ha chiesto di sostituirlo e io mi sono lasciato intenerire. Lui è fresco sposo e io spero che in futuro qualcuno mi restituisca il favore. Hai promesso di chiamarmi appena termina lo spettacolo, calcolando i bis e le ovazioni del pubblico, dovrebbe essere circa l‘una di stanotte. Non vedo l’ora di sentire almeno la tua voce. Chissà se Interflora sta facendo un buon lavoro e ti recapita i miei fiori prima di mezzanotte. E chissà se riusciremo a vederci per Capodanno, sono andato in agenzia per prendere un biglietto aereo ma mi hanno detto che tutti i voli sono in over booking e rischierei di rimanere in aeroporto. Mi sa che, se non mi cambiano i turni, verrò da te in macchina. In fondo l’Austria non è poi così lontana… Al rientro dovrò fare le valigie per l’ennesima volta. Come ti avevo accennato, mi trasferiscono a Roma, al Comando Centrale, sto facendo carriera, come tutti quelli che non hanno una famiglia da sacrificare. Non ancora. Il clima non è certo dei migliori ma non credo che a Roma la situazione possa essere molto peggiore di qua… Vedremo, spero di trovare dei colleghi simpatici e spero che i luoghi comuni che si dicono sui romani siano appunto solo luoghi comuni… Ciao amore, non vedo l’ora di sentirti. Ti amo. Ross”
In fondo al foglio c’è l’immagine di un Babbo Natale che danza con una renna vestita da ballerina. E una frase che ha aggiunto lui: “Siamo noi due. Ma tu sei più carina.” Mi chiedo dove avrà trovato questa carta da lettere così simpatica. E non chiederò più a Marina che cosa l’ha fatta innamorare di Rossano, ormai lo so.
“Roma, 17 marzo 1978 Scrivo queste parole con la desolazione nel cuore, ti racconto queste cose perché tu mi hai chiesto di farlo, solo per questo motivo, anche se non vorrei rivivere quei momenti. Scusami, è giusto che tu sappia. Sono io che ho ancora quelle immagini negli occhi, non riesco a cancellarle. Sono stanco di questa continua tensione, i miei uomini non ce la fanno più ed io con loro. Quando leggerai queste parole sarai già al corrente dei fatti, saprai che l’onorevole Moro è stato rapito, che gli uomini della sua scorta sono stati trucidati, che tutte le forze di polizia sono in allarme. Le mie parole non aggiungono né tolgono nulla a ciò che già sai. Io non ero presente, in quel momento ero in Centrale come ogni mattina, a fare il punto della situazione con i miei uomini. Ad un tratto tutte le comunicazioni radio sono come impazzite. Abbiamo pensato ad un’altra strage, ad un ennesimo atto di ribellione. Ribellione contro che cosa poi??? Tutti questi gruppi di sinistra, di destra, che hanno colori diversi ma la stessa gratuita violenza… Tu sai cosa penso, ne abbiamo già parlato. Il mio non è solo il punto di vista di un poliziotto ma anche quello di un uomo comune che vive in un paese in stato d’assedio, col nemico al suo interno, non riconoscibile, invisibile. Abbiamo capito subito che questa era una cosa grossa, appena siamo arrivati in Via Fani, la zona era già delimitata, ho dovuto esibire il tesserino per accedere. A volte non lo vorrei fare, vorrei scappare lontano, fingere di essere un altro, correre da te, gridarti quanto ti amo. Invece ho fatto il mio dovere, sono entrato e li ho visti. Due carabinieri e tre poliziotti. Non li avevano ancora coperti, ho visto i loro corpi, i loro visi, il sangue versato. Ho pensato alle loro famiglie, ai genitori, alle mogli, ai figli. E ai colleghi cui spettava l’ingrato compito di avvisarli. L’ho fatto anch’io in altre occasioni e ti si spezza il cuore ogni volta. Non conoscevo gli uomini della scorta e questo per me è una fortuna, riesco ad
esserne meno coinvolto. Saranno definiti eroi, le loro famiglie saranno sezionate alla ricerca del particolare toccante, quello che fa vendere di più. Ma loro erano solo uomini che ogni mattina si svegliavano per andare al lavoro e ogni sera facevano il possibile per tornare alle loro case. Come tutti noi. Con onestà, con serietà. E con competenza che non è bastata. Nessuno di noi vuole essere un eroe. Io non voglio diventare un eroe, voglio fare il mio lavoro e voglio tenerti tra le mie braccia, stretta per tutta la vita. Scusami amore mio, non voglio allarmarti, non dovevo scrivere oggi. E’ che a volte mi sento così solo. A Bologna mi sentivo a casa, spero di tornarci prima o poi. A Milano avevo degli amici, ma qui a Roma non ho ancora avuto il tempo di stringere amicizie. Lo so che ci sono i miei uomini, con loro ho instaurato subito un bel rapporto di fiducia e stima reciproca ma non mi piace intrufolarmi nelle loro vite. Siamo dei nomadi tu ed io. Non lo abbiamo scelto ma lo siamo diventati. Riusciremo mai a fermarci nello stesso luogo, insieme per la vita? Ciao amore mio, spero di vederti presto. Quando ti vedrò tutte queste brutte sensazioni spariranno, tu hai il potere di far splendere il sole. Appena avrò altre notizie ti racconterò. Tu dimostra al mondo quanto sei brava e ricordati che dovrai ballare per me. Noi due soli. Ti amo. Ross”
“Roma, 24 marzo 1978 Ora non so cosa succederà, nessuno di noi può tornare a casa fino a nuove disposizioni. L’azione è stata rivendicata dalle Brigate Rosse e l’Onorevole Moro è ancora nelle loro mani. Ognuno di noi deve impegnarsi al massimo, dobbiamo trovare il covo dei brigatisti prima che succeda qualcosa di terribile. Ogni giorno arrivano decine di segnalazioni, ogni giorno ci spostiamo da un capo all’altro della città inutilmente. Siamo completamente impotenti di fronte a tanta meschinità. Tutto il paese è mobilitato. I giornali titolano “attacco al cuore dello Stato!”, dappertutto si vede il simbolo delle BR. Tutta questa sovraesposizione mediatica rischia di provocare l’effetto
contrario. Rischiano di diventare dei simboli quando invece sono degli assassini. Le mie brutte sensazioni purtroppo non sono sparite anzi, stanno aumentando. Sembra di vivere in guerra, ci aspettiamo che qualcuno ci spari contro solo per il fatto di portare la divisa, ci sentiamo indifesi. Nonostante la Legge Reale che ci autorizza a sparare se necessario, ci sentiamo costantemente in pericolo. Non siamo più fieri della divisa che portiamo, ci sentiamo dei bersagli, ogni persona che viene verso di noi, non importa che sia uomo, donna o bambino, potrebbe essere il nostro assassino. E adesso sono io che non voglio stringere amicizie perché non voglio mettere in pericolo nessun’altro. Per fortuna tu sei lontana. Se avessi un po’ di cervello ti consiglierei di stare lontana da me, di lasciarmi al mio destino. Ma il bisogno di te vince sulla razionalità. Dovrei lasciarti io ma non ce la faccio. Solo spero che la tua tournée si prolunghi ancora per un po’. Scusami, non riesco mai ad essere positivo come vorrei. Mi hai chiesto di non nasconderti nulla e io non lo voglio fare, anche perché sei la sola a cui posso dire queste cose. I miei uomini non devono vedermi fragile. Ho bisogno di te, ti amo amore mio. A volte ho paura di non potertelo più dire. Ross”
Il rapimento dell’Onorevole Moro, le Brigate Rosse… Echi lontani, immagini di vecchi telegiornali in bianco e nero o di vecchi giornali con la carta lucida. Non c’è solo la loro storia d’amore qui, c’è anche la storia del nostro paese, anni che ho vissuto da bambina e ora mi sembra di rivivere attraverso le sue parole. Ho bisogno di saperne di più, credevo di leggere una storia privata e invece sto rivivendo il corso degli eventi di quegli anni attraverso gli occhi di un uomo tormentato da quanto accade intorno a lui, innamorato della sua donna ma oppresso dalla violenza che lo circonda. Prima di continuare devo documentarmi. Internet in questi casi è una vera
benedizione.
Comincio dal 1977 e subito devo tornare indietro al 1969, è di quell’anno la strage di Piazza Fontana a Milano che viene considerata come l’inizio di quella che ai tempi fu definita “strategia della tensione”, una bomba esplose all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura causando 17 morti e 88 feriti. Il giorno stesso fu arrestato il ferroviere Giuseppe Pinelli che tre giorni più tardi precipitò dalla finestra della Questura milanese in circostanze che non sono mai state chiarite. La sua morte scatenò i gruppi di estrema sinistra e la stampa diede il via ad una campagna di diffamazione nei confronti del Commissario Luigi Calabresi, incaricato delle indagini, con tanto di minacce di morte nei suoi confronti da parte del giornale Lotta Continua. Il Commissario Calabresi venne assassinato nel 1972, per la sua morte furono accusati Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Nomi che conosco bene per via delle richieste di sospensione della pena o di grazia avanzate e ottenute in questi ultimi anni.
Gli anni successivi sono contrassegnati da una serie di scontri e manifestazioni che lasciano a terra parecchie vittime ma la guerriglia vera comincia dopo lo scandalo Lockheed che coinvolge ministri, segretari di partito e addirittura un Presidente della Repubblica. Nel mese di gennaio del 1977 inizia il processo per la strage di Piazza Fontana a Catanzaro, in marzo a Bologna muore un militante di Lotta Continua nel corso dei durissimi scontri tra studenti e Forze dell’Ordine, la città è sotto assedio per tre giorni finché l’allora Ministro dell’Interno Cossiga invia i carri armati. Sempre in marzo a Torino i combattenti di Prima Linea uccidono un Brigadiere di Pubblica Sicurezza. Ad aprile a Roma durante gli scontri tra Polizia e Autonomi muore un Agente. Il Ministro Cossiga vieta qualsiasi tipo di manifestazione pubblica. A Torino le Brigate Rosse uccidono il presidente dell’Ordine degli avvocati. Il processo alle Brigate Rosse viene rinviato perché i giudici popolari rifiutano l’incarico. Lo stesso processo, alla prima udienza di maggio, non può cominciare perché 16 giudici popolari inviano un certificato medico che attesta la loro “sindrome depressiva”. A Roma il Partito Radicale organizza una manifestazione nonostante il divieto del Ministro Cossiga, la polizia interviene sparando e uccide una studentessa. A giugno a Milano viene gambizzato Indro Montanelli, allora direttore del Giornale Nuovo.
A Roma i brigatisti feriscono il direttore del TG1. Sempre a Roma, a settembre, da un’auto vengono sparati 5 colpi verso un gruppo di giovani di sinistra che colpiscono una ragazza, i suoi compagni il giorno dopo distribuiscono un volantino di protesta nei pressi di una sede del Movimento Sociale Italiano, uno di loro viene ucciso da un gruppo di neofascisti. In ottobre a Torino una manifestazione di protesta si conclude con l’omicidio di uno studente. In novembre a Roma le Brigate Rosse feriscono il democristiano Publio Fiori. A Torino sempre i brigatisti sparano al vicedirettore de La Stampa che muore 12 giorni dopo. A Bari un commando fascista uccide un operaio comunista. Che cos’è questo se non un bollettino di guerra? E non è che la lista dei fatti principali dietro ai quali si nascondo altre perdite, altri caduti che non si possono comunque dimenticare. E’ impressionante.
E continua nel 1978: a gennaio a Roma durante degli scontri rimangono a terra tre giovani esponenti missini, a marzo le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro uccidendo i cinque uomini della sua scorta, pochi giorni dopo a Milano due ragazzi del centro sociale Leoncavallo vengono freddati da un gruppo neofascista, ad aprile i brigatisti annunciano pubblicamente che il loro processo ad Aldo Moro si è concluso con la condanna a morte dello statista e, nonostante l’intervento del Papa Paolo IV, il 9 di maggio il corpo di Aldo Moro viene ritrovato nel baule di una Renault 4 rossa in Via Caetani. Come dimenticare le immagini di quel corpo straziato, piegato all’interno di quell’auto? Viste e riviste su tutte le TV, ancora oggi suscitano un’angoscia profonda in chi le guarda. Come se in quei momenti il male avesse vinto su tutto. Sul potere, sulla razionalità, sul cuore degli esseri umani. Intanto a Torino si conclude il tormentato processo alle Brigate Rosse con la condanna di Renato Curcio, Alberto schini e Prospero Gallinari. L’anno si chiude con la morte di due soldati di leva di guardia alle Carceri Nuove di Torino freddati dalle Brigate Rosse. Unica nota positiva l’irruzione da parte dei Carabinieri del Generale Dalla Chiesa nel covo milanese delle Brigate Rosse e l’arresto di alcuni militanti.
Non migliora la situazione nel 1979, già a gennaio a Roma un commando neofascista irrompe negli studi di una Radio Locale, ferisce cinque conduttrici e da fuoco ai locali. Il giorno dopo è la volta della sede della DC, negli scontri con le forze dell’ordine muore un giovane missino e poche ore dopo alcuni estremisti di sinistra uccidono un ragazzo sospettato di essere fascista. A Torino un agente di custodia cade sotto i colpi di Prima Linea. A Genova le Brigate Rosse uccidono un operaio sindacalista, finalmente l’opinione pubblica si indigna e un milione di persone partecipa alla manifestazione che accompagna i suoi funerali. A Milano un commando di Prima Linea uccide un giudice che indaga sulla strage di Piazza Fontana. A marzo a Roma viene assassinato il giornalista Mino Pecorelli. Ad aprile a Milano viene assassinato dalle Brigate Rosse un agente della Digos. A maggio a Roma cadono sotto i colpi delle Brigate Rosse due agenti di polizia. Nello stesso mese in tutto il paese si succedono episodi di dileggio verso i politici locali, una bomba alla Farnesina causa mezzo miliardo di danni agli edifici. Luglio, a Milano viene ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli, a Roma le Brigate Rosse uccidono un ufficiale dei Carabinieri. A settembre a Torino viene assassinato un dirigente della FIAT. Nel mese di novembre sono 5 i rappresentanti delle forze di polizia a cadere sotto i colpi dei terroristi. A dicembre a Torino un commando di Prima Linea gambizza 5 docenti universitari e altrettanti studenti. A Verona in dicembre viene ucciso per errore il figlio di un ispettore di Polizia, il vero obiettivo era il padre.
Nel febbraio 1980 a Monza viene ucciso da Prima Linea un dirigente dell’ICMESA, a Roma, all’interno dell’università, le Brigate Rosse uccidono un docente universitario, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, sempre a Roma tre neofascisti si introducono in casa di uno studente vicino a Autonomia Operaia, ne immobilizzano i genitori, e lo freddano con un colpo alla nuca al suo rientro. A maggio viene ucciso da un commando di terroristi il giornalista Walter Tobagi. A giugno, durante una rapina i militanti di Prima Linea uccidono un appuntato dei carabinieri. Sempre giugno, a Roma i Nuclei Armati Rivoluzionari uccidono il magistrato Mario Amato. Di giugno è anche la tragedia di Ustica: un DC9 della compagnia Itavia che scompare dai radar nella tratta che da Bologna porta i 77 eggeri e i 4 membri dell’equipaggio a Palermo, non ci sono superstiti. Non ci sono colpevoli né cause chiarite ma insabbiamenti e silenzi imbarazzanti, ancora oggi la questione è nebulosa anche se pare assodato che l’aereo sia stato colpito da un missile.
Ad agosto una bomba esplode nella sala d’attesa della stazione di Bologna causando 85 morti e 203 feriti. La strage è imputata ai gruppi di estrema destra ma in breve le indagini vengono falsate da depistaggi, piste false, affermazioni e controaffermazioni da parte dei servizi segreti. Reazioni irresponsabili e infami che non hanno nulla di diverso dalla condotta di molti politici di oggi.
Grazie alla perseveranza e alla dedizione degli uomini che, nonostante tutto non persero la speranza, continuando ad analizzare e ad indagare su questi episodi, vennero effettuati alcuni arresti eccellenti che permisero, attraverso le rivelazioni dei pentiti, di catturare decine di militanti e di decapitare le maggiori organizzazioni criminali. Molti uomini onesti hanno pagato con la vita. Il minimo per me e per chi è venuto dopo è conoscere la storia di quegli anni per rendere onore alla loro memoria.
“Roma, 10 aprile 1978 Sono stati due giorni bellissimi. Non riesco a dirti quanto mi abbia fatto piacere vederti sulle scale di casa mia. Credevo di avere le visioni. Eri stupenda e io avrei voluto prenderti subito tra le mie braccia senza rispondere al portiere che mi stava avvisando del tuo arrivo. Ho sentito il tuo profumo fin dall’androne ma non volevo crederci. Cosa ti ha spinta a correre qui dalla Francia? Sono stato io con la mia ultima lettera? Scusami, scusami, non volevo allarmarti… Ma ora ti confesso che lo rifarei. Riscriverei le stesse parole solo per averti di nuovo qui. Quando sei con me mi sento un'altra persona, non sono più il Commissario, sono soltanto un uomo innamorato. Con te accanto riscopro il sole e l’azzurro del cielo. E se piove non importa perché sei tu il mio sole e il mio cielo. Grazie per avermi regalato questi due giorni di tregua e grazie per aver ballato per me nel mio soggiorno che non è certo La Scala ma ti ha ospitata con immenso piacere. Lo posso dire in giro? Non capita tutti i giorni di avere una ballerina stupenda nel proprio soggiorno… A volte rimango ad ammirarti e sono senza parole. Sono monotono se ti ripeto che ti amo?
Quando ti ho riaccompagnata al treno mi hai chiesto quando finirà. Non lo so davvero. Vorrei che fosse già finita ma non posso fare previsioni. Voglio solo che tu sappia che non ti devi preoccupare per me, io so badare a me stesso. E se a volte mi senti inquieto è solo un momento di sconforto, sai che con te posso sfogarmi… Ma tu non aver paura e vivi serena. Ma come hai fatto a fare innamorare così un integerrimo Commissario di Polizia??? Ti amo più della mia vita. A presto. Spero. Ross”
“Roma, 11 maggio 1978 Abbiamo trovato Moro. Il suo corpo. Ancora una volta le mie parole ti arriveranno quando ormai saprai già tutto. 55 giorni di ispezioni, di ricerche, di segnalazioni e di falsi allarmi, di speranze e di delusioni. Di comunicati, di rivendicazioni, di insabbiamenti che vanificano il nostro lavoro. Di dichiarazioni contraddittorie, di accuse reciproche. Vuoi sapere cosa provo adesso? Vergogna. Tanta vergogna di far parte di uno Stato che non ha potuto o voluto fare nulla per salvare un uomo. Durante la prigionia le BR hanno inviato delle foto di Moro ai giornali. Il suo viso è quello di un uomo vinto, credo non avesse più speranza. Hanno fatto in modo di farci trovare il suo corpo in centro, su una renault 4 parcheggiata. Hanno agito indisturbati nonostante la mobilitazione generale. Qualcuno di noi si è sentito sollevato perché finalmente potrà riposarsi, io li capisco perché due mesi di turni impossibili lasciano il segno, anch’io sono stanco. Forse lo sono di più ora che mi hanno tolto la speranza, fino a ieri c’era questa urgenza, questa necessità di fare presto che ci dava la forza di andare avanti. Oggi siamo in un fermo immagine. Realtà distorta, voci ovattate. Da quando l’ho visto non riesco a togliermi quell’immagine dalla testa. Non sono un pivello, purtroppo non è il primo cadavere che vedo, ma stavolta è diverso. Mi sembra che abbiamo toccato il fondo. Mi sembra che la nostra battaglia sia persa. E mi sembra che il nemico non sia solo fuori. Le lacrime scorrono sul mio viso e non me ne accorgo, quando il questore mi porge un fazzoletto lo guardo
interrogativo. Lo so che non possiamo fermarci ora, che non possiamo arrenderci. Lo so. Scusami se oggi non ti parlo d’amore. Sono così sfiduciato… Ti saluto qui, non riesco a proseguire. Questa lettera non te la spedirò da sola, domani te ne scriverò un’altra piena di parole d’amore e le spedirò insieme. Ti amo. Ross”
“Roma, 24 dicembre 1978 Amore mio, ti avevo promesso che sarei venuto da te, che avremmo ato il Natale insieme, che avremmo brindato io e te soli. Non è andata così. Siamo sempre in allarme, nessuno di noi ha raggiunto le sue famiglie, la nostra presenza è necessaria al Comando. Dopo la morte dei due soldati di leva davanti alle carceri Nuove di Torino per mano dei brigatisti ci si aspetta qualcosa di brutto in qualsiasi momento. E’ uno stato d’assedio prolungato che ci logora i nervi, una azione lenta e sottile che si insinua nelle menti del gruppo e ne distrugge l’unità. Ieri è scoppiata una lite tra alcuni agenti, sono dovuto intervenire per sedarne gli animi ma li capisco. Ogni volta che si esce potrebbe essere l’ultima, riuscire ad accaparrarsi un giubbino antiproiettile per le uscite può fare la differenza tra la vita e la morte. Non riuscire a raggiungere le famiglie pur vicine è snervante e il fatto che siano così vicine è fonte di ulteriori preoccupazioni. Non ho punito nessuno, non potrei mai farlo, conosco i miei uomini, sono onesti e coraggiosi. Ma per un attimo ho temuto di doverlo fare, sono esasperati e l’esasperazione a volte ti spinge a fare cose che mai avresti fatto in condizioni normali. La gente si aspetta tanto da noi ma noi siamo solo uomini. L’anno che si sta per chiudere è stato terribile, un susseguirsi di violenze che a volte sono parse gratuite, non collegate tra loro, dovute ad un destino strano che
si accanisce contro di noi. Il processo ai vertici delle Brigate Rosse è finalmente iniziato a Torino dopo innumerevoli rinvii a causa di continue defezioni da parte di giudici, avvocati e giurati minacciati di morte. Centri sociali in rivolta, militanti estremi, terroristi, brigate rosse che alzano il tiro fino a colpire il cuore dello stato con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. I morti al Leoncavallo. I troppi ragazzi rimasti a terra. Le dimissioni di un Presidente della Repubblica dovute a un libro scritto da una famosa giornalista che racconta con dovizia di particolari le sue imprese. La morte di due papi, due, nel giro di due mesi. Avevo giudicato fin da subito l’elezione di Monsignor Albino Luciani quantomeno strana, un riformista come lui a capo dell’Istituzione più tradizionalista che esista al mondo… Non farò illazioni sulla sua morte, le sta già facendo il mondo intero… Ora però è arrivato questo polacco che ha un ato di tutto rispetto e mi piace, credo che sia una brava persona e credo che porterà delle novità in seno alla Chiesa, forse riuscirà a svecchiare un po’ quell’immagine che si sono costruiti. Con il suo accento e i suoi errori di pronuncia ha già conquistato la gente. Dimenticavo la fuga del più grande criminale nazista di tutti i tempi: Kappler. Pare anche agevolata dai nostri vertici politici per compiacere la Germania. E noi che rischiamo la vita per assicurare i criminali alla legge… Queste sono le cose che più ci pesano, quando il nemico non si fa riconoscere, quando il nemico è chi ci governa… Ti pare che basti? A me sì. Credo che ce ne sia abbastanza per esasperare chiunque e credo anche che, con queste premesse, fra sette giorni chiuderemo questo 1978 per aprire un 1979 sotto i peggiori auspici. Brinderemo e festeggeremo come ogni anno, questo sì. Ma presto farà di nuovo buio. Io non brinderò con te, lo sai. Avrei potuto chiedere il permesso ma non l’ho voluto fare e so che tu sei con me in questa decisione. Non posso lasciare i miei uomini in queste condizioni. E’ giusto che io sia qui con loro, che io sia davanti a loro. Saremo in Piazza Navona in tenuta antisommossa ad arginare eventuali attacchi, a difendere chi ha il diritto di festeggiare. E pregare perché vada tutto bene. Sarò lì con loro e conterò i minuti che mi separano da te. Ti prometto che non
sarò così negativo quando sarai qui, saranno cinque giorni meravigliosi e cancelleranno tutte le brutture che abbiamo visto in questo povero 1978. Non ti ho chiesto come sta andando la tournée, sono un cafone. Come fai ad amare uno come me? Da mesi ormai sono sempre più cupo, ti parlo di cose che la maggior parte dei miei colleghi tiene nascoste alle famiglie per evitare preoccupazioni e discussioni. Forse dovrei farlo anch’io ma sei stata tu a dirmi di raccontarti il mio mondo senza omettere nulla. Io sono d’accordo con te perché non mi pare giusto portare avanti un rapporto serio costruito sulle menzogne e sulle omissioni. Quando sarai qui parleremo solo di te e di noi due, avrai il tempo per raccontarmi il tuo lavoro e tutti i magnifici posti che hai visitato e che conosci così bene. Un giorno mi piacerebbe accompagnarti in tutte le città dove sei stata e farmi guidare da te alla loro scoperta. Qualche anno ancora e lo potremo fare. Ora ti devo lasciare perché si sono fatte le 18 e dobbiamo uscire di pattuglia, il Tenente Riccardi è troppo nervoso, preferisco accompagnarlo io stesso. Un bacio e un abbraccio forte. Buon Natale. Buon Capodanno. Brinda a noi a mezzanotte ovunque tu sia. Io aspetto che mi porti un po’ di luce il 3 di gennaio. Ti amo. Ti aspetto. Tuo Ross.”
Il telefono. Chi può essere a quest’ora del pomeriggio? Chi ha l’ardire di distogliermi da questi scritti? Vorrei ignorarlo ma la parte buona di me mi dice che potrebbe essere importante, che qualcuno potrebbe aver bisogno di me... Devo rispondere. Mauro chi? Il ragazzo dei medicinali, quello della cena... Come dirglielo che mi ero già scordata di lui? Come dirgli che non è necessario che si scusi? Per me non ha la minima importanza, l’unica cosa che voglio è che mi permetta di tornare alla mia lettura il più presto possibile. Non mi importa se è stato villano perché era emozionato. Non mi interessa sapere che ci provava da mesi e quando io ho detto sì lui è andato in palla. Non voglio dargli un’altra possibilità. Non sono arrabbiata con lui, figuriamoci. Voglio solo tornare alle mie cose. No, non mi sembra il caso di riprovarci. Sì, sicuramente ci rivedremo al lavoro. Certo che prenderò il caffè con lui. Ma no, non ci uscirò un’altra volta. Né cena, né gelato, né cinemino. E dopo averglielo detto almeno tre volte, sbotto
e metto giù. Non so neanche quanto tempo è ato da quella sera, non ci ho ripensato mai, neanche una volta. E questo mi doveva chiamare proprio oggi, proprio adesso? Se anche avesse avuto una minima possibilità, e non è così, ora se l’è giocata definitivamente...
“Roma, 10 gennaio 1979 Ciao Amore. Appena il tempo per vederti partire e già siamo ripiombati nella violenza. Oggi due ragazzi sono rimasti a terra. Questi militanti estremi, siano essi di destra o di sinistra, mi fanno impazzire. Oggi quelli neri hanno assaltato una sezione del partito comunista e siamo accorsi in forze per calmare gli animi. Ma come si fa a calmare gli animi quando hai davanti uomini a viso coperto che ti lanciano contro qualsiasi cosa, dalle pietre alle bombe carta? Il risultato è che abbiamo lasciato a terra un ragazzo di 17 anni. 17 anni. Non so chi l’abbia colpito, se qualche collega o qualche manifestante, l’inchiesta che seguirà cercherà di chiarirlo. Ma non è questo che mi preoccupa. Non mi do pace perché era solo un ragazzo, perché invece di proteggerli li ammazziamo. Perché andremo dai genitori a porgere le nostre scuse anche se non si saprà mai se siamo stati noi o no, perché questa non può essere una giustificazione per una famiglia disperata. E dopo poche ore siamo stati chiamati a Monte Sacro perché alcuni militanti comunisti hanno ucciso uno studente di 19 anni. Un altro in poche ore. Quali sono questi ideali per i quali si sacrifica tranquillamente la vita degli altri? I colori? Il rosso e il nero, come nella roulette? Il marxismo e il capitalismo? Il caos? La violenza? Quali erano gli ideali di questi due ragazzi? Erano pronti a morire per questo nulla? Qual è quella società che ammazza i propri giovani invece di aiutarli a crescere? A Monte Sacro c’ero anch’io. Ho visto il corpo del ragazzo. Ho inforcato gli occhiali scuri per evitare che si vedessero le mie lacrime e ho parlato con i miei uomini. Dobbiamo evitare ogni tipo di scontro, ad ogni costo. E’ una guerra stupida questa tra noi e loro. Siamo nati tutti dalla stessa parte. Perché tutto questo odio? C’è qualcuno che li istiga stando comodamente seduto in poltrona a lanciare proclami e volantini privi di senso? Chi? Chi??? E’ questo il nostro nemico, non sono questi ragazzi, loro sono soltanto giovani, capiranno se
concediamo loro il tempo di farlo. Lo sapevo che quest’anno non ci avrebbe portato niente di buono, te lo avevo detto ricordi? Ma speravo in una tregua un po’ più lunga. Per fortuna sei partita due giorni fa, comincio a capire il nervosismo degli agenti che hanno la famiglia vicina. Cosa succederebbe se tu ti trovassi invischiata per caso in uno di questi disordini? Come reagirei io? Vedo gli occhi dei miei colleghi che corrono ai visi dei feriti, a quelli dei partecipanti. Riconosco la loro paura di trovarvi un familiare, una persona cara. Meglio per me che non ho nessuno qui, i miei amici sono tutti colleghi, la mia famiglia è in provincia di Bologna, anche mia sorella vive in un piccolo paese dove i dimostranti non dovrebbero arrivare. Spero che a Parigi non ci sia la situazione che abbiamo qui, il frangente non è facile anche lì ma mi dicono che per il momento i cugini d’Oltralpe sono tranquilli. E’ la prima volta che sono felice che tu non sia qui vicino a me. Anche se vederti andare via di schiena mi strazia ogni volta di più. Ora vado a letto, chiudo gli occhi e respiro il tuo profumo sul mio cuscino. Cerco di trattenerlo il più possibile e aspetto di riaverti qui. Buonanotte amore. Tuo Ross”
“Roma, 25 maggio 1979 Amore, non posso più fingere che vada tutto bene, lo faccio al telefono perché avrei bisogno di ore per raccontarti, lo faccio perché non voglio sentire la tua voce preoccupata, la voglio sentire allegra e felice, non voglio rovinare quei pochi momenti nostri. Però non ce la faccio più e ti scrivo prendendomi tutto il tempo che mi serve, anche perché ho preso una decisione importante e te ne voglio parlare. Ogni giorno mi diventa più pesante vivere qui. Mi chiedo cosa stia succedendo
al nostro povero paese, questa Italia che amo e mi sono impegnato a servire con dedizione e coraggio. Ma non so più chi sto servendo. Fuori è il caos più totale. L’intero paese è squassato da continui attacchi violenti. Non si capisce qual è il vero obiettivo. Militanti estremi di destra e di sinistra che si massacrano a vicenda, sezioni di partiti assaltate e divelte, studenti morti ammazzati, ragazzi di neanche 20 anni. Che pena, doverli lasciare sull’asfalto, coprirli con un lenzuolo e non poterli portare dalle loro famiglie. Che strazio pensare a quelle mamme che li hanno cresciuti per vederli lì crivellati di colpi o massacrati di botte. Da iene che si nascondono dietro a una ideologia di comodo e che sono usciti allo scoperto con l’assassinio dell’operaio sindacalista a Genova, con l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Iene senza pietà che rapiscono gli esponenti politici dei partiti, li legano e li fotografano con cartelli appesi al collo, che incendiano auto, che appiccano il fuoco ai giovani di colore, che piazzano bombe, ammazzano agenti, irrompono negli uffici e sequestrano tutti i funzionari. L’ultima è di ieri: una bomba alla Farnesina, il nostro Ministero degli Esteri. E anche nelle altre città la situazione è simile, forse Roma è più colpita perché abbiamo qui tutti i punti nevralgici del potere. Certo ne abbiamo arrestati tanti, anche alcuni leader ma la situazione non è migliorata. Questi ragazzi si bevono tutto l’odio che gli infondono e lo sputano fuori verso tutto e tutti. Ogni giorno rischiamo la vita e non sappiamo perché. Ormai non riesco più a calmare i miei uomini, a farli ragionare, non posso andare da loro a predicare il rigore quando non ci credo più neanche io. Non sono più motivato, sono solo stanco di tutta questa violenza, di tutti questi morti. Vorrei solo tornare a casa. E’ questa la decisione che ho preso: domani chiederò ufficialmente il trasferimento a Bologna, voglio tornare nella mia città. Non credo che a te dispiaccia, ci siamo stati insieme ed eri entusiasta. Ne ho già parlato con il Questore, lui dice che farà il possibile per agevolarmi anche se potrebbero are alcuni mesi. Ma a me non importa, ora che ho deciso mi sento più leggero, dovrò parlarne con i miei uomini, forse qualcuno vorrà seguirmi. Sicuramente qualcuno ne avrebbe bisogno. Credo che ogni agente, dopo un anno di guerriglia serrata, dovrebbe essere trasferito in un posto tranquillo, ne gioverebbe la salute mentale di ognuno. Ora basta però, parliamo di noi. La cosa positiva è che a giugno avremo le elezioni politiche e tu sarai costretta a tornare da me per votare. Non vorrai saltare il voto vero? Non puoi essere la compagna di un poliziotto e non votare… Mi degraderebbero, fallo per me! E poi, se mi concederanno il trasferimento a Bologna, prenderò una casa un po’
più grande e cominceremo seriamente a fare progetti per il nostro futuro. Siamo grandi abbastanza per prenderci le nostre responsabilità… Hai mai provato ad accostare il mio cognome al tuo? Sai, come fanno le ragazzine? Secondo me sta benissimo… Sarà un segno? A presto amore. Ti amo tantissimo. Qui c’è una frase che va per la maggiore in questo momento. Più di ieri, meno di domani. Sembra una frase fatta ma è vera. Tuo Ross”
“Roma, 18 Dicembre 1979 Ciao amore, dopo tutti questi mesi d’inferno, almeno una nota positiva in questo 1979 tragico. Oggi il Comando mi ha comunicato ufficialmente che la mia richiesta di trasferimento è stata accolta, me l’aveva anticipato già il Questore ma ho voluto aspettare a crederci. Sono giorni di assoluta incertezza, in ogni momento potrebbero revocare gli ordini. Ora che ho l’ufficialità mi sento più sicuro, al massimo il trasferimento può essere rinviato ma non annullato. A fine gennaio sarò a casa. La mia Bologna. Non sopporto più questa città. Questa violenza. La settimana scorsa Cossiga ha varato il Decreto Antiterrorismo ma a me sembra uno di quei rimedi dell’ultim’ora che lascerà il tempo che trova. Un espediente adottato per non far capire al mondo che non si sa più che pesci pigliare. E intanto noi continuiamo a morire. 10 giorni fa a Torino un commando che pare fosse di Prima Linea è entrato nell’Istituto di Amministrazione aziendale, una scuola, ha sequestrato 190 persone e ha sparato alle gambe a 5 insegnanti e a 5 studenti. Prima ancora, a Padova è stata assaltata la sede della Democrazia Cristiana, hanno sparato all’impazzata, hanno incendiato le auto parcheggiate. A che pro poi? A inizio novembre poi i carabinieri hanno fermato un camioncino per un controllo e hanno scoperto che trasportava dei lanciamissili russi. Lanciamissili, ti rendi conto?? Noi che dobbiamo soltanto rispondere al fuoco con le nostre armi e questi che ci attaccano con i lanciamissili manco fossimo in Vietnam… E dove finiscono tutte le nostre convinzioni sull’invulnerabilità delle auto blindate??? Disintegrate finiscono, come finirebbe qualsiasi auto blindata colpita da un lanciamissili… Il giorno dopo i terroristi hanno trucidato un collega, si chiamava Michele Granato, era un agente di polizia e amava il suo lavoro. Come lo amavano i tre carabinieri uccisi dalle Brigate Rosse a Catania e i due di Genova. Come lo amava il Maresciallo
dei Carabinieri Taverna che è stato ucciso sparandogli alle spalle. Che eroi questi grandi uomini che ti sparano alle spalle. E che qualcuno si ostina ancora a difendere. Vadano a dirlo alle famiglie, vadano a dirlo ai figli e alle vedove. Vadano dalla moglie di Mariano Romiti, il Maresciallo di polizia col quale ho condiviso tante battaglie. Vadano da lei e col coraggio che li contraddistingue provino a giustificare le gesta di questi sicari. Io ci sono andato da lei al funerale e ho trovato solo la forza di abbracciarla e di piangere con lei. Ma loro non c’erano. Nessuno di loro. Loro si limitano a sproloquiare dall’alto delle loro poltrone, non scendono tra la gente, si riempiono la bocca di ideologie e sorvolano tranquillamente sul sangue versato. E’ di ieri la notizia che l’impiegato morto per mano dei neofascisti è stato un errore, non volevano colpire lui ma un’altra persona. Lui era lì, nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Coincidenza. Destino. Mille spiegazioni per una morte stupida. E noi che amiamo il nostro lavoro siamo sempre più soli. Sempre più isolati. E a volte vorremmo isolarci noi da tutti, specie da chi ci vuole bene, per preservare almeno le loro vite. Visto che non riusciamo a farlo con le nostre. Ma se non ci fossi tu dove troverei il coraggio per affrontare tutto questo? Torno indietro con i ricordi all’omicidio Calabresi, a tutta la vicenda di Pinelli. L’ho vissuta sulla mia pelle ma mi ha lasciato meno segni di questa guerriglia. Sono ati meno di otto anni, forse ero io che ero più giovane, forse avevo ancora fiducia nelle Istituzioni. O forse non mi rendevo conto che quello era solo l’inizio. Allora l’ho superato, oggi non so se ce la farei. Senza un motivo per sopravvivere, senza te, non so che cosa farei. Mi rendo conto di essere l’emblema della contraddizione, prima ti dico che dovremmo isolarci da tutti e poi ti dico che senza di te non ce la farei. Però è vero, è quello che penso, prima con il raziocinio e poi con il cuore. Decidi tu quale dei due ascoltare. Io credo che tu sappia bene queste cose, credo che in questi anni tu abbia avuto modo di capire che la vita al fianco di un poliziotto non è facile ma credo anche che se tu sei ancora qui è perché hai preso la tua decisione. Penso che un’altra al tuo posto se la sarebbe già data a gambe. Tu no. Ora sto pregando perché tutti questi terroristi improvvisati ci concedano una tregua per le feste, avranno una famiglia anche loro no? Mi bastano cinque giorni, quelli che mancano al tuo arrivo, poi alziamo i tacchi appena arrivi a Roma, non ti darò neanche il tempo di disfare le valigie. In poche ore saremo a Bologna e fino al sette di gennaio non metterò più piede in questa città che di eterno ha solo guai.
Ho prenotato un hotel in centro città perché non mi piaceva l’idea di farti stare con i miei, loro un po’ se la sono presa ma poi hanno capito, anche perché ho promesso che il 24 saremo con loro per la Vigilia, sono anni ormai che o il Natale in Commissariato o per strada. Poi ti porterò nell’appartamento che ho trovato e, se ti piace, darò conferma alla proprietaria. E faremo un po’ di shopping per arredarlo e renderlo nostro. E parleremo del nostro futuro, faremo tanto l’amore e ci baceremo per strada come fanno i ragazzini. Questa volta non ti auguro Buon Natale, te lo dirò di persona. A presto amore. Tuo Ross.”
Le ore corrono veloci quando si è completamente presi da qualcosa che ci apiona. Mi sembra di essere tornata indietro, di vivere l’angoscia di quei momenti che non ho mai vissuto. Vado alla ricerca frenetica di qualche buona notizia tra le parole di Rossano per poter riprendere fiato. Vorrei poterli proteggere, urlare loro di fermarsi, a lui di andarsene via da questo paese assediato, di andare da lei, di cambiare lavoro e vita. Mi perdo in questi pensieri e non mi accorgo che è ora di cena. Me lo dice Bisy con delicatezza e con insistenza. Mi alzo, apro il frigo: più vuoto del cranio del tipo di prima, ma quel che mi preoccupa è la dispensa dove tengo le scorte per la piccola. Nulla neanche lì, se non fosse per la presenza di quel vecchio sacchetto di croccantini che non le piacciono per niente. Altra interruzione forzata. Devo andare al super. Mi cambio ed esco, senza preoccuparmi dei miei occhi arrossati. Ormai è tardi e gli occhiali scuri attirerebbero l’attenzione più di un paio di occhi rossi. La città è tranquilla ma io, dopo aver letto di tutte quelle violenze, mi guardo attorno timorosa, come se da un momento all’altro, dovesse saltar fuori qualche commando armato. E mi preoccupo per la mamma con la bambina che sta attraversando placidamente la strada sulle strisce davanti a me. Tutti visi che incontro mi sembrano distesi, magari un po’ affrettati ma tranquilli. Il terrorismo è un ricordo lontano, almeno qui, in questa serata, in questo orario da happy hour, tra queste persone che, come me fino a ieri, hanno sentito parlare di
Brigate Rosse solo nei programmi TV di Minoli e pensano che il terrorismo sia solo quello islamico dell’11 settembre. Solo io stasera ho paura in mezzo a tutta questa gente, solo io che sono tornata indietro nel tempo e non riesco a riproiettarmi nel presente. Io stasera sono nel 1980, ho appena vissuto il 1977 di Montanelli, il 1978 di Moro e della sua scorta, il 1979 di Michele Granato e di Mariano Romiti. Le parole d’amore di Rossano dirette a Marina non bastano più. So che il 1980 non sarà migliore degli altri anni. Devo fare in modo che questa incursione nel presente che, in questo momento per me è il futuro, sia il più breve possibile. Voglio tornare subito a casa al sicuro. Il parcheggio del Super è strapieno, mi infilo nel buco che mi lascia un SUV, scendo in fretta ed entro. Alle casse c’è già una coda infinita. Ho un bel correre tra le corsie per prendere quello che mi serve, tanto mi fermerò lì anch’io come tutti. 5 minuti per mettere nel carrello gli articoli che mi servono e mezz’ora di coda alle casse. Davanti a me c’è una coppia che litiga per ogni cosa che la moglie ha messo nel carrello. La scena mi è famigliare, mi sembra di averli già visti… Sì, ora ricordo, è una delle figlie di Agnese! Speriamo che non mi riconoscano, mio Dio fa che non mi vedano neanche… Ma figuriamoci se non mi vedono, devono pure avere una memoria migliore della mia perché mi riconoscono all’istante. Quindi, col carrello pieno di merce, cominciano i convenevoli, come sta, quanto tempo, il lavoro come va. E quando finalmente arriva il momento di mettere gli articoli sul rullo della cassa, si accorgono di non aver pesato la verdura… Altri minuti di attesa mentre lui cerca di distrarre me e quelli che sono dietro, tutti imbufaliti, e lei corre al banco della verdura per rimediare. Infine tocca a me. Pago in contanti ed esco di corsa, in meno di dieci minuti sono a casa, servo la pappa a Bisy mi trasferisco sul letto con un paio di tramezzini che saranno la mia cena. Marina, Rossano, fatemi posto, sono tornata.
“Roma, 10 gennaio 1980 Ciao amore, questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo da questa camera spoglia che non sento più mia. Non vedo l’ora di tornare a Bologna, non sopporto più nulla
di questo posto. Neanche l’abatjour vicino al letto che emana una luce così fioca da illuminare a stento il foglio su cui sto scrivendo. Roma è una città meravigliosa ma io non ne posso più. Magari ci torneremo da turisti un giorno, non appena mi scrollerò di dosso questa avversione che spero sia temporanea. Vorrei eggiare con te in Piazza Navona, lanciare la monetina nella fontana di Trevi, visitare il Colosseo, senza tornare sempre col pensiero agli scontri armati, ai tafferugli, ai disordini vissuti. Non ti ho ancora ringraziata per i giorni che hai ato con me. Mia sorella e mia mamma mi hanno consigliato di sposarti in fretta, hanno paura che tu possa sfuggirmi. Ma io so che, se mi ami almeno un terzo di quanto ti amo io, non fuggirai da me. E’ stato molto importante per me are, dopo anni, le feste comandate insieme a te e alla mia famiglia. E sono felice che l’appartamento che ho scelto per noi ti sia piaciuto. Oggi ha chiamato l’amministratore per dirmi che sono arrivati i tappeti che abbiamo ordinato. Gli ho chiesto di farli lasciare nell’ingresso, li sistemerò appena arrivo. Oppure preferisci che li sistemiamo insieme? Queste giornate che abbiamo ato insieme mi hanno ritemprato, mi hanno dato la forza di affrontare questi ultimi giorni in questo posto. Ora il pensiero mi corre ai momenti felici che abbiamo vissuto nella nostra futura città, sono stati giorni meravigliosi. Potrebbe essere sempre così. Noi non saremo come quelle coppie che invecchiando arrivano a non sopportarsi più, che si urlano addosso anni di malesseri e di silenzi. Noi saremo sempre come siamo adesso, io non perderò i capelli, tu non ingrasserai mai. O forse lo faremo ma se ne accorgeranno solo gli altri, noi non lo percepiremo. Notte amore, voglio addormentarmi fingendo di essere ancora a Bologna. Tuo Ross”
“Bologna 1 febbraio 1980
Amore sono a casa. Da ieri sono a Bologna, nel nostro appartamento, fra le nostre cose. Mi sembra di essere un po’ più vicino a te. E’ questa la sensazione che si prova quando ci si sente a casa? Guardo il divano e penso alle serate con te, guardo le tende e penso al giorno in cui le abbiamo comprate insieme, guardo il letto e ti rivedo nuda e assonnata stesa sotto le lenzuola. In cucina invece penso ai pranzi rimediati insieme alla bell’e meglio, se vogliamo sopravvivere dovremo imparare a cucinare… La TV invece mi fa pensare che non ha senso pagare il canone per un elettrodomestico che non si usa mai… Anche il balcone mi parla di te e delle serate ate abbracciati a guardare le luci di questa città pacifica. Amo questa casa. E amo questo posto, questa gente, questa città. Ieri ho ato l’intera giornata al Comando, ho conosciuto parecchi nuovi colleghi, visitato i nuovi uffici, stretto rapporti con le maestranze. Mi sembrano tutti molto cortesi e simpatici ma sono talmente felice di essere qui che anche Mangiafuoco mi sembrerebbe simpatico. Come sai il Tenente Riccardi mi ha seguito e io gli sono grato per questo. Così se mai ci dovessero essere dei momenti di sconforto ci sentiremo meno soli. Anche lui ha preso casa in città con la sua famiglia. Quando la situazione si sarà stabilizzata per tutti, potremmo uscire con loro qualche volta, sono brave persone. Stasera usciamo con i nuovi colleghi che vogliono darci il benvenuto e mostrarci un po’ la città e i suoi angoli più nascosti. Ora esco ma sappi che se tu fossi qui inventerei una scusa per non andare e rimanere a casa con te. Ciao amore, non vedo l’ora di rivederti. Ho già preso i biglietti per il balletto alla Scala di Milano, sarò ad ammirarti in seconda fila, proprio dietro ai papaveri della prima. Non so se riuscirò a tacere quando uscirai sul palco o se urlerò a tutti quanti “Quella è la mia ragazza!!!” Non ti garantisco nulla… A presto. Ti amo. Tuo Ross.”
“Bologna, 10 luglio 1980
Amore mio, a due settimane dal disastro aereo di Ustica mi sento di consigliarti un altro mezzo per tornare da me. Lo vedo un po’ come un segnale e mi assale l’angoscia. Sono morte 81 persone e si stanno facendo le ipotesi più disparate. Mancano ancora molti corpi ma le analisi su quelli recuperati parlano di lesioni polmonari da decompressione, questo vuol dire che l’aereo si è aperto in volo e quindi esclude il guasto tecnico. Si parla di missili, di bombe, si prospettano scenari apocalittici di servizi segreti. Io non so più cosa pensare. Certo è che l’aereo statisticamente è oggi il mezzo di trasporto più sicuro. Ma io ho un brutto presentimento per cui ti chiedo e ti scongiuro di non venire da me con l’aereo. Macchina, nave, treno, quello che vuoi tu, solo, ti prego, dimentica l’aereo. Solo quando me lo garantirai potrò cancellare questa angoscia che mi opprime. Ti amo Marina, più della mia stessa vita. Ross”
Le lettere sono quasi finite. Non occorre essere dei geni per capire che sta per succedere qualcosa. Vorrei poter scrivere io un altro finale, farli vivere per sempre insieme felici ma so che non è andata così. Sto leggendo la vita di due persone che si amano, due persone che vivono il loro amore nonostante tutto ciò che succede attorno a loro. Due persone che a quanto pare la vita ha deciso di premiare, la nuova città, una tranquillità ritrovata, le aspettative per il futuro… Ma perché le ultime lettere che mi rimangono da leggere sono legate tra di loro con un nastro blu? E sotto che c’è? Ci sono altri due fogli. Questi però non sono ingialliti dal tempo, sono stati scritti recentemente. Sembra, anzi è, la calligrafia di Marina. Li ha scritti lei prima di darmi le lettere e li ha ovviamente sistemati nell’ordine in cui dovranno essere letti. Forse vuole darmi delle spiegazioni, farmi comprendere a fondo quello che è successo.
“Bologna, 01 agosto 1980 Amore mio, non riesco ancora a crederci. Dopo anni a rincorrerci finalmente potremo stare insieme un mese intero. E magari tutta la vita se tu deciderai di ritirarti dalle scene. Scusami già fin da ora ma io farò il possibile per farti prendere questa decisione. Lo so che è un peccato perché tu sei una delle più
brave e belle danzatrici che siano mai esistite, ma io ho bisogno di te, voglio averti vicino. Sono stanco di scrivere, voglio poterti parlare. Voglio dormire con te, risvegliarmi con te. Sono stanco di questa ansia che mi prende quando devi ripartire. Non voglio trasformarti in una casalinga triste, voglio solo averti vicina. Sono sicuro che potrai trovare scritture anche qui a Bologna. Oppure potresti aprire una scuola di danza tua… E non smetterò mai di scriverti, so che le mie lettere ti piacciono tanto, semplicemente non le spedirò più, te le consegnerò di persona. Esattamente come farò con questa. E quando tu la leggerai io sarò lì vicino a te e spierò le tue reazioni a caldo. Il tuo viso mi dirà quello che pensi, e se non lo farà il tuo viso, lo faranno i tuoi occhi. Loro non mi sanno mentire. E perché dovrebbero poi? Sono così felice amore mio. eremo alcuni giorni in questa città che ci piace così tanto per la sua quiete e il suo fervore. Possono coesistere quiete e fervore? Sì, a Bologna sì. E’ per questo che a noi piace così tanto. Ho prenotato poi un albergo a Sorrento, ci sono stato anni fa e vedrai quanto è bella. La costiera amalfitana, Positano, Capri. Sono i luoghi più romantici del mondo, chissà forse mi daranno il coraggio per chiederti di sposarmi… Non è facile essere la moglie di un commissario di Polizia di questi tempi. E’ per questo motivo che mi manca il coraggio, perché so che mi dirai di sì e ti costringerò a preoccuparti per me in ogni minuto della tua vita. Eppure non me la sento di cambiare la mia vita, ho scelto questo lavoro perché ci credevo e ci credo ancora nonostante tutte le brutture che ho visto, anzi credo che in momenti come questo ci sia bisogno di noi più che mai. Scusami amore se sto chiedendo a te di ritirarti dalle scene quando io non mi sento di rinunciare a nulla. Se deciderai di non farlo ti capirò. E ti aspetterò. Niente e nessuno riuscirà a rovinare questo mese insieme. Ora vado a ritirare i vestiti in lavanderia, poi a cena con l’amico Tenente e a nanna. Domattina un ultimo saluto in ufficio e poi di corsa in stazione. Anzi no, prima i fiori, non posso dimenticarmene. Alle dieci e un quarto sarò già lì ad aspettarti con un enorme mazzo di fiori in mano, emozionato come un ragazzino. Sul binario 8, treno in arrivo da Parigi, ore 10.30. Fai presto amore. Ross”
“Parigi, 01 Agosto 1980 Mi sento come una ragazzina al primo appuntamento. Pensare che ho ato l’età della ragione da un po’, le mie amiche sorridono al vedermi così felice. Mai
avrei pensato di vivere ancora questi momenti, pensavo che le emozioni dell’innamoramento fossero riservate ai ragazzi. E io a 44 anni suonati ragazza non sono più. Pensavo ormai di aver vissuto tutto il meglio della vita. Pensavo di dedicarmi al lavoro finché il fisico me lo avrebbe permesso. Pensavo un sacco di cose. Poi sei arrivato tu. E tutte le mie certezze sono crollate miseramente dietro a quella prima stretta di mano. Ricordo ancora i tuoi occhi che non volevano lasciare i miei. Lo ricordo come fosse oggi e sono ati 3 anni. Domani inizia la nostra nuova vita. Ho preso la mia decisione, ne ho parlato con le mie colleghe e con il coreografo. Mi mancheranno, sono stati la mia famiglia per tutti questi anni. Ma da domani la mia famiglia sarai tu. Non te l’ho ancora detto perché lo voglio fare di persona, guardandoti negli occhi. So che sarai felice ma so anche che avrai un velo di tristezza perché essere la compagna di un poliziotto è difficile. Lo so, me lo dici sempre, hai ragione. Lo so. Ma io voglio stare con te, mangiare con te, svegliarmi con te. Voglio poterti toccare quando sento il bisogno o la voglia, voglio parlarti, guardarti, fare l’amore. Ne sarai felice. Dio ti prego fa che ne sia felice. Non importa se sarò sempre preoccupata per te, angosciata per ogni tuo ritardo. Non importa perché poi ti vedrò arrivare e sarò immensamente felice. Ora finisco le valigie, pensavo di prenderne due, il resto coi costumi di scena me lo farò spedire. Per fortuna Giorgio mi accompagna in stazione. Forse era meglio scegliere un altro mezzo. Se non altro per la comodità… Ti vedo già in attesa sui binari, con il tuo sorriso migliore, quello che riservi solo a me. Prometto che le valigie saranno leggere, non voglio affaticarti. Non voglio che tu ti penta di voler vivere con me. Fra poco Giorgio viene a prendermi, ho prenotato la cuccetta, come in quei vecchi film in bianco e nero. Chissà se riuscirò a dormire. Chissà se dormiranno anche le farfalle che volano nel mio stomaco… Questa lettera non la spedirò, non avrebbe senso, la porto con me e te la consegno io stessa. A domani amore. Ti amo così tanto… Marina”
“Clara, ora posso spiegarti. Queste due lettere le ho lasciate insieme. E’ giusto che sia così, sono i nostri ultimi pensieri insieme, siamo morti entrambi quel giorno. Le ho lasciate insieme, le ho messe in cima a tutte le altre e le ho chiuse in un pacco di anonima carta marrone, legato stretto con un filo di spago. Dentro a quel pacco ho legato stretto anche il mio cuore. Sono ati più di trent’anni e non l’ho mai aperto. Non ho mai avuto il coraggio di liberarmene, non avrei potuto. Mi dava sicurezza sapere di avere ancora un cuore, pur martoriato e stanco. Ho nascosto il pacco, l’ho recuperato e di nuovo nascosto ad ogni mio trasferimento, imponendomi di non dedicargli tempo e lacrime. Ho cercato di dimenticarlo. E ora torna. Dopo il sogno di qualche mese fa. Michela, all’oscuro di tutto, me lo consegna e io non so se sono pronta ad aprirlo. Lasciarmi travolgere dai ricordi. Parlarne con qualcuno.
Il 2 agosto 1980 alle 10.25 del mattino la Stazione di Bologna venne devastata da una bomba, l’ala ovest, quella occupata dalla sala d’attesa della seconda classe, crollò per l’esplosione di un ordigno. 85 morti e 200 feriti. 23 chili di esplosivo all’interno di una valigia abbandonata contro un muro della sala d’attesa hanno sconvolto la nostra esistenza. Rossano era lì, stava attraversando la sala d’aspetto per avvicinarsi al binario 8. L’onda d’urto lo ha scagliato contro un pilastro che si trovava a una decina di metri da lui. E’ ricaduto al suolo stringendo tra le mani quel che rimaneva del mazzo di fiori che era destinato a me. Quello che so me l’ha raccontato un testimone che conosceva Rossano e col quale mi hanno fatta parlare in Questura. Il mio treno doveva arrivare alle 10.30 ma non è mai arrivato. Avevamo qualche minuto di ritardo, ci hanno fermati poco prima della stazione. Nessuno di noi eggeri si è reso conto di nulla, nessuno ci ha comunicato nulla. Io ero pronta per scendere, con accanto le mie due valigie leggere e un sorriso felice in faccia. Sul momento pensai a qualche inconveniente tecnico sui binari, qualche scocciatura di routine che avrebbe ritardato il nostro abbraccio. Poi i eggeri dei primi vagoni si sono accorti del fumo che si levava dalla stazione, i più perspicaci lo hanno subito collegato allo scoppio lontano che si era sentito poco prima. Io non ero tra i più perspicaci ma ho intuito che era successo qualcosa di grave. Nonostante tutte le nostre insistenze nessuno rispose alle nostre domande. Intanto le voci si rincorrevano come un fiume in piena, come quando non sai e cerchi di darti una spiegazione a tutti i costi. Io mi rannicchiai su un sedile e continuai per tutto il tempo a
ripetermi che non era nulla di grave, che Rossano mi stava aspettando, che sarebbe andato tutto bene. Dopo qualche ora fummo dirottati ad una piccola Stazione vicina, qui ci accolsero con la notizia di ciò che era successo. Mi mossi come in trance, lasciai i bagagli nella piccola stazione e, insieme con altri eggeri, prendemmo un taxi per Bologna. Non potevo aspettare un momento di più. Non sapevo dove andare, se in Stazione o in Questura. Optai per la seconda perché tutte le strade per la stazione erano chiuse. Entrai e vidi subito l’amico Tenente, mi precipitai da lui e vidi che stava piangendo. Accanto a lui c’era un ragazzo in divisa che gli stava raccontando ciò che aveva visto. Lui era il testimone. Quello che aveva visto Rossano. Il Tenente ci accompagnò nel suo ufficio e ci fece sedere, si sedette vicino a me e mi tenne la mano destra per tutto il tempo. In quei momenti maledii tutto quanto avevo di caro al mondo, se il cuore di Rossano si era fermato alle 10.25 del 02 agosto 1980, iI mio si fermò in quell’istante, alle 15.30 dello stesso giorno. Il testimone mi raccontò di aver parlato con Rossano pochi minuti prima dell’esplosione, Ross era felice, gli disse che doveva correre al treno da Parigi, che stava per arrivare la sua ragazza e non voleva tardare. Si conoscevano da anni, mi disse che non aveva mai visto negli occhi di Rossano una tale felicità. Si lasciarono quasi subito, lui uscì dalla stazione mentre Rossano correva incontro al suo destino. L’esplosione lo colse all’esterno, al sicuro. Corse dentro appena gli fu possibile e trovò di fronte a lui uno scenario apocalittico. Fumo, macerie, sangue. E l’orologio, quello che tutti noi vedemmo nei telegiornali, fermo sulle 10.25. Come a segnare un aggio, un prima e un dopo, tra l’innocenza e la malvagità. Vide Rossano a terra in una posizione innaturale, le gambe ripiegate sotto il corpo coperto di sangue, il viso illeso, la mano destra che stringeva il mio mazzo di fiori insanguinato. Si scusò con me per non aver preso quel mazzo di fiori, per non avermelo portato. Io non so se lo avrei voluto, c’era il suo sangue e io non volevo vedere il suo sangue. Sarebbe stato come avere la prova della sua morte. Non ho avuto il coraggio neanche di vedere lui. I suoi familiari sapevano del mio arrivo e vennero a prendermi in questura. ai due giorni con loro ma senza di lui mi sentivo un’estranea. Ero come pietrificata. Il personale dell’obitorio consegnò i suoi effetti personali ai parenti. Nel suo portafogli c’era una lettera per me, presi solo quella, la stessa che hai letto poco fa. Non volli null’altro. Partecipai al suo funerale senza versare una lacrima. Subito dopo mi feci accompagnare all’aeroporto e ripartii per Parigi. Non sono mai più entrata in una stazione da allora. Non ho più visto nessuno dei suoi
familiari. Non ho mai risposto alle loro lettere, neanche a quelle del Tenente che era stato così gentile. Non sono mai andata sulla sua tomba. Arrivai a Parigi con le due valigie che qualcuno aveva recuperato per me. Non le ritirai, non mi recai neanche all’arrivo bagagli. Non volevo più vedere le cose che avevo scelto per la nostra vacanza insieme. Andai da Giorgio, non mi chiese nulla, non parlammo mai di quello che era successo. Ripresi la mia vita senza dare spiegazioni. Tutti sapevano e nessuno mi chiese mai nulla. Sono sopravvissuta grazie a tutti loro, Giorgio si prese cura di me come un fratello. Per sempre, fino a quando, anni dopo, l’aids si portò via anche lui. Ora sai. Sei l’unica persona al mondo che conosce la mia storia. L’unica degna. Non so però se avrò voglia di parlarne. Non sentirti delusa se mi vedrai imibile, è il mio modo per salvarmi. Non volevo nasconderti questa cosa così importante però ti chiedo di rispettare le mie decisioni, qualunque esse siano.
In un altro momento questa ultima frase mi indurrebbe a discutere. Ma non ora. Ora devo farmi largo tra le mie lacrime e un milione di fazzoletti bagnati. Lo sapevo che il suo grande amore non c’era più, cosa mi aspettavo? Non sarebbe stato diverso se fosse morto in un incidente automobilistico o vittima di un infarto, lo so. Eppure questo succedersi di coincidenze legate tra di loro mi fa riflettere. Forse è vero che ognuno di noi ha la sua strada segnata e non importa quanto ci si impegni per cambiare il proprio destino perché ogni nostra azione ci porterà comunque lì. A Bologna, dove la loro storia doveva finalmente sbocciare. Me la ricordo la strage di Bologna, o meglio, mi ricordo il treno che si ferma un anno dopo per onorare con un minuto di silenzio le vittime dell’attentato. E’ forse uno dei primi ricordi che conservo. Avevo 4 anni all’epoca, 5 l’anno successivo, ero sul treno diretto ad Alessandria con mio fratello e la mamma, papà ci aspettava all’Ospedale della città al capezzale di sua sorella che aveva avuto in incidente ed era ricoverata. Il convoglio si fermò in mezzo alle campagne alle 10.25 in punto. Ricordo che non capivo il motivo di quella interruzione, di quel silenzio irreale. Avevo sentito la voce all’altoparlante che annunciava il minuto di silenzio ma non avevo capito. E per un minuto le mie domande incalzanti rimasero senza
risposta. Stranamente non insistetti, forse mi intimidì l’atmosfera di cordoglio che mi avvolse, forse mi indussero al silenzio i lucciconi che vidi negli occhi di mamma. Terminato il minuto ripartimmo e ognuno tornò alle sue occupazioni precedenti. Chi stava leggendo riprese a leggere, chi parlava riprese il discorso, chi dormiva riprese il sonno interrotto. Mia mamma mi spiegò con parole semplici adatte a una bimba di 5 anni, quello che era successo un anno prima in quel preciso istante. Poi ci fece recitare una preghierina per tutti quegli angeli in cielo e potemmo tornare ai nostri giochi. Ricordo delle immagini, ricordo quella dell’orologio fermo alle 10.25. Forse le ho viste sui giornali, non so quando o in quali occasioni. Chi l’avrebbe mai detto che adesso, a tutti questi anni di distanza, avrei pianto per uno di loro. Non perché fosse diverso da tutti gli altri, ognuno aveva una storia personale da vivere, ma perché dopo aver letto le sue parole mi sembra di conoscerlo. Le sue lettere mi hanno rivelato il suo stato d’animo, le sue paure, i suoi sentimenti, le sue speranze. In questi due giorni ho imparato tante cose grazie a lui. Avrei tanto voluto conoscere quest’uomo così forte e così tenero. Piango per l’ingiustizia della vita. Perché era un grande amore e non doveva finire così. Prima ancora di poter iniziare una vita insieme. E piango per la reazione di Marina anche se la comprendo. Non posso credere che non sappia neanche dov’è sepolto, è come se l’avesse cancellato dalla sua vita, anzi è proprio così, l’ha cancellato. Ha resettato la sua memoria. Ma non è servito, anche in lei, come in tutti, rimane traccia di ogni cosa. Basta premere il pulsante sbagliato ed ecco che tutto ritorna più vivido che mai. Come si fa a dimenticare un uomo così?
Continuo a pensare a Rossano, a quanto sia stata ingiusta la vita con lui e a quanto lo sia stata anche la sua morte. Credo che ci sia solo una cosa da fare per riportare almeno un poco di giustizia alla memoria di questo uomo. Lo cercheremo, cercheremo la sua famiglia e accompagnerò Marina sulla sua tomba. Lì potrà chiudere il suo cerchio e seppellire anche i suoi ricordi. E forse perdonare la vita che le ha tolto tutto quanto. Ma lei avrà voglia di cercarlo? Mi ascolterà? O rischio di perdere la sua amicizia? A me sembra la cosa migliore da fare. Lei credeva di aver rimosso la ferita, di essere al sicuro, ma appena ha avuto le lettere fra le mani il ato é
tornato a sconvolgere la sua vita. Se la conosco appena un po’ non mi contesterà troppo, anche se alla fine prenderà la sua decisione indipendentemente dai miei suggerimenti. Non ho molti elementi in mano, mi rendo conto solo ora che non conosco neanche il cognome di Rossano. Posso provare a partire dal Tenente Riccardi di stanza a Bologna nel 1980, è l’unico appiglio che ho. Domattina, anzi stamattina perché sono ormai le quattro e venti, ci penserò. Ora mi voglio accoccolare accanto a Bisy, stretta a lei, a pensare a questa grande storia d’amore. Noi non abbiamo mai avuto una storia così, né io né Bisy, e credo che sia altamente improbabile che possa presentarsi in futuro. Bisy non ci pensa neanche, dorme accanto a me beatamente, felice di avere di nuovo le mie attenzioni. Solo io mi illudo di poter trovare un uomo così da qualche parte. Sono sconvolta. Mi scopro a invidiare una donna che ha perso tutto perché per un breve periodo l’ha avuto. E’ quasi inevitabile che una grande ione si concluda con un grande dolore. Mi chiedo se sia meglio vivere nell’apatia di un’esistenza piatta e costante o consumarsi nel fuoco dei sentimenti più profondi. Certo nel primo caso non si rischia nulla ma io sono sempre più convinta che valga la pena morire se si è vissuto intensamente. Però non ho la certezza che Marina la pensi come me, è sua la pelle che brucia, suo il cuore che è stato strappato. Non riuscirò a dormire, la mia mente si ribella e vaga tra ricordi che non sono miei ma sono così vividi che sembrano esserlo. Rimango qui vicino alla mia gatta, la abbraccio e cerco di rilassarmi con il suo ronf-ronf rassicurante.
In mattinata sono ata da lei. L’ho vista migliorata ma sarebbe bastata una parola di troppo per farla crollare. Quindi non le ho detto nulla. Non l’ho neanche abbracciata anche se avrei voluto farlo. Le ho riportato il pacco di lettere e l’ho sistemato con cura sul baule. L’ho fatto con cura perché volevo che lei capisse quanto ho apprezzato questo suo regalo e non potevo essere più chiara. Prima di uscire dalla sua camera ho sfiorato la sua guancia con una leggera carezza e le ho sussurrato “Ci vediamo domani. Vorrei che mi parlassi di lui.” Voglio darle un giorno di tempo per sistemarsi. Se poi dovesse avere bisogno di me ha il mio cellulare e sa che per lei ci sono sempre.
MARINA
Grazie Clara per non aver detto nulla. Sapevo di poter contare su di te. Ne parleremo, certo, ma mi serve ancora un po’ di tempo. Ho notato la cura e l’amore con cui hai sistemato le lettere. Vuol dire che le hai lette, che ora sai tutto e che rispetterai i miei tempi. Vuol dire così tanto per me. Vuol dire che non mi sono sbagliata sul tuo conto, che sei la persona che pensavo fossi, che ho trovato un’amica.
Ho notato anche che avevi il viso stanco e gli occhi arrossati, come se non avessi dormito e probabilmente è così, probabilmente hai ato due giorni interi sulle mie lettere, sulla mia vita. Povera. Certamente avresti preferito un altro tipo di notte in bianco. Ora però conosci Rossano, ora che mi sta crescendo dentro questa voglia di ricordare avrò te con cui parlare. Parlarti di lui, descrivertelo. Era l’uomo più bello che io ricordi di avere mai conosciuto. Era alto, moro, portava i capelli leggermente lunghi come dettava la moda di quegli anni. Aveva gli occhi verdi screziati di marrone, dal colore dei suoi occhi capivo se era felice o se era teso, quando era felice il marrone lasciava il posto al verde, sembrava avere gli occhi di un gatto. E aveva un sorriso stupendo. Forse è questo che mi ha colpita di più. Il suo sorriso sincero. E la sicurezza che ostentava nei modi e nei gesti. Non ricordo di averlo mai visto in divisa, mi raccontava di quanto si sentisse fuori luogo durante le cerimonie ufficiali. Lui amava i jeans e usava la sua motocicletta per spostarsi in città. Ricordo quando lo vedevo arrivare sulla moto, in jeans e giubbotto di pelle, i ray ban e i capelli al vento. Ora sorrido al pensiero ma allora mi provocava delle reazioni fisiche inenarrabili. Sono ati così tanti anni e ne parlo ancora come una donna innamorata. Te lo descriverò Clara, parlerò di lui con te. Insieme lo faremo rivivere, non ho più voglia di sbarrare il mio cuore.
CLARA
Ora che ho tutti gli elementi in mano improvvisamente vengo colta dal dubbio di aver fatto la cosa giusta. Ora che so dov’è sepolto non so più se ci voglio andare. Per settimane ho pensato che questa ricerca fosse l’obiettivo principale della mia vita, pensavo che la parte più difficile sarebbe stata procurarmi le informazioni, e invece è stato facile anche se estenuante ma le cento telefonate, le richieste scritte, le preghiere per eludere le leggi sulla privacy, non sono nulla in confronto a quello che sto provando ora. Che poi si può riassumere tutto in un'unica semplice domanda: E adesso??? Quando ormai mi stavo scoraggiando di fronte al muro di burocrazia che ho trovato negli uffici comunali di Bologna, quando stavo per arrendermi, ho avuto un momento di sconforto e mi sono sfogata con la persona che in quel momento mi stava rispondendo all’altro capo del telefono, a centinaia di chilometri di distanza. Lei era gentile e io, pur pensando di commettere un errore, le ho raccontato la storia di Marina e di Rossano. Dopo un attimo di silenzio mi ha chiesto di ripeterle i nomi e le circostanze e poi, mentre io piangevo, mi ha detto che mi avrebbe aiutata. Ci siamo risentite in serata e ho scoperto che era la figlia del Tenente Riccardi. Un vero colpo di fortuna dopo settimane di ricerche inutili. Ancora oggi non riesco a crederci. Il destino è veramente strano. Ho parlato anche con lui, mi è parso un uomo sereno e lucido. I suoi ricordi sono vividi e vorrebbe rivedere Marina per raccontarle la sua versione. Lui mi ha detto dov’è Rossano, lui non l’ha mai lasciato, ha continuato a fargli visita regolarmente in tutti questi anni. Avevo deciso che, una volta avuti tutti i dettagli, sarei andata da Marina e l’avrei costretta a seguirmi. Lo avrei fatto per il suo bene, perché sono certa che questo cerchio deve essere chiuso, sono certa che lei debba ritrovare il suo ato, non può fuggire per tutta la vita. Ora, non ho cambiato idea, anzi, sono sempre più convinta e penso anche che Rossano abbia il diritto di vederla almeno una volta sulla sua tomba. Il mio problema ora è affrontare il discorso con lei. Non so come parlargliene, non voglio correre il rischio di disturbarla alle prime frasi, di indispettirla e ottenere l’effetto contrario. Una cosa però la so: se non dovessi convincerla andrò da sola, andrò e saluterò Rossano da parte sua anche se lui saprà che sto mentendo.
MARINA
“Rossano ha il diritto di vederti almeno una volta sulla sua tomba”. Questa frase mi ha convinta, null’altro che Clara potesse fare o dire. Questo però sì, perché dentro di me so che ha ragione. Non credo che Rossano possa vedermi ma voglio lasciare uno spiraglio alla speranza e se c’è anche una sola remota possibilità che lui possa ancora vedermi allora lo farò.
In tutta sincerità mi sono anche un po’ innervosita nel sentire il suo discorso. Ma chi è questa, ho pensato, che pretende di sapere cos’è meglio per me? Ma cosa vuole da me???
Poi però ho pensato che lei è l’unica persona al mondo che ho ritenuto degna delle mie confidenze, le ho dato io la facoltà di parlarmi così e sono felice di averlo fatto.
Forse ora è il momento giusto per ritrovare il mio ato, è ora di slegare il mio vecchio cuore e di lasciarlo libero di sentire, anche se dovesse soffrire. Non ci sono altri conti in sospeso, niente che abbia lasciato una traccia dentro di me. Soltanto lui da ritrovare, da perdonare per avermi lasciata così, per non avermi portata con sé. Bastavano cinque minuti. Poteva arrivare in ritardo, poteva fermarsi a chiacchierare cinque minuti in più con il suo amico o con il fioraio. Solo cinque minuti. Ma lui non lo avrebbe mai fatto, non sarebbe mai arrivato in ritardo a quell’appuntamento. E allora poteva accadere qualcos’altro, potevano chiamarlo per una rissa, per un omicidio, per qualsiasi cosa. Ma non è stato così. Aveva previsto tutto ed aveva dato chiare disposizioni di non disturbarlo per nulla che non fosse una reale emergenza.
C’è stata la reale emergenza ma è venuta dopo, quando l’hanno chiamato lui non ha più risposto. Dalla centrale c’erano dodici chiamate verso di lui. In quei
momenti concitati qualcuno deve aver pensato che non volesse rispondere, qualcuno si sarà chiesto come fosse possibile che l’integerrimo commissario Corradi non rispondesse a una chiamata, anzi a dodici chiamate. Qualcuno avrà sorriso pensando a quanto fosse innamorato. E’ vero, era innamorato, lo eravamo entrambi, ma se solo avesse potuto avrebbe risposto a quelle chiamate perché amava anche il suo lavoro. Solo, non c’era più.
Non ha mai visto le chiamate, non ha mai saputo che il mio treno non è mai arrivato in stazione, non ha mai saputo che non ho più voluto vederlo, che l’ho tagliato fuori dalla mia vita. L’ho fatto perché mi era necessario per sopravvivere ma ora me ne pento ed è giusto che io mi scusi.
Per tutta la vita ho pregato di poter tornare indietro a quei momenti, di poter cambiare il corso delle nostre esistenze oppure di arrivare a Bologna con cinque minuti di anticipo per andarmene insieme a lui.
MARINA
La ghiaia del vialetto scricchiola sotto i miei piedi, stiamo per arrivare da te in questo cimitero uguale ad altri mille, con i suoi pini, le sue aiuole, i suoi viali. Ne ho visti tanti in tutta la mia vita e ho sempre pensato che sono tutti uguali. Dovrebbero infondere serenità nei visitatori però nel mio caso non funziona, io li trovo angoscianti e freddi. Tutti freddi.
Ti troviamo in una classica tomba di famiglia con il cognome scolpito in alto, ti fanno compagnia i tuoi genitori, sono sopra di te. Mi rendo conto ora che non lo sapevo, ma è colpa mia, non ho lasciato recapiti, sono fuggita come se mi fossi sentita colpevole di qualcosa. E forse è così, se io non fossi arrivata quel giorno tu non saresti stato lì a quell’ora. Ci saresti andato dopo insieme ai tuoi colleghi e saresti sopravvissuto. E loro non ti avrebbero visto morire, tu li avresti
accompagnati nel loro ultimo viaggio, com’è giusto e naturale che sia. Chissà se mi hanno mai accusata di tutto questo…
Il marmo è freddo come quello di tutte le tombe. Non aveva senso pensare che fosse più caldo solo perché ci sei tu qui, lo so, ma io lo pensavo. Sono qui, mi riconosci amore mio? Sono invecchiata, i miei capelli sono bianchi, sono una vecchia ormai, non vorrei che tu mi vedessi così. Tu invece mi guardi dalla foto, giovane e spavaldo, bello come ti ricordavo. Il tempo è ato solo per me. Clara si è allontanata, voleva lasciarci soli e mi ha lasciata qui con il mio mazzo di rose. Che strano, eri tu a portarmi i fiori un tempo, lo facevi ogni volta che tornavo in città. Non so cosa dire, mi sento impacciata e mi sento stanca. Sono agitata, stanotte non ho dormito, ho pensato per ore al vestito che mi sarei messa, mi sono preparata per te come facevo un tempo. Vorrei sentirti vicino ma ho aspettato troppo, non so se tu vuoi starmi vicino dopo tutti questi anni. Non so neanche se ti ricordi di me. E’ vero, tu non hai conosciuto altre che potessero farti dimenticare di me, sono io che ho vissuto, sono io che sono rimasta qui, che ho conosciuto altre persone, altri mondi. Ma, credimi, non è stato vivere, è stato sopravvivere. Come un pesce in un corso d’acqua inaridito. Non è stato vivere senza di te. Avrei voluto morire anch’io quel giorno, credimi amore avrei voluto morire con te.
Non ho voluto vederti sfigurato, coperto di sangue, non potevo sopportarlo. Ho lasciato la tua famiglia, non ho più contattato nessuno, ti chiedo scusa per questo ma in quel momento mi è parsa la cosa più giusta da fare. L’ho pensato per tutti questi anni, finché non ho conosciuto Clara. Lei mi ha costretta a rivedere le mie certezze. E ora penso che non avrei dovuto. Ho tenuto una sola fotografia di noi due, nascosta dietro una delle tele di Giorgio, l’ho tenuta con me per qualche mese all’inizio poi ho deciso di privarmi anche di quella piccola consolazione. E’ come se mi fossi punita in tutti questi anni per esserti sopravvissuta. Scusami perché so che in questo modo ti ho fatto del male. Non avrei mai voluto farti del male, volevo vivere con te, amarti, avere dei figli da te. Non c’è stato mai nessuno di importante dopo, non ho una famiglia, non mi sono sposata, non ho avuto figli. Quello che avevo con te era troppo grande per poter essere sostituito.
Darei tutti gli anni che ho vissuto e tutto quello che mi rimane, senza indugio, per poterti rivedere una sola volta, per dirti che ti amo come allora.
Invece posso solo accarezzare la tua foto e guardarti attraverso le lacrime che non riesco a controllare, sapevo che sarebbe stato doloroso ma non potevo più rimandare. Perdonami se puoi. E aspettami, ormai non manca molto, ci rivedremo, cercherò un posto qui per esserti vicina.
Clara sta tornando, c’è un uomo con lei, un distinto signore canuto con l’impermeabile e l’ombrello, colgo il particolare perché è strano, alzo gli occhi al cielo e lo trovo terso, non minaccia certo pioggia. Si avvicina e mi sorride e in quel sorriso ritrovo qualcuno che non vedo da più di trent’anni. Il Tenente Riccardi. Non so come ho fatto a riconoscerlo, l’ho visto solo un paio di volte, ma non ho mai dimenticato quel suo viso da bravo ragazzo che con gli anni si è trasformato in un rispettabile sessantenne.
Oggi è il giorno degli incontri importanti. Ora capisco anche l’abbigliamento: era un segno di riconoscimento tra persone che non si sono mai viste. Clara è riuscita a stupirmi un’altra volta.
Sono sorpresa, non so come muovermi, gli porgo la mano e cerco di sorridere tra le lacrime che non vogliono fermarsi. Mi aiuta lui, prende la mia mano e mi attira a sé abbracciandomi forte e scoppiando in un pianto dirotto. Adesso è Clara che non sa cosa fare, è evidente che non si aspettava una simile reazione. Ci servono dieci minuti buoni per ristabilire un po’ di quiete tra di noi, in questi dieci minuti ci siamo detti molto di più di quanto avremmo potuto dirci in trent’anni. Senza parlare, condividendo il dolore che ci ha unito. Io ho perso l’amore, lui ha perso l’amico fraterno. Rossano ci sta guardando dalla foto e pare che stia sorridendo a noi, soddisfatto di questo incontro tardivo.
Ci sono tante cose da dire, io non chiedo nulla ma Riccardi vuole dirmi tutto quello che sa, tutto quello che ricorda. Usciamo dal cimitero con la promessa di ritornare presto. Se veramente esiste qualcosa che si possa definire anima, Rossano sta uscendo con noi, con le persone che amava, e si siede con noi al tavolino di questo bar.
E’ un locale grande e luminoso, nella zona industriale, con un enorme parcheggio, adatto agli spuntini dei molti impiegati e operai che gravitano nella zona. Nessuno di noi mangia, abbiamo tutti lo stomaco chiuso dalla tristezza, ci limitiamo a ordinare una spremuta e rinunciamo ai cornetti che ammiccano dalla vetrina, hanno tutta l’aria di essere deliziosi ma noi oggi non riusciremmo a gustarceli. Riccardi ha con sé un raccoglitore, come quelli che si usano negli uffici, con foto e articoli di giornale. Lo posa delicatamente sul tavolino e studia la mia reazione prima di aprirlo. Posso immaginare cosa contiene e non vorrei vedere ma mi costringo a ricambiare il sorriso di quest’uomo che sembra aver raccolto tutto questo per me, appoggio le mie mani sulle sue e lo invito ad aprire. Oggi siamo qui per questo, non importa quanto farà male. Clara ci guarda, non ha detto una sola parola da quando ci siamo seduti. Prima di entrare nel bar ci ha chiesto se volevamo rimanere soli ma entrambi le abbiamo risposto di no. Lei è stata il nostro tramite, la sua presenza silenziosa è molto importante per me in questo momento.
Nel raccoglitore ci sono le prime pagine di tutti i giornali dell’epoca, il giorno dopo, il tre agosto 1980, le stesse che avevo visto in TV, molto simili a quelle che ho visto a Parigi nei giorni immediatamente successivi. Quelle che Giorgio si affannava a nascondere alla mia vista e che io trovavo poi nei caffè parigini. Non riuscivo ad ignorarle per quanto mi ferissero. In Francia però l’eco di quella strage non durò a lungo ed io riuscii a non soccombervi. Ogni giornale dava la sua versione sulla causa, sul numero dei morti e dei feriti, sui presunti colpevoli, a seconda della fazione politica di appartenenza. Era evidente l’estrema confusione che imperava in quei momenti, solo alcuni giorni dopo il conto delle vittime fu finalmente esatto: ottantacinque. Qualcuno ha parlato di strage ingiusta, come se esistessero delle stragi giuste… Non ho mai voluto dare un colore ai colpevoli, ho sempre pensato che un terrorista è un terrorista indipendentemente dal colore dietro cui ha scelto di nascondersi. So che anche
Rossano la pensava così. Quando l’animo umano è malvagio cerca e, purtroppo a volte trova, la bandiera che gli consente di uscire allo scoperto evitando i sensi di colpa, facendo proprio il vecchio adagio machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Anche quando non si conosce a fondo il fine, anche quando il fine diventa proprio il mezzo.
C’è naturalmente l’immagine dell’orologio della stazione fermo sulle dieci e venticinque, senza tempo, a perenne ricordo. Questa è l’immagine che fino a ieri nei miei pensieri ha rappresentato più di ogni altra quella tragedia. Quei cinque minuti che hanno separato per sempre le nostre vite.
Ci sono immagini che riprendono la stazione dopo il crollo, i binari, i feriti, i soccorsi, i soccorritori increduli. Ce n’è una che non avevo mai visto che mi colpisce come e più di un pugno allo stomaco: si vede un uomo disperato, accovacciato a terra, con le mani fra i capelli, accanto a quella che si intuisce essere una delle vittime coperta pietosamente da un telo di fortuna. Dietro di lui una catena umana formata da soccorritori impotenti ma rispettosi di quel dolore che cercano di trattenere altri uomini e donne in lacrime.
Avrei potuto esserci io al posto di quell’uomo, avrebbe potuto esserci Rossano sotto quel telo. Come avrei potuto non morire lì accanto a lui? Nessuna testata ha mai pubblicato foto del corpo di Rossano, ne hanno parlato i giornali locali presentandolo come il giovane commissario sfortunato, pubblicando una sua foto in divisa, di quelle che lui odiava. Le immagini del suo corpo sono state tutte requisite dalla Centrale di Polizia e mai divulgate. Anche se per Riccardi hanno fatto un’eccezione. Lui ne ha due, mi dice non particolarmente cruente, e mi chiede se voglio vederle. Sì, voglio vederle.
Sono in bianco e nero, nella prima Rossano è a terra, la posizione è scomposta, il braccio sinistro è ripiegato sotto il corpo, quello destro allungato verso quello che rimane di un mazzo di fiori, la gamba destra ripiegata in modo innaturale. Riconosco i suoi jeans, il suo giubbotto, il mio mazzo di fiori.
Poco lontani i suoi rayban rotti spuntano dalle macerie. C’è sangue dappertutto ma sono macchie di un grigio più scuro e a prima vista fanno meno impressione. Clara non regge, guarda di sfuggita la foto e si alza, non riesce a trattenere i singhiozzi e scappa in bagno. Io no, io rimango lì, non ho finito, ne ho ancora una da vedere. Nella seconda si intravede il suo viso, quel viso che ho tanto amato e che come per miracolo è rimasto illeso. Aveva il corpo maciullato ma il viso integro. Povero amore mio.
Mi sento come se stessi compiendo il mio dovere di sposa con trent’anni di ritardo. Niente può farmi così male da impedirmi di andare fino in fondo.
Clara torna al nostro tavolo stravolta, ha messo gli occhiali da sole e tira su col naso, segno evidente che dietro quelle lenti non riesce a fermare le lacrime. In quel momento ci raggiunge Rossana, la figlia di Riccardi, si siede con noi, voleva vedere di persona la famosa ballerina di cui tanto ha sentito parlare. E’ una ragazza bionda con un bel sorriso uguale a quello del padre e un viso pulito. La sua stretta di mano è troppo forte per le mie mani ma forse oggi lo sarebbe anche se fosse più debole. Finge di non vedere i nostri occhi lucidi, è la cosa più giusta da fare, lei deve restarne fuori. Per un attimo, nel sentire il suo nome, il mio cuore ha fatto un balzo. Ma non c’è niente di strano, è giusto che un uomo voglia dare a un figlio il nome di chi gli è stato amico. Siamo pronti per l’ultimo atto ora, Rossana è venuta a prenderci per accompagnarci alla stazione di Bologna, saliamo tutti in macchina con lei perché sa destreggiarsi bene nella sua città e perché la ricerca spasmodica di un parcheggio non è quello di cui abbiamo bisogno adesso.
Parcheggiamo proprio vicino alla Stazione, in una via laterale, il tempo di scendere dall’auto e mi ritrovo sulla piazza che ho frequentato tante volte con Rossano. In fondo davanti a me la stazione. Le mie gambe un tempo così leggere in questo momento sembrano di piombo, si rifiutano di compiere altri i. Clara se ne rende conto e mi prende la mano, questo semplice gesto gentile è quello che mi salva. Se n’è accorto anche Riccardi ma rimane in disparte,
impacciato, timoroso. Anche a lui fa male questo posto. Sua figlia, tremo al pensiero di chiamarla Rossana, non ci segue, rimane appoggiata alla sua auto. Ci aspetterà lì e non ci metterà fretta. Riprendiamo a camminare, riconosco l’immagine della stazione sempre più nitida, non so se per via delle foto che ho visto in tutti questi anni o se per via dei miei ricordi, mentre mi avvicino vedo l’orologio. Lo stesso che tutti abbiamo impresso nella memoria, fermo alle dieci e venticinque. E’ appeso al muro sul lato sinistro, è lì non solo per noi ma anche per tutti quelli che ano distrattamente e non si rendono conto di quanto è successo. Forse più per loro, per indurli a pensare, a chiedersi per quale motivo indichi sempre la stessa ora, a ricordare. Funziona, fin quando qualcuno non penserà a un guasto, funzionerà. Ci sono dei fiori freschi appoggiati a terra, forse non sono la sola in visita nel ato.
Entro e la prima cosa che mi colpisce è lo squarcio nel muro, come una ferita mai guarita, al di là del muro vedo i binari, la gente che viaggia a di fretta, molti non volgono neanche lo sguardo ma altri e sono molti, si fermano per un solo istante e rendono omaggio a modo loro, chi segnandosi, chi posando le mani sul muro, chi mandando un bacio verso i caduti. Mi fa piacere che dopo tanti anni la gente si ricordi ancora. A fianco della ferita nel muro c’è la lapide con i nomi delle ottantacinque persone scomparse. C’è scritto: 2 agosto 1980. Vittime del terrorismo fascista. Una transenna fissa di metallo rinchiude la lapide e la ferita, non posso avvicinarmi oltre ma leggo il suo nome anche da qui. Clara ha portato dei fiori e li appoggia al muro accanto al mazzo che qualcun altro ha lasciato. Ha voluto aggiungere un bigliettino e ha insistito perché fossi io a scriverlo, come se Rossano potesse leggerlo. Lei non l’ha letto, l’ha richiuso nella sua busta e infilato nella confezione. Cosa vorrei dire a Rossano se lui potesse sentire? Ho scritto “Ti amo per sempre” e mi sono firmata. Lo so che è banale ma è quello che sento, quello che è stato e che sarà. Nel posare i fiori a terra Clara si è accovacciata ed è ata oltre la transenna. Ha accarezzato il suo nome nell’elenco. Mi fa tenerezza questa ragazza, a volte sembra soffrirne più di me. Piange nascosta dietro le sue lenti scure, torna da me e ci abbracciamo. Non so per quanto ancora riuscirò a reggere, sento di non farcela più, voglio andare via. Tornare alla mia camera, non credevo di poter dire una cosa del genere ma ora voglio solo tornare a casa. Non abbiamo più nulla da fare qui, torniamo all’auto, Rossana ci vede e ci viene incontro, prende sottobraccio suo padre e lo accompagna alla macchina. Siamo tutti provati, silenziosi e angosciati. Saliamo in auto e torniamo al bar nella zona industriale per recuperare la nostra
macchina, ci salutiamo e scambiamo i numeri di telefono con Riccardi. Non penso che ci risentiremo ma non possiamo farne a meno, gli addii non piacciono a nessuno. Clara dice di essere pronta a partire, lo facciamo e affrontiamo il lungo viaggio del ritorno, arriveremo tardi e saremo distrutte ma sono felice di averlo fatto.
Durante il tragitto fingo di riposare, chiudo gli occhi, non ho voglia di parlare, voglio stare in silenzio ad ascoltare i pensieri che si affollano dentro di me. Voglio accogliere i ricordi e trattenerli, ripensare a quando eravamo insieme e felici, ricordare il suo viso, le sue parole, le sue mani. Ci sono momenti che credevo di aver dimenticato e invece sono qui e mi scorrono davanti e sono sempre stati qui, ero io che mi ero negata la possibilità di riviverli. I ricordi sono l’unica cosa che mi rimane, devo preservarli come se fossero la più preziosa delle cose. E lo farò, oggi ho capito che si vive meglio con i propri ricordi.
Siamo a casa, sono stanchissima, immagino come deve sentirsi Clara che ha guidato per ore e adesso mi accompagna in camera.
E’ stata una lunga giornata.
CLARA
E’ stata una lunga giornata. Sono stanchissima ma non riesco a dormire. Mi chiedo cosa sta facendo Marina, se anche lei è distesa come me con gli occhi spalancati o se sta dormendo. Forse lei riesce a dormire, a dire il vero già durante il rientro ha riposato un poco. Forse lei era più preparata di me a questa giornata, o forse lo è nei confronti della vita intera con tutte le sue brutture.
Io non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di quell’uomo disperato accovacciato a terra accanto a una vittima, probabilmente è una foto che ha fatto il giro del mondo ma io non l’avevo mai vista, mi sembra che esprima tutto il dolore di quel giorno. Il Tenente Riccardi è esattamente come lo avevo immaginato, anche se è in pensione si vede lontano un miglio che è sempre un poliziotto. Mi ha fatto sorridere con l’impermeabile e l’ombrello in una giornata di sole come quella di oggi, è una brava persona e sua figlia, che è stata il nostro tramite, è stata perfetta. Vorrei avere l’occasione di rivederli in circostanze diverse. Oggi non riuscivo a fare altro che piangere, al cimitero, al bar, in stazione; come se avessi ritrovato un amico per poi perderlo irrimediabilmente. Non ho proposto a Marina il viaggio in treno perché mi sembrava troppo per lei, ho preferito prendere la mia auto anche se sapevo che sarebbe stato pesante. Ancora mi chiedo come sia riuscita a guardare le foto del corpo di Rossano, io non ce l’ho fatta, mi sono alzata e sono andata ai servizi, qualsiasi cosa pur di non vederlo morto. Mi sono allontanata più volte da loro, non sapevo che fare, combattuta tra il timore di essere invadente e il senso di protezione nei confronti di Marina ma anche di Riccardi che in quei momenti non era più un poliziotto ma soltanto un uomo che soffriva per la perdita di un amico. Ho voluto lasciare dei fiori in stazione accanto alla lapide con il suo nome perché anche se non lo conoscevo gli ho voluto bene. E’ l’uomo che ha fatto innamorare la mia migliore amica, non potrei non volergli bene, non importa che sia successo ora o trent’anni fa. Ora so anche il suo cognome, mi sarebbe forse servito per le mie ricerche ma non ho voluto chiederlo a Marina e ho fatto bene perché il destino mi aspettava al telefono. Non credo alle coincidenze fortunate, credo piuttosto che esista un disegno superiore che ci spinge a fare le cose giuste nel momento giusto e che ci aiuti ad evitare gli ostacoli che si frappongono tra noi e il nostro obiettivo. In settimana chiamerò Rossana per ringraziarla e per chiederle notizie del suo papà. Spero che questa giornata così intensa non lasci strascichi su di lui né su Marina. Ma ho il sospetto che siano entrambi molto più forti di me nonostante abbiano molti anni in più, anzi forse è proprio per questo. Comunque, nonostante non riesca a chiudere occhio, nonostante il dolore vissuto
dagli altri non smetta di tormentarmi, nonostante le immagini che ho visto e non scorderò più, sono soddisfatta di me stessa e sono felice di averlo fatto.
MARINA
E’ come se si fosse chiuso un ciclo della mia vita. Con la visita alla tomba di Rossano ho fatto pace col mio ato. Tutto ciò che doveva essere detto allora e che avevo nascosto anche a me stessa, è stato detto. Ora mi sento più leggera, posso ricominciare a vivere. Non voglio dimenticare tutto, no. Voglio dimenticare solo i momenti più bui, la tragedia, gli anni successivi, il mio cuore ferito. Ma i ricordi più belli, quelli li voglio con me. Voglio ricordare il primo incontro, il nostro primo appuntamento, la prima volta che abbiamo fatto l’amore. I week end a Bologna ati a cercare casa, quando nulla ci andava bene perché sentivamo il bisogno di stare soli e non potevamo buttare il nostro tempo insieme ad un agente immobiliare. Era sempre troppo poco il nostro tempo. Ora sarebbe tutto più facile, con i telefoni cellulari, con Skipe, con le video chiamate. Noi non eravamo così fortunati, noi aspettavamo ore per poter avere la linea telefonica e dirci ti amo a migliaia di chilometri di distanza. Ma quanto erano intense quelle frasi pronunciate dentro a una cornetta più grande del nostro viso. Quanto eravamo felici di rivederci alla fine delle mie tournée. Mi sono negata per tutta la vita di rivivere quelle emozioni. L’ho fatto perché credevo fosse l’unico sistema per sopravvivere, ma era davvero così? Ho rinunciato a tutti i miei ricordi più belli pur di non dare spazio a quelli brutti. E’ stato un processo lungo, all’inizio il mio cervello non voleva cancellare, riuscivo ad imporglielo durante il giorno ma di notte perdevo il controllo. Ogni notte Rossano moriva tra le mie braccia e ogni mattina cancellavo tutto. Con gli anni ho vinto la mia battaglia, Rossano ha smesso di entrare nei miei sogni. Ci è tornato qui per la prima volta, nell’incubo che ho avuto la prima notte. Forse era un messaggio, forse voleva ricordarmi che c’erano cose ancora da fare. Forse Clara è stata mandata per aiutarmi a farle. Ora Rossano è tornato da me, stanotte in sogno ho rivissuto i nostri momenti più belli. Mi sono svegliata felice. Ora sono libera, il mio cuore è legato a lui ma non è più chiuso.
Ora posso fare progetti, farò le visite che il mio dottore mi raccomanda da mesi (accidenti a me e a quando gli ho raccontato dei miei mal di testa…), seguirò le sue prescrizioni, mi prenderò cura di Clara, stringerò qualche nuova amicizia, dopo Aldo non l’ho più fatto. Mi renderò utile con gli animali in difficoltà, coccolerò Claretta e anche Bisy quando ne avrò l’occasione. eggerò, giocherò a carte, leggerò, ballerò e ascolterò musica.
Vivrò il tempo che mi rimane con leggerezza.
CLARA
Stanotte ho fatto un sogno inquietante, mi sono svegliata sudata e allarmata, sollevata dal fatto che fosse solo un sogno. Erano le cinque del mattino e non sono più riuscita a prendere sonno. Neanche le fusa di Bisy sono riuscite a stemperare la mia inquietudine. Nel sogno mi recavo al lavoro e trovavo tutte le camere vuote, nessuno nei corridoi, nessuno nelle camere, nei saloni, nelle cucine, nei bagni. Come in un film stile The Day After, nessun collega, nessun responsabile, nessun ospite. Soltanto muri silenziosi. Correvo su per le scale urlando i nomi dei miei amici con un senso di angoscia crescente. Nessuno. Scendevo di nuovo trafelata in giardino. Nessuno neanche lì. Non un rumore, un cinguettio, un frusciare di rami. Mi accasciavo su una panchina nel giardino con il terrore e la certezza di essere rimasta sola al mondo. La mia voce si trasformava in un lungo lamento sonoro monocorde. A quel punto mi sono svegliata, col cuscino bagnato di lacrime. L’ho raccontato a Marina ma non mi è stata di conforto, l’ho vista strana, sembrava assente, persa nei suoi pensieri. Allora ho cambiato discorso perché non volevo annoiarla con i miei sogni lugubri. Siamo uscite un po’ in giardino e ci siamo sedute su quella stessa panchina sulla quale mi ero accasciata in sogno. Ho ascoltato i rumori del giardino, non ero sola, lei era seduta vicino a me. Ma neanche questo è bastato a cancellare il tormento che provo. Come se avessi la certezza che succederà qualcosa di estremamente grave. E’ la
prima volta che mi succede una cosa del genere. Sarà stato solo un sogno ma era terribilmente reale.
Inverno
MARINA
Ho preso la decisione più difficile della mia vita, ho voluto farlo qui, seduta su questa panchina all’ombra di questo nobile albero vecchio e imponente. Amo questo posto, venivo qui prima di essere rinchiusa e ci sono tornata dopo, quando finalmente ho ritrovato un po’ di libertà. C’è una pace sotto questi rami, tra queste foglie rosse di autunno, una pace che riesco a sentire solo qui. Ammiro il viale alberato del parco ricoperto di foglie, osservo i giochi dei bambini, l’apprensione delle mamme, la fatica dei podisti e le emozioni negli sguardi dei ragazzini che si scoprono innamorati per la prima volta. Questo vecchio albero ed io siamo testimoni silenziosi e partecipi di tutto questo. La panchina gli è così vicina che riesco ad appoggiare la testa al suo tronco, o forse è lui che crescendo si è avvicinato così tanto alla panchina, come se avesse bisogno di un contatto. Non sarò certo io a negarglielo questo contatto, io che ogni volta mi appoggio a lui e lo accarezzo senza il timore del giudizio di chi guarda. Ho ato da tempo l’età in cui ci si preoccupa di ciò che pensano gli altri. Appoggio la testa e non mi curo di chi mi osserva. Chiudo gli occhi e anche il dolore se ne va come risucchiato dalla corteccia del mio nobile amico. Anche la vista dei cani che scorazzano felici nell’erba mi rende felice, qualche volta sono venuta accompagnata dalla boxerina Clara, lei è felice con me e la sua “mamma” è felice di affidarmela ogni tanto. Ma non oggi. Oggi nessuna Clara deve sapere che sono qui né cosa sono venuta a fare. Nessuna di loro due potrebbe aiutarmi. In realtà non esistono decisioni difficili quando non si hanno alternative. Sofferte sì ma non difficili.
La vita è una alternanza di momenti sereni e di successive tempeste che ci fanno apprezzare altri momenti sereni e detestare altre tempeste. Ora io sono nella tempesta e non ho nulla a cui aggrapparmi se non alla quiete che mi regala questo posto.
In questo momento ho un bisogno assoluto di quiete, devo accettare con serenità quello che già è successo e quello che succederà.
I programmi sono cambiati ma non sono forse fatti apposta per essere cambiati?
So che ci tornerò su, che ci ripenserò. In quel caso tornerò qui, mi siederò su questa panchina, appoggerò la testa al mio albero e lui mi consiglierà per il meglio. Riuscirò ad arrivare fino in fondo?
MARINA
Ho preparato tutto per bene, mi sono fatta la doccia, pettinata, profumata, ho messo la biancheria di seta e il vestito migliore, non posso presentarmi in disordine. Le scarpe le metto? Non so come si usa fare in queste situazioni, non è una cosa così usuale, nessuno me ne ha mai parlato. Stasera le fitte si sono fatte più forti, chissà per quale motivo, però mi aiutano a non tornare indietro. Posso anche prendere un paio di pasticche senza temere reazioni particolari, senza chiedermi se mi faranno male. Avvicino i sonniferi e prendo un bicchiere d’acqua. Lo appoggio sul comodino accanto al cagnolino di peluche che mi ha regalato Clara. Ho messo le scarpe ma mi siedo sul letto e me le tolgo, non mi piace mettermi a letto con le scarpe, mi ricorda troppo una circostanza a cui ora non voglio pensare. Mi distendo e sto per un po’ a riflettere. Guardo la camera e cerco di ricordarmi la mia casa, ci sono alcune cose che mi sfuggono, lo specchio a colonna era a destra o a sinistra della poltrona? E’ una sensazione che ho già provato, come quando cerchi di ricordare il viso di una persona e ti sfuggono i particolari e allora ti chiedi se la riconoscerai al prossimo incontro. Il lampadario. Chiudo gli occhi e mi sembra di rivederlo, bellissimo, di vetro soffiato, anche lui preso dal solito antiquario di Venezia. Riapro gli occhi e mi trovo davanti quello dozzinale di questa camera. I quadri. Non ne ricordo bene la
disposizione, ricoprivano ogni parete della mia casa ma non ricordo con quale ordine. Qui ho solo quelli di Giorgio che mi vegliano e mi ricordano la Parigi dei miei vent’anni. Vent’anni. Sembra ata un’eternità ma li ho avuti anch’io. E’ stato bello, una giovinezza di sacrifici ma anche di soddisfazioni, di avventure, di amori leggeri. Mai cambierei i miei vent’anni con i ragazzi di oggi, con tutti i loro interrogativi sul futuro. Voglio ricordare tutto stasera, rivedere la mia vita, la danza, gli amici, le gioie e i dolori. Non sono stanca, le fitte, per effetto dei medicinali, mi stanno concedendo una tregua. Mi alzo e metto un po’ di musica. Nell’alzarmi le fitte ritornano, strazianti, violente. Ma faccio presto, il tempo di mettere su il cd e mi distendo di nuovo. La musica mi accompagna. Come in un film mi rivedo bambina in braccio a papà sulla spiaggia di Forte dei Marmi. La prima estate che ricordo, il sole, il mare, la felicità delle piccole cose. Il primo giorno di scuola, accompagnata dalla mamma. La maestra Renata, la prima che si accorse delle mie potenzialità nella danza. La danza. I primi pianti, i piedi fasciati, la sofferenza, le prime rinunce. E i primi successi. Le prime foto sui giornali. I primi grandi teatri. Le prime grandi scuole. I primi grandi maestri. Giselle. Il cigno. Odette. Il mio amico Giorgio che mi ha preceduta su questo cammino. Parigi. Mosca. Milano. Ma anche i piccoli teatri dei paesini. I fiori nei camerini. Gli amici. Le cene divertenti dopo gli spettacoli. Gli amori veloci e spensierati dietro le quinte dei teatri. L’amore lento e profondo con Rossano. Il nostro primo incontro. Le lettere. Non voglio andare oltre, non voglio ricordare gli anni bui. Voglio fermarmi qui, ignorare gli ultimi trent’anni e pensare un poco a quest’ultimo anno con Clara. Lei è stata la mia salvezza, mi ha salvata dalla tristezza di questo posto e mi ha insegnato che si può ricominciare. Quante cose mi ha insegnato in quest’ultimo anno, sicuramente più di quante io ne abbia imparate negli ultimi trenta in cui ho sopravvissuto. Ecco, la devo ringraziare perché dopo aver sopravvissuto per trent’anni, quest’ultimo anno l’ho vissuto. E mi è piaciuto. Dolce Clara. Lei ancora non lo sa ma non sarà sola. E sarà felice perché merita di esserlo.
E’ ora, prima che la musica finisca. Mando giù i sonniferi e mi aiuto con l’acqua. E’ fatta. Prendo tra le braccia la boxerina di peluche di Clara e mi distendo di nuovo. Lo capiranno che la voglio con me? La musica ora è quella che accompagna il principe Siegfried al lago dei cigni. In quel momento lui, disperato, corre da Odette che sta morendo. Mi sembra di vedere Rudolf ballare, Carla è Odette, io, in disparte, sono Odile. E’ tutto meraviglioso. Il teatro è tutto esaurito. Il pubblico si alza in piedi per applaudirci, milioni di fiori cadono ai
nostri piedi. Dietro le quinte si respira la gioia, tutti si accalcano per rendere omaggio ai protagonisti. Fiori ovunque. Rose rosa, quelle che io preferisco, con al centro una rosa rossa, di un rosso così luminoso che non ho mai visto. E dietro Rossano. Amore mio sei qui. Sei ancora più bello di come ti ricordavo e io ora non ho più voglia di dividere la mia gioia con tutte queste persone. Il tempo di struccarmi e infilare un paio di jeans e corriamo via dall’uscita secondaria. Non ci vede nessuno e fuori c’è il mare, la spiaggia, il sole. Ci fermiamo ad ammirare tutto questo, non c’è fretta, abbiamo tutta la vita davanti a noi, siamo giovani e ci amiamo. Cos’è successo in questi anni in cui ti ho perso? Ma sono stati anni? O solo attimi di cui non ho più ricordi? Non importa, ora sei qui con me. Ti abbraccio e mi baci con ione, come fosse ata un’eternità dall’ultima volta. Mi guardi e rimaniamo a lungo così, come se volessimo verificare che siamo proprio noi. E’ tutto così strano ma sto così bene. Siamo distesi sulla spiaggia, di fronte a noi il mare e il sole che sta tramontando. Dietro di noi la nostra casa, piccola, senza fronzoli, bellissima. Mi giro a guardarla e riesco a distinguere due figure basse che avanzano verso di noi… Sono i nostri due cani che corrono verso di noi per accoglierci festosamente. In meno di due secondi sono qui e siamo costretti a rialzarci per non soccombere alla loro gioia. Ora l’aria si è fatta un po’ freschina, è ora di rientrare, ci incamminiamo sulla spiaggia tutti quattro come la più bella delle famiglie. L’interno della nostra casa è accogliente, tutto giocato sui colori del mare, bianco e azzurro. Io mi guardo attorno mentre Rossano riempie le ciotole dei nostri cani. Mi siedo sul divano azzurro e lui dalla cucina mi chiede se ho fame. Ma io non ho fame, mi sento un po’ stanca e questo divano è così comodo… Ross torna da me e mi abbraccia, gli do un bacio leggero e appoggio la testa al suo petto. Il suo profumo, la sua pelle, mi sembra di essere tornata a casa, mi ricordo ogni centimetro della sua pelle. Le sensazioni che mi provoca sono sempre le stesse, mi basta sfiorarlo per sentirmi persa. Vorrei fondermi nel suo abbraccio. Accarezzo ogni sua cicatrice come fosse un gioco, questa c’era, questa anche, questa non me la ricordo, raccontami la sua storia. Le mie dita scivolano leggere sul suo corpo precedendo le mie labbra. Vorrei poter risanare con i miei baci ogni traccia dolorosa. Sento di amare quest’uomo più della mia stessa vita. Tutti quei discorsi da quattro soldi sulle due metà della mela che si devono incontrare per vivere felici sono veri, è tutto vero. Forse funziona solo per qualcuno, forse sono stata fortunata, in ogni caso ho trovato in Rossano la mia metà, il mio rifugio, la mia casa. Prende il mio viso tra le sue mani e mi bacia con ione, mi stringe a sé, esplora il mio corpo con le sue mani smaniose. Facciamo l’amore con gesti ripetuti mille volte e mai superati, gesti di cui avevo una nostalgia immensa e che mi riportano alla vita. Li ho vissuti veramente questi anni senza di lui o sono stati solo un incubo? Non so
distinguere la realtà dal sogno ma non importa.
Tienimi stretta amore, voglio solo stare un po’ qui, godermi questo momento. Dopo prepareremo la nostra cena, mangeremo e parleremo. Dopo, sì. Ora lascia che io riposi tra le tue braccia, solo qualche minuto. Stringimi e veglia su di me.
CLARA
Marina non c’è più. Così. Semplicemente ha scelto di andarsene. Da sola, stanotte. Io non riesco a crederci. Sono ata da lei a metà mattinata come sempre e lei non c’era più. Ho trovato i suoi parenti nella sua camera, Michela, seduta sul letto, era l’unica in lacrime. Mi ha vista, si è alzata per venire da me ma io sono corsa via. Sono corsa al piano terreno, so dove andare quando succedono queste cose, questa è casa mia. L’ho trovata nella prima camera mortuaria, era lì distesa sul tavolo di acciaio, in attesa di essere ricomposta per la sua ultima cerimonia. L’ho presa per le braccia, l’ho scossa, ho urlato il suo nome con tutto il fiato che mi restava in gola. Nulla. Non ha risposto. E come avrebbe potuto? Mi sono seduta accanto a lei e le ho chiesto perché. Sono rimasta fino a quando sono arrivati quelli dell’agenzia e mi hanno chiesto se ero una parente. Ho risposto di no e sono uscita. Perché è così, non sono una parente, sono molto di più. Uscendo in lacrime ho incontrato Michela. E se già ero distrutta lei mi ha annientata. Pare che sul suo comodino le mie colleghe abbiano trovato un flacone vuoto di sonniferi. Come dicevo prima ha scelto lei di andarsene. E io che credevo di esserle amica non sapevo nulla. Avevo altri mille programmi per noi. Avevo cose da dirle, abbracci da darle, regali da consegnarle. E non sarà più possibile, non lo sarà non perché il fato me l’ha portata via, ma perché lei ha voluto andare via. Non ci credo. Ma le mie colleghe confermano tutto. Non ci sono biglietti, non c’è nulla che potesse destare sospetti o anche solo preoccupazioni. Non ho bisogno di chiedere ferie, trovo già il foglio firmato appeso con lo scotch al mio armadietto.
Bisy mi sta guardando preoccupata, se potesse parlare mi direbbe di smettere di bere, se ne avesse la facoltà mi chiederebbe cosa mi sta succedendo. Bella domanda. Cosa mi sta succedendo? Vorrei saperlo anch’io. Cos’è successo? Perché è andata così? Sono devastata. Credevo di potermi fidare di lei, credevo che andasse tutto bene, credevo che sarebbe durata per sempre. Ora sono troppo arrabbiata per poter riflettere, vorrei averla qua per poterla colpire, per poterle fare del male, almeno quanto lei ne ha fatto a me. No, non è vero. Vorrei poterla abbracciare, vorrei tenerla stretta, vorrei chiederle perché. Perché? Perché? Non mi sono mai sentita tanto sola. E’ vero che sono sempre le persone più vicine a ferire maggiormente. Io ho sempre vissuto evitando di fidarmi degli altri, sono rare le persone a cui ho aperto il mio cuore incondizionatamente. Ma lei era una di queste, lei era la mia numero uno, lei aveva sostituito la mia famiglia, lei era la mia amica, la mia mamma, la mia sorella maggiore, la mia maestra. Non doveva lasciarmi così. Non doveva. Bisy si struscia a me, vuole un po’ di attenzioni, ma io non ho la forza di dargliele. Forse vuole distrarmi ma non sarà così facile. La prendo in braccio, la bacio sul musetto ma continuo a piangere e a singhiozzare. Lei si spaventa un po’, non capisce. Ho bisogno di tutte le mie forze per alzarmi e riempirle il piatto di pappa. Nello spostarmi sbatto contro l’anta dell’armadietto. Non mi fa male ma vedo un rivolo di sangue che mi sporca la maglietta. Allo specchio vedo che mi sono procurata un taglio notevole sulla fronte, i capelli sono ormai tutti imbrattati di sangue, il meglio che riesco a fare è bagnarmi le tempie, lavare via il sangue. Ma non serve perché continua a uscire. Non riesco più a tenermi in piedi, neanche aggrappandomi al lavandino. Non dovevo bere così tanto. Sto scivolando. Qualcuno ha spento la luce. Non ce la faccio a rialzarmi. Non ne ho neanche voglia. Ho bisogno di chiudere gli occhi solo per un po’.
Qualcosa mi solletica il naso, faccio uno sforzo immane ed apro gli occhi sul musetto di Bisy che fa le fusa per svegliarmi. Strano, sono nel mio letto, non ricordo di esserci arrivata. Però ricordo lo scontro con l’anta del mobiletto ed istintivamente porto la mano in fronte, c’è un cerotto e non ricordo di averlo messo. Sono distrutta, mi sento come fossi stata investita da un autotreno. Mi guardo le mani, tremano più del solito. Mi ritorna tutto in mente e vorrei chiudere gli occhi di nuovo, riaddormentarmi e svegliarmi tra sei mesi. E non me ne frega niente di chi mi ha messa a letto, non lo so e non voglio saperlo, magari mi ci sono trascinata, magari mi sono messa il cerotto in fronte e poi mi sono trascinata a letto ma avevo bevuto talmente tanto che non ricordo nulla. Non lo
so. Adesso è l’ultimo dei miei problemi. Mi spiace per Bisy ma io non me la sento di rialzarmi, dovrebbe avere ancora qualcosa nella sua ciotola. Povera piccola, dovrà di nuovo darmi una zampa per ricostruirmi… Sento dei rumori di là, c’è qualcuno in cucina? Dei i, l’acqua che scorre, devo preoccuparmi? Sono in queste condizioni pietose e devo anche preoccuparmi perché c’è qualcuno in casa??? Cos’ho fatto di male? Il mondo intero mi vuole punire? Non posso stare qui nell’incertezza, devo andare a vedere. Mi metto seduta nel letto e già la testa mi sta per scoppiare. Non mi sorprendo nel vedere che indosso il pigiama, se ho avuto la forza di trascinarmi qui e di mettermi il cerotto in fronte posso benissimo anche aver indossato il pigiama… Mi appoggio al letto, ai comodini, ai mobili e riesco in qualche modo ad arrivare alla porta della cucina. Mi affaccio. Mia mamma è al lavandino e mio fratello è seduto al tavolo. Strabuzzo gli occhi, sto sognando? Sto ancora dormendo? Che succede? Riapro gli occhi e loro sono ancora lì. Non mi hanno sentita. Vorrei tornare indietro e infilarmi di nuovo sotto le coperte ma la mia testa non è ancora pronta ai movimenti bruschi, mi si annebbia tutto e scivolo a terra rovinosamente. Nello stesso attimo due teste si girano verso di me. Beccata. Mi aiutano, mi sorreggono, mi riportano a letto. “Non ti preoccupare, ti aiutiamo noi, appoggiati a me, così…” Non rispondo, sono così frastornata che mi mancano le parole. Mi appoggio a Gianni e mi lascio guidare. Avremo tempo dopo per chiarire, ora riesco solo a pronunciare un “grazie” prima di ripiombare nel buio.
E’ buio anche fuori quando riapro gli occhi. Mi sveglio perché sento che qualcuno mi sta toccando, c’è un dottore seduto sul letto, mi sta misurando la pressione e sta dicendo che è molto bassa, che se non si rialza e si stabilizza entro 24 ore dovrà firmare il foglio di ricovero. Sento le sue parole attraverso la nebbia della mia mente. Gli occhi mi si richiudono, so che dovrei reagire ma non ce la faccio. Reagire vorrebbe dire affrontare la realtà, scontrarmi con la morte di Marina. Non voglio. Non riesco a superare la cosa. Non riesco ad accettarla. Voglio solo dimenticare, galleggiare in questa nebbia per tutto il tempo che mi serve. Anche per un tempo infinito se occorre.
Il sole filtra dalla finestra. E’ una bella giornata, non so se rallegrarmene o no. La mia mente vorrebbe stare al buio, nascosta per sempre. Ma il mio corpo ha voglia di opporsi a questa immobilità forzata. Ho fame e mi vergogno. Non mangio nulla da due giorni e non volevo mangiare più per tutta la mia vita. E ora ho fame. Anche se non voglio dovrò accettare che la mia vita continui. Guardo l’orologio, sono le dieci. Le dieci di una assolata mattinata di settembre. Mi alzo e vado alla finestra. Bisy è seduta sul davanzale, la prendo in braccio e insieme guardiamo il mondo fuori. Le lacrime scendono silenziose. E’ giunto il momento di affrontare la realtà. Mia mamma entra in camera e ci trova abbracciate alla finestra. Ha paura di avvicinarsi, come se si aspettasse una reazione malevola da me, non ha ancora capito che non potrei mai, che non sono più quella di una volta. Lascio Bisy e mi avvicino io a lei per abbracciarla. Senza parole, solo lacrime e singhiozzi, finchè ci sentiamo prosciugate. Poi ci sediamo sul letto e lei mi dice “Se ti senti pronta, io e tuo fratello dobbiamo parlarti di Marina”. Marina? Marina??? Non sapevo neanche che la conoscessero. Che scherzo è questo? Cos’hanno architettato alle mie spalle? Come ha potuto Marina complottare con la mia famiglia tenendomi all’oscuro di tutto? Non so più cosa pensare. Mio fratello è entrato in camera, neanche fosse stato dietro la porta ad origliare. In piedi davanti a me mi prende il viso tra le mani e mi asciuga le lacrime. Non mi toccava da anni, non ricordo l’ultima volta che l’ha fatto, e ora, in questo gesto, mette tutta la tenerezza di cui è capace. Non è possibile. Cosa sta per succedere? Quale altro macigno sta per abbattersi su di me? “Clara, ti prego, stai seduta e ascoltaci. Fino alla fine, senza interrompere. Dacci la possibilità di spiegarti tutto con calma. Non giudicare finché non ti sarà tutto chiaro. In questo momento ti starai chiedendo come ci siamo conosciuti con Marina. Per noi è stato sorprendente sapere che tu le hai raccontato di noi, sapere che non ci avevi cancellato dalla tua vita e che avresti avuto bisogno di noi. Credo che lei abbia preparato tutto con cura, noi non le abbiamo chiesto alcuna spiegazione, era la condizione che ci ha posto il giorno stesso che ci ha contattati. E’ stata lei a rivolgersi a noi poche settimane fa. Immagino che tu, parlandole di noi, le abbia detto qualcosa che le ha permesso di rintracciarci. Ci siamo visti solo un paio di volte. Ovviamente
non ci ha mai parlato delle sue reali intenzioni, ci ha spiegato che doveva partire per qualche mese e che non aveva il coraggio di dirtelo. Ci ha cercati per non lasciarti sola dopo la sua partenza. Noi non avevamo nessun motivo per dubitare delle sue parole. Mai, neanche per un momento, abbiamo nutrito dei sospetti. Solo ora sappiamo che la sua partenza era definitiva. Adesso ci rendiamo conto che c’era qualcosa di strano in lei, una sorta di inquietudine che cercava di nascondere. Ma rendersene conto ora non serve più a nessuno. Sono due giorni che mi chiedo perché, mi chiedo se potevo fare qualcosa. Forse, se avessimo insistito nel chiedere una spiegazione, sarebbe crollata, avrebbe confessato. Ci avrebbe almeno dato una motivazione. Ecco, se mai tu dovessi arrivare al motivo per cui l’ha fatto, ti prego di dirlo anche a noi. Lo so che un paio di incontri non bastano per conoscere una persona ma Marina era una donna straordinaria, non voglio pensare che ci abbia solo usati. Intanto il suo primo merito è stato quello di riavvicinarci, basta questo per accordarle la nostra fiducia. La prima volta che ha telefonato credevo che fosse uno scherzo, non capivo dove voleva arrivare e mi sembrava strano che una signora anziana perdesse il suo tempo in scherzi telefonici come una ragazzina. Forse è per curiosità che ho accettato di vederla la prima volta, anche perché al telefono non aveva fatto cenno di te. Aveva solo chiesto di vedere noi due, io e la mamma. Non sapevo chi fosse, ci siamo incontrati nella saletta di un bar, come le coppie clandestine, con la sola differenza che noi eravamo in tre. Ci ha conquistati subito, non ha avuto bisogno di artifici, bastava la sua presenza. Certo, non ha senso che io lo dica a te adesso, tu la conoscevi bene, tu sai quanto fosse ostinata e quanto sapesse rendersi irresistibile. Lì, in quella saletta, ci ha parlato di te, di voi due, della vostra amicizia. Si sentiva responsabile per te. Insisteva nel persuaderci che tu eri un’altra persona da quella di prima, voleva essere certa che noi ne fossimo convinti. All’inizio sembrava che ci parlasse di un’altra Clara, non ti riconoscevo in quella che lei esaltava. Poi, piano piano, ho cominciato a vederti con i suoi occhi, a riconoscere la bambina che era mia sorella. Mi sono rilassato e ho deciso di assecondarla. Dopo averci parlato di te per oltre due ore è arrivata al punto. Il punto era una richiesta per noi. Come ti ho già detto lei ci ha parlato di una sua imminente partenza, ha affermato di odiare gli addii e ci pregati di consegnarti, dopo il commiato, una busta che lei stessa avrebbe preparato. Nel congedarsi ci ha esortati a prenderci cura di te perché era certa che tu ne avresti sofferto molto. Ha detto che tu avresti avuto bisogno di noi e che eri impaziente di rientrare nella tua famiglia. Ha detto che se non ci avevi ancora chiamato era perché temevi una nostra reazione negativa, perché non avresti retto a un nostro rifiuto. Ci ha posto soltanto una condizione: quella di non parlarti del nostro incontro prima della sua partenza. Abbiamo accettato senza pensarci troppo su,
senza porci troppe domande. Ci siamo rivisti una seconda volta nello stesso bar per la consegna della busta che, in realtà, era un pacco marrone. Non ci ha lasciato recapiti, ha detto che sarebbe stato meglio così. Poi tutto è precipitato. Ieri un dottore ci ha avvisati e siamo corsi qui. Ti abbiamo trovata a terra, nel bagno. Per fortuna non avevi chiuso a chiave la porta di ingresso, questa tua pessima abitudine forse stavolta ti ha salvato la vita. Avevi una brutta ferita in fronte, puzzavi di alcool e il sangue ti aveva ormai imbrattato tutti i capelli. Ti abbiamo ripulita alla meglio, ti abbiamo infilato il pigiama come quando eri piccola, e ti abbiamo messa a letto. Poi abbiamo chiamato il dottore e siamo rimasti qui, dandoci il cambio e aspettando che ti svegliassi. Chiedendoci che cosa ti avremmo detto una volta sveglia. E ora le parole scorrono come fiumi. Per questo ti ho chiesto di non interrompere, per paura che questo flusso si fermasse. C’è ancora una cosa che voglio dirti: Marina verrà sepolta domani, i nipoti hanno richiesto l’esame autoptico ma le autorità giudiziarie hanno respinto la loro richiesta, accertando che si è trattato di suicidio. Se vuoi presenziare ti accompagnerò, ti rimarrò vicino. Credo di non aver parlato così tanto con te dai quando eravamo bambini. Ora che credo di averti detto tutto puoi parlare, puoi dirci tutto quello che ti a per la testa. Noi capiremo. Non so se avremo delle risposte per te ma ti saremo vicini se tu lo vorrai.”. Ora posso parlare… Per dire cosa? Sono totalmente sbalordita da questa confessione, sconvolta. Vorrei parlare ma non so che dire. Cosa si dice in questi momenti? Esiste una frase, una espressione adatta a un momento come questo? Se esiste non la conosco. Rimango in silenzio, con mille pensieri che si accalcano nella mia mente, ognuno di loro vorrebbe uscirne fuori ma io rimango in silenzio. Mia mamma viene vicino a me e mi prende la mano, sento la sua mano calda ma non la vedo. Davanti a me c’è Marina, io la guardo e non dico nulla. Sembra una regina con quel suo fisico snello, quei suoi capelli grigio chiari, quel suo vestito grigio che le piaceva tanto. Sembra una signora altezzosa se non la conosci ma se la conosci sorride e quel suo sorriso ti apre il suo mondo, ti scalda il cuore, ti permette di rinascere. Le sorrido anch’io e ricomincio a piangere. Credevo di averle finite le mie lacrime, di essermi prosciugata, e invece rieccole che scendono copiose sulle mie guancie. Sempre in silenzio. Finché una domanda si fa largo tra i miei pensieri: il pacco marrone! Dov’è il pacco marrone? Prima che io lo chieda Gianni si è già alzato per prendere un pacco che era
nell’angolo di fianco al comodino. Non l’avevo visto. Lo deposita sul letto vicino a me e subito dopo si allontana, anche mia mamma si alza ed escono insieme dalla mia camera. “Ti lasciamo sola, se hai bisogno di noi siamo di là”. Siamo rimaste io e Bisy, sole in questa camera che non mi è mai sembrata così grande come in questo momento. Sole con questo pacco marrone che nasconde troppi segreti. Bisy si avvicina al pacco, lo annusa e poi ci si strofina. Forse vuole dirmi che non devo averne paura. Resta qui piccola, resta vicino a me, apriamolo insieme. Slego il nastro che lo chiude, faccio piano perché non voglio rovinare nulla e perché ho paura di quello che ci troverò. Stacco con cura lo scotch, apro la carta da pacchi e la ripiego su se stessa come se dovessi riutilizzarla. Ne esce una scatola bianca, sembra una anonima scatola da scarpe, solo un po’ più grande, come se avesse contenuto degli stivali. Per fortuna è chiusa con il suo coperchio. Non sono ancora pronta per aprirla. Devo prima piegare il nastro e riporlo insieme alla carta. Devo prima ordinare le magliette che ho lasciato sulla sedia. Devo prima spolverare i comodini. Devo prima rifare il letto. Dovrei fare la lavatrice ma non voglio uscire dalla mia camera. Devo prendere il tempo che mi serve. Con calma. Un lungo e profondo respiro. Tolgo il coperchio. All’interno c’è una busta bianca con scritto il mio nome in corsivo, l’ha scritto lei. Non la apro, voglio prima vedere tutto quanto. C’è un’altra busta più grande, di quelle gialle che si usano per i referti ospedalieri. C’è un pacchetto che riconosco, sono le lettere del suo Rossano. Mi aveva detto “se mai dovessi andarmene tienile tu”, sono la sola a conoscere la sua storia. Ci sono delle foto, le nostre foto insieme e le foto che lei aveva in camera. C’è la cornice con la foto di Isadora Duncan. E c’è il romanzo di Marc Levy “Se solo fosse vero”. Credo che non abbia messo queste cose a caso, anzi penso che abbia dato loro un ordine ben preciso, un ordine che io devo seguire fin dall’inizio. Rimetto tutto dentro, la cornice, le foto, le lettere di Rossano, la busta gialla. Rimane la busta bianca con il mio nome, la prima che ho visto aprendo la scatola. La prima che devo aprire. Ci sono due fogli, scritti a mano con la sua calligrafia inconfondibile, piccola e precisa.
“Ciao Clara. Mi trema la mano in questo momento, sto pensando a quale sarà il tuo stato
d’animo quando leggerai questa lettera. Probabilmente sarai arrabbiata con me e come darti torto? Ti starai ancora chiedendo perché? Ti chiedo scusa per questo, per averti tenuta all’oscuro. Per non aver commentato quel tuo sogno premonitore, è stato molto difficile minimizzare quello che mi stavi raccontando. Credo che in questa lettera ti chiederò scusa almeno una decina di volte. Cerca di perdonarmi, io tengo tantissimo a te, sei l’ultima amica che mi rimane. Non ti ho detto nulla perché avresti cercato di farmi cambiare idea e io non volevo discutere. Ho preso questa decisione perché è l’unica cosa che mi resta da fare però è difficile, ho paura di morire. Ho paura che parlandone con te avrei rimandato e poi non ce l’avrei più fatta. Ho deciso di farlo in modo soft, ho mandato Michela in farmacia per i sonniferi, spero che non si senta in colpa e spero che nessuno la rimproveri per questo. So di averla messa in mezzo ma non avevo altri modi. Scusami con lei quando avrai occasione di vederla. Prima di incontrarti questa decisione sarebbe stata più facile. Tu sei stata l’ultima gioia inaspettata, grazie a te ho scoperto che la vita poteva ancora farmi sorridere. Spero che adesso con te ci sia la tua famiglia, spero che abbiano fatto quello che ho chiesto loro. Li ho incontrati alle tue spalle perché avevo bisogno di condividerti. Tuo fratello e tua mamma mi sono sembrate due brave persone, ho letto nei loro occhi che ti amano. Sono sicura che i vostri problemi si risolveranno, non rinunciare a loro. Ti auguro di avere un vita lunga e serena, di incontrare un uomo che sappia apprezzarti come meriti, e ti auguro che tutti i tuoi amici che vivono con me possano non lasciarti mai come invece devo fare io adesso. Pensami ogni tanto, avrei voluto dividere con te tutti i momenti felici che vivrai ma non lo posso fare. La vita non va mai come si vorrebbe. Per questo motivo pensami ogni tanto e parlami, raccontami le tue cose, io non so se potrò sentirti ma se esiste un qualche Dio, se esiste una vita dopo questa, io sarò vicina a te e con me ci sarà Rossano e anche lui non potrà che apprezzarti. Lo sapevo. Ho iniziato con il preciso intento di spiegarti e sto divagando, sto scrivendo, e tu stai leggendo, da un quarto d’ora e ancora non ti ho detto nulla. Sarà perché non mi piace parlarne, se lo scrivo poi ci dovrò credere anch’io, dovrò farci i conti. Finché non lo scrivo posso ancora illudermi che non mi riguardi, una volta che l’avrò messo nero su bianco non sarà più così. Tu sai che da quando sono qui non ho mai voluto consultare un dottore diverso dal mio e sai anche che lui veniva da me periodicamente per i controlli, contravvenendo alle sue regole. L’hai anche visto una volta, quel signore alto, distinto con i capelli e la barba bianchi, e la borsa di pelle come nei film. Ci conosciamo da tutta la vita, e per tutta la vita siamo stati professionali, abbiamo mantenuto un rapporto cordiale e gentile, di stima reciproca, senza mai diventare amici. E’ un
uomo d’altri tempi, di quei dottori che ravvisano i sintomi prima che il paziente se ne accorga. E’ così che è andata. Così ho scoperto di essere malata. E’ stato circa tre mesi fa, ti ricordi quando ti dicevo che mi sentivo stanca? In realtà, anche se a te non l’ho mai detto, avevo delle fitte lancinanti alla testa. Lancinanti e improvvise. Già al primo incontro lui ha capito, l’ho visto allarmato, con troppa fretta mi ha prenotata per la TAC e mi ci accompagnata lui stessa. Quel giorno ti ho detto che sarei uscita con Michela e a lei ho detto che sarei uscita con te. Invece ero con lui in ospedale. Ho fatto ogni tipo di esame più o meno invasivo. E dopo una settimana ero di nuovo da lui per gli esiti. Per la prima volta ho visto i suoi occhi lucidi, non mi serviva altro per capire anche se lui ha voluto farmi vedere ogni cosa. Forse temeva che io non mi fidassi di lui, che io non volessi credere. Ma di chi avrei potuto fidarmi se non di chi mi conosce e mi segue da tutta la vita? E perché non avrei dovuto credere alle sue parole? Perché le cose brutte succedono sempre agli altri? Non è così, io lo so. O forse ha voluto illustrarmi le cartelle cliniche per sentirsi maggiormente a suo agio, nel suo territorio, perché non credo che sia facile dire a una persona amica che sta per morire. E’ la stessa cosa che io sto facendo ora con te. Se stai piangendo fermati e controlla le mie cartelle cliniche, sono nella busta marrone grande, ti ho lasciato tutto in ordine perché anche tu possa vedere le sue foto e vedere il motivo per cui ti ho lasciata quando ancora avevo la facoltà di deciderlo io. Me lo ha fatto vedere nelle foto della TAC, lo so che non si chiamano foto ma la sostanza non cambia, c’è una massa grande quanto una piccola arancia nel mio cervello. Come ci sia potuto nascere e crescere così florido, senza procurarmi disturbi, non è dato sapere. Rimane il fatto che c’è e che, ora sì, comincia a disturbare. E non è più asportabile date le sue dimensioni e la sua collocazione. Avevo già fatto una TAC prima di arrivare qui, quando si pensava che il mio crollo fosse dovuto a problemi neurologici, e non c’era nulla. Vuol dire che è nato e cresciuto qui. Mentre io ti conoscevo e tornavo ad apprezzare la mia vita lui cresceva, forse alimentato dalla mia stessa voglia di vivere. Il quadro che il mio amico, ora posso chiamarlo così, mi ha prospettato è desolante. Il male sta crescendo dentro la mia testa e avrà bisogno di spazio per farlo, quindi gli organi che nella mia testa sono di casa dovranno spostarsi per far posto al nuovo arrivato. Non ci sono anticorpi in grado di combatterlo e neanche con cento sedute di chemioterapia riusciremmo, non dico ad annientarlo ma anche solo a fermarlo. E’ troppo forte ormai. E questa sorta di lite di condominio tra inquilini che si contendono l’attico si traduce per me in emicranie feroci sempre più frequenti, finché arriverà a premere sul nervo ottico e perderò la vista tra dolori atroci. Potrebbe anche causarmi una paresi totale o parziale a seconda che decida
di spingersi a destra o a sinistra. Potrei perdere la memoria di me, della mia vita, are le mie giornate a chiedermi chi sono, chi sono stata, e questo per me equivarrebbe alla morte. Nella migliore delle ipotesi potrebbe indurmi ad uno stato vegetativo in cui non sentirei più il dolore. Tutto questo in un lasso di tempo pari a 4/6 settimane. Da quattro a sei settimane. Ovvio che non si possa essere più precisi. Dovrei parlare direttamente con lui per sapere quali sono le sue intenzioni. Ma se potessi parlargli vorrei dirgli altre cose. Prima lo ringrazierei per aver aspettato a rivelarsi permettendomi così di vivere serena quest’ultimo periodo. Non avrei mai pensato di poter giudicare serena la vita in un ricovero, però la mia serenità la devo a te. Alla nostra amicizia, alla nostra allegria e anche alla nostra tristezza. Poi gli chiederei ancora pochi giorni di tregua per prepararmi, per prendere tutte le decisioni che mi servono anche se quella più importante l’ho già presa e non ci torno su. Non gli direi che preferisco dirgli addio prima di esserci costretta, se io me ne vado firmo anche la sua condanna e non so come potrebbe reagire. Io credo che anche tu, sapendo quello che ti ho appena raccontato, saresti d’accordo con me. Non credo che mi vorresti vedere sofferente e sconfitta dalla malattia. Magari mi spingeresti a cercare altri responsi medici, a fare altre visite, a sperare ancora. Credimi, non c’è più alcuna ragione per sperare. Prima di parlare con me il mio amico ha interpellato parecchi suoi colleghi. Non c’è nient’altro da fare. Permettimi di mettere fine alla mia vita nel modo che mi sono scelta. Ho chiesto a lui di avvisare la tua famiglia quando succederà, non ha potuto fare altro se non acconsentire. Ti nomino erede e curatrice di tutti i miei beni, saprai cosa farne. Come sai non voglio che i miei cari nipoti abbiano nulla da me. Solo Michela potrà avere qualcuno dei miei gioielli, scegli tu quali, mi fido di te. Ho già disposto la tua nomina ufficiale con il mio avvocato perché non voglio che tu possa avere delle seccature. Potrai rinunciare a questo incarico, io ne sarò dispiaciuta ma comunque ti comprenderò. In quel caso la nomina erà all’avvocato stesso. Se vorrai potrai vendere anche la casa oppure potrai trasferirtici tu, magari con la tua famiglia. Oppure con la tua gatta che ami così tanto. Sai che prima di incontrarti non avevo mai fraternizzato con un gatto? Non ne avevo mai avuto il tempo. Avevo un cane da piccola che amavo come un fratello. Poi, con il mio lavoro non avrei potuto tenerne uno. Con Rossano avevamo programmato di prenderne due, una coppia, perché pensavamo che nessuno al mondo debba mai
stare da solo. La nostra casa in campagna, noi due e i nostri due cani. Poi sai com’è andata. Per fortuna sei arrivata tu e mi hai convinta a familiarizzare con la tua piccola. Una delle cose che più mi sono piaciute sono i pomeriggi a casa tua con la tua gatta sulle mie ginocchia. Che bello, sembrava di essere a casa. Grazie. Grazie per esserti avvicinata a me in punta di piedi, per avermi aiutata, per avermi costretta a vedere per la prima volta la tomba di Rossano, per essere venuta con me e per avermi sorretta in quei momenti. Grazie per avermi chiesto di parlarti della danza, grazie per avermi fatto scoprire la musica moderna e per il concerto di Tiziano Ferro. Grazie per la tua espressione meravigliata quando siamo entrate per la prima al teatro Alla Scala di Milano. Grazie per avermi permesso di accompagnarti al Pronto Soccorso quando ti sei fatta male, per una volta nella vita mi sono sentita madre e non mi è spiaciuto. Grazie per aver festeggiato con me il nostro compleanno, sono convinta che questo fosse un chiaro segno del destino. Grazie per avermi fatto conoscere la cagnolina Claretta e per la sua versione di peluche che mi hai regalato e che, spero, mi accompagnerà nel mio viaggio. Grazie per la tua amicizia. Vorrei restituirti solo un decimo di quello che tu hai fatto per me. Sappi che, dopo Rossano, tu sei la persona che ho amato di più in tutta la mia vita. Abbiamo avuto un solo anno per conoscerci ma è stato abbastanza. E ringrazio anche un po’ la vita per averci portato entrambe qui, in questo istituto, poco più di un anno fa. Se le nostre vite non fossero cambiate improvvisamente forse non ci saremmo mai incontrate. Perdonami per tutto il dolore che ti sto causando, sono sicura che ora hai capito le mie ragioni. Non ti preoccupare per me. Non sarò sola. Ora che ho riaperto il mio cuore Rossano torna spesso da me nei miei sogni, lui mi sta aspettando. Non sono più sogni di sangue e tragedie, sono momenti felici. E se non avrai un posto dove stare quando sarà il momento noi ti aspetteremo. Ma non succederà, avrai molti amici ad aspettarti, molti ex ragazzi che come me vorranno ringraziarti per ciò che hai fatto per loro. E non ti tormentare neanche per il modo in cui me ne andrò, non voglio soffrire, ho scelto i sonniferi proprio per quel motivo. Mi addormenterò sperando che qualcuno mi venga a prendere. Non ti nego che a volte sono assalita dall’angoscia, quella paura disperata che ogni essere umano prova quando realizza che dovrà prima o poi andarsene e che, in quel momento, sarà solo. Ma questo non cambia lo stato delle cose, da quando ho preso la decisione mi sento
anche più forte. Cosa rimane da dire? Credo ormai di averti detto tutto, non è facile scrivere una lettera sapendo che quando qualcuno la leggerà tu non ci sarai più. E’ fonte di quell’angoscia che ti dicevo prima. Quindi non voglio soffermarmi troppo su questo. Ti lascio la foto di Isadora, tu sai quanto ci tengo, sei la sola che l’ha riconosciuta, ti spetta di diritto. Dal giorno che sei entrata in camera mia la guardo con occhi diversi, forse le parlo anche di meno perché ora ci sei tu. Non lasciarla ai miei nipoti che potrebbero scambiarla per qualche starlette degli anni sessanta. Ti lascio anche le lettere di Rossano, mantieni il mio segreto e se Michela ti chiede del pacco che lei stessa mi ha consegnato dille che erano bollette, forse lei meriterebbe di sapere ma non voglio che questa cosa possa diventare un pettegolezzo. E’ solo mia, riguarda solo me. Le ho rimesse nello stesso pacco marrone, ho cambiato solo il nastro. Decidi tu cosa farne. Aggiungo anche le nostre foto insieme, sono importanti, non voglio che le trovi qualcuno che non ti conosce. E il libro di Marc Levy, tienilo insieme al tuo, sarà il nostro filo nascosto. Ho preparato tutto in anticipo per poter consegnare la scatola ai tuoi e perché so che, in base ai miei calcoli, quel giorno tu non sarai qui e quindi i primi a entrare in camera saranno degli estranei, non voglio che ci siano più oggetti a cui tengo particolarmente. Vorrei che prendessi tu anche il baule con i costumi di scena e le scarpette, tremo al pensiero che qualche bambino ci possa giocare. Tu sai che ogni oggetto che si trova in questa camera è stato scelto da me e corrisponde a un ricordo, un momento della mia vita. Ma se già mi sembrava piccola questa camera ora cosa posso fare? Devo ridurre ancora, devo infilare a forza i momenti più importanti della mia vita nella tua scatola e accettare la sorte che verrà riservata a tutto il resto. Salutare ad uno ad uno tutti gli oggetti che rimangono e non pensarci più. Ho ancora un favore da chiederti: avvisa tu il nostro amico Aldo, ma fallo con la dovuta cautela, digli che è stata una mia scelta, digli che la sua amicizia per me è stata importante e che non lo scorderò.
Ho cercato di anticipare e di rispondere a tutte le domande che potresti farmi.
Ma la risposta per tutte è una sola, sempre la stessa: fidati di me, sto facendo la cosa giusta. Asciuga le tue lacrime e vivi la tua vita. Ciao amica cara.”
Asciuga le tue lacrime e vivi la tua vita. Ok. Non credo che ci riuscirò a breve ma tenterò. Non so che ora si è fatta, mi sembra di aver rivissuto l’ultimo anno della mia vita, invece non sono ate che poche ore. Mia mamma si affaccia e mi chiede se ho fame ma io ho lo stomaco chiuso, non mangio e lei non insiste. Bisy si è addormentata sul letto di fianco a me, ogni volta che mi sposto lei si sveglia e mi guarda, poi si rimette giù. E ora? Mille domande si affacciano nella mia mente, come se non riuscissi più a vivere senza di lei. Di là c’è la mia famiglia ritrovata, accanto a me c’è la mia piccola Bisy, fuori c’è il mio amato lavoro e i miei nonnini che mi aspettano. Dentro di me c’è il solito tremore con cui convivo da anni. E’ tutto come prima, anzi meglio di prima. Eppure mi sento come se mi avessero strappato il cuore, come se nulla avesse più importanza. Siamo state insieme solo un anno, non può avermi condizionato la vita così. Ma l’ha fatto. Non posso accusarla di nulla, è stato l’anno più bello della mia vita. Non lo dirò a mio fratello o a mia mamma ma lei è stata e sarà sempre la persona più importante della mia vita. Sarà difficile vivere senza di lei. Mi sento stanca, non ho voglia di vedere nessuno e non ho voglia di parlare con nessuno. Consegno a Gianni i numeri di Aldo e del Tenente Riccardi e lo prego di avvisarli. Chiedo a mia mamma di occuparsi della pappa di Bisy e mi rimetto a letto. La ferita in fronte mi pulsa e mi fa male. Domani vedremo cosa fare. Domani c’è il funerale e non posso mancare. Scivolo in un sonno profondo e agitato.
Epilogo
CLARA
Ho avuto bisogno di una decina di giorni per rendermi presentabile. Al funerale ero accompagnata e sorretta da mio fratello ma non ricordo nulla. So che Michela è venuta a salutarmi, so che tra i parenti era l’unica a piangere, so che c’era Aldo accompagnato da suo figlio, e Riccardi con Rossana, so che avevo 40° di febbre e alla fine mi sono accasciata tra le braccia di Gianni. Siamo stati al pronto soccorso e mi hanno trattenuta per qualche giorno. Nonostante le cure di mia mamma la ferita in fronte si era infettata e la febbre non voleva saperne di abbassarsi. Non ho molti ricordi della mia permanenza in ospedale perché la mia percezione della realtà oscillava. Mi sembrava di essere sospesa in un universo attutito e nebbioso. Ho solo due ricordi di quei giorni, il primo è Marina, era accanto a me al mio risveglio, sono riuscita a salutarla come volevo, è stato un arrivederci, non un addio. C’era Rossano con lei, stringeva le sue mani come per impedirle di fuggire. Ma lei non voleva fuggire, lei era esattamente dove voleva essere da oltre trent’anni. E’ stato un momento sereno. E mentre svaniva il viso di Marina un altro prendeva forma davanti a me. Il viso dell’infermiere che avevo già incontrato altre volte in ospedale. Da quel giorno non mi ha più lasciata. Questo è il secondo ricordo. Ci siamo scambiati i numeri e ora ci vediamo o sentiamo quasi tutti i giorni. Ci sto andando coi piedi di piombo però non escludo che possa nascere qualcosa di più profondo. Si chiama Paolo e potrebbe diventare il mio Rossano. Con lui mi sento a mio agio, conosce perfettamente la mia cartella clinica e non si stupisce se a cena mi faccio versare da bere. E’ gentile, tenero, si preoccupa per me e per la mia vita, ed è un bel ragazzo, il che non guasta. Sono ati più di tre mesi da quando Marina non c’è più e sono convinta che Paolo sia un suo regalo per rendermi la vita più leggera. Al lavoro sono stati tutti comprensivi, i responsabili, le colleghe e gli amici rimasti. Mi vogliono bene e me lo dimostrano in ogni momento, per me è stata
una sorpresa. Non dico che non me lo aspettassi ma non ci sono abituata. Ho dovuto rinunciare al torneo di Capodanno ma alcuni miei colleghi hanno voluto organizzarlo ugualmente per non interrompere la tradizione. Mi è stato riferito che il brindisi di mezzanotte è stato dedicato a me. La camera di Marina è ancora vuota, con le sue pareti rosa a parlare di lei. Per fortuna è troppo grande e nessuno la vuole perché la retta mensile è troppo alta. A volte entro e mi appoggio al muro, chiudo gli occhi e immagino di sentire la sua musica, di vederla seduta in poltrona, di sentirla raccontare la sua vita. Credo che prima o poi le pareti verranno di nuovo imbiancate, magari metteranno due letti e diventerà una camera per due per dimezzare la retta, non è sicuramente vantaggioso tenerla vuota. Spero che succeda il più tardi possibile perché ho ancora bisogno di respirare la sua aria. Il baule coi vestiti di scena è a casa mia, non c’è stato bisogno di insistere con i suoi nipoti, una volta appurato che non c’erano gioielli o altri oggetti di valore il loro interesse si è dissolto in un attimo. Dentro ci ho infilato anche il pacco che mi ha lasciato con le lettere e tutto il resto. Lo apro solo quando siamo sole io e Bisy, non voglio condividerlo con nessuno per il momento. Ho preso anche i suoi cuscini, volevo che fosse esattamente uguale a com’era da lei. Ho tirato fuori solo le sue scarpette preferite e le ho appoggiate sui cuscini, hanno il compito di testimoniare il tesoro che c’è all’interno. A volte quando mi sento particolarmente sola le porto a dormire con me, altre volte i nastri di raso subiscono gli assalti della mia gatta in vena di scherzi ma lei sa che non deve rovinarle e non si spinge mai troppo in là. Ho preso anche la sua musica e mi sto apionando sempre di più alla danza classica. Chiudo gli occhi e lei è lì. Io sono Clara nello Schiaccianoci e lei la Fata Confetto. Ho appoggiato sul baule anche il romanzo di Marc Levy, rivolto verso la mia libreria, dove si trova il mio con il “grazie” di Agnese. Quando lo guardo mi sento meglio perché percepisco nettamente questo filo che ci lega e che non si spezzerà mai. La mia famiglia mi è rimasta sempre vicina, hanno rispettato i miei silenzi e ascoltato i miei sfoghi, non ringrazierò mai abbastanza Marina per avermeli restituiti. Mia mamma è stata da me per qualche giorno e Gianni chiama tutte le sere, mi chiede come sto e mi racconta del suo piccolino. Anche mia cognata mi
chiama tutti i week end per sapere se sono sola e se voglio are un po’ di tempo con loro. Ora che il rapporto con Paolo si sta intensificando hanno mollato un po’ la presa e mi marcano meno stretta per il timore di disturbare. Sto aspettando che l’avvocato convochi me e i suoi nipoti per il testamento, non ho ancora deciso cosa farò, ci penserò quando sarà il momento.
Primavera
CLARA
Stamattina si è posata sul mio davanzale una ballerina. La ballerina è un piccolo uccellino il cui nome scientifico è mocellina alba, ha le dimensioni di un erotto, è bianca e grigia e muove incessantemente la lunga coda come in una danza perpetua. Vola via quando apro la finestra per lasciarle un po’ di mangime ma torna subito appena richiudo. Bisy è qui con me, la sta guardando dai vetri e miagola come se l’avesse riconosciuta. Anch’io ho pensato subito a Marina, sarebbe bello se fosse lei, se fosse tornata per un saluto. Non ho mai creduto a queste cose ma, se esiste un aldilà, se esiste un’anima, quale migliore creatura per rappresentarla di un fragile uccellino che danza in questa fresca mattina di inizio primavera? Paolo sta dormendo di là, questa notte siamo stati insieme per la prima volta, non voglio svegliarlo, questo momento è solo nostro. Siamo rimaste a guardarla per più di un’ora, immobili per non spaventarla, finché non se n’è andata. Prima di spiccare il volo si è girata verso di noi. Mi piace pensare che fosse un arrivederci.
Paolo si è svegliato e ci raggiunge alla finestra, mi abbraccia di schiena e accarezza Bisy. Per la prima volta dopo tanti anni sono felice.
Ringraziamenti:
Grazie a Ada e a Daniela, per la pazienza e l’incoraggiamento.
Grazie a Bruno per le belle parole della prefazione.
Un pensiero a tutte le vittime di quegli anni folli e ai loro famigliari.
Non esiste una strage giusta da qualsiasi parte la si voglia guardare.
Grazie ai lettori, per la seconda volta, spero di non deluderVi.
INDICE:
Prefazione
Autunno
Inverno
Primavera
Estate
Autunno
Inverno
Epilogo
Primavera
Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale.
Titolo | Il filo che ci lega
Autore | Graziella Dotta
ISBN | 9788891194640
Prima edizione digitale: 2015
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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