Orietta Ravenna
Il filo della danza
© 2015 Gilgamesh Edizioni
Via Curtatone e Montanara, 3 – 46041 Asola (MN)
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Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-071-9
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Testo e illustrazioni di
In copertina: elaborazione grafica di Matteo Bruni di un’opera di Iris Dall’Aglio
© Tutti i diritti riservati
UUID: 978-88-6867-071-9
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Indice
Prefazione Domenica Il canto del maggio Teatro Augustus Scarpette Rosse Via Luccoli 33 Le donne Lydia Fotoromanzo L’ombra sinistra Il Clan Iris Magia L’isola Ut Unum Sint Il Brasile Isidora
Vittoria La Danza Terapia (ma questa è un’altra storia) ARCA Risveglio Musicale Aldo Messina La Casa Di Ruth Casa Circondariale Il paziente anziano Mio padre Il dono Il ritorno Danzarima La voce del silenzio Desiderio Appendice fotografica Ringraziamenti
“…il mio sguardo si apriva a nuove trasformazioni, attraverso il tempo diventa uno scambio di i di danza tra l’oggi e il domani”. Una vita intrecciata dai fili della danza, in ogni sua forma e manifestazione. Una vita periodicamente reinventata, affrontando con l’armonia i cambi di rotta che il destino le impone. Poi, la svolta definitiva. La danza non è più una ricerca personale ma diventa un’attività per gli altri: scopre la danzamovimentoterapia. Attraverso il racconto della propria vita fuori dagli schemi, Orietta Ravenna mostra la via per una nuova percezione di sé e per un risveglio verso nuovi orizzonti.
Orietta Ravenna, direttrice artistica dell’associazione Danzarima, ha una formazione di danza classica e contemporanea conseguita all’Accademia di Genova sotto la direzione di Ugo Dell’Ara. Diplomata Apid, Associazione Professionale Italiana Danzamovimentoterapia, ha collaborato con Alain Carré tenendo seminari in Francia. Svolge la sua attività in istituti sanitari, sia formando il personale sia interagendo personalmente con i degenti: ha collaborato, fra gli altri, con l’Università del Piemonte e con l’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Ha conseguito una licenza superiore in teologia alla facoltà di Bologna. È sposata con Gianni Dall’Aglio, icona nel panorama musicale italiano.
...DANZAVO E MI SENTIVO AVVOLTA IN UN ABITO LEGGERO COME UNA NUVOLA SOSPESA. QUESTA EMOZIONE PROVENIVA DAL PROFONDO DEL MIO ESSERE.
ODRY
A Gianni “Il dono è amore per la vita” Grazie, amore mio.
La mia vocazione ha origine nelle feste di compleanno di famiglia. Anziché mangiare la torta al cioccolato chiedevo che per favore spostassero il tavolo per poter danzare. La mia vocazione comincia quando ero molto piccola. Io sapevo che volevo danzare. Se non lo sapevo io, lo sapeva la mia pelle e ciò che non conoscevo di me... Così sono cresciuta, sapendo che quello che volevo era la “DANZA”.
Maria Fux
Prefazione
Orietta Ravenna: moderna espressione della scuola pitagorica. Pitagora (Samo, 570 a.C. circa – Metaponto, 495 a.C. circa), filosofo greco, matematico, scienziato, astronomo ha fondato a Crotone la prima scuola di musicoterapia. Questa prevedeva tre livelli di “iniziazione”. Il primo, il più basso, formava “ musici”, persone in grado di utilizzare gli strumenti musicali, il secondo abilitava ad essere “matematici” , capaci di capire i rapporti numerici delle armonie musicali ed al terzo giungevano “gli electi”, competenti nell’utilizzo della musica per guarire dalle malattie ed al tempo stesso per comunicare con Dio. Orietta nel suo volume “ l filo della danza” sembra proporci lo stesso percorso. Come la ballerina dalle “scarpette rosse”, la Ravenna si avvicina naturalmente e istintivamente alla musica. Tramite la danza ne apprezza i ritmi e le espressioni numeriche per giungere abbastanza presto alla prima rivelazione: “il primo gesto dell’uomo è stato certamente un movimento di elevazione, le braccia verso l’alto, in una comunicazione, forse una preghiera con il trascendente”. Si iscrive in teologia. Il Destino Le chiede poi la “ prova d’amore”, vuol sapere da Lei se è pura teoria o se c’è una Verità, con la V maiuscola. Se realmente la pelle non “è solo una parte del corpo ma il punto di contatto dove finisce l’io e comincia il noi”. Un rene, dalla forma stilizzata di un padiglione auricolare, è lo strumento che il Fato utilizza per la prova. Orietta ha questi organi che non le funzionano bene, è necessario un trapianto e quindi un donatore. Il rene di Gianni, suo marito, non ha una buona compatibilità con quello di Orietta ma “se due persone si amano, vibrano insieme ed i loro corpi, uniti in vibrazione simpatetica, risuoneranno armonicamente all’unisono”.
Una cosa è pensarlo, un’altra affermarlo ed ancora diverso è provarlo sui propri corpi. Loro ci hanno creduto, Gianni dona l’organo ad Orietta ed Il trapianto riesce. Non è solo teoria. Qui si comprende il senso della parte più toccante, da questo punto di vista la più bella, del libro di Orietta Ravenna. Si legge nell’introduzione “a Gianni. Il Dono è amore per la vita, grazie amore mio”. Orietta e Gianni verso il “Lambdoma” di Pitagora.
Aldo Messina
Domenica
Ho sempre amato la danza sino dal mio ricordo più antico. Mia madre Vittoria mi ha raccontato frammenti della sua vita a Pietrachetta, un paesino ai piedi del monte Cusna, nell'Appennino Tosco-Emiliano, che serba ancora il tragico ricordo dei ventiquattro civili morti nella strage del 20 marzo 1944, quando i soldati tedeschi spararono sugli abitanti inermi radunati in una piccola aia. Mia mamma viveva qui con la famiglia: erano tutti parenti e potevano contare sull'aiuto reciproco. Nonna Domenica, che ho conosciuto solo attraverso i racconti e una foto color seppia risalente ai primi del Novecento, era una donna del suo tempo. Ricordo che del suo ritratto mi colpirono gli occhi brillanti di una luce intensa: sono certa di aver colto in essi la ione che le proveniva dal profondo dell'animo. Lavorava in campagna, tagliando il fieno e portando al pascolo le capre, e accudiva la casa e i cinque figli, mentre il nonno era impegnato al fronte della Prima Guerra Mondiale. Quando mia madre non era ancora nata, durante un breve congedo, si ammalarono i due figli maggiori: nonostante l'aggravarsi improvviso delle loro condizioni, il nonno fu comunque costretto a rispettare l'obbligo di ritorno al fronte. Mentre si allontanava a piedi per raggiungere il battaglione sul colle, sentì in lontananza i rintocchi funebri delle campane: non sapeva che quelle funeste note erano dedicate ai suoi due figli, morti a causa della Spagnola, la terribile epidemia che stava allora mietendo molte vittime. Solo di recente ho appreso che quella tragica pestilenza si è diffusa attraverso militari mercenari assoldati per quella tragica guerra, spesso portatori sani del virus. Domenica amava quella difficile esistenza e, nonostante tutto, trovava anche il tempo per ballare, unico divertimento che si concedeva. Era una ballerina eccezionale, richiesta in ogni festa per la sua simpatia e allegria, era alta e vestiva in modo originale: si cuciva gli abiti, perché in quelle borgate disperse dell’Appennino si usava una forma di baratto fra persone in grado di confezionare artigianalmente abiti, scarpe e tutto ciò che poteva servire loro quotidianamente.
L'unico divertimento era incontrarsi il sabato sera e la domenica pomeriggio nelle diverse case delle borgate vicine, dove venivano organizzati incontri danzanti, allietati dalle orchestrine locali. In queste occasioni, nonna non mancava mai. Mia madre mi ha raccontato un aneddoto. Una sera, nonostante mio nonno non approvasse, Domenica si preparò e uscì. Dopo alcune ore, mio nonno Pasquino entrò nella casa dove c'era la festa e la vide mentre si divertiva. La rimproverò di fronte a tutti: “Domenica, mi avete disubbidito”. Detto questo, si avvicinò a lei e le diede uno schiaffo. Indicando la porta le ripeteva “anduma, anduma!”, ma la nonna non si scompose. Lo guardò risoluta e adirata e gli rispose, in dialetto: “adess'a cha mai da è asciaff à ballarò fina la fin”. E così fece. Mio nonno, che aveva ottenuto una dispensa papale per sposarla in quanto primo cugino, non poté fare altro che rassegnarsi. Domenica aveva nel DNA la ione per la danza e l'avversione verso ciò che era normalità e consuetudine. Non mi è difficile riconoscere in me lo stesso ardore. Sin da piccola ho sentito una strana attrazione per il suo nome: nel mondo cristiano, rappresenta il giorno consacrato al Signore e, nella tradizione egizia, la vita del Sole. Non credo che ci potesse essere un nome più azzeccato per una donna dal carattere forte e, allo stesso tempo, profondamente spirituale. Sarà vero che il nome racchiude in sé il destino di chi lo porta?
Il canto del maggio
Sempre a Cervarolo incontravo i primi fili della danza: ballare mi dava una gioia incontenibile e, nelle calde giornate estive, le mie cellule si immergevano in una girandola estatica. Il sole declinava dietro la montagna vestita di nastri verdi multicolori, illuminati sino al crepuscolo solenne, mentre il vento portava con sé i suoni lontani di una fisarmonica. Le note erano quelle del “canto del maggio”, una rappresentazione popolare con tema tragico ma conclusione lieta, quasi sempre imperniata sulla lotta tra il bene e il male: si svolgeva spesso nelle aie, grazie ad attori chiamati “Maggiarini”, ed è una tradizione che tuttora resiste. Questa manifestazione vanta antichi natali in terra toscana: Boccaccio ne ha parlato nelle sue opere e, soprattutto, si racconta che Dante abbia conosciuto Beatrice proprio durante il Maggio Fiorentino. Nel calendimaggio a Firenze si cantavano canzoni chiamate “maggi”, recitate da giovani con ghirlande di fiori in testa che si incontravano nei rioni e nelle campagne, improvvisando danze di primavera. Assistevo con grande interesse al racconto di quelle eroiche imprese. Finita la rappresentazione iniziavano le danze e i Maggiarini ballavano con tutte le paesane. Io andavo sempre a chiedere il ballo all'eroe e lui, vedendomi così determinata ed entusiasta, accettava l'invito prestandosi a nuovi giri di danza. Ero felice, appagata da quel ballo che continuava poi con mio zio Aldo, grande ballerino di tango. Era un uomo distinto, mio padrino di battesimo e mi amava molto: quando eravamo a Pietrachetta, spesso andavamo in montagna in cerca di funghi e lui mi insegnava il modo corretto di raccoglierli, rispettando l'humus del bosco e delle spore, che non devono essere strappati con violenza, in modo tale da consentire al terreno di compattarsi. Dopo aver staccato il fungo, lo zio Aldo usava un coltellino per risistemare gli strati del terreno. Facevamo molte cose insieme, ma a unirci davvero era l'amore per il ballo. Lo vedevo sempre nelle sagre di paese volteggiare in un valzer o in un tango tenendo fra le braccia una delle sue ballerine preferite: zia Irene, sua moglie, o Vittoria, la sorella prediletta. In queste occasioni, lui mi sollevava facendomi roteare per tutta la sala e io, letteralmente, volavo dalla felicità. Purtroppo, morì giovane, vittima della stessa
malattia congenita che colpirà mia madre, zia Lucia e… me. arono così alcune estati dove ballare sulle aie era diventato un divertimento insostituibile. A Genova, durante l'anno scolastico, organizzavo festine con Lydia e mio cugino Remo: aveva qualche anno più di me e conosceva tanti ragazzi e ragazze che non mancava di invitare, oltre agli amici di scuola e del quartiere. Il divertimento era assicurato. Mio padre collaborava alla realizzazione di quei pomeriggi domenicali, allestendo tutto il necessario in una grande sala vuota al piano terra vicino al giardino. Abitavo in una villa vittoriana, in viale Bernabò Brea, insieme ai miei genitori, a Lydia e a sua madre, da poco arrivate dall'Africa. La casa era di due piani, con una torretta che si rispecchiava nel golfo verde giada del Tigullio; un grande giardino circondava tutto il perimetro, con siepi e filari di altissimi allori che sembravano proteggere ogni cosa, e ai lati si aprivano due palme da datteri come immensi fiori giganti, forti nella loro radicalità. Continuavamo quei pomeriggi, sotto la sorveglianza di mia madre, per natura precisa e autoritaria. Era lei a vigilare su di noi, a controllare anche gli improbabili imboscati dell'ultima ora, e a organizzare il momento del ristoro, con tartine e bevande, stando molto attenta a fare una bella figura. I balli sulle musiche in voga in quel momento erano immancabili. Trascorse le ore di sfrenato divertimento, sfinita, mi ritrovavo con Lydia per fantasticare: spesso andavamo in giardino, sotto un enorme albicocco dove i rami scendevano e ci circondavano, accogliendo nel loro labirinto incantato i nostri intricati pensieri.
Teatro Augustus
In quello stesso periodo, mio padre iniziava a gestire con Marzari, il noto attore dialettale genovese, il Teatro Augustus, dove periodicamente si esibivano cantanti famosi come Celentano, Morandi e Dalla. In uno di questi spettacoli ho incontrato per la prima volta il mio futuro marito, Gianni Dall'Aglio, allora batterista di Celentano e del gruppo “I Ribelli”: aveva solo 14 anni ma era già un mito. Il teatro proponeva in quel periodo le riviste di avanspettacolo diffuse in Italia dagli anni Trenta, dove il ruolo centrale era assegnato al capocomico, che intratteneva il pubblico con battute piccanti e doppi sensi, ma erano previste anche esibizioni di danza. Le ballerine, quasi sempre straniere, dividevano il palco con importanti comici come Carlo Dapporto, Totò e Macario. Le loro coreografie elaborate spiccavano grazie a movimenti sinuosi e fluidi, come nel caso della danza del ventre, dove fluttuavano in trasparenti veli, o piroettavano e facevano ampie spaccate in giri vertiginosi della tradizione cosacca, con variopinti costumi e colbacchi bianchi, oppure battevano con nacchere mani e piedi in un travolgente flamenco spagnolo. Dopo aver visto quegli spettacoli, mi chiudevo nella mia stanza e ripetevo ossessivamente le coreografie a cui avevo assistito, accompagnandomi con la voce e le musiche che ancora mi risuonavano in testa. A quel tempo, era tradizione a Genova portare in maschera i bambini al locale Il Ragno d’oro, dove veniva premiato il costume più bello e originale. Mio padre mi accompagnava a scegliere l’abito indicato per quell'occasione particolare e, una volta arrivati, si avvicinava all’orchestra e chiedeva di suonare un flamenco, se ero vestita da spagnola, oppure una musica orientale, se ero un'odalisca, o una melodia russa quando indossavo abiti cosacchi. In questo turbinio di musica e suggestioni, mi esibivo rappresentando il costume con la danza adeguata, in una personale coreografia. Immancabilmente vincevo il primo premio.
Scarpette Rosse
Il filo è l'antica simbologia del percorso della vita. Nel mio caso, i fili della danza nascevano dal bisogno di esprimere l'indicibile e iniziavano a dipanarsi, allungarsi, intrecciarsi e avvolgersi, portandomi a nuovi incontri e a nuove esperienze. C'era una volta… una bambina che amava danzare e che rimase letteralmente folgorata dalla visione del film Scarpette Rosse. Il film è tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen e racconta di una povera bambina che conservava tutti gli stracci di colore rosso che riusciva a racimolare per confezionarsi delle scarpette: erano molto grezze, ma a lei piacevano molto. Quando finalmente le terminò, le calzò con entusiasmo e soddisfazione. Iniziò a danzare, e danzare… Un giorno la vide fra la folla una signora molto ricca che rimase impressionata: mossa a comione, la prese con sé nella sua casa. Si occupò di lei, le diede da mangiare e le comprò abiti nuovi, buttando via tutti gli stracci che portava addosso, scarpette rosse incluse. Quando la bambina lo venne a sapere, la perdita del suo unico tesoro la intristì moltissimo. La protettrice, che tanto l'amava, la portò dal calzolaio del villaggio, un artigiano che lavorava con le sue artistiche mani il cuoio, dando forma a modelli originali. La bimba, come per incanto, vide esposte in vetrina un paio di luccicanti scarpette rosse: rimase ammaliata dalla forma e dal rosso scarlatto. La signora con amore gliele acquistò e la bimba subito le calzò. Il colore delle scarpette era troppo sgargiante e attirava gli sguardi di tutte le persone che incontrava. La piccola protagonista, ignara di tutto ciò che le stava attorno, iniziò a danzare per strade, paesi, valli e colline: continuava a volteggiare negli spazi infiniti come presa da fili immaginari che la spostavano nell'aria, trascinata nel ritmo della danza. Ella capì che questa esagerata, frenetica tensione verso l'infinito sarebbe terminata solo nel momento in cui avesse tolto le magiche scarpette rosse ma l'amore per la danza era superiore a qualsiasi scelta razionale e, di fatto, decise di non levarle mai più. Questa fiaba con la sua magia verso la danza ammagliò la mia fantasia e rimase
scolpita nella mia anima e nel mio cuore per tutta la vita. È iniziato in quel momento il filo “della mia piccola grande ballerina”.
Via Luccoli 33
Ho iniziato presto il mio percorso di danza classica a Genova, presso la prestigiosa scuola di via Luccoli 33 diretta da Mario Porcile, noto scopritore di talenti, tra i quali Vittorio Biagi e Paolo Bortoluzzi. Dirigeva questa accademia insieme a Ugo Dell'Ara, primo ballerino e coreografo del Teatro alla Scala. Insieme fondarono nel 1955 il primo festival internazionale del Balletto Italiano ai Parchi di Nervi. In questi primi anni di studio la mia maestra è stata la grande Maria Molina, insegnante della Scala e collaboratrice di Dell'Ara. Alcuni saggi della scuola venivano messi in scena al Teatro Carlo Felice di Genova, dove gli arredi erano splendidi: sedie in velluto rosso, palchi incorniciati con stucchi barocchi dorati, enormi lampadari di pregiato vetro di Murano pendevano dal soffitto ma, purtroppo, il palcoscenico e la struttura del palazzo avevano subito forti danni durante la guerra. Sono sempre vivi nei miei ricordi quei momenti, attimi incolmabili in cui rimanevo affascinata dalle enorme quinte che dividevano il proscenio dal palcoscenico nella vastità di quel magnifico teatro. Al debutto del mio primo saggio avevo l'animo colmo di speranze e aspettative. L'emozione di quella prima volta nel tutù bianco latte mi toglieva il respiro, ma ero incoraggiata dalla mia insegnante, che mi guardava con serenità, infondendo sicurezza nel mio piccolo cuore palpitante. Ero allora una piccola ballerina, calata nei ruoli colorati della Bottega Fantastica: io danzavo dando vita a quei giocattoli inanimati. Gli anni avano e i fili si intrecciavano con nuovi i e nuovi ruoli nei diversi balletti messi in scena dalla mia scuola: ero nel gruppo delle ballerine di fila ne La Bella Addormentata. In quel periodo, venivano rappresentati ai Parchi molti balletti romantici che proponevano nuove e incantate coreografie: fra questi, la più famosa è La Sylphide, che racconta di una creatura mitica, ultraterrena, amata da un mortale. Arrivavo a Nervi con il gruppo delle mie compagne per le prove del balletto e la
nostra attenzione era catturata dalla grande Margot Fonteyn. La storia danzata, romantica, racconta di un giovane poeta sognatore e di una figura magica incontrata nel bosco, che lo affascinava con le sue arti. In questo splendido quadro emergeva l'unico e grande interprete, Rudolf Nureyev, straordinario ballerino russo che durante una lunga tournée europea aveva chiesto asilo politico in Francia, iniziando così la sua favolosa carriera, prima con la Compagnia del Marchese di Cuevas e poi con il Royal Ballet. Ero rimasta affascinata da tanta bravura: danzare insieme a questi miti era come volare, stare sulle punte, assumendo posizioni eteree, rende inseparabili dalle creature sovrannaturali interpretate. Quanto stupore, quanta meraviglia nella mia prima esibizione con grandi étoile! Questa sensazione, questo sottile primo filo, mi ha condotto dentro la danza classica, attraverso le varie interpretazioni, con le loro figure mitiche e simboliche. Ero abbagliata dalle luci calde e dagli abiti multicolori che indossavo: entrare in scena e avere tutti gli occhi su di me era la mia più grande aspirazione. Sognavo di diventare una grande étoile ma, a causa di fili intricati e fatali, non avvenne. Comunque, posso dire “io ero là”. Cresce il mio corpo e con esso la voglia di fare nuove esperienze. Rimanevo estasiata dalla storia della danza come fosse legata alla storia stessa dell'uomo, mi catturava la trasformazione nelle varie epoche, e un nuovo filo mi porta verso la danza contemporanea e tutto ciò che esprimeva nella libertà corporea, così diversa dall'arte accademica: era il nuovo! In questo percorso sono rimasta folgorata da una frase del coreografo georgiano Balanchine, trait d'union fra il balletto classico e quello moderno: “Gran parte di ciò che sta alla base della danza contemporanea è frutto del lavoro di donne”.
Le donne
Le donne hanno avuto un ruolo importante per la ricerca di nuove strade nei periodi di crisi, hanno posto le basi per una grandiosa rinascita della danza per scoprire nuovi orizzonti, dove ogni parola è movimento come forma d’arte. Proprio nell’esperienza spirituale mi ritornavano le parole di una grande danzatrice: “Il primo gesto dell’uomo è stato certamente un movimento di elevazione, le braccia verso l’alto, in una comunicazione, forse una preghiera, con il trascendente, e dai primi movimenti sono nati altri gesti, vibrazioni verso l’identificazione con la stessa esistenza.” Questo pensiero della divinità, nascosta e trascendente, ha la mia spiritualità. Il ricordo ritornava alla mia adolescenza e all’iniziazione spirituale ricevuta tramite una meravigliosa donna, una suora che aveva le caratteristiche di un vero angelo: con lei ho incontrato Gesù. Insieme a suor Maria danzavamo in cerchio al suono della nostre preghiere: così mi accorsi che esistevano diversi modi per pregare e comunicare con il proprio corpo e con Dio. Questo incontro ha infuso alla mia anima armonia e amore, ed è nata in me la curiosità di approfondire i racconti dei Vangeli. Osservavo la meraviglia del creato nelle notti stellate e mi sembrava che tutto il cielo danzasse in armonia. Questi fili hanno anticipato l’incontro con la danzaterapia, senza ancora conoscerla. Stavo crescendo, incontravo l’amore verso l’altra metà del cielo. Camminavo e osservavo Genova, la mia città, ricca di stimoli, di arte fra piccoli e grandi spazi; la mia scuola di lingue era nella grande piazza Fontane Marose, vicino ai vicoli che portavano dal porto verso il centro storico, intrecciato nei vecchi caruggi e creuzè. Molte volte attraversavo la piazza e mi inoltravo in quegli spazi angusti, alla ricerca di profumi diversi che provenivano dalle case unite di questa città obliqua e medievale. Nel centro storico, al sabato, organizzavano mercatini dove vendevano ogni genere di merce improvvisata dagli abitanti dei borghi: mi incuriosivano e restavo ore a osservare quel via vai di persone arrivate dalle strade del mondo, portate da venti diversi, che facevano
apparire Genova una grande fucina d’umanità. In quel periodo frequentavo l’accademia delle belle arti e la scuola di Corrispondente Interprete in lingue estere presso il Berlitz School of Languages, una scuola privata con insegnanti madrelingua. Mio padre e mia madre lavoravano nella loro azienda, una lavanderia industriale sul porto, e le navi in transito rappresentavano la prima fonte di occupazione. Conoscere il se è stato fondamentale per permettermi di contrattare un nuovo appalto con la Compagnia Shell. Infatti, convinsi mio padre a mandarmi a Parigi, sede amministrativa della Shell, per presentare la nostra proposta studiata per la Cristoforo Colombo. A Natale di quell’anno, durante la vacanza a Sestriere, avevo conosciuto un ragazzo se, nei matinée danzanti ai Duchi D’Aosta: ballavamo insieme, mi piaceva, ed è nato un flirt durato tutto il periodo della vacanza. Mi aveva invitato ad andare a Parigi: ho accettato, unendo l’utile al dilettevole. Era la prima volta che volavo: sulle Alpi iniziarono spaventosi vuoti d’aria, elementi naturali sconosciuti alle mie emozioni. Sorvolando Orly, l’aereo ha iniziato a girare a spirale su e giù in attesa dello spazio per atterrare: l’ansia e la paura si erano impadronite di me e, una volta arrivata, mi sono chinata a baciare la terra, come in preda ad un rituale pagano verso la Madre Terra. Ho giurato a me stessa di non salire più in aereo: sono ritornata in treno. Richard, il mio ragazzo se, era venuto a prendermi all'aeroporto con le due sorelle: Mercedes, che lavorava in campo artistico come segretaria di Sylvie Vartan, e Barbara, la più piccola, modella per Vogue. Sono salita su una grande macchina blu con l’autista in livrea: il loro padre era il Generale Calmel dell’aviazione se. Siamo arrivati nei Champs-Élysée, dove abitavano in un super attico di una bel palazzo liberty. Mi ha aperto la porta una donna di colore con divisa azzurra e guanti bianchi. All’interno della mia stanza i mobili erano dipinti di rosa pallido, come le pareti e il copriletto con vari cuscini in tinta; tutto era gradevole, mi sentivo a mio agio per la cortese ospitalità e sono rimasta a Parigi una settimana. Nei giorni seguenti al mio arrivo andai alla Shell, dove il vice direttore mi accolse nel suo ufficio e tutto andò bene: ero riuscita ad ottenere un buon contratto di tre anni per la Cristoforo Colombo. Nelle serate parigine con Richard e le sue sorelle andavamo nei club alla moda
come la Locomotive, un’enorme discoteca dove suonavano gruppi dal vivo: in una di quelle serate ho avuto la fortuna di sentire Johnny Hallyday. Richard ed io ballavamo tutta la notte senza fermarci, si muoveva benissimo con uno stile coinvolgente e molto diverso dal mio. Un'altra sera siamo andati in un privé dove potevano entrare solo i soci; sono rimasta pietrificata dalla mia provincialità: ho iniziato a girare la testa lentamente per vedere ogni particolare di quel locale tutto laccato di nero. Le persone presenti erano quasi tutte donne vestite da uomo, in modo sofisticato e originale, con cravatte, gilet e lunghe giacche nere; rendevano sensuale l’ambiente fasci di rose rosse in vasi di vetro trasparente collocati nei punti strategici; nei numerosi séparé si intrattenevano amorosamente coppie di entrambi i sessi o dello stesso sesso. L’omosessualità femminile non era così palese in quegli anni, specialmente in Italia. Una mattina con Barbara e Richard abbiamo visitato il Louvre e alcune mostre interessanti, al pomeriggio con Mercedes sono stata al Les Printemps: era la prima volta che visitavo un grande magazzino con tutti gli abiti e le marche possibili. Parigi era bellissima nei sobborghi antichi e nei dintorni di Nôtre Dame. Nei pressi del Sacro Cuore ricordo di aver visitato per la prima volta il Marchè aux puces, il mitico mercatino dove ho comprato delle vecchie scarpette da danza in raso rosso. Il mio viaggio era finito troppo presto e anche la mia parentesi amorosa con Richard era terminata, la lontananza non dà buoni frutti a quell’età: portavo comunque a casa meravigliosi stimoli e un contratto per papà.
Lydia
Ritornata a Genova, continuavo a fare sfilate di moda con la mia amica del cuore, Lydia Soltazzi. Mi metto in ascolto delle sue parole: sono legata a lei, alle sue avventure africane, non c’è niente che possa rendere verità storica la sua giovane vita romanzata. Solo le sue parole possono dare forma alle mie emozioni.
Erano gli anni ‘60/70… Era la seconda volta che approdavo alla banchina eggeri del Ponte dei Mille nel porto della Grande Genova. Affacciata al parapetto della nave, cercavo di mettere a fuoco tutti i particolari di quel momento, sopraffatta da contrastanti emozioni. Fissavo affascinata l’avvicinarsi della Lanterna, dei rimorchiatori con le loro sirene, delle numerose gru, il brulicare di colori e di attività a terra, la città che si srotolava stretta e lunga tra il mare ed i monti che le facevano da corona alle spalle. Il verde e il blu si fondevano in una cascata d’incanto, mentre le pietre antiche del centro storico, come libri aperti raccontavano il tempo, in aperto contrasto con il paesaggio appena lasciato sull’oceano indiano. Ero partita una ventina di giorni prima, da Dar Es Salaham, in Tanzania, dove sono nata, e avevo negli occhi e nel cuore la sua luce abbagliante, il suo mare incontaminato, le maree, i grandi spazi, la sua natura selvaggia ma nota. L’ansia per ciò che mi aspettava mi chiudeva la gola ed ero piena di dubbi sul mio futuro di bambina “trapiantata” in un paese così diverso. Mentre le farfalle mi volavano incontrollabili nello stomaco, all’improvviso la vidi: la mia amica Orietta, che avevo conosciuto durante la mia precedente permanenza, era sul molo. I lunghi capelli neri sciolti nel vento, la gonna a ruota che sfiorava il polpaccio e le danzava intorno alle gambe e lei si sbracciava nella mia direzione con ampi gesti, con suo padre che la inseguiva
preoccupato che potesse finire nell’acqua del porto. Al primo incontro era subito nata una forte intesa, che sarebbe durata tutta la vita, malgrado i caratteri e le scelte molto diverse che ci hanno portato lontano, ma mai diviso. Tante volte da allora sono partita e tornata, ma ogni volta penso a quel giorno e a quel ritorno, accolto dal calore di un’amicizia generosa e calda in un momento in cui mi sentivo sperduta e sola. Tanti sono i ricordi che ci legano ed hanno scandito la nostra vita, di adolescenti prima e di donne poi. Aveva capito la mia difficoltà di rapportarmi con gli altri, la mia sofferenza dovuta al fatto di sentirmi “diversa” e di essere lontana da mio padre. Travolse le mie resistenze proiettandomi nel suo mondo, fatto di amici, di musica, di allegria. Le sono grata per avermi costretto a frequentare le feste in casa alla domenica pomeriggio, quando i genitori, presenti ma non visibili, ci consentivano di ballare fino allo sfinimento. E poi la sera, sdraiate sul letto con i piedi doloranti, si facevano i commenti su quanto fosse carino questo o quel ragazzo, a casa di chi fare la prossima festa… Amava ascoltare quando, presa da nostalgia, le parlavo dell’Africa, terra dove per me il vento, la luce abbagliante, il mare sempre mutevole con le sue maree danzavano insieme con il mio cuore. Le spiagge bianche come lo zucchero davanti a casa si snodavano deserte a perdita d’occhio e catturavano la luce. Affascinata mi sedevo sulla sabbia, mentre granchi di varie misure mi correvano intorno frettolosi e, immobile, li guardavo scavare gallerie e disegnare, con le zampette leggere, trame di pizzi e merletti sulla sabbia incontaminata, mentre i riflessi del mare poco lontano regalava ai carapaci bianchi e aggraziati riflessi azzurri e magici. La barriera corallina era piena di tesori che si offrivano allo sguardo attraverso la trasparenza dell’acqua. La marea che si ritirava, lasciava negli anfratti piccoli acquari pieni di pesci colorati che danzavano tra le alghe, mentre la luce, che dovunque la faceva da padrona, creava nell’acqua, sempre in movimento, riflessi di diamante. Nelle polle più grandi mi immergevo in un’acqua caldissima. In marzo, dopo quattro mesi di caldo e arsura, anche le grandi piogge erano una festa! Improvvisamente l’aria diventava plumbea, grosse nubi entravano in rumoroso conflitto e in pochi attimi una cascata d’acqua con gocce di diamante riempiva ogni cosa. Le strade in terra battuta diventavano fango, si creavano rivoli ed enormi pozze, che la mattina dopo, per andare a scuola, mio padre doveva guadare con la macchina che vi entrava ed usciva sollevando dense ali
opache e fangose. L’aria si riempiva di grosse libellule che mi picchiavano ovunque nel loro volo scomposto, mentre la fragranza della terra arida e della vegetazione riarsa irrorata dalla pioggia ruggente, si spandeva nell’aria come una benedizione. Era bello per gli agricoltori delle grandi sisal-estate camminare nel fango con il cuore traboccante di gioia per l’acqua che la terra stava bevendo per nutrire la fattoria, le piante, le bestie e gli uomini… Con questi racconti affascinavo Orietta. Un mondo che ancora andava a piedi. Oggi è molto cambiato attraverso conflitti, povertà e snaturalizzato da un turismo a volte impietoso… Ed io a mia volta ero affascinata dal suo mondo fatto di quotidianità, parenti, amici e soprattutto da una famiglia che l’adorava. Tiranneggiava suo padre perché sostituisse anche il mio: «mi hai portato un regalo e non hai pensato a Lilli», gli urlava arrabbiata, «il suo papà è lontano e io non lo posso accettare, devi portarne sempre due!» E poi via dalla sarta a farsi confezionare gli abiti per le feste. Ovviamente come tutti gli adolescenti, ci capitava spesso di litigare, due piccole furie scatenate. Una volta, in disputa su chi dovesse ricoprire il ruolo del principe piuttosto che della principessa, ammo alle mani e io, che avevo in mano gli adorati pattini dalle ruote coi cuscinetti a sfera, inseparabili compagni, glieli tirai addosso! Poi me ne andai a casa di corsa sopraffatta dalla rabbia. Collerica e arrogante… ma lei il giorno dopo strappò dalle sue aiole appena sistemate dal giardiniere, tutti i tulipani completi di bulbi e, scavalcando il recinto del mio piccolo giardino (non le avrei mai aperto la porta) me li portò trionfante! Non posso descrivere le sgridate di sua mamma quando si accorse del misfatto, ma lei era troppo convinta di aver agito per il meglio per preoccuparsene… Orietta frequentava già la scuola di danza classica e faceva i saggi al Teatro Carlo Felice, agibile solo in parte dopo la guerra, ma che conservava intatto il suo fascino un po’ misterioso e creava strane suggestioni, con il palco illuminato e tutto il resto immerso in una luce fioca. Tutte le occasioni erano buone per ballare. D’estate al bagni Lido, la giornata trascorreva tra nuotate, tuffi e sfide al “calcio balilla”, ma il momento clou era prepararsi per andare alle 18 al matinée nel Garden, pista aperta ai giovani solo nel pomeriggio. E lì le gonne ruotavano vorticosamente, mentre le famose
scarpette “ballerine”, oggi tornate di moda, sfioravano il pavimento in un volo di fantasia e divertimento, mentre nascevano sane rivalità, nel ballo e nei primi amori. Frequentammo insieme la scuola di lingue e qui la secchiona che scriveva sempre ero io, a volte anche le sue prime lettere d’amore... e, a proposito di primi amori, si cercava a volte di sfuggire ai controlli un tempo molto rigidi, per incontrarsi con i compagni di scuola di nascosto e, mentre tentavamo con timidezza i primi approcci, ci sentivamo afferrare per i capelli e riportare a casa dalle mamme infuriate. I ricordi si accavallano… Quella mattina, invece di andare a scuola decidemmo di prendere il treno per la Riviera di Levante. La giornata era splendida e noi, con in testa degli stravaganti cappelli di paglia, decidemmo di scendere alla stazione di Recco e proseguire con l’autostop! Molto più divertente del treno. Ovviamente trovammo il aggio e, parlando un po’ in se e un po’ in inglese, fingemmo di essere straniere in vacanza. Fu una recita indimenticabile, quanto ridere a quell’età… Di quel giorno mi rimane dentro anche un altro ricordo molto vivo nel tempo, parentesi di riflessione profonda: il cimitero di San Michele di Pagana, piccolo e raccolto, immerso nel profumo dei pini caldi di sole, dove la terra mistica e solenne, dimora di ignote vite vissute, scendeva ad abbracciare la scogliera sul mare luminoso e cristallino. Ogni primavera dettava una nuova e irrinunciabile urgenza: il reggiseno di pizzo a balconcino, i jeans elasticizzati, gli zoccoli con il tacco altissimo che rendeva molto difficile essere disinvolte… e il rossetto, tutto da usare rigorosamente una volta uscite di casa, perché non avremmo mai ottenuto il permesso per questi accessori. E poi via per le mattonate ripide che in Liguria chiamano crêuze, parola dialettale resa nota da Fabrizio De Andrè nelle sue canzoni. I ricordi di una vita affollano la mente…. Tutto allora era leggerezza, allegria, complicità. Siamo cresciute, diventate mogli e mamme, abbiamo cercato affermazioni personali in campi diversissimi, ma gli anni, e sono tanti, trascorsi nel lungo percorso da allora, non sempre facile, non hanno mai trasformato la freschezza del nostro rapporto di amicizia che turbina, come allora in un eterno giro di danza… Come i granchi sulla sabbia, come le onde nel vento, come i pattini sulla pista delle piscine di Albaro, come le scarpette da ballo, come i nostri caldi abbracci ad ogni incontro.
Ciao Orietta, è stato molto bello averti nella mia vita Lydia
Non avrei potuto descrive le sensazioni e le emozioni del nostro rapporto: solo Lydia e le sue calde, risonanti, parole hanno aperto in me nuove strade di riflessione. I nostri fili si sono intrecciati ancora per accogliere movimenti nuovi che hanno risvegliato il nostro immenso amore fraterno.
Nella stagione estiva andavo a Rapallo, sulla riviera ligure, e alla sera mi ritrovavo con la mia compagnia del Lido di Genova. Insieme raggiungevamo il Barracuda, locale in voga a Santa Margherita, frequentato da personaggi molto famosi come il bellissimo Gigi Rizzi, autentico play boy piacentino. Ballai con lui tutta una sera e come sempre la complicità era stimolata dalle mie abilità da ballerina, suscitando un po' la gelosia delle mie amiche, ma a causa del suo carattere inarrivabile, sicuro di sé, pur piacendomi tantissimo, non prendevo sul serio le sue avances, anzi mi infastidivano e non mi concessi più di tanto. Nelle calde sere la luce filtrava attraverso le foglie del fico che cresceva in giardino: sembrava danzasse nell’aria ardente. I divertimenti non mancavano e soprattutto non mancava mai il ballo, componente importante nella mia vita.
Fotoromanzo
In estate andavo con i miei amici nei locali della riviera dove suonavano le musiche allora in voga, era tutto così emozionante! Frequentavo assiduamente Le Carillon, un club storico nella piccola e suggestiva baia di Paraggi, perla del Tigullio. In una di quelle serate ho conosciuto un giovane attore di fotoromanzi, Enzo Pelloni, in arte Enzo Carrà, fratello di Raffaella. Al Lido di Genova, diventato dagli anni Cinquanta erella nazionale del concorso di Miss Italia, ho partecipato quasi per scherzo alla nota competizione. Sono andata con mio padre a Milano per scegliere gli abiti adatti alle sfilate del concorso e ci rivolgemmo all’atelier Dell'Antonia, una importante casa di alta moda, specializzata in abiti su misura per occasioni particolari. Sono rimasta sbalordita nel vedere le modelle che sfilavano nelle diverse mise di colori tenui, ricamate con fiori di organza nel decolleté. Ho scelto due abiti: una sottoveste di seta nera con una tunica velata sovrapposta color salvia e sandali in tinta e un abito color mandorle acerbe, ricamato in degradé con fiori di pesco. Inoltre, ho abbinato un paio di scarpe di raso dello stesso colore con tacchi di 12 centimetri, in modo da raggiungere l’altezza adeguata: infatti, pesavo 49 chili ed ero alta un metro e sessantanove. Incominciavo ad emozionarmi per quella competizione, percepivo le aspettative degli amici, dei parenti e forse anche di me stessa. Faceva parte della giuria Franco Leo, regista di fotoromanzi, che alla fine della mia premiazione a Miss Cinema Liguria, mi propose di partecipare come attrice a Ritrovarsi, nuovo fotoromanzo della Gondola. Iniziavo lo stesso lavoro di Enzo, inoltre condividevamo la ione per il ballo, frequentavamo il Covo di Nord Est, originale locale in stile liberty sugli scogli con una pista da ballo di vetro sull’acqua.
A quell’età ero esuberante e seducente: emergeva il mio protagonismo. In quelle serate avevo colpito l’attenzione degli amici romani di Enzo e con lui stava iniziando un tenero idillio. Verso la fine di agosto mi propose di andare a Roma per un’audizione con il suo amico Franco Miseria, danzatore e coreografo Rai, per una trasmissione televisiva con Rita Pavone e i Collettoni, un gruppo di ballerini così chiamati perché danzavano con camicie dai colli alti, di moda in quel periodo. Ho fatto opera di convinzione con i miei genitori, specialmente con mia madre, il vero osso duro di tutte le decisione che mi riguardavano, pregandola di venire con me a Roma. Alloggiavo all’Hotel Pacific in viale Medaglie d’Oro, dove sono rimasta quasi tutto settembre. Il giorno dell'audizione siamo entrati in un grande teatro alla periferia di Roma, apparentemente anonimo: assomigliava vagamente al Teatro Augusto di Genova, ma all’interno nel proscenio iniziava il vero marasma di ballerini, vestiti in calzamaglia e con costumi imposti dallo scenografo. In platea, seduti in comode poltrone di velluto blu, sedevano il regista, Franco Miseria, Teddy Reno e Rita Pavone. Nel pomeriggio abbiamo provato alcuni i di danza moderna preparati dall’aiuto coreografa: dovevamo esibirci in gruppi di tre ragazzi alla volta. Mentre entravo in scena non mi sentivo per niente emozionata, stavo danzando e il mio carattere competitivo emergeva: cercavo di dare il meglio in quella occasione. È andata benissimo: anche il gruppo di Enzo ha ato il provino e abbiamo registrato insieme la trasmissione I Collettoni di Rita Pavone. Frequentavo casa Pelloni, ho conosciuto Raffaella e sua mamma Iris, una bella signora, separata dal marito ma con un carattere forte e determinato, molto gentile e protettiva verso i figli che adorava e stimava: questo nome è diventato importante nella mia vita per intrecci disegnati dal fato. Una sera siamo andati a ballare al favoloso Piper. È stato il tempio della musica per molte generazioni, a partire dalla sua fondazione nel 1965: qui debuttarono i migliori artisti della beat generation come Patty Pravo, Caterina Caselli, Equipe 84 e molti altri. Quella sera venne con noi anche Raffaella. Una musica
coinvolgente ci faceva scatenare. Quando mi esibivo in sala, i i diventavano originali, creativi e trasmettevano le mie emozioni: stimolata dall’ambiente e dalla musica volavo, non esistevano parole per comunicare quell’immenso senso di gioia e di libertà che la mia anima provava nell’amare la danza in qualsiasi forma e espressione. Raffaella Carrà era rimasta colpita dal mio modo di ballare: aveva studiato danza classica con la famosa danzatrice Jia Ruskaja, era un'ottima attrice di teatro, si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia, la maggior fucina di talenti italiani della settima arte. Aveva debuttato con l'importante film La lunga notte del 43 di Florestano Vancini, ed era andata in America per partecipare a Il Colonnello Van Rayan con Frank Sinatra. Nel 1970 raggiunse il successo televisivo con Canzonissima. Aveva un forte senso del ritmo, ma in quel periodo si era dedicata solo al teatro: un impegno molto gravoso che toglieva molto tempo alla danza. Al Piper Raffaella mi chiese timidamente se potessimo andare in toilette a provare quei i, tanto diversi e strani per lei, e così facemmo. Poi siamo ritornate in sala per sperimentarli: ne era entusiasta. Nel tempo ci siamo rincontrate nel mio laboratorio di costumi teatrali Magia: avevo creato per lei una mantella in marabù color turchese sfumato. In quel periodo a Milano collaboravo con il grande artista Carluccio Gandini, che insieme alla sua muliebre Nives, stilista e modista eccezionale, oltre che compagna di tutta la vita, trasformavano semplici fiori di stoffa e soffici piume in tavolozze con mille sfumature, indispensabili per avvolgere ed esaltare la personalità di ogni artista del mio laboratorio. L’amicizia con Raffa è continuata anche dopo il mio matrimonio, e nella Canzonissima del 1973 invitò Gianni per un servizio fotografico insieme: in quella occasione gli fece ascoltare il suo nuovo singolo Chiudi gli occhi Eva. È sempre stata generosa, una vera amica, la stimo molto per la profondità della sua anima sia come artista che come donna. Questi strani fili continuavano ad intrecciarsi con l’amore verso la vita, la mia esistenza avvolgeva l’adolescenza sempre assetata di nuovi stimoli ed esperienze. Dopo il periodo romano e il rientro nella mia città, conclusi gli studi di
corrispondente in lingue straniere. Continuavo a studiare danza, frequentando stage e seminari formativi con diversi ballerini. In un seminario incontrai Louis Falco, grande danzatore e coreografo, ma soprattutto figlio in arte di José Limón: con lui era come danzare su ali che uniscono l’anima americana a quella mediterranea. Inoltre, partecipai ad altri stage con danzatori eccezionali della scuola sperimentale di ricerca Alvin Ailey, che rese popolare la danza moderna nel mondo. Per me sono state occasioni irripetibili. Scivolavo nel tempo che scorreva dentro e fuori di me. Un sabato sera di agosto ero a Santa Margherita Ligure al Barracuda, un locale frequentato da giovani genovesi e milanesi. Appartata nel locale, notai una troupe di cineasti, dove al centro spiccava per carisma un attore già allora molto famoso, icona del teatro italiano, V.G. Questa circostanza era assai stimolante: finalmente una platea interessante per le mie esibizioni! L’orchestra suonava ritmi latini, e io mi esibivo con gli amici di sempre, scatenandomi in sinuosi i e originali coreografie. Non ò molto e si avvicinò un signore della troupe che si presentò come aiuto regista del film La Congiuntura.Mi domandò cortesemente: «può insegnare il cha cha cha a V.? Lo deve danzare nel film». Dopo le presentazioni di rito, intrapresi subito il compito che mi era stato assegnato e, di fatto, ballammo sino alla chiusura del locale. Una strana attrazione coinvolgeva i nostri sguardi. V. mi domandò se fossi interessata a partecipare al film in una piccola parte da girare a Paraggi e io accettai con molto interesse. La mattina seguente alle 9 ero sul set; ero emozionata e allo stesso tempo imbarazzata per questa nuova avventura. Alla sera dovevo girare una scena con lui in una discoteca decisa dal regista. La nostra simpatia continuava sul set tra sorrisi e approvazioni di V.: mi guardava spesso e mi faceva cenni compiacenti sulla mia interpretazione. Mi sentivo al centro dell’attenzione. Al termine della terza giornata di lavorazione V. mi invitò a cena in un locale molto esclusivo: La Gritta a Portofino, un american bar galleggiante su una chiatta.
L’appuntamento era alle 20 al Grand Hotel Miramare di Santa Margherita. Arrivai puntuale e il personale mi accompagnò nella sua suite. Lui mi ha aperto la porta, mi ha guardata con dolcezza comata e mi ha preso la mano: lentamente abbiamo attraversato l’appartamento, profuso da un soave profumo di rose rosa. Mi ha condotto verso la grande camera da letto, ando accanto al talamo diretti in veranda, dove ci attendeva un buffet e una bottiglia di champagne dentro il secchiello d’argento. La sua mano fece leva sulla mia, che dolcemente scivolava verso il letto, mi ha baciato sulla bocca, accompagnando questo soave attimo con una frase che mi ha gelato il sangue: «sei veramente un amore, vorrei conoscerti meglio». Sono rimasta per qualche secondo immobile, cercando di reagire: dal momento che le sue avances non erano invasive ma garbate, non volevo umiliarlo ma, nello stesso tempo, nulla doveva cambiare il mio modo di essere. Avevo le idee chiarissime: «Per conoscermi meglio intendi fare l’amore con me?» Lui ha annuito con un leggero movimento del capo. Continuai: «mi piaci molto, ma non sono innamorata di te. Penso che per fare l’amore, si debba amare intensamente e non è certo la nostra situazione» e proseguii con una frase sussurrata tra i denti «e poi sono vergine, per la prima volta vorrei...» V. mi ha guardato, ha sorriso e con la classe e il carisma che lo distingueva, ha preso la mia mano e ci alzammo. Andammo verso la veranda apparecchiata per l’aperitivo e brindammo con lo champagne: «sei veramente unica, scusa se ti ho offeso, ma mi interessi molto ed è per questo che forse ho trasceso». Quella sera stessa siamo arrivati a Portofino per la cena. Mi raccontò gli ultimi eventi del film, del dopo Paraggi e della mia possibile partecipazione alle riprese in Svizzera, dove sarebbe continuata la lavorazione di altre scene. Al termine della cena, un cameriere portò al tavolo un bouquet di rose bianche accompagnate da una scatolina color avorio che mi incuriosiva molto. Mi disse: «aprila». Al centro spiccava un piccolo gabbiano in oro con brillantini sulle ali: non so come e quando abbia potuto procurarsi quel dono. Mi guardò negli occhi: «sei bella come il volo di un gabbiano» e mi baciò per la seconda volta intensamente. I giorni che seguirono sono stati affascinanti e intriganti, ma lentamente si concludeva il periodo delle riprese del film in riviera. V. mi ha invitata a
proseguire la lavorazione girando altre scene, considerate per lui una chicca, grazie a quello spaccato di danza che avrei portato in scena. Mi diceva: «Sei spontanea e istintiva davanti alla cinepresa, tutte qualità indispensabili per fare del cinema.» Quello stesso giorno parlai con i miei genitori della proposta del film La Congiuntura, spiegando che le riprese sarebbero continuate in Svizzera con una parte per me interessante, dove le mie qualità di ballerina sarebbero risaltate. Quel film avrebbe potuto essere una grande occasione per me ma i miei genitori rifiutarono categoricamente: ero troppo giovane, non avevo ancora 18 anni. Tutto finì.
L’ombra sinistra
Dopo il rifiuto dei miei genitori, una forte delusione avvolse il mio corpo: mi sentivo imbrigliata senza trovare il bandolo della matassa, non riuscivo a dipanare il filo per superare quelle difficoltà. Chiodo schiaccia chiodo, nuove esperienze di danza moderna e contemporanea si presentavano all’orizzonte: abbandonai la danza classica. Dopo l’incidente avvenuto alle prove della Bella Addormentata al Carlo Felice, le mie caviglie indebolite non erano più le stesse: non sarei stata in grado di continuare una carriera impegnativa. Mio padre era molto preoccupato, ansioso e spesso sostituiva mia madre nel ruolo materno; lei era impegnata quotidianamente nell’azienda di famiglia, dove si occupava del personale, trenta lavoratori impiegati nella Cristoforo Colombo Lavanderia Industriale nel Porto di Genova mentre mio papà organizzava tutto il lavoro verso l'esterno, i contratti e le relazioni con le Compagnie di Navigazione. In più, trovava il tempo da dedicarmi nell'arco della giornata. Ora sento la necessità di raccontare quello che mi capitò l’anno precedente. Stavo danzando con le mie compagne nel proscenio del Carlo Felice, quando le assi della struttura si spezzarono, facendoci cadere sotto il palcoscenico: i nostri corpi si inabissarono tra assi e tubi per alcuni metri bui, io mi rovesciai con tutto il peso sopra le caviglie. Da questo incidente si indebolirono fortemente. Questa tragica sentenza mi dirottava con immensa tristezza e delusione verso altri interessi. Mi esprimevo attraverso il mio vocabolario corporeo, che si andava arricchendo sempre più dopo ogni esperienza con grandi maestri di danza moderna, i pilastri fondamentali nel cambiamento. Il mio corpo incontrava la libertà del movimento e del ritmo, e mi accorsi molto presto che l’intuizione o lo stimolo non erano sufficienti, ma la volontà e il
sacrificio erano altrettanto indispensabili per una luminosa carriera. Ero distratta da molte cose, rendendomi incostante nell’impegno dello studio giornaliero della danza: ascoltavo ogni stimolo interessante che si presentava alla mia giovane vita. Ero competitiva per natura, e un tarlo mi frullava nella mente: “devi mettere in atto la tua abilità e la tua ione nello spettacolo”.
Il Clan
Oltre al lavoro come interprete nell’azienda di famiglia, ero spesso a Milano nel fine settimana, dove lavoravo come indossatrice nelle sfilate di moda. Io e Lydia avevamo frequentato un corso per modelle e siamo entrate in una qualificata agenzia milanese di spettacoli. Ero stata invitata da Giorgio Bennacchio, mio amico di infanzia e chitarrista de I Ribelli, alla presentazione del 45 giri di Adriano Celentano, Bambini Miei con il Clan, la casa discografica fondata nel dicembre del 1961. In quella occasione rividi il batterista Gianni Dall’Aglio, che avevo conosciuto anni prima al teatro Augustus di Genova. Rimasi molto colpita, era decisamente cambiato: alto, con un corpo attraente e folti capelli scuri sulle spalle, gli occhi profondi emanavano una luce ammaliante. Era bastato un magico sguardo per rimanere stregata dal suo fascino, puro e sensuale: il tutto in pochi secondi. È stato il vero coup de foudre. La sera stessa Gianni mi invitò a dormire nell’appartamento che condivideva con I Ribelli. Io accettai. Siamo arrivati in via Angera, dove abitava. L’appartamento era al secondo piano dell'edificio: era composto da più camere, quella di Gianni era grande con un letto in stile, un comodino di legno e la sua valigia sempre aperta. Ci ritrovammo soli, perché i ragazzi erano ritornati nelle proprie città. Mi guardava un po’ impacciato: «se vuoi dormire da sola c’è la camera di Natale disponibile». Natale Massara era il sassofonista del gruppo e la sua stanza era ordinata, confortevole e pulita, rispecchiando il suo carattere: accettai la proposta. Eravamo finalmente soli, liberi di conoscerci e amarci: ero al settimo cielo, ma anche insicura, titubante, precaria. Iniziava la nuova meravigliosa fase dell’innamoramento.
Lo conoscevo appena e, sostenuta dalle mie idee sulla sessualità, non mi lasciavo andare a una ione sfrenata. I nostri corpi si incontrarono, con carezze e baci, ma sentivo che la ione non era ancora amore e mi negavo nel rapporto sessuale. Gianni ha rispettato la mia volontà : «non insisterò, finché tu non lo vorrai». Così è stato. Avevo da poco compiuto 19 anni e sentivo che qualcosa era cambiato in me: avevo incontrato l’amore con l’A maiuscola. Iniziava la mia nuova storia: sono andata a vivere con lui. Incontravo nuovi stimoli nella mia trasformazione. Il sogno non si era interrotto, ma era cambiato. I miei fili non si muovevano nella tecnica o nella teoria, ma danzavano con l’amore, la vita in me cercava nuove armonie e nuove assonanze con tutto ciò che mi circondava. Nel mio ventre danzava una nuova vita: Iris. La sua nascita e la gioia per questo evento mi aveva inebriato, ma ero una giovane moglie e madre non abituata ai sacrifici, agli orari stabiliti dalle esigenze di quella nuova vita. Incontravo nuovi limiti: queste strane alternanze emotive stravolgevano le mie aspettative, i miei progetti. Quella meravigliosa creatura è la fusione di un grande amore, la sua nascita è stata un dono immenso che ha alimentato con la sua presenza, con la sua vitalità e la sua armonia, giorno dopo giorno, quel grande amore che dura ancora oggi: la più bella danza della mia vita.
Iris
Era il 1969 e abitavamo a Milano. Dopo alcuni anni dalla nascita di Iris, mi chiesero di insegnare danza classica ai bimbi dell’oratorio di Precotto. Qualche anno dopo, mia figlia iniziò a muovere i suoi primi i nelle mie lezioni, ma ben presto sono emerse le sue doti naturali per questa disciplina e ha continuato con una formazione di danza classica e moderna nella scuola di Luciana Novaro, etoile de La Scala di Milano e direttrice dell'Accademia della Danza. Iris manifestava un forte interesse per quest'arte. La sua formazione è avvenuta attraverso seminari eccezionali di danza contemporanea, con Larrio Ekson e Carolyn Carlson. Con quest'ultima grande danzatrice, partecipò a un seminario a Venezia: Carolyn le propose di continuare all’estero. La sua giovane età e, forse, la mia paura dell’abbandono del nido, pesarono sulla sua decisione. I suoi fili danzanti continueranno comunque a intrecciarsi in diverse vie. È diventata danzaterapeuta Apid, e ha conseguito un altro diploma in danza Educativa Mousikè. Nel corso della nostra vita, la danza ha dato voce al procedere verso la parte più profonda di noi, ci siamo rincontrate artisticamente, come a dimostrare che la nostra creatività può diventare la forma più libera dell’amore, un viaggio interiore, che può trasformarsi in uno spazio sacro da condividere con gli altri. Iris frequentava la scuola elementare di Precotto, dove io collaboravo come rappresentante di classe, ed è proprio durante un incontro con i genitori che conobbi Tiziana Galba: psicologa, mamma di Luca, amico di Iris. Parlavamo lo stesso linguaggio riguardo alla consapevolezza corporea, un argomento che metteva in ballo, in senso metaforico, la mia ione per la danza: si aprivano per me nuove vie. Tiziana mi invitò a frequentare alcuni stage sulla terapia del grido con Willy Pasini, uno psichiatra e sessuologo milanese di fama internazionale. Fu un percorso interessante per approfondire l’aspetto verbale e non verbale dell’uso della voce e delle vibrazioni, portatore di nuova consapevolezza nel qui e ora.
Dopo questa esperienza, abbiamo deciso di organizzare uno stage con le donne del quartiere dove sperimentare stimolazioni corporee e verbali con sottofondo musicale. Anticipavo così il mio percorso di danzaterapia. Abbiamo organizzato un secondo stage all’Isola d’Elba aperto a tutti, Comunicazione e Movimento: fu un'esperienza di grande successo. Durante l’inverno, la danza nelle sue varie forme da me sperimentate non mi sosteneva finanziariamente, e non potevo contribuire al ménage familiare. Mio marito lavorava molto: era spesso in tournée con I Ribelli. In quel periodo avevano cambiato casa discografica, ando dal Clan alla Ricordi, e avevano inciso il loro primo album con la nuova etichetta. Pugni Chiusi, scritta da Gianni, diventerà un evergreen della musica italiana.
Magia
Iris era ancora piccola e non potevo allontanarmi da lei. Ero seduta sulla soglia, mi sentivo come una parca intenta a cucire il filo della propria vita, ma la necessità di indipendenza fremeva nella mia anima libera. In inverno sono andata in Riviera per curare le solite bronchiti di Iris. Mentre lei giocava con i sassolini maculati sulla spiaggia di Sori, insieme a un bambino milanese, io chiacchieravo con Franca, la madre. Lei notò il giacchino di lana indossato da Iris, un mio lavoro a maglia a punto pelliccia, con diverse tonalità di azzurro. Franca era una buyer di Fiorucci e la mia creazione aveva suscitato il suo interesse: mi propose di confezionarne per il famoso negozio milanese. Senza esitare risposi subito di sì. In meno di dieci giorni realizzai settanta giacchini, grazie all'aiuto di due signore che abitavano accanto a me, Giuditta e Romana, che diventeranno mie collaboratrici per molti anni. Un po’ per gioco, un po’ per lavoro, ho aperto Magia, un laboratorio da costumista. Il logo era un’icona simbolica, il gatto nero, da sempre allusivo di un potere soprannaturale. I miei nuovi fili colorati si irradiavano su ogni tessuto di velluto o seta, come un’alchimia che tutto trasforma. Ero entrata senza difficoltà nell’ambiente musicale italiano, facilitata dal lavoro di Gianni, che collaborava spesso con artisti importanti come Adriano Celentano, Lucio Battisti, Patty Pravo, Mia Martini e Loredana Bertè e altri nomi importanti. Creavo costumi per ciascuno di loro nel mio laboratorio, un piccolo appartamento vicino alla mia abitazione dove lavoravo con una buona equipe. Desy, la segretaria, prendeva appuntamenti con i clienti, li accoglieva in mia assenza con gentilezza e professionalità: era la moglie del bassista de I Ribelli, Angel Salvador, un ottimo musicista originario di Barcellona. Nel 1979 eravamo a Sanremo dove Gianni seguiva come arrangiatore il gruppo musicale de I Grimm ed io partecipavo come costumista di diversi artisti fra i quali: I Camaleonti, I Pandemonium, Matia Bazar, Patty Pravo, Company Segundo.
La mia creatività danzava tra stoffe colorate e avvolgeva i diversi artisti, accogliendo le loro personalità, cercando di intuirne i particolari, per trasformarli in abiti con stile. Mi ricordo Adriano e le sue fantastiche invenzioni, le sue canotte che tingevo in colori insoliti per un artista: viola, bordeaux, amaranto e verde scuro. Dalle sue camicie e giacche emergeva il suo tocco originale e personale, sia nella scelta della façon che nei colori. Mia Martini amava in quel periodo vestirsi in stile “Old America”, con abiti lunghi e sovrapposti a giacchini corti fiorati. Per Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo, gli abiti non erano semplicemente scelte mirate al tour di un’artista, ma assomigliavano a splendidi costumi teatrali, studiati all’interno di una coreografia creata su misura della sua personalità, che ancora oggi la distingue nel marasma artistico infarcito di banalità. Sono stata per anni costumista di Claudia Mori e con lei il rapporto era diverso da quello che avevo instaurato con tutti gli altri artisti. Andavo spesso a casa sua per provare gli abiti, quasi sempre alla mattina presto, dal momento che era molto mattiniera. Le portavo stoffe e modelli, che lei sceglieva secondo le sue esigenze; rispettavo le sue idee e la sua forte personalità. Con Claudia, il mio lavoro di costumista aveva una perfetta intesa empatica. Quando indossava gli abiti creati apposta per lei, era bellissima: la sua grazia e la personalità uscivano dalle pieghe del tessuto, dando vita a una energia inafferrabile. Questo nuovo e interessante lavoro mi occupava molto tempo, ma trovavo comunque lo spazio per la mia eterna ione con nuove di esperienze di danza. Nel 1970 incontrai in un seminario lo psicologo e antropologo cileno Rolando Mario Toro Araneda, fondatore della Biodanza, la Danza della Vita. Questo nuovo linguaggio diventava per me un sentire nuovo, un altro filo che andrà lontano.
L’isola
All’inizio degli anni 80 la nostra vita cambiava per motivi di lavoro. Gianni andava ogni settimana a Roma nella trasmissione Un milione al secondo condotta da Pippo Baudo, in onda su Rete 4, e l’Elba era più vicina. Ci siamo trasferiti nella nostra casa di Marina di Campo, in collina, dove in lontananza si vedeva il mare. La mia attività di costumista terminava senza rimpianti. Per carattere non mi sono mai attaccata alle situazioni create per vivere, ma in ogni occasione ho sempre cercato di far emergere la mia unica vera ione: la Danza. Abbiamo vissuto all’isola per quattro anni. Ci aspettava una nuova avventura in questo incantevole paesino sul mare, circondato da boschi rigogliosi, pieno di ricchezze naturali che risplendevano tutto l’anno, in una suprema armonia di verde e azzurro. L’Isola era invasa da fiori e profumi di ginestre e rosmarini: era bellissimo vivere lì, in quella nuova realtà un po’ spartana ma serena. All’Elba non esisteva una scuola di danza e la mia ione verso quel mondo riemergeva. Ho cercato un ambiente adatto per aprire la mia prima scuola e lo trovai nella località di Carpani. Nello stesso anno ho aperto altre due scuole, una a San Giovanni, vicino a Portoferraio, e una a San Piero, un piccolo paese arcano di origine corsa, con una splendida vista sul golfo di Marina di Campo. Mi spostavo interrottamente nei tre comuni, organizzando corsi di danza classica per bimbi e corsi di danza moderna per adolescenti e adulti. In sei mesi ottenni molti iscritti. Inaspettatamente si stava realizzando una parte di un vecchio sogno nutrito da anni. Coronava quel faticoso lavoro un impegnativo saggio di fine anno. Forte dalle esperienze precedenti, elaboravo con creatività le coreografie e i costumi. Gianni collaborava nella parte musicale, aiutandomi nei momenti di pausa dal suo lavoro.
Ancora oggi che sono ati quasi trent'anni, quando incontro alcune mie allieve amiamo ricordare con gioia quelle meravigliose emozioni. Quel momento magico era vissuto come l’onda che respira nel momento in cui si posa. I miei fili si erano intrecciati in quell’incantevole isola e continuavano a dipanarsi in nuovi luoghi e verso altre conoscenze. Gianni aveva finito il lavoro con Pippo a Roma e desiderava ritornare a vivere nella sua città natale, Mantova. Pur con dolore e sacrificio, per mantenere unita la famiglia, io ed Iris lo seguimmo. Finiva l’esperienza delle mie scuole, lasciavo i miei allievi, con cui avevamo lavorato con tanta volontà, sacrificio e ione. La mia danza subiva un altro arresto, ma erano nati nuovi semi che nel tempo avrebbero dato i loro frutti. Partire dall’Elba era un imperativo che mi condizionava, ma con il solito spirito di adattamento accettavo il nuovo, cercavo di scoprire e osservare questa splendida città antica, dal sapore medievale, che ben presto avrei apprezzato. Nel tempo, sono arrivata alla conclusione che nulla sia assoluto. Lentamente mi adeguai alla situazione, vivevo nuove esperienze, i miei sogni, in parte infranti, non erano altro che evasioni della mia mente dalla realtà. Non c’è nulla che possa rendere l’atmosfera di certi anni in modo più vivido delle immagini stesse. Ho sempre fantasticato in mondi paralleli e, forse, l’unica verità erano le mie scelte, dettate dall’amore per il sogno. Mantova mi appariva in tutta la sua bellezza, una splendida città, con scorci suggestivi, che raccontava la sua storia: mi ritrovavo in un’atmosfera insolita. La mia nuova casa era di fine Settecento, affrescata, con cassettoni in legno su diversi piani e con un terrazzino che si affacciava sui tetti nel centro storico. Nell'ultimo anno all’Elba, Don Gianni, il parroco che mi aveva dato una sala per fare la scuola di danza con i ragazzi a Carpani, mi incoraggiava spesso a iscrivermi alla scuola di teologia di Roma, dicendomi: «Hai una buona capacità di ascolto dei giovani e, credimi, è una ricchezza». Questa proposta mi incuriosiva.
La mia ricerca spirituale mi ha sempre accompagnato con alti e bassi: ora questa opportunità diventava una scommessa con me stessa.
Ut Unum Sint
Ho frequentato l’Istituto di Teologia Superiore UT UNUM SINT di Roma: è stato impegnativo ma molto interessante. Nelle prime lezioni avevo grande difficoltà nel capire questo nuovo linguaggio, ma l’incontro con Don Antonio Bonora, teologo mantovano e insegnante presso il Seminario e la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, mi apriva nuove possibilità. Caso, destino, combinazione... tutto fluiva in un’unica direzione. Ho parlato delle mie difficoltà a Don Antonio, e dell'imminente trasferimento a Mantova, e lui, sorridendo, mi disse: «Perché non frequenti l’Istituto di Teologia di San sco? Sono tre sere alla settimana, la frequenza è obbligatoria, e io stesso sono docente in esegesi dell’Antico Testamento». A settembre mi sono iscritta alla facoltà di teologia: il percorso era lungo e faticoso, dovendo sostenere 56 esami in quattro anni con frequenza obbligatoria. Al termine del percorso universitario, rilasciavano la licenza in teologia conseguita presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Santi Vitale e Agricola” a Bologna. La mia religiosità era costantemente nel dubbio e in ricerca: mi sono avvicinata al Vangelo che mi coinvolgeva da sempre. In quel percorso teologico incontravo, come docente di diritto canonico, Pierdamiano Bertinato, un scano ispirato, che trasformò la mia visione del credo e della vita. Nei suoi insegnamenti spesso citava Edith Stein, una religiosa e filosofa tedesca morta ad Auschwitz nel 1942, appartenente all'Ordine delle Carmelitane Scalze, di origine ebraica ma convertitasi al cattolicesimo dopo un lungo periodo di ateismo. Mi ha colpito una sua frase: “Ciò che non era nei miei piani, era nei piani di Dio”. Molte scrittrici teologhe, religiose, mistiche lasciavano segni evidenti nella mia anima: fra tutte, Simone Weil, pioniera in tutti i sensi, il cui pensiero ha tracciato intersezioni e interazioni fra l’anima e le cose del mondo, essenza assoluta del femminile; ha conciliato l'interiorità con l’apparenza; ha sposato l’Assoluto calandolo nel quotidiano; insegnante di filosofia nei licei femminili, di ascendenza ebrea, prese il battesimo cristiano;
mistica, unica nel suo genere, Simone Weil era una maestra di autocoscienza, una ispiratrice di individualità, una donna che coglieva i segni dei tempi. Nei vari studi teologici affrontavo i grandi filosofi greci come Platone che ha “inventato” l’anima, sostanza individuale indipendente dal corpo, immortale, e definiva la filosofia come “la scienza degli uomini liberi”, con la quale l’anima si distacca dalla fluttuazione delle opinioni per aprirsi alla conoscenza vera. Queste parole incisive mi risuonavano nella mente e con curiosità affrontavo lo studio delle differenti fedi religiose, rimanendo in estasi dalle letture del carismatico mistico indiano Paramahansa Yogananda, e in particolare del suo famoso libro Autobiografia di uno Yogi. Questo documento raro apriva la mia visione verso una filosofia spirituale, incontravo con la meditazione i poteri straordinari fuori dal tempo ordinario, e rimasi affascinata della saggezza raccolta dall’India, patrimonio per tutta l’umanità. Il mio cammino era lungo: si era accesa in me una nuova sensibilità verso l’interiorità. Germogliava un altro sentire: «siamo esseri spirituali che fanno un’esperienza umana». Certe stimoli possono venire da letture insolite per la nostra cultura. Ho letto di recente un libro straordinario, Saggezza e Potere, I segreti di Fools Crow. ultimo grande sciamano nipote di Alce Nero, di Thomas E. Mails, un pastore luterano. Questo sciamano Sioux, chiamato uomo-medicina, sosteneva che se il paziente crede, la longevità sarebbe stata trasferita in lui con un effetto che penetra nel profondo del suo sistema immunitario. Ogni cosa che è stata creata è essenziale alla vita, all’equilibrio e all’armonia. Tutti gli esseri umani nascono con un potere naturale, ma se desiderano andare oltre e vedere meraviglie spirituali compiute dentro di sé, saranno pronti per curare e guarire la libertà dalla paura e scorgere la fertilità in tutte le cose. Inganna Corvo, traduzione di Fools Crow, diceva: «dobbiamo rimettere noi stessi nelle mani di Walkan Tanka (Dio Padre), di Tunkashila (il figlio) e della Nonna Terra (lo spirito) entrando così nella danza spirituale della vita, che continuerà finché viviamo. Alla fine del mio percorso teologico ho capito che il futuro della religione è nell’evoluzione dell’essere umano, se saprà coltivare tutte le capacità di crescita che il Divino gli ha donato. Dopo questa grande svolta, non si cercherà più il Divino all'esterno, ma lo vivremo sempre di più dentro di noi. Spesso mi fermavo a pensare alle parole di Pietro Archiati: «l’uomo moderno non è formato solo da un corpo e anima ma a queste due componenti si aggiunge lo spirito e la coscienza di essere un Io che
pensa con la sua testa e agisce di propria libera volontà». Lo stesso anno della laurea iniziavo l’insegnamento della religione nelle scuole medie, e ogni fine anno mettevo in scena un musical: Jesus Christ Superstar. I miei fili danzanti non mi lasciavano mai ed emergevano ovunque potessero trovare espressione.
Il Brasile
In dicembre feci un viaggio con Gianni in Sud America, dove ho approfondito la mia ricerca sulla musica e sulla danza brasiliana, una realtà culturale multietnica, che si svela nei canti, nei suoni dei tamburi, nelle movenze di un ballo che celebra le proprie radici, come nella capoeira, nel frevo, nel maculele, nel samba. [1] Ho attraversato quella splendida terra, da Rio De Janeiro a San Salvador De Bahia. Questa ultima città, che ha quasi 3 milioni di abitanti di sangue misto, mi affascinava con la sua musica e soprattutto con la danza che si manifestava in ogni angolo, libera, ritmica e spontanea. Sentivo i ritmi dell’Olodum, un drumming style che si snodava in ogni via di Bahia: era 1979 quando si costituì il gruppo riconosciuto come una delle più note ONG del movimento nero brasiliano. Olodum è una abbreviazione di Olodumare, il dio di tutti gli déi nella religione nigeriana Yoruba di Candomblè. Quelle musiche e quei ritmi sono rimaste impresse nell’anima e, ancora oggi, nei miei setting di danzamovimentoterapia, risuonano per dare spazio all’improvvisazione ritmica. In Brasile ho conosciuto Nilton, futuro padre di Isidora, liutaio d’autore di San Paolo: aveva studiato in Italia all’Istituto internazionale di liuteria Antonio Stradivari di Cremona. Nilton era una persona dolce e la sua anima esprimeva spiritualità: ascoltavamo rapiti i suoni della foresta brasiliana, la Mata, e le nostre orecchie si aprivano a quel magico linguaggio nel paradiso della natura. Ero inconsapevole del triste destino che lo attendeva. Abitavamo nella stessa pousada di Trancoso, un bellissimo paesino, la cui origine risale al 1586, anno in cui i gesuiti fondarono la prima comunità. In questo angolo di Eden si apriva una terrazza sull’oceano, “il quadrato”: in quel luogo lontano risuonavano arcane musiche, suoni e danze, sapori e colori diversi, mai sentiti e visti prima, ma comunque travolgenti.
Questi miei nuovi fili incontravano la musicalità brasiliana dalle sue lontane origini, dove quei ritmi di tamburi ancestrali pulsavano nella mia anima. Da questa unica esperienza ho preso consapevolezza che tutto ciò che ci circonda è ritmo, la vita stessa è ritmo. I giorni avano e si approfondiva l'amicizia con Nilton: condividevo con lui momenti di relax ascoltando la musica di musicisti straordinari come Milton Nascimento e Djavan, due artisti sincretici che uniscono la musica popolare brasiliana con i ritmi più moderni. Ho raccontato a Nilton di Iris, del suo carattere e delle sue qualità artistiche, delle sue aspirazioni: lui ne rimase colpito e mi disse che avrebbe voluto conoscerla quando sarebbe ritornato a Cremona. A Mantova, dopo quel meraviglioso viaggio, ho rivisto i filmini e le foto del Brasile: Iris lo ha conosciuto così per la prima volta. In quel periodo mia figlia amava particolarmente la musica brasiliana e sarebbe andata volentieri a visitare quel paese. Ho organizzato una cena con gli amici conosciuti a Trancoso, Iris conobbe Nilton e si trovarono subito in armonia: lui iniziò a corteggiarla. Le radici scaldate dal sole crescono, danzano il loro seme e diventa albero.
Frevo: danza originaria del zona nord est del Pernambuco, caratterizzata da un ritmo accelerato, viene danzata in strada a carnevale. Maculele: danza afro-brasiliana dai rituali legati alla capoeira e al candomblè tipica alla festa della candelora. Samba: tra le sue origini in Salvador de Bahia, dove sbarcarono gli schiavi africani, il suo ritmo proviene da etnie musicali africane come la juruba e il naghò, le sue caratteristiche spirituali sono legate al candomblè, religione sincretica afro-brasiliana.
[1] Capoeira: è un’arte marziale brasiliana, spesso interpretata come danza,
creata dagli schiavi africani con influenza indigena brasiliana, caratterizzata da elementi espressivi come la musica e l’armonia dei movimenti.
Isidora
Lassù in cielo le stelle luccicano, come per benedire quell’amore appena nato; si frequentarono e dopo nove mesi nacque all’Isola d’Elba Isidora. Il primo giorno di vita era pieno di sole e i suoi grandi occhi aperti al mondo mi guardavano, intensi. Il viso roseo era circonfuso di una luce penetrante, crogiolo di emozioni. Nel corso degli anni è stato sbalorditivo ammirare la sua dolce e leggiadra bellezza. Volteggiava negli spazi infiniti come presa da fili immaginari che la spostavano nell’aria verso il ritmo della vita. Sono ati molti anni, ora è quasi una donna, e affronta la vita con determinazione anche nei momenti difficili. Isi, così la chiamiamo, scrive con forte intensità, e trasmette emozioni a coloro che leggono le sue parole. I suoi scritti sono veramente penetranti ed emanano la forza vibrante della sua anima, esprimono i sentimenti dei suoi silenzi, il suo cuore ferito dopo la partenza nei cieli del suo papà Nilton. Ho ripreso l’insegnamento, non senza scontri con l’istituzione. Don Basso era l'incaricato della curia a convocare i vari insegnanti di religione: spesso non mi sentivo in sintonia con i libri di testo, perché il contenuto era un vero e proprio catechismo di serie A, non un programma sulla storia delle religioni come era prescritto dal Ministero dell’Istruzione. Spesso dovevo integrare con altri testi. Non ritenevo giusto che nelle classi di religione fossero esclusi gli evangelici, i testimoni di Geova, gli Islamici. Nelle mie classi erano ben accetti e si confrontavano sulle uguaglianze e sulle differenze, mettevano in discussione tematiche comuni, dal momento che il dialogo è fondamentale per la tolleranza religiosa. È chiaro che le alte sfere della Curia non fossero d’accordo, ma questo non mi disturbava particolarmente, anzi mi stimolava a proseguire in questo difficile percorso. Dopo alcuni anni d’insegnamento molte cose erano cambiate e, soprattutto, la nascita di mia nipote Isidora mutava in parte le mie aspettative. Concludevo l’esperienza mantovana dell’insegnamento con il trasferimento per motivi familiari a Marina di Campo, nella scuola media, dove insegnavo religione in tutte le classi: mi trasferii per stare vicino a Iris, Nilton e Isidora nei suoi primi
mesi di vita all’Isola d’Elba. Lasciavo l’incarico di insegnante, dispiaciuta per i ragazzi e per il percorso che avevamo appena iniziato, ma non vi era buona compatibilità con la Curia e di frequente emergevano contrasti pedagogici. Ho preferito lasciare l'incarico. Mi sentivo come una foglia portata in giro dalle sue abitudini. La nascita di mia nipote Isidora faceva sgorgare in me una forte onda emozionale, e la mia anima trovava se stessa, nella dolcezza di quel nuovo sentimento. Ritornavo a Mantova: la matassa di reminiscenze per le decisioni prese mi aggrediva. Mi presi un anno sabbatico, rimasi un anno senza fare nulla: mi sentivo smarrita, mi tormentava il pensiero di cosa fare domani e cercavo l’impossibile per capire il possibile.
Vittoria
Filo sottile sospeso nell’aria: tutto evoca, l’assenza e il vuoto. Mi perdevo nei miei pensieri. Ho fatto un controllo dal nefrologo e il responso è stato: «Signora, Lei ha un rene a ferro di cavallo policistico». Ho subito pensato: come Vitto, così come la chiamava mio padre. Anche mia madre aveva lo stesso problema, questa malformazione la accomunava a suo fratello Aldo, alla sorella Lucia e, ora. a me: tutti con la stessa particolarità genetica. Il ricordo di mia zia mi affiorava alla mente: era lei che con un sorriso faceva brillare le mie giornate nelle calure estive a Pietrachetta. Trascorrevo le mie vacanze con lei, perché i miei genitori erano molto occupati in città con il lavoro alla Cristoforo Colombo: non aveva avuto figli e mi era molto affezionata. In quel periodo avevo una salute cagionevole, dovuta alla mia insistente asma bronchiale che mi teneva spesso a letto con la febbre alta: la zia Lucia mi coccolava e mi viziava in quelle lunghe estati. Trasmetteva serenità e armonia, mi cucinava cose semplici, rispettando i miei gusti, dalla pasta al dente, alla carne bianca, alle patate arrosto, cosa che non faceva mia madre, forse per poco tempo, ma forse anche per la poca ione per la cucina. Nell’età adolescenziale erano tanti i conflitti che mi allontanavano da mia madre e dai suoi principi. Lei entrava nella mia vita con una valigia di giudizi e autorità, e il mio cuore diventava allo stesso tempo un contenitore d’amore e di rabbia. Vittoria... … era una donna forte, aveva avuto una vita difficile, in montagna, con sua mamma e la sua famiglia di cinque figli: lei è nata dopo la morte di sua sorella Ernestina. La vita a Pietrachetta era dura, zia Lucia era fragile, e decise di partire dalla montagna per Genova: anche Vitto andò con lei. Mia madre iniziò a lavorare nella tintoria di sua cugina Amabile e, a solo 18 anni, comprò il negozio,
inizialmente aiutata finanziariamente da suo padre, ma nel giro di solo due anni riuscì a restituire l'intera somma. Affrontava la vita con determinazione, era coraggiosa in ogni situazione. Ho capito nel tempo il suo valore, i suoi antichi principi saldi e incrollabili hanno dato forza alle mie radici: spesso mi ritrovo dentro al suo pensiero, sintonizzata con la sua anima per vivere la realtà. La sua vitalità è nella trama delle mie emozioni, nella mia vita con i suoi ritmi, con la sua energia e i suoi fili venosi scorrono nel mio corpo. L’ordito si intreccia con il mio tessuto umano, incontra luci e ombre, e i molteplici bisogni, nelle diverse fasi della vita, producono, inventano, ma sempre creano qualcosa di diverso. Mi risuona in mente una frase da me tanto amata di Dacia Maraini: “Il tempo non esiste, esiste il racconto”.
La Danza Terapia (ma questa è un’altra storia)
Dopo aver terminato l'esperienza dell'insegnamento, mi sentivo fuori dal tempo, senza meta, senza obiettivi e, invece, eccoli, me li sono ritrovati addosso, come nuovi abiti lucenti. Un giorno ero a Milano e, per caso, mi cadde lo sguardo a una locandina affissa a un muro con un’immagine di un corpo in movimento, dove spiccavano in stampatello i caratteri: “La Danza Terapeutica è la danza nella sua forma più semplice, è il linguaggio delle emozioni profonde”. Le parole descritte mi risuonavano dentro, percepivo nuove assonanze. I miei occhi si aprivano a nuove trasformazioni, attraversavano il tempo, diventavano scambio di i di danza tra l’oggi e il domani. I cambiamenti e le decisioni importanti arrivano in un secondo, come se scattasse qualcosa dentro di noi: quello che ci sembrava così complicato in realtà si rivela essere molto semplice. La danzamovimentoterapia è un'insieme di modalità specifiche e si esprime in un linguaggio non verbale ma creativo, pedagogico e terapeutico. Attraverso un preciso percorso propone un processo integrativo, relazionale, in una positiva ricerca del benessere volta a un'evoluzione personale. La danzamovimentoterapia si concretizza nel corpo e con il corpo attraverso il movimento, il gesto, il ritmo e la danza. Questa metodologia favorisce l'unità psicocorporea e si rivolge a tutti, senza limiti fisici e d'età. Il terapeuta agisce nell'ambito psico-sociale, educativo e nella formazione, per favorire un cambiamento positivo dell'utente. Iniziavo un nuovo cammino. “Sogna ciò che ti va, vai dove vuoi, sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita ed una possibilità di fare le cose che vuoi fare” (Paulo Coelho) Ho iniziato un nuovo percorso con la danzaterapeuta Apid Elena Cerruto, formatasi con Maria Fux, della quale promuove la metodologia unita al proprio
approccio spirituale, nutrito di filosofia Zen e di kriya yoga. Questa esperienza apriva la via alla mia futura formazione: nuove strade e nuovi fili si intrecciavano e trovavano nella danza un sostegno terapeutico per me stessa e per gli altri, dove il mio corpo cercava la fusione con l’anima, e nello spirito libero abitava una donna diversa. Paola, un’amica di Iris, mi ha ribattezzato Odry: è un nome corto e musicale, ne percepivo l’attinenza con la mia personalità, specialmente in quel nuovo percorso. “Orietta”, il nome che mi aveva accompagnato fino a quel momento, non dava più voce al mio esistere. Nello stage con Elena osservavo il gruppo danzare, era entusiasmante contemplare come ciascuno fe parte di un tutto, esprimendo non solo movimento, ma anche sensazioni ed emozioni: i corpi erano strumenti che suonavano una musica nuova, verso un’unica armonia, una bellezza corale di forme. Cominciai a danzare, mi sentivo avvolta in un abito leggero, come una nuvola sospesa, una emozione che proveniva dal profondo del mio essere. Nella prima esperienza con la danzaterapia scoprivo nuovi stimoli, e devo a Elena, alla sua energia e al suo carisma, il mio nuovo filo in questa direzione. In un seminario successivo al C.E.P. di Assisi, con curiosità, incontravo personalmente l'argentina Maria Fux: coreografa, danzatrice e danzaterapeuta con una grande esperienza artistica e pedagogica, che negli ultimi quaranta anni si è dedicata alla formazione dei terapeuti in America ed Europa. Quell’incontro svegliava in me la danzatrice latente. Riscoprivo una corporeità immersa in nuove emozioni: è proprio nel corpo che manifestiamo le nostre sensazioni e i desideri. Amavo danzare perché ero convinta che nient'altro al mondo mi avrebbe procurato la stessa emozione. La mia calma si è fatta vento, la mia vita è diventata un’avventura errante, l’anima inquieta recuperava i suoi fili che non si separavano, ma esploravano strade diverse. Dopo questa esperienza i miei confini si trasformarono: ero una piccola particella in un universo infinito di un’umanità in movimento, dove tutto danza. Sino a quel momento il mio modo di concepire il ballo si nutriva di ego, competizione e tecnica. L’incontro con Maria è stato lo spartiacque che mi ha traghettato verso un grande mare. Ora dovevo ascoltare i segnali del corpo, dove
mi avrebbero portato questi nuovi flussi? Forse avrebbero ridato vita a questa mia storia. Iniziavo un percorso di risveglio, frequentando stage con Stefania Guerra Lisi, ideatrice del metodo Globalità dei linguaggi ed esperta nella riabilitazione di disabili, in particolare nel risveglio dal coma, e con la formazione CEM, Centro Educazione alla Mondialità, dove apprendevo dinamiche dell’immaginario primordiale, magico e religioso, espresso attraverso la danza nella sua funzione sociale. In questo seminario incontravo la religiosità arcaica: i rituali nella loro sacralità erano in relazione alle danze, nel rito ritualizzavano il mito, tempo ciclico dell’eterno ritorno. La mia ricerca teorica iniziava dai precursori che traghettarono la danza alla danzaterapia. Isadora Duncan, ballerina statunitense del primo Novecento e precorritrice della danza moderna, ha promosso la necessità dell’arte creata per il corpo della donna. Per lei “l’impulso del movimento è al centro del corpo. Attraverso lo strumento corpo, abbiamo la sensazione completa del movimento, della luce e delle cose liete; tutto il movimento della natura ci corre incontro e ci è trasmesso da colei che danza”. Si è avvicinata ai ritmi naturali della terra, da donna libera e totalmente coinvolta nelle problematiche femminili del suo tempo. La Duncan sosteneva: “lo spirito libero abita nel corpo di una donna nuova, più vivo e glorioso che mai, più bello che nel ato, più creativo, più libero che mai”. Per lei la danza era espressione divina dello spirito umano. Il corpo non mentiva, questa nuova esperienza mi faceva ritrovare un dimenticato benessere, per la prima volta il mio movimento era rivolto verso l’altro, un’apertura al dialogo, un rinascere al mondo esterno, mai sperimentato prima, un vero ascolto dei bisogni altrui. Era straordinario pensare attraverso il corpo e confrontarsi con i suoi confini, mettendo in gioco tutta me stessa. Nel tempo ho capito che il danzaterapeuta è come un alchimista: laddove incontra blocchi motori e qualsiasi tipo di sofferenza, è in grado di sviluppare un processo di trasformazione del movimento, che si traduce in un cammino di consapevolezza corporea. Sono convinta che non esistano malati nel corpo ma solo persone con una minore libertà di azione e di elaborazione, dovuta a impedimenti di natura
interna o esterna, che limitano la pratica di qualsiasi movimento. Con questo approccio è possibile uscire dalla logica frustrante del non riuscire a comandare il proprio corpo, creando movimenti nuovi attraverso un determinato percorso. La danzamovimentoterapia ha dato alla danza una nuova vita, perché nutre il corpo, affronta l’insicurezza che diventa ponte verso un’esistenza consapevole e permette così di aumentare la propria autostima. Nel tempo sono nate nuove dialettiche che continuano a trasformarsi sino ai nostri giorni. Questi nuovi fili mi muovevano a pormi domande nel profondo e mi risvegliavano la pulsione del movimento verso il piacere funzionale: nuove stimolazioni ripristinavano l’integrità del mio essere e così sbocciava la mia energia creatrice. Con forte determinazione e il mio curriculum sotto braccio, sono andata a Milano, alla scuola del Dottor Vincenzo Puxeddu, specialista in medicina fisica e riabilitazione, laureato in Danza e Scienze del Movimento alla Sorbonne di Parigi e presidente dell'Apid.Dopo un profondo colloquio, mi propose l’integrazione al secondo anno della Formazione quadriennale nella sua Scuola Professionale in danzamovimentoterapia Integrata, accreditata Apid. Il mio interesse aumentava quando affrontavo questa metodologia nelle sue tematiche di fondo: era una scelta aderente ai miei bisogni in quel preciso momento. La sua formazione in danzamovimentoterapia integrata offriva approcci diversi: - etno-antropologico; - basato sull’esperienza della danza teatrale moderna e contemporanea; - riferito alle ricerche kinesiologiche e psico-corporee contemporanee; Questi nuovi fili inventavano nuovi gesti e nuove armonie per vivere dentro la realtà. In questa formazione incontrai come docente Rosa Maria Govoni, danzaterapeuta specializzata in Dance Movement Therapy presso il New York Medical College, psicologa e psicoterapeuta, che mi ha fatto conoscere la metodologia del Movimento Autentico.
Nella seconda metà del Novecento si affiancarono alla neonata danzaterapia le teorie psicologiche che si stavano allora diffondendo: le sue radici si ritrovano nel metodo dell’Immaginazione Attiva fondata da C.G Jung. Questo nuovo filone della danzaterapia si è sviluppato in America, proprio dall'incontro con la Psicologia del Profondo. In origine si chiamò Movement in Depth e la sua fondatrice fu Mary Starks Whitehouse, danzatrice con una formazione psicanalitica di stampo junghiano. Secondo la Whitehouse, il movimento è totalmente spontaneo, furono successivamente Janet Adler e Joan Chodorow ad ampliare questa modalità e a inserirla nel setting analitico, dove il soggetto entra in contatto con i contenuti più intimi dell’inconscio. Per Jung l’inconscio è la porta autentica che ogni essere ha nel suo stato profondo e dalla consapevolezza sensoriale emergono gli abissi dei ricordi dell'infanzia. “La coscienza inizia quando il cervello acquisisce il potere di raccontare una storia senza parole che si svolge entro i confini del Corpo”. (A. Damasio) Jung sosteneva che “la psiche e materia sono due diversi aspetti di una sola ed unica unità, questa è una modalità per dare forma all’inconscio, grande guida del conscio”. Durante la formazione permanente in Sardegna a Villasimius, incontrai l'eccezionale Schott Billmann, psicanalista, antropologa e presidente della Società se ed Europea di Danzaterapia: i suoi seminari di Expression Primitive risvegliarono la mia energia primitiva. Questa metodologia propone un viaggio simbolico di esplorazione del sé corporeo e delle sue articolazioni spaziali e relazionali attraverso la stimolazione ritmica. Si sperimentava la simbolizzazione gestuale, la struttura dei movimenti nei suoi opposti, eseguiti in sequenze ripetitive accompagnate dalla voce: l’obiettivo di questa metodologia è l’applicazione in ambito psicoterapeutico. Il ritmo è sempre stato una componente forte della mia espressione danzante e in questa tecnica mi sentivo rigenerata: nasceva in me lo stimolo per la mia metodologia, la Danzarima. Desideravo ancora stupirmi, mi mettevo in ascolto, in atteggiamento di
accoglienza, ero legata agli altri e alle parole che mi arrivavano e mi risuonavano dentro, aprivo nuove strade alla riflessione e a nuovi rituali che mi risvegliavano verso una nuova comunicazione: il ritmo è concatenato ai movimenti nel tempo, dove c’è un codice universale che tiene conto dei cicli naturali. Tutto ciò che esiste ha un suono che, ripetendosi, forma il ritmo.
ARCA
Dopo aver conseguito il diploma di danzaterapeuta Apid, ho iniziato a propormi nelle strutture della mia città. La mia prima esperienza in danzamovimentoterapia è stata alla comunità ARCA, facente parte della FICT, Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche, coinvolta in un progetto globale, che prevedeva al suo centro la Persona. Ho iniziato con il centro mantovano di accoglienza, inserita nel Progetto Uomo di Don Mario Picchi, fondatore nel 1975 della CeIS, Centro Italiano di Solidarietà, con obiettivo la riabilitazione di soggetti tossicodipendenti e un approccio psicologico fenomenologico ed esistenziale. Durante il laboratorio con i ragazzi in progetto di recupero emergevano bisogni dettati dalle necessità di un processo di crescita individuale: alcuni non sapevano gestire le proprie responsabilità, le proprie ansie e frustrazioni. Nei diversi setting nelle sedi dell’ARCA ho incontrato ragazzi e ragazze con problematiche spesso di doppia diagnosi. Il concetto di doppia diagnosi ha destato un particolare interesse in questi anni non solo per l’aspetto clinico, ma soprattutto per le organizzazioni che intervengono in questo settore. È frequente nelle persone che si rivolgono ai Servizi Sociali nell'ambito delle dipendenze, incontrare disturbi primari o secondari, di tipo psichiatrico, che devono essere compresi e affrontati. Nella prima fase del laboratorio di danzamovimentoterapia, l'osservazione, emergevano problematiche corporee, i rapporti interpersonali erano difficili e frustranti, solitamente i soggetti avevano difficoltà nel rispondere agli stimoli proposti: il percorso diventava una via di accesso alla persona sofferente. Le mie difficoltà aumentavano: i sensi non hanno limiti, ma la morale è fatta di paure. Attraverso la fisicità iniziava un cambiamento profondo nella loro personalità, il loro lato d’ombra lentamente risaliva verso la luce. Il processo di presa in carico globale della persona si traduceva in termini sensoriali e la danzamovimentoterapia si rivelava uno strumento basilare, affinché prendesse
forma dentro di loro una nuova energia. Dalla bruna terra nasceva così un nuovo albero. Incontravano frustrazioni, difficoltà, momento dopo momento, ma la forza della creatività, energia cosciente, diventava un ponte che univa e favoriva un lavoro di autonomia verso un nuovo istinto creativo e una ritrovata l’armonia del Sé. Il laboratorio si sviluppava in tre fasi: accoglienza, residenziale e reinserimento. Coinvolgeva persone dai 20 ai 40 anni e incontravo i ragazzi nella sala ricreativa della comunità due volte alla settimana per due ore. Durante la conduzione mettevo in atto strategie diverse, alternandole con momenti di danzaterapia guidata, dove accoglievo i bisogni portandoli verso un obiettivo preciso; lavoravo in modo speculare ed empatico, lasciando spazio a momenti spontanei, dove cercavo di stimolare la loro capacità d’ascolto delle sensazioni, prima ancora delle loro emozioni, perché dissolte spesso dal vortice della dipendenza. Nella sacralità del setting si attivavano processi di transfert e controtransfert, che scaturivano dalla relazione tra paziente e danzaterapeuta: si attivavano energie silenti, risorse inaspettate che davano luogo a risposte a volte sorprendenti. Dopo un lungo periodo di lavoro in questo contesto ho acquisito un nuovo equilibrio tra coinvolgimento e distacco professionale, ma ancora oggi, nonostante sia trascorso molto tempo, è sufficiente un gesto, una parola, perché le corde del mio cuore risuonino emotivamente pensando a loro. Marcia Plevin, danzaterapeuta Apid, pioniera, insieme a Maria Elena García, alla FICT di Roma, dice che “per agire nella disperazione del tossicodipendente bisogna conoscerla, entrarci e lasciarsi prendere, dopo ritornare in sé e lasciarla uscire.” Il mio corpo parlava con il gruppo, ed era importante trasmettere fiducia, armonia, facevo emergere nella conduzione la parte più equilibrata di me, per comunicare con la loro parte sana. La frustrazione avvolge il tossicodipendente e il danzaterapeuta deve accoglierla per trasformarla: attraverso questo canale non verbale certe pulsioni manifestano una spinta motivazionale dettata dalla curiosità e dal piacere creativo del corpo. La loro crescita dipendeva dalla spinta creativa, che si riattivava, dopo arresti e ripartite vissuti nel periodo della tossicodipendenza e dal cammino elaborato con la danzamovimentoterapia. Ho accettato la sfida personale con ogni ragazzo,
riservando a ciascuno il giusto approccio in relazione alle personali necessità. In questo contesto anche essere donna era una scelta controcorrente, dovevo mettere in campo tutto il mio coraggio per affrontare questo percorso difficile. Obiettivo principale era far ritrovare la consapevolezza corporea, percepirla, e cercare di rendere quei ragazzi protagonisti della propria esistenza. Sulla base di questa esperienza positiva mi sento di affermare che la danzamovimentoterapia abbia dato un valido o nella riabilitazione dalla tossicodipendenza, in particolare se integrata in un progetto complessivo che ponga al centro la persona nella sua globalità. Ho affrontato altre esperienze con questo tipo di utenza, precisamente all’Isola d’Elba, dove esiste la comunità di Exodus, fondata da Don Mazzi, con sedi in tutta Italia. Qui ho incontrato Marta e Stani, due meravigliose persone di origine fiorentina, presenti da molti anni nella realtà elbana, prima con la comunità La Vecchia Trebbia e, dopo molte difficoltà locali, con la Mammoletta: una bella struttura immersa nella natura, ristrutturata con grande pazienza e diventata un ambiente sereno e confortevole. Le loro competenze e capacità aiutavano molti giovani a uscire dalla prigionia della droga, guidandoli all’incontro di nuovi e sani valori, portando alla luce i loro lati d’ombra, senza i quali il viaggio non sarebbe diventato il loro vero viaggio, e dipanavano i fili intrecciati nel labirinto della loro vita per condurli verso la trasformazione e il cambiamento. Con la loro barca Bamboo, hanno fatto conoscere a questi giovani il mare e le forze della natura nei loro equilibri, offrendo nuove opportunità e nuovi spunti di riflessione. Un abbraccio, un contatto, la pelle, non sono solo atti fisici o parti del corpo, ma sono punti di unione fra persona e persona, e fra individuo e resto del mondo: dove finisce l’io, comincia il noi.
Risveglio Musicale
Nell'estate di quello stesso anno ero in vacanza a Stromboli con Gianni. Qui ricevetti la telefonata di Augusta Bassi Nazzaro, musicoterapeuta, insegnante di risveglio musicale e fondatrice del C.I.R.M.A.C. (Centro Italiano di Risveglio Musicale Alain Carrè), chemi chiedeva di condurre un laboratorio all’Isola d’Elba durante un seminario della sua associazione: accettai con grande entusiasmo. Nel laboratorio elbano a Rio Marina incontrai il se Alain Carrè, musicista, compositore e musico terapeuta. Iniziò le sue ricerche nel campo della pedagogia musicale e della musicoterapia in ambito internazionale, soprattutto in Europa e Stati Uniti, dove le sue proposte vengono tuttora applicate. Nel 1989 scrive Metodologie e strategie del Risveglio Musicale. Alain Carrè, ideatore del metodo pedagogico chiamato Risveglio Musicale, afferma che la musicoterapia sia l’applicazione di tecniche educative e riabilitative che impiegano la musica e le sequenze non solo di suoni e rumori, prodotti con qualsiasi strumento, ma anche di silenzi. Questo metodo dà buoni risultati in diverse condizioni di disabilità, come la sordità infantile, le patologie neuropsichiatriche e nel caso di anziani affetti da Alzheimer. In seguito io e Gianni siamo andati a Rennes, presso il suo Centro Musicale per formazione in Musicoterapia, per tenere dei corsi di Formazione in Danzarima e Ritmoterapia.
Aldo Messina
Era una giornata calda e Rio Marina era illuminata dal sole dolce del mattino. Al laboratorio all’Elba di danzaterapia, aveva partecipato Aldo Messina, medico audiologo del Policlinico universitario di Palermo. Nel tempo le nostre idee si confrontarono per comprendere i molteplici significati dell’espressione corporea attraverso il movimento, il suono e il ritmo. Le sue parole mi risuonano nel corpo e nella mente: “le vibrazioni armoniche del nostro corpo sono l’espressione della condizione di salute, di benessere, ci sembrerà di emettere suoni musicali, desideriamo indossare vestiti con colori “vibranti”, ascoltare musica, ed il colore della nostra pelle sarà più luminoso”. Ecco un concetto ammaliante sulla creazione: “Secondo la Bibbia fu personalmente Dio a trasformare il disordine vibratorio del rumore cosmico dapprima in ordine sonoro e poi in Verbo. Al Creatore bastò nominare con il verbo, affinché l’aria vibrante, l’energia s’imponesse e desse la vita.” Le sue idee sono forze della natura, impulsi sublimi, sono come onde di un oceano in tempesta. Diverse volte sono stata a Palermo per assistere a convegni organizzati da Aldo: l’ultimo in ordine di tempo è stato a Monreale, dal tema La Danzaterapia e l’Io Posturale. In quel seminario si parlava di come il movimento comprendesse tutti i cambiamenti temporali e spaziali del corpo e delle sue parti, e come spesso sia percepito nella sua funzionalità. Abbiamo elaborato nel setting la respirazione/movimento, elementi fondamentali per una equilibrata postura, e compreso come la capacità di muoversi sia importante per la stima di sé. È stato un lavoro esperienziale profondo, intenso e vibrante, come lo sono tutte le proposte di Aldo.
La Casa Di Ruth
La Casa di Ruth[1] , una casa, un percorso, una speranza nella mia esperienza di danzaterapeuta. La Casa accoglieva donne vittime della tratta, per integrarle in un percorso di protezione e reinserimento sociale. Ruth, non è solo la straniera moabita della Bibbia, ma è una persona di colore realmente esistita, uccisa alcuni anni fa nell’alto mantovano, perché aveva rifiutato di prostituirsi. Don Walter, commosso dalla vicenda, aprì nel 2002 questa comunità di accoglienza, dandole il suo nome. Il ricordo mi riporta al primo giorno nella comunità: era primavera e la corte era lucente, le prime rose danzavano al ritmo delle foglie rossastre splendenti sotto un sole caldo, l’aria era calma e silente. Il progetto di danzamovimentoterapia durò tre mesi da aprile a giugno 2005: le ragazze ospitate dalla casa di Ruth incontrarono alcune difficoltà a causa delle loro esperienze drammatiche. L’imbarazzo, la diffidenza, la paura del contatto, il dolore furono inevitabili nella prima fase del laboratorio, ma, con tanta volontà e coraggio, cercarono di trasformare la violenza subita in un nuovo percorso positivo. Nei primi setting, presentavano una postura contratta, spesso arrossivano intimorite e sudavano, segni evidenti del loro disagio. “Ciò che è vissuto con la mente , è vissuto con il corpo che nella vergogna si mostra e nello stesso tempo si nasconde, la vita di ogni persona è legata al proprio vissuto.” Per proteggersi dai ricordi dolorosi, modificavano i loro atteggiamenti psichici e corporei, chiudendosi in se stesse o abbandonandosi a risate nervose. Questi comportamenti influenzavano negativamente la loro motilità e nelle espressioni emergevano amarezze che a volte squarciavano il sorriso. Le energie si bloccavano in alcune parti del corpo, creando una rigidità che impediva la
fluidità nei movimenti. Questa speciale esperienza si è tradotta nel suo termine più antico, ossia prendersi cura dell’altro, per ritrovare se stesse. Le loro identità schiacciate, i corpi dimenticati a causa di tutto quello che era stato loro strappato, attraverso questa consapevolezza corporea, hanno scoperto una nuova possibilità espressiva. La creatività è stata il motore di un risveglio volto a un lento recupero del proprio mondo interiore. La vera sfida era quella di prepararle alla conquista di un lavoro per mantenere la propria autonomia e la dignità ritrovata. Nella Casa di Ruth la danzamovimentoterapia rientrava in un percorso di speranza e di crescita, in cui si mettevano in gioco sentimenti e attese in uno scambio di reciprocità: “un dono per ritrovare la fluidità dell’essere”.
L’arte misteriosa di dire ciò che apparentemente è semplice, sconvolge l’anima dell’ascoltatore, come il vento smuove una goccia d’acqua.
[1] Nella Bibbia, Ruth era una straniera moabita sola e reietta, perché rimasta vedova. Nel Cristianesimo questa storia è metafora dell’accoglienza e dell’accettazione del diverso.
Casa Circondariale
Quando si pensa attraverso il corpo si ci confronta con i confini e le limitazioni La solitudine è un groviglio d'oro e di stracci. Nuove tracce mi portarono in un luogo di grande sofferenza: l'ala maschile della Casa Circondariale di Mantova. Iniziavo il mio intervento di danzamovimentoterapia, un progetto chiamato Abitare il corpo. La prima volta che sono entrata in carcere la mia anima era sofferente e la mia professionalità, abituata in ambiti riabilitativi ed educativi, affrontava una nuova realtà con la quale rapportarsi, dove la percezione del tempo e dello spazio era diversa rispetto alla vita di tutti i giorni. Entravo dove non c'erano domande da fare o risposte da dare, bastava rimanere in ascolto: per rompere la rigidità non dovevo combattere i pensieri che affioravano nella mia mente, ma accoglierli. Il percorso di danzaterapia iniziava con l’osservazione del gruppo. Il setting coinvolgeva 15 persone adulte, diverse per età e cultura, ed era articolato in diversi momenti di risonanza tra la mia persona e l’individualità dei singoli, dove elementi significativi davano forma alle parole chiave, dettate dai loro bisogni, e dove emergevano problematiche come la perdita della propria identità e, di conseguenza, la difficoltà di relazione legata alla mancanza d’autonomia. In quel contesto era importante stimolare la coordinazione spaziale: osservavo come il movimento riflettesse lo stato del loro sistema nervoso, facendo emergere contrazioni muscolari e tensioni corporee. Nell'attività con questa particolare utenza, utilizzavo diverse modalità, cercando di stimolare la loro capacità d’ascolto e di rispecchiamento, per riscoprire la loro creatività, riportando equilibrio e autostima per recuperare l'identità perduta. Il progetto era strutturato come un laboratorio itinerante: ogni incontro era sempre in un luogo diverso dal precedente per attivare l’ascolto del proprio corpo, per creare un vero spazio dentro che si dilatava, si deformava e si allargava sempre più.
Il danzaterapeuta diventa “educatore”, laddove per “educare” s’intende la capacità di aiutare a esprimersi. Bisogna comunicare con la persona in stato di detenzione, cercando metaforicamente di superare le barriere non soltanto fisiche, ma anche culturali ed etniche, che rendono ancora più invalicabili certi limiti. Utilizzavo lo spazio di quegli incontri per poter comunicare la flessibilità del limite e il suo superamento. Per questa utenza un segno, un suono, una forma, diventavano movimenti corporei che rappresentavano unici codici, sconosciuti, canali dove poter far scorrere le proprie pulsioni vitali, sia positive che negative. La creatività può essere un veicolo di trasformazione per una vita bloccata: non dovevano rendere cronica la loro ferita, contrapponendola al dolore, ma accoglierla elaborando ansia, sofferenza, angoscia in un’espressione creativa, per fare emergere una forza nuova, alimentando l’autostima, fondamentale per attivare il processo verso un vero cambiamento. È stato possibile uno scenario di “cura” attraverso la corporeità, dal momento che la persona che risente della pena tende spesso ad ammalarsi. Posso affermare che il gruppo ha iniziato un processo di trasformazione dei rapporti interpersonali, favorito dalla crescita nell’autostima del singolo individuo.
Il principio basilare della danzamovimentoterapia è rivolto alla relazione Come possiamo aiutare l’altro se non sentiamo quanto di comune ci unisce.
Il mio viaggio continua e incontra nuovi intrecci.
Il paziente anziano
Il 16 ottobre del 2003 ho partecipato all’Università degli Studi di Palermo al Convegno Internazionale di Riabilitazione e stimolazione multisensoriale del Paziente Anziano con problemi otoneurologici e psichiatrici. Nell’intervento di danzamovimentoterapia proiettavo alcune diapositive dove veniva presentata l’esperienza svolta a Mantova nel laboratorio semestrale all'Istituto Mazzali durante il progetto Suono musica e movimento per la persona anziana - Il linguaggio del corpo nella terza età. Il gruppo era formato da persone anziane di entrambi i sessi, diverse per sintomatologia, diagnosi e disabilità, appartenenti a una fascia d'età dai 65 agli 80 anni. Il setting era semiaperto, rendendo così possibile l’inserimento successivo di nuovi utenti. Nell’attività di DMT utilizzavo suoni e musiche diverse, per stimolare sensazioni che avrebbero facilitato la riabilitazione e la ripresa di quelle funzioni che favoriscono nell’anziano una migliore qualità di vita: infatti, non si può immaginare il suono a prescindere dal gesto che lo ha generato. Incontravo il loro movimento e capivo che il corpo era il primo strumento che si risvegliava alla musica, alla danza, alla creatività. Questo metodo diventava indispensabile per la mia nuova esperienza, uno stimolo per riappropriarsi della loro fisicità: emersero presto i benefici di un corpo anche parzialmente recuperato e i loro volti non davano più voce alla paura dell’abbandono e del perdersi. Cercavo di scoprire i significati dei messaggi che il corpo invecchiato racconta, come spiega J. Hillman, un filosofo e psicanalista statunitense di stampo junghiano: “L’inutilità nell’anziano va considerata esteticamente; forse che l’anima prima di andarsene debba essere invecchiata al punto giusto? […] La sensibilità non è un accidente, né una dannazione o l’abominio di una medicina devota alla longevità, ma la condizione naturale e necessaria affinché il carattere si confermi e si compia.”
Si dovrebbe pensare all'invecchiare come a una forma d’arte, mentre nella nostra cultura si cerca di cancellarlo per timore di sfiorire: bisognerebbe lasciare crescere l’onda che prende spazio dentro di noi, che con il suo perenne procedere insegna l’eterno ritorno. Solo in certe patologie la mancanza di consapevolezza diventa progressiva, con la conseguenza di non riconoscere più come parte di sé il proprio corpo. Nell'incontro con questa particolare utenza, il movimento ha una funzione basilare: proprio attraverso l’attività motoria la persona entra in contatto con il proprio corpo, con il proprio respiro e, gradualmente, riconoscendo il cambiamento, può giungere ad accettarlo come parte di sé. Il laboratorio di danzamovimentoterapia è il risultato di questo processo, attraverso una comunicazione agita prevalentemente attraverso il linguaggio non verbale. Dobbiamo lasciarci coinvolgere senza riserve in tutte le fasi della vita e bisogna avere il coraggio di accettare la curiosità, una grande pulsione umana.
Mio padre
“Fare spazio” forse vuol dire essere capaci di abitarlo. Osservavo quei visi scavati, segnati e vissuti, e mi appariva il volto di mio padre: mi domandavo come sarebbe stato ora… Si chiamava Marco Aurelio, un nome altisonante, si muoveva con sicurezza, mi infondeva fiducia: il nostro cognome, Ravenna, proveniva da un lontano lascito di discendenza ebraica, ma era battezzato e cristiano. La sua infanzia era stata difficile e avventurosa, il padre lavorava come elettricista sulle navi, e la madre, mia nonna Emma, morì di parto quando lui aveva solo tre anni. Aveva ato molti anni della sua adolescenza in vari collegi, da dove era scappato, per poi ritrovarsi in una stiva di una nave mercantile, diretto in America: vi era rimasto pochi mesi come clandestino, ma lo rimpatriarono presto. Quella vita travagliata non gli ha trasformato il carattere allegro, ironico e ottimista. Conobbe mia madre su un tram a Genova: in quel periodo faceva il tranviere. Dopo una corte serrata e con la ione che lo ha sempre distinto, le raccontò la sua avventurosa vita, mentre lei lo ascoltava incantata. Si sposarono dopo solo tre mesi a Racconigi, alla presenza di tutto l’esercito italiano. Marco apparteneva, infatti, al Battaglione San Marco: da quella guerra ne tornarono veramente pochi... Il giorno seguente partì per il fronte russo; ritornò dalla ritirata del Don, invalido e con una medaglia d’argento al valore militare meritata sul campo, conferita dal Ministero della Difesa, per la sua azione eroica durante la guerra, quando, pur ferito tre volte guidò i suoi commilitoni a combattere contro il nemico e raggiunse un carro d’assalto russo, lo prese e portò in salvo il resto del suo gruppo: questo era Marco. Io sono nata al suo ritorno nel 1944. Mio padre era affidabile, buono e capace, io vedevo in lui una sorta di sacralità: per lui tutto era possibile.
A sei anni iniziavo ad avere forti febbri e bronchiti asmatiche, il mio papalino, così lo chiamavo, mi restava spesso vicino e mi raccontava delle strabilianti fiabe inventate sul momento e io mi addormentavo al suono della sua voce suadente, mentre mi accarezzava il viso e i capelli con le sue dolci calde mani. Mio padre era un uomo coraggioso, sapeva affrontare la paura e l’ignoto. Con lui per vedere il buio, bastava spegnere la luce e per ascoltare la sua voce bastava stare in un dolce silenzio; spesso indugiavo a osservarlo e mi abbandonavo alla sua presenza, ascoltando il suo respiro dove la mia anima incontrava la sua… nella sacralità del nostro spazio interiore.
Il dono
Il corpo è il nostro compagno inseparabile, quando si ammala in una parte, si può percepire la sua estraneità: si interrompe la percezione che porta automaticamente a considerare il proprio corpo come inscindibile dal sé più profondo. La mia mestizia è disperata malinconia, solo se aumenta può diventare insopportabile: tutto a e il nuovo invecchia per dare spazio all’infinito. Era da molto tempo che la mia policistosi epatorenale veniva monitorata dal nefrologo e i miei valori nell'ultimo periodo erano altalenanti, si erano alzati specialmente quelli che riguardavano la funzionalità renale. La mia malattia congenita era asintomatica, mi sentivo solo più stanca, ma continuavo a danzare, anche se i miei fili si confrontavano con nuovi limiti. Mille pensieri frullavano nella mia mente, ansie e paure, la specularità con mia madre e la sua famiglia, mi faceva sentire parte integrante della sua discendenza. Tutto tace e prende voce il mio sguardo che cerca la relazione con l’universo intorno a me, la mia danza descrive la mia sofferenza e dà voce al silenzio, è come se mi guardassi l’anima, spiando il mio segreto inconscio, colmo di debolezza e dubbio sul mio futuro. Gianni mi ha stretto le mani nelle sue dicendomi con voce persuasiva e convincente: «Se hai bisogno di un trapianto io sono disponibile, te lo do io un rene». La pelle non è solo una parte del corpo ma è il punto di contatto dove finisce l’io e comincia il noi. Il vivere stando dentro ad un’esperienza consapevole, è una disposizione opposta alla superficialità, alla lontananza, alla superiorità, significa stare con quello che accade, per accogliere il senso profondo della vita. Accettare la preziosità del suo dono mi era difficile, perché ai miei occhi diventava un sacrificio, ma parlandone con un sacerdote ho capito la profondità
del donare se stessi per ciò che si ama: ecco perché “sacrificare” assume il significato di dono, che si deve accogliere e amare in pienezza di vita. Come dice Antonella Potente, suora domenicana e teologa che vive in Bolivia dal 1994 per sperimentare una nuova vita comunitaria:“l’amore cresce con noi, si sviluppa con noi, si addormenta con noi e si pacifica con noi”. La mia danza diventa terapia: non mi chiedeva niente, mi univa con me stessa, e con chi è intorno a me. In questo periodo pensavo spesso a Gianni, al rischio che correva, alla sua sofferenza fisica e mentale, e mi sentivo come un naufrago alla deriva, che ha perso il senso della continuità. Credevo di essere pronta, preparata a questo evento, prima con la morte dei miei zii e dopo con quella molto dolorosa di mia madre, dovevo accogliere la mia angoscia, la mia impotenza e trasformarla, per lasciare posto all’accettazione che avrebbe permesso alla mia anima di ritrovare nell’intelligenza del cuore, la serenità e l'armonia. Ero in sala operatoria, Gianni aveva già terminato l’intervento ed era vicino a me, pallido e tremante dal freddo post operatorio: ha aperto gli occhi e un debole sorriso è apparso sul suo niveo viso. In quei momenti mi sentivo circonfusa di una luce immensa, una forte serenità mi avvolgeva intensamente: ero pronta. All’Ospedale Borgo Trento di Verona, dove siamo rimasti per circa un mese, le nostre emozioni danzavano in una reciproca azione dinamica. Ogni giorno la musica del mio corpo risuonava dentro di me e vivere quella particolare situazione accanto a Gianni era come condividere assonanze e nuove musicalità. Questo evento straordinario mi ha svelato la preziosità della vita. Il dono che ho ricevuto fa parte del mistero dell’amore, ne sono consapevole.
Il ritorno
La sofferenza prima di essere capita deve essere risolta, e per dare un significato profondo al dolore bisogna avere fiducia: solo così tutto lentamente si trasforma, cambia verso l’amore, che è vita. Dopo il trapianto, il mio lavoro ha avuto una svolta, la danzaterapia si trasformava in PERSONA: vestita del quotidiano, la mia visione si era allargata nel tempo all’ignoto. È nata in me una forza nuova che mi ha fatto capire che non c’è comione ma “con-ione”, compartecipazione empatica consapevole verso gli altri. La ripresa lavorativa, iniziata solo dopo tre mesi dal trapianto, è stata lenta e si scontrava con i nuovi limiti psico-fisici: ciò che era stato vissuto con la mente, lo era stato anche con il corpo, che comprendeva la mia anima, il mio spirito e tutto il mio sentire. Iniziavo a condurre un seminario in settembre al CIF, Centro Italiano Femminile, [1] di Mantova dal titolo I ritmi del nostro Cuore. Il seminario era un viaggio, attraverso la danzamovimentoterapia e il ritmo, nei vissuti simbolici dell’universo femminile. Partecipavano donne di diverse età ed etnia, ed emergevano le loro frustrazioni, colme di disagi, ansie e paure: unico obiettivo era trasformare questi bisogni in nuove energie, per una condivisa armonia di gruppo. Il mio corpo non mentiva, in questa esperienza ritrovavo un dimenticato benessere, per la prima volta la danza era una libera espressione verso l’altro e ne ero consapevole, un rinascere verso il mondo esterno, mai sperimentato così in pienezza e totalità: vivevo una nuova possibilità. Ho capito che il danzaterapeuta deve avere la forza di uno sciamano, capace di trasformare la sofferenza in arte, la negatività in creatività, la rabbia in comione. Nel maggio del 2009 ho presentato un progetto, per un bando della regione Lombardia, sulla prevenzione nei vari settori riabilitativi. Il progetto era Riabilitazione e stimolazione multisensoriale per il paziente Alzheimer
all’Istituto Mons. Mazzali, dove avevo già lavorato. Mi è stato assegnato il bando per due anni, potendo così sviluppare tutto il percorso di danzamovimentoterapia e ritmoterapia, dove era coinvolto direttamente Gianni. Iniziava in questo periodo la nostra collaborazione professionale e prendeva forma la nostra metodologia di danzarima. Nei nostri setting, incontravamo il movimento, il gesto, il ritmo di uomini e donne portatori di Alzheimer, uscivamo dalla logica frustrante del non riuscire a comandare il proprio corpo nell’eseguire un determinato movimento. Nonostante il progressivo deterioramento delle facoltà cognitive e funzionali, la persona è in grado di ricordare la melodia di una musica ascoltata e spesso anche le parole, scandendo il ritmo. “La musica, il ritmo, il movimento coinvolgeva la persona principalmente sul piano emozionale. Le emozioni dicono quello che si svolge in noi, nella nostra psiche, nella nostra interiorità; ma sono anche portatrici di conoscenza, di una conoscenza che ci trascina nel cuore di alcune esperienze di vita irraggiungibili della conoscenza razionale” (Eugenio Borgna,“Le emozioni ferite”) Dunque non è il piano cognitivo a fare emergere la parola, la melodia, il ritmo, ma sono le emozioni a diventare ponti privilegiati di comunicazione. Con questa utenza abbiamo elaborato un video dei momenti significativi del loro percorso. Alcuni membri del gruppo hanno partecipato a La mia vita in te, lo spettacolo tenuto al Teatro Sociale di Mantova e la loro perfomance fu completamente integrata a quello del gruppo delle danzatrici di Danzarima. Il miracolo era avvenuto: gli spettatori non avevano capito che nel gruppo, sei danzatrici erano signore con il morbo di Alzheimer.
[1] Nata nel 1944 come associazione di donne d'ispirazione cristiana per contribuire alla ricostruzione del Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale, attraverso la partecipazione democratica, l'impegno di promozione umana e la solidarietà. Presidente della sezione mantovana è la Dottoressa Patrizia Debiasi.
Danzarima
Con il significato delle parole “danza” e “rima” sono entrata in assonanza, come senso psicodinamico libero della forma, consonanza utilizzata per generare immagine onomatopeiche. La parola “danza” deriva dal sanscrito e vive nel tempo e nello spazio e, come dice Curt Sachs, è la madre di tutte le arti. La parola “rima” deriva da rhythmus, identità di suono, collegate insieme le due parole sono un’espansione di suoni ritmici. Ho sentito la necessità di costituire a Mantova l’associazione Danzarima, come coalizione culturale divulgativa di arte: danzaterapia, arteterapia, ritmoterapia. Nel team operano figure professionali specializzate nei vari settori. Il mio metodo si è arricchito attraverso diverse stimolazioni raccolte in seminari formativi con docenti qualificati nelle metodologie tradizionali e innovative. Le tecniche usate possono essere diverse, ma la danza è il centro di ogni espressione umana, dalla frammentarietà alla sua ritrovata totalità: è danzando che emerge dalla vita la sua realtà. Negli anni ho maturato nella mia attività una volontà di ricerca e una nuova apertura alle sperimentazioni. Nella danzarima sono presenti azioni espresse con gesti, movimenti simbolici che ci conducono alla consapevolezza del corpo, che diventa curativa nel momento dell’atto danzante, liberando il corpo dalla paura, vergogna, rabbia, timidezza, aggressività. Un processo che ha come meta la realizzazione del sé. Come sostiene Jung, “i simboli del sé sorgono nella profondità del corpo”. I corpi danzanti diventano come strumenti musicali accordati, pronti per essere suonati. La risonanza artistica del movimento, nelle sue diverse modalità, diventa comunicazione, espressione dei propri vissuti, per fare emergere le nostre emozioni nel linguaggio non verbale, diventando una grande risorsa per noi stessi e per chi incontriamo in questo percorso.
La danzarima è diventata una tappa del mio viaggio, volta a ritrovare una connessione con il respiro, anima del movimento, che attraverso il ritmo facilità la relazione. In questa metodologia non si impara a danzare ma a lasciare che il corpo stimolato dal ritmo racconti la sua storia attraverso il movimento, che è coscienza individuale, connessa solo in modo contingente al corpo, che solitamente abbraccia un dualismo, per formare qualcosa di unitario, come sosteneva Descartes, con la res cogitans e la res extensa. La nostra vita interagisce costantemente con la realtà psichica e con quella fisica, la prima libera e consapevole, mentre la seconda è limitata e inconsapevole. La danzarima con suoi ritmi e i suoi flussi, rielabora simbolicamente sensazioni e nuove musicalità silenti, per ritrovare il piacere del movimento, nell'armonia degli opposti. Nel danzare ritroviamo il nostro vissuto e quello che ci appare nel nostro immaginario con le forme trasmettiamo quel sentimento che emerge dal profondo. Ascoltiamo i nostri bisogni più intimi, cercando di farli affiorare nella realtà. In questa tecnica il danzaterapeuta stimola come punto di partenza la memoria corporea. Se attingiamo alla nostra storia, diamo vita al nostro gesto, al suono e al ritmo e al nostro linguaggio corporeo; osservando questo processo creativo, possiamo cogliere nel movimento l'essenza del singolo soggetto. “All’origine della musica si trova il movimento, dove si incontra il ritmo interiore, dove tutto ciò che è musicale deve poter venir fuori e prender forma” (Émile Jaques-Dalcroze,pedagogo svizzero, fondamentale nello sviluppo dell'euritmica, il metodo per insegnare e percepire la musica attraverso il movimento). Ritmi semplici, movimenti leggeri, nei vari livelli portano il corpo a rispondere agli stimoli proposti. Nei nostri setting ascoltiamo le percussioni che ci guidano con energia e sono stimolo per il movimento, abitiamo il nostro corpo attraverso la stimolazione ritmica, che risveglia le pulsioni e attiva i nostri simboli più profondi. Dalla radicalità, la terra, alla verticalità, il cielo, espressione vitale dell’umanità.
Con la danzarima sperimentiamo gruppi di drumcircle, un cerchio di percussioni suonate nella ripetitività di un ritmo incalzato dal ritmoterapeuta, per entrare nel rituale simbolico di una ritrovata sicurezza, che trasformiamo in creatività individuale che ci tragitta verso l’autonomia sensoriale. L’assonanza vissuta dal ritmo nel drumcircle, ci porta alla rinascita del corpo attraverso le pulsioni di energie vitali, collegate al nostro ritmo interiore (respiro, battito cardiaco) e a quello esteriore, fatto di tempi ordinari che ci riportano verso la straordinarietà del ritmo vitale. Tutto questo è alla base di un processo terapeutico. Rendiamo alla danza il suo ritmo: quando danziamo è come riscoprire gli albori del mondo e sarà sempre possibile ricreare momenti nuovi per un nuovo presente. Nella danzarima l’espressione del corpo nel suo movimento diventa lo strumento principale che ci guida verso una nuova consapevolezza per raggiungere una unità con se stessi e con il mondo che ci circonda. La nostra fisicità ci accompagna ogni giorno. Se l’uomo non avesse il corpo, non sarebbe ciò che è, ed è proprio attraverso il fisico che l’umanità si incontra. E per esprimere verbalmente la modalità del mio lavoro, credo che nulla sia più aderente alla mia idea, che queste poche parole espresse poeticamente dal filosofo e letterato statunitense Norman O. Brown nel suo Corpo d'amore: La parola si è fatta carne. Ritrovare il mondodel silenzio, del simbolismo, è ritrovare il corpo umano.Un aggio sotterraneo tra spiritoe corpo sottende ogni analogia. I veri significatidelle parole sono significati corporei, conoscenza carnale; e i significati corporei sono significatiinespressi. Ciò che da sempre parla in silenzio è IL CORPO.
La voce del silenzio
La Voce del silenzio, lo stage con il CIF di Mantova su tema d’ispirazione fuxiana, mi riportava a un video visto a Firenze in una pausa pranzo con Maria che trattava del percorso di Maria Fernanda, allieva della Fux nella sua scuola in Argentina, e della sua trasformazione. Quando incontrò Maria era una ragazza di diciott'anni non udente: frequentò la sua scuola per cinque anni, dove era stata integrata nel gruppo di persone normo-dotate. Ho visto il video dello spettacolo Dialogo con il silenzio: come se due universi dialogassero ballando, riconoscendo che il silenzio non esiste, Fernanda danzava per il suo mondo misterioso interiore e non si può comprendere come comunicasse magicamente i suoi ritmi al mondo circostante ma, di fatto, tutto diventava ritmo. Il gruppo del CIF danzava per incontrare il silenzio interiore, ascoltava il respiro silente ma presente, il ritmo cardiaco, la pulsazione costante dentro il corpo, e nel movimento incontravano ritmi lenti e ritmi veloci, al suono dei cembali si fermavano, ascoltavano il corpo e le percezioni che arrivavano, i loro occhi erano chiusi, e l’ascolto nel loro silenzio era totale: vivevano quell’attimo di ascolto nel QUI e ORA. Una persona racconta molto di sé da come sta in piedi, come cammina, come balla. Nel spiegavano come fosse arrivato il silenzio e i loro suoni non si muovevano in spazi o limiti, ma in un universo illimitato nel tempo e nello spazio: era lo spazio dell’Essere. In questo particolare stage ho compreso che anche la mia percezione corporea arrivava a nuovi orizzonti: i miei fili danzanti si erano allargati in un nuovo spazio e verso nuovi limiti. Tutto ciò che esiste ha un suono, è attraverso la sensibilità musicale che le pietre parlano al cuore e alle orecchie della mente e dello spirito. La danza come terapia appartiene allo spazio di transizione che “nasce dalle tensioni di mettere in rapporto realtà interne ed esterne”, come sostiene il pediatra e psicanalista Donald Woods Winnicott. E ancora: “si assimilano le esperienze culturali umane alle esperienze transizionali, ed è proprio nel setting, luogo protetto, che il gesto, il movimento, l’azione, hanno un loro significato simbolico.
Tutto questo è la partenza per un processo terapeutico. Rendiamo alla danza e al suo ritmo la posizione che merita nella vita di oggi, ballare significa ritornare agli albori del mondo, permettendo sempre di ricreare momenti nuovi per un nuovo presente.
Desiderio
“La vostra sofferenza è il rompersi del guscio che chiude la vostra conoscenza. Come il nocciolo del frutto deve rompersi perché il suo cuore possa esporsi al sole, così voi dovete conoscere il dolore.” (K. Gibran)
Isi parla al suo cuore: “Il tempo è cura, ma la verità è che non può essercene alcuna, poiché non si tratta di una malattia, ma di una mancanza, per la vita intera.. E non è vero che ero abituata a non sentire la tua mancanza, volavano i mesi, l’attesa dell’oceano da oltreare, avevo così paura di non rivederti più, di non avere il tempo necessario per farti comprendere quanto io ti amassi. Ora la tua voce mi accompagna sotto il cielo, attraverso le mie macerie, a un o dalla mia anima e mi prendi le mani, sorridi e io non ho paura. Sei il mio puntino immenso, che amo come tutte le stelle del cielo.” Così raccontava Isidora dopo il viaggio in cielo di suo padre. Ora osservo i miei fili lineari, piatti, e mi accorgo come tutto gira e tutto si allarga verso il tempo e verso la transitorietà; salvo le parole, perché scrivendo si trova la libertà della forma: è un gesto che ci riconcilia con l’eterno per osservare il mondo dalla giusta prospettiva. Di fronte ai pensieri che arrivano non cerco di capire i desideri, ma apro la porta li lascio entrare come vento nella mia anima. Nel silenzio guardo la donna che sono, nel suo spazio più intimo. Smetto di cercare risposte: aspetto con fede che il vuoto faccia la propria parte e mi conduca verso la libertà. Qui termina la mia storia iniziata dai miei fili danzanti, che dal palcoscenico, con un salto, sono arrivati allo scrittoio, rendendo visibile il mio linguaggio, fatto di immagini, desideri, emozioni e corpo di una piccola ballerina che è diventata…
grande. Forse ha ancora altro da raccontare, ma sarà per un’altra volta.
Grazie Lydia per le tue immagini raccontate
Appendice fotografica
Io e il maggiarino
Aldo, il mio padrino di Battesimo.
Zia Lucia
Vittoria e la sua famiglia
Suor Maria alla mia Comunione
Gianni Dall’Aglio, batterista di Adriano Celentano
Maria Molina, insegnante di danza alla Scala di Milano
Orietta vince il premio a Il Ragno d’oro
Performance di danza classica a Il Ragno d’Oro
“La Bella Addormentata” ai Parchi di Nervi
Lydia
Lydia e Orietta al Lido di Genova
Enzo Pelloni, in arte Enzo Carrà
Gara di cha cha cha al Lido di Genova
Miss Cinema Liguria
“Ritrovarsi”: Orietta attrice nel fotoromanzo del 1962
La prima sfilata di moda.
Gianni Dall’Aglio, batterista dei “Ribelli”
Orietta, Iris e Gianni
Sanremo: Orietta e Gianni con Compay Segundo
Orietta costumista a Sanremo
Claudia Mori
Raffaella Carrà
Scuola di danza all’Isola d’Elba
Nilton, Isidora, Iris
Associazione Danzarima: “La mia vita in te” gruppo Mazzali Alzheimer
Ass. Danzarima con il gruppo Anffas Teatro Sociale MN
Papà
Orietta e Gianni
Iris, Orietta e Isidora
Orietta e Maria Fux, danzaterapeuta argentina
Orietta Ravenna, danzaterapeuta Apid.
Ringraziamenti
Ringrazio tutti coloro che ho incontrato nel mio viaggio.
Maria Molina, la mia prima insegnante di danza classica; mio zio Aldo, mentore nella danza; mio padre, che ha aiutato i miei fili danzanti a incontrarsi nella sacralità del mio spazio interiore; mia madre, per la sua determinazione e il suo coraggio che hanno dato forza alle mie radici; zia Lucia, che con il suo sorriso ha fatto brillare le mie vacanze di bambina a Pietrachetta; Lydia, perché con i suoi racconti mi ha fatto sognare l'Africa; Maria Fux, che ha risvegliato in me la danzatrice latente e mi ha traghettato verso il grande mare della danzamovimentoterapia; a Matteo Bruni per l'elaborazione digitale delle fotografie; a Sara Valentini, che mi ha seguito in questo lungo percorso offrendomi anche le sue abilità informatiche; a Giulia Prati, mio editor, per la sua dolce pazienza.
Grazie a mia figlia Iris per il suo talento nel disegnare la copertina.
Sono molto grata a tutte le persone che ho incontrato come danzaterapeuta.
Spero di aver donato la capacità di spaziare nel proprio mondo interiore, nel rispetto dei limiti di ciascuno, e di averli aiutati a trasformare, almeno in parte, la loro vita.