Il Custode Dei Sogni Dimenticati 4b5h2r

Indice

Il Libro Titolo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16

Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Note degli autori Gli Autori

Il Libro

In una tranquilla valle ai piedi del Bernina cosa lega la bizzarra frenesia di rovistare nei cassetti dei suoi abitanti, un collezionista di strane sfere luminose, sette sorelle e una gattina smorfiosa? Roberto, un ragazzino di dodici anni dall’attiva materia grigia, non crede alle coincidenze e quando vede una luce svolazzare per la sua camera e il nonno rovistare negli armadi decide di vederci più chiaro. La sua curiosità lo porterà a incontrare Monica e Pulce, il suo inseparabile amico a quattro zampe, e con il loro aiuto scoprirà l’esistenza di un incredibile mondo popolato da custodi di sogni, messaggeri leali, consiglieri dispotici e governanti di un intera galassia. Ne nascerà una storia di lealtà e amicizia tra due mondi che non avrebbero mai dovuto incontrarsi.

Erre Esse & Elle Emme

Il Custode

dei

Sogni Dimenticati

Il Cassetto dei Sogni

1

‟Non esistono sogni troppo grandi,

o sognatori troppo piccoli.” - Turbo, 2013

«Ciao nonna, che fai?» Quando tornò a casa in quel caldo pomeriggio di fine giugno, il giovane Roberto si trovò davanti uno spettacolo inconsueto.

Quell'anno la primavera era arrivata in ritardo. La neve, che era scesa abbondante sin dall'inizio dell'autunno, aveva ricoperto l’intera vallata e i monti circostanti fino a maggio inoltrato. Poi, senza farsi annunciare, la bella stagione era arrivata improvvisa, come se avesse voluto scusarsi per il ritardo e recuperare il tempo perduto. Il sole di giugno si era presentato accecante e caldo, cosa davvero insolita per un paese di montagna che, anche se situato nel fondovalle, era sempre ad una quota di tutto rispetto. A differenza degli adulti, Roberto non si era affatto preoccupato di queste alterazioni climatiche e aveva deciso di approfittare delle belle giornate poco ventilate per uscire in bicicletta con gli amici. Per quanto la neve gli pie, quell'anno ne aveva vista fin troppa e ora sentiva il bisogno di riscaldare le ossa al sole, nonostante avesse solo dodici anni. «Mamma, perché la nonna fa così?» «Non lo sappiamo Roberto e ti dirò che siamo anche un po' preoccupati, è da questa mattina che rovista dappertutto.»

I suoi genitori osservavano lo strano comportamento della nonna mentre parlavano a bassa voce con il nonno. Lei invece, indifferente agli sguardi preoccupati dei suoi cari, si spostava da una stanza all’altra alla ricerca di qualcosa, ma qualunque cosa fosse, non era dato sapere. «Dove l'avrò messo?!» «Nonna, ti posso aiutare io se mi dici cosa stai cercando, in due faremmo senz'altro prima.» «Grazie Roberto, sei un tesoro. Il tuo aiuto mi farebbe proprio comodo. Se tu cerchi nei cassetti della scrivania, io guardo nell’armadio.» «Va bene, ma cosa devo cercare?» A quelle parole, la nonna smise di rovistare fra gli abiti e si girò verso il nipote. Per un attimo lo fissò senza vederlo, il suo sguardo era smarrito nel vuoto come se invocasse una silenziosa richiesta di aiuto, ma fu solo per un momento, perché subito dopo gli rispose sorridendo «Oh cielo, sai che non me lo ricordo?» Dette un buffetto sulla guancia del nipote ed esclamò ridendo rivolgendosi ad un pubblico sempre più perplesso. «Se non ricordo cosa stavo cercando, significa che non doveva essere nulla d’importante, non sembra anche a voi?» Tutti tacquero incerti su cosa rispondere. La nonna non si dette troppa pena per il silenzio che seguì la sua domanda e, rivolgendosi al marito il cui sguardo era quello più sconcertato di tutti, continuò. «Vecchio barbagianni, smettila di guardarmi in quel modo. Come se a te non fosse mai capitato di perdere qualcosa.» E così dicendo se ne andò in cucina a preparare la cena. Al vecchio barbagianni non rimase che alzare gli occhi al cielo e allargare le braccia in segno di resa. I genitori di Roberto si guardarono preoccupati, il comportamento della nonna

era stato a dir poco originale e temevano che potesse essere il camlo d’allarme di un qualche male tipico dell'età. Quella sera Roberto era ancora piuttosto turbato per quanto era successo nel pomeriggio. Amava molto i suoi nonni e non voleva che si ammalassero. Disteso sul letto, osservava il soffitto della sua cameretta da cui pendeva il planetario dell’intero sistema solare che il papà gli aveva regalato per Natale. Gli piacevano quei momenti che precedevano il sonno in cui la mente era libera di fantasticare nell’oscurità. La luna piena filtrava dalla finestra socchiusa e mandava una luce fredda che illuminava i pianeti, proiettando lunghe ombre sul muro. Le stelline fosforescenti, che alcuni mesi prima lui e la mamma avevano incollato alle pareti e sul soffitto scuro, brillavano irriverenti e davano al giovane osservatore l'impressione di possedere un piccolo universo tutto suo. Da quando le immagini provenienti dalle sonde in orbita e dai robot sulla superficie di Marte erano stati trasmessi in tv, Roberto si era apionato a quell'avventura spaziale e anche quando l'interesse dei media si era un po' raffreddato, lui aveva continuato a seguirla su Youtube, dove la Nasa, l'ente americano per lo spazio, postava con regolarità i filmati della missione. Pur essendo in inglese, le immagini erano così belle che, anche se non capiva tutto quello che le voci fuoricampo dicevano, la sua fantasia gli consentiva di apprezzarle lo stesso. Cullato dal dormiveglia e ormai prossimo ad addormentarsi, Roberto osservava il pianeta rosso immaginando di essere un astronauta sulla sua superficie. All’improvviso qualcosa lo distolse dal suo fantasticare e lo riportò sulla terra. Il piccolo pianeta, per alcuni istanti, aveva cambiato colore ed era diventato di un bel verde intenso, quasi smeraldino. «Marte verde, ma che succede?» Roberto, completamente sveglio, si sedette sul letto e guardò con la massima attenzione in direzione dell’astro e fu a quel punto che la vide. Una sfera pulsante una luce verde volava attraverso la sua stanza in direzione della finestra.

Senza pensarci due volte saltò giù dal letto e corse verso il davanzale proprio nel momento in cui quella luce, ormai all’aperto, spariva sotto i lampioni illuminati dove zanzare e falene danzavano frenetiche. Restò ancora qualche minuto alla finestra, cercando con lo sguardo qualcosa che non c'era più. Poi, rassegnatosi, sbadigliò e tornò a letto. Un'occhiata al mazzo di carte di Magic riposte sull'affollatissimo comodino e si addormentò, sognando un intenso combattimento dei mostri nelle pianure infinite, come aveva immaginato mille volte giocando con le sue amate carte.

Quando si alzò la mattina successiva ebbe un'altra brutta sorpresa. Anche il nonno aveva cominciato ad aprire tutti i cassetti. Era evidente che stesse cercando qualcosa e il fatto di non riuscirci lo faceva innervosire. «Accidenti, ma dov'è finito! Moglie, me lo avrai nascosto tu come al solito.» «Io non nascondo niente, vecchio brontolone. Al massimo metto in ordine ed è ben diverso.» I genitori di Roberto erano già usciti per andare al lavoro e non poterono osservare la scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi. Anche Serena, la sorella maggiore, era fuori. «Lascia che ti aiuti. Cosa stai cercando?» «Grazie, ma non importa. Sono certo che è finito sotto tutto questo ciarpame… Ahi!» «Nonno che succede?» «Niente, niente. Mi sono punto un dito con una spilla aperta che era finita in fondo a quel cassetto.»

Per qualche istante l'uomo interruppe la ricerca per succhiare il dito dolorante, ma subito dopo riprese ad aprire altri cassetti e a rovistarci dentro.

«Aspetta nonno, faccio io. Dimmi solo cosa devo cercare.» «Sì bravo Roberto, fai tu. Sto cercando, sto cercando… Oibò, non me lo ricordo più!» Il nonno sembrava disorientato. Per alcuni istanti rimase immobile con lo sguardo perso nel vuoto. Poi si grattò la pelata e scrollando le spalle tornò in camera sua. «Nonna, ma cosa stava cercando il nonno?» «Ah, e chi lo sa. Non me lo ha voluto dire, altrimenti lo avrei aiutato io, ma lo sai quanto è testone quello lì. Dai, lascialo perdere e vieni in cucina a fare colazione. So già che mi toccherà are la giornata a mettere in ordine il disastro che avrà lasciato dietro di sé. Hai presente quei tornado che si vedono in televisione, quelli a cui danno tutti quei nomi strani?» «Sì, certo che li ho presente.» «Ecco, la nostra famiglia ne ha uno personalissimo tutto suo. Si chiama il Tornado Amilcare.» Roberto rise, gli piaceva il senso dell'umorismo di sua nonna, anche se lo preoccupava il fatto che adesso fosse il nonno a comportarsi in quel modo bizzarro. Come coincidenza era troppo strana per non dire sospetta, ma non voleva preoccupare la nonna con i suoi dubbi. Lei continuava a conversare, amabile come sempre. Sembrava che si fosse pienamente ristabilita dalle stranezze del giorno prima, ma era davvero così? «Vai in bici anche oggi?» «Non lo so, non abbiamo ancora deciso. Dopo vado a chiamare gli altri e vediamo cosa fare.» «Ci sono ancora tutti i tuoi amici o qualcuno è già partito per le vacanze?» «Uhm, no sono ancora tutti qui. Forse qualcuno partirà a Luglio, ma non prima della metà del mese.» A Roberto però premeva di più capire cosa era successo alla nonna il giorno

prima e cercò di riportare l’anziana congiunta sull’argomento. «Nonna, come ti senti oggi?» «Benone caro, perché lo chiedi?» «Sai, ieri ci hai un po' spaventato. Continuavi a frugare dappertutto ed eri così agitata. Alla fine hai trovato quello che cercavi?» «No, non l'ho trovato, ma ho anche smesso di cercarlo.» «Come mai?» «Ci crederesti? Da brava sciocca quale sono, mi sono dimenticata cosa stavo cercando e poi non mi è più tornato in mente, ma sono cose che capitano. Vedrai che nel giro di qualche giorno me lo ricorderò, il trucco sta nel non pensarci più.» «Nonna, non sei sciocca. Sei solo un po' pasticciona.» «Ma guarda un po’ cosa devono sentire le mie orecchie. Vieni qui nipote screanzato che ti pizzico quei guanciotti e li faccio diventare ancora più rossi!» La nonna rideva e Roberto fu contento di vedere che tutto era tornato alla normalità. Voleva un bene matto alla sua nonnina e gli piaceva scherzare con lei. Mentre finiva di fare colazione a Roberto tornò in mente quello che aveva visto la sera prima. «Nonna, ieri sera mi è sembrato di vedere una luce verde muoversi per la mia camera.» «Davvero Roberto? Che cosa strana, non avevo mai sentito parlare di luci verdi che se ne vanno a zonzo nelle camere dei ragazzini.» «Non mi prendere in giro, nonna! L'ho vista davvero.» «Ma io ti credo, nipote un tantino permalosetto. Per caso avevi la finestra aperta?» «Solo in parte, non era spalancata.»

«Forse è entrata una lucciola.» «Non ne avevo mai viste di così grandi.» «Effettivamente sarebbe inusuale, ma come a volte nascono delle persone che poi diventano altissime, non potrebbero nascere delle lucciole più grandi del solito?» «Mah, forse. Ad essere sincero non saprei proprio cosa dire.» «Non ci pensare più, finisci di fare colazione piuttosto, così posso sparecchiare.» «Ok.» Roberto non era convinto della spiegazione che aveva ricevuto, ma non disse niente. Continuò a riflettere su quella strana visione, la sua mente non aveva alcuna intenzione di dimenticare quella luce.

*****

Nello stesso momento, in un posto così lontano da sembrare solo un puntino luminoso nel cielo, due strani esseri conversavano attenti a non farsi sentire. «Mi vuoi dire che qualcuno lo ha visto?» «Non ti agitare, era solo un ragazzino mezzo addormentato.» «Pensi che ci possa essere qualche pericolo?» «No. In tutta sincerità non lo penso, e se anche cercasse di attirare l’attenzione degli adulti su quello che ha visto, dubito che riuscirebbe a trovare qualcuno disposto a credergli.» «Come fai a esserne così sicuro?» «Ne ha parlato con un’anziana parente che lo ha convinto di aver visto un insetto luminoso gigante.»

«Sul serio? Ottimo. Bella idea quella dell’insetto, sono stati i tuoi a suggerirla?» «Dovresti ricordare che fa parte della SDS, la Strategia Diversiva Standard.» «Figurati se mi ricordo di tutti i diversivi che utilizziamo. Sei tu il responsabile. Se è stata una tua idea, io l'avrò avvallata davanti al Gran Consiglio per l’approvazione e nient’altro.» «Esatto, è andata proprio così. Allora, come vuoi che proceda?» «Va bene, mi hai convinto. Per il momento non facciamo niente.» «Mi sembra la cosa migliore, vediamo come evolverà la faccenda, ammesso che abbia un seguito.» «Sono d’accordo con te, soprattutto perché non ho nessuna intenzione di mettere in allarme il Gran Consiglio su qualcosa che potrebbe rivelarsi solo una sciocca preoccupazione senz’importanza.» «Sì, abbiamo già avuto prova in ato che i Sommi non amano essere scomodati senza ragione. Prima di dare l’allarme dobbiamo avere delle prove certe, altrimenti saremo noi a rimetterci.» «Mi vengono ancora i brividi al ricordo.» «Propongo di aggiornarci tra cinque giorni terrestri.» «Sii puntuale capitano. Ti aspetterò qui.» «Come desideri, mio signore.»

2

Quella sera Monica non riusciva proprio a prendere sonno.

Si girava e rigirava nel letto cercando la posizione che, come per magia, l’avrebbe fatta addormentare. Quando credeva di averla trovata, si sforzava di restare immobile con gli occhi chiusi, nella speranza che il sonno arrivasse, ma niente, non c'era verso. Allora ricominciava a muoversi nel letto per cercare una nuova posizione, con l'unico risultato di innervosirsi di più. Pulce, il suo fedele amico a quattro zampe, ultimo rampollo di una lunga dinastia di meticci di mezza taglia, era già sceso dal letto ai primi segni di insofferenza della ragazza e aveva trovato un quieto rifugio sul grande cuscino nell'angolo opposto della stanza, da dove poteva continuare a sorvegliare la padrona senza doverne subire i continui movimenti. Moka, la gattina di casa, non aveva apprezzato quell'invasione. Sin da quando era entrata a far parte di quella famiglia, un paio di anni prima, aveva eletto quel cuscino a suo giaciglio personale e non le andava proprio di dividerlo con quel rude invasore, ma si sa, i gatti sono animali superiori e sanno essere molto pazienti con gli esseri inferiori con cui sono costretti a convivere. Quindi, anche se con poco entusiasmo, accettò che il cane occue i centimetri che lei, acciambellata esattamente nel centro, aveva lasciato liberi vicino al bordo. Dopotutto, un gatto non disdegna mai una fonte di calore e quel cane lo era, oh sì, se lo era. Pulce sapeva che se solo avesse osato spingerla un po' per avere più spazio, si sarebbe ritrovato un'unghia conficcata nel sedere, ma non gli andava proprio che metà del suo corpo restasse sul pavimento duro e freddo. Conosceva bene Moka e sapeva che delle belle leccate, date con affetto sincero, l'avrebbero ammorbidita quel tanto da convincerla a spostarsi un pochino, senza che il suo posteriore corresse il rischio di essere unghiato. Era assodato che la gatta lo avrebbe fatto con movimenti misurati e di una lentezza esasperante, ma lo avrebbe fatto. Pulce, che ormai conosceva a perfezione il protocollo felino, cominciò a leccarla con dolcezza sulla testa.

La gattina, per quanto fosse orgogliosa ed egoista, proprio come tutti gli esemplari della sua specie, non era insensibile a certe manifestazioni di affetto. Quando non riuscì più a fingere di essere profondamente addormentata, ad occhi chiusi alzò il muso mostrando la gola ed emettendo quel caratteristico suono che aveva il magico potere di tranquillizzare chiunque lo sentisse. Il cane sapeva che era fatta, adesso si trattava solo di avere pazienza e aspettare che il rito si compisse. E infatti, come da tradizione, Moka diede inizio alla cerimonia con l’immancabile sbadiglio e apertura di un occhio. Qualche istante dopo aprì il secondo e rivolse lo sguardo all’amico in segno di ringraziamento per le coccole ricevute. Rinnovato così il loro patto di non belligeranza, stancamente si alzò sulle quattro zampe, inarcò la schiena facendo vibrare la punta della coda, poi si allungò restando ben salda sulle zampe posteriori e infine, con un’indolenza che avrebbe spazientito chiunque fosse stato meno esperto di Pulce, si spostò di quei pochi centimetri che avrebbero garantito un’equa condivisione del giaciglio. Nel letto, Monica continuava a muoversi e a sbuffare. Alla fine ci rinunciò e si mise a guardare il soffitto con le mani incrociate dietro la testa.

«Ai quindicenni l'insonnia dovrebbe essere vietata per legge!» pensò indispettita. Quella notte la luna era piena e la sua luce filtrava dalla finestra semi aperta. Le piaceva dormire sentendo il caldo tepore della trapunta sul corpo e il fresco dell'aria notturna sulle tempie. Proprio quando stava per accendere la luce sul comodino, cercando nella lettura il sonnifero necessario per poter dormire, vide una strana luce colorata muoversi per la stanza. Era come una sfera che, entrata dalla porta, si stava dirigendo verso la finestra. Non era possibile, stava sognando? Si era addormentata senza accorgersene e il sogno aveva preso il posto della realtà, non c'era altra spiegazione, però un

ringhio sordo di Pulce le fece capire che non era stata la sola ad aver notato quella strana cosa, ma allora non era un sogno. Restò immobile nel letto senza perdere di vista quella luce neppure per un attimo. Moka aveva alzato la testa incuriosita sentendo Pulce ringhiare e quando vide quella luce verdognola, la salutò con un cenno del muso e si rimise a dormire tranquilla.

Appena quel bagliore uscì, Monica scese dal letto e corse al davanzale per vedere dove quella sfera luminosa si fosse diretta. Si sporse con tutto il busto dalla finestra al piano terra cercandola con lo sguardo, ma la luce era salita più in alto fino a scomparire sotto i lampioni della via. Turbata e infreddolita, tornò a letto e si infilò sotto la trapunta. Sarà stata l'emozione per quello che aveva appena visto o la stanchezza accumulata in precedenza, non poteva dirlo, ma senza accorgersene la veglia lasciò il posto al sonno e finalmente si addormentò.

«Accidenti com'è tardi!»

Monica balzò giù dal letto. Quella mattina aveva appuntamento con le sue amiche, ma prima di uscire doveva fare dei lavoretti in casa, come promesso al nonno. Pulce e Moka si erano già alzati, loro erano mattinieri e facevano colazione con sua madre. Il cane doveva essere già uscito con il nonno, altrimenti non si sarebbe fatto scrupolo alcuno e l'avrebbe svegliata con la sua tecnica infallibile, elaborata in parte con l'esperienza personale e, soprattutto, con la conoscenza degli umani acquisita di generazione in generazione.

Il metodo era costituito da due fasi: la prima, che si poteva definire d’impatto, consisteva nel mettere il naso freddo e umido in un occhio di Monica. Questo causava un risveglio piuttosto improvviso, ma non sempre duraturo perché, se non interveniva subito dopo con la seconda fase, rischiava che la ragazza si

girasse dall'altra parte riaddormentandosi, con buona pace delle sue necessità.

Per evitare che questo potesse succedere e mentre lei era ancora in uno stato di dormiveglia, agiva con quella che si poteva definire la fase di umida dolcezza e che consisteva in una completa lavata di faccia a suon di leccate. In questo modo il risultato era assicurato. Perché, che sia chiaro, l'amore non si discute, ma quando scappa, scappa. Monica non amava molto essere svegliata così, la saliva di Pulce risultava essere piuttosto appiccicosa e quella sensazione sgradevole le restava anche dopo che si era lavata energicamente con acqua e sapone. Quella mattina le era andata bene e Pulce aveva soddisfatto le sue esigenze grazie a qualcun altro. Si alzò e mentre si vestiva riò le cose che doveva fare prima di incontrarsi con le sue amiche, senza immaginare che qualcosa di inaspettato sarebbe accaduto di lì a breve. Infatti, nel giro di pochi istanti sentì provenire dal corridoio, nell'ordine:

un guaito,

un tonfo,

un urlo.

Subito uscì dalla sua camera per capire cosa fosse successo e quello che vide fu una scena che non avrebbe dimenticato per parecchio tempo. In corridoio, il nonno era seduto per terra e si stringeva forte un ginocchio. Il povero Pulce, spaventato e tremante, se ne stava buono buono in un angolo. Tutt'intorno era una baraonda, ogni anta era stata aperta, ogni cassetto era stato sfilato dal proprio alloggiamento e il suo contenuto rovesciato su ogni superficie orizzontale che fosse a portata di mano, pavimento compreso. Documenti, chiavi, ma anche mutande, calze, strofinacci, lenzuola, tutto era stato

sparpagliato per la casa.

Sembrava di essere sul set di uno di quei telefilm polizieschi, dove l'ispettore scopre il colpevole grazie ad una minuscola nonché impercettibile goccia di sudore caduta all’assassino durante la violenta colluttazione con la vittima. Una piccola macchiolina ata inosservata a tutti tranne che a lui e, grazie a quell’unica prova, l’eroico poliziotto smascherava il colpevole dall’imprudente traspirazione consegnandolo alla giustizia, proprio un attimo prima che scorressero i titoli di coda. Moka era sulla libreria che osservava dall'alto tutta la scena. Aveva capito che quello non era il momento giusto per giocare con l’amico e preferì starsene in disparte. Quando vide la padrona il cane scodinzolò, ma la sua espressione era preoccupata e anche la coda non si muoveva con l’abituale entusiasmo. Solo la punta ondeggiava in mezzo alle zampe posteriori, segno che era necessario che lei si sbrigasse a intervenire, anche perché, a giudicare dalle smorfie del viso, il nonno doveva soffrire parecchio.

«Nonno, che ti è successo?» «Sono inciampato in Pulce, ma la colpa non è sua. Stavo cercando una cosa e non l'ho visto. Dai, aiutami ad alzarmi.» «Arrivo nonno, ma cosa stavi cercando? Se mi avessi chiamato ti avrei aiutato io. Appoggiati a me, ecco così. Ma tu stai male!» A stento lo mise in piedi, l’anziano non emise alcun lamento, ma si vedeva che soffriva. Monica lo fece stendere sul divano dopo aver spostato un mucchio di calzini e uno strofinaccio da cucina, poi prese il suo cellulare e chiamò la madre al lavoro che, non riuscendo a capire la gravità dell'incidente, decise di chiamare l'ambulanza. Nell'attesa, la ragazza cercò nel freezer qualcosa di freddo e trovò una busta di piselli surgelati. Avvolse il sacchetto in uno dei tanti panni che si trovavano in

giro e appoggiò l'impacco sul ginocchio dell'uomo.

«Nonno, cosa stavi cercando di così urgente?» La risposta dell'anziano la lasciò perplessa.

«Non lo so piccola, non lo ricordo più».

*****

A oltre trecento anni luce dalla Terra, nella costellazione del Toro, qualcuno era interessato a quanto stava avvenendo in quel paesino di montagna. «Capitano, è successo di nuovo!» «È stato visto?» «Sì signore.» «E dimmi messaggero, questa volta da chi?» «Da una ragazzina e un cane.» «E l’umana ne ha parlato con qualcuno?» «No capitano, sembra aver dimenticato l’accaduto.» «Molto bene messaggero, per ora basta così.» «Ma signore! Non vuole intervenire?» «No, messaggero e non discutere mai più le mie decisioni!»

«Non accadrà più, la prego di perdonarmi.» «E sia. Adesso puoi andare.» «Sissignore.» Quando fu di nuovo solo, il capitano Sminagós pensò a lungo a quanto gli era stato appena comunicato. Si era impegnato a incontrare il suo superiore, Il Consigliere Vulos, dopo cinque giorni terrestri e per il momento non c’era urgenza di anticipare l’incontro.

Per quanto l’invisibilità fosse una condizione obbligatoria per i Custodi casi, come quello segnalato, erano già avvenuti in ato senza che ci fossero state particolari conseguenze. Certo, in alcuni casi gli umani ne avevano fatto un gran parlare per alcune settimane, ma poi, come spesso accadeva a quel popolo, tutto si era esaurito in chiacchiere mediatiche. Solo alcune di esse erano sopravvissute nei secoli e si erano trasformate in leggenda, ma erano solo dicerie molto lontane da quello che era realmente accaduto. Eppure, anche se non c’era alcun motivo di preoccuparsi, non si sentiva per niente tranquillo. Decise di concentrarsi sugli impegni che lo attendevano e di archiviare per il momento quella sensazione.

3

Seduta nella sala d'attesa Monica aspettava che i medici del pronto soccorso visitassero il nonno. Dopo qualche minuto giunse anche sua madre e insieme attesero il responso medico. Per fortuna l'incidente non si rivelò niente di grave e al nonno fu diagnosticata una distorsione che sarebbe guarita in venti giorni con l'aiuto di una doccia gessata.

Anche se l'anziano protestava energicamente, il medico che lo aveva preso in cura insistette affinché restasse in osservazione per un giorno, così gli avrebbero potuto fare altre analisi. Monica e la mamma non dovevano preoccuparsi, il paziente sarebbe tornato a casa il giorno successivo. «Voi volete farmi diventare il vostro puntaspilli! Ecco qual'è la verità.» «Dai nonno, non fare così. Devi darci il tempo di mettere un po' in ordine la casa e procurarci una sedia a rotelle.» «Umpf, ci mancava anche questa!» «Su papà, se farai il bravo, domani sera ti faccio trovare un pentolone di minestra, proprio quella che ti piace tanto.» «Va bene, va bene, mi hai convinto figlia. Starò buono, ma tu non dimenticare la minestra!» Per suggellare la promessa fatta, la mamma di Monica lo baciò sulla fronte, invece la nipote gli promise che sarebbe tornata a portargli qualcosa da leggere e la radiolina con l'auricolare. Sapeva che il nonno era un tipo dinamico e che mal sopportava restare immobile in un letto. Si augurava che con quelle distrazioni sarebbe riuscito a resistere poche ore senza far impazzire medici e infermieri. Uscite dall'ospedale, le due donne si divisero i compiti. Monica doveva ridare

all’appartamento un aspetto normale pre-cataclisma naturale, mentre la mamma sarebbe andata a prendere la sedia a rotelle e le stampelle per poi tornare al lavoro.

A casa di Roberto tutto sembrava essere tornato alla normalità. Dopo aver fatto colazione ed essersi assicurato che anche al nonno fosse ata la smania di cercar chissà cosa, il ragazzo andò a chiamare gli amici, ma il pensiero di quella strana lucciola non lo voleva lasciare e fu così che si dimenticò di prendere la bicicletta. Quando se ne accorse era ormai giunto a destinazione. Era senza bici e in significativo ritardo.

«Ciao tutti.» «Ciao Roby, hai bucato per caso?» Paolo, il più grande e leader del gruppo si rivolse a Roberto con tono canzonatorio. Era lui quello che aveva le idee migliori e, anche se non erano poi così brillanti, finivano sempre per essere approvate. «No, ho fatto tardi a casa e me la sono dimenticata.» «Che strano. Proprio perché eri in ritardo avresti dovuto prenderla.» A Fabrizio, detto Fab, non sfuggiva mai niente. Roberto decise di tagliar corto con le spiegazioni che in quel momento riteneva inutili e focalizzare l’attenzione di tutti su quello che più gli premeva. «Ragazzi, vi è mai capitato di vedere delle sfere luminose grandi come delle palline da ping-pong volare di notte per la vostra stanza?» Non lo avesse mai fatto. A cominciare da Paolo, tutti, ma proprio tutti, si misero a ridere e a prenderlo in giro. Si diede dello scemo, doveva immaginare quale sarebbe stata la loro reazione. Per farli smettere non c’era altro modo che ridere e prendersi in giro a sua volta più di quanto stessero facendo loro. La cosa non lo entusiasmava, ma funzionò e

finalmente l’interesse del gruppo fu rivolto a pianificare cosa fare nell’immediato futuro. L’assenza del mezzo di locomozione a pedali non fu un problema, anche loro non avevano tanta voglia di andare in giro e decisero di aspettare l’ora di pranzo facendo qualche canestro nel campetto della vicina scuola. Roberto però era proprio stonato, più del solito. Sbagliava tutti i aggi, non riusciva a fare due palleggi senza perdere la palla e gli amici non mancarono di farglielo notare «Ragazzi, Roby è andato tutta la notte a caccia di lucciole giganti, abbiate pietà di lui.» E altre sciocchezze di questo tipo. Non che gli importasse molto, non era mai stato uno sportivo e sapeva di essere piuttosto scarso negli sport con la palla. Preferiva al movimento quelle attività più tranquille che richiedevano un abbondante uso del cervello come gli scacchi o come Magic, quel gioco di carte che gli piaceva tanto e che nei tornei a cui il papà lo portava, riusciva, a onor del vero, piuttosto benino. Fu così che dopo l'ennesimo aggio mancato decise di congedarsi e dirigersi a i lenti verso casa. Per quella mattina ne aveva avuto abbastanza sia dell’attività fisica che di essere preso in giro.

Lungo la strada incrociò due ragazze più grandi e un cagnolino dall’espressione un po’ annoiata che parlavano nei pressi di un portone aperto. Una, quella più vicina al cane, si stava scusando per qualcosa, mentre l'altra sembrava piuttosto seccata. ò vicino senza dare loro troppa importanza, ma quando intercettò le parole sfera luminosa e verde si girò di scatto e guardò con attenzione la ragazza che le aveva pronunciate. Voleva saperne di più, non poteva aver sentito male. Cercò un anfratto dove nascondersi per origliare il resto della conversazione, ma non ne trovò nessuno. Allora si sedette sui gradini di un portoncino poco più avanti, facendo finta di dover cercare qualcosa nello zainetto. In questo modo gli sarebbe stato possibile ascoltare cosa si dicevano senza attirare l’attenzione su di sé. Purtroppo però non colse null'altro di significativo. Ormai le due ragazze avevano fatto la pace e cambiato argomento. Adesso era l'altra che raccontava all'amica qualcosa di melenso e sbaciucchievole che riguardava un ragazzo. «Uffa, femmine!» mormorò Roberto.

Sconsolato, stava per alzarsi e andarsene, quando quella che si chiamava Monica salutò l'amica dicendole che nel pomeriggio sarebbe dovuta tornare in ospedale. Roberto vide che lei e il cagnolino si stavano dirigendo proprio verso di lui, allora decise di aspettare che si avvicinassero ancora un po' e quando furono abbastanza vicini si alzò e si parò davanti. Pulce lo stava tenendo d'occhio sin dal primo momento in cui lo aveva visto e non fu sorpreso di vederselo comparire di fronte. Così, mentre Monica si riprendeva dalla sorpresa, lui ebbe tutto il tempo di annusargli i pantaloni e di inserirlo nella categoria degli innocui. «Scusa, non volevo spaventarti. Prima ho sentito che stavi parlando con la tua amica di una luce verde.» «Sì, e allora?» «È successo la notte scorsa, grande come una pallina da ping-pong, volava ed è uscita dalla finestra?» «Sì, è vero, ma era un po' più grande, direi come una da tennis, ma come lo sai?» «L'ho vista anche io.» «Ma tu hai capito cosa fosse?» «No, non ne ho la più pallida idea e tu?» «Nessuna nel modo più assoluto, ma non ho avuto molto tempo per pensarci, questa mattina mio nonno si è fatto male e fino a pochi minuti fa avevo dimenticato completamente la faccenda della luce verde.» «Allora era per questo che dicevi di dover tornare in ospedale?» «Dimmi un po', ma tu origli sempre le conversazioni di chi non conosci?» In verità solo quelle che riguardano le luci verdi e poi non sei più una sconosciuta, so che ti chiami Monica.» «Eh già, visto che avevi fatto trenta c'è voluto poco per fare trentuno, no? E tu,

come ti chiami di grazia?» «Roberto, ma cosa è successo a tuo nonno?» «È inciampato in Pulce mentre cercava qualcosa per casa, con il risultato di essersi procurato una distorsione ad un ginocchio.» «Aspetta, aspetta. Hai detto che cercava qualcosa? E magari ha aperto gli armadi e i cassetti di casa?» «Di peggio! Ha svuotato i primi e sfilato i secondi spargendo il contenuto ovunque.» «Gli hai chiesto per caso cosa stesse cercando?» «Certo che l'ho fatto, cosa credi.» «E lui non ha saputo rispondere perché non se lo ricordava più?» «Ma cosa sei tu, un veggente?» Roberto non si era accorto che la sua voce diventava sempre più squillante man mano che le risposte di Monica confermavano i suoi sospetti. Anche il cagnolino sentiva l'eccitazione di Roberto e in tutta risposta si mise a saltare sul posto e ad abbaiare. «Sta buono Pulce. Si può sapere che vi prende a tutti e due. Perché ti scaldi tanto? E poi come fai a sapere che mio nonno non si ricordava cosa stesse cercando?» «Perché è successo anche ai miei nonni. Ieri a mia nonna e questa mattina a mio nonno.» «E anche loro hanno messo sotto sopra la casa?» «Non proprio, ma era evidente che cercavano qualcosa con una certa frenesia.» Monica lo guardò senza dire una parola. Le coincidenze stavano cominciando a diventare davvero troppe.

Il cane abbaiò un'ultima volta, a conferma che era pienamente d'accordo con loro. S’incamminarono verso casa. A Roberto e Pulce erano bastati poche decine di metri per diventare amici, Era evidente che i due si erano piaciuti sin dalla prima occhiata e dalla prima annusata.

Presi dalla conversazione non si erano accorti che per tornare a casa avevano percorso la stessa strada e solo quando si ritrovarono davanti alla casa di Monica se ne resero conto e scoprirono che non solo abitavano nella stessa via, ma anche a pochi metri di distanza. Roberto era curioso di conoscere come mai non si fossero incontrati prima, ma lungo il tragitto la sua nuova amica aveva avuto un'idea per cercare di capire cosa potesse essere quella luce verde e proprio quando Roberto stava per chiederle da quanto tempo abitasse lì, lei gliela espose dirottando i suoi pensieri di nuovo sul mistero che dovevano risolvere e facendogli dimenticare quello che avrebbe voluto sapere se lei non lo avesse interrotto.

Decisero di attuarla quella sera stessa, ammesso che la luce verde fosse tornata.

Intanto dietro la stazione ferroviaria, dove il pendio della montagna era ricoperto da un bosco così fitto da celare ogni cosa si trovasse al disotto, qualcuno, ignaro di quello che presto sarebbe successo, stava riponendo con meticolosa perizia le ampolle luminose prelevate la notte precedente e che erano il risultato del suo coscienzioso lavoro.

4

Ordinava quelle delicate ampolle con gesti lenti e misurati, come aveva sempre fatto da tempo immemore. Applicava la massima attenzione a ogni suo gesto, i suoi movimenti erano fluttuanti e leggeri. Con mano ferma le deponeva una ad una, come se già conoscesse il posto che il destino aveva assegnato loro. Le sue preziose e fragili ampolle contenevano particelle luminose che rilasciavano delicati bagliori colorati, taluni pallidi altri più intensi. I pochi raggi di luce che filtravano da una fessura nella roccia, attraversavano la superficie trasparente di quelle strane sfere fino solleticarne il contenuto che, così provocato, esplodeva in una danza di luci e colori esaltando la magnificenza di quella collezione. Tuttavia quel giorno non era del solito buon umore. La gioia che gli dava quella splendida raccolta era velata da una preoccupazione. Forse aveva sbagliato qualcosa, perché gli era sembrato che per un attimo quel ragazzino, che pensava essere profondamente addormentato, lo avesse visto. Ripercorse col pensiero le azioni svolte la sera prima e non gli sembrò di aver violato il protocollo in alcun modo. Non riusciva a spiegarsi come fosse accaduto. Sapeva che era impossibile, perché solo una particolare quanto rara combinazione di luci e di riflessi poteva renderlo visibile, a meno che non fosse lui a desiderarlo. E proprio questo era il dubbio che da un po' di tempo albergava nella sua mente, perché sentiva crescere l’impulso di mostrarsi per poter comunicare con quegli esseri. Ogni volta era riuscito a reprimerlo, ma sempre con maggiore difficoltà. Si era anche interrogato sul perché sentisse quel bisogno e non pensava che potesse dipendere dalla solitudine a cui quelli come lui erano destinati per l’eternità, o dal fatto che il suo mondo fosse tanto lontano dalla Terra. Le distanze, più o meno significative, per quelli come lui non erano un problema.

Sapeva inoltre che era proprio la sua natura che gli permetteva di muoversi

indisturbato tra gli umani. L’invisibilità ha grossi vantaggi, lo sa chi ha desiderato anche solo una volta nella vita poter scomparire dalla vista altrui, vuoi per un pantalone scucito in un punto imbarazzante, o per una macchia di cioccolato caduta vigliaccamente in bella vista sulla maglietta nuova. Purtroppo però ha come handicap quello di costringere chi ha questo dono a essere ignorato sempre e comunque. È inutile tentare di comunicare, non si troverebbe nessuno disposto ad ascoltare, per quello strano modo di pensare secondo cui quello che non si vede non è. Adesso che pensava di essere stato visto, il timore delle conseguenze, peraltro a lui ignote, lo aveva colto impreparato e gli fece comprendere che non era ancora pronto ad assecondare quel suo desiderio e, con ogni probabilità, mai lo sarebbe stato. Si concentrò di nuovo sul suo lavoro, sarebbe dovuto tornare ancora in quelle abitazioni e si ripromise di essere più prudente. Il suo compito lo conosceva bene, lo faceva da moltissimi anni e mai aveva fallito, doveva solo riuscire a resistere a quella tentazione. Alcune volte si era chiesto perché lo fe e se non c'erano altre soluzioni possibili. Non gli piaceva provocare un malessere, anche se eggero in quegli esseri così indifesi e fragili, ma ogni volta non trovava una risposta diversa dall'unica che era riuscito a darsi: così era perché così doveva essere. Era il suo lavoro, gli era sempre piaciuto svolgerlo e lo faceva sentire utile, perché quelli come lui esistevano per un unico scopo e non c'era null'altro che potessero fare. Tornò con lo sguardo alle sue adorate ampolle e restò qualche istante a contemplare quella visione che in migliaia di anni aveva ammirato infinite volte, ma che era sempre uno spettacolo meraviglioso.

Quella sera Roberto e Monica erano pronti ad attuare il loro piano. L'idea che avevano elaborato era semplice: chi dei due avesse visto per primo la luce fluttuante, avrebbe chiamato l'altro al cellulare. Non dovevano far altro che aspettare e premurarsi di avere le batterie dei loro cellulari ben cariche. In verità non si può dire che fosse un gran piano, ma con l'esiguità delle informazioni in loro possesso, per cominciare era già qualcosa.

Roberto non stava nella pelle per il desiderio di tuffarsi in quell'avventura e che potesse diventare pericolosa, non gli ava neanche per l'anticamera del cervello. Quel pomeriggio gli sembrava che non dovesse terminare mai, non stava fermo un attimo, era così agitato che riuscì a farsi sgridare da tutti i membri della sua famiglia, ma alla fine e, nonostante il nervosismo che il suo comportamento aveva sollevato, arrivò la sera e pian piano la casa divenne più silenziosa. La cena gli parve interminabile e che nessuno avesse voglia di alzarsi da tavola, però, a dispetto degli indugi, anche l’ultima mela fu sbucciata e l’ultima fetta ingerita. Questa volta non fece le solite storie per aiutare a sparecchiare, anzi. Prese i suoi piatti e quelli degli altri commensali senza farsi pregare come d’abitudine e con una rapidità esemplare che lasciò tutti stupiti.

I nonni si erano già ritirati per la notte, Serena era uscita con gli amici e i genitori, dopo aver sistemato la cucina, si erano spostati in salotto dove, come era consuetudine, si scambiavano le ultime impressioni della giornata.

Roberto era disteso sul suo letto con il cellulare touch-screen, ultimo regalo del padre, tenuto saldo nella mano destra in modalità silenzioso, pronto a ricevere ma anche a trasmettere. Era eccitato e faticava a stare fermo, ma sapeva anche che doveva restare immobile per la riuscita del loro piano. I suoi occhi vagavano per la stanza attenti a cogliere il più piccolo segnale luminoso. Richiamò alla mente quello che era successo la sera prima per esser certo di non aver tralasciato alcun dettaglio perché tutto doveva essere come allora. La finestra socchiusa faceva entrare la luce della luna piena, anche se con un'angolazione leggermente diversa da quella della sera precedente. Questa volta era lo specchio dell'armadio a essere colpito dai raggi lunari e la luce fredda, così riflessa, si spalmava sulle stelline delle pareti senza investire il planetario che pendeva dal soffitto.

«Peccato» pensò sbadigliando, mentre osservava la luce con i suoi riflessi. Il tempo ava lento, le emozioni della giornata e la noia per l’attesa lo avevano stancato. Gli sbadigli si susseguivano con una frequenza preoccupante, aveva superato da un bel po' l'ora che gli era consentita nei giorni di festa. I pensieri cominciarono a accavallarsi e ad agire con forza propria.

«Che ora sarà? Accidenti com'è tardi. Chissà cosa starà facendo Monica. E se si fosse addormentata? Quasi quasi la chiamo per vedere se è sveglia. Sì, fra poco la chiamo, magari aspetto ancora 5 minuti…»

Dopo cena Monica si era preparata per la veglia che temeva potesse diventare piuttosto lunga e noiosa. L’insonnia, che tanto l’aveva afflitta la sera precedente e che adesso le sarebbe stata utilissima, era scomparsa e, per ironia della sorte, il suo letto si stava dimostrando comodo e soffice come mai lo era stato prima. Cercò di convincersi che non si sarebbe addormentata se avesse ascoltato con le cuffiette la musica del suo gruppo preferito. Predispose il telefonino con il numero dell’amico sul display e si mise a fissare il soffitto. «Chissà se Roberto sta già dormendo.» pensò e non a torto, poiché era solo un ragazzino ed era già piuttosto tardi. L'ipotesi non era affatto da scartare. Monica ripensò al colloquio avuto con lui quella mattina. Le era piaciuto il piccoletto, le sembrava un tipetto tosto e si era trovata bene con lui dal primo istante. Le era bastato quel breve incontro per convincersi che insieme sarebbero riusciti a capire cosa stava succedendo, anche se non era affatto sicura che ci fosse davvero una relazione tra la luce fluttuante e le stranezze avvenute in casa. Entrambi avevano visto quella luce e osservato i nonni con quella strana frenesia di rovistare nei cassetti. Una semplice coincidenza? Difficile a credersi, ma Monica non riusciva ad immaginare cos'altro potesse essere.

La sua mente vagò libera nel ricordo di tutti i film di fantascienza e romanzi di avventura che aveva visto e letto. Di colpo le balenò un pensiero orribile: se

quella cosa fosse stata pericolosa, poteva coinvolgere un ragazzino in una situazione così rischiosa? D'improvviso si sentì meno sicura, ma nonostante questo e la musica che suonava sempre ad un volume importante nelle sue orecchie, le palpebre cominciarono a chiudersi. Il pollice della sua mano destra era appoggiato sul pulsante di invio chiamata, ma il resto del sistema nervoso si stava rilassando e gli occhi si chiudevano con una frequenza sempre maggiore.

Quello che non aveva smesso un attimo di stare all'erta era Pulce. Accucciato sui piedi della padrona ne percepiva l'aspettativa. Non sapeva cosa stessero aspettando e perché, ma se lei era così, allora lo sarebbe stato anche lui. All'apparenza sembrava che stesse dormendo e fino a quel momento non aveva mosso un solo muscolo. Solo la parte finale della coda si muoveva di quando in quando tradendo il suo stato di veglia. Ad un tratto la sua coda si bloccò a mezz'aria, lo sguardo divenne fisso verso qualcosa che nell'oscurità poteva percepire solo lui. Si alzò, emise un leggero sbuffo delle guance, poi un latrato sommesso, un altro un po' più convinto e infine si mise ad abbaiare dando l'allarme. Monica si svegliò di colpo e senza rendersene conto premette il tasto di chiamata. Spalancò gli occhi ma non vide nulla, tuttavia sentì la presenza di qualcuno o qualcosa nella stanza. Una vocina impastata dal sonno uscì dal suo cellulare interrompendo i suoi pensieri.

«Pronto?»

5

Roberto si era quasi addormentato quando il cellulare vibrò nella sua mano. «Roby, vedi qualcosa?» Il ragazzino, anche se insonnolito, si alzò e corse verso la finestra guardando nella via.

Dalla sua camera aveva una visuale perfetta, perché, anche se era solo al primo piano, era abbastanza in alto per poter vedere tutta la strada fino al fondo.

Sentì l'abbaiare di un cane. Abbassò lo sguardo, fissò la finestra della camera di Monica e per un attimo vide una luce giallastra uscire. Avvicinò il cellulare all'orecchio. «Sì! C'è una luce gialla, ma ora è svanita. No la vedo ancora, adesso è comparsa di nuovo, ma si sta allontanando, sbrigati!» Allungò la mano verso la scrivania senza perdere di vista quella luce e a tentoni trovò la macchina fotografica digitale. L'accese. L'apparecchio era già impostato in modalità REC.

Pulce fu il primo ad agire, saltò dalla finestra all’inseguimento di quella luce. Correva con il muso sollevato verso l'alto, come se non smettesse un attimo di annusare l'aria.

«Uno strano modo di correre» pensò Roberto, che osservava quanto stava succedendo in strada mentre riprendeva la scena con la sua digitale.

Monica giunse alla finestra pochi attimi dopo che Pulce era saltato in strada e non ci mise che un secondo a decidere cosa fare, la scavalcò a sua volta pronta anche lei a inseguire quello strano bagliore. Roberto non voleva restare fuori dall'azione e così decise di violare una mezza dozzina di regole che, se l'avessero scoperto, gli sarebbero costate parecchie ore di punizione. Prese al volo un paio di maglioncini che stazionavano sulla sedia da alcuni giorni e le scarpe da ginnastica. Col cuore in gola per la paura di svegliare i genitori, ancora scalzo per non fare rumore e anche per la fretta di raggiungere l'amica, scese le scale e aprì il portone. Indossate le scarpe si accorse che Monica e Pulce erano già arrivati in fondo alla via e doveva sbrigarsi se voleva raggiungerli. Si mise a correre nella speranza che i due non accelerassero di più il o. Il paese era addormentato e gli unici rumori che si sentivano venivano dallo scorrere del fiume e dai loro i. Il cielo era limpido e le montagne attorno erano delle enormi macchie scure che, come dei pacifici giganti, vegliavano sugli abitanti della Valposchiavo.

Monica e Pulce avevano già superato l'incrocio e si erano diretti verso il ponte sul fiume quando Roberto riuscì a raggiungerli. La ragazza aveva rallentato vistosamente e procedeva con un’andatura incerta guardandosi attorno perplessa. Non vedeva più alcuna luce e oltre a questo cominciava ad avere un po' freddo. Accortasi dell’arrivo di Roberto, si fermò per fargli riprendere fiato. Pulce invece non aveva notato che la padrona si era fermata e fu necessario che lei fischiasse per richiamare la sua attenzione. Lei e Roberto si guardarono dubbiosi. C'erano troppi lampioni in quella zona del paese, non si vedeva più nessuna lucciola gigante.

L'avevano persa. Il maglioncino in più che Roberto aveva portato fu provvidenziale, Monica lo indossò e proprio quando stavano per rinunciare all'inseguimento, si accorsero che Pulce continuava a guardare sempre nella stessa direzione. Che fosse in

grado di seguire quella luce anche se era diventata invisibile ai loro occhi? Fu sufficiente uno sguardo tra i due, poi Monica si rivolse al fedele quadrupede. «Vai, Pulce!» Il cane, sempre con il naso all'insù, non mostrava alcuna titubanza nel decidere quale direzione prendere. Svelto ma senza correre, percorse il vialetto che portava alla ferrovia. Man mano che i tre si avvicinavano ai binari, i lampioni si facevano più radi e i ragazzi riuscirono di nuovo a individuare quella luce. Eccitati per averla ritrovata accelerarono il o, ma dove stava andando? Quel bagliore giallognolo attraversò i binari e dopo pochi metri, lasciate le ultime case alle spalle, abbandonò la strada deviando sulla destra ed entrò nel fitto del bosco.

Pulce non si accorse che i ragazzi avevano rallentato il o e continuò imperterrito a inseguire la sua preda. Monica era in pantofole e le riusciva difficile camminare dove l'asfalto aveva lasciato il posto al terreno sconnesso del pendio. Inoltre il buio impediva loro di capire dove stessero mettendo i piedi e temevano che il rumore dei loro i potesse farli scoprire. Decisero così di fermarsi.

«Pulce, qui!» Monica bisbigliò, cercando di attirare l'attenzione del cane che non riusciva più a vedere.

Nel bosco, l'oscurità avvolgeva ogni cosa. «Pulce, dove sei?» Continuò a chiamarlo cercando sempre di non urlare, ma di lui non c'era alcuna traccia. arono diversi minuti che a loro sembrarono un'eternità e proprio quando Monica era all'apice della preoccupazione temendo che gli fosse successo qualcosa e stava per tornare a casa a prendere scarponi, torcia e corda per andare a cercarlo, un alitare festoso annunciò che era tornato sano e salvo. La sua padroncina aveva le lacrime agli occhi dalla gioia. Lei e

Roberto si sentirono sollevati e per la felicità accarezzarono l’amico facendogli un sacco di feste.

Il cane era perplesso, non capiva il motivo di tanta gioia, ma non si può certo dire che gli desse fastidio. Si sentiva come un eroe tornato da una missione giudicata impossibile e non aveva alcuna intenzione di sottrarsi alle loro carezze. Poi, finite le feste per l’apparizione del prode quadrupede, in silenzio tornarono sulla strada e solo dopo aver superato i binari, Roberto si decise a rompere la quiete notturna. «Hai visto, la luce esiste davvero!» «Sì, ho intravisto qualcosa, anche se ero troppo concentrata a non cadere con queste pantofole sceme. Sembra però che Pulce non abbia avuto alcun problema a seguirla, altrimenti non si sarebbe comportato così.» «Io l'ho vista bene invece! Non era verde come ieri, questa volta era un po' gialla e un po' arancione e non si vedeva sempre.» Perplessi e con una montagna di pensieri che frullavano nelle loro menti si avviarono verso le rispettive case.

Esausti si salutarono, ma proprio quando Roberto era riuscito ad aprire la serratura che nelle sue mani si rivelava sempre ostile e stava per entrare in casa, sentì una mano appoggiarsi decisa sulla sua spalla. Il sangue gli si gelò nelle vene e il suo giovane cuore ebbe un sussulto. Una voce severa disse «Che ci fai in giro a quest'ora?» Qualcuno lo aveva scoperto.

«Inseguito da un cane!» Era impossibile eppure era avvenuto, ma cosa gli stava succedendo?

Una volta giunto al sicuro nel suo nascondiglio ripensò a quanto era appena successo. Cercò di analizzare tutte le sue azioni, ma di nuovo non individuò nessun errore, nessuna superficialità, nessuna leggerezza, ma allora, com'era stato possibile? La sua precisione e professionalità non potevano essere messe in alcun modo in discussione, altrimenti non avrebbe potuto ottenere una collezione così grande e di una tale bellezza. Per la seconda volta consecutiva era stato visto. Questa volta era stato un cane a percepire la sua presenza. Eppure sapeva di essere invisibile anche a loro.

Solo i gatti lo potevano vedere e non solo, perché erano gli unici esseri di quel mondo in grado di viaggiare indisturbati anche nel suo, ma i due popoli erano alleati e non aveva niente da temere dagli esemplari di quella specie. Tra loro c'era un patto così antico che si potrebbe dire risalisse all'inizio del mondo. Molte volte il suo popolo e quella specie animale così nobile erano venuti in contatto e sempre con grandi soddisfazioni per entrambi, a tal punto che era sorta una fiducia reciproca, completa e incondizionata.

Stima che si era rinnovata anche la sera precedente, quando ando per quella camera, aveva incrociato lo sguardo di quella gattina dal musetto simpatico e un po’ smorfioso. In ogni modo doveva stare più attento. Non poteva tornare in quella casa perché la presenza di quel cane era troppo pericolosa, ma il suo lavoro non era ancora finto perché non poteva finire, non finiva mai. Doveva aspettare qualche giorno in modo che tutto si calmasse. Nel frattempo si sarebbe recato in un’altra abitazione, perché anche lì c'era chi aveva abbandonato i propri sogni.

*****

Il capitano Sminagós era sempre più preoccupato per quello che stava succedendo sulla Terra. Non solo gli avvistamenti erano continuati, ma i due ragazzi dovevano essersi scambiati le rispettive esperienze se avevano deciso di effettuare insieme quell’inseguimento, non poteva essere andata altrimenti. Per fortuna non si erano addentrati nel bosco e non avevano scoperto il nascondiglio. Ricordava ancora che era stato proprio lui, molto tempo prima, a opporsi affinché non venisse usato quel vecchio mulino come rifugio. Era troppo vicino alle altre abitazioni e, in quella zona, difficilmente i ruderi restavano disabitati a lungo. Il desiderio di ordine, il forte legame con il ato e le tradizioni portava quella gente a restaurare e rinnovare ogni edificio. Il messaggero Xsàghes attendeva che il capitano decidesse come intervenire. Visto che il suo superiore non si pronunciava, azzardò un’idea.

«Capitano, potrei dare l’ordine a un dimenticatore di intervenire sui ragazzi. Potrebbe arrivare a destinazione in poche ore e domani mattina i due terrestri non ricorderebbero più niente.» «No, messaggero. Le loro menti sono ancora troppo giovani e il rischio di provocare un’amnesia è troppo grande. L’idea che hai avuto, però non è da buttare via. Chiama Ksechnás, voglio parlare con lui.» «Agli ordini, signore.» Dopo alcuni istanti, il miglior dimenticatore della Via Lattea era davanti a Sminagós. «Capitano, mi ha fatto cercare?» «Sì, Ksechnás. Vorrei sapere da te una cosa.» «L’ascolto, signore.» «È possibile intervenire su due umani di giovane età, affinché non dimentichino, piuttosto, vediamo, non saprei come dirlo…»

«Sminuiscano l’importanza di un avvenimento che hanno vissuto?» «Esatto, intendevo proprio quello!» «Sì, signore. Non è una pratica che adottiamo abitualmente, ma è possibile.» «Immagino che per te non sarebbe un problema andare sulla Terra e intervenire su due giovani menti.» «Corretto, signore.» «Allora devi farlo subito. Fatti dare i dettagli da Xsàghes.» «Agli ordini, signore.» Rimasto solo, il capitano si sentì rinfrancato dalla decisione che aveva preso. Pensò che così facendo non aveva dovuto anticipare l’incontro con il consigliere e avrebbe tenuto la situazione sotto controllo o, meglio ancora, non ci sarebbe stato più niente da controllare perché tutto sarebbe tornato alla normalità.

6

Rientrato in casa scortato dalla sorella, Roberto voleva convincerla che la sua uscita notturna, fuori orario e senza permesso, era giustificata dagli strani eventi occorsi in quei giorni.

«Serena te lo ripeto, ma tu ascoltami bene. Ieri abbiamo visto la nonna comportarsi in modo strano, era agitata, apriva e chiudeva i cassetti, cercava con ansia qualcosa che aveva perduto e quando le ho chiesto cosa fosse se l’era dimenticata.» «Va bene, ma sono cose che capitano. Non mi sembra il caso di farne un dramma.» «Aspetta, non ho finito. La mattina dopo anche il nonno ha fatto la stessa cosa e quando mi sono offerto di aiutarlo, anche lui non ha saputo dire cosa stesse cercando.» «Uhm, effettivamente è un po' strano.» «Non è tutto, c'è dell'altro. Anche il nonno di Monica ha messo sottosopra la casa proprio come i nostri nonni, anzi anche di più, ma non basta, la notte scorsa ho visto una specie di lucciola grande così che mandava una luce verde, anche a lei è capitato di vederne una e perfino più grande della mia. Questa sera quella lucciola è tornata a casa sua, ma stavolta era arancione e l'ho vista uscire dalla finestra della sua camera. Allora l'abbiamo seguita. Ecco perché ero fuori!» Roberto era eccitato mentre raccontava alla sorella quello che era appena successo cercando di renderlo credibile il più possibile, cosa che, oltretutto, non era per niente facile.

Serena, una bella ragazza di diciannove anni, alla storia del fratello proprio non

riusciva a credere e con la diplomazia che da sempre contraddistingue i rapporti tra fratelli, glielo disse senza peli sulla lingua e con una bella dose di sarcasmo.

«Potevi inventarne una migliore, proprio ieri ho visto un ufo atterrare sul campanile della chiesa. Era fantastico come riusciva a stare in perfetto equilibrio sulla guglia. Io e gli altri presenti abbiamo applaudito e il pilota è uscito ringraziando, o almeno così sembrava, visto che i molteplici tentacoli che aveva al posto delle braccia erano tutti sventolanti in aria. Ma dai, smettila! Eri solo fuori a scorrazzare senza il permesso di mamma e papà e io ti ho beccato. La prossima volta inventane un'altra più credibile, come vedi di storie ne so raccontare di migliori.» «Ah, ah, molto spiritosa. Ti dico che è successo davvero. Non racconto frottole!» replicò Roberto alquanto piccato dal pessimo senso dell'umorismo di sua sorella.

«Quella luce l'abbiamo vista in due più un cane. Non so dirti se sia giusto definirla una lucciola gigante e comunque la si voglia chiamare, sono certo di averla vista. In ogni modo, l'abbiamo persa nel bosco dietro alla ferrovia. Ora che ci penso, tu che ci fai in giro a quest'ora?» «Smettila! Ehm, non cambiare argomento si stava parlando di te. Adesso fila a dormire. Domani ne riparleremo con più calma e, a proposito, se tu non dirai niente a mamma e papà che sono rientrata tardi, io non dirò niente sulla faccenda della tua lucciola, ok fratellino?» «Ok, ma ti dico che è tutto vero, uffa!» L'eccitazione di Roberto stava lasciando il posto al disappunto per non essere stato creduto (ma quando mai è successo che le sorelle maggiori credessero a quello che dicevano i fratelli minori).

Roberto si avviò con fare stanco verso il letto. Aveva ancora la digitale in mano, stava per spegnerla quando notò il display e la lucetta rossa REC ancora illuminata. Un lampo corse nei suoi occhi e la stanchezza scomparve all'improvviso.

Premette di seguito i tasti STOP e PLAY per vedere cosa aveva registrato. La vista della strada dalla finestra della sua camera, Pulce che corre inseguendo il nulla, Monica che esce dalla finestra al piano terreno, qualche puntino luminoso forse causato dai riflessi dei lampioni, il pavimento di casa sua, immagini confuse e saltellanti durante la sua corsa per le scale, la chiacchierata con Monica sul ponte, poi diversi minuti di buio in cui si sentono solo delle voci chiamare Pulce, la preoccupazione di Monica, poi le feste per l'arrivo del cane, il ritorno a casa, la conversazione con Serena… C'era proprio tutto! Prima che il filmato venisse cancellato per errore, era meglio salvarlo sul computer. E così fece. Una volta memorizzato sull’hard disk, fece scorrere rapidamente le immagini per essere certo che non si fosse danneggiato durante la copia. Infine mise via la fotocamera digitale, spense il PC e, stanchissimo, andò a dormire. La mattina dopo Roberto voleva raccontare a Monica del filmato e così, appena alzato, sgattaiolò in strada e bussò alla finestra dell'amica. Dall'interno, un abbaiare festoso gli annunciò che la sua presenza era stata sentita e che in breve tempo qualcuno sarebbe arrivato ad aprire la finestra. Infatti, pochi istanti dopo Monica e Pulce apparvero al davanzale. «Ciao Roberto, vuoi entrare?» «Ciao, no grazie. Mi fermo solo un momento, devo ancora fare colazione e se mia nonna scopre che sono uscito senza mangiare, le sentirò su per tutto il giorno. Bella avventura ieri, vero?» «Sì, anche se non abbiamo visto molto mi sono divertita a correre inseguendo il nulla, o meglio, io correvo dietro a Pulce, ma lui dietro a cosa correva?» Risero, in fondo non avevano capito niente di ciò che era successo la notte precedente e se ne rendevano conto.

«Sai cosa penso Roberto? Che è meglio se lasciamo perdere, in fondo non abbiamo visto altro se non un cane che correva dietro a… già, dietro a cosa correva?»

«Forse hai ragione tu, neanche mia sorella mi ha creduto. E pensare che ieri senza accorgermene ho filmato tutto.» «Dai! E cosa pensavi di filmare, il terribile fantasma del bosco?» Roberto sorrise e diventò tutto rosso «In verità non lo so neppure io, dopo aver filmato la vostra corsa nella via, me la sono dimenticata accesa. Però eri divertente mentre scavalcavi in pigiama la finestra e correvi dietro il cane sussurrando Pulce, torna indietro… ma come pensavi che ti potesse sentire se bisbigliavi?» Roberto rise di gusto ripensando alla scenetta che aveva registrato. Anche Monica sorrise.

«Me lo faresti vedere quel video? Devo proprio essere buffa.» «Sono ato proprio per questo. Ti andrebbe di venire a casa mia più tardi?» «Questa mattina non posso. Tra poco andiamo a prendere il nonno all'ospedale e dovrò dargli una mano, sai con la gamba in quelle condizioni avrà bisogno di aiuto, ma penso che nel pomeriggio sarò libera.» «Allora ti aspetto più tardi?» «Ci puoi contare!»

In un piccolo paese più a nord, non distante dal luogo dove erano avvenuti i fatti finora narrati abitava Davide, un bel giovane bruno e dalla carnagione scura al terzo anno di chimica. Era uno studente brillante, preciso e fantasioso in ugual misura, nonché l'intellettuale di casa. La sua non era una famiglia ricca, tuttavia era stimata e rispettata nella comunità in cui viveva. Il bisnonno era un vecchietto arzillo con ancora una folta capigliatura bianca, invidiatissima dal figlio e dal nipote che già a trent'anni avevano dovuto salutare la loro chioma e accettare un’incipiente quanto precoce calvizie. Era stato macchinista nella ferrovia retica e aveva portato con orgoglio quel trenino rosso avanti e indietro sull'impervia via del Bernina, da Tirano fino a St.Moritz per

anni e anni, anche quando nel resto del mondo imperversava una guerra totale. Era orgoglioso di quel treno diventato patrimonio dell’umanità e che ogni giorno sfidava la natura per superare il ghiacciaio che separava la valle dal resto del cantone. Aveva amato il suo lavoro e ne conversava sempre con grande piacere. Non perdeva occasione per raccontare aneddoti ad amici, nipoti e pronipoti. Ancora si commuoveva quando parlava del suo collega e caro amico Filippo detto Pippo e di quello che gli era accaduto durante la guerra. Il bisnonno di Davide fu uno dei pochi che gli restò accanto anche dopo la vergogna dell'arresto e non smise mai di difendere le ragioni dello sfortunato amico che, per aiutare i partigiani, violò la neutralità del suo Paese. Avrebbe voluto poter fare di più e negli anni seguenti la morte del Pippo, gli era venuta l'idea di pubblicare un libro con i ricordi di quel periodo così difficile. Aveva raccolto le sue memorie in alcuni quaderni che conservava gelosamente e che, negli anni, aveva arricchito con fatti e testimonianze. Si era anche interessato affinché qualche bravo e volenteroso scrittore raccogliesse in un libro il contenuto di quei quaderni, ma fino a quel momento sembrava che a nessuno interessasse rispolverare quella triste storia e pian piano, anche lui aveva chiuso in un cassetto sogno e quaderni. La madre di Davide era la maestra del paese. Una generosa signora sia nel comportamento che nella presenza e sempre pronta al sorriso. Amava oltre il limite professionale i suoi tesori (come spesso li definiva) a tal punto che questi, una volta cresciuti e diventati adulti, le restavano affezionati e non di rado capitava che si rivolgessero a lei per un consiglio o per qualche bisticcio amoroso. Suo padre era nella polizia cantonale. Dall'aspetto un po' burbero, incuteva il classico timore reverenziale che i turisti hanno verso la Schweizer Polizei quando varcano il confine elvetico. Il fratello più grande, un bel ragazzone biondo e dalla corporatura poderosa, era un elemento di risalto di quella particolare disciplina sportiva che si chiama lotta svizzera ed era spesso in viaggio per partecipare ai vari tornei cantonali. In casa lo si vedeva poco e per quanto mancasse a tutti, le sue partenze non erano accolte con tanta tristezza, perché la sua presenza era sempre accompagnata da un via vai di ragazzine, per non parlare del telefono che non smetteva un attimo di squillare, con buona pace degli altri membri della famiglia. Per i suoi continui spostamenti era stato costretto ad accantonare gli studi ma, se vogliamo dirla tutta, era comunque più portato a imparare con la pratica che are il suo

tempo sui libri. E infine Davide, dipendente part time del servizio postale della vallata per pagarsi gli studi. Il suo lavoro consisteva nella consegna di pacchetti e telegrammi. Non era un'attività impegnativa e gli lasciava buona parte della giornata per poter studiare. Quel lavoro gli piaceva molto, perché gli permetteva di entrare in contatto con tanta gente ed era un valido diversivo alle ore ate in casa a studiare. Inoltre, quando gli capitava di consegnare qualcosa di desiderato, l'espressione di gioia di chi riceveva l'agognato pacchetto lo faceva sentire come se avesse contribuito alla realizzazione di un sogno.

Nel paese più a nord di quelli che serviva, c'era un vecchio professore di chimica divoratore di romanzi polizieschi. Era un signore molto cortese e tutte le volte che Davide gli consegnava l'ultimo libro ordinato, questi gli faceva trovare una serie di esercizi da svolgere, sempre diversi e impegnativi. Grazie anche a questo aiuto inatteso, Davide era riuscito a prendere il massimo dei voti all'ultimo esame. Invece, nel minuscolo paesino al di là del fiume, era quasi una gara tra gli abitanti dargli una ricca mancia, peccato solo che fosse così piccolo e le consegne poco frequenti. Infine c'era il paese più grande, che dava il nome alla valle. Per lui quel posto aveva un richiamo particolare perché, per quanto non fosse indifferente alle attrattive naturali, un altro tipo di bellezza lo attirava in quel luogo, da quando aveva consegnato un microfono. Il sorriso di quella ragazza lo aveva stregato e da allora non smetteva di pensare a lei e a quei brevi attimi in cui le aveva parlato: «Il microfono è per te?» «Sì.» «Sei una cantante?» «Canto in un gruppo. Aspettavo questo microfono da almeno una settimana.» «Non è colpa mia, appena arrivato io l'ho consegnato!»

«Lo so che non è colpa tua. L'importante è che sia arrivato, così questa sera lo posso provare. Vuoi bere qualcosa?» «No, no grazie. Ehm, non che mi dispiacerebbe, ma purtroppo devo proprio andare. Sai, ho altre consegne da fare, ma davvero avrei accettato volentieri. Firma qui, per favore.» «Certo.» «Grazie. Ti chiami Serena, hai davvero un bel nome.» «Sei gentile ad averlo notato. E tu, come ti chiami?» «D-D-Davide! Mi chiamo Davide. Arrivederci e in bocca al lupo per la tua musica.» E ogni volta che ci ripensava si dava dello scemo per come era stato impacciato.

Alle tre Monica si presentò a casa degli amici con alcune fette di torta di mele fatta in casa. Sua madre si era data molto da fare in cucina per festeggiare il ritorno del padre dall'ospedale. Serena era a casa e accolse con interesse e curiosità la nuova venuta, ma più di ogni altra cosa sperava che la registrazione dopo la visione venisse cancellata, non le andava che ci fossero le prove del suo rientro fuori orario.

Il gruppetto si trasferì davanti al PC nella camera di Roberto portando le fette di torta, latte e tè freddo. Si misero comodi e lo spettacolo ebbe inizio. Sì, era davvero comico: un cane che corre col naso all'insù inseguendo il nulla, qualche istante dopo una ragazza scivola fuori dalla finestra, la giacca del pigiama che si impiglia nel fermo della persiana scoprendole la schiena. Erano tutti dettagli che dal piccolo video della fotocamera non si potevano notare ma che il grande schermo del computer esaltava con indifferente irriverenza. La corsa, le pantofole di Monica che volano lanciate dai piedi in movimento, la

sua rincorsa per prenderle e i suoi saltelli per rimetterle, le luci della strada che andavano e venivano come imperfezioni del video fino a quando Serena disse «Ferma!» «Cosa?» rispose Roberto ancora sorridente per lo spettacolo. «Ferma e torna indietro piano. Mi pare di aver visto qualcosa.»

Roberto divenne serio e subito fece ciò che la sorella gli aveva chiesto. Fotogramma per fotogramma ripercorse all’indietro i momenti in cui Monica, impegnata a rimettersi una pantofola, saltellava su un piede solo. Sembrava di vedere la moviola in TV mentre un difensore falcia in area un attaccante. Ancora indietro, piano, piano ed eccola! Una grossa sfera trasparente con una più piccola arancione nel centro. Era uno scherzo del video o cosa? I tre ragazzi si guardarono sgranando gli occhi. Di colpo tutti tacquero e un’atmosfera intrisa di mistero li avvolse.

Fu Serena la prima a rompere il silenzio.

«Scusa Roberto, avevi ragione tu. Qualcosa c'è di sicuro.» Ma cosa?

7

Quell’alone colorato aveva catalizzato l’attenzione dei tre ragazzi.

Roberto copiò il fotogramma e lo importò nell’applicazione per il fotoritocco e poi, con una paziente regolazione delle percentuali di contrasto e luminosità, riuscì a rendere quell’immagine più nitida. Una volta ingrandita, anche se appariva più sgranata, i ragazzi poterono scoprire che quella sfera luminosa si trovava all’interno di un involucro più grande e trasparente dalla forma oblunga, come quella di un grosso fagiolo. Dal modo in cui la superficie rifletteva i raggi lunari, la sua consistenza sembrava gelatinosa, proprio come quella di certi fissatori per capelli. Alla luce del risultato appena ottenuto, Serena sentiva il bisogno di riascoltare i fatti che erano avvenuti fino alla notte precedente. Chiese al fratello e all’amica di raccontarle tutto da capo. Rimase in silenzio e ascoltò con molta attenzione il resoconto, a volte un po’ confuso per sovrapposizione di voci, ma allo stesso tempo ben minuzioso, che i due le fecero. I ragazzi le avevano descritto in ogni più piccolo dettaglio quello che avevano visto dai loro letti e quanto era successo ai rispettivi nonni. La loro storia non appariva più così bislacca ora che a suggellarne l’autenticità c’era quel fotogramma con l’immagine di quella strana forma leguminosa.

Si chiesero se quello che appariva sullo schermo del computer poteva essere davvero un fantasma. Chissà perché erano convinti che, ammesso esistessero davvero, fossero di dimensioni considerevoli, ma quello che avevano davanti agli occhi non era tanto grande, a occhio e croce non superava il metro e non faceva neppure paura, anzi. Il primo a dare un nome al fantasma fu Roberto che lo chiamò nano fluttuante, poi Monica lo definì fantafifone per il modo con cui era scappato dalla finestra

inseguito da Pulce. In breve i due amici si sfidarono in una sorta di competizione per trovare il nomignolo più divertente e originale da assegnare a quella “cosa” e non fecero caso a Serena che continuava, immobile, a fissare lo schermo. Quella forma tondeggiante e la sua consistenza gelatinosa avevano scatenato la fantasia dei due amici. «Gelatina Ectoplasmatica!» «Lucciola Gommosa.» «Barbagel!» «Ah, ah, questo è carino. E che ne dici di Fantasmino per bebè?» «Perché fantasmino per bebè?» «È luminoso, come quelle piccole luci che si lasciano accese la notte per i bambini che hanno paura del buio.» «Ah, capito. Accidenti quante ne sai.» «Ogni tanto faccio la baby-sitter per i figli dei vicini.» «Adesso si spiega. Senti questo, Ectofuffa.» «Accidenti, non è affatto male e Fagiolone Gelatinoso come ti sembra?» «È un po’ lungo, ma piuttosto divertente. Meglio la versione inglese che è più corta, come ti sembra Big Jelly Bean?» «È ancora lungo, ma gli amici potrebbero chiamarlo BJB.» «Wow, mi piace bigeibi, è un nome tosto, sembra quello di un pezzo grosso dello spionaggio americano. Senti questa:

- Hey, BJB, la CIA ha intercettato una telefonata dei terroristi. Hanno scoperto che vogliono sciogliere un’enorme quantità di lassativo nell’acquedotto municipale. Noi dobbiamo impedirglielo o saranno dolori di pancia per tutti, ma

come possiamo fare?

- Ci penso io!

- Ma come, non vuoi neppure farti aiutare da una squadra di o?

- No, farò tutto da solo. Saranno una decina al massimo, datemi solo un paio di limoni.

- Sei grande BJB, hai salvato l’America!» «Ah, ah, che scemo che sei.» «Dai, chiediamo a mia sorella quale le piace di più.» «Buona idea, Serena, tu quale preferisci… ma che le prende?» «Serenaaa!» Lei non li sentiva. La sua mente era stata rapita da quell’immagine sullo schermo al punto che, quando il fratello le tirò una manica dopo averla chiamata più volte, come un automa si girò verso di loro con lo sguardo perso nel vuoto e solo successivamente spostò solo le pupille per fissarli. A Roberto sembrò uno strano atteggiamento, anche se piuttosto divertente. Le ò una mano davanti agli occhi, ma non ottenne nessuna reazione. «Mi sa che ce la siamo giocata.» «Non dire sciocchezze. Serena, ehilà, ci sei?»

Dopo alcuni istanti, quando ormai i ragazzi si erano convinti che si fosse trasformata in una statua e che ogni speranza di recuperarla era perduta, di colpo parlò. «Scopriamo cos'è!»

I due amici fecero un salto sulla sedia. Quando si riebbero dallo spavento la fissarono senza dire una parola. Quello che li aveva lasciati ammutoliti non era tanto l’idea che aveva espresso quasi urlando e che, a dire il vero, loro avevano già dato per assodata, ma il fatto che anche lei volesse essere della partita. La presenza della sorella maggiore nella squadra impegnata alla ricerca di quell’essere, metteva tutta l’operazione sotto una nuova luce. Da una parte, Roberto pensò che avrebbe avuto minore spazio di azione a causa della sua iperprotettività, ma, dall’altra, la complicità della sorella avrebbe dirottato ogni responsabilità di eventuali malefatte su di lei e quello era un vantaggio da non sottovalutare. Insieme si rimisero davanti allo schermo. Ricominciarono a studiare e ad analizzare ogni singolo dettaglio di quel prezioso filmato e quante cose scoprirono. Quell'essere, che era parso loro fluttuasse nell'aria, davvero non camminava e per di più non sembrava avere neppure braccia e gambe. Galleggiava come sospinto da un debole soffio di vento. Quindi ne dedussero che doveva essere in grado di volare, anche se ebbero l’impressione che non potesse staccarsi molto da terra. Pur essendo invisibile ad un osservatore distratto lo si poteva seguire guardando con attenzione il bagliore colorato che emetteva, perché anche se scompariva quando ava sotto un lampione e veniva investito dalla luce artificiale della lampada, era di nuovo visibile una volta uscito dal cono luminoso e, immerso nel buio della notte, veniva colpito dal chiarore della luna.

Ad un tratto Roberto, eccitatissimo per la sua scoperta, esclamò «La luna piena! Quando ho visto quella lucciola per la prima volta, ricordo che ero sdraiato a letto e stavo osservando il mio planetario. Avevo la finestra aperta e c'era la luce della luna che lo illuminava».

«Hai ragione! È vero, quella notte non riuscivo a prendere sonno e anche io avevo notato quanto fosse luminosa la luna.» Avevano appena scoperto un dettaglio molto importante: la luce della luna lo rendeva visibile.

Un altro aspetto non secondario lo notò Monica.

«Guardate come si spostano gli insetti vicino ai lampioni proprio quando ci a sotto.» «È vero, ma allora questo significa che lui non può arci attraverso!» Roberto comprese il motivo per cui l’essere era ato dalle loro camere. Se avesse potuto attraversare i muri, non avrebbe avuto bisogno di raggiungere la finestra per uscire dalle loro case.

Riguardarono ancora il filmato al rallentatore. Come quei disegni che si ottengono unendo i puntini numerati, così loro furono in grado di visualizzare il percorso compiuto da quell’essere, che appariva nel buio della notte quando veniva colpito dalla luce della luna per poi scomparire, ma solo in apparenza, sotto i lampioni dove lo spostamento di centinaia di insetti ne delineavano comunque il profilo. Potevano vederlo! Si guardarono senza dire una parola. Fu un Roberto entusiasta della loro scoperta, il primo a rompere il silenzio.

«Perché non lo catturiamo?» «Sei matto fratellino? Non sappiamo neppure cosa sia. Potrebbe anche essere

pericoloso.» Ecco l’iperprotettività di sua sorella che minacciava di rovinare quella che aveva tutte le carte in regola per diventare una magnifica avventura. «Che pericolo vuoi che ci sia. Scappa subito quando vede Pulce e poi, male che vada, possiamo sempre svignarcela se le cose si mettono male, non mi sembra che sia molto veloce.»

Serena non era convinta, voleva entrare in contatto con quell’entità sconosciuta in modo pacifico, per sapere chi fosse e cosa volesse da loro, mentre il fratello si sentiva già al centro dell'azione, come un personaggio dei suoi videogiochi Fino a quel momento, Monica non era intervenuta nella discussione tra i due, ma poi li interruppe decisa.

«Quell'essere viene nelle nostre case e si prende qualcosa, lo sento. Cosa ci sta rubando, cosa vuole da noi? Perché i nostri nonni si comportano in modo strano proprio adesso che è comparsa questa luce? E poi c'è dell'altro…» Guardò gli amici negli occhi e continuò «Questa mattina mia madre ha cominciato a rovistare nei cassetti alla ricerca di qualcosa. Quando le ho chiesto cosa fosse, mi ha risposto che non se lo ricordava più. Proprio come è successo ai nostri nonni!»

Man mano che Monica parlava, l'ansia e la preoccupazione crescevano dentro di lei alterandole la voce.

«Mamma non ha buttato tutto all'aria, come ha fatto il nonno, ma si vedeva che era agitata. È molto, molto strano e non può essere un’altra coincidenza, sarebbe già la quarta. Inoltre ha smesso di studiare così, di colpo e senza alcun motivo. Si stava preparando per un concorso e ci teneva molto a superarlo. Era anche

piuttosto preoccupata di non riuscire a finire di studiare in tempo per l’esame e questa sua interruzione improvvisa non mi convince.» «Magari hanno solo posticipato la data.» propose Roberto. «Hai provato a chiederle come mai ha smesso di studiare?» le suggerì Serena. «No, non l'ho fatto. Avete ragione, dovevo chiederglielo e lo farò di sicuro questa sera, ma sono convinta che c'è qualcosa che non va e che dipende da quell'essere. Dobbiamo scoprire cosa sta succedendo, anche per il bene dei nostri familiari!» Serena e Roberto annuirono, gli sguardi dei tre si incrociarono. Si dettero appuntamento per la mattina successiva di buon ora per elaborare un piano. La caccia era aperta.

8

Il giorno dopo si ritrovarono di nuovo tutti e tre davanti al computer di Roberto, ma non ci fu verso che la mamma li lasciasse in pace. «Non mi interessa cosa dovete fare di tanto urgente, non avete ancora fatto colazione. Quindi, venite in cucina con la vostra amica e sedetevi a tavola. Dopo, potrete andare a fare quello che più vi preme.» «Ma mamma, tu non capisci, dobbiamo catturare una fantasma!» Roberto fu troppo rapido nel rispondere e la gomitata di Serena non riuscì a zittirlo in tempo. Lei e Monica gli mandarono un'occhiataccia che lo fece arrossire, voleva sprofondare per la vergogna, si era comportato proprio come un piccolo sfagiolatutto.

Lunghi istanti di silenzio avvolsero la cucina. La mamma li fissò con uno sguardo tra il divertito e l'indagatore. Poi sollevò gli occhi al cielo e rispose con il sarcasmo che tanto faceva imbufalire Roberto e che, purtroppo, Serena aveva ereditato. «Fantasmi? E già che ci sei perché non anche streghe, vampiri e lupi mannari? So che si ritrovano tutti i venerdì in piazza sotto la torre. C'è una processione che non finisce più dopo mezzanotte e puoi catturarne quanti ne vuoi, ammesso che a loro vada l’idea. Per quanto ne so, non tutti sono di indole giocherellona, fossi in te farei attenzione. Ah già, che scema che sono, dimenticavo che non lo puoi sapere, hai il coprifuoco alle undici. Temo che dovrai aspettare ancora un paio di anni prima di poter andare a ficcare il naso.» Anche le ragazze si fecero coinvolgere da quell’atmosfera gioiosa e ne approfittarono per prendere un po' in giro il piccoletto, dirottando la conversazione su argomenti meno rischiosi.

L’unico che non apprezzò tanto buon umore fu Roberto, che per tutto il tempo che rimase in cucina, cadde in un mutismo da orgoglio ferito mandando giù il suo latte con müsli senza dire più una sola parola. Quando però i tre ebbero finito di mangiare e poterono tornare davanti al computer, era di nuovo carico di entusiasmo, segno che la ferita al suo amor proprio si era completamente rimarginata e con essa la preoccupazione di essere deriso. I tre riguardarono il filmato con attenzione, ma non riuscirono a trovare altri dettagli che potessero dare ulteriori informazioni su quello strano essere. Solo una cosa mancava ancora: dovevano scoprire il suo nascondiglio. Avrebbero dovuto addentrarsi nel bosco che saliva sulla montagna dietro la ferrovia e sapevano che senza l'aiuto di Pulce la ricerca sarebbe stata impossibile, ma confidavano che l'animale si ricordasse il percorso fatto quella sera dal punto in cui fu l’unico protagonista di quello strano inseguimento. Dopotutto tentare non costava nulla e, male che andasse, avrebbero fatto una piacevole eggiata in montagna. Serena propose di portare dei nastrini colorati da legare ai rami degli alberi per segnare il percorso, ma Roberto, che era tecnologicamente più avanzato della sorella, la prese in giro un bel po' prima di ricordarle che il suo cellulare aveva il rilevatore GPS e l’App con le mappe della zona aggiornate di recente. Una volta trovato il posto, gli sarebbe bastato memorizzare le coordinate geografiche e il gioco era fatto. «Con i nastrini colorati ci puoi fare le treccine alle bambole, se proprio ci tieni.» le disse con un tono da uomo vissuto che stonava profondamente con la sua altezza e il giovane viso ancora imberbe.

Monica si congedò dagli amici per andare a prendere tutto il necessario per lei e Pulce. Si diedero appuntamento in strada davanti alla sua finestra un quarto d’ora dopo. Infilati gli scarponi, i due fratelli presero gli zaini, le borracce, qualche barretta energetica e un po' di frutta, scesero in strada e aspettarono che Monica e il suo fedele amico arrivassero. Il primo a farsi vedere fu Pulce che, con un balzo, scavalcò senza difficoltà la finestra che era stata eletta a loro nuova e personale via d'accesso all'appartamento. Il quadrupede fu entusiasta di questa uscita fuori

orario e si presentò ai due fratelli scodinzolando. Dopo aver dato una leccata alla mano di Roberto in segno di saluto, si rivolse alla nuova arrivata nel gruppo dedicandole un'intensa annusata ai pantaloni, cosa che gli fu sufficiente per accettarla senza remore. Lo scodinzolio della coda che ne seguì fu la dichiarazione ufficiale che Serena era diventata membro ufficiale nella compagnia. Il gruppetto s’incamminò verso il bosco. Pulce sentiva che i ragazzi contavano su di lui per qualcosa e, anche se non gli era chiaro cosa fosse, era comunque deciso a non deluderli.

Il sole caldo, il cielo libero dalle nuvole e una fresca brezza erano la cornice ideale per la loro ricerca. Il tragitto in paese fu accompagnato da una gradevole chiacchierata di cui l’animale non perse neppure una parola, anche se dava l’impressione di essere più interessato ad annusare un sasso ai piedi di un albero o un ciuffo d'erba che spuntava irriverente dal marciapiede. Procedevano tranquilli poiché questa volta non erano impegnati in alcun inseguimento, ma lo stesso la eggiata fu breve e in pochi minuti arrivarono all'inizio del bosco, proprio nel punto dove Monica e Roberto erano stati costretti ad abbandonare le ricerche.

«Allora siete sicuri che eravate proprio qui quando vi siete fermati?» Roberto si guardò intorno e annuì. «Mi sembra di sì, vedevo quel lampione con la stessa angolazione.» «Sembra anche a me e la forma di quel sasso mi ricorda quello su cui è finito il mio piede quando la mia pantofola ha pensato bene di sfilarsi. Se volete, mi posso togliere lo scarpone per esserne certa.» «Ah, ah, bella idea Monica, ma direi che le vostre risposte mi possono bastare.» Il cane era pronto a proseguire e non capiva il perché di quella sosta, gli sembrava che gli altri non fossero certi di voler continuare. Provò a dare un

piccolo strattone, ma Monica, che lo teneva per il collare, lo bloccò. «Aspetta un attimo Pulce. Che voi sappiate, ci sono dei sentieri che partono di qui?» «No. Quelli che conosco io su questo versante della valle sono poco più a nord, poche centinaia di metri dopo la stazione o più a sud verso il lago.» Roberto non ricordava di aver fatto escursioni in quella zona e anche Serena confermò di non conoscerla. «Anche io non sono mai salita da questa parte. A guardarlo da qui, il bosco sembra piuttosto fitto.» I tre ragazzi erano cresciuti tra quei monti e sin da bambini era stato insegnato loro a conoscere la montagna, a rispettarla e a non farsi mai trovare impreparati. Si guardarono attorno in cerca di qualche segno di vernice rossa e bianca dipinto su una roccia o sul tronco di un albero a indicare l’inizio di un sentiero, ma non ne videro.

Roberto attivò il rilevatore GPS che avrebbe segnato sullo schermo del suo cellulare il percorso che avrebbero compiuto. «Alla faccia delle sorelle maggiori e dei loro nastrini colorati». A questo pensiero, un largo sorriso di soddisfazione apparve sul volto del piccolo esploratore mentre mostrava alla sorella un puntino azzurro lampeggiare sul visore del cellulare.

Quel singolo punto avrebbe disegnato un’irregolare linea blu sulla mappa durante il loro avanzare, permettendo al gruppo di non perdersi nel bosco. «Direi di metterci in marcia. Spero solo che il mio cagnolone si ricordi la strada, vero pulcioso pulciotto?» Pulce guardò la sua padrona scodinzolando. Aveva capito cosa voleva da lui ed era pronto ad accontentarla. Sarebbe stato facile, gli bastava annusare qua e là.

Ricordava perfettamente la mappa degli odori che aveva incontrato quella notte.

Si avviò trotterellando nel bosco col naso in terra, ogni tanto si fermava, alzava la testa, annusava poco più in là e poi ripartiva spedito. Monica lo seguiva con lo sguardo e lo richiamava quando si allontanava troppo. Lui non sembrava patire la pendenza che era già diventata importante dopo pochi metri. I tre, per quanto privati della trazione integrale dalla loro anatomia bipede, fino a quel punto erano riusciti a non distanziarlo troppo, ma nonostante la loro giovane età e il buon allenamento, cominciavano a risentire della forte inclinazione e le soste per riprendere fiato erano diventate sempre più frequenti, con grande disappunto della loro guida che si vedeva costretta, ogni volta che si fermavano, a tornare indietro e aspettare che riprendessero fiato. Più salivano e più avevano l'impressione che la loro meta si allontanasse invece di avvicinarsi. Cominciavano a temere che Pulce non ricordasse la strada, anche se non lo dava a vedere perché pareva molto risoluto nel guidarli. Il bosco si faceva sempre più fitto, i rami bassi si aggrappavano alle magliette mentre la sterpaglia li tirava per i pantaloni. Per fortuna nessuno aveva indossato dei calzoncini corti, altrimenti si sarebbero ritrovati le gambe tutte graffiate. Ogni tanto i tre si guardavano indietro per memorizzare il percorso al contrario, in modo da aggiungere l'aiuto visivo a quello tecnologico. Ormai era una cosa che facevano d'istinto e che avevano imparato sin dalle prime escursioni fatte con i genitori. Serena chiudeva il gruppo e ogni volta che trovava almeno tre sassi piatti di dimensioni diverse e una roccia con una superficie superiore sufficientemente piana, ce li metteva sopra, dal più grande al più piccolo per formare una piccola piramide. Un altro modo per segnare un sentiero, quando non si ha la vernice a disposizione. Quando ormai temevano di dover abbandonare le ricerche e senza che il bosco si fosse per nulla sfoltito, si ritrovarono di colpo davanti ad un casolare appoggiato alla montagna. Doveva essere piuttosto vecchio, ma era ancora in ottime condizioni. I muri erano stati costruiti a secco con un'antica tecnica che ormai era andata perduta, in cui pietre di foggia e dimensioni diverse vengono posate le une sulle altre e incastrate con una tale precisione da costituire muri di una robustezza eccezionale.

I ragazzi si avvicinarono con circospezione osservando l'eccitazione di Pulce. L'animale, che per tutto il tragitto era stato risoluto ma tranquillo, adesso scodinzolava e abbaiava. E come se questo non gli fosse bastato, si mise anche a grattare contro la porta di legno massiccio. «Buono Pulce, abbiamo capito. Siamo arrivati, ma adesso che facciamo?» Monica guardò i ragazzi perplessa.

«In tutta sincerità, non ne ho la più pallida idea» fu il commento di Serena.

Ed era vero, non avevano pensato a cosa avrebbero fatto una volta trovato il nascondiglio di quell’essere.

L'unico che non fece commenti fu Roberto. Era troppo impegnato ad ispezionare la costruzione. Girò prima da un lato, dopo un po' riapparve per scomparire dall'altro e mentre le ragazze si guardavano perplesse, lui tornò indietro e con l’ovvietà di chi ha le idee fin troppo chiare, disse «Beh, allora. Vi decidete o no?»

9

Il casolare era una piccola costruzione a pianta quadrata posta a ridosso della montagna. Aveva solo una porticina e una finestrella sul davanti che sembravano ben chiuse da imposte in legno massiccio. Il tetto aveva un piccolo camino al centro e proprio dove l’ardesia si confondeva con la parete rocciosa, un giovane pino tutto ricurvo, era cresciuto sulla roccia e aveva poggiato alcune delle sue lunghe e robuste radici sul tetto.

Da come il bosco si era riappropriato degli spazi, era immaginabile che nessuno avesse usato quel posto da parecchio tempo. Nessun umano, almeno. «Allora?»

Roberto cominciava a spazientirsi. Era mai possibile che le femmine dovessero sempre perdere tempo in stupidaggini proprio quando giungeva il momento di essere risoluti e agire?

Irritato dalle espressioni inebetite delle due ragazze che lo guardavano come se avessero appena inghiottito un enorme punto interrogativo, mandò uno sbuffo colossale, si avvicinò alla finestrella, aprì l'imposta che si era rivelata essere solo accostata e con un balzo saltò dentro. «Roberto, Nooo!» Ormai era troppo tardi. Il ragazzo scomparve avvolto dall’oscurità. Nel buio erano visibili solo un piccolo rettangolo di luce proiettato dalla finestra sul pavimento del casolare e due raggi di sole che, filtrando dal tetto, tagliavano come lame affilate l’aria densa, proprio dove le radici del pino avevano spostato le lastre di ardesia.

Monica e Serena si affacciarono alla piccola finestra con movimenti lenti e misurati, ma la differenza di illuminazione tra l’esterno e l’interno del casolare non permise loro di vedere altro. Nessun rumore giungeva alle loro orecchie. «Roberto dove sei?» Nessuna risposta. «Piantala di fare lo scemo, lo sappiamo che ci senti.» Silenzio. «E se tuo fratello si fosse fatto male?» «Speriamo di no, sarebbe un bel guaio doverlo portare giù in spalla, Roberto non è certo un fuscello.» «Roby, dai fatti vedere.» Tutto taceva. «Serena, dobbiamo entrare. Forse tuo fratello ha davvero bisogno di aiuto.» «Sì, penso che tu abbia ragione. Entro io per prima, tu tieni Pulce.» Monica prese il cane per il collare e si spostò di lato, in modo da lasciare maggiore spazio di movimento all’amica. Serena si ancorò con le mani ai lati della finestra e allungò una gamba all’interno dell’apertura, ma proprio quando il piede stava per posarsi sul pavimento, all’improvviso si sentì afferrare la caviglia e sollevare di nuovo la gamba in aria. Urlò e per lo spavento stacco le mani dal muro. Questo fu un grosso errore perché si sbilanciò e, restando su un solo piede, arretrò saltellando pericolosamente. Sarebbe di certo ruzzolata all’indietro se Monica non fosse intervenuta a frenarla con il proprio corpo. L’azione non fu però sufficiente per impedire la caduta delle due ragazze, ma ne ridusse l’impatto con il terreno.

Quando alzarono gli occhi videro che Roberto era apparso alla finestra soddisfatto per lo scherzo che gli era riuscito alla perfezione. Si appoggiò al davanzale e con sguardo divertito le apostrofò.

«Vi pensavo meno fifone visto che siete così esperte di vampiri, zombie e alieni».

Certe volte l’improvvisazione dà risultati di gran lunga migliori della più dettagliata pianificazione. Monica e Serena si rialzarono. Erano arrabbiate più con loro stesse per essere cascate nella sua trappola come due polle che con lui. Si limitarono a mandargli un’occhiataccia senza dire una parola. Dopo essersi spolverate i pantaloni dal terriccio decisero di entrare e furono a loro volta immerse nell'oscurità, ma dopo qualche istante i loro occhi si abituarono al buio e poterono vedere nella penombra. Il casolare era costituito da un unico locale a pianta quadrata.

Posto al centro della stanza e a circa un metro e mezzo di altezza, i ragazzi videro un vecchio gancio che pendeva da una grossa catena arrugginita. L’altro capo era fissato alla trave che, attraversando in senso longitudinale l’intero locale, faceva da o a due pesanti assi trasversali su cui poggiava l’intero soffitto. Proprio sotto il gancio, sul pavimento di pietra e terra, c'erano i segni di vecchie bruciature, come se in un tempo lontano qualcuno avesse un fuoco in quel punto. Era probabile che la catena e il gancio fossero serviti per reggere un pesante paiolo. Cominciava a fare un certo freschino e Monica, che era quella meno attrezzata dei tre, preferì uscire all'esterno per potersi scaldare al sole e, visto che c'era, decise di ricoprire il ruolo del palo nel caso avesse sentito arrivare qualcuno. Roberto era piuttosto amareggiato, non sapeva bene cosa aspettarsi, ma di sicuro non una stanza vuota. Dopo qualche minuto, anche lui, deluso e un po’ annoiato,

raggiunse l’amica all’esterno per giocare un po’ con quel cane che gli era proprio simpatico. Solo Serena era rimasta all'interno. Aveva la sensazione che quel posto non fosse così vuoto come voleva sembrare. Ritornò davanti alla parete di roccia, era convinta che nascondesse un segreto e non se ne sarebbe andata da lì fino a quando non lo avesse trovato. Al fondo del casolare la luce era troppo fioca e non le permetteva di avere una visione perfetta. Si affidò al tatto, cominciò da sinistra accarezzando ogni più piccola asperità e fessura della parete scavata nella montagna, ma non trovò nulla.

Si accorse però che una volta giunta dall’altra parte, dove finiva la roccia e sarebbe dovuto cominciare il muro a secco, il muratore non era stato così preciso e attento come nel lato sinistro. Sembrava come se avesse sbagliato a prendere le misure e avesse costruito la parete destra lasciando troppo spazio tra la roccia e il muro. Questa imprecisione si traduceva in un'ansa nella montagna di una cinquantina di centimetri.

Decise di concentrare lì la sua attenzione. Partì dall’alto e scendendo pian piano accarezzò la roccia, ma non trovò niente. Era proprio demoralizzata.

Proprio quando stava per abbandonare le ricerche la sua mano toccò… o, per meglio dire, non toccò più nulla. Infatti, in basso, all'altezza delle ginocchia, dove si aspettava di trovare ancora roccia, sentì invece una lieve corrente d’aria: aveva trovato un piccolo aggio. Era troppo eccitata dalla scoperta e, senza rifletterci neppure un attimo, si inginocchiò e si infilò nell'apertura. Il buio era totale. Serena era avanzata di qualche metro quando non sentì più la roccia contro i capelli. Con molta cautela si alzò. Poteva stare in piedi senza prendere capocciate, era già un notevole miglioramento. Il aggio non si era allargato molto e le pareti le sfioravano le spalle e le braccia. Cominciava a sentire un fastidioso senso di claustrofobia, ma strinse i denti e decise di andare

avanti. Quel corridoio scavato nella roccia e che si addentrava nel cuore della montagna le ricordava uno di quei aggi stretti e bui che si trovano in quelle attrazioni da luna park il cui unico scopo è quello di far emettere sciocchi gridolini alle ragazze e farle stringere dai ragazzi. Per vincere la claustrofobia che si stava facendo sempre più opprimente, finse di trovarsi proprio in una di quelle attrazioni. Tenendo le mani in avanti all’altezza del viso, seguì lo stretto cunicolo che curvò prima a destra, dopo alcuni i a sinistra e infine ancora a destra, ma appena Serena compì quest'ultima curva il terreno sotto i suoi piedi scomparve all’improvviso e per un pelo non cadde. Le ci volle tutta la sua forza e la sua esperienza per restare aggrappata alla roccia e ritrovare con i piedi il suolo perduto.

Il cunicolo era terminato di colpo e sotto di lei, circa due metri più in basso, si apriva una profonda grotta. La luce l'abbaglio.

La paura di cadere le aveva fatto battere il cuore all'impazzata e gli occhi le lacrimavano dal dolore. Ritornata al buio del cunicolo, si ricordò che aveva portato gli occhiali da sole per il tragitto in paese. Li estrasse dallo zainetto e una volta indossati tornò con o lento alla fine del cunicolo. Adesso riusciva a vedere senza che la luce l’accecasse e la sorpresa fu magnifica. Un immenso, gigantesco caleidoscopio composto da milioni di luci colorate si apriva davanti a lei. Una lunga grotta che la natura aveva scavato nel cuore della montagna offriva uno spettacolo incredibile: migliaia e migliaia di ampolle di diverse grandezze e delicate come bolle di sapone erano appoggiate su dei ripiani in pietra sul lato sinistro della grotta così profonda da sembrare non avere mai fine. Dall’alto un unico raggio di sole filtrava obliquo, ma sembrava che fosse sufficiente per far brillare tutte quelle ampolle. Pareva di essere al centro di un gigantesco spettacolo pirotecnico senza sonoro.

Aveva trovato la tana di quell'essere, ma in quel momento un brivido le corse lungo la schiena e le gelò il sangue. Non ne era certa, ma in lontananza le sembrò di vedere qualcuno che si muoveva vicino alle ampolle. Decise che non era il caso di indagare ulteriormente, quello che aveva scoperto le sembrava più che sufficiente per il momento e concluse che era giunta l’ora di battere in ritirata, non voleva sfidare oltre la fortuna. Fece dietro front e si avviò più in fretta che poté verso il casolare dimenticando che si sarebbe dovuta inginocchiare pochi metri prima della fine dello stretto aggio. «Ahi, Che capocciata!» fu l'annuncio che Serena diede ai ragazzi quando riapparve alla finestra, mentre con la mano si massaggiava la fronte proprio dove un bernoccolo molto promettente stava già spuntando. «Dov'eri finita?» «Trovato qualcosa?» Monica e Roberto si misero a ridere quando Serena uscì dalla finestra. Era tutta impolverata, con delle ragnatele che le pendevano dai capelli e un bel bozzo che le spuntava sulla fronte. «Torniamo a casa, ho bisogno di mettere del ghiaccio su questo coso prima che diventi enorme. Appena arriviamo in paese vi racconto.»

10

Mentre aiutava a preparare la tavola per il pranzo, Serena non riusciva a liberare la mente dal pensiero di quell'essere che si muoveva libero nelle loro case e a quanto aveva visto nella grotta.

Come aveva promesso, tornando a casa raccontò ai ragazzi del cunicolo e della grande caverna con le ampolle, ma tralasciò di descrivere il magnifico effetto di luci e colori che l'aveva quasi accecata. Sapeva che se ne avesse parlato, nulla sarebbe riuscito a trattenere il fratello e l’amica dall'andarci a loro volta e non era sicura che tornare in quel posto fosse la cosa più giusta da fare in quel momento, soprattutto sapendo che, con ogni probabilità, non sarebbero stati soli. Non voleva correre rischi, anche se più ci pensava e più si convinceva che non c’era alcun pericolo.

Quando lo aveva scorto in lontananza, non aveva provato una sensazione di pericolo vera e propria, piuttosto di vergogna, come se si fosse intrufolata in casa d'altri senza essere stata invitata.

Per dirla tutta, sentiva un forte desiderio di comunicare con lui, anche se non riusciva a spiegarsene la ragione. Quando fu tutto pronto e si sedettero a tavola, Roberto notò che la sorella era più silenziosa del solito. Fu solo dopo pranzo che Serena si rivolse al fratello con una richiesta tanto precisa quanto particolare.

«Roberto, ti ricordi la boccia del pesce rosso, quella che abbiamo sostituito poi con l’acquario più grande. Sai mica che fine ha fatto?»

«Dici la prima casa di Arturo? Certo che so dov'è. È ancora in camera mia.» «Ottimo, ed è ancora in buone condizioni?» «Ovvio. Vuoi anche tu un pesce rosso?» «No, niente pesce rosso. Allora svuotala e puliscila a fondo, deve essere splendente.» «Ma non capisco a cosa ti serve, che cosa ci vuoi fa…».

Roberto non riuscì neppure a finire la frase perché la sorella si era già chiusa nella sua camera con la chiara intenzione di non voler essere disturbata e, conoscendola, ben si guardò dall'insistere. Perplesso fece come gli era stato richiesto.

Dopo aver mangiato, aiutato il nonno i cui movimenti erano ancora incerti, aver svolto alcuni lavoretti in casa e portato a so Pulce, Monica bussò alla porta dei suoi amici. Le aprì un Roberto con un enorme sorriso sul volto e un'espressione furbetta a indicare che molto doveva essere successo in sua assenza. Le indicò la porta aperta del garage qualche metro più in là.

«Vieni, mia sorella ci sta aspettando». Serena era tesa e concentrata, ma anche molto orgogliosa del lavoro che lei e il fratello avevano fatto. Quando li vide arrivare li salutò con un magnifico sorriso carico di soddisfazione, prese il grande foglio di carta arrotolato che aveva con sé, lo stese sul vecchio tavolo che il padre usava per i piccoli lavoretti di bricolage e invitò i due ad avvicinarsi.

Monica notò che sullo scaffale dietro l’amica c’era una specie di sfera coperta da un telo grande quanto un pallone da calcio, ma non ebbe il tempo di chiedere

cos’era perché Roberto, che aveva notato la sua espressione incuriosita, l'anticipò. «È proprio quello che immagini. Adesso ci arriviamo, abbi pazienza ancora qualche minuto». Serena le fece l'occhiolino e poi cominciò a spiegare quello che aveva pensato, ragionato, progettato e realizzato con l'aiuto del fratello. Parlò lentamente in modo da essere sicura che nulla venisse trascurato e si interruppe spesso per rispondere alle numerose domande che Monica le poneva. Nacque così un piano dettagliato dove ognuno aveva un ruolo essenziale alla riuscita e lo ripeterono molte volte, per esser sicuri di non dimenticare neppure il più piccolo particolare. Alla fine Serena chiese.

«Allora, è tutto chiaro?» Tutti annuirono.

Nonostante fosse preoccupato per gli ultimi avvenimenti, andare in quella grotta lo faceva stare bene. Alla vista di quella magnificenza si sentì subito meglio. Quanti sogni e tutti irrealizzati! Aveva sempre fatto un buon lavoro e ne era orgogliosissimo. Dopotutto nessuno aveva mai lavorato per rendere vivi quei desideri e il suo compito era proprio quello di portarli via per farli dimenticare, anche se non era previsto che li conservasse per sé, ma non faceva del male a nessuno, anzi.

Il ricordo di un sogno non realizzato può provocare sofferenza, frustrazione e col tempo portare alla depressione colui che, pur non facendo nulla per concretizzarlo, continua a conservarlo dentro di sé. Ben diverso è il caso in cui c’è la volontà e l’impegno nel conseguirlo, ma la sfortuna o altre cause impediscono che si avveri. La consapevolezza di aver tentato con tutta la forza di

cui si è capaci allevierà la profonda delusione causata dal fallimento e la trasformerà in rassegnazione, ma l’esperienza acquisita non sarà vana e diventerà un’ottima alleata per conseguire i sogni futuri. Portando via i desideri non realizzati, non sarebbe sorta alcuna frustrazione e negli anni non sarebbe emerso il minimo rimpianto. Lui si sentiva un benefattore. Certe volte pensava con orgoglio di essere andato oltre il suo dovere. All'inizio, prendeva solo i desideri che con gli anni erano diventati impossibili da concretizzare, ma pian piano, sogno dopo sogno, aveva cominciato a prendere quelli che avevano ancora qualche possibilità di realizzazione. Lo faceva a fin di bene perché vedere gli umani affannarsi tanto, se non addirittura rischiare di mettere a repentaglio la propria vita per inseguire un desiderio, gli provocava un'immensa tristezza. Così lui, anticipando di poco la data stabilita per il prelievo, evitava che le persone potessero soffrire una volta accortesi di aver fallito e questo gli permetteva inoltre di non arrivare mai in ritardo nello svolgimento del proprio lavoro, ma quei due mocciosetti e quel cane petulante avevano cominciato a rendergli le cose molto più difficili. Pensò che per loro era solo un gioco e che se non si fosse fatto vedere per un po', non ci sarebbe stato più alcun pericolo. Quei ragazzini se ne sarebbero dimenticati, avrebbero ricominciato a pensare alle vacanze, agli amici, o ai loro interessi ludici e lui avrebbe potuto ricominciare ad arricchire indisturbato la sua bellissima collezione.

Ripensò alla sera in cui era stato inseguito da quel cagnaccio e a quanto gli era dispiaciuto prendere quel sogno solo a metà. Un lampo di ira ò nei suoi occhi e per poco non fece cadere un'ampolla dai delicati colori turchesi che stava coccolando con amore.

«Quella donna non ce la farà mai a superare l'esame, non voglio che abbia una delusione così grande.» Non riuscì a trattenere un urlo che gli si strozzo in gola. «Maledetta luna!»

Doveva resistere, non poteva uscire anche quella sera, sarebbe stato troppo pericoloso. Era convinto di questo, ma proprio in quell'istante un tuono lo distolse dai suoi pensieri e una nuvola oscurò il cielo privando la grotta del raggio di sole necessario a scatenare quel tripudio di luci e colori. Pochi minuti dopo, una forte pioggia cominciava a battere sul tetto del casolare.

***** «Ci sono novità, messaggero?» «No capitano. Non ci sono stati altri avvistamenti.» «Molto bene, puoi andare.» «Come desidera, signore.» Il capitano Sminagós tirò un sospiro di sollievo. Il pericolo era rientrato e poteva finalmente rilassarsi. Lasciò il suo ufficio al quartier generale di buon umore e si trasferì su Elettra giusto in tempo per presenziare all’inaugurazione del Festival delle Luci. Nel suo mondo era una manifestazione molto importante e solo una grave questione di Stato lo avrebbe potuto esonerare dal prendervi parte. Tutte le alte cariche sarebbero state presenti, e dovevano esserlo, per dimostrare che la pace e l’equilibrio continuavano a regnare in quella parte della galassia. Arrivato sulla stella, una delle sette più brillanti dell’ammasso aperto noto come M45, o più comunemente Pleiadi, nella costellazione del Toro, raggiunse la sua postazione in attesa di essere convocato per la parata di saluto al Gran Consiglio. Il protocollo era molto rigido e solo dopo questo atto formale, il cui scopo era quello di rinnovare la propria fedeltà al Consiglio e alle Sette Sorelle, uniche sovrane del regno, sarebbe cominciata la cerimonia di apertura. I ventuno membri del Gran Consiglio e i sessantatré consiglieri erano disposti sulle prime due file dell’immenso anfiteatro che avrebbe ospitato le cerimonie di apertura e chiusura del festival, mentre le performance dei vari artisti si sarebbero svolte in altri anfiteatri su stelle più piccole e meno luminose. Le file superiori erano occupate da importanti personaggi di mondi più o meno lontani che erano riusciti in qualche modo ad accaparrarsi il prestigioso invito.

Le Sette Sorelle erano presenti, ma poste in un luogo protetto e inaccessibile. Sarebbero state salutate in seguito dai membri del Gran Consiglio perché solo a loro era concesso di avvicinarle. Come segno di pace e distensione, si sarebbero mostrate alla fine della cerimonia di apertura solo il tempo necessario per ringraziare i presenti e decretare che il festival era ufficialmente iniziato. Il Capitano Sminagós, insieme a tutti i suoi colleghi, sfilò in corteo che fu seguito dall’Ordine dei messaggeri e dai rappresentanti dei livelli gerarchici più bassi. Era ovvio che l’attività di governo e gestione di quella porzione della galassia non poteva essere interrotta per il festival. Qualcuno doveva continuare a svolgere il suo dovere, nonostante la grande importanza che veniva data a quell’evento. Tutto avvenne come da copione e con l’abituale lentezza che questo tipo di cerimonie esige in ogni parte della galassia.

Quando la cerimonia di apertura terminò, il capitano Sminagós si sentì avvicinare dal consigliere Vulos. «Capitano Sminagós, incontrarla in questa folla è un piacere davvero inaspettato.» «Consigliere Vulos, sono onorato delle sue parole e lasci che mi permetta di ricambiare il piacere per la gradita sorpresa.» Sminagós sapeva che il consigliere non avrebbe toccato in alcun modo l’argomento di cui più di tutto gli premeva avere notizie. Non era certo il piacere della sua compagnia che lo aveva spinto a lasciare la sua postazione. Doveva fargli giungere con le sue parole il messaggio che attendeva e che lo avrebbe rassicurato. «Sono certo che la nostra parata è stata di suo gradimento, Signore.» «Siete stati magnifici, senza alcun dubbio.» «Non poteva riuscire meglio perché tutto è stato tenuto sempre sotto un costante

e preciso controllo.» «Me ne compiaccio capitano, me ne compiaccio.»

11

Quel pomeriggio di fine giugno, un temporale dispettoso innaffiò con generosità il tranquillo paese ai piedi delle Alpi e a due i dal piccolo lago che, insieme al famoso trenino rosso, era una delle principali mete turistiche dell'ampia e silenziosa valle.

I ragazzi erano delusi, continuavano a guardare il cielo nella speranza che tutti quei nuvoloni si allontanassero. La luna giocava un ruolo fondamentale per la riuscita del loro piano, ma il cielo continuava a essere coperto da spesse nuvole.

Quella pioggia proprio non ci voleva. Avevano predisposto tutto, riato con minuzia ogni più piccolo e insignificante particolare del loro piano e adesso erano bloccati per uno stupido dispetto meteorologico. «Facciamolo lo stesso! Magari tra qualche minuto le nuvole scompariranno. Lo sapete che in montagna il tempo cambia molto rapidamente. Non disperiamo, possiamo ancora farcela.»

Era un Roberto tanto deluso quanto eccitato ad aver parlato. Non poteva restare a casa neppure volendo. Le sue gambe fremevano per muoversi, le sue mani non riuscivano a stare ferme, continuavano a are sugli oggetti che avevano preparato sin dal primo pomeriggio e che erano lì sul tavolo del garage, pronti per essere riposti negli zaini. La sorella non era molto convinta, continuava a guardare gli aggiornamenti delle previsioni sul sito online del meteo. Trovarsi in montagna al buio e sotto la pioggia non era un'esperienza che voleva fare, anche se si erano attrezzati a dovere pure per quell'evenienza. Il meteo però era incoraggiante, dava tempo in miglioramento su tutta la zona.

Il temporale era appena finito, ci sarebbero state ancora due ore scarse di luce, più che sufficienti per salire, anche se non sapevano quanto sarebbe stato scivoloso il sottobosco dopo l'acquazzone. Decisero di agire e dovevano sbrigarsi se volevano arrivare al casolare prima che fe buio. Avvisarono i genitori che non sarebbero tornati per cena, sfruttando come scusa la festicciola che alcuni amici di Monica avevano organizzato nel paese vicino per celebrare come si deve la fine della scuola. La presenza di Serena alla festa diede anche a Roberto due ore in più di insperata libertà.

Il momento della partenza era arrivato, infilarono negli zaini alcune torce a led, una corda da arrampicata, due imbragature, una coperta, del cibo, acqua e i bastoni telescopici per aiutarsi nella discesa che sarebbe avvenuta di notte. Monica si fece carico di portare lo zaino con l'elemento più delicato e importante. Se si fosse rotto, tutto il piano avrebbe avuto una forte probabilità di fallire. «Fai attenzione, se cade non c'è modo di ripararlo!» Roberto si raccomandò con l'amica mentre l’aiutava a caricarsi sulle sue spalle l'ingombrante zaino con il fragile carico a cui avevano lavorato fino a poco prima del suo arrivo. Serena prese lo zaino più pesante con la corda, i moschettoni, i bastoni e il resto del materiale, a Roberto restò lo zaino con le cibarie, l'acqua e le torce. Erano pronti. Un bel respiro e via, era ora di andare e ovviamente anche Pulce sarebbe stato della partita. Il cane era orgoglioso di accompagnare la sua padroncina e i suoi nuovi amici. Avevano detto che la sua presenza era indispensabile e così si sentiva… indispensabile. La sua gioia era tangibile e non era ata inosservata a Monica e ai due fratelli che avevano notato la sua espressione allegra e il leggero ma continuo scodinzolio della coda.

Pulce seguiva i tre, attardandosi di quando in quando per annusare la via. La pioggia aveva cancellato i soliti odori e adesso gli toccava aggiornare la sua personalissima mappa stradale degli effluvi e magari lasciare i propri qua e là. Gli piaceva la pioggia, ma quanto lavoro comportava dopo.

Al casolare c'era una strana euforia. Il temporale e le nuvole dense nel cielo avevano dato un aiuto insperato all'essere che così avrebbe potuto completare quel lavoro lasciato a metà. Ormai stava diventando buio, poteva uscire senza problemi. Aprì lentamente l'imposta della finestrella e uscì guardando il cielo che era ancora coperto da spessi nuvoloni.

«Benissimo. Niente luna. Questa è la sera ideale.»

Rinfrancato dalla fortuna insperata che gli era capitata, quando ormai temeva che sarebbe stata una serata persa, si avviò volando alto tra gli alberi dove i rami erano più corti e meno insidiosi. Decise però di fare una deviazione. Doveva ispezionare una casa in un paese più a nord, anche lì c'era chi da un po' di tempo aveva smesso di sognare e lui non voleva farsi cogliere impreparato quando sarebbe giunto il momento di agire.

Non si può certo dire che stesse fischiettando, ma era lo stesso di buon umore.

Lasciata la ferrovia alle loro spalle, i ragazzi intrapresero di nuovo la salita fatta al mattino. Il fitto dei rami non aveva permesso alla pioggia di fare troppi danni, la terra era umida ma non fangosa.

«Meglio così» pensarono, preoccupati per il prezioso carico che Monica trasportava nel suo zaino. Salirono senza problemi, il percorso questa volta sembrò a tutti molto più breve, ma nei pressi del casolare rallentarono fino a fermarsi del tutto.

«Restate qui e non fiatate. È ancora presto e potrebbe essere dentro. Per quel che ne sappiamo esce solo col buio. Vi chiamo io appena sarò certa che lui non c'è.» Serena salì da sola gli ultimi metri. Voleva essere certa che non ci fosse nessuno nel casolare prima di dare il via libera ai ragazzi. Si nascose dietro un cespuglio che le permetteva di avere una perfetta visuale della facciata.

Dalla sua postazione osservò con attenzione la finestrella. Ringraziò la sua buona stella perché tutto era rimasto come lo avevano lasciato al mattino. Infatti, lei stessa si era preoccupata di chiudere il battente prima di abbandonare il casolare e, senza farsi notare dall'iper-tecnologico fratello, aveva annodato un nastrino arancione, proprio uno di quelli tanto criticati, attorno al fermo, dimodoché se qualcuno o qualcosa fosse ato attraverso quel varco lo avrebbe sciolto, segnalando così il proprio aggio. Il nastro era ancora ben visibile dove lo aveva messo, segno che in quelle ore, nessuno era transitato di lì. In montagna la sera scende piuttosto in fretta, soprattutto quando il cielo è nuvoloso. Serena non dovette aspettare a lungo per vedere l'imposta aprirsi piano dall'interno e una forma trasparente dai contorni gelatinosi uscire e alzarsi di qualche metro nel cielo. Le ò sopra la testa ma non dette alcun segno di averla vista. Temette che potesse vedere i ragazzi che aspettavano qualche metro di sotto, ma notò che l’essere prendeva una direzione diversa, sembrava diretto più a nord.

Aspettò ancora qualche istante e poi eccitata e sorridente scese per dare il via libera ai ragazzi. «Sei proprio sicura che lui non ci sia?»

«Sì fratello, l'ho visto uscire. Coraggio, sbrighiamoci che abbiamo parecchio lavoro e non sappiamo fra quanto tornerà».

Da alcuni giorni Davide girava per le vie con il suo motorino nella speranza di poter incontrare quella ragazza. Ormai tutto il suo tempo libero lo ava in sella allo scooter. Sapeva dove abitava e non mancava occasione di are davanti al suo portone, ma mai una volta che gli fosse riuscito di incontrarla in barba ad ogni calcolo statistico e probabilistico. Aveva visto diverse volte un ragazzino, una ragazza con un cane, degli adulti e degli anziani ma di lei mai nessuna traccia. Sembrava essersi volatilizzata nel nulla. Dal giorno in cui le aveva consegnato quel microfono, non era stato più lo stesso. Il sorriso di quella ragazza lo aveva abbagliato, gli era penetrato nell'anima e aveva parlato diretto al suo cuore. Da allora, aveva immaginato il loro incontro tante volte. Era l’ultimo pensiero della sera prima di addormentarsi e il primo del mattino quando si svegliava.

Sognava un incontro casuale, lui che le a accanto e le sorride, lei che lo guarda ricambiando il sorriso in segno di saluto, lui che si ferma e le chiede del microfono, lei che risponde allegra, due chiacchiere sul tempo, qualche commento divertente e poi un innocente cosa fai quando non canti? Io studio chimica, ti andrebbe di prendere un gelato? Davide si era immaginato quel momento così tante volte e in ognuna di esse il sogno diventava sempre più reale. Oh, come gli sarebbe piaciuto si fosse avverato! Poi però tornava con i piedi per terra Davide, non esagerare con i sogni si diceva, mentre seguiva con lo sguardo la traiettoria dello scooter che, docile ai suoi comandi, scansava un tombino. Ancora una curva e sarebbe ato davanti al suo portone. Non smetteva di sperarci anche se non si faceva illusioni. E infatti di nuovo lei non c’era. Sconsolato fece la seconda curva, ma quando alzò gli occhi, la vide!

Era di spalle, camminava in compagnia di un ragazzino e di una ragazza a sole poche decine di metri da lui, ma era proprio lei? Poi notò un cagnolino che li seguiva annusando qua e là, ricercando gli odori che la pioggia aveva cancellato. Davide frenò di colpo, quasi temesse di essere visto. Sentì un brivido corrergli

lungo la schiena, le mani che stringevano il manubrio del suo scooter erano diventate gelide e sudate allo stesso tempo, la respirazione si era fatta affannosa, il cuore gli batteva in petto così forte che aveva paura gli potesse scoppiare da un momento all'altro. Il suo sogno stava per avverarsi, sempre che sopravvivesse all'emozione. Attese ancora qualche istante sforzandosi di respirare piano per ritrovare il controllo, ma senza perderli di vista. Aspettò che il cuore la smettesse di usare la sua cassa toracica come un bongo in una danza tribale e diede gas per non perderli.

Arrivato in fondo alla via, notò che non si stavano dirigendo verso la piazza comunale come aveva immaginato, ma avevano proseguito diretti verso il ponte sul fiume. Continuò a seguirli, incerto sul da farsi, la presenza di quei due vanificava ogni possibilità di avere il dialogo che tanto aveva sognato e solo in quel momento si rese conto che non aveva un piano B. Ma dove stavano andando? Arrivati al aggio a livello, si sarebbe aspettato che girassero a destra per andare alla stazione e invece tirarono dritto attraversando i binari. Doveva accelerare o li avrebbe persi. Eccoli, li vedeva, ma stavano entrando nel bosco, perché? Parcheggiò lo scooter e senza perderli di vista, prese il giaccone che portava sempre con sé sotto la sella e continuò l'inseguimento a piedi. Per fortuna indossava delle scarpe da ginnastica con la suola scolpita che gli avrebbero permesso di non scivolare troppo, anche se non riusciva proprio a immaginare la ragione che li spingesse a fare un'escursione in montagna a quell'ora e dopo un acquazzone.

12

L'essere aveva completato la sua perlustrazione. Il prossimo lavoro non mostrava particolari difficoltà, si trattava del sogno di una persona anziana che stava perdendo la speranza di veder pubblicato il libro dei suoi ricordi.

In tutta tranquillità, si diresse verso la casa dove un lavoro lasciato a metà lo stava attendendo. Arrivato in via Da Mez, girò a sinistra in via Da Li Sberleffi. La casa era l'ultima ad angolo prima della curva. Se solo quel dannato cane non ci fosse stato. Percorse volando a mezzo metro da terra l'ultimo tratto che lo separava dalla casa di Monica. Gli era sempre piaciuta quella via, anche quando non si chiamava così. Infatti, molto tempo addietro, era abitudine delle comari del paese percorrerla lentamente all'uscita della messa, per scambiarsi in tutta tranquillità i pettegolezzi che avevano raccolto nei giorni precedenti, anche se era raro che restassero ben custoditi fino a quel momento. Il fatto non era ato inosservato agli abitanti del posto e qualche buontempone propose di rinominare quella strada in Via Da Li Sberleffi cioè la via degli sberleffi. La proposta fu presa stranamente in seria considerazione e così, dopo una delibera comunale, fu rinominata ufficialmente, e con tanto di targa, in Via Da Li Sberleffi o, come molti la chiamano oggi, Via Degli Sberleffi. Arrivato a destinazione, fu con molta circospezione che si addentrò in camera di Monica, a quanto pareva quella finestra era una via di accesso molto gettonata.

In casa non c'era traccia né della ragazzina né del suo cane. Non poteva andargli meglio. Attraversò il corridoio e mentre ava davanti alla camera del nonno, si fermò alcuni istanti davanti alla porta socchiusa. Vide l'anziano immobilizzato a letto con una vistosa fasciatura ad una gamba che litigava con il telecomando del televisore, nella vana speranza di trovare un programma che fosse almeno decente, nella miriade di canali inutili.

«Epperò, è notevole il frasario di un telespettatore deluso» si disse. Proseguì lungo il corridoio verso la stanza illuminata.

Entrò nella camera dove la mamma, sdraiata sul letto, stava sfogliando una rivista.

«Situazione perfetta!» Si rincuorò l'essere, certo che la donna non si sarebbe accorta di nulla. Sarebbe stato un lavoretto semplice e pulito, privo di sbavature proprio come da manuale. Si avvicinò piano senza fare il minimo rumore e provocare alcun spostamento d'aria. In quel momento era completamente trasparente e vederlo sarebbe stato impossibile per chiunque. Avvicinò una parte di sé, che poteva essere una mano o qualcosa che le somigliava, alla testa della donna. Con un movimento lento e controllato, una sottile protuberanza si insinuò nell'orecchio sinistro e ne estrasse una delicata nuvola di colore rosa che, man mano che si ingrandiva, assumeva venature di colore più intenso. Aveva striature rosa più scure, arancioni, rosse che poi si sbiadivano per tornare a essere rosa. Con molta attenzione e cura la ripose nell'ampolla che custodiva dentro di sé. Alla fine e nonostante tutti gli inconvenienti dei giorni precedenti, era riuscito a eseguire il suo compito. In quel momento la madre di Monica smise di leggere e si grattò la testa guardandosi attorno confusa. Cosa le stava succedendo? La sensazione di aver perso o dimenticato qualcosa si impossessò di lei, ma non riusciva a ricordare cosa fosse. Si alzò e cominciò a cercare. Aprì un cassetto, poi un altro, frugò in tutta la camera e guardò anche sotto il letto. Non trovò niente. Uscì dalla stanza sentendo una strana frenesia crescerle dentro. Cercò nello sgabuzzino, andò sul balcone, guardò nell'armadio, nella scarpiera, sotto il divano, niente. Le mancava qualcosa, ma cosa? Una sensazione di profondo smarrimento, quasi di panico le crebbe dentro. Cercò di calmarsi preparando una

tisana. Nell’attesa che l’acqua bollisse tornò in camera a prendere la rivista che aveva lasciato sul letto, era dell’idea che se avesse pensato ad altro le sarebbe tornato in mente quello che non riusciva a ricordare. Faceva sempre così quando il nome di un attore o il titolo di un film non volevano staccarsi dalla punta della sua lingua: abbandonava il pensiero e liberava la mente. Dopo qualche istante il nome o il titolo le appariva chiaro e luminoso come una lampadina accesa.

Si sedette sul divano e, sorseggiando la bevanda ancora bollente, ricominciò a sfogliare la rivista. L'essere assistette a tutta la scena. Era triste vedere le persone reagire così, ma doveva farlo. Meglio un attimo di smarrimento che convivere tutta la vita con una tremenda delusione, ne era certo. Tutto era tornato alla normalità, la sua missione per quella sera si era conclusa. Poteva rientrare al suo covo e integrare il bottino con quello già preso la sera prima, in quella via era l'ultimo lavoro. Per il momento, era ovvio. Era stata una serata davvero perfetta: lavoro eseguito, nessun problema con la luna che era ancora nascosta dalle nuvole e nessuna traccia del cane e dei ragazzini curiosi. Aveva vinto, non gli pareva vero che dopo tanta sfortuna le cose avessero ricominciato a girare nel giusto verso, ma non immaginava ancora cosa in realtà lo stesse aspettando.

«Accidenti! Sulla carta sembrava molto più semplice. Abbiamo provato e riprovato, ma la coperta è troppo grande e Roberto non riesce a farla cadere in modo da avvolgere nessuno, figuriamoci una cosa trasparente e gelatinosa!»

Serena era proprio depressa. Per quante prove avessero fatto, il piano che avevano architettato e che sembrava a prova di bomba, in teoria, rischiava di fallire miseramente.

«Senza contare che a me fanno male le braccia e non ce la faccio più a stare in bilico quassù. Tiratemi giù, per favore.»

Roberto era stremato. A lui sarebbe toccato il compito più importante e di questo era orgoglioso, ma quella vecchia coperta fatta all'uncinetto dalla nonna era troppo pesante e, come se non bastasse il peso, lui aveva le braccia troppo corte.

Davide aveva osservato tutti i preparativi dalla finestrella. I ragazzi avevano portato alcune grosse torce a led che avevano disposto nei quattro angoli per illuminare l'ambiente oltre a tre più piccole che ognuno portava fissata sulla testa.

Decise che avevano bisogno del suo aiuto, anche se non riusciva a capire in quale pasticcio si fossero andati a cacciare. Parlò senza pensare a come sarebbero state accolte le sue parole. «Qualcosa mi dice che vi serve una mano» disse spalancando l'imposta della finestrella. «Haaaaaa!!!» «Haaaaaa!!!» «Haaaaaa!!!» «Arf! arf!» Fu l'accoglienza che ricevette entrando nel casolare. Tre torce da casco furono puntate in un attimo nella sua direzione e per alcuni istanti i tre ragazzi rimasero impietriti. Sarebbe caduto un silenzio imbarazzante se non fosse intervenuto l'abbaiare di Pulce. Quando Davide fu illuminato dal fascio di luci, Serena lo riconobbe e lo

apostrofò con un tono poco gentile che non riusciva a celare la fifa blu che aveva avuto fino a pochi istanti prima e che non era ancora scomparsa del tutto. «Cosa ci fai tu qui?» «Se dicessi che avo da queste parti per caso, ci credereste?» Monica e gli altri due si guardarono poco propensi alle spiritosaggini. Erano già abbastanza in difficoltà così, senza che si aggiungesse questo problema sotto forma di sconosciuto alla finestra.

Mentre Pulce annusava il nuovo venuto, fu Roberto il primo a rivolgergli la parola, quel ragazzo gli era simpatico.

«Sei arrivato al momento giusto. Avevo proprio bisogno di altre due braccia. Se ti imbraghiamo, te la sentiresti di salire su quella trave con me?» «No, Roberto. Non può fermarsi, lui non sa, non capirebbe e poi non sappiamo se la trave è in grado di reggere anche il suo peso.»

Monica non voleva proprio che un estraneo si intromettesse nei loro affari. «Che cosa non capirei? E poi fuori è buio pesto e non sarei in grado di scendere senza neppure una torcia, rischierei di rompermi l'osso del collo. Per quanto riguarda il mio peso non me ne preoccuperei troppo. Si vede che la trave è molto robusta. Con tutta la neve che è caduta lo scorso inverno, questo casolare è uno dei pochi il cui tetto ha retto. Molti alpeggi nelle vicinanze non ce l'hanno fatta e sono stati sfondati.» «Davide ha ragione, senza torce sarebbe troppo pericoloso scendere e poi davvero ci sarebbe utile qui.»

Monica e Roberto si guardarono. Serena lo conosceva, lo aveva chiamato per nome.

Davide era raggiante, lei si era ricordata il suo nome!

«Insomma, una buona volta ci vuoi dire chi è costui?» «Giusto Roberto. Costui, come pomposamentente lo definisci, è Davide e lavora alla posta. Ci siamo conosciuti quando mi ha portato il microfono nuovo. Davide, loro sono Roberto il mio pestifero fratello, Monica una sua amica e quello è Pulce, il suo cane. Ecco, adesso che ho fatto le presentazioni, conosci tutti. Allora, ti andrebbe di darci una mano?» Wow, se non si fosse imposto a restare calmo, Davide sarebbe arrivato sulla trave volando da quanto era contento. La ragazza dei suoi sogni si era ricordata del breve scambio di parole avvenuto in quell'unica occasione in cui si erano visti e questo non poteva significare altro che lui non le era del tutto indifferente. «Ok, ditemi cosa devo fare.»

In quel momento Davide si sentiva un prode cavaliere disposto a tutto per aiutare la sua dama, anche a combattere contro un drago fiammeggiante. Chissà se sarebbe stato propenso a catturare un fantasma gelatinoso e svolazzante. Si stava facendo tardi e l'essere sarebbe arrivato da un momento all'altro. La presenza di Davide risolse il problema della coperta e l'ultima prova generale riuscì proprio come Serena l'aveva immaginata e pianificata. Tutto era pronto. Per ultima, la boccia del pesce Arturo malamente cammuffata da sfera luminescente grazie ad una piccola torcia a led e a della carta-velina verde, venne posta sul pavimento proprio sotto Roberto e Davide. Monica e Pulce presero posizione all'esterno. La ragazza doveva tenere il cane tranquillo e aspettare che l’essere entrasse nel casolare prima di liberarlo.

Serena nascose gli zaini dentro il piccolo aggio, rendendolo così impraticabile, spense tutte le torce e si nascose nell'angolo vicino alla porta. Roberto, e un Davide molto meno tranquillo di prima ora che sapeva cosa stava per succedere, erano appollaiati sulla trave che sorreggeva il tetto. Le imbracature e la corda a cui si erano legati li proteggeva da possibili cadute. A cavalcioni sulla trave i due aspettavano mangiucchiavano pane e marmellata. Roberto si era preoccupato che lo zaino con il cibo salisse insieme a lui. Mentre nel buio pesto cercava di spalmare la marmellata di more fatta in casa su un'altra fetta di pane oltre che sulle proprie dita, gli venne un'idea e la sussurrò a Davide che sorrise in segno di approvazione. «Accidenti, è tosto il ragazzino» pensò.

13

Tutto era tranquillo, Monica era seduta dietro al cespuglio che poco tempo prima era stato l'osservatorio di Serena. Pulce era accucciato ai suoi piedi. Nell'attesa avevano mangiato e bevuto entrambi. Nella quiete della sera si sentiva di quando in quando lo sgranocchiare di una crocchetta trovata sul terreno che, nella foga del pasto, era caduta dalla ciotola. Come il meteo aveva promesso e con la leggendaria precisione svizzera a cui anche il tempo meteorologico doveva sottostare, il cielo si liberò dalle nuvole e una luna piena e splendente illuminò la zona. L’essere era tranquillo, la luna era riapparsa quando lui ormai aveva completato il suo lavoro e lasciato il paese. Non c'era più pericolo che qualcuno lo potesse vedere, ma ancora non sapeva quanto si stava sbagliando. Pulce interruppe il suo sgranocchiare, si irrigidì ed emise un ringhio sordo, alzo il muso e si girò di scatto verso il bosco. Monica capì subito che non erano più soli. Avvisò i ragazzi lanciando alcune pietruzze contro la porta del casolare e si accucciò dietro il cespuglio tenendogli stretto il muso per non farlo abbaiare. Lui capì e non emise più alcun verso. «Ragazzi ci siamo, è qui!» bisbigliò Serena quando sentì i colpi contro la porta.

Nel casolare, la luna filtrava dalle tegole di ardesia e solo due raggi di luce fredda e una strana luminescenza verdognola erano visibili, mentre tutto il resto era avvolto dal buio più totale e assoluto. L’essere aprì l'imposta della finestrella non senza una certa fatica. Questo era il motivo per cui prediligeva quei tragitti che offrissero finestre e porte già aperte, perché muovere gli oggetti solidi richiedeva, per la sua natura, uno sforzo e una concentrazione notevoli. Si muoveva piano con il suo prezioso carico dentro di sé. Tutto era andato liscio e questo gli aveva restituito quella calma e serenità che sentiva di aver smarrito e di cui aveva tanto il bisogno. Voleva ritrovare i suoi ritmi, le sue abitudini e che tutto ritornasse alla normalità.

Era appena entrato quando notò una strana sfera verdastra per terra. Incuriosito si avvicinò per osservarla meglio e stava per toccarla quando all'improvviso qualcosa di inaspettato, pesante e piuttosto appiccicaticcio piombò dall'alto e lo avvolse.

Dal quel momento fu il caos. Urla e latrati lo stordirono. Si sentì sbatacchiato da corde e corpi che scendevano dall'alto, frastornato da luci che lo accecavano.

Cosa gli stava succedendo? Era smarrito. Quel luogo era il suo santuario, la sua tana, il posto dove si sentiva più al sicuro che nel suo stesso mondo e aveva paura.

Intorno a lui sembrava si fosse radunata una folla. La cosa appiccicosa e dal sapore dolciastro che lo avvolgeva gli impediva di vedere con chiarezza, ma riusciva ad intravedere delle figure attraverso le maglie. Vide anche un cane, quel cane.

Allora erano i ragazzini, lo avevano scoperto! Doveva liberarsi da quella cosa e scappare via, ma notò che qualcuno aveva chiuso la finestra. Sapeva che il camino sul tetto era intasato da tempo e comunque con quella roba addosso non sarebbe riuscito a volare più in alto di così. Poteva solo scappare nella sua grotta e provare ad uscire dalla piccola fessura sul soffitto, ma se lo avessero inseguito, avrebbero scoperto il suo tesoro e questo non poteva permetterlo. No, non aveva scelta. Doveva affrontarli. Rimase immobile per alcuni istanti, non era pavido, ma neppure aggressivo. La sua indole era mansueta, non aveva mai avuto bisogno di difendersi e non sapeva neppure come farlo.

Quando tutto tornò tranquillo, si guardò intorno, era circondato. Quattro giovani umani e un cane lo osservavano da un paio di metri circa di distanza. Decise di parlare. Non sapeva se ne sarebbe stato capace, non lo aveva mai fatto, non a degli umani almeno. Ne uscì una vocina stridula ma comprensibile. «Vi prego, toglietemi questa cosa e non abbiate paura di me, non vi farò del male.» I ragazzi si guardarono, ma prima ancora che Davide potesse metterli in guardia sul pericolo che potevano correre, Roberto si era avvicinato con il braccio alzato pronto per esaudire il desiderio dell’essere, ma non fu abbastanza svelto perché sua sorella, che era quella più vicina, lo precedette.

Allungò la mano e afferrò un lembo. Tutti gli occhi erano puntati su quella coperta che galleggiava immobile nell'aria. Il tempo in quel casolare si era fermato. Serena guardò gli amici uno ad uno e con gesti lenti tirò la coperta verso di sé.

Si ritrovò le mani appiccicose e dopo averle annusate mandò un'occhiataccia al fratello e a Davide che si strinsero nelle spalle. Aveva capito a cosa erano dovuti tutti quei risolini che aveva sentito nei minuti precedenti l'arrivo dell’essere. Davanti a loro apparve una specie di grossa gelatina trasparente con sfumature violacee. Galleggiava a mezz'aria e la sua forma questa volta era diversa da quella di un grosso fagiolo, ricordava una di quelle vecchie lampadine a incandescenza che non si usavano più da alcuni anni. Al suo interno pulsava una luce rosata. La parte superiore, quella che più del resto poteva assomigliare ad una testa, non aveva veri e propri occhi, naso e bocca. Piuttosto, era come se quegli organi fossero stati appena accennati da uno scultore che aveva lasciato la sua opera incompiuta. Fu grazie ad un gioco di luci e ombre che i ragazzi poterono individuare le sue fattezze. Aveva dei lineamenti gentili. Piano, per non spaventare i ragazzi, alzò quello che poteva essere un braccio, anche se assomigliava di più ad un tentacolo, e tracciò delle linee luminose nell'aria facendo apparire una scritta: ονειρο. «Oveipo!» esclamò Roberto.

«No, si legge Oneiro. Significa sogno in greco» lo corresse Monica che era fresca di liceo classico. «Sarà il suo nome» azzardò Serena. «Esatto. Non sono abituato a parlare, scusatemi se sono lento. Ho moltissimi anni e non ho mai parlato a degli umani prima d'ora, ma sono contento di farlo adesso con voi.» «Chi sei?» chiese Roberto affascinato dalla visione e non era certo il solo, anche gli altri erano immobili e con la bocca aperta.

Sembravano come ipnotizzati. L’essere pareva aver preso il controllo della situazione, ma in quella stanza c'era ancora qualcuno che non ne subiva il fascino. Pulce abbaiò con foga, ma non con rabbia, non per attaccare. Il suo voleva essere un avvertimento alla truppa di non abbassare la guardia.

I quattro si scossero e si resero conto dello stato di semi ipnosi nel quale erano caduti. Fu Serena a spezzare quell'atmosfera quasi fiabesca.

«Non hai ancora risposto, chi sei?» «Ecco… non è facile da spiegare, ma il mio nome è emblematico. Sono un custode di sogni dimenticati. Strano mestiere, vero? Pensate che lo svolgo da tantissimo tempo.» «Da quanto?» si intromise nella conversazione Roberto che nel frattempo si era avvicinato ulteriormente. «Potrei parlare di migliaia di anni. Diciamo che esisto da sempre, o per meglio dire, da quando gli uomini hanno cominciato a sognare. Non so come e chi mi ha creato e se lo sono stato in qualche modo. Quello che so è che vi aiuto salvandovi dai vostri sogni.»

«Non puoi pensarlo davvero. Un sogno è qualcosa di bello, qualcosa che dà la speranza che un giorno si avvereranno i propri desideri. Non c’è alcun bisogno di salvarci dai nostri sogni, quello che dici è assurdo.»

Le parole di Monica erano decise, quasi violente.

«I sogni aiutano a vivere meglio il presente. Non possono essere pericolosi!» «Certo, certo. Il sogno è una cosa bellissima. E i sogni che posso essere realizzati io non ti tocco.» «Ma allora, quelle sfere luminose che trasporti sono i nostri sogni?» Roberto cominciava a capire. L’essere non si aspettava una domanda così diretta. Temeva di non poter più proteggere il suo tesoro se avesse parlato. Tacque, ma fu Serena a rispondere per lui.

«Sì, sono i nostri sogni e lui li conserva dentro la grotta.» Panico. Sgomento. Terrore.

Degli umani sapevano della grotta. Tutto era perduto, lui era perduto. Cosa gli sarebbe successo adesso? Esausto per le emozioni violente mai provate prima e che lo scuotevano come un fuscello al vento, capì che non c'era più alcuna possibilità di nascondere ancora ciò che per lui era sempre stata la cosa più importante. «Come fate a sapere?» L’essere riuscì a sussurrare solo queste poche parole.

«Sono stata io. Ho trovato il aggio.» «Capisco. E adesso che sapete tutto, che intenzioni avete?» I ragazzi si guardarono, non sapevano cosa rispondere a quella domanda.

«Tu rubi i sogni alla gente!» Tuonò decisa Monica. «Non porti via delle malattie, ma togli le speranze, qualcosa di importante a cui le persone si aggrappano per superare le difficoltà!» «No! Non è così.» Tuonò l’essere, ma poi rimase in silenzio qualche istante cercando di ritrovare la calma.

«Sai come chiamo questo posto? Lo chiamo il cassetto, perché se per voi sono sogni dimenticati, per me non lo sono. Per me sono ancora vivi e il custodisco affinché non vadano perduti. Sono i vostri sogni nel cassetto, solo che col tempo hanno cambiato cassetto, tutto qui.» Il custode desiderava con tutto il cuore che quegli umani comprendessero le sue motivazioni e perché fe quello per cui era stato creato. Non voleva che lo considerassero un ladro, o peggio ancora, un nemico. «Ascoltatemi, vi prego. Per fare avverare i sogni è necessario impegnarsi e desiderare con convinzione che ciò accada, altrimenti è solo un vano desiderio che con il tempo rende le persone fragili, le fa sentire dei perdenti, le rende insicure. Si giudicano incapaci di raggiungere il loro obiettivo, il loro sogno. Poi arrivano i rimpianti, le frustrazioni e l'angoscia. Può capitare che una volta rimosso il sogno uno possa anche sentirsi come se avesse smarrito qualcosa, ma è una sensazione che dura poche ore, poi scompare e tutto torna come prima, e sapete qual'è l'aspetto positivo? Che la mente è pronta a escogitare un altro nuovo, bellissimo sogno e dare nuove speranze, non è magnifico?» A quelle parole, Roberto si illuminò.

«Adesso è tutto chiaro». Guardò Monica.

«I nostri nonni non sono malati, è stato lui.» Serena aveva ascoltando attentamente. Elaborò i commenti del fratello e dell'amica e li riallacciò ai racconti ascoltati dai ragazzi nei giorni precedenti. Le cose non erano proprio come le aveva spiegate l’essere, perché secondo lei mancava ancora qualcosa.

«Cosa hai rubato ai nostri familiari?»

Gli chiese decisa.

14

Non gli piaceva sentirsi accusare di furto. Lui aveva fatto solo il suo dovere.

Il custode era diventato molto serio e la sua voce stridula si fece greve.

«Lo sapete che cosa ho preso ai vostri cari. Solo quello che non sarebbero più riusciti a realizzare. Io prendo solo i sogni dimenticati, non importa quali siano.» I ragazzi rimasero in silenzio, Serena capì di aver esagerato e che quella sera non sarebbe riuscita a sapere altro. Inoltre aveva bisogno di riflettere e ragionare, ma non voleva andare via senza stringere un patto con lui.

«Va bene, vogliamo crederti, per ora. Ascolta, ti facciamo una proposta». I ragazzi la guardarono perplessi. Non capivano cosa lei avesse in mente. «Noi torneremo alle nostre case e cercheremo di capire se quelli che hai preso ai nostri nonni erano davvero dei sogni dimenticati. Se sarà come dici tu non ti chiederemo nulla, ma se ci accorgeremo che quello che hai preso aveva ancora qualche possibilità di avverarsi, allora ce li dovrai restituire. Ci stai?» L’essere rimase in silenzio per qualche istante. Quello che gli chiedevano era impossibile. Non era mai successo prima. Inoltre il solo pensiero di privarsi di alcune delle sue preziose ampolle gli provocava una sofferenza atroce, ma non poteva confessarlo ai ragazzi. Doveva prendere tempo e così, decise di accettare. «Va bene, mi sembra giusto. Vedrete che mi darete ragione. E se avrete bisogno di me, sapete dove trovarmi. Potete anche invocarmi con il pensiero e io arriverò in pochi istanti, ma ricordatevi di farlo prima del tramonto perché, dopo, ho un compito da svolgere.»

«Affare fatto, ma solo ad una condizione!» Questa volta fu Monica a parlare.

Il custode sentiva che la ragazza gli era ancora ostile, a differenza degli altri. Si girò verso di lei e cercò di mostrarsi il più amichevole possibile. «Quale?» «Non toccare le nostre famiglie per i prossimi due giorni, lo prometti?» «Promesso.» «Una volta ci fai vedere la tua grotta?» Roberto era troppo curioso, non stava nella pelle. Non aveva mai visto migliaia di sogni tutti insieme. Anche a Monica sarebbe piaciuto, ma non disse niente. Ancora non si fidava di quella cosa. «Certo, anche subito, se lo desideri.» «No, non ora. È davvero molto tardi e dobbiamo tornare a casa. Non sappiamo quanto ci metteremo a scendere col buio.» Roberto era piuttosto seccato all'idea di andare via e a malincuore fu costretto a far buon viso a cattivo gioco.

«Mia sorella ha ragione Oveipo. Vediamoci domani mattina, ti va?» «Roberto, Monica ci ha detto che il suo nome si pronuncia ò-n-e-i-r-o.» «Uffa, le solite sorelle precisine, ma a te non dispiace se ti chiamo Oveipo, vero?» «No anzi, mi fa molto piacere, mi sembra proprio un bel nome. Come mi farà molto piacere vederti di nuovo domani mattina, mio giovane amico. Mi troverai qui e ovviamente sono invitati anche i tuoi amici.» Roberto gli sorrise e Oveipo sentì per la prima volta una gioia salirgli da dentro che gli provocava una deliziosa sensazione di calore: aveva scoperto l'amicizia, e gli piaceva.

Per tutto il tempo che si erano trattenuti nel casolare con Oveipo, Davide era rimasto in disparte. Non riusciva ancora a capacitarsi di quello che aveva visto quella sera. L'incontro inaspettato con Serena, l’inseguimento nel bosco, aiutare il piccoletto a preparare la trappola che pensava fosse solo per fare uno scherzo e che, invece, era servita per catturare qualcosa di soprannaturale. Se questo non bastava, quei tre adesso ci stavano conversando come fosse la cosa più ovvia del mondo. E Monica si permetteva pure di alzare la voce e accusarlo di furto. Gli sembrava di essere finito in una gabbia di matti, la testa gli pulsava dolorosamente e sentiva il disperato bisogno di prendere un'aspirina, anzi due. Giunsero al fine ai saluti. Ognuno doveva riprendere quello che aveva portato, ma Oveipo chiese a Roberto di poter tenere la finta ampolla come ricordo del loro incontro.

«Te la regalo, ad Arturo non serve più e io posso farne a meno».

La Risposta di Roberto lasciò Oveipo un po' perplesso, non si era parlato di alcun Arturo fino a quel momento, ma preferì non fare ulteriori domande. Qualche problema invece lo diede il riporre la coperta, fu impegnativo, ma riuscirono a evitare di sporcare lo zaino di marmellata.

«La mamma sarà furiosa quando vedrà cosa abbiamo fatto alla coperta che le fece la nonna quando si è sposata.» Serena non sapeva ancora come avrebbe potuto giustificare una tale barbarie. Il fratello, più pragmatico, intervenne proponendo la sua soluzione. «E noi non diciamoglielo. Non possiamo lavarla subito, prima che se ne accorga?» «Se solo sapessi come fare.»

«Datela a me, provo a chiedere a mia madre, lei di macchie se ne intende.» Davide voleva rendersi utile in qualche modo, senza contare che così avrebbe potuto vedere ancora Serena. «Cosa le dirai quando ti chiederà come abbiamo fatto a sporcarla?» Roberto aveva paura che potesse raccontare ad altri quello che aveva visto quella sera.

«Non le dirò niente, penserà ad uno scherzo.»

Il piccoletto poteva stare tranquillo, Davide non avrebbe parlato e se anche lo avesse fatto, non gli avrebbe creduto nessuno. Ormai tutto era pronto e non restava che salutare e cominciare la discesa. Oveipo li salutò con dolcezza uno ad uno. Per ultimo salutò Roberto.

«Ti aspetto domani, sarò felice di mostrarti il mio cassetto.» «Il tuo cosa?» «Il mio cassetto dei sogni dimenticati. Buona notte mio giovane amico.» «Buona notte Oveipo!» Lasciato il casolare, i ragazzi scesero verso il paese. Nessuno parlava, erano troppo concentrati a guardare dove mettevano i piedi. Per fortuna le torce illuminarono il percorso, anche se diedero parecchio fastidio alla fauna notturna che popolava quei boschi.

Giunti alle prime case, le spensero e tirarono un sospiro di sollievo. L’adrenalina che l'avventura appena conclusa aveva prodotto nei loro organismi riemerse prepotente sotto forma di euforia. Cominciarono a parlare tutti insieme, a ridere e scherzare. Dopo pochi metri arrivarono dove Davide aveva parcheggiato lo

scooter e, anche se era molto tardi, l’eccitazione impedì loro di salutarsi subito, così si fermarono a chiacchierare ancora qualche minuto.

«Domani ti va di venire con me da Oveipo per vedere il suo cassetto?»

Roberto non pensava ad altro che al suo appuntamento del giorno dopo e gli sarebbe piaciuto avere la compagnia del suo nuovo amico. Davide ci pensò un po' su. Doveva studiare per l’esame che avrebbe dovuto sostenere a breve, ma anche se quell’essere non sembrava pericoloso, non gli piaceva sapere Roberto da solo con lui. Così, valutò che se si fosse alzato piuttosto presto, forse sarebbe riuscito a studiare un po' prima di raggiungere Roberto e visitare con lui la grotta, cosa che lo interessava parecchio. «Certo.» Rispose

«Devo solo completare una tesina per l'università e poi sono libero. Dovrei sbrigarmi per le nove e mezza, ti può andar bene?»

Prima che Roberto, raggiante per la gioia, potesse confermare l'appuntamento, Serena, che non aveva perso una sola battuta della conversazione, si intromise tra i due. «Cosa studi?»

«Chimica. Ormai ho quasi finito il triennio, ma conto di continuare con la specializzazione.» Sarà stato per lo sguardo intenso con cui i due si guardarono, o per il tono un tantino mieloso con cui si parlarono, non è dato saperlo, ma a Roberto

quell’intromissione della sorella nei suoi affari proprio non andò giù e con un tono un po' seccato proruppe come un ippopotamo in un negozio di cristalli.

«Se adesso avete finito di cinguettare, possiamo anche andare a dormire!» Monica si mise a ridere quando vide il piccoletto partire risoluto verso casa e i due arrossire vistosamente. «Roberto aspetta!» Gli gridò mentre li salutava lasciandoli nel loro imbarazzo. Era necessario un drastico cambio di argomento per uscire da quel silenzio imbarazzante e, per fortuna, Davide si ricordò della coperta e della promessa che aveva fatto a Serena. Dopo alcuni colpi di tosse, il ragazzo riprese il suo tono di voce abituale. «Allora porto la coperta a mia madre, va bene?» «Te ne sono grata. Sarebbe un grosso problema per me doverla lavare a casa. Invece, per l'appuntamento di domani con mio fratello, ti ricordi dove abitiamo?» «Ehm, sì. Penso di ricordarlo.» E cercando di nascondere il rossore che aveva sentito salire sul viso infilandosi il casco, accese il motorino e se ne tornò a casa. Serena l’osservò mentre si allontanava, poi cercò con lo sguardo il fratello e l’amica e li raggiunse di corsa.

Al casolare, Oveipo continuava a pensare a tutto quello che era successo quella sera. Doveva analizzare una miriade di emozioni nuove: il terrore che aveva provato quando era stato scoperto, la gioia di poter comunicare con gli umani, una cosa che aveva desiderato per così tanto tempo, la vergogna per la menzogna detta sapendo di promettere qualcosa che non avrebbe potuto mantenere e la scoperta dell’amicizia. Quante cose nuove che nella sua lunga vita gli erano state precluse fino a quella sera. Di alcune ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma comprese che non si possono scegliere le emozioni. Si chiese se poteva esistere la gioia senza la sofferenza. Dopotutto, non sono facce della stessa medaglia?

Provare quelle emozioni lo facevano sentire arricchito di una nuova energia positiva. Per la prima volta si sentiva davvero vivo. Riconsiderò la sua esistenza fino ad allora e capì che da quella sera non sarebbe più stata concentrata solo sull'accumulare quelle ampolle, anche se erano fantastiche. Come un bambino che per la prima volta assaggia un pezzetto di cioccolata e ne resta deliziato a tal punto da volerne ancora fino a farsi venire mal di pancia, così lui si era scoperto ingordo di emozioni. Ne voleva ancora, voleva assaporarle tutte, anche quelle più penose. Perché aveva capito che, una volta ata la pena, la forza vitale si amplifica e, proprio come capita ai colori che diventano più vivi dopo la pioggia, anche la felicità diventa più intensa. Una volta giunto nella grotta rivolse la sua attenzione alle amate ampolle. I loro colori però gli sembrarono meno intensi del solito, eppure la luce della luna filtrava senza ombre dalla fessura nella roccia. Il motivo gli apparve chiaro poco dopo: lui le aveva solo prese per collezionarle, ma non erano le sue speranze e, anche se poi erano state dimenticate dai legittimi proprietari, non era stato lui a desiderare che si avverassero e non aveva sofferto per la loro mancata realizzazione. Giunse all'unica risposta che in ato aveva sempre negato: quei sogni non gli appartenevano.

15

La mattina successiva Roberto si alzò di buon ora energico e pimpante. L’avventura della sera prima e l’appuntamento che lo attendeva gli avevano messo addosso una frenesia incontrollabile. Non stava più nella pelle e nel giro di un paio d’ore avrebbe potuto visitare la grotta, anzi il cassetto dove il suo nuovo e originale amico custodiva i sogni che aveva rimosso. La notte precedente aveva faticato ad addormentarsi, ma quando alla fine aveva ceduto alla stanchezza, era caduto in un sonno profondo e, ironia della sorte, senza sogni. Quando vide la sorella, immaginò che anche lei doveva aver avuto una nottata difficile, almeno a giudicare dalla selva incolta che sostituiva quelli che a regime di normalità erano i suoi capelli. Si ritrovarono in cucina per fare colazione, in casa non c'era nessuno e poterono parlare in completa libertà. I loro genitori erano già usciti per andare al lavoro e i nonni si dovevano essere recati al mercato. «Oggi vieni con me e Davide su da Oveipo?» «No, non subito almeno. Magari più tardi, ieri Monica mi è sembrata piuttosto turbata e vorrei restare qui nel caso avesse bisogno di parlare. Ho l'impressione che non si fidi di Oveipo.»

«Già, lo penso anche io, ma nel caso cambiassi idea, sai dove trovarci. Davide ci resterà male quando saprà che non vieni.» Serena si sentì avvampare. Preferì restare in silenzio e tornare in camera sua, prima che il fratello potesse notare il suo rossore.

«È inutile che scappi, l'ho visto che sei diventata tutta rossa.»

In tutta risposta, la porta della camera di Serena venne chiusa con una mal celata energia.

Davide, alzatosi di buon'ora, era riuscito a studiare quel tanto che gli era bastato per mettere a posto la sua coscienza e, puntuale, si presentò sotto la casa dei suoi nuovi amici. Dalla finestra della sua cameretta, Roberto lo vide arrivare e prima ancora che lui potesse suonare il citofono, lo chiamò. «Ciao Davide!» «Ciao, scendete?» «Sì, ma ci sono solo io.» «Oh e perché Serena non viene?» «Te lo spiego dopo. Forse ci raggiungerà più tardi.» «Ah, bene. Allora sbrigati che andiamo.» Aveva appena parcheggiato lo scooter quando Roberto si presentò vestito come un piccolo esploratore, con tanto di cappello da cow-boy e fazzoletto annodato al collo. Se non fosse stato per la mancanza del frustino, sarebbe stato un perfetto Indiana Jones in formato ridotto. Davide trattenne a stento una risata, sapeva che il piccoletto era entrato con molta convinzione nel suo ruolo e non avrebbe apprezzato commenti ilari in merito.

Insieme si avviarono verso il casolare, Roberto era molto orgoglioso della compagnia di quel ragazzo così grande e per tutto il tragitto non smise un attimo di parlare. Era troppo contento, in poche ore aveva fatto amicizia con un essere soprannaturale e con un ragazzo tanto più grande di lui. «Giochi a Magic?» «A volte, mi piacerebbe giocarci più spesso ma non ho molto tempo libero, sai con il lavoro e l'università.»

«Io ho già 1500 carte! Se vuoi qualche volta possiamo giocare insieme, ti presto uno dei miei mazzi, ti va?» «Volentieri, non mi dispiacerebbe. Ogni tanto ci gioco su internet.» «Davvero? Non l'ho mai fatto. Una volta mi fai vedere come si fa?» «Certo. Prima si deve installare un programma, ma è facile. Ah, ecco il casolare. Forse è meglio avvisare Oveipo che siamo arrivati.» «Vedo che anche tu lo chiami Oveipo.» Davide si strinse nelle spalle e sorrise.

«Lo ammetto, sono colpevole. Oveipo mi piace di più di Oneiro.» Roberto era raggiante, aprì l'imposta della finestra ed entrò.

«Oveipo, Oveipo, siamo arrivati!» L’essere apparve quasi nello stesso istante in cui Roberto lo aveva chiamato.

«Buon giorno amici miei, spero che abbiate trascorso una notte serena.» «Sì, grazie. E tu come stai?» «Molto bene amici miei. Conoscervi mi ha fatto scoprire tante cose che prima ignoravo, ma venite, vi prego. Continueremo a parlare nella grotta.» I ragazzi non aspettavano altro. Roberto di sicuro, ma anche Davide era curioso di vedere una raccolta di sogni. Il custode li precedette illuminando il cunicolo e si premurò che non si fero male.

Quando giunsero alla fine dello stretto aggio, rimasero abbagliati per alcuni istanti, ma quando gli occhi smisero di lacrimare e si abituarono alla luce, si trovarono davanti a una visione spettacolare. Migliaia e migliaia di ampolle trasparenti emanavano luci colorate. Roberto rimase colpito dalla bellezza di quello spettacolo e solo dopo notò l’ordine con cui quelle sfere luminose erano riposte sui ripiani di pietra. Se sua madre avesse visto quella grotta, più che la bellezza dei colori, avrebbe notato l’ordine con cui erano conservate e non avrebbe perso quell’occasione per fare il confronto con la sua camera. Con cautela si calarono nella grotta usando gli spuntoni di roccia come appigli e il custode mostrò ai suoi ospiti alcune della sue preferite. Erano sogni appartenuti a personaggi famosi, a grandi condottieri e a uomini politici di ogni epoca. Roberto e Davide ascoltavano in silenzio ogni parola che il loro anfitrione diceva. Erano avidi di sapere, stavano assistendo alla più bella lezione di storia che avessero mai immaginato. Oveipo si soffermò su una ampolla più grande delle altre che emanava una luce nera. «Napoleone ci credette fino all'ultimo. Non mi fu possibile portargli via il suo sogno se non pochi minuti prima che morisse. Ormai era troppo debole, era chiaro che non sarebbe mai riuscito a lasciare Sant'Elena. Il suo desiderio di unificare l'Europa sotto il proprio comando era diventato irrealizzabile e volevo che almeno in punto di morte ritrovasse la pace, ma mi sbagliavo. Il suo era un animo troppo irrequieto e incapace di godere di quello che aveva ottenuto, voleva sempre di più. Le persone così muoiono come vivono, nella sofferenza.»

Serena impiegò più tempo del solito per vestirsi. Provava e riprovava davanti allo specchio magliette, gonne e pantaloni, senza trovare qualcosa che la soddisfe. Alla fine, esasperata dalla sua stessa indecisione, dal fatto di aver svuotato l'armadio senza trovare niente che le pie e che non le restava altro da provare, optò per la prima cosa che aveva indossato. Si infilò per la terza volta i jeans e una maglietta aderente con grosse righe orizzontali bianche e rosse che ben si abbinava ad un paio di orecchini rossi ad anello che aveva comprato pochi giorni prima e che ancora non aveva avuto occasione di indossare. Prima di uscire, prese anche una felpa rossa e la mise nello zainetto.

Scesa in strada, bussò alla finestra della camera dell’amica, nella speranza che lei fosse ancora a casa. Fu fortunata. Il nonno stava riposando e lei era in camera sua. Seduta sul letto a gambe incrociate sfogliava una rivista che aveva trovato in salotto. Girava le pagine senza prestare molta attenzione agli argomenti trattati negli articoli. La crisi depressiva della tal attrice e la nuovissima crema anticellulite che avrebbe rivoluzionato la lotta alla pelle a buccia d’arancia le scivolavano con noncuranza davanti agli occhi come le pagine patinate lo facevano tra le dita. La sua attenzione era tutta rivolta alla sera prima e a quanto era successo. Aveva faticato per addormentarsi e dopo non era andata meglio. Il suo sonno era stato agitato, con il risultato che quella mattina si sentiva un budino mal solidificato. Quando sentì bussare, alzò gli occhi e riconobbe la sagoma dell’amica da dietro la tenda. «Ciao Serena, entra è aperto.» Pulce si era già precipitato alla finestra, pronto ad accogliere l'amica. «Ciao Pulce, dammi il tempo di entrare bel simpaticone. Mi stai lavando tutta la faccia!» Serena non riusciva a varcare il davanzale perché il cane le stava dando uno dei suoi migliori e più calorosi saluti di benvenuto. Quando riuscì a entrare nella stanza e a mettersi in posizione eretta, poté rivolgersi all'amica, sempre però accarezzando Pulce con una mano e asciugandosi il viso con l’altra.

«Ciao Monica, come stai?» «Un po' budinosa, non ho dormito molto la notte scorsa.» Serena le sorrise. «Lo posso capire, abbiamo avuto tutti una serata piuttosto movimentata e le sorprese non sono certo mancate.»

«Già.» Fu la risposta un po' laconica di Monica. «Non ti piace proprio Oveipo?»

«Non è che non mi piaccia, anzi. Mi è molto simpatico, ma non mi convince del tutto. Sento che c'è qualcosa che ancora non torna e voglio capire cos'è.» «Sei riuscita a scoprire quali sogni ha preso a tuo nonno e a tua madre?» «No, non ancora. Mia madre è uscita presto questa mattina e il nonno ha cercato di fare qualche lavoretto, ma con quella gamba si stanca subito. Ogni movimento gli costa parecchia fatica, così adesso è in camera sua a riposare, ma ho intenzione di marcarlo stretto per vedere cosa fa e come si comporta.» «Allora non ti va di venire a vedere la grotta? Ti assicuro che è un spettacolo fantastico.» «Non ce lo avevi detto.» «Lo so, ma non volevo scatenare la curiosità di mio fratello, altrimenti non saremmo riuscite più a trattenerlo.» «Eh già, il piccoletto è incontenibile.» Le due ragazze risero. «Allora non vuoi proprio venire?» «Certo che vengo. Il nonno riposa e fino all'ora di pranzo non penso che riuscirei comunque a scoprire niente. Aspetta solo un momento che mi infilo gli scarponi.» Pochi minuti dopo le ragazze e Pulce erano per strada. Senza Roberto e Davide, poterono chiacchierare di argomenti femminili. Era la prima volta che si vedevano da sole ed ebbero la possibilità di apprezzare la compagnia reciproca. «Come mai non ci siamo mai viste prima?» Serena voleva sapere qualcosa di più della nuova amica del fratello. «Non studio qui, sto in una collegio a Coira e torno a casa solo il fine settimana e per le feste. Inoltre ci siamo trasferiti da pochi mesi in via Da Li Sberleffi.» «Ha un nome divertente la nostra via, vero?»

«Sì, mi piace molto. Inoltre è piccola, graziosa e tranquilla.» «Tranquilla non direi proprio, la notte è infestata da fantasmi che rubano i sogni.» «Ah, ah! Hai ragione, ma se ci pensi, senza di lui forse non ci saremmo mai conosciute.» Nessuno chiese a Pulce cosa ne pensasse dei nuovi amici della sua padrona, ma non ce n'era bisogno, era evidente che gli piacevano.

E anche un bel po'.

16

Arrivate al casolare, Serena fece strada a Monica per lo stretto cunicolo e arrivarono alla grotta di Oveipo proprio mentre lui stava raccontando del sogno infranto di Giulio Cesare di conquistare la Britannia. Quando si accorse del loro arrivo interruppe la narrazione e le accolse con grande gioia, ma la sua felicità era niente al confronto di quella di Davide appena vide Serena scendere nella grotta. Il suo sorriso era raggiante quanto una delle più brillanti ampolle del loro ospite e non ò certo inosservato. Chi invece non lo notò fu Monica perché era rimasta abbagliata da tanto splendore. Non si sarebbe mai aspettata uno spettacolo di una tale bellezza, nonostante la descrizione avuta dall’amica. Oveipo continuò a mostrare ai suoi ospiti le ampolle che gli erano più care, raccontò i sogni di personaggi illustri, ma anche quelli più originali di persone comuni. Era felice, poteva condividere con altri la bellezza della sua collezione. E in più i suoi ospiti erano degli umani che non avevano paura di lui, anzi gli mostravano la propria amicizia.

Quando arrivò a due ampolle che erano vicine a tal punto che le loro luci si fondevano in un’unica intensa luce viola si fermò e le indicò ai suoi ospiti. «Questi sono i sogni di due amanti.» A quelle parole, tutti d’stinto si girarono verso Serena e Davide. Dopo qualche attimo di silenzio, tempo che ai due sembrò interminabile, Roberto se ne uscì con una frase delle sue. Una di quelle che lo avevano reso famoso in famiglia per essere in grado, con poche ma ben misurate parole, di creare situazioni di estremo imbarazzo. «È notevole come la pigmentazione del viso possa raggiungere un tale livello di

saturazione da risultare così simile alla luce emessa dalle ampolle porta-sogni.» Un boato di ilarità esplose nella grotta. Nessuno fino a quel momento sapeva come ridesse un custode dei sogni dimenticati, neanche l’interessato. Ora quella lacuna era stata colmata. Oveipo non poteva immaginare a quali guai stava andando incontro, aveva violato una serie spaventosa di regole che mai lo erano state in migliaia di anni, ma in quel momento non gliene importava un fico secco. Non era più solo, provava delle emozioni e, soprattutto, aveva riso. Eccome se lo aveva fatto, con molta probabilità la sua risata era stata sentita in tutta la valle.

Nella grotta i ragazzi non la smettevano di fare domande, erano assetati di sapere e avrebbero voluto chiedere al loro ospite molto di più, ma era giunta l’ora di pranzo e dovevano tornare a casa.

Roberto protestò energicamente. Aveva ancora una montagna di domande da fare al suo nuovo amico, perché una volta ata l’euforia per le ampolle e il loro contenuto, voleva sapere se era un alieno, se ce ne erano altri come lui, cosa mangiava, come faceva a volare, se portare le ampolle gli faceva male. Insomma, se Serena non lo avesse trascinato per un orecchio fuori dalla grotta, lui avrebbe sottoposto Oveipo ad un vero e proprio interrogatorio. Si congedarono dal loro ospite e, nonostante i sentimenti di amicizia, non avevano dimenticato di avere ancora un compito da svolgere. Il loro nuovo amico era rimasto piuttosto vago la sera prima quando Serena gli aveva chiesto quali i sogni aveva preso alle loro famiglie. Prendo solo i sogni dimenticati, non ha importanza quali essi siano. Era stata la sua laconica risposta, ma Monica continuava a non esserne convinta. Aveva come un tarlo che le rosicchiava il cervello. C'era qualcosa che non andava, anche se Oveipo le sembrava in perfetta buona fede e le sue spiegazioni erano di una limpidezza a dir poco esemplare… anche troppo.

Lasciati gli amici e tornata a casa con Pulce, Monica fece una triste scoperta.

«Bleah! Minestra anche oggi.» «Monica non brontolare e ringrazia che hai la fortuna di poterti lamentare. Ai miei tempi le cose erano molto diverse e un piatto di minestra era una festa.» «Sì, nonno. Hai ragione, scusa.»

Sarà stata anche una festa, ma a Monica la minestra proprio non piaceva. Tutto ciò che era brodoso e che richiedeva l'uso del cucchiaio lo avrebbe volentieri bandito dalla tavola, ma al nonno piaceva e visto che aveva cucinato lui, a Monica toccò rassegnarsi e mandare giù in silenzio. Anche a Pulce non piaceva la minestra, ma almeno lui non era obbligato a mangiarla e aveva la sua pappa già pronta nella ciotola. Certe volte lo invidiava proprio. In sala da pranzo la tv era accesa e il telegiornale trasmetteva le notizie dal mondo. Il nonno aveva apparecchiato e, anche se con una certa fatica, si era già seduto. Monica si lavò le mani e senza porre altro tempo in mezzo si sedette a tavola con lui, sapeva che il amava la puntualità. Prese il cucchiaio in mano, lo immerse nel brodo, chiuse gli occhi e mandò giù la prima cucchiaiata. Per quanto bene gli volesse, non riusciva proprio a capire quale piacere potesse provare nell'ingerire quell’intruglio sbrodolante.

Lo speaker in tv era ato alle notizie locali, ma lei non le ascoltava, la sua mente era ancora nella grotta di Oveipo, in compagnia dei suoi amici e tra tutti quei sogni che mai si erano avverati. Sperava che dei pensieri piacevoli le anestetizzassero la lingua e il palato.

Il nonno bofonchiava commenti alle notizie che sentiva. A Monica parve che si stesse ristabilendo. Notò anche che il suo umore era migliorato, il riposo del mattino doveva averlo rimesso in forze e questa almeno era una buona notizia. «Monica mi porti un altro po' di minestra, per cortesia?»

«Certo nonno.» Si alzò da tavola per andare a prendere la pentola che era rimasta in caldo sul fornello spento. Mentre tornava reggendo il tegame, una fotografia incorniciata appesa alla parete attirò la sua attenzione. Doveva essere stata scattata alla fine degli anni sessanta o nei primi anni settanta, perché aveva subìto la classica colorazione rossastra tipica delle pellicole dell'epoca. La foto ritraeva cinque giovanotti in tenuta da alpinismo sulla cima innevata di un monte. All'improvviso le tornò in mente la storia di quella fotografia, ma certo, come poteva essersene dimenticata! Il nonno le aveva raccontato centinaia di volte le sue esperienze di alpinista. Lui e gli altri quattro alpinisti della foto due italiani, un se e un tedesco, avevano scalato quasi tutte le più importanti cime delle Alpi. Avevano anche organizzato un'ultima uscita, prima di appendere definitivamente la piccozza e i ramponi al chiodo. Volevano risalire sul Cervino, perché era stata la vetta su cui, tanti anni prima, si erano conosciuti. E lo avrebbero fatto l'estate precedente se, all'improvviso, uno dei due italiani non fosse morto. I quattro si ritrovarono per i funerali dello sfortunato amico e il nonno, per quanto distrutto dal dolore, propose di fare lo stesso quell'ultima uscita, anche in onore dell'amico scomparso. Si era adoperato tutto l’inverno per organizzare la scalata. Aveva anche chiesto alla nipote di insegnargli a usare quello strano programma che permette di telefonare dal computer senza spendere un patrimonio. Monica si rese conto solo in quel momento che da alcuni giorni il nonno non ne parlava più. Le venne un sospetto, tornò a tavola decisa a conoscerne il motivo. «Nonno, non mi hai più detto come procede la preparazione della spedizione per il Cervino. Quando pensate di fare la salita?» «Smetti di stringere quella pentola come se contenesse delle monete d'oro, mica l'hai trovata alla fine dell'arcobaleno. Ti ho chiesto dell'altra minestra non per ammirarla da lontano. Ho fame e la voglio mangiare, a meno che non la voglia finire tu, so quanto ti piace.» Il nonno aveva detto queste ultime parole con un tono piuttosto sarcastico e provocatorio. «Spiritoso, veramente spiritoso, ma non hai risposto alla mia domanda.» «Umpf. Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando, mia cara e insolente nipote affamatrice di vecchi disabili.»

«Come sarebbe a dire che non sai di cosa sto parlando! Volevi rifare la salita del Cervino insieme ai tuoi compagni di cordata. Hai lavorato su questo progetto tutto l'inverno, ti ho anche insegnato a usare Skype per poter parlare con loro. Possibile che te ne sia dimenticato?» «Ah, già. Tutte baggianate. Siamo diventati vecchi per quelle cose, sarebbe stato troppo pericoloso.» «Non la pensavi così fino ad un mese fa!»

La ragazza posò la pentola sulla tavola tradendo un certo nervosismo e corse in camera sua. Aveva le lacrime agli occhi dalla rabbia. Il nonno la guardò perplesso mentre si allontanava, non capiva proprio perché la nipote se la prendesse tanto, ma non se ne preoccupò pensando ad una delle tante stranezze adolescenziali e continuò a mangiare la sua minestra guardando le notizie del Tg. Presto fu assorbito da un annuncio che riguardava il viadotto di Brusio e si dimenticò dello strano comportamento della nipote. Monica sentiva il bisogno di ritrovare la calma prima di tornare a tavola, non voleva farsi vedere in quelle condizioni. Il nonno non si ricordava più del progetto a cui teneva tanto, ne aveva appena avuto la conferma. Adesso sapeva quale sogno Oveipo gli aveva rubato.

E rubare era proprio il termine esatto!

*****

Su Merope, il capitano Sminagós stava ricevendo dal suo fidato messaggero Xsàghes delle notizie dalla Terra di una gravità straordinaria. «È inaudito! Mai, mai e ancora mai un custode si è volutamente palesato!»

«Lo so, signore.» «E addirittura ha parlato!» «Sì, signore.» «Ha comunicato con degli umani, ti rendi conto che così facendo ha messo in pericolo tutti noi?» «Sì, signore. Per fortuna sono solo dei ragazzini.» «Due di loro sono adulti, non da molto tempo, ma lo sono. Non mi sento per niente tranquillo.» «Comprendo, signore.» «Adesso devo andare, sono stato convocato in udienza dal consigliere Vulos. Non so proprio come dirglielo, quello che mi hai comunicato è di una gravità senza precedenti.» «Signore, forse non è così grave. Altre volte ci sono stati dei contatti tra il nostro mondo e i terrestri.» «È ato molto tempo da allora, Xsàghes ed è proprio per le esperienze ate, che è diventato tassativo per noi evitare ogni contatto con gli umani.» «Non potremmo richiamare il Custode su Merope e creare un mito, come è stato fatto allora?» «Erano tempi lontani e non c’erano tutte quelle diavolerie elettroniche che gli umani usano adesso. La conoscenza veniva trasmessa oralmente nella maggior parte dei casi e le leggende che creavamo avevano tutto il tempo di sedimentare nelle menti per attecchire nelle generazioni successive.» «Capisco signore.» «Mi raccomando Xsàghes, ti ordino di non confidare quanto mi hai appena detto a nessuno, a meno che io non te ne dia l’autorizzazione.» «Come desidera, signore.»

«Puoi andare.» «Rimasto solo, il capitano Sminagós si prese qualche istante per raccogliere le idee. Di lì a poco avrebbe dovuto affrontare Vulos. Ripensò a quanto gli aveva detto dopo la cerimonia di apertura del festival, tutto è stato tenuto sotto il più stretto controllo e adesso, per ironia della sorte, non solo doveva rimangiarsi ogni parola, ma quel che era peggio, comunicargli che un custode dei sogni dimenticati ava il suo tempo a chiacchierare con dei ragazzini e proprio in quel periodo, con gli occhi di mezza galassia puntati su di loro per il festival. Se avesse avuto un corpo e uno stomaco, questa sarebbe stata l’occasione ideale per prendere un’intera confezione di compresse contro la gastrite. E con pensieri funesti si avviò mesto verso l’appuntamento con il consigliere Vulos.

17

Quel pomeriggio Serena e Roberto erano impegnati a preparare il regalo per l'anniversario di matrimonio dei nonni. Erano già un paio di mesi che ci lavoravano nel tempo libero e ormai restavano da definire solo pochi dettagli. Dagli album di fotografie erano state selezionate un centinaio di foto tra le tutte quelle che, a loro parere, rappresentavano meglio la storia di una vita ata insieme. Avevano pure chiesto ai nonni di raccontare aneddoti divertenti e situazioni particolari. Con la complicità dei genitori, solleticarono la loro memoria per far emergere anche i ricordi più lontani. Serena si era occupata di trasformarli in simpatici racconti da riportare al fianco di ogni foto, mentre Roberto aveva avuto il compito di convertire quegli istanti di vita su carta in formato digitale, usando lo scanner del papà. Adesso non restava che affidarsi ad uno dei tanti siti online per stampare e rilegare il libro dei ricordi. Nel giro di pochi giorni lo avrebbero ricevuto per posta a un prezzo ragionevole. Mancava meno di una settimana alla data dell’anniversario. Roberto e Serena dovevano sbrigarsi a caricare su internet il file affinché il libro arrivasse in tempo. Nelle settimane precedenti, i ragazzi avevano pensato che sarebbe stato bello poter aggiungere una colonna sonora a quelle immagini per poterle guardare alla televisione tutti insieme, come se fossero state un film. Alle musiche ci avrebbero pensato Serena e la sua band. I ragazzi del gruppo furono entusiasti all'idea e si attivarono per procurarsi il necessario. Insieme scelsero i brani e dove collocarli nella sequenza fotografica. Le registrazioni erano artigianali e non potevano certo competere con una casa discografica, però la cantina del batterista aveva un'acustica perfetta e l'impianto di registrazione che si fecero prestare per l'occasione era di buona qualità. Mancava solo un buon microfono per la cantante, ma a questo avevano già posto rimedio alcuni giorni prima con l'aiuto economico dei genitori. I tanti ricordi che erano stati rievocati dai racconti fatti ai nipoti avevano risvegliato nei nonni il desiderio di rifare il viaggio di nozze. Roma, Firenze, Venezia, tutti luoghi magnifici che non avevano più avuto l’occasione di rivedere

da allora.

I genitori dei ragazzi pensarono che offrirgli quel viaggio sarebbe stato un bel regalo per una ricorrenza così importante e si preoccuparono di organizzarlo cercando gli alberghi e i ristoranti che, se proprio non gli stessi, erano comunque nella medesima zona di quelli di cinquant'anni prima, in modo che potessero rivivere quella magia. Era tutto pronto. Non restava che confermare le prenotazioni degli alberghi e acquistare i biglietti del treno. Genitori e figli avevano collaborato per organizzare il doppio regalo ed erano piuttosto soddisfatti del loro lavoro, sicuri che i nonni avrebbero apprezzato. Serena e Roberto lavorarono tutto il pomeriggio, volevano finire prima di cena, in modo che il libro fosse impaginato e pronto per la stampa. Si erano dati appuntamento con Monica e Davide dopo cena per mangiare insieme un gelato e per discutere delle ultime novità riguardanti il loro strano amico. Quando la cena fu pronta, la nonna andò a chiamare i nipoti, ma invece di limitarsi a farlo dal corridoio come d’abitudine, questa volta si avvicinò alla porta socchiusa della camera di Roberto, incuriosita dal parlottare fitto dei due fratelli. Dette una sbirciatina e li vide davanti al computer, di spalle alla porta. Era bello vedere quei due andare d'accordo nonostante la loro differenza di età. Un'immagine in bianco e nero sul video attirò la sua attenzione. Il viso sorridente di una giovane donna occupava quasi tutto lo schermo. Si avvicinò per vedere meglio quel volto che le era familiare e, a guardar bene, era proprio lei! Suo marito le aveva scattato quella foto quasi cinquant'anni prima, mentre stavano attraversando il Canal Grande su una gondola.

Quando i ragazzi la sentirono, Roberto spense subito il video. «Che c'è nonna?»

«Sono venuta a chiamarvi. La cena è pronta.»

«Arriviamo.» «Sbrigatevi, altrimenti si raffredda, ma che ci fate con le mie vecchie foto?» Questa volta fu Serena a prendere in mano la situazione, era evidente che da come il fratello la stava guardando, doveva aver già esaurito tutto il suo sangue freddo. «Uhm, niente di particolare. Era solo una prova per verificare lo scanner di papà.» La nonna non insistette, di quelle diavolerie moderne dai nomi strampalati non ne capiva niente e, in ogni modo doveva sbrigarsi a tornare in cucina, era ora di scolare la pasta. I ragazzi invece si avviarono verso la sala da pranzo. A tavola c'erano tutti e le chiacchiere furono rivolte come al solito ai fatti accaduti durante la giornata. Le solite cose di routine, ma ci scappò anche qualche pettegolezzo. Nelle piccole comunità è difficile conservare la propria intimità e bisogna rassegnarsi a condividere ogni più piccolo segreto. Giunti alla fine del pasto, proprio quando i ragazzi stavano per alzarsi da tavola, la nonna esordì dicendo al marito.

«Lo sai vecchio barbagianni che ho visto sul computer di Roberto la foto che mi hai scattato a Venezia?» I ragazzi e i genitori si guardarono in silenzio. Avevano paura che i nonni potessero indovinare cosa stessero preparando e che la sorpresa saltasse. «Te ne ho scattate tante, a quale ti riferisci?» «A quella sulla gondola.» «Ah, già. Ricordo che per un pelo non finii in acqua per colpa di quello scatto.» «Hi, hi, è vero. Che sciocchi che eravamo. Giovani e sciocchi.» «Già e adesso invece siamo dei vecchi sciocchi.»

«Marito mio, l’importante nella vita è restare coerenti con se stessi. Sciocchi eravamo e sciocchi siamo sempre rimasti.» Il resto della famiglia ascoltava divertito ma anche un po’ preoccupato la conversazione tra i nonni, tutti erano pronti ad intervenire se uno dei due avesse chiesto come mai quella foto era finita sul computer di Roberto. Per fortuna, la fotografia non venne più menzionata e i genitori si alzarono da tavola per cominciare a sparecchiare, ma proprio quando anche i due fratelli stavano per andare in cucina con i loro piatti, il nonno disse una cosa che li gelò.

«Mia cara, meno male che abitiamo in un piccolo paese dove tutto è a portata di mano. Non ce la farei a ripetere un viaggio così lungo come quello che abbiamo fatto per le nostre nozze.» Roberto e Serena si guardarono, ma come era possibile? E dove erano finiti tutti i discorsi fatti fino a pochi giorni prima sul visitare quella tal chiesa, o tornare in quella via così graziosa? Peggiore fu la risposta della nonna.

«Oh, non saprei proprio cosa farmene di tanto girare. No, no, per carità. Sto tanto bene qui.» Roberto fece cenno alla sorella che dovevano assolutamente parlare di quanto avevano appena udito, ma non lì, dove qualcuno avrebbe potuto ascoltarli. I due sparecchiarono in fretta e andarono a prepararsi per recarsi all’appuntamento con i loro amici. Lungo la strada avrebbero potuto parlare in tutta libertà degli ultimi inaspettati avvenimenti. Nonostante fosse pensierosa su quanto era successo a tavola, a Serena sarebbe piaciuto avere un po' più di tempo per controllare allo specchio il suo abbigliamento e mettersi un po' di trucco, ma il fratello la fece desistere con una delle sue frasi a effetto.

«Tranquilla, potresti anche indossare una tuta sformata e di tre taglie più grande che Davide non se ne accorgerebbe neppure.» Serena non disse niente, il suo rossore parlava per lei. «Quella tinta di rosso sulle guance ti dona davvero.» «Non ti sfugge proprio mai niente, vero?» «No, hai detto bene. Non mi sfugge mai niente… Ahi!» «È stato un piacere caro fratello.» E così, i due uscirono di casa. Si fermarono davanti alla finestra dell’amica e mentre Roberto si massaggiava la nuca arrossata da un ben assestato colpetto, Serena bussò sul vetro, ma non ricevette alcuna risposta. Monica doveva essere già uscita, perché non sentirono neppure l'abbaiare di Pulce. Perplessi si avviarono verso la piazza, dove si sarebbero trovati con Davide. Forse lei era già lì ad aspettarli.

*****

Su Merope, il capitano Sminagós attendeva fuori dalla sala dove era si era riunito il Gran Consiglio. Nascosto dietro una colonna aveva visto arrivare i membri e dalle loro espressioni non invidiava per niente Vulos. «Ci hai convocato e noi siamo venuti, ma adesso, sempre che non ti sia di troppo disturbo, gradiremmo conoscere il motivo di tanta urgenza. Ci hai fatto allontanare dal festival e speriamo che te ne renda conto.» Nella grande sala consiliare regnava il malumore. I ventuno gran consiglieri mal sopportavano essere convocati senza il giusto preavviso. Erano stati distolti dal festival proprio quando l’artista più famoso stava per esibirsi. E come se ciò non bastasse, la loro assenza sarebbe stata notata e avrebbe suscitato chiacchiere e pettegolezzi.

«Onorevoli consiglieri, ne sono conscio e di questo mi scuso, ma è con profondo rammarico che devo sottoporre al vostro giudizio quanto sta succedendo sul pianeta degli umani. Non lo avrei fatto se la situazione non fosse precipitata in modo del tutto inaspettato.» Vulos non sapeva proprio da dove cominciare. Temeva che quanto stava per riferire avrebbe avuto ripercussioni sulla sua carriera. Gli mancava così poco per essere nominato membro del Gran Consiglio e invece, adesso veniva messo a rischio dai capricci di uno stupido custode e di quattro piccoli terrestri impiccioni. Quanto sarebbe successo nelle prossime ore sulla Terra avrebbe avuto il potere di farlo rotolare nei ranghi più bassi della gerarchia del suo popolo, appena sopra la polvere cosmica, tanto per intenderci. Altro che diventare Gran Consigliere della Galassia. Accidenti ai ragazzini curiosi, ai custodi chiacchieroni e anche al festival. Avrebbe voluto riuscire a gestire la cosa con il capitano Sminagós senza coinvolgere le alte sfere, ma non ne aveva avuto il coraggio. Temeva che altri umani potessero intromettersi, o che altri custodi si fero venire strani desideri, o che qualcosa di impensabile potesse aggiungersi alla già nefasta catena di eventi. «Avanti, Vulos parla. A cosa ti riferisci?» Il consigliere non poteva più rimandare. Era il momento di parlare, e che Otheós, il dio del Centro Galattico, gliela mandasse buona. «Onorevoli, sul pianeta Terra dei giovani abitanti hanno avvistato un custode dei…» ma non riuscì ad aggiungere altro perché Palaiótero, il gran consigliere più anziano e severo, infastidito dalla convocazione, tuonò impedendogli di completare il racconto. «Vulos! Sei perfettamente in grado di gestire una situazione di questo genere, è uno dei tuoi compiti e lo sai. Ricordati che non puoi diventare un membro del Gran Consiglio se non sei capace di prendere delle decisioni e assumerti dei rischi.» Il capitano Sminagós non aveva più bisogno di origliare dietro la porta. Il tono della voce di Palaiótero si poteva sentire con tutta tranquillità e questo lo fece preoccupare ancora di più perché quelle parole avevano attirato l’attenzione e la curiosità del personale del palazzo e non era proprio il caso che la notizia si

diffondesse in questo modo.

Vulos non aveva il coraggio di alzare lo sguardo verso i gran consiglieri, ma lo stesso ne sentiva tutto il disprezzo con cui lo osservavano e non riuscì a dire altro per alcuni istanti. Proprio quando Palaiótero si alzò per tornare al festival e gli altri consiglieri si mossero intenzionati a seguirlo, tirò fuori tutto il coraggio di cui era capace e urlò. «Gli hanno parlato!»

18

Monica era troppo nervosa per aspettare che Serena e Roberto assero a prenderla. Decise di uscire per andare a fare un giro con Pulce, aveva bisogno di stare sola per schiarirsi le idee prima di incontrare gli altri alla fontana nella piazza comunale, come d'accordo.

Le strade erano vuote, solo qualche turista eggiava tra le vie del piccolo centro ammirandone l’architettura. Pulce era al suo fianco, tanti i metteva lei e tanti ne faceva lui. Il fedele amico sentiva l’apprensione nella sua padrona e avrebbe voluto poter fare di più per consolarla. Monica camminava svelta, la fatica fisica l’aiutava a scaricare la tensione. Quel giorno erano successe troppe cose e doveva riflettere. Come se non fosse bastato scoprire quale sogno Oveipo aveva preso al nonno, nel pomeriggio aveva avuto la conferma dei suoi sospetti riguardo alla madre e al concorso che stava preparando. Oveipo le doveva parecchie spiegazioni in proposito. Era proprio arrabbiata. Col cavolo che lui prendeva solo i sogni dimenticati! La eggiata con Pulce la calmò un po' e quando arrivò in piazza, vide che Davide era già arrivato e aspettava seduto di spalle sul bordo della fontana, mentre dei due fratelli invece ancora non c'era traccia. «Ciao Davide, è molto che aspetti?»

Davide era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse dell’arrivo dell’amica, ma quando la lingua umida di Pulce gli leccò la mano, fece un salto e per poco non cadde nella fontana. Fatti i dovuti saluti a Pulce e asciugatosi la mano sui pantaloni, si ricordò della domanda che l'amica gli aveva posto.

«Ciao Monica, sono arrivato da pochi minuti, ma dove sono gli altri?» «Intendi dire Roberto e S-e-r-e-n-a?»

Monica si premurò di scandire lentamente il nome dell'amica mentre fissava dritto negli occhi il povero Davide che diventava sempre più rosso, ma proprio quando l’imbarazzo era giunto all’apice, Roberto piombò in mezzo a loro come una saetta, liberando l'amico dall'impaccio. Era troppo desideroso di raccontare le ultime novità e non si accorse di quanto il suo arrivo fosse stato tempestivo.

«Ciao tutti. Abbiamo scoperto cosa Oveipo ha preso ai nostri nonni!» «Ecco, bravo. Urlalo ancora un po' più forte, così lo sapranno anche a Tirano.» Monica gli fece notare che il suo tono di voce era piuttosto alto e che andava abbassato, ma prima che lui potesse continuare, Davide, che aveva ignorato ogni loro parola, si era allontanato per correre incontro a Serena che stava raggiungendo il gruppetto. Roberto osservò con disappunto l'amico allontanarsi, poi si girò verso Monica che gli fece l'occhiolino.

«Qualcosa mi dice che presto vedrai Davide girare per casa piuttosto spesso.» «Già, sembra anche a me. Meno male che è simpatico.» Davide avrebbe voluto restare solo con Serena tutta la sera, ma doveva ancora aspettare per quello. Il sorriso raggiante con cui lei lo accolse nel vederlo fu già una ricompensa più che sufficiente alla sua pazienza e poi, anche il piccoletto e l'amica non erano male ed era piacevole stare in loro compagnia. I due procedevano piano fermandosi ogni pochi i, non sembrava proprio

avessero fretta di unirsi al gruppo. Quando la coppia raggiunse i due amici alla fontana, Roberto era esasperato, se avessero indugiato ancora sarebbe scoppiato. Doveva assolutamente raccontare quello che era appena successo a casa. «Allora, vi va un gelato?»

Davide si sentiva generoso e volle offrire a tutti un cono maxi. Roberto accolse la proposta senza opporsi troppo, nonostante avesse fretta di mettere al corrente gli altri della scoperta che lui e la sorella avevano fatto, pensò che, dopotutto, poteva resistere ancora qualche minuto, giusto il tempo di mangiare un buon gelato.

Poco dopo, leccando e parlottando del più e del meno, si allontanarono dalla piazza alla ricerca di una panchina tranquilla dove poter parlare. La trovarono nel piccolo giardinetto davanti al palazzo comunale, dove c'era una graziosa fontanella a forma di ranocchio con la bocca aperta da cui uscivano zampilli d'acqua. Il rumore del fiume alle loro spalle garantiva tutta la riservatezza di cui avevano bisogno. Quando i gelati furono diventati un ricordo, il momento tanto atteso da Roberto alla fine arrivò, ma ebbe difficoltà a trovare da dove cominciare. Dopo una serie di false partenze, attaccò parlando dell'anniversario dei nonni e del regalo che avevano deciso di fare lui e la sorella.

Non era ancora arrivato a spiegare come aveva ritoccato le vecchie foto convertite in formato digitale, che la sorella lo interruppe. «Se continui così, non arriverai al punto prima di mezzanotte! Lascia stare, ci penso io.» Roberto borbottò un po', ma non gli dispiacque che prendesse la parola. Sarebbe stato molto più divertente interromperla che essere interrotto da lei, questo era poco ma sicuro.

Serena subì con straordinaria pazienza le interruzioni di Roberto, forse anche grazie alla presenza di Davide e riuscì a concludere il suo racconto senza omettere alcun dettaglio importante e in un tempo relativamente breve.

«Siamo certi che Oveipo ha preso ai nostri nonni il desiderio di rifare il loro viaggio di nozze.» «Il vostro racconto non fa una grinza.»

Fu il commento di Davide e anche Monica era d'accordo, ma adesso toccava a lei rivelare quello che aveva scoperto durante la giornata.

«Anche io ho capito cosa ha preso a mio nonno e a mia madre.»

I ragazzi si girarono verso di lei. Quella era la serata delle rivelazioni! Roberto si sistemò meglio sulla panchina, incrociò le gambe come se fosse stato un santone indiano, mise i gomiti sulle ginocchia e le mani sotto al mento, pronto ad ascoltare con attenzione l'amica e la incitò a cominciare.

«Coraggio, dai. Ti ascoltiamo.»

La ragazza non si fece pregare. Tutti rimasero in silenzio mentre lei raccontava del nonno, della sua ione per l'alpinismo, degli amici, del suo desiderio di fare quell'ultima salita sul Cervino e di come fosse stato tutto dimenticato senza alcun motivo apparente. Anche in questo caso, tutti furono d'accordo nel sospettare che ci fosse lo zampino di Oveipo.

Durante il suo racconto, Monica aveva sentito la rabbia risalire e alla fine non riuscì più a trattenerla. Il suo parlare si fece più rapido, il tono più alto, i suoi occhi si inumidirono e un leggero rossore le coprì il viso.

«Ragazzi dobbiamo parlargli. Dobbiamo metterlo alle strette, costringerlo a restituire quello che ci ha preso. Non è vero che lui rimuove solo i sogni dimenticati. Quelli che ci ha tolto, non lo erano affatto!»

Queste ultime parole le uscirono di getto, urlate da una rabbia non più contenuta. Roberto e Davide rimasero in silenzio. Sapevano che è sempre bene evitare di provocare una donna quando è arrabbiata, anche se di giovane età. Serena invece la rassicurò.

«Stai tranquilla Monica, lo faremo allo scadere dei due giorni. Oveipo ci vuole bene e vedrai che riusciremo a fargli capire che quello che ha fatto è sbagliato e che dovrà rimediare. Sono convinta che ha agito a fin di bene. Prendilo come un eccesso di zelo.» Monica taceva, era troppo impegnata a cercare di trattenere le lacrime e aveva un disperato bisogno di soffiarsi il naso. Serena sapeva che c'era un altra persona a cui l'amica teneva molto e che negli ultimi giorni si era comportata in modo strano.

«Non c'è solo questo, vero? Oveipo ha preso qualcosa anche a tua madre.» «Sì, è così.»

Al casolare, Oveipo non riusciva a trovare pace, neppure tra le sue adorate

ampolle. Continuava a muoversi avanti e dietro nella grotta e rifletteva. Sapeva che presto o tardi nel suo mondo si sarebbero accorti di quello che stava succedendo sulla Terra e che avrebbe dovuto rispondere delle gravi violazioni commesse. Forse poteva sperare nella clemenza dei suoi giudici se avesse subito interrotto ogni rapporto con i suoi amici. In breve tempo, nel suo mondo si sarebbero attivati per far dimenticare ai ragazzi questa avventura, liberando le loro menti dal suo ricordo e risvegliando altri interessi. Dopotutto questo era proprio il lavoro dei Dimenticatori e dei Custodi dei Sogni Rivelati. Su Merope ci sarebbe stato un gran vociare a seguito del clamore che le sue vicende avrebbero suscitato una volta note, ma poi, col tempo e come sempre accade ovunque, la sua avventura non avrebbe fatto più notizia e tutti avrebbero smesso di parlarne. Bisognava solo avere pazienza e tutto si sarebbe risolto. C’era solo un piccolo problema a minare tanta certezza: lui non voleva che finisse così. Non voleva interrompere il contatto che si era creato con quegli umani e tanto meno voleva essere dimenticato. Gli piacevano, lo facevano stare bene, grazie a loro stava provando emozioni sconosciute. Sapere che c’era qualcuno che lo cercava e che era disposto a condividere il proprio tempo con lui lo faceva sentire necessario. Aveva scoperto che amava parlare per esprimere il proprio pensiero dopo anni e anni di silenzio in cui gli era stato concesso solo ascoltare. Se il prezzo da pagare era quello di affrontare l'ira del suo popolo, allora che si accomodassero pure. Come dicono gli umani si vive una volta sola, e anche se nel suo caso significava dover rinunciare alla propria immortalità, lo avrebbe fatto senza pensarci su due volte, pur di non perdere i suoi nuovi amici. Quella però, non era la preoccupazione che lo tormentava di più, perché un altro pensiero lo angosciava. Aveva accettato il patto che gli aveva proposto Serena perché era certo che i sogni che aveva preso erano davvero destinati a essere dimenticati, ma il dubbio si era insinuato dentro di lui e gli rosicchiava la coscienza come un tarlo al punto da fargli crollare ogni certezza. Cosa avrebbe fatto se i ragazzi gli avessero chiesto di restituire dei sogni? Lui non lo sapeva perché mai era stato fatto prima e non aveva idea a chi poter chiedere aiuto. Di sicuro non poteva rivolgersi ai suoi superiori, come minimo lo avrebbero vaporizzato costringendolo a vagare tra le stelle sotto forma di polvere cosmica nel momento stesso in cui avessero sospettato le sue intenzioni.

A meno che…

19

Monica si alzò molto presto quella mattina, aveva dormito un sonno profondo e senza sogni, si sentiva riposata ma anche molto determinata. Notò che Moka non era sul cuscinone di Pulce. Il giorno prima non gli aveva dato molta importanza, ma adesso le sembrava strano svegliarsi senza vedere quei due occhietti gialli fissarla apparentemente inespressivi, eppure non era tardi e il placido russare di Pulce ne era la dimostrazione.

In quei giorni erano successe così tante cose che solo in quel momento si rese conto di averla trascurata. La gattina era, per carattere, molto diversa da Pulce. Infatti, al contrario del cane per il quale ogni momento era buono per incollarsi alla padrona, Moka voleva essere cercata. Erano rare le occasioni in cui era andata da Monica per avere una coccola. Lei, come tutti i gatti, voleva essere adorata. Si ripromise che appena quella storia fosse finita si sarebbe fatta perdonare, ma quella mattina proprio non le era possibile. L’orgoglio di Moka avrebbe dovuto aspettare ancora un pochino. La sera prima gli amici l'avevano rassicurata a proposito di Oveipo e dentro di sé sapeva che avevano ragione, ma restava il fatto che lui aveva preso qualcosa alle loro famiglie e adesso doveva restituirla. Anche se non era più così arrabbiata come la sera prima, voleva comunque avere un chiarimento da quello strano tipo e si sbagliava di grosso se pensava che la sua natura non umana e i suoi poteri fantastici la intimidissero. Si vestì, fece una rapida colazione, prese cibo e acqua sufficienti per lei e Pulce, per ultima mise nello zainetto la torcia che dall'inizio di quell'avventura era diventata uno strumento di fondamentale importanza. Anche se l'accordo era di aspettare quarantotto ore, Monica non ce l'avrebbe fatta a resistere un altro intero giorno, doveva chiarire quella faccenda subito e preferiva farlo da sola.

«Dai, Pulce usciamo.»

Stava per aprire la porta di casa quando una voce giunta dal corridoio la costrinse a fermarsi. Si accorse solo in quel momento che, troppo presa dai suoi pensieri, non era ata dalla finestra. «Grosso errore!» Pensò. «Quanta fretta signorina, dove stai andando così presto?» «Ciao mamma, non sapevo fossi ancora a casa.» «Ero in camera mia. Oggi posso prendermela con calma, sono di turno nel pomeriggio. Ne approfitterò per fare un po' di lavori in casa.» «Perché invece non studi per il concorso? Lo sai che ormai mancano pochi giorni.» «Oh, quello. Non sono più convinta di andarci. Sai, ho il triste presentimento che non ce la farò a superarlo.» «Hai studiato così tanto, perché vuoi mollare proprio ora che sei ad un o?» «Certe volte ci si illude di essere ancora giovani e di poter affrontare qualsiasi sfida, ma poi si imbocca una strada senza uscita e il fallimento diventa inevitabile. Non so se voglio dover fare i conti con una delusione così grande.»

Monica non sopportava sentirla parlare in quel modo. Non era una che mollava senza lottare e l'età era tutta una balla. Era una donna ostinata proprio quanto lei, se non di più. Il nonno lo diceva sempre sei testona e cocciuta come tua madre, era la sua frase preferita che ripeteva come un mantra ogni qual volta non riusciva a convincerla a fare o non fare qualcosa. «Mamma, hai solo quarant'anni! Sei perfettamente in grado di superare questa sfida e tante altre ancora.» «Veramente sono quarantadue, ma grazie bambina mia, le tue parole sono una grande consolazione, perché significano che mi vuoi bene.»

Rimasero in silenzio per alcuni istanti guardandosi negli occhi. Poi, quasi d’improvviso, la donna prese una decisione.

«Se tu ci tieni tanto, allora è giusto che io ci provi, ma promettimi di non restarci male se poi fallirò.» «Promesso, ma tu non devi mollare!» Monica ci mise un’enfasi in quelle parole che alla madre parve un po’ eccessiva. «Va bene cara, anche se non riesco a capire perché te la prenda così, ma se per te è tanto importante, ti prometto che mi rimetterò a studiare.» «Grazie, ci conto. Adesso vado a fare un giro al lago, ci vediamo più tardi.» «Torni per pranzo?»

Un «Sì» lontano giunse dalla via, lei e Pulce erano già usciti.

Dopo aver riflettuto a lungo, Oveipo aveva deciso di andare nel suo mondo per cercare l'aiuto dell'unica entità di cui si poteva fidare. Fino a quel momento non lo aveva mai considerato un amico, ma adesso che aveva capito cosa fosse l'amicizia, poteva affermare con una certa sicurezza che Aghél il Messaggero era davvero suo amico e anche l'unico che avesse mai avuto. Si soffermò su quel pensiero e, dopo alcuni istanti, si corresse: l'unico che avesse mai avuto fino a due giorni prima. Gli piacque fare quella precisazione, lo mise di buon umore e gli diede l'energia necessaria per affrontare il lungo viaggio.

Era parecchio che non tornava su Merope e più il tempo ava e più si sentiva un estraneo. Il suo lavoro, lo scopo per cui esisteva e i suoi affetti erano sulla Terra, apparteneva sempre più a quel pianeta e sempre meno al suo di origine. Sperò che Aghél non fosse impegnato in qualche missione, altrimenti non

avrebbe avuto modo di incontrarlo e dover restare ad aspettarlo sarebbe stato molto rischioso, ma si ricordò che in quel periodo c’era il Festival delle Luci che richiamava sempre milioni di stranieri da ogni parte della galassia per vedere le acrobazie di migliaia di artisti impegnati a realizzare qualcosa di solo vagamente paragonabile a quello che lui poteva vedere tutti i giorni, appena un raggio di sole si affacciava alla grotta. Pensò che gli sarebbe stato facile nascondersi tra la folla e aspettare il rientro di Aghél con buone probabilità di non essere individuato. Tuttavia temeva, e non a torto, che qualcuna delle innumerevoli irregolarità che aveva commesso, soprattutto negli ultimi giorni, fosse già arrivata in alto, anche se non poteva ancora immaginare quanti e quanto già sapessero.

Giunta al casolare con Pulce, Monica non si preoccupò di bussare, ma entrò e si diresse subito alla grotta. Durante tutto il tragitto da casa si era ripetuta più volte il discorso che voleva fargli, proprio come riava un argomento che le era un po' ostico prima di un’interrogazione. Si infilò nel cunicolo ed era quasi giunta alla grotta quando per poco Oveipo non la travolse, ammesso che travolgere fosse la parola giusta. Nell'oscurità pressoché completa di quell'angusto aggio, illuminata solo dalla torcia puntata sul pavimento, Monica sentì una lieve brezza e non si accorse che il custode aveva appena fatto in tempo a fermarsi proprio davanti a lei. Così fu accolta da un Oveipo molto sorpreso e un po' seccato per il contrattempo.

«Ciao Monica, a cosa devo la tua visita?» «Oh, sei qui? Ti devo parlare.» Oveipo rimase piuttosto perplesso dal tono di voce della ragazza che tradiva una certa urgenza. Era arrivata senza i suoi amici, accompagnata solo dal suo cane e non aveva neppure risposto al suo saluto. Era evidente che c'era qualcosa che la turbava, però ricordava che si sarebbero dovuti incontrare solo il giorno successivo per parlare dei sogni che aveva preso, per cui non riusciva proprio ad immaginare cosa volesse. Dei quattro, lei era quella che sin dall'inizio si era mostrata più ostile e sentiva che c’era ancora parecchia diffidenza. Non poté far altro che ascoltarla.

«Seguimi Monica, ti faccio un po' di luce. Andiamo nella grotta.»

E così dicendo illuminò una sua estremità con una pallida luce bianca, come quella della luna. Giunti nella grotta, Oveipo rimase in silenzio aspettando che la ragazza cominciasse a parlare. Lei lo aveva capito, ma tutta la determinazione che aveva avuto fino a quel momento si era dissolta davanti a quello spettacolo che riusciva a meravigliarla ogni volta che lo vedeva.

Pulce, al suo fianco, le leccò la mano come segno di incoraggiamento. Funzionò. Parlò piano cercando quelle parole che aveva così tante volte ripetuto mentre saliva al casolare, ma che adesso sembrava si fossero dileguate.

«Dunque, si tratta di mio nonno e di mia madre. So quali sogni hai preso loro, ma sono sicura che non erano sogni dimenticati. Il nonno e i suoi amici hanno lavorato sodo tutto l'inverno per pianificare la salita sul Cervino, sarebbe stato il loro personale addio alle scalate e non vi avrebbero mai rinunciato, mai! La montagna è la loro vita e anche se sono invecchiati, sono ancora dannatamente in gamba.» Man mano che proseguiva, sentiva che non doveva più cercare le parole, queste uscivano da sole senza che lei potesse controllarle.

Oveipo l’ascoltava in silenzio.

«E per quanto riguarda la mamma, le hai preso il sogno per cui ha lavorato per un intero anno. Perché lo hai fatto proprio adesso che si sta avvicinando la data dell'esame? Dimmi perché le hai fatto questo, non è giusto, non puoi rubare le speranze alle persone solo per accrescere la tua collezione. Manipoli le nostre

menti, giochi con le nostre vite. Sei un egoista!» Monica era scoppiata in lacrime e piangeva a dirotto. Non c'era più niente a trattenerla e tutta la tensione accumulata nei giorni precedenti era venuta fuori dirompente come un fiume in piena quando rompe gli argini. Pulce era spaventato, scodinzolava, abbaiava, le saltava intorno perché non la voleva vedere in quelle condizioni. Pareva dirle Sono qui, non piangere, non sei sola. Oveipo non sapeva cosa fare, sentiva un profondo dolore interiore. Una grande tristezza lo aveva avvolto come un pesante lenzuolo da cui non riusciva a liberarsi. Lui non lo sapeva ancora, ma quando si comincia a provare delle emozioni, si devono accettare anche quelle che fanno male. Non poteva credere che le sue azioni avessero provocato dei danni così terribili. Lui aveva agito in buona fede perché non voleva che quelle persone provassero delle delusioni o, ancor più grave, mettessero a repentaglio la propria vita. Eppure quella ragazza stava soffrendo per colpa sua. Monica riuscì a calmarsi e abbracciò il suo amico a quattro zampe che dalla felicità le lavò il viso. Poi, asciugatasi le lacrime mescolare alla saliva di Pulce, si girò verso il custode e lo guardò senza più dire una parola. Restarono in silenzio per alcuni istanti. Lui aveva capito che se non voleva perdere i suoi amici, doveva trovare una soluzione al più presto e per farlo doveva partire subito. Quello che fino a pochi minuti prima era stato un semplice dubbio, dopo le parole di Monica era diventato una solida certezza. Il suo viaggio adesso era inderogabile. Riuscì a pronunciare poche parole, ma le disse con un tono così greve che fecero trasparire tutto il suo rammarico per quello che aveva fatto. «Ho capito e mi dispiace molto aver provocato tanto dolore. Vedrai che riuscirò a rimediare.»

E così dicendo, volò via.

20

Qualcuno, nascosto nell’oscurità del aggio che portava alla grotta, non aveva perso una sola parola di quanto Monica e Oveipo si erano detti. Era appena tornato da Merope e aveva urgenza di conferire con il custode, ma doveva aspettare che rimanesse solo.

Due giorni prima si era recato su una delle stelle minori per assistere al festival delle luci, ma non aveva fatto in tempo a prendere posto nell’arena che qualcosa di inusuale era accaduto. Aveva già notato che tra i ventuno gran consiglieri c’era un certo nervosismo. Tanta inquietudine non faceva parte del protocollo che sapeva essere rigidissimo. Si stava ancora chiedendo il motivo di tanta eccitazione, quando l’attenzione del pubblico fu attirata dall’ingresso dell’artista più famoso, vincitore incontrastato delle ultime edizioni. Un attimo dopo i ventuno erano spariti.

Aveva capito che stava succedendo qualcosa di grosso e questo lo indusse a rinunciare allo spettacolo per seguirli con discrezione su Merope. Giunto al palazzo, sede del Gran Consiglio, non gli ci volle molto per comprendere a cosa era dovuta tanta agitazione. Per quanto fosse un’esemplare piuttosto giovane del suo popolo, sapeva come gestire situazioni critiche, inoltre aveva la fortuna di essere già a conoscenza di quello che i gran consiglieri avrebbero udito dalle parole di Vulos. Doveva tornare subito sulla Terra e avvertire il Custode, forse erano ancora in tempo per rimettere le cose a posto.

Oveipo si era appena infilato nel cunicolo lasciando Monica e Pulce nella grotta, quando fu bloccato dalla presenza di un nuovo ospite. Quel rifugio stava diventando un porto di mare, va bene l’amicizia e non essere più solo, ma adesso si stava proprio esagerando.

«Meow!» «Perdonami mia cara, ma adesso non ho proprio tempo.» «Invece mi dovrai ascoltare Custode. Sono appena giunta da Merope con delle notizie che ti riguardano.» A quelle parole Oveipo sarebbe impallidito, se avesse potuto. Ciò che temeva da giorni si era avverato. «Racconta, ti ascolto.» Moka andò subito al punto e narrò tutto quello che aveva visto e sentito. «Ti ringrazio di avermi avvertito, ma andrò lo stesso, devo scoprire come fare a restituire i sogni.» «Se lo farai, ti cattureranno. Lascia che sia io ad andare al posto tuo.» «Lo faresti davvero?» «La mia presenza erà inosservata. Grazie al festival c’è un via vai continuo di turisti. Dimmi cosa devo fare.» «Mi basta che cerchi il Messaggero Aghél e gli dici che lo aspetto su Aldebaran, al solito posto.» «Tutto qui?» «Sì, a meno che tu non sappia come restituire i sogni.» «Purtroppo non lo so, mi dispiace. Questo non rientra tra i compiti che spettano al mio popolo.» «Allora vai, amica mia. Te ne sarò per sempre grato.» «A buon rendere, custode. A buon rendere.» Dopo averla salutata, Oveipo decise di mettersi in viaggio per Aldebaran. Preferiva aspettare l’amico restando solo nello spazio, piuttosto di affrontare ancora Monica. Ormai aveva un unico pensiero che lo assillava: doveva

assolutamente capire come restituire ciò che aveva preso.

Monica non riusciva a spiegarsi il comportamento di Oveipo. Lui l'aveva lasciata lì, nella sua grotta, tra le sue preziose ampolle senza una parola di commiato. Pensò che doveva essere molto turbato per andarsene via così, senza un saluto e soprattutto senza assicurarsi che fosse uscita dal casolare. Decise di aspettare qualche minuto, magari era solo andato in bagno e si era vergognato di dirlo, anche se nutriva qualche dubbio sul fatto che un essere di quella natura potesse avere la necessità di usare una toilette. Visto che non tornava, concluse che non aveva senso restare ancora ad aspettarlo. «Vieni Pulce, qui non abbiamo più niente da fare.» Ancora più pensierosa dell'andata, Monica tornò in paese. Non riusciva a capire perché Oveipo fosse scappato via. Si sarebbe aspettata da lui delle giustificazioni a cui lei era pronta a ribattere, ma non la fuga. Quella proprio non l’aveva prevista. Guardò l'orologio. Era ancora presto, così decise di fare una capatina al lago. Aveva bisogno di restare sola per riflettere. Lasciò la strada e attraversò i campi. Pulce non la perdeva di vista un attimo, anche se all’apparenza sembrava tutto intento a seguire una traccia odorosa. Era una bella giornata, con un sole caldo e un fresco venticello. Come sempre c'era poca gente in giro. Pur essendo tutti al lavoro, chi nei campi o nelle stalle, chi negli uffici o nei negozi, quella valle non mostrava alcuna frenesia. Tutto era tranquillo come se fosse stato un giorno di festa.

Era una cosa a cui non aveva fatto caso prima, ma che le era saltata all'occhio quando aveva cominciato a viaggiare per studio. Se ne accorse tornata a casa dopo la prima settimana ata fuori. Le sembrò di essere arrivata nella leggendaria valle addormentata con tanto di maestro strambo. Mancava il cavaliere senza testa, ma non si poteva certo negare che anche quella valle avesse la sua personalissima entità fantastica. Arrivata al lago si sedette sull'erba. Non c'era nessuno intorno, voleva sentire

l'acqua del lago sui piedi, così si tolse le scarpe e si avvicinò di più alla riva. L'acqua fresca glieli lambiva fino alle caviglie. Sbuffi di protesta attirarono la sua attenzione. Pulce stava giocando con un grillo dispettoso che gli saltava davanti agli occhi proprio quando pensava di averlo preso. Si sentiva esausta e si sdraiò per farsi coccolare dal tepore del sole, pensò che nonostante tutto era una giornata davvero splendida. Chiuse gli occhi e, cullata dalla brezza, si addormentò. Dopo un po' la sua mente fu libera di vagare lontano, dimenticando le preoccupazioni di quei giorni. Una nuvola dispettosa oscurò il sole e per alcuni minuti la temperatura si abbassò così che, infreddolita, aprì gli occhi, sollevò la testa e si guardò intorno. Pulce era sdraiato accanto a lei e, appena la sentì muovere, le dette una musata di saluto a cui lei rispose con una carezza. Si sentiva tutta intorpidita, come se avesse dormito a lungo. Guardò l'orologio, si era fatto tardi. Dovevano tornare a casa. La testa le girava per il sonno profondo da cui si era appena svegliata. Ancora un po' intontita si allacciò le scarpe. Si alzò, bagnò il viso e i polsi con l’acqua fresca del lago e s’incamminò verso casa. Aveva però una strana sensazione, come se nel sonno le fosse giunto un messaggio. Non poteva dirlo con esattezza, ma aveva la sensazione che doveva essere qualcosa di importante, se solo fosse riuscita a ricordare. Arrivata a casa, trovò la madre e il nonno già a tavola. La mamma tolse un coperchio dal piatto.

«Alla buon'ora sei arrivata, ormai si sarà raffreddato tutto.» «Non fa niente. Ciao nonno, come stai oggi?» «Meglio ragazza mia, anche se questa seccatura prude terribilmente.» «E tu mamma, sei riuscita a studiare un pochino?» «Ma tu guarda, mi sembra di essere tornata bambina. Abbiamo invertito le parti, sei tu che chiedi a me se ho studiato.»

Tutti sorrisero, effettivamente era un po' strano. «Lo sai cosa voglio dire. Dopo quanto ci siamo dette questa mattina, avevi promesso che ti saresti applicata.» «E così è stato, ho mantenuto la promessa. Ancora mi chiedo come ho fatto a prendermi una grana simile, ma come dice la mia saggia e coscienziosa figlia, visto che ormai manca poco, è un peccato rinunciare buttando tutto il lavoro svolto finora.» In quel momento però, Monica non la stava ascoltando perché quel messaggio che le era apparso in sogno, era tornato improvviso, ma questa volta era riuscita a catturarlo prima che scape di nuovo. «È così!» Esclamò sbattendo il pugno sul tavolo. Il nonno e la mamma si guardarono perplessi, ma non fecero in tempo a dire niente perché Monica era corsa in camera per prendere il cellulare dallo zainetto. Doveva mandare subito un sms ai suoi amici per convocarli con urgenza. Dopo pochi istanti arrivarono le risposte. Si sarebbero trovati al solito posto in una mezz'ora. Alcuni minuti dopo, tornò a tavola come se niente fosse successo. Gli spaghetti al burro si erano ridotti ad un unico ammasso freddo e unto, ma non le importava. Adesso che sapeva, doveva dirlo agli altri.

Oveipo era quasi arrivato ad Aldebaran. Per tutto il viaggio si era augurato che Moka fosse riuscita a trovare Aghél. Aveva pensato molto a come fare per chiedergli aiuto ed era giunto alla conclusione che avrebbe raccontato tutta la storia dall'inizio. Non doveva nascondergli niente. Il guaio in cui si era cacciato era troppo grosso e l’amico doveva sapere che aiutandolo si sarebbe esposto a dei rischi e che poteva perfino essere accusato di complicità se lo avessero scoperto.

Aspettò a lungo e più il tempo ava, più il timore che fossero stati scoperti, o che lui non avesse accettato di seguirla, gli cresceva dentro e con questo anche l’ansia. Ormai la speranza di vederli era scomparsa e stava per tornare sulla Terra quando si sentì chiamare. «Finalmente, non speravo più di vedervi.» «Non è stato facile, ma l’ho trovato. Adesso però vi devo lasciare» e con quelle parole, il felino si congedò.

Aghél era felice di vedere l’amico. «Οneiro, che piacere vederti dopo così tanto tempo!» «Αghél, non immagini quanto ho sperato di incontrarti.» Anche lui lo desiderava, perché di recente aveva sentito il suo nome circolare tra le alte sfere accompagnato da bisbigli e sguardi preoccupati. E quello non era un buon segno.

«Dimmi Οneiro, cosa sta succedendo.» «Amico mio, temo di essermi cacciato in un grosso guaio e non so se ne uscirò. È per questo che ti ho fatto chiamare.» Aghél rimase in silenzio ad ascoltare il racconto che gli fece Oveipo. Il suo fu un racconto sincero che proveniva dal cuore. Gli narrò tutto senza omettere alcun dettaglio. L'aver tenuto per sé i sogni più belli, l'orgoglio che provava quando guardava la sua collezione, ma anche dell'attrazione che provava verso gli umani e il desiderio di comunicare con loro. Il prelevare i sogni non ancora del tutto dimenticati, e la sua cattura da parte di quattro ragazzi e un cane. Se Aghél non fosse stato di puro spirito, Oveipo lo avrebbe visto sbiancare. Non era immaginabile e non era mai successo che un custode venisse, non solo visto, ma anche catturato dagli umani. Adesso gli era chiaro perché ci fosse tanto trambusto attorno al nome del suo amico.

«Temo che tu l'abbia fatta proprio grossa questa volta.» «Lo so e non sai quanto mi dispiace.» «Devi tornare subito su Merope e implorare il perdono del Gran Consiglio.» «Lo farò, ma non ora. Prima devo porre rimedio alla sofferenza che ho provocato in una fanciulla e per questo ho bisogno del tuo aiuto.» Oveipo gli spiegò del patto che aveva fatto con Serena e della conversazione avuta con Monica quella mattina. «Va bene Οneiro, ti aiuterò. Devo però fare qualche ricerca, ti contatterò io appena saprò qualcosa.» «Ti prego Aghél, fai in fretta. Temo che fra breve il Gran Consiglio mi convocherà.» «Lo temo anche io. Cercherò di portarti la risposta a quello che mi hai chiesto al più presto, te lo prometto.» «Grazie amico mio, sapevo di poter contare su di te.» «A presto Οneiro.» Oveipo si congedò da Aghél. Sperava che l’amico sarebbe riuscito a trovare la soluzione al suo problema, perché altrimenti avrebbe deluso i suoi amici. Come avrebbe potuto confessare mi dispiace, non posso restituire i sogni ai vostri cari perché non so come fare. Ho accettato di stringere un patto con voi solo per prendere tempo. No, no, non poteva… non doveva finire così. Era d’obbligo che Aghél riuscisse a trovare una soluzione e anche in fretta, non c’era alternativa. Sentiva che presto sarebbe stato costretto a lasciare la Terra, la sua adorata collezione e i suoi nuovi amici.

21

Davide pensava di essere in anticipo all’appuntamento e che avrebbe dovuto aspettare, ma aveva appena parcheggiato il motorino quando si sentì chiamare da Roberto. Si girò e vide che i due fratelli stavano arrivando di corsa dall'altro lato della piazza. Questa volta correva anche Serena. Lui restò a guardarla, la trovava bellissima, come sempre. Aveva intenzione di invitarla ad uscire quella sera, ma doveva trovare il momento giusto per chiederglielo. Per quanto gli pie anche Roberto, sentiva il forte desiderio di stare da solo con lei. «Ciao ragazzi. Monica dov’è?» «Non lo sappiamo, veniamo dal vecchio mulino. Siamo andati a visitarlo. Il custode è un amico di Serena e ha aperto il mulino solo per noi. È stato molto interessante.» Una nuvola di gelosia rabbuiò il sole che brillava negli occhi di Davide. Chi era questo fantomatico amico, cosa voleva da Serena e da quanto tempo si conoscevano? Avrebbe voluto farle tutte quelle domande, ma si morse la lingua e si limitò a guardarla dicendo un semplice «Ah, davvero?». Per fortuna Roberto, nel suo desiderio di essere sempre preciso e particolareggiato riuscì a soddisfare la sua curiosità, senza che lui dovesse chiedere niente. «Sì, lui suona nella band di Serena, si conoscono da quando erano bambini e dal mese prossimo sarà la guida per i turisti che visiteranno il vecchio mulino di Aino. Noi siamo stati il suo primo pubblico, diciamo che è stata una specie di prova generale.» La nuvola scomparve, riportando di nuovo il sereno nello sguardo del ragazzo. Serena lo guardò sorridendo. Non aveva detto una parola, ma aveva capito tutto. «Non sapete perché Monica ci ha convocato con tanta urgenza?» «No, veramente non ne abbiamo idea, ma scommetto che tra poco lo sapremo. Sta arrivando proprio in questo momento, ce lo dirà lei stessa.»

Pulce arrivò di corsa è salutò con il solito entusiasmo. Tutti ricambiarono le sue feste con carezze e grattatine dietro le orecchie. Poi, esauriti i saluti, i ragazzi si rivolsero a Monica il cui sguardo severo tradiva la gravità di quanto stava per comunicare. Fu Roberto a notarlo per primo.

«Ciao, ma che faccia che hai. Tutto bene a casa?» «Sì, tutto bene, ma oggi ho capito una cosa importante che riguarda Oveipo. Venite, sediamoci che vi racconto.» I ragazzi la guardarono incuriositi. Se quello che voleva era un'entrata a effetto, c'era sicuramente riuscita. Raggiunsero la prima panchina disponibile. Monica rimase in piedi di fronte a loro, li guardò per alcuni istanti, non aveva ancora deciso se voleva raccontare anche dell'incontro avuto quella mattina. Per il momento decise che non era essenziale. «Oggi ho capito che ci ha mentito.» «Cosa intendi dire?» «Roberto rifletti e anche voi, pensateci bene. Quando lo abbiamo catturato, lui ha accettato il patto che gli ha proposto Serena, ricordate?» Tutti annuirono. «E se glielo avessimo chiesto, lui avrebbe dovuto restituite i sogni. Giusto?» Tutti risposero quasi all'unisono.

«Giusto.» «Bene, ma su questo punto ci ha mentito. Perché non lo può fare.» «Come fai a dirlo?»

«Pensaci bene Roberto, ti ricordi che quando lo abbiamo preso, lui si è scusato per il suo modo di parlare?» «Sì certo, ma parlava lentamente perché non lo aveva mai fatto prima.» «Appunto! Ancora non capisci?» Monica lo guardò dritto negli occhi, ma a lui continuava a mancare il nesso tra il parlare piano e non rispettare il patto che aveva fatto con loro. Inoltre era suo amico e per questo non gli avrebbe mai mentito. «Monica ha ragione. Oveipo non può restituire i sogni ai vostri nonni e il motivo è semplice, perché non lo ha mai fatto prima d’ora. Non saprebbe come fare.» Davide aveva capito, ma Roberto non voleva crederci.

«Non è possibile, ce lo avrebbe detto. Perché mentirci?» A quel punto intervenne Serena.

«Roberto, cerca di ricordare. Perché ci ha detto di non aver mai parlato prima?» «Perché noi siamo stati i primi umani che lo hanno visto.» «Esatto, ma se noi siamo stati i primi umani, prima di noi nessuno può avergli chiesto di restituire i sogni, ti pare?» «Ma, ma…»

Roberto cominciava a comprendere. Allora Oveipo gli aveva davvero mentito, ma perché lo aveva fatto? Era abbattuto, non voleva credere che lui avesse promesso pur sapendo di non essere in grado di mantenere la parola data. «Andiamo da lui! Vedrete che ci sarà un'altra spiegazione.» «Se n'è andato. Non penso che lo vedremo più.»

«Non è possibile, non ci credo. Oveipo non se ne andrebbe mai come se fosse un ladro, senza salutarci e darci delle spiegazioni. Sei una bugiarda Monica, lui non ti è mai piaciuto e adesso cerchi di mettercelo contro!» Roberto era furioso con l’amica. Serena non lo aveva mai visto così, ma prima che potesse intervenire per calmare gli animi già piuttosto accesi, lui fece una domanda alla quale tutti avrebbero voluto riceve una risposta.

«Ma, aspetta un attimo, come fai a sapere che se n’è andato?» Monica si era fatta sfuggire una frase che adesso richiedeva una lunga spiegazione, nessuno di loro si sarebbe accontentato di una semplice supposizione. Così fu costretta a confessare agli amici di essere andata al casolare senza di loro, per parlare con Oveipo e poi, di averlo visto volare via. Un altro macigno si abbatté sul giovane cuore di Roberto, ma che stava succedendo ai suoi amici. Era cominciata la gara per chi lo deludeva di più? Roberto s alzò dalla panchina con le lacrime agli occhi. Senza nemmeno una parola di saluto, se ne tornò a casa. Solo Serena, che aveva capito quanto lui stesse soffrendo, si alzò e lo seguì, facendo segno agli amici che si sarebbero sentiti più tardi per telefono. I due rimasero alcuni istanti in silenzio. Fu il ragazzo a parlare per primo. «Perché sei andata da Oveipo senza dirci niente?» «Lo so, ho sbagliato a non dirvelo, ma avevo bisogno di parlare con lui da sola e avevo paura che voi poteste persuadermi dal non farlo.» «Sì, è probabile che lo avremmo fatto.» Sconsolati si salutarono e ognuno tornò alle proprie case. Ormai non c'era più niente da dire, la loro avventura si era conclusa nel modo peggiore. Arrivato a casa Roberto si chiuse in camera sua e affondò il viso bagnato di lacrime nel cuscino. Per la strada non aveva permesso a Serena di dire una sola parola, appena lei ci provava, lui accelerava per distanziarla. Così fu costretta a

rinunciarci, restando in silenzio al suo fianco. Era molto triste per il fratello. Certe delusioni fanno davvero male, ma sapeva anche che col tempo si rivelano proprio le esperienze che sono più utili nella formazione del carattere. Vide la porta chiusa della camera del fratello, si avvicinò e la socchiuse quel tanto che bastava per accertarsi che stesse bene. Lo vide sul letto e capì dal movimento delle spalle che stava piangendo. Richiuse la porta e si recò in cucina. Voleva preparargli la merenda, sperò che uno spuntino a base di pane e cioccolata e un bicchiere di latte potessero addolcirlo per permetterle di parlare con lui. Mise il panino e il bicchiere su un piccolo vassoio e aspettò ancora qualche minuto prima di bussare alla sua porta. Toc, toc. «Vattene via!» «Ok, entro.» «Avevo detto vattene via!» «Lo so, ho sentito. Girati che ti ho portato la merenda, ma non ti illudere che la cosa diventi un'abitudine. È la gravità della situazione che richiede da parte mia un intervento straordinario.» «Sniff, che vuoi, sorella senza cuore?» «Parlare.» «Ok, allora mentre mangio, puoi parlare.» «Sai, purtroppo gli uomini commettono un sacco di errori e, a quanto pare, anche i non-umani ne commettono parecchi. Molti imparano dai propri sbagli e hanno la possibilità di diventare migliori, altri invece fanno finta di niente, magari addossando ad altri le proprie colpe e così non imparano mai. I primi diventeranno delle persone affidabili su cui si può contare, le altre resteranno solo… persone.» «Dici che Oveipo ha capito di aver sbagliato?» «Non lo so Roberto. Se è già difficile capire il comportamento di un umano,

figuriamoci cosa a per la mente di un custode di sogni dimenticati. Poi, devi considerare il fatto che non sempre è possibile comprendere subito i propri errori. Si potrebbe avere bisogno di un po' di tempo.» «Pensi che tornerà?» «Lo spero davvero. Mi deluderebbe tanto se non lo fe.» «Potrei provare a chiamarlo.» «Certo che puoi. Te l'ha detto lui che potevi farlo.» «Allora ci provo. Oveipoooo….» I due fratelli restarono in silenzio qualche istante, in attesa che Oveipo arrivasse, ma di lui nessuna traccia. «Allora Monica aveva proprio ragione.» «Temo di sì, Roberto.» «Adesso vorrei restare solo.» Serena, a quelle parole prese il vassoio con i resti della merenda e lasciò la stanza chiudendo la porta. Il fratello sembrava stare un po' meglio, ma adesso aveva bisogno di riflettere su dei concetti importanti come l'amicizia e l'umana fragilità. E anche su quella non-umana.

Roberto non poteva accettare che Oveipo fosse scappato via. Non era da lui, anche se non lo conosceva da molto, sentiva che non era un codardo. Va bene, aveva mentito. Non lo si poteva negare, ma era stato appena catturato da alcuni umani che aveva sempre e solo osservato sapendo che non lo potevano vedere. Che diamine, chiunque avrebbe fatto lo stesso se si fosse trovato nelle identiche condizioni, ma quello che Roberto proprio non riusciva a capire era la fuga. Non c'era alcun motivo di scappare. Ormai erano diventati amici, perché non parlarne allora? Non sai come restituire i sogni, va bene. Niente panico, troveremo insieme una soluzione, ma scappare.

«Roberto, mi hai chiamato?» Una vocina lenta interruppe i suoi pensieri. «Oveipo, sei tu?» «Sì amico mio, mi hai chiamato e io sono venuto.» «Lo sapevo che non eri un codardo!» «Eh?» Oveipo non era sicuro di aver capito bene. «Oggi Monica ci ha detto cose terribili sul tuo conto. Che ci hai mentito perché non sai restituire i sogni e per questo sei fuggito.» Mentre parlava, ad una velocità di poco inferiore a quella del suono, Roberto si era alzato dal letto, aveva chiuso la persiana e la torcia a led, per poter vedere l'amico ritrovato. Dopo tornò sul letto e cercò con lo sguardo Oveipo. Lo trovò che galleggiava nell'aria vicino al comodino.

«Sono contento che non sei fuggito.» «Non lo avrei mai fatto, ma quello che ha detto Monica purtroppo è vero.» «Non fa niente Oveipo. Eri stato appena catturato ed eri cosparso di marmellata di more. Chiunque si sarebbe comportato nello stesso modo.» Risero entrambi a quel ricordo. «Sai che me la sento ancora addosso? È parecchio appiccicosa quella roba.» «È stata una mia idea per non far scivolare la coperta.» «È stata un'idea geniale, amico mio.» Roberto si sentì lusingato del complimento del suo particolare amico.

«Ma, adesso Oveipo come possiamo fare per restituire i sogni ai nonni?» «È vero che oggi sono volato via, ma non per scappare. Sono andato a cercare un mio amico per chiedergli di aiutarmi. Lui è l'unico che può scoprire come fare a restituire i sogni.» «Allora si tratta solo di aspettare che il tuo amico si faccia vedere?» «Sì, Roberto. Dobbiamo solo attendere e non ci vorrà molto, vedrai.»

«Oveipo, a proposito del tuo amico. È anche lui come te?» «No, lui è un messaggero.» «Oh, e che cos’è un messaggero?» «Beh, penso che sia facile da capire.» «Hai ragione. Scusa, ma la verità è che vorrei sapere cosa sei tu.» «Lo so, Roberto. Lo avevo capito, ma per il momento preferisco che tu non lo sappia ancora.» Roberto ci rimase un po’ male alla risposta dell’amico. Non si aspettava che anche da lui arrivasse la solita frase, tipica degli adulti, che riceveva ogni volta che faceva una domanda che li metteva in imbarazzo. Imbarazzo per cosa, poi non riusciva a capirlo. Mica aveva chiesto ogni quanti giorni si cambiassero le mutande! E così, col tono tra il canzonatorio e l’offeso ribatté «Perché pensi che sia troppo piccolo per capire?»

«No amico mio, anzi. La tua mente giovane è ancora libera da preconcetti e non avresti nessuna difficoltà a credermi e a comprendere. Il problema è un altro.» «Quale sarebbe allora?» «La vostra sicurezza. Ti prego, non chiedermi altro. Un giorno ti racconterò tutto quello che vorrai sapere, ma per il momento…»

«Non me lo dire, conosco già il resto. Devo avere pazienza.» «Proprio così.» Oveipo vide che sul volto di Roberto era caduto uno spesso velo di delusione e gli dispiacque. «Senti Roberto, ti do un piccolo aiutino, ma tu prometti che non mi chiederai altro. Ci stai?» Certe volte capita che anche i custodi dei sogni dimenticati riescano a fare domande sciocche, proprio come fanno gli adulti, ma Roberto c’era abituato e si limitò ad annuire. Un bel sorriso gli si dipinse sul volto. «Va bene allora, ti dico M45, sta a te scoprire di cosa si tratta. Adesso però devo proprio lasciarti mio piccolo amico, si è fatto tardi e devo continuare a svolgere il mio lavoro. Spero di vederti domani mattina al casolare.» «Ci puoi contare vecchio mio!» Roberto aprì le imposte per lasciare uscire l'amico che, ormai invisibile, si congedò. «A domani allora.» «A domani Oveipo, ti voglio bene.» A quelle parole il custode sentì un forte calore diffondersi dentro. Si girò verso l'amico che era rimasto alla finestra, gli si avvicinò e sussurrò «Ti voglio bene anche io, Roberto». E felice come mai era stato prima, se ne andò al lavoro.

22

Dopo aver lasciato Roberto in camera sua a meditare su quanto fosse difficile certe volte diventare grande, Serena chiamò Monica che rispose tradendo una certa apprensione. «Pronto Serena, come sta Roberto?» «Ciao Monica. Il piccoletto sta bene. Un po' abbacchiato ma direi che si riprenderà.» «Mi dispiace moltissimo non avervi detto che volevo parlare da sola con Oveipo e temo che lui sia scappato via per causa mia.» «Perché lo pensi?» «Quando mi sono trovata da sola con lui, non sono più riuscita a trattenermi. Ho urlato e pianto, l'ho accusato di rubare le nostre speranze e di giocare con i nostri desideri.» «Eh sì, ci sei andata un po' pesante.» «Già, e così facendo ho fatto del male anche a tuo fratello. A proposito, vorrei are dopo cena per parlare con lui, dici che posso?» «Certo che puoi, gli dico che vieni. Questa sera non ci sono, vado a cantare con la band, ma voi due potreste andare a farvi un giro.» «Lascerò decidere a Roberto, mi sembra il minimo che posso fare dopo quello che ho combinato.»

«Ehi! Non essere così severa con te stessa. Non siamo perfetti e, anche se non ci piace ammetterlo, sbagliamo anche noi. Vedrai che Roberto capirà. Sa essere molto maturo… a volte.»

«Grazie, allora o dopo cena.» «Glielo dirò, ciao.» Dopo aver parlato con Monica, Serena doveva chiamare Davide. Di colpo si accorse di avere un gran caldo e che le sue mani erano piuttosto sudaticce. Il suo cuore stava battendo più forte. Aveva selezionato il numero nella rubrica del cellulare e stava per premere il tasto verde di chiamata quando il telefono le squillò in mano. «Ahhh!» Dallo spavento lanciò un urlo e per poco non fece cadere l'apparecchio. Guardò il display, era lui. «Ciao Davide, stavo proprio per chiamarti.» «Ciao Serena, lieto di averti preceduto allora. Come sta il ragazzo?» «Sta meglio, adesso è in camera sua che riflette sulla vita.» «Riflessione impegnativa, è meglio lasciarlo tranquillo.» «Sì, lo penso anche io. Inoltre questa sera viene Monica per fare due chiacchiere con lui.» «Fa bene, gli deve qualche spiegazione.» «Già, non doveva finire così.» «Dai tempo al tempo e vedrai che tutto andrà a posto, ma a proposito di tempo, hai impegni per la serata?» «Vado a cantare con la band.» «Oh, che peccato. Volevo invitarti al cinema.» «Non posso, mi dispiace. Questa prova è programmata da diversi giorni, ma senti, mi è venuta un'idea. Perché non vieni anche tu? Ci farebbe bene avere del pubblico.» «Volentieri, ma ad una condizione.»

«Quale?» «Che dopo ti posso portare a prendere un gelato.» «Affare fatto.» «Benone! A che ora o a prenderti?» «Una decina di minuti prima delle nove basterà, con il tuo scooter non ci vorrà molto.»

Appena Oveipo volò via, Roberto si mise al computer. La sigla M45 gli era familiare anche se non riusciva a focalizzarla. Affidò la sua ricerca a Google che immediatamente visualizzò una lista di definizioni e link associati. Erano tutti in inglese, ma non ebbe bisogno di leggerli, perché a metà della pagina, una delle immagini proposte dal motore di ricerca gli fece tornare subito alla memoria a cosa si riferiva quella sigla. Era l’ammasso stellare noto anche come Le Pleiadi! Ricordava che suo padre gli aveva raccontato molte cose su quelle stelle così particolari che, per la loro posizione prossima all’equatore celeste, erano visibili da entrambi gli emisferi, anche se in periodi diversi dell’anno. Pur essendo un ammasso composto da diverse stelle, molte di queste erano troppo deboli per essere viste ad occhio nudo, ma le sette più brillanti si potevano osservare anche nei centri abitati, dove le luci dei lampioni rendono difficile la visibilità del cielo notturno. Legate nell’antichità a riti propiziatori per la coltivazione dei campi e per la navigazione, molti popoli le identificavano con sette sorelle da cui avevano preso il nome. Maia la sorella maggiore, Merope la più giovane e non sempre visibile. Poi, tra le due c’erano Elettra, Taigete, Pleione, Asterope e Celeno. Erano considerate delle divinità e diverse leggende erano nate su di esse. Quella che a Roberto piaceva di più però, non era quella greca cantata da Omero, ma una di origine australiana che in pochi conoscevano e che lui aveva scoperto la prima volta che si era interessato a quelle stelle. L’aveva trovata in un libro che, se ricordava bene, era nello scaffale alto sopra il letto. Infatti, eccolo lì. Lo prese e cercò con la memoria le pagine che narravano la sua leggenda preferita. Ricordò così che non era una vera e propria leggenda, piuttosto una storiella della buona notte che una nonna australiana con sangue aborigeno nelle vene raccontava alla sua nipotina per farla addormentare.

Le Sette Sorelle, note col nome Kungakungaranga in alcune tribù aborigene, scendevano spesso sulla Terra dalla loro casa nel cielo. Usavano come aggio una collina particolare, perché al suo interno c’era una grande caverna e un aggio segreto che permetteva loro di andare e venire senza essere viste dagli umani. In una delle loro visite, uscirono dalla caverna per procurarsi del cibo. Sulla via del ritorno, un vecchio uomo le vide, le sette sorelle erano troppo impegnate a trasportare le provviste alla grotta e non lo notarono. Il vecchio decise di seguire quelle bellissime giovinette perché cercava da lungo tempo una moglie, ma non era mai riuscito a trovare la donna giusta. Quando le sorelle giunsero nei pressi di un torrente, erano molto stanche e decisero di accamparsi. L’uomo allora saltò fuori dalla selva e afferrò la più giovane delle sette. Le altre sorelle non si accorsero che una di loro era stata catturata perché troppo impegnate a scappare. Fu così che raggiunsero la collina e, attraverso il aggio segreto, riuscirono a mettersi in salvo nel cielo. Nel frattempo, la sorella più giovane era ancora alle prese con il vecchio nel tentativo di liberarsi. Chiamò le sorelle affinché l’aiutassero, ma loro si erano già messe in salvo e non la potevano sentire. ‘Tjitia (sorelle), aiutatemi!’ urlava tra le lacrime mentre combatteva contro il vecchio. Visto che nessuno veniva a soccorrerla, smise di chiamare e cercò con tutte le sue forze di ferire l’uomo, fino a quando riuscì a colpirlo così forte che lui allentò la presa. Fu solo per un attimo, ma le bastò per scappare via. Il vecchio, furioso per essersela fatta sfuggire, la seguì fino nel cielo.

Ecco perché la più giovane delle sette sorelle è quella più difficile da vedere e quando capita di non vederla, è perché ha perso la via per raggiungere le sue sorelle, ma quando la si vede, significa che l’ha ritrovata. Anche il vecchio si può vedere nel cielo alla sera e al mattino perché è ancora alla ricerca della settima sorella per farla diventare sua moglie. Roberto lesse poi che il vecchio altri non era che il pianeta Venere. Mise un segnalibro tra le pagine e posò il volume sul comodino, dopo quello che gli aveva detto Oveipo, voleva rileggere quel libro con molta attenzione.

Quando Serena andò a chiamare il fratello per la cena, si trovò davanti un

ragazzino con stampato sul viso un enorme sorriso che sfoggiava con orgoglio. Lo guardò molto perplessa, non si aspettava di vederlo così sorridente e addirittura felice, a meno che… «Vieni un po' qui tu.»

E così dicendo l’afferrò per la maglietta. Roberto sempre sorridente, si girò verso di lei. «Cosa c'è sorella?» «Guardami negli occhi. È tornato, vero?» Lui si limitò a strizzare l'occhio e a sorridere ancora di più. Giunti a tavola, osservò con curiosa attenzione l'abbigliamento della sorella e, a guardarla meglio, notò che si era anche truccata! «Esci questa sera?» Chiese laconico. «Uhm sì, mi trovo con la band.» «E com'è che ti sei messa tanto in ghingheri?» A quella frase, gli occhi di tutti si girarono verso di lei. Il papà, che fino a quel momento era parso distratto, la osservò da capo a piedi.

Serena si sentiva sotto i riflettori e cercò di sdrammatizzare.

«Umpf sciocchezze, solo perché una volta tanto perdo un po' di tempo più del solito a vestirmi.» Roberto non aveva nessuna intenzione di mollare nonostante le occhiatacce della sorella, si stava divertendo troppo. «Ma non è che Davide questa sera viene a sentirvi? Aspetta, aspetta, fammi

indovinare… non vi farebbe bene avere del pubblico?» Serena lo fulminò. Aveva origliato la sua telefonata! Il papà si intromise nello scambio di battute dei due fratelli.

«E chi sarebbe questo Davide?» «È un nostro amico!» Rispose subito Roberto. «Uhm. Serena, sale in zucca. Mi raccomando.» «Sì papà.» E così, con questo semplice consiglio espresso da un padre poco incline ai lunghi discorsi, l'argomento Davide fu accantonato, almeno per quella sera. La cena proseguì tranquilla e vennero toccati altri temi del tutto innocui. Poco dopo aver sparecchiato, mentre Serena si dava l'ultima controllata allo specchio per abbinare il giusto paio di orecchini, Roberto si mise alla finestra nell'attesa di vedere arrivare Davide e, invece, vide prima Pulce e poi Monica uscire dalla finestra della sua camera. Sembrava che i due ci avessero preso proprio gusto ad usare quella finestra come via di uscita. «Ciao Monica, dove vai?» «Ciao Roberto, sto venendo da te. Mi apri?» «Ah sì, e come mai?» «Tua sorella non ti ha detto niente?» «No, se ne sarà dimenticata. Aspetta che scendo e ti apro.» Serena stava uscendo dalla sua camera quando incrociò Monica e Pulce che stavano salendo dalle scale seguiti da Roberto. Fece finta di ignorarli per qualche istante, giusto il tempo per riferire un messaggio al fratello. «Ah, Roberto. Guarda che questa sera a Monica… con Pulce.»

Da quattro scalini più in basso, la risposta non si fece attendere. «Grazie che me lo hai detto Serena, stavo pensando di uscire, ma adesso che lo so resto a casa ad aspettarli.» L’amica stava ridendo e non riuscì a trattenersi. «Ma voi due siete sempre così scemi?» «Certo che no. In genere io e mia sorella lo siamo molto di più!» Il rumore di uno scooter interruppe la loro conversazione. I due amici videro Serena correre in camera sua e uscirne subito dopo con una borsetta microscopica dalla lunga tracolla. «Ciao ragazzi, io vado!»

Quando le risposero, lei era già scesa in strada. Monica e Roberto si precipitarono alla finestra per guardare i due piccioncini. Davide non fece in tempo a suonare il camlo che Serena era già sulla porta. La vide bellissima, come sempre e forse di più. Si scoprirono imbarazzati e intimiditi. Era la prima volta che restavano soli. Si sorrisero e lui le porse un casco.

«Spero che ti vada bene.» «È perfetto». Davide ringraziò il cielo di non essersi tolto il casco, così il suo avvampare poté are inosservato. Intanto dei risolini arrivavano dalla finestra al piano superiore. Davide e Serena, alzarono la testa e imbarazzati salutarono i due amici che li guardavano con una notevole malizia negli occhi.

Dopo pochi istanti lo scooter era sparito in fondo alla via. Monica aveva notato che Roberto era allegro, eppure poche ore prima lo aveva visto stravolto. Non si aspettava che si riprendesse così in fretta, ma questo non precludeva il fatto che lei gli dovesse delle scuse. «Sai, mi dispiace molto per quello che ho fatto questa mattina. Sono stata scorretta con voi per non avervi detto cosa volevo fare e ingiusta con Oveipo. Ho esagerato e lui se n'è andato per causa mia.»

Roberto era diventato serissimo mentre ascoltava Monica. Poi, con voce greve le disse «Non è mica andato via per colpa tua.» «E tu come fai a saperlo?» «Me lo ha detto lui.» Roberto non riuscì a restare serio e dopo pochi istanti, scoppio a ridere. Lo divertiva da matti vedere Monica così spiazzata. Lei, la secchiona che doveva sempre avere una risposta per ogni cosa, in quel momento era rimasta senza parole. I suoi occhi tondi erano sgranati e la bocca aperta non emetteva altro che dei «Ma… ma… ma…». Pulce, che si era accomodato sul letto, guardava curioso la scenetta.

Roberto finalmente smise di ridere, gli faceva male la pancia per quanto lo aveva fatto. Si asciugò le lacrime e guardò l'amica che, avutasi dalla sorpresa, aspettava paziente che lui riprendesse il controllo dei suoi muscoli facciali. «Dovevi vedere la tua faccia, eri sosissima.» «Lascia perdere la mia faccia. Davvero è tornato?»

«Sì, è venuto qui poche ore fa.» Monica non poteva credere alle sue orecchie. Che bella notizia che le aveva dato! Dalla gioia lo abbracciò. Roberto rimase di stucco, non si aspettava

dall'amica un simile entusiasmo. Cercò di dissimulare il suo imbarazzo con una pacchetta affettuosa sulla spalla. Poi, per distrarla nella speranza che si staccasse da lui, cominciò a raccontarle quello che si erano detti, anche se omise quel piccolo particolare legato alle Pleiadi. A parte il fatto che in realtà c’era poco da dire, voleva che quello restasse per il momento un segreto suo e di Oveipo. Lei lo ascoltò attenta e in silenzio. Quando però giunse alla fine, Monica storse in naso. Non condivideva l'idea di dover aspettare fino a che l'amico di Oveipo portasse la soluzione, perché avrebbe potuto metterci anche dei giorni e loro non avevano tempo da perdere.

«Invece noi possiamo fare qualcosa!» «Cosa intendi dire?» «Questa mattina sono riuscita a convincere mia madre a continuare a prepararsi per il concorso. Potreste fare la stessa cosa tu e Serena, chiedendo ai nonni di raccontarvi ancora qualche storia divertente del loro viaggio di nozze, in modo da mantenere vivo il ricordo e magari, chissà, fargli venire un nuovo desiderio.» «Lo sai che hai avuto proprio una buona idea? Perché domani mattina non ne parliamo con Oveipo?» «Si, mi sembra giusto. Inoltre gli devo una montagna di scuse per come l'ho trattato.»

23

Era l'alba quando Aghél arrivò al casolare. Oveipo, pur sperando in una sua visita, non si aspettava che si sarebbe presentato così presto. «Amico mio, che piacere vederti. Dimmi che hai la risposta a quello che ti ho chiesto.» «Οneiro, purtroppo sono qui in veste ufficiale di messaggero del Gran Consiglio.» «Lo immaginavo, ma sono contento che questo compito sia stato affidato a te. So che farai del tuo meglio per renderlo meno gravoso, ma prima seguimi, voglio mostrarti la mia collezione.» Aghél lo seguì nello stretto cunicolo. Quando giunse nella grotta, rimase colpito dalle migliaia di ampolle che vi trovò. La luce del giorno era ancora troppo debole e le ampolle non riuscivano a brillare. Oveipo allora illuminò una sua estremità e con essa toccò un'ampolla. Questa divenne brillante emanando una luce rossa che colpì le sfere vicine dando origine ad un fantastico effetto domino. Come per magia lui e Aghél furono avvolti da un meraviglioso caleidoscopio di luci e colori. Il messaggero rimase senza parole.

«Oneiro è bellissimo! Neanche il più bravo e originale degli artisti che si sta esibendo al festival sarebbe in grado di eguagliare quello che tu hai ottenuto con un solo raggio di luce.» «Lo so amico mio e ne vado molto fiero, ma dimmi, come sei riuscito a farti assegnare questa missione dal Gran Consiglio?» «Ho convinto il capitano Sminagós. All’inizio voleva mandare il suo messaggero più fedele, ma poi ha compreso che la situazione andava gestita con

particolare attenzione visto che sono coinvolti anche dei giovani umani e Xsàghes è un po’ troppo legato ai regolamenti. Avrebbe sicuramente richiesto l’intervento dei dimenticatori.» A quelle parole Oveipo lasciò l’ampolla e la grotta ripiombò nell’oscurità. Non voleva che qualcuno del suo popolo toccasse i suoi amici. Avrebbe giurato e spergiurato sulla sua stessa esistenza se fosse stato necessario che ci si poteva fidare di loro e che mai avrebbero raccontato quello che avevano visto. Per fortuna il suo amico era riuscito a far ragionare il capitano, ma questo a Oveipo non bastava, bisognava essere sicuri che anche il Gran Consiglio non avrebbe dato l’ordine. Aghèl capì che il suo amico era turbato, ma non disse niente. Invece riprese da dove si era interrotto. C’erano altre cose che doveva sapere. «Sono venuto qui anche perché volevo darti l'esito delle mie ricerche.» «Ce l'hai fatta! Lo sapevo. Parla amico mio, hai trovato quello che ti avevo chiesto?» «Sì Oneiro, so come fare ma non sarà facile e potrebbe essere anche molto pericoloso per te.» «Non ha importanza Aghél, devo farlo per Roberto e i suoi amici. Non voglio deluderli ancora.» «Purtroppo ti devo dare anche la convocazione ufficiale. Sei stato richiamato su Merope. Dovrai presentarti davanti al Gran Consiglio al più presto. Hanno mosso pesanti accuse contro di te.» «Sapevamo entrambi che sarebbe successo, anche se speravo di avere più tempo. Dimmi Aghél, devi rientrare subito?» «No Οneiro, ho il compito di scortarti.» «Ammetto che lo speravo. Sono contento di non dover fare il viaggio da solo, sono stato solo tutta la mia esistenza e adesso sento il bisogno di avere degli alleati fidati accanto. Se resti qui avrai modo di vedere i miei nuovi amici e di conoscerli, se lo vorrai. Sono certo che ti piaceranno, ma ti prego, è molto importante che adesso mi spieghi come posso fare a restituire i sogni.»

Il messaggero accontentò l’amico. Gli descrisse una procedura solo teorica, perché mai era stata sperimentata prima di allora e, nonostante questo, di sicuro molto pericolosa.

«Aghél dobbiamo metterla in pratica al più presto.» «Οneiro, non hai compreso quanto ti ho appena detto? Riuscirci è quasi impossibile! Ti prego, rinuncia e torna con me su Merope.» «Non riesci a capire? Io non posso andarmene sapendo di non aver messo riparo agli errori che ho commesso. Non posso e non voglio!» «Non hai pensato che potrebbero esserci migliaia di sogni rimossi prima che fosse giunto il loro momento?» «Hai ragione, ma nessuno li ha reclamati. Restituirò solo quelli che mi verranno richiesti dai miei amici.» «La tua è pura follia, ma se proprio vuoi così, allora ti aiuterò.»

Poche ore più tardi Roberto si svegliò riposato e contento. Aveva ritrovato l'ottimismo ed era convinto che in quella radiosa mattinata, nulla sarebbe potuto andare storto. Scese dal letto e si diresse pigramente in cucina, dove trovò Serena che stava già facendo colazione. Dallo sguardo di triglia con cui lei lo guardò e da come era scapigliata, ne dedusse che l'uscita della sera precedente doveva essere andata piuttosto bene, ma decise di soprassedere e non infierire con le sue battute. Avrebbe avuto occasioni migliori per punzecchiare la sorella, soprattutto durante i pasti, quando tutta la famiglia era riunita. Preferì quindi fare finta di niente e invitarla al casolare. «Oggi io e Monica andiamo da Oveipo. Ti va di venire?» «Certo che mi va, lo vedo volentieri. E poi sono scaduti i due giorni. Vado a telefonare a Davide per dirglielo.» Serena si stava già alzando da tavola quando

Roberto la gelò. «Tranquilla, l'ho già fatto io.» «Oh, davvero?» «Ah, ah, no! Ma non ho resistito, volevo vedere la faccia che avresti fatto.» «Ma quanta ilarità concentrata in un fratello. Vado a chiamarlo.» E così dicendo emerse dal torpore trigliesco, si alzò da tavola e se ne andò a cercare un po’ di tranquillità in camera sua. Roberto rimase in cucina a fare colazione con la sola compagnia del suo sogghigno, proprio come il gatto matto in Alice nel Paese delle Meraviglie.

Mezz'ora dopo i due fratelli erano già in strada davanti alla finestra di Monica ad attendere l'amica. Come sempre arrivò prima Pulce che li salutò alla sua maniera umida e festosa, qualche istante dopo arrivò un piede di Monica. Serena rimase un po’ perplessa. Pensava che quel aggio fosse solo occasionale. «È successo qualcosa alla tua porta?» «Niente che io sappia, ma mi piace di più uscire di qui. Lo trovo più pratico e decisamente molto più trasgressivo.» Monica lo disse ridendo. Anche lei era di buon umore, a differenza del giorno precedente. Dopo essersi guardata in giro, si rivolse a Serena. «E Davide?» «Ci raggiunge più tardi, appena finisce di lavorare.» «Allora ieri è andata bene?» Serena non fece in tempo a commentare che Roberto intervenne.

«Deve essere andata bene sì, dovevi vedere come era conciata appena sveglia!» «Voi due vi siete proprio trovati. L’una più pettegola dell'altro.» Serena finse di offendersi e gli altri due la presero in giro ancora un po' prima di cambiare argomento. Quando ciò accadde, non le parve vero che quella tortura fosse cessata. Arrivati nei pressi del casolare, Pulce e Roberto corsero avanti, il primo abbaiando e il secondo urlando.

«Oveipo, Oveipo, siamo arrivati!» «Eccoli! Vieni Aghél, voglio farteli conoscere. Anzi no, vado a solo io, oppure li accogliamo insieme, sarebbe bello, ma loro non possono vederti, allora forse è meglio che mi aspetti qui.»

Era eccitato dalla gioia di avere tutti i suoi amici riuniti e non sapeva decidersi. Alla fine optò per lasciare l'amico nella grotta. Aghél era un po' preoccupato, non si era mai mostrato a degli umani prima, ma non osò dire niente, non aveva mai visto l’amico così felice. E sapeva purtroppo che molto presto avrebbe dovuto lasciare la Terra e tutto quello che amava di più. Oveipo accolse i suoi amici e li accompagnò nella grotta. Ritrovarsi dopo i malintesi del giorno precedente li fece sentire ancora più uniti. Una volta arrivati, Oveipo li guardò eccitato, stava per introdurre il suo amico quando si accorse che mancava Davide. Allora si rivolse a Serena. «Davide non viene?» Roberto e Monica scoppiarono a ridere, mentre Serena, rossa come un bel pomodoro maturo rispondeva un po' seccata. «Ha detto che ci raggiungerà più tardi, ma mi piacerebbe sapere perché tutti lo chiedono a me.»

«Mia cara, sarò anche un essere molto diverso da voi, questo penso che sia ovvio, ma certe cose brillano come le stelle in una notte priva di nubi.» «È davvero tanto evidente?» Un unico «Sì» giunse in coro da tutti i presenti, tranne che da Aghél, un po' perché non sapeva di cosa stessero parlando e un po' perché dall'emozione si era dimenticato di essere invisibile e si era nascosto nell'angolo più lontano e più buio della grotta. «Bene, aspetteremo l'arrivo di Davide allora, prima che io vi dica alcune cose.» Roberto avrebbe voluto sapere subito a cosa Oveipo si riferiva, ma capiva che era necessario avere pazienza. A quanto pareva diventare grandi significava dover sempre aspettare.

Pazienza Roberto, devi avere pazienza. Quella era la frase che come un mantra ripetevano di continuo i suoi genitori, i nonni, sua sorella e adesso ci si metteva anche lui. Non era poi così sicuro che gli sarebbe piaciuto diventare grande. Certe volte immaginava l'età adulta come la sala d'aspetto del dentista. Nella grotta il tempo ò in fretta, con Roberto e Pulce non c'era pericolo di annoiarsi. Monica volle approfittare di un momento di tranquillità per scusarsi, il giorno prima aveva esagerato e se ne rendeva conto. Il sincero pentimento che le sue parole dimostrarono, commosse Oveipo. «Certo che ti perdono amica mia, ma non essere troppo severa con te stessa, abbiamo commesso tutti degli errori.» Davide arrivò dopo un'ora, piuttosto trafelato. Aveva fatto una corsa ed era rimasto a corto di fiato. Fu Pulce il primo a sentirlo, allora Oveipo li lasciò nella grotta per andare ad accogliere l'amico. Appena Davide lo vide, lo salutò e gli chiese «Serena è arrivata?» «Sì amico mio, ci sono tutti, mancavi solo tu. Seguimi, ti illumino il aggio.» L'arrivo di Davide fu seguito da alcuni istanti di silenzio. Gli occhi di tutta la

compagnia erano puntati su di lui e Serena. Davide stava per darle un casto bacio sulle labbra quando si sentì osservato e si bloccò con le labbra strette a culo di gallina. Si guardò intorno e dall'espressione maliziosa di Monica e Roberto capì che era meglio evitare per il momento. Così, in segno di saluto, si limitò a prenderle la mano. Oveipo ritenne che si poteva cominciare e prese la parola. «Bene, adesso che ci siete tutti, posso dirvi le novità, ma lasciate prima che vi chieda scusa. Ho mentito quando ho accettato il patto che propose Serena. Non avevo idea di come fare a restituire i sogni, ma in quel momento ero sicuro che non ce ne sarebbe stato bisogno. Poi, con il are dei giorni, non sono stato più sicuro, così ieri ho chiesto a un mio amico che mi aiutasse a scoprire come potevo fare per rispettare il patto che avevo stretto con voi. Lui ha accettato e all'alba mi ha portato le risposte che mi servivano.» «Ed è ancora qui?» «Sì mio impaziente giovane amico. È qui con noi.» Eddagli con questa storia della pazienza. Roberto pensò che il mondo doveva andare a due velocità. Una accelerata per i giovani e una più lenta per gli adulti. Non c'era altra spiegazione. «Lasciate che vi presenti Aghél, il messaggero del Gran Consiglio.»

24

Nella grotta cadde il silenzio. Tutti si guardarono attorno, anche Oveipo cercò l'amico che sembrava scomparso. «Aghél vieni fuori, lascia che ti presenti ai miei amici.» Lentamente uscì dal suo nascondiglio, ma solo Oveipo lo poteva vedere. Poi, incoraggiato dall'amico, si manifestò assumendo una colorazione prima violacea e infine di un bel verde smeraldo. Era come una piccola cometa, con la punta quasi accecante che con gradualità diventava meno intensa formando una una lunga coda fatta di polvere luminosa. «Può parlare?» Roberto era curioso di conoscere questo nuovo strano amico di Oveipo. E anche gli altri erano desiderosi di comunicare con lui.

«Certo che può parlare Roberto, solo che non lo ha mai fatto, proprio come me quando ci siamo conosciuti. Avanti amico mio, i miei amici non ti faranno alcun male.» Aghél prese coraggio e, con un suono piuttosto stridulo che ricordava quello che fanno le unghie sulla superficie di ardesia delle lavagne, salutò i presenti. Un brivido corse lungo la schiena dei ragazzi che risposero cordialmente al saluto, ma che dal quel momento preferirono evitare di coinvolgere Aghél in lunghe discussioni filosofiche. Di nuovo, quello più impaziente del gruppo intervenne.

«Oveipo, ti dobbiamo ancora dire quali sono i sogni che vorremmo che ci restituissi.» «È vero. E immagino che tu stia per farlo.»

«Esatto. Vorremmo che tu restituissi ai miei nonni il desiderio di fare un nuovo viaggio di nozze, alla mamma di Monica il desiderio di partecipare al concorso e a suo nonno, quello di fare quell'ultima salita sul Cervino con i suoi amici.» «Capisco. Va bene, ma ne siete proprio sicuri?» «Certo! perché ce lo chiedi?» Era stata Monica a parlare. Dopo essersi spiegata e aver chiesto scusa, era rimasta in silenzio tutto il tempo, ma adesso era lei ad aver bisogno di una spiegazione. «Vedi Monica, il sogno di tua madre è molto faticoso e richiede da parte sua un grande impegno. Lei ce la sta mettendo tutta, ma ha il terrore di fallire. Ho temuto che se le avessi lasciato quel sogno e se poi lei avesse fallito l'esame, ne avrebbe avuto una delusione così grande che sarebbe caduta in una profonda depressione e io non volevo che soffrisse.» «E per mio nonno, invece?» «Per lui il discorso è diverso. Il suo fallimento avrebbe potuto portarlo alla morte. Affrontare una montagna è sempre molto rischioso, soprattutto alla sua età.» Monica non era più arrabbiata, aveva capito che aveva agito per troppo amore, per proteggerli, ma nonostante ciò riteneva che avesse sbagliato e glielo disse.

«Ti ringrazio per aver cercato di proteggerci, ma non puoi farlo. Devi lasciarci andare incontro al nostro destino.» «Lo so, amica mia. ‹ L’ho capito proprio grazie a voi.» Roberto aveva ascoltato con molta attenzione e riteneva esaurite sia le argomentazioni che le scuse. ò quindi alla parte più pratica del problema. «Come farai a restituire i sogni?» Oveipo non sapeva come dire ai suoi amici che correva il rischio di disintegrarsi ad ogni restituzione e che, se anche ci fosse riuscito, si sarebbe indebolito a tal punto che dovevano are intere settimane prima che potesse riacquistare

abbastanza forze per restituire il successivo e tutto quel tempo lui non lo aveva a disposizione. Si limitò allora a descrivere come si doveva procedere secondo quanto gli aveva detto Aghél, senza parlare dei rischi a cui sarebbe andato incontro.

«È un'operazione molto simile a quella del prelievo, ma sarà importante aspettare l'attimo giusto, perché la persona a cui si deve restituire il sogno dovrà pensare a quel desiderio nel preciso istante in cui le verrà restituito. In un certo qual modo dovrà desiderarlo di nuovo anche se solo per un attimo. Io dovrò essere pronto e avvicinare l'ampolla al suo orecchio proprio in quel momento. Sarà sufficiente il contatto per far tornare il sogno al suo proprietario, ma se sbaglio momento, la restituzione non avrà successo e il sogno si perderà per sempre. Non c'è una seconda possibilità.» Mentre Oveipo parlava, Aghél era in disparte e aveva assunto delle sembianze più umane. Decise che doveva intervenire. I suoi amici avevano il diritto di sapere anche il resto. «Οneiro ti prego. Devi confessare tutto. Loro devono sapere!» I ragazzi si girarono, non si erano accorti che Aghél si era trasformato. Le sue sembianze erano diventate quelle di un bel giovinetto molto pallido. Indossava una specie di tunica bianca e in tutto e per tutto assomigliava all'Hermes di Prassitele. «Wow!» Le ragazze sembravano apprezzare questa nuova versione di Aghél. Roberto invece non pareva subirne il fascino ellenico, la versione cometa gli era piaciuta molto di più. Si girò verso Oveipo. «Cosa ci devi dire ancora?» Visto che taceva, fu Aghél a parlare. La sua voce era diventata meno stridula e più calda. «Oneiro o Oveipo, come lo chiamate voi, potrebbe disintegrarsi ad ogni restituzione. I rischi per lui sono enormi. E se anche ciò non accadesse, si indebolirebbe così tanto che erebbero molti giorni prima che lui possa

restituire un altro sogno.» «Allora non c'è alcuna possibilità di restituire i sogni che ci hai preso. Discorso chiuso.» Era stata Serena a parlare, il suo tono era deciso e non ammetteva repliche. Lei non avrebbe mai permesso in alcun modo che la vita di Oveipo venisse messa in pericolo, si sentiva responsabile perché se non fosse stato per la sua caparbietà, non avrebbero mai conosciuto Oveipo e lui non sarebbe stato costretto a mettere a rischio la sua stessa esistenza. Tutti tacquero, nessuno dei ragazzi voleva che Oveipo soffrisse. A quanto pareva, non c'era soluzione. «Aspettate! Non potremmo restituire noi i sogni?» A Roberto era appena venuta un'idea.

«Ascoltatemi un momento. E se li restituissimo noi nel medesimo istante, come se fosse un unico grande sogno?»

Aghél valutò la proposta. L'idea non era affatto male. Adesso capiva perché Oveipo teneva tanto a quel ragazzino. «Ve la sentireste?» «Certo che sì!» rispose Roberto a nome di tutti senza pensarci su neppure un nanosecondo. «Fermi tutti, c'è un problema. Io dovrei restituire due sogni nello stesso momento!» «Monica ha ragione, lei da sola non ce la può fare.» Serena non voleva deludere le aspettative di Roberto, ma Monica aveva sollevato un problema non da poco. Davide si rese conto di non avere alcuna parte attiva e non voleva certo restare fuori dai giochi. «Io non ho sogni da restituire a nessuno e inoltre sono un apionato di

montagna.» «Potresti venire a cena da me e chiacchierare con mio nonno, mentre io potrei dedicarmi a mia madre. Che ne dici?» «Mi sembra un'ottima idea.» Roberto si stava entusiasmando. Non solo avrebbero restituito i sogni, ma avrebbero anche aiutato il loro amico. Il piano stava prendendo forma. «Oveipo, se ci darai le istruzioni dettagliate, possiamo davvero farlo noi.»

Per Aghél mancava ancora qualcosa. «Resta ancora un problema. Per la sua stessa natura Οveipo si nutre dell'energia che scaturisce nel momento in cui preleva un sogno. Si ipotizza che la restituzione di un sogno richieda molta più energia. Restituire nello stesso istante quattro sogni potrebbe disintegrarlo perché gli toglierebbe quasi tutta l'energia che trattiene la sua stessa essenza. Le sue particelle private dell'energia che le tiene unite, sarebbero libere di fuggire ovunque e di lui non resterebbe altro che degli atomi che vagano nello spazio.» «Proprio un problemino da niente.» Disse Roberto mentre si sedeva per terra. Prese dal suo zainetto pane e marmellata che si era preparato prima di uscire di casa.

Poi pensò che quella mattina si era dimenticato di dare da mangiare ad Arturo e questo gli fece venire in mente la boccia di vetro che aveva usato tre giorni prima come finta ampolla. «Riusciresti a entrare nella boccia che ti ho lasciato?» «Sì, volendo mi posso fare piuttosto piccolo, ma perché me lo chiedi?» «Perché in uno spazio così ristretto, i tuoi atomi non potrebbero andarsene in giro, o sbaglio?»

Oveipo prese la boccia e la porse ad Aghél che la soppesò come se volesse controllarne la struttura molecolare. «Potrebbe funzionare. Io farei da tappo, chiudendo l'apertura e dopo ti darei l'energia sufficiente per ricomporti.» Monica fece notare che c'era ancora un problema da tenere presente.

«Durante la restituzione dei sogni, la boccia potrebbe vibrare e rischiare di cadere, dobbiamo metterla in un posto dove non possa rompersi.» Con la bocca piena, Roberto pensò alla sera in cui avevano incontrato per la prima volta Oveipo. «Avvolgiamo la boccia nella coperta e appendiamola alla catena. In questo modo potrà oscillare senza rischiare di rompersi.» Una soluzione così semplice da essere geniale. Anche Aghél ne convenne. Sembrava che tutto fosse risolto quando Serena, preoccupata, chiese «Come faremo a portare giù i sogni? Mica ce li possiamo mettere nello zaino!» A questo ci pensò Oveipo.

«Ve li porterò io. Voi dovrete solo trovare un posto sicuro dove custodirli fino al momento di agire.» Roberto si sentiva pronto, rinvigorito anche dagli zuccheri appena ingeriti.

«Che ne dite di farlo questa sera?» Furono tutti d'accordo.

*****

Su Merope, i fatti che stavano accadendo sulla Terra avevano superato in interesse e diffusione le notizie relative al festival stesso. Come sempre accade quando si cerca di tenere nascosta una notizia, il bisbiglio che la reca si diffonde lento ma incessante. Il aparola si fa sempre più fitto fino a quando viaggia incontrollato, amplificando i fatti e distorcendoli ad ogni aggio.

Nella sala del Gran Consiglio le discussioni erano all’ordine del giorno. Il fatto che adesso anche un messaggero fosse venuto in contatto con gli umani era inaccettabile. Sembrava che fosse scoppiata una nuova moda: vai sulla Terra, presentati a degli umani e diventa loro amico. Se fossero andati avanti di questo o, il loro governo della galassia sarebbe andato a ramengo con conseguenze inimmaginabili. Sminagós era furioso con Aghél, il consigliere Vulos era furioso con il capitano, i membri del Gran Consiglio era furiosi a prescindere con tutto e tutti. Insomma, ogni riunione era l’occasione per scambiarsi insulti, per riaprire vecchie ferite, per dissotterrare antichi rancori e, come sempre accade, nessuna decisione veniva presa, per buona pace di Oveipo e compagnia. Nessuno però pensava che quelle notizie sarebbero giunte fino alle Sette Sorelle, reggenti assolute di quel popolo.

25

La compagnia si lasciò con l'intesa che Oveipo sarebbe andato nel primo pomeriggio a portare i sogni nelle case di Roberto e Monica. Una volta messe le ampolle in un posto protetto, i ragazzi sarebbero tornati al casolare con il necessario per mettere al sicuro il loro amico. Davide avrebbe dovuto portare la coperta che sua madre era riuscita, non senza una certa fatica, a smacchiare dalla marmellata e che lui non aveva ancora avuto modo di restituire a Serena.

Monica pensò che sarebbe stato utile portare una corda da arrampicata del nonno per legare la coperta intorno alla boccia e renderla così ancora più protetta. Quella catena arrugginita che pendeva dal soffitto del casolare avrebbe potuto danneggiarla e lei non voleva correre alcun rischio. Non restava che stabilire l'ora e sincronizzare gli orologi. Per il momento non potevano fare altro e si lasciarono per andare a pranzo.

A tavola, Monica cercava di portare la conversazione sulla montagna e sull'esame della mamma, saltando in continuazione e senza preavviso alcuno da un argomento all'altro. Sembrava una pallina da ping-pong impazzita, al punto che alla fine del pasto, mentre sparecchiavano, la mamma le chiese se si sentisse bene. «Sto benissimo. Senti mamma, ti spiace se questa sera viene a cena un mio amico?» «No, se si accontenta della mia cucina, ma chi sarebbe questo tuo amico?» L'enfasi che la mamma aveva posto su quell’aggettivo possessivo fece sentire a Monica puzza di bruciato. Sapeva che era un'inguaribile romantica e bastava che si parlasse in casa di un ragazzo perché lei pensasse subito che la figlia aveva trovato il grande amore. Così, a scanso di equivoci, preferì precisare.

«È il ragazzo di Serena ed è apionato di montagna. Vorrebbe chiedere al nonno alcuni consigli perché anche lui vorrebbe fare il Cervino la prossima estate.» «Che venga allora, o si aspetta che sia il Cervino ad andare da lui?» Urlò il nonno che era rimasto in sala da pranzo a guardare il notiziario in tv.

«E chiedigli se gli piace la minestra!» «Mamma! Non farai la minestra anche questa sera?» La mamma di Monica si mise a ridere. Non le sembrava vero di aver messo al mondo una Mafalda. Sua figlia le ricordava in tutto e per tutto il personaggio dei fumetti di Quino che lei aveva scoperto quasi per caso da ragazza e che da allora non mancava mai di rileggere. Conosceva quelle strisce a memoria e, pur essendo state scritte tra gli anni sessanta e settanta, le trovava sempre attuali. «Cara, non sei obbligata a mangiarla se non la vuoi. Farò anche una frittata con le zucchine, ti va bene?» «Di sicuro è meglio di quella roba brodosa.»

Quando Roberto tornò in camera sua fu attirato dalle proteste di Arturo. Scuoteva la coda e con la bocca a filo dell'acqua faceva delle bolle. Aveva fame!

Subito il ragazzo gli versò del mangime, scusandosi per il ritardo. Era la prima volta che accadeva ed era sinceramente dispiaciuto. Per sua fortuna Arturo era un pesce rosso di buon carattere e, una volta riempita la pancia, perdonò Roberto e se ne andò a dormire tra le rocce sul fondo dell'acquario. A tavola, le cose per i due fratelli furono più semplici, almeno non erano costretti a cambiare in continuazione argomento. Anche loro portarono la conversazione sul prossimo e importante anniversario al quale, tra l'altro, mancavano

pochissimi giorni. Solo il papà dei due ragazzi era più interessato alla figlia e all’appuntamento della sera precedente e, per la gioia di Serena, il tutto si risolse con un breve scambio di battute. Dopo pranzo i due fratelli andarono in camera di Roberto ad attendere l'arrivo di Oveipo. Mentre aspettavano l'amico, pensarono a dove riporre le due ampolle. Roberto voleva metterle in camera sua, ma Serena consigliò di tenerle il più vicino possibile al luogo dove avrebbero dovuto operare. Si resero conto che non sarebbe stato facile, perché la sera i nonni si ritiravano presto in camera loro, in pratica subito dopo cena. Dovevano trovare un diversivo per farli restare alzati un po' di più. Intanto Roberto aveva il computer e stava finendo di montare le ultime canzoni che componevano colonna sonora del foto-libro.

«Senti… e se dessimo questa sera il foto-libro ai nonni e lo guardassimo insieme a loro?» Serena era perplessa per lo spazio angusto.

«Dici qui, davanti al tuo computer?» «Certo che no, in sala. Potrei copiare il file su un dvd, così potremmo vederlo in salotto. Sarebbero tutti rivolti verso la TV e noi potremmo agire stando alle loro spalle. Che ne dici?» «Mi sembra l'unico modo, non mi vengono in mente altre possibilità. Bravo fratello!» Roberto aveva appena finito di preparare il dvd, quando sentirono una vocina che li chiamava, segno che Oveipo era lì con loro. I ragazzi si preoccuparono di oscurare la stanza e di accendere la torcia a led.

«Ciao Oveipo, dove sei. Non ti vediamo.» «Sono proprio al centro della stanza, Roberto. Guardate appena sotto il

planetario.» «Eccoti lì. Hai portato i sogni dei nonni?» «Certo Serena. E voi avete trovato dove custodirli?» «Pensavo di metterli sopra alla credenza in sala.» «L'importante è che li mettiate in un posto da cui poi riusciate a prenderli senza difficoltà, perché sono molto fragili.» «Posso prenderne uno in mano?» «Roberto, ma lo dovrai prendere! Altrimenti come farai ad avvicinarlo all'orecchio di tuo nonno?» «Ah già. È vero, ma volevo sentire prima di che materiale sono fatti.»

Serena invece avrebbe preferito che le due ampolle venissero messe subito al sicuro. Non era il caso di esercitarsi proprio con quelle, era troppo rischioso, però Roberto aveva ragione. Non le avevano mai prese in mano e a vederle sembravano fragili come bolle di sapone. «Perché non ci insegni a maneggiarle? Potremmo provare con quelle che hai nella grotta.» «Mi sembra l'idea migliore. Così vi eserciterete tutti. Adesso però fatemi posare le vostre ampolle.»

«Vieni, seguici.» Roberto e Serena lo scortarono in sala e gli indicarono la credenza. Non vedevano cosa stesse facendo ma dopo qualche istante poterono notare due piccoli bagliori verdi che dalla parte superiore del mobile illuminavano tenuemente il soffitto. «Ricordate, l'ampolla a sinistra è quella della nonna, mentre quella a destra è del nonno. Adesso vado a portare le altre due ampolle a Monica. Vi aspetto al

casolare. A più tardi.» E così dicendo lasciò i due ragazzi. Dopo pochi minuti che era andato via, in strada si sentì l'inconfondibile rumore dello scooter di Davide. Serena saltò come una molla e corse alla finestra. In pochi istanti, sia lei che Roberto erano in strada e non dovettero aspettare molto prima che Monica e Pulce apparissero alla finestra. Dopo i saluti iniziali a cui Pulce non rinunciava mai, fecero il controllo di tutto quello che dovevano portare al casolare. In verità non c'era molto. La coperta che la madre di Davide aveva lavato, stirato e avvolto con cura in una carta da pacchi affinché non si sporcasse, una corda da arrampicata e le torce che ognuno aveva riposto nel proprio zaino.

Arrivati nella grotta e salutato Aghél, si avvicinarono alle ampolle. Oveipo fece vedere loro come prenderle e a turno provarono e riprovarono con molta attenzione fino a quando non si sentirono sicuri nel maneggiarle. Era proprio come cercare di tenere delle bolle di sapone senza farle scoppiare, bisognava usare una delicatezza estrema. Dovevano ancora decidere a che ora avrebbero compiuto la loro missione. Furono tutti d'accordo che subito dopo cena sarebbe stato il momento migliore. L'ora fu stabilita alle 20:45.

Non restava che impacchettare i due amici. Si spostarono nel casolare. Serena e Monica srotolarono la corda, aprirono la coperta e vi depositarono al centro la boccia di Arturo che Roberto aveva svuotato del suo contenuto e ripulito dei residui di colla con un po' di acqua. Era tutto pronto. Adesso toccava a Oveipo, ma prima di entrarci volle salutarli.

«Ragazzi, comunque andrà questa sera, voglio dirvi che è stato un onore per me diventare vostro amico. Ve ne sarò eternamente grato.»

Aghél sentì che il custode si stava commuovendo e cercò di sdrammatizzare per non caricare di preoccupazione quello che i ragazzi avrebbero dovuto fare.

«Coraggio vecchio mio, il resto glielo dirai tra qualche ora, quando verranno a liberarci.» Oveipo annuì e in silenzio si infilò nella boccia. L'operazione fu un po' più laboriosa del previsto e fu necessario l'aiuto di Davide per tenere fermo il contenitore. Una volta che Oveipo fu entrato, toccò ad Aghél. Prima si trasformò in cometa e si tuffò nella boccia. dopo alcuni istanti sull'apertura si formò una specie di spessa pellicola gelatinosa di un bellissimo verde smeraldo. Quando le ragazze stavano per avvolgere la boccia nella coperta, Roberto disse loro di aspettare e dopo aver armeggiato per un po' nel suo zainetto, estrasse un barattolo pieno a metà di marmellata di more e un coltellino. Monica e Serena rimasero di stucco quando Roberto cominciò a spalmare un abbondante strato della sostanza dolciastra e appiccicosa sulla boccia. La sorella non ne capiva il motivo. «Perché lo fai?» «Se per qualche ragione, il vetro dovesse rompersi, la marmellata terrà insieme i cocci e impedirà la fuga delle particelle di Oveipo.» «Così però la coperta si sporcherà di nuovo.» «Lo so Serena, ma è meglio ritrovarsi con una coperta sporca che con un custode disintegrato!» Roberto non aveva tutti i torti anche se Davide avrebbe preferito che venisse trovata un'altra soluzione, ma ormai era troppo tardi.

«Mia madre mi ammazzerà!» Fu il suo unico rassegnato commento. Avvolta con estrema cura la boccia nella coperta, le due ragazze la fissarono con la corda e infine, con l'aiuto dei ragazzi, l'appesero alla catena. Sembrava un enorme gomitolo messo a spenzolare per la gioia di un gatto gigantesco. Al casolare i quattro ragazzi non potevano fare altro. Salutarono gli amici così impacchettati e uscirono all'aperto. Ricontrollarono gli orologi. I loro sguardi erano seri. Adesso tutto dipendeva da loro e non potevano commettere nessun errore. Nascoste tra le travi del tetto sette entità, arrivate in segreto da molto lontano, avevano assistito a tutta la scena. Erano proprio curiose di vedere come sarebbe andata a finire quella faccenda. Bastò loro scambiarsi un’occhiata per decidere chi avrebbe seguito i ragazzi e chi sarebbe rimasta al casolare.

Erano ate molte ere dall’ultima volta, ma dal primo istante che erano tornate sulla Terra, si accorsero che solo su questo piccolo pianeta del sistema solare potevano vivere avventure entusiasmanti e provare intense emozioni. E dire che la galassia è piuttosto grande.

26

Ore 20:00 a casa Vidanò. «Mamma, nonno, vi presento il mio amico Davide.» «Molto lieto signora, signore.» «Allora saresti tu quello che vuole andare sul Cervino.» «Sì signore. Mi piacerebbe molto. È per questo che sono venuto. Quando Monica mi ha detto che lei c'era già stato e che aveva intenzione di tornarci, ho pensato che avrebbe potuto darmi degli ottimi consigli.» «Sì, mia nipote me lo ha detto. Ti piace la minestra?»

Alla stessa ora a casa Mazzanti. «Serena, Roberto, a tavola, la cena è pronta!» «Sì nonna, arriviamo. Dai Roberto, si va in scena.» «Sì, Oveipo conta su di noi, non possiamo deluderlo.» «E non lo faremo. L'importante è restare calmi.» Mentre si sedevano a tavola, il padre dei ragazzi si rivolse a Roberto «Cosa stavi facendo con il lettore dvd questo pomeriggio?» «Stavo provando una cosa per questa sera, papà, ma non posso dirti niente, è una sorpresa.» «Uhm, ok. Vada per la sorpresa, basta che fai attenzione a non romperlo.»

«Nonna, nonno. Mi piacerebbe sapere come vi siete conosciuti?» «Davvero Serena? Non sarà che questa tua vena romantica è legata ad un certo giovanotto incontrato ieri sera?» «Nonno, Davide non è un certo giovanotto, ma è un nostro amico. E per la cronaca, sappi piace molto anche a me.» «Roberto non te la prendere così, il nonno voleva solo scherzare un po'.» «Lo so nonna, lo so, ma sai che anche io sono curioso di sapere come vi siete conosciuti? Coraggio, raccontate.»

Ore 20:35, dai Vidanò. «Mamma ti aiuto a sparecchiare, noi andiamocene in cucina, lasciamo Davide e il nonno chiacchierare davanti all'album delle foto.»

«Brave, andate di là che voglio raccontare a Davide di quella volta che siamo rimasti bloccati da una tormenta di neve in alta quota.» «Mamma, devi finire di raccontare come sta procedendo la preparazione per l'esame, ormai manca proprio poco.» «Accidenti, figlia. Non ti facevo così Signorina Rottenmeier. Spero che tu non abbia preso da me in questo.» «Ma dai mamma! Ci tengo perché so che anche tu in fondo lo desideri ancora, ma che scema, ho dimenticato di dare una cosa a Davide che mi aveva chiesto prima di cena. Mentre gliela porto perché non prepari il caffè? Mi andrebbe proprio.» «Ok, ok, ci penso io. Certo che questa sera sei proprio strana.»

Più o meno alla stessa ora, dai Mazzanti.

«Nonni, il vostro è stato proprio un incontro romantico.» «Grazie Serena, anche se tuo nonno non lo ammetterà mai, da giovane era capace di emozionarmi con tante piccole attenzioni. Ricordo ancora quando decise di prendersi cura dei nostri due bonsai. Li chiamò Gin e Seng e li curò con tanto amore. Proprio lui che non si era mai interessato alle piante prima di allora.» «Oh smettila, che vuoi che sia stato. Gli davo solo un po' d'acqua ogni tanto.» «Non è vero e lo sai benissimo. Gli davi anche tanto amore, altrimenti non sarebbero vissuti così a lungo.» «Andiamo a sederci davanti alla tv. Io e Serena abbiamo una sorpresa per voi.» «Oh che bello, mi piacciono le sorprese. Vieni vecchio barbagianni e anche voi, venite tutti. Sarà mica per questo che giocavate con le nostre vecchie foto?»

20:44:45 dai Vidanò. «Se il nostro amico non fosse morto all'improvviso, ci saremmo già tornati l'estate scorsa. Il Cervino è stato il mio primo quattromila. Ho provato delle sensazioni uniche sulla vetta e ho trovato degli amici che mi hanno accompagnato tutta la vita.» «Le piacerebbe tornarci?»

«Mamma, sei davvero in gamba. Hai studiato davvero molto e sei preparatissima. Riuscirai benissimo all'esame. Devi solo crederci. Perché tu ci credi, vero?»

Stessa ora, dai Mazzanti. «Guardati in quella foto nonna! I piccioni di piazza San Marco ti avevano

sommersa, non ti si vedeva più. Volevi dargli da mangiare? «Sì, Roberto e loro, come ringraziamento, mi sporcarono di guano dalla testa ai piedi. Mi ci vollero tre docce per togliermi quella robaccia di dosso.» «Sì è vero, me lo ricordo. E per colpa di quei pennuti non siamo potuti andare a visitare San Zaccaria. Il giorno dopo la trovammo chiusa per restauro e così, non siamo mai riusciti a vederla.» «Vi piacerebbe tornarci?»

20:45 dai Vidanò. «Sicuramente, Davide.» Splat. «Sì Monica, ci credo. Ci voglio credere!» «No, mamma! Non ti alzare…» «Ma che succede?» Meoooow Splat. «Moka! Sciocca gattona, per poco non mi facevi cadere.»

20:45 dai Mazzanti. «Certo Serena che ci piacerebbe.» «Eh sì vecchio barbagianni, mi piacerebbe tornarci con te.» Splat.

Splat.

20:45 al casolare. All’improvviso, la boccia del pesce Arturo avvolta con cura nella coperta e ben stretta dalla corda da arrampicata cominciò a oscillare. Come se fosse stata posseduta da chissà quale spirito demoniaco, strani impulsi di una luce bianca uscivano dalle maglie della coperta, come tanti flash di una macchina fotografica impazzita. Man mano che gli attimi avano, la violenza con cui oscillava crebbe fino a farla roteare come fosse stata inghiottita da un vortice. La velocità era aumentata talmente che un occhio umano avrebbe visto solo un’unica scia bianca. Il perno nella trave, quello a cui era fissata la catena, cominciò a vibrare e a ogni scossone che riceveva si sfilava dal legno di qualche millimetro. Dopo pochi secondi il perno cedette e la boccia fu scagliata in aria come un proiettile.

Fu questione di pochissimi istanti, stava per andare a sbattere contro la parete di roccia, quando qualcosa di invisibile l’avvolse e la protesse dalla violenza dell’urto che altrimenti l’avrebbe distrutta.

«Non s’era detto che avremmo solo osservato?» «S’era detto, s’era detto. Ma volevi ritrovarti con un custode in meno?» «Proprio una bella scusa, sorella, non c’è che dire. Potrebbe servirti per darla a bere al Gran Consiglio, ma a me non la fai.» «Uff, pignola! E poi lo so che anche tu non ti sei limitata a guardare, altrimenti l’urto avrebbe fatto un bel buco nella roccia e io sarei tutta acciaccata.» «L’ho fatto solo per proteggere te.» «Sì, sì, come no.»

«Maia, Asterope, ci siete ancora?» «Ecco le altre che arrivano. Certo che ci siamo, venite, venite.» «Che cosa è successo?» «Devi sapere mia giovane Merope, che la tua sorella maggiore, quella per intenderci che vorrebbe darci gli ordini, poi è la prima a non rispettarli.» «Raccontaci Asterope, cos’ha fatto Maia?» «Ha protetto con il suo corpo il custode e il messaggero.» «Invece Asterope si è messa tra me e la roccia, direi che anche lei non è rimasta solo a guardare.» «Non capisco perché la fate tanto lunga. Lo sapevamo che non ci sarebbero mai riusciti senza il nostro aiuto.» «Taigete, non dirmi che anche voi…» «Eh sì, Maia. Non ci abbiamo pensato un solo momento di seguire i tuoi ordini e di restare a guardare.» «Allora direi che il tempo a, ma noi restiamo sempre le stesse, non vi pare?» «Forza inguaribili romanticone. Meglio partire prima che quei due si riprendano e scoprano che siano qui. Il governo di una galassia ci attende.» «Pleione ha ragione, è meglio andare.» Celeno però era troppo curiosa di sapere cosa sarebbe successo dopo. «Andate voi, io voglio restare qui ancora un po’.» «Come vuoi. Vorrà dire che ci racconterai al tuo ritorno quello che hai visto.» «Voglio restare anche io.» «Anche tu, Elettra?»

E fu così che ognuna preferì restare per vedere cosa sarebbe successo dopo. Maia fu costretta ad acconsentire e tutte ripresero posto nel nascondiglio che le aveva ospitate dal momento che erano tornate sulla Terra.

27

Roberto e Serena non notarono nessun particolare cambiamento nei nonni. Che avessero fallito? Comunque fosse andata, il loro pensiero adesso era solo per Oveipo. Volevano correre subito da lui. Si misero gli scarponi, presero le torce e scesero in strada. Poco dopo arrivarono Davide e Monica scortati da Pulce. Questa volta però, come riguardo all'ospite, Monica usò la porta invece della finestra. Si guardarono, nessuno osava parlare. Fu Roberto, serissimo, a rompere il silenzio.

«Andiamo, Oveipo ha bisogno di noi.» Era buio pesto, con le torce in mano per illuminare i loro i, salirono più in fretta che poterono. Inciamparono e caddero diverse volte, ma non importava, dovevano arrivare al casolare. Quando giunsero erano senza fiato. Davide aprì l'imposta della finestrella. Il locale era nel buio più totale. Neppure la luna lo illuminava. Lui e Roberto usarono le torce, sperando di trovare la boccia come l'avevano lasciata, ma non c'era più. Non era più appesa alla catena. Dalla finestra ispezionarono il pavimento, non la videro. Stavano già pensando al peggio quando la trovarono nell'angolo vicino alla porta, per fortuna era ancora avvolta nella coperta e chiusa dalla corda. Entrarono nel casolare, posarono le torce in modo da fare un quadrato luminoso al cui centro misero la boccia. Senza una parola, sciolsero i nodi. Con molta cautela distesero la coperta. Era macchiata di marmellata di more, ma questo se lo aspettavano. Il vetro non

era più liscio, sembrava che fosse smerigliato. Anche al tatto, la superficie era rugosa. Di Aghél, sotto forma di tappo verde, non c'era alcuna traccia. Senza perderla mai di vista si sedettero in circolo, non c'era altro che potessero fare. Aspettarono. L'attesa sembrava non finire mai. Era già ata più di un'ora senza che ci fosse un segno di vita. «Ho paura che Oveipo si sia disintegrato ed è tutta colpa mia.» «Cosa intendi dire Monica. Anche io e Roberto non siamo sicuri che abbia funzionato. Non abbiamo notato nessun cambiamento nei nonni.» «Serena ha ragione, anche io non ho visto alcuna diversità in tuo nonno.» «Non capite. Nel mio caso c'è stato un problema. Nel momento in cui ho avvicinato l'ampolla all'orecchio di mia madre, lei si è alzata. Se non fosse stato per Moka che le è ata tra le gambe proprio in quell'istante, lei non sarebbe ricaduta sulla sedia e il suo sogno sarebbe andato perso, ma anche così non so se l'ampolla ha davvero colpito il suo orecchio.» «Monica, non potevi prevederlo, sarebbe potuto capitare ad ognuno di noi. Non ci resta che aspettare.» «Grazie Roberto, ma questo non mi fa stare meglio.» Davide stava pensando a quando aveva preso l’ampolla, mentre il nonno di Monica era intento a cercare delle fotografie nel mobile del soggiorno. Ricordava che per la tensione gli tremavano le mani ma, nonostante questo, vedeva l’ampolla muoversi davanti a lui come se fosse sospinta dal pensiero. «Non avete avuto l’impressione che le ampolle si muovessero da sole?» Serena a quelle parole saltò come una molla. «Anche tu l’hai notato? Non avevo il coraggio di dirlo, ma anche io ho avuto la stessa sensazione.» «So cosa intendete. È successo anche a me. Avevo le mani che mi sudavano e

avevo paura di romperla, ma la mia ampolla si è mossa proprio come io desideravo.» Monica li guardava perplessa. Lei non si era accorta di niente, ma si poteva essere distratta a causa di quello che è successo un attimo prima che trasmettesse il sogno alla madre.

Le stranezze delle ampolle che si muovevano da sole avevano distratto i ragazzi solo per alcuni istanti, ma subito dopo, la preoccupazione che Oveipo non ce l’avesse fatta ripiombò come un macigno su di loro. I ragazzi erano amareggiati, temevano che il loro amico si fosse disintegrato e che tutte le precauzioni che avevano preso non fossero servite a niente. Dopo un po' di tempo che non seppero quantificare, videro quel tappo di gelatina in cui si era trasformato Aghél, e che sembrava scomparso, riprendere il suo colore smeraldino. Dopo alcuni minuti si liberò nell'aria sotto forma di cometa e quindi si trasformò in quel bel giovinetto che le due ragazze avevano tanto apprezzato quella mattina. «Aghél! Temevamo che ti fossi disintegrato anche tu.» «No Roberto, ero solo molto debole perché ho dovuto cedere quasi tutta la mia energia ad Oveipo. Come temevo, la restituzione dei quattro sogni è stata un'esperienza molto violenta che ha assorbito quasi del tutto la sua forza vitale.» «Adesso come sta?» «Ha abbastanza energia per uscire, solo che è talmente appiccicato alla boccia che non riesce a staccarsi.» I ragazzi si girarono verso Roberto. «Hai messo la marmellata anche all'interno della boccia, vero?» Roberto si limitò a stringersi nelle spalle, non era sicuro che la domanda di sua sorella fosse il preludio per complimenti e pacche sulla spalla da parte dei suoi amici, ma fu Aghél che invece si complimentò con lui.

«Oveipo sarà anche appiccicoso ma è tutto intero grazie a te. Se non avessi messo tutta quella marmellata, il vetro si sarebbe sbriciolato e sparso nella coperta. È stata quella sostanza che ha fatto da collante e lo ha tenuto insieme.» «Vuoi dire che la boccia si è completamente sbriciolata?» «Sì Monica, le rugosità che sentite sono dei piccolissimi frammenti di vetro tenuti insieme dalla marmellata.» «Che ne direste se portassimo Oveipo nella grotta? Così quando riuscirà ad uscire sarà tra le sue amate ampolle.» L'idea di Davide fu approvata all'unanimità. Erano felici, tutto alla fine era andato bene. Non erano sicuri che i sogni fossero arrivati a destinazione, ma almeno Oveipo c'era ancora, forse un po' appiccicoso, ma con tutte le sue particelle intatte. A quel punto le sette sorelle non avevano più motivo di restare e soddisfatte del loro lavoro, tornarono nel cielo. Quando Oveipo, un po’ malconcio riuscì ad uscire dalla boccia, questa si sbriciolò, ma nessuno se ne accorse, erano tutti attorno a lui per salutarlo.

Lui era stato disposto a sacrificare se stesso per rimediare ai propri errori e aiutare i suoi amici e qualcuno, questa volta da molto vicino, non si era solo limitato ad osservare quello che era successo quella sera in quella piccola valle addormentata. Si era fatto molto tardi e i ragazzi dovevano tornare a casa. Era giunto il momento di dirsi addio. Questa volta, anche Oveipo doveva congedarsi da loro. Era stato così bello uscire dalla boccia e trovare tutti i suoi amici ad attenderlo felici di vederlo che non volle rovinare quello spirito di festa. Così si limitò a dire poche parole. «Amici miei, io e Aghél dovremo assentarci per qualche tempo, ma non prendete queste mie parole come un addio. Anche se non sappiamo esattamente quando riusciremo a tornare, siatene certi che lo faremo.» Poi, si avvicinò a Roberto e gli bisbigliò in un orecchio «Non mi dimenticare.»

«Puoi starne certo, amico mio. Non succederà mai.»

*****

Su Merope il Gran Consiglio aveva deciso di inviare i dimenticatori, nonostante il capitano Sminagós e il consigliere Vulos avessero insistito di aspettare per sentire dalla voce diretta degli interessati quale fosse il rischio reale per il loro popolo. Purtroppo però i ventuno non sembravano intenzionati a dar loro ascolto. Il potere di persuasione del consigliere e del capitano era crollato miseramente dopo gli ultimi eventi e Vulos poteva dire addio ai suoi desideri di carriera. «Signori, vi prego. Non potete mandare i dimenticatori, ci sono delle menti troppo giovani che potrebbero non sopportare il loro intervento e impazzire!» «Sminagós! Non ci sembra di aver richiesto il suo parere, o siamo in errore?» Non c’era verso di convincere quei ventuno ostinati testoni ad aspettare ancora, ma appena fu dato l’ordine ai messaggeri di chiamare i dimenticatori, le Sette Sorelle entrarono nella sala del Gran Consiglio creando un certo subbuglio tra i consiglieri. Il più anziano di loro le accolse, non senza una certa meraviglia. «Mie Signore, ci fate un onore inaspettato. Purtroppo però giungete in un momento di grave criticità per il nostro popolo.» Le sorelle si guardarono e con un cenno di assenso lasciarono che fosse Maia a rispondere al consigliere. Lei era quella dotata di maggiore capacità diplomatiche e per questo era diventata la portavoce di famiglia. Le altre sarebbero state più propense a dire quello che pensavano di quel vecchio burocrate privo di fantasia e sentimenti, senza farsi troppi scrupoli per il suo amor proprio. «Quale momento migliore allora, non le pare Palaiótero?» «Sì, mie Signore.»

«Molto bene. Allora rimandi i dimenticatori a casa e dica loro di godersi il festival.» «Ma Signore, voi non sapete, non capite…» Palaiótero sapeva di aver osato troppo con quelle parole. Per quanto il regno gli avesse dato molti poteri, non poteva rivolgersi alle Sette Sorelle affermando che ignoravano e fraintendevano qualcosa, ma era esasperato. Quella faccenda era andata anche troppo oltre, qualcuno doveva affrontare la situazione e mettere un freno ai capricci di custodi e ragazzini. «Quello che ignora è lei, Palaiótero e non mi lasci ripetere un’altra volta quanto sto per dirle. Vogliamo essere interpellate prima che il Gran Consiglio prenda qualunque iniziativa che riguarda quegli umani e il custode. E vogliamo essere presenti quando Oveipo verrà interrogato.» I presenti si guardarono perplessi. Chi era costui che avrebbero dovuto interrogare e di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima? Il pensiero che ci fossero altri esseri coinvolti in questa faccenda e di cui non avevano avuto notizia li fece tremare. Visto che nessuno dei gran consiglieri osava chiedere, il capitano Sminagós osò farsi avanti.

«Mie Signore, vi prego ditemi. A chi vi riferite?» «Al custode, chi altri!»

Se sulle Pleiadi, c’erano buoni presupposti che tutto tornasse più o meno alla normalità, sulla Terra il peggio doveva ancora venire. Infatti, la mattina dopo, mentre Davide era in cucina intento a fare una robusta colazione prima di andare al lavoro, la madre entrò in camera sua per rassettare. Sulla sedia vicino alla scrivania, vide una coperta bianca con delle macchie violacee che le risultava essere piuttosto familiare.

Davide stava imburrando un panino quando sentì dei rumori provenire dalla sua camera ed ebbe un brutto presentimento. Rapidamente decise che avrebbe finito di mangiare una volta arrivato al lavoro. Si infilò il panino imburrato in tasca, prese il casco, le chiavi dello scooter e sgattaiolò in strada appena prima che un urlo confermasse le sue più nere previsioni. «Davideeeee!»

Fine?

Note degli autori

La copertina è stata elaborata graficamente da Rosella Schiralli da una fotografia scaricata da internet di cui non è noto l’autore.

Il libro che Roberto sfoglia nel capitolo 22, esiste veramente e si intitola The Seven Sister of the Pleiades, stories from around the world, di Munya Andrews.

I protagonisti di questo romanzo sono il frutto della fantasia degli autori, come anche il casolare nel bosco a ridosso della parete rocciosa. Invece sono reali tutti gli altri luoghi terrestri e non dove è stata ambientata questa avventura, Via Da Li Sberleffi compresa.

Rosella Schiralli e Lorenzo Martinelli

Gli Autori

Erre Esse è Rosella Schiralli. Pugliese da diverse generazioni è nata nel 1964. Ha trascorso la sua infanzia a Modena, l'adolescenza a Brescia e ha completato gli studi a Torino dove si è laureata in informatica e vive tutt'ora. Esperta nuotatrice, ha scoperto da adulta la ione per la montagna. Amante degli animali, vive con sette gatti pestiferi e una languida bassotta. Grande divoratrice di libri e fumetti, è arrivata alla soglia dei cinquant'anni con il desiderio di raccontare e raccontarsi. Si reca spesso in Valposchiavo, nei Grigioni italiani dove vivono i suoi genitori e dove ha scelto di ambientare Il Custode dei Sogni Dimenticati, il suo primo romanzo.

Elle Emme è Lorenzo Martinelli. Nato a Torino nel 1959 ha sempre unito tecnica e fantasia, reale e fantastico, principio e dubbio, consapevolezza e sogno in ogni sua attività. Grande apionato di calcio è stato prima giocatore e poi allenatore di squadre giovanili. Intenditore di motori, elettronica e di tutto quello che gli ruota attorno, ha dedicato la sua vita alla costruzione e riparazione di vetture di marchi prestigiosi. Grande lettore, si apiona a tutto ciò che eccita la mente. Buon chitarrista, ha composto le musiche e i testi per un musical. La sua immensa fantasia e il suo stile fatto di genio e sregolatezza lo hanno portato a inventare personaggi surreali e a scrivere brevi racconti ambientati in mondi reali solo per il lettore distratto, ma in concreti mondi di fantasia per chi sa leggere sognando. Il Custode dei Sogni Dimenticati è il suo primo romanzo.