I Due Mondi 4z545z

IL TEMPO PRIMA DELLA LUCE

Giuseppe Dalu

Prima parte

I DUE MONDI

Romanzo

I due mondi Giuseppe Dalu

Narcissus - Self Publishing made serious

Edizione digitale: Settembre 2012

ISBN: 9788867551545

Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

SIAE

SEZIONE OLAF

Deposito opera inedita

N° 2007008740

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Dante Alighieri Inferno – Canto XXVI

Premessa

“…oggi, in questa società sconvolta dal male, sempre sull’orlo della catastrofe, anche le previsioni apocalittiche di una non lontana distruzione del mondo intero, attribuite a Gesù da certi apocrifi, sono di sconvolgente attualità. Non per intervento, secondo Gesù, dell’ira divina, ma certo a causa della follia degli uomini stessi, potrebbe essere prossima la fine del mondo.”

Marcello Craveri, 1990

“Molto probabilmente il riscaldamento della terra ha già raggiunto il punto di non ritorno e l’umanità ha ormai davanti a sé meno di un secolo.”

James Lovelock Climatologo inglese

Nonostante l’autorevolezza dello scienziato, che negli anni ’70 elaborò la teoria di Gaia, secondo la quale la terra si adatta per mantenere le condizioni di vita, le sue previsioni sembrano troppo pessimistiche. Oppure no? Lovelock ha esaminato soltanto le alterazioni del clima, e non ha preso in considerazione l’aumento esponenziale della popolazione, l’enorme numero di disperati pronti a tutto, la diffusione crescente delle armi di distruzione di massa, l’esistenza di dittatori che inseguono il potere sacrificando il benessere dei propri paesi…

Gesù Cristo è il Salvatore del Mondo, anche se c’è una certa reticenza a riconoscere le radici cristiane della civiltà occidentale. E se non fosse mai esistito? Proviamo ad immaginare come sarebbe il Mondo oggi senza i suoi insegnamenti. Questo libro insegna come salvare il Mondo. Purtroppo è soltanto fantascienza, ma può essere utile per coloro che lo credono ancora possibile.

IL TEMPO PRIMA DELLA LUCE

1 - I DUE MONDI

Cap. 1 – Il punto di non ritorno

Cap. 2 – Incontro con l’Imperatore

Cap. 3 – L’Arca di Noè

Cap. 4 – I poteri della mente

Cap. 5 – Il salto nel ato

Cap. 6 – Primo contatto

Cap. 7 – La nascita di Maryam

Cap. 8 – La scelta di Mohadran

Cap. 9 – Il genio del male

Cap. 10 – Il falegname

Cap. 11 – Betlemme

Cap. 12 – I Dottori della Legge

Cap. 13 – La formazione

Cap. 14 – Il dono di sé

Cap. 15 – Le luci sul capo

Cap. 16 – Il patto

Cap. 1 – Il punto di non ritorno

Era appena trascorsa l’alba, quando Toshiro arrivò nello studio del Ministro. Lo trovò in piedi, davanti alla grande vetrata, che guardava lontano pensieroso. Sheila, la sua quarta schiava-concubina, dormiva ancora accovacciata sul divano. Toshiro, assistente e segretario del Ministro, l’aveva fatta selezionare per lui, e questa volta aveva badato che fosse anche molto intelligente. L’aveva trovata ancora adolescente nella Cina Meridionale, dove le donne erano sottomesse agli uomini per una tradizione millenaria. Era una persona dolce, molto paziente con il suo padrone, che ammirava moltissimo. Era comunque la prima alla quale il Ministro era riuscito ad affezionarsi. Per Toshiro non fu difficile capire che avevano ato la notte nello studio, perché tutti i monitor erano ancora accesi, e la scrivania era piena di grafici e tabelle. Il Ministro avvertì la sua presenza e disse: «Non vedevo un’alba da quando ero ragazzo. E’ ancora un bello spettacolo, anche se i colori non sono più gli stessi». L’azzurro del cielo era ormai un ricordo lontano. Toshiro chiese conferma dei risultati delle analisi. Il Ministro spiegò che era stato abbastanza facile riesaminare tutti i dati forniti dai diversi sistemi di rilevamento, e arrivare alle stesse conclusioni. «Purtroppo è confermato. Le alterazioni sono ormai troppo gravi e siamo destinati all’estinzione.» In realtà non era riuscito a dormire per cercare di trovare una soluzione, perché l’Imperatore l’aveva abituato a non informarlo di un problema prima che fosse in grado di prospettargli delle possibili soluzioni. «I coloni sulla Luna!» esclamò Toshiro, con l’entusiasmo di chi ha intravisto una soluzione. «Loro potranno ripopolare la Terra.»

«No. La loro autonomia è troppo limitata.» fu la risposta decisa del Ministro. «Non basteranno mille anni per guarire le ferite inferte al pianeta.» A Toshiro venne spontaneo ricordare che il vecchio Lama aveva previsto la catastrofe con alcuni decenni d’anticipo. Il Ministro commentò: «Quel vecchio pazzo! Non poteva avere credito. E’ incredibile che sia ancora vivo. Avrà quasi 200 anni». «243» precisò Toshiro. «Vedo che sei bene informato.» «Mi hanno sempre incuriosito gli strani poteri di quel monaco. Quand’ero studente, un mio compagno di studi mi portò con sé a trovarlo, e rimasi affascinato dal suo grande carisma.» «La legge vieta di frequentare il Tempio della Pace.» «Gli studenti infrangono spesso le regole. Da allora ho sempre seguito quel minimo di notizie che trapelavano, quando i prodigi che poteva compiere riuscivano ad arrivare ai giornali.» Il Ministro rimase pensieroso per un po’, poi esclamò con decisione: «Andiamo!». «Dove, mio Signore?» «Voglio vedere il Lama. Sono rimasto spesso sconcertato da ciò che riusciva a fare, contro ogni possibile spiegazione scientifica, anche se ho sempre pensato che gli straordinari poteri della sua mente fossero molto esagerati dai giornalisti. Nonostante la mia curiosità, non ho mai avuto occasione di incontrarlo, e forse vedere quel vecchio può essere un buon diversivo. Hai qui la tua navetta?» «Sì, ma come possiamo andare al Tempio senza preavviso e senza scorta?» «Il Mondo va verso la catastrofe e tu ti preoccupi della scorta?» Sheila si era svegliata da poco, e aveva sentito le ultime frasi. Chiese: «Posso venire con voi?».

L’idea di incontrare il vecchio Lama la affascinava. Il Ministro esitò. «Vi prego» insisté. Ormai che importanza poteva avere la forma? «Va bene, vieni.» concesse il Ministro. Durante il viaggio tra Kyoto, capitale del Grande Impero d’Oriente, e il Tibet, il Ministro cercò di pensare che cosa dire al vecchio Lama. Si sarebbe qualificato e gli avrebbe comunicato che la sua profezia si era avverata. Se necessario, gli avrebbe ricordato che solo un suo intervento nel Gran Consiglio dell’Impero aveva fatto cessare le persecuzioni contro il Tempio. Il Ministro era stato un grande scienziato, ma era stato allevato come ateo, e all’inizio del suo mandato aveva contribuito ad eliminare ogni traccia di religione dal Grande Impero di Oriente. Era però riuscito a salvare quell’ultimo Tempio, facendo leva sulla sua rappresentatività nello sviluppo della Cultura dell’Uomo. Inoltre il Buddismo non aveva mai preteso di essere una religione. Il Tempio della Pace era quindi diventato una specie di monumento nazionale, d’interesse prevalentemente turistico. La navetta atterrò nell’ampio cortile che si trovava alle spalle del Tempio, una specie di giardino circondato da un chiostro, che dava accesso a due grandi monasteri. Quando il portello si aprì, il Ministro vide avvicinarsi alla scaletta un monaco che sembrava mandato a riceverli. Il monaco rimase chino fino a quando il Ministro non fu sufficientemente vicino da poterne vedere i piedi, e solo allora sollevò il capo. Il Ministro si qualificò: «Sono il Ministro per la Cultura e la Scienza, Gran Maestro...». Il monaco interruppe la sequenza dei titoli, che era piuttosto lunga, dicendo: «Siete attesi. Seguitemi.» e s’incamminò. Il Ministro fissò Toshiro con uno sguardo tra il rimprovero e la richiesta di spiegazioni, ma questi si schermì con un deciso cenno di diniego.

Il terzetto seguì il monaco, che li portò nella stanza-studio del Grande Maestro. La stanza era molto grande, poco luminosa e modestamente arredata. C’erano due grandi scaffali pieni di vecchi libri che rendevano l’aria quasi irrespirabile, una scrivania con sopra un lume e un monitor, cioè una finestra sul Mondo, unico oggetto relativamente moderno, e naturalmente le immancabili carte. La scrivania era soprattutto usata dal suo segretario, quando dovevano sbrigare la corrispondenza, ancora abbondante. Sul pavimento vi erano numerosi cuscini, e l’unica sedia presente era quella in dotazione alla scrivania. Vi erano infine alcuni oggetti sacri di varie dimensioni, tra i quali spiccava un Buddha di legno, a grandezza naturale, appoggiato a una parete in pietra. Prima delle persecuzioni, alcuni monaci sostenevano che Buddha fosse la nona reincarnazione di Krishna, prima vera incarnazione dell’Assoluto. Il Lama li accolse in piedi, nonostante la sua età. Quando il Ministro si trovò davanti quell’uomo incredibilmente magro e vecchio, tutto ciò che aveva preparato durante il tragitto svanì, e non riuscì a proferire parola. Fu il Lama a rompere il silenzio con la solita domanda: «Che cosa posso fare per te?». Il Ministro rispose semplicemente: «Abbiamo ato il punto di non ritorno». «Lo so!» dichiarò il Lama, che sembrava stranamente informato di tutto. «Sono stato il primo a dare l’allarme, ma purtroppo non sono stato ascoltato.» «Puoi fare qualcosa?» Il Lama accennò un sorriso. «Tu mi stai chiedendo di salvare il Mondo! Non ho questo potere.» Il Ministro sembrò deluso, come se avesse veramente sperato di trovare qualche risposta in quel luogo sacro. Cosa poteva aspettarsi da quella vecchia mummia? Che cosa stupida sprecare il proprio tempo in un tentativo così assurdo. Con la sua solita mancanza di tatto, voltò le spalle avviandosi verso l’uscita. «Mohadran!» lo chiamò il Lama.

Era la prima volta dopo molti anni che qualcuno si rivolgeva a lui con il nome, anziché con uno dei suoi titoli. Si fermò. «Mohadran-gi,» ripeté il Lama, aggiungendo quel gi, segno di rispetto, che rivelava la comune origine indiana, «io credo che possiamo ancora fare qualcosa!» Il Ministro si avvicinò nuovamente, ma vide quel vecchio barcollare e temette per lui. I due monaci, suoi assistenti personali, che gli erano sempre stati a fianco, lo sorressero e lo aiutarono a distendersi in quello che sembrava un tavolo di legno senza gambe, finemente intarsiato ai lati e coperto da un antico tappeto cinese di seta, che arrivava al bordo soltanto sui lati minori. I due assistenti aiutarono il Lama ad adagiarsi su quello che si rivelò essere un giaciglio. Un’infermiera accorse con una bombola di ossigeno, e il Ministro notò finalmente la presenza delle apparecchiature ospedaliere. Il monaco, che li aveva accolti al loro arrivo, si avvicinò al Ministro e lo invitò a sedersi su un cuscino posto alla testa del giaciglio. Rimasero tutti in silenzio. Uno degli assistenti sistemò uno specchio sopra la testa del Lama, orientato in modo da permettergli di vedere il suo interlocutore, senza essere costretto a sollevare il capo. Appena il Lama vide nuovamente davanti a sé il volto del Ministro, allontanò la maschera dell’ossigeno e spiegò: «Tu hai sviluppato le moderne teorie sul Tempo e sulla Gravitazione Universale, per le quali hai ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti dal mondo accademico. So che hai anche fatto degli esperimenti per mandare dei piccoli oggetti indietro nel tempo». «Sì,» confermò il Ministro, chiedendosi come quell’uomo potesse essere così informato di teorie che pochi al Mondo potevano capire, «ma non ne abbiamo più trovata traccia. Non sappiamo ancora se questi esperimenti siano riusciti, e non abbiamo ancora conferma sperimentale delle mie teorie sui viaggi nel tempo.» «Le tue teorie sono esatte,» tagliò corto il Lama, «e tu puoi mandare indietro nel tempo persone e strumenti. Questa è la via da seguire!» Il volto del Ministro s’illuminò, perché capì cosa stava cercando di dire il Lama. Questi continuò: «Devi concentrarti sull’applicazione delle tue teorie e preparare

tutto per tornare indietro nel tempo, con il compito di cambiare il corso della Storia». «Ci vorranno molti anni per questo!» obiettò il Ministro. «Non importa. Noi dobbiamo assolutamente tornare indietro nel tempo. E’ ormai l’unica possibilità rimasta per salvare il Mondo.» «Noi, Venerabile Maestro?». Era già sorprendente che quell’uomo fosse ancora vivo. «Sì, noi!» replicò alzando leggermente la voce, «Io so cosa va fatto ed è essenziale che io faccia parte di questa missione. Ho rimandato la mia morte per questo!». Quest’ultima dichiarazione, detta con tanta sicurezza, fece trasalire il Ministro. «Devi riuscire a portare indietro di duemila anni, duemila persone con duemila tonnellate di apparecchiature. Dobbiamo raggiungere il confine tra i due Imperi ai tempi del primo Imperatore Romano.» Il Ministro era esterrefatto. Quella visita si stava rivelando proficua oltre ogni aspettativa, anche se non riusciva ancora a credere che le richieste del Lama fossero realistiche. In effetti, avrebbe dato del pazzo a chiunque altro le avesse proposte, ma la situazione era talmente disperata, che tanto valeva tentare anche l’impossibile. Ora il Lama appariva esausto, e il Ministro pensò che fosse giunto il momento di accomiatarsi. Si alzò. «Farò tutto ciò che posso per aiutarti in questa missione.» promise, dando per scontato che il Lama vi avrebbe preso parte. Il Lama sollevò una mano, non per salutarlo, ma per trattenerlo ancora un momento. Con voce smorzata disse: «Devi fare presto. E ricorda!». Ora la voce era così debole, che Mohadran fu costretto a chinarsi su di lui. Il Lama posò la mano sulla sua tempia quasi volesse accarezzarlo, e continuò, sforzandosi di parlare più forte.

«Ricorda!» ripeté. «I problemi più gravi saranno di tipo politico e organizzativo, non scientifico!»

Sulla via del ritorno, mille pensieri affollavano la mente del Ministro. Commentava ad alta voce: «Devo riprendere gli studi sui viaggi nel tempo e dedicarmi completamente a questo progetto. Occorre fare presto. Devo riunire le migliori menti dell’Impero». Pianificava la ricerca con dettagli che Toshiro spesso non capiva. Durante quel monologo, si era limitato a intervenire con qualche monosillabo, quasi sempre di approvazione, e qualche breve risposta, quando il Ministro gli anticipava un compito che avrebbe dovuto svolgere personalmente. Fu solo al rientro nello studio del Ministro che Toshiro gli ricordò le ultime parole del Lama: la parte meno difficile sarebbe stata quella scientifica. Eppure fino a quel momento non si era parlato d’altro. Mohadran rimase un attimo pensieroso. «L’Imperatore ha spie dappertutto e sa certamente dei controlli sulla qualità dell’ambiente. Non escluderei che sappia già anche di quest’assurda visita al Tempio della Pace». «Ho informato io l’Imperatore.» «Tu?!» La confessione di Toshiro lasciò Mohadran senza parole. Toshiro cercò di spiegare: «Ero ancora studente quando fui prelevato dai Servizi Segreti dell’Imperatore. Cercavano dei giovani dotati intellettualmente e fisicamente per farne agenti dell’Imperatore. «Io vengo da una famiglia relativamente povera della periferia di Osaka, e non mi sembrò vero di cogliere una tale opportunità. Imparai le tecniche e le metodologie della polizia scientifica, e naturalmente fui addestrato nell’uso delle armi e in varie forme di arti marziali. Ero il migliore in quasi tutto, e fu così che, dopo qualche incarico di minore importanza, fui assegnato a Voi, come assistente

e, data la mia preparazione, come guardia del corpo». Mohadran era esterrefatto. Non riusciva a credere che proprio il suo più stretto collaboratore fosse una spia. Negli anni trascorsi insieme aveva imparato ad apprezzarlo per la varietà delle sue competenze e per la sua versatilità. «Cosa devo fare con te?». «La mia scelta è di servire Voi. Per questo non ho mai rivelato cose compromettenti, ma non potevo tacere sulla visita al Tempio della Pace. L’Imperatore ha altri informatori e non potevo rischiare di perdere la sua fiducia». «Perché mi stai dicendo tutto questo, proprio ora?». «Perché dovrete incontrare l’Imperatore ed è opportuno che sappiate che lui è già stato informato». Era vero. Non era pensabile la realizzazione di un progetto così impegnativo senza l’approvazione e il o finanziario dell’Imperatore. Mohadran decise di affrontarlo subito. Avrebbe pensato più tardi a cosa fare con Toshiro. Si collegò con la segretaria dell’Imperatore usando la linea riservata alle emergenze e chiese udienza, sottolineando trattarsi di cosa molto urgente e della massima importanza. Evidentemente l’Imperatore aspettava quella chiamata, perché lo convocò subito.

Cap. 2 – Incontro con l’Imperatore

Per raggiungere il Palazzo dell’Imperatore erano sufficienti pochi minuti, e Mohadran non aveva ancora pensato a cosa dirgli. Era tuttavia saggio non avere fretta. Chiese a Sheila un massaggio rilassante, secondo le più raffinate tecniche sviluppate nella sua terra d’origine, la Cina. Poi entrò nudo nella profonda vasca giapponese dove, appoggiato alla parete e con gli occhi chiusi, cercò di sgombrare la mente dei tanti pensieri che vi si affollavano. Sheila lasciò cadere la vestaglia di seta, rivelando un corpo perfetto, e raggiunse il Ministro nella vasca per fargli il bagno. Poi ne curò il volto e lo aiutò a vestirsi con abiti adeguati. Durante tutto il trattamento, Mohadran era assente. Una cosa gli apparve subito chiara: doveva ottenere il pieno appoggio dell’Imperatore, e il solo modo per averlo era quello di garantirgli il ruolo di protagonista, con la possibilità di raggiungere un potere molto più grande,.

Mohadran entrò da solo nella Sala del Trono. L’Imperatore lo rimproverò: «Sei in ritardo. Non è mia abitudine aspettare». «Perdonate il Vostro umile servo. Come potevo osare presentarmi a Voi, senza la necessaria purificazione?» C’era stato un tempo in cui l’Imperatore era venerato come un Dio. L’Imperatore notò gli abiti sfarzosi che indossava e il turbante, impreziosito con un grande rubino. «Parla!» tagliò corto. «Ciò che devo dire, suggerirei che fosse udito solo dalle Vostre orecchie. Dopo

deciderete Voi cosa farne.» L’Imperatore fece un cenno, e i consiglieri e il resto del personale abbandonarono la Sala del Trono. «Gli ultimi controlli sull’ambiente hanno dato valori ben superiori ai limiti di sopravvivenza. La temperatura del pianeta continua a salire, i corsi d’acqua sono avvelenati, e soprattutto la radioattività. E’ contaminato anche il terreno, e naturalmente il cibo che mangiamo. Siamo condannati a una morte lenta.» «Quell’idiota dell’Imperatore d’Occidente! E’ lui che ha cominciato a vendere ordigni nucleari ai ribelli, all’interno del mio Impero.» commentò l’Imperatore con rabbia. I confini orientali dell’Impero non avevano mai dato problemi, poiché c’era l’oceano più vasto della Terra. Il vero problema erano sempre stati i confini occidentali, che si estendevano dal mar Rosso ai monti Urali. Roma aveva sempre preteso il controllo completo del Mediterraneo e ricorreva ad ogni mezzo per riappropriarsene. Mohadran sembrò ignorare quel commento. «Il vecchio Lama aveva predetto questa situazione molti anni fa. Così sono andato a trovarlo.» «Cosa c’entra quel vecchio pazzo? Come hai osato trasgredire il mio divieto?» L’ira dell’Imperatore aumentava. «Non riuscivo a trovare una via d’uscita. Così ho voluto vedere il Lama, più per fare una sosta sul lavoro e sgombrare la mente, che per tentare di avere da lui una qualsiasi informazione utile. Invece, mi ha prospettato una possibile soluzione.» «Che sarebbe?» chiese incredulo l’Imperatore. «Tornare indietro nel tempo.» Mohadran si aspettava una reazione simile a quella che aveva avuto lui, o almeno un minimo d’interesse. Invece l’Imperatore esplose: «Tu stai abusando

del mio tempo! Ho fatto decapitare gente importante per molto meno!». Mohadran sapeva troppo bene quanto l’Imperatore fosse irascibile e sanguinario. Doveva sforzarsi di essere diplomatico, cosa che non aveva mai imparato a fare, nonostante gli anni trascorsi come Ministro. «Ho ricevuto i più importanti riconoscimenti accademici per i miei studi sui viaggi nel tempo, e Vi garantisco che sono possibili.» Stava bleffando, ma che altro poteva fare? «Ma lasciamo per un momento questo aspetto. Vediamo invece cosa potremmo fare con una missione nel ato. Voi potreste diventare l’unico padrone del Mondo.» Finalmente un barlume d’interesse in quell’uomo di pietra. Mohadran prese coraggio. «L’idea è portare indietro nel tempo un piccolo esercito ben equipaggiato, possibilmente prima dell’era industriale, ma almeno prima dello sviluppo degli ordigni nucleari. Sarebbe facile distruggere Roma e prendere il controllo della Terra.» L’Imperatore vide la possibilità di realizzare il suo sogno di sempre. «Avrei quindi il dominio su tutto il pianeta!» commentò compiaciuto. Mohadran continuò: «Farete in modo che nessuno abbia più armi nucleari; imporrete la pace e pianificherete uno sviluppo graduale, che non provochi alterazioni pericolose e irreparabili sull’ambiente». «Come pensi di controllare un Impero così vasto senza il deterrente delle armi nucleari?» chiese l’Imperatore. «Con l’elettronica! Tenete presente che Voi avrete a che fare con un mondo primitivo nel quale solo Voi potrete disporre di tecnologie avanzate. Con l’elettronica potrete sapere quando e dove ogni atto di ribellione viene programmato, e basteranno armi molto semplici per averne ragione. Dopo la distruzione di alcune città e la sottomissione del Mondo, sarà necessario cancellare ogni traccia della tecnologia nucleare, perché potrebbe cadere nelle

mani di qualche folle, e sarebbe il fallimento della nostra missione.» Per fortuna l’Imperatore non aveva il potere di leggere nella mente, potere sviluppato soltanto da alcuni monaci buddisti, altrimenti avrebbe visto che Mohadran riteneva di avere di fronte il folle appena menzionato, e l’intenzione di non portarlo con sé indietro nel tempo. D’altra parte l’Imperatore e il Lama si escludevano a vicenda, ed era meglio il Lama, sempre che fosse vissuto abbastanza a lungo da poter prendere parte alla spedizione. Ricordò quella sua affermazione: “Io so cosa va fatto”. Che cosa avrà avuto in mente? L’Imperatore sembrò soddisfatto. Tornò sul concreto. «Quali sono i tempi? E quanti uomini pensi di poter trasferire?» «Dovrebbero bastare duemila uomini, opportunamente addestrati.» «Duemila uomini? E questo lo chiami un esercito? Quando mi muovo io, sposto milioni di soldati!» «Il vero problema non sono gli uomini. Il vero problema sarà trasferire migliaia di tonnellate di equipaggiamento. Posso inviare già ora un piccolo oggetto nel ato, ma ci vorranno almeno quindici anni per sviluppare la tecnologia necessaria per un trasferimento di queste dimensioni. Noi dobbiamo necessariamente raggiungere un periodo agli albori dello sviluppo tecnologico, e avremo bisogno di vari laboratori attrezzati. Io porterei mille scienziati e mille militari.» L’ulteriore limitazione sui militari indispettì l’Imperatore. «E tu t’illudi di conquistare il Mondo con mille uomini?» «No! I soldati li troveremo sul posto. Non sono qualificato per insegnare a Voi l’arte della guerra, ma per quel poco che ricordo della Storia, le più grandi conquiste sono state fatte sottomettendo, armando e procedendo a successive sottomissioni. I mille militari devono essere semplicemente dei condottieri. E le genti li seguiranno, perché avranno armi potentissime, potranno comunicare tra loro anche a grande distanza, potranno vedere al buio, ma soprattutto potranno conoscere con sufficiente anticipo quanto basta per sapere dove e come colpire. E poi, considerate il terrore che possono seminare i devastanti effetti di un’esplosione nucleare.»

Mohadran non era mai stato un buon diplomatico, ma tra i suoi vari titoli figurava quello di Grande Stratega Militare dell’Impero. «Tutto questo è abbastanza convincente, ma i tempi sono troppo lunghi. Deve essere tutto pronto entro dieci anni!» Era venuto il momento di sferrare l’ultimo attacco e raggiungere l’obiettivo, vero scopo di quella visita. «Posso cercare di ottimizzare la scelta di uomini e mezzi, e limitare al minimo indispensabile l’intervallo di tempo per il salto nel ato. Tuttavia l’unico modo per ridurre i tempi di sviluppo, ed eventualmente scendere sotto i dieci anni, è quello di avere a disposizione i migliori scienziati e mezzi adeguati.» «Questo si può fare.» concesse l’Imperatore, e aggiunse: «Segnalami anche qualche scienziato dell’altro Impero, che tu ritenessi opportuno avere con te, ed io lo comprerò o lo farò rapire». «Vi ringrazio, ma non basta. E’ indispensabile che nessuno sappia di questo progetto. Lascerò il mio incarico di Ministro, per assumere il comando di una sezione speciale dei Servizi Segreti. Si dovrà al più sapere che stiamo lavorando a un nuovo sistema di difesa. Avremo una Base Segreta sotterranea in pieno deserto ed io comunicherò soltanto con Voi, direttamente con Voi, con una linea schermata da ogni possibile intercettazione.» «Va bene. Considera soddisfatta ogni tua richiesta. Avrai uomini e mezzi. Ora va.» “Ottimo!”pensò Mohadran, “Obiettivo raggiunto!” Si congedò dall’Imperatore con un profondo inchino e si fece portare a casa. Sheila gli aveva preparato un’ottima cena, ma mangiò pochissimo. Era molto tardi e aveva soprattutto bisogno di dormire, perché era stata davvero una giornata molto lunga.

Quando Toshiro entrò nell’appartamento di Mohadran, ubicato nello stesso palazzo del Ministero, subito sotto il suo studio, trovò Sheila ad accoglierlo.

Aveva preparato la colazione per tutti, ma non osava svegliare il Ministro. Non dovettero comunque aspettare molto, perché suonò un camlo e Sheila si precipitò da lui. «E’ arrivato Toshiro?» «Sì, mio Signore.» Mohadran non voleva rinunciare a Toshiro. Era un collaboratore troppo prezioso, soprattutto ora. Aveva deciso quindi di permettergli di continuare a informare l’Imperatore, ma da quel momento avrebbe concordato con lui cosa riferire. «Fallo venire qua.» «Non volete prima…?» «Hai ragione, ma facciamo presto!» Sheila l’assisté nella cura della sua persona, che quella mattina fu alquanto sommaria. Si ritrovarono tutti attorno al tavolo e, prima ancora di sedersi, Mohadran disse a Toshiro: «Dobbiamo trovare un posto adeguato per svolgere, nel più assoluto segreto, delle ricerche avanzate molto importanti per la sicurezza nazionale». Quell’esordio fece subito capire che era riuscito ad ottenere l’approvazione dell’Imperatore. Toshiro non seppe trattenere l’entusiasmo. «Fantastico! Quindi realizzeremo il viaggio nel tempo.» Il Ministro lo gelò. «D’ora in poi, nessuno dovrà parlare di viaggi nel tempo e meno che mai del Lama. Per noi ci sarà solo il nostro Progetto con una Missione da compiere. Solo se e quando sarà indispensabile, allora per noi, e solo tra noi, il vecchio Lama sarà il Maestro.» «Sissignore.» mormorò Toshiro. «Ho dato le dimissioni per dedicarmi completamente a quest’impresa, per la

quale sono riuscito ad ottenere il pieno appoggio dell’Imperatore. Questo dovrebbe tranquillizzare il Maestro.» Fece una breve pausa e cominciò a mangiare. «Sì! Avrei proprio piacere di informarlo del mio colloquio con l’Imperatore, ma è molto meglio se non ci facciamo vivi con lui, almeno fino a quando non riuscirò ad avere le idee un po’ più chiare su modi e tempi di realizzazione.» Fece un’altra pausa, poi aggiunse: «Temo comunque che non apprezzerebbe il modo in cui sono riuscito ad ottenere l’approvazione e il o dell’Imperatore». Fu Sheila a chiedere: «Cosa gli avete promesso?». «Il dominio del Mondo!» «Eccellenza!» esclamò Toshiro scandalizzato. «D’ora in poi niente titoli. Noi tre ci chiameremo per nome. Per gli altri, io sarò il professor Mohadran, tu il dottor Toshiro, e per te, semplicemente Sheila andrà bene.» “Sono molto onorato” sarebbe stata la risposta di circostanza, compiaciuto per la rinnovata fiducia che gli veniva accordata, ma Toshiro era troppo preoccupato. «Quell’uomo è una belva! Com’è possibile metterlo a fianco del Maestro nella nostra Missione?» «Infatti non è possibile. Ma questo è un problema che vedremo di risolvere in seguito. Ora ci è indispensabile la sua approvazione, e soprattutto il suo sostegno con uomini e mezzi.» «Devo confessare che mi dispiace di non poter tenere informato il Maestro. Mi pare di ricordare che glielo avevamo promesso.» «No. E’ troppo rischioso. L’Imperatore mi terrà d’occhio, ora più che mai.» «Possiamo almeno trovare il modo di tranquillizzarlo?»

«Io credo che non sia necessario.» commentò Sheila. Di solito evitava di intervenire nella discussione, ma le venne naturale fare quell’affermazione, che sorprese i due uomini. Cercò di spiegare. «Il Maestro era informato degli studi sui viaggi nel tempo, al punto da ritenere fattibile una missione che voi stesso non avevate ancora preso seriamente in considerazione. Sapeva comunque troppe cose di noi, compreso il momento e lo scopo della nostra visita al Tempio.» «Vuoi dire, come se avesse una spia nella mia stessa casa?» Quella domanda poteva sembrare offensiva, ma Sheila aveva capito qualcosa che era sfuggita agli altri due. «No! Molto di più. Secondo me il Maestro legge nella mente degli uomini. Può darsi che in particolari circostanze, o con notevole impegno, riesca a leggere la Vostra mente a distanza… Se questo è vero, lui sa già tutto.» I due si guardarono esterrefatti. L’ipotesi era assurda, ma quell’uomo era riuscito ad allontanare la morte. Che altri poteri poteva avere la sua mente?

Mohadran ritornò al suo vecchio laboratorio e diede nuovo impulso alle sue ricerche. Sembrò un ritorno a una vecchia ione, e non destò meraviglia la straordinaria dotazione di uomini e mezzi. Dopotutto era stato Ministro per la Cultura e la Scienza. Tuttavia i nuovi laboratori venivano realizzati direttamente nella Base Segreta, con quanto di meglio la tecnologia poteva offrire.

Cap. 3 – L’Arca di Noè

C’era una grande cometa diretta verso la Terra, la CX-33, come l’aveva chiamata l’astronomo che l’aveva scoperta. La X era la lettera comunemente usata dai matematici per indicare un’incognita, poiché non si sapeva ancora se avrebbe colpito la Terra, e il numero trentatré indicava gli anni calcolati tra la scoperta e il possibile impatto. Erano ati ormai otto anni dalla scoperta, e i dati più recenti raccolti avevano rivelato che l’impatto sarebbe stato molto probabile, e che il meteorite era dello stesso tipo di quello che aveva causato l’estinzione dei dinosauri. La minaccia di un disastro globale aveva indotto il Consiglio Imperiale Romano a promuovere la colonizzazione della Luna. Esisteva già un osservatorio sulla Luna, voluto soprattutto dagli astronomi, che avevano costruito un grande telescopio capace di penetrare nell’Universo fin quasi alla sua origine. Per questa ragione l’osservatorio era stato costruito in una zona adeguata vicino al centro del disco lunare, in modo da poter esplorare l’Universo in ogni direzione. La colonia aveva invece uno scopo diverso. Doveva poter ospitare circa un milione di persone e una buona varietà di piante e animali, da poter ripopolare la Terra qualche tempo dopo l’impatto. La necessità di avere energia sufficiente per tutti i laboratori, aveva orientato la scelta del sito verso il polo nord della Luna in modo che i pannelli solari fossero sempre esposti al sole, grazie ad una lenta rotazione di circa un mese. L’enorme quantità di energia era stata ritenuta indispensabile anche per l’uso che se ne doveva fare per sintetizzare l’acqua necessaria per la sopravvivenza della colonia. Per fortuna era stata scoperta acqua nel sottosuolo lunare, portata dallo stesso tipo di comete di ghiaccio che aveva formato gli oceani sulla Terra. Questa scoperta aveva permesso di raddoppiare l’autonomia della Base, inizialmente programmata in dieci anni.

L’impegno e la portata dell’impresa era tale che Roma aveva cercato di coinvolgere anche il Grande Impero d’Oriente, con diverse forme di pressione, soprattutto sul Ministro Mohadran, il più ascoltato dall’Imperatore. Ma da Kyoto era arrivato un netto rifiuto. Esisteva infatti una specie di guerra permanente non dichiarata tra i due Imperi.

«Abbiamo forse la certezza che questo meteorite colpirà la Terra?» aveva chiesto l’Imperatore a Mohadran, quando gli aveva prospettato l’opportunità di contribuire all’impresa. «No, ma quando avremo questa certezza, sarà troppo tardi per una qualsiasi azione utile per la nostra sopravvivenza.» «Ammettendo anche l’impatto, abbiamo la certezza che distruggerà l’umanità?» «No. Possiamo solo dire che è probabile.» «Una colonia sulla Luna! Potrebbe essere in realtà una base militare dalla quale colpirci. Hanno già messo degli ordigni nucleari sui loro satelliti.» Dopo una pausa aggiunse: «Ti dico io cosa faremo. Costruiremo dei rifugi adeguati a diverse latitudini, in modo da averne sempre qualcuno abbastanza lontano dal punto di impatto. Se ne curerai tu la realizzazione, avremo almeno le stesse probabilità di ripopolare la Terra di quante ne avranno i coloni della Luna». Evidentemente non si rendeva conto dell’entità di una catastrofe planetaria. «Tuttavia, sarebbe saggio avere dei nostri uomini su quella colonia.» insisté Mohadran. Aveva rinunciato a cercare di spiegare che quella prospettata non poteva essere una soluzione praticabile; così aveva proposto qualcosa più confacente e accettabile alla mentalità dell’Imperatore. «Questo sì! Nostri agenti bene addestrati per tenerci informati, ma non lo permetteranno mai.»

A Mohadran era tornato in mente un suo vecchio sogno. «Potremmo proporre la realizzazione di una Biblioteca Universale. Con le attuali memorie di massa si possono archiviare tutti i libri esistenti in uno spazio relativamente piccolo. Si darebbe naturalmente la precedenza ai libri scientifici, per aggiungere in seguito i capolavori della letteratura mondiale, ciascuno nella sua lingua originale, con una traduzione nella nostra lingua e una in latino. Tra archivisti, traduttori e informatici, potremmo avere qualche centinaio di nostri uomini nella colonia.» L’idea era piaciuta all’Imperatore. «Questo ci permetterebbe di avere dei nostri agenti lassù, con un impegno finanziario limitato.» «Direi irrisorio, rispetto a ciò che spenderà Roma… Un altro aspetto interessante è la possibilità che questa biblioteca sia resa accessibile da qualunque punto della Terra, con mezzi relativamente modesti. Questo permetterebbe la diffusione della cultura a scala planetaria, molto utile per un vero progresso scientifico.» «Questo è irrilevante.» aveva commentato l’Imperatore. «Fai in modo che Roma accetti questa nostra proposta.» Evidentemente all’Imperatore non importava la diffusione della cultura, che invece era il vero obiettivo del progetto di Mohadran.

La colonia era ora governata da un triumvirato: il Generale, come coordinatore e amministratore; lo Scienziato, capo di tutta la parte tecnico-scientifica; il Bibliotecario, incaricato della realizzazione e del mantenimento della Biblioteca Universale. Quest’ultimo aveva un potere decisionale trascurabile, ma partecipava a tutte le riunioni, soprattutto come unico rappresentante dell’Impero di Oriente. Un giorno, parlando della colonia lunare, Toshiro commentò: «Le hanno dato un nome molto strano: Ara Kadì Noè». «Arca di Noè.» corresse Mohadran. «E’ una loro antica leggenda.»

«Davvero? Di che si tratta?» chiese Sheila curiosa. «Parla di un periodo di piogge continue e intense che sommerse tutte le terre conosciute. Un evento noto come Diluvio Universale.» «Non vedo il nesso con la colonia.» «Prima di quell’evento, un uomo chiamato Noè costruì l’Arca, un’enorme imbarcazione. Naturalmente fu deriso da tutti per l’assurdità di costruire una barca così lontano dal mare, e così grande che il suo varo era impensabile. Lui cercò di spiegare che sapeva, per ispirazione divina, che il mare sarebbe arrivato alla barca, e quelle dimensioni erano necessarie per salvare uomini e animali per poter ripopolare la Terra, una volta che le acque si fossero ritirate.» «Affascinante!» esclamò Sheila. «Ripopolare. E’ questo il nesso.» aggiunse Toshiro. «Infatti, dalla colonia dovrebbero tornare per ripopolare la Terra, dopo una catastrofe planetaria.» «Sì, è così.» confermò Mohadran. «Non era mai stata progettata un’impresa così impegnativa e così grande da ospitare la popolazione di un’intera città, con tutto ciò che occorre per la sua sopravvivenza. Purtroppo sarà inutile.»

Il problema ormai non era più il possibile impatto di un grosso meteorite, ma il fatto che il pianeta stava diventando invivibile. Questo escludeva l’idea dell’Imperatore di avere rifugi a diverse latitudini, ma Toshiro aveva seri dubbi sulla possibilità di tornare indietro nel tempo. Infatti era convinto che sarebbe stato più realistico e pratico rendere la colonia lunare completamente autosufficiente, anche se era una iniziativa dell’Impero nemico. Ma aveva una certa riluttanza a manifestare questa sua convinzione, visto l’entusiasmo con il quale Mohadran aveva accolto il suggerimento del Lama. Così un giorno tornò sull’argomento, affrontandolo però piuttosto alla lontana. «Notizie del Bibliotecario?» «No. Temo che sia stato ucciso.» Toshiro trasalì.

«Come… ucciso?» Il Bibliotecario teneva Mohadran costantemente informato su come procedeva la realizzazione della colonia. Entrambi però sapevano che i loro messaggi erano controllati. Così il Bibliotecario era estremamente prudente e Mohadran si era abituato a leggere tra le righe. «Nel suo ultimo messaggio esprimeva qualche riserva sulla conduzione della colonia, ma in realtà era terrorizzato. Quel messaggio è stato la sua condanna a morte, e ovviamente hanno parlato di morte naturale. Ora al suo posto c’è il più influenzabile degli archivisti.» «Possibile che nessuno dei nostri uomini riesca a farci sapere qualcosa?» «No. Hanno paura.» Dopo una pausa aggiunse: «Se veramente ci sarà una catastrofe planetaria per l’impatto di un meteorite, il Generale diventerà il padrone del Mondo, e pare che si stia già comportando come tale». «L’unica forma di vita intelligente dell’Universo nelle mani di un pazzo. Che tristezza!» commentò Toshiro. «Purtroppo… ma è realmente intelligente una specie che si autodistrugge? Forse la stupidità si evolve altrettanto rapidamente. Anzi, pare che abbia preso il sopravvento.»

Qualche tempo prima, quando Mohadran aveva iniziato i suoi studi sul clima, l’aveva incuriosito la strana teoria formulata dagli scienziati del Grande Impero di Occidente sulla unicità dell’Uomo nell’Universo. «Com’è possibile escludere altre forme di vita intelligente nell’Universo?» aveva chiesto Toshiro. «Sì, per lo meno non ancora. L’Universo è troppo giovane e i processi evolutivi sono troppo lenti.» era stata la risposta sintetica di Mohadran. Toshiro era sorpreso. «Eppure noi esistiamo. Come si può escludere la vita su altri pianeti?»

«La vita su altri pianeti esiste sicuramente, perché le condizioni per la formazione della vita sono abbastanza comuni. Infatti la vita sulla Terra è comparsa molto presto, dopo la sua formazione. E’ il aggio da forme di vita elementare a organismi complessi che è molto lento. «La particolare composizione dell’atmosfera iniziale portò alla formazione di aminoacidi, che le piogge precipitarono sulla Terra. Fu nelle paludi, con acque dense e calde, ricche di sali minerali, che dagli aminoacidi si ò alle prime proteine, e infine alle prime forme di vita. Queste condizioni possono essere presenti su molti altri pianeti. «Molto tempo fa, sul nostro pianeta, c’erano un unico oceano e un solo continente, Pangea, che costituiva una barriera per le correnti marine, costrette a ripiegare verso le zone più fredde. Si creò così una specie di sistema di raffreddamento per la zona tropicale più calda, dove la particolare circolazione atmosferica portava un’intensa attività temporalesca, con la formazione di paludi che erano però circondate, a nord e a sud, da zone desertiche. «L’escursione delle maree lunari era molto maggiore di quella attuale, perché la Luna era più vicina alla Terra. L’acqua dell’oceano poteva raggiungere le paludi costiere, provocando rimescolamento e scambio tra le paludi, e grandi fiumi permisero la propagazione della vita nel mare. Ma fu soltanto cinquecento milioni di anni fa che la vita dal mare, scavalcando la barriera dei grandi deserti, raggiunse le zone temperate. Qui, le condizioni più favorevoli alla vita permisero una vera esplosione della vegetazione, che cominciò a ridurre la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, con la conseguente liberazione di ossigeno. «Ora, la presenza dall’inizio di un satellite relativamente grande è eccezionale, una barriera continentale su un unico oceano è eccezionale, ma soprattutto è unica la particolare sequenza di condizioni climatiche. «Pare proprio che la Terra abbia avuto il clima migliore nel momento più adatto per una rapida evoluzione della vita. Per questo, e quindi solo su questo pianeta, è stato possibile arrivare a una forma di vita intelligente, e in tempi relativamente molto recenti.» «Affascinante!» aveva esclamato Toshiro. «Capisco la tentazione di attribuire tutto questo ad una Intelligenza Superiore, come fu il pensare a un Creatore, quando si scoprì che l’Universo ha avuto un inizio.»

«Veramente, l’idea di un Creatore è molto precedente a questa scoperta, e si basava sul concetto di prima causa, primo motore immobile, e altre simili elucubrazioni mentali. E’ un po’ come dire che l’atomo è stato scoperto dai filosofi dell’antica Grecia, ma in realtà quel nome, che significa “non divisibile”, è stato dato a qualcosa di fisicamente ben diverso. Tra l’altro, ci si rese conto che l’atomo è tutt’altro che indivisibile, quando si arrivò alla realizzazione della fissione nucleare.» «…e alla realizzazione della fusione. Purtroppo.» aveva concluso Toshiro, pensando alla spaventosa diffusione degli ordigni nucleari.

Cap. 4 – I poteri della mente

Erano ati trenta mesi dalla visita al Tempio, e finalmente Mohadran aveva completato la progettazione del grande Cronotrone. Erano stati anni di duro lavoro in condizioni relativamente difficili, nonostante il o costante e generoso dell’Imperatore. Toshiro e i suoi collaboratori avevano trovato una caverna nel deserto del Sinai, sufficientemente grande per ospitare la fase iniziale del progetto. La caverna era abbastanza vicina al confine tra i due Imperi per le necessarie operazioni di conquista, e sufficientemente isolata per l’indispensabile segretezza su tutto il Progetto. Una seconda Base sotterranea l’avrebbero realizzata sul posto, a est di Gerusalemme, dopo il loro trasferimento: Gerusalemme era la città scelta per essere il centro operativo della Missione, per un’esplicita richiesta del vecchio Lama. Quel giorno Mohadran comunicò ai suoi più stretti collaboratori che i loro sforzi erano stati coronati dal successo, e che poteva ora affermare che la Missione che dovevano compiere si poteva realmente fare. Si trattava ormai di definire i dettagli del Progetto, iniziare la costruzione del Cronotrone e realizzare le apparecchiature necessarie. Si poteva comunque avere già una stima dei tempi, cioè circa otto anni. Quella sera vi era aria di festa nella casa di Mohadran. Oltre a Sheila e Toshiro, c’erano quattro tra i più stretti collaboratori di Mohadran, scienziati tra i migliori del Mondo. Sheila si era particolarmente impegnata a preparare una cena memorabile. Durante la cena, Toshiro parve non partecipare molto all’euforia generale, e Sheila gli chiese: «Cosa ti preoccupa?». «In realtà non sono preoccupato. Sento solo la mancanza di quel vecchio, e vorrei che fosse qui con noi oggi.»

La risposta di Sheila lo sorprese. «E’ possibile che sappia già dei nostri progressi.» Un’altra assurdità, che però sembrò rasserenare Toshiro. Era molto tardi quando gli ospiti lasciarono la casa, ad eccezione di Toshiro, che pensava ancora al vecchio Lama. «Dovremmo cercare di informare il Maestro del nostro successo. Sono certo che ne sarebbe felice.» «Certamente! Gli manderemo un piccione viaggiatore.» scherzò Mohadran. Era evidente che aveva bevuto un po’ troppo. «Ma no! Il nostro amico è venuto a trovarci. Forse ha sentito che parlavamo di lui.» Toshiro e Sheila si scambiarono un’occhiata. «Non è divertente!» commentò Toshiro asciutto. Sheila non aveva mai visto il padrone così ubriaco. «Non lo vedete?» insisté Mohadran, «E’ vestito a festa e sembra soddisfatto.» Si rivolse a Sheila. «Possibile che non lo vedi? E’ là.» Ma come si volse per indicarlo, si accorse che era sparito. Sheila propose: «E se andassimo tutti a riposare?». Chio così la giornata.

L’indomani mattina trovarono il messaggio del Custode del Tempio: “Il Grande Maestro ci ha lasciati stanotte. Domani sera avranno luogo le esequie. La cerimonia avrà inizio alle ore 18. Contiamo sulla vostra partecipazione”. L’ultima frase non sembrava un invito, ma un ordine.

Sheila chiese a Mohadran: «Ricordate di averlo visto ieri notte?». «Certo! Non ero poi così ubriaco! Sembrava vestito per un’importante cerimonia.» «Magari lo stavano preparando per la pira!» commentò Toshiro. Erano abbastanza scossi. E’ vero che quel vecchio aveva ormai ato l’età di 246 anni, ma sembrava che potesse controllare la morte a tempo indeterminato. Inoltre contava di partecipare alla Missione.

Il giorno dopo presero il pretesto di una breve pausa sul lavoro per allontanarsi dalla Base e raggiungere il Tempio della Pace, per un ultimo saluto a quello che era forse stato il più grande uomo che il Mondo avesse mai avuto. Li accolse nuovamente il Custode, che li accompagnò ai posti loro riservati, davanti alla pira. La pira era stata sistemata al centro del grande piazzale antistante al Tempio, ricolmo di migliaia di persone, salvo uno spazio attorno alla pira stessa e un corridoio tra questa e il Tempio, attraverso il quale avanzava il corteo che portava il corpo del Maestro alla pira. Dal Tempio arrivavano una nenia e la musica di antichi strumenti a corda. Il corteo era aperto da quattro ragazze, che portavano cestini di frutta e di fiori. Seguivano quattro giovani, che reggevano in mano lampade di cristallo con grossi stoppini accesi, mentre, con l’altra mano, battevano all’unisono il terreno con lunghi bastoni sormontati da sfere di ottone. Veniva quindi il feretro portato a spalla da otto monaci. Era un trono di legno finemente intarsiato, impreziosito da pannelli dipinti e qualche doratura. Il corteo proseguiva con portatori di lampade e ragazze con frutta e fiori, in simmetria con la parte anteriore. Infine, il corteo era chiuso dal Custode del Tempio. Sul trono era stato sistemato il corpo del Maestro, riccamente vestito, con un copricapo che ne lasciava vedere soltanto il viso. Il suo aspetto era quello di una persona in profonda meditazione.

Arrivati alla pira, il corteo si aprì, e le ragazze e i giovani presero posizione lungo una circonferenza a ridosso della prima fila di poltrone, mentre i monaci sollevavano il feretro sopra la pira. Quando il trono fu esattamente al centro della pira, compirono un mezzo giro, in modo che il Maestro avesse di fronte il Tempio. In questa posizione, i monaci appoggiarono il trono sulla pira e sfilarono i quattro pali di sostegno. Come gli otto monaci si ritirarono a metà del corridoio che conduceva al Tempio, le ragazze circondarono la pira, vi posero sopra i frutti e i fiori dei loro cestini, e raggiunsero i monaci nel corridoio. Il Custode, infine, cosparse la pira di incenso e polvere di sandalo. Nella pira erano state lasciate quattro nicchie a metà altezza, e altre quattro, sfalsate rispetto a queste, più vicine alla base. I giovani vi inserirono le lampade accese, che ruppero simultaneamente con le sfere di ottone che erano in cima ai bastoni, e l’olio delle lampade scese sui legni, propagando il fuoco. Appena Mohadran vide il Maestro, non poté fare a meno di esclamare: «L’abito!». Sheila gli si avvicinò porgendo l’orecchio ad una eventuale spiegazione. «Toshiro aveva ragione. Ha lo stesso abito che ho visto nell’apparizione.» Gli ospiti seguirono in piedi e in silenzio il complesso cerimoniale delle esequie, fino all’accensione della pira. Le fiamme presero forza molto rapidamente e cominciarono ad assalire quel corpo ligneo, ricoperto di fiori. Tutto lo spazio, tra la pira e le sedie, era ora completamente libero, anche perché il calore era già abbastanza forte per chi si trovava nel primo cerchio dei posti d’onore. Mohadran stava cercando di capire chi fossero le personalità intervenute, quando notò uno strano movimento tra le fiamme. Guardò con più attenzione e vide il vecchio Lama alzarsi. Si strofinò gli occhi. Non poteva essere vero! Quando li riaprì, vide il Lama venirgli incontro. Strinse il braccio di Sheila al punto da farle male. Sheila e Toshiro si resero conto che stava accadendo qualcosa.

Il Lama fece cenno a Mohadran di seguirlo e si diresse verso il Tempio. Mohadran si alzò e vide il Custode, in piedi, all’inizio del corridoio. Gli si avvicinò e mormorò: «Il Maestro è qui!», ma quando cercò di indicarlo, non riuscì più a vederlo. «Sì!» rispose semplicemente il Custode. «Vuole che ti mostri quello che stiamo facendo.» «Vuoi dire che lo hai visto anche tu?» «Non ora. Mi appare solo quando mi deve comunicare qualcosa.» «Ti ha dunque parlato!» «Non proprio. Noi comunichiamo telepaticamente.» Mohadran era troppo sorpreso per continuare quella conversazione. Entrarono nel Tempio. L’edificio era una grande cupola simile a un planetario, che poggiava su una base cilindrica alta quanto gli ingressi. La pianta era quasi circolare, con le pareti che contenevano gli ingressi leggermente più sporgenti. Oltre l’ingresso principale, che avevano appena attraversato, c’erano altri due ingressi equidistanti, come ai vertici di un triangolo equilatero. C’era un corridoio che collegava gli ingressi e dal quale partivano le sei scale verso il centro. Al centro c’era una grande vasca circolare con l’acqua sacra. Tra la vasca e il corridoio superiore c’erano le panche per i monaci. Sopra la vasca c’era una sfera luminescente, grande quanto la vasca, che sembrava sospesa nel vuoto. Non c’erano finestre; l’illuminazione veniva unicamente dal fondo della vasca e dalla sfera sospesa, e tutto il Tempio rimaneva in semioscurità. In occasione delle cerimonie venivano accese delle lampade a olio poste lungo le pareti. Le lampade erano state spente e alcune mancavano: erano quelle che avevano seguito il feretro e che erano state poi usate per accendere la pira. Solo i monaci avevano assistito alla parte della cerimonia che si era svolta all’interno del Tempio.

Attraversarono il Tempio, mentre il Custode spiegava: «La nostra è una vita di meditazione e di studio; ma grazie a una disciplina molto severa, e a tecniche che abbiamo sviluppato nei secoli, siamo riusciti a liberare dei poteri che altri non hanno, come la telepatia e la lettura del pensiero. Quelli che noi chiamiamo genericamente “i poteri della mente”, sono in realtà presenti in modo latente in ogni essere umano, ma la maggior parte delle persone è troppo distratta dalle cose contingenti della vita per vedere se e quanto questi poteri possano essere attivati e sviluppati. Tuttavia, anche quando si sappia cosa e come cercare, e nonostante l’aiuto dei Maestri, sono molto pochi quelli che raggiungono la perfezione. Il nostro Lama ha, a mio parere, raggiunto questo traguardo, anche se lui ha sempre sostenuto che solo Buddha ha veramente raggiunto la perfezione.» Mohadran seguiva con attenzione le spiegazioni del Custode e cominciò a sospettare che ci sarebbero state altre sorprese. Il Custode continuò: «Oggi, dopo anni di ricerca, abbiamo la possibilità di avere persone con grandi potenzialità, già fin dalla nascita». «Vuoi dire che avete sviluppato una tecnica per riconoscere i poteri latenti della mente… in un neonato?» s’informò Mohadran. «No. Questo i grandi maestri erano in grado di farlo da qualche tempo, con la fusione delle menti. Noi abbiamo decifrato il codice genetico delle persone che potenzialmente possono avere una grande anima, e siamo in grado di riconoscerlo già nell’embrione.» Erano intanto arrivati in quello che sembrava un moderno laboratorio d’ingegneria genetica. La sorpresa di Mohadran fu ancora più grande quando vi riconobbe il professor Pavlov, uno scienziato che aveva conosciuto personalmente, quando gli conferì la più alta onorificenza accademica dell’Impero per le sue scoperte sulle biotecnologie. Il professor Pavlov era misteriosamente scomparso subito dopo la cerimonia della premiazione, e si riteneva che fosse ato al servizio dell’Imperatore d’Occidente. Fu lui a spiegare cosa stavano facendo. A Mohadran venne un dubbio e lo interruppe: «State forse cercando di clonare il Maestro?».

«No! Abbiamo abbandonato quella tecnica molto tempo fa, perché non ha mai dato i risultati sperati. Vogliamo un risultato migliore e più sicuro, e stiamo cercando di creare l’essere umano perfetto, un tipo di uomo che nella scala evolutiva sarà presente solo fra qualche migliaio di anni. I successi sono molto rari, ma il Maestro ha il potere di riconoscerli, e ne ha trovati alcuni. Lui ha percepito le grandi potenzialità di questi embrioni, e ne ha scelto uno in particolare, quello più adatto al suo ritorno.» Mohadran cominciava ad avere qualche difficoltà a capire. Il Custode lo condusse in un piccolo appartamento, molto più confortevole delle anguste celle dei monaci, dove trovarono una giovane donna in evidente stato di gravidanza. «Ecco!» spiegò il Custode. «In questo bambino si reincarnerà il Lama. Svilupperà molto presto poteri superiori a quelli di ogni altro essere vivente, seguendo l’insegnamento dei nostri migliori maestri. Sarà lui a seguirti nel Viaggio nel Tempo, e potrà essere soddisfatta la promessa che ti fece il Lama.» «Ma sarà soltanto un bambino quando noi saremo pronti!» obiettò Mohadran. «Sì, e così deve essere. Dovrei dirti di più sui preparativi che stiamo facendo per la Missione, ma per ora è sufficiente ciò che hai visto. Devi includere il laboratorio di bioingegneria e tutto il suo personale nel viaggio nel tempo. Devi inoltre preparare una grande camera fredda, con sette capsule.» «Camera fredda?!» chiese Mohadran. «Sì, con capsule per l’ibernazione. Il tipo di capsule usate dagli astronauti per i lunghi viaggi spaziali, perché potrebbe non essere sufficiente ciò che riusciremo a fare entro la durata della nostra vita. Anzi, sarà senz’altro necessario per alcuni di noi essere rianimati dopo un lungo periodo di tempo.» Decisamente le sorprese non finivano più! «Come mai solo sette capsule?» «Esse sono riservate alle persone chiave della Missione. Le altre persone saranno semplicemente i discendenti dei crononauti, la cui attività sarà trasferita da padre in figlio, in modo da essere continua e costante. Anche su questo avremo tempo

di entrare nei dettagli ben prima della partenza.» Quello sembrava un commiato. Erano, in effetti, arrivati alla navetta, dove trovarono Sheila e Toshiro che li attendevano. Il Ministro aveva un’ultima domanda: «Chi sei tu?». Era ormai chiaro che quel monaco non poteva essere un semplice usciere. «Il mio nome è Prabhorak. Sono l’amministratore del Tempio e dei suoi monasteri, ma non sono al di sopra di nessuno; anzi, sono il servitore di tutti. Qui mi conoscono come il Custode, e così mi chiamano tutti.» Durante il viaggio di ritorno Mohadran rimase assorto nei suoi pensieri, deludendo la curiosità dei suoi compagni.

Cap. 5 – Il salto nel ato

Dopo la morte del vecchio Lama, il Tempio della Pace era caduto in un apparente stato di abbandono: era venuta a mancare la vera attrazione di tutto il complesso. I visitatori erano ormai rari, e nessuno chiedeva più di essere accolto nel monastero; anzi, quasi tutti i monaci più giovani avevano abbandonato la dura disciplina della vita monastica per tornare alle proprie famiglie. Un giorno, tre monaci chiesero di essere ricevuti dal Lama, che era ancora un bambino, ma cominciava a essere molto ascoltato. Era la prima volta che dei giovani chiedevano esplicitamente di lasciare il monastero. «Maestro, siamo venuti per chiedere di poter tornare alle nostre case.» Il Lama era seduto con le gambe incrociate, sul giaciglio di legno intarsiato. «Il titolo di Maestro non mi compete. Io sono ancora un allievo, come voi, e degli stessi vostri maestri.» precisò il Lama. «Trovate forse la disciplina del monastero un fardello troppo pesante per le vostre spalle? E’ solo con un impegno costante e sistematico che si raggiunge il controllo del proprio corpo e lo sviluppo della propria mente.» «Non è questo.» rispose il più anziano fra loro. «In realtà è anche questo, ma negli ultimi anni è stata data troppa importanza allo studio dell’aramaico, una lingua antica che non si usa più; anzi, ora si dedica più tempo allo studio delle lingue che alla meditazione e agli esercizi yoga. Noi non siamo portati per questo tipo di studi e non era tra i nostri compiti quando siamo stati accolti in questo monastero.» «Capisco. Chiederò che lo studio delle lingue sia facoltativo. Se vorrete tornare comunque alle vostre famiglie, sappiate che le porte del monastero sono sempre aperte, sia per chi vuole unirsi a noi, sia per chi vuole lasciarci.» I tre monaci salutarono con mani giunte e inchino, e lasciarono lo studio. Rimasti soli, il Custode cercò di spiegare: «Un terzo dei monaci ha abbandonato

il monastero, e la maggior parte l’ha fatto subito dopo la morte del vecchio Lama. Questi sono i primi che vengono ad accomiatarsi da te, anche se molti ti considerano ancora un bambino». «Tu sai che in realtà io sono il Lama Khapa, anche se ho un nuovo corpo e un nome diverso.» «Sì, Lama Elì. Elì. Un nome inconsueto, ma lo stesso Lama Khapa l’ha scelto per te.» Il giovane Lama si protese in avanti e spinse sui piedi, sollevandosi. Scese dal giaciglio e raggiunse uno degli scaffali, dal quale prese l’unico libro arrotolato, non ripiegato o rilegato, e lo porse al Custode. «Questo è forse l’ultimo esemplare al mondo della Torah. Il mio nome viene da questo libro. Il centro della cultura che l’ha prodotto è Gerusalemme, ed è là che andremo. Contiene delle profezie che noi cercheremo di realizzare. E’ scritto in aramaico, ed è necessario che almeno alcuni dei nostri giovani conoscano bene questa lingua. Fai delle copie e distribuiscile tra gli studiosi.» Il Custode intuì l’importanza di quello studio e si rese conto dell’enorme responsabilità che gli veniva data. Cambiò argomento. «Pavlov è pronto a riceverci.» Pavlov aveva trasferito il suo laboratorio nell’antica città di Damasco, abbastanza grande da nascondere le attività del laboratorio e sufficientemente vicina alla Base Segreta. «Bene. Evidentemente anche Mohadran è pronto. Fai trasferire i monaci in piccoli gruppi all’Istituto di Pavlov, vestiti con abiti civili, come quelli che finora hanno abbandonato il monastero. Là si confonderanno con il personale del laboratorio, e quando Pavlov riceverà l’ordine di trasferirsi alla Base Segreta, io lascerò il Tempio e andrò direttamente da Mohadran.»

I lavori procedevano a un ritmo febbrile. L’Imperatore aveva i suoi informatori, e

sapeva che l’obiettivo stava per essere raggiunto. Mohadran, a sua volta, cercava di tenersi informato sui preparativi bellici dell’Imperatore, e la notizia del movimento di armamenti pesanti verso la Base Segreta lo fece infuriare. «L’imperatore non può mandare qui un convoglio così imponente. Non ora!» Arrivò un secondo messaggero. «Un altro convoglio si trova a nord-est, e sembra che si stia dirigendo qui. Ci potrebbe raggiungere in meno di quattro giorni.» Il convoglio da est era più piccolo, ma molto più vicino. Mohadran si precipitò dall’Imperatore e, grazie a speciali lasciaare, raggiunse immediatamente la Sala del Trono. «Voi state vanificando il lavoro di undici anni! Avete forse deciso di rinunciare all’impresa?» L’Imperatore balzò in piedi. «Sei impazzito?» Nessuno aveva mai osato entrare non invitato nella Sala del Trono e, soprattutto, rivolgersi a lui con quel tono. «Mezzi corazzati e lancia missili diretti verso il confine dell’Impero Romano! Una provocazione intollerabile! Volete scatenare un conflitto?» L’Imperatore si rese improvvisamente conto di una possibile interferenza da parte dell’Impero Romano. «Fuori!» ordinò ai suoi consiglieri. «Fuori tutti!» Si avvicinò a Mohadran. «Sei tu che hai messo la Base vicino al confine. Come dovrei arrivarci? Con una galleria sotterranea?»

Mohadran colse il sarcasmo di quella domanda e cercò di spiegare la sua preoccupazione. «Far convergere due convogli di armamenti pesanti sulla Base Segreta è come fornire al Mondo una mappa con indicato il punto dove sta per accadere qualcosa di eccezionale.» «Questo è possibile,» ammise l’Imperatore, «ma non vedo alternative.» «Fate allontanare il convoglio che ci sta raggiungendo ad almeno un giorno di distanza dal confine, e fate convergere il secondo convoglio nello stesso punto. Fateli scontrare tra loro, per simulare un’esercitazione militare.» L’Imperatore accettò il suggerimento e capì che doveva agire rapidamente. Contattò subito in video-conferenza il Capo Supremo delle forze armate e i Generali comandanti dei due convogli, per ordinare quanto di più simile a un’esercitazione militare. Scelse quindi con loro una località a un giorno di distanza dal confine. Mohadran si sentì sollevato e il suo tono divenne pacato e rispettoso. «Quando saremo pronti, Voi raggiungerete i due convogli, ufficialmente per premiare la squadra vincente, in realtà per trasferirvi tutti alla Base Segreta. Se il trasferimento sarà fatto in meno di ventiquattrore, non potrà esserci alcuna interferenza esterna, perché qualsiasi azione richiederebbe tempi più lunghi.» L’Imperatore dovette convenire sull’opportunità di procedere come suggerito. Notò il cambiamento di tono di Mohadran e riprese autorevolezza. «Quando saremo pronti… Quando saremo pronti… Dovevamo essere già pronti ora! Tu stai abusando della mia pazienza. Si può sapere quando sarà pronta questa maledetta macchina?» «L’obiettivo in realtà è già stato raggiunto. Abbiamo collaudato il Cronotrone una prima volta con un balzo di otto minuti, e proprio ieri abbiamo fatto con successo il secondo balzo, di tre ore. Tuttavia dobbiamo realizzare un balzo di oltre un secolo, e dobbiamo trasferire molto più materiale e più persone. Stiamo quindi potenziando alcune macchine, e altre vanno rifatte con adeguati miglioramenti tecnici.»

Mohadran confermò così le informazioni che l’Imperatore aveva già ricevuto. Infatti Mohadran non gli aveva mai mentito, perché sapeva che tra il personale della Base si nascondevano alcune spie dell’Imperatore. «Dobbiamo completare la dotazione di alcuni laboratori. C’è poi la realizzazione di alcune apparecchiature di nuova progettazione, che richiede ancora un po’ di tempo. Tra due mesi trasferiremo le armi leggere, più numerose, e quelle pesanti seguiranno subito dopo, con i militari. Il trasferimento della Vostra Altezza Imperiale avverrà soltanto il giorno prima del grande salto; questo per motivi legati alla Vostra sicurezza e alla segretezza della nostra Missione. La data della partenza è prevista fra tre mesi, con un’approssimazione di dieci giorni.» L’obiettivo era quindi a portata di mano, ma faceva parte del ruolo dell’Imperatore mostrarsi comunque insoddisfatto. «Ancora così tanto? Dai progressi fatti, e soprattutto da quello che mi è costato finora questo tuo progetto, mi sarei aspettato di partire entro il prossimo mese!» «Ci siamo concentrati sulla macchina e abbiamo trascurato altri aspetti importanti della Missione. Occorrono ancora due mesi per completare alcuni laboratori, e il Cronotrone dovrebbe agire su un raggio di dieci chilometri, per portarci indietro di circa due secoli. Questi dati sono solo indicativi, perché dobbiamo ancora eseguire una lunga serie di controlli per la messa a punto della macchina.» «Quanto tempo ancora?» tagliò corto l’Imperatore. «Se il salto nel ato sarà di due secoli, non troveremo carburante per le nostre macchine e le scorte che potremo portare saranno necessariamente limitate. Sappiamo dove sono i giacimenti, ma avremo bisogno di laboratori di chimica e metallurgia. Ora abbiamo soltanto una piccola unità di pronto soccorso, ma avremo bisogno di un ospedale con attrezzature moderne.» l’Imperatore era diventato impaziente e doveva comunque mostrarsi esigente. «Faremo a meno dell’ospedale. Il pronto soccorso sarà sufficiente.» «Ci saranno delle battaglie e un ospedale completo è indispensabile.» Era rischioso contraddire l’Imperatore. Così si affrettò ad aggiungere: «L’ospedale in realtà serve per un altro scopo. Diffonderemo la notizia che si è sviluppato un

virus letale di natura sconosciuta in un paese vicino alla Base, e lo faremo isolare dai militari. Vi trasferiremo l’ospedale e quanto necessario alla spedizione come parte dell’ospedale stesso. Quando saremo pronti, estenderemo la superficie isolata fino alla Base e vi trasferiremo ospedale e laboratori. E’ a questo punto che faremo convergere gli armamenti pesanti sulla Base, e non importa se questo desterà dei sospetti, perché realizzeremo il salto nel ato prima che sia possibile una qualsiasi interferenza». Il piano piacque all’Imperatore. «Cinque settimane. Deve essere tutto pronto in cinque settimane.» Doveva essere chiaro che era lui il Capo Supremo; non gli piaceva constatare che Mohadran stava acquistando troppa autorità, e una crescente autonomia. «Cercheremo di pianificare tutto per questa scadenza,» concesse Mohadran, «e farò il possibile per rispettarla, anche se obiettivamente è troppo vicina.» «Cinque settimane,» ripeté l’Imperatore, «e non ti venga in mente di fare qualcosa di cui doverti pentire.» Mohadran capì che l’Imperatore temeva di essere escluso e cercò di rassicurarlo. «Come sarebbe possibile conquistare il Mondo senza Voi e i Vostri generali?» L’Imperatore non rispose. Fece solo un gesto di congedo. Mohadran si sprofondò in un inchino e lasciò la Sala del Trono. Conosceva bene l’Imperatore e la sua gretta mentalità, e di solito riusciva a prevederne le reazioni per gestire gli incontri in modo da ottenere quanto necessario alla Missione. Ma l’ultima frase lo colse di sorpresa, e la possibilità di una rappresaglia lo preoccupava: se il salto nel ato fosse avvenuto senza l’Imperatore, un suo incaricato nella Base avrebbe potuto distruggere tutto. Sulla via del ritorno disse a Toshiro: «L’Imperatore ha fatto nascondere un ordigno nucleare nella Base. Bisogna trovarlo». Quella notizia spaventò Toshiro. «Non sarà facile disattivarlo. Non abbiamo le competenze necessarie.»

«Non dovete fare nulla. E nessuno deve accorgersi che l’avete trovato. Devo solo sapere dov’è esattamente. Al resto penserò io.»

Gli indicatori principali del Cronotrone erano due: il primo indicava l’intervallo di tempo per il salto nel ato, con scala tra zero e 200 anni; il secondo il raggio d’azione, che poteva arrivare fino a dieci chilometri. Naturalmente bisognava stare sotto questi limiti e, a parità di potenza, l’aumento di uno dei parametri comportava la diminuzione dell’altro. Erano ati nove giorni dall’ultimatum dell’Imperatore, quando Toshiro riuscì a individuare dov’era nascosta la bomba a fusione. La sua sistemazione logica era nasconderla vicino al Cronotrone, ma quella zona era particolarmente sorvegliata; così Toshiro iniziò le ricerche a partire da un chilometro di distanza, muovendosi verso l’esterno. Nonostante i sofisticati strumenti di rilevamento di cui disponeva, i tempi erano stati relativamente lunghi, perché aveva dovuto procedere con estrema discrezione. “Si trova a 2430 metri”. Mohadran sapeva bene il significato del messaggio di Toshiro, e la notizia del ritrovamento dell’ordigno gli permise di pianificare la fuga. Le cose più importanti erano già attorno al Cronotrone, ad eccezione dell’ospedale. Alla fine della terza settimana, Mohadran fece trasferire il solo laboratorio di genetica. Subito dopo convocò una riunione di lavoro, estesa a tutto il personale indispensabile per la Missione e, naturalmente, ai pochi monaci rimasti, che erano stati inseriti nel laboratorio di Pavlov. La Sala Riunioni era gremita, una chiara indicazione dell’importanza di quella convocazione. Mohadran tuttavia si attardava al Cronotrone, dove fu raggiunto dal Lama Elì. La guardia di turno lo scortò da Mohadran. «Questo ragazzo insiste per vedervi. Dice che è importante.» «Sì. E’ un amico al quale avevo promesso di mostrare la macchina.»

Cominciò a descrivere il Cronotrone, davanti alla guardia e al resto del personale. «…se io regolo il raggio d’azione, per esempio, a un chilometro, e metto il tempo al massimo…». Soltanto Mohadran sapeva che il fondo scala corrispondeva in realtà a duemila anni, non i duecento indicati dallo strumento. «…e se premo questo pulsante…». Non completò la descrizione che il Lama attivò il salto nel ato, come avevano pianificato insieme, in segreto. Le persone convocate nella Sala Riunioni si resero conto che era successo qualcosa ma, essendo il salto nel ato un’esperienza nuova, nessuno sapeva cosa fosse veramente accaduto. L’aspettativa era grande e l’ingresso di Mohadran nella Sala fu accolto con un applauso. «C’è stato un incidente!» comunicò subito Mohadran. «Durante uno dei necessari collaudi del Cronotrone, si è verificato un balzo nel ato di entità molto superiore a quanto programmato.»

Cap. 6 – Primo contatto

Davanti all’Assemblea Mohadran dichiarò: «Ci vorrà qualche giorno per valutare l’entità e le possibili conseguenze di questo incidente». Aveva volutamente limitato l’informazione, ma sapeva che il salto era stato di circa venti secoli. Non sapeva tuttavia quante persone erano state incluse e, soprattutto, non sapeva quale area era stata trasferita, perché la preoccupazione di escludere la bomba l’aveva indotto a limitare il raggio d’azione della macchina, che poteva essere inferiore al chilometro. La limitazione dell’area trasferita era anche conseguenza della scelta di tornare il più possibile indietro nel tempo. «Ognuno di voi si sottoporrà a controllo medico,» continuò, «ed appena avremo un quadro più preciso della situazione, faremo un’altra riunione per i necessari cambiamenti del programma. Ora ognuno torni alle proprie mansioni e si prenoti con il dottor Pavlov per la visita medica.» Mohadran tornò immediatamente al Cronotrone, dove trovò Elì trattenuto dalle guardie. «Lasciatemi solo con lui» disse. Uscite le guardie, Mohadran manifestò finalmente la soddisfazione per il successo ottenuto. «Eccellente! Non ho ancora dati precisi, ma ci siamo! Tutto secondo i piani.» Così dicendo, aprì un pannello della macchina per estrarre il microprocessore che conteneva programma e dati per i viaggi nel tempo e lo distrusse. «Ecco. Ora nessuno potrà più usare questa macchina.» Poi chiese a Elì: «Sei sicuro di poter individuare le spie dell’Imperatore?». «Sì, anche se non ho ancora i poteri del vecchio Lama. Per lui fu sufficiente toccarti una tempia per avere accesso alla tua mente.»

Mohadran ricordò quel particolare della sua visita e capì come il Lama avesse potuto seguire a distanza i progressi che si ottenevano sul progetto. «Io ho bisogno di altro tempo e molta disciplina, ma raggiungerò dei poteri ancora più grandi. Ora, devo ancora appoggiare la mia fronte sulla fronte di ciascuno e toccarne le tempie con entrambe le mani. Solo così posso avere accesso alla sua mente.» «Ho chiesto che tutti si sottopongano a controllo medico, perché non sappiamo che conseguenze può portare un trasferimento nel ato. Ma quello che proponi è un procedimento inconsueto che può generare perplessità.» «Dopo i normali controlli medici, quando il paziente è ancora steso sul lettino dell’ambulatorio, con il viso e il petto coperti dai sensori delle sonde, io gli toccherò le tempie e la fronte, e non potrà rendersi conto di cosa viene fatto. Solleverò la mano destra in segno di approvazione, e le abbasserò entrambe se percepirò il controllo dell’Imperatore.»

La verifica delle conseguenze del salto nel ato portò ai seguenti risultati: erano tornati agli albori dell’Impero Romano; poco meno di un chilometro il raggio d’azione; esattamente 1248 le persone trasferite. Di queste, soltanto due risultarono essere spie dell’Imperatore; semplici informatori, poiché ignoravano l’esistenza della bomba. Sarebbe stato quindi sufficiente, per il successo della Missione, affidar loro delle mansioni secondarie. Era l’anno 730 dalla fondazione di Roma (ab urbe condita), con Ottaviano Augusto impegnato a prendere il controllo di Roma e diventare, qualche anno dopo, il primo imperatore del più grande impero della Terra, che avrebbe compreso più di metà dell’intera umanità. Era quindi un periodo favorevole, e sarebbe stato sufficiente distruggere Roma per avere il dominio completo del Mondo, con lo scopo di imporre la pace. Mohadran fu molto soddisfatto di questi risultati, ma il suo entusiasmo svanì molto presto. Dovette infatti constatare che molte cose utili per la Missione erano rimaste tagliate fuori, e questo avrebbe dilatato i tempi per il raggiungimento degli obiettivi. Se ne lamentò con Toshiro. «Saranno necessari molti anni per rendere completamente operativa questa Base.

Non abbiamo più i satelliti per le comunicazioni, per la navigazione e per le previsioni del tempo. Niente armi pesanti e le armi leggere che abbiamo sono troppo poche per qualsiasi azione. Presto finiranno le scorte di cibo e carburante.» Toshiro cercò di essere più positivo. «Si può fare già molto entro un raggio d’azione limitato. E’ vero: ci vorranno anni. Ma nessuno ha mai pensato a questo traguardo come conclusivo, perché è in realtà soltanto l’inizio della nostra Missione. Tutto ciò di cui avremo bisogno lo troveremo sul posto, e i monaci si sono fatti carico del rifornimento delle cose più comuni, soprattutto cibo.» «Vuoi dire che disponiamo già di cibo locale?» «No, ma hanno inviato il loro migliore interprete in un paese isolato e molto tranquillo, Nazareth. Naturalmente ci saranno problemi di pronuncia e, all’inizio, dovrà ascoltare molto e parlare poco. Si è presentato loro come mercante e non è necessaria una perfetta conoscenza della lingua per scambiare piccoli manufatti con del cibo.» «Piccoli manufatti?» chiese Mohadran incuriosito. «Sì, come qualche vaso e delle stoffe. Sai, cose che noi possiamo produrre facilmente e di qualità superiore a quella delle cose fatte a mano che conoscono loro. Penso che avremo presto del cibo locale.»

Johakim non era un semplice venditore di stoffe. Il suo vero compito era osservare e riferire. Il paese, per quanto piccolo, aveva un Tempio con annessa sala per la preparazione dei bambini al Bar Mitzwah, la cerimonia della maturità, la cui celebrazione avveniva a circa undici anni. Isachar, il sacerdote di quel Tempio, era rimasto vedovo qualche anno prima e aveva una figlia ormai adolescente, non ancora promessa sposa. Il Lama Elì apprese questa notizia con interesse: quella ragazza avrebbe potuto essere la sposa ideale per Johakim, che in questo modo si sarebbe integrato tra la gente

del paese. Oltretutto, cominciava a essere difficile vendere, perché chi poteva comprare, aveva già comprato. Così un sabato, mentre il sacerdote leggeva la Torah, Johakim entrò nel Tempio. Quell’intrusione non fu bene accolta e il sacerdote interruppe la lettura. Johakim ripeté le sue ultime parole e continuò a recitare a memoria il brano della Torah tra la meraviglia di tutti. S’interruppe però dopo poche righe e fece cenno al sacerdote di continuare la lettura. L’interruzione non era stata causata da scarsa memoria, ma dalla difficoltà della pronuncia. L’aramaico era abbastanza diverso dal dialetto locale, che ormai conosceva molto bene. Al termine della funzione, gli uomini abbandonarono il Tempio, eccetto Johakim. «Sì?» chiese il sacerdote, fissandolo. «Il mio Signore, il Lama Elì, chiede udienza.» Isachar fece spallucce, allargando le braccia; poi disse: «Fallo entrare». «Ti prego di essere paziente con me. Vorremmo essere ricevuti nella tua casa, perché qui potrebbero tornare degli uomini a curiosare.» In effetti, alcuni uomini si erano fermati davanti al Tempio, perché avevano visto arrivare dei cavalieri. Il sacerdote acconsentì e uscirono dal Tempio, e si stupì di trovare cavalieri armati, con vestiti di ottima fattura, tutti uguali. Spiccava tra loro un giovane, non armato, vestito in modo più semplice, con uno strano copricapo giallo, e fu l’unico a seguirli nella casa. La casa di Isachar aveva il primo piano in pietra e il resto in mattoni di fango e paglia, che costituivano il materiale principale con cui erano fatte le altre case del paese, tutte su un unico livello. I tetti erano invece tutti uguali: legno e frasche. «Benvenuti nella mia casa» disse Isachar.

«M’inchino a te, Maestro» rispose Elì congiungendo le mani e accennando un inchino in un tipico saluto orientale. Quel saluto, in aramaico, impressionò il sacerdote, ma fu necessario l’intervento di Johakim come interprete, per le solite difficoltà di pronuncia. Il sacerdote batté le mani e comparve la figlia Anna, alla quale chiese di servire del latte acido agli ospiti. Elì alzò la mano destra ed entrarono due uomini con i doni: una piccola borsa di pelle con monete d’oro e d’argento, e un oggetto che sorprese e incuriosì Isachar; era un blocco di legno finemente intarsiato, delle dimensioni di un piccolo poggiapiedi. Lo sollevò per guardare il fondo, che invece era perfettamente liscio. Su uno dei lati c’erano due piccole sporgenze metalliche, che si rivelarono essere delle cerniere. Fu Johakim ad aprirlo, e un intenso profumo d’incenso, non percepibile prima, invase la stanza. «E’ uno scrigno!» esclamò Isachar. «Uno scrigno pieno di prezioso incenso!» Johakim lo richiuse. Il sacerdote lo sollevò all’altezza degli occhi per vedere bene il punto di apertura, ma non riuscì a individuarlo: la chiusura era nascosta tra le volute delle incisioni ed era così perfetta da non lasciare uscire il profumo dell’incenso. Lo posò e ripeté ciò che aveva fatto Johakim, e il suo volto s’illuminò quando vide il coperchio sollevarsi. Lo richiuse immediatamente e disse: «Questo è un dono degno di un re! Neanche il Tempio di Gerusalemme ha mai avuto niente di simile. Come posso ricambiare? Non ho nulla che valga tanto!». «…e tanto ti chiedo: chiedo tua figlia come sposa per Johakim.» La terribile pronuncia dell’aramaico di Elì non evitò la piena comprensione di quella richiesta. «La mia bambina!» esclamò Isachar terrorizzato. «Non potete portare la mia bambina in un paese lontano!» Elì e Johakim si guardarono, sorpresi per quella reazione. Isachar percepì il disagio e tentò di spiegare: «Ho solo lei. E’ solo una bambina. Ha bisogno di me. Ho bisogno di lei. Vi prego…».

La prima reazione era stata di paura, ma spontanea. Ora Isachar li supplicava. Quegli uomini armati, là fuori… avrebbero semplicemente potuto portargliela via. Fu Johakim a spiegare: «Tua figlia non lascerà questa casa. Sono io che verrò a vivere con voi. La casa è molto grande ed io sono abbastanza ricco da poter provvedere per tutti. Tu sei indispensabile perché Anna non si senta troppo sola quando io sarò in viaggio e, soprattutto, la tua saggezza e la tua cultura saranno preziose per i nostri figli». Isachar si calmò, anche se gli rimase un fondo d’angoscia. La richiesta di Johakim era accettabile, addirittura allettante, ma cosa sapeva di lui? E quella strana tribù, con quel giovane sovrano. Gli era stato riferito che quel mercante era onesto e corretto, e ora sapeva che conosceva bene la Torah. Fu quest’ultima cosa a farlo decidere. Acconsentì alle nozze, anche perché dovette constatare di non avere altra scelta. Le nozze e la festa che ne seguì furono eventi memorabili per quel piccolo paese, perché il sacerdote era, in effetti, il vero capo del villaggio. Johakim e i suoi amici portarono ricchi doni, che abbellirono la casa degli sposi. La partecipazione della gente della Base fu volutamente molto limitata e non era presente alcun parente di Johakim, che spiegò di avere ormai solo la madre, troppo vecchia per partecipare alle nozze. Così, Anna e Johakim lasciarono Nazareth subito dopo le nozze, perché la sposa potesse essere presentata alla madre dello sposo.

Mohadran era molto occupato nei lavori necessari per rendere la Base completamente operativa. Così rimase molto sorpreso quando il Custode Prabhorak gli chiese aiuto per realizzare un villaggio, una messinscena, per ricevere un personaggio di Nazareth. «Il Lama Elì ha deciso di utilizzare una ragazza del luogo per ricevere l’embrione che ha scelto. Così uno dei nostri osservatori l’ha sposata e la porterà qui.»

«Un monaco buddista che si sposa?» chiese Mohadran, sorpreso. «Johakim non è ancora un monaco e forse non lo diventerà. Questo è irrilevante. Il Lama Elì ha incontrato questa ragazza e l’ha scelta per la nostra Missione.» «Non so se vi capirò mai! Va bene che abbiamo con noi pochissime donne, e nessuna di loro può considerarsi più una ragazza, ma prenderne una di duemila anni fa? La sua intelligenza non sarà certamente paragonabile a quella delle nostre scienziate.» «Credo che la ragione principale di questa scelta sia la volontà che il nascituro si integri completamente nel paese nel quale dovrà operare. La ragazza è figlia di un sacerdote e certamente non è un’analfabeta, anzi, conosce molto bene le cose che serviranno veramente.» «Capisco.» disse Mohadran, accettando la spiegazione, anche se relativamente vaga. «Uno di voi non potrebbe avere successo, non tanto per la lingua ma piuttosto per il linguaggio. State facendo un ottimo lavoro per gli approvvigionamenti, ma non riesco a immaginare uno di voi che chieda un analgesico o del propellente per aeromobili, anche se sono cose che ci servono.» Mohadran convocò il suo ingegnere capo e i tre progettarono un villaggio fatto di tende, ai margini del deserto, non molto lontano dalla Base.

Cap. 7 – La nascita di Maryam

Quando gli sposi e i loro amici-scorta arrivarono al villaggio, trovarono solo delle tende enormi, quasi case di stoffa. La tenda che accolse gli sposi aveva un doppio tetto e il pavimento completamente ricoperto da preziosi tappeti e morbidi cuscini. Johakim affidò Anna a due robuste assistenti che a stento riuscivano a farsi capire. «Queste donne ti aiuteranno a prepararti per la cena. Fai tutto ciò che ti chiederanno di fare.» Condussero Anna in una tenda più piccola che conteneva due vasche d’acqua. Le due donne la aiutarono a spogliarsi e a entrare in una delle vasche, dove cominciarono a lavarla con una schiuma strana, lattiginosa e profumata. Poi la deposero di peso nella seconda vasca, con acqua pulita, per rimuovere completamente la schiuma, aiutandosi anche con acqua tiepida versata dall’alto con dei mestoli. Anna si chiese dove prendessero tutta quell’acqua in pieno deserto. L’asciugarono con dei panni spessi e morbidi, la vestirono con abiti sontuosi e l’adornarono come una principessa. Da quel momento, Anna non toccò più terra con i piedi. C’erano sempre tappeti e cuscini, e all’esterno delle tende veniva portata su una piccola portantina. Quel trattamento da regina la lusingava e attenuava la tensione per tutte quelle cose nuove. Fu portata nella grande tenda, dove trovò i commensali già sistemati in cerchio. Ogni quattro persone c’era un aggio per chi doveva servire. Al centro del cerchio, appesi con delle corde, c’erano dei grandi lumi a olio. Anna fu accompagnata al suo posto, a fianco della madre di Johakim, che la accolse con dei complimenti in sanscrito, tradotti da Johakim.

«Benvenuta, figlia mia. Sei più bella di quanto ci era stato detto. Avrai una vita lunga e felice e vedrai molte cose meravigliose.» «Grazie. Ho già visto cose meravigliose, qui.» rispose Anna sorridendo. Il Sole era appena tramontato, ma rimaneva ancora un certo chiarore nel cielo. Iniziò la cena e Anna notò subito che non usavano vino. In compenso il cibo era straordinario per la varietà dei sapori: pietanze colorate, mai viste, tutte squisite. Alcune erano piccanti, e Anna fu messa in guardia. Assaggiò un po’ di tutto e, come ogni adolescente, indulse sui dolci. La stanchezza e le tante emozioni fecero addormentare Anna tra le braccia di Johakim, che la sollevò delicatamente e la portò in una tenda preparata per la notte. Si addormentò steso accanto a lei, rimanendo anch’egli vestito.

Il giorno dopo, Johakim condusse Anna a vedere alcune delle cose meravigliose provenienti da paesi lontani, in una specie di mercatino all’aperto. Tutti li salutavano con grande rispetto e Anna pensò che Johakim dovesse essere un personaggio molto importante o molto ricco, forse entrambe le cose. Non poteva certo immaginare che la persona veramente importante fosse proprio lei. Al mercatino incontrarono una donna molto cara a Johakim, che la presentò ad Anna. «Questa è Elisabetta, la figlia di mia sorella maggiore. E’ solo sei anni più giovane di me e siamo cresciuti insieme. In realtà, è come una sorella per me.» «Johakim mi ha parlato tanto di te. E’ proprio innamorato. Mi sta insegnando la tua lingua.» Anna corresse la pronuncia di Elisabetta e risero insieme. Elisabetta si unì a loro e aggiunse le sue spiegazioni a quelle di Johakim. Per quel poco tempo trascorso insieme, Anna ed Elisabetta divennero molto amiche e, a un certo punto, erano loro a girare per il mercatino, con Johakim che le seguiva.

S’imbatterono in Sheila. Un incontro apparentemente casuale, ma in realtà programmato. «Sheila, questa è la mia sposa Anna.» «Felice di conoscerla.» «Anna, questa è Sheila, assistente del nostro governatore.» Intimorita dal titolo, Anna fece un profondo inchino e mormorò: «Shalom». Sheila sorrise per tutta quella deferenza. «Ma no!» esclamò, «Gli amici di Elisabetta sono miei amici. Voglio essere tua amica.» Sheila si trattenne qualche minuto con loro e non mancò di fare qualche complimento a Anna. Poi si congedò e li lasciò continuare il loro giro.

Anna ò l’intera giornata con Johakim, che era sempre molto premuroso. Era un po’ rammaricata di aver ceduto al sonno la notte prima, ma era contenta che Johakim avesse pazientato e non l’avesse svegliata. Ricordò le parole del padre: “I giovani sono spesso irruenti. E’ possibile che il primo rapporto sia doloroso”. Ora invece sentiva che sarebbe stato dolce. Così la notte si accoccolò tra le sue braccia e attese, ma fu Johakim a cadere subito in un sonno profondo. Il terzo giorno Johakim la condusse in una tenda con strane apparecchiature, dove furono ricevuti da Pavlov e da due sue assistenti. Sottoposero Anna a vari esami, che sembravano una messinscena per una specie di gioco. Ci rimase male quando le punsero un dito per prelevare una goccia di sangue. Johakim le spiegò che faceva tutto parte di un loro rituale di buon auspicio per una vita di benessere e prosperità. La sera il cibo fu servito nella loro tenda, e i dolci contenevano un sonnifero. Furono aiutati ad adagiarsi sul loro giaciglio e caddero in un sonno profondo.

Poco dopo Anna fu portata nel laboratorio di Pavlov, dove Elì confermò la scelta dell’embrione, che fu inserito in Anna. Il mattino dopo, Anna si svegliò con il sole già alto, e trovò Johakim alle prese con i preparativi del viaggio. I dolci li aveva volutamente appena assaggiati e si era quindi svegliato prima. «Devi partire?» chiese Anna. «Sì. Torniamo a Nazareth. Presto dovrò riprendere il mio lavoro.» Durante il viaggio, Johakim sembrava particolarmente felice. Raccontava di paesi lontani, di genti e costumi diversi, descrisse tigri ed elefanti, e frutta mai vista a Nazareth. Era affascinante. Anna lo ascoltava con attenzione, ma taceva: qualcosa la tormentava. Quando furono in vista del paese, si decise a parlare: «Perché mi restituisci a mio padre? Che cosa hai trovato in me, che non va?». «Perché dici questo? Tu sai che ti amo.» «La prima notte mi sono addormentata io, la seconda ti sei addormentato tu, la terza di nuovo io. Tre notti e… non è successo niente!» Johakim finse sorpresa. «Ma è successo ieri notte!» esclamò. «Possibile che non lo ricordi?» La sorpresa di Anna era invece autentica. «Non ho sentito dolore!» disse ricordando le parole del padre. «Dovevi farmi male.» «Come avrei potuto? Ti amo troppo per farti del male. Tu eri troppo stanca, ed io sono entrato in punta di piedi, se così posso esprimermi.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Non devi mai dubitare del mio amore; io ti sarò sempre vicino, per tutta la vita. Anche se il mio lavoro potrà temporaneamente allontanarmi da te, tu sarai sempre nei miei pensieri». Anna si strinse a lui, sentendosi rassicurata. Era solo una bambina e avevano

un’intera vita davanti. Il padre Isachar fu felice di riabbracciarli, e apprezzò molto i doni che gli sposi gli portarono. Rimase però molto male, quando Johakim si accomiatò qualche ora dopo per riprendere il viaggio. «Tornerò presto» promise. «Isachar veglierà su di te.» ò invece quasi un mese e quando tornò, c’erano Pavlov e le sue assistenti con lui. Presero gli strumenti dal carro ed esaminarono Anna, lasciando Isachar esterrefatto per tutte quelle cose nuove. Johakim rinnovò la storia del rituale della sua gente e Pavlov, a conclusione della visita, predisse la nascita di una bambina. Isachar pensò che Pavlov fosse una specie di sacerdote con poteri divinatori. Naturalmente fu felice per la notizia. Anna era molto giovane e figli maschi ne sarebbero certamente arrivati. Inoltre un’altra donna in casa sarebbe stata di grande aiuto. Purtroppo Isachar non visse abbastanza a lungo da assistere alla nascita della bambina e la sua morte costrinse Johakim a rinunciare ai suoi viaggi. Divenne ancora più affettuoso con Anna, che amava teneramente, ma venne il giorno che dovette dare delle spiegazioni. «Il mio comportamento non è solo prudenza per il tuo stato. La verità è che qualche tempo prima di conoscerti, io feci voto di castità per diventare monaco, una specie di sacerdote dedito allo studio dei libri sacri e alla preghiera.» «Come gli Esseni?». Anna ricordò che il padre Isachar le aveva parlato con ammirazione di questo popolo molto religioso che incoraggiava i propri giovani alla castità e al celibato. Gli Esseni si erano isolati allontanandosi da Gerusalemme, perché ritenevano il modo di vivere dei membri del Sinedrio non sufficientemente conforme alla Legge di Mosè. «Beh, sì, qualcosa di simile, pure molto diverso. Il mio matrimonio con te è stato un evento eccezionale, voluto esclusivamente per la bambina che nascerà. Lei avrà un ruolo fondamentale per il futuro di noi tutti.»

«Io ti amo troppo, Johakim, e farò qualsiasi cosa mi chiederai. Ti prego soltanto di non lasciarmi.» «Come potrei? Anch’io ti amo, ora più che mai. D’ora in poi ci dedicheremo esclusivamente all’educazione e al benessere della bambina, e sarà la mia gente a provvedere a tutto ciò di cui avremo bisogno. In realtà lo stanno già facendo.» In effetti, dalla morte di Isachar le visite degli amici di Johakim erano diventate piuttosto frequenti e, occasionalmente, le assistenti di Pavlov controllavano come procedeva la gravidanza. ato l’ottavo mese, si trasferirono alla Tendopoli, dove Anna ricevette l’assistenza competente dei medici della Base. La nascita di Maryam fu accolta con entusiasmo da tutti. Quante attenzioni, quante cure, e ora… la gioia di tutto un popolo. Anna cominciò gradualmente a rendersi conto che la sua bambina era veramente speciale.

Dieci giorni dopo la nascita, portarono la bambina nella piazza della Tendopoli. Al centro c’era una grande vasca circolare circondata da un’impalcatura di legno. C’erano centinaia di persone, ma la folla si aprì per lasciarli are. Tra i personaggi presenti sull’impalcatura, Anna riconobbe soltanto Pavlov e Sheila. Elì entrò nella vasca, prese la bambina dalle braccia di Anna e la immerse nell’acqua. «L’acqua delle sorgenti del sacro fiume Giordano ti accoglie e ti santifica.» proclamò a voce alta. Poi la sollevò in alto dicendo: «I Cieli e la Terra ti danno il benvenuto, o Maryam, la prescelta». Mohadran, tra i personaggi presenti sull’impalcatura, trasalì: «Maryam? Ma è una femmina!». Quella nascita tanto attesa avrebbe dovuto portare un condottiero. Quel commento, ad alta voce, esprimeva sorpresa e delusione, ma fu ignorato da

tutti. Mohadran non attese la conclusione della cerimonia, e si allontanò infuriato. La cerimonia continuò con ringraziamenti e lodi al Dio di Israele. Per la prima volta Elì parlò in pubblico di Dio, con esplicite citazioni dalla Torah, per creare un riferimento per Anna, che viveva tutto questo come un sogno.

Quando Elì tornò nel suo studio, vi trovò Mohadran ad attenderlo. «Cosa ti è saltato in mente? Una femmina! Non c’è mai stata una donna condottiero. In questo tipo di società poi… Non la accetteranno mai!» Elì si stava togliendo con calma i paramenti indossati per la cerimonia. «Hai ragione: la guida non può essere una donna!» Mohadran notò la correzione da condottiero a guida e, soprattutto, l’esordio di Elì. Chi comincia dandoti ragione, di solito finisce con il prendersela. «Non è lei, e mi dispiace che tu ti fossi fatta questa idea. Quella bambina sarà la madre di colui che avrà il potere e la sapienza per salvare il Mondo.» Mohadran era esterrefatto, e un rapido calcolo lo portò a protestare. «Io non ho l’aspettativa di vita di voi Lama e vorrei vedere qualche risultato prima di arrivare alla demenza senile… o alla morte. Questo me lo devi!» «…e così sarà.» promise Elì. Cercò di spiegare le scelte fatte. «La verità è che non siamo ancora pronti. Tu, scopri continuamente che mancano delle cose, o che altre non funzionano come dovrebbero, e tu stesso hai ammesso che ci vorrà molto tempo prima che la Base sia completamente operativa. Io, ho bisogno di almeno altri dieci anni perché i poteri della mente si sviluppino completamente. E’ vero che io sono la reincarnazione del vecchio Lama, ma il corpo e la mente stanno ancora crescendo.»

Mohadran dovette ammettere che i tagli resi necessari per escludere la bomba avevano portato molti più problemi di quanto si aspettasse. «Quando la Base sarà completamente operativa, da poterla affidare ai tuoi ingegneri,» continuò il Lama, «tu potrai fermare il tempo in una delle capsule di ibernazione. E’ un mio preciso impegno, e una promessa che posso farti, che tu assisterai al compimento della Missione.» Mohadran si era un po’ calmato. Aveva dimenticato le capsule in cui rallentare la fisiologia del corpo fin quasi a fermarla. Si potevano guadagnare molti anni con quel procedimento, ma non gli era mai piaciuta la prospettiva della lunga riabilitazione necessaria dopo il risveglio. Infatti, la grave atrofia della muscolatura lo avrebbe reso disabile per molto tempo, proprio quando sarebbe stata necessaria la massima efficienza.

Cap. 8 – La scelta di Mohadran

Mohadran era rimasto deluso per la nascita di Maryam e insoddisfatto delle spiegazioni del Lama. Quanto era successo continuava a riaffiorare nella sua mente, riaccendendo a volte l’ira provata. Una sera se ne lamentò con Pavlov. «Mi sento preso in giro da quel ragazzo! Temo che le nostre differenze di cultura e di carattere porteranno a dei contrasti pericolosi.» Pavlov aveva scoperto il vino locale e non era del tutto sobrio. Aveva ascoltato pazientemente lo sfogo di Mohadran, ma aveva l’impressione che stesse dando troppa importanza all’accaduto. «Pericolosi? Come, pericolosi?» «Pericolosi per il successo della Missione. Io mi aspetto un conquistatore come Alessandro il Macedone, ma lui… lui vuole Buddha. Se ci sono due capi, che anziché spingere nella stessa direzione… è necessario avere le idee chiare ed è indispensabile avere una strategia comune.» «Vuoi dire che siete venuti per salvare il Mondo, ma non sapete cosa fare?» chiese Pavlov. «Il vecchio Lama disse che sapeva esattamente cosa andava fatto, ma non ho mai saputo cosa avesse in mente. Io ho lavorato duramente per portarvi indietro nel tempo. Ora devo rendere la Base operativa. Sinceramente non ho mai neanche provato a pensare a possibili strategie.» «E il giovane Lama?» «Lui dice che sta ancora sviluppando i poteri della mente. Queste cose sono al di là della mia comprensione.» «Segue con attenzione il mio lavoro.» commentò Pavlov. «Qualche volta viene personalmente in laboratorio.»

«Perché il tuo lavoro è così importante per lui? Mi spieghi cosa stai facendo esattamente?» «Esaminiamo centinaia di embrioni e portiamo al Lama quei pochi che risultano perfetti agli esami che possiamo fare con i nostri strumenti. Vedi, noi possiamo dirti se un embrione darà un corpo perfetto, ma la mente è troppo complessa. Il Lama invece… li avvicina alla fronte e… “sente” cosa diventeranno. Sta cercando l’essere perfetto.» «Possibile che in tutti questi anni abbia scelto soltanto un embrione? Ed è una bambina!» «Una pianta perfetta cresce come tale solo se il terreno è perfetto: lui ha solo preparato il terreno.» «Sì. Rimane sempre il fatto che in tutti questi anni c’è stata una sola scelta!» «Dimentichi la prima, quella fatta dal vecchio Lama per il bambino nel quale si sarebbe reincarnato.» precisò Pavlov. «La reincarnazione! Ci credi, tu?» «Oh, non chiedermi queste cose.» Pavlov si versò un altro bicchiere di vino ma, quando avvicinò la bottiglia al bicchiere di Mohadran, si rese conto che l’aveva appena assaggiato. «Ho visto il vecchio Lama fare cose che ritenevo impossibili. Forse la reincarnazione è solo un mito. Quello che posso dirti è che c’è molto del Lama Khapa in quel ragazzo.». «Questo può dipendere semplicemente dal tipo di educazione che gli stanno dando i monaci.» commentò Mohadran. «Dici di aver assistito personalmente a cose straordinarie. Per esempio?» «Beh, sapeva sempre come procedeva il mio lavoro, anche quando non lo informavo direttamente. Ma questo tu lo sai già, perché con te è stato lo stesso. La cosa più straordinaria alla quale ho assistito? La levitazione.» «Che cosa intendi per levitazione? Quella che puoi avere con un campo

magnetico?» Mohadran conosceva gli esperimenti fatti per il trasporto veloce. «Oh, no! Un giorno andai da lui per riferirgli su alcuni miglioramenti apportati alla nostra strumentazione, ma il Custode mi fece cenno di aspettare. «Il Lama era quasi rannicchiato su se stesso, con le gambe incrociate, in meditazione profonda. Cominciò a sollevare lentamente il capo e lo vidi schiarirsi. Bada bene, schiarirsi, non impallidire. Mi resi conto che si stava circondando di un alone luminoso. Continuò a distendersi e a sollevarsi da quel suo… giaciglio. Arrivò quasi al soffitto, con il capo reclinato all’indietro, gambe completamente distese e braccia allargate con le mani all’altezza dei fianchi. A questo punto era così luminoso che non riuscivo più a distinguere i colori del suo vestito. Poi cominciò a scendere, l’alone si attenuò e lentamente riprese la posizione di partenza, richiudendosi su se stesso.» «Aveva il controllo della tua mente!» esclamò Mohadran. «Può averti fatto vedere cose che in realtà non sono avvenute.» «Forse. Quando sollevò il capo, mi sembrò molto stanco, come dopo un enorme sforzo.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Si congratulò con me e capii l’inutilità di riferire i progressi fatti. Mi limitai a commentare che avremmo potuto ridurre i tempi della nostra ricerca, ma rimasi deluso dal suo giudizio: “Il problema non sono gli strumenti, ma ciò che cerchiamo, che è molto, molto raro”». «Non sarebbe molto più semplice una clonazione? Anzi, perché non fai un clone di me stesso? Avrei così qualcuno su cui contare per la Missione. Non credo di poter condividere a lungo le scelte del Lama, perché siamo troppo diversi!» «Abbiamo abbandonato le ricerche sulla clonazione molto tempo fa. Potevamo riprodurre i corpi, anche quelli con difetti inaccettabili, ma la mente… troppo complessa. Era sempre molto diversa da quella che si cercava di riprodurre, e presentava regolarmente una regressione; a volte ottenevamo dei perfetti idioti. «Il consiglio che posso darti è quello di scegliere, tra i tuoi scienziati, quello che più risponde alle tue aspettative, e prepararlo per la Missione. Avresti anche il vantaggio di ridurre notevolmente i tempi.»

«Sì, ma a me serve un condottiero, e gli scienziati sono fondamentalmente dei sempliciotti.» Dopo un po’ aggiunse: «Tenterò lo stesso questa strada, anche se gli scienziati sufficientemente giovani, tra i quali scegliere, sono veramente pochi». Mohadran si alzò per accomiatarsi. «Ti ringrazio per i consigli e… per avere avuto la pazienza di ascoltarmi.» «Mi ha fatto piacere la tua visita. Ricorda che qui sei sempre il benvenuto.» Mohadran salutò con un inchino e lasciò il laboratorio.

Qualche tempo dopo, una sera, Mohadran era troppo stanco per stare ancora alla scrivania. Seduto sul divano, lo sguardo fisso in un punto indefinito, pensava senza pensare, cioè non era concentrato su alcun problema in particolare, ma seguiva i pensieri che si affacciavano alla sua mente, lasciandoli scorrere liberamente. Entrò Sheila per avvisarlo che la cena era pronta, ma quando lo vide così assorto, preferì non disturbarlo. Si accoccolò ai suoi piedi appoggiando la testa sulle sue ginocchia. Mohadran accarezzò i suoi capelli, ma il suo volto non cambiò espressione. Sheila gradì quella carezza così spontanea e mormorò: «Voglio un figlio da te». Sheila aveva faticato un po’ a are dal voi al tu, ma da quando era iniziato il progetto, Mohadran ava molto più tempo con lei, perché era diventata la sua più preziosa assistente. Così le venne spontaneo esprimere quel suo desiderio. Mohadran spalancò gli occhi, sorpreso. «Un figlio?» Sheila notò il repentino cambio d’espressione sul volto di Mohadran e lo interpretò male. «Perdona la tua schiava. Non dovevo… non dovevo…» Mohadran sembrò non sentire quelle scuse.

«Un figlio! Ecco la risposta!» Prese la testa di Sheila tra le sue mani, costringendola a guardarlo. «Tu sarai mia sposa.» Non era una domanda di matrimonio, era un ordine. Sheila si strinse a lui. «Oh, ti amo, ti amo.» «Anch’io ti amo. Mi sono innamorato di te lentamente e non so dirti come e quando sia successo. Per quel che ne posso sapere io, quello che provo per te è amore.» Sheila non riuscì più a trattenere le lacrime. Nei pensieri di Mohadran ora c’era solo Sheila e le prospettive che la loro unione poteva aprire. arono una notte indimenticabile.

Toshiro aveva le chiavi della casa e di solito raggiungeva Mohadran nello studio senza dover bussare. Mohadran era abituato a iniziare a lavorare molto presto, ma quella mattina non era nello studio. Toshiro accese i calcolatori e riguardò i suoi appunti, in attesa di programmare i lavori della giornata. Quando Mohadran arrivò, lo sorprese con la domanda: «Chi può celebrare un matrimonio nella nostra Base?». Era ancora in vestaglia e Toshiro intuì che c’erano novità. «Penso che lo possa fare tu. Il capitano di una nave può celebrare un matrimonio e tu sei il comandante della Base.» «Non saprei neanche da dove cominciare.» Entrò Sheila con un vassoio, con tè caldo e dei dolci. Indossava un accappatoio e

aveva i capelli ancora umidi e scarmigliati. Servì il tè. «In ogni modo io non posso essere insieme officiante e sposo.» disse Mohadran, riprendendo dopo l’interruzione e confermando ciò che Toshiro aveva intuito. Toshiro guardò Sheila, che sorrideva felice. Era radiosa. «Oh, Sheila!» Toshiro non riuscì a dire altro. Sheila gli chiese: «Puoi accompagnarmi tu alla cerimonia?». «Ne sarò felice e onorato.» «Io chiederò a Pavlov,» disse Mohadran, «sempre che si impegni a essere sobrio per l’occasione.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Rimane il problema di chi celebrerà questa unione. Escluderei il sacerdote di Nazareth per ovvi motivi». «Il sacerdote.» ripeté Toshiro. «Un sacerdote! Perché non il Lama?» «Il giovane Lama? Quel ragazzo?» «Perché no? A Nazareth fu creduto il principe della sua gente e qui è senz’altro la persona più autorevole, dopo di te. Anzi, ritengo che sia più qualificato di te per celebrare un matrimonio.» Mohadran fece spallucce. «Chiunque è più qualificato di me. E’ una cosa che non ho mai fatto e non ho la minima idea di come si faccia. L’unico matrimonio al quale ho partecipato è quello dei miei genitori, ed essendo nel grembo di mia madre non posso certo dire di averci assistito.» Sheila e Toshiro si guardarono, sorpresi per quella confidenza. Mohadran rimase pensieroso per un momento, poi riprese: «Perché no? Comunque sia, sarà un’esperienza interessante».

Cercò di immaginare come sarebbe potuto essere. «Toshiro, avvisa tu il Lama e prepara tutto per le nozze. Fatti aiutare da Sheila. Io andrò a parlare con Pavlov». «Per quando?» chiese Toshiro. «Per domani, naturalmente!» Una volta presa una decisione, ogni attesa gli sembrava inutile.

Quando Mohadran arrivò da Pavlov, lo trovò di pessimo umore. Così, anziché parlargli della ragione della sua visita, gli venne spontaneo chiedere: «Cosa c’è che non va?». «E’ frustrante! Anzi, deprimente. Tu sai com’è la ricerca scientifica. Gli insuccessi fanno parte del gioco, ma devi avere un risultato positivo ogni tanto, perché è… è l’alimento che ti fa andare avanti… che ti mantiene in vita; allora entusiasmo e soddisfazione ti ripagano abbondantemente. Ma se dopo un paio d’anni non ottieni risultati, abbandoni quella particolare ricerca, e ti dedichi ad altro. «Qui, ho avuto soltanto due successi in più di diciotto anni e non ho idea di quanti anni ci vorranno per il prossimo. Sì, il prossimo, perché da Anna non abbiamo avuto la guida tanto attesa.» «Hai ragione. Anch’io sono rimasto molto deluso e ho quasi litigato con il Lama.» Mohadran capiva bene la frustrazione di Pavlov. «Ora che mi ci fai pensare, tu hai ato molti anni inseguendo i sogni di un vecchio pazzo. Come mai non l’hai piantato dopo il primo anno?» «Quella volta avevo chiesto di conferire personalmente con il Lama Khapa,» spiegò Pavlov, «proprio per dirgli che me ne volevo andare; ma quando entrai da lui, cominciò quel po’ po’ di spettacolo e… e…» Esitò come per cercare il modo migliore per esprimersi. «Vuoi dire la levitazione?» chiese Mohadran.

«Sì, la levitazione! Ero terrorizzato. Sai, una cosa è ascoltare il resoconto di un evento assurdo; puoi sempre non crederci. Ma vederlo con i tuoi occhi… Non so che potere avesse su di me; forse aveva veramente il controllo della mia mente e fu soltanto una visione. So soltanto che tornai al mio laboratorio e ripresi a lavorare come e più di prima.» «Capisco.» disse Mohadran. «Presumo che quello sia stato l’unico tentativo che facesti per allontanarti dal vecchio Lama.» «Sì. Quell’uomo mi affascinava e sapevo che aveva dei poteri straordinari. Forse potrei andarmene ora, ma dove? Quello là fuori non è più il mio mondo, e la mia vita è ormai legata a questo laboratorio.» Pavlov si era sfogato e cominciava a sentirsi meglio. Finalmente arrivò a pensare al suo visitatore. «Gradisci un po’ di vino?» «No, grazie. E’ ancora mattino. Hai dell’ottimo vino, ma io bevo raramente e mai di mattina.» «Ti chiedo scusa per averti annoiato con i miei problemi.» «Beh, io ho fatto lo stesso con te. Non devi chiedermi scusa. Siamo amici.» Pavlov ricordò l’ultima visita di Mohadran e chiese: «Hai trovato il condottiero?». «No. Il motivo della mia visita è un altro: desidero che mi accompagni alla cerimonia. Sposo Sheila.» «Oooh! Questo illumina la mia giornata.» Era evidente l’espressione di gioia sul volto di Pavlov. «Pare proprio che questa notizia sia accolta con gioia da tutti. Sì, Sheila sa farsi voler bene.» «Quando mi chiedesti della clonazione, non ti parlai di un altro suo aspetto negativo: la clonazione congela il processo evolutivo. La trasmissione dei

caratteri da padre in figlio porta, di generazione in generazione, a un’evoluzione positiva, a un miglioramento del fisico e della mente. Con la clonazione, questo miglioramento non c’è, c’è piuttosto una regressione. Il consiglio che avrei voluto darti… Cerca di capirmi! Non potevo dirti di farti dare un figlio dalla tua schiava. Dovevi arrivarci da solo… e sono felice di sentire che seguirai questa strada.» «Allora, d’accordo per domani mattina?» Mohadran dava per scontato che Pavlov avrebbe accettato. «Domani? Hai aspettato più di venti anni, e ora…» Mohadran lo interruppe: «Lascia stare. Appuntamento dal Lama». «Il giovane Lama?» chiese sorpreso Pavlov. «Sì, ma vieni prima da me, possibilmente sobrio.» Pavlov sorrise per quest’ultima richiesta. «Vai tranquillo. Non sono un alcolizzato. Non ancora, perlomeno.»

La necessità di rendere la Base completamente operativa, aveva costretto il giovane Lama a rimandare la costruzione del Tempio della Pace, che sarebbe stato il luogo più indicato per celebrare le nozze. L’evento era comunque tale da richiedere spazio sufficiente per una buona parte delle persone della Base. Così fu deciso di celebrare la cerimonia nella grande piazza, al centro della Tendopoli, che non era stata smontata perché ospitava ancora la famiglia di Johakim. Si volevano in questo modo garantire le migliori condizioni sui primi anni di vita di Maryam. La piazza era gremita ben prima che cominciasse la cerimonia, che ebbe inizio quando due monaci aprirono l’accesso della grande tenda. Uscì per primo il Custode, che portava un vassoio con due piccole ciotole di porcellana bianca. Seguì il Lama Elì. Era seduto con le gambe incrociate sul solito giaciglio di legno intarsiato, portato da sei monaci. Infine Elisabetta, che portava sulle braccia una lunga ghirlanda di fiori.

La strana portantina fu adagiata su una piattaforma, in modo che tutti potessero vedere. I sei monaci si ritirarono e il Lama Elì si levò in piedi. Aveva il grande copricapo giallo e indossava abiti ricamati. A destra e a sinistra della pedana presero posizione Elisabetta e il Custode. A questo punto uscirono dalla tenda Mohadran e Pavlov, accolti da un applauso. Mohadran aveva un turbante azzurro ed era vestito con gli abiti sontuosi che indossava quando doveva conferire con l’Imperatore. Seguirono Toshiro e Sheila, che aveva il capo scoperto con i capelli neri raccolti sulla testa. Sheila non aveva avuto il tempo di procurarsi un abito adeguato, e fu Elisabetta a fornirgli un sari indiano di seta ricamata. Mohadran e Sheila presero posto davanti a Elì, che chiese: «Sheila, ami tu Mohadran?». «Sì, lo amo.» La stessa domanda la rivolse a Mohadran, che rispose semplicemente: «Sì!». Elì proseguì: «Vuoi tu, Mohadran, prendere Sheila come tua sposa?». «Sì, lo voglio.» «Sheila, accetti tu Mohadran come tuo sposo?» «Sì, lo accetto.» Il Lama fece un cenno e il Custode gli avvicinò il vassoio. Intinse il polpastrello del pollice nell’unguento rosso della prima ciotola e impresse una macchia sulla fronte di Sheila. Tolse l’eccesso di unguento dal dito con una salvietta e ripeté la stessa cosa con Mohadran, con l’unguento azzurro della seconda ciotola. Quindi avvicinò le teste degli sposi fino al contatto delle fronti, in corrispondenza delle macchie, che divennero più grandi con parti di entrambi i colori su ciascuno. Poi prese la ghirlanda di fiori stesa sulle braccia di Elisabetta e la mise al collo di Sheila, l’accavallò in modo da formare un grande otto e ò l’estremità inferiore sopra il capo di Mohadran. La ghirlanda univa in questo modo gli sposi.

«Io, Lama Elì, Buddha vivente, ultima reincarnazione di Krishna, benedico quest’unione, che sarà felice e duratura.» Sheila e Mohadran si baciarono e la folla applaudì calorosamente. Pavlov si congratulò con Mohadran e Toshiro abbracciò Sheila. «Sei come una figlia per me. Sono veramente felice per questa unione.» Era giunto il momento di accomiatarsi. Si chinarono con le mani giunte davanti al Lama, che disse a bassa voce: «Avrete un figlio maschio, che chiamerete Giuda». Altro nome preso dalla Torah. «Avrà un ruolo fondamentale nella nostra Missione.» Mohadran e Sheila si guardarono stupiti. Mohadran sapeva che il Lama aveva strani poteri, ma vedere il futuro? Era imbarazzante. Meno di un anno dopo nacque il figlio annunciato, che Maryam accolse come un fratellino con cui giocare, dato che non c’erano altri bambini nella Base.

Il Custode era rimasto colpito dalle parole pronunciate dal Lama. Fu il primo ad allontanarsi per rifugiarsi nella sua tenda. Qui cadde in ginocchio. Aveva avuto conferma di ciò che aveva intuito e sperato: Elì era la reincarnazione del Dio Krishna. Cominciò a pregare. «Oh, Krishna, ti ringrazio. Ti ringrazio di tutto ciò che mi hai dato con tanta generosità. Ti ringrazio di avermi fatto come sono… e di avermi chiamato a servirti.» Si fermò su quell’ultima parola: servirti, e si sentì improvvisamente inadeguato. «Perdona i miei dubbi… le mie omissioni… i miei limiti.» Decise di affidarsi a lui completamente.

«Accetta quel poco a te gradito che sono riuscito a fare… e che potrò ancora fare.» Ora era rannicchiato su se stesso, sopraffatto dall’emozione. Invocò: «Aiutami. Dammi saggezza. Permettimi di vedere la tua luce».

Cap. 9 – Il genio del male

La famiglia di Johakim si trasferì a Nazareth al compimento del terzo anno d’età di Maryam. Solo così l’integrazione in quel luogo e in quel tempo poteva essere completa. Naturalmente Elì vegliava sempre su loro, ed era sufficiente che Johakim chiamasse per farlo comparire subito. arono altri otto anni. Elì era ormai un uomo, molto vicino al raggiungimento del pieno sviluppo dei poteri della mente. Riusciva a far comparire oggetti dal nulla e tenerli sospesi in aria; riusciva egli stesso a sollevarsi di qualche metro.

Elisabetta aspettava da più di un’ora di essere ricevuta, quando il Custode le disse che poteva entrare. Davanti a lei c’era Elì, seduto con le gambe incrociate, in profonda meditazione. Si chinò con le mani giunte, per un saluto. Il Custode chiuse la porta e li lasciò soli. «Maestro, sono venuta a chiederti di celebrare le mie nozze.» Elisabetta aspettava una risposta, ma non vi fu alcuna reazione da parte di Elì, che rimase perfettamente immobile. Improvvisamente lo vide attraversare il muro e rientrare nel proprio corpo, di ritorno da una visita fatta a Johakim. Finalmente aprì gli occhi. Elisabetta era sorpresa e impaurita. «Così, vuoi sposare un uomo antico!» Non poteva aver sentito la sua richiesta, poiché non si trovava nel suo corpo. E poi, come faceva a sapere che l’uomo che aveva scelto non era uno dei crononauti? Cercò di spiegare, come se si volesse giustificare. «Il Consiglio degli Anziani ha deciso di incoraggiare i matrimoni con la gente

dei paesi vicini, come ha fatto Johakim. Avremo bisogno di giovani tecnici per continuare a far funzionare la Base. I crononauti sono tutti un po’ avanti negli anni, e io stessa, probabilmente, sono già troppo vecchia per avere dei figli!». Elì ascoltò quello sfogo con benevolenza. «So di questa decisione degli Anziani, ma nessuno degli antichi deve avere accesso alla Base. La Tendopoli è interfaccia e confine tra i due mondi.» «Johakim mi ha presentato Zaccaria, che è il sacerdote di uno dei paesi vicini. E’ un uomo colto, che ha viaggiato molto. Il comune interesse per lo studio delle lingue mi ha indotta a continuare a frequentarlo. Abbiamo deciso di sposarci.» «Fai ciò che ti dice il cuore. E’ però opportuno che le nozze siano celebrate da un sacerdote del loro paese. Tu sai che Johakim e Anna si sono sposati a Nazareth e Zaccaria vuole, e si aspetta, un matrimonio secondo quel tipo di rito. Io ho celebrato soltanto le nozze di Mohadran, ma quello è stato un evento eccezionale, e so che tu credi in Dio, al contrario di Mohadran. Dopo, mi riceverete nella vostra casa e avrete la mia benedizione.» Elisabetta accettò i consigli del Lama e le piacque l’idea di seguire lo stesso tipo di cerimonia che aveva unito Johakim e Anna. Si accomiatò dal Lama.

Il figlio tanto desiderato tardava ad arrivare. Erano ati ormai due anni dalle nozze, ed Elisabetta dovette constatare di essere troppo avanti con gli anni per avere un figlio. Zaccaria abbondava in preghiere e sacrifici nel Tempio, ma Elisabetta voleva tentare qualcosa di diverso: decise di chiedere l’aiuto della Base. Quando Pavlov seppe il motivo di quella visita, ritenne che sarebbe stato sufficiente riportare artificialmente indietro l’evoluzione biologica di Elisabetta, e cominciò a somministrarle una cura a base di ormoni. Dopo qualche giorno, Pavlov pensò che sarebbe stato interessante usare uno degli embrioni selezionati. Il Lama non avrebbe approvato, ma la tentazione si faceva ogni giorno più forte. Così, quando gli esami indicarono che Elisabetta era pronta, le diede l’embrione migliore di cui disponeva. Sarebbe diventato un

uomo dal fisico perfetto, molto forte e resistente. Dopo due mesi dal suo arrivo alla Base, Elisabetta si accomiatò da Pavlov. La gravidanza era ormai ben avviata e una ginecologa della Base l’avrebbe visitata periodicamente. Prima di lasciare la Base, sentì il bisogno di vedere il Lama. Voleva informarlo e cercare di scusarsi con lui per ciò che aveva fatto. Elì le andò incontro, e come Elisabetta si chinò davanti a lui, le posò una mano sulla tempia, per portarla subito dopo sul ventre. «Sì. Sarà maschio.» dichiarò. «Sarà forte e coraggioso. Lo chiamerai Johànan.» Elisabetta era sorpresa ed emozionata. Non riusciva a parlare. «Sappilo educare, perché possa preparare la sua gente all’arrivo del Salvatore.» Elisabetta sapeva che l’obiettivo dei crononauti era quello di salvare il Mondo. Cercò di parlare, ma riuscì a dire soltanto: «Grazie». Non solo il Lama non era dispiaciuto per l’iniziativa presa, ma aveva già pensato che compito avrebbe avuto quel figlio nella Missione. Elisabetta cercò di detergere le lacrime con il dorso della mano. Salutò con un profondo inchino e si diresse verso l’uscita. Qui si fermò e, voltandosi verso il Lama, esclamò: «Zaccaria!». All’improvviso si era resa conto della straordinarietà di quella gravidanza. «Come prenderà tutto questo?» «Vai in pace. Parlerò io con Zaccaria.» Questo bastò per tranquillizzarla. Elì apparve a Zaccaria quello stesso giorno, mentre Elisabetta era ancora in viaggio. Zaccaria fu molto sorpreso per quella visita. Come poteva essere entrato? La porta era chiusa.

«Avrete presto il figlio tanto desiderato.» annunciò Elì. La reazione spontanea di Zaccaria fu: «Com’è possibile? Siamo ormai troppo vecchi». Elì non si curò di quel commento e continuò: «Sarà un maschio e nascerà tra sette mesi». La gravidanza era, infatti, già iniziata e Elì lo avvisava che il bambino sarebbe nato dopo sette mesi, poiché ne erano già ati due. «Lo chiamerai Johànan.» Che fosse un angelo? Non sembrava proprio, con quegli abiti strani. «Se tu sei un messaggero di Dio, mostrami un segno.» Quella richiesta indispose Elì. «Taci!» ordinò. «Così ho detto e così sarà.» Svanì davanti agli occhi spalancati e increduli di Zaccaria, che cadde in ginocchio. “Grazie! Grazie! Grazie!” cercò di gridare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Poco più tardi arrivò Elisabetta, che lo trovò agitatissimo: gesticolava in modo scomposto cercando di comunicare. Elisabetta si rese conto che non riusciva a parlare e chiese: «Hai preso freddo?». Zaccaria era quasi alla disperazione, quando si bloccò e si impose la calma. Doveva riflettere. Infine prese per mano Elisabetta e la fece sedere alla tavola. Poi, con il dito, vi tracciò dei segni. Elisabetta capì che stava scrivendo una parola, e Zaccaria ripeté l’operazione, a grandi lettere e più lentamente. Elisabetta scandì: «Jo… hà… Johànan?». Si alzò in piedi e vide Zaccaria assentire con il capo. Capì che Elì gli aveva già parlato e urlò: «Johànan! Nostro figlio!».

Si abbracciarono ed Elisabetta non riuscì a trattenere le lacrime.

Alcuni mesi dopo, Pavlov trovò l’embrione perfetto. Lo indicavano tutti gli esami che riusciva a fare con i suoi strumenti. «Ci siamo! Finalmente!» esclamò. Sapeva che Maryam era ormai adolescente e si doveva trovare presto l’essere perfetto. Prese il contenitore e lo portò subito dal Lama. «Ecco. Questo è perfetto!» annunciò. Ma come avvicinò il contenitore per porgerglielo, lo vide impallidire. «No! Non può essere!» esclamò Elì, respingendolo. Pavlov era sorpreso e deluso per quella reazione. «Eppure è perfetto. Il migliore degli ultimi anni.» Il Lama si chinò per “sentirlo” meglio, poi spiegò: «Gli manca la cosa più importante! Direi che è piuttosto il peggiore». Pavlov abbassò il contenitore all’altezza della vita. Era scoraggiato. «Cosa manca? Cosa?» chiese. La risposta lo lasciò di sasso: «Manca l’amore». Pavlov si voltò per andarsene, senza neanche accennare un saluto, quando Elì aggiunse: «E’… è un genio del male». Esitò un attimo sulla soglia, senza voltarsi, poi lasciò lo studio del Lama. Giunto nel laboratorio, ripeté gli esami sul campione, ma trovò i risultati già visti. «Genio del male! Che cosa significa?» si ripeteva. «Qui ci vuole qualcosa di forte.» Prese la bottiglia del vino dalla scrivania e ne

bevve un bicchiere. «Ci vorrebbe un po’ di vodka. Questa roba è troppo fiacca.» All’improvviso gli tornò in mente l’embrione dato a Elisabetta. Sfogliò i suoi appunti e cominciò a confrontare i dati dei due embrioni: alcuni erano identici, altri erano molto simili. Man mano che procedeva nel confronto, aumentava la sua paura. «Che sia anche quello un… genio del male?» Cercò di immaginare come potesse essere. «Uno come l’Imperatore?» Rifletté un momento. «Nooo! Quello è un idiota. Può essere tutto meno che un genio.» Era ormai notte inoltrata e Pavlov aveva finito quella mezza bottiglia di vino. «Sarà interessante vedere come sarà il figlio di Elisabetta.» Riguardò i suoi appunti. «Questo è quello che ha messo in agitazione il Lama: lo porterò a maturazione. Voglio vedere com’è un genio del male.» La curiosità dello scienziato stava prendendo il sopravvento, e l’idea di vedere finalmente qualcosa di eccezionale lo affascinava. «Che sarà poi, un genio del male?» All’improvviso intuì la terribile verità. «Un uomo con i poteri del Lama, ma incapace di amare!» Ne fu terrorizzato. Prese la bottiglia e la portò alla bocca, ma ne scesero poche gocce. Cercò nel laboratorio la bottiglia dell’alcool puro e ne versò un po’ nel bicchiere. Si sedette

alla scrivania, prese il bicchiere con entrambe le mani e assaggiò l’alcool. Sentì bruciare la bocca. «Genio del male. Devo distruggere questo embrione.» Rifletteva su ciò che doveva fare. Sorseggiò un altro po’ di alcool, che ora bruciava meno e poteva cominciare a sentire un po’ il sapore. Il cielo cominciava a schiarirsi e presto sarebbe sorto il sole. Pavlov era stanco e ubriaco, ma era troppo agitato per dormire. Gettò il contenitore nel cestino della carta, ma gli sembrò di sentire: “Fammi vivere”. Spaventato, vi versò sopra una buona quantità di alcool e lo accese. La vista dell’embrione che bruciava sembrò tranquillizzarlo, ma per poco, perché anche il cestino ora era in fiamme, e il fuoco stava raggiungendo la scrivania. Pavlov avrebbe dovuto prendere l’estintore, ma rimase immobile a guardare le fiamme. «Sì! Ecco cosa va fatto!» Prese i suoi appunti e li gettò tra le fiamme. «Nessuno dovrà più fare queste ricerche.» Cominciò a gettare nel fuoco anche i suoi libri. Quando sentì la sirena dell’allarme, lasciò il laboratorio. Il fuoco raggiunse altri liquidi infiammabili e ci furono delle esplosioni. Pavlov tornò indietro e rimase sull’uscio ad osservare le fiamme. Sentì all’improvviso tutto il peso di quegli anni di fatiche e di frustrazioni. Era tormentato dall’idea di ciò che sarebbe potuto succedere, fino a soffrirne fisicamente. «Distruggere il laboratorio non basta. Rimane l’artefice di tutto questo. Potrei essere… indotto a riprendere…» Pavlov era combattuto tra il desiderio di raggiungere l’obiettivo, trovare cioè l’essere perfetto, e il terrore di ciò che le sue ricerche avrebbero invece potuto produrre. Si rese conto che altri avrebbero potuto riprendere quelle ricerche, coinvolgendolo.

Stavano arrivando i pompieri. Questo lo scosse, costringendolo a rompere ogni indugio. Si diresse verso il punto dove l’incendio era più intenso e camminò tra le fiamme, fino a crollare. L’incendio si stava estendendo ai locali vicini, e i pompieri fecero fatica a spegnerlo. Estrassero il corpo di Pavlov ormai agonizzante, proprio mentre sopraggiungeva Mohadran. «Pavlov! Cosa hai combinato?» «Non svegliate… il genio del male…» mormorò Pavlov. Mohadran non capì. «Cosa vuoi dire?» chiese. Lo sguardo di Pavlov divenne fisso. Mohadran chiamò: «Pavlov, amico mio!». Guardò il medico, che con un cenno del capo confermò l’avvenuto decesso. «Nooo!» urlò Mohadran, e si allontanò a o svelto da quella scena. I funerali di Pavlov si svolsero in modo solenne, e Elì in persona sparse dell’incenso sulla pira, prima che venisse accesa. Il suicidio di Pavlov cambiava molte cose. Era impensabile ricostruire il laboratorio per affidarlo a uno dei suoi assistenti, perché questo avrebbe richiesto troppo tempo e, soprattutto, era molto probabile che sarebbe stato inutile, perché l’obiettivo di trovare quella cosa tanto speciale sembrava irraggiungibile.

Qualche giorno dopo il funerale di Pavlov, Mohadran convocò il figlio Giuda nel suo studio, perché gli sembrava giunto il momento di procedere alla conquista del Mondo. «E’ tempo che tu ti prepari per la Missione.» gli disse. «Sì?» chiese Giuda.

«Dobbiamo salvare il Mondo.» La reazione naturale sarebbe stata: “Stai scherzando?”, ma Mohadran era maledettamente serio, e Giuda si limitò a un “Non capisco”. Mohadran si rese conto di essere stato troppo diretto, presumendo che Giuda sapesse già qualcosa. Cercò di spiegare: «Noi veniamo da un Mondo morente. L’unica possibilità di salvezza era portare alcuni uomini indietro nel tempo, per intraprendere quelle iniziative necessarie perché il Mondo non arrivasse a quel punto di non ritorno, cioè alla sicura estinzione del genere umano». «E tu, sai cosa fare?» Giuda sapeva che venivano da un lontano futuro. «Forse. La mia idea è quella di riunire tutti i popoli sotto un unico governo, in modo che ci sia finalmente la pace.» «L’impero Romano è molto potente ed è in continua espansione.» commentò Giuda. «Sì. Sarà purtroppo necessario distruggere Roma. Ho completato i lavori per rendere operativa la Base, ed è il momento di realizzare le armi che ci permetteranno di dominare il Mondo. Secondo me, sarà sufficiente distruggere un paio di città chiave per avere il controllo assoluto.» Giuda era perplesso. «Che cosa dovrei fare?» chiese. «Studia le vite dei grandi conquistatori, soprattutto Alessandro il Macedone. Studia le strategie di conquista, le astuzie di Annibale. Studia le tecniche e il miglior uso che puoi fare di armi moderne. Tieni presente che avremo l’enorme vantaggio di disporre di tecnologie avanzate, sconosciute a questi popoli.» «Farò come desideri.» disse Giuda, e si accomiatò dal padre.

Cap. 10 – Il falegname

Maryam stava diventando donna e Johakim si rese conto che l’embrione tanto atteso sarebbe potuto arrivare in qualsiasi momento. Era necessario trovarle uno sposo, perché la legge prevedeva la lapidazione per una gravidanza al di fuori del matrimonio. Seguendo il suggerimento di Elì, contattò il falegname del paese. «Devi venire da me. Ho una porta da farti riparare.» Yosef era un artigiano stimato e relativamente benestante. Anche se era ormai cinquantenne, era ancora molto forte, ma aveva sempre avuto paura delle donne. Questa timidezza e un carattere introverso gli avevano sempre impedito di prendere una qualsiasi iniziativa con loro. Arrivato alla casa di Johakim, trovò un’anta dell’uscio semidistrutta. Bussò. Lo accolse Anna, come si accoglie un vecchio amico. «Shalom, Yosef. Benvenuto in questa casa». Un sorriso stupendo nel bel volto di una donna matura, e Yosef ne fu colpito. Sussurrò un timido “grazie”. Si portò sull’uscio anche Johakim, col quale protestò. «Questa porta… L’avevo fatta io questa porta, per il vecchio Isachar. Come avete fatto a ridurla così? Sembra colpita da un tronco d’albero.» «Sì.» cercò di spiegare Johakim. «Presumo sia stato un carro. Non voglio credere che qualcuno abbia tentato di forzare l’uscio. Noi siamo povera gente.» Poi chiese: «Puoi ripararla?». «Dovrei portarla al negozio, ma vi lascerei senza porta per troppo tempo. Porterò qui gli attrezzi e cercherò di fare quello che posso, qui sul posto. Ma ti avverto, non sarà una buona riparazione.» Fece una pausa per esaminare meglio il danno.

«Il legno comincia a mostrare i segni del tempo, e sarebbe meglio fare una porta nuova. Ti farei un buon prezzo.» «Sì,» convenne Johakim, «il danno è stato notevole proprio perché il legno è debole. Penso anch’io che è ormai tempo di avere una porta nuova. Avrai il prezzo che chiedi.» Yosef esaminò ancora la porta per valutare l’occorrente, ma quando sembrava sul punto di accomiatarsi, Johakim lo invitò ad entrare. «Vieni. Ti voglio mostrare una cosa.» Nella casa c’era Maryam, seduta su uno sgabello, china su un abito che stava rammendando. Johakim prese da una nicchia nella parete lo scrigno di legno intarsiato, dono del Lama Elì, e lo mostrò a Yosef. «Avevo sentito parlare di questa meraviglia, ma non potevo immaginare…» Johakim lo aprì. Era ormai vuoto, ma emanava ancora un debole profumo di incenso. Yosef lo prese in mano per esaminarlo meglio. «Sono considerato il miglior falegname di tutta la Galilea, ma questo… questo… Non riuscirei mai…» «Viene da un paese lontano. Ci vuole un legno compatto e uniforme, ma soprattutto degli scalpelli speciali, molto taglienti, che chiamano sgorbie.» «Sgorbie? Dove posso trovare questi scalpelli?» chiese Yosef. «Ho ancora degli amici tra i mercanti. Vedrò cosa posso fare.» «Sarebbe per me un buon compenso per la porta nuova. Ci tengo ad avere gli attrezzi migliori per il mio lavoro.» Fu a questo punto che s’intromise Anna. «Tu hai bisogno di una sposa.» «Sto bene come sto!» si schermì Yosef. «Non ho bisogno di nulla.»

«I rammendi sui tuoi vestiti sono più opera di un falegname che di una ricamatrice.» «Infatti, li ho fatti io. A me basta che tengano insieme la stoffa…» «…ma non durano. Probabilmente li devi riprendere ogni pochi giorni.» «Vedo che te ne intendi!» osservò Yosef. «Sì. Ti ci vuole una donna di casa. Pensa a quando sarai vecchio. Chi si prenderà cura di te?» Yosef era imbarazzato e non sapeva più cosa dire. Anna indicò Maryam. «Perché non prendi Maryam? E’ la sposa ideale per te.» «Ma è solo una bambina!» Maryam sollevò lo guardò e, fissandolo dritto negli occhi, protestò: «Non sono una bambina! Ho quattordici anni!». Guai a dare del bambino a un adolescente, perché vuole già essere considerato un uomo. Non a caso la cerimonia del Bar Mitzwah, che segnava il aggio dall’infanzia alla maturità, avveniva al compimento del dodicesimo anno di età. Yosef vide finalmente quei grandi occhi neri, l’ovale perfetto di quel viso dai lineamenti delicati, e rimase incantato. Maryam si accorse dell’imbarazzo dell’uomo e ne sorrise costringendolo ad abbassare lo sguardo. «Tornerò appena avrò il materiale che occorre.» dichiarò, e fuggì. Johakim rimproverò Anna. «Sei stata troppo precipitosa. L’hai spaventato.» La tranquillità di Anna lo sorprese.

«Hai visto come l’ha guardata? Tornerà.» Infatti, non ò neanche una settimana che Yosef bussò alla porta. Gli aprì Maryam. «Vorrei… vorrei…» balbettò. Era sorpreso dal constatare che Maryam era alta quasi quanto lui. «Entra.» gli disse. Mentre si voltava, Yosef poté vederla di profilo. Sì, non era più una bambina. La seguì all’interno della casa. Si fece avanti Johakim. «Hai trovato il materiale?» «Non tutto. Vorrei esaminare meglio la porta.» Spalancarono l’uscio, e Yosef controllò l’attacco al muro delle cerniere. «Queste vanno ancora bene.» Prese le misure con strisce di stoffa. Alla fine confessò: «Sono venuto anche per rivedere quello scrigno». «Vieni» disse Johakim. Estrasse lo scrigno dalla sua nicchia e lo posò sul tavolo. Si avvicinarono anche Anna e Maryam. Yosef sollevò lo scrigno all’altezza degli occhi, e di sottecchi guardò Maryam, vero inconfessato scopo di quella visita. Anna lo stava osservando e si accorse di quelle occhiate furtive. «Gradisci un po’ di vino?» chiese. Yosef si mise subito sulla difensiva. «Ma no! Devo tornare al negozio.» Johakim seppe come trattenerlo.

«Ho uno di quegli scalpelli, una sgorbia.» Yosef e Maryam rimasero per un momento soli. Si guardarono e fu Yosef ad abbassare gli occhi, cosa che fece sorridere Maryam. L’espressione del volto ò da burbero a impacciato e quell’uomo dalle mani grandi, spalle possenti, barba e tempie brizzolate, era visibilmente imbarazzato. Arrivò Anna con il vino, e subito dopo arrivò Johakim. «Ecco. Questa è una sgorbia.» Yosef rimase meravigliato dalla perfezione del manico tornito e dal filo argenteo a forma di unghia in cima alla lama di metallo scuro. Istintivamente portò il pollice sul filo, ma Johakim lo trattenne in tempo. «Fermo! Ti puoi ferire. Provalo sul legno della porta rotta.» Yosef ritenne esagerata tanta prudenza, ma accettò il consiglio. Spinse con forza la punta nel legno, dove penetrò molto più profondamente di quanto si aspettasse. Alle sue spalle c’era ora Anna con il vino. «Prendi, ti piacerà.» Yosef prese la coppa e mandò giù un sorso, ma il suo sguardo tornò immediatamente sull’attrezzo rimasto conficcato nel legno. Badava solo a quella meraviglia, anche se il vino era ottimo. «Johakim, devi procurarmi questi attrezzi.» «Cercherò di accontentarti. Quanti ne vuoi?» Che domanda! «Non lo so» confessò Yosef. Johakim cercò di estrarre la sgorbia dal legno senza riuscirci. La estrasse Yosef e gliela consegnò.

«Vieni.» disse Johakim portandolo nuovamente allo scrigno. «C’è una sgorbia per questo tipo di intaglio… una per quest’altro…» Procedeva indicando le incisioni sullo scrigno. «Quante sono?» chiese Yosef. «Sono almeno sette, ma sarebbe meglio avere la serie da undici. Le principali sono ripetute con dimensioni diverse. Di questa a unghia,» disse indicando l’attrezzo, «ce ne sono tre con diverse larghezze della lama.» Intervenne Anna. «Perché non cominciamo a pensare alla cena? E’ quasi ora. Yosef può cenare con noi.» «Dovrei tornare al negozio.» disse Yosef con un tono che equivaleva piuttosto a un “se insistete…”. «A me pare una buona idea.» disse Johakim. Poi, rivolto a Yosef: «Sono entrambe ottime cuoche e il buon cibo non manca in questa casa. Sono certo che la cena ti piacerà.» Yosef fece un cenno di assenso con il capo. Le donne si attivarono per preparare la cena e gli uomini continuarono a parlare di attrezzi, diventando presto amici. Yosef era introverso e taciturno; Johakim estroverso e chiacchierone. Durante la cena, dopo un paio di bicchieri di vino, anche Yosef si sciolse un po’, ma parlava quasi sempre Johakim. Descriveva le cose che aveva visto durante i tanti viaggi fatti da mercante. Si interruppe soltanto quando Yosef esclamò: «Questo è veramente squisito! Che cos’è?». «E’ pollo tanduri, con verdure.» rispose Maryam. «Pollo? Di questo colore?»

La carne aveva uno strano colore rossastro. «Sì. Il colore è dovuto alle spezie con le quali è cucinato. Si prepara…» Maryam cominciò a descrivere la ricetta, ma Yosef si rese conto di non conoscere alcune delle parole che usava. D’altra parte la cosa non lo interessava, perché aveva la scusa per guardarla, e si era incantato su quel viso dolce, facile al sorriso. Terminata la descrizione, si rese conto che Yosef continuava a fissarla. Gli disse sorridendo: «Sì, è tutto qui. Come vedi, è relativamente semplice». Yosef finalmente si scosse. «Non per me. Io sono abituato a cose molto più semplici». Risero. Venne il momento di accomiatarsi. «Non so come ringraziarvi. Non ho mai mangiato così bene in vita mia.» «Sei sempre il benvenuto in questa casa.» gli rispose Johakim. Fu Anna ad accompagnarlo all’uscio. «Shalom.» «Shalom.» gli fece eco Anna. «Vieni quando vuoi. Maryam è promessa a te.» Quell’ultima frase lo lasciò senza parole. Si allontanò a o svelto. Era imbarazzato e non poté fare a meno di pensare: «Maryam è una ragazza meravigliosa. Possibile che non trovino di meglio per lei?». Cercò di spiegare a se stesso quell’ultimo pensiero. «Sì. Io sono troppo burbero… e poi… troppo vecchio per lei. Ha solo quattordici anni!» La rivide mentre gli spiegava la ricetta, gli occhi vivaci e quel sorriso

accattivante. Non ci volle molto perché cominciasse a considerare la cosa come possibile. «Se sono gradito ai suoi genitori… Non sono poi così vecchio! Tanta gente importante sposa ragazze molto giovani.» Riaffioravano alla sua mente tanti particolari di quella serata meravigliosa. La dolcezza di Maryam l’aveva conquistato. «No, non riuscirei mai ad alzare la voce con lei. Sarebbe come calpestare un fiore.»

La costruzione della porta procedeva bene, anche per il particolare impegno di Yosef. Fece altre due visite per le prove, sempre molto ben accolto dalla famiglia di Johakim. C’era ora un po’ più familiarità con Maryam e cominciavano a parlarsi. Alla seconda visita, Johakim gli consegnò la serie di sgorbie ben sistemate in un cofanetto di legno. Yosef ne fu entusiasta; le prendeva una dopo l’altra, memorizzando il tipo di punta e le differenze che trovava, per risistemarla con cura al proprio posto. La famiglia di Johakim era diventata la sua famiglia e Yosef era felice al punto che la gente cominciò a notare che ora era molto meno burbero. La brutta sorpresa arrivò alla terza visita, quando in casa trovò solo Johakim e Anna. Gli dissero che Maryam era andata a dare una mano alla cugina Elisabetta, che aspettava un bambino. Da quel momento non ò settimana senza che Yosef si fermasse, a volte solo per un attimo, per chiedere: “Quando torna?”. Più tempo ava, più si rendeva conto di quanto le mancasse. La risposta però era sempre la stessa: “Presto. Tornerà presto”. Dopo qualche tempo, che a Yosef parve un’eternità, si fece più insistente e una sera confessò ad Anna che non poteva più vivere senza Maryam e che la voleva

sposare. Anna lo rassicurò: Maryam gli era stata promessa e poteva fare i preparativi per le nozze. Uscito Yosef, Anna si rivolse a Johakim: «Devi andare a prendere Maryam». «Ma manca poco alla nascita. Elisabetta avrà il bambino molto presto. E’ una questione di giorni ormai.» «Hai visto come soffre Yosef? Si trascura. E’ dimagrito.» Johakim esitava. «Maryam vorrebbe assistere al parto.» «Elisabetta ha molti amici, e non le mancherà certo assistenza. Maryam le ha fatto compagnia finora e non può fare più di tanto. D’altra parte la sua gravidanza comincia a essere evidente ed è opportuno pensare alle sue nozze.» «Sempre che Yosef la voglia ancora, nel suo stato.» commentò Johakim. Anna si limitò a dire: «Devi avere fiducia in Dio». Johakim si affacciò nel cortile. Era una notte serena e, con la luna nuova, le stelle risaltavano particolarmente nel cielo. Rientrò in casa. «Partirò all’alba.» disse, e iniziò i preparativi per andare a prendere Maryam.

Tre mesi prima si era presentato alla loro casa uno strano terzetto: erano Elì, il Custode Prabhorak e Sheila. Johakim diede loro il benvenuto, e Anna e Sheila si abbracciarono. Elì accennò un inchino di saluto e si portò al centro della stanza. Si sedette sul pavimento con le gambe incrociate e cadde in una meditazione profonda. Johakim era sorpreso di non vedere Pavlov. «E Pavlov?» chiese a Prabhorak.

«Purtroppo è morto. C’è stato un incendio nel suo laboratorio.» Johakim sapeva che Pavlov era un personaggio chiave per la realizzazione della Missione. «Non capisco!» disse, pensando alle conseguenze che quella scomparsa comportava. «Io stesso non so cosa succederà.» rispose il Custode. «Abbiamo rinunciato all’idea di ricostruire il laboratorio. Stiamo aspettando che il Lama ci dica qualcosa, ma dal momento dell’incidente… si è ritirato nel suo studio e non parla più con nessuno. Stanotte, all’improvviso, è voluto venire qua. Ci ha portati Sheila con la navetta.» Elì si stava circondando di un alone luminoso. Tutti tacquero, intuendo che stava per succedere qualcosa. Videro Elì abbandonare il suo corpo e sollevarsi in aria, per sparire poco dopo in una macchia luminosa.

Maryam aveva già indossato il camicione lungo ed era inginocchiata sul bordo del letto, per rivolgere un pensiero a Dio prima di dormire. Il letto era un materasso di crine di foglie di palma essiccate, sopra una stuoia di canne. Nella penombra notò il chiarore che stava invadendo la stanza per l’apparizione di Elì, e ne fu spaventata. «Non aver paura, Maryam.» Il volto aveva un’espressione benevola. Ciononostante Maryam, ora in piedi sul letto, aderì impaurita alla parete della stanza. «La grazia di Dio è su di te.» cercò di tranquillizzarla Elì, usando un linguaggio il più possibile familiare alla ragazza. «Tu sei la prescelta, e da te nascerà la Guida di Israele, in adempimento delle profezie.» «Com’è possibile? Non conosco uomo.»

Conosceva a malapena Yosef e non sapeva ancora che gli era stata promessa. «Impossibile per questo Mondo. Anche Elisabetta, data la sua età, non poteva avere figli. Ebbene, avrà un figlio e la sua gravidanza è già al sesto mese.» Maryam si inginocchiò e chinò il capo. «Avvenga di me ciò che vuole il mio Signore.» Quando sollevò lo sguardo, vide Elì ridursi a una macchia luminosa per poi attenuarsi e sparire. Si rese conto che era successo qualcosa di soprannaturale e pensò a un angelo inviato dal cielo. Rimase qualche minuto rannicchiata sul letto, mentre una gioia immensa le riempiva il cuore. Poi corse giù, gridando: «Madre! Madre!». Ciò che era successo era troppo straordinario per tenerlo soltanto per sé, ma arrivata in fondo alle scale si bloccò, trovandosi davanti i tre ospiti. Elì si alzò in piedi e le andò incontro. Maryam lo riconobbe, anche se ora poteva vedere i suoi capelli neri e il colore degli abiti. Elì appoggiò le dita sulle sue tempie e avvicinò lentamente il viso al suo viso, costringendola a chiudere gli occhi. Quando la fronte di Elì toccò quella di Maryam, vennero entrambi circondati da un alone luminoso. Poi Maryam divenne come una statua di cristallo, illuminata dall’interno. Sentì le gambe cedere. Elì la afferrò per le spalle, aiutandola a inginocchiarsi, ma mantenendo il contatto della fronte. Elì finalmente la lasciò, l’alone cominciò a poco a poco ad attenuarsi e tutto tornò normale. A questo punto i tre lasciarono la casa, e soltanto Sheila salutò, abbracciando Anna. I genitori si avvicinarono a Maryam, che rimaneva accovacciata sulle ginocchia, immobile. Anna chiese: «Stai bene, bambina mia?». Maryam sollevò il capo.

«Elisabetta avrà presto un figlio.» annunciò. Johakim e Anna si guardarono stupiti. Maryam espresse il desiderio di andare da lei. Sembrava che avesse la febbre. Anna l’accompagnò su e l’aiutò a mettersi a letto.

Elisabetta sapeva del grande compito per il quale Maryam era stata preparata e fu molto sorpresa per quella visita. Le venne spontaneo accoglierla con un: «A cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?». «Sì.» rispose Maryam. «Il Signore ha guardato con benevolenza la sua serva. Vedo che tu avrai presto un figlio.» «Ecco. Senti… si muove.» Aveva appena abbracciato Maryam e ne portò la mano sul suo ventre. «Ma raccontami di te.» Maryam fece un resoconto ragionevolmente fedele di ciò che era accaduto e Elisabetta ne rimase turbata. «Chi erano gli altri visitatori?» chiese. «Mio padre ha fatto il nome di Sheila e il vecchio… Ha detto che tutti lo chiamano il Custode.» «Non c’era Pavlov?» Maryam esitò. «No, nessun altro.» aggiunse. «Mi dici che l’angelo… sì, quello che hai chiamato angelo… ti ha toccata.» «Sì. Mi ha tenuto la testa tra le mani ed ha appoggiato la sua fronte sulla mia.» Elisabetta rimase pensosa, cercando di capire che cosa fosse veramente accaduto. Infine intuì la verità.

«La Guida tanto attesa, il Salvatore del Mondo è già in te». «Davvero?» chiese Maryam, sorpresa. Un attimo dopo capì e gridò: «Sì! E’ così! E’ così!».

Le due donne si ricoprirono a vicenda di attenzioni, fino all’ultimo mese di gravidanza di Elisabetta. Una sera, quando ormai mancava poco al parto, arrivò Johakim per portare via Maryam. «Padre, perché? Mancano ormai pochi giorni.» «Yosef vuole sposarti. Ti ama molto e soffre per la tua lontananza.» «Sposerò Yosef?» domandò Maryam. «Sì, è lo sposo che è stato scelto per te.» Durante il viaggio, Maryam spiegò il vero significato di ciò che era successo e si aspettava incredulità da Johakim, che invece si limitò a commentare: «Mi era stato detto che sarebbe successo, ma non così. Soprattutto non così presto». «Perché dici questo?» «Doveva succedere dopo le nozze. Ora Yosef potrebbe respingerti.» «Dopo le nozze, avrebbe potuto essere lui il padre.» «Forse. Ma come faremo a dirglielo?» «Gli parlerò io. Gli dirò quello che è successo, esattamente come è successo. Ne sarà felice. Vedrai.» «Spero che tu abbia ragione.» Johakim era preoccupato.

La sera successiva al loro rientro, Yosef bussò alla loro porta per avere notizie. Gli aprì Maryam, che lo salutò: «Shalom.» «Maryam!» esclamò Yosef. «Oh… Maryam.» Venne loro spontaneo abbracciarsi. Chiuso l’uscio, Maryam volle informarlo. Cominciò lodando il Signore per la sua benevolenza e disse del figlio che aveva dato a Elisabetta. Poi parlò della visita dell’angelo, che le aveva detto che da lei sarebbe nata la Guida di Israele. Il viso di Yosef tradiva la sorpresa, che gradualmente si trasformò in un’espressione di sofferenza. «Nooo!» esclamò, quando comprese che anche Maryam aspettava un figlio. «Sì. E’ tutto vero. E’ già qui.» Maryam cercò di portare la mano di Yosef sul suo ventre, ma Yosef si svincolò. «No! No!» continuava a ripetere, allontanandosi da lei. «Yosef, ascoltami!». Yosef era ormai sull’uscio. «Yosef!» chiamò Maryam, «Ti prego!» Yosef scappò via. Maryam si rifugiò tra le braccia di Anna. «Oh, madre!» Anna cercò di consolarla. «Non piangere, bambina mia. Tornerà. Vedrai che tornerà.»

Yosef corse fino a quando cominciò a mancargli il fiato. Rallentò, ma continuò spedito, per allontanarsi il più possibile da quella casa.

«“La sposa ideale per te”… Che sfrontatezza! Crede proprio che io sia un idiota!» cominciò a dire. Era furioso. «…“E’ promessa a te”… Maledetta ruffiana!» Era ormai sufficientemente lontano che il paese si vedeva appena. Si sedette sotto un albero. «Prima me la gettano fra le braccia, poi la fanno sparire fino a farmi impazzire. E quando torna… è in quello stato!» Ripercorse mentalmente ciò che era successo durante le sue visite e si convinse che avevano tentato di intrappolarlo. «Tutte quelle storie sulle sgorbie. Tutto organizzato! Che intriganti!» Lo sfogo cominciava a fargli bene. La rabbia stava calando. «Tutto organizzato.» ripeté, «Per salvare la figlia dalla lapidazione!… Ed io che pensavo che potessero trovare di meglio per lei. Invece volevano proprio me… Hanno scelto bene: un uomo anziano che comincia a sentire il peso della solitudine, il più vulnerabile.» ò dal rancore verso loro alla rabbia verso se stesso. «Il più vulnerabile!» ripeté. «Anzi, il più stupido!» La rabbia cedette all’autocommiserazione. Soffriva. All’improvviso gli tornò alla mente una delle ultime cose che aveva detto: la lapidazione. Sentì comione. «La lapidazione, no! Che legge crudele!» Rivide Maryam sull’uscio e la gioia con la quale l’aveva accolto. «Non posso lasciarla lapidare. Proprio non posso.» Si rese conto che l’amava troppo, e l’idea di vederla sotto il tiro delle pietre era insopportabile.

«La sposerò. Sì, la sposerò e poi la ripudierò. Questo la legge me lo consente.» Era ormai notte, senza luna, con un meraviglioso cielo stellato. Guardando quelle stelle, Yosef si sentì vecchio, stanco e terribilmente solo. Gli tornarono in mente alcuni di quei brevi momenti di grande felicità provati in quella casa e sentì tutta la sofferenza per ciò che aveva perduto. «Oh, Maryam, perché… perché…» disse a voce alta. Si coprì gli occhi: stava piangendo. Come li socchiuse, vide un chiarore: erano dei piedi nudi. Sollevò il capo con una violenza tale da batterlo sul tronco. Davanti a lui c’era un fantasma. Schizzò di lato, carezzandosi la testa, ma non fuggì. Doveva capire. Elì sembrò ignorarlo. Si sedette ai piedi dell’albero, dove prima c’era Yosef e disse: «Hai deciso saggiamente. Tu prenderai Maryam come tua sposa». Non c’era traccia di barba sul suo viso, ma la voce che sentiva era la voce di un uomo. Yosef era sbalordito. Sentiva distintamente quella voce, ma non vedeva il movimento delle labbra. Yosef si avvicinò, incuriosito. Che fosse lo stesso angelo di cui parlava Maryam? Sembrava conoscere i suoi pensieri. Che cosa poteva volere da lui? Elì continuò: «Ti preoccupi tanto per la verginità di Maryam. Ebbene, sappi che Maryam è pura». «Ma… aspetta un bambino!» protestò Yosef. «Ciò che sta maturando in lei non è opera di un uomo, ma è il prodigio di una mente superiore. Maryam è stata preparata per questo.» Yosef esitava. Per fugare ogni dubbio, Elì aggiunse: «Tu conosci le scritture: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio…”». «Sì!» ricordò Yosef, «Sono parole del profeta Isaia».

«Il bambino che nascerà, e che chiamerai Yeshùa, avrà il compito di salvare il Mondo.» L’enormità di quella dichiarazione colpì Yosef, che era un uomo semplice e pratico. «Perché io?» chiese timidamente. «Tu sei stato scelto; Maryam è stata scelta; il popolo di Israele è stato scelto. Questa terra è la più fertile per accogliere e diffondere la buona notizia, e tu hai il compito di essere sposo e padre, perché Maryam non abbia a sottostare al rigore della legge.» Yosef capì che non esistevano alternative: doveva seguire ciò che era stato predisposto e deciso per lui. «Che cosa devo fare?» chiese. «Devi allevare Yeshùa come figlio tuo e insegnargli tutto quello che sai. Lo amerai, e questo ti sarà facile, perché Yeshùa saprà farsi amare. Ti sarà più difficile vivere in modo da essergli d’esempio, misurando ogni tua azione e ogni tua parola. Confido molto sulla tua rettitudine e sulla saggezza di Johakim, che ti aiuterà.» Elì divenne più luminoso e cominciò a rimpicciolirsi; si sollevò da terra distendendosi e attraversò i rami dell’albero. Yosef rimase imbambolato a fissare il cielo dove era sparita quella macchia luminosa. Gli ci volle qualche tempo per rendersi veramente conto di ciò che era accaduto. Era ormai notte inoltrata e faceva freddo. «Ecco cosa cercava di dirmi. E’ lei la prescelta, ed io l’ho abbandonata.» Si avviò a o svelto verso il paese, anche per sentire meno il freddo. Giunse all’uscio della casa poco prima dell’alba, ma non esitò a bussare e a chiamare a gran voce: “Maryam!”.

Gli aprì Johakim. Yosef irruppe nella stanza e si inginocchiò ai piedi di Maryam, che era appena arrivata dal piano superiore. «Perdonami! Perdona la cecità di quest’uomo! Perdonami!» Maryam strinse la sua testa al proprio ventre. Quell’uomo maturo, rude e burbero stava piangendo. Maryam si chinò per farlo alzare, e Yosef rimase a capo chino per la vergogna della poca fiducia dimostrata. Dovette intervenire Johakim, che lo scortò al tavolo. Si sedette su una panca e Anna gli porse una ciotola di latte di capra appena munto. Yosef ne bevve alcuni sorsi, poi allontanò la ciotola per far spazio alle braccia, vi appoggiò il capo e si addormentò.

Cap. 11 – Betlemme

Le notti erano sempre più lunghe, con una luna ogni giorno più sottile. Nel cielo comparve un punto luminoso più brillante di qualsiasi altra stella. Elì aveva chiesto a Mohadran un segno del cielo che annunciasse l’imminente nascita del Salvatore, e Mohadran aveva preparato la navetta in modo da farla sembrare una cometa: aveva riempito di luci la parte inferiore e aveva sistemato un potente faro nella parte superiore, puntato verso l’alto. A quei tempi, erano in molti a studiare le stelle, perché servivano per orientarsi dopo il tramonto, ma furono i più dotti a notare quanto fosse strana quella cometa. Puntava verso la terra anziché verso il sole, e su un punto preciso della terra: Betlemme. Così qualcuno cominciò a dirigersi verso quel luogo per scoprire che, notte dopo notte, quell’oggetto celeste si avvicinava sempre più alla Terra.

Yosef cercò di spiegare a Maryam una cosa nuova, che lui stesso non aveva capita bene. «I romani vogliono che ogni uomo dell’Impero si registri, con la sua famiglia, nel paese d’origine. Lo chiamano “censimento”.» «Che cosa dovresti fare?» chiese Maryam. «Sembra una cosa semplice: Scriveranno il mio nome e la mia età, e faranno lo stesso per i membri della mia famiglia. C’è solo un problema: io sono nato a Betlemme.» «Betlemme è molto lontana. Non possiamo fare un simile viaggio nel mio stato, con il bambino che sta per nascere.» «Hai ragione. Potrei andare da solo, e sarei di ritorno in una settimana.» Intervenne Johakim: «“…tu Betlemme non sei certo l’ultima città della Giudea,

perché da te nascerà…”». Yosef e Maryam si guardarono stupiti. Entrambi sapevano che quella citazione proveniva dalle scritture, che Johakim conosceva bene. Era dunque questo, e il censimento era solo un pretesto per portarli a Betlemme, perché si avverasse quella profezia. Johakim continuò: «Tra qualche ora erà di qui una carovana diretta a Gerusalemme, e viaggerete con loro. Poi sarà facile proseguire da soli, perché vi guiderà una stella». Yosef intuì che era stato tutto organizzato e che così doveva essere. Infatti, quando furono pronti, trovarono un asino fuori dall’uscio per il viaggio, e poco dopo comparve la carovana.

Durante la prima sosta, fatta per mangiare un pasto frugale, si avvicinò una donna con una bisaccia sulle spalle, che si mostrò molto affettuosa con Maryam, quasi materna. Si unì a loro per il resto del viaggio, cercando di essere d’aiuto. Inoltre si offrì come guida, poiché conosceva bene quei luoghi. A Betlemme li attendeva una brutta sorpresa. «Non c’è posto.» disse il locandiere. «Com’è possibile? Avete fin troppe stanze per le poche persone che ano di qua.» «C’è questa strana cometa sul paese. Siamo pieni da giorni, e continuano ad arrivare.» «Mia moglie sta per avere un bambino. Non potreste preparare un giaciglio, almeno per lei?» chiese Yosef. «Abbiamo riempito i pavimenti di giacigli improvvisati. Siamo pieni, pieni, pieni. Non troverete un posto in tutta la città. Tornate a Gerusalemme.» Yosef si stava lasciando prendere dallo sconforto.

«Cosa facciamo? Comincia a far buio.» Intervenne Zelomi, la loro nuova amica. «Conosco una grotta subito fuori dal paese, una specie di stalla. Ci rifugeremo là per la notte, e domani troveremo qualcosa.» Giunsero alla grotta che era ormai notte. Appena entrati, Zelomi disse a Yosef: «Trova un po’ di legna. Dobbiamo accendere un fuoco, perché farà freddo». Yosef si allontanò, cercando di tornare prima possibile con un po’ di legna. Al rientro lo aspettavano delle sorprese. La grotta ora era illuminata dalla debole luce di una lanterna a olio. Era veramente una stalla, con una mangiatoia in pietra piena di paglia, e un grosso bue sdraiato davanti. Zelomi stava preparando un giaciglio di paglia, prendendola dalla grande mangiatoia. «E’ cominciato il travaglio.» annunciò. «Prendi la lucerna e accendi il fuoco.» «Vado a cercare aiuto.» «Non c’è tempo. Ma non devi preoccuparti, perché io sono un’abile levatrice.» «Dove hai trovato la lucerna?» «La porto sempre con me quando viaggio.» spiegò Zelomi. Poi aggiunse: «Porta dentro anche l’asino, contribuirà a riscaldare questo posto». Yosef aveva appena iniziato a preparare paglia e sterpi, quando Zelomi gli diede altre istruzioni: «Non là. Sei troppo al centro della grotta. Tieniti un po’ più vicino all’entrata». Yosef avviò il fuoco e riportò la lucerna presso le due donne. Zelomi aveva appena finito di sistemare Maryam sul giaciglio di paglia e stava estraendo dei panni puliti da una delle borse della bisaccia. Prese anche un pentolino di rame.

«Prendi l’acqua dall’abbeveratoio e scaldala.» Yosef notò finalmente il grosso recipiente di terracotta, che era pieno di acqua fresca, come se qualcuno l’avesse appena rifornita. Notò che anche la stalla era incredibilmente pulita. Curò il fuoco e scaldò l’acqua. Era ormai notte inoltrata quando Zelomi disse: «Ci siamo. Vieni, Yosef, mi devi aiutare». «Io?» «Sì, mi devi tenere la lucerna. E bada di non inclinarla, per non fare uscire l’olio.» Così Yosef dovette tener d’occhio la lucerna e, allo stesso tempo, stare attento che non mancasse la luce a Zelomi. Quando vide con quale abilità Zelomi faceva are prima una spalla, poi l’altra, esclamò: «Tu sei una benedizione del Signore!». «Qualcosa del genere.» commentò Zelomi. Era in realtà una delle assistenti di Pavlov. Pulì il bambino e lo stese sul ventre di Maryam. Finalmente riuscirono a riposare un po’.

Era da poco sorto il sole quando il bambino reclamò il suo primo pasto. Qualcuno, fuori dalla grotta, sentì quel pianto e gridò: «E’ qui! L’ho trovato. E’ qui!». Yosef si alzò e si diresse verso l’entrata. Vide in controluce la sagoma di un uomo. Subito dopo arrivò correndo un secondo uomo. «Cosa volete?» chiese. «Abbiamo avuto una visione, forse un angelo. Ci ha detto che stanotte è nato il

Salvatore, l’Unto del Signore.» Elì si era lasciato prendere dall’entusiasmo. Compariva a chiunque si fosse trovato sufficientemente vicino alla grotta per dire: “E’ nato!”. Era la prima volta che qualcuno dava esplicitamente quel titolo al bambino. Yosef sentì il cuore gonfiarsi nel petto, ma riuscì a dire: «Venite». Davanti a Maryam che allattava il bambino, i due pastori caddero in ginocchio e ringraziarono Dio per aver dato loro quel privilegio. ò un po’ di tempo e Yosef cominciò a sentire fame. «Hai qualcosa da mangiare in quelle tue borse portentose?» chiese a Zelomi. Sembrava che contenessero sempre ciò che serviva. «No, abbiamo finito l’ultimo pane ieri. Mi dispiace.» I due pastori sentirono quella richiesta. «Abbiamo sempre qualcosa con noi quando usciamo con il gregge. La divideremo con voi.» disse uno. L’altro notò il pentolino e disse: «Abbiamo le nostre pecore qui fuori. Vi daremo un po’ di latte». Più tardi arrivarono altri pastori e altri ancora il giorno dopo.

In un primo tempo, Elì si era sentito scoraggiato per la morte di Pavlov. Escludendo la ricostruzione del laboratorio, che altro poteva fare? Forse avrebbe potuto usare i suoi poteri, ormai pienamente sviluppati. Si era concentrato su questa possibilità e aveva ato alcuni mesi a definire bene cosa doveva fare e come voleva che fosse il Salvatore del Mondo. Quando si sentì pronto, si presentò, con Sheila e il Custode, alla casa di Johakim. Ora il bambino era nato ed era esattamente come lui l’aveva voluto. L’entusiasmo lo spinse a fare una cosa che si sarebbe rivelata un grave errore: annunciare la nascita al Sovrano di quel paese. Così, qualche giorno dopo la nascita, Elì si presentò a Erode.

«Chi siete?» chiese Erode. Era impressionato dalla ricchezza dei loro abiti, specialmente quello di Mohadran, che era al centro. Alla sua destra c’era Elì e alla sua sinistra Toshiro, vestito come un dignitario giapponese. Erode fu sorpreso dagli strani occhi di Toshiro e dalla pelle scura di Mohadran, tipica dell’India meridionale. Elì invece era pallido, con una carnagione eccezionalmente bianca. Era perfettamente rasato e sembrava più giovane di quanto fosse in realtà. Naturalmente erano arrivati con una scorta di cavalieri armati. Rispose Elì, l’unico in grado di comunicare. «Per il vostro Mondo siamo dei Re, e veniamo dal lontano oriente, da tre paesi diversi. Abbiamo letto i segni del cielo e abbiamo seguito la stella. Siamo venuti per adorare il nuovo sovrano, che è nato.» C’era una punta di orgoglio in quell’annuncio e si aspettava una reazione di gioia. La risposta invece fu rude. «Qui non è nato alcun sovrano e i miei figli sono ormai adulti. Qui adoriamo solo Dio.» Elì si rese conto che parlavano due linguaggi diversi, e cercò di spiegare: «Colui che è nato sarà chiamato il Re dei Re ed è destinato a governare il Mondo». «Qui l’unico Re sono io e nessuno governerà il mio regno. Mai!» Erode cominciava a mostrare irritazione e Elì cercò di rassicurarlo. «Solo tu governerai questo regno e tuo figlio dopo di te. Ma nel tuo regno, non lontano da qui, è nata la Guida di Israele annunciata dalle scritture. Dovresti essere felice per il privilegio di essere testimone dell’adempimento della profezia». Le parole “scritture” e “profezia” indussero Erode ad una maggiore prudenza. «Dov’è nato questo nuovo Re?» chiese.

«Vedo che sei meno informato di noi. Abbiamo studiato le scritture e abbiamo seguito la stella, che ci ha guidati fin qui.» «Bene. Quando l’avrete trovato, informatemi, perché anche io possa… adorarlo.» Elì percepì qualcosa di minaccioso in quella voce. Era evidente che quell’uomo aveva paura e che vedeva il nuovo nato come un possibile pericoloso rivale. Si rese conto della totale incomunicabilità che c’era tra loro e decise di accomiatarsi. Fece un profondo inchino e si diresse verso l’uscita, seguito da Mohadran e Toshiro. I tre avevano appena lasciato la Sala del Trono che Erode ordinò di seguirli per scoprire dove era nato il nuovo Re. Poi consultò i saggi, per sapere cosa dicevano le scritture su colui che era stato definito “la Guida di Israele”. Scoprì così che il luogo citato era Betlemme e, in effetti, i tre Re con la loro scorta si erano diretti a sud.

«Quell’uomo!» si lamentò Elì. «Così attaccato al quel poco che ha, che non vede l’enormità di ciò che sta accadendo a un o da casa sua.» «Non ho capito cosa vi siete detti, ma da come ha reagito, mi pare che ha preso molto male la notizia.» «Sì, Mohadran. E’ preoccupato. Di più! E’ spaventato. La paura lo può rendere pericoloso.» «Temo che ci stia facendo seguire.» osservò Toshiro. «Accampiamoci a est del paese. Mentre loro terranno d’occhio le nostre tende, noi raggiungeremo la grotta a piedi.» propose Elì. «Dovresti rinunciare a vedere il bambino.» suggerì Mohadran. «Devo vederlo. Saremo prudenti.» Così, quando nell’accampamento l’ultimo dei fuochi fu spento, si avviarono verso la grotta.

Man mano che la navetta si avvicinava alla Terra, venivano attenuate le sue luci, come se la cometa si stesse consumando. Si vedeva ormai a stento soltanto la notte, e il giorno della visita a Erode era scomparsa del tutto. Mohadran aveva sistemato un faro in un’incavatura sopra la roccia, in modo da creare una colonna verticale di luce. I pastori collegarono la scomparsa della cometa con quella colonna di luce e pensarono che, quel giorno, la cometa si fosse posata sulla grotta, come omaggio del cielo al nuovo nato. Lasciato l’accampamento, i tre Re presero la direzione giusta verso la grotta, ando ai margini del paese. Non ci volle molto per individuare la colonna di luce, ma giunsero alla grotta soltanto a mezzanotte. Davanti alla grotta c’erano ancora alcuni pastori, attorno ad un fuoco. I pastori avevano fatto in modo che alla famiglia di Yosef non mancasse nulla; ora avevano delle pelli di pecora da mettere sulla paglia e qualche coperta di lana. Yosef si preoccupava che il fuoco, all’interno della grotta, fosse sempre , perché la notte faceva freddo. Zelomi curava la pulizia, cosa di un certo impegno data la presenza dei due animali. Yosef fu molto sorpreso dall’arrivo dei tre Re. Maryam dormiva già, coricata su un fianco, con il bambino rannicchiato nella cuccia tra le gambe e le braccia. I tre personaggi si avvicinarono ed Elì s’inginocchiò davanti al bambino; posò le mani sul suo capo, che si circondò di un’aureola. Quando Elì si alzò, Yosef notò una certa somiglianza con l’angelo che gli aveva parlato, ma non disse nulla. I tre Re lasciarono i loro doni e ripresero il cammino in direzione opposta rispetto a quella da cui erano arrivati. Non molto lontano li attendeva la navetta per riportarli alla Base.

Le spie di Erode tennero d’occhio l’accampamento per due giorni, fino a quando i soldati della scorta dei tre Re non smobilitarono.

Le spie furono molto sorprese, quando videro i soldati allontanarsi dal paese. Li seguirono, per rendersi presto conto che erano diretti verso il confine orientale. Erode s’infuriò talmente ad apprendere che erano stati ingannati, che colpì il messaggero con lo scettro. «Uccideteli!» urlò, «Uccideteli tutti!» Ci fu un momento di disorientamento. Uccidere i Re e la loro scorta? Venne però immediatamente il terribile chiarimento. «Uccidete tutti i neonati di Betlemme!» Il consigliere più autorevole, l’unico che avesse un minimo di ascendente su Erode, cercò di farlo ragionare, facendo notare l’assurdità di una tale richiesta. Era il consigliere che era riuscito a trattare con l’Impero Romano ottenendo che Erode conservasse il governo del proprio regno. «Non sappiamo quando è nato, e ora potrebbe avere un mese, o forse un anno. Sarebbero troppi i bambini da uccidere.» Purtroppo quell’osservazione non ebbe l’effetto sperato. «Uccidete tutti i bambini che troverete a Betlemme… fino all’età di due anni!»

La strage era già iniziata quando Mohadran ne ebbe notizia. Si precipitò dal Lama. «Quel pazzo sanguinario sta facendo uccidere i bambini di Betlemme. Dobbiamo fermarlo!» Elì era ripiegato su se stesso, sofferente. Mohadran propose: «Faccio saltare in aria la sua reggia con tutto quello che c’è dentro». «Ti prego… non farlo.» mormorò Elì.

Mohadran era sorpreso. «Almeno lui. Dobbiamo punire almeno lui.» insisté. Elì si lasciò sfuggire un gemito. Strinse forte le braccia sul ventre, accartocciandosi. A fatica riuscì a dire: «Non… fare… nulla». Mohadran si rese finalmente conto che Elì era in preda a forti dolori. «Ma che ha?» chiese al Custode Prabhorak. «Si sente responsabile per ciò che sta accadendo.» «Ma sta soffrendo fisicamente. Com’è possibile?» «Sente le spade dei soldati nelle sue carni.» spiegò il Custode. Lo stupore di Mohadran non durò molto. «Porta… il bambino… al sicuro!» invocò Elì. «Il bambino!» esclamò Mohadran, e corse via.

Pochi minuti dopo, la navetta si posava direttamente sopra la grotta, tra lo stupore dei pastori. Il trambusto richiamò l’attenzione di Zelomi, che uscì dalla grotta in tempo per vedere Mohadran, il giovane figlio Giuda e Toshiro scendere dalla navetta. «Sono andati a Gerusalemme!» urlò in sanscrito. «Hanno portato il bambino al Tempio.» I tre partirono immediatamente per Gerusalemme. In vista della città, Toshiro scese di quota per procedere raso terra e sollevare abbastanza polvere, nella speranza di non dare troppo all’occhio. Atterrò molto vicino alla città da poter raggiungere a piedi il Tempio in un tempo ragionevolmente breve. Giuda era il più veloce, data la sua giovane età, ed era l’unico a conoscere la

lingua del posto. Così fu lui a correre verso il Tempio.

Era l’ottavo giorno dalla nascita e Yosef, sempre ligio alla legge, aveva portato il bambino al Tempio per la circoncisione. Il tavolo per l’operazione era ben illuminato e la debole aureola attorno al capo del bambino non era visibile. Tuttavia uno dei sacerdoti più anziani, Simeone, intuì che c’era qualcosa di straordinario in quel bambino, non fosse altro perché aveva pianto meno di chiunque altro. Così li seguì e, giunto all’uscita, chiese di vedere nuovamente il bambino. Maryam si ritrasse in un punto più riparato e scoprì il capo del bambino, ma la luce in quel punto era sufficientemente tenue da rendere visibile l’aureola. «E’ lui!» esclamò Simeone. Poi, rivolgendo gli occhi al cielo, disse: «Dio, ti ringrazio per aver ascoltato le mie preghiere. Ora posso morire in pace». Si avvicinò anche una vecchia, che rimase incantata da quella meraviglia. Yosef cominciava a essere preoccupato per l’attenzione che il bambino stava richiamando su di se, quando sentì qualcuno urlare il suo nome. Era Giuda che si era fermato, ansimante, a pochi metri dal Tempio. «Yosef! Maryam!» chiamò ancora. Maryam coprì il bambino e si diresse decisa verso Giuda, volendo accettare qualunque pretesto per sottrarre il bambino alla curiosità della gente. Si avvicinò anche Simeone, abbastanza da sentire ciò che dicevano. «Dovete fuggire. Erode sta cercando il bambino per ucciderlo.» «Uccidere un neonato? Perché mai?» chiese sorpreso Yosef. «Ha paura di un nuovo Re. Dovete lasciare il suo regno.» «Verso l’Egitto?» chiese Yosef. «Da qui è il confine più vicino.» Giuda aveva ripreso fiato. «Qualunque luogo, purché facciamo presto.»

Yosef aiutò Maryam a salire sull’asino e si incamminarono di buon o verso l’Egitto, e quel paese rimase nella tradizione come rifugio per la famiglia di Yosef. In realtà Giuda li condusse alla navetta. Quando Giuda li invitò a entrare, Yosef esitò. «Che strana casa è questa!» «Non è una casa. E’… è una specie di carro.» «Un carro? Non vedo ruote; ed è troppo grosso per essere trainato dal nostro asino!» Giuda divenne impaziente. «Non c’è tempo ora per le spiegazioni! Lasciate l’asino lì ed entrate.» L’aspetto di Mohadran era troppo particolare perché Yosef non lo riconoscesse come uno dei tre Re, nonostante avesse ora vestiti molto più semplici. Ma la sua sorpresa più grande fu la vista dell’interno della navetta, pieno di cose incredibili. Giuda chiuse il portello e li fece sedere. Esitò un momento, poi decise di non usare le cinture. «Tenetevi ben saldi ai braccioli… così. Stiamo per partire.» «Pronti?» chiese Toshiro dal posto di pilotaggio. «Vai!» rispose Giuda. Yosef sentì quello strano carro muoversi, ma non sollevarsi, perché Toshiro partì raso terra, com’era atterrato. Quando fu abbastanza lontano da Gerusalemme, guadagnò quota, ma così dolcemente che Yosef non si rese conto che stavano volando. Naturalmente andarono dalla parte opposta rispetto all’Egitto, verso la loro Base e, poco tempo dopo, atterrarono ai margini della Tendopoli. Qui li attendeva una gradita sorpresa: vennero infatti accolti dai genitori di

Maryam, poiché Johakim aveva approfittato della loro assenza per andare a trovare gli amici. I nuovi arrivati furono separati per essere lavati e curati, soprattutto il bambino, che era stato appena circonciso. Si ritrovarono tutti a pranzo, per del buon cibo e un po’ di riposo. Mohadran aveva cercato di raggiungere il Lama per informarlo, ma fu intercettato dal Custode, al quale chiese: «Come sta?». «E’ ancora sofferente.» rispose Prabhorak. «Ora controlla meglio il dolore, ma si sente responsabile…» «E’ responsabile!» lo interruppe Mohadran. «Non lo capirò mai!» dichiarò per l’ennesima volta. «Prima, lo vuole fare nascere povero tra i poveri, poi ci fa tanto chiasso attorno. La finta cometa… le apparizioni ai pastori…» «I poveri sono il terreno migliore, il più fertile per ricevere e propagare…» cercò di spiegare Prabhorak. Mohadran lo interruppe nuovamente, proseguendo con il suo sfogo: «Andare da Erode! Che pazzia!». Mohadran si fermò. Prabhorak, che gli camminava accanto, si voltò verso di lui. «Voleva vedere il bambino a tutti i costi. Perché non farlo portare qui prima? Era la cosa più logica da fare.» disse Mohadran. «Sì, e lo vorrà vedere ancora, molto presto.» «Cosa ne facciamo?» «Sarà nostro ospite. Tutti saranno nostri ospiti.» rispose Prabhorak. «Qui potrebbero vedere cose… strane.» «Sì, ma almeno saranno al sicuro. Il bambino ha bisogno di cure e qui potrà ricevere un’assistenza adeguata.» «Fino a quando?» chiese Mohadran.

«Finché potranno tornare a Nazareth e viverci tranquilli.» Dopo un po’ aggiunse: «Cose strane?… Li hai portati qui con la navetta. Che altro potrebbe sorprenderli?».

arono alcune settimane e una certa inquietudine andava crescendo nel Custode. Il Lama si era ripreso dal terribile shock della strage, grazie soprattutto all’eccezionale controllo che aveva sul proprio corpo e sulla propria mente. Prabhorak decise di andare a chiedergli consiglio e conforto. Il colloquio fu molto breve, perché il Lama conosceva troppo bene il Custode e le parole divennero presto inutili. Lo benedisse ponendogli le mani sul capo e Prabhorak lo ringraziò; poi lo salutò con un profondo inchino. Ora sapeva cosa fare. Mohadran fu sorpreso dal ricevere la visita del Custode, che non era mai andato da lui. «Sono venuto per accomiatarmi.» «Accomiatarti? Dove può andare un monaco buddista in questo mondo di selvaggi?» Prabhorak sorrise per l’equivoco e scosse il capo. «No! Devi farmi ibernare.» La richiesta aumentò la sorpresa di Mohadran, che chiese: «Perché?». «Sono troppo avanti con gli anni. Se voglio avere qualche possibilità di vedere l’opera del Salvatore devo fermare il tempo per almeno venti anni.» «Così tanto? Ti ci vorrà una riabilitazione lunghissima.» «Ho visto nascere il Lama e gli c’è voluto più di un ventennio per sviluppare completamente i suoi poteri, nonostante il vantaggio di essere la reincarnazione del Lama precedente.» «Capisco. Yeshùa però avrà dei maestri eccezionali, primo fra tutti lo stesso Lama. La sua preparazione dovrebbe essere più rapida.» osservò Mohadran.

«No. Il Lama vuole che sia inserito in questo mondo, perché è il mondo nel quale dovrà operare. La sua preparazione sarà certamente più rapida, ma inizierà in ritardo. Puoi svegliarmi quando lui sarà pronto?» «Certamente. Per entrare in ibernazione dovrai seguire accuratamente le istruzioni che ti saranno date. Dovrai digiunare per alcuni giorni e il tuo corpo dovrà essere pulito dentro e fuori. Verrai immerso in un liquido speciale per limitare la disidratazione. A tutto il resto, provvederà la capsula, con il monitoraggio e la correzione di ogni eventuale alterazione.» «Farò tutto ciò che sarà necessario. Ti sono molto grato per permettermi di usare una delle tue capsule!» «Maledizione!» esclamò Mohadran. «Dovremo farci ibernare anche noi!». L’intensa attività degli ultimi anni gli aveva fatto dimenticare completamente che le capsule erano anche per loro. Non gli piaceva affatto l’idea di dover fare una cosa del genere, ma convocò subito Toshiro per informarsi sullo stato delle capsule. Chiese di prepararne subito una per il Custode, e seguì uno scambio di battute su quello che poteva essere il miglior utilizzo delle capsule. Escludendo il Lama e Giuda, perché ancora abbastanza giovani, le capsule avrebbero accolto il personale scientifico del quale si sarebbe potuta rimandare l’attività e che sarebbe stato utile in seguito. Assistendo alla conversazione tra i due, Prabhorak fu preso da scrupoli. «Una capsula per me è uno spreco inutile. In realtà io non sono più necessario.» Mohadran e Toshiro si scambiarono un’occhiata. «Abbiamo la capsula di Pavlov,» disse Mohadran al Custode, «e comunque una capsula per te ci sarà sempre. Non è indispensabile l’ibernazione di Sheila. Sarà ancora giovane tra venti anni, e sinceramente preferisco rinunciare a una moglie giovane, piuttosto che sottoporla a una così brutta esperienza.»

Cap. 12 – I Dottori della Legge

Johakim aveva ripreso un minimo di attività commerciale ed aveva fornito a Yosef gli strumenti per permettergli di lavorare come falegname presso la Tendopoli. In realtà non c’era molto da fare per lui, e così poté impiegare la maggior parte del suo tempo per diventare un abile incisore. Yeshùa cresceva bene, tra mille attenzioni. Era l’unico bambino della Tendopoli e in pratica crebbe tra gli adulti. Ci furono soltanto alcune visite di Elisabetta con il figlio Johànan, coetaneo di Yeshùa. Erano ati poco più di due anni, quando giunse la notizia della morte di Erode. Il successore, Erode Antipa, non era un buon governante. Amante della buona tavola, era già piuttosto grasso, cosa che risaltava particolarmente data la sua bassa statura. Incoronato Re, delegò ad altri le incombenze del governo, soprattutto al saggio Consigliere, lo stesso che era riuscito a permettere al padre Erode di conservare un certo controllo sul regno, nonostante il dominio dell’Impero Romano. Prima di morire, Erode aveva diviso il suo regno destinando la parte più importante al più dotato dei suoi figli, Erode Filippo. Fu il Consigliere a convincerlo di preferire Erode Antipa, con il quale gli sarebbe stato più facile mantenere il controllo di tutto. In effetti, dopo qualche anno, il Consigliere diventò il vero amministratore plenipotenziario del regno.

Elì decise che era giunto il momento per la famiglia di Yosef di far ritorno a Nazareth, poiché era sempre dell’idea che Yeshùa dovesse crescere nel paese dove avrebbe dovuto operare. Comunque, li avrebbe tenuti costantemente sotto la sua protezione, facendosi vivo ogni volta che si fosse reso necessario. Naturalmente partirono anche Johakim e Anna.

Johakim parlava ormai solo in sanscrito, lingua che Anna riusciva a capire, anche se rispondeva sempre in aramaico. L’aramaico era l’unica lingua che tutti potevano capire, dalla Persia all’Egitto, poiché la Torah di qualunque Tempio veniva letta e commentata in aramaico. Così Yeshùa crebbe imparando bene le due lingue, che gli sarebbero state molto utili in seguito. Yosef parlava il dialetto di Nazareth e solo occasionalmente rispondeva in aramaico.

Al terzo anno, Mohadran e Toshiro vollero accomiatarsi dal Lama. «Abbiamo ibernato il Custode e quattro dei nostri migliori scienziati. Rimangono le ultime due capsule, per me e per Toshiro. Ho lasciato istruzioni perché gli scienziati siano risvegliati al momento che ciascuno di loro si riveli indispensabile per il buon funzionamento della Base. Noi due e il Custode verremo risvegliati quando Yeshùa sarà pronto.» «Forse questo richiederà più di venti anni.» li avvisò Elì. «Sì, e sarà necessaria una riabilitazione molto lunga. Per questo è opportuno ritornare un po’ di tempo prima dell’inizio della Missione.» Tutto sembrava ormai ben definito; così Elì cambiò argomento. «Come sta Sheila?» «Sheila è una donna forte, e almeno lei rimarrà a fianco di Giuda, che continuerà la sua preparazione.» rispose Mohadran. «So che è diventato molto bravo nelle arti marziali, grazie soprattutto alla guida di Toshiro. Tu sai, però, quanto io sia contrario ad ogni forma di violenza.» «Se Yeshùa sarà Re, Giuda potrebbe essere il suo generale. Per questo, la sua preparazione deve essere più completa possibile. Anche se…» Esitò, cercando un modo per esprimere i suoi dubbi. «…non è come tu lo avresti voluto!» completò Elì in modo sintetico. «Sì! Lui vorrebbe diventare uno scienziato.» spiegò Mohadran. «E’ un ottimo

matematico, parla correttamente cinque lingue ed è abilissimo con i calcolatori. Potrebbe non essere adatto per il compito che vorrei assegnargli.» «Perché no? Tutte queste cose gli saranno molto utili.» «Sì, ma… c’è qualcos’altro. Ha fatto amicizia con alcuni tuoi monaci ed è affascinato dai tuoi poteri. Gli hanno insegnato alcuni esercizi yoga, e c’è un monaco, in particolare, col quale sta sperimentando la telepatia. Temo che non riuscirà a essere un buon generale.» Lo sfogo di Mohadran fece piacere a Elì. «Non dovresti preoccuparti per lui. Sono certo che avrà un ruolo importante nella Missione.» Elì pose le mani sul capo di Mohadran, poi su Toshiro. Era un modo per benedirli e far capire che l’udienza era terminata. I due salutarono con mani giunte e inchino, e si allontanarono.

Yeshùa la mattina aiutava Yosef. Gli piaceva fare il falegname, e questo lavoro contribuiva a irrobustirlo. La sera, seduti intorno ad un braciere, ascoltava attentamente i racconti di Johakim. Johakim conosceva a memoria la Torah, che era stata il suo lasciaare in tante occasioni. Non si limitava a esporre i vari episodi, ma li arricchiva e li commentava, attingendo a volte dai testi sacri dell’antica India o agli insegnamenti dei monaci buddisti. Fu però sempre ben attento a non menzionare l’origine di questa sua sapienza per non confondere il giovane allievo. Quando vedeva Yeshùa un po’ svogliato o semplicemente stanco, raccontava dei suoi viaggi e di paesi lontani. A volte Yeshùa usciva con la madre per qualche commissione. Non parlava mai, ma osservava e ascoltava, assimilava ed elaborava. Aveva una curiosità enorme per tutte le cose: volle sapere come veniva fatto il vino e volle imparare a mungere le capre. Giunse anche per lui il momento di andare a scuola. Era la saletta annessa alla

sinagoga, dove i bambini venivano preparati per la cerimonia del Bar Mitzwah. Gli altri bambini si resero presto conto che Yeshùa era diverso. Erano soprattutto quei grandi occhi e il suo modo di guardare dritto in faccia le persone, che gli valsero il soprannome di “Occhineri”. Qualunque cosa gli si diceva in dialetto, lui rispondeva in aramaico, con una ricchezza e precisione degna di un Dottore della Legge. Naturalmente lo prendevano in giro. «Ti ha dato una piallata anche stamattina, tuo padre? Sei secco come un pezzo di legno.» «Forse… è di legno! Magari l’ha fabbricato Yosef: lo sanno tutti che è il più bravo falegname della regione.» Yeshùa sorrideva a quelle battute. All’inizio seguiva ivamente le lezioni del maestro Zaccheo, perché erano cose che conosceva già bene. Un giorno Zaccheo ebbe un vuoto di memoria, e a Yeshùa venne spontaneo offrire il suo aiuto. Seguì un breve dialogo, sufficiente perché l’insegnante si rendesse conto della profonda conoscenza che quel bambino aveva delle scritture. «Il figlio di Yosef? Come può il figlio di un falegname essere così preparato?» Yeshùa era un po’ imbarazzato, e si rese conto che si stava esponendo troppo. Cercò comunque di rispondere alla domanda di Zaccheo. «Mia nonna Anna è figlia del sacerdote Isachar e mio nonno Johakim ha una memoria prodigiosa: lui ascolta le letture nel Tempio la mattina e le ripete a me la sera, a casa.» «Vedo che anche tu hai un’ottima memoria.» Zaccheo adottò Yeshùa come suo assistente, e a volte chiedeva il suo intervento, quando non ricordava qualcosa. Purtroppo questo suscitò l’invidia dei compagni, che aumentarono le loro punzecchiature. Poiché Yeshùa non reagiva, cominciarono a pensare che fosse un vigliacco.

C’era tra loro un ragazzo piuttosto robusto, al quale piaceva fare il bullo. Un giorno stava tormentando un ragazzo più piccolo e, poiché questi osò rispondergli, il bullo lo afferrò per picchiarlo. «Lascialo immediatamente!» intervenne Yeshùa. «Di che t’impicci, razza di fifone?» e alzò il pugno per colpire la sua vittima. Il pugno rimase a mezz’aria, perché Yeshùa gli aveva afferrato il polso con una velocità e una forza che sorprese tutti. Il bullo cercò di abbassare il braccio, senza riuscirvi. Guardò Yeshùa in faccia ed ebbe paura per quello sguardo severo. «Lasciami!» implorò. Yeshùa allentò la presa e il ragazzo fuggì via. Qualche giorno dopo, il bullo cercò di vendicarsi per l’umiliazione subita. Arrivò correndo su Yeshùa da dietro e gli diede una manata sulla testa, proseguendo immediatamente la sua corsa. «Ehi! Che ti prende?» chiese Yeshùa sorpreso. Il bullo si fermò un istante, a distanza di sicurezza. «Volevo vedere se ci arrivavo.» «Quando ti decidi a crescere? Dovresti prepararti più seriamente per la cerimonia.» «Spilungone!» gli gridò quello, e scappò via. A parte questo spiacevole episodio, Yeshùa venne lasciato in pace. Ora tutti sapevano che non era un vigliacco, perché nessuno prima di lui aveva osato sfidare il bullo del paese. Venne finalmente il giorno della cerimonia e ogni ragazzo fu promosso allo status di “uomo”, membro della comunità a tutti gli effetti. Il maestro Zaccheo non poté fare a meno di lodare Yeshùa, che definì “il migliore studente che il paese abbia mai avuto”.

Più tardi, all’avvicinarsi dell’importante ricorrenza della Pesah, la Pasqua ebraica che celebrava la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto, Yosef propose di accompagnare il nuovo “uomo” al grande Tempio di Gerusalemme. La proposta fu accolta con entusiasmo, anche perché non erano più riusciti ad andarci dopo la nascita di Yeshùa. Così si associarono al gruppo che ogni anno si formava per quel pellegrinaggio, e partirono. Gerusalemme era piena di sorprese per Yeshùa. Il Tempio era enorme e maestoso da sembrare una reggia; c’erano molti sacerdoti e si parlava delle scritture dentro e fuori del Tempio. Fuori c’erano gruppetti di persone che commentavano le scritture e Yeshùa si rese conto del gran numero di dialetti. Per fortuna tutti conoscevano l’aramaico. Notò i banchetti dove si potevano acquistare gli animali da offrire in sacrificio, e il prezzo pagato da Yosef. «Come mai qui costano tanto?» chiese. «Potevamo portare le due colombe da Nazareth.» «E’ consuetudine acquistarle al Tempio.» rispose Yosef. «Questi uccelli sono stati allevati per questo scopo.» Si allontanarono dal Tempio, verso il mercato, che era poco distante. Qui c’era molta più gente, che veniva da tutto il paese per vendere e per comprare. Tra gli acquirenti c’era un gruppetto di soldati armati. «Quei soldati parlano in latino.» osservò meravigliato Yeshùa. «Sono soldati romani, e sono qui perché anche la Giudea è diventata provincia romana.» spiegò Yosef. «Il latino è la lingua universale dell’Impero, come l’aramaico lo è per gli Israeliti. Riesci a capirli?» «Abbastanza. E’ una delle cose che mi ha insegnato il nonno.» «Alcuni tra i più ricchi del nostro paese mandano i loro figli a studiare a Roma. E’ un grande vantaggio, perché ora anche il nostro paese fa parte dell’Impero.» «Come mai il nonno conosce tutte queste lingue?»

«Ha un talento naturale e ha viaggiato molto, perché era un mercante.»

Il giorno dopo la Pasqua, Yosef e Yeshùa si recarono al mercato per qualche acquisto prima della partenza. Yeshùa fu distratto da quattro uomini che, diretti verso il Tempio, discutevano sulla misericordia di Dio. Giunti al Tempio, altri si unirono al gruppo ed erano in troppi a parlare; così Yeshùa rinunciò a dire la sua. Preso da quel dibattito, non si rese conto del tempo che ava. «La partenza!» esclamò a un tratto, e corse al mercato, ma di Yosef non c’era traccia. Corse alla carovana, per scoprire che aveva già lasciato la città. «Possibile che siano partiti senza di me?» pensò. Corse nuovamente verso il mercato, per un ultimo tentativo di ritrovare il padre. Al mercato cominciavano a trasformare i tappeti in fagotti e gli acquirenti erano ormai rari. I più avevano lasciato Gerusalemme di primo mattino. Tornò al Tempio; anche qui erano andati quasi tutti via. Il sole cominciava a farsi sentire e Yeshùa si rifugiò all’interno, dove c’era ancora molta gente.

Giunta la sera, il sacerdote Caifa, che si apprestava a lasciare il Tempio, trovò Yeshùa che meditava seduto in terra vicino all’uscita. Gli si avvicinò. «Ragazzo, tu non puoi stare qui!» Yeshùa si alzò in piedi e fissandolo chiese: «Com’è Dio?». «Non conosci le scritture?» chiese Caifa, sorpreso per quella domanda. «Le conosco abbastanza da poter notare che Dio è presentato spesso come paziente e misericordioso, ma a volte come un giustiziere vendicativo e crudele.» «Se tu conoscessi meglio le scritture, sapresti che Dio è misericordioso con il

suo popolo, il popolo eletto, ma può essere molto severo con gli altri. Noi siamo figli di Abramo.» dichiarò Caifa con orgoglio. Yeshùa continuava però a seguire una sua linea di pensiero. «Ecco. Abramo è uno dei casi più sconcertanti. Come può Dio essere così generoso da donargli il figlio tanto desiderato, ed essere così crudele da chiedergli di sacrificare quello stesso figlio? Com’è veramente Dio? Il padre buono e misericordioso o un tiranno egoista e crudele che chiede per se ciò che più amiamo? Capisci ora il perché della mia domanda?» Caifa era sconcertato. Guardò meglio quel giovane: capelli scuri e lunghi, occhi neri e sguardo penetrante, lineamenti nobili. Se non fosse stato per gli abiti molto modesti, avrebbe potuto essere un principe. La scarsa peluria del suo mento ne rivelava la giovane età, ma per la sua statura doveva avere almeno quindici anni. Ciò che più aveva colpito Caifa era la perfezione del suo linguaggio e la sicurezza con la quale si esprimeva. Cercò di dare una risposta. «Fa parte dei riti di venerazione e propiziazione offrire dei sacrifici a Dio. Di solito si tratta di una colomba o di un agnello, secondo le possibilità di ciascuno.» «Sì, il sacrificio fu il primo motivo di contrasto tra Caino e Abele.» confermò Yeshùa. «Questo è un buon esempio: Abele offriva l’agnello migliore e il sacrificio era gradito. Così divenne consuetudine offrire quanto di meglio si possiede, come dimostrazione della propria devozione. So che un Re greco è arrivato a offrire il sacrificio di cento tori. Ma ho anche notizia di sacrifici umani. In presenza di un evento eccezionale, o di una grave crisi, tutto un popolo può decidere di sacrificare a Dio il suo atleta più forte o il guerriero migliore.» «Dio non può volere questo!» protestò Yeshùa. «Certo che no! Ritengo tuttavia possibile che in qualche cultura venga fatto. Ma torniamo ad Abramo. Egli voleva mostrare a Dio la propria gratitudine e il proprio amore. Così ogni anno offriva in sacrificio il suo bene più prezioso. Dio volle mettere alla prova il suo amore e gli chiese il sacrificio del proprio figlio,

ben sapendo tuttavia che non lo avrebbe permesso.» «Chiedere una prova d’amore vuol dire non amare!» commentò Yeshùa. «Un Dio che chiede qualcosa che va contro la sua stessa legge è un’assurdità. Ci sono cose che neanche Dio può fare». «Dio è onnipotente!» precisò Caifa. «Certamente,» concesse Yeshùa, «ma non può contraddire se stesso. Se noi accettiamo la Legge di Mosè come legge divina, chiunque mi chieda di violare questa legge va contro Dio, e sicuramente non può essere Dio stesso.» Caifa era perplesso davanti alla logica del ragazzo. «Eppure le scritture parlano chiaramente di questa richiesta di Dio, come prova di fedeltà e di amore. Non vedo che altra interpretazione si possa dare.» «Forse le cose sono andate un po’ diversamente.» «Cioè?» chiese Caifa, incuriosito. «Isacco cresceva bene ed era un figlio modello per il vecchio padre. Abramo lo amava ogni giorno di più, come figlio e come dono del Signore. Nella sua gara per offrire ogni anno quanto di meglio possedeva, gli venne in mente il terribile pensiero che il suo bene più prezioso era proprio il figlio Isacco. Questo tipo di pensiero non è facile da controllare; anzi, più cerchi di scacciarlo, più ti tormenta. A un certo punto, il povero Abramo cedette all’idea che Dio stesso desiderasse un sacrificio così grande, come prova del suo amore e della sua fedeltà. Dio non interviene volentieri nelle vicende umane, per non limitare la nostra libertà di scelta e di giudizio, ma non poté fare a meno di fermare, all’ultimo istante, quel delitto così atroce. Fu però chiaro che il sacrificio di una vita umana è sempre un’offesa a Dio.» Caifa si rese conto che quel giovane non solo conosceva le scritture, ma le aveva analizzate e assimilate. «E’ consuetudine ritenere che fu veramente Dio a chiedere quel sacrificio.» insisté. «Se è veramente così, questa parte delle scritture contiene un messaggio che non

riesco a capire. Posso solo dire che deve essere qualcosa importante e terribile.» Continuarono a discutere sul possibile contenuto di questo messaggio e su altri i delle scritture di non facile interpretazione, in particolare quelli che riguardavano l’arrivo tanto atteso del Messia. Erano arrivati intanto alla casa di Caifa, il quale offrì ospitalità a Yeshùa. Il giorno dopo, Caifa lo volle con sé nel Tempio, dove Yeshùa poté seguire tutto ciò che vi si svolgeva da una posizione privilegiata. Occasionalmente i due si scambiavano dei commenti, e Caifa pensò di avere trovato un allievo ideale. La sera, Caifa diede disposizioni per la cena e mandò un servo ad avvisare il Sommo Sacerdote Hanan e i Dottori della Legge per un appuntamento al Tempio per il giorno successivo. Voleva presentare loro quel giovane così sapiente. Se Yeshùa fosse riuscito a sopravvivere al confronto con i Dottori della Legge, sarebbe certamente diventato un ottimo sacerdote.

Era l’ora del tramonto e la carovana si doveva preparare per la cena e il riposo. Yosef procedeva con gli uomini nella prima parte della carovana e Maryam seguiva con le donne. Yeshùa aveva ormai un’età che gli consentiva di viaggiare indifferentemente con la madre o con il padre. Fu così che, solo quando si ritrovarono tutti riuniti attorno al fuoco per la cena, si resero conto che Yeshùa mancava. Maryam non volle fermarsi. Presero pane, acqua e dei datteri, e ripresero immediatamente il cammino verso Gerusalemme, che era ormai a un giorno di distanza. Camminarono per oltre tre ore e i piedi dolevano; ora il freddo era diventato pungente. Non avevano più la guida del capo carovana e Yosef cominciò a chiedersi se non si fossero smarriti. Videro un fuoco e vi si diressero: erano troppo stanchi per chiedersi come mai ci fosse ancora un fuoco a quell’ora di notte. Accanto al fuoco c’era soltanto un uomo, ancora intento a preparare la cena. Porse una ciotola di cibo caldo a Yosef. «Sedete e mangiate.» disse loro.

Yosef ò il cibo a Maryam e chiese: «Puoi indicarci la via per Gerusalemme?». «Potete venire con me. Partirò all’alba per portare dei cammelli a Gerusalemme.» «Ve ne saremmo veramente grati.» disse Yosef, prendendo la seconda ciotola che l’uomo gli porgeva. Yosef aveva veramente fame e finì anche ciò che aveva lasciato Maryam, che invece mangiò pochissimo. Maryam non seppe trattenere le lacrime, che cercò di giustificare: «Dobbiamo ritrovare il mio bambino. Lo abbiamo perso a Gerusalemme». «Lo troverete nel Tempio.» Quell’informazione le fece pensare che il cammelliere fosse in realtà un angelo e trovò finalmente pace. «Dio, ti ringrazio.» mormorò, e cadde in un sonno profondo. L’uomo era evidentemente uno dei monaci, mandato in loro aiuto dal Lama. Al sorgere del sole il cammelliere preparò la partenza. Poi svegliò Maryam e aiutò lei e Yosef a sistemarsi sui cammelli. Giunsero a Gerusalemme che era ormai sera, e andarono direttamente al Tempio, ma non trovarono Yeshùa, che si era già ritirato a casa di Caifa.

Yosef e Maryam si recarono al Tempio la mattina dopo. Già prima dell’ingresso sentirono la voce di Yeshùa. Maryam fece per precipitarsi verso di lui, ma Yosef la trattenne, perché era consuetudine che le donne rimanessero al di fuori del Tempio, in una zona a loro riservata. Inoltre il tono e le parole di Yeshùa incuriosirono Yosef. «La Legge di Mosè dice: “Non rubare”. E ancora: “Non desiderare la roba d’altri”. Allora sei già nel peccato se solo desideri ciò che non ti appartiene. La Legge dice anche: “Non uccidere”, e a me pare una conseguenza logica che sei

già nel peccato se desideri la morte di qualcuno. Nella Legge sono contenuti soprattutto divieti e dovrebbero invece prevalere le prescrizioni. Forse possiamo avvicinarci di più a Dio se invece di “non prendere” diciamo “dona”; se invece di “non uccidere” diciamo “ama”. Sarebbe meraviglioso riuscire ad amare tutti, indistintamente.» «Se qualcuno ti aggredisce, tu devi difenderti.» obbiettò uno dei Dottori della Legge. «Perché?» Questa domanda, posta con candore da un bambino, era disarmante. Seguì un momento di silenzio e Yosef ne approfittò per intromettersi. Aveva superato la sorpresa di vedere Yeshùa ascoltato con tanta attenzione dai Dottori della Legge, ma ora era spaventato dalle ultime cose dette, che potevano farlo apparire come un provocatore. Gli si inginocchiò davanti e gli strinse i polsi. «Figlio mio, perché ci hai fatto questo? Io e tua madre eravamo tanto in pena.» «Perché temere per me? Non avete fiducia in Dio?» Yeshùa vide la madre fare capolino sull’ingresso e corse ad abbracciarla. Il Sommo Sacerdote Hanan chiese: «Chi sei?». «Sono Yosef il falegname e vengo da Nazareth.» Come poteva il figlio di un falegname avere tanto talento? «Questo giovane deve rimanere con noi!» Yosef trasalì. «Ma ha solo dodici anni. Come potete separarlo dalla madre?» Yeshùa era più giovane di quanto avessero pensato. Caifa era molto ambizioso ed era il candidato più qualificato a sostituire il

Sommo Sacerdote. In un primo momento aveva pensato di fare di Yeshùa il proprio discepolo e successore, ma, dopo quanto aveva udito e visto in quei due giorni, lo vedeva ormai come un temibile concorrente. Decise quindi di intervenire. «Lasciamo che questo bambino torni con i propri genitori. Verrà al Tempio quando sarà più maturo.» «Sì. Tornerà al Tempio. Ve lo prometto.» si affrettò a concedere Yosef. «Vedo comunque che il sacerdote del vostro paese è stato un ottimo maestro, e l’ha preparato molto bene per la cerimonia del Bar Mitzwah.» continuò Caifa. «Quando sarà pronto, lo riporterai a noi.» La proposta di Caifa sembrò ragionevole e Yosef fu congedato.

Il cammelliere non li riportò alla loro casa, a Nazareth, ma si diresse a oriente. Raggiunsero Qumran, dove i monaci buddisti, per il loro modo di vivere, potevano essere confusi con gli Esseni. A Qumran trovarono il Lama ad attenderli. Yosef e Maryam s’inchinarono, avendo riconosciuto in lui il messaggero di Dio. Yeshùa lo riconobbe solo quando ne udì la voce. «Yeshùa, ti stai esponendo troppo. E’ saggio aspettare finché non avrai completato la tua preparazione.» «Conosco la Torah. Anche se non posso dire di avere capito tutto, mi sento sufficientemente preparato.» disse Yeshùa con una punta di orgoglio. «Quella era la parte più facile. Ora devi imparare le tecniche di controllo del corpo e della mente. Devi iniziare a sviluppare i poteri della mente.» «I poteri della mente?» «Sì. Guarda.» Così dicendo, mostrò le mani giunte, che dischiuse lentamente, rivelando il loro contenuto: una mela. Il Lama abbassò le mani, lasciando la

mela sospesa in aria. «Prendila. E’ per te.» Yeshùa era esterrefatto. Prese la mela per accertarsi che fosse reale. «Quando riuscirai a leggere nei pensieri di chi ti circonda, e ad alleviarne il dolore, allora sarai pronto. Nel frattempo ogni tua esternazione potrebbe mettere in pericolo la tua Missione, come è appena avvenuto nel Tempio di Gerusalemme. Quello che tu hai conosciuto come cammelliere, e che vi ha condotti qui, è in realtà un nostro monaco. Sarà lui il tuo primo maestro. Inoltre, io ti sarò sempre vicino, fino al giorno in cui diventeremo una cosa sola.» Detto questo, svanì in una macchia luminosa.

Cap. 13 – La formazione

Il viaggio durò circa sei settimane, ma sarebbe stato molto più lungo se i carri, stranamente, non avessero viaggiato anche di notte. Yeshùa notava i cambiamenti del paesaggio lungo il cammino, sulla strada percorsa molto tempo prima da Alessandro il Macedone. Attraversarono deserti e foreste, fino a giungere a un grande monastero in pietra, ai piedi di montagne innevate. Per la prima cena nel monastero, si sedettero tutti alla stessa tavola, non più a piccoli gruppi, ognuno sul proprio carro. In realtà i tavoli erano tre, uguali, sistemati a U ( ), con i commensali seduti solo sui lati esterni, in modo da lasciare spazio all’interno per chi doveva servire il cibo. Al centro, alla base della U, sedeva il Lama, e da quel posto poteva vedere ogni commensale, soprattutto Yeshùa, che era di fronte a lui, ad una estremità della U, e aveva a fianco il cammelliere che li aveva guidati fuori da Gerusalemme. All’altra estremità c’era Maryam, con a fianco Yosef. Il cammelliere mangiava molto piano e osservava Yeshùa, che invece mostrava un robusto appetito. Ma non poteva ignorare a lungo quello sguardo insistente, al punto che fu costretto a chiedere: «Cosa c’è?». «Sapresti dirmi... cosa hai mangiato ieri sera?» Una domanda strana, alla quale Yeshùa rispose con spontaneità. «Le solite cose: lenticchie, pane, formaggio, olive e qualche dattero. Quando si viaggia, la scelta è necessariamente limitata.» «Fai attenzione a ciò che mangi stasera. Domani ti farò la stessa domanda.» «Perché?» «Il mio nome è Suman e sono il tuo primo maestro. Questo è un piccolo esercizio per vedere fino a che punto riesci a prestare attenzione a ciò che fai.»

«Sono un falegname e può essere pericoloso non stare attento a ciò che faccio!» «E’ vero,» concesse Suman sorridendo, «ma quando mangi, di solito pensi ad altro.» «Sì, è così.» ammise Yeshùa. «Come lo sai?» «Succede a tutti. Presti attenzione a ciò che mangi solo se è qualcosa che ti piace particolarmente, oppure se è una cosa nuova, come il primo frutto della stagione. Domani vedremo insieme ciò che hai mangiato oggi.» Il giorno dopo, alla stessa domanda, Yeshùa descrisse ciò che era stato servito, soffermandosi particolarmente su un piatto nuovo che lo aveva incuriosito. «Sembrano chicchi di grano conditi con latte acido e miele, ma non è grano. Non si gonfia come il grano bollito, è più morbido e ha un sapore diverso.» «E’ riso.» spiegò Suman, aprendo il pugno e mostrandone alcuni chicchi. Evidentemente si aspettava che Yeshùa volesse conoscere meglio la cosa nuova che aveva mangiato. «Viene da una pianta che non può essere coltivata nel tuo paese.» «Come mai?» «Perché ha bisogno di molta acqua.»

Per alcuni giorni ripeterono lo stesso esercizio e ogni giorno c’era qualcosa di nuovo di cui parlare. Finalmente, un giorno, Suman propose un nuovo esperimento. «Riusciresti a digiunare per un giorno intero?» «Perché?» «Per conoscere come reagisce il tuo corpo al digiuno.» Suman notò l’espressione di perplessità di Yeshùa e cercò di giustificare la strana richiesta.

«Non alimentare il corpo può aiutare a nutrire lo spirito. Un giorno di digiuno e di preghiera. Magari potresti pensare a persone a te care e pregare per loro. Se il digiuno ti dovesse sembrare insopportabile, potresti pensare a momenti felici della tua vita.» Yeshùa era un bravo ragazzo, naturalmente disponibile, e non ebbe difficoltà ad accettare la strana richiesta del maestro. Il giorno del digiuno, Yeshùa resisté a lungo, bevendo molta acqua e pregando, ma a notte inoltrata prese il lume e andò a cercare qualche avanzo nel salone della mensa. «Ti stavo aspettando.» Era la voce di Suman, seduto al suo solito posto. «Non riesco a dormire!» «Lo so. E’ sempre così la prima volta.» Suman sollevò il lucignolo della lanterna posta sul tavolo, in modo da avere più luce. «Vieni. Mangia qualcosa.» Così dicendo sollevò un canovaccio e scoprì la cena che aveva conservato per Yeshùa. Yeshùa non si fece ripetere l’invito e mangiò con avidità. Calmati i morsi della fame, guardò Suman, che non sembrava deluso, anzi, aveva un’espressione soddisfatta. «Ho fallito!» dichiarò Yeshùa. «Nooo. L’obiettivo non era il controllo, ma la conoscenza. Il controllo viene dopo. Devi prima sapere come reagisce il tuo corpo alla fame, al caldo e al freddo, al dolore, alle emozioni intense…» Yeshùa aveva qualche difficoltà a capire ciò che stava cercando di dirgli Suman. Ricordò le parole del Lama Elì e disse: «L’obiettivo è lo sviluppo dei poteri della mente». «Oh oh oh.» rise Suman. «Per quelli ci vogliono molti anni e spesso non basta un’intera vita.»

«Vuoi dire che potrei fallire anche in questo?» «Non tu.» «Come puoi dirlo?» «Tu sei molto speciale, e avrai i migliori maestri. Ma ci vuole dedizione… e molto tempo.»

Yeshùa cominciò a interagire con un secondo maestro, che gli insegnava strani esercizi. Il tipo e la qualità degli esercizi lo portarono a scoprire e conoscere meglio il proprio corpo. Tuttavia, il suo punto di riferimento rimase il maestro Suman, che vedeva quotidianamente e al quale era ormai molto affezionato. Così un giorno si confidò con lui. «Ho fatto uno strano sogno.» «I sogni possono essere interpretati. Parlamene.» «Stavo viaggiando a dorso di un asino che, con la sua andatura, mi cullava, e sentivo uno strano tepore. Mi distesi abbracciandone il collo, in modo da prendere… da sentire maggiormente quel calore piacevole...» S’interruppe, imbarazzato. «…e ti sei bagnato!» concluse Suman. «Come lo sai?» chiese Yeshùa meravigliato. «E’ successo anche a me, e la prima volta avevo più o meno la tua età.» «Vuoi dire che può succedere ancora?» «Certo. Vuole semplicemente dire che stai diventando uomo. Se quel liquido penetra nel ventre di una donna, può nascere una nuova vita.» «Cosa si può fare?»

«Posso dirti cosa faccio io.» «Sì?» «Niente. Tengo un panno con me, e quando succede mi asciugo e torno a dormire.» «Ma zio…» S’interruppe. Il rapporto con il maestro era ormai tale che gli era venuto spontaneo chiamarlo zio. Chiese: «Non ti dispiace se ti chiamo zio?». «Anzi, mi fa piacere. Anche se…» «Scusami. Continuerò a chiamarti maestro.» «Non è questo. Nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, si usa chiamare zio una persona al di fuori della famiglia per la quale si prova rispetto e affetto, come può appunto essere un maestro. Nel mio paese si usa invece “bapu”, babbo, per dare più importanza all’affetto.» «Ti chiamerò bapu… o abbà!» disse Yeshùa con entusiasmo.

Un giorno Yeshùa chiese quando avrebbero iniziato a parlare dei poteri della mente. «Devi prima imparare ad amare.» «Ma io so amare!» protestò Yeshùa. «Io amo i miei genitori, amo te…» «Ricambiare l’amore di chi ti ama è facile. Infatti, lo fanno tutti. Ma imparare ad amare è difficile, e bisogna iniziare dall’estremo opposto.» «Non capisco.» confessò Yeshùa. «Dimmi se esistono persone che tu non ami.» «Beh, non posso dire di amare i romani. Vengono da lontano e vogliono comandare nel nostro paese.» «Sìii… ma pensa a qualcuno che conosci personalmente.»

Yeshùa esitò, cercando una risposta. «C’è un ragazzo, mio coetaneo, al quale piace fare il prepotente…» «… e che ti fa arrabbiare!» «Sì, è vero.» «Ecco. L’ira, la paura, l’odio… sono questi i veleni peggiori della mente. Bisogna imparare a controllare queste emozioni.» «Ma queste sono reazioni spontanee e naturali in certe situazioni! Come puoi controllarle?» «Anche qui si comincia con la conoscenza. Devi esaminare come reagisce il tuo corpo e la tua mente alle emozioni negative. Le devi esaminare da spettatore, come se non riguardassero te, e quando impari a riconoscere quali sono i sintomi di ciò che ti sta succedendo, i alla seconda fase: il controllo. Agisci coscientemente sulle trasformazioni che avvengono in te, avversandole già dai loro sintomi. Arrivi infine alla terza fase: il distacco. Non i più dall’ira alla calma, ma non ti adiri proprio più!» «Com’è possibile tutto questo?» «Quando riconosci i sintomi di qualcosa di negativo, è sufficiente vuotare la mente, riuscire a non pensare.» «Come puoi non pensare? Pensare è come respirare. Non smetti mai, neanche quando dormi.» «E’ vero. Tuttavia, la mente, come il corpo, ha bisogno di riposo. Un altro maestro t’insegnerà la tecnica per non pensare. Il non-pensiero è una forma di meditazione, un tipo di riposo più profondo ed efficace di un sonno ristoratore, un po’ come quando ti isoli e ti raccogli in preghiera. Come la preghiera, il nonpensiero ti dà sollievo, ti dà pace. Ma devi praticare il non-pensiero tutti i giorni, perché è una tecnica che richiede un esercizio regolare. «Vedi, se non riesci a riposare la mente ogni tanto, arrivato a una certa età, è la mente che ti abbandona. Hai mai visto un vecchio con lo sguardo fisso? Se tu gli chiedessi: “A cosa pensi?”; ti risponderebbe: “A nulla”. Ed è proprio così.»

«Che strano!» commentò Yeshùa. «Io dovrei sviluppare i poteri della mente, che implicherebbero una sua maggiore attività, e tu invece parli di minore attività e addirittura di… svuotare la mente!» «Giusta osservazione la tua. Ma una mente riposata può fare ben più di una mente stanca. Dopo il riposo, riesci a sviluppare una concentrazione maggiore. Ricordi i primi esercizi con le cene? Quel “concentrati su ciò che stai mangiando”. Era un modo per dirti che non devono essere i tuoi pensieri a controllare la tua mente, ma devi essere tu a controllare i tuoi pensieri, le tue emozioni, le tue sensazioni. La tua mente può addirittura arrivare a controllare il tuo corpo, per esempio può farti controllare la fame… o il dolore.» «Ora capisco il motivo di certi esercizi. Penso che ora riuscirei a fare un intero giorno di digiuno.» Ma questo sembrava ormai irrilevante. Bisognava iniziare a pensare al vero obiettivo, così chiese: «Quando comincerò a sviluppare i poteri della mente?». «In realtà hai già iniziato.» «Vuoi dire… che conoscenza, controllo e distacco sono necessari…» «Certamente necessari, anche se non indispensabili. Ma è molto pericoloso acquisire i poteri senza un’adeguata preparazione. Vedi, se tu perdessi il controllo, anche una sola volta, i poteri della mente potrebbero permetterti di fare cose terribili.» Yeshùa meditava sulle cose che gli venivano insegnate. Un giorno chiese se c’era altro oltre le tre fasi esaminate. «Certamente.» rispose Suman. «Il cammino è molto lungo per imparare ad amare.» La curiosità di Yeshùa era evidente. Così Suman cercò di spiegare: «Vedi, tutte le volte che sei portato a odiare una persona, puoi combattere questo sentimento negativo con l’aiuto del non-pensiero. Ma devi arrivare al punto che non sia più necessario combattere, cioè deve diventare naturale che disprezzo e odio non sfiorino neanche il tuo cuore. Devi arrivare a essere puro di cuore, come un bambino.»

«E per ottenere questo, non bastano le tre fasi: conoscenza, controllo e distacco?» «Per un vero distacco, devi arrivare a non desiderare nulla. Se ci pensi, la legge di Mosè ha sul desiderio ben due comandamenti su dieci. Sono i desideri che spingono l’uomo al male. Il desiderio di accumulare ricchezze, il desiderio di vendetta, o il peggiore di tutti: il desiderio di onnipotenza, di essere come Dio, che ha portato Adamo a commettere il primo peccato.» Yeshùa meditava sulle parole di Suman, e non poté fare a meno di considerare che non aveva commentato l’altro comandamento. Non c’erano donne nel monastero, e anche Maryam e Yosef erano stati sistemati in una casa nel paese. «Mosè dice anche di non desiderare la moglie di un altro. E’ forse per non cedere a questa tentazione che ci si sposa? Si sposano tutti, anche i sacerdoti. Come mai voi monaci non vi sposate? Perché rinunciare ad avere una compagna?» «Il desiderio di ricchezza può spingere a uccidere, ma gli uomini trovano il modo di giustificare la guerra. La più accettabile è la difesa della propria terra, ma più spesso è la ricerca della gloria per una conquista. Eppure nessuno riesce a giustificare il delitto sessuale, soprattutto se le vittime sono dei bambini. Ebbene, ti sembrerà strano, ma i crimini più atroci sono commessi proprio per soddisfare il desiderio sessuale. «E’ possibile rinunciare ai propri beni per scegliere una vita più semplice. Molti lo fanno. In fondo, si può vivere in una capanna, o in una grotta, e nutrirsi con ciò che si trova nei campi. Si può quindi rinunciare anche al sesso. Si può arrivare a non provare più alcun desiderio egoistico, di nessun tipo. Io ho ritrovato la serenità perduta in questo Monastero. «E’ un po’ come rinunciare ad amare una sola persona per imparare ad amare tutti. E tutti diventano compagni, amici, fratelli. Se tu riesci ad avere un cuore puro e ad amare tutti, allora puoi dire di avere imparato ad amare. Ad amare completamente, senza porre alcuna condizione.» «Cosa posso fare per imparare ad amare?» «All'inizio ci vuole disciplina… e sacrificio. Devi respingere tutto ciò che può essere un fardello per il tuo cuore. Puoi capire che sei sulla buona strada se certe cose da difficili diventano semplici, fino a diventare spontanee. E devi pregare,

perché la preghiera aiuta moltissimo. Se tu riesci ad amare veramente, allora ti sei avvicinato a Dio… e puoi riuscire a conoscerlo, puoi arrivare a sentire la sua voce… e a capirlo.»

Cap. 14 – Il dono di sé

«Hanno preso la mangiatrice di uomini!» Il giovane monaco aveva fatto irruzione nella stanza di Suman, per trovare lui e Yeshùa immersi in una seduta di non-pensiero. Così rimasero immobili, come se non avessero sentito quell’annuncio. Il monaco si rese conto di quanto fosse stata inopportuna la sua intrusione e si allontanò subito con un timido: «Perdonate…». Yeshùa aveva ato ormai cinque anni nel Monastero e aveva già raggiunto un buon controllo del proprio corpo, ma per i poteri della mente ci voleva ancora tempo. Aveva comunque iniziato a interagire con il Lama Elì, anche se continuava a essere molto legato al suo primo maestro. Le visite ai suoi genitori invece stavano diventando sempre più rare. Yeshùa emerse per primo dal raccoglimento, incuriosito dall’annuncio e, quando vide anche Suman aprire gli occhi, chiese: «Mangiatrice di uomini? Che cos’è?» «Sì. E’ una tigre. E’ simile a un leone, ma più grande. E’ una belva magnifica.» Queste spiegazioni ebbero solo l’effetto di aumentare la curiosità di Yeshùa, che aveva sentito parlare dei leoni, anche se non ne aveva mai visto uno. «Vieni. Andiamo a vedere.» propose Suman. Durante il percorso verso il villaggio, Suman diede altre informazioni. «Una tigre si nutre di solito di piccoli animali ed evita gli uomini. Tuttavia, se qualcosa ne riduce l’abilità di cacciatrice, come una ferita riportata nel combattimento con un’altra tigre per la difesa del territorio o perché è diventata troppo vecchia, allora può scoprire che un uomo è una preda più facilmente raggiungibile e diventa una mangiatrice di uomini.» Al villaggio la tigre era tenuta in un grande recinto, con pali alti e appuntiti. «E’ bellissima.» commentò Yeshùa vedendo la tigre. «Come l’hanno presa?»

«Usano un fosso coperto da frasche, una trappola sulla quale adagiano una capra come esca. Poi usano reti e corde per trasferirla al recinto. Qui ognuno le dà quello che può per nutrirla e quando muore viene restituita alla foresta.»

Sulla via del ritorno, Suman raccontò la storia di un grande maestro, vissuto forse mille anni prima. «Una tigre può avere difficoltà a cacciare, anche quando è appesantita da una gravidanza. «Molto tempo fa un Bodhisattva, un maestro saggio che aveva amore per tutti e da tutti ne riceveva, un giorno stava camminando insieme al discepolo Ajita per degli scoscesi dirupi di montagna, quando si accorse che, in fondo a un dirupo, una giovane tigre, immobilizzata dai dolori del parto, guardava i suoi stessi cuccioli minacciandoli con tremendi ruggiti, come se volesse divorarli per sfamarsi. «“Amico, amico, amico,” esclamò il grande uomo, “guarda com’è crudele l’amore di sé! Questo animale non sopporta più la fame e sta per divorare i suoi stessi figli! Cerchiamo dunque del cibo per evitare che questa tigre offenda se stessa e i suoi piccoli”. «Così il discepolo partì alla ricerca di cibo. Ma quando il Bodhisattva si ritrovò solo, non poté evitare di pensare: “Arriverà mai in tempo?”, e considerare una possibile alternativa. “Perché mai cercare del cibo che provenga dal corpo di un altro essere vivente, quando io sono qui col mio stesso corpo? Il mio corpo è fragile e fonte di sofferenza: che senso ha non essere lieti di offrirlo per il bene altrui? Quale dimostrazione d’amore può essere più grande del dono di sé?”. «Così si lasciò cadere nel dirupo, felice di offrire la propria vita per salvare i piccoli. Udito il rumore del corpo che cadeva, la tigre si avvicinò incuriosita, e quando vide il corpo del Bodhisattva, vi si avventò per divorarlo. «Arrivò il discepolo, senza aver trovato cibo. Si guardò intorno chiedendosi dove fosse finito il maestro. Eppure la sua ciotola era lì, accanto all’abito. L’abito? Lo assalì un terribile sospetto. Si affacciò al dirupo e capì. “Quanta pietà per chi soffre in questo grande uomo!” esclamò. “Quanta indifferenza per il proprio benessere! Sia lodato questo grande maestro, pieno di eccezionale

comione e di bontà senza limiti.” «In seguito, diventato egli stesso un maestro, Ajita raccontò la storia della tigre ai suoi discepoli, che vollero coprire di ghirlande di fiori e polvere di sandalo la terra che custodiva le ossa del Bodhisattva.» «E’ incredibile! Come si può offrire il proprio corpo in pasto a una belva?» commentò Yeshùa. «L’ha fatto per salvare i piccoli.» «Ma era una belva!» Protestò Yeshùa. «Vanno bene comione e amore, ma questa mi pare decisamente un’esagerazione.» «Come puoi stabilire dei limiti all’amore? Come puoi dire fin qui è amore, oltre questo punto è follia?» «Non lo so, ma non riesco a credere che questa storia sia vera.» Suman l’aveva sempre ritenuta vera, ma si rese conto che Yeshùa non era ancora preparato per un esempio d’amore così estremo. «Hai ragione.» convenne. «Probabilmente è solo una parabola.» «Una parabola?» «Sì, una storia semplice, inventata per far capire una verità complessa.» «So cos’è una parabola, ma anche una parabola deve essere credibile, altrimenti diventa inutile.»

Cominciava a fare freddo, ma per fortuna erano arrivati. Si rifugiarono da Suman e si prepararono una tisana calda. «Ti voglio raccontare un’altra storia, e questa è vera, perché ne sono stato testimone.» Questa dichiarazione creò in Yeshùa una certa aspettativa. Così, mentre sorseggiavano la tisana, Suman cominciò il suo racconto.

«C’erano due ragazzi legati da una profonda amicizia, che si volevano bene più che due fratelli. Il più grande era più intraprendente e un giorno propose di fare una gita in barca. Così si appropriarono della barca di un pescatore e la spinsero in acqua ma, non lontano da riva, persero un remo. «Il mare si stava ingrossando e il più giovane cominciò a sentirsi male. Con un solo remo, non riuscivano più a tenere la prua all’onda e furono presi dal panico. Cominciarono a gridare per chiedere aiuto. «Accorse il padrone della barca, che non esitò a gettarsi in mare per cercare di trarli in salvo.» Suman fece una pausa per inserire una sua considerazione: «I pescatori sono gli uomini migliori del mondo. Su una barca, la vita di tutti dipende dal comportamento di ciascuno. Il pescatore non provò collera verso i ragazzi che gli avevano rubato la barca, ma si lanciò immediatamente, quasi d’istinto, in loro soccorso». «Riuscì a salvarli?» chiese Yeshùa con impazienza. «Purtroppo, proprio quando stava per raggiungerli, la barca si rovesciò. Soccorse per primo il più piccolo, facendolo aggrappare alla barca, e portò a riva il più grande. «Non si fermò un attimo per riposare, ma tornò subito a prendere l’altro ragazzo. Questi era ormai terrorizzato e gli si avvinghiò addosso, impedendogli di nuotare. Morirono entrambi.» Yeshùa aveva sperato nel successo e rimase un po’ deluso da quella conclusione tragica. «La gioia di donare.» commentò Suman. «Non può esserci amore senza la carità. E quale dono è più grande che sacrificare la propria vita per il bene degli altri?» Yeshùa provò una grande ammirazione per quel pescatore. «Hai detto di essere stato testimone di questa tragedia. Non potevi fare qualcosa per aiutarli?» «Oh, sì! Urlai… urlammo con quanto più fiato…» Suman s’interruppe, vinto

dall’emozione. «Furono le nostre grida a richiamare l’attenzione del pescatore.» «Le vostre grida?» «Io sono il ragazzo che il pescatore riuscì a salvare.» confessò Suman. Yeshùa rimase allibito da quella rivelazione. «Puoi immaginare il mio dolore. La perdita dell’amico più caro, la morte di un bravo pescatore… e il vedere la sua famiglia andare in breve tempo in rovina. E tutto per colpa della mia sventatezza. Ero disperato. Non riuscivo più a dormire e mangiavo pochissimo. «Un giorno mi venne in mente il famoso Tempio della Pace e il suo Monastero, dove si diceva che insegnavano a vincere ogni sofferenza. Bussai alla sua porta e mi gettai ai piedi del monaco che mi aprì, implorando pietà.» «Fu così che diventasti monaco?» chiese Yeshùa. «Sì. Feci un percorso simile a quello che stai facendo tu, ma molto più lungo e tormentato. La visione di ciò che era successo continuava a perseguitarmi e interferiva con la mia formazione. Ma alla fine trovai la pace e non volli più andare via. Ora sono un maestro stimato e aiuto gli altri.»

arono ancora alcuni anni e Yeshùa aveva cominciato a sviluppare i poteri della mente. Ora il suo maestro principale era il Lama in persona. Yeshùa percepì subito il grande amore che Elì nutriva per lui e gli venne spontaneo chiamarlo “bapu”. Tuttavia, di tanto in tanto, tornava a trovare il suo vecchio maestro, al quale era sempre molto legato. Fu durante una di queste visite che Suman gli raccontò un altro esempio di grande amore. «Molto tempo fa, c’era il piccolo grande regno dei Sakya. Niente in confronto all’Impero Romano, ma il suo sovrano, Suddhodana, era molto amato dai suoi sudditi e molto stimato dai sovrani dei regni vicini, per la sua grande saggezza.

Ebbe un figlio, che chiamò Siddharta. «Una strana profezia prevedeva grande sofferenza per questo figlio; così il Re fece tutto quanto era in suo potere per proteggerlo. Arrivò addirittura ad allontanare dalla reggia chiunque fosse sofferente per un qualsiasi motivo. Siddharta non doveva neanche sapere che esiste il dolore. Crebbe negli agi della reggia, amato da tutti. «Quando fu il tempo, gli venne trovata una sposa, la giovane Yasodhara, bellissima e devota, dalla quale ebbe un figlio. Una vita perfetta e non poteva desiderare altro. Ma un giorno volle vedere cosa c’era al di là del grande muro che isolava la reggia dal resto del Mondo. Uscì di nascosto col fido stalliere Chanda. Era l’alba e la gente cominciava ad affaccendarsi nel lavoro. Vide i figuli che modellavano la creta, il fabbro, il cestaio e altri artigiani ancora. «Più tardi la sua attenzione venne richiamata dalle urla di un vecchio. Si avvicinò alla barella. “Perché urla?” chiese. I portantini posarono la barella. “Urla perché soffre molto.” Spiegarono: “E’ vecchio e malato. Lo stiamo portando dal medico, anche se potrebbe ormai essere troppo tardi”. «Siddharta guardò quel volto e provò repulsione. La pelle raggrinzita, una bocca quasi senza denti, gli occhi opachi. Non aveva mai visto niente di così orribile. Si allontanò in fretta dirigendosi verso la campagna. «Al limite del paese vide un grande fuoco: era una pira. Si avvicinò per cercare di capire. Anche lì qualcuno urlava. Erano i parenti del morto che piangevano, e la loro disperazione era tale che Siddharta si chiese se il dolore per la perdita della persona amata non fosse addirittura maggiore del dolore fisico del vecchio malato. «Vecchiaia, sofferenza, dolore, disperazione, morte… quante cose aveva ignorato per troppo tempo. Si rifugiò nella foresta per isolarsi e cercare di capire. «Sotto un grande albero trovò un uomo seminudo, barba e capelli incolti, immobile, con lo sguardo fisso. “Che fai, qui? Non hai una casa?” «“I miei genitori possiedono una casa. Io ho lasciato tutto per cercare conoscenza e saggezza. Per cibo e riparo, la foresta mi dà quanto basta.” «“E… in questa tua ricerca… cosa hai trovato?”

«“Qualcosa ho trovato, ma la strada è molto lunga e non so ancora bene cosa troverò… se lo troverò.” «Siddharta ne aveva abbastanza di quel primo giorno di esplorazione fuori della reggia, e ora non desiderava altro che rifugiarvisi, il più presto possibile. «Fu la sua sposa Yasodhara a notare per prima il cambiamento. Era sempre stato allegro ed estroverso, ora era serio e taciturno, e a volte sembrava addirittura triste, senza alcun motivo apparente. Siddharta rivedeva spesso il volto di quel vecchio morente e sentiva la disperazione delle persone attorno alla pira. «Un giorno meditò su quella frase detta dall’uomo della foresta: “Ho lasciato tutto per cercare conoscenza e saggezza”. Doveva cercare anche lui di sapere e di capire. Si rese conto che la reggia era troppo limitata, e che lo condizionava troppo. Così abbandonò la sposa e il figlio Rahula, e lasciò la reggia senza prendere nulla con sé.» «Rinunciare a un regno… Una grande rinuncia.» commentò Yeshùa. «Non così grande.» disse Suman. «Certo. E’ una rinuncia maggiore allontanarsi dalla propria famiglia, soprattutto dal figlio, che sicuramente amava molto.» «Neanche questo.» «Che altro?» chiese Yeshùa perplesso. «Ci sto arrivando. Siddharta aveva ventinove anni quando lasciò la reggia e per sei lunghi anni vagò fino ad arrivare in paesi lontani, parlando con la gente, ma soprattutto interrogando chi aveva iniziato la ricerca prima di lui: i maestri. Da ognuno imparava qualcosa, da alcuni imparava molto, ma era insoddisfatto perché non riusciva a trovare quello che cercava veramente. «Alla fine decise di continuare la sua ricerca da solo. Dormiva nella foresta e si cibava di ciò che questa poteva offrirgli. Si sentiva frustrato. «Una sera si rifugiò sotto un grande albero, sulle rive del fiume Nweranjara, e vuotò la mente. Rimase là per settimane senza muoversi. All’improvviso arrivò la luce. Un’intuizione che gli permetteva di ordinare e dare un significato a tutto

ciò che aveva imparato. «Ora il percorso era chiaro e il punto di arrivo era la pace. Il lungo digiuno l’aveva stremato e la morte gli era vicina, ma che importava ormai? Aveva visto la realtà com’era veramente e aveva finalmente trovato la pace. Aveva raggiunto il Nirvana, il Regno dei Cieli. «“E gli altri?” si chiese. Questo pensiero lo scosse. Doveva mostrare loro la via, e l’amore per gli uomini lo indusse a tornare. Ripercorse le stesse strade, visitò gli stessi paesi, non più per imparare ma per insegnare.» «Questo sì, che è l’amore più grande!» esclamò Yeshùa con entusiasmo. «Tu dici che abbandonò il Regno dei Cieli per tornare a insegnare tra gli uomini?» «Sì. E ora sai quale è la rinuncia più grande.» disse Suman, contento per l’entusiasmo mostrato da Yeshùa. «Incredibile!» esclamò, e dopo una pausa aggiunse: «Naturalmente anche questa è una parabola». Suman si fece serio. «No. Non lo è.» «Non è possibile che qualcuno rinunci al Regno dei Cieli! E’ troppo difficile raggiungerlo, e chi ci riesce non può neanche pensare di lasciarlo!» «Infatti è così. Chi lo raggiunge non torna mai indietro, ma Siddharta l’ha fatto.» «Per insegnare la via?» «Sì, motivato dal grande amore che nutriva per gli uomini. Capisci l’importanza di imparare ad amare?» «Capisco. E non riesco a immaginare un amore più grande. E’ incredibile. Sembrava proprio una parabola. Come fai a credere che sia tutto vero?» «Io so che è vero, perché lui è tornato. Lui è qui.» «Come… è qui?»

«Sì. Lui è il Maestro dei maestri, è colui che noi tutti chiamiamo “bapu”, è il Lama Elì.»

Cap. 15 – Le luci sul capo

Erano ati quindici anni dall’arrivo al monastero e Yeshùa era talmente impegnato nella sua preparazione, che ormai visitava i genitori solo per l’importante ricorrenza della Pasqua. Quell’anno trovò Yosef particolarmente depresso e ne chiese il motivo. Yosef cercò di tranquillizzarlo. «Non dovrei proprio lamentarmi. Qui sono molto stimato, direi che mi vogliono bene tutti. Ho ancora qualche allievo, anche se non lavoro più il legno. Ho quasi ottant’anni e le mie mani cominciano a essere deformate. Qualcuno dei miei exallievi viene ancora a trovarmi. Alcuni di loro sono diventati incisori famosi.» Fece una pausa. «Sì. Qui non mi manca nulla e non potrei più rinunciare a questa vita tranquilla… alla pace di questi luoghi. Tuttavia…» «Sì?» lo incoraggiò Yeshùa. «A volte ho nostalgia del mio paese. Non che sia migliore, tutt’altro. Ma vorrei ancora poter prendere parte a una delle sue allegre e chiassose feste, gustare il nostro cibo, bere del buon vino.» Si stava sfogando, e questo cominciava a farlo sentire meglio. «Un bicchiere di buon vino! Qui non sanno neanche cos’è, il vino!» esclamò. Yeshùa prese la brocca dell’acqua con entrambe le mani, la accostò alla fronte e si concentrò per un attimo. Poi riempì di vino il bicchiere. Yosef sgranò gli occhi, perché non esisteva vino in quel paese. Ne prese un sorso ed esclamò: «Sì! E’ proprio vino!». Guardò Yeshùa come se lo vedesse per la prima volta. Maryam sentì cedere le gambe e dovette sedersi. Yosef la guardò, come per chiedere conferma di ciò che stava accadendo e notò le lacrime. «Cosa c’è?» le chiese.

«Questo significa…» disse rivolta a Yeshùa, «che ci lascerai presto.» «Non tanto presto. Non sono ancora pronto.» Poi, cercando di consolarla, aggiunse: «Verrò a trovarvi più spesso. Cercheremo di stare insieme il più possibile, per quei due o tre anni necessari al completamento della mia preparazione».

Mancavano pochi mesi al compimento del suo trentesimo compleanno, quando Yeshùa decise di fare ritorno a Nazareth. «Naturalmente potete venire con me.» disse ai genitori al momento della partenza. «Nooo!» rispose Yosef. «Tu hai bisogno di muoverti, di visitare altri paesi per insegnare ciò che hai imparato qui. Ti sarei di peso; ormai sono troppo vecchio.» Si fermò per qualche minuto, come per considerare una possibile alternativa. «Sto bene qui.» dichiarò. «Non che a Nazareth mi vogliano meno bene, ma qui la gente è più disponibile. Sembra che provino piacere a rendersi utili.» e concluse: «Sentirei la mancanza della pace di questi luoghi». Maryam era combattuta tra il desiderio di seguire Yeshùa e il dispiacere di lasciare Yosef. Yosef decise per lei. «Vai con lui. Ha più bisogno lui di averti vicina. Io ho molti amici qui. Aspetterò il vostro ritorno.» In questo modo dava un incoraggiamento ad andare, ma esprimeva anche una speranza.

Presso la Base avevano già risvegliato i primi due scienziati. Dopo circa un anno fu la volta di Prabhorak, Toshiro e degli altri due scienziati. Infine venne il momento di risvegliare Mohadran.

Nonostante fosse stato tenuto immerso in un liquido speciale, era notevolmente disidratato. I muscoli erano atrofizzati e la riabilitazione fu lunga e dolorosa. All’inizio poteva stare soltanto abbandonato su un morbido letto, nutrito con flebo, oppure in piscina, dove i fisioterapisti ne muovevano delicatamente gli arti. Dopo qualche tempo cominciò a nutrirsi da solo e poté essere affidato a macchine speciali che gli facevano eseguire dei movimenti da contrastare, prima debolmente e poi, man mano, con sempre maggiore forza. ò comunque molto tempo prima che Mohadran potesse eseguire gli esercizi di riabilitazione in modo autonomo. I tempi erano stati programmati in modo tale che fosse ragionevolmente efficiente al ritorno di Yeshùa a Nazareth.

Giunti nei pressi del Giordano, Yeshùa e Maryam sentirono parlare di Johanan, un predicatore molto seguito, che esortava a prepararsi perché il Regno dei Cieli era vicino. La cosa si ripeté alcune volte lungo il percorso, fino a Nazareth. Chi era veramente quel predicatore? Che ne poteva sapere lui del Regno dei Cieli? Che fosse lui il Messia tanto atteso? Yeshùa avrebbe dovuto iniziare a insegnare, invece ascoltava e taceva. Giunto a Nazareth, furono accolti da Ester, una vicina amica d’infanzia di Maryam, che preparò la cena per loro. All’alba del giorno dopo Yeshùa lasciò la casa per andare a cercare quell’uomo, per avere qualche risposta alle domande che continuava a porsi. Non fu difficile trovarlo, perché sembrava che tutti sapessero dove fosse. Lo raggiunse a metà serata, presso Betania, proprio quando eseguiva il rito dell’immersione, cioè il battesimo. Faceva immergere ognuno fino al collo e versava acqua sulla testa, in modo che il bagno fosse completo. La formula che pronunciava era sempre la stessa: “Io ti immergo, nel nome di Dio e a Lui piacendo, nell’acqua purificatrice del sacro fiume Giordano, affinché

tu possa essere pronto alla venuta prossima del Regno dei Cieli”. Man mano i battezzati si accostavano a uno dei fuochi per asciugarsi, e aspettavano il tramonto per consumare la cena tutti insieme. Yeshùa si era sistemato nel secondo cerchio, un po’ più distante dal fuoco, insieme ai nuovi venuti e a quelli battezzati nei giorni precedenti. Era rimasto impressionato dal numero di persone che ascoltavano il predicatore, e che continuavano ad arrivare ogni giorno. Ascoltò lui stesso con interesse per alcuni giorni colui che esortava: “Raddrizzate la via del Signore, perché il Regno dei Cieli è vicino”. Un giorno assisté a un incontro-scontro tra Johanan e alcuni messaggeri inviati dagli anziani di Gerusalemme, che gli chiedevano ragione del suo operare. Li aggredì dicendo: «Razza di vipere! Chi vi ha insegnato a ignorare l’ira di Dio? Dimostrate con i fatti il vostro pentimento!». Quell’uomo aveva perso il controllo. Yeshùa intuì che doveva essere colui del quale il profeta Isaia aveva detto: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, il quale preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Appianate la via del Signore”. Lo sentì invitare tutti alla carità, al rispetto della verità, al rifiuto della violenza. Tuttavia, la conferma della profezia di Isaia venne il giorno che gli sentì dire: “Dopo di me viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno neppure di sciogliere i lacci dei sandali. Io vi battezzo con acqua, ma egli vi battezzerà con Spirito Santo”. Quella sera stessa, Johanan gli si avvicinò. Lo aveva notato fin dal primo giorno, non tanto per la sua statura e per il suo aspetto, quanto per i suoi occhi, che rivelavano una straordinaria serenità interiore, ma che occasionalmente diventavano penetranti e inquisitori. «Non ti sei fatto battezzare.» Sembrava un rimprovero. Vicino c’erano due uomini, Andrea e Giovanni, che erano incuriositi

dall’interesse del battezzatore per Yeshùa. Andrea era piuttosto introverso, ma un uomo vigoroso piuttosto massiccio. Giovanni invece era soltanto un ragazzo, pieno di vita e facile all’entusiasmo. «Scenderò al fiume domani prima del tramonto.» promise Yeshùa. «Ho voluto prima ascoltarti.» «Perché esiti? E’ forse per qualcosa che ho detto?» «In realtà non è ciò che dici…» «Ma?…» «Sono le persone alle quali ti rivolgi.» Notando la perplessità di Johanan, aggiunse: «Il medico, va lui dal malato. Se il malato è in grado di fare il percorso che lo porta fino alla casa del medico, non è veramente malato. Chi viene da te ha già la volontà di redimersi, ha affrontato i disagi di un lungo viaggio… Potrei dire che ha già fatto penitenza.» «Andare io dal peccatore… Come un medico che va dal malato. Forse è proprio ciò che farebbe lui…» Quell’ultima considerazione incuriosì Yeshùa. «Oggi tu hai affermato che lui è qui. Come puoi avere questa certezza?» «Mia madre l’ha conosciuto e me ne ha parlato. Siamo anche stati insieme da bambini, ma io ero troppo piccolo per poterlo ricordare. Ha quindi la mia età. L’ho cercato per anni senza successo. E’ scomparso e nessuno sa dove sia. Ma quando tornerà, tutto il Mondo saprà di Lui. Sono così sicuro che tornerà, che ho deciso di annunciare a tutti che presto, molto presto, sarà tra noi.»

L’indomani Yeshùa scese al fiume come promesso, ma badò bene di essere l’ultimo della fila. Andrea e Giovanni, che avevano ascoltato lo scambio di battute il giorno prima, vollero assistere da una certa distanza a quel battesimo.

Yeshùa si era accovacciato ai piedi del battezzatore, immerso fino al collo, e l’acqua della ciotola aveva cominciato a cadere sul suo capo, quando… «Tu!» Yeshùa si sollevò per cercare di capire cosa potesse aver causato quell’interruzione. «Le luci!» esclamò Johanan. «Le luci sul capo… come Mosè!» Yeshùa si levò in piedi, continuando a fissare il battezzatore, che disse: «Sei tu il figlio prediletto di Dio! Sono io che dovrei farmi battezzare da te!». Andrea e Giovanni si erano avvicinati per vedere meglio quel prodigio, ma le luci si stavano attenuando, fino a scomparire. «Sono venuto come uomo tra gli uomini. Devo seguire il percorso che è stato preparato per me. Ti chiedo di essere battezzato come chiunque altro.» Andrea e Giovanni erano ormai alle sue spalle. Yeshùa s’immerse nuovamente nel fiume e fu battezzato, ma le luci non ricomparvero. Poi si allontanò senza proferire parola, lasciando i tre attoniti. «Il mio compito è finito!» disse infine Johanan. «Ora dovete seguire lui.»

Yeshùa non si era fermato davanti al fuoco, ma aveva ripreso subito il cammino per tornare a Nazareth. Gli abiti bagnati aderivano al suo corpo e cominciava a fare freddo. Tuttavia aveva bisogno di isolarsi e di meditare su ciò che era successo. Era venuto come maestro e aveva invece scoperto di essere il nuovo Mosè, la Guida di Israele. Ricordò tutto ciò che le scritture dicevano del Messia e si chiese se sarebbe stato all’altezza. Andrea e Giovanni si erano un po’ attardati per prendere le loro cose e una lanterna, poiché era ormai sera. S’incamminarono a o svelto nella direzione presa da Yeshùa. «Hai visto che roba?» chiese Giovanni.

«Sì! Le luci sul capo!» «Incredibile! Uno sfarfallio di luci, come le ali spiegate di una colomba bianca.» Yeshùa si voltò e vide i due che si avvicinavano. «Cosa volete?» chiese. «Siamo pescatori.» dichiarò subito Andrea per rassicurarlo. Fu così infatti, poiché Yeshùa aveva grande stima per i pescatori. «Maestro, dove vivi?» chiese Giovanni. A Yeshùa piacque subito quel ragazzo dal sorriso facile. «Venite con me.» disse riprendendo il cammino. Poco dopo Andrea propose una sosta. «E’ meglio che accendiamo il fuoco e mangiamo qualcosa. Ormai è notte e comincia a fare freddo.» Poi, guardando Yeshùa, aggiunse: «I tuoi abiti sono ancora bagnati». Andrea accese il fuoco e divise il pane che aveva con sé. Yeshùa intuì che quelli sarebbero stati i suoi primi discepoli. «Hai detto bene: “Maestro”. Infatti, sono venuto per insegnare.» «Che cosa insegni?» chiese Giovanni, più curioso ed estroverso di Andrea. «Insegno ad amare.» «Amare? Non insegni le scritture?» «Il primo comandamento dice: ama il Signore con tutto il tuo cuore. C’è un altro comandamento, simile a questo: ama il tuo prossimo come te stesso. In realtà questo secondo comandamento precede il primo, perché devi prima imparare ad amare il tuo prossimo, per sviluppare il desiderio e la capacità di amare Dio.» Dopo una pausa aggiunse: «Ecco. In questo ci sono tutte le scritture e i profeti. Ogni altra cosa ne è conseguenza o è irrilevante. E’ l’amore il vero antidoto ai

veleni della mente». Yeshùa parlò a lungo sull’importanza della carità e del perdono, sulla necessità di purificare il proprio cuore, e su tante altre cose. Erano parole di speranza e di conforto. Si fermò quando vide Giovanni addormentato. Fu allora che Andrea parlò un po’ di sé e del suo paese, Betsaida, un villaggio di pescatori sul mare di Galilea. Disse che suo fratello Simone, in seguito chiamato Pietro da Yeshùa, era un importante membro della comunità: era un capobarca. Ben presto si addormentò anche Andrea.

Lungo la strada verso Nazareth, Andrea incontrò il suo amico e compaesano Filippo, e naturalmente gli disse di Yeshùa. Filippo andò subito ad avvisare Natanaele, il quale si lamentava spesso che non si era avverata una sola delle tante profezie contenute nelle scritture. Quel giorno, isolato sotto un fico, aveva rivolto un’accorata preghiera al Signore, affinché concedesse finalmente la Guida promessa, che era ormai diventata necessaria e urgente per Israele. «Quello di cui hanno scritto i profeti, noi l’abbiamo trovato. E’ Yeshùa di Nazareth.» annunciò Filippo, con gioia. «Che cosa può mai venire di buono da Nazareth?» Natanaele aveva imparato a diffidare per i troppi falsi annunci, e Nazareth era l’ultimo posto al Mondo che potesse produrre un profeta. «Vieni a vedere.» lo sfidò Filippo. Quando Yeshùa vide Natanaele venirgli incontro, disse: «Ecco un uomo in cui non c’è falsità». «Mi conosci, tu?» chiese sorpreso Natanaele. «Ti ho visto, sotto il fico.» Per cancellare ogni dubbio aggiunse: «Sono io la risposta alla tua supplica». In effetti, quella supplica era stata così sincera e accorata, che era stata recepita da Yeshùa. Natanaele capì.

«Maestro. Tu sei veramente la nostra Guida.» «Tu credi perché ti ho detto di averti visto sotto il fico? Seguimi, e vedrai cose ben più grandi.»

A Nazareth trovarono Maryam indaffarata con i preparativi per andare ad un matrimonio in un paese vicino. Naturalmente era stato invitato anche Yeshùa, il quale avrebbe invece preferito rimanere con i suoi nuovi amici. Ma Maryam, che ci teneva a che lui partecie, risolse la cosa con un: “Porta anche loro”. Alle nozze, i cinque stavano un po’ in disparte, sentendosi quasi degli intrusi. Yeshùa aveva accettato l’invito malvolentieri, solo per far contenta la madre. Così, quando Maryam gli si avvicinò dicendo: «Non hanno più vino», sbottò: «Cosa vuoi da me, donna? Non è ancora il mio tempo!». Notò l’espressione delusa e addolorata di Maryam e il suo volto si addolcì subito. Fece un cenno di assenso col capo: l’avrebbe accontentata. Maryam disse semplicemente ai coppieri: «Fate ciò che lui vi dirà». Era sconcertata dalla reazione di Yeshùa, che non aveva mai alzato la voce con lei. Inoltre, l’aveva visto tante volte trasformare l’acqua in vino per Yosef. «Riempite d’acqua le anfore e portatemele.» I coppieri eseguirono. Yeshùa toccò le anfore e poi li invitò a portarle dal capo cerimonia. L’assaggio del vino sorprese il capo cerimonia. «Questo è veramente un buon vino!» esclamò. «Come mai lo hai servito per ultimo? Si dovrebbe servire per primo, lasciando quello meno buono per ultimo, quando i commensali non fanno più molto caso alla qualità.» «E’ veramente buono.» convenne il padrone di casa. «Sinceramente, non sapevo neanche di averlo.»

Subito dopo i coppieri servirono Yeshùa e i suoi amici, che si resero conto del prodigio compiuto.

Sulla via del ritorno, fu Maryam a rompere il silenzio. «Potrai mai perdonarmi? Ti ho messo in imbarazzo davanti ai tuoi amici.» In realtà, Yeshùa era rammaricato per aver alzato la voce con la madre. «Sono io che devo chiedere perdono a te! Non c’è giustificazione al modo col quale ti ho aggredita.» Cercò tuttavia di giustificarsi. «Vedi, io mi sono ripromesso di usare i miei poteri solo per curare il corpo e l’anima degli uomini, per non cadere nella tentazione di farne un uso riprovevole. Dare del vino a chi ne ha già avuto abbastanza… Non l’ho fatto volentieri. Devo innanzi tutto insegnare, e per questo dovrò viaggiare molto.» Maryam si rese conto che era giunto il momento di farsi da parte. Yeshùa doveva predicare seguito solo dai suoi discepoli. «Capisco che devi svolgere la tua Missione, e io ti sarei solo di peso. Ti aspetterò a Nazareth.» dichiarò. «Non devi dire questo. Ho bisogno di sentirti vicina… soprattutto quando devo allontanarmi da te.» Yeshùa era ormai convinto di essere la nuova Guida di Israele, e le luci sul capo erano state l’investitura ufficiale. Non era più un semplice predicatore, ma molto di più, e i grandi poteri della mente che era riuscito a sviluppare ne erano un’ulteriore conferma. Aveva appena trasformato intere anfore d’acqua in vino. Così gli venne spontaneo voler rivelare chi era, prima di tutto alla sua stessa gente.

Nella Sinagoga a Nazareth aprì a caso la Torah, ma non lesse ciò che vi trovò scritto. Recitò invece a memoria le parole del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato per portare ai poveri il lieto annuncio”. Arrotolato il volume, si sedette. Tutti gli occhi erano fissi su di lui, che commentò: «Oggi si è adempiuta questa scrittura». La gente rimase sbalordita. Chi era costui? Con quale autorità poteva fare una simile affermazione? Yeshùa percepì ostilità in quel rumoreggiare, e reagì contrariato: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Voi non riconoscete il latore della buona notizia». Purtroppo qualcuno lo riconobbe. «Ma quello non è Occhineri, il figlio del falegname?» «Sì, è proprio lui!» confermò un altro. Era proprio colui che era stato oggetto di invidia e di scherno. Yeshùa era deluso e amareggiato, e decise di allontanarsi. Al di fuori della Sinagoga qualcuno arrivò al punto di raccogliere una pietra per colpirlo, ma Andrea lo disarmò. Si diressero verso Betsaida, dove Andrea garantì che avrebbe avuto un’accoglienza migliore. Yeshùa taceva. Era sconcertato. In meno di una settimana aveva perso il controllo per ben due volte. Prima con Maryam, poi la reazione irata a come erano state accolte le sue parole nella Sinagoga. Ricordò le parole del Maestro Suman: “Se tu perdessi il controllo, anche una sola volta, i poteri della mente potrebbero permetterti di fare cose terribili”.

Non erano arrivati neanche a metà strada, quando Yeshùa si fermò.

«Devo meditare su ciò che è successo, e ho bisogno di restare solo e di pregare. Andate avanti. Io vi raggiungerò presto.» Si ritirò nel deserto, lontano da tutto. In questo suo isolamento, giunse a due importanti decisioni: a) Non avrebbe più rivelato a nessuno di essere la nuova Guida di Israele, ma si sarebbe limitato a presentarsi e operare come uno dei tanti predicatori. Dovevano essere gli altri a rendersi conto di chi fosse veramente. b) Non si sarebbe limitato a essere un taumaturgo. Si era ripromesso di usare i suoi poteri solo per curare, per non rischiare di cedere alla tentazione di farne un uso riprovevole, ma si era reso conto che la spettacolarità di certi prodigi poteva attirare più gente delle sue stesse parole, che potevano anche essere difficilmente comprensibili.

Cap. 16 – Il patto

Yeshùa si era rifugiato in una piccola grotta, una rientranza della roccia orientata a nord, in modo da ripararsi dal sole nelle ore più calde. Aveva ormai ato un mese nel suo isolamento, durante il quale si era sforzato di fare una sintesi di tutto ciò che aveva appreso, ma soprattutto cercava di capire come poter svolgere la sua Missione. Era in uno stato di dormiveglia, provato dal lungo digiuno e dall’affaticamento della sua mente, quando una mano caritatevole si posò sulla sua spalla e un calice di acqua fresca venne appoggiato alle sue labbra. Ne prese un sorso, che trattenne in bocca per dare sollievo alla lingua riarsa. Finalmente rivolse la sua attenzione ai visitatori: Mohadran e Sheila, che reggeva il calice dell’acqua. Mohadran si era ormai ripreso dalla lunga riabilitazione e si era adirato nel sentire che Yeshùa non aveva ancora combinato niente di utile. «Mangia.» disse Mohadran in sanscrito. «Mi stai offrendo dei sassi?» chiese meravigliato Yeshùa, in sanscrito. «È pane. Ha una forma che non conosci, ma ti assicuro che è buono.» Yeshùa percepì autorità e ambizione in quell’uomo, ma soprattutto una mente potente, e ne rimase colpito. Era chiaro che non erano venuti per offrirgli del pane. «Che cosa posso fare per te?» Fu con malcelato orgoglio che Mohadran rispose: «Sono io che posso fare molto per te. Siamo qui entrambi per conquistare il Mondo. Io ti darò i mezzi, e tu potrai trascinare le genti con il tuo carisma». Yeshùa non riusciva a capire.

«Devi sapere che il Mondo è in grave pericolo, e noi siamo venuti dal futuro per cercare di salvarlo». Mohadran si rese conto che c’era un problema di comunicabilità. In effetti, la sua ultima affermazione appariva decisamente assurda. «Vieni. Ti faccio vedere». Raggiunsero Giuda sulla navetta. Yeshùa era sorpreso davanti a tutta quella tecnologia. Volarono verso Gerusalemme e Mohadran mostrò a Yeshùa le mura e il Tempio. Poi ancora più in alto, fino a vedere il Mare Mediterraneo. «Laggiù c’è Roma. Il Mondo è più grande di quanto tu possa immaginare.» Mentre Giuda li riportava nel deserto, Mohadran mostrò su un monitor le più grandi civiltà della Terra, e quanto piccolo fosse in realtà il tanto temuto Impero Romano. Erano immagini riprese da satellite, che facevano parte delle dotazioni di bordo. «Ci sarà un solo grande Impero, e noi potremo avere il dominio su tutte le genti. Ci sarà una pace completa e duratura, e potremo finalmente pianificare uno sviluppo sostenibile, a beneficio di tutta l’umanità.» Erano intanto tornati al punto di partenza. Yeshùa era sconcertato dai poteri straordinari di quell’uomo, ma c’erano troppe cose che non riusciva a capire. Chiese: «Puoi dirmi in modo più semplice cosa mi stai offrendo, e cosa ti aspetti da me?». Mohadran si rese nuovamente conto di avere forzato troppo rapidamente cose eccezionali su un uomo che era stato volutamente tenuto all’oscuro di tutto: il viaggio nel tempo, la sua origine, la Missione che tutti loro erano venuti a compiere. «Eppure è semplice. Io ho il potere di metterti a capo di un unico Impero, che comprende tutti i regni della Terra. Tu devi solo accettare e seguire la mia guida. Io ti fornirò un esercito di uomini invincibili, con armi che possono distruggere Roma in una sola notte.» «Tu mi stai chiedendo di uccidere!» obiettò Yeshùa.

«Certo, sarà necessario eliminare chi non accetta il nostro dominio, ma solo il minimo indispensabile per fare capire chi è il padrone. La paura farà il resto.» Yeshùa vide finalmente a cosa mirava quell’uomo, e fu colpito da quanto tutto ciò contrastasse con gli insegnamenti ricevuti. Si limitò a dire: «Vattene!». «Non puoi scacciarmi! Tu hai bisogno di me!» Yeshùa voltò le spalle e si allontanò dal gruppo. «Tu sai che dico la verità!» gli gridò dietro Mohadran. «Tu sei un capolavoro d’ingegneria genetica. Siamo venuti qua per salvare il Mondo, e per farlo dobbiamo sottomettere questi selvaggi. Non puoi metterti al loro livello.» Yeshùa accelerò il o. «Se vuoi che ti seguano, devi usare la frusta. Ricordati che qualunque cosa farai per loro, riceverai solo ingratitudine.» Mohadran era furioso. Salirono sulla navetta e lo abbandonarono nel deserto.

Yeshùa era veramente confuso. Si rifugiò nella grotta e per la prima volta cadde in preda a una struggente angoscia: “Padre, perché?”, andava ripetendo. All’improvviso vide il volto di Elì, come un bassorilievo sulla parete della grotta, e ne riconobbe la voce: «Hai reagito bene alle tentazioni». «Quell’uomo non mentiva. Io so che non mentiva.» protestò Yeshùa. «Sì, ciò che ti ha detto è tutto vero, ma dovevi nascere e vivere come uomo per capire gli uomini e poter comunicare con loro. I poteri della tua mente si stanno sviluppando bene e sei quasi pronto. Presto uniremo le nostre menti e non avrai più dubbi sulla tua Missione e su come assolverla. Intanto puoi continuare a predicare.» «Ho visto un’ambizione enorme in quell’uomo, ma ho visto anche paura, apprensione e collera. E’ dunque questa la natura umana?»

«No. L’uomo è fatto per amare, ma il suo comportamento è condizionato dalla distanza che lo separa da Dio. Il tuo compito è appunto quello di insegnare ad amare, ed è l’amore che permette agli uomini di avvicinarsi a Dio.»

Sulla via del ritorno Mohadran si chiese se il suo approccio con Yeshùa non fosse stato troppo diretto e troppo brusco, ma riteneva che dovesse essere abbastanza maturo per sapere chi fosse veramente e perché erano tornati indietro nel tempo. Non poté fare a meno di considerare che Yeshùa aveva ormai quasi trenta anni, e non aveva fatto ancora nulla, mentre alla sua età Alessandro il Macedone aveva già sottomesso le più importanti civiltà del suo tempo. Man mano che si avvicinavano alla Base, la sua rabbia aumentava. Gli sembrava che l’approccio seguito dal Lama fosse troppo dispendioso in termini di tempo e troppo incerto sui risultati. Forse il Lama poteva nuovamente superare i duecento anni, ma lui avrebbe voluto vedere qualche risultato concreto in tempi più a misura d’uomo. Aveva bisogno di isolarsi per pensare. Al rientro si rifugiò nel suo studio, ma vi trovò il Lama, che lo stava aspettando. «Cosa hai fatto?» gli chiese con tono severo. Mohadran sbottò: «Acqua! Ha preso soltanto un sorso d’acqua. Gli ho offerto il dominio del Mondo e lui mi ha scacciato. Qualsiasi uomo non avrebbe esitato». «Yeshùa non è un uomo qualsiasi.» «Ah sì? E che cosa è?» Il lama esitò, sconcertato dalla collera di quell’uomo. Avrebbe dovuto vergognarsi di ciò che aveva fatto, e invece era aggressivo e addirittura sembrava voler avere ragione. «Ti dico io che cos’è!» riprese Mohadran, senza aspettare una risposta. «E’ un pazzo! Un pazzo fanatico e finirà con il farsi uccidere!» «Yeshùa non è qui per dominare, ma per redimere. Egli può e deve salvare il

Mondo con la parola, non con la spada.» L’ira di Mohadran suggerì la risposta già usata in altre occasioni: “Balle!”, ma riuscì a controllarsi. Si limitò a un più blando: «Non sono d’accordo. Da che mondo è mondo non vi sono mai stati cambiamenti senza l’uso della forza, non vi è mai stata rivoluzione senza spargimento di sangue. Se vuoi cambiare il Mondo devi prima conquistarlo, devi addestrare gli eserciti, invadere e sottomettere. Yeshùa ha carisma e può avere grande seguito, e con armi moderne possiamo conquistare il Mondo in meno di un mese». Il Lama era perplesso e si rendeva conto che Mohadran non credeva alla forza della fede e al potere della Parola. D’altra parte era stato educato come ateo, e aveva anzi partecipato alle persecuzioni contro ogni forma di culto all’interno dell’Impero. Cercò di fargli capire che l’approccio giusto da seguire era quello che Yeshùa stava perseguendo. Così disse: «Tu sei stato Ministro della Cultura e della Ricerca Scientifica. Hai sempre curato che nel cuore dell’Impero non venisse mai insegnato alcun tipo di religione». «Certamente. Ho lasciato che venissero distrutti tutti i templi dell’Impero e che fossero perseguitati tutti quelli che praticavano o insegnavano qualsiasi tipo di culto o superstizione. Sono riuscito a salvare solo il Tempio della Pace, e quindi il Monastero da cui provenite, perché espressione di una parte importante della storia e della cultura dell’Umanità. Riuscii a convincere l’Imperatore e il Gran Consiglio che un solo monastero con un Lama molto vecchio non poteva costituire in alcun modo una minaccia. Nessuno poteva immaginare che quel Lama sarebbe morto all’incredibile età di 246 anni». «So come sono andate le cose, e ti sono grato per aver salvato il nostro Tempio, ma non è di questo che ti voglio parlare. «Come Ministro per la Cultura e la Scienza, tu sai benissimo che la maggior parte della popolazione è analfabeta. Alle donne è precluso ogni tipo d’istruzione e molto spesso sono tenute in uno stato di semi-schiavitù. Poi, ci sono gli schiavi veri, volutamente tenuti nella più completa ignoranza. Infine, i figli delle persone meno abbienti, esclusi dalle scuole per l’enorme costo dell’istruzione. «Supponi ora che l’Imperatore si renda conto che lo sviluppo della mente, come capacità di apprendere, analizzare e soprattutto creare, dipenda dal livello medio

dell’istruzione di un popolo, e che quindi, in ultima analisi, condizioni il generale progresso scientifico, e conseguentemente il livello di benessere di tutti. Facciamo l’ipotesi che l’Imperatore si renda conto di ciò, e affidi l’incarico a te, come Ministro responsabile, di provvedere alla completa eliminazione dell’analfabetismo. «Ora ti prospetto due approcci completamente diversi per raggiungere questo obiettivo. Il primo è semplicemente quello di eliminare fisicamente tutti gli analfabeti, mantenendo un numero limitato di donne da destinare unicamente alla riproduzione. Il secondo è quello di creare scuole sufficienti e adeguate per istruire tutti. Il primo approccio è più rapido ed economico. Il secondo garantisce risultati che durano nel tempo. Tu che sei anche Maestro di Logica, quale dei due seguiresti?» A Mohadran tutto quel discorso non piacque; ebbe la netta sensazione che il Lama stesse preparando un tranello. «Io convincerei l’Imperatore a lasciare le cose come stanno, perché l’alfabetizzazione generalizzata può portare solo conflitti sociali. Le donne sono intellettualmente inferiori, e gli schiavi devono rimanere schiavi, perché sono utili così. Inoltre il progresso scientifico è sempre stato legato a poche menti eccelse, fornite di mezzi adeguati.» Il Lama sembrò deluso da quella risposta. «Tu stai difendendo il Mondo da cui veniamo, un Mondo destinato all’estinzione. Proprio tu conosci meglio di chiunque altro ciò che abbiamo abbandonato, e lasciare le cose come stanno, renderebbe inutile la nostra Missione!» Mohadran si trovò in difficoltà e decise di lasciare al Lama l’iniziativa. «Allora dimmi tu cosa intendi fare.» «Yeshùa à l’arma più potente che la mente umana abbia mai sviluppato: la Parola.» Questa volta Mohadran non si trattenne dal rispondere: «Balle! Come puoi ignorare l’insegnamento della Storia? Non può esserci cambiamento senza vittime. Non può esserci rivoluzione senza spargimento di sangue».

«Yeshùa non ucciderà e non farà uccidere nessuno. Mai! Insegnerà fratellanza, amore, verità e coraggio. Il suo compito è cambiare il modo di pensare e non imporre un addestramento di tipo militare, e meno che mai insegnare a uccidere, come purtroppo fanno tutti i Re della Terra con i loro eserciti. «Qui aspettano il Messia, l’inviato del Signore, per riscattare il popolo di Israele dal giogo di Roma, ma Yeshùa ha un compito ben più difficile: è venuto per salvare il Mondo. Lui è il prodotto di una civiltà avanzata, e i poteri della sua mente sono ormai sufficientemente sviluppati da poter dimostrare di essere l’Inviato di una Potenza Superiore. à il grande potere della fede e la forza del suo insegnamento.» La comunicazione tra i due era diventata difficile e le rispettive posizioni sembravano ormai inconciliabili. «Temo che tu t’illuda sulle possibilità di cambiare gli uomini, ma forse vale la pena di tentare il tuo approccio, radicalmente nuovo. Facciamo un patto.» propose Mohadran per sbloccare la situazione. «D’ora in poi io mi terrò in disparte e tu avrai completa libertà di azione. Se Yeshùa dovesse fallire, allora io procederò con il mio piano d’azione, e prenderò possesso della Terra.» «Accetto.» «Accetti?» chiese Mohadran meravigliato. Si aspettava una controproposta, o almeno che ponesse delle condizioni. «Che altro potrei fare? Non posso e non voglio costringerti a fare alcunché contro la tua volontà. D’altra parte, ho piena fiducia in Yeshùa.» «Ehi! Tu stai solo cercando di guadagnare tempo! Non mi ci rimetti in ibernazione. Ti do soltanto due o tre anni per ottenere dei risultati accettabili.» «Tre anni. Dammi tre anni, ma in questi tre anni devo poter contare sul tuo aiuto. Yeshùa non può fallire. Darò comunque disposizioni che il comando assoluto della Missione i nelle tue mani, o nelle mani di una persona da te designata, non appena si dovesse creare una situazione in cui fosse disatteso l’insegnamento di Yeshùa da parte dei suoi seguaci.» «Perfetto. Mi metto a tua completa disposizione, e farò tutto quanto è in mio potere perché la Missione, come intendi condurla tu, abbia successo. Metterò

mio figlio Giuda a fianco di Yeshùa, con il compito di aiutarlo in tutti i modi possibili.» Si lasciarono soddisfatti di quel patto, perché entrambi avevano la certezza che avrebbe avuto successo la propria linea di azione. Mohadran era talmente sicuro del fallimento della missione di Yeshùa, che iniziò immediatamente la costruzione di alcuni ordigni nucleari.

Puoi seguire i grandi maestri, come Buddha e Cristo, oppure i grandi conquistatori, come Alessandro Magno e Hernán Cortés.

E’ una scelta che porta a due mondi completamente diversi.

Ma se ami la pace, costruisci sempre, non distruggere mai.

Giuseppe Dalu è stato un insegnante, abituato a dare risposte. Ora cerca risposte. Se vuoi partecipare alla sua ricerca, scrivi a: [email protected]

IL TEMPO PRIMA DELLA LUCE

Seconda parte

STRATEGIA DI SALVEZZA