Fiori Di Sambuco E Menta 64g2a

Tavola dei Contenuti (TOC)

Cover 1 Cabris, Alpi Marittime si 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16

17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 Ballerine di carta

Un romanzo della stessa autrice di “Ballerine di carta”

Laura Rico

Fiori di Sambuco e Menta

ISBN versione eBook 978-88-6660-167-8

Fiori di Sambuco e Menta Autore: Laura Rico

Copyright © 2015 CIESSE Edizioni

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I Edizione stampata nel mese di luglio 2015

Impostazione grafica e progetto copertina: © 2015 CIESSE Edizioni

Collana: Green Editing a cura di: Sonia Dal Cason

PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

A Irene Carolina. Adesso, corri nel vento.

1

Di notte, quando non riesco a dormire, mi calmo tornando con il pensiero alla mia terra, al viola degli sterminati campi di lavanda, al giallo delle distese di girasole e di frumento. I colori sono così nitidi nella mia immaginazione che mi sembra sia ato solo un giorno da quando mi attardavo a osservare il sole che tramontava dietro le colline. Mi pare perfino di odorare il profumo di sapone del mio abitino azzurro, ormai troppo corto per nascondere le gambe magre, abbronzate dalle lunghe eggiate. Rientriamo o mamma si preoccuperà. È la voce di mia sorella quella che mi raggiunge all'improvviso. Un timbro cristallino, inconfondibile. Con una stretta al cuore mi rendo conto che mi manca. Ancora cinque minuti, la supplico. Dorine mi guarda seria, come sempre. Lo sai che è meglio tornare, insiste senza batter ciglio. Disteso accanto a me, nel buio, mio marito ha il respiro pesante di chi dorme profondamente. Come ci riesce? Mi rigiro fra le lenzuola, ma non trovo pace. Mi sforzo di ricordare. L'aroma dei fiori di gelsomino del giardino di mamma, il tenue odore del detersivo sui tovaglioli di lino lavati dalla tata, il ronzio dei bombi impollinatori sulle piante di lavanda vicino all'altalena, l'incessante frinire delle cicale nelle giornate estive. Dettagli rasserenanti che mi riportano a casa. Riesco addirittura a cogliere il profumo della mia pelle a contatto con il sole. D'un tratto il suono delle campane mi riporta alla realtà della notte. Uno, due, tre... dodici rintocchi. L'ora dei fantasmi. Dimmi chi sei. O chi sei stata. Altri ricordi per scacciare domande che non trovano risposte. Blanche è di nuovo in castigo, Blanche è di nuovo in castigo. La voce di mio fratello Costante mi risuona potente nelle orecchie. Lo rincorro nel salone di

casa, a Cabris, lui si nasconde dietro la poltrona in cui papà si è appisolato. Se solo riesco a prenderti... Rapida, prima che l'immagine svanisca, getto un malinconico sguardo all'ambiente che mi circonda. Il pavimento in legno rustico contrasta con i mobili chiari e con i tappeti intrecciati color lavanda e azzurro. Guardo il focolare in argilla, spento, e le piastrelle in ceramica della cucina. È tutto come allora. L'uomo disteso accanto a me allunga una mano per percorrere la curva del mio fianco. Tanti anni trascorsi insieme gli hanno insegnato a intuire quando sono scossa. «Vorrei tornare a quei giorni», dico in un bisbiglio. «Quali giorni?» «Quelli in cui non accadeva nulla.»

Cabris, Alpi Marittime si

1949

Non avevo mai visto la mamma piangere ed ero rimasta colpita nel vederla in lacrime, inginocchiata accanto a mio fratello piccolo, Costante. Era caduto dall'albero e con ogni probabilità si era fratturato una gamba. Anche papà era accorso in aiuto, lo aveva sollevato e aveva urlato a Babette, la tata, di chiamare il dottore. Mi sentivo in colpa, lo avevo costretto io a salire per recuperare la palla. Era sempre stato bravo a scalare piante e staccionate, invece era caduto. «Perché non hai chiamato me? Ci sarei andato io», sussurrò mio fratello Bernard, ben attento a non farsi sentire dalla mamma. «Beh, non c'eri e poi Costante non ha problemi a farlo. È stata soltanto sfortuna.» «La mamma ti farà are un brutto momento per questo.» «Sai che novità!», gli risposi secca. «Blanche, sei una stupida quando parli così.» «Ma se non perde mai l'occasione di rimproverarmi.» «Sei tu che non fai altro che metterti nei guai», sottolineò lui di rimando. «Ti detesto», strillai girandogli le spalle. Corsi via e mi misi a sedere sotto il nostro melo, accanto alla tomba di papà. L'altro papà, quello morto. Spleen, il nostro cane, mi raggiunse per leccarmi i piedi e le mani, scodinzolando con vigore. Di certo aveva percepito quanto fossi rattristata per l'accaduto. Mia madre non ci sarebbe riuscita e non avrebbe fatto

altro che sgridarmi per giorni. Guardai la lapide di papà, il mio vero padre, e mi domandai che cosa avrebbe fatto se fosse stato ancora fra noi. Mamma non faceva che raccontarci di quanto fosse soso e di come il sorriso non abbandonasse mai il suo volto. A volte mi domandavo come un uomo così avesse potuto sposarla. Lei era un tipo divertente, ma non sopportavo gli incessanti rimproveri, ormai divenuti insopportabili. Guardai la fotografia di papà Costante sulla lastra di marmo. Ricordavo bene quando papà Alessandro l'aveva appesa, tanti anni prima; mio fratello piccolo non era che un fagotto in braccio alla mamma e tutti insieme avevamo detto una preghiera per salutarlo. Era una delle poche immagini dell'infanzia marchiate a fuoco nella mia memoria. Poi nulla, non ricordavo altro del papà sepolto sotto il melo. Lei ci aveva detto che, durante la guerra, alcuni soldati gli avevano sparato proprio lì, ma era chiaro che non amava parlare di quell'episodio e, se capitava che le fimo qualche domanda, cercava sempre di schivare il colpo cambiando argomento, raccontandoci qualche altro aneddoto piacevole che lo riguardava. Quando parlava di lui, il volto le si illuminava e mio padre prendeva vita come se ancora fosse fra noi. Si percepiva dalla luce che le investiva lo sguardo che la mamma l'aveva amato immensamente. «Che faresti tu al mio posto, papà?», mormorai. «Tu sapresti come affrontarla. Beh, qualsiasi cosa farò o dirò, non mi salverà. Verrò punita per aver messo in pericolo il suo adorato figlio, ma non è stata colpa mia», piagnucolai. Lui si sarebbe comportato come papà Alessandro, quello che mi aveva cresciuta. Non mi avrebbe mai rimproverata inutilmente, ne ero sicura. Anzi, avrebbe cercato di comprendere i motivi che mi spingevano a commettere quelle che la mamma chiamava stupidaggini. Non lo facevo apposta, le cose capitavano senza che io potessi prevederle e lei, invece, non lo capiva. Era talmente concentrata su Dorine e su Costante che non riusciva a rendersi conto che certe situazioni non le creavo solo per il gusto di darle noia, e nemmeno mi mettevo nei guai per farle dispetto. Dora, mia sorella più vecchia che tutti chiamavamo Dorine per la costituzione mingherlina, era anche la più brillante: diligente, studiosa, accondiscendente, sempre pronta a dare una mano, perfetta insomma. A Bernard poi, l'artista di famiglia, veniva perdonato tutto: aveva quel modo di guardarti che riusciva a sedare ogni discussione e in questo somigliava molto a papà Alessandro. Io li adoravo. Per non parlare poi del piccolo Costante, il prediletto di mamma! Lei

non aveva occhi che per lui, gli aveva perfino dato lo stesso nome di papà, quello morto. Papà Alessandro era l'unico che mi capiva, era il miglior padre che io potessi mai desiderare. Aveva sposato la mamma anni prima, alla fine della guerra, e aveva portato con sé Bernard, che lei aveva sempre trattato come un figlio. Mamma era solita dire che noi figli avevamo due padri, uno che ci proteggeva dal cielo e l'altro che ci sosteneva e che ci amava in terra. «Blanche, entra in casa», urlò Dorine da lontano. Ero certa che fosse stata la mamma a mandarla, di sicuro aveva già pronta una ramanzina, tanto per cambiare. Mi avrebbe messa in punizione un'altra volta. Non la sopportavo.

2

In casa è calato il silenzio. L'Avvocato, mio genero, mi osserva preoccupato. Ha gli occhi incavati e arrossati e non fa che spostarli a destra e a manca aspettando che io prenda la parola. Dov'è finito il suo sguardo inflessibile ora che ha bisogno di noi? E il tono autorevole che ha imparato a sfoderare in anni di addestramento nelle aule di tribunale? Adesso è solo un uomo ed è in attesa che sia io a fare il primo o. Beh, può aspettare. Oggi non ho intenzione di rendergli le cose facili. Non dopo ciò che è accaduto. Ci pensa mio marito a prendere in mano la situazione. «Questa è l'ultima valigia», esclama posando a terra la pesante sacca. Dietro di lui, l'esile sagoma di mia nipote Valentina si trascina fino al salotto. Sedici anni e l'espressione perennemente imbronciata. Non le va a genio l'idea di trasferirsi qui per l'estate. La si può biasimare? «Eccoci qua», interviene di nuovo mio marito guardando la ragazza. «Benvenuta nella nostra casa.» La fisso. I suoi occhi mandano lampi. La vedo spostare lo sguardo di lato per cercare il padre, ma lui è abile a non incrociarlo. «Non so come ringraziarvi», farfuglia l'Avvocato tentando di ritrovare la consueta padronanza di sé. Mi scruta per un attimo, poi ritrae gli occhi e permette allo sguardo di perdersi nel vuoto. Immagino che casa nostra possa aver sollevato in lui molti ricordi, ci ha trascorso parecchio tempo da ragazzo, quando corteggiava mia figlia Alice. Mio marito gli dà una pacca sulla spalla nel tentativo di rincuorarlo: «Tutto si sistemerà», gli dice. «Lo spero», sussurra lui. Valentina non apre bocca. È sempre stata una bambina silenziosa, come sua

madre. Rivedo Alice alla sua età, i sottili capelli biondi che all'improvviso si sono tinti di nero per interpretare un ruolo diverso, la carnagione diafana, lo sguardo inquieto e la rabbia sul viso. Tu non capisci. Questo è l'unico modo di vestire che mi rappresenta. I colori alla moda mi danno il voltastomaco. È il turno di sua figlia, ora. Capelli tinti, indumenti borchiati e anfibi: la copia perfetta di sua madre. Mi scappa un sorriso. È un dato di fatto che nelle famiglie ci si somigli più di quanto si desidererebbe, anch'io assomigliavo a mia madre ed era l'ultima cosa che avrei voluto. Valentina continua a fissarmi stringendo gli occhi carichi di mascara e qualcosa mi si contrae nello stomaco. Mi torna in mente Alice, che si sedeva sulle mie ginocchia per ascoltare le fiabe o che disegnava per me principesse dalla corona viola. Rivedo gli occhi trasparenti e i morbidi riccioli biondi che le ricadevano sulla fronte. Ricordava così tanto mio marito che pareva davvero essere figlia sua. Il posto da dove la prelevammo non era un granché, i bambini erano denutriti, esili come fantasmi. Fu lei a sceglierci. Allungò le braccia verso di noi con semplicità, un baluginare di denti nel visino impiastricciato. Capii subito che la vita l'aveva già segnata. «Papà, ti prego, non puoi farmi questo», sento Valentina supplicare l'Avvocato dopo averlo raggiunto in giardino. Un ultimo disperato tentativo di convincerlo a portarla via con sé. «Senti, Valentina, mamma probabilmente non tornerà prima di settembre. Io in questo momento non ho la forza di occuparmi delle tue cazzate e i nonni si sono resi disponibili ad accoglierti.» «Cazzate?», grida lei fingendo di non capire. Sappiamo tutti che l'Avvocato si riferisce alle due materie da riparare, storia e se. Io non la considero una faccenda così grave. «Non prendiamoci in giro, Vale. Cartine per rollare sigarette e filtri parlano da soli.» «Non mi drogo, te l'ho già detto», ribatte lei sollevando le braccia. «Non è questo il punto.»

«E qual è, allora?» «Ti aiuterà con il se», insiste lui. «Chi? Lei?», domanda, indicando me con il mento. «E chi sennò?» «La verità è che, se potessi, mi rinchiuderesti in convento», replica lei con la voce rotta. «Che alla fine sarebbe esattamente la stessa cosa. Che male c'era se me ne stavo a casa?». Si capisce che sta trattenendo lacrime di rabbia. «Abbiamo già discusso di questo un migliaio di volte. La decisione non è negoziabile.» «Ti odio», strilla lei serrando le mani a pugno. «Cerco di fare ciò che è meglio per te», sostiene l'Avvocato salendo in auto e allontanandosi prima che la figlia abbia il tempo di replicare. Rivedo la mia Alice a sedici anni, così fragile, insicura e arrabbiata. Tu non capisci, non è il mio mondo questo. Si sforzava di mostrarsi grande e non ci riusciva. Voleva andare lontano, ma la vita correva troppo veloce. Quella stessa identica vita che tesse tele di ragno per legare i destini delle persone. Di fratelli, di amici, di amanti, di genitori e di figli. Legami che a volte resistono, altre si sfilacciano, altre ancora si spezzano. Valentina adesso è Alice. Le lacrime le pungono gli occhi.

1949

In realtà, adoravo mia madre. Era sempre piena di iniziative e ci insegnava ogni volta qualcosa di nuovo. Giocavamo, dipingevamo, leggevamo di tutto, dalle fiabe di Andersen alle tragedie di Shakespeare, dalle poesie di Tennyson a quelle

di Baudelaire, ma io preferivo quando ci leggeva Alice nel paese delle meraviglie. Lei aveva un talento speciale nel dare una voce diversa a ogni personaggio e si guardava intorno come se fossimo alla corte della Regina di Cuori o alla tavola del Cappellaio Matto. Io e i miei fratelli l'ascoltavamo in silenzio, rapiti dalla magia delle sue parole. Ogni tanto, però, i suoi occhi si velavano di malinconia e lei era preda del cattivo umore. Avevamo paura quando coglievamo quello sguardo perché non sapevamo mai che cosa aspettarci. Poteva improvvisamente divenire preda della collera, cominciare a inveire contro il mondo o contro di noi, scagliare qualche oggetto nel vuoto o decidere di cuocere una torta o dei pasticcini con me e Dorine. A volte non riuscivo a capirla. Un istante sembrava la donna più felice al mondo, l'attimo dopo, senza preavviso, si trasformava nell'essere più odioso che avessi mai conosciuto. Non di rado lei e papà litigavano a causa di questi suoi comportamenti. «Tu non capisci», strillava lei con il viso contratto. «Che cosa, che sei rimasta indietro? Appesa al ato?», la rimproverava lui. «Non devi permettere che i bambini ti vedano così.» «Non posso. Non ci riesco.» Si capiva che papà l'amava perché l'abbracciava sempre quando lei piombava nello stato d'animo, così chiamavamo la sua tristezza, ma noi non sapevamo da dove scaturisse, lo stato d'animo. Sapevamo solo che quando arrivava, era meglio starle alla larga. Diventava intrattabile, soprattutto quando si adirava con lo zio Toni che faceva sempre del suo meglio per irritarla con i suoi atteggiamenti da demente. Che lui demente lo fosse davvero, non era un segreto. Aveva poco più di trent'anni e si comportava come se ne avesse quattro. Lo chiamavamo zio, ma in realtà era il cugino di mamma che lei aveva portato con sé dall'Italia tanti anni prima. Noi non eravamo mai stati in Italia, terra d'origine dei miei genitori, ma un giorno saremmo andati a far visita ai nonni paterni, così ci prometteva lei. A me sembrava che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Lei ci parlava dei luoghi dov'era cresciuta, dei Colli Euganei, di Padova, della sua vecchia casa alla periferia di Abano, della zona centrale ricca di alberghi di lusso, delle cure con i fanghi e dei fossati pieni d'acqua fumante, ma di rado ci raccontava della gente, della famiglia, degli amici. Soltanto una volta ci parlò dei nonni paterni e ci

raccontò che erano vivi e che possedevano due degli alberghi più prestigiosi della città. Eravamo ricchi, allora! Non ce la avamo male a Cabris, anzi, la nostra tenuta agricola era fiorente e garantiva un tenore di vita ragguardevole. Mio padre aveva da poco rimesso in funzione la scuderia comperando un paio di cavalli e mamma fu molto contenta quando lui riportò a casa Blue Belle, la cavalla che erano stati costretti a vendere durante la guerra. Era un bellissimo esemplare di andaluso bianco e lei si portò le mani alla bocca quando la vide scendere dal furgone. Papà sorrise. «Sei ancora viva», disse la mamma avvicinandosi per accarezzarla. «Non posso crederci.» «Buon compleanno, Bianca», sussurrò lui baciandole la guancia. Lei sfiorò il muso della cavalla. «Ci sei mancata», disse. Era felice ed è l'immagine di lei che mi è sempre piaciuto conservare. Quella era mia madre.

3

«Funziona così qua dentro», afferma mio marito dopo aver esortato Valentina a prendere posto a tavola. «Colazione, pranzo o cena, anche chi non ha appetito rimane seduto», spiega in tono rilassato. Ho sempre apprezzato il suo modo di fare pacato e incisivo al tempo stesso. Guardo le rughe che solcano il suo volto e i capelli d'argento. È ancora un bell'uomo, nonostante i suoi settanta e a anni. «Assaggia», insiste. Il suo sguardo fermo non lascia mai una possibilità di scelta. Vedo Valentina portare controvoglia un cucchiaio di zuppa alla bocca. Poi un altro e un altro ancora, gli occhi persi nel vuoto. «Per favore, mi allunghi un panino?», chiedo a mio marito in tono gentile. La sua espressione si addolcisce. «Ecco, cara.» E lei sta lì, alza lo sguardo con i pensieri che sono tornati a sfrigolarle in testa. Vuole spiare, capire e ci guarda come se ci vedesse per la prima volta. Dopo una certa età certe dimostrazioni di affetto sono imbarazzanti, lo so. Non incrocio i suoi occhi, non ancora. Sul petto l'insopportabile peso di troppe cose non dette. La vedo scostare i capelli e are una mano sul collo bianco. Probabilmente sta pensando che sono una vecchia bisbetica e che dovrei capire il motivo per cui non è venuta spesso a farci visita. «Forse non avevi nulla da dire», dico dopo aver appoggiato il cucchiaio sul tavolo ed essermi asciugata la bocca con il tovagliolo. Devo avere indovinato i suoi pensieri perché ora Valentina mi guarda seria, in preda a un evidente panico. Teme di aver parlato ad alta voce. «Dico», continuo imperterrita, «non hai nemmeno salutato tuo padre. Non avevi nulla da dirgli?»

«No», risponde incredula. «Lasciala stare», suggerisce mio marito, «deve ancora mandare giù un paio di bocconi amari, vedrai che fra qualche giorno le tornerà la voglia di parlare.» So a che sta pensando, ci sono già stata in questo film. La voce stridula di Alice mi risuona nelle orecchie. Non avrò mai voglia di parlare con chi mi ha schiaffata qui ad annoiarmi a morte. Incrocio le braccia sul tavolo e, finalmente, guardo Valentina dritto negli occhi. «In genere le persone estrose non si annoiano», sostengo, «e, a guardarti bene, direi che la fantasia non ti manca», aggiungo puntando il mento sulla sua maglia piena di spille da balia. «Blanche, dalle tempo», mi ammonisce mio marito. «Non vorrai che si metta a parlarti di sé adesso.» «No», rispondo, «non era quella la mia intenzione.» Il viso di Valentina si riempie di sollievo. «Ecco», aggiungo sorridendo, «ora va meglio. Vuoi una fetta di torta al cioccolato?» Fa una specie di smorfia che interpreto come un sì. Mi alzo per andare in cucina. «Spleen, vedi di sloggiare», sbraito. Quel cane ingordo mi cammina sempre fra i piedi quando c'è odore di qualcosa di dolce. Prima o poi mi farà inciampare. Torno in salotto con due fette di torta, una per Valentina e una per mio marito. Mi siedo e puntello i gomiti sul tavolo portando le mani sotto il mento. Abbozzo un sorriso divertito: lui, goloso come sempre, si è già avventato sulla sua fetta mentre Valentina sta ancora osservando il piatto, titubante. Chissà se sta pensando che mangiare la mia torta significhi inevitabilmente fare un o verso di me. Si morde le labbra, forse per provare a resistere alla tentazione del cioccolato, o più probabilmente per fermare le lacrime che le premono sotto le palpebre.

1956

Finalmente era arrivato il mio compleanno. Compivo sedici anni ed era anche l'ultimo giorno che mia sorella Dorine avrebbe trascorso con noi. Infilai il mio vestito preferito che, notai, mi andava un po' stretto sul seno. Mamma mi aveva promesso un abito nuovo per regalo e, ne ero sicura, sarebbe stato bellissimo, lei ci sapeva fare con ago e filo. Un tempo, quando ancora viveva in Italia, aveva lavorato come sarta e sapeva confezionare dei vestiti da ballo meravigliosi. «Blanche!», la voce di papà mi raggiunse dalla tromba delle scale. «Vuoi scendere? Manchi solo tu.» Saltai i gradini a due a due per fare prima. Non feci in tempo a entrare nel salone che già un motivo intonato all'unisono mi giunse alle orecchie. Papà aveva le candeline su un'enorme torta alla panna e la mamma cercava di dare il tempo ai miei fratelli, a zio Toni e alla tata, battendo le mani al ritmo del loro canto, ma non ci riusciva molto bene, erano piuttosto stonati. Sorrisi, felice di avere la loro attenzione tutta per me. «A Blanche», disse papà sollevando il bicchiere di vino, «che si sta avviando a diventare una bellissima donna.» Sentii le gote infiammarsi, non avevo mai pensato che lui potesse riferirsi a me come a una donna. In fondo al cuore desideravo restare per sempre la sua bambina. «E a Dorine», continuò, «che si prepara a lasciare la nostra casa per la capitale, dove, ci auguriamo, potrà diventare un ottimo medico.» Ero invidiosa di mia sorella. Anch'io sarei voluta andare a Parigi e invece non mi ero mai spinta più in là di Grasse. Possibile che tutte le fortune capitassero a lei? Parigi... Qualche tempo prima avevo comunicato a mia madre che mi sarebbe piaciuto visitare la capitale, ma lei aveva risposto con una frase secca: Prima termina gli studi, poi si vedrà. Si vedrà? Non era scontato anche per me andare a

Parigi? Ero consapevole che Dorine si era sempre dimostrata una persona con la testa sulle spalle, perfetta direi, e della quale i miei genitori si fidavano ciecamente. Non avevano fatto una piega quando aveva espresso il desiderio di allontanarsi dalla famiglia, anzi, l'avevano perfino incoraggiata. E io? Non potevo andare anch'io a studiare lontano da Cabris? «Auguri a Dorine, allora», intervenne Bernard che aveva solo qualche mese meno di me, «e buon compleanno a Blanche. Detto fra noi, che stia diventando una donna bellissima se n'è accorto anche il figlio del nostro fattore, che non fa che correrle dietro tutto il giorno, poveraccio!» Bernard non faceva che darmi il tormento da quando Didier, il figlio del fattore, gli aveva confessato di avere un debole per me. «Sei uno stupido», lo rimbrottai. «E tu una vipera.» «Finitela», ci rimproverò la mamma che stava già servendo il dolce, «almeno oggi cercate di tenere la bocca chiusa.» «Almeno oggi», ripeté Costante prima di mordere un pezzo di torta grande come una mela. Sarebbe piaciuto anche a me andare a Parigi, e invece sarei rimasta sola nella mia stanza a pensare a Dorine che si divertiva a folleggiare per le vie della città. Che ingiustizia!

4

Non ho la capacità di leggere il futuro come qualcuno crede, tuttavia, se c'è una cosa che ho imparato a fare nella vita, è ascoltare. Cos'è, sei una strega? Le accuse di Alice turbinano nella memoria come una tromba d'aria. o il bricco del latte bollente a mio marito. È uno so guardare Valentina che lo osserva con evidente disappunto. Dopo aver versato il latte nella scodella, lui ci ha tuffato un panino intero facendo traboccare il contenuto. «Non mangi?», le chiede all'improvviso puntandole addosso le irresistibili iridi trasparenti. «Non ho fame.» «Io dico che con lo stomaco pieno le cose sembrano meno difficili», la pungola lui. Lei appoggia un gomito sul tavolo per reggersi la guancia e lo scruta con la coda dell'occhio, incapace di sostenere il suo sguardo fermo. «Su, bevi un goccio di latte», insiste ancora riempiendole la tazza. Valentina la afferra e la porta alla bocca. Lui sorride, felice di aver aperto un'altra piccola breccia nella sua corazza. «Ha telefonato tuo padre», la informo mettendomi seduta accanto a loro, «stavi dormendo e non ho voluto disturbarti.» Lei non batte ciglio. «Richiamerà più tardi», aggiungo. Valentina solleva lo sguardo e mi osserva per un lungo istante, poi porta di nuovo la tazza alle labbra e beve un altro sorso di latte. È calato un silenzio imbarazzante.

«Un ange qui e», sussurro ricordandomi di Babette, la nostra tata, che ripeteva questa frase a noi bambini ogniqualvolta il silenzio ammantava all'improvviso le nostre grida. Valentina mi guarda strizzando lievemente gli occhi. «Non ha la stessa poesia in italiano», proseguo. «“Un angelo che a” non ha senso, no? Eppure è ato ora, sul nostro silenzio.» «Hai intenzione di spaventarla con le tue storie?», mi rimprovera mio marito. Gli lancio un'occhiata torva, poi gli sorrido. Non sono mai riuscita a tenergli il broncio per più di qualche istante. Sono i suoi occhi, credo, a rendermi la cosa difficile. «Non è che mi spavento facilmente», si affretta a ribattere Valentina, distogliendo la mia attenzione dallo sguardo magnetico del nonno. È chiaro che le mie parole le hanno gettato un velo di inquietudine nello stomaco, poiché all'improvviso si alza da tavola per uscire. «Potrai farlo una volta terminata la colazione», dico severa. In un baleno lei ingolla il contenuto della scodella ed esce. Il cuore mi batte forte. Ho la spiacevole sensazione di non aver calato bene la mia prima carta.

1957

Mi piaceva eggiare senza meta per le viuzze di Cabris e scoprire gli angoli meno frequentati del borgo, dove i turisti non arrivavano. Spesso mi spingevo fino a quello che era considerato il punto panoramico del paese, a pochi i dalle rovine del castello, e mi soffermavo ad ammirare la baia di Cannes con le sue isole. Davvero suggestivo per i gitanti, ma non per noi che lì c'eravamo nati. Pensai a Dorine, e la immaginai scorrazzare per i boulevards di Parigi con vestiti alla moda e cappellini stravaganti. Mi sembrava di vederla seduta a un bistrot a

sorseggiare vino in compagnia di qualche giovanotto di città o a fumare sigarette con un'amica, tutta presa a discutere su come avrebbe potuto trascorrere la serata. No, non era da lei un simile comportamento. Probabilmente se ne stava rinchiusa in una specie di sottotetto parigino a strabuzzare gli occhi sui libri, come facevano les poètes maudits, i poeti maledetti. «Resta qua», ordinai a Spleen che, come sempre, mi aveva seguita nella eggiata. Non era l'unico ad aver avuto quell'idea, mi ero accorta da tempo che anche Didier mi stava alle calcagna. Entrai in chiesa, attesi che la porta si richiudesse alle mie spalle e mi nascosi nel vano alla destra del grande portone. Dopo qualche secondo la porta si riaprì e Didier entrò in modo furtivo, a piccoli i. «Beccato», bisbigliai cercando di spaventarlo. Lui si voltò verso di me e sorrise. «Io ho beccato te», sussurrò avvicinandosi e premendomi contro la colonna alle mie spalle. Accostò il viso al mio collo e mi annusò appoggiando le labbra dietro il mio orecchio. «Se mio padre ti vedesse farmi questo in chiesa, ti fucilerebbe», lo rimproverai. «Usciamo, allora», suggerì. «Ti va di andare al nostro posto?» Il nostro posto era il vecchio fienile dove papà conservava le riserve di alimenti per l'inverno e qualche attrezzo inutilizzato. Non ci entrava anima viva durante la stagione estiva. Tranne noi due, ovviamente. La prima volta che ci eravamo nascosti lì, avevamo amoreggiato a lungo. Non avevo mai baciato nessuno prima di Didier e nemmeno lui. Eravamo molto imbarazzati, ma ci piaceva tanto rifugiarci lì per abbracciarci, scambiarci qualche bacio, scoprire i nostri corpi e toccarci per ore. Era la sola ragione che ancora mi tenesse a Cabris. Beh, a parte la volontà di mamma e papà, si capisce.

***

Mi recai con papà a Grasse per accogliere Dorine alla stazione ferroviaria. Sarebbe tornata a casa per trascorrere in famiglia le vacanze natalizie. «Eccola, papà!», strillai non appena la vidi scendere dal treno. «Dorine! Come sono felice di rivederti», le dissi abbracciandola, «devi raccontarmi tutto!», la misi in guardia senza nemmeno farla parlare. «Posso salutare papà, prima?», domandò lei. «Ovvio. Scusa papà, Dorine vuole salutarti», lo informai svelta. Lui mi sganciò uno dei suoi sorrisi divertiti, scuotendo appena la testa e abbracciò Dorine che finalmente era tornata al paese dopo mesi di lontananza. «La mamma?» «Non vede l'ora di vederti», fece lui. «Sta preparando un pranzetto coi fiocchi.» «Oh, fra poco la vedrai», lo interruppi io. «Piuttosto, racconta com'è la vita nella capitale. Davvero le ragazze se ne vanno in giro con le gambe di fuori a farsi ritrarre dai pittori per le vie?» «Più o meno», rispose Dorine arrossendo. «E tu? Anche tu ti sei fatta fare un ritratto?» «Oh, no», strillò accigliata spostando lo sguardo su nostro padre. «Perché no?» «Blanche, smettila di darle il tormento», mi rimproverò lui. «Stasera avrete tutto il tempo per parlare delle avventure di Dorine nella capitale.» «Non ho avuto nessuna avventura!», si preoccupò di informarlo lei.

«Mmh, tipico da parte tua», la presi in giro. «Vivi nella ville più trasgressiva d'Europa e niente, nessun aneddoto da raccontare. Che noia!» Mamma aveva sfornato un succulento arrosto e, finalmente, la famiglia era di nuovo al completo attorno alla tavola. Dorine non aveva molto da riferire sulla folle vita parigina, anzi, sembrava non avesse fatto altro che studiare. Ero delusa. Se fosse toccata a me la sua fortuna, non avrei sprecato il mio tempo, non mi sarei persa nulla di ciò che accadeva in città, proprio come aveva fatto la giovane Jo-Audrey Hepburn nell'ultimo film che avevo visto al cinematografo durante l'estate, Cenerentola a Parigi. Come Jo, mi sarei lasciata rapire dal fascino elegante della città, dai vestiti all'ultima moda, dalle feste in saloni incantati. Forse era proprio quello che preoccupava mia madre e che la costringeva a rifiutarmi il permesso di allontanarmi da casa. «Papà, posso uscire?», domandò Bernard prima di alzarsi da tavola. «Hai appuntamento con la tua Lucile?», lo provocai. Non facevamo che punzecchiarci su ogni cosa, io e Bernard. Ci volevamo bene, ma non riuscivamo mai a tenere la lingua a freno e spesso ci mettevamo nei guai, come capitò quella domenica. «Sei invidiosa?», fece lui. «Invidiosa? Di Lucile che si fa sbaciucchiare da te?», lo pungolai. «Non sia mai! Quello lo fai fare a Didier nel fienile.» Bernard capì subito di essere scivolato in maniera irreparabile. Si voltò verso papà nella speranza di coglierlo assorto a parlare con Dorine tanto da non aver udito le sue parole. Imbarazzata, io restai in silenzio. «Che storia è questa?», domandò papà guardandomi di sbieco. Vidi mia madre portarsi una mano alla bocca, non saprei dire se fosse scossa o se intendesse invece nascondere un sorrisetto inopportuno. Non mi aveva dato l'idea di essere rimasta scioccata dalla rivelazione di mio fratello.

«Non facciamo niente di male», confessai in un sussurro. Mio padre guardò i miei fratelli e pronunciò la frase che ci faceva sempre capire quando uno di noi era nei guai. «Lasciateci soli», ordinò. Rimanemmo in tre a guardarci negli occhi: io, mia madre e lui. «Ecco perché non andrai mai a Parigi», disse mia madre folgorandomi con lo sguardo. «Tu alla mia età avevi già un fidanzato!», affermai per difendermi. «Non è questo il punto», mi rimproverò papà. «Quelli erano altri tempi.» «Sedici anni sono sempre sedici anni!», ribattei sicura. «Che sciocchezza», replicò lei. «A quei tempi un fidanzamento era una promessa di matrimonio. Poi le cose sono andate diversamente, lo ammetto, ma ciò non significa che io non avessi considerato seriamente le mie intenzioni.» Sospirò prima di proseguire. «Mi par di capire che i tuoi progetti con Didier siano ben diversi, se siete giunti a nascondervi nel fienile.» Feci per parlare, ma papà non lo permise. «Che intenzioni hai?». Era serio in quel momento, non l'avevo mai visto così preoccupato. «Nessuna», confessai. «Appunto», farfugliò. «E lui?» «Non ne ho idea», dissi aggrottando la fronte. «Non parliamo mai di questo.» «Temo che in realtà non parlino affatto», se ne uscì la mamma. Aveva cercato di fare dell'ironia o mi sbagliavo? Di solito non si lasciava andare a battute del genere. «Sarà meglio che tu chiuda questa parentesi all'istante», mi impose mio padre.

Una morsa mi serrò lo stomaco. Lei aveva smesso di parlare e mi guardava con occhi pieni di rancore. Io invece li chiusi, gli occhi. Sentii una smania alle gambe, un bisogno urgente di correre, di scappare lontano. Rimasi lì, immobile, e piansi dentro.

5

I lineamenti del suo volto hanno tratti delicati. La osservo a fondo mentre mio marito cerca di tenerla occupata con gli scacchi. «Una partita a scacchi è un po' come la vita», afferma lui. «Noiosa?», lo interrompe Valentina con supponenza. Credo si senta a disagio ora che lui le ha posato addosso i suoi occhi grigio pallido. Deve essere il colore, lo stesso delle pietre di luna, a dar loro quella forza. Più volte hanno messo a disagio anche me. «No», ribatte serio. «Ogni mossa è condizionata dalla precedente e influenzerà quella che segue.» L'amarezza nella sua voce mi riporta indietro nel tempo. Penso alla mia bambina, Alice, che giocava a scacchi con il padre come ora sta facendo sua figlia. Qual è stata la mossa sbagliata capace di influenzare tutte le altre? Sono certa che, se avesse potuto scegliere, Alice non avrebbe mai affidato Valentina alle mie cure. Lei non le avrebbe permesso di trascorrere con me un periodo così lungo. Snervata dai miei pensieri, interrompo la partita per invitarli a sedersi a tavola. Valentina scosta i capelli dal volto, è la prima volta che scopre gli occhi completamente e, dopo aver afferrato il telefonino, si siede senza protestare. «Puoi evitare di fare altro finché siamo a tavola?», la ammonisco con un gesto di disapprovazione. «Devo rispondere a Vivy.» «Te ne puoi occupare più tardi», ribatto con voce calma. «E magari puoi anche telefonarle», aggiunge mio marito, «e invitarla da noi, se ti

va.» La sua offerta mi spinge ad alzare lo sguardo verso di lui. Che diavolo sta facendo? Ha invitato qui l'amica calamita-attira-guai? Naturale poi che nostra nipote pensi che io sia detestabile e che lui, invece, sia un uomo speciale. Lei posa il telefonino sul tavolo e comincia ad attorcigliarsi una ciocca di capelli. È pallida e fragile come Alice. Ora ha posato gli occhi su di me. Di sicuro si starà domandando come un uomo così garbato e disponibile si sia potuto innamorare di una donna dal carattere spigoloso come il mio. La gente cambia. Io sono cambiata. Eravamo giovani e innamorati, ma il destino ci ha tolto un po' di speranza prima ancora di cominciare la nostra vita insieme. Poi è tornato a restituircela, con Alice. Da ragazza pensavo che il destino fosse una serpe pronta a strisciare nell'erba, a nascondersi nelle montagne e a scomparire nelle acque del fiume solo per viaggiare insieme a me in modo da tendermi agguati quando meno me lo aspettavo. Ho imparato che non è così. «Ero molto giovane», affermo all'improvviso. Valentina aggrotta le sopracciglia, come se avessi di nuovo indovinato i suoi pensieri. «Non ho parlato», sussurra appoggiando la schiena alla sedia sperando che sia vero. Il sorriso di mio marito si allarga sul suo viso. «Non le badare», tenta di rassicurarla, «talvolta questa donna parla a sproposito.» «Non credo proprio», lo ammonisco sgranando gli occhi. «Ero molto giovane quando sono giunta qui dalla Francia. Ho vissuto anch'io con parenti che conoscevo appena, ma loro non erano come noi, ricordi?», aggiungo afferrandogli la mano. Lui risponde con una risata: «Caspita se ricordo!» «Secondo me,» punto il mento su di lui guardando Valentina, «lui pensava che io fossi frivola. Una frivola ragazzetta se.»

Capisco dallo sguardo che l'ho incuriosita. «Non l'ho mai pensato», s'affretta a contraddirmi lui. «Lo dici ora, ma posso scommettere che su quel treno l'hai pensato eccome!» «Blanche, per favore, ti giuro che non l'ho fatto», ribatte quasi preoccupato. Valentina si lascia andare a un risolino. Sorrido anch'io. Lo so che ora vorrebbe ascoltare la nostra storia.

1957

«Ti ho messa nei pasticci», si scusò Bernard quello stesso pomeriggio, «sono stato un idiota.» «Non posso darti torto», risposi secca. «Che faranno, ora?» «Non lo so, anche se in fondo tra me e Didier non c'è stato che qualche bacio», dissi sedendomi sotto il melo in giardino. Mi rincuorava stare lì a riflettere quando mi sentivo triste e desideravo essere come Dorine. Lei non chiedeva niente. Aspettava e tutto le veniva dato. Bernard mi guardò, le mani lungo i fianchi. «Non puoi parlarmi di questo, ti prego», supplicò mettendosi a sedere accanto a me. Restammo in silenzio per un po'. Ogni tanto una folata di vento scuoteva le fronde sopra le nostre teste. Mi piaceva pensare che fosse la voce del mio papà del melo. «Sei innamorata?», domandò Bernard all'improvviso. Mi strinsi nelle spalle perché non sapevo cosa rispondere. «Dovresti troncare. Lo sai qual è il problema con Didier.»

«Dice che non è stata colpa sua.» «Dicono tutti così.» «L'hanno incastrato!». Mi accorsi di aver alzato la voce. Lui mi guardò accigliato. «Ci sono dei testimoni.» Mi piaceva Didier. Adoravo are il tempo con lui e preferivo fingere di non sapere che non era una buona compagnia. Qualche tempo prima era stato accusato di aver commesso un furto ai magazzini centrali, a Grasse, ed era stato condannato a trascorrere un paio di notti al fresco. Era quello il motivo dell'irritazione di papà. «Tu invece? La ami la tua Lucile?» «Non è questo il punto.» «Significa sì?» «Non sono affari tuoi!», strillò lui. «Significa sì», sentenziai ridendo. Bernard mi diede una piccola spinta e mi guardò sorridendo, poi sfoderò uno dei suoi sguardi comionevoli. «Vorrei andarmene.» Ero tornata seria. «Andartene?» «Cabris mi sta stretta, ma lei non mi farà mai andare a Parigi.» «Confermo.» «Non vorranno tenermi qui per sempre!» «Se continui a frequentare Didier, penso di no.» «Non credi anche tu che possa essersi trattato di una ragazzata? Il furto, intendo.»

Bernard non disse nulla, si limitò a sollevare le spalle allargando le braccia e io mi persuasi che la sua fosse una conferma. Mi sbagliavo.

6

«Dovresti rispondere a tuo padre quando telefona», affermo non appena rimaniamo sole. «Perché? Non gli è mai fregato un cavolo.» «Non sempre le cose sono come sembrano», sostengo mentre verso un liquido scuro e bollente nelle due tazze che ho appoggiato sul tavolo. «Che roba è?» «Una tisana. Bevi, ti farà bene.» «Acqua sporca?» «Tiglio, semi di cardamomo e una manciata di foglie di menta.» «Una ricetta magica?», domanda sprezzante. «Distensiva, direi», rispondo con un sorriso. «Bah. La menta è menta anche se la intingi nell'acqua.» «Non è vero. Sai che Minta era la bellissima concubina di Ade, il re degli inferi? La moglie, gelosa di lei, la trasformò in un'erba profumata ma insignificante, insomma, in una che non destasse troppa attenzione. Sai quanti tipi di menta esistono? Decine! La qualità delle piante è simile, ma non uguale, proprio come accade per le persone.» «Cioè?», domanda portando distratta la tazza alle labbra per sorseggiare l'infuso. «Cioè», le faccio il verso, «dinanzi alle difficoltà della vita ciascuno reagisce a modo suo. Le nostre reazioni sono influenzate da tanti fattori, non ultimo dal nostro trascorso.» «Ci risiamo. Una partita a scacchi, l'ho capito.»

«Più o meno», ribatto portandomi la mano al mento. «Purtroppo nella vita reale capita che a volte sia qualcun altro a muovere le pedine.» «Appunto», commenta cercando di sfuggire il mio sguardo, «soprattutto se chi dovrebbe evitarlo resta a guardare», aggiunge acida. «Non è sempre facile opporsi, talvolta è addirittura impossibile.» «Adesso non mi dirai che giustifichi le scelte di tua figlia!», sbotta stizzita. Lo so che ha scelto di definirla “mia figlia” per esercitare una sorta di distacco emotivo che le permetta di non soffrire troppo. «Per niente, mi limito a sostenere che non sappiamo cosa l'abbia condotta a fare certe scelte. La verità potrebbe essere diversa dall'apparenza.» Silenzio. «Credo che dovresti dare ai tuoi genitori una possibilità. Se ti hanno lasciata da noi, è per il tuo bene. Bisogna considerare ogni risvolto prima di giudicare e, a volte, non siamo nemmeno nella posizione di farlo.» I suoi occhi scintillano, come scintillavano gli occhi di sua madre quando si preparava a sganciare una bomba con l'obiettivo di ferirmi. Tu e i maledetti libri che scrivi. Cerchi sempre di ingabbiare le menti con le tue parole, di catturarle con chiacchiere che fanno girare la testa. Sappi che con me è tempo perso! Valentina invece mi sorprende: «Cosa c'era in questa roba?», domanda sollevando la tazza. «Perché, ti senti meglio?» «Boh. Anche tua madre era faticosa?», domanda brusca dopo aver appoggiato i gomiti sul tavolo per portare le mani alle guance. «Oh, era una tipa tosta e papà era il genere d'uomo che non potevi non adorare, anche se non era il mio vero padre.» «No?» «Era il padre di Bernard, il mio fratellastro. A essere sincera, è stato molto più che un fratello. Io, Dorine e Costante abbiamo perso il papà quando eravamo

ancora molto piccoli. Dopo la guerra mia madre sposò Alessandro e adottò Bernard.» «Foto ne hai?», chiede a bruciapelo. Mi segue con gli occhi mentre mi dirigo verso la credenza nel tentativo di evitare Spleen che ancora una volta si diverte a intralciarmi il o. «Canaglia di un cane!», lo rimprovero. «Prima o poi mi farai finire lunga distesa.» Apro un cassetto, lo estraggo completamente e ne rovescio il contenuto sul tavolo. Di colpo una miriade di vecchie fotografie in bianco e nero si sparpaglia davanti a noi. «Mi sono sempre ripromessa di raccoglierle in un album, forse un giorno potresti aiutarmi a farlo», sussurro. «Perché sei tornata in Italia?», domanda dopo aver afferrato una delle fotografie. «I miei genitori abitavano qui, in questa città. Si erano trasferiti a Cabris nel '36, poco prima che nascesse mia sorella Dorine.» «E non ti piaceva lì?» «Mi piaceva molto, ma a volte le cose non vanno come vogliamo e il destino può essere crudele con chi si lascia sopraffare.» «Cioè?» «È una lunga storia.» «Racconta.» Intuisco che le sue stesse parole la sorprendono. «Non dovevi uscire con Vivy?», la canzono guardandola di sbieco. «Fa caldo», dice distrattamente. Prendo in mano una delle fotografie che ritrae alcuni bambini seduti a un tavolo

e due adulti in piedi, un uomo e una donna in abiti eleganti. Uno dei piccoli sta ritto sulla sedia mentre un altro, seduto di spalle, ha voltato la testa e sorride alla macchina fotografica. Le sfumature di nero e di grigio regalano all'immagine un sapore lontano. Sembra quasi di poter annusare il profumo della pietanza che i bambini hanno nel piatto. o il dito sulle figure, come ad accarezzarle. «Quando siamo giovani, siamo convinti che la vita sarà un viaggio avventuroso, carico di successi, di fantasie e di sogni che si realizzeranno. È giusto che sia così. Sappiamo che lungo il percorso incontreremo degli ostacoli, eppure abbiamo la certezza che noi saremo in grado di superare qualsiasi difficoltà con disinvoltura.» Poi scopri una macchiolina. Una chiazza di unto proprio lì, sul davanti del vestito che conservavi per un'occasione speciale. Provi a svaporarla con una ata di asciugacapelli nella speranza che si tratti di acqua. Nulla da fare. Allora i a un rimedio più efficace, un panno sotto la macchia, un po' di sapone, il lembo di un asciugamano per strofinare. Niente sembra funzionare, l'alone scuro non fa che estendersi e non ti resta che sfilarti il vestito e lavarlo da capo. Sorrido, ma non riesco a evitare che l’amarezza mi veli gli occhi. «A volte gli ostacoli, che per incoscienza consideravamo inezie, diventano montagne invalicabili, macchie enormi che ci segnano l'anima. E noi continuiamo a vivere, a lottare, a soffrire e iamo la vita a cercare di recuperare affetti, di conservare speranze. Un bel giorno ci guardiamo indietro e ci accorgiamo di essere giunti alla fine del cammino. E non c'è più tempo.» «Quel giorno arriva per tutti», afferma Valentina, sicura di quel che sta dicendo. «La destinazione è la stessa, è vero, ma è il percorso che cambia.» «Non capisco», dichiara puntando gli occhi sui miei. «Un tempo non lo capivo nemmeno io. Avevo la sensazione che qualsiasi scelta avessi fatto, non mi sarei potuta esimere dall'incrociare il destino lungo il tragitto, un destino che reputavo sempre in agguato.»

«Cioè?» Non la sopporto quella parola. Cioè? Mi costringo a arci sopra, per ora. «Come quando ci sentiamo in balia di eventi che ci travolgono e abbiamo la sensazione di vagare a vuoto in un mondo ridotto in frantumi.» Rimaniamo in silenzio per qualche istante. Mi sale un groppo in gola. «A volte basta solo guardare meglio.»

1958

Ho sempre amato fissare sulla carta i miei pensieri, mi sembrava, così facendo, di poter controllare la mia vita, di prendere potere su di essa. Frasi disordinate, parole che udivo durante il giorno, sensazioni che mi investivano durante la notte. La mia mente trasferiva il pensiero al braccio, poi alla mano e da quest'ultima alla matita. Scrivevo filastrocche, pensieri alla rinfusa e poesie, riflessioni di fondamentale importanza per il mondo intero, così le reputavo, e altrettante considerazioni perfettamente inutili all'umanità. Ogni parola, ogni frase o ragionamento rispecchiavano l'irrequietezza di cui ero preda in quel periodo della mia esistenza, più o meno ciò che accadeva a tutti i miei coetanei. Erano tempi inquieti per noi ragazzi che avevamo vissuto l'ultimo conflitto mondiale solo di striscio, attraverso i racconti dei nostri genitori. Il 1958 era l'anno in cui si costituì la Quinta Repubblica se e venne approvata la nuova costituzione, ma noi percepivamo una sorta di incertezza sull'avvenire, incertezza che sfociò presto in ribellione verso ciò che rappresentava il ato. Il desiderio di contestazione e di disubbidienza era molto forte, soprattutto dopo che il governo aveva impegnato centinaia di giovani soldati in guerriglie coloniali su più fronti, prima in Indocina e poi in Algeria. Non ci volle molto perché la contestazione contaminasse l'abbigliamento, il cinema e la musica. Erano gli anni del rock and roll, genere considerato rivoluzionario soprattutto dai nostri genitori che non lo gradivano affatto. In

verità erano tante le cose che i nostri vecchi non apprezzavano. Non mia madre, lei era diversa, era sempre all'avanguardia e per questo non era molto amata in paese. Lei sosteneva e assecondava le correnti più audaci e innovative in campo politico, sociale, ma soprattutto artistico e letterario. Appoggiava la nostra musica, gli abiti moderni, le sigarette fra le labbra dipinte di noi ragazze e perfino quel genere di libri che molti suoi coetanei consideravano scabrosi o non adatti ai giovani perbene. Mia madre aveva instillato nei figli l'amore per la letteratura, la poesia, il teatro, tutte cose che segnarono profondamente il mio cammino, e attraverso l'arte in tutte le sue forme io imparavo a vivere senza risparmiarmi, assaporando ogni piccolo istante e ogni emozione che la vita mi riservava. Con l'aiuto di mamma era facile rimanere appesi a quel filo invisibile che ci legava a lei e che conduceva me e i miei fratelli a vivere con intensità e a godere di ogni momento delle nostre giornate, senza aver fretta di bruciare le tappe e di spiccare il volo. Fu semplice anche per me, fino al momento in cui Didier entrò nella mia vita. Quello che mia madre non riusciva ad accettare, infatti, era che io frequentassi quel giovanotto. Temeva che a causa sua, prima o poi, mi sarei messa nei guai. In realtà fu proprio ciò che accadde. Non eravamo fidanzati, io e Didier, mio padre non avrebbe mai tollerato un qualsiasi tipo di legame con quel genere d'uomo. E non perché Didier fosse il figlio del nostro fattore: papà era un uomo dalla mentalità aperta, ma la fama da delinquente che Didier si portava appresso lo costringeva a vietarmi la sua frequentazione. «Noi siamo persone perbene. Io mi sono sempre guadagnato il pane e mantengo tutti voi lavorando sodo», mi rimproverò papà quando venne a conoscenza dei nostri incontri segreti nel fienile. «Non è un ragazzo malvagio», cercai di giustificarlo, «s'è fatto trascinare dagli eventi.» «Il furto ora è un evento?» «Ha pagato per ciò che ha fatto, di certo non si ripeterà.» «Non so come dirtelo, tesoro, tu sei così speciale e intelligente, e sì, anche affascinante. Capisco bene che quel giovanotto possa essersi infatuato di te, ma non puoi e non devi farti trasportare dalle sue scempiaggini. Ammetto che lui possa aver sbagliato, ma l’ha fatto più di una volta e in paese si mormora che

continui a frequentare cattive compagnie. È un balordo e tu puoi trovare di meglio!», affermò con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e con gli occhi pieni di speranza. «Non è vero», ribadii. «Cosa?» «Che frequenta cattive compagnie.» Stavo seduta in punta di sedia, pronta a scattare in piedi per scappare fuori. Dopo aver avuto il suo permesso, si capisce. Papà allungò un braccio e mi sfiorò una mano con la sua. «Si arricchisce con le scommesse clandestine. Non si può dire che sia un'attività onesta», disse piano. «Non lo starai spiando!», sbottai ritraendo la mano. «a il tempo a bighellonare nei locali più malfamati di Grasse», continuò lui. «Tesoro, mi aspetto molto di più da te.» Aveva ragione. Sapevo che Didier non sarebbe mai diventato una persona perbene, da maritare, come avrebbe detto mia madre, ma rifiutavo di ammetterlo. Era soso, pieno di fascino e io lo trovavo addirittura accattivante. Con tutta probabilità il desiderio di contestazione e la smania di disubbidienza avevano investito anche me. In paese era opinione diffusa che io fossi una ragazza piuttosto privilegiata. La mia famiglia era benestante e mio padre era il primo cittadino di Cabris. Come se non bastasse, ero dotata di una bellezza fuori dal comune ed ero una delle ragazze più corteggiate della scuola. Avevo ereditato dalla mamma le gambe lunghe e l'incedere leggiadro, la pelle ambrata e le labbra carnose, ma soprattutto il fascino, quel sorriso schietto e quello sguardo seducente che, a detta di papà, erano tipici delle donne italiane. Purtroppo avevo in comune con lei anche una forte avversione per le persone dalla mentalità ristretta, che ritenevo fossero troppe, e l'inclinazione nemmeno troppo velata a compiacermi nell'irritare la gente che mi girava intorno e a impressionarla con comportamenti spesso ritenuti insolenti. Questo modo di fare non era mai andato a mio vantaggio,

avevo sempre faticato a farmi delle amicizie sincere. A scuola ero oggetto di invidia da parte delle compagne, per la mia avvenenza s'intende, ma soprattutto per i comportamenti sfrontati e, non ultimo, per la confidenza che avevo dato a Didier Joly. Solo Lucile ava volentieri del tempo con me, o meglio, lo trascorreva con Bernard e di conseguenza era costretta a sopportarmi. In realtà non mi importava, preferivo starmene da sola piuttosto che in compagnia di ragazze insulse come Lydia e Julie, che non facevano che parlare di cosmetici e di collant, la novità del momento. Non che io non fossi in grado di trattare quegli argomenti con competenza, tuttavia non accettavo che fossero gli unici adatti a una conversazione. Preferivo chiacchierare con Bernard dell'ultimo libro letto in classe, di politica o delle erbe curative della mamma, argomento questo che interessava anche Lucile. «Bene, bene», esordì Lydia afferrandomi per un braccio per sospingermi in avanti. «Sabato a casa mia ci sarà una festa per il mio compleanno», disse senza entusiasmo. «Mi farebbe piacere se ci venissi con Bernard.» Sapevo che Lydia non era interessata a me, ma che mirava a farmi estendere l'invito a mio fratello di cui era segretamente innamorata. Purtroppo non era un segreto per nessuno. «Grazie», risposi liberandomi dalla sua stretta, «ma non sono sicura che lui sia interessato. Non ama queste feste ed è probabile che sia già impegnato con Lucile.» «Oh, Lucile, Lucile!», sbottò lei. «Che ci troverà in quella sciacquetta.» Lydia esibiva sempre quel modo di fare superiore, come se guardasse il mondo da uno speciale piedistallo trasparente. A casa, su una delle mensole in sala da pranzo, avevamo una ballerina di cristallo che mi ricordava lei: si sorreggeva su un solo piede, elegante, su un orribile basamento di bronzo. Da bambina pensavo che prima o poi avrebbe perso l'equilibrio e si sarebbe frantumata sul pavimento. Avevo sempre considerato Lydia insopportabile e avevo voglia di spingerla per farla cadere dal trespolo. «Credo che Bernard si diverta molto con lei. Capisci che intendo?», mi crogiolai nel piacere di sbeffeggiarla e sollevai maliziosamente un sopracciglio per burlarmi di lei. Lydia sgranò gli occhi e mi guardò con finto imbarazzo, quel genere di pudore

fasullo che le madri delle ragazze benestanti insegnavano a manifestare in simili situazioni. «Non sta bene parlare in questo modo», mi rimproverò. «Oh, no! Parlarne mai! Darsi da fare di nascosto alle feste di compleanno è un altro paio di maniche, vero Lydia?» Non sopportavo il falso moralismo delle ragazze ricche. Fingevano di essere delle brave figliole, ligie alla morale cattolica e rispettose dei doveri che le famiglie imponevano loro, ma alla prima occasione si lasciavano andare con i giovanotti e facevano all'amore di nascosto. Preferivo di gran lunga la sincerità di Lucile che, almeno con me, non faceva mistero di concedersi a mio fratello. In un certo senso la capivo, a Bernard era difficile resistere. Un po' come a Didier, sebbene io non fossi mai andata fino in fondo con lui. Didier Joly era uno di quegli esseri speciali, quel genere di persone uniche che, come ti entrano dentro, si impregnano nella carne, nell'anima e tu non riesci più a liberartene. Sapevo di non essere innamorata, non mi capitava mai di immaginarmi fidanzata a lui e nemmeno speravo di farmi condurre all'altare. Invece Lucile aveva spesso simili pensieri. Quasi ogni pomeriggio, dopo la scuola, io e Didier ci incontravamo alle rovine del castello e trascorrevamo del tempo insieme. Lui mi aspettava sempre nella stessa posizione, appoggiato con la schiena al muro di cinta, le mani nelle tasche dei jeans e le gambe sporte in avanti, incrociate. Teneva in bocca la solita Gitanes gialla, spenta. Era fatta con carta di mais e quando l'accendeva, il fumo aveva lo stesso odore delle foglie secche bruciate. «Nemmeno oggi l'hai fumata?», lo apostrofai avvicinandomi. «Prima ti bacio», rispose afferrando la sigaretta per liberarsi le labbra. «Così si fa», lo punzecchiai facendomi ancora più vicina. Lui allungò le braccia per sfiorare i contorni del mio viso con le mani. «Sei carina oggi.» Ogni volta lo stesso rituale: ci pungolavamo per un po', lui mi stringeva con

forza, io gli accarezzavo i capelli castani e lo spettinavo, cosa che lo infastidiva molto, e infine ci baciavamo a lungo, con ardore. Non mi aveva mai chiesto di andare oltre e io non lo avevo mai spronato a farlo. Credo che a modo suo mi volesse bene. «Vieni a Grasse con me?», domandò senza togliermi le mani dai fianchi. «A far che?» «Un giro in moto.» «Non credo sia il caso, Didier. Mio padre mi ucciderebbe.» «E cosa ti aspetti che accada?», sbottò guardandomi storto. «Ti lasci toccare e ti fai baciare, lo trovo lusinghiero, ma che intenzioni hai? Credi che capiterà un miracolo e che tuo padre ti darà magicamente il consenso per frequentarmi?» «Che ti succede? Non capisco.» «Non capisci?» Didier si scostò dal muro facendomi scivolare al suo posto per appoggiarsi su di me con tutto il corpo. Sentii la sua eccitazione premere sulla mia gamba, non saprei dire se con piacere o disgusto. Premette le labbra sul mio collo. «Sei la mia donna?», sussurrò. «La tua donna?», ripetei cercando di staccarmelo di dosso e di allontanarlo con le mani. «Io non...» «Immagino che tu abbia bisogno di tempo per pensarci», mi anticipò allontanandosi di colpo. «Te lo concedo, ma non ho tutta la vita», aggiunse inforcando la motocicletta. Rimasi immobile a guardarlo mentre si allontanava sgommando. Didier era una delle poche persone in grado di lasciarmi senza parole. Forse era quello il motivo per cui mi piaceva tanto.

7

«Valentina», mio marito è entrato nella stanza interrompendo il racconto. «Il telefono, per te.» «Per me?» La osservo mentre afferra la cornetta. Con ogni probabilità spera con tutta se stessa che non si tratti di suo padre. «Sì, ho il cellulare scarico.» La vedo abbassare il ricevitore. «Era Vivy», afferma quasi giustificandosi. «Non l'hai salutata?» «Ha messo giù. È fatta così», dice mesta. «Mi aspetta davanti alla chiesa. Esco un po'.» «Vuoi la bicicletta, bella signorina?», le domanda il nonno accordandole il permesso a modo suo. «No!», risponde lei come se si trattasse di una proposta oscena. «Fa' come vuoi», aggiunge lui salutandola. Seguo i suoi i dalla finestra del salotto. Guardo la maglietta tagliuzzata, la gonnellina e le scarpe di pelle in piena estate. Somiglia a mia figlia alla sua età, anche se non è esattamente come lei. Alice non è mai stata una persona equilibrata, ha sempre sofferto di una forma di sconforto incomprensibile, quasi fosse costretta a portare sulle sue spalle il peso del mondo. Poi è arrivato il giovane e affascinante studente di Giurisprudenza che ha aperto un ombrello sopra la sua testa. C'è stato un momento in cui lei è stata felice. Laurea, matrimonio, figlia, carriera universitaria, altro figlio. Maschio questa volta, per la gioia dell'Avvocato. Poi la sciagura. Il corpicino freddo nella culla.

Confusione, disperazione, vuoto. Fu Valentina a trovarla in bagno con le forbici in mano. Alice si tagliava i capelli senza prestare attenzione alle lame che teneva nella mano traballante e che, ogni tanto, le infliggevano qualche ferita sul viso, sulle orecchie, sul collo. Non aveva più lacrime. Valentina cercò di toglierle le forbici dalle mani, ma lei gliele puntò contro. Grazie a Dio arrivai al momento giusto. Mia figlia, dopo aver posato le forbici e le mani sul lavandino, incurvò le spalle come se potesse scaricare sul mobiletto tutto il peso del suo immenso dolore. «È anche colpa tua», disse chiudendo gli occhi per non guardarmi. In preda a non so quale disperazione, li riaprì piano e sollevò la testa per guardarsi allo specchio. «Alice, devi reagire», cercai di spronarla. Lo fece. Fu questione di un attimo, non riuscii a impedirle di scaraventarsi sullo specchio con tutta la forza che aveva in corpo. Si protese verso la superficie riflettente come a voler colpire se stessa per annientarsi. In un attimo il cristallo andò in frantumi e le mani cominciarono a sanguinare. Disorientata, si accasciò a terra fra i frammenti di vetro acuminati e le ciocche di capelli. Si portò le mani al volto, come a voler cancellare tutto ciò che le era capitato, compresa la sua vita. Prendo le uova dal frigorifero, la farina e lo zucchero dalla dispensa e mi accingo a preparare una pastella seguendo scrupolosamente la ricetta di mia madre. È stata lei a insegnarmi che un buon rimedio per addolcire una giornata difficile sta nel cucinare qualcosa di dolce. Impasta i tuoi affanni con farina e zucchero, mescola le inquietudini con burro e uova e pesta ogni timore insieme a mandorle e nocciole. Che sia una crostata o dei biscotti non importa, ti sentirai meglio e avrai qualcosa da condividere con chi ami. Frittelle di fiori di acacia, ho optato per questo piatto. Non so se l'Avvocato si sia mai reso conto di ciò che stava capitando a mia figlia. Era così affranto per la perdita del piccolo che non fece caso allo stato d'animo di Alice e tanto meno al silenzioso e intimo dolore di Valentina. Si gettò a capofitto nel lavoro, più di prima, e iniziò a trattenersi fuori casa anche di

notte, affidando alle mani inesperte di mia nipote la salute psichica della madre. Immergo i fiori nell'impasto liquido e subito dopo nell'olio bollente. Il profumo intenso emanato dalle frittelle non riesce a placare la mia agitazione. I morsi del rimpianto mi bucano lo stomaco. Siamo intervenuti tante volte, io e suo padre, ma mia figlia non ha saputo che farsene del nostro aiuto e ha rifiutato in modo categorico ogni mano tesa verso il suo dolore. L'Avvocato ha declinato ogni nostra offerta, anzi, è arrivato addirittura a minacciare mio marito di querela nel caso si fosse ostinato a considerare l'idea di un ricovero forzato. Non abbiamo fatto altro che lasciare andare nostra figlia alla deriva, incapaci di curare il suo spirito e il suo corpo dalla follia che li aveva pervasi. Lei ha cominciato ad assumere qualche farmaco per lenire il tormento e questo l'ha allontanata sempre di più da Valentina. Posso immaginare cosa sia successo poi, perché in questi casi è breve il o che conduce i figli a provare commiserazione per l'incapacità di un genitore di risollevarsi e ancor più rapido è arrivare a disprezzarlo. E tu, piccola Valentina, sei diventata abile a ingannare gli altri, a fingere di essere più forte di quello che sei in realtà, ma il peso che hai sullo stomaco, lo so bene, non ti abbandona mai. I brutti pensieri si depositano lì, sul fondo, e sono pronti a riaffiorare in ogni momento, soprattutto quando si resta soli, la sera, e non si riesce a spegnere la mente, a farla stare zitta. E vorresti chiudere gli occhi e addormentarti, ma allo stesso tempo hai paura che ciò accada perché, quando dormi, ti sembra di stare meglio e tu sai che stare meglio non è sempre una cosa positiva. E poi c'è quel momento, quello che spaventa di più, la manciata di istanti che separa il sonno dalla veglia, quei pochi attimi di incoscienza prima di ripiombare nel baratro della realtà. È il momento peggiore, quello in cui il dolore allo stomaco torna repentino, forte, insieme a tutto il suo peso. Non dovrebbe andare così. A una ragazzina non dovrebbe succedere di trovare nella culla il corpicino esanime e ormai freddo del fratello, di rimanere lì a guardarlo in silenzio per tanto tempo, di scuoterlo appena per vedere se torna a respirare. «Che profumino», esclama mio marito entrando in cucina. «Merenda in giardino?», propone prendendo il vassoio con le bibite che ho preparato. «Aspetta», strillo, «prendi un bicchiere anche per Valentina», dico

porgendoglielo. Mi sorride con i suoi occhi di luna, luccicanti e sereni come sempre, e si allontana lungo il corridoio lasciandosi alle spalle una scia profumata, un odore dolciastro e intenso di limone. «Già di ritorno?», gli sento chiedere. «Ti va uno spuntino?» Studio i movimenti di Valentina che decide di seguirlo in giardino. Li raggiungo con un piatto carico di frittelle. «È un rituale per noi fare uno spuntino in giardino a metà pomeriggio. Rasserenante, in una parola», afferma lui dispiegando il quotidiano. «Prendine uno», incito Valentina porgendole il piatto. «Che roba è?» «Frittelle di fiori bianchi d'acacia.» «Fiori?» «L'ultima fioritura, bisognava approfittarne.» «Il profumo è buono», dice prima di assaggiare. «Mmh», prosegue con la bocca piena. «Salutari anche», aggiungo. «Cioè?» «Ho avuto una madre che sapeva il fatto suo sugli effetti benefici delle piante. Lo sai che ci sono centinaia di erbe commestibili e che gran parte di esse ha un potere particolare su di noi?» «La solita ricetta magica?», domanda cercando di sbeffeggiarmi. «Più che altro si tratta di efficacia nell'allentare le tensioni o nel restituirci la calma e il benessere. Prova», la incoraggio spingendo verso di lei uno dei bicchieri. Lei lo annusa, permettendo all'inebriante profumo di limone di invadere le sue narici. Lo assaggia. È palese il suo apprezzamento per il gusto

dolce e acido al tempo stesso. Ora è la sua mente a esserne invasa. «Verbena odorosa. Ha un effetto rilassante e un gradevole sapore di limone, non trovi?» Vedo mio marito scuotere la testa e sorridere facendosi scudo con il giornale, al che Valentina mi guarda imbarazzata. «Mi prendi in giro?» «Pas du tout! Sono assolutamente seria quando si tratta di argomenti del genere. Et toi», dico rivolgendomi a lui, «potresti anche posare il giornale e smettere di ridere sotto i baffi.» Mia nipote mi fissa, ha l'espressione di chi è disorientato e diffidente al tempo stesso. Uno sguardo che troppo spesso ho sopportato in ato. Gli occhi di luna di Valentina sono gli occhi di pietra di Alice. Come è possibile che somiglino così tanto a quelli di mio marito? È lui a sviare la nostra attenzione: «Partita a scacchi?» «Dopo», gli risponde lei prima di posare gli occhi di nuovo sui miei. Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta, poi sposta le iridi chiare sulla quercia che ci ripara dal sole. Si guarda intorno come se solo ora riuscisse a cogliere dei particolari che prima non aveva notato. «Come l'avevi conosciuto Didier?», mi domanda a bruciapelo. Mio marito abbassa di colpo il giornale. Il suo sguardo limpido si è adombrato all’improvviso. «Ah, è una lunga storia», rispondo noncurante dell'espressione corrucciata di mio marito. «L'hai detto anche ieri», insiste lei. «Sì», le rispondo strizzando gli occhi in segno di trionfo.

1958

Agosto. In paese era tutto pronto per festeggiare il patrono, Saint Roch, protettore dei contadini e degli animali. Ogni bancarella, aiuola, pista per i giochi e per le danze, tavolo per il banchetto, tutto insomma era allestito nei minimi particolari per permettere agli abitanti del paese di trascorrere un paio di giornate sandosela in compagnia. Non mancavano nemmeno la giostra dei cavalli e l’autoscontro. Erano previste esibizioni di gruppi folcloristici in abiti tradizionali, ma anche tornei di bocce, alcuni momenti riservati al ballo e alla condivisione di pietanze tipiche, di manicaretti e di dolciumi di ogni sorta come in ogni festa di paese che si rispetti. Fu in quell'occasione che mi avvicinai a Didier. Mi sfidò a una partita a bocce e vinse. «È prevista una penitenza per chi perde, lo sapevi?». Il suo sorriso malizioso mi conquistò. «Sarebbe?» Si fermò a riflettere, mi guardò, sollevò il mento e infine disse: «L'intero pomeriggio in mia compagnia può andare!» Gli risposi con una risata: «E che ci dovrei fare con te durante tutto questo tempo?» «Un giro in giostra per cominciare, sui cavalli. Poi sull'autoscontro, un paio di balli e...» Lo interruppi. «Tu, ballare! Pensavo fossi uno troppo dritto per ballare in piazza. Forse mi sbagliavo», aggiunsi sollevando le mani. «Farai tutto ciò che mi andrà di fare. Intesi?» «Mmh, si vedrà», risposi girandogli le spalle. Mi stuzzicava l'idea di trascorrere un po' di tempo in sua compagnia.

Prima di quel pomeriggio non avrei mai immaginato di poter rimanere imbrigliata nella rete di Didier. Lui era l'esatto opposto di mio fratello per cui all’epoca avevo una sorta di venerazione. La gente intorno a noi cominciò a implorare in coro il nostro Santo perché ci proteggesse dalla malasorte: San Rocco, padre nostro, imploriamo il tuo aiuto. Poi mio padre ci intrattenne con uno dei suoi discorsi da sindaco, ma io quella volta non prestai attenzione alle sue parole, poiché ero completamente concentrata sulla figura del giovane che stava in piedi al mio fianco e che trovavo irrimediabilmente arrogante ma irresistibile. «Grande oratore, tuo padre», bisbigliò Didier avvicinandosi a me. «Sì, lo è», risposi io con imbarazzo. «Ce ne andiamo?», mi propose senza nemmeno guardarmi. «Dove? Tutto il paese è qui e non c'è un locale aperto nell’intera Cabris.» «Vorrà dire che ci siederemo da qualche parte e staremo lì a guardarci.» «Non avevi proposto un giro in giostra e un paio di balli? Forse sarebbe meglio fare due i. Potresti anche divertirti!» «Divertirmi a fare due i! Non siamo più bambini, bella Blanche e poi non ti conosco», scherzò. «Non vorrai portarmi a eggiare nascondendo altre intenzioni!» «Sono io che non conosco te!», affermai stizzita. «Come puoi pensare che venga a sedermi con te “da qualche parte”?» «Beh, che c'è da sapere? Vediamo, mi chiamo Didier Joly, ho diciotto anni, una moto, un cane di nome Hugo e un giorno mi arruolerò nella Legione Straniera. Ti basta?» Avevamo cominciato a camminare. «Sono cose che sapevo già, fatta eccezione per il desiderio di arruolarti. Hai terminato gli studi?»

«Non facevano per me.» «Hai abbandonato la scuola!» «Sono allergico alle regole.» «Niente Legione, quindi! E sei allergico anche ai libri?» «A qualcuno no.» «Fantastico, che libri ti piacciono?» «Il tribunale dell'Inquisizione avrebbe fatto meno domande», affermò lui in tono di scherno. «Hai chiesto cosa voglio sapere e questo è ciò che mi interessa! Quali libri ti piacciono?» «Diciamo che te lo dirò la prossima volta che usciremo insieme.» «La prossima volta? Con te?». Trovavo elettrizzante l'idea che potesse esserci una prossima volta. «E con chi altri?» Fu quella la prima volta che Didier mi lasciò senza parole. Non si poteva dire che fosse un gentiluomo, a dire il vero era impertinente, ma la sua ironia era sottile e andava dritta al bersaglio. Era intelligente ed era anche probabile che qualche libro l'avesse letto sul serio. Senza accorgercene, eravamo giunti ai giardinetti. «Finalmente un posto dove sederci», disse lui salendo in piedi sulla panchina lungo il vialetto per accomodarsi sullo schienale. «Mi sa che sei uno abituato a ottenere sempre ciò che vuole», dissi rimanendo in piedi. Ero sorpresa. Didier era diverso dai ragazzi che avevo frequentato e che si sarebbero preoccupati di far sedere prima me.

«Io lancio proposte. Se gli altri vogliono coglierle...», disse facendomi cenno di sedermi con la mano. «Non vorrai stare lì a guardarmi!» Replicai con un sorriso: «Beh, non c'è poi molto da guardare!» Mi sedetti sulla panchina, per la prima volta a disagio. Abbassai gli occhi e guardai i miei sandali nuovi, dorati, con i laccetti che avvinghiavano le caviglie. Pensavo che fossero maliziosi. Didier sfiorò la mia spalla nuda con il ginocchio. Mi voltai soltanto un po', trafficava nella tasca della camicia. Tirò fuori un pacchetto di Gitanes e ne accese una, poi abbassò la testa verso di me. «Vuoi un tiro?», mi domandò. «Non fumo.» Guardai la sua faccia pulita, da bambino, indurita da una sottile peluria sul mento. Portava i capelli non troppo corti, con il ciuffo rialzato sopra la fronte, trattenuto da una buona dose di brillantina. Didier puntò gli occhi neri sulla mia bocca tinta di rosso e vi appoggiò la sigaretta in carta di mais. Sfiorò appena le mie labbra con le dita e io aspirai il fumo dal piccolo cilindro giallo che lui tratteneva fra l'indice e il medio. Sentivo forte il desiderio di attirare in me anche una parte di lui, di respirarlo. Il fumo mi serrò la gola e d'istinto portai una mano al collo per far fuoriuscire quel groppo denso e opprimente. Cominciai a tossire. «Non dovresti fumare.» Sorrise guardando il vuoto. «E tu dovresti avere più buonsenso alla tua età.» Didier scoppiò a ridere e con un balzo scese dalla panchina per sedersi accanto a me. Gettò la sigaretta e mi scrutò serio, ma non disse nulla per un po'. Mi guardai di nuovo i piedi. Da lontano arrivava la musica dei juke-box e delle giostre. «Tu cos'è che leggi?», mi sorprese. «Baudelaire», dissi per darmi un tono. «È suo il libro che prediligo.»

«Da Satana o da Dio, che importa?», cominciò a recitare. «Angelo o sirena, che importa se tu rendi l'universo meno orribile e questi istanti meno gravi?» «Come lo sapevi?» «Cosa?» «Che è l'Inno alla Bellezza quello che preferisco?» «Beh, il poeta deve aver pensato a una donna come te quando l’ha scritto.» Una donna? Era un gioco, ora lo sapevo. Mi attraeva a sé e poi mi respingeva per attrarmi di nuovo. Didier non rispondeva mai alle domande in modo diretto, ci girava intorno, scappava e poi tornava per farmi dire ciò che voleva. Si frugava nelle tasche e trovava sempre la frase adatta per sedurmi. Nessuno mi aveva mai tenuto testa come lui. «Che tu venga dal cielo o dall'inferno, sarai la stella più luminosa e brillerai per me ogni notte così io potrò guardarti, lassù, ogni volta che ne avrò voglia.» Sollevò lo sguardo al cielo. «Sarà di sera che usciremo insieme, domani sera? Così potrò chiamare con il tuo nome la stella più bella.» Il mio petto si gonfiò di un profondo respiro. «Sei un ribelle romantico», scherzai per prendere tempo. Lui non rispose, invece mi baciò sulle labbra, ma io d'istinto allontanai il viso. «Non avresti dovuto», lo rimproverai infastidita. «Mi andava così. Un giorno potrai raccontare che Didier Joly ha tentato di baciarti e che tu, anziché schiaffeggiarlo, ne sei rimasta rapita.» Strizzai gli occhi, inebetita dalle sue parole. Didier era arrogante, si prendeva tutto e tutto sembrava essergli indifferente. Mi confondeva perché io, invece, desideravo che mi baciasse ancora. «Beh? Non te ne vai?», sussurrò avvicinandosi di più. Sorrise. «Allora ti è piaciuto!», aggiunse afferrando il mio viso tra le mani.

Ci baciammo a lungo. Il primo di molti baci che seguirono. A mia madre Didier non piaceva. Erano tante le persone che le facevano questo effetto, ma per lui aveva un'antipatia particolare e io non ne capivo il motivo. Io lo trovavo affascinante e intelligente, non si poteva non rimanerne colpiti. Era lei che era cambiata. Era la donna istintiva e trasgressiva di sempre, ma da quando mio padre era diventato sindaco, era stata costretta ad ammorbidirsi e aveva cercato di mitigare i suoi modi bruschi e scortesi. Continuava a non amare la gente e in questo io le somigliavo. Le giornate erano lunghe per lei, in una fattoria come la nostra il lavoro non mancava mai e soprattutto non finiva mai. Si alzava presto, quando ancora il sole non era sorto e la prima cosa che faceva era gettarsi sulle spalle uno scialle pesante e uscire con Spleen per inginocchiarsi sotto il melo, di fronte alla tomba di papà Costante. Per quanto ne sapevo, quel rituale aveva accompagnato ogni inizio di giornata della sua vita da vedova. Senza quel saluto sul far del giorno, mi aveva confidato una volta, non sarebbe stata in grado di essere una buona madre. Papà Alessandro non si era mai mostrato risentito, non era il genere d'uomo che si lasciava tormentare dal ato, anzi aveva sempre dimostrato senso pratico e capiva che mia madre, invece, era diversa e che aveva bisogno di sfogare l'afflizione che talvolta la investiva. Io ero l'unica tra i miei fratelli che avesse ricevuto in eredità da lei la particolare sensibilità di percepire in ogni evento quella fatale tragicità dell'esistenza o, al contrario, quella delirante gioia di vivere, il tutto amplificato decine di volte. Ogni emozione dentro di me si ingigantiva come per magia e io l'avvertivo in maniera esagerata, sproporzionata rispetto al motivo che l'aveva causata. Di solito tutto ciò si tramutava in una reazione eccessiva da parte mia, talvolta spropositata. Insomma, non ero mai riuscita a filtrare le mie emozioni ed ero incapace di contenere i miei comportamenti, di trattenere gli istinti e di frenare la lingua, tutte faccende, invece, in cui mio padre era un maestro e i miei fratelli i suoi degni allievi. Sapevo che mia madre prediligeva il buonsenso di Dorine alla mia avventatezza, e che considerava più assennati di me perfino i miei fratelli maschi, Bernard e Costante. A volte mi dava sui nervi con le sue continue raccomandazioni che, tra l'altro, dispensava soltanto a me. Non sopportavo, poi, quando mi affidava alla supervisione di Bernard. E che diavolo! Avevamo la stessa età, possibile che di me non si fidasse per niente?

Papà non mi rivolgeva mai il genere di rimproveri che lei era solita snocciolarmi con tanta sollecitudine, cercava invece di sistemare ogni questione con il dialogo, anche se, lo sapevo, io ero caparbia e non ammettevo mai i miei sbagli, anzi, mi ostinavo a ragionare a senso unico, senza considerare il punto di vista di chi mi stava attorno. L'orgoglio poi giocava la sua parte e anche quando mi rendevo conto di avere torto, mi incaponivo a portare avanti le mie ragioni con tenacia. Ricordo bene quando marchiai a fuoco il braccio di Bernard con le pinze incandescenti del tostapane e mi giustificai con mia madre dicendo che si era trattato di un esperimento scientifico: il mio obiettivo era scoprire se i nostri vitelli provavano dolore quando venivano marchiati. A giudicare dallo strillo di Bernard, i vitelli dovevano provare un dolore atroce, più o meno lo stesso che provai io quando lei mi sganciò un ceffone sulla faccia. Fu la prima e unica volta che mi picchiò, ma forse me l'ero meritato. Mio padre fu meno impulsivo e mi spiegò che i bovini hanno la pelle più spessa degli esseri umani e che il mio comportamento era stato imperdonabile. «A nessuno verrebbe in mente di fare una cosa del genere», mi strigliò mia madre interrompendo papà. «Non ci ho pensato, l'ho fatto e basta», mi giustificai. «Beh», intervenne di nuovo lui, «ormai dovresti renderti conto che ogni azione implica una conseguenza, non credi?» Annuii a testa bassa. Ero mortificata, anche se mamma aveva già applicato un impacco di olio di rosa per l'ustione che avevo provocato al braccio di mio fratello e lui mi aveva confessato di sentirsi meglio. «La conseguenza è stata di poco conto, no? Bernard dice di star bene!», affermai speranzosa. Mio padre corrugò la fronte e mi squadrò adirato: «La conseguenza è che sarai in castigo per un mese intero. Ti alzerai ogni giorno all'alba e dovrai occuparti del pollaio e di pulire la stalla. Tutto deve essere in ordine prima della colazione. Poi potrai recarti a scuola con tuo fratello, che aspetta con ansia le tue scuse», sentenziò. Bernard mi guardò con comione e, non appena papà uscì dalla stanza, mi

sorrise. «Mi spiace, ma questa volta te lo sei meritato», disse soddisfatto. «Scusa», sussurrai. «Accettate.» Fu così che ogni mattina all'alba mi ritrovai con mia madre a meditare sulla tomba del papà del melo. Lei non piangeva e nemmeno pregava, ma i suoi occhi erano carichi di dispiacere quando pensava a lui. Talvolta li serrava, gli occhi, e un velato sorriso le si dipingeva in volto. Io non rammentavo nulla dell'uomo che giaceva sepolto sotto il melo, nemmeno di averlo mai visto vivo. Tuttavia la fotografia sulla lapide era ormai un'immagine familiare, amichevole, faceva parte di me e rappresentava una componente importante, tanto quanto gli altri membri della famiglia. Ogni giorno, prima di recarmi alla stalla, mi sedevo accanto a mia madre per tenerle compagnia e mi raccoglievo in meditazione insieme a lei. Una mattina decisi di rompere il silenzio che accompagnava ogni giorno la nostra cerimonia. «Dovevi volergli molto bene», mi azzardai a sussurrare. «È così», rispose lei. «Più che a papà Alessandro?» «Oh, no», si affrettò a tranquillizzarmi, «ma in modo diverso.» Come si poteva amare in modo diverso? Mi domandai se esistessero tanti tipi di amore o se piuttosto i nostri sentimenti fossero più o meno intensi a seconda della persona verso cui li indirizzavamo. «Lo conoscevo da sempre», continuò lei sentendosi forse in dovere di far luce sulla sua affermazione. «E che tipo era?», mi azzardai a chiedere. Non era raro che ci parlasse di lui, ma difficilmente avevamo la possibilità di

farlo a quattr'occhi. I miei fratelli, soprattutto Costante, interrompevano spesso i suoi racconti per porle le domande più banali, mentre io avrei solo desiderato ascoltarla. Mi sentivo privilegiata a parlare da sola con lei di mio padre, mi sembrava di poter recuperare la distanza che mi allontanava da lei, di guadagnare terreno verso il suo cuore, e sarebbe stato proprio il mio papà del melo ad aiutarmi a colmare quel divario. «Allegro», disse con lo sguardo perso nella fotografia davanti a noi. «Era sempre felice e spiritoso.» «Non mi ricordo di lui.» «Ti adorava.» «Adorava me?» Lei si voltò per guardarmi: «Più di ogni altra cosa.» «Vuoi dire che mi preferiva a Dorine?» «No, voleva bene a entrambe allo stesso modo, ma c'era qualcosa in te che lo conquistava. Un po' quel che succede a papà Alessandro», aggiunse con una certa irritazione. «È questo il motivo per cui sei sempre adirata con me?», riuscii finalmente a liberarmi del peso che da tempo mi opprimeva lo stomaco. Non era facile parlare con lei, ma finalmente ero riuscita a porle quella domanda. «No», rispose secca. «E allora qual è?» «Vorrei che tu fossi diversa», disse dopo una breve pausa. «Diversa da chi?» «Da me», confessò in un bisbiglio. Tenne gli occhi fissi sui miei per qualche istante, poi si decise a parlare. «Ero anch'io una ragazza imprudente, piena di aspettative e di fiducia negli altri. Non

mi curavo delle conseguenze che certi comportamenti o certe affermazioni potevano avere ed ero sicura che a una donna come me, intraprendente e determinata a ottenere il meglio, la vita non avrebbe riservato brutte sorprese, ma un futuro splendido, ricco di avvenimenti gioiosi e di serenità.» La donna di cui stava parlando era la stessa che avevo di fronte? Probabilmente si trattava di una persona vissuta tanto tempo prima e che ora non esisteva più. Che il tempo e le vicissitudini l'avessero trasformata in mia madre? Nella donna inquieta che se ne stava inginocchiata al mio fianco? «Non andò così, immagino.» «No, o meglio, non fraintendermi, sono felice della mia vita e voi quattro siete tutto per me, ma ho paura.» «Paura?» «Ho il timore che un giorno tu possa pagare cara la tua cocciutaggine e la tua caparbietà nell'ottenere ciò che desideri a qualunque costo e tu, oh cara, tu sei molto fragile, ecco.» «Ma, mamma...» «Devi imparare a riflettere prima di agire», disse brusca. «Se si tratta di Bernard, ho chiesto scusa.» «Quelle non sono che sciocchezze!», sbraitò. «Mi riferisco all'insopportabile leggerezza con cui affronti ogni questione.» «Leggerezza», ripetei. «Tu mi reputi una stupida oca!». Mi accorsi di aver alzato la voce. «Tutt'altro!», si affrettò a ribattere. «Dico solo che non sai cosa sia la prudenza. È questo che preoccupa me e tuo padre. Non sempre le persone che ci circondano sono oneste.» «Non mi piace la gente.» «Invece dovresti conoscerla, farti qualche amica.»

«Le ragazze a scuola non sono degne della mia amicizia, non fanno che parlare di frivolezze. Loro sì che sono oche giulive, ecco cosa sono.» Le illazioni della mamma mi avevano agitata. «L'insegnante dice che non fai che cercare di impressionare le tue compagne con frasi e battute scioccanti.» «Se nemmeno le capiscono!» «Ho saputo da Bernard che Lydia ti ha invitata a una festa.» «Non la sopporto, quella è la regina delle oche!» «Faresti bene ad andarci, invece.» «In verità ha invitato Bernard, non me.» «Potresti conoscere nuova gente, non gettare al vento ogni opportunità.» «Allora è questo il punto», la sorpresi alzandomi in piedi. «Che intendi?» «È Didier il nocciolo della questione!». Lei negò e questo mi fece imbestialire ancor di più. «Un tempo mi dicesti che il tuo rapporto con l'uomo sepolto qui è stato contrastato dalle vostre famiglie. Tu vuoi riservarmi lo stesso trattamento con Didier, non è vero? Desideri forse complicarmi l'esistenza e farmi sperimentare il tuo stesso destino?» Non pensavo davvero che fosse quello il suo obiettivo, tuttavia ero irritata e non riuscivo a domare i pensieri che si accavallavano nella mente e neppure a tenere a freno le parole che si ammassavano alla rinfusa nella bocca. «Non puoi paragonare Didier a tuo padre. Lui era un brav'uomo!» «Invece Didier è un delinquente, è questo che vuoi dire? Tutti possiamo sbagliare. È forse l'unico che non ha diritto a una seconda possibilità? Beh, io gliela voglio dare.» «Ti prego, Blanche, non prendere le mie parole per farle tue e manipolarle», mi

rimproverò stizzita. «Non sto parlando di Didier, ma di te. Cerco di metterti in guardia da te stessa.» «Intendi dire che sono un pericolo per me stessa?» «Voglio dire che talvolta possiamo diventare il nostro peggior nemico senza volerlo.» «E tu lo sei stata?» «Mi sarei dovuta fidare di meno», confessò. Non capivo dove volesse andare a parare. Forse, se le sue allusioni fossero state più esaurienti e approfondite, io avrei inteso meglio il significato delle sue parole. In realtà l'esito della conversazione non fu proficuo come lei si sarebbe aspettata. I suoi moniti rimasero agganciati alla lapide di papà, come sospesi, e io non arrivai mai a farne tesoro.

8

Verso l'acqua calda nella teiera per preparare il tè e controllo la cottura delle madeleines nel forno. Ancora un paio di minuti. Odo i suoi i scendere i gradini a due a due. «Che prepari?», domanda Valentina entrando in cucina. Ha l'aria stanca e tirata. I pantaloni le stanno larghi sui fianchi e le braccia sbucano dalla maglietta come due rami secchi. «Hai dormito bene?» Annuisce. So che sta mentendo. «Madeleines, dolcetti si», dico. Nella mia mente si formano frasi. Sono rimproveri. Vorrei che tu fossi diversa. È il profumo dei biscotti nel forno che li fa risuonare nelle mie orecchie. Quelle frasi si confondono con le accuse di Alice. Per i genitori come te, i figli non sono mai abbastanza adeguati. Poi Valentina mi chiama in salotto. Le fotografie giacciono da ieri sera sul tavolo e il nonno sta brontolando perché sarà costretto a consumare la colazione in cucina. Non ama cambiare abitudini, per nessuna ragione. «Potresti semplicemente riporle nel cassetto da dove sono venute», mi suggerisce in un impeto di collera. «Vecchio brontolone», lo rimprovero, «non morirai di sicuro se per una volta ti siedi a tavola in cucina.» «Certo che no», mugugna lui, «eppure sai che non mi piacciono i cambiamenti!» «Se ricordo bene, c'è stato un tempo in cui ti solleticavano.» «Sì, decine di anni fa, ma ora mi piace crogiolarmi nelle consuetudini.»

«Allora siediti in giardino, ti porterò la colazione lì.» Guardo Valentina e aggiungo sottovoce: «Anticiperemo di qualche giorno le abitudini estive di questo scocciatore.» «Bada che ti sento», mi rimprovera lui, «l'udito mi funziona ancora bene!» «Se lo dici tu.» «Che hai detto?» Ci guardiamo e scoppiamo a ridere, come quando eravamo ragazzi. Squilla il telefono. È l'Avvocato e Valentina è costretta ad afferrare la cornetta. È solo lui a parlare. Lei ascolta e il suo sguardo di luna si incupisce pian piano. Quando riattacca, il suo buonumore è scomparso. «Le madeleines sono pronte», annuncio cercando di far tornare la pace. «Non ho fame», afferma lei con un filo di voce. So che vorrebbe battere i pugni contro l'Avvocato che con i suoi ammonimenti ha incrinato la serenità della mattinata. «Torno su, va bene?» «Sì», risponde il nonno comprendendo il suo disagio. «Ti faremo un fischio per il pranzo.» La vedo sbattere le palpebre prima di voltarsi per lasciare la stanza. «Devi proprio farlo?», domanda lui non appena rimaniamo soli. «Squadrarmi a quel modo di prima mattina non è da signore perbene. Lo sai che non posso sostenerlo senza conseguenze.» Mi sento avvampare ogni volta che fa così. «Non fare il ragazzino. Volevo solo ringraziarti per averle permesso di tornare di sopra.» «Mmh», mugola lui avvicinandosi a me per abbracciarmi. «Per mettere le cose in chiaro, moglie mia, non ho mai pensato che tu fossi frivola. Anzi, la prima volta che ti ho vista su quel treno, ho pensato che eri la ragazza più bella che avessi mai incontrato. Non ho mai cambiato idea.»

Mi sorprendo a ricordare quel giorno di tanti anni fa. Il suo sguardo di sfida, la sua intraprendenza, quel piglio energico e risoluto di chi ha già deciso come sarà il futuro. Poi ero arrivata io a scombinargli i piani e lui lo aveva permesso con un'arrendevolezza inaspettata. «Credo che farò una crostata di mele, ora», gli sussurro all’orecchio.

***

«Valentina, posso entrare?» Ho già infilato la testa nella stanza. Entro e appoggio il vassoio sul tavolo. «Ho pensato che una fetta di dolce appena sfornato potesse farti gola, nessuno resiste alla mia torta di mele.» Non risponde, anzi, si gira dall'altra parte. «C'è anche un bicchiere di latte, se ti va. Ah, sono ati a trovarti un paio di amici. Che problemi ha il tuo telefono?» Incuriosita torna a posare lo sguardo su di me. «Boh. Si è rotto il caricabatteria, credo. Che amici?» «Vivy e Federico, mi sembra. Volevano invitarti in piscina.» «Cos'hai risposto?» «Che gli avresti fatto sapere.» «In piscina, che idea assurda!» «Invece no.» «Come sapevano dove abitiamo?» Sollevo le spalle. «Un assaggio di torta?», le chiedo porgendole il piatto. «I

pinoli sono quelli del nostro albero», insisto mettendomi a sedere sulla poltroncina nell'angolo della stanza. Valentina afferra il piatto e assaggia un paio di forchettate. Si sente già meglio, si vede. Le mie torte fanno sempre questo effetto. «Racconta ancora di lui», dice all'improvviso. Sorrido. «Didier? Non era un giovanotto di belle maniere, dentro di me lo sapevo ancor prima di scoprirlo. Certe cose si percepiscono, ma qualche volta, chissà perché, ci rifiutiamo di accettare la verità.» «Tua madre l'aveva detto!», afferma lei sgranando gli occhi, come a rimproverarmi la mia ingenuità. Qualcosa per cui criticarmi l'ha trovata, finalmente. «Aveva ragione», insiste. «E quale madre non ce l'ha?», rispondo sorridendo. «Tuttavia io ero ben decisa a non ammetterlo.»

1958

Didier mi aspettava davanti alla scuola a cavalcioni della sua motocicletta. «Vieni via con me», propose non appena mi avvicinai. Scostò gli occhiali scuri per scoprire le occhiaie azzurrine. Era impaziente. «Sei scemo? Devo andare a scuola.» Mi afferrò il polso con foga, senza essere violento. «Non oggi. Dai», insisté, «voglio portarti in un posto.» Mi prese la curiosità. Feci un respiro profondo. «Sono già in punizione.» Lui accese la moto. «Sali», mi esortò. «Giuro che non te ne pentirai.» Non mi feci pregare, mollai i libri a Bernard e saltai in sella. Non ero mai salita

su una moto. «Blanche, tu sei in cerca di guai», mi mise in guardia mio fratello. «È solo per oggi, ti prego, reggimi il gioco.» Didier non gli lasciò il tempo di rispondere, accelerò di colpo, costringendomi ad aggrapparmi a lui con vigore. «Va' piano», lo implorai. Avevo il cuore nello stomaco, nella gola. Mi scoppiava nel petto per l'euforia. «Reggiti forte e prova a fidarti per una volta», gridò lui. Ci provai. Appoggiai la testa sulla sua schiena e mi strinsi a lui ancora di più. Quale follia stavo per commettere? Più i miei genitori mi proibivano di frequentarlo e più ne avevo voglia. Sapevo che era stata un'imprudenza, ma ancora una volta non ero stata capace di resistergli. «Allora?», urlò Didier girando appena il volto per permettere alla sua voce di raggiungermi. «Sei la mia donna?» Finsi di non sentire. «Cosa?» Lui diede gas. «Sei la mia donna?», urlò più forte. «Rallenta!», lo pregai. Lui invece accelerò di più. «Rispondi», ordinò. «Sì.» «Non sento.» Era il suo turno di fingere, ora. «Sì.» «Sì cosa?» «Sono la tua donna», gridai finalmente. Avevo detto tutto, mi sembrava di non avere niente da aggiungere.

Rallentò. Rapida la sua mano si posò sulle mie. Le tenevo strette al suo petto, ancora chiuso nella morsa del mio abbraccio. Intorno a noi immense distese violacee si alternavano a macchie gialle e rosa. Un effluvio inebriante di lavanda e gelsomino mi addolcì le narici e mi riscaldò il cuore. Ecco Grasse, la città del profumo. Un borgo d'altri tempi dove venivano coltivate le migliori essenze per produrre le fragranze più famose. Quando scendemmo dalla motocicletta, Didier mi afferrò la mano. Mi fece schioccare un bacio sul collo prima di trascinarmi nell'intrico di stradine, un dedalo di percorsi intervallati da piazzette, archi e palazzi signorili. Nella parte alta del centro storico c'era la piazza principale, Place aux Aires, luogo del mercato dei fiori per eccellenza. In un angolo gorgogliava una grande fontana. «Non devi avere paura quando stai con me», tentò di rassicurarmi Didier. «Non ne ho.» «Alla fine l'hai detto», mi punzecchiò. «Mi hai costretta», dissi sollevando il mento. Ogni tanto ci provavo a tornare me stessa, ma il suo sguardo mi attraversava tutta. Sempre. «Non ti ho obbligata a seguirmi.» «Lo so», gli sorrisi accostandomi a lui. «È stato un gesto spontaneo.» Lui mi lanciò il suo sguardo, quello che mi faceva ribollire il sangue. ò un dito sullo scollo della mia camicetta. «E che altro faresti di spontaneo per me?» Pausa, spallucce, sospiro, bacio. «Peccatrice.» Sapeva di brillantina e di sigaretta. Mi lasciavo sempre sorprendere dal numero di persone che convivevano in lui. Era gentile e premuroso e all'improvviso era insolente. Qualche volta era un romantico poeta, acuto, ironico, quasi cinico.

Odiava l'ipocrisia del conformismo, eppure cercava in me una relazione stabile. Dolce e acre al tempo stesso. Brillantina e sigarette. «Perché siamo qui?», gli chiesi. Il collo teso, la bocca stretta. Era di una bellezza travolgente. «Non mi hai lasciato dare il tuo nome a una stella, così metterò una stella sul tuo nome.» «Che significa?» Il calore del suo fiato sul viso, vicino all'orecchio. «Vieni con me.» Mi condusse poco distante, facendosi strada tra la folla di turisti che coloravano le piazze e le stradine e che si spargevano ovunque per scoprire gli angoli più belli del borgo. Ci ritrovammo all'ingresso di una delle più antiche fabbriche di profumo della città. Entrammo. «Aspetta qui», disse. Ero tesa e mi sedetti in una poltroncina. Di fronte a me una bambina si succhiava il pollice. Doveva essere lì da ore. Nemmeno io amavo aspettare, ma la mia attesa fu più breve della sua. «Per te», disse Didier allungandomi un pacchetto. Restai in silenzio e lo scartai. Un flacone rosso dalla linea sinuosa. ai il dito sull'etichetta. Lettere d'oro. Étoile Blanche. «Come hai fatto?» «Annusa», suggerì lui sorridendo. Aprii la boccetta e ne fiutai il contenuto. Una fragranza sensuale, sofisticata, fresca. Gelsomino, limone, viola, vaniglia. «Si chiama come me?»

«È stato fatto per te, Étoile Blanche.» Mi sfiorò una guancia con il pollice. «Andiamo.» Il suo tono era già diverso. Maledizione! Qualche attimo prima era felice, ora era di nuovo impaziente di cambiare luogo, argomento, emozione. Non riuscivo più a sopportare l'ambiguità di quel ragazzo che, nonostante tutto, mi piaceva da farmi male. «Dove andiamo?», domandai. Didier non si prese nemmeno la briga di rispondere. Camminava svelto trascinandomi con sé. «Didier, dove mi stai portando? Sembri diverso.» Si arrestò di colpo e rimase immobile, lì, in mezzo alla stradina stretta che stavamo percorrendo. «Che cos'è per te l'amore?» «Non so», balbettai. Mi salì un brivido lungo la schiena. Che cos'è l'amore? Gli occhi di Didier lampeggiavano di collera e io mi sentivo disarmata e palpitavo di paura. Che cos'è l'amore? Che cos'è l'amore? «Se ti lascia senza parole, allora sei tu.» «Hai paura», disse lui afferrandomi le guance con le mani e stringendo così forte da farmi arricciare le labbra. «Non è amore, se hai paura!» Mi baciò con prepotenza, poi lasciò andare la presa. «Perché fai così?», strillai. Sentivo ancora il peso delle sue dita sulle guance. «L'amore è un atto spontaneo e tu pensi, Blanche. Pensi troppo.» «È vero!», abbaiai con un groviglio nello stomaco. «Penso e mi domando ogni santo giorno chi sarà il Didier che incontrerò: un uomo innamorato o uno accecato dalla gelosia e pronto ad avventarsi su di me, furioso? Come posso amarti se non so chi sei?» I suoi occhi si fecero ancora più astiosi. Di colpo mi afferrò i polsi e li strinse con forza. Il pacchetto mi cadde per terra, ma lui non se ne accorse.

«Oh, Blanche, non sai come potrei amarti. E invece in questo momento ti odio. Voglio solo placare la sete di te che mi arde dentro.» Infilò il pollice fra le mie labbra e avvicinò di nuovo il viso per annusarmi. «Così mi spaventi!», dissi in un fiato. «Hai paura. Tu non mi ami e io invece...», lasciò la frase in sospeso. «Sei pazzo!», urlai spaventata e amareggiata al tempo stesso. Se ne andò all'improvviso, lasciandomi sola in un'anonima stradina di Grasse. Fui costretta a chiedere aiuto a mio padre per tornare a casa. Una fitta nello stomaco. Didier mi aveva portato in dono una stella e subito dopo mi aveva lasciata sola. Mi ero sentita una stupida ancora una volta.

***

Era tutto uno sfavillare di azzurro, di rosa pesca e di giallo limone. Le ragazze avevano tirato fuori i vestiti migliori per recarsi alla festa dell'anno, a casa di Lydia. Io no. Indossavo un paio di pantaloni alla pescatora a quadretti rosa e le mie scarpe più comode, le ballerine con le stringhe. Lucile, invece, aveva preferito mettere il vestito buono, verde pastello con le balze. Lydia non era stata contenta di vederla. Il salone lasciava senza fiato. Ovunque lampadari di cristallo e immacolati tendaggi di seta alle altissime finestre. Il pavimento di marmo era lucido a specchio. Bianco e oro, e ancora oro e bianco, come le colonne che separavano la sala per le danze dalla zona con i divanetti in pelle beige e avorio. Corpi gettati sui sofà come cuscini, gambe abbronzate che sfioravano pantaloni in cotone leggero. In un angolo, un pianoforte a coda. Bianco anche quello. Quadri, fiori, tappeti, tutta una collezione. Ancora bianche le tovaglie di seta e le mani guantate dei domestici. Bianco fino alla nausea. Tutto era così perfetto da essere esasperante. «Balli?», Bernard mi prelevò dal divanetto di cui ormai ero diventata parte.

«Mi annoio», gli sussurrai all’orecchio. «Ti hanno invitato a ballare almeno in cinque. Li ho visti, sai? E tu? Niente! Sempre affondata nel sofà con lo sguardo cupo.» Pensavo a Didier. Non l'avevo più visto da quella volta a Grasse e, a dire il vero, non avrei nemmeno saputo come affrontarlo dopo ciò che era accaduto. Ero furiosa, ma al tempo stesso disorientata. Non avevo il cuore di pietra, avevo capito che stava soffrendo e che era stata l'idea di non poter avere il mio amore a provocare la sua reazione violenta. Alla fine papà mi aveva estorto una promessa che io non sapevo come mantenere. Dovevo troncare e l'avrei fatto, ne ero sicura, ma continuavo a domandarmi come Didier avrebbe reagito. «Non ho avuto il coraggio di dirtelo.» Bernard si allontanò per lanciarmi un’occhiata preoccupata. «Dimmi che non l'hai fatto, ti prego.» Negli occhi di Bernard c'era uno sguardo tagliente. «No!» Era stato solo un urletto, ma lui si sentì a posto e si avvicinò di nuovo. «Si tratta di Didier», continuai. «Avevo capito. Ti ha chiesto di andarci a letto?» Sentii le guance prendermi fuoco. «No!» Altro urletto. «Vuole che ci fidanziamo.» «Non è possibile, lo sai.» Strascicavo i i e mi aggrappavo a lui. Non avevo più voglia di ballare. «Già», farfugliai tesa. «Sorellina, sei davvero innamorata? Hai guardato bene dentro il tuo cuore?» «E cos'è l'amore? Forse è desiderio, voglia di trascorrere il tempo con una persona che ti fa palpitare. Se si tratta di questo, ecco, allora sono innamorata di lui. Certo, però, che se mi domandi di fare progetti, cambia tutto.»

«Non funziona così», disse lui risoluto. «Non sono un esperto, ma se c'è una cosa che so, è che quando ami una persona non ti basta are con lei un po' del tuo tempo e magari fare anche l'amore. Insomma, punti a qualcosa di più.» «Mi ha lasciata lì, a Grasse. Abbiamo litigato e lui se n'è andato. Poi papà è venuto a prendermi e io gli ho promesso di darci un taglio, ma non so come fare. Ho paura.» Presi fiato. Gli avevo confessato tutto senza nemmeno respirare. «Blanche.» Lo strillo mi raggiunse all'improvviso, roco. Un'eco proveniente dall'inferno. Didier era al mio fianco e mi fissava. «Che stai facendo?» Lo sguardo affranto diventò un'occhiata furiosa, in un attimo. «Mi volto e tu sei fra le braccia di un altro?» S'era fatto vicino, troppo vicino. L'alito gli puzzava di alcol. La sua bocca vibrò fino a trasformarsi in un ghigno malefico, pronto a sputare parole al veleno. «È Bernard, mio fratello», dissi con un filo di voce. «Vuoi prendermi in giro? Conosco tuo fratello», disse lui affannato. Faticava a reggersi in piedi, eppure fu svelto ad afferrare le mie braccia e ad appoggiare le sue labbra ubriache sulle mie. Non potevo credere che fosse arrivato a tanto. Era così innamorato da ridursi in quel modo per me? O forse innamorato non lo era per niente? «Lasciami stare, Didier», cercai di usare un tono tranquillo, per calmarlo, ma lui non udì le mie parole. Solo allora mi accorsi che non era solo. Tre energumeni ci osservavano da lontano. Si fecero strada verso di me con incedere incerto, erano tutti ubriachi. Didier si girò verso Bernard. «Se la tocchi ancora, ti ammazzo», gridò tirando fuori un coltello dal giubbetto. Nel fendere l'aria, la lama scintillò. «Hai capito?» «Didier!», lo chiamai a gran voce. «È Bernard, non lo vedi?» Un guizzo negli occhi che cambiarono bersaglio. Mi era di nuovo troppo vicino. Mi fece scorrere il coltello sotto il mento, il freddo dell'acciaio mi sfiorò la pelle.

«Tu», bisbigliò con rancore. «Io ti taglio la gola.» Sentii la punta fredda e pungente scivolarmi lungo il collo e poi giù, fra i seni. Didier puntò gli occhi sui miei. Non sapevo dare un nome a ciò che provava. Astio? O desiderio ardente? «Aspetto ancora la tua risposta.» Sorrise in modo malevolo. Mi faceva paura. «Che cos'è l'amore per te, Étoile Blanche? Invece di rispondermi, sei venuta alla tua festicciola a ballare con lui?», disse puntando il coltello verso Bernard. «Come hai potuto farmi questo? Io ti amo.» Di che genere di amore stava parlando? Che avesse ragione mia madre nel dire che esistevano tanti tipi di amore? E quale, tra quelli, aveva investito l'enigmatico Didier? Quello sincero, romantico e altruista o piuttosto quello possessivo, devastante e distruttivo? Quello non era amore, era l'altra faccia della medaglia: un odio travolgente e ossessivo. Alla fine lo avevo capito. Restai a guardarlo mentre incitava i suoi compari a distruggere tutto. Gettarono a terra oggetti, rovesciarono sedie, sfasciarono quadri. Uno di loro strimpellò qualche nota al pianoforte, poi con lo sgabello cominciò a colpire l'imponente strumento bianco. Colpì, colpì e colpì ancora, fino a ridurlo in pezzi. Come il mio cuore in quel momento. Tutto il bianco di poco prima non c'era più. Didier sorrise prima di tornare a puntarmi la lama al petto. Fu questione di un attimo, Bernard gli aveva già afferrato la mano. «No!», strillai. Gli avrebbe fatto del male, lo sapevo. Didier si liberò con uno strattone e puntò la lama verso di lui. Era ubriaco, non capiva, non ragionava. Un guizzo argenteo, poi un grido soffocato. Il vocio indistinto della gente, il rapido divincolarsi di corpi, di mani. Sangue sulla sua camicia. Occhi che si allargavano. Ero in ginocchio, la mano premuta sull’addome di Bernard. Le mie unghie laccate di rosa si tinsero di rosso. Cercai gli occhi di Didier, ma lui non c'era più.

9

«Lo ha pugnalato?» Mi rendo conto che il racconto l'ha resa partecipe al punto da considerare Bernard come qualcuno che conosce bene, uno di famiglia. «Lo ricordo come se fosse ieri.» «E... è morto?», domanda poi, esitante. «Oh, no. Gode di ottima salute.» «Era pazzo, quel Didier», sentenzia sicura. «A modo suo era innamorato», rispondo prima di incamminarmi verso l'uscio. «Perché non scendi? Una boccata d'aria ti schiarirà le idee.» «Ci penso», risponde combattuta. A volte le frasi ci rimbombano nella mente per anni. La vita è un cammino. La vita è un viaggio. Sorrido e sulla tromba delle scale ripenso a mia madre che ci raccontava come fosse sufficiente indossare l'armatura di Don Chisciotte, scudo e lancia alla mano, per esplorare le strade della vita che sono ricche di svolte, di bivi e di vicoli ciechi, dove la realtà può diventare ambigua, sfuggente. Dove le vendono queste armature, mamma? La voce di Bernard è così potente da sembrare sul pianerottolo. Oh, nessuno vende cose del genere, te la fabbrichi da te, la tua armatura. Una parte di amore di mamma, una di coraggio di papà, un pizzico di polvere magica e uno di fortuna. Una bella mescolata ed ecco pronta la tua armatura. E poi, inevitabilmente, qualcosa va storto. Abbiamo speso il nostro tempo a cercare di intuire quale sia la strada giusta da intraprendere ed è sufficiente un unico errore, una svolta sbagliata e il sentiero diventa impervio, proibitivo. E allora vorremmo tornare indietro per scegliere un altro tragitto, ma non possiamo, perché le strade della vita sono tutte a senso unico e a noi non resta

che percorrerle fino alla fine, nella speranza che ci riconducano alla via principale così da poter imboccare un altro sentiero, questa volta in discesa. Quante volte ho sbagliato rotta con te, Alice? Quante volte sono incappata in uno di quei sentieri balordi, ingannevoli, che confondono l'itinerario e rendono complicato ricongiungersi alla strada maestra? Quel che è certo è che non ho nessuna intenzione di lasciarmi sfuggire tua figlia. Te lo prometto.

***

La luce del giorno comincia a filtrare tra le fessure delle imposte e, pian piano, inizio a scorgere i contorni dell'armadio, della poltroncina su cui ho gettato alla rinfusa gli abiti ieri sera. È ancora l'alba e lo sguardo continua a vagare per la stanza. È sempre così quando non riesco a dormire. Giù, sul tavolo in salotto, c'è una foto che ci ritrae. I quattro fratelli in giardino, accanto al melo dove è stato sepolto mio padre. Dorine con i suoi capelli d'oro e la carnagione bianca; Bernard, bello e aitante, che guarda davanti a sé con sguardo deciso; Costante, il più giovane dei quattro ma il più imponente di tutti, affascinante come nostro padre; e poi io, alta e slanciata, con i capelli neri e le gote abbronzate dal sole. Ridevo alla macchina fotografica, tutt'altro che imbarazzata. Niente se a tavola, ci ammoniva nostra madre. In questa casa, quando si mangia, lo si fa in italiano. Invece a me fa piacere aiutare Valentina con il se, mi sembra di tornare un po' a casa. Mi mancano la mia lingua, la mia terra, i miei fratelli. Dopo la lezione di oggi la porterò in centro per comprare un abito da cerimonia. Non credo che abbia capito a che le servirà, si tratta di un'occasione importante per il nonno, ma ho la netta sensazione che lei non abbia ascoltato una parola del mio discorso. Era così affranta e assorta nei suoi pensieri da risultare indifferente al mondo circostante.

«Scendo», sussurro a mio marito dopo essermi sganciata dal suo abbraccio. Lui si gira dall'altra parte per continuare a dormire. Prima di entrare in cucina, mi soffermo in salotto per gettare una rapida, nostalgica occhiata alle fotografie sul tavolo. Com'era bello Bernard. La sua camicia sembra scura nella foto in bianco e nero, ma io ricordo che era azzurra. Sorellina, ti sei innamorata? Hai guardato bene dentro il tuo cuore? Adoravo mio fratello.

1958

Bernard se la cavò con qualche giorno di ospedale. La pugnalata non aveva danneggiato organi vitali e lui, dopo qualche ora in sala operatoria e un breve periodo di osservazione, poté tornare a casa per cibarsi delle tenerezze di mia madre e delle moine di Lucile. A me non andò altrettanto bene. Mia madre era furibonda. «Non s'era deciso che avresti chiuso con quel delinquente?» Non sapevo cosa dire. Sapevo invece che avevo rovinato tutto: le confidenze sulla tomba di papà, quell'intimità appena nata che mi ero guadagnata con fatica. «Non ne ho avuto il tempo», mi scappò detto. Era una bugia che mi lasciò addolorata. La verità era che avevo avuto paura e che per colpa mia avevamo sfiorato una tragedia. Lei mi guardò, poi mi girò le spalle per cercare gli occhi di mio padre. «Ne avevamo parlato», mi rimproverò lui. Silenzio. Ero avvilita, il peso della colpa mi aveva chiuso lo stomaco e Didier se n'era andato. Sparito, dissolto nel nulla.

«Mi ha minacciata», confessai appoggiando le mani sul tavolo. «Bernard non ha detto nulla!», esclamò mia madre. «L'ha detto ai gendarmi, però.» La polizia lo cercava ovunque. Tentato omicidio, atti vandalici, danneggiamento di patrimonio. Qualche anno di galera non glielo avrebbe levato nessuno. «Minacciata di far che?», domandò mio padre. «Mi taglierà la gola», dissi con un filo di voce. Il terrore nel viso di lei mi fece trasalire. Non avevo mai visto i suoi occhi farsi così grandi. «È arrivato il momento di dire tutto, Blanche», mi spronò papà in tono serio. Non riuscivo a muovere la bocca. Mia madre era già distante, troppo lontana per ritrovare quell'intimità scoperta sotto il nostro melo. «Quando siamo andati a Grasse...» «A Grasse?», mi interruppe lei incredula. «Lasciala finire», la calmò lui. «Ha detto che mi amava e poi l'ho rivisto alla festa. Era fuori di sé e s'è infuriato perché ballavo con Bernard, tutto qua.» «Semplice, tutto qua», ripeté lei. «Che dovevo fare?», domandai con gli occhi umidi. «Se gli avessi detto che non lo volevo più, sarebbe stato peggio.» Chiusi le palpebre. Sentii i i di mio padre farsi vicini. Ricordo come fosse ieri il sollievo provocato dal contatto della sua mano sulla spalla. Mi alzai in piedi di colpo, facendo cadere la sedia, gli affondai le lacrime nel petto e mi lasciai stringere dal suo abbraccio. Sgusciai fuori dalla sua stretta solo quando mi accorsi di lei. Era rimasta seduta, sconvolta. Mi inginocchiai per appoggiare la testa sulle sue gambe e implorarla di perdonarmi. Lei lasciò scivolare le mani

sui miei capelli. Mani delicate, confortanti. «Li conosco quelli come lui.» Le parole mi soffiavano nelle orecchie come vento di burrasca. Facevano spavento. «Non ti lascerà in pace finché non ti avrà.» Un groppo allo stomaco e il terrore di non farcela. Alzai appena la testa per guardare i suoi occhi. Cos'aveva conosciuto quella donna? «Non è facile da capire, ma so quello che dico. Da ragazza m'è toccato incrociare uno come Didier. Quella gente è una maledizione.» Chinò il capo e non aggiunse altro. Capii che quel silenzio improvviso, saldo, non potevo più romperlo. Fu papà a parlare per primo: «Abbiamo deciso di allontanarti per un po', finché le situazione non tornerà sicura.» Non feci domande, aspettai. Non avevo fretta di sapere quale sarebbe stato il mio destino. «La mamma ha avvisato i nonni in Italia. Sono felici di ospitarti», proseguì lui. «Non posso andare a Parigi?» «Non se ne parla neanche!», il suo grido fu come uno schiaffo. Mia madre mi guardò prima di stringersi nella vestaglia. «Non sarò tranquilla finché non lo sbatteranno in gattabuia», aggiunse. Un frammento di pensiero detto a voce alta, fu quella l'unica frase che azzardai. «Forse Didier non parlava sul serio.» «Blanche!», intervenne mio padre. «Non avere paura, fidati di noi.» Mia madre lo diceva sempre: a volte la strada che ci sembra più facile è anche la più giusta. Avevo sempre desiderato viaggiare, ma da come si erano messe le cose, avevo ormai la convinzione che non ne avrei mai avuto la possibilità. Ora quella remota eventualità era diventata una certezza, eppure avevo la sensazione che lei volesse sbarazzarsi di me. Mi sarei sentita sola laggiù senza i miei fratelli? Mi sarei abituata a un'altra lingua, ad altre usanze? E come avrei fatto a rinunciare ai miei battibecchi con Didier, alle sue citazioni letterarie, ai suoi

baci? Avrei provato nostalgia per quella parte di lui che, mi rendevo conto solo in quel momento, adoravo tanto? Con ogni probabilità mia madre aveva ragione: la via più facile, talvolta, è quella che ci conviene seguire. E io ormai ero intenzionata a farlo.

10

Eccola lì, la sua amica Vivy. La osservo mentre, seduta su un gradino del nostro vialetto, scosta con grazia un ricciolo dispettoso che le è sceso sulla fronte. Ci sono anche un paio di ragazzi. Uno dei due è Federico, difficile dimenticare quel sorriso. «Perché non vi sedete qui finché aspettate?», domando indicando il tavolo sotto la grande quercia. «Vi porto qualcosa da bere». Vivy solleva la testa e strizza gli occhi verdi nel sole per guardarmi. Uno sguardo intenso, indagatore, di sfida. «Aspettiamo qui.» I ragazzi invece si sarebbero seduti volentieri, si capisce. «Che bella giornata!», osserva mio marito posando un vassoio pieno di bibite e di dolcetti sul tavolo. È sempre stato un uomo pratico. «Ecco qua, ragazzi. Servitevi senza complimenti.» Vivy ha un lieve moto di impazienza. Si alza per ultima dal gradino e raggiunge a malincuore i suoi compagni che hanno già preso posto a tavola. Quando arriva Valentina, i tre amici sono ormai entrati in confidenza con Spleen che li ha pungolati fino a che è riuscito a farsi dare retta. Valentina indossa un paio di pantaloncini neri e una maglietta blu. Pallida come sempre, il blu della maglia e il nero del mascara sugli occhi fanno sembrare la sua carnagione incolore. Ridono. Anche Valentina ride. Li osservo dalla finestra della cucina. Sembriamo noi da ragazzi, Dorine, Bernard, Costante e io, sprezzanti degli strilli di Babette che ci intimava di smetterla di far baccano. Vivy non fa che spostare i capelli rosso fuoco da un lato all'altro della testa con l'evidente proposito di scoprire maliziosamente il collo. Si china sull'orecchio di

Federico, mettendogli la mano sul braccio. Lui sorride, ma non smette di cercare lo sguardo di Valentina. Finalmente lo incrocia, uno sguardo intriso di tenerezza che colora di rossore le loro gote. Lei, però, lo ritrae subito. È un animale ferito, spaventato. Ha timore di assaporare la gioia, di abituarsi al suo conforto per ripiombare senza preavviso nel baratro della paura. Quante persone così ho conosciuto? Persone che crescono, vivono e invecchiano con la paura di amare e muoiono senza mai essersi abbandonate all'amore per l'assurdo timore di perderlo. Persone che, per non vivere nella paura, si costringono alla più rassicurante, affidabile e leale infelicità. Quella non potrà mai sorprenderle con cambiamenti repentini e inaspettati. Ma Federico è più forte e ha deciso che Valentina, invece, deve vivere. Le porge un bicchiere e sfiora le sue dita quando lei lo afferra. Quelle di Federico sono dita che bruciano e Valentina ha un sussulto, gli occhi neri di lui la traano come una scossa elettrica. Lei lo guarda, la faccia vulnerabile colma di sorpresa. Chiude le palpebre per riprendersi e torna a sorridere.

1958

In verità non desideravo partire. Mi sentivo come l'ultima inerme ruota dentata di un ingranaggio superiore, spinta in avanti da un incastro di ruote più potenti, inarrestabili. La velocità con cui gli accadimenti mi avevano sopraffatta, aveva moltiplicato il ritmo del meccanismo e le ruote avevano cominciato a girare a vuoto, in maniera indisciplinata, incontrollabile. Mia madre cercava di inserire un freno nell'ingranaggio, ma sarebbe riuscita a dominare gli eventi e a influenzare la mia sorte? Oppure il destino mi avrebbe acchiappata in ogni caso, ovunque io decidessi di nascondermi? Entrai nella stalla, decisa a prendere Blue Belle per un'ultima cavalcata. Mi sarebbe mancata quella cavalla, era anziana ormai e faceva parte della famiglia da sempre. Pensai che forse non l'avrei più rivista. Le accarezzai il muso e subito mi sentii più serena. Blue Belle aveva la capacità di tranquillizzarmi, di farmi sentire al sicuro, protetta. Il cielo plumbeo non mi fece rinunciare a inerpicarmi con lei sul sentiero verso la collina. Perfino Spleen non si lasciò spaventare dalla possibilità di un

acquazzone e ci seguì senza ripensamenti. Ci inoltrammo nella fitta boscaglia che da poco aveva cominciato a sussurrare, così era solita dire mia madre quando il vento si insinuava tra le fronde degli alberi amplificando gli urli e gli strepiti dell'aria intrappolata fra i rami. Un lampo squarciò il buio sopra di noi e, all'improvviso, una fitta rete di pioggia ci investì fino a bagnarci completamente. Raggiungemmo il punto più alto della collina. Da lì potevo osservare il centro del paese, la chiesa, la piazza, le viuzze del borgo e le rovine del castello dove ero solita incontrarmi con Didier dopo la scuola. Mi sentivo impotente, incapace di concepire la mia vita lontano dalla mia famiglia, dai miei animali, dalla casa, da tutto ciò a cui ero abituata, compreso il mio papà del melo. Spleen mi guardò sconsolato, di sicuro pensava che avrebbe fatto meglio a restarsene a casa al calduccio, appallottolato sul cuscino del divano a sonnecchiare. Eppure anche lui si era trovato di fronte a un bivio e aveva fatto una scelta: partire o restare? Io non riuscivo a compiacermi dell'idea di partire, ma nemmeno di quella di restare. Mi ero sempre lamentata di non avere la fortuna di Dorine che poteva vivere da sola a Parigi, ma in fondo al cuore sapevo di non desiderare quella fortuna. Sognavo di diventare come lei, una persona indipendente, determinata, perfino una zelante studentessa, ma avevo paura. Ero e restavo una sognatrice, volubile e fin troppo emotiva. Non sarei mai stata uguale a mia sorella: io ero un vero fallimento nei rapporti con le persone, soprattutto con gli affetti più cari. Non avevo procurato loro che una montagna di guai. Forse facevano bene a spedirmi lontano. Costrinsi Blue Belle a ripercorrere il sentiero in senso contrario, così da tornare alla fattoria. Era mai possibile che gli effetti delle mie azioni si ripercuotessero in maniera tanto devastante e andassero ben oltre le mie intenzioni? Mia madre aveva detto che quelli come Didier erano una maledizione. Cosa le era capitato in ato? E soprattutto, possibile che lo stesso tortuoso dedalo che aveva imprigionato lei stesse ora cercando di incatenare me? Cominciai a pensare che la vita non fosse altro che un ripetersi disordinato di fatalità, di eventi che talvolta non possiamo far altro che subire. Era accaduto anche a Madame Petit, la nostra vicina, che non avrebbe mai pensato di perdere il marito a causa dello stesso fatale e incredibile incidente che aveva spezzato la vita di suo padre tanti anni prima. Due donne, madre e figlia, accomunate dall'identico, tragico destino: un marito

ucciso da un fulmine. Da lontano cominciai a scorgere la sagoma della casa, la stalla, la rimessa per gli attrezzi e il granaio, il cortile con il melo e l'altalena che papà aveva costruito tanti anni prima, ma che nessuno usava più. L'immagine era sfuocata dalla pioggia, filtrata da una spessa foschia grigia. Entrai nella stalla e accompagnai Blue Belle nel recinto. Appoggiai la fronte sul suo collo forte e l'accarezzai. Il soffio del suo respiro mi intenerì. Sentivo fra le dita il crine duro e fradicio. Vedevo i suoi occhi di terra calda e umida. Mondi distanti dietro quegli occhi. Quanta vita lontano da te? Un latrato mi riportò alla realtà. «Spleen, che hai?» Gli occhi fissi al portone aperto, alla fitta pioggia che oscurava il cielo e poi, improvvisa, quell'ombra. Una sagoma si stagliò nel quadrato di luce. Didier. «Non dovresti essere qui.» Un tremolio nel filo di voce che mi uscì dalla gola. La stessa gola che lui aveva minacciato di tagliare. «Non mi lasciare.» Le braccia tese, le mani che smaniavano. Paura. Spleen, non te ne andare. Ti prego, torna indietro. «Non posso vivere senza di te.» E io diventai buio, il mio urlo intrappolato nello stomaco. «Sei l'unica ragione per cui valga la pena di esistere.» Il suo viso pallido e smunto, gli occhi grandi e scavati. Non se l'è ata bene. Silenzio. «Quest'amore mi consuma come fosse un cancro.» Le parole mi graffiavano, mi entravano a morsi nella pelle bagnata e io urlavo. Urlavo nel petto, nella pancia, fra le gambe. Didier era vicino. Quando si era spostato per cadermi addosso? Era in ginocchio

ai miei piedi, la sua guancia sulla gamba, le mani sulla mia schiena. Mani forti che stringevano troppo. Schifo. «Ti voglio.» Ero distesa, lui sopra di me e non sapevo come. Aiuto. Labbra languide mi sfioravano la pelle, dita ruvide cercavano il mio seno. Fiati, morsi, ansiti. Guizzi di lingua. Disgusto. Perché non mi muovevo? «Didier.» La mia voce, finalmente. Tutto svanì in un secondo. Lui si fermò e io vidi gli occhi che conoscevo. «Perdonami.» Quello era Didier. Un respiro profondo, di sollievo. La stalla era di nuovo vuota. Capii che non sarei potuta restare.

***

Non raccontai a mia madre ciò che era successo. Me ne vergognavo. Non riuscivo a credere che Didier, che tante volte mi aveva gonfiato il cuore, si fosse trasformato nella persona che avevo visto nella stalla. Ero convinta che solo tenendo segreto quell'episodio avrei potuto fingere che non fosse mai accaduto. Mi biasimavo per non essere riuscita a dargli l'amore che desiderava e me ne facevo una colpa. Il suo, di amore, era diventato una malattia, si era trasformato in morboso possesso e in ansia soffocante. Eppure continuavo a sospettare di essere stata io la causa di tutto. Cercavo una ragione per giustificare il tormento e la rabbia che lo avevano assalito, ma non ci riuscivo. Mi guardai allo specchio, la spazzola ferma a mezz'aria. Da quanto tempo Didier

era scivolato in una sorta di dipendenza affettiva? Il suo amore era diventato una prigione con pareti di dolore e io non avevo fatto niente per evitarlo. Mi coricai e guardai il letto vuoto di Dorine, su cui erano posate le valigie che avevo riempito nel pomeriggio. Si tratterà solo di qualche mese, aveva cercato di rincuorarmi mia madre, ma io non riuscivo a non pensare alla possibilità che in realtà si stesse liberando di me, della figlia venuta male. Mi girai dall'altra parte e cercai di non pensare a ciò che lasciavo, bensì a quello che avrei trovato. Sognai. Le mie gambe lunghe distese sotto il melo. Accanto a me, la tomba di papà. Freddo. La camicia da notte di mussola non riparava dal vento gelido che agitava le fronde del melo. Petali bianchi si libravano in aria, una nuvola di neve profumata. Fra le dita il crine bagnato di Blue Belle, il suo collo possente, rigido. Morto. Blanche. Un sussurro lontano, uno stridio di uccello. Ero sola nella notte. Viens, je t'attends. Un bisbiglio strascicato, la voce di una donna. O di un uomo? Cotone bagnato incollato alle gambe. Sangue. Di nuovo sangue sulla veste, sui petali bianchi, sulle mani. Mani che cercavano e che trovavano. Nella carne c'era uno stiletto. Era il coltello di Didier. Una macchia rossa si allargava sul vestito. Fermati! Mi ritrovai seduta sul letto, la mano premuta sull'addome. Ero uno di quei petali di melo, trascinata dal vento e calpestata dal destino. Era mattina ormai, la luce del giorno aveva illuminato la stanza. Partivo e l'idea di gettarmi tutto alle spalle, compreso l'orribile incubo che avevo appena lasciato sul cuscino, mi alleggerì i pensieri. Afferrai il solito quaderno, la matita e scrissi il mio ultimo pensiero se, ma ne uscì una scrittura diversa, fitta, appuntita, tremolante. Qualcun altro forse stava guidando la mia mano? Osservai il mio viso pallido allo specchio e lui mi restituì il sorrisetto che mi ero lasciata sfuggire per quel pensiero assurdo.

11

Valentina getta sul letto l'abito che abbiamo acquistato. Lo allarga per bene e ne distende ogni piega per ammirarlo nella sua globalità. È rimasta rapita dai bottoncini rivestiti con piume di struzzo, dal bustino paillettato senza spalline e dai drappeggi dell'ampia gonna gonfiata da tulle e crinolina. Nero e blu elettrico, molto romantico. «Che ne pensi di scendere per aiutarmi a preparare la tavola?», le propongo. «Arrivo», risponde concitata. La sua voce risuona tra le pareti della stanza. Mi guarda imbarazzata, sappiamo entrambe che ora si vergogna, che si è lasciata andare all'euforia generata dall'abito che ha di fronte. «Abbiamo ospiti per cena», dico cercando di sviare la sua attenzione. «Chi?» «Le sorelle del nonno.» Fa una smorfia per fingere indifferenza, ancora indecisa su che emozione provare. È in bilico su quella linea sottile che separa il piacere dal dispiacere. Né di qua, né di là, in un equilibrio instabile. Rivedo gli occhi luminosi di Alice che si specchiano nell'acqua del lago, la riva chiara nel bianco del mattino. Se volessi morire, mi getterei in questo lago e mi lascerei andare a fondo. È bellissimo qui. Amava tutto e niente con la stessa indifferenza. Valentina afferra il vestito e lo accosta al corpo, il tulle le accarezza le gambe nude. Si guarda allo specchio, appoggiando una mano sul grembo per reggere il bustino. Arrossisce un po'. So che si sta guardando attraverso gli occhi di

qualcun altro. «L'hai conosciuto sul treno?» Lo sento ancora, nitido. È lo sferragliare del treno che mi ha portata via. L'odore di cuoio dei sedili nuovi, il dondolio dei binari, la voce smarrita di Babette che mi sottrae alle attenzioni del giovanotto dagli occhi di luna. «Chi?» «Il nonno. Hai detto che ti riteneva una frivola ragazzetta se e hai parlato di un treno.» Mi siedo sul letto accanto a lei. Guardo il suo volto arrossato dall'imbarazzo, la bocca incurvata in un sorriso sensuale, gli occhi incollati ai miei. Distoglie lo sguardo e fa una risatina continuando a spiare la sua immagine riflessa. «Parlami di lui.»

1958

Papà mi accompagnò alla stazione di Grasse e mi mise sul treno in compagnia di Babette. Con tutti i pacchetti e i regali che mia madre mi aveva costretta a portare, non sarei stata in grado di viaggiare da sola, lo sapevo, ma sapevo anche che non era quello il motivo per cui ero stata affidata alle cure della tata. Non m'importava, io continuavo a fingere che lo fosse. Gettai un rapido sguardo verso la donna che aveva pensato bene di indossare il vestito buono per prendersi cura di me e consegnarmi sana e salva nelle mani dei nonni. Aveva uno sguardo amorevole, la nostra Babette, era sempre stata una donna paziente e affettuosa e più di qualche volta le era capitato di insabbiare qualche mia bricconata. Le nubi che venivano dalla costa si ammassarono sopra le nostre teste, come a voler rovinare il momento tanto atteso della mia partenza. Ero confusa,

impaurita, ma anche eccitata per l'avventura che mi accingevo a vivere. Mi sembrava di essere una di quelle ragazze americane dei film che ero solita guardare al cinematografo: eleganti, sempre allegre, pronte a godere di ogni emozione che un viaggio in Italia avrebbe loro regalato, insomma, a vivere esaltanti incontri ed emozionanti avventure nelle città più famose, come Roma o la romantica Venezia. E quelle nubi cariche di pioggia arrivavano per rovinare tutto. A Dorine non capitavano mai sfortune del genere! Il fischio del treno. «In carrozza!» Stava accadendo davvero! Lasciavo il paese e la famiglia per rincorrere il mio destino. Avevo il cuore gonfio per l'emozione. Un'ultima occhiata al sorriso smagliante di papà, un'altra al volto di mamma che mi parlava senza aprire bocca. Mi raccomando! Sapeva che avrei capito. Un bacio soffiato a Bernard. «Scrivi!», urlò lui non appena il treno si mosse. Avevo il cuore in gola. «A presto.» Allungai la mano per sfiorare la sua. Erano già dei puntini all'orizzonte e io mi sentii turbata. Tutta l'euforia se n'era andata per lasciare posto a un inesorabile fastidio. Il viaggio fu lungo e noioso e io non feci che are il tempo a leggere qualche riga del libro che avevo portato con me o a scrivere in fretta alcune note sul margine delle pagine. Di quando in quando provavo ad adocchiare il paesaggio dal finestrino, ma s'era fatto buio in fretta e non si vedeva nulla. Babette si assopì, ma io non trovai pace. Mi sentivo irrequieta e il mal di stomaco iniziato dopo cena s'era fatto intenso. Ero tesa e irritabile, così decisi di lasciare Babette al suo sonnellino per eggiare lungo il corridoio. I crampi al ventre s'erano fatti insistenti e un forte senso di nausea aveva iniziato a farmi girare la testa. Dove diavolo era lo scompartimento con i bagni? Non vomitare! Tutto mi ruotava attorno. Ti prego, non ancora. Mi aggrappai a un sedile per piegarmi in avanti. Ancora un attimo. Imbarazzo. Vomitai più volte con mio stesso disgusto. La vergogna non mi impedì di fare caso che alcuni rimasugli di cibo si erano depositati sulle mie scarpe nuove. Qualcuno mi invitò a sedermi e mi fece aria con un ventaglio o un giornale. Era una donna, la sua gonna color salmone mi provocò un'altra ondata di nausea. «Signorina, si sente bene?», domandò lei in tono preoccupato.

Che razza di domanda! «J’ai froid», risposi con un filo di voce. «Non capisco.» «Ha detto che ha freddo.» Era la voce di un uomo. Sentii una coperta calarsi sul mio petto, ma non misi a fuoco ciò che stava capitando. «Lasciatela respirare.» Di nuovo quella voce calda, decisa. «Parla italiano?» Riaprii gli occhi. «Va meglio», affermai cercando di rimettermi in piedi. Non vedevo l'ora di andarmene e di scomparire per sempre. «Non ancora», mi fermò lui. «Rimanga seduta qualche istante», aggiunse sistemando la coperta che scoprii essere una giacca. «Sono un medico», disse poi, afferrandomi il polso. L'uomo mi guardò soddisfatto e, dopo avermi appoggiato il palmo della mano sulla fronte, disse: «Sono cose che capitano.» Non potei fare a meno di notare la limpidezza degli occhi celesti di quel giovanotto e il modo in cui il suo sguardo illuminava un volto dai lineamenti perfetti. Soltanto il naso era deliziosamente malfatto, ma il radioso sorriso appena esibito l'aveva messo in secondo piano e aveva restituito al viso una ragguardevole perfezione. «È giovane per essere un medico», gli dissi seria. «se?», si limitò a chiedere, ignorando la mia affermazione. «Oui. Mes chaussures, le scarpe si sono sporcate.» Avrei voluto mordermi la lingua. Lui aveva cercato di prendersi cura di me e io non avevo pensato che alle mie stupide scarpe. Sorrise, prese un fazzoletto dal taschino della giacca che avevo addosso e cominciò a ripulirle dalle chiazze di rigurgito. L'imbarazzo mi costrinse al silenzio, in realtà non vedevo l'ora che quell'assurda operazione di pulizia terminasse. «Ecco fatto», disse infine fissandomi con un sorrisetto. Raccolsi le spalle per farmi più piccola. Avrei voluto dissolvermi. Lui continuò a guardarmi, le sottili labbra socchiuse e contratte in una smorfia, come fosse

concentrato nello sforzo di trattenere le parole. Una vistosa cicatrice sullo zigomo rendeva il suo viso affascinante. Girai la testa verso il finestrino perché non sapevo cosa fare, ma il suo sguardo mi era rimasto nella mente, come sospeso nell'aria. «Blanche, tu es là!». Lo strillo mi riportò con i piedi per terra. Mi alzai di colpo per guardare Babette che tirò un sospiro di sollievo. Senza voltarmi, restituii la giacca al proprietario. Lui mosse la mano con calma per afferrarla. «Si riguardi, Blanche», disse. Il cuore mi pulsava nelle tempie. Nella mente avevo il vuoto. Soltanto quando mi avvicinai a Babette mi accorsi che un inserviente stava già ripulendo il pavimento e io mi sentii ancora più stupida. Qualcuno dei eggeri mi salutò con un cenno della testa e uno sguardo comionevole. Poverina! La mia vacanza in Italia non era cominciata con il piede giusto. Non ce l'avrei mai fatta.

***

Non ero mai salita su un'automobile così lussuosa. L'autista di famiglia, un elegante signore vestito di scuro, ci aveva accolte con un rapido saluto, aveva caricato i bagagli nel cofano, aperto la portiera per farci salire e si era messo al volante senza mai aprire bocca. «Ci impiegheremo molto ad arrivare?», gli domandai titubante. Il prolungato silenzio mi aveva messa in soggezione. «Circa mezzora, signorina.» Nessuno mi aveva mai chiamata “signorina”, lo faceva soltanto mia madre quando mi rimproverava, ma il suo tono era molto diverso. Considerati in castigo, signorina!

Ero sulle spine. Non vedevo l'ora di raggiungere la villa dei nonni, la casa che aveva visto crescere il mio papà del melo, ma allo stesso tempo non ero ansiosa di fare la loro conoscenza. Sapevo che in ato avevano ostacolato la relazione dei miei genitori e io somigliavo così tanto a mia madre che, ne ero certa, la nonna avrebbe avuto un mancamento nel vedermi. Mi sembrava di dover affrontare un esame. Avrei saputo barcamenarmi nel mondo dorato dei ricchi? Oppure sarei apparsa come la ragazza goffa e imbranata che pensavo di essere? Anche noi avevamo un paio di domestiche a Cabris, ma si trattava di due ragazzotte di campagna, niente a che vedere con Rodolfo che ci aveva accolte con la deferenza che si riserva alle regine, da vero gentiluomo. Mi venne il sospetto che mia madre avesse calcato la mano con i suoi tentativi di mettermi in guardia: Non dare più confidenza del necessario alle cameriere. Sii educata e attieniti alle regole della casa. Non parlare se non viene richiesto il tuo parere e, soprattutto, tieni a freno la lingua. Alla fine aveva avuto il coraggio di aggiungere: Vedrai, ti divertirai! L'idea di non andare a genio ai miei parenti aveva fatto germogliare in me una profonda inquietudine, una sorta di apprensione che non avevo mai sperimentato prima. In realtà fino ad allora non mi ero mai preoccupata di risultare sgradevole alle persone che mi circondavano, soprattutto dal momento che poche di quelle persone piacevano a me. Ora era diverso, si trattava della famiglia di mio padre e io volevo a tutti i costi fare bella figura. Arrivammo in paese alle prime luci dell'alba. L'automobile percorse lentamente il silenzioso viale centrale costeggiato da filari di giovani pini marittimi e da altrettanti lussuosi alberghi che mostravano i primi segni del risveglio mattutino. Superata la zona centrale con i suoi rigogliosi giardini e i lampioncini che come per magia si spensero al nostro aggio, varcammo il cancello di villa Conti. Il ghiaioso viale d'accesso era fiancheggiato da maestosi faggi, numerose statue e piccole siepi di bosso. La bellezza della villa mi lasciò senza fiato. Era composta da un corpo centrale rettangolare e da due torrioni laterali arretrati. Di fronte all'ingresso principale si trovava una grande aiuola circolare e, poco distante, una cappella. Inspirai a fondo per recuperare fiducia e nascondere l'ansia che mi aveva sopraffatta alla vista di tanta magnificenza. «Dunque è questa la casa di mio padre», mi lasciai sfuggire ad alta voce.

«Sì, signorina», rispose Rodolfo. Pensai che non mi sarei mai abituata a essere chiamata così. «La residenza estiva», continuò lui. «Nei mesi invernali i signori si trasferiscono nella dimora in città, più moderna e più calda.» «Ah.» Io e Babette non trovammo che la governante ad accoglierci. «Sono Rosa. Benvenute a villa Conti», disse chinando il capo con fare ossequioso. La salutai cercando di non darle troppa confidenza, come aveva suggerito la mamma. «I signori stanno ancora riposando», aggiunse prima che io potessi chiedere notizie dei nonni. «Avete appetito? La colazione è servita nel salone.» Rifiutai con cortesia. La sola idea di mettere qualcosa sotto i denti mi aveva provocato un altro attacco di nausea. Rosa si spostò di lato e un raggio di sole, entrato dai finestroni del grande ingresso, fece scintillare il fermaglio sulla sua testa ritta. Pancia in dentro, spalle diritte, mento sollevato! Le raccomandazioni di mia madre mi risuonavano nelle orecchie, crudeli. Ero sgraziata e insicura, perfino Rosa aveva più portamento e classe di me. «Adelina la condurrà di sopra», mormorò lei indicando qualcuno alle mie spalle. Mi voltai. La ragazza con il grembiulino immacolato era in attesa ai piedi dell'imponente scalinata. La seguii in silenzio per i lunghi corridoi e, sempre in silenzio, lei indicò con la mano quella che sarebbe stata la mia camera da letto per i mesi a seguire. «Grazie», mormorai. «Alfio adesso porta le valigie», farfugliò lei. «Per ogni cosa può suonare il camlo. Io arrivo subito, signorina.»

Signorina. «Grazie», dissi di nuovo. «Preparo la vasca da bagno?» Doveva essere imbarazzo quello che percepivo dalle poche frasi che riusciva a mettere in fila e io, lo capivo, ero più impacciata di lei. Possibile che non sapessi dire qualcosa di più che “Grazie”? In genere non mi mancavano le parole! «Posso farlo da me», dissi. «Come vuole, signorina. Ma...». Si trattenne. «Sì?» Adelina sollevò appena la testa. Era giovane, doveva avere all'incirca la mia età. I capelli biondi erano raccolti in una cuffietta candida che metteva in evidenza il rossore delle guance paffute. «La signora mi ha assunta per occuparmi di lei. Voglio dire, la prego, me lo permetta!» Gli occhi le si erano inumiditi. «Occuparti di me?» «Fare tutto quello che serve.» Parlava poco Adelina. Aveva paura di sbagliare perché l'italiano non lo sapeva bene. «Capisco», la confortai. Nemmeno io lo parlavo bene, l'italiano. Eravamo in due ad avere bisogno di conforto. «Ti chiamerò non appena avrò bisogno di te. Grazie.» La osservai uscire dalla stanza, mesta. Forse non le avevo dato la soddisfazione che cercava. Mi venne in mente che avrebbe potuto perdere l'impiego se io avessi rifiutato il suo aiuto. Non avevo mai avuto bisogno di una cameriera personale, eppure capivo che in quel momento sarebbe stato meglio averne una, qualcuno che mi aiutasse a destreggiarmi nell'aristocratico mondo di papà Costante. Stremata, mi abbandonai distesa sul letto e lasciai che i miei occhi guardassero.

Lenzuola ricamate, tende in broccato di seta, tappeti persiani e poltroncine gialle accanto al piccolo camino di marmo. Tutto quello sfarzo mi provocò un moto di stupore, di inquietudine quasi. Accesi l'abat-jour sul tavolino accanto al letto, si espanse una luce fioca, fredda. La spensi. Il cuscino profumava di lavanda. Mamma, mi dispiace. Oppure era il profumo dei fiori? Margherite gialle in un vaso di cristallo scintillante, sul tavolo di mogano. Ascoltai il ticchettio della pendola. Tic tac. Scandiva un tempo che mi faceva paura. Tic tac. Mamma, papà. Erano tutti troppo lontani perché io non mi sentissi sola. Tic tac. E nessuno a parte Rosa si era degnato di accogliermi. Il battito dell'orologio si fece più forte, mi bucava le orecchie. Chiusi gli occhi per un istante, forse di più. Una bambola, il viso di candida porcellana. Adelina le sistemava l'abito di raso cantando. ava la spazzola sui suoi capelli, gentile. La metteva seduta sulla poltroncina davanti alla toeletta di tulle, quella accanto alla finestra grande, vicino al mio letto. La ragazza afferrava il rossetto e lo ava sulle labbra sottili della bambola. Lo specchio rifletteva l'immagine che scoprivo essere la mia immagine, perché quella bambola ero io. Restavo immobile, come paralizzata. Ero una bambola che spostava gli occhi in cerca di un aiuto che non trovava. Adelina mi sollevò e urlò impaurita per quella macchia apparsa all'improvviso sul bianco del vestito, aveva paura del sangue. «Signorina.» La sua voce mi giungeva chiara, ma non riuscivo ad aprire gli occhi. Mi agitavo nel dormiveglia. «Signorina, la prego», insisté. «È quasi ora di pranzo e i signori l'aspettano nel salone. Si arrabbieranno con me!» Mi misi seduta, la fronte imperlata di sudore e gli occhi sgranati per l'apprensione. «Devo cambiarmi d'abito», dissi per stemperare la tensione accumulata. «La aiuto io», si offrì Adelina felice. «Alfio ha portato su le valigie.» Lasciai che si prendesse cura di me, come desiderava fare da quando avevo messo piede alla villa. Mi asciugò il sudore sulla fronte tamponandola con cotone imbevuto di acqua di rosa, mi aiutò a infilare un abito pulito e mi pettinò raccogliendo i capelli neri alla moda del momento, in un codino alto con la punta

all'insù. «Sta benissimo, signorina. Il profumo, guardi, è qui. Ho messo in ordine tutte le sue cose.» Il tulle color crema della toeletta mi sfiorava le gambe. Feci scorrere la punta delle dita sul nastro a fiori gialli che lo abbelliva. Lo specchio davanti a me era così grande da riuscire a contenere la stanza intera. Di colpo nel mio campo visivo entrò un oggetto rosso. Le mani di Adelina sventolavano un flacone di vetro con lettere d'oro sull'etichetta. L'Étoile Blanche. Subito ripensai all'incubo appena fatto, al sangue sul vestito. Che si fosse trattato di un sogno premonitore? Che Didier covasse davvero l'intenzione di pugnalarmi? «Niente profumo», dissi svelta. «Sii gentile, accompagnami a conoscere la mia famiglia.»

12

«Sono arrivate!», strilla mio marito dal piano di sotto. «Non so niente di loro», si lamenta Valentina. «Tre fratelli: le gemelle e lui. La mamma morì giovane. Quando venne a mancare anche il Colonnello, toccò a lui farsi carico delle sorelle. S'è dato molto da fare per loro, è riuscito perfino a munirle di una cospicua dote, ma non ha avuto vita facile.» Sfilo l'abito dalle sue mani e lo appendo a una gruccia. «Cioè?», domanda lei curiosa. «Erano due signorine intraprendenti», sorrido. «Sin troppo.» «Con gli uomini?» Annuisco. «In ogni famiglia c'è qualcuno sopra le righe, ci hai mai fatto caso?» Riflette, di primo acchito non sembra per niente colpita. Invece si rivela curiosa: «Non si sono mai sposate?» Le faccio cenno di seguirmi sul pianerottolo. «Mai.» Le lancio uno sguardo carico di sottintesi. «La dote è rimasta a casa Martini. Tuo nonno ne ha perfino sofferto», dico ridendo di gusto. Valentina si unisce alla mia risata sistemandosi i capelli con la mano sottile. «Ah», aggiungo scendendo i gradini, «dimenticavo: non lasciarti turbare dalle loro stranezze. Ti renderai subito conto che per arrivare a un discorso di senso compiuto, dovranno parlare in due.» Ancora sulle scale, scorgiamo mio marito andare incontro alle sorelle e abbracciarle teneramente. Le anziane gemelle se lo coccolano e lo baciano un po'

troppo a lungo per i miei gusti. Sono sempre stata gelosa delle loro smancerie nei suoi confronti. Vera mi si avvicina per schioccarmi un bacio sulla guancia e Anita la segue a ruota. Hanno indossato i vestiti della festa. Sanno di naftalina. Da che le conosco, si tingono i capelli di biondo. Biondo platino. Non sono mai invecchiate. Di colpo la loro attenzione si concentra su Valentina e noi iamo in secondo piano. Dagli sguardi delle due donne traspare un misto di tenerezza e di comione. Hanno begli occhi, limpidi come quelli del fratello. Valentina afferra la mano di Vera per salutarla, ma si ritrae non appena percepisce la minaccia di un abbraccio. «Tutta sua madre», esclama Anita avvicinandosi a lei per presentarsi. «... mai amato le moine», conclude Vera. «Siamo appena rientrate da una magnifica crociera in Grecia e, sapendo di trovarti qui, ti abbiamo preso qualcosa», aggiunge Anita. «Un regalino», specifica Vera. «Speriamo ti piaccia.» Valentina scarta il pacchetto senza dire nulla. È un braccialetto fatto con schegge di pietra di varie sfumature di blu e un paio di orecchini pendenti abbinati. Un regalo azzeccato, dello stesso colore del vestito nuovo. «La pietra della fortuna», borbotta Vera. «Di quella ce n'è sempre bisogno», afferma Anita. La voce di Vera si sovrappone di nuovo a quella della sorella: «Lapislazzuli, dicono che sia una pietra che protegge dalla cattiva sorte.» «E di questi tempi, si sa...», prosegue Anita. Valentina le ringrazia e indossa subito il braccialetto e gli orecchini. Con ogni probabilità si sta domandando come facevano le vecchie zie a sapere che quella

particolare pietra sarebbe stata perfetta sull'abito blu acquistato nel pomeriggio. Credo che in realtà non lo sapessero, hanno sempre avuto un non so che, una specie di sesto senso nello scegliere “gingilli da imbellettatura”, così li chiamano. Mio marito è felice di sconvolgere le vecchie abitudini: oggi si mangia in giardino, di solito predilige il pranzo in salotto, e soprattutto non fa una piega quando si accorge che l'ora del pranzo, le dodici in punto, è ata da un pezzo. Ha perfino ceduto il posto a tavola senza obiettare a una delle gemelle. Il suo buonumore è contagioso, ispira tranquillità e perfino Valentina sorride. Lo guarda con occhi diversi ora, ne sono certa. Riesce a vederlo, giovane e prestante, attraverso gli occhi della frivola ragazza se che lui ha conosciuto tanti anni prima su quel treno. Le gemelle sparano a raffica tutta una serie di domande per Valentina: la scuola, le vacanze, la città, il tempo. Poi riesumano aneddoti su vicende ate, tentando anche di infilare qualche racconto piccante subito messo a tacere dal fratello. C'è una sorta di fragilità commovente nelle loro teste bionde. All'improvviso la mia attenzione è catturata da Valentina. Inspira affannosamente, come se stesse lottando per un po' d'aria. «Ti senti male?» «Una fitta al fianco, qui», sussurra stringendo il punto dolente con la mano. «È già ata.» Mi torna in mente un altro pranzo, con altri parenti. Anche a me era venuto il mal di pancia.

1958

Per un breve istante ebbi la sensazione di entrare in un film anziché nel salone di villa Conti. Zio Michele mi parlava. Era stato il primo a farsi avanti, un omone alto dal volto

attraente e gli occhi furbi. Cosa diceva? Io ero ubriaca. Guardavo i marmi, i divani azzurri sopra tappeti azzurri, le enormi finestre vestite di impalpabili tende, azzurre anche quelle. Sentivo il profumo dei fiori intorno a noi. Due, no, tre vasi. «Eccoti, finalmente.» Zio Michele mi riportò alla realtà. Esibiva un sorriso radioso. Si avvicinò per baciarmi le guance: «Se la memoria non mi tradisce, direi che sei la copia esatta di tua madre. Molto affascinante.» Mi limitai a fare un cenno con la testa. Mi imbarazzavano le sue lusinghe, perché nella mente avevano cominciato a farsi vivi i racconti di mia madre che l'aveva definito un donnaiolo impenitente. Mi metteva a disagio anche l'atteggiamento da buontempone che esibiva, soprattutto quando lo vidi ammiccare per spronarmi a conoscere i nonni. Mi ricordava uno di quegli attori che avevo visto al cinematografo e che interpretavano con malizia il ruolo dell'italiano rubacuori. Allungai lo sguardo oltre il mazzo di fiori sul tavolo centrale. La testa dell'uomo aveva capelli radi, bianchi. I suoi occhi chiari mi fissavano con curiosità. C'era una donna seduta sulla poltroncina accanto a lui. Sentii il cuore aumentare i battiti, mi pulsava nelle tempie e cominciai a temere che chiunque potesse udirlo. Mi feci coraggio e mi costrinsi ad avanzare verso di loro. La prima cosa che notai di lei, avvicinandomi, fu la scollatura della camicetta di seta arricciata sul davanti da cui sbucava un doppio filo di perle di grossa dimensione. Le stesse perle le portava anche al polso. Solo in seguito feci caso al suo sguardo austero. Aveva gli occhi da vecchia, velati di sofferenza, non come quelli chiari del nonno, gentili, amichevoli. Fu lui a farsi avanti per primo. «Che tu sia la benvenuta nella nostra casa», disse allungando il braccio per stringermi la mano. Emozionata, io gli porsi la mia, tremolante. Lui la strinse con uno slancio inaspettato, subito attenuò la foga, ma non lasciò la presa. Mi guardò in silenzio, poi mi abbracciò lasciandomi senza parole. Mi lasciai commuovere da quel contatto così intimo, per un attimo avevo immaginato che a farlo fosse stato il mio papà del melo. «Blanche», bisbigliò poi con la voce rotta, «che tu sia benedetta, figliola. Ci hai riportato a casa il nostro Costante.» Mi lasciò andare di colpo per incitarmi a incrociare di nuovo lo sguardo severo della moglie, ma lei non mi guardava. La nonna teneva gli occhi bassi e capii

che non aveva ancora terminato di combattere la sua battaglia contro il mondo. Non aveva mai amato mia madre, la donna che le aveva portato via uno dei suoi figli. Sarebbe mai stata in grado di accettare il frutto di quello che aveva considerato un tradimento? «Cara, saluta nostra nipote», la esortò lui. Lei alzò la testa fiera e fece un piccolo «Oh!» nel portarsi la mano inanellata alla bocca. Io mi avvicinai e le porsi la mia. «Sono felice di fare la sua conoscenza.» La voce mi tremava più della mano. Si era alzata in piedi. Un gesto rapido, una strizzata di occhi per mettermi a fuoco. Guardò il vestito, le mani, il naso. Mio Dio! Mi mancava il respiro. «Sono colpita.» Pausa lunga. «La vedi anche tu?», domandò a lui. Altra pausa. «Somiglia a sua madre in modo impressionante.» I suoi occhi avevano puntato i miei, mi traavano. Mi sembrava di poter scorgere il fermento dei suoi pensieri, rocce salde, incrollabili, sedimentate nella memoria. Eppure io non sapevo nulla di quel ato. E allora li puntai, quegli occhi, per cercare di abbeverarmi alla fonte della loro memoria. E vidi. Vidi l'odio, e il rimorso, e le lacrime. Sentii il tocco della sua mano su una guancia. «Hai lo stesso sguardo fiero di tuo padre.» E io non ebbi più paura.

***

La candida tovaglia di fiandra accoglieva una distesa di piatti di porcellana a fiorellini turchesi e di bicchieri di cristallo bordati di platino. Giacche bordeaux e

grembiulini bianchi in bella mostra, in fila lungo il muro della sala, aspettavano soltanto che io prendessi posto. Lo feci. Silenzio. Spettava al padrone di casa aprire le danze. «Lei è Blanche», informò il nonno. Non mi aspettavo nulla perché non sapevo cosa aspettarmi. Chi erano quelle persone? Fu zio Michele a rompere di nuovo il silenzio. Mi presentò la moglie, poi lo zio Enrico e la moglie dello zio Enrico. Fino a lì c'eravamo. E poi? Ah, ecco, l'unico maschio tra i ragazzi, Guido. Occhi neri sulla maglietta Lacoste bianca. «Giochi a tennis?» «Ogni tanto.» Ora le ragazze. Tre: Carolina, Eva e Vittoria. Sarei riuscita a tenerlo a mente? Carolina, Eva e...? Ecco Babette, lì in fondo. Rivederla mi fece tornare in me. Sapevo che sarebbe ripartita nel pomeriggio, ma in quel momento era lì e me ne rallegrai. «Ciao, sono Carolina.» Gli occhi grandi sporgevano dalle orbite, sembravano sul punto di esplodere da un momento all'altro. Non era una bellezza, aveva capelli ramati, crespi, dal tono troppo audace sulla pelle diafana costellata di efelidi. Sembrava una di quelle dame inglesi medievali i cui ritratti mi piaceva contemplare nei noiosi libri di storia, a scuola. Un guanto bianco entrò nel mio campo visivo. Poi un paio di pinze che serravano una barchetta di pasta sfoglia al salmone. «Non mi piace.» Era stata la bambina a parlare, la biondina seduta accanto a Carolina. «Shh», le fece lei. «Alfio ti porterà qualcosa d'altro.»

La bambina incrociò le braccia e piantò il muso. «Non voglio qualcosa d'altro», piagnucolò come se fosse stato tutto sbagliato sin dall'inizio, come se la cuoca avesse dovuto tenere conto che al tavolo c'era lei, Vittoria Conti, che il salmone lo detestava. Vino bianco versato da guanti bianchi. Profumo di buono, di cibo costoso. Tutti facevano domande e io rispondevo, recitavo il mio brano imparato a memoria. E poi vidi lei. Occhi verdi che saettavano, una mano appoggiata sul mento a mostrare unghie laccate di rosso, un rosso geranio, della stessa sfumatura del vestito. Le dita affusolate e bianche lambirono come per sbaglio una frangetta portata corta sulla fronte. I capelli ramati, un fuoco sull'incarnato pallido, erano raccolti in uno chignon, così da scoprire completamente un collo liscio e bianco come burro. Ti veniva voglia di toccarlo quel collo di cigno, di piantarci i polpastrelli e di sfiorarlo con le labbra come nel quadro di Klimt. Eva era bella come il quadro di Klimt, era radiosa. E lei lo sapeva. «Hai una sorella che vive a Parigi!», esclamò Carolina. «Studia all'università.» «Paris. Beata lei!», commentò impressionata. «Una giovinetta tutta sola in una grande città!». La nonna mi aveva puntato di nuovo addosso il suo sguardo austero, quello di chi aveva già deciso. «Dorine non è una giovinetta, credo non lo sia mai stata», risposi sorridendo. «Ha la testa sulle spalle. Sa il fatto suo, insomma.» «Hai anche un fratello, vero?», indagò ancora Carolina. «Due, a dire il vero.» Sentii la sua voce per la prima volta. Una venere bianca, una dea scesa dall'Olimpo per illuminare tutto e tutti. «Mi sembra di ricordare che zio Costante avesse soltanto tre figli.» Il tono suadente della voce di Eva mi disarmò. Piegai la testa per prendere le misure.

«Bernard è mio fratello.» «Oh», aggiunse lei titillando i lembi del tovagliolo. «Dal momento che non avete né lo stesso padre né la stessa madre...» Lasciò la frase in sospeso, come se la conclusione fosse ovvia. Cominciò poi a ripiegare il tovagliolo piantando gli occhi sul bianco della salvietta, come se non ci fosse niente di più importante in quel momento. «Beh, ti sbagli», la sorpresi, ma lei finse di non prestare attenzione alle mie parole e chiamò Alfio affinché le versasse dell'altro vino. Guido parlava con Carolina, nessuno dei due sembrò accorgersi dello scambio di battute con Eva. Di colpo lui si rivolse a me. «Hai un affascinante accento se.» Era un ragazzo alto, dai capelli scuri e lo sguardo piacevole sul volto abbronzato. «Delizioso», aggiunse sollevando il bicchiere prima di sorseggiare il vino. Voci che andavano e venivano nella confusione di un pranzo luculliano con gente che non conoscevo. Poi arrivò il momento del caffè del dopopranzo in giardino. Un grande tavolo in ferro battuto era apparecchiato per la circostanza. Non si trattava di una banale tazzina di caffè, ma di una distesa di vassoi pieni di torte alla crema, di pasticcini, di mousse alla frutta e di nocciole al cioccolato. Un paio di zelanti domestiche in divisa erano pronte a prepararci tutto ciò che desideravamo: caffè nero, con latte schiumato, alla panna, con l'aggiunta di brandy o di gelato alla vaniglia, perfino servito ghiacciato. Sulla tavola erano stati sistemati alcuni vasetti di vetro colmi di zucchero bianco, di canna oppure di miele. Non avevo mai visto tanto bendidio tutto insieme, dovevi soltanto allungare una mano e prendere. Avrei presto imparato che era un po' quello che tutti loro facevano: allungavano le mani e prendevano la prima cosa che capitava a tiro, con indifferenza. Imparai che quando si ha la possibilità di scegliere, non è importante ciò che si prende, perché cambiare idea non rappresenta più un privilegio, ma una possibilità. Capii anche, però, che c'era una cosa che non si poteva arraffare in quel modo cinico e disinteressato e quella cosa era l'unica che riusciva a tormentare mia cugina Carolina. «Ti va di vedere il parco?»

Guardai Guido con gratitudine. Pensai che fosse l'unico che voleva davvero conoscermi. «Sì.» Carolina ci lanciò addosso uno sguardo malizioso, la bocca increspata in un broncio insolente. «Fa' attenzione», disse. «È un Conti e deve recitare la parte dell'incorreggibile dongiovanni.» Rise. «Scema», la rimbeccò lui non trovando parole più adatte. «Perdonala, Blanche. L'invidia la fa sparlare.» «Invidia?» domandò lei piccata. «Temo tu stia prendendo un granchio. Non saprei che farmene di un perdigiorno come te.» Camminavamo lungo il viale di ghiaia che riportava al grande cancello in ferro, ma a metà del percorso Guido prese un sentiero secondario. ammo davanti a una splendida voliera con i pappagalli e, dopo una decina di metri, con mia grande sorpresa giungemmo alle scuderie. «Cavalli?» «Purosangue andalusi, tra i cavalli più nobili. Agili e forti, ma allo stesso tempo docili. I cavalli perfetti.» «Ne posseggo uno a Cabris, Blue Belle. Mia madre ha sempre detto che papà aveva un debole per questa razza.» «Fu lui a dar vita all'allevamento.» «Sul serio?» «Sai cavalcare?» «Eccome.» «Se ti va un giorno potremmo...» «Volentieri», lo anticipai.

L'uomo che ci accolse si levò il cappello per salutarci. «È Pietro», bisbigliò Guido. «Mia cugina Blanche», lo informò. «Quando avrà voglia di cavalcare, preparagli Perla. È di sicuro la più mansueta», aggiunse avvicinandosi a lui. Il tono era stato irrispettoso, l'avevo notato. Pietro mosse appena la testa, guardava in avanti, verso i cavalli. «Beh, io sono in grado di montare qualsiasi cavallo, anche il più impetuoso», affermai. «Ho una certa affinità con gli animali.» Pietro sorrise di nascosto mentre Guido fece un piccolo cenno di disapprovazione. Forse non si aspettava che fossi in grado di tenergli testa. «Come si chiamano?», domandai a Pietro allargando le labbra in un sorriso. «Dante e Zeus, i maschi, e poi le tre femmine: Perla, la veterana, e poi, lì, le due giovincelle.» «Zeus è incantevole», affermai accarezzando il muso nero dell'animale. Mi spostai per guardare la cavalla bianca. Somigliava in modo impressionante a Blue Belle. «Quella è Nuvola», disse Pietro indicando l'animale. «Nuage.» «Ha il fuoco dentro quella cavalla!», disse poi sorridendo. Io lo guardai incuriosita. «È docile, ma ha l'animo ionale. Ci ha fatto penare per domarla. Non è vero, Nuvola?», chiese alzando la voce. «Nuvola!», sussurrai. «Diventeremo amiche, noi due.» La cavalla nitrì, come se volesse rispondermi. «Se vuole, signorina, domattina gliela preparo per una eggiata.» «Sarebbe bello!», risposi felice. «Posso spazzolarle il crine per entrare un po' in confidenza?»

«Blanche!», urlò sorpreso mio cugino Guido. «Non ti metterai a pulire la stalla, ora.» «Non che sia una cosa disdicevole», gli risposi di getto. «Negli ultimi tempi non ho fatto che pulire stalle a Cabris», proseguii con una risata. «Mammamia!», replicò lui inorridito. Risi, avevo capito che con lui potevo lasciarmi andare. «Ogni tanto fa bene mettere le mani nello stallatico. Magari renderebbe la vita meno monotona anche a te.» Guido sorrise per educazione, ma l'avevo messo in imbarazzo, lo percepii dallo sguardo che mi lanciò. «Perché mai dovrei farlo, esistono gli stallieri per quello!» esclamò sicuro. «Mio padre lo faceva.» «È vero», confermò Pietro. «Lo conosceva?» «Fu lui ad assumermi alla scuderia, molti anni fa.» Sorrisi e cominciai a spazzolare la lunga criniera di Nuvola. Alla tenuta, a Cabris, ogni sera le criniere dei cavalli venivano avviluppate in una treccia morbida e lenta, per evitare che si arruffassero e così feci anche con Nuvola. Guido si era seduto e mi guardava schifato. Sbuffò. «Ti aspetto più in là», disse. «Ti raggiungo subito.» Invece speravo che si stancasse di aspettarmi e che se ne andasse. Io e Pietro chiacchierammo per un po', poi lui mi guardò e mi raccontò che, quand'era bambino, nella fattoria di suo padre nella campagna oltre il Po, di notte arrivavano le streghe e intrecciavano le criniere dei cavalli per dispetto. «Che sciocchezza. Le streghe non esistono.»

Pietro sorrise. «Eccome se esistono», fece. «Ce n'è una anche in paese. Una di quelle strìghe che fanno pozioni e incantesimi.» «Come no», lo presi in giro. «Madame Coco, la chiamano tutti.» Cosa? Coco, la cara amica di mia madre, era considerata una strega! Mamma non aveva mai fatto mistero che tutto ciò che sapeva sulle cure con le erbe lo aveva imparato da lei e immaginai che la gente avesse cominciato a chiamare Coco in quel modo per colpa delle sue doti da guaritrice. Filtri d’amore e afrodisiaci, però, non erano mai stati nel repertorio creativo di mia madre. Almeno così pensavo. «Madame Coco è un'amica di mia madre.» «Ah, com'era bella sua madre!», Pietro aveva preferito cambiare argomento. «Per lei il signor Costante rinunciò a tutto», disse facendo un ampio gesto con la mano indicando la proprietà. Tornai seria. Pensai a come doveva essere stato difficile per papà abbandonare il fasto e la ricchezza a cui era abituato per inseguire un sogno, quello di vivere con la donna che amava. Turbata, cercai di riportare l'argomento sulla strega. «Avrei alcune lettere da consegnare a Madame. Lei sa dove abita?» «Dall'altra parte del paese, in una vecchia casa verso la ferrovia. Spero non terrà conto dei pettegolezzi della gente, sono soltanto dicerie», aggiunse sorridendo. «Immagino», affermai non troppo convinta. «E crede che ci potrei arrivare con Nuvola? Sarebbe una bella occasione per una cavalcata.» «A cavallo ci arriva di sicuro, ma la strada è complicata. Dirò al mio aiutante di accompagnarla.» Me ne andai ringraziandolo, Pietro mi guardò e sollevò di nuovo il cappello per salutarmi.

Fu con sorpresa che lungo il sentiero verso casa trovai Guido che mi aspettava accanto alla voliera. «Ce ne hai messo di tempo!» «Ti avevo detto di andare avanti.» «Ho preferito aspettarti», rispose cominciando a parlare di quanto ci saremmo divertiti durante l'estate: partite a tennis e tornei di bridge, feste con gli amici e gite in barca. «Mio padre s'è fatto il motoscafo nuovo. Posso prenderlo quando voglio. Ci vieni? Ostriche e champagne per mademoiselle Conti!» «Non lo so», risposi confusa, «magari più in là.» Mi attirava il suo mondo fatto di agi e di lusso, ma volevo capirlo prima di tuffarmici. Volevo sapere come muovermi, dovevo imparare. Per ora mi bastava visitare il paese e la vecchia casa di mia madre, fare qualche eggiata a cavallo sui sentieri di campagna, e dopo, soltanto dopo, sarei andata a Venezia con Guido e magari al lago o al mare in motoscafo. La mia mente era tornata a pensare alla strìga che avrei incontrato il giorno successivo e un brivido mi percorse la schiena.

13

Io e mio marito accompagniamo le strampalate zie al cancello. La luce del lampione illumina le due teste bionde, perfettamente acconciate. Osservo i due corpi che ondeggiano lievi, al ritmo di una musica che solo loro riescono a udire. Scruto i volti cosparsi di rughe profonde, solcati dall'inesorabile are del tempo. Sono gli occhi, però, che mi hanno sempre impressionata: arzilli, colmi di gioia di vivere, risoluti a catturare e a godere di ogni piacere. Quand'ero ragazza, i loro abiti sgargianti mi facevano sorridere. Sempre eccessivi, colorati e scintillanti di lustrini. Le scarpe coi tacchi, poi, indossate in ogni momento e i gioielli fasulli fin troppo vistosi. I bambini osservavano le due signorine con occhi sgranati, le donne con malevolenza, gli uomini con desiderio ardente. Non ho mai condannato le scappatelle erotiche di cui non facevano mistero nemmeno con il fratello. Loro le consideravano piacevoli atempi e non erano mai sfiorate dall'idea che il fratello potesse rimanerne imbarazzato. Perennemente innamorate della vanità, del diletto e, non ultimo, degli uomini, si concedevano distrazioni precluse a qualsiasi altra donna. Ancora oggi qualcuno le definisce ridicole, patetiche nonnine attaccate a un ato ormai scordato, terrorizzate dal timore di invecchiare. Io, invece, penso che se si ama quello che si è, bisogna continuare a esserlo. È l'unico vero antidoto contro l'invecchiamento. «Vieni qua, Spleen», strillo al cane che si è allontanato sul marciapiede. Spleen era il nome del mio primo cane, a Cabris. In letteratura lo spleen è uno stato d'animo negativo, tipico delle persone malinconiche, annoiate e infastidite da tutto senza una ragione precisa. In Francia fu Baudelaire a rendere popolare questo termine decadente e a me piacque non appena lo udii. Mi aveva particolarmente colpito uno dei suoi poemi, Il cane e il profumo. Recitava così: cane mio bello, vieni a sentire questo eccellente profumo, ma il cane, dopo aver posato il naso umido sulla fiala, indietreggiava con disgusto. Miserabile cane! Se ti avessi offerto un pacchetto di escrementi lo avresti divorato. Somigli al pubblico, a cui non si devono offrire profumi delicati che lo esasperano, ma solo lordure accuratamente scelte. E io aggiungo: somigli alle persone che ti circondano, che giudicano. Quelle a cui bisogna offrirsi come vogliono loro e non come si è davvero.

Guardo mio marito che chiude la portiera dell'auto e scuote la mano per un ultimo saluto alle sorelle. «Mi sa che hanno ragione loro», dico a bassa voce. «A che proposito?» «Niente. Spleen, andiamo.» Il cane mi si avvicina poco convinto. Finalmente, dopo aver curiosato sotto un cespuglio, si decide a seguirci in casa. Valentina è rannicchiata sulla poltrona, il colorito pallido e l'espressione affaticata. Getto un rapido sguardo a mio marito, gli angoli della sua bocca si sono abbassati. «Vieni di là nel mio studio», le ordina serio. «No», dichiara lei irremovibile, «non è niente.» Alice aveva tredici anni l'ultima volta che si è fatta visitare da suo padre, poi non ha più voluto entrare nello studio medico. Da ragazzo, lui ha trascorso interi pomeriggi nella stanza surriscaldata della madre malata. Per tale ragione è diventato un medico. Un medico competente, apionato, sempre pronto ad aiutare il prossimo, i suoi cari per primi. Tuttavia c'è qualcosa che nemmeno lui riesce a perdonarsi, un rimpianto che gli pesa in petto come un macigno: ha avuto un'unica figlia e non è riuscito a fare in modo che accettasse il suo aiuto. Si dice che non si scelga la propria famiglia, ma che sia il destino a decidere per noi. Non è affatto vero. Io, Angelo e Alice ci siamo scelti. Deve esserci un motivo per tutto questo dolore. «Cosa c'era nell'infuso?», domanda Valentina ormai piegata in due. Lui la raggiunge, la solleva con agilità e la porta nel suo studio per adagiarla sul lettino, poi con una mano le comprime l'addome. L'eco dell'urlo risuona nella

stanza, poi, stremata, Valentina chiude gli occhi.

***

Non dormo. Le rassicurazioni di mio marito mi rimbombano in testa. Non preoccuparti, filerà tutto liscio. Torniamo presto. Lo rivedo mentre avvicina la sua grande mano al viso di Valentina e l'accarezza con amore. Lo sguardo di lei è quello implorante di Alice quando l'affidammo alla donna vestita di bianco. Diciassette anni, le braccia minute strette intorno alle ginocchia, i pugni serrati. Ogni notte i suoi occhi mi implorano, mi guardano nel buio. Non puoi lasciarmi qui. Un groviglio nello stomaco, un urlo strozzato. Torniamo presto. «Sei agitata?», la sua voce è calda, rassicurante. Un sussurro nell'ombra. La mia, invece, è fredda come una crosta di ghiaccio. «Non avremmo dovuto lasciarla sola.» «È solo un'appendicite. Non temere, è un intervento di routine. Il medico che l'ha operata è un collega esperto.» «Non è questo...» «Lo so», dice in tono comprensivo. «Mi rendo conto di quello che pensi, ma Valentina non è Alice.» «No, non lo è.» «Era malata, Blanche. La nostra Alice era malata», insiste. Mi abbraccia come a volersi scusare per averlo detto. «Stare in quell'istituto non le ha fatto che bene.» «Non è stata più la stessa», dico in fretta, quasi a volermi liberare di un peso.

Sono agitata. Intorno e dentro me c'è Alice con le mani che tremano. Alice che sputa parole. Mamma, se tu non fossi così dannatamente perfetta! Lui non si muove. La sua voce ora è gentile, amorevole. «Con Valentina è un'altra cosa.» Chiudo gli occhi e mi lascio scivolare nell'oblio. Sono su una barca a vela, all'imbrunire. Dalla prua osservo il mare grigio, liscio e denso come olio. Se dovessi accidentalmente cadere, l'acqua vischiosa e vorace mi inghiottirebbe in un attimo. Pluf. Non odo alcun rumore, se non il confortante sciabordio delle onde che si infrangono sul fianco della barca. Il sole scivola lento alle spalle dell'isolotto verso cui la barca è diretta e i suoi ultimi deboli raggi si riflettono sull'acqua nera formando una scintillante lingua di luce che si protende verso di me. Il riverbero è abbagliante e la terraferma in ombra non è che una massa informe, buia. Una destinazione poco rassicurante. Socchiudo gli occhi e il presentimento di non essere sola nel mio viaggio verso l'ignoto fa capolino nei miei pensieri. Getto uno sguardo alla plancia di comando e mi accorgo che a condurre la barca è mio marito, con il suo piglio energico e rassicurante. Mi sento sollevata, sebbene non sia chiaro se ciò che vedo sia la realtà o il frutto della mia immaginazione. Lui guarda verso di me e mi lancia un sorrisetto furbo che sa di conforto e di esortazione insieme. Ora so che la terraferma di fronte a noi è un approdo sicuro, ho imparato che quell'uomo non è capace di ingannarmi.

1958

La nonna mi attendeva per la colazione. Una ringhiera bianca circondava la grande terrazza ombreggiata da foglie di vite. Un paio di scalini e si era già in giardino. Più in là, il fresco gorgoglio della fontana con i putti. La voce frusciante della cameriera mi raggiunse di colpo. «Cosa prende, signorina?» «Caffè. Pane tostato», risposi con un filo di voce.

Conversai un po' con la nonna. Dormito bene? Sì, e lei? Molto bene, grazie. Niente di importante. E poi arrivò lei, il viso che risplendeva nella luce limpida del mattino. Un'esplosione di colori sulla sua pelle bianco latte. Indossava un paio di pantaloni verdi al ginocchio e una camicia vichy annodata in vita. In mano, un bicchiere di succo d'arancia. «Buongiorno.» Eva esibì un sorriso radioso. «Programmi?» Voleva davvero saperlo? Aveva forse deciso di tendermi una mano? La guardai giochicchiare con il bicchiere, disegnare cerchi inesistenti sul suo prolungamento. «Esco a cavallo.» «Ah.» Strizzata di occhi, testa piegata di lato. «Da sola?» «Non conosco i sentieri.» Rido. «Pietro mi manderà il suo aiutante.» Eva sollevò la testa, la sua unghia smaltata di rosso aveva smesso di fare cerchi. Mi guardò con un'aria di superiorità che non avevo mai visto nemmeno in Lydia, poi sollevò un sopracciglio, fece per parlare, ma alla fine rimase chiusa nel suo silenzio. Avevo l'impressione che ci fossero troppi silenzi tra i miei nuovi parenti, una spessa coltre di cose non dette. Avevo cominciato a pensarlo da quando la nonna mi aveva mostrato la fotografia di mio padre nel salone. La cornice era diventata lo schermo di un film, e le persone che vi erano ritratte i suoi attori. «Fu scattata all'inaugurazione del locale da ballo che gestì per un paio d'anni, dal '34», aveva detto la nonna con un tremolio nella voce. Richiamai alla memoria quell'immagine. C'era papà che sollevava il bicchiere con gli amici, la mano appoggiata sulla spalla di mia madre. Lei doveva avere più o meno la mia età. Era bellissima. La ragazza di profilo, invece, era la sua amica Dora, da qualche parte avevo già visto una sua fotografia. Sapevo che era morta molto giovane. «Era un uomo brillante», aveva aggiunto il nonno. «Motivo di orgoglio per la famiglia, ma quando ci ha lasciati...»

Io ero rimasta in silenzio. Sapevo che non avevano mai approvato il matrimonio con mia madre. Fu la nonna a chiudere l'argomento. «Potessimo tornare indietro! A quei tempi era tutto diverso e lui... Beh, scappare in quel modo, braccato dalla milizia.» «Braccato da chi?» «Oh, è una vecchia storia», aveva risposto lei asciugandosi una lacrima inesistente con il fazzoletto ricamato che teneva sempre a portata di mano. Un grosso muro di cose non dette.

***

L'uomo in groppa a Zeus mi attendeva sul selciato. Alla vista di Nuvola l'ombra di inquietudine che avevo nei pensieri si volatilizzò. «Buongiorno, signorina Blanche.» Era un ragazzo alto, dal portamento fiero, che nascondeva gli occhi sotto la visiera del cappello. Ne capii il motivo soltanto quando mi avvicinai. Afferrai le redini di Nuvola, e solo dopo esserle balzata in groppa, dissi: «Mi sembrava avesse detto di essere un dottore.» «Sì», rispose lui. «E mi ha anche messo le mani addosso!», finsi di sentirmi offesa. Avevamo già cominciato a condurre i cavalli al o. Lui non aprì bocca e mi precedette al piccolo trotto lungo i sentieri della campagna circostante. Era di un'avvenenza fuori del comune, l'avevo già notato sul treno. Il sentiero si fece meno stretto e lui affiancò il suo cavallo al mio. Portava le maniche della camicia arrotolate fino al gomito lasciando spuntare gli avambracci che, notai, erano sodi e muscolosi. Sul treno mi era sembrato più

esile, invece mi rendevo conto che era un uomo piuttosto imponente. Lui continuava a sbirciare da sotto il cappello per spiarmi e io, per distrarmi, osservai il panorama. Distese di prati delimitati da profondi fossati e da piccole siepi si alternavano a filari di alberi o di viti. «È bello qui», dissi. Lui non rispose, ma le sue labbra si tesero in un sorriso abbagliante. «Ecco, ci siamo. Quella è la casa», disse indicando un vecchio edificio scrostato con gli scuri rotti. «Sembra disabitata.» «Io aspetto qui», fece lui afferrando le redini di Nuvola. «Non se ne vada», lo pregai dopo essere scesa da cavallo. Mi rendevo conto che i discorsi di Pietro sulle streghe avevano generato in me un pizzico di apprensione. Lui si tolse il cappello e lasciò cadere sulla fronte una cascata di riccioli castani. Sorrise di nuovo. «Rimarrò nei dintorni», mi rassicurò. «Vada tranquilla.» Simulai un risolino a labbra serrate, più una smorfia per la verità. «Io sono tranquilla. Troverei la strada di casa anche senza il suo prezioso aiuto.» Quella frase riuscì a sorprendere anche me. Ero di nuovo io, la Blanche impetuosa che non aveva paura di dire ciò che le ava per la mente. Un po' me ne vergognai. «Ne sono certo», rispose lui prima di allontanarsi con i cavalli. Non fu necessario bussare alla porta della signora Coco poiché si era già spalancata prima ancora che io la raggiungessi. La donna era di bell'aspetto, alta, dal portamento regale e dai tratti del volto decisi. Aveva rughe profonde sul viso. Mi chiamò con il nome di mia madre.

«Non sono Bianca.» «Oui», disse. «Sapevo che saresti venuta, confonderti con lei è stato istintivo. Entra, ma chérie.» Ero contenta di poter finalmente scambiare due chiacchiere nella mia lingua. «L'ultima volta che l'ho vista, aveva più o meno la tua età», continuò la donna invitandomi a sedere alla sua tavola. La casa profumava di mia madre, di lavanda. Era pulita, ordinata e ovunque c’erano vasetti di ceramica, mortai, pestelli e bottigliette colorate. Fasci di erbe e fiori pendevano a testa in giù dal soffitto, doveva essere il motivo del buon odore. «Mamma mi ha dato queste», dissi estraendo dalla borsetta le buste che avevo portato con me. Lei le afferrò senza dire nulla, continuò a guardarmi. Sembrava colpita. «Hai lo sguardo di tuo padre», disse. «L'ha conosciuto?» «Dammi del tu. Li ho conosciuti entrambi, i tuoi papà. Tanto tempo fa.» Ero sorpresa. «Trascorsero qui un paio di notti prima di partire per Cabris, loro due e tua madre. I tuoi genitori erano molto innamorati», aggiunse con sguardo sognante. Poi canticchiò qualcosa, si alzò in piedi. «Gente sveglia, quei tre. La fecero in barba a quelli del fascio», borbottò come parlando tra sé. «Dimmi di te piuttosto, come ti trovi dai Conti?». Aveva alzato la voce. «Mi pare bene. Perché furono costretti a fuggire? Sembra che nessuno voglia parlarne.» Disse che era una brutta storia, troppo lontana perché avesse ancora importanza. «Una tisana la prendi?» Non la volevo, la tisana. Volevo sapere, invece. La pregai.

«Non c'è poi molto da raccontare», aggiunse per placare la mia curiosità. Si mise di nuovo a sedere. «Hanno cercato di sfuggire al loro destino, ma quello li ha riacciuffati.» Che cosa voleva dire? Detestavo i misteri. «Tua madre ti avrà pur detto com'è andata!» No. Mia madre non parlava mai di quello che era accaduto sotto il melo. Era stato zio Toni, il cugino demente della mamma, che una volta ci aveva raccontato qualcosa. Erano stati i soldati a uccidere mio padre, gli avevano sparato lì, sotto il melo, ma io non avevo creduto alla sua storia. Lo zio raccontava sempre tante di quelle frottole, soprattutto se lo lusingavi con qualche sigaretta o con un bicchiere di vino. Una volta Bernard gli aveva promesso un bicchiere del pastis di papà se lui fosse riuscito a mettere le mani su un paio di biscotti al cioccolato che Babette aveva appena sfornato. La tata non ci faceva mai avvicinare alla cucina prima dell'ora stabilita. Alla fine zio Toni i biscotti li aveva rubati davvero, ma se li era mangiati lungo il tragitto, così io avevo convinto Bernard a bersi il bicchiere di liquore per ripicca e lui, alla fine, s'era ubriacato di brutto perché non l'aveva diluito con l'acqua come faceva sempre nostro padre. E ora era Madame Coco che parlava di fucilazioni. Papà era stato ucciso dagli stessi fascisti da cui era scappato e che, «Fatalità!», avevano occupato il suolo se. Echeggiava nella mia mente la sua frase conclusiva: «Uno scherzo del destino!» Pensai a Didier. Anch'io ero scappata da lui. «Non possiamo prevedere il futuro», disse lei, «però possiamo decidere come affrontare quello che ci capita. Alla fine è questo che conta, no?» Già, era quello che contava. Sempre. Peccato, però, che mia madre pensasse che io fossi priva di giudizio per decidere di affrontare da sola quello che mi capitava. Coco rise. «Non che il giudizio fosse la sua più grande dote!», esclamò. Le madri lo fanno sempre. Pensai. Specialmente quelle come la mia. Vogliono figli perfetti, come Dorine, che non commettono mai errori, mai! o, meglio

ancora, che sanno trarre insegnamento dagli sbagli dei genitori! Ma quali sono questi sbagli? Madame si era alzata per guardare fuori dalla finestra. «Mi pareva di aver visto qualcuno. Quel giovanotto è con te?» Dissi di sì. «Che mi prenda un colpo! Ma quello è il figlio del vecchio Martini!», esclamò. Feci spallucce. «Boh.» Mi guardò. Nello sguardo aveva qualcosa a cui non seppi dare un nome. Un misto di stupore, apprensione e ilarità insieme. «È solo uno stalliere.» Coco sollevò un sopracciglio. Disse che non era soltanto quello, che il ragazzo era figlio di un Colonnello e che “studiava da dottore”. E che suo padre era un uomo dispotico, lei non lo aveva mai sopportato. Una di quelle persone che ti guardano dal piedistallo, hai presente? «Sì.» E aggiunse che mia madre lo conosceva bene e che un tempo lui era stato... ecco... che un tempo lui era stato una Camicia Nera, uno di quelli che avevano impugnato il manganello per il Duce, l'avrai vista qualche foto. «Sì.» Coco parlava e continuava a guardare il giovanotto dalla finestra. «Sembra spazientito, continua a guardare in qua», affermò. Mi parve di cogliere un ghigno sul suo volto, ma fu soltanto un attimo. Guardai l'orologio. «Gesù, com'è tardi», dissi. «Il tempo è volato.» Ci salutammo con un abbraccio. Mi sembrava di conoscere quella donna da sempre. «Torno a trovarti», promisi senza sapere se l'avrei fatto davvero.

«Ne avrai bisogno», indovinò lei rinnovando il senso di smarrimento che avevo avvertito all'inizio, quando avevamo parlato di destino. Camminai lentamente verso il giovanotto con i cavalli. Si era seduto ai piedi dell'albero lungo il sentiero, vicino al muretto che delimitava il prato di Coco. L'avevo giudicato male, lo sapevo, l'avevo reputato un impostore e invece studiava davvero per diventare un medico. E non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome. Eravamo già in groppa ai cavalli quando decisi di rompere il silenzio. «Sei davvero quasi un medico», dissi. Lui annuì. «E come mai fai lo stalliere?» «Mi piacciono i cavalli e d'estate ci faccio qualche lira.» Capii che era un uomo di poche parole, secche. Fui io, dunque, a parlare. Gli raccontai di Dorine, anche lei voleva diventare un medico e poi di Bernard che, invece, era un bravissimo pittore e sarebbe diventato qualcuno, un giorno. Lui guardava dritto davanti a sé e sorrideva. «Com'è che ti chiami?» «Angelo.» E finalmente mi sentii un po' a casa.

14

«Uno solo», bisbiglia Angelo nella speranza che io non badi a lui. I suoi occhi si sono illuminati alla vista dei cioccolatini che Valentina gli ha allungato. Ha l'aspetto di un bambino davanti a una vetrina di dolci colorati. «Vorrei alzarmi», dice lei in tono di supplica. I suoi occhi sono grigi come nuvole. «Ti senti meglio?», le domanda lui. «Non lo so.» Nel suo sguardo c'è un'espressione malinconica. Dalla sua esitazione capisco che sta scegliendo le parole con cura: «Vorrei che la mamma fosse qui.» So bene come si sente. È capitato anche a me di sentirmi come l'ultima inerme ruota dentata di un ingranaggio superiore, spinta in avanti da un incastro di ruote più potenti. Quante volte, quante? ci lasciamo sopraffare da avvenimenti che in un batter d'occhio moltiplicano il ritmo del meccanismo che muove la nostra ruota dentata? A differenza di quanto fece mia madre, mia figlia non si è preoccupata di inserire un freno nell'ingranaggio di Valentina e questo non ha fatto che amplificare il movimento della piccola ruota che la rappresenta. «Anche a te mancava quand'eri dai nonni?» «Sapeva di lavanda.» «Chi?» «Mia madre. Sapeva di lavanda.» Si chiama ricordo olfattivo. Ha una carica emotiva più tenace di qualsiasi altra, perfino più di una fotografia o di una canzone. La fragranza di lavanda sui capelli di mia madre, l'aroma di vaniglia delle sue torte al tempo dei giochi, il profumo di sapone di Marsiglia sul grembiule della tata, l'odore inebriante dell'amore, penetrante, invitante come pane appena sfornato.

«I ricordi più intensi hanno sempre un profumo. Ti capita di annusarlo e all'improvviso ecco riportate in vita emozioni e stati d'animo sopiti. Ci hai mai fatto caso?». I suoi occhi azzurri continuano a scrutarmi. «Mi mancava terribilmente», aggiungo. Il mio sguardo vaga per la stanza. «Mi aggrappavo al suo ricordo, a quello che percepivo come un profondo senso di perdita.» Valentina ha lo sguardo basso. Qual è l'ultimo ricordo di sua madre? Quello di lei davanti allo specchio poco prima di ridurlo in frantumi? Gli occhi inespressivi, i capelli spettinati che incorniciano un viso incolore, le labbra bianche e le ossa sporgenti? L'odore di sangue? «Non voglio somigliare a lei», dice in un fiato. «Non voglio diventare così, eppure ci sto riuscendo benissimo.» La mia Alice sapeva di mare, di sabbia e di acqua salata.

1958

Imparavo. Guardavo scorrere le meravigliose vite dei miei cugini e le succhiavo a piccole gocce. La loro curiosità nei miei confronti si era esaurita al mio secondo giorno di vacanza e allora decisi di mettermi comoda e di osservare ogni loro mossa, ogni fiato, e a un certo punto cominciai a respirare quell'aria di euforia, di fasto, di voglia di tutto e di amore per niente. Sembravano sempre indaffarati, ma in realtà non facevano nulla. E io, dopo aver guardato per un po' di tempo, mi tuffai in quel mondo dorato per assaporarne un morso. Forse mi sarebbe perfino piaciuto. Partite a tennis con gli amici di Guido a cui seguivano aperitivi nei bar più chic del paese, dove i poveri non entravano perché un Martini o un Americano costavano tre volte di più. Ristoranti di pesce sul lungolago o in riva al mare, le Porsche parcheggiate lungo la strada, come veniva. «Sabato siete tutti miei ospiti. Si va a Venezia in motoscafo. Vi porto a mangiare i moscardini in terrazza, al Danieli. Tu ci sei mai stata, Blanche?» Beveva troppo, mio cugino Guido. E poi guidava, e fumava, e beveva ancora. Sembrava volercisi tuffare in tutto quell'alcol e magari non riemergere più.

Io Venezia non l’avevo mai vista. Ci andammo. E poi giù, di corsa, al Club San Daniele dove la gente pagava per un singolo ballo. Erano in due a reggere il grosso nastro, uno per lato. Finiva la musica e loro erano già lì, pronti a imbrigliare i ballerini e farli scivolar fuori con la spinta gentile della lunga striscia di tela. E la pista era sgombra per chi aveva pagato un altro giro. Molti restavano a guardare. Mica avevano soldi da sprecare! E allora aspettavano e, quando entrava la ragazza giusta, beh, allora sì che valeva la pena di tirare fuori qualche moneta. Per Guido e i suoi amici era diverso. Loro non avevano bisogno di pagare perché l'avevano già fatto. Avevo visto mio cugino sfilare dal fermasoldi di Gucci un fascio di banconote alto tre centimetri. «Champagne per la bella Blanche», aveva urlato. «Tre bottiglie. Anzi quattro.» Pensavo che fosse un modo stupido di divertirsi a cui decisi di mettere fine un sabato sera, quando Guido, annebbiato dai fumi dell'alcol, posò una mano sulla mia gamba e disse: «Sei bella». Era giunto il momento di cambiare compagnia e ci provai con Carolina. Scoprii presto, però, che mia cugina aveva un'unica ione: comprare, comprare e ancora comprare. Una vera mania. Trascorrevamo i pomeriggi in città a farci scorrazzare dall'autista per depredare negozi di abiti, scarpe, cappellini, gioielli e profumi. Chanel, Balenciaga, Dior, Pucci, Carolina sembrava instancabile e in ogni bottega acquistava qualcosa. «Signorina Conti, che piacere rivederla.» Le commesse abbassavano la testa quando entravamo, poi andavano leste a chiamare il proprietario o sua moglie perché mia cugina non si faceva servire dai dipendenti. «Non capiscono niente», diceva. Non era importante ciò che alla fine entrava nelle buste di plastica firmate dagli stilisti famosi, ciò che contava per Carolina era ostentare. Apriva la borsetta e tirava fuori un rotolo di banconote che mollava sul bancone con noncuranza, come fossero carta straccia. Fu insieme a lei che comperai l'abito per il ricevimento, da Dior o da Chanel, non rammento. «Questo è perfetto!», diceva lanciando gridolini di ammirazione ogni volta che uscivo dallo spogliatoio con un abito differente. Tra tutti quelli che avevo provato, scelsi il meno chiassoso. Era un abitino in

chiffon bianco con le spalline sottili e una sottogonna di tulle nero. Ciò che mi aveva colpito era stata la fascia di pizzo nero che impreziosiva l'orlo della gonna. Perfetto per ricevere gli ospiti della nonna. La governante mi aveva avvisato solo quella mattina. «Un ricevimento? Un ballo?», avevo domandato. «No, niente del genere. Sua nonna vuole presentarla agli amici di famiglia.» «Ah.» Non amavo le feste. L'ultima a cui avevo partecipato, poi, aveva avuto un epilogo infelice. Tuttavia ero lì davanti allo specchio con il mio abitino nuovo. «Com'è bella, signorina.» Adelina sembrava sinceramente emozionata. Aveva appena finito di raccogliermi i capelli in uno chignon. «Grazie. Il tuo aiuto è stato prezioso.» Niente avrebbe potuto renderla più felice. L'iniziale diffidenza che le avevo dimostrato aveva ceduto il o a una sorta di reciproco interesse. Adelina era lieta di poter conservare l'impiego e io mi sentivo sollevata dalla sua presenza, ero felice di avere accanto qualcuno che si occue di me come avevano sempre fatto mia madre e Babette. Scesi nel salone. Frotte di domestici trasportavano vassoi carichi di prelibatezze, calici di vino, bibite e liquori a volontà. Decine di ospiti elegantissimi erano ansiosi di fare la mia conoscenza. Un pianista avrebbe dovuto ravvivare con la musica lo sfarzoso ricevimento, ma dopo la formale presentazione della nipote ritrovata ai blasonati amici di famiglia, tutti tornarono a condurre le loro monotone conversazioni e io e i miei cugini fummo ignorati per il resto della serata. Stavamo riversi sui divani azzurri del salone. Ci annoiavamo. «Champagne?», mi offrì Guido dopo aver chiamato il cameriere con uno schiocco di dita. L'uomo con i guanti bianchi gli si avvicinò in fretta e fece una specie di inchino prima di mettergli il vassoio davanti al naso. «È sempre così ai ricevimenti in casa Conti», continuò dopo aver preso un paio di coppe. Me ne

porse una. Il cameriere si spostò verso Carolina e lei afferrò un bicchiere con fare indolente. Il mio sguardo cadde poi su Eva che, invece, fece una specie di smorfia alla vista dell'uomo in divisa bianca. Sembrava infastidita: non lo sapeva, forse, che lei non beveva mai più di tre bicchieri di vino nella stessa serata? La trovavo bellissima nella sua tuta di seta bordeaux, le gambe accavallate sembravano non finire mai. «Ce ne andiamo?», propose Guido. «Penso che andrò fuori a prendere un po' d'aria.» Una lunga fila di lussuose automobili occupava parte dell'ampio viale d'ingresso e alcuni degli ospiti avevano avuto la mia stessa idea e si erano spostati in giardino per eggiare. Alzai gli occhi al cielo e mi accorsi che era punteggiato di stelle. Pensai a Bernard e a tutte le sere che avevamo trascorso in cortile a chiacchierare e a osservare il cielo per riconoscere le costellazioni. Provavo nostalgia di quel fratello che nessuno considerava tale. Mi incamminai per raggiungere la voliera, poi proseguii verso le stalle. Non avevo più avuto tempo di cavalcare Nuvola, magari avrei potuto farlo il giorno successivo. Trovai Pietro ancora indaffarato a sistemare i cavalli. L'uomo mi salutò con un cenno del capo. «Non pensavo di trovarla ancora qui.» «Lavoro doppio oggi, Angelo se n'è andato prima del solito.» Solo a sentir pronunciare quel nome, fui travolta da un'inspiegabile euforia, una sensazione di vertigine che mi fece tremare le gambe. Non avrei dovuto bere così tanto. Conversammo per un po' di cavalli, di Nuvola, dei locali giù in paese, poi lui mi domandò di Madame Coco. Non ero più andata a farle visita. Alla fine gli chiesi di Angelo. «Come mai se n'è andato prima?»

Disse che sua madre era malata di cuore e s'era battuto il petto con la mano destra mentre lo diceva. «Oh.» Io allora parlai della mia, di madre. Sapevo che l'aveva conosciuta, l'aveva affermato lui stesso. «Saprebbe indicare all'autista dove si trova la sua vecchia casa?» «Lo consideri fatto.» Era un uomo gentile, Pietro. Mi aveva fatto sentire subito a mio agio. «Non è troppo elegante per gironzolare qui con il suo bel vestito?» «Se fossi a casa mia, la penserei allo stesso modo, ma qui non ha importanza. È probabile che mi impediscano di indossarlo un'altra volta!» Sorrisi. «Forse Rosa lo darà in beneficenza ai poveri, anche se non riesco a immaginare in che occasione potrebbero indossare un abito del genere. Nemmeno io saprei che farmene a Cabris: è eccessivo perfino per l'avvenimento dell'anno, la festa del patrono.» «Magari farà contenta qualche ragazza in paese.» «Se il denaro non fa la felicità, figuriamoci un abito!», risposi sprezzante. «Sa, mio padre diceva che la felicità non la troviamo al banco del pesce, ma soltanto dentro di noi. Dovrebbe provarci anche lei.» Mi fissò per un istante, poi si voltò dall'altra parte. «Era un uomo saggio, mio padre.» Lo squadrai seria, cercando di leggere fra le righe delle sue parole. Avevo la sensazione che avesse inteso dirmi qualcosa di importante. «Che vuol dire?» Mi ero arresa alla curiosità. «Che secondo lei io non sono felice?», domandai irritata. Pietro si trincerò dietro un conveniente silenzio e io immaginai che fosse un modo per confermare la mia supposizione. Oppure si era solo pentito di aver osato tanto. Continuai a fissarlo, quasi infastidita.

Finalmente si voltò verso di me. «Dovrebbe sorridere ogni tanto», disse. «Un sorriso fa felice il cuore e tutto sembra meno grave.» Ero allibita. Non mi disturbava la confidenza che si era preso, ma il fatto che avesse inquadrato il problema. Da quando Bernard era quasi morto, io mi ero sentita intrappolata in una specie di limbo. Non trovavo pace e nonostante l'entusiasmo indotto dalla mia nuova vita, continuavo a trascorrere le giornate in attesa di qualcosa che tardava a verificarsi. Dormivo poco e, quando capitava, facevo strani incubi. Avevo perfino smesso di scrivere, così non ero più riuscita a dare sfogo alle mie emozioni, non avevo riso e non avevo pianto. Ciò che provavo era un miscuglio di impazienza, apatia e tedio. Che strano non averlo notato prima. Fu il mio turno di girarmi dall'altra parte. Mi incamminai di nuovo verso il mio destino. Seguivo la luce fioca dei lampioncini che illuminavano il sentiero, mentre le parole di Pietro mi pesavano in petto come macigni. Quanto avrei desiderato parlare con Bernard, non ci riuscivo al telefono. Mi mancava, avevo bisogno di sdraiarmi accanto a lui sotto il melo e, come sempre, di aprirgli il mio cuore. La sagoma di Angelo sbucò davanti a me all'improvviso. Mi salutò con un sorriso. «Mi annoiavo alla festa.» Accidenti, perché mai avevo sentito la necessità di giustificarmi? Lui mi fissò. Ero tesa, un brivido mi aveva attraversato la schiena. «Come mai sei qui?» Una domanda stupida, mi ero pentita di averla fatta ancor prima di finirla. «Ci lavoro.» Sì, lo sapevo. Non c'era bisogno che mi fissasse in quel modo. «Torno alla villa.» Gli davo le spalle e continuavo a sentire i suoi occhi appoggiati sulla schiena.

«eggiata a cavallo?», chiese da lontano. Mi voltai per guardarlo e sollevai un po' il mento per ostentare una sicurezza che sapevo di non avere. Che avrebbe fatto Eva al mio posto? «o alle nove.» Aveva già ripreso il suo cammino. Quella sera mi rimirai allo specchio prima di permettere ad Adelina di sfilarmi l'abito. Le spalle nude, il punto vita, poi feci scendere lo sguardo giù lungo le gambe abbronzate e i piedi infilati nei sandali neri con gli strass. La cameriera mi guardava curiosa e io riuscivo a immaginare quello che stava pensando, che ero una ragazza frivola, strana, un po' come lo erano tutti a villa Conti. Avevo scoperto che non mi importava. Desideravo continuare a guardarmi con gli occhi di un'altra persona, con i suoi occhi e fingevo di averli ancora addosso. Chissà poi che cosa aveva visto. Sentii una stretta al petto. Santiddio, era sbagliato. Era tutto sbagliato. La voce di Adelina mi riportò bruscamente alla realtà. La ragazza mi aiutò a spogliarmi e iniziò a spazzolarmi i capelli in silenzio. Forse era vero che non riuscivo a manifestare le mie emozioni, che non ridevo, non piangevo, non scrivevo più e non sapevo che fare. Se c'era una cosa che sapevo, però, era che il tormento che da qualche ora mi bucava lo stomaco era un dolore troppo piacevole perché io potessi disfarmene.

15

È Vivy a interrompere il racconto. La sua chioma rosso fuoco ha riempito la stanza. C'è anche quel giovanotto, Federico, l'unico capace di imporporare le guance di Valentina. Lui ha sguainato un sorriso smagliante che l'ha costretta ad abbassare lo sguardo. Le ha perfino regalato un libro. Che combinazione: I fiori del male di Charles Baudelaire. D'istinto, Valentina cerca il mio sguardo. «L'abbiamo letto a scuola quest'anno. Magari puoi fare una tesina per il tuo esame di se. Un paio di poesie sono davvero forti», spiega lui con un certo disagio. Le racconta poi del recente viaggio in Irlanda con i suoi, della cartolina che non ha spedito perché non aveva l'indirizzo, ma che ha inserito nel libro, delle vacanze estive agli sgoccioli, di quanto sia impaziente di ricominciare gli allenamenti di pallacanestro. Ha uno strano modo di muovere le braccia quando parla e, l'ho notato, si a spesso la mano sulla testa per celare l'imbarazzo. «Guarda un po' chi c'è?», ci sorprende Angelo entrando veloce nella stanza. L'Avvocato si fa strada verso il letto della figlia con un pacchetto fra le mani. Valentina, ora, non sorride più.

1958

Indossai i pantaloni bianchi e la camicetta rosa con il colletto candido che io e Carolina avevamo acquistato per andare a cavallo. Anche lei si era comprata un completino simile al mio, ma sapevamo entrambe che su un cavallo non ci sarebbe mai salita. Mi aveva confessato di non amare lo sport, soprattutto l'equitazione, e che aveva smesso di cavalcare dalla volta in cui da bambina era

stata disarcionata. Faceva caldo. Eva sedeva in terrazza all'ombra dei tralci di vite. Davanti a lei, sul tavolo, un bicchiere di succo di frutta. Mi venne in mente che non l'avevo mai vista mangiare. Tra le dita bianche reggeva una sigaretta sottile e lunga che ogni tanto portava alle labbra come se perfino compiere quel gesto fosse una seccatura. Era così magra! Più ancora di Lydia che non mangiava quasi nulla perché pensava che il suo seno fosse troppo pieno, invece lei voleva somigliare a Lucile per prendere il suo posto nel cuore di Bernard. Forse Eva era come me, non voleva somigliare a sua madre. Zia Gianna aveva i fianchi larghi e un seno prosperoso. Mi arono davanti agli occhi i disegni sul vestito blu della zia. Erano fiori, no, farfalle, che si posavano su fiori enormi, talmente grandi da far venire il mal di testa. Quelle farfalle si muovevano, ondeggiavano al ritmo dei suoi fianchi. E poi la sua piccola bocca dipinta di rosa, una sottile fenditura sulla faccia rossa, piena. Invece zio Michele, suo marito, era un uomo bellissimo. La prima volta che lo incontrai, ricordo di aver pensato che somigliava a mio padre, ma con il are dei giorni quella sensazione era scomparsa. Un uomo così, dedito a palpeggiare le cameriere di nascosto e che ava il tempo a collezionare amanti a destra e a manca, beh, un uomo così non poteva avvicinarsi al mio papà del melo neanche alla lontana. «Dove vai?», mi domandò Guido in tono gentile. Era sempre garbato e si era offerto spesso di farmi da accompagnatore. Mi misi a sedere. «Alla vecchia casa di mia madre», risposi. «Devo far visita a una cugina.» «Ci vai a cavallo?». La domanda era arrivata inaspettata, come se Eva si fosse destata di colpo dal torpore che la avvolgeva. Negli occhi una fiammata che non seppi interpretare. Guido mi lanciò uno sguardo comionevole, uno di quelli che di solito le mamme riservano ai bambini monelli che hanno combinato una marachella di poco conto. Ma forse era solo un'impressione. Avevo visto come mio cugino si comportava con le ragazze, riservava loro lo stesso trattamento delle banconote nel suo fermasoldi. Se le infilava in tasca, le strapazzava un po' e poi le gettava via con un'occhiata di superiorità, quasi con disprezzo. Tuttavia con me era diverso. Era garbato e attento, soprattutto quando mi portava via con sé e si preoccupava di tutelarmi dai suoi compagni di lazzi. Anche perché non erano un

granché, i suoi amici. Io avevo il sospetto che non fossero affezionati a Guido, ma ai suoi soldi e, ancor di più, alla sua propensione a scialacquarli. Una volta, in barca, il suo amico Sandro mi aveva appoggiato una mano sul ginocchio e poi, svelto, l'aveva fatta salire fra le cosce. D'istinto io avevo chiuso le gambe, ma Guido era già sopra di noi e gli aveva sganciato un pugno in faccia da farlo volar via. Non l'avevamo più visto, Sandro. Eva aveva già spostato gli occhi verso il giardino. Vedemmo il nonno che, bastone alla mano, si accingeva a fare la sua eggiata mattutina. Pochi i dietro di lui la cameriera sgambettava svelta con il giornale in mano. Prima o poi lui si sarebbe seduto su una panchina e le avrebbe chiesto di leggerglielo. La nonna di sicuro era già in chiesa, o al circolo di volontariato e non l'avremmo vista fino all'ora di pranzo. Non avremmo visto nemmeno Carolina, che di solito dormiva fino a tardi. «Non hai toccato cibo», disse Guido versandosi il succo d'arancia in un bicchiere. «Sei preoccupata di fare la conoscenza di altri parenti?», mi domandò dopo aver fatto cadere due pillole nella bevanda. Sollevai appena le spalle. In verità non c'era nulla che riuscisse a destare in me qualche preoccupazione. Avevo capito che in casa Conti ognuno pensava agli affari propri e io, per la prima volta in vita mia, mi sentivo libera. Scorsi le sagome dei cavalli, finalmente. Mi alzai per avviarmi agli scalini. Con la coda dell'occhio vidi Eva infilarsi gli occhiali scuri prima di salutare Angelo. Il gomito ossuto appoggiato al tavolo, uno sfarfallio di dita, veloce, e un mezzo sorriso sulle labbra. Conoscevo lo sguardo che c'era dietro gli occhiali, lo avevo percepito. Il corpo di Eva si era riavuto all'improvviso, si era sporto verso la ringhiera bianca per vibrare di allettanti promesse. Sentii una puntura nel petto, una fitta che scese giù fino alla pancia. «Pronta?» «Prontissima», risposi montando in groppa a Nuvola. Conducemmo i cavalli al o fino al cancello. «A casa Moro, vero?», domandò Angelo. Annuii.

Procedemmo affiancati, a un ritmo lento. Mi piaceva conversare con qualcuno mentre cavalcavo. «Non è la stessa strada dell'altra volta», affermai. «No.» «A Cabris è diverso: lavanda, mimosa, c'è più profumo. Però anche qui la campagna è bella.» «Nostalgia?» «Più che altro mi manca mio fratello, la famiglia.» Mi manca una famiglia, avrei voluto dire. I Conti erano molto lontani dall'esserlo. Nessuno si preoccupava per Guido quando tornava a casa all'alba ubriaco, incosciente e alla guida della sua Porsche grigia piena di fango. Dove aveva ato la notte? Ai suoi genitori non importava. Il giorno successivo l'autista avrebbe lavato la spider, Guido avrebbe preso un paio di pasticche per il mal di testa e poi sarebbe ripartito alla volta di Cortina o di Portofino con una delle sue amichette. Nessuno poteva sapere che una maledetta domenica di qualche anno dopo, a soli ventisette anni, Guido ci sarebbe morto in quella spider grigia, travolto da un tir che si era trovato davanti all'improvviso. Nessuno si occupava di insegnare le buone maniere a Vittoria, bambina viziata e piena di avversione per l'indifferente mondo degli adulti. Avevo sentito come si rivolgeva alle domestiche: «Voglio la torta al cioccolato.» «Signorina, oggi la cuoca non l'ha preparata. Ci sono molte altre torte, però.» «Ho detto che voglio la torta al cioccolato, stupida!» Le mani chiuse a pugno sui fianchi esili. «Signorina...» «Va' a dire alla cuoca che la prepari. Subito!» Si poteva chiamare “madre” una donna che si occupava solo di riempire il proprio stomaco e, nel tempo libero, provava a tenere a bada un marito playboy così da evitargli di ingravidare qualche cameriera compiacente? Quella madre non si era accorta di quanto Carolina fosse pallida? Di come la noia la

costringesse a are il tempo a letto o, in alternativa, a spendere tutti i suoi soldi nelle boutique del centro? Ogni tanto, nelle giornate più buie, Carolina partiva con la nonna per andare in chiesa. «Prego per un miracolo», aveva detto, «un marito, magari!» Rideva di rabbia. A un certo punto il grigiore se ne andava e lei si faceva accompagnare dal parrucchiere, dal profumiere o dal gioielliere con la stessa indolenza di sempre. La vita non le aveva sorriso, o forse le era stata chiara fin da subito, quella vita, sin da quand'era bambina. Lei le aveva fiutate le ballerine e le cameriere che suo padre si portava a casa dal nightclub, di notte. Aveva annusato il profumo da pochi soldi lasciato sulle lenzuola di seta, una macchia indelebile. E aveva spiato. Ricordava i fari dell'auto di lui che di colpo deviavano verso la dependance in fondo al parco. Rammentava i gridolini e le risa sfacciate. E allora era entrata, perché a volte si viene attratti proprio da quello che fa più male. Carolina si era stesa sulle lenzuola, aveva chiuso gli occhi e aveva odorato la puzza di fumo, di sesso. Carolina aveva pianto. Le detestava, quelle puttane. E poi c'era Eva. Algida, bellissima, lo sguardo che ti inchiodava. Aveva inchiodato anche Angelo, quello sguardo? Sbirciai di lato, lui se ne accorse e mi sorrise. «Non deve essere facile abituarsi al loro mondo», disse. «Sono tutti terribilmente infelici.» In quel momento Nuvola scartò all'improvviso sulla destra e quasi mi sbalzò dalla sella. Le gambe dell'animale avevano abbandonato il ritmo regolare e la cavalla aveva preso a muoversi veloce, a scatti. Angelo afferrò le redini per tentare di rallentarla e per ricondurla sul sentiero. «Non fermarti», ordinò. «Brava, così.» Nuvola si era portata di nuovo al centro della strada e aveva ripreso ad andare al o. «Oh, mio Dio!», esclamai con il cuore in gola. Ci fermammo. «Qualcosa deve averla spaventata», fece lui scendendo da cavallo. «Una biscia,

forse», disse picchiettando il collo di Nuvola con il palmo della mano. Poi alzò gli occhi verso di me. «È ato.» Smontai, il sollievo mi aveva resa euforica. «Ho pensato che l'avrei investita. È apparsa all'improvviso, come dal nulla.» «Chi?» «La donna laggiù.» Guardai dietro di noi, lungo il sentiero. Anche Angelo puntò lo sguardo nella stessa direzione: il viottolo era deserto. Mi lanciò un'occhiata veloce, poi diede una pacca a Nuvola e le strinse il sottopancia per fissare la sella. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un paio di zuccherini, uno lo diede a Nuvola, l'altro a Zeus. «Ne vuoi uno?», mi domandò. Avevo la sensazione che si stesse prendendo gioco di me. Immaginai Eva al mio posto. Lei che avrebbe risposto? Avrebbe accettato l'offerta e lasciato a lui il compito di infilarle la zolletta tra le labbra? Labbra che lei avrebbe aperto pochissimo in modo che lui potesse toccarle con la punta delle dita? Forse, però, a mia cugina lui non avrebbe offerto uno zuccherino. L'avrebbe guardata, le avrebbe fatto scorrere i polpastrelli lungo il braccio e poi su, dove la curva del collo bianco diventava morbida come burro. Lui le avrebbe sfiorato la gola con un bacio, l'altra mano che percorreva la curva del suo fianco e... «No, grazie», risposi. Rimontammo in sella, ma subito ebbi la sensazione di stare per dimenticare qualcosa. Mi voltai di nuovo per guardare il viottolo, dove il verde degli alberi si confondeva con la terra e con uno sprazzo di cielo. «Tutto a posto?» «Non ne sono sicura», risposi con un filo di voce. «Ti è mai capitato di avere un'illuminazione? Voglio dire, immagina di esserti fatto un'idea precisa su qualcosa e di avere la convinzione, anzi, la certezza di aver giudicato in maniera corretta.» «Sì.»

«E all'improvviso cambia tutto, insomma, succede qualcosa che fa vacillare le tue convinzioni. Ti è mai successo?» «Credo di sì», rispose guardando dritto davanti a sé. «A cosa ti riferisci, in particolare?» «A una poesia, mia madre la recitava sempre. Ricordami quando sarò nella terra del silenzio, diceva, e se tu dovessi scordarmi, non dolerti: meglio scordare e sorridere che essere tormentati dal ricordo. Ero convinta che lei pensasse a mio padre, ma, non so perché, ora so che mi sono sbagliata.» Avevo avuto una specie di déjà vu, quella sensazione strana che ti assale quando pensi di avere familiarità con un'immagine, con un volto, oppure quando ti sembra di essere già stata in un posto. Ero commossa, finalmente. E mi andava perfino di sorridere. «I miei genitori conoscevano bene i tuoi», disse Angelo. «Ma dai!» Mi parlò di loro per un po'. Del Colonnello, delle sue sorelle. Disse che sua madre non se la ava molto bene, che era malata da tanto tempo, non ricordava più da quanto, e che aveva deciso di diventare medico per curare il cuore delle persone. Io gli raccontai di me, della nostra casa a Cabris, di come mio fratello Costante assomigliasse a nostro padre, di zio Toni e delle erbe di mia madre. Ci eravamo scambiati le emozioni del ato e ci eravamo toccati lassù, in qualche posto. Ora non restava che scambiarci i sogni. «La cosa che più ti piace?», domandò. «La poesia.» Angelo aveva detto che il sentiero che stavamo percorrendo era il più lento, ma anche l'unico che ci avrebbe permesso di arrivare a destinazione aggirando il paese. ammo accanto a un paio di ville patrizie le cui mura antiche si alternavano a tratti di costruzioni più recenti. Le alte siepi non permettevano di guardare oltre le mura. Finalmente un cancello per rubare uno scorcio del parco. Fu in quel preciso istante che me ne accorsi, avevo avuto di nuovo quella strana sensazione di familiarità di poco prima. Ero sicura, in quel posto io c'ero già stata.

«Eccola lì, nel giardino.» «Chi?» «La donna di prima.» «Beh, avrebbe dovuto volare per arrivare qui prima di noi», affermò lui sicuro. Ripensai alla pelle chiara della giovane, alla pettinatura d'altri tempi e allo sguardo d'intesa che mi aveva lanciato. Forse era il suo modo di tranquillizzarmi, di farmi sapere che non era rimasta spaventata da Nuvola sul sentiero. «La maggior parte delle ville è disabitata», aggiunse Angelo con un movimento ampio del braccio. Proseguimmo in silenzio per parecchie centinaia di metri. Avevo incrociato quella donna per ben due volte nell'arco di pochi minuti, ma l'avevo vista solo io. Non riuscivo a trovare una spiegazione plausibile. Decisi che non valeva la pena pensarci troppo, eravamo giunti a destinazione. La vecchia casa rurale dava direttamente sulla strada. Era fatiscente. Angelo scostò il cancello arrugginito per portare i cavalli in cortile. «C'è qualcuno?», urlò. Sembrava non esserci nessuno in casa. Mi guardai attorno e mi resi conto che la piccola fattoria era praticamente in disuso. Non c'erano utensili e nemmeno animali. Tutt'intorno le piante erano potate e i fiori nelle aiuole erano abbondanti. Accanto al ricovero per gli attrezzi c'era un orto colmo di erbacce. Mi lasciai intenerire dal pensiero della mamma e di zio Toni da bambini. Li vedevo mentre giocavano insieme, saltavano la corda, facevano il girotondo e si nascondevano fra i cespugli. Mi sembrava perfino di udire le loro voci che lanciavano urletti, e ridevano, e cantavano. «Tutto bene?» Angelo aveva sospeso di colpo la mia visione.

«Un camlo c'è?» «Sembra di no», rispose avvicinandosi al portone d'ingresso per bussare. Aveva capito che ero troppo emozionata per farlo da sola. Me ne stavo immobile nel bel mezzo del cortile e mi sembrava di contemplare una casa che conoscevo già, come se stessi tentando di considerare i tanti cambiamenti intervenuti negli anni. La villa di papà non aveva avuto lo stesso effetto. A un tratto una donna uscì dalla porta d'ingresso. «Angelo», esclamò asciugandosi le mani insaponate sul grembiule. Mi resi conto che in paese si conoscevano tutti. «Signora Anna, ho accompagnato qui la figlia di sua cugina.» «Oh», esclamò lei volgendo lo sguardo verso di me. In un attimo il suo grosso corpo si mosse per venirmi incontro. Mentre lo faceva, mi osservava come se non riuscisse a mettermi a fuoco. Io non avevo fatto un o. «Se gli occhi non mi tradiscono, direi che sei la copia di tua madre!», asserì allungando le braccia verso di me. Indugiai prima di rispondere all’inaspettata tenerezza, ma lei mi incitò: «Vieni qua», insisté e mi abbracciò gettandomi addosso tutto il suo peso, con un affetto, però, che giudicai sincero. Anna ci invitò a seguirla in casa e Angelo innescò con lei un divertente scambio di battute per tentare di declinare l'invito. Alla fine Anna lo pressò così tanto che lui fu costretto a cedere. «Non si rifiuta mai una fetta di ciambella appena sfornata.» Il profumo della torta cotta nel forno a legna era inebriante, aveva il potere di farmi sentire a casa. Io e Angelo ci mettemmo seduti a tavola e lei ci portò due tazzine fumanti di caffè e una fetta della sua focaccia. «Ci abitavate in molti qui?», le domandai per rompere il silenzio. «Una decina di persone. Una volta si usava così. Da quando mio fratello s'è maritato, l'anno scorso, sono rimasta sola a prendermi cura della casa.»

Non ci era riuscita bene, la casa stava cadendo a pezzi per l'incuria. Poi mi chiese di mia madre, dei miei fratelli, perfino di zio Toni, che era suo fratello. Gli raccontai di quella volta che s'era bevuto di nascosto il vino di papà. Aveva stappato tutte le bottiglie che aveva trovato in dispensa e da ognuna aveva tracannato un paio di sorsi, poi s'era lasciato prendere dal panico e le aveva rabboccate con l'acqua. «Sperava che papà non se ne accorgesse!» Ridemmo. Parlammo del paese e di villa Conti, che lei osò definire «Un vero paradiso!» I nonni? Sono cordiali. Ma sì, dai! Anche i cugini lo sono, in fondo. Anna disse che la morte di mio padre era stata un duro colpo per la vecchia Conti, così aveva chiamato la nonna, e aggiunse che era stato un colpo per tutto il paese, a dire il vero, perfino per lei. «Sapevano tutti quello che avevano ato.» Vidi Angelo sollevare lo sguardo per incrociare i miei occhi. «Sarebbe a dire?» Anna esitò prima di rispondere e portò le mani alle guance corrugando appena la fronte, come se la mia domanda l'avesse colta di sorpresa. «Non vorrai dirmi che tua madre non ti ha mai raccontato?» Credevo di impazzire dalla curiosità. Tutti quei segreti mi facevano diventare matta. «Racconta», la pregai, «non importa se c'è Angelo.» «Oh, credo che Angelo queste cose le sappia già», disse lei lanciandomi un'occhiata stramba che mi confuse. Alla fine si lasciò andare. Disse che mio padre aveva perso la testa per la mamma e che la voleva sposare a ogni costo, ma che non si poteva fare sempre come si voleva, che c'erano interessi, troppi interessi da considerare. «Quali interessi?»

Raccontò che mia madre aveva perfino avuto il coraggio di lasciare il fidanzato di sempre perché si era innamorata «del Conti», e che zio Italo, il capofamiglia, l’aveva presa male. «Ti rendi conto?», mi domandò con le guance infiammate dalla rabbia. «Mio padre aveva cominciato a considerarla la rovina della famiglia perché il Conti non era dalla parte di quei gradassi vestiti di nero. Lui li disprezzava, quelli là!» «Ah.» «E poi, il fattaccio.» Anna aveva portato i gomiti sul tavolo e intrecciato le mani davanti al mento. Rimasi in silenzio. Non ero più sicura di voler sapere come andava a finire la storia, così non la spronai a proseguire. «Quei bastardi con la camicia nera le costrinsero con la forza a... beh, hai capito. Lei e la sua amica.» Anna aveva abbassato gli occhi e aveva appoggiato le mani sulla fronte. «Fu una tragedia!» Pensai a Didier. Solo in quell'istante mi furono chiari gli ammonimenti di mia madre. Da ragazza aveva sperimentato un immenso dolore e aveva tentato in ogni modo di evitare che la storia si ripetesse con me. «Sono pene lontane, ormai», proseguì Anna cercando di riportare la quiete nei miei pensieri. «Il Signore ha dato a tutti la forza per superarle. Se penso ai bei figli che ha avuto tua madre, sani, intelligenti, beh, direi che alla fine è tornato tutto a posto!» Alzai gli occhi per guardare Angelo e lui mi restituì un'occhiata che sapeva di conforto. Mi fissò come se volesse dirmi qualcosa di importante e mi sorrise, ma a me non era tornata la voglia di ridere. Mi voltai di nuovo verso Anna e mi accorsi che anche lei mi stava guardando, stampato in faccia aveva un sorrisetto malizioso che cercò di scrollarsi di dosso facendo un paio di domande ad Angelo. Parlarono degli studi, dell'imminente laurea e dei preparativi per il matrimonio. «Matrimonio?», domandai. Anna rideva di gusto. «Quale matrimonio?»

16

La vedo seduta all'ombra della nostra quercia. Dimmi chi sei. O chi sei stata. C'è sempre un buon profumo intorno a lei, di gelsomino. No, non sono spaventata. Non più. I fantasmi non esistono, i morti sono morti e basta. Mi accorgo di aver parlato a voce alta. Le parole di Alice sono tornate strazianti come stilettate. Non dovevi farmi questo, mamma. Cioccolato. Il dolce aroma della torta che ho infornato mi invade le narici. Riempio il bollitore, lo metto sul fuoco e aspetto. Aspetto che Angelo riporti a casa mia nipote. Non ne avevo il diritto, ora lo so, ma se mia figlia aveva una missione, era quella di lasciare tutti fuori dalla sua porta. Io sto bene così, nella noia del mio presente. Bugie. Soltanto bugie. Avevo paura. Se ho eretto una gabbia intorno a lei è soltanto perché avevo paura di perderla. Non c'è tetto sulla gabbia, un giorno ti spunteranno le ali e sarai libera di volare. Lo sguardo sprezzante di Alice, gonfio di astio. Io sto bene così.

1958

Entrai in chiesa in compagnia dei nonni, per niente imbarazzata dagli sguardi curiosi che la gente mi gettava addosso. Ero consapevole che a molti di loro non sarebbe sfuggita l'impressionante somiglianza con mia madre. «Chi è l'uomo in uniforme?», chiesi a zio Michele sottovoce. L'avevo notato non appena mi ero seduta. Mi aveva puntato addosso uno sguardo strano, come se avesse visto un fantasma. Forse conosceva mia madre ed era rimasto turbato nel rivederla in me, giovane e graziosa come allora. «Un pezzo grosso dell'Esercito. Perché?» «Mah! Continua a fissarmi.» «Difficile toglierti gli occhi di dosso», disse lui provocando in me un attacco di nausea. Come ci riusciva? Come poteva anche solo pensare di guardarmi con gli stessi occhi con cui guardava le ballerine nei locali notturni? Lasciai che il mio sguardo fosse catturato dal fascio di luce che entrava dalla finestra alla destra dell'altare. Nuvole di incenso fluttuavano nel cono luminoso e io immaginai che si trattasse di angeli. Non avevo mai amato andare alla messa e avevo sempre considerato noiosi i sermoni, i canti e le orazioni, tuttavia non mi dispiaceva dire qualche padrenostro ogni tanto, ne avevo recitati molti insieme a mia madre davanti alla tomba di papà. Gli angeli, però, mi avevano sempre affascinata. Babette ci raccontava che gli angeli si nascondono ovunque e ci proteggono in silenzio. E ora erano lì, in quel fascio di luce sopra la testa del prete. Finalmente fuori, sul selciato, a respirare un po' di aria. «Lei è la figlia di Bianca.» Non l'avevo visto arrivare, mi aveva colta di sorpresa. «Sono il Colonnello Martini.» Gli occhi scuri, profondi e gentili, non erano riusciti a nascondere la vena di astio della sua voce. «Sì.»

«Ettore Martini», precisò lui. Avevo già sentito quel nome, ma non ricordavo in quale circostanza. Fu Angelo a fornirmi l'occasione per ricordare. «Papà.» Aveva parlato da dietro le mie spalle, non lo vedevo, ma percepivo il suo tepore. Mi salutò dicendo il mio nome e mi voltai per guardarlo. Era bello, di una bellezza strabiliante, fatta eccezione per il naso, così piacevolmente imperfetto. E aveva pronunciato il mio nome con voce morbida, quasi sussurrata. Avevo un'agitazione nello stomaco da star quasi male. «Vi conoscete?», il Colonnello mi aveva lanciato uno sguardo obliquo e curioso mentre formulava la domanda. «Siamo usciti a cavallo un paio di volte», risposi svelta. «È stato un piacere fare la sua conoscenza», disse lui togliendosi il cappello per congedarsi. Lo guardai mentre si allontanava impettito. È stato un piacere, ma non mi erano sembrate parole sincere. Mi voltai. Angelo mi guardava serio. Avevo capito che voleva chiedermi qualcosa. «Giù in paese c'è una festa, se ti va.» Ero indietreggiata, la sua vicinanza mi faceva mancare il respiro. Se ti va. Feci un mezzo sorriso. «Domenica pomeriggio. Ci sarà molta gente», continuò. «È la “festa d'estate” per gli ospiti degli alberghi, una specie di tradizione.» «E ci sarà anche la tua fidanzata alla festa?» Non lo sapeva, o forse non voleva dirlo. Disse invece che era sicuro che mi sarei divertita. «Ci verrai?» «Non lo so.» Sento ancora, nitido, il suono della sua voce ferma.

«Allora a domenica.» «Sì.»

***

Il vestito color oro di Eva la avvolgeva come un guanto fino alle caviglie. In mano, un cappellino di piume. La vidi avvicinarsi a suo padre, chinarsi per baciarlo. Un bacio prolungato, al limite della sensualità. Lui la lasciò fare e sorrise. Eva non era come le altre, era la sua prediletta, una dea eterea e intoccabile. Era quasi commovente starli a osservare, sembrava stessero recitando un vecchio copione, lo stesso di quando lei era una ragazzina e aveva già deciso che suo padre era solo un uomo. A lei non importava se lui si scopava le altre, perché sapeva che nessuna sarebbe mai diventata troppo importante da portaglielo via. Non come era successo a zio Enrico che di amante se ne era trovata una soltanto e ci aveva fatto un paio di pargoli, e quelli lo tenevano spesso lontano da casa, dalla moglie e dal figlio legittimo. E Guido lo aveva rimpiazzato presto quel padre lontano, l'aveva sostituito con bottiglie di Krug e di Bollinger, con sigari cubani in scatole di sicomoro, con Rolex d'oro e costose squillo. I soldi dell'acciaieria se ne andavano così, lui gli firmava un paio di assegni in bianco e si metteva la coscienza a posto. Solo una volta zio Enrico era intervenuto in maniera pesante per raddrizzare una situazione che reputava scomoda. Guido aveva preso una sbandata per un ragazzo inglese, uno di Liverpool, un barman di un locale giù al Lido, a Venezia. Il commendatore, suo padre, gli aveva fatto una sfuriata, gli aveva tagliato i fondi e lui si era ravveduto. Eva non aveva bisogno di tutto ciò, a dire il vero non aveva mai avuto bisogno di niente, perché lei “era”. Si metteva seduta da qualche parte, accavallava le lunghe gambe, si accendeva una sigaretta e il vuoto della stanza era riempito. Eva era fatta di carne, di sangue e di ossa. Non di cuore, quello lo aveva lasciato sotto il cuscino tanto tempo prima, assieme alle lacrime. Era successo così, una sera d'estate, senza che lei gli avesse dato troppa importanza. Sedici anni e una vita che camminava troppo lenta. Eva avrebbe voluto correrla, la sua vita. E alla fine l'aveva corsa insieme a Paolo. I piedi nell'acqua calda della mezzanotte, gli

schiamazzi, le risa, i granchietti che pizzicavano la pelle. E poi via, a infilarsi dietro le capanne per nascondersi laggiù dove la luna non vedeva. «Ho la chiave, dai, entriamo!» E gli occhi che guardavano altri occhi. Le dita che percorrevano la pelle bagnata. Sapore di terra, di sale. Eva era troppo giovane per rovinarsi la vita e quel giglio che le era germogliato nel ventre le venne estirpato come si fa con l'erba cattiva. Lei, Paolo e il loro amore appena nato non esistevano più. I sogni di Eva erano stati sradicati con ferocia, per sempre. E da allora, quante braccia a placare il desiderio della carne, decine di corpi senza volto a riempire i vuoti dell'anima, emozioni illusorie, fuggevoli a mitigare il dolore sordo della perdita. Guido mi agitava davanti agli occhi le chiavi della Porsche. «Allora, si va?». Nel tono della sua voce, la promessa del divertimento. Sabato sera. Venezia. Ballo in maschera.

***

Se c'era da far festa, Guido non si tirava mai indietro, così finì per accompagnarmi in paese con la sua auto. Imprecò quando si accorse che la via centrale era chiusa al traffico. «Porca troia, quei cretini hanno chiuso la strada.» Stirai le pieghe della gonna del mio abitino se prima di scendere dall'auto. Era meno impegnativo del vestito che avevo indossato al ricevimento, ma pensavo che mi cadesse bene e che lo scollo a barchetta fosse perfetto per mettere in evidenza la mia abbronzatura. Eva l'avrebbe giudicato modesto, ma a me non dispiaceva indossare un indumento che mi fe tornare a essere me stessa per qualche ora. I numerosi bar avevano allestito alcune piazzole per le consumazioni sul marciapiedi e sulla strada ed erano stati organizzati spettacoli teatrali, di danza e di marionette per i bambini. Non mancava la banda del paese e, come a ogni festa che si rispetti, una pista da ballo con l'orchestra.

«Questo è uno dei nostri alberghi», disse Guido indicando un antico edificio che si affacciava sul viale. «Lo vuoi vedere?» L'aveva fatto costruire il bisnonno prima delle guerre. Gli affari gli erano andati bene, così lui ne aveva fatto tirare su un altro poco distante, e ancora un altro nel paese vicino. Gli ospiti famosi, che attiravano i turisti a frotte e ingrossavano le casse dei Conti, non mancavano mai. In ato erano stati il generale Diaz, Gabriele D'Annunzio, Eleonora Duse, oggi le divine del jet set, Elsa Martinelli, la Callas. Percorremmo il giardino curato prima di varcare l'elegantissima hall. In primo piano una scala elicoidale in marmo bianco, poi imponenti lampadari di cristallo, tappeti antichi, divanetti di pelle chiara e tende di organza alle ampie finestre. L'impatto era stupefacente. Era tutto un «Signor Conti» e «Signorina Conti». Fu il direttore che mi propose di visitare il reparto cure. «Perché no?». Stucchi e marmi pregiati erano ovunque: nei corridoi, nelle stanze con i lettini per i massaggi o per le terapie col fango, perfino in quelle con le grandi vasche per le immersioni in acqua termale. Poi il reparto per le inalazioni e la grotta sudatoria. Non avevo mai visto niente del genere. Chissà quante persone avevano vagato per i lunghi e sfarzosi corridoi dell'albergo, avevano vissuto e gioito nelle lussuose camere da letto, o avevano sofferto e pianto per una storia d'amore finita, e magari si erano ubriacate, o si erano innamorate. Pensai a mio padre e a tutte le volte che doveva aver calpestato quel pavimento. Immaginai che anche lui si fosse emozionato la prima volta che l'aveva fatto e mi lasciai invadere dalla malinconia. Quante vicissitudini erano intrappolate tra quelle pareti! Pensai alle donne di inizio secolo con i loro parasole, i corpini irrigiditi dalle stecche e abbelliti dai merletti, e a quelle di vent'anni dopo con le cuffiette a cloche e gli abiti ricamati di perline. «Usciamo?», Guido interruppe di colpo i miei pensieri, era impaziente di andar via. «Andiamo a farci un bicchiere.» Arrivammo a piedi fino al Nuovo Cinema Teatro, dove era stata sistemata una pedana per il ballo e alcuni ragazzi ballavano il boogie e il rock and roll. Ci fermammo a osservarli per qualche minuto. Farai tutto ciò che mi andrà di fare! La voce di Didier, un sibilo spietato nella mente. Sentii una stretta al cuore, non avevo più pensato a lui.

«Ce l'abbiamo anche noi una festa così, a Cabris.» Guido sembrava annoiarsi. Tirò fuori dal taschino un pacchetto di Gauloises. «Sigaretta se?» Ancora Didier fra noi. «Non fumo.» «Fai bene a non fumare», disse lui. «E a non bere, a non scopare...» Rise. «Come sei scemo», lo rintuzzai fingendo imbarazzo. «Vado a prendere da bere», disse lui. Faceva caldo. La gente rideva, ballava, si sfiorava. Guardai le mani che si lambivano, poi si allontanavano e si avvicinavano di nuovo. Di colpo, una crepa tra i corpi. Il mio sguardo vi si infilò come attirato da qualcosa. Era Angelo. «Ciao, Blanche.» Feci un cenno con il capo, incapace di rispondergli. «Balli?», domandò senza tanti giri di parole. «Meglio di no», balbettai a disagio. «Lo prendi un gelato?» Sorrisi e subito mi meravigliai di averlo fatto. «Sì.» Lo comprammo al chiosco lungo la via. Un enorme cono alla fragola. Ci mettemmo seduti su una panchina, ai giardini. Intorno a noi un dedalo di vialetti costeggiati da siepi basse e ben curate, vasche piene d'acqua e fontanelle gorgoglianti, aiuole fiorite, statue e maestose magnolie secolari, ma ciò che più investì i miei sensi fu l'inebriante profumo di fiori, di gelsomino. Mi ero tranquillizzata, Angelo aveva su di me lo stesso rasserenante effetto di Nuvola e di Blue Belle. O era a causa di qualcos'altro? «Che hai fatto lì?», gli domandai indicando la cicatrice sullo zigomo. «Un incidente.»

«Di che tipo?» «Una scazzottata. Ci ho rimesso anche il naso.» «Non mi davi l'idea di uno che si azzuffa.» «E che idea ti davo?» «Un tipo pacifico, del genere accomodante insomma.» «L'avresti preferito?» «No», affermai d'istinto. «Cioè, sì. Beh, non so.» Oh! Spostai lo sguardo e continuai a mangiare il gelato. Restammo in silenzio per qualche istante, poi tornai a guardarlo. Sorridemmo. «Per fortuna ogni tanto ti capita», mi sorprese lui. «Di far che?» «Di ridere. Quando ridi cambia tutto.» Eravamo lì, in bilico sull'orlo di un precipizio. Un piede in fallo e saremmo caduti. Sapevo che sarebbe stato facile far cessare tutto, ma non volevo conoscere la sua altra vita. E allora tacqui, non posi domande che avrebbero potuto ricevere risposte penose. Ancora una volta lasciai al destino le redini della mia vita. «Tuo padre è un uomo risoluto.» «Sì.» Non sembrava felice di parlare di lui. «Però c'era qualcosa nel suo sguardo, una sorta di collera trattenuta.» «Non farci caso, fa sempre così. Mia madre dice che è arrabbiato con il mondo.» «Sarà.» Fu questione di un attimo, la sua mano aveva già sfiorato la mia. Non la spostai e lui fece scivolare lentamente il pollice tra una nocca e l'altra, indugiando a lungo

negli avvallamenti fra le dita. Lo guardai, le labbra appena dischiuse. «Eccoti, finalmente.» Guido era arrivato da dietro, non poteva aver visto le nostre mani che si toccavano. «Uh, Angelo. Come va?», domandò allungandomi un bicchiere con una lunga cannuccia. «Ti ho portato un Gin Fizz», disse. Non riuscivo a smettere di pensare alla mano di Angelo sulla mia, ne sentivo ancora il calore, anche adesso che ero seduta accanto a Guido nella Porsche. Finalmente capivo che cosa doveva aver provato mia madre per il papà del melo, o cosa intendesse Lucile quando mi parlava dei suoi sentimenti per Bernard: si trattava di un trasporto così sconvolgente, di un desiderio così potente da costringerti a mettere tutto il resto in secondo piano, fidanzati compresi. Quella sera mi coricai intrecciando le mani e immaginando che, a insinuarsi tra le mie, fossero le lunghe dita di Angelo. Al solo pensiero di toccare di nuovo la sua mano mi si scatenò un impetuoso calore nello stomaco, un genere di slancio che non avevo mai sperimentato. Stranamente mi parve di percepire ancora l'intenso profumo di gelsomino del pomeriggio. Ripensandoci, non avevo visto piante del genere ai giardini, eppure quel particolare aroma sembrava essersi depositato nelle mie narici. Era probabile che si trattasse di una suggestione dettata dal riscoperto buonumore. Continuavo a rigirarmi tra le lenzuola, non riuscivo a prendere sonno. Pensai a Dorine. La sognai. Giocavamo in giardino e fingevamo che le nostre mani fossero farfalle. Le facevamo volare come tante dita alate. Tra un grido e un risolino sommesso, afferravo le mani di Dorine e iniziavo un girotondo. Volavamo e cantavamo e la mia gonna bianca cominciava a gonfiarsi. Le immagini si confondevano e io ero Dorine. Guardavo Blanche, davanti a me, sulla sua gonna c'era una macchiolina che si allargava adagio sul tessuto. Sangue. Angosciata cercavo il volto di mia sorella, ma non lo trovavo. La ragazza che vedevo, invece, era la stessa del sentiero, riconobbi all'istante la sua pelle trasparente, gli occhi chiari e i bei capelli biondi che le ricadevano sulle spalle in morbide onde. Mi svegliai all'improvviso con la convinzione di sapere chi fosse la donna che avevo sognato. Infilai la vestaglia e scesi di corsa nel salone. Era appesa lì, sul muro in fondo alla sala, dietro la consolle con le calle. Avvertii il profumo dolce dei fiori nel vaso di cristallo e provai la stessa sorpresa della prima volta che ero stata lì, la stessa agitazione. Guardai la fotografia dell'inaugurazione del locale da ballo di mio padre, osservai la giovane donna con attenzione, era ritratta di profilo, certo, ma somigliava terribilmente alla ragazza del sogno. Era Dora, l'amica d'infanzia di mia madre. Era la stessa

fanciulla che avevo visto sul sentiero. Ricordavo bene tutte le volte che la mamma l'aveva nominata. Dallo sguardo cupo che assumeva ogni volta che parlava di lei, si capiva che aveva sofferto molto e che Dora le mancava. Aveva perfino dato lo stesso nome a mia sorella. Accidenti! Dov'era finito il mio senso pratico? Non poteva trattarsi di Dora, forse una sorella, una nipote. Mi sentivo una stupida. Mi lasciai sprofondare in una delle poltrone azzurre, raccolsi le ginocchia e mi abbracciai le gambe. Cercai di ricordare il racconto della cugina Anna. Aveva detto che la mamma e Dora erano due ragazzine quando era avvenuto “il fattaccio”. Doveva essere stata un'esperienza devastante, terribile. Com'era morta Dora? Forse Coco lo sapeva. Rammentai le parole che aveva detto quando le avevo promesso di tornare a trovarla: ne avrai bisogno! ma io non ero più tornata. Magari Angelo sarebbe venuto con me, se glielo avessi domandato. Con lui mi sarei sentita più tranquilla. Appoggiai la testa sulle ginocchia che tenevo strette e finsi di abbracciare lui. Sentii un fremito scuotermi tutta. Immaginai di nuovo di essere una piccola ruota dell'ingranaggio messo in moto dal mio destino e di non essere nella posizione di fare qualcosa per fermare il movimento. Ancora una volta mi ero lasciata sopraffare, avevo permesso alla corrente di trasportarmi a casaccio, inebetita dall'entusiasmo che la presenza di Angelo aveva suscitato. Come potevo aver già dimenticato quello che era accaduto con Didier? Avevo promesso a papà che non mi sarei cacciata nei guai, che mi sarei fermata a riflettere prima di abbandonarmi agli impulsi, eppure non lo stavo facendo. Angelo non rappresentava che un piacevole istinto a cui desideravo abbandonarmi. La decisione era presa: non avrei permesso ancora che la mia totale mancanza di buonsenso avesse tanto peso sulla mia vita o su quella di chiunque altro.

17

«I fantasmi non esistono», esclama Valentina con ritrosia. «Vero?», aggiunge a voce bassa nel tentativo di avere una mia conferma. Sprofondata nella poltrona di Angelo, continua a tenere stretto sulle gambe il libro regalatole da Federico. «Hai letto qualche poesia interessante?», le domando cambiando argomento. «Ce n'è una che parla di un viaggio», dice aprendo il libro, «forse potrei portare quella all'esame.» «Cosa avevi in mente di preciso?» «È la metafora del nostro viaggio verso la meta. Dice che ci lasciamo alle spalle il ato e che, pian piano, lo facciamo diventare un ricordo lontano. Il futuro, invece, continua a sembrarci immenso e pieno di desideri. In realtà è un'idea stupida!». Chiude il libro e lascia vagare lo sguardo. «Perché?» «Si tratta di speranza e la speranza fa male, prima o poi.» «Beh, non ha mai ucciso nessuno.» Per un attimo Valentina mi guarda sbalordita, spiazzata e io approfitto del suo silenzio per proseguire: «È la disperazione che qualche volta ci fa compiere azioni sconsiderate. Non siamo perfetti, nessuno lo è. Nemmeno i tuoi genitori.» «E questo secondo te li scusa di tutto? Ci ho provato a capirli, lo giuro, ma proprio non ci sono riuscita. Lui va e viene quando vuole...» «Deve lavorare!», la interrompo. È infuriata, ora. «E lei? Non si è nemmeno preoccupata di venire in ospedale!»

«Non è come sembra.» Scuote il capo energicamente, capisco che sta lottando con le lacrime. «Come no», mugugna socchiudendo le palpebre. Il profumo rassicurante di mela, vaniglia, zenzero e cannella ha invaso il salotto. Mettere una torta in forno è sempre una buona idea. «Dicono che qualche volta rimangano a vagare sulla terra perché non trovano pace», continuo in tono calmo. Valentina mi guarda confusa, le mani ancora strette a pugno sul libro. «Cos'è, mi prendi in giro?» «Per niente.» Mi alzo dalla sedia per andare alla finestra. «Dico solo che a volte le cose non sono come sembrano.»

1958

Alla fine mi feci accompagnare dall'autista di famiglia a casa di Madame Coco. Durante il breve tragitto ai il tempo a domandarmi se avrei mai avuto il coraggio di indagare sulla questione che mi spingeva a farle visita. Se solo le avessi detto ciò che credevo di aver visto, Coco mi avrebbe considerata una squilibrata. «Ti aspettavo», esordì l'anziana donna senza levare lo sguardo dal minuzioso lavoro in cui era impegnata. «Mi scuso per non essere venuta prima.» «Immagino che tu sia stata molto occupata», affermò con sguardo fermo. Fissai le piantine che stava sfogliando. «Menta?» «Piperita. Una delle sue proprietà è quella di accrescere le abilità psichiche. Ti ci

preparo un infuso.» «Se pensi che ne abbia bisogno!», la canzonai. «Oh, diciamo che potrebbe migliorare la tua consapevolezza», rispose sorridendo. «Quella necessaria a confrontarsi con la vita, con le persone, con le illusioni. Hai presente?» «Illusioni?» Perplessa, continuai a osservarla e cominciai a chiedermi se fosse a conoscenza del motivo della mia visita. Coco m'invitò a sedermi. «Percezioni che a volte, lo ammetto, possono risultare distorte. Oppure no.» Facevo fatica a starle dietro e lei mi lanciò uno di quegli sguardi indulgenti che di solito i maestri riservavano agli scolari meno sagaci, come a dire che era sicura che per me sarebbe stato difficile capire al volo. Si aggiustò il grembiule e si mise a sedere sulla sedia all'altro capo del tavolo. «Vuoi davvero comprendere un evento a fondo? Allora devi mantenere un atteggiamento ivo, senza invischiarti in estenuanti analisi per tentare di capirlo. Apri la mente, Blanche, e lascia che gli altri vengano a te. Puoi farlo, sei un essere sensibile come lo era tua madre.» Gli altri? «Resta in ascolto senza porti domande e tutto ti apparirà chiaro.» Già non era chiaro il suo discorso, figuriamoci il resto! Scattò in piedi di colpo. «Ci sono mai stati dei momenti in cui ti sei sentita perfettamente a tuo agio? Istanti in cui la tua mente si trovava in uno stato di assoluta ività, al punto da scordare di porti le solite, innumerevoli domande?» Ci riflettei. «Forse un paio di giorni fa, a cavallo», borbottai. «Con il figlio di Martini?», chiese senza preoccuparsi di nascondere un sorrisetto. Annuii timidamente e lei non replicò. I suoi occhi chiari non erano riusciti a celare la curiosità. Cosa si aspettava che le raccontassi? Che ero improvvisamente impazzita e che pensavo di aver visto un fantasma?

«L'ho vista», risposi in modo meccanico, senza pensarci. Coco non disse nulla. Andò a prendere due tazze di tisana bollente e me ne porse una. Il suo silenzio mi rese impaziente. «Hai capito che ho detto? Che l'ho vista.» «Dicono che rimangono a vagare sulla terra perché non trovano pace», rispose infine. Un brivido freddo mi percorse la schiena. Portai la tazza alle labbra e sorseggiai l'infuso per tentare di sciogliere la tensione che avevo accumulato. Dentro di me covavo la speranza che Coco mi confessasse di aver scherzato. «Che mi dici dell'odore? Hai sentito qualche particolare profumo che non aveva giustificazione in quel momento?» Nella mia mente si insinuò con prepotenza il profumo di gelsomino che avevo fiutato più volte, un profumo intenso, venuto dal nulla. Puntai gli occhi sul liquido dentro la tazza. Non avevo il coraggio di alzare la testa per guardarla. ammo una manciata di secondi in silenzio, poi l'immobilità divenne insostenibile. «Gelsomino», dissi d'un fiato alzando lo sguardo per riportarlo sui suoi occhi. «È un dono immenso riuscire a sentire il profumo dei messaggeri divini, perché di questo stiamo parlando, l'hai capito? A volte ritornano nei luoghi dove sono vissuti o dove sono deceduti, soprattutto se colpiti da morte violenta.» Non era possibile che l'avesse detto davvero. E non era possibile neanche che io avessi visto Dora. Eppure l'avevo vista. Cominciai ad avere paura. «E perché lo farebbero?» «Mah, una questione in sospeso forse, o un messaggio da recapitare.» Volevo parlare ancora, fare domande, ma non ci riuscivo, così fu lei a farlo. «Non è un caso se è apparsa a te», affermò sollevando le spalle come a rafforzare l'ovvietà della sua frase.

«Intendi dire che la vedo solo io?» «Io ne ho percepito la presenza, niente di più.» «E ti capita spesso di percepire presenze?» «Nella maggior parte dei casi mi capita di sentire le cose prima che accadano e ogni tanto riesco anche a vederle. C'è chi lo considera un dono e chi una disgrazia, ma questa volta è diverso», sostenne portandosi una mano alla fronte. «Questa volta non riesco a vedere la mia bambina, non riesco a sentirla, capisci? C'è qualcosa di strano.» «La tua bambina? Ti prendi gioco di me?» «Me ne guardo bene. Non ho avuto figli miei, ma tua madre e Dora sono entrate nella mia vita tanto tempo fa e vi hanno portato il sole. Sono state delle figlie per me, c'era un legame speciale. E quando la piccola Dora se n'è andata, ha lasciato un vuoto enorme. Una sera, poi, ho sentito il suo profumo e ho capito che il suo spirito era ancora fra noi.» Fece una breve pausa prima di riprendere il suo paradossale discorso. Sospirò. «Ah, dopo tutti questi anni ero certa che avesse oltreato il confine e, invece, un paio di settimane fa ho avvertito di nuovo la sua presenza, il suo profumo. Non è in pace e questo mi addolora. Un attimo dopo hai bussato alla mia porta e ho capito.» «Cosa?» «Che sei tu il destinatario del messaggio.» Deglutii prima di parlare. «Quale?» «Non ne ho la più pallida idea.» Avevo l'impressione di non aver mai sentito un discorso più confuso. Un vaniloquio lo avrebbe definito mia madre, tuttavia ero consapevole che nessuna logica avrebbe saputo spiegare ciò che i miei occhi avevano visto. All'improvviso udimmo bussare alla porta d'ingresso. «Uff!», esclamò lei. «Una volta mi accorgevo subito se qualcuno entrava nel vialetto. Detesto le visite inaspettate. Sono diventata vecchia!», aggiunse

aprendo la porta. A farle visita era una donna sulla trentina, una delle tante che si servivano ancora dei suoi rimedi per curare qualche malanno o per scongiurare una gravidanza indesiderata. La mamma mi aveva raccontato che in ato Coco era considerata una diversa perché straniera e non era benvoluta dai suoi concittadini. La mentalità della gente era infarcita di pregiudizi e di paure e le sue cure con le erbe erano reputate un insulto alla medicina tradizionale. Le stesse persone che le toglievano il saluto in pubblico, però, bussavano di nascosto alla sua porta per chiederle una cura per il mal di pancia o per i calcoli, per trattare le emorroidi infiammate o le affezioni uterine. Madame, come la chiamava la gente, aveva una cura per tutto. Osservai la donna che aveva bussato per chiederle una pozione che l'aiutasse a rimanere gravida e ripensai a Pietro e alla spontaneità con cui aveva definito Coco una strega. Che ci fosse un fondo di verità nelle parole dello stalliere? Quando se ne andò, Coco tornò a sedersi accanto a me. La contemplai con un velo di timore prima di proseguire con il discorso interrotto dalla sua cliente. Se davvero quella donna aveva a che fare con la stregoneria, avrei dovuto riconsiderare l’intera conversazione. Il dubbio che ci fosse un inganno in tutte le sue spiegazioni incrinò le mie sicurezze. «Hai parlato di morte violenta.» «Annegò in un pozzo.» «S'era gettata?» «No!» gridò. «La spinsero!» L'avevano ammazzata, era questo che Coco cercava di dire. «Chi?» «Dei ragazzi, ci fu una colluttazione.» Il cerchio cominciava a chiudersi. «Lo stesso giorno dello stupro?». Provai ribrezzo solo ad articolare la frase.

Sapevo di non poter nemmeno lontanamente immaginare l'intensità dello strazio, del disgusto e dell'orrore che mia madre e la sua amica erano state costrette a sperimentare. Coco annuì e io mi alzai in piedi. Lo sgomento mi aveva resa nervosa. Lei aveva puntellato i gomiti sul tavolo per sorreggersi la testa. «Non devi avere paura», disse nel tentativo di infondermi coraggio, «da che mondo è mondo, gli spiriti non hanno mai ucciso nessuno a differenza dei cristiani.» «E io che devo fare?» Mi sembrava l'unica domanda sensata da porre. «Niente», disse avvicinandosi per infilare un braccio sotto il mio e accompagnarmi con calma all'ingresso. «Mi stai mettendo alla porta?» «Ho molto da fare ed è meglio che tu vada, ora. Se non ti sbrighi, perderai la coincidenza», affermò prima di chiudermi la porta in faccia. La coincidenza? Che strana donna era Coco. Mia madre mi aveva parlato del suo favoloso intuito, così lo aveva definito, ma io avevo idea che si trattasse di qualcosa di ben più profondo. Chissà se tutto ciò che aveva appena affermato sulla consapevolezza e sugli spiriti corrispondeva a verità. Io avevo la sensazione, o meglio volevo credere, che mi avesse semplicemente presa in giro. Finalmente sola. Sola con le mie spossanti riflessioni che, a detta di Coco, avrei fatto bene a non incoraggiare. Mi chiedevo come fosse possibile riuscire ad aprire il cuore agli altri, a porsi ivamente in ascolto e stare a osservare gli eventi senza cercare una risposta o una giustificazione. Beh, avrei anche potuto fare un tentativo, non avevo nulla da perdere. Non dovevo che osservare in maniera disinteressata l'ambiente che mi circondava senza giudicarlo. Persone, animali, luoghi, alberi, me stessa, tutto insomma. Decisi che sarebbe stato il mio obiettivo per i giorni a venire e fui felice di poter sperimentare già dopo pochi minuti il mio nuovo approccio alla vita. Già da lontano avevo visto Angelo nei pressi del duomo e alla sua vista il mio corpo era stato attraversato da una scossa. «Che coincidenza!», lo salutai rammentando le parole della donna che ormai

anch'io potevo definire una strìga. Mi venne vicino. «Ti accompagno?» «Dove?» «Ovunque.» Niente interpretazioni, nessuna analisi, mente e cuore aperto per leggere i segnali, l'avevo promesso. Non era importante se Angelo mi avesse seguita o se si fosse trovato lì per caso. Ormai c'era e io dovevo solo godermi la sua presenza. Camminavamo affiancati, vicini. La grande strada alberata che stavamo percorrendo era ammirevole. Lunghe fila di pini marittimi e decine di aiuole fiorite bordavano i marciapiedi su entrambi i lati, separando dalla strada i lussuosi alberghi con i giardini curati, i bar, le botteghe e le abitazioni signorili che si affacciavano sul viale. Il caldo del mezzogiorno era spossante. «Ti andrebbe una cavalcata?» «Sì.» L'eccitazione mi faceva pizzicare il naso. «Ricordi i versi che hai recitato sul sentiero?», mi domandò. «Sì. Ricordami quando sarò lontano.» Lui continuò: «Nella terra del silenzio io ci voglio andare senza lasciare questioni in sospeso.» A sentir parlare di questioni in sospeso, mi sentii trasalire. Che diavolo aveva la gente di quel paese? Possibile che fossero tutti dotati di poteri soprannaturali? «Non ho intenzione di morire con un rimpianto», aggiunse. «Quale?» «Per esempio di non aver fatto o detto qualcosa quando avrei potuto.» «Credi che avere delle questioni in sospeso ci impedisca di morire in pace?»

Guardai i suoi occhi celesti e fui colta dall'irrefrenabile impulso di avvicinarmi e di toccarlo. Desideravo afferrare il suo braccio e proseguire la eggiata abbarbicata a lui. «Credo che sia nostro dovere fare di tutto per essere felici e fare felici chi amiamo», rispose. «Cerchiamo tutti la felicità», affermai, «ma a volte non riusciamo a raggiungerla.» Angelo mi sfiorò la mano, ma io la scostai in fretta. «Qualcuno potrebbe pensare male», lo rimproverai. «L'ho fatto senza pensare», si scusò. «Mia madre, per esempio.» Non so perché gli parlai di lei, mi venne fuori così, in modo naturale. «Mi sono resa conto soltanto ora di averla condannata senza mai cercare di capirla. Avevo interpretato male il suo “stato d'animo” e anche il suo perenne malcontento, e ho sempre faticato ad accettare che non riuscisse a essere completamente felice. Adesso tutto mi sembra chiaro.» Avevamo raggiunto i giardini centrali e tornammo a sederci sulla stessa panchina del giorno della festa d'estate. «Mi sento rilassato insieme a te», confessò lui afferrando la mia mano. Questa volta lo lasciai fare. Se la portò alle labbra e la baciò, tenendo gli occhi fissi sui miei. «Anch'io.» Gelsomino. Il profumo intenso mi aveva colto di sorpresa. Girai lo sguardo e la vidi, seduta su una panchina vicino alla statua del filosofo, Pietro d'Abano. Avevo aperto il mio cuore, ero rimasta in ascolto e Dora era apparsa. Era stato più facile di quanto avevo pensato.

18

«Un messaggio?», chiede Valentina con gli occhi sgranati. «E quale?» Le iridi sono blu come la maglia che indossa. «Dai, non fare la misteriosa!» Inspiro profondamente prima di sfiorare una vecchia racchetta da tennis appesa al muro. «Amo questo luogo», dico posando gli occhi su un cavallino a dondolo. «Una volta era la stanza dei giochi, poi è stata adibita a magazzino per antichità.» Mi siedo sulla vecchia poltrona che un tempo arredava il salotto. «Ogni oggetto, qui, ha la sua storia. Vale sempre la pena di conservare i ricordi, non credi? Anche quelli tristi possono portare con sé qualcosa di buono.» La vedo aggrottare le sopracciglia. «Come le persone», continuo, «che possono farci del bene oppure no, ma che lasciano sempre un brandello di loro dentro di noi. È la memoria di quei frammenti, delle esperienze che abbiamo vissuto, che ci trasforma in quello che siamo.» I vecchi parlano. Parlano troppo. Vogliono spiegare, far capire, trovare un senso al ato. Succede sempre così. Resto in silenzio per qualche istante, poi anch'io non resisto. «Non ha mai pianto.» «Chi?» «Alice.» Silenzio. «Le lacrime dei bambini, quelle che lavano via i dispiaceri, ecco, lei non le ha mai versate.» «I dispiaceri?» «Quando l'abbiamo adottata non credevamo che... oh, non vorrei che ora tu

pensassi... non ci siamo mai pentiti di averla portata via di lì.» «Di che parli?» Rivelo storie. Svelo segreti. Le parole sgorgano come un fiotto d'acqua esploso da una fonte scongelatasi all'improvviso. Racconto l'afflizione, l'indifferenza, il dolore di Alice, quello che ti scortica la pelle e ti trasforma in chi non vorresti mai essere. «Ha vissuto per anni in una zona di confine tra follia e normalità. Borderline, l'hanno chiamata.» Dentro di me c'è più di una persona, mamma. Non puoi farci niente. Respiro profondamente per trovare la forza di proseguire: «I medici dissero che poteva trattarsi di un disturbo ereditario o, peggio, di qualcosa scatenato da un evento doloroso vissuto nell'infanzia. Mi misi subito alla ricerca dei genitori naturali.» Faccio una pausa, incapace di rivivere il dramma della mia scoperta. «Morti. La madre era stata uccisa dal marito che le aveva inferto undici coltellate prima di spararsi. Alice è stata trovata vicino a lei, sul letto, avvinghiata a quel corpo gelato dalla morte.» L'immagine della mia bambina con il viso e le unghie sporche di sangue si è cristallizzata nella mia mente come se avessi vissuto con lei quei terribili momenti. «Quanti anni aveva?» «Tre.» Lascio al silenzio il compito di restituirci un po' di conforto, quel silenzio che troppo spesso è considerato un tormento e che a volte, invece, è un'immobilità indispensabile affinché qualcosa accada. Aspettiamo, pazientiamo e poi, alla fine, siamo noi a cambiare. «Aveva diciassette anni quando l'abbiamo portata lì la prima volta.» «Dove?» «All'istituto dove l'hanno curata.» Valentina è sconvolta. Mi guarda con gli occhi celesti pieni di smarrimento. «La perdita di Nicola l'ha riportata indietro», dico sottovoce.

«Dovevo stare più attenta.» «Non è stata colpa tua!» sbotto. «Non saresti riuscita a salvarlo, ha semplicemente smesso di respirare.» «Che ne so, magari se...» «Valentina, non si è soffocato, è stata una morte improvvisa. La chiamano morte bianca, sai di che parlo? È un fenomeno che non trova spiegazione, nemmeno dopo l'autopsia.» «Nessuno ne ha mai fatto parola con me.» Le scappa un sussulto, il suo sguardo è disperato. «Questo è davvero imperdonabile», affermo sospirando. È un uccellino tra le mie mani, ora. Le sue ali fremono e mi solleticano i palmi. Non avere paura. Ancora un attimo, poi ti lascio andare.

1958

L'orologio del salone segnava le due in punto. In un angolo, buttata sulla poltrona azzurra, c'era Carolina. «Vai via?» «Una cavalcata.» La vidi portarsi il pollice alle labbra, la mano aperta sul mento. Cominciò a mordicchiarsi l'unghia, nervosa. «Vuoi venire?», le domandai. «Lo sai che non mi piacciono i cavalli.» Lo sapevo.

«Allora io vado.» Lei mi guardò, negli occhi aveva un mare di cose da dire. «Sì, ciao.»

***

Il sole era alto nel cielo e l'aria stagnava calda, pesante. Il canto delle cicale nascoste tra gli alberi era l'unico suono che ci raggiungeva. E poi lo scalpitio dei cavalli, cuori che pulsavano, musica. E le risa, e il vento che ci scompigliava i capelli, che ci avvolgeva nello stesso perimetro, ci confondeva e ci riempiva di esaltazione. Portammo i cavalli al o per attraversare un breve tratto del paese. ammo accanto a un imponente monumento in travertino bianco. «È Cristoforo Colombo.» Il navigatore genovese stava in piedi su una porzione di veliero. Sotto di lui, l'oceano dentro una fontana. Osservai lo sguardo fiero della statua, gli occhi puntati all'orizzonte, verso l'America forse. «Ci sei mai stato in America?» «No.» «Guido dice che si vive meglio là, che è tutto più facile.» «Non oso immaginare una vita più facile della sua.» Guido aveva tutto ciò che si poteva desiderare, lo sapevo anch'io, tranne una cosa. «A me non sembra felice. Nessuno di loro lo è, soprattutto Eva.» Non avevo saputo resistere. Angelo mi guardò mentre fingevo di aver

pronunciato quel nome per caso. Gli gettai addosso il mio sguardo più allusivo, volevo fiutare, interpretare. Ripensai a Eva sulla terrazza, al sorrisetto che gli aveva lanciato quando era arrivato. E io avevo intuito le mani di lui sul suo seno, poi giù, a scoprire la lieve curva dei fianchi, il bianco delle cosce. Aspettai, ma non arrivò niente. Lui fece un mezzo sorriso, incerto. Provai violento il desiderio di sentirmi addosso il peso del suo corpo. Credo di essere arrossita. «Vince chi arriva prima!», dissi a gran voce. Avevo già spronato Nuvola al galoppo e imboccato un sentiero stretto lungo il canale. «Dove?» Sentivo il rombo degli zoccoli di Zeus e lo sbuffare delle sue narici dietro di me. Mi piaceva farmi accarezzare dal vento, lasciarmi scarrocciare, abbandonarmi. Il vento si portava via tutti i pensieri. Ricordo che una volta zia Gianna ci aveva portati in spiaggia, al Lido. I Conti possedevano una palazzina sul lungomare e lei vi si recava spesso per are il fine settimana con le amiche, lontano da casa, da zio Michele. Ho ancora davanti agli occhi il suo costume da bagno blu con i merletti, maestoso come lo era lei. Guido era arrivato in spiaggia in motoscafo e mi aveva invitata a mangiare il pesce a Pellestrina. Avevamo ordinato gli spaghetti con la granseola e i tartufi, poi, sulla via del ritorno, aveva spento il motore ed eravamo rimasti fermi in mezzo al mare, lasciando che fossero le onde e il vento a portarci da qualche parte. Guido fumava e ogni tanto mi spiava mentre, stesa sui morbidi cuscini del prendisole, facevo scendere le spalline del due pezzi color turchese perché non rimanesse il segno dell'abbronzatura. Ero stata bene. Adesso, a cavallo, provavo la stessa sensazione di pace. Poi, di colpo, mi fermai. Angelo mi era stato sempre alle spalle, aveva galoppato senza mai provare a battermi per primeggiare e stabilire la sua supremazia di maschio. Ero arrabbiata. Perché non lo aveva fatto? Perché non mi aveva affiancata per afferrare le mie redini e fermare quella stupida corsa, per tirarmi giù da Nuvola e toccarmi i fianchi, baciarmi il collo, il mento, la bocca? Perché? Si accostò a me. «Voglio mostrarti una cosa», disse. «Sta proprio qui dietro.» Nascosto dalle fronde di una maestosa quercia, c’era un vecchio rudere malridotto.

«L'ho comprato con i miei risparmi», affermò scendendo da cavallo per catturare finalmente la briglia di Nuvola. Era una casa di campagna enorme, circondata da erbacce, ma anche così conciata aveva un fascino particolare. Le finestre erano in parte prive di imposte e su alcuni muri esterni l'intonaco aveva ceduto, lasciando spazio a sottili fessure e crepe tra i mattoni. «Pensa che un tempo ci vivevano tre famiglie insieme, poi, dopo la guerra, l'immobile è stato abbandonato», aggiunse. Scesi anch'io da cavallo. «Ha un suo charme, non c'è che dire.» «Credo dipenda dalla sua storia, dal suo vissuto. Quando sono qui, ho la sensazione che il tempo si fermi e mi sento sereno, in pace con me stesso. Ho sempre saputo che questa casa sarebbe diventata mia. Vuoi vedere dentro?» «Sì.» Ero intontita, non capivo ciò che provavo. Guardare quella casa mi aveva fatto venire voglia di abbracciarlo, di dirgli che mi sarebbe piaciuto viverci in un posto così. Insieme a lui. L'interno era messo anche peggio. «Qui farò alzare un muro per lo studio medico», spiegò indicando la zona con la mano. «Rimane lo spazio per la cucina, il bagno e la sala da pranzo. Di sopra, tre camere da letto e due bagni. Che te ne pare?», domandò con gli occhi pieni di orgoglio. «Un bel progetto, sei molto intraprendente.» «Già, anche se a volte vorrei esserlo di più», replicò guardandomi. «Non è come villa Conti, ma ho già fatto uno schizzo. Sarà accogliente e confortevole!» Cercavo di concentrarmi sulle sue parole, ma non ci riuscivo. Ero emozionata e il cuore mi batteva forte. Perché mi stava mostrando il suo sogno? E perché aveva parlato della villa? Non potevo tralasciare una cosa così importante. «Accogliente e confortevole come ogni casa dovrebbe essere. Sarà contenta la

tua fidanzata!» Lui non si lasciò provocare e continuò a parlare mentre salivamo al piano di sopra. «Voglio dei cavalli miei, un cane e tre figli, no, quattro.» «Una famiglia come si deve!», esclamai con una punta di astio. «Esatto.» «A che pensi?», lo incalzai. Si appoggiò al muro del lungo corridoio. «Pensavo che mi piacerebbe che mia madre fosse ancora qui quando tutto ciò succederà e che, invece, peggiora di giorno in giorno.» «Mi spiace», cercai di confortarlo toccandogli un braccio. Lui si voltò di scatto e io d'istinto allontanai la mano. «Aspetta.» Con un gesto rapido Angelo mi agguantò la mano e se la portò alla bocca per baciarla con piccoli tocchi appena sfiorati. Mi guardò e io mi sentii stordita. «Non ho mai conosciuto nessuna come te. Somigli a Nuvola», disse sfiorando i capelli che mi scendevano sulla fronte. «Sei docile, ma hai un temperamento focoso. Come diavolo hai fatto?» «A far che?», ridacchiavo per l'agitazione. «A farmi innamorare così.» L'aveva detto davvero? Mi sentii mancare il fiato e fui costretta a chiudere gli occhi per l'emozione. Fu in quel momento che sentii le sue labbra calde sulle mie e percepii le mani forti sui fianchi, morse che mi attiravano piano verso il suo corpo. E io permisi a quell'abbraccio sicuro e morbido di portarmi giù con sé. Le mani di Angelo cercavano il mio corpo, lo percorrevano e lo incendiavano come una fiamma che divampa, e io lo assecondavo e bruciavo con la stessa rapidità di una foglia secca. La sua bocca mi succhiava, mi mordeva, mi inghiottiva in una furia che mi faceva male al cuore. E io inarcai la schiena verso la sua bocca

avida, perché volevo offrirgli tutto, la gola, il seno, lo stomaco. Sentii le sue dita sicure farsi strada lungo le mie braccia, sfilare agili il reggiseno per scoprire la pienezza che vi era intrappolata, il turgore che ormai era definito solo dal segno bianco del costume. Sentii i peli del suo torace sulla mia pelle, il profumo del suo respiro sul collo. «Shh.» Angelo mi portò svelto una mano sulla bocca. Aveva sentito un rumore e poi dei i. «C'è qualcuno?» «È mio padre», sussurrò lui. Ci rivestimmo in fretta. Non ero sicura che al Colonnello sarebbe sfuggito l'entusiasmo che mi aveva arrossato le guance. «Papà», disse Angelo una volta sceso. «avo di qua e ho notato i cavalli e la porta aperta. Sono entrato a controllare, ma vedo che non sei solo», aggiunse non appena mi scorse dietro di lui. «Le mostravo la casa», lo informò Angelo. «Ah.» «Buongiorno signor Martini», lo salutai. Lo vidi irrigidirsi e gonfiare la divisa da soldato per sembrare ancora più imponente, più autorevole. Fece una specie di smorfia schifata, non si era degnato nemmeno di guardarmi. Cercai gli occhi di Angelo, ma non li trovai poiché li teneva fissi su quelli del padre. «Cosa direbbe la tua Maria?», abbaiò il Colonnello. «Hai delle responsabilità.» «Quali responsabilità!» Angelo aveva sollevato il mento puntandogli addosso uno sguardo severo, adirato. Allora il Colonnello smorzò il tono. «Figliolo, sono cose da uomini, ti capisco. E non c'è niente di male se ti porti a letto qualche donna prima del matrimonio.»

«Papà, ti prego.» «Ma non lei!» L'aveva detto così, alzando la voce. Gli era uscito come fosse stata una faccenda ovvia, come se io potessi non sentire. Mi resi conto subito, invece, che lui era ben consapevole che ero lì, davanti a lui. Il suo sguardo si era spostato su di me, tagliente come un coltello appena affilato. «Se solo tu fossi di aggio, sarebbe diverso.» Teneva gli occhi fissi sui miei, eppure avevo l'impressione che non stesse realmente guardando me. «Non ti lascerò fare a lui quello che hai fatto a me!» Infine Angelo incrociò gli occhi con i miei. Suo padre sembrava aver perso il senno, pareva vaneggiare. «Papà.» Lo chiamò di nuovo. «Probabilmente è una sgualdrina come sua madre», urlò l'uomo. Le sue parole mi umiliarono e la rabbia mi montò nello stomaco. Come si permetteva di parlare così di me e di mia madre? Angelo, stupito, scrutava il padre e non diceva nulla. Avevo la bocca secca, il sapore di vomito in gola. Finalmente Angelo sbottò di collera: «Non te lo permetto», urlò a suo padre. Corsi fuori, ma non riuscii a evitare di sentire la sua replica. «Dammi retta, conosco quel genere di donna e so che cosa può provocare in un uomo come te.» Mi fermai appena fuori della porta per ascoltare quello che aveva da aggiungere. «È bella, sa parlare e ti conquista con i suoi sguardi languidi, ma non esiste donna peggiore per cui perdere la testa: è malvagia, non si farà scrupoli a usarti e a gettarti via. Io lo so bene.» «Papà, le donne non sono tutte uguali», rispose Angelo. «Angelo, apri gli occhi: era sua madre! Dovevamo sposarci ed è andata a letto con lui quella troia, col Conti. E lei, sua figlia, ha l'identico sguardo furbo e la stessa lingua tagliente. È una Conti, non la vedi la vita che fa? Sceglierà i soldi e non uno spiantato come te. Figliolo, scopatela. Se è calda come sua madre, non

farà la difficile, ma non innamorarti, ti supplico. La mamma ne morirebbe.» Non sentii la risposta di Angelo. Di colpo me lo trovai di fronte, sorpreso di vedermi ancora lì. Non riuscivo a muovermi, ero sconvolta. Segreti e ancora segreti. Fatti lontani, sepolti dalla polvere degli anni, eppure penosi come appena accaduti. Ombre scure in fondo all'oceano che tornavano a galla per mettere in crisi, insinuare il dubbio, dividere. Giacché i peccati prima o poi si pagano. Sempre. «Mi dispiace», mormorò con un filo di voce. Sollevai la testa per guardarlo. I suoi occhi celesti erano pieni di rabbia. Gli girai le spalle. «Blanche!». Mi rincorse sul vialetto. «Lasciami stare», strillai addentrandomi nel boschetto che avevo davanti. «Non diceva sul serio.» Affrettai il o, ma lui mi raggiunse, mi superò e si frappose tra me e il sentiero che avevo intenzione di percorrere. «Ti prego, fermati.» «Forse ha ragione.» In realtà non lo credevo e speravo che lui trovasse il modo di contraddirmi. «Che vuoi dire?» Il suo sguardo s'era inasprito. Non lo sapevo. Avevo nella mente una gran confusione e pensavo alla pena che doveva provare la sua fidanzata, e pensavo anche a Eva, che ero sicura avesse trovato riparo tra le sue braccia, e a tutte le donne che immaginavo lui avesse portato nella sua casa, a fare all'amore su una coperta gettata sul pavimento. «Voglio dire che tuo padre ha ragione», risposi piena di collera provocata dalla gelosia. «Che non mi puoi dare ciò che voglio.» Silenzio. Studiavo il suo volto per indovinarne i pensieri.

«Già», disse finalmente. «Hai i tuoi progetti, no?» Trasalii nell'udire quelle parole, fui costretta ad appoggiare la schiena al tronco dell'albero alle mie spalle per reggermi in piedi. La rabbia mi faceva girare la testa. Non sopportavo quando permettevo alle emozioni di sopraffarmi, odiavo la mancanza di autocontrollo che mi impediva perfino di reagire, di trovare le parole giuste da dire in situazioni complicate come quella. Nella mente avevo una specie di uragano che mi ingarbugliava i pensieri e mi confondeva le idee. Angelo continuò. «Sono sicuro che nei tuoi piani non rientri uno come me, uno stalliere.» «Tu diventerai un ottimo medico, lo so.» «Oh, però ora non faccio che pulire le tue stalle.» Anch'io pulivo le stalle, a Cabris. Per chi mi aveva presa? Sollevai un sopracciglio prima di parlare. «Perché sei ancora qui?» Ancora silenzio. È sempre difficile riuscire ad aprire il proprio cuore, soprattutto quando si è infuriati. «Non riesco a starti lontano.» L'occhiata che mi sganciò mi lasciò senza fiato. «E tu?», domandò sostenendo il mio sguardo. Esitai, temevo di espormi troppo nel confessare la verità. «Sei una delle poche persone con cui mi piace stare», dissi d'un fiato. Si avvicinò ancora un po' e appoggiò una mano sull'albero alle mie spalle per intrappolarmi, con l'altra mi sfiorò una guancia, poi il mento, per sollevare il mio viso verso il suo. «C'è una cosa su cui mio padre ha ragione.» «E sarebbe?» «Che è impossibile non innamorarsi di te.» Socchiusi gli occhi per l'emozione provocata dal suo contatto e sentii le sue

labbra morbide sfiorare appena le mie. Sollevai una mano per toccargli il volto e lui accostò la testa contro il mio palmo. Con il pollice accarezzai con tenerezza il piccolo sfregio sullo zigomo. Lo adoravo. Lui mi cinse la vita e mi strinse in un abbraccio. «Ma come hai fatto!», sussurrò. «Non lo so.»

19

Ogni famiglia ha una storia da raccontare. Alcune, invece, hanno segreti imbarazzanti da tacere. La lettera di un amante, un familiare delinquente, un aborto insabbiato, un figlio segreto, oppure una figlia diciottenne con personalità borderline, con la paura folle di essere abbandonata da genitori adottivi che la adorano, stremata dalla malattia e dall'inutile tentativo di tenere le proprie ossessioni e le proprie fobie fuori della porta. Vedo Alice riflessa nella zuppa che sto mescolando, gli occhi che sfavillano come tizzoni ardenti nel viso scavato, incolore. Ora è lieve come una farfalla, ora è ruvida e spigolosa come una pietra grezza. Alice gonfia di collera, con le pillole nel cassetto, la bottiglia sotto il letto e il sangue sulle braccia. Alice che cammina sul filo del rasoio e che sputa parole al veleno. Alice che, con la morte nel cuore, stringe il lenzuolo e alza la testa, lo sguardo acuminato che infilza come uno stiletto. Ricordo ogni infinitesima frazione di quegli istanti. Tesoro, ti abbiamo portato qui perché stai male, non ti stiamo abbandonando. Le parole di Angelo leniscono il suo dolore come un balsamo. E piano, lentamente, lei si sposta verso di me, cerca le mie mani, le mie braccia, mi avviluppa nei suoi occhi grigio nuvola, mi scongiura. Mio marito mi coglie di sorpresa: «Ha telefonato il collega dell'Istituto.» «Davvero?», punto gli occhi nei suoi, affamata di notizie. «Sembra rispondere bene alle cure», prosegue lui. «Possiamo andare a farle visita?» «Non ancora», risponde in tono calmo. «Non temere Blanche, la medicina negli ultimi anni ha fatto miracoli in questo campo.» Ora è Valentina che entra in cucina come una furia e interrompe i nostri discorsi.

«Come sei elegante!», la lusinga lui. C'è una fragilità che mi intenerisce nel suo aspetto fisico, a metà strada tra una giovane donna che si è abbigliata per il ballo e una bambina che si reca alla festa di compleanno della migliore amica. «Mangi qualcosa prima di uscire?», le chiedo. Non ha fame. Va a sedersi in giardino, all'ombra della quercia, e aspetta che gli amici ino a prenderla. Se quella quercia potesse parlare, ne avrebbe di storie da raccontare. Amanti che si baciano, amici che si confidano, parenti che bisticciano, spettri che si attardano ad ascoltare il suono del vento tra le sue fronde. Valentina si rosicchia le unghie e aspetta. Se potesse scegliere, vorrebbe essere figlia di altra gente, di altre patrie. Se solo si potesse scegliere! Chi avrebbe desiderato essere? Una persona diversa? Più felice? Non troverà risposte, né forza, se le cerca nella versione immaginaria di se stessa. La osservo, è seduta nello stesso punto dove ieri c'era la ragazza di nuvola. Ma Valentina non è una ragazza, non più. Ha superato il confine e la vita non le appare infinita, ma solcata da un ato che la rincorre, l'artiglia, la opprime. In ogni maledetto istante.

1958

Domenica. Era il compleanno di zia Rita, la madre di Guido, e suo marito aveva invitato tutti a un pranzo sul lago, a Riva del Garda. Era il suo modo di ricompensarla, di farsi perdonare per la sua seconda vita, e a zia Rita quel compenso sembrava bastare. Ancora una volta i quattrini aggiustavano tutto. Bottiglie chiare di Cristal per innaffiare il caviale, il pâté e il petto d'anatra con i datteri, per inebriare le menti e confondere i pensieri. Rose bianche per chiedere

scusa e un collier di diamanti per sistemare le cose. Guardai la zia mettersi al collo quell'ennesima offerta di pace e bere a grandi sorsi la felicità del suo momento di gloria. Oggi, lei era l'unica donna importante per lui. E zio Enrico fumava il sigaro, beveva Martell e rideva con uno sguardo al Rolex perché la domenica, si sa, l'altra lo aspettava. L'odore di caffè e di sigarette mi faceva girare la testa. Guido si avvicinò al mio orecchio. «Ti va di fare due i sul lungolago?» «Sì.» «Andiamo, allora.» Si fece consegnare le chiavi della Porsche dal parcheggiatore, le stesse che gli aveva lanciato con arroganza quando eravamo arrivati al ristorante. In fila davanti a noi, le auto di famiglia parcheggiate a spina di pesce. La Jaguar bianca di zio Michele, la Ferrari di zio Enrico, la vecchia Bugatti del nonno. Rodolfo, l'autista, lo aspettava sul terrazzo posteriore. Leggeva il giornale e beveva un boccale di birra. Ci salutò con una specie di inchino. Lo facevano tutti. Sempre. Scendemmo lungo una strada tutta curve, scavata nella roccia a strapiombo sul Garda. Il panorama e i colori tersi del cielo mi toglievano il fiato. Guido lasciò la Porsche lungo la via, sul marciapiede, senza nemmeno far caso al vigile che ci aveva visti da lontano e che aveva già pronto il taccuino per rifilargli una multa. Imibile, mi prese per mano e si incamminò verso la piazza. Mi lasciai deliziare dal profumo delle piante di limone, dei fiori di oleandro e di bouganville. Quel buon odore mi esaltava i sensi e mi ricordava l'aroma della mia terra, di mia madre. E lo spettacolare scenario che avevo davanti, poi, riusciva a incantarmi: le distese di ulivi e di vigneti morivano dove iniziava l'acqua del lago. Sentivo il calore del sole sulla pelle e avevo voglia di lui, di Angelo. Ci sedemmo sulla terrazza di un bar dove alcune persone salutarono Guido chiamandolo “cavaliere”. Dal nostro tavolo si poteva vedere il lago. Guido si accese una sigaretta e mi guardò, serio. «Che c'è?». Gli sorrisi.

«Niente.» Accavallò le gambe sui pantaloni di lino, la camicia bianca sull'incarnato abbronzato evidenziava il suo fascino. Pensai che fosse un uomo molto avvenente. Guido scrollò la sigaretta sul posacenere e fece un cenno per chiamare un cameriere. «Due Sambuca», ordinò. Aspettai che l'uomo se ne andasse prima di parlare. «Sapevo scegliere anche da sola.» «Scusa», disse Guido sorpreso. «Avresti preferito un Martini? Un Margarita, magari?». Sorrise. «Lo so», aggiunse spegnendo la sigaretta, «avrei dovuto chiedertelo. Ti faccio portare qualcosa d'altro.» «Un bicchiere d'acqua.» «Garçon.» Alzò la voce per richiamare il cameriere, «dell'acqua fresca per mademoiselle.» Sembrava nervoso. Lo vidi accendersi un'altra sigaretta. Rimase in silenzio fino a che non arrivarono le bevande, poi, non appena il cameriere se ne fu andato, Guido sollevò uno dei due bicchieri di Sambuca. «Brindo a te, cara cugina.» Bevve un lungo sorso. «Con l'augurio che i tuoi occhi possano risplendere sempre come in questo giorno», aggiunse ingollando in un colpo quello che era rimasto nel bicchiere. Mi guardò serio, poi afferrò l'altro bicchiere di Sambuca. «Ci siamo capiti subito, io e te. Non è vero, Blanche?» «Credo di sì», risposi titubante. Non capivo dove volesse andare a parare. «Tu mi sei piaciuta dal primo istante.» Spostai lo sguardo verso il lago, fingendo di essere interessata a qualcosa di importante, la barchetta che veleggiava all'orizzonte, il bambino che lanciava i sassolini dal pontile. «Mi vuoi sposare, Blanche?»

«Cosa?» «Hai sentito.» Fu il suo turno di guardare il bambino che lanciava i sassi. Ero rimasta senza parole. Guido accostò il bicchiere alle labbra e bevve ancora. «Ti renderei felice», continuò. «Non è questo...» «È perché siamo cugini? Qui da noi succede spesso.» «No, è perché non ti amo», dissi con un filo di voce. «Non importa. Ti renderei felice lo stesso.» Felice come zia Rita? Oppure come zia Gianna che, ormai, il profumo delle altre donne sulle camicie del marito non lo sentiva nemmeno più? Prima che potessi rispondere, Guido aveva già gettato la sigaretta e appoggiato la mano sulla mia. «Ci ho pensato a lungo prima di chiedertelo.» «Non capisci», sussurrai sfilando la mano dalla sua presa salda. «Sei tu che non capisci.» Guido afferrò il bicchiere e si scolò anche quello. L'aveva fatto di getto, come si fosse trattato di acqua. «Non potrai mai avere lui, i nonni non te lo permetteranno.» Capii che stava parlando di Angelo. «Io invece credo che...» Mi interruppe, brusco. «Non importa quello che credi tu.» Si accese l’ennesima sigaretta e appoggiò la schiena sulla sedia. «Si tratta di un accordo. Noi ci sposiamo, facciamo contento mio padre, poi ognuno è libero di andare per la sua strada. Il tuo stalliere si prenderà una moglie qualsiasi e tu potrai continuare a portartelo a letto. Io non farò storie, non devi preoccuparti.» Ero sconvolta. «Perché?» Guido aveva chiuso gli occhi prima di confessarlo. Le aveva scandite bene, le

parole. «Amo un uomo, Blanche.»

20

La guardo mentre sale in auto. Non ha il coraggio di aprire bocca e men che meno di guardarci in faccia. Il tragitto verso casa sembra non finire mai. Sin dai primi istanti, in questura, Valentina si è trincerata dietro un imbarazzante silenzio. Ho la sensazione che tra noi, ormai, si sia creata una distanza incolmabile. Mio marito guida e cerca di mantenere la calma. Capisco che è irritato dall'occhiata che le lancia attraverso lo specchietto retrovisore. Conosco la potenza dei suoi sguardi. Finalmente Valentina scoppia in lacrime. «Mi dispiace», balbetta. «Anche a me», replica lui. «Solo questo?», domanda lei fra i singhiozzi. «Non vuoi sapere com'è andata?» Lo vedo chiudere gli occhi per un istante e prendere forza dal lungo sospiro che ha tirato. «So che non è stata colpa tua», afferma. «Mi basta.» Ora le lacrime scendono a fiumi sulle guance di Valentina. «Io vorrei spiegare, cazzo!», insiste. «Giuro che non ero ubriaca. Vivy aveva garantito che era gente a posto!» «E Federico? Lui non si è accorto di nulla?», domando io. «Lui non ama le feste.» Ha abbassato la testa. «Non sapevo che girasse droga, ve lo giuro.» «Smettila di giurare», la rintuzzo. «Non è possibile controllare tutto, fattene una ragione!», mi interrompe lui per rivolgersi di nuovo a Valentina. «Tra l'altro non è importante. Quello che conta è

saper prendere una decisione su ciò che è sotto il nostro controllo e tu non l'hai fatto.» «Giuro che non mi drogo!», insiste lei. «Torniamo a casa», dico posando le dita su quelle di mio marito, sul cambio. Valentina si a una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. «Vi chiedo scusa», riesce finalmente a farfugliare.

1958

Scesi le scale di corsa, ancora una volta ero in ritardo per il pranzo che, per volere dei nonni, veniva servito alle una in punto. Prima di prendere posto a tavola, mi scusai. Avevo dormito male. Non erano stati gli incubi a tenermi sveglia, ma le rivelazioni di Guido. Mio cugino aveva rimescolato le carte e poi le aveva scoperte. A una a una. Le sue parole erano marchiate a fuoco nella mia mente. Non avrebbe mai sposato una delle ragazze che gli stavano addosso solo per i suoi quattrini. E che ci fossero delle brave figliole, lo sapeva eccome, certe fanciulle carine di buona famiglia che non andavano in cerca dei soldi. Sapeva anche che quelle ragazzette lo avrebbero sposato volentieri, ma nessuna di loro sarebbe stata abbastanza sveglia da cogliere i risvolti della situazione. Che fosse un frangente delicato lo capivo, no? «Sì». Oh, già se li immaginava i ricatti, le recriminazioni, le ostilità e lui non aveva voglia di mettersi in casa altri problemi. «E io? Io non sarei un problema per te?», «Tu no, tu sei un tipo perspicace, l'ho capito dal primo istante». E le puttane, invece? Quelle che gli vedevo sbaciucchiare e palpeggiare? E va bene! Ogni tanto una o due se le portava a letto. Non aveva mai avuto avversione per le donne e riuscivano a farlo eccitare, di quando in quando. Ma l'amore era un'altra cosa. «Non lo credi anche tu, Blanche?» Solo quando i domestici cominciarono a versare la zuppa nelle fondine, mi accorsi che Carolina mi stava fissando. Aveva lo stesso sguardo di qualche

giorno prima nel salone. Voleva urlare, quello sguardo, vomitarmi addosso tutto il suo disprezzo. Dove avevo sbagliato? Quando? «Blanche.» Era la voce della nonna. «Più tardi avrei bisogno di parlarti. Puoi are nello studio, diciamo, verso le cinque?» Ora ne ero sicura: avevo mancato in qualcosa, ma non sapevo in cosa. «Certo», risposi iniziando a consumare la minestra. «Soupe à l'oignon. Squisita!» «In tuo onore, mia cara», precisò il nonno raggiante del suo solito buonumore. Continuai a portare il cucchiaio alla bocca fingendo di apprezzare quello che stavo sorbendo, in realtà non ne sentivo nemmeno il sapore. Pensavo a Coco che aveva detto che solo con la mente e il cuore aperto avrei saputo leggere i segnali per riuscire a comprendere. Ebbene, io non ci ero ancora riuscita. Cercai di non prendere parte alla conversazione, anche se, in realtà, mi rendevo conto che non c'era nessuna conversazione in cui buttarsi. Guido lottava per riprendersi dalla sbronza della sera prima, le zie tentavano in ogni modo di riportare in vita la romantica atmosfera lacustre del pranzo di compleanno, Eva sbocconcellava il cibo come un uccellino e Carolina se ne stava in disparte, in silenzio. Non vedevo l'ora di andarmene e, non appena ne ebbi la possibilità, tornai nella mia stanza rinunciando al pomposo caffè del dopo pasto. Mi veniva da piangere e mi lasciai cadere sul letto. «Signorina?», Adelina era già entrata. «Mi perdoni, avevo bussato. Ha bisogno di me? Altrimenti io me ne... Oh, signorina, cosa c'è?» «Non lo so», risposi tirando su con il naso. Adelina mi porse un fazzoletto. «Su, a volte le cose sembrano peggio», cercò di consolarmi. «Non puoi capire.» Adelina sorrise. «Non so parlare, ma non sono cieca e nemmeno sorda.»

«Non l'ho mai pensato», obiettai. «È solo che vorrei tornare a casa mia e non so quando potrò farlo.» Pensai ad Angelo e mi resi conto che non era vero. «E vorrei anche restare, ma c'è qualcosa in loro... Qualcosa che non capisco.» Non avrei dovuto darle tutta quella confidenza, lo sapevo. La mamma si era tanto raccomandata sull'argomento, ma Adelina era sempre stata gentile con me, così sinceramente genuina. «Io credo che i signori le vogliano un gran bene», affermò sicura. «Sa, mia mamma dice che a volte non guardiamo bene, che dobbiamo strizzare un po' gli occhi per vedere meglio. Come quando c'è troppa luce.» Rimasi a guardarla. Adelina era una ragazza semplice, con i fianchi larghi e le guance arrossate, ma non era una stupida. Aveva ragione e io, invece, ancora una volta avevo scordato i consigli di Coco. Non mi ero messa in ascolto e mi ero lasciata investire dai consueti, snervanti e contorti tentativi di interpretare tutto. Forse la stupida ero io. «Grazie, Adelina.» La guardai uscire dalla stanza e balzai giù dal letto per raggiungere lo scrittoio. Afferrai con furia la mia carta da lettere e cominciai a scrivere a Bernard. Fogli interi pieni di parole, di pensieri, di sensazioni. Volevo raccontargli tutto. Delle eggiate a cavallo con Angelo, delle erbe curative di Madame Coco, delle gite in barca, dei pranzi sontuosi, perfino della ragazza di nuvola. Mi piaceva quel nome, anche se non ero sicura che mio fratello avrebbe capito. Di colpo mi sentii stanca, quasi sul punto di svenire. Stremata, appoggiai la penna sul ripiano e avvertii violentissimo il desiderio di abbandonarmi sulla sedia, di appoggiare la testa sullo schienale e di far cadere le braccia lungo il corpo. Sentii freddo alla schiena, come una corrente d'aria improvvisa. Per un brevissimo istante percepii un profumo di fiori, no, di gelsomino. La voce arrivò all'improvviso, come una folata di vento gelido. «Hai sofferto?» Ero ghiacciata dallo spavento, perché sapevo che non era stata Adelina a parlare. Voltarmi fu una prova difficile e lo feci molto, molto lentamente. La ragazza di nuvola stava in piedi accanto al letto, le mani allacciate in grembo, la testa piegata di lato come a volermi incoraggiare. Sorrideva. Sentii un rumore

sordo, repentino. Solo dopo qualche istante mi resi conto di essermi alzata in piedi e di aver fatto cadere la sedia. Avevo le gambe doloranti. Le mani anche. Cercai di convincermi che fosse un incubo: Dora non era lì e non aveva parlato, vero? Eppure io l'avevo sentita. Sentii un dolore al petto mentre mi rendevo conto che il tavolino dietro di me era reale e che le mie mani lo stavano stringendo con forza. «Hai sofferto?», di nuovo, la sua voce mi fece trasalire. Feci di no con la testa, terrorizzata. «Io non ricordo.» Presi un respiro profondo. «Perché sei qui?» I suoni si erano liberati in un unico fiato. «Per aiutarti. Non ne fui capace l'altra volta.» Non riuscivo ad aprire bocca, ero paralizzata dalla paura. Non era possibile che la vedessi. «È faticoso ricordare. Anch'io ho la nebbia nella mente, ma so quello che devo fare.» Il suo sguardo, ora, si era rabbuiato. «Hai paura?» Chiusi gli occhi per assentire e, quando li riaprii, la ragazza di nuvola non c'era più. Fissai a lungo il vuoto che aveva lasciato. Mi tremavano le gambe e fu un'impresa staccare le mani dallo scrittoio per riprendere a respirare. Con grande sforzo raccolsi la sedia da terra e mi sedetti. Respirai a fondo, con calma. Forse avevo vissuto troppi sconvolgimenti negli ultimi mesi e la ragione mi era venuta meno per lasciare posto a un'inspiegabile forma di follia, a un delirio, a un'allucinazione, magari. Mi domandai se avevo sognato e cercavo di convincermi che, forse, mi sarei svegliata e mi sarei ritrovata sotto le fronde profumate del melo, a Cabris. Malgrado i miei tentativi, sapevo bene che non si era trattato di un sogno. Mi sentivo soffocare e avevo bisogno di uscire dalla stanza, di parlare con qualcuno, con Coco. Lei avrebbe saputo interpretare le parole che avevo scambiato con la ragazza di nuvola e cercai di rivestirmi in fretta perché temevo di dimenticarle se non gliele avessi riferite subito. Mentre procedevo verso le stalle a o svelto, tentavo di non pensare a ciò che immaginavo di aver vissuto. Intorno a me tutto sembrava scintillare, il sole

ardeva alto sopra la mia testa e mi infiammava il volto come fosse un giorno qualunque. Perfino le cicale si comportavano con naturalezza: frinivano come se non fosse accaduto niente, come se la vita continuasse a scorrere come al solito. Riconobbi da lontano la sagoma di Angelo. Era impegnato nel recinto con Zeus e gli insegnava a saltare gli ostacoli. Non appena mi vide, si mosse verso di me. Il cuore cominciò a battermi forte. «Buongiorno, Blanche.» Il solo suono della sua voce mi fece sentire più tranquilla. «Sembri sconvolta», aggiunse. Forse non bastava così poco per rincuorarmi. Angelo scese da cavallo e uscì dal recinto. Era alto e disinvolto nei movimenti. Non aveva niente da invidiare alla grazia di mio cugino. Lo fissai mentre si muoveva nella mia direzione. Era gentile, educato e fermo di carattere. Perché mai i nonni avrebbero dovuto proibirmi di volergli bene? Per trovarsi nella condizione di dover rinnegare un altro figlio? Quando fu davanti a me, Angelo mi sollevò il mento perché lo guardassi. Senza indugiare, premette le labbra sulle mie e io ebbi un sussulto. «Che c'è?» «Niente», risposi. Credo solo di essermi innamorata. «Devo andare da Madame Coco, puoi sellarmi Nuvola?» Lo guardai rientrare nel recinto e agguantare la briglia di Zeus. Saltò in sella e mi invitò a salire in groppa dietro di lui. Mentre gli allacciavo le mani in vita, mi tornò in mente Didier. Avevo avvinghiato anche lui allo stesso modo sulla motocicletta, eppure non avevo provato la stessa emozione, la sensazione precisa di appartenergli. Stare abbracciata ad Angelo mi scaldava il cuore, mi infondeva serenità. E all'improvviso tutta la faccenda del fantasma divenne ridicola. Il freddo, il profumo di gelsomino, la ragazza di nuvola. Quasi certamente mi ero addormentata sulla sedia e avevo fatto un altro dei miei sogni inquietanti. Non ero più sicura di volerne parlare a qualcuno. Tuttavia non spettò a me decidere, Madame era una donna con cui non si potevano avere segreti. Entrai nella sua cucina e la trovai intenta a preparare un intruglio con le erbe, come sempre.

«Novità?», chiese senza sollevare lo sguardo. «Non lo so.» «Lo hai lasciato fuori, il dottore?» Rise. «Perché non hai detto che la mamma era fidanzata con il Colonnello?» «Sarebbe cambiato qualcosa?» No, non sarebbe cambiato nulla. Mi attraversò un brivido di eccitazione all'idea che Coco ci avesse scoperti fin dall'inizio, che ci fosse stata complice. Peccato per la frase che decise di pronunciare subito dopo. «L'amore è pericoloso, ma chérie!» Mi stava mettendo in guardia dall'amore o da Angelo? Mi resi conto che non volevo saperlo. Coco mi guardò diritto negli occhi e aggiunse: «C'è perfino chi lo ha definito un malinteso.» Fu allora che sentii il bisogno impellente di liberarmi di tutti i miei pensieri. Non volevo più averne, di pensieri. Mi diressi meccanicamente verso una delle poltroncine in fondo alla stanza e, una volta seduta, le raccontai ogni cosa. Le sue parole avevano fatto breccia nei miei argini e in breve tempo quel piccolo varco era diventato una voragine. Le parole avevano cominciato a sgorgare dalla mia bocca in un flusso continuo, fuori da ogni possibile controllo. Poi, di colpo, mi fermai e ci fu una lunga pausa silenziosa. «Lo spirito di Dora pensa che tu sia tua madre», affermò Coco finalmente. «Credi davvero a quello che ho detto?» Silenzio. «Forse sono diventata pazza.» «E chi non lo è?» Era incredibile come quella donna saltasse fuori ogni volta con un'affermazione strana, sempre lontana da ciò che mi aspettavo. «E va bene», capitolai, «credi che sia rimasta, come dire, intrappolata?»

«Qualcosa del genere», bisbigliò mettendosi seduta accanto a me. «Era estate, forse sente l'avvicinarsi di quel giorno maledetto», suppose. «Credi che dovrei dirlo a mamma?». Coco si portò una mano alla bocca e cominciò ad accarezzarsi una guancia. Capii che stava cercando di decidere quale fosse la scelta più giusta. «Meglio di no.» «Perché?» Dalla risposta che riuscì a fornire, appresi che era molto ampio il divario tra ciò che credevo di sapere di mia madre e quello che invece sapevo. Finalmente avevo portato a compimento il mio proposito di colmare quel vuoto di informazioni, ma ne ero rimasta sconvolta. Uscii dalla casa di Coco con un peso sullo stomaco. Niente sarebbe più stato come prima.

21

«I putti nella fontana si guardavano.» «E che facevano?», chiede Valentina mentre mi aiuta a sgranare i piselli che ho comprato al mercatino. «Giocavano, credo.» Avete notato che i putti non ridono quasi mai? Qualche volta capita che abbiano gli angoli della bocca appena sollevati e allora spetta ai loro occhi il compito di smentire quel sorriso falso, illusorio. Gli angioletti di marmo nella fontana di villa Conti si scambiavano sguardi mesti, stanchi. «Secondo me erano cupi di proposito», dico. Valentina sorride, ovviamente pensa che stia scherzando. È bello vederla ridere. «Dico davvero. Se avessero sorriso, mi sarei sentita meno in colpa.» Lei rimane in silenzio, come quando le domande ti ano per la mente tutte insieme e ti frastornano perché non sai più quale sia meglio pescare per prima e ti costringi a stare zitto per non dire una fesseria. Valentina dosa le parole, io non ci sono mai riuscita. La guardo mentre apre il libro e finge di sfogliare le pagine. Alla fine, nemmeno lei riesce a resistere: «E cos'è che ti aveva svelato Madame Coco?»

1958

«Cosa penso del destino?», Angelo strizzò gli occhi per mettermi a fuoco. Aveva visto il laccio che mi serrava la gola. Coco mi aveva rovesciato addosso il peso insopportabile della verità, un secchio d'acqua gelata che mi era entrata dentro e che mi stava mangiando a morsi. Avevo la sensazione di cadere all'indietro in un burrone. Fu Angelo ad afferrarmi. «Suppongo che ci sia un disegno superiore», disse. Quindi la risposta era no. Il destino non c'entrava nulla ed era solo colpa nostra se ci capitavano le cose brutte. «Voglio dire», continuò, «le cadute sono inevitabili. Ciò che importa è il modo in cui ci risolleviamo.» Cercavo riparo dentro le sue parole, perché quelle di Coco tornavano indietro per affogarmi. L'hanno rinchiusa in quel postaccio perché parlava con la ragazza di nuvola. Mi orripilava pensare al giovane corpo di mia madre legato al letto di un manicomio, al suo splendore lasciato avvizzire nel buio di uno stanzino. L'avevano nascosta al mondo perché si vergognavano di lei e lì era rimasta fino a che il mio papà del melo non l'aveva salvata dal silenzio. Ero irritata con me stessa perché non avevo mai cercato di comprendere. Angelo si piegò verso di me e mi prese la mano. Mi salì un groppo in gola perché mi rendevo conto all'improvviso che aveva ragione. Il destino si divertiva ad agire indisturbato, stava a osservare le nostre mosse e, poi, se la rideva compiaciuto. A noi non restava altro che tentare di risollevarci. E adesso, guardando gli occhi di Angelo, avevo paura. Tremavo e avevo paura perché gli avevo permesso di diventare necessario.

***

La nonna mi aspettava nello studio. Mi commuove, oggi, pensare alla sua testa bianca curva sulla vecchia scrivania di mogano. Davanti a lei, sul ripiano, le fotografie di mio padre. Il primo giorno di scuola, lui a cavallo, a so con il cane, a cena con gli amici. Mi sedetti e aspettai di conoscere il motivo del suo invito. Era venuta a sapere di Angelo? Oppure Guido l'aveva messa al corrente dei suoi piani? Cos'altro? Qualcosa che riguardava Carolina? Le ero appena

ata davanti e lei mi aveva quasi ignorata. «Blanche.» C'era stato un cedimento da qualche parte. Dove? Quella frana stava per travolgermi. «Cara nipote.» Eccola, sempre più vicina. «Ci sono cose che non possiamo cambiare e prima ci si abitua a quest'idea, meglio è.» Rimasi in silenzio, sperando che non si riferisse ad Angelo. «La nostra bravura sta nel riconoscere quali siano queste cose, solo allora possiamo abbandonare il rimorso e ritrovare la serenità per guardare avanti.» «Credo di non capire.» La nonna afferrò una delle fotografie. «Tuo padre era un uomo caparbio.» «Sì.» «Coraggioso e sveglio, ma si è lasciato dominare dalla ione con troppa facilità. E guarda che è accaduto!» Dal tono della sua voce, non mi sembrava che avesse ritrovato la serenità di cui aveva parlato poco prima. Tenevo le mani strette a pugno sotto il tavolo, le unghie conficcate nei palmi. Mi guardò con una specie di tenerezza. «Voglio metterti in guardia, Blanche, tu non sei come loro.» «Loro?» «Tu sei come lui», aggiunse abbassando lo sguardo per appoggiarlo di nuovo sulla foto di papà, «e non voglio che tu debba soffrire.» Parlò di una cena, di ospiti, di alcuni amici speciali, ma io non riuscii più a prestarle attenzione. Negli occhi mi era rimasta l'espressione del suo volto mentre cercava di dirmi qualcosa che mi era sfuggito. Qualcosa che io non sapevo.

***

Non potevo sopportare un'altra noiosa cena con i boriosi ospiti dei nonni a parlare di politica, di raccolte di fondi a scopi benefici, o peggio, dell'ultimo sermone che il parroco aveva fatto ai fedeli durante la messa della domenica. Non dopo tutto ciò che era successo quel giorno. Adelina mi seguì in camera da letto. «Signorina, dovrebbe cambiarsi. L'abito è pronto.» Gettai gli stivali per terra, con arroganza. «Quale abito?» «Questo», disse tirando fuori dall'armadio un vestito in leggero chiffon color malva. I delicati motivi floreali verde muschio sembravano dipinti all'acquerello sull'impalpabile tessuto. La gonna arrivava appena sotto il ginocchio e il corpetto era stretto in vita da una cintura verde abbinata ai decori. Non avevo mai indossato nulla del genere. «Rosa l'ha fatto fare per lei dal sarto, se le fa piacere indossarlo, ovvio. Io credo che le starà benissimo. Rosa ha detto che non poteva presentarsi con i vestiti che ci sono nell'armadio. È una cena informale, ma quelli non vanno bene.» Sì, certo. I miei vestiti non erano all'altezza. Niente di me lo era perché, come aveva detto la nonna, ero io a essere diversa da loro. Ma cosa diavolo si doveva fare per essere all'altezza dei Conti? Rivestirsi di oro e traboccare di diamanti? Chissà se questo genere di imposizioni aveva avuto su mio padre lo stesso effetto che aveva su di me. Probabilmente no, dal momento che lui in quella vita ci era nato. Mi sollevò pensare che non ci avesse ragionato troppo a rinunciare a tutto. Mi domandai se il fasto, l'abbondanza o la ricchezza potessero di per sé renderci felici. Riflettevo, insomma, su questioni interessanti per un filosofo, ma che in realtà

avevano l'unico scopo di tenere i miei pensieri lontani da Dora, dal suo spirito e da Angelo. Per la verità non ci riuscivo bene. Adelina mi raccolse i capelli all'indietro con un cerchietto dello stesso verde del vestito. «Ce l'hai il fidanzato?», le domandai di getto. Il rossore delle sue gote si fece più intenso. «Sì.» «Lo sposerai?» «Sì», disse con aria sognante. La invidiavo. Era tutto così semplice per lei. Aveva trovato un uomo che le piaceva e se lo era accalappiato. E a nessuno importava. «Sono felice per te.» «Ecco!», esclamò posando la spazzola sulla toeletta. «Adesso è pronta.» Mi guardai un'ultima volta allo specchio. Doveva essere vero che tutto accadeva per una ragione precisa, ma io non riuscivo a capire quale fosse e non mi davo pace. Nella testa avevo soltanto una gran confusione.

***

Come sempre, tutto era stato organizzato nei dettagli. Una eggiata nel parco per le signore seguita dall'aperitivo in giardino, una fumata di sigari al campo di bocce per gli uomini. Poi la cena nel salone grande, alle otto in punto. La nonna e le sue due ospiti, madre e figlia, eggiavano affiancate, io e Carolina le seguivamo da vicino, mentre le zie si tenevano a distanza. La giovane Vittoria non era considerata abbastanza adulta per partecipare alle nostre conversazioni ed era stata affidata alla bambinaia. Eva, invece, lo sapevano tutti,

non era fatta per eggiare e un provvidenziale mal di testa l'aveva dispensata da quell'obbligo. Mi sorprese sentire il braccio di Carolina agganciarsi al mio. «Guardala», disse con un filo di voce. «Non la trovi indecente?» Avevo capito che desiderava attirarmi in uno scambio di pettegolezzi pungenti su Diana, la giovane che camminava a pochi metri da noi. Indossava un paio di pantaloni neri aderenti e una magliettina a fiori gialli molto scollata. Forse mia cugina lo reputava un abbigliamento inadeguato ad ammantare il poderoso seno della ragazza. Oppure era invidiosa delle sue rotondità. «Io la trovo carina», risposi per non darle corda. Non avevo dimenticato gli sguardi di dissenso che Carolina mi aveva lanciato negli ultimi giorni. «Non puoi pensarlo», dichiarò lei piccata. «È senza dubbio fuori luogo. Quel rossetto poi.» La lasciai parlare senza rispondere. Stava cercando di coinvolgermi in qualcosa che non mi interessava. E all'improvviso, o forse no, le venne l'idea. «Andiamo a vedere i cavalli?», si voltò verso di me e nei suoi occhi verdi lessi un insieme di sentimenti: orgoglio, rabbia e rancore. Perché lanciare una proposta del genere quando lei stessa aveva più volte ammesso di sentirsi mancare alla sola vista di un cavallo? Incurante, Carolina fece un balzo in direzione di Diana e le afferrò un braccio prima di dirigersi verso le scuderie. Io le seguii in silenzio. Quando Carolina si accorse di Angelo, cominciò ad agitare un braccio per attirare la sua attenzione. Lui era nel recinto con i cavalli e non si era accorto di noi. Mia cugina, spazientita, lo chiamò a gran voce. Capii che non aveva intenzione di avvicinarsi troppo. «Eccoti», gli disse con arroganza quando lui si fu fatto vicino. «Diana la conosci già, vero?». Carolina aveva l'aria imbronciata, la stessa espressione che mio fratello Costante esibiva quando non riusciva a ottenere ciò che voleva. Si era voltata verso di me per guardarmi, gli occhi che brillavano di soddisfazione. Incrociai lo sguardo di Angelo per un secondo. L'avevo visto qualche ora prima, ma mi sembrava fosse ato molto più tempo. Ogni volta che quell'uomo

posava gli occhi sui miei, io mi sentivo torcere lo stomaco, non potevo farci niente. Angelo si avvicinò per armi accanto e io immaginai che l'avesse fatto apposta, che avesse voluto carpire il mio profumo, pregustare il mio sapore, come un lupo che fiuta una preda e la insegue silenzioso per sferrare l'attacco al momento opportuno. Oh, mi sarei volentieri abbandonata a quel sacrificio. Ma forse avevo soltanto immaginato tutto. Diana si avvicinò ai cavalli. «Cara, che ne pensi dei nostri esemplari?», le domandò Carolina da lontano. «Degni di nota», rispose lei guardando Angelo. Rise, poi si accostò a lui per avvicinare le labbra al suo orecchio e, come se niente fosse, gli premette il seno su un braccio. Lui finse di non accorgersene e aprì il cancello del recinto per farla entrare. Sentii la gelosia montarmi dentro fino a farmi scoppiare il cuore. Fu in quel momento che Carolina si lasciò andare. «Che ti dicevo? Impudica», affermò attaccandosi di nuovo al mio braccio. «La conosco bene, ormai.» Non potei non far caso al suo sguardo compiaciuto. Mi sciolsi dalla sua presa e mi allontanai. Mi sedetti su una catasta di legna, sistemai le pieghe dell'abito e la guardai. «Immagino che tu voglia dirmi qualcosa.» Uno spalancarsi di occhi. «Vuoi davvero saperlo?» Mi raggelarono quelle parole. Vuoi davvero saperlo? Quando qualcuno ti pone una domanda del genere, significa che sta per dire qualcosa di sgradevole, che detesterai sentire. Tuttavia, poteva essere peggio di quello che avevo saputo da Coco nel pomeriggio? «Parla!», ordinai a Carolina, anche se temevo di essere sul punto di ascoltare qualcosa di davvero tremendo. Rimasi ad aspettare sul bordo del mio burrone. Una piccola spinta e sarei caduta. Disse che faceva così con tutte. «No». E che le donne per lui erano rotoli di

tessuto negli scaffali di una sartoria. Sceglieva quello che più gli andava a genio, lo svolgeva, lo tagliava e se lo cuciva addosso a piacimento. Ah, se ci sapeva fare! Con Diana, con Eva, con decine di altre. «Anche con te?». Come osavo pensare a lei come a una sciocca? Lei no! Non era così ingenua da abboccare all'amo, anzi, era sempre riuscita a tenerlo a bada. Lui le adorava tutte allo stesso modo e quando le aveva catturate, perdeva ogni interesse. Non riuscivo a parlare. Sentivo il volto in fiamme, la gola chiusa. Carolina mi stava dicendo che niente era come avevo creduto e mi sentii assalire da un'ondata di vergogna. «D'altronde», continuò, «tu non sei certo da meno. Ti ho vista, sai? Sei andata con lui, con Guido, perfino con mio padre.» «No.» «E quel tuo fidanzato, poi! Ti eri stancata di lui? Non andava più bene per la deliziosa Blanche?» «Non è così!» «Per quelle come te e Diana non lo è mai», disse indispettita. Mi aveva già voltato le spalle per andarsene. Non un fiato, né una parola in più. Ora l'avevo sentito, era stato un piccolissimo spostamento di piedi. Ero caduta giù in picchiata nel baratro che mi ero confezionata con le mie stesse mani.

***

«Eccoti, finalmente», affermò Guido appena mi vide imboccare il vialetto. Mi raggiunse con due bicchieri in mano. «Ho fatto preparare due Bloody Mary.» Afferrai il bicchiere e lo portai alle labbra, un po' di alcol era quello che ci voleva.

«Guido», strillò Carolina, «per me non prepari uno dei tuoi cocktail? Sono forse meno importante?» «Se solo fossi libero di scegliere, ti cancellerei dalla parentela.» Rise. «Lingua biforcuta!» «Da quale pulpito», affermò lui alzando gli occhi al cielo. «Falsità e malvagità regnano nel tuo giardino più che nel mio.» «Che animo poetico! Che sensibilità! A mio parere dovresti dedicare qualche verso alla nostra giovane ospite. Se non è occupata con qualcun altro», aggiunse puntando gli occhi nei miei. «Oh, dimenticavo che il genere femminile non è di tuo gusto.» Era tornata a guardare Guido. «Finiscila, Carolina!». Il tono di lui era diventato astioso. Mi girava la testa. Avevo svuotato il bicchiere senza accorgermene. Lo appoggiai sul tavolo del lungo buffet che le cameriere avevano preparato con rigore e davanti a me vidi scintillare un vassoio d'argento con dei piccoli aspic di pesce e funghi. Mi diedero il voltastomaco. Mi lasciai scivolare su una sedia e chiusi gli occhi. Il dirupo in cui stavo precipitando sembrava non avere fine. Annaspavo nell'aria fredda e cercavo un ramo a cui aggrapparmi, ma non ne trovavo. Respirai. Lo feci con lentezza per liberarmi dello sdegno e della vergogna che mi avevano pervaso. Un odore improvviso, gelsomino. «Dove sei?». Aprii gli occhi per scovarla. «Sei forse tu il mio ramo?» Avevo voglia di vomitare. «Senti...», la voce di Guido mi sorprese. «Scusa, Guido. Non ora.» Non volevo sentire niente, non in quel momento. Prima dovevo finire di lottare con me stessa. Scattai in piedi e mi diressi verso la casa. Attraversai svelta il grande atrio, mi lasciai alle spalle la sala da biliardo, la biblioteca e la grande cucina. Svoltai l'angolo e... Non zio Michele! Non adesso! «Cara nipote», disse circondandomi le spalle con un braccio. «Scusa, zio, devo andare al bagno.»

Ma lui mi spinse in avanti. «Ti offro da bere, prima.» Cercai di voltarmi per tornare indietro. «Io dovrei proprio, Diana...» L'avevo vista guizzare fuori dal bagno e svoltare l'angolo in fretta. Guardai zio Michele e mi resi conto di provare disgusto per quell'uomo di mezz'età che aveva posato le sue mani sul corpo di una donna giovane, per quanto consenziente. Forse, pensai, era lo stesso disgusto che Carolina provava per me. Fu il nonno a trascinarmi via. Era entrato dal giardino insieme ai suoi ospiti e mi aveva abbracciata affettuosamente invitandomi a seguirlo nel salone per la cena. Era strano, ma ogni volta che mi imbattevo in uno qualsiasi dei miei parenti, avevo la sensazione di essere sospinta da qualche altra parte, come se fossi poco gradita o, peggio, come se avessi bisogno di un sostegno per decidere dove dirigermi. Tuttavia avevo capito che quello era ciò che accadeva nella vita di ciascuno di loro: tutti sembravano comportarsi senza vincoli, invece nulla era permesso senza il consenso dei nonni. Erano loro che stabilivano a priori quale fosse l'opportuno cammino da intraprendere. Gettai un'occhiata a zio Michele che si teneva occupato a fare gli onori di casa e poi guardai la traboccante Diana, già impegnata a fare gli occhi dolci a mio cugino Guido, forse per sviare la mia attenzione. Finalmente a tavola, i domestici cominciarono a servirci la cena. Io non mangiai niente. «E così, signorina, lei viene dalla Francia.» Il padre di Diana era un armatore, un uomo gradevole di primo acchito che ci mise poco, però, a rivelarsi arrogante e borioso. Ma forse era il mio malumore a costringermi a detestare tutti. «Da Grasse», risposi veloce. «La città del profumo!», intervenne sua moglie. Era bella e molto più giovane di lui. Sollevò il bicchiere e sorseggiò il vino lanciandomi un sorriso. Il marito la guardò infastidito e decise di cambiare argomento. Questa volta si rivolse al nonno: «Brutto affare la guerra in Algeria, si mette male per de Gaulle. Atto di pacificazione lo ha chiamato, quando invece sono inenarrabili le feroci torture e le rappresaglie contro la popolazione inerme. Che si dice di questo in

Francia?» Era tornato a guardarmi. «Non mi occupo di politica», mentii. Parecchie volte papà e Bernard avevano discusso della questione algerina o dei numerosi atti di sabotaggio che si erano verificati in Francia e io mi ero potuta fare un'idea chiara della situazione. Papà appoggiava l'intenzione del neopresidente de Gaulle di cessare le ostilità, ma era contrario alla sua ostinazione nel creare uno stato algerino legato alla Francia. «I pronostici dicono che presto sarà costretto a concedere l'indipendenza all'Algeria», aggiunse l'armatore. «E della Legione Straniera, che ne pensate?», intervenne Diana del tutto fuori luogo. «Sembra siano soldati rozzi e brutali quelli che si arruolano, ma io li trovo affascinanti nella loro divisa.» Aveva guardato Guido nel fare la sua affermazione e le labbra le si erano arricciate in un piccolo broncio. «Ci avrei giurato», disse Carolina sottovoce. «Oltre a fuggiaschi e avventurieri reclutano anche i peggiori delinquenti», le rispose Guido. «L'addestramento a cui sono sottoposti è durissimo. Poi li mandano a combattere per salvaguardare gli interessi si in Algeria.» «Quei soldati devono avere un'ottima resistenza, allora», sentenziò Diana ridacchiando. Mi mortificava che Carolina mi considerasse alla stregua di un'oca del genere. «Nessuno dei tuoi amici s'è arruolato per onorare il Paese?», mi domandò Guido. «No.» Invece avevo già pensato a Didier. Durante l'ultima telefonata a casa, Bernard mi aveva comunicato che i gendarmi non lo avevano ancora rintracciato e che stavano esaminando gli elenchi dei legionari partiti per l'Algeria perché pensavano che fosse riuscito ad arruolarsi per scampare alla giustizia. Fu in quel momento che mi sentii mancare di nuovo. Guardai per un attimo i ravioli al sugo di lepre nel piatto e chiusi gli occhi. Ero arrivata in fondo al dirupo e l'acqua nera mi aveva inghiottita.

22

Il sole mi brucia la pelle. Strizzo gli occhi per mettere a fuoco Dorine. Intorno a noi l'interminabile frinire delle cicale e dei grilli campestri. Le nostre risa fendono l'aria come uccelli che veleggiano. Mamma, seduta sotto il melo, intreccia fili d'erba, fiori di tarassaco e margherite per fare coroncine da infilare tra i capelli. Mi avvicino a lei per abbracciarla di spalle. Profumo di lavanda. Dorine mi sta chiamando e, a piedi nudi, corro con lei per raccogliere i soffioni. Esprimi un desiderio e soffia. I semi leggeri ed evanescenti galleggiano nel vento. Lasciali andare, portano i desideri a destinazione. Portano l'amore alla persona che ami. Alice, bambina mia, vorrei essere per te uno di quei semi. Fluttuerei lieve in aria per raggiungerti, afferrerei le tue mani e ti condurrei in un sogno dove la paura non esiste.

***

L'odore di ospedale mi dà la nausea. Sono agitata e ho un groviglio nello stomaco. Scivolo leggera nella sua stanza in penombra, il viso sul cuscino si distingue appena. Dorme. Pian piano i miei occhi si abituano all'oscurità. Le sue labbra sono unite a formare un sorriso sereno, da tanto tempo non la vedevo così. Le mani sottili giacciono lungo i fianchi, sono bianche come il lenzuolo. Ho voglia di toccarle. Alice spalanca gli occhi e mi guarda come se fossi sempre stata qui. «Ho fatto un sogno», sussurra. «Quale sogno, tesoro mio?» «La tua ragazza di nuvola», dice senza imbarazzo. «Ricordi quando mi

raccontavi di lei?» Annuisco. Lei socchiude le palpebre, come se stesse cercando di ricomporre l'immagine del sogno. «Oh, mamma, è stato tutto un gran casino.» Sento le lacrime pungermi il naso prima di premere sotto le palpebre. Allungo una mano verso la sua testa per accarezzarle i capelli. «Non dire così.» I suoi occhi brillano nell'ombra. «Mi sembra di diventare matta.» «Perché ti chiami Alice?», le chiedo sorridendo. Sono sicura che lo rammenta. Quand'era bambina ogni sera prima di dormire leggevamo qualche pagina di Alice nel paese delle meraviglie. «Perché, come Alice, non so mai quello che diventerò da un momento all'altro!» È pallida, e magra, e stanca. «Nessuno lo sa, piccola mia.» Mi sembra di vedere i suoi pensieri sospesi in aria, frammenti di un puzzle che attende di essere ricombinato. A un tratto, con un filo di voce, mi domanda: «Mi racconti di lei? Della ragazza che ballava nel vento?»

1958

«Blanche!», non aprii gli occhi, la sua voce mi aveva traata come una stilettata. «Mi senti?» «Angelo.»

«No, sono Guido», rispose lui mortificato. «Che ti succede, piccola?». Mi accarezzò i capelli con una tenerezza fraterna. Non l'avevo mai visto comportarsi in quel modo. «Niente... E tutto.» Mi sentivo imprigionata nei loro segreti, nella rete di infedeltà, di bugie e di verità non dette. Credevo mi sarebbe scoppiata la testa. «Tu non sei fatta per questo mondo», disse Guido asciugando una lacrima sul mio viso. «Sei troppo sensibile per sopportarlo.» Mi sollevai dal divano e gli franai addosso. Le mie lacrime gli bagnarono la camicia. «Dai, non piangere.» «Non mi vuoi più sposare?», gli domandai singhiozzando. «No.» Fu un sollievo sentirglielo dire. «E che farai?» Guido sollevò le spalle. «E tu?» «Me ne torno a casa, in Francia.» Lui mi guardò diritto negli occhi, poi sospirò. «È innamorato di te.» «Chi?» «Il medico.» «Non voglio più sentirne parlare.» «Ma...» Alzai la mano per evitare che andasse oltre con i discorsi. Guido mi guardò per un breve istante con un sorriso triste. Mi abbracciò prima di parlare. «Ascolta il tuo cuore, Blanche.»

***

Uscii dalla vasca e appoggiai i piedi sul tappeto di spugna. Avevo accontentato Adelina che sin dal primo giorno non aveva desiderato altro che prepararmi un bagno caldo. Non le importava che fosse estate e che il caldo afoso non mi invogliasse a immergermi nell’acqua bollente, quel gesto sembrava essere il più significativo per lei, l'essenza della sua idea di prendersi cura di qualcuno. Mi infilai la biancheria morbida e profumata, la camicia da notte e lasciai ad Adelina il compito di asciugarmi i capelli. Mi aveva aspettato in piedi accanto alla toeletta con la spazzola in mano. Non riuscivo a scrollarmi di dosso le rivelazioni di Guido. Avevo davanti agli occhi l'immagine di Eva, riversa sul letto, o sul divano azzurro nel salone. Non gli avevo domandato dove l'avessero trovata. Mi raggelava pensare agli occhi verdi di Eva lacerati dal dolore, al cuore schiacciato dal peso della colpa per qualcosa che probabilmente non voleva fare. Eva con il viso pallido, i ciuffi di capelli color rame appiccicati alla fronte, il mascara sbavato dalle lacrime, la camicetta di seta macchiata sulle maniche. E la rabbia, il vuoto incolmabile, il rimpianto per quei tagli sui polsi che non era più certa di volere. Ma il sangue aveva già sporcato l'azzurro del divano. E poi lo spavento di Guido che correva a chiamare aiuto. Gli occhi di luna di Angelo che strappavano il corpo di Eva da quel rifugio illusorio, dalla fine di tutto. Lui sapeva cosa fare, le fasciò i polsi con i brandelli della camicia, le sollevò le braccia per favorire la coagulazione, guardò Guido e gli ordinò a gran voce di recuperare in fretta un'automobile. Le parole di Guido mi risuonavano nella mente. «Non è come pensi. Eva gli è affezionata, ma non c'è niente di più di una comprensibile gratitudine. Carolina vede il marcio ovunque.» Osservavo il riflesso di Adelina allo specchio. Aveva gli occhi buoni, di quelli che non si dimenticano facilmente perché non smettono mai di fissarti, nemmeno quando non ti guardano più. Sapevano qualcosa, quegli occhi, qualcosa che io non avevo capito. «Come mai fai questo lavoro?» «Cosa vuole, signorina! Io non ho mica studiato», rispose con un sorrisetto

imbarazzato. «Nemmeno io so che farò della mia vita.» «Ma lei non ha bisogno di pensarci.» «Ma io voglio farlo, eppure non ho idea di cosa potrei fare. Mia sorella diventerà medico e i miei fratelli, invece, si occupano della fattoria.» «Magari diventa una scrittrice», propose lei sgranando gli occhi. «Le piace scrivere, no?» Scrollai le spalle e lei cominciò a canticchiare. «Vai d'accordo con le tue colleghe?», le domandai di getto. Adelina mi guardò in silenzio, il viso rabbuiato. «Ho fatto qualcosa di male? Qualcuno si è lamentato?» «Oh, no. Niente del genere. Sei talmente precisa e riservata che nessuno potrebbe avere qualcosa da dire.» «Grazie, signorina, lei è molto gentile», bisbigliò tornando a sorridere. «E i miei cugini? Anche loro sono gentili?» «Mah, cosa vuole...» Esitò prima di parlare, non sapeva se le fosse consentito lasciarsi andare. «Carolina, per esempio», insistetti, «è cortese con te?» Adelina non riuscì a trattenersi. «Non direi, ma non è un problema. Ci sono abituata», farfugliò arrossendo. «Ti tratta male?» «Vuole sapere cosa scrive nel suo quaderno.» «Nel mio?»

«Sì. Vuole che io faccia la spia e vuole sapere dove va quando esce da sola. Ma io sono una tomba. Mi crede, vero signorina?» Annuii. «Potresti andare ad aprire la finestra?». La rabbia mi aveva provocato una vampata di calore. Adelina si voltò per andare a scostare le pesanti tende. «Oh, Gesù!», gridò. «C'è qualcuno là fuori.» Scattai in piedi. Ero terrorizzata al pensiero che anche lei potesse aver visto lo spirito. Andai veloce verso la grande porta a vetri e la spalancai di colpo. Santo cielo, era Angelo! «Volevo vederti», disse. Potevo sentire i battiti del mio cuore. Era salito fin sul balcone per vedermi! Mi lasciai andare a una risatina isterica perché mi era venuto in mente Romeo che si arrampicava su una pianta per salire sul balcone di Giulietta e vivere una storia d'amore che, ahimè, non era finita granché bene. «Perché?» Angelo sorrise. «Ti devo parlare.» «Sono tutt'orecchi.» «Non davanti a lei», dichiarò indicando la domestica. «Puoi parlare anche in sua presenza», affermai irritata. Angelo alzò gli occhi al cielo e si mise a ridere. «Credo ci sia poco da ridere», lo rimproverai. «E credi male», obiettò lui serio. «Sai che sei una donna cocciuta? Non mi lasci mai parlare e poi sei attraente quando sei arrabbiata, e questo mi distrae.» Immaginai di essere uno di quei rotoli di tessuto di cui Carolina aveva parlato. Angelo ci sapeva fare, aveva detto lei, e io combattevo con la mia indecisione. Ero disposta a correre il rischio e lasciarmi svolgere da lui come un semplice

pezzo di stoffa sul bancone di una sartoria? Sì, lo ero. Adelina era rimasta in disparte e ci studiava piena di imbarazzo, la mano premuta sulla bocca. La pregai di lasciarci soli e lei fece un piccolo inchino prima di chiudersi la porta alle spalle. «Sentiamo», dissi sollevando il mento e spostando gli occhi di lato per non lasciarmi intenerire dal suo sguardo. «Tu neanche immagini cosa mi hai fatto, Blanche.» Feci un mezzo sorriso. «No.» «Vorrei che riuscissi a fidarti di me.» «Non posso», confessai. «Tutte quelle donne... non lo sopporto.» Angelo stette zitto e il suo silenzio mi atterrì. Mi parve che i battiti del cuore si fossero arrestati. Avevo la stessa sensazione di impotenza che provavo ogni volta che a Natale tiravo fuori dalla scatola i fili di luci colorate e li trovavo ammassati in un groviglio. Quel groviglio, ora, ce l'avevo nello stomaco. Tiravo il capo di un filo, provavo a sciogliere un nodo, rigiravo l'intrico di cavi, srotolavo e tiravo ancora. Non succedeva niente. E allora, spazientita, gettavo tutto sul pavimento sperando che durante l'attesa qualcosa sarebbe cambiato. E cambiava, infatti. Bastava indovinare il filo giusto per sbrogliare la matassa. «Santiddio, Blanche, quali donne? Tu, solo tu mi hai rubato il cuore.» «Ma Carolina...» «Carolina non sa niente. È solo te che voglio», disse avvicinandosi. Angelo aveva ritrovato il sorriso, ma io cercai subito di riportarlo alla realtà: «Ciò non toglie che...» «Mi sposerai?», mi interruppe per porre la sua domanda di colpo, senza tanti preamboli. Fece ancora un paio di i verso di me e infilò una mano fra i miei capelli per accarezzarmi il collo. «Io voglio che tu sia mia moglie. Dillo che mi sposerai!», mi ordinò sorridendo. «Saranno tuoi i figli che avrò, tanti piccoli marmocchi che ti somiglieranno.»

«E dei cavalli e un cane», sussurrai. Angelo fece scivolare le mani lungo la mia schiena e mi cinse la vita con vigore per attirarmi a sé. «È solo te che voglio», ripeté prima di appoggiare le labbra sulle mie. Mi abbandonai a lui come un fuscello d'erba in balia del vento e mi lasciai cullare dalla sua energia, flettendomi a ogni soffio, a ogni strepito, incapace di resistere alla sua volontà. Ci lasciammo cadere sul letto, dimentichi che chiunque sarebbe potuto entrare e sorprenderci. Angelo cominciò a baciarmi le labbra, il mento, il collo. Per un istante i nostri sguardi si incrociarono. «Tuo padre non sarà contento», dissi nel tentativo di smorzare l'eccitazione di cui ero preda. «Non m'importa», rispose lui avvicinando il volto per baciarmi di nuovo. Sentii la sua mano scendere per toccarmi un ginocchio e poi risalire lenta lungo la coscia. Mi scoprii a sollevare appena la camicia da notte per incitarlo a procedere nella piacevole esplorazione, ma lui ritrasse la mano e la posò invece sul mio volto. «È la provvidenza che ti ha mandata a me», sussurrò sfiorandomi le labbra con le dita, «e io mi sono innamorato nell'istante stesso in cui ti ho vista. Mio padre non può impedirmi di amarti. Nessuno può.» Gli infilai le dita tra i capelli e lui mi guardò di nuovo. Quasi mi vergognai di quello sguardo che sembrava volersi insinuare in me con tutta l'intensità di cui era capace. Si sollevò su di me, facendo aderire il torace al mio petto e inserì la sua gamba pesante e sicura fra le mie. Desideravo arrendermi alla sua volontà allo stesso modo in cui un cucciolo si piega alla fermezza della madre, con la certezza che il suo istinto di protezione lo custodirà da ogni pericolo. Angelo appoggiò la testa sul mio seno. «Voglio vivere qui, per sempre», bisbigliò. All'improvviso un rumore di i fuori della porta ci destò.

«Siamo destinati a essere interrotti», dissi ridendo. «Sarà meglio che tu vada, sono certa che Adelina sia rimasta lì ad aspettare.» «Vieni con me?» «Dove?» «Ovunque tu voglia andare.» Mi puntellai sui gomiti per guardarlo meglio. «Voglio ballare con te», aggiunse. «Ti aspetto vicino alla voliera», disse prima di ricomporsi e sgattaiolare fuori dalla finestra. «Tutta la notte, se serve.» «Faresti meglio a prendere le scale», gli suggerii dopo averlo seguito sul balcone. Rise. Con un balzo si era aggrappato al traliccio per l'edera ed era già di sotto. «Au revoir», bisbigliò baciandosi il palmo della mano per soffiare il bacio verso di me. Mi vestii prima di sbirciare fuori della porta. Adelina non c'era più. Attraversai i corridoi bui e scesi le scale in silenzio. Nel grande atrio risuonavano solo i rumori e le voci dei domestici che ripulivano i resti della cena. Infilai veloce il portone d'ingresso e imboccai il vialetto che mi avrebbe portato alla voliera. Mi guardai alle spalle un paio di volte, avevo la sensazione di essere seguita e osservata, ma non vidi nessuno, soltanto il buio oltre le luci dei lampioncini. Affrettai il o, morivo dalla voglia di rivederlo, di abbracciarlo, ma alla voliera non lo trovai. Lo chiamai a bassa voce senza ottenere risposta. Chiamai di nuovo e mi guardai attorno spaventata. All'improvviso sentii le sue braccia infilarsi sotto le mie, di spalle. Mi cinse la vita e con le labbra mi sfiorò il collo, appena sotto l'orecchio. «Mi sei mancata», mormorò. Mi voltai per abbracciarlo e lo baciai con avidità, come fosse acqua capitata per caso dopo un lungo tempo trascorso nel deserto. Lui mi guardò sorpreso. «Ti sono mancato anch'io!», sussurrò scostandomi i capelli dalla fronte.

Appoggiai il viso sul suo petto e lui afferrò la mia mano per danzare. «Era questo che desideravi? Ballare?», gli domandai. «Una vita intera», bisbigliò. «Lo decisi la prima volta che ti vidi ridere.» «Cosa?» «Che il mio compito sarebbe stato quello di farti ridere ancora. Per sempre.» Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dalle sue braccia e dalle emozioni che la loro stretta mi provocava. «Ti amo così tanto da non riuscire a crederci», aggiunse sottovoce. «Anch'io», sussurrai aprendo gli occhi. La ragazza di nuvola volteggiava a due i da noi. Sembrava felice. «Sta ballando anche lei», mi lasciai sfuggire. «Chi?» «Pensavo volesse proteggermi da te, ma mi sbagliavo.» «Di chi stai parlando?», domandò di nuovo scostandomi il viso dal petto per guardarmi. «Devo farti una confessione. Ho fatto strani sogni negli ultimi tempi. Incubi.» «Sarà la nostalgia di casa.» «È cominciato tutto quando mio fratello Bernard è stato pugnalato», insistetti. «Pugnalato?» Ci mettemmo a sedere sulla panchina in pietra accanto alla voliera. Gli raccontai di Didier e di ciò che era capitato prima della partenza da Cabris. «Qualcuno ha avvisato i carabinieri?», mi domandò con evidente apprensione. «Non ne vedo il motivo, alla gendarmerie pensano che si trovi in Algeria.» Appoggiai la guancia sul suo petto e lui cominciò ad accarezzarmi il collo con la punta delle dita, scese poi a sfiorarmi la spalla e il braccio. Avrei desiderato che la sua mano non si fermasse più. Invece si arrestò di colpo. «Blanche, di chi

parlavi poco fa?» «Niente di importante», risposi in fretta. «Soltanto di...» Non riuscii a finire la frase. Una voce angosciata ruppe l'incantesimo.

23

«Mamma ha voluto che le raccontassi questo?», Valentina è elettrizzata. «La stessa identica storia?» «Sì.» Fa un lungo sospiro prima di proseguire: «E lei, che ha detto?» «Beh, la conosceva già. Desiderava che le parlassi della ragazza di nuvola, come quand'era bambina.» Quello di cui abbiamo bisogno, a volte, è liberarci dai lacci per fluttuare sul mondo, tra le nubi. Soltanto per un po'. Valentina ha un rapido gesto d'impazienza. «E poi?» «Poi cosa?» «Dimmi che succede dopo. Abbiamo ancora tempo prima della cerimonia», mi incita. Faccio un lungo sospiro. «Allora? Come finisce la tua storia?», insiste. «L'immensità della notte mi ha inghiottita.» E non è ato che un giorno.

1958

Adelina era già davanti a noi. «Che fortuna avervi trovato. Suo nonno, il signor Conti, sta molto male.» Un attimo dopo io e Angelo eravamo nella camera da letto dei nonni. Il nonno giaceva a terra apparentemente senza vita e la nonna era in evidente stato confusionale. «Oh, Angelo, sei qui», ci accolse lei. Era pallida e impaurita. «Stava per coricarsi, si è sentito male e s'è accasciato a terra.» Angelo si avvicinò al nonno. «Avete chiamato i soccorsi?» «Ci ha pensato Alfio», rispose Adelina. Lucido e professionale, Angelo s'inginocchiò accanto al nonno, gli afferrò la testa e gli sollevò il mento per palpare la carotide. «Non c'è polso», disse. Con i palmi delle mani intrecciate cominciò a comprimere il torace del nonno contando ad alta voce. Non avevo mai sentito parlare di rianimazione e nessuno di noi aveva mai visto fare quello che Angelo ci spiegò essere un massaggio cardiaco. Nemmeno zio Michele che, entrando nella stanza, aveva tentato di fermarlo. «Che diavolo combini, ragazzo!», aveva urlato buttandosi su di lui per scostarlo. Fu la nonna a intervenire. «Lascialo fare, Michele.» Angelo smise di contare e soffiò aria nella bocca del nonno, poi riprese a massaggiargli il torace per un tempo che mi sembrò interminabile. Quando l'ambulanza arrivò, Angelo era ormai visibilmente esausto. La nonna lo guardò con la disperazione negli occhi. «Non ha ripreso conoscenza», disse. «Non ancora», rispose Angelo, «ma non ce l'avrebbe fatta senza la rianimazione. Non ho potuto fare di più.» «Tu sei un angelo di nome e di fatto. Hai salvato la nostra Eva e ora mio marito. Che Dio ti benedica, figliolo.» La nonna mi lanciò un'occhiata, ma contro ogni aspettativa fu ad Angelo che continuò a rivolgersi. «Credi che se domandassimo a Blanche di rimanere con noi anche dopo l'estate, accetterebbe?»

«Non lo so», rispose lui senza scomporsi. «Se fossi in te glielo domanderei. Sono convinta che in questo caso ne avremmo la certezza», affermò lei lasciandosi sfuggire un velato sorriso. Guardavo la sua testa bianca, il petto che si muoveva al ritmo del suo respiro fragile, gli occhi velati di vecchiaia. Mi commuoveva pensare a lei da ragazza, al suo primo amore, al dolore di quello strappo nel ventre, quel figlio adorato che le era stato ghermito da una guerra che non aveva chiesto. Misuravo lo spazio che mi separava da lei. La distanza. Il tempo. Quanto ne avevamo perso?

***

«Chi stava ballando nel parco?», insisté Angelo. Era mattina ormai, avevamo ato la notte in ospedale. Introdussi l'argomento con cautela, come a voler tastare il terreno prima di sbottonarmi del tutto. «A volte ho la sensazione di vedere qualcosa.» «Cosa?» «Sono sicura che abbia a che fare con i miei incubi.» Angelo spostò la testa di lato con il palese intento di incitarmi a proseguire. «Si tratta di qualcuno, per la precisione», continuai. «È senz'altro frutto della mia immaginazione, devo essere rimasta suggestionata da ciò che Coco e la cugina Anna mi hanno raccontato.» «La ragazza che hai visto sul sentiero!», s'illuminò lui. «Dora», sussurrai quasi impercettibilmente. «Non credi che io sia matta, vero?», bisbigliai. «Forse non avrei dovuto parlartene, ora penserai che sono inaffidabile.» «Penso invece che tu abbia un dono raro. Come medico non posso mettere in secondo piano la mia formazione, ma ho anche una madre malata che più di una volta è sopravvissuta alla morte e che ha sempre raccontato di strane esperienze al suo ritorno dalla zona d'ombra.»

Ero esterrefatta. «Che tipo di esperienze?» «Mah. Fatti inspiegabili in modo razionale.» «Sogni?» «All'inizio lo pensavo anch'io, ma poi sono stato costretto a ricredermi. Ha riportato alcuni particolari di una conversazione che io e papà abbiamo avuto durante uno dei suoi mancamenti, dettagli di cui lei non poteva essere a conoscenza.» «Forse non era in sé, ma vi udiva ugualmente.» «Il fatto è che non eravamo nello stesso posto.» «Capisco», mi limitai a commentare. Eravamo seduti sulle poltroncine della sala d'attesa, la sua mano stringeva forte la mia. Mi costrinse a guardarlo prima di parlare: «Credo che a volte il diaframma che separa la dimensione materiale da quella spirituale possa essere molto sottile.» «Stai dicendo che devo credere a ciò che vedo?» «Fatti guidare dall'istinto.» Senza lasciare la sua mano, mi alzai per avvicinarmi a lui e sedermi sulle sue ginocchia. Lo abbracciai infilando le dita fra i suoi capelli e cercando le sue labbra. «L'istinto mi dice che ora dovrei...» Angelo mi zittì baciandomi di nuovo. Percepii la presa del suo abbraccio farsi più decisa. «Mi sa, cara Blanche, che per evitare guai, sarai costretta a mettere i tuoi istinti nelle mie mani», mi punzecchiò. Ed era esattamente quello che desideravo fare.

***

Finalmente era arrivato il giorno della festa di bentornato in onore del nonno. Sarebbe stato il giorno più bello della mia vita dal momento che la nonna aveva invitato anche Angelo. Nella mia mente lo vedevo entrare nel salone, venire verso di me sulla grande scalinata, sorridere e prendermi la mano per condurmi verso il nostro ballo. Ci beavamo dei nostri corpi sani e forti che cavalcavano le alte onde della vita con incoscienza. Ci deliziavamo dei momenti effimeri della giovinezza, carichi di fragilità e di incanto, senza nemmeno immaginare che sarebbe stato il destino, invece, a prenderci per mano. Mi guardai allo specchio. L'abito di seta color lavanda arrivava fino alle caviglie e aderiva alla morbidezza del seno e dei fianchi rivelando la mia figura. Avevo scelto quel colore perché mi ricordava le distese lilla della campagna provenzale. Mi faceva sentire a mio agio. Mi voltai per ammirare la schiena nuda. Adelina mi aveva raccolto i capelli per mettere in luce quel preciso dettaglio. Era stata Carolina a offrirsi di accompagnarmi alla boutique per comperarlo. «È previsto un certo affollamento al ballo», aveva detto. «Ce l'hai un abito da sera?» «No.» «Sei ancora arrabbiata?» «No.» Lei aveva sorriso. Non potevo provare rancore nei suoi confronti perché avevo capito che il suo tentativo di mettermi in guardia da Angelo era stato un gesto fatto in buona fede. Da quando Guido mi aveva accennato al suo matrimonio andato a monte all'ultimo istante per colpa del fidanzato, ero arrivata a comprendere il bizzarro comportamento di mia cugina. Carolina detestava suo padre e provava disgusto per tutti gli uomini come lui, viziosi e immorali. Dal giorno delle mancate nozze, poi, il suo disprezzo si era esteso a tutta la categoria maschile. Gli uomini per lei erano esseri pericolosi e menzogneri, ma in fondo al cuore, ne ero certa, anche lei sognava l'amore. Come tutti. Il tempo sembrava non are mai. Ero scesa nel salone molto prima dell'orario stabilito. Le cameriere erano indaffarate ad allestire il buffet e zampettavano su e

giù dalla cucina trasportando secchielli pieni di ghiaccio per lo champagne, vassoi d'argento con centinaia di coppe di cristallo e larghi piatti di crostini con i pâté, di tartellette con le mousse salate, di verdure da pinzimonio tagliate sottili e disposte a formare fiori o altre figure geometriche. Dalla porta socchiusa della cucina giungevano le imprecazioni e gli ordini della cuoca. La immaginavo avvolta dalle volute di fumo provenienti dai fornelli, il grembiule bianco imbrattato di unto, la bocca secca dalla tensione. Possibile che fosse così presto? Dove si erano cacciati tutti quanti? Uscii in giardino, ma la governante mi richiamò subito in casa. «Signorina», gridò dal balcone del salone, «non sta bene farsi trovare in giardino dagli ospiti. Torni dentro, la prego.» Mi rassegnai a rientrare. Finalmente le zie e le cugine si decisero a scendere. Erano tutte euforiche e splendide nei loro meravigliosi vestiti da sera e la nonna era magnifica nel verde opaco del suo abito illuminato da un girocollo di diamanti. Guido l'aiutava a scendere le scale. Anche lui era inappuntabile nello smoking nero. Gli sorrisi, era un uomo davvero raffinato. Fu lui a venirmi vicino per sfiorarmi la guancia con un bacio. «Incantevole», sussurrò. Ero impaziente e cominciai a sbirciare fuori dalla grande finestra della biblioteca che si affacciava sul viale d'ingresso. Le prime auto cominciavano ad arrivare. Osservai gli uomini perfetti nei loro abiti perfetti consegnare le chiavi ai parcheggiatori e offrire il braccio alle signore imbellettate e ingioiellate per l'occasione, anche loro perfette. Era uno spettacolo. E poi lo vidi, abbagliante nello smoking impeccabile, e il mondo intorno a me si illuminò perché avevo capito che la ione che mi aveva travolto si era trasformata in amore. Lo osservai mentre percorreva il lungo tratto del ghiaioso viale d'ingresso. Se Bernard fosse stato lì con me e mi avesse chiesto che cos'era l'amore, ora avrei saputo rispondere: un salto nel vuoto. Avrei toccato il suolo, prima o poi, lo sapevo, ma Angelo sarebbe stato pronto a prendermi. Feci una piccola corsa per raggiungerlo, ma mi costrinsi a fermarmi poco prima di uscire dalla biblioteca. Respirai a fondo e mi aggiustai il vestito, desideravo che lui mi vedesse al massimo dello splendore. Non faticai a trovarlo in mezzo ai tanti abiti neri, quell'uomo indossava lo smoking come se ci fosse nato dentro. La sua sola presenza riempiva la stanza.

Non ci fu bisogno di chiamarlo, lui mi aveva già catturata e inchiodata ai suoi occhi. Adoravo quel suo sguardo rapace, istigava in me l'istinto di morderlo. «Balli?» «Una vita intera.» Sapevo che più di qualcuno sarebbe rimasto scandalizzato dal nostro atteggiamento, dall'abbraccio rivelatore così teneramente intimo in cui Angelo mi fece affondare, ma non mi sarei lasciata scalfire dalle critiche di Carolina o dagli sguardi delle zie. Preferivo che sparlassero di me piuttosto che ridurmi a condurre una doppia vita come la loro, fatta di falsità e di frustrazioni. Non avrei più atteso che il destino mi venisse incontro, ma sarei stata io l'artefice della mia sorte attraverso le scelte che avrei fatto, come avevo imparato dall'uomo che mi teneva stretta a sé. «Te la cavi come ballerina.» «Mi lascio condurre da te», sussurrai, «che è poi ciò che ti permetterò di fare d'ora in avanti.» «Me lo permetterai?», replicò lui cercando i miei occhi. «Chissà perché ho la sensazione che sarai tu, invece, a condurre le danze», mi punzecchiò. La mano che fino a un istante prima aveva stretto la mia vita era salita a sfiorarmi la schiena nuda con la punta delle dita. Sentii il tocco gentile dei suoi polpastrelli soffermarsi tra le scapole per attirarmi con forza verso di lui. Angelo aveva abbassato la testa per avvicinarsi al mio orecchio. «E non darti troppe arie, mi sta bene così», aggiunse in tono di scherno. «Il ballo che voglio condurre io è di ben altro tipo.» «E sarebbe?», lo stuzzicai con malizia. Angelo rispose con un sorriso. «Diciamo che lo scoprirai presto.» «E se “presto” fosse adesso?» Strinsi forte la sua mano per trascinarlo via prima che avesse il tempo di rispondere. Le nostre risa risuonavano argentine nel silenzio del giardino. Lo amavo, non c'era nient'altro che avesse importanza in quel momento. Ogni mio

desiderio era un'inezia in confronto all'idea di condividere con lui tutta la vita. Senza di lui sarebbe stata un'esistenza insipida, priva di significato e non c'era alcun ballo che mi interessasse condurre, faccenda che ero certa non importasse nemmeno all'incantevole uomo che stringeva la mia mano. In un attimo eravamo alla voliera, alla nostra panchina. Mi fermai a guardarlo e gli sorrisi piena di imbarazzo. «Vorrei tornare nella tua casa», dissi in fretta. «Subito.» Lui mi guardò malizioso. «Nella nostra casa», mi corresse. Sorrise. «Non riesco a farci l'abitudine, ogni volta che ti guardo mi sembri più bella.» «La bellezza se ne va, ne tieni conto?», lo punzecchiai. «Non parlo di questo», rispose cingendomi i fianchi e abbassando il volto per baciarmi il collo. «Mi riferisco allo strano effetto che hai su di me, alla tua maniera di essere così schietta e ionale, come la nostra Nuvola.» «Anche tu hai su di me uno strano effetto, allevi la mia inquietudine.» «Ma davvero!» Il suono di quella voce mi fece accapponare la pelle. Mi voltai e vidi Didier accanto all'albero, a qualche metro da noi. Una barba incolta gli nascondeva il viso smunto. Era magro e trasandato come mai lo avevo visto prima, perfino i capelli avevano perso l'usuale piega e scendevano trascurati a celargli il volto. «Non hai perso il vizio di lasciarti andare con gli uomini, a quanto pare», continuò in tono ostile. Angelo si mise davanti a me per farmi da schermo. Il giovanotto con la pistola fra le mani aveva parlato in se e lui aveva capito subito che si trattava di Didier. Con un balzo mi riportai in fretta davanti a lui perché sapevo che Didier non avrebbe esitato a sparargli. «Chi è?», domandò Didier puntando il mento verso Angelo. «Un amico. Mi consolava per...»

«Consolava? Quanto sei ingenua, ma petite étoile. Vuole solo portarti a letto, come tutti.» «Gli dicevo di aver perso un vero amico a Cabris», mentii, «un poeta innamorato che un giorno ha deciso di girarmi le spalle.» «Girarti le spalle? Tu mi hai lasciato! Io ti amavo», urlò. «Sono stata costretta.» «Costretta!». I suoi occhi erano carichi di rancore. «Oh, piccola Blanche, ricordi la nostra prima uscita a Saint Roch? Mi domandavo se tu fossi un angelo o una sirena.» Fece una pausa e io rimasi in silenzio. Chiusi gli occhi. Sapevo che qualsiasi parola avessi pronunciato non avrebbe fatto che aumentare la sua furia. «Ora lo so. Sei una sirena, una pericolosa e abile incantatrice che ruba il cuore degli uomini per farne poltiglia.» Erano più o meno le stesse parole che aveva usato il vecchio fidanzato di mamma per definirmi e, stranamente, il mio primo pensiero fu temere che Angelo potesse davvero pensare che mi comportassi in quel modo con tutti. Angelo tentò di spostarsi alla mia destra, ma io glielo impedii. Stava accadendo tutto troppo in fretta ed era indubbio che la ragione aveva abbandonato Didier un'altra volta. «Come sei bella, Blanche!», mormorò Didier prima di puntarmi l'arma al petto. «Sei bella nel tuo vestito lilla e sei malvagia.» Sgranai gli occhi per lo stupore. Mi avrebbe sparato, ne ero sicura. Un brivido freddo mi percorse la schiena. Non volevo morire quando finalmente avevo capito ciò che avrei fatto della mia vita. Non poteva andare in quel modo ora che avevo deciso di non lasciarmi sopraffare un'altra volta dal destino. Avevo fatto dei progetti, dovevo andare a vivere nella bella casa di Angelo, avere dei figli, dei cavalli e un cane. Non avevo ancora vissuto, non avevo ancora scoperto le gioie dell'amore. Fu un'immagine improvvisa, un lampo nel cielo nero. La ragazza di nuvola si era avventata su Didier e l'aveva fatto cadere a terra. Oppure era stato l'alcol a fargli perdere l'equilibrio, non lo so. Fu questione di un attimo, Angelo si gettò su di lui e cominciò a colpirlo con una ferocia che mi lasciò senza fiato. Li vidi lottare furiosamente per qualche secondo per contendersi la pistola. Temevo che solo

uno dei due ne sarebbe uscito vivo e il terrore che potesse non trattarsi di Angelo mi gettò nel panico. «Didier», urlai. Si fermarono di colpo, entrambi. Gli occhi di Didier si posarono sui miei, sulle sue labbra un ghigno sprezzante. Fu in quel momento che udii lo sparo. Il tempo di abbassare gli occhi per puntarli verso il suolo e dalla pistola ne uscì un altro, e un altro ancora. Un dolore al ventre, la macchia di sangue che si allargava sulla seta color lavanda. Portai una mano al grembo e mi lasciai cadere a terra. Solo allora mi accorsi di Angelo accanto a me. Era vivo e questo mi bastava. «Je meurs», bisbigliai. «No», strillò lui disperato, premendo una mano sul vestito insanguinato per far cessare il flusso che sgorgava dal mio ventre. «Tu vivrai e, quando starai meglio, ti porterò nella nostra casa, te lo prometto», sussurrò con la voce rotta dalla disperazione. «Ho freddo e ho...», chiusi gli occhi, «ho paura.» «Blanche, resta con me», urlò lui in preda al panico. «Non chiudere gli occhi. Resta con me.» Mi sforzai di riaprire le palpebre e vidi il volto di Dora chino sul mio, accanto a quello di Angelo. «Non puoi morire», mi ordinò la ragazza. «Tu devi vivere per me.» «J'ai peur.» «Lo so. Anch'io ho paura», disse posando la mano su quella di Angelo, sopra la ferita, «ma questa volta andrà diversamente, amica mia.» Sentii un grande calore infiammarmi il ventre e pervadere il mio corpo. Anche Angelo si accorse che stava accadendo qualcosa di insolito. «Sei bollente», disse dopo avermi posato una mano sulla fronte.

Di colpo una foschia grigia mi velò gli occhi e ammantò i miei pensieri come un balsamo sopraggiunto per alleviare le mie pene. Nella mente avevo ormai soltanto il buio delle tenebre.

24

Valentina ha gli occhi umidi. «Ti va se ci spostiamo in giardino per prendere un tè?» «Sì», risponde asciugandosi di nascosto una lacrima sulla guancia. «È un pomeriggio troppo bello per starsene chiusi in casa», dico mettendo il bollitore sul fuoco. S'è alzato il vento, quel vento estivo elettrizzante che agita le fronde degli alberi, fa sbattere gli scuri e svolazzare le tende; ci dà refrigerio, ci salva dalla canicola, ma ha anche uno strano effetto su di noi, come se fosse giunto per portarsi via le pene insieme alle nuvole sopra le nostre teste e per lasciare spazio a nuovi, rasserenanti pensieri. I panni messi ad asciugare in giardino sventolano come bandiere, come il cuore di mia nipote che cerca di scrollarsi di dosso la cupa follia e la lucida rabbia che lo hanno affiancato fino a oggi. Angelo aveva ragione, noi siamo il risultato delle nostre scelte, buone o cattive che siano. Non si può pilotare il destino e certe disgrazie sono inevitabili. Quello che si può fare, invece, e che alla fine è ciò che conta, è decidere come vogliamo affrontare le sfortune. Possiamo diventare una zattera alla deriva o, al contrario, tentare di issare le vele e condurre la nostra barca dove e come vogliamo noi. Non è impossibile cambiare atteggiamento e provare a guardare al mondo con occhi diversi. «Veramente quel pazzo di Didier ha cercato di ucciderti?», domanda Valentina ancora incredula. Io mi limito ad annuire. Con le mani, stendo le pieghe del mio abito di seta. «Lo hanno messo in galera, spero!» «È morto.»

«Gli ha sparato Angelo!», dice lei in un bisbiglio, come se l'idea del nonno intento a sparare a Didier non fosse neanche lontanamente concepibile. È molto più facile pensare che a farlo sia stato un immaginario Angelo e l'ultima cosa che desidero, oggi, è che Valentina guardi suo nonno con occhi diversi. «No.» «Vi ho portato qualcosa da bere», ci sorprende Angelo appoggiando due bicchieri sul tavolo. Lo guardo con ammirazione: è incantevole nel suo completo grigio scuro. Anche Valentina lo fissa affascinata e lui la ricambia con uno sguardo serio, la fronte corrugata. «Cos'è?», domanda lei afferrando uno dei bicchieri. «Sciroppo ai fiori di sambuco e menta», risponde lui sorridendo. «Una ricetta di questa elegante signora», aggiunge strizzandomi l'occhio prima di lasciarci di nuovo sole. Con un cenno la incito ad assaggiare: «Si tratta di una ricetta antica, speciale», la informo. «Una pozione per migliorare la mia consapevolezza?» «Qualcosa del genere», rispondo ridendo. Valentina porta il bicchiere alle labbra e subito il suo sguardo si addolcisce, la freschezza dello sciroppo le ha invaso la bocca, la gola, i pensieri. «Quel Didier! Diceva di amarti eppure non ha esitato a spararti», afferma con una punta di astio, come a sottolineare che a volte anche l'amore può spingere a commettere atti violenti, dolorosi. «Temo che il suo punto di vista fosse piuttosto elementare: se non poteva avermi, nessun altro ci sarebbe riuscito.» «Eppure ha fallito!», esclama soddisfatta. «Non del tutto. Non mi ha tolto la vita, ma ha annullato la possibilità che

germogliasse nel mio grembo.» «È il motivo per cui non hai avuto figli?» «Sì. Alla fine a modo suo ha vinto. Chissà se il dolore si è disperso con le sue ceneri.» «E la ragazza? Lo spirito, c'era davvero?» «Non lo so. Io sono sicura di averla vista, ma sai, il tempo spazza via ogni certezza.» «Sarà stata un'altra magia di Coco.» «Magia? Quella è ovunque intorno a noi.» «Cioè?» Non sono riuscita a fargliela perdere quest'abitudine. Detesto quella parola. «La magia è spirito, è energia, è forza. Ed è la capacità di cambiare gli eventi che solo certe persone possiedono, quelle dal cuore sincero e che hanno fede nella possibilità di farlo. Se non credi nella magia, sei destinato a non incontrarla mai.» Mi guarda come se non avesse afferrato a fondo il concetto. «La magia è dentro di te, Valentina, è nella voce del vento, nel profumo della tua pelle scaldata dal sole, nel crepitare delle foglie secche sotto i tuoi piedi, nell'odore pungente dell'erba bagnata. È in tutto ciò che sia abbastanza coinvolgente da travolgere i tuoi sensi e lasciarti con la voglia di fantasticare su come potrebbe proseguire la tua vita, su come tu vuoi che prosegua. Ed è qui che la tua mente si apre a nuovi scenari, a un altro viaggio da intraprendere, a nuove mete. Questa è la vera magia.» Un sorriso le illumina gli occhi. «Che è successo dopo che hai perso conoscenza?», mi chiede. «Mi hanno portata in ospedale dove il nonno, così dice, non mi ha abbandonato

un solo istante.» «Doveva essere molto innamorato», afferma. «Lo è tuttora!», rispondo sorridendo. «Oh, sì, certo», farfuglia lei imbarazzata. «Mi riportarono a Cabris dopo qualche giorno, ma non ricordo molto della convalescenza. Tutto mi sembra confuso, ora.» «E tua madre che disse? Era incavolata?» «Preoccupata, piuttosto. Avevo capito il suo messaggio: le cose non sempre vanno come ci aspettiamo e soprattutto spesso non sono come sembrano. Non ti pare?» Annuisce. «Il vento s'è fatto irritante, entriamo?» Ci alziamo e riportiamo in cucina i due bicchieri. «Dobbiamo andare o arriveremo tardi», ci avverte Angelo. «E noi non vogliamo arrivare tardi proprio oggi, in un giorno così importante», lo prendo in giro sistemandogli il nodo della cravatta. Valentina ci osserva curiosa. «Non ho ancora capito a che cerimonia dobbiamo andare», confessa. «Il nonno deve ritirare un premio, un riconoscimento all'innovatore della chirurgia cardiovascolare. Dovresti essere orgogliosa di quest'uomo: è stato un pioniere della cardiochirurgia, non so quante vite ha salvato!» «Taglia corto», dice lui imbarazzato. «La piccola non avrà voglia di ascoltare i tuoi elogi.» «Invece mi interessano», lo contraddice Valentina. «Non mi ero resa conto di avere un nonno famoso!»

«Famoso, dici?», chiedo con una risata. «Vedrai quanta gente ci sarà solo per lui! Rimarrai impressionata.» «Smettila, ora», mi minaccia Angelo attraversandomi con lo sguardo. «Dobbiamo andare», dice agganciando il mio braccio per spingermi verso la porta d'ingresso. Angelo aspetta che io e Valentina saliamo in automobile prima di chiudere lo sportello. È un uomo d'altri tempi, glielo dico sempre. Lo osservo mentre percorre il breve tratto di ghiaia che lo porterà di nuovo al mio fianco, alla guida della sua auto. I ricordi si affastellano nella mente. Non, rien de rien. Fantasmi dal ato. Je ne regrette rien. Sono solo parole, in fondo. Il sole attraversa il parabrezza e mi buca gli occhi. Abbasso la visiera e guardo la nostra casa che si allontana. Ni le bien qu'on m'a fait. Profumo di lavanda e sapone di Marsiglia. Ni le mal tout ça m'est bien égal. È la voce di mia madre che canta Edith Piaf. Lo faceva spesso mentre stendeva il bucato. Je me fous du é. Per lei la canzone terminava sempre con quella frase. Me ne infischio del ato. E tutto era risolto.

25

Alice è tornata a casa. È entrata come se si sentisse un ospite indesiderato. Non ci abbracciamo, nessuno lo fa, ma i nostri visi sono sollevati, rilassati. L'Avvocato continua a tenerle un braccio intorno alla vita, come a volerle infondere un po' della sua forza. La osservo mentre si siede sulla poltrona di suo padre. È sciupata e ancora più magra di quando l'ho vista l'ultima volta. È lei a voler parlare con Valentina. Desiderava tenerla all'oscuro di quello che le stava capitando, dice, perché non voleva saperlo nemmeno lei. Quando l'Avvocato e il nonno sono intervenuti, dopo aver trovato i cocci dello specchio fra le sue mani, l'hanno costretta a ricoverarsi senza possibilità di replica. Sta meglio, ora, ma sa bene che la convalescenza sarà lunga. Non c'è stata nessuna vacanza o gita fuori porta. «Perché non dirmelo? Avrei capito!», sbraita Valentina. Davvero avresti capito, angelo mio? «Non volevo che lo sapessi», confessa Alice in un sussurro. «Li ho pregati di tenertelo nascosto fino a che le cose non si fossero sistemate.» Abbassa gli occhi. «Non volevo che pensassi a me come a una pazza.» «Credevi che me ne sarei vergognata?» «Mi dispiace, Vale», aggiunge lei, «lo so che ti ho fatto soffrire.»

***

«Perdonami, mamma.»

Rimango senza fiato. Un brivido freddo mi percorre la schiena. «Sei tu che devi perdonare me», sussurro dopo averla abbracciata. «Non so chi sarò domani», dice guardandomi negli occhi, «ma oggi mi sento a posto.» «Se lo sapessi, non ti chiameresti Alice!», dico sorridendo. «Ogni tanto danno delle strane feste laggiù, alla tavola del Cappellaio Matto. Devi venirci una di queste volte.» «Più in là, magari.» Seguo Alice e Valentina che, insieme, percorrono il vialetto del giardino e oltreano il cancello per tornare a casa. So che ci rivedremo presto. Forse avrei potuto fare di più per Valentina, molto prima intendo, ma a volte il tempo scorre senza permetterci di mettere in pratica i nostri propositi e noi non facciamo che aspettare l'occasione buona. L'occasione è arrivata e io ho saputo coglierla al volo. Ho affascinato mia nipote con l'inganno. Come un fiore che offre il suo nettare agli insetti e li attrae a sé con colori sgargianti e profumi inebrianti, ho lasciato che lei si abbeverasse alla mia fonte. A presto, ma petite. Adesso, corri nel vento. Agile e forte, va' incontro alla vita e bevine a lunghi sorsi, assapora ogni momento, senza mai farti sopraffare dal destino. Angelo si porta al mio fianco e mi prende sottobraccio. «Hai fatto un buon lavoro», dice ammiccando. «Già», replico soddisfatta. «Anche tu.» «Sei riuscita a impaurirla con la storia del fantasma?» «Spero di no», rispondo appoggiandogli la testa sulla spalla come facevo da ragazza. Lui mi cinge la vita e mi stringe a sé con tenerezza. Io gli butto le braccia al collo come fosse la prima volta e chiudo gli occhi.

Ripenso a quel lontano settembre del '58, quando mi riportarono a Cabris con una profonda cicatrice nel ventre. Il clima s'era fatto meno afoso e io mi godevo la brezza di fine estate seduta sulla vecchia sedia che papà aveva sistemato per me sotto il portico. Cercavo di rispondere a una lettera, ma senza successo. Le parole scivolavano via veloci nella mente e non riuscivo a trattenerle. Ogni tanto davo una sbirciata alla lettera cui tentavo invano di dar risposta, così, per prendere spunto dalle belle frasi che l'uomo che mi sta abbracciando era riuscito a mettere insieme per me, ma non ero in grado di mettere ordine nel mio smarrimento. I medici avevano assicurato ai miei genitori che ci sarebbe voluto del tempo, ma che pian piano avrei ritrovato la lucidità e che sarei perfino tornata a camminare. Dicevano anche che il mio rifiuto ad alzarmi fosse di natura psicologica. Avevo paura. A volte mi sembrava che qualcuno mi rivolgesse la parola, ma non appena mi voltavo, mi rendevo conto che nessuno aveva parlato. Altre volte, invece, ero convinta di scorgere una donna o un bambino sul sentiero che conduceva alla tenuta, ma subito mi accorgevo che si trattava di un abbaglio. Mia madre cercava di rassicurarmi ed era convinta più di quanto lo fossi io che tutto sarebbe tornato alla normalità, prima o poi. «Come stai?», mi domandò mettendosi a sedere accanto a me. «Abbastanza bene. Tento di rispondere a una lettera.» «Del tuo fidanzato?», chiese guardandomi con la coda dell'occhio. Mi sentii infiammare. Angelo non aveva ancora chiesto la mia mano a papà e quindi non potevamo ancora definirci sposi promessi. Non le risposi, mi limitai ad annuire. «Che ti ha scritto?» «Che si è laureato a pieni voti.» E che mi ama, ha trovato decine di modi diversi per dirlo e io non sono capace di rispondergli. «Che specializzazione ha scelto?» «Cardiologia, ovviamente.» «Medico del cuore», affermò lei toccandosi il petto con la mano destra, «una

buona scelta, direi! Sono pene difficili da alleviare, quelle.» Le sorrisi. Era raro che mamma si lasciasse andare all'ironia. Lei ricambiò il sorriso e si alzò in piedi per avvicinarsi. «Volevo dirtelo da tanto, Blanche», sussurrò appoggiando una mano sulla mia spalla, «sono fiera di te, piccola mia. Sei una persona speciale e ti auguro di essere sempre felice quanto lo sarai oggi», aggiunse andandosene. «Che vuoi dire, mamma?» le domandai, ma lei non tornò indietro. «Mamma?» Sul sentiero, vidi arrivare l'automobile di mio fratello e notai che non era solo. L'auto accostò vicino alle stalle e l'uomo seduto accanto a Bernard scese veloce per dirigersi verso il portico. Riconobbi l'incedere sicuro e le spalle larghe della figura che quasi correva per raggiungermi. Sentii il sangue ribollire nelle vene e il cuore palpitare all'impazzata. Mi alzai di scatto, quell'uomo aveva il dono di alleviare ogni mia inquietudine e di restituirmi al buonumore e, ne ero certa, lo avrebbe fatto per una vita intera. Allento la presa, apro gli occhi e guardo il mio affascinante marito, gli sorrido e appoggio di nuovo la testa sulla sua spalla. All'improvviso la vedo, non posso evitare di posare lo sguardo sulla sua evanescente figura. La ragazza se ne sta seduta sulla staccionata che divide il giardino dal ballatoio. Ha un volto attraente, ambiguo, che mi affascina da sempre. Chissà come mai non si è ancora decisa a varcare lo straordinario confine che separa il mondo in cui siamo da quello in cui saremo. Il suo occhiolino mi ruba un altro sorriso giacché è da un po', ho notato, che ci sta osservando con la testa alta e lo sguardo fiero.

26

Ha indossato un paio di jeans, una camicia e ha raccolto i capelli in uno chignon alto. I pomeriggi trascorsi in piscina con Federico hanno smorzato il consueto pallore delle sue guance. Un po' di trucco, ma niente smalto nero. Ai tanti anelli non ha saputo rinunciare, non vuole cancellare del tutto la vecchia Valentina. Alza gli occhi verso il soffitto dell'atrio della scuola per raccogliere i pensieri. Federico è accanto a lei, appoggiato al muro con le gambe incrociate e le mani nelle tasche dei pantaloncini. Ogni tanto lui borbotta qualcosa per alleviare la tensione, ma un groppo in gola impedisce a Valentina di rispondergli. Chissà se si tratta di panico per l'esame o di una totale e travolgente felicità dovuta alla sua vicinanza. A un tratto lui si scosta dal muro, si avvicina a lei e sfila le mani dalle tasche per afferrare le sue. «L'hai letto il libro?» «Ovvio», risponde lei imbarazzata. Vorrebbe tanto confessargli che è da settimane che dorme con il libro sotto il cuscino e che la cartolina si è consumata a furia di leggerla, di stringerla al seno e di far scorrere le dita sulla sua bella grafia per avere la sensazione di toccarlo. A volte si è perfino immaginata di fare il bagno insieme a lui, al mare. E di ballare, anche, alla festa di fine estate in paese mentre le mani di lui scorrono lentamente sulla sua schiena e percorrono in lungo e in largo il suo vestito blu. Sente le guance prendere fuoco. «Sei tu», sussurra Federico andosi la mano sui capelli. «Chi?» «La mia sirena e il mio angelo. Come nel libro.» Valentina rimane in silenzio. Per un attimo ripensa all'amore effimero di Didier e a quello intenso e profondo di nonno Angelo.

Qualcuno ha gridato il suo nome. È l'insegnante di se. «Fagli vedere chi sei!», aggiunge Federico sfiorando la sua guancia con un bacio. Valentina ride. Ride con le labbra, con gli occhi, con il viso, con tutto il corpo. Entra in aula e si sente leggera, sicura di sé, un'altra Valentina, consapevole di avere il mondo ai suoi piedi. Saluta il professore, gli regala un sorriso e, con una sicurezza mai sperimentata prima, comincia a parlargli di Baudelaire e delle sue poesie. Ha scelto di affrontare il tema degli affascinanti angeli descritti dal poeta, creature ultraterrene irrimediabilmente attratte dai piaceri del mondo. Angeli sofferenti, curiosi, a volte ribelli, ma pur sempre esseri spirituali dal sorriso enigmatico, capaci di una lucida consapevolezza preclusa agli umani. Valentina esce dall'aula e, nel breve tratto di corridoio che la separa da Federico, ripensa a tutti gli angeli che ha incontrato negli ultimi mesi, da quelli che sono ati sui silenzi a quelli che come spiriti sono rimasti sulla Terra per proteggere qualcuno, da quelli che possono curare le malattie del cuore a quelli che del cuore sanno medicare le pene. Bisogna sviluppare un'attenzione particolare per scorgerli, non basta desiderarlo, è una questione di consapevolezza. Si sente scaldata nel cuore, ora, rinata. Corre incontro al ragazzo dal bel sorriso e gli getta improvvisamente le braccia al collo. «Sai che ti dico?» «Cosa?», domanda lui sorpreso. Lei gli schiocca un bacio sulle labbra prima di rispondere. «Che, tutto sommato, non è una brutta vita.»

Ballerine di carta Il romanzo d’esordio di Laura Rico III Edizione: marzo 2014 978-88-6660-028-2

L’anziana Bianca riceve in dono il diario scritto molti anni prima dalla cara amica Dora, regalo che sarà per lei motivo di turbamento, ma anche occasione per abbandonarsi ai ricordi e rivivere emozioni e dolori che il tempo ha offuscato. Sullo sfondo degli avvenimenti storici che hanno caratterizzato il ventennio durante il regime fascista, Bianca ripercorre con la memoria il suo ato cercando di dare un senso agli eventi che hanno messo a dura prova la sua esistenza e quella dell’amica Dora. La giovane Bianca, incapace di piegarsi ai voleri di una famiglia all’antica e di un fidanzato fascista che lei ritiene soggiogati dalla nuova ideologia del regime, si ribella alle convenzioni e sfida l’intransigente zio e le assurde regole imposte alla “nuova donna italiana” lasciandosi prendere per mano da Costante, membro della buona società aponense, ma sfrenato donnaiolo e sovversivo. La palese contestazione e l’inosservanza delle linee di condotta imposte conducono Bianca a vivere una terrificante sciagura che segna per sempre la sua vita.

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Fiori di Sambuco e Menta

di Laura Rico

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