Fabrizio Casu
Di sesso, d'amore e d'altre sconcezze
www.blonk.it
copertina di Gianguido Saveri
(c) Blonk Editore
ISBN: 9788897604204
Di sesso, d’amore e d’altre sconcezze
1
- Dai, vienimi in bocca.
Riesco a sentirglielo dire anche dentro a quel bagno, con la musica della discoteca che assorda persino con una porta di mezzo. I bassi, si sa, non hanno paura di niente.
E c'è stato un tempo, quando ero ragazzino e le mie conoscenze di sesso erano legate ai giornalini porno recuperati di contrabbando, in cui avrei pagato per sentirmi dire una cosa del genere. Del resto se le donne lo dicevano a Rocco Siffredi o a Ron Jeremy, perché non a me?
Non sarò dotato come Rocco o non avrò quello che rende un ometto peloso, grasso e unto come Ron Jeremy un dio del sesso, ma credo di potere anche io sperare in qualcosa in più di una che si mette sotto le coperte e affronta una scopata come il plotone d'esecuzione.
La signorina che si sta dedicando con tanta dedizione al mio piacere si chiama Sandra e l'ho conosciuta stasera. Ci ha presentati un amico comune. O meglio: ci ha presentato quello che è il mio migliore amico, Massimiliano; il quale fa anche il PR e il DJ, qui dentro, e mi ha trascinato a questa serata di musica dance per non farmi stare chiuso in casa. Non che io avessi qualcosa contro stare a casa a guardare la nuova puntata di Fringe, scaricata da internet, anzi. Dio benedica il peer to peer e i sottotitoli fatti dai fanatici delle serie televisive. Ma secondo Massi il sabato sera è stato creato perché la gente uscisse e si divertisse, non per stare in casa.
Sia chiaro: io non ho niente contro i sabati sera fuori. Per lungo tempo sono stato un assiduo frequentatore di pub e ho collezionato un alto numero di uscite. Durante l'università, in particolare, non serviva che fosse sabato per uscire di casa. Poi, pian piano, con l'età e con gli impegni, le cose sono cambiate. I sabato sera sono diventati l'agognato arrivo del riposo del fine settimana, perdendo quell'aura di divertimento a tutti i costi, per assurgere al ruolo di oasi di tranquillità e quiete. La nascita di una relazione fissa ha facilitato questa metamorfosi. Ma la fine della mia relazione storica con Adriana, quella che verrebbe definita la mia fidanzata storica, ha scombinato tutte le carte. Sono ato da "trentenne medio" a "trentenne medio e single". Massi mi ha preso per l'orecchio e mi ha raccontato di un mondo con il quale ho perso ogni contatto, basato su serate a tirare tardi, chiacchiere e cazzeggio, amiche disponibili, delusioni cocenti, ma anche - a suo dire - di fenomenali avventure da una botta e via.
E questo, credo, ci riporta al discorso di Sandra e della sua garbata richiesta di poco fa. Io e lei, come dicevo precedentemente, ci siamo incontrati stasera per la prima volta. Abbiamo bevuto insieme un paio di birre e ci siamo conosciuti meglio; abbiamo in comune una laurea in lettere, la ione per i film di Quentin Tarantino - e visto il linguaggio colorito di Sandra non ho difficoltà a crederci - e altre cose, compreso l'odio per il calcio e per Jack Frusciante è uscito dal gruppo - un giorno Enrico Brizzi mi troverà e mi prenderà a calci, dopo tutto il male che ho detto della sua opera prima. Abbiamo scoperto, infine, una ione comune per il sesso orale, a quanto pare. A me piace che mi venga fatto e a lei piace farlo. È stato Massi a organizzare tutto. Ci ha raggiunto, in un attimo di pausa dal mettere dischi, e tra un sorso di mojito e l'altro, ci ha invitati a spostarci nel separé. Offerta che mi è sembrata abbastanza strana, sul momento, ma che mi è stata chiarissima nel momento in cui Sandra mi ha baciato appena siamo entrati. E poi il resto è storia.
Osservo Sandra prendersi cura dei miei testicoli e mi ano per la testa tutta una serie di pensieri: mi chiedo se sarò il primo a cui fa un pompino, stasera, e,
se non sono il primo fortunato, se si sarà sciacquata la bocca, dopo. Mi chiedo quando i rapporti tra uomo e donna sono diventati così semplici - o così complicati, a seconda dei punti di vista; io non sarei mai stato in grado di chiederle di succhiarmelo, se lei non si fosse offerta volontariamente di farlo. Penso che Sandra è la prima donna con la quale lo faccio da veramente tanto tempo, diciassette anni, per la precisione. Prima c'era Adriana e non intendo sputare nel piatto nel quale ho mangiato per un sacco di tempo, la nostra vita sessuale non era male, ma di certo Sandra è decisamente più brava; però nei miei otto anni di relazione con lei sono stato un fiero monogamo e quindi mi sento un po’ come se fossi vergine di nuovo.
- Dai - mi incoraggia mentre mi masturba, - voglio sentire il tuo sapore.
- Sì, certo - mi sento un po' imbarazzato da tutta questa franchezza. - Non so, magari io posso fare qualcosa per te - mi informo.
Non mi risponde e riprende il suo lavoro di lingua e saliva. Parecchia saliva.
Capitolo dopo pochi istanti.
Sandra si ritira su e mi bacia, per fortuna a labbra chiuse o dovrei correre in bagno a vomitare.
- Posso ricambiare? Non so, magari posso leccarti anche io - mi offro, mentre tengo i pantaloni stretti in vita. Mi rendo conto di non essere la cosa più sexy del mondo, a guardarmi.
Lei sorride e si aggiusta i capelli biondi e ricci, raccolti in una coda sulla nuca.
- No, stai tranquillo - dice.
Si aggiusta la mini in pelle e il body elasticizzato blu, poi fa una giravolta.
- Sono a posto? - mi chiede.
- Sì, mi pare di sì. Senti, parlavo sul serio: vorrei ricambiare in qualche modo.
- Offrimi una birra - taglia corto lei.
Non era precisamente quello che avevo in mente io, ma, in tutta onestà, non saprei neanche bene cosa proporle. Ho come la sensazione che, in campo sessuale, lei sia molto più esperta di me; solo per organizzare dei preliminari avrei bisogno di un paio d'ore di pianificazione. Ci sediamo su un divanetto che troviamo miracolosamente libero; intorno a noi la discoteca è gremita da una folla che si dimena in qualsiasi spazio vuoto, al ritmo di una musica elettronica di cui, ormai, sento soltanto i bassi. Vedo Massi dietro la console, la cuffia sistemata su un orecchio solo, che agita le braccia come se stesse dando il ritmo a chi balla; accanto a lui un paio di ragazze che si dimenano, non mancando di strusciarsi contro di lui.
- Allora, Alessandro, che ci fai da queste parti? - chiede, prima di sorseggiare la birra.
Mi guardo intorno cercando di capire dove siano "queste parti".
- Credo di esserci arrivato seguendo Massi.
- Sì, eh? Si vede che non sei tipo da discoteca - strilla, avvicinandosi al mio orecchio.
Annuisco e mi avvicino al suo.
- Sì, ma non mi spiego che ci faccia tu con me. Immagino abbia amici che ti aspettano, no?
- Non ti preoccupare - mi tranquillizza, - li vedo dopo.
Si avvicina ancora un po', mentre agita il busto al ritmo della musica, le braccia proiettate in alto. Faccio un sorriso imbarazzato e muovo un po' le spalle, come a dire che "ehi, sì, senti che ritmo, fico, no?". Mi fermo quasi subito. Mi sento mio nonno.
- Andiamo a fumare? - chiede.
Annuisco e la accompagno fuori, facendoci strada tra la bolgia che si agita e si struscia. ando davanti alla console faccio cenno a Massi che esco un attimo,
simulando il gesto di fumare una sigaretta. Annuisce energicamente e si getta sul microfono.
- Su le mani per il mio amico Alessandro, che stasera ha perso la verginitàààààà! - urla, alzando in aria le braccia.
Tutta la discoteca lancia un urlo di incoraggiamento e alza le braccia a sua volta, puntandomi gli occhi addosso. Penso di alzare le braccia anche io e mascherare la mia condizione di umiliato, ma l'idea mi viene troppo tardi e ora tutti sanno chi sono e sono convinti che abbia perso la verginità all'età di trenta e rotti anni.
Ci facciamo timbrare la mano, prima di uscire dal locale, e il buttafuori mi dà una pacca sulla spalla e strizza l'occhio, complice.
- Complimenti. Era ora - sorride soddisfatto come se mi avesse procurato lui la prima donna della mia vita.
Farfuglio un "grazie" poco convinto e raggiungo Sandra, ferma all'aperto, intenta a chiudere la giacca. L'aria della sera è fredda, Ottobre ha cacciato via gli ultimi rimasugli dell'estate e il aggio dal caldo soffocante della discoteca alla temperatura esterna è impietoso. Mi pento di avere lasciato il mio cappotto al guardaroba e cerco di non sentire il freddo che mi sta attanagliando. Prendo persino in considerazione di abbracciare Sandra, con la scusa di volere fare un po' di petting, ma con la seria intenzione di sfruttare il processo di cessione del calore.
- Massi scherzava, vero? - chiede, mentre fruga nella borsetta - Cioè, non sei vergine sul serio, vero?
- No, no, figurati - nego con troppa forza. - L'ho fatto per la prima volta che avevo 16 anni, mica stasera. A parte che non so se un pompino possa rientrare nel concetto di "perdita della verginità".
Sandra, che si è portata una canna alla bocca, la leva e mi guarda perplessa.
- Cioè, ti stai lamentando del mio pompino?
- No, Cristo, no - mi affretto a specificare.
- Ah ecco. Perché lì dentro non sembrava dispiacerti. E finora nessuno ha mai avuto da ridire su come lo succhio.
- Sì. Ecco. Magari mi stai dando troppe informazioni, Sandra.
Si accende la sua canna e da un tiro, rigirandosi il fumo in bocca, prima di soffiarlo fuori e guardarlo mentre si solleva in aria e si disperde.
- Allora, che ci fai da queste parti? - chiede nuovamente.
- Non lo so. Cioè lo so: Massi ha voluto a tutti i costi che io venissi qui. E mi fi umiliare davanti a una discoteca intera, ovviamente - aggiungo, imbarazzato.
- Sei appena uscito da una storia lunga, vero?
- Ce l'ho scritto sulla maglietta?
R ide e dà ancora un tiro alla canna, prima di offrirmela. La rifiuto garbatamente.
- Hai la faccia di uno che non inchioda una tipa da una vita. Quando finite una storia che dura diversi anni avete tutti la stessa faccia, come se aveste bisogno di qualcuno che vi ricordi come si fa.
- È come andare in bici - butto lì.
- Più o meno - risponde, divertita.
- Ma così, giusto per dire, per fare conversazione, nella media di quelli che ricominciano dopo tanto tempo...intendo...come me la sono cavata?
Sandra dà ancora un tiro alla canna e annuisce, assumendo un'espressione incoraggiante.
- C'è di peggio. Hai retto abbastanza. Alcuni ancora un po' e non fanno neanche in tempo ad abbassarsi le mutande.
- E tu? - decido di cambiare discorso - Come mai sei qui?
- Qui in discoteca o qui con te? - chiede, sorridendo maliziosa.
- Fai tu.
- Io vengo qui tutte le settimane. Ho diversi giri di amici e quindi sono sempre qui con gente diversa.
- Capisco. Sei tipa da vita notturna, eh?
Annuisce. Rimane in silenzio per un po', poi mi guarda, seria.
- Però mi piacerebbe andare a teatro, ogni tanto.
- A teatro?
- Già. Il mese scorso davano una versione teatrale di Giro di vite di James. L'hai letto?
- No - ammetto.
- È magnifico. Rinchiude un mondo intero in poche pagine. La menzogna che maschera la realtà. Dovresti leggerlo, se vuoi ti do la mia copia, però poi me la devi restituire.
- Sì, certo. Mi farebbe piacere.
Butta la canna per terra e la schiaccia con il tacco.
- Teatro, dicevi? - chiedo.
- Sì, c'era una versione teatrale del racconto. Avrei voluto andare a vederla, ma non conoscevo nessuno che volesse venire e me lo sono persa.
- Potevi andarci da sola.
- Odio andare da sola al cinema o al teatro. Poi mi deprimo.
- Mi pare giusto.
- Ti piace il teatro?
- Non ho una grande esperienza – ammetto.
- Peccato. A me piace da morire. La gente non parla, a teatro, e riesci a guardarti uno spettacolo senza che un cretino si metta a commentare con chi ha accanto. E poi ha tutto un suo fascino, non c’è uno schermo di mezzo, ti sembra veramente di essere dentro la storia.
Tortura ancora un po’ il mozzicone della canna con il tacco dello stivale.
- Dovremmo andarci insieme, una volta o l’altra – propongo.
Lei sorride, poco convinta.
- Certo. Una volta o l’altra – lancia un’occhiata verso l’ingresso del locale. – Senti, io ora torno dai miei amici.
- Sì, certo. Scusa.
Ci scambiamo due baci sulle guance. Molto formale, visto quello che è successo, ma del resto non pensavo di baciarla con la lingua.
- Grazie di tutto – dico.
- Figurati. È stato un piacere.
Si incammina verso il locale, dopo aver fatto un cenno di saluto con la mano.
- Il piacere è stato... - mi fermo quando mi accorgo di quello che sto per dire.
Non rientro subito nella discoteca, ma rimango a eggiare nei pressi, pensieroso. Curiosamente il pompino non sembra avermi tirato su di morale per molto tempo. Sono di nuovo mogio e meditabondo sulla fine della mia storia con Adriana. Diciassette anni non si cancellano con un colpo di spugna e, alla fine, quello che ti rimane sono solo un sacco di ricordi su quando hai detto all’altra persona che l’avresti amata per sempre e che non volevi altro che stare con lei. Poi ti ritrovi nel bagno di una discoteca a farti fare un pompino da una sconosciuta mezzo svitata. La verità è che possiamo dire e fare quello che vogliamo, ma alla fine abbiamo il potere su ben poche cose, nella nostra vita. Ho amato Adriana più di qualsiasi donna con cui fossi stato prima – e non posso dire che fossero poche o molte, a parte una o due misere incursioni nel campo del petting, lei è stata l'unica donna della mia vita - ma questo non ha impedito che lei un giorno mi lasciasse.
La rivorrei?
Ecco, la domanda fondamentale è solo questa: se si presentasse alla mia porta, la riprenderei? Anche sapendo quello che mi ha fatto, conoscendo i suoi problemi e capendo tutte le rogne che porta una relazione con lei?
Sì, cazzo. La rivorrei.
Raggiungo Massi dentro la discoteca e lo trovo fermo in un angolo che fuma e chiacchiera con degli amici. Quando arriva mi abbraccia, puzza di sudore e di alcool come se avesse fatto una maratona dissetandosi con il Jack Daniels.
- Grande! Grandissimo! – è decisamente euforico.
- Sei fatto?
Ride sguaiatamente, imitato dagli amici. Non sapessi che non si droga lo prenderei per un “sì”.
Ci spostiamo al bancone e agito inutilmente il buono che mi ha dato Massi, per ordinare da bere; devo essere invisibile, perché il barista mi ignora sistematicamente, questo fino a quando il mio amico non alza una mano e subito ne attira l’attenzione. In questa fottuta disco sono fuori posto. Prendiamo due mojito e andiamo a sederci fuori, su un muretto. Lui si accende l’ennesima sigaretta e beve un sorso di drink; ogni due minuti sta salutando qualcuno, a volte semplicemente con un cenno, altre volte alzandosi e lanciando urli vari, mentre va ad abbracciare qualcun altro.
- Allora? Ti diverti? – chiede.
- ‘nsomma. Non sono tipo da discoteca, lo sai.
- Lo so. Ma scommetto che nessuna te l’ha mai succhiato in un cinema.
Bevo il cocktail e non rispondo. Del resto è innegabile, non ho mai avuto la fortuna.
- Dì un po’, ma chi era quella?
- Una mia amica. Tipa in gamba. Un po’ strana, forse, ma in gamba.
- Le capita spesso di succhiarlo al primo che a davanti?
- Abbastanza spesso.
Fermo a mezz’aria il bicchiere, ghiacciato dalla risposta.
- Come? – chiedo, incredulo.
- Ha una... chiamiamola ione per i pompini. È fatta così. Scommetto che non si è fatta fare niente, vero?
Scuoto la testa.
- Ecco, appunto. A lei non interessa che tu la scopi o roba del genere. Lei è pienamente soddisfatta quando riesce a fare venire un uomo succhiandolo.
- Oddio.
- Lo so. È brava. Ci sono ato anche io.
- Oddio – ripeto, ma stavolta sento anche un conato di vomito.
- Oh andiamo non fare così: credi che quelle che ti sei fatto tu non l’avessero succhiato a nessuno, prima?
Lo guardo ancora più incredulo, se possibile.
- Non lo so – biascico.
Mi fissa come se non capisse, poi mette a fuoco.
- Ah cazzo, è vero. Una sola ragazza, me ne dimentico sempre.
- Una sola.
- Sì, va bene. Di solito uno se ne fa qualcuna che magari ha avuto altre occasioni prima di lui e allora quella ha già visto i bassifondi di qualcun altro, capisci?
- Sì, credo di avere un panorama.
Improvvisamente mi torna in mente che quando lei mi ha preso in bocca il membro nudo, senza preservativo, per un rapidissimo istante ho pensato “AIDS”, ma la concentrazione sull’argomento è stata poca, devo ammetterlo.
- Credi che ci sia qualche pericolo? – trovo la forza di chiedere.
- In che senso?
Butto giù il cocktail in due sorsate, come se l'alcool potesse curare le malattie e uccidere eventuali virus in circolo nel mio corpo. Stringo i denti e gli occhi e lo guardo dolorante.
- Malattie – biascico, ancora.
- Ah quello. No, è sanissima, altrimenti mica ti ci avrei mandato, no?
- Sicuro?
- Giuro su Dio. Ha una specie di radar, se uno ha anche solo un raffreddore se ne accorge e non glielo succhia.
- Mentre agli altri.. - lascio la frase per aria.
- Implacabile.
- Perché le piace.
- Da morire.
- È matta.
- Sicuramente. Ma ce ne fossero di più, così.
2
La sveglia suona e mi coglie nel mezzo di un sogno strano. Io e mia madre stavamo litigando per non ben precisati motivi, io l’accusavo di essere ingiusta e lei ribatteva che ero cattivo nei suoi confronti. Intorno a noi c’era solo il mare, eravamo su un canotto, e per motivi che mi sfuggono sentivo un’orchestra suonare. Probabilmente quella del Titanic.
Mi rigiro a faccia in su e guardo il soffitto, poi allungo la mano nell’altra metà del letto, trovandola vuota. Lo sapevo, ma valeva comunque la pena di provare. Il risveglio, da quando Adriana se n’è andata, è uno slalom tra le cose che le appartengono e che ha lasciato qui in casa. Cose che, inevitabilmente, mi ricordano lei e mi fanno stare male. Mi faccio strada tra un tailleur ancora appeso al mio armadio e un paio di scarpe da tennis, ricordo di una nostra scampagnata finita sotto un diluvio. Schivo la nostra foto, appesa allo specchio del disimpegno, mentre finisco a sbattere contro le creme da notte che ha lasciato in bagno, davanti allo specchio. Fisso i tubetti come un ebete, mentre la mia mente si collega rapidamente a lei e poi a un qualsiasi evento della nostra storia pluriennale. Non poteva portarsele via, le sue maledette creme? Mi scuoto dai miei pensieri, le prendo e le sbatto violentemente dentro l’armadietto a muro, chiudendolo con veemenza. Mi rado, mi vesto e poi mi preparo una tazza di cioccolata. Non ho mai perso il vizio, sono ancora come un bambino di 10 anni. La sorseggio mentre sfoglio distrattamente il giornale del giorno prima, leggendo qualche notizia tralasciata a una prima lettura o rileggendo qualcosa che mi aveva incuriosito particolarmente. Una volta le leggevamo insieme, io e Adriana, ridendo di quelle più strane o incazzandoci insieme su quelle peggiori. E devo smettere di pensarlo tutte le mattine, comincio a sembrare patetico.
Quando torni single e sei ancora innamorato per strada noti solo le coppiette. Le vedi fare colazione insieme o chiacchierare in macchina, ferme al semaforo. È come essere l’unico spaiato di un mondo fidanzaticentrico; ti senti come il diverso, il mostro della Laguna Nera a eggio per le strade del centro. Fino a quando Adriana era accanto a me non ci avevo fatto caso, ma ora mi balza all’occhio come siamo diventati improvvisamente privi di ogni remora nel baciare la nostra ragazza davanti a tutti. I nostri nonni, probabilmente, non apprezzerebbero. Le coppiette si strusciano e avvinghiano sui marciapiedi e dentro i bar, davanti ad avventori che assistono ai peep show improvvisati di chi dimostra il proprio amore per la persona amata nel modo più naturale e istintivo possibile. Farei lo stesso, se potessi, quindi tutta questa attenzione alla cosa è banale invidia.
Mi fermo alla mia scrivania e guardo il mio computer con un po’ di sconforto: lavorare mi distrae dai miei pensieri tristi. Per almeno otto ore al giorno smetto di pensare che la donna che amo mi ha lasciato e penso che odio il lavoro che faccio. Potrebbe andare peggio.Controllo la posta e trovo una decina di mail di colleghi che si lamentano che il proprio PC d à dei problemi più o meno incomprensibili. Fare il sistemista in un’azienda significa affrontare rogne da “il gestionale non mi permette di fare l’operazione X” a “non riesco ad aprire il mio sito di gossip preferito”.Prendo un foglio che spunta dalla stampante e controllo la lista dei siti più visitati della settimana; ho l’ingrato compito di chiudere quelli che non riguardano strettamente il nostro lavoro e sui quali i miei colleghi perdono più tempo. Tutti tranne quelli sportivi, ché i miei superiori devono seguire il calcio minuto per minuto.
- Buongiorno! – cinguetta qualcuno alle mie spalle.
- Ciao Daria – rispondo, senza bisogno di voltarmi. Riconoscerei quella tonalità ovunque.
Daria va a sedersi due scrivanie più in là e lascia cadere la borsa sulla sedia,
mentre canticchia un motivetto, probabilmente Madonna. Daria ascolta solo Madonna. La musica è nata e morta con lei.
- Com’è stato il tuo fine settimana? – chiede, mentre accende il PC.
Grugnisco.
- Io sono uscita con le amiche, sabato sera. Siamo andate in quel nuovo pub in centro, hai presente? Il Tex Mex, quello dove si fa anche karaoke. Ti piace il karaoke?
- Mh – mugolo, storcendo il naso.
- Io mi diverto sempre un mondo. E poi con le mie amiche ci divertiamo un sacco a cantare anche se siamo stonate. L’altra sera ci hanno fatto l’applauso per il coraggio, guarda. Sorrido e la guardo mentre dispone sul tavolo una bottiglietta d’acqua naturale Evian a temperatura ambiente, una confezione di tic tac all’arancia, la foto della sua famiglia, tre penne – una rossa, una blu, una nera – e un pacchetto di fazzolettini di carta. Il rituale di ogni mattina.
- E tu? Stai uscendo, vero? – mi chiede con un po’ di apprensione.
- Sì, sì, stai tranquilla.
- E con chi esci?
- Con chi vuoi che esca? Con amici. Lo sai che sono tornato single, no?
Mi guarda con tenerezza. Lo so che mi è affezionata.
- Lo so.
Scrolla le spalle e si mette al lavoro; io le guardo la schiena, pensieroso. Sono diventato uno di quelli che si lamentano perché sono stati lasciati dalla fidanzata? Uno di quei noiosi figli di puttana che lo fanno notare in continuazione, rovinando cene e serate agli amici che hanno ancora la pazienza di invitarli?
- Daria, sono noioso?
- No, tesoro. Sei solo uno con il cuore spezzato come tanti – risponde, senza neanche voltarsi.
Io, questo, lo prendo come un sì.
Verso metà mattinata ho un meeting di sistemisti. Due ore perse con i nostri capi nel tentativo di trovare un modo per rendere le nostre piattaforme di lavoro più performanti. I capi parlano di business, di mood, di conference call e di altri termini inglesi che non vogliono dire un cazzo. I miei colleghi parlano di rete, di
fibre ottiche, di delay e di system meeting. Alla fine loro fanno delle proposte e i nostri capi le ascoltano, ma l’azienda non vuole sborsare un soldo e quindi si va tutti a casa senza avere guadagnato niente. E invece che sputarci in faccia a vicenda per tutta questa ridicola pantomima, ci si stringe le mani e ci si fa i complimenti per la professionalità.
Sono soddisfazioni.
- Posso parlarti un attimo?
Il mio capo sezione, il Dr. Colombari, mi dà una pacca sulla spalla per attirare la mia attenzione.
- Mi dica pure, posso fare qualcosa per lei? – chiedo, educatamente.
- Così, due chiacchiere – si stringe nelle spalle, mentre fruga in tasca ed estrae un pacchetto di sigarette.
Poggio il blocco di appunti e le mie chiappe sul tavolo. Il Dr. Colombari mi ha preso curiosamente in simpatia, dopo che sono stato assunto; spesso ha voglia di fare due chiacchiere, io gli parlo del più e del meno e lui mi racconta del suo divorzio. Porterà mica sfiga?
- E come va? So che sei stato lasciato dalla donna – chiede, mentre si porta una sigaretta alle labbra.
- Ah sì? – dissimulo il dolore di una coltellata al fegato – Le voci girano.
Ride animatamente e si a una mano tra i capelli grigi.
- Guarda, ti capisco. Quando ho divorziato, volevo parlarne con chiunque mi capitasse davanti, ma se arrivava un qualsiasi idiota e mi chiedeva come andava la separazione giuro che lo avrei strangolato con le mie mani. Sorrido anche io, mentre lui rigira la sigaretta con fare pensoso.
- Abbiamo firmato, sai? Io e Daniela, intendo.
- Ah sì? Siete definitivamente divorziati?
- No, no. Ci vorrà ancora qualche anno, ma diciamo che abbiamo messo nero su bianco che è finita. Indietro non si torna.
Annuisco. Chissà se è vero.
- È vero – dice lui, serio.
- OK.
- Sigaretta?
Me la offre ogni volta e ogni volta dico che non fumo.
- No, grazie. Non fumo.
Fatto.
Annuisce a sua volta e si rimette la sua sigaretta tra le labbra.
- Mi costerà un occhio della testa, ‘sto divorzio.
- Be' coraggio, ci guadagnerà in salute, no? Si libera di una storia che non funzionava più.
- Hai ragione – concorda. – Niente stress, niente litigi. E poi basta con quella rottura di coglioni di concerti di musica classica. Non ne potevo veramente più, cazzo; lei e i suoi maledetti quintetti d’archi.
- A me piace, la musica classica.
- Anche a me, è questo il problema.
Ride divertito e guarda la sua sigaretta con attenzione.
- Forse dovrei smettere di fumare.
- Male non le farebbe.
Fa un gesto come ad allontanare quello che ho appena detto.
- Mio padre ha fumato fino al giorno prima di morire, guarda.
- Com’è morto?
- Incidente d’auto. Si è distratto cercando di far funzionare l’accendisigari ed è andato a finire contro un camion.
- Vede? Se avesse smesso adesso sarebbe qui.
Ride ancora, rifilandomi un pugno alla spalla, credo di avere sentito un osso scricchiolare, ma mi convinco che non è così.
- Una sera dobbiamo uscire a berci qualcosa insieme, io e te – dice.
- Sì, certo. Perché no?
Non che muoia dalla voglia, ma che si risponde al capo, in questi casi?
- Magari tu porti qualche amica.
- Magari – bluffo.
Si guarda intorno con fare cospiratore e poi si sporge verso di me.
- Sto vedendo una, sai?
- Ah sì? Una sua amica?
- No, no, una stronzetta conosciuta in aereo.
Rabbrividisco alla definizione della sua nuova amichetta, ma del resto lui non ha mai brillato per finezza. Si a la mano grassoccia sulle labbra e mi guarda con gli occhi neri che brillano.
- È una ragazzina, avrà venticinque anni. Eravamo seduti uno accanto all’altra e
si è parlato.
- Venticinque? Le piacciono più giovani, eh?
Ride ancora e colpisce di nuovo, almeno ha la gentilezza di cambiare spalla. Per uno che ha ato i cinquanta ha una discreta potenza, quando va a segno.
- Ha un culetto sodo che non ti dico. Mi ero dimenticato come erano fatti i culi delle ragazzine.
- Sì. Posso immaginare – l’immagine delle sue mani sul sedere di una ragazza mi terrorizza.
- Comunque, me la sono scopata. Già due o tre volte.
Sorrido, sperando che non lo interpreti come un incoraggiamento ad andare avanti.
- Questo week end me la scopo di nuovo.
Tentativo fallito.
- Quindi è di nuovo impegnato – provo a spostarmi dal lato fisico del discorso.
Si mette a ridere e mi sbriciola la spalla con un altro pugno.
- No, scopo e basta.
Non ne imbrocco una, oggi.
- Capito. Mi pare le faccia bene, però, la vedo bello rilassato.
- Eh cosa vuoi farci? Una nuova relazione fa sempre bene. Lei poi a letto è
Alzo la mano per interromperlo e prendo il cellulare dalla tasca, fingendo che stia suonando.
- La vibrazione – rispondo al suo sguardo dubbioso.
Fingo di parlare con un amico e prendo tempo; il mio capo indica la sigaretta e, a gesti, mi comunica che va a fumarsela. Annuisco e strizzo l’occhio con fare complice. Vada, vada a fumare. Parli di sesso con il primo che incontra in ascensore. Mi lasci in pace. Grazie. Avrei voglia di prenderlo per il collo e portarlo a forza davanti a uno specchio. Di farlo rimirare e dirgli “Ma lo vedi chi sei? Un uomo di mezz’età che parla come uno scaricatore di porto di una conosciuta in aereo. Stai divorziando, Cristo, e invece di stare a pensare a cosa cazzo hai combinato per fare fallire il tuo matrimonio, stai lì tutto tronfio a goderti una ventenne che Dio solo sa
cos’ha in testa, per scoparsi uno come te.”. Poi mi ricordo che la sera prima una perfetta sconosciuta me lo ha succhiato nel bagno di una discoteca. Ecco. Alla fine non mi posso mica permettere di fare il moralista.
A pranzo Daria si materializza alla mia scrivania con in mano la sua borsetta di Dolce & Gabbana e mi guarda, sorridente in modo inquietante.
- Ho qualcosa sulla faccia? – chiedo.
- Pranza con me. Vorrei presentarti una persona.
Metto giù la circolare che stavo leggendo – o che facevo finta di leggere, mentre navigavo e cercavo notizie su World of Warcraft – e scuoto la testa.
- No, no, grazie. Ho un panino, una rivista di musica e mi godrò un po’ di quiete.
- Insisto.
- Grazie, sul serio, ma sto bene qui.
- Insisto.
- Hai per caso sentito quello che ho detto?
- Insisto.
- Suppongo che non ci sia modo di farti rinunciare. O quanto meno di farti smettere di dire “insisto” in quel modo querulo, vero?
Sorride. E basta. Era quasi meglio “insisto”.
Andiamo a mangiare in un bar poco lontano dal nostro ufficio e lì mi presenta Cora.
“Che cazzo di nome è, Cora?” è la prima domanda che vorrei farle, ma mi attengo alle solite banalità. È un’amica di Daria, ovviamente, e lavora nel nostro stesso ufficio, solo che sta al quinto piano, reparto progetti in sviluppo.
- Ti piace il tuo lavoro? – chiedo, mentre siamo in fila alla cassa.
- Lo odio – risponde, ridendo.
- Strano. Suona interessante.
- Tu sai di cosa ci occupiamo?
- No.
- Ecco. Neanche io.
La guardo sorpreso, mentre lei ordina un’insalata e dell’acqua gassata.
- Allora, cosa fai di bello, sabato sera? – chiede Daria, improvvisamente.
- Non lo so. Forse esco con degli amici.
- “Forse esco con degli amici” – mi scimmiotta. – Vuol dire che non hai impegni, no?
- Corretto.
- Perché non vieni con noi? C’è una festa anni ’80 al Paradiso , ci si diverte.
Si scambia un’occhiata con Cora, che annuisce.
- Oddio. Gli anni ’80. Si celebrano ancora?
- Gli anni ’80 sono i nuovi anni ’50. Prima c’era Elvis, ora c’è Madonna – afferma la mia collega, prima di addentare una fetta di pane integrale.
- Ci abbiamo guadagnato – commento, sarcastico.
Daria mi guarda male, io alzo la mano in gesto di resa.
- Be' se venissi a noi farebbe piacere. Puoi portare anche la tua ragazza, eh? Non è un problema – interviene Cora.
Sento la mia faccia che si sgretola, per fortuna ci pensa Daria a venirmi in soccorso.
- È stato appena lasciato dalla fidanzata.
Per fortuna un cazzo.
- Oh – è il laconico commento di Cora.
- Eh – cerco di non rendergliela facile, quanto meno.
Cala un silenzio imbarazzato e io odio tutto questo. Odio la mia ragazza per avermi lasciato, odio me stesso per averle permesso di ridurmi in questo stato da sfigato, odio chiunque mi parli della fine della mia relazione.
- Fanculo – sbotto. – Vada per la festa anni ’80 – dico.
Daria annuisce soddisfatta.
- Bravissimo. Non te ne pentirai, te lo prometto!
- Ci divertiremo – mi dice Cora, guardandomi negli occhi.
Annuisco poco convinto, ma qualsiasi cosa pur di parlare d’altro.
Il giorno che Adriana mi ha lasciato era cominciato benissimo. Avevo dormito bene, ero fresco e riposato ed ero andato a correre. Sono rientrato in casa e lei era seduta sul divano; con il senno di poi era abbastanza strano che stesse lì seduta, senza fare niente, a fissare il vuoto. Ma è sempre stata particolare e non ci ho dato molto peso. L’ho baciata e sono entrato a farmi la doccia. Sono uscito dal bagno in accappatoio e fischiettando un motivetto jazz sentito alla radio la sera prima, stavo pure imitando la tromba, a ben pensarci. Adriana era sulla soglia con le valigie pronte. Sul momento ho pensato che era stata un lampo, a prepararle; solo dopo ho realizzato che l’aveva fatto precedentemente, che chissà da quanto aveva organizzato il tutto.
- Ti lascio.
Solo due parole e avevo già capito che non si tornava indietro. Che poi, cazzo, che vorrà dire non lo so. Semplicemente, sul momento non mi rendevo conto; ora invece, con il famoso senno di poi, so che non avrei potuto dire niente per farla restare. L’unico modo era stordirla e tenerla legata al letto come Annie Wilkes faceva con Paul in Misery , ma dubito che avrebbe giovato alla nostra relazione.
Che diavolo vuole dire “ti lascio”?
Mi lasci dove? Sono un pacco? Sono un cane che liberi dal guinzaglio, così che possa correre felice per il parco, mentre lo segui con paletta e sacchetto e lo sguardo vagamente annoiato? Dimmi che te ne vai. Dimmi che non mi ami più – ma anche no, eh? - Andrebbe bene lo stesso. Al massimo dimmi – Dio ce ne scampi e ce ne liberi – che vuoi una pausa per riflettere su di noi, sulla nostra relazione, su come mai, dopo tutti questi anni, a letto facciamo ancora faville, mentre tu non sei capace di ricordarti il mio piatto preferito.
Ma non “ti lascio”.
“Ti lascio” è abbandono. È come un vestito che, una volta indossato a casa, ti rendi conto non essere bello come al negozio, quando l’hai provato e comprato sull’onda dell’entusiasmo. Non c’è una commessa che ti rassicura e allora lo lasci. Ecco. Il vestito sì, non me. Perché non stai lasciando una persona. Stai lasciano una vita intera, dei ritmi, un sistema basato su noi due, sui nostri battiti cardiaci e mi getti nella solitudine, nel
dover ricominciare da capo. Sei come quei genitori che insegnano ai figli ad andare in bici e li rassicurano che li terranno, dopo che hanno tolto le rotelle di o, che non li faranno cadere. E poi, a tradimento, staccano le mani. E io sono caduto.
- Mi dispiace per la fine della tua storia e per avertela ricordata. Spero tanto che verrai alla festa, sabato. Mi farebbe molto piacere.
Cora.
Trovo la sua lettera nella casella mail dell’azienda. Sul momento sono tentato di segnalarla come spam e cancellarla; del resto da quand’è che abbiamo tutta questa confidenza? Non è che un pranzo ci renda intimi, eh? Ma in fondo vuole solo essere carina, credo. Vado a prendermi un caffè e scambio due chiacchiere con i colleghi: calcio, figa, calcio, politica-di-sfuggitama-solo-per-deviare-sulla-figa. E cinema. Metà di loro hanno ancora i gusti di un adolescente ritardato che non va oltre i Transformers . Appena cito i Coen cadono dalle nuvole e allora ci prendo gusto e comincio a citare anche Kiéslowski e Godard, per il puro piacere di decifrare lo sguardo ebete di chi non prende in considerazione un film dove non ci sia un’esplosione ogni tre minuti. Me ne vado conscio che mi considereranno uno stronzo presuntuoso e dai gusti da sfigato. Probabilmente è vero, ma voi restate dei ritardati.
La sera torno a casa e preparo la borsa per la palestra. Come ogni uomo che viene lasciato ho deciso che la mia salvezza consiste negli addominali a guscio di tartaruga e quindi ho ricominciato a fare movimento. Il mio istruttore era perplesso quando ho spiegato cosa volevo.
- Ha presente il film 300 ? Oppure Brad Pitt in Troy , quando faceva Achille? Ecco, voglio quegli addominali lì. Poi il resto magari può essere anche di pasta frolla, ma devo avere quegli addominali.
Mi ha lanciato una lunga occhiata e ha preso qualche appunto su una scheda, poi ha smesso di scrivere e mi ha studiato, con gli occhi semi chiusi.
- È stato lasciato dalla ragazza, vero? – ha chiesto, poi.
Colpito e affondato.
Ma ho deciso che, se è così perspicace, merita i miei soldi e mi sono iscritto alla sua maledetta palestra. Che tra l’altro è la più lontana da casa tra tutte quelle che potevo scegliere, ma lo sguardo e l’affermazione sulla mia situazione sentimentale non lasciavano dubbi: quell’uomo farà di me una fascia di addominali o morirà nel tentativo. O morirò io, visto che mi ha prescritto una dieta che mi rifiuto categoricamente di seguire e un programma che ho interpretato secondo il gusto del momento. Per dire: una pausa di trenta secondi tra una serie di addominali e l’altra. Perché? E poi i trenta secondi si cominciano a contare nel momento in cui è finito l’ultimo addominale o prima si lascia che i muscoli si rilassino un attimo e si comincia a contare?
- Ho visto che hai saltato i bicipiti. Pompa – mi comunica lui, quando mi becca che maramaldeggio.
“Pompa” è il suo modo di dire per spiegarmi che devo impegnarmi e darmi da
fare. L’ho detto io: morirà nel tentativo. La palestra è mediamente frequentata, per lo più da ragazzi che si trovano nelle mie stesse condizioni: fuori forma, leggermente appesantiti, umiliati da attori e modelli che mostrano mascelle volitive e muscoli d’ordinanza. Quando si dice che le modelle anoressiche sono un pessimo esempio per le adolescenti e uno spietato metro di paragone per le donne medie, ci si dimentica sempre che anche i maschi hanno la loro croce. Fidanzate e mogli che sospirano guardando i film: uomini con la barba lunga, non fatta da giorni, e lo sguardo tenebroso; se volessimo saltare un giorno la rasatura, le nostre ragazze si lamenterebbero che sembriamo sporchi, trasandati e che le pungiamo quando ci baciano. E poi ci sono fasce muscolari definite e forti, così definite che ogni tanto mi chiedo se ne possiedo anche io o se vanno trapiantate con apposite operazioni. La prima volta che ho ripreso a fare palestra, il giorno dopo ero tutto sommato positivo. Non avvertivo stanchezza o dolori particolari. Ma il giorno dopo, al risveglio, ero un indolenzimento muscolare su due gambe. Mi faceva male ridere, mi faceva male scrivere alla tastiera, mi faceva male persino andare in bagno. Sono rimasto seduto alla mia scrivania del lavoro, combattuto tra il desiderio di non sentire ancora dolore e quello di non farmela addosso davanti ai miei colleghi.
- Vuoi davvero fare la panca con cinque chili? Mettine almeno 30. Pompa – ordina il mio sergente istruttore.
A ben pensarci potrei essere io, quello che non esce vivo dallo scontro.
A casa trovo una chiamata sulla segreteria telefonica. Quando premo il tasto per ascoltarla, dall’altra parte giungono solo singhiozzi e sospiri. Nessuna parola. Neanche una sillaba. Rimango pazientemente ad ascoltare, fino a quando il messaggio si conclude con la cornetta che viene riappesa. Sospiro anche io, mentre fisso il registratore, stanco.
Era Adriana.
3
Suono alla porta di Massi, ultimamente mi capita spesso. Non riesco a dormire e allora me ne vado a casa sua, sicuro di trovarlo sveglio. E infatti lo trovo che sta giocando con la X Box a Grand Theft Auto IV . I videogiochi sono un’altra delle sue grandi ioni, accanto al televisore vedo una pila di custodie contenenti giochi di ogni tipo. Sullo schermo vedo il personaggio di Massi picchiare un tassista e rubargli la macchina, scorrazzando per le strade. Improvvisamente si ferma e carica quello che sembra essere un cliente.
- Cioè hai rubato una macchina per fare il tassista? – chiedo, incredulo.
- Taci. Non puoi capire la grandiosità di questo gioco.
- Io capisco solo che dovresti essere un mezzo criminale e che invece stai portando uno al cinema.
Sbuffa, mentre le dita si muovono freneticamente sul joypad.
- Come va con Warcraft , gaia elfetta? Ti picchi ancora con gli Orchi cattivi?
- Succhia.
Due bambini delle elementari, praticamente.
Mi stendo sul divano e prendo una rivista di cinema, ogni tanto do un’occhiata allo schermo della tv e guardo Massi che impreca mentre gioca e si accende delle sigarette e beve della birra e si gratta. Non so dove nasconda tutte quelle mani, quando esce di casa.
- Allora? Come va, sfigato? – chiede, in un attimo di pausa.
- Come al solito.
- Così male?
- Ecco. Continuiamo così, dai; trent’anni ati e ancora stiamo a citare Guerre Stellari , nelle nostre conversazioni.
-
è Ying e Yang. Guerre Stellari è l’unica cosa di cui ha bisogno un uomo, a parte l'alcool e le donne. Lunga vita a Guerre Stellari .
- Lunga vita – concordo.
Butta via il pad e spegne la console.
- Birra? – chiede.
Sparisce dalla cucina e torna con due lattine, mi lancia la mia e quando la apro riesco miracolosamente a non inzupparmi fino alle ossa. Massi si lascia cadere sul divano, dandomi il tempo di levare le gambe, prima che me le spezzi con il suo non trascurabile peso.
- Lo sai che non mi piaceva, Ale. So che stai male, ma sono sicuro che la fine della vostra storia sia una grande cosa - dritto al punto, come piace a lui.
- Lo so – bevo un sorso di birra. – Tu lo sai che non capisci un cazzo di donne e di relazioni serie, vero?
Si mette a ridere e posa la lattina sul tavolino, prima di accendersi una sigaretta.
- È una brava ragazza, ma non è stabile e tu, amico mio, avevi fatto tutto il possibile.
Abbiamo fatto questo discorso tante volte e nessuno dei due ha ancora cambiato idea. So che dice delle cose vere, ma non mi aiutano a uscirne, né mi permettono di accettare più facilmente quello che è successo.
- Stavo bene, con lei – mi difendo.
- Perché hai la sindrome della crocerossina. Comprati un cane zoppo e sarà la stessa cosa.
- Ehi.
Scrolla la cenere dentro la lattina ormai vuota e rutta rumorosamente.
- Sei sempre un uomo di classe – osservo.
- Lo so. Le donne me lo dicono sempre. E a proposito di donne: l’altra sera me ne sono fatte due. Insieme.
Smetto di bere la birra e lo guardo stupefatto.
- Due insieme?
- Sono un dio dell’Olimpo. Sono il tuo Zeus e tu sei il mio umano che mi guarda adorante.
- Ma erano sveglie o in coma etilico?
- Stronzo – ride.
Poggio la testa al bracciolo del divano e fisso il murales sul soffitto: il poster di Apocalypse Now riprodotto con tintura a olio.
- Comunque erano due tizie conosciute quella sera. Un po’ erano sballate, sarò onesto; forse ecstasy.
- Ah: i giovani e le droghe..
- Una piaga, una piaga. A parte quando mi permettono di sbatterlo dentro a due tizie mezze rintronate.
- Ti ho già detto che sarà la classe a ucciderti?
- Mi pare di sì. Una era talmente eccitata che a un certo punto ha cominciato a implorarmi, capisci? Mi implorava. Letteralmente. E io giù che glielo sbattevo dentro.
- Troppe informazioni! Troppe informazioni!
- Sono James Brown reincarnato, cazzo.
- Sei bello soddisfatto di te - noto.
Lui scrolla le spalle e si lascia cadere contro lo schienale.
- Non tanto. In fin dei conti erano talmente fatte che probabilmente oggi non si ricorderanno niente. Ma in quel momento è stato tutto epico.
Rimango a fissare il soffitto e penso che ho fatto sesso con una sola donna, in vita mia. Adriana, ovviamente. E poi c'è stata Sandra, l'altra sera, che si è presa cura del mio pene con tanta grazia.
- Sono praticamente vergine - ammetto.
- Non posso neanche spacciarti per un semi usato, guarda.
- Vero.
- Ma ad alcune donne piace e poi, cazzo, mica ce l'hai scritto in faccia, no? Basta che la pianti di raccontare che la tua ragazza ti ha piantato a chiunque incontri.
- Io non racconto a chiunque incontro di Adriana!
- Scherzi? È il tuo nuovo biglietto da visita, ormai. Tra un po' la gente dirà "lo conosci Alessandro?" "Chi quello che è stato lasciato dalla donna?". Alessandrosenza-donna, ecco come ti chiameranno.
Ci penso su un attimo.
- Ci sono soprannomi peggiori - suggerisco.
- Sì, come no. C'è Alessandro-con-una-palla-sola, ma solo perché fa di te un freak.
- OK. Forse tendo a parlarne un po’ troppo, ma cerca di capirmi, sono appena uscito da una storia importante.
- Ale, per carità, non lo metto in dubbio, ma non sei d'accordo che un tuo amico dovrà avvisarti, quando comincerai a esagerare con la storia dell'abbandonato e depresso?
- Ma certo - ammetto, - se uno è mio amico dovrebbe dirmelo.
- Ecco. Allora sappi che con la storia dell'abbandonato e depresso hai già rotto il cazzo da una vita e mezzo.
Punto. Set. Partita.
Esco dal bagno e vedo il portatile di Massimiliano sulla scrivania; mi avvicino e sbircio i fogli sparsi in giro, pieni di annotazioni, di tracce di penna rossa e di note a margine.
- Come procede il nuovo romanzo? - chiedo.
- Benissimo. Con questo faccio il botto, guarda.
- Non hai detto la stessa cosa con gli ultimi due? - chiedo.
- Succhia.
Sorrido e prendo qualche foglio, scorrendo rapidamente le righe: si tratta di una scena ambientata in un commissariato; qualcuno sta interrogando qualcun altro.
- Di che parla?
- È un noir ambientato in Sardegna.
- Sardegna? - chiedo, allibito.
- È un territorio poco sfruttato, nella letteratura, fidati.
Non so se Massimiliano sia bravo o meno, come scrittore; quello che scrive a me piace, di solito, a parte qualche ardito esperimento di racconti fantascientifici. Ha uno stile diretto e senza fronzoli che non mi annoia quasi mai e sceglie storie semplici, ma di norma abbastanza divertenti. Non sono un gran lettore, né ho la capacità di dire se il suo stile sia abbastanza maturo per la pubblicazione, quindi mi faccio are quello che scriv e e gli do un parere sionato. Se poi lui tenga conto o meno di quello che dico, è un mistero. Il grosso difetto di Massimiliano è che non ha naso per i soggetti; per quelli altrui soprattutto. Di solito stronca ottime idee, giudicandole delle stronzate abissali e rimanendo poi di stucco quando hanno un successo fenomenale. Se questo possa essere un ostacolo o meno nella sua carriera di scrittore, non lo so, ma restano numerose le sue cantonate in campo letterario ("Ti dico una cosa in tempi non sospetti, Ale: Il diario di Bridget Jones sarà pure divertente, ma ha le stesse possibilità di vendere quante ne ho io di scoparmi Cindy Crawford, fidati"), cinematografico ("Mi vuoi davvero dire che andrai a vedere Moulin Rouge ? Amico mio, quello sarà il flop del secolo. Come fa la Kidman a sputtanarsi con roba simile?") e televisivo ("Una serie televisiva che parla di un gruppo di naufraghi su di un'isola misteriosa? Dio, deve essere una palla pazzesca!"). Nonostante questo continua a seguire le sue ispirazioni senza lasciarsi scoraggiare, neanche quando qualcuno gli dice che la sua idea di base fa schifo. La verità è che Massimiliano è sempre stato molto più sicuro di me, in merito a quello che voleva e a come ottenerlo.
- Quando hai qualcosa di pronto, mi farebbe piacere leggerlo - mi offro.
Annuisce e poi, con un sospiro, butta via il joypad, prima di spegnere la sigaretta nel posacenere.
- Io vado a dormire - annuncia, - ti preparo il divano?
Ultimamente mi capita spesso di dormire a casa sua. Oggi non fa eccezione.
Il mattino dopo mi sveglio e preparo la colazione; Massi esce di camera con indosso una vestaglia color grigio topo sopra una maglietta e dei boxer, gli occhi coperti da un paio di rayban stile Blues Brothers. Lo guardo avviarsi verso il bagno, dopo avermi salutato con un grugnito, e mi chiedo cosa combini la notte, per ridursi in quello stato.Verso il caffè nelle tazzine, poi metto un sacco di biscotti a tavola e mi siedo. Il mio amico mi raggiunge dopo poco e si siede anche lui, senza dire nulla. Trangugia due o tre biscotti e sorseggia il caffè caldo, prima di alzare gli occhiali scuri e guardarmi come se mi vedesse la prima volta dopo anni.
- Hai dormito bene? - si informa.
- Non mi lamento.
- Bene.
Riabbassa gli occhiali e sprofonda la faccia tra le braccia, mentre sospira rumorosamente. Io giro il cucchiaino nella tazzina del caffè, lo sguardo fisso sul poster di Pulp Fiction appeso alla parete, uno delle decine che tappezzano le pareti.
- Senti - comincio, - quella tipa dell'altra sera, Sandra, hai per caso il numero di
telefono?
Lui gira la testa, tenendola poggiata alle braccia, ma ora fissandomi direttamente.
- Direi di sì. Vuoi chiamarla?
Ci penso un po’, prima di rispondere. Il nostro incontro mi ha lasciato un senso di incompiuto, come se fosse mancato qualcosa, come se avessi mancato io di fare qualcosa. Glielo dico.
- OK – commenta, laconico, prima di scrivere il numero sul retro di un vecchio scontrino. – Ma non è la ragazza giusta per te – aggiunge, dopo.
- Mica ho detto che mi sono innamorato.
- No. Però non è la ragazza giusta.
- Un giorno mi dovrai spiegare com’è, la ragazza giusta per me.
Rimane in silenzio e rigira il cucchiaino nella tazzina di caffè ormai vuota. Poi scrolla le spalle e affonda la testa tra le braccia. Lo lascio nel suo duro risveglio e mi limito a guardare fuori dalla finestra.
Durante la giornata provo a chiamare un paio di volte Sandra, ma trovo il cellulare sempre spento. Riprovo un’altra volta a pranzo, ma ancora una volta faccio fiasco. Mi rilasso, sulla panchina del parco nel quale sono andato a mangiare, e mi godo il tempo mite: il sole filtra tra le poche nuvole, non fa troppo freddo, si sta bene. Poco lontano vedo degli allestitori che stanno montando un palco, evidentemente ci sarà qualche manifestazione da lì a poco. Faccio due i e mi avvicino, guardandoli con finto interesse, mentre in realtà penso ai fatti miei. Uno dei manovali ha indosso una maglietta con su scritto “Tua sorella è sexy, ma tua mamma fa quella cosa con la lingua”. Ridacchio e lui mi guarda malissimo, probabilmente fraintendendo. Ritorno serio e mi allontano, sentendo il suo sguardo sulla nuca; vedo movimento poco più in là e mi avvicino cercando di mettere quanta più distanza tra me e loro. Un nutrito gruppo di ragazzi sta lavorando a quello che, inizialmente, sembra essere un ammasso informe di stoffa, paglia e pezzi di canna. A una seconda occhiata appare come un pupazzo in fieri, una versione gigante dello spaventaeri de Il mago di Oz . È assemblato come se fosse un enorme burattino, atto a ospitare una persona, come se fosse un'armatura in stoffa per proteggere dai folletti. Mi fermo a guardare i ragazzi che ci stanno lavorando - ne conto cinque, tutti col look molto bohemienne: capelli lunghi, rasta, magliette variopinte, jeans strappati e gonne vaporose o pantaloni sformati.Li guardo e provo una vaga invidia, sembrano alquanto felici e liberi; a volte vorrei sentirmi così anche io. Mi riprendo da questi pensieri e mi accorgo che una ragazza del gruppo mi sta osservando. Le sorrido in segno di scusa e lei sorride a sua volta, prima di tornare al suo lavoro. Ha delle lentiggini appena accennate sul volto che le danno un po’ l'aspetto di una bambina intrappolata nel corpo di un adulto. Suona il telefono e guardo di chi è la chiamata, prima di rispondere.
- Ciao, papà!
- Ciao Ale, sono tuo padre - mi comunica.
- L'avevo intuito. Nel momento in cui ti rispondo chiamandoti per nome, di solito, vuol dire che so chi sei - silenzio. Non ha capito la battuta. - Tutto bene?
- Ma sì, tutto a posto. Mi annoio un po’.
- Di solito la gente, quando va in pensione, si rilassa e fa quello che non poteva fare prima.
- Oh sai, cos'è che non facevo, prima? Viaggiare? Assaggiare nuovi cibi? Leggere libri?
- Potresti viaggiare per il piacere di andare in una città e visitarla per davvero suggerisco.
- Oh sai, il turismo...
- Io non concepisco una persona che è stata a Londra una trentina di volte e non ha mai visto Buckingham Palace.
- Tanto non mi fanno entrare, l'ho letto su Internet.
Tipico.
- Che ne dici se o da te per bere qualcosa? - chiedo.
- Se ti va, a me fa piacere.
Ma dalla voce capisco che non potevo dargli migliore notizia. Quando chiudo la telefonata mi accorgo di essere fermo davanti ai ragazzi che lavorano a quella specie di pupazzo. La ragazza che mi ha salutato prima è in ginocchio, ai miei piedi, che intreccia delle corde.
- Ti piace? - chiede, improvvisamente.
Ci metto un secondo, a realizzare che sta parlando con me.
- Sì, molto. Quando avrò capito che cos'è credo che mi piacerà ancora di più.
Ride, di una bella risata luminosa, piacevole a sentirsi.
- Non ti resta che venire a vederlo tra un paio di giorni.
- Dove?
- Qui in piazza. Ci sarà il festival degli artisti di strada.
Fa un cenno con il capo e indica un manifesto arancione appeso a un lampione;
quando lo vedo ricordo di averne già notati diversi in giro. Un festival di burattinai, acrobati e artisti vari, impegnati a colorare le strade con la loro presenza.
- Magari sì - concedo.
Lei annuisce, mentre continua a lavorare; le dita che si muovono agili e piegano la corda al proprio volere.
- Mi chiamo Alessandro - allungo la mano e lei la stringe.
- Carlotta, piacere.
- Ti occupi di pupazzi?
- No, faccio parte del teatro comunale - si asciuga il sudore dalla fronte. - Stiamo organizzando una cosa diversa, un po’ etnica. Lo vedrai.
- Sembra molto bello.
- Lo sarà, ne sono sicura.
Qualcuno la chiama, lei si alza in piedi e lo raggiunge a o di corsa, dopo
avermi salutato con un cenno della mano. Guardo lei e poi il pupazzo: non saprei neanche da dove cominciare, con una roba del genere.
I miei genitori hanno divorziato molti anni fa e ora vivono separati. Mia madre si è trasferita di città, è tornata a casa sua, in Toscana, dai fratelli, mentre mio padre ora vive da solo nella nostra casa. È andato in pensione dopo una vita come agente commerciale estero per un'azienda di gomma. Ha viaggiato per tutta Europa per affari, così tanto che ora ha la nausea al solo pensiero di dover prendere un aereo; ma c'è stato un periodo in cui lasciava una valigia con i vestiti necessari per le sue permanenze nei depositi bagagli di tutte le grandi capitali europee, così da non doverne preparare una a ogni viaggio. Ora si annoia un po’, a le giornate scrivendo un suo saggio sull'economia europea del dopoguerra, accarezza da tempo l'idea di riuscire a farsi pubblicare. Poi vede qualche amico, si gode lo sport in televisione, ma poco altro. Non abbiamo mai parlato chiaramente della cosa, ma credo che sia ancora molto innamorato di mia madre.
Mi viene ad aprire con indosso una vestaglia, sotto la quale ha degli abiti di tutti i giorni: pantaloni di velluto, un cachemire e una camicia a quadri. Ci abbracciamo e mi fa cenno di seguirlo per l'appartamento. È meno in disordine del solito, la governante deve essere ata da poco.
- Posso chiederti perché indossi una vestaglia sui tuo vestiti?
Mio padre si ferma e abbassa lo sguardo, perplesso.
- Ah ecco dov'era.
- Già. E ricordami di non chiederti mai dove tieni le mutande.
Sorride e riprende la sua marcia verso il salotto.
- In realtà la stavo portando verso la camera, poi mi sono chiesto da dove nascesse la parola "vestaglia" e sono andato a prendere il dizionario etimologico.
- E l'hai trovato?
- No, per l'appunto. E siccome mi sono messo a cercare, l'ho indossata perché non mi intralciasse - si ferma e mi guarda, silenzioso, come se stesse ricostruendo tutti i aggi. - E quindi eccomi qui.
Annuisco in silenzio e ci guardiamo per un istante senza dire niente, poi gliela indico con un dito e lui se la leva precipitosamente.
- Siediti. Cosa ti offro da bere? Ho dell'ottimo vino, ti va?
- Sì, il vino va bene.
Sparisce in cucina e io guardo il salotto invaso da libri e fogli di appunti sparsi ovunque. Mio padre e l'ordine non sono mai andati tanto d’accordo; caratteristica, questa, che devo avere in parte ereditato anche io.
- Come procede il libro?
Mio padre fa ritorno con due bicchieri di vino rosso e mi porge il mio.
- Bene, bene. Salute.
Sollevo il bicchiere in un brindisi, prima di bere; il sapore del vino è atroce, una brodaglia acidula, con un retrogusto pungente. Sputo nel bicchiere il sorso che avevo preso e guardo allibito mio padre, che ancora non ha toccato il suo.
- E questo sarebbe l'ottimo vino? - chiedo, basito.
- Non è buono?
Lo assaggia e si rigira il vino in bocca per un po’, assaporandolo, gli occhi rivolti verso l'alto. Alla fine deglutisce e tira fuori la lingua, agitandola all'aria.
- In effetti è un bello schifo. Chissà da dove salta fuori.
Mi prende il bicchiere e riscompare in cucina, mentre io mi guardo intorno. C'è il profumo di papà, nell'aria, lo stesso dopobarba che usa da quando ero piccolo; mi sento tornato bambino e mi godo questa sensazione, convinto che mio padre mi proteggerà da ogni cattivo pensiero.
- Allora, come sta Adriana? - chiede, mentre prende posto sulla poltrona e apre una bottiglia di birra.
- Bene - rispondo, prendendola. - Credo.
Mi lancia un'occhiata, prima di aprire la propria.
- Problemi?
- Mi ha lasciato.
Smette di lottare con l'apribottiglie e mi guarda, sorpreso. Non gli avevo ancora dato la ferale notizia; in effetti era un po’ che evitavo l'argomento, forse speravo, inconsciamente, che le cose tornassero a posto, prima che lui venisse a sapere. Evidentemente le cose non sono tornate a posto. Mio padre sospira e mette giù la bottiglia, poi mi guarda, serio.
- Sai, non voglio offenderti, ma non sono sorpreso, sinceramente. Io vi guardavo e mi chiedevo solo quando sarebbe successo, quando vi sareste lasciati.
- Mi ha lasciato lei.
- Certo che ti ha lasciato lei, Alessandro, certo. Me lo aspettavo, sapevo che
prima o poi l'avrebbe fatto. E sai perché lo sapevo? Perché tuo papà ha sempre capito le persone. Per carità non era una cattiva ragazza, né penso che avrebbe mai potuto farti del male volontariamente, ma insomma, coraggio, era chiaro che prima o poi lo avrebbe fatto. E poi, diamine, era piena di stranezze, di cose che non andavano, problemi continui, fisime. E tu, che sei troppo buono, continuavi a sopportare e ti sottomettevi, sperando che un giorno sarebbe stata meglio. Ma non andava così, queste cose non vanno mai così. E dai che ci dai, alla fine, tu sei qui, solo, con il cuore a pezzi e lei chissà dove a godersi la vita o forse, povera ragazza, a scaricare le sue ansie su un altro poveraccio che ha preso il tuo posto. Ma lascia che ti dica una cosa, Alessandro, questa cosa, questa rottura, è un momento fortunato. È il momento di riprendere la tua vita, di ricominciare a viverla, ora che ti sei liberato dell'inutile zavorra che ti pesava sulla schiena. Devi prendere al volo quest'occasione, rilassarti e ricominciare. Lì fuori è pieno di ragazze altrettanto belle e, grazie al cielo, con molti meno problemi. Tu sei un bel ragazzo, sei intelligente, sei sveglio, sono sicuro che sarai capace di trovarne un'altra in men che non si dica. E so che anche tu lo hai capito, vero? Sei d’accordo con me, no? Hai capito quello che sto dicendo, vero?
- L'amo ancora.
- Non hai capito un cazzo.
Mi guarda e ci mettiamo a ridere tutti e due.Usciamo a fare due i; lo accompagno fino all’edicola a comprare il giornale e una rivista di architettura. Cosa se ne farà uno che vive nel casino più completo non lo capirò mai, ma alla fine anche io amo leggere guide turistiche e non mi sono mai mosso da qui. Abbiamo tutti un’altra metà di noi che, potenzialmente, vorrebbe e saprebbe fare qualcosa che ci sembra lontanissimo dalle nostre reali capacità. Forse dovremmo solo lasciarla andare. Forse siamo noi l’altra metà, che quelle cose non le sappiamo fare, ma ne sappiamo fare altre, e siamo stati lasciati andare a nostra volta. Forse un giorno uno si sveglia e si scopre una persona diversa.Lo dico a mio padre. Lui mi guarda con occhi indecifrabili, poi mi sorride come solo lui sa fare e mi carezza la testa. Gli voglio bene anche solo per questo.
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Sono sotto casa di Massimiliano, seduto in macchina, e aspetto che scenda. Ho avuto l’eccellente idea di invitarlo con me alla festa anni ’80 di Daria e ora ne pago pegno. Controllo l’orologio per la decima volta negli ultimi venti minuti e sbuffo: se non fosse il mio migliore amico me ne sarei già andato. Mi arriva un messaggio della mia amica, mi chiede dove mi trovo e io non so neanche cosa risponderle. Millanto un incidente stradale che blocca il traffico, ma i vigili ci stanno facendo defluire, se la deviazione non è troppo incasinata arrivo tra poco, scusa, ciao. Mentre il cellulare macina il mio SMS e cerca di spararlo attraverso l’etere, Massi fa la sua comparsa in strada. Lo osservo allibito: veste una giacca con le spalline e le maniche arrotolate fino ai gomiti. I capelli lunghi sono inondati di lacca spray e i jeans che indossa sono arrotolati alle caviglie. Mi fa un cenno di saluto con la mano, mentre si avvicina, e sale in macchina; poi si accende una sigaretta e guarda davanti a sé. Io non riesco a levargli gli occhi di dosso.
- Be'? – chiede, quando realizza che non metto in moto.
- Come cazzo sei vestito?
Lui si lancia un’occhiata accurata, prima di rispondere.
- Non è una festa anni ’80?
Annuisco.
- Sono vestito anni ’80. Piuttosto, come sei vestito tu?
Guardo la camicia che porto sui pantaloni neri. Mi sento fuori posto ancora prima di arrivare alla festa. Incredibile. Dovrei vivere nel mondo di OZ. E probabilmente mi sentirei fuori posto anche lì, perché mi ritroverei circondato dai maledetti nanetti canterini. Lungo la strada guardo le macchine che ancora sono a so, chissà dove va tutta quella gente, a quell’ora. Il mio cellulare suona e, mentre mi contorco per riuscire a recuperarlo dalla tasca dei jeans, Massi è così gentile da tenere il volante.
- Pronto?
C’è una voce femminile che non riconosco, dall’altra parte. Sbircio il display, ma il numero risulta sconosciuto.
- Chi parla? – chiedo.
- Dimmelo tu. Ho trovato delle chiamate da questo numero sul mio cellulare.
- Sandra? – realizzo.
- E tu chi sei?
- Sono Alessandro, non so se ti ricordi di me. Ci siamo conosciuti la settimana scorsa in discoteca. Sono l’amico di Massimiliano. Il mio amico ghigna soddisfatto, non so se sia perché ho citato lui per farmi riconoscere o perché si ricorda di quello che è successo sabato scorso.
- Ah sei quello del pompino – esclama lei, che, evidentemente, se lo ricorda.
- Sì, proprio lui – confermo, imbarazzato.
- Come mai mi cercavi? Ci sono dei problemi?
- Problemi? No, che problemi? Perché ci dovrebbero essere dei problemi?
- Non lo so. Magari ti sei preso la gonorrea e volevi avvisarmi.
Le mie spalle si tendono.
- No, niente gonorrea, non ci avevo proprio pensato. Fino ad adesso.
- Meglio così. Mi sarebbe dispiaciuto, in caso.
Guardo Massimiliano, ma stranamente sembra più interessato a fissare il semaforo rosso, che me. Lo maledico in silenzio e poi torno a concentrarmi sulla telefonata.
- Senti, ti avevo chiamato perché volevo chiederti di vederci. Ti andrebbe?
Dall’altra parte sento scattare un accendino, probabilmente si sta accendendo una sigaretta. Massimiliano, intanto, mi indica un parcheggio miracolosamente vuoto e a due i dall’ingresso del palazzo dove c’è la festa. Mi ci fiondo dentro, tenendo il cellulare tra orecchio e spalla e sperando di non toccare nessun’altra macchina.
- Ma vederci per cosa? – chiede lei, sospettosa.
- Non lo so. Un aperitivo, un cinema, che ne so. Di solito perché ti vedi con la gente, tu?
La sento ridere, divertita. Io scendo dalla macchina e chiudo a chiave, mentre con il mio amico andiamo verso il palazzo. Le note di Like a prayer di Madonna riempiono l’aria e sento l’irrefrenabile impulso di tagliarmi le vene: io odio Madonna.
- Va bene, dai. Che ne dici di martedì pomeriggio?
- Per me va benissimo.
- Io lavoro alla Esselunga vicino a Corso Italia, hai presente?
- Ho presente. A che ora ti o a prendere?
- Le sei.
- Le sei. Fatto. A martedì, allora.
Chiudiamo la conversazione e guardo pensieroso il telefono: non organizzavo un appuntamento da quando stavo al liceo. Mi sembra di esserci tornato, di essere di nuovo il ragazzino timido e inesperto di quegli anni. Poi mi rendo conto che è colpa della musica. Siamo davanti al portone e Madonna ha finito di belare, lasciando al suo posto i Talking Heads che cantano It’s my life. Poteva andare peggio. La porta si apre e ci compare davanti una tizia che ha sacrificato i suoi capelli alla lacca spray, elevandoli a livelli mai visti prima e con sfumature rosa che farebbero impallidire Cindy Lauper. Indossa una giacca blu elettrico; con le spalline, inutile specificarlo.
- Siamo amici di Daria – annuncio, neanche volessimo entrare in un club esclusivo.
Lei sorride e si fa da parte, facendoci cenno di entrare, mentre si scambia un’occhiata complice con Massimiliano. Un giorno dovrò chiedergli come fa.
Facciamo il nostro ingresso in quello che deve essere l’enorme scantinato del palazzo; non meno di sessanta persone sono sparse tra la parte centrale, adibita a pista da ballo, e tutto intorno a bere, fumare e chiacchierare. Sembra di avere fatto un viaggio indietro nel tempo e ora ho davanti tutto ciò che gli anni ’80 avevano da offrire alla moda: ragazzi vestiti con gli occhialoni, le camicie bianche e le bretellone, pantaloni aderenti in pelle, occhiali dalle lenti a goccia, giganti, pailettes e rossetti vistosi, abbinati a occhi truccati stile panda. L’unico fuori posto sono proprio io, che arrivo dal futuro. In un angolo vedo uno vestito come Michael J. Fox in Ritorno al futuro e capisco come si sentiva il suo personaggio quando incontra i suoi genitori. Mi volto per confrontarmi con Massi sulla situazione, ma lui è già in mezzo alla pista che balla e si dimena, attirando l’attenzione dei presenti. Sorrido, ammirando la sua capacità di trovarsi a suo agio in qualsiasi situazione.Intravedo il tavolo con bevande e cibo e vado a procurarmi qualcosa da bere. Niente birra, finisco per scegliere un punch dal sapore di frutta, ma abbastanza alcolico da non farmi sentire a una festa delle medie. Sento un colpetto sulla spalla e quando mi volto mi trovo davanti Daria. Indossa una giacca marroncina e dei pantaloncini corti fino alle ginocchia, in testa ha un cappello quasi simile a una bombetta sotto al quale spuntano i suoi capelli rosso fuoco.La guardo sorridendo, indeciso su cosa dire e lei si indica con gli indici.
- Madonna. Il video di Who’s that girl! – esclama.
- Ma certo! – mento io, - Lo sapevo!
Sorride, estasiata, e io le o un bicchiere di punch, sperando che non mi interroghi su altre cose legate agli anni che si stanno celebrando in questa specie di festa.
- Tu non sei in tono – fa notare.
- No. Lo so. Ma non lo ero neanche negli anni ’80, quindi vestendomi fuori posto, sto celebrando la mia vita in quel periodo. Ero fuori posto allora, lo sono ora.
Lei sorseggia dal bicchiere e mi sorride, enigmatica.
- Non eri qui con un amico?
Annuisco e cerco Massimiliano nella pista, ma non lo trovo. Poi lo vedo dietro la console del DJ che osserva dei vinili e ne parla animatamente con la ragazza che ci ha aperto alla porta. Andrà in porto anche stasera, quel maledetto.
- È lì – indico.
Lei lo guarda e sorride ancora, divertita.
- E tu? – chiedo – Sei venuta da sola?
- C’è Cora, da qualche parte. E poi c’è uno che ho puntato, ma ora è al bagno.
- Ah sì? – sono sorpreso.
Lei annuisce e continua a bere e lancia un’occhiata verso una porta,
evidentemente quella del bagno. Ne emerge un tizio che sarà almeno tre volte me e che ha muscoli in posti a me sconosciuti. Ha deciso per il look metallaro anni ’80: giubbotto e pantaloni in pelle, maglietta nera, catene d’acciaio, guanti a mezze dita, stivali. A ben pensarci è lo stesso look dei metallari negli anni ’70. E ’90. E attuali. I metallari sono la risposta della teoria dell’evoluzione. Il gorilla si avvicina a noi, i baffoni a manubrio incorniciano una bocca ingrugnita in un’espressione severa.
- Matteo, lui è Alessandro – ci presenta Daria.
- Piacere – dico, allungando una mano.
- Il piascere è mio – risponde, stringendola a sua volta.
Non gli esplodo a ridere in faccia solo perché credo di avere sentito male a causa dell’alto volume della musica.
- È casa tua? – chiedo.
- No, sciono sctato invitato da Daria – mi spiega.
Sento i nervi facciali che cominciano a tremare. Ha una “s” strascicata da paura. Sembra il commissario Zuzzurro. Guardo Daria, ma lei sta fissando lui con sguardo adorante.
- Bene. Vado un attimo in bagno, con permesso.
- Scì, ci vediamo dopo.
Rido e mi allontano, facendo un cenno di saluto con la mano. Se me la spezza non posso dargli torto, in effetti. Fiancheggio la pista da ballo e vengo afferrato da Massi che mi ci trascina in mezzo e mi costringe a dimenarmi con tutti gli altri, mentre in aria esplode The final countdown degli Europe. Da un lato qualcuno sta simulando l’assolo di chitarra, strimpellando su una Fender immaginaria. Dall’altro tutti ballano animatamente e scompostamente e cerco di stargli dietro. Mi sento uno preso da un attacco di epilessia. Cerco di non pensarci e di lasciarmi andare, perché dovrei essere più ridicolo di quelli che mi circondano, dopo tutto? Perché sono convinto che la tizia che sta agitandosi come una tarantolata balli meglio di me? Le luci stroboscopiche illuminano la pista e le persone, impedendo di vedere bene le facce altrui e forse il segreto sta tutto qui: nessuno sa chi sei e quindi puoi anche fare il pirla in mezzo alla pista, che tanto, il giorno dopo, se anche incontrassi qualcuno dei presenti in ufficio o al supermercato, non ti riconoscerebbe. E se anche lo fe non direbbe nulla, perché chi stasera non corrisponde a chi sei nella vita di tutti i giorni, come una specie di identità segreta, solo che invece che usarla per andare a combattere il crimine la si usa per andare alle feste. Mi dimeno per il tempo che mi pare lungo il giusto senza are da snob, quando lascio la pista con la scusa di andare in bagno. E vado a sbattere contro Cora, che esce dal bagno e invece sembra uscita da Flashdance . Ha una maglietta larga, slabbrata sulla spalla sinistra, un paio di fuseaux neri e degli scalda muscoli all’altezza dei polpacci. Anche i suoi capelli sono ati sotto tanta lacca e ora sono vaporosi e spumeggianti, come una bibita frizzante che ti sale su per il naso.
- Ehi ciao! Benvenuto!
- Grazie, ma sono qui da un po’, sai? – mi metto un po’ in posa e indico la pista con un cenno del capo – Mi sono scatenato nelle danze.
- Ah bello! Ti va di ballare ancora?
Neanche se mi punti un coltello al basso ventre.
- Avrei un po’ di sete, adesso. Vogliamo bere qualcosa?
Annuisce e ci procuriamo ancora da bere al tavolo, assieme a un piatto di plastica carico di patatine. Sembra davvero una festa delle medie per ripetenti over trenta. Troviamo posto in un angolo e scambiamo due chiacchiere, mentre beviamo e mangiamo. Scopro che Cora lavora nella mia stessa azienda da tre mesi e che è laureata in Geologia.
- Lo so, cosa stai per chiedermi: come mai, se sono laureata in Geologia, lavoro in un’azienda informatica?
- Veramente stavo per chiederti che cazzo avevi in testa per prendere una laurea inutile come quella in Geologia, ma anche l’altra domanda è sensata.
Mi guarda allibita e io reggo lo sguardo, sorridendo. Alla fine sorride anche lei e beve un sorso dal suo bicchiere. Ho fatto colpo, lo capisco. Non mi sono mostrato uno che la asseconderebbe qualsiasi cosa dicesse e questo, in qualche modo, le piace, perché le dà di me l'impressione di uno che la tratta alla pari ed
evidentemente per lei è importante.
- È una bellissima materia.
- Non lo metto in dubbio, sul serio – concedo.
- Ma gli sbocchi sono pochi mi rendo conto. Lo sapevo anche quando mi sono iscritta all’Università, eh? Ma ci credevo.
- Eri giovane e stupida – scherzo.
- Perché, ora sono vecchia?
Sorrido e le porgo le patatine, mentre vedo la gente che balla il Gioca jouer. Non me ne capacito, ma sono tutti in mezzo alla pista che eseguono gli ordini di Claudio Cecchetto e si fingono sciatori, autostoppisti, campanari.
- Erano anni felici – commenta Cora, dandomi di gomito.
- Può essere – ammetto. – Perché ora non lo siano più, non lo so.
- Perché eravamo giovani e stupidi – risponde, con un sorriso divertito.
Annuisco e finisco il mio punch.
- Come stai? – chiede, improvvisamente, e capisco che si riferisce alla fine della mia storia con Adriana.
- Cerco di non pensarci.
- E immagino che sia pieno di gente, intorno a te, che non fa altro che ricordatelo, vero? Come la sottoscritta, per esempio – ride.
- Qualcosa del genere. Ma alla fine, a forza di parlarne, smetterò di pensarci, forse.
Lei scrolla le spalle e butta il suo bicchiere vuoto su un tavolo lì vicino.
- Io mi stavo per sposare, sai?
- Davvero? Quando?
- Tre anni fa. Io e il mio ragazzo dovevamo sposarci ad Agosto, a casa sua, in Sicilia. Avevamo cominciato a organizzare tutto, data, Chiesa, parenti e pranzo. Tutto.
- E come mai non vi siete sposati, alla fine?
Lei guarda la pista da ballo, pensierosa, mentre un piede batte ritmicamente per terra, a tempo con un pezzo di Billy Idol.
- Sono subentrati dei problemi, lavorativi per me e familiari per lui e abbiamo deciso di rimandare le nozze di sei mesi. Solo che, a quel punto, lui ha detto che non aveva più intenzione di sposarmi.
- Mi dispiace.
- A me no. Ora so che è stata la cosa migliore, che se ci fossimo sposati ora sarei una divorziata, come tante altre.
- Allora perché lo sposavi?
- Perché al periodo mi pareva la cosa più giusta, quella che mi avrebbe reso felice. Solo ora so che così non sarebbe stato.
Non le rispondo; mi chiedo se sarà così anche per me, un giorno, se penserò ad Adriana con sufficienza e pensando che essermene liberata sia stato solo un bene. E mi ritrovo a pensare che non mi va, che non voglio che sia così.
- erà – dice lei, - te lo prometto.
- Lo so.
Sorride e poggia la sua testa sulla mia spalla, chiudendo gli occhi.
- Adoro questa canzone – dice.
Sento la voce di Prince che canta Purple Rain .
- Non ho mai capito Prince – ammetto.
- Neanche io. Ma ci sono alcune sue canzoni che sono magnifiche.
- Balliamo? – chiedo.
Pochi minuti dopo sono in mezzo alla pista che mi dimeno al ritmo di Notorius , mentre Simon Le Bon rievoca i ricordi della mia gioventù. E mentre ancora sto interrogandomi sulla carriera dei Duran Duran, la musica si fonde rapidamente nelle prime note di Dreams , come ne Il tempo delle mele . Intorno a me ci sono solo coppiette che si strizzano ruvidamente, mani che si muovono veloci e colpiscono prima che uno riesca anche solo a dire “contraccettivo”. Guardo un po’ imbarazzato Cora che sorride e posa le sue mani sui miei fianchi, stringendosi a me. Poggia la testa alla mia spalla e cominciamo il ballo del mattone.
- Secondo me Rita Pavone aveva capito tutto – dico.
- Cioè?
- Cioè “Non essere geloso se con gli altri ballo il twist, con te che sei la mia ione io ballo il ballo del mattone”. Balla con tutti, ma si struscia solo con uno.
- Incredibile. Sei a una festa anni ’80 e sei riuscito a tirare in ballo una canzone di cent’anni fa.
- Ognuno ha le sue abilità speciali – ammetto.
- Rita Pavone. Ma tu dimmi.
- Oh senti, chiunque avessi citato sarebbe stato anacronistico, via.
- Sì, ma stai ballando un lento con una ragazza e le citi Rita Pavone? Ti credo che ti hanno piantato.
Mugolo in segno di dolore e lei mi carezza la schiena. Sento il profumo della lacca provenire dai suoi capelli.
- Secondo te davvero tutte queste persone sentono la mancanza degli anni '80? chiedo.
- Perché?
- Gli anni '80! Andiamo. Gli yuppies, la lacca, le calze a rete, i capitoli sei e oltre di Nightmare e Venerdì 13 . Come si fa a sentirne la mancanza?
- Ma c'era anche l'ottimismo, la voglia di divertirsi, i film di Spielberg e di Kubrick.
- A me è sempre piaciuto da morire I Goonies .
- Io adoro Ragazzi perduti ; Kiefer Sutherland è stato il mio sogno erotico per anni.
- E ora che fa le serie televisive?
- È tornato a esserlo.
Sorrido e guardo quella strana fratellanza che ci circonda, chiedendomi perché sono tutti qui. Probabilmente perché hanno paura della vita di tutti i giorni e vogliono tornare a vivere in tempi in cui si sentivano più felici e speravano
ancora in un futuro roseo. E, soprattutto, cercano qualcuno che li capisca e che, senza doverlo dire, gli confidi che anche loro hanno paura e anche loro sognano di tornare sereni come un tempo.
- Sono più tipo da anni ’60 – ammetto.
- Guarda caso proprio gli anni della Pavone.
- Hai finito di sfottermi?
La sento ridere, mentre si stringe a me. Intravedo Massimiliano, seduto su un divanetto che dondola la testa al ritmo della musica, mentre si fuma una sigaretta. La ragazza che ci ha aperto la porta è stesa, la testa poggiata alle sue gambe e si ano la cicca, dando un tiro a turno.
- Come mai? – chiede Cora.
- Come mai cosa?
- Gli anni ’60, perché ti ci senti tanto affine?
- Non lo so. Mi piace la musica del periodo: gli Stones, i Beatles, Dylan, i Kinks. E poi erano anni in cui si pensava che si potesse davvero cambiare il mondo, ci si voleva riuscire. Guarda ora, chi ci pensa più? I ragazzini vogliono fare i tronisti, le ragazzine le veline
- E il prezzo dei pomodori? Ne vogliamo parlare?
- OK, mi pare di capire che con la Pavone ho bruciato ogni mia possibilità di essere preso sul serio, per stasera.
- Un po’ – mi a una mano tra i capelli e si sporge in avanti, baciandomi.
Rimango immobile, le nostre labbra si sfiorano appena. Lei poi mi sorride e poggia nuovamente il mento sulla mia spalla, proprio mentre le ultime note di Dreams si spengono e Vic si appresta a diventare grande, al suo quattordicesimo compleanno, mentre guarda un altro ragazzo e balla con quello che le piace. Prendo il mento di Cora e lo sollevo, per baciarla ancora, stavolta con più sicurezza e lasciando che la mia voglia di lei sia quasi palpabile. Mi piace e mi accorgo che mi sento così a mio agio, con lei, da lasciarmi andare. Ci baciamo ancora una volta, poi finiamo di ballare, sentendoci eccitati e felici e un po' spaventati, come quando erano gli anni '80 e ballavamo con la ragazzina che ci piaceva, alla festa di classe.
Esco dal palazzo e respiro l’aria fresca della sera, guardando le poche stelle che si affacciano attraverso le nubi. Controllo il cellulare e trovo un sms di mia madre, che mi comunica che è alla sagra del cinghiale di Chianni. È tipico di lei: sparisce per mesi e poi ti manda un sms, una mail o ti lascia un messaggio in segreteria, dove ti comunica una notizia banale e per niente interessante. Scorro la rubrica telefonica e mi fermo sul numero di Adriana, chiedendomi se chiamarla o meno. Decido di sì e il telefono suona per un tempo che sembra infinito; due o tre volte mi dico che attendo ancora lo squillo successivo e poi attacco, se non risponde. Non risponde. Mi poggio al muro, chiedendomi se sono deluso o che. La verità è che sono
semplicemente triste e non vorrei. La porta si apre e compare Daria, con il suo gigante dalla parlata strascicata. Lui l’ha sollevata da terra e stanno avvinghiati come due che devono assolutamente accoppiarsi, prima che la terra esploda in una nube di fuoco. Non mi notano e il metallaro gigante le ha afferrato le chiappe, mentre la spinge contro il muro lì vicino. Sento chiaramente l’urto e provo dolore per la mia amica, schiacciata tra il cemento e un cristo di due metri che pesa tre volte lei. Daria, per contro, non pare avere assolutamente sentito l'impatto, né aver provato dolore; anzi, la cosa le ha fatto particolarmente piacere, tanto che lancia un gemito di incoraggiamento. Rimango immobile, mentre il gigante metallaro infila una mano sotto la camicia della mia amica e le strizza un seno; lentamente muovo dei i verso il portone e mi ci poggio sopra, pronto a rientrare. È chiuso.
- Mi fai morire, scei coscì scexy! - esclama lui, prima di infilarle ancora la lingua in bocca.
Spingo il portone con il sedere, cercando di capire come faccia Daria a non esplodere a ridere, ma i cardini fanno strenua resistenza, impedendomi di rientrare. I due, improvvisamente, smettono di baciarsi, come ghiacciati nel flusso temporale. Mi immobilizzo anche io, terrorizzato dall'idea che possano avermi sentito. Una rapida occhiata alla fisicità del prossimo compagno di sesso di Daria mi fa temere per la mia incolumità.
- Che c'è? - chiede Daria, sorpresa.
- Voglio leccarti.
- Oh sì, dai...
Faccio una smorfia, vederlo impegnato tra le sue gambe non è una delle esperienze che voglio vivere. Specie se si pensa che potrebbero vedermi. Il gigante le solleva la gonna con una mano, mentre con l'altra le strappa le mutandine. Il rumore della stoffa che viene lacerata fende l'aria e mi colpisce come una coltellata di striscio. Daria ride, eccitata, mentre lui le rotea in aria, prima di lasciarle andare; vedo una macchia bianca attraversare l'aria e finirmi in faccia. Me le levo di dosso e le guardo, colpevole, prima di lanciare un'occhiata all'allegra coppietta, intenta di nuovo a baciarsi.
- Sei un porco - dice lei, mentre gli morde il collo.
- Vedrai tra poco...
Ecco, questo è il segnale che è tempo che io mi levi di torno. Sono vicini al cancello, quindi devo andare da un'altra parte. Seguo il muro, strisciando con le spalle contro l'intonaco, come una perfetta spia in un campo nemico. Mi muovo lentamente, cercando di non farmi sentire e di non schiacciare niente che possa rivelare la mia presenza; mi ritrovo anche a sperare che non ci siano i fari della torre di guardia che mi inquadrano, mentre cerco di scappare dal campo di prigionia nazista. Svolto l'angolo e, con la coda dell'occhio, vedo lui che si china tra le gambe di lei, che gli spinge la testa con forza. Decisamente Daria ha un lato del suo carattere che non conoscevo. Spero solo di essermelo scordato, lunedì mattina. Vedo due tizi fermi vicino a una finestra aperta, stanno fumandosi una canna e chiacchierano del più e del meno.
- Salve - saluto, educatamente, mentre guardo attraverso la cornice della finestra.
- Salve - risponde uno dei due, perplesso. - Ti sei perso?
- Più o meno. Sono rimasto chiuso fuori.
- E perché non hai suonato?
Sospiro.
- Ci sono due che stanno scopando, davanti all'ingresso.
- Davvero!?
I due si guardano, esaltatissimi all'idea, e fanno per avvicinarsi. Alzo una mano e scuoto la testa.
- Coraggio, non vorrete mica fare i guardoni, no?
Si consultano, silenziosamente, guardandosi negli occhi.
- Cazzo, sì - risponde uno dei due.
Non posso dargli torto, tutto sommato.
- Dove porta la finestra? - chiedo.
- Al cesso - mi risponde l'altro, come se trovasse la domanda particolarmente stupida.
- Perfetto.
Mi arrampico ed entro, in maniera molto meno atletica di come me l'ero immaginato nella testa e con parecchi sbuffi in più.
- Grazie. E se vi beccano, io non vi ho detto niente - dico.
- Figurati! - dice uno.
- Vuoi? - chiede l'altro, porgendomi la canna.
- Ma scherzi? - la prendo e la guardo - Alla vostra età vi fate ancora le canne? Ma come state messi?
Ci do un tiro e me la godo veramente.
- Uh. Non male. Davvero niente male - ammetto, restituendogliela.
Li saluto con un cenno del capo e faccio il mio ritorno alla festa. Vedo Massimiliano alla console che fa suonare un pezzo degli Spandau Ballett, mentre con le mani dirige la gente che balla scatenata. Non faccio in tempo a chiedermi dove sia finito il dj che c'era al nostro arrivo, quando vedo Cora, che balla vicino a una colonna, mentre fissa il portone. Mi avvicino alle sue spalle e mi metto a ballare a mia volta, lei si volta e mi sorride, strusciandosi contro di me.
- Balli da schifo - dice.
- Lo so. Non è la mia qualità migliore.
Mi avvicino e ci baciamo, stavolta profondamente. Le prendo il volto tra le mani e lei mi stringe a sé, mentre le nostre lingue si cercano. Si alza sulle punte e mi bacia il collo.
- Ti voglio - dice.
Le mordicchio un orecchio, sperando che capisca voglia dire “anche io”.
- Ma stasera no, per favore – aggiunge, mentre mi stringe a sé.
Non devo mordicchiare abbastanza bene, evidentemente.
5
- Cioè non te la sei scopata?
Sono sul divano di Massimiliano, mi sono svegliato dieci minuti fa, quando lui è entrato col suo o di orso ed è inciampato sulle confezioni di videogiochi e nei posacenere abbandonati per terra, facendo un gran casino e costringendomi a svegliarmi.
- No, che non me la sono scopata. Lei non voleva. Che dovevo fare, violentarla?
Lui si rigira la sigaretta spenta tra le labbra, in silenzio; io lo guardo, cercando di percepire qualcosa, dietro gli occhiali scuri, ma non riesco ad afferrare a cosa stia pensando.
- Tutte tu, cazzo – sospira, lasciandosi cadere contro lo schienale.
- Oh non sarà una tragedia, no? Non è successo. Punto. Sarà per un’altra volta.
- Non è possibile che non succeda, dai. Era la situazione perfetta. Discoteca, notte fonda, la musica della sua giovinezza
- Guarda che ha trenta anni, mica novanta.
- La musica della sua giovinezza – mi ignora lui, - la giusta dose di alcool in corpo. Chiunque sarebbe andato in porto. Chiunque tranne te, ovviamente. Mezza sega.
- La vuoi finire? Mica ero costretto a scopare, no?
- No, certo che no. Probabilmente stai cercando di farti ricrescere la verginità.
- Ma sentilo.
Lui si accende finalmente la sigaretta e poggia la testa sullo schienale, guardando il fumo sollevarsi verso il soffitto.
- Dì che non è vero – mi sfida.
- Non è vero.
- Vuoi scopare?
- Ora?
- Lo sai cosa intendo.
- Certo che lo so. E sì, certo, voglio scopare, ma non è che abbia tutta questa fretta, eh?
Scrolla le spalle e non sembra convinto.
- E tu? Visto che la situazione era così perfetta, perché non hai scopato, stanotte?
- Piccola, vieni qui, dai – urla, rivolto alla sua camera da letto.
Il mio cuore salta un battito, quando la ragazza con cui l’ho visto flirtare tutta la sera fa la sua comparsa dalla camera accanto. Ha indosso i pantaloni del pigiama di Massi e una canottiera stretta. Mi sorride, mentre si scompiglia i capelli e fa un cenno di saluto con la testa. La faccia di Massimiliano non è evidentemente abbastanza grande per contenere il fottuto sorriso che gli si è stampato in faccia e percepisco chiaramente che mi sta telepaticamente invitando a imparare da lui.
- Vado e torno - dice lui, mentre scompare nel bagno di casa.
Cala un silenzio imbarazzato, per qualche istante, poi allungo una mano.
- Alessandro, piacere.
- Luna - risponde lei, stringendomi la mano, in modo molto delicato.
Silenzio.
- Ti sei divertita, alla festa?
- Allora non sei andato in porto, eh?
Sospiro e mi massaggio gli occhi. Lei si mette a ridere e tira su le gambe, circondandole con le sue braccia.
- Non ti devi mica vergognare, a volte succede e basta. Non è che sta scritto da nessuna parte, che doveste andare a letto insieme, no?
- No, in effetti - rispondo, senza spiegarmi perché stia parlando di queste cose con una che ho appena incontrato.
- L'hai conosciuta ieri?
- Non proprio, ma era la prima volta che ci si vedeva, diciamo.
- E ci saresti andato a letto?
- Non lo so. Credo di sì. Non lo so - ripeto.
- È complicato.
- Molto.
Mi levo la coperta dalle gambe e comincio a piegarla, pensieroso.
- È davvero così facile? - chiedo, improvvisamente.
- Che cosa?
- Portarsi a letto una ragazza. È davvero un'impresa così semplice o magari siete voi che... siete troie? – conclude lei.
- No! Mai detto questo!
Sorride e guarda verso la porta del bagno.
- A volte voi uomini siete strani. Guardate film al cinema e leggete fumetti dove un tizio si porta a letto una nel giro di mezz’ora e va bene, ma se lo fa una
ragazza che conoscete diventa una poco di buono.
- No, credimi, non per me. Davvero.
Mi guarda poco convinta.
- Ne conosco a decine che appena si incavolano “troia questa, troia quella”. Io non sono il tipo, giuro.
- OK. Diciamo che ti credo – concede.
- Troppo buona.
- Non c’è una formula. Io ieri sera stavo bene, ero eccitata e avevo voglia di fare sesso con Massi. L’abbiamo fatto e non me ne pento. Lo rifaremo? Forse sì, a me non dispiacerebbe.
- Sarebbe andato bene uno qualsiasi? Sarebbe bastato?
Sorride e si scompiglia i capelli con un gesto semplice, ma molto sexy.
- No. Un altro? Forse. Uno qualunque? No.
- Capisco.
- E tu? Non sei il tipo da una botta e via, eh?
- Ho sempre pensato di sì.
- E come mai non l’hai mai fatto?
- Storia lunga. Ma non ho niente contro e non ti giudico, sul serio. Né te, né le donne che lo fanno. Probabilmente siete molto più in pace con voi stesse di quanto lo sia io.
- È perché sei un maledetto represso! – urla Massi dal bagno.
Io e Luna ci guardiamo, sorridendo imbarazzati.
- Gli voglio bene – specifico. – Per questo non lo uccido con lo spazzolone del cesso.
Facciamo colazione e, per fortuna, parliamo d’altro. Arrivati in fondo alle nostre tazzine di caffè e spazzolato via l’ultimo biscotto capisco, dagli sguardi di Massimiliano, che lui ha ben altre intenzioni, per la mattinata. Mi invento una scusa patetica e mi vesto in fretta e furia, quando esco dalla porta Massi ha già
cominciato a tastarle le tette. Se avessi ritardato ancora un attimo probabilmente l’avrei visto mentre lei glielo prendeva in bocca.Fermo la macchina in centro e faccio una eggiata, guardando ragazzi e coppie che fanno due i per la città, di domenica. Mi accorgo di una certa animazione, in piazza, e, mentre mi avvicino, ricordo del festival degli artisti di strada. C'è tanta gente, famiglie, coppie, gruppetti vari e, in mezzo a loro, equilibristi e giocolieri e prestigiatori. Sono truccati o vestiti in modo variopinto e impegnati a far vorticare in aria dei birilli o a fare capriole e salti mortali. Qualcuno cammina su dei trampoli, mentre intravedo un tizio che maneggia delle torce accese, se le porta alla bocca e subito sputa una fiammata che si estingue in un secondo. È un'enorme festa che lascerà un gran casino, ma che sarà anche molto divertente.Per qualche istante ci sono solo io, la musica e i colori. Mi rilasso completamente, perdendomi nella bolgia, guardano ogni volto come se fosse un volto amico. Poi mi fermo quando vedo agitarsi per strada una strana statua animata. È fatta di legno e paglia e servono tre persone per muoverlo; una sta all'interno del suo grosso corpo senza gambe e lo porta in giro come un'armatura finta. Mi fa venire in mente Il mago di Oz , un piccolo corpo dentro una struttura immensa, prima che noi e Dorothy ci accorgiamo dell'uomo dietro la tenda. Altre due persone reggono ognuna un braccio, e lo muovono tramite bastoni. Il gigante fissa con occhi tondi e scrutatori il mondo intorno a sé, libero dal magazzino dove lo tengono prigioniero. Intorno a lui tre ragazzi suonano flauti e tamburi, dandogli il ritmo sul quale balla, scatenato. La gente applaude, mentre i bambini guardano con gli occhi sbarrati, come se l'orco delle fiabe avesse preso vita davanti a loro.Osservo la creatura scomparire nella folla e mi rimetto a girare per la festa, godendomi tutto quello che vedo.Più tardi mi fermo a una bancarella e mi prendo una bottiglia di birra; mi siedo su una panchina e chiudo gli occhi, alzando la testa e lasciando che i timidi raggi di sole che sbucano tra le nuvole mi investano.
- Ti è piaciuta, la festa?
Apro un occhio e mi trovo davanti a Carlotta che mi guarda, sorridendo. Mi guardo intorno e vedo, poco lontano, il pupazzo gigante poggiato contro un muro, mentre chi lo animava sta tirando il fiato.
- È molto bella. Non l'avevo mai vista.
- È il primo anno che la fanno.
- Il che spiega perché non l'ho mai vista.
- Lapalissiano.
- Mi piace andare sul sicuro.
Si siede accanto a me e vedo che è sudata ed esausta, ma sembra anche incredibilmente soddisfatta. Le porgo la bottiglia di birra e lei mi guarda, perplessa.
- Quanto eremo per ubriaconi, da uno a dieci?
- Ventuno.
Lei ci pensa su e poi prende la birra, gustandone un sorso. Se la a sulla fronte accaldata e sorride.
- È andata bene? - chiedo.
- Sì. Molto. È stato un lavoraccio, ma ne è valsa la pena.
Lancio un'occhiata al pupazzo, due ragazze stanno rattoppando delle corde che si sono slegate.
- Cosa rappresenta?
- Lo spirito della festa. Quello che da forza ed energia a tutti coloro che ci partecipano e che porta la festa ovunque vada.
- Lo spirito della festa.
- Guardalo, non è allegro? Non ti fa venire voglia di festeggiare?
- Un po', sì. Oddio, se lo incontrassi di sera, in una strada illuminata male, mi sentirei dentro un film dell'orrore.
Beve ancora un sorso e mi ria la bottiglia.
- Devo andare, dobbiamo rimettere in movimento lo spirito.
- Dovete riaccendere la festa.
- Sì, esatto - sorride. - I miei amici mi aspettano e poi voglio bermi ancora qualcosa.
Si alza e solleva una gamba, tirandosela contro, facendo stretching; poi si piega in avanti, toccando la strada con le mani.
- Ci raggiungi? - chiede.
- Volentieri.
- Ci vediamo tra un'ora al banchetto dei peruviani.
- I peruviani? - chiedo.
- Sì, gli artisti del fuoco. Sono peruviani.
- Ci vediamo lì tra un'ora, allora.
Fa un cenno di saluto e raggiunge i suoi amici, li guardo rimontare con un po' di fatica l'enorme pupazzo e rimettersi in cammino tra la folla. Mi godo quello che resta della mia birra.
Quando arrivo dai peruviani un ragazzo basso sta andosi una torcia infuocata sul braccio, rimando a fissarlo allibito. C'è sicuramente un trucco, ma io non lo conosco e quindi quella è magia vera e propria. Lui mi nota e sorride, portandosi le fiamme alla bocca e chiudendola intorno al fuoco; quando la riapre, le fiamme sono spente e lui raccoglie l'applauso del pubblico. Gli lascio qualche moneta nella custodia di chitarra aperta lasciata a terra e cerco Carlotta. La vedo seduta a un tavolino di un bar poco lontano, che si sbraccia per farsi notare.
- Che fine ha fatto lo spirito della festa? - chiedo, mentre mi siedo.
- Lo stanno mettendo a posto; con tutta la fatica che abbiamo fatto per costruirlo siamo tutti terrorizzati che si possa rovinare.
Mi a la sua bottiglia di birra, poi si accende una sigaretta.
- Vuoi? - chiede, porgendo il pacchetto.
Scuoto la testa e bevo un sorso, mentre guardo il fumo sollevarsi in cielo. Sembra in festa anche il suo movimento tra le correnti.
- Da quant'è che fai teatro? - le chiedo.
- Non tanto. Saranno un paio d'anni, ormai; sono arrivata qui grazie al mio ragazzo.
- Attore?
- Scrittore. Gli piace scrivere per il teatro, ha una ione per il teatro dell'assurdo.
- Posso avere visto qualcosa di suo?
- Vai a teatro? - chiede, stupita.
- No.
- Allora direi di no - risponde, ridendo. - E tu? Che ci fai qui?
Sospiro e guardo l'etichetta della birra.
- È domenica. Non ho una ragazza, il mio migliore amico sta con una che ha conosciuto ieri sera, c'è bel tempo. Sono uscito a fare due i.
- Ottima idea.
- Odio la domenica.
- Magari neanche tu le stai simpatico.
- Poco, ma sicuro.
Sorride e scuote la cenere della sigaretta, guardandola cadere per terra.
- E quindi cosa hai fatto a teatro, oltre che a quel pupazzo?
- Qualcosa. Ho recitato un po’ qui e un po’ là; sono stata a dei festival teatrali in giro per l'Europa. Niente di grosso, eh? Però è stato divertente.
- Vivi facendo questo?
- No, no. Magari - sorride. - Lavoro come bibliotecaria e come cameriera, tre volte a settimana. Non è il massimo, ma mi permette di fare il teatro tutte le volte che voglio.
- Mi pare una cosa bella.
- E tu? Fammi indovinare: impiegato.
- Giusto.
- Bancario?
- Sistemista.
- Computer?
- Non credo che ne esistano di forni a microonde.
- Per me sono un po’ un mistero, i computer.
- Ma dai? Mi fai la bibliotecaria che è rimasta attaccata alle vecchie tradizioni e che non capisce come si possa preferire Internet a un bel libro?
Sorride e spegne la sigaretta, lanciandomi un'occhiata di sottecchi.
- Mi piace Internet. Ma mi piacciono di più i vecchi libri polverosi.
- Ecco, lo sapevo - sorrido.
- E mi piacciono anche le estati in piazza, seduti sulle panche a parlare con i vecchi. Mi piace bere il vino, ai tavolini dei vecchi bar. Mi piace anche sedere in
riva al lago e leggere, mentre gli amici giocano a calcetto.
- Sei nata negli anni sbagliati.
- No, sono gli anni giusti, secondo me.
- Dici?
- Sono gli anni in cui queste cose te le godi di più, perché non tutti capiscono quanto sono belle. E mi dispiace che tu non lo possa capire; probabilmente sei troppo perso a controllare le tue e-mail - sorride a sua volta, mentre si a una mano tra i capelli, giocherellando con i dreadlocks. Annuisco e incasso il colpo senza ribattere. Lei mi mostra una moneta da due Euro che tiene tra le dita e la porta da una mano all'altra, chiudendola nel pugno. Lo torce due o tre volte e poi lo apre, lentamente, un dito alla volta: la moneta al suo interno è scomparsa. Abbassa la mano e, contemporaneamente, solleva l'altra e la mostra vuota a sua volta. Rimango a guardarla in silenzio, a bocca aperta e scuoto la testa come se mi aspettassi, da un momento all'altro, che la moneta ricomparisse. Lei ridacchia e porta la mano dietro il mio orecchio, quando la tira indietro i due Euro sono lì, tra le sue dita.
- Non male, eh? - dice.
- I miei complimenti, sei brava – faccio un cenno con il capo e batto le mani un paio di volte.
- Grazie.
- Dove hai imparato?
- Mio padre. Faceva il prestigiatore, a tempo perso, alle feste per i bambini e anche a qualche festa per adulti.
- Era bravo?
Sorride e non dice niente, guardando in lontananza, l'espressione trasognata.
- Per me era il più bravo del mondo.
- Certo.
I suoi amici vengono al nostro tavolo e si uniscono a noi. Ci beviamo un'altra birra, parliamo della festa, uno di loro suona la chitarra, accompagnato da un altro paio di ragazzi. Temo che si scivoli nelllebiondetreccegliocchiazzurriepoi, ma grazie al cielo no. Sento i Rolling Stones, una ragazza con una voce bellissima canta un paio di pezzi di Janis Joplin e io mi unisco nei cori, stonando, fino a quando Carlotta mi ringrazia per la partecipazione e mi invita a smetterla di straziare le strofe di una povera donna morta di overdose troppo giovane.
- Dov'è il tuo ragazzo? - chiedo, a un certo punto.
- Non c'è. Non ho un ragazzo - Carlotta si accende un'altra sigaretta e mi osserva, sorniona.
Rimango interdetto per qualche secondo, poi mi sporgo in avanti.
- Mi hai detto che hai un ragazzo.
- Non è vero.
- Sì, invece.
- Per niente.
- Sono quasi sicuro che tu abbia detto di avere cominciato a fare teatro tramite il tuo ragazzo.
- È vero.
- Quindi hai un ragazzo.
- No, non ce l'ho.
- Ma hai iniziato a fare teatro con il tuo ragazzo.
- Esatto.
- Stiamo dentro un pezzo di Ionesco?
- Non mi pare - risponde, ridendo.
- Quindi cos'è? Avete un rapporto aperto?
- Mi prendi per una facile?
- Oh santo cielo.
- Non ho una storia del genere.
- E non hai un ragazzo.
- No.
La guardo come si guarda un bicchiere rotto, senza sapere com'è successo.
- Era il mio ragazzo quando sono arrivata nel gruppo teatrale e non lo è più, ora.
- Certo. In effetti non è così difficile.
- No, direi di no.
- E quindi non avete una storia.
- No, non ce l'abbiamo.
- Ah.
Mi alzo e vado a prendere un altro giro di birra, poggiato al bancone, in attesa del mio turno, sbircio Carlotta che parla con i suoi amici. Vederla ridere con loro mi da uno strano senso di pace, ha un bellissimo sorriso. Suona il mio telefono e vedo il numero di Massi sullo schermo del cellulare.
- Pronto, Simo?
C'è un attimo di silenzio e poi la voce del mio amico che arriva, come impastata.
- Sì. Ciao. Dove sei?
- In piazza, c'è la festa degli artisti.
- Ah sì...sì...- la voce sembra decisamente tremula.
- Tutto bene?
- Sì...sì...tutto bene...tutto...
- Già. Si sente. Avevi bisogno di qualcosa?
- Uh. No. Non proprio. Così.
- Così cosa?
- Così. Così. Nel senso che volevo...ah...sapere se è tutto OK. Mi sembravi mogio stamani...cazzo...
Osservo il telefono perplesso; mi sta sicuramente nascondendo qualcosa.
- No, va tutto bene. Ho conosciuto gente simpatica, mi sto divertendo. Sto bene.
- Uh. Bravo, bravo. Cazzo, cazzo.
- Mi vuoi dire che diavolo succede?
- Niente. Niente.
- Basta fregnacce, dai. Non hai chiamato per parlare con me, su.
- Sì, sì, ho chiamato per quello. Perché ti voglio bene.
- Mi vuoi bene - ripeto.
- Sì, sì. Cazzo. E pensa che nonostante Luna me lo stia succhiando ti ho chiamato lo stesso.
Mi fermo con le mani stese a mezz'aria, mentre il barista cerca di armi delle bottigliette di birra.
- Scusa. C'era un disturbo sulla linea. Mi è sembrato sentire parlare di Luna che
te lo succhia.
- Uh. Cazzo. Ed è bravissima.
- OK. Io vado. Grazie di avere chiamato. Ciao.
Chiudo la conversazione, troncando a metà un rantolo di Massi, che temo possa annunciare un suo orgasmo imminente.
- Hai la faccia strana - mi dice Carlotta, quando mi siedo.
- Sì. Immagino di sì.
- Brutte notizie, al telefono?
La guardo, indeciso.
- Non lo so. Non direi che dall'altra parte ci fosse uno con delle brutte notizie.
Lei sorride, senza aggiungere altro, poi si attacca alla bottiglia di birra.
Dopo un'ora decido che è tempo di tornare verso casa. Saluto tutti e prendo la mia giacca, cercando le chiavi della macchina.
- Mi dai uno strappo fino a casa? - mi chiede lei.
- Certo. Dove abiti?
Me lo dice. È dall'altra parte della città. Devo solo fare quei venti minuti di auto in più per portarcela. Perché no?
- Fermati qui un attimo.
Non siamo nella zona dove vive, quindi non mi spiego perché mi ha chiesto di fermarmi, ma accosto obbediente. Lei scende che la macchina ancora non ha smesso di muoversi e corre verso il centro di una piccola piazza. Osservo la falcata delle sue gambe avvolte in pantaloni sformati e riesco a vederle, scattanti, in forma. Si ferma davanti al furgoncino di un piadinaro e poi corre di nuovo verso l’auto, con in mano un sacche t to.
- Vai pure – dice, mentre lo apre.
- Piadina?
- Con salsiccia e cipolle. La preferita di mio papà.
Ne prende una e d à un morso, famelica, poi me la porta alle labbra, spingendo come se fossi un bambino che deve essere imboccato. Mordo, incerto, e vengo colpito dai sapori forti della salsiccia e dal retrogusto dolciastro della cipolla.
- Mio padre me la comprava sempre, la domenica – spiega lei, mentre mastica. – La domenica andavamo a fare una eggiata, lui mi raccontava le storie e poi mi comprava la piadina.
Morde ancora e ancora una volta me la offre, mordo ancora.
- Dov’è tuo padre, ora?
- È morto anni fa, un incidente d’auto e via.
- Mi dispiace.
Lei scrolla le spalle e non dice altro, guardando fuori dal finestrino, muta. Poi sorride e morde ancora la piadina.
- Senti il profumo?
Mi mette il sacchetto sotto il naso e posso sentire l’odore del pane caldo che si mischia a quello della carne cotta.
- Fermati – ordina, nuovamente.
- Dove?
- Qui. Qui.
Mi guardo intorno e rallento, accostando con l’auto. Lei mi da indicazioni e mi fa entrare nel vialetto di una casa, oltre un muretto di mattoni rossi. Fermo l’auto davanti a un garage chiuso, vicino a dei cespugli di rose spogli, in attesa di vestirsi con i loro fiori. Carlotta mi porge ancora la piada e io la mordo, lei sorride e ci guardiamo in silenzio. Mi sporgo in avanti e la bacio, le labbra si sfiorano appena, per poi poggiarsi con maggiore sicurezza sulle sue. Affonda le dita nei miei capelli, afferrandomi alla nuca e attirandomi a sé. Mi bacia con trasporto, io ancora devo deglutire il boccone di piadina e posso sentire il sapore di carne e cipolla nella sua bocca. Le carezzo il fianco con le dita, salendo lentamente verso il seno, ma fermandomi poco sotto. Le sue mani mi artigliano il petto e scendono verso il basso, tirandomi fuori la camicia dai pantaloni.
Mi guardo intorno, un po’ preoccupato, e lei mi bacia ancora.
- Ma qui possiamo? - comincio.
- Sta zitto e scopami.
- Be' io di solito
Mi bacia interrompendomi ancora una volta, le sue mani si muovono sui miei pettorali ormai nudi; decido che non c'è bisogno di fare tanti complimenti e che, tutto sommato, sono molto eccitato e le carezzo il seno, sentendo i capezzoli indurirsi sotto le mie dita. Smette di baciarmi e sorride, con una luce indecifrabile negli occhi.
- Hai un preservativo?
- Come no. Dovrei averne cinque o sei scatole sparse per l’auto.
Ride e infila una mano in tasca, tirandone fuori lei uno.
- Cos’è? Non esci mai di casa senza? – chiedo, allibito.
Lei fa di no con la testa e mi fa mordere ancora la piadina, per poi infilarsi in bocca l’ultimo boccone. Si leva la maglietta e mi spinge la testa contro il suo seno, con il quale comincio a giocare, dopo avere deglutito.
- Sei fidanzato? – chiede, improvvisamente.
- Ma che - sospiro. – No, non sono fidanzato. Non più – e non posso negare di sentirmi un po' in colpa perché sto per scopare con una sconosciuta, quando il mio letto è ancora caldo.
- Non potrei farlo con te, se fossi fidanzato.
- Sul serio?
Rimane pensierosa per un po’, poi sorride di nuovo, entusiasta.
- No. Ne ho troppa voglia e tu mi piaci.
Mi bacia ancora e nel frattempo mi sbottona i pantaloni, la aiuto e li calo, restando con i jeans a mezz’asta. Lei si leva in fretta e furia i suoi, mettendo in mostra un piercing all’ombelico e un tatuaggio tribale sull’anca destra.
- Che significa? – chiedo, mentre mi infilo il preservativo sul membro ormai sul punto di scoppiare.
- Forza.
- Ah. E perché proprio quello?
- No, intendevo: forza, scopiamo. Del tatuaggio parliamo dopo, OK?
- Ah. Sì. Certo – mi sento un verginello alla sua prima esperienza
Mi sale sopra, circondandomi con le sue gambe, e posiziona con la mano destra il mio pene all’ingresso della sua vagina, prima di scendere lentamente.
- Non c’è niente di simile, al mondo – dice, quando è arrivata in fondo e si è fermata.
- No, è vero – comincio ad andare nel panico. Mi chiedo quanto reggerò. Non faccio sesso da parecchio e soprattutto lei è la prima donna da Adriana. È già tanto che mi sia diventato duro.
Sorride e mi abbraccia, tenendomi stretto. Sento il suo respiro regolare, i seni che sfregano sul mio petto e il battito del suo cuore. Poi, improvvisamente, comincia a muoversi, molto lentamente. Il suo bacino si muove ritmicamente, avanti e indietro; per quanto la posizione, il panico e il lattice me lo consentono sento lo sfregamento ed è decisamente piacevole. Carlotta mi bacia ancora, mentre le afferro le natiche per aiutarla nel movimento. Le mordo leggermente una spalla, mentre lei ansima, e sento la pelle salata dal sudore. Il suo movimento diventa sempre più rapido e io comincio a capire che non reggerò ancora tanto.
- Non reggerò ancora tanto – mi pare giusto avvisarla.
Lei mi guarda negli occhi e sorride, mentre non accenna a smettere di muoversi.
- Guardami – dice.
La guardo e lei accelera il ritmo, io cerco di pensare a dove siamo, al Rwanda, alle tasse, a quella faccia da cazzo del nostro Presidente del Consiglio, ma non c’è niente da fare. Dopo pochi minuti lancio un rantolo che spero non sia ridicolo e vengo, chiedendomi se sono riuscito a fare venire anche lei, per lo meno. Sediamo in silenzio nell’auto e io, oltre il parabrezza, guardo il cielo, cercando di capire quale treno mi ha investito. Otto giorni fa ero stato a letto con una sola donna. Sette giorni fa una mezza pazza me lo stava succhiando in una discoteca. Quarantott’ore fa una ragazza che vedevo per la seconda volta nella mia vita e io stavamo pomiciando come due adolescenti in calore. Oggi ho fatto sesso con un’altra ragazza. Massi sarebbe fiero di me. Io so di essere sempre lo stesso, ma mi sento diverso da prima. ?Carlotta non si è alzata e siede a cavalcioni su di me; io sono ancora dentro di lei e sento le contrazioni dei suoi muscoli direttamente sul mio pene.
- Scusami – dice, improvvisamente.
- Di cosa?
- Ti ho praticamente violentato e a malapena mi ricordo il tuo nome.
- Alessandro.
- Carlotta.
- Lo so.
- È un nome sfortunato.
- Perché?
- Sono di origini toscane.
- Non capisco.
- Dai, un nome del genere in una regione dove fa rima con “potta”.
Ridacchio.
- Ecco – ride anche lei e mi bacia.
- Posso sapere come mai io e te abbiamo fatto sesso?
- Oddio, sei uno di quelli che cerca spiegazioni per ogni cosa?
- Non lo so. È che mi piace sapere le cose – mi mordicchia il lobo dell’orecchio
e mi lecca il collo, - ma in questo modo ho qualche difficoltà a concentrarmi.
- Sei stato bene?
- Sì, certo. Tu sei venuta?
Annuisce, visibilmente soddisfatta.
- Goditi il momento – mi dice. Poggia la testa sulla mia spalla e guarda fuori dall’auto, in un punto indefinito. – È questo che ho imparato.
Allaccio l’ultimo bottone della camicia, mentre Carlotta finisce di allacciarsi le scarpe.
- Allora, mi accompagni a casa? – mi chiede.
Mi guardo intorno, sbirciando il vialetto che stiamo occupando.
- Scusa, ma non è questa?
- No, figurati. Non so neanche di chi sia, questa casa.
Faccio per obiettare, preso dalla mia morale, quando intercetto una sua occhiata, tra il divertito e l’inquisitore.
- Mi godo il momento – dico.
- Esatto.
Sorrido e accendo il motore dell’auto proprio quando sento il suono di un clacson. Io e Carlotta ci voltiamo e dietro di noi c’è una macchina; l’autista è un signore di mezza età, chiaramente scocciato, che indica il vialetto con un dito inquisitore.
- Ci stiamo godendo l’attimo! – grida Carlotta, ma lui non sente o, comunque, non sembra essere interessato.
- Probabilmente non è della tua stessa scuola – osservo.
- Mi sa di no – risponde, sorridendo, lei.
Faccio retromarcia e o accanto alla vettura del signore facendo un cenno di scusa, al quale risponde con un’occhiataccia.
- Io sono uno di quelli che vuole sempre una spiegazione – dico, - tu sei una di quelle che sparisce dopo una botta?
- Non sono una facile, Ale – dice, sorridendo.
- Be'...
- Lo so: le azioni non ano la teoria.
- Direi di no.
- E se fossi tu? Se fossi dotato di un tale e magnetico fascino da avermi spinto a fare sesso con te?
- Sbaglio o poco fa lo hai definito stupro?
Ride e si mette una sigaretta tra le labbra, abbassando il finestrino della macchina. Seguo le sue indicazioni e arriviamo sotto casa sua, un palazzone di sette piani, quel genere di posto dove ogni appartamento ti racconta una storia completamente diversa rispetto a quello accanto. Carlotta si fruga nelle tasche e recupera una penna, poi mi appunta un numero di cellulare sul braccio.
- Chiamami. Promesso?
- Promesso – faccio in tempo a dire, prima che mi baci di nuovo.
Scende di corsa dalla macchina e, prima di sparire dietro al portone, si volta e mi fa un cenno di saluto. Rimango parcheggiato lì davanti a guardare il portone, mentre ripercorro quanto è successo. Non è stato orribile, né meraviglioso. Non saprei neanche definirla una sensazione assolutamente strabiliante o disgustosa. Ma per la prima volta da un sacco di tempo mi sento rilassato e in pace con me stesso. Torno a casa e mi infilo a letto, facendomi la prima dormita decente da una vita.
6
Quando rientro in ufficio non sono nervoso, al pensiero di rivedere Cora, e la cosa un po’ mi stupisce. Entro in ascensore con altre persone che vedo giornalmente solo nel tragitto dal piano terra al terzo. Mi sembra che qualcuno mi guardi con occhi diversi, come se avere pomiciato con la mia collega fosse noto a tutti quanti. Raccolgo le occhiate, senza abbassare lo sguardo. "Ebbene sì, io ho baciato una donna. Voi sfigati cosa avete fatto?". Mi siedo alla scrivania e saluto qualche collega, mentre il ronzio del mio PC che si accende fa da sottofondo musicale. Lavorare in un ufficio è come vivere in una realtà alternativa, dove ogni giorno vivi lo stesso giorno. Cambiano forse i dati, i nomi sulle pratiche, i numeri che batti sulla tastiera, ma fai sempre le stesse cose, vedi le stesse facce, dici le stesse cose quando rispondi al telefono. E nonostante questo o forse proprio per questo ogni giorno sembra sempre portare una rogna diversa, qualcosa che lo differenzia dal giorno precedente. È come essere Sisifo, ma armato di PC. Trovo una mail di Cora che mi ringrazia per la serata e mi chiede se ho impegni per pranzo. Decido che ne ho e le dico che ci possiamo vedere per un aperitivo dopo il lavoro. Me la tiro, roba da non crederci. Ma improvvisamente ho paura di mettermi in gioco con qualcuno, per quanto sia una brava persona. Massi direbbe che sto cercando di purificarmi per l'Immacolata Concezione, probabilmente, e forse non avrebbe torto.
La mattinata a tranquilla, non posso fare a meno di notare che Daria non si presenta al lavoro; indago discretamente con i colleghi e scopro che si è data malata. Avrà preso freddo a stare senza mutande, immagino. A pranzo rimango seduto al mio tavolo e mangio un panino, mentre giro su Internet e leggo forum e siti che mi interessano. Finisco sul blog di Massi e becco un minuzioso resoconto del suo week end, con tanto di link delle pratiche più strane e analisi della sua prestazione sul campo. Ci sono ventuno commenti che vanno dal glorificante al curioso. Gli lascio il ventiduesimo: “Idiota”. So già che mi chiamerà per rimbrottarmi.
- Ciao.
Cora appare improvvisamente accanto a me; indossa una gonna e una camicetta che sono lontane milion i di anni luce dagli anni ’80.
- Ciao – sono sorpreso di trovarmela lì. – Come mai da queste parti?
- Perché hai scritto che avevi da lavorare, durante la pausa pranzo, e ho pensato di farti compagnia.
Mi mostra un sacchettino di carta bianca, come se contenesse tutte le risposte.
- Tramezzino. Pomodoro, tonno e maionese – dice.
Sorrido e prendo il sacchetto facendole cenno di sedersi. Prende una poltroncina dalla scrivania accanto alla mia e si siede.
- Allora, come va nel tuo reparto? – chiedo.
- Al solito: spendiamo un sacco di soldi per fare cose che non capiamo.
- Mi pare giusto.
- Hai mai avuto l’impressione di vivere solo per arrivare a un determinato momento?
- Ero un apionato di X-Files e non vedevo l’ora di guardare il nuovo episodio – confesso.
- Una cosa del genere. Ogni giorno spero di arrivare in fondo il più in fretta possibile. E non faccio altro che aspettare il fine settimana.
Scrolla le spalle, poi tira fuori da un secondo sacchetto un pezzo di focaccia alle olive e ci dà un morso. Mastica velocemente, guardano con attenzione il cibo, come se avesse paura che potesse sparire all’improvviso.
- Perché non cerchi qualcosa di diverso? – le chiedo.
- Non saprei cosa cercare. Davvero. Sono già fortunata a fare questo lavoro.
- Non hai detto che non hai capito cosa fai?
- Appunto. Pagata per fare qualcosa di incomprensibile, come potrei trovare qualcosa di paragonabile?
- In effetti.
Mangio il tramezzino, lanciando di tanto in tanto un’occhiata alla diagnostica di sistema che scorre sullo schermo del mio PC.
- Ti sei divertita, sabato? – chiedo.
Poi mi rendo conto di quello che potrebbe avere capito, quando un sorriso imbarazzato le compare sul volto.
- Scusa – mi affretto a dire. – Domanda sbagliata.
- Tutto bene – mi sorride ancora. – Sì, è stata una bella serata. Anche grazie a te.
Mangiamo in silenzio, poi suona il mio telefono.
- Ciao, Massi – saluto.
- Ciao caro, che combini?
- Che vuoi che combini? Sono al lavoro, ora sto pranzando con la mia amica Cora.
- Quella dell’altra sera? La pomiciona?
- Sì – spero che lei non lo abbia sentito, - esatto.
- Ah, torni sul luogo del delitto, eh? È previsto un tête-à-tête nei bagni, dopo mangiato?
- Gesù. Sei incredibile.
- Lo so. Senti, stasera vieni da me? Ci guardiamo un film e magari facciamo una partita a Tekken ?
- Non lo so. Forse ho da fare.
- Tu? E cosa?
- Che vorrebbe dire quel tono allibito?
- Be' non sei mai stato uno con particolari impegni.
- Sì, può essere, ma ora ne ho.
Devo giocare a World of Warcraft . Il mio gruppo, stasera, prova un nuovo dungeon. Lo so, è patetico, ma chi se ne frega.
- OK. Se cambi idea, chiamami.
- Sarai il primo a saperlo.
Riattacco e sorrido a Cora, cercando il filo del discorso interrotto.
- Che farai stasera? – chiede lei, mentre appallottola la carta della focaccia.
- Niente di che. Mi scocciava solo dargli ragione – ammetto, strappandole un sorriso. – E tu?
- Vado a messa.
- Di lunedì?
- Già.
- È qualche occasione speciale? Una veglia?
Lei scuote la testa.
- Oh be', non credo che ci troverai troppa gente. Ci saranno solo i peggio schizzati della fede.
Lei non dice niente e inclina il capo come se cercasse di mettermi a fuoco.
- Sai – continuo, - quelli che leggono la Bibbia tutti i giorni e vanno a messa la domenica. Quelli che vivono davvero pensando che se non fanno una cosa finiranno all’Inferno e si affidano a presunte scritture tradotte da persone che avevano troppi interessi in campo per non farsi influenzare, mentre stabilivano cosa significava quello che c’era scritto.
- Capisco.
- Sai, quegli sciroccati che la domenica vedi a San Pietro, con il sole a 40° o la pioggia che rischia di farti affogare.
- Sono una di loro.
Solo in quel momento mi accorgo che c’era una vocina, nella mia testa, che continuava a dirmi “occhio, che stai pestando una merda!”.
- Di chi? – chiedo, preoccupato.
- Di quegli sciroccati. Sono una di loro.
- Sei cristiana ortodossa?
- Se vuoi definirmi così.
- Ah.
- Già.
- E pensi che io finirò all’Inferno?
- Ho paura di sì.
- Già.
- Ma niente è perduto. Puoi ancora salvarti, se ti affidi a Dio e chiedi sinceramente perdono.
- Buono a sapersi – sono imbarazzato a morte. – C’è possibilità che tu mi rivolga ancora la parola, dopo questa figuraccia?
- Qualcuna, sì.
- Ah bene. Perché, vedi, io...
- Ale, se posso darti un consiglio – mi interrompe lei.- Lascia stare, non peggiorare le cose. Ho come la sensazione che dopo le tue scuse, sarei ancora più arrabbiata di ora. Alzo le braccia in segno di resa e lei annuisce. Se ne va, lasciandomi lì seduto a realizzare come mai la mia ragazza possa avermi lasciato.
- Che figura di merda.
Il commento dei miei compagni di gioco di World of Wacraft è abbastanza netto e comune a tutti. Nella fattispecie, Shendor si è fatto carico di esprimerlo via microfono. Non conosco il suo vero nome, come non conosco quello degli altri, non siamo ancora ati alle presentazioni reali. Conosciamo il nostro alter ego virtuale su schermo e basta. Ci si vede ogni tanto per giocare insieme – OK, più spesso che ogni tanto. Tre sere a settimana. Almeno. A volte quattro. E le domeniche. Tutto il giorno. Ma non ho dipendenza, giuro, smetto quando voglio. – Prima o poi faremo un raduno nel mondo reale e vedremo com’è fatto Shendor, che sullo schermo ha le sembianze di un umano con la folta barba grigia, com’è fatto Balorin, che si è scelto un nano con le treccine come avatar, e com’è lo gnomo Wizal, l’unico di cui, tra l’altro, sappiamo essere basso e con i baffoni come da immagine sul PC.
– Sapevo di poter contare sulla vostra amicizia e o, ragazzi – rispondo, mentre comando il mio personaggio sullo schermo.
- Mi pare evidente che ti sei bruciato ogni chance di portartela a letto – dice Wizal.
- Come se quello fosse stato il mio intento primario.
Le risate che risuonano dentro la cuffia mi spiegano che non sono stato preso sul serio.
- Davvero – cerco di difendermi. – Mi piaceva, ma non è che mi interessasse solo portarmela a letto.
Ancora risate.
- Vabbe' capito. Riusciamo a finire il dungeon o cosa?
- Sì, sì, certo. Ma la domanda è: cosa pensi di fare? – chiede Balorin.
- Che cosa vuoi che faccia? Farò finta di niente e poi mi presenterò da lei, sperando che le sia ata.
- Fai affidamento alla carità cristiana – dice Balorin.
- Una roba del genere.
- Una volta sono uscito, con una così – interviene Wizal.
- Davvero? E com’è andata? – chiedo.
- Non c’è stato modo di arrivare a concludere. La sua famiglia era tipo la più religiosa dai tempi di Gesù e lei non me l’ha mai data. E non è che non ci abbia provato, eh? Ma c’era sempre qualche scusa. Quando non era Gesù che non voleva, era che era peccato e quando non era quello era perché i suoi genitori erano di là, in salotto.
- I suoi genitori? – chiede Balorin.
- Sì, era una mia compagna di seconda media, non ve l’avevo detto?
- Oh Cristo! – esclamo.
- Era quello che diceva lei quando tornavo all’assalto.
- Ti è mai sorto il dubbio che il suo rifiuto dipendesse dal fatto che aveva tredici
anni, pezzo di idiota? – interviene Shendor.
- Dite che era per quello?
- Aveva tredici anni! – ribadisco, esasperato.
- Ah. Potrebbe, in effetti, essere così.
- E com’è che a tredici anni stavi già cercando di scoparti una ragazza? Che razza di animale sei?
- Sempre stato precoce – si giustifica, lui.
- Alla faccia – esclamo.
- Comunque, secondo me, devi sparire per un paio di giorni e poi fare ritorno da lei - suggerisce Shendor.
- Sì, penso che farò così.
- E non tirare più fuori il discorso. La vostra conversazione di oggi non è mai avvenuta – aggiunge Balorin.
- Guardate, a me interessa giusto salvare un rapporto civile, sul resto ci ho già messo una pietra sopra.
Ancora risate. Li odio.
- Cazzo, è vero! – esclama Wizal.
- Che cosa? – chiedo.
- Ora che ci penso, in seconda liceo mi dissero che quella tipa si sbatteva Antonio Petroncini, della 2a D. Forse la religione non c’entrava niente.
Il telefono di casa suona, sollevandomi dall’obbligo di unirmi al coro di insulti che lo sommerge. Quando raggiungo l’apparecchio, la segreteria è già entrata in funzione; la tengo sempre attaccata quando gioco, non sia mai che qualcuno mi disturbi mentre sto per fare il nuovo livello. Dall’altra parte sento solo silenzio e qualche singhiozzo. È Adriana. Fisso il telefono per qualche secondo, indeciso su cosa fare. Poi sollevo la cornetta.
- Pronto, Adriana?
Niente. Non dice una parola.
– Pronto?
Sento il suo respiro e mi sembra di poterci leggere un intero universo, lì dentro.
- Andiamo, dimmi qualcosa
Sento il “click” del telefono che viene riattaccato. Sospiro e metto giù la cornetta. Una volta la mia vita era normale. Banale e noiosa, forse, ma se volevo parlare con la mia ragazza mi bastava rivolgerle la parola. Mi rendo conto che sono dell’idea che la noia sia una valida alternativa all’ansia. Come sono borghese. Non riesco a dormire e allora faccio quello che si fa di solito, in questi casi: chiamo qualcuno.
- Ciao Massi – esordisco.
- Ehi, ciao! – mi pare che abbia il fiatone.
- Stai facendo sesso?
- Sì, certo. Dimmi pu ...
Attacco. Io e lui dovremo parlare di questo suo desiderio di conversare nel mezzo del coito.
Un’ora dopo sono attaccato al camlo di mio padre, sperando di non beccarlo che dorme. Mi apre con indosso il suo pigiama e l’immancabile accappatoio.
- Ciao, papà.
Mi dà un’occhiata, dal basso verso l’alto.
- Sei ubriaco? – chiede.
- No.
- Sei fumato?
- Cazzo, no.
- Va bene, allora. Accomodati.
Si fa da parte e io entro, sorvolando sul test attitudinale appena ato. Ci sistemiamo in salotto, in mezzo ai libri con gli angoli delle pagine piegati per tenere il segno. Sul tavolo c’è una bottiglia di vino aperta e sullo schermo della TV c’è il fermo immagine di un film in bianco e nero.
- Cosa guardi? – chiedo.
- “Il terzo uomo”. L’hai visto?
- Me l’hai fatto scoprire tu – sorrido.
- Sei fortunato ad avermi come padre – dice lui, mentre si siede e mi versa un bicchiere di vino.
- Come mai non stai dormendo?
- Potrei farti la stessa domanda.
- Mi ha chiamato Adriana.
- Ah.
- Già.
- E cosa dice?
- Niente, è questo il problema.
- Ha chiamato per non parlarti? Che senso ha?
- Ma che ne so, papà. Mi lascia messaggi vuoti in segreteria, mi chiama e non parla. Non le è bastato lasciarmi? Cosa vuole ora? Bruciarmi l’auto mentre dà le chiavi di casa mia a dei tossici in astinenza?
Mio padre beve un sorso di vino e mi sorride, affettuoso.
- Sai, quando tua madre mi ha lasciato, ero un po’ come te. Ogni tanto lo sono ancora.
- Immagino. Io almeno non bevo vino di pessima qualità – ribatto.
Sorride ancora e riempie un altro bicchiere.
- Perché non vai da lei, allora? Se vi vedete faccia a faccia non c’è modo che stia zitta.
- No, Cristo, non voglio forzarla. Non mi vuole parlare? Benissimo. Però che non mi cerchi. Come può armi se non fa altro che ritornare nella mia vita?
- Non lo so, non ho una risposta. Credo ce l'abbia anche lei, ma, sinceramente, è così scombinata che non ne sono tanto sicuro. Io posso solo dirti che, in questo momento, il più forte dei due sei tu. E so che è strano a dirsi.
- È strano sì, cazzo. Mi ha lasciato lei.
- Non vuole dire niente.
- Non vorrà dire niente, ma è comunque fuori dal mondo. Cioè, io devo occuparmi del mio cuore spezzato e del suo?
- Esatto. La vita è strana, vero?
- Diciamo così.
Rimaniamo in silenzio e poi mio padre si mette a declamare.
- “In Italia, sotto i Borgia, hanno avuto omicidi, cospirazioni e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto cinquecento anni di pace e amore fraterno. E cosa hanno inventato?”
- “L’orologio a cucù” – concludo io.
- Orson Welles aveva ragione: datti del tempo e dallo anche a lei. Avrai il tuo Rinascimento.
Non ribatto e mi limito a bere un sorso di vino.
- Te lo devo proprio chiedere, papà: dove accidenti lo prendi questo vino schifoso?
- Ho la casa piena di bottiglie regalate.
- Ora sai perché.
Lui si mette a ridere e beve ancora, dopo aver alzato il bicchiere in un brindisi silenzioso. Rimango a dormire a casa sua, come quando ero piccolo e facevo gli incubi e i miei genitori mi facevano dormire nel loro lettone. A quel punto non avevo più paura e dormivo di nuovo, senza sogni e, soprattutto, senza incubi. Bastava la loro presenza a farmi sentire protetto e al sicuro. Poi mia madre ha lasciato mio padre e Adriana ha lasciato me e non c’è più stato nessun lettone abbastanza sicuro.
Il mattino dopo faccio colazione con mio padre e poi arrivo al lavoro,
terrorizzato dalla possibilità di incontrare Cora in ascensore. Fortunatamente la cosa non accade e Daria non accenna a quanto accaduto, il che lo trovo sospetto, ma preferisco non indagare. Preso dai sensi di colpa, invio una mail generica a Cora, dove le auguro buon lavoro e buona giornata e, ehi!, vedi come sono rilassato? È perché non penso più a cosa è successo e spero neanche tu. Perdo un altro paio d’ore in un’inutile riunione dove vengono proiettate altre slide, altri grafici e altri dati che non servono a niente. A metà dell’incontro mi collego al blog di Massi, dove scopro che si vedrà con la tizia conosciuta alla festa anni ’80. Gli mando un SMS con su scritto “Due volte con la stessa donna? Non è da te”. La sua risposta arriva quasi subito: “Invecchiando mi addolcisco. Oggi faccio chiusura, i?”. Gli faccio uno squillo in risposta positiva e poi faccio finta di seguire la riunione. Quando Sandra appare, ho quasi difficoltà a riconoscerla, rispetto alla ragazza della discoteca. Non è truccata e indossa dei sobrissimi jeans e una maglietta rossa a maniche lunghe. Ci diamo un bacio sulla guancia e andiamo a bere un aperitivo.
- Non ti riconoscevo, sai? – le dico.
- Sì, neanche io, da questa altezza.
Arrossisco e lei esplode a ridere.
- Scusa, ma non ho resistito – dice.
Sorrido, imbarazzato, e mi guardo intorno. Il bar dove sediamo è pieno, sul bancone ci sono piatti e piattini di snack e stuzzichini. Davanti si affollano rappresentanti di ogni tipo d’umanità: impiegati e studentesse, casalinghe e
operai. Siamo tutti qui perché la società, un giorno, ci ha autorizzato a essere degli alcolizzati; basta che sia dalla cinque alle otto e che si accompagni il bere con salatini ipercalorici. Sandra ordina un martini e io mi accodo con un analcolico alla frutta.
- Allora – chiede, - questo appuntamento?
- In che senso?
Fa spallucce e beve un sorso.
- Di solito quelli che incontro non vogliono rivedermi, dopo.
- Ah no?
- No. Credo di metterli in soggezione.
- Non posso dargli torto.
- Ti metto in soggezione?
- Un po’. Voglio dire: entri nella mia vita in modo esplosivo e poi sparisci. Non è
non lo so
- Da donna?
- Se vogliamo dirla così.
Sorride e beve ancora.
- Non è un problema. Mi è piaciuto, succhiartelo, sei stato gentile, non mi hai trattato da troia. Per me è abbastanza.
- Già. Forse non lo è per me.
- No? – mi guarda con attenzione, ando la lingua sui denti. – Vuoi un secondo round?
- Oh Cristo
E s plode a ridere, prima di finire il suo Martini.
- Vieni, accompagnami alla macchina.
Ci mischiamo alla folla, quando fuori comincia a fare buio. Sandra si accende una sigaretta e mi lancia un’occhiata.
- Sei molto carino, davvero. Ma non devi sentirti in colpa per un pompino.
- Non è quello. È che non mi pare giusto.
- La stai guardando dal punto di vista sbagliato.
- In che senso?
- Gli stai dando più importanza del dovuto. È solo un pompino, santo cielo. Ci siamo conosciuti, mi sei piaciuto e te l’ho succhiato nel séparé di una discoteca. Non so da te, ma dalle mie parti non vuole mica dire “matrimonio”.
- E tu? Chi si occupa di te?
- Cos’è, sei il tipo di uomo che si sente una merda se non riesce a portare la propria donna all’orgasmo?
- No, però non mi dispiacerebbe, ecco.
Dà un tiro alla sigaretta, si vede che si sta divertendo un mondo.
- Posso chiederti una cosa? Con quante donne sei stato a letto?
- Due.
Questo la colpisce. Mi guarda sottecchi e poi sembra contare mentalmente.
- Due? Che cazzo, eri un prete prima?
- No, non proprio.
- Forse il problema è quello. Hai ancora l’innocenza del verginello – mi fa l’occhiolino. – E devo ammettere che ti rende affascinante.
- Troppo buona – sorride.
Usciamo dalla folla e ci infiliamo in una serie di vicoletti, dietro il supermercato.
- Senti, che ne dici di andare insieme a teatro? – chiedo.
Si ferma e comincia ad armeggiare nella sua borsetta.
- Teatro? – chiede, distratta.
- Mi hai detto che ti piace, no? Andiamoci insieme, a vedere quello che vuoi tu.
Lei continua a frugare nella borsetta, concentrata.
- Fanno Casa di bambola , che ne pensi?
Deglutisco.
- Immagino sia troppo sperare che sia un horror con delle bambole assassine possedute, vero?
Con un gridolino trionfante, Sandra tira fuori le chiavi della macchina e me le mostra, soddisfatta.
- Sali, piaga.
- Entra nella sua utilitaria e rimango colpito dalla pulizia estrema degli interni; dallo specchietto pende un Arbre Magique dal quale arriva del profumo di cedro.
- È l’auto più pulita che abbia mai visto – ammetto.
- Il mio ex era un maniaco delle macchine. Mi ha insegnato tutto quello che c’è da sapere, su come prendersene cura – spiega, mentre si leva il cappotto.
- Oh. Se sentissi il bisogno di occuparti anche della mia
Lei sorride e mi guarda con attenzione.
- Teatro, eh?
- Sì, pensavo fosse interessante.
- Sei uno che ascolta.
- Di norma.
- Non darlo per scontato. Quelli a cui lo succhio, di solito, si dimenticano di tutto quando ancora devo finire di ingoiare.
- Troppe informazioni! Troppe informazioni! – esclamo.
Lei ride e si avvicina, sento le sue mani che lottano con la patta dei pantaloni.
- Che fai? – chiedo, allarmato.
- Ti do il secondo round.
- Per me va bene, ma dalle mie parti vuol dire “matrimonio” – spiego, mentre la aiuto ad abbassare le mutande.
Sorride e mi da un bacio sulla guancia. Cerco di baciarla, ma si scosta e scende verso il mio ventre.
- Senti, non è che non mi piaccia, ma non potremmo
Lei mi zittisce, poggiando un dito sulle mie labbra, mentre a la lingua sul mio pene.
- Cazzo – mugolo.
- Non farmi ridere. Una volta uno mi ha fatto ridere e mi è venuto il singhiozzo e non sono stata capace di fargli il pompino.
- Troppe informazioni – ripeto, ma ormai la mia mente è altrove. Chiudo gli occhi, ma riesco comunque a vederla che si dà da fare, le sue labbra che si chiudono intorno al mio membro.
- Sandra - mormoro.
Improvvisamente cerco di ricordare chi è stata la prima donna a succhiarmelo. Cerco di focalizzare e mi rendo conto che, curiosamente, non è stata Adriana. Ho sempre pensato che la mia vita fosse cominciata – e per un po’ ero anche convinto che sarebbe finita – con lei. E invece mi torna in mente la mia compagna di liceo Irene, che mi aveva fatto scoprire le gioie della fellatio quando ancora ero adolescente. Eravamo a una festa - quella dove, tra l’altro, avevo visto per la prima volta Adriana; - Irene e io avevamo ballato e bevuto insieme. Prima di allora non eravamo stati particolarmente intimi, né ci eravamo studiati a distanza o avevamo cercato di capire se l’altro ci pie o meno. Semplicemente, quella sera, ci eravamo piaciuti e, trovato un posto appartato, ci avevamo dato sotto. Eravamo entrambi vergini, non avevamo preservativi e lei era stata ben chiara sul fatto che il suo imene sarebbe uscito integro dall’incontro in quello stanzino adibito a magazzino e, in quel momento, ad alcova per adolescenti con gli ormoni in subbuglio.Decisi di masturbarla e lei acconsentì, molto graziosamente, guidando mani e dita sul suo clitoride e spiegandomi come si fa, come muovermi. Ricordo che quando venne, mi baciò, ficcandomi la lingua in bocca e facendola vorticare come se stesse cercando qualcosa. Il suo corpo era teso allo spasmo, temevo potesse spezzarsi a metà, da un momento all’altro.E poi si dedicò a me. Con il senno e l’esperienza di poi, lo fece anche bene, ma sul momento non potevo saperlo o capirlo. Quando hai quattordici anni e una ragazza te lo succhia sei già il re del mondo, figuriamoci se puoi stare a giudicare. Con gli anni ho capito che fare un buon pompino è difficile e, credo, persino stancante. Il pene sarà anche benedetto da migliaia di terminazioni nervose, ma ha anche la tendenza ad abituarsi molto in fretta alle sensazioni che prova. Qualsiasi donna che si limiti a serrarlo fra le labbra e a fare avanti e indietro ritmicamente, può metterci tutto l’impegno di cui è dotata, ma non sta che dando il 10% di quanto richiede una pratica simile.Un buon pompino è come un incontro di boxe: richiede di cambiare ritmo, di usare alternativamente lingua e labbra, di colpire diverse zone tra testicoli, frenulo, asta e cappella. Un buon
pugile sa usare il gioco di gambe, cambiare ritmo di attacco e difesa, variare i colpi e le zone attaccate a seconda di chi è l’avversario. L’unica differenza con un buon pompino, alla fine, è che chi cede non perde i sensi. O almeno a me non è successo mai. Ma non sono contrario all’esperienza a prescindere. Trattengo la testa di Sandra e cerco di non rantolare mentre vengo, come se, inconsciamente, non lo trovassi dignitoso. Lei afferra il mio pene alla base, con due dita, e ingoia tutto; sento la lingua che ancora stimola l’asta e provo quasi dolore, da quanto è forte il piacere.Si solleva, lo sguardo trionfante, e mi fa l’occhiolino.
- Grazie – mi trovo a dire.
- È un piacere. Mi piace il tuo sapore.
- Ah. Che uomo fortunato.
Tira fuori un pacchetto di Malboro dalla sua borsetta enorme e si porta una sigaretta alle labbra, mentre mette in funzione l’accendisigari dell’auto.
- Ti va di farlo? – chiedo.
- No. Ma grazie per avermelo chiesto – mi risponde, con un sorriso.
- Quand’è stata l’ultima volta che hai fatto sesso?
- Mh – accende la sigaretta e dà un tiro. – Tre anni fa, direi.
- Con chi?
- Il mio ex.
- Quello dell’auto?
- Quello.
- E poi più niente?
- Non con un’altra persona, no. Mi masturbo quando ne ho voglia.
Non aggiungo niente, mentre penso che lei è veramente strana. Non le credo del tutto. C’è un personaggio dietro quel menefreghismo e quel sorriso storto. Un’armatura che ha tirato fuori per proteggersi da me e dal mondo. Il pompino è la sua arma – certo, una coltellata sarebbe peggio, quindi una pompa è la benvenuta – e la usa per fermarti sulla soglia. Non c’è il tappetino con su scritto “Benvenuto”, non ci sono neanche le ciabattine per gli ospiti, come usa in Giappone. C’è solo il tuo orgasmo, tu con il fiato corto e la mente svuotata, convinto di avere stretto un rapporto vero e di essere il vincitore. E lei è felice di fartelo credere, mentre ti guarda con il suo sorriso storto.
- Andiamo – dice mentre ingrana la prima. La macchina si mette dolcemente in cammino, lasciando alle spalle la nostra fugace tenzone a base di fellatio. Sbircio nello specchietto retrovisore, per vedere se, alle nostre spalle, lasciamo una
traccia del nostro aggio, come uno spettro di noi stessi, ma non c’è niente. Resto solo io, seduto al posto del eggero, e Sandra che guida, mentre canticchia Cry baby , di Janis Joplin.
Massi, quando non fa il DJ, lavora in un McDonald’s; una piccola filiale, nella zona fieristica della città. Di notte è frequentata da chi esce o sta per entrare in autostrada, oltre che da prostitute e dai loro clienti.Quello che per altri sarebbe un semplice lavoro e che per Massi è solo un riempitivo, in attesa di diventare uno scrittore famoso, io lo vedo come un esempio di karma da manuale. Anni fa, Massi aveva una ragazza che lavorava come cassiera in un altro McDonald’s, uno più grande e nel centro della città. Lei lo aveva semplicemente scaricato e questo, per come la vedo io, aveva scatenato due eventi in particolare. Il primo è stato il cambiare in maniera radicale l’atteggiamento di Massi nel confronto delle sue storie d’amore. Conscio che non può esserci certezza, in una relazione, che la fine è possibile, imprevedibile e quasi inevitabile, Massi ha deciso che il nichilismo sentimentale è la via migliore per vivere le relazioni con le svariate donne che affollano la sua vita. Quindi chiude lui, mentre ancora loro si stanno lasciando andare, come ogni inizio di relazione richiederebbe. E quando quelle ci restano male e si guardano intorno confuse e spaurite, lui ormai se l’è già filata a gambe levate.La seconda cosa è stata rivelare il suo lato vendicativo, che fino ad allora era rimasto rigorosamente nascosto. Il buon Massi, complice il consiglio trovato sul Manuale dell’Anarchico reperito su Internet, chiamò il numero verde della McDonald’s e cominciò a piagnucolare, raccontando di avere mangiato nella filiale dove lavorava la sua ex e di avere trovato delle strane palline nere nell’insalata e di averne parlato con chi gestiva il posto e che gli avevano riso in faccia e cacciato via. Il responsabile e metà del personale del fast food erano stati cacciati via, compresa la ex di Massi. La metamorfosi del mio amico era ormai completa: da tipo comune a genio del male, in poche mosse. Poi, anni dopo, sa solo il cielo perché, Massi è andato a lavorare proprio in un McDonald’s.
Parcheggio l’auto e sbircio dentro: c’è solo una coppietta annoiata che mangia in silenzio. Massi è poggiato al bancone, che guarda il vuoto con fare interessato e, quando entro, mi saluta con un cenno del capo.
- Ti va di mangiare qualcosa?
- Prendo volentieri delle patatine.
Sparisce e fa ritorno con un cartoccio di patatine che mi porge; ne mangio un paio e lo osservo, mentre si occupa di un cliente, un ragazzo sovrappeso, con gli occhiali spessi e una maglietta degli Iron Maiden.
- Patatine, doppio cheeseburger, coca grande – ripete, meccanicamente, il mio amico. – Vuoi del ketchup o della maionese?
- No, no. Fanno ingrassare.
- Eh già. Vedo che sei a stretta dieta – risponde, beffardo.
Il tizio lo guarda, visibilmente irritato, poi prende il vassoio e si allontana.
- Stronzo – sibila.
- Ciccione – risponde il mio amico.
- Sempre amichevole, eh? – gli dico.
- Affanculo – commenta. – È un imbecille, come la quasi totalità dei clienti.
La ragazza della coppia, avvicinatasi a prendere una cannuccia, si ferma e lo guarda, allibita.
- Sì, parlo anche di te. Circolare – la fulmina lui, cacciandola con un gesto della mano.
Lei gli mostra il dito medio e torna a sedersi dal suo ragazzo; noto che parlotta fitto fitto e, di tanto in tanto, entrambi ci guardano.
- I tuoi clienti ti amano – osservo.
- I miei clienti possono baciarmi le chiappe – ribatte lui. – Fosse per me, mangerebbero a casa loro e tanti saluti.
Sorrido e addento una patatina.
- Sbaglio o sei di cattivo umore? – chiedo.
Lui si limita a sbuffare e a scrollare le spalle.
- Che succede?
- Che vuoi che succeda? Niente. È che domani ho un appuntamento e sono nervoso.
- Appuntamento? E con chi?
- Una casa editrice. Una che pubblica romanzi di scrittori esordienti e hanno letto il mio e gli è piaciuto.
- Ma quale? Quello sul quale hai lavorato negli ultimi due anni?
- Già. E vogliono parlarmi e quindi sono un po’ teso.
- Cazzo, sono contento per te.
- È una casa editrice piccola, ma sai, sarebbe un inizio.
- Ma certo.
- Magari riesco pure ad andarmene da qui – fa roteare il dito in aria,
abbracciando tutto il fast food, con quel semplice gesto.
- Potresti andartene comunque.
- E a fare cosa?
- Non lo so. Ma ritengo che tu sia sprecato, qui dentro.
- Credi che non lo sappia? Ma mi interessa una sola cosa: scrivere. Tutto il resto è solo un modo per arrivarci.
- OK.
- Ieri notte, al McDrive, c’erano due tizi assurdi.
Il McDrive è l’invenzione della McDonald’s per chi non vuole neanche scendere dall’auto. Arrivi al fast food e ti infili con la macchina nella corsia riservata, fai il tuo ordine via interfono e poi precedi al primo sportello – dove paghi – e, di seguito, al secondo sportello – dove ritiri quello che hai chiesto. Se è possibile è qualcosa di ancora più impersonale del mangiare dentro. È come arraffare il cibo e scappare via, perché nessuno ti veda e sappia che hai ordinato qualcosa di altamente grasso e carico di colesterolo.
- Che avevano di così assurdo?
- Scopavano contro l’interfono.
- Scherzi!?
- Macché. Ha suonato il segnale, quello che ci indica la presenza di qualcuno, fuori. Allora accendo le cuffie e sento una tizia che geme e lui che le dice delle robe, tipo “Mi fai morire” e “Sei una porca”.
- Ah.
- Già.
- Cazzo.
- Già.
- Li hai cacciati via?
- Scherzi? Sono rimasto ad ascoltarli e gli ho anche impartito degli ordini.
- Mi prendi per il culo.
- Giammai.
- Cioè mi vuoi dire che quei due erano appoggiati alla colonnina dell’interfono, che scopavano e che sentivano la tua voce che gli diceva cosa fare?
- Esattamente. E ci sono stati.
- Mi prendi per il culo – insisto.
- No, giuro. Mi sono anche fatto una sega.
- Cosa!?
- Già. E ti dirò che è stata anche discretamente soddisfacente.
- Oh cazzo. Non posso crederci.
- Storia di vita vissuta – sentenzia lui, prima di mangiare una patatina.
Non replico. Improvvisamente il sesso con Carlotta mi sembra cosa banale e scontata. Quindi parlo di qualcosa di altrettanto scontato, ma che mi evita un
impietoso confronto con il mio amico.
- Venerdì vado a teatro con Sandra.
- Mh. Non è la tipa adatta a te – dice.
- È solo un’uscita a teatro.
- E un pompino.
- Se è per questo i pompini sono due.
Lui mi lancia un’occhiata dall’alto in basso e poi scrolla le spalle.
- Appunto. E tu sei il tipo che al secondo pompino pensa “matrimonio”.
- Ma non mi dire – commento, sarcastico.
- Comunque, è la tua vita e io sono sempre dalla tua parte, sappilo.
- Vorrei pure vedere, ti sei fatto una sega dicendo zozzate a due sconosciuti.
Lui ride e si avvicina a due clienti alla cassa.
- Guarda che lo so che sei solo invidioso.
Sorrido e lo osservo lottare con i clienti, mentre mi chiedo come sia capace di vivere così serenamente la sua sessualità. Forse è il mio stato di “quasi vergine” che mi rende sempre così teso e pieno di dubbi, quando mi trovo con una donna. Dopo anni di sesso insieme, io e Adriana avevamo raggiunto un’intesa perfetta. E le cose andavano benissimo, sotto le lenzuola, ci divertivamo ancora un sacco, sebbene il rapporto forse ormai rodato da tempo. Quando Massi torna glielo dico. Gli parlo della magnifica sintonia che avevamo raggiunto, di come fossimo una cosa sola, di come uno sapesse sempre cosa volesse l’altro, senza che ci fosse bisogno di dirlo. Di come io non desiderassi altro dalla nostra vita sessuale.
- E questo valeva anche per lei? – chiede lui, mentre impila tovaglioli di carta.
Cazzo.
- Me lo fai chiedere tu – rispondo.
Massi ride.
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In fondo non mi considero chissà cosa. Sono un bravo ragazzo, credo, lavoro sodo – be', senza spaccarmi la schiena, non è che sto in miniera – e ho qualche hobby. Mi piace leggere, mi piace viaggiare, ogni tanto, e mi piace il cinema. Non ho né vizi e non ho particolari guizzi.Sono noioso?Forse Adriana mi ha lasciato perché sono un uomo senza qualità, perché non le davo più emozioni.Non ho mai preso in considerazione che la fine del nostro rapporto fosse colpa mia. Cioè, qualche dubbio l’ho anche avuto, ma sono quel genere di cose in cui ti ricordi di quella volta in cui non hai accettato di iscriverti a un corso di ballo latino-americano, nonostante lei ci tenesse tanto. O di quando le hai fatto vedere Le Iene , anche se a lei Tarantino fa schifo, ma non potevi accettare che non avesse visto quel film. Banali diversità di ogni coppia, di solito vengono spazzate via dall’accettare il compromesso, dal vedere Le Iene , perché l’altro si guarderà l’ennesima puntata di CSI . Possono essere la base della fine di una storia bella e importante? O sono solo l’acqua che preme e si insinua nelle crepe, prima che la diga crolli?Non ho mai parlato molto con mio padre e mia madre del loro divorzio. Non so cosa, di preciso, abbia distrutto tutto. Credo che ci fosse l’insoddisfazione di mia madre, che sperava in un’altra vita e in un altro marito. Il loro problema non era “quale film vediamo, stasera?”, ma “che vita intendi offrirmi, da qui all’eternità?”. O almeno era quello di mia madre, quello di mio padre era dividere il letto con una donna che non lo guardava più con gli stessi occhi e che gli faceva pesare ciò che non era.Mi piacerebbe parlarne con mio padre. Mi piacerebbe sedermi con lui e chiedergli cosa è successo, se era solo il problema di non essere l’uomo che mamma desiderava o se anche lui le ha fatto vedere film che non le sono piaciuti e non si è iscritto a corsi che non gli interessavano, se la loro vita sessuale era a posto e, se non lo era, se reputa che questo abbia dato un ulteriore colpo alla loro relazione – e sono sicuro di sì, alla fin fine, checché se ne dica, dopo tutti i discorsi sull’affiatamento, sugli interessi comuni, sulla spiritualità, su quello che volete, se a letto non si va d’accordo, la storia è morta – o se il sesso non era neanche il peggiore dei loro problemi.Ma sono anche certo che mi risponderebbe “Figlio mio, sono stato lasciato da tua madre e da allora non ho più avuto una donna. Tu sei giovane, ti ha lasciato la fidanzata e ne puoi avere altre dieci. Quindi, per favore, pensa a scopare un po’ di più e meno seghe mentali”.
E forse avrebbe anche ragione.
Sono al lavoro e sto, strano a dirsi, lavorando. Questo è uno dei giorni “facili”, quelli che ti portano lavoro semplice e il tempo vola via, mentre lo svolgi, e i colleghi non sono noiosi, né antipatici. V erso l’ora di pranzo sono impegnato a scambiare due chiacchiere con i compagni di World of Warcraft sul forum della nostra gilda. Shendor chiede di Cora e io rispondo che non l’ho vista. Al mio arrivo al lavoro non c’era neanche Daria, oggi in giro dai clienti, a risolvere casini.Carlotta mi manda un SMS dove mi augura una buona giornata e io mi consulto con Massi su cosa rispondere. La sua proposta di scriverle “Lo sarà quando sarò nuovamente dentro di te” viene scartata a favore di un più semplice “Anche a te. Sentiamoci per un aperitivo”. Sto ingoiando l’ultimo boccone di tramezzino, quando suona il telefono e, dall’altra parte, c’è il mio direttore che mi chiede di raggiungerlo in ufficio. Attraverso i corridoi e prendo l’ascensore un po’ in ansia. Il mio contratto a tempo determinato della durata di sei-mesi-sei scade fra poche settimane. Mi stanno riconfermando? Mi stanno dando il benservito? Per quando abbia spesso fantasticato di cambiare lavoro, di salutare tutti e andarmene, mento in alto e sguardo proiettato al futuro, non ho mai avuto il coraggio di farlo. Non solo perché al giorno d’oggi trovare un lavoro è dannatamente difficile. Fare parte di quella famosa generazione dei mille Euro non è poi tale disgrazia. Significa, quanto meno, che puoi avere un tetto sulla testa e del cibo sul tavolo e che, in certi casi, puoi smettere di sperare nell’aiuto economico dei tuoi genitori. Certo, non puoi permetterti di affittare un appartamento da solo, devi trovare dei coinquilini e la tua vita sociale non ti concederà grosse botte di vita. I mille Euro sono il minimo sindacale per vivere dignitosamente, ma quando vedi tanti tuoi amici che ancora non hanno neanche quel minimo, allora ti sembra più che sufficiente.No, la reale ragione per cui non ho mai lasciato il lavoro è che non so fare altro. Semplice. E, tutto sommato, molto triste.
Il mio direttore si sta fumando una sigaretta, nel suo ufficio, cosa vietatissima per legge e che, tra l’altro, ha lo spiacevole effetto di fare scattare l’allarma antincendio. Deve essere per questo che lo trovo affacciato alla finestra – più che
affacciato direi pencolante – nel tentativo di non fare entrare il fumo nell’ufficio.
- Non le converrebbe andare a fumare fuori? – chiedo, dopo averlo salutato.
- Troppo scomodo. Ho anche cercato di corrompere il manutentore e di fargli disattivare l’allarme nel mio ufficio, ma è stato irremovibile. Per legge non si può fare e quindi io faccio l’acrobata, per fumarmi una sigaretta. Uno penserebbe che, essendo il direttore, abbia potere di vita e di morte su voi tutti. E invece
Si siede alla sua scrivania, invasa di carte, e mi fa cenno di accomodarmi. Mi siedo davanti a lui e attendo, mentre mette a posto le sigarette nel cassetto più vicino.
- Ho da chiederti un favore – mi dice.
- Che cosa posso fare?
- Chiedo a te perché abbiamo una certa confidenza, capisci?
- Pure troppa – penso.
- Ti ricordi che ti ho parlato di una ragazza?
- La ventenne? – chiedo.
- Sì, lei.
- Ricordo – rispondo, timoroso. Vorrà mica raccontarmi ancora della sua vita sessuale?
- Be', ho il problema che si è presentata in città e vuole vedermi.
- Non era invitata?
- Non proprio.
- Non proprio?
- Be' io e lei ci vediamo nei fine settimana, da lei. Io prendo una camera in un hotel e scopiamo e poi io riparto.
- Capisco – mento.
In realtà non capisco come sia possibile che lei ci stia. Lui non è sgradevole e sono sicuro che non tiene i gomiti sul tavolo e mastica a bocca chiusa, ma accettare di essere presi e parcheggiati in un hotel mi farebbe sentire
leggermente migliore di una prostituta.
- Non avevamo mai parlato di lei che viene qui a farmi visita, capisci? Sono nel mezzo della separazione e se salta fuori che ho una ragazza, un’amichetta, quel figlio di puttana dell’avvocato di mia moglie mi leva anche la pelle.
- Immagino – faccio un commento neutro, perché ancora cerco di capire che cosa vuole da me.
- E adesso è qui – sospira. Apre il cassetto e tira fuori una sigaretta, girandosela tra le dita, pensieroso. – Pensavo che, con la fine del mio matrimonio, me la sarei sata. E invece...
Mette via la sigaretta con un altro sospiro, facendola rotolare sulla scrivania.
- E, di preciso, io come posso aiutarla? – chiedo.
- Dovresti essere così gentile da andarla a incontrare.
- Prego?
- Sì, sì. Vai da lei, le dici che sono fuori città, roba del genere.
- Ma non l'ho mai vista. Questa si chiederà perché ci sono io a parlarle, invece di lei, no?
- E allora? Mica devi raccontargli la tua vita, no? Lei ha chiesto di vedermi, io non ci sono e glielo dici tu.
- Non sarebbe più semplice se glielo dicesse lei, al telefono?
- Lo sarebbe, certo.
- Ecco.
- Se poi lei non cominciasse a farmi il terzo grado su perché non sono in città, com'è che non le ho mai detto che andavo via, quand'è che torno, se può aspettarmi e così via.
- Ascolti, non è che vorrei sembrarle in qualche modo scortese, ma non me la sento.
- Perché? – è pure sorpreso, quando lo chiede.
Sospiro.
- Perché non la conosco, non so chi sia. E poi sono tremendo, quando c'è da mentire, davvero.
Lui fa roteare una mano, mentre si poggia allo schienale della sedia.
- Non ci vuole niente a mentire. Tutti mentiamo. Vuoi dirmi che non hai mai detto una fregnaccia alla tua ragazza?
- Be', tendenzialmente
- È come dire la verità, solo che non è la verità.
- Non lo sapevo.
- Tu dici una cosa come se fosse vera, anche se sai che non è così.
- Mi sta davvero spiegando che cos’è una bugia?
- Quindi si deve soltanto dire le cose come diresti qualsiasi altra cosa. Immagina di dovermi dire che oggi vai a fare la spesa, anche se non è vero. Avresti difficoltà?
- Potrei
- No, non ne avresti.
- Ma non risulterei credibile.
- E cosa c’è da risultare credibile? Io sono fuori città e tanti saluti.
- Ma perché vuole vederla?
- Non lo so. Che ne so? Magari vuole scopare.
- Immagino.
- Magari pensava di farmi una sorpresa, presentandosi qui.
- È una tipa da sorprese?
- No. Non lo so. Scopiamo e basta.
- È incredibile che il vostro rapporto possa risultare problematico – commento, sarcastico.
- Vero? Ci pensavo anche io. Del resto le pago l’albergo, le cene, qualche regalino, che vorrà mai, di più?
- Non lo so. Un pony?
Mi guarda, pensieroso, in silenzio.
- No, non credo – conclude. – Non è tipa da pony.
- Ah ecco.
- Anche se le piace cavalcare! – e sghignazza rumorosamente, dando le pacche sul tavolo, come se non riuscisse a trattenersi.
E così mi ritrovo fuori dalla sua porta con in mano un foglietto sul quale c’è l’indirizzo dell’hotel. Attraverso i corridoio chiedendomi perché ho accettato e mi rispondo che ho un contratto in scadenza e, nonostante tutto, una paura fottuta di perdere il mio metro quadro da mille Euro al mese.
Prendo l’auto e mi muovo per la città, preparando mentalmente un discorso da dire. Non è che sia così pessimo, a mentire; c’è sicuramente chi è più capace del sottoscritto, ma non sono un caso disperato. È solo che, inconsciamente, mi sento più dalla parte della ragazza, che da quella del mio capo: lei ha la sfortuna di essere finita tra le braccia di un tizio del genere, lui se ne sta approfittando. E io simpatizzo sempre per i più deboli. Siano essi gli innamorati derisi, la foca
monaca o le ragazzine che si fanno uomini più grandi nelle camere d’hotel. La ragazza alloggia in un hotel a tre stelle appartenente a una catena mondiale. È uno di quei posti accoglienti e moderni che sono uguali in qualsiasi parte del globo: porte a vetro automatizzate, banconi in marmo lucido e neon non troppo forti o fastidiosi. Che tu sia a Parigi o a Mosca, il posto è sempre lo stesso, dandoti una sensazione di familiarità ovunque ti trovi, ma in fin dei conti, negandoti la possibilità di sentirti a Parigi o a Mosca; non che pretenda un mimo con la fisarmonica o un bolscevico che canta Kalinka , ma insomma. Mi avvicino un po' circospetto al bancone, pochi minuti fa il mio capo mi ha mandato un SMS con il numero di camera dove alloggia la sua amante, raccomandandosi di non fermarmi alla reception. Dietro il bancone in marmo c'è un tizio con il pizzo e gli occhiali che sta mettendo via dei fogli. Faccio finta di guardarmi intorno e cerco di assumere un'espressione sicura. L'ascensore non è molto lontano, basta comportarsi con naturalezza. Mentre mi avvicino, un tizio si ferma al bancone e lo sento parlare con il receptionist.
- Scusi – dice l'uomo, - a che ora apre il ristorante?
- Da mezzogiorno alle due e mezza, a pranzo – risponde l'altro, con un sorriso.
- Grazie.
Il tizio si allontana verso gli ascensori e ne chiama uno. Decido di imitarlo e mi fermo al bancone a mia volta, con l'intenzione di fare una domanda qualsiasi, dando a intendere di essere ospite della struttura.
- Mi scusi, a che ora si deve liberare la camera?
Il ragazzo mi lancia una rapida occhiata e sorride.
- Mi direbbe il suo numero di stanza?
Cazzo. Panico.
- 336 – boccheggio.
Lui ticchetta sulla tastiera del suo computer e studia con attenzione quello che appare sullo schermo.
- Lei è nostro ospite? - chiede, dopo.
- Be'...dipende...
Sposta lo sguardo dal PC a me, quasi inquisitore.
- Prego?
- Nel senso: cosa intende per ospite?
Non sono sicuro, ma credo di avere cominciato a sudare.
- Lei dorme qui? - ripete, con un misto di divertimento e sorpresa.
- Non di recente, no.
- Capisco. È quindi ospite della signorina della camera 336?
- Sì, potremmo dire così, sì.
- Capisco. Il suo nome?
- Io? Il mio?
- No, quello della signorina.
- Come?
- Se lei è ospite della signorina, mi saprà dire il suo nome.
- Certo. La sua è un'osservazione corretta.
Mi sorride, incoraggiante e incrocia le mani davanti a sé, in attesa.
- Ma supponiamo, per un attimo, che io non conosca il nome. Facciamo finta. Sarebbe un problema? - chiedo, ormai conscio del fatto che la mia carriera di agente segreto è stata stroncata.
- Immagino di no. Se la signorina mi dà il permesso di farla salire, non ce ne saranno.
- Ecco.
- La chiamo? - chiede, allungando una mano verso il telefono.
Sospiro, se il destino dell'umanità fosse affidato alle mie capacità di infiltrazione, sarebbe la fine.
- Sì, certo, la chiami.
- Chi devo annunciare?
- Alessandro.
- Alessandro e basta?
- Ma sì, tanto non mi conosce.
Ora il receptionist è decisamente confuso. Rimette giù la cornetta e mi guarda, un sopracciglio alzato, in chiaro segno di stupore.
- Non la conosce?
- È complicata. Sono qui per conto di una terza persona.
- Ah. E questa terza persona conosce la signorina?
- Sì, sì.
- Perfetto – solleva la cornetta. - Il nome di questa persona?
Mi mordo un labbro. Ho come l'impressione che il capo non avesse piacere di far sapere il suo nome, negli alberghi della città.
- Non potremmo saltare questa parte?
Il ragazzo sospira e mette giù la cornetta. Poi mi guarda, serio.
- Signore, io non posso farla andare nelle camere dei clienti, se questi non mi danno il permesso di farlo. Potrei avere dei problemi.
- Certo, lo capisco. E non voglio che lei ne abbia.
Tiro fuori il portafogli ed estraggo un biglietto da venti Euro che gli metto sul bancone.
- Allora, ecco come vanno le cose: lei la chiama e le dice che c'è qui un...dipendente del suo amico, qui in città, il quale deve parlarle. La signorina le dirà sicuramente di farmi salire e io sarò lieto di darle questi per ringrazia r la per la sua gentilezza e disponibilità.
Il ragazzo guarda me e poi guarda la banconota. Poi prende il telefono e chiama in camera.
- Buongiorno, è la reception. Mi scuso per il disturbo, ma c'è qui un signore che dice di essere un dipendente di un suo amico e che avrebbe bisogno di parlarle.
Non capisco quello che la tizia dice, ma sento il suo tono di voce altissimo. Sta urlando e il receptionist che allontana la cornette dall'orecchio conferma la cosa. Mi lancia un'occhiata che è chiaramente portatrice sana di odio nei miei confronti. Forse avrei dovuto dargli cinquanta Euro, ma non li ho con me. Si
potrà dare una mazzetta con il bancomat?
Il ragazzo mette giù il telefono e stavolta non sorride.
- La signorina la aspetta. Camera 336.
- Grazie – rispondo, vergognandomi un po'.
Faccio per andarmene, ma lui alza la mano e mi fermo sul posto.
- Avrei bisogno di un documento, signore.
- Mio?
- Quello della signorina ce l'ho di già – il lieve sarcasmo cola fuori tipo veleno.
- Sì. Vero.
Solo che, per qualche motivo che mi è oscuro, neanche io vorrei dare il mio documento. Non c'è una ragione precisa, ma sono entrato in questo stato paranoico per il quale, se il mio capo non vuole che il suo nome salti fuori, neanche io lo voglio. E se questa tizia uccide qualcuno? E la polizia indaga e scopre che io l'ho incontrata? Che gli dico? E se uccide me? Be' in effetti, a quel
punto, il mio nome che salta fuori sarà l'ultimo dei miei problemi.
- Ho finito i soldi – dico, con un sorriso, - se le offrissi un paio di buoni per il McDonald's, varrebbero come tentativo di corruzione?
Il receptionist non dice niente e mi osserva, in silenzio. Si starà chiedendo se uccidermi o chiamare il suo diretto superiore e farmi uccidere da lui. Chissà se negli hotel hanno delle politiche anche in tal senso.
- No, signore. Se non mi da un documento, non posso farla salire. È la legge – aggiunge, proprio quando sto per ribattere.
È la legge. Sospiro e gli do la mia carta di identità. Lui registra i dati che deve registrare e poi me la restituisce, con un sorriso forzato.
- Camera 336, terzo piano. L'ascensore è qui nel corridoio, sulla destra.
Ringrazio e vado via, sentendo il suo sguardo piantato nella mia schiena. Arrivo davanti alla porta della camera e busso, mentre osservo la moquette per terra, pensando a quante persone ci devono essere ate sopra e quante forme di vita batteriologiche diverse devono viverci dentro, in questo momento. La porta si spalanca e compare una ragazza sui 20 anni: ha capelli neri, lunghi e lisci, e un piercing al naso. Il trucco è un po' volgare, gli occhi cerchiati di nero e indossa una maglietta degli Iron Maiden, le gambe sono nude, sotto. Tra le labbra truccate con il rossetto nero, tiene una sigaretta spenta.
- Buongiorno – esordisco.
- E tu chi cazzo sei?
- Ecco.
È furiosa e si capisce. Non sorrido perché ho paura che possa accendere la sigaretta e spegnermela nell'occhio, prima che possa dire anche solo una parola.
- Allora? Dov'è Leonardo?
Ci metto un attimo a realizzare che sta parlando del mio capo.
- È fuori città.
- Fuori città un cazzo.
- Prego?
- Fuori città un cazzo.
- Ah. Avevo capito bene, allora.
- Tu chi saresti?
- Mi chiamo Alessandro.
- C'hai la faccia, da Alessandro.
- In che senso?
- Che sei un coglione. Tutti gli Alessandro che ho conosciuto erano dei coglioni.
Rimango in silenzio e mi chiedo se il mio stipendio vale tutto questo. Il mio stipendio magari no, ma l'affitto e il frigo pieno, sì.
- Posso entrare? - chiedo.
- Perché?
- Perché ho appena subito l'interrogatorio da parte del portiere di questo hotel e dovrei parlarti e preferirei non doverlo fare nel corridoio.
Mi guarda dall'alto in basso e poi si sposta di lato, facendomi are. La camera è piccola, gli spazi sfruttati al meglio, in modo da dare sensazione di libertà di movimento, sebbene ce ne sia ben poca. Il letto è vicinissimo al piccolo armadio e alla scrivania, sulla quale c'è un televisore a tubo catodico. Pare ne facciano ancora, in quest'era di schermi piatti e alta definizione.
- Allora? Che cazzo succede? - chiede lei, mentre chiude la porta.
- Il dr. Colombari mi ha telefonato e mi ha chiesto di are da te.
- Ah sì?
- Sì. Non si aspettava una tua visita e lui è fuori per lavoro – non mi credo neanche io, mentre lo dico.
- Tu chi saresti? Il suo leccapiedi?
- Un suo dipendente.
- Ed è questo che fai, per conto suo? Che bel lavoro del cazzo. Spero che almeno ti paghi bene.
Mi rendo conto che non solo non mi paga bene, ma che ho appena dato venti Euro al portiere dell'hotel. Sono veramente il re dei coglioni, quando mi ci metto.
- Il mio lavoro, per quanto schifo possa fare, non è il motivo per cui sono qua.
- No, infatti. Sei qui per venirmi a raccontare una stronzata su come Leonardo non è in città e gli dispiace tanto, perché altrimenti veniva qui e scopavamo un po'.
- Più o meno.
- Ma la verità è che lui è in città ed è un cagasotto. E non mi vuole vedere perché fino a quando si tratta di scopare fuori dal suo territorio gli piace, ma se c'è il rischio che la gente sa che razza di pezzo di merda è, allora le cose cambiano.
Non rispondo. Lei si rigira la sigaretta tra le dita e mi fissa, furibonda.
- E poi arrivi tu, stronzo. Ma che cazzo di uomo sei? Non sei capace di dirgli che se li deve risolvere lui, i suoi casini?
- Apparentemente no – sospiro.
- Non sono una troia, capito? Non mi ha tirato su per strada per farsi succhiare il cazzo in un cesso pubblico, va bene?
- Non lo metto in dubbio.
- Cazzo.
- Ma ammetterai che farsi scopare in una camera d'hotel quando ne ha voglia lui, non ti rende tanto differente.
Sbarra gli occhi. È come se le avessi tirato un pugno. La sigaretta le cade dalle labbra, finendo sulla moquette, dove, immagino, le migliaia di batteri che la popolano gli salteranno addosso per assimilarla. La ragazza mi guarda, in silenzio, come se fosse sotto shock. Mi sento un po' in colpa, forse sono stato troppo duro. Mi a quando lei mi tira uno schiaffo così forte che sento l'eco del colpo. Barcollo e la guardo, allibito. Lei sembra sorpresa quanto me. Non faccio in tempo a dire niente che lei mi colpisce ancora. Faccio un o indietro, sento la faccia che si gonfia; sicuramente è solo una sensazione dovuta all'urto, ma sembra reale. Come se avessi la testa gigante, tipo il Capo, il nemico dell'Incredibile Hulk. Intercetto il terzo colpo al volo e non so se sia perché i miei riflessi sono diventati più rapidi a causa del dolore o se lei è stanca e il colpo è più lento. Le fermo la mano e la guardo con quello che vorrebbe essere un'occhiataccia, ma che temo sia tipo quando sei sbronzo e cerchi di prendere la mira, sul water. Se mi colpisce ancora vado al tappeto e sarebbe una delle esperienze più umilianti della mia vita.
- Figlio di troia! Stronzo! - urla lei.
- Sì. Però stiamo calmi.
Ed è lì che mi arriva la ginocchiata nelle palle. Piena. Il dolore è talmente sordo e forte che, sul momento, penso non ci sia. Sento solo come un urto e basta. Poi, però, comincia a crescere e spazza via qualsiasi cosa. La faccia che brucia per gli
schiaffi, via. Il nervoso e la tensione, via. La rabbia per trovarmi in questa situazione del cavolo, via. Rimaniamo solo io e le mie palle doloranti. Come se qualcuno ci avesse attaccato un batacchio dà campana e stesse agitandolo con la stessa forza e velocità che si usa per montare la panna. E la mia parte irrazionale prende il sopravvento, per cui lascio andare le mani della ragazza e piazzo un pugno in piena faccia. Una botta del genere non l'ho mai tirata a nessuno, sono certo, neanche ai compagnetti con i quali facevo a botte, alle elementari. Credo di non averla neanche tirata ai chiodi che piantavo nel muro, quando dovevo appendere quadri e mensole. Lei lancia un urlo e cade a sedere per terra, sbattendo le chiappe sul pavimento. Lo stesso pavimento sul quale mi accascio io, inginocchiandomi, e stringendo le mie povere palle ferite. Rimango in silenzio, con la fronte poggiata sulla moquette e immagino che per i batteri sia stato l'equivalente di un meteorite che cade sulla terra. Una roba gigante. Probabilmente stanno decidendo di preparare una spedizione da inviare per studiare la mia fronte. Respiro a fondo e cerco di ignorare il dolore. Non ci riesco. Prendo in seria considerazione l'idea di cercare di corromperlo. Cosa vuole? Soldi? Donne? Un aereo privato diretto a Cuba? Sono pronto a dargli qualsiasi cosa, purché se ne vada in fretta.
Alzo lo sguardo e la ragazza è ancora seduta, la schiena poggiata al muro e guarda, incredula, il pavimento. Dal naso sta perdendo parecchio sangue, che è colato oltre il mento e sta gocciolando sulla sua maglietta. Non mi sento in colpa neanche per mezzo secondo, perché ci sono le mie palle a ricordarmi perché si trova in quello stato. Mi alzo, lentamente, e ogni mossa acutizza il dolore, facendomi gemere. Mi metto a sedere sul materasso e massaggio i testicoli, sperando che serva ad alleviare la sofferenza, ma è come cercare di spegnere un incendio con uno spruzzatore per le piante.
- Cristo – biascico. - Perché alle palle, non potevi fare qualcos'altro?
Non risponde e continua a fissare il pavimento, in silenzio. Mi volto verso di lei e le o una mano davanti agli occhi.
- Oh. Tutto bene?
Mormora qualcosa, ma non riesco a capire cosa, parla a voce troppo bassa. Oppure la ginocchiata che mi ha dato ha rovinato irrimediabilmente ogni parte di me. Non solo avrò difficoltà ad avere un'erezione, ma non riuscirò neanche a sentire la mia donna che urla per l'orgasmo.
- Che hai detto? Non ho capito.
Lei alza lo sguardo e mi fissa, dagli occhi cominciano a scendere lacrime che si vanno a mischiare al sangue.
- Sono incinta – dice.
- Cazzo.
Mezz'ora dopo lei è stesa a letto, che piange. L'ho aiutata ad alzarsi e a ripulirsi il viso, sono tornato al piano terra, dove avevo visto una macchinetta del ghiaccio, davanti all'ascensore. Ne ho impacchettato un po' dentro una sua maglietta dei Green Day e gliela sto premendo sul naso, dopo averne buttato due cubetti dentro i miei pantaloni. Piange e singhiozza e non fa altro. Ho mandato un SMS a Massi, chiedendogli se, secondo lui, dando un pugno in faccia a una tizia incinta potrei averle causato un aborto. La sua risposta è stata “Non lo so. Secondo te, se una ingoia è amore?”. Non ho risposto. Vado in bagno e mi abbasso i pantaloni: sembra tutto regolare. Magari non è
niente di grave. Magari posso ancora diventare padre, senza dare vita a bambini ritardati con un occhio solo. Ritorno in camera, ma la situazione non è mica migliorata.
- Senti, mi spiace per il pugno – le dico.
Lei non risponde.
- E mi spiace se ti ho dato della troia.
- Sono una troia – singhiozza.
- Ma no, sei solo innamorata di uno stronzo. Sai a quante succede?
- Non ne sono innamorata.
- Ah. Be', sono esperienze.
Mi fermo. “Sono esperienze”? È questo tutto quello che riesco a tirare fuori?
Lei si mette a sedere sul letto e poi mi guarda, il volto rigato dalle lacrime. Sembra la figlioletta che hai sculacciato e che ora vuole fare pace e capire perché si è trovata in quella sgradevole situazione.
- Come hai detto che ti chiami?
- Alessandro. Il coglione, ricordi?
Sorride e annuisce.
- Scusa.
- Figurati. Come ti chiami?
- Sabrina.
- Sabrina. È un bel nome.
- Tu invece hai un nome da coglione – risponde, sorridendo.
- Sì. Me l'hai già detto – ribatto.
Mi siedo sul bordo del letto e sospiro, un paio di volte.
- Sei incinta? Di quanto?
- Non lo so. Ho un ritardo. Una settimana.
- Mai successo?
- Mai. Sono un orologio svizzero.
- Hai fatto un test?
- No. Ho chiamato Leonardo, perché volevo che ci fosse anche lui. Volevo il suo cazzo di o, cazzo.
- Già.
- E invece manda te, quel pezzo di merda.
- Parli sempre così? - chiedo.
- Così come?
- No, niente. Non importa.
Prende un fazzoletto e si asciuga le lacrime. Ha il volto sporco di mascara colato e sangue rappreso, sembra uscita dà un film dell'orrore di serie Z.
- Cosa pensi di fare?
- Cosa cazzo posso fare? Il test di gravidanza.
- E se è positivo?
- Vai a farti fottere, stronzo. Intanto devo sapere se ci sono rimasta, no?
- Mi pare giusto.
Mi alzo, lentamente, e zoppico verso la porta.
- Credo che sia meglio che vada, ora.
- Va bene.
- Stammi bene e riguardati – dico.
- Certo.
- OK.
Apro la porta, ma la sua voce mi ferma.
- È che... - esita.
- Cosa? - chiedo, voltandomi.
- Non mi aspettavo che fosse così. La mia vita, dico.
- Lo immagino – ribatto. - Non ce lo aspettiamo mai.
8
Rientro in ufficio, il dolore è quasi assopito. Nel senso che dorme, ma c'è. È una fitta che rimane sempre lì, all'altezza dell'inguine, non fa malissimo, ma fa male. Quel male che è lì e ti ricorda che c'è e che non si farà dimenticare troppo presto. Entro in ascensore e sento qualcuno che mi chiede di aspettare, blocco le porte e mi trovo davanti Cora. Ci guardiamo, sorpresi, in una specie di paralisi temporale. Poi le sorrido, amichevole.
- Prego – dico.
Lei entra e annuisce.
- Grazie.
Premo il tasto del terzo piano e lei quello del quinto.
- Come va? - chiedo.
- Bene, grazie. Tu?
- Mi hanno preso a calci nelle palle.
- Capisco.
- No, mi hanno letteralmente preso a calci nelle palle – ribatto.
Lei mi punta addosso lo sguardo, che fino a quel momento teneva fisso sulla cartella che tiene in mano.
- Davvero?
- Giuro.
- Chi?
- Non ci crederesti mai.
- Mettimi alla prova.
- Una donna incinta.
- Una donna incinta.
- In realtà ancora non siamo sicuri che sia incinta.
- Sei stato tu?
- Cosa?
- A metterla incinta.
- No, no.
- E allora perché ti ha dato un calcio lì?
- Perché non le permettevo di prendermi a schiaffi.
- Scherzi, vero?
- No, sono serissimo.
- E com'è finita?
- Le ho dato un pugno in faccia.
Non dice niente e mi studia.
- Non capisco se mi stai prendendo in giro.
- Giuro di no. Le ho dato un pugno in faccia e credo che potrei averle rotto il naso.
- A una donna incinta.
- A una donna che potrebbe essere incinta – preciso.
Inizia a ridere. Sorrido e le tendo la mano, lei la prende e la stringe forte.
- Che fai, stasera? - chiedo.
- Niente. Potrei guardare un paio di puntate di Sex & the city sul mio divano.
- Oppure potrei portarti fuori a cena. Che ne dici?
- Non lo so – risponde, di nuovo seria.
- Sei ancora arrabbiata con me?
- Un po'.
- Be' non potrò mai rimediare, se non esci con me.
- Furbone – risponde.
Mi sporgo in avanti e faccio per baciarla. Lei sembra sorpresa, ma non si tira indietro e questo, per me, è un invito a continuare. Ignoro che l'ascensore è arrivato al mio piano e continuiamo a baciarci fino a quando lei non è arrivato al suo.
- Ti chiamo dopo – dice, uscendo.
La seguo con lo sguardo fino a che è in vista e, finalmente solo, mi guardo allo specchio e mi do delle pacche sulla spalla. Mi vedo per un aperitivo con Massi, in un bar che di solito ci ospita per queste bevute. Lo trovo stranamente in ordine, con una camicia stirata e i capelli pettinati. Di solito ha l'aria di uno che esce da una rissa con un gorilla in calore. Gli racconto di Sabrina, ovviamente, e lui se la ride di gusto, specialmente quando salta fuori la ginocchiata nei miei bassifondi.
- Picchiato da una donna. Sei un caso disperato – commenta, prima di bere il suo aperitivo.
- Da quello che ho visto, quella lì ci picchierebbe entrambi, nello stesso momento.
- Come no. L'hai lasciata lì da sola?
- Che dovevo fare? L'ecografia?
- No, ma magari dirle qualche parola buona. Non lo so.
- Mi fai il tenero?
- Io? Forse non ti ricordi con chi stai parlando.
- Mh.
- Dico solo che lei è lì, con un ritardo nel ciclo, il possibile padre desaparecido e in una città dove, immagino, non conosce nessuno. Essere gentile non ti avrebbe ucciso.
- No, quello no. Il suo calcio nelle palle probabilmente sì.
Massi ride e beve ancora, mentre io sorseggio il mio mojito.
- Com'è andato il tuo incontro? - chiedo.
Mi guarda come se non capisse di cosa parlo, io gli scuoto il colletto della camicia.
- La casa editrice – preciso.
- Non saprei dirtelo. Sono stati gentili.
- Ma?
- No, non c'è nessun ma. Solo che è presto per dirti qualsiasi cosa. Il romanzo gli è piaciuto molto, lo vogliono pubblicare, propongono di seguirmi nell'editing per migliorarlo o almeno così dicono.
- Ti pagheranno?
- Sì, pare.
- Niente fregature? Roba del tipo che devi pagare parte della stampa e acquistare 150 copie da vendere da solo?
- No, non si è parlato di niente di simile.
- E allora perché questa flemma?
- Perché è strano. È come la puntata dove Wyle E. Coyote cattura il Beep beep e poi si volta verso il pubblico con un cartello con su scritto “E ora cosa ci dovrei fare?”.
- Immagino che la cosa migliore da fare sia sentirsi soddisfatto, no?
- Immagino di sì. Ma lo sarò quando vedrò il tutto realizzato.
- Non ti facevo così.
- Così come? Fico?
- Lucido.
- Mi stai dando del fattone?
- No. Però immaginavo che saresti impazzito, avresti considerato tutto questo come un riconoscimento del tuo genio. Cosa di cui, diciamocelo, il tuo smisurato ego è profondamente convinto.
Lui finisce il suo aperitivo e poi scrolla le spalle.
- Voglio essere prudente.
- Mi pare giusto – concordo.
- E poi io lo sono, un genio. E prima lo capirai, prima potrai apprezzare i consigli che ti do.
- Come no.
Controlla il cellulare e mi lancia un’occhiata, prima di cominciare a pigiare i tasti.
- Ho incontrato Sandra, ieri sera.
- Sì?
- Già. L’ho beccata a un aperitivo.
- Che dice?
- Che avete un appuntamento.
- Una specie.
- Che vuol dire “una specie”?
- Vuol dire che andiamo a teatro insieme, mi pare un po’ poco per definirlo un appuntamento.
- Siete soli?
- Sì.
- Ti metterai in tiro?
- Penso di sì.
- Te lo succhierà?
- Lo spero proprio.
- E allora è un appuntamento.
- OK.
- E sono sorpreso, perché lei non è tipa da appuntamento.
- Già, ora che mi ci fai pensare: a me non sembra tanto a posto con la testa.
- Perché?
Lo guardo senza dire niente e lui sorride, mentre mette via il suo cellulare.
- Capirai. Un pompino – dice.
- Siamo a due. E comunque il punto non è quello che ha fatto a me, quanto quelli che fa a chiunque.
- Come sei vecchio.
- Andiamo, lo sai anche tu. E cos’è questa cosa che lei non vuole essere toccata? Cioè va bene prendertelo in bocca, ma tu non puoi metterle le mani addosso?
- Sì, era una cosa che dava parecchio fastidio anche me.
- Credo che starei meglio se evitassi di ricordarmi che prima di me ci sei ato tu, nella sua bocca.
- Che palle. Comunque, non so bene cosa abbia, ecco. Tutti quelli con cui ho parlato dicono che non ha voluto fare sesso o nient’altro. È come se stesse salvando la verginità per il matrimonio.
- Non credo che sia vergine.
- Ma che ti frega, alla fine? Massimo risultato con il minimo sforzo. Di che ti lamenti?
Non rispondo, perché mi faccio la stessa domanda: qual è il problema? In fondo se va bene a lei, perché io dovrei fare storie?Restiamo a chiacchierare del più e del meno e poi ci salutiamo, quando lui va fuori a cena con Luna. Rimango sorpreso da questa prolungata frequentazione con una che ha rimorchiato a una festa, di solito le sue prede non lo vedono più comparire all’alba del terzo giorno. Rimango seduto al bar e penso a Massi e alla sua carriera di scrittore. Se andasse in porto sarebbe sicuramente un bel colpo, per lui, che ha sempre
investito molte energie nello scrivere. Per contro, ho il terrore di come potrebbe gestirla, visto che il suo talento va pari o con la sua assoluta capacità di mandare tutto quanto a puttane, a seconda dell’umore del momento. Armeggio un po' con il cellulare, scorrendo la rubrica, pensieroso, fino a quando non trovo il numero di Carlotta. Ho voglia di sentirla. A dirla tutta, ho voglia di fare ancora sesso con lei. Non so se sia perché dopo averlo fatto ero così in pace o è perché mi è piaciuto molto il suo modo di farlo, così ionale, ma il pensiero del suo corpo stretto al mio, delle mie mani che lo esplorano, mi eccita e ho voglia di are dalla fantasia alla realtà. Il pensiero, per un attimo, mi lascia perplesso: come posso essere così in pena per Adriana e, contemporaneamente, sentirmi così attratto da altre donne? È come se ci fossero delle sacche di spazio e tempo nelle quali riesco a essere una persona diversa, con altri interessi, capace di vivere un'altra vita. Ci penso un po' e poi mi rispondo che non è così, che Adriana mi manca ancora moltissimo e che non ci sono altre donne che possono prenderne il posto. Ma il mio istinto sta cercando di portarmi via da tutto questo, di farmi andare avanti e sono il mio raziocinio e il mio stomaco a tenermi ancorato dove sono. Però ho voglia di rivedere Carlotta e, dopo un attimo di esitazione, premo il tasto per la chiamata.
- Ehi, ciao – la saluto.
- Ciao Ale.
- Che combini?
- Sono uscita dalla biblioteca e tra poco vado a fare la cameriera, stasera mi tocca.
- Ti ammiro, sai?
- Io no. Dovevo fare la bancaria, quando ne ho avuto l’occasione.
- Sul serio?
- Caro, potrei raccontarti delle storie, sulla sottoscritta, che ti stupirebbero.
- Non ne dubito.
Finisco il mio mojito e lascio il locale, cercando di ricordarmi dove ho parcheggiato l’auto.
- Che ne dici di are al locale?
- Non saprei, non vorrei disturbare.
- Non disturbi e la birra te la offro io.
- Non posso rifiutare, allora.
Mi faccio spiegare dove si trova e poi la saluto, mentre ancora cerco di capire dove ho lasciato la macchina. Mentre mi aggiro per i parcheggi faccio il
resoconto mentale della mia serata, che prevede un appuntamento con Cora e poi un salto al pub di Carlotta. E mi chiedo da quando salto di fiore in fiore tipo libellula, trovando l’ovvia risposta che non ho mai avuto altre occasioni, perché ho avuto una sola ragazza, in vita mia. Chiamo il mio direttore per raccontargli del mio incontro con Sabrina. Trovo la segreteria telefonica e allora chiamo il numero della sua segretaria, che è sempre reperibile, come ha detto lui. Lei, molto gentilmente, mi dice che lascerà il messaggio al direttore, ma che domani ha una serie di riunioni e sarà impegnatissimo tutto il giorno. Chiedo a che ora, più o meno, sarà disponibile e lei risponde che non ha una risposta precisa, perché dopo l’ultima riunione partirà per un viaggio di lavoro. Ringrazio e saluto, mentre una vocina mi dice che il direttore è partito per Topolinia e che io non lo sentirò più per il resto dei miei giorni. Ripenso a Sabrina e poi penso ad Adriana. Non è una novità, la vita riserva qualcosa di diverso a tutti. Sabrina è diventata l’amante di un uomo maturo e si ritrova con il naso rotto e, nella camera d’hotel di una città sconosciuta. Adriana ha sempre avuto una vita normale: studio, amicizie, parenti, viaggi, ma è stato qualcos’altro a rompersi.
Quando aveva diciannove anni, Adriana stava preparando un esame universitario con quella puntigliosità che impiegava sempre. Gli evidenziatori erano in disposti in fila e penne e matite attendevano solo di essere usate. Cominciò a studiare, a leggere, a sottolineare, a prendere appunti. I diversi colori degli evidenziatori erano divisi per tipo di informazione: il blu era per i dati generici, come date e luoghi di eventi mediamente importanti; il verde serviva per appuntare le date veramente importanti, accanto alle quali, a matita venivano segnate le informazioni riguardanti quella specifica data; l’arancione era per eventi molto importanti, di quelli che cambiano il corso della Storia.
Dopo poche pagine, Adriana si rese conto che non aveva previsto un colore per i nomi. Giunto a quello di un fondamentale personaggio storico si fermò, indecisa su come andare a vanti. Trovare un altro evidenziatore? E di che colore? Adibire il giallo o l’arancione anche a quella funzione? Usare la penna rossa?
C’è un termine medico, che definisce quello che le successe. Per me fu solo che Adriana, prima di tutto si bloccò, come se fosse un macchinario difettoso, e rimase a fissare gli evidenziatori. Poi iniziò a piangere, dapprima solo qualche lacrima, poco dopo il suo corpo era scosso da singhiozzi che sembravano spaccarla a metà. Infine iniziò a urlare e a strappare le pagine del libro, mentre ancora piangeva e singhiozzava. Era come se la sua mente fosse il vaso primitivo all'interno del quale erano state custodite le emozioni umane, fin dai tempi in cui la vita era nata. E ora il vaso era aperto e Pandora era un evidenziatore mancante, Adriana era diventata l'epicentro del caos emotivo e ogni muscolo del suo corpo, ogni piega della sua pelle erano solo il viadotto per una rabbia cieca e non sembrava destinata a placarsi. I genitori la trovarono in stato catatonico, a sera inoltrata, seduta alla scrivania, circondata da pezzi di carta, da libri stracciati, il volto rigato da lacrime e muco. Una visita psichiatrica diagnosticò un esaurimento nervoso e una personalità segnata da diverse manie ossessivo-compulsive che avevano, in qualche modo, accelerato il percorso verso quella crisi. Adriana non era stata più la stessa, da allora, ed era evidente a tutti. Se doveva prendere una decisione ci metteva diversi minuti, impiegati a valutare le opzioni, a decidere quale fosse non la migliore o la più adeguata o la più giusta, quanto quella meno dannosa. Lo spirito di Adriana, da qualche parte, era stato preso e fatto a pezzi. Lei stessa era ormai una persona spezzata, ogni minima parte di sé presa in ostaggio da una diversa paura.
Sabrina era forse incinta. Per quanto brutto potesse essere, mi trovai a pensare che lei sarebbe uscita da quella situazione meglio di Adriana. Ferita e rabbiosa, forse – per quanto mi ero fat t o l'idea che non necessitasse di una gravidanza, per essere arrabbiata, - ma avrebbe potuto fare la spesa senza impiegare mezz'ora per decidere se comprare le braciole di maiale o il petto di pollo.
Porto Cora a cena fuori, scelgo un ristorante piccolo, un po' vecchio stile. È arredato in maniera rustica e un bel camino troneggia, al centro della sala. I tavoli sono pochi e il cameriere recita il menu a memoria, senza consegnarcene
uno su cui scegliere. Cora prende il pesce e io scelgo la carne, non posso fare a meno di pensare che anche in questo abbiamo visioni differenti. Le chiedo di raccontarmi la sua vita. Rimane sorpresa, ma credo che quello che la sorprende davvero sia che, dopo averglielo chiesto, la ascolto davvero. Mi parla di una famiglia molto unita e decisamente credente. Padre e madre impegnati nel sociale, nel volontariato.
- Poi mia sorella Rita è morta – dice, mentre pulisce il pesce.
Rimango impietrito e non dico niente. Lei mi sorride, gentile, e continua quello che stava facendo.
- Com'è successo?
- Nel modo più stupido possibile, cadendo mentre usciva dalla vasca da bagno e battendo la testa.
- Cazzo.
- Già. L'hanno trovata i miei genitori, ore dopo, quando sono rientrati in casa – beve un sorso del suo vino, - ma ormai era troppo tardi.
- Mi dispiace.
- Lo so. È quello che dicono tutti. Tanto cos'altro puoi dire?
- Già – ammetto, imbarazzato.
- Ma per noi non è stato un semplice dispiacere. Mia madre e mio padre sono entrati in una crisi da cui non sono mai più usciti, dopo quell'avvenimento.
- Cosa è successo?
- Oh be', sai: cosa può succedere a due cristiani praticanti, quando succede una cosa del genere?
- Hanno perso la fede?
- Mia madre. Totalmente.
Annuisco.
- Mio padre, per contro, è diventato ancora più religioso. Era come se sperasse che, pregando, mia sorella entrasse nel regno dei Cieli senza are dal Via e senza ritirare le 20.000 Lire. La cosa li ha allontanati l'uno dall'altra. Mia madre non ha solo smesso di credere e di andare in Chiesa, ma ha cominciato a considerare la religione come una truffa, una cosa per creduloni. Mi limito a bere e ad ascoltarla, lei tiene gli occhi fissi sul suo bicchiere, mentre
il suo medio destro gira sul bordo del bicchiere, emettendo un lieve fischio.
- Non ho mai immaginato che potesse andare così – continua, - che io potessi diventare il tramite tra due genitori che ano il tempo a ignorarsi, nel migliore dei casi.
- E nel peggiore?
- Litigi, porte sbattute, urla. Quelle cose lì.
Il cameriere ci porta da mangiare e le prime forchettate sono accompagnate da un silenzio un po' imbarazzato e imbarazzante. Alla fine decido di trovare un modo per cancellarlo.
- Come funziona?
- Cosa?
- Questa cosa della religione. La messa tre volte a settimana. La fede cieca.
- Non è fede cieca. È fede e basta.
- Hai mai visto Dio? - chiedo, sorridendo.
- Non ho bisogno di vederlo.
- Sai che c'è.
- So che c'è.
- Per la Bibbia?
- Anche per la Bibbia, sì.
- Sai che ci sono un sacco di cose che non quadrano nella Bibbia, no?
- Non quadrano per te.
- Caino e Abele che sono figli di Eva. E quelli dopo da dove saltano fuori? Incesto?
- Sei banale.
- “Diecimila volte diecimila angeli”, non si faceva prima a dire “centomila”?
- Sei anche un po' noioso – sorride.
Finisco il mio vino e poi riempio i bicchieri di entrambi.
- Uno stato gestito dalla Chiesa, con strutture nel nostro Paese, ma che non riconosce le nostre leggi. Come lo spieghi?
- Vuoi parlare di Dio o ti vuoi lamentare perché il Papa ha un sacco di anelli alle dita?
- Be' non sarei contrario a dirne qualcuna anche su di lui.
- Ah certo.
- Ma diciamo che, per stasera, possiamo limitarci a Dio.
- La Bibbia è scritta da uomini e tradotta da altri uomini. Non sono esseri perfetti, perché nessuno di noi lo è.
- E quindi potremmo dire che l'interpretazione del testo sia stata leggermente adattata secondo le esigenze del momento, no?
- Se vuoi vederla così.
- Non sono io che la vedo così. È così.
- Per esempio?
- Come la metti che le prime traduzioni della Bibbia dicevano che gli apostoli erano tutti sposati? Ma poi si decide che il celibato per i preti è obbligatorio e allora, ehi!, non sono le spose, sono le serve.
- Sai tradurre l'ebraico?
- No. Però so che Gesù è nato durante il regno di Erode, giusto?
- Giusto. Ed Erode è morto nel 4 Avanti Cristo.
- Esattamente.
- Sei uno che ha studiato – risponde, ridendo.
- Allora, dimmi, come funziona?
- Cosa?
- Tutte queste cose, come le spieghi? Se la Bibbia è scritta da uomini e tradotta da uomini, se è storpiata da errori e dalle necessità politiche della Chiesa, cosa ti dice che ci sia veramente un Dio? Perché sei così sicura che non sia stato inventato?
Cora posa la forchetta sul piatto ormai vuoto e incrocia le dita, mentre mi guarda, sorridendo docile.
- Sei mai stato innamorato, Alessandro?
- Io? Be' sì.
- Mi fai vedere il tuo certificato medico?
- Come?
- Il certificato medico. Avrai un certificato medico che attesta che eri sotto l'influsso dell'amore, no?
- Non direi.
- Allora forse puoi mostrarmi il manuale che ti ha spiegato che lo eri.
- Non mi risulta che ci sia un manuale.
- Non capisco, allora – riprende lei, sorniona, - come fai a dire che eri innamorato, se non c'è un testo o o il parere di qualche uomo di scienza che ti dava ragione?
Apro la bocca un paio di volte, senza riuscire a dire niente, poi lei ridacchia e si versa dell'altro vino, lasciandomi lì, a cercare una risposta valida e sembrando solo stupido.
Usciamo dal locale e andiamo a fare due i, chiacchierando del più e del meno. Ci teniamo per mano, tipo fidanzatini delle medie, io ogni tanto guardo quel gesto che ho sempre trovato estremamente intimo e che ho sempre associato ad Adriana e basta. Veniamo interrotti dal suo cellulare che suona, le note di una canzone dei Beatles riempie l'aria, prima che lei risponda e io continuo a fischiettare Ticket to ride mentre lei è impegnata nella sua conversazione. L'aria non è freddissima, si sta ancora bene, per essere Settembre inoltrato. Le persone, tutte intorno, eggiano, l'aria svagata, sembrano tutti di buonumore. Io guardo la vetrina di un negozio di vestiti, osservo costosi completi di tre pezzi e cravatte multicolore, cercando di immaginare come starei dentro uno di quelli, se avessi i soldi per permetterli. Non sono mai stato particolarmente elegante nel vestire. Mentirei se dicessi che ci metto più di cinque minuti a decidere cosa indossare e che il mio abbigliamento sia cambiato molto, durante gli anni. Ho ancora addosso lo stesso giubbotto di pelle che ho comprato al mio terzo anno universitario: è pieno di rughe, ma è ancora bello come la prima volta. È vissuto e porta eroicamente addosso ogni cicatrice di ogni ferita infertami e che ha coraggiosamente preso al posto mio, come quelle guardie del corpo dei presidenti che si gettano davanti alle pallottole, salvandoli da morte certa. Cora fa il suo ritorno, con la faccia
imbronciata.
- Problemi? - chiedo.
- Una cosa del genere. Devo andare a casa a sanare il conflitto ateo-cattolico, anche stasera.
- Vivi con i tuoi?
- No. Non più.
- Ma ogni tanto devi fare il pompiere.
- Esatto.
Non faccio in tempo a dire niente, lei si avvicina e mi bacia. Rimaniamo avvinghiati per un po', il tempo di darci qualche altro bacio e di sentire le sue mani che, dalla mia schiena, scendono verso il sedere, dandogli una seria strizzata. Spero che la palestra stia facendo il suo dovere.
- Ci rivediamo? - chiede.
- Be' certo. Che fai domenica?
- Intendevo stasera.
- Ah stasera? Sì, certo. Che ti andrebbe di fare?
Mi guarda negli occhi e noto per la prima volta che ha degli occhi verdi da paura.
- Te lo devo davvero spiegare?
- No. No. Certo – rispondo, mentre mi sento sprofondare. - Casa mia o casa tua?
- Casa tua è meglio.
- Va bene.
Le do l'indirizzo, se lo segna sul cellulare, poi mi saluta con l'ennesimo bacio.
Mi siedo in macchina e poi decido di fare un salto dove lavora Carlotta. Magari solo guardarlo da fuori, farmi un'idea. Quando sono alla soglia, ho già capito che entrerò, perché ho voglia di vederla e sapere come sta. Il locale è un classico pub irlandese gestito da persone che non sono mai state in Irlanda: ci sono i poster della Guinness al muro e un posto per giocare a freccette. L'interno è tutto in legno e vedi boccali enormi posati sui tavoli e sui banconi – capisco già che se
volessi bermi un mojito ci sarebbero delle difficoltà. Curiosamente, la musica che attraversa l'aria non è irlandese. Niente U2 o ballate di James McAvoy. C'è Billy Joel che canta Piano man e mi fermo per un istante, ascoltandolo mentre racconta di coloro che lo vanno a sentire, per dimenticarsi per un po' di loro stessi. Il posto è abbastanza pieno, ma niente di eccezionale, essere in una serata infrasettimanale non aiuta e il tempo dell'aperitivo è ato da un pezzo. Mi dirigo al bancone, dietro al quale c'è un tizio belloccio, con barba incolta, che indossa un sacco di anelli alle dita. Lavora con abilità al bar, distribuisce birre, bicchieri, brocche e bevande, senza mai perdere il ritmo o il sorriso sulle labbra. Mi siedo giusto davanti a lui, accaparrandomi il primo sgabello libero. Il bancone mi arriva al petto, facendomi sentire Oliver Twist che aspetta la sua scodella di minestra. Il ragazzo mi lancia un'occhiata, mentre riempie due bicchieroni di birra da una spina. Sorrido amichevole e lui mi fa un cenno con il capo, come a dirmi che mi ha visto e che si occuperà di me a breve. Serve i clienti, prende soldi, presta fiammiferi e poi si para davanti a me.
- Che ti va?
- Una bionda media qualsiasi andrà bene.
Annuisce e prima che io riesca a dire “Irlanda libera” sta lanciando un sottobicchiere di cartone davanti a me e posandoci sopra il boccale di birra.
- Sono quattro e cinquanta – lo sguardo è già attirato da qualcun altro che si sta avvicinando.
Butto una banconota da dieci sul tavolo e lancio un'occhiata alla sala anche io.
- C'è Carlotta?
Lui fa un cenno con la testa e la individuo, che esce da una porta sul fondo della sala. In mano tiene un vassoio carico di patatine e olive ascolane, che va a servire a un tavolo occupato da uomini di mezza età. Sorride. Ha un bel sorriso, caldo e amichevole. Mi chiedo per quale motivo debba sprecarlo con sconosciuti e se loro sono capaci veramente di apprezzarlo. Lei si avvicina alla cassa e mette dentro soldi, prendendone degli altri. La guardo e non dico nulla, un po' perché non voglio disturbare, un po' perché non saprei bene cosa dirle. “Ciao, ti ricordi di me? Abbiamo fatto sesso in macchina. Volevo vedere come stavi, perché è stato tutto così rapido che avevo difficoltà a ricordare il tuo volto.” sarebbe una frase iniziale adatta? Non trovo risposta e non c'è bisogno, perché lei mi vede e aggrotta la fronte, come se fosse sorpresa di vedermi lì.
- Mi hai invitato tu – dico.
Fa “sì” con la testa e poi torna a servire ai tavoli, ma stavolta – di tanto in tanto – mi guarda, come per assicurarsi che io sia ancora lì e non sia scappato o solo un frutto della sua mente. Poi si avvicina e si siede sullo sgabello accanto al mio.
- Ciao – dice. Nient'altro. Ma lo dice in maniera talmente sexy che sento i brividi.
- Ciao a te – decisamente non sono sexy come lei.
Prende la mia birra e ci da un sorso; ha la faccia stanca e, da come si poggia al
bancone, direi che è parecchio che sta in piedi.
- Stanca?
Scrolla le spalle, uno sguardo di sufficienza sul volto.
- Potrebbe andare peggio, potrei pulire le fogne.
- Da quant'è che lavori qui? - chiedo.
- Un anno, più o meno. Alla fine non è tanto male, sai? Un po' stancante, a volte i clienti sono dei perfetti stronzi, ma il capo è molto gentile e non è una cosa tanto comune.
- Immagino di no.
- Il tuo com'è?
Penso al dottor Colombari e a Sabrina e non so bene cosa rispondere.
- Stronzo. Magari neanche oltre la media, ma comunque stronzo.
- Non so se ci sia una media. Sono sicura ci sia un livello superiore, ma una media non saprei.
- Com'è, il livello superiore?
- Non saprei. Probabilmente ne fanno parte quelli che lasciano i cani per strada, d'estate. O quelli che picchiano i bambini.
- Uno che mette incinta l'amante e se la svigna?
- Eh. Diciamo che è una categoria di un certo livello.
- Immagino di sì.
Bevo un sorso di birra e le o il bicchiere, mentre studia con attenzione la sala e i diversi tavoli.
- Devi andare? - chiedo.
- No, per ora no. Ma mi piace studiare i clienti, capire se hanno bisogno di qualcosa prima che si mettano a guardarsi intorno, alla ricerca di un cameriere.
- Ci riesci?
- A volte. A volte, quando alzano lo sguardo, sono già lì accanto a loro ed è un piccola magia.
- Ah vero. Sei figlia di un mago.
- Di un grande mago – precisa, sorridendo.
- Un grande mago.
- E non è bello? Non è rassicurante, sapere che se hai bisogno di qualcosa non dovrai cercare con lo sguardo, smarrito, alla ricerca di qualcuno che ti dia attenzione e ti aiuti?
- Be' – ammetto, - riscrive il senso del lavoro del cameriere, va detto.
- Dipende sempre come fai le cose. La ione che ci metti, l'impegno, lo spirito. Lo vedi, no? Vai in un posto che sembra meraviglioso e finisci nelle mani di un perfetto stronzo che si comporta in maniera svogliata e fastidiosa. Serata rovinata, pessimo ricordo. Anche se fosse il momento più bello della tua vita, quello in cui hai chiesto alla donna che ami di sposarti o in cui hai ritrovato una persona persa da tanto tempo, ci sarà sempre quella nota stonata. “Sì, è stato in quel locale, con quel cameriere fastidioso”.
Finisco la mia birra e guardo il resto della schiuma che cola, lentamente, lungo la parete interna del bicchiere.
- E invece vai in un posto normale, persino banale e anonimo, ma a occuparsi di te c'è una persona che sorride, che è lì per fare sì che tu ti trovi bene. E anche se le patatine non sono granché o la birra costa troppo, stai bene e ti senti a tuo agio.
- E qui come sono, le patatine?
Scrolla le spalle e mi sorride.
- Olio vecchio.
Rido e lei si alza, andando a un tavolo al quale si sono seduti un paio di ragazzi appena entrati. Quando mi volto, il barista ha già fatto sparire il bicchiere vuoto ed è in fondo al bancone, che serve due cocktail a due ragazze giovani, quasi sicuramente studentesse universitarie. Mi lancia un'occhiata silenziosa, come se attendesse un mio segnale per un secondo giro. Mi limito a sorridergli e a scuotere la testa. Lui fa un cenno con la mano e sono già fuori dal suo mondo. Un altro cliente arrivato e scomparso, che va a sommarsi alla lunga lista di facce sconosciute che ha visto, nella sua vita. Carlotta è improvvisamente accanto a me, con il suo sorriso luminoso.
- Hai davvero un talento, per comparire a sorpresa – dico.
- Sono praticamente una ninja in incognito.
- Esattamente. Magari conosci anche delle mosse segrete, di quelle che uno muore tre giorni dopo essere stato colpito.
- Sì. Ma non posso rivelartele o dopo dovrei ucciderti.
- Mi pare giusto.
Le carezzo un braccio e lei mi sorride ancora, divertita.
- Tolgo le mani? - chiedo.
- No. Continua pure.
- OK.
Si fa più vicina, poggiando il mento sulla spalla sinistra. I capelli profumano di shampoo, misto all'odore della cucina: fritto, carne alla griglia, detersivi da pochi soldi.
- Sai di un sacco di cose – le dico.
- Lo so. Me lo dicono tutti.
- Parlavo del tuo profumo.
- Anche. Ma sono abbastanza incasinata da poterlo dire per altre cose.
- Lo immagino.
Il barista ci a alle spalle e dà un colpo di tosse, immediatamente Carlotta si stacca e si siede composta sullo sgabello.
- Scusa. Regole del capo, tipo niente strusciamenti con il proprio ragazzo, durante i turni.
- Ah. Certo.
C'è un silenzio imbarazzante che dura per qualche secondo, poi le ridacchia.
- Non che tu sia il mio ragazzo, eh?
- No, certo – mi affretto a dire.
- Abbiamo solo scopato una volta.
- Sì. Ricordo. C'ero anche io – sorrido.
Lei sorride di rimando e mi sposta una ciocca di capelli.
- Però mi piace parlare con te – aggiunge. - Ti ho messo anche nel mio racconto.
- Quale racconto?
- Scrivo. A tempo perso. Racconti brevi, ogni tanto qualcosa di più lungo. Vorrei scrivere qualcosa per il teatro.
- Ah interessante. E hai deciso di rovinare tutto mettendo me, dentro?
Mi dà un pizzicotto sul braccio, io faccio finta di ritrarlo, ma in realtà sto al mio posto, a godermi la punizione.
- Di cosa scrivi? - chiedo.
- Un po' di tutto. Questo posto è una fucina di storie pazzesche, sai? Ogni tavolo ti può raccontare una storia potenzialmente interessante. A volte le storie non lo sono, ma le persone che li occupano sì. E allora io, mentre scrivo le loro ordinazioni, origlio, osservo, mi cibo della loro personalità. Poi torno a casa e butto giù gli appunti, prima di cadere addormentata.
- Bello.
- E comunque la paga non è neanche male, paragonata al lavoro. Quindi direi che mi va di culo in ogni caso.
Si alza di nuovo e va a un altro tavolo, la osservo mentre sparecchia e chiacchiera con i clienti, prima di sparire dietro la porta della cucina. Mi alzo in piedi e indosso la giacca, pronto a tornare a casa. Lei riappare dopo pochi minuti, con altri piatti, che consegna a una tavolata di cinque donne di mezz'età già brille e su di giri. Non sento cosa dice loro, ma esplodono in grosse risate e alzano i bicchieri in un brindisi in suo onore. Lei fa un perfetto inchino da attrice scafata che esce a prendersi gli applausi e le richieste di bis e poi mi raggiunge, raggiante.
- Addio al celibato?
- Al matrimonio. La bionda tinta al centro si è separata dal marito e sta festeggiando la rinnovata libertà.
- Sembra contenta.
- Lo sarà per un po', ma poi si chiederà se la solitudine è meglio di una relazione problematica e se non ha deciso troppo presto di arrendersi – le guarda, diventando seria.
- Come fai a esserne sicura? E se tra un mese incontrasse un uomo che la farà innamorare follemente e che la renderà felice come l'altro non avrebbe potuto mai?
Rimane a guardare le donne che bevono e ridono rumorosamente, un lieve sorriso le increspa le labbra.
- Così sì. Così è bello.
Mi sporgo e le do un bacio sulla guancia.
- Devo andare, adesso.
- Ciao. Fai il bravo, mi raccomando – mi carezza un braccio.
- Farò il possibile.
Esco dal locale e mi fermo un istante per ricordare dove ho parcheggiato l'auto; sento la porta aprirsi, alle mie spalle, e Carlotta mi raggiunge. Mi getta le braccia al collo e ci baciamo, a lungo, apionatamente.
- Grazie per il lieto fine – dice, quando si stacca.
Rientra nel locale senza voltarsi, mentre capisco che parla della teoria sul destino della bionda. Capisco che non è pazza completa, ma che ci va vicino, poi recupero la macchina e torno a casa.
9
Il camlo mi sveglia e mi accorgo di essermi addormentato sul divano, con una gamba poggiata sul tavolino del salotto. Quando la metto giù mi accorgo che si è addormentata ed è totalmente insensibile. Zoppico fino alla porta e le apro, massaggiando la coscia, mentre un insopportabile formicolio prende il posto dell'intorpidimento. Cora entra, mogia, e si ferma davanti alla porta.
- Domanda scontata, lo so, ma: com'è andata? - chiedo, mentre le faccio strada verso il divano .
- Al solito.
- Vuol dire “male”, giusto?
- Vuole dire che mio padre ha detto a mia madre che finirà all'Inferno e l'ha implorata di ravvedersi e di cercare la pace di cui ha bisogno nell'amore del Signore. Poi, davanti a mia madre che lo chiamava “rincoglionito senza palle”, ha implorato me di inginocchiarci e pregare per la salvezza della sua anima. Prendo il cappotto e lei si siede sul divano, andosi una mano tra i capelli e sospirando. Torno con una bottiglia di vino che ho comprato una volta, nel caso che qualcuno venisse a fare visita a me e ad Adriana. Riempio due bicchieri e le porgo il suo. Lo prende e, prima che io riesca a fare il brindisi che intendevo proporre, ha già scolato tutto; me lo porge, in attesa che io riempia.
- Hai per caso qualcuno che ti a, agli Alcolisti Anonimi? Qualcuno che devo chiamare, ora che hai una ricaduta? - chiedo, mentre si scola il secondo bicchiere altrettanto velocemente.
Lei rimane con il bicchiere a mezz'aria, le ultime gocce che scivolano sulla sua lingua e sgrana gli occhi.
- Scusa – si limita a dire, mentre poggia il bicchiere sul tavolino.
- No, figurati. Era per sdrammatizzare.
- Già. Grazie.
Si poggia allo schienale, sospirando, e chiude gli occhi. Io le do il suo tempo e mi siedo accanto a lei, sorseggiando dal mio bicchiere, prima di riempire il suo con dell'altro vino.
- Vorrei che la smettessero.
- So che non è molto cristiano, ma non hanno preso in considerazione l'idea di separarsi?
- L'hai detto tu: non è molto cristiano.
- Conosco un sacco di coppie credenti che si sono separate.
- Sì. Io ne conosco una che non intende farlo.
- Va bene, posso capire tuo padre, ma tua madre? Da come me la descrivi dovrebbe provare quasi un piacere fisico, all'idea di violare i sacri vincoli del matrimonio, no?
- Oh sì. Decisamente. L'altro giorno ha parlato di masturbazione, a cena.
- Cristo.
- Lui.
- Scusa.
- Figurati. Ma c'è il fatto che, incredibile a dirsi, lo so, c'è il fatto che è ancora molto innamorata di mio padre.
- Scherzi?
- Giuro su Dio.
- Non è possibile.
- E invece sì. Lo ama ancora profondamente, solo che non capisce come possa ancora accettare tutto quello che c'è nella Bibbia.
- Non è un problema da poco.
Sorseggia il vino e mi lancia un'occhiata.
- Non devi dirlo a me, io ho ato le ultime due ore a cercare di placare la guerra teologica di casa mia.
- Già.
Si stende sul divano e poggia le gambe sulle mie ginocchia; le o una mano sugli stivali, sentendo la pelle lucida sotto le dita. Chiude gli occhi, il bicchiere poggiato sul petto, e non dice niente; rimaniamo in silenzio, per qualche minuto, mentre le massaggio i polpacci, delicatamente.
- Vivi da solo? - chiede.
- Sì, ora sì.
- Ah è vero. Sei single da poco, scusa, me l'ero dimenticato.
- Figurati. Ce ne sono un sacco, in giro per il mondo.
- Come stai?
Non rispondo. Mi accorgo che è la prima persona che me lo chiede, da quando Adriana se n'è andata. E che non so cosa rispondere.
- Credevo che avrei ato i giorni piangendo.
- E invece sei contento?
- No. Questo no. Però mi aggiro come se vivessi dentro un sogno e mi vedessi da fuori. Come se quello che parla e si muove e fa cose non fossi io, ma uno che mi interpreta.
- Mi sembra meglio delle lacrime.
- È straniante. E ci sono momenti in cui, comunque, ci penso e ne soffro.
- Anche ora?
Finisco il mio bicchiere di vino e lo poggio sul tavolino.
- No. In questo momento sono rilassato.
- Bene. Non potrei risolvere anche i tuoi casini, stasera.
- Tranquilla, non dovrai farlo – sorrido.
- Meglio così.
Rimane con gli occhi chiusi per alcuni minuti, io continuo il mio discreto massaggio, le mani salgono lentamente sui polpacci, fino alle cosce. Mi pendo in avanti e la bacio, sentendo le labbra schiudersi e le nostre lingue cercarsi. La stringo a me e lei mi a la lingua sul collo, prima di succhiare il lobo dell'orecchio destro.
- Scopiamo... - mi dice.
Annuisco e lei comincia a slacciarmi i bottoni della camicia, con foga, mentre io le sollevo la maglietta e attendo di poterla togliere. Quando lo faccio guardo il seno avvolto in un reggipetto push up che sembra esplodere da un momento all'altro. Pensavo fossero più piccole. Lei prende le mie mani e le porta al seno, io comincio a strizzare e cerco di abbassare il push up, mentre lei avvolge le sue
gambe intorno a me.
- Senti, non è che...sei sicura? - chiedo, improvvisamente.
- Sì, perché? - sembra sorpresa.
- Hai avuto una brutta serata e magari...
Mi zittisce con un bacio, mentre la sua mano destra scende dal mio petto tra le mie gambe più velocemente di quanto io possa pensare “sega”. Mi alzo e la prendo per mano, portandola verso la camera da letto; è solo quando sono alla soglia che mi fermo. Sarà giusto fare sesso nello stesso letto dove lo facevamo io e Adriana? Non sarebbe come tradirla, anche se mi ha lasciato da poco? Cora non dice niente, ma sento che mi tira per un braccio e mi riporta verso il divano, mentre io continuo a guardare la camera da letto, dubbioso. Mi fa sedere e si inginocchia tra le gambe, slacciandomi i pantaloni, poi prende il mio pene in bocca, ma dopo Sandra è dura risultare in qualche modo convincenti. Ci mette impegno e, chiaramente, non è la sua specialità, ma comunque si dà da fare, a lungo e con una certa ione. La attiro a me e lei si siede sulle mie ginocchia, abbracciandomi.
- Voglio che mi scopi.
- Sì, certo.
- Voglio che mi scopi perché sono la tua puttana.
- Sì... - sibilo, imbarazzato.
- Dimmelo.
- Cosa?
- Dimmi che sono la tua puttana.
- Vuoi che ti dia della puttana?
Mi guarda negli occhi e annuisce, con sguardo febbrile.
- Be'...io...non preferiresti una cosa tipo “porca” o “sporcacciona”?
- Dimmi che vuoi scoparmi con il tuo cazzo.
La cosa comincia a farsi inquietante, le carezzo la schiena e sorrido, imbarazzato.
- Sì, certo. Cioè, mi pare evidente che voglio. Scoparti, dico.
Mi bacia e poi comincia a leccare il mio petto.
- Come vuoi scoparmi? - chiede, prima di mordicchiarmi un capezzolo.
- Uh. Con...con il mio...sì, insomma...con il mio cazzo?
Emette un mugolio e prende in mano il mio membro, ormai duro e pronto per una sana scopata. Lei si alza in piedi e sfila le mutandine, da sotto la gonna, sale sul divano e si sistema sopra la mia faccia, le gambe larghe, solidamente piantate nei cuscini.
- Ti piace la mia figa?
- Molto – ammetto, ormai al top dell'imbarazzo.
- Dillo.
- Che mi piace la tua...
- Sì, dai.
- Mi piace la tua... - rimango indeciso.
- Figa.
- Figa. Sì. Mi piace molto. La tua figa, dico.
Si piega leggermente sulle ginocchia e la poggia al mio volto. Io mi do da fare a mia volta, mettendoci tutto l'impegno di cui sono capace, approfittando del fatto di non dover ancora parlare. Lei a una mano tra i capelli, tirandoli ed emettendo dei mugolii.
- Sì. Così, cazzo. Così.
Sento il suo clitoride sotto la mia lingua, mentre la saliva e i suoi umori mi colano sul mento.
- Succhiami, cazzo. Fai godere la tua troia.
- Ha detto proprio così?
Massi mi guarda, perplesso, mentre si accende una sigaretta.
- Sì. Proprio così.
- La santerellina.
- Lei.
- La casa e Chiesa.
- Vuoi chiedermelo di nuovo? Magari mi tradisco e ammetto che sto parlando di un'altra.
Dà un tiro alla sigaretta e rimane in silenzio, pensieroso, prima di sputare fuori il fumo, verso il soffitto.
- Pensi che sia colpa della sua educazione cattolica? Credi che tutti quei buoni sentimenti e quella costante ricerca del Paradiso l'abbiano fatta diventare una specie di dissociata che a letto diventa selvaggia?
- Ma che cosa vuoi che ne sappia, Cristo?
Massi fa ripartire il gioco a cui stava giocando, sulla sua XBox. Io, seduto sul divano accanto a lui, mi guardo intorno, cercando di capire cosa c'è di diverso, rispetto all'ultima volta che sono stato qui.
- Il poster di 2001 – Odissea nello spazio è nuovo – dico, indicando l'immagine
dell'occhio di Hal che mi guarda, dalla parete dietro il televisore.
- Sì. Ho levato Bergman, mi aveva rotto le palle.
- Immagino che la scena degli scacchi de Il settimo sigillo non fosse il massimo, quando ti alzi, la mattina.
- Immagini giusto. E quando cerchi di scopare sul divano, poi...
Vado in cucina e torno con due lattine di birra. Gliene o una e poi mi siedo, aprendo la mia; Massi è totalmente concentrato in un qualche videogame dove fa il cowboy a so per le praterie.
- Che combini? - chiedo.
- Cerco un cavallo nuovo. Questo mi ha rotto le palle.
- No, intendevo in generale.
- In generale?
- Sì.
- In generale combino sempre le stesse cose, cosa vuoi che combini? Lavoro in quel McDonald's, faccio le mie serate da DJ. E, a tal proposito, ho una festa fra tre giorni, se vuoi imbucarti, magari con una delle tue nuove amichette, ti metto in lista.
- Molto gentile.
- E non combino altro.
Mi guardo in giro e poi capisco cos'è che mi ha colpito veramente. Non si tratta del poster.
- Sei solo?
- In che senso? Intendi nell'universo?
- No, idiota. In casa. Sei solo, in casa?
- Cos'è, vuoi farti pure me? Guarda, te lo dico, io non ho paura di usare la parola “cazzo”, quando scopo.
- No, certo – rispondo, alzandomi e dando un'occhiata al bagno.
- A dirla tutta, Ale, sei una fighetta del cazzo. Se ci fossi stato io, al posto tuo, con quella mezza matta, l'avrei fatta piangere, con un linguaggio da camionista che levati.
Entro in bagno e mi guardo velocemente intorno, poi mi avvicino alla doccia e sposto la tendina con sopra disegnata la sagoma della madre di Norman Bates in Psycho . Sul piatto ci sono dei capelli rossicci. Non sono di Massi.
- Ma alla fine te la sei fatta o no? - chiede, dal salotto.
- Sì, ma è stata dura – ammetto, mentre lo raggiungo.
- Dura?
- Non sono abituato a parlare in un certo modo, Massi.
- Fighetta.
- Sì, l'hai già detto.
- Come se non usassi quel genere di parole, quando parli con me.
- Certo che le uso. Ma di solito non le uso in maniera positiva.
- Magari lei non le intendeva in quel senso.
- Non ho mai reputato potessero essere un afrodisiaco, ecco.
Sospira e spegne la sigaretta, poi riprende a giocare.
- Devo dedurre che con Adriana non parlaste, a letto.
- No, no, parlavamo, certo.
- Cose sporche?
- No, argomenti comuni. Politica. Il tempo. Il costo della carne.
Mi guarda, esasperato.
- Certo che ci dicevamo cose sporche, cretino. Ma non cose così. Le dicevo che mi piaceva o lei mi chiedeva di farle delle cose.
Sorride, divertito.
- Zozzoni.
- Vaffanculo – ribatto.
Finisce la lattina di birra e poi rutta, felice.
- Guarda, non è difficile. Consideralo come un preliminare o una posizione sessuale.
- Certo.
- Sul serio. Ti fai troppe paranoie. Se le lecchi i capezzoli o le schiaffeggi il culo sei capace anche di darle della zoccola senza tanti problemi.
- Non proprio.
- L'hai chiamata zoccola o no?
- Sì, alla fine sì. Mi sono un po' imbarazzato.
- Certo. Ma da ora sarà più facile.
- Lo spero.
Scuote la testa e ridacchia.
- Fighetta.
Sospiro e rimaniamo in silenzio, mentre continua a muovere il suo cowboy sullo schermo, poi mi volto verso di lui.
- Dì un po', dov'è quella tizia, Luna?
- Non saprei. A casa sua?
- Vi vedete ancora?
- No.
- Sul serio?
- Cos'è, un interrogatorio?
Si alza in piedi e spegne la console con un gesto secco, prima di sparire nella sua camera da letto. Sorrido e mi godo una delle mie poche vittorie sul mio amico.
Provo a richiamare il mio direttore, mentre vado al lavoro, ma la segretaria – con fare greve e sentito – mi spiega di come non sia potuto venire al lavoro a causa di una brutta influenza. Decido di metterla in difficoltà e le chiedo se è raggiungibile al cellulare. La sento arrancare un po' – ma neanche tanto, deve essere ben addestrata, - quando mi spiega che il cellulare sarà spento, perché il dottore ha consigliato riposo e relax. Saluto con una gentilezza falsissima, alla quale lei risponde con una dolcezza dalla quale trasuda il vetriolo che vorrebbe chiaramente farmi ingoiare. In ufficio lavoro con impegno, la mia collega Daria è ricomparsa e mi sorride, affettuosa. Mi chiedo se sa di me e Cora. E se sa che Cora ha una ione per il turpiloquio che sfiora l'illegale. E se sa che io l'ho vista avvinghiarsi a un gigante con la S strascicata alla festa anni '80. Poi decido che, tutto sommato, mi interessa molto poco e mi concentro sul lavoro.
- È stata una bella festa, no? - chiede lei, evidentemente più interessata di me.
- Sì, mi sono divertito.
- Ho visto che tu e Cora siete diventati intimi – dice, con un sorriso che vorrebbe essere malizioso.
- Sì. Un po' – non riesco a ripensare a me che dico parolacce come un bambino
di sei anni che ha imparato che effetto hanno sugli adulti intorno a lui.
- È una brava ragazza. Un po' rigida, a volte, ma tanto dolce.
- Molto.
- Cosa? Dolce o rigida?
Esplode a ridere e io sorrido, a mia volta, procurandomi una paresi.
- Hai mai conosciuto i suoi ragazzi? - le chiedo, improvvisamente.
Chiunque sa che questa è una cazzata grossa come una casa. Non si chiede mai dei fidanzati precedenti delle proprie partner. E per quanto Cora non sia la mia ragazza, non più di altre che sto frequentando, non posso fare una domanda del genere. Qualsiasi uomo sa di non volere sapere veramente come erano i ragazzi precedenti della propria fidanzata. Potranno essere stati anche i peggiori pezzi di merda sulla faccia della Terra, ma questo non migliorerà mai la situazione. Si limiterà a far interrogare l'idiota che ha posto la domanda su come può, l'angelo dei suoi occhi, avere scelto di stare con un perfetto stronzo, prima di vedere la luce e scegliere lui.
- Il suo ultimo ragazzo, sì.
- Si sono lasciati da molto?
- Da un anno, più o meno.
- E che tipo era?
Daria sorride, mentre mette a posto delle pratiche e ne recupera delle altre da un raccoglitore poggiato sulla sua scrivania.
- Non dovresti chiederlo a lei?
- Anche, sì. Ma è solo per curiosità, non è che voglia saperlo veramente.
- Era un bravo ragazzo. Intelligente, educato, volenteroso.
- Era anche lui un pazzo religioso come lei?
- Alessandro! - mi guarda, scandalizzata.
- Oh andiamo. Ci siamo capiti.
- Sì e non mi piace quello che hai detto. Cora non è pazza.
- No. Non del tutto.
Mi guarda malissimo.
- Diciamo che su una scala da uno a dieci di schizzati della Chiesa, lei si assesta su un robusto otto. Forse nove. Sopra di lei c'è ancora qualcun altro che è messo peggio.
- Sei inqualificabile.
Annuisco, tutto sommato ha ragione. Non dovrei parlare così di una ragazza che, in fin dei conti, è sempre stata gentile ed educata e che, come unica cosa, ha chiesto che non deridessi le sue credenze religiose, dandole della pazza.
E che la chiamassi “troia”, certo.
- Comunque, sì, era un credente. Non so se lo fosse quanto lei, che lo è parecchio, come sembri esserti accorto.
- Ho avuto questa impressione, sì.
- E sono stati insieme per un po', poi è finita.
- Che è successo?
- Non lo so. Credo ci fossero delle incomprensioni, ma non saprei dirti altro, quindi non chiedermelo.
- Chi ha lasciato l'altro?
Suona il telefono sulla scrivania della mia collega, che risponde, lasciando la domanda a fluttuare per aria. Rispondo a un paio di email di richiesta assistenza tecnica, con la massima gentilezza e professionalità di cui sono dotato. La verità è che metà dei problemi che i miei colleghi hanno, con i loro computer, sono solo frutto della loro stupidità e incapacità di evitare di cliccare su “Apri” quando gli arrivano spam mail cariche di virus. Daria finisce la telefonata e si alza, prendendo il suo portatile e la sua borsa.
- Riunione con un possibile cliente. A dopo.
La saluto con un cenno del capo e la guardo andare via, cercando di non pensare al gigante che le strappa le mutandine. È proprio vero che, quando succedono certe cose, non si è più capaci di guardare le persone con gli stessi occhi. Un collega si lamenta che non riesce a entrare sul suo sito porno preferito. In realtà lo infila in mezzo ad altri cinque - sei siti più pudici, come se fosse difficile capire di cosa possa parlare un sito dall'indirizzo che fa www.schizzi.com. Mentre gli rispondo educatamente, ma con un filo di sarcasmo, arriva una lettera di mia madre. Rimango indeciso, per un attimo, se mettermi a leggere o aspettare di tornare a casa e farlo lì, così da poter imprecare liberamente.
Dopo il divorzio da mio padre, mia mamma è scomparsa, per un po' di tempo. Ogni tanto mi mandava un SMS che mi diceva dove stava e si raccomandava di mangiare o di coprirmi o di ricordarmi di mandare indietro l'orologio per l'ora legale. Quando si è risistemata in Toscana, mi ha invitato a raggiungerla, per rivederci. L'ho trovata accampata nella vecchia casa di famiglia, assieme a uno dei fratelli, zio Ettore. Non si è mai sposato perché omosessuale e la sua vita sentimentale è un ottovolante di compagni che arrivano e spariscono rapidamente. La casa era una vecchia bifamiliare che apparteneva ai miei nonni e che lo zio ha preso in gestione, dopo la loro morte, e dopo che gli altri zii (mia madre fa parte di una nidiata di sei figli) si sono tutti trasferiti altrove o sono morti. Ora lei è lì e, da quello che ho capito nelle nostre ultime conversazioni, si frequenta con un architetto di cui non so il nome. Il divorzio ha reso mio padre un uomo cauto, silenzioso, ma non gli ha tolto l'affabilità. Mia madre, invece, è come ringiovanita: viaggia, fa un sacco di corsi e, spesso, si interessa di cose che, una volta, non avrebbe mai e poi mai considerato. Le sue mail, quando arrivano, di solito sono un insieme di pensieri e considerazioni sparse, molto spesso senza un reale filo logico; dopo le prime volte mi sono abituato e successivamente ho capito che le scrive in diversi momenti della giornata, buttando giù una frase, poi occupandosi di altro, poi buttandone giù un'altra. Così via, fino a quando non si convince di avere scritto abbastanza e preme il tasto di invio, senza neanche rileggerla. Una volta mi ha mandato una lettera per un'altra persona, che aveva cominciato a scrivere, dopo avere scritto la mia.L'effetto della corrispondenza di mia madre è sempre abbastanza forte: di solito o il tempo dicendo parolacce perché non capisco quello che dice o perché quello che dice è così assurdo che non so neanche io cosa pensare. Una volta mi parlò di utero in affitto, senza un reale motivo, senza voler insinuare o consigliare assolutamente niente: semplicemente gli sembrava un argomento che valeva la pena di trattare, nella massima spontaneità e franchezza. Non voglio del male a mia madre, né la accei di non essere una buona genitrice. Del resto, le volte in cui ho avuto bisogno di qualcosa, c'è sempre stata e non si è risparmiata. Non posso neanche biasimarla per la fine della sua storia con papà, perché non credo che nessuno dovrebbe essere infelice, nella sua vita. Ma ci sono dei momenti in cui mi sorge il dubbio che lei mi consideri suo figlio, ma che questo non voglia poi dire molto per lei. Potrei anche essere il nipote o il figlio del lattaio e lei si comporterebbe allo stesso identico modo. Una volta mi ha chiesto di non chiamarla “mamma”, ma di chiamarla Sonia. Ecco, so che ci sono tante famiglie che fanno così. Per me, il momento in cui tua madre smette
di essere “mamma”, niente può essere più come prima.Stringo i denti e apro la mail, poi comincio a leggere, con un sospiro.
Ciao Ale,
ti scrivo che qui fuori c'è un bellissimo sole. Oggi sono andata a fare due i con l'architetto e abbiamo parlato di quando scapperemo a Las Vegas e lui proverà a sbancare il casinò, mentre io prenderò il sole in piscina.
Hai mai notato come ultimamente i film siano tutti dei remake di vecchie pellicole? L'altra sera abbiamo visto Halloween 2 e l'abbiamo trovato abbastanza brutto. Perché ci sono personaggi che non dovresti mai toccare e Jason è uno di quelli. Certo, gli ultimi della saga originale erano orribili.
Mi ricordo che da piccolo avevi paura che entrassero in casa i ladri e dormivi con delle lattine di Coca Cola vuote davanti alla porta. Così, se qualcuno l'avesse aperta, sarebbero cadute svegliandoti. Mi sono sempre chiesta cosa avresti fatto, allora. Eri solo un bambino con la fissa dei film gialli.
Ho preso un gattino. È un maschio e l'ho chiamato John, come Lennon. Perché ha un pelo strano e due cerchi intorno agli occhi che sembrano occhiali e mi ricordano Lennon.
Sai che ho perso la verginità, ascoltando un disco dei Beatles? Era il Magical Mistery Tour e ogni volta che ascolto I am the walrus mi sento tutta strana.
Tu mangia, mi raccomando.
Ci vediamo sabato alla stazione, alle 11.23.
Ti voglio bene,
Sonia
Rimango in silenzio a fissare lo schermo. Non riuscirò mai più ad ascoltare i Beatles come una volta. A me piacevano da morire, i Beatles. Cazzo.Rileggo la lettera due o tre volte e alla fine accetto l'evidenza che mia madre sta venendo a farmi visita, evidentemente. L'ultima volta che è successo sono andato a prenderla alla stazione e lei non era sul treno. Aveva deciso, all'ultimo, di volere vedere Cremona e ci si era fiondata a tutta velocità, non ritenendo necessario avvisarmi del cambio di progetto. Esco dal lavoro e vado a fare la spesa; ne approfitto anche per comprare lenzuola nuove, non sarebbe male ospitare mia madre in un letto pulito. Non è mai stata a casa mia e non sa neanche come sia fatta. Una volta a casa guardo il calendario e mi chiedo quanto si fermerà, prendendo coscienza di non averle ancora detto di Adriana. Mi verso un bicchiere di rum e mi siedo per terra, sul terrazzino dell'appartamento, guardando la città alle prime luci della sera. Una volta, io e la mia ragazza ci sedevamo lì e parlavamo tanto, di tutto. Poi, pian piano, le cose sono andate diversamente. Una volta non sentivamo freddo e il pavimento non era scomodo. Quando hai 25 anni il pavimento non lo è mai e il mondo è un palmo della mano nel quale adagiarsi se la serata è buona e la compagnia è quella giusta. Poi la routine entra in gioco. Il pavimento diventa duro. L'aria troppo fredda. Io e Adriana parlavamo ancora, ma in altri posti: sul divano, a letto, a volte mentre uno faceva la doccia. E mi rendo conto che quelle chiacchierate non erano poi molto diverse da quelle che avevamo sul terrazzino. Eravamo noi, a esserlo.Prendo il cellulare e la chiamo. D'istinto, contravvenendo a Massi che mi aveva detto che non dovevo farlo, che se mi veniva l'impulso dovevo chiamare lui, come fanno gli alcolisti che stanno per avere una ricaduta. Avrò una ricaduta
e starò male. Ma sentirla per qualche minuto mi farà stare benissimo e quei pochi minuti, in questo momento, sono l'unica cosa che mi interessa. Ho una madre che viene a farmi visita, amici che mi chiedono che fine ha fatto la mia fidanzata storica, appuntamenti con donne che vogliono essere insultate e che si rifiutano di farsi toccare, dopo avertelo succhiato. La sua follia non è più così folle, anzi. La sua follia è la cosa più sana e desiderabile alla quale posso aspirare, in questo maledetto momento. Ed è mentre penso tutto questo, che il telefono smette di squillare a vuoto e risponde una voce maschile.Guardo il display del mio cellulare, alla ricerca del nominativo sbagliato che ho chiamato. Il numero è quello di Adriana, ma non è lei ad avere risposto.Butto giù. Il terrazzino, improvvisamente, mi pare molto scomodo.
10
Mia madre mi aveva raccontato che avrei incontrato donne come Adriana. Le chiamava “i disastri”. Quelle che arrivano e ti spezzano il cuore e, dopo averlo fatto, ti lasciano a contare i pezzi, mentre ancora ti volteggiano intorno e ti fanno sentire ancora peggio. E quando pensi che non potrai sentirti peggio ancora, ci riescono; magari quando le chiami e trovi una voce maschile, dall'altra parte.Avevo sempre reputato che esagerasse, che fosse un misto di spirito protettivo materno e di mancata solidarietà femminile. Poi lei ha lasciato mio padre e ho visto lui, in ginocchio, a contare i pezzi del suo cuore, capendo che, forse, mia mamma parlava a ragion veduta e, soprattutto, per esperienza personale. Fermo davanti al teatro, rimango a pensare che Adriana non era un disastro. Aveva fisime e disturbi ossessivi compulsivi. A volte entrava in crisi per delle sciocchezze. Ma, contrariamente a quanto si poteva pensare, non doveva imbottirsi di psicofarmaci, né aveva bisogno di accendere e spegnere la luce di una stanza per quattordici volte, prima di entrare. Quando mi ha lasciato, poco dopo che aveva varcato la porta, il mio primo pensiero non è stato “perché” o “ma che è successo?”. Il mio primo pensiero è stato “non è possibile”. Questo non perché non pensavo fosse possibile che la nostra storia finisse – il divorzio dei miei genitori mi ha reso molto nichilista, sull'argomento, - ma semplicemente perché non ritenevo possibile che lei, un giorno, mi avrebbe lasciato. Sarei dovuto essere io, a farlo. O lei sarebbe dovuta morire in un tremendo incidente d'auto che me l'avrebbe strappata, facendo di me un vedovo inconsolabile – il che, visto come guida, è ancora una possibilità tutt'altro che improbabile, ci mancherebbe.Adriana che mi lasciava era come Sansone che si tagliava spontaneamente i capelli o la Venere di Milo che lasciava cadere da sola le sue braccia. Era un gesto inconcepibile. Chiamiamola boria, ego maschile o essere troppo sicuri di sé. Ma ero convinto che lei mi vedesse come la sua metà, quella vera e definitiva.Avevo mai pensato di lasciarla? Sì. Ci sono state delle occasioni, specialmente quando una delle sue fissazioni faceva capolino e mi rendeva la vita impossibile, in cui ho pensato che sarebbe stato meglio alzarmi e scappare a gambe levate. Non l'ho mai fatto. Il perché, francamente, avrei difficoltà a spiegarlo, ma suppongo si possa sintetizzare nel fatto che l'amavo.Vedo Sandra are con la sua auto e mettersi alla ricerca di un parcheggio. Mentre la seguo con lo sguardo non posso fare a meno di chiedermi
cosa significhi tutto il sesso che sto facendo ultimamente. Il mio amore per Adriana è venuto meno? Forse si era già spento, solo che non lo sapevo? O, semplicemente, sono un uomo con sani ormoni che aspettano solo di potersi sbizzarrire e una strana serie di coincidenze mi ha messo nella condizione di permetterglielo?Mi arriva un SMS di Massi, al quale ho detto della telefonata con sorpresa ad Adriana. “Ben ti sta. E comunque ero io. Abbiamo una relazione e non avevamo il coraggio di dirtelo. Mi dice di farti sapere che il tuo pene è piccolo”. Rido, per la prima volta nella serata.Sandra mi raggiunge, dopo una decina di minuti, e anche a distanza la sento che sta bestemmiando per la mancanza di posti auto decenti. Indossa una gonna lunga e una camicetta grigio perla, cammina spedita e lo trovo incredibile visti i tacchi dei suoi stivali di pelle nera. Si muove con discreta rapidità e mi guarda un po' preoccupata.
- Scusa per il ritardo.
- Non sei in ritardo – la tranquillizzo.
- Carino, ma bugiardo.
Apre la borsetta e si mette a frugare.
- Sono solo un paio di minuti, su.
- Allora posso farmi una sigaretta, prima di entrare?
Annuisco, mentre lei se ne accende una e sembra rilassarsi. Ha un trucco leggero
che le mette in risalto il taglio felino degli occhi.
- Ciao – dice poi, dandomi due baci sulle guance.
- Ciao. Problemi con il parcheggio?
- Cristo. Non me ne parlare.
- Va bene.
Lancia un'occhiata al teatro e dà un tiro alla sigaretta.
- Non ho mai visto Casa di bambole . Spero che sia decente.
- Non ne so molto, in effetti. Non conosco la compagnia, non sono mai stato in questo teatro e non ho mai letto il libro.
Lei sorride e fa cadere la cenere sul marciapiede, seguendola con lo sguardo.
- Sei decisamente lo spettatore ideale.
- Lo so. Mi beo della mia ignoranza, così da poter rimanere piacevolmente sorpreso dall'opera, quando la vedrò.
- È molto bella. E molto triste, ovviamente.
- Ecco. Ci voleva.
- Oh santo cielo. Se vuoi c'è un cinema porno, qui vicino.
- Magari per dopo – sorrido. - È inglese, l'opera?
- Henrik Ibsen, l'autore, era norvegese.
- Fottuta Ikea. La odio.
- L'Ikea è svedese.
- Non ne imbrocco una, stasera.
- Direi di no – schiaccia con grazia il mozzicone di sigaretta sotto il piede. Vogliamo andare?
Annuisco ed entriamo a teatro. Si tratta di una piccola struttura, dedicata a opere e compagnie minori; ne porta i segni nella vernice vecchia sulle pareti, nei pavimenti graffiati e rovinati, nei resti di locandine ancora attaccati alle porte scrostate e usurate. La sala non è grandissima e il fatto di essere piena la rende ancora più angusta. Ci si siede su vecchi sedili in legno, come quelli del cinema dell'oratorio al quale andavo da bambino. Peccato che non ci sia il bar per comprare popcorn scadente e gazosa. Ci sediamo e ho ancora il tempo di studiare il pubblico presente, prima che lo spettacolo cominci: sono per la maggior parte ragazzi abbastanza giovani, probabilmente studenti universitari, quasi sicuramente amici o fidanzati e fidanzate di quelli che sono sul palco. Ci sono anche coppie più anziane, amanti del teatro che approfittano delle poche occasioni per vederne, in questi tempi in cui i cinema multisala dominano ovunque. Le luci si spengono e riaccendono un paio di volte, segnale che si sta per cominciare. Mi accorgo in quel momento che Sandra mi sta guardando, sorridente.
- Cosa? Che c'è? - chiedo, preoccupato.
- Grazie.
- Per cosa? Per il teatro?
- Sì.
- Figurati. È un piacere – sto chiaramente mentendo, perché so già che mi annoierò a morte.
- Be' grazie comunque. Non eri obbligato e non è che ci si conosca così bene,
dopo tutto. Pompini a parte, certo.
- Pompini a parte, certo.
Le luci si spengono e vedo il suo sorriso ancora per un istante, poi si volta verso il palco. Io mi metto comodo e cerco di godermi lo spettacolo.
- Non ti è piaciuto, vero?
Sandra ha già una sigaretta accesa tra le labbra, quando abbiamo varcato la soglia del teatro. Mi chiedo come faccia, deve avere qualche super potere che non conosco.
- È stato bello. Sul serio. Non uno so, ma bello.
- Tu sei più tipo da cinema, lo so.
- Già. Non saprei neanche spiegarti il perché.
- Di solito ha a qualcosa a che fare con il primo film che si è visto da piccoli o qualcosa del genere. Quel momento in cui si è rimasti così stregati dal mezzo che è diventata una ione.
- Immagino di sì.
- Qual'è il film più vecchio che ti ricordi?
Ci penso un po' su, frugando nella mia memoria.
- Forse qualcosa della Disney. Forse Elliot, il drago invisibile .
- Un classicone.
- Già. Le canzoni, il drago disegnato sulla pellicola, i buoni sentimenti.
Scrolla la cenere per terra e mi guarda, senza dire niente.
- Ma non è stato quello – aggiungo.
- No, immagino di no. Provo a indovinare?
- Sentiamo.
Mi guarda dalla punta dei capelli a quella dei piedi, con attenzione, concentrata.
- Indiana Jones.
Sorrido.
- Potrebbe essere.
- Non è quello?
- Forse sì, non ne sono sicuro.
- Come fai a non esserlo?
- Perché il cinema fantastico degli anni '80 ha influenzato qualsiasi ragazzino della mia generazione: Ritorno al futuro, I predatori dell'Arca perduta , persino quella porcheria di Howard e il destino del mondo .
- Capisco.
- Non dirmi che non ti sono mai piaciuti.
- Non mi permetterei mai – risponde, divertita. - Ma non ne ho mai fatto un
culto, come sembri fare tu e buona parte dei tuoi coetanei.
- Non è un culto. È un bellissimo ricordo della mia infanzia.
- Come si chiamano i tre Indiana Jones?
- I predatori dell'Arca perduta, Il tempio maledetto e L'ultima crociata .
- Ecco.
- Ma dai, lo sanno tutti – protesto.
- Sì, immagino che nel tuo negozio di fumetti non ci sia nessuno che lo ignora.
Mi sorride, beffarda, e io sono indeciso se darle una testata o baciarla.
- Non esiste solo il teatro, sai? - dico, invece.
- No, è vero. Ma non esiste solo una pellicola che parla di cavalieri Jedi. Il mondo sarebbe triste se non ci fossero quei film, ma sarebbe molto più triste se ci fossero solo quelli.
- Lo so, lo so.
Spegne la sigaretta e incrocia le braccia sul petto.
- Non è che non mi piace il teatro. È un'altra cosa – dico.
- Profondo.
- È difficile parlare con te.
- Lo so. Me lo dicono sempre tutti.
- È per questo che morirai zitella.
- Io non morirò zitella, cazzo.
- E invece sì. Sarai una di quelle signore acide, sedute sulle panchine del parco, i capelli tinti di tonalità turchine, che guardano i giovani e scuotono la testa.
- Ma sentilo.
- E nessuno ti parlerà, perché gli angoli delle tue labbra saranno sempre piegati verso il basso e avrai le rughe di quelli che ce l'hanno con il mondo.
- Non ho capito se stai cercando di evitare un pompino facendomi incazzare o cosa.
- Be', se la metti così... - rido.
Facciamo un paio di i e poi le do di gomito.
- Mangiamo qualcosa?
- Ce ne hai messo di tempo.
Ci sediamo nella prima pizzeria che troviamo aperta e ordiniamo da mangiare. Il locale è assolutamente anonimo: bucolici quadri sulla campagna appesi alle pareti, tovaglie e tovaglioli di un giallino spento e un'atmosfera simile a quella di decine di altri locali identici. Sandra ha la ione per le pizze abbondantemente farcite e la sento chiederne una con peperoni, salame piccante e cipolla. Decido che non posso essere da meno e le vado dietro, osservando il ghigno divertito del cameriere, alle nostre richieste.
- Adoro il cibo – dice lei.
- Sì?
- Ti fa stare bene. È buono, raramente ti delude e quando sei giù di morale è un vero toccasana.
- Io non mangio molto, quando sono depresso.
- Perché sei stupido. Io non ho mai perso l'appetito, neanche durante le crisi depressive più profonde.
- Immagino sia una gran cosa.
- Abbastanza.
- E quali crisi?
- Come?
La cameriera arriva e ci serve le birre medie, diamo una sorsata, dopo che abbiamo fatto urtare i bicchieri tra di loro, in un brindisi silente.
- Dici che anche nelle crisi più profonde non hai mai avuto problemi a mangiare. Ti stavo chiedendo di quali crisi parlassi.
- Uh. Argomento spinoso – risponde, con un sorriso enigmatico.
- Un po', forse.
- Non è una cosa di cui parlo spesso, in effetti.
- Be’ è una buona serata. Mi sono visto la rappresentazione teatrale di un testo norvegese, direi che mi merito un po’ di credito.
La cameriera fa il suo ritorno e ci porta in dono dei grissini che Sandra prende d’assalto, discretamente. Io sorseggio la birra, con calma, senza che sembri che le voglia mettere fretta in nessun modo.
- Ho avuto la mia parte di storie traumatiche.
- Molte?
- Un paio.
- Fammi qualche esempio.
Sorride e scuote la testa, imbarazzata.
- Una volta stavo con uno che, quando veniva, alzava le braccia in aria e lanciava una specie di urlo di vittoria.
- Scherzi?
- Giuro su Dio. E faceva delle smorfie, aveva tutta la faccia contratta e una vena gonfia al centro della fronte. Le prime volte ero assolutamente terrorizzata, fidati.
- E poi ti sei abituata?
- No, mai. Il che, direi, spiega perché ne parlo come del mio ex – ride e gioca con il bicchiere.
- Be’ sì, direi che è stata una brutta esperienza.
- Alla fine neanche tanto, sai? Cioè, sì, era inquietante e ho avuto paura che potesse colpirmi, durante l’orgasmo.
- Colpirti?
- Una roba tipo cavernicolo che si impone sulla donna – spiega.
- Ah certo.
- Però ci sono storie peggiori.
- Mh.
- E tu? Come procede la tua nuova vita da single?
Ci penso su, mentre guardo verso l’ingresso della pizzeria: fuori diverse persone stanno fumandosi una sigaretta, mentre chiacchierano.
- Non lo so – rispondo.
- Ho visto persone messe peggio, in effetti.
- È che resto convinto che non sia una cosa definitiva.
- Da quanto è che non vi sentite?
- Un mese.
- Uh. Molto definitivo.
- Dici?
- Neanche una telefonata? Una e-mail? Che cazzo ne so, un commento sulla pagina Facebook?
- Non ti facevo così tecnologica.
- Mi lascio trasportare dalla corrente.
- Niente, comunque.
Sorride, dolce, e si rigira il bicchiere tra le mani.
- Non è un bel segnale, Alessandro.
- Lo so.
- Mi dispiace.
- C'è di peggio. Ieri l'ho chiamata e al suo cellulare mi ha risposto un uomo.
- Chi era? - chiede, mentre fa una smorfia.
- E che ne so? Ero talmente sconvolto che ho buttato giù. Poteva anche essere uno che ha trovato il cellulare abbandonato per strada, per quanto ne so.
- Certo.
- O magari è uno che se la porta a letto. Magari mi ha lasciato per un altro e non ha mai avuto il coraggio di dirmelo.
- Dici che è possibile?
- Non lo so. Secondo te?
- Non la conosco – scrolla le spalle.
- Già.
Rimaniamo in silenzio e io mi massaggio gli occhi, stanco. Poi respiro a fondo
un paio di volte.
- Scusa. Parliamo d'altro.
- Non è un problema.
- Lo è per me. Sono stanco di parlarne. Sono stanco di pensarci. Siamo io e te, abbiamo un appuntamento, parliamo di cose da appuntamento. Vuoi?
- Va bene.
Ci portano le pizze e cominciamo a mangiarle, scambiando qualche commento sulla pasta e sul condimento. Sandra mi racconta del suo lavoro come commessa e mi narra qualche aneddoto particolarmente buffo. Io le spiego il mio lavoro, come ho fatto migliaia di altre volte, e anche stavolta, dal suo sguardo, capisco che non le è chiaro quello che faccio, come succede quasi tutte le volte.
- Ho una domanda da farti – le chiedo, improvvisamente. - È una cosa personale.
- Sentiamo.
- Cos'è questa storia che non vuoi essere toccata?
- Mi tocca un sacco di gente.
- Mi hai capito, dai. La faccenda del pompino.
- Vuoi sapere perché faccio i pompini o vuoi sapere perché non scopo?
- La seconda.
Taglia con cura una striscia di pizza e la fissa con discreta concentrazione.
- Il sesso mi piace – chiarisce. - Ma è qualcosa di molto intimo e che mette una persona in una posizione di fragilità.
- Vale anche per l'altro.
- Sì. Ma c'è anche chi riesce a essere razionale, in quei momenti, e a tenere un certo controllo.
- Per te non è così, mi pare di intuire.
- No, non lo è. Quando faccio sesso, perdo il controllo di me.
- Urli, alzando le braccia al cielo? - sorrido.
Lei ride e mi schiaffeggia una mano.
- No, cretino. Però non sto a chiedermi se sto facendo le cose bene, se si vedono le smagliature sulle cosce, se l'altro è troppo peloso o se ho l'alito cattivo. Siamo solo io e lui e le sensazioni che nascono da quello che stiamo facendo.
- Mi pare giusto.
- Scopare è accettare totalmente l'altro, credere in lui, capisci?
- Immagino di sì.
- Quando arriva l'orgasmo sono totalmente nuda. Potrebbero accoltellarmi e io non potrei farci niente. Sai cosa significa? Significa che devo fidarmi totalmente della persona con cui lo sto facendo, perché in quel momento non c'è altro, per me.
- Capisco.
- Un pompino è una eggiata. Hai il controllo, rendi felice l'altro e, diciamolo, una volta che siete venuti la vostra carica sessuale si spegne con la velocità di un fiammifero.
- Ehi!
- Abbi fede, credo di avere succhiato più cazzi di quanto tu abbia scopato.
Non ribatto. Ha ragione lei.
- E poi mi piace fare pompini. Mi dà soddisfazione, godo un sacco a farli.
- So di non essere la persona più indicata, per un commento del genere, ma sei molto brava.
- Grazie. Fa sempre piacere sentirselo dire.
Finisco la pizza e mi poggio allo schienale della sedia. Lei chiama la cameriera con un gesto della mano e le chiede la lista dei dolci; mentre la ragazza glieli elenca la guardo, pensieroso. Penso che abbia fatto un discorso pienamente sensato, tutto sommato, e che capisco le motivazioni del gesto, ma che non capisco come possa rinunciare a qualsiasi ulteriore esperienza. Improvvisamente mi ritrovo a interrogarmi se anche io finirò allo stesso modo: la fine della mia storia con Adriana mi farà diventare una specie di monaco? Oppure mi limiterò a saltare da una storia all'altra, senza pensare più a impegnarmi e a portare avanti una storia con l'idea che possa essere quella della vita? Cosa sta succedendo alla mia vita?
Sandra mi guarda, silenziosa, e io mi riscuoto dai miei pensieri.
- Non sei un caso tanto anomalo, sai? - dice, improvvisamente.
- Di cosa parli?
- La rottura. La fine di una storia lunga. Ce ne sono tanti, come te, e tutti sopravvivono, anche se, all'inizio, non si sa mai cosa fare e come muoversi.
- È un po' più complicato, di così, in effetti – spiego, pazientemente.
- In che senso?
- Lei è stata l'unica donna della mia vita.
- Sì, è molto carino, certo.
- No, non mi hai capito – la interrompo. - Lei è stata l'unica donna della mia vita. C'è stata solo lei.
Per qualche secondo c'è solo un silenzio assordante e lei che mi fissa come se non riuscisse a capire, poi il pensiero si fa chiaramente largo nella sua testa.
- Oh. Oh.
- Già.
- Cazzo. Eri praticamente vergine sul serio.
- Potremmo dire così.
- Be', comunque, non sei lo stesso l'unico.
- No?
- Ma no. Succede.
- E cosa accade, dopo?
- Dopo la rottura?
Annuisco.
- Ci sono due strade, di solito. Alcuni si riprendono, dopo un po', e scoprono un
mondo che hanno dimenticato o ignorato per anni. Si iscrivono a corsi, escono, fanno nuove amicizie, roba così.
- Gli altri?
- Gli altri affogano nella depressione, nella commiserazione e si sentono perduti e incapaci di andare avanti. Dopo anni cominciano a riprendersi, ma la parte precedente non è stata precisamente uno so.
- Non c'è una terza via?
- Una terza via? Del tipo?
- Non lo so. Magari che uno stia male, però poi si dia da fare e riesca a riconquistare l'amata.
- Certo che c'è – risponde lei, secca.
- Davvero?
- Sì, certo. Se credi nelle favole.
Colpito e affondato.
Mi fa un pompino, ovviamente. Di nuovo in macchina, stavolta nella mia. Mentre lecca l'asta mi chiedo cosa ci vorrebbe per farle accettare anche solo la masturbazione. Che genere di uomo potrebbe infrangere la sua armatura e renderla, per pochi istanti, vulnerabile e disposta a lasciarsi andare? Sandra mette la sua arte a disposizione del mio piacere, la lingua che corre dai testicoli alla cappella, senza sosta, mentre cerco di capire se potrei essere io, quella persona. Mi rendo conto che non saprei neanche da dove cominciare. Che se anche mi dicesse “OK, scopiamo”, soffrirei di una certa ansia da prestazione, perché la ragazza è talmente brava nel succhiarmelo che ho difficoltà a pensare lucidamente. Ogni colpo di lingua, ogni volta che morde o aspira, è come se il mio cervello si spegnesse per una frazione di secondo, lasciandomi incapace di parlare o fare altro che gemere. Se dovessi restituirle il favore, dire che sarei in difficoltà sarebbe un pallido eufemismo del senso di inadeguatezza di cui soffrirei.Il suo pompino mi impedisce di pensare alla telefonata ad Adriana, anche se ogni tanto la voce maschile che dice “pronto?” fa capolino nella mia testa, tra un brivido e l'altro, come a ricordarmi che il mio scontro con la realtà è solo rimandato. La mia ex ragazza è figlia unica, la madre aveva perso la sua futura sorellina al settimo mese di gravidanza e, con essa, la possibilità di fare altri figli. Impossibile, quindi, che al telefono fosse un fratello e la voce era troppo giovane per essere quella del padre. Mentre ragiono su questo, mi rendo conto che non so dove Adriana sia, in questo momento. Mi ha lasciato, ha preparato le sue valigie ed è andata via, lasciando la casa, ma non so dove sia andata a stare. Da un'amica? Dai genitori? Dall'amante?È strano rendersi conto di avere sempre reputato di sapere ogni cosa della persona con la quale hai condiviso la tua vita per anni e poi ti accorgi che ti manca un solo elemento ed è quello focale: dove potrebbe essere, questa persona, se tu non dovessi esserci più?Non so rispondere e capisco che, tutto sommato, la mia capacità di prevedere e assecondare quello che Adriana voleva era più illusoria di quanto mi pie pensare. Pochi giorni dopo che se n'è andata non sono già più sicuro di dove possa essere, con chi, se mangia abbastanza, se dorme, se sta prendendo le rare medicine che deve prendere. La mano di Sandra mi artiglia il petto, strappandomi dai miei pensieri, proprio mentre serra la base dell'asta con le labbra, causando un incredibile parallelo tra il dolore al petto e il piacere al pene. Le carezzo i capelli e seguo il movimento della testa, assecondandolo e, in parte, spingendo un po' più a fondo ogni volta che scende. La sento emettere un mugolio che spero sia di piacevole sorpresa, anche se credo che tema di soffocare. I capelli ricci biondi si attorcigliano intorno alle mie dita, rendendomi
impossibile liberarmi. Alza lo sguardo e mi guarda, gli occhi sorridenti, mentre a la lingua sulla cappella.
- Voglio farlo – mugolo, sorridendo a mia volta.
Lei ride e scuote la testa, poi riprende il suo lavoro. È tutto complicato. Ho ato la vita ad avere conversazioni con i miei amici, nelle quali si lamentava di donne che non lo succhiavano, di donne che rinfacciavano pochi preliminari o un'eccessiva attenzione solo al proprio piacere e poco a quello dell'altra metà del letto. Ricordo di consigli, serate, di tecniche per indirizzare la donna su come succhiare un uccello per bene, senza far rimpiangere le funambole dei film porno con le quali siamo cresciuti noi ragazzi normali. Ora sono in macchina con il sogno di un sacco di uomini: una donna che ti fa un pompino ed è soddisfatta così, senza aspettarsi qualcosa in cambio, anzi respingendo qualsiasi offerta di piacere – orale, digitale o per penetrazione che sia. E invece che bullarmene con gli amici, i piedi poggiati sul tavolo e le braccia dietro la testa, con il sorriso di quello che ha visto cose che gli altri umani si sognano, sono qui, frustrato, perché vorrei poter fare qualcosa per farla godere – provarci quanto meno, - per godere insieme.
- Tu sei pazza – mormoro.
Mi strizza un capezzolo, come unica risposta. Io chiudo gli occhi e poggio la testa al sedile; l'orgasmo arriva improvviso, fortissimo, facendo quasi male. Le stringo la testa e do delle spinte di bacino, come a dimostrare che sono io che gestisco le cose, in fondo. Lei me lo lascia credere e beve tutto quello che esce, senza fare una piega.
Si accende una sigaretta e la rigira tra le dita, poi mi guarda, il sorriso malizioso
di chi sa che ha vinto anche questa volta.
- A cosa pensi? - chiede.
- A niente. Al fatto che non capisco.
- Cosa?
- Tante cose. Tu sei una di quelle.
Annuisce, il fumo della sigaretta si solleva nell'auto e si dissipa tra le correnti.
- Sei troppo ossessionato dal capire le cose, secondo me.
- Forse.
- Del resto cosa c'è di così strano, in me? Non mi piace lasciarmi andare con estranei.
- Pensi che ti farei del male?
- No, che c'entra. Non ho mai parlato di questo. Ho parlato del fatto che non voglio essere vulnerabile.
- Perché...
- Perché essere vulnerabile significa non avere il controllo della situazione.
- Allora sei tu che sei fissata per il controllo.
Ride e fuma ancora.
- Certo. Lo sono. Cosa c'è di più dominante del cazzo di uno in bocca, del decidere il ritmo, cosa fare, come farlo godere? Tu sei lì, stai sopra di me, mi osservi dall'alto, ma alla fine sono io, lì sotto, che sono padrona della situazione.
- Ci manca solo il frustino.
Ride e scuote la sigaretta fuori dal finestrino dell'auto. Le sorrido e la attiro a me, mi guarda con una certa curiosità, come se non si aspettasse quel gesto. La bacio e lei me lo permette. La bacio a lungo, carezzandole i capelli e ando l'altra mano sulla sua schiena.
- Ehi – si limita a dire, quando mi stacco.
Sorrido e la bacio ancora una volta, ancora profondamente, sentendo il suo corpo meno teso, tra le mie mani. Quando mi stacco, mi studia, prima di dare un tiro alla sigaretta.
- Ci sarà un secondo appuntamento? - chiedo.
Sandra sorride in modo misterioso, mentre fa roteare gli occhi.
- Chissà.
- Uh. Carina, se la tira.
- Un po'. Con voi uomini si deve fare così o perdete subito interesse.
- Davvero?
Dice qualcosa, ma non la sto ascoltando, perché ho un solo pensiero in testa: chi ha risposto, al cellulare di Adriana? C'è un altro? Forse. Ma se lei avesse fatto rispondere qualcun altro, un amico, il fidanzato di un'amica, per farmi ingelosire, per tenermi “in sospeso”, come dice Sandra?
- Oi – la voce di Sandra mi risveglia dalle mie elucubrazioni.
- Scusami. Dicevi?
- Tutto bene?
- Ma sì, scusa. Pensieri.
- Ah già. Fammi indovinare: la tua ex?
- È così evidente?
- Sì, ma è normale, direi.
- Sto cercando di seguire una nuova filosofia di vita, secondo la quale smetto di parlarne con gli altri.
- Ah sì?
- Ci provo. Massi ci tiene molto, direi.
- E cosa è successo? Perché ne stiamo parlando?
Mi frega sempre. Zittisco, un po' imbarazzato, un po' roso dai sensi di colpa. Mi ha appena fatto un pompino e i mugolii del mio orgasmo sono ancora per aria e io le parlo di Adriana.
- Non che per me sia un problema, eh? - dice, come se mi leggesse nel pensiero.
- È che oltre a non parlarne con la gente, sto seguendo anche un severo regime per il quale non le telefono.
- E l'hai rotto, giusto?
- È successo anche a te?
- Ovvio. Quando finisce una storia, e non sei tu a chiudere, certi meccanismi sono automatici. A volte lo sono anche quando sei tu, quello che lascia l'altro.
- Già. Infatti. Il mio meccanismo non ha funzionato bene, l'ho chiamata e ha risposto un altro uomo.
- Cazzo, allora prima non scherzavi.
- Magari.
- E chi era?
- E io cosa ne so? Potrebbe essere anche uno al quale ha chiesto di rispondere perché lei era impegnata a fare partorire un unicorno.
- Probabile. Che sia uno qualsiasi, non la parte sull'unicorno.
- Ma potrebbe anche essere il suo ragazzo. O quello che se la scopa.
- Be'...
- Non che cambi le cose. Che sia il ragazzo o anche solo uno che se la scopa, intendo. Lo troverò e lo ucciderò comunque.
- Sì.
- No, sul serio.
- Per qualche motivo non mi sembri uno in grado di ammazzare un'altra persona.
- No, eh?
- No.
- Lo so. È una fregatura mica da poco.
- Infatti.
- Però potrei assumere qualcuno che lo faccia al posto mio.
- Potresti.
- Ecco.
- Se sapessi dove si trova, un killer a pagamento. Non credo ci siano le inserzioni tra gli annunci economici del giornale.
- No. Non ne ho mai visti, in effetti.
- Per l'appunto.
- Ma non ho mai controllato con attenzione. Di solito leggo solo gli annunci dei centri massaggi perché so che ci sono le prostitute e mi piace leggere quello che si inventano per dire che lo sono senza esprimerlo chiaramente.
- Sei un uomo dai gusti semplici.
- Un po'.
Rimaniamo in silenzio, mentre lei si accende un'altra sigaretta.
- Trovala e parlaci, Ale, è l'unico consiglio che mi sento di darti.
Mi massaggio gli occhi e scuoto la testa.
- Sarebbe patetico. Mi ha lasciato, no? Ha diritto di rifarsi una vita, no? Ha diritto di vedersi con un altro o anche soltanto di chiedergli di rispondere al telefono. Io non dovrei impicciarmi.
- Se devi stare con il dubbio, forse è meglio chiarire. Che ne sai, magari accelererebbe il tuo processo di guarigione.
- Oppure potrei andare a parlare con qualche sua amica e indagare.
- Ecco, parlando di cose patetiche...
Le mostro la lingua e lei ride. Metto in moto l'auto e ci muoviamo per la città, il poco traffico ci a accanto, silenzioso.
- Tu dopo quanto ne sei uscita? - chiedo, all'improvviso.
- Come?
- Anche tu hai avuto una relazione lunga e vi siete lasciati, no? - annuisce – Quanto ci hai messo a dimenticare e a ricominciare a vivere normalmente?
Non mi risponde e si limita a buttare il mozzicone dal finestrino, prima di cambiare la marcia. Rimango in attesa di una risposta che non arriva e che, capisco, non arriverà. Per qualche istante mi chiedo perché, interrogandomi se forse non mi voglia dare tutta questa confidenza, che il fatto che mi abbia fatto dei pompini non vuol dire che sia il suo migliore amico e nemmeno il suo confessore. Poi mi rendo conto che il problema non è quello. Il problema è che lei non ne è mai uscita, non ha mai ricominciato a vivere normalmente.
Improvvisamente ho voglia di chiederle di fermarsi a dormire da me. Non lo faccio.
11
La migliore amica di Adriana si chiama Michela. Sono sicuro che sia la sua migliore amica perché è praticamente l'unica che ha. La sua condizione mentale le ha sempre reso difficile stringere dei legami con la gente; a volte perché lei non riesce a stare concentrata su volti, nomi o anche solo a dominare le sue emozioni, a volte – più spesso a dire il vero - perché le persone, davanti a una come lei, pensano “pazza” e scappano a gambe levate. Michela fa l'infermiera al pronto soccorso, si sono conosciute quando Adriana si era rotta la gamba e lei se n'era presa cura, durante l'infinita attesa per essere visitata. Lo spirito da crocerossina ha prevalso sulle stramberie di Adriana e tra le due è nata una bella relazione, più una sorellanza, che una semplice amicizia. Michela c'è sempre stata, nei momenti buoni e in quelli brutti e anche dopo i lunghi periodo di isolamento nei quali si chiudeva Adriana, di tanto in tanto. Si rivedevano dopo due mesi di silenzio e sembrava sempre che si fossero salutate mezz'ora prima. Per molti aspetti era la controparte femminile del mio rapporto con Massi, per quanto io e lui ci si senta tutti i giorni; perché, in fondo in fondo, io ho bisogno che lui mi punzecchi e lui ha bisogno che io gli tiri le orecchie. Siamo praticamente una coppia di vecchi amanti.
Mi fermo davanti all'ingresso del Pronto Soccorso e tengo la porta a una signora che spinge un uomo anziano sulla sedia a rotella. Ci scambiamo un sorriso di cortesia e mi sembra di leggerle negli occhi la stanchezza di una persona che è nel mezzo di un viaggio burrascoso e che non ne vede la fine. La seguo con lo sguardo, fino a quando non sparisce in mezzo alle macchine parcheggiate, poi entro.Non mi piacciono gli ospedali. Il mio servizio civile mi ha visto fare il barelliere alla Croce Rossa per dieci mesi: andavo a prendere le persone a casa e le portavo in ospedale o al Pronto Soccorso o negli studi medici per gli esami o a fare la dialisi. A volte li riportavo a casa dopo una visita o una degenza. Spesso sedevo dietro con loro e ci parlavo, nel tentativo di distrarli dalle loro disgrazie; a volte ci riuscivo, a volte no. La paura negli occhi delle persone che sono dentro l'ambulanza o che rimangono parcheggiate nelle corsie d'ospedale è papabile e, una volta che ti si appiccica addosso, non la togli più. Magari non hanno motivo
per avere paura, ma non possono saperlo, perché fino a quando sono lì dentro non si sentono al sicuro; perché se sono lì dentro vuol dire che ancora non sono in grado di tornare alle proprie vite. Un mio collega, quello che guidava l'ambulanza, una mattina presto, mentre andavamo verso la casa di un signore abituale, mi disse che non si moriva più di vecchiaia. Che ormai il cancro ci prendeva tutti. Era una frase buttata lì in un attimo di sconforto, perché quando per mesi non vedi altro che persone che stanno male, automaticamente, ti convinci che, presto o tardi, sarai come loro. Non ho mai risposto e ho lasciato che la frase morisse lì, nell'aria fredda del mattino, in quell'ambulanza, ma non l'ho mai scordata e, ogni tanto, ci ripenso. Dopo la fine del servizio civile sono entrato pochissime volte, negli ospedali. Di solito per fare visita, ma sentire l'odore di disinfettante, misto a quello del cibo della mensa e a quello degli escrementi dei pazienti, mi riproietta indietro nel tempo e mi fa sentire ancora un barelliere della Croce Rossa che cerca il proprio vecchietto da portare da qualche parte. Ma nei giorni peggiori, quelli in cui sono stanco e depresso, mi fa solo sentire un o più vicino al momento in cui sarò io a essere prelevato da due barellieri.Attraverso la hall in pochi i e mi avvicino al banco dell'accettazione; non so per quale congiunzione astrale favorevole ci sono solo 4 persone, prima di me. Mi metto pazientemente in fila e, intanto, mi guardo intorno alla ricerca di Michela, nel caso asse dalle mie parti. Ovviamente non è così e dopo tre quarti d'ora interminabili riesco a parlare con un infermiere dietro al vetro.
- Buongiorno, io sto bene.
- Allora è nel posto sbagliato – risponde, acido.
- Lo immaginavo. Cercavo Michela Rauli, fa l'infermiera qui.
Il ragazzo gira la testa e sbircia in un punto che io non vedo.
- Michela! C'è uno!
- Mi chiamo Alessandro – dico.
- Uno! - ripete, ignorandomi.
Mi fa un cenno con il capo, indicando la doppia porta alla mia sinistra, attraverso la quale vengono chiamati i pazienti in attesa. Sento il suono di un camlo elettrico e una delle porte si apre, Michela si affaccia e si guarda intorno. Non la vedo da un po', ma è sempre uguale: bassa, con degli occhi da gatta e i capelli lunghi fino alle spalle raccolti in una coda. Quando mi vede sorride, amichevole, il che mi tranquillizza, perché pensavo che mi avrebbe accolto freddamente. Mi avvicino e ci diamo un paio di baci sulle guance.
- Non ti dirò niente di Adriana – dice, come prima cosa.
- Ah. Lo so. Non ero qui per questo.
- Ah no? - è sorpresa.
- No. Sono qui perché mi sono fatto male a un polso.
- Come? - chiede, dando un'occhiata alle mie braccia, che tengo rigorosamente distese lungo il corpo.
- Giocando a tennis.
- Tu non giochi a tennis. Giochi a tennis?
- Potrei.
- Potresti o lo fai?
- Non ancora, ma chissà cosa riserva il futuro.
Mi scruta con aria indagatrice e io sospiro.
- Vorrei parlarti di Adriana.
Sospira a sua volta e fa un cenno al tizio dietro il vetro.
- Mi prendo un caffè – dice.
L'altro risponde con il pollice alzato e poi torna a parlare con un vecchietto senza denti. Michela mi fa cenno di seguirla oltre la porta e mi guida attraverso le sale per le visite, i laboratori e i pazienti stesi su barelle lasciate nei corridoi.
- Odio questo posto – dico.
- Anche io, ma serve anche questo, di posto – ribatte.
Arriviamo a delle macchinette automatiche e lei si fruga nelle tasche, la precedo e butto dentro un paio di euro.
- Offro io – dico.
Annuisce e preme il tasto per un caffè macchiato, la macchina ronza e sento il rumore del bicchiere di plastica che cade e si incastra nel gancio, prima che quella specie di brodaglia venga versata al suo interno.
- Come stai? - mi chiede, all'improvviso.
- Ho i miei momenti – rispondo, mentre lei prende il bicchiere e da un sorso.
- Immagino.
- Lei come sta?
Mi guarda un po' male, come se avessi violato un tacito patto, poi beve ancora il caffè.
- La conosci.
- Non lo so, in effetti. Se la conoscessi così bene, forse, non sarei rimasto sorpreso, quando mi ha lasciato.
Gira il cucchiaino nel bicchiere e poi se lo ficca in bocca, succhiandolo, pensosa.
- Lei non ti ha lasciato, Ale. Ha lasciato la sua vita con te.
- Be' nel farlo ha scaricato anche me, non so se la notizia ti è giunta – rispondo, risentito.
Armeggio con la macchina e mi prendo un caffè anche io.
- Sì, lo so – si limita a dire. - Ma del resto sai che lei non ragiona come me e te, no?
- Certo. Lo so.
- E allora.
- E allora, magari, dopo tutti questi anni, sono stanco di sentirmelo ripetere. Magari non sarebbe male, per una volta, sentirmi dire “Alessandro, lo sai come ragiona, però hai pienamente ragione a essere arrabbiato e confuso e triste. Del resto ne sei molto innamorato e lei ti ha lasciato”. Ecco, non sarebbe male che la gente che ho intorno non mi trattasse come un alieno perché ho creduto fermamente che il mio amore per lei fosse sufficiente a fare sì che la nostra storia durasse fino a che morte non ci avesse separato.
Michela succhia pensierosamente il cucchiaino di plastica, mentre mi studia, concentrata.
- Non ti sto trattando come un alieno – sentenzia. - Semplicemente, non puoi essere così naif da pensare che lei fosse veramente incasellabile negli schemi che rispettiamo io e te.
- Parli come un dottore che guarda una lastra.
- Un po' – ammette, sorridendo. - Ma non è meno vero, sai? Adriana è particolare e non puoi aspettarti da lei quello che potresti aspettarti da qualsiasi altra ragazza. Trovo strano doverlo spiegare proprio a te.
- Non me lo devi spiegare, credimi. Lo so. Quello che non sopporto più è proprio questo, la gente che cerca di spiegare a me cosa volesse dire vivere con una persona che ogni tanto, di colpo, iniziava a preoccuparsi che le piante di casa fossero infelici. E neanche le avevamo, delle piante. Lo so che è pazza, grazie. Quello che vorrei che capiste è che nonostante questo l'amavo ed essere lasciati non è più facile perché l'altra persona ha dei disturbi di personalità.
- Immagino di no.
- Ecco.
Mi carezza un braccio e io sto zitto, cercando di calmarmi. Lancio il bicchiere di plastica nel cestino, descrivendo quello che mi sembra un arco perfetto in aria, ma poi il bicchiere colpisce il bordo metallico e cade tristemente sul pavimento. Un po' la metafora della mia vita: destinato a mancare il bersaglio di pochissimo.
- Non voglio sapere dov'è, sul serio. Voglio solo essere certo che stia bene – dico, mentre lo raccolgo.
- Bene è un termine complicato, per lei. Però diciamo che l'ho vista peggio e che si sta gestendo bene, questo sì. Prende le medicine, quando deve, non ha cominciato a incidersi le braccia con il coltello o le lamette e possiamo essere soddisfatti. Va ancora al lavoro regolarmente e, lo ammetto, sono molto sorpresa che tu non ti sia presentato da lei.
- In effetti, non ci ho pensato – ammetto, vergognandomi un po'.
- Ah ecco.
- C'è un altro?
Lo chiedo di impulso e studio con attenzione l'espressione della ragazza. I suoi occhi stretti non fanno un guizzo, non sembra sorpresa dalla domanda, né pare che la cosa la shocki in nessun modo.
- No, non c'è un altro.
- Sicura? Non mi stai mentendo perché non vuoi ferirmi, vero?
Lei ride e butta via il suo bicchiere, poi si volta verso di me.
- Alessandro, cerca di pensare: credi davvero che Adriana possa avere la concentrazione necessaria a portare avanti una relazione clandestina?
- No, in effetti no.
- E sa mentire?
- No, non sa farlo.
Scrolla le spalle e sbircia il suo orologio.
- Devo tornare al lavoro, mi dispiace.
La seguo docilmente, senza dire niente. Arrivato alla porta d'ingresso del pronto soccorso, lei me la apre, molto cavallerescamente. Rimaniamo a guardarci, in silenzio, poi rompo gli indugi.
- L'ho chiamata.
- Lo sospettavo.
- Ha risposto uno.
Non dice niente e si limita ad annuire.
- E quindi te lo chiedo nuovamente: c'è un altro?
Michela sospira e poi scuote la testa.
- Dovresti chiederlo a lei.
Esco dalla porta, so che non mi dirà altro. In fin dei conti è un'amica di Adriana, più di quanto possa essere amica mia.
- Grazie per il caffè – dico.
- Figurati, l'hai pagato tu.
- Magari ci si vede ancora, una volta o l'altra.
- Quando vuoi, mi farebbe piacere.
Capisco che lo intende veramente, che non è una frase fatta, e la saluto con un ultimo cenno del capo, prima di mettermi in cammino. eggio, pensieroso, e poi chiamo Carlotta; è al lavoro, in biblioteca e la raggiungo dopo una mezz'ora, perdendomi solo due volte tra laterali e parallele. Il posto è piccolo, ma molto frequentato: c'è il silenzio classico delle biblioteche, uno dei pochi posti dove ancora si possono sentire i propri pensieri, senza che vengano soffocati dalla musica, dalla gente che urla al cellulare, dalle macchine. Mentre mi aggiro per i corridoi, tra le librerie, mi rendo conto che non ho poi tanta voglia di stare a sentire i miei pensieri, ma pazienza. Capisco perché Carlotta ami quel posto, la gente, nelle biblioteche, è più gentile, forse perché deve parlare a bassa voce e questo gli fa tenere a bada l'emotività. Lei la trovo accanto a un carrello carico di libri, intenta a impilarli, dopo averli controllati, in tre diverse pile. Ha addosso dei pantaloni sformati e una maglietta rossa a righe nere, sulla quale porta una sottile sciarpa di lana verde. Decisamente non è tipa che sa accostare i colori. Mi nota quando ormai sono a pochi i da lei e mi saluta con un cenno del capo, mentre continua il suo lavoro.
- Sembra una cosa infinita – dico.
- Sì, un po'. Non dovremmo, ma lasciamo sempre indietro il lavoro di
archiviazione dei libri che ci vengono riportati e alla fine ci si trova con una pila come questa.
- Estraete a sorte, per decidere chi li rimette a posto?
- No, facciamo a turno. Ma poi lo faccio sempre io, perché sono l'ultima arrivata e quindi ho questa specie di senso di inferiorità che mi spinge a caricarmi questa rogna sulle spalle.
- Molto nobile, da parte tua.
- Molto stupido, da parte mia – ride lei.
Prendo un libro: Il nome della Rosa , mai letto.
- Ti piace, Eco? - chiede.
- Ammetto la mia ignoranza.
- Che genere di libri leggi?
- Ultimamente troppo pochi. Di solito mi piace la narrativa, sai: Palahniuk, De Lillo, King.
- Ah ecco. Il romanzo preferito?
- Non saprei. Forse Il giovane Holden .
- Uh. Pericoloso – risponde, sorridendo.
- Perché?
- Perché è il libro che hanno trovato addosso a Chapman, dopo che ha sparato a John Lennon. Si è fatto la nomea di libro preferito dagli schizzati.
- Ah. Non lo sapevo.
- L'importante è che tu non abbia un'arma da fuoco, addosso.
Mi fa l'occhiolino e poi si arrampica su una scala, con cinque libri tra le mani.
- Posso aiutarti, in qualche modo?
- Stai lì e fammi compagnia, raccontami qualcosa.
- Ah non credo di avere molto di interessante, da dire.
- Non ci credo. Tutti hanno qualcosa di interessante da raccontare.
- Sei ottimista.
- Che ci facevi in piazza, l'altro giorno, tutto solo?
Le o un paio di libri.
- eggiavo e mi godevo il sole.
- Sembravi disorientato.
- Sì, be', non sono precisamente al top della forma, in questo periodo.
- Problemi?
Sbuffo e prendo una copia di un romanzo sulla guerra prussiana, chiedendomi se la gente davvero l'ha letto. Eppure, dietro ogni riga di quella pagina, ci deve essere una fatica infinita, un'indescrivibile quantità di speranze e di ricerca di
approvazione da parte di lettori ed editori.
- Ho rotto con la mia ragazza, recentemente.
- Ah. Mi dispiace. L'hai lasciata tu?
- No, mi ha lasciato lei.
Smette di impilare libri e si volta a guardarmi, sembrando sinceramente colpita.
- Da quanto stavate insieme?
- Troppo tempo per considerarla una semplice storia.
- Mi dispiace tanto, davvero.
- Lascia stare. Ne ho parlato così tanto che ho la nausea pure io, ormai. Il mio amico Massi sarebbe contento di sentirmelo dire.
- Va bene, allora.
Scende le scale e mi prende per mano, muovendosi verso il fondo del corridoio. La seguo e attraversiamo una porta con sopra un cartello con scritto “Privato”, dietro la quale c'è una stanza arredata con pochi mobili: un divano, un tavolo con tre sedie, una credenza ingombra di borse e cappotti. Carlotta lascia la mia mano e si avvicina a una macchinetta per il caffè poggiata su uno dei ripiani della credenza, la accende e poi apre uno sportello, tirando fuori due tazzine.
- Caffè? - chiede, voltandosi verso di me.
- OK.
La macchina ronza, sembra che faccia le fusa, contenta di poter fare il caffè per noi due. Carlotta canticchia a bocca chiusa un motivetto che non riesco a riconoscere, mentre prende lo zucchero e due cucchiai da un cassetto.
- È la nostra stanza di fuga – dice, a un certo punto. - Quando siamo stanche e non ce la facciamo più, ci nascondiamo qui dentro, per qualche minuto.
- E la gente?
- Una biblioteca non è un negozio, per fortuna, puoi allontanarti per cinque minuti senza che qualcuno si senta abbandonato a se stesso.
Sorride e porta il caffè, facendomi cenno di accomodarmi sul divano. Mi siedo e lei si siede accanto a me, tirando su le gambe. Mi a la tazzina e il cucchiaio, poi mi porge una scatola di zollette di zucchero.
- Uh. Fanno ancora le zollette? - dico.
- Sì, certo.
Ne butto due dentro la tazzina e giro, svogliatamente.
- Quando pensi di non farcela, e se ti va, puoi venire anche tu a rifugiarti qui dentro.
- Le tue colleghe potrebbero non essere d'accordo – osservo.
- No, non ti preoccupare. Non ci sono problemi, sul serio.
- Va bene.
Sorseggia il suo caffè e mi osserva, da dietro le lunghe ciglia.
- Il mio ultimo ragazzo...
- Quello del teatro?
- Quello. Dicevo, è stato lui a lasciarmi.
- Ah.
- Stavamo insieme da un anno e qualcosa, poi lui ha deciso che non stava bene con me e mi ha lasciato.
- Capisco.
- Non te lo dico perché così ti convinci che capisco quello che stai ando, eh? Sono convinta che ognuno viva il suo dolore in maniera differente e che la fine di ogni storia può avere le stesse stimmate, ma lasciare segni differenti, su chi le vive. Te lo dico perché, a volte, le cose finiscono e noi non possiamo farci niente ed è giusto starci male e soffrirne, ma dobbiamo capire che non sempre abbiamo il controllo di quello che ci succede. Questo non rende quello che c'è stato meno bello o meno importante.
- Lo so.
Sorride e beve ancora il suo caffè.
- È che ci credevo ancora – dico.
- Non te lo aspettavi.
- No. Inconsciamente, forse, mi aspettavo che potesse esserci una crisi, prima o poi, visto che lei è...diciamo che è particolare, ecco. Però non pensavo che un giorno mi avrebbe abbandonato.
- Sai perché l'ha fatto?
Scrollo le spalle.
- Non proprio. Credo che ci sia di mezzo un distorto tentativo di cambiare vita.
- Ah.
- È che pensavo di essere la parte buona, di quella vita.
- Non è detto che non lo fossi. Però credo che, a volte, per rimettersi in piedi, per riprendere, si debba anche rinunciare a delle cose. Una vita nuova richiede che tu cancelli la vecchia e questo, purtroppo, può riguardare anche alcune cose belle.
- Non pensavo di essere “sacrificabile”.
Lei sorride e mette via la tazzina, poi mi prende la mano e la stringe.
- Non lo sei, ma forse lei vedeva in te un motivo per restare ancorata a una vita che non le piaceva. Dalle tempo, magari capirà che tu e la nuova vita potete convivere tranquillamente.
Sospiro e poggio la tazzina ancora piena di caffè per terra.
- Vedremo – dico.
Carlotta sorride e si sporge verso il tavolo, afferrando la scatola di zollette di zucchero. Me la mette sotto il naso e la apre, sorridente.
- Quando ero piccola, mio papà prendeva le zollette e mi ci faceva giocare. Le impilavamo e chi le faceva cadere perdeva e doveva dare le sue all'altro.
- Carino – sorrido, io.
- Sì. Ogni tanto, invece, ne facevamo delle costruzioni. Ammassavamo il tutto e costruivamo delle case, dei castelli, quello che ci veniva in mente sul momento. Mia madre si arrabbiava tantissimo, non voleva che giocassimo con lo zucchero che poi avremmo offerto agli ospiti e poi sbriciolavamo ovunque. Mio papà la prendeva sempre in giro e continuava a farmi giocare.
Sorride e annusa la scatola, poi prende una zolletta di zucchero, spingendomela in bocca. La succhio fino a che non si scioglie completamente e la butto giù, lei mette per terra la scatola e si avvicina a me. Ci baciamo, le sue mani intorno al
mio viso, mentre io le carezzo la schiena. Ci rotoliamo sul divano e lei afferra i miei pantaloni, slacciandoli con una certa irruenza. Le do una mano, sollevandomi sulle gambe e aiutandola con i bottoni più resistenti. Mi ritrovo con i pantaloni calati a mezz'asta e Carlotta che prende in mano il mio membro e comincia a massaggiarlo, mi bacia ancora, mentre io le sollevo la maglietta e comincio a lottare con il reggiseno, cercando di slacciarlo. Alla fine lei lo alza direttamente, lasciandomi l'accesso libero, io le lecco i capezzoli e con una mano scendo tra le sue gambe.
- Senti, non che voglia smontarti – dico, - ma non rischi che una tua collega entri e ci trovi così?
- Sono sola, in turno – risponde. - Comunque...
Si stacca e si avvicina alla porta, chiudendola a chiave. Poi ritorna al divano, mentre si toglie i pantaloni elasticizzati e li lascia cadere per terra. Si stende accanto a me e ci baciamo ancora, in modo irruente, quasi violento.
- Ho chiamato la mia ex – dico, - ha risposto un uomo.
Lei mi succhia il lobo dell'orecchio e prende la mia mano, portandola di nuovo tra le gambe. È bagnata.
- Chi era? - chiede.
- Non lo so. E questa cosa mi sta facendo impazzire.
Si stende sulla schiena, attirandomi a sé; io mi spalmo su di lei che afferra i suoi pantaloni, fruga nelle tasche e tira fuori un preservativo.
- Giri sempre con quella roba?
Non risponde e si limita a sorridere, mentre strappa l'involucro con i denti, poi mi porge il pezzo di lattice e io lotto per infilarlo più rapidamente possibile, mentre lei mi carezza il petto.
- Pensi che abbia un altro? - chiede, ancora.
- Non lo so. Dio, spero di no. Fai che non ci sia un altro.
Afferra il mio pene avvolto nel preservativo e lo indirizza tra le sue cosce, io comincio a spingere lentamente e, per quanto la gomma permetta, sento ogni o che conduce dentro di lei. Carlotta geme e mi bacia ancora, stiamo fermi un secondo, il tempo di abituarsi alla sensazione, poi io comincio a spingere.
- Tecnicamente non dovrebbe interessarti – dice, il fiato corto.
- Lo so. Lo so, cazzo.
- Non state più insieme.
Spingo più forte, come una reazione al ricordarmi che sono stato lasciato, Carlotta lancia un gridolino.
- No, mi ha lasciato, lo so.
Lei geme e affonda le unghie nella mia schiena.
- Mi ha lasciato – ripeto. E affondo ancora più forte, le afferro una gamba e la tiro su, così da andare più a fondo ancora. - E ora sono qui, che mi chiedo cosa cazzo è successo e cosa cazzo sarà di me.
- Sì... - mormora lei, mentre stringe le sue mani sui miei fianchi.
- E non è giusto. Non è giusto per niente.
Sposto la gamba di Carlotta intorno alla mia vita e la afferro per le spalle. Spingo quasi con violenza, lei mi guarda con gli occhi socchiusi e ansima, io mi sento spezzato a metà, come se da un lato fossi concentrato su quello che stiamo facendo e, dall'altro, fossi furibondo per tutta la storia di Adriana e del tizio che ha risposto al suo telefono.
- Non è giusto, ma non sempre possiamo scegliere, no? - dice lei, carezzandomi il volto.
La bacio, le succhio la lingua e poi scendo sul collo, mordo e succhio ancora, mentre continuo a muovermi.
- Vaffanculo. Me ne frego se non posso scegliere, ma ho il diritto di capire, di sapere cosa è successo in quella sua testa malata.
Carlotta non risponde, io mi muovo forsennatamente, come se volessi farle male. Improvvisamente inarca la schiena e mi pianta le unghie nel petto, mi graffia.
- Cazzo! - esclama, mentre io non smetto di scoparla.
- La devo trovare e devo parlarci.
Lei continua a tremare, poi si fionda in avanti e mi bacia ancora, io le mordo un labbro. Sento il sapore del sangue in bocca e continuo a succhiare, mentre lei asseconda le mie spinte. La faccio girare, lei poggia le mani sul bracciolo del divano e io la prendo da dietro, stringo i fianchi, le graffio la schiena. Una spinta. La mia ex ragazza mi ha lasciato per un altro? Spinta. Cosa cazzo aveva in testa? Chi è? Spinta. Come se lui potesse anche soltanto immaginare cosa voglia dire stare dietro alle sue fisime. Spinta. Spinta. Spinta. Vaffanculo, Adriana. Vaffanculo, sconosciuto figli di troia. Spinta. Afferro Carlotta per il collo e le premo la testa contro il cuscino, lei geme ancora e io le pianto le unghie in una natica. Spinta. Sono stanco di essere depresso e sono stanco di essere incazzato. Spinta. Non mi merito questo. Mi meriterei di essere a casa, con la mia ragazza, sul divano, a chiederci cosa guardare in televisione e se sia il caso di noleggiarci un film in videoteca. Spinta. Spinta. Spinta. Spinta. Invece vago come uno zombie da una parte all'altra della giornata, facendomi domande, prendendo decisioni e cambiando idea ogni due minuti. Carlotta stringe convulsamente il cuscino e affonda la faccia dentro, lanciando un grido, soffocato dalla stoffa. Con ancora la mano intorno al suo collo accelero il ritmo, l'altra mano sul suo
fianco, a tirare a sé il mio corpo, a ogni spinta. Che cazzo aveva in mente, quando mi ha lasciato? Come poteva pensare di vivere senza di me, dopo tutto questo tempo? Spinta. Spinta. Sento l'orgasmo salire, lascio il collo di Carlotta e anche l'altra mano le afferra una chiappa e stringo, mentre lancio un grido rauco. Lei mi afferra l'avambraccio e mi guarda, gli occhi trasognati, il sangue che le esce dal labbro che le ho spaccato. L'orgasmo è forte, mi sento mancare, quando la sensazione di piacere decresce crollo su di lei, stendendomi sulla sua schiena. Rimaniamo abbracciati, io con il fiato corto, decisamente la palestra non sta facendo il suo dovere.
- Scusa – dico.
- Figurati.
- Per il labbro, dico. Mi dispiace.
- Non importa, sul serio.
Le carezzo i capelli, le gratto la nuca.
- Stai meglio? - chiede.
- In che senso?
- Ti sei sfogato, ora?
Non rispondo, un po' imbarazzato.
- Non me l'aspettavo – ammetto.
- No. Be', diciamo che non ero precisamente io, quella con cui stavi facendo sesso.
- Diciamo che non era precisamente sesso, quello che stavo facendo.
Mi scavalca e si alza, raccogliendo i suoi vestiti dal pavimento; è come se tra noi due ci fosse una corrente gelida. Non che possa fargliene una colpa, del resto.
- Ascolta, mi dispiace... - comincio a dire.
- Dovresti rimettere a posto la tua testa, Ale.
- Lo so, è che è difficile.
- Immagino di sì – conclude, allacciando l'ultimo bottone.
Apre la porta e mi lancia un'occhiata, prima di uscire.
- Quando hai finito chiudi, mi raccomando.
Rimango sul divano con il mio pene ancora duro e la mia vergogna. Non sono molto fiero di me.
Mi rivesto e cerco Carlotta in biblioteca, ma non riesco a trovarla; da un lato la cosa mi solleva, perché non saprei bene che cosa dirle, dall'altro mi fa sentire ancora più in colpa.
Esco per strada e controllo il cellulare, ci sono due chiamate perse. Una è di di Massi, seguita da un suo SMS in cui mi ricorda che lui fa la notte e che, se mi va, posso are a salutarlo al McDonald's. L'altra è un numero sconosciuto. Richiamo e suona libero per pochi squilli, poi sento una voce femminile, dall'altra parte.
- Pronto? Sono Alessandro, chi parla?
- Chi cazzo sei, tu?
Riconosco la voce e il modo di parlare.
- Sabrina?
- Sì, sono io.
- Sono Alessandro, ti ricordi di me? Ti ho tirato un pugno in faccia.
- Sì, figlio di puttana, mi ricordo di te.
- Ecco. Ho trovato una chiamata da questo numero sul cellulare.
- Me l'hanno dato all'ufficio di Leonardo. Quella puttana della sua segretaria ha detto che potevo chiamare qui, se avevo bisogno.
Cristo. Ora il mio capo le dà pure il mio numero di cellulare, pur di non averla tra i piedi. Sospiro.
- E hai bisogno?
- Non mi sono ancora venute le mestruazioni.
- Potrebbe essere il caso di fare un test di gravidanza, che ne dici?
- Lo so, cazzo. Non c'era bisogno che me lo spiegassi tu.
- OK.
- Volevo che Leonardo fosse presente, mentre lo faccio. Ho bisogno che mi stia accanto in caso, sai, se c'è la fregatura.
- Sì, capisco. Ascoltami, Sabrina, non so come dirtelo senza essere insultato, ma giunti a questo punto ho la sensazione che il signor Colombari non sarà mai raggiungibile.
- Vaffanculo.
- Sì, proprio, ma resta la verità. A occhio e croce la vostra luna di miele è finita e ora sei da sola.
- Col cazzo, vado nel suo ufficio e pianto un casino che se lo ricorda a vita.
Visualizzo la scena e vedo il mio rinnovo contrattuale che mi saluta, mentre un altro viene assunto al posto mio.
- Potrebbe non essere la scelta migliore.
- Per chi? - chiede.
- Per me, per esempio.
- Fottiti.
È come parlare con un personaggio di un film dei Vanzina strafatto di acidi.
- Ascolta, che ne dici se vengo io a tenerti compagnia?
- Tu?
- Sì. Prometto che non ti giudicherò, comunque vada, e che non ti colpirò con un pugno, in caso.
C'è silenzio, dall'altra parte della cornetta, e io ne approfitto per aprire la mia auto e salire a bordo.
- OK.
- Perfetto. Facciamo in hotel da te?
- No, cazzo. In hotel no, non mi va.
- E dove vuoi fare?
- Non lo so. Non c'è un cazzo di parco dove possiamo incontrarci?
- Un parco? Vuoi fare il test di gravidanza in un parco?
- Avrò bisogno di aria fresca.
- Va bene. Aria fresca. Ricevuto.
- Domani pomeriggio? Diciamo verso le due?
Cerco di ricordarmi che giorno è oggi, ultimamente sono tutti uguali l'uno all'altro. Domani è sabato. Oggi è venerdì e non lavoro perché dovevo recuperare un riposo saltato. Domani arriva mia madre. Ho tempo per giocare al ginecologo premuroso con questa pazza.
- Sì. Perfetto. Alle due, ci sarò – saluto.
Metto in moto la macchina e mi avvio verso casa di mio padre, sto per suonare alla porta, quando lui la apre. Indossa il suo cappotto e ha in mano un grosso libro; mi guarda, sorpreso, e poi dà un'occhiata al corridoio.
- Sei qui da tanto? - chiede.
- Sì, papà, mi sono appostato fuori dalla tua porta tre ore fa.
Sorride ed esce, armeggiando con le chiavi di casa dentro la serratura.
- Sto andando in biblioteca, vuoi accompagnarmi?
- Sì, volentieri.
Ci immergiamo nel traffico isterico dell'inizio del fine settimana; mio padre fischietta un motivetto di musica classica e studia i dintorni con interesse.
- Senti, papà, ho bisogno di un consiglio.
- Vacci a parlare – dice lui, senza voltarsi.
- Con chi?
- Con Adriana, con chi altri?
Lo guardo basito, prima di concentrarmi nuovamente sulla guida.
- Come diavolo sai che era di lei che parlavo?
- Figlio mio, dimentichi che sono tuo padre? Che sono divorziato? Che so quello che stai ando?
- No, però...
- Ti conosco, sei uno che non smette mai di pensare, di farsi domande, di rigirarsi in testa la stessa cosa per ore e ore. Quindi fatti un favore e fallo a chi ti sta intorno: vacci a parlare.
- OK.
Scrolla le spalle e indica un negozio di cellulari.
- Lì, una volta, c'era il mio barbiere.
- Che fine ha fatto?
- È morto. Alla mia età cominciano a morirne parecchi.
- Mi dispiace.
- E perché? Non è mica toccato a me. Mi dispiacerà allora – dice, sorridendo.
Sorrido anche io e imbocco l'ingresso del parcheggio della biblioteca. Trovo miracolosamente un posto vuoto e lo occupo immediatamente.
- Vacci a parlare, Alessandro. Togliti i dubbi, dì quello che devi dire, insultala, se ne senti il bisogno. E poi comincia a rifarti una vita, perché non ti posso vedere, ridotto così – dice, aprendo la portiera.
- Non è mica così facile, papà.
Scende dalla macchina e si sporge, guardandomi serio.
- No, non è facile, lo so. Ma la vita è così, un paradiso di meravigliose bugie. Possiamo cercare spiegazioni, possiamo cercare di capire, possiamo rifiutarle e battere i piedi per terra, ma dobbiamo accettare le cose. Fa schifo? Sì, fa schifo. Ma non sarai di certo tu a cambiare le cose.
- Va bene.
Mi sorride, amorevole.
- Se ti va, usciamo a cena, una di queste sere.
- Sì, certo che mi va.
- Va bene. Grazie del aggio.
- Papà, ascolta, c'è ancora una cosa che volevo dirti: domani arriva mamma, viene a farmi visita.
Rimane in silenzio, per qualche secondo, poi sorride ancora una volta.
- Vedi? È come dicevo io. Ci sono cose che dobbiamo accettare.
Fa un cenno di saluto con la testa e chiude la portiera, avviandosi verso la biblioteca. Lo guardo sparire dietro la porta e mi chiedo cosa gli i per la testa, in quei momenti, probabilmente le stesse cose che ano per la mia. Le relazioni sono complicate, le reazioni, spesso e volentieri, sono le stesse per quasi tutti. Ci sentiamo perduti, furibondi, pensiamo che non ci sarà un futuro felice, che non saremo più capace di costruire qualcosa di altrettanto bello di quello che abbiamo perduto. A volte succede, a volte si ottiene qualcosa di uguale o persino di meglio, ma prima di allora vivi nella paura. Paura di restare soli, paura di essere abbandonati, di vedere le persone che fanno parte della nostra vita e che sono legate a entrambi, nella coppia, sparire, perché decidono di parteggiare per uno dei due. La rottura di una coppia è come una granata a frammentazione: al centro dell'esplosione ci sono i due che una volta erano innamorati, ma le schegge colpiscono tutto quello che c'è intorno. Amici,
conoscenti, parenti, le case, i mobili, il lavoro, i ricordi. Mi rendo conto che, da quando ho rotto con Adriana, ci sono persone che ho perso di vista e che si sono ben guardate dal farsi sentire. Sono andati? Sono ormai dei ricordi di quando ero la metà di una coppia felice?Guardo mio padre e mi rendo conto che, dopo la separazione, è rimasto solo. I pochi amici che avevano si son man mano persi per strada o sono morti, non ha avuto altre storie e lui stesso ha cominciato a vivere in solitudine. Finirò così anche io? Riuscirò mai a sublimare il dolore per la fine della storia con Adriana?Mi ritrovo sotto casa sua, nel suo posto auto. Adriana vive in un appartamento, una volta con una sua ex compagna di università che poi ha cambiato città. Dopo che è partita, i genitori l'hanno aiutata a pagare l'affitto e a tenere l'appartamento solo per sé; preferivano questa soluzione a dover far convivere la figlia e i suoi problemi con qualche estraneo. Scendo e faccio qualche o tremante fino al portone, infilando le mani in tasca: sento le chiavi che premono sulle dita, ma non le tiro fuori. Adriana mi ha lasciato e, ora, non ho più il permesso di entrare a casa sua come se fosse casa mia. Guardo il citofono e rimango con il dito sospeso a mezz'aria. E se rispondesse un uomo? Penso a mio padre e suono, senza pensarci oltre, ingoiando più volte. Sarà un momento pieno di tensione? Ci urleremo dietro fino a quando qualcuno non chiamerà la Polizia? Mi ritroverò a fare a pugni con il misterioso tizio che ha risposto al telefono? Oppure finirà tutto a tarallucci e vino e scoprirò che non me ne frega niente di lei, di lui, di quello che eravamo una volta e ora non siamo più? Immagino un sacco di situazioni, di finali possibili, di soluzione alternative.Poi mi accorgo che nessuno risponde. Mi guardo intorno, come se mi aspettassi di vederla arrivare da dietro l'angolo, da un momento all'altro. Non si presenta nessuno e io e le mie congetture rimaniamo da soli, nel niente.
12
- Ah. Il sesso rabbioso. È uno dei miei preferiti.
Smetto di masticare le patatine e guardo Massi, poggiato dietro al bancone che annuisce, con fare da intenditore. Si porta le dita alla bocca e fa un fischio lancinante, i pochi clienti presenti nel fast food si voltano a guardare verso di noi.
- Tu! Tu che sei vestito tipo il Joker – dice, mentre indica un ragazzo con una camicia viola e dei pantaloni rossi. - È pronto il tuo doppio cheeseburger.
Il ragazzo si avvicina al bancone, imbarazzato, e il mio amico gli a il suo panino.
- Toh. Strafogati – dice, mentre gli fa cenno di tornare al tavolo.
Il cliente si allontana, nel silenzio, mentre tutti ancora guardano Massi tra l'intimorito e l'incredulo.
- Hai mai seguito dei corsi di preparazione? Per come si tratta la clientela, intendo – chiedo.
- Non mi pare, no.
- Non faccio fatica a crederlo.
- Stavamo parlando di te che bombi la bibliotecaria mentre pensi alla tua ex.
- Sì. Non è stato precisamente uno dei miei momenti migliori, lo so.
- Non essere così duro. Sesso rabbioso, te l'ho detto, non è male, anzi.
- Di cosa diavolo stai parlando?
Massi prende una sigaretta e se la accende.
- L'allarme antincendio? - chiedo.
- L'ho spento.
- E se ci fosse un incendio?
- Vi lascio qui e me la filo – risponde, scrollando le spalle.
- Gesù.
- Ci sono diversi tipo di sesso, OK? C'è il sesso per amore, il sesso perché sei eccitato, il sesso riparatore dopo un litigio, il sesso per noia, il sesso perché si è ubriachi, il sesso perché si vogliono provare delle cose nuove, il sesso per nascondere delle cose all'altro...
- E quindi il sesso rabbioso sarebbe uno di quei tipi lì?
- Certo. È quando sublimi l'incazzatura scopando. Stai lì, ci dai sotto, dai una bella riata alla ragazza, ma in realtà stai ti solo sfogando.
- Tu non sei normale.
- Oh piantala. Lo fa un sacco di gente; l'ho fatto anche io, cosa credi?
- Non avevo dubbi.
- E l'hai fatto anche tu, quindi non vedo perché ti debba sembrare così strano.
Inzuppo una patatina nel ketchup e la rigiro come se fosse un cucchiaino.
- Ero incazzato. Con Adriana, con quel tipo che ha risposto al telefono, con me, con chiunque.
- Sei venuto? - lo guardo malissimo – Piantala di fare la verginella, sei venuto o no?
- Cristo. Sì, sono venuto.
- Sesso rabbioso. Punto.
- E a lei non ci pensi?
- Lei non è venuta?
- Non lo so, per la miseria. Non gliel'ho mica chiesto, che credi?
- Ah no? Io lo chiedo sempre, dopo che ho scopato.
- Scherzi?
- No, perché?
- Lo trovo un gesto estremamente premuroso.
- Lo è. Per questo mi sembra strano che tu lo faccia.
- Succhia.
Un cliente si avvicina e chiede una cannuccia, Massi gliene a un paio.
- Non si può fumare, qui dentro – dice, il cliente.
- Sì, fammi arrestare, allora. Aria – dice, agitando una mano, come se dovesse scacciare una mosca.
Il cliente se ne va, borbottando qualche insulto e si siede al tavolino.
- Un giorno troverai qualcuno che ti riempirà di botte – dico.
- Paura.
- Dovrei chiamarla e scusarmi.
- No, per niente.
- Per niente?
- No. Io andrei da lei e le darei una seconda razione.
Faccio per rispondergli quando la porta si apre e Luna fa il suo ingresso. Indossa una minigonna nera e una camicetta rossa annodata in vita; è molto carina e alcuni clienti la sbirciano discretamente, al suo aggio.
- Ciao – dice, avvicinandosi.
- Ciao, splendore – risponde il mio amico.
Faccio un cenno di saluto con il capo e lei si poggia sulle braccia, sporgendosi in avanti e scambiandosi un bacio con Massi.
- Come va? - mi chiede, poi.
- È un periodo pieno – rispondo, diplomaticamente.
- Ha fatto sesso rabbioso per la prima volta ed è tutto sottosopra – dice l'altro.
- Non sono sottosopra.
- È agitato come un verginello che ha visto la sua prima tetta.
- La vuoi piantare?
Luna ride e il mio amico le dà un bicchiere di Coca Cola dal quale lei prende subito una lunga sorsata. Una giovane coppia entra nel locale e si avvicina al banco, io e lei ci spostiamo di lato e osserviamo Massi prendere l'ordine.
- L'hai mai visto all'opera con i clienti? - chiedo.
- Sì, una volta. È incredibile che questo posto non sia fallito – ride.
- O che qualcuno non ci abbia dato fuoco con lui dentro.
- Anche.
Le porgo il cartoccio di patatine e lei ne prende una, ringraziando.
- Allora, cos'è questa storia del sesso rabbioso? - chiede, prima di metterla in
bocca.
Rimango in un silenzio imbarazzato per qualche secondo, poi le racconto dell'accaduto con Carlotta. Lei mi ascolta con attenzione e alla fine sorseggia dal bicchiere, pensierosa.
- Lo so. Sono una merda.
- Eh. Magari non proprio, però quasi.
- Ecco.
- Per una ragazza non è mai bello capire di essere il surrogato di qualcun altra.
- Non era il surrogato di Adriana.
- Non era comunque lei, quella a cui stavi pensando.
- No, non era lei.
- E comunque non stavi neanche scopando, ti stavi vendicando. Dio solo sa di cosa, tra l'altro.
- Be' il tizio al telefono...
- Certo, immagino che lui sarebbe sconvolto di sapere che tu stai scopando un'altra, mentre si fa la tua ex.
Faccio una smorfia come se mi avessero tirato un calcio nelle palle, ma non posso negare che abbia ragione, tutto sommato.
- Prima o poi esploderò – dico.
- Meglio prima che poi. Più ti tieni dentro le cose, peggio sarà l'esplosione, credimi.
- Tu cosa faresti?
- In che senso?
- Non lo so. Sei mai stata piantata all'improvviso e non sapevi cosa fare?
- Credo che nessuno sappia cosa fare. Credo che tutti debbano rassegnarsi ad accettare l'idea che l'amore non c'è più, da parte dell'altro.
- E poi?
- E poi niente. Ci si rifà una vita.
- Sei molto ottimista.
- È vero, lo sono – concede, annuendo.
- Sai cos'è la cosa buffa?
- Sentiamo.
- Che non riesco a non pensare a lei e a non stare male perché se n'è andata e a non essere geloso se un estraneo risponde al suo telefono e, nel frattempo, ho fatto sesso con tre ragazze diverse.
- Stai recuperando il tempo perduto, eh?
- Parrebbe.
- E com'è?
- Cosa?
- Il sesso con le tre ragazze, com'è? Bello?
- Non conosco del sesso che non lo è.
- Allora sei più fortunato di me.
Vado a buttare il cartoccio delle patatine e la raggiungo al bancone, Massi a per prendere una confezione di insalata dal frigo e le dà un bacio.
- E con lui? Come vanno le cose? - lo indico con un cenno.
- Direi bene. Per il momento ci si diverte.
- Sono sorpreso.
- Da cosa?
- Che vi vediate ancora.
Luna non risponde e studia Massi con lo sguardo, poi dà una scrollata di spalle.
- Meglio non pensarci – dice.
Il mio amico ci raggiunge e le offre un dolce che lei accetta con un grazioso sorriso. Rimango a guardare lui che fa un gesto così, quando, di solito, quello che gli serve per dimenticarsi di una ragazza è semplicemente farsi una doccia. Luna da un morso al dolce e i due parlottano di niente, di cose comuni a tutte le coppie che cominciano a frequentarsi, di stupidaggini che – in quel magnifico momento in cui è tutto nuovo – sembrano meravigliose e divertentissime. Cerco di ricordare se era così anche per me e Adriana, ma non ricordo, è ato troppo tempo. Era sicuramente così, ma non saprei dire, di preciso, cos'è che mi affascinasse così tanto, di lei. Probabilmente il suo sguardo curioso sul mondo, il suo desiderio di scoprire sempre cose nuove, di farle sue, di assimilare esperienze anche radicalmente diverse le une dalle altre. Sono convinto che cerchiamo, nell'altra persona, quello che crediamo di avere perso, nella nostra vita e in noi stessi. E trovandolo in un altro, riscopriamo quanto ci è mancato, quanto desideriamo riaverlo, quanto eravamo incompleti, senza. Non ho mai creduto che Adriana fosse quel genere di persona, di quelle che ti regala qualcosa di sopito. Negli ultimi anni mi sentivo molto come il papà che bada alla figlia fragile e innocente, come il capitano che tiene il timone dell'imbarcazione in tutte le situazioni, sia sotto la tempesta che nelle giornate assolate. Ma ora mi rendo conto che la sua costante ricerca di qualcosa di nuovo era diventata parte di me e che il suo trovare sempre nuove esperienze metteva a contatto anche me, con esse, e le rendeva mie. Adriana ha probabilmente molti problemi, ma sono abbastanza sicuro che non abbia mai vissuto un solo giorno pentendosi di non averlo, in qualche modo, vissuto a pieno. Io, spesso e volentieri, ho difficoltà a ricordarmi, la sera stessa, quello che ho fatto la mattina
- Andiamo a berci una cosa?
La voce di Massi mi strappa dai miei pensieri e mi accorgo che hanno smesso di
parlare e mi fissano.
- Sì. Certo. Perché no? - rispondo, istintivamente.
- Tesoro – dice, rivolto a Luna, - perché non inviti qualche tua amica?
- No, no. Siamo a posto così, davvero – intervengo.
- Invita una delle tue – mi suggerisce lei.
- “Una delle tue” - ripete Massi, con un sorriso che gli illumina il volto. - Ma sentilo, sembri uno sceicco con il suo harem.
- Sì, OK. Grazie per questo intervento pieno di arguzia, tesoro – dice Luna, carezzandogli una guancia.
- Io non saprei chi portare, giuro – dico.
- Quella del sesso rabbioso. Dopo un'incazzatura c'è sempre del sesso riappacificatore – dice il mio amico, sollevando il pollice, in gesto di approvazione.
- Forse Carlotta è meglio se la lascio stare, per oggi – rispondo, ignorandolo.
- Porta quella delle parolacce, come si chiama? - chiede lei.
- Cora.
- Dai.
- No. Non posso. Ho il timore di lei che incontra Massi, non so cosa potrebbe succedere – dico.
- Io sarei curioso. Credo che erei la serata a infilare parolacce nelle frasi, per vedere le sue espressioni – spiega il mio amico. - “Ehi Cora, ti va un po' di Coca Cola del cazzo?”. Oppure “Uh, guarda questo hamburger che espressione da troia”.
- Senti, non hai dei clienti da maltrattare? - chiedo, spazientito.
Il mio amico scrolla le spalle e raggiunge la friggitrice, dove immerge delle patatine nell'olio. Luna lo segue con sguardo amorevole e sorridente.
- È come un bambino che ha imparato a dire la parolacce – conclude.
- Sì. E in più che ha anche sniffato la cocaina della madre.
Lei ride e mi carezza un braccio.
- Non sei costretto a portare nessuno, sai?
- Lo so.
- Ti dico di più: probabilmente ti farebbe bene uscire, per una sera, senza doverti stare a preoccupare di qualcun altro. Pensa solo a te, bevi, rilassati, divertiti, stai con gli amici.
- Sì, l'idea mi piace.
- Ho preparato delle patatine che sono una cosa molto fica – dice Massi, una volta tornato.
- Sei un imbecille – gli dico.
- Ed è per questo che mi vuoi bene – risponde, tutto orgoglioso.
Non posso ribattere. Ha ragione lui.
Massi abbassa la serranda e andiamo a bere una cosa, in un piccolo pub vicino a casa sua. Il posto ha della ottima musica – rock e pop anni '70, '80 e '90, - le casse non la vomitano fuori a un volume che ti rende impossibile capire quello che ti dice la persona davanti a te, le luci danno al posto un'atmosfera intima, ma non sono così basse da farti venire sonno e la birra è buona. Cerco di rilassarmi e Adriana riesce a stare fuori dalla mia testa persino per una mezz'ora intera. Osservo silenziosamente il mio amico e Luna che ridono e scherzano e lui, strano a dirsi, sembra essere tornato quello di qualche anno fa, quando ancora credeva nell'amore e nelle relazioni impegnative. A fine serata ci salutiamo e rifiuto cortesemente l'invito di Massi a dormire sul suo divano, terrorizzato dal sentirlo urlare mentre fa sesso, e guido lentamente verso casa. La radio butta fuori una ballata di Bob Dylan, mi godo la sua voce nasale che canta Lay lady lay e guardo il poco traffico che ancora è presente nelle strade. Chissà dove vanno tutti, a quell'ora, chissà quanti di loro hanno qualcuno che li aspetta, a casa. Sono quasi arrivato da me, quando suona il cellulare.
- Pronto? - rispondo, sperando che non ci siano vigili, nelle vicinanze.
- Ehi – la voce di Sandra mi accoglie, dall'altra parte.
- Ehi ciao. Come va?
- Mh. Insonne.
- Oh mi spiace. E come mai?
- Pensieri brutti.
- Che pensieri? Vuoi parlarne?
- Non tanto, sinceramente.
- OK. Di cosa vuoi parlare?
- Dove sei?
- Sto per arrivare a casa.
- Ti va se ci vediamo?
Lancio un'occhiata all'orologio sul quadrante dell'auto: mi risponde, impietoso, che sono le due ate.
- Be' sì, certo – il pensiero delle mie condizioni, domani, all'arrivo di mia madre, mi atterrisce.
- Posso venire da te?
- Sì, immagino di sì. Devi scusarmi, ma casa mia è un po' in disordine.
- Ci erò sopra, non ti preoccupare.
- OK.
- Devo confessarti una cosa.
- Che cosa?
- Sono già sotto casa tua.
Mi dice questa frase mentre sto entrando nel piccolo parcheggio che si trova davanti al palazzo dove vivo. Infilo l'auto nel primo buco che trovo e scendo, guardandomi intorno, il cellulare attaccato all'orecchio.
- Sei seria? - chiedo.
- Sì, sono alla fermata dell'autobus.
Mi sposto sull'altro lato del marciapiede e la vedo, lì, seduta, che mi guarda, sorridendo.
- Che ci fai lì? Come sai dove vivo? - continuo a parlare al cellulare, come se fosse la cosa più normale del mondo.
- Ho chiesto a Massi. Colpevole di non farmi i cazzi miei, vostro onore – si alza e, anche lei, continua a parlare dentro al cellulare.
- Già. Colpevole – rispondo.
Ci fermiamo, uno di fronte all'altra, e chiudiamo la conversazione, finalmente.
- Be', allora sali – dico.
Annuisce e le faccio strada. Saliamo le scale lentamente, lei si guarda intorno come se stesse imparando il percorso da fare, sul sentiero di mattoni gialli, e come se studiasse ogni porzione di spazio, pronta a ricostruirlo nella sua mente, ogni volta che ne avrà bisogno. È quando arriviamo davanti alla porta di casa, che il mio cervello decide di giocarmi un brutto scherzo.
Non c'era sole, quel giorno. Era nuvoloso e freddo, di quel freddo che c'è quando sta per nevicare. L'aeroporto di Stansted, vicino a Londra, era pieno, confuso, le voci, gli annunci, il frastuono si mischiavano in un'unica linea disarmonica che rendeva tutto irriconoscibile. Io e Massi eravamo seduti al bar, dopo avere superato il check in e il controllo dei documenti. Era stato il week end, una toccata e fuga per accompagnarlo a una serata in discoteca. Un suo amico, uno che aveva conosciuto durante una delle sue serate da DJ, lo aveva invitato a una serata esclusiva, dove, alla console, si sarebbe esibito DJ Stokazzo o simili. Ignoravo chi fosse, ma Massi mi aveva convinto ad accompagnarlo, così da approfittarne per vedere Londra. Poi le cose non erano andate bene come ci
aspettavamo: l'aereo del venerdì sera era stato cancellato e ci avevano dato i biglietti per uno che partiva il sabato mattina. Quell'aereo aveva accumulato un ritardo di sei ore e, una volta a Londra, tra eggeri furenti e pochissimo tempo per guardarsi in giro, avevamo avuto il tempo di arrivare in hotel, farci una doccia e correre al locale. Sul concerto non c'era molto da dire, in realtà, Massi disse che era stato molto bello. Fino a quando una rissa tra ubriachi e impasticcati non aveva costretto i gestori del locale a interrompere la serata e a mandare tutti a casa, mentre la Polizia piombava sul posto e gli faceva il culo. Questo ci aveva fatto saltare il aggio per l'hotel, poiché l'amico di Massi era rimasto incastrato al club. Dopo aver vagato per zone dall'aspetto inquietante, avevamo beccato una coppietta di ragazzi che si erano offerti di dividere un taxi ed eravamo finalmente andati a dormire. La stanchezza era tale che, al nostro risveglio, avevamo dovuto correre all'aeroporto. Seduto sul treno che partiva da Liverpool Station, mi ero reso conto che avevo visto Londra attraverso i finestrini dei taxi e che la parte che conoscevo meglio era l'aeroporto di Stansted. Seduti al tavolino del bar, sorseggiavamo due birre, in silenzio. Massi era delusissimo, io ero semplicemente esausto. Mancava una ventina di minuti all'imbarco e io mi guardavo intorno, cercando di are il tempo. Fu allora che notai qualcuno, a un tavolo poco distante: erano due adulti e una coppia di bambine. La differenza di età era tale che supposi si trattasse di nonni e nipoti più che di genitori e figli.Le bambine mangiavano patatine fritte, entusiaste e infagottate, nei loro abiti invernali. L'uomo era magro, i capelli grigi, ormai radi, erano pettinati all'indietro e aveva un paio di baffetti curatissimi che, ne ero sicuro, dovevano essere il suo orgoglio. La signora era vestita elegantemente e portava dei gioielli lucidi e vistosi. Il viso era truccato, forse un po' troppo e il rossetto era di tonalità troppo accesa. I due dovevano avere almeno settanta anni a testa, portati bene, ma comunque avevano la loro età. L'uomo le teneva la mano e si scambiavano uno sguardo di amore così profondo che mi ritrovai commosso. E ricordo che un solo pensiero mi attraversò la mente, in quel momento. Diedi di gomito a Massi e gli indicai i due signori.
- Io e Adriana finiremo così – gli dissi.
Lui grugnì e poggiò nuovamente la fronte sul braccio. Lo ignorai e continuai a godermi la scena.
Quando vengo afferro Sandra per i capelli e la tiro verso di me, il mio pene le arriva quasi fino in gola, le sue unghie affondano nella mia coscia facendomi un male cane, ma non lascio la presa. L'orgasmo è fortissimo, continua ancora un pezzo, dopo che ho finito di versare sperma nella sua gola, e non la lascio, ma la tengo incollata a me. Poi, lentamente, man mano che scemano le sensazioni di piacere, rimane il dolore alla gamba e lascio la presa sui suoi capelli, lentamente. Le spalle tese si rilassano e rimango poggiato al muro, ansimante, con gli occhi socchiusi. Sandra si a il dorso della mano sulle labbra e mi lancia un'occhiata, sorridente.
- Direi che è andata bene, eh?
Annuisco e le carezzo una guancia.
- Sì. Scusa. Oggi sono un po' violento, mi sa.
- Ehi, va bene, un po' di violenza non mi dispiace – sorride e mi fa la linguaccia.
Mi tiro su i pantaloni, mentre lei si siede sul divano e fruga nella borsetta.
- Ti spiace se fumo?
- No, prego, fai pure. Vuoi bere qualcosa?
- Qualsiasi cosa di fresco va benissimo.
Sparisco in cucina e faccio ritorno con due lattine di birra e un bicchiere di plastica con un dito acqua, da usare come posacenere. Mi siedo accanto a lei e bevo la mia birra in silenzio, lei fa lo stesso, alternando le sorsate a dei tiri alla sigaretta. Dopo qualche minuto io ho allungato i piedi sul tavolo e lei si è stesa sul divano, poggiando la sua schiena contro il mio fianco sinistro. Guarda il soffitto, pensierosa, e io mi limito a chiudere gli occhi e a pensare che ci sono tante cose che succedono, ultimamente, nella mia vita, e che io sembro sempre lo spettatore che le guarda succedere, senza intervenire mai, nonostante ne abbia tutto il diritto.
- Mi piace succhiarti il cazzo – dice, all'improvviso.
Sobbalzo e apro un occhio. Sandra è sempre nella stessa posizione e sta massaggiandosi un occhio con il dorso della mano.
- Sì?
- Sì. Hai un bel cazzo e mi piace il tuo sapore.
- Grazie – dico, indeciso su quale sia il commento più adeguato.
- I cazzi si assomigliano quasi tutti, alla fine, sai? Sì, certo, sono corti, lunghi, stretti, curvi a destra o a sinistra, ma sono sempre cazzi. Hanno due palle, un'asta e una cappella. Puoi essere una che con la lingua ci annoda i piccioli delle
ciliege, ma alla fin fine il campo di manovra è sempre quello.
- Troppe informazioni – dico.
- E alla fine pensi solo “vediamo un po' a questo cosa piace e arriviamo in fondo”. Gli piace che glielo morda un po'? Glielo mordo un po'. Gli piace che gli lecchi le palle? Gliele lecco.
- Leghi l'asino dove vuole il padrone. Mi pare giusto.
Lei ride e si accende un'altra sigaretta.
- Però poi ci sono quei cazzi che mi piacciono. Non è questione di pulizia o di odore. Non solo, almeno. Conta, eh? Nessuno vuole fare un pompino a un cazzo che puzza, sia chiaro.
- Per carità.
- Però ci sono cazzi che ti fa piacere succhiare. Perché appartengono a persone che hai piacere di spompinare. E allora non ti dici “arriviamo in fondo”, ti dici “goditela”. Lo succhi e ci metti tutta la ione e ti prendi il tuo tempo e ti dai da fare, perché vuoi che sia un cazzo felice. Un cazzo felice vuol dire che è felice anche il suo proprietario e allora sei felice anche tu.
- Praticamente mi identifichi dal mio pene?
- Oh sì. Puoi giurarci. Quello non mente, sai? Gli occhi sì, le mani, l'inclinazione della testa e tutte quelle puttanate che ti raccontano nei film polizieschi. Ma un cazzo è duro quando sei eccitato e si restringe quando hai paura. Non c'è una via di mezzo.
- Piccola spia.
Ride ancora ed espira il fumo, guardandolo arrotolarsi per aria, giocando con le correnti.
- Mi piace succhiarti il cazzo, Alessandro. Direi che potrei farlo ancora e ancora e ancora.
- E ancora?
- E ancora.
Non dico niente, perché non so bene come interpretare il discorso.
- Quindi è come dire che stai ponderando di fare del mio cazzo il tuo unico oggetto di pompini?
- Potrebbe essere.
- Perché attualmente non...
- No, certo che no.
- Infatti.
- Del resto anche tu non è che ti mantieni puro per me, no?
- Be' ecco...
- Il tuo cazzo sapeva di scopata.
- Sì, decisamente probabile.
- Appunto. Ma va bene, eh? - sorride e si solleva sui gomiti, baciandomi velocemente. - Per ora va bene, stai tranquillo.
Non dico altro, lei scivola in basso e poggia la testa sulle mie ginocchia, io le carezzo i capelli.
- Che brutti pensieri avevi, stasera? - chiedo.
- Oh. Campo minato – sorride.
- Sì.
- Pensieri brutti. Ricordi brutti, più che altro.
- Di cosa?
- Del mio ex. Quello che mi ha insegnato a tenere pulita la macchina, ti ricordi?
- Mi ricordo, sì. L'ultimo con cui hai fatto sesso, giusto?
- Lui.
- Ti ha lasciato lui?
- Mh. Sì.
- E ci sei stata male?
- Molto.
Non aggiungo altro, perché già questo dialogo mi pare miracoloso, come se avesse, per un attimo, aperto l'armatura e permesso di guardarci oltre. E alla fin fine capisci che è una persona spaventata come tutti e che ha la sua fetta di cicatrici come chiunque altro.
- Se vorrai parlarne – mi limito a dire, - io sono qui.
Annuisce e chiude gli occhi.
- Posso chiederti un favore?
- Dimmi pure.
- Posso dormire qui da te?
Ci penso per un attimo, perché il letto mio e di Adriana è mio e di Adriana. Nessuno ci ha mai dormito dentro, a parte noi. Ma forse è tempo di cominciare a fare piccoli i nella strada che vede solo me, come viandante, perché Adriana ne ha seguito un'altra.
- Certo, sì.
- Grazie. Domattina ti sveglio con un pompino, in cambio.
- Non c'è bisogno – le dico, sorridendo.
Lei non dice niente e rimaniamo ancora sul divano, in silenzio. Dopo pochi minuti la sento respirare in maniera regolare, ormai scivolata nel sonno.
13
Il giorno dopo sono in stazione e aspetto mia madre. Mi guardo in giro, perché non so cosa aspettarmi, giuro, da un momento all'altro potrebbe sbucare fuori dal nulla. Una volta sono andata a prenderla e non è scesa dal treno e ho scoperto che all'ultimo aveva preso una coincidenza per Udine, come se ci fosse un motivo per cui vale la pena di andare a Udine. Un'altra volta la trovai direttamente nella hall della stazione, intenta a comprare nelle macchine automatiche un biglietto per Macerata; era arrivata con il treno prima e già voleva ripartire senza neanche avermi visto. Se non fosse mia madre, avrei chiesto già da tempo una perizia psichiatrica. Il tizio con cui si vede adesso non l'ho conosciuto, ma di certo, per reggere una relazione con lei, il suo lato privo di ogni controllo deve piacergli o sarebbe la fine. Nel mio stare con una persona chiaramente problematica, non ho mai sofferto della paura che potesse andare tutto all'aria. Adriana era sì disturbata, ma erano disturbi precisi, metodici e che non lasciavano spazio alle sorprese. Sapevo che non dovevo darle il sedano in gambi interi e che, se possibile, dovevo evitare di farle scegliere qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non avevo mai temuto che potesse farmi trovare un coniglio che bolle in pentola o che mi potesse riempire il muro di frasi scritte al contrario. Non era da lei. I suoi problemi erano precisi, classificabili e prevedibili. Il che non spiega perché ora sono solo, certo.Sento il mio nome attraversare l'aria e, quando mi volto, vedo mia madre avvicinarsi, sventolando una mano alzata. Indossa una lunga maglia e un'ampia gonna beige, un po' da figlia dei fiori. Trascina con sé un trolley, il che mi fa capire che sarà mia ospite a lungo. O forse no. Magari dentro ci tiene cuscini e provviste. Per quanto sappia di non potere abbassare la guardia, sono felice di rivederla. Le vado incontro e la abbraccio, abbastanza a lungo da farle capire che sono più che semplicemente felice. Lei ride e si dondola, come se mi volesse cullare, dandomi dei baci sulla tempia.
- Come sta il mio ragazzo? - chiede.
- Bene, più o meno. Hai fatto buon viaggio?
Prendo la sua valigia e la accompagno fuori dalla stazione, sorride e gli occhi si illuminano di quella strana energia giovanile di cui è pervasa, che un po' contrasta con i suoi capelli argentati.
- Tutto benissimo. Ho chiacchierato tutto il tempo con un simpatico giovanotto con i dreadlocks che stava tornando a casa.
- Ah sì?
- Sì, un ragazzo in gamba, sta tornando a casa dopo cinque anni.
- Viaggio di lavoro?
- No, era in carcere per omicidio. Un bravo ragazzo.
La osservo, perplesso, ma non chiedo altro, limitandomi a immaginare di cosa possono avere parlato mia mamma e un ex carcerato per omicidio, in un viaggio che deve essere durato almeno un paio d'ore.
- Non gli hai detto dove vivo, vero? - chiedo, un po' preoccupato.
- No. Del resto non lo so neanche io, dove vivi, no?
- No, perché non ti sei mai degnata di farmi visita.
- Be' non mi ricordo di tuoi inviti.
- Come no? Ti ho invitato di continuo – protesto.
- Non so. Non mi sembra, del resto se mi avessi invitato perché non sono venuta?
- Non lo so, dovresti spiegarmelo tu semmai.
- Ma io non saprei spiegartelo. Il che, figlio mio, direi che ci conduce all'ovvia conclusione che non mi hai mai invitata.
Arriviamo al parcheggio e decido di sfogare la mia frustrazione girando la chiave nella toppa dell'auto con più forza del dovuto.
- Come vuoi.
- E poi se fossi venuta da te ti avrei sicuramente regalato qualcosa di carino per casa.
- Immagino di sì – dico, avviando la macchina e mettendomi in marcia.
- Hai qualcosa di carino, in casa, che ti ho regalato?
- No.
- Quindi non sono mai stata da te.
- È quello che sto dicendo, mamma!
- E allora lo vedi che siamo d'accordo?
- Senti, per favore, cambiamo discorso, ti dispiace?
- Certo, figlio mio, come preferisci. Non innervosirti, c'è un sole così bello.
- Sì. Il sole. È bellissimo, è vero – sospiro e fermo il mezzo davanti a un semaforo. - Ti dovrei dire una cosa.
- Ti ascolto.
- Si tratta della mia ragazza.
- Ecco! È la tua ragazza! - esclama, battendo una mano sul cruscotto. Per una frazione di secondo mi ritrovo a desiderare che l'airbag salti fuori, stordendola – È per colpa sua che non sono mai venuto a casa da te! Non mi voleva invitare!
- Cristo santo. Mamma, no, non è la mia ragazza.
- Ma se lo hai appena detto tu?
- Non ho detto che è la mia ragazza.
- Sì, invece. Mi hai appena detto “si tratta della mia ragazza”. Figlio mio, devi farti vedere da un medico, perché cominci anche a dimenticarti le cose da un minuto all'altro.
- Non intendevo questo! Non intendevo che non voleva invitarti! Nessuno si è mai rifiutato di invitarti da nessuna parte! Intendevo che quello di cui ti voglio parlare è legato alla mia ragazza!
- Oh – è delusa.
- Comunque, stavamo parlando della mia ragazza.
- Sì. Che non si è mai rifiutata di invitarmi a casa tua.
- No.
- E che non ha problemi a ospitarmi
- No – sospiro rumorosamente.
- OK. Era per accertarmi di avere capito.
- Adriana, la mia ragazza, mi ha lasciato.
Mia madre non dice niente, io ingrano la terza e svolto.
- Be'? - chiedo.
- Cosa?
- Non hai niente da dire?
- Su che cosa?
- Su Adriana che mi ha lasciato.
- Non molto, in effetti.
Le nocche delle mie mani diventano bianche, mentre stringo il volante. Mia madre guarda fuori dal finestrino e indica un'officina meccanica.
- Lì, una volta, c'era un ristorante giapponese, vero?
- Sì – mento.
- Ricordo che mi ci portavi.
- Infatti – a me la cucina giapponese fa vomitare.
Parcheggio sotto casa e lei mi racconta della sua vita, del suo lavoro e del suo nuovo amore. Sembra perfettamente normale, mentre mi snocciola progetti e aneddoti, non saprei neanche dire come sia possibile che, da pochi minuti prima, non si ricordi che l'unica donna che ho amato, nella mia vita, mi ha lasciato. Entriamo nel mio appartamento e le faccio segno di mettersi comoda, mentre lei si guarda intorno e sorride; non capisco se le piace o meno il posto. Improvvisamente si mette in mezzo al salotto, le mani poggiate sui fianchi e mi
guarda, la bocca storta in un'espressione un po' imbronciata.
- Cosa? - chiedo.
- Dov'è Adriana?
Per un attimo rimango immobile, chiedendomi se mi sta prendendo in giro, ma capisco subito, dal suo sguardo, che no, che è serissima.
- Mamma, ti ricordi di chi abbiamo parlato, prima, in macchina?
- Del fatto che non mi hai mai invitata a venire da te?
- Dopo.
- Mi hai detto che la tua ragazza ti ha lasciato...
Non dico niente e lascio che il pensiero si faccia largo, nella sua testa. Improvvisamente si porta le mani alla bocca e sbarra gli occhi.
- Oh mio Dio!
Mi sento un po' meschino, ma sono contento che finalmente abbia capito qualcosa di quello che le racconto. Lei mi raggiunge, le braccia spalancate, e mi abbraccia, tenendomi stretto a sé.
- Mi dispiace tanto, piccolo.
Non dico niente perché, in fondo, un abbraccio e un “mi dispiace tanto” sono le uniche cose di cui sentivo il bisogno, da parte sua. Le racconto un po' quello che è successo, mentre lei prepara il pranzo. È incredibile come sia a suo agio e padrona della mia cucina, mentre io sembro sempre goffo e fuori posto. Si muove agilmente tra pensili e fornelli, usa quello che serve quando serve e la cucina, nonostante il suo darsi da fare, sembra comunque in ordine. Di norma, quando ho finito io, resta qualcosa di simile a un incrocio tra delle macerie e i rimasugli di un incidente ferroviario. Mia madre mi ascolta, fa commenti adatti a quello che sto raccontando, e ogni tanto lancia delle occhiate. Occhiate preoccupate, occhiate comprensive, occhiate dispiaciute.
- Tu come stai? - chiede, alla fine, mentre siamo seduti a tavola e sto mangiando il suo pollo ai peperoni.
- Non lo so.
- Non lo so non è una risposta valida.
- Temo che sia l'unica risposta che posso dare.
- Ti manca?
- Da morire.
- La rivorresti indietro?
- Certo che sì.
- E perché non te la vai a riprendere?
- Non lo so. Forse perché mi ha lasciato?
- E ti basta questo?
Bevo un sorso di vino, sorridendo, prima di guardarla dritta negli occhi.
- Tu avresti ripreso papà, se fosse venuto da te?
La forchetta che stava portando alla bocca rimane sospesa a mezz'aria e lei mi fissa come se l'avessi schiaffeggiata.
- Scusa – dico, - ma sei l'unica persona che conosco, a cui posso fare una domanda del genere.
Mi accorgo che io e lei non abbiamo mai parlato della fine del matrimonio e che ho sempre avuto paura di chiederle perché avesse lasciato papà.
- No. Non lo avrei rivoluto.
- Ecco.
- Ma non vuole dire niente, no? Non siamo tutti uguali, giusto?
- Giusto.
- E poi, sai, tuo padre e io non abbiamo mai avuto veramente molto da dirci, in fondo.
- Sì, ecco, non penso di essere in grado di stare a sentire questo discorso.
- E per quale motivo? - è sorpresa.
- Perché è comunque mio padre e gli voglio bene e se non avevate niente da dirvi, questo non spiega me o il fatto che avete vissuto insieme per anni. Molti
anni – preciso.
- Siamo figli di un'altra generazione, Ale. Siamo stati educati che il matrimonio viene prima di tutto, che non può rompersi alla prima frattura. Non si può rompere neanche alla centesima, se per quello. Una volta sposati si preferiva andare avanti ignorandosi, piuttosto che affrontare l'umiliazione di una separazione.
- Posso immaginare.
- Ci mancava solo la lettera scarlatta e il panorama è completo.
- Ma tu l'hai affrontata. L'umiliazione, dico.
- Sì. E l'ho fatto perché non eravamo felici e io volevo esserlo. E mi dispiace, so che tuo padre era molto innamorato, nonostante tutto, e che ci ha messo anni, a riprendersi.
- Se si è mai ripreso.
- Già. Ma vivere nell'infelicità non sarebbe stato molto meglio, credo, e io ora sto bene.
- Sì?
- Molto – sorride.
Annuisco.
- Buon per te. Mi fa piacere.
- Lo sarai anche tu.
- Sì.
- Ricorda una cosa: giuste o sbagliate che siano, le motivazioni per cui qualcuno lascia qualcun altro sono sempre valide. Anche le più stupide o insignificanti ai nostri occhi, possono non esserlo per chi fa il o.
- Non concordo. Non puoi lasciare una persona perché non ha mai visto La mia Africa o perché non sa ballare il foxtrot.
- Certo che puoi farlo. Se cinema e balli sono importanti per te, tanto importanti che vederteli negati ti rendono infelice, puoi farlo. Poi, magari, un giorno ti accorgerai che una coppia è altro che balletti e cinema e magari ti pentirai, ma del resto si impara anche tramite gli errori, no?
Sospiro e metto giù la forchetta.
- Come sta l'Architetto?
- Sta bene. Ha avuto qualche acciacco di stagione, ma ora è in via di miglioramento – risponde, sorridendo sinceramente.
- Mi fa piacere.
- Sì, ha dovuto fare delle cure, sai? Siamo stati alle terme e ha dovuto tenere sotto controllo la pressione.
- Mi pare tutto normale.
- Ah sì e poi abbiamo scoperto il Viagra e lasciati dire che è una bomba.
La fisso, allibito.
- Davvero. Lo so che non è più giovane come un tempo e non può permettersi certi ritmi o un certo tipo di prestazione. E allora prende una mezza pastiglia poco prima di cominciare ed è bello in forma, come piace a me.
- Io non ci posso credere – dico.
- Giuro. Dovresti provarlo, anche se mi pare strano che alla tua età ne abbia bisogno, ma può capitare, non ti devi preoccupare. A volte è solo una defaillance momentanea, eh? E poi la penetrazione non è tutto, figlio mio, bisogna anche sapere leccare bene. Tu come te la cavi? Hai bisogno di qualche consiglio?
Mi alzo dalla tavola e mi vado a chiudere in bagno, senza dire una parola.
- Dove vai? - chiede lei.
Il pomeriggio vado all'appuntamento con Sabrina. La trovo seduta su una panchina del parco, intenta a leggere una rivista di cinema.
- Ciao – saluto, prendendo posto accanto a lei.
- Quel figlio di troia non risponde alle mie chiamate, ti rendi conto? Pezzo di merda.
- Ciao, Alessandro. Stai bene? Che mi racconti? Come va la vita? Posso offrirti un caffè, visto che sei così carino da essere qui a tenermi la mano in un momento per me molto difficile? - dico, usando una vocina stridula.
Lei mi guarda, le sopracciglia inarcate.
- Sei impazzito?
Non rispondo e mi limito a fissarla.
- Ciao – dice, alla fine.
- Ciao a te – dico, levandomi il giubbotto.
- Quel pezzo...
- Sì, sì, non ti risponde. Lo hai appena detto, ti ho sentita. E comunque ti ho già fatto presente che probabilmente non lo sentirai mai più. Se poi dovesse venire a sapere che sei incinta...
- Non sono incinta, stronzo! - esclama, dandomi un pugno sulla spalla che mi fa incredibilmente male.
- Ahio! Ho detto “se”!
- Non dirlo neanche per scherzo, Cristo! Se rimango fregata non so dove potrei andare a nascondermi.
- Va bene. Facciamo finta, per un attimo, per pura ipotesi, che fossi incinta.
- Vaffanculo.
- I tuoi genitori dove sono? - chiedo.
- L'ultima volta che li ho visti erano al lotto 14/bis del cimitero di Padova. Se non li hanno spostati sono ancora lì.
- OK, messaggio recepito. Fratelli o sorelle?
- Mio fratello lavora in un'assicurazione, è sposato con due figli, la moglie fa l'insegnante e mi odia.
- Non riesco a capire il motivo, guarda.
- Perché è una bigotta del cazzo e se una non pensa a sposarsi e a sfornare figli del cazzo per lei è una troia o una poco di buona.
- Ero sarcastico.
- Ah.
Sospiro e mi o una mano sugli occhi: il giardino è decisamente frequentato, vicino alla fontana ci sono piccioni che saltellano davanti a dei bambini che
stanno sbriciolando dei biscotti, per dare loro da mangiare. Poco lontano le madri dei ragazzi chiacchierano, senza perdere di vista i figli ecologisti. In cielo il sole filtra tra le nuvole e si sta bene. Un tempo sarei uscito a fare due i con Adriana e a prendere un gelato. Oggi faccio test di gravidanza per figli non miei.
- Cosa pensi di fare, nel caso? - chiedo.
- Non c'è nessun caso del cazzo.
- Mettiamo che ci sia.
Mi guarda, smarrita, come se l'ipotesi non le avesse mai sfiorato il cervello.
- Non lo so. Cosa dovrei fare? Tenerlo?
- Perché lo chiedi a me? Non sono io, il padre.
- Il padre del cazzo non mi risponde, al telefono.
- No, se ne guarda bene – confermo.
- Non lo so. Non posso permettermelo. Non ho abbastanza soldi, in banca, per tirare su un figlio.
- Immagino. Che lavoro fai?
- Lavoro?
- Sì. Lavori? O ti pagano un tanto a parolaccia?
Mi fissa interdetta, poi un lieve sorriso le compare sulle labbra.
- Faccio la segretaria in uno studio notarile.
Sono incredulo e la cosa deve trasparire, perché lei si corruccia.
- Insinui che non sono abbastanza intelligente da fare la segretaria in un fottuto studio del cazzo?
- No, no. È che le segretarie che conosco io, di solito, sono più amichevoli.
- In che modo?
- Intanto non chiamando il proprio posto di lavoro “fottuto studio del cazzo”.
- Fottiti.
- Hai preso delle ferie?
- Sono in aspettativa, mi hanno dato un anno.
- Come mai?
Sospira e scosta i capelli lunghi, posandoli delicatamente dietro l'orecchio. Capisco che non saprò altro, per oggi.
- Come vuoi fare? - chiedo.
Infila una mano in tasca e tira fuori un piccolo sacchetto di carta bianca, porgendomelo. Ci sbircio dentro e c'è la confezione di un test per gravidanza; la apro e prendo le istruzioni, dandoci un'occhiata veloce.
- Mentre ti aspettavo ho fatto un giro e in fondo a quel sentiero ci sono dei cessi pubblici. Entro lì e faccio quello che devo fare, poi ci sediamo e aspettiamo. Ho messo la gonna apposta.
- Va bene. Vogliamo andare?
- Sì, credo di sì. Sei pronto?
- Io sì, ma la mia parte non è tanto impegnativa.
- Io devo solo pisciare su quel coso.
- Sì e aspettare i risultati.
- Cazzo, sì. Cazzo.
- Andiamo.
Seguiamo il sentiero. Fa parte di un percorso della salute che una volta o due ho usato anche io, nei miei deliri da uomo che cerca di rimettersi in forma. Superiamo le sbarre per fare piegamenti e ci avviciniamo a una cabina metallica coperta di graffiti e di scritte. Sabrina infila una moneta nella fessura e la porta si apre, mi guarda chiaramente spaventata, mentre le porgo i due tubi del test.
- Falla su entrambi, va. Giusto per essere sicuri.
- Va bene.
Non dice niente e rimane sulla soglia.
- Ti aspetto qui – la rassicuro, poi vado a sedermi sulla panchina.
Rimango in attesa e mi chiedo come mi sentirei io, se fossi al suo posto. Per motivazioni che mi sfuggono sono già abbastanza nervoso, in questo momento, posso solo immaginare che, se il test mi riguardasse direttamente, sarei paranoico e vittima dei peggiori pensieri.Non c'è niente di male nei bambini e sono certo che prima o poi vorrò anche io dei figli miei, ma una gravidanza non gradita è una cosa decisamente diversa da due genitori che si tengono la mano, trepidanti, mentre aspettano di capire se lei è rimasta incinta.La porta del bagno si riapre e Sabrina ne riemerge, con in mano il sacchetto di carta bianca, venendosi a sedere accanto a me. Non dice niente, si limita a fissare davanti a sé e io decido di non interrompere i suoi pensieri, limitandomi a giocherellare con la cerniera del giubbotto.
- Non saprei proprio cosa fare, cazzo – dice, all'improvviso.
- Avete usato delle precauzioni? - chiedo.
- Sempre. Quasi sempre, ecco.
- È il “quasi” che ti frega.
- Sì, cazzo, lo so. Ma c'è stata una volta che non avevamo preservativi e abbiamo scopato nella doccia e lui mi è quasi venuto dentro, diceva di averlo tirato fuori
in tempo.
- Magari è vero.
- Cazzo e allora perché sono qui che faccio il test?
- Posso farti una domanda?
- Sì.
- Non c'è nessun altro, giusto? Voglio dire – la interrompo, prima che mi copra di insulti, - non avete una vera e propria relazione, magari siete una coppia aperta o giù di lì.
- Coppia aperta un cazzo, stronzo! Io non mi scopo nessun altro, a parte lui!
- OK. Era per chiedere.
- Ma perché lui scopa con le altre? - mi rivolge un'occhiata indagatrice che mi piace poco
- Non saprei...
- Gli stacco il cazzo e glielo faccio ingoiare, a quel figlio di troia!
- Oh Cristo. Calmati, va bene? Ho solo chiesto per sapere se c'erano altre possibilità, oltre al fatto che il mio direttore sia il padre. Non ci sono, ho capito, scusa.
Respira a fondo un paio di volte e poi si alza in piedi, girando in tondo.
- Non ci posso credere, cazzo. Sai quante amiche ci sono rimaste? Sai quanto le ho cazziate?
- No, ma non fatico a crederci.
- Dicevo che erano delle stupide troie e che dovevano ragionare con la testa e non con la figa e ora sono qui, nella loro stessa situazione.
- Non è detto, dai.
- Vaffanculo – si rimette a sedere e affonda la faccia nelle mani. - Quanto manca?
Sbircio il mio orologio e ormai ci siamo.
- Guardiamo?
Batte le mani sulle cosce, mentre annuisce, poi fa un gesto con la mano, invitandomi ad andare avanti. Apro il sacchetto bianco e tiro fuori uno dei due stick, mostrandoglielo tipo fossimo impegnati in qualche rito che richiede una certa ufficialità. Lei lo fissa e non dice altro, io levo il cappuccio protettivo e poi vedo due linee blu che attraversano lo spazio bianco. Due fottute linee blu del cazzo, direbbe lei. Non emetto un suono, mi limito a prendere la confezione del test e a controllare: è incinta. Metto via lo stick e controllo anche l'altro, facendo un “ciao ciao” mentale alla seconda coppia di linee che fa la sua comparsa. Mi volto a guardarla, lei è pallida e silenziosa, per la prima volta dacché la conosco, tra l'altro.
- Cazzo – sono io, a dirlo.
Lei si alza in piedi e si mette a camminare per il vialetto, la seguo, dopo avere recuperato in fretta e furia tutto quello che avevamo sulla panchina. Cammina in linea retta, tipo zombie, fino a quando non raggiunge un bidone della spazzatura e lo afferra con entrambe le mani.
- Ehi, aspetta.
Le arrivo alle spalle e le metto una mano sulla sua, cercando di tranquillizzarla.
- Possiamo rifarlo, OK? Magari è un errore. Magari, se vuoi, andiamo da un dottore e te ne fa uno serio, non uno da 10 Euro. E se anche fosse, ci sono un
sacco di soluzioni, va bene? Devi solo calmarti un attimo e pensarci a mente sgombra.
Si china in avanti di scatto e vomita dentro il bidone. Io rimango paralizzato perché non so bene cosa fare: faccio un o indietro e o da stronzo insensibile o rimango stolidamente a tenerle la mano, cercando di sopprimere i conati di vomito che mi stanno stroncando? Decido per la seconda, ma è veramente dura non mettermi a vomitare a mia volta. Frugo in tasca e trovo un pacchetto di fazzoletti che deve risalire a quando avevo tredici anni, a giudicare dalle condizioni, ma chi mendica non può pretendere e gliene o uno. Lei annuisce e si pulisce la bocca. Poi vomita di nuovo. Mi complimento con il mio sangue freddo e la mia forza di volontà e rimango ancora fermo, stringendole la mano con più forza, sperando che venga preso come segno di vicinanza e che non capisca che sto lottando contro il mio stomaco. Quando ha finito si rimette a camminare in tondo e poi torna a sedersi sulla panchina, mi vado a sedere accanto a lei e rimaniamo in silenzio a guardare il nulla. Non so cosa dirle. Al suo posto, probabilmente, avrei dato di matto allo stesso modo.
- Merda – sussurra.
Le lacrime le colano sulle guance e, ancora una volta, si portano dietro un po' del suo rimmel, tracciando delle righe nere che arrivano fino al mento. Le metto una mano intorno alla spalla e lei mi abbraccia, lasciandosi andare a un pianto sfrenato. Rimaniamo così per qualche minuto, durante il quale mi ritrovo a pensare a un sacco di cose che non c'entrano niente con la situazione attuale: avrò dato una copia delle chiavi di casa a mia madre? Dove sarà la copia di Adriana? È possibile che il tizio che ha risposto al telefono sia entrato in casa mia, mentre non c'ero? Sarà il caso di cambiare la serratura? Nel frattempo accarezzo meccanicamente la schiena di Sabrina e, quando comincia a calmarsi, le do un bacio sulla guancia.
- Va meglio? - chiedo.
- No, merda. Non va meglio neanche per un cazzo.
- Lo sospettavo.
Si soffia rumorosamente il naso e poi lancia via il fazzoletto, ma vista la situazione riesco a sopprimere il mio lato da ecologista e non le dico nulla. Si asciuga gli occhi e cerca di porre rimedio al disastro, ma non ci riesce: assomiglia ancora a un panda.
- Scusa – dice, dopo un attimo.
- Di niente.
- Ora mi calmo, promesso.
- Fai con calma.
Tira fuori da una tasca un pacchetto di sigarette, con un gesto meccanico, e dopo averlo aperto lo guarda, sorpresa.
- Cazzo – mormora.
Sta per rimettersi a piangere, ma vedo che stringe i denti e si calma, scuotendo la testa più volte. Poi me lo a e io lo faccio sparire in una tasca.
- Neanche una cazzo di birra.
- Già.
- Che merda.
- Un po'.
Le sorrido e lei sorride di rimando, un po' forzatamente. Si sporge in avanti e ci baciamo. Un gesto assolutamente naturale, in una situazione fuori dall'ordinario e al limite della follia. Quando ci stacchiamo mi guarda sorpresa, ma sospetto che non lo sia tanto quanto lo sono io. Ci baciamo ancora e continuiamo a farlo per diverso tempo. Si sposta sulle mie ginocchia e mi abbraccia, graffiandomi la schiena, la attiro a me, sento i suoi seni che mi premono sul petto: non avrei mai detto che fossero così grandi, colpa delle magliette larghe che porta.
- Non ti fermare – mi dice, prima di baciarmi ancora.
- Sicura? - chiedo.
Annuisce e mi morde sul collo, emetto un piccolo gemito di dolore e mi sistemo meglio, infilandole una mano sotto la maglietta. La cosa del seno più grosso dell'apparenza mi ha colpito e voglio ispezionare e capire quanto mi sono sbagliato. Sento i capezzoli sotto le dita e le mie mani la contengono con qualche difficoltà; lei ridacchia come se avesse capito che paio un bambino che parte all'esplorazione del suo primo corpo femminile e, di colpo, si leva la maglietta. Sotto ha un reggiseno nero e un piercing sull'ombelico, un piccolo anello che pende verso il basso.
- Che fai? - chiedo, allarmato.
- Ti aiuto – risponde, sollevando la gonna e mettendosi a cavalcioni su di me.
- Qui? Sei impazzita.
Mi mette un dito sulle labbra, prima di baciarmi ancora, poi si solleva leggermente, mettendomi davanti le sue tette e spingendoci contro la faccia. Le strizzo e ci o sopra la lingua, mentre lei comincia ad armeggiare con i bottoni dei miei pantaloni.
- Non credo sia il caso – dico.
- Perché?
- Perché? Perché siamo in un parco pubblico.
- Qui non ci vede nessuno – risponde, senza smettere di armeggiare.
- Ma potrebbe arrivare qualcuno.
- Lo so, ma tornerà indietro.
Emette un piccolo verso di soddisfazione, quando i jeans si sbottonano e la zip si abbassa rapidamente.
- Ma fai sul serio? - chiedo.
- Sì. Non ti va?
- Sì, certo, ma qui?
Lei si limita a sorridere, mentre si morde il labbro inferiore.
- Oh – riesco solo a dire.
- È eccitante, no?
Non ho il coraggio di dirle che una denuncia per atti osceni in luogo pubblico non ha niente di eccitante, ma lei ha appena scoperto di essere incinta e senza un soldo e io, tutto sommato, ho voglia di fare sesso con lei, quindi metto da parte le remore e annuisco. La aiuto a calare i pantaloni il tanto che basta a permettere al mio pene di sollevarsi, mentre lei lo prende in mano.
- Non vuoi che ci spostiamo nel bagno?
- Scherzi? - chiede – Non hai visto quanto è sporco, lì dentro. Ho paura che mio figlio nasca con due teste, cazzo.
Mi bacia ancora e porta la mia mano tra le sue gambe, è bagnata e io comincio a masturbarla, delicatamente.
- Qui è all'aperto e c'è il sole – mi sussurra nell'orecchio, con un po' di fiatone. E poi c'è il brivido del rischio, la paura di essere scoperti, mi fa bagnare.
Mi a la lingua dal collo fino all'orecchio e si sistema sopra di me, mi posiziona per entrare e si lascia calare, lentamente. C'è un po' di resistenza, ma centimetro dopo centimetro sono dentro di lei, sentendo il mio pene avvolto.
- Uh – mi ricordo, - niente preservativo.
- Sono incinta, Cristo. Di che cazzo hai paura? Di mettermi incinta di nuovo? Scopiamo e smettila di fare il cazzone – risponde, prima di baciarmi.
Comincia a muoversi, su e giù, io gioco ancora con i suoi seni e la bacio, ma non posso fare a meno di lanciare un'occhiata al vialetto, ogni due secondi, per cercare di capire se sta arrivando qualcuno. Ogni rumore mi fa sobbalzare e voltare la testa, ma questo non sembra un problema di Sabrina, che pare godersela un mondo, mentre mi cavalca. Improvvisamente si solleva e si sposta accanto a me, poggiandosi alla panchina e sollevando il sedere.
- Prendimi da dietro, dai.
Mi alzo ed eseguo e improvvisamente ho difficoltà a concentrarmi su quello che succede intorno a noi, le carezzo la schiena liscia e mi accorgo di un tatuaggio alla base del collo, c'è scritto: “life is fast, so don't worry and make it last”. Mi piego in avanti e glielo lecco, un gesto istintivo, come se mi aspettassi di sentire il sapore dell'inchiostro o qualcosa tipo liquirizia. Lei emette un verso di piacere, come se la scritta fosse una sua zona erogena, e in risposta le mordo la spalla.
- Cazzo – esclama, irrigidendosi di botto.
Le mani afferrano lo schienale della panchina e le braccia si tendono, mentre spinge la testa all'indietro.
- Cazzo! - esclama, a voce più alta di quanto vorrei.
Lancio un'occhiata alle mie spalle e, per un istante, ho il terrore di trovarci qualcuno che ci fissa allibito o eccitato o entrambi. Ma nessuno ci sta vedendo fare sesso all'aperto e Sabrina continua a tremare come se avesse le convulsioni.
Una sua mano scatta all'indietro e mi afferra l'avambraccio sinistro, affondandoci le unghie, trattengo un urlo di dolore e sento l'orgasmo arrivare. La afferro per i fianchi e spingo più deciso, sentendo le gambe che mi cedono, mentre vengo dentro di lei. Rallento e rimango lì, in piedi, le ginocchia piegate, con la testa che mi gira. Mi piego e la avvolgo in un abbraccio, circondando la sua vita, mentre respiro a fondo e con l'orecchio poggiato sulla sua schiena sento il suo cuore battere. Rimaniamo in silenzio, per non so quanto, poi, lentamente, tiro fuori il pene semi eretto e mi siedo, pesantemente, sulla panchina. Lei si siede sulle mie ginocchia e mi circonda il collo con un braccio, affondando la faccia nell'incavo del collo, senza dire nulla. Le carezzo i capelli e guardo il cielo, chiedendomi quando potrò ritirare su i miei pantaloni e preoccupandomi un po' delle mie chiappe nude, poggiate su di una panchina.Dovrei smettere di pensare così tanto. Sono sempre con la testa da un'altra parte, in un altro luogo, in un altro momento. Forse devo cominciare a concentrarmi sul momento, come dice Carlotta, a godermi l'attimo. Devo smetterla di essere così cerebrale. Mentre me lo dico mi convinco, persino, poi mi ricordo che sicuramente mi dimenticherò di farlo, alla prima occasione.Sabrina si alza e si rimette in ordine, aggiustando la gonna e sistemandosi la maglietta. Si a una mano tra i capelli, improvvisando una spazzola con le sue dita semi aperte, e poi mi lancia un'occhiata. Sorrido, amichevole e imbarazzato, mentre chiudo la zip dei jeans, lei distoglie subito lo sguardo.
- OK. Grazie per essermi stato vicino, oggi – dice, improvvisamente.
Si incammina e io la seguo.
- Cosa farai? - chiedo.
- Non lo so. Cazzo. Devo pensare un po'.
- Vuoi che ti accompagni?
Lei si ferma di botto e io ci manca poco che le vada a sbattere addosso.
- No, no. Ascolta. 'fanculo, no. Non sono una bambina del cazzo, OK? Sì, sono incinta di un pezzo di merda e l'unica persona che conosco, in questa fottuta città, è uno sfigato del cazzo che mi ha appena scopato su una panchina.
- Sì, sono io – ammetto, con un sorriso.
- Già – per un attimo sorride anche lei. - Devo stare da sola e pensare.
- Va bene.
- Ma grazie.
- Figurati. Se hai bisogno, sai che puoi contare su di me, vero? - dico.
- OK. Me lo segno: se ho bisogno ti chiamo.
- Sul serio.
- Vaffanculo, stai facendo il premuroso? È stata solo una scopata – mi dice.
- Lo so, c'ero anche io.
Si guarda la punta delle scarpe e poi si solleva per darmi un bacio sulla guancia.
- Ciao.
Si volta e se ne va. Io la guardo allontanarsi e mischiarsi alla gente, prima di sparire dietro una curva. Mi stiracchio e poi mi metto in cammino verso casa.
14
Quando entro in ufficio vedo Daria seduta alla scrivania che mi lancia un'occhiata interrogatoria. Probabilmente si è accorta che sono in ritardo ed è raro che faccia tardi, ma stanotte ho fatto un sacco di incubi e non ho dormito molto. Il risultato è che ho spento la sveglia e mi sono riaddormentato, nonostante mia madre, in salotto, cantasse canzoni del dopo guerra a squarciagola.I colleghi sono tutti al lavoro, qualcuno mi saluta, quando o, io ricambio il saluto, educatamente. Non so se è per il sonno o per il periodo o per entrambi, ma sono di pessimo umore. Mi lascio cadere sulla sedia, pesante e sbuffando, e lancio un'occhiata alla casella di posta: ci sono già 23 mail di altrettanti colleghi che lamentano problemi più o meno reali. Cristo.Non ho molta scelta, accetto la cosa, e mi metto al lavoro cercando di smaltire più beghe possibili. Lascio da parte le beghe più grosse, me ne occuperò dopo pranzo, e rispondo alle mail dei colleghi con poche indicazioni essenziali. “Chiudi il programma gestionale. Riaprilo. Cambia la con una che non abbia il trattino basso. È un bug che stanno ancora cercando di risolvere”; “Non possiamo darti l'accesso a Facebook, neanche per controllare se tuo figlio sta marinando la scuola, mi dispiace”; “No, www.succhialoafondo.com non è visitabile, durante le ore di lavoro. Consiglio www.donneincalore.net, fino a quando non mi fanno chiudere anche quello. C'è una fornitissima sezione sui pompini.”. Mi vado a prendere un caffè e incrocio il mio direttore che sta salendo in ascensore. Mi vede, chiaramente, ma fa finta di nulla, io non so neanche cosa dirgli, alla fin fine. Del resto se chiama o meno Sabrina non è un problema mio e il fatto che sia una persona miserabile è già una sufficiente punizione, per uno come lui, anche se sospetto che non si ritenga tale. Rimaniamo a guardarci: io con in mano il mio bicchierino di plastica e lui, in fondo alla cabina dell'ascensore, senza dire niente. Fa un cenno di saluto con il capo. Io ricambio. Le porte si chiudono, interrompendo i nostri pensieri e la nostra conversazione silenziosa.
- Stronzo – borbotto.
Mangio seduto alla scrivania, leggo forum, leggo il blog di Massi, che racconta di come il suo romanzo stia per uscire, di come la cosa lo renda nervoso e felice nello stesso momento. E ci trovo dei piccoli riferimenti a Luna e mi chiedo cosa succede, come mai stia diventando inquietantemente monogamo. Gli mando un SMS in cui gli chiedo se sta per caso mettendo la testa a posto e lui mi risponde che in realtà la sta per mettere tra le gambe di Luna e se voglio un video. Non gli rispondo. Dopo pranzo faccio il giro delle chiamate che richiedono un intervento sul posto: glitch di sistema, colleghi che hanno scaricato programmi che hanno incasinato il registro di sistema, idioti che non hanno capito che il motivo per cui il computer ha cominciato a mandare a capo da solo è perché hanno poggiato la rivista che stavano leggendo sul tasto Invio. Chiacchiero con qualche collega che non vedo che durante queste occasioni e mi aggiorno sulla loro vita: affetti, famiglia, hobby. Uno ha cominciato a fare parapendio, uno ha smesso di giocare a calcetto perché si è rotto una caviglia per l'ennesima volta. Uno sta facendo un corso di sommelier con la ragazza, mentre un altro si sta apionando del cinema di Akira Kurosawa. Mi danno tutti consigli. Alcuni sanno che sono tornato single e mi dicono di approfittarne per ritrovare me stesso, per riguadagnare i miei spazi. Non dico loro che non so come si faccia, a riguadagnare i propri spazi. Che non sapevo di averli persi, i miei spazi. Che non li rivoglio neanche, i miei spazi. Mi va bene che siano sacrificati, se questo significa che sarò di nuovo felice. Sorrido a tutti, cortesemente, e annuisco a consigli riguardanti corsi di ballo e di yoga, dicendo che sicuramente è una buona idea e che dopo, di ritorno alla mia scrivania, cercherò subito su Internet la più vicina palestra dove si tengono, grazie mille.
Arrivo al quinto piano e cammino per i corridoi, cercando l'ufficio che mi ha mandato una mail perché il loro gestionale sembra essere improvvisamente impazzito e si rifiuta di accettare qualsiasi parola con la doppia C. Lo trovo e busso, accomodandomi quando vengo invitato a entrare. Mi trovo davanti a Cora, assieme ad altri due tizi seduti alle loro scrivanie.
- Salve. Sono Alessandro, del reparto tecnico. Chi è – sbircio il foglietto – Luigi?
Un ragazzo alto, riccio, dagli occhi chiari alza la mano e mi mostra il suo PC.
- Eccolo. È questo che dà problemi.
Annuisco e mi vado a sedere davanti allo schermo, aprendo la console di comando e inserendo la mia name e la .
- Cos'ha? - chiede il collega.
- Non saprei.
- Ma non sei il tecnico?
- Sì, ma ho appena il programma, non ho ancora avuto il tempo di guardarci.
- Ah OK.
ano venti secondi, prima che lui respiri a fondo.
- Allora?
Mi mordo la lingua e faccio appello a tutta la mia pazienza, ma quando mi volto verso di lui ho chiaramente l'intenzione di invitarlo ad andare a prenderla in quel posto.
- Luigi, ti va un caffè? - interviene Cora, dalla sua scrivania.
Luigi sobbalza e le lancia un'occhiata, sorpreso.
- Offro io – dice lei, mostrando delle monetine.
- OK.
Luigi prende le monete e va verso la porta, seguito dall'altro collega.
- Zucchero di canna, grazie – dice lei, mentre lui esce.
Respiro a fondo.
- Grazie – le dico.
- Figurati – sorride e si viene a sedere sulla scrivania.
- Come vanno le cose, a casa? - chiedo.
- Mah. Sembrano essere calmi, in questo momento.
- Bene.
- Vedremo quanto dura – si studia lo smalto blu scuro disposto sulle unghie.
Annuisco e continuo a studiare righe di codice, cercando l'intoppo.
- E tu come stai? - mi chiede.
- Al solito.
- Sì?
Sospiro e le sorrido, lei mi prende la mano e se la porta alle labbra, baciandola.
- Che fai, stasera? - le chiedo.
- Vado a una riunione di pazzi. In Chiesa, vado in Chiesa – specifica, quando la guardo, perplesso.
- Ah. Certo.
- Ti chiederei se vuoi venire, ma...
- No, davvero. Ti ringrazio, ma non penso sia il caso.
- Di cosa hai paura, Ale? Non è che ti mangeremo, sai? E non penso che prenderai fuoco, una volta varcata la navata.
- Non si può mai sapere – obietto, rimettendomi al lavoro. - Ma la verità è che quando mi trovo in una situazione del genere non sono granché simpatico. Divento sarcastico e cattivo e farei sicuramente delle battute che ti offenderebbero e non mi va.
- Ti ringrazio.
- E poi sai mai che finiate l'ostia e abbiate ancora fame...
Lei sorride e mi tira uno scappellotto.
- Non potevi proprio stare zitto, eh?
Scuoto la testa e comincio a battere tasti, modificando le righe di codice che danno il problema al sistema. Mentre lo faccio cerco di ricordare come sono finito a fare questo, dopo essermi laureato in lettere. Ho sempre avuto il pallino dei computer, come tutti i ragazzini cresciuti negli anni '80, sotto l'influenza di Pac Man e di Wargames. Matthew Broderick ci ha definitivamente traviati, ma credo che l'esplosione degli home computer avrebbe comunque cambiato il destino di moltissimi ragazzi. Ho cominciato con un Commodore 64 e ho finito per pasticciare sul PC, quando servivano boot disk che permettevano di aggiungere memoria virtuale necessaria a fare funzionare i videogiochi. Ho cominciato con il Basic, ho proseguito con il C++, ho imparato come mettere mano sui sistemi operativi. Un giorno sono andato con un compagno di facoltà a fare visita al fratello, che faceva il sistemista in un ufficio e, parlando, ho scoperto che il lavoro sembrava alla mia portata. Ho consegnato un curriculum, lui l'ha fatto leggere ai suoi capi, ho avuto il mio periodo di prova e da allora ho lavorato in due o tre aziende differenti, in attesa di trovare quella disposta a fare sì che il mio contratto asse da tempo determinato a indeterminato. Non credo che quella in cui sono attualmente sarà quella giusta. Probabilmente perché il mio capo ha messo incinta una ventenne e io sono l'unico a saperlo.
Cora si sporge in avanti e mi bacia. Mi piace come bacia. Ha un modo di farlo ionale e dolcissimo nello stesso momento. Ci baciamo ancora un po' e lei lancia un'occhiata allo schermo.
- Quanto ci metti, ancora?
- Pochi minuti. È una cazzata.
- Allora sbrigati.
Ricomincio a programmare, quando lei fa scivolare la sua mano sotto la gonna, sotto le mutandine e comincia a toccarsi. La guardo e lei mi restituisce un'occhiata carica di desiderio, mentre il respiro si fa affannoso.
- La mia fica si sta bagnando, sai? - mi dice, mentre scorgo con la coda dell'occhio il movimento della sua mano.
- Questo è scorretto – rispondo, cercando di concentrarmi su quello che c'è sul video.
- È scorretto che tu stia perdendo tutto questo tempo al computer, invece di portarmi in bagno e infilarmi il tuo cazzo dentro.
- Dovremo parlare di questo tuo linguaggio, prima o poi.
- Perché? Il tuo cazzo è così bello. Mi piace quando mi scopi.
Cerco di ignorare che, con l'altra mano, ha cominciato a strizzarsi il seno, il capezzolo che si solleva sotto la stoffa. Tira fuori la mano da sotto le mutande e me la avvicina alle labbra, spingendo il suo dito medio nella mia bocca. Non levo lo sguardo dal computer e succhio, prima che lei le riporti tra le sue gambe e ricominci a masturbarsi.
- Ti piace scoparmi? - si china verso di me, sussurrando al mio orecchio.
- Sì, mi piace scoparti.
- Anche a me. E pensavo che voglio che mi scopi nel cesso, contro il muro, come una troia.
- OK.
- Dillo.
- Cosa? Troia?
- Sì.
- Ti scoperò come una troia, appena questo cazzo di programma sarà a posto – rispondo, un po' frustrato.
- Lo so. So che mi farai godere.
Scende dalla scrivania e si piega in avanti, poggiando un braccio sul tavolo, mentre la mano continua a muoversi tra le sue cosce.
- Cora, non mi aiuti...
Lei non risponde e geme, a occhi chiusi.
- Cristo.
- Sono bagnatissima. Vorrei che potessi leccarmi la fica.
È matta da legare. Ora non ho più dubbi. Finisco le ultime righe di codice e salvo, chiudendo il programma con una velocità mai vista. Balzo in piedi e attiro Cora a me, baciandola, lei mi succhia la lingua e la morde. Mi fa male e tiro indietro la testa, guardandola male, lei, invece, mi sorride, contenta.
- Dov'è il bagno? - chiedo.
Usciamo dall'ufficio in fretta e incrociamo Luigi che torna con il caffè, Cora lo prende al volo e io do le mie indicazioni, senza fermarmi.
- Tutto a posto. Era un difetto della programmazione che apriva una subriga di codice in presenza di parole con la doppia C. Dovrebbe essere tutto a posto – aggiungo, mentre giro l'angolo, - in caso scrivimi.
Entriamo nel bagno e chiudiamo a chiave. Quando mi volto Cora ha già
sollevato la gonna e ha le sue mutande in mano.
- Come diavolo hai fatto? - commento, sorpreso.
- Tira fuori il cazzo e fottimi.
Mi abbasso i pantaloni, lei si slaccia la camicetta, mettendo in mostra un reggipetto viola che sembra strizzare i suoi seni oltre il limite consentito. La prendo per le spalle e la faccio voltare sbattendola contro il muro, lei inarca la schiena e spinge in fuori il sedere, permettendomi di entrare più facilmente dentro di lei. È fottutamente bagnata, il mio pene scivola dentro con una facilità che mi sconvolge.
- Cazzo, sì! - esclama, spingendo ancora più indietro il sedere e facendomi così entrare fino alle palle.
Rimango fermo, aggrappato ai suoi fianchi, le unghie piantate nella carne, lei che continua a torturarsi i capezzoli.
- Fottimi, dai. Scopa la tua troia.
Respiro a fondo e poi comincio a muovermi, prima lentamente poi sempre più veloce, mentre mi rendo conto che sono senza preservativo. È la seconda volta che succede, negli ultimi giorni; prima Sabrina e ora lei. Il primo pensiero è che devo cominciare a girare con i preservativi in tasca, come quando avevo sedici anni – con la differenza che allora era una vana speranza, ultimamente pare
scontato che io possa usarli, - il secondo pensiero è che una volta mi sarei rigorosamente rifiutato all'idea di scopare senza protezione. Già il fatto che Sandra mi abbia fatto un pompino scoperto è qualcosa che non avrei mai immaginato di accettare. Fare sesso in un bagno pubblico, con una ragazza che conosco appena e con il rischio di metterla incinta e di prendermi qualche malattia – guardiamo in faccia la realtà: io non lo so se scopi solo con me, magari qualcun altro le ha detto la parola “puttana” e lei è partita per la tangente, - è qualcosa che non avrei mai pensato di fare. E comunque, per non essere ingiusto, io ho fatto sesso con quella squilibrata, al parco, e Dio solo sa se lei è o meno sana. Cora si stacca e mi prende per le spalle, facendomi sedere sul water, incespico e ci frano rumorosamente sopra. Lei solleva la gonna, scivolata di nuovo giù, e mi si siede sopra, impalandosi da sola, prima di baciarmi nuovamente.
- Adoro il tuo cazzo. È grosso e mi fa godere da morire – mi sussurra in un orecchio.
La bacio ancora e sento che non durerò ancora molto, lei allunga una mano e, mentre mi cavalca, comincia a masturbarsi.
- Dillo – mi fissa negli occhi, con uno sguardo quasi implorante.
Combatto con la sensazione di fastidio misto a forte imbarazzo e la fisso quasi con cattiveria.
- Sei una troia affamata di cazzo.
È come se avessi detto la parola d'ordine, si morde un labbro e mi afferra per il bavero della maglietta, strattonandomi, mentre il movimento della sua mano si fa più veloce, quasi a scatti violenti. Lancia un lungo mugolio, mentre mi attira a sé, e man mano che l'orgasmo scema, la presa si fa meno forte e i sussulti del suo corpo si quietano. Affonda il volto tra il mio collo e la mia spalla, quasi con il fiatone, poi si solleva e scivola per terra, inginocchiandosi tra le mie gambe. Afferra il mio pene e mi masturba, dando dei colpi di lingua sulla mia cappella.
- Sto per venire... - la metto in allarme.
- Voglio che mi sporchi – risponde, con un sorriso trionfante.
Non faccio in tempo a dire altro, l'orgasmo arriva, fortissimo, chiudo gli occhi, mentre sento gli schizzi del mio sperma che fuoriescono. Quando la parte più forte è ata, apro un occhio e vedo che l'ho colpita sotto l'occhio sinistro e sul mento. Fermo la sua mano, che ancora sta dandoci sotto, e la sento sorridere, mentre poggia la fronte sul mio ginocchio. C'è un lungo silenzio e poi lei sospira.
- Che stiamo facendo? - chiede.
- Si chiama sesso – rispondo, carezzandole i capelli.
- Già. Nei cessi dell'ufficio. È pazzesco.
Apro gli occhi e la osservo, mentre lotta per strappare della carta igienica dal rotolo; ne strappo un po' e gliela o, lei ringrazia con un cenno del capo.
- Non che voglia puntualizzare, ma sei stata tu a chiedermelo – dico.
- Lo so. Non c'è niente da puntualizzare e non è che mi stia precisamente lamentando, eh?
- Ah OK.
- È che non mi riconosco. Non sono il tipo di persona che fa una cosa del genere. Cioè non abbiamo fatto nulla di male, ma...non lo so.
Sospiro e le carezzo ancora i capelli.
- La stai complicando più del previsto – le dico.
- Sì, può essere.
- Rilassati. Avevi voglia e abbiamo fatto dove e come potevamo.
- Sì, infatti.
- E poi, se il problema è il bagno, possiamo organizzare per un altro posto –
propongo, con un sorriso.
Lei sorride a sua volta e si rimette a posto.
- Buona idea.
Sollevo i pantaloni e mi rivesto, andando poi a lavarmi le mani. Usciamo di nascosto, io e lei, sgattaiolando nel corridoio dopo esserci accertati che non ci sia nessuno, fuori. Facciamo ritorno in ufficio, tenendoci per mano, e io la spintono leggermente con la spalla, per farla ridere, riuscendoci. Una volta davanti alla porta ci baciamo un'ultima volta, poi ci separiamo lì e io faccio ritorno alla mia scrivania, al mio lavoro e alla mia vita scombinata.
Torno a casa a metà pomeriggio, chiedendomi cosa ha fatto mia madre, nelle ultime ore, se mi farà trovare la casa ridipinta o se si è comprata un bong per fumare del crack. Scopro che, in realtà, ha rimesso in ordine. È una di quelle cose tipiche da madre e che, per qualche motivo, quando vengono fatte da loro sembrano effettivamente funzionare. Quando sono io, a riordinare, la casa sembra semplicemente darmi tregua dal casino nel quale vivo; come se le cose messe a posto si limitassero a stare lì, ferme, in attesa di potersi spostare nuovamente e così riportare il caos nell'appartamento. Dopo che è ata mia madre sembra tutto al posto giusto, tutto appare perfetto e come se quello fosse lo stato naturale delle cose. Persino la luce è diversa, più morbida, più accogliente. Poi basta mezza giornata, dopo la sua partenza, ed è di nuovo tutto un casino. Prima o poi dovrò chiederle il segreto. Lei compare dalla cucina con indosso il grembiule e in mano un libro di Stephen King.
- Ciao, tesoro – dice, dandomi un bacio distratto sulla guancia.
- Che leggi?
- Misery – risponde, mentre volta pagina e torna in cucina.
- Vedo che ti sta piacendo.
- Molto. Sto cercando di capire chi è l'assassino.
Rimango interdetto, per un attimo, e poi inclino la testa.
- L'assassino?
- Sì. La vecchia infermiera pazza ha legato quello scrittore al letto, giusto? Ora c'è solo da capire chi è l'assassino.
- Non...non c'è assassino.
- Come no? È un giallo, no? In copertina dice che è il re del brivido, guarda – mi mostra la copertina, con fare inquisitorio, ed effettivamente c'è quanto da lei detto.
- Sì, sì, è il re dell'horror o almeno così lo chiamano.
- Ecco.
- Però non c'è un assassino, è tutto lì. La pazza ha legato lo scrittore al letto. Basta.
- Ah – sembra delusa. - E perché l'ha fatto?
- Perché...perché è pazza, mamma, l'hai detto pure tu!
- Uh. E basta?
- E che altre motivazioni ti aspettavi?
Si zittisce e mi fissa, pensierosa, gli occhi stretti a fessura.
- Allora non è granché – conclude, poggiando il libro su una mensola, prima di tornare in cucina.
- Ma no! È un ottimo romanzo! È scritto da dio!
- Be' ma so già cosa succede.
- Sì, ma...
- E comunque si capiva subito che lei era pazza.
- Ah sì?
- Sì, l'ho letto nella quarta di copertina.
Si rimette a cucinare e mi lascia lì, con un sacco di obiezioni da fare, ma nessuna forza per farle. Mangiamo e facciamo due chiacchiere sulla giornata, raccontandoci aneddoti assolutamente vacui, ma perfetti per riempire il tempo di un pasto. Dopo pranzo lei si stende sul divano a dormire un po', io chiamo Massi al telefono.
- Stai scopando o per cominciare a? - chiedo, come prima cosa.
- No, no. Sono solo, tranquillo. Però mi sto rollando una canna, va bene lo stesso?
- Sì, sì.
- Bene. Come va?
- C'è mia madre, è venuta a farmi visita.
- Ah bene. Salutala, mi piace, tua madre.
- Lo so. È perché siete pazzi da legare tutti e due.
- Non parlare così di tua madre.
Sorrido e mi siedo per terra, sul terrazzino.
- Allora, che mi racconti? Che casini hai combinato, ancora? - chiede lui.
Gli racconto di Sabrina e della puntata in bagno con Cora e lui ridacchia, divertito.
- Se riesci a scoparti una incinta, in un parco pubblico, vuol dire che c'è ancora speranza, per te.
- Sì, proprio.
- Ma sì, vuol dire che, tutto sommato, sei pronto per affrontare l'unico tipo di vita che vale la pena di vivere, quella da scapolo.
- Già. E me lo dice uno che è attaccato alla stessa donna da quasi un mese.
- Incidente di percorso – si limita a commentare, laconico.
- Proprio.
- Che farai, oggi?
- Mia madre mi ha chiesto di accompagnarla a visitare una sua vecchia amica.
- Dove?
- Nel suo studio, se ho ben capito è una dottoressa o giù di lì.
- La conosci?
- Sì, era la figlia dei vicini e mia madre mi mollava da lei, quando ero piccolo. È un po' la figlia che i miei non hanno mai avuto, ai suoi occhi. Erano molto affezionati. Poi Rosa si è sposata e il marito è morto presto e il loro unico figlio l'ha seguito da lì a poco. Un incidente d'auto, se non ricordo male.
- Capisco.
- E non potrebbe fregartene di meno.
- Esattamente.
- A posto così.
- Comunque, stasera faccio il DJ a una festa alle vecchie industrie tessili. Se ti va di portare una di quelle che ti scopi o di venire anche da solo, fammelo sapere. Io lascio il tuo nome all'entrata, in ogni caso.
- Ci sarà anche Luna? - domando, malizioso.
- Fottiti – risponde e poi mette giù.
Adoro metterlo all'angolo.
Quando mia madre si alza, usciamo per andare a fare visita alla sua amica. Lungo la strada mi racconta della sua amica Rosa che ha aperto un centro di wellness, dopo essere diventata vedova, in seguito a un viaggio in Cina, durante il quale aveva scoperto gli effetti benefici dei massaggi non solo sul corpo, ma – diceva – anche sullo spirito. Io ho ricordi confusi di lei e mia madre mi ricorda
che, quando avevo 5 anni, ogni tanto Rosa badava a me, mentre lei era al lavoro. Cerco nella memoria e non riesco a ricordare nulla, per quanto abbia questa strana sensazione di nostalgia, di cucine con profumi di soffritto e televisioni accese sui quiz dell'ora di pranzo. Mi ritrovo a pensare che siamo una generazione che ha fatto in tempo a conoscere Corrado e Pippo Baudo e che ai tempi ne ridevamo o non ci piacevano le loro trasmissioni, poi ti capita di vedere quelle trasmissioni che mandano in onda vecchi spezzoni di Rischiatutto o Fantastico e ti accorgi non solo che il confronto con i moderni programmi è impietoso, ma anche che li trovi bravissimi e che ti manca il loro stile. Sì, probabilmente sto invecchiando. Parcheggio l'auto e faccio due i fino alla macchinetta elettronica, portandole in dono qualche moneta che mi compri il diritto di restare tra le strisce blu senza scatenare l'ira della Polizia Municipale. Quando torno alla macchina mia madre è poggiata al cofano e si guarda intorno, come se cercasse di ricordarsi il posto.
- Correggimi se sbaglio – dice, - ma lì, per caso, non c'era un asilo, una volta?
Lancio un'occhiata all'edificio dove ci sono degli uffici comunali, prima di infilarmi in macchina per posizionare il ticket del parcheggio.
- Non saprei. Non giro molto per questa zona.
- Ma una volta non vivevamo qui vicino? - chiede, ancora.
- Mamma, abbiamo sempre vissuto nello stesso posto. Ti ricordi? Vicino alla facoltà di Economia e Commercio? Dietro il cinema Lanteri?
Lei corruccia le labbra, in un'espressione poco convinta.
- Poi tu e papà vi siete separati, te ne sei andata dalla città e lui si è trovato un altro appartamento.
- E ora chi ci vive, nella nostra vecchia casa?
- Non lo so chi...Io non lo so chi ci vive e, sinceramente, chi se ne frega?
- Be' sarebbe interessante sapere se ne hanno cura o se la stanno rovinando.
Sospiro e chiudo la macchina, contando fino a cinque.
- Mamma, senti, non era neanche nostra. Eravamo in affitto.
- Ah sì. È vero.
- Ecco.
Scrolla le spalle e si dà una pacca sulla fronte, come se si fosse ricordata di qualcosa.
- Ce l'hai una canna?
Mi volto e vado via senza rispondere.
- Non è che non posso farne a meno, eh? È solo per provare – dice, mentre mi allontano e lei mi segue, trafelata.
Ci fermiamo davanti al portone di un centro massaggi chiamato “New Relax Wellness Centre”, l'insegna rappresenta una cascata i cui flussi scivolano intorno alle lettere scritte con caratteri quasi orientali. Quando apro il portone, un camlino annuncia il nostro ingresso; lascio are mia madre per prima e ci accomodiamo nell'atrio, composto da alcuni divanetti con un tavolino coperto di riviste scandalistiche. Dagli altoparlanti viene mandata musica lounge che, sospetto, dovrebbe essere rilassante e dovrebbe aiutare chi si fa massaggiare a lasciarsi andare. Dietro il bancone all'ingresso c'è una ragazza bionda con un piercing sul sopracciglio sinistro, truccata non troppo pesantemente; indossa una maglietta bianca con su scritto “New Relax Staff” e sorride, al nostro ingresso, sporgendosi leggermente in avanti.
- Buongiorno – ha un forte accento dell'est.
- Buongiorno, cara – risponde mia madre, mentre io faccio un cenno del capo.
- Avete un appuntamento?
- No, no, in effetti siamo qui per salutare Rosa. È libera, in questo momento?
Ci lancia un'occhiata e poi si alza.
- Un attimo, per cortesia.
Fa il giro del bancone e si infila nel corridoio in fondo alla stanza, sparendo dietro l'angolo. Io mi siedo sul divanetto e guardo i quadri di arte brutta appesi alle pareti, mentre una orrenda cover di Sweet dreams piena di sintetizzatore e voci strascicate mi tempesta le orecchie. La ragazza fa il suo ritorno, sempre sorridente, e fa un cenno del capo.
- Arriva subito.
Si siede di nuovo al suo posto e si concentra sul PC che ha davanti, probabilmente starà controllando la sua pagina Facebook. L'amica di mia madre fa il suo ingresso dopo pochi minuti: è una signora bionda di una cinquantina d'anni, dall'aspetto molto giovanile e con un sorriso che si allarga ancora di più, quando vede mia mamma. Si abbracciano e si stringono forte, mentre io in quel momento mi ricordo di lei e dei pomeriggi ati a casa sua, di merende a base di pane e formaggino e puntate del cartone animato di Capitan America e dei telefilm di Batman con la pancetta. Quando mi nota sembra incredula, poi mi dà due baci sulle guance e uno sulla fronte, mentre mi stringe le mani con forza.
- Come sta, signora Rosa? - le chiedo.
- Solo Rosa e sto bene. E tu? Benedetto ragazzo, quanto sei cresciuto. E come sono invecchiata io.
Si scambia un'occhiata con mia madre, che annuisce, e tutte e due ridono, abbracciandosi di nuovo. La ragazza bionda, da dietro il bancone, ci lancia un'occhiata divertita, prima di rimettersi a guardare lo schermo del computer. Andiamo a bere qualcosa al bar di fronte. La signora Rosa indossa i pantaloni di una tuta da ginnastica e una magliettina leggera, che copre con una giacca jeans. Ci sediamo a un tavolino, loro due si ordinano un martini e io mi limito a prendere un caffè e a sorridere educatamente, mentre le due si aggiornano sulle rispettive vite. Mia mamma racconta dell'Architetto e dei loro viaggi e, grazie al cielo, sorvola sulla sua vita sessuale. La signora Rosa racconta della sua attività che, pare, le dà molta soddisfazione e la appaga completamente; gli affari vanno bene, le ragazze che lavorano con lei sono come una famiglia e lei stessa si sente rinata, dopo il lutto per la perdita del marito. La ascolto ammirato, perché ho davanti qualcuno che si è ripreso, dalla fine di una relazione lunga e conclusasi nel peggiore dei modi, e questo, in qualche modo, mi rende un po' più speranzoso di poter essere come lei, prima o poi.
- Anche il povero Alessandro è stato piantato dalla ragazza – dice mia madre, improvvisamente, dandomi una pacca sul ginocchio.
Mi irrigidisco come se mi avessero tirato un colpo tra le scapole e la guardo, allibito. La signora Rosa mi lancia un'occhiata triste, mentre corruccia la fronte e piega il capo di lato.
- Oh – si limita a dire.
- Sì. Già. Be'. Già – rispondo, in una delle mie peggiori prove dialettiche.
- Ma sta bene, dai. Mi sembra in forma, no? - aggiunge mia mamma.
- Ma sì. E poi è un bel ragazzo, vuoi che non se ne trovi un'altra? - aggiunge la signora Rosa – Il mare è pieno di pesci, diceva così quella canzone, vero?
Apprezzo la citazione delle Marvellettes e della Motown, ma tutto quello che riesco a fare è sorridere imbarazzato, mentre lei mi fa l'occhiolino. Continuano a parlare e io mando un SMS a Massi, dove lo informo che sto nel mezzo di un reunion di signore che si raccontano acciacchi e ricordano i vecchi tempi. Lui mi risponde che la donna matura sessualmente dopo i 45 anni. Non gli rispondo. Torniamo al centro e la signora Rosa ci fa fare un giro; ci mostra le stanzette dove si fanno massaggi, piccole, semibuie, con pareti coperte di specchi e un lettino professionale posizionato al centro. Ci mostra una vasca idromassaggio di media grandezza e un'altra stanza con dentro la sauna, minuscola, ma del resto non siamo alle terme. Si fermano a chiacchierare davanti alle docce e io faccio quattro i per il corridoio, la filodiffusione continua a propormi solo musica lounge e versioni ambient di classici anni '80 e '90. Se fossi in macchina e l'autoradio mandasse questa robaccia, mi butterei a tutta velocità contro un camion. Mia madre fa ritorno e mi sorride, contenta.
- Ci offrono un massaggio.
Poi tira dritto e va a infilarsi in una delle stanze dove, poco dopo, la raggiunge una ragazza diversa da quella che ci ha aperto: mora, carina, con un bel sorriso. Rimango a fissarla, allibito, chiedendomi cosa farò, nel frattempo, quando la signora Rosa mi dà una pacca sulla schiena e mi indica una delle stanze.
- Accomodati, caro.
La guardo come se mi avesse proposto di ingoiare del vetro.
- Sul serio?
- Non ti va un bel massaggio? Ti farebbe bene – mi stringe tra spalla e collo e fa una smorfia. - Sei più duro di un blocco di granito. Dai.
Mi spinge con gentilezza, ma fermamente, e io entro nello stanzino.
- Spogliati, infilati l'asciugamano, fatti una doccia e torna qui.
Prima di sparire dietro la porta, con un cenno del capo, indica un asciugamano piegato, sopra il lettino. Sullo stesso ci sono delle ciabatte usa e getta e un pacchettino di qualcosa avvolto nella plastica. Lo prendo in mano e lo studio, ma ho qualche difficoltà a capire di che si tratti. Quando rompo l'involucro mi si srotola in mano un minuscolo perizoma monouso che osservo con una discreta perplessità. L'unica volta che ho visto una cosa del genere addosso a un uomo è stato durante un'apparizione di un gruppo maschile di spogliarellisti, in televisione. Non ho precisamente il fisico da culturista, quindi non ho idea di come apparirei, con indosso quelli. Preferisco non pensarci e comincio a levarmi la maglietta, dando un'annusata alle ascelle, per essere sicuro di non fare brutte figure. Decido per una doccia veloce e poi mi stendo sul letto per massaggi; l'orribile perizoma mi lascia scoperte le chiappe e mi vergogno come un ladro, provvedendo a coprirmi con l'asciugamano. Dopo pochi minuti la luce viene diminuita, dando una luminosità soffusa alla stanza, e la signora Rosa fa la sua apparizione sulla soglia, con in mano un dispenser di quella che sospetto sia
crema per massaggi.
- Siamo pronti? - chiede, sorridente.
- Sì. Credo.
- Ottimo.
Entra dentro e si chiude la porta alle spalle, accendendo le candele riposte su un ripiano.
- Mi fa il massaggio lei?
Mi guarda con rimprovero e inclina la testa di lato.
- Ho detto di darmi del tu.
- Sì, giusto. Scusa.
- E sì, ti massaggio io, se per te va bene.
Non so perché, ma mi sento leggermente imbarazzato, all'idea, ma non dico niente. Il pensiero di avere una donna che mi ha visto bambino - e in rapporti così intimi con mia madre - che mi massaggia, mi lascia una certa inquietudine addosso. Mi indica il lettino e io mi stendo sopra, con l'asciugamano avvolto alla vita, cercando di rilassarmi. Smetto nell'istante stesso in cui lei me lo leva con un gesto secco, lasciandomi con il solo perizoma a coprire quel poco che può.
- Oh bene, cominciamo – mi rifila una pacca sulla natica e sbarro gli occhi, guardandola.
Ride e si versa della crema da massaggi sulla mano e poi comincia dalle spalle.
- Allora, ragazzo mio, cosa vogliamo fare? Massaggio rilassante? Sportivo?
- Rilassante dovrebbe andare bene.
- Lo facciamo completo?
- Sì, immagino di sì.
- Io comincio e se ti faccio male me lo dici e faccio più piano. Oppure se vuoi che ci metta più forza, devi solo chiedere. Annuisco e lei comincia a strizzarmi le spalle con presa sicura e decisa; inizialmente mi fa male, ma pian piano mi abituo e comincio a godermi la sensazione.
- Va bene? - chiede.
- Va bene.
- Allora? Che fai nella vita?
- Sistemista informatico per una azienda. Credo.
- Credi?
- Sono con un contratto a tempo determinato.
- Ah capisco. Ti piace, il tuo lavoro?
- Non è il lavoro che mi aspettavo, ma poteva andare peggio.
- Potevi lavorare in miniera – dice, mentre mi pianta un pugno tra le scapole e preme.
- O sminare i campi di guerra.
- O pulire le fogne a mani nude.
- Infatti.
Le mani della signora Rosa si muovono lungo i muscoli con precisione e la giusta dose di forza. Dove trovano un nodo, un ostacolo, un muscolo teso, cambiano diventando più decise o più forti, a seconda della necessità. Il fastidio iniziale viene rapidamente sostituito dalla piacevole sensazione di una forza invisibile che sa ciò di cui ho bisogno, meglio e prima di me.
- Sì, sei troppo teso, dovresti imparare a rilassarti. Hai mai pensato di praticare dello yoga? – chiede.
- Io e lo sport abbiamo un rapporto discreto. Io non gli do fastidio e lui non lo dà a me.
- Lo yoga non è solo sport. È visione della vita, è un modo per sentirsi in sintonia con tutto quello che ti circonda, dalle persone alle cose.
- Sì. Be’. È un periodo che, tutto sommato, le persone stanno bene dove stanno, fino a quando mi stanno lontane.
Fa una specie di verso di disapprovazione, prima di cominciare a martellarmi una coscia con dei colpetti che fanno un rumore di schiocco. Per una frazione di secondo temo mi abbia rotto un osso, poi mi rilasso di nuovo.
- È un modo classico di vedere le cose, quando si viene lasciati.
Sento che tutto il rilassamento ottenuto fino a quel momento mi abbandona di colpo, senza bisogno di girarmi la sento sorridere.
- Non te la prendere, non ti voglio offendere in nessun modo. Dico solo che chiudersi a riccio è un meccanismo di autodifesa abbastanza comune, più di quanto si pensi.
- Ne sono sicuro.
- E dovresti cercare di uscire dal guscio e aprirti a nuove esperienze.
- Lo sto facendo, credimi.
- Davvero?
- Non mi stai massaggiando?
- Ah be'. Allora.
Continua a sprimacciarmi, io emetto un mugolio di fastidio misto a un “mah. Sì. Continua.” e ascolto una versione lounge di Fever .
- Dove la trovate, 'sta robaccia? La musica, dico.
- Oh in giro. CD a poco prezzo, cose che portano le altre ragazze. Serve solo da sottofondo musicale, non è una discoteca, non ci interessa che siano dei capolavori, basta che non infastidiscano il cliente.
- Ecco, su questo punto non andiamo molto d'accordo.
Ridacchia e mi afferra un braccio, sollevandolo e poi inizia a massaggiare la spalla.
- Allora, questa ragazza?
- Mh.
- Che è successo?
- Se n'è andata.
- E come mai?
Ci penso su un attimo, poi scrollo la spalla libera.
- Perché sì. Non lo so. Se n'è andata e basta, immagino.
- Ah sì.
- Cosa?
- Niente.
Volto la testa e la guardo, aggrottando la fronte.
- Cosa?
- Diciamo che non mi accontenterei di “se n'è andata e basta”, al posto tuo. Vorrei sapere.
- Ma io voglio sapere.
- Sì?
- Certo.
Annuisce, con sguardo comprensivo.
- Da quant'è che non state più insieme?
- Più o meno un mese e mezzo.
- Capisco.
Le lancio una seconda occhiataccia.
- Cosa, adesso?
- No, solo che se io volessi a tutti i costi parlare con qualcuno per capire perché mi ha lasciato non è che lascerei are un mese e mezzo.
Colpito e affondato.
- È un periodo pieno – mi giustifico, pateticamente.
- Immagino.
- Il lavoro, sai...
- Certo.
- Mi stai prendendo in giro.
- Un po' – sorride, lei.
Affondo la faccia in un foro nel materasso, guardando il pavimento e ricevendone un'occhiata che mi pare dica “ha ragione lei”.
- Credo ci sia un altro – ammetto.
- Ah.
- Capirai che non ho molta voglia di sapere se è vero o no.
- È comprensibile.
- Ecco.
- Ma se non ci fosse?
- In che senso?
Si sposta lungo i lombi e comincia a stringere e premere.
- Mi dici che non sei sicuro che abbia un altro uomo, no?
- Già.
- Magari ce l'ha e sarà un brutto colpo, ma se non ci fosse? Se non fosse quello, il motivo per cui ti ha lasciato? Non vorresti saperlo?
- E per quale motivo? - sospiro. - Cosa cambierebbe? Mi avrebbe comunque lasciato.
- Ragazzo mio, sono dell'idea che in una relazione ci si lasci per un sacco di motivazioni diverse e, salvo rari casi, che queste motivazioni non siano mai da imputare a una persona sola. Se pensi di non avere fatto niente di male e sei sicuro di essere stato perfetto, allora puoi solo andare ad affrontarla a testa alta e sentire cosa ha da dirti.
Non rispondo, mentre lei si sposta ai polpacci e risale lentamente lungo le gambe.
- Potresti restare sorpreso.
Respiro a fondo e, per un po', preferisco ascoltare l'orrenda musica, piuttosto che parlare ancora. Lei mi fa girare, a un certo punto, e mi massaggia le cosce, annaffiandomi con abbondante dose di crema per il corpo.
- Non so se sono pronto – ammetto.
- Ah. Questa è una cosa diversa – risponde, sorridendo dolcemente.
- Non credo ci possa essere niente che mi possa dire che mi farà stare meglio.
- Non voglio essere cattiva – annuisce, - ma posso confermarti che non c'è.
- Ecco.
- Ma una chiusura, per quanto dolorosa, lascia spazio solo a un nuovo inizio. Che sarà sicuramente difficile e poco piacevole, ma è pur sempre un inizio.
- Sì, è tutto molto zen, ma, non ti offendere, non mi serve a nulla.
- Lo so. Ora è così, vedrai che, più avanti, capirai che ho ragione.
Chiudo gli occhi e sospiro, chiedendomi quando arriva il “più avanti” e quanto manca ad arrivare, se stiamo andando alla massima velocità consentita o se stiamo andando piano per risparmiare carburante o se non è che abbiamo sbagliato strada e non abbiamo né il coraggio di ammetterlo, né l'orgoglio necessario per fermarci a chiedere informazioni per strada.
- Sollevati sui talloni – mi dice.
Io lo faccio e sento che afferra il perizoma e lo cala con un gesto secco. Sbarro gli occhi e me la trovo davanti, ha sollevato la maglietta e liberato i seni che, lo devo ammettere, sono le tette più grosse che abbia mai visto in vita mia.
- Che fai? Che è? Che succede? - sono terrorizzato.
- Hai detto che facciamo il massaggio completo, no?
- Sì, ma che cazzo...io che ne sapevo che sarebbe successo questo?
Inclina la testa come se stesse guardando uno strano incrocio tra un cocker e un rettile.
- Non sei mai stato in un centro massaggi, prima? - sembra sorpresa.
- No!
- Ah quindi non sai che, quando si parla di massaggio completo, si intende...
- No! Io so solo che quando si parla di un massaggio, si parla di un massaggio!
Annuisce.
- Buffo – dice.
- Buffo?
- Non mi è mai successa, questa cosa.
- Ah immagino.
- Saranno i rischi del mestiere – dice, pensierosa.
- Sì, diciamo così.
- Be', quindi che vogliamo fare? Finisco o no?
Per un attimo la guardo, sorpreso.
- Finisci cosa?
- Di solito, a questo punto, io ti masturbo fino a farti venire.
- E poi?
- E poi tu ti lavi e ti levi di torno, che ci sono altri clienti. Di solito.
- Ma non è – ci penso un attimo, poi abbasso la voce – illegale?
- Oh sì. Certo – sorride.
- E lo fate?
- Lo fanno tutti i centri massaggi.
- E non hai paura della Polizia?
- Sei un poliziotto?
- Be' no.
- No, allora sono tranquilla.
Non posso fare a meno di notare che il suo seno attira il mio sguardo tipo calamita e che la mia erezione tradisce l'eccitazione, sotto l'imbarazzo. Lei sorride e prende il vasetto di crema, spruzzandosene molta sulle mani, poi afferra il mio pene saldamente e comincia a masturbarmi, lentamente, molto lentamente. Mi tendo e lei posa una mano sul mio petto.
- Rilassati, su.
Cerco di rilassarmi, lei prende la mia mano destra e se la porta al seno. È veramente enorme e morbido, mai vista una cosa così.
- Devi cominciare a essere più sereno – mi dice, mentre continua il suo lavoro. E per farlo non puoi limitarti a stare seduto e ad aspettare che le cose si risolvano da sole. Devi agire.
- Agire? - riesco a farfugliare.
Afferra il mio pene alla base, con la mano sinistra e riprende a masturbarmi con la destra.
- Mettiamola così: finora sei rimasto inerte, a lasciare che le brutte cose che ti sono successe ti cambiassero la vita. Hai ottenuto qualcosa di buono, da questo?
Scuoto la testa, ma effettivamente sono concentratissimo sullo strizzare il suo seno, per quanto quello che dice mi paia molto sensato.
- Ci sono un sacco di modi per vivere la propria vita, Alessandro, e non so dirti quale sia il migliore. Posso solo dirti che quello che non ti aiuta, quello che ti tiene fermo su te stesso, facendoti appallottolare sul tuo dolore e sulla tua autocommiserazione, ecco, tutto quello non deve farne parte. Capisco cosa vuole dire. L'ho sempre saputo, del resto, ma vedermelo messo davanti in modo così franco mi fa sentire come se mi stessero indicando una roba che avevo sotto il naso con un neon blu elettrico. E sospetto che questa mezza presa di coscienza sarebbe ancora più forte, se lei non mi stesse masturbando, mentre illumina il mio cammino.
- Quindi va bene, hai sofferto e sei stato male. Ora rialzati e scegli una strada e percorrila. Ma se pensi di non poterlo fare perché hai ancora delle cose da risolvere, risolvile. Ma devi farlo e solo tu puoi, io posso solo dirti che, in un modo o nell'altro, risolverle ti renderà un uomo libero di fare tutto quello che vuole, dopo.
Sento che sto per venire e ho un sussulto. Lei si sporge in avanti e affonda la mia faccia nei suoi seni, mentre l'orgasmo arriva e lei non si ferma fino a quando non si è spento del tutto. a qualche secondo di silenzio, dopo di che lei afferra dei kleenex da un rotolo appeso al muro e si pulisce rapidamente le mani. Mi sorride, raggiante, e annuisce.
- Vatti a fare una doccia e cambiati. Poi, se vuoi, ti faccio un caffè.
Non riesco a dire niente e mi limito a fare di sì con la testa. Poi mi alzo e mi accorgo che la mia schiena è stranamente sciolta e priva di tensioni. Ruoto un po' le spalle e mi metto l'asciugamano intorno alla vita, prima di andare a farmi la doccia.
Quando torno, trovo mia madre al bancone che ride con Rosa. Sedute sui divanetti all'ingresso ci sono due ragazze che prima non c'erano, carine, con fisici sportivi. Una legge una rivista di gossip, mentre l'altra sembra impegnata seriamente a trovare tutte le doppie punte dei suoi capelli. Interrompono momentaneamente le loro operazioni per darmi un'occhiata, poi tornano a ignorarmi. Mia madre mi mette un braccio intorno alle spalle e mi da un bacio sulla guancia.
- Allora, com'è andata?
- Bene – ammetto, mentre Rosa mi sorride e mi strizza l'occhio.
- Be' allora potresti tornare, ora che sai dove si trova il centro, no? - dice mia madre.
- Certo. Come no.
- Bravo. E ora andiamo, queste ragazze dovranno lavorare, mica come me che sono una nullafacente.
- Oh figuratevi. ate quando volete – si schernisce Rosa, girando intorno al banco e accompagnandoci alla porta di ingresso.
Si abbracciano e si tengono strette, mia mamma le tempesta la guancia di baci, riempendola di macchie di rossetto. Rosa ricambia ed è molto tenero, a vedersi. Lo sarebbe ancora di più, se non avessi ancora le sue tette in mente.
- Stammi bene, Alessandro.
- Grazie. Per il massaggio. Ecco – balbetto.
- Quando vuoi. Torna a farmi visita, OK?
Andiamo via e non parlo per quasi tutto il viaggio in auto, ripensando a quello che mi ha detto Rosa. A parte la chiosa basata sulla masturbazione, il suo discorso ha perfettamente senso. Ho aspettato troppo tempo, prima di chiarire con Adriana le cose importanti. Mi fermo sotto casa e faccio scendere mia madre dall'auto, inventando una scusa per non entrare in casa. Quando riparto accendo la radio e sento Otis Redding che fischietta le ultime battute di Sittin' on the dock of the bay , lo fa perché deve ancora finire di scrivere il pezzo e quel fischiettare
sono delle indicazioni su come andare avanti. Morirà in un incidente aereo e quel fischiettare diventerà il tratto distintivo di quel capolavoro di canzone. A volte non sappiamo cosa c'è dietro le cose più banali, come un musicista che fischietta. A volte non saperlo non cambia niente, la canzone di Otis è bellissima lo stesso. Ma credo che non sia il mio caso. Credo che il non sapere mi stia solo rendendo più rancoroso, più incattivito e più carico di dubbi e ansie di quanto sarei, se sapessi cosa succede nella vita di Adriana. Per qualche motivo ero sicuro che non cercando risposta ai miei dubbi, avrei evitato il dolore di una spiegazione, magari una che non avrei amato. Ma la verità è che, inconsciamente o meno, ho percorso tutte le strade possibili, ho affrontato tutti gli scenari probabili e ho sempre scelto quello peggiore, quello più doloroso, quello più umiliante. Non so se è anche lo scenario reale, ma se c'è anche una minima possibilità che non lo sia, allora voglio approfittarne per sentirmi un po' meno male e un po' più rilassato. Fermo l'auto davanti all'archivio dove lavora Adriana. Rimango seduto, respirando a fondo un paio di volte e cerco di organizzare un discorso, di assumere l'atteggiamento maturo che ci si aspetterebbe da una persona della mia età, quando l'unica cosa che vorrei fare è buttare giù la porta con un calcio e urlare a pieni polmoni. Ma sono confuso e teso e non riesco a pensare a niente che non sia “chi cazzo era, al telefono? Perché c'è un uomo, nella tua vita, e quell'uomo non sono io?”. Attraverso la strada con una calma e un'attenzione sospetta e, quando sono dall'altra parte, rallento il o. Non devo sembrare proprio un cuor di leone, in questo momento. Sto ancora masticando frasi per iniziare, quando la porta dello stabile si apre e mi trovo davanti ad Adriana.
15
C'è una frase di Cassius Clay che cito spesso, agli amici, quando sono tristi . Era scritta sul biglietto che accompagnava un regalo. La frase diceva: “È quando sono al tappeto, che mi accorgo di avere ancora molto da dare”. Mi è sempre piaciuta molto per il gioco di parole (sospetto che l'essere al tappeto a cui si riferiva il buon Cassius non sia lo stesso di noi comuni mortali) e perché diceva una verità sacrosanta. Quando Adriana ha lasciato casa e la nostra storia è finita, mi sono accorto che c'erano tantissime cose che non avevamo fatto e mi sono pentito di non averle fatte. Sembra strano, specialmente quando si conclude una storia così lunga, che siano stati lasciati indietro progetti e idee e desideri. Però quando ero solo, seduto sul divano che cercavo di capire cosa fosse successo, mi sono ricordato di progetti come cucinare ogni domenica un piatto nuovo o di andare a fare un giro in auto, nel week end. Cose che si diceva di volere fare e che non si sono mai fatte, perché si era stanchi o stressati o a corto di soldi. E perché la vita è una fregatura e spesso ti dici che lo farai “poi”, fino a quando non ti accorgi che non c'è “poi”. E allora vorresti ci fosse ancora e quasi ti verrebbe da dire “OK, lasciami, spezzami il cuore, ma dammi ancora un po' di tempo, dammi due mesi, ci sono delle cose che dovevamo fare e che non abbiamo fatto. E se vuoi andartene e lasciarmi qui da solo, almeno permettimi di portarle a termine, perché quello che mi farà stare veramente male non è il non averle fatte, ma averne avuto l'occasione decine, centinaia di volte e non averne mai approfittato”.Seduto al tavolino di un bar, con Adriana davanti a me che legge con un'attenzione eccessiva il menù, questi pensieri risalgono come bolle nella vasca e mi esplodono in testa, ma senza lasciare il profumo di bagnoschiuma. Sanno di dispiacere, di rammarico e di paura. Adriana sta bene. Non ha perso peso, non vedo capelli grigi o occhiaie. Mentre succhia pensosamente il pollice, le si formano le fossette sulle guance, fossette per le quali andavo matto. Non sembra avere perso una sola ora di sonno, ma poi chi può saperlo? Mi dico che mi sbaglio e che, sicuramente, anche lei sta soffrendo moltissimo. O quello o ribalto il tavolo.La cameriera si avvicina, sorridente, e le chiedo un caffè. Annuisce e poi guarda Adriana, ma le rispondo io.
- Un tè ai frutti di bosco, con del latte a parte.
Adriana non sembra sorpresa e mi sorride, dolce, poi annuisce e la cameriera se ne va, dopo un educato cenno di capo.
- Lo sapevi, eh? - mi dice.
- Lo sapevo. Va sempre così. Leggi il menù per ore, ma poi ordini sempre il tè con il latte.
Sorride di nuovo, divertita, ma non dice niente. Io lo so cosa pensa. Pensa a quello che ho appena detto analizza il significato, ria nella sua testa che ho ragione, poi si accorge che sì, ho ragione, e si tranquillizza. Perché se così non fosse si aprirebbero molte variabili che la metterebbero in uno stato di sospensione: perché dico una cosa sbagliata? So che mi sbaglio? Se lo so, perché lo dico? Se non lo so, me lo deve fare presente? In che modo? Me la prenderò? Ribatterò? Che atteggiamento assumere, se mi dovessi tendere?
- Hai ragione – si limita a dire e io so che, in fondo, è sollevata.
- Lo so.
Gioco nervosamente con le chiavi della macchina, mentre lei mi guarda, assolutamente tranquilla. Probabilmente sta controllando i miei, di capelli bianchi e le mie occhiaie e i miei chili in più o in meno. Ma so anche che non c'è ombra di rivalsa o confronto, nel farlo. Lo fa perché vuole sapere come sto.
- Forse dormo un po' male – dico, dal nulla.
- Mi dispiace. Russi ancora?
- Credo di sì. Non mi sveglio da solo, quindi non posso saperlo.
La cameriera arriva con il mio caffè e una teiera. Adriana alza il tappo e guarda l'acqua, poi sceglie la bustina di tè tra cinque bustine tutte uguali, ma lei sceglie lo stesso, poi la studia, poi la mette nell'acqua e attende.
- Se la guardi non si preparerà più in fretta – scherzo.
Lei annuisce, ma non leva gli occhi dalla teiera.
- Già – dico.
Verso lo zucchero e giro il caffè con troppa foga, come se ne andasse della mia vita. Poi bevo un sorso e prima ancora che la posi sul piattino le faccio la domanda.
- Come stai?
Lei, incredibilmente, distoglie lo sguardo dal suo tè e mi sorride.
- Sto bene, grazie. Tu come stai?
Rimango a fissarla, inebetito. Non può rispondermi così, come se fossi il suo macellaio che le chiede se vuole ancora della carne. Non può stare bene. Anche se sta bene. Anche se fosse la persona più felice del mondo. Deve mentirmi. Non tantissimo, non in maniera grave, deve anche soltanto dirmi che, insomma, non sta proprio alla grande. Che anche lei dorme male. Che la metà del letto vuota fa schifo e ora ci sono sopra un sacco di libri e di riviste e che addormentarsi abbracciato al cuscino è da sfigati, ma, vaffanculo, a volte serve anche quello.
- Io... - comincio a dire, ma mi fermo e finisco il caffè.
- Mi dispiace.
Alzo lo sguardo e lei è lì, con la stessa espressione, tanto che, per un secondo, dubito che sia stata lei, a parlare. O forse si dispiaceva con la teiera, chi lo sa.
- Come? - domando.
- Mi dispiace se me ne sono andata di casa.
- Ti dispiace. Sì. Lo so. Lo immagino – mi correggo subito.
- E mi dispiace perché so che ci stai male.
- Tu no? Tu non ci stai male?
Mi fissa in silenzio per pochi secondi che mi sembrano durare anni. Eccola la domanda che non dovevo fare. Ora deve capire e magari non ce la farà e sarà tutta una tragedia.
- Sì. Certo che ci sto male, non sono mica un mostro – risponde, a sorpresa.
- Sì. Scusa.
- Di niente. Lo so che sei arrabbiato.
- Non sono arrabbiato.
Mento. E mi viene stranamente facile.
- Mi fa piacere. Non voglio che tu sia arrabbiato con me.
- Già.
Solleva il coperchio della teiera, la porcellana sfrega e tintinna, guarda dentro, come se dovesse scovare chissà quale segreto, poi la chiude e si versa una tazza. Zucchero, mezza bustina. Latte versato con tre gesti precisi. Cucchiaino preso con la destra, ato sulla sinistra, roteato in senso antiorario. Lo posa accanto alla tazza, dopo averlo battuto quattro volte sul bordo, per scrollare le gocce di tè. Beve un piccolo sorso. Un secondo piccolo sorso. Un sorso più lungo. Sorride, le piace.
- Come te la cavi? - mi chiede.
- Io bene. Sai - “non sono io, quello pazzo”, vorrei risponderle, ma sarebbe troppo cattiva anche per la situazione nella quale ci troviamo. - Devo abituarmi a una vita diversa, ecco. Ma immagino valga lo stesso per te.Annuisce ancora, ma per qualche ragione mi sembra che, in realtà, lei non capisca di cosa io stia parlando. Sarà così? Magari la mia scomparsa dall'equazione non si nota, magari sono una riga di codice non necessaria al funzionamento delle sue giornate.
- E tu come te la cavi?
- Bene, grazie. Dormo, mangio, faccio le solite cose.
- Come va con le medicine?
- Le prendo ancora, non ho problemi, sto bene.
- OK. Bene così.
La cameriera a e la blocco al volo, chiedendole un secondo caffè. Lei fa un grazioso gesto del capo che non riesco a interpretare; potrebbe volere dire “certo, arrivo subito” o “ti credo che stai ridotto così”. Adriana sorseggia ancora il suo tè, poi, improvvisamente, mi poggia la sua mano sulla mia. L'effetto è quello di ricevere una scossa elettrica avendo i piedi immersi nell'acqua gelida. Sento un brivido che parte dalla mano e mi risale lungo il braccio e il collo, diramandosi tra spina dorsale e cranio. Se mi avesse piantato il cucchiaino da tè nell'occhio mi avrebbe fatto meno effetto.
- Sono preoccupata per te.
- Per me? Tu?
- Sì.
- Non devi, sul serio. Me la cavo.
Ritira la mano, ma ancora mi fissa con occhi inquisitori.
- Ti ho chiamata.
- Quando?
- Qualche giorno fa.
- Ah mi fa piacere. È stata una bella telefonata? Non la ricordo.
- Gesù. Non mi hai risposto, non abbiamo parlato.
- Ah ecco.
- Però ha risposto qualcun altro.
Inclina la testa e aggrotta la fronte.
- Hai sbagliato numero?
- No. Era il tuo.
- Ah sì? E chi era?
- Non lo so. Era un uomo.
Rimaniamo in silenzio, a fissarci, quando lei comincia a ridacchiare,
evidentemente divertita.
- Cosa? Perché ridi?
- Eri preoccupato? Chiami, ti risponde un uomo e credi che già mi sia trovata un altro? - ancora ride.
- No. Io no. Cioè. No.
- Oh santo cielo, sei incredibile. Davvero? È tutto qui? Hai questa opinione di me? Una che ti molla dopo tutti questi anni perché ha trovato qualcuno di meglio, magari con più soldi e la macchinona?
- Oh senti, ti ho telefonato e mi risponde uno. Che dovevo pensare?
- Quello che vuoi, non importa – il sorriso si spegne, non sembra più tanto divertita.
Rimane un silenzio imbarazzante. Sento le macchine che ano, fuori, le voci degli altri clienti, il frastuono della lavastoviglie che viene caricata dal barista. Sento una vocina, dentro di me, che mi dà del cretino e un'altra che, invece, mi difende e dice che ho fatto bene a chiedere, che sono lì per quello.
- Posso chiederti chi è stato, a rispondere?
- Ti ricordi mio cugino Andrea?
- Il ginnasta?
- Fisioterapista.
- Sì.
- Era lui. È a casa mia.
- E cosa ci fa?
- La moglie lo ha cacciato di casa e io ho bisogno di qualcuno con cui dividere le spese. E poi mi aiuta con i miei problemi, sai...
Non aggiunge altro, ma capisco che le dà una mano con le medicine e con tutte le fisime che si porta dietro. Per un istante sono contento che non sia da sola e che ci sia qualcuno ad aiutarla, anche se quel qualcuno non sono io. Mi viene servito il secondo caffè proprio mentre Adriana finisce il suo tè. Raccoglie la borsetta da terra e poi mi sorride, ma non c'è lo stesso sorriso, nel suo sguardo.
- Devo andare. C'è altro, di cui volevi parlarmi?
- Sì, un sacco di cose.
- Ah.
- Però non è il momento, forse. Magari un'altra volta.
- Magari, sì.
Si sporge in avanti per darmi un bacio sulla guancia e io mi sporgo in avanti per darle un bacio sulla guancia e tutti e due ci pieghiamo dallo stesso lato e rischiamo di baciarci in bocca e allora ci tiriamo indietro e riproviamo e stavolta ci va bene ed è tutto molto imbarazzante. Prima di uscire si volta e mi fa un cenno di saluto con la mano, che ricambio, prima di bere il mio caffè e restare lì a chiedermi se questo incontro è servito a qualcosa o se, tra dieci minuti o mezz'ora, ata la botta, starò da cani. Decido che non voglio saperlo e mando un messaggio a Massi, annunciando che andrò alla sua festa e di mettermi in lista per l'ingresso.
Qualche ora dopo sono seduto dentro un ambiente che non è una discoteca o un locale. Si tratta di una vecchia fabbrica tessile chiusa da anni, all'interno della quale è stato ricavata una pista da ballo, con luci e altoparlanti e tutti gli optional. C'è un DJ Set di qualche DJ che non conosco e che ha un nome orribile e inglese e che probabilmente viene da Canicattì. Il posto, contrariamente a quanto pensavo quando mi è stato spiegato dove sarei dovuto andare, è considerato di tendenza e fighetto. In effetti il buttafuori non pareva contento di farmi are, perché non ho addosso vestiti firmati, né abbastanza strani da sembrare alternativi e alla moda. Paragonato alla lunga fila all'ingresso dovevo sembrare quello che porta le casse di birre al bar. La musica assordante è piena
di bassi e di effetti sonori tipo ufo, che paiono miracolosamente fondersi alla perfezione con i flash e i neon e tutti gli effetti e i giochi di luce. Al centro c'è una grande pista, piena di giovani che ballano e sembrano divertirsi un sacco, mentre ai lati c'è chi chiacchiera, chi balla meno vistosamente, ma comunque tiene il ritmo della musica, e chi beve qualcosa, mentre chiacchiera – per quanto sia possibile, in quella bolgia. Ai bordi della pista ci sono alcuni divanetti e su di uno di essi sono crollato io, con in corpo due mojito, un white russian e due shot di tequila. Se non sono sbronzo, ho cominciato a trovare divertente fissare con sguardo ebete e vacuo la gente che mi a davanti. Massi è comparso a inizio serata e abbiamo avuto giusto il tempo di dirci due parole, prima che raggiungesse il palco, dove dà saltuariamente il cambio a DJ Solcazzo e mette lui la musica. Non saprei definire se c'è effettiva differenza tra i due, la musica mi sembra brutta per tutto il tempo che sono lì.Mi chiedo se Sandra sia alla festa e penso di mandarle un SMS, ma per qualche motivazione lo schermo touch del mio cellulare non collabora (è solo dopo molto che mi ricordo che non ho un cellulare con schermo touch, ma che ancora usa i cari vecchi pulsanti). Davanti a me ano coppie e persone che devo conoscere, perché mi salutano e mi chiedono come sto. Rispondo educatamente che sto bene e che mi fa piacere vederle e che mi scusino se non mi alzo, ma mi gira un po' la testa. E che non si preoccupino, che era il cugino di Adriana ad avere risposto al telefono e che quindi possono stare tranquilli, il mio onore è salvo. Qualcuno annuisce, qualcuno ride, qualcuno scuote la testa. Nessuno pare particolarmente empatico con me e con quello che provo. Vorrei bere qualcosa, ma dovrei alzarmi e andare verso il bancone e non so se riesco. E se poi mi fregano il posto? Rimango seduto a valutare i pro e i contro di una sortita e ci medito con più intensità e per un tempo più lungo di quanto sia effettivamente necessario. Alla fine mi alzo in piedi, tirando una profonda boccata d'aria: sento ballare il pavimento sotto i miei piedi, ho difficoltà a mettere a fuoco e ogni volta che giro la testa i miei occhi sembrano andare per conto proprio. Tuttavia mi guardo intorno con fierezza, le mani poggiate sui fianchi e una posa che sembra quella di un pistolero che sta per battersi contro il più veloce del villaggio.Individuo il bar e ci cammino, barcollante, ma quasi in linea retta. Trovo un punto dove non c'è troppa gente che preme per ordinare e mi ci poggio, guardandomi intorno con un sopracciglio alzato e la vaga sensazione che il mio stomaco debba dirmi qualcosa di importante. Poggio un attimo la fronte al bancone, godendomi la sensazione di fresco del legno sulla pelle. Quel posto è troppo caldo, come fa la gente a ballare e a stare tutta appiccicata? E perché il cugino di Adriana risponde al suo cellulare? Non è mica corretto.Alzo la testa di scatto e vedo che a uno dei due barman.
- Ehi! - riesco a urlare.
Mi lancia un'occhiata, ma continua per la sua strada, servendo da bere a una coppia di ragazzi molto belli, molto muscolosi e molto alla moda. Li odio a pelle. Sollevo una mano che stringe una banconota da dieci Euro e, mentre a il secondo barman, gliela sventolo davanti.
- Ho i soldi! Posso pagare! - biascico.
Anche con il secondo non mi va tanto bene e sto per fare ritorno al divano, quando sento una mano sulla spalla. Massi è comparso accanto a me, sudato e serio, e mi lancia un'occhiata indagatrice.
- Ahia. L'abbiamo presa male, stasera, eh?
- L'ho presa benissimo – sento che le S si impapinano e strisciano e scivolano fuori con difficoltà. - Sono questi che non mi danno da bere.
- Perché hai bevuto abbastanza, per stasera.
- Non è vero. Ho ancora posto per un bicchiere o due.
Massi si guarda intorno e poi fa un cenno con la mano. Si avvicina una ragazza
che avrà sui vent'anni, carina, truccata e vestita in tono con la serata. Lo sono tutti, solo io sembro il reduce di un concerto di rock anni '70, con i miei jeans e la mia giacca di pelle. Anche da sobrio mi ci vorrebbe un'ora di preparazione tattica anche solo per pensare a cosa indossare, per non sentirmi fuori posto qui dentro.
- Irene, stai andando via, vero? - le chiede lui.
- Be' no, stavo andando a prendere la Stefi per portarla qui.
- Sì, stessa cosa. Fammi un piacere enorme, portamelo a casa – mi indica con un dito e lei si volta a guardarmi.
Le sorrido, amabile, e faccio un “ciao” con la mano. Lei mi riserva la stessa occhiata che si potrebbe riservare a un gatto randagio morto trovato sul proprio zerbino.
- Ma chi è? - chiede.
- È un mio amico ed è un bravo ragazzo, ma oggi ha alzato un po' il gomito. Non mi va che prenda l'auto e non abita tanto lontano da qui. Me la fai la cortesia?
Irene mi guarda di nuovo, perplessa, poi sospira e annuisce.
- Grazie. Ti prometto che ricambierò, in qualche modo.
- Io sono bravo a leccare – dico.
Massi sospira e le mette in mano le chiavi della sua auto.
- Giuro che è un bravo ragazzo. Prendi la mia macchina, la conosci, è parcheggiata dietro, vicino al kebabbaro.
- OK.
- Grazie – ripete, mentre poggia le mani sulle mie spalle.
Mi guardo intorno e annuisco, sicuro di me. Massi mi mette una mano intorno alla vita e mi spinge delicatamente verso l'uscita, io gli do una pacca sulla spalla e poi mi volto verso il bancone del bar, omaggiando i due baristi del gesto del dito medio, espresso con entrambe le mani. Il mio amico emette un gemito e mi spinge con più forza, ma ho ancora il tempo di salutare i due baristi, che mi guardano, perplessi.
- Stronzi! - grido, a pieni polmoni.
- La prossima volta non ti invito – mi dice Massi.
- La prossima volta mi siedo dietro al bancone e mi servo da solo.
- Bravo, fai così. Poi ci rivediamo al pronto soccorso.
Mi scortano fuori e l'aria fresca, contrariamente a quanto pensavo, non mi schiarisce le idee. È come se la sentissi superficialmente, sulla pelle, ma dentro mi scorresse la lava. Mi fanno sedere su una panchina di pietra e vanno a recuperare l'auto. Io prendo il cellulare e premo i tasti con forza, cercando di ricordare perché l'avessi preso. Decido di cancellare il numero di Adriana, perché, per qualche ragione, in quel momento mi sembra la cosa più sensata da fare, che lei non mi merita e poi c'ha il cugino fisioterapista che le risponde alle chiamate. Inizio a scorrere su e giù la rubrica e non trovo il numero, ma trovo quello di Carlotta e lo chiamo. Suona per qualche istante, a vuoto, poi lei risponde.
- Ciao – dico.
- Ciao – dalla voce sembra sorpresa. Probabilmente è troppo tardi per chiamare a casa la gente per bene.
- Ti ho svegliata?
- No. Non proprio, stavo leggendo e stavo per prendere sonno.
- Mi sembra giusto. Sei a casa tua, no?
- Sì.
- E se io, tipo, ti volessi mandare dei fiori a casa...a che indirizzo dovrei scrivere?
- Come, scusa?
- Ti devo mandare dei fiori. Per scusarmi. E mi serve l'indirizzo.
- Sei ubriaco?
- No. Ho bevuto solo acqua – dico, ma poi comincio a ridacchiare come uno scemo.
- Oh Cristo. Sei sbronzo.
- No, no. Sono solo allegro perché stasera sono stato a una bella festa e c'era bella musica e un sacco di gente interessante che ballava quella musica lì.
- Dove sei? Devo venirti a prendere?
- Lo faresti?
- Sì, certo.
- Sei tanto cara.
- Dove sei?
- Non lo so. Ma ho un aggio, non ti preoccupare.
- Di chi si tratta?
- Di Irene.
- Chi è Irene?
- Una che devo leccare. Dopo. Gliel'ho promesso.
C'è silenzio, per qualche istante, ma poi capisco che Carlotta si è messa a ridere, ma non vuole che io la senta.
- Stai ridendo – esclamo, trionfante.
- Un po'.
- Vittoria. Ho vinto. Io.
- OK. Allora direi che ci sentiamo quando ti è ata la sbronza, va bene?
- Ma prima devi darmi l'indirizzo. Per i fiori.
Me lo dà e io recupero la penna dalla tasca del mio cappotto e mi scrivo l'indirizzo sui jeans, con una grafia sgraziata e grossolana.
- Grazie – le dico.
- Prego. Ora vai a dormire, promesso?
- Certo. Prima arrivo a casa e poi vado a dormire.
- Ma prima devi leccare Irene.
- Cazzo sì. Grazie per avermelo ricordato.
- Allora fai a modo, mi raccomando.
- Certo. Mi impegnerò.
- Ciao.
Butto giù la telefonata e poco dopo arrivano Massi e Irene, a bordo della macchina del mio amico. Mi caricano sul posto accanto al guidatore e si raccomandano ripetutamente di aprire la portiera e di vomitare fuori, se ho bisogno. Massi mi ricorda anche che mi rompe le dita, se vomito dentro l'auto, ma non ci faccio caso, so che lo dice perché mi sento male e mi vuole bene.Io chiudo gli occhi e sento la macchina che si muove. Dico a Irene che non vado a casa mia, che mi deve portare all'indirizzo che ho sui jeans. Lei ci dà un'occhiata e credo di sentirla dire che le va bene, anzi pure meglio perché è più vicino a casa della sua amica, ma sto malissimo e dopo che ho capito che mi ci porterà smetto di dare peso a quello che dice. Mi sembra di prendere sonno, ma subito l'auto si ferma e la mia autista scende, facendo il giro e aprendomi la portiera. Cado praticamente fuori, appena slaccio la cintura, trovandomi a carponi sull'asfalto. Arranco a quattro zampe fino a un bidone della spazzatura e lo uso per tirarmi su. Quando mi volto per ringraziare Irene dell'aiuto mi accorgo che se n'è già andata e che sto parlando al nulla. Poco male, non dovrò leccarla. Ci perde lei, ci perde. Mi avvicino al muretto che delimita una serie di palazzine, dietro il quale delle siepi si tirano su, robuste e rigogliose. Sfioro le foglie verdi con le dita e comincio a camminare lungo il muro, arrivando al cancello e controllando il numero civico. Spingo e la porta si apre senza un cigolio, facendomi are; riesco a fare due o tre i, ma mi fermo di botto. Sento la salivazione che aumenta e uno strano formicolio alla base della gola. Faccio un altro o, ma poi capisco cosa sta per accadere. Mi avvicino a una siepe e vomito con forza, senza poter fare niente per impedirlo. La cosa si ripete per tre volte, quando penso di avere finito un nuovo conato mi fa vomitare ancora. Mi rimetto in piedi e riesco ad arrivare fino al portone senza altri incidenti, suono al citofono di Carlotta e solo perché oltre al cognome ha anche il nome, altrimenti non saprei a chi suonare.
- Chi è?
- Fiori – bofonchio.
- Ale?
- Sì.
Il portone scatta e io entro mentre sento ancora la sua voce che mi dice che sta al quarto piano. Ignoro l'ascensore. Ho vomitato e devo ristabilire il mio onore di uomo, quindi mi arrampico su per le scale, aggrappandomi ferocemente alla ringhiera e scalando i gradini in una combinazione di spinta delle gambe e traino delle braccia. Quando arrivo al quarto piano sono esausto come se avessi attraversato l'oceano a nuoto. Carlotta è ferma sulla soglia e mi guarda molto perplessa. La saluto e poi mi poggio al muro davanti al suo ingresso, scivolando lentamente giù e finendo con il culo seduto sul pavimento. Il corridoio è freddo, ma sono sbronzo e ho appena annaffiato le siepi dell'ingresso con la mia cena e con gli ottimi alcolici della serata danzante alla quale ho avuto piacere di partecipare.
- Era il cugino. Al telefono, dico.
Carlotta non dice niente e incrocia le braccia, in silenzio.
- E mi dispiace perché l'altra volta non è stato bello, sono stato uno stronzo e non
importa se era sesso rabbioso, a me non è piaciuto e quindi non vedo perché dovesse piacere a te.
Annuisce e si viene a sedere accanto a me. Io le poggio la testa sulla spalla e comincio a piangere. Niente di fragoroso, solo lacrime che scendono lungo le guance.
- Non sono pronto. Non me l'aspettavo e ancora adesso, dopo tutto questo tempo, non me l'aspetto. È come se fossi lì, davanti alla porta di casa, che attendo di vederla rientrare, con le valigie e mi dice che scherzava – mi asciugo una lacrima, ma serve a poco. - E invece lei sta bene, prende le sue pillole e ha qualcuno che si occupa di lei.
- Il cugino.
- Sì. Ma dovrei esserci io, non il cugino.
- Sì, dovresti.
- Mi dispiace, per l'altro giorno, sul serio.
- Va bene, non importa.
- No, importa. Mi piace fare l'amore con te e non voglio che pensi che lo faccia per te perché vorrei farlo con qualcun altro.
- OK.
- OK.
Mi pulisco naso e lacrime nella manica del giubbotto e poi cerco di rialzarmi in piedi. Con qualche difficoltà e appoggiandomi alla sua spalla ci riesco.
- Non sono pronto. Non la voglio una vita da solo. Non la voglio una nuova vita. Rivoglio la mia vecchia, perché anche se non era perfetta, era meglio di quella che ho adesso.
Carlotta è ancora seduta e mi guarda, sembra triste. Si vede che sta cercando un modo per rispondermi, qualcosa di rassicurante e che, possibilmente, possa capire anche uno nelle mie condizioni di lucidità.
- Lo so, ho fatto degli errori anche io, sicuramente, e lei non è perfetta ed è un casino e a volte le cose vanno male. Ma sono stanco di dover fare quello maturo, che accetta e capisce. Non capisco. Non capisco perché siamo così, ora, dopo tutto questo tempo. Non mi interessa capire, perché se anche fi lo sforzo questo non la farebbe tornare indietro.
Smetto di parlare di colpo, come se le parole fossero finite, all'improvviso.
- Non so cosa dire.
Sorrido e annuisco.
- Lo so.
- La vita fa schifo.
- Vangelo.
Si alza in piedi e mi abbraccia. Io la tengo stretta a me e mi godo l'abbraccio. Ce ne dovrebbero essere di più, nella propria esistenza, per i momenti di sconforto.
- Mi chiami un taxi? - chiedo, mentre ancora la stringo.
- Se ti va bene il mio divano, puoi dormire da me.
- Va bene.
- Se vomiti sul tappeto ti uccido.
- Va benissimo anche così – ammetto, mentre entro in casa. - Sarà sempre meglio di come mi sentirò domattina.
Vengo svegliato dal mio cellulare che suona. È mia madre, in panico, perché io non sono nel mio letto e c'è Massi, al telefono, che chiede di me. La tranquillizzo e le dico che sono a casa di un'amica e che sto bene. La ascolto per i cinque minuti di urla sul fatto che sono un irresponsabile e che lei non mi ha educato così e poi smette di urlare per dirmi che ho finito il latte. Poi chiude la telefonata come se non fosse successo niente. È una delle poche occasioni della mia vita dove sono contento della sua incapacità di stare concentrata sullo stesso argomento per più di un minuto e mezzo.Ho la testa che sembra schiacciata da una morsa invisibile, ci manca solo Joe Pesci con la sua vocetta stridula. Ho anche la nausea e, quando mi alzo per andare alla ricerca del bagno, mi sembra di muovermi dentro l'acqua, al rallentatore. La casa di Carlotta sembra uscire da un ritratto a carboncino degli appartamentini bohemienne della vecchia Parigi. I mobili in legno hanno tutti un aspetto un po' antico, un po' romantico; ci sono tappeti ovunque e foto in bianco e nero di paesaggi urbani. Vicino alla finestra c'è una scrivania sulla quale è poggiato un portatile circondato da fogli vari. Mi avvicino per sbirciare e scopro che si tratta di quello che scrive per il teatro e dei suoi racconti brevi. Ha stampato quello che ha scritto e le pagine sono piene di correzioni, annotazioni e note a margine. Non posso leggere niente, dall'inizio alla fine, perché i fogli sono tutti mischiati, ma riesco comunque a percepire l'amore che c'è dietro a ogni parola. Accanto al computer c'è una cornice con la foto di quella che è indiscutibilmente Carlotta da piccola, intorno ai sei-sette anni, mentre siede sulle spalle di un signore altissimo e bellissimo. Indossa uno strano frac colorato e il farfallino è sciolto e lasciato cadere mollemente sul petto, dandogli un aspetto piacevolmente trasandato. Il padre di Carlotta emana un certo fascino o forse è il sapere che faceva il prestigiatore che me lo fa sembrare così fico. Carlotta ha lo stesso sorriso ed è felicissima di sedere sulle spalle del papà.Mi rimetto alla ricerca del bagno e il fatto che l'appartamento non sia poi così grande mi rende la ricerca estremamente facile: tolta la zona giorno e la cucina c'è solo la camera da letto, il che vuol dire che bisogna are lì, per andare in bagno. Apro lentamente la porta e infilo la testa dentro: Carlotta dorme in una stanza in cui ogni parete è carica di libri e diverse pile ne ingombrano anche il pavimento. C'è una porta aperta che dà su una doccia, la raggiungo, velocemente, e me la chiudo alle spalle. Faccio pipì, mentre il mio sguardo su mutandine e reggiseni appesi ad asciugare nella doccia e a prodotti di bellezza, trucchi e creme che infestano la specchiera. Tiro lo sciacquone e mi ricordo persino di abbassare la tavoletta, così da essere un bravo ospite e un bravo maschio nello stesso momento. Quando esco dal bagno, Carlotta è sveglia e mi
guarda, da sotto le coperte, con occhi assonnati.
- Buongiorno... - mormora.
- Buongiorno. Scusa, ti ho svegliata.
- Non importa.
Mi avvicino al suo letto e mi siedo accanto a lei.
- Scusa, per ieri sera.
- Non devi scusarti – mi tranquillizza.
- Ti sono piombato in casa ed ero sbronzo. Scusa.
- Va bene, stai tranquillo. Stai bene?
- Mi sento uno schifo.
Sorride e batte con la mano accanto a sé; mi stendo lentamente e mi volto su un
fianco, così da guardarla in faccia.
- Mi piace la tua casa – le dico.
- È un po' in disordine, ma è bella.
- Ci trovo dei pezzi di te, se capisci cosa intendo.
- Sì?
- Sì. Ci sono tutti i libri e le cose che scrivi. È piccolo e accogliente e ha un aspetto un po' da nido, da casa di quando eri piccolo.
Sorride ancora e si massaggia un occhio.
- Sono fatta così.
- Lo so – rispondo.
La bacio e lei ricambia. La abbraccio e rimaniamo stretti, io e lei, senza parlare. Ho la testa che sembra in procinto di esplodere e cerco di tenerla ferma il più possibile, perché credo che Carlotta si arrabbierebbe molto, se le sporcassi di sangue e cervella la camera da letto.
- Cos'è questo profumo? - chiedo.
- Arancia. Ho l'abitudine di mettere le bucce sul termosifone, così con il caldo si sente l'odore in camera.
- È buono, mi piace.
- È una cosa che faceva mio padre, quando tornava a casa dai suoi spettacoli. Se non c'ero metteva le arance sul termosifone e così, quando entravo in casa, sapevo che ce l'avrei trovato. Era una festa, tutte le volte.
- E lo faceva anche in Agosto? Eroico. Mettere a repentaglio la sua vita, pur di farti una sorpresa.
Ride e mi stringe una mano, poi mi bacia.
- Scemo.
- Sì, un po'.
Ci baciamo ancora e lei mi a le mani su tutto il corpo, leccandomi il collo, prima di alzarmi la maglietta. Le afferro le natiche e le stringo con forza, per attirarla di più a me. Attorciglia una gamba intorno alla mia vita e la mia mano
risale fino alla coscia, spostandosi verso l'interno.
- Stai fermo – sussurra.
Abbassa i miei pantaloni slacciati e, subito dopo, le mutande, poi fa lo stesso con il suo pigiama. Si gira e apre il cassetto del comodino, armeggiando con una scatola da cui tira fuori un preservativo. Lo estrae dalla sua confezione con pochi gesti precisi e poi si infila sotto le coperte, dirigendosi verso il mio pene che si sta risvegliando. Lo prende in bocca e comincia a leccarlo, io sospiro e rimango steso sulla schiena. Non sarà riflessologia plantare, ma il dolore alla testa sembra diminuire o, quanto meno, lo sento meno pressante. Carlotta si infila il preservativo tra le labbra e poi ricomincia il pompino, infilandolo lungo tutta l'asta. Rimango ammirato e lei mi lancia un'occhiata, strizzando l'occhio.
- Sì, mi sono allenata. Con un'amica, al liceo, abbiamo fatto un sacco di prove.
- Non voglio sapere chi era il fortunato.
Mi schiaffeggia una coscia.
- Nessuno, cretino.
- Scusa.
Sale sopra di me e afferra il mio pene, impalandocisi sopra, lentamente. Rimane
ferma e in silenzio, quasi senza respirare, poi mi bacia e sorride.
- Vorrei morire così, sai? - dice, poi.
- Per favore, non ora.
Ride e comincia a muoversi, piano piano. Il ritmo del bacino aumenta sempre di più, la attiro a me per baciarla ancora e lei, cortesemente, mi pianta le unghie nelle spalle, graffiando. Mi fa male, ma non così tanto da essere fastidioso, anzi. Carlotta si ferma un attimo, con il fiato corto e mi guarda, sorridendo.
- Mi fanno un po' male le gambe – dice.
- Oh scusa, cambiamo...
- No, no, stai giù – risponde, mettendomi una mano sul petto. - Voglio stare così. Ti spiace?
- Figuriamoci.
Sorride e mi da un bacio, piccolo, semplice, molto tenero. Le carezzo una guancia e le sorrido di rimando. Ha un misto di sensualità e tenerezza capace di mandarmi in confusione, come se volessi farci sesso e proteggerla allo stesso istante. Per certi aspetti mi ricorda Adriana, anche se mi sento un po' in colpa a pensare una cosa del genere in questo momento.
Carlotta si piega in avanti e mi bacia il petto, poggiandoci la testa, respirando piano.
- Mi piace sentire il battito del tuo cuore – dice.
- Anche a me. Vuol dire che sono ancora vivo.
- Sei un cretino – ride, pizzicandomi un fianco.
Sorrido e lei si solleva leggermente, facendo uscire il mio pene, prima che possa dire qualsiasi cosa, lo afferra con la mano e lo posiziona di nuovo per inserirlo nuovamente, velocemente. Emetto un verso strozzato e anche lei respira forte, come se le si mozzasse il fiato. Ricomincia a muoversi, io la afferro per le natiche e la aiuto a farlo, sentendo il mio membro che arriva fino alla base e ancora non mi basta, ancora vorrei poter essere più dentro di lei. La afferro per il volto e la attiro a me, baciandola apionatamente, cosa che sembra piacerle molto. Mi carezza il volto e mi fissa negli occhi. Io accelero il movimento e lei ansima, sempre di più, fino a quando rotea gli occhi all'indietro e lancia un urlo, stringendosi a me. Rimane ferma e restiamo così, abbracciati, mentre lei ancora ansima.
- Scusa – dice, poi.
- Di cosa?
- Sono venuta subito.
- Non vedo il problema – sorrido.
- Tu non ancora.
- Si può sempre rimediare.
- Sì.
Rotola sulla schiena e io mi metto sopra di lei, le sue gambe si appoggiano sulle mie spalle e, facendo forza sulle mie braccia, la penetro rapidamente. Carlotta si stringe il seno, strizzando i capezzoli, come se me li offrisse. È quando sto per venire, che lei sussurra qualcosa, mi piego in avanti e cerco di capire.
- Di nuovo, cazzo... - ripete.
L'orgasmo ci prende praticamente in contemporanea, mentre vengo la bacio e lei fa lo stesso, abbracciandomi e tirandomi a sé. Le ondate di piacere rallentano, rimane solo il battito accelerato e il desiderio che durasse ancora un poco, ancora per qualche secondo o minuto, l'attimo in cui tutto è perfetto e non c'è altro. Mi stendo accanto a lei, coprendo entrambi per bene con la coperta; lei si avvicina a me e mi mette una mano sulla coscia, prima di baciarmi e poi chiudere gli occhi.
- Siamo venuti insieme – dice.
- Sì. Non mi era mai successo.
- L'abbiamo fatto solo tre volte.
- Dicevo in generale.
- No?
- Mai.
- Che peccato.
- A te sì?
- Un paio di volte, con il mio ex. Eravamo un sacco di sintonia, io e lui.
- Bastardo fortunato – dico, sorridendo.
Lei scrolla le spalle e respira a fondo un paio di volte.
- Come mai è finita? - le chiedo.
- Oh be'. Un sacco di motivi differenti. Lui era geloso, io ero gelosa. Litigavamo spesso. Litigate furibonde, con urla e accuse di tutti i tipi. Poi lui se ne andava sbattendo la porta e poi tornava e piangevamo insieme e poi facevamo l'amore.
- Non male.
- E si ricominciava così, la volta dopo. E c'è stato un momento in cui ho pensato che, tutto sommato, fossimo arrivati a un punto in cui non valeva più la pena di andare avanti, ma ancora stringevo i denti e resistevo.
- Be' eri innamorata.
- Anche. Ma forse c'era anche l'incapacità di accettare il fallimento, sai? Non sono una che la prende tanto bene, quando qualcosa non va come ha progettato.
- Non sembrerebbe.
- Ho un carattere più complesso di quello che possa sembrare – dice, grattandosi un occhio con il mignolo. - Non sono solo la timida bibliotecaria apionata di teatro.
- Non lo metto in dubbio.
- Comunque lui, a un certo punto, mi ha lasciato. E io non ho fatto niente per trattenerlo e dirgli che potevamo riuscirci. Avrei potuto. Se mi fossi messa di traverso, se avessi insistito e giurato e promesso, forse saremmo stati ancora insieme per un po', fino a quando uno dei due avrebbe detto nuovamente basta. Forse io.
- Ti manca?
- Molto. Ci sono cose che ho fatto con lui che, difficilmente, potrò mai fare con qualcun altro.
- Ti sculacciava?
Mi dà un pugno allo stomaco e mi lancia un'occhiataccia, mentre le sorrido, di rimando.
- Niente roba di sesso. Erano cose di tutti i giorni, non banali, non scontate. Cose che facevamo perché a lui veniva l'idea e io gli andavo dietro e poi si rivelava una cosa divertente e bellissima.
- Non so se sarei capace di fare lo stesso.
- Non lo so. Lui lo era e questo è quello che mi manca più di tutto e che mi convinceva che i nostri litigi erano delle enormi stupidaggini. E la vuoi sapere una cosa?
- Cosa?
- A volte ti basta questo. A volte ti basta sapere che l'altra persona ha quella scintilla che ti fa sentire bene e che ti fa stare bene quando meno te lo aspetti. A volte ti basta solo questo e digerisci tutta la merda che ingoi per il restante 99% del tempo.
Ci alziamo e lei mi prepara una colazione. Tè, pane abbrustolito e marmellata di albicocche. Mi racconta delle sue esperienze teatrali e io le racconto di Massi e di Luna. Lei ascolta con molta attenzione e divertendosi un mondo. Poi mi accompagna al lavoro, viaggiando nel traffico della mattina in silenzio, mentre gli Stones cantano Get out of my cloud. Carlotta guarda fuori e sembra persa nei suoi pensieri, io non voglio disturbarla e lascio che il silenzio sia il terzo compagno di viaggio. Parlerà lui, per noi due. Ci salutiamo e faccio il giro dell'auto, fermandomi al suo finestrino. Ci baciamo e lei mi carezza una guancia.
- Ce la fai a stare tranquillo?
- Ci provo.
- Ci rivediamo?
- Quando vuoi. C'è mia madre, in visita, ma posso liberarmi.
- Mi piacerebbe vedere casa tua. Tu hai visto la mia.
- Certo, con piacere.
Mi guarda un attimo, come se non si fidasse ancora del tutto. Poi annuisce e sorride.
- Va bene, allora. Vado.
- A più tardi.
Ci baciamo ancora e la guardo infilarsi nel traffico, guidando sicura, senza esitazioni, come se vedesse tutto quello che succede intorno a lei. Non si volta indietro. Non lo fa nessuno. Io, quando mi separo da qualcuno, mi giro sempre a guardare cosa fa. Controllo che sia tutto a posto, lo accompagno con lo sguardo fino a quando non scompare dalla mia vista. E, sotto sotto, spero sempre che l'altro si volti anche lui e ci si possa scambiare un ultimo sguardo, un altro sorriso, l'ennesimo cenno di saluto. È solo un modo per dirti “tranquillo, ci sono sempre e mi preoccupo per te, anche quando hai girato l'angolo”.
Dopo il lavoro, torno a recuperare l'auto e poi a casa e mi prendo la reprimenda di mia madre sulla responsabilità, sull'essere adulti e sull'abuso di alcool. Non faccio in tempo a ricordarle che il giorno prima mi ha chiesto una canna, che ha già cambiato discorso e mi dice che stava pensando di fare un viaggio in Brasile per imparare il Ju Jitsu. Dopo pochi giorni sono rientrato nel ritmo necessario per convivere con lei e non mi stupisco, né mi scandalizzo. Annuisco, convinto, sorridendo e dicendole che è una bella idea. Usciamo a fare due i e le parlo un po' del mio lavoro e della mia vita di tutti i giorni. Mi chiede di Massi e si
dimostra molto preoccupata per la sua nuova storia con Luna, un po' per lei, ma anche per lui.
- È un bravo ragazzo, per certi aspetti ho sempre pensato che tuo fratello sarebbe stato così, che vi sareste completati a vicenda.
Mia madre era rimasta incinta, un paio di anni prima di avere me. Il ginecologo che la seguiva aveva sottovalutato certi segnali e il risultato fu un aborto spontaneo, con tutto quello che consegue. Per un po' si era temuto che mia madre non potesse avere altri figli, ma poi le cose erano andate per il meglio ed ero nato io. Non ho mai saputo se questo è stato uno dei motivi che ha causato la rottura con mio padre. Non ho neanche mai voluto indagare, sulla cosa. Tutto sommato, mi sono detto, una volta che le cose erano finite, era inutile andare a cercare ogni minima frizione che avesse causato la frattura.
Di sicuro la perdita del primo figlio aveva sempre pesato su mia madre e ha sempre rimpianto l'accaduto.
- Non si può sapere – dico, mettendole un braccio intorno alla spalla e stringendola a me. - Ci sono tanti fratelli che non vanno d'accordo.
- Oh certo. Ci sono anche coppie che si separano, ma non vuol dire che sia sempre così. Figlio mio, c'è tanto schifo al mondo, ma non per questo dobbiamo sempre pensare che quello schifo sia parte della nostra vita.
Rimango in silenzio, totalmente spiazzato, mentre continuiamo a camminare e lei segue con lo sguardo un gatto che ci taglia la strada.
- Mi dispiace che Adriana se ne sia andata, Alessandro.
- Sì. Dispiace molto anche a me.
- Ma non è detto. A volte ritornano – aggiunge, con un sorriso.
- Già.
- La rivorresti?
Non rispondo. Arriviamo in un parco sotto casa, sotto il gazebo al centro sono seduti degli anziani che staranno discutendo di politica e della città, mentre le badanti sono sedute poco più in là, intente a spettegolare. Ci sediamo al tavolino di un bar, ordinando due caffè; il cameriere ce li porta, correlati di due cioccolatini e mia madre lo guarda allontanarsi con uno sguardo carico d'affetto.
- Ha un bel culo – dice.
- Mamma... - sospiro.
- Ma è vero. Ha le gambe lunghe, lo sai cosa vuol dire, no?
- No. E non credo di volerlo sapere – aggiungo, interdetto.
- Ma come no? È possibile che ti debba ancora spiegare delle cose del genere? Significa che quando è sopra, spinge con molta forza.
- Oh Cristo santissimo.
- Non dire così. Conta, cosa credi? Nessuna vuole andare a letto con uno che è un'ameba.
- Mamma, ti prego...
- E poi è giovane. Quelli giovani sono pieni di energie, dicono.
- Dicono? - chiedo, esasperato.
- Ho una mia amica, la Michela, forse te ne ho parlato, è quella che fa la pittrice e una volta all'anno va in India – annuisco. - Ecco, in pratica è da un anno che va con un tizio di 22 anni e mi dice grandi cose.
- Non... ti prego, non dirmi quali.
- Intanto durano più di un uomo della nostra età – continua, insensibile - e poi
possono fare sesso più volte senza tanti problemi.
- Sì, mi rendo conto della fortuna.
- E sono apertissimi a qualsiasi esperienza, perché sono così contenti di fare sesso che esaudiscono qualsiasi richiesta. Leggi: ti leccano per ore, se glielo chiedi.
Poso la tazzina, le spalle tese e mi sporgo in avanti.
- Mamma, ascolta, forse non ho dato l'impressione, ma mi stai mettendo in imbarazzo.
- Ma perché? Mica la conosci, la Michela, no?
- Non è questo...
- E comunque, dicevo, lei è molto soddisfatta. L'ha rimorchiato in una specie di discoteca per anziani, pare che ci vadano i giovani a cui piacciono le signore mature come me, per dire.
- Il termine corretto è “vecchie”, mamma – le dico, facendole la linguaccia.
- Non essere sgarbato, figlio mio, non c'è bisogno.
- Certo.
- Insomma, se l'Architetto mi muore di infarto, ci vado anche io, in quella discoteca.
- Ecco. E perché dovrebbe morire di infarto?
- Ha i suoi anni e il fisico sembra un po' delicato, sai? Una volta lo stavamo facendo nella doccia e ha avuto un attacco di pressione bassa e sembrava sul punto di morire. Mi sono un po' spaventata, in effetti.
- Oh Cristo.
- Ho dovuto letteralmente trascinarlo fino al letto e controllare che non stesse per morire.
- Molto cortese da parte tua, interrompere l'accoppiamento per accertarti che stesse bene.
- Lo so – dice, mentre scarta il cioccolatino. - Però poi abbiamo fatto sesso, eh?
- Per carità, non lo mettevo in dubbio.
Annuisce come se avessimo trovato un accordo su qualche affare miliardario e poi si poggia allo schienale della sedia, guardando i vecchi poco distanti. Si deve essere accesa una qualche discussione animata su un argomento non ben precisato.
- Il sesso è molto importante, figlio mio. Non è sporco, non è peccaminoso, non credere a chi ti dice che non si fanno certe cose. Una coppia deve fare sesso e, quando lo fa, deve essere bello. Perché, altrimenti, non funziona.
- Già.
- Tu fai sesso?
- Ultimamente parecchio.
- E com'è?
Ci penso su, poi scrollo le spalle.
- Bello.
- Come con Adriana?
Ci penso ancora, anche se non c'è bisogno.
- No. Con lei era diverso.
- Ecco.
- E sì.
- Cosa? - chiede.
- Sì, la rivorrei.
Sorride e mi mette una mano sulla mia, carezzandola. Rimaniamo in silenzio.
Quando rientriamo a casa noto che la valigia di mia madre è pronta, sul letto.
- Vai via? - chiedo.
- Sì, domani prendo il treno. Non te l'avevo detto?
- No, non mi avevi detto niente. Quando l'hai deciso?
- Non so. Mi pare stamani. Mi manca l'Architetto.
Sorrido e lei mi abbraccia, cullandomi un po', prima di darmi un bacio sulla fronte.
- Prometti che verrai a farci visita, è tempo che tu lo conosca.
- Sì, promesso.
- E porta qualcuno con te. Anche Massi, se non vuoi portare una ragazza.
- Va bene.
Va in cucina e comincia a preparare la cena, mentre io mi siedo sul divano e guardo la televisione spenta, poi prendo il cellulare e chiamo Cora.
- Ciao – dice lei, sento casino, in sottofondo.
- Disturbo?
- No, ero a prendere un aperitivo con delle amiche, sto andando via – risponde, poi la sento salutare delle persone.
- Come stai?
- Tutto bene, ti ringrazio. Ieri sera sono andato a una festa e mi sono un po' ubriacata. Una volta reggevo meglio l'alcool, devo ammetterlo.
- Brutta cosa, la vecchiaia.
- Vai al diavolo.
- Ecco.
- Tu come stai? - sento che sta sorridendo, dall'altra parte.
- Bene. Mia madre parte domani, sono un po' triste, tutto sommato.
- Che carino. Allora sei un bravo figliolo, tutto sommato.
- Così pare. O forse mi manca qualcuno che mi faccia la cena e mi lavi i vestiti.
- Stupido.
- Un po'.
Mia madre mi compare improvvisamente accanto, con la mano tesa e la guardo senza capire. Agita la mano, indicando il cellulare, glielo o.
- Pronto? Con chi parlo? - chiede. Realizzo l'errore che ho commesso e comincio a temere di cosa possa parlare. - Cora. Ma che nome curioso, i suoi genitori erano apionati de L'ultimo dei mohicani , cara? Ah capisco. Be' è un nome raro, tra l'altro non ci sono delle sante con quel nome, a meno che non sia un diminutivo di Ermacora, ma quello era un vescovo e lei non mi pare abbia la voce di un uomo, per quanto non posso fare a meno di notare una tonalità un po' bassa, un po' roca, che è molto affascinante. La osservo basito, mentre lei si aggira per il salotto e disserta sul nome di Cora come se fosse la cosa più naturale del mondo.
- Ah capisco. E sua nonna cosa faceva, nella vita? Ma va? Anche mia nonna era sarta. Una sarta pessima, tra l'altro, sono sempre rimasta stupita dal fatto che abbia potuto vivere facendo quel lavoro. Ma erano altri tempi, cara, e la gente si accontentava di quello che aveva, perché non aveva i soldi, sa? No, no, si fidi, era una cagna di sarta, davvero. Altrimenti in questo momento Alessandro gestirebbe l'atelier di famiglia, perché la mia cara nonna aveva certe aspirazioni alto borghesi che non può avere idea.
- Mamma, è necessario? - chiedo.
- Ma sì, ma sì – dice, ignorandomi completamente. - Ha ragione anche lei, ma del resto a casa sapevamo tutti che era pessima e quando si offriva di farci un orlo ai vestiti eravamo tutti terrorizzati, ma, si sa, i parenti uno mica se li sceglie, no? Esatto. Esatto. Allora la aspettiamo alle sette e mezza, per la cena. Arrivederci.
Chiude la telefonata e mi lancia il cellulare, senza guardare. Io balzo in piedi e lo prendo al volo, prima che vada a schiantarsi contro il mio televisore.
- Mamma, che hai fatto?
- Che ho fatto? - chiede lei, mentre si lega il grembiule dietro la schiena.
- Hai invitato Cora a cena?
- Sì, perché?
- E lei viene?
- Non dovrebbe?
- Non lo so. Le hai dato tempo di rispondere?
Rimane un attimo interdetto, poi scrolla le spalle.
- Ma non hai pensato che, magari, a me non andava?
- E perché non dovrebbe andarti? Dalla voce mi sembra una brava ragazza. Per quanto il nome sia un po' originale, lasciatelo dire.
- Ma non lo so. Magari non mi andava perché volevo are l'ultima serata insieme, da soli.
Lei inclina la testa e sorride, tutta commossa.
- Sei un tesoro – dice, mandandomi un bacio. - Ma a me non mi va di are la serata da sola con te, quindi direi che va bene così – aggiunge, mentre va in cucina.
Rimango in piedi, nel mezzo del salotto, e scuoto la testa. Prima o poi dovrò richiedere una perizia psichiatrica per mia mamma o ucciderla. Preferibilmente la seconda. Mi arriva un sms di Cora in cui conferma la sua presenza a cena e io vado a farmi una doccia veloce, mentre ancora cerco di capire cosa è successo. Quando esco dal bagno o davanti alla cucina e vedo che mia madre sta preparando cibo per un reggimento, probabilmente perché pensa che Cora si porti dietro anche l'ultimo dei Mohicani e il vescovo. Sto per dire qualcosa, quando suonano alla porta, attraverso il salotto raccogliendo riviste che metto sul tavolino o
sistemo in una cesta che tengo accanto al divano. Apro la porta e non mi trovo davanti a Cora. Alla soglia di casa mia ci sono Massi e Sandra.
16
Mia madre emerge dalla cucina e corre incontro a Massi, abbracciandolo con trasporto come se fosse il figlio tornato dalla guerra. Io e Sandra ci scambiamo uno sguardo un po' imbarazzato e poi lei si sporge in avanti e mi dà un bacio sulla guancia.
- Ciao – dice.
- Ciao – rispondo.
Mia madre è talmente avvinghiata al mio amico che, se non sapessi come stanno le cose, comincerei a nutrire qualche dubbio sul loro rapporto.
- Come sta, signora? È sempre più bella, ogni giorno che a.
- Come no. Sono sempre più vecchia, ogni giorno che a. Tu sei in forma – gli mette una mano sulla pancia, - direi che cominci a mettere su peso, però.
- Sì, seguo una sana alimentazione a base di tutto quello che a sul tavolo e birra.
Ridono insieme e si abbracciano ancora.
- Allora devi fermarti a cena, con noi. Tu e la tua amica.
Si volta verso Sandra e allunga la mano, che la ragazza stringe subito.
- Scusi, signorina, sono la madre di Alessandro, piacere.
- Signora, piacere. Sandra.
- Oh avevo una cara amica che si chiamava così, sa? Eravamo inseparabili, da bambine.
- Ah carino.
- E che fine ha fatto? - chiede Massi.
- Sono andata a letto con il suo ragazzo e non ci siamo più parlate da allora.
Mia madre scrolla le spalle e si dirige verso la cucina, sistemando meglio il grembiule. Massi ride e io guardo Sandra, che mi lancia un'occhiata perplessa.
- Prima regola, se vuoi uscire sana da questa serata: non fare a mia madre
domande di cui non vuoi sapere la risposta.
- OK.
- È fantastica – commenta Massi.
Sandra si scusa e va in bagno e lui mi dà di gomito.
- Sa dov'è, eh? Il bagno, dico.
Gli lancio un'occhiataccia.
- Che ci fate qui?
- Eravamo a farci l'aperitivo e sono ato per salutare tua madre. E a quanto pare ora sono invitato a cena.
- Già. E, così, giusto per sapere, che programmi avevi, per stasera?
- Nessuno. Luna ha il corso di yoga, io pensavo di andare a casa a guardare un paio di film.
- Certo. E non è che per caso ti è rimasta, questa voglia?
- Perché?
- Perché non siamo soli, a cena.
- Ah no?
- No. Cora. Mia madre ha invitato anche lei.
- Cora? La chiesaiola?
- Cora, la chiesaiola. Esatto.
Il mio amico mi guarda per qualche secondo, come se non capisse bene la portata delle mie parole. Poi vede uscire Sandra dal bagno ed esplode a ridere. Lo guardo odiandolo profondamente e lui si allontana, ancora ridendo, raggiungendo mia madre in cucina.
- Lascia che l'aiuti, signora! - esclama, mentre ancora ride.
- Che ha da ridere? - chiede Sandra, mentre si avvicina a me.
- Niente. È un idiota, ride per qualsiasi cosa, lo sai – dico.
Lei sorride e mi prende la mano, stringendola.
- Tutto bene? - chiede.
- Più o meno, sì.
- OK. Mi sembri un po' nervoso.
- Sì, sì, lo sono un po', in effetti. Ma niente per cui preoccuparsi – aggiungo, con un sorriso finto. Suonano alla porta. - A parte il fatto che sono morto.
La lascio lì e rispondo al citofono.
- Sono Cora – sento.
- Certo che lo sei. Non potevo sperare in altro – dico, mentre premo il pulsante di apertura e spalanco la porta di ingresso.
I minuti che mi separano dall'ingresso di Cora mi sembrano durare un'eternità,
lancio un'occhiata nervosa a Sandra, che sta chiacchierando con Massi, mentre sorseggiano una birra che gli deve essere stata offerta da mia madre. Cora fa il suo ingresso con indosso ancora il tailleur del lavoro e, in mano, una bottiglia di vino; è molto graziosa, ha l'espressione un po' intimidita, come se non sapesse bene cosa la aspetta e come affrontarlo. Le do un bacio sulla guancia e recupero la bottiglia.
- Grazie per essere venuta, con così poco preavviso.
- Sembrava più un ordine, in effetti – ride. - Ma va bene, non avevo voglia di starmene da sola, stasera.
- Ah è un bene che tu lo dica – rispondo, mentre vado verso la cucina ad aprire la bottiglia di vino.
Massi va subito a presentarsi, assieme a Sandra, e decido che non voglio sentire quello che diranno, cosa emergerà e, soprattutto, non voglio assistere all'occhiata che si lanceranno le due, quando si incontreranno. Sto ancora lì che mi chiedo come riuscirò a gestire la serata, quando sento ancora suonare il camlo. Rispondo al citofono, ma sento bussare alla porta. La apro e mi ritrovo davanti a mio padre. Mi sorride amichevole e mostra un plico di carta.
- Ciao – dice.
- Il portone? - chiedo, ignorandolo.
- Era aperto – sembra sorpreso. - Cioè, una signora usciva e mi ha fatto entrare e...è un momento sbagliato?
- Dio. Non sai neanche quanto.
- Ah mi dispiace. Ero venuto a portarti la prima stesura del mio libro, sai, se volevi darci un'occhiata.
Mi faccio di lato e lui lancia un'occhiata all'appartamento. Massi, Sandra e Cora si sono voltati a guardare verso la porta e Massi sorride, salutando con una mano.
- Ehi ciao Massimo. Hai gente a cena, scusa, levo le tende.
- Non è quello... - comincio.
- È quasi pronto – esclama mia madre, uscendo dalla cucina.
Appena si vedono lei rimane immobile, in mezzo al salotto, a bocca aperta. Mio padre si tende, lo sento come se avessi i suoi muscoli sotto le mani.
- Non pensavo esistesse qualcuno capace di farti stare zitta, mamma – ammetto. - È quasi rassicurante.
Alle mie parole entrambi sembrano risvegliarsi e si vanno incontro, la mano ben tesa davanti e se la stringono, parlando contemporaneamente. C'è un confuso coro di voci a base di “ma come stai?” e “non volevo disturbare” e non si capisce niente, perché entrambi rispondono all'altro e fanno subito un'altra domanda. Mi massaggio gli occhi e rimango poggiato allo stipite della porta; è la prima volta che li vedo insieme da anni, credo. Forse dal giorno della mia laurea, durante la quale, però, c'era abbastanza gente da permettergli di non avere particolari contatti. Non ho mai pensato a come sarebbe stato un incontro tra loro due, avevo solo supposto che potesse essere imbarazzante. Quello a cui sto assistendo ora va oltre. Mio padre è come uno scolaretto che rivolge la parola alla compagnetta che gli piace tanto e non sa cosa dire. Mia madre è come una beccata a commettere qualche misfatto che cerca di cambiare discorso e, nel farlo, è chiaramente rosa dai sensi di colpa e dalla vergogna. Improvvisamente ho come il sospetto che, tra loro due, non ci sia mai stato in vero chiarimento o una vera chiusura, dopo la separazione. Come se avessero sempre rimandato il momento in cui si sarebbero guardati in faccia e detto “be' è andata così, peccato”. Li lascio agitarsi ancora per un minuto buono, prima di fare un o avanti e poggiare la mia mano sulle loro, ancora intente a stringersi e a fare su e giù.
- OK. Tutto questo entusiasmo è commovente, ma direi che può bastare, eh? dico.
Si zittiscono di botto e nel mio salotto ora c'è solo un silenzio imbarazzato.
- Queste riunioni di famiglia mi commuovono sempre – dice Massimo, prima di mettersi a ridere.
Preferivo il silenzio imbarazzato.
- Sì, già – borbotta mio padre, lanciandomi un'occhiata di pura vergogna.
Gli do una pacca sulla spalla e sorrido, lui annuisce e si volta.
- Scusate il disturbo, ora vado, avevo da fare e...
- Certo – dico, accompagnandolo verso la porta.
- Ale – la voce di mia madre ci ferma quando siamo quasi alla soglia, ci voltiamo insieme e la guardo preoccupato, - perché non inviti tuo padre a fermarsi?
- Perché lui ha...deve... - guardo mio padre, in cerca di aiuto e lui è nel pieno panico.
- Devo...
- A saperlo prima...
- Mi aspetta coso...Giu...Giulio...
- Il suo amico Giulio...
- E quindi devo...
- Peccato, papà...
- Parto domani - dice mia madre – e chissà quando avremo un'altra occasione di vederci, tutti e tre insieme.
Sospiro e guardo mio padre, lui annuisce, cominciando a levarsi la giacca. Mia mamma sorride e torna in cucina, come se si fosse ricordando che sta bruciando tutto. Mio padre mi a una mano sulla schiena e poi va in bagno, lo seguo con lo sguardo e Massi mi si avvicina.
- Be' poteva andare peggio, no? - dice.
Lo guardo come se fosse un alieno.
- Credo che ti ucciderò entro fine serata – annuncio.
- Va bene. Basta che sia dopo cena, ricordo che tua madre cucina molto bene.
Mi fa l'occhiolino e poi va a sedersi a tavola; io mi volto e vedo Sandra e Cora,
in piedi, a qualche o di distanza l'una dall'altra ed entrambe stanno guardando me. Eccola lì, la prova della serata. Devo decidere accanto a chi sedermi, devo scegliere di chi essere il cavaliere. Decidere per una anziché per l'altra potrebbe rovinare il rapporto con quella messa da parte. Fino a cinque minuti prima, probabilmente, questa cosa mi avrebbe messo in ansia, ma adesso ho deciso che non devo proteggere Cora o Sandra o me stesso o lo strano rapporto che lega tutti e tre. Stasera devo occuparmi di mio padre che, temo, sarà quello che uscirà peggio dalla cena. Così aspetto che torni dal bagno e poi gli dico di seguirmi e lo faccio sedere tra me e Massi, il quale gli riempie subito il bicchiere con il vino che ha portato Cora. Io prendo un pezzo di pane e me lo ficco in bocca, masticando con furia, mentre osservo le due ragazze che si scambiano un'occhiata e poi si siedono al tavolo. Sandra si mette accanto a Massi e Cora si siede accanto a me, mossa, questa, che mi fa guadagnare un'occhiataccia da Sandra. Le sorrido, rassicurante, e poi sorrido rassicurante anche all'altra, ottenendo il risultato di non essere rassicurante neanche un po', per nessuno. Mia madre arriva dopo pochi minuti di silenzio e posa sul tavolo una pentola piena di minestrone di verdure con pezzi di lardo per insaporire. Tutti, a turno, porgiamo il nostro piatto nel silenzio assoluto, a parte Massi che cerca di ravvivare l'ambiente commentando il profumo e l'aspetto della minestra e facendo acute osservazioni sul fatto che un buon piatto caldo è sempre ottimo, quando fuori fa freddo. Lo guardo scuotendo la testa, lui scrolla le spalle e comincia a mangiare.
- Allora Sandra, cosa fai nella vita? - chiede mia madre, una volta seduta.
- Lavoro alla Esselunga.
- Cassiera? - chiede Cora.
- Non proprio.
- Commessa? - insiste.
- Un po' tutto. Mio padre è il direttore.
Tutti annuiscono e io mi rendo conto che non ho mai indagato su cosa fe, come lavoro. In effetti, mi accorgo, so poco di lei e lei, probabilmente, sa molto più di me.
- Ah be' è un bel vantaggio – dice Cora.
- In che senso? - il tono di Sandra è teso, sospetto che si stia sentendo accusata di favoritismi.
- E tu Cora? - interviene mia madre.
- Lavoro nella stessa azienda di Ale, sono nel reparto sviluppo.
- Suona interessante – commenta mia madre.
- Più o meno. In realtà è molto noioso e tecnico.
- Cora è laureata in Geologia – dico.
- Oh una laurea sui sassi sì che è interessante – commenta Sandra, prima di infilarsi in bocca una cucchiaiata di minestrone.
- Mi pubblicano un libro – interviene Massi, stroncando sul nascere la discussione.
- Oh ma davvero? Ma auguri! - esclamo io, con un tono di voce esageratamente alto.
- Sì, è una figata, vero?
- Eccome! E come si intitola questo libro?
- Si intitola Tempi migliori !
- Ah sì, me l'hai fatto leggere! Me l'ha fatto leggere! - esclamo, rivolto agli altri presenti.
Mi guardano in silenzio e io e Massi smettiamo di parlare.
- Complimenti, Massi – dice mia madre, sorridendogli.
- Grazie, signora.
- Bravo, ragazzo – mio padre gli dà una pacca sulla spalla.
Lui risponde con un sorriso un po' imbarazzato, ma si vede che è contento.
- Ti vedremo in televisione, tra poco – mia madre posa il cucchiaio e beve un sorso di vino.
- Non so. Non credo, ma non si sa mai.
- Ti metterai con qualche presentatrice o con una velina – commenta, ridendo, mio padre.
- Oh la sua ragazza non sarebbe contenta – dico.
È come se avessi detto la parola d'ordine e tutti, improvvisamente, guardano il mio amico come se si fossero accorti di sedere accanto a un alieno.
- Ragazza? - il tono di mio padre non potrebbe essere più sorpreso di così.
- Non ho propriamente una ragazza – si schernisce lui.
- Come no? Lui ha appena detto così – non posso fare a meno di notare che Cora è ata dal chiamarmi per nome ad apostrofarmi con “lui”.
- Sì, ma lui non sa la differenza che corre tra una donna e la Barbie, quindi...
Sollevo il dito medio e comincio a radunare i piatti, per portarli in cucina.
- Vediamo – esordisce mia madre – da quanto vi vedete?
- Ma sarà un paio di volte – dice lui.
- Più di un mese. E lei dorme a casa di lui – ribatto io, ando accanto al tavolo.
- Mentre sei in cucina non dimenticare di tagliarti le vene per il lungo, mi raccomando – risponde Massi.
- Non devi imbarazzarti – dice mia madre, - è bello che ti sia trovato una ragazza, sai?
- Infatti – commenta, asciutto, mio padre.
- E lei è adorabile, sapete? - interviene Sandra – Ha un carattere meraviglioso ed è così carina.
- È veramente incredibile che stia con te – dico, mentre mi siedo nuovamente al tavolo.
Mia madre mi dà uno scappellotto e va a prendere il secondo, mio padre si alza a sua volta.
- Lascia che ti aiuti, cara.
Sento la mia spina dorsale diventare un pezzo di metallo e alzo di scatto la testa. Mia madre è in cucina e non ha sentito o, forse, ha gentilmente fatto finta di non averlo fatto. Spariscono dietro la porta del cucinotto e io cerco di capire se devo andare anche io ed evitare una qualche situazione sgradevole, ma non faccio in tempo a decidere alcunché, perché Cora si volta verso di me, sorridente.
- E dimmi, come vi siete conosciuti, tu e Sara?
- Sandra – la corregge lei.
- Dimmi – continua Cora, ignorandola.
- In discoteca – dico, prima di bere un sorso di vino. - A una serata in cui Massi faceva il deejay, ricordi Massi?
- Sì, sì, ricordo. Sandra è del mio giro di amici e clienti affezionati – risponde lui, annuendo con maggiore veemenza di quanto sarebbe necessario.
- Infatti. Ci siamo conosciuti lì e sai, si balla, due chiacchiere, cose così.
- E poi Sandra è così simpatica che è difficile non diventarne amico – continua il mio amico, dando una pacca sulla spalla della ragazza, accanto a lui.
- Verissimo – aggiungo, - sono sicuro che, a fine serata, sarete sul punto di chiamarvi “sorella”.
- Gli ho fatto un pompino in un separé della disco – conclude Sandra.
- Oppure “troia” - chioso, sorridendo, falsissimo.
Cora sposta il suo sguardo da me a Sandra con una lentezza esasperante.
- Un pompino?
- Esatto. Sai, un pompino, hai presente? - mima il gesto con mano e bocca, prima
che Massi la fermi.
- Ah. Alla prima sera?
- Sì, alla prima sera. Ci ho parlato, mi è piaciuto, gli ho fatto un pompino. Semplice.
- Semplice – ripete Cora.
- Molto.
C'è un attimo di silenzio e poi Cora si sporge in avanti.
- E da allora...
- Qualche altro pompino.
- Ah.
- Ma non abbiamo mai scopato, se te lo stai chiedendo.
- Ti ringrazio, ero effettivamente curiosa.
- Figurati.
I miei genitori rientrano portando un arrosto disposto su un vassoio che ignoravo di possedere e delle patate. Stanno ridacchiando e sembrano essersi divertiti molto più di me.
- Io e tua madre ci ricordavamo della prima volta che hai partecipato a una cena con dei nostri amici – racconta mio padre. - Eri seduto al tuo posto ed eri tutto compito e guardavi gli ospiti con gli occhioni spalancati e non hai parlato per tutta la serata.
Si guarda con mia madre e ridacchiano, poi, mentre lei comincia a servire la carne, lui riprende a raccontare.
- Poi, a un certo punto della serata, vedo Alessandro che prende due patate e le schiaccia. Con molta cura e con molta attenzione. Chiede alla mamma del sughetto dell'arrosto, come questo – indica la piccola ciotola al centro del tavolo, - e lei glielo versa sulle patate schiacciate. E lui comincia a rimestarle e ad amalgamarle per bene. Io parlo con un mio amico, era un ex compagno universitario e si era trasferito a vivere in America; lo rivedevo quella sera per la prima volta dopo anni e ci aveva presentato la moglie, che era la figlia di un politico, se non ricordo male.
- Era il sindaco di una città del Texas – precisa mia madre.
- Ecco. E insomma siamo lì che parliamo di tutto e ci aggiorniamo e io, ogni tanto, guardo Alessandro che rimesta le patate e mica le mangia, eh? No, fa proprio una pappa uniforme e poi, lentamente, ne prende una forchettata e ci guarda, uno dopo l'altro. Ho pensato “ahia”, ma non ho fatto niente perché...non saprei perché, in effetti. Credo che, sotto sotto, volessi sapere come andava a finire.
- Grazie, sei stato adorabile – lo rimprovera mia madre, ma sta sorridendo estremamente divertita.
- Prego, prego. Be' come avrete capito, di colpo, Alessandro prende la forchetta e, tipo catapulta, lancia le patate per aria e questa massa di cibo misto a sugo si apre come una granata a frammentazione e va a imbrattare i nostri due ospiti.
- C'è stato un lunghissimo silenzio e io, ve lo giuro, dentro di me volevo ucciderlo.
- Io non sapevo cosa dire. La moglie del mio amico era allibita, la faccia della mamma di Alessandro era diventata viola e io, be', io cercavo delle scuse valide, ma non riuscivo a trovarle.
Massi inizia a ridacchiare e Sandra gli va dietro, Cora sorride, ma la tensione è ancora leggibile in ogni muscolo del suo viso.
- Ed è lì, in questo silenzio, che Alessandro dice “mi sto annoiando”. Nient'altro. “Mi sto annoiando”.
Inizia a ridere, accompagnato da Massi e Sandra.
- Ma è stata la nostra salvezza, perché a quel punto il mio amico ha cominciato a ridere fortissimo e questo ci ha levato da una pessima situazione.
Ridono tutti, divertiti. Io non ricordavo la storia, in tanti anni di vita insieme mi hanno rinfacciato spesso un sacco di cose che ho fatto da bambino, di oggetti rotti, di capricci inferti, di parole sbagliate, ma non ho mai sentito questo racconto. I miei genitori ridono e li vedi e capisci che, in questo momento, è come se non fosse ato un giorno, da allora. Ridono e si completano anche nel riso. Ride uno e ride l'altro e quando uno respira l'altro sta ancora ridendo e la loro risata diventa unica e senza fine. È la loro sintonia che non è morta. Può essere morto l'amore e può essere morta la pazienza. Ma c'è sempre quella sintonia e tutti e due potrebbero completare la frase dell'altro o capirsi con uno sguardo. E quando vedo questo mi chiedo come può essere morto l'amore e come può essere morta la pazienza. Perché se trovi qualcuno che ti capisce senza bisogno di parlare non è possibile che muoia qualcosa. L'unica scelta che hai è vivere e innalzare cori di gioiosi “cazzo, sì” al cielo, perché sei la persona più fortunata del mondo. E invece mia madre se n'è andata di casa e mio padre è rimasto solo e domani lei tornerà dall'Architetto e lui alla sua vita solitaria. Ed entrambi porteranno con sé quella sintonia perfetta, facendo inevitabilmente dei confronti con quella che avranno con le persone che entreranno nelle loro vite, amici o amanti o semplici conoscenti. Le risate si spengono, lentamente, chi prima, chi dopo, e ricominciamo a mangiare, ma a me è ata la fame. Mi riempio il bicchiere di vino e mia madre lancia un'occhiata alle ragazze.
- E come avete conosciuto mio figlio?
- Siamo colleghi, per l'appunto – dice Cora. - Lei, invece, gli ha fatto un pompino in discoteca.
Il vino mi va di traverso e Massi esplode ancora in una risata profonda, dandosi delle pacche sulla gamba.
- Cora... - dico.
- Ah. Be' è un modo come un altro, per fare amicizia. Credo – mia madre non si scompone e lancia un'occhiata a mio padre.
- Sì – interviene lui. - Sono altri tempi, ecco, perché a me, da giovane, non capitava, ma è anche vero che non sono mai stato un tipo da discoteca.
- Gesù Cristo – sospiro, andomi una mano sulla faccia.
- Solo che io e lui usciamo insieme.
- E scopate? - chiede Sandra.
- Sì, facciamo l'amore – risponde Cora.
Sandra annuisce e mi lancia un'occhiata del tipo “ah ecco, chi era”, io sorrido, imbarazzato, e mio padre mi guarda annuendo ammirato.
- Ti dai da fare, figliolo, eh?
- È tutto qui? “Ti dai da fare”? - interviene mia madre – Non dici qualcosa perché si vede con due donne contemporaneamente?
- Che cosa vuoi dirgli? Tutto sommato sono adulti e vaccinati e se loro lo sapevano...
- Io non lo sapevo – esclama Cora.
- Io sì – ribatte Sandra, regalandole un sorriso acido.
Io finisco il bicchiere di vino e lo riempio di nuovo, tanto vale essere ubriaco se questo è quello che mi aspetta, stasera.
- Lo sapevi? E ti andava bene? - Cora è allibita.
- Oh certo. Del resto anche io mi vedo con altre persone, no?
- Altre? Più di uno?
- Esatto. Del resto – fa un cenno con la testa verso mio padre – siamo adulti e vaccinati, no?
Cora guarda mio padre che alza una mano.
- Io non vado a letto con la signorina.
- Lo voglio ben sperare – gemo.
- Scusate, scusate – Massimo solleva le mani per attirare l'attenzione.
- Ecco, sentiamo cos'ha da dire lui – dice mio padre.
- Devo andare in bagno e vorrei che il discorso non andasse avanti, mentre non ci sono – Massi si alza in piedi e corre verso il bagno.
- Non sono una bacchettona, però, Ale, ammetto di essere sorpresa da questo tuo stile di vita – mia madre inarca un sopracciglio, mentre taglia la carne.
- Non è che me lo sia scelto – dico, - è successo. E, scusate, ma mi rifiuto di trasformare questa serata in un processo alla mia vita sessuale.
- Nessuno vuole processarti, figlio mio – dice mio padre, dandomi una pacca sulla gamba.
- Ecco.
- Io un po' – dice Cora.
- E Adriana? - aggiunge mia madre – Ne parli sempre come se ti mancasse come l'aria e intanto ti vedi con queste due signorine.
- Sono due cose diverse – dico, finendo ancora il vino.
- Cioè io...noi siamo un divertimento? - chiede Cora. Ha posato le mani sul tavolo e sembra sul punto di conficcare le unghie nel legno.
- Oh Gesù.
- Rieccomi, rieccomi! - Massi torna a o di corsa e si va a sedere al suo posto – Gli hai già parlato della bibliotecaria?
Dopo una frazione di secondo tutti si voltano a guardarmi.
- Leggo molto – mi giustifico.
- Se posso dire qualcosa, essendo la diretta interessata – dice Sandra, - o almeno una delle due, ecco: io non ho problemi se Ale si vede con un'altra donna. Non
abbiamo una relazione vera e propria. Siamo solo due persone che si trovano bene insieme e non ci vedo niente di male se, ogni tanto, le cose diventano un po' più intime. Tutt'al più – lancia un'occhiata distratta a Cora, - ho qualche difficoltà a capire i suoi gusti in fatto di donne, ma del resto chi sono io per giudicare?
- Mi pare un atteggiamento molto maturo – approva mio padre.
- Be' sono altri tempi – dice mia madre, - ma ho comunque qualche difficoltà a capire, devo ammetterlo.
Ingoio l'ultimo sorso di vino del mio bicchiere e decido che è tempo di chiudere la conversazione.
- Oh per piacere! Non capisci? Ti stupisci? Hai lasciato tuo marito e sei scappata in un'altra regione, pur di non doverlo affrontare! Stai con uno di cui non so neanche il nome, che si imbottisce di Viagra per starti dietro! Hai già deciso che, quando tirerà le cuoia, andrai a rimorchiare ragazzini nelle discoteche!
- Credo possa bastare – sussurra mio padre, preoccupato.
- Io... - respiro a fondo. - Sentite, cerchiamo di capirci: sì, faccio sesso. Faccio sesso con te e con te e con chi capita. E sì, nel frattempo penso alla donna di cui sono innamorato, ma non credo, anzi, sono sicuro di non avere mai tenuto nascosto questa fondamentale informazione a nessuna delle due.
Cora apre la bocca come per dire qualcosa, ma la zittisco con un gesto.
- Tu vuoi sentirti dare della troia, mentre scopiamo. Tu fai dei pompini che sono la fine del mondo, ma hai paura che uno ti tocchi, perché hai paura di lasciarti andare. Tu hai scopato anche i lampioni e ora hai trovato una ragazza eccezionale e sei terrorizzato dal fatto che possa diventare una cosa duratura. In un modo o nell'altro cerchiamo tutti un modo per stare bene, per tirare avanti, per non sentirci di merda e il mio, guarda caso, è quello di scopare con chi sia interessata a farlo con me, ultimamente. Ma alla luce di quanto ho appena detto, ora guardatemi negli occhi e ditemi: chi è lo stronzo, tra di noi? Nessuno dice niente, anche se capisco chiaramente che Cora vorrebbe dire “tu, figlio di puttana”, ma si trattiene per spaventosa buona educazione. Mi alzo in piedi lentamente e poggio il tovagliolo sul tavolo.
- E vi chiedo scusa, non volevo una serata del genere. Non sarò tanto maleducato da buttarvi fuori di casa, ma lo sarò abbastanza da andarmene io.
Recupero la giacca ed esco senza aggiungere nient'altro, percependo i loro sguardi puntati sulla schiena e sentendomi tremendamente in colpa. Salgo in macchina e mi metto in strada, percorrendo le strade che sono solito attraversare, mentre non faccio che ripensare a quello che ho appena detto e mi do dello stronzo. Non volevo sbottare così e non avevo diritto di farlo. In fondo, nessuna di quelle persone mi stavano maltrattando o avevano intenzione di umiliarmi. Be' forse Massi un po', ma è parte del suo inspiegabile modo di dimostrare affetto verso qualcuno. Dire certe cose, specialmente ai miei genitori, non serviva a niente. Alla fine io non sto meglio, loro sicuramente neanche e tutto quello che rimane sono io che mi aggiro, di notte, per strada, senza avere mangiato il dolce. Suono il camlo di Adriana, mentre sbircio l'ora: sono le undici e venti, non è tardissimo, ma neanche tanto presto, ma non so dove andare e ho bisogno di parlare con qualcuno.
- Sì?
- Ciao, sono io. Scusa l'ora, dormivi?
Non mi risponde neanche e il portone si apre con uno scatto, faccio le scale a due a due, senza neanche accendere la luce, e mi fermo davanti al suo portone. L'aria profuma di quei palazzi un po' vecchi, con le porte in legno rovinato, ma ancora solide e gli scalini in marmo. La porta si apre lentamente e c'è Adriana, in pigiama maschile, che mi guarda. Devo apparire come un'incongruenza nel suo mondo e nella realtà organizzata secondo parametri che nessuno, a parte lei, conosce. Però mi sorride e mi fa cenno di entrare, cosa che faccio subito, cercando di non fare troppo rumore. Mi indica la porta di una zona giorno e ci entro senza dire niente, nell'aria c'è odore di carne e di fronte al divano, dall'altra parte della camera, c'è un angolo cottura sul quale posano piatti e padelle della cena, ancora da lavare. È curioso, per Adriana, di solito lava tutto e subito, perché così è più ordinato e le cose durano più a lungo.
- Mio cugino ha mangiato, dopo che sono andata a dormire – dice lei.
Sorrido e mi siedo sul divano, mentre mi levo la giacca.
- Sì. Be' non ti preoccupare, non è niente di grave – ribatto, sorridendo.
Lei rimane ferma un attimo a guardare i piatti e so che sta chiedendosi se lavarli ora o no, se sarebbe maleducato o no farlo in mia presenza, ma, soprattutto, perché sono lì e perché la cucina non corrisponde a quell'immagine precisa e ordinata che aveva nella sua mente e che era quella che aveva lasciato, prima di andare a letto.
Le lascio il suo spazio e do un'occhiata in giro, alle foto di famiglia appese alle pareti e ai quadri dipinti da chi sa chi che sono sistemati negli angoli. Sul tavolino davanti a me un paio di riviste di auto assieme a una di cinema e a un giornale vecchio di due giorni. A naso lei e il cugino fisioterapista non hanno poi moltissimi argomenti in comune, ma del resto non è necessariamente un male. Adriana deve avere deciso che la cucina può aspettare e di colpo si siede sulla poltrona malridotta davanti a me. Mi sorride e lancia un'occhiata al frigorifero.
- Non ho molto. Forse una birra. Ti va?
- No, ti ringrazio. Vado via subito.
- Oh – ribatte, un po' sorpresa.
- Sì. Scusa, non volevo neanche disturbarti, ma...
Mi fermo, indeciso su come andare avanti, poi la guardo e lei è immobile che mi fissa, come se le mancasse qualcosa per poter rispondere.
- Avevo voglia di vederti. Tutto qui.
Si sporge in avanti e mi prende la mano e per me questo è molto importante e gliela stringo.
- Che succede? - chiede.
- Nulla. Sul serio. È un brutto periodo... - mi fermo di colpo, mi dispiace farla sentire in colpa.
Lei annuisce, ma non ritrae la mano.
- Mi manchi tanto – aggiungo.
- Sì, mi manchi anche tu, sai?
La guardo sorpresa e lei sorride, quasi ride.
- È così strano? O pensi che non abbia un cuore?
- No, ci mancherebbe.
- E poi ci si affeziona al collega d'ufficio, vuoi che non senta la tua, di mancanza?
- Ah grazie.
- Dai, lo sai cosa voglio dire.
- Lo so.
Si alza e va al lavello, dove comincia a sistemare i piatti sporchi e a sciacquarli con l'acqua. Ha perso la battaglia con la sua flessibilità, in un qualche punto della sua mente, e ha deciso di reagire.
- Come va il lavoro? - mi chiede, mentre l'acqua scorre e lei, ogni tanto, ci infila un dito sotto per controllare la temperatura.
- Oh sai, come vuoi che vada? Al solito. Grazie al cielo non ho particolari responsabilità e mi basta tenere alla larga i colleghi dal porno e dai siti di poker online e i capi sono contenti.
Sorride e infila nuovamente un dito sotto l'acqua.
- Sempre meglio che pulire le fogne, no?
- Sì, su questo non ci piove.
Finalmente la temperatura è quella ideale e tappa il lavello, per poi versare il detersivo da un flacone. Una volta, due volte, tre volte. Richiude il flacone e lo sistema sotto il lavello, l'etichetta rigorosamente verso l'esterno, così che possa riconoscere subito quello che gli serve alla prima occhiata, senza perdere tempo,
senza andare in confusione. La confusione è forse il suo nemico principale. È la cosa da evitare a tutti i costi, perché può nascere dal nulla, ma avere degli esiti catastrofici.
- Mi hanno offerto il tempo indeterminato – dice, all'improvviso.
La raggiungo al lavello e mi poggio al mobile di vecchio legno sintetico, non mi va di parlare con le sue spalle.
- Davvero? È una notizia eccezionale – dico, sorridendo.
- Sì. Mi danno anche un po' di soldi in più, non tantissimi, ma va benissimo lo stesso.
Le o una mano sulla spalla, carezzandola, lei non sussulta, né si ritrae. Sorride, mentre le mani lavano accuratamente i piatti, con una precisione che io non riuscirei ad applicare neanche se mi impegnassi con tutto me stesso.
- E tu? Novità per il tuo contratto? - mi chiede.
- Nessuna. Abbiamo ancora qualche settimana, magari provo a chiedere al mio caporeparto, nei prossimi giorni, comincio a indagare e a sentire cosa mi dicono.
- Ecco, meglio.
- Già.
Sospiro e mi massaggio gli occhi.
- È ancora valida l'offerta per la birra? - chiedo.
Lei annuisce e io ne recupero una bottiglietta dal frigorifero, aprendola con l'ausilio di un apribottiglie vecchio e arrugginito, appeso al muro. La sorseggio lentamente e lei finisce di lavare i piatti, per cominciare ad asciugarli.
- Allora, cosa ti succede? - mi chiede, all'improvviso.
- Ho litigato con i miei. E con Massi. E con altre persone.
Mi lancia un'occhiata sorpresa, mentre sfrega un bicchiere.
- Tutti insieme?
- Sì. Lo so, ci vuole un talento particolare.
- Un po' – sorride. - Come mai?
Prendo tempo giocherellando con l'etichetta della birra, strappandone dei lembi e arrotolandoli tra le dita.
- Ma niente, sul serio. Sono un po' suscettibile, in questo periodo.
- C'entro io? - chiede, mentre toglie il tappo del lavandino e l'acqua comincia a scorrere giù per lo scarico.
- In parte.
- Capisco.
- Senti, hai mai pensato...non so, ti sei per caso pentita?
Mi lancia un'occhiata e poi apre il rubinetto cominciando a sciacquare i bicchieri insaponati.
- Diecimila volte al giorno, almeno.
- Sul serio?
- Sul serio, sì. Non penserai che sia stato facile, per me, vero?
Mi accorgo che non ci ho mai pensato perché, tutto sommato, non ritenevo fosse importante, del resto è stata lei a lasciarmi, non il contrario. Il ruolo di quello distrutto spetta a me di diritto, no?
- Non lo so – ammetto, - immagino non lo sia stato.
- Infatti.
Prende le posate e le mette sotto l'acqua, una per una, con attenzione, con cura. Risciacqua ogni millimetro, ogni scanalatura, studiando se sono effettivamente pulite.
- Perché non torni? - le chiedo e lei si ferma di colpo, come quei giocattoli a molla di quando ero piccolo, come se fosse finita la carica e lei non potesse più fare o dire altro. - Riproviamo, cerchiamo di capire cosa non funzionava, perché io non lo so, non mi hai mai detto cosa ho sbagliato. Magari posso rimediare, magari possiamo ancora riuscirci, no?
Mi pento di averlo detto, perché sembra che stia per avere uno dei suoi attacchi di panico e io non volevo metterla in quelle condizioni.
- Adriana... - comincio a dire, ma poi mi fermo.
Lei si volta a guardarmi ed è incredibilmente calma; mi sorride, anche, e allunga una mano bagnata per farmi una carezza.
- Alessandro, mi dispiace, non posso.
Non so se mi sconvolge di più il suo rifiuto o la tranquillità che le leggo negli occhi. Non è mai stata così tranquilla, quando stavamo insieme; anche nei momenti in cui era felice o serena, le leggevo un fondo di tensione, di paura, come se si aspettasse, da un momento all'altro, che tutto andasse a rotoli e che il caos fosse di nuovo parte della sua vita.
- Non puoi...che vuol dire che non puoi? Perché? Sei costretta? Ti hanno rapito un familiare e se torni con me lo ammazzano? Perché non puoi?
- Perché no, perché ora posso pensare a me.
- E prima no?
- No. Prima dovevo pensare a noi e questo non mi aiutava.
Sospiro, bevo un po' di birra e rifletto su quello che ha detto, mentre lei chiude il rubinetto e si asciuga, lentamente, le mani.
- Sono pazza, lo sai.
- Non dirlo.
- Sono pazza, non sto bene, lo so e non devi fare finta che non sia così.
- Non sei pazza, Cristo santo, hai solo dei problemi che si possono risolvere.
- È vero, ma li devo risolvere io, non puoi farlo tu per me.
- Mi sembrava di fare un buon lavoro – obietto, con rabbia.
- Facevi un ottimo lavoro, davvero, ma era un lavoro che serviva a tamponare i danni. Io devo affrontare i problemi che ho e li devo risolvere, in un modo o nell'altro, e non riesco a farlo se, nel frattempo, mi preoccupo di noi due, di te, e mi sento in colpa perché come sto ti rende la vita difficile.
- Non mi rendevi la vita difficile – sembro un bambino di due anni.
Lei trattiene un altro sorriso e comincia ad asciugare i piatti.
- Sei molto carino, a dire così, ma sappiamo bene entrambi come stanno le cose. E ti sono grata perché non hai mai rinunciato e non mi hai mai fatto pesare quanto difficile fosse vivere con me, però io lo so, sono pazza, non sono stupida. E ho deciso che no, non può essere così, non me lo posso permettere, non lo
voglio.
Poggia un bicchiere sul piano della cucina e respira a fondo un paio di volte. Le o la bottiglia di birra ormai vuota e lei la butta in un sacco dentro il quale tiene il vetro; recupero la mia giacca e la indosso, lentamente, pensando a quanto ho appena sentito.
- Non posso dire niente. Se è questo quello che vuoi, va bene.
- Grazie – fa un piccolo cenno con la testa.
- E sì, è vero, era difficile e, in certi giorni, era tutto uno schifo, però eravamo insieme e io, con te, stavo bene. Ecco. Solo questo – non mi risponde, continua ad asciugare i piatti. - Non c'è bisogno che mi accompagni alla porta, conosco la strada. Grazie per la birra.
- Ciao – mi dice e sembra dispiaciuta.
- Ciao – rispondo e so di esserlo.
Torno a casa e non trovo più nessuno. Mia madre sta dormendo sul divano e russa leggermente, quindi mi muovo lentamente verso la cucina, apro lo sportello dove so che troverò la bottiglia di rum e me la porto in camera. Mi butto sul letto ancora vestito e do un paio di sorsate, ripensando a tutta la serata e rimpiangendo che non esista un tasto per il riavvolgimento, ci sarebbero un sacco di cose che non rifarei, probabilmente. Chiudo gli occhi e cerco di
rilassarmi, ma è difficile, perché penso solo a me che sbraito, seduto al tavolo, e ad Adriana che mi dice che le dispiace, ma che non possiamo tornare insieme. Dopo qualche altra sorsata prendo sonno e mi addormento abbracciato alla bottiglia, come se fosse l'unica persona a volermi bene.
17
In ufficio o la mattinata a perdere tempo su Internet: salto tra blog e social network, evito la chat di Facebook per paura di trovarci Massi e ignoro un suo SMS nel quale mi chiede di chiamarlo, quando ho finito di fare il cazzone. Mi interesso alle storie di perfetti sconosciuti, lasciando da parte quelle nelle quali non mi riconosco o che sono scritte in un italiano da fa accapponare la pelle. Cerco conforto e solidarietà nei pensieri di persone che non ho mai visto, approfittando del fatto che hanno deciso di buttare fuori quello che sentono su siti aperti a tutti, dove chiunque può sapere i fatti loro e pensare che siano dei cazzoni disperati. Mi concentro sulla disperazione altrui, perché così non penso alla mia e posso illudermi di non essere come gli altri, ma, anzi, di poter leggere le loro storie sentendomi superiore. Mi ritrovo a chiedermi se c'è un momento, prima o poi, in cui il buco che hai dentro si chiude e smetti di stare male. Guardo la mia collega Daria che sta controllando i fogli che escono dalla sua stampante, una per una, come alla ricerca di ogni imperfezione.
- Come va? - chiedo.
Daria mi guarda per un attimo, prima di tornare al suo controllo ossessivo dei fogli.
- Bene, grazie. E tu? Come stai?
Non capisco, dal tono se ce l'abbia con me, perché magari Cora le ha raccontato della mia esplosione di rabbia della sera prima, o meno.
- Al solito. Credo di essere un po' agitato, in questi giorni. Più del solito intendo, ecco.
- È normale, tesoro, non devi preoccuparti.
Lo dice guardandomi con così tanto affetto che, per un secondo, mi sento sull'orlo delle lacrime. Lei impila i fogli insieme e si alza. Noto che indossa una maglietta con su scritto “Britney Spears” e lei se ne accorge.
- Madonna ne aveva una identica – spiega, senza che chieda niente.
- Ah ecco.
- Vieni, facciamoci un caffè.
La seguo alle macchinette, dove troviamo altri colleghi in pausa; lei paga per tutti e due e poi mi fa cenno di seguirla. Andiamo in terrazzo, dove di solito la gente si rifugia per fumare, e ci sediamo sulle scale che conducono sul tetto. Beviamo i caffè in silenzio, poi lei mi racconta della sua serata precedente, quando è uscita con il tizio con la S strascicata e hanno scoperto di avere in comune un sacco di amici e di ignorarlo. Solo dopo un po' capisco che parla di amici su Facebook, che, di norma, non sono necessariamente i tuoi veri amici. Finito il caffè, Daria si infila una sigaretta tra le labbra e poi mi lancia un'occhiata.
- Vuoi? - mi porge il pacchetto e io lo prendo, con gesti lenti.
- 'fanculo, sì.
Mi godo i primi due tiri, sentendo i polmoni che mi insultano perché si ricordano della fatica che ho fatto per smettere di fumare, mentre io penso solo che ho perso un sacco di tempo, prima di decidermi a ricominciare e a godermi la nicotina.
- Allora, dimmi di te – dice, improvvisamente, Daria.
- Non c'è molto da dire – rispondo, scrollando la cenere.
- Non è quanto mi risulta, sai?
Ridacchio e mi prendo il mio tempo, dando un altro tiro alla sigaretta. So già che, quando l'avrò finita, dopo un quarto d'ora, mi sentirò terribilmente in colpa, per averla fumata. Ma del resto credo che, ogni tanto, abbiamo tutti il diritto di fare una cazzata, proprio per poterci rimproverare.
- Quando siamo andati a quella festa anni '80, io e Cora ci siamo baciati.
- Sì.
- La sera prima avevo conosciuto questa ragazza di nome Sandra.
- Sì.
- E si è formata una strana relazione, con lei; una cosa non ben precisata.
Daria non dice niente e mi guarda con la sigaretta a mezz'aria.
- È una cosa di pompini – spiego. - A lei piace farli, a me piace che mi vengano fatti.
- A quale uomo no, del resto?
- Ecco. Solo che lei è strana, ha avuto qualche trauma, non lo so, comunque non vuole che le venga fatto niente. Le piace succhiarmelo, e non solo a me, credo, ma non vuole che io la tocchi o la lecchi o che facciamo sesso.
- Mh. Curioso.
- Già.
- Molto curioso.
- Sì.
- E Cora?
- Cora e io siamo usciti e siamo stati a letto insieme e... - mi fermo e la guardo, indeciso se andare avanti.
- Dimmi.
- Non vorrei suonare offensivo.
- Be' sentiamo.
- Le piace fare sesso, come a ogni persona, però vuole che usi un linguaggio un po' forte, mentre lo facciamo.
- Parolacce? Insulti?
- Sì.
- Cosa? Parolacce o insulti?
- Entrambi.
- Ah. Però.
- Sì. Un attimo prima è prossima alla beatificazione e un attimo dopo ti trascina nei bagni degli uffici e vuole fare sesso lì.
- Quali uffici? Questi uffici?
- Sì, questi uffici.
- Oh. Ma è poco igenico.
- Non che farlo contro un muro all'aperto lo sia di meno, eh?
La vedo chiaramente tendersi e mi mordo la lingua.
- Dico così, in generale – aggiungo.
- Ah – si rilassa, ma non del tutto. - Certo, frequentarne due alla volta non è molto carino, te lo devo dire.
- In realtà è un po' più complicata di così.
Non dice nulla, si limita a sospirare e ad accendersi un'altra sigaretta, porgendomi nuovamente il pacchetto e dandomi la possibilità di pentirmi ancora una volta di avere ricominciato a fumare.
- Ho conosciuto una ragazza ed è molto dolce, una brava ragazza e, ogni tanto, ha questi strani raptus e finiamo a letto insieme.
- Credo che quegli strani raptus si chiamino “arrapamento”, Alessandro.
- Sì, ma non è solo quello. Cioè, immagino che ci sia anche quello, per carità, ma è che le prende all'improvviso e io mi ritrovo così, con lei che mi salta addosso.
- Povera vittima – sorride.
- Già. Un disgraziato.
- Qualcun altra di cui non mi hai parlato?
- Be', visto che chiedi...
Si sorprende e scandalizza allo stesso momento, io faccio finta di niente e butto fuori un perfetto anello di fumo. Ci è voluta una sola sigaretta e mezza per ricordarmi come si facevano, sono molto orgoglioso di me.
- C'è una tizia, non posso raccontarti come l'ho conosciuta, ed è strana...
- Non che le altre...
- In effetti.
- Cos'ha di strano, questa?
- Credo le piaccia farlo all'aria aperta.
- Ah.
- L'abbiamo fatto una volta sola, ora lei credo che sia tornata casa o giù di lì. E comunque ha altri cazzi a cui pensare.
- Capisco. È tutto?
- Se escludiamo la massaggiatrice.
- Quale massaggiatrice?
- Un'amica di famiglia. Fa i massaggi. Anche.
- Oh santo cielo.
- Però mi ha dato degli ottimi consigli. E comunque niente sesso, te lo assicuro.
- No?
- No. Ecco. Giusto un po' di masturbazione, ecco.
- Ah ecco. Sì, mi pare più corretto, del resto è un'amica di famiglia, non puoi andarci a letto.
- Credo sarebbe imbarazzante.
- Molto. Quel genere di imbarazzo che una sega non ti fa provare.
Ci scambiamo un sorriso e lei ridacchia, poi si alza e si stiracchia, facendo un paio di piegamenti in avanti.
- È una situazione curiosa.
- Sì? Non lo so, non mi ci sono mai trovato.
- O forse no, forse è normale. Solo che io sono sempre stata una da una persona alla volta e quindi non so come tu possa tenere questo ritmo.
- In effetti ammetto di essere un po' indolenzito, nelle parti basse.
- Ma la domanda – dice, ignorandomi, - è: tu cosa vuoi, Alessandro? Cinque donne e nessuna è la tua preferita? Nessuna alla quale pensi quando ti svegli o che ti fa sentire qualcosa, quando non c'è?
- Posso avere un'altra sigaretta? - chiedo.
Mi lancia il suo pacchetto e l'accendino e mi accendo la terza. Sono un idiota.
- Ci sarebbe la mia ex.
- Già, ci sarebbe lei.
- E non è una questione da poco.
- No, direi di no. Perché ti ha lasciato?
Mi fa male ricordare che mi ha lasciato. Mi rendo conto che ancora adesso ho difficoltà ad accettare la cosa e ad ammetterla con gli altri. Dentro di me so come stanno le cose, ma non sono in grado di dirlo ad alta voce. Dire “la mia ex” è il massimo che riesco a fare. Non aggiungo “ragazza” perché così è più impersonale, è come se parlassi di qualcuno che non è Adriana. Mi sento come se vivessimo in una realtà parallela, una dove non viviamo più insieme e, in questo modo, capiamo quanto siamo importanti l'uno per l'altra, in questa, di realtà.
- Perché non sta bene, con se stessa e con il mondo, e ha deciso che deve trovare un modo per risolvere il problema.
- E tu non eri d'aiuto?
- No, ma credo che il mio cercare di aiutarla la fe sentire...non so, come se la tenessi in realtà ferma lì, con i suoi casini. Forse era proprio così, non lo so. Magari, semplicemente, non sono la persona adatta per lei.
Daria recupera le sigarette e l'accendino, poi si appoggia alla ringhiera del terrazzo e guarda in lontananza.
- Sei nella cacca – dice.
- Sì – ammetto, alzandomi a mia volta.
- Però un po' ti invidio.
- Perché?
- Perché per quanto ora tu stia facendo sesso a destra e a manca, ancora sei innamorato della tua ex. Non ti ho sentito mai dire una brutta parola su di lei, quando me ne hai parlato, dopo la rottura, sai? Non ti sei mai messo a insultarla o a dire che è colpa sua o che speri che stia male.
- Be' non ne vedo il motivo.
- Un cuore spezzato è un ottimo motivo, credimi, Alessandro.
- Immagino di sì.
Daria mi abbraccia e mi stringe forte.
- Hai avuto l'amore, nella tua vita, Alessandro. Non è poco.
Non le dico che anche se non è poco, questo non ti aiuta, una volta che ti viene tolto. Il fatto che ti venga tolto, per contro, è troppo. Troppo ingiusto, troppo cattivo, troppo tutto. E il problema è che lo vivi come se fossi l'unico che può capire e che ha sofferto, in vita sua, che ha dovuto subire una rottura, che si è ritrovato da solo. Ma non è così e per quanto quei tizi dei blog e dei social network mi siano sembrati altro, spettri, le emanazioni del dolore di qualcuno di indistinto e sconosciuto, la verità è che in ogni loro parola ho cercato e trovato qualcosa di me. E non è che sia servito a sentirmi meglio. Mi ha semplicemente permesso di sentirmi meno solo, ma comunque infelice. Perché l'infelicità, anche condivisa, non diventa qualcosa di più sopportabile. “Mal comune, mezzo gaudio” non ha mai significato niente per nessuno. Daria si stacca dall'abbraccio e torniamo in ufficio. Mi rimetto a lavorare e il resto della giornata a rapidamente, come se mi fossi addormentato tra un battito di ciglia e l'altro. Al momento di salutarci, mi fermo alla scrivania di Daria, che sta finendo di compilare dei moduli.
- Cosa faccio con Cora?
- Non lo so. Tu cosa vorresti fare?
- Scusarmi, credo.
- E basta?
- Non credo che ci possa essere molto altro, ora come ora.
- No, infatti. Magari mi sbaglio, ma credo che anche lei non cerchi molto di più, sai?
- Davvero?
- Non so. Magari verrebbe da pensare che, essendo la fissata religiosa che è, le piacerebbe avere un suolo uomo, nella sua vita, ma credo che, tutto sommato, ora come ora le basti avere qualcuno con cui stare bene, di cui fidarsi e da cui non aspettarsi la rivelazione che va a letto con altre donne. Almeno non nel mezzo della cena con i genitori di lui.
- Sì. Non è stato il mio momento più brillante, lo ammetto.
Mi sorride e si rimette a compilare il modulo.
- Vai a casa, Alessandro, e dormici su.
Quando salgo in macchina non accendo il motore e rimango a fissare il parcheggio. Qualche collega se ne torna a casa, qualcuno invece arriva, probabilmente quelli delle pulizie. Mi massaggio il collo, dolorante, poi accendo il motore e decido che ho bisogno di consigli e che conosco la persona adatta.
Mi siedo sul lettino e guardo Rosa che entra nella stanza. In mano ha un asciugamano e il dispenser con la crema per massaggi. Sorride, quando mi vede, poi mi bacia sulle guance.
- Come stai? - chiede.
- Non lo so.
- Oh.
Stende l'asciugamano sul lettino e mi fa cenno di distendermi. Ci do un'occhiata e scuoto la testa.
- Ti spiace se parliamo un po'?
Lei mi guarda, perplessa.
- Ogni volta che vieni qui mi stravolgi la routine.
- Lo so. Immagino che veda un sacco di uomini nudi.
- Molti abituali mica li riconosco, se sono vestiti – spiega, ridendo.
Si siede accano a me e respira a fondo un paio di volte.
- Allora? - chiede.
- Ti ricordi quando mi hai detto di muovermi, di fare qualcosa?
- Di prendere in mano la tua vita.
- Sì, esatto.
- E?
- E l'ho fatto, ma non è cambiato nulla. Anzi, forse è pure peggio, sai? Ora so che mi sono mosso e non ho risolto niente.
- Cosa ti aspettavi?
Prendo il dispenser della crema e ci gioco un po', rigirandomelo tra le mani.
- Non lo so.
- Non è come nei film. Non stai su una panchina tutta la notte e poi arriva l'alba, c'è la musica che cresce e prendi la decisione che ti cambia la vita. Non funziona così. Fai delle scelte, le porti avanti, speri che siano quelle giuste. A volte vanno bene, a volte no, ma la maggior parte delle volte non cambia assolutamente
niente.
- Bello schifo.
- Non sono d'accordo.
- Ti pareva.
Ride e mi dà una spintarella con la spalla.
- Senti, io non ho problemi a parlare e a cercare di aiutarti, ma ho bisogno che ti stenda e ti faccia massaggiare.
- Perché?
- Perché mi sento a disagio a parlare così, mi sembra troppo intimo.
Mi limito a guardarla, allibito.
- Sì, lo so. Ti stendi?
Mi stendo.
Dopo 20 minuti ho le sue dita piantate nei muscoli delle cosce.
- Sentiamo: cosa vorresti? - chiede lei, di colpo.
Fino a ora c'è stato solo silenzio e musichetta zen del cavolo. Prima ancora solo una versione lounge di Total eclipse of the heart e di Wild horses .
- Dovete cambiare musica – dico.
- Come se i miei clienti fossero interessati alla classifica delle canzoni più ascoltate – mi risponde lei.
- Come fa uno a rilassarsi, con questa roba nelle orecchie?
- Mi sbaglierò, ma la tua erezione, la volta scorsa, non mi sembrava essere disturbata dalla musica.
- In effetti – ammetto.
- Ecco. Sapientone.
Mi sferra una pacca sul sedere e io rido.
- Non lo so cosa voglio. Forse voglio il lieto fine e basta. Voglio la ragazza che viene riconquistata e che tutti vivano felici e contenti. Non so. È chiedere troppo?
- Forse no. Ed è qualcosa in cui speriamo tutti, in fondo.
- Anche tu?
La sento sorridere, senza bisogno di guardarla.
- Anche io, ma la situazione è un po' più complicata di così.
- Immagino.
- Ma parliamo del lieto fine, ti va? Lei arriva e vi baciate e tornate insieme. Poi cosa succede?
- Non so. Sesso, spero. Poi coccole, raccontarsi cosa si è fatto durante i mesi ati separati, preparare uno spuntino perché dopo l'orgasmo viene sempre un sacco di fame.
- Sì, certo. Ma al mattino dopo? E a quello dopo ancora?
- Si va al lavoro e a fare la spesa.
- Stai evitando la domanda.
- Non capisco quale sia il punto, in realtà.
- Il punto, Alessandro, è che ti devi fare una domanda precisa: lei è andata via e se lo ha fatto, oltre ai problemi che può avere, c'erano problemi che avevate insieme. C'erano problemi che avevi tu, anche.
- Io non credo di avere dato dei problemi – sono quasi offeso dalla sola insinuazione.
- Alessandro...
- No, un attimo: ero perennemente impegnato a fare sì che lei stesse bene, che non si spaventasse, che niente turbasse il suo equilibrio. Mi spieghi quale problema dovrei essere stato?
- Questo non lo so. Dovresti chiedere a lei, ma mi pare evidente che non funzionavi. O funzionavi troppo, che è sempre un modo per non funzionare.
- Non lo trovo giusto.
- Oh Cristo. Non lo trovi giusto. Quanti anni hai? Dodici? Certo che non è giusto. Ti sei impegnato, e molto, e nonostante questo è andata male. Ma il punto non è cosa hai imparato, cosa ti porterai dietro e cosa sai, adesso, che prima non sapevi - smette di massaggiarmi e sospira. - Ecco, è questo il punto: ho l'impressione che tu non sappia ancora niente. Girati.
Mi metto sulla schiena e lei mi sorride, dolcemente. Poi solleva la maglietta e libera i seni dal reggipetto. Ancora una volta rimango sorpreso dalla loro grandezza. Allungo le mani e le afferro, strizzandole, mentre si versa della crema sulle mani e afferra il mio cazzo che si sta indurendo.
- Non puoi fare molto, Alessandro. Puoi solo diventare più forte e decidere cosa vuoi che succeda nella tua vita. Mi dispiace che tu stia così male, ma per quanto scontata e banale e ridicolmente cliché, devi prendere questo dolore e lasciare che i e si trasformi in qualcosa di diverso.
- E se non ci riesco?
Si sporge in avanti e affonda il mio volto tra i seni.
- Ci riuscirai – sussurra, baciandomi la fronte.
Sento il calore del suo corpo sul mio e il peso delle sue tette sul volto. I
capezzoli sfregano su guance, naso, labbra. Le socchiudo e lascio che la lingua scivoli fuori e ne lecchi uno, lei si ferma e mi lascia giocare, permettendomi di succhiarlo. Le mie dita strizzano l'altro, sentendolo inturgidirsi, mentre lei continua implacabile a masturbarmi. Farsi una sega è un gesto naturale, si comincia per caso, per istinto e per istinto ci si specializza e si diventa bravissimi e si riconosce da piccoli brividi e dalle contrazioni come sta andando, quanto manca all'orgasmo. È complicato trovare qualcuno che sia capace di fartene una altrettanto buona, perché ti abitui a uno standard, diventa un movimento naturale come respirare. L'impugnatura troppo alta o troppo bassa, la difficoltà di tenere il ritmo, gli strappi improvvisi, le interruzioni perché il braccio è stanco, basta una cosa qualsiasi per trasformare una sega in ginnastica aerobica. Rosa è brava, stringe la mano con la giusta forza, il ritmo è costante e usa la seconda mano per stimolare cappella e palle. Mi a la lingua su una guancia e la infila dentro l'orecchio, con la mano le afferro il sedere, non è sodo, non è scolpito, ma è il colpo finale. Vengo gemendo, spingendo la testa tra i suoi seni, mentre lei tiene una mano sulla mia nuca. Si pulisce le mani con dei kleenex e poi esce dallo stanzino.
- Fatti una doccia, ti preparo un caffè.
Mi do una lavata, sentendo i muscoli della schiena sciolti, e quando esco trovo un altro tizio, davanti allo specchio del bagno, intento a pettinarsi. Deve avere una sessantina anni, i capelli sono grigi e ha una pancia enorme che sporge oltre l'asciugamano avvolto intorno alla vita e che lo costringe a stare lontano dal lavandino. Mi lancia un'occhiata di sfuggita, prima di continuare.
- Con chi eri? - chiede.
Smetto di asciugarmi e lo guardo.
- Come?
- Con chi eri? Chi ti ha fatto il massaggio?
- Ah. Ero con Rosa.
- Rosa – ripete, tra sé e sé, mentre si guarda nello specchio. - Ah sì! Quella con due tette enormi, la proprietaria.
Annuisco e riprendo a sfregarmi. Lui fischietta un motivetto, mentre si a la mano tra i capelli, il grosso anello d'oro che brilla alla luce dello specchio.
- Non ci sono mai stato – dice, - sono un cliente abituale di Ekaterina. Ancora non sono riuscito a farmi fare un pompino, però – dice. Lo osservo, sorpreso, e lui sorride e strizza un occhio – Ma ci sto lavorando, eh? Vedrai che con qualche soldo in più accetterà di farmelo.
Non rispondo, non so cosa dire.
- La tua te lo succhia?
- No.
- È un peccato, ma con due tette così, tutto sommato, chi se ne frega, no?
Continuo a non rispondere. Non ho niente contro chi fa sesso a pagamento, più o meno, ma non capisco perché mi debba rendere partecipe della cosa e secondo quale codice di fratellanza pensa che possiamo scambiarci aneddoti sulle nostre esperienze con tanta confidenza.
- Non lo so. Non vengo qui per questo – spiego.
Smette di pettinarsi e mi fissa come se fossi un marziano. Poi fa una risatina di scherno.
- Certo, come no. Ora mi verrai a raccontare che vieni per i massaggi.
- No. Terapia. Vengo per la terapia psicologica.
Esco senza dargli tempo di rispondere e vado a salutare Rosa. Mi offre un caffè dal sapore orribile e mi presenta alle altre due ragazze: la bionda si chiama Oksana ed è russa, mentre la mora si chiama Helena e viene dalla Romania. Mi sorridono e sono molto gentili, non so se sia perché potrei essere un loro potenziale cliente, ma sospetto che essere presentato dal loro capo mi dia una marcia in più, rispetto al cliente abituale. Il tizio che ho incontrato nelle docce viene a pagare e poi se ne va, accompagnato dalla sua massaggiatrice alla porta e salutato con un bacio sulla guancia. Quando esce lei rotea gli occhi e scuote la testa dicendo qualcosa in una lingua che non capisco. Helena ride e si rimette poi a leggere la sua rivista di gossip.
- Non si sta male, qui. Conosco uffici dove si vive peggio – dice Rosa, di colpo.
Mi volto a guardarla, un po' sorpreso e lei fa una risatina.
- Certo, tralasciando il fatto che masturbiamo sconosciuti per soldi e che la Polizia potrebbe buttare me in prigione e cacciare le mie ragazze dal paese.
- “Le mie ragazze” - dico. - Sembri uscita dal saloon di un western.
- Oh sono molto protettiva nei loro confronti, non credere.
- Non lo metto in dubbio.
- A Pasqua, con quelle che non sono riuscite a tornare a casa perché non avevano soldi o perché non avevano nessuno, abbiamo festeggiato insieme. Sono venute da me e ognuna ha cucinato qualcosa. È stato carino.
- Siete tipo una famiglia, quindi?
- Tipo. Con meno litigi e il vantaggio che non sei costretto a vedere qualcuno, se non ti va.
- Come sei finita qui?
Alza un sopracciglio e mi guarda, dubbiosa.
- Qui. Come sei finita ad aprire un centro massaggi con tutto quello che ne consegue?
- In nessun modo particolare, credo. Ho fatto un sacco di cose, dopo... - le parole rimangono in sospeso e io annuisco, cercando di tirarla fuori dall'imbarazzo – Ho seguito un sacco di corsi. Ceramica, pittura, disegno, yoga, pilates e ho viaggiato. Ho visitato la Cina e ho legato con la guida, Su Fen, che mi ha portato in un centro massaggi, Mi è piaciuto così tanto che ho deciso, al ritorno, di iscrivermi a un corso, l'ennesimo.
- Ti sei tenuta impegnata.
- Mi sono tenuta impegnata. E i massaggi mi piacevano un sacco e allora ho cominciato a farli ad amici e amiche. Era un modo per imparare, per fare esperienza. E ho cominciato a leggere un sacco di libri e a lezione facevo un sacco di domande al mio istruttore, perché mi ero proprio fissata che dovevo fare dei massaggi perfetti. Lui allora mi consigliò di seguire un corso professionale perché, per sua stessa ammissione, quello non era un gran corso, giusto una cosa organizzata per spillare qualche soldo a signore annoiate che volevano provare qualcosa di diverso dalla cucina.
- Molto onesto, da parte sua – concedo.
- Quindi mi ha indirizzato a un corso specialistico, al quale mi sono iscritta e nel
quale mi sono diplomata. Poi ho anche seguito qualche master per i diversi tipi di massaggio e i miei amici hanno cominciato a parlare di me ai propri amici e così via. E quindi mi ritrovavo a fare massaggi a casa mia. Avevo comprato anche il lettino adatto e quando il via vai ha cominciato a farsi consistente ho cominciato a pensare che, forse, potevo farne qualcosa di più di un semplice riempitivo. Così ho cominciato a guardarmi intorno e ho trovato questo posto. Non è molto grande, ci sono solo 4 cabine per i massaggi e una stanza per la doccia, però è perfetto. Ho una clientela non troppo grande, non attira molto l'attenzione e viviamo soprattutto sugli abituali.
- Capisco.
- Poi mi si è presentata alla porta Oksana, un giorno, e mi ha chiesto se cercavo aiuto. Mi ha raccontato la sua storia, sai, lasciata casa perché la povertà era insopportabile, arrivata qui per una nuova vita, ma non riusciva a tenersi un lavoro e sapeva fare i massaggi. Allora l'ho messa alla prova: prima di tutto ha dovuto massaggiare me e poi le ho dato un mese di tempo per convincermi.
- Direi che ti ha convinta – rispondo, guardando la ragazza in piedi, davanti alla finestra, che guarda il traffico per strada.
- Sì. È una brava ragazza. Lo sono tutte, in realtà, finora non mi sono mai pentita di avere assunto qualcuno. Non sono stupida, lo so che nessuna persona al mondo sogna di fare un lavoro dove ti ritrovi a fare una sega a un vecchio o a un maniaco, ma queste ragazze lo affrontano con lo stesso spirito del chirurgo che opera l'ennesimo fegato distrutto. Sono carine, sono spumeggianti, ma non si lasciano fregare né dalle parole, né dai soldi. Ho dato delle regole e, finora, le hanno tutte rispettate.
- Che regole?
- Oh sai, le solite cose: niente droghe, non si va oltre la masturbazione, non si fa la prima mossa se non è il cliente a chiedere, cose così.
- Mi pare molto saggio.
- A volte penso che ho una vita strana, sai?
- Non posso darti torto.
- Però mi ci trovo bene, mi sento a mio agio. Vengo qui volentieri, torno a casa serena. A volte preferisco stare qui, piuttosto che tornare a casa – aggiunge, con il sorriso che si spegne, lentamente.
Non so cosa dire e le o una mano sul braccio. Siamo due persone che hanno perso qualcuno che amavano, ma, per qualche ragione, la mia perdita mi appare meno grave della sua. Ci è stato strappato chi amavamo, non abbiamo avuto la possibilità di decidere, di dire la nostra, però il fatto che io abbia il cuore spezzato perché Adriana ha lasciato casa nostra mi fa sentire come un adolescente alla sua prima cotta, rispetto al lutto di Rosa. Lei sembra scuotersi dai suoi pensieri e mi guarda. Sorride, forse sa cosa sto pensando, e mi carezza una guancia, poi si sporge e mi dà un bacio sulla fronte.
- Starai meglio, te lo prometto.
- Non ci conto tanto.
- Devi.
Annuisco, senza aggiungere altro; mi accompagna alla porta, saluto le ragazze, ando. Raggiungo l'auto parcheggiata lì davanti e lancio un'occhiata all'interno del centro, attraverso la finestra: Rosa è seduta dietro al banco di ingresso e sta fissando un punto indefinito, seria, senza parlare. Oksana arriva alle sue spalle e la stringe in un abbraccio, poggiando la testa alla sua schiena. Rosa sembra scuotersi e sorride, accarezza le braccia della ragazza e poi ricomincia a parlare. L'espressione triste è scomparsa, lasciando il campo alla sua solita energia e positività. Ci sono persone che sono capaci di guardare avanti. Io no. Io rimango ancora ancorato al ato e mi trascino pigramente nel presente.
Torno a casa e trovo mia madre seduta sul divano che legge Misery .
- Ciao – saluto, un po' teso.
- Ciao, tesoro. Com'è andata al lavoro? - chiede, senza staccare gli occhi dalla pagina.
- Al solito.
- Sai che hai ragione? Non è male, questo libro qui. Questo King dovrebbe insistere a scrivere, sai? Ha la stoffa per diventare qualcuno.
- Sì, credo che glielo abbiano detto – sorrido, mentre appendo la giacca all'appendiabiti.
Le siedo accanto e lei chiude il libro, poggiandolo sul grembo.
- Scusa. Per ieri – dico.
Non dice niente e carezza la copertina del libro, guardando le sue dita, mentre lo fa.
- Sai, Ale, lo so che non sono la madre che qualcuno vorrebbe...
- Non dire sciocchezze.
- Zitto – alza il dito e fa l'espressione di quando mi sgridava, da piccolo, e io mi zittisco. - Lo so che sono svagata e inaffidabile e lo so che ho lasciato tuo padre e che non è stato facile per nessuno.
- No, non lo è stato.
- Però vorrei che mi credessi che è stato difficile anche per me. Che lasciare la mia vita e andarmene da un'altra parte non è stata una scelta fatta da un giorno all'altro, come venire a farti visita o andare a vedere un museo.
- Non l'ho mai messo in dubbio.
- E, forse, questo mio modo di fare così svagato, così casuale, è un modo per proteggermi da quella scelta. Perché quando ci ripenso, ancora oggi, sto male.
- Lo so.
- No, figlio mio, devi credermi, non lo sai – risponde, con un sorriso. - Quando una coppia si rompe, si pensa sempre che quello che viene lasciato sia quello che sta peggio; forse è vero, forse è proprio così, ma non si pensa mai che quello che ha lasciato, a volte, sta altrettanto male, perché se ha fatto un gesto del genere, pensiamo, ha sicuramente un'alternativa o è più felice così. A volte non si è più felici, a volte basta essere un po' meno infelici.
- Eri infelice, con papà?
- Sì, lo ero. E non è tutta colpa sua, così come non è tutta colpa mia, ma ero infelice. Non stavo bene, ero diventata insoddisfatta e cattiva e acida. Ho deciso di ricominciare, di cercare di essere di nuovo la persona che ero una volta e ora credo di esserci riuscita, con i miei alti e bassi.
Respiro a fondo e mi poggio allo schienale del divano, mia madre fa lo stesso e mi prende una mano.
- Adriana, forse, sta meglio come sta ora e tu no, tu stai male. Ma vai a letto con diverse ragazze, mi sembra di capire, e se ti può servire per stare meglio, va
bene, fallo. Ma ricorda sempre che Adriana è un'altra cosa, che una relazione è un'altra cosa. E che se lei ora sta bene dove sta, forse è tempo che tu accetti quello che è successo e cominci a rassegnarti.
- Non è facile accettarlo.
- Infatti non ho detto che devi accettarlo, ho detto che devi rassegnarti. Perché ci sono volte in cui le cose ci vengono imposte e tu non puoi farci niente e puoi solo piangere e urlare e battere i piedi per terra, come quando eri piccolo e non ti volevo comprare i giocattoli. Poi però finiscono le lacrime e non hai più voce, né la forza per battere i piedi e quindi ti rassegni. Ci sono cose che non sono fatte per durare.
- Ci sono persone che si amano per tutta la vita.
- Sì, ci sono. Ma forse tu e Adriana non siete quelle persone.
La frase mi arriva come una pugnalata al petto e comincio a piangere. Non mi rendo conto che sta succedendo fino a quando le lacrime non mi salgono agli occhi con la velocità di una mareggiata improvvisa. Il corpo mi viene sconvolto dai singhiozzi e mi piego su me stesso, nascondo il viso tra le mani, cerco di darmi un tono, di non far sembrare la cosa così potente, ma so che non mi riesce. Sono improvvisamente un bambino di dieci anni nel corpo di un trentenne che piange e che non riesce a fermarsi, in un paio di momenti, tra un singhiozzo e l'altro, non mi capacito neanche io di quanto forte sia il mio pianto e mi ritrovo a chiedermi cosa mi stia succedendo, dove avessi seppellito tutto quel dolore, da quanto tempo aspettasse di uscire e di esplodere. Mia madre non dice niente e mi carezza la schiena, la sento respirare, accanto a me, ma non dice una sola parola, lascia che io pianga tutto quello che devo e la cosa va avanti a lungo, non saprei quanto, mi sembrano ore. Lentamente i singhiozzi rallentano, si spengono, il
corpo smette di sussultare e le lacrime smettono di uscire. Resto piegato, perché ho paura che possa ricominciare e mi vergogno della scena alla quale mia madre ha appena assistito e dell'aspetto che potrei avere, in questo momento. Poi, lentamente, mi rimetto a sedere e inspiro a fondo diverse volte, mentre asciugo le lacrime. Mia madre mi porge un fazzolettino, mi soffio il naso, rumorosamente, e lei mi dà un bacio sulla guancia.
- Andiamo? - chiede.
Annuisco.
La accompagno fino al binario e le porto la valigia. L'ho vista chiuderla e avrei giurato che sarebbe pesata moltissimo, invece è leggera e non mi spiego come sia possibile. Durante il viaggio non diciamo una parola, mia madre guarda la città, mentre l'attraversiamo, come se cercasse di memorizzare ogni singolo posto.
- Grazie per essere venuta – dico.
- Grazie a te per avermi ospitata. È stato divertente, no? Dovremmo rifarlo.
- Ogni volta che vuoi.
Mi sorride e ci abbracciamo, tenendoci stretti.
- Fai a modo con l'Architetto, me lo prometti? - chiedo.
- Certo che sì, tesoro.
- E, per favore, prendi il treno e non andartene da un'altra parte senza avvisare nessuno, OK?
- Che strane idee che hai di me, figlio mio.
- Sì, non so come mi vengono in mente.
- Arriverò a casa, promesso. Bacerò l'Architetto, gli dirò che ho un figlio meraviglioso e poi faremo un sacco di sesso.
- Ecco. Troppe informazioni, mamma.
- Come se tu non fi tanto sesso.
- Però almeno non te lo racconto.
- Ma a me farebbe piacere, se volessi farlo, sai? Per esempio, quella Cora è molto carina, più di Sandra, ma non so perché ho come l'impressione che ci sia più sintonia sessuale con l'altra. Mi sbaglio?
Mi stacco e la guardo in silenzio. Credo di avere finito le espressioni allibite.
- Non ci posso credere – dico. - In realtà capisco perché tu e Adriana andavate tanto d'accordo.
- E chi è Adriana? - chiede lei, aggrottando la fronte.
Rimango a bocca aperta. Lei sorride e ride.
- Sto scherzando, sto scherzando.
- Dio, ti odio – ribatto, tirando un sospiro di sollievo.
Mi abbraccia ancora.
- E invece mi devi volere bene, perché sono tua madre e ti amo moltissimo.
- Lo so e ti voglio bene.
- Bravo.
Prende la valigia e sale sul treno, poi si volta.
- Ti ho preso in prestito il libro, voglio sapere come va a finire.
- Certo, hai fatto bene.
- Poi magari vedo se ha scritto qualcos'altro, questo signore.
- Un paio di cose – dico, agitando una mano. - Non dovrebbero essere difficili da trovare, credo.
- Ah ottimo. Stammi bene, Ale, e quando vuoi, vieni a farci visita.
- Promesso, mamma.
Mi manda un bacio e sparisce nel vagone. Io mi muovo lungo il binario e la osservo trovare il suo posto e poi mettersi a sedere. Tira fuori il libro e ricomincia a leggere; io la guardo, in silenzio, fino a quando le porte non si chiudono e il treno comincia a muoversi. Solo allora lei alza lo sguardo dal libro e mi vede, si sposta una ciocca dal viso e mi sorride, salutando con la mano. Rispondo al saluto e lei dà di gomito alla vicina, indicandomi e dicendole qualcosa che non so. Probabilmente “lui è mio figlio, è single e fa sesso con due ragazze alla volta, forse di più. Ha una figlia da presentargli?”. Il treno sparisce dalla mia vista e si porta via mia madre, lasciandomi solo sul binario.
18
Massi mi risulta irraggiungibile e allora chiamo Luna che mi dice che è a una festa, ha accettato di sostituire un amico che fa il deejay e che si è ammalato, all'ultimo. Lei sta andando lì e le propongo di andare insieme.
- Massi mi ha detto di ieri – racconta, mentre siamo in auto.
- Sì. Mi vergogno molto.
- Oh be' sai, uno, ogni tanto, potrà concedersi di essere genuinamente stronzo senza sentirsi in colpa, no?
Le lancio un'occhiata e sorrido, grato.
- Grazie.
- Figurati. Cosa pensi di fare, ora?
- Non molto. Vado in giro a chiedere scusa a tutti i presenti, direi.
- Sì, mi pare il minimo.
- Poi vediamo, magari le ragazze non ne vorranno più sapere, di me.
- Ti mancherebbero?
La domanda mi mette un po' in difficoltà.
- Credo di sì – rispondo.
- Mh. Non sei proprio divorato dall'entusiasmo.
- No. Non lo sono.
- C'entra la tua ex?
- Ovviamente.
Ci fermiamo a un semaforo e guardo una coppia che attraversa la strada, spingendo una carrozzina con dentro un bebè che dorme, pacifico.
- Goditela finché dura, piccolo – borbotto.
- Vorresti dei figli? - mi chiede Luna, all'improvviso.
- Sì, credo di sì. Immagino che anche un'eventuale madre potrebbe avere da dire qualcosa, in merito.
- Immagino di sì.
- E tu?
- Certo. Almeno due, sia chiaro. Sono figlia unica, ho sentito tanto la mancanza di un fratello o di una sorella.
- Che carina.
- Vaffanculo – risponde, con un sorriso, mentre tira fuori uno specchietto dalla borsetta e studia il suo trucco.
- Con Massi come vanno le cose?
- Bene, credo. Non mi ha ancora piantata, quindi...
Le lancio un'occhiata dubbiosa, lei comincia a arsi il mascara sulle ciglia.
- Lo sai anche tu – dice, - non è una situazione che durerà in eterno.
- Perché no? - chiedo, mentre riavvio la macchina.
- Perché Massi non riesce a tenere l'uccello nei pantaloni per più di mezza giornata? Perché è dolce e intelligente e profondo, ma è maturo come un bambino di sei anni che hanno rimpinzato di cioccolata e quindi è sovreccitato?
- Magari mi sbaglio, ma sono praticamente sicuro di no, ma da quando state insieme Massi ha tirato fuori l'uccello dai pantaloni solo per te.
- Oh sì, ne sono sicura anche io. Non sarei qui, se non l'avesse fatto.
- Ecco.
- Però lo conosci meglio di me, Ale, e lo sai che non è uno che mette radici. Ho qualcosa di più delle altre, che lo fa stare sereno e che gli fa desiderare la mia compagnia. Ma tra un mese o due sarò diventata noiosa e a queste feste è sempre pieno di belle ragazze che si scoperebbero il deejay anche sulla consolle se glielo chiedesse. Mi scaricherà e si farà qualcun altra.
Non dico niente e mi limito a guidare.
- Del resto anche tu ti stai dando molto da fare, no? - dice, mentre si a il rossetto sulle labbra.
- Io e Massi siamo due persone diverse.
- I risultati non cambiano.
- Forse no, ma ci spingono motivazioni diverse.
- Sentiamo.
- Cosa?
- Spiegami. Fammi vedere il mondo dei maschi da dentro, forza.
Sbuffo e lei sorride. Cambio marcia e svolto in una traversa.
- Massi fa sesso perché gli piace fare sesso, gli piace un sacco.
- Lo so bene. Se continua così dovrò fare degli impacchi di ghiaccio.
- Ecco – ridiamo entrambi. - Anche a me piace fare sesso, ci mancherebbe, però scopo così tanto perché quando scopo non penso ad altro che a scopare. Penso alla persona che ho davanti, mi concentro sul farla venire, cerco di capire cosa le piace, se sto andando bene o no. E mentre lo faccio non penso alla mia vita, alla mia ex, al fatto che sto male.
- Mh.
- Faccio sesso perché è l'unico modo che ho per provare qualcosa di diverso dal dolore e dalla paura.
- E perché ti piace.
- E perché mi piace, certo. Altrimenti sarebbe meglio mangiare della cioccolata.
- Che comunque è sempre un bel modo di are il tempo.
- Molto.
- Se non fosse che poi te la ritrovi tutta quanta sul culo.
- Il che, diciamolo, può essere fastidioso.
- Infatti.
Ci scambiamo un sorriso complice e io comincio a cercare un parcheggio.
- Io non lo so come finirà, tra te e Massi, sinceramente. E non so neanche se faccio bene a dirti quanto sto per dirti, però tu mi piaci molto e credo che stiate bene insieme. Credo che tu gli faccia un gran bene e credo che lo sappia anche lui.
- Dici?
- Dico. E ci sono dei segnali, che ora non ti sto a dire perché sei una donna e ci costruiresti dei castelli in aria...
- Vaffanculo, di nuovo.
- Ci sono dei segnali, dicevo, cose che Massi sta facendo e che non gli ho visto fare con nessun'altra donna e che mi fanno pensare che, per lui, non sei una scopata in attesa di trovare qualcosa di diverso.
Accosto e spengo il motore, guardo Luna, che guarda fuori dal finestrino. Rimane in silenzio per un po', poi scuote la testa.
- Non mi faccio molte illusioni, Ale. So che andrà male, ma per il momento mi piace stare con lui e quindi mi godo quello che a.
- OK.
- E dovresti fare lo stesso. Smettere di essere così...intellettuale, smettere di continuare a pensare e a pensare e a pensare e concedere a quel tuo cazzo di cervellone di stare zitto per un po' e goderti quello che hai.
- OK.
- Non ci sono solo le scopate. Puoi anche limitarti a bere un bicchiere con gli amici e parlare del tempo o del lavoro o del calcio, ma non di quanto stai di merda. Perché lo sappiamo tutti che stai di merda, quello che vogliamo è che non ci stia, di merda, quando sei con noi.
- Mi dispiace, so di essere pesante.
- No, non hai capito: non sei pesante e chi ti vuole bene ti ascolta raccontare quanto sei triste per la centesima volta senza problemi. Dico solo che dovresti imparare a spegnere quel dolore, ogni tanto, per poco, il tempo di goderti una serata, una bevuta, una chiacchierata, Cristo, una scopata e poi riaccenderlo, ma intanto saresti stato bene.
- Sì, hai ragione.
- E non voglio farti il predicozzo, credimi, perché quando io rompo una storia sono uno straccio per mesi.
- Immagino.
- Va bene. Abbiamo finito con l'angolo dei consigli di Zia Luna?
- Credo di sì.
- Andiamo a goderci la festa?
- Sì, certo.
Andiamo alla porta del locale e c'è davanti un tizio in giacca che fa da buttafuori. Luna si avvicina e non posso fare a meno di notare che tutti si girano a guardarla: è piccolina, ma i jeans aderenti e la maglietta nera mettono in risalto un corpo sodo notevole. Ha messo su un trucco leggero, ma che evidenzia i suoi occhi da gatta. Mi ritrovo a pensare che se non fosse impegnata con Massi, probabilmente, io stesso ci proverei con lei. Si ferma davanti al buttafuori e sfoggia un sorriso sexy.
- Ciao, sono Luna. Il mio ragazzo è il deejay, ha detto che avrebbe lasciato detto di farmi entrare.
Il tizio annuisce e poi mi lancia un'occhiata.
- È un amico mio e di Massi, ti spiace farlo entrare?
Lui mi lancia un'occhiata da capo a piedi, con le mie scarpe da tennis e la mia maglietta dei Rolling Stones, e sembra indeciso se farmi entrare o meno. Io, per un attimo, mi chiedo se sarei in grado di stenderlo, in una rissa; da sotto la giaccia non mi sembra di notare molti muscoli, magari è tutte chiacchiere, magari il fatto che uno lo veda e pensi “buttafuori” lo rende minaccioso, ma in realtà è una mammoletta. Mi ricordo che le risse alle quali ho preso parte mi hanno sempre, invariabilmente, visto prendere un sacco di botte e sanguinare e che quindi le probabilità sono contro di me, ma è ato un sacco di tempo, dall'ultima volta che mi sono picchiato con qualcuno, magari ora sono più lucido, so affrontare meglio la pressione di un pestaggio.
- OK, entrate – dice lui, dopo averci pensato un attimo.
Luna lo ringrazia, rifilandogli una pacca sul braccio, e mi fa cenno di entrare. Io mi fermo accanto a lui e sorrido.
- Grazie.
Fa un cenno con il capo e non aggiunge altro. Vorrei chiedergli se è cintura nera di qualcosa o se magari è campione regionale di pugilato, ma la ragazza del mio amico mi trascina via ed entriamo alla festa. Il posto è un club con un sacco di luci colorate e gente che balla. Sui divanetti ci sono coppie che pomiciano e gruppi di amici che ridono e bevono. Cameriere vestite con uno stile anni '40 si affannano per portare ordinazioni e pulire i tavoli. In aria suona una versione di
Man with the hex che non ho mai sentito, ma la gente in pista sembra apprezzare, perché quando risuona nell'aria “You remind me of the man!” tutti quanti esplodono in un urlo di giubilo. Luna mi fa cenno di seguirla e ci fermiamo al bancone del bar, ordino una caipirinha per me e una capiroska per lei e pago. Brindiamo e sorseggiamo i nostri cocktail guardando la gente che balla. Trovo incredibile quante persone siano a una festa di giovedì sera, quando il giorno dopo è lavorativo; dove trovano la forza di alzarsi, la mattina? Luna balla da ferma, sul posto e dopo un po' mi prende per mano e mi porta in pista. Balliamo insieme o, meglio, lei balla, io sembro il solito orso ammaestrato. Però lei non me lo fa pesare e ci divertiamo, agitandoci sulla pista e sudando.
Improvvisamente mi si stringe accanto e si avvicina al mio orecchio, mi abbasso per sentirla meglio.
- Hai spento il tuo fottuto cervello?
- Sì – rispondo.
- Bravo.
- Grazie. Se fossi in grado di dimenticarmi della mia ex vorrei innamorarmi di una come te – dico.
Lei sorride e mi dà un bacio sulla guancia.
- Sarà per un'altra vita, dolcezza.
La musica si ferma e sento la voce di Massi risuonare nell'aria.
- Ehi tu! Giù le mani dalla mia ragazza!
Tutti si voltano a guardarci ed esplodono in una risata. Luna saluta il fidanzato e lui le manda un bacio dalla consolle, prima di fare partire ancora la musica. Appena la prima nota risuona nell'aria tutti smettono di guardarci e ricominciano a ballare.
Guardo Luna un po' imbarazzato e lei ride, mentre Massi ci si avvicina.
- Ciao... - comincio a dire.
- Tu dopo – mi interrompe lui.
Prende il volto della ragazza tra le mani e la bacia con ione. Intravedo anche lingue che guizzano, mentre la solleva di peso e la tiene lì, sospesa, tra le sue braccia, in un lungo bacio apionato.
- Pensi di fartela qui, sulla pista da ballo? - chiedo, imbarazzato, ma non ottengo risposta. - Devo andare a comprarti i preservativi? - ancora non mi degnano di risposta e continuano a baciarsi – Cristo, prendetevi una camera.
La mette giù e poi le dà ancora un bacio sulla guancia.
- Ciao, tesoro – dice.
- Ciao, piccolo – risponde lei.
Massi si volta verso di me e mi abbraccia.
- Sei una testa di cazzo – dice.
- Dimmi qualcosa che non so.
- A letto fai schifo, me l'hanno detto tutte le ragazze con cui hai scopato. Per vendicare il tuo onore ho dovuto scoparle io e farle capire cos'è un vero orgasmo.
- Carino. Sei un vero signore, Massi.
- Lo so. Ma per un amico questo e altro.
Si stacca dall'abbraccio e bacia ancora Luna.
- Vado a cambiare pezzo, mi raggiungi alla base? - le dice.
Lei annuisce e lui la bacia ancora, prima di allontanarsi. Lo guardiamo sparire tra la folla e la canzone, di colpo cambia, lasciando spazio a The boy does nothing in una specie di versione swing. Decisamente sono capitato in una serata anni '40.
- Ha visto cosa ha fatto? - chiedo a Luna, sorridendo.
- Mi ha esplorato le tonsille. Lo fa sempre – dice lei.
- No, ha pisciato per segnare il territorio – la correggo.
- Figurati.
- E la cosa buffa è che l'ha fatto con me – aggiungo, strizzandole l'occhio.
Luna non dice niente, l'ultima affermazione sembra scuoterla. La spingo dolcemente verso la consolle.
- Dai, raggiungilo – mi guarda, perplessa. - Starò bene, sul serio. Vai.
Annuisce e sparisce tra la folla, io torno al bar e mi ordino un bicchiere di vodka,
che sorseggio lentamente, mentre guardo la gente che si diverte e, ancora una volta, mi sento fuori dalla folla.Esco fuori e mi faccio timbrare la mano, ho bisogno di una sigaretta e voglio cercare un tabacchino dove prenderle. Chiedo al buttafuori dove posso trovarne uno.
- In fondo alla strada giri a destra, la seconda a sinistra e c'è il distributore.
- OK.
- Se ti do i soldi mi prendi delle Malboro? - chiede.
Annuisco, sorpreso; lui si fruga in tasca e mi allunga una banconota da cinque Euro. Trovo il distributore, davanti ci trovo due ragazze giovani, avranno sui vent'anni che mi guardano. Mi fermo e aspetto il mio turno, mentre loro parlottano, poi una delle due si volta e mi sorride. È bionda, con dei capelli ricci che le cadono oltre metà schiena, sembra uscita da un gruppo hard rock anni '80. Indossano entrambe dei pantaloni e delle magliette usurate, sembrano studentesse uscite di casa per comprarsi le sigarette.
- Ciao – dice.
- Ciao – rispondo.
- Senti, abbiamo dimenticato a casa la nostra tessera con il codice fiscale.
- Sfiga – dico.
- Sì, proprio. Ci presti la tua, così possiamo comprarci le paglie?
- Le paglie – ripeto. - Certo, nessun problema.
Allungo la mano in tasca e gli o la mia tessera che usano per comprarsi un pacchetto di Pall Mall, classica scelta da studentessa spiantata. Mi restituiscono la tessera e io compro le Malboro per la guardia del corpo e un pacchetto di Camel per me. Quando mi volto, le due ragazze sono sempre lì che fumano e chiacchierano. La bionda mi sorride e mi a il suo accendino, sopra sono disegnati degli animaletti buffi, apro il pacchetto e mi accendo una sigaretta.
- Grazie – dico, restituendole l'accendino.
- Non sei di qui, vero? Non ti ho mai visto.
- Hai visto tutte le persone che vivono nel quartiere? - chiedo.
- Le nottambule sì.
Sorrido e espiro il fumo.
- Mi chiamo Alessandro – dico, allungando la mano.
- Patrizia, piacere.
- Non sono di qui, Patrizia. Sono venuto al locale lì in fondo, il mio amico fa il deejay e mi ha fatto entrare.
- Oh fico. C'è una festa?
- Sì, qualcosa sugli anni '40, credo.
L'amica si avvicina e allunga la mano.
- Sono Samantha, ciao.
- Ciao Samantha.
- E com'è la festa? Ci si diverte? - chiede lei.
- Ci sono stato poco, ma mi sembra che la gente se la stia sando, sì.
Si guardano e capisco dove stiamo andando a parare.
- Posso chiedere se vi fanno entrare, se volete.
- Davvero? - chiede Patrizia, entusiasta – Gratis?
- Sì. Cioè, credo che da bere dovrete pagarvelo voi.
- Sì, figurati, nessun problema. Ci andiamo a cambiare, mezz'ora e arriviamo, OK?
- Dico al buttafuori di lasciare entrare Patrizia e Samantha – dico.
Le due sorridono e si allontanano a o velocemente. Io le guardo, mentre mi porto la sigaretta alle labbra, e sento Patrizia che dice “Dai, è carino, no?” e l'amica rispondere “Ma è vecchio!”. Accuso un po' il colpo e, come reazione, tiro dentro la pancia e tendo i pettorali. Non avrò vent'anni, ma mi tengo bene tutto sommato. Del resto seguo un rigido allenamento, in palestra. O lo farei, se mi decidessi a tornarci, dando così senso ai soldi investiti. Faccio ritorno al locale e mi fermo dal buttafuori, che mi lancia un'occhiata severa.
- Pensavo non tornassi più.
- Paura che sparissi con i tuoi soldi, eh? - rispondo, ridendo.
- No, paura no. Però mi scocciava dovere venirti a cercare e riempirti di botte. Non c'avevo voglia.
- Ah.
- Perché lavorare anche fuori dall'orario di ufficio?
- Sì, la tua è un'obiezione più che valida.
Si accende una sigaretta e la aspira con evidente piacere.
- Cazzo. Erano quattro ore che non fumavo – dice.
- Mh.
- Quindi sei amico di Massi? - chiede.
- Sì, anche tu?
- E chi non lo è? - risponde, con un sorriso.
- Già, è vero – ammetto.
- Era la sua ragazza, quella?
- Sì.
- Bella.
- Molto.
- Mi piacerebbe averne una come lei.
- Anche a me.
- E ti credo.
- Però – obietto – tu lavori qui, non dovrebbero mancarti occasioni per rimorchiare, no?
- Scherzi? Io sono qui per lavorare. Sono come un ginecologo, io: sgobbo dove gli altri si divertono.
- Vabbe', ma non è che stai facendo operazioni a cuore aperto, no? Si tratta di dire “tu entri” e “tu stai fuori”. Mica stai reggendo le sorti del mondo.
- Sì, ma per fare questo lavoro ti astrai, capisci?
- No, in effetti no.
- Non è difficile: è come se stessi davanti a un formicaio di quelli che vendono per casa, sai...
- Quelli nelle teche di vetro?
- Quelli. Ecco, è così, per me. Io vi vedo entrare e uscire, ma mica sto a pensare chi siete e cosa fate, eh? Mi limito a guardare come state vestiti, le vostre facce e poi mi dimentico di voi. Dopo dieci secondo non saprei riconoscervi.
- Pensavo avessi una specie di memoria fotografica.
- Più o meno. Riconosco una faccia, se mi è richiesto, ma se non è necessario... scrolla le spalle e da un tiro alla sigaretta.
- Quindi non rimorchi.
- Rimorchieresti le formiche della teca? - chiede, inclinando la testa.
- Capisco.
- E poi come fai a fare amicizia con uno che magari, dopo qualche ora, devi buttare fuori? O magari riempire di botte. Non è mica bello, sai?
- Certo.
- Quindi le mie amicizie e le mie donne me le trovo da un'altra parte.
- E dove?
- Faccio un corso di tango argentino.
Lo guardo: non è grosso, né grasso, ma non mi dà l'idea di uno abbastanza snodato da fare tango argentino.
- Pensavo fi arti marziali – dico.
- No, ho smesso un paio di anni fa, mi sono rotto un ginocchio durante un
allenamento.
- Ah.
- Il tango argentino non mi fa sforzare troppo e poi ci trovi delle belle signore. A me piacciono un po' mature, sono quelle che si fanno fare di tutto, quando ci scopi.
- Buono a sapersi.
- Poi vado nelle sale da ballo, mi guardo in giro e rimorchio. Preferisco le italiane, ma se la tirano sempre un sacco. Le sudamericane, invece, ballano sempre volentieri. Magari non ci combini niente, eh? Però se gli chiedi di ballare non dicono mai di no e ci si diverte.
- E ti basta ballarci?
Mi guarda, perplesso, mentre dà l'ultimo tiro alla sigaretta.
- Certo.
- Ah. OK.
- È strano?
- Non lo so. Pensavo andassi a rimorchiare.
- Sai, coso, io lavoro davanti a questo locale o a un altro sei sere a settimana, dalle dieci di sera alle quattro del mattino. Litigo con le persone, a volte mi tocca strattonarle. Vengo insultato, mia madre viene insultata, ogni tanto mi sputano addosso e ogni tanto qualcuno mi ha vomitato sulle scarpe. Non mi lamento, non è il lavoro peggiore del mondo, perché potrei essere in un ufficio otto ore al giorno e quello sì che mi ucciderebbe. Però quando esco ho bisogno di sentirmi leggero, di staccare, di avere davanti qualcuno che sorride e che posso fare divertire. Qui sono una specie di guardiano, capisci? Sono quello che ti separa dal divertimento, ma quando ballo no, quando ballo sono io, il divertimento.
Butta la sigaretta sul marciapiede e la schiaccia con il tallone.
- Mi pare un'ottima filosofia, la tua – mi limito a dire.
- La vita è troppo breve per viverla lamentandosi. Io la penso così – dice, scrollando le spalle.
Annuisco perché ha ragione.
- Io entro – dico, - ci sono due ragazze che vengono, si chiamano Patrizia e Samantha. Saresti così carino da farle entrare? O devo chiedere a Massi?
Ci scambiano un'occhiata e lui annuisce.
- Se non fossi amico di Massi non ti avrei fatto entrare, tanto vale fare entrare anche 'ste due.
- Ti ringrazio.
- Cos'è? Te ne scopi una? O magari tutte e due?
- No, no. Le ho conosciute al distributore.
- Ah. E perché gli hai promesso di farle entrare?
- Non lo so – dico. - Forse perché la vita è troppo breve per viverla senza fare un gesto carino, quando si ha la possibilità.
Il buttafuori mi sorride e allunga una mano.
- Sono Guido.
- Piacere Guido, mi chiamo Alessandro.
- La prossima volta che vieni qui vestiti in maniera decente, OK?
- Promesso.
Mi dà un pacca e io rientro dentro, facendomi circondare dalla musica. Vado al bancone del bar e attendo il mio turno per chiedere qualcosa da bere, quando sento una mano sulla spalla. Mi volto e mi trovo davanti a Sandra. Indossa un bel vestitino corto e i capelli sono tutti vaporosi, mi guarda un po' seria, un po' sorridendo.
- Ciao... - dico.
- Ciao.
- Bevi qualcosa? - chiedo. Lei annuisce. - Cosa?
Mi prende per mano e mi porta via, la seguo e finiamo dentro i bagni delle signore. Ci sono due ragazze che si stanno truccando, ma non sembrano fare caso al nostro aggio; due delle tre porte sono chiuse, Sandra mi spinge dentro il cesso vuoto e mi poggia al muro. Ci baciamo, il suo fiato sa di alcool, whisky sembrerebbe, e ci baciamo a lungo. Lei mi slaccia i pantaloni e io la aiuto.
- Vorrei scusarmi per ieri... - inizio, prima che mi baci ancora.
- Lo farai dopo. Ti scai molto.
- Sì, ma... - mi bacia ancora e tira fuori il mio pene duro dalle mutande, cominciando a masturbarmi.
- Vuoi che te lo succhi? - chiede.
- Sì, certo – rispondo a bassa voce, chiedendomi se le ragazze lì fuori mi sentono.
Sandra si lascia cadere sulle ginocchia e comincia a succhiarmelo ed è sempre dannatamente brava. È così brava che mi sembra che nessuno mi abbia mai fatto un pompino in vita mia. È così brava che la sua lingua sembra essere ovunque, nello stesso momento: sulla cappella, lungo l'asta, sulle palle e poi di nuovo da capo. È così brava che non riesco a dire o fare niente, perché ho paura che se perdessi la concentrazione potrebbe finire tutto troppo in fretta. Mi limito ad afferrarle i capelli e rallentare i suoi movimenti, quando me lo succhia, perché sento di stare per venire ed è così bello che non voglio finisca subito, per quanto non vedo l'ora che succeda. Lei mi guarda, da lì sotto, e capisco che se la sta godendo un mondo e per un attimo mi sorge il dubbio che potrebbe lasciarmi a metà, con il cazzo di fuori e i pantaloni a mezz'asta. Come se avesse capito la mia paura, mi afferra il braccio e ci affonda le unghie dentro, strappandomi un gemito. Si stacca dal mio pene e si alza, mi prende per le spalle e mi spinge verso il water, aiutandomi a sedere senza farmici cadere sopra.
- Che succede? - chiedo.
- Niente – risponde, prima di baciarmi ancora.
Dal reggiseno tira fuori un preservativo e strappa la confezione con i denti. Me lo a e io me lo infilo, guardandola senza capire. Sandra si mette a cavalcioni sopra di me e mi osserva: sembra avere perso tutta la sicurezza che aveva fino a un attimo prima e i suoi occhi assomigliano a quelli di una persona dubbiosa e spaventata.
- Sandra...
- Solo un attimo, OK? Solo per capire.
- Capire cosa? Di che parli? - dico.
Sandra si abbassa pian piano e afferra il mio cazzo alla base, portandoselo tra le gambe. Lo strofina un paio di volte, per quello che sento attraverso il preservativo, prima di puntarlo e scendere lentamente. Fa una smorfia di dolore e si ferma quando la sola punta è entrata. Io sono un po' spaventato, ma non dico niente. Lei apre un occhio e mi guarda.
- Non sono più abituata, non fare quella faccia – dice, ridendo.
- OK. Scusa.
- Cristo, sembra che ti stia violentando. Rilassati.
- Sì. È che...non so...non me l'aspettavo.
- Non c'è niente da aspettarsi. Stai zitto e lasciami fare.
- Va bene.
Scende ancora un po', sento le sue gambe che tremano per lo sforzo e mi affretto a prenderla per le natiche e aiutarla.
- Grazie – sospira.
- Dovere.
Scende ancora, lentamente, ma ormai sembra che ci siamo. Arriva in fondo e si ferma, sedendosi su di me.
- Gesù... - sospira.
Mi abbraccia e poggia il mento sulla mia spalla destra. Io la tengo ancora per le natiche e do saltuarie strizzate, perché nonostante tutto rimango un uomo eccitato e con una bella ragazza che lo sta cavalcando. Sandra rimane ferma e io, da quella posizione non posso fare molto, quindi non faccio niente. Le do un bacio sui capelli e rimango in silenzio, ad ascoltare i suoi respiri.
- Non lo facevo da tanto.
- Sì, lo so.
- Mi sento come una che sta scopando nel letto dei genitori, con il fidanzatino del liceo.
Mi guardo intorno: le pareti sono piene di scritte, di insulti, di complimenti più o meno sconci verso questo o quel ragazzo, di numeri di telefono di uomini che cercano scopate senza impegno.
- Spero che i tuoi avessero maggiore gusto, nell'arredamento.
Ride e sento le vibrazioni sulla mia asta.
- Sì, decisamente.
- Sandra, cosa succede?
Smette di ridere e mi bacia il collo.
- Non succede niente.
- Sandra.
- Niente, davvero. Volevo provare, volevo capire com'era, non me lo ricordavo più. Non scopo da una vita e mezza, Ale. Tutto qui. Il fatto che sia qui dovrebbe farti capire quanto a mio agio mi sento, con te.
- Sì, mi rendo conto. E mi fa piacere.
- OK.
Rimane ancora in silenzio e mi bacia ancora sul collo.
- Senti, per ieri sera...
- Sei un pezzo di merda – dice.
- Ecco.
- Io con quella ho fatto la stronza, perché mi sta sulle palle, ma resti un pezzo di merda.
- Lo sapevi che scopo con altre.
- Lo so. E tu sai che succhio altri cazzi, oltre il tuo.
- Sì.
- Però non te li vengo a sbattere in faccia. Non ti vengo a baciare con la mia bocca che sa ancora di sborra.
- Cristo. Troppe informazioni.
- Vaffanculo. Non mi fare mai più una cosa del genere, chiaro?
- OK.
- Sei un pezzo di merda – ripete.
- No, non lo sono. Però ho capito, davvero.
- Mi hai fatto male, stronzo.
Rimango sorpreso.
- Male? Perché?
- Perché sì. Perché quella stronza è più bella di me ed è intelligente e ha cultura e io mi sono sentita una merdina, in confronto a lei.
- È questo che pensi? Pensi che io faccia confronti?
- Non lo so cosa pensi. Come cazzo faccio a saperlo?
- Oh Cristo. Sei tutta scema.
- Hai il tuo cazzo piantato tra le mie cosce, ti spiacerebbe essere meno stronzo?
- Veramente sei tu che mi stai scopando, quindi mi permetterò di essere stronzo quanto voglio.
La sento ridacchiare e le sposto il viso: la bacio.
- Non c'è nessun confronto, pezzo di idiota. Non penso a lei quando sono con te e viceversa.
- Troppo gentile.
- Senti, non fare l'offesa con me, santo cielo, vogliamo parlare di quanti cazzi hai succhiato, dall'ultima volta che l'hai fatto con me?
- Non credo tu voglia saperlo davvero.
- No, infatti. Ma devo forse pensare che hai fatto confronti? “Oh guarda, questo sì che è grosso, mica come quello di Alessandro!”.
- No.
- Appunto.
- Anche perché chiunque ce l'ha più grosso del tuo.
Mi zittisco e poi sorrido.
- Non sei divertente.
- Sì, invece – risponde, baciandomi ancora.
- Sì, un po'.
- Ecco.
Sentiamo bussare alla porta.
- Occupato! - rispondiamo, entrambi.
Ridiamo insieme e lei si muove leggermente, per sistemarsi meglio.
- Non è male, sai? - dice.
- Cosa?
- Averti dentro.
- Ne sono lieto.
- Con quante donne scopi, a parte me? Lo so che non scopiamo, ma ci siamo capiti.
- Perché vuoi saperlo?
- Non lo so. Voglio saperlo e basta.
- Più o meno quattro.
- Però.
- Troppe?
- Abbastanza. E dire che quando te l'ho succhiato la prima volta ero la prima donna che vedeva il tuo cazzo, dalla tua ex.
- Come cambiano le cose, eh?
- Pare. Non me lo fare mai più, per favore. Piuttosto scaricami e dimmi che non vuoi avere altro a che fare con me. Sono pronta, per quello, posso affrontarlo. Ma sentirmi una delle tante, in quel modo lì, no.
- Va bene. Scusami. Anche per quello che ho detto al tavolo, quando mi sono incazzato.
- OK.
- E, non so se vuoi sentirtelo dire o se è il momento giusto, ma questo, quello che sta succedendo in questo momento, un po' mi spaventa, però mi rende anche orgoglioso.
- Vorrei anche vedere, porca troia.
- Smettila.
Ci baciamo e lei poi si solleva e mi leva il preservativo. Poi riprende a succhiarmelo e io le vengo in bocca dopo pochissimo, perché sono troppo eccitato. Lo tiene in bocca fino in fondo, beve tutto, e anche dopo continua ancora a succhiarlo e a arci sopra la lingua. Lo tiene stretto in mano e ci dà un bacio.
- Mi sei mancato, piccolo – gli dice.
- Magari non chiamarlo “piccolo”, potresti fargli venire dei complessi.
- Stai zitto, stronzo. Sto parlando con la parte migliore di te.
Sospiro e la guardo baciare ancora il mio cazzo e succhiarlo, mentre perde l'erezione. Si alza e mi bacia e la cosa non mi dà fastidio. Si aggiusta mutandine e vestito e poi allunga la mano.
- Andiamo a berci una cosa.
Torniamo al bar e ci troviamo Massi e Luna che bevono e pomiciano. Più la seconda, della prima. Ordiniamo da bere e chiacchieriamo tutti e quattro insieme, Massi tiene banco e diverte tutti. Io guardo Luna e poi guardo Sandra e poi cerco di non pensare a che cazzo di vita sto portando avanti, perché mi sembra tutto stonato e senza senso. Massi torna a mettere su dei pezzi, io mi allontano con una scusa e vado a fumarmi una sigaretta, quando incontro Samantha e Patrizia che entrano. Sono in tiro, con vestitini aderenti e scarpe tacco 12. Mi salutano e ringraziano ancora per l'ingresso, mi schernisco dicendo che non è un problema, che io e il buttafuori siamo vecchi amici e che si divertano. Quando stanno per andare fermo Samantha per un braccio e mi sporgo verso di lei.
- Non male per un vecchio, eh?
Mi sorride e le sorrido di rimando, prima di uscire a fumare con Guido. Mi racconta di come ha cominciato a fare questo lavoro, io gli racconto aneddoti del mio. Mi ritrovo a pensare che a chiacchierare con lui mi sento stranamente a mio agio, forse perché non sa niente di me e di Adriana e quindi posso parlare di altre cose, senza sentire il bisogno di tirare fuori l'inquietudine che ho dentro. Ci scambiamo i numeri di telefono, “perché non si sa mai – dice lui, - magari devi picchiare qualcuno e ti serve una mano”. Lo saluto e decido che è ora di andare a casa e Sandra mi chiede se può venire con me e le dico di sì. Arrivati a casa mi fa ancora un pompino e io credo di non riuscire a farcela e invece lei è così brava, che vengo ancora una volta, imprecando, perché il piacere è così forte che fa quasi male. Si accoccola tra le mie braccia e rimaniamo in silenzio, sento il suo respiro e il mio respiro e i rumori che vengono da fuori e mi sto quasi addormentando, quando la sento dire qualcosa.
- Come? - chiedo.
- Ho detto che si chiamava Luigi.
- Chi?
- Il mio ex.
L'accenno al suo ato mi fa improvvisamente risvegliare.
- Ah. Posso dire che non mi piace il nome?
- Puoi dirlo.
- OK.
- Siamo stati insieme dieci anni.
- Quando vi siete messi insieme?
- Avevo 19 anni. Lui 21.
- Il classico fidanzato dell'università – dico, sorridendo.
- Sì, una cosa del genere. Lui però non studiava, ma faceva il pilota di rally.
- Sul serio?
- Sì, giuro. Lavorava nell'officina del padre e partecipava ai campionati nazionali e internazionali.
- Era bravo?
- Ha vinto le sue gare. Anche qualche premio importante, eh? Ma non credo che sia mai diventato un pezzo grosso.
- Non lo senti più?
- No, non lo sento più. Ogni tanto mi chiama sua madre, siamo rimaste molto legate, e mi racconta un po' di cose, ma di lui parliamo poco, sa che ci sto ancora male.
- Mi dispiace.
- È stato il primo con cui ho scopato. Be' a essere precisi, è stato l'unico con cui ho scopato. Dopo di lui solo pompini.
- Già.
- Quindi ti ho capito subito, la prima volta che ti ho succhiato. Avevi lo stesso mio sguardo la prima volta che un ragazzo ha provato a venire a letto con me.
- È andata male?
- Ho vomitato per la tensione.
- Oh Gesù.
- Già. E lui non era tanto contento e non l'ho più rivisto. Ho deciso che non ero pronta per scopare e ho cominciato a succhiare cazzi.
- Cristo, il tuo linguaggio.
- Non rompermi le palle, suorina.
Le tiro una pacca sul sedere e lei ride, mordendomi il petto.
- Quindi la tua fissa per le auto...
- Sì. È colpa sua. O meglio: non è colpa sua, ho imparato da lui, certo, ma non mi ha mai imposto di tenere la macchina in ordine. Diceva sempre che o uno ce l'ha a cuore oppure niente, non vale la pena perderci del tempo.
- Molto democratico da parte sua.
- Vero? L'ho sempre pensato anche io.
- E allora perché lo fai? Perché la tua macchina è così pulita?
Sandra sospira e affonda la faccia sotto il mio braccio.
- Questo un'altra volta. Ti dispiace?
- No, certo.
- Grazie. Per avermi ascoltata, dico.
- Smettila, non dire stronzate.
- Mi piaci, Ale. Mi piaci tanto.
- Mi piaci anche tu, Sandra.
- Sì, ma non capisci. Mi piaci davvero molto e questo non mi va bene, mi fa paura.
- Cosa vuoi che faccia?
Scrolla la testa e non risponde.
- Senti, vuoi che mi levi di torno?
- Sarebbe meglio – risponde.
- OK.
- Però non ancora. Non ora. Te lo dico io, quando.
- Va bene.
- Va bene.
Si gira sull'altro fianco, dandomi le spalle. Io la abbraccio da dietro e poggio il capo tra i suoi capelli.
- Buonanotte, Ale.
- Buonanotte a te.
Le bacio la nuca e la ascolto prendere sonno. Io ci metto ancora un'eternità.
19
In ufficio, il mattino dopo, faccio training autogeno e cerco di convincermi ad andare a parlare con Cora. Respiro a fondo, mi preparo un discorso, cerco di prevedere le sue risposte e di preparare delle contro risposte adeguate, mi ripeto che non ho niente da temere, che è solo un'incomprensione e che posso risolvere tutto con poche parole.
Mi alzo in piedi e inspiro ed espiro un paio di volte. Poi mi volto e faccio tre i, prima di fermarmi, tornare indietro e sedermi di nuovo alla mia scrivania. Non mi sento pronto.
- Codardo – commenta Daria, dalla sua scrivania, mentre ticchetta sulla tastiera del suo computer.
Colpito e affondato.Verso metà mattinata vado al quinto piano a risolvere un problema a un PC; un banalissimo malaware che infesta il computer, perché qualcuno non è riuscito a non cliccare quel pop up comparso sullo schermo che prometteva di fargli scaricare i numeri di telefono di decine di donne alla ricerca di sesso, nella sua città. Mi siedo alla scrivania e comincio a seguire la procedura per ripulire il computer da tutto quel casino; al tizio, che è evidentemente preoccupato, dico che è un grosso problema, che non so se riuscirò a rimetterlo a posto, ma lo faccio solo per spaventarlo, perché non vedo ragione per la quale non debba farlo. Lui esce a fumarsi una sigaretta e io faccio il mio lavoro, con calma; mentre l'antivirus fa ciò che deve fare, chiamo mio padre. Il telefono suona a lungo prima che risponda.
- Ciao, papà.
- Ciao caro, come stai?
- Bene, dai. Tu che fai?
- Stavo per uscire a fare due i.
- Due i?
- Sì, sai, ho finito di scrivere il libro e ora ho altro tempo libero. Così vado a fare due i, mi guardo un po' la città, penso.
- Andrai anche a guardare i lavori in corso? O sarai alle poste alle sei del mattino?
- Non fare il saccente con me, sai? - lo sento che ridacchia.
- Ma davvero vai a fare due i, così, senza meta?
- Be' sì, non ho molto altro da fare.
- Perché non i in ufficio da me e andiamo insieme a pranzo?
- Non devi lavorare?
- Ho una pausa pranzo anche io, sai? Andiamo in un posticino qui vicino.
- Va bene, se non disturbo vengo volentieri – dal tono della voce sento che è estremamente sollevato dalla mia proposta.
Quando esco dall'ufficio attraverso il corridoio e mi fermo a ogni porta per vedere se trovo Cora. La vedo che sta chiacchierando con una collega vicino alla macchinetta del caffè. Sembra tranquilla, indossa un tailleur grigio e tiene i capelli indietro, con una molletta. Mi nota e il volto si tende, evidentemente è tranquilla se non mi ha davanti. Le faccio un cenno con il capo, lei dice qualcosa all'amica e mi indica con il capo; quella si volta e mi lancia un'occhiata indagatrice dall'alto in basso e, ho l'impressione, mi fissa con un discreto disgusto, tanto da farmi sospettare che quello che è successo a cena Cora non se lo sia tenuta per sé.
Si avvicina, camminando un po' rigida e, quando si ferma davanti a me, incrocia le braccia e inclina il capo.
- Ciao – è glaciale.
- Ciao.
- Dimmi.
- Ti va se parliamo un po'? Mi dispiace per quello che è successo.
- Non lo so.
- Non sai cosa?
- Non lo so se ho ancora voglia di parlare con te. Non mi sono mai sentita tanto umiliata in tutta la mia vita, Ale.
- Mi dispiace, ti chiedo scusa.
- E non solo per quella...quella tizia, ma c'erano anche i tuoi genitori e il tuo amico. Ero tra estranei, santo cielo.
- Sì, non è stata una serata riuscita, lo ammetto.
- No, direi di no.
- Però mi sono sentito attaccato...
- Ci puoi giurare che ti stavamo attaccando, cazzo. Anche ammettendo che mi
andasse bene che tu scoi con altre donne, oltre a me...
- Tecnicamente, io e Sandra non scopiamo.
Mi fissa con così tanto odio che mi viene voglia di staccarmi la lingua con un morso.
- Magari sto zitto e ascolto, eh? - borbotto.
- Magari potrei anche non dare peso al fatto che scopi con altre donne – si ferma un attimo e mi lancia un'occhiata che sembra voler dire “dai, dì qualcos'altro, ti sfido”, - ma almeno non farmici incontrare, non mi sembra di chiedere troppo, no?
- No, no, assolutamente. Posso solo dire che si è presentata in casa dopo la tua telefonata e che mia madre, che è mia madre e come tale capace di rendere un casino qualsiasi situazione potenzialmente tranquilla, l'ha invitata a cena. E che io non sono stato capace di evitare tutto questo e mi dispiace, davvero.
- Senti, Ale, devo tornare al lavoro. Ora non ho molta voglia di sentirti piagnucolare, quindi scusa, mi farò viva io, quando sarà il momento.
- Se ci sarà, un momento – dico.
Lei mi guarda in silenzio e poi si limita ad annuire. Si volta e va via, io la guardo
allontanarsi, poi torno alla mia scrivania.
- Com'è andata? - chiede Daria, sempre ticchettando e senza alzare la testa dalla tastiera.
- Benissimo.
- Ti ha mandato a quel paese?
- Non esplicitamente.
- Bene così.
Ci rimettiamo al lavoro, senza aggiungere altro, fino a quando, all'ora di pranzo, non vado a prendere mio padre all'ingresso e andiamo a un bar non molto lontano. Un posto non molto grande, con quattro tavolini per ospitare quelli che non prendono un caffè al volo, ma si vogliono fermare per consumare uno dei piatti caldi o una colazione. Alla parete ci sono poster di città straniere, ovunque ti giri puoi incappare nella foto della Tour Eiffel o della Statua della Libertà, immagini della Grande Muraglia o della porta di Brandeburgo. Ordino una piadina con il crudo e la mozzarella per lui e io mi prendo un toast e un tramezzino. Ci sediamo al tavolo e brindiamo con le nostre bottiglie di acqua gassata, prima di metterci a mangiare.
- Hai bisogno di soldi? - chiede lui, all'improvviso.
- Perché? - domando, sorpreso.
- Non so. Hai un solo stipendio, adesso, e magari ti potrebbe far comodo qualche spicciolo in più.
- Ti ringrazio, ma non c'è bisogno.
- Sai, hai l'affitto, le spese dell'auto, i consumi...
- Lo sai che la casa non è un problema, dai.
L'appartamento in cui vivo è di mio zio sco, il fratello di mio padre che, un giorno, ha mollato tutto, ha sposato una Brasiliana e ora vive a Sao Paolo, barcamenandosi con lavoretti vari, niente di sicuro, ma assicurando di essere felice come pochi. Mi ha dato il posto dove vivere, chiedendo un ridicolo affitto di 200 Euro al mese, in cambio, però, tutti i lavori di ristrutturazione sono a mio carico. Finora mi è andata bene e lo scaldabagno non si è mai rotto, ma in caso la spesa sarà sulle mie spalle. Tuttavia il fatto di avere una casa sicura con pochissime spese mi ha sempre dato un grosso vantaggio, specie con soli 1.000 Euro di stipendio e un contratto a tempo determinato.
- Lo so, lo so – concede mio padre. - Però lo sai, se hai bisogno devi solo chiedere.
- Stai tranquillo, sarai il primo a cui chiederò.
Annuisce e dà un morso alla sua piadina, guardandosi intorno in silenzio, mentre mastica.
- Tua madre è partita?
- Sì, ieri.
- Bene.
- Tu come stai? - chiedo.
Mi guarda, indagatore, per un secondo e poi scrolla le spalle.
- Sto bene.
- Papà...
- Sul serio. Ho sempre pensato a cosa sarebbe accaduto, se ci fossimo rincontrati, sai? A volte pensavo che sarei stato un signore, cortese e gentile, a volte che l'avrei umiliata e fatta piangere con poche parole azzeccate.
- Non sei il tipo.
- No, non lo sono.
- E sei stato molto gentile.
- Sì. E sai la cosa buffa? Non è stato difficile.
- No.
- No. Siamo stati io e lei e sembrava ancora come un tempo, in certi momenti, come se ci fossimo allontanati per un paio d'ore e non per tutti quegli anni.
- Mi dispiace tanto, papà – mi accorgo che lo sto ripetendo spesso, oggi.
- Non c'è di che dispiacersi. È stata quasi una bella serata.
- Sì, magari se io non avessi dato di matto sarebbe stata anche meglio.
Morde ancora la piadina e sorride, benevolo.
- Sei giovane.
- No, ho trent'anni.
- Sei giovane – ripete. - Arriverà un momento dove non darai di matto e non perché sarai più maturo o più saggio, ma solo perché non te ne fregherà più niente. Perché capirai che ci sono cose che non meritano di dare di matto.
- E cosa meritano?
- Non lo so. Forse neanche indifferenza. Dovresti solo prenderne atto e andare avanti.
- Già.
- Mi sono piaciute, quelle ragazze.
- Sì, anche a me, credo.
Beve un po' d'acqua e mi da una pacca sul braccio.
- Non avrei mai pensato che tu fossi capace di intrattenere due relazioni alla volta.
- Non sono proprio relazioni, papà. Andiamo a letto insieme e basta.
- La morettina non sembrava pensarla così.
- No, pare di no.
- Ma immagino che ora funzioni così. Ho avuto un collega che aveva due famiglie, sai? Era anche lui sempre in viaggio, come me, e stava un sacco di tempo in un paio di città precise e si era fatto una seconda famiglia.
- E l'hanno scoperto?
- Non lo so. Fino a quando abbiamo lavorato nella stessa azienda no, poi non so. Aveva la moglie e la figlia qui e una seconda donna con due bambini a Pavia. Due bambini, ti rendi conto?
- Non ne sarei capace.
- Non sembrerebbe.
- Non è la stessa cosa.
- No, non lo è, certo. Però è un inizio.
Lo guardo male e lui ridacchia, mentre finisce la sua piadina.
- Una volta gli chiesi come fe e lui mi fece un discorso tutto arzigogolato sul fatto che aveva troppo amore e che non riusciva a limitarlo a una donna sola. Che trovava egoista chi diceva di potersi innamorare di una sola donna alla volta, che lui ne avrebbe potuto amare almeno mille alla volta.
- Bella cazzata.
- Sì, vero. Ma lui ne era convinto, capisci? Ci credeva veramente.
- Eh.
- E comunque, ho conosciuto entrambe le famiglie e, so che sembrerà strano, ma ti assicuro che non c'era differenza, nel suo modo di essere. Guardava entrambe le donne con gli stessi occhi, esprimendo lo stesso amore.
Non dico niente e mi infilo in bocca l'ultimo pezzo di tramezzino.
- Forse sei così anche tu – finisce, bevendo ancora dalla bottiglietta di plastica.
- Le mie storie non hanno niente a che vedere con l'amore, papà.
- No, eh?
- No.
- Hai chiesto scusa a quelle ragazze?
- Sì.
- E se non c'entrano niente, con l'amore, perché prendersi tanto disturbo?
Mi fermo, prima di rispondere, lui che mi guarda sogghignando, come se mi avesse colto in fallo.
- Non...non è quello che pensi – mi limito a dire. - Sono una brava persona, nonostante tutto, non mi fa piacere maltrattare nessuno, tanto meno due ragazze che con me sono state gentili.
- Va bene, va bene – dice, alzando le mani. - Ci ho provato.
- Non credo di potercela fare, sai? - dico, dopo un attimo.
- A fare cosa?
- L'amore. Una relazione. Non credo di esserne capace.
- Certo che no. È tutto troppo fresco e tu sei ancora innamorato di Adriana.
Non dico niente. Credo che lui sappia meglio di me, cosa vuol dire amare la persona che se n'è andata di casa, lasciandoti a raccogliere i cocci.
- Senti, papà, te lo devo chiedere.
- Dimmi.
- Sei ancora innamorato della mamma?
Non mi risponde subito. Prima mi guarda in silenzio, poi un sorriso affiora sulle sue labbra e scuote la testa.
- E chi lo sa?
- Come fai a non saperlo?
- Semplice: non lo so. Un tempo credevo che lo sarei stato per sempre che, al massimo, i miei sentimenti per lei si sarebbero semplicemente assopiti.
- E ora? Ora cosa pensi?
- Non penso niente.
- Come niente?
- Niente – conferma. Mi da una pacca sul ginocchio – Forse i sentimenti si sono assopiti davvero.
Non rispondo e ci limitiamo a sorridere. Voglio bene a mio padre, meriterebbe di essere più felice di così, ma non sempre otteniamo quello che meritiamo. La maggior parte delle volte ci dobbiamo accontentare di quello che ci viene concesso e ringraziare, anche. Usciamo e camminiamo lentamente verso i miei uffici, mi racconta che gli ha scritto un suo vecchio collega di lavoro che ora vive a Londra e che lo ha invitato a raggiungerlo. Scopro che mio padre si impegna nel ruolo di sensale, quando capita, e che ha trovato moglie a metà dei suoi vecchi colleghi, presentandogli le donne che riteneva fossero ideali per loro, apparentemente senza sbagliare un solo colpo.
- Potrei farlo anche con te, se fossi ancora giovane e fossi nel giro, come dite voi ragazzi.
- Non sono più un ragazzo, temo.
- Oh smettila. Posso dirlo io, che non sono più un ragazzo, ma fino a quando non ti alzi quattro volte a notte per andare in bagno e non ci metti delle ore, tutte le volte, stai pure tranquillo che ai miei occhi sarai sempre un ragazzo.
- Va bene.
- E cerca di stare tranquillo, figlio mio. Prendila più leggera.
- La fai facile.
- No, non la faccio facile. Ma cerchiamo di affrontare la cosa razionalmente, vuoi?
- Sentiamo.
- La donna che ami se n'è andata, ti ha lasciato solo. Qual è la cosa peggiore che ti può succedere, figlio mio? Il peggio in assoluto, intendo.
- Non so. Che non riesca a trovare più nessuno che amerò allo stesso modo e che vivrò una vita vuota e sofferente.
- Mio dio, come sei tragico.
- Papà, posso ricordarti che non hai mai avuto nessuno dopo mamma?
- No, è vero.
- Ecco.
- Ma non è che ho smesso di vedermi con le donne.
- Ah no? - sono sorpreso, non sapevo che avesse avuto altre relazioni, per quanto fugaci o superficiali.
- No, ne ho visto altre. Per poco, a volte per una sola notte, a volte per una settimana.
- E questo ha migliorato la tua vita?
- Ci ha portato un po' di allegria, quanto meno.
- OK.
Sorride e mi dà di gomito.
- Coraggio, dì quello che pensi – mi incoraggia.
- Non è che quelle donne ti abbiano aiutato a dimenticare mamma, vero?
Respira a fondo un paio di volte. Si torna sempre lì, inevitabilmente: c'è un momento in cui le nostre vite hanno subito una battuta d'arresto. Quelli più fortunati o più bravi di noi, dopo un po', si sono alzati, si sono scrollati la polvere di dosso e hanno ricominciato a camminare. Quelli più sfortunati o meno bravi, come me, per esempio, sono rimasti stesi a guardare per aria, chiedendosi cosa fosse successo. Quelli come mio padre, invece, si sono messi a sedere e hanno cominciato a guardare il mondo da un'altra prospettiva, cercando di capire come questa si adattasse a loro e cosa loro dovessero fare per adattarvisi. Ci sono in parte riusciti, in parte si sono lasciati adagiare per terra e hanno semplicemente smesso di combattere, non per paura, ma perché non trovavano più il senso di farlo.
- No – sospira, - non è servito a farmela dimenticare, è vero. Ma quello che vorrei che capissi è che non la dimenticherò mai, Alessandro, che resterò sempre legato a lei, che non c'è via di uscita da questo. È la natura delle cose, te l'ho detto, non possiamo farci nulla. Troveremo altre persone, altre persone che ci faranno stare bene come le donne che abbiamo amato, anche se in modo diverso.
- Ma sarà comunque un'altra cosa.
Annuisce e, per la prima volta, mi sembra quasi spazientito.
- Sì, sarà una cosa diversa. Bella o bellissima o disastrosa, ma diversa. E devi metterti in testa che è diversa, non inferiore. E che è la tua vita, adesso, che tu lo voglia o no.
Si ferma e mi mette una mano sulla spalla, sento le dita che artigliano e premono sui nervi.
- Prima lo capirai, prima comincerai a stare meglio.
Non dico niente e mi limito a guardare il suo volto preoccupato e teso. Alla fine sorrido, dolcemente, e annuisco un paio di volte; lui sembra rilassarsi, la presa sulla spalla si allenta e mi da una pacca sulla guancia.
- Andiamo – dice.
Quando arriviamo davanti al mio posto di lavoro stiamo parlando di Londra, perché sto ancora cercando di convincerlo ad andarci. Mi sta raccontando che ha visto un sacco di alberghi e pochi monumenti quando mi accorgo che, davanti all'entrata del mio ufficio, c'è Sabrina. È ferma sul marciapiede e guarda la porta di ingresso come se si aspettasse che da lì stia per uscire qualcosa di incredibile o meraviglioso. Indossa un paio di jeans strappati e una felpa di Janis Joplin e tiene i capelli neri raccolti in una coda di cavallo. In bocca noto una sigaretta, cosa che mi scatena un certo fastidio.
Faccio cenno a mio padre di zittirsi e mi avvicino a lei, che non mi nota, fino a quando non le sono accanto.
- Sabrina?
Mi lancia un'occhiata e sembra metterci un po' a riconoscermi.
- Alessandro? - dico.
- Sì. Giusto.
Non pare molto lucida e mi sorge il dubbio che sia sbronza o fatta.
- Che ci fai qui? Stai bene?
Scrolla le spalle e torna a guardare la porta del mio ufficio.
- Stai aspettando il Dr. Colombari?
Annuisce, senza dire niente, e si rigira nervosamente la sigaretta tra le labbra; è spenta e ha l'aria un po' malandata.
- Stai fumando? - mi informo.
- No. Ma ho bisogno di averla in bocca, OK? Fatti i cazzi tuoi.
Mio padre mi guarda, interrogativamente, e io scuoto la testa, lui sospira e torna a guardare la ragazza, che ancora fissa la porta di ingresso.
- Senti, ma hai un appuntamento? Perché allora è inutile che aspetti, entra dentro.
- Non ho nessun appuntamento del cazzo. Quello stronzo non mi risponde e io sono stanca di essere trattata come una puttana, quindi lo aspetto qui fuori e, quando esce, gli rompo quella sua testa di cazzo, pezzo di merda.
Mio padre alza un sopracciglio e torna a guardarmi, sorpreso.
- È linguaggio, giovane – dico, cercando di non farmi sentire da lei.
- Beata vecchiaia – ribatte lui, incrociando le braccia sul petto.
- Senti, Sabrina, forse non è il caso di piombare così sul suo posto di lavoro. Non credo che otterresti molto, sinceramente.
- E chi cazzo se ne frega?
- Tu, tanto per cominciare, se sei qui non è per fare una scenata, vuoi trovare una soluzione, giusto?
Lei mi guarda, per un secondo, come se fosse sorpresa dalla mia intelligenza.
- Vaffanculo, a questo punto anche urlargli addosso andrà bene – risponde, tornando a guardare l'ufficio.
Le poggio una mano sulla spalla e la forzo a voltarsi e guardarmi.
- Senti, torna in hotel, dormici su e...
- Non posso tornarci in hotel! Non mi ci fanno stare! - urla, levandomi la mano dalla spalla con un colpo.
- Che è successo?
- Ho finito i soldi e quegli stronzi non mi fanno restare in camera, perché vogliono che paghi, prima, e ho bisogno che quello stronzo del tuo capo mi dia qualcosa, mentre decidiamo cosa fare di nostro figlio!
- Non c'è nessun figlio vostro, sei sola, cazzo, lo vuoi capire!?
Urlo di istinto e improvvisamente, intorno a noi, tutti si voltano a guardarci. Sabrina mi fissa con gli occhi sgranati e il volto che si arrossisce come se l'avessi schiaffeggiata, sento mio padre che geme e lo intravedo, con la coda dell'occhio, che si a una mano sul volto.
- Scusa – dico.
Sabrina non dice niente, la sigaretta che aveva in bocca cade per terra e non fa nulla per prenderla, quella tocca il marciapiede e rotolo di qualche centimetro, prima di affossarsi in una delle fughe delle mattonelle.
- Scusa – ripeto. Mi sento un verme. Guardo mio padre e lui continua a non dire niente, ma nei suoi occhi posso leggere un misto di comprensione e tristezza.
- Un aiuto sarebbe gradito, a questo punto – gli dico.
Sospira e si sistema la giacca.
- Signorina, non so cosa stia succedendo, ma concordo con mio figlio sull'errore di tendere un'imboscata a questo ragazzo...
- Non è un ragazzo, è un uomo di cinquant'anni – lo correggo.
- A questo signore che, immagino, lavori qui e potrebbe avere dei problemi con i suoi capi...
- È lui il capo. È il mio capo – lo informo.
Mio padre mi guarda, ora la comprensione è scomparsa, lasciando al posto un non so che di frustrazione.
- Stare qui non è il caso – si limita a dire.
Sabrina, che non mi ha staccato gli occhi di dosso neanche per un istante, abbassa lo sguardo e tira fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca, mettendosene una tra le labbra.
- Cazzo – dice.
- Sì – confermo. - Cosa succede con l'hotel? Dov'è la tua roba?
- In camera. Non mi fanno salire, se non pago la notte di ieri.
- OK. Papà, per favore...
- Non lo dire – borbotta mio padre.
- ...accompagna Sabrina all'hotel...
- Non lo dire – borbotta mio padre.
- ...paga la notte di ieri.
- Ecco, l'hai detto – borbotta.
- Poi portala da me, OK?
- Pure peggio – aggiunge.
- Puoi dormire da me, stanotte – le dico. - Però domattina prendi e torni a casa tua o dai tuoi parenti o non so dove. Siamo d'accordo?
- Non so... - dice e guarda ancora verso la porta.
- Nessun problema. Io devo tornare a lavorare, buona fortuna – le do una pacca sul braccio e faccio per andarmene, quando lei mi ferma, prendendo la mia mano.
- Va bene, cazzo, va bene. Sei un figlio di puttana prepotente, lo sai, vero?
- Visto che è mio, il divano sul quale poggerai il tuo culo, ti pregherei di non chiamare mia madre in quel modo. E soprattutto non davanti a mio padre.
- Anche se ammetto che – dice mio padre, quando lei lo guarda – quando ci eravamo appena separati, in preda ai fumi dell'alcool, ho usato anche io quella parola lì, un paio di volte.
Sospiro. Non ce la faccio più.
- Papà...
- Sì, certo. Andiamo, signorina.
- Sabrina e basta.
- Va bene.
Le mostra la strada e si incamminano, mio padre chiude la sua giacca e si sporge verso di me.
- In questo sei tutto figlio di tua madre – dice.
- In cosa?
- Nell'essere un catalizzatore di casini.
Fa un cenno di saluto con la testa e se ne va via. Lo osservo raggiungere Sabrina e li osservo che parlano, chiedendomi cosa potranno mai avere da dirsi. Poi scrollo la testa e rientro in ufficio, mentre aspetto l'ascensore prendo il cellulare e chiamo Adriana. Dopo un paio di squilli risponde.
- Ciao – dico.
- Tutto bene? Non sei al lavoro? - chiede, preoccupata.
- Sì, sì. Ci sono. Avevo bisogno di sentire una voce amica.
- Cosa succede?
- Nulla. Tu come stai?
- Bene, sto per entrare in riunione, quindi...
- Sì, scusami. Niente. Volevo sentirti.
- OK.
- Non accadrà di nuovo, promesso.
- OK.
- Ciao.
- Ciao.
Metto giù. Sono patetico.
Carlotta mi manda un sms chiedendomi se mi va di are da lei al lavoro. Quando esco dall'ufficio prendo l'auto e la raggiungo alla biblioteca, trovandola che sta ancora mettendo a posto libri sugli scaffali.
- Non ti fanno fare altro? - chiedo.
- Spiritoso – mi fa una linguaccia, mentre sistema quelli che sembrano libri di Harry Potter su uno scaffale.
- Faccio il possibile – dico.
Scende dai gradini e si sporge in avanti. Ci baciamo a lungo, poi lei solleva una pila di libri e me la a.
- Renditi utile – dice.
Prende la scaletta e si comincia a muovere per i corridoi, io la seguo educatamente, cercando di non fare rumore, mentre osservo i visitatori che si aggirano per le sezioni, prendendo volumi, sistemandoli al loro posto, studiandoli con attenzione, leggendo i o pagine intere. È una vita che non vado più in una biblioteca, una volta mi capitava molto spesso. Prendevo libri in prestito e li leggevo avidamente. Ormai buona parte della mia lettura avviene su Internet, su blog e pubblicazioni online. Il poco tempo rimasto per la narrativa si consuma su qualche pagina, a volte su poche righe, prima di prendere sonno, la sera quando vado a letto. Gli eventi degli ultimi mesi mi hanno allontanato anche da quel poco; in parte non riesco a concentrarmi su niente, in parte il vedermi con delle persone mi sta distraendo dalla lettura. Mentre Carlotta mette via altri libri e riordina altri scaffali, mi ritrovo a chiedermi se lei ha capito che non è la sola ragazza che sto vedendo o se pensa che il nostro sia un rapporto esclusivo.
- Senti... - comincio.
- Dimmi.
- Come la vedi? Tra noi due, dico.
Si ferma, per un secondo, e poi sorride, ma sembra più un sogghigno divertito che un sorriso, poi ricomincia a spostare libri.
- Non c'è nessun “noi due”, mi pare evidente – dice, dopo un attimo, mentre si scrolla i dreadlock con un gesto secco.
- No, eh?
Lei si avvicina e mi da un bacio sulla guancia, mentre mi prende di mano altri libri.
- No.
- Perché io, sai, mi chiedevo se la vedi come una cosa esclusiva.
- Mi stai chiedendo se mi vedo con altre persone, Ale?
- Più o meno – dico.
- E tu? Ti vedi con altre persone?
- Che ne dici di rispondermi?
Ride, divertita e prende la scala, spostandola per i corridoi, poi la posiziona davanti a un archivio e ci sale sopra.
- Quella serie di dispense che hai in fondo alla pila – dice, semplicemente, indicando con un dito delle fotocopie. Gliele o e apre un cassetto che potrebbe contenere una persona di piccola taglia, secondo me. Poi sfoglia dei divisori, cercando quello che le serve.
- No, non mi vedo con altre persone. Ma – aggiunge, quando sto per dire qualcosa – non vuol dire che non mi stia guardando intorno.
- Ah sì?
- Sì.
- OK – non so perché, ma mi sento un po' geloso.
- Guardiamo in faccia la realtà, vuoi? Sei innamorato disperatamente della tua ex, Ale, e non c'è nessuno, in questo momento, che possa togliertela di testa. Qualsiasi persona che arrivi ora, fosse anche la donna della tua vita, non sarebbe altro che una sostituta, un modo per non pensare al fatto che la donna di cui sei innamorato ti ha lasciato.
- Sì – dico.
- Non importa con quante persone ti vedi, oltre a me. Non importa quante donne ti scopi. Non è con loro che vuoi scopare, non è a loro che pensi, quando ti svegli la mattina. Potresti dover cambiare casa perché ti sei scopato tutte le donne del tuo palazzo, ma non per questo la tua ex smetterà di essere un problema. Rassegnati.
Non dico niente, perché ha ragione, so che ha ragione. Lei finisce di sistemare le dispense e scende dalle scale.
- E allora perché perdi del tempo con me? - dico.
- Intanto perché non lo reputo del tempo perso – dice. - Mi piace stare con te, mi piace chiacchierare con te, mi piace fare l'amore con te.
- Fare l'amore.
- Ormai mi conosci, credo. E sai che, a parte forse la prima volta, nella macchina, non sono una che si butta a scopare con il primo che a.
- No, non lo sei.
- Se vengo a letto con te è perché mi piaci e ti sono affezionata, in un modo o nell'altro.
- OK.
- E, credimi, mi piacerebbe che potessi essere io, quella ragazza che ti fa dimenticare la tua ex e con la quale costruisci qualcosa di nuovo, ma lo so che non lo sono. Non sono una stupida, nonostante possa sembrarlo.
- Non lo sembri.
- Già – si poggia ai gradini della scala e si sposta una treccia dalla faccia. - Stai meglio? Ti sei lavato la coscienza?
La guardo interrogativamente e lei scrolla le spalle.
- Eri preoccupato, no? Pensavi che mi vedessi già con l'anello al dito e quando avessi scoperto che scopi con altre mi sarei incazzata e avrei urlato.
- Be'...sì. Un po'.
- Già. Ma non è così. Non sei così importante da farmi sentire così male. Non ancora.
Poggio i libri che ho in mano sullo scaffale alla mia sinistra e le prendo una mano.
- Non ancora?
- Oh mi conosco. Arriverà il momento in cui mi accorgerò che non sei solo uno con il quale perdo del tempo, che mi accontento di vedere ogni tanto, di andarci a letto senza impegno. Comincerò a volere di più, a chiedere di più e tu non vorrai. Allora, prima di arrivare a quel momento, agli ultimatum, ai litigi, a tutte quelle piccole, squallide situazioni che colpiscono due persone che hanno condiviso qualcosa di tanto intimo, ma che non riescono a fare un o in avanti oltre quello, me ne andrò.
- Così, semplicemente?
- Non c'è niente di semplice, non essere stupido. Ci starò male, ma sarà un dolore da niente, paragonato a quello che stai provando tu, adesso, per la tua ragazza o a quello che ho provato io, per altre relazioni più serie.
- Mi mancherai – dico.
- No, non è vero. E se anche è vero, non te lo voglio sentire dire, Ale. Non me ne fregherà niente di mancarti, mi interesserà solo che non ti sei voluto impegnare e che non sei stato capace di darmi niente di più di un paio di belle scopate.
Non dico niente e così fa lei, limitandosi a sorridere. Gioca con le dita della mia mano, premendo leggermente sulle falangi o tirandole con delicatezza. Mi avvicino e la abbraccio e poi la bacio, lei si lascia abbracciare e baciare, nel silenzio della biblioteca.
- Mi dispiace. Vorrei essere meglio di così – bisbiglio al suo orecchio.
- Lo sei, solo che non ti permetti di esserlo. O forse non sono la persona giusta.
Le do un bacio sul collo e lei si scosta, prendendomi per mano e tirandomi con sé.
- Vieni, ti faccio vedere una cosa.
Si muove con sicurezza per i diversi corridoi e mi porta davanti a uno scaffale, da cui prende un libro che ha sicuramente visto giorni migliori. È un libro per ragazzi ed è chiaramente datato; la grossa copertina in cartone, rigida, ha il disegno a mano di una ragazzina con due trecce che stanno dritte e con la faccia piena di lentiggini. Indossa un vestito corto con gonna e porta due lunghe calze fino a metà coscia, entrambe di diverso colore.
- Pippi Calzelunghe – dico.
- Sì. L'hai mai letto?
- No, ammetto di no. Da bambino mi piacevano i fumetti di Mandrake e dell'Uomo Ragno.
- Io l'ho letto un'infinità di volte. Un giorno mi ammalai di polmonite e sono rimasta a letto, a casa, per una settimana intera. Non potevo uscire e le mie
compagnette non potevano venire a farmi visita, perché le madri non volevano che si ammalassero.
Prende il libro e lo apre, sfogliando le pagine una dopo l'altra, le righe sono scritte in caratteri molto grandi, con molto spazio, tra una riga e l'altra, e ogni tanto c'è un'illustrazione con pochi colori.
- Poi mio padre tornò a casa, un giorno, e mi mostrò questo. L'aveva comprato per me e me lo voleva leggere, credo glielo avesse consigliato un'amica o forse il tizio della libreria. Mi lesse una storia ogni giorno, faceva le voci, ogni tanto si alzava in piedi e recitava con il corpo, facendo le smorfie - sorrido, divertito, lei guarda il libro con occhi trasognati. - È stata la settimana più bella della mia vita.
Prende il libro e me lo avvicina al volto.
- Annusa – dice.
Annuso. Si tratta di un libro vecchio, le pagine sono leggermente ingiallite e la carta ha il classico odore della carta che ha trattenuto polvere, ha preso un sacco di aria e di umido e ora sta invecchiando mostrando i primi segni della sua età.
- Ogni volta che sento questo odore mi ricordo di mio padre e di quella volta – dice.
Si avvicina e la bacio, la sua lingua si infila profondamente nella mia bocca, muovendosi e guizzando. Poggia il libro sullo scaffale e mi stringe a sé, mentre
continua a baciarmi; io le afferro una natica e la stringo, forte, mentre affonda le unghie nelle mie spalle.
- Qui? - chiedo.
- No, vieni.
Mi prende ancora per mano e mi porta verso una porta dove c'è scritto “Privato”, dalla tasca tira fuori una chiave con la quale la apre. Si tratta di uno sgabuzzino con un paio di ripiani in metallo sui quali c'è di tutto: detersivi per pulire il legno, stracci, vecchie bottiglie d'acqua consumate a metà o vuote, un secchio con dentro uno straccio e uno scopettone, quelle che sembrano vecchie locandine arrotolate e poggiate in piedi in un angolo, tutte ammucchiate.
- Romantico – dico.
- Sta' zitto, cretino – risponde lei, baciandomi ancora.
La spingo contro il muro e sento il suo corpo sbatterci più violentemente di quanto volessi.
- Scusa – dico.
Lei ride e mi bacia ancora.
- Non mi sono depilata – dice.
- Non mi sono fatto la doccia – ribatto.
- Zozzone.
- Ma sentila.
Le sollevo la maglietta e lei se la leva, gettandola di lato. Intanto mi slaccio i pantaloni e lei li abbassa assieme alle mutande, prendendomi il pene in una mano e comincia a masturbami, mentre mi bacia ancora.
- Senti... - sussurro.
- Cosa?
- Sicura che ti va?
Accelera il ritmo della sua mano e mi lecca il lobo.
- Ti sembra di no?
- No. È che...
Affondo la mano tra le sue gambe, ando sotto i pantaloni elasticizzati. Le mutandine sono umide.
- Scopami – dice.
Si volta, poggiando le mani contro il muro e piegandosi in avanti. Poi lancia uno sguardo che lascia sottintendere pochissimo. Infilo una mano in tasca e tiro fuori un preservativo, mentre lo apro non posso fare a meno di stupirmi del fatto che sono diventato uno che gira con i preservativi in tasca, quando non molto tempo fa ne compravo una scatola ogni due mesi. Lo infilo con una rapidità e una precisione che da un'inquietante idea di esperienza e di gesto ripetuto un'infinità di volte. Mi premo contro di lei e le mordo il collo, succhiando e sentendo il sapore di un profumo o di una crema per il corpo che mi invade la bocca. Poggio il mio cazzo duro tra le sue gambe, lei lo indirizza con una mano, e io spingo con decisione, sentendolo entrare.
- Sì – sussurra lei, quando comincio a muovermi.
Lecco il suo collo e lei gira la testa, per baciarmi. Mi prende le mani e le porta al suo seno, che stringo, aggrappandomi a lei per spingere con più forza. Carlotta mi incita e io cerco di non perdere il ritmo, di dare colpi costanti e sempre della stessa forza. Ed è mentre mi concentro sul farla venire che succede. Improvvisamente non ne posso più. È come se non stessi facendo altro da tutta la vita, come se la mia unica attività fosse quella di scopare e succhiare e leccare e baciare e fottere. E
lo faccio con impegno, concentrazione, dedizione, perché è il momento in cui finalmente sono solo io. Non siamo io e Adriana, non siamo io e la fine della mia storia con lei, non siamo io e il senso di fallimento, di disgusto per come sono andate le cose, di amarezza per non essere stato in grado, nonostante tutto, di riuscire a fare funzionare le cose. Sono solo io. Io e un corpo che reagisce in determinate maniere in base a quello che faccio, a seconda del punto che tocco, della pressione che esercito, della forza con cui mi muovo, delle parole che dico. A ogni azione corrisponde una reazione, è fisica elementare. E se quando ti succhio un capezzolo mugoli e se quando lo mordo gemi forte, allora so che devo mordere. E se quando scopiamo alla missionaria ti piace, ma è quando ti prendo da dietro che vieni, so che dovrò puntare sul prenderti da dietro per sentirti venire. Perché devo farti venire, perché mi impegnerò al 150%, come mi sono impegnato al 150% nella mia relazione con Adriana. Ma la mia ragazza mi ha lasciato e allora il 150% che sto impegnando nello scoparti, nel leccarti, deve portare al tuo orgasmo, perché non posso fallire anche qui. Farti venire è l'obiettivo ultimo. Posso non venire io, io posso anche restare a secco, non importa. Ma tu devi venire. Devi essere felice, devi essere soddisfatta, devi ripensare a questo momento e, nel farlo, ricordarti che sei venuta e che quindi sono stato bravo, che ne è valsa la pena. Il sesso non è più una questione di ormoni ed endorfine, ma è diventato un test, un modo per dimostrarti che sono una persona capace di farti stare bene. È solo questo che conta: devo riuscirci, me lo devo, devo potermi guardare allo specchio e sapere che non ho fallito di nuovo. Carlotta mi ferma e si va a sedere sul bordo di una vecchia scrivania impolverata, allargando le cosce e facendomi cenno di avvicinarmi. Mi circonda la vita con le gambe e le spalle con le braccia, mentre la prendo così, sentendo il bordo del tavolo che mi sbatte contro le gambe a ogni colpo. Mi bacia ancora e io la guardo negli occhi, ma qualcosa è cambiato. Ora ho lo stesso spirito di un meccanico che controlla i meccanismi di un auto e ria mentalmente tutti i contatti e i collegamenti per capire dove sta la falla. Sta godendo come prima? Di più? Di meno? Se è di meno vuol dire che c'è il rischio che non venga? Devo cambiare posizione? Mi sembra quasi di vedere i nostro corpi da fuori, come se fossi in cabina di regia e dovessi solo decidere quali inquadrature utilizzare. Carlotta mi bacia ancora e io la bacio, ma ho l'immagine, l'immagine letteralmente, della mia lingua che fuoriesce dalla bocca e si infila nella sua e mi concentro su che movimenti farle fare. Ora non è più neanche bello, scopare. Ora è diventato come una serie di sollevamenti alla panca o una corsa di dieci kilometri: stanca, può scatenare tutte le endorfine che ti pare, ma in fondo non
vedi l'ora che finisca, perché vuoi fare altro. Accelero il ritmo, vedo il mio bacino, il mio sedere che si muove monotono, banale. Cristo, sto scopando, lo fanno milioni, miliardi di persone ogni giorno, non c'è niente di epocale. Quando lo facciamo ci sembra sempre la cosa più bella del mondo e invece è statisticamente sicuro che ci sia qualcuno che sta scopando, nello stesso momento, da qualche parte, e che se la sta godendo molto di più di noi. Qualcuno che ha trovato un'altra persona con cui c'è più sintonia, che è più brava, che lo o la fa godere di più. Carlotta mi prende il viso tra le mani e punta i suoi occhi nei miei e io la fisso con attenzione: le piace, sta bene, è rilassata. Credo di non avere neanche lo sguardo vagamente estatico e quindi cerco di replicarne uno: socchiudo gli occhi e le mie sopracciglia si abbassano, mentre cerco di sembrare uno che sta godendo e non uno che ha aperto il frigo e ha scoperto che sono finite le birre. Ma sono fortunato e lei mi stringe a sé.
- Vengo...cazzo...
Accelero il ritmo e la profondità delle spinte, mi concentro proprio perché sia così e, incredibilmente, non ci riesco, muovendomi in maniera scomposta e incasinata. Cerco di riprendermi e riesco, a metà del suo orgasmo, a ricominciare a sembrare uno che scopa e non uno che sta imparando a usare l'hula hop. I suoi gemiti rallentano, si smorzano e sento i suoi muscoli che si rilassano; la stringo in un abbraccio, in silenzio, mentre lei ancora mi bacia il collo.
- Sei venuto? - chiede.
- No, ma non importa, non preoccuparti, sul serio.
- Va bene.
Rimaniamo così abbracciati per un po', poi ci rivestiamo, in un silenzio surreale. Dovrei dire qualcosa, ma non so bene cosa.
- Quella cosa che hai detto prima...
Mi lancia un'occhiata, mentre tira su i pantaloni.
- Quale?
- Quella che...insomma, che vorresti qualcosa di più e io non te la voglio dare.
- Sì.
- E se ti proponessi di provarci? Voglio dire, non è che lo sto facendo ora, sia chiaro. Ma se mi accorgessi che sono stanco di scopare e basta, che vorrei qualcosa di più serio, di più stabile. Tu cosa diresti?
Carlotta si a la mano tra i capelli e recupera un elastico. Poi si comincia a raccogliere i dreadlocks e a stringerli in un'unica coda.
- Che sei tanto carino, ma sappiamo entrambi che non succederà.
- Non è detto.
- E se succederà, Ale, sarà un errore madornale, perché tu vuoi una cosa stabile, ma la vuoi con l'unica persona che non ti ricambia. E qualsiasi altro tentativo di sostituirla significherebbe mentire a te stesso e a me o a chi lo chiederai.
Mi sistemo la maglietta, lei socchiude la porta e dà un'occhiata circospetta fuori, poi mi fa cenno di seguirla. La accompagno alla scala e lei prende i suoi libri, prima di riarrampicarsi.
- Senti, cosa vogliamo fare? - chiedo.
- Io non voglio fare niente. Tu?
- Non lo so. Devo pensarci.
- OK. Quando l'hai capito, sai dove trovarmi.
Non sembra neanche infastidita, mentre lo dice. Lo fa come se fosse un dato di fatto e non ci fosse niente di cui parlare. Mi manda un bacio e si rimette a lavorare, io invece torno a casa.
Quando entro non vedo tracce di Sabrina o di mio padre. Non fino a quando non mi affaccio alla mia camera da letto e li vedo stesi sul mio letti, entrambi, con mio padre sulla schiena e lei addormentata con la testa poggiata al suo petto. La sola immagine è sufficiente a farmi ghiacciare il sangue nelle vene, rimango sulla soglia per almeno due minuti in una specie di stato catatonico, mentre cerco
di realizzare quello che sto vedendo e cerco di capire cosa dovrei fare.
- Papà – bisbiglio.
Mio padre non da segno di vita e continua a dormire. Busso allo stipite della porta un due, tre volte, dando colpi progressivamente più forti. Mio padre alza la testa e mi guarda un po' sorpreso, un po' ancora addormentato. Io non dico niente e mi limito a indicargli di raggiungermi in salotto con un deciso gesto del mio indice sinistro. Lui annuisce e si alza lentamente, scostando Sabrina che emette un non ben definito gemito e poi si volta dall'altra parte, continuando a dormire. Mio papà chiude lentamente la porta della camera e mi sorride.
- Allora, com'è andata la giornata?
- La giornata? Com'è andata la giornata?
- Sì. Tutto bene, al lavoro?
Non rispondo e lo guardo, in silenzio. Lui sorride, amichevole, ma pian piano smette e dà un colpo di tosse un po' imbarazzato.
- Ah quello – indica la camera da letto con un cenno del capo.
- Direi, sì.
- So che può sembrare banale dirlo, ma non è come sembra.
- Lo spero bene.
- La ragazza è confusa e, se mi i il termine, parecchio disperata.
- Non l'avrei mai detto.
Mio padre si leva gli occhiali da lettura e comincia a pulirli con la sua camicia.
- Siamo venuti qui e gli ho preparato qualcosa da mangiare e doveva morire di fame, perché ha spazzolato via gli avanzi della cena dell'altra sera in un lampo.
- Oltre al fatto che è incinta, ovviamente.
- Oltre a quello, sì. E ha cominciato a parlare, eh? Oh quanto ha parlato. Era inarrestabile e con un tale linguaggio; devo dirtelo, Alessandro: sono molto orgoglioso di te, tu non parli così.
Sospiro e mi poggio allo schienale della poltrona, incrociando le braccia sul petto.
- Andiamo avanti – dico.
- A un certo punto si è messa a piangere. Non credo che sia solo perché è incinta, sai? Sì, gli ormoni avranno un loro ruolo, ma credo che lei sia veramente disperata. Capirai bene: incinta, senza un soldo, il padre scomparso nel nulla.
- Comprensibile.
- E io l'ho consolata. Che dovevo fare?
- Figuriamoci.
- Ed ero lì e la consolavo e sai come succede, no? Le barriere, dai che ci dai, si abbassano e la confidenza aumenta. Quindi prima le dai una pacca sulla spalla e poi una carezza sul braccio e poi le tieni la mano...
- Se questo discorso prevede la parola “pompino” non voglio che tu vada avanti – lo interrompo, alzando un mano.
- Ma figurati se ei mai quella parola.
- Non è la parola, papà.
- Lo so, ma non ci sono stato a letto, devi credermi.
- OK – sospiro.
- Però l'ho abbracciata e poi l'ho accompagnata in camera da letto e lei mi ha chiesto di rimanere con lei. Dovevo rifiutare?
Non rispondo, scrollo le spalle.
- Ecco, no, infatti. Mi sono steso a leggere uno dei tuoi libri, lei si è addormentata e credo di essermi addormentato anche io, a un certo punto .
- Sì, te lo confermo: dormivi.
- Infatti, lo dicevo io.
Mi massaggio gli occhi e gli do una pacca sulla spalla.
- Scusa. Grazie, per averle fatto compagnia.
- Non è un problema, lo sai.
- Ti rimborso i soldi dell'hotel...
- Va bene.
- ...con il prossimo stipendio – aggiungo, con un sorriso fasullo.
- Sei una disgrazia, figlio mio.
- Sì, lo so. Ma del resto non ho chiesto io di nascere, no?
Sorride e mi segue in cucina, dove recupero due birre dal frigo e gliene o una.
- E cosa pensi di fare con lei? - chiede.
- Non lo so.
- Già. Tipico tuo.
Non rispondo, perché ha ragione lui e lo so bene. Mi limito a guardare fuori dalla finestra, ma sono esausto e non ho voglia di pensare.
- Senti, ne parliamo domani, OK? - dice lui, come se mi avesse letto nel pensiero.
- Sì – rispondo. - O anche mai. Sono esausto, non faccio altro che parlare di come sto e dei miei problemi e non è che le cose vadano meglio, sai? I problemi sono sempre gli stessi e io non sto meglio. Quindi, tutto sommato, possiamo anche non dire niente, che ne dici? Ormai è in casa. Vedremo cosa succede, giorno per giorno.
Annuisce e poggia la birra sul ripiano della cucina, poi si sporge per darmi un abbraccio.
- Chiamami domani, OK? - dice.
- Certo. Grazie ancora, sul serio.
Mi fa un buffetto alla guancia e poi se ne va, dopo avere recuperato la sua giacca. Sarei perduto senza di lui. Glielo vorrei dire, ma non so come e, quando finalmente trovo il coraggio per farlo, ormai è tardi, perché è già uscito dalla porta e io sono lì, poggiato al frigo, che bevo birra.
Rimango seduto sul mio divano a finire anche la bottiglietta di mio padre e ripenso a quello che è successo con Carlotta, ma non ho poi tanta voglia di farlo, perché so che porterebbe tutta una serie di brutti pensieri.
- Ehi...
Mi volto e Sabrina è sulla soglia della mia camera da letto che mi guarda, assonnata. Tutto il trucco intorno ai suoi occhi è di nuovo sciolto, per le lacrime, e sembra ancora un panda.
- Ciao – dico.
- Ciao.
- Come stai? Hai fame?
- No, sto bene. Devo solo fare la pipì.
- Il bagno – glielo indico con un cenno del capo e lei ci va.
Dopo qualche minuto sento tirare lo sciacquone e lei ricompare poco dopo.
- Hai una bella casa – dice.
- Grazie, è piccola, ma ci sono affezionato.
- Ti assomiglia – osserva.
- Ah sì? Non l'ho mai pensato, veramente. L'ho trovata così e l'ho lasciata così, non mi sono mai messo ad attaccare quadri o altro.
Lei sorride e si siede accanto a me.
- Infatti. È così com'è. Ti assomiglia.
Sorrido e non aggiungo altro.
- Grazie, per avermi invitata qui, non sapevo dove andare.
- Non preoccuparti, alla fin fine mi piace avere ospiti. Mi fa sentire meno solo.
- OK. Domani me ne vado – dice.
- Va bene, ma se hai bisogno di un giorno o due non è un problema.
- Non lo so. Non ne ho idea. Odio pesare sulle spalle degli altri.
- Per ora non pesi. Se succede sarai la prima a saperlo, promesso.
Sorride ancora e sbadiglia rumorosamente, io la imito subito dopo.
- A dormire? - chiede.
- Mi pare un'ottima idea.
- Andiamo.
Si alza in piedi e va verso la camera, io la guardo avvicinarsi al letto, rimanendo seduto sul divano.
- Io dormo qui – dico.
- No, tu dormi nel tuo letto. Se il problema è dormire con me, io dormo sul divano.
- No, figurati.
- Non mi fare incazzare, porca troia. Sono io che rompo le palle e sono venuto a stare nella tua cazzo di casa, non esiste che tu dorma sul quel divano di merda.
- Ecco, ora ti riconosco – mi limito a osservare, sorridendo.
- Non fare lo stronzo con me, cazzo.
Mi alzo ed entro in camera.
- Vada per il dormire insieme, ma a una condizione.
- Sentiamo.
- Niente sesso. Dormiamo e basta.
Mi guarda sorpresa, senza rispondere, poi si a una mano sui capelli.
- Dio, devo essere ridotta veramente da schifo – si limita a dire.
- No, non c'entri tu, è una roba mia.
- Che cazzo vuol dire?
Mi lascio cadere sul letto, a pancia in giù e rimango lì, guardandola da disteso.
- Non voglio scopare, OK?
- Non vuoi scopare? In che senso non vuoi scopare? Non vuoi scopare con me? Non vuoi scopare per tutta la vita? Non vuoi scopare con una donna?
- Dio, se è complicata la vita – sospiro, andomi una mano sul volto.
Lei si stende accanto a me e mi guarda, chiaramente perplessa.
- Tu vuoi scopare con me? - chiedo.
- No. Non lo so. Non ci ho pensato. Dico solo che, se capita, perché no? Del resto tra poco non è che vedrò molto cazzo, sarò impegnata a vomitare e a fare quelle robe che fanno le donne incinta.
- Cristo santo, dove diavolo hai imparato a parlare così?
- Succhiami il cazzo.
- Non ce l'hai, il cazzo.
- Se ce l'avessi sarebbe più lungo del tuo.
- Hai finito?
Non dice nulla, mi osserva, divertita, mentre io le guardo l'anello al naso.
- Senti, non ci conosciamo così bene. So più cose io di te, che tu di me.
- È vero.
- Però, credimi, non sei tu. Sei una bella ragazza e sei molto eccitante, anche se sembri un panda – si a subito una mano sugli occhi e la sento borbottare un “cazzo”. - Però io non ho voglia, voglio solo dormire e, al massimo, se ti va, ricevere un abbraccio.
- OK. Non capisco un cazzo, ma va bene. Questa è casa tua e io sono ospite, quindi se non vuoi scopare, non scopiamo.
- Grazie.
- Non sono brava, con gli abbracci.
- Non credo ci voglia una gran tecnica, di solito si stringe qualcuno come se lo si
volesse fare e non come se ti avessero messo in braccio un pesce morto che puzza.
- Hai una bella fantasia.
- Mi vengono così.
- Pensi di dormire vestito perché hai paura che ti stupri?
- 'fanculo.
Mi vado a lavare i denti e mi infilo il pigiama, quando torno Sabrina è già sotto le coperte e sta leggendo una copia di Norwegian Wood.
- Com'è? - chiedo, mentre mi stendo accanto a lei.
- Pieno di giapponesi che si lamentano e si suicidano – dice, mentre chiude il libro e lo mette sul comodino.
- Mi pare riduttivo.
- Ti piace, eh?
- Molto.
- Ci avrei giurato.
Spengo la luce e lei mi imita, poi ci guardiamo, nella penombra.
- Quella cosa dell'abbraccio... - dice lei.
- Sì?
- Ecco. Vai.
- Che vuol dire “vai”?
- Abbracciami.
Mi viene da ridere, ma non mi muovo.
- No. Abbracciami tu – ribatto.
- Fottiti. Sei tu che vuoi l'abbraccio, no?
- Mi vuoi dire che è un problema? Cioè scopare andava bene, ma abbracciarmi no?
- Non è che non va bene.
- E allora qual è il problema?
- È una cosa intima. Ho problemi con l'intimità.
- Scopare non è una cosa intima?
- Certo che lo è, cazzone, ma è qualcosa di più animalesco, porca troia. Pensi solo a godere e a fare godere l'altro e quindi non ci fai caso che sei nuda, per dire.
- Tu non sei mica normale.
- Succhia.
- OK. Va bene. Vieni qui.
Allungo un braccio e lei lo guarda come se le stessi tendendo un oggetto che non ha mai visto prima. Poi si avvicina e ci a sopra, io sposto il braccio e ruoto il corpo, così che possa poggiare la testa alla mia spalla, mentre la mia mano si posa sul suo fianco e i nostri corpi si avvicinano.
- Ecco. Non era difficile, no?
- No, certo che no – rimaniamo in silenzio, per qualche secondo. - Ora che succede?
- Ma che cazzo di domanda. Cosa vuoi che succeda? Ma non ti hanno mai abbracciato, prima?
- Non so. Sì, ma non così.
- Non credo ci siano così tanti modi di abbracciare qualcuno.
Non dice nulla e io fisso il soffitto.
- Non ho mai avuto un ragazzo – dice, all'improvviso.
- Come?
- Mi hai sentito benissimo, stronzo.
- Cosa vuol dire che non hai mai avuto un ragazzo?
- Cosa cazzo vuoi che voglia dire? Vuol dire che non ho mai avuto un ragazzo, porca troia.
- Oh.
- “Oh”? Che cazzo vuol dire “oh”? Mi stai dando della sfigata?
- Senti, ti vuoi calmare, per favore?
Non dice niente, ma posso percepire il suo fastidio e la sua tensione.
- Com'è successo? - chiedo.
- Non lo so. È successo e basta.
- Va bene.
- Ho scopato un sacco e, credo, alla fine sia ata per una che la dà via facile, perché continuavo a conoscere un sacco di ragazzi che dicevano che gli piacevo e a me loro piacevano, però dopo che avevamo scopato mi mandavano affanculo.
- E tu ci cascavi tutte le volte?
- Senti, è già abbastanza umiliante così. Cos'altro vuoi? Vuoi mettermi un braccio su per il culo e fare il ventriloquo?
- Va bene, scusa.
- E quindi non ho mai avuto una vera relazione.
- Mai? Neanche uno di questi qui è durato più di una scopata?
- Non sono una con cui è facile stare – dice e io le credo.
- E il mio capo?
- Abbiamo scopato un paio di volte e lui era gentile, con me.
- Si vede.
- Vaffanculo, dico sul serio. Lo era. Mi portava fuori a cena e mi raccontava della sua vita e del suo matrimonio e di quello che ha fatto, dei posti che ha visto. Come potevano andare male le cose?
- Mettendoti incinta, per esempio.
- Già. Cazzo.
La stringo un po' di più e lei non dice niente.
- E in tutte queste scopate nessuno ti ha mai abbracciata? Neanche il mio capo, che era così tanto gentile?
- Non lo so. Non ricordo di abbracci. O forse non ci facevo caso, perché dopo che scopavo avo sempre il tempo a chiedermi se anche quello che mi aveva appena scopata mi avrebbe scaricato come gli altri.
- Santo cielo.
- Sì, lo so. Faccio pena, lo so.
- Non è questo il punto.
- E qual è?
Ci rifletto su e scopro che neanche io lo so qual è, il punto. Le gratto la testa con l'altra mano, senza dire niente e lei sospira.
- Appunto – dice.
Rimaniamo così per non so quanto, poi sento il suo respiro regolare e anche io, lentamente mi addormento. Sogno Adriana, ma anche nel sogno so che quella che sto stringendo tra le braccia non è lei e questo ne fa un sogno misero.
20
o una mattinata, al lavoro, a risolvere i soliti problemi, sempre gli stessi, e a rispondere alle solite domande idiote, sempre le stesse. Corro per uffici e piani a togliere virus, risolvere problemi del sistema, avere a che fare con gente che non avrebbe bisogno di me, se usasse un po' di cervello e non si limitasse a pigiare tasti a caso, quando non sa come comportarsi.
Quando torno alla scrivania mi concedo di mandare a fare in culo il mio capo, borbottando a denti stretti. Non mi fa sentire meglio, ma devo fare qualcosa o mi ritroverò con l'ulcera entro la fine della giornata. Comincio a respirare a fondo, cercando di calmarmi, quando controllo la posta e ci trovo una lettera di Cora.
“Sono francamente indignata dal tuo comportamento dell'altra sera. Non sono sicura di riuscire a perdonarti per tutta quella cattiveria”
Decido di rispondere con calma, appena avrò un attimo. Non voglio usare le parole sbagliate e si merita una spiegazione quanto meno convincente. Mando un messaggio a Massi, chiedendogli se è libero, stasera, mi pare di non vederlo da anni, nonostante sia solo qualche giorno. Mi risponde di sì e mi chiede il favore di portare qualche birra e dei preservativi. Preferisco non indagare.
Sto mettendo via il cellulare, quando vedo arrivare un'altra mail di Cora.
“Non riesco a capacitarmi di quanto tu possa essere cattivo e stronzo, nei confronti delle persone che ti vogliono bene. Il tuo è stato l'atteggiamento di un ragazzino di sedici anni, non quello di un uomo maturo. Sei una persona
orribile.”
Non faccio in tempo a premere il tasto per la risposta, che ne arriva una terza.
“La cosa che mi fa infuriare è di averti raccontato delle cose personali e di essere stata sincera con te. Ti odio.”
Lancio un'occhiata a Daria, che sta lavorando, ignara di tutto, e mi sporgo verso la sua scrivania.
- Daria – alza lo sguardo e mi sorride. - Ciao.
- Ma ciao, come stai? - chiede.
- Bene. Tu tutto bene?
- Ma sì, dai. Ieri sono andato al cinema e poi il mio ragazzo mi ha portato a fare una eggiata. Siamo stati bene – racconta, con una delle espressioni più felici che abbia mai visto in vita mia.
- Il tuo ragazzo è il gigante con la “S” biascicata?
- Si chiama Matteo – dice, pazientemente.
- Lui. Quindi ora è proprio una vera relazione? State insieme?
Mi guarda con gli occhi che trasudano un tale affetto e amore che non me la sento di farle ascoltare i miei casini con la sua amica.
- Sì – dice.
- Sono contento per te – rispondo, sorridendo, mentre lei mi manda un bacino.
Mi risistemo alla scrivania, appena in tempo per trovare un'altra mail di Cora.
“ Sei troppo preso dal piangerti addosso e dal farti compatire per capire che hai qualcuno di speciale, accanto, e che dovresti fare tutto quello che è in tuo potere per tenerlo vicino. Sei una persona meschina ed egoista, che si merita di restare sola per il resto della sua vita. Non riesco a credere di aver perso del tempo e di essere venuta a letto con te. ”
Sospiro e recupero il foglio con la lista degli interventi che devo fare, per quel giorno, in giro per l'azienda. Saluto la mia amica e comincio a lavorare nei vari uffici, risolvendo problemi e correggendo errori di sistema. Quando sono al piano dell'ufficio di Cora busso al suo ufficio e, quando apro la porta, trovo i suoi due colleghi, ma di lei non c'è traccia.
- Scusate, cercavo Cora – dico.
- È malata – risponde uno dei tizi, prima di rimettersi a leggere la Gazzetta dello Sport che ha tra le mani.
- Ah. Capisco.
- C'è altro? - chiede.
- No, grazie. Dovresti leggere la versione online, è più aggiornata – gli dico, sogghignando. - Ah vero, è bloccata.
Chiudo la porta mentre lo sento mandarmi a quel paese e proseguo il mio lavoro.
Il pomeriggio vado a fare un po' di spesa e, quando torno a casa, la trovo in ordine e pulita.
- Sabrina? - chiedo.
Lei esce dalla stanza con la copia di Norwegian Wood in mano e indosso una maglietta dei Nirvana e un paio di jeans.
- Ciao – dice.
Vado in cucina e comincio a mettere via le cose acquistate.
- Ma hai pulito? - chiedo, notando che nel lavandino non ci sono più i piatti sporchi.
- Sì, non sapevo cosa fare, mi sentivo in colpa, mi pareva il minimo.
- Non c'è bisogno, davvero.
Scrolla le spalle e si issa sul tavolo, sedendoci sopra e lasciando le gambe a penzoloni.
- Com'è andata la giornata? - mi chiede.
- Al solito, una palla. E tu? Ti sei annoiata?
- Oh no. Ho dormito un sacco e poi ho quasi finito il tuo libro con i giapponesi depressi.
- Smettila di parlare male di quel libro.
- Che ti incazzi a fare, mica l'hai scritto tu.
Le lancio un'occhiataccia e poi le o una tavoletta di cioccolata. Lei la guarda come se le stessi porgendo una bustina di droga.
- Al latte – dico.
La prende, con gesto lento, e poi sorride.
- Grazie.
- Figurati.
- Stronzo.
- Bastava “grazie”.
Non dice nient'altro e la apre, staccando un pezzo e mangiandoselo.
- Allora, che hai deciso di fare? - le chiedo.
- Scusa. Hai ragione. Oggi mi levo dalle palle.
Fa per alzarsi, ma le metto una mano sulla spalla e la tengo ferma.
- Non intendevo questo. Intendevo dire se hai pensato al da farsi, perché mi pare evidente che il mio capo non lo vedrai più.
- No. Maledetto pezzo di merda.
- Ecco. Hai dei parenti? Degli amici?
- Qualcosa del genere.
- Mi pare avessi parlato di un fratello, giusto? Uno con la moglie che non ti piace.
- Quella stronza.
- Una parola buona per tutti, eh?
Mi mostra il dito medio e io rido, mentre lei continua a mangiare la cioccolata.
- Non so cosa fare – ammette, dopo un attimo di silenzio imbarazzato.
- Neanche io, non ho esperienza sull'argomento. Cioè se dovessi partorire farei bollire dell'acqua e procurerei degli asciugamani puliti, perché nei film lo fanno sempre, ma poi mi fermerei lì.
- Sei molto rassicurante, cazzo.
- Lo so – prendo il pezzo di cioccolata che mi sta porgendo e me lo infilo in bocca, pensieroso. Non è male, era tanto che non ne mangiavo. - Forse la cosa migliore sarebbe andare dal dottore.
- Che cazzo ci vado a fare? Lo so già che sono rimasta fregata.
Respiro a fondo e recupero una birra dal frigo.
- Sabrina, ascoltami, ma ascoltami sul serio: non sei costretta a tenerlo.
- Ma vaffanculo!
- No, davvero, cazzo, non sei costretta.
- Non sai di cosa cazzo stai parlando!
- Forse, ma so che hai appena detto “sono rimasta fregata”, mica che sei incinta. Non lo volevi questo figlio, non mi sembra la condizione migliore per farlo nascere, no?
- Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo.
Si copre il volto con le mani e comincia a mugugnare cose incomprensibili.
- Stai dicendo qualcosa? - chiedo.
- Sto pensando, stronzo. Mi fai pensare in pace?
- Per carità.
Apro la birra e la sorseggio, mentre mi appunto di parlare con Luna su quello che sta succedendo. Curiosamente, nel delirio che mi circonda, in questo momento, lei e mio padre mi sembrano le uniche due persone a cui mi possa rivolgere, per avere un parere o un buon consiglio.
- OK. Vado dal dottore del cazzo.
- Perfetto.
- Mi accompagni?
- Io?
- No, parlavo con la tua bottiglietta di birra, porca troia.
- OK. OK. Scusa. Io ti posso anche accompagnare, ma hai un dottore, qui?
- No, mica vivo qui, ma avrete dei dottori che si occupano di queste cose anche in questa città, no? Che cazzo fate? Li fate nascere in una stalla, i vostri figli?
- Va bene, cerca di calmarti, non c'è bisogno di agitarti.
Si infila in bocca un altro pezzo di cioccolata, le do una carezza su una spalla e poi vado in salotto, dove recupero le chiavi di riserva.
- Queste sono le chiavi di casa. Quella gialla apre il portone, quella rossa apre la porta, quella lunga serve per la serratura di sicurezza. Fino a che stai qui puoi usarle, se hai bisogno di uscire.
- Ma sul serio? - dice, sorpresa.
- Regole per questa casa: non ti porti nessuno. Se vuoi portare qualcuno, prima
mi chiami e mi chiedi il permesso, ma sappi che ti dirò di no, quindi risparmia i soldi della telefonata.
- Tanto non conosco nessuno.
- Meglio così. Niente droga, niente urla, niente casino. Se mi rendi la vita difficile, ti butto fuori di qui e amici come prima.
- OK.
- Io stasera esco, vado a casa di un amico. Hai bisogno di qualcosa?
- No.
Annuisco e torno in salotto, mi piazzo davanti alla tv e la accendo, cercando qualcosa da guardare prima di mettermi a cucinare la cena. Improvvisamente sento le braccia di Sabrina che mi circondano da dietro e mi stringe forte a sé.
- Ehi...
- Grazie. Scusa. Grazie.
- Di niente, è solo temporaneo.
- Lo so, vaffanculo.
Non dico altro e la lascio abbracciarmi, poi mi lascia andare e va in bagno.
- Almeno sai cucinare? - urlo, in domanda.
- Vai a farti fottere – risponde.
Sospiro.
Io e Massi ci ordiniamo una pizza e lui infila nel suo lettore DVD una copia di Tango & Cash . Guardo le prime immagini are sullo schermo, mentre Massi esce dal bagno fischiettando la musica del film.
- Come siamo finiti a guardare un film con Stallone e Russell?
- Intanto perché è un signor film.
- È una vaccata, dai.
- Non capisci niente.
- Ti pareva.
- La presenza di Kurt Russell dà al film quel tocco di autoironia che negli action di Stallone latitava, nonostante i tentativi di Sly di infilarcela. Era il terreno sul quale era sempre svantaggiato, rispetto a Schwarzenegger che, infatti, aveva sempre dei copioni migliori.
- Non ci posso credere che mi stia davvero spiegando queste cose.
- E poi c'è Teri Hatcher giovanissima, ben prima di fare Le casalinghe disperate e ancora prima di fare Lois Lane nella serie televisiva di Superman.
- Abbiamo finito?
- Sto cercando di darti un'educazione.
- No, stai cercando di giustificare il fatto che dalla tua ampia collezione di film, non sempre di buon gusto è vero, tu abbia tirato fuori un action movie di bassa lega e dozzinale, invece di...che ne so, invece di un John Woo d'annata.
- Non puoi giocarti la carta “John Woo d'annata” per controbattere a Tango & Cash.
- E invece l'ho appena fatto.
- Dimostrando di essere tu quello dozzinale. È come lamentarsi che Michael Dudikoff in American Ninja non recita bene quanto Marlon Brando ne Il padrino . Sono campi da gioco differenti.
- Ci sono le pistole? C'è la gente che spara? Ci sono i morti? È lo stesso campo da gioco.
- Ma che diavolo stai dicendo? Le pistole e la gente che spara c'è anche nei gialli di Agatha Christie, ma non per questo metteresti quell'imbecille di Poirot in una lista di film d'azione, no?
- Ah! La reductio ad Christie, l'ultima carta di chi non riesce a sostenere una conversazione cinematografica seria.
- Ma sentilo. Stai tirando in ballo uno dei maggiori registi cinesi viventi, colui che ha riscritto le regole dell'action negli anni '90, per dare contro a un'onesta pellicola di sparaspara nella quale Stallone e Russell fanno quello che gli riesce meglio.
- Avessi tirato fuori Grosso guaio a Chinatown o anche Over the top avrei potuto darti ragione, ma così no, così sei uno che non capisce la differenza tra un film d'azione e una puntata de L'ispettore Derrick .
Massi mi guarda, le mani sui fianchi, in silenzio, come se stesse rimuginando
qualcosa. Poi inclina la testa e aggrotta la fronte.
- La sai una cosa? Ci sento parlare così, fare questi discorsi, rifletto sul fatto che sono anni che li facciamo e improvvisamente realizzo che è un miracolo che non siamo ancora vergini.
- Cazzo. Sì.
Annuiamo e ci sediamo a guardare il film.
Verso metà Massi si rolla una canna, dopo avermi lanciato un'occhiata, e poi torna a guardare lo schermo.
- Allora, come va? - chiede.
Bevo un sorso di birra e guardo Stallone e Russell che si ritrovano dentro una prigione, ingiustamente accusati di omicidio.
- Non lo so.
- Si vede.
- Grazie.
Sorride e lecca la cartina, mentre chiude premurosamente il tutto.
- Senti, per l'altra sera – dico, - mi dispiace tanto per avere detto quelle cose.
- E perché? - risponde, un'espressione indifferente stampata sul viso – Hai detto cose vere, no?
- Sì, ma questo non è che mi dia il permesso di arti sopra come un rullo compressore.
- Oh – fa un cenno con la mano, come ad allontanare una mosca. - Non sarai il primo e mi hanno detto cose molto peggiori di quello e in maniera molto più cattiva.
- Va bene.
Si accende la canna e dà un tiro, poi espira il fumo e lo guarda sollevarsi, pensieroso.
- Non è male - me la porge e la porto alle labbra. - Comunque hai ragione: la cosa di Luna stava diventando così importante e non la vivevo serenamente.
- Ora sì?
- Ora sì.
- E come mai?
- L'ho lasciata, oggi pomeriggio.
Mi volto di scatto, gli occhi sbarrati, come se mi avesse dato una gomitata nel fianco.
- Cosa cazzo hai fatto, tu?
Scrolla le spalle e recupera la canna, aspira e poi si volta a guardarmi.
- Cosa ti aspettavi che fi, Ale? Lo sai come sono fatto, no?
- Che cosa vuol dire? Certo che lo so, ma non è una buona ragione per mandare tutto all'aria, Cristo santo.
- Lo avrei fatto comunque, prima o poi, lo sai bene anche tu. Non sono capace di impegnarmi in una relazione seria e prima o poi l'avrei tradita o lei si sarebbe stancata e mi avrebbe lasciato. E siccome siamo arrivati al punto in cui lei, chiaramente, si sta attaccando più del dovuto, direi che è meglio se la chiudo qui.
Rimango in silenzio, mentre lui riprende a fumare la canna e a guardare il film. Non ha tutti i torti: non è mai stato affidabile, le sue relazioni non sono mai durate più di pochi mesi e le sue ex non hanno mai delle buone parole su di lui. Ma Luna mi sembrava diversa e, di più, lui mi sembrava diverso con Luna.
- Massi, ascoltami, per favore: stai facendo una cazzata gigantesca.
- Il 21 esce il mio libro.
- Cosa?
- Il 21 esce il mio libro – ripete, sottolineando ogni parola con le dita. - Il mio primo romanzo, ricordi?
- Sì. Ma che c'entra? Cioè, bene, sono contento per te, ma cosa c'entra, ora?
- Niente, ma volevo dirtelo. Sei la seconda persona che lo sa, perché la prima è stata...be', è stata Luna, ecco.
- OK – mi sento spaesato e non so bene cosa dire.
Rimango in silenzio e continuo a fissare lui che guarda lo schermo. Ha ragione lui? Ha fatto bene? Ma, soprattutto, sono così anche io? Sto usando Adriana, come lui usa la sua ex, per non impegnarmi con nessuno?
- Massi, stai sbagliando – dico.
- No. Sei tu che stai pensando che io sbagli, Ale, perché ti piace pensare ai lieto fine e se io, invece che un film con Stallone, ti avessi proposto di guardare Dirty Dancing saresti stato entusiasta – dà un altro tiro alla canna, trattiene il fumo e poi lo sputa fuori. - Ma sappiamo bene come siamo fatti, no? Io non sono altro che un cazzone a cui piace scopare e tirare tardi, mentre tu sei quello che sogna la casetta bianca, con il prato e lo steccato. Per un po' ci siamo scambiati gli abiti e tu ti sei divertito a scopare e io a provare cosa vuol dire stare con una ragazza soltanto. È come a Carnevale e tu ti sei vestito da Batman, mentre io mi sono vestito da Principe Azzurro, ma poi il Carnevale finisce, Ale, ed è tempo che io torni a essere chi sono e che tu smetta di fingere di poter fare qualcosa che non sai fare.
Lo dice in assoluta tranquillità, mentre scrolla la cenere della canna nella bottiglia vuota di birra. Torna a guardarmi e non è arrabbiato, né sembra particolarmente fatto. Direi, anzi, che è il più lucido di noi due.
- Ma lei ti faceva stare bene.
- Oh sì. Mi faceva stare molto bene e sono quasi sicuro che, se io non fossi un cazzone, saremmo anche stati una bella coppia. Ma la conosci la storia della rana e dello scorpione?
- Non credo. In che numero era?
Inclina la testa e, subito dopo, allontana la canna che stava tornando a porgermi.
- C'è uno scorpione che vuole attraversare un corso d'acqua e chiede a una rana un aggio. Lei rifiuta, perché, gli dice, sa che lui la pungerà con la sua coda velenosa, uccidendola. Ma no, dice lui, non lo farebbe, perché altrimenti affogherebbe e non avrebbe senso. Allora la rana accetta, lo scorpione gli sale sulla schiena e lei comincia a nuotare. Giunti a metà percorso lo scorpione la punge e lei gli chiede perché l'ha fatto, visto che anche lui, ora, morirà affogato. E lui sai cosa le risponde? Le risponde “Mi dispiace. Sono uno scorpione e questo è quello che faccio”.
La combinazione birra, canna e shock mi deve avere rintronato, perché lo guardo in silenzio, imbambolato, senza capire se io sono la rana o se la rana è Luna. Massi torna a guardare il film e dopo un tempo più o meno lungo, mi dà di gomito.
- Sei lo scorpione.
Torno a guardare lo schermo e finiamo di guardare il film senza dire un'altra parola. Mi addormento sul suo divano e mi sveglio, di colpo, guardandomi intorno. Massi sta uscendo dal bagno con indosso la maglietta dei Clash tutta bucata che usa per dormire.
- Ti o il cuscino e la coperta – dice, entrando in camera sua.
- No, no – mi alzo in piedi e le gambe sembrano robuste. Piego appena le ginocchia, un paio di volte, per essere sicuro. - Vado a casa, davvero.
- Non è un problema, se ti fermi.
- Lo so, ma ho gente a casa.
- Chi?
- La tizia incinta.
- Quella che ti ha rotto il culo?
- Non mi ha rotto il culo, mi ha solo dato una ginocchiata nelle palle.
- Sei stato steso da una incinta, se questo non è farsi fare il culo, dimmi tu cosa lo è.
Inspiro un paio di volte e scuoto la testa.
- Non importa, lasciamo stare – dico. - Però è a casa mia.
- E che ci fa a casa tua?
- Prende tempo, credo.
- Prende tempo da cosa?
- Dal decidere se tenere il bambino o meno.
- E perché lo fa a casa tua?
Non ho una risposta alla sua domanda e mi limito a scrollare le spalle.
- OK. Quindi in questo momento hai una ragazza incinta a casa tua.
- Sì.
- E non vuoi dormire sul divano.
- Non è che non voglio, ma magari potrebbe avere bisogno di me.
- Per cosa? Per partorire un feto alieno?
- Credo sia ancora al primo mese o giù di lì.
- Be' certo, perché se fosse al nono tu potresti aiutarla a partorire nel mezzo del tuo salotto, sicuro.
- Oh insomma, che vuoi?
- Ma niente – si mette a ridere e si accende una sigaretta.
- Non mi va di lasciarla sola, non lo so. Magari ha bisogno di qualcuno anche solo per insultarlo, che mi pare decisamente la cosa che le riesce meglio.
Massi si siede sul bordo del suo tavolo e annuisce, la sigaretta tra le labbra.
- Ale, ti posso dire una cosa che non credo di averti mai detto?
- Sentiamo.
- Ti voglio bene.
Lo fisso, attonito, aspettando la battuta, ma lui non dice niente, rimane lì a guardarmi, sorridendo. E non è il suo solito sorriso sarcastico, ma un sorriso pieno d'affetto.
- Be'. Grazie – rispondo.
- Prego.
- E anche io. Lo sai, vero?
- Lo so.
Rimaniamo in silenzio, mi fisso le punte dei piedi, poi lo guardo, di sottecchi.
- Ci abbracciamo? - chiedo.
- Io sono a posto così, ma se tu ne senti il bisogno... - allunga le braccia verso di me e io lo fermo con un gesto.
- No, va bene così. Direi che possiamo farne a meno.
- Va bene.
Rimaniamo ancora in silenzio, poi mi gratto la nuca.
- A che devo questa dichiarazione?
- Sai la cosa che dicevo prima? La storia della rana e dello scorpione, dico.
- Sì.
- Ecco, pensaci. Tutto quello che hai fatto negli ultimi mesi, tutto questo scopare, è bello ed è divertente. È divertente anche per me, cazzo, perché i tuoi aneddoti sulle svitate che ti sei trovato mi fanno sempre morire dal ridere.
- Vaffanculo.
- Però quello non sei tu, lo sappiamo bene entrambi. Tu non vuoi scopare con tutte quelle ragazze, tu vuoi scopare con una sola. E tra l'altro con la sola che non ne vuole sapere, di scopare con te.
- Lo so.
- E sai qual è il problema? Il problema è che anche per scopare in giro ci sono delle regole. Anche per le botte e via ci sono delle cose da evitare.
- Tipo?
- Tipo il fatto che “una botta e via” è abbastanza esplicativo già dal nome, Ale: scopi, ti alzi e te ne vai. Non ci sono secondi incontri, figuriamoci terzi o quarti.
- Non l'avevo mica previsto.
- Oh smettila, dai. Tu dopo scopato ti accoccoli accanto a queste ragazze e le abbracci, fai loro delle carezze, dai loro i bacini. Io mi alzo, mi infilo i pantaloni e mi levo di torno e lo faccio perché è così che si fa. Quello che fai tu è prepararti a essere massacrato dalle donne, che già non sono capaci di fare del sesso senza sperare in qualcos'altro figuriamoci se tu gli dai anche la possibilità di sperarci.
Serro le labbra in un'espressione che vorrebbe essere indignata, ma so bene che ha ragione, che con quelle ragazze ho creato un surrogato della mia relazione con Adriana: il mio cuore a lei, a loro il corpo e quel bisogno di affetto che sentivo il bisogno di soddisfare e che lei non soddisfaceva. Non mi sono preoccupato del fatto che loro potessero vederla in maniera diversa.
- Che faccio? - chiedo.
- Che vuoi fare? Niente.
- Niente?
- Senti, i casi sono due: ti rimetti a corteggiare Adriana, seriamente,
implacabilmente, fino a quando non cede o fino a quando non ti manda a fare in culo e, a quel punto, anche le speranze di poterci tornare insieme saranno perse.
- Oppure?
- Oppure ti siedi, studi quelle povere disperate che hanno deciso di venire a letto con te e scegli quella che ti sembra la più tranquilla, che ti si adatta meglio.
- Fosse facile.
- Ale, hai ato la maggior parte della tua vita a gestire la tua ex e le sue fisime e non voglio fartene una colpa, davvero. Ma forse è tempo che cominci a pensare a te stesso e a realizzare che ti meriti una relazione con qualcuno che sappia scoparti e farti stare bene e che, subito dopo, non si metta a piangere perché la margheritina che ha comprato non sembra felice.
- Adriana non...
- Lo sai cosa sto dicendo, non perdere tempo in cazzate.
- Va bene.
- E ora vai, che non c'è niente che rischi di perdere, a casa tua, ma non sia mai che non sia presente, quando non succederà nulla.
Gli faccio il dito medio e apro la porta di casa, fermandomi a guardarlo.
- Sai la storia della rana e dello scorpione?
- Certo che la so, te l'ho raccontata io.
- Sì, non intendevo... - sospiro – quello che volevo dirti, Massi, è che dovresti pensarci anche tu, perché forse tu non sei lo scorpione. O forse lo sei, ma in realtà sei lo scorpione di te stesso.
- Stronzate – risponde, con un sorriso.
- Forse. Allora mettiamola così: hai una grande esperienza con lo scopare e io mi fido della tua parola. Tu fidati della mia, allora: una relazione fissa non è destinata a finire per forza e, se lo è, quello che conta non è come finisce, quello che conta è quello che ti ha dato e quello che ti lascia.
- Ma comunque finisce, no?
- Non è questo il punto. Quello che ho capito da tutto questo – indico intorno a me con un gesto generico, - quello che ho imparato è che, cazzo, ci sono poche occasioni per stare bene e ci sono ancora meno persone con cui starci. E allora, se ne trovi una, porca troia, prendila e tienila stretta. Non fare il coglione.
- OK.
- Sul serio.
- Va bene.
- Non ti dico di rimetterti con Luna, ma almeno pensaci, va bene?
- Ho detto va bene – ripete, sorridendo.
- Non ci penserai, vero?
- No.
- Ecco.
Faccio un cenno di saluto con la mano ed esco dall'appartamento, guidando verso casa. Lungo la strada mi metto a pensare ad Adriana, a Carlotta, a Sandra, a Sabrina, a Cora e alla mia vita e comincio a piangere. Continuo a guidare, limitandomi ad asciugare gli occhi per poter vedere dove sto andando; fuori non è tanto freddo e abbasso entrambi i finestrini e lascio che l'aria fresca circoli per l'abitacolo dell'auto, portandomi una carezza e un po' di sollievo. In radio a Rocket Man in un'insolita versione acustica e mi lascio cullare dalle note, mentre mi fermo a un semaforo e poggio la testa indietro e chiudo gli occhi. Non c'è nessuno in giro, solo io che me ne vado a so con i miei ricordi, dentro la mia
macchina, che comprai con Adriana. Decidemmo insieme il colore e di non prendere l'aria condizionata, ma di avere assolutamente l'autoradio, perché potevamo morire di caldo, ma avevamo bisogno di cantare le canzoni dei Kinks e degli AC/DC, mentre eravamo in viaggio. Posso sentire ancora la sua presenza accanto a me, mentre guido: Adriana che non dormiva mai, perché voleva essere sveglia e farmi compagnia; Adriana che studiava le cartine e i percorsi in maniera ossessiva, così che non ci siamo mai persi una sola volta, pur non avendo un navigatore satellitare a cui affidarci; Adriana che andava a periodi, con la musica, e quindi c'erano mesi in cui voleva ascoltare solo Bob Dylan o solo le canzoni italiane di tutte le edizioni di Sanremo.
- E mi odiavi tantissimo, quando avano i Pooh – sento la sua voce e, quando mi volto verso il sedile del eggero, è seduta lì che mi sorride. Indossa la sua camicetta bianca e i jeans aderenti e quel giubbotto di cuoio che adoravo.
- Non puoi farmene una colpa – le rispondo.
- A me piacciono molto.
- Lo so. E a me piacevi tu, per questo non ti ho mai uccisa, quando cantavi a squarciagola Tanta voglia di lei .
Ride e si scosta una ciocca di capelli dalla fronte.
- Dove stai andando? - mi chiede, guardandosi in giro.
- Me ne vado a casa.
- Dove c'è la tua amica incinta?
- Sì.
- Ci farai l'amore?
- Non ci ho mai fatto l'amore.
- Lo sai cosa voglio dire – ribatte, roteando gli occhi.
- Non lo so. Forse.
- Perché?
- Perché mi manchi. E sono stufo di sentire la tua mancanza e di starci male. Ho bisogno di sentire qualcosa di diverso, anche per poco.
- Potresti darti al lavoro a maglia. O al volontariato.
- Potrei anche affrontare il cammino di Santiago de Compostela, ma ho come la sensazione che fare sesso sarebbe più soddisfacente e meno stancante, quindi, se non ti offendi, rimarrò su quel progetto lì.
- Come vuoi – scrolla le spalle.
- Non ti dà fastidio?
- Che tu vada a letto con un'altra? Non è affar mio.
- Io impazzirei se tu andassi a letto con un'altra persona.
Non dice niente, si limita a guardarmi negli occhi e io ricambio lo sguardo, indeciso su cosa dire.
- Dove sei adesso? - chiedo.
- Dove vuoi che sia?
- Dovresti essere con me.
- No, non dovrei. Ti ho lasciato, ricordi?
- Non devi lasciarmi. Devi darmi una possibilità.
- Pensi di potercela fare?
Allungo una mano per sfiorarle la guancia, ma nell'istante in cui muovo il braccio lei non c'è più e sto fissando un sedile vuoto. Rimango a guardarlo per un po', poi la luce del semaforo diventa verde, sospiro e riparto.
Quando rientro in casa trovo Sabrina stesa sul divano che legge un libro, la saluto con un gesto e butto la giacca sulla sedia vicino al tavolo, mentre vado in cucina a prendere la bottiglia d'acqua.
- Che leggi? - chiedo.
- Soffocare . C'è sesso, dentro.
- Sì.
- Non è male, un po' angosciante.
- Hai mollato l'altro?
- Ah no. L'ho finito. Sono rimasta depressa per ore e ho pianto tanto, ma forse è perché sono incinta.
Mi siedo sul divano e lei si raggomitola, le afferro le caviglie e la faccio allungare, poggiando i piedi sulle mie gambe.
- Com'è andata la tua serata? - mi chiede.
- Bene. Più o meno.
- Più o meno?
- Sì, è stata un po' strana, mi sono anche addormentato sul divano.
- L'erba fa questo effetto, quando si è molto stanchi.
Mi volto a guardarla e lei sorride.
- Come...
- Si sente l'odore fino a qui. Mi sarò fatto più canne che piatti di pasta, nella mia vita, figurati se non riconosco uno fatto.
- Bene. Grandioso – bevo un sorso d'acqua dalla bottiglia.
- Stai tranquillo, non ti faccio la predica.
- Vorrei anche vedere.
Ride e si rimette a leggere il libro, dandomi il tempo per rilassarmi un po'. Rimango così, tra sonno e veglia, appisolandomi brevemente per svegliarmi subito. Dovrei andare a letto, ma non ho voglia di svegliarmi e ricominciare da capo un'altra giornata. Sabrina sta leggendo con attenzione il suo libro e mi rendo conto che sto bene. Forse è solo per la canna o forse è la stanchezza. Ma essere lì sul divano, con lei stesa che legge, i suoi piedi sulle mie gambe, mi sento stranamente rilassato. A volte basta poco, per essere felici. A volte bastano dei piedi poggiati sulle gambe.
- Posso farti una domanda? - le chiedo.
- Spara.
- Cosa si fa quando si viene lasciati?
Mette giù il libro e mi guarda come se l'avessi schiaffeggiata.
- Vaffanculo.
- No, sul serio.
- Vaffanculo.
- Ma no, davvero, non ti sto prendendo per il culo. Ho bisogno di un consiglio.
Mi studia ancora con attenzione e poi sospira.
- Come te la cavi, con il massaggio ai piedi?
- Non so. Non credo di essermi mai posto la domanda.
Muove le dita dei piedi e capisco, ne prendo uno tra le mani e comincio a premere e torcere, cercando di essere deciso, ma di non esagerare.
- Da quanto stavate insieme? - chiede.
- Da sempre – rispondo, scrollando le spalle.
- Uh. Sei uno di quegli sfigati che si trovano la fidanzatina alle elementari e se la portano avanti per tutta la loro vita di merda?
- Non vedo cosa ci sia di sfigato, nel trovare la persona giusta e tenersela stretta.
Sorride, divertita, e poi anche lei scrolla le spalle.
- Niente – dice.
- Ecco.
- Perché ti ha lasciato?
- Perché sì. Non ha importanza il motivo, no? Non si torna indietro, pare. Mi ha lasciato e basta. Non vado più bene.
- Be' allora la tua è una domanda del cazzo.
- Ah grazie.
- L'hai detto tu, no? Non si torna indietro e, se non si torna indietro, bisogno
andare avanti per forza.
- O fermarsi dove si è.
- Saresti davvero un coglione patetico.
- Grazie.
- Che cazzo ci fai fermo? Aspetti di morire?
- Non lo so. Non puoi tornare indietro, non puoi andare avanti. Che altro vuoi fare?
- Alzare quel tuo culo da coglione che si chiama Alessandro e andare avanti, porca troia.
- Quattro parolacce in una sola frase. Sei una professionista, te lo concedo.
- Oh vaffanculo. Erano solo tre, cazzone.
- OK – sorrido.
- No, sul serio, vaffanculo: che cazzo ti resta da fare? Vuoi davvero dire che erai il resto della tua vita a piangere come una fighetta perché una stronza ti ha lasciato dopo tanti anni?
- Non tutta la vita. Però potrò restarmene sul divano a piangere per un po', fino a quando non mi è ata?
- E cosa ci vuole per fartela are?
- Ma cosa vuoi che ne sappia? È la prima volta che mi succede.
- Senti, mi hai scopata in mezzo a un parco pubblico, porca troia. Se quello non significa che sei pronto a tirare avanti, cosa cazzo ti ci vuole? Un'orgia?
- Non lo so. Potrei provare – rispondo, mentre cambio piede da massaggiare.
- Non saresti capace, sei una femminuccia.
- Cristo – sospiro.
- Senti, non sono la persona che può dare consigli su qualsiasi cosa, perché, cazzo, guardami – esclama, allargando le braccia. - Ma almeno una cosa l'ho sempre fatta ed è stato non stare lì con il culo per terra a piangere e a considerarmi una sfigata perché l'ennesimo pezzo di merda mi aveva buttata via, dopo avermi scopata. Non avrò avuto fortuna con gli uomini, ma almeno ho
abbastanza rispetto per me stessa da non stare male per uno stronzo che non mi merita.
Rimaniamo in silenzio e io le lancio un'occhiata, senza dire nulla. Lei mi guarda, sembra quasi indignata, poi rotea gli occhi.
- Sì, va bene, non è che questo mio orgoglio mi abbia impedito di restare incinta di uno stronzo. OK? Sei contento?
Annuisco, mentre sorrido e lei mi mostra il dito medio.
- Ficcatelo su per il culo – dice.
- Va bene, me la sono andata a cercare.
Mi dà un calcetto alla gamba con il piede libero e io rido, mentre smetto di massaggiare. Lei muove di nuovo le dita.
- Mh. Non male. Non fai del tutto cagare, lo ammetto.
- Bastava un “grazie per il massaggio”, sappilo – le dico.
Si alza in piedi, lentamente, e mi lancia un'occhiata.
- Davvero, Ale: cosa cazzo ti ci vuole, per ricominciare?
La guardo senza rispondere, riflettendo sulla domanda, senza trovare una risposta precisa. Non so bene cosa voglia dire “ricominciare”. Uscire? Sono più le sere che o fuori casa che quelle che o dentro, ormai. Non ricordo neanche quand'è stata l'ultima volta che ho giocato a World of Warcraft ; ho ricevuto un paio di messaggi dei miei compagni di gilda che mi chiedevano se mi ero ucciso per la depressione, a un certo punto. Sheldor mi ha ricordato che, prima di farlo, sono tenuto a lasciare a lui e agli altri tutti gli oggetti magici più potenti. Altre donne? Prossima telefonata. Forse mi manca la rassegnazione. L'accettare che sia finita, che non ci sia altra soluzione, che non possa fare niente per cambiare le cose. Forse manca quel momento in cui ti trovi sul valico, davanti a quello che sarà il resto della tua vita, perché quella che lo è stata, fino a quel momento, è finita e devi solo fare un o avanti, per essere una persona completamente diversa. Forse è questo. Forse è il fatto che non mi sento una persona diversa da prima, pur rendendomi razionalmente conto che lo sono. Mi piace ancora giocare a Warcraft e mi piace il cinema, mi piacciono ancora i dischi di Tom Waits e di Bob Dylan, sogno ancora di fare l'America da costa a costa, in macchina, vorrei ancora due figli e insegnargli i giochi che facevo quando ero piccolo io. Alessandro non mi sembra meno Alessandro ora, di quanto lo fosse prima. Alessandro deve solo riuscire a esserlo senza Adriana e non so come si faccia. Non ho mai pensato che fosse possibile e ora che devo mi guardo intorno spaesato, perché non è mai esistito un Alessandro senza di lei. Sono sul valico, devo solo muovere un o.
- Il coraggio di accettare le cose – dico a Sabrina, mentre una lacrima mi spunta dall'occhio destro e scivola fino al mento.
- Trovalo. Non fare il cazzone.
Annuisco e lei si sporge in avanti, dandomi un bacio sulla testa.
- Vado a fare la doccia – annuncia.
Sparisce in bagno, io rimango sul divano e guardo l'orologio. Sono quasi le due, ormai è tardi, domattina sarò uno straccio, al lavoro. Mi appisolo per un po' e mi sveglia il rumore del phon che viene , in bagno. Mi metto a sedere, massaggiandomi gli occhi e poi mi avvicino alla porta finestra. La apro e mi metto in terrazzo a guardare la città di notte, studio le poche macchine che ano, mentre mi dico che non fumerò più una canna in vita mia, perché questa mi ha preso veramente malissimo, tra sonnolenza e visioni in auto. Prendo il cellulare e chiamo mia madre, ma il suo apparecchio è spento, così quello di mio padre. Mi metto a chiamare persone a caso, ma devono essere tutte a letto, perché non rispondono o sono irraggiungibili. Rinuncio, ma avevo voglia di sentire qualcuno, anche se non so cosa avrei potuto dire.
- Tutto bene?
Mi volto e Sabrina è uscita dal bagno, con indosso una maglietta di Angus Young e un paio di pantaloni da pigiama da uomo.
- Sì. Sì. Non sembra? - chiedo.
- Insomma.
Si affaccia sul terrazzino e guarda anche lei la città.
- Una volta mi piaceva un sacco andare in giro di notte, sai? - dice.
- Dove andavi?
- Dovunque. Prendevo il motorino e guidavo per la città, andavo in angoli poco conosciuti o quelli che, invece, erano pieni di gente, durante il giorno, e guardavo com'erano, di notte. Sono praticamente un altro mondo, cazzo.
- Già.
Sorride e rimane in silenzio, guardando un punto indefinito. Le prendo delicatamente il mento con la mano e la faccio girare, sporgendomi in avanti per baciarla. Ha le labbra morbide e anche la sua lingua lo è. Ci baciamo a lungo e lei mi afferra il sedere e lo strizza.
- Ehi... - protesto, debolmente.
- Cazzo vuoi? Ti stai lamentando?
Non rispondo e la bacio ancora.
- Entriamo? - dico, staccandomi.
- No, stiamo qui – risponde, sorridendo.
- Oh Cristo...
Mi bacia ancora e mi slaccia i pantaloni, io la aiuto a tirare fuori il mio cazzo, mentre sto lì e spero che i miei vicini siano andati a dormire o, quanto meno, che non si affaccino alla finestra. Infilo una mano sotto i pantaloni del pigiama e anche io le afferro le chiappe. Ha un culo sodo e rotondo, che il Signore benedica i vent'anni.
- Inculami... - sussurra, al mio orecchio.
- Potremmo farlo dentro? - chiedo.
- No, qui – si morde un labbro e poi mi bacia ancora.
Si volta e si poggia alla ringhiera del terrazzino, sollevando il sedere, per facilitarmi l'ingresso. Mi succhio due dita e le infilo tra le natiche, forzando l'ingresso e, nel frattempo, masturbandola con l'altra mano. La sento gemere, mentre afferra la mia maglietta con una mano e la tira e strattona. Le due dita si muovono dentro e fuori, allargandosi lentamente, preparandola alla penetrazione. Mi sputo su una mano e poi inumidisco la mia cappella, per poi puntarla contro l'ingresso del suo culo.
- Sicura? - chiedo.
- Dai, fallo – dice.
Spingo lentamente, cercando di non essere troppo brutale e di entrare piano, per non farle male. Ma, a sorpresa, entro con estrema facilità per un buon pezzo, mentre Sabrina si preme la mano sulla bocca e geme. Mi fermo un attimo per farla abituare, poi riprendo a spingere e arrivo fino alla base del mio pene. Mi fermo ancora e le bacio il collo e afferro i fianchi con le mani, tenendola ferma.
- Cazzo... - sussurra lei.
- Fa male?
- Sì, un po', ma non fermarti.
- No.
Comincio a muovermi lentamente, do dei piccoli colpi decisi, ma costanti; lei ansima e si mette una mano tra le gambe, cominciando a masturbarsi. Io mi raddrizzo e la afferro per le natiche, guardando il mio cazzo che entra ed esce, man mano che i colpi si fanno sempre più profondi e sempre più decisi.
- Cazzo... - mugola di nuovo.
Mi sento rilassato. Non so se sia la canna o la stanchezza o una combinazione di entrambe, ma i pensieri che avevo con Carlotta sembrano essersi assopiti, credo solo temporaneamente, mentre lo facciamo. Non mi interessa neanche che siamo sul mio terrazzino e che qualcuno potrebbe vederci e, del resto, ho capito che è quello che la fa scattare e la eccita, il rischio di essere vista, di essere scoperta. Le o una mano sulla schiena, graffiandola, e osservando il segno delle mie unghie formarsi sulla sua pelle, illuminati dalla luce della sala che arriva, alle nostre spalle. Arrivo fino al sedere e graffio anche lì, per poi afferrarlo e stringerlo, per farle sentire meglio il mio cazzo che la scopa. Sembra apprezzare, perché geme più forte, mentre scorgo il movimento della sua mano accelerare. Lancio un'occhiata intorno e poi guardo il corpo di Sabrina alla poca luce che c'è: è bello, si intravedono solo porzioni di corpo, quelle non coperte dalla maglietta o dai pantaloni, calati a mezz'asta. Le mie unghie riprendono a percorrere la sua pelle, ando dal sedere alle cosce e poi risalendo.
- Fottimi, cazzo – dice, lei.
Accelero ancora il ritmo e i colpi diventano più violenti. Lei si preme nuovamente la mano sulla bocca e mi afferra per la maglietta, accompagnandomi nei colpi, spingendomi ad andare più a fondo, con più forza, senza smorzare il ritmo.
- Vengo...vengo...
Accelero ancora, sentendo le gambe che mi fanno malissimo e le energie che cominciano a mancarmi, mentre lei si morde le dita, ma emette comunque un gemito fortissimo, che mi incoraggia a non fermarmi. Il suo orgasmo è quasi finito, quando sento il mio che sta per cominciare.
- Oh Cristo... – riesco solo a dire.
- Vienimi dentro... - dice, girando la testa e guardandomi.
Mentre lo dice comincia ad accompagnare i miei colpi, spingendo indietro, mentre io spingo in avanti. L'orgasmo è forte e affondo le unghie nelle sue natiche, mentre vengo e mi mordo le labbra per non urlare. Posa la mano sulla mia nuca e mi attira a sé, il mio petto poggia sulla schiena, mentre progressivamente rallento i colpi e perdo forza. Le abbraccio la vita e le bacio collo, mentre rimango fermo, su di lei, ancora dentro, e respiro lentamente. Non diciamo niente, per un po', mentre penso che non è stato male. Che, certo, non era il sesso con la persona che ami, ma che difficilmente farai sesso con una persona che ami, se non ti metti a cercarne una. Che Sabrina o Carlotta o Sandra o persino Cora sono belle persone e che andarci a letto è divertente ed eccitante, ma che se voglio ricominciare da capo c'è solo una cosa da fare ed è ricominciare da capo.
- Lo faccio – dico.
- Cosa?
- Mi alzo in piedi.
- Era ora, cazzo.
Rimaniamo abbracciati ancora un po', prima di buttarci sul letto e addormentarci.
21
Il mattino dopo, durante la pausa pranzo, vado a cercare Cora e la incontro che sta uscendo dall'ufficio. Ha addosso un elegante tailleur e i capelli sono raccolti in una severa coda di cavallo. Quando mi vede si tende, ma posso chiaramente percepire che c'è meno rabbia, meno chiusura. Mi trovo a sperare che il are del tempo l'abbia un po' addolcita.
- Ciao – dico.
- Ehi. Ciao – mi pare sia un po' imbarazzata, oltre che arrabbiata.
- Mangiamo qualcosa insieme?
- No, non mi pare il caso. Cioè non credo che...
- Senti, hai diritto di essere arrabbiata con me, Cora, ma io ho il diritto di chiederti scusa, no? Almeno provarci.
Sbuffa e si guarda la punta delle scarpe, poi annuisce un paio di volte.
- Va bene.
Ci andiamo a sedere al solito bar e lei si prende un'insalata, mentre io chiedo l'ennesimo tramezzino. Dovrei cominciare a prepararmi il pranzo e portarlo in ufficio, così da mangiare un po' più sano. Ridacchio, tra me e me, e mi segno di farlo, dopo essere andato in palestra, avere cambiato la lampadina bruciata in sala da pranzo e avere risolto il problema della fame nel mondo. Cora mangia la sua insalata in maniera composta, cercando di non sporcare l'abito e facendo il minimo rumore necessario.
- Come va? - le chiedo, senza sapere bene come cominciare.
- Tutto bene. Un sacco di lavoro inutile e che non capisco, come al solito.
- Già. Funziona sempre così – dico, addentando il mio tramezzino.
- E tu?
- Niente di nuovo, più o meno. Mi sta per scadere il contratto.
- Te lo rinnovano?
- Non lo so. Non voglio neanche pensarci, a dirla tutta.
- OK.
- Non saprei cosa fare, se non me lo rinnovassero. Non saprei come affrontare anche questo.
- Posso immaginare.
Rimaniamo un po' in silenzio e mi viene in mente quel discorso di Pulp Fiction sul fatto di avere trovato una persona che vale quando puoi stare zitto per qualche minuto, senza sentirti a disagio.
- Senti, Ale, non ho molta voglia di parlare di quello che è successo, sinceramente – dice lei, all'improvviso. - Del resto non è che stessimo insieme, no? E sapevamo che era tutto un casino.
- Un po'.
- E se questo può tranquillizzarti, in qualche modo, non mi ero fatta molte illusioni, su noi due. Semplicemente stavo bene con te, mi aiutavi a non pensare ai miei casini.
- Sì, anche tu.
- Però tu non vuoi metterti con me, lo so. Troppi casini, del resto. Tu sei ancora preso dalla tua ex.
- E tu sei una pazza fanatica che pensa che io andrò all'Inferno.
- No, io sono una pazza fanatica che è sicura che andrai all'Inferno.
- Sì, ecco.
- Ma va bene così. Non si può dire che fossimo fatti l'uno per l'altra, no?
- Non lo so. Forse no.
- Neanche se tu non fossi così incasinato.
Scrollo le spalle e lei poggia le dita sul bordo del tavolo e le guarda, silenziosa.
- Mi farebbe bene se me lo confermassi – dice, con un filo di voce.
- Come? - chiedo.
- Ho bisogno di sentirmelo dire. Che non avrebbe funzionato, che non siamo fatti l'uno per l'altra, che sarebbe stata una merda.
- Cora...
- Perché altrimenti non so cosa pensare, sono stanca di non avere nessuno, di buttarmi in una storia e vederla che va male. Se non è quella, la ragione, il problema allora sono io e non ce la faccio ad accettarlo.
- Il problema potrei essere io, no? Il fatto che sono ancora preso dalla mia ex, dico.
Non mi risponde e continua a fissarsi le dita. E la capisco, anche io preferirei sentirmi dire da Adriana che non ho colpe, che se le cose sono andate come sono andate è perché lei è folle o perché l'hanno rapita i terroristi di Al Qaeda. Ma so anche che non servirebbe veramente.
- Senti, Cora – mi sporgo in avanti e le prendo una mano, - la verità è che non lo so. Non lo posso sapere. Sì, sospetto che avremmo avuto dei problemi, perché sei una pazza che pensa che morirà e che volerà nello spazio.
- Ascenderò al Paradiso, cretino. È Dio, mica è Goldrake.
- Sì, insomma quella roba lì, dai. Litigheremmo sicuramente un sacco, su quella storia lì, perché tu ci tieni e io, nonostante tu ci tenga, finirei per essere insopportabile e sarcastico.
- Tu? Ma cosa mi dici mai...
- Ecco. E quindi sì, sarebbe stato un grosso casino e non so se valga la pena di portare avanti una relazione del genere.
- Non lo so neanche io.
- Poi magari, invece, saremmo stati perfetti. Magari io mi sarei convertito o tu saresti diventata normale o magari ci saremmo incontrati a metà strada. Non lo so. Non potremo mai saperlo.
- No, pare di no.
- Però, per quanto possa contare, sono contento di averti conosciuto e di avere condiviso con te quello che abbiamo condiviso.
Sospira rumorosamente e si a una mano sulla faccia, prima di appoggiarvisi. Rimaniamo ancora in silenzio e poi lei mi punta addosso i suoi occhi.
- Sei uno stronzo.
- Ecco.
- Ma del resto non posso farci niente. È andata così.
- Del resto che senso avrebbe mettersi con uno stronzo?
- Anche questo è vero – risponde, con un sorriso.
- Devo dire quella roba che ti meriti di meglio?
- No, grazie, non c'è bisogno.
- OK.
- Lo so che merito di meglio.
- Sono d'accordo.
- La cosa grave è che, forse, eri il meglio che avevo sotto mano.
Sorrido e scuoto la testa.
- Se io sono il meglio che hai nella tua vita, Cora, devi cominciare a farti domande sulla tua vita.
- Sì, mi sa che è ora – risponde, giocherellando con il tovagliolo di carta.
- Per quanto può contare: a parte la questione religiosa, che, diciamolo, non solo mi rende incomprensibile la tua persona, ma in parte mi terrorizza a morte, sei una ragazza molto interessante e intelligente.
- Certo.
- Sono serio.
- Sì, ne sono sicura, ma tutte queste belle parole non portano un fidanzato, Ale, quindi puoi risparmiartele.
- È così importante per te? Avere un fidanzato, dico.
- Non lo so. Forse. Sì, ci sono giorni in cui mi manca molto e non averne uno mi pesa. Non dirmi che a te non capita.
- Capita – ammetto.
- Già. Capita.
Rimaniamo in silenzio e io finisco la mia acqua.
- Caffè? - chiedo.
Scrolla la testa, silenziosamente, gli occhi fissi sul fazzolettino che continua a torcere nervosamente, prima in senso orario, poi in senso antiorario.
- Come vogliamo fare? - chiedo. Smette di accanirsi sul fazzoletto e mi guarda, interrogativa. - Io e te. Nel senso, come mi devo comportare? Posso chiamarti, ogni tanto, per fare due chiacchiere o forse è meglio di no?
- Forse è meglio di no – dice, sorridendo quieta.
- OK. Immagino tu voglia un po' di tempo per fartela are.
- Esatto.
- Tra quanto pensi che potremo sentirci di nuovo?
- Non lo so. Facciamo mai?
Rimango ammutolito e la guardo, la bocca aperta come se dovessi dire qualcosa, ma mi accorgo di avere finito i discorsi maturi e intelligenti.
- Non credo che ti odierò mai, Ale. Ma non puoi entrare nella mia vita e portare qualcosa di bello, sebbene di così breve durata, e poi portarmelo via e aspettarti che io riesca ancora a guardarti senza sentirmi triste.
- Non volevo...
- Lo so. Non importa cosa volevi o non volevi. Ma ogni volta che ti sentissi al telefono o che ti guardassi, non potrei fare a meno di ricordarmi che tra noi le cose non hanno funzionato, che mi hai lasciata perché non ero la donna giusta e erei il tempo a chiedermi come sarebbe stato, tra noi due, e se mi avresti resa felice.
Non dico niente e lei sorride di nuovo e stavolta sembra tristissima.
- Il problema è che sono sicura che mi avresti resa molto felice e che io avrei potuto rendere felice te. Se. Se i tempi fossero stati giusti, se io non fossi cattolica, se tu non fossi ateo o quello che sei, se non ci fosse di mezzo il fantasma della tua ex. Non posso farti una colpa, se non vuoi stare con me e se mi consideri una pazza, ma tu non puoi farmi una colpa se mi sento male al pensiero di quello che potevamo essere e che non saremo mai.
- No, non posso.
- Quindi chiudiamola qui. Io non ci ho mai creduto a quella cosa degli ex che rimangono in buoni rapporti e si vogliono ancora bene. Posso credere che non si voglia del male all'altro, ma sono convinta di non voler sapere niente, una volta che è uscito dalla mia vita.
- OK. Va bene, se è questo che vuoi.
- È questo che voglio. Del resto non ho possibilità di poter volere altro, vero?
Scuoto la testa e lei annuisce. Poi si alza in piedi, prendendo la sua borsetta e mettendosela a tracolla.
- Stammi bene, Ale.
- Anche tu, Cora.
Mi saluta con un cenno del capo e si allontana senza voltarsi indietro. Rimango seduto al tavolino ancora per i dieci minuti che mi spettano di pausa pranzo, poi decido che non me ne frega niente e che mi posso permettere di fare tardi, per una volta, rimanendo seduto al tavolino per ancora un quarto d'ora, chiedendomi come sarebbe stata la mia storia con lei. Se.
Il problema, mi rendo conto, non è di avere ferito un'altra persona – o almeno non solo, perché nonostante la confusione e la tristezza che sembrano regnare nella mia vita, ancora ora mi dispiace sapere di essere causa della sofferenza di qualcuno, - quanto il fatto che averlo fatto non serve a farmi sentire meglio o a risolvere i miei problemi. Mi dico che era inevitabile, che per andare avanti, come ho deciso di fare, devi lasciare qualcuno indietro, ma non aiuta a farmi sentire meglio, perché quel qualcuno non è una persona qualunque. o le prime ore a chiedermi come sta Cora e cosa sta facendo. Starà piangendo? Starà ascoltando canzoni tristi che la fanno pensare a noi, a quello che c'è stato, e che
la cullano, nel suo dolore? Io lo faccio. Ascolto I wish I was in New Orleans di Tom Waits e If you see her say hello di Dylan e For no one dei Beatles. Mi ritrovo a riflettere che le canzoni che parlano di amori che finiscono, del dolore della separazione, sono sempre cantate dal punto di vista di qualcuno che è stato lasciato. Perché non si canta il dolore della scelta di lasciare qualcuno? I dubbi che vengono, dopo averlo fatto, sull'avere preso la giusta decisione? Il senso di colpa per avere causato dispiacere, per non essere stati in grado di tenere duro e di portare avanti il tutto? Mi vengono in mente due canzoni solo che parlano di qualcosa del genere Too much love will kill you di Brian May e Sexed Up di Robbie Williams (la seconda è particolarmente dura, nel parlare della rottura come senso di liberazione, con frasi del tipo “fottiti, non mi è comunque mai piaciuto il tuo sapore”), ma sono sicuro che ce ne saranno altre che la mia limitata cultura musicale non conosce. I musicisti che le hanno composte, suonate e cantate, si saranno sentiti meglio, dopo? Sarà stata una sorta di autoanalisi che gli ha permesso di alzare la testa e affrontare di nuovo la vita e l'amore in maniera serena, senza paura, senza titubanze, capaci di gettarsi in una nuova relazione a cuor leggero, limitandosi a vedere cosa arriva dopo? Quando dico che intendo andare avanti, so di cosa sto parlando o è solo uno slogan perché sono stanco di stare fermo dove sono? Non mi riesco a immaginare con un'altra donna che non sia Adriana, per quanto mi sforzi. I problemi che sono comuni problemi di una coppia (gusti diversi; voler andare da qualche parte, ma non avere i soldi per farlo; i genitori dell'altro e i loro inevitabili problemi di salute legati all'età) mi sembrano insormontabili e sono in grado di farmi venire l'ansia e di non volerci avere a che fare, figuriamoci problemi più seri (la malattia; la disoccupazione). Forse è davvero solo questione di tempo, a volte penso solo che arriverà una ragazza per la quale varrà la pena di affrontare queste rotture e che, anzi, mi farà sembrare quei problemi come semplici ostacoli e non mi peserà dovermene occupare. A volte mi dico che non voglio più permettere all'amore di distruggermi, corrompermi o farmi a pezzi, ma so che sono pose, che non sono in grado di ricordarmi di buttare il latte scaduto dal frigorifero, figuriamoci di non permettere alla mia emotività di prendere il sopravvento. Lancio un'occhiata a Daria e mi chiedo cosa ne pensi lei.
- Io e Cora abbiamo rotto – le dico, a freddo.
- Bisogna essere una coppia per rompere, tesoro – risponde, senza togliere gli occhi dallo schermo.
Colpito e affondato.
- Be' comunque non ci sentiremo più.
Smette per un attimo di battere i tasti e mi guarda, inclinando la testa a destra, come se vedesse un cucciolo di cane che cerca di arrampicarsi sul divano, troppo in alto per lui.
- Mi dispiace. Ti dispiace?
- Se mi dispiace che ti dispiaccia?
- Ale...
- Mi dispiace di averle fatto del male.
- Oh.
- E credo che mi mancherà un po'.
- Oh.
- E sono stanco di persone che escono dalla mia vita.
- Tienitele strette, allora.
- Non è così facile.
- No, è vero.
- Più stringo la presa, più pianeti sgusceranno tra le dita – dico.
Aggrotta le sopracciglia e continua a guardarmi, la testa sempre inclinata.
- Pianeti?
- Guerre Stellari. La principessa Leia che parla con il Grand Moff Tarkin.
Non dice nulla e io mi limito a guardarla come si guarderebbe uno che sta per
accendersi una sigaretta dopo essersi cosparso di benzina.
- Non puoi non avere mai visto Guerre Stellari .
- Tesoro, c'è una differenza enorme tra l'averlo visto e farne un culto, come te.
- Non ne faccio un culto è semplicemente...il film più bello e importante e grandioso di tutta la storia del mondo conosciuto.
- Vuoi dire che, se vivessi su un atollo grande quanto un campo da calcio, potrei considerare, non so, Colazione da Tiffany il film più bello e importante del mondo conosciuto?
- No, neanche, perché sicuramente avresti visto Guerre Stellari anche lì e anche lì sarebbe il film più bello e importante del mondo conosciuto.
Daria sospira, sorridendo pacifica.
- Mi stupisco che tu sia single, in effetti – commenta, dopo un attimo.
Colpito e affondato.
Mi rimetto a lavorare e dopo un po' lei mi lancia una pallina di carta, colpendomi
alla nuca. Mi volto a guardarla e lei ridacchia, facendomi la linguaccia.
- Guerre Stellari , Cristo santo. Han Solo. Il Millenium Falcon! - borbotto, facendo gesti vaghi con la mano.
- Sì, sì, l'ho visto. Mi piacciono quelli con Ewan McGregor.
Volto la sedia con un gesto secco e scuoto la testa.
- No. No. Io ti dico no.
- Cosa?
- No. Quelli no. Quelli sono i prequel. Non sono Guerre Stellari , quelli sono prodotti commerciali fatti per arricchire George Lucas e accontentare orde di fan dell'ultima ora che non capiscono la superiorità di una trilogia girata a cavallo tra gli anni '70 e '80 e piena di magia e umiltà.
- Oh poverino... - commenta lei, inclinando nuovamente la testa.
- Non prendermi in giro. Non su Guerre Stellari. Negare la superiorità di Guerre Stellari è come dire che non si capisce niente di cinema e di arte.
- Va bene. Vado a vedere se su Wikipedia, alla voce “sfigato” e a quella “noioso”, hanno messo una tua foto.
Sto per riprendere la filippica, quando il mio telefono suona e vedo che si tratta di Massi.
- Lavoro con una che preferisce la nuova trilogia di Guerre Stellari alla vecchia! - esordisco, senza neanche salutare, mentre Daria ride.
- Lo so, è un mondo brutto e crudele.
- Ecco.
- Portatela a letto e, quando sta per venire, fermati e dille “allora, cosa ne pensi di Guerre Stellari?
- Sospetto che non verrebbe a letto con me.
- Ci puoi giurare, tesoro – dice Daria, mentre ticchetta sulla tastiera del suo PC.
- Ecco. Mi ha anche sentito, mentre lo dicevo.
- Sei un disastro – sospira Massi.
- Lo so. Allora, cosa c'è? Di solito non mi chiami, quando sono in ufficio.
- Ah sì, è per la festa.
- Quale festa?
- Ti ricordi che il 21 esce il mio libro, vero?
- Sì, certo – mento.
- Ecco, il 21 è oggi, coglione.
Rimango un attimo in silenzio e guardo il calendario. È vero, è il 21. E per qualche ragione la cosa mi pare assolutamente impossibile. Adriana è andata via di casa a Settembre e oggi siamo al 21 Novembre. Il tempo è praticamente volato, sono più di due mesi che mi ha lasciato e a me sembra ancora ieri. Non può essere il 21 Novembre. Qualche scopata e poche serate fuori non possono avere riempito tutto quell'arco di tempo. Dovrebbe essere una settimana dopo, al massimo dieci giorni dopo che Adriana è andata via. È quasi Natale e mi accorgo che è il mio primo Natale da solo e non so bene cosa si faccia, a Natale, quando si è soli. Ricomincio a pensare a Natale scorso, ad aneddoti con l'albero che era troppo alto per il nostro appartamento – quello che ora è il mio appartamento – e al problema di cosa regalarmi, perché non so mai cosa rispondere, quando me lo chiedono, ma Massi interrompe i miei pensieri.
- Ti stai sparando un flashback sulla tua ragazza, vero?
- Io...no, no, assolutamente. Stavo pensando che è già il 21 Novembre.
- Mh mh. Certo.
- Insomma, questa festa? - o oltre.
- Sì. Ho organizzato una festicciola per gli amici, la facciamo al locale di Gigi, sai, quel disco pub dove faccio le serate.
- Sì, certo.
- Ecco. Vorrei chiederti due cose.
- Sentiamo.
- È un problema se invito Sandra?
- No, no, perché dovrebbe?
- C'ero anche io a cena a casa tua, eh?
- Sì. Vero. Ma no, fai pure, non ci sono problemi.
- In che rapporti siete?
- Buoni.
- Buoni?
- Più che buoni, mi sa.
- Del tipo?
- Del tipo che forse comincio a piacerle un po' troppo e credo che la cosa non le vada poi tanto bene.
- E a te?
- Non so cosa dire.
- Sai che novità.
- Sì, ecco, da un lato mi fa molto piacere, ma dall'altro non sono pronto e, soprattutto, non sono pronto a gestire una cosa del genere con lei.
- Capisco.
- E poi lei è incasinata e io ho bisogno di qualcuno di più stabile, forse, anche se...
- Ale, scusa, ti chiedo scusa, ma ti devo avere dato l'impressione che me ne fregasse qualcosa, ma, credimi, non è così.
- 'fanculo.
- Cioè in un altro momento, magari, eh? Ora c'ho da organizzare la festa e prendere accordi per la presentazione del libro e non è che smani dalla voglia di stare a sentire te che ti lamenti perché scopi troppo.
- Un giorno capirò perché siamo ancora amici.
- Perché sono la tua luce e guida.
- Sono proprio fortunato.
- La seconda cosa che ti volevo chiedere...
- Hai una bella faccia tosta.
- Fa parte del mio fascino.
- Cristo...
- Ti spiace andare a prendere Luna, la sera della festa, e portarcela?
- Luna? Hai invitato Luna alla festa?
- Sì, certo che l'ho invitata. Mi è stata molto vicina e mi ha aiutato, quando ero alla stesura finale, e mi sembra il minimo invitarla.
- Solo io trovo strano il fatto che tu stia invitando la ragazza che hai appena mollato?
- Oh finiscila. Non abbiamo più 16 anni, no? Ci siamo lasciati, ma siamo capaci di tenere dei rapporti civili.
- OK, se lo dici tu.
- Allora posso contare su di te?
- Sì, certo.
- Grazie. La festa inizia verso le dieci, direi, però se vuoi venire prima e bere qualcosa in tranquillità, lo sai che sei il benvenuto.
- Va bene, in caso credo che verrò prima.
- E porta pure qualcuno, se vuoi.
- Tipo chi?
- Non lo so. La tizia incinta?
- A una festa?
- Be', perché no? È incinta, mica paralizzata dal collo in giù.
- Hai ragione anche tu.
- O non portarla e portaci una delle altre. O non portare nessuno. Insomma a me non frega un cazzo, basta che ci sia tu e che ti ricordi di are a prendere Luna.
- Sì, promesso, non me la dimentico.
- Lo so. Ora vado, ci sentiamo più tardi.
- Lavori, oggi?
- Turno di notte. Se ti va di are, a me fa piacere.
- OK. A dopo.
Ci salutiamo e fisso lo schermo del cellulare. Massi e Luna sono rimasti in ottimi rapporti. Io e Adriana possiamo dire lo stesso?
Non faccio in tempo a pensare una risposta che vedo comparire sul telefono un SMS del mio amico “E piantala di spararti i flashback su ogni stronzata”.
Ha vinto lui.
In pausa pranzo chiamo Luna. o il tempo degli squilli a sperare che non risponda, perché mi sento stranamente in imbarazzo, come se il fatto che Massi l'abbia lasciato dipendesse in qualche modo da me o ne fossi co-responsabile. Sto per buttare giù, quando risponde.
- Ciao! - la voce sembra allegra.
- Ehi ciao, scusa, magari disturbo.
- No, stai tranquillo. Stavo facendo le scale con le buste della spesa in mano e non potevo rispondere.
- Ti richiamo? - sto facendo troppi salamelecchi per qualcuno che dovrebbe un semplice conoscente.
- Ma no, stai tranquillo. Come stai?
- Io al solito. Come stai tu, piuttosto?
Tarda un attimo a rispondere e conosco quella breve pausa, c'è tutto un mondo lì dentro, lo stesso nel quale vivo io, quando mi fanno la stessa domanda.
- Sopravvivo.
- Mi dispiace molto, sai?
- Pazienza.
- OK.
- Già.
- Senti, Massi mi ha detto della festa.
- Sì, la festa, giusto.
- Pensi di andarci?
- Credo di sì.
- Non sei costretta, eh?
- Lo so. Ma è un bel momento per lui e voglio esserci.
- Va bene.
- Mi vestirò da strafiga e berrò moltissimo e vomiterò sui suoi libri, credo.
- Sarà una serata interessante.
- Credo di sì.
Sorrido e sento che lei sta facendo lo stesso.
- Ti o a prendere alle nove? Troppo presto?
- No, no, va bene. Vieni pure alle nove sotto casa mia, per le nove e mezza dovrei uscire.
- Facciamo direttamente alle nove e mezza, allora?
- Ma davvero non hai imparato niente, sulle donne? Vuoi davvero che scenda alle dieci?
- Le nove.
- Bravo. Ci vediamo stasera, allora?
- Sì. Aspetta, c'è un'ultima cosa che volevo chiederti.
- Sentiamo.
- Lo so che la domanda può suonare strana, ma com'è la tua ginecologa? Una in gamba?
- Non suona strana, è strana.
- Sì, lo so. Ma ho un'amica che è rimasta incinta e non è di qui e io non saprei dove andare.
- L'hai messa incinta tu?
- No! Non l'ho messa incinta io!
- Va bene, scusa, chiedevo. Comunque sì, la mia ginecologa è una in gamba, se hai carta e penna ti o il numero.
Mi segno il numero su un pezzo di carta che mi infilo in tasca, sperando di non perderlo in giro come mi succede spesso.
- Perfetto, grazie Luna.
- Magari le do un colpo di telefono e le spiego un po' la situazione.
- Te ne sarei grato.
- Va bene. Ci vediamo stasera, allora?
- Alle nove, così scendi alle nove e mezza.
- Impari in fretta.
Quando esco dal lavoro chiamo la ginecologa e lei mi conferma che Luna le ha telefonato, le spiego a grandi linee che Sabrina ha fatto il test di gravidanza e che risulta essere incinta, ma che non ha ancora visto un medico e che né io, né lei ci siamo mai trovati in una situazione del genere. La dottoressa si dimostra molto professionale e comprensiva, ha una bella voce, con un tono un po' basso, materno, che infonde sicurezza. Accetta di vederci quella sera, così da poter fare un controllo e parlare un po' con Sabrina sui i successivi. Non parla mai di aborto, ma in qualche modo fa capire che se c'è da muoversi in quella direzione, allora bisogna cominciare ad affrontare la questione. Torno a casa e trovo Sabrina in salotto che guarda la televisione, stesa sul divano.
- Ciao – dice, senza staccare gli occhi dallo schermo.
- Ciao a te. Sei pronta?
Si alza in piedi, senza dire niente e va a recuperare gli anfibi dalla camera da letto, mi affaccio alla porta e la guardo infilarseli.
- Che succede? - chiedo.
- Niente – risponde, scrollando le spalle.
- Ehi...
Smette di allacciare l'anfibio sinistro e sospira.
- Nulla. Ho paura.
- Paura di cosa?
- Di quello che mi dirà la dottoressa, porca troia, di cosa cazzo vuoi che abbia paura?
- Cosa vuoi che ti dica, Sabrina? Sai già di essere incinta, no?
- Sì, cazzo.
- E quindi?
- Non lo so, porca troia. Lo so che sono incinta, ma lei è un dottore capisci, fino a ora potevo ancora illudermi che non fosse così, che magari il test era sbagliato e fare finta di niente, ma se lei mi dice che ci sono rimasta non ci sono cazzi, ci sono rimasta.
- Sì.
- E allora dovrò davvero prendere una decisione, porca puttana. E credimi, Ale, io faccio veramente cagare quando si tratta di prendere le decisioni.
- Non l'avrei mai detto – rispondo, sorridendo.
- Vai a farti fottere.
Me la sono cercata. Si alza e si infila la sua giacca, poi mi guarda, in attesa; per tutto il viaggio non diciamo una parola, lasciando che siano le canzoni dei Black Keys a riempire il nostro silenzio.
- Ti piacciono? - chiedo, indicando la radio con un cenno del capo.
- Non sono male – risponde, senza smettere di guardare fuori dal finestrino.
- Volevo metterti su canzoni che parlassero di gravidanza, ma non ne avevo.
Si volta a guardarmi, chiaramente arrabbiata.
- Vaffanculo.
- Cioè mi ricordo di una canzone di Marco Masini che parlava di una cosa del genere, ma ho giurato a me stesso che nella mia macchina non avrebbe mai suonato Masini e quindi non posso fartela sentire.
- Vaffanculo.
- Poi mi è venuta in mente una canzone orribile che si intitolava You're having my baby , ma era talmente brutta che neanche tu te la meritavi.
- Smettila di fare il cazzone.
- Perché? Sei incinta, no? Tanto vale parlarne.
- Certo. Facile dirlo per te.
- Cosa intendi?
- Che non è un problema tuo, cazzo. Tra poco levo le tende, me ne torno a casa mia e tu potrai raccontare ai tuoi amici, ridendo, di quella deficiente che si è fatta mettere incinta dal tuo capo.
- È questo che pensi che farò? Credi che ti consideri una deficiente?
- Non lo so. Non me ne frega un cazzo.
Fermo la macchina al semaforo e guardo fuori. Persone che tornano a casa, altre che invece escono, quelli che vanno a fare le spese, gli adolescenti che girano con gli amici, alcuni con ancora lo zainetto sulle spalle.
- Non è così – dico.
- Chi se ne fotte.
- È una fortuna che tu non sia un uomo, credo che finiremmo per fare a botte.
- Non credo, lo sai che ti romperei il culo.
- Probabilmente sì – ammetto.
Vedo che sorride e mi rilasso un po'.
- Cosa vuoi che me ne freghi, se sei rimasta incinta?
- Ah grazie.
- Lo sai cosa intendo, non fare la donna con me.
- Sono una donna, cazzone.
- Sì, ma finora mi hai risparmiato queste scenette da isterica.
- Fanculo.
- Sono gli ormoni, magari.
- Magari, sì.
- Hai fatto un errore, Sabrina. E allora? Credi che, tra tutti, proprio io sia quello che te lo farà pesare? Credi che sia interessato a farlo? O che sia nella posizione per?
Non dice niente e si a una mano sulla faccia, respirando a fondo un paio di volte.
- Cristo, ucciderei per una sigaretta, ti giuro.
- Posso immaginare.
- Una sola, un tiro. Mi piaceva un sacco fumare.
Sorrido e le o una mano sulla gamba, carezzandola. Lei la prende e la tiene stretta tra le mani, poi poggia di nuovo la testa al finestrino e chiude gli occhi.
Arriviamo dalla ginecologa e ci sediamo nella sala d'attesa, le o una rivista di gossip di quart'ordine e mi guardo intorno: al muro sono appesi poster sulla prevenzione per il cancro all'utero, per incoraggiare il controllo periodico, il pap test, la mammografia. Bastano quelli a farmi sentire fuori posto, perché non so neanche cosa sia, un pap test, so solo che è fastidioso e che tutte le donne che me ne hanno parlato avevano la stessa espressione che potevo avere io all'idea di una ginocchiata nel basso ventre.
- Questa rivista è vecchia più di mio nonno – dice lei.
- Sì?
- Era ancora vivo Mike Bongiorno.
- Mussolini era già caduto?
- Non ancora. Credo che Giulio Cesare stesse per essere accoltellato.
Sorridiamo entrambi e lei mi dà un bacio sulla guancia. Guardo la signora che è seduta dall'altra parte della sala, una donna dall'aspetto gentile, con un lungo cappotto grigio, intenta a leggere un libro. Ci sorride e riprende a leggere, come se si scusasse di avere violato la nostra intimità.
- Non stiamo insieme – dico.
- No, dormo solo a casa sua perché sono incinta – aggiunge Sabrina.
- Ma il figlio non è mio.
- È del suo capo ufficio.
- Uno stronzo.
- Un grandissimo stronzo.
La signora smette di leggere e ci sorride ancora.
- L'inizio di tutte le grandi storie d'amore – risponde, ridacchiando.
Ridiamo anche noi due e poi ci lanciamo un'occhiata e ridiamo più forte, all'idea.
Dopo una mezz'ora la dottoressa Mirra compare sulla porta e una ragazzina sui sedici anni esce dall'ambulatorio, avvicinandosi alla donna, che si alza e le a una giacca.
- Tutto a posto? - chiede.
La ragazza annuisce e si infila la giacca senza dire niente, poi si attacca subito al cellulare. La madre sospira e guarda la dottoressa che annuisce, complice.
- Tutto bene – la tranquillizza.
La dottoressa Mirra è abbastanza giovane, ha addosso un camice bianco e, sotto porta dei pantaloni che sembrano un po' faticare a contenere i suoi fianchi
abbondanti e un maglioncino bianco con sopra una spilla a tema floreale.
Madre e figlia lasciano l'ambulatorio, la signora ci saluta con un sorriso, e poi la dottoressa ci guarda, amichevole.
- Sabrina, giusto?
- Sì, signora – risponde lei, stranamente educata.
- Vuole entrare?
- Sì, certo, grazie.
Si alza in piedi e fa un o avanti, poi si ferma e mi guarda.
- Lui può entrare?
- Devi deciderlo tu, mi pareva di avere capito che non è il padre, ma solo un amico, giusto?
- Sì, ma vorrei che ci fosse anche lui, se per lei va bene.
- Se va bene a lui, va bene a me.
Sabrina si volta a guardarmi, ma mi sono già alzato e le ho posato una mano sulla spalla, spingendola delicatamente dentro l'ufficio. Assomiglia a qualsiasi altro ufficio di dottore: bianco, neutro, con odore di medicine e disinfettanti, altri poster alle pareti, stavolta con disegni esplicativi su vari parti anatomiche della donna, a partire dall'utero per arrivare al seno.
- Allora, mi dica pure – dice la dottoressa, prendendo posto dietro la scrivania.
Come se fosse stato un segnala convenuto, Sabrina comincia a parlare a ruota e non si ferma per diversi minuti. Sembra una diga andata in frantumi che riversa metri cubi d'acqua sulla vallata sottostante, travolgendo persone, case e qualsiasi cosa trovi sulla sua strada. La dottoressa mi lancia un'occhiata, un sopracciglio alzato, e io mi limito a scrollare leggermente le spalle, “Non so cosa succeda, non guardi me” cerco di farle capire, senza parlare. Sabrina parte dalla prima volta che ha incontrato il mio capo a quando abbiamo fatto il test di gravidanza. Ci mette dentro tutti i particolari possibili, da dove hanno fatto sesso alla marca di preservativi che usavano e, dato che c'è, non manca di raccontare le nostre due scopate, cosa che mi fa guadagnare un'altra occhiata perplessa più sopracciglio alzato da parte della dottoressa. Sabrina si interrompe di colpo, come se avesse finito le parole e rimane lì, la bocca aperta, gli occhi divaricati, quasi con il fiatone.
- È tutto? - chiede la dottoressa, dopo un istante di silenzio.
La mia amica annuisce e poi mi guarda, come alla ricerca di una conferma. Le prendo la mano e gliela stringo.
- Stai calma – bisbiglio.
- Va bene – dice la dottoressa, prendendo un block notes e una penna. - Le devo fare qualche domanda, Sabrina, solo, per favore, delle risposte brevi andranno più che bene.
- Sì. Mi scusi.
- Non si preoccupi. Di quanto era in ritardo, quando ha fatto il test?
- Tre settimane, più o meno.
- È sempre stata regolare?
- Sì, un orologio.
- Bene. Fa uso di droghe, di alcool?
- Ora?
- Ora.
- No, ho smesso di fumare.
- Brava. E prima?
- Fumavo e bevevo.
- Molto?
- A volte.
- Droghe?
- Mi facevo qualche canna.
- Quante?
- Non lo so, un po'.
- Va bene.
- È un problema, per il bambino?
La dottoressa alza lo sguardo dal foglio e le sorride, amichevole.
- Non si preoccupi, sono domande di routine, devo farmi un'idea di lei, perché immagino che non abbia con sé dei vecchi esami medici o cose del genere, vero?
- No, non sono di qui. Forse a casa, ma credo che neanche lì...
- Lo immaginavo, quindi ora le farò delle domande e lei risponderà, ma non deve agitarsi, va bene?
- Va bene.
- Allora, questo discutibile padre ha cinquant'anni, giusto?
- Forse un paio di anni in più.
- E non è che sa qualcosa di lui?
- Fuma, ma è astemio.
- Sa di malattie o qualcosa del genere?
- No. Una volta mi ha raccontato di avere avuto un mezzo infarto o qualcosa del genere e che lo tenevano sotto controllo e che gli avevano ficcato quei cosi...
- Dei by?
- Sì.
- Va bene.
La dottoressa fa un sacco di domande tecniche che capisco poco o che fatico a ricordare due minuti dopo che me le hanno fatto e scrive su un foglietto alcune cose che Sabrina deve fare e alcuni documenti che deve portarle. Sabrina ascolta in silenzio, attentamente, e annuisce con enfasi come se questo la aiutasse a imprimersi in testa quanto sta sentendo.
La dottoressa Mirra poggia la penna e indica il lettino alle nostre spalle.
- Vogliamo controllare, allora?
Sabrina guarda il lettino, lei e poi me e annuisce, alzandosi lentamente.
- Sì. Certo.
- Si può spogliare lì dietro – indica un paravento. - C'è un camice di carta, lo indossi pure.
La mia amica sparisce lì dietro e io guardo la dottoressa in un silenzio un po' imbarazzato.
- Una ragazza vivace – dice lei.
- Già. E con lei si sta contenendo.
- Non immagino come sarebbe, se non lo fe.
- Uno scaricatore di porto misto a un pazzo con la bava alla bocca.
- Affascinante.
- Qual è il suo parere?
Lei piega gli angoli delle labbra in basso e scuote la testa.
- Non ho pareri da dare...
- Alessandro.
- Alessandro. È rimasta incinta per sbaglio, sa quante ne vedo al mese, a settimana, a cui succede? Anche coppie sposate, eh? Mariti e mogli che fanno del sano sesso protetto e improvvisamente si ritrovano con lei che aspetta un figlio.
- E cosa consiglia, in questi casi?
- Non sta a me consigliare nulla. Posso solo fare presente che una gravidanza è non solo una responsabilità enorme verso il figlio, ma anche verso se stessi. Che, nel caso della donna, si sta chiedendo al proprio corpo di farsi carico di un grosso peso e, nel caso di entrambi, che si sta chiedendo un grossissimo cambiamento alla propria vita, sotto molteplici punti di vista. E che prima di preoccuparsi di qualsiasi cosa, bisogno sapere se si è in grado di affrontare uno stravolgimento del genere e, soprattutto, se lo si vuole affrontare.
- Già.
- Posso solo sperare che farete la scelta giusta.
- Oh. No. No, io non ho niente a che vedere, è una scelta sua.
- Forse. Ma se anche fosse così, Sabrina guarderà a lei, per prenderla, quindi ci pensi su anche lei.
- Non la conosco abbastanza bene, per poterle dare un consiglio del genere. Cristo, non sarei capace di dare un consiglio del genere neanche al mio migliore amico.
- Immagino che farci sesso sia più semplice che farle fare la scelta giusta.
- Qualcosa del genere – ribatto, sentendomi in imbarazzo.
Sabrina compare con addosso il camice di carta e si avvicina al lettino: due braccia risalgono, sul fondo, e in cima hanno degli anelli aperti nei quali infilare i piedi. Si stende e la dottoressa la aiuta a sistemarsi, tenendo così le gambe divaricate.
- Non guardare, maiale – dice lei, fulminandomi con lo sguardo.
- Ma sentila.
Mi sposto accanto a lei e le metto una mano sulla spalla. La dottoressa si siede davanti a Sabrina e le dà un'occhiata tra le gambe, questo annichilisce gli anni di porno con scene lesbo che ho visto nella mia vita.
- Quando ha fatto una visita dalla sua ginecologa, l'ultima volta? - chiede, mentre infila dei guanti.
- Non ricordo. Forse a Pasqua o giù di lì.
- Mh. Comunque vada a finire questa storia, Sabrina, deve cominciare a trattarsi meglio e ad avere più cura di se stessa.
- Va bene.
Non aggiunge altro e si mette a controllare, Sabrina fa qualche smorfia di fastidio e si morde le labbra, un paio di volte, ma non dice nulla. Le do un bacio sulla testa e lei la scosta, gentilmente, apparentemente più per imbarazzo che per fastidio.
- Direi che qui sembra andare tutto bene.
La dottoressa sorride e si leva i guanti, buttandoli in un cestino poco lontano. Poi prende un carrellino non molto lontano e lo avvicina al lettino, mentre con l'altra mano recupera un flaconcino e solleva un lembo del camice, scoprendo la pancia di Sabrina e mettendo in mostra un piercing all'ombelico.
- Questo dovrà toglierlo – si limita a dire.
- Va bene.
Preme il flacone sopra la pancia della mia amica e un gel trasparente cade sulla pelle, lo spalma delicatamente e poi accende la macchina.
- Allora, facciamo un'ecografia e vediamo che succede.
- Va bene – dice Sabrina.
- Ma saprà anche il sesso del bambino? - chiedo.
- No, è ancora troppo presto per saperlo. Siete curiosi?
- No – dice Sabrina. - Cioè sì. Ma solo se è femmina.
La dottoressa smette di guardare la macchina e guarda noi due.
- Quindi vorrebbe sapere il sesso del bambino solo se fosse femmina.
- Sì.
- Altrimenti non le dovrei dire niente.
- Esatto.
- Ma in questo modo vorrebbe dire che è un maschio.
- Sì.
- E quindi sarebbe come dirglielo.
Sabrina rimane in silenzio e si volta a guardarmi, in panico.
- Dottoressa, la prego, non cerchi di razionalizzare tutto questo delirio – dico, scuotendo lentamente il capo.
- Certo. Allora vediamo un po'.
La macchina ronza, gentile, mentre la dottoressa poggia quello che sembra un vecchio phaser di Star Trek sulla pancia di Sabrina e lo muove, lentamente.
- Be', direi che non c'è mai stata una donna più incinta di lei.
- Cazzo. Porca troia. Porca puttana. Cristo. Merda. Merda. Merda – Sabrina poggia la testa al lettino e chiude gli occhi, coprendosi gli occhi con le mani.
- Non sono le parole che usano i miei pazienti, di solito, ma a volte sì, lo ammetto – continua la dottoressa, per niente impressionata.
- Mi scusi – dico.
- Si figuri. Vedo il piccolo feto, eccolo lì.
Allungo il collo, ma non riesco a vedere lo schermo, a causa dell'angolazione. La dottoressa scruta con attenzione quello che compare e annuisce, silenziosamente. Sabrina tiene coperti gli occhi e non dice nulla, potrebbe essere morta, apparentemente.
- È sano? O insomma... - azzardo.
- È troppo presto per qualsiasi considerazione del genere, Alessandro. Però sentite...
Preme un tasto sulla macchina e sopra al ronzio si sente una specie di rumore tipo un eco, come quando infili la testa in acqua e senti dei suoni ovattati. Poi un leggerissimo battito, appena accennato, attraversa l'aria.
- È... - comincio a chiedere.
- Sì, è il suo cuore – risponde lei, sorridendomi.
Sabrina scopre gli occhi e sta piangendo, ma non saprei dire se per lo shock della
conferma di essere incinta o per quello che ha appena sentito.
- Merda – bisbiglia.
- Sì – ribatto.
Guarda la dottoressa e le sorride, le guance rigate di rimmel colato con le lacrime.
- Non so bene come la sta prendendo, Sabrina, ma tanti auguri – dice la dottoressa, con un sorriso.
- Cazzo. Grazie. Cazzo.
La fa rivestire e poi si siede alla scrivania e le prescrive una dieta e degli esami che deve fare. Guardo il foglietto e vedo una vita di sole verdure bollite e di carne di un certo tipo e penso che Sabrina non si divertirà granché, nei prossimi giorni. Dà ancora tutta una serie di consigli e la mia amica la ascolta attentamente, ponendo delle domande che paiono anche sensate. Io rimango lì, seduto, a pensare che sono nello studio di una ginecologa a tenere la mano a una ragazza che non è la mia fidanzata, mentre si informa su come comportarsi per gestire un figlio che non è il mio. La vita sa essere strana. Salutiamo la dottoressa, ringraziandola per l'aiuto, e rimaniamo d'accordo di sentirci ancora nei prossimi giorni. Poi andiamo in un bar lì vicino e ci sediamo a bere un succo di frutta, in silenzio, senza dire una parola, perché nessuno dei due sa cosa dire, né ha voglia di parlare. Improvvisamente Sabrina si alza in piedi.
- Vado a fare un giro.
- Un giro? Come un giro? Dove vai?
- A fare una eggiata.
- Vengo con te?
- No, ho bisogno di stare un po' da sola, scusa.
- OK.
Butta una banconota da dieci Euro sul tavolo e si sporge in avanti, dandomi un bacio sulla testa.
- Ehi... - dico, lei si ferma e si volta a guardarmi. - Torni, vero?
Rimane in silenzio un attimo, come se soppesasse la domanda, poi mi sorride e annuisce.
- OK. Perché non sei costretta a restare da me, lo sai, puoi andartene dove vuoi e
quando vuoi. Solo, per favore, non sparire, va bene?
- Va bene.
Esce dal bar e rimango seduto ancora un po' a pensare a tutto e a niente.
22
o in ufficio e lo trovo ovviamente mezzo vuoto, qualche collega si è ancora fermato a chiacchierare. Io non voglio pensare e decido di smaltire un po' di lavoro, concentrandomi su quello. Dove possibile risolvo problemi, rispondo alle mail, esamino dati. Quando riprendo cognizione del tempo ato sono ormai le sette ate; decido di tornare a casa e di prepararmi per la festa di Massi. Attraverso la città stranamente mezza vuota, come se nessuno avesse voglia di uscire e preferisse stare chiuso in casa, a fare finta che la giornata sia già finita. Quando arrivo a casa trovo la porta del mio appartamento già aperta, evidentemente Sabrina ha già fatto ritorno.
- Ehi, sono tornato – dico, mentre mi chiudo la porta alle spalle.
Adriana fa la sua comparsa dalla camera da letto e, per un attimo, è come ricevere un pugno in piena faccia. Mi ritrovo a sentire quella sensazione familiare di quando tornavo a casa e lei era lì e mi veniva a salutare e a farmi parlare della giornataccia che avevo avuto, mentre, razionalmente, mi ricordo ancora che lei mi ha lasciato e che, quindi, non dovrebbe trovarsi lì. Le due sensazioni, così nette, così contrapposte, così dolorose, si scontrano con violenza, lasciandomi lì, in piedi, lo sguardo inebetito e a cercare di afferrare il bandolo della matassa, di poggiare i piedi su un terreno solido che mi faccia capire chi sono e dove mi trovo.
- Ciao, Ale – dice lei, seria.
- Ciao.
Rimaniamo in silenzio, ma l'aver parlato ha, in qualche modo, diradato le nuvole e mi aggrappo a quello, cercando qualcosa da dire, perché parlare è l'unico modo per prendere controllo della situazione.
- Come stai? - chiedo.
- Bene – risponde, scrollando le spalle. - E tu?
- Bene. Più o meno.
Faccio una o avanti e mi comincio a togliere la giacca, lentamente, come se avessi paura che dei gesti troppo bruschi potessero farla scappare di corsa. Poggio la giacca sullo schienale del divano e la guardo. Forse me la sto immaginando di nuovo. Ma non dovrebbe essere così, perché non ho fumato, né bevuto. Sono perfettamente sobrio e in possesso delle mie facoltà. O forse sto impazzendo, forse è colpa dello stress, della tensione, della rabbia o magari ho preso una malattia venerea, scopando in giro, di quelle che ti fanno diventare pazzo.
- Scusa – dico, - ma sei qui sul serio, vero? - chiedo.
Adriana ridacchia e annuisce, alzando una mano e agitandola davanti a sé.
- Sono qui, perché non dovrei esserci?
- Perché mi hai lasciato e te ne sei andata – ribatto.
Smette di sorridere e abbassa la mano. Faccio ancora un o avanti e lei fa lo stesso, poggiandomi una mano sul braccio. È reale, calda, non svanisce al contatto. Mi accorgo che stavo trattenendo il fiato e che sono teso come una corda di violino. Espiro di colpo e il corpo si rilassa, io mi o una mano sugli occhi.
- Scusa. Scusa, non mi aspettavo di trovarti qui. È strano.
- No, scusami tu, avrei dovuto avvisarti che sarei ata.
- Come mai sei qui?
- Ho bisogno di vestiti e di biancheria e ho ancora qui le mie cose, quindi...
- Già.
- Se vuoi me ne vado e rio quando non ci sei. Avevo chiamato a casa e non hai risposto e, visto che ero da queste parti, ho pensato di venire a vedere – dice, mentre lo fa elenca i diversi aggi con le dita della mano, a dimostrazione che sono tutti aggi perfettamente logici.
- No, non credo sia un problema. Non lo so. Tu fai quello che devi, se proprio non ce la faccio, me ne vado a fare un giro.
- Va bene.
Si volta e rientra in camera, io rimango lì in piedi e la vedo are davanti alla porta con dei vestiti che piega e che infila in una sacca poggiata sul letto.
- Come va il lavoro? Ti hanno detto qualcosa del contratto?
- No.
- Hai chiesto?
- No.
- Cosa aspetti, Ale? - mi rimbrotta, affacciandosi al salotto mentre piega una maglietta viola che le è sempre stata benissimo e che adoravo.
- Sono stato un po' preso – rispondo, ancora lì in piedi.
- Cosa potrai mai avere a che fare, che è più importante di avere un lavoro?
“Per esempio smettere di stare male per colpa tua” penso, ma non lo dico e mi limito a scrollare le spalle. Lei mi lancia uno sguardo di rimprovero e rientra in camera.
- E se non portassi via i vestiti? Se li lasciassi qui?
- E poi come faccio a cambiarmi?
- Porti qui anche gli altri – dico.
- Nel senso che poi dovrei girare nuda o ricomprarmi da capo il guardaroba?
- No, nel senso che torni a casa da me – dico.
C'è silenzio, nell'appartamento, e lei ricompare ancora una volta, stringendo a sé delle mutande, come se fossero uno scudo che la proteggerà da quello che le dico. Ci guardiamo, in silenzio, e io scrollo le spalle.
- Del resto, voglio dire, cosa ci potrà essere lì fuori migliore della nostra vita insieme, Adriana? Perché non puoi dirmi che io fossi un fidanzato assente o disinteressato o che ti metteva le corna o che se ne fregava dei tuoi problemi. E non posso credere che, ora, tu possa davvero stare meglio rispetto a quando stavi con me. Perché l'unico modo in cui tu possa stare meglio è che tutte le tue manie e le tue seghe mentali siano svanite di colpo e, perdonami, non credo che la medicina abbia fatto i da gigante nel giro di poche settimane, né penso che il
tuo cugino astrofisico conosca qualche rimedio miracoloso per farti smettere di essere...di essere te stessa – chiudo, non sapendo che parole usare.
Adriana non dice niente. Mi guarda e non sembra neanche arrabbiata, sembra solo triste.
- Fisioterapista – si limita a correggermi. - Mio cugino fa il fisioterapista.
- Sì. Non me lo ricorderò mai – ammetto.
Si viene a sedere sul divano e batte la mano accanto a sé; mi siedo accanto a lei e lei ancora tiene strette le mutande. È incredibile come due persone così vicine possano sentire uno spazio così grande, tra loro. È come se fossimo due che si sono incontrati per la prima volta, come se io stessi cercando di rifilarle un'aspirapolvere e lei si limitasse ad ascoltarmi, educatamente, ma senza nessun trasporto, né reale interesse. Siamo vicini, ma siamo distanti anni luce e non c'è niente che io possa dire o fare per sentirmi più vicino a lei.
- Non sono cambiata. Sono sempre la stessa – conferma. - La medicina non ha fatto i da gigante e no, mio cugino non ha nessuna cura miracolosa.
- Del resto è un fottuto fisioterapista.
- Non ti sta tanto simpatico, eh?
- Non lo conosco neanche, ma già so che lo odio – ribatto, contraendo la mascella.
- Già.
- E quindi? Perché non torni? Se le cose sono come dici, perché non torni a casa nostra?
- Perché adesso sto bene, Ale.
È come uno schiaffo in piena faccia. La guardo, attonito, sapendo che non ha detto niente che già non mi avesse detto o che, in qualche modo, non mi aspettassi. Ma mi sento comunque come uno che è stato colpito a tradimento.
- E prima no? Prima stavi male?
- “Male” non è la parola adatta...
- Vaffanculo la semantica, Adriana. Per favore, rispondi: prima non stavi bene?
Respira a fondo un paio di volte, poi mi guarda.
- Se fossi stata bene sarei rimasta qui con te, no?
È più di quanto possa sostenere. Scatto in piedi come se delle molle mi avessero spinto, da sotto, e prendo la giacca dallo schienale del divano.
- Non ce la faccio. Vado. Scusa, prendi quello che ti serve.
- Mi dispiace – dice lei, rimanendo seduta.
- Sì, lo so, certo. Ma non me ne frega un cazzo. Non starò meglio perché ti dispiace.
Non dice niente e si alza, andando in bagno, mentre mi infilo la giacca e sento la rabbia salire, lentamente come una marea.
- Ale, nella tua doccia ci sono delle mutande da donna appese – dice lei, dall'altra stanza.
Le cose di Sabrina. Ovviamente doveva saltare fuori, prima o poi.
- C'è mia madre in visita – ribatto, mentre cerco di ricordare dove ho messo le chiavi di casa.
Adriana riemerge dal bagno con in mano un perizoma tipo filo interdentale e me lo mostra, inclinando la testa.
- Tua madre? - chiede, semplicemente.
Non ho voglia di inventare una scusa pessima, quindi lascio andare quello che devo.
- OK. Non è mia madre. È una mia amica, dorme qui, è incinta e non sono io il padre. E sì, abbiamo scopato. Ho scopato un sacco, sai? Tanto. Un sacco di donne, perché non ce la faccio più a stare male per colpa tua e del tuo egoismo, Adriana. Ho scopato così tanto che neanche mi ricordo più com'era farlo con te.
Non dice nulla e mi guarda in silenzio. Non so se le ho fatto del male e non mi interessa, perché sono stanco di fare il bravo ragazzo comprensivo.
- Ma se credi che, per questo, abbia smesso di amarti o di sperare che tu torni a casa o che abbia capito perché mi hai abbandonato come un cane, non è così. Stai bene? Sono contento che tu stia bene. Perché io, invece, sto di merda, ogni giorno che Dio manda in terra.
Prendo il piattino sul mobile accanto all'ingresso, quello dove di solito poggio le chiavi di casa, quando rientro, e che è vuoto. Non so dove ho messo le chiavi, quando sono rientrato, e ne ho le palle piene di tutto. Quindi prendo il piattino e lo scaglio con violenza contro una parete, guardandolo andare a pezzi.
- Ecco come sto, maledetta stronza egoista – urlo, prima di prendere la porta e uscire sbattendomela alle spalle.
Esco fuori dal palazzo e mi metto a camminare come un forsennato senza una direzione precisa, furibondo con Adriana e con me stesso, superando persone, attraversando con il rosso senza dare importanza al rischio che mi investano, fino a quando non arrivo alla stazione dei treni e mi siedo nella hall principale, accanto a una coppietta intenta a baciarsi e nascondo il volto tra le mani, arpionandomi la pelle con le unghie. Rimango così a respirare a fondo e a cercare di calmarmi, fino a quando non sento che la rabbia si affievolisce. Quando alzo lo sguardo la coppietta non c'è più e la hall è vuota, a parte un paio di ragazzi di colore e un barbone che si è steso poco più lontano. Guardo il tabellone dei treni in partenza, accarezzando l'idea di prenderne uno e andarmene per sempre. Ma so bene che è inutile scappare, se non si riesce a seminarsi. Faccio il mio ritorno a casa e suono il citofono. Trovo Sabrina sulla soglia che, appena entro, mi guarda preoccupata.
- Dov'eri? Stai bene? - chiede.
- Sì. No. Più o meno, dai.
Non dico altro e mi vado a sedere sul divano, accendendo la televisione e sintonizzandola sul telegiornale. Lei mi raggiunge e si siede accanto a me.
- C'erano le chiavi infilate nella toppa fuori – mi dice.
- Ah ecco dove erano.
- Sei uscito senza chiavi?
- Sì.
- E non ti eri accorto di averle lasciate dentro la serratura?
- No.
- Quanto puoi essere coglione? - chiede. Lo dice come una battuta, ma le leggo chiaramente in faccia che è preoccupata.
- Adriana era qui, stasera – dico.
- Oh.
Sposto lo sguardo verso la parete dove ho lanciato il piatto e vedo il segno dell'urto che ha danneggiato la vernice e la calce. Non ci sono resti di cocci, evidentemente Adriana ha ripulito, prima di andare via.
- Non sono state le esatte parole che ho detto io – dico.
- È andata male?
- Diciamo che non mi sono comportato da adulto maturo – mi limito a rispondere.
- Mi dispiace.
- OK. Lo so.
Non aggiunge altro e si mette a guardare la televisione. Il telegiornale è arrivato alle notizie di cinema, il che vuol dire che sta finendo, il che vuol dire che sono quasi le nove.
- Merda, sono in ritardo – balzo in piedi e corro in camera.
- In ritardo?
- Ho una festa. Il mio amico Massi oggi pubblica il suo primo libro e c'è una festa e io devo anche are a ritirare la sua ex ragazza e me ne sono dimenticato.
- Ah. OK. Divertiti, allora.
Riemergo dalla camera a petto nudo, mentre vado in bagno a cercare di aggiustare i capelli e a mettermi il deodorante.
- Grazie – ribatto.
È mentre torno in camera a cercare una camicia che la vedo, lì seduta sul divano e mi fermo.
- Ti va di venire? - chiedo.
- Alla festa? Io?
- Sì.
- Ma no, figurati.
- Perché no? Cos'hai di meglio da fare?
- Non conosco il tuo amico, non conosco nessuno...
- Conosci me. E in quanto a Massi, credimi, gli basteranno due minuti e lo adorerai.
- E per tua informazione ho da fare, un casino di cose ho da fare. Posso leggere. Oppure in televisione danno un cazzo di film con Pierce Brosnan e io l'ho visto solo nei film di James Bond e magari è bravo a fare anche altro.
- Che film è?
- Si chiama “Mamma mia!”.
- È un musical con le canzoni degli Abba.
- Merda.
- Eh.
- Porca troia. Fottuto Pierce Brosnan, mi aveva quasi fregata.
Entro in camera e inizio a cercare nell'armadio, cercando di non dare peso al fatto che l'altra anta, quella dove c'erano i vestiti di Adriana, è semi aperta e dentro è tutto vuoto. Digrigno i denti e tiro fuori una camicia nera con più irruenza del necessario.
- Allora? - chiedo, affacciandomi sulla soglia, mentre la infilo.
Lei mi guarda dubbiosa e poi mi lancia un'occhiata.
- Sono incinta.
- E quindi?
- Non dovrei fare sforzi, credo.
- Non ti sto mica invitando a fare la maratona di New York. Andiamo a una festa. Ti siedi da qualche parte, bevi solo succo di frutta, chiacchieri con la gente, stai lontana dalle droghe, ti tengo d'occhio.
- Mi piacerebbe. Mi sembra siano ati anni dall'ultima volta che mi sono divertita.
- Bene, perfetto. Hai cinque minuti per prepararti, ti bastano?
- Me ne bastano tre.
Ovviamente ci mette venti minuti perché è una donna e, come tale, è geneticamente incapace di prepararsi in quattro e quattr'otto. Emerge dal bagno con dei jeans aderenti e una maglietta di Johnny Cash che le lascia scoperta una spalla. Ha raccolto i lunghi capelli in una specie di capigliatura che le lascia
libera qualche ciocca di capelli che cade libera sul collo e sul viso.
- Stai bene – osservo.
- Vaffanculo, non lo dire come se fosse un miracolo, cazzo.
Rido e usciamo di casa. Arrivo sotto casa di Luna che ormai mancano dieci minuti alle dieci, ma pur con i miei venti minuti di ritardo lei non è lì che aspetta. La chiamo e mi risponde subito.
- Ciao tesoro, sono pronta, scendo tra cinque minuti.
Venti minuti dopo la vedo uscire dal portone del palazzo, quando ormai la davo per dispersa.
- Ciao – dice, salendo in auto, accanto a me.
Indossa un vestitino corto che le lascia scoperte le gambe perfette e ne esalta il fisico. Ci manca solo il cartello “scopami” e sarebbe completo. Mi dà un bacio sulla guancia e poi si volta a guardare Sabrina, che siede dietro.
- Sono Luna, piacere. Sono la ex di Massi, mi ha mollato però mi invita alla sua festa.
- Ciao, sono Sabrina e sono incinta di uno di cinquant'anni che mi ha abbandonata appena l'ha saputo.
Si stringono la mano e io sospiro.
- Sarà una serata divertente – mi limito a osservare, mentre metto in moto l'auto.
Quando arriviamo alla festa c'è già un sacco di gente. Sospetto che l'ingresso gratuito e il free bar abbiano in qualche modo invogliato un po' tutti a lasciare le loro comode case per darsi alla baldoria. Quando arriviamo sento Firestarter dei Prodigy arrivare dalle casse e mi sento improvvisamente negli anni '90. Appena entriamo Massi arriva di corsa e mi abbraccia.
- Ciao, vecchio mio – dico. - Auguri, sono orgoglioso di te.
Mi abbraccia di nuovo e mi dà una pacca sulla spalla.
- Pronto alla sbornia?
- Puoi giurarci.
- Ottimo, perché non voglio vedere una persona uscire da qui ancora sobria, stasera – dice, ridendo. Poi si volta verso Sabrina. - Tu devi essere l'amica di Ale.
- Ciao, grazie per l'invito.
- Figurati, sei la benvenuta.
Incrocia lo sguardo di Luna e li vedo sorridersi e scambiarsi dei baci sulle guance e sembrano così rilassati e tranquilli che fa tutto tremendamente pendant con quello che è successo oggi pomeriggio, a casa mia. Massi si scusa e torna alla console, io do di gomito a Luna.
- Come va?
- Bene. Ottimo. Ho bisogno di una caipirinha – risponde.
- Andiamo a bere – ribatto.
Faccio cenno a Sabrina di seguirmi e andiamo al bar, dove il barista mi ignora sistematicamente, fino a quando Luna non si sporge in avanti e lui è subito lì, pronto a prendere le nostre ordinazioni.
- Una caipirinha per la signora, un mojito per me, un succo alla pesca per la ragazza – dico.
- OK.
- E giuro com'è vero Iddio che se la prossima volta che vengo a ordinare mi ignori, vengo lì dietro e ti rompo il culo. Magari non ci riesco, ma stai sicuro che qualche colpo buono lo piazzo anche io – gli urlo in faccia.
Mi mostra il dito medio e io sorrido, acido. Dopo pochi minuti ci mette davanti i bicchieri e io gli butto un paio di banconote sul bancone.
- Tieni il resto e pagaci un corso di buone maniere, stronzo.
Mi volto e Sabrina e Luna mi guardano, ridendo.
- Alla salute – propongo, porgendo il bicchiere.
Ridono ancora e brindiamo. Luna e Sabrina si mettono a chiacchierare tra loro, non so bene di cosa, ma sospetto che abbia a che fare con i vestiti, perché Sabrina ha indicato il vestito di Luna e lei ha ribattuto qualcosa toccandole una ciocca di capelli. Il locale non è pieno, ma c'è un bel movimento, tutto sommato, e mi fa piacere vedere che Massi ha così tanti amici che hanno voglia di festeggiare il suo libro. Una voce dentro di me insinua il dubbio che, invece, è gente che pur di scroccare una bevuta gratis sarebbe venuta anche a un'omelia del Papa, ma la metto a tacere. Sono stanco di pensare a cose tristi e per stasera voglio pensare solo a cose divertenti. Qualcuno mi mette una mano sulla spalla e mi trovo davanti a Sandra e non so perché, ma vederla mi riempie di gioia e allora la abbraccio con trasporto, dandole un bacio sulla guancia. Mi abbraccia anche lei, cercando di non rovesciare il suo cocktail.
- Ehi, tutto bene? - chiede, riuscendo a farsi sentire oltre la musica.
- No, è tutto una merda – rispondo, tenendola stretta.
- OK.
- Scusa – mi scosto. - Come stai?
- Niente da segnalare, è tutto come al solito – mi sorride.
Si volta e indica un gruppetto indistinto di persone, poco più in là, troppo lontane per capire chi sia, da completini e jeans capisco che sono sia uomini che donne.
- Sono qui con un po' di amici.
- Ah bene.
- Sai che sono venuti a teatro con me?
- Sul serio?
- Giuro. Un miracolo, non so come sia successo. Oddio, credo che ci sia in mezzo una questione di donne, ma comunque è il risultato che conta.
- In che senso?
- C'è una compagnia di non professionisti che ha messo in scena Rumors di Neil Simon. Ce l'hai presente?
- Ho visto il film? - chiedo.
- Sei un caso disperato.
- Lo so.
- Comunque, uno dei miei amici sta facendo il filo a una delle attrici e quindi quando ho proposto di andare tutti a vedere lo spettacolo è stato il primo ad accettare e gli altri si sono uniti.
- Ottimo.
- È stato bello, ci siamo divertiti e lui si è portato qui la tipa e qualche altro attore. Siamo diventati un bel gruppetto.
La ignoro e la abbraccio ancora. Lei si tende, poi lentamente mi abbraccia anche lei.
- Che succede, Ale?
- Niente. È stata una brutta giornata, scusami.
- Va bene. Vuoi che andiamo fuori a parlarne?
- No, no. Voglio proprio dimenticarmela, se per te non è un problema.
- OK.
- Grazie.
- Sei qui da solo?
- No, sono qui con Luna e con una mia amica.
- Luna? - chiede lei, sorpresa.
- Non dirlo a me – ribatto.
Le raggiungiamo e le troviamo ferme al bancone, due tizi stanno chiacchierando con loro, Luna sorride ed è decisamente uno spettacolo, Sabrina è accanto a lei che sorride a sua volta, ma partecipa poco. Quando arrivo mi lancia un'occhiata agonizzante che è tutto un programma. Sandra e Luna si abbracciano e baciano e i due si mettono da lato, educatamente, anche se chiaramente scocciati dall'interruzione.
- Come va? - chiedo a Sabrina.
- Bene. Stare accanto a un pezzo di figa del genere è il modo ideale per essere considerata “quella simpatica”.
- Benvenuta nella mia vita.
Mi fa la linguaccia e poggia il bicchiere di succo ormai vuoto sul bancone, massaggiandosi gli occhi.
- Piacere, sono Sandra – dice la mia amica, allungando la mano.
- Sabrina, ciao.
Se la stringono ed entrambe, quasi all'unisono, mi lanciano un'occhiata interrogativa.
- Sabrina dorme da me, per un po'. Ha bisogno di risolvere alcune cose – dico, tenendomi sul vago. - Sandra è una cara amica – aggiungo, sperando che la definizione non la offenda.
Si sorridono e mi pare non nascondano in nessun modo astio o diffidenza e mi rilasso, poi lancio un'occhiata a Luna che rotea gli occhi e smetto di sentirmi tranquillo. Scambiamo due chiacchiere generiche, nell'aria sento Lonely boy dei The Black Keys e mi arrischio pure ad agitare un po' i fianchi a tempo, ma mi fermo subito perché mi sento un pezzo di legno. Sabrina non dice di essere incinta e io non tiro fuori il discorso, ovviamente; Sandra non fa riferimento alla nostra relazione e anche in questo caso mi guardo bene dal dire qualsiasi cosa. Parliamo un po' del libro di Massi e decido di scambiarci due chiacchiere, mi scuso con le due ragazze e vado alla console, dove lo trovo intento a cambiare un vinile, mentre un secondo sta suonando. Ha un orecchio coperto da una cuffia, mentre l'altro è libero e ascolta quello che una tizia gli sta sussurrando. Sorride e le strizza l'occhio e lei ricambia, mettendosi a ballare.
- Ehi! - dico.
- Ehi! - risponde – Ti diverti?
- Sono appena arrivato.
- Sì, lo so.
- Fumiamo una sigaretta – propongo.
- Sto parlando con Irene, qui... - dice, con un cenno del capo.
- Scusa, Irene, te lo rubo dieci minuti. Sono sicura che potrai tornare in calore quando rientriamo – urlo, sporgendomi verso di lei.
- Vaffanculo, pezzo di merda! - risponde lei.
Annuisco e prendo Massi per un braccio, mentre ride e fa cenno a un tizio: questi accorre alla console e si prepara a sostituirlo. Con il capo indica una porta laterale e ci infiliamo lì, uscendo nel cortile posteriore del locale.
- Ti vedo in forma – mi dice, uscendo.
Mi accendo una sigaretta e sorrido, acido.
- Direi lo stesso di te.
Ferma l'accendino che sta portando alla sua sigaretta e mi guarda, interrogativo.
- Perché hai invitato Luna?
- Te l'ho detto: mi è stata vicina, quando il libro doveva uscire, mi fa piacere ringraziarla.
- Potevi mandarle un mazzo di fiori.
- Be' sì, ma...
- O magari potevi non lasciarla come una povera cretina.
Il mio amico dà un tiro alla sigaretta e mi guarda, dubbioso, mentre espira il fumo, silenzioso.
- Che succede, Ale?
- È quello che vorrei sapere io.
Non dice niente e si limita a fissarmi, mentre fuma. Sorride ancora e mi o una mano sull'occhio destro.
- OK. Te la faccio semplice: io ti voglio bene e lo so che lì dentro di te, da qualche parte, dietro quella tua barriera di cinico del cazzo, c'è una brava persona. Io lo so che sei una brava persona, solo che ti piace fare finta di no. E sai che c'è? A me va benissimo. Davvero. Sei libero di fare lo stronzo, ma cerca di ricordare che c'è una differenza tra come ti piace apparire e come sei.
- Il che significa che... - mi incoraggia con un gesto della mano.
- Vuoi invitare qui la tua ex? Una poveretta che hai mollato neanche due settimane fa? Va bene, invitala. Ma è così difficile capire che, magari, potresti tenere il tuo uccello dentro i tuoi pantaloni ed evitare di farti qualcuno davanti a lei?
- Non mi stavo facendo nessuno.
- Finiscila, Cristo. “Sto parlando con Irene”? Vaffanculo, Irene è praticamente pronta a succhiarti l'uccello sotto il tavolo, se solo glielo chiedi.
- Ah sì? Allora dovrei rientrare – ribatte, guardando verso la porta.
- Vaffanculo – ripeto.
Si mette a ridere e mi dà una pacca sulla spalla.
- Rilassati, Ale.
- No, non mi rilasso. Ne ho le palle piene di tutto questo, Massi.
- Mi spieghi perché è un tuo problema? Al massimo dovrebbe esserlo di Luna. Volendo estremizzarlo sarebbe un mio problema.
- È un mio problema perché ti voglio bene, cazzo. E ne voglio anche a Luna. E non posso sopportare di vedere che ti comporti in questo modo e te ne freghi di quello che le stai facendo.
Dà un altro tiro alla sigaretta e poi solleva la testa, guardando il fumo che, lentamente, si solleva in aria.
- OK – dice, poi.
- OK? OK cosa?
- OK la smetto. Non mi porto a casa nessuna e sarò estremamente discreto, con lei.
- Sul serio?
- Certo.
Lo guardo, dubbioso e finisco la mia sigaretta, schiacciandola con la scarpa, dopo averla buttata.
- Cioè mandi Irene a so?
- Promesso.
- E perché?
Ride ancora e spegne la sua.
- Perché sì, perché hai ragione. È la cosa giusta da fare.
- Sì.
- E quindi va bene, non farò lo stronzo.
- Sì.
- Ora mi vuoi dire cosa è successo? Perché sei così agitato?
- C'era Adriana a casa mia, stasera.
- Qualcosa mi dice che le cose non sono andate bene.
- Non ti si può nascondere niente.
- Ho una specie di sesto senso.
Gli racconto l'accaduto e lui mi ascolta, senza interrompermi. Alla fine sospira e scrolla le spalle.
- Che ne pensi? - chiedo.
- Io? Io ho solo una domanda, Ale.
- E qual è?
- Cosa aspetti a lasciartela alle spalle? Cosa ci vuole perché tu smetta di farti del male, sperando che ritorni? Perché lei non torna, Ale. Lei ha deciso.
- Lo so.
- E in questo, mi dispiace dirlo, ha molta più forza e intelligenza di te. Ha preso quella decisione e la porta avanti.
- Sì, lo so.
- Ti ha lasciato. Le hai chiesto di tornare e ha detto di no. Lo ha chiesto ancora e ha ripetuto di no. Le hai chiesto se sta bene senza di te e ti ha risposto di sì. Cosa deve ancora fare perché tu ti convinca che è finita? Deve scoparsi uno sul tuo divano mentre guardi?
- Gesù...
- Eh. Allora, porca puttana, la smetti di fare il cazzone romantico? Perché ti dico una cosa, amico mio, questo non è romanticismo, né testardaggine. Questo è fingere che le cose siano solo come le vedi e le senti tu e non è così. Non sono come le vedi tu, sono come le vede lei e lei le vede in un solo modo: senza di te.
Non rispondo e lui mi guarda assolutamente neutro; non intendeva essere cattivo, né farmi stare male, ma solo esprimere un dato di fatto.
- Lo so.
- Piantala di dirmi che lo sai e mettitelo in testa.
- Lo... - mi fermo e respiro a fondo. - L'ho capito, Massi. Sul serio.
- OK.
- E sto tirando avanti.
- Halleluja.
- Solo che me la sono trovata lì davanti e...
- Ti procuro qualcuna da scopare, stasera?
- No, no, va bene così.
- Qualsiasi cosa perché te la levi di testa, Ale.
- Sì.
- Vuoi una canna?
- No, grazie.
- Va bene.
- Solo che ancora ci spero, nonostante tutto.
- Smettila di farlo. Comincia a sperare in una nuova vita, una dove ti basti da solo e poi trovi un'altra donna, una che ti fa stare bene.
- OK.
Sospira ancora e mi abbraccia. Lo lascio fare, sorpreso, prima di abbracciarlo a mia volta.
- Ora devo rientrare.
- Sì – dico.
- Non fare il cazzone.
- Promesso. Neanche tu, però.
- Promesso.
Ci scambiamo un cenno con la testa e rientriamo. E quando rientriamo per poco non andiamo a sbattere contro Luna e Massi mi lancia un'occhiata e poi lancia un'occhiata a lei e sospira.
- Ti va di fare due chiacchiere? - chiede.
- Non so, forse non è il caso, è la tua festa... - comincia lei.
- Per favore.
Annuisce e riescono dalla porta da cui sono entrati e io rimango lì, a guardare il niente. Questo mondo va troppo veloce per me.
Mi faccio strada tra la gente che balla e vedo Sandra che si sbraccia, facendomi cenno di avvicinarmi.
- Vieni, ti presento i miei amici – mi dice, infilandomi il suo braccio sotto al mio.
C'è tutto un variegato mondo di persone lì davanti a me: ragazzi alla moda, ragazzi fuori moda, più giovani, più belli, meno affascinanti, brutti, ragazze che indossano abiti chiaramente non adatti a loro, ma che, evidentemente, ritengono le rendano particolarmente sexy. E poi c'è Carlotta, vestita come al solito, con quello stile un po' tra il grunge e il punkabbestia. Ci guardiamo e il tempo si ferma per una frazione di secondo, durante la quale cerco di capire come mai siamo lì. Per me, la mia vita è divisa in scomparti, in micro universi, in Terre parallele, come quelle della Marvel dove in una l'Uomo Ragno è Peter Parker e nell'altra è un ragazzo di colore. In uno dei miei mondi c'è Sandra, mentre nell'altro c'è Carlotta e non c'è ragione perché questi due mondi coincidano. Non è proprio possibile, perché sono distanti milioni di anni luce e solo l'intervento di una divinità potrebbe farli fondere insieme.
Poi mi ricordo che Sandra mi ha accennato di un suo amico che sta facendo il filo a un'attrice di una compagnia teatrale amatoriale. Quante possibilità ci sono che si tratti della compagnia di Carlotta e che l'attrice sia lei? Una? Ecco, l'ha centrata in pieno. La frazione di secondo a e io e Carlotta ci salutiamo affettuosamente e ci diamo due baci sulle guance, tradendo probabilmente più nervosismo di quanto sarebbe comprensibile tra due persone che non si sono mai viste.
- Ehilà – dico, rivolto a tutti, ma guardando solo lei.
Mi ricordo dell'ultima volta che mi sono visto con Carlotta, alla biblioteca, e lei mi ha detto che si stava guardando in giro. Forse per il silenzio che si è creato, ma un tizio si sporge in avanti e mi stringe la mano, piazzandosi ben saldo accanto a lei, e capisco che deve essere quello che le fa il filo, quello che lei ha trovato, guardandosi intorno. È probabilmente l'opposto di quello che sono io: è un bel ragazzo, con un sorriso dai denti bianchissimi e un abbigliamento che tradisce una certa classe che io non possiedo. Se dovessi tirare a indovinare direi bancario o qualche ruolo di commerciale, perché nel suo presentarsi ha la stessa verve del piazzista porta a porta. Mi dice il suo nome, ma io non lo ascolto, mi limito a sorridere per finta e guardo ancora Carlotta, che mi ricambia lo sguardo senza sembrare arrabbiata o imbarazzata per l'accaduto. E io non voglio metterla in difficoltà, quindi non faccio accenni al fatto che già ci conosciamo e saluto di nuovo tutti quanti, dicendo che devo tornare dalle mie amiche. Sandra mi dà un bacio sulla guancia e mi dice che ci vediamo dopo e io ricambio dicendo che certo, quando vuole. Lancio un'ultima occhiata a Carlotta: sta parlando con Tizio e però anche lei mi guarda, per un attimo, prima di rimettersi ad ascoltarlo.Vado verso il bar e trovo Sabrina poggiata, che chiacchiera con il barista. Forse non è il momento di disturbarla, quindi tiro dritto senza farmi vedere e cerco Luna, sperando che lei abbia voglia di fare due chiacchiere. Non la vedo e non vedo neanche Massi, quindi staranno ancora parlando, posso solo sperare che non si stiano urlando addosso insulti. Esco dall'ingresso principale, dopo essermi fatto timbrare la mano, e mi accendo una sigaretta, sedendomi su uno dei vasi bassi con dentro piante anonime.
- Ehi.
Alzo lo sguardo e c'è Sandra, anche lei con la sigaretta accesa, che mi sorride.
- Ehi.
Non diciamo altro e fumiamo, in silenzio.
- La tua amica, Sabrina, mi sembra simpatica.
- Sì. Lo è, se riesci a guardare oltre il fatto che dice una parola ogni quattro parolacce.
Ridacchia e fa due i in tondo.
- Andate a letto insieme?
- È incinta.
- Oh.
- Però sì, abbiamo fatto sesso, un paio di volte.
- Oh.
- Già.
- Del resto, con quale donna non sei stato a letto? - chiede, ridacchiando.
- Grazie – rispondo, ridacchiando a mia volta.
- Rientriamo?
- Non lo so. Credo di sì.
Si siede accanto a me, con un sospiro, e mi poggia la testa sulla spalla.
- Come stai? - chiede.
- È una bella domanda.
- Stai male?
- Non proprio male. Diciamo che potrei stare meglio. Ma tutto sommato mi pare un miglioramento, rispetto agli ultimi tempi.
- Bene.
- E tu come stai?
- Bene. Davvero – aggiunge, quando la guardo dubbioso. - Non so come mai. Semplicemente stamani mi sono svegliata e ho pensato che, tutto sommato, sto bene.
- Mi dici cosa prendi? Lo vorrei anche io. Doppio.
Sorride e mi dà un bacio sulla guancia.
- È anche merito tuo.
- Non credo di avere fatto molto.
- Forse no. Forse averti conosciuto mi ha fatto capire alcune cose su di me.
- Mh. In pratica sono il cattivo esempio che fa comprendere come, tutto sommato, non si sia poi così male.
- In pratica, sì.
- È bello sapere di avere un ruolo, nel mondo.
- Tranquillizzante, vero?
- Eccome. Credo che dovrei farne un lavoro.
Sorridiamo ancora, entrambi. Lei mi bacia il collo.
- La tua amica fino a quando dorme da te?
- Non so. È una situazione complicata.
- Capito – ribatte, secca.
- No, non hai capito. Non ha niente a che vedere con il sesso, credimi. Ha dei problemi da risolvere e le sto offrendo ospitalità, fino a quando non li ha risolti.
- Ah. Va bene – sembra più rilassata.
- Perché me lo chiedi?
- Così.
- Sandra...
- Perché magari, una di queste sere, la lasci a casa e vieni da me e ti fermi per la notte. Ti va?
Respiro a fondo un paio di volte. Mi va e molto. Ma non credo sia la cosa giusta da farsi.
- Sì. Vediamo di organizzare, una di queste sere – mento; non me la sento di respingerla così. Via SMS o al telefono sarà più facile.
- Va bene – mi bacia di nuovo il collo e si alza. - Rientro, ché gli amici mi aspettano.
- OK. Ci vediamo dopo.
Mi saluta con un cenno del capo e la vedo sparire dentro il locale. Io mi accendo
un'altra sigaretta e rimango a rimuginare sulla cosa, maledicendomi per averle dato speranze.
Quando rientro Sabrina è sempre poggiata al bancone, ma il barista si è rimesso a lavorare.
- Ehi – mi dice, sorridendo.
- Ciao, finito di flirtare con quello stronzo?
- Flirtare. Figurati. Se volevo potevo scoparmelo nei cessi mezz'ora fa.
- Ecco.
- Ma sono incinta e quindi niente, cazzo – dice, scuotendo la testa. - E ho una voglia di fumare che non hai idea, porca troia.
- Mi spiace. Vuoi che andiamo via?
- Ma no, possiamo restare ancora un po', se ti va.
- OK.
- Oppure sei tu che te la vuoi svignare?
Alzo un sopracciglio e lei indica con un cenno del capo la pista da ballo, dove Sandra si sta dimenando con un tizio.
- La tua amica Sandra. Direi che avete scopato alla grande.
- Non proprio, ma qualcosa del genere.
- Sei proprio un maiale – dice, ridendo.
- Oh finiscila.
Ride ancora e le do di gomito indicando Carlotta, seduta a un tavolino che chiacchiera con Tizio.
- La tizia con i dreadlocks?
- Sì. Sono stato anche con lei.
- Porca troia.
- Già. E indovina come è arrivata qui?
Guarda Sandra e poi guarda me, a bocca aperta.
- Quante possibilità c'erano? - chiedo.
- Cazzo. Sei fottuto.
- Dici?
- Lo sanno?
- Non lo so. Forse sospettano. Lo sanno che scopo con altre donne, a parte loro, e quando ho incontrato Carlotta c'era un certo imbarazzo.
- Porca puttana. Quindi te le sei fatte entrambe, loro sanno che non stai solo con loro, ma non sanno che l'altra è una con cui hai scopato.
- Esatto. Hai qualche consiglio?
- Consiglio?
- Sì, su come comportarmi, su cosa fare?
- Scappare a gambe levate?
- A parte quello.
- Potresti dirglielo.
- Cosa?
- Che ti sei scopato l'altra.
- Stai scherzando? E perché?
- Non so. Per essere sincero?
- Cosa diavolo stai dicendo?
- Oppure potresti proporre di scopare tutti e tre insieme.
Do un'occhiata al suo bicchiere, accertandomi che si tratti di succo di frutta.
- L'hai allungato con alcool? - chiedo.
- Giuro di no.
Me lo a e do un sorso, sentendo il sapore di pesca e basta.
- Hai una qualunque idea di come affrontare una situazione del genere?
- Che cazzo, non so neanche come ci sei finito così tanto nella merda.
- Quindi perché sto chiedendo consiglio a te?
- Non lo so. Perché non hai amici?
Sospiro e non aggiungo altro. Rimaniamo lì a chiacchierare e a bere, mentre commentiamo le persone che girano lì intorno. Nessun discorso profondo, ci limitiamo a ridere insieme e faccio il possibile per farla rilassare. Mi rendo conto che anche lei non sta ando un buon momento e che, se posso farla sorridere, vale la pena di tentare. Sabrina sorride e ride, sembra rilassarsi e, improvvisamente, rivela un carattere acuto e osservatore che, fino a quel momento, non avevo mai notato. In quel momento non mi pare così strano che possa fare la segretaria per un avvocato. A un certo punto balliamo anche, lei senza esagerare perché è incinta, io con il mio solito stile da orso danzante;
quando è stanca cerchiamo un divanetto dove farla sedere e poi tento di farmi servire da bere. Arrivo al bancone e il barista, appena mi vede, fa una smorfia e si avvicina.
- Un succo di pesca e un bicchiere di vodka liscia.
- Ho solo vodka alla frutta – mi risponde.
- Chissà perché non mi sorprende.
Mi guarda sempre con quella smorfia dipinta sul viso e io mi trattengo dal mandarlo a quel paese.
- Rum?
Scrolla le spalle e prende i bicchieri.
- Ciao – sento, alle spalle.
Quando mi volto c'è Carlotta, lì in piedi, con un bicchiere in mano.
- Ciao. Come va? Ti diverti?
- Molto, sì. Non è il mio genere di locale, non è il mio genere di musica, ma mi aspettavo peggio. Tu? Ti stai divertendo?
- Più o meno.
Annuisce e beve un sorso dal suo bicchiere; non mi piace la tensione che si respira tra noi e mi guardo la punta dei piedi, cercando qualcosa da dire.
- Senti...
Mi guarda, inclinando la testa.
- Il tizio con cui sei venuto. Come va?
- Come va cosa?
Scrollo le spalle e lei non mi risponde, limitandosi a guardarmi, in silenzio.
- Non so. Siete...uscite insieme?
- Siamo qui, no?
- Non intendi rendermela facile, eh? - chiedo, sorridendo.
Sorride anche lei e beve ancora.
- Mi dicevi che ti stavi guardando in giro. È lui che hai trovato?
- Non lo so. Forse. Oggi è la seconda volta che usciamo, mi pare presto per dirlo.
- Capito.
- È un problema?
- Un problema? No, no, perché dovrebbe esserlo?
- E allora perché me lo chiedi?
Respiro a fondo un paio di volte, poi la guardo, seriamente.
- Non lo so. Forse perché voglio capire cosa succederà tra noi due, adesso.
- È una bella domanda, Alessandro. Tu cosa vorresti che succedesse?
- Io? Io voglio che tu sia felice.
- Mh.
- Cosa?
- Niente. Vuoi che io sia felice, ma intendi che non sarai tu a rendermi felice, giusto?
Il barista mi poggia i bicchieri alle spalle e ne approfitto per un attimo di pausa, quando li prendo. Mi piacerebbe essere quello che la rende felice? Moltissimo. Intendo essere quella persona? Non credo. Sono capace di esserlo? No, per niente. Mi fermo un secondo a pensarci: perché non ne sono in grado? Per un sacco di ragioni diverse. Principalmente perché non voglio prendermi una responsabilità del genere, non quando non sono ancora in grado di badare a me stesso. Il pensiero mi colpisce e guardo Carlotta come se avessi afferrato il bandolo di una qualche matassa. Non sono in grado di occuparmi di me stesso? A parte le cose più basilari come pagare le bollette e farmi da mangiare, no, sono attualmente una barca alla deriva alla quale sto cercando di dare una direzione precisa, ma la verità è che ignoro di che direzione si tratti. Ho sempre detto che non sapevo immaginarmi una vita senza Adriana e ora mi rendo conto che la sto già vivendo e che è tempo che diventi una vita solo mia, dove mi occupo di me stesso e non di medicine e rituali ripetuti fino alla nausea. Una vita dove faccio ciò che mi fa stare bene, accettando i compromessi dovuti al lavoro, alla società, alla famiglia e a tutto il resto. Ma principalmente una vita dove devo riuscire a vedere me al centro di quello che accade e non Adriana e la sua malattia.
- Non sarò io – ammetto. - Mi sarebbe piaciuto, però.
- Anche a me.
- E sono sempre stato sincero, con te. Ti ho sempre detto come stavano le cose.
Lei annuisce e lancia un'occhiata al tizio che la sta aspettando, pazientemente, vicino a una colonna.
- Una ci spera lo stesso, però.
- Immagino.
- Io devo andare, Ale.
- Sì, certo. Scusa. Però, ascolta, non mi va di salutarci così, qui dentro. Ti va bene se ci vediamo per bere una cosa e ne parliamo ancora? Non vorrei sembrare uno che se la svigna dal retro appena ne ha l'occasione.
- Credo si possa fare.
- E in bocca al lupo, con quel tizio lì.
- Vaffanculo, non lo dire, non ne hai diritto – risponde, ma sorride, mentre lo fa.
- OK. Scusa.
Annuisce ancora e poi mi fa un cenno di saluto con la testa e se ne torna dal suo appuntamento. Gli a il bicchiere e parlottano un po', mentre lui mi guarda, da lontano, con uno sguardo che non sembra rispecchiare sentimenti particolarmente amichevoli. Peggio per lui. Non è colpa mia se lui, in fondo in fondo, è solo una seconda scelta. Mi do dello stronzo per averlo pensato, poi mi accorgo di avere ancora i bicchieri in mano e faccio ritorno al tavolino, dove trovo Sabrina seduta con il barista a parlare. Quando arrivo, lui mi guarda da capo a piedi come se fossi un barbone che è venuto a chiedere l'elemosina, lei prende il bicchiere e mi ringrazia, sorridendo.
- Hai un minuto? - le chiedo.
Lei si alza, dopo aver detto qualcosa all'orecchio del barista e avergli poggiato una mano sul ginocchio. Direi che ci sono i segnali per una serata interessante.
- Che fai? - chiedo.
- Ma niente. Mi diverto un po', faccio la scema con quel tizio.
- OK. Io, allora, me ne andrei, se per te va bene.
- Oh. Sì, va bene, prendo la giacca e andiamo.
Le metto una mano sulla spalla e scuoto la testa.
- Ma figurati. Stai qui a pomiciare con lui, ci mancherebbe. Solo, non me lo portare in casa, se proprio dovete darvi da fare.
- Ma no, siamo venuti insieme, dai.
- Non fare la stupida, non siamo mica gemelli siamesi. Ti stai divertendo e voglio che ti diverta, quindi stai qui e datti alla pazza gioia.
- Sicuro?
- Sicuro. Aspetta...
Mi frugo in tasca e trovo uno scontrino del discount e una penna. Appunto sul retro del pezzo di carta il mio indirizzo e glielo o.
- Hai i soldi per un taxi?
- Be'...
Tiro fuori trenta Euro dal portafogli e glieli o.
- No – dice.
- Prendili e non fare storie, a me basta che li spenda per il taxi e non per sigarette, droga o alcool.
- Sì, papà.
- Fottiti – le rispondo, sorridendo.
Guarda le banconote e poi guarda me.
- Cosa cazzo vuoi da me? Perché sei così gentile?
- Non lo so – scrollo le spalle. - Sei la sorella scema che non ho mai avuto.
- Vaffanculo.
- E poi sei nella merda e ci sono anche io e so quanto si senta il bisogno di qualcuno che ci tenga nella mano, in quei momenti.
Si sporge in avanti e mi dà un abbraccio veloce, staccandosi quasi subito, quasi avesse paura di restare infettata.
- Vado – dico, senza commentare. Indico la sua pancia – Fai attenzione, me lo prometti?
- Promesso.
- Bene.
Saluto il barista con un cenno del capo e lui mi ignora. Poi mi guardo intorno, alla ricerca di Luna, ma non riesco a trovarla. Mi faccio strada tra la gente che balla, ma non riesco a vederla, fino a quando non cerco Massi e lo vedo, dietro la console, che si agita al ritmo della musica, in compagnia di Luna stessa, accanto a lui. A un certo punto si sporge in avanti e la bacia, un bacio a fior di labbra, un gesto normale, così normale che sembra stonare, se fatto dal mio amico. Luna sembra felice e anche lui e io rimango lì fermo a godermi le cose che vanno come devono, una volta tanto nella vita.
23
All'uscita trovo Sandra che sta rientrando con un'amica, si ferma mentre l'altra sparisce dentro il locale.
- Ehi – mi dice.
- Ehi.
- Dove vai?
- Sto andando a casa.
- Da solo? - chiede, guardando in giro.
- Sì, la mia amica ha rimorchiato e credo che Luna e Massi abbiano fatto pace e quindi posso andare via tranquillamente.
- Ti va di darmi un aggio?
- Certo. Ti aspetto qui.
Mi fumo una sigaretta, che mi godo meno di quanto vorrei, perché ormai l'aria è molto fredda e non è più tanto piacevole stare all'aperto. Mi guardo intorno e, improvvisamente, realizzo che sono comparse le luci di Natale, per strada. Il Comune ha cominciato ad appendere le solite luminarie che appende da anni, comprensive di lampadine bruciate e di quelle che baluginano a causa di qualche contatto difettoso. Faccio due i davanti alle serrande delle vetrine dei negozi lì intorno: cominciano ad esserci gli addobbi natalizi. Omini di neve, babbi natale, la neve finta e il vischio. Siamo a fine Novembre e già è cominciata la corsa agli armamenti. Sospiro e spengo la sigaretta buttandola per terra e schiacciandola con la scarpa, mentre penso che sarà un Natale molto complicato, quest'anno. Sandra arriva a salvarmi dai pensieri tristi e mi abbraccia.
- Fa un cazzo di freddo – dice.
- Sì, decisamente. Andiamo?
Recuperiamo la macchina e accendo il riscaldamento, Sandra mette le mani davanti al bocchettone e l'autoradio sputa fuori Freebird dei Lynyrd Skynrd. Per strada incrocio diverse auto, nonostante l'ora tarda, e Sandra mi spiega come arrivare a casa sua. Parcheggio lì sotto e lei sorride.
- Sali? - chiede.
Rimango in silenzio, per una frazione di secondo.
- Forse non è il caso – dico.
- Perché?
Non ho una risposta adeguata e mi limito a stringermi nelle spalle. Lei si sporge in avanti e mi bacia, prendendomi una mano.
- Vieni – ripete.
Scendiamo dall'auto e mi conduce al portone del palazzo, che apre dopo aver scelto la chiave da un mazzo che sembra enorme. L'ascensore ci conduce al secondo piano, mentre restiamo in silenzio e io mi sento un po' in colpa per la mancanza di spina dorsale che mi ha condotto fino a qui. Il palazzo sembra vecchio, di quelli che, di solito, ospitano studenti ed extracomunitari: i corridoi sembrano consunti dal aggio di decine di migliaia di persone, trasuda un'aria ricca di storie e aneddoti. Mentre armeggia con la porta di casa sua, do un'occhiata alla targhetta sotto il camlo e scopro che Sandra si chiama Chiaravalle. Mi accorgo che non conoscevo il suo nome completo, che non conosco quello di tutte le ragazze con cui sono stato a letto recentemente. Mi sento in colpa, come se non le avessi considerate alla stregua di qualsiasi altra persona alla quale ci si presenta educatamente. Entro in casa di Sandra e scopro che è un monolocale di una trentina di metri quadri, arredato con mobili vecchi, in parte, e con altri più nuovi, dall'aspetto più moderno. Alle pareti sono appese diverse foto incorniciate: viaggi, macchine, Sandra con amici ed amiche. In tutte sorride ed è raggiante, fa quasi bene al cuore vederla così felice. Getta le chiavi sul tavolo del cucinotto a giorno e si leva il cappotto, guardandomi.
- Starai lì in piedi tutta la notte?
Scrollo la testa e mi levo anche io la giacca, facendo due i fino a un divano che deve essere nuovo, perché ha l'aria fuori posto, in quell'appartamento.
- Hai una bella casa.
- È un buco, ma mi sono impegnata a renderla accogliente, questo sì.
Annuisco e lei apre il frigorifero.
- Una birra?
- Sì, grazie.
Mi raggiunge con due lattine di un'oscura marca da discount e brindiamo. Il sapore non è così male, pensavo sarebbe stato molto peggio. Ci baciamo e lei si stringe a me, poggiando la testa alla mia spalla.
- Quindi Luna e Massi si sono rimessi insieme? - chiede.
- Almeno così sembrava, li ho visti baciarsi.
- Oh bene. Sono proprio contenta.
- Sì, anche io.
Mi prende per mano e mi fa sedere sul divano, sedendosi a cavalcioni su di me.
- Sandra... - sono imbarazzato.
Lei sorseggia dalla lattina e mi sorride.
- Dimmi.
- Non sarei tanto per...insomma, non è che non abbia voglia, ma non sono molto dell'umore.
- OK.
- OK?
- Certo. Non è che dobbiamo fare sesso per forza. Per me possiamo anche stare qui a chiacchierare.
- A chiacchierare?
- Sì. Volevo farti vedere casa mia e sei qui. Non ti devo succhiare il cazzo per forza, se non vuoi. Non è che mi offendo.
- Ah. Va bene.
- Eri preoccupato? - chiede, sorridendo, prima di bere ancora dalla lattina.
- Un po'.
Si alza, ridendo e si mette a lottare per levarsi gli stivali, mentre io mi guardo intorno, un po' spaesato. C'è un piccolo televisore a tubo catodico, oltre il tavolino in mogano, che sembra uscito dal secolo scorso. Il PC portatile che è poggiato su una piccola scrivania, invece, ha l'aria moderna, come se si trovasse nel secolo giusto. Sandra va verso il letto e prende una cornice dal comodino, per poi tornare e porgermela.
- Quanto paghi d'affitto?
- Troppo, per il buco che è, ma con lo stipendio che prendo riesco ancora a permettermelo e a pagare le bollette.
- Come mai non vivi con i tuoi?
- Perché ho ato i trent'anni e non voglio vivere con i miei, Cristo.
- OK, riformulo: tuo padre è il direttore di un supermercato, no? Non potrebbe darti uno stipendio più alto, così da non dover vivere qui?
- Intanto porta rispetto alla mia casetta, ci tengo molto – mi dice, puntando il suo dito indice contro il mio naso.
- Scusa, non volevo...
- E poi mio padre è vecchio stampo, di quelli convinti che ognuno sia artefice del proprio destino e che ci si debba spaccare la schiena, per ottenere le cose, e che devo fare la gavetta come tutti e non merito favoritismi e bla bla bla.
- Capisco.
- E comunque, ti dirò, sono pure d'accordo con lui. Alla fin fine ho quello che mi serve, posso permettermi un aperitivo o un teatro, di tanto in tanto, non vedo perché dovrei lamentarmi.
Non aggiungo altro e guardo la cornice che mi ha ato: c'è una foto di lei e un tizio abbracciati, poggiati a una macchina che dovrebbe essere una Mustang. Sandra deve avere sui venticinque anni e lui qualche anno di più, forse trenta. Sono felici e sorridenti, lei sembra così giovane, rispetto a ora, con lo sguardo di qualcuno che crede ancora nel mondo che lo circonda e non si aspetta che possa succedere qualcosa di brutto. Lui è un bel ragazzo, mascella forte, fisico in
forma. Indossa un giubbotto di pelle con maggiore classe e successo di quanto sia capace io e trasmette una sicurezza che gli invidio molto.
- Luigi – dice lei.
- L'ex – aggiungo io.
- Sì.
- È un bel ragazzo.
- Sì.
- La macchina...
- Una Mustang Shelby del '77.
- Ecco. È bellissima.
La macchina è pulita e ha l'aria di un pezzo di ferro capace di schizzare via alla velocità della luce quando meno te lo aspetti. Rispecchia in pieno l'idea che dà Luigi di sé: sicura, forte, una spanna sopra tutti gli altri.
- Era il suo vanto. Si è spaccato la schiena per poterla comprare e per mantenerla.
- Posso immaginare, deve costare parecchio.
- Oh sì, poi le spese per portarla in Italia, i costi di trasporto. Si salva perché è immatricolata come auto da collezione e non costa molto.
- Ah.
- Qui eravamo vicino a Perugia, durante uno dei nostri week end girovaghi. Prendevamo l'auto e andavamo da qualche parte, spesso senza una meta precisa, solo per il piacere di guidare.
- Guidavi anche tu?
- A volte, sì. Ma la maggior parte delle volte lasciavo che fosse lui, mi sentivo tranquilla, quando guidava lui. Non importa quanto fosse piena di curve la strada o se pioveva a dirotto, non avevo paura.
- Mi sembra il tipo di persona che trasmette sicurezza, in effetti.
- Lo è.
Poggio la cornice sul tavolino e guardo Sandra, seduta accanto a me.
- Ero molto innamorata e anche lui lo era, anche se forse meno.
- Sì.
- E poi un giorno se n'è andato e ha detto che era perché non mi amava più e perché si era reso conto che avrebbe dovuto viaggiare molto, per le sue gare, e non era capace di farlo, se si sentiva in colpa a lasciarmi da sola. Gli ho detto che non era così, che non c'era bisogno, che avrei aspettato o che sarei andata con lui, ma ormai aveva deciso. Ha preso le sue cose ed è sparito completamente dalla mia vita.
- Non vi siete più sentiti?
- No. Mi ha lasciato le chiavi di casa nella cassetta delle lettere e non ho saputo più niente di lui.
- È strano, sai? Con i cellulari e Internet...
Sorride e beve un sorso di birra.
- È un meccanico con i fiocchi, ma è l'uomo meno tecnologico del mondo. Non
ha neanche una pagina Facebook, figurati. Al giorno d'oggi sembra una cosa impossibile, ma ci sono persone che hanno deciso di avere solo una vita nel mondo reale e di non disperdere parte di sé sulla Rete.
- Forse sono più intelligenti di noi.
- Forse, sì.
- Perché non hai mai chiesto a sua madre che fine ha fatto?
- Perché non lo voglio sapere. Preferisco immaginarmelo che se ne va, sulla sua macchina, verso il tramonto, come un cowboy.
- Mh.
- E se si è sposato? Se magari ora non corre più e ha dei figli e una Panda?
- Preferisci un'idea romantica di lui alla verità? - chiedo.
- No, ma preferisco non sapere se è felice o meno, senza di me. Perché se lo è ci starei ancora male e se non lo è non potrei fare a meno di pensare che, se fossimo restati insieme, lo saremmo stati entrambi.
- Capisco.
- Non importa se non capisci, me lo puoi dire. Lo so che è un ragionamento strano.
- Non è strano, davvero. Solo che, forse, preferirei sapere come stanno le cose, per poter agire di conseguenza.
- Sai come stanno le cose, con la tua ex?
Incasso il colpo e mi limito ad annuire.
- Sì, non ne vuole sapere più niente, di me.
- Non ti ama più.
- Non so se mi ha mai amato. No, scusa, ritiro tutto, è una frase da stronzo – mi massaggio gli occhi. - Non so se mi ami ancora, nel senso in cui lo intendiamo io e te. La mia ex è...particolare, ecco. Semplicemente, credo che abbia deciso che sono di troppo, nella sua vita, che sono un ostacolo al suo stare bene e non vuole stare più con me.
- E tu hai agito di conseguenza?
- Più o meno. Forse sto cominciando ora.
- In che modo?
- Ho deciso di smettere di scopare in giro.
- Oh.
- Ho capito, proprio stasera, che voglio scoprire chi sono. In queste settimane ho capito molte cose di me, ora voglio vedere se quello che c'è, se quello che sono senza Adriana, va bene o se ci sono cose che vanno cambiate.
- Del tipo?
- Non lo so. Non saprei spiegarlo. Sai che non ho mai fatto un viaggio senza prendere in considerazione la possibilità di fare ritorno in fretta e furia? Era per i problemi della mia ex, perché se aveva una qualche crisi dovevo poterla riportare a casa, dove sarebbe stata meglio.
- Cristo.
- Ci sono posti che non ho mai visto perché c'era un aereo da prendere, di mezzo.
- Ora li vedrai?
- Non lo so. Forse. O forse no. Ma il punto non è questo, il punto è che ora ho la possibilità di farlo e di scegliere e devo capire che questa è una cosa buona. Non è una perdita, ma è avere la possibilità di affrontare qualcosa di nuovo.
- Sì, mi pare giusto.
Finisco la birra e poggio la bottiglia sul tavolino. Sandra si sporge in avanti e mi bacia e io bacio lei, poi si poggia di nuovo allo schienale del divano.
- Faccio così tanti pompini perché è una specie di vendetta – dice. - Ho io il controllo, sono io che decido e, soprattutto, non mi scopro più.
- Sì, si capisce.
- Già.
- Posso dirti una cosa?
- Cosa?
- Siamo più simili di quanto ti piaccia pensare, probabilmente.
- Lo so, che ti credi? Certo, io sono più bella e non ho la fissa per quei film da sfigati che guardi tu, ma comunque sì, ci assomigliamo molto.
- Perché non lo lasci andare?
- L'ho lasciato andare, Ale. Davvero. È solo che è stato così doloroso che non credo che potrei affrontarlo di nuovo, quel dolore. Credo che ne morirei.
- Ti ricordi quella cosa che mi hai detto? Quella che mi avresti detto di levarmi di torno, quando fosse arrivato il momento?
- Sì, me la ricordo.
- Siamo a quel momento?
Sandra sospira e si stringe a me.
- Forse sì.
- OK.
- E poi tu non vuoi più scopare in giro, no?
- No. O almeno non così, non lo so. Mi sembra di avere ato gli ultimi due mesi a non fare altro.
- Scemo – sorride.
- E non è che io stia poi così meglio, no?
- No?
- So che sembra strano, ma tutto questo, tutto quello che è successo e anche il sesso casuale, in qualche modo mi ha messo davanti a me e mi ha fatto capire molte cose di me.
- E pensare che ti volevo solo fare un pompino.
Le do una pacca sulla testa e lei ridacchia.
- No, sul serio, spiegami – dice, prima di sorseggiare la birra.
- La mia ex si chiama Adriana. Il suo piatto preferito è il risotto ai funghi. Il suo film preferito è Sabrina , l'originale di Wilder, non quel remake orribile con
Harrison Ford.
- Per carità.
- Le piace la pagina culturale del giornale, quella con i libri ed è l'ultima che legge. Prima legge tutto il resto e poi lascia quella per ultima, come premio per essersi sorbita tutte le brutte notizie e anche le parti noiose che non le interessano, come l'economia e lo sport.
- Se non le interessano perché le legge?
- Non vuoi entrare in questo discorso, dammi retta.
- Va bene – prende una sigaretta e se la accende.
- Il suo posto preferito per le vacanze è un piccolo agriturismo umbro dove siamo stati un sacco di volte: un sacco di natura, i cavalli, la possibilità di sedere sull'erba e guardare il cielo. Ma io so che è sempre stata felice quando l'ho portata a vedere il mare, sulle rocce, anche di inverno, quando ci sono le onde grandi e l'acqua è gelida. Quando entra in casa si toglie le scarpe e si infila le ciabatte; si toglie prima la scarpa destra e poi quella sinistra e si infila prima la ciabatta sinistra e poi quella destra. Sempre. Deve dormire dal lato destro del letto e deve addormentarsi girata sul fianco sinistro. Quando sbuccia un'arancia, dopo averla sbucciata, se la rigira nelle mani, accertandosi che sia uniforme, che quella roba bianca non crei delle increspature o non la renda meno rotonda di quanto dovrebbe.
- Gesù...
- Quando guida ha un suo CD preferito. Se guido io no, va bene un CD qualsiasi, basta che ci siano canzoni che le piacciano, ma se guida lei deve esserci quel CD, perché, in qualche modo, riesce a guidare solo con quella musica. Se non c'è quel CD, se il lettore non lo legge, se manca quella musica, non parte. Rimane seduta in auto, ma non parte.
- Credo di avere un'idea.
- E non è tutto, ma non è questo il punto.
- E qual è?
- Io sono Alessandro. Qual è il mio piatto preferito? Non lo so. Ho sempre cucinato cose che le piacevano. Qual è il mio posto preferito, per fare le vacanze? Non lo so. Ho visto sempre un agriturismo umbro. Gioco a World of Warcraft, mi piace Dylan e la musica rock anni '70, mi piace il cinema. Ma sono le uniche cose che so, di cui sono sicuro di me. Tutto il resto è un ammasso confuso di informazioni e nozioni vaghe. Non mi piace il cavolo, ecco. O i film con Russel Crowe.
- Dio, quanto è figo.
- No, davvero, se in un film c'è Russel Crowe è un film brutto, è automatico.
- Non capisci niente di cinema, sei veramente un povero disgraziato.
- Oh fammi il favore. Sono i tuoi ormoni a parlare per te.
- E fammene una colpa.
Si accende un'altra sigaretta e mi dà un bacio sulla guancia.
- Dai, vai avanti – dice.
- È tutto qui. Adriana se n'è andata e ha lasciato questa specie di spazio vuoto e mi sono accorto che non ho niente per riempirlo.
- O forse hai un sacco di cose, ma ancora non sai quali.
- Forse. Sarebbe bello.
- Sì.
Rimaniamo in silenzio, le prendo la sigaretta dalla mano e finisco di fumarla io, guardando il fumo che si solleva in aria e gira per il salotto. Mi sento un po' così: leggero, inconsistente, trascinato dagli eventi e dalle correnti. Sono un po' stanco di sentirmi così, ma sotto sotto ammetto che è la soluzione più facile e meno
impegnativa. Basta stendersi e lasciare che le cose succedano, anche se mi rendo conto che è tempo che le faccia succedere io.Sto ancora pensandoci quando Sandra si sporge e mi bacia ancora. La bacio anche io e le nostre mani ano sui nostri corpi e alla fine facciamo l'amore. Nel suo letto, io e lei, entro dentro di lei lentamente e lei ha lo sguardo un po' impaurito e io cerco di tranquillizzarla, baciandola tanto, sussurrandole all'orecchio quanto la trovi bella, nonostante lei mi dica che si trova brutta e che ha la cellulite. Mi impegno perché sia bello, cerco di capire dai suoi gemiti e da come si muove cosa le piace e cosa no. Glielo chiedo, ogni tanto, e lei dice che le piace o mi chiede di muovermi in un certo modo o di provare una certa posizione. Memore del suo racconto, ogni tanto, controllo che non stia per vomitare, ma non vomita. Ci baciamo moltissimo, mentre lo facciamo, e lei affonda le unghie nelle mie spalle e nella mia schiena. Io mi muovo lentamente, poi più veloce, cerco di trovare il ritmo giusto e lei sembra stare bene e quando meno me lo aspetto sento che sto per venire. Cerco di fermarmi, ma lei capisce e mi sussurra un “No” all'orecchio e, afferrandomi per le natiche, mi fa muovere ancora e io vengo, affondando la faccia nell'incavo del suo collo, il fiato mozzo, mordendole una spalla, quando il piacere si spegne, lentamente. Rimango lì, con il fiato corto, su di lei, e lei mi abbraccia e mi bacia il lato della testa.
- Sei venuta? - chiedo.
Scuote la testa. Faccio una smorfia di disapprovazione e lei mi carezza la schiena sudata.
- Non è un problema. Sono un po' difficile da far venire. E poi era così tanto tempo che non lo facevo; è già tanto che non ti abbia vomitato addosso.
- Sì, lo so. Però, ecco, mi piacerebbe farti venire.
- Va bene così, davvero. È come se – dice.
Non insisto e la bacio e rimaniamo in silenzio, stesi nel letto. Poi la sento respirare regolarmente, il corpo rilassato, addormentata. Le bacio la nuca e mi alzo, lentamente, andando in bagno; quando ritorno è ancora lì che dorme, apre un occhio e si guarda intorno.
- Mi sono addormentata...
- Sì.
- Te ne vai?
- Dovrei, sì. Vuoi che resti? - chiedo.
- Devi fare quello che vuoi – risponde, sorridendo e poggiando la testa al cuscino.
- Sì.
Mi infilo i pantaloni e la camicia e mi sporgo in avanti, dandole un bacio sulla guancia.
- Devo andare a casa, ma non vorrei che pensassi che me la sto svignando dopo che ti ho portata a letto.
- Non lo penso. Ti conosco abbastanza bene, ormai – risponde, carezzandomi una guancia.
- OK. Non so bene cosa dire – ammetto.
- Non devi dire niente. È stato bello, grazie.
- Anche per me.
- Conta solo questo.
Annuisco e la bacio ancora. Lei mi abbraccia e rimaniamo stretti per un po'.
- Abbi cura di te, Ale – dice.
- Anche tu, Sandra.
- E pensami, ogni tanto, ché io ti penserò parecchio.
- Promesso.
La bacio un'ultima volta e poi esco dall'appartamento senza voltarmi indietro. Ma non mi sento un cowboy che se ne va al tramonto, ma solo uno che ha mancato un'occasione, per poco.
Entro a casa cercando di non fare rumore, perché, da un lato, non voglio svegliare Sabrina, se sta dormendo, e, dall'altro, perché non sono sicuro che abbia rispettato il mio divieto di non portarsi nessuno a casa e non vorrei trovarla impegnata a fare sesso sul mio divano. Men che meno con il barista stronzo. La trovo che dorme nel letto, profondamente, e ringrazio la sorte per avermi evitato l'ennesima situazione imbarazzante. Mi spoglio, lentamente, mentre penso a Sandra e alla serata, poi prendo il telefono e chiamo Massi. Risponde dopo pochi squilli, c'è musica in sottofondo, ma è Marvin Gaye, quindi non è più nel locale.
- Ehi – dice.
- Ciao, che fai?
- Stavo per impegnarmi nell'antica e mai abbastanza applicata arte del cunnilingus, fratello mio. Con gusto e disciplina, come mio solito.
- Sei fumato?
- Abbastanza, grazie.
- OK. Chi è la fortunata? Dimmi che è Luna.
- Confermo. Aspetta, te la o.
- No, non me...
- Pronto? - la voce di Luna è un misto di perplessità e divertimento.
- Ciao, sono Alessandro.
- Tesoro, ciao. Come stai? Mi dispiace sei sparito e io non sono stata una buona amica, ti ho mollato lì...
- No, no, stai tranquilla, tutto bene. È stata una bella serata, tutto sommato.
- Mi fa piacere.
- Prima di andare avanti con questa conversazione tranquillizzami: Massi non ha infilato la testa tra le tue gambe, vero?
- Ci sta provando, ma per il momento riesco a trattenerlo...
- Non per molto ancora! - la voce di Massi arriva ovattata.
- Gesù, è come un adolescente che ha appena scoperto il sesso – sospiro.
- Sono una donna fortunata – commenta Luna, ridendo.
- Ecco. Vi siete proprio trovati.
C'è un secondo di silenzio e poi la sua voce cambia: diventa calda, carica di affetto.
- Sì. Per fortuna, sì.
Rimango in silenzio, felice e invidioso per loro.
- Sì, per fortuna sì – ripeto. - Ti spiace armi Massi? Prometto che faccio in fretta.
- Certo. Ci sentiamo domani, va bene?
- Volentieri.
Sento la cornetta che a di mano e la voce un po' impastata di Massi.
- Dimmi tutto.
- Niente, volevo salutarti e impedirti di leccarla per qualche altro minuto.
- Sei un vero amico, Ale.
- Lo so, non potresti fare a meno di me.
- Come dello scolo.
- Ti lascio andare, è tardi, devo dormire. Ho un lavoro normale, io.
- Bravo, produci, fai andare l'economia.
- Faccio il possibile.
- Se hai bisogno chiama.
- Certo. Massi, per favore, trattala bene, OK?
- Sono bravissimo a leccare, lo sai.
- Non è di quello che parlo, cazzone.
- È perché invidi la mia abilità a letto.
- Massi... - sospiro.
- Stai tranquillo e fidati, va bene? - mi dice, improvvisamente serio.
- Va bene.
- Bene.
- Buonanotte, Massi.
- Lo sarà, sto per fare sesso.
Sorrido e chiudo la telefonata. Improvvisamente mi sembra che un grosso pezzo
del mondo sia finito al posto giusto.
Il mattino dopo mi trascino al lavoro e comincio a fare le solite cose. Daria mi fa trovare un cioccolatino sulla tastiera e quando la ringrazia inclina la testa con il classico sguardo da “Povero caro” e io le mando un bacio. Sto ancora assaporando la cioccolata quando mi arriva una chiamata dalla segretaria del Dr. Colombari che mi dice che il dottore mi vuole vedere in ufficio alle 11.00 e poi butta giù senza neanche aspettare una mia risposta. Si tratta sicuramente del mio contratto, ormai è quasi scaduto e mi vorranno far sapere cosa hanno deciso. Rimango lì a pensarci, cercando di prevedere cosa ne sarà di me. La prima ipotesi, ovviamente, è il mancato rinnovo del tempo determinato. Ma il fatto che sia il Dr. Colombari, a volermi vedere, mi fa propendere per un rinnovo; ho avuto altri colleghi a cui non è stato rinnovato il contratto: nel peggiore dei casi gli è arrivata una lettera che annunciava la fine del rapporto lavorativo, in altri, semplicemente, il capo sezione li contattava e gli dava la brutta notizia. Il fatto che sia Colombari a volermi vedere, mi fa propendere per un rinnovo; probabilmente il fatto che io sappia di Sabrina gli ha fatto pensare che sia più prudente darmi altro lavoro per un anno. Cosa che, per quanto mi riguarda, mi va benissimo. Farò il mio lavoro, eviterò problemi ed eviterò contratti con quell'uomo, verso il quale nutro un disprezzo come solo verso il mio vecchio professore di latino. Alle undici mi sistemo i capelli e i vestiti e mi presento davanti alla segretaria del mio capo, lei mi annuncia al telefono e io faccio il mio ingresso nell'ufficio del Dr. Colombari. Lo trovo che si sta rigirando una sigaretta tra le mani e, quando mi vede, non ha un'espressione felice.
- Buongiorno, Dr. Colombari – dico.
- Buongiorno, buongiorno. Siediti, prego – dice, con un gesto distratto della mano.
Mi siedo davanti a lui e lui mi mette davanti un foglio.
- Il tuo contratto di lavoro è scaduto, questa è la comunicazione di rescissione dei nostri rapporti lavorativi. Finisci questa settimana e lunedì puoi evitare di farti vedere, qui in ufficio.
Lo guardo come se mi avesse tirato uno schiaffo a sorpresa. Mi guardo in giro cercando un appiglio, qualcosa che mi dica che ho capito male o che sta scherzando. Poi mi sporgo in avanti e lo osservo con attenzione.
- Mi scusi, non devo avere capito.
- Il tuo contratto è in scadenza, no? Ecco, non intendiamo rinnovarlo.
- Perché?
- Perché no. Tagli del personale, la situazione economica, non ci troviamo bene a lavorare con te. Scegline una, quella che ti fa stare meglio, e prenditela, non mi interessa.
Rimango ancora in silenzio, osservando il foglio sul quale, effettivamente, leggo che mi stanno annunciando la fine del mio rapporto lavorativo con loro. La lettera asettica e professionale sembra persino più affettuosa dell'atteggiamento di quello che sta per diventare il mio ex capo.
- Quindi finisce così? - chiedo.
- Cosa ti aspetti? Un mazzo di fiori?
Mi alzo senza dire niente e lo guardo. Dovrei ricattarlo, ma non sono mica capace di fare quello che, con i sottintesi fa capire che se non gli danno quello che vuole potrebbe far sapere a tutti che ha messo incinta una ragazza e poi l'ha abbandonata. E, forse, non avrei neanche effetto perché è una di quelle persone che non danno nessun peso a ciò che gli altri dicono, così sicuri di uscire sempre vincitori da qualsiasi confronto.
- Mi prendo la giornata libera – dico. È il massimo di forma di ribellione che riesco a escogitare.
- Fai come ti pare.
Mi avvio verso la porta, quando la sua voce mi ferma.
- Non dovevi metterti in mezzo – dice. - Sono rimasto molto deluso.
Mi volto a guardarlo e scrollo le spalle.
- Non so di cosa parla.
- Portartela a casa e scopartela. Hai deciso di parteggiare per lei, sapevi che ci sarebbero state delle conseguenze.
- È stato lei a buttarmi in mezzo ai suoi casini e poi ad abbandonarmi. Da me cosa vuole? Si aspettava che la portassi in un vicolo e la strangolassi?
- Mi aspettavo più fedeltà verso qualcuno che ti ha sempre dimostrato onestà e rispetto.
- Non ho la minima idea di cosa stia dicendo – ripeto, scrollando le spalle.
- Già, certo.
- Ma lei è una merda.
Apro la porta e me ne vado, dopo che mi ha risposto con uno sorrisetto sprezzante.Arrivo alla scrivania, con il mio foglio di licenziamento in mano e mi siedo rileggendolo un paio di volte, magari c'è qualche scappatoia scritta in piccolo. Ma non c'è, c'è solo la certezza che, da lunedì, sarò di nuovo a so, in quella che non si può sicuramente chiamare un'economia florida. Respiro a fondo, massaggiandomi gli occhi, e poi mi volto verso Daria che mi guarda, preoccupata.
- Tutto bene? - chiede.
Le do la notizia e lei si alza e mi viene ad abbracciare. Rimaniamo così, in silenzio, per un po', poi annuisco un paio di volte e prendo le mie cose dalla scrivania e dai cassetti. Non è tanto: qualche rivista, un sacchetto di posate di plastica per quando mangiavo in ufficio, un paio di cartoline di ex colleghi. Poi mi siedo e rimetto a posto il mio PC, cancellando cronologia e tracce del mio aggio. Inserisco la mail di risposta automatica che annuncia che sono fuori ufficio e di rivolgersi al mio superiore per richieste e necessità. Guardo l'open space dove lavoro e, dopo un anno di lavoro, mi accorgo che mi ero abituato a quello che vedevo e che noto qualsiasi cosa sia diversa dall'ordinario: una nuova pianta, un collega seduto in posizione diversa dal solito, una sedia sostituita con un altro modello. Abbraccio ancora Daria, rimaniamo d'accordo di vederci per bere una cosa insieme e poi vado a salutare un paio di colleghi, i pochi con i quali ho un rapporto più affettuoso. Esco dall'ufficio sentendomi come l'ultimo giorno di scuola, ma senza quell'euforia che anticipa l'arrivo di un'estate di cazzeggio e gite al mare.
Chiamo Sabrina e quando risponde, in sottofondo, sento gli AC/DC.
- Ciao – dico, asciutto.
- Ciao, come va?
- Che fai?
- Ascolto musica e stiro. Tu che fai?
- Non dovresti fare sforzi.
- Non credo che are il ferro sui vestiti sia uno sforzo, cazzo. Ma tu? Che cazzo succede?
- Mi chiedevo, a titolo di pura curiosità, hai per caso sentito il padre di tuo figlio?
- Quel figlio di troia! Sai che mi ha chiamato, ieri notte, quella merda?
- Non mi dire.
- Voleva vedermi. Diceva che dovevamo fare un o indietro, che avrebbe trovato una soluzione al mio problema, ti rendi conto? Com se fosse solo mio questo cazzo di figlio.
- Capisco. E tu?
- Io gli ho detto tutto quello che pensavo di lui, stronzo del cazzo. E che non voglio più vederlo.
- Così, per sapere, sono stato parte della vostra conversazione?
C'è un attimo di silenzio.
- Credo...potrei averti tirato in ballo.
- Già.
- Ero così incazzata che, in un paio di momenti, ho dato aria alla bocca, forse.
- Già.
- Ci sono dei problemi?
Ci penso su. Sono talmente stanco che non ho neanche la forza di incazzarmi con lei. Tutto sommato so che non ha fatto quello che ha fatto con l'intenzione di mettermi nei casini. Non che, se non l'avesse fatto, non avrei apprezzato lo sforzo.
- No, no, tranquilla.
Sospiro e chiudo la conversazione.
eggio un po' senza meta precisa, poi mi siedo in un bar e bevo un caffè e fumo una caterva di sigarette. Recupero la macchina e me ne vado in giro, con la voglia di chiamare Sandra, ma trattenendomi dal farlo. Alla fine approdo al centro massaggi di Rosa e parcheggio lì vicino. Mi fermo sulla soglia e una delle
ragazze che lavorano lì, Oksana, credo, si avvicina e mi saluta.
- Ciao, prima volta?
- No, no, sono già stato qui prima.
- Ah sei l'amico di Rosa – dice, con forte accento dell'est.
- Esatto, sì. C'è?
- Arriva – sorride e torna dietro il bancone di ingresso.
Rosa arriva e mi dà un bacio sulla guancia e poi mi guarda con attenzione.
- Stai bene? - chiede.
- Sì. No. Sì. È una brutta giornata – riesco a dirle.
- Un caffè?
- No, l'ho già preso.
- OK. Vieni con me.
Mi prende sotto braccio e mi porta in una delle stanzette dei massaggi e mi fa sedere sul bordo del lettino.
- Che succede? - chiede.
- Non so bene da dove cominciare.
- Be' decidi tu, ma credo che dall'inizio potrebbe essere una buona scelta.
- Sì. Credo anche io – rispondo, ma rimango in silenzio.
Lei non dice niente e attende, pazientemente, per qualche minuto. Poi dà un discreto colpo di tosse e mi a una mano sulle spalle.
- Ale, va tutto bene? Cosa succede?
- Mi hanno licenziato – dico, tutto d'un fiato.
- Oh cazzo.
- E da lunedì sono senza lavoro.
- Mi dispiace.
- E sta arrivando il Natale e sono solo.
- Non sei solo.
- No, è vero. Ho una donna incinta, in casa.
- Incinta?
- Non l'ho messa incinta io.
- Ah.
- L'ha messa incinta il mio capo. Quello che mi ha licenziato.
- E perché sta a casa tua e non dal tuo capo?
- Perché lui l'ha messa incinta.
- Appunto.
- No, non vuole. Si sta separando.
- Da chi?
- Dalla moglie. E mi ha licenziato.
- Sì, avevo capito.
- E quindi non può avere una ragazza incinta, perché la moglie gli porterebbe via tutto, capisci?
- Più o meno, sì.
- E credo che neanche lo voglia, un figlio.
- Poteva fare più attenzione.
- Già. E invece no. E l'ha messa incinta. Un attimo, basta un attimo. Lui viene dentro, lei rimane incinta e io perdo il posto.
- Dici che le cose sono collegate?
- Lo sono. Perché lei dorme da me e abbiamo scopato e lui l'ha presa male.
- Perché? Hai detto che non ne vuole sapere, no?
- Che ne so, io? Non gli è piaciuto.
- E ti ha licenziato per questo? Non c'è una cosa tipo “giusta causa” a cui puoi appellarti?
- Non mi ha proprio licenziato, ma mi scade il contratto e non me lo rinnovano.
- Cazzo.
- Sì.
- Mi dispiace tanto, Ale.
- Sì, anche a me. C'è di buono che non pensavo più alla mia ex, perché pensavo che andrò a vivere sotto un ponte.
- Non andrai a vivere sotto un ponte.
- Certo. Il mercato del lavoro cerca disperatamente dei sistemisti. Come no. Li pagano oro.
- OK, magari non sarà facile, ma non finirai sotto un ponte. Hai sempre i tuoi genitori, no?
- Sì, ho sempre loro.
- Però?
- Però arriva un momento, nella tua vita, in cui vorresti non dover dipendere più da loro. Non tanto, o non solo, per una questione di rispetto verso te stesso, ma anche perché ti piace pensare che loro vadano a letto e si addormentino sereni, quando pensano a te, perché sei a posto.
- Sono sicuro che lo fanno.
- Lo spero.
Rimaniamo lì in silenzio, per un po', poi lei si sporge in avanti e mi abbraccia.
- Sai, quando eri piccolo e io badavo a te avevi già questo carattere un po' agitato, sempre inquieto. Mi facevi un sacco di domande su come funzionava il mondo, sulla vita, sulla morte. Ho sempre pensato che fossi una persona che difficilmente avrebbe trovato la pace.
- Io ce l'avevo, la pace. Poi la mia fidanzata mi ha piantato e ho avuto bisogno di pensare e di riprendermi.
- Hai pensato?
- Pure troppo.
- Ti sei ripreso?
Rimango un attimo in silenzio e ci penso su.
- No – la guardo e sorrido. - Ma ci sto lavorando.
Restiamo così, abbracciati, ad ascoltare la terribile musica che arriva dagli altoparlanti.
- E per quanto riguarda il Natale – dice, - se ti va puoi festeggiarlo con noi, qui.
- Festeggiate qui dentro?
- Non qui dentro, cretino, a casa mia. Ma saremo noi, ci saranno le ragazze del centro. Ti divertirai, vedrai.
- Grazie. Credo che sentirò cosa farà mio padre e poi, in caso, mi unisco volentieri.
- Puoi portare anche lui, se vuoi.
- Non so. Dovrei spiegargli che ci faccio in un centro massaggi e credo che sarebbe imbarazzante.
- Ma sentilo.
- Lo so, lo so. Sono specialista delle lacrime di coccodrillo.
Ride e mi dà una pacca sulla nuca.
- Vuoi un massaggio? - chiede.
- No, no. Grazie, però. Non credo di avertelo mai detto, ma ti sono grato, per tutto questo.
- Figurati.
- Davvero. Ti sei presa cura di me e non ci vedevamo da una vita e quello che mi hai detto mi ha aiutato molto, in queste ultime settimane.
- Mi fa piacere – commenta, sorridendo.
- E mi farebbe piacere poterti parlare ancora. Anche senza il massaggio e tutto quello che ne consegue, intendo.
Mi guarda, piegando la testa di lato.
- Non so. Mi pare impegnativa, come cosa.
- Impegnativa? Che c'è di impegnativo? Lo abbiamo già fatto, dobbiamo solo riuscirci con i vestiti addosso e senza l'orgasmo.
- Mh. Non so. Ci proveremo, ma non posso garantire sul risultato.
- Se non sono matte, io non le conosco – dico, sorridendo.
Lei ride e mi abbraccia e la tengo stretta a me, in silenzio.
- Andrà tutto bene, Ale, vedrai.
- Immagino di sì. Cioè, lo spero. Devo solo trovarmi un altro lavoro, un'altra donna e ricominciare da zero la mia vita.
- Non da zero, riprendi da dove ti sei fermato, sapendo qualcosa in più di te stesso e di come sono le relazioni.
- Non saprei neanche da dove cominciare, con un'altra relazione, te lo giuro.
- Non è difficile, sai? Basta trovare qualcuno con cui si sta bene e il resto viene da sé, di solito.
- Mh. Promesso?
- Promesso.
- Va bene.
Mi sporgo in avanti e le do un bacio su una guancia. Mi accompagna verso l'uscita, io saluto le ragazze che incrocio lungo la strada e mi fermo sulla soglia della porta.
- Dici che basta sul serio?
- Cosa?
- Stare bene con qualcuno, per starci insieme.
- Non lo so. So che è un buon inizio ed è di questo che abbiamo tutti bisogno, di un buon inizio.
Non ribatto e mi limito ad annuire, la saluto un'ultima volta e poi torno alla macchina. Vado alla biblioteca e cerco Carlotta, ma non la trovo; una sua collega mi dice che ha il turno del pomeriggio e che posso riare allora. Ringrazio e, quando esco, la chiamo.
- Ciao, Ale.
- Ciao, sono qui alla tua biblioteca, sono ato a salutarti.
- Ci sono nel pomeriggio, ora sono a fare la spesa.
- Ti va se ci vediamo?
Rimane in silenzio per un po', sento in sottofondo rumori di carrelli e vociare di gente.
- Certo, sì – dice, alla fine.
Mi faccio dire dove si trova e la o a prendere, trovandola carica di 4 buste della spesa stracolme.
- Hai deciso di chiuderti in casa perché sta arrivando un inverno nucleare? chiedo.
Mi guarda senza dire niente, per un attimo, poi sorride e scuote la testa.
- Dove lo trovo un altro che parla come te?
Scrollo le spalle e le prendo due buste di mano.
- Ho invitato un po' di gente a cena e ho preso quello che serve.
- Cosa preparerai di buono?
- Burritos come antipasto, chili con carne come piatto forte.
- Adoro la cucina messicana.
Rimane in un silenzio un po' imbarazzato e poi sorrido.
- Non sto cercando di farmi invitare a cena, giuro – dico.
- OK.
Carichiamo le buste sulla sua auto, ferma nel parcheggio sopraelevato del centro commerciale, e poi rimaniamo lì. Mi accendo una sigaretta e gliene offro una, lei la prende e cerchiamo dove sederci. Troviamo le scale antincendio e ci mettiamo lì, osservando il va e vieni delle macchine e delle persone.
- Non so bene cosa dire – ammetto.
- Su cosa?
- Su noi due.
- Non c'è niente da dire, lo sappiamo entrambi. Io voglio te, ma tu non vuoi me. Fine della storia.
- Non è che non ti voglio...
- Ale, ti prego , fammi un favore e accetta un consiglio: non cercare di indorarmi la pillola, perché non serve a niente.
- Lo so.
- Sei un bravo ragazzo, lo so, non lo metto in dubbio, non devi cercare di sembrare meglio di quello che sei, perché mi piaci già così.
- OK.
- Ma tu non vuoi me. Perché se tu volessi me, staresti con me. Non con le altre ragazze con cui vai a letto, né con il pensiero sempre rivolto alla tua ex.
- Non è così facile – ammetto.
- Non ho detto che è facile, dico solo che in una coppia si è in due e si è insieme. Io e te siamo stati a letto e tu mi hai ascoltata raccontare cose mie, personali, ma di te non so praticamente niente. Non so che studi hai fatto, non so niente della
tua famiglia, dei tuoi amici, so pochissimo dei tuoi interessi.
- Non abbiamo avuto occasioni, forse.
- Forse. Può essere. Ma io le ho trovate, quelle occasioni, per parlarti di me. Tu, invece, non le hai mai trovate o, forse, non hai voluto farlo.
Espiro il fumo e la guardo, senza dire nulla.
- Non sei costretto a farlo, lo so. Lo so che ormai la gente scopa anche solo per scopare e che non vuol dire che vivrà insieme felice e contenta per sempre. Ma io voglio qualcosa di più e l'unica domanda che ti posso fare è se lo vuoi anche tu, con me. Solo che la risposta la sappiamo già, vero?
- Ti posso dire una cosa?
- Sentiamo.
- La mia ragazza se n'è andata da qualche mese, ormai, ma è una storia che è durata tutta la mia vita. Qualche mese è ieri, Carlotta. È come quella cosa che un anno di una persona sono sette anni di un cane e non è che voglia dire che tu sia un cane, ma che due mesi per te sono tanti, mentre per me è come se fosse ata mezz'ora, da quando è uscita dalla porta di casa.
- Lo capisco.
- Lo so che lo capisci. Lo so perché il ricordo di tuo padre, l'affetto che nutri per lui, è così forte che le tue giornate sono scandite da quello. L'intera tua vita è scandita da lui, dai profumi che te lo ricordano e che ti fanno scattare associazioni con quello che hai intorno e che stai facendo.
Annuisce e abbassa lo sguardo, dando un tiro alla sua sigaretta.
- Non so quando è morto tuo padre, ma se dovessi basarmi su come ne parli potrei pensare che è stato la settimana scorsa. Per questo so che capisci, quando dico che per quanti giorni siano già ati, io sono più indietro di voi. È come se il mondo andasse avanti e si evolvesse a una velocità tre volte superiore alla mia.
Annuisce ancora e poi getta la sigaretta via, seguendola con lo sguardo.
- Ma per quanto il mondo vada veloce, evolvo anche io. Più lentamente, ma evolvo. Pian piano ne uscirò; ne sto già uscendo, forse. Solo che ora, adesso, tu sei già pronta a volere e desiderare cose che io non saprei neanche come gestire.
- Lo so.
- Non ti sto chiedendo di aspettarmi, Carlotta. Ma tutto questo va oltre quello che sono in grado di dare, ora.
- Forse non sono la persona giusta.
- Forse.
- Comunque siamo sempre al punto da cui siamo partiti: non saremo mai una coppia.
Scuoto la testa e schiaccio la sigaretta sotto la suola delle scarpe.
- La sai una cosa? - dico.
- Cosa?
- Nonostante tutto sono felice di averti conosciuto.
Sorride.
- Chi se ne frega, Ale. Anche io, ma non staremo insieme, quindi, chi se ne frega?
- A me un po' sì. Poteva andarmi peggio, potevo capitare su qualcuno che mi avrebbe fatto stare male e invece no, ho conosciuto te. Sono stato fortunato.
- Piantala. Sto cercando di odiarti almeno un po' – dice, dandomi una spinta con la spalla.
- Con quel tizio come va? - chiedo.
Scrolla le spalle e sorride.
- È gentile e si interessa alle mie cose. E poi se fa sesso con me sta concentrato su di me – aggiunge, facendo la linguaccia.
- Carogna – ribatto.
Rimaniamo lì in silenzio a guardare ancora la gente che arriva e quella che se ne va.
- Tu come stai, Ale?
- La mia ragazza mi ha lasciato, ho perso il lavoro, sto smettendo di vedere le donne con cui sono andato a letto negli ultimi mesi, ospito una ragazza incinta di un'altro, si avvicina il Natale – scrollo le spalle. - Potrebbe andare meglio, ecco. Ma la verità è che potrebbe andare anche molto peggio, Carlotta.
Annuisce e poi dà un'occhiata al suo orologio.
- Io devo andare.
- Sì, scusa, ti ho trattenuta.
L'accompagno alla macchina e rimango lì, impalato, a guardarla, silenzioso.
- Sappi che non ti darò un bacio d'addio – dice.
- No, sono io che non te lo darò – ribatto.
Sorridiamo tutti e due e poi ci abbracciamo.
- Mi farebbe piacere rivederti – dico.
- Sì, perché no? Magari dopo Natale, che ne dici?
- Se per te va bene, per me va benissimo.
- Il tempo di riprendermi e di abituarmi all'idea.
- Dici che potremo essere amici?
- Non lo so – rimane in silenzio, pensierosa, poi scrolla le spalle. - Credo di sì. Alla fin fine anche se le cose non sono andate come speravo credo che ti vorrò bene lo stesso.
- Te ne sarei grato. Sento di avere bisogno di persone che mi vogliono bene.
Ci abbracciamo di nuovo e lei sale in macchina, la guardo fare manovra, pensieroso, poi lei si ferma e abbassa il finestrino.
- Ehi! Sorridi! - dice, sorridendo a sua volta.
Per una frazione di secondo non so bene cosa fare, poi scuoto la testa e sorrido anche io. Mi manda un bacio e parte, lasciandomi lì, sorridente, a guardare la sua auto sparire nel traffico cittadino.
Sono seduto al tavolo di mio padre e in mano ho un bicchiere di un vino che ha aperto e che, una volta tanto, non è poi così male.
- Grazie – dico.
- Per cosa?
- Il fatto che sia così buono – dico, indicando il bicchiere. - È un pensiero molto
carino.
- Non voglio mentirti, figlio mio, trovare una bottiglia di vino buono è stata una lunga ricerca.
- Ecco.
Sorseggio pensieroso e guardo casa sua. È ancora lo stesso nido accogliente verso il quale sento di volermi rifugiare, quando le cose vanno male.
- Ti servono soldi? - mi chiede, all'improvviso.
- No, no.
- Sicuro?
- Per il momento sono a posto. Ho qualche risparmio in banca e poi mi daranno la liquidazione e credo di essere a posto per due o tre mesi.
- Non è molto.
- No, non lo è. Farò dei calcoli, vedrò cosa posso tagliare dalle spese e nel frattempo continuerò a cercare un altro lavoro – mi guarda senza dire nulla, ma
capisco cosa vuole. - Sì, prometto che ti chiederò dei soldi, se dovessi averne bisogno.
- Bravo. Hai già un curriculum pronto? Sai dove mandarlo?
- Conosco qualche ditta e ho qualche cliente che potrebbe essere interessato a me.
Beviamo ancora, senza dire nulla. Lui gioca con lo stele del bicchiere di vino, concentrato.
- Ho un po' di paura, a dirla tutta – ammetto.
- Mi pare il minimo, figlio mio, non è un bel mondo per trovarsi senza lavoro, questo.
- Già.
- Ma puoi contare su di me e su tua madre, lo sai. Sentirò i miei amici e spargerò la voce che cerchi lavoro, qualcosa salterà fuori.
- Grazie.
Mi dà una pacca sulla mano e la stringe, guardandomi con affetto.
- Ti voglio bene, papà.
- Te ne voglio anche io, Alessandro.
- OK. Bene – dico, perché non so cosa dire.
Finisco il vino e prendo il cellulare per chiamare Sabrina e avvisarla che per cena dovrà improvvisare qualcosa, perché non ho nessuna intenzione di mettermi a cucinare. Sospiro, perché realizzo che ancora non so cosa intenda fare con il bambino e, soprattutto, se intende andare via o fermarsi ancora. Tendenzialmente non mi spiace avere compagnia, ma una bocca in più da sfamare, in questo momento, mi pare troppo. Scuoto la testa e accendo il cellulare, trovandoci un messaggio che non avevo sentito arrivare.
- Cristo... - borbotto.
- Che c'è? - chiede mio padre, mentre svuota il suo bicchiere.
- È un messaggio di Adriana. Chiede di vedermi, stasera.
Poggio il cellulare e guardo mio papà, che mi stringe di nuovo la mano.
- Cosa pensi di fare? - chiede.
- E che ne so? L'ultima volta le ho urlato dietro e l'ho insultata.
- Non è bello.
- No, ma ero fuori di me e non è che ne vada fiero.
- Immagino.
- Forse dovrei incontrarla e scusarmi, ma oggi non so se sono in grado di gestire anche lei.
- Rimanda.
- Sì, dovrei. Ma lei è complicata e se la respingo oggi chissà quando la rivedo. erei il tempo a chiedermi cosa volesse dirmi.
- Cosa credi che voglia?
- Papà, cosa vuoi che ne sappia? È come indovinare all'Enalotto.
Mi alzo in piedi e indosso la giacca.
- Non sei stanco? - chiede mio padre, poggiandosi allo schienale della sedia.
- Di cosa?
- Di tutto questo. Di are la tua vita a preoccuparti di lei, di quello che pensa o fa o di cosa penserebbe o farebbe e di farlo cercando di indovinare cosa le a per la testa, cosa che, per tua stessa ammissione, è assolutamente impossibile?
Respiro a fondo un paio di volte e annuisco.
- Sì, sono stanco.
- E allora perché lo fai?
Scrollo le spalle e mi sporgo in avanti, dandogli un bacio sulla fronte. Ci salutiamo un'ultima volta e guardo l'ora: ormai sono le cinque. Chiamo Sabrina e il cellulare suona libero per un po', poi risponde.
- Ciao, dove sei? - chiedo.
- A casa, sto pulendo.
- Stai pulendo?
- Sì. Sai, il bagno, la cucina, quelle cose lì.
- OK, come vuoi. Ascolta, erà la mia ex, stasera, e avrò bisogno dell'appartamento libero per parlarci. Hai un posto dove puoi andare?
- Non ci sono problemi. Mi organizzo.
- Vai dal barista?
- Non lo so, vediamo.
- Com'è andata?
- Abbiamo pomiciato.
- E basta?
- Sono una donna incinta.
- Non ti ha fermato, finora.
- Il fatto di non fermarmi è uno dei motivi per cui sono incinta.
- Innegabile.
- Ecco. Dai, lo chiamo e gli propongo di berci una cosa. Cioè lui beve, io dovrò prendere un fottuto succo di frutta.
- C'è di peggio.
- Tipo?
- Non lo so.
- Non servi veramente a un cazzo.
- È quello che mi piace di te, Sabrina, hai sempre una parola buona per me.
- Fottiti.
Salgo in auto e accendo il motore.
- Comunque grazie e scusa se ti avviso così all'ultimo – dico.
- Stai scherzando? È casa tua, sono l'ospite. Non dire cazzate, dai.
- OK.
- E dobbiamo parlare di questa cosa.
- Di quale cosa?
- Di me che sto nel tuo fottuto appartamento.
- Va bene.
- Magari stasera. O domani, quando torni dal lavoro.
- Non vado al lavoro, domani.
- Perché?
- Ti spiegherò. Ci sentiamo più tardi, va bene?
- Sì, certo. Oh in bocca al lupo con la tua ex, eh? Non fartela mettere in culo come al solito.
Soffoco una risata.
- Ci farò attenzione.
Ci salutiamo e mando un messaggio ad Adriana, dandole appuntamento alle sette da me, dovrebbe bastare per dare il tempo a Sabrina di uscire. Per sicurezza, una volta ricevuta la conferma, la avviso che per quell'ora deve essere fuori casa e, visto che ci sono, le chiedo di non lasciare biancheria sparsa per casa. Mi risponde che sono un dito nel culo. Non posso darle torto.
Vado a casa di Massi e suono alla sua porta, mi apre dopo un attimo totalmente nudo. Rimaniamo in silenzio, io sulla soglia della porta, lui con la maniglia stretta in mano e per qualche istante nessuno dice nulla.
- Stavi facendo sesso? - chiedo, alla fine.
- Vedi un'erezione?
- Sto cercando di non guardare lì sotto.
- Paura del confronto, eh? - ride.
- Non ho mai amato le miniature.
- Maschione.
- Insomma è un brutto momento o no?
- No, no, sono appena uscito dalla doccia.
- E non potevi indossare qualcosa?
- Stavo per infilare i boxer, ma hai suonato alla porta.
- E non potevi infilarli prima di aprire?
- Non volevo farti aspettare.
- E se fossi stato un vicino di casa?
- Capirai, mi hanno visto nudo altre volte.
- Cristo. Scommetto che hanno smesso di suonare da te.
- Esattamente.
Si fa di lato e fa cenno di entrare e io faccio il mio ingresso nel suo soggiorno. Noto subito che è stranamente in ordine, rispetto al solito. Le pile di riviste sono sistemate per bene, i videogames sono dentro il porta CD vicino alla televisione e i mobili sono stati spolverati. In compenso il poster di Pulp Fiction è stato sostituito da quello di La Casa e quello dei Blues Brothers da quello di Il mucchio selvaggio .
- Siamo in rispolvero di vecchi film? - chiedo.
- Mah. È un periodo che riguardo un sacco di classiconi, non so bene perché.
Si sistema accanto a me, i pugni sui fianchi e lo sguardo sui poster appesi. Gli lancio un'occhiata.
- Proprio non ti vuoi vestire, eh?
- Porca puttana, che razza di represso – esclama, andando a infilarsi in camera sua. - Tesoro, vieni a salutare Ale.
Luna si affaccia alla porta della camera da letto, tirando fuori solo la testa.
- Ciao, arrivo subito, mi vesto – dice.
- Fai con comodo.
Massi ricompare dal bagno, con indosso un paio di boxer, mentre si a generosamente il deodorante sotto le ascelle.
- Allora, che si dice?
- Mi hanno licenziato e Adriana mi ha chiesto di vederci, stasera. Scegli tu.
La porta della camera da letto si apre di nuovo e Luna infila di nuovo la testa.
- Ho sentito bene? Adriana ti vuole vedere?
- Sì, mi vuole vedere.
- Infilo la tuta e arrivo.
Massi va nel cucinotto, facendomi cenno di seguirlo. Entro e trovo ancora tutto in ordine.
- Dì un po' , che succede a casa tua?
- Di cosa parli? - chiede, mentre accende una macchina per fare l'espresso.
- Niente posacenere pieni di mozziconi, niente casino. Hai fatto le pulizie?
- Sì. Be', sai, quando cominci ad avere una ragazza in giro per casa tanto vale fargliela trovare in ordine, no? - fa un cenno verso la camera da letto.
- Cos'è successo?
- Di cosa parli?
- Dai, Massi, lo sai di cosa parlo. Parlo di te e Luna che state di nuovo insieme, quando mi hai detto che non sei il tipo da storia seria e la rana e lo scorpione e tutta quella roba lì.
- Ma no, niente.
- Massi.
Sospira e mi porge la tazzina di caffè non richiesta.
- Zucchero? - chiede.
Annuisco, lui apre lo sportello di una mensola sul quale è attaccato il piccolo poster di A qualcuno piace caldo e mi a la zuccheriera.
- Non è successo nulla. Mi ha solo detto che non le ho dato una possibilità e che, alla fin fine, solo questo chiede, una possibilità.
- Ed è bastato questo? - chiedo, incredulo, mentre giro il cucchiaino.
- Sì, è bastato questo. La verità, Ale, è che con lei sto bene e che in fin dei conti si tratta solo di provare. Se non sto bene la posso sempre lasciare e amici come prima.
- Di solito non si rimane amici come prima.
- Be' no. Ma del resto non credo che ci terrei a restare suo amico, se ci
lasciassimo.
- E quindi state insieme. Tu e lei. E basta.
- Stai insinuando che la mia ragazza mi metta le corna? - chiede, con la tazzina a mezz'aria.
- No, veramente pensavo a te che ti abitui a una donna sola.
- Non è male.
- Non è male?
- Pensavo peggio.
Gli porgo la tazzina e lui la mette nel lavandino con la sua. Non so bene cosa dire, sembra che il aggio da single donnaiolo a fidanzato sia stato naturale come respirare. Torniamo in salotto e Luna esce dal bagno, truccata e con una tuta da ginnastica addosso. Si avvicina e mi dà un bacio sulla guancia.
- Ciao, tesoro – dice.
- Vi ho disturbato? Stavate uscendo?
- Andiamo a festeggiare il libro di Massi, io e lui – dice Luna, con un cenno del capo, verso il mio amico che entra in camera da letto.
- Oh. Bene.
- Allora che fai? La incontri?
- Non lo so. Le ho dato appuntamento, ma improvvisamente non mi sembra più una buona idea. Sto pensando di cancellare.
- Devi andare – mi dice Luna, con uno strano sorriso sul volto, quasi raggiante.
- A fare cosa? Non mi sembra il caso, dai – rispondo, massaggiandomi gli occhi.
- Sei idiota? A fare cosa? - la voce di Massi mi raggiunge dalla sua camera, dove, a giudicare dai vestiti che volano in giro, si sta cambiando.
- Massi, ti prego...
- Perché non vuoi andare? - chiede, Luna, con dolcezza.
- Perché lo so che non serve a nulla. Lo so che arrivo lì e la trovo in splendida forma, mentre io sono un'ameba, e quando vedo che sta bene mi sento ancora più un'ameba.
- Ma lei ti ha chiesto di are, no? - mi incoraggia, lei.
- Sì, certo, e questo mi preoccupa ancora di più.
- Perché?
- Non lo so. Cazzo. Perché magari vuole decidere chi tiene quali CD e quali DVD. O magari vuole lasciarmi qualche soldo per le ultime bollette. E io non posso mica reggerla, una situazione del genere.
Luna si volta a guardare Massi, che è sulla soglia di camera sua e si sta abbottonando la camicia.
- Hai qualcosa di intelligente, da dirgli?
- Io? - chiede Massi.
- Lui? - chiedo io.
- Siete insopportabili – sospira, andando a infilarsi in bagno.
Io e Massi ci scambiamo un sorriso di intesa e poi lui si avvicina.
- Lo sai che ha ragione lei: vacci, incontrala.
- Per sentirmi dire che sta bene ed è felice?
- Non ha mai detto di essere felice; ha solo detto che voleva risolvere delle cose.
- Che con me non poteva riuscirci, quindi cosa dovrebbe essere cambiato?
- Non lo so. Magari le ha risolte sul serio o magari ha cambiato idea sul tuo ruolo in quel casino che ha in testa.
- Si può sapere che ti prende? Sei il primo a ripetere sempre che me la devo levare di testa, perché ora ci tieni così tanto che ci vada?
- Perché io e Luna usciamo per cena e se stai ancora qui ci tocca disdire. Ma anche – aggiunge, mentre gli mostro il dito medio, - perché devi smetterla di trascinarti e lasciare che le cose ti accadano. Dopo tutto questo tempo pensavo che avessi deciso di prendere la situazione in mano e, invece, sei ancora lì che ti fai influenzare dagli altri. Basta, Ale. Falle succedere, le cose.
Rimango in silenzio e penso a quanto mi ha detto, mentre rientra in camera e continua a vestirsi. Luna esce dal bagno, indossa un bel vestito con le spalle scoperte e un paio di scarpe con il tacco che la rendono ancora più slanciata.
- Sei bellissima - dico. - Dovresti lasciare Massi e dovremmo scappare insieme.
- Sarebbe curioso sapere cosa vorresti farci, dopo che ti avrò staccato le palle – dice lui, dalla camera da letto.
Luna ride e mi mette una mano sul braccio.
- Che hai deciso?
- Vado – dico.
- Ottimo. E ricorda, l'importante è che usiate il preservativo.
La guardo, tra il sorpreso e l'imbarazzato, e lei lo deve prendere come una qualche richiesta d'aiuto, perché si sporge in avanti e mi guarda negli occhi.
- Ne hai, giusto? - chiede, con una curiosa voce seria.
- Non so, credo di averli finiti, ma non è che...
- Lascia, ci pensiamo noi – si avvia verso la camera, a grandi i. - Amore, non ha preservativi. Gli diamo i nostri?
- Certo. Però...
Massi si sporge dalla camera e inclina la testa.
- Senti, ti vanno bene anche se sono XL?
Lo osservo, basito, e lui stringe le spalle, come a giustificarsi.
- XL? - chiedo.
- Eh. Che vuoi farci? - scrolla ancora le spalle e mi osserva, serafico.
- Io...sì, credo di sì...
Annuisce e rientra in camera.
- Sono finiti, non ne trovo – dice Luna.
Mi avvicino alla camera e vedo che ha ribaltato sul letto una scatoletta di latta, dalla quale sono fuoriusciti kleenex e una bottiglietta di un liquido che non voglio sapere cosa sia, ma sospetto che possa essere lubrificante.
- Porca miseria. Quindi siamo senza anche noi – nota Massi, che sta frugando nella cassettiera vicino all'armadio.
- Parrebbe.
- Va bene, ragazzi, non state a preoccuparvi. Al massimo ci si arrang...
- Ah no, aspetta! - esclama Massi e si precipita in bagno.
- No, davvero, Massi, lascia perdere.
Mi ignora ed emerge trionfante con almeno una dozzina di preservativi diversi tra le mani.
- Ecco.
Luna ci raggiunge e li guarda anche lei.
- Ci sono diversi modelli, scegli quello che preferisci – mi dice il mio amico, agitandomeli davanti.
- Come mai ne abbiamo così tanti? - chiede lei.
- Perché sono quelli che non andavano bene, perché erano troppo piccoli, per me.
- Ah vero.
- Ecco, dai, prendine uno.
- Ancora meglio due o tre, per sicurezza. Non si sa mai – dice lei.
Me li mostrano, uno dopo l'altro, come se fossero prestigiatori intenti a fare un trucco di magia con le carte che ti fanno scorrere davanti il mazzo, per dimostrare che non è truccato.
- È uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita – gemo. - Non credevo fosse possibile.
Acchiappo tre preservativi e me li infilo dentro la tasca, senza prestare particolarmente attenzione a dove li infilo.
- Be', io vado.
- Ottimo. Facci sapere, mi raccomando – dice Luna, mentre mi dà un bacio sulla guancia.
Esco dall'appartamento del mio amico con il desiderio di morire.
Arrivo a casa verso le sei e Sabrina ha già lasciato il campo libero. La casa è effettivamente in ordine e pulita e io mi metto a girare per la zona giorno, roso dal nervosismo.Perché mi sto mettendo in una situazione del genere? Perché incontrare Adriana, pur sapendo che, con ogni probabilità che, dopo averla vista, sarò da raccogliere con paletta e secchiello? Mi rispondo che lo faccio perché voglio sapere cosa vuole e la mia curiosità supera il mio desiderio di scappare lontano da altra sofferenza. Ma la sofferenza, per quanto inevitabile, in certi casi, o necessaria, in altri, non può essere una scelta volontaria. La mia decisione di andare avanti non dovrebbe are prima di tutto, prima di qualsiasi cosa, dal volermi bene, dall'accettare che le cose stanno cambiando e far sì che questo cambiamento sia il meno traumatico possibile? Se posso evitare di stare male, non è mio dovere farlo? Si tratta di protezione o di fuga?Quando stavo con Adriana ho fatto il possibile perché fosse sempre felice e perché il suo mondo fosse intaccato il minimo possibile da qualsiasi trauma. Questo non ha impedito che mi lasciasse, certo, ma ora, adesso che non è più parte della mia vita, non ho forse la possibilità di trasferire la stessa attenzione nei miei confronti? Non è tempo di convogliare i miei sforzi in qualcosa che mi renda, se non felice e soddisfatto, il meno triste possibile?Mi siedo sul divano e mi accendo una sigaretta, cercando di immaginare cosa possa volere e, soprattutto, cosa le dirò io, quando ci resterò male per le sue parole, per l'ennesima volta. Perché posso mentire a Massi e a Luna e a mio padre e a chiunque altro e dire che sono in grado di accettare il rifiuto e l'abbandono, ma la pura verità è che per lei potrebbe entrare con una scritta al neon lampeggiante che recita “non ti amo più”, sopra la testa, e nonostante questo io continuerei a sperare che mi dica che ha cambiato idea e che vuole tornare da me. Ma lei non tornerà e posso sperare e sognare quanto voglio, ma non la riavrò mai indietro. E come tutti i sogni, prima
o poi, anche questo è destinato a finire.Recupero un foglio di carta e una penna e mi siedo al tavolo da pranzo; guardo il foglio bianco per qualche minuto, la mente svuotata, il desiderio di scrivere qualcosa, ma la difficoltà a trovare le parole giuste. Poi respiro a fondo un paio di volte e scrivo quelle più semplici e immediate:
Cara Adriana,
ti lascio questa lettera qui sul tavolo e vado via. Nonostante tutto, so che incontrarti non sarebbe una buona idea.
Mi vergogno ancora molto per quello che ti ho detto la volta scorsa e mi spiace di avere lanciato il piatto contro il muro. Non ci sono giustificazioni per questo e non intendo cercarne: scusami, se puoi.
Non sono rimasto qui ad aspettarti per la ragione più semplice: non ti voglio vedere e non voglio sentire quello che hai da dirmi. O meglio: vorrei saperlo, ma sospetto che non sarebbe niente che mi farebbe stare meglio e allora preferisco non incontrarti e risparmiarmi altro dolore.
In questi mesi ho cercato di giustificare la tua scelta e di capirla. Non ti mentirò dicendo che ci ero riuscito, perché non è così. La ritenevo una mossa avventata, frutto di qualche tuo ragionamento scombinato, figlio di un qualche momento di crisi di cui non mi ero accorto. Poi, con il are del tempo, ho capito, semplicemente, che mi hai lasciato perché mi volevi lasciare, perché non c'è posto, nella tua vita per me.
Mi hai lasciato perché non mi ami più.
È curioso come tante analisi, tante giustificazioni, tanti discorsi possano venire spazzati via da un concetto così semplice, no? Non mi ami più e io non posso farci niente. Così come non ho potuto scegliere di innamorarmi di te, non ho potuto far sì che tu continuassi ad amarmi. Fa schifo, ma è così.
Ci ho messo molto tempo a capirlo, ce ne metterò ancora molto ad accettarlo, perché, volenti o nolenti, i miei sentimenti per te sono ancora lì, per quanto siano cambiati.
Quindi non credo ci sia molto da dirci, giunti a questo punto. Non ti odio, credo, né spero che tu stia soffrendo. Ma non posso continuare a vederti e a stare male, perché per quanto abbia capito che non tornerai indietro, so che ci sarà sempre una piccola parte di me che continuerà a sperarci e allora preferisco non nutrirla e lasciare che si spenga, con il tempo.
Tutte le tue cose sono dove le hai lasciate. Prendi quello che ti serve, io comprerò quello che non mi lasci. Se non riesci a fare tutto in un solo aggio, scrivimi quando pensi di tornare e io non mi farò trovare in casa. Quando avrai finito butta le chiavi nella cassetta delle lettere. Non ti preoccupare per le bollette, pagherò io, non voglio che mi lasci dei soldi.
Leggo la lettera, poi la rileggo una seconda volta e una terza. Non voglio che le mie ultime parole siano una serie di indicazioni tecniche su bollette e chiavi.
Per quanto ora ci sia troppo dolore e troppa amarezza, in me, voglio solo dirti che non mi pento di niente e che sono felice di averti avuta nella mia vita. Grazie per avermi permesso di fare parte della tua.
Ti bacio,
Ale
La rileggo e la lascio lì sul tavolo, poi prendo la giacca ed esco di casa, salendo in auto e guidando per la città. A un certo punto parcheggio e mando un messaggio ad Adriana, chiedendole di entrare in casa e non aspettarmi. Cammino per le strade e osservo la gente. Coppiette, persone felici, altre con il muso lungo. Mi sembra di vedere qualcosa di me in tutti loro e per la prima volta, dopo tanti mesi, mi sento improvvisamente parte della folla e non più un elemento estraneo. Non so cosa voglia dire, né so se mi piace. So solo che, in quel momento, è confortante. Mi siedo dentro un bar e ordino uno spritz che bevo, lentamente, continuando a studiare le persone. Alla fine la mia non è stata una storia speciale, né particolare. Non sono la prima persona che viene lasciato dalla ragazza, non sono il primo con un cuore spezzato. Non credo di essere l'unico che si rifugia nel sesso, per soffocare i pensieri. Non credo di essere il solo che conosce diverse donne, tutte con le loro manie, i loro punti deboli, i propri traumi e che li riversano nel sesso per soffocarli, come ho fatto io.Alla fin fine la mia storia non parla di niente. Parla di persone tristi che fanno sesso. Alcune poi diventano più felici, altre rimangono tristi. Ma, curiosamente, mi rendo conto che l'importante non è stata la destinazione di ognuna di loro, ma semplicemente il viaggio fatto insieme.
Mi arriva un sms e guardo il cellulare: è Adriana che mi dice che ha finito, ma che dovrà fare ancora un paio di aggi. “Grazie per la lettera – dice, - e grazie per essere stato così meraviglioso con me”. Poso il cellulare sul tavolino e alzo lo sguardo, vedendo il mio riflesso nello specchio e rimanendo quasi sorpreso, quando lo percepisco. Eccomi lì. Seguo i miei lineamenti e cerco di riconoscermi. Mi sembro più magro, rispetto a qualche tempo fa, le occhiaie sembrano indicare che le mie notti non sono tanto tranquille o non abbastanza lunghe. Vedo Alessandro e lo guardo con un po' di
curiosità. È come se l'immagine che mi restituisce lo specchio non fosse quella che mi aspetto, come se mi sentissi diverso. Ma capisco che, semplicemente, vedo quello che vedono tutti e che, contemporaneamente, percepisco quel tumulto interiore che ha scandito le mie giornate, negli ultimi mesi. Alla fine la mia storia non parla di niente. Alla fine, quello che conta, è quello che posso diventare da questo momento in poi.
Torno a casa e incontro Sabrina nel parcheggio sotto casa, seduta alla fermata dell'autobus. Legge un libro, all'illuminazione di un neon.
- Che fai qui? - chiedo.
- Non sapevo se fossi ancora con la tua ex – dice, chiudendo il libro.
- No, non l'ho incontrata. Le ho lasciato una lettera e sono uscito.
Non diciamo nulla e mi siedo accanto a lei.
- Ale, forse è meglio se me ne vado – dice, improvvisamente.
- Dove?
- Torno a casa.
- Ora?
- Be' domattina sarebbe meglio, se puoi ospitarmi ancora una notte.
- Certo.
- Ho preso qualche soldo dal conto per le emergenze e te lo vorrei lasciare, per partecipare alle spese di questi giorni.
- Conto per le emergenze?
- Si, ho un conto secondario per le situazioni disperate. Ho cercato di non usarlo, ma poi ho dovuto ammettere a me stessa di essere abbastanza disperata. E devo darti qualcosa, hai speso un sacco, per aiutarmi.
- Non c'è bisogno, sul serio.
- Non dire cazzate. Ho mangiato e dormito e sfruttato casa tua, devo darti qualcosa.
- No, no, non li voglio, tienili. Ne avrai sicuramente bisogno, nei prossimi mesi.
- Almeno i soldi dell'hotel, porca puttana.
- Ha pagato mio padre, me la vedrò io, con lui.
Sospira e si rigira il libro tra le mani.
- Senti, io faccio schifo con queste cose, lo sai – ammette.
- Lo so.
- Però vorrei dirti che sei stato gentilissimo e che per me la tua gentilezza ha contato moltissimo. Cristo, ero nella merda fino al collo e sei stato lì ad aiutarmi, anche se non sapevi un cazzo di me.
- Non c'è bisogno di ringraziarmi. Sono adulto e vaccinato, Sabrina, e se l'ho fatto era perché volevo farlo.
- Lo so, ma comunque grazie, porca troia.
- Prego – rispondo, con un sorriso. - Cosa farai, una volta a casa?
- Devo andare al lavoro e parlare con loro della mia situazione lavorativa. Avevo preso un'aspettativa di un anno per motivi medici e ora sono incinta.
- Motivi medici? - chiedo.
Lei annuisce, mentre torce la copertina del libro di Thomas Mann.
- Ero in depressione, più o meno. Una specie di esaurimento nervoso.
- Per cosa?
- Che ne so? Non sono mai stata tranquilla in tutta la mia vita.
- Non mi viene difficile crederlo.
- Vai a farti fottere.
Mi sorride e io le sorrido.
- Ora stai bene? - chiedo – A parte che sì, sei incinta, lo so che sei incinta – aggiungo, quando solleva un sopracciglio.
Ci pensa su, guardandosi in giro.
- Sto meglio. So che sembra strano, ma questa cosa del bambino, porca troia, mi ha in qualche modo tranquillizzata. Non so come spiegartelo, è come se sapere di stare per avere un figlio mi avesse fatto capire che tre quarti delle menate per le quali mi rovinavo la vita erano delle stronzate senza senso.
- È un bene, no?
- Sì, lo è. Ma non sono abituata, vedevo sempre tutto nero, ero sempre incazzata con tutti. Ora sono sempre incazzata con tutti, ma poi penso al bambino e allora mi rendo conto che non ho tempo da perdere con le cose che mi fanno incazzare e che devo pensare a lui.
Sorrido e le do un bacio sulla guancia, incassando la sua occhiataccia senza dire nulla.
- Ho chiamato mio fratello, oggi pomeriggio, e gli ho raccontato cosa è successo. Era felicissimo per me, sai? Non pensavo, credevo che quando gli avrei detto che sono senza un padre mi avrebbe fatto la ramanzina. E invece no. Mi vuole bene.
- Direi di sì.
- Mi aiuterà. E anche la moglie, mi ha chiamato anche lei e ha detto che le dispiace se abbiamo avuto dei problemi, ma che ora andrà tutto meglio. Stupida
stronza bacchettona – aggiunge, scuotendo la testa.
- Ecco, magari questo non glielo dire, quando la vedi.
- No, no, promesso. Comunque sono in viaggio, in questo momento. Hanno preso i figli e stanno facendo il giro dei castelli d'Italia o qualcosa del genere, una di quelle robe pallosissime che non farei neanche se mi puntassero una pistola alla tempia. Tornano tra dieci giorni e allora parleremo ancora. Sono contento che mi voglia bene, perché sento di potercela fare e sapere che lui ci sarà, se dovessi avere problemi, mi aiuta molto.
- Sì. E se poi capita, ecco, io sono qui.
- Pensi che vorrò vedere ancora la tua faccia da sfigato, quando sarò una madre per bene? - chiede, sorridendo.
- Sì, sono sicuro che vorrai – ribatto.
Ride e annuisce.
- Sì, lo credo anche io.
Mi alzo in piedi e lei mi imita; mentre andiamo verso il portone mi fermo, di colpo.
- Hai detto che tuo fratello è via, no?
- Sì.
- Per una settimana, ho capito bene?
- Dieci giorni.
- Rimani qui, allora.
- Come?
- Per i prossimi dieci giorni, rimani ancora qui. Tanto se torni a casa ora o quando ci torna lui non cambia niente, no? Puoi mangiare le stesse cose che mangeresti lì e avresti qualcuno, se ci dovessero essere problemi. E poi in dieci giorni sai quante pomiciate puoi farti, con il barista?
- Sei molto gentile, ma ti sono stata tra le palle anche per troppo tempo.
- Guarda che sei tu a farmi un favore, Sabrina. Oggi ho chiuso, credo, definitivamente con la mia ex ragazza e mi hanno licenziato.
- Come sarebbe a dire licenziato?
- Sì, il padre di tuo figlio non mi ha rinnovato il contratto.
- Cazzo.
- Mh.
- Cazzo, è colpa mia. È per la telefonata di ieri. Cazzo.
- Non importa. Non ha più importanza, sul serio; tanto ormai non possiamo farci molto, no? E poi sospetto che anche se non vi foste sentiti non me lo avrebbe rinnovato lo stesso. Avere in giro per l'azienda uno che sa i fatti suoi poteva essere imbarazzante.
- Figlio di puttana.
- Già. Be', è andata così e avere qualcuno con cui chiacchierare, nei prossimi giorni, potrebbe farmi bene.
- Non lo so.
- Cristo santo, mi devo mettere in ginocchio?
Mi guarda un attimo e poi si rimette in cammino verso il portone.
- Pizza, stasera? - chiede.
- Perché no?
- Pago io.
- Va bene.
- Ma devo prenderla con le verdure, sai, sono incinta.
- Avevo il sospetto che lo fossi.
- Vaffanculo.
- Vaffanculo a te, Sabrina.
Saliamo in casa e lei si mette comoda, mentre ordino due pizze da farci portare a casa. Mio padre mi chiama per sapere come sto e gli racconto quello che è successo. Mi consola un po', ma per una volta sento di non averne tanto bisogno.
- Cosa farai ora? - mi chiede mio padre.
- Non lo so ancora. Mi cerco un lavoro, mi trovo un hobby, imparo una nuova lingua. Non lo so.
- Quelle ragazze con cui ti vedevi?
- Ho chiuso.
- Perché?
- Era sesso, papà, ma non è che sia servito a farmi dimenticare Adriana.
- Stavi meglio?
- Il tempo di un orgasmo, direi.
- Capisco.
- Cosa?
- Vuoi sapere una cosa che ho sempre pensato, delle relazioni?
- Certo.
- Ho sempre pensato che l'unica cosa da fare, quando qualcuno ti piace e ti fa stare bene, è di dirglielo.
- Mi sembra il minimo.
- Sarà il minimo, ma non tutti lo fanno. Sono quasi sicuro che tu non l'abbia mai detto, a quelle ragazze con cui andavi a letto.
- No, ma del resto mentre ci fai sesso tendi a dire altre cose.
- Sì, anche io e tua madre dicevamo un sacco di cose, ai tempi.
- Cristo, devo imparare a stare zitto.
- Sì, devi, ma giunto a questa età, figlio mio, credo che ormai sia troppo tardi.
- Grazie, papà. Severo, ma giusto.
- Prego. E comunque mi vuoi dire che con tutte le donne che hai visto, ultimamente, nessuna ti ha fatto stare bene?
Non rispondo e ci penso su. Mi guardo allo specchio appeso al muro. Eccomi lì, con una cornetta in mano, che cerco ancora capire chi sono. Poi mi dico che il modo per capirlo è confrontarsi con il mondo lì fuori. L'ho evitato per troppo tempo, il mondo. Prima perché ero troppo concentrato su Adriana, perché il mondo era pieno di pericoli per lei e per il suo carattere instabile e, di conseguenza, era troppo impegnativo per me, che avrei dovuto gestire le sue crisi, le sue paure e i suoi pianti. Poi l'ho evitato perché stavo male, perché non credevo di poter reggere il suo peso, ridotto a un cumulo di macerie come sono. Ma il mondo è lì. Fuori dalla porta, su Internet, nei bar, nei locali. Il mondo è anche nella mia camera da letto, che si cambia e si lamenta perché presto dovrà comprare dei completi da donna incinta.
- Forse sì, papà.
- Allora dovresti farglielo sapere.
- Va bene, ci penserò.
- Ci sentiamo domani?
- Certo.
Ci salutiamo e guardo il telefono, in silenzio, per qualche secondo. Faccio un paio di i in tondo, nel mio salotto, e poi mi affaccio in camera da letto.
- Ti spiace se invito una persona a mangiarsi la pizza con noi?
Sabrina si sta raccogliendo i capelli in una coda da cavallo e scrolla le spalle.
- È casa tua. Vuoi che me ne vada?
- No, vorrei che restassi.
- OK.
- Grazie.
Mi sorride e torna a lottare con i suoi capelli. La guardo e mi rendo conto che se lei è capace di affrontare il mondo, anche io posso farlo. O provarci, almeno. Torno in salotto e prendo il cellulare. Rimango fermo, tenendolo in mano. È come l'attimo prima di saltare dalle rocce e buttarti in mare. Quando sai bene che l'atterraggio potrebbe essere duro, ma l'esperienza sarà meravigliosa comunque e nonostante questo non hai il coraggio di spiccare quel balzo. Mandi la spinta alle gambe, ma la spinta sembra fermarsi poco sopra le ginocchia e rimani lì a fissare l'acqua sotto di te, desiderando di tuffarti, ma con la paura di farlo. Alcuni rinunciano al salto. Altri si buttano. A volte l'acqua è troppo fredda, a volte la
temperatura è perfetta e capisci che ti saresti perso una gran cosa, se non avessi spiccato quel salto. E allora respiri a fondo e spicchi il balzo. In piedi nel mio salotto scorro la rubrica del mio cellulare e arrivo al numero di Sandra. Il dito indugia sul tasto della chiamata, mentre sento il richiamo dell'acqua e delle onde. Respiro a fondo e spicco il balzo.
Ringraziamenti
Un libro come questo nasce un sacco di tempo fa e finisce un sacco di tempo dopo e, nel mezzo, ci sono state un sacco di cose diverse. Non è una frase a effetto, se dico che la persona che scrive queste ultime righe è totalmente diversa da quella che ha scritto le prime. Ma entrambe hanno avuto la fortuna di avere accanto persone eccezionali che lo hanno aiutato e incoraggiato, durante la scrittura.
I miei familiari e le loro belle parole, l'incoraggiamento, il costante sostegno.
Roberta, la mia lettrice alfa, che mi ha spronato quando avevo dei dubbi.
Carlotta, che mi scriveva sms di insulti, man mano che scrivevo, perché non mi sbrigavo a finire.
Letizia, che a un certo punto mi ha aiutato a fare chiarezza su di me e su quello che volevo da questo libro.
Luca e Giulia per essersi presi cura di me, in un momento in cui questo libro si limitava a raccontare quello che vedevo.
Lele Rozza, che non solo è un bravissimo editor, ma è anche capace di farti capire di cosa ha bisogno quello che hai scritto con poche parole.
Le persone che ho conosciuto e frequentato, nell'ultimo anno, e che hanno tutte dato un pezzetto a questo libro, con atteggiamenti, aneddoti e tic.
Infine, un ringraziamento speciale a tutte quelle donne che hanno avuto la folle idea di venire a letto con me, ignorando che sarebbero diventate ispirazione per ciò che scrivevo.