Carmelo Barbaro Cieli d’avorio Lettere Animate Fantascienza
isbn: 978-88-6882-045-9
copyright Lettere Animate 2014 www.lettereanimate.com
Dancing in the moonlight
(King Harvest, 1973)
Alla fine, non è poi così male. Starsene in pace ad ascoltare un po’ di musica, di buona musica, badando ai fatti propri ogni tanto ci vuole. Sì, ci vuole proprio. E poi il panorama: spettacolare. Non ci sono nato, anzi, a dir la verità, sono nato quasi agli antipodi, ma mi fa sempre un certo effetto guardare la Terra da quassù. Sono in orbita geostazionaria da un paio d’ore; attendo di attraccare alla base di transito RMQ-01 “Side One”, nota anche come “Butcher’s Bay”, dal nome del suo gestore. Vorrei fare un check-up generale alla nave, specialmente dopo le ultime modifiche e Butcher’s Bay è un posto dove non si fanno troppe domande. Nel frattempo, mi rilasso. E guardo. Come ruota… Com’è blu… Vedo foreste, montagne, deserti. Eppure, continenti interi sono quasi disabitati. L’umanità sta migrando, ci stiamo spostando. A volte penso che vogliamo infliggere noi al resto dell’universo, dato come stiamo riducendo questo Sistema. Divento malinconico, quando ascolto questa canzone di Harvest; specialmente se poi mi cade lo sguardo sulla Luna. Veramente fantastica, tutta la vista. Ok, basta così. - SIGMA, cambio brano. - ordino alla mia I.A. - Riproduzione file 0328. Il Re, che canta “Blue Suede Shoes”, mi tirerà su. - Eseguito, signore. - risponde lei, con la voce priva d’inflessione. Non è che sia molto perspicace, ma è ben educata, molto utile e di facile manutenzione: meglio di così…
- Diagnosi in fase di elaborazione, signore. - annuncia. Molto bene, dovrebbe essere tutto a posto, ma finché non mi chiamano devo impegnare il tempo in qualche modo e questo mi sembra il più produttivo. Il nuovo innesto potrebbe non interfacciarsi bene con i cablaggi, ma si direbbe che non sia il mio caso. Risponde tutto alla perfezione. - Diagnosi eseguita. - m’informa SIGMA. La o sull’oloschermo: ottimo. Nessun rigetto, configurazioni d’interfaccia presenti e attive al 100%, reazioni al di sopra della norma, qualità meccaniche della struttura intatte. Ogni tanto pure a me un po’ di fortuna. - Ehi, Bolt, ci sei ancora? - gracchia il pannello comunicazioni. - Sono qui, Yoko. Dimmi. - rispondo mettendomi la giacca. - Scusa per l’attesa. Varco 7, molo 11. Quando vuoi. Di poche parole, Yoko. Un’efficientissima giapponesina che gestisce e coordina il settore ingressi della base. - Grazie Yoko. Di’ a Butcher che i pezzi che mi voleva vendere, ho saputo, sono durati meno di lui a letto. - scherzo. Lei si fa una sghignazzata. - Riferirò. o e chiudo. - Qui Bolt, chiudo e inizio manovre di aggancio. Dico a SIGMA di armi i comandi e le ordino di occuparsi dei sistemi di rilevamento; non voglio lasciarle fare sempre tutto, altrimenti va a finire che mi arrugginisco e avendo un’attività come la mia non è proprio il caso. Comincio l’approccio cullato dalle correnti gravitazionali. La stazione sembra un enorme cono gelato, vista da lontano, ma avvicinandosi le cose cambiano radicalmente. Si cominciano a vedere le antenne; una foresta di metallo sullo scudo che copre l’intero corpo superiore dell’astronave. Poi si cominciano a distinguere i moduli, inseriti uno nell’altro, legati, saldati uno all’altro: abitativi, burocratici, lavorativi. A Butcher’s Bay c’è tutto, o quasi:
banche, assicurazioni, officine, ristoranti, furfanti, puttane e gioco d’azzardo quanto basta a un uomo adulto per trovare divertimenti e fare affari. Anche legali, a volte. “Side One” è l’ultima e l’unica rimasta delle “Cinque Sorelle”: le prime cinque grandi colonie al di fuori dell’atmosfera terrestre, un pezzo di storia che sta in orbita non si sa bene come o perché. Una grossa qualità di Butcher’s Bay è quella di essere una vera oasi di pace e tranquillità: tutti stanno al loro posto, non ci si pesta i piedi a vicenda e si guadagna bene. Tutto questo perché Butcher faceva e fa una paura fottuta: quando assunse l’incarico di gestire l’ormai vetusta “Side One” ebbe il suo bel da fare per rimettere in riga certi stronzi che volevano fare il comodo loro. Ci lasciò l’occhio sinistro, ma quelli li raccolsero col cucchiaino. Da allora, nessuno si permise più di dissentire con Butcher. A me è simpatico quell’enorme, bastardo, irlandese guercio. Sa quello che dice ed è saggio, a modo suo. Varco 7 avvistato, virare di 25°. Allineamento buono: ingresso. Sono nel tunnel che conduce agli hangar pressurizzati; guardo intorno, sfioro la cloche e la nave segue l’impercettibile movimento. Mi piace e ci riesco bene: l’Ammiraglio diceva che ce l’ho nel sangue. Sbocco tunnel: molo 11. Lì a sinistra, in fondo. Accesso; hangar ottimizzato. Bentornato a Butcher’s Bay. Esco dalla nave e vengo accolto dal familiare odore di olio, ozono e fritto. Mi stiracchio, prendo confidenza con la gravità simulata. Guardo in giro e vedo un sacco di navi in manutenzione; ne riconosco anche qualcuna, forse riuscirò a trovare qualche lavoretto redditizio. Tra il frastuono di una sega laser, sento qualcuno che urla il mio nome: è Marcel, il proprietario del lotto di moli che vanno dal 10 al 15. Si spaccia per se, ma quando impreca gli viene l’accento slavo: tipo sui generis, ma tecnico con le palle. - Mon ami, Bolt! Quelle bonne surprise tu voir ici! - esordisce, parlando a mezza bocca. Non lo fa di proposito, ma si è quasi bruciato il cervello, una volta. - Ehi, Marcel! Brutto figlio di madre nubile! Sempre in forma, eh?! - gli rispondo. Quattro chiacchiere di circostanza, anche perché è da qualche mese che non mi
faccio vivo, e poi iamo alle cose serie. Gli dico di essere ato alle colonie cinesi “ Wu Ming Maior ” e lui commenta con un sorriso storto, segno che aveva inteso cosa mi serviva. Il buon Marcel sa a cosa mi riferisco: i cinesi trattano roba strana, vecchia, talvolta utile, in ogni caso pericolosa. Butta un occhio al mio braccio sinistro e sorride. Ci mettiamo d’accordo e mi fa un prezzo d’amico: 7500 eurosol, al cambio della Borsa Interna sul Toro di Amundsen, compreso il periodo d’attracco. Una prestazione simile mi costerebbe il doppio. La condizione per il risparmio è che non può darmi la precedenza, ha già tre vascelli da seguire. In effetti, la stazione, essendo così vecchia, è attrezzata solo per il rimessaggio di mezzi molto piccoli; la mia Valetudo ci entra appena. Le navi nuove, come gli incrociatori, o anche più piccole, come le golette, al “Side One” nemmeno per sbaglio si fermano. I collegamenti sono quel che sono e tante riparazioni equivalgono tanto tempo da aspettare. - Quantifica. - gli dico. - Quattro ore scarse, con le simulazioni avanzate. - risponde, dando una bottarella allo scafo. - Fatti un giro, bevi qualcosa, compra qualche arma… - mi suggerisce, nella sua tuta un tempo blu, traboccante di chiavi inglesi. Di armi, ne ho già un bel po’. Oggi sono stranamente di buon umore. Credo che accetterò il consiglio di Marcel; me ne andrò a zonzo. Glielo comunico e lo lascio, mentre urla ordini a non so chi in una lingua che battezzo slovacco antico. Ora che ci penso, negli ultimi tempi ho giocato a mahjong in modalità solitario; poco interessante. Grande idea: vado farmi una bella partita e una bella birra ghiacciata. La giornata prende una piega sempre migliore, solo: dove trovare contemporaneamente quello che mi serve? Ovvio: da Tank Carol. Trentaquattresimo livello, zona blu, ascensore 24. Come una ninna nanna. Mentre mi avvio verso gli elevatori, osservo questo posto di frontiera, che più d’una volta m’ha salvato il culo. C’è gente di tutti i tipi, dai
disperati sotto anfetamine mutanti che cercano un aggio per dovunque, all’assicuratore che cammina rasente i muri, assolutamente terrorizzato, che cerca di capire come sia finito lì. Senza parlare di cacciatori di fortuna, ladri, capitani d’industria che si recano al casinò di loro proprietà, spacciatori e predicatori. E nonostante tutto, è un posto relativamente tranquillo, se sai muoverti. Sono stato in posti del Sistema Esterno ben peggiori, dove l’autodistruzione della nave è sempre pronta e se giri con un’arma da fuoco ti ridono pure in faccia. Qui si sta bene; basta tenere gli occhi aperti e, da qualche parte, le mani bene in vista. Ascensore 24; poca roba, un new wave punk mingherlino, che sbatte la testa in preda allo sballo, e un bestione giallo, mongolo suppongo , che occupa un quarto dello spazio. Mi do un’occhiata, quando le porte si chiudono e si trasformano in un rudimentale specchio; dopo tanto tempo, ancora non mi piace completamente quello che vedo. La testa rasata, la barba incolta; noto stanchezza nei miei occhi. Sognavo ben altro per la mia esistenza ai tempi dell’Accademia. Respiro silenziosamente, torno nel personaggio. Trentaquattresimo: la mia fermata. Lascio che l’ascensore si porti via le mie paranoie e mi dirigo a destra, verso l’ingresso della zona blu. Come al solito, faccio cenno a Vlatko, la guardia, e lui risponde. Molto forte, per essere un terrestre. Vengo risucchiato dalla zona: un tipo vorrebbe vendermi una scimmia albina, una battona mi offre i suoi servigi, un cane marrone vorrebbe farsi la mia gamba. Appollaiato su un bidone, un tipo fuori di testa istruisce le folle su come salvarsi l’anima tramite l’adorazione delle sue parti intime. Sempre varia, Butcher’s Bay. Non c’è quasi traccia della AXIS; cosa rara con i tempi che corrono. Quel nano pazzo di Locus è l’eminenza grigia del Sistema Interno, ma al Side One, la sua influenza è decisamente limitata. Dopo che ho separato due che volevano pestare un terzo e mi stavano tra i piedi, mi appare la bettola di Tank Carol. Non conosco il suo vero nome, ma è una donna fantastica e quando sono qui mi adotta praticamente. Qualche anno fa cercarono di rapinarla, tre scoppiati di aggio. Sono intervenuto e da allora mi vuole un gran bene. Credo che quei tizi siano stati riati pure da Butcher, perciò per qualche tempo non potranno raccontare la loro versione della vicenda… La chiamano Tank perché ha perso le gambe e non avendo i soldi per delle protesi all’avanguardia, s’è fatta accoppiare a un piccolo carrello cingolato ad alta mobilità. È una delle poche donne che si cambia l’olio da sola. Ha un mazzo di capelli biondi e peserà sui cento chili, ma riesce sempre a strapparmi una
risata. Solo da lei riesco a trovare una birra come si deve; quelle schifezze multisensoriali non riesco a farmele andare giù. - Bolt! Piccolo! Sei arrivato! Vieni ad abbracciarmi! - il suo tono di voce è come un allarme antincendio, l’avrei sentita anche se fossi stato sordo. Eseguo e mi siedo al bancone. - Vedo che finalmente sei ata alle ruote… - dico, osservando che i cingoli sono scomparsi e ha delle ruote artigliate nuove di zecca. - Sono più agile e ne guadagno in velocità. - replica - Non si mai, qualche furbone vuole darsi senza pagare! Ridiamo; buona vecchia Carol. Mi porge la birra, con un filo di schiuma e me la lascia gustare. Le chiedo se c’è qualcuno che ha voglia di giocare a mahjong e mi risponde che è ancora troppo presto, i primi giocatori arriveranno tra un paio d’ore. Pazienza: mi scolerò qualche birra e farò un giro di chiamate. Per primo, quell’invertebrato di Manuel; mi deve 5000 pezzi. Mi rabbuio e Carol è come se leggesse nel pensiero. - Manuel l’ho visto meno di un’ora fa, che saliva a parlare con Butcher. Mitica Tank! La ringrazio e le dico che ritorno subito, il tempo di farmi ridare i soldi. Mi fiondo verso l’ascensore che sale all’ufficio di Butcher e aspetto. Non è tanto per i soldi, non è nemmeno una grossa cifra, quanto per il fatto che quella testa di cazzo era convinto di riuscire a fregarmi. Lo attendo all’atrio degli elevatori solo perché non voglio fare casino nell’ufficio del grande capo, altrimenti chi lo sente dopo. Torno al bar dopo un quarto d’ora con 7500 eurosol in più (ci pago giusto Marcel), Manuel se n’è andato con due denti di meno. Appena mi vede ricomparire, Tank spilla un’altra birra. Tra un racconto e un altro, a un’ora. Un paio di tizi che conoscono si fermano e beviamo insieme e a un’altra ora. La sala comincia ad animarsi, è il momento di una partita. Ho voglia di giocare con persone che non conosco e mi accomodo a un tavolo defilato. Due ragazzini sui quindici anni, forse meno, rossi di capelli, fratello e sorella, credo, e un vecchio con le sopracciglia cespugliose, bulbi oculari artificiali impiantanti in
qualche vicolo. Me lo fanno a strisce, sono dei veri e propri mostri. Torno mestamente da Carol e le chiedo l’ennesima birra. Mentre mi rinfresco la gola, mi sorge il tremendo dubbio che abbia giocato con dei siamesi. Sono un prodotto della scarsa schermatura di alcuni cilindri di O’Neill, costruiti solo per riciclare denaro sporco. Una mente unica per corpi separati; la maggior parte delle volte non superano i sette anni, ma le rare volte che sopravvivono, sviluppano una sorta di loro linguaggio, indecifrabile, che viene comunemente chiamato “telepatia”. E stai a vedere che l’anziano è il nonno che si piglia la parte, scarrozzandoli in giro. Beh, siamesi o no, vado a sincerarmi della mia teoria e trovo il tavolo bello che disabitato. Così imparo a lasciarmi trasportare dal buonumore. Meno male che Manuel ha saldato, altrimenti stavo con le pezze. Vedo Carol che sogghigna. - Dai, piccolo, non prendertela. Questo giro lo offre la casa. Si ostina a chiamarmi “piccolo”; sarà per l’età e che si è assunta un ruolo semi materno. La ringrazio e ci bevo su. Controllo l’ora, il sedicente se dovrebbe aver terminato. - Ciao Carol. Me la squaglio. Marcel mi aspetta. - le annuncio. Mi abbraccia e mi da una pacca sul petto: ha la mano pesante! Quasi mi mozza il fiato. - In gamba, piccolo. E ricorda: viaggiare sempre preparati. - risponde, da buon surrogato di mamma. - Salutami Butcher, quando lo vedi. - le raccomando. Percorro il cammino all’inverso, cercando con lo sguardo qualche buona occasione. Una bacheca olografica scorre gli annunci di ricercati, evasi, pirati e quant’altro. La taglia su Shark aumenta di giorno in giorno, nella speranza che qualcuno canti… Non lo prenderanno mai, garantito. Marcel mi attende, pulendosi le mani lerce con un cencio ancora più lurido. - Allora? - chiedo.
- Mon cher, tutto in ordine! - inizia bello allegro - Le modifiche che hanno apportato i cinesi sono buone, fatte a modo e pulite. Sono sorpreso; di solito non fanno interventi così fini. Devi avere grossa considerazione, lì da loro. Hai capito com’è sveglio, l’uomo. - Qualche favore che mi hanno restituito… - rimango sul vago. - Comunque, - riprende - SIGMA è al massimo e le linee ridondanti sono protette. La tua nave è un vero gioiello.- finisce con il sorriso ambiguo, sempre presente. È vero: è come e più di una casa. Ci tengo che sia sempre in ottima forma. Pago, ci diamo una stretta di mano e m’imbarco. È stata una piacevole parentesi, me la sono goduta, ma adesso è ora di muoversi. Dopo l’ultimo incarico, ne vorrei uno leggermente meno pericoloso, magari anche meno pagato. Ho questo piccolo sogno nel cassetto che è una bella villa su Titano, dotata di tutti i comfort, che si avvicina. Ho un bel gruzzolo da parte e se per una volta mi faccio ingaggiare per qualcosa che non faccia esplodere lune fantasma non ci vedo nulla di male. È un’altra nocciolina ammucchiata, altro liquido in cassa… Ma chi prendo in giro: mi manca un milione di eurosol per essere ai piedi della salita… - SIGMA: rilascio martinetti magnetici, potenza 5%. - Eseguito, signore. - Comandi manuali. Yoko, sono Bolt? Mi copi? - Ti copio, Bolt. In perfetto orario, come sempre. Avanzo nel tunnel illuminato da antichi neon azzurri, imitazioni malriuscite delle stelle che tra poco rivedrò. Sorrido. - Alla prossima. Stammi bene. - Ci vediamo.- risponde, troppo fredda anche per lei. Lascio RMQ-01con le pive nel sacco: nessun lavoro interessante, però sono sicuro che la nave è pronta in qualunque momento.
- Riproduzione file 1404, SIGMA.- Eseguito, signore.Le note di “Sweet home Chicago” mi accompagneranno giusto il tempo di arrivare su Marte. Non avendo cavato un ragno dal buco a Butcher’s Bay, la prossima tappa è necessariamente… - Signore: comunicazione. - m’informa l’elaboratore. - Sullo schermo. - Solo traccia audio, signore. Interessante: qualcuno non vuole farsi vedere in faccia. - Rintraccia il segnale. - ordino. Non sono facile da trovare sulle frequenze normali, ma se ci è riuscito merita la mia attenzione. - Signor Bolt? - dice una voce camuffata elettronicamente. - Sono io. Parla. - taglio corto e manco di cortesia, ma un brivido mi ha appena attraversato la nuca. - Ho un affare da proporle. - Chi sei? - domando, ignorando quanto ha detto. - I nomi sono fatti se ci si deve incontrare e non è il nostro caso. - risponde lui, filosoficamente. Decido di assecondare la recita, tanto non ho nulla da perdere. - Sentiamo. - Una missione di trasporto. Guarda guarda, giusto quello che avevo sperato, quello che aspettavo, ma è troppo presto per cantare vittoria.
- Deve andare alla Yudecca e prelevare una capsula criogenica . - prosegue Dopo di che ritirerà un mini - container su Europa. Infine, porterà tutto a mezza u.a. da Plutone. Capsula criogenica eh?! Il carcere al Polo Nord di Marte; l’esperienza di detenzione definitiva. In quanto a Europa, solo brutti ricordi; se posso, evito di arci anche solo vicino. Domando se ha a che fare con il Trattato Eissmann e mi risponde affermativamente. La mia attenzione si rivolge al compenso, perché ho una sensazione strana; se il prezzo non è allettante, il gioco non vale la candela. - Ammesso e non concesso che accetti, quanto pagheresti? - mi documento dal misterioso interlocutore. - Quattro milioni di eurosol. La musica si ferma a mezz’aria e mi sembra di toccare le note… Per un attimo mi si blocca il respiro e scruto a bocca aperta la radio: con quella montagna di soldi, mi ritiro, compro una maledettissima villa su Titano e mando tutti a fare in culo! - Deve essere una persona molto importante se rientra nel Trattato. - aggiungo, una volta ripreso il controllo. - Un eroe. - fa lui, con un piccola incrinatura nel tono di voce. Ok, me la devo giocare bene, questa partita. - Sono interessato. Le mie condizioni sono: metà del compenso adesso e metà a consegna avvenuta. Prendere o lasciare. - Così vediamo con chi ho a che fare. - Non insulti la mia intelligenza, la prego. - mugugna Mister X - Le verrà dato un anticipo di centomila eurosol una volta preso in consegna la capsula, duecentocinquantamila al recupero del mini - container e il resto a lavoro completato. Queste sono le mie condizioni: prendere o lasciare. È furbo: con due milioni su un conto cifrato, scomparirei all’istante e lui lo sa. Se rifiuto, troverà di sicuro qualche altro pazzo che ci proverà per un decimo o per un centesimo dell’anticipo.
- Accetto. - rispondo con qualche riserva. - Ottimo. Le mando le specifiche. Addio. - Ti invio i dati per effettuare il trasferimento dei soldi. Se non li vedo accreditati dopo un’ora dal prelievo del tizio, mollo tutto nell’orbita di Nettuno. Hai capito? Mi sono spiegato? - Perfettamente. Non ci sarà alcun problema. Buona fortuna. “Sì, sì…” penso “buona fortuna un bel paio di…” - SIGMA, scarica le specifiche e analizza. Hai individuato la fonte? - Impossibile eseguire, signore. Segnale sottoposto a interferenza quantistica. Sorgente irrintracciabile. Bene, non c’è che dire. Si parte veramente bene. Studio le informazioni che SIGMA proietta sul mio ololed, con tanto di conclusioni strategiche. Il computer la etichetta come “impresa ad alto rischio”; se avessi avuto un socio assennato, forse mi avrebbe convinto a tirarmi da parte. Ecco perché solo basta e avanza. Non stavolta, però. Questa storia è molto grossa, me lo sento; potrebbe farmi comodo una mano, quantomeno per governare la nave e gestire qualche avaria software. Mi serve un rinforzo per questo lavoro; un analista di sistemi. Un problema che posso risolvere in maniera semplice, appena arrivato sul pianeta abbandonato, nello stesso posto dove sarei andato se non avessi ricevuto la chiamata. Seguo la mia prassi: elencare gli inconvenienti peggiori che mi possono capitare. Uno: fattore economico. Se il committente è pronto a sborsare una somma del genere, con ogni probabilità, l’affare renderà 100 volte tanto. Una volta trapelata la notizia, ci potrebbe essere molta e agguerrita concorrenza. Ne conosco alcuni pronti ad abbattermi, soprattutto per piacere, e rubare il carico chiedendo un riscatto o smerciandolo per conto loro. Due: fattore geografico. Dalla fine della guerra, Marte non è un posticino tranquillo. Troppo vicino al Limite, troppe pattuglie, troppe mine abbandonate nei dintorni. Solo in pochi atterrano e decollano dalle pianure rosse. Nel malaugurato caso riprendessero i combattimenti, il clou sarebbe concentrato esattamente lì e meglio non stare nei paraggi quando fregate e corazzate
cominciano a sparare. Tre : fattore umano. Questo punto non manca mai nella mia lista. Lo dico per esperienza: quando ci sono di mezzo le persone, ovvero sempre, la situazione può inaspettatamente precipitare. È un dato di fatto: l’uomo è imprevedibile. Credo possano bastare, anche se me ne vengono in mente come minimo un’altra dozzina. Solo questo viaggio e mi chiamo fuori, l’ultimo sforzo; me lo ripeterò fino alla nausea. - SIGMA: impostare accelerazione - c. Calcolare rotta per la fascia equatoriale di Marte, avvicinamento di copertura. Attendo una manciata di secondi e mi accomodo sulla mia poltrona. - Eseguito, signore. - rassicurante intelligenza artificiale. - Riproduzione file: 6990. Yoko Kanno e i Seatbelts, ”Tank”; acid jazz giapponese, ottimo per chiarirsi le idee. Mi siedo un attimo e rifletto prima di dare l’ordine a SIGMA, motivato da uno stupendo ritmo e da melodie di sax e tromba. Quel tizio mi ha promesso una vera barca di soldi, devo essere così bravo da poterli spendere. Osservo l’immensità dello spazio e astri lontanissimi, forse già morti, che ancora irradiano luce. Una luce che non viene da dove, ma da quando. Mi mancherà tutto questo, ma è l’occasione che aspettavo da una vita e non me la lascerò scappare. Troverò un bravo analista, lo pagherò, farò la consegna e me ne andrò per la mia strada. Che cosa può andare storto? Sarà una eggiata di salute. Ripetendolo altre centocinquantamila volte me ne convincerò anche io. Ve bene, ho riflettuto anche troppo. Meglio partire o resterò qui a rimuginare per ore. Cinture allacciate, musica adatta, palle d’acciaio: sono pronto. - Tra cinque secondi: go. - impartisco - Ah, SIGMA: controllo sistemi offensivi.
Si va al Blue Bell Inn. Nel punto di librazione L1 Terra-Sole, è collocato un gruppo di tori di Stanford chiamato “Sunshine” e la sua funzione è la villeggiatura. Una colonia in particolare, la “Caesar”, è la sede vacanziera dei pezzi più grossi del Sistema Interno: perlopiù burattini nelle rapaci mani di un unico uomo. Quest’uomo si trovava nella sua lussuosa villa, situata sulla riva est del lago Otium, la riserva d’acqua dell’avamposto. Parchi, palestre, centri commerciali, droghe sperimentali, combattimenti clandestini coesistevano e si completavano in un delizioso scorcio bucolico frutto di alta ingegneria aerospaziale ed architettura ecologica, una ciambella di milleseicentodiciotto metri di raggio, protetta da una copertura di specchi Chevron. La rotazione di un giro al minuto sull’asse centrale assicurava la gravità artificiale, simile a quella terrestre. La magnifica baita constava di tre piani e mansarda, tutta di legno originale fatto venire appositamente dai boschi della Terra. L’uomo si trovava nella sala da bagno padronale, immerso nel dolce massaggio infrasonico della vasca. Aveva quasi cento anni, ma ne dimostrava la metà grazie alle recenti chirurgie genetiche. Le bolle si alzavano pigre dalla superficie tiepida, gli ampi specchi erano appannati, pronti a ricevere qualche stupida scritta. L’uomo diede un comando vocale e il bordo del sanitario fece uscire un sottile braccio idraulico con all’estremità un piccolo ago. L’arto si avvicinò al collo dell’uomo e in un attimo aveva svolto il suo dovere: aveva iniettato degli ormoni artificiali per tendere ancora di più la pelle. Chi bello vuol apparire… Pensava al massaggio che lo attendeva nella stanza adiacente praticato da un sensuale professionista birmano, non da una fredda macchina e sorrise. Si alzò in una cascata di goccioline, scuotendo i capelli posticci però perfetti sin nel minimo particolare. Si tastò il petto, sentendo pulsare il cuore e ripensò al giovane profugo samoano che gliel’aveva donato, non troppo volontariamente. Un piacevole getto tiepido lo asciugò, calzò le morbide pantofole e si mise l’accappatoio dirigendosi verso la sala massaggi. Il comunicatore a lunga distanza lo bloccò. Avrebbe preferito non rispondere nonostante la chiamata provenisse dalla sede centrale, dalla Luna, ma alla fine cedette e rispose. Era la sua segretaria. - Spero lei abbia un buon motivo per disturbarmi. - disse seccato l’uomo.
- Le assicuro che ho un validissimo motivo per disturbarla. - replicò la donna, riprodotta con fasci laser in alta risoluzione. - La capsula è scomparsa. - disse senza mezzi termini e sbrigativamente. Per un istante, l’uomo non diede alcun segno di aver capito o quantomeno ascoltato. - Può ripetere? - chiese, aguzzando l’udito. - La capsula è scomparsa, non si trova più. - insistette lei. L’uomo sbarrò gli occhi e sollevò il labbro superiore, digrignando i denti. - Com’è possibile! - urlò l’uomo, adirato. - Stiamo indagando. Forse uno scambio di deposito per via del Trattato, probabilmente è stata trafugata in un aggio di mani. - rispose lei con calma. - Seguirò la vicenda personalmente. - riprese l’uomo, ridandosi un tono - Sarò alla sede appena possibile. Dica all’avvocato Lefinne che avrò bisogno di lui e mi faccia trovare un rapporto accurato nel mio ufficio. - Sissignore. - disse lei, troncando la comunicazione. L’uomo rimase impalato a riflettere e concluse che la situazione era inaccettabile. Si tolse con nervosismo l’accappatoio e lo scagliò a terra, avviandosi verso il guardaroba. Qualcuno cercava di mettergli i bastoni fra le ruote, proprio adesso. Si vestì, uscì frettolosamente e salì sulla vettura sempre pronta nel vialetto. “Inaccettabile, assolutamente inaccettabile.” pensò sulla strada per lo spazioporto.
Il sogno comincia sempre allo stesso modo: bianco, bianco accecante. Il primo senso stimolato è la vista, di seguito l’udito. Sente ansimare, un respiro pesante, un rantolo di paura. Rimbombante. Un casco, la testa dentro un casco. Una tuta spaziale. La visiera è sporca, il cristallo ha delle crepe. L’olfatto. Profumo asettico, elettricità statica, terrore. Vista di nuovo: caos ondeggiante, firmamento a tratti, un uomo che si sporge, un costone. Che succede? Esplosioni
nell’atmosfera, sembrano. Tatto: plastica e leghe superleggere, un sottile strato di sudore bagna la pelle. Gusto: ferro, emoglobina. Sangue. La lingua, l’ho morsa. Equilibrio: senso di vuoto, un braccio libero l’altro vincolato. Guardo giù: ancora bianco, spigoloso, letale. - Lasciami… - NO! Non ti lascio! - Lascia la presa, amico mio… Un urlo straziante, uno spasmo nervoso, la tuta non regge, la caduta è infinita. Silenzio. Buio. Una voce. Sconosciuta. Amica. Lontanissima. Da un’altra dimensione. Mi svela un segreto, un grande segreto. Buio. Freddo. Immaturo. La sento di nuovo, diversa. Mi dice che sarà più difficile e io non mi tiro indietro. Non da solo, non più. Qualcun altro sa. L’addestramento proseguirà in un altro posto. La scena cambia, le immagini scorrono veloci. Suo padre adottivo, con i baffoni e gli occhi intelligenti. Come ci riesci? Lo vedo. Semplicemente, lo vedi? Lo vedo e basta. Sono strana.
Piccola mia, sei una benedizione. Avanti veloce. Una nave senza contorni, un fantasma dello spazio. Uomini forti e onesti, ribelli. Sono loro la speranza del futuro. Ti credo. Ti aiuterò. Sarei persa senza di te. Un uomo. Un uomo solo che cammina nel deserto. È avvolto dagli stracci e dalla polvere rossa. I suoi occhi. Una fredda luce, un gelido riverbero d’acciaio. Il braccio sinistro. D’argento. Avanti veloce. Un ragazzo, un giovane uomo. Allegro, sveglio, carino. In una foto scolorita. In posa, come se abbracciasse qualcuno, ma è da solo. Nel futuro, cattivo e segnato in volto. Otterrà la sua vittoria in un'altra epoca e non potrà gioirne. Indietro veloce. Una forma scura, strisce gialle e nere. Freddo. Pensieri liberi. Io vedo ciò che tu vedi. Tu sai ciò che io so. Sono incompleto, ma non per molto ancora. Andrà tutto bene, abbi fiducia in me. Sì. Cambio prospettiva. Sentieri di luce. Milioni, miliardi di ramificazioni. Eppure un particolare nodo l’attrae. Un globo di luce densa, abbacinante. Osserva indietro. Fin lì, il cammino è rettilineo, tracciato con fatica. Deve vedere. A un suo lieve gesto, la bolla risponde e si schiude. L’uomo ha il braccio d’argento proteso in avanti, il giovane è a terra, svenuto. Una terza persona assiste impotente.
È qui che dovrà finire? Avanti veloce. La volta celeste è uno spettacolo per gli occhi. Ai suoi confini, qualcosa sta accadendo. Qualcosa di fondamentale, il cambio di paradigma. Sente la sua stessa essenza fluire dalle mani, mescolandosi a centinaia di migliaia di consapevolezze, di coscienze. La materia è ai suoi ordini. Che il cielo diventi d’avorio. Un’onda eburnea si muove a una velocità prossima a quella della luce, avvolgendo pianeti e stelle, creando una nuova realtà. All’improvviso, il cielo s’infrange e crolla su sé stesso. Non è una certezza, è una possibilità.
A questo punto, si svegliò. Respirava velocemente, seduta sul letto. Andò a sciacquarsi il viso. Era scossa: il sogno si era ripetuto uguale per anni. Pochi mesi fa, alcune diramazioni erano diventate imperscrutabili, inavvicinabili. Aveva agito, tradendo coloro che si erano fidati. Rischiava la vita di molte persone inutilmente, poiché le visioni che l’avevano guidata si erano rivelate mere probabilità. Camminò sulla moquette e si adagiò alla paratia, la fronte vicinissima all’oblò. Tutto appariva quieto, luce soffusa filtrava dall’esterno. Saturno campeggiava nell’angolo in basso a destra della visuale, silenzioso testimone. Un brivido la percorse, il pensiero che da lei dipendevano molti universi le si schiantò sulle spalle come un maglio. Avrebbe resistito, doveva farlo. Sorrise con amarezza quando notò l’ironia del destino. La sopravvivenza dell’umanità era legata ad una navetta chiamata Valetudo ed al suo capitano.
Bulls on Parade
(Rage Against the Machine, 1996)
La Cupola D ha un che di rassicurante, di familiare. Non appena compare sull’ololed di navigazione, già mi sento a casa. Calcolo la rotta per casa mia, non è fantastico?! Mi sposto all’oblò e la guardo mentre si avvicina costante, in perfetto allineamento. La corazzata “Solaris” , con tutta la sua immensa mole e le sue dimensioni mastodontiche è adagiata sul fianco di una collina che ripara parzialmente la colonia. Si vede che ha combattuto e che ha subito danni, ma il reattore è intatto e le linee optroniche principali funzionano. È lei il cuore di Marte. Poi c’è l’anima del pianeta, che è la Cupola. Ha un raggio di circa due chilometri e mezzo ed è ricoperta da un tensostruttura in lega di titanio immerso in polimeri, con finestre filtranti di cristalli al tungsteno. Vi si accede da tre aggi stagni, distanti 120° e da un camminamento che arriva da due piazzole di atterraggio, piccoli emisferi di scalo, lontane 200 metri dal corpo principale e altri 200 fra loro: ogni piazzola, dieci navi. Un perfetto esempio di OSIRIS-23. La Cupola D e la corazzata “Solaris” sono note nel Sistema come “Blue Bell Inn”, la colonia fuorilegge. Mal tollerata, ai margini di ogni società civile, un recinto di mascalzoni imbizzarriti eppure necessaria per molti aspetti, tanto alle grandi multinazionali interplanetarie, come la AXIS, tanto ai disadattati come me, con tutto quello che c’è in mezzo. “Blue Bell Inn” è, in realtà, il nome del bar all’interno dell’avamposto, di proprietà del comandante Samuel “Buff” Blue, ma da quando è morto è Argento a gestirlo. Mi domando… - Sear! I pensieri del ragazzo vennero interrotti dall’urlo del suo datore di lavoro, Bullet. Un uomo alto e muscoloso, con i capelli grigi ed il pizzetto nero, sempre allegro,
severo se e quando necessario. Stavano rientrando da una missione di scorta ad una nave-cargo diretta su Callisto. Un lavoro tranquillo, soprattutto perché William T. Gibson, alias Bullet, da quelle parti aveva la sue conoscenze. Era stato ingaggiato apposta dalla “Solidus Fulgor”, una ditta produttrice di sperimentali schermi a induzione magnetica, affinché i suoi macchinari arrivassero sani e salvi sul satellite gioviano: di tutto riposo. Nella sua ciurma c’era un nuovo elemento, un analista di sistemi molto promettente, uno spilungone dalla lingua lunga e lo sguardo furbo. Molto veloce, dovette ammettere Bullet, dopo averlo battezzato fuori dal bar. - Sei sveglio, ragazzo? - Certo, boss! Per chi m’hai preso? Parametri ottimali, collimazione con la darsena 1 raggiunta: quando vuoi. - rispose fieramente Sear. Gli armieri, Toshi e Saul, s’erano veramente rotti durante tutto il viaggio e non vedevano l’ora di sgranchirsi le gambe; Sear sembrava impaziente e inquieto e anche Bullet aveva voglia di farsi gli affari suoi. - Comincio la discesa. - annunciò il capitano. Durante la manovra si trovò a pensare al pivello che s’era portato dietro. Bazzicava il Blue Bell da qualche tempo, si stava facendo conoscere per alcune riparazioni software molto difficili e per dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, ma non lo faceva con cattiveria o malizia. Non aveva intenzione di offendere; era solo sbadato e leggero, concluse Bullet. Dietro consiglio di Argento, che era uno che la sapeva più lunga di quanto non fe vedere, decise di metterlo all’esame: il battesimo del fuoco del Blue Bell Inn. Non appena lo trovò al locale, lo sfidò, rispettando appieno lo spirito e la tradizione. - Allora, te la senti? - gli domandò Bullet, con aria di sufficienza. Il ragazzo saltò su dalla sedia, si stiracchiò e gli rispose con un sorriso disarmante. - T’aspetto fuori, boss. Spavaldo, pensò Gibson. Credette che un colpo ben assestato avrebbe chiuso il match e si avviò, massaggiandosi le mani. Valutazione clamorosamente sbagliata; il giovanotto era bello tosto e tirava certe secche con le gambe che era
meglio non incontrare in punti sensibili. Spiazzato all’inizio dalla prestazione, Bullet in breve gli prese le misure e trovò il suo punto debole: la disciplina. Forte era forte, ma non aveva ancora appreso che una battaglia si vince con la strategia, non con attacchi kamikaze. Quindi ritenne suo preciso dovere insegnargli che non era una questione di potenza, era una questione di grazia. E il pivello perse e perse di brutto, ma si era battuto bene, lealmente e duramente; aveva messo in difficoltà, anche se per un momento, uno dei più forti e non era impresa da poco. Bullet ritenne l’esordio estremamente positivo, mentre gli tornava in mente la sua d’iniziazione, e gli diede il soprannome (poiché perdente) con cui sarebbe per sempre stato conosciuto in quel porto franco, quello che probabilmente sarebbe diventato il suo vero nome: Sear. Rimessosi in sesto, l’aveva arruolato per testarlo come membro d’equipaggio e anche lì si era comportato molto bene. Era un gran chiacchierone, con Toshi e Saul ci faceva comunella, ma sapeva fare il suo lavoro, questo era da riconoscere. Il capitano Bullet, però, di gente ne aveva vista e aveva sviluppato una specie di sesto senso: notò che il giovane aveva un luce negli occhi che non si spegneva mai, qualcosa che lo teneva costantemente vivo. È un cercatore, si disse Bullet; un uomo che è sempre in viaggio e non gli basta mai quello che sa, un assetato di esperienze. Pregio e difetto insieme. - Siamo a milleduecento metri sulla verticale di entrata, Bullet. - avvisò l’analista. - Lo vedo ragazzo. Scansione perimetrica buona. - confermò il capitano. “Si rispecchia nel suo stile di combattimento: ottima muay thai, ma colpisce come se non ci fosse un domani: ha tanta energia, dovrebbe imparare a controllarla. Allora diventerebbe davvero qualcuno.” - Carrello fuori. Taratura atterraggio eseguita: 4.15 metri. Attenuatori attivati e… Bentornati al Blue Bell Inn!! - esclamò tutto contento il ragazzo.
- Ehi, ehi. Guardate cos’ha portato il gatto, oggi. - disse Toshi indicando un nave attraccata poco lontana. - Non mi dire, è tornato… - gli fece eco Saul, con la sua erre strana. - È dalla sua ultima scorribanda che non si vede. Sarà al bar, quello scimmione. -
concluse Bullet, aprendo il portello. - Di chi parlate ragazzi? - domandò Sear, mentre procedevano verso il corridoio d’ingresso. - Di Bolt. Quella è la Valetudo. - rispose Gibson, imboccando il aggio. La navetta era anonima; grigio sporco, le finestre d’osservazione a specchio, a prua sembrava ci fosse stata avvitata una targa dati i buchi sullo scafo. Bullet si accorse che l’anima irrequieta del ragazzo si agitava. Da quelle poche parole, poco più che due nomi, Sear si sentiva irresistibilmente attirato. Vai a sapere perché. Coprirono in breve la distanza che li separava dalla città di guarnigione e la Cupola D li accolse in tutto il suo splendore. Un termine di paragone potrebbe essere bazar, ma sarebbe riduttivo, un eufemismo quasi. Dappertutto, qualcuno vendeva qualcosa. Riparazioni armi? Solo da scegliere; gira l’angolo e trovi tre officine dedicate. Un problema ad un impianto cocleare? Prosegui dritto e sali al primo livello; il dottor McOwen riceve su appuntamento, ma se sei fortunato… Questo discorso si applica a qualsiasi idea possa venire in mente: se nel Sistema Solare cerchi qualcosa, specialmente illegale, la troverai sicuramente su Marte, al Blue Bell Inn. Una cittadina completamente dedita al commercio, al contrabbando, alla destabilizzazione per certi versi; schierata, livello dopo livello, in un confronto constante con il modo di vivere normalmente accettato. È pericolosa, è violenta, non si va di certo a visitarla e c’è più d’uno che riesce comunque a chiamarla casa. Gli addetti alle armi salutarono e si diressero in direzioni opposte: Toshi procedette verso Paradise Island, il quartiere che rasentava il lato est della struttura: aveva un po’ di fregole da togliersi. Saul aveva un appuntamento poco chiaro con un emissario delle Coral Industries; una consulenza su dei nuovi proiettili auto-propulsivi, ma non disse niente di illuminante. Prototipi da spazio profondo: esistevano pochi gruppi fissi, più spesso gli equipaggi venivano ingaggiati dal proprietario di una nave che doveva svolgere un “lavoro”, free-lance di ogni specie e per ogni specializzazione. - Bene, Sear. Ho da fare pure io: vado dal Banchiere, per vedere come sto messo. Vuoi venire? - domandò Gibson. Sapeva già cosa gli avrebbe risposto.
- Boss, pagare m’hai pagato. Mi sono divertito e spero di lavorare ancora con te, ma credo che me ne andrò al bar a bere qualcosa. - rispose il ragazzo con un lampo ancora più accentuato in fondo alle retine. Bullet lo guardò ed annuì; il suo spirito travolge la sua volontà, pensò. Gli diede un pacca sulla spalla e gli consigliò di rimediare almeno un taser, per non girare completamente disarmato. - E a che mi serve? - rispose - Piaccio a tutti! - affermò il giovane, sprizzando gioia. E se ne andò così. Bullet lo osservò con mezzo sorriso e pensò, anzi si fece fermamente convinto, che quel ragazzo i guai se li andava a cercare.
Sono atterrato meno di un’ora fa, a metà di un assolo di Tom Morello: quel brano, non so perché, mi fa sempre pensare a questo posto. In un qualche modo, riesce a descrivere un’atmosfera che, qui dentro, è come l’aria riciclata che si respira. Dopo aver lasciato la Valetudo nella darsena 1, sono andato direttamente al Blue Bell Inn, la bettola dei pirati, dal mio amico Harlan. È situato quasi al centro geometrico della colonia, l’ombelico del Sistema, dove, prima o poi, ci i. È un edificio a due piani, con il livello superiore occupato da alcune stanze che possono essere affittate; un tempo succedeva più spesso di fermarsi a riposare, adesso abbiamo tutti una gran fretta. Al pianterreno c’è il bar, quello che una volta, fino alla sua dipartita, è stato il regno del comandante Blue. Da quando è ato a miglior vita, se ne occupa Harlan Argento, il suo primo ufficiale quand’erano imbarcati sulla Solaris: in tutta sincerità, non è cambiato proprio un bel niente. È una sicurezza, quando si è sperduti nel cosmo nero e vuoto. Ci trovavi i peggiori ed i migliori del giro e ce li continui a trovare. Per questo mi sono diretto qui, per scovare il mio analista. Il locale è affollato, c’è un’aria di festa, anche se non so il motivo, e Argento sembra una macchina, servendo al bancone e sistemando le ordinazioni sui vassoi delle cameriere. Ai tempi di Buff, non c’erano le ragazze a portare da bere; ci stava lui, sempre a lucidare il bancone, sempre a sfotterti; a rincuorarti, se ne avevi bisogno, a prenderti a pedate nel culo, se le meritavi. Argento ha un altro modo di gestire gli affari, altrettanto redditizio. È un tipo a posto e lo considero un amico, uno dei pochi a cui volterei le spalle. Inoltre, ha un cervello che funziona e ne ha ate quasi quanto me. Non appena si fa un attimo di quiete, mi si para
davanti. - Ciao, gorilla. - Caro vecchio Harlan. Rispondo a tono. - Ciao pelapatate. Che si dice? - Solita vita, solita storia. - continua tranquillo, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Le lenti sono gialle e non sono occhiali da vista, servono a scannerizzare gli avventori, al fine di conoscere numero e tipo di armi che hanno addosso e anche all’interno. Parecchi anni fa, si entrava completamente puliti, le armi andavano lasciate sulla nave, ma cambiano i tempi e cambiano le abitudini. Glieli ha costruiti Jamal, un transmetropolitano bianco che segue il rasta fari. Ha una piantagione idroponica di marijuana selezionata che ha un discreto successo. Mi porge una birra in bottiglia dall’etichetta 3-D e poggia i gomiti sul bancone; aspetta che parli. - Mi serve un analista. - dico, bevendo un sorso. Batte la mano sul simil-legno e mi canzona. - Era ora che ti decidessi a non fare tutto da solo! Cos’è, SIGMA è entrata in sciopero? - Divertente… Ho un buon lavoro per le mani, ma potenzialmente rischioso. Un aiuto potrebbe rivelarsi molto comodo. - gli rispondo. Mi guarda con le palpebre a metà. - Potenzialmente rischioso, eh? Specifiche e dettagli? - ha fiuto, il successore di Blue. - Trasporto. Una capsula Eissmann e un mini-container su Europa. - rispondo stringato. - Va bene, pezzo di misantropo che non sei altro. Tieniti pure i tuoi segreti. rinfaccia, asciugando un bicchiere. Maledetto mezzo sangue portoghese. - Se non so nulla, non posso mentire, in caso qualcuno domandasse. - sostengo, dimezzando la birra.
- E qui mi sei piaciuto! - esclama - Lavoro di squadra, si chiama. Vuoi che te lo annoto? - e fa per prendere qualcosa con cui scrivere; lo brucio con gli occhi. - Ok, ok la pianto. Deve essere davvero importante, questo tizio che devi trasportare… Lascia cadere lì la frase, senza completarla. Con lui era sempre così; riusciva a capire dove volevi andare a parare prima di te, a momenti. Alludeva al fatto che il Trattato era una farsa e non valeva la luce impiegata a registrarlo. Dentro quel contenitore avrebbe potuto esserci qualunque cosa, tranne un cadavere. Mi sta mettendo in guardia. - Un eroe, mi hanno detto. - concludo, birra e discorso. Non aggiunge nulla, si limita ad alzare un sopracciglio e fare uno “mmmmh” che la metà bastava. Si frega le mani e comincia con l’elenco. - Ti dico subito che lo Svedese non è disponibile. Brutta notizia: Gripen è il migliore. Esprimo il mio pensiero con un cenno della testa. - Lo so, lo so; è il migliore. Fammi pensare, chi ho visto di recente? Ah, Rico! insiste. - Ma chi, Rico il cuor di leone? Quello è un pappamolla che non potrà mai starmi dietro… - certe volte credo che gli piaccia vedermi fare gestacci. - Concordo. Errore mio. Che ne pensi di Calobis? Se puoi aspettare, tornerà al più tardi domani…- Mi serve adesso, dannato venditore di birra annacquata. - scherzo, ma nemmeno troppo. - Scimmia a pelo raso. Mary TrePollici. - risponde additandomi. - Troppi soldi. Per me deve morire pazza. -
Argento appoggia tutt’e due le mani sul bancone, a capo chino, come stremato. Che teatrante… - Che ne dici di Titov? - spara nel mucchio, adesso. - La vuoi piantare di rifilarmi tossici? - dico indispettito - Puttana miseria, Harlan! Uno normale no? Lo fisso un secondo. Si butta lo straccio sulla spalla e incrocia le braccia. Indica il locale con un sorriso. - E la gente normale qui la vieni a cercare… - risponde sornione. Gliel’ho servita su un piatto d’argento quindi devo solo starmene zitto. - Ci sarebbe un giovanotto niente male che ha svezzato Bullet, giusto un paio di settimane fa. - aggiunge meditabondo. - Credo siano atterrati giusto ora. - prosegue, consultando l’orologio. - Will Gibson gli ha dato il soprannome?! - domando un po’ incredulo. - Ho assistito di persona al combattimento. Si è difeso bene, dico sul serio. Ma quel vecchio filibustiere è stato troppo per lui: ha perso alla grande, ma con l’onore delle armi. Argento non s’interessa direttamente delle sfide, a meno che non sia lui stesso ad averle pilotate. - Perché ci vedo il tuo zampino dietro questo battesimo?! - chiedo, guardandolo di sottecchi. Non afferma e non nega, l’anima sporca, liquida la questione con un’alzata di spalle. - L’ha arruolato in questa missione di scorta, semplice semplice, per vedere come se la cavava. Mi sta incuriosendo. Bullet è coriaceo come pochi, uno di quelli che non li stendi, li devi ammazzare. Se l’ha ingaggiato, anche solo per un incarico di
routine, deve averlo parecchio impressionato. Questo forse è il secondo nome che dà; il ragazzo deve avere un paio di ottimi colpi nel repertorio, solo per avergli tenuto testa. Sta facendo notte, tra poco il bar sarà un bolgia infernale e voglio essere alla Yudecca prima possibile. - Vorrei parlare con Bullet… - mormoro, più a me che rivolto ad Argento. - Per quello che ho potuto vedere, è loquace e sveglio. - precisa. Loquace? Mi da una botta al braccio, riportandomi alla realtà. - Sei un lestofante fortunato, mio caro Bolt. - mi comunica, indicando la porta. Mi volto, speranzoso, aspettandomi la figura familiare di Gibson, la sua andatura scattante e invece riesco a vedere solo uno sbarbatello alto e magro, con i capelli lunghi e il sorriso smagliante, che saluta tutti e si dirige verso il bancone. - Non è Bullet. - Certo che no, sveglio. È lui che stai cercando. È Sear. -
Respirò profondamente l’aria, le molecole che formavano l’odore presente nella sala gli arrivarono direttamente alle sinapsi e lo inebriarono. Per un istante, ricordò qualcuno dei guai che l’avevano fatto giungere a quella taverna di avanzi di galera. L’espulsione dal college, l’esperienza e la dipendenza dal temibile stupefacente biomutato “Darwin”, la vita da barbone per le strade di Nuova Delhi… Insomma, due anni molto lunghi e molto intensi. “Stop. Il ato è ato. Cerchiamo qualcosa d’interessante. Anzi, qualcuno.” si disse laconicamente. Vide al banco Argento che parlava con un bestione dall’aria truce, con la testa pelata e la barba di tre giorni. Vestito con pantaloni neri multi tasca, giubbotto e gilet militari, mano sinistra con guanto. Si riusciva ad intravedere una fondina all’altezza dei reni, assicurata alla cintura, una pistola. Il ragazzo di armi ne
capiva come di apicoltura e non seppe dire di che modello si trattasse. Sta di fatto che, invece di girare al largo, si andò a sedere ad appena due sgabelli di distanza dal barista e, dunque, dall’uomo. Harlan gli si fece incontro e lo salutò. Poi gli mise una birra in mano e lo trascinò verso il losco individuo. - Vieni ragazzo. Ti devo presentare un tipo che ti piacerà di sicuro. - affermò Argento. Si trovò spalla a spalla con quella specie di muro umano, solo che non ne fu spaventato o intimorito, tutt’altro: lo trovò abile a nascondere la sua vera indole, perché non sentiva vibrazioni negative. Era capitato lo stesso con Bullet, ma qui le sensazione era amplificata. - Bolt, lui è Sear. - disse il barman introducendolo. Bolt lo scrutò da capo a piedi e alla fine gli tese la mano pensando “Magnifico: un poppante.” - Hai la testa lucidissima, sai capo? - disse lui per risposta, ricambiando il gesto. Bolt aggrottò la fronte e l’altro si corresse immediatamente. - Intendevo dire che sono felice di conoscerti, capo. - Non chiamarmi capo. - continuò amabilmente l’uomo chiamato Bolt - Il nostro buon barista qui, mi raccontava che hai avuto a che fare con Bullet e che ti ha dato il soprannome. - Affermativo, capo. - confermò il ragazzo - Boss Bullet m’ha fatto nero e poi mi ha imbarcato come analista. Gliene sarò per sempre grato. - disse infine, assumendo una posa quasi da uomo. L’armadio lo guardò nuovamente, ando in rassegna le parole pronunciate e le impressioni avute. Si girò verso Argento e quest’ultimo capì che un parere era richiesto. - Considera i fatti: Bullet non è cosa da scherzarci quando combatte, l’ha preso a
bordo della Diehard ed è ancora vivo, quindi cazzate non ne ha fatte. Senza contare che se ti serve un rinforzo subito, è lui che devi pagare. Li guardò con un sorriso e prese a controllare i liquori. - Mettiamolo alla prova. Sempre che t’interessi. - fece Bolt, serio. - T’aspetto fuori, capo. - avvisò il ragazzo levandosi il giaccone e poggiando in terra la borsa. “Lo aspetta veramente, quello svitato.” pensò Argento, sbarrando per un attimo gli occhi. L’amico lo guardò e scosse la testa; Harlan tirò un sospiro di sollievo. Per il momento Sear era fuori pericolo. Quando Bolt uscì, venne preceduto e seguito da molti avventori che alla discussione avevano assistito, o meglio origliato, e molti di più si fermarono intravedendo la prospettiva di un bel duello. - Ci vediamo, scansafatiche. - si congedò Bolt. - La mia commissione è del 2%. - informò Argento. - Ne parliamo quando ritorno. - concluse l’altro. - E scommetto mille pezzi che ci riesce, lo smilzo. Il più delle volte, finito di parlare con Argento, Bolt lo salutava con lo sventolio della mano, ma usava solo un dito in particolare. Il cerchio si era formato e tutti attendevano; Sear era tutto agonisticamente teso per l’imminente scontro e Bolt comparve dal locale…senza degnarlo di uno sguardo. Prese la strada che portava alle darsene. - Cammina, recluta! Non mi serve a niente un analista morto! - urlò da una certa distanza, mentre proseguiva. Sear schizzò dentro, arraffò al volo i suoi effetti e si precipitò di nuovo all’esterno, sulle tracce del bisbetico Bolt.
- Oh, bentornato! Come te la i? - domandò Argento all’appena arrivato Will Gibson. - Non mi lamento. L’energumeno? - s’informò Bullet. - È andato via da poco, tallonato da Sear. - disse quella frase beandosi mentre la pronunciava. Bullet si fece una bella risata. - Te ne sei accorto, vero, che è la sua copia sputata da giovane? - domandò retorico. Bullet sapeva bene di cosa parlava. In gioventù, aveva lavorato come movimentatore in un magazzino coloniale per pagarsi il brevetto di volo civile. Bolt gli aveva dato ripetizioni di pilotaggio, anche su navette militari benché disarmate o da ricognizione, rischiando grosso. Erano due bei tipi e si piacquero subito, solo che Bolt non stava mai zitto ed era fondamentalmente uno scapestrato. Nel corso degli anni, trascinati dai propri casi della vita, si divisero ma il rispetto e l’amicizia durarono Argento annuì vistosamente, piccole rughe di soddisfazione si formarono agli angoli dei suoi occhi di taglio orientale e ne convenne, anche se non poteva vantare la stessa esperienza di Gibson. Lui e Bolt erano coetanei e si erano pure arruolati nello stesso periodo, ma erano stati assegnati a squadriglie diverse con incarichi differenti perciò si erano incrociati spesso nelle esercitazioni di reparto ma non erano amici all’epoca. Lo conosceva di fama. Si sentiva parlare molto di questo Bolt e degli altri suoi due amici: piloti eccezionali, parecchio esuberanti, a detta di qualcuno delle solenni teste di cazzo. Non si era trovato perfettamente d’accordo con l’ultima affermazione col are del tempo, ma in prima istanza, come descrizione sommaria poteva andar bene. - Dice che gli vuole fare un test per vedere se è all’altezza… Per un secondo, William trasalì, pensando all’imminente morte del ragazzo. Lui sapeva di essere forte, ma quel rinoceronte era un’altra categoria. Era con ogni probabilità l’uomo più dotato per il combattimento corpo a corpo che avesse mai conosciuto.
- Tranquillo, non è un sadico. - lo rincuorò Harlan - Gli basta sapere che l’hai battezzato tu. L’avrà portato alla nave. - Ah, già. I codici. - confermò Bullet, ghignando - Dieci a uno che il moccioso ci riesce. -
“Quel simpaticone di Argento ha sempre detto che la madre era portoghese, ma lo so io di chi è figlio: è proprio un figlio di gran pu…” - Capo, aspetta! Sto arrivando! “Non ho mai sentito parlare di questo Bolt, eppure sembra davvero interessante…” si lambiccava, intanto, il giovane analista, alle prese con la tracolla del tascapane. Bolt era pronto a redarguirlo e Sear un po’ se l’aspettava, ma tutto ciò che vide fu il possibile datore di lavoro corrergli incontro. Pensò subito di aver esagerato, di aver sballato completamente la valutazione di quella persona, che fosse veramente cattiva come sembrava e che stava per ricevere la lezione della sua vita. Ma non andò proprio così. La distanza fra i due non era che di pochi metri, che Bolt coprì quasi istantaneamente. Non gli si scagliò contro, bensì saltò con un piede su un muretto a secco, usandolo come trampolino e compiendo un balzo incredibile. Il ragazzo, giustamente, non si era accorto di nulla, poiché tutto stava accadendo sopra la sua testa: mentre lavoravano per riparare un condensatore di umidità su un tetto, un aggeggio da un centinaio di chili, uno dei tre tizi che lo reggevano mise un piede in fallo e lasciò la presa, facendolo precipitare in strada. Bolt ne intercettò la caduta con un gancio sinistro che fece risuonare la via di un suono di metallo sfasciato prima, e un tonfo sordo poi. Sear si girò a guardare l’ammasso contorto che era stato un macchinario funzionante e rimase esterrefatto: con un singolo pugno, Bolt, non solo l’aveva per metà distrutto ma l’aveva lanciato a non meno di cinque metri tra la polvere rossastra. Anche rimettendoci tutte le ossa del braccio e della mano, se un colpo del genere avesse raggiunto un avversario lo avrebbe ucciso all’istante. Spostò gli occhi sull’uomo poco distante, convinto di vederlo per terra urlante, con danni ingenti all’arto. Ciò che il giovane Sear ignorava era che il buon vecchio
Bolt aveva un asso nella manica, una carta vincente da sfoderare quando una situazione diventava troppo ingarbugliata. Gli piaceva avere molte frecce al suo arco e possedere almeno un vantaggio strategico sui suoi possibili avversari. Non fu molto contento di svelare così presto un dardo così potente. L’analista guardò il guanto; niente sangue, nessuna ferita, nessun trauma evidente. - Capo, che vitamine prendi? - mormorò il giovanotto. Poi notò degli strappi sul guanto all’altezza delle nocche, dovuti all’impatto, e un luccichio che ne proveniva. “Ha un braccio artificiale!” comprese l’arguto Sear. Bolt si tolse il guanto, ormai stracciato e inservibile: epidermide composita stratificata, muscoli elettro-idraulici ad alimentazione cinetica, microcircolazione sintetica. Ne aveva già viste di protesi, ma non così sofisticate; sembrava fatta su misura, artigianale. Forse diamagnetica e testata a temperature estreme. Roba notevole. Roba da Esercito, da Flotta. “Un ex-militare.” concluse il giovane. - Oggi t’ha detto bene. Ribadisco che mi servi vivo. Niente di personale. E piantala di chiamarmi capo. L’uomo era fermo davanti a lui, esaminandolo senza alcun sentimento, ma Sear non ci cascò; qualcosa lo aveva segnato nel profondo, lo si distingueva chiaramente andando in profondità nel suo sguardo. Dal canto suo, Bolt, dopo l’esperienza bellica, si era fatto una promessa che era deciso a mantenere. Non prendersi mai più la responsabilità di un’altra persona, men che meno affezionarsi. Aveva provato troppo dolore scoprendo di non essere in grado di proteggere chi gli era caro, chi gli stava a cuore. Perciò, che ognuno pensi a sé. Aveva fatto alcune eccezioni, ma giusto per confermare la regola. - Ricevuto, capo. “Solo questa corsa. Poi mi ritiro.” recitò Bolt come un mantra, stringendo i denti. Arrivarono alla Valetudo senza altri intoppi e alla fine del camminamento pressurizzato, alle darsene, il capitano gl’illustrò la prova. - Questa è la mia nave. Corvetta leggera MMV-660 “Windina Special”, provvista di I.A. a processi localmente testati. Devi riuscire a violare i codici preliminari
per hackerare SIGMA. Se ce la fai, t’imbarco. Bolt andava molto fiero dei suoi codici; li aveva programmati con le sue sante manine e aveva aggiornato la I.A. attrezzandola con memoria di attacco, il che la rendeva pressoché invulnerabile agli assalti standard. Solo Gripen ci era riuscito, una volta sola e dopo dieci minuti buoni. “Vediamo quanto ci mette ad arrendersi, ma credo che sarò costretto ad arruolarlo ugualmente.” rifletté Bolt. - Ancora un attimo… E… Fatto! Sono dentro, capo! - esclamò il ragazzo, dopo nemmeno due minuti, indicando il suo ololed portatile. Ricevette uno sguardo stupito dal probabile capitano, come risposta. - Controlla, se non ci credi. - insistette il giovane. “C’è riuscito, il moccioso. Entrando addirittura dalle linee di comunicazione, senza ingresso fisico. È bravo e mica poco. Queste nuove generazioni si fanno più agguerrite.” valutò Bolt. SIGMA non era realmente in pericolo; un’incursione totale dei processi logici avrebbe richiesto ore di lavoro e bocconi amari. Però aver scavalcato tanto facilmente i firewall era già di per sé un evento. - Assunto, marmocchio. - gli annunciò. - Sono il tuo uomo, capo! Non ti deluderò! - rispose l’altro. - Per iniziare, non chiamarmi capo. Per il resto, lo spero. Per te. A bordo. Controlli preliminari per il decollo. - ordinò il capitano. Bolt si accomodò al posto di pilotaggio, Sear alle consolle dell’analista. Uno si tolse la giacca, restando in t-shirt nera e gilet; l’altro poté guardare il braccio, interamente in leghe ad alta densità, collegato direttamente al sistema nervoso centrale e alle ossa della spalla, meglio di quello vero. Aveva sentito dire che alcuni modelli potevano accogliere sistemi di offesa o di difesa interni estremamente efficaci. Si legò i capelli a coda e si sistemò nella sua nuova postazione. - Senti, capo. Quanto pensi di sganciare? - chiese Sear, con spirito pratico.
- Quindicimila. - replicò l’altro ruotando il seggiolino ergonomico. - Capo… Bullet mi ha pagato trentacinquemila. - mentì il ragazzo. - Cinquantamila. - Non se ne parla. Quarantamila, al massimo. Con uno sbuffo, il ragazzo accettò, ridendosela perché Bullet l’aveva pagato la metà. Bolt era soddisfatto di aver speso metà di quanto preventivato. - Allora, capo, ce l’ha un nome questa nave? - chiese l’analista, prendendo confidenza con gli apparati, aprendo file e librerie. - No, aspetta, l’ha nominata boss Bullet… Valenudo, giusto? - aggiunse. - Valetudo. Pivello… - lo corresse e lo insultò il capitano. - Valetudo… - si rigirò la parola sulla lingua - Mi piace! Dovremmo scriverlo sullo scafo, con dei bei caratteri cazzuti e colorati! Che ne pensi, capo? - stava mimando il gesto di dipingere, adesso. - Piantala di chiamarmi capo. Penso che sei un cazzone. Siamo dei contrabbandieri, dei criminali; iamo inosservati, cerchiamo di essere furtivi. Tanto valeva mettere un’insegna verde fosforescente sul radar… - rispose sinceramente Bolt. - Hai ragionissima, capo. Me lo scrivo piccolo piccolo, qui, sotto le spie del reattore. Eh, che ne dici? - propose il ragazzino. “Non si lascia abbattere, glielo concedo.” convenne il capitano Bolt. - Vedremo, spina. Diagnosi? - Completate. Tutto ok e on-line. Quando vuoi, capo. - annunciò Sear. - Smettila di chiamarmi capo. Inizio fase ascensionale. SIGMA, riproduzione file 0581. Guidami, Sear. - Le note di “Atoms for peace” si addensarono nell’abitacolo.
- Verticale libera, potenza 18%, cielo sgombro. Uscita dalla darsena, attenuatori disattivati. È tutta tua, capo. - disse il ragazzo, guardandosi intorno come per vedere meglio quegli strani suoni. “Preciso, non c’è che dire.” - Ok. Calcolo rotta sicura per la Yudecca. I dati erano già sul suo ololed; il moccioso aveva letto le specifiche e tracciato la rotta. Non aveva voluto sapere nulla né nulla aveva da dire, quello che gl’interessava era l’avventura, un’altra avventura. - Ci siamo, capo. Adesso inizia il divertimento. - disse trepidante il ragazzo. Mentre volavano verso il Polo Nord, Bolt pensava che forse stavolta si sarebbe sistemato definitivamente, che si sarebbe solo fatto servire e riverire, che, per una volta, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Se solo l’avesse piantata di chiamarlo capo…
La segretaria del principale chiamò l’avvocato e informò anche lui dell’accaduto. Era andato sulla Terra per trattare con dei separatisti mongoli una grossa partita d’armi. La sua reazione alla notizia fu molto tranquilla perché stava già preparando la contromossa, come al solito. Si guardò intorno: un brulla distesa marrone, in gran parte radioattiva, che si stendeva a perdita d’occhio. Si chiese come un uomo poteva combattere per quella terra, cosa spinge una persona ad essere così cieca. Un soffio d’aria fredda gli sferzò il volto e gli fece svolazzare il cappotto grigio piombo di pregiate lane, portando miasmi lontani e cancrene dei vicini villaggi di profughi. Dove si trovavano le radiazioni erano calate negli ultimi anni, ma le cicatrici dei bombardamenti non si erano ancora totalmente rimarginate. L’uomo ben vestito provò ribrezzo ed ebbe nostalgia della sua villa sulla “Caesar”; s’impose di sbrigarsi in fretta, la Terra non era pianeta per lui. Il capo dei guerriglieri lo invitò a rimanere per festeggiare l’accordo, ma l’avvocato declinò con educazione. Al che l’altro ribatté che era scortesia rifiutare tale generosa offerta; l’avvocato rispose che importanti affari politici richiedevano la sua presenza e attenzione immediata. - Politica, eh? - disse l’uomo asiatico, ispezionando un fucile nuovo di fabbrica. Noi proseguiamo quello che voi iniziate. -
Allargò il braccio per mostrare quell’acrocoro devastato e putrescente, poi sorrise mostrando una selva di denti storti e gialli. L’avvocato provò un senso di nausea e pensò di bruciare i vestiti che stava indossando. - L’informazione è la prosecuzione della politica con altri mezzi, mio caro. L’informazione che noi controlliamo. - lo corresse, avviandosi all’hovercraft. Ordinò al pilota di portarlo allo spazioporto di Pechino, lo shuttle per la Luna stava già rullando. La novità che la capsula era scomparsa lo aveva messo in apprensione, ma nessuna grinza della pelle si aggiunse a quelle già presenti. L’avvocato faceva lavorare molto il cervello, ma quello che tramava era per lui e solo per lui. Optò per fare una piccola sosta a Butcher’s Bay, mentre si dirigeva alla sede centrale. Se conosceva il suo superiore nonché datore di lavoro e complice, avere assoldato qualche mercenario per strada era portarsi avanti con il lavoro e risparmiare tempo.
Il turno di notte pareva non finire mai e in plancia non era raro sentirsi oppressi dalla solitudine e dall’infinito spazio nero. In uno stato di allerta costante, però, il monitoraggio continuo era imprescindibile. A lei piaceva la tranquillità di quel luogo: il sommesso ronzio degli elaboratori, il ritmico ticchettio proveniente dalla sala macchine, la gradazione azzurrina che assumevano i led per non stancare gli occhi. La aiutava a pensare, a ricordare, a programmare. Era lì da più di due ore, aspettando di essere completamente sola. Gettò uno sguardo ai corridoi, un’occhiata agli ololed di sorveglianza; tutto libero, tutto tranquillo. Si accovacciò a fianco della postazione e fece scattare un pannello. Un groviglio di fibre ottiche e contatori, relè neurali e falsi contatti le si presentò; lo aveva fatto molte volte e ognuna di esse era stata come una pugnalata al cuore. Scacciò il senso di colpa e con due morsetti luminali escluse la PRAM principale. Il contatore era ancora in funzione; lo avrebbe corretto in seguito. Mise nell’orecchio destro un microcomunicatore e lo collegò wireless alla derivazione, tramite il computer installato nella manica della tuta di volo. Una sinusoide iniziò a serpeggiare sull’ololed da polso, sfumando dal rosso al verde: a transizione completata cioè con la funzione verde brillante, la comunicazione sarebbe stata protetta e criptata, fatta rimbalzare centinaia di volte su tutti i satelliti del Sistema. Sospirò in silenzio.
Dopo circa trenta interminabili secondi, la connessione venne stabilita. - Sono riuscito a scambiare le capsule e il container è in orbita. Gli australiani sono stati esosi per quel manufatto. - disse senza tanti preamboli la voce dall’altro lato. Per i contenitori criogenici le difficoltà, per altro modeste, erano state sorate ungendo qualche funzionario. Mettere in orbita il container su Europa aveva richiesto molto denaro, l’esazione di grandi debiti politici e fiscali nonché un furto su commissione. La sostanza era allo studio in un laboratorio protetto e, secondo loro, segreto nonostante si presentasse inerte. Lei non rispose; si ò un mano su volto, ombre di fallimento facevano capolino al margine della consapevolezza. - Come ti senti? - chiese con preoccupazione la voce. - Male, ma non importa. Se avremo successo, cercherò il modo di farmi perdonare. - rispose lei in un sussurro. - Cosa vuoi che faccia adesso? - incalzò la voce, sempre più impensierita. - Nulla, hai fatto anche troppo. È tempo che gli eventi seguano il loro corso. rispose, sedendosi in terra, sulla moquette beige. Osservò rapita le stelle all’esterno; una mente che non era la sua ricordò un volo tra gli astri, promesse di pace che richiedevano un sacrificio, un bimbo che corre spensierato su una spiaggia. Scosse la testa e tornò ai fatti. - Le comunicazioni si chiudono qui. Le immagini diventano ogni giorno più difficili da interpretare. - disse con voce flebile. Deglutì a vuoto, sentì formarsi un groppo alla gola. - Sono le scelte che compiamo a fare di noi ciò che siamo. - replicò la voce con tono d’incoraggiamento. Lei sorrise, sapendo inconsciamente che le sue azioni erano votate ad un bene più grande. - Ti voglio bene, papà. - fece con un singhiozzo. - Anche io te ne voglio. Sta’ attenta. La voce calda e baritonale tacque, lasciandola sola, inerme, piccola. Strinse i denti e rimise a posto i circuiti, un’operazione ormai meccanica. Riagganciò il
pannello e si avviò verso la cambusa, le era venuta fame. Pensò a come districare le sue visioni molto nebulose e contorte. Si chiese a cosa fossero dovute quelle interferenze nei continuum, ma non pervenne ad alcuna spiegazione convincente o sensata. Prese della frutta dal frigo e si sedette su una panca di alluminio, riflettendo. Sbucciò una pesca e rimase con il nocciolo in mano. Le sue capacità si attivarono, il seme si squagliò formando una piccola pozza nera sul tavolo; guardò dentro. L’avvenire, un possibile futuro. Il cielo spezzato era segnato da esplosioni e navette in fiamme. Soldati sbarcavano dalle navi, invadendo gruppi di colonie. I satelliti dei pianeti venivano bombardati. Stazioni spaziali emettevano laser molecolari, distruggendo ogni cosa che capitasse a tiro. L’immagine si strinse velocemente, portandola negli occhi di qualcun altro, in un altro posto. L’uomo davanti a lei la baciò e le fece una carezza. Lei seguì la cicatrice che gli deturpava il volto, dalla fronte fin sotto il labbro inferiore, sottile e scura, il sopracciglio separato da una netta linea glabra. Intorno a loro le deflagrazioni aumentavano e si avvicinavano. Un altro tempo. - Il capo è troppo vicino, le funzione d’onda non sono in fase. Proverò a parlare con me. - le disse, con la morte nel cuore. Ella annuì in risposta e caricò il mitragliatore. Non disse nulla, lo osservò scomparire in una bolla tenuta in posizione da quattro torri tachioniche. Premette il grilletto, falciando gli uomini che le correvano incontro. Si ritrovò senza fiato in mensa, stringendo disperatamente il bordo del tavolo. Si portò una mano verso il petto, premendola sul cuore. Strinse gli occhi ed una lacrima di piombo scivolò lenta sulla guancia. Stentava a crederlo, eppure aveva appena scoperto che quella guerra annoverava alleati improbabili. Comprese finalmente che quella battaglia si combatteva su più fronti, in ere differenti. Era ata mezz’ora, il turno stava per scadere. Tra breve sarebbe arrivato il cambio e decise di tornare in plancia, sebbene fosse profondamente turbata.
Altri futuri, altri destini, un’unica speranza.
Nun te raggae più!
(Rino Gaetano, 1978)
Siamo decollati da qualche minuto e il capo mi sta illustrando alcune modifiche apportate al Multi-Mode Vessel 660 molto particolari. Credo che sia un discreto tecnico e un meccanico provetto, senza contare tutta la gente che avrà conosciuto durante gli anni. La nave è un po’ datata, ma è confortevole e pulita, anche troppo. Molto ordinato, devo dire, Bolt. Mi torna in mente l’episodio di poco fa, quando ha schiantato quel condensatore. Non riesco ad immaginare cosa gli sia capitato e la sofferenza, anche solo fisica, che può aver sopportato. È un reduce, un sopravvissuto. Ha imparato a fare di necessità virtù, ha scelto il basso profilo, tanto che non ho praticamente alcuna notizia attendibile sul suo conto. Bullet e Harlan sembrano nutrire un gran considerazione verso di lui, mascherandola con il sarcasmo. Deve avere qualcosa di speciale, qualcosa che non ha ancora tirato fuori. Mi accorgo che lo sto fissando; meglio tornare ai diagrammi e alle schermate. Ha eliminato le batterie installando un reattore a fusione ultracompatto BoseEinstein, processori di gravità artificiale, rinforzi strutturali, aumento di schermatura e corazzatura, incremento di calibro delle armi, da 37.5 mm a 50 mm, autopropulsivi. Ha aggiunto degli inganni per le armi a particelle; un lavoretto coi fiocchi. Mi documento per benino attingendo agli schemi di SIGMA e scopro che in buona sostanza il mezzo è un prototipo avanzato, concepito come test-bed per la sincronia uomo-I.A.: c’è una modalità chiamata “Manual Synch” che è fisicamente accessibile solo dal posto di pilotaggio e quindi dal mio capo. L’elaboratore optoelettronico funge da copilota ed analista, ma fino ad un certo livello, quindi il mio datore di lavoro deve essere un esperto pilota. Sono proprio curioso di sapere se… Però, prima, devo cercare di distrarlo. Dato che ha una sola singolare ione evidente, cercherò di fare leva su quella. Sono sicuro di riuscirci; ho come l’impressione di aver lasciato la faccenda a
metà. - Capo, scusa la domanda, ma che cos’è sta roba che stiamo ascoltando? - gli domando. - Non t’avverto più, matricola. Smettila di chiamarmi capo. - grugnisce lui - In secondo luogo, porta rispetto per la vera musica. Stai ascoltando uno dei più bravi pianisti jazz del XX secolo; Ludovico Einaudi, con “Onde corte”. Non come quella roba iperspeed che ascoltate voi giovinastri, a rischio del lobo frontale… Perfetto; adesso che sta parlando. Algoritmo di ricerca lanciato, hacking in corso. - Una volta o l’altra ti farò lezione di cultura musicale… In effetti, ci sono terabyte di brani, in vecchissimi hard- disk; antiquariato bello e buono, quanto il formato mp3. Anche reperti archeologici come mangianastri e cassette magnetiche sparsi in giro. Avevo visto delle olo-3D, non credevo che li avrei mai toccati però. Musica di mille anni fa; come avrà fatto a procurarseli? Ottimo, sono ato: scansione processi logici. Oh cazzo: credo di essere in grossi guai. - Rilevato tentativo di intrusione. Contromisure: attivate. Ibernazione delle griglie logiche da 101 a 1101. Arrivederci. - annuncia SIGMA, con la sua voce campionata di donna. Mi ha scoperto prima del previsto. E adesso? Come lo affronto? Naturalmente, fa due più due e il totale sono io. Si volta a guardarmi: ha la mascella serrata, le sopracciglia che quasi coprono gli occhi. - Sear… - Sì, capo? - Comincia a pregare. - Ok capo. -
La nave si è fermata in hovering nel mezzo del nulla, a cento metri di quota su un deserto che un miliardo di anni fa era un oceano, rosso fin dove si riesce a vedere. Evocativo, di sicuro, ma ho altri problemi di cui occuparmi… È ufficiale; sono fottuto. Non mi da nemmeno il tempo di una battuta, una frase per sdrammatizzare, mi si avvicina scrocchiandosi il collo. Cerco di avviare il negoziato, ma lui è più veloce di quanto la sua mole lasci intendere. Mi fa morire la frase in gola quando mi afferra la spalla destra. Con il suo braccio bionico, ovviamente. Mi accarezza soltanto e tra un po’ mi rompe la clavicola, stringo i denti. - Capo… - mugugno - Dammi dieci minuti e sistemo tutto… - Ne hai cinque. Se non ce l’hai fatta, ti sparo fuori a pulire gli oblò senza tuta. Sono stato chiaro? Per parlare, mi ha tirato a sé, a pochissimi centimetri dal volto: c’è un freddo bagliore nei suoi occhi, qualcosa che conosco bene, ma in lui ha radici ben più profonde. Delusione, solitudine, disillusione, tutto ricoperto da una coltre di roccia, che è il suo carattere; deve avere avuto anche lui una vita bella intensa. - Cristallino. - rispondo e lui mi lascia. Con gli occhi indica il mio posto e mi ci siedo, di corsa. Si accomoda pure lui, con il seggiolino rivolto verso di me, con le gambe accavallate, per controllarmi e gustarsi lo spettacolo. Meglio ripristinare SIGMA e alla svelta. Quando gli starò simpatico, vedrò anche di aiutarlo a smaltire tutto quell’astio. Sempre che sopravviva.
Non gli bastava aver dimostrato di essere bravo, no. Doveva fare il supermacho, ha cercato d’infiltrare SIGMA e lei glielo ha impedito ibernando tutte le griglie per la navigazione, i sistemi d’arma: tutte quelle di ordine superiore. La programmazione permette solo volo a punto fisso e mantenimento dei sistemi di sopravvivenza; siamo bloccati nel bel mezzo delle desolate lande marziane, con un lavoro che ci aspetta, che mi aspetta… Mi vien voglia di battezzarlo nuovamente. Gli ho dato cinque minuti, giusto il tempo di digitare il codice e ascoltare il pezzo di Rino Gaetano che riassume la situazione. Meno male che l’impianto di
diffusione è indipendente dalla I.A. e funziona ancora. Se capisce l’italiano, ci metterà anche meno di cinque minuti. Nel frattempo, ripenso all’avvertimento di quel barista da strapazzo. Il Trattato Eissmann è un vero e proprio raggiro, firmato al solo scopo di far proliferare le già tentacolari ditte del Sistema. Un paragrafo, a quanto ne so, è stato sponsorizzato direttamente dalla AXIS. Riguarda il mutuo scambio di “morti eccellenti”, previa approvazione di un apposito consiglio militare. Alti ufficiali, graduati, eroi di battaglie deceduti in servizio erano la copertura perfetta per lo spionaggio, specialmente industriale. Funziona così: si trova un ammiraglio, un pilota di caccia pluridecorato defunto in servizio e si prende il suo nome da scrivere su una capsula criogenica. La parte cui appartiene fa formale richiesta di restituzione della salma. Riunita e adeguatamente oliata da chi di dovere, la commissione dà il suo benestare e, sbrigate le pratiche burocratiche, si effettua il trasferimento. Alcune capsule trasportate in incrociatori, erano piene zeppe di campioni di nuove droghe, nuovi aerogel da fusione, dati di progetti segreti. Tutto rubato e tutto scortato dalla Flotta. Mica male, vero? Allora perché io? Cosa ci sarà di così importante o, peggio ancora, di così pericoloso da invischiare un balordo come me? Se quest’osso se lo stanno litigando cani grossi e cattivi, qua faccio la fine del topo e il pivello con me. Dannazione. - SIGMA: on-line. Griglie logiche ripristinate. Inizializzazione protocolli sinaptici. È appena terminato il pezzo che Sear mi si para davanti con le mani sui fianchi, profilo sinistro con il mento in alto: trionfante e trionfatore. - Hai fatto meno del tuo dovere, pivello. - lo smorzo immediatamente - Però sei stato veloce, lo riconosco. - Capo, mi piaci. Hai sempre una parola d’incitamento. - mi fa, schioccando le dita. Ma io, cos’ho fatto di male? Per meritarmi lui intendo, perché per il resto la lista sarebbe lunga… Mi ricorda qualcuno, un bel rompipalle ma non focalizzo il nome. - Appena ho due minuti, t’insegno un paio di regole per stare al mondo. Ripartiamo. - dico, sistemando il seggiolino. Lui ghigna divertito, giunge le
mani, s’inchina e si sistema. Maledetto novellino. Prima che questa storia sia conclusa si meriterà una bella riata. Cerco di riguadagnare il tempo perso e la Vastitas Borealis scorre veloce attraverso i cristalli della nave. È impressionante: centinaia di migliaia di chilometri quadrati di vuoto, di rocce, polvere, tramonti infuocati. Mi godo il paesaggio, mentre quel dilettante di Sear mi racconta un aneddoto. - Te lo giuro, capo! Allora Butcher si alza e fa per andarsene, poi ci ripensa e torna indietro, lo agguanta per la maglia e lo tira su! Hai presente quant’è grosso Butcher, no?! “Sai che ci puoi fare con i tuoi jack? Adesso te lo faccio vedere.” gli dice, abbastanza incazzato e se lo trascina via! Accompagna il discorso con la mimica e mi giro ad osservarlo, lasciando il comando a SIGMA, quando imita alla perfezione Butcher. - Volevo sapere come andava a finire, così li ho seguiti. - continua - Beh, gli ha davvero ficcato i tre jack nel culo! - e scoppia a ridere. È buffo ed una risata scappa pure a me. Me n’ero scordato, il suono della mia risata, dico. Era da parecchio che non lo facevo. Speriamo che non se ne sia accorto…
Grande! Uno a zero per me! Ha ridacchiato… Crede che non me ne sia accorto, però l’ho beccato. Credo che in fondo a tutto quel livore e a quella scorzaccia ci sia un uomo buono, dopotutto. Lo dimostra il fatto che non mi abbia ancora ucciso. - Bene Sear, ci siamo. Carica i nostri dati ed inviali. - avverte Bolt, non appena varchiamo una linea invisibile che delimita la “no-fly zone” nelle vicinanze della Yudecca, il carcere delle carceri. Ne ho sentito parlare, più che altro mezze frasi a voce bassa sussurrate tra i tavoli del Blue Bell. Un alveare sotto il Polo Nord di Marte, scavato sotto centinaia di metri di roccia cremisi e ghiaccio secco, l’atrio dell’Inferno, qualcuno ha osato dire. Vi sono ospitati i peggiori elementi del Sistema, psicopatici colpevoli di indicibili crimini usati come cavie e anime buone che sapevano poco per vivere e troppo per morire. Occasionalmente, veniva usata come stazione di aggio essendo in posizione strategica situata
tra i due schieramenti. In questo specifico caso, dato che il cadavere era stato recuperato al largo del gruppo di colonie industriali Δ-ρ 313 e 314, a meno di duecentomila chilometri, era stato lasciato direttamente alle cure del direttore della Yudecca, tale Edgar Allan Poe, dice il file. Ha un che di conosciuto, questo nome… “Approvato dalla sottocommissione militare composta da bla, bla, bla…”, un sacco di balle. Per questo incarico assumiamo l’identificazione di vettore cargo leggero Rockwell Space Division UMM-204 “Nebula”, con il nostro codice personale fittizio, il segnale portante clonato e la giusta quantità di strizza, almeno per me. Il capo, invece, sembra tranquillo. Pilota questa nave come fosse un deltaplano, con delicatezza. Ho già visto gente come Bullet, che in quanto a pilotaggio non è secondo a nessuno, ma Bolt sembra che riesca a farla librare. - Ci danno “ALL GREEN”. Pivello? - Siamo allineati con l’entrata dell’hangar 4. - rispondo - Riduco potenza fino a 20% e attivo attenuatori. - Lascia, faccio da me . - mi dice - Ho voglia di volare basso. Sono titubante perché la simulazione della manovra è parecchio complicata, ma quello che affermo è - Mille pezzi che la graffi. Devo imparare a stare zitto, ogni tanto. - Andata, novellino. - fa lui con mia enorme sorpresa. - Inizio discesa. a il radar sul mio ololed. Visti da questa quota, gli accessi dell’hangar sembrano un delta di fiume, otto piccole caverne costruite con i detriti di risulta degli scavi della prigione. Ognuna ha il suo sentiero d’ingresso al vano principale che ospita i moli ed il vero cancello del carcere, tutto mappato in 3-D sugli strumenti. Gli accessi sono incoronati da una fila di led rossi intermittenti; è facile individuare il nostro, colorato di verde.
Le mani di Bolt sono fluide ai comandi, ma i miei indicatori dicono che l’ha presa di 3° troppo ripida e 200 km/h troppo veloce. Riesco ad intravedere il suo riflesso, una smorfia che dovrebbe essere un sorriso: si sta divertendo. La Valetudo plana, poi Bolt inizia la picchiata. Il capo esegue un tonneau e arriva veramente vicino al suolo, quando la stabilizza con abilità, agendo sui motori di hovering e sugli attenuatori. Stringo i braccioli: porcaccia miseria, ci sa fare malamente! Siamo in linea retta, le paratie dell’hangar si aprono lentamente: quando ci iamo a fianco, osservo il loro spessore. Un metro e mezzo di acciaio polimerico ad alta resistenza con corazzatura reattiva. Ma che, scherziamo? Che hanno là dentro, un tirannosauro schizoide? Percorriamo il tunnel, oscurità spezzata da file di piccoli led d’indicazione. Sembra uno di quei pesci abissali di Europa, bioluminescenti e tubiformi, lunghi centinaia di metri. Veniamo sputati da questo mostro spaziale in un immenso spazio con atmosfera artificiale. Non appena le porte interne si chiudono, avverto il cambio di pressione. Bolt sembra non aver il minimo problema a pilotare in quegli spazi così stretti e vedo volare via i miei mille pezzi, quando una vibrazione arriva alla mia mano destra. Debole, certo, ma l’ho percepita distintamente. Controllo le rilevazioni perimetriche. Non ci credo: ha toccato. Vediamo che s’inventa per non perdere.
Non crederà veramente che quello sia un graffio. Sarà stato qualche sassolino che si è sollevato da sotto i propulsori. Sistemo la nave al molo e la lascio in hovering. Non ci fermeremo a prendere qualcosa da bere, la capsula è già pronta, con tanto di scorta armata. - Capoooo… Non devi confessare nulla… ? - inizia Sear, mentre apro il portello. - Non dirai sul serio? Guarda che non ho toccato! - gli dico energicamente. - E dai, può capitare. SIGMA è d’accordo con me. Ammettilo e sgancia! continua imperterrito. - Ti sgancio un paio di ceffoni, casomai. Non ci provare nemmeno! - Ma porca pupazza! Sei un bel tipo! Hai toccato punto e basta! - m’incalza ancora.
- Forse sfiorato. Ma nessun graffio. - Veramente lì un graffio c’è. È molto piccolo, però si vede. Ma chi diavolo…? Discutendo con Sear non mi sono reso conto di aver percorso tutta la distanza che ci separava dal contenitore e dal picchetto. La voce è di un distinto signore un po’ in là con gli anni, una sessantina direi, con i baffoni neri e gli occhiali rotondi. Porta un papillon ed un completo marrone. - Scusi ma lei da che parte sta? - gli chiedo giusto perché sono irritato - E soprattutto, chi è? - Sono Edgar Allan Poe, il direttore. E sto dalla parte giusta, naturalmente. risponde, alzandosi sulle punte dei piedi. Addirittura, il pezzo da novanta in persona. Ci mancava solo questa. - Notare bene l’angolo della prua, a circa dodici centimetri dalla luce di navigazione. - continua indicando la Valetudo - Ha ragione il ragazzo. Sto per mostrargli cosa è in grado di fare il mio braccio bionico. Sear è a braccia conserte e annuisce vistosamente. - Ne parliamo dopo, ragazzino. - gli dico, indicando la nave. Il bastardello mi fa il verso con la mano. Adesso gliela faccio vedere io… Il signor Poe dà un colpo di tosse per richiamarmi all’ordine; ha ragione, gli affari prima di tutto. - Lei è il signor…? - domanda, arricciandosi un baffo. - Teach. Comandante Edward Teach . - rispondo, compilando la bolla di carico e mostrando una e-card fasulla. - Quella non mi sembra la “Queen Anne’s Revenge”, ma complimenti per la fantasia. - risponde lui, guardando la nave oltre la mia spalla. Resto stupefatto, ma non lo do a vedere. Il signor Poe dimostra di avere grandi risorse intellettive e anche un certo senso dell’umorismo. Lo guardo un istante. I
baffi si trasformano in una specie di sorriso e la sua testa calva, sopra una coroncina di capelli, riflette la luce in modo da creare quasi un’aureola. - Lami Archer, nome di battaglia “Bett”. Tenente colonnello, pilota di caccia, deceduta in azione. - prosegue il signor Poe - Ritrovata nel settore Z-211 in data 31/1/3208. Consegnata in data odierna 29/9/3208. Una firma ed è tutta sua. Ho la sensazione che nasconda qualcosa, che non dica tutto quello che sa. Mah, sto invecchiando. Metto l’autografo e faccio segno a Sear di prendere in consegna la capsula con relativo carrello semovente. Quando mi a accanto lo seguo con lo sguardo. Sorride sempre, gli basta essere vivo. Per arrivare ai comandi del carrello, costeggia il picchetto composto da due guardie equipaggiate con esoscheletri da battaglia “Stalker”, di colore verde scuro, praticamente indistruttibili, e capita una cosa strana. Mi sembra di vedere me, tanti anni fa. Prima di tante guerre, prima di tanto dolore. I secondini in armatura lo sovrastano di un buon metro, il ragazzo fa loro il saluto militare e accende il carrello. Proprio come me, lanciato in un mondo strano e pericoloso, trasudante di persone pronte a tutto, sentendosi talvolta piccoli di fronte alle circostanze. Non siamo poi così diversi, in fin dei conti. Certo, non sono mai stato fesso come lui. Troppa filosofia, è ora di tornare alla realtà e all’incarico che mi aspetta. Il direttore mi segue fino alla rampa di carico laterale, lasciando le guardie al cancello dell’Inferno. Sono già stato qui, tempo addietro. Un luogo che non auguro al mio peggior nemico. Tutto si svolge senza problemi, quando il pivello esce correndo dalla stiva e mi si ferma accanto, mentre sto salutando Poe. - Come lo scrittore! Ecco che cosa le dovevo dire! - esclama il volpone. Il signor Poe si fa una risata di gusto e gli risponde - Ma nessuna parentela! - Bella questa, Mr. P! - replica il ragazzo, gradendo la battuta.
- Signor Poe, addio. - affermo sbrigativo. - Addio, signor Teach. Stia lontano dai guai. Non attende risposta, si volta e torna verso il cancello. Che avrà voluto dire? Sto sempre lontano dai guai, sono loro che vengono a cercare me. Una volta imbarcati, vedo il signor Poe che indugia sul portone, scruta i cristalli. Fa un saltello sulle punte e scompare. Riesco ancora a sentire i suoi occhi, come se avesse delle aspettative, delle speranze. Me lo sto immaginando, ovviamente. Solo quest’ultimo lavoro e poi sarò libero. - Capo, tutto ok. Martinetti sganciati, potenza 3%, attenuatori attivati. Fin qui, tutto bene. Accantono i pensieri e mi concentro sugli strumenti. Viro ed imbocco il tunnel, stavolta illuminato di verde. Usciamo a rivedere le stelle. La Yudecca serra le sue mascelle metalliche dietro di noi, inghiottendo i suoi segreti e le sue infamità. Poe non mi sembra un bastardo, trovo singolare il ruolo che ricopre. Ma potrebbe benissimo essere spietato, anzi sicuramente lo sarà. Scanner perimetrico: tutto libero. Motori di manovra: ascensione. Distacco atmosferico. Valetudo in viaggio. Aspetto la comunicazione del Banchiere, la verifica dell’accredito. Se non la ricevo, con una scusa qualunque, prendo Sear e lo lego alla capsula. Dopodiché li lancio fuori e prendo due piccioni con una fava. Un risvolto positivo della faccenda, se non becco i soldi.
Il capo non potrà dire nulla. Mi sono comportato come si deve, tranne per quella sparata dello scrittore, ma pazienza. E sono in credito di mille eurosol. Stiamo salendo e osservo la superficie marziana. A questa latitudine il Polo Nord si rimpicciolisce fino a scomparire in sfumature di rosso; penso alla gente rinchiusa là sotto e mi domando cosa può fare di così spregevole e disumano una persona per marcire alla Yudecca. Così ci lasciamo Marte alle spalle e andiamo verso l’ignoto. Adesso arriva il bello.
- Occhio pivello. Ci stiamo avvicinando al Limite. - avvisa Bolt. - Sei in ottime mani, capo. - dico, scrocchiando le dita - E poi, un graffio in più un graffio in meno… - Ma che spiritoso… Credo che i mille pezzi me li terrò, dato che sicuramente mi manderai a sbattere su qualche asteroide. - risponde con opinabile acidità. Mi sta sempre più simpatico. - E piantala di chiamarmi capo. Ti sei meritato un assaggio di cultura musicale. “Light my fire” dei Doors, nella versione di José Feliciano.- conclude. Ma che roba ascolta quest’uomo? Chitarre, batterie e strumenti che nessuno ascolta più da non so quanti decenni. Valli a capire, i vecchi. È nato non nel secolo, nel millennio sbagliato il buon Bolt. Sono ato da qui due giorni fa e mi fa lo stesso effetto. La fascia di asteroidi tra Marte e Giove è diventata il Limite, terra di nessuno, luogo di transito, cimitero orbitante di chissà quanti poveri cristi. Bullet ha preferito scavalcarlo, ma mi ha dato lo stesso i brividi. Non mi piace, non mi sento sicuro. - Dai pivello, tranquillo. Nemmeno a me piace quest’area. Ci iamo sotto. E qui mi sorprende. Mi ha rincuorato, ha capito che sono teso e ha agito di conseguenza. Bolt mi aveva detto di spegnere i sistemi di ricerca attivi, di lasciare solo quelli ivi, che da quelle parti era meglio non farsi notare anche avendo permessi e autorizzazioni. Chiaramente, ho fatto di testa mia quindi il radar a lunga distanza è attivo, stando attento a non farglielo capire quando inizia un concerto di segnalazione acustiche e video. Il capo prende atto della mia scelta dando un pugno sulle console di guida col braccio buono. - Che hai lasciato il radar contravvenendo agli ordini l’ho capito, perciò dimmi che succede. - fa, irritato quanto basta. - Capo, una distorsione bella grossa e vicina. Eccola. - ammutolisco. Impossibile, deve esserci un errore. Perché se così non è, le probabilità di
superare il Limite scendono drasticamente.
- Forza Sear! Ce l’hanno con noi! Datti una mossa!! - urlo. È ovvio che il ragazzo sia rimasto un attimo interdetto, sono rimasto sorpreso pure io. Avranno tracciato il nostro segnale, il nostro radar, grazie alla sua alzata d’ingegno. Cristo, potrebbero essere noie serissime. Adesso, però, l’importante è levarsi da qui e prima di subito. Ci sta arrivando contro un vascello da guerra, un incrociatore pesante da battaglia. Secondo l’ologramma che ho davanti è un classe “Mojave”, precisamente HBS-20 Ghibli. Un mostro lungo quattrocento e rotti metri, armato di tutto punto, che sta venendo a darci la caccia. L’ololed avverte che stanno cercando di sabotare i sistemi informatici, ma il ragazzo se ne sta occupando egregiamente. È comparsa dalla velocità-c a distanza di fuoco, m’intimano di fermarmi e consegnare il carico. Non abbocco; non ci lasceranno andare via. Non vivi, almeno. - Capo! Torrette di prua! Bordata in arrivo! - grida il ragazzo. Preferiscono distruggerci che lasciarci scappare. - Correzione di 80° gradi in basso. Al mio comando. - impartisco. La voce di Feliciano sfuma lentamente. Seguo il ritmo. Mi accorgo che il pivello deglutisce rumorosamente e propendo a credere che sia il suo primo scontro a fuoco. Speriamo che non sia l’ultimo. Ci inquadrano e raffiche da 75 millimetri vengono vomitati dalle prodiere della Ghibli. - Ora! - grido. La Valetudo sfreccia verso il basso e i proiettili vanno a schiantarsi sui primi sassi della fascia. Le rocce esplodono quando vengono colpite; usano munizionamento dirompente. La nave è investita da una pioggia minerale fittissima, polvere e massi ci vengono addosso e quasi perdo il controllo. Lo scafo resiste, ma SIGMA avverte che non siamo intatti. - Ragazzo? - domando, sempre urlando.
- Ci sono, capo! Stanno caricando le armi a particelle! Scappiamo di corsa! risponde, un po’ impaurito. - Avaria alla gondola di navigazione! Non possiamo accelerare a velocità-c! continua, dandomi notizie sempre peggiori. Me li devo levare di torno. - Capo, quelli sparano… - mormora il ragazzo. Mi lancio dentro la fascia di asteroidi poco prima che aprano il fuoco con i cannoni lineari. Se fanno fuoco lo stesso e rischiano di colpire qualcosa nel Sistema Esterno, allora non abbiamo alcuna via di scampo. In ogni caso, se mi vogliono, devono venire a prendermi. - Sear, mettiti la cintura! - ordino, allacciando la mia. Obbedisce e vola sulle tastiere; con la gondola fuori uso, è lui che deve fare da navigatore. Piove sempre sul bagnato, per la miseria. Cerco di evitare i macigni più grossi, facendo attenzione a non andare a incocciare contro qualche mina sismica. Quei bastardi sono riamasti lì, non si azzardano a sforare nel Sistema Esterno. Arresi o pazienti? Sear mi sta aiutando e più del previsto; è puntuale nelle correzioni e rigoroso nei calcoli. - Capo, 15° a dritta! Big Bertha in agguato! - esclama. Ecco, per completare il mosaico della sfiga. Il nomignolo della famigerata mina a sub-munizionamento incendiario PEM-89. Oggi non me ne va dritta una. La individuo e porto la nave su una rotta di evasione. Un asteroide colpisce la poppa della Valetudo e la catapulta in avanti, nel raggio d’azione di Bertha. Maledico quel fottuto pezzo di roccia e mi preparo all’inevitabile: sapevo che avrei fatto una morte brutta, ma non pensavo così brutta. Attimi di silenzio: Big Bertha ha fatto cilecca. Il ragazzo è ansimante, con la fronte appoggiata al braccio, a sua volta lasciato sugli strumenti. Ridacchia per l’emozione. - Siamo fuori scala, troppo piccoli. Questa Bertha è per le navi grandi… sussurra, come stremato.
Porca puttana, me la sono fatta sotto. - Meglio per noi. Andiamocene da qui. - sono pur sempre il capitano, un minimo di contegno. Non mi azzardo a portare fuori il muso della Valetudo, preferisco pilotare a vista dentro questo mare di pietra. Sono estremamente incazzato per via del comportamento del ragazzo. Ha deliberatamente ignorato un mio ordine, facendo a modo suo e a momenti ci rimettevamo la pelle. La nave è danneggiata e tutta la missione è stata messa a rischio. - Analizza l’attacco e vedi se scopri qualcosa, qualunque cosa! - ringhio. Troppi particolari sono sproporzionati, troppi dettagli non quadrano. Ho bisogno di indizi. Siamo fuori dalla fascia di asteroidi, finalmente. Nel Sistema Esterno, casa mia. Dove sono nato, cresciuto e arruolato. Ne avrei fatto volentieri a meno, ma mi servono soldi. Sear ha ultimato l’analisi dati: il responso è che l’urto con il masso non è stato naturale. Secondo i calcoli di SIGMA, ci avrebbe dovuto sfiorare. L’unica spiegazione è che la Ghibli abbia bombardato la fascia con ordigni a concussione, creando una specie di onda che ci avrebbe travolti e schiacciati. Danneggiati, in avaria, è la stessa cosa. Bastava che ci fossimo fermati e ci avrebbero abbordato. Cancellati dalla faccia dell’universo, forse anche meglio. In che cazzo di storia mi sono andato a ficcare? - Capo, sei un gran pilota sai? Abbonati i mille pezzi. - dice Sear, un po’ ripresosi. Cade male, stavolta. Ho un diavolo per capello, il che è tutto dire. Blocco la nave a distanza di sicurezza dal Sistema Interno. Hanno caricato le armi a particelle ma dubito che le avrebbero usate. Un cilindro di O’Neill distrutto da un raggio vagante, sparato da una nave della Confederazione Terrestre avrebbe sicuramente portato a un nuovo conflitto, in questa pace armata e già precaria. Però perché devo essere io lo stronzo che verifica quanto sono pronti a rischiare? Giro il seggiolino verso il ragazzo; si sta guardando la punta delle scarpe, sa di avere fatto un cazzata. Ma con me non attacca, non ci andrò leggero.
- Credi ti dia ordini a casaccio? - inizio, trattenendomi e domandandomi quanto resisterò. - Capo, veramente… - fa lui, evasivo. - Ti assicuro che non è il momento di chiamarmi capo. Che t’è ato per la testa? - riprendo. - Ho solo pensato che era meglio avere un occhio aperto… - si giustifica, girandosi a guardarmi. - Questa è la mia nave, la mia missione. Tu vieni pagato per il tuo lavoro. Fine dell’argomento. Esegui i miei ordini senza discutere, d’ora in avanti. Il mio tono non ammette repliche e sento il mio sguardo duro e tagliente. Eppure lui riesce a ribattere. - Dai, capo! Siamo ancora vivi, interi e pronti all’azione! È presuntuoso, svampito e infantile. Assolutamente menefreghista ed egocentrico. Ho capito chi mi ricorda: me. È troppo: io non mi sopporto, lui non lo reggo più. Scatto dalla poltrona e do un pugno sulla sua console. - È grazie al radar che ci hanno trovato, razza d’idiota! - urlo. Ha gli occhi atterriti e si è schiacciato contro lo schienale. - Non ho voglia di morire, ragazzino di merda! Te lo giuro sul braccio buono: prova solo a fare un’altra stronzata del genere e ti uccido con le mie mani! Sto gridando e non credo che il mio volto sia la maschera della felicità. - Scusami, capo. - bofonchia Sear, guardando l’armadietto alla sua destra. Respiro profondamente e mi volto per tornare al mio posto. - Non m’interessano le scuse. M’interessa che hai capito. - dico. - Afferrato, capo. Imparerò dai miei errori. - replica ricomponendosi.
- Le ultime due precisazioni.- aggiungo - Se vuoi essere veramente furbo, impara dagli errori degli altri, non solamente dai tuoi. E soprattutto piantala di chiamarmi capo. - Ok capo. Porca troia, ha le orecchie piene di plastica? Concentriamoci su quella stramaledetta gondola che è meglio, va’… Domando a Sear qual è l’entità del danno. - Il rivestimento della gondola A è pieno di crepe. Sette dei nove opto- circuiti non funzionano, probabilmente bruciati dal . Il radar a scansione laterale ha un buco visuale di 10° e 31’. Non possiamo effettuare accelerazione-c ed il 34% delle mappe a disposizione è irraggiungibile causa banchi di memoria isolati dai corto circuiti. Un’esposizione chiara, argomentata e ben esposta. Che riesca veramente a raddrizzarlo? - In compenso, il condizionatore e la macchina del ghiaccio funzionano alla perfezione. Alla grande capo! Siamo a cavallo! Mi sembrava strano; questo risponde alla domanda che mi sono posto un istante fa. - Necessita di riparazioni immediate. - sostengo - Inizia a spremerti le meningi per trovare una soluzione. - Agli ordini, capo. - risponde. Mi metto a pensare a chi possa venirci in soccorso, scarto varie ipotesi, ritorno su nomi accantonati. Mi do una manata in fronte. Certo che lui ci può aiutare. Spero che sia nelle vicinanze, altrimenti eremo un brutto quarto d’ora.
Cazzo, che lavata di testa. Bolt era veramente fuori dai gangheri. Tuttavia, ha ragione. Sono stato stupido e avventato a lasciare attivo il radar, dovevo dargli ascolto. Mi farò perdonare sbrogliando la matassa. Sfogliando le restanti mappe,
noto che siamo vicini a CASSIUS-α, un gruppo di colonie agricole ad alta intensità. Sul periferico toro di Stanford classificato come CENTAURUS-3, ci sono delle persone che potrebbero tirarci fuori dai guai, il Tuareg e i suoi. Adesso glielo propongo. - Capo, e se ci dirigessimo dagli Smantellatori? Non mi ha ascoltato, si è solo tirato una manata in fronte. Si è voltato verso le sue console, non degnandomi della minima attenzione. - Lascia perdere, pivello. - dice, con un po’ di ritardo - Ho risolto io. E poi non mi fido del Tuareg e della sua accozzaglia di tranciametallo. Mi sporgo e vedo sul pannello comunicazione una spia blu accesa, che non avevo mai notato prima. Non è un messaggio audio-video, perché sta digitando parole sulla tastiera. È qualcos’altro, sta usando un qualche tipo di codice. Cerco di sbirciare al di là della sua spalla, ma non riesco a vedere un beneamato. Finisce di scrivere e lo invia. - Capo, chi hai contattato? - domando curioso. - Lo vedrai. E smettila di chiamarmi capo. - risponde, allungandosi sul sedile. Misterioso Bolt… Che avrà in mente? - Che si fa adesso? - lo presso. - Aspettiamo. - afferma serafico. Mette su un altro pezzo di musica d’altri tempi, di quelli che gli piacciono tanto e si rilassa. Prenderò esempio. Sembra essersi calmato, dopo la sfuriata. SIGMA offre svariati diversivi; vediamo quale mi va a genio. Ah, perfetto! Un paio di solitari di mahjong mi terranno occupato e inganneranno l’attesa. Spero che non sia troppo lunga, non riesco a stare troppo senza far nulla. Magari mi vedrò comparire Bullet. Nel frattempo, schema “Drago” ti polverizzo!
L’uomo non riusciva a credere che la missione fosse così miseramente fallita. Quel pilota era abile di sicuro, ma era stato anche molto fortunato. Considerò i soldi sprecati ed i rischi corsi: il totale dell’operazione lo irritò. Il trasferimento dalla colonia era stato rapido e confortevole, sulla sua lancia personale fuori produzione battezzata “Izumrud”. Ancor prima di arrivare sulla Luna, aveva dato indicazioni per recuperare il contenitore, mobilitando il suo referente di fiducia nella Flotta Confederata e la sua nave. Si tranquillizzò per il resto del tragitto e si gustò la discesa sul satellite terrestre: oceani e mari deserti e desolati, polvere grigia, crateri di ogni dimensione che butteravano la superficie. La sede centrale gli riempì la vista di orgoglio. Era una fortezza, indistruttibile e autosufficiente, dato che l’elio-3 veniva estratto direttamente dal suolo e il sistema di produzione energetica era lo stato dell’arte. Era convinto che al suo arrivo gli avrebbero riferito che la capsula era già sulla strada del ritorno, ma le sue speranze furono deluse. Schiaffeggiò il primo attendente che gli si parò davanti e licenziò l’intera divisione investigativa: per quelle persone era meglio scomparire o suicidarsi. Il licenziamento era un eufemismo che in verità li etichettava come cavie per esperimenti balistici e batteriologici. Aveva lasciato l’hangar furente e si era diretto nel suo ufficio, dove aveva preso a eggiare nervosamente. “Quel contrabbandiere è riuscito ad attraversare il Limite e rifugiarsi nel Sistema Esterno. La pagherà molto cara.” pensò infine riuscendo a riprendere il controllo. L’ololed sulla scrivania trasmetteva ininterrottamente gli scambi delle Borse e il valore dei titoli; il suo patrimonio ammontava a 180 miliardi di eurosol, circa il prodotto interno lordo di un pianeta. Ordinò alla segretaria di insabbiare la vicenda: un incrociatore pesante in assetto da battaglia era difficile da non notare. Bisognava sofisticare le informazioni, cambiare dati, nomi, contesti; modificare numeri e cifre. Filtrare ogni webpaper, ogni sito, ogni notizia era imperativo e categorico. La gente doveva sapere solo ciò che lui voleva; la popolazione andava tenuta al guinzaglio, dovevano credere che tutto andasse bene e nulla avesse mai necessità di cambiare. Un simile, tentacolare potere era stato ottenuto con ogni mezzo lecito o meno. Ricatti, corruzione, estorsioni, perfino rapimenti erano stati necessari per
assicurargli il dominio sulla gestione delle informazioni. Esercitare tale influenza gli procurava ogni singola volta un piccolo orgasmo. Si rallegrò osservando il pianeta Terra immaginandosi di stringere quella pallina blu in buona parte avvelenata e disabitata tra le mani; voleva di più, sempre di più. A ogni costo. La sua assistente irruppe nella penombra dell’ufficio, con aria trafelata. L’uomo era basso e la grande finestra triangolare su cui la sua sagoma si proiettava lo faceva apparire ancor più piccolo. La donna avrebbe riso se le circostanze lo avessero permesso. Si bloccò a metà del tragitto, come per attingere ad una riserva di emergenza di coraggio. L’uomo la guardò con un sorriso sinistro. - Signore… La navetta è… - non riuscì a terminare la frase. L’uomo fece due i verso di lei con espressione cupa, le labbra rifatte deformate dalla tensione. L’attaccatura cauterizzata dei capelli ebbe un sussulto. - La navetta è svanita. - disse incredula lei stessa. L’uomo si voltò e tornò al suo posto d’osservazione. Provava una rabbia sorda che rischiava di minare la sua capacità di giudizio. La segretaria si fregò convulsamente le mani. - Trovatela. Immediatamente. - ordinò con il suo imibile tono. La donna schizzò via per trasmettere ordini e direttive. L’uomo restò con le gambe leggermente divaricate nei pressi dell’enorme cristallo blindato osservando, scrutando, calcolando. La sua volontà era a prova di bomba. Non avrebbe fatto un solo o indietro. Pensò “Giornata di sparizioni, oggi. Insegnerò al prestigiatore che i trucchi sono fatti per essere svelati, l’ultima lezione della sua vita.” Andò verso la toilette per una dose supplementare di composti cosmetici.
Das Spiegel
(Chemical Brothers, 2007)
Rinfrancato dalle dolci sonorità folk di Bob Dylan, il capitano Bolt si permise il lusso di tirare il fiato. Cominciò a rimuginare su quanto accaduto, cercò di concepire le reali dimensioni della grana in cui si era andato a cacciare. Si guardò un istante il braccio sinistro, lucido, scintillante. Chiuse le dita immaginando il tocco della pelle, quella vera, ma si ritrovò solo una sensazione di freddo molto attutito e sorrise amaramente. La spia blu era ancora spenta quando partì “Like a rolling stone“ : quella canzone gli piaceva molto e decise che era l’adatta colonna sonora per i suoi pensieri. Incrociò le mani dietro la nuca e reclinò leggermente il sedile. Gettò un occhio a Sear e lo vide intento ad inveire contro il mahjong di SIGMA. “Marmocchio…” pensò il capitano, con una smorfia “Mi riprenderò i mille pezzi battendolo al gioco. Alla faccia di Poe!”. Molte cose richiedevano la sua attenzione, prima fra tutte chi, nel Sistema, aveva l’influenza necessaria a sguinzagliargli dietro un leviatano come la Ghibli. Non pervenne a un nome ma già le sole possibilità lo fecero rabbrividire. Questo ragionamento lo portò di conseguenza al secondo punto della scala logica: cosa c’era dentro quella capsula? All’apparenza era un normalissimo contenitore criogenico: un cilindro in lega metallo-policarburi blu cobalto, lungo circa due metri e mezzo e raggio esatto di un metro e mezzo. Per avvisare del carico biologico, aveva due bande gialle e nere nel verso della lunghezza. Bolt aveva imparato presto che in molti casi l’ignoranza è beata, ma in questo frangente cominciava a credere che il motto non valesse più. Non sapeva ancora con certezza chi potesse esser il responsabile suoi recenti guai, ma se avesse saputo cosa voleva, poteva almeno sperare di contrattare, di parlamentare qualche scappatoia. “Al diavolo! Risolverò anche questa faccenda! Se pensano che mi arrenda così, si sbagliano di grosso.” si disse, facendosi coraggio. Il suo display trillò interrompendo le riflessioni. Canale protetto, flusso dati sub-
atomici, completato; il Banchiere lo avvisò che era tutto in regola, il pagamento era arrivato, il lavoro poteva procedere. “Ti pare facile, vecchio avvoltoio…” pensò accomodandosi nuovamente. La notizia lo tirò su un pochino, facendolo sciogliere lievemente. Niente di percettibile, sia chiaro: aveva allentato la palpebra destra, per la contentezza. “A che servono i soldi, se non te li puoi godere?” filosofeggiò aspramente. Sentì il ragazzo esultare e si girò. - Cos’ è sto casino, bamboccio? - domandò secco. - Scusami capo! E’ che ho battuto il record nello schema “Gatto”! - rispose l’altro, felice. “Pivello maledetto! Il mio record…”pensò il capitano. Tornando a girarsi, ordinò a SIGMA di riprodurre “Hoppipolla” dei Sigur Ros; aveva bisogno di calmarsi. Dopo qualche nota, riprese il filo dei suoi pensieri, come previsto. Lasciò vagare la mente, osservando lo spazio profondo. Fissò Giove in lontananza, un sole mancato con il suo gruppetto di pianeti, meno rosso di Marte e immensamente più grande. Le idee seguivano le loro libere associazioni e lo portarono su Europa, il satellite ghiacciato, l’altra tappa del suo viaggio. L’elaboratore fece avanzare la playlist e, con gli occhi socchiusi, Bolt, dirottato dalla musica solenne di “Lux Aeterna”, fece un salto nel ato, un balzo nella sua memoria a vicende e tormenti che apparivano distanti ma che gli segnavano tutt’ora l’anima. Tornò indietro di vent’anni, rivide l’incidente e lo schianto della navetta allo scoppio delle ostilità, il costone bianco che gli arrivava addosso e lui che non ce la faceva a sostenere il peso. Ma non mollava la presa, non lo lasciava cadere per centinaia di metri, verso fine sicura. Il dolore, il braccio che veniva reciso dalla mole di ghiaccio, l’urlo straziante e infinto che lanciava piangendo. Lo svenimento da stress, quando la tuta sigillò il danno con silicone polimerico. Il silenzio della camera d’ospedale che lo accolse al suo risveglio, lo avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni, ne era certo. Cercò di scacciare quel ricordo ma non vi riuscì, colpa di quella maledettissima canzone. Era stato salvato dagli australiani che avevano colonizzato il satellite molto tempo addietro. Trascorse tre mesi di convalescenza nelle sfere isotropiche, grandi come città e collegate come un struttura cristallina. Fu come risvegliarsi quando si sogna di correre e si cade, un tuffo al cuore. Si vide riflesso nel cristallo e gli venne voglia di dare un pugno così forte da frantumarlo. La spia blu prese a lampeggiare e il capitano si girò di scatto.
Sear se n’era stato quieto e buono per tutto il tempo, ma la spia non l’aveva mai persa di vista e la notò quasi prima di Bolt. Vide l’uomo trasalire per un istante e quasi si spaventò. Il capitano era tornato bruscamente alla realtà e si affaccendava agli opto-monitor. Il ragazzo seguiva il procedimento dalla sua postazione; Bolt stava aprendo una connessione radio a brevissima distanza, un altro residuato dello scorso millennio, un anacronismo. Vide il capo tirar fuori una cuffia con jack e collegarla al pannello: comunicazione riservata, commento tra sé, il giovane. Escluso dall’interlocutore, Sear poteva ascoltare solo la parte recitata da Bolt e la cosa lo divertita parecchio, chissà perché. - Vi ricevo forte e chiaro. Ce ne avete messo di tempo. Pausa. - Sì, ho scaricato le coordinate. Mi ci porto subito. La Valetudo s’inclinò di dieci gradi a destra, 15 gradi in basso, rotta d’attracco 601. “Attracco a cosa? Non c’è nulla laggiù.” pensò Sear, consultando gli strumenti. La situazione si avviava per una china ancor più strana. La mente dell’analista fremeva d’interrogativi e Bolt l’aveva compreso, perciò quando Sear parlò non lo colse impreparato. - Capo, non voglio fare il rompino ma con chi è il rendez-vous? - chiese quando non riuscì più ad arginare la curiosità. Seguì un secondo di stasi, di attesa voluta affinché il capitano seppellisse in fondo al cervello quell’incubo che involontariamente aveva rivissuto e che ancora non l’aveva completamente abbandonato. E soprattutto perché tenerlo sulle spine lo considerava una piccola rivalsa per tutte le fesserie che aveva fatto. - Con la Vengeance. - affermò Bolt. Lo disse senza enfasi, rimanendo concentrato sulla navigazione a vista. Un nome che alle orecchie di Sear suonava più o meno come una leggenda. Infatti rimase letteralmente a bocca aperta.
Sono assolutamente senza parole. Non ci capisco più nulla. La Vengeance? Che
c’azzecca Bolt con la nave ribelle, terrore del Sistema Esterno, comandata dal famigerato e ricercatissimo capitano Shark? Riguardo allo sfuggente capitano della Vengeance, me ne ha parlato vagamente Toshi: secondo l’armiere è imbattibile, l’uomo più forte di tutto il Sistema Solare. Non mi pare vero che potrò conoscerlo. Nel frattempo, meglio richiudere la bocca: devo avere un’espressione davvero ebete. Il capo si gira un attimo a osservarmi e sembra sorpreso nel constatare che non abbia nulla da commentare. Allora, tanto per smentirlo chiedo: - Capo, quella Vengeance? Il super vascello fantasma che nessun esercito è mai riuscito a scovare? Quello che secondo molti nemmeno esiste?- Naturalmente, pivello. Quante altre ne conosci? - risponde, tra il seccato e il sufficiente. - Procedo a velocità di crociera. Vettore di avvicinamento ottimale. Parla all’operatore della Vengeance che lo sta guidando. Guardo fuori dall’oblò per cercare le luci di navigazione ma resto molto deluso nell’apprendere che non c’è l’ombra di una nave nel raggio di almeno centomila chilometri, i miei dati lo confermano. Campi magnetici, traiettorie di pianeti, comunicazioni non protette, posso seguire praticamente qualunque oggetto entro un certo raggio con i sensori della Valetudo: siamo soli. Solo la comunicazione radio mi è preclusa, anche se ho delle riserve sulle frequenze che utilizza; alcuni sistemi sono appannaggio del capitano. Le coordinate in nostro possesso dirigono in un sito appena fuori dall’orbita di Ganimede, una zona completamente sgombra, in pratica estranea alle rotte commerciali. - Capo, ma che succede? - domando smarrito. - Occhio fuori, ragazzo. Questa non te la devi perdere. - fa Bolt accennando ad un punto imprecisato all’orizzonte, a prua della nave. C’ho già provato; nulla, niente, nada, nisba. Eppure il mio intrepido capo vola sicuro, puntando verso il vuoto cosmico. - Sono a centocinquanta chilometri. Fatevi vedere, ragazzi. - dice Bolt al microfono, scrutando attentamente all’esterno. - Capo, seriamente, dove stiamo andando? - chiedo, un po’ scocciato.
- Piantala di chiamarmi capo. - Va bene capo, ma se tu… - si volta. - Vuoi darci un taglio? Là. Sta indicando a destra della nave: nero con piccole sfere d’argento. O no? Ma cosa…?! Mi avvicino verso il cristallo fino a spiaccicarmi la faccia sulla sua superficie. Me lo sono sognato. E invece no: eccola di nuovo. Si direbbe un’increspatura, ma non è possibile. Bolt sorride. Una porzione di spazio comincia a vibrare. È come vedere un sasso tirato nell’acqua, solo che la pozzanghera in questione è verticale. È assurdo, anormale, incomprensibile. Non è una fluttuazione gravitazionale; troppo piccola e circoscritta. Generata dal nulla, peraltro. No, è qualcos’altro. Un momento. Il cervello viaggia molto veloce; mi capita sempre quando sono di fronte ad un avvenimento che smuove la mia mente. Mi riporta indietro ad almeno quattro anni fa, a una conversazione avuta con il professor Aokiji. Si parlava di alcune equazioni non-lineari e delle loro possibili applicazioni pratiche. A me non venne in mente nulla di particolare, però il professore aveva avuto un’intuizione niente male su come utilizzare quelle formule. Le sviluppammo per qualche tempo, ma non ottenemmo i risultati sperati. Possibile che a bordo della Vengeance ci siano riusciti? Chi è stato questo fenomeno? - Capo, non verrai mica a dirmi che sto guardando una nave coperta dall’L.S.C.? - domando. Trattengo il respiro, mentre attendo una risposta. - Bravo, pivello. Vedi che quando ti applichi, cazzate non ne spari?! - risponde Bolt, ammonendomi con l’indice sinistro. - Ma come sono riusciti a farlo funzionare? - incalzo. - E smettila di rompere! Tra poco glielo potrai chiedere. Ora, zitto e lasciami pilotare in santa pace. Incredibile, assolutamente incredibile.
L.S.C. acronimo per Light-Spiegel Colloid, l’ultima frontiera della mimetizzazione. Tralasciando tutta la teoria matematica che c’è alla base, è in pratica un fluido elettromagnetico, composto da atomi e ioni selezionati, posti sulle linee di forza di campi magnetici a bassa intensità. Detta in maniera ancora più spicciola, questo fluido riesce a curvare suppergiù tutte le lunghezze d’onda dello spettro, proiettando sulla superficie sulla quale si trova l’ambiente circostante, grazie alla finestra del visibile e deviando lievissimamente tutte le altre. Il giovane Sear non riusciva a spiegarsi come potesse essere in possesso di una ciurma di bucanieri stellari e funzionante per giunta. In realtà, l’intenzione di Aokiji era di costruire pannelli solari orbitanti ad alta efficienza di spessore atomico, ma la trattazione numerica per le superfici necessarie aveva presentato ostacoli pressoché insormontabili e l’idea venne accantonata. La Flotta, però, venne a conoscenza di questo potenziale inespresso, se ne appropriò pagando profumatamente l’Universidad Catolica de Chile e lo usò per produrre il sistema di occultamento perfetto. Solo che non vi riuscì: c’erano grossi problemi con le cariche formali, ancora irrisolti. Almeno, questo era ciò che Sear presumeva, ma, si sa, nella vita non si smette mai d’imparare. - Sear, lidar di prossimità sulla zona d’interferenza. - ordinò il capitano Bolt, manovrando con inversori e attenuatori. - Ci sono, capo. Anche se non si vede nulla… - rispose prontamente l’analista. - Ancora un attimo. - disse Bolt, aggiustando l’assetto. Si sentivano le interazioni con il campo provocato da Giove, la nave faceva un po’ le bizze. Sear osservò attentamente l’ololed del lidar finché non vide comparire una porta, un varco nello spazio tridimensionale, uno strappo rettangolare nel cielo. Un buco alto undici metri e largo ventiquattro, alla distanza di novantotto chilometri e settecentotrentacinque metri in rapida riduzione, all’ombra di Ganimede, pieno di chiaroscuri e crateri da impatto sulla crosta bianca e gelida. - Lo vedo, capo. Hangar avvistato a 006, virare di 16° a dritta, ridurre potenza al 68%, attenuatori centrali al massimo, inversori di poppa attivi. Sembrava un analista navigato, parlava come Gripen. Un solco simile ad un sorriso si disegnò sul volto di Bolt. Dell’incubo di poco prima, restava ben poco. - Alla via così, pivello. - esclamò il capitano. Si accostò il microfono alle labbra.
- Avvicinamento corretto, portellone tracciato. Arriviamo. o e chiudo.Tolse la cuffia e si ò la mano metallica sul cranio calvo. - SIGMA, ci vuole la canzone adatta. Riproduzione file AA-790. Dai diffusori dell’impiantò, si riversò una traccia di musica elettronica del XXI secolo, intitolata “Das Spiegel”, dei Chemical Brothers. Il capitano aveva un certo senso dell’umorismo, di tanto in tanto, ma il povero Sear non ne colse l’ironia. Però il brano non gli dispiacque affatto; si muoveva a ritmo con la spalle, tenendo sotto controllo tutta la sua postazione. “Se balla questo pezzo, non dev’essere proprio da eliminare. Speriamo che non combini altri numeri o mi troverò costretto a prendere provvedimenti drastici.” rifletté il capitano. La Valetudo proseguiva verso la perturbazione, assumendo la traiettoria d’ingresso adeguata: mancavano pochi minuti al contatto con la Vengeance. Sear era tutto indaffarato a tenere d’occhio parametri di navigazione e trasduttori di prossimità, ma osservava rapito quel foro nell’universo nero. - Va bene ragazzino, ci siamo quasi. Adesso voglio che mi ascolti per trenta secondi. - iniziò improvvisamente il capitano. L’analista annuì in risposta. Bolt ne fu commosso: magari stavolta sarebbe riuscito a non fare una figura catastrofica. - Avrai a che fare con gente molto tosta, probabilmente la più tosta in assoluto. Il mio consiglio è di darti una regolata e di tenere a bada la lingua perché se li fai incazzare ci mettono veramente poco a farti fare la fine di Alien. - Lo prendeva in giro: non erano i predoni spietati che si raccontava nelle storie. Erano voci sparse apposta come misura cautelare aggiuntiva. Bolt ci godeva a veder friggere il pivello nel suo stesso brodo. - Di chi? - disse il ragazzo, grattandosi il naso. Il capitano scosse solo testa, prendendo atto che i suoi interessi erano veramente fuori da ogni moda. Si bloccò un istante per verificare la bontà della rotta e poi proseguì. Il pezzo proseguiva e Sear si dimenava come uno scemo. - Esempio: il capitano Shark si chiama in realtà Morgan Stavros e ci tiene molto
all’etichetta quindi quando lo incontrerai ti rivolgerai a lui presentandoti e dicendo “Capitano Stavros, è un onore essere a bordo della sua nave.” Credi di esserne in grado? - Tutto qui? - chiese Sear, un po’ perplesso. - Tutto qui. - confermò Bolt, con un gesto della mano. - Una eggiata, capo. - replicò con sicurezza il ragazzo. - Voglio vedere. E piantala di chiamarmi capo. - concluse l’affabile Bolt. La loro meta si avvicinava a vista d’occhio, riuscivano di già a scorgere pallide luci led bianche all’interno dell’hangar. Il pezzo era arrivato alla sua fase culminante; Bolt trasse un lungo respiro e condusse la nave all’interno della rimessa. Sear si allontanò dagli strumenti e guardò are al fianco i ballatoi, gli esoscheletri da carico, le postazioni di contatto, i segnali d’allerta. Era un hangar come milioni di altri, solo che essere lì significava essere complici di crimini punibili con la Yudecca; si parlava di esilio volontario su qualche colonia religiosa nei pressi di Venere. Non era mai stato così eccitato: aveva un sorriso a settantotto denti che mai Bolt aveva visto, addosso a nessuno. Decise di riportarlo ai suoi doveri. - Sear, sveglia! Fu come attraversato da corrente a bassa intensità; gli ci volle un secondo per mettere a fuoco il suo capitano. - Eccolo! Volo di stazionamento, attenuatori 85%, inversori spenti. - comunicò dopo un brevissimo consulto con SIGMA. Il capitano fu felice di constatare che il ragazzo era operativo e abile, ma sbadato al cubo. - Estrazione carrello: taratura interni. - impartì retoricamente Bolt poiché Sear aveva già provveduto. Il ragazzo si portò accanto a Bolt, scrutando ogni minimo particolare del nuovo ambiente: notò che c’era qualcuno nel vano con vetri opachi sovrastante la baia A, vide delle ombre muoversi. Nuovamente, pensò all’elusività mitologica della
Vengeance, perfettamente e scientificamente spiegata dal ricorso all’L.S.C. e s’immaginò tutti i membri dell’equipaggio cosparsi da quel liquido, invisibili. Sghignazzò. Si attendeva una ramanzina dal principale, una paternale sulla serietà e l’ospitalità. Invece Bolt lo guardò con mezzo sorriso e un sopracciglio alzato, non disse nulla e si alzò. Sear gettò un occhio scrupoloso agli elementi del carrello: tutto liscio. - Piedi 1, 2 e 3 estratti, compensazione di spinta, peso distribuito: Valetudo attraccata. - disse, con una certa soddisfazione. Si stava affezionando veramente a quella carretta piena di sorprese. - Paratie 1 e 2 sigillate, normalizzazione atmosfera, gravità artificiale inserita. Benvenuti a bordo, signori. - disse l’altoparlante del cockpit, con voce baritonale. Ora lo vedeva con chiarezza: il suo capitano era cambiato, la postura stessa si era modificata. Le spalle erano sciolte, mentre si metteva il giubbotto. I movimenti erano meno circospetti, la guardia era appena più bassa. L’espressione, costantemente corrucciata e vigile, sembrava adesso più rilassata, conciliante. Al che il ragazzo venne colto da un’illuminazione, una folgorazione si potrebbe azzardare. “Siamo a casa sua.” si disse. Gli uomini non hanno criteri oggettivi per gran parte delle loro scelte: alcuni si sentivano bene solo nella giungla, altri se non erano attorniati da pareti di cemento non si sentivano al sicuro. Valeva anche per lui; il Blue Bell, Toshi, Bullet e Argento erano casa sua, la sua famiglia. Per il suo capo, essere a proprio agio, sentirsi tranquilli equivaleva a calcare i ponti di quella nave corsara, attorniato da personaggi al limite del romanzesco. Fu colpito egli stesso dalla profondità del ragionamento perciò non fu sicuro d’aver fatto centro, non c’era abituato. Bolt diede un colpetto a pugno chiuso sul pulsante di apertura. I pannelli scivolarono all’interno dello scafo in direzioni opposte, lasciando posto a una rimessa molto grande e ben illuminata. Il capitano salto giù atterrando in bello stile dai due metri e ottanta che era la taratura da interni. La porta che dava all’interno della Vengeance si aprì a iride e Sear sentì distintamente uno scalpiccio, un rumore di i in rapido avvicinamento. Gli sembrò di scorgere un motore ionico, distraendosi per convincersene e calcolò male, malissimo l’angolo di atterraggio. Rotolò più e più volte a culo per terra, imprecando santi
di diverse cosmogonie. Il “Ben ti sta, pivello!” esclamato da Bolt fu vittima dell’effetto Doppler, visto che il capitano stava procedendo verso il varco interno. - Op-là! Colpo di reni e Sear era di nuovo in piedi e pimpante, gasatissimo. Vide arrivare un nutrito e variegato gruppo di persone; due donne, una rossa e proporzionata, l’altra mora e alta, un giapponese tutto composto, un tizio allampanato con corti capelli ossigenati, un signore con la coda grigio ferro. Una specie di colosso nero si avvicinò a Bolt e gli afferrò la mano, scuotendola vivacemente. Sovrastava il suo comandante di buoni trenta centimetri, quindi doveva essere alto all’incirca due e dieci, anche due e quindici, stimò l’analista. Più di centoventi chili, muscoloso e solido. Un totem di mogano. Adagiandosi sugli allori dall’acuta riflessione di poco prima, ci mise un po’ a collegare però in ultima analisi ci arrivò. Era il capitano Morgan “Shark” Stavros, l’uomo più ricercato del Sistema Solare.
È lui, è Shark! È enorme, cazzo! E guarda come saluta Bolt! Sembrano vecchi amici. E tutto il gruppo di comando, lo stato maggiore della Vengeance è venuto ad accoglierci. Corro lì! Mi pianto un o dietro il capitano e resto impressionato dalle dimensioni di Shark; a questa distanza sembra di guardare un pilone di poliacciaio, basta l’ombra a schiacciarmi. Possiede uno sguardo estremamente espressivo, il volto scolpito e qualche capello bianco nella chioma colore notte. Sento anche sprigionarsi un grande carisma da quest’uomo e arrivano vibrazioni positive da tutti i presenti, principale compreso. Chi sono, in realtà, questi ceffi? Certo che è veramente impressionante, però… Merda, un po’ più grosso e lo catalogavano come asteroide! … Ma siamo sicuri che questa battuta l’abbia solo pensata?
E invece il temerario Sear l’aveva pronunciata a voce bella alta, scandendola per bene. Shark si abbassò per guardarlo meglio, aggrottando la fronte. Bolt lo fissò istupidito, chiedendosi come potesse essere così scriteriato. La rossa si coprì la bocca, soffocando una risata. La mora anche si portò un dito alle labbra. L’ossigenato diede di gomito al tizio con la coda che se la rideva della grossa. Il giapponese storse il naso, ma alla fine si rallegrò pure lui. “Ma cosa mi è saltato in mente?” si domandò Sear alzando gli occhi al soffitto e immediatamente decise di rimediare. Sbiancato, si mise sull’attenti e si schiarì la voce. - Cioè, volevo dire… - iniziò esitante - Io sono Sear, analista di sistemi a bordo della Valetudo, signore, capitano Shark… No, scusi, capitano Stavros, signore… Stavros non mutò il suo profilo squadrato, anzi si avvicinò ulteriormente, con fare minaccioso. Il ragazzo sudò freddo, deglutì a vuoto e pensò “Cazzo, adesso mi lanciano fuori!” Shark gettò indietro la testa e iniziò a ridere, un suono bassissimo, una nota lunga come la Via Lattea e fu seguito da tutti gli altri. Il ragazzo si rilassò e si colorì leggermente, pregando di averla fatta franca. - Lei dev’essere Virgil Stephanos Searjianovic. - interloquì il mastodontico Stavros - È un piacere conoscerla. Sapeva il suo nome completo, quello con cui veniva chiamato all’appello al corso di analisi superiore, anche il secondo nome dedicato al nonno materno. “Giornata piena di colpi di scena, oggi.”, si disse strabuzzando gli occhi. - Venga, le presento gli ufficiali. - lo invitò, mettendogli sulle spalle un ramo di sequoia simile ad un braccio. Bolt era molto divertito, specialmente perché aveva scoperto il ridicolo nome di Sear. - Virgil! Ti chiami Virgil! - gli si rivolse ridendo, per la prima volta.
Stranamente, la risata non somigliava al suo possessore; era sguaiata ed acuta, l’esatto opposto di Bolt. Si dava anche delle manate sulle ginocchia. In breve, si stava sbellicando. Sear proferì oscenità tra i denti e si giurò di svelare il nome del suo capo e sincerarsi se aveva motivi per ridere a quel modo, anche se non sapeva come fare, visto l’alone di riservatezza che circondava quell’uomo. Il capitano Stavros lo guidò in prossimità dell’accesso ai ponti e diede inizio ai convenevoli, partendo dalla ragazza dai capelli rossi. Era bella e aveva due occhi verdi che t’imploravano di tuffartici dentro. - Domino Blomqvist, primo ufficiale e tattico. - disse Shark. Domino porse la mano e Sear, esibendo il suo sorriso più accattivante, allungò la sua. “Hai capito, l’arrapato. Non si fa mica pregare.” constatò Bolt, nella sua mente. Aveva già salutato a modo suo: impercettibili segni e sguardi eloquenti. I membri dell’equipaggio non si aspettavano diversamente e lo ricevettero con il medesimo principio. La stretta di Domino fu un po’ troppo vigorosa e Sear se ne accorse. Gli sembrò che la ragazza si stesse tenendo. “No, aggrappando. Ecco il verbo adatto.” si corresse, ignorando comunque la ragione di tale energia. - Gran bella stretta, signore. - fece il ragazzo, riferendosi a lei in gergo militare. - A braccio di ferro, solo il capitano mi batte. - rispose lei a tono - Chiamami Domino, lascia perdere i gradi. - concluse con un sorriso. A quella breve distanza, Sear poté apprezzare le forme aggraziate del suo corpo, nonostante la tuta di volo tentasse di celarle. - Ok. Domino. - disse il ragazzo, abbassando la voce. S’era preso una cotta istantanea, il fascino l’aveva colto in contropiede e sbattuto per terra. Stavros rise sotto i baffi e lo portò oltre. Il capitano Bolt stava calcolando l’entità dei danni e parlava fitto con un meccanico. - Shintaro “Shuriken” Hanazawa, ufficiale armamenti e capo della sicurezza. Era un giapponese, tutto rigido e serio. I capelli corvini, portati corti, erano solcati da un striscia di capelli bianchi che andava dalla tempia destra alla nuca. - Benvenuto sulla Vengeance. - disse con un tono inaspettatamente caloroso, scuotendogli la mano.
- Il piacere e l’onore sono miei, signor Hanazawa. - rispose il ragazzo, facendo un piccolo inchino e sperando di azzeccarla, almeno stavolta. Shuriken s’inchinò a sua volta e il dubbio svanì. - Etienne “Brujo” Mallberg, analista, comunicazioni ed L.S.C. - annunciò il capitano Shark. “Allora è lui, il fenomeno!” pensò Sear e si affrettò a prendergli la mano. - Ciao ragazzo. Lo sai che per far funzionare quel dannato coso sono partito dalle formule tue e di Aokiji? - gli disse allegramente. Gli fu subito simpatico, quel tipo finto biondo, alto ma con la pelle olivastra e gli occhi azzurrognoli, screziati di nocciola. - Ma grandissimo! - fece il ragazzo, abbracciandolo. Brujo rise di gusto e gli diede due pacche sulla schiena. Gli strizzò l’occhio e lo lasciò proseguire nelle presentazioni. - Dottor Leto Yueh, medico di bordo e “giardiniere”. Un signore di cinquant’anni ati, con gli occhialini rotondi, capelli grigi della consistenza del fil di ferro e la barba curata. Gli occhi vispi lo indagarono e il ragazzo si guardò intorno, incredulo che quell’attenzione fosse tutta per lui. - a da me che ti do degli integratori e delle vitamine ad ampio spettro.- gli disse con voce nasale, mentre gli tastava il polso. - Sissignore. - fece il ragazzo con tanto di saluto. Restava la stangona mora. - Dottoressa Ekatarina Gutenberg-Pavlov, ingegnere propulsivo e capomeccanico. “Adesso me la gusto. Se gli ormoni avranno il loro corso, è fatta. “pensò Bolt. Lo sguardo sognante del ragazzo era molto più esauriente di mille discorsi. - Dottoressa, è un sommo piacere conoscerla. - fece lui esibendo tutto il suo charme.
- Il piacere è mio, Virgil. - rispose sorridendo, con la voce pacata ma ferma. Si era innamorato di nuovo, quel pistolone. Bolt seguiva la scena da poco distante e fece cenno al meccanico d’interrompere i rilevamenti e buttare un occhio. Mica lo sapeva, Sear, che la dottoressa Pavlov era la compagna di Shark e il bastardo Bolt lo aspettava al varco; Morgan non avrebbe di sicuro fatto il diavolo a quattro, non era nella sua indole: quella matricola ciarliera se la sarebbe buttata alle spalle con un buffetto e due risate. Però il capitano Bolt era ansioso di tastare la resistenza di Virgil (che razza di nome! pensò) alle figure barbine. - Se non appaio troppo scostumato, sarei lietissimo di offrirle da bere, una volta o l’altra. Altrimenti, potrebbe farmi vedere la nave. Non perdeva tempo, lo smilzo Sear: aveva tentennato con Domino, ma con la Pavlov era andato veramente lungo. Shark, uomo dall’acume fuori dalla norma, notò la differenza tra i due approcci. Quello con la sua Kat era un gioco, un modo per mantenere la reputazione che il ragazzo voleva crearsi e che nel suo pensiero esisteva già. - Se il mio compagno non ha nulla in contrario, volentieri. - rispose lei, impeccabile, indicando il capitano Stavros. Sear alzò lasciò cadere il mento sul petto e si girò fronteggiandolo. Bolt e il meccanico non stavano nella pelle, attendendo la replica del ragazzo. Gesticolando animatamente diede il via alle giustificazioni. - Capitano, sono costernato. Ma si metta nei miei panni: vedo una stangona così è normale che ci provi… - si bloccò nuovamente nella gaffe, come una statua di sale. “Eccheccazzo!” pensò mestamente Sear. Shark rise anche più forte di prima e gli diede una pacca sul braccio che lo spostò di un metro buono. - Signor Searjianovic, lei è veramente uno so! - esclamò Stavros. Sear ringraziò Dio o chi per lui, poiché gli occupanti della Vengeance non erano minimamente come glieli avevano descritti e come il capo glieli aveva fatti immaginare; sanguinari, spietati e feroci. L’aura che sprigionavano fece molto effetto sul ragazzo: erano di un’altra pasta, non si rivelavano pirati da quattro
soldi, erano diversi. Individui come loro, nella sua giovane vita, non ne aveva mai incontrati. Si rese conto che poteva solo imparare e tanto. Brujo gli poggiò pesantemente un mano sul collo, sghignazzando. - Te lo faccio fare io, il giro della nave! - disse - Se il capitano e Bolt sono d’accordo… Morgan Stavros li guardò per un attimo con finta diffidenza, poi parlò. - È affidato alla sua custodia fin tanto che sarà nostro ospite, signor Mallberg. Brujo rispose con il saluto. Si rivolse di seguito a tutto lo staff di comando. - Tornate tutti ai vostri compiti, signori. Abbiamo tutti molto da fare. Il tono era deciso e pronunciò quella frase immobile con le mani dietro la schiena; Sear lo guardò rapito, sentendone l’autorità: stava egli stesso per andare a fare qualcosa. Lo paragonò a un monolite nero, un’immagine alquanto singolare. Bolt e il meccanico, che si chiamava Samir, dopo essersi goduti la sfilza di male comparse, erano tornati a discutere del danno. Nell’hangar erano rimasti in cinque, Domino era uscita per ultima. Virgil ebbe una strana sensazione e si voltò verso la porta a iride. Con la coda dell’occhio, notò che la ragazza l’aveva guardato, ma non riuscì a decifrare quell’atto. Il suo principale era con le nocche sui fianchi, Samir giocherellava con un tester. Il terzetto composto da lui stesso, da Shark e da Brujo li raggiunse e osservarono la grandezza dell’avaria. La gondola era bruciacchiata e bucherellata in tutta la sua lunghezza, ma il suo capo ed il meccanico non sembravano eccessivamente preoccupati. - Un bel guaio ma meno di quello che pensavo. - disse Bolt a Shark. Parlò in una lingua sconosciuta al ragazzo, però Morgan sembrava comprenderla senza alcuna difficoltà. - La Valetudo è resistente, ma avete rischiato. - convenne Stavros, sempre in quel
linguaggio ignoto. - Samir, un parere da esperto per favore. - domandò al meccanico, finalmente con frasi comprensibili. - Grande Giove! - fece il meccanico, calcando le gi - Si deve rifare la schermatura e ripristinare la sezione del rivestimento. L’ho già detto a Bolt: non meno di tre ore e mezza, se lavoriamo io, Golda e Shi. - concluse quell’ometto un po’ tarchiato con la voce di un tono troppo alto. Shark guardò Bolt in attesa. - Posso aspettare. - affermò sospirando. Dopo un breve momento di distrazione, la sua mente era tornata a concentrarsi sulle fasi dell’incarico e sui pericoli che sicuramente li stavano attendendo. Quel tempo gli poteva tornare utile per riflettere, fare chiarezza e consigliarsi con il vecchio amico Morgan. - Il signor Mallberg si è offerto di far visitare la nave al signor Searjianovic. Tu che ne dici? - gli chiese, cadendo a fagiolo. Bolt diede il suo assenso facendo “sì” con la testa. - Grazie capo! Ci vediamo dopo! Se avete bisogno di una mano per le riparazioni… - fece Sear, rivolto anche a Samir. Bolt lo congedò con un cenno ed egli si avviò trotterellando dietro Brujo dopo aver salutato. Pure Samir si congedò, per andare a chiamare gli aiutanti e dare inizio ai lavori di manutenzione. Rimasero soli in quel vasto spazio, Bolt e Shark. Il primo seguiva le linee della sua nave, annuendo e sorridendo, rivivendo ogni attimo ato ai suoi comandi. - Ti chiama “capo”. - disse ex abrupto Stavros, imitando l’atteggiamento dell’amico, parlando in quell’idioma oscuro, contando le nervature della carlinga. - Gliel’avrò predicato centotrentotto volte di piantarla. Ormai non lo sento più. rispose, con una punta di amarezza nella voce. L’hangar era quieto e silenzioso e per qualche secondo nessuno dei due disse altro. Morgan cessò di osservare il vascello e si girò verso l’altro uomo, dalla sua statura superiore pronunciò leggermente accigliato
- Dobbiamo parlare. - Non sai quanto, amico mio. Non sai quanto. - rispose Bolt, con espressione indecifrabile. Shark fece strada all’interno della nave e s’incamminarono verso i suoi alloggi privati. Avevano molto su cui ragionare.
Per tutte le braccia di Vishnu, è una cosa fantastica! Sono elettrizzato! Mai e poi mai avrei pensato di poter incontrare e scambiare opinioni con coloro che vengono identificati come i peggiori ribelli del Sistema. Eppure, eccomi qui, a fare il giro turistico della Vengeance, guidato dall’ufficiale responsabile dell’occultamento. Deve essere veramente un genio, Brujo. Anzi, un mago. Devo ricordarmi di ritagliare minimo quindici minuti per farmi spiegare, anche per sommi capi, come diamine è riuscito a fare funzionare l’L.S.C. Mentre mi porta in plancia mi spiega una caterva di caratteristiche della nave. Credo che sia un incrociatore leggero di una ventina di anni fa, viste le dimensioni dell’aviorimessa, ma non ci scommetterei. Ricevo conferma da Brujo: è una Light Battle Ship, classe Stingray. - Siamo, in pratica, autonomi. Abbiamo delle serre idroponiche per l’ossigeno e per integrare le scorte di cibo. Yueh è il responsabile e ci fa crescere dei pomodori, delle zucchine e delle melanzane che non ti dico. - dice lui, leccandosi le labbra. Ridiamo. È un arzillone, sempre pronto allo scherzo. Ma non devo lasciarmi incantare; in definitiva, anche il capo ride e non ci avrei puntato uno che fosse un eurosol. Magari, durante una manovra è di carattere completamente opposto, non lo posso dire. Però, mi piace e il sentimento sembra reciproco. Facendo strada prosegue nella lezione. - Le colture sono state ricavate dai ponti 8 e 9, originariamente dedicati alle cabine. Sai, c’è meno della metà degli effettivi a bordo. Per un istante, s’incupisce. La ragione che mi do è che, come ogni altro uomo in questo creato, ha perso qualcuno, un amico, un fratello, un amore. Sentirlo riaffiorare non è mai piacevole, lo so. Credo che su questo vascello lo capisca meno di tutti. Scuote la testa e va avanti: da quel gesto, intravedo anche la tenacia che muove questa persona e spero di poterla sviluppare nel mio carattere,
prima o poi. - La nave è provvista di riciclatori ad induzione per alimenti ed acqua: raramente siamo stati costretti a mandare una scialuppa per fare rifornimenti di vettovaglie. Il reattore Grimes-Sheridan è coadiuvato da un gruppo di pile ad accumulazione al tetrafluoruro di uranio, così, se necessario, in occultamento lo spegniamo ed andiamo a batterie, minimizzando la probabilità di essere individuati. - Tecnologia a fissione nucleare. Un po’ pericolosa, non ti pare? - domando, un tantino inquieto. - Vantaggi che soverchiano svantaggi: sono isolate e protette in un compartimento stagno e separato. In caso di necessità, possono essere sovraccaricate ed espulse nonché pilotate a distanza. - mi rassicura il mio nuovo amico, percependo il mio timore. Furbo il metodo, due volte furbo. - Diventa così una mina nucleare ad ampio raggio. - asserisco, esprimendo il sottinteso. Brujo mi fa l’occhietto e finge di spararmi, per la serie “Bravo, hai azzeccato.” Può anche servire a distruggere la nave… Pochi i e arriviamo all’ascensore maglev che ci condurrà alla plancia. Non ho fatto caso alla distanza percorsa, occupato a chiacchierare e voltandomi indietro il varco dell’hangar è bello che sparito. Ecco cosa gli volevo chiedere! - Ti volevo chiedere una cosa. - dico con educazione. - Plancia. - fa lui, rivolto allo scanner vocale. - Niente formalità. Spara. risponde, scrutandomi sornione. Il pannello del vano cilindrico si serra e uno specchio deformante riflette noi e i nostri volti, tramutandoci in mostri alieni. Che sballo! - Quei due, Shark e Bolt dico, in che lingua parlavano? - In italiano, una lingua morta mezzo millennio fa. - comincia - Come avrai potuto notare, il tuo capitano nutre un grande amore per il ato e, dato che si conoscono da più di una vita, anche il capitano Stavros è stato in parte
contagiato da questo atteggiamento. Parlano sempre in italiano, nel momento in cui non vogliono farsi capire da altri o quando non si vedono da tempo. - Mmm, comprendo. Terminata la frase, l’ascensore s’arresta ed il portello fa il gioco inverso di pochi secondi prima: siamo in plancia, il centro nevralgico della nave, il cuore pulsante della Vengeance. Mi aspetto un gran viavai di persone, di voci lanciate da un capo all’atro della sala, di ordini urlati. Invece, dopo aver attraversato un breve corridoio, l’ambiente è vuoto, calmo e silenzioso: conto due altri soggetti, Domino e Shuriken. Etienne, a braccia aperte, m’introduce, facendo spaziare lo sguardo dalla postazione di pilotaggio, a quella degli armamenti, fino ad indicare la sua, comunicazioni, hackeraggio aggiungo io, ed L.S.C. - Mira, o matricola: la Vengeance! - prorompe, indifferente agli altri astanti. - Ooooooh… - gli faccio eco scherzando, ma seriamente colpito dalla complessità e dalla razionalità del luogo. È la prima volta che visito il centro controllo di una nave da guerra. Avrà un’estensione maggiore di centocinquanta metri quadrati, su due livelli, sfalsati di un metro circa: sul piano in alto, il posto del comandante, del primo ufficiale e responsabile degli armamenti, lo conferma la presenza di Shuriken che armeggia con degli apparati. Movimenti mirati e precisi, nessuno spreco: impressionante nella sua compostezza. Sull’altro livello, pilotaggio, con distinti posti per navigatore e timoniere, operatori radar, sonar e quant’altro. Tutto di un sobrio colore beige. Ololed di mappatura, schermi lumen ad accesso virtuale, sistemi pentafasici di calcolo probabilistico-tattico, sono in paradiso… - E voi che ci fate qui? - chiede, prendendo atto della presenza dei compagni - Tu non dovresti essere a tener fede al tuo chugi? - continua, riferendosi a Shuriken. - Ryu mi ha esonerato. Quindi sono venuto qui a fare qualche verifica di sicurezza. - risponde Shintaro, un po’ mogio. Sinceramente, non ho capito una beneamata mazza di questo dialogo. Guardo Brujo con la faccia a punto interrogativo. - Te lo spiego dopo. - replica, intuendo il mio smarrimento. - Prima che me lo domandi, stavo controllando i settaggi del motore strategico. -
interviene Domino. - Sì, sì, come no… - fa lui, ammiccando. Ho seicentotrentamila quesiti che urlano, che bramano risposte articolate e motivate. Adesso stringo Shuriken e lo bersaglio per farmi dire di più sulle armi, però Brujo mi previene. Forse ha notato qualcosa nel mio comportamento; devo cercare di diventare maggiormente freddo, distaccato, più come il capo. - Ragazzo, ce l’hai scritto in fronte. Però, per come la vedo io, si discute meglio a stomaco pieno. La mensa è ancora aperta e oggi Chef Antonio ha preparato una prelibatezza: parmigiana di zucchine. Sono abituato a spaghetti indiani condensati, con aggiunta di aminoacidi, qualche polpetta di polpo e fagioli, non ho la più pallida idea di cosa sia una parmigiana di zucchine, però sono curioso di assaggiarla e che ospite sarei se rifiutassi un invito così spontaneo e generoso? - Confermo e sottoscrivo. Andiamo a rifocillarci. - affermo allegro. - Muy bueno. Ci fate compagnia? - domanda di seguito agli altri due. Incrocia le braccia sul petto e si poggia con la spalla sinistra ad una pila di server di back-up, incastonati in una scaffalatura di acciaio anodizzato. Lo registro nella mia memoria, in quella posa, come una olodiapo, come l’emblema del libero spirito di un uomo. - Volentieri. - risponde la ragazza, mettendosi in piedi. È veramente bella... - Vorrei ultimare queste scansioni, prima. Andate avanti. Nel caso, vi raggiungo dopo. - dice Shuriken senza staccare gli occhi dagli ololed. Brujo sembrava aspettarselo quel rifiuto e scrolla le spalle. - Bueno. Asta la vista, Shin. Signorina… - fa indietreggiando per lasciare il o a Domino. - Che galantuomo. Merci. - risponde affascinante. Siamo a tre i di distanza, il suo profumo m’inebria. Ma che mi succede? Imito Brujo, facendole largo e mostrandole la strada con la mano.
- Ben due gentiluomini. Quanta grazia. - dice sorandomi. Gli sguardi s’incontrano e in un breve attimo, sento che c’è qualcosa che non va. È brava a fingere, ma gli occhi la tradiscono. Sembra che porti un peso, un fardello che cerca di comprimerla. Sento enorme forza e determinazione in lei. Brujo, per non sapere leggere e scrivere, mi tira uno scappellotto con il dorso della mano, per farmi notare che il primo ufficiale è lontano dieci metri e che sono rimasto impalato come un cretino. Ha ragione, sogno troppo spesso a occhi aperti. Andiamo a sbafarci ‘sta fantomatica parmigiana, hai visto mai che il pranzo non quieti anche la cotta.
L’alloggio di Stavros era ubicato, come da progetto per gli incrociatori leggeri, due ponti sotto la plancia, a poppavia del castello, a circa ottanta metri dall’ingresso all’hangar, in direzione opposta alla mensa. Camminavano affiancati, egli e il suo amico, uno pensieroso, l’altro desideroso di conoscerli, questi pensieri. L’uscio si aprì appena Shark gli fu davanti, riconosciuto dai sensori antropometrici: si scostò e fece are Bolt, che lo ringraziò con un cenno della testa. L’appartamento di Shark era molto semplice, quasi spartano, ma piacevole e abbastanza spazioso. Ci vivevano insieme, lui e Kat. La zona notte era divisa da un separé nero di bambù posticcio, poco distante vi era il bagno, confortevole e pulito. Il tono cromatico dominante era il blu scuro. Bolt si accomodò su una poltroncina che con un’altra uguale e un tavolo di metavetro erano sistemati sotto una mensola occupata da veri libri di carta. Shark lo raggiunse, poggiando due bicchieri sul piano trasparente a seconda dell’inclinazione della linea di vista. Si sedette, ma in quella sedia ci stava stretto e ci mise qualche attimo per trovare la posizione comoda. L’amico, invece, aveva allungato le gambe, poggiando il gomito sinistro sul tavolo e reggendosi la testa con la medesima mano, a pugno chiuso. - La smetti di dimenarti? Fai rollare tuta la nave così! - esclamò divertito Bolt, in italiano. - Fatto, fatto. Devi allenare la pazienza sai, amico mio? - replicò Morgan nella stessa lingua, accavallando le gambe. - Quando ti deciderai a cambiare ‘ste poltrone sarà sempre troppo tardi. -
continuò l’altro, esaminando il liquido con ghiaccio nel bicchiere. - Mai. Il giorno che sostituirò queste poltrone sarò lo stesso in cui mi arrenderò. rispose deciso e sicuro Stavros, inumidendosi le labbra carnose con la sostanza di colore ambrato. - Assaggia, invece di polemizzare. - lo invitò con un sorriso beffardo. L’amico ò all’esame olfattivo e sbarrò gli occhi, sbrigandosi ad assaggiare. La barba scura nascondeva in parte i contorni del viso, una vena pulsava sopra l’orecchio. Si ò il liquore in bocca, lo assaporò a lungo ed lo buttò giù. - Dove hai scovato il “Southern Comfort”, con i lustri di luna che corrono? domandò incuriosito Bolt. - Informazione riservata. Conoscendoti, mi fregheresti il fornitore. - rispose caustico il comandante Shark. Restarono a sorseggiare il drink, senza parlare, rapiti dal finestrone blindato che si trovava alla sinistra di Bolt e alla destra di Shark e che spariva dietro il separé. Milioni e milioni di luci, di stelle, di pianeti, di sistemi solari. Miriadi di comete, asteroidi, navi da guerra e da trasporto, da crociera e da contrabbando. Colonie spaziali, insediamenti su satelliti, basi militari orbitali. Industrie sfruttatrici e masse disperate. Il loro mondo, la loro vita. Ogni tanto, nei momenti di profondo sconforto, Bolt s’interrogava inutilmente se realmente fosse stato lui a scegliere la sua sorte o viceversa. Shark, per contro, era ben conscio delle scelte che l’avevano condotto a essere il responsabile dell’ammutinamento e della latitanza di un gran numero di persone. Persone a cui sentiva di dovere rispetto e fiducia. Al suo amico Bolt, avrebbe affidato la vita senza il minimo dubbio: ne avevano viste e ate troppe insieme; dall’accademia, alla guerra, al Blue Bell Inn. Bolt nutriva gli identici sentimenti. Il primo a parlare fu Stavros. - Allora, come si presenta la faccenda? - domandò senza convenevoli, agitando il ghiaccio nel bicchiere. Bolt bevve quello che restava del liquore, raccolse un istante le idee e iniziò a raccontare.
- Ho ricevuto un incarico a Butcher’s Bay, una missione di trasporto pagata talmente bene da permettere di ritirarmi a vita privata. Una cifra tanto grossa da convincermi ad assoldare un analista. - fece una pausa e si alzò, accostandosi alla finestra. - Ecco spiegata la presenza del ragazzo. Nel messaggio eri stato a dir poco conciso. - intervenne Shark. - Già. - assentì Bolt - Era l’unico disponibile. Argento ne parlava bene e Bullet l’aveva imbarcato. Non che non sia un bravo analista, ma l’hai visto da te. Si mise le mani in tasca e lasciò la vista vagare verso Ganimede e oltre. L’impianto bionico luccicava sinistramente. - È irruento, sbadato e non sta mai zitto. - aggiunse. - Esattamente come te alla sua età. - disse serafico Shark. L’amico si bloccò un attimo e pensò “Quell’oste scomunicato. L’ha fatto apposta.” - Come ti pare. Ciò non toglie che è stata colpa sua se la gondola è ridotta in quello stato. Ha lasciato il radar e hanno rintracciato la nostra posizione. continuò imperterrito. - Di chi stai parlando? - s’informò Morgan, aguzzando le orecchie. - Non lo so ancora. Una tua opinione sarebbe di grande aiuto. Ci ha intercettato un classe Mojave. Shark non rispose subito; come sua abitudine, si prese un secondo per analizzare la notizia. Si erse in tutta la sua monumentale corporatura e eggiò per un minuto buono. Bolt conosceva l’uomo che aveva di fronte e non interferì, si limitò ad attendere che scartasse tutte le ipotesi improbabili e impossibili, fino a giungere all’ovvia conclusione. Si arrestò con l’espressione meditabonda: gli occhi socchiusi e le labbra tirate, quasi scomparse. - Locus. - annunciò infine, con voce atona. Quella mancanza d’inflessione sottolineava il disprezzo per l’individuo appena menzionato e Bolt non poteva non condividerlo. Era vero: loro erano considerati criminali, ma quell’essere
privo di ogni morale ed etica era il padrone nascosto del Sistema Interno. A lui sarebbe spettato meritatamente il trofeo di “carogna galattica”, nel remoto caso lo istituissero. Shark lo fissò, aspettando l’avvallo alla sua congettura. L’altro fece cenno di sì. - È il nome a cui sono pervenuto io. Solo lui ha il potere necessario a smuovere i culi di ferro della Flotta. - Il retrogusto dolciastro del whisky si trasformò in agro e successivamente in amaro, mettendolo a disagio. - Vuole quello che porto nella stiva, vuole la capsula criogenica, questo è chiaro. Ciò che mi fa scervellare è il perché. Fottuto nanerottolo megalomane… concluse con l’amarezza partita dal senso del gusto e diffusasi in tutte le sue cellule. Shark osservò il profilo spigoloso di Bolt stagliarsi nel cielo nero, lievemente ingobbito eppure fiero. Si sovrappose l’immagine di quando lo conobbe, con l’uniforme nera e nessuna protesi, allegro e pieno di vita. “Sa che arrendersi è la scelta logica da prendere, ma non lo farà mai.” pensò l’arguto Stavros, conoscendo i suoi polli. Si mosse verso la posizione dell’altro, il rumore dei i smorzato dalla moquette e gli si mise a fianco. Guardarono brevemente lo spazio aperto. - Hai un piano, vero? - chiese Shark, ben consapevole della banalità presente nella domanda. - Ovviamente. Ma mi serve il tuo aiuto. - rispose Bolt, con un piccolo sbuffo. - Bene. Spiattella tutto e dimmi che ti serve. - concluse Morgan, dirigendosi verso il piccolo bar nei pressi del tavolo a riempire di nuovo i calici.
Eccezionale! Questa pietanza, questa parmigiana è fenomenale! La compagnia è ottima, la cucina idem; devo chiedere se hanno bisogno di un analista. Abbiamo parlato di tutto; politica, situazione socioeconomica, trasformate di Fourier, di nuovo delle qualità della Vengeance come se ci conoscessimo da anni e ci fossimo spartiti il sonno. Per il rabbocco di carburante, hanno droni atmosferici che possono essere lanciati a prelevare elio-3 da Saturno e da Giove. Il limite dell’L.S.C. è che per fare fuoco bisogna ritirarlo dalle bocche dei pezzi, specialmente se si utilizzano gli acceleratori lineari, compromettendo così l’invisibilità. Tutti i membri dell’equipaggio sono a bordo perché non condividono il contesto che si è venuto a creare dopo la guerra e lo combattono
come possono: hanno deciso di non piegarsi, a costo di morire nel tentativo. Azioni di sabotaggio mirate, guerriglia senza quartiere e controinformazione. Ammirevoli, non c’è che dire. La mensa è proprio come me l’aspettavo; ampia, tavoli e panche di alluminio, bancone dello stesso materiale, luci led sparse sapientemente. Domino ci ha lasciati poco fa, adducendo la ragione di dover completare dei rapporti e di avere affari personali di cui occuparsi. Durante tutto il pasto, m’è parso talvolta di cogliere qualche sua occhiata diversa, più penetrante. Magari le piaccio o più probabilmente mi considera, anche lei, un pivello. Vedremo. Brujo ritorna con due tazzine. - Che roba è? - m’informo guardando sospettoso l’infuso nero. - Caffè espresso. Ne vado matto! - risponde, zuccherando la bevanda. Leggermente aspro, per i miei gusti, però buono. - Senti un po’, levami una curiosità. - riprendo - Ci vai spesso al Blue Bell? - Ogni tanto. E ci scappa la sfida, per rispondere alla tua domanda. - ribatte, sollevando le sopracciglia e trangugiando il caffè. - Tu con chi te la sei vista? - Bullet. - rispondo a mia volta, esaurendo il contenuto della tazza. - Ahi, ahi! Brutta bestia t’è capitata… - incrocia le gambe e scoppia a ridere. Mi contagia e mi piscio sotto (metaforicamente, beninteso) dalle risate. Veniamo interrotti dal suo comunicatore portatile, l’indice della mano destra schiaccia il congegno dentro l’orecchio. - Sì, dimmi Samir. Pausa. - Certo, ci penso io. Portali in laboratorio. Si mette in piedi e si stira. Mi pare rigido, adesso, più composto. - Alcuni circuiti devono essere risaldati. Me la dai una mano? - domanda in tono professionale. - E me lo chiedi? Sicuro! - replico saltando dalla panca.
- Bueno. Seguimi. - fa con un sorriso ambiguo e le mani in tasca. Vedrò l’antro dello stregone! Ci dirigiamo verso poppa, prima del locale reattore. Brujo si ferma trenta metri prima ed una porta alla nostra destra scivola nella parete. - Voilà! Il mio regno. - dice precedendomi all’interno dell’officina. Un tavolone al centro della vasta stanza è ingombro di chiavi inglesi, tester, pezzi di motore e non so cos’altro. Una parete è occupata da un altro tavolo, adibito per i lavori di maggior precisione, come quelli che ci aspettano. Quella opposta ha la tabella periodica olografica proiettata sopra; dev’essere la zona creativa. - Fa’ come fosse casa tua. - mi consiglia, prendendo uno sgabello ed indicando l’altro. Si siede al tavolo, apre una scatolina e armeggia per qualche secondo. - Fumi? - domanda. Faccio cenno di “no” con la testa: s’è rollato una sigaretta e se l’accende, tirando di brutto. - È un’alga O.G.M. ad alto tasso di nicotina, seccata e sbriciolata. Un pensierino del giardiniere di bordo. - precisa. Apre un cassetto e caccia due guanti virtuali, sistemandosi dinnanzi al tavolo e attivando gli ololed microscopici. I circuiti sono sistemati negli appositi alloggiamenti, c’è solo da darsi da fare. Non mi perdo in ciarle, mi approprio dello sgabello e m’infilo il guanto. Lo schema del circuito appare ingrandito dieci milioni di volte e le connessioni sembrano cavi anziché fili di spessore molecolare. - Io prendo quelli che vanno da BB-114 a PP-631. Tu occupati della sezione Q. propone. - Sta bene. - faccio convinto. Mi guarda sguainando un sorriso a tutta bocca. - Diamoci da fare. Assorbiti dalle riparazioni, i minuti ano. Quando saldo, mi estraneo sempre.
Il guanto consente alla mano di guidare dei microlaser al samario e il microscopio dà una panoramica dettagliata di questa città infinitesimale, un miliardo delle quali riempie a stento mezza unghia. Questa conoscenza mi fa sentire grande ed importante e con la stessa rapidità mi scaraventa al suolo, poiché nulla funziona senza quel minuscolo aggeggio. Perso tra le mie riflessioni, non mi accorgo che Brujo mi ha rivolto una frase. - Scusami, ripeti. Con le picosaldature ci rimango sempre sotto. - dico sinceramente. - T’ho chiesto se hai smesso. - ribadisce, interrompendo un ponte di rinvio. Merda, non ci voleva. Se n’è accorto, cristo. - Te lo chiedo solo perché a Domino non piacciono i ragazzacci. E credo che tu le vada a genio. Sono combattuto ed esito, non so cosa fare. - Ragazzo mio, ognuno fa i suoi sbagli e porta le sue croci. Non sta a me giudicare. Sputa il rospo, tranquillo. - dice con pacatezza. Mi ha trattato benissimo, come un fratello; c’è una certa sintonia tra di noi, una confidenza che non provo con nessun altro. Non me la sento di mentirgli, non se lo merita. - Sono pulito da oltre un anno. Non ho alcuna intenzione di ricominciare, te lo assicuro. - dico, facendo ricorso alla più piccola stilla di coraggio che ho in corpo. - Visto che non era difficile? Come ti senti, marmittone? - ribatte allegramente, dandomi delle gran manate. Mi metto a ridere, cercando di parare quei fastidiosi schiaffi. - Meglio, meglio! Cazzo, la fai finita?! - Ma sì, ma sì che ci do un taglio! Sei proprio cotto… - riprende, agitandosi sullo strapuntino.
Sono così traslucido? - È una bella ragazza, intelligente, elegante, simpatica. È scontato che mi piaccia, ma da qui a dire che sono innamorato, ce ne a! - mento, sapendo di mentire spudoratamente. - Se lo dici tu… - mi ridicolizza, tornando alle saldature. Guardo nuovamente il laboratorio, immagazzinando tutti i particolari che mi vengono a tiro: quante luci e dove, la macchia di acido sul bordo del tavolo, i tre oblò che ci danno un’idea del cosmo profondo. Solo adesso faccio caso che vedo fuori: L.S.C. è permeabile dall’interno e colgo l’occasione per avere lumi. - Come sei riuscito a rendere operativo l’L.S.C.? Da quello che sapevo, non era possibile. - Più semplice del previsto. - inizia, senza smettere di lavorare - Ho iniettato delle strutture femtocristalline polarizzate ed abbassato l’intensità del campo. Una volta trovata la ricetta giusta funziona e si riesce a controllare. - Spegne la sigaretta in un piccolo posacenere a forma di teschio, con due ossa incrociate sotto. - E risparmia energia. - considero facendo un rapido calcolo qualitativo e terminando le operazioni - Fatto. - Pure io. T’avverto: devi are dal dottore e una cazziata non te la leva nessuno, nemmeno Bolt o il capitano Shark. Se t’ho sgamato io, figurati lui. assicura, stropicciandosi gli occhi. Il senso della domanda di poco fa non era volto ad umiliarmi o a deprimermi; vuole che mi renda conto che se non accetto il ato non potrò mai andare avanti. - No problem, fratello. A domanda, risponderò. - dico sereno. - Mi sei piaciuto. Dovresti dirlo anche a Bolt. - chiosa, chiudendo un’altra paglia. - Amico, tu sei pazzo come un furetto. Non ci penso nemmeno! Quello è sta più fuori di me e te messi insieme! - rispondo imbronciato e gli racconto a spezzoni la nostra convivenza.
- Eh, eh. Vecchio caprone… - fa lui aspirando l’ultimo tiro, guardando l’angolo della stanza alla sua destra. Ammazza la sigaretta e getta il fumo in alto, verso l’aspiratore. - Sai cos’è il chugi? - domanda. - Si mangia? Ah, ah!!! - replico da comico. Mi stampa un colpo secco con l’indice, una schicchera all’orecchio sinistro che a momenti me lo stacca. - Ahia! - Fa’ il serio. - continua, guardandomi di traverso. - No, non so cos’è. - ribatto ricomponendomi. - Qualche anno addietro, Shuriken si ammalò piuttosto gravemente. Una degenerazione del sistema nervoso, fu la diagnosi di Yueh. È un ottimo medico e di pazienti ne ha curati tanti, ma quel problema andava oltre non tanto le sue conoscenze quanto i suoi mezzi. A bordo eravamo impotenti, sarebbe morto nel giro di qualche settimana, tra atroci dolori. Eravamo nella prima Fascia di Kuiper, perché, a quel tempo, s’erano messi in testa di stanarci e di farci la pelle. Shin era destinato a spegnersi e non volle mettere a rischio la sopravvivenza di noi tutti e della nave. Prende una pausa e tira un lungo respiro; rivive la tensione di quei momenti. - La spia blu a bordo della Valetudo è un sistema di comunicazione diretta con questa nave. È un segnale portante a breve raggio, protetto da un codice arcaico noto come codice Morse: il messaggio è negli intervalli del segnale. Ecco perché non riuscivo a pescarlo! Tanto non sarei stato in grado di decrittarlo, penso. - Bolt a spesso per portare notizie e affari; per fare spola, talora eccetera. Quando seppe che Shin era sul punto di andarsene, attraversò tutto il Sistema Solare, fottendosene altamente di Flotta, AXIS, Limite e qualunque altra cosa gli si parasse davanti. La sua nave arrivò qui con più buchi che scafo, s’asciugò il
sudore dalla pelata e si diresse direttamente in infermeria, senza degnare nessuno di uno sguardo. Shark stesso cercò di fermarlo, inutilmente. Ci costrinse ad issare Shuriken con barella, flebo e ololed clinico sulla Valetudo e disse che c’avrebbe pensato lui, che eravamo una massa di vigliacchi e di andare a prendercela nel culo. Ascolto rapito un racconto nel quale il mio capo dimostra un aspetto solidale e caritatevole. - A quel punto, gli feci notare che con la nave in quelle condizioni e con un malato grave a bordo, correvano serissimi pericoli. Sai cosa mi rispose?- No, cosa? - mormoro inebetito. - “ Fuori dalle palle e apri ‘ste cazzo di porte !”. Ecco quello che mi disse. conclude, riprendendo la scatolina di alghe. - Il chugi è l’onore e la lealtà, un principio del Bushido, se sai di che si tratta. Shuriken non si sentirà mai sollevato dal suo obbligo e se necessario darà volontariamente la sua stessa vita per concedere a Bolt una piccola speranza. Quell’uomo potrebbe sorprenderti, se gliene darai l’occasione. - aggiunge, rollandosi l’ennesima sigaretta. Sto piangendo e non me ne sono accorto. Possibile che sia davvero un eroe, per quanto gli piaccia negarlo? L’ho considerato un uomo buono, ma Brujo ha tolto un pregiudizio dalla mia mente. Non dice più nulla, mi lascia metabolizzare il fatto. Mette i circuiti dentro un piccolo montacarichi maglev e li spedisce all’hangar, da Samir. - Non credevo che il capo potesse essere così… - Umano? - interviene in mio soccorso. - Sì, umano. - confermo, tergendomi una lacrima. La porta emette un trillo e si apre, compare il dottor Yueh. - Salve mascalzoni! Che si dice? - comincia allegro, azzannando una fetta di torta al cioccolato grande come la sua testa.
- Oh, giusto tu! Novità o sei in visita di cortesia? - chiede amichevolmente Brujo. - Salve doc. Mi scusi, io… - cerco di giustificare gli occhi gonfi e le guance bagnate. - Lascia perdere. Sei più uomo adesso di quanto non lo sia mai stato. Perla di saggezza diretta e gratuita: servizio completo. - Sapevo di trovarvi qui, tu e quest’altro vizioso d’un ingegnere! - continua, indagandoci con gli occhi lestissimi - Ho portato vitamine ed integratori in abbondanza. Mi porge un sacchetto con vari flaconi di pillole. - Grazie doc. Anche se preferirei quella torta, alla faccia della dieta equilibrata. lo schernisco, facendo suonare le pillole. - Facciamo che la torta me la tengo e in cambio non ti domando il motivo di quello scolorimento dell’iride. - risponde allusivo. - Sempre il solito… - s’intromette Brujo. - Tu zitto. E mannaggia a me e quando ho piantato quelle alghe! - esclama. Ci facciamo tutti una gran risata. Il comunicatore squilla di nuovo. - Sì, è qui con me. Sì, va bene. Riferisco. - Appena sei pronto, puoi tornare alla Valetudo. - dice, rivolto a me. Mi dispiace andare via, ma il mio viaggio prenderà una strada diversa e che voglio seguire. Mi sollevo e stringo forte la mano a Brujo; lui sorride e mi dà un abbraccio. Il dottor Yueh indica qualcosa alle mie spalle e mi giro. Mi fa diventare rosso l’orecchio sinistro, con la seconda frustata d’indice; che brutta abitudine. Cascarci due su due, intendo. Si sistema gli occhiali sul naso e prende la porta.
- Alla prossima, ragazzo! In gamba e lontano dai pasticci! La sua voce sfuma nel corridoio. Che tipo! Mi blocco un o nel corridoio e mi rivolgo a Brujo, seduto e sorridente, con ancora una sigaretta che gli pende dalle labbra. - Vorrei salutare il capitano Stavros. - dico. Prima ancora che possa proferire verbo, arriva dal corridoio la dottoressa Pavlov. - Ciao Etienne. Virgil. - Ciao Kat. Sai mica dov’è Shark? - Sul ponte osservazione, credo. Perché? - chiede di rimando. - Vorrei salutarlo. - m’intrometto - E vorrei porgerle le mie scuse per il mio comportamento di prima. - dico afflitto. - Non ce n’è bisogno. - fa lei con un sorriso smagliante - Sei un bravo ragazzo Sear. Buona fortuna. Mi stringe per un attimo fra le braccia e provo un calore che mi ricorda mia madre. - Arrivederci, dottoressa. - bisbiglio. - Vado, devo parlare con Domino. Addio giovanotto. Se ne va, facendo oscillare i lunghi capelli neri raccolti in una coda sulla nuca. Sto per chiedere come raggiungere il ponte osservazione, ma Brujo è più rapido. - Basta che lo dici al sensore. Mi nascondo per un istante nella punta degli scarponi, poi alzo lo sguardo. - La prossima volta mi racconterai la vostra storia, spero. - propongo al mio nuovo amico.
- Ci puoi contare, Sear. - replica, facendo “ok” con la mano - Ah, chiedi al capitano chi gli ha dato il soprannome. - Mi allontano e trovo un ascensore libero. - Ponte osservazione. - imposto a voce. Mi sento più forte, più motivato; mi sento benissimo. Sono eccezionali. Manca solo il più eccezionale di tutti.
La cupola che racchiudeva il ponte osservazione era costituita da un unico blocco di blindovetro solare drogato al niobio. Un sistema di lastre-matrioska retrattile composto da pannelli in superlega di molibdeno-renio poteva essere dispiegato in un quarto di secondo, coprendola interamente. Shark andava sempre lì, quando sentiva il bisogno di stare da solo con i suoi pensieri. La sensazione di galleggiare nello spazio lo aiutava a ragionare lucidamente, rimettendo in giusta misura la piccolezza dell’uomo rispetto all’immensità dell’universo. Bolt gli aveva spiegato quanto aveva progettato per filo e per segno ed egli, nonostante alcune incognite veramente grandi, lo appoggiò. Credeva fermamente nel suo amico; da quando lo conosceva, aveva sempre preso la decisone giusta, pagandone le pesanti conseguenze di tasca propria. La Vengeance si era sincronizzata sull’orbita del satellite galileiano, orbitando placidamente. Ganimede, a sua volta, viaggiava coatto nel campo di Giove. Giove era schiavo nei suoi moti del Sole. Bloccò l’idea: poteva continuare all’infinito ed andare oltre. Sorrise assorto. “Come i pianeti e gli astri, siamo tutti collegati. Strade che s’incrociano, campi che interagiscono. Nulla accade per caso.” pensò. Aveva preso una decisione, venti anni prima. Aveva ucciso affinché molti altri potessero vivere ed ancora non riusciva a perdonarselo. Poteva, doveva trovare un’altra via, una soluzione per salvare tutti. Navigava, da allora, per cambiare le cose, perché nessuno dovesse mai trovarsi a compiere la sua scelta, perché il dominio dei pochi sui molti era intrinsecamente sbagliato. Questo lo differenziava profondamente dall’amico Bolt che invece era diventato cinico e disincantato, duro e tenace. Anche il suo compagno più fidato aveva fallito e non lo aveva accettato, chiudendosi in sé stesso. Eppure la sua natura leale e comionevole riusciva a emergere e trascinarlo, ormai sempre più di rado. Il
coinvolgimento di Sear nella vicenda, orchestrato con abilità da Argento, gli avrebbe fatto senz’altro bene; quel ragazzo aveva una vitalità stupefacente. Ridacchiò immaginando Harlan dietro al bancone, mentre organizzava il loro incontro. La sua mente era turbata, però. Non tutte le concatenazioni degli eventi gli apparivano chiare. Chi paga una cifra spropositata per una missione di tale semplicità, per iniziare. Quale motivo aveva Locus per volere così ardentemente una capsula criogenica? L’interessamento di quella persona abietta era palese, evidente: solo lui avrebbe potuto utilizzare la Ghibli come un giocattolo per i suoi loschi scopi e aizzarla contro la Valetudo. Fondamentalmente, era il nemico che Shark con la Vengeance, Bolt, Argento e il Blue Bell contrastavano con la loro stessa esistenza. Gli vennero in mente gli atomi, strettamente legati da forze che solo di recente si erano comprese, imbrigliate e adoperate. Vide le strade di innumerevoli persone torcersi, toccarsi, sfiorarsi solo poche decine di metri sotto di lui. Cominciò a comprendere. “Il quadro è molto più ampio. Devo aspettare, per ora. Presto il sentiero sarà illuminato.” si disse. La sensazione era registrata a livello emotivo, avvertiva di essere sull’orlo di un cambiamento epocale e, proprio per questo motivo, drastico. L’ascensore segnalò con un suono un visitatore. Con la coda dell’occhio, Shark riconobbe il giovane Sear. Si voltò, dando le spalle al vetro e scrutò il nuovo arrivato. - Signor Searjianovic, qual buon vento la porta? - chiese amichevolmente il capitano. Virgil avanzò un po’ intimorito, osservando quel gigante color grafite. Brujo gli aveva messo la pulce nell’orecchio: come poteva Shark essere stato battuto? Chi l’aveva battezzato? Sembrava ancora più imponente, visto con lo sfondo del pianeta gassoso. - Salve capitano. Mi chiami Sear o Virgil, se le fa piacere. - fece il buon Sear, uscendo dallo stato d’inerzia imputabile al timore reverenziale. Stava parlando con un mito, d’altronde. Proseguì, forte dei nuovi concetti appresi. - Scusi, se la disturbo. Ero venuto a ringraziarla di tutto e a salutarla, signore. “E così ha imboccato il percorso per diventare uomo.” notò rallegrandosi Morgan Stavros. - Si figuri, Virgil. È stato un piacere. - rispose con la voce talmente densa da
sembrare tangibile. - Si avvicini. Ci vorrà ancora qualche minuto, prima che quello scalmanato del suo comandante inizi a urlare. - affermò, tornando a volgere la sua attenzione all’esterno, ridacchiando. Si trovarono ad osservare lo spazio, imperscrutabili a chiunque. Il ragazzo restò abbagliato dallo splendore e dalla perfezione della natura, l’armonia sconosciuta ai sensi umani, vagamente percepita in quel preciso istante. Si riscosse: rilassato e tranquillo, parlò a Shark. - Chi le ha detto il mio nome completo? - s’informò educatamente. - Ho le mie fonti e i miei informatori, Virgil. Tengo d’occhio tutto, per quanto sia possibile. - replicò sibillino l’altro. Sear sorrise, facendo intendere che non era necessario specificare. Cercò d’immedesimarsi nel capitano Stavros e concluse che ci voleva una fibra adamantina per essere lui. La sua ammirazione crebbe ancora. “Ed è ancora capace di ridere.” aggiunse mentalmente. - Sear, dannato pivello! Vuoi muovere le chiappe e venire qui, ovunque tu sia! strillò l’altoparlante, spezzando l’incanto. - Un’ultima cosa, signore. Se vuole, può anche non rispondere… - fece titubante Virgil. Shark lo incalzò con un’alzata di capo. - A me non sembra possibile, comunque: chi le ha dato il soprannome? - chiese il ragazzo. Gli occhi di Shark, per un istante, furono attraversati da un lampo. Sear lo colse ma non capì che l’intensità di quello scontro lo faceva ancora ribollire. - È stato il tuo capitano, tanti anni fa. È stato Bolt a darmi il soprannome. E lui sa quanto io li odi… - disse Morgan, senza alcuna paura. Sear era incredulo.
- Ma… Come… Lei, Bolt, soprannome… Ma lei è il più forte… è il più forte di tutti… - balbettò Sear, con ampi gesti scomposti delle braccia. La risata cavernosa di Shark lo quietò. - Può darsi che io sia il più forte, fermo restando che è Bolt il migliore. E chi è semplicemente il più forte non potrà mai battere il migliore. - ribatté Stavros, con grande serenità. - È per via del braccio che l’ha battuta vero? - replicò Sear, colto da verità rivelata. - Virgil, quell’impianto è militare, lo so bene. È costruito per essere lasciato sul campo, se la situazione lo richiede: possiede un meccanismo di sgancio. No, non ne ebbe bisogno. Mi batté dopo essersene liberato. - rispose annuendo. “Quant’è forte, quel dannato vecchio?” s’interrogò il giovane analista. - È meglio che vada, adesso. Ci rivedremo, non si preoccupi. - disse Morgan, poggiandogli una mano simile a una zampa d’orso sulla spalla. Sear non seppe che rispondere e si avviò verso l’ascensore, Morgan riprese a contemplare l’universo. - Gli stia vicino, Sear. Una grande commozione trapelava da quelle parole. Le pronunciò di spalle, come se pesassero tonnellate, con un’impercettibile crepa nel tono di voce. Stavros sentiva che gli eventi messi in moto erano molto più grandi di loro e che li avrebbero potuti travolgere, però non lo riuscì a spiegare con le parole. Il ragazzo si arrestò ma non si girò. - Lo farò signore. Salì sull’ascensore e la figura eretta ed orgogliosa di Shark venne cancellata dalla porta. - Hangar. - ordinò al sensore vocale. “Il capo sta architettando qualcosa, sicuro. E stavolta farò la mia parte.” si disse con decisione, scendendo verso la Valetudo.
Morgan non si mosse e pensò all’ultima frase detta all’amico Bolt. “Qualunque cosa succeda, vi copriamo noi.” Il giovane Virgil avrebbe scoperto presto che Bolt non esita. Non indietreggia. Non si arrende. Mai.
Sbuco nell’hangar giusto davanti alla nave, sorprendendo il capo e Shuriken a chiacchierare amabilmente. Vedo Bolt sotto una luce diversa, ora. È un onore essere al suo fianco, a bordo della Valetudo. Questo rozzo e taciturno uomo che per me è un esempio di comportamento e faro di… - Era ora! Ti sei deciso a venire, finalmente! …antipatia e presunzione, brutto e testardo montone idrofobo! E che palle! Le parole gentili costano care al chilo?? - Scusa capo. Ero a salutare il capitano Stavros. Sbuffa. - Hanazawa-san. - inchino. - Searjianovic-kun. - ribatte lui, allo stesso modo. Bolt s’è arrampicato su per la scaletta gialla scrostata e fa capolino dal portello. - Sali a bordo, Virgil! - strilla, sottolineando il mio nome. Bastardo, un giorno o l’altro scoprirò come t’ha chiamato tua madre… In cima alla rampa, scorgo Domino accanto all’iride interna. Ha un sorriso tirato e la fronte accigliata. La saluto con la mano e lei risponde. L’istante dopo sono tirato dentro dal capo, per il collo della giacca. Mi punta l’indice contro, alzando le sopracciglia. - “Sear, ai posti!”. “Vado, capo!” . “E finiscila di chiamarmi capo!” - interpreto interamente la discussione e mi siedo. Accendo tutta la postazione, lancio diagnostiche nella gondola e carico i software. Bolt è indaffarato con motori,
inversori ed attenuatori. - Sistema di navigazione on-line! - annuncio. - Ottimo. Attenuatori al 6%, in aumento. Inversori posizionati. - commenta il capo. - SIGMA: riproduzione file ZU-411. - ordina all’elaboratore. - Schermatura polarizzata. Settaggi per compensazione gravitazionale caricati. Quando vuoi, capo. - confermo inviando l’ultimo algoritmo. - Ben fatto, Virgil. Gli lancio un’occhiata storta e lui in risposta si gira per sorridermi. - Vengeance, siamo pronti. - avverte via radio. Guardo l’hangar: la scaletta è scomparsa, come Shuriken e Domino. La tristezza mi bussa alle spalle. E poi che è sta lagna che viene fuori dalle casse? Controllo i registri: “Dark was the night” di Ry Cooder. Un suono trascinato e lamentoso, che mi riporta all’aridità di Marte con i pendii scoscesi e le scogliere rosso fuoco. Sembra filo spinato che si pezza, mi fa tremare le ossa. Il led sopra la porta interna, sigillata, da verde diviene rosso: depressurizzazione ambiente. Sento schioccare le orecchie; la nave che si adegua. - Apertura portelli esterni. Arrivederci e buona fortuna, ragazzi. È la voce di Domino e sembra ansiosa. Che abbia fatto colpo? - Ritiro carrello. - riprende il capo. - Confermo. Valetudo libera. - rispondo, cercando di dissimulare il mio stato d’animo. Bolt ci porta nello spazio esterno con mano esperta e delicata. L’ultimo centimetro della nave è fuori e i portelli immediatamente si richiudono. La Vengeance è svanita con tutti i suoi occupanti; saranno già in rotta per Urano o chissà dove.
Devo cogliere l’opportunità: adesso o mai più. - Capo, ti devo parlare. - esordisco, dopo aver inspirato rumorosamente per attirare la sua attenzione. Fa ruotare la poltrona e mi fissa. - SIGMA: esecuzione random hard-disk 6c-5k. - impartisce, senza distogliere gli occhi dalla mia persona. Leggo svelto il titolo del brano appena iniziato: “State of love and trust”, Pearl Jam. Pure il computer ci si mette… - Ti ascolto, Virgil. - fa, incrociando le dita davanti al viso. - Senza tanti preamboli, ho avuto grossi problemi di droga. Darwin, per la precisione. Ho ato un periodo buio, diciamo. Ma ti assicuro che sono pulito e ho intenzione di restarlo. Riprendo fiato. Il cuore batte all’impazzata. Non fa una piega. Scioglie le mani e se le porta alla nuca. Siamo io, lui e Giove. - A me interessa che non ti venga una crisi da un momento all’altro. - inizia il capitano, spostando l’attenzione verso il fondo della nave, verso la stiva. - Te lo garantisco, capo: non accadrà. - replico immobile. Non ribatte, scuote la testa e torna a pilotare. La conversazione non si è svolta come avevo previsto, non so come interpretare la sua reazione.
Lo scolorimento dell’iride la dice tutta, in ogni caso è da apprezzare la sincerità. Si è intristito e adesso non parla, guarda senza attenzione gli ololed. Porca puttana. Serro i denti. Chi non ha incontrato le sue avversità, in questo schifo di mondo? Miseriaccia ladra… Credo sia il caso per una parola di conforto. - Ascolta ragazzo e prendi nota. - inizio senza preavviso. Non mi volterò, non
voglio che veda i miei occhi; lo controllo nel vago riflesso del cristallo. - Sei un buon elemento. Potresti diventare un ottimo elemento. Non lasciare che una o dieci disgrazie ti abbattano. Devi farti forza e tirare fuori gli attributi, chiaro? Perché non parla? Mi volto e vedo che ha gli occhi lucidi. - Non ci provare, pivello. Non ci pensare nemmeno. - dico in tono perentorio. - Ho qualcosa nell’occhio, capo. Non sto piangendo, davvero. - assicura il moccioso. Direi che basta così, meglio cambiare argomento. Per quanto mi scocci, il mio piano prevede il suo aiuto, senza contare che predico bene e razzolo male. - Veniamo alle cose serie, Virgil. - comincio, mettendomi in piedi - Ho elaborato una strategia per cavarci fuori da questa situazione e ho bisogno di te. Sistema i capelli, salta dalla sedia e si mette in posa, qualcosa che ricorda una guardia kung-fu. Ci mette poco a riprendersi; è ringalluzzito e di nuovo dinamico. Buon segno. - Pronto, capo. Sono tutt’un orecchio. - esclama sorridente. - Come te la cavi con gli scongelatori? - chiedo portando la mano buona sotto il mento. Torna in posizione eretta, le braccia lungo i fianchi, la faccia dubbiosa. Spalanca gli occhi e si prende il viso tra le mani: ha capito ma non sembra molto contento. È così folle, questo progetto? Eppure Shark era d’accordo…
- Capitano, sono Brujo. Le devo parlare. Shark era giunto al termine delle sue riflessioni e il tono di Mallberg era abbastanza concitato. - La ascolto, signor Mallberg. - disse con voce atta a mantenere la calma. Brujo
possedeva un sangue freddo difficile da turbare ma Stavros colse inquietudine in quelle parole. - Sono in plancia. Mi raggiunga, per favore. - Sarò da lei in un minuto. Ordinò all’ascensore di fermarsi al ponte di comando e meditò sulla richiesta di Brujo di parlare di persona. Concluse che doveva essere accaduto qualcosa di grave, visto che il suo ufficiale non si era fidato a riferirglielo tramite intercom. Percorse a grandi i i pochi metri che separavano il vano ascensore dalla plancia: Brujo era così attento ai dati che scorrevano nella sua postazione che quasi sobbalzò accorgendosi della presenza del capitano. Non perse tempo e si avvicinò a Shark. - Stavo controllando l’hardware e ho trovato delle… incongruenze. - disse guardando il capitano con occhi taglienti, le labbra sottili strette dall’allarme. - Prosegua. - fece Shark, aumentando l’attenzione. - Le memorie PRAM sono state manomesse, signore. - pronunciò con un groppo in gola. Shark non tradì alcuna mossa, inarcò un sopracciglio. - Si spieghi. - intimò. - Ho riscontrato una discrepanza nel conteggio delle correnti di programmazione nelle celle di memoria. Il sistema di comunicazione è stato usato più volte di quante crediamo: le tracce sono state eliminate del tutto, sono stato fortunato ad imbattermi in quell’errore. Sarebbero potuti are mesi, prima che qualcuno se ne accorgesse. - concluse Brujo. Shark serrò le mascelle e assimilò l’informazione. Un traditore a bordo della nave? Una serpe in seno? - Scopra dettagliatamente cos’è accaduto e soprattutto chi ne è responsabile. È a rischio la sicurezza di tutti. Riferisca a me e solo a me. - ordinò seccamente il capitano Stavros. - Sissignore. Mi metto all’opera immediatamente. - rispose Brujo, sostenendo lo sguardo del nerboruto comandante.
Shark si allontanò, lasciando Brujo al suo compito di cruciale importanza. Decise di tornare nella cupola perché la mente gli si stava arrovellando a forza di congetture e ipotesi. Doveva esaminare bene la questione e consultarsi con Kat, la sua vera forza, la sua sicurezza. L’amava profondamente e lei lo stesso. Riprese l’ascensore e scomparve. Una figura nell’ombra aveva colto spezzoni di frase della conversazione e sentì lo stomaco stringersi. “Maledizione! L’hanno scoperto. Forse è troppo presto, forse è addirittura tardi. Le visione è diventata confusa.” pensò arrabbiata. La forma senza contorni era scivolata via sentendo l’ultimo ordine del capitano, addentrandosi nei aggi della Vengeance. Si poggiò a terra, lungo un corridoio deserto e pianse. Niente singhiozzi, nessuna commozione; solamente troppe lacrime per poterle contenere. La persona misteriosa si sentì quasi sollevata perché era arrivato il momento di vuotare il sacco, di dire tutta la verità. Ammesso che servisse ancora a qualcosa.
Fortress Europe
(Asian Dub Foundation, 2003)
- Capo, con tutto il rispetto, tu hai il cervello spanato! - vocia il ragazzo - Lo sanno tutti, perfino io, che non si apre mai, e dico mai, una capsula criogenica! prosegue, perforandomi i timpani. - Vuoi darti una calmata, sant’iddio?! - dico, stringendo gli occhi. Respira profondamente. - Capo, è cattivo karma vedere che c’è la dentro. Tante cose non le capisco, lo ammetto, ma questo… Questo è un suicidio. - replica cercando di farmi ragionare. - Nessuno sta dicendo il contrario, ma che alternative abbiamo? Che opzioni ci rimangono? Cerco di prenderlo col buono, devo riuscire a farglielo capire. Aprendo quel contenitore sarà ugualmente in pericolo, ma quantomeno avremo un quadro più chiaro della situazione e, dal momento che ci hanno trovati una volta, sapranno chi è, come e dove scovarlo. Deve comprendere che l’unica scelta che ha, che ho, che abbiamo è combattere. - Sta’ a sentire: se scopriamo cosa vogliono, possiamo essere un o avanti a loro, avremo un vantaggio strategico. È arrivato il tempo di sfidarli, mi capisci? dico sicuro e convincente, serrando il pugno sintetico davanti ai suoi occhi. Non guasterebbe che ci credessi pure io, a ‘sta gran cazzata, ma come ho appena considerato: che altro ci resta? Si mette le mani sui fianchi e tamburella con il piede, cincischia per qualche secondo. Scrocchia le dita e mi si mette naso a naso, visto che è alto quasi
quanto me. Per la prima volta, lo guardo negli occhi. C’è tanto dolore e tanta speranza. “Esattamente come te alla sua età ” , aveva detto Shark. - Ci sto capo. Facciamolo. - risponde, pieno della sua incoscienza giovanile Dammi i dettagli. Gli esporrò l’esito delle mie considerazioni. Non riesco a capacitarmi che agli occhi di Shark apparissi così sconsiderato. Mi muovo verso la stiva, Sear mi segue a ruota. - Io e Shuriken abbiamo analizzato la capsula con sonde a banda larga, contatori Geiger e rilevatori Hoffmann: non è tossico né esplosivo. È pesantemente schermato, però. Ci siamo connessi al circuito interno, non cavando un ragno dal buco: è tutto cifrato. Siamo riusciti solamente a capire che è qualcosa di biologico. Pensi di riuscire ad hackerarlo? - chiedo fermandomi davanti alla porta della zona carico. Sear dà un pugno al pulsante e la paratia si apre. La capsula è in fondo alla stiva, assicurata con tre imbragature anti-g. Il pivello la indica e sorride. - Se ha un fotocircuito, io la faccio funzionare. Ho chiesto a Shark due apparecchi: lo scongelatore e l’unità diagnostica Wal-Z: non appena Sear avrà crackato il sistema, con quella riusciremo a capire cosa abbiamo trasportato fino ad ora. - Ok capo, ecco cosa faremo. - inizia Virgil, mettendosi in bocca una gomma da masticare. Si sposta verso la base del cilindro e dice di portargli un cacciavite a stella. Glielo porgo e lui lo usa per segnalarmi la presenza di un piccolo pannello avvitato. - È come forzare una serratura elettronica, solo un po’ più difficile. - afferma facendo scoppiare un palloncino. - Adesso vai all’altra base e attacca l’unità diagnostica quando apro la feritoia da qui, ok? - ordina lui, masticando.
- Ne abbiamo studiata una, tempo fa. A lezione. - dice svitando il pannello. Solo che il pannello non lo vede più, adesso. Conoscono quello sguardo; cerca di rievocare ciò che si è lasciato indietro. Mi ricordo improvvisamente di aver sentito che Brujo è partito da alcune equazioni studiate dal ragazzo e da un professore. Ha collegato il suo ololed via cavo e dopo poco una finestrella quadrata si apre. - Vai capo! - urla. Prendo i cavi e li connetto nei rispettivi posti, a seconda della forma. - E piantala di chiamarmi capo! - grido a mia volta. - Va bene, capo! Ricevuto! Ma è vita che si può fare?
Bolt notò che il ragazzo stava avendo delle discussioni con i cavi, stava armeggiando con un tratto di fibra ottica particolarmente tenace e decise di andare a controllare. Lo vide levarsi la gomma dalla bocca e arla in maniera certosina su una parte di filo spellato, in prossimità del connettore. - Così ho isolato il segnale-spia e non mi sto a preoccupare. - disse, mettendo la lingua tra i denti. Si allontanò dal cilindro fino a riuscire a guardarlo interamente. Bolt fissò la sua andatura leggermente dinoccolata. Lo vide ammirare quella capsula, pensieroso. - Che succede ragazzo? - domandò direttamente il capitano, poggiando un braccio sul cilindro criogenico. - Capo, la questione è strana… - fece misterioso Sear, con un filo di voce. Si diresse velocemente verso l’unità diagnostica. Bolt lo raggiunse corrucciato. - Ragazzo, sto perdendo la pazienza… - disse il capitano, insofferente. - Solo un secondo, capo. - replicò l’analista, osservando l’ololed della Wal-Z.
- Lo sapevo! Ecco, guarda qui. - affermò mostrando i diagrammi olografici. Il giovanotto richiamò la storia clinica dalla memoria centrale: in ascisse, il tempo; in ordinata, i battiti al giorno, quattro battiti al giorno per la precisione. Un battito ogni sei ore, la frequenza di un cuore in criostasi. - C’è una persona viva chiusa là dentro, capo. - esordì Sear, cupamente. - Da due decenni… - convenne il capitano, stringendo le labbra. Vide la prima data, quella in cui la capsula fu sigillata e un brivido lo percorse così forte che fu convinto di avvertirlo anche al braccio sinistro - E non chiamarmi capo. Si spostarono insieme e tornarono alla posizione precedente di Sear, a guardare quella misteriosa bara . Bolt si mise le mani in tasca, piantando ben salde le gambe. Le leghe del braccio riflettevano i led della stiva in tutte le direzioni. Sear si mise a braccia conserte e poi parlò. - I firewall sono di livello Omega. I silos di missili a fusione, la I.A. di una corazzata hanno firewall di livello Omega. - iniziò il giovane - Capo, volevano che nessuno potesse aprirla. Ci vorrà un po’, un’ora o poco più direi, prima che i miei bug e i programmi facciano il loro dovere. Il capitano soffiò dal naso, chiaro segnale d’impazienza. Sear scrollò la testa, con un sorriso tirato. - Capo, è inutile che sbuffi. Per cominciare, essendo organico, ha bisogno di tempo affinché i parametri vitali si ristabiliscano: tirarlo fuori adesso sarebbe equivalente a sparargli in testa. E fin qui, il ragazzo aveva ragione. - Non trascurabile il fatto che, se tentassimo di byare i sistemi di sicurezza, verrebbe pompato all’interno acido solforico, secondo gli schemi di quell’aggeggio. Per questo, ho usato il trucco della gomma: dobbiamo lavorare di fino. L’hard-disk in esecuzione era una raccolta eterogenea e alle sonorità etniche dei
Beirut seguiva, magari, un bel pezzo funk dei Jamiroquai. “Space cowboy” si fece largo nell’aria riciclata della zona carico. - È la prima volta che cerco di hackerare un livello Omega! - sostenne pimpante il giovane informatico. Bolt ruotò gli occhi verso l’alto e gli diede uno scappellotto col braccio organico, per fortuna. - E ti ricordi ora di dirmelo!? - ribatté il capitano, con rabbia montante. - Ahia! Dai capo! Questa non me la meritavo! - mugugnò Sear giustamente, massaggiandosi la nuca - Ma ti sembra che me ne vada in giro a forzare capsule di contrabbando ogni giorno? - domandò il ragazzo, tastando la zona della sberla. Bolt inspirò con gli occhi chiusi. - Perché non l’hai detto prima? - riprese. - Perché sono sicuro di farcela, punto primo. - rispose il ragazzo, cominciando ad enumerare dal mignolo - E perché non mi hai detto che hai dato tu il soprannome a Shark, per esempio? - concluse Sear additandolo. - E questo che c’entra? - disse Bolt, facendo un o indietro. - O che hai rischiato la pelle per salvare Shuriken? - insistette Virgil. “Ma perché la gente non si fa i cazzi propri?” si chiese il capitano, digrignando i denti. - Vedi? Nemmeno tu sei stato esattamente sincero… - continuò Sear, sorridendo con vistosi cenni della testa. - Non ce n’era motivo. - replicò il capitano, con rinnovata energia. - Fin qui te la posso dare buona, capo. - concesse l’analista - Forzando quella serratura, però, la storia cambia. Ci sono dentro quanto te ormai e, che ti piaccia o no, dovrai accettarlo. Sei d’accordo, vero? -
Il capitano girò la testa da un lato, facendo intendere il suo assenso. - Di conseguenza, potremmo dire che sia diventato tuo socio. - disse Sear, mostrando i palmi delle mani. Bolt lo scrutò guardingo. - So che, nonostante l’apparenza, sei un brav’uomo. Ma devo sapere se posso darti le spalle o se mi lasceresti nella merda per soldi, o per salvarti il culo. concluse il giovanotto, usando un dito per disegnare nell’aria. “Questa sottospecie di analista ha ragione. Il soggiorno sulla Vengeance è stato istruttivo, molto istruttivo, a quanto pare.” pensò il capitano, maledicendo Brujo, Shark e tutti gli altri. - Quello che dici non ha senso! - esclamò Bolt, seccato, andando verso la cabina di pilotaggio. Jay Kay cantava ancora. - Invece ha senso! - gli strillò dietro il ragazzo, tenendo il o. - Io te l’ho detto di essere stato un drogato! Il minimo che puoi fare è ricambiare l’onestà! Bolt si accomodò sul sedile del pilota, visibilmente alterato. Il giovane Sear osservò lo schienale con lo sguardo risoluto, in piedi in mezzo al corridoio. - Capo, sto rischiando esattamente come te. - disse il ragazzo a testa alta. Abbassò gli angoli delle labbra e l’espressione divenne corrucciata. Bolt finse di fare qualcosa ma nella sua mente si stava svolgendo un vero conflitto. Partì un brano dello String Quartet, “3 Libras” degli A Perfect Circle. Questo quartetto d’archi faceva cover di canzoni famose sue contemporanee, si parla di tardo XX secolo, massimo XXI: Bolt li adorava. Lo scontro interiore si fece più cruento. Il capitano tentava di venire a patti con la sua coscienza, con le sue ombre, con le sue colpe, reali o immaginarie. “Non mi fido di nessuno da quando…” si disse Bolt, non riuscendo nemmeno a completare la frase. “Esatto! Da allora e per sempre!” gli fece eco la sua parte nera, quella che in ognuno si fa sentire nel momento meno appropriato.
“Non ascoltarla. Nessuno è solo in tutto l’universo.” rispose il suo frammento umano. Era stato zitto per anni, credeva di averlo perduto a questo punto. Pensava di essersene liberato, era contento di essersene liberato! Ed invece era sopravvissuto, sotto strati di odio ed isolamento, dietro montagne di solitudine ed ostilità. Quel marmocchio, quel Virgil gli stava offrendo una mano, un appoggio, un sollievo: gli stava chiedendo di dividere con lui il peso delle sue scelte. In cambio, voleva fiducia. “Bel problema…” concluse Bolt. “Lascia stare. Rimarrai solo, come sempre.” urlò il suo lato oscuro. “Ti tradirà… Ci tradirà…” sibilò tetro poi, per rincarare la dose. “Non prestarle attenzione.” replicò con calma la parte ottimista. “Se non ora, quando? Se non lui, chi? Tira fuori le palle.” gridò poi, senza alcun’avvisaglia. Bolt decise di rischiare. Erano ati solo pochi secondo dell’attacco della canzone. Si voltò e guardò Sear, alto, magro, il viso quasi glabro. ò una mano sulla barba del mento, mostrando i denti. - Credi che me lo sia fatto innestare per bellezza? - chiese, muovendo il braccio sinistro. Sear fu ipnotizzato per un istante dall’arto bionico, la pelle laminata a scaglie rettangolari e romboidali, i fasci pseudonervosi principali che avano per la linea mediana delle dita, ricongiungendosi nel polso. La forma dei muscoli, immutabile ed inossidabile. Non ribatté. - Non lascio i compagni indietro, quindi prova ad insinuarlo un’altra volta e te ne farò pentire. Amaramente. - disse Bolt, senza staccare mandibola e mascella. La calda voce di Etta James, con “At last” , colmò il silenzio che si era venuto a creare. Pronunciare quelle parole ad alta voce suscitò in Bolt emozioni contrastanti. Odiò Sear perché gli aveva estorto quella verità, quel suo principio morale che da lungo tempo non si faceva più vedere. Lo odiò perché lo fece
sentire nuovamente vulnerabile; una sensazione che aveva ripudiato. Aveva imparato a vivere fuori da tutto, da ogni regola, da ogni famiglia, da ogni orizzonte; il giovanotto che ancora puzzava di latte, lì, proprio davanti a lui, tremante come una foglia nella bufera, gli aveva ricordato che non era assolutamente così. Per questo, gli volle un gran bene, ma non glielo disse. Sear sorrise come un bambino e si mise in bocca un’altra gomma. Bolt strinse convulsamente il bracciolo destro poiché sentì chiaramente rompersi qualcosa dentro di lui. Un piccolo sasso che si stacca e lascia cadere una frana. - Perfetto capo! Era quello che volevo sentire. - riprese il ragazzo lanciandosi sulla poltrona e programmando un canale per analizzare i dati della capsula a distanza. Bolt lo guardò stupefatto, congelato a metà di un movimento. “È matto col botto.” pensò sorpreso. - Vaffanculo Sear. - aggiunse, tornando agli strumenti. - Tanto lo so che mi vuoi bene. Comunque, altrettanto. - rispose, assicurando la connessione con gli apparecchi nella stiva. Poi pensò “Mi accontenterò. Meglio di così non ce la fa…” Bolt sorrise di cuore, come non gli capitava da secoli e nella sua intimità riaffiorò una piccola speranza. - Ti dirò, capo. Secondo me, sei stato fortunato. - cominciò Virgil, mettendo i piedi sulla postazione. Il capitano lo guardò da sopra lo schienale, sistemando di soppiatto la pistola alla cintura. Ogni tanto gli si piantava nelle vertebre e non lo sopportava. - A cosa ti riferisci, Virgil? Giù i piedi, impertinente. - chiese l’uomo, facendogli segno di mettere a terra le gambe. Mettendosi con le mani sulle ginocchia, Sear si protese leggermente, guardando di sottecchi il suo capo e cominciò. - Parlo di Shark. Sei riuscito a batterlo, me l’ha confermato lui in persona ma,
secondo la mia modesta opinione, sei stato fortunato. - continuò il ragazzo, con una certa sicurezza. Una risatina fu il commento del capitano: decise che era il momento adatto per spiegare al pivello con chi aveva a che fare.
Perciò è questo che gli rosica. Crede che io non sia in grado di battere uno come Shark: presuntuoso e supponente. Male. È bene che lo riporti con i piedi per terra. - Presta attenzione Virgil, perché non lo ripeterò. - inizio, alla stregua di un insegnante esperto - Magari te l’avranno già detto, ma è una sacra legge di natura: al mondo, c’è sempre qualcuno più forte te. Il ragazzo mi guarda con aria stupita, poi lascia andare il mento sul petto e si rassegna alla realtà. - Come hai fatto senza un braccio, me lo vuoi dire? - prosegue stupefatto. Morgan dovrebbe imparare l’arte del silenzio. Questa storia non la ricorda più nessuno, ma ancora mi ribolle il sangue nelle vene al ricordo. Lo scontro più memorabile della mia vita. - Migliore è l’avversario, più potente è la reazione. - sentenzio annuendo. Sear ha lo sguardo perso nel vuoto, sogna ad occhi aperti. Fa cenno di aver capito, anche se nutro delle incertezze; è solo ai piedi di una ripida salita. Adesso vediamo quant’è sveglio e preparato.
- Che idea ti sei fatto, ragazzo? - domandò Bolt, esattamente su “Soul on fire” degli Spiritualized. - Non lo so ancora, capo. - rispose il giovane, indagando punti lontani ai limiti della sua visuale. - Certo è che chiunque ci sia in quel freezer deve sapere o possedere qualcosa di veramente importante. -
Adesso scrutava in basso, tra i suoi piedi, perforando gli strati di leghe e uscendo fuori, sulle onde della mente. - O di estremamente pericoloso. - aggiunse serio. “Non male, ma nulla di che.” pensò il capitano, lasciandosi vagamente trasportare dal testo del brano. Soul on fire, l’anima fiammeggiante, lo spirito che vola su ali di fuoco. In ato, si era sentito così. Da giovane, con Morgan e Michael. - Devo darti ragione, Virgil. - riprese il capitano. Sentì il rischio nell’aria, la tensione, la follia indispensabile a gettarsi a capofitto verso l’ignoto e gli piacque, dannazione se gli piacque. La Valetudo era sincronizzata su Ganimede ed orbitava ad una certa distanza dal satellite ma se ne poteva apprezzare ancora tutta la cruda bellezza, almeno agli occhi di Bolt. Seguiva quel singolare percorso grigio piombo simile a un canyon che attraversa l’emisfero nord con volute particolari. Non poteva più negarlo a sé stesso: era sempre vissuto per quegli attimi, la sosta tra un’avventura e la successiva. Percepiva le ali farsi strada nella carne, bruciare e tornare a dispiegarsi. Le ali di fuoco ricrescevano. Tenendo l’attenzione sul pianetino alla sua destra, parlò al ragazzo. - Dimmi una cosa, Virgil, visto che sei in vena di confidenze. Quanto te la cavi con la matematica? Il giovane analista fece un sorriso compiaciuto, per tre motivi. Primo: perché il capo aveva ascoltato il dialogo con Brujo, l’aveva registrato e ora era incuriosito. Secondo: gli sembrava di trovarsi ancora sulla Vengeance, sul ponte osservazione. Terzo: poteva finalmente pavoneggiarsi. - Beh capo, senza falsa modestia, ai miei tempi non mi batteva nessuno. - rispose Sear rimettendo i piedi sulle console, guardando altrove. - Ma fammi il favore! Piuttosto, hai detto che ci vuole quasi un’ora per poter aprire la capsula dico bene? - ribatté Bolt, scordandosi di Ganimede e guardando il pivello dall’alto in basso. - Ho detto che ci vuole circa un’ora perché i miei programmi facciano il loro dovere. - precisò Virgil, appoggiandosi allo schienale - Aprirla è un’altra faccenda. -
Bolt tirò su il mento e l’osservò con perplessità. - Poniamo caso che il tizio là dentro abbia una malattia rara che richieda l’immediata somministrazione di uno speciale enzima. - iniziò il giovane, mettendo il pugno chiuso sulla mano aperta - Dato che noi quell’enzima, proteina o qualunque cosa sia, non l’abbiamo di sicuro, ce la prenderemmo in quel posto. - spiegò Sear, arricchendo la delucidazione con l’avanzamento del pugno. - Mi segui, capo? - Certo che ti seguo. E non chiamarmi capo. - convenne Bolt. - Ok capo. Quando tutti i software avranno terminato, avremo pieno accesso alla memoria centrale e sapremo se, cosa, dove, come e quando ci serve, grazie alla Wal-Z. - concluse lo smilzo Sear, spingendo in avanti le mani aperte. - Se è fattibile, ci schiaffiamo lo scongelatore, riprogrammo l’unità medica e lo tiriamo fuori. Un gioco da ragazzi! - aggiunse, aprendo una mano a fiore mentre si baciava le dita. Bolt ci ragionò sopra qualche istante e poi informò Virgil della sua decisione. - Il carico su Europa sarà ormeggiato per altre quaranta ore, può benissimo aspettare. Restiamo qui e procediamo con il piano. - Sta bene capo. Così ti racconto qualcosa di me e poi mi racconti qualcosa di te, facciamo un po’di conversazione… - cominciò Sear gesticolando. Bolt lo bloccò con lo sguardo. Anzi, lo incenerì. - Non sfidare la sorte, moccioso. - disse con voce malvagia. - Ok, la pianto. Come sei irascibile, capo. Mi darò al mahjong… - rispose imitando una donna offesa, mandandolo a quel paese con la delicata manina. “Buon Dio, è veramente suonato…” considerò il capitano, ridendo piano. Si adagiò al suo posto e guardò l’universo, ne vide l’accuratezza costruttiva, l’equilibrio disarmante.
“Shark dev’essersi rincoglionito con l’età. Non ero così indisponente ... ” rifletté Bolt, inquadrando la Grande Macchia Rossa. Per la prima volta dopo anni, sorrideva senza un motivo preciso, credendo che la vita può essere bella.
L’edificio s’innalzava dalla superficie lunare per settecentosettantacinque metri, da una base circolare larga trecentottantatre metri. Era disegnato come un ago, un aculeo che spuntava dalla polvere grigia. Migliaia di chilometri di cavi in acciaio biologico, fitte ragnatele di tubi di ogni dimensioni in superleghe brunite, tonnellate di vetri e cristalli corazzati, i migliori sistemi di sicurezza esistenti, centinaia di livelli con uffici, laboratori, cliniche, appartamenti. Forziere inespugnabile di segreti che se rivelati avrebbero scatenato lotte e disastri, nei suoi splendidi colori argento e turchese. Veniva chiamato “La Guglia” ma altro non era che la sede centrale della AXIS, protetto dalle pareti del cratere Copernicus, nel vicinanze del Mare Imbrium. Alla sommità di quell’immensa torre si trovava l’ufficio dell’uomo più potente e importante del Sistema Interno, colui che realmente tirava i fili e decideva le sorti di quella porzione di spazio: il proprietario, amministratore delegato e azionista di maggioranza della AXIS, tutto concentrato in una statura inferiore al metro e sessanta, Boris Ilveni-Locus. Era seduto a godersi il chiaro di Terra, come usava chiamare la vista mozzafiato che aveva dal suo studio. Adagiato sulla pregiata poltrona dirigenziale, le gambe ciondolavano non riuscendo a toccare il superficie lucida del impiantito. In tutta sincerità, a Boris del chiaro di Terra non fregava un cazzo. Quello che veramente lo eccitava e lo faceva godere era il riflesso che il pianeta proiettava sullo sfolgorante acciaio che fungeva da pavimento. Perché aveva il pianeta ai suoi piedi, sotto il suo tallone. Ogni volta che si sedeva lì e osservava in basso, il suo obiettivo diventata più chiaro e visibile: dominare. Nonostante esistessero operazioni chirurgiche che permettessero un aumento dell’altezza, egli non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di incrementarla. “Quando tutti si prostreranno, dovranno toccare il suolo con la fronte.” pensava, forse leggermente ottenebrato da un lievissimo delirio di onnipotenza. L’intercom sulla gigantesca scrivania trillò e Locus si alzò, solcando tenui luci led, nascoste ad arte, per rispondere: il tavolo era fatto apposta per le sue dimensioni e poi moltiplicato per due. ò il palmo della mano sul sensore ed apparve l’immagine della sua segretaria, Rita Prescott. Una giovane e bella ragazza, con gli occhi grandi ed i capelli neri portati sotto l’orecchio, disposta a qualunque compromesso pur di fare carriera; spietata e
sleale. Locus l’apprezzava molto ma aveva pronti vari metodi per sbarazzarsi di lei al momento giusto. - Signor Locus, l’avvocato Lefinne è qui. - disse con voce professionale. - Lo faccia entrare. - replicò l’altro con un sorriso di circostanza. L’immagine di Rita sparì e l’enorme portone di legno si spalancò: l’ombra di Jean-François Lefinne venne lanciata fin quasi al massiccio mobile al centro della stanza. Era un tipo segaligno e serioso, costantemente altezzoso. Di statura elevata, elegante e pragmatico, portava occhiali con lenti rosa. Era uno dei più infidi collaboratori di Locus, responsabile di decine di azioni speculative e mandante di numerosi omicidi. Pensava di continuo a come uccidere quel nano dalla faccia stupida e le orecchie grosse per appropriarsi della società. Il sommo manager della AXIS sapeva tutto di quel progetto che prendeva lentamente forma e si divertiva a frustrare i suoi sforzi, facendolo arrivare all’ultimo o per poi farlo cadere in un vicolo cieco. Non appena il gioco l’avesse annoiato, Lefinne avrebbe avuto un terribile incidente. Boris era di trequarti, di fronte alla parete vetrata, con le mani giunte sulla schiena, nel suo impeccabile vestito scuro. Lefinne lo raggiunse con pochi i delle sue lunghe leve. Lo guardò. “Non vuole diventare più alto, ma gli piace apparire bello. Dimostra a stento cinquant’anni, la mia età.” si disse l’avvocato, osservando il volto levigato e i capelli trapiantati. - Non è meraviglioso, avvocato? - disse Locus con aria innocente, senza alcun accento particolare. - Da togliere il fiato. - confermò Lefinne, con le vocali strette. - Molto presto, sottometteremo tutti i pianeti, tutte le colonie, tutte le persone. annunciò sorridendo, scandendo ogni sillaba. Lefinne vide il lifting reggere a malapena. L’avvocato pensò che doveva farlo fuori il prima possibile, altrimenti i danni sarebbero stati incalcolabili. Egli solo era meritevole di un tale potere. - Ne sono convinto. - replicò l’avvocato, estraendo dalla tasca della giacca un cristallo trasparente a forma di icosaedro.
- Li abbiamo trovati. Questo è il rapporto che lo conferma. - proseguì Lefinne, non propriamente allegro visto che non lo era mai. Il viso di Locus si trasformò in una maschera di soddisfazione. - Ottima notizia. - rispose Boris, tirando un piccolo sospiro. Questo Bolt si era rivelato una spina nel fianco. Gli era sfuggito, scivolato fra le dita, apparentemente scomparso. Non gl’interessava nemmeno sapere chi lo avesse pagato per trasportare quella capsula, lo avrebbe trovato in seguito e gli avrebbe fatto implorare la morte. Adesso l’aspetto fondamentale era riprendere il contenitore ed eliminare chiunque l’avesse visto o toccato. Se ciò non fosse stato possibile, egli avrebbe distrutto quel contrabbandiere con la sua nave e avrebbe sterminato i suoi amici con le loro famiglie. Il fallimento non era contemplato. Aveva sul suo libro paga personale il comandante della Ghibli, contrammiraglio Raphael Von Reuters, uomo avido e privo di qualsivoglia remora morale e non era bastato; quello scarto della società se n’era fatto beffe ed era fuggito nel Sistema Esterno, svanendo letteralmente per tre ore e trentacinque minuti, rendendo il recupero oltremodo complicato. Fece cenno all’avvocato di mostrargli il rapporto. Lefinne poggiò il cristallo sull’oloproiettore e una mappa in falsi colori 3-D del Sistema Interno galleggiò a mezz’aria. L’avvocato usò una penna-laser per zoomare sul settore di Marte. - Von Reuters l’ha perso approssimativamente in questo settore. - iniziò l’avvocato, pigiando un pulsante sulla penna. Un puntino divenne rosso, con le coordinate a fianco. - I sensori della Ghibli l’hanno seguito fin qui. - tracciò il percorso con il laser, minuscoli trattini rossi che conducevano oltre il Limite e un altro puntino con relative coordinate si accese. - Poi è verosimilmente scomparso per poco più di tre ore e mezza, apparendo nove minuti fa, esattamente in questo punto. - proseguì Lefinne, senza alcuna emozione. Un puntino verde lampeggiava in corrispondenza della Valetudo, in prossimità di Ganimede. - Supponiamo sia entrato in contatto con la Vengeance. È l’unico vascello dotato di tecnologia stealth operativa L.S.C. a noi noto, il che rende plausibile un legame tra questo Bolt e Stavros. -
Locus annuì seriamente; l’intromissione di Shark Stavros poteva cambiare gli equilibri nello scenario. A dispetto della sua autorità e supremazia, considerava Morgan un avversario temibile e da non sottovalutare. Bisognava agire subito. Lefinne ripose la penna e con o leggero attraversò l’olomappa, arrestandosi ad un palmo dal puntolino verde intermittente. Si ò una mano sul viso perfettamente rasato e si tolse gli occhiali, stringendo le palpebre. Locus gli si fece incontro, osservando il suo interlocutore dal basso. Un ghigno mefistofelico andò da un orecchio all’altro dei suoi lineamenti fasulli. - È giunto il momento di porre fine a questo fastidioso inconveniente. - disse, afferrandogli l’avambraccio. Lefinne avvertì una perversione e una malvagità fuori da ogni catalogazione. Poggiò le labbra sul dorso della mano che reggeva gli occhiali ed attese. Boris si portò al lato sinistro di Lefinne, la testa che arrivava alla spalla dell’avvocato. - Dia ordine a Von Reuters di pattugliare le vicinanze del Limite. Controlli chi possiamo ricattare o pagare nella Flotta Confederata e si assicuri inoltre di avere delle opzioni nel Sistema Esterno, corrompa e minacci qualche ufficiale della StarFleet. Fece una pausa e si voltò verso l’uomo alto e biondiccio. Diede una scorsa ai pianeti che volteggiavano tutt’intorno a loro. L’afelio delle comete, i satelliti pastore, i gruppi di colonie sparsi ovunque. Si sentì prossimo alla meta; stava per diventare un dio. Senza smettere di sorridere, proseguì. - Non mi riguarda chi dovrà torturare e uccidere. Per questo recupero, ha fondi illimitati. Sollevò la mano destra, irrigidendo le dita: una caricatura di artiglio. - Riporti qui quella capsula e saremo i padroni di tutto. Fallisca e di lei non resterà alcuna traccia. -
Non sorrideva più: i muscoli erano tutti contratti, la pelle sembrava antico cuoio trattato. Lefinne cercò anch’egli di sorridere, per apparire all’altezza ma fu più che altro una smorfia. Un’ombra gli oscurò lo sguardo quando si ricordò le parole del padre Auguste, squisita e colta persona: “Figlio mio, fai molta attenzione al diavolo: quando ti accarezza, vuole l’anima.” - La navi S.W.A.C.S. della Flotta non se lo lasceranno scappare. Ho già in mente chi usare all’Esterno e l’Interno lo gestiamo noi. Non ha scampo. - concluse sicuro Lefinne. Locus lo congedò tornando a rivolgere la sua attenzione verso la Terra, al di là del cristallo a specchio. L’avvocato andò verso la porta, facendo ticchettare le scarpe. - L’ultima nota, Lefinne. - lo bloccò Locus, senza degnarlo di uno sguardo. - Qualora l’integrità del carico sia pregiudicata o la mia proprietà su di esso incerta, sparga le ceneri di quel pirata e dalla sua nave fuori dal mio Sistema. Non mi deluda. Lefinne assentì silenziosamente ed uscì. Boris Locus era raggiante: il traguardo, la realizzazione del suo sogno era oramai prossimo. Lefinne sospirò appena fu nel corridoio. Si voltò a sinistra: il pianeta appariva come un puzzle dietro innumerevoli pannelli di blindovetro, visto attraverso le labirintiche strutture di sostegno. Pensò che quel pazzo di Locus gliene avrebbe dato solo un pezzetto minuscolo, nella migliore delle ipotesi. Si poggiò un secondo alla massicce ante della soglia. “Devo trovare il modo di volgere gli eventi a mio favore, devo cadere in piedi.” pensò Lefinne, sovrastimando il ruolo che ricopriva cioè quello di pedina altamente sacrificabile. Salutò con un cenno del capo Rita e lei rispose con un sorriso: l’avvocato non seppe interpretarlo. Desiderò are un’altra notte con la segretaria; aveva delle preferenze sessuali parecchio insolite. Si avviò a grandi i nella direzione del suo ufficio, nella sezione legale, livelli 103 e 104. Premette il lobo dell’orecchio sinistro per attivare il comunicatore installato nella
laringe. Doveva ordire molte trame e aveva poco tempo per farlo. - Capo, te lo giuro sui gioielli di famiglia: mai più in tutta la mia vita. Bane ha sviluppato delle specie di branchie nel collo, all’inizio. Poi ci vedeva male; l’indice di rifrazione dell’aria non era più adatto al suo nuovo bulbo oculare. L’ho portato nell’Oceano Indiano e vive ancora lì, credo. A Jolanda accadde…di peggio. - conclude stringendo le labbra. Soffre molto e si vede. Per quanto schifosa, almeno io ho avuto un’infanzia; lui no. Cerca di distrarsi sulle note di “Better Man” : apre nuovi ololed per tenere d’occhio un numero crescente d’informazioni, più cose a cui badare meno tempo per ricordare. Se non lo so io… Non è stato zitto un solo secondo da quando, stupidamente, gli ho concesso un briciolo di attenzione. Non m’ha più mollato, parlando a raffica di qualunque cosa gli asse per la testa. Mi ha informato su tutta la sua vita: è nato sulla Terra, in Cile. Padre insegnante, madre tecnica genetica: non mi ha detto dove siano e se vivano ancora. Capacità intellettive molto superiori alla media, Q.I. 198, diplomato a quindici anni, ammesso a quell’età e laureatosi a diciotto anni all’Universidad Catolica de Chile. Affetto da una lieve forma di A.D.D., trova requie nella matematica e nella logica. Ha trattato complicati problemi di matematica astratta in team con un suo professore nonché mentore di nome Junchiro Aokiji: Brujo è partito dalle loro ricerche per rendere concreto l’L.S.C... Insieme alla sua ragazza e un altro tizio, si è impelagato in una storia di tossicodipendenza e assuefazione da Darwin. È un acido mutante che agisce su tutto il mesencefalo; nei soggetti più ricettivi, può causare l’attivazione di geni recessivi ancestrali, ma nella maggioranza dei casi l’assunzione prolungata provoca allucinazioni audio-visive costanti, coma e morte cerebrale. Suppongo che Jolanda sia stata una delle sue vittime. Ma che mi prende? Mi si smuove la tenerezza? È molto di compagnia, devo dire: mezz’ora è ata ascoltando il suo monologo, però dovrebbe imparare a controllare l’energia… Oh merda, mi fischiano le orecchie: non è mai stato un segno positivo. SIGMA lancia un allarme giallo, non di prossimità, con un cicalino ed un “WARNING” sugli ololed. - Capo, c’è movimento dall’altro lato. - dice dal nulla Sear, con un filo d’ansia.
E ti pareva. - Precisa. - rispondo, tornando serio. - Sono quasi fuori portata dei sensori, ma li vedo. La Ghibli, la Ares e la Obama. - annuncia il pivello, mandandomi gli schemi dei vascelli. Un incrociatore pesante, una nave-arsenale e una goletta veloce: stanno mettendo su una squadra di caccia. - Capo, stanno allestendo un gruppo d’inseguimento. - dichiara Virgil, manco m’avesse letto il pensiero. - Lo so, pivello. - ribatto mentre inizio a tracciare una rotta. - Non eranno sopra il Trattato, vero capo? Non sforeranno nel Sistema Esterno, vero? - domanda in apprensione. Credo che mi stia ripetendo, ma non resteremo qui a scoprirlo. - Ragazzo, facciano quello che gli pare. Noi teliamo. Carica la rotta che ti ho inviato. - Capo, a volte ti adoro! - esclama Virgil, mandando in esecuzione i dati senza nemmeno leggerli. Dopo un attimo lo vedo che mi squadra storto, mentre impugno le cloche e mi accingo al volo manuale. Andrà a controllare i parametri, adesso. Eccolo lì, infatti. - Hai voglia di scherzare, capo? - chiede con espressione attonita. - Piantala di chiamarmi capo e serra bene le cinghie. Tra un po’ si balla. - dico, stupendomi dell’inflessione che ha la mia voce. Mi giro e lo vedo chiudere febbrilmente la cintura. Poi guardo e vedo il mio riflesso sorridere. Non sa che gli sto facendo un regalo.
La Valetudo accelerò bruscamente dirigendosi verso Ganimede, con Sear aggrappato ai braccioli e Bolt che rideva come un pazzo.
- Reggiti pivello! - urlò il capitano grondante di gioia. Si sentiva libero; volare nel cosmo infinito, cercando nuovi limiti da superare. Questa manovra l’aveva chiamata “Shock”, per l’elevata produzione di adrenalina che causava. - Capooooo! Tu sei pazzo! - urlò Sear, tentando di dare un aiuto nella navigazione. L’ultima immagine nitida fu l’ololed di sorveglianza, collegato ad una camera sopra la paratia della stiva: la capsula non risentiva minimamente delle evoluzioni della nave grazie agli ancoraggi. Tutto divenne rapidissimo: guardò l’ololed di manovra e vide la loro rotta tingersi di rosso; Bolt voleva effettuare un flyby con il satellite, un effetto fionda un tantino rischioso. La nave giunta vicino l’equatore si sarebbe lanciata in una ripidissima picchiata, ando sopra il polo sud e uscendo dall’altro, accanto a Giove. Poteva capitare qualunque cosa: sbagliare l’angolo d’attacco del flyby e schiantarsi sulla luna gioviana. Uscire male dal volo radente ed essere risucchiati dal campo del gigante gassoso. Essere investiti da una tempesta magnetica, da una pioggia di meteoriti. Bolt era all’apice della felicità, la serotonina a livelli esorbitanti. Sear pensò che sarebbero morti tra qualche secondo, poi ragionò meglio. “Ha battuto Shark ed è un pilota maledettamente bravo. Sai che c’è? Adesso mi metto comodo e mi godo la cavalcata.” concluse. Il movimento convulso del petto cominciò a tornare regolare al vertice della picchiata. La nave s’inclinò verso il basso seguendo la curvatura del pianetino e contemporaneamente il capitano la girò in mezzo tonneau, trovandosi così il pianetino sulla testa. Bolt era scatenato. - È così che si fa, per Dio!! AH AH!! La lava incandescente gli scorreva nelle vene, i suoi sensi erano acuti e all’erta come non mai: si sentiva vivo. Un calore molto simile si manifestò nello stomaco di Virgil, riversandosi nel corpo. La Valetudo era squassata dalle interazioni gravitazionali, con segnali d’allerta che si accendevano ogni secondo. Osservò fuori un caleidoscopio di crateri, stelle, spazio profondo e colore rosso . Vide il suo principale chino sui comandi che si divertiva come un bambino, sghignazzante. Il caldo arrivò alla base del cranio: adesso il respiro e il battito erano regolari. Chiuse gli occhi e quando li riaprì, sentì le labbra dischiuse in un sorriso. Si
guardò intorno e tutto era calmo come lui. Gli sembrò una scena al rallentatore; gli indicatori che si sollevavano lentamente, una mano agitata che lasciava una scia colorata. Sear scoppiò a ridere. Con un gesto della mano sinistra fece scomparire quegli irritanti segnali di pericolo e disse con voce flemmatica, bloccando le risate - SIGMA: analista. Comandi manuali. - Eseguito. - rispose l’elaboratore, sempre educato. Stavano sorvolando il polo sud del satellite gioviano e Bolt era euforico. - Pivello! Inversori: 95%, nord-nordovest, di 170 al mio ordine! - gridò il capitano tra le risate. - Pronto capo! - urlò Virgil in risposta. Ganimede scorreva velocissimo ed accelerava man mano che si avvicinavano al punto più basso della curva. L’abitacolo era un crepitio incessante di malfunzionamenti e segnali di guasti, veri o presunti; la nave era sottoposta ad uno sforzo immane, ma Bolt sapeva che ce la poteva fare. Perché l’aveva già fatto. Aveva deciso di eseguire la “Shock” per una serie di motivi. La Valetudo aveva una manovrabilità incomparabile a quella delle navi che avevano avvistato, da battaglia pesante, enormi e voluminose, per iniziare. Quindi non potevano seguirlo. Era la via più breve per arrivare su Europa, in quel momento in transito sul lato opposto di Giove, in secondo luogo. E soprattutto perché si divertiva come quando era alla scuola di volo, con l’Ammiraglio al fianco che cercava d’insegnargli la disciplina. - Ora! - sbraitò Bolt. L’impianto stereo stava riproducendo “Walking on the wild side” di Lou Reed, ma il frastuono quasi copriva il pezzo. La risposta di Sear fu immediata e la nave cominciò a cabrare senza perdere di velocità. Giove irruppe nel campo visivo prepotentemente, tingendo l’intera visuale di vermiglio e infinite sfumature di quel tono.
La nave si girò nuovamente e il gigante scomparve. La Valetudo stava per essere imprigionata dal campo gravitazionale del pianeta eppure Sear era tranquillissimo, anzi rideva beato. Un Bolt dagli occhi spiritati pigiò un pulsante olografico davanti a sé e la nave sobbalzò, prendendo una traiettoria tangente a Giove. - Dispiegamento ali eseguito. - annunciò SIGMA. Sear si era domandato a che servissero delle ali su una corvetta, spulciando tra i progetti e gli schemi costruttivi, ma poi se n’era completamente dimenticato. Ali a freccia negativa con substrati diamagnetici sul dorso. Il ventre era una lega di elastomeri a memoria di forma con bassa densità di ferro. Bolt li aveva agganciati ad una linea di forza del campo magnetico del pianeta, cavalcandola e volando vicinissimo alla superficie di Giove. La nave si stabilizzò, seguendo quel sentiero elettromagnetico. Il capitano stava lentamente tornando normale, dopo quell’eccesso di ormoni. Sear sospirò sollevato, pigiando il pulsante di sgancio delle cinghie. - Sei suonato capo… Sei veramente suonato… - mormorò il ragazzo, un po’ scosso, lasciandosi andare sul sedile. - Non mi divertivo così da anni. - commentò Bolt, alzandosi e mettendosi il gilet multitasca. - Dai che ti sei divertito pure tu, mio caro Virgil! - disse il capitano per canzonarlo. - Capo, tu certe cose me le devi dire… - rispose il giovane, scuotendo la testa. Bolt gli fece il verso, poi impartì a SIGMA la riproduzione di un certo brano subordinato a un suo preciso comando. - Lasciatelo dire di nuovo, capo: sei un pilota con i controcazzi! - replicò il giovanotto, alzandosi a sua volta e porgendo la mano. Era allegro; ato il momento iniziale di smarrimento, s’era gustato il brevissimo e spericolato viaggio. I sensori a lungo raggio della Valetudo erano deserti; dei tre mastini, nemmeno l’ombra. Bolt fece un cenno con la testa, come a significare che era stato un sorvolo monotono, eppure l’espressione di pura delizia, la sua risata
fortissima, le frasi sconclusionate dette in preda alla foga avevano lasciato un senso di stupore in Virgil. Scegliendo il basso profilo, Bolt celava mezzi e capacità al limite dell’umano. Il capitano respirava serenamente, dopo migliaia di giorni: il suo rapporto con l’esistenza si stava ricostruendo, usando come trampolino la trasvolata e la cavalcata magnetica. Bolt gli prese la mano, accettando le congratulazioni, con atteggiamento sornione. Sear cercò di scrutare negli occhi neri che si trovava davanti, ma non comprese cosa il suo capo gli riservasse. Sul suo cranio calvo, risplendevano goccioline di sudore. La corvetta scivolava placida sulla corrente di forza; in breve Sear vide comparire dal cristallo destro il polo nord, una curva screziata di rosso vivo e marrone. Più in basso, la tempesta più grande del Sistema vorticava indifferente. - Capo, che stai macchinando? - domandò Virgil, osservandolo guardingo. La reazione del capitano fu circoscritta all’incrocio delle braccia sul petto e un ampliamento del sorriso. Il braccio artificiale indicò al finestra laterale. Si portarono lì insieme. - SIGMA: attivazione totale filtri da 557.7 a 630.0. - ordinò il capitano. - Eseguito. - confermò il computer. Sear non capì bene cosa stesse accadendo, vide solo i cristalli della nave oscurarsi. Fuori la notte divenne totale, un mare d’inchiostro, poi luci azzurrognole si accesero. Una musica bellissima si diffondeva dagli altoparlanti; di nuovo lo String Quartet, suonando “Daughter” stavolta. Un’aurora boreale gioviana: ecco cosa stava ammirando. Le fasce del pianeta in rotazione asincrona apparivano in tutti i toni del blu, a seconda della quantità di idrogeno metallico, elio e via dicendo. Il cosmo intero stava diventando blu come un oceano. L’espressione del ragazzo era sbalordita e lo divenne ancora di più quando si accorse di cosa succedeva al polo nord. Si appoggiò al vetro senza parole,
sbigottito, rimasto attonito dalla bellezza di quello spettacolo. Punti blu elettrico vagavano nell’area nord del pianeta, disegnando arabeschi singolari, spirali, volute ardite. Si rincorrevano, si schivavano, si allontanavano, in una danza perpetua. - Io, Ganimede, Europa. - disse il capitano, dando ad ogni interazione il nome del relativo satellite che la provocava. - Magnifico… - sussurrò Sear, estasiato. La canzone lo prendeva molto, per via del suo stato emotivo e diventò un tutt’uno con il paesaggio e le sue sensazioni. Sentiva di fare parte di un disegno più grande, un concetto che abbracciava ogni singola mente umana dell’universo ma non seppe dargli un nome; si limitò ad imprimere quel momento nella sua memoria a lungo termine, affinché se lo portasse dentro per il resto della vita. L’incanto fu spezzato da un incessante scamlio, proveniente dalla postazione dell’analista. Le canzoni si susseguivano. Sear andò a controllare e Bolt lo vide annuire soddisfatto. - Capo, è sano come un pesce. - annunciò il pivello. C’era riuscito: aveva sfondato un livello Omega con i suoi programmi, la memoria centrale era accessibile. - SIGMA: filtri visibili. - disse il capitano alla I.A... - Eseguito. - rispose lei. L’universo era tornato quello di sempre, con i soliti colori e forme. Eppure Sear adesso era consapevole dei misteri che celava; l’immagine blu permase sulla sua retina per qualche altro secondo, poi scivolò nella memoria. Il capo si rivolse a lui. - Adesso sgancio la nave mentre tu… - proseguì, ma Virgil lo interruppe. - …scongeli quel tizio e ci mettiamo in rotta per Europa. - terminò al posto del suo capitano, l’analista. “Lo facevo più scemo.” si disse Bolt con sarcasmo.
- Tranquillo capo. Adesso te lo scongelo a dovere! - esclamò il giovanotto, alzando più volte le sopracciglia. - Grazie capo. - aggiunse sul punto di commuoversi. Bolt osservò gli occhi riconoscenti del ragazzo e non fu in grado di sostenerli. Si voltò di scatto, andando a sedersi. Mosse il corpo come se qualche insetto gli camminasse sulla pelle. - Lascia stare, pivello: eravamo di strada. E piantala di chiamarmi capo! - rispose amorevolmente il capitano. A Sear, sembrò alleggerito, come se si fosse sgravato di una zavorra che lo piegava. Impresse nei suoi ricordi anche quell’attimo di giubilo: la prima risposta carina del suo capo.
Il capitano Stavros si era diretto nel suo alloggio, dopo aver dato istruzioni sulla rotta. Si sarebbero diretti a pochi minuti-luce dal Sistema, nella fascia di Kuiper, per catturare un asteroide, un KBO, contenente molecole biologiche per studiarlo e poi venderlo a peso d’oro a qualche società. Ovviamente, era solo un abile trucco; non avrebbe permesso la proliferazione di alcuna azienda, ma poteva servire da tranello. Avrebbe distrutto la roccia con la piccozza, piuttosto che cederla a chicchessia per ricavarci chissà quale arma, bastavano quelle che c’erano in circolazione. Si diresse verso l’armadio e lo aprì. Appesa vi era l’alta uniforme di quando prestò il giuramento. Una spilla sul colletto, nove piccole ellissi, simboleggiavano il Sistema Solare; un’idea di unità da lungo tempo spezzata. Il basco bianco con lo stemma della Flotta era su un ripiano a portata di mano: le tre stelle della Cintura di Orione, unite da due segmenti e sotto due lettere, S ed F. “Star Fleet, la flotta delle stelle.” pensò Shark con rammarico. A fianco, si trovava l’abito da ufficiale quando prese servizio sull’Aiace, al tempo non ancora Vengeance, prima dell’ammutinamento. Non lo guardò nemmeno. Prese la giacca di una tuta di volo grigio scuro e si allontanò. Si venne a trovare a torso nudo davanti allo specchio sulla parete opposta, dove c’era l’entrata. Guardò i suoi occhi stanchi, cercando l’ardore della sfida, ma trovò solo le braci della sconfitta. Era in forma, però. Il torace muscoloso ed il collo massiccio ne erano prove evidenti. Poi guardò al di là della sua persona: osservò lo spazio profondo al contrario e l’attenzione ricadde sulla cicatrice che attraversava il pettorale destro, lunga e profonda. La sfiorò con i polpastrelli seguendo il
riflesso e allontanò di scatto la mano, guardandosela e stringendo le dita: il palmo bianco era macchiato di sangue. Egli credeva che nulla accadesse per semplice caso e allora si chiese come ciò che stava capitando a lui e alla sua nave dovesse incastrarsi nel mosaico degli eventi. Scrollò la testa e sentì l’intercom trillare. - Sono Domino, signore. Ho bisogno di conferire con lei in privato. - Mi raggiunga nel mio alloggio, Domino. L’aspetto. Tirò su la cerniera e si sistemò il colletto. I rimorsi e i pentimenti dovevano essere affrontati in seguito, ben altri problemi necessitavano della sua attenzione. Il sabotaggio scoperto da Mallberg destava moltissima apprensione ed era ancora un enigma irrisolto. Si mise a posto la divisa e la signorina Blomqvist suonò alla porta. Entrò silenziosa e silenziosamente. Il capitano Shark l’attendeva al centro della stanza, immobile come una sequoia millenaria. La ragazza non riusciva a fermare gli occhi su un punto fisso per più di due secondi: “Atteggiamento insolito.” prese nota mentalmente Stavros. Al capitano, l’aggettivo calzante parve “ombrosa”. Decise di rompere gli indugi. - Mi dica, Domino, cosa posso fare per lei? - chiese diretto il gigantesco uomo. Lo sguardo di Domino divenne ancor più evasivo; era assolutamente atterrita. Stavros strinse gli occhi, nel vano tentativo di cogliere una qualsiasi sfuggente traccia di ciò che l’angustiava, ma non vi riuscì. La ragazza tirò un profondo sospiro, fissando adesso il capitano. - Non esiste un modo facile per dirlo perciò lo dico e basta. - iniziò l’ufficiale, facendosi coraggio. Shark strinse le mani dietro la schiena: non gli piaceva per nulla la piega che la situazione stava prendendo. Cercò di prepararsi all’improbabile. - Sono stata io a manomettere le memorie. Sono io la responsabile delle trasmissioni non . Sono stata io a mettere a repentaglio la vita di tutti, per prima la mia. - disse seccamente, serrando i denti. Stavros barcollò per un momento e Domino se ne accorse: lo paragonò ad un albero che si curva durante una tempesta. Certi alberi, però, si possono anche solamente piegare, non spezzare. Per abbatterli non basterebbe un uragano, ce ne vorrebbero dieci di
fila. Shark era uno di questi alberi, ma lo sforzo lo sfiancò. Le emozioni gli spaccavano lo stomaco, la sua mente era un ciclone di domande scagliate alla rinfusa. Non riusciva a credere che il traditore fosse Domino, non riusciva a registrare quest’informazione. La camera oscillò ed un furore cieco gli attanagliò le meningi. Domino era una statua, non aveva mosso nemmeno un dito. Gli tornarono alla mente molti ricordi che la riguardavano. Quando si presentò a lui, nel retro del Blu Bell dicendo che non se ne sarebbe andata, se non per diventare un membro della Vengeance. Quando li tirò fuori dai guai nei pressi di Saturno, al largo delle colonie turistiche “Replicant A.E.”: li fece are in mezzo a due incrociatori, pilotando lei stessa. Solo lui si era immediatamente fidato, gli altri ebbero delle riserve, perché Brujo aveva trovato il suo file di servizio: aveva disertato appena diplomata, poteva essere un infiltrato. Shark non volle sentire ragioni: non sapeva spiegare perché, ma non aveva mai dubitato di Domino. Fu come se il mondo gli crollasse addosso. La tentazione di stringere le mani attorno al suo esile collo fu grande come il suo dolore. Riprese il controllo, scaricando la furia nei suoi fasci muscolari, ardendo letteralmente dall’interno per qualche istante. Inspirò tra i denti una volta, due volte, tre volte. La ragazza non accennò a cambiare posizione: avrebbe affrontato le conseguenze delle sue scelte in piedi, a testa alta. Stavros si ò una mano sui corti capelli e poi vi ci poggiò la fronte. I suoi occhi si riempirono di tristezza. - Perché? - chiese in un sussurro. Lacrime sgorgavano dagli occhi verdi, deformandoli. Piccoli singhiozzi, singulti nervosi. - Capitano, - riprese con la voce rotta dal pianto e dal dolore - ho un buon motivo, glielo assicuro. Lasci che le racconti la mia storia, la prego. Shark la guardò e vide una giovane donna, sola e spaventata. Non vedeva alcun segno di delazione, non scorgeva nessuna ambiguità. “Ha confessato. L’ascolterò.” Il capitano Stavros le porse il suo fazzoletto rosso. - Tenga. Si asciughi il viso e continui. - disse senza lasciar trapelare nulla. - Signore, ciò che le dirò metterà a dura prova tutto quello che conosce, ma le
giuro che è solo la verità. - riprese lei col volto arrossato. Shark le fece cenno di andare avanti. - Si è mai chiesto come riesca ad elaborare piani tanto complessi senza mai sbagliare? - domandò lei, poggiandosi al tavolo che aveva alla sinistra. - È un’ottima stratega. Inoltre, non ho mai avuto motivo di sospettare di lei. Fino a ora. - sottolineò il comandante. Domino ridacchiò aspramente. - Signore, è fisicamente impossibile. La spiegazione è un’altra e spero per il bene di tutta l’umanità che lei mi creda. Si sedette sulla poltroncina, vagamente meno tesa per essersi tolta quel peso e indicò l’altra a Shark. Il capitano si fregò forte le mani, riflettendo. Si accomodò e Domino iniziò il suo racconto.
- Perciò mi stai dicendo che vuoi prendere il container e male che vada tenerlo come ostaggio, giusto? - fa il ragazzo, smanettando con uno spinotto... - L’idea è quella. Da come si sono messe le cose, il mio compenso si allontana… - rispondo, ritraendo le ali nella carlinga. Me ne frega il giusto, allo stato attuale: preferisco salvare la pelle e la nave. E anche il moccioso. Ci siamo sganciati da Giove e ci stiamo dirigendo verso Europa. Per recuperare i carichi da quel satellite c’è una procedura particolare. Non esistono spazioporti sulla crosta del pianetino, poiché la superficie è uno strato di ghiaccio d’acqua spessa una decina di chilometri in continuo movimento a causa delle forze mareali a cui è sottoposto. I coloni australiani vivono sotto la crosta, in profondità. Hanno costruito delle città a forma di sfera isotropica, ne hanno installate centinaia e hanno creato un ecosistema marino con organismi adattati. Ci ho ato qualche tempo e vorrei non ricordarlo. Per commerciare, si usano le boe. Sono dei grossi satelliti di parcheggio, dove la merce viene ormeggiata per un periodo stabilito. Vi sono boe di ogni dimensione e capienza; da quelle giganti per i container idrici pesanti centinaia di tonnellate per i transatlantici, a
quelle piccole come la Valetudo, per container fino al quintale e mezzo, contenti microfotochip, oggetti d’artigianato locale, organi clonati e via discorrendo. Alcune sono degli enormi specchi che reindirizzano la luce solare. È lì, a cinque minuti di volo. La Valetudo non ha un braccio manipolatore, mi toccherà uscire con la tuta in attività extraveicolare per prelevare il container. Sarò nelle mani del ragazzo: prospettiva inquietante. - Sear, novità dalla capsula? - chiedo. - Ti stavo giusto per avvertire, capo. - risponde il ragazzo - Le funzioni vitali si sono impennate. Risponde agli stimoli dell’unità diagnostica. Si sta svegliando da solo. Sento la fronte corrugarsi. - Capo, che ne dici? Pericolo? - domanda Virgil, con finta noncuranza. - Tieni gli occhi aperti, ragazzo. Vado a preparami. - dico mentre mi alzo. Lo vedo sorridere. - Pivello, mi posso fidare? - chiedo con un grosso sospiro. - Capo, se faccio qualche fesseria mi mangio la Valetudo pezzo per pezzo.ribatte lui facendomi l’occhiolino. Ciancica ancora quella dannata gomma al rabarbaro. Mi avvio alla zona cargo e controllo la Glock, appesa alla vita. A che serve un’arma da fuoco se arriva un caccia stellare? La utilizzo per spararmi in bocca, ovvio.
Arrivò all’armadio dell’esoscheletro ando davanti alla Wal-Z e guardò i grafici in rapido accrescimento. Tirò su la zip del gilet e iniziò a mettersi la tuta. Gambe, bacino e casco. Pressione su pulsante di “ON”: gli arti dell’armatura bianca risalirono lungo le membra, incastrando i martinetti e impostando le
connessioni. Sbuffo e sibilo di aria compressa: White Gorilla operativo. - SIGMA: test comunicazioni. Pivello mi ricevi? - chiese Bolt dall’interno della tuta. - Forte e chiaro, capo. Sai che sei proprio telegenico? - ribatté Sear, alludendo alla parte video del collegamento. - Non farmi tornare lì, moccioso. - disse Bolt, settando la potenza per il trasporto del carico. - E va bene! Chiusura paratia interna della stiva. Capsula sotto controllo. Magneti dello scongelatore e della Wal-Z attivati. Quando vuoi capo. - annunciò il ragazzo. - Piantala di chiamarmi capo. - rispose il capitano, sbloccando il portellone esterno. La stiva era isolata e il vuoto esterno s’insinuò all’interno. Bolt non se ne accorse poiché gli stivali magnetici della tuta lo ancoravano al pavimento. Mosse una gamba e lo scheletro meccanico ripeté l’atto. Sentiva il suo respiro rimbombare nel casco. I software iniziarono a mandare dati sul cristallo della visiera: temperatura esterna, pressione del silicone d’emergenza, battito e pressione sanguigna. Si avvicinava pesantemente all’uscita, lo scafo grigio e l’universo nero luccicante di stelle. - White Gorilla fuori. - affermò Bolt, spiccando un saltino verso il cosmo. Piccoli getti di manovra lo aiutavano a mantenere l’assetto, guidati con movimenti delle dita. Era fuori, protetto solo da Sear e dall’esoscheletro White Gorilla. “Devo fare in fretta.” si disse Bolt, dirigendosi verso la boa identificata come “Pallet Mall”. - SIGMA: riproduzione brano ADF-388. - impartì il capitano, collegandosi all’elaboratore. Non gli veniva in mente una canzone migliore. Un ritmo veloce di percussioni si riversò dall’impianto stereo. - Capo, che musica è questa? - chiese Sear da dentro l’abitacolo. Si era appiccicato al cristallo per seguire l’operazione. - È dub, pivello. - rispose il capitano, rallentando per entrare in contatto con il
satellite artificiale. - Non male il ritmo. - asserì il giovane - Come va? - aggiunse. - Ci sono, dammi un secondo. - rispose Bolt ansimando. Sear controllò i dati medici; lieve aumento del battito, pressione arteriosa in crescita. - Capo, tutto ok? - chiese Virgil, un tantino allarmato. - Sto bene! Non mi seccare! - rispose sgarbato Bolt. Il capitano si agganciò al satellite con gli stivali e andò al container. Vedeva la luna ghiacciata, da lassù. La canzone diceva “Fortezza Europa” e così lui la considerava. La spalla prese a dolergli ma non fu sicuro che il dolore fosse reale. Il battito crebbe. - Capo, va tutto bene? Rientra, se vuoi. Invertiamo i ruoli… - propose l’analista. Bolt ascoltò il suono echeggiante della voce di Sear. - Ti ho detto che sto bene! - ribadì Bolt, accingendosi a liberare il pallet. Semplice, anonimo, con le classiche strisce rosse: un container per carichi generali identico a milioni di altri. Introdusse il codice che apparve nell’angolo destro della visiera: le morse che assicuravano il carico si aprirono con uno scatto e lo liberarono. Doveva solo sganciarsi, afferrare la merce e tornare dentro. Indugiò a rimirare Europa, bianco e riflettente. I tamburi suonavano forte, una voce acuta cantava, la base musicale accelerava le battute, si ricordò l’atroce sofferenza che tanti anni addietro lo aveva assalito, tra i canyon ghiacciati e smerigliati della luna semisolida. La canzone stava per concludersi e Bolt non accennava a muoversi. - Capo, inizio a preoccuparmi. - disse Sear, alquanto serio. - Sto rientrando. - rispose Bolt, come fosse assente. Staccò il White Gorilla dal corpo metallico della gavitello, afferrando il pallet con la mano dell’armatura e cominciò il rientro verso la stiva della Valetudo. - Capo, fossi in te mi darei una mossa. Stiamo per aver compagnia. - disse il ragazzo teso.
La notizia rimise i sensi intorpiditi di Bolt in carreggiata, lo svegliò. - Chi è, Sear? - domandò il capitano. - Ti invio la scansione. Sulla visiera comparve lo schema costruttivo di una mezzo civile, un rimorchiatore. Collegò subito quel vascello al suo proprietario e disse accelerando, fiondandosi verso il deposito della sua nave - Attiva le armi, pivello. Credo che stavolta ci toccherà sparare. -
Il portellone è ancora aperto e vedo le luci di posizione delle altre boe. Riattivo gli scarponi e porto dentro il container. Il respiro aumenta d’intensità, il cuore martella sulle costole. Premo un pulsante sulla parete ed una superficie rettangolare scivola fuori nel silenzio del vuoto spinto. Poggio lì sopra il pallet che è abbastanza grande, spero che la mensola regga il peso. Non ho il tempo di spostare la capsula criogenica o di assicurarla meglio, attiverò i magneti del pavimento sperando che bastino a mantenerla in posizione. Mi dirigo nuovamente e veloce per quanto il White Gorilla permetta al portellone, lo chiudo e il led da rosso diventa verde. Devo togliere la tuta e correre ai comandi. - Capo, si avvicina! - dice Sear, sensibilmente agitato. Non perdo tempo a rispondere, sono da lui come una furia. - Virgil, ai posti. ami attenuatori ed inversori. Pensa solamente a proteggere SIGMA, al resto ci penso io. - ordino con tono battagliero. Modifico le impostazioni dei sistemi per cambiare modo di funzionamento, i comandi di attenuatori ed inversori compaiono nell’ololed a sinistra, le armi sono su quello a destra: riverso tutto nelle reti logiche principali del computer. - Capo, due notizie: conferma contatto visivo. È il Prowler. I dati della capsula sono aumentati in modo esponenziale. - informa Sear, volando sulle tastiere olografiche. - Ce ne preoccuperemo dopo. Sei pronto, ragazzo? - domando, cercando di rilassarmi il più possibile.
- Ti sto aspettando, capo. - replica lui, scanzonato come al solito. “Pivello.” penso. - SIGMA: attivazione Manual Synch Mode. - ordino all’elaboratore. - Eseguito. -
Il Prowler era un rimorchiatore modificato il cui capitano era lo psicotico Marius “Sparrow” Atzoris, un infame disturbato che provava piacere solo quando tagliava una gola o faceva esplodere una nave. La ruggine e l’inimicizia che lo legavano a Bolt erano di vecchia data e da parecchio entrambi speravano di poter dirimere la loro piccola questione una volta per tutte. Sparrow aveva sempre parlato a sproposito e una volta accusò Bolt di avergli soffiato un lavoro. Bolt gli ruppe un braccio senza tanti complimenti e da allora si erano sempre guardati male. Il capitano Bolt non fu particolarmente sorpreso di trovarselo davanti a bloccare la strada nel Sistema Esterno, insieme a qualche equipaggio di psicotici come e peggio di lui, dove i tentacoli di Locus e della AXIS non erano ancora completamente avvinghiati. Appena mandato in esecuzione il comando, il pannello davanti a Bolt scivolò all’insù e le cloche scomparvero in quella nicchia. Il capitano tirò tre profondi respiri e si allacciò le cinghie. La poltrona si spostò di qualche centimetro a destra, aprendosi leggermente ed abbassandosi, inserendo il corpo di Bolt nello scomparto che si era venuto a creare tra le consolle fino sotto le spalle. Sear seguì sorpreso tutta la trafila e capì. “Manual Synch: come sincronizzazione. Piloterà la nave non solo con le mani!” pensò il giovane dando il via al contrattacco informatico. La calotta sinaptica aderì perfettamente alla testa di Bolt: dopo che i legami sincronici venivano creati una lieve scossa elettrica lo avvisava. - Sincronia 100%. - annunciò SIGMA.
Il ragazzo era concentratissimo nel rispondere agli assalti hacker e a colpire a sua volta: bloccò i paradigmi standard d’accesso e rispose lanciando una sequenza di emulazione. L’ololed che riproduceva la stiva fu messo in secondo piano perché era da solo: SIGMA era tutta per il suo principale. - Ehi, O’Reilly ! - grugnì la riproduzione olografica di un bell’uomo dagli occhi celesti e i capelli biondi, diafano. - Stavolta ti ammazzo! - urlò con gli globi oculari iniettati di sangue. “Sei morto.” pensò Bolt. Sentì la nave come un’estensione del suo corpo, i dati scorrevano direttamente nella sua retina, l’inclinazione degli inversori e delle canne delle armi rispondevano al millimetro. L’unico inconveniente del Manual Synch è che nessuno è mai sopravvissuto oltre tre minuti in sincronia totale, nemmeno nelle simulazioni: il cervello non riusciva a reggere quel fiume di dati oltre quel tempo critico senza fondere. Sear non si accorse di nulla: lo spostamento laterale della nave fu immediato. Il Prowler cercò d’inquadrare la Valetudo nei collimatori e per un attimo vi riuscì. Atzoris iniziò la battaglia con colpi esplosivi da 50 mm con spoletta programmabile: era convinto di avere fatto finalmente fuori quel bastardo di O’Reilly. Se non che il nuovo essere Bolt-SIGMA aveva previsto la reazione e agito di conseguenza. La corvetta Valetudo scese di trenta metri, alzando il muso verso il ventre del rimorchiatore, mentre i colpi la soravano, deflagrando in lontananza. Le canne da 50 mm lasciarono partire un breve raffica di colpi con la testate in tandem: perforante ed esplosiva. Bolt decise fulmineamente che Sparrow non valeva più di cento colpi. Erano ati neanche venti secondi che cominciò a sentire olio bollente sul cranio, le sue sinapsi si stavano surriscaldando. Il pilota del Prowler non fu in grado di fare nulla: i proiettili si conficcarono nello scafo ed esplosero, riducendo la nave ad un mucchio di rottami orbitanti, incendiando i depositi di ossigeno. Virgil era sopraffatto dallo stupore: il combattimento digitale s’interruppe immediatamente, quando il rimorchiatore cessò di esistere. Il capitano Bolt non aveva espresso alcun tipo di esitazione, non aveva mostrato nessuna pietà, aveva distrutto il suo nemico con efficacia e velocità.
“Una macchina per uccidere.” pensò Sear. No, non gli tornava. La forzatura della capsula era cominciata appena fuori dalla Vengeance, Brujo non era stato neppure interpellato e si era chiesto il motivo di tale comportamento. “Non voleva mettere a rischio la vita dei suoi amici, li ha voluti proteggere. Ha discapito nostro…” si era risposto. “Persona complicata, il capo. Che mi sembra si chiami O’Reilly di cognome.” concluse Virgil. - Manual Synch Mode: disattivato. - trillò SIGMA. Bolt uscì dalla sua tana cibernetica visibilmente provato. Sear se ne accorse, spense un paio di ololed ormai inutili e si lanciò verso il capitano. Aveva gli occhi chiusi e stretti, saliva secca agli angoli della labbra: principio di disidratazione. Una goccia di sudore pendeva dal naso, qualche altra resisteva nella barba. - Capo, ci sei? - chiese il ragazzo attento e corrucciato. - Adesso mi riprendo… - confermò il capitano in un sussurro, ripristinando la normale respirazione. Gli occhi di Virgil parlavano per lui: Bolt li scrutò e carpì un misto di ammirazione e timore. Le consolle erano tornate normali, le cloche al loro posto eppure Sear sentiva che qualcosa non andava per il verso giusto.
Mai visto nulla di simile. La Valetudo sembrava animata. Gli schemi erano poco chiari su questo Manual Synch, non credevo che il capo fosse in grado di fare numeri del genere ma se smettessi di sorprendermi per ogni cosa nuova che scopro guadagnerei un sacco di tempo. - Capo, come ti posso aiutare? - domando mettendogli una mano sulla spalla.
- Sto bene, pivello. Sto bene. - risponde annuendo e facendo per alzarsi. Gli viene un capogiro e a momenti sviene. Lo sorreggo, andomi il suo braccio sinistro sulle spalle. È freddo e molto liscio. - Non l’avevo mai usato al 100% ... - mormora massaggiandosi le tempie con la mano libera. - Tranquillo capo. Sei stato grandissimo. - dico a voce bassa. Mi ha spaventato la sua freddezza, mi ha stupito il suo coraggio. Ci dirigiamo così verso il piccolo bagno: un po’ d’acqua fresca e due pillole vitaminiche lo dovrebbero rimettere in sesto. iamo di fronte alla mia postazione e ci blocchiamo. Voltiamo la testa insieme, lentamente verso un ololed rimasto da solo, in secondo piano. Ecco cosa non mi quadrava: il contenitore criogenico mi è ato di mente e a quanto vedo pure a Bolt. La nostra attenzione è stata attirata da un dettaglio non trascurabile: la schermata dei dati fisici è normale, il grafico corrisponde perfettamente a quello comparativo di un uomo sano e vigile. Vuol dire che è sveglio, con dodici minuti di anticipo. Tocco l’ololed guardando interrogativo Bolt che ha la mascella serrata, l’immagine si avvicina al comando di zoom. La capsula è aperta. La capsula è vuota.
L’avvocato Lefinne ricevette la notizia della morte di Atzoris durante un party che si stava svolgendo al penultimo piano della sede centrale, mentre intratteneva una piacevole conversazione con una signora dai capelli iridescenti. Il suo aiutante, un giovanotto abbronzato di nome Kleever, gli si avvicinò e glielo comunicò vicino allo squisito buffet. - Il nostro uomo all’Esterno ha fatto fiasco. - gli disse mettendo delle tartine su un piattino. L’avvocato buttò giù la flûte di champagne. Si girò a guardare la sala affollata da gente falsa e alla moda. Soffermandosi sui vari gruppi di alti papaveri, poteva tracciare tutte le tresche, i loschi affari che li legavano.
Estorsioni eseguite con il sorriso sulle labbra, festanti ologrammi di ballerine voluttuose. La Terra fluttuava in lontananza, splendidamente illuminata dal Sole. - Informerò il signor Locus. Non gradirà per nulla questa notizia. - sentenziò come suo costume. - Posso fare altro per lei? - domandò Kleever, sistemandosi la cravatta. - No, qui ha finito. Vada ad ultimare i preparativi per la riunione di domani. ordinò Lefinne, liberandosi del calice vuoto. Riconobbe in quella frase una parvenza di normalità: voleva illudersi che il giorno dopo avrebbe avuto dei lavori da svolgere. Sapeva che non era quello che lo aspettava. Kleever salutò e si mescolò alla moltitudine di persone, guadagnando l’uscita. L’avvocato inforcò gli occhiali dalle lenti rosa e si diresse verso la parete olografica che riparava la zona vip, recante il suggestivo spot interattivo dell’azienda, dove Boris Locus stava aggiornando e imbonendo grossi azionisti della AXIS. La parete riconobbe il DNA di Lefinne dopo una rapida scansione e reagì creando un varco nella struttura di luce dove l’avvocato sgattaiolò, attento a non essere seguito da sguardi indiscreti. Locus non si vedeva, circondato com’era da uomini tutti più alti di lui. Lefinne lo vide comparire a braccetto e ilare con i due proprietari della Randall Synaptics, un’azienda satellite della multinazionale interplanetaria conosciuta come AXIS. Gli sguardi s’incontrarono e, capendo di cosa si trattasse, Locus si congedò dai suoi ospiti per raggiungere l’uomo longilineo in smoking nero. - Lefinne, spero che mi sbagli e che lei porti buone notizie. - gli disse, mettendosi al suo fianco, sorridente, in forma smagliante, tenendo sotto vigilanza tutta l’area. - Il mercenario Atzoris non ha raggiunto il suo scopo ed è stato eliminato. - fece l’avvocato mettendosi le mani in tasca. Consultò con noncuranza un’antica cipolla da tasca in oro.
Locus non tradì alcune reazione: in pubblico, doveva sempre essere perfetto, impeccabile, immacolato. - Voglio le sue dimissioni domani mattina sulla mia scrivania. È stato un fedele servitore, avvocato, per questo le sto lasciando un giorno di vantaggio. - riprese Locus, esibendosi in moine ad un’anziana signora che stava lasciando la sala. Senza mai perdere il sorriso. Lefinne non replicò, non parlò; si girò e tornò da dove era venuto, abbandonando Locus alle sue relazioni sociali ed economiche. I gradini di cristallo che portavano all’atrio degli ascensori erano molto particolari: erano costruiti per colorarsi a seconda dello stato emotivo di chi li calpestava. Lefinne li percorse due alla volta, imprimendo liquide orme viola. Ebbe l’impressione che i denti stridessero e si spezzassero per quanto li stringeva forte, focalizzandosi su un unico obiettivo: escogitare una via di fuga, mettere in piedi un piano per salvarsi la pelle. Locus, dal canto suo, meditò su quanto potesse fruttargli la riapertura delle ostilità e decise in breve che era ora di scatenare un’altra guerra.
- Capo, è in giro per la nave… - disse Sear a bassa voce, guardando verso la stiva, sostenendo ancora in parte il peso dell’uomo. - Smettila di chiamarmi capo. Resta qui e governa la nave: portala nell’anello E di Saturno, il più vicino possibile a Giapeto. Io vado a controllare. - disse Bolt, quasi in un soffio, ritrovando improvvisamente il suo vigore. La stanchezza era stata spazzata via dall’emergenza. - Capo, scendo con te. - replicò il ragazzo, cercando di apparire grintoso. - Non pensarci neppure. - lo seccò Bolt, mettendosi eretto e sciogliendo le spalle. Mosse velocemente le dita della mano sinistra, molto più velocemente di qualunque arto fatto di carne potesse mai fare e continuò. A Sear sembrò di udire uno scatto dall’avambraccio sinistro di Bolt, ma lo etichettò trascurabile nella situazione che si trovavano ad affrontare.
- Ricordi la storia degli ordini, no? Io li do, tu li esegui. Resta qui, mi sei più utile. Me la cavo da solo da prima che tu nascessi. - concluse muovendosi verso poppa. - Ok capo. Ti copro le spalle da qui. - convenne Sear, dimostrando maturità. Bolt scomparve nella botola che portava all’altro ponte della nave, all’ingresso dell’area carico. Virgil deglutì, restando immobile. Pensò che con Bolt in libertà, armato ed incazzato fosse l’altro a doversi preoccupare. Programmò la rotta e la nave si mosse a velocità di crociera verso Saturno. Aprì tutti gli ololed disponibili con le schermate delle telecamere a circuito chiuso sparse per il vascello. Bolt era proprio di fronte alla porta della stiva, con la mano pronta a schiacciare il pulsante di apertura. Sear lo vedeva dall’alto, dal profilo destro. Prese l’ololed e se lo portò in primo piano. Aveva la bocca secca come se avesse mangiato la sabbia. Non riusciva a fermare un pensiero preciso, la sua mente era un marasma di ragionamenti a metà. Bolt entrò nella stiva con o felpato. Sear prese l’ololed della camera successiva. Adesso vedeva tre quarti dell’ambiente, Bolt si era rimpicciolito a causa dalla maggiore distanza dell’apparecchio. Seguì il capitano muoversi con cautela e guardarsi furtivamente intorno. Il cuore gli pulsava nei timpani. Dalla linea di apertura della capsula fuoriuscivano nuvolette di fumo pallido del sistema refrigerante e un sottile raggio di luce fluorescente. Bolt controllò il contenitore criogenico. Sear lo vide are la mano bionica lungo la superficie metallica e scura dell’oggetto. - Capo, che succede? - bisbigliò Sear all’intercom. - Muto Sear. - fu la reazione di Bolt. Il capitano indagò lo spazio alle sue spalle con tutti i sensi: aveva colto una sfuggente ombra rintanarsi dietro una pila di casse color giallo sporco. Scattò improvvisamente, girandosi e contemporaneamente estraendo l’arma. Sear spalancò la bocca e non respirò: vedeva il suo capo puntare la pistola nell’unico angolo cieco della visuale, pressoché sotto la telecamera.
L’espressione di Bolt espresse stupore e rabbia, con la fronte aggrottata e tutti i muscoli tesi come corde di violino; Virgil non sapeva proprio che pesci prendere. Il capitano mosse un o avanti, l’espressione ancor più sorpresa, i muscoli ancora più tirati. Sear riusciva solo ad intravedere il braccio bionico emettere un metallico bagliore. - Barrett. - esalò Bolt tra i denti. Poi tacque, il suo viso divenne cattivo e tirò indietro il cane dell’arma.
Quando Domino ebbe finito di parlare, Morgan Stavros la osservò allibito. I contorni della stanza si dissolvevano, i suoi gesti e le sue decisioni presenti, ati e futuri trovavano nuova, chiarificatrice ed apparente collocazione. “Come può pretendere che io le creda?” pensò il capitano Shark, alzandosi e respirando a pieni polmoni l’aria ripulita migliaia di volte della sua nave. Adesso l’alloggio riprendeva i colori seri e le forme vere, la finestra era al suo posto, con miriadi di capocchie di spillo risplendenti. La minuta e bella Domino lo imitò immediatamente, mettendosi alle spalle del mastodontico comandante. Shark era combattuto: avrebbe tanto voluto prestarle fede, dare un senso concreto alle sue azione, gettare le basi per una grande rivoluzione ma non ci riusciva, quello che lei aveva narrato era assurdo. - Si metta al mio posto, signorina Blomqvist. Come si comporterebbe nei miei panni? Lei crederebbe? - chiese Stavros senza voltarsi. La voce era bassa e calma; una nuova scelta stava maturando in lui. Gli occhi verdi scintillarono per una lacrima ostinata. - Capitano, non so cosa farei al suo posto ma ciò che le ho raccontato è la pura verità. La sua voce era stanca, sfiancata eppure ancora dolce. A Morgan si strinse il cuore. “Che sia giunto il momento di dare una svolta alle nostre vite?” si domandò. I
secondi avano lenti, dilatati, infiniti. Dopo un’ attesa che le parve eterna, vide Stavros girarsi fermo ed imperioso, con una luce fiera negli occhi. “Qualunque cosa accada, vi copriamo noi.” - Ordini al timoniere di invertire la rotta e a Mallberg di rintracciare la Valetudo. Convochi tutto l’equipaggio in sala mensa. - disse con voce inflessibile. - Signorsì! - esclamò lei, un po’sollevata e corse via. Shark uscì dirigendosi alla mensa e pensando alle parole da dire a uomini e donne diretti verso un’impresa disperata, forse la loro ultima impresa.
Twenty years ago
(Placebo, 2004)
- Ufficiali Barrett, O’Reilly e Stavros immediatamente a rapporto nell’ufficio dell’ammiraglio Jacobi. La voce proveniva da un diffusore acustico sopra il loro tavolino, nascosto nella tenda del bistrot, sprovvista di qualsiasi intonazione. Barrett, un ragazzo con i capelli marroni corti e gli occhi grigi, sorbì il suo tè senza mostrare la minima reazione. Stavros, di mole plantigrada, pelato e nero come la biglia numero otto, posò il pasticcino sul piatto e si sistemò il colletto dell’uniforme; gettò un’occhiataccia alla sua sinistra. O’Reilly, con un pezzo di lingua che usciva dalle labbra strette, aveva gli occhi neri perennemente irrequieti misteriosamente fermi e concentrati sul castello di carte che stava innalzando sulla superficie circolare del tavolino di vetro. La sua testa era una sfera quasi perfetta e lustra, gli zigomi alti, un piccolo neo all’angolo dell’occhio, il viso rasato di fresco. - Quindi quel ragazzo ha superato l’esame per il brevetto. - disse Barrett, poggiando delicatamente la tazzina per non far crollare la costruzione dell’amico. - E già. Will Gibson è un pilota civile a tutti gli effetti. Sono molto contento per lui. È un tipo a posto. - commentò O’Reilly, ammirando la sua opera in allestimento. - Vergognarti un po’ no, vero? - disse Stavros stufo, osservando il cielo olografico della colonia: quella settimana trasmettevano “Agosto in Cambogia” nella sessione diurna della rotazione. Solo il meglio sulla CASSIUS-β, sede amministrativa e centro di reclutamento e addestramento della Star Fleet, in orbita sincrona con Saturno. - Non è colpa mia. - mentì O’Reilly, sistemando minuziosamente un asso di
quadri e un due di picche. - E poi tu non c’eri nemmeno. - aggiunse, spostandosi con cautela dalla precario edificio. - Ha ragione. - interloquì Barrett, avendo degustato tutta la bevanda - Cos’hai combinato a nostra insaputa, birbante? Aveva la voce melliflua e canzonatoria. Erano così: si volevano un gran bene ma non riuscivano a stare seri troppo a lungo. Si divertivano come pazzi a farsi tiri mancini e tendersi tranelli, ridendone poi davanti ad una bella birra, in buona compagnia. - Già, bestione! - esclamò O’Reilly con le mani sulle ginocchia - Che ci nascondi, eh? Pupe, droga, armi illegali? - Non dire fesserie. - lo bloccò Stavros, con i suoi grandi occhi penetranti. - Balthasar, Palla Numero 8, andiamo a vedere che vuole il paparino. - disse infine Michael Barrett, mettendosi in piedi e pagando il conto. La divisa blu marino gli cadeva a pennello, stava benissimo alla luce riflessa, deviata e concentrata del Sole. Sapevano perfettamente, in realtà, cosa volesse il paparino Jacobi. Balthasar O’Reilly si alzò e sbadigliò rumorosamente, rase al suolo il castello di carte dopodiché poggiò pesantemente la mano destra sulla testa del compagno ancora seduto, sentendola liscia e setosa. - Mike dice bene. Su, carbonella, andiamo!- disse allegro. Morgan Stavros tirò su i suoi due metri e rotti di statura con un mugugno sinistro. Pensò alla sua testa rasata a zero per colpa di O’Reilly. Quel giuda si era offerto di tagliargli i capelli, una cosa semplice: altezza 5 millimetri, aggio multiplo di rasoio elettrico e fine della questione. Era stato capace di lasciargli una cresta centrale, una pinna di squalo corvina assolutamente impresentabile. Rimediò alla vecchia maniera: specchio, schiuma da barba e lametta. Si avviarono a nord, in direzione di un palazzo in lontananza, che spuntava come una stalattite dal cilindro di O’Neill, grigio e blu, a forma di ziqqurat, con le tre stelle ben visibili sulla pinnacolo principale. Barrett, dei tre, era il più riflessivo, il più posato. Possedeva una forza interiore
che gli altri due potevano solo immaginare. I suoi lineamenti erano affilati e decisi, il naso dritto e piccolo. O’Reilly era impetuoso, istintivo e giocherellone. Spensierato, il suo profilo sembrava un misto di carnagione scura, di ataviche origini spagnole probabilmente, e un’altezza superiore al metro e ottanta. Aveva una prerogativa peculiare: in combattimento, riusciva a vedere e prevedere le mosse dell’avversario, i suoi riflessi avevano qualcosa di sovrannaturale. Solo Michael era in grado di batterlo. Stavros dondolava tra i due estremi, talvolta pendendo dalla parte di Barrett, altre ricordando O’Reilly, mantenendo sempre la sua identità bonaria e disponibile. Nel corpo a corpo, era dietro Barrett e Balthasar sebbene di poco. - Ehi Bolt, chiamiamolo “Shark”! - disse Barrett, fermandosi e indicando la testa di Stavros. - Mi sembra perfetto! - confermò l’altro ridendo. Pensando alla pinna, naturalmente. - Brillanti… - brontolò il possente Morgan. Era caratteristica di Barrett appioppare soprannomi, cosa questa che Morgan detestava e che a O’Reilly, invece, non dispiaceva affatto. Il suo soprannome, specialmente, gli garbava veramente tanto: “Bolt”, lampo. Michael ci tenne a specificare che significava anche bullone. Si arrestarono al sollevatore pneumatico lungo il vialetto alberato, un cilindro di plastica trasparente iperresistente e salirono dentro il vano. Il cielo optronico era sereno come da algoritmo. Nello stesso istante, l’ufficiale Harlan Argento attraccava ai docks settentrionali : aveva deciso di accompagnare il suo superiore in quella gita di piacere, ne avrebbe approfittato per far visita alla madre. Si fecero portare all’ultimo livello, la piattaforma in prossimità dell’asse del cilindro, dopodiché spiccarono il volo, consentito dalla fisica del luogo, verso il palazzo. Il panorama della colonia riempì il loro campo visivo; quartieri residenziali, caserme, cortili con reclute in addestramento.
O’Reilly nuotava a rana, Barrett planava dolcemente e Stavros era indispettito perché lui non c’entrava veramente nulla. Varcarono il grande portone corazzato e l’ampio atrio color mostarda, con la fontana al centro, diede loro il benvenuto. Il bentornato, meglio dire. Stavano a farsi punire dall’ammiraglio Emerson Jacobi un giorno sì e l’altro pure. Si diressero all’ascensore e salirono fino all’ultimo piano, all’ufficio del paparino. L’ammiraglio era un uomo rubicondo e tenace, appartenente a un’altra generazione di combattenti. Aveva i baffi ed i capelli bianchi, gli occhi cerulei e intelligenti, una statura media. Aveva praticamente adottato i tre moschettieri, mostrando una predilezione per il guascone O’Reilly ma stimava moltissimo anche Barrett e Stavros. L’attendente e aiutante dell’alto ufficiale, guardiamarina Colette Aguilera, prese atto della loro presenza quando Bolt fischiettò una canzoncina. - Ah, voi. Vi sta aspettando. - riferì con freddezza. Balthasar si spostò, lasciando largo a Morgan e Michael. Con le gambe dentro l’ufficio, O’Reilly si attardò mimando alla Aguilera di chiamarlo il prima possibile. Lei rispose muovendo le labbra “Te lo scordi!”. - Dannazione O’Reilly! Porta le chiappe qui! - urlò la voce roca del paparino. La scrivania nera era traboccante di fogli e intasata di ololed riportanti dati, ordini, condizioni dello spazio esterno. Dietro l’ammiraglio, la finestra blindata della grande stanza lasciava spaziare lo sguardo su quasi tutta la colonia, facendone apprezzare la simmetria perfetta. Il lago schiacciato sulla superficie curva ruotava serenamente. Jacobi firmò l’ultima scartoffia e li scrutò uno alla volta, muovendo freneticamente i baffi. - Molto bene. Tu e tu. - iniziò Jacobi, indicando Barrett e O’Reilly - Puniti per una settimana. Devo ancora escogitare come. Tu. - additando Stavros - Punito: domani mattina turno doppio in officina. - concluse, appoggiando una mano sul bordo del tavolo. - Paparino, noi… - osò Balthasar con la sua migliore espressione contrita. - Non cominciare col paparino, sono già abbastanza incazzato. - interloquì
sbrigativamente l’ammiraglio. - Che vi è saltato in mente? - proseguì - In quel container alla deriva che avete recuperato poteva esserci di tutto. Secondo quale logica lo avete agganciato alla colonia? - Veramente, ammiraglio, lo avevamo controllato accuratamente. Conteneva antico hardware digitale ed analogico: hard-disk, compact disc, lettori mp3, cassette magnetiche. Principalmente vecchia musica, film ed e-book. - disse Barrett con tono fermo, sull’attenti. - Certo, certo… - replicò l’ammiraglio, girando intorno al tavolo. L’ufficio era luminoso ed arredato con gusto, in tonalità blu scuro con molte opere d’arte interattive alle pareti. Alcune teche custodivano modelli di navi celebri del ato costruiti con perizia da amanuense dall’ammiraglio. Jacobi li ò in rassegna, fermandosi su Stavros. Grosso, alto, impettito, spaventato. - Se ti stai chiedendo perché anche tu sei stato punito, te lo dico. - gli disse, guardando avanti ma tenendo la sua attenzione sul ragazzone. Morgan annuì. - Perché lo sapevi e non li hai tenuti d’occhio. - sentenziò l’ammiraglio. - Ma signore… - intervenne Stavros, con il suo timbro profondo. - Silenzio. Ho visto i registri della rimessa: una Windina da ricognizione, pilotata da Edward Teach e Bartholomew Roberts, Barbanera e Black Bart. Mi volete prendere per il culo? - argomentò Jacobi, girandosi i baffi con una punta d’impazienza. Bolt e Barrett soffocarono una risata, Stavros imprecò tra i denti. - Tu eri di servizio nell’ufficio del traffico e vorresti farmi credere che leggendo quei nomi non hai sospettato di questi due? - domandò indicando i rei. Stavros non ebbe il coraggio di rispondere. I suoi compagni lo avevano convinto che non sarebbe accaduto nulla, che l’avrebbe scampata, che non c’era motivo di preoccuparsi. “È l’ultima volta che gli do corda.” pensò alzando gli occhi al cielo.
- Perciò: punito! - terminò Emerson, puntando in basso l’indice destro. Schioccò le dita e sorrise sinistramente, volgendosi verso i colpevoli. - In quanto a voi, - riprese l’ammiraglio con tono ostile - ho trovato il fio che sconterete: archivierete tutti i dati che ci sono in quei dispositivi di stoccaggio. Barrett e O’Reilly si guardarono con gli occhi spalancati: l’ammiraglio doveva essere veramente fuori dai gangheri, c’erano milioni di dati da sistemare, ci avrebbero messo ben più di una settimana. - Signore, c’è un problema. - disse Bolt, spronato dall’espressione di Mike. - Dopo una visione preliminare, ci siamo accorti che molti file sono in una lingua sconosciuta. Abbiamo chiesto al reparto controspionaggio e tutto quello che hanno saputo dirci è che un idioma neolatino, portoghese forse. Non siamo in grado di tradurlo, signore. - terminò, guardando con un sorriso sornione Jacobi. L’ammiraglio annuì. - So anche questo: è italiano, un linguaggio morto cinquecento anni fa. Io lo conosco e ve lo insegnerò, a tutt’e tre. - ribatté, tornando sulla poltrona. Si era seccato la gola a forza di ripetere loro che l’unica, vera, grande risorsa è il sapere, quindi gli allievi ufficiali non obiettarono, anche perché Jacobi nelle sue decisioni era irremovibile. - Prenderete lezioni ogni sera fin quando non partirete per i vostri nuovi incarichi.- riprese, girando il sedile da un lato, mettendosi di profilo. I suoi ragazzi diventavano grandi, i pulcini avrebbero volato presto fra le stelle. Il trasferimento era fissato per la metà del mese successivo: questa considerazione era per lui fonte di dispiacere e di grande orgoglio. I giovani furono colti alla sprovvista: Barrett arricciò il naso, O’Reilly si grattò la testa con una smorfia, Stavros gonfiò il petto ed espirò lentamente. L’ammiraglio partì proprio da quest’ultimo. - Tenente di vascello Stavros, lei è stato assegnato al nuovo incrociatore leggero LBS-014 Mk II “Aiace”, in qualità di primo ufficiale ai comandi del capitano di fregata Hans-Tweede Huntelaar. - disse porgendogli l’ordine di trasferimento e le
sue nuove mansioni. Si volse verso gli altri due giovani uomini. - Capitano di corvetta O’Reilly, tenente di vascello Barrett. Siete stati selezionati tra 8302 candidati per prendere parte al nuovo programma sperimentale “Crossway” . Eccovi le specifiche di servizio e gli ordini di trasferimento. - disse Jacobi, cercando di nascondere la commozione. I giovani lessero sorpresi le linee guida della loro nuova vita. L’ammiraglio ruotò ancora la poltrona per ammirare il panorama. - Finalmente mi libererò di voi. - affermò. Barrett sorrise convinto che stessero parlando allo schienale di un mobile. - Mi assicurerò che rispettiate le vostre consegne e vi attendo stasera alle otto per iniziare il corso d’italiano. - concluse nella medesima posizione. - Signorsì! - risposero in coro gli altri, con la voce emozionata, tutti dritti e felici eppure tristi. - Rompete le righe e non fatevi vedere per il resto della giornata. - ribatté l’alto ufficiale. I tre batterono i tacchi e si avviarono alla soglia: riuscì a sentire il chiasso che provocarono nel corridoio, ridacchiò e pensò “Pivelli…”. Dal salottino adiacente, una stanzetta sul salto est, una figura s’incurvò leggermente per non sbattere contro lo stipite. L’uomo era un vecchio amico e commilitone di Jacobi che era venuto in visita sulla CASSIUS. L’ammiraglio gli aveva chiesto di assistere al colloquio di nascosto (poiché credeva nel principio d’indeterminazione di Heisenberg) e poi di confidargli che impressioni aveva avuto su quei tre scavezzacollo. Era noto ai sordi e ai ciechi che l’ammiraglio di squadra Samuel Blue non avesse la minima idea di cosa fossero le mezze misure; Emerson Jacobi lo reputava d’intelligenza non comune e teneva in alto riguardo le sue opinioni. Era l’essere più grosso che ci fosse; al confronto Morgan Stavros rientrava perfettamente nella media. Il viso squadrato, i baffi sottili e la mosca, gli occhi perennemente inquisitori, di colore ambra. In due i, era alla scrivania; i incredibilmente leggeri.
- Che ne pensi di quelle teste gloriose, Sam? - chiese Jacobi, voltandosi e appoggiando il gomito destro sul bracciolo. - Sinceramente? - chiese Blue, con la voce priva d’inflessione. Jacobi fece cenno di sì. - Che sono delle solenni teste di cazzo. - rispose Blue, con un sospiro. - Su questo non ci piove. - convenne l’ammiraglio Jacobi - Ma hai visto i loro punteggi. Sono strabilianti… - concluse, con aria assorta. - I migliori. Sempre, dovunque, comunque. - sintetizzò Samuel Blue, spostandosi verso la finestra panoramica. - Alla loro età, venticinque anni, tu ed io portavamo da bere agli ammiragli. aggiunse alla conclusione del percorso. Adesso sorrideva: il suo cervello stava calcolando sottilmente tutte le implicazioni che riguardavano i tre ragazzi. Blue era perfettamente cosciente di essere un caso raro nella Fleet. Jacobi aveva cinquantacinque anni, lui quarantatré ed era un suo diretto subalterno. Aveva due lauree: ingegneria aerospaziale e matematica. Aveva conseguito diplomi di tattica militare e filosofia della guerra. Eppure percepiva che quei tre avrebbero surclassato lui e il suo amico Jacobi in breve tempo. - Si faranno onore, ne sono certo. - affermò, con un ghigno ambiguo. Si augurò che i figliocci di Jacobi e il suo protetto Argento si incontrassero presto. Jacobi gli andò al fianco, la testa che non arrivava alle spalle dell’amico e insieme osservarono O’Reilly nuotare a dorso, Barrett in posizione meditativa accosciata e Stavros sdraiato con aria sognante. Tre puntini blu che diventavano grigi man mano che si allontanavano. - Pivelli… - esclamarono all’unisono Jacobi e Blue.
Il suo nome è Boris Ilveni-Locus e se uno spillo cade nel Sistema Interno lui lo sa. La strada che lo ha portato a padroneggiare tale atterrente egemonia è stata lunga, tortuosa, lastricata di vittime e d’indicibile crudeltà. Nacque nell’aprile del 3108, nel gruppo colonico RASMUSSEN-31, cilindri di O’Neill di dimensioni ridotte a scopo industriale e mineralogico al largo di Venere. Estraevano il tellurio dal pianeta, fondamentale per la lega GST e quindi per le memorie a cambiamento di fase, le PCM. Il padre e la madre erano minatori della AXIS, sfruttati e sottopagati ed egli sì vergognò sempre di loro e della loro umiltà. Appena poté, abbandonò quel posto dimenticato da ogni dio e non vi fece mai più ritorno. Era sempre stato intelligente e s’iscrisse all’università in economia sistemica, mantenendosi con lavoretti e borse di studio. Un’altra dote che possedeva era la pazienza. Egli seguì un piano a lunga scadenza che aveva come fine il dominio totale del Sistema Solare. Per iniziare, poi, come si dice “il cielo è il limite”. Si laureò e divenne agente di borsa prima, capitalista poi. Scalò le gerarchie della AXIS calpestando, uccidendo, minacciando chiunque gli si parasse davanti e arrivò nel consiglio d’amministrazione. Non volle mai entrare in politica, però. Perché aveva un’idea ben precisa sull’utilizzo della corruttibilità umana. Il ragionamento fu questo: un politico, fondamentalmente, è solo fumo e niente arrosto. Il posto che detiene è frutto di un delicato equilibrio di poteri, favoritismi e nepotismo. Quindi un uomo politico può diventare facilmente suggestionabile, per così dire: una posizione in cui è sconsigliato trovarsi. Ragionò per ambienti, dividendo e studiando categorie su categorie. La conclusione fu che arrivare a comandare su un aspetto unico nel lungo percorso degli avvenimenti era inutile, se non addirittura dannoso, poiché avrebbe impigrito i sensi e avrebbe richiesto una discesa al negoziato con l’ambiente superiore e più elitario. La soluzione finale fu lampante: diventare l’ambiente di coltura basilare, l’humus indispensabile di ogni recita: politica, finanza, guerriglia. Decise così di diventare ciò di cui i politici e la gente comune avevano bisogno, il ventre molle in cui le radici nere e malate dell’animo prosperano. Per fare ciò, estirpò dal suo essere le ultime vestigia di concetti quali la solidarietà, l’amicizia, l’onore, la lealtà e li utilizzò come si deve: facendoci dei sottobicchieri. Scelse di lavorare dietro le quinte, celando a tutti la sua reale importanza e influenza nefasta, producendo nuove armi, sintetizzando nuove droghe, mettendo i ceti sociali gli uni contro gli altri tramite il rimodellamento delle informazioni in fattori critici come la sanità pubblica, per mantenere un clima di tensione senza fine. A sessantotto anni, torturò con le sue mani l’allora amministratore delegato per farsi cedere la carica. Il cadavere fu lanciato da un cargo nelle vicinanze di Mercurio. Si
potrebbe pensare che un uomo a quasi settant’anni sia più tranquillo e non vada ad asse importanti dirigenti. Locus, però, non accettava la morte e cercò di averne ragione e sconfiggerla, ma riuscì solo ad aggirarla. Quando la situazione monetaria lo rese possibile, egli iniziò con ricambi quinquennali di eritrociti, trasfusioni totali di sangue per capirci. Poi ò ai trapianti: fegato, polmoni, reni. Si rivolse ai più moderni ed efficaci trattamenti di ringiovanimento e di bellezza, al fine di apparire sempre giovane e attraente. Provava particolare predilezione per gli organi veri, biologici, considerandoli superiori a quelli sintetici, dopo averli testati entrambi. Niente organi clonati o rabberciamenti di parti animali. Non esisteva nulla di più grandioso che sentire pulsare nel proprio petto un cuore giovane e vigoroso, già rodato ma con una vita davanti. Estrarlo da un essere senziente la cui unica colpa era essere compatibile con un certo gruppo sanguigno appariva irrilevante nella prospettiva di Locus. La AXIS prosperava, forte della spregiudicatezza speculativa di Locus: nel giro di tre anni acquisì praticamente tutte le altre ditte, fino a Marte. In quegli anni ebbe il colpo di genio. “Gli affari vanno bene, ma non ci stiamo ingrandendo. Ci vorrebbe un bel conflitto.” (notare il plurale maiestatis) pensò Boris una notte, al chiaro di Terra. Cominciò ad elaborare una strategia vincente. Partorì una ragnatela d’inganni degna di una tragedia greca. In un’epoca di colonizzazione spaziale, dove cilindri, tori e sfere venivano costruiti incessantemente e interi satelliti naturali erano sottoposti a esperimenti di terraformazione, quello che mancava era una sana rivalità tra due opposti schieramenti, lacuna che era necessario colmare. Lentamente ed instancabilmente, Locus lavorò sfruttando tutte le sue conoscenze, riscuotendo crediti decennali, producendo movimenti indipendentisti dal nulla; quello a cui mirava era la separazione del Sistema che sarebbe sfociata, con il suo aiuto chiaramente, in una guerra civile e fratricida che avrebbe azzerato la civiltà, permettendogli di ricrearla a sua immagine e somiglianza. I pianeti e i gruppi colonici fino all’orbita di Marte si battezzarono Confederazione Terrestre; la zona che si estendeva dalla fascia di asteroidi fino a Plutone divenne nota semplicemente come Sistema Esterno, benché il suo nome ufficiale fosse Federazione delle Libere Colonie. Locus contava di rimpinguare i suoi già stratosferici guadagni con contrabbando e misfatti vari nonché approntare uno scenario adatto per far scoppiare la guerra. Attese troppo però, sicuro che oramai il più fosse fatto e il Sistema Esterno ebbe
tempo per organizzarsi, tramite lo sforzo congiunto di molte società. Il consiglio di amministrazione delle Coral Industries su Europa intuì per sommi capi la tattica e riuscì ad arginare le intenzioni di Locus, coalizzandosi con tutte le altre ditte della Federazione e respingendo l’attacco: la pace durava ancora, la Prima Guerra Aziendale era stata vinta dal Sistema Esterno senza sparare nemmeno un colpo. “Maledetti australiani!” pensò Boris “Il mio trionfo è solo rimandato.” Riuscì a volgere comunque la situazione a suo vantaggio, individuando i punti deboli di quel fragile equilibrio: il gap tecnologico. Il Sistema Interno era ricco di minerali ma carente di elio-3, l’opposto capitava nella parte esterna. La AXIS venne divisa, rimpicciolita in ditte all’apparenza autonome e i guadagni decuplicarono, trafficando per mantenere il gap sempre uguale. Aveva settantanove anni, ne dimostrava trentacinque. In quel periodo conobbe un irritante, sentenzioso e sordido avvocato ventinovenne, rispondente al nome di Jean-François Lefinne. Boris Ilveni-Locus era stato invitato ad una cerimonia istituita in suo onore dal celebre ateneo orbitante Graymalkin Orbital University, in quanto generoso donatore di una nuovissima ala del dormitorio. Durante il ricevimento, un giovanotto magro, ben vestito e con i capelli biondi lo aveva avvicinato con un calice di Bellini e si era presentato. - Signor Locus, è grande onore conoscerla. Io sono… - Jean-François Lefinne. La sua reputazione la precede. Anche io desideravo incontrala. - disse Locus proponendo un brindisi. Lefinne sorrise malignamente e fece tintinnare il cristallo. Può una semplice nota musicale prodotta da comunissimo cristallo essere la causa di oltre un milione di morti? La sala panoramica era splendida con migliaia di ospiti illustri, balli alla moda, cibi raffinati. L’Africa ava veloce sotto di loro. Locus e Lefinne andarono a chiacchierare in disparte, in una saletta riservata color crema, con delle poltroncine rosse e quadri di Monet alle pareti. Locus sapeva già molto di Lefinne. Qualche mese avanti il loro incontro, un suo prestanome stava subendo un processo per corruzione e pedofilia: per farlo condannare e levarselo dai piedi era stato assunto il rampante Lefinne, essendo stato scambiato per un avvocato qualunque. Aveva già lavorato per Locus anche se non lo sapeva: questa frase era valida per il 98% degli esseri umani del Sistema Interno.
Lefinne si rivelò viscido e spietato come un serpente, riuscendo con vili sotterfugi a far scagionare il prestanome nonostante l’evidente colpevolezza. Locus decise di risparmiargli la vita, più per curiosità scientifica che per pietà: percepì in lui ambizione sfrenata, astuzia e malvagità. Parlarono per doppi sensi e metafore, intendendosi a meraviglia e scoprendo alcuni punti in comune, mentre le poltrone trasmettevano musica subcorticale. - Lefinne, avrei bisogno di un legale che segua in mia vece determinati affari, molto delicati. Una persona discreta, che sia capace di recare la mia volontà senza approfittare di tale privilegio. Un uomo per bene. Potrebbe indicarmi qualcuno con tali capacità? Essendo dell’ambiente ne saprà certamente più di me. - disse Locus terminando i convenevoli, nella sua dizione perfetta e priva di accenti, rimirando la flûte opalescente. Lefinne accavallò la gamba destra e sorrise: era chiaro che aveva ricevuto il primo ordine dal suo nuovo padrone. - Non si preoccupi, è in una botte di ferro. - rispose l’avvocato a voce bassa e fredda, porgendogli la mano. Locus la strinse e l’alleanza fu siglata. Locus pensò “Perfetto. Comincerò a raccogliere informazioni per i futuri ricatti. Potrebbe fungere anche da capro espiatorio.” Lefinne considerò “Perfetto. Lo ingannerò fingendo fedeltà e gli scaverò la terra sotto i piedi. Sarò io a dominare.” Boris scoprì un’abilità utilissima di Lefinne: era molto attento ai dettagli, specialmente per quanto riguardava le notizie da far trapelare. - Uccidere è facile e veloce ma può essere rischioso. Screditare ed infamare è più complicato ma i vantaggi permangono a lungo. - enunciò di fronte a un uomo che aveva spinto a impiccarsi. Grazie al potere crescente di Locus e alle manovre di Lefinne, la AXIS riuscì a infiltrare, seppur lievemente, il Sistema Esterno. La Seconda Guerra Aziendale si avvicinava e Locus coadiuvato da Lefinne era saldamente intenzionato a vincerla. Definitivamente. Il reparto “Giochi e Teorie” aveva sfornato un’idea estremamente interessante e potenzialmente discriminante per la sorte dell’umanità: il volo superluminale, la colonizzazione dell’universo, il potere di Dio. Questa nuova esperienza volgeva la sua attenzione alla curvatura dello spazio-tempo, tramite l’innesco di un
wormhole artificiale. L’apertura della “ ana di verme” avrebbe permesso di spostarsi istantaneamente a distanze incommensurabili, permettendo di viaggiare verso stelle lontanissime ed emigrare verso altre galassie. Almeno in teoria. La mente di Locus venne sopraffatta dalla fantasia di un impero che si estendeva da un capo all’altro della galassia e lui seduto su un trono dorato raffigurante un cobra: l’imperatore di un milione di mondi. Non vide alcun’altra meta. Chiese agli scienziati e ai tecnici di cosa avessero bisogno per rendere concreta la loro supposizione. Il professor Erick Blomqvist, convocato al suo cospetto, lo osservò incurvando un sopracciglio rosso come il fuoco. - Un miliardo e mezzo di eurosol e una colonia di disegno innovativo e sperimentale. - affermò senza indugi con la sua voce cordiale e gli occhi celesti fermi su Locus. Boris incrociò le mani e vi poggiò sopra il mento ritoccato e squadrato, socchiudendo le palpebre. - Consegni gli schemi della colonia all’avvocato Lefinne. Prima che ne venga ultimata la progettazione voglio i preventivi, le liste di materiali e personale, corredati da congetture e ipotesi di sfruttamento a breve e lungo termine. Si rivolga alla mia segreteria per i particolari. - ribatté quest’ultimo, tornando ad armeggiare con gli ololed. Il professore era esterrefatto: mosse le labbra per parlare alzando un dito, ma non un suono uscì dalla sua bocca. Locus lo congedò mostrandogli lo schermo con un grafico intitolato “Progetto Cygnus”: era il ruolino di marcia, con tanto di nome, già calcolato, con costi e futuri guadagni, dell’impresa programmata venti secondi prima. - È già in ritardo sulla tabella di marcia. Ha del lavoro da svolgere. Vada.- disse impaziente Locus. Blomqvist non lo vide mai più. Nel tempo record di un anno e due mesi, la sperimentale colonia a clessidra “Cygnus-Γ” era terminata e operativa. Venne trasportata in orbita lunare a distanza angolare di sicurezza dal satellite.
Non sarebbero mai più esistite colonie come quella. Due coni a vertici contrapposti, speculari e controrotanti interamente rivestiti di moduli fotovoltaici termodinamici a film sottile di arseniuro di gallio, dotata di un sistema energetico a fusione ciclica Markov, casa forzata di più di cinquemila tra tecnici, scienziati, servizi di sicurezza e tutto il resto. Il suo scopo prioritario era indagare l’effettiva possibilità di creare canali spazio-temporali tra galassie o stelle distanti svariati di anni-luce. Il secondo fine era cercare e se possibile utilizzare un wormhole naturale e già esistente. Una spesa colossale, un’impresa titanica, un tentativo di tirannia galattica. Erick Blomqvist, fisico teorico di fama universale ed esperto di onde gravitazionali, si era trasferito sulla Cygnus con la moglie Syria, fisico della materia aderente al progetto, donna raffinata e coraggiosa, con gli occhi verdi come la speranza, e la piccola Domino di cinque anni. Un diavoletto tutto pepe con i codini color rubino e gli occhi di sua madre. - Tesoro, so perché hai accettato di lavorare qui e ti ho seguito. Ma sono in pensiero per Domino. - disse durante una notte insonne Syria al marito. La bimba dormiva serena nella sua cameretta, stremata da una impegnativa giornata di gioco. - Ti capisco, Syria. Ho preso delle precauzioni, nel caso qualcosa dovesse sfuggire al nostro controllo. - rispose Erick, poggiandosi su un gomito. - Ho pensato a una via sicura per la piccola. Un drone è programmato sul suo corredo genetico, per recuperarla e trasferirla nella capsula di salvataggio. Syria non parve tranquillizzarsi ed Erick fu più chiaro. - Non la lascerò vagare nello spazio, stai tranquilla. Le coordinate sono impostate per portarla su Marte, in un luogo sicuro dove un mio amico la recupererà. La moglie assunse un’espressione interrogativa e il marito ridacchiò. - L’hai anche conosciuto. - proseguì - Poe. Edgar Allan Poe, il mio amico del college. Te lo ricordi, sì? - Certo. È una brava persona… - disse lei rasserenandosi un po’.
- Sì, di lui mi fido. - Ti amo Erick. - aggiunse stringendosi al petto del marito. - Ti amo Syria. - rispose lui, baciandole la fronte. Restarono in silenzio respirando piano e scambiandosi il calore del corpo. Quattro giorni dopo, la massa dei due coni in controrotazione fu accelerata e, giunta alla velocità critica, mantenuta costante, al fine di generare una minima perturbazione gravitazionale. L’energia prodotta dai pannelli e centuplicata una volta immessa nel reattore Markov, venne espulsa da un maser ad altissima potenza: l’azione combinata dei due fenomeni avrebbe dovuto lacerare la struttura dello spazio-tempo e creare così un wormhole, un sentiero dove la costante c, raggiungibile con le normali tecnologie ma invalicabile per definizione, non valeva niente. La Cygnus ebbe successo in un certo senso, però quando venne disintegrata solo una scialuppa riuscì a staccarsi in tempo, solo una vita riuscì a salvarsi. I timori reconditi di Erick Blomqvist si avverarono come le sue misure di sicurezza: Domino riuscì a sopravvivere ma fu investita da una serie di emissioni provenienti dalla “ ana di verme”, radiazioni sconosciute nella dimensione umana, chiamate in seguito L.T.C.W., Linear Time Collapsing Waves, onde di collasso del tempo lineare. Il modo più semplice di capire questo fenomeno è immaginare due grandi fiumi posti a un emisfero di distanza che all’improvviso vengono spostati e trascinati a pochi metri uno dall’altro. A causa della velocità della corrente, gocce di flusso riescono a saltare da un corso d’acqua all’altro e solo alcune entità sono in grado di individuarle e seguirle. Le sinapsi del suo cervello furono profondamente modificate e migliorate, regalandole la capacità di sfruttare la sua mente al 65%, contro il 20% di un normale essere umano. La bambina sarebbe riuscita a identificare queste anomalie e risalirle, sbirciando il futuro di questa dimensione dall’argine dell’altra. Una visione comunque probabilistica e soggetta a errori e interpretazioni. Qualcuno avrebbe dovuto guidarla e prepararla accuratamente. Edgar Allan Poe seguiva i lavori di costruzione per la multinazionale Kodisha di una colonia innovativa sul suolo marziano, in qualità di ingegnere capo. Recuperò la bimba piangente nella capsula giusto in tempo per lasciare il pianeta, poco prima dello scoppio delle ostilità.
“L’incidente Cygnus” , come viene ricordato negli olobook di storia, non fu circoscritto alla zona della Confederazione; infatti quando il maser e la gravitazione aprirono il corridoio verso l’infinito, il rigurgito energetico extradimensionale fu talmente spropositato che si concentrò in un cilindro di decadimento di tre chilometri di raggio, quindici considerando l’alone: la forma fisica dell’energia esistente tra i continuum, condensata nel aggio da una dimensione a quella adiacente. Questo fascio laser molecolare di proporzioni inimmaginabili fu scagliato verso l’esterno del Sistema Solare, investendo tre gruppi colonici orbitanti tra Giove e Saturno e una base militare: le “Zodiac”, tori di Stanford metallurgici; le “Xeron-τ”, vasto agglomerato abitativo composto da cilindri di O’Neill di quarta generazione, il polo di colonie riciclatrici “Elise Now” e il prototipo di nave generazionale “Ark” per un totale di centotrentun colonie distrutte e un milione ottocentomila morti accertati, incalcolabile il numero dei feriti e dei dispersi. Titano fu solo sfiorato dal raggio, ma non venne distrutto. Anzi si scoprì più tardi che fu reso adatto alla terraformazione. Il conflitto fu inevitabile, questa volta. Le Coral Industries non poterono fare nulla: la Seconda Guerra Aziendale corrispondeva alla Prima Guerra Solare, nota anche come “Guerra degli Anelli” perché la fase più sanguinosa e violenta si svolse nella magnetosfera di Saturno. Locus e Lefinne videro il lato buono della faccenda: almeno il piano originale tornava d’attualità; avrebbero finalmente avuto la loro guerra. Gli eserciti e le flotte si decimarono per mesi, finché l’umanità non arrivò sull’orlo del baratro. A un o dall’estinzione, la ragione ebbe il sopravvento; perfino Locus comprese che il re può essere nudo e che è inutile regnare sui cadaveri. Il generale Thaddeus Eissmann propose una bozza di trattato di pace, per dare un avvenire seppur tetro alle nuove generazioni. Ampiamente modificato dai voleri e dai fondi della AXIS, entrò in vigore, efficace come un aereo senza ali e si creò una nuova tregua traballante, una pace militarizzata e vigile che venne usata da entrambe le parti per riorganizzarsi e riarmarsi. Interi settori del Sistema dovevano essere ricolonizzati. Durante questa situazione di stallo, della durata di circa vent’anni, nacquero leggende come la Vengeance, la nave corsara ribelle, e il Blue Bell Inn, il bar dei contrabbandieri. Accadde un evento molto particolare, nella furia insensata degli scontri.
Locus ebbe la prontezza di spirito per seguire la propria esperienza e la sua lungimiranza, avendo così cura di spargere nel Sistema squadre di ricerca, sorveglianza e recupero, prima dell’attivazione di Cygnus: piccole unità da cinque uomini su corvette veloci e leggere adatte ad una fuga rapida, per monitorare l’esperimento da tutte le angolazioni possibili. Una squadra di recupero fu inviata meno di un’ora dopo lo scoppio dei combattimenti su Europa alla ricerca di una corvetta “Windina Special” precipitata dopo essere entrata in contatto con l’alone del fascio energetico. I piloti erano Balthasar O’Reilly e Michael Barrett, in missione per il programma “Crossway” della Star Fleet. Locus voleva Barrett e lo trovò, ma non fu il solo. E nemmeno il primo.
Poe crebbe Domino nel miglior modo possibile, portandola sulle colonie abitative nel punto lagrangiano Sole-Terra L2 denominate “Delpho’s Oracle”, avendo trovato lavoro lì come ingegnere comunale. Era una bambina vispa, intelligente e dalla fervida immaginazione: si era creata degli amichetti immaginari che chiamava “I Camminatori” che la portavano a so nel tempo e un angelo custode dagli occhi grigi di nome Michael. Edgar la adorava più di una figlia e la educò con amore e fermezza. A dieci anni le domandò quale sport le sarebbe piaciuto praticare e la bimba rispose agitando le mani - Karate! - Sicura? Meglio il tennis o il nuoto. Che ne pensi? - disse Poe, con un sorrisone. Domino fece cenno di “no” con la testolina rossa e fissandolo con gli occhi verdi ribadì - Karate! - E karate sia! - esclamò il padre adottivo. Dopo qualche tempo, il sensei Matsui era entusiasta dell’abilità in combattimento della ragazza e propose a Poe di farla partecipare a tornei juniores; nonostante la giovane età e la cintura gialla combatteva alla pari con le cinture marroni.
- Ohibò, ne dovrò parlare con lei. - rispose Edgar, arricciandosi i baffi neri. Domino rifiutò nettamente. Due anni dopo, Poe cominciò a preoccuparsi quando lei confermò di non voler partecipare a qualsivoglia competizione e iniziò ad aprire la porta un attimo prima che suonassero. Mentre eggiavano per le strade del quartiere commerciale di Oracle-7, quando lei aveva sedici anni, Poe le chiese il perché di quei suoi strani comportamenti, poiché la vedeva sempre più spesso abbattuta e sola. - Non voglio partecipare alle gare perché sono avvantaggiata, papà. - In che senso? - Li vedo, papà. Ancora prima che colpiscano. Poe restò abbastanza incredulo e rispose - Intendi dire che prevedi le loro mosse? Significa che hai buoni riflessi…Domino sorrise perché quella scena “I Camminatori” gliel’avevano già mostrata e sapeva come sarebbe andata a finire: papà le avrebbe creduto. Sollevò l’indice ed esclamò - Dring! Poe non comprese ma un istante dopo il suo netphone cominciò a suonare. Sbarrò gli occhi, ipnotizzato dalla suoneria incalzante. - Come ci riesci? - chiese lui, con aria indagatrice. - Lo vedo. - disse lei, cambiando il peso dalla punta dei piedi ai talloni. - Semplicemente, lo vedi? - insistette lui, interrompendo la suoneria. - Lo vedo e basta. Sono strana. - affermò imbronciata. Poe le si avvicinò sorridente e l’abbracciò come un orso ballerino.
- Piccola mia, sei una benedizione. Stille di gioia fluirono dagli occhi della ragazza, sentendosi finalmente compresa e libera. - Chi era al telefono? - domandò mentre la portava in una gelateria. - Richiameranno. - rispose lei, guardando i gusti. - Accetta il lavoro che ti offrono. A casa ti spiegherò tutto. - aggiunse ordinando un cono maxi. Poe annuì soddisfatto: e chi se l’aspettava di avere in dono una figlia così speciale? Il mese successivo Poe riprese i lavori su Marte e divenne in seguito il direttore della Yudecca. A vent’anni, Domino si arruolò nella Flotta Confederata, disertando dopo il diploma di ufficiale e andando a cercare Shark Stavros e il suo vascello. Il resto è storia.
Lo stesso giorno che Poe recuperava la scialuppa di Domino, in un soggiorno di Santiago del Cile, Stephanos Searjianovic, docente di matematica astratta all’Universidad Catolica de Chile, leggeva serenamente il webpaper. Il cielo sopra la cupola antiradiazioni minacciava pioggia acida, doveva lavorare a quel problema quadridimensionale, ma non ne aveva alcuna voglia. Si diresse verso il suo studio e vide trotterellarne fuori il figlio Virgil. Corse e lo placcò ridendo. - Che facevi nel mio studio mascalzone, eh? - esclamò lui, prendendolo in braccio e facendogli il solletico. Virgil rise, quella risata di bambino felice che scuote il creato e accarezzò il pizzetto nero del padre. - Ieri hai detto che se risolvevi il problema, andavamo allo zoo. Ti ricordi?iniziò il bricconcello. - Certo che mi ricordo, soldo di cacio. - rispose circospetto il padre, percependo qualcosa nell’aria.
- L’ho fatto io così mi porti a vedere le giraffe! - gridò gettandogli le braccia al collo. Stephanos rise con il cuore e ricambiò l’abbraccio. Decise che tanto amore non poteva andare deluso e sprecato. - Metti le scarpe che andiamo a vedere le giraffe, nanetto! - disse posandolo dolcemente a terra. Virgil era tutto contento e corse in camera sua a calzare le scarpine. - Papà! Vieni ad aiutarmi con i lacci? - urlò il bimbo dalla sua stanza, in evidente difficoltà con le stringhe. - Arrivo Virgil! - disse il padre prendendo il cappotto. Si bloccò ando davanti al suo studio per via di un’inspiegabile sensazione. Andò verso la scrivania scarsamente illuminata dalla luce che filtrava dalle persiane. Prese il foglio con il problema, allegro perché era convinto di trovarci scarabocchi e disegnini di giraffe e leoni. Invece trovò il quesito risolto, con tutti aggi spiegati e le equazioni svolte correttamente. Restò a bocca spalancata. Suo figlio era un genio. - Papà! I lacci! - urlò forte il bambino. Stephanos scoppiò a ridere perché forse il figlio era pure una mente eccelsa, ma i lacci non li sapeva ancora annodare.
- Capitano O’Reilly, fallo un’altra volta e giuro che ti prendo a calci nel culo da qui a fino alla Luna. - affermò il contrammiraglio Amanda Ratchet, responsabile di “Crossway”, stringendo le fasce di sicurezza del sedile performante e pensando “Non credevo che una lancia Salusa potesse fare questo!” . Si riferiva allo slalom che il vivace Balthasar O’Reilly stava eseguendo nella rete di satelliti difensivi orbitanti intorno a Europa. - Suvvia madame. - disse in tono accattivante il giovanotto - Le hanno assegnato un pilota eccezionale, lasci che le dia una piccola dimostrazione delle mie capacità. Si voltò e fece danzare le sopracciglia, un sorriso beffardo stampato sul volto. La
Ratchet sorrise di rimando. O’Reilly e il suo compagno Barrett erano stati trasferiti da poco più di un mese, caldamente raccomandati dall’ammiraglio Jacobi e già si erano messi nei guai. Amanda Ratchet ricordò il rapporto e le sovvennero alcuni particolari. Un volo non autorizzato per prestare soccorso a una nave eggeri in avaria. Una rissa sulla “Ark”, la base orbitante centrale. Due contro dieci. Dodici al pronto soccorso. Dieci: prognosi di quindici giorni. Due: tre aspirine, due punti di sutura e una notte di sonno. A O’Reilly era toccata come punizione quella missione di spola per aver dato luogo d un festino non autorizzato negli alloggi comuni. - Avanti capitano, tanto l’hai già fatta grossa. Vediamo quanto valgono le tue parole. - ribatté lei, serrando meglio l’imbracatura. Magnetizzò il piede sinistro in lega di titanio allo scafo, tanto per essere più sicura. La gamba l’aveva persa in un incidente di volo; la Fleet l’aveva rimessa in sesto e meglio di prima, assegnandola dopo un periodo di convalescenza al nuovo progetto. Al capitano non parve vero e non si fece pregare, abbassò la cloche sinistra aumentando la velocità e si lanciò in cabrata. Cambiò bruscamente direzione, capovolgendo la lancia e lanciandola in picchiata. - Dieci a uno che ti schianti. - scommise l’operatore radar di turno sulla “Ark”, Sistus, comparendo sull’ololed comunicazioni. - Buongiorno signore. disse poi rivolto all’ufficiale superiore - Mi dispiace le sia toccato Bolt. La Ratchet sospirò in risposta. - Mike quanto punta? - chiese il capitano O’Reilly, virando a sinistra. - Cento che ti spiaccichi. - replicò l’altro - È un modo di dire, signore. - aggiunse per far sentire sicura la donna. - Mille che entro senza graffiarla, Mangiarane. - concluse O’Reilly facendo mezzo giro della morte ed inquadrando l’hangar centrale a testa in giù. - Andata. - confermò l’allibratore - Non si preoccupi, signore. O’Reilly è un ottimo pilota: riesce ad atterrare la metà delle volte. - affermò rivolto alla Ratchet.
- Fai presto a dirlo… - esclamò lei, con i capelli corvini penzolanti. Il capitano O’Reilly si voltò verso il suo comandante in capo. - Tutto bene, signore? - si premurò il giovane dalla testa rasata e risplendente, in tuta blu, assolutamente a suo agio. - Ragazzo, faremo i conti all’atterraggio. - farfugliò il contrammiraglio. - Perfetto. Si tenga forte. O’Reilly lanciò la navetta così com’era capovolta verso l’apertura dell’hangar, a velocità pazzesca. Tutto si svolse in pochi secondi. Arrivati con il muso a livello delle paratie il capitano rimise la navetta dritta, completando la manovra giusto in tempo per far entrare la poppa, come una vite che esaurisce la filettatura. - Attenuatori spenti, inversori in posizione. Vi preghiamo di spegnere l’ololed di fronte a voi e ritirare il bagaglio a mano dallo scomparto sottostante. Grazie per aver scelto la O’Reilly Solutions per il vostro volo. Speriamo di riavervi presto a bordo. Buona giornata. - disse il capitano Bolt, imitando perfettamente una hostess. Le porte erano chiuse ermeticamente, il locale pressurizzato e la gravità inserita. Ratchet non si era accorta quasi di nulla, ma l’espressione tirata la diceva tutta su quello che aveva provato. “Ci sa fare, il ragazzo. È bravo, molto bravo.” ammise tra sé Amanda. Il telaio con le finestre blindate scivolò indietro, sul dorso, fino all’impennaggio di coda, lasciando scoperto l’abitacolo. O’Reilly sganciò le cinture e saltò fuori, iniziando a correre intorno alla nave, comparendo e scomparendo ad ogni balzo. Arrivarono Barrett e Sistus. O’Reilly li aspettava a braccia aperte facendo linguacce, gli altri due inveivano. - Dannazione, testa lustra! È l’ultima volta che mi freghi! - esordì Sistus, dandogli la grana - Senza offesa, signore. - aggiunse facendo il saluto alla Ratchet. - Guardare per credere! Nemmeno un graffio! - esclamò soddisfatto Bolt, mostrando la splendida Salusa rosso opaco. - Mike, sgancia! - fece poi rivolto a Barrett, sfregando pollice e indice destro.
Il contrammiraglio si sporse a guardare i ragazzi due metri in basso. Li sentì commentare manovre pericolosissime con la spensieratezza della loro età. Fu fiera di poter essere lì. - Il primo che porta la scaletta è perdonato. - promise Amanda Ratchet. Dopo una breve colluttazione, i bordi gialli a strisce nere della scala apparvero agganciati all’abitacolo. Il vincitore era Barrett, gli altri due erano stesi per terra. Il contrammiraglio scese osservando sconsolata Sistus e O’Reilly. - Bel lavoro figliolo. - disse, dandogli una pacca sul petto. - Quando vuole signore. - rispose il ragazzo sull’attenti. Sembrava che si fosse divertito parecchio a dare una riata ai suoi amici. - Voi due. Nel mio ufficio. Adesso. - proseguì guardando in cagnesco i perdenti, mentre cercavano di rialzarsi. - Pure… - fece Sistus, dolorante. Mentre si recava al suo ufficio seguita da Balthasar e dall’operatore radar, pensò a quello che li attendeva, ciò che si aspettavano di raggiungere. Il programma “Crossway” si svolgeva nel campo magnetico di Giove, a bordo di una base orbitante centrale chiamata “Ark”. La “Ark” era un modello di prova per una futura classe di navi generazionali esplorative riadattata con funzioni di centro di comando e isola di sussistenza, destinata allo sviluppo del programma della Fleet. Era un cubo colossale, di cinque chilometri di lato, le facce suddivise in quattro quadranti da un solco profondo trecento metri: una vera e propria colonia semovente, con il suo reattore Markov, i motori d’orbita, le sue torrette per la difesa di punto, hangar, navi, giardini e uffici. Fungeva da satellite logistico e direzionale nell’aera delle operazioni, prossima a Europa. Il programma aveva il compito di integrare uomo e macchina, facendo volare una corvetta modificata con intelligenza artificiale con un equipaggio di due uomini attentamente selezionati e sinapticamente connessi all’elaboratore, anziché otto. L’intenzione era quella di migliorare i piloti, non di rimpiazzarli con i computer. Balthasar O’Reilly, pilota, e Michael Barrett, analista di sistemi, avevano il tasso di sincronia più alto di tutto il loro corso. Erano al primo posto tra i centoventotto equipaggi selezionati in tutta la Fleet partecipanti all’esperimento, scremati tra più di ottomila candidati.
La Ratchet s’infilò nel suo studio, ancora un po’ nervosa. Si sedette e vide un modulo che doveva riempire dalla sera prima. Lo afferrò e iniziò a scrivere, lasciando sull’attenti i ragazzi. - Bolt, prima o poi ti sfasci e sai come me la ghigno… - disse Sistus a mezza bocca. Era un creolo dalla pelle olivastra e i capelli neri crespi. - Ti piacerebbe, Mangiarane. - ribatté Balthasar, sempre sussurrando. Sistus lo chiamavano così per via della sua peculiarità di mangiare le pietanze più improbabili preparate del cuoco. - Silenzio pusillanimi. - intimò la Ratchet, donna di mezza età affetta da eterocromia, senza alzare la testa dalla pagina. Spostò la sua attenzione agli astanti e cominciò. - Sistus, sei un valido uomo-radar e mi servi per mandare avanti il reparto. Ma azzardati ad incitare di nuovo O’Reilly e ti spedisco con la squadra di studio assegnata a Nettuno. Sono stata chiara? - Sissignore! - rispose l’altro, allargando il petto in un respiro profondo. Il contrammiraglio tornò a scrivere e disse - Licenziato. Sistus evaporò facendo una pernacchia al compagno di sventura. Amanda firmò il rapporto e lo sistemò nella catasta di ordini da registrare. Incrociò le mani sul tavolo e guardò Balthasar. L’espressione costantemente sprezzante, il sorriso sbilenco e sardonico non abbandonava mai le labbra. Il naso leggermente a patata, le labbra sottili. Fisico asciutto e muscoloso. - Capitano O’Reilly… - cominciò lei, agitandosi sulla sedia - È l’ultima volta che te lo ripeto: sarai anche una celebrità, ma non è una giustificazione per i tuoi comportamenti. Le tue evoluzioni mettono a rischio te e tutto quello che ti sta attorno. Concordo con Sistus: non ti andrà sempre bene. -
- Come dice lei, signore. - rispose Bolt, cercando di nascondere il suo umore ilare. - Ascoltami Bolt. - riprese lei enfatizzando il nomignolo e poggiando la schiena alla poltrona - Sei fortunato, perché non ti posso punire. Non immediatamente, almeno. Domani hai il test sincronico al 50% e devi arrivarci riposato e lucido. In ogni caso, questa bravata finirà nel tuo stato di servizio. Non finisce qui, te lo prometto. - terminò, osservando l’olomappa del Sistema Esterno che galleggiava a mezz’aria, alla sua sinistra. Bolt osservò gli occhi di colore diverso: uno azzurro e l’altro quasi giallo: li trovò intriganti. - Molto obbligato, signore. - rispose alzando il mento. Amanda Ratchet scosse la testa e rise piano. - Licenziato. E vedi di non combinare disastri fino a domani. - lo congedò lei, con un cenno della mano. - Sissignore! Grazie signore! Buonasera signore! - fece lui a voce alta. Stentava a trattenere le risate. - Fuori di qui. - disse infine il contrammiraglio, afferrando pagine di formulari grigi. Balthasar fece suonare i tacchi e uscì con le guance gonfie di risa. “Pivello.” pensò Amanda, scorrendo i fogli color piombo. “Diventerà un grande ammiraglio.”
Dove diavolo sarà andato a cacciarsi Michael? È mezz’ora che lo cerco. Sarà nella sala ricreativa con il Mangiarane, sicuro. Infatti eccoli lì, ai divanetti come al solito. Stanno giocando a mahjong! Bastardi! Non m’hanno aspettato! Vendetta, tremenda vendetta… Percorro la lunghezza dell’immensa sala pensando a che tiro fargli.
- Ciao Bolt. - fa Mike, alzando la testa verso di me. - Barrett. Mangiarane. - rispondo, salutando anche Sistus. - Testa lustra. - replica lui. Ci guardiamo per tre secondi e poi cominciano a volare risate. Sistus è piegato, sdraiato sul sofà. - Te lo giuro, amico! Quando ho visto la Ratchet seduta accanto a te, ho perso dieci anni di salute! - dice fra i singhiozzi. - Lascia stare! Sapevo che trasportavi un pezzo grosso, ma il capo in persona! aggiunge Mike, con le mani sulla faccia. Mi lascio cadere accanto a Mike per attuare la mia vendetta. - Meno male che abbiamo i test, domani. - dico, riprendendo fiato - M’ha graziato, stavolta. È pronta al varco, però. - aggiungo, giocherellando con le tessere. - L’hai detto, fratello. - conferma Mike - Tra poco me ne andrò a letto. Il tempo di stracciare Sistus e sono in branda. - conclude stirandosi. È il mio migliore amico, la mia famiglia. Per un orfano come me, incontrare persone come Mike, Morgan, il paparino, la Ratchet e, perché no, il Mangiarane è stato un regalo del cielo. Riescono a tirare fuori la parte migliore di me, non so che farei senza di loro. Mi sentirei solo in tutto l’universo. Gli voglio bene, più della mia stessa vita e dovrei dirglielo più spesso. Al loro fianco, mi sento capace di cambiare i mondi, nulla mi sembra impossibile. ... È ora di andare a dormire. - Sono proprio avanti, Mike. - gli rispondo in italiano - Vado a sdraiarmi tra tre, due, uno… - scatto dal divano e sono i piedi con le mani in tasca. - Buonanotte. - fa lui, sempre in italiano. Sistus non si stupisce, ci ha sentiti un sacco di volte parlare la “lingua strana”
come la chiama lui. Me ne vado fischiettando, girandomi la tessera tra le dita che sono nella tasca destra. Fuori dalla sala, devio verso la mensa perché mi è venuta voglia di un mega-sandwich multistrato. Quando sono arrivato sull’uscio della cucina, estraggo il piccolo oggetto e lo faccio rotolare tra le falangi, vicino alla nocche. Sorrido con malvagia soddisfazione. Voglio vedere come finiscono la partita senza il “Vento dell’ Ovest”. Il panino sarà ancora più buono, me lo sento.
Il mattino successivo, il capitano di corvetta O’Reilly si alzò di buon’ ora per recarsi all’hangar 9 ed ammirare quella che ormai considerava, a ogni buon conto, la sua nave. La “Ark” iniziava appena a svegliarsi e lui era attivo e pieno di brio. Accedendo all’hangar, la Windina si trovava immediatamente alla sua destra, ancorata al molo 34; vi si portò fischiettando una canzone vecchia di mille e a anni, un vecchio motivetto rock intitolato “Starway to heaven”. Alla loro partenza, Jacobi gli aveva ordinato, oltre a levarsi di torno, di portarsi dietro quanta più roba potevano di quella che avevano recuperato nel container: Bolt e Mike lo considerarono il più grande regalo mai ricevuto e si apionarono a film e canzoni che erano materia di studio archeologico più che d’intrattenimento. Seguì le linee filanti del vascello grigio metallizzato e luccicante, apprezzò le fasce arancioni esattamente distanziate che servivano a individuare il mezzo al controllo delle registrazioni. Le finestre a specchio, le gondole per la navigazione e il sistema di mira, la placca di bronzo avvitata a prua con l’acronimo S.I.G.M.A.: Syntho-Intelligence Grammatical Modules Access, il codice dell’intelligenza artificiale. Si accovacciò e ò la mano destra sulle lettere in rilievo. Qualcosa gli toccò la gamba. Guardò e vide Jonesy, il gatto bianco mascotte del progetto, strusciarsi e ronzare come un riciclatore induttivo. - Gattaccio… - disse Bolt sottovoce, grattandogli la schiena. Il micio s’inarcò ed emise un mugolio di soddisfazione. Si alzò con Jonesy in grembo, accarezzandolo dolcemente: era impaziente di uscire e pilotare. Udì alle sue spalle come tre o quattro bacetti schioccanti e il felino si lanciò per andare alla fonte del suono. Era Barrett.
- Ehi Mike! - lo salutò Bolt allegramente. Michael stava vezzeggiando l’animale e guardò verso l’amico: vide distintamente un’aura scarlatta irradiarsi dal corpo del compagno, una specie di paio d’ali vermiglie. “Se capisse di cosa è realmente capace, sarebbe inarrestabile.” pensò avvicinandosi anch’egli alla corvetta. - Ciao Bolt. Pronto? - chiese rimirando gli ugelli dei propulsori. - Se oggi non centro tutti i bersagli, mi mangio la Ark pezzo per pezzo. - rispose l’altro, ridanciano. Un sorriso sincero si formò sul volto di Barrett, si girò e mise una mano sulla spalla dell’ufficiale. - Sai capitano, dovresti essere più zen… - consigliò, inclinando la testa da un lato. - Mike, antiche religioni e fantascientifiche spade laser non valgono una bella arma carica. - affermò Bolt in risposta. Barrett ridacchiò e lo abbracciò. Anche se un po’ in imbarazzo, Balthasar ricambiò il gesto d’affetto. - O’Reilly e Barrett, allora, ci diamo una mossa? - urlò Sistus dall’impianto di comunicazioni della Ark. - Pronti Mangiarane! - gridò Barrett. Aprì la paratia del vascello e fece il saluto Bolt, aspettando il suo ingresso. - Capitano, dopo di lei. - aggiunse. - Grazie tenente. - rispose già sul suo sedile. Bolt accese tutti gli interruttori e gli ololed del posto di pilotaggio, Barrett si dedicò alle impostazioni di SIGMA e alle specifiche di missione. - Molto bene, signori. È ora di cominciare. - disse l’ololed, assumendo i contorni spigolosi del viso del contrammiraglio Ratchet.
- Controlli eseguiti. Sistemi on-line. Verifica protocolli SIGMA positiva. Bolt? - chiese molto seriamente Barrett. - Modalità “Manual”. Inversori in posizione, attenuatori al 18%. Mike, rilascio martinetti. - fece l’amico al suo turno, con un lampo negli occhi. Mike annuì e si mise il casco neurale necessario per la connessione a SIGMA. Adesso lui parlava ai sistemi della nave tramite SIGMA, senza alcun contatto fisico. Bolt guardò la testa del compagno coperta da quell’aggeggio ingombrante e disse con intonazione seriosa - Dovresti vederti, Mike: sembri la Ratchet dal parrucchiere. - Appena torni, servizio in mensa. - controbatté la Ratchet tramite l’ololed. Bolt fece il saluto all’immagine olografica. Un altro ololed si manifestò con questa frase “Sarai bello tu.”: Mike gli aveva risposto tramite i fotochip dell’elaboratore. O’Reilly si sincerò che il felino Jonesy fosse fuori dall’hangar e diede l’ok. - Hangar 9: paratie interne sigillate. Depressurizzazione. - informò l’operatore. Lentamente, le paratie esterne della rimessa scivolarono nel corpo della nave una dentro l’altra, creando un varco largo duecento metri e alto quasi altrettanto, sufficiente a far ar un incrociatore. Bolt sentì la navetta adattarsi, la sganciò dal molo e si diresse verso l’apertura. Europa, in lontananza, rifletteva i raggi solari come fosse una biglia di vetro: era rosso ruggine con vaste zone irregolari bianche, concentrate ai poli. I crateri da impatto venivano riempiti dall’oceano liquido sottostante che ghiacciava a contatto con le temperature esterne bassissime e in seguito la superficie veniva levigata dai fenomeni di attrazione mareale dovuti alla forza di gravità generata da Giove. Pensò agli australiani che costruivano le città sotto la crosta, le sfere isotropiche gigantesche che rendevano un satellite ghiacciato un fiorente avamposto industriale. - SIGMA: Manual Synch. - ordinò O’Reilly riempiendosi gli occhi e il cuore del panorama. - Eseguito. - rispose l’elaboratore, campionando la voce di una donna ben educata e vagamente sensuale.
Il suo sedile scivolò sotto le console che si erano ritirate verso l’alto ed in pochi attimi anche lui era connesso a SIGMA. - Ok ragazzi, oggi mi aspetto un bel 50% come minimo. - disse l’ologramma Ratchet. Continuò, spiegando la simulazione. - Tra qualche secondo i satelliti d’addestramento lanceranno i bersagli. Sono dieci e avete trenta secondi. Nella “Ark”, Sistus teneva d’occhio la situazione con i radar e gli scanner. L’universo appariva fin troppo tranquillo, quel giorno. Fece cenno affermativo al contrammiraglio: zona libera, fuoco sicuro. - Vi do quindici secondi per raggiungere la sincronia minima. Da ora. - concluse Amanda, ticchettando col piede artificiale. Guardava tesa l’ololed con i tassi di sincronia: ancora 20%, troppo poco. - SIGMA: riproduzione file 3990. - ordinò Barrett mentalmente. Avevano personalizzato la navetta con un piccolo hard-disk di musica antica, collegato all’impianto di diffusione. L’ufficiale Ratchet scrutò più in profondità i dati di sincronia. Lo facevano ogni volta: mettevano su una canzone del millennio precedente e le percentuali subivano un’impennata. Le note di una dimenticata canzone, un malinconico pezzo dei Placebo, si fecero largo dai diffusori e i tassi iniziarono a crescere. Barrett: 39% O’Reilly: 41% “Ma come diavolo fanno?” si chiese la Ratchet, mordendosi un pollice per lo stupore. Barrett: 51% O’Reilly: 53%
- E vanno ancora su… - intervenne Sistus con un sorriso sprezzante, neanche fosse stato nella sua testa. Mancavano otto secondi all’inizio della prova. Il contrammiraglio guardò la riproduzione 3-D della Windina, la scrollò per zoomare indietro e inquadrare anche i satelliti. Cinque secondi, tassi di sincronia: Barrett: 69% O’Reilly: 71% “INCREDIBILE.” si disse stupefatta la Ratchet. Si affacciò alla finestra corazzata e vide la Windina librarsi e levitare dolcemente, con movimenti sinuosi. Le ricordò un serpente che spinge la preda con le spalle al muro. Le sembrò viva. - Signore, siamo quasi al morphing. - riferì Sistus, inghiottendo a vuoto. Il mindmorphing, abbreviato morphing, era una reazione sinaptica teorica e mai documentata che avrebbe dovuto avere luogo per sincronie superiori all’80%, provocando una fusione totale tra uomo e computer, rendendoli indistinguibili ai rivelatori. Il contrammiraglio Ratchet serrò i denti. - Inoltre, c’è qualcosa di strano che sta succedendo appena oltre il raggio dei sensori. - aggiunse l’operatore, intento a programmare algoritmi di segnale. - Che intendi dire? - domandò Amanda, guardando Sistus come se lo vedesse per la prima volta. Non vi fu alcuna risposta. Non ce ne fu il tempo. La “Ark” venne investita dalla parte inferiore di un raggio di luce di dimensioni colossali e squassata da un’onda di particelle a velocità-c. Veramente, il fascio la toccò appena, ma l’alone la avvolse completamente. La Windina con a bordo O’Reilly e Barrett fu sfiorata dall’aureola: tutti i suoi sistemi andarono in corto circuito e la nave iniziò a precipitare verso il satellite galileiano. Bolt si rese conto che stavano andando verso morte certa ma non del perché. Uscì dal ricettacolo con la testa dolente: SIGMA aveva interrotto la connessione troppo in fretta e le sue sinapsi ne pagavano il prezzo.
Michael era svenuto o peggio. Non si muoveva, non respirava. La corvetta si girò con la poppa verso il pianetino e Bolt vide ciò che mai avrebbe voluto vedere. La “Ark” stava andando in pezzi. Sezioni grandi come quartieri di una metropoli si staccavano trascinando chilometri di fibre ottiche, giardinetti lanciati nel campo magnetico del pianeta Giove, bambini avvinti alle madri espulsi nello spazio a 3° Kelvin, interi settori s’incendiavano non lasciando scampo a nessuno. I motori d’orbita iniziarono a cedere e l’immenso cubo iniziò a spostarsi, a ruotare piano. Bolt restò immobile, tramortito per un secondo mentre reggeva la testa di Mike ancora dentro al casco. “Mangiarane, la Ratchet, Jonesy…” pensò O’Reilly. Le lacrime iniziarono a segnargli il volto senza alcuna difficoltà, il suo cuore sembrò fermarsi, tutto l’universo parve rallentare. La caduta della Windina accelerava invece, catturata da Europa. Si prospettava un atterraggio di fortuna, di grossa fortuna. Solo che il capitano O’Reilly stava fissando nel vuoto, dove prima orbitava la “Ark” e adesso i relitti vorticavano frenetici. Fu quasi sicuro di avere visto la gamba bionica del contrammiraglio Ratchet. - Balthasar… - sussurrò Mike, stremato, stringendogli il braccio sinistro. Bolt fu scosso da una secchiata d’acqua fredda, o così gli sembrò. Con gli occhi rossi e umidi guardò giù: la mano di Mike che chiedeva soccorso, il fratello costretto in quell’affare di metallo. - Mike! Bello, dai, riprenditi… - proferì O’Reilly, liberando Barrett dal neuroelmetto. Lo issò di peso e trascinando un piede, sollevando l’altro lo portò verso il comparto dove erano riposte le tute. - Che accidenti è successo? - domandò mentre si riprendeva. - Non lo so, Mike. - rispose Bolt aprendo il vano - Quello che so è che non abbiamo tempo nemmeno per pregare! Barrett non capì, poi notò l’assetto obliquo della nave e guardò verso un’orbita più esterna. Il raccapricciante spettacolo a momenti lo fece venir meno, gli fece chiudere per un istante le palpebre. Era sicuro che riaprendole, tutto sarebbe tornato normale; la “Ark” in bella vista, i bersagli da colpire. Quando le riaprì Balthasar gli stava porgendo una tuta rinforzata, urlando che dovevano sbrigarsi, stavano cadendo verso Europa.
Indossò di corsa l’armatura e andò a sistemarsi davanti alle console spente dell’analista. - Questo è un cazzo di guaio! Le batterie sono isolate! Non abbiamo energia! urlò Bolt, tentando invano e goffamente di riavviare i sistemi. Il ghiaccio di Europa diventava ogni secondo più grande e minaccioso. Non potevano lanciarsi semplicemente fuori perché le tute non erano progettate per il volo, erano semplici tute di sopravvivenza senza razzi di posizione o schermatura pesante da attività extraveicolare prolungata, senza contare che i detriti una volta noti come “Ark” stavano letteralmente piovendo verso di loro. L’unica reale speranza che avevano era portare la corvetta sulla superficie del pianetino e sperare che qualcuno asse a raccoglierli. Barrett era di fronte agli ololed vuoti e si sentì impotente; si volse verso Bolt e notò che aveva un’espressione arcigna, decisa, protesa alla riuscita della missione: sopravvivere. Sorrise stancamente e pensò “Non si arrenderà mai.” - Mike! Dobbiamo trovare il modo di far girare questa stronza! - gridò, provando ogni espediente per riconnettere le pile. Erano ancora con la prua rivolta verso l’alto. Barrett si concentrò e visualizzò l’iniettore con la bobina d’accumulazione e ordinò mentalmente, in un tentativo disperato “ACCENDITI!” - Funziona! Inizializzazione sistemi! - esultò Bolt, sigillando il suo casco e facendo cenno all’amico di fare lo stesso. Barrett digrignò i denti per un dolore lancinante alle tempie e strinse ferocemente il liscio bordo della sua postazione: non sapeva come, visto che non era più connesso a SIGMA, ma era riuscito a ripristinare i collegamenti. La Windina prese a ruotare, scendendo ripida verso il pianetino. Troppo ripida. La superficie bianca di Europa era vicinissima: sembrò loro di essere in un microscopio, rimpicciolendosi per penetrare i segreti delle cellule, invece era il satellite che si avvicinava con mortale precisione.
- Mike! Reggiti! Fu l’ultima frase che Barrett udì chiaramente. Tutto poi fu un rombo di metallo divelto, cavi tagliati, scintille che sprizzavano, cristalli blindati infranti, ghiaccio spaziale che invadeva l’abitacolo. Avevano cozzato duramente, ma l’abilità di Bolt si era rivelata decisiva. Solo gli attenuatori erano attivi al momento del contatto e il capitano O’Reilly, grazie ai suoi riflessi speciali, era riuscito a non entrare di prua contro la crosta dura e spessa decine di chilometri di acqua congelata. Sempre uno schianto al suolo rimaneva, però. Constatarono entrambi che il progetto della Windina era assai valido, visto che erano ancora vivi; ammaccati, sanguinanti, contusi ma pur sempre vivi. Uscirono dalla nave tagliando gli speroni e gli uncini che si erano creati con delle seghe laser, per non lacerare le tute, e si ritrovarono in un deserto bianco che non lasciava posto ad altro. Due piccole figure deformi, con un unico occhio riflettente e gli arti gonfi e turgidi, le giunture snodate, si aggiravano per le desolate e nivee pianure di Europa. La Windina aveva un segnalatore d’emergenza e le loro armature erano dotate di trasponder; avrebbero mandato una squadra nell’arco di un paio d’ore, non c’era di che preoccuparsi. Gli australiani stessi erano a pochi chilometri di profondità da loro. In verità, motivi per preoccuparsi ce n’erano, eccome. - Mike, tutto bene? - disse Bolt attraverso l’intercom dell’esoscheletro. Era grossissimo e con due bande rosse sulle braccia color bianco sporco della tuta spaziale. Il casco da vuoto sembrava una faccia sorridente, con lo strato d’oro calato sulla visiera e i fari sulla fronte accesi. - Sono stato meglio ma non mi lamento. Tu come stai? - domandò a sua volta Barrett. - Ok, non ti preoccupare. Mi domando che cosa sia successo lassù, piuttosto. replicò il capitano, cercando di guardare verso il cielo. - Ne so quanto e meno di te. La “Ark”, Sistus, il contrammiraglio Ratchet, tutti
gli altri… - lasciò la frase a quel modo, non ebbe il fegato di dar voce alle sue paure. Gli occhi grigi e sognanti di Michael Barrett divennero tristi e stanchi ma per fortuna Bolt non dovette guardarli... - Morti, con ogni probabilità. - affermò Bolt, cercando di apparire forte. La voce veniva leggermente deformata dell’eco della respirazione, ma Bolt era un libro aperto; Mike decise di non dire nulla, capì che era il suo modo di elaborare la tragedia. Mike poggiò una mano corazzata sulla spalla dell’amico e si allontanarono dalla nave, per evitare i rischi derivanti da una detonazione delle batterie. La camminata non presentò particolari intoppi, poiché la superficie era relativamente liscia e abbordabile: bastava fare attenzione ai tranelli dei crateri in riempimento e si viaggiava abbastanza sicuri. A due chilometri e mezzo dal luogo dello impatto si concessero una pausa: era faticoso muoversi con addosso quell’armatura su una lastra immensa di ghiaccio scivoloso. Ne approfittarono per controllare gli scafandri... - Ossigeno: a posto. Vasi di stagnatura: liberi. Silicone polimerico: compresso e pronto. Autonomia: 5 ore e 15 minuti. - disse Bolt. Barrett fissò davanti a sé, Bolt lo sentì respirare più rapidamente. - Mike, che succede? - chiese il capitano. - Ci restano tre minuti scarsi, amico. - sussurrò, facendogli andare sotto zero il sangue nelle vene. Indicò un punto sopra testa di O’Reilly, un punto grigio scuro che si avvicinava in modo allarmante. - Cristo… - ringhiò Bolt, spingendo il compagno, cercando di farlo correre più che poteva e partendo lui stesso freneticamente. Più della metà della “Ark” superstite stava puntando verso di loro.
Una volta ho ascoltato due tizi parlare di un moto interno del pianeta Terra, chiamato “sisma” o “terremoto”. Beh, al confronto di ciò che accadrà tra poco,
non so quale sia peggio. La parte della nave Ark che ci sta venendo addosso peserà qualche miliardo di chili, non ho idea di che reazione avrà Europa a quell’impatto e di certo non resterò qui a scoprirlo. - Mike! Muoviti, muoviti! Corri! È indietro, lo devo incitare, deve tenere il o. - Ci sono, ci sono! - risponde ansimante. Dobbiamo allontanarci. Il più in fretta possibile. Ma potrebbe essere inutile, tutta la superficie del satellite potrebbe essere interessata nello smaltimento dell’energia provocata della caduta dell’astronave. - Forza Mike! Più veloce, più veloce! - urlò nell’intercom. Guardo gli oloscan clinici proiettati sulla visiera: battito 98, pressione 130 su 90 in aumento. Brutta storia. Ce la possiamo fare, ce la dobbiamo fare! Rallento un po’ e mi giro a controllare Michael: resiste e cerca di tenere il ritmo. Grande Mike. Maledetta tuta! Quanto pesa! Il cristallo si appanna. Oddio, è finita…
Tre quarti della “Ark” , all’incirca nove miliardi di chili, caddero pesantemente sul suolo di Europa, generando un cratere di venti chilometri di diametro e tre di profondità, un contraccolpo cinetico quasi insostenibile. Fu come se il Padreterno avesse dato un diretto sulla faccia del pianeta. Il risultato fu un terremoto planetario degno della fine del mondo. La crosta esplose al contatto con la nave generazionale e fitte crepe paragonabili a canyon per grandezza s’irraggiarono dall’area dell’urto. Il fronte d’onda si propagò con la velocità del suono, innalzando, spostando, erigendo e disfacendo iceberg e torrioni di ghiaccio delle dimensioni di una corazzata. Interi strati della superficie vennero catapultati nell’atmosfera, proiettili e bolidi di cristallo d’acqua scagliati nelle direzioni più impensabili. Immense costruzioni si
levavano nel cielo, sorrette dal aggio dell’onda d’urto per restare in equilibrio precario pochi attimi e rovinare giù, causando terremoti di minore entità. Barrett e Bolt erano ai bordi di questo inferno candido e gelido, correvano a perdifiato cercando di distanziare la fine imminente. Il terreno vibrò: all’inizio fu piacevole, un basso mormorio alle piante dei piedi, poi diventò il ruggito di un sistema al collasso. Entrambi strillarono qualcosa per radio, ma non si capirono in tutto quel marasma. Vennero lanciati in aria dal movimento tettonico. Bolt era convinto di aver raggiunto la velocità di fuga e che sarebbe evaso alla debole attrazione gravitazionale, perdendosi nello spazio profondo. Sentire il braccio dolere e vedere un costone bianco che si muoveva quasi lo sollevò. Con fatica, si alzò e vide che era solo, Barrett l’aveva preso Europa.
- MIKE! Grido con tutta l’aria che ho nei polmoni, ma non basta. - BARRETT!! Urlo finché la gola non male. Niente. Non risponde. No, non lo accetto, non ci credo… - Bolt! È Mike! È vivo! - Mike! Fratello! Dove sei? Non ti vedo! - dico a voce alta guardandomi attorno. Ci sono picchi, guglie, torri bianche a perdita d’occhio. Il cielo è stellato e limpido. Bellissimo.
- Sono appeso a un sporgenza! Perlustro il bordo. Saremo a mille metri d’altezza. Di fronte, un pezzo del pianeta grande come la CASSIUS si sta assestando. La piattaforma dove mi trovo è larga sì e no trenta metri. Vedo la banda rossa! - Adesso ti tiro su! - lo conforto. Non posso guardarlo negli occhi, ha l’oro abbassato. Se lo guardassi mi sentirei più forte. Mi stendo, facendo attenzione a non scivolare e cerco di tenere d’occhio l’ammasso che minaccia di crollare da questa parte. Mi devo dare una mossa! È lì, cazzo! Pochi centimetri, solo pochi centimetri… - Mike, sono qui! Afferrati!Un attimo di silenzio incomprensibile. - Se non ce la fai, mollami. - dice lui, rassegnato. Meglio morire. - Non dire cazzate! Prendi la mia mano! Perfetto! Adesso lo metto qui e vediamo il da farsi. Cosa? Una riga sotto di me, scende verso il basso… Mi manca il ghiaccio sotto l’armatura, di colpo. Maledizione! Riesco ad afferrarmi con la mano destra, dondoliamo nel vuoto. Il pezzo di satellite che ci fronteggia ha scelto il momento peggiore per crollare. Il tempo si dilata, il gesto della gamba destra è lento, lentissimo. Sforzo congiunto dei due arti destri.
Sì! Ce la posso fare! Quell’orrore gigantesco non è dello stesso parere. Crolla su sé stesso, implode letteralmente sotto il suo peso. Il cuore pompa acido nelle vene, percepisco le pupille dilatarsi nel terrore. La tuta inizia a scricchiolare, le dita cercano di entrare nel ghiaccio duro come l’acciaio. Sono bocconi per terra, Barrett penzola nel vuoto. Sotto di noi, una sinfonia di bordi taglienti come rasoi, spine e pareti a strapiombo. Non mollerò la presa. Ci viene contro. Oggi dobbiamo morire per forza. Una valanga di pezzi di ghiaccio di ogni dimensione e forma, sparati con la potenza di un cannone, ci corre in faccia. La mano di Mike è libera, non si sta reggendo più. Il panico mi assale. - Lasciami… - dice lui, con un’inquietante serenità nella voce. - NO! Non ti lascio! - urlo, annegando nella paura. - Lascia la presa, amico mio. - insiste, sempre più tranquillo. Non riesco a dire niente. Non riesco a fare niente. Un enorme costone frastagliato e irto di punte affilate è dieci metri sopra di noi, in caduta libera; farà la barba al pilastro dove ci troviamo. È un attimo. Il peso di Mike non c’è più, non avverto la sua presenza. Non sento più nemmeno il braccio. Sto gridando in preda al trauma. La voce è quella di un pazzo, faccio fatica a
riconoscerla. Il braccio. Il braccio sinistro. Una parte di me se n’è andata con Barrett. Il dolore è insopportabile. Il silicone richiude il manicotto lacerato, sigilla il moncherino, mi salva la vita. Ma non fa distinzione fra leghe plastiche, carne e omero: ricopre tutto. Piango, aggiungendo umidità all’interno del casco. Balbetto qualcosa in preda al delirio e svengo per lo shock. Non so quanto tempo è ato. Sono ancora steso qui. Due uomini in piedi mi stanno guardando e ando a qualche scanner, credo. Ci metto un po’a inquadrarli. Esoscheletri neri, da scout, armati fino ai denti e con capacità di volo. - È lui? - No, secondo l’analizzatore si trova circa mille e sei metri più in basso, alla base del monolite. Parlano sulla frequenza intercom, li riesco a sentire. Mi salveranno. - Che facciamo? - Lo lasciamo qui. Non è lui che vogliamo. Spiccano il volo e un particolare riesco a non farmelo sfuggire: il logo della AXIS, il semiasse maggiore del Sistema Solare con la nostra stella al centro. Lasciate stare Mike, bastardi. Adesso mi alzo e vi do una lezion…
Sono morto vero? aggio, lo chiamiamo Noi. Chi siete voi? Noi siamo Uno.
Non capisco… Capirai. Da dove venite? Il Mondo Dei Mondi Noi esploriamo. La vostra razza ha un nome? O siete solo allucinazioni? Il Paradiso, forse? Occorrerebbe un secolo del tuo tempo per capire uno Shai del Nostro Nome. Nel Mondo Dei Mondi, Noi veniamo chiamati Camminatori. Allora sono morto. È così? Spiega a Noi perché dovresti essere “morto”. Sono caduto per mille metri e infilzato da lame di ghiaccio. Il tuo corpo, allora, è morto. Il corpo si può riparare. Ti insegneremo. Non ha alcun senso… Rispondi tu a questa domanda: quando tu non sei morto? Che significa? Definisci tu stato contrario di “morto”. Vivo. Come fai tu a essere vivo? Per quale ragione tu vivi? Respiro, parlo, mi muovo, provo sentimenti… Queste azioni, non ragioni. Noi sappiamo, Noi vediamo. Tu vedi? No. Come fai tu a essere vivo? Per quale ragione tu vivi?
Ho… Avevo uno scopo. Pilotavo una nave. Volevo diventare ammiraglio. Queste intenzioni, non ragioni. Rifletti. Io vivo perché sono. Adesso, io sono. Corretto. Segui Noi. Dove? Il Mondo Dei Mondi ti mostreremo.
Tutte queste informazioni, il tempo che scorre come un fiume, epoche sovrapposte, realtà sfasate di un millisecondo… È troppo … Sospendi l’incredulità. Considera le opportunità. Le anse si raddrizzano, i vortici si quietano. Primo o. Faccio progressi. Noi siamo già stati nel tuo riflesso di esistenza. Vedo. Tu vedi Nostro aggio in questo continuum? Non chiaramente. Però so che avete lasciato qualcosa nel Sistema. Un dono. Sì. Uno scrigno. Vuoi tu essere la Chiave? Se rifiuto ,cosa accadrà? Nulla. Noi possiamo aspettare.
L’ho capito. Ma l’umanità è allo sbando… Va bene, sarò la Chiave. Noi ti addestreremo a diventare la Chiave. Tu ancora incompleto sei. Tu devi imparare a essere completo. Sono pronto. Cominciamo.
… Buio. Freddo. Silenzio. Sono solo. I Camminatori se ne sono andati. Il mio pensiero è costretto, la mia volontà resiste. Aspetterò. …
Dove siete stati? La mia mente è stata oscurata. Molto arduo per Noi raggiungerti. Addestramento più lungo diventerà con questo metodo. Rinnovo la mia Scelta. Abbiamo camminato. Abbiamo cercato. Abbiamo trovato. Un’altra. Può aiutarci? Ella vede. Magnifico. Noi Cammineremo uniti.
- Signore, qui va a finire male… - disse Mallberg, mentre il dottor Yueh gli stava applicando l’ultimo punto all’arcata sopraccigliare. “Ha il dono della sintesi.” convenne con sé stesso l’ex-primo ufficiale Morgan Stavros. Erano barricati a poppa dell’Aiace, tra il laboratorio meccanico e il locale propulsori. Centotrenta persone, meno della metà della ciurma, stipate, logorate, sfiduciate eppure ancora pronte a combattere. - Il capitano Huntelaar deve essere fermato. - affermò Hanazawa, sistemando paia di shuriken nelle loro fodere sparse per la tuta. - Immediatamente. - concluse con una nota di freddezza nella voce. La dottoressa Gutenberg-Pavlov, ingegnere propulsivo, assisteva i feriti come poteva. Si alzò, tergendosi il sudore dalla fronte col dorso della mano e sbuffò, scostando i corti capelli neri. Morgan la guardò come fosse l’unica cosa bella esistente. - Shin ha ragione: non possiamo lasciarglielo fare. - disse, prendendo una posizione netta . - A posto. - esclamò il dottore, una volta completato il piccolo intervento su Mallberg. - Se quello scoppiato ci riesce, altro che punti… - intervenne con amarezza il medico, spostandosi a prestare cure a chi ne aveva bisogno. Stavros chiuse gli occhi e pensò. Il capitano ci aveva dato troppo dentro con le anfetamine neurali e adesso delle persone innocenti rischiavano di pagarne gli effetti. Si era svolta una grande battaglia nel cosmo, un conflitto totale, una confusione infinita di proiettili autopropulsivi e fasci lineari di particelle. Una guerra interplanetaria. L’incrociatore leggero Aiace aveva svolto egregiamente il suo compito, aiutando la Fleet a respingere l’attacco della Confederazione. Insieme alle altre navi stava
ricacciando gli Interni dietro la fascia di asteroidi, quando il comparto encefalico del capitato Huntelaar fece cortocircuito. Ordinò di attivare l’autodistruzione del vascello e di scagliarlo contro il più vicino gruppo di colonie sparando qualunque munizionamento presente sulla nave. Se fossero state civili meglio ancora. Il primo ufficiale Stavros, sentendo quell’assurdità, non ripeté l’ordine: era pura follia mietere migliaia di vittime in una battaglia che si andava esaurendo. La catena di comando, però, è il fondamento dei corpi militari. Se il primo ufficiale non ribadisce l’ordine del suo comandante vuol dire che è in disaccordo con l’ordine gerarchico, minando l’infallibilità degli ufficiali superiori. Huntelaar, con gli occhi iniettati di sangue e la bava alla bocca, gli diede un violentissimo manrovescio, mettendolo agli arresti nei suoi alloggi. Mentre il monolitico Stavros veniva condotto verso il suo appartamento, un commando di dieci uomini capitanato dall’ufficiale armamenti Hanazawa e dall’ufficiale analista Mallberg colse di sorpresa la scorta, mettendola fuori combattimento e liberando il primo ufficiale. - Siamo con lei, capitano. - confermò Hanazawa, sull’attenti. “Capitano”: gli uomini avevano scelto chi seguire, ormai non poteva recedere dalla sua decisione, aveva la responsabilità di tante, troppe vite. L’equipaggio si era spaccato come il Sistema aveva insegnato, solo su scala ridotta. Mentre Stavros veniva ridotto al silenzio e all’impotenza, tutti coloro che la pensavano come il primo ufficiale ebbero il coraggio di prendere la medesima posizione. Vi fu uno scontro e gli ammutinati furono respinti nei bassifondi della nave. Spegnere i propulsori non sarebbe servito, per procedere verso l’obiettivo poteva essere sufficiente l’inerzia. Immolarsi facendo detonare manualmente la nave altrettanto inutile, poiché il propellente non era messo in sicurezza e l’esplosione sarebbe stata ancora più potente, tale forse da sortire l’effetto voluto dal capitano impazzito. L’unica cosa da fare era prendere il controllo della nave: andare in plancia e assumere il comando.
“Non sarà possibile. Non senza che qualcuno si sacrifichi.” pensò in conclusione il primo ufficiale , stringendo i denti e tamburellando le dita contro le pareti. L’arcipelago SAMOA era in vista, tergiversare equivaleva a condannare a una fine orribile civili incolpevoli. - Non abbiamo scelta. - iniziò Stavros. - La dottoressa Pavlov e il medico Yueh resteranno qui e si occuperanno dei feriti. Non accetto discussioni. Hanazawa, prenda venti uomini e cerchi di arrivare a prua. Tutti gli altri verranno con me verso la plancia. Una semplicissima manovra a tenaglia: poteva funzionare, dato che Huntelaar sembrava non avere più alcun contatto con la realtà. In silenzio, si caricarono le armi e si mise il bavaglio alla coscienza. - Mi dia un diversivo. - sussurrò Morgan all’orecchio di Hanazawa. L’altro annuì e prese a scegliere gli uomini. Hanazawa e la sua squadra si avviarono quatti per i corridoi lugubri della nave. Morgan tirò un profondo respirò e poi annunciò - Andiamo. La dottoressa lo raggiunse e gli diede un bacio, alzandosi sulle punte a causa della statura dell’uomo. - Stai attento… - sospirò, appoggiandosi al suo petto e ascoltando il battito del cuore. I sentimenti di Stavros non riuscirono a trovare le parole adatte, non esistevano e non esistono: la guardò con un sorriso e proseguì in coda al gruppo. Allungò il o, raggiungendo Mallberg tra le prime fila. - Signor Mallberg, si preoccupi solo dell’I.A. - gli ordinò con fermezza. - Sissignore. - rispose Etienne Mallberg con la morte nel petto.
Si divisero nei vari ascensori e salirono verso la plancia. Huntelaar aveva organizzato una difesa, vi fu uno scontro a fuoco con morti e feriti. Hanazawa con i suoi riuscì ad aggirare gli uomini del capitano delirante ando dai condotti di servizio, sfondare le retrovie della parte di prua e tolse le luci dalla sala comando. Gli ammutinati irruppero e vi fu il caos. Tutti combattevano contro tutti, molti colpiti da compagni non distinguendosi nella luce rossastra d’emergenza. Qualche proiettore olografico saltò per aria, parti di plastica e metallo furono divelti da pallottole vaganti. Morgan faceva da apripista a Mallberg: lo portò alla console dell’analista e lo protesse mentre cercava di violare l’elaboratore. Huntelaar se ne accorse e li andò ad affrontare. Stavros colse le sue intenzioni e lo attese. - Continui. - intimò freddamente Stavros all’analista, preparandosi a combattere. - Non ce la farà. E adesso ti uccido. - urlò l’ufficiale, grondante follia. Morgan schivò facilmente il primo attacco. Abituato a cimentarsi con mostri come O’Reilly e Barrett, dalla velocità anormale, Huntelaar era quasi fermo. Solo che era un bastardo, un bastardo previdente. Da sopra il polso destro, una lama schizzò fuori: trenta centimetri di pugnale a scatto nascosto sotto la manica dell’uniforme. Il capitano vibrò un fendente improvviso che tagliò la divisa, la pelle, la carne e fece sgorgare un fiotto di sangue dal pettorale destro di Morgan. Il primo ufficiale non emise un grido, non lasciò uscire una sola parola. Mallberg, che gettò un occhio concitato alle sue spalle, restò paralizzato dal terrore quando vide l’espressione di Stavros. Morgan non controllava più le sue reazioni; Huntelaar affondò mirando al cuore, l’altro oppose la mano sinistra, facendosela traare dall’acciaio. Il capitano rise sputacchiando, pregustando la vittoria. Stavros gli bloccò il pugno e lo torse verso l’esterno, rompendo radio e ulna.
Huntelaar urlò dal dolore e dall’ira. Poi tacque. Mallberg riuscì con immenso sforzo a distruggere i firewall, prendendo il controllo manuale dei sistemi, disattivando il conto alla rovescia. Trasferì i dati di pilotaggio al timone e corse a frenare l’Aiace, arrestandola a pochi chilometri delle colonie. Respirava affannosamente e sentiva le gambe molli. Hanazawa riaccese le luci e arrivò correndo seguito dagli altri. Gli ultimi fedelissimi vennero disarmati e presi in custodia. Videro il capitano Huntelaar in ginocchio, con il capo riverso sulle spalle. La lingua penzoloni da un lato, gli occhi vitrei e vuoti. Stavros era in piedi in tutta la sua altezza, con la mano destra vicina al petto sanguinante, stretta in un pugno. L’altro braccio era disteso in avanti, la mano traata da un oggetto acuminato. Morgan Stavros, nell’istante prima di uccidere Huntelaar, ricordò un allenamento che aveva sostenuto con O’Reilly, nel quale Bolt gli spiegò una mossa per uccidere un uomo con un dito, raccomandandogli di non usarla, se poteva. - E cosa me la insegni a fare? - aveva chiesto all’amico, fasciandosi le nocche. - Non sono l’unico a conoscerla, perciò ti potrai difendere. - rispose l’altro facendo stretching. - Un unico gesto letale. Il respiro trattenuto, diaframma abbassato in questo modo abbassi anche il baricentro. Lascia scattare il braccio e mira alla trachea. Si spezza come un sedano. - continuò O’Reilly, mostrandoglielo lentamente. - Perché non dovrei usarla, scusa? - chiese poi Morgan, calciando a vuoto per accendere gli imponenti muscoli - Perché uccidere un uomo ti cambia. Uccidere un uomo e guardarlo mentre muore ti cambia per sempre. - concluse Balthasar, proseguendo nel riscaldamento.
Aveva trovato il modo di utilizzare quel gesto letale dando in cambio una parte del suo essere. La sua anima si spezzò, quel giorno. Sapeva che il capitano andava ostacolato e bloccato ma si era macchiato di un crimine terribile. Kat Pavlov e Yueh estrassero delicatamente il pugnale dalla mano di Morgan, Hanazawa si mise alla sua postazione e Mallberg iniziava a dare istruzioni per portare via gli uomini che avevano dato retta all’ufficiale ormai morto. - Guardami Morgan. Guardami! - disse Kat, prendendo il volto di Stavros fra le mani. Morgan la guardò senza vederla. Qualche secondo dopo, rientrando nel suo corpo riuscì a scorgerla. - Cosa ho fatto? - mormorò, notando la mano bucata. - Quello che era necessario, capitano. - gli rispose Hanazawa. Mallberg annuì da lontano. Kat lo abbracciò stretto. Gli uomini che avevano condiviso la scelta di Huntelaar vennero evacuati con le scialuppe, gli altri rimasero sull’Aiace che decisero di rinominare Vengeance. - Capitano, che rotta? - chiese Hanazawa, che adesso fungeva da timoniere. - La Fascia di Kuiper, signor Hanazawa. - ripose il capitano Stavros. Aveva incaricato Mallberg di studiare il dispositivo che trasportavano, una strana soluzione colloidale e fuori dal Sistema sarebbero stati relativamente tranquilli. Il capitano non immaginava nemmeno che lui, la sua nave e il suo equipaggio sarebbero stati ricordati per sempre nella storia.
La corazzata “Solaris“ era pesantemente danneggiata, il reattore principale funzionava ancora ma nessuno avrebbe saputo dire per quanto visto com’era ridotta la nave.
L’ammiraglio Blue si ergeva intrepido alle spalle del suo primo ufficiale, il capitano di corvetta Harlan Argento. La nave aveva resistito all’assalto congiunto di una flottiglia di golette della Flotta Confederata: cinque navi contro la sola Solaris. “Un combattimento inutile, una guerra futile.” pensò Samuel, toccandosi lo zigomo destro ricucito. Argento aveva l’occhio sinistro bendato e incerottato. L’analista un braccio rotto, il cuoco una lesione spinale. Il personale era allo stremo per le ferite, lo stress e la stanchezza. La concezione modulare del progetto “Solaris” aveva permesso di eiettare la parti irreparabilmente danneggiate, permettendo così la sopravvivenza del vascello al confronto impari. Blue dedicò una preghiera agli uomini espulsi con i moduli una volta sigillati e separati dal corpo principale. - Capitano, non siamo messi per niente bene… - disse Argento consultando i registri dei danni. “Qualcuno dovrà rendere conto di tutto questo e dovrà farlo a me in persona.” si promise l’ammiraglio, udendo il rumore sferragliante dei suoi pensieri. - Numero Uno, la verità. - asserì perentoriamente Blue. - Stiamo in volo per miracolo. Siamo fortunati a poter respirare. - rispose rammaricato Argento. - Impostare rotta sicura per Titano. Torniamo a casa. - ordinò il comandante al suo primo ufficiale, guardando fisso davanti a sé. Si trovavano a qualche milione di chilometri da Marte, ma il sistema di navigazione era in avaria e funzionava al 40% e non avevano energia sufficiente per raggiungere la velocità della luce. Un viaggio molto movimentato si affacciava all’orizzonte. Gli occhi arrossati di Blue divennero duri e appuntiti; cercava di scrutare nella sua mente, di trovare motivi per un conflitto insensato. Morti su morti, rappresaglie su rappresaglie, perché? In nome di cosa, di chi? Non seppe darsi una risposta convincente.
- Comandante, comunicazione dal consiglio di guerra. - lo avvisò l’ufficiale preposto. - amela. - Solo audio, signore. L’energia degli ololed è stata deviata in infermeria. informò il sottoposto, avviando la connessione. “Per dio, la nave inizia a mangiare sé stessa.” constatò irritato l’ammiraglio. - Comandante, sono l’ammiraglio Wolfgang Kraichek. La voce suonò presente e viva anche se non la corredava alcuna immagine. - Salve, signore. - rispose Blue cercando di apparire educato. - Le vostre armi funzionano? - chiese Kraichek senza interessarsi della situazione a bordo. Samuel Blue si accigliò, convinto di aver capito cosa il suo superiore volesse. Attese che Argento gli comunicasse le diagnostiche del reparto offensivo. - Abbiamo quattro colpi di artiglieria lineare e circa diciottomila unità autopropulsive di piccolo calibro con submunizionamento vario, signore. - riferì Samuel, ripetendo le parole del primo ufficiale. - Molto bene. Scaricate il munizionamento restante sulle colonie che sono a portata di tiro. - disse Kraichek con distacco robotico. - Può ripetere, signore? - domandò d’un tratto l’ammiraglio, alquanto stupito. - Le ho ordinato di abbattere tutte le colonie che potete sulla via del ritorno. ribadì Kraichek. Blue inspirò come un toro prima della carica finale. Soppesò bene le parole da pronunciare al suo superiore. Considerò tutto ciò che era capitato negli ultimi tempi, le vittime, la distruzione ingiustificata, i campi profughi spaziali. Ripensò ai tre bravissimi ragazzi che gli aveva fatto vedere Jacobi, ad Argento che pensava di mettere su un’officina e
trovarsi una ragazza, finito il servizio. “Sì, sono proprio queste le parole giuste per rispondere.” ammise mentalmente Blue e poi parlò con tono fermo e liberatorio - Kraichek, ti porterai questo vaffanculo nella tomba. Harlan Argento dapprima fu preoccupato poiché conosceva la tempra di Blue e la sua lealtà alla Fleet, ma quando sentì la risposta del suo comandante non riuscì a trattenere una risata d’approvazione. - Questa conversazione e la mia carriera militare sono concluse. Addio. concluse Samuel Blue, calciando lontano una grata staccata. Blue era furibondo e ci mise un po’ a riprendere le redini delle sue facoltà logiche. - Intercom. - pronunciò a quello che restava dell’I.A. - Uomini, è il comandante Blue che parla. - esordì, nuovamente sicuro di sé. - Mi hanno ordinato di bombardare delle colonie indifese, tornando a casa. Io mi sono rifiutato e ho trasgredito al comando, perciò sarò considerato un disertore. Chiunque voglia, è libero di lasciare la nave. Da ora in poi, la vita sarà più difficile per chi rimane. L’ormai ex-ammiraglio “Buff” Blue era certo di avere fatto la scelta giusta, scontarne le conseguenze era il minimo, ma era altrettanto certo che non poteva imporre la sua decisione a centinaia di uomini e donne che dividevano il medesimo destino, essendo sotto il suo comando. Gli strumenti non segnalarono alcuna scialuppa in allontanamento: l’equipaggio era stretto attorno a Blue, nessun abbandono, tutti compatti. - Che intenzioni ha, comandante? - chiese una voce dell’intercom. - Credo di avere una soluzione. - rispose Buff, chiamando Argento. Li condusse su Marte, presso l’equatore del pianeta. Sapeva che lì avrebbero trovato una vecchia OSIRIS, una città di guarnigione protetta da una cupola trasparente. Ricordava di averla vista su delle olomappe, sperava fosse ancora
agibile. Riuscirono con una certa difficoltà a far poggiare la corazzata sul fianco di una collinetta prospiciente la colonia. Una squadra si armò di scafandri e scese a controllare. La città sembrava abitabile, la cupola in buone condizioni. Mancava l’ossigeno, però. I generatori erano stati spenti troppo a lungo. - Argento, possiamo farla funzionare con ciò che resta della Solaris? - azzardò Blue, additando un vecchio edificio a due piani come esempio. - Capitano, ci metto la mano sul fuoco. Saremo operativi in tre giorni, se tutto va liscio. - rispose il primo ufficiale, girando lo sguardo per ammirare la cittadella. - C’è spazio per tutto e per tutti. - aggiunse vagamente commosso. Stradine di terra battuta, vicoletti polverosi e casette fatiscenti erano l’inizio di una nuovo percorso. Blue annuì soddisfatto, la sua mente non cessava mai di elaborare i dati raccolti. - Torniamo alla nave, Numero Uno. Avvisiamo l’equipaggio che c’è una città da rimettere a nuovo. - comunicò avviandosi all’uscita stagna. Argento lo seguì a ruota, osservando centimetro per centimetro la sua nuova casa. Lavorarono sodo e febbrilmente quattro giorni e tre notti, ma alla fine ci riuscirono. Misero in comune i sistemi e il reattore della Solaris con gli impianti e le tecnologie di sopravvivenza della OSIRIS, creando qualcosa di unico e di irripetibile. Sia l’opera tecnica che quella umana. La colonia fuorilegge su Marte divenne ben presto il punto di ritrovo di tutti i pirati, i contrabbandieri e malviventi del Sistema. La AXIS chiudeva un occhio perché un porto franco in quella posizione strategica poteva sempre tornare comodo. Molte storie e molta gente arono per quelle vie rosse come l’alba, molte tradizioni nacquero protette dalla sua cupola. Argento poté aprire finalmente la sua officina e si fece il suo bel giro di affari riparando e modificando armi. Quasi tutti i membri dell’equipaggio si misero in attività sfruttando le conoscenze di prim’ordine gentilmente offerte dall’addestramento nella Fleet: c’era chi aggiornava software, chi ti trovava
leghe polimeriche, chi ti curava una carie. Il capitano Blue costruì un bar. - Un bar? - gli domandò meravigliato Argento - Con le sue capacità, vuole aprire un bar? - E perché no? - chiese di rimando, mentre inchiodava l’insegna. Era il nome che aveva dato al suo bar: Blue Bell Inn. - Ci saranno molti dispiaceri, Harlan. - proseguì il capitano, scendendo dalla scala - Molti rimorsi, molti affari sporchi da discutere. E per tutte queste cose un bicchiere di whiskey è necessario, fidati. Certi incubi solo una sbronza da primato li può annegare. Argento diede una mano al suo comandante a portare dentro i mobili. - I bicchieri dove li troverà? - domandò ancora Harlan, alle prese con due sgabelli. - Ho già un paio di agganci con certi poco di buono dei Corpi Speciali. - replicò Buff, sollevando sulla spalla un divano da un quintale. - Ah… - “Buon vecchio Buff…” si disse Argento. Il Blue Bell Inn era nato. La società civile aveva la sua antagonista.
- Figliolo, che vuoi fare? - disse l’ammiraglio Jacobi, accendendo le luci dell’hangar. Aveva colto sul fatto Bolt che cercava di rubare una Windina Special dal molo 21. - Me ne vado, paparino. - rispose lui molto cupo, aprendo il portello dell’abitacolo. Il Trattato Eissmann era stato ratificato e applicato, la Guerra degli Anelli era finita. L’ammiraglio fu avvisato dagli australiani che avevano trovato il capitano
O’Reilly agonizzante su un lastrone di ghiaccio. Jacobi era andato a riprenderselo con il cuore spaccato; gli avevano detto che il giovane ufficiale aveva subito l’amputazione del braccio sinistro, rimpiazzato da una protesi bionica all’avanguardia. Chiese notizie dell’analista Barrett, ma non seppero dirgli nulla. Nel viaggio di ritorno, Balthasar spiccicò tre parole, cinque in due giorni. Era apatico, triste, scontroso, assente. La pena di Emerson Jacobi pareva non finire mai. La notizia dell’ammutinamento di Stavros e della diserzione di Blue era ancora fresca quando seppe dell’incidente su Europa. Dovette indagare a fondo, smuovere parecchi vespai per scoprire cosa aveva spinto i suoi uomini a comportarsi in quella maniera, a rubare delle navi della Fleet. Quello che scoprì lo costrinse a congedarsi. Blue, con la corazzata Solaris ridotta a poco più che un rottame, aveva ricevuto ordine di rientrare dalla battaglia in corso nel Sistema Interno e di abbattere tutte le colonie civili sulla sua strada del ritorno. “Buff” Blue preferì strapparsi i gradi e ripudiare la Fleet, fermandosi sull’ormai decolonizzato Marte e rimettere in funzione un prototipo di vecchio avamposto a cupola OSIRIS. Nessun altra informazione, al giorno presente, era disponibile al riguardo. Stavros fu ancora più sfortunato. Huntelaar perse la ragione, per via del suo uso smodato di droghe sensoriali e ordinò di lanciare l’Aiace con l’autodistruzione inserita verso l’arcipelago turistico SAMOA-π. A bordo si svolse una battaglia: Stavros venne ferito dal comandate Huntelaar e quest’ultimo fu ucciso dal giovane ufficiale in seconda o almeno erano le informazioni che era riuscito ad ottenere. Il giovane analista Mallberg aveva forzato manualmente la I.A. della nave, interrompendo la fusione del nocciolo e la conseguente esplosione termonucleare. Allo scoppio della guerra, l’Aiace trasportava un dispositivo sperimentale di mascheramento non funzionante chiamato L.S.C. che Stavros ritenne saggio non cadesse nelle mani sbagliate, quelle della Fleet. Da allora, l’Aiace divenne uno spettro evanescente e delle voci la davano in viaggio verso la Nube di Oort. - E dove credi di andare? - ribatté Jacobi, girandosi la punta dei baffi. - Lontano. - rispose Bolt, temporeggiando un secondo. Il braccio metallico era coperto da un maglione verde militare.
- Sai che non posso lasciartelo fare, ragazzo. - insistette l’ammiraglio, mettendogli una mano sulla spalla. O’Reilly se la scrollò di dosso adirato e con un movimento rapido e ferino afferrò Jacobi per il collo, con le dita fredde e laminate. L’ammiraglio studiò attentamente gli occhi del suo ragazzo e rimase attonito: nulla, non c’era rimasto nulla. Solo vento freddo e polvere. - Lascia stare, ammiraglio. Non sono più l’uomo che conoscevi. Lo disse ringhiando, cercando di contenere l’odio, la rabbia, la delusione, la paura. Liberò l’ammiraglio dalla morsa e se andò con la nave. Non si videro né si parlarono per vent’anni.
Diciotto anni fa. Il giovane dottor McOwen, uomo alto e curato nell’aspetto, era al bancone del Blue Bell Inn, la taverna che l’ex-ammiraglio Samuel Blue aveva messo in piedi, godendosi il suo cognac reidratato. Osservò il gigantesco uomo indaffarato a servire da bere a corsari, fuggitivi, furfanti, truffatori, disertori e si sentì a casa. - Come va il braccio, Sam? - chiese indicando l’arto destro di Blue. - Benissimo. - rispose Buff, piegando ripetutamente l’avambraccio. McOwen ritornò con la mente a sette mesi prima, quando Miguel “Bonito” Alastra e Samuel “Buff ” Blue fecero nascere la leggenda del Blue Bel Inn. Alastra era un cane rabbioso dei Corpi Speciali della Confederazione prima d’imboccare la strada ben redditizia del cacciatore di taglie, una rara bestia da combattimento, ma anche un uomo semplice e buono, in una maniera tutta peculiare.
Un giorno ebbe a che ridire con Argento, il primo ufficiale di Blue che gestiva un’officina per armi, dentro il suo bar e l’ex-alto ufficiale non la prese bene. Uscirono a chiacchierare cordialmente, spiegando le proprie ragioni. Si massacrarono. Il centinaio di persone che era presente, tra cui il dottore, assistette impietrita a quello scambio di colpi fenomenale. Alla fine, caddero sfiniti nella sabbia rossa marziana. Blue aveva il braccio destro lussato e molte ferite da suturare, Bonito un piccolo trauma cranico e quattro costole incrinate. Il primo scontro del Blue Bell finì con un pareggio. Non era nelle loro intenzioni, volevano solo dimostrare il loro valore a suon di calci e pugni eppure i diseredati, i fuggitivi, gli sbandati che ogni giorno aumentavano di numero carpirono una verità più profonda: non gli era rimasto altro. Chi si trovava lì, aveva rifiutato la collettività considerata normale con tutte le sue restrizioni e regole. Niente più famiglia, niente più obblighi, nessun vincolo. Tutto ciò che rimaneva erano loro stessi, i loro colpi, il loro coraggio, l’insopprimibile spirito guerriero. Neanche il nome aveva più importanza; bisognava guadagnarsi una nuova identità con la forza. Erano fuorilegge, un codice da seguire avrebbe aiutato a tirare avanti. Dopo essersi chiariti veramente, Samuel salutò Alastra chiamandolo Miguel. Miguel, con la testa fasciata, gli strinse vigorosamente la mano, perché provava rispetto per quell’asteroide umano e gli rispose - Non sarò mai più Miguel Alastra. D’ora in poi, io sarò solo Bonito come tu sarai solo Buff. Blue intese al volo e decise che il mastino della guerra aveva perfettamente ragione: solo il presente rimaneva, il resto era pulviscolo di comete. La prima sfida del Blue Bell assunse un carattere mitico, ma quella che tutti ricorderanno è un’altra.
- Stavros? - s’informò McOwen. - L’ho mandato da Harlan. Era con Mallberg e Hanazawa, cercavano delle strutture cristalline particolari. - replicò Samuel, pulendo un bicchiere. Poi sorrise guardando davanti a sé, vedendo entrare qualcuno che attendeva da tempo. Era alto, con la testa rasata, si era lasciato crescere una barba scura e portava un pastrano color cachi lungo fino ai piedi. Arrivò a grandi i al bancone e vi poggiò una mano avvolta in un guanto nero. - Cerco un armiere che sia in grado di riparare una Gaitling da 35 millimetri. disse senza alcun garbo. Samuel lo riconobbe immediatamente ma non lo diede a vedere. - Esci e vai a sinistra. Prendi la strada in salita verso il primo gradone e fermati da Argento. - rispose Buff, incrociando le mastodontiche braccia sul petto. L’uomo scrutò Blue cercando di misurarlo con gli occhi poi lo ringraziò e mosse verso la porta. - Prego. Non c’è di che, Bolt. - aggiunse il barista, tornando ai bicchieri. Lo straniero si bloccò, girò la testa sulla spalla destra e lasciò partire uno sguardo torvo, con i denti stretti. Proseguì facendo frusciare il cappotto. Arrivato da Harlan ebbe una brutta sorpresa. Vi trovò lì a parlottare insieme al tecnico un gigante nero, un giapponese e uno smilzo con i capelli lunghi e biondi. Si avvicinò con cautela fino a fermarsi a fianco del gruppetto. - Morgan. Il colosso si voltò e vide il viso familiare di un vecchio amico da tempo perduto. - Bolt… - sussurrò sorpreso Stavros. Venne colpito dal gelo dei suo occhi e dall’atteggiamento difensivo. Voleva abbracciarlo, ma l’imibilità che esprimeva lo frenò. Gli si parò davanti e gli mise una mano sul braccio sinistro: tastò la densità del metallo sotto gli indumenti. Le notizie che circolavano e che aveva carpito erano dunque vere. La sua anima ebbe un sussulto che contenne a
stento. - Michael? - domandò con un filo di commozione nella voce. - Senti, devo solo parlare con Argento per una riparazione e poi mi levo da qui. rispose lui elusivo e scostante. Cercò di aggirare Morgan per raggiungere gli altri tre rimasti in disparte. Stavros fermò l’avanzata del commilitone con il suo fisico statuario. - Non hai risposto alla mia domanda. - insistette gravemente Morgan. Si fronteggiavano trattenendo il respiro. Bolt alzò la testa per guardare negli occhi il suo interlocutore. “Occhi senza vita.” constatò tristemente Morgan Stavros. - È morto. Barrett è morto. - disse gelidamente. La sua voce sembrava provenire de un altro mondo. Stavros chinò il capo sul petto dal dolore cosicché Bolt poté scavalcarlo e raggiungere Harlan e gli altri due che non conosceva. Morgan comprese il motivo del freddo che aveva provato scrutando le pupille dell’amico: Michael era morto, lui no. E di questo s’incolpava. Doveva fare subito qualcosa; Bolt era sull’orlo dell’abisso. - Sei Argento, vero? - chiese Bolt a Mallberg. - Sono io Argento. - lo corresse un tipo con gli occhi a mandorla e il codino dietro il bancone ingombro di pezzi d’armi. - Come vuoi. Ho una Gaitling da riparare. Ho provato da solo ma… - Bolt, vieni fuori. - lo interruppe Morgan. L’amico scosse la testa. - Morgan, lascia perdere. Non voglio farti male. - rispose a voce bassa.
Mallberg e Hanazawa si avvicinarono incuriositi: il loro capitano non aveva rivali, a parte Blue forse. - Non te lo dirò un’altra volta. Vieni fuori. - ripeté Stavros togliendosi la blusa. Bolt respirò profondamente un paio di volte. Si tolse il giaccone, scoprendo il braccio bionico. - Così è sleale… - borbottò il biondo alto. - La sfida non è alla pari. - aggiunse il giapponese. Bolt non si degnò di ribattere: si concentrò e premette una zona precisa sulla scapola. L’arto cibernetico emise un acuto ronzio e quattro fermi elettroidraulici cilindrici scattarono fuori. Prese il braccio dal polso e lo consegnò ad Argento. - Tienilo d’occhio, torno subito. - affermò Bolt, andando verso la strada. Morgan era già pronto e, non essendo uno stupido, si era fatto immobilizzare il braccio sinistro da un tizio di aggio. Bolt indugiò per un secondo dando occasione all’amico di farsi liberare il braccio: gli stava dando la possibilità di giocarsela alla pari, con due arti. Stavros fece cenno di “no” con la testa e si lanciò all’attacco. Bolt alzò le spalle e si mise in guardia. Stavros era sicuro di averlo inquadrato nel suo gancio destro e lo sferrò con tutta la sua potenza. I suoi riflessi gli mostrarono il sorriso compiaciuto dell’avversario. Bolt scivolò in avanti sul piede sinistro e si sollevò leggermente sulla punta, come un ballerino. Stavros cercò di seguire quel movimento disinvolto ma la mano di Bolt era già sulla sua nuca: si era abbassato mentre penetrava la difesa e aveva infilato l’unico braccio tra quello di Morgan ed il collo. Il capitano O’Reilly ruotò di novanta gradi sul piede perno sinistro, sollevando una linea di polvere rossastra con l’altro piede. Abbassò la testa di Stavros e scagliò la punta
del ginocchio. Morgan trattene il fiato vedendo arrivare quel colpo diretto alla tempia e istintivamente cercò di usare la mano sinistra per attutire o bloccare l’impatto, ma era inutilizzabile, schiacciata al fianco da giri di nastro adesivo. All’ultimo istante, Bolt cambiò bersaglio e sfogò l’energia sul fegato, spezzando il respiro dello sfidante. Morgan cadde in ginocchio, girò la testa cercando Bolt ma quello che vide furono le nocche che calavano sulla sua faccia. Percepì le labbra che si tagliavano e due denti che si spezzavano, la mascella, per fortuna, era stata risparmiata. Si accasciò al suolo, stordito dall’urto. Rotolò su un fianco e si sdraiò tossendo. Il sapore metallico del emoglobina gli riempì il palato. L’amico lo osservava rigido e teso, digrignando i denti. - Non… sei…. Non sei, solo…amico…. - balbettò Morgan, tra i rantoli, sputando sangue. Mallberg e Hanazawa erano stupefatti: quell’uomo aveva liquidato Stavros in dieci secondi, senza nemmeno sudare. Argento poggiò con cautela il braccio sul banco da lavoro, trattandolo quasi come un essere vivente e pensò a cosa potesse fare quel bestione con le dotazioni di una protesi militare. Bolt restò impalato a guardare inespressivo lo sconfitto, poi una risata sommessa lo scosse. - Tirati su, mingherlino. - disse all’amico ritrovato, porgendogli un aiuto. Stavros sorrise e accettò di buon grado. Abbracciò Bolt con felicità e quello rispose con due pacche sulla schiena. - C’era davvero bisogno di farti spaccare la faccia? - chiese Bolt, dando una spolverata a Morgan. Lo aiutò anche a disfarsi del nastro intorno alla vita. - Ne valeva la pena. - ribatté - Vieni ti presento i miei uomini.- continuò portandolo verso la bottega di Harlan. - Ehi, Bolt, dico bene? - intervenne Argento prima dei convenevoli - Devi dargli un nome. Lo hai battuto e la tradizione vuole che sia tu a ribattezzarlo. - spiegò indicando il perdente.
- Come dobbiamo chiamarlo, questa mezza calzetta? - concluse con atteggiamento sornione. Bolt ci pensò su mentre riagganciava il congegno cibernetico. Infine sorrise e disse: - Shark. Chiamatelo Shark. –
Heroes
(David Bowie, 1977)
Non è possibile. Non può essere reale. Io c’ero. Vent’anni fa su Europa. L’ho visto morire. Il mio braccio l’ha seguito. L’uomo che ho davanti semplicemente non può essere Michael Barrett. Due possibilità. La prima è che io sia affetto da una grave forma di demenza precoce e tutto questo sia solo un parto della mia immaginazione, anche se ne dubito. La seconda è che ci sia in atto qualche bizzarra e pericolosa macchinazione, nella quale sono finito più o meno volontariamente. Respiro tra i denti, stringo talmente forte il calcio della Glock che sono sicuro di romperlo. I contorni della stiva sembrano dilatarsi e restringersi a ritmo di quattro quarti, la luce soffusa dei led assume il grafico della funzione coseno. Mi gira la testa. Devo mantenere la calma. - Capo, che succede? È il ragazzo. Il suo tono è preoccupato, l’intercom trasmette la sua ansia. - Stanne fuori Sear. Pensa a portare la nave dove ti ho detto. - ringhio, mantenendo sotto tiro l’uomo. Sono due gocce d’acqua. Gli occhi grigi, i capelli castani, il naso a punta.
Concentrato Bolt! Concentrato! Si muove leggero, piccoli spostamenti che da soli non destano alcun sospetto ma che sommati insieme diventano un attacco. Proprio come Michael. - Non ci provare, uomo. - intimo, afferrando l’arma con tutt’e due la mani. La zona cargo è il posto peggiore per uno scontro. Ci sono molti nascondigli: pile di casse, un grosso tavolo, il comparto delle tute. Ci sono molti oggetti contundenti che si possono trasformare in armi da lancio. Si è molto vicini al vuoto cosmico: se un proiettile di rimbalzo intacca un oblò addio pressurizzazione. E addio Valetudo. Se capisce che nonostante le apparenze è in vantaggio, dovrò are al combattimento corpo a corpo. Se fosse Michael, non sarebbe invecchiato di un giorno. Questa persona seminuda con addosso solo dei boxer neri, dai movimenti aggraziati è la copia esatta del mio amico. Solo che il mio amico non c’è più. - Qui. Dove ti posso vedere. Gli ordino di fare tre i avanti. Devo pareggiare il suo vantaggio, devo togliergli la protezione dell’ambiente. Tiene le braccia all’altezza delle spalle, le mani rivolte in avanti. Sorride. Il sorriso che solo Mike sapeva fare. Sincero, leale, disinteressato. Cristo … È più di quanto riesca a sopportare. Il respiro accelera, l’adrenalina scorre a fiotti, le pupille si dilatano. - Fermo. -
Ha fatto un o di troppo. Sorride ancora. Perché non parla? E soprattutto, perché non parla il pivello? Devo sbrogliare questa situazione o rischio di dare di matto. Vedo la luce rossa del portellone d’accesso diventare verde. Quel moccioso non vuole darmi ascolto. Gli darò una bella riata, quando questa faccenda sarà stata risolta. Eccolo che entra. È madido di sudore. Gli occhi decisi, il portamento eretto. Che sta succedendo? Si avvicina agilmente, tenendo sotto controllo lo straniero uscito dalla capsula. Poi si volge verso di me. Ha in mano la mia Beretta Parabellum. Come l’ha trovata? Maledizione! Faremo un conto unico! Lo guardo storto. Se è venuto ad aiutarmi, faccia almeno qualcosa! Sposta l’attenzione sul nuovo arrivato. Respira profondamente, per trovare un po’ di coraggio. - Signor Barrett, lei conosce Domino? - domanda d’un fiato, chiamandolo per nome. Un nome che non dovrebbe conoscere. Un nome che io mi sono rifiutato di pronunciare. Adesso m’incazzo. - L’ho incontrata. In un certo senso. - risponde l’altro, il Barrett fasullo,
ricambiando l’occhiata curiosa. Ha la voce del mio defunto amico. È identica. Sento una fitta al torace, una goccia di sudore scivola sul collo. Sear annuisce e mi punta contro la pistola. È uscito di testa. O fa parte del complotto. In ogni caso, non ha capito con chi ha a che fare. - Virgil, che stai facendo? - dico, mantenendo collimato il mio bersaglio. - Buttala capo. Io sto con il signor Barrett. - ribatte, prendendo di mira la mia gamba destra. - Sear, non farmi incazzare. Abbassa l’arma e torna al tuo posto. - gli ordino, calcolando una strategia d’attacco. - Non esiste, capo. Getta la pistola e poi ne discutiamo. Sembra sicuro di ciò che fa, non ha esitazioni. Lo straniero ha assistito senza partecipare, ando lo sguardo da me al ragazzo. Non è sembrato così sorpreso dall’intervento di Sear. C’è qualcosa che non quadra. Il dito di Virgil si sta stringendo attorno al grilletto. Sento il mio braccio sinistro tendersi, le dita irrigidirsi, l’iride nel palmo è pronta. Lancio la pistola a terra, non mi serve più ormai. Rumore di metallo contro metallo. L’IMPULSE è carico. - Bene, capo. - fa il ragazzo visibilmente più calmo. Il suo più grande errore.
Sear era incollato all’ololed, spostandosi per cercare di vedere a chi, a cosa stesse mirando Bolt. “Come se fosse possibile…” si disse premendosi le dita sugli occhi.
- Capo, che succede? - chiese nuovamente, alzatosi in piedi, nervoso. - Stanne fuori Sear. Pensa a portare la nave dove ti ho detto. - rispose Bolt, molto alterato. Virgil era in apprensione. Seguiva lo svolgimento della scena con trepidazione. Sentì il suo capo intimare a qualcuno di non provarci. Poi di mettersi dove poteva vederlo ed infine di fermarsi. Sear vide comparire nello schermo un giovane uomo di spalle, in mutande scure aderenti. Barrett, sicuramente. Così aveva sibilato Bolt prima di estrarre la pistola. “Che devo fare? Come posso aiutare il capo? Cosa farebbe Shark al mio posto?” si lambiccò il cervello nel tentativo di essere concretamente di o. Stava per lanciarsi verso la stiva quando un pensiero lo costrinse a fermarsi. “Se vado giù, romperò un equilibrio. Potrei anche essere d’intralcio al capo. Potrei fare più danno che utile.” Il ragionamento era da persona adulta e assennata. Doveva avere fiducia in Bolt; un uomo solo contro di lui non aveva la benché minima speranza. Decise di attenersi agli ordini. Cercò di calmarsi e girò la sua poltrona per sedersi. Solo che non riuscì ad arrivarci. L’aria di fronte al lui era diventata elastica. La mano protesa verso la spalliera rimbalzava nell’etere, tornando indietro. - SIGMA: riproduzione file 0001. - impose, nella speranza che l’elaboratore rispondesse. Nulla. Poi notò un particolare non da poco. L’ololed. La riproduzione di Bolt era immobile. Il tracciato di potenza del reattore idem. Il tempo si era inspiegabilmente fermato.
Trasalì avvertendo una presenza alle sue spalle. Con gli occhi spalancati, ruotò i bulbi nel vano tentativo di guardarsi alle spalle. Sentiva che qualcuno si era materializzato dietro di lui, la percezione spaziale gli suggeriva che non era più solo. “Probabilmente l’ideatore di questo trucchetto.” pensò il ragazzo, sistemando il piede destro. All’improvviso, usando la punta come centro, tracciò una semicirconferenza con la tibia, ando sopra il sedile del pilota. Era sicuro di averlo preso e un calcio medio come quello lo avrebbe sentito di sicuro. Accompagnò il colpo d’anca usando il braccio sinistro per coprire il punto cieco della testa e aumentare la spinta. L’altro era più bravo, più esperto e più cattivo. Si spostò verso la gamba, accorciando la distanza. Appena lo stinco di Sear toccò il fianco dell’avversario, quello lo avvinghiò con il braccio e tirò la gamba verso di sé. Lasciò partire un montante sinistro che andò a colpire il ragazzo alla bocca dello stomaco, l’altro punto cieco della guardia, piegandolo in due, causandogli seri di conati di vomito. Con quel colpo era riuscito a mettere in difficoltà Bullet e questo tizio lo aveva neutralizzato con una facilità esacerbante. Sear si sentì sollevare per la maglia, rimesso in piedi con la forza. Lo sguardo un po’ annebbiato si focalizzò dietro l’assalitore; vide distintamente alle sue spalle uno strato di aria più densa, azzurrina, crepitante di piccoli lampi bluastri. Era di forma sferica, adesso riusciva a capirlo. Fuori da questa zona ben delineata, il procedere degli eventi sembrava non procedere o rallentare infinitamente. Un bolla cristallizzata fra gli attimi. Gli occhi si posarono su un volto conosciuto sebbene molto poco familiare. - Ascoltami bene, pivello. Sei l’ultima speranza dell’umanità. - disse il vincitore con voce rauca, fissando l’analista negli occhi. Era la sua voce. Distorta, greve, quasi irriconoscibile. Sconsolata. Al ragazzo venne un colpo quando vide sé stesso agguantarlo per il collo. Virgil spalancò la bocca, respirando lentamente. Aveva di fronte un altro lui. Una differente versione di lui, quantomeno. Gli sembrò di guardare una sua oloproiezione da vecchio, da lì ad almeno trent’anni.
L’altro sé stesso pareva però molto vissuto, aveva una vistosa cicatrice sulla faccia e sembrava molto, molto nervoso.
L’avvocato Lefinne si diresse nel suo ufficio al centoquattresimo piano, lasciando la festa in gran fretta, spinto dalla sua inettitudine. Adesso pendeva una taglia sulla sua testa, una condanna a morte. Il suo superiore era stato veramente un brav’uomo a lasciargli un giorno di vantaggio. Lo maledisse in tutte le lingue conosciute. I i felpati erano imbruttiti dal secco rumore delle scarpe sui metalli temprati dei pavimenti. La Guglia pareva deserta, non incontrò un’anima creata. Camminava spedito per i corridoi, esaminando ogni svolta, scrutando e studiando qualunque ombra. Non c’era da fidarsi di Boris Ilveni-Locus; che Lefinne sapesse non aveva mai mantenuto una promessa nella sua innaturale lunga vita. Ripensò al patto col diavolo che aveva stretto anni prima, un contratto vantaggioso in prima battuta. La grande soglia del suo ufficio si avvicinava, infondendogli un po’ di sicurezza. Aveva accettato di mettersi al servizio di quell’individuo senza scrupoli che era Locus per realizzare il suo ideale di un Sistema governato equamente e con giustizia salomonica, la sua. Credeva da principio di riuscire facilmente a soppiantare lo gnomo tirato a nuovo, ma nel corso degli anni si era rivelato un parassita veramente duro da uccidere. Tutti gli intrighi che aveva ordito ai danni del suo principale avevano fallito miseramente. E adesso era costretto a scappare. Guardingo, si affacciò alla fine del corridoio panoramico, dando un ultimo sguardo al pianeta Terra. Accelerò il o silenziosamente ed entrò nel suo gabinetto. La scrivania del suo aiutante Kleever era pericolosamente vuota.
Gettò la giacca dello smoking sulla poltrona ergonomica e prese a riflettere. Poteva ancora sopravvivere ma gli serviva il suo segretario. Si era premurato di fare una copia cartacea di tutti gli illeciti a lui noti del suo capo e li aveva fatti nascondere in un luogo sicuro. La sua idea era raggiungere la sua assicurazione e barattarla con la sua libertà, vendendo Locus a chiunque potesse proteggerlo e assicurargli una certa immunità. Kleever era a conoscenza di questo particolare e voleva portarlo con sé, meglio ancora eliminarlo fisicamente. Si guardò riflesso nel grande specchio a parete e vide le borse sotto gli occhi, il fisico emaciato, le mani macchiate e rugose. - Kleever, venga immediatamente nel mio ufficio. - pronunciò senza garbo nell’intercom. Il ragazzo si degnò di rispondere dopo un minuto buono. - Mi spiace per lei signore, ma sono stato sollevato dall’incarico. rispose il costrutto di luce con le sembianza di Kleever. Lefinne capì da quella frase che il suo oramai ex-braccio destro era stato irretito e acquistato, era soltanto un altro nemico a cui pensare. L’avvocato mise le mani sulla fascia alla cintola del vestito e respirò con gli occhi chiusi, si morse il labbro inferiore. “Così sia. Da solo.” disse tra sé Lefinne, scivolando verso la parete a specchio. - Le auguro tutto il male del mondo, Kleever. Non pronunciò quella frase, la sputò intrisa di veleno. Il giovane non lo degnò della minima attenzione, non rispose e scomparve nell’aria. L’avvocato ò il palmo della mano su un punto preciso del vetro, lo scanner riconobbe le sue impronte digitali e poi un rivelatore retinico ne accertò l’identità. Dei segmenti comparvero sulla superficie riflettente, formando uno sportello rettangolare. Un tubo pneumatico di emergenza.
Essendo un tipo molto malfidato, Jean-François Lefinne aveva fatto costruire per prima cosa alcune uscite di emergenza personali, ubicate in posti noti solo a lui, dopo aver fatto uccidere la squadra di manovali e ingegneri coinvolti nella fabbricazione. Uno di quei aggi era occultato nello specchio. L’avvocato si lanciò dentro, sorretto dalla differenza di pressione e si lasciò cadere, posandosi poi gentilmente al suolo sul cuscino d’aria. Lo specchio si richiuse senza lasciare indizi. Era in un corridoio scarsamente illuminato che correva sotto il suolo lunare fino allo spazioporto commerciale del Mare Imbrium; nei progetti della torre, risultava essere un canale di scarico. File di led giallastri rendevano l’ambiente ancora più sinistro e lugubre. L’avvocato si sentiva come a casa. Alla fine del aggio, si trovava una biforcazione: a destra, si ritornava verso la sede della AXIS; a sinistra, si mollava la vita da nababbi e s’intraprendeva un’esistenza da braccato. Lefinne aprì un grosso armadio verde marcio, scoprendo una raccolta di travestimenti più o meno minuziosi. Si spogliò, gettò l’abito da sera nel foro di un inceneritore e si camuffò da tecnico di riciclaggio. Si iniettò un enzima che deformò i suoi lineamenti, al modico prezzo di un dolore straziante. Strinse i denti e cadde in ginocchio, mentre la sua pelle si scuriva e le iridi diventavano marroni. Adesso sembrava un perfetto meticcio di bassa lega. Prese una borsa contenente alcuni attrezzi da lavoro e il necessario per la sopravvivenza; un taser, eurosol contanti, chiavi magnetiche per alberghi malfamati su colonie di terzo livello, una mappa delle zone decontaminate della Terra. Studiò il percorso male illuminato che significava la fine di tutti i suoi privilegi. Si girò e prese la via a sinistra meditando, cercando di scordare i suoi amanti, le fastose cene, i soldi che entravano a palate erodendo tutto ciò che di buono una persona possedesse. Si agganciò un tesserino olografico con il nome Alistaire Sanchez, si sistemò l’elmetto rosso sulla tesa e cominciò a riflettere su come rendere pan per focaccia al quello sporco verme di Boris.
Locus stava indossando la sua tuta di volo personalizzata color pesca con inserti rossi. Il pilota era già sulla Izumrud ad effettuare i controlli pre-lancio. Si guardò allo specchio del camerino e si trovò bello e affascinante. Merito della chirurgia estetica avanzata e dell’occasionale cannibalismo. Aveva atteso a sufficienza, era il momento di reclamare il potere di un dio. Un ultimo gradino lo divideva dall’immortalità: la capsula criogenica. Doveva riprenderla in fretta, qualunque tipo di conseguenza era irrilevante. La memoria lo portò indietro, fino all’incidente della Cygnus, venti anni prima. La maestosità di quell’impresa fu eguagliata solo dal suo crollo. La guerra che era scoppiata lo aveva arricchito a dismisura ma non era diventato il padrone assoluto, qualcuno ancora gli si opponeva. Essere solamente un magnate che governa un pezzo di Sistema Solare lo limitava in modo esasperante, specialmente se pensava che il potere divino era lì a pochi i. Durante l’esperimento di transito superluminale, aveva organizzato e dislocato nell’intero Sistema squadre clandestine di controllo, ricerca e recupero. Era una cosa che aveva subito appreso da quella vipera di Lefinne: la cura per le minuzie, l’importanza del cavillo. Alcune di queste squadre andarono perse, altre si rivelarono inutili ma una, una sola corvetta attrezzata con particolari sensori gravitometrici riscontrò nel fascio ciclopico che uscì dal wormhole una corrente coerente di neutrini. Un segnale nascosto che puntava direttamente su Europa. I suoi scienziati scoprirono solamente dopo che si trattava di teletrasporto quantistico sfruttando la teoria dell’entangled, un mezzo di comunicazione impensabile per almeno un altro migliaio di anni. La squadra recatasi sul satellite gioviano, non senza difficoltà, nel mezzo degli scontri fratricidi, seguì l’onda fino a trovare un uomo morente, infilzato sul fondo di un baratro come un coleottero da collezione. Stava recependo informazioni da un’altra dimensione. Quando lo rinvennero i suoi parametri vitali erano assenti, ma l’attività cerebrale era spaventosa. I danni al suo corpo iniziarono a ripararsi spontaneamente davanti agli uomini in armatura nera. Riuscirono ad inserirgli nel collo un inibitore neurale giusto pochi istanti prima che riprendesse conoscenza. Locus voleva sapere tutto quello che sapeva lui: voleva sapere se quell’immensa manifestazione di potenza era un’arma, altrimenti studiarla e usarla come tale e voleva conoscere il numero esatto dei continuum esistenti. L’uomo, un analista della Fleet di nome Michael Barrett, venne messo in ibernazione e ato al vaglio di qualunque test conosciuto. In due decadi, un’equipe di trentacinque persone al lavoro ventiquattro ore al giorno non aveva scoperto nulla di nuovo, tranne qualche dettaglio insignificante. All’improvviso, la capsula viene smarrita.
Era l’ultima volta che gli mettevano i bastoni fra le ruote. Von Reuters aveva l’ordine di raggiungere la navetta di quel Bolt su Saturno, infischiandosene del Trattato. Boris aveva pensato anche a quello. Tutta la Flotta Confederata si sarebbe mossa una volta appresa la (falsa) notizia che la Ghibli era stata attaccata proditoriamente. Si sarebbe scatenata un’ulteriore guerra, poiché le Libere Colonie non sarebbero certo rimaste a guardare. Non che gliene importasse granché, anzi altri introiti per la AXIS. “Stavolta però farò da me, niente intermediari.” pensò: si era stancato di tirapiedi superflui e vili. Sorrise pensando all’avvocato. Era già introvabile, scomparso dalla faccia dei pianeti. Lo avrebbe scovato a tempo debito. Sospirò sollevato e si diresse alla sua lancia, in perfetto ordine, senza un capello in sciopero. Procedendo verso la navetta si disse “Bene. Ci sono interi universi da conquistare e depredare. Meglio iniziare subito.” Qualora non avesse avuto Barrett, lo avrebbe distrutto con le sue mani.
Sono impazzito, il Darwin mi ha fritto le cervella. - Non sei impazzito e il Darwin non ti ha fottuto il cervello. - sibila questo tizio uguale a me. Veramente, questo è troppo. Mi tira dal collo e mi parla in faccia. Sento il suo alito salato. - Sentimi bene, cazzone. Ci troviamo in una sfera di singolarità cronale, una specie di macchina del tempo e, perdonami il paradosso, tempo non ne abbiamo. Me che diavolo sta dicendo? Sono in preda a qualche allucinazione? Mi assesta uno schiaffone tremendamente reale. È come se sapesse cosa penso. - Non te lo potrò ripetere, perciò stai attento. - riprende guardandomi torvo - Io sono te. Vengo dal futuro, da un possibile futuro. Un futuro dove tutto è andato
male. Si ferma e guarda nel vuoto, i suoi occhi per un istante divengono tristi. - Domino a quest’ora sarà morta cercando di coprirmi. Solamente io potevo are… - mormora tra le labbra. Domino? Scuote la testa, ritorna a studiarmi bieco. - Tutto dipende da te. La mia linea temporale diverge esattamente in questo punto per colpa tua, per colpa nostra. - mi rivela. Non so che dire, cosa credere. - Non eseguire gli ordini di Bolt. È accecato dall’ira. Lo devi fermare. Il tono è cambiato; somiglia a una supplica, mi sta implorando. - Cosa… Cosa dovrei fare? - bisbiglio, incredulo di poter parlare letteralmente con me stesso. Indica un armadietto alle sue spalle. - Bolt tiene lì una pistola di riserva. Prendila e scendi nella stiva. Assicurati che il capo faccia la scelta giusta. Mi ha lasciato. Adesso mi osserva pieno di malinconia. - Come faccio a crederti? - gli domando commosso. Anche se non so perché mi viene da piangere. - Il tuo secondo nome, Stephanos, si tramanda da sette generazioni nella tua famiglia e la prima volta che sei stato con una ragazza non sei stato buono a metterti il preservativo, ha dovuto farlo lei. Oh cazzo… Sono davvero io. - Farò quel che posso. - ribatto ingoiando aria e poco altro.
- No, non è sufficiente. Sparagli a una gamba, se ti costringe. Barrett deve portare a termine il suo compito, chiaro? Mi ha poggiato una mano sulla spalla e me la stringe, come per armi un po’ della sua decisione, della sua forza. - Domino. Che ha a che fare con questa storia? - domando, prendendolo dal bavero della giacca, cercando di emularlo nell’atteggiamento - Ora vuoi sapere troppo. Ti basti sapere che lei e Barrett hanno una sorta di connessione profonda. - risponde benigno. Non può dirmi di più e credo di sapere il perché. Questa goccia azzurra permette di viaggiare in punti precisi dello spazio-tempo, non a piacimento. Prima ha detto che la sua linea diverge esattamente qui. Non può rivelare troppo o la mia scelta non farà la differenza. Che io la debba prendere in piena coscienza? Ma allora, se io avrò successo, lui… - Se io dovessi riuscire, tu non avresti alcun luogo o tempo in cui tornare, dico bene? La sfera ha intensificato l’attività dei fulmini blu. - Mi ricordavo più pivello. In ogni caso, la mia esistenza è solo un’aberrazione. Non posso trattenermi oltre. Buona fortuna. La mia mano è libera, dove c’era stoffa adesso c’è aria. Tutto svanito: la sfera, l’altro me, il futuro alternativo. Cristo, devo farmi controllare da McOwen. Controllo il timer: sono trascorsi sette secondi. Devo avere i nervi a pezzi, se mi sparo ‘sti flash. Però esiste un modo per controllare la veridicità delle parole del… tipo. Bolt è ancora fermo, puntando la pistola contro lo sconosciuto. Mi avvicino all’anta di metallo.
Un lucchetto. Lo forzo facilmente. Inserisco la mano nella pallida luce verde, sposto una sorta di libro cartaceo e sento un corpo zigrinato. Un’arma da fuoco, in perfette condizioni. La prendo e la esamino tenendola con entrambe la mani. E se fosse stato vero? Se veramente io avessi un destino che mi aspetta? Controllo lo schermo. Stallo totale. Respiro. Ancora e ancora. Ho deciso. Vado verso la stiva, Barrett ha bisogno di me. Tiro indietro questo affare come ha fatto Bolt. Sono pronto. Scendo velocemente, apro il portellone della stiva. Il sudore mi cola dalla fronte. Entro e sento palpabile la tensione. Mi sposto a sinistra, con la pistola in mano. Il capo prima mi lancia un’occhiata di rimprovero, poi sgrana gli occhi notando l’arma. Mi rivolgo all’altro uomo. - Signor Barrett, lei conosce Domino? - domando senza preamboli. Gira la testa verso di me e mi mostra gli occhi grigi, un sorriso. - L’ho incontrata. In un certo senso. - risponde con atteggiamento affabile. Bene, troppe coincidenze fanno un indizio. Punto la pistola contro il capo. - Virgil, che stai facendo? - mi chiede, parecchio alterato. La decisione è presa, vado avanti. - Buttala, capo. Io sto con il signor Barrett. - gli rispondo, cacciando via la paura che mi stringe le chiappe. Metto nel mirino la gamba destra di Bolt ma con le armi sono negato. Adesso vorrei avere preso le parole di Bullet. - Sear, non farmi incazzare. Abbassa quel ferro e torna al tuo posto. - insiste il capo mantenendo Barrett sotto tiro. I suoi occhi guizzano da me all’altro uomo senza sosta. Il capo ha sempre un piano, sta studiando qualche tranello. - Non esiste, capo. Lascia la pistola e poi ne riparliamo. -
Il mio tono è fermo e deciso. Spero che ci caschi, altrimenti mi metto ad urlare e corro via. Allarga lentamente le braccia e lascia cadere la pistola ai suoi piedi. - Bene, capo. Dio mio, sembra che mi sia fatto una doccia. Barrett è rimasto immobile e silenzioso, ha fatto da spettatore non pagante. Bolt sta stirando le spalle, sposta il piede destro avanti. - Capo, non fare mosse avventate... - gli dico mentre le gambe cominciano a tremare. Non risponde. Mi guarda con ostilità. Non so se ho il coraggio di sparare. Adesso sostiene il braccio bionico all’altezza del gomito con l’altra mano. Il suo sguardo è fiammeggiante, ha una luce violenta negli occhi. Cercherò di non fargli troppo male. Premo il grilletto. Nulla, né sparo né rinculo. Vedo Bolt che ghigna sinistramente. - Almeno hai messo il colpo in canna, figliolo? - chiede Barrett, guardandomi leggermente stralunato. Ha una voce molto piacevole da ascoltare. - Ho messo cosa dove? - domando a mia volta. Maledette anticaglie! - Sei proprio un pivello… - afferma poi con una risatina sconsolata. Mio Dio, il capo è ancora in quella strana posizione. Ma questo ronzio c’era anche prima? Cazzo, qui tira una brutta aria…
La sala mensa della Vengeance era gremita, tutto l’equipaggio si era raccolto lì
per sentire cosa il capitano Stavros aveva da comunicargli. Brujo e Shuriken erano in fondo alla stanza; uno con la sigaretta spenta in bocca perché a Shark non piaceva si fumasse in giro per la nave, l’altro più rigido del solito. Erano arrivati per primi e avevano domandato a Morgan cosa stesse accadendo, specialmente Mallberg che aveva ricevuto l’ordine di rintracciare la Valetudo. - La questione delle memorie è collegata a Bolt, signor Mallberg. - gli rispose Shark, parlando più con gli occhi che con le parole. - Capitano, c’è qualcosa che dovremmo sapere? - chiese allora Shuriken, scrutando in profondità l’uomo taurino che aveva di fronte. Iniziarono ad arrivare gli altri membri della ciurma e Stavros optò per spiegare lo stato dei fatti una volta sola. - Non c’è tempo. Ascoltate bene insieme agli altri. - disse il capitano Shark per congedarli. Brujo lo guardò a mezz’occhi, Hanazawa fece segno di aver capito e si allontanò. Mallberg restò a sostenere lo sguardo del suo comandante per qualche altro secondo. Stimava Shark Stavros sopra ogni altro uomo e ciò che avevano diviso li rendeva simili a fratelli. E se tuo fratello ha un problema, tu hai un problema. Percepì un senso di onere nel suo amico e capitano, una situazione intricata. - Capitano, si ricordi sempre che non è solo. Parole sue, di molto tempo fa. - gli rammentò andandosene verso Shuriken. Hanazawa era sempre facile da trovare, per via della striscia candida nella chioma. Shark Stavros non riuscì a pensare ad altri compagni con cui dividere una sorte quale si andava prospettando. Eccetto Bolt, ovviamente. Un leggero brusio li levò dalle retrovie, diffondendosi per tutto l’ambiente, rimbalzando e riecheggiando ovunque, dagli spigoli dei tavoli alle pieghe delle tute di volo. Shark si mise di fronte al suo equipaggio e alzò una mano, intimando il silenzio. Domino era accanto a lui, piccolissima se paragonata a quell’asteroide di Stavros e fragile in apparenza. Il parlottio scemò e si spense. Shark era con il capo
abbassato e respirava profondamente. Ripensava alle parole che gli aveva detto la sua Kat, poc’anzi, quando lui le aveva chiesto come avrebbe potuto dire ai suoi uomini che stavano per lanciarsi in un’impresa impossibile, con scarsissime probabilità di riuscita e guidati da un oracolo. Kat lo abbracciò e gli toccò il petto, sul segno lasciato da Huntelaar. - Troverai la maniera. A me l’hai detto e io ti credo. Ti seguiranno ovunque e poi oltre. - lo aveva rassicurato la sua amata. Ora toccava a lui. - Signori, da questo momento non mi considero più il comandante di questa nave. - esordì Shark, perfettamente eretto e con le mani giunte sui reni. Vi fu un gran subbuglio, qualcuno protestò animatamente, altri volevano delle spiegazioni sensate, motivi validi per quella decisione. Stavros attese che la folla esaurisse la reazione e si calmasse. Incrociò gli occhi di Brujo e fu sollevato nel constatare che il suo ufficiale aveva un cervello di prima categoria. “Magari non avrà capito data la scarsità di dati che lo inchioda, ma sospetta.” pensò Shark vedendolo accendersi la sigaretta, come per fargli un dispetto. - Vi ho voluto convocare qui affinché potessi esporre le mie motivazioni. proseguì con voce ferma e densa, quando si ripristinò la quiete. - La signorina Blomqvist ha saputo da fonti sicure che il nostro amico e compagno Bolt è in pericolo di vita. Non ho il tempo materiale per spiegarvi il come e il perché, dovrete fidarvi di me, della mia reputazione e della mia parola. Fece una piccola pausa per diluire questo inatteso risvolto. - Portare soccorso a Bolt in questo caso può significare venire catturati o peggio ancora, morire. Non ho idea di cosa ci aspetterà una volta entrati in battaglia. Per questo accetterò soltanto i volontari e io stesso rinuncio alla carica di comandante in capo. Ognuno è libero di decidere secondo la propria coscienza. Se qualcuno vuole abbandonare la nave, ha il mio consenso, ma deve farlo
subito. Dopo quelle frasi sentite e profonde, Shark si aspettava grandi manifestazioni di cameratismo, innumerevoli strette di mano, colpi di scena cinematografici. Invece, il personale zitto era stato e zitto era rimasto. Si udiva un flebile rumore provenire da una qualche parte della Vengeance, una sedia spostata, un colpetto di tosse da metà schieramento. Domino giocherellò con i capelli rossi come le fiamme e indagò con i gli occhi verdissimi le anime dei presenti. Si soffermò su Brujo, appena l’ebbe inquadrato. Le altre persone scomparvero e restò solo Mallberg, come in un fermo immagine. Le sue capacità precognitive le mostrarono quello che sarebbe successo e si voltò di lato, coprendosi la bocca. Brujo avanzò fra gli uomini e le donne assiepati nello stanzone, arrivando con un sorriso a ventiquattro carati davanti al suo capitano. Aspirò l’ultima boccata e schiacciò il mozzicone a terra. - Ah, l’ultimo tiro è sempre il migliore… - mormorò tra sé l’ufficiale. Stavros lo seguì con un’espressione dubbiosa e incerta. - Quando ha finito di sparare fesserie, mi trova alla postazione L.S.C. in plancia, se ancora si ricorda dove si trova. - disse il sarcastico Mallberg. Non attese nemmeno la replica, fece il saluto e se ne andò. Shuriken gli si parò davanti subito dopo. E fu anche peggio. Lo studiò, lo osservò, lo misurò e si allontanò con un cenno di sdegno della testa, una sorta di “tsk!”. “Meno male che Yueh è in infermeria, sennò sai che batosta…” rifletté il capitano Shark roteando gli occhi, notando l’assenza del dottore. Stavros restò allibito, Domino stentava a trattenere le risate. Tutti gli effettivi iniziarono a argli di fronte, marcandolo con epiteti poco piacevoli. - Ma per chi ci ha preso? - esclamò un giovane guardiamarina, uno degli ultimi acquisti di nome Ortiz.
Kat si avvicinò di soppiatto alle spalle del suo capitano e compagno di vita e gli diede un tenero schiaffetto sulla nuca. Stavros si voltò nervosamente ma fu subito ammansito dall’espressione dolce della sua donna. - Vado in sala propulsori, stupidone. - gli disse, con un bacio sulla guancia. L’ultimo che si presentò a fare la festa a Shark fu il meccanico Samir. Lo guardò dal basso, il volto dalla pelle scura, i capelli folti e unti. Gli riservò un gran sorriso, piuttosto ambiguo, e gli strinse il braccio. - Capitano, lei certe volte non capisce un cazzo… - pronunciò sorridendo l’ometto. Poi se ne andò fischiettando verso le officine della nave. Shark era a dir poco sbigottito, non si sarebbe mai aspettato un comportamento simile dai suoi uomini. Studiò la sala vuota, i tavoli spostati, le sedie lasciate in disordine. Contò i led per essere certo di trovarsi sulla Vengeance, alzò gli occhi verso un dio sordo e trasse un profondissimo respiro. Domino era accanto lui: si stava sistemando i capelli in una stretta coda e aveva la bocca ritirata all’interno. - Lei lo sapeva, vero Domino? - chiese annuendo energicamente, fissando la cucina davanti a sé. - Diciamo che ho avuto una soffiata… - ribatté lei, girandosi verso il mastodontico capitano. Lo guardò nei grandi occhi scuri, apprezzandone la ferrea volontà e poi parlò serenamente. - Senta capitano, la mia dote di prescienza non è realmente esatta. In particolar modo adesso che l’anomalia si è rivelata. Ciò che conta è che tutto l’equipaggio ha eseguito un ammutinamento bianco nei suoi confronti: ha deciso molto tempo fa da che parte stare. Stavros assimilò l’informazione un po’ accigliato. Alla fine, sorrise sforzandosi di vedere un domani radioso.
- In plancia, primo ufficiale. - esordì il comandante - Dobbiamo prestare soccorso a un amico. Domino annuì, con gli occhi pronti a grondare lacrime e abbracciò Stavros. Il capitano le poggiò una manona sulla schiena. Shark la consolò come solamente un padre poteva fare. Egli capì il profondo tormento della ragazza: vedere i futuri e avere la responsabilità di guidare eventi apparentemente sconnessi tra loro in un contesto unico e generale, per il bene di tutta l’umanità. Le fu vicino con tutto sé stesso. Non c’era nemmeno bisogno di parole: dopo un breve sfogo, il viso dolce di Domino si piantò su quello largo e scuro di Morgan più disteso, più speranzoso. Insieme, si recarono in plancia con i decisi. Shuriken era già alle consolle armamenti, Brujo armeggiava con L.S.C. aveva un’altra paglia in bocca. Fece per accendersela ma venne fermato da una voce tonante. - Signor Mallberg, non ci pensi nemmeno ad accenderla qui. Shark era arrivato, Shark era pronto, Shark era sul piede di guerra. - Ce ne ha messo di tempo, signore. - replicò l’altro con un ghigno malizioso. Morgan Stavros prese posto sul piano rialzato del centro nevralgico e lasciò vagare la vista tutt’intorno. Solo volti sereni, calmi, fieri e sicuri. Si sentì orgoglioso di essere il capitano di quel vascello. - Signori, signore, compagni, amici. - iniziò parlando all’intercom, nel silenzio che si venne a creare con il suo arrivo - Questa potrebbe l’ultima azione della Vengeance e anche la più importante. Il gesto che stiamo progettando da vent’anni è prossimo: qualunque sia la nostra sorte, oggi le cose cambieranno. Abbiamo preso la nostra decisione, combattiamo per essa. Il pugno di ebano di Stavros si strinse ferocemente, in alto sulla sua testa. I suoi occhi lanciavano saette e fuoco. Gli uomini che udirono quelle parole si sentirono rinvigoriti, più determinati, pronti a qualunque cosa. Le mani cominciarono a battere fra loro, applausi, urla di gioia e d’incoraggiamento provenivano da ogni remoto anfratto dell’incrociatore.
Era questo che Shark voleva sentire, quello che lo fece commuovere di fronte a tutti. Le grida di esultanza non si erano ancora spente che Shark impartì ordini. Domino e Brujo avrebbero guidato la Vengeance verso la Valetudo, Shuriken stava già testando le armi di sua iniziativa, Yueh era prontissimo sul ponte medico e la sua Kat avrebbe fornito l’energia necessaria a costo di pedalare in vece del reattore. Stavros si fece are un ololed criptato per chiamare in aiuto un vecchissimo amico, più o meno un padre. Brujo lo guardò complice e gli ò lo schermo olografico. “Tutto l’aiuto è ben accetto. Spero che la notizia del suo richiamo in servizio sia vera.” si disse Shark, serrando la mascella. Qualche secondo d’attesa e l’ololed riprodusse un’immagine che pochi sulla Vengeance conoscevano, un uomo anziano con i baffi candidi e pochi capelli ma con due occhi vispi e intelligenti simili a quelli di un ragazzino. - Salve, ammiraglio. È un pezzo, vero? - cominciò Shark, di punto in bianco allegro. - Puoi dirlo, ragazzo. Puoi dirlo. - rispose l’ammiraglio Jacobi, riarruolato nella Fleet quattro mesi prima.
Sear fu lanciato in aria per quattro metri e la sua corsa sarebbe proseguita se la porta stagna della stiva non fosse stata chiusa. Sbatté violentemente la testa, rischiando di svenire. Un rivolo di sangue gli scendeva dal naso e dalle gengive, le costole gli dolevano, tre o quattro erano incrinate. Una volta raffreddatosi, respirare sarebbe diventato una condanna. Quando Barrett gli riferì che andava inserito il colpo in canna e non solo, Sear percepì nettamente le arterie ghiacciarsi. Ma poi considerò che anche il suo capo era disarmato…
“Non ha più in mano la pistola, vuoi dire.” si corresse da solo “ Ma sei sicuro che non sia armato? ” Troppo tardi individuò la sorgente del basso ronzio e capì di cosa si trattasse: Bolt montava nel braccio un dispositivo di offesa chiamato IMPULSE. L’IMPULSE era un’arma basata sul suono, sulla riflessione e canalizzazione delle onde sonore, per la cronaca. Le microfibre dell’apparato vibravano a frequenze sempre più alte, producendo fronti d’onda che venivano riflessi da particolari cavità e accumulate nei muscoli sintetici. Un’iride sul palmo della mano permetteva di proiettare questo soffio addensato all’esterno, nella forma di un colpo risonante di potenza controllabile, un vero e proprio muro sonico. Era come l’onda d’urto prodotta da un’esplosione, senza la detonazione. Bolt fu assai magnanimo a usare solo il 2,5% della potenza delle onde e benedisse i cinesi che glielo avevano procurato e montato, insieme ad altre chicche sulla Valetudo. Gli fecero anche uno sconto per il grosso acquisto. Il capitano Bolt era irriconoscibile. Gli occhi erano due perle nere e vuote, i muscoli allo spasimo della pressione e del nervosismo. Il braccio destro sulla spalla sinistra per attutire il rinculo, l’iride sul palmo scattò, si chiuse e si riaprì. L’IMPULSE funzionava a meraviglia. Rivolse l’arma verso lo sconosciuto con le sembianze di Barrett. Quest’ultimo si stava spostando lentamente da Sear per vedere come era ridotto. - Come stai, ragazzo? - gli chiese premuroso, accovacciandosi. - Una cannonata… - ebbe il coraggio di rispondere Virgil tra i rantoli. Lo aiutò a sollevarsi e il volto del giovane analista si contrasse dal dolore. - Signor Barrett, mi dispiace. Non sapevo dell’IMPUSLE… - mugugnò Sear, asciugandosi il sangue e respirando a fatica. Il suo sguardo era rassegnato. - Sei stato bravissimo. Ora ci penso io. - annunciò l’uomo, poggiandolo con attenzione alla parete. Bolt era pronto a fare fuoco nuovamente. Lo sconosciuto gli si avvicinò spavaldamente.
- Abbatto una fregata con l’IMPULSE al 100%. - avvisò il capitano, digrignando le zanne. Mentiva, poiché era cosciente che le sue parti organiche avrebbero ceduto per lo sforzo. - Secondo me non lo farai. - affermò in risposta l’altro, avanzando ulteriormente. L’uomo si arrestò a pochi centimetri dall’arma sonica e guardò Bolt negli occhi. Li ricordava vivi e speranzosi, sempre in cerca di uno scherzo da fare. Tutti i bei momenti trascorsi insieme sembravano non essere mai esistiti, trascinati via dall’odio e dal senso di colpa. “Basta.” decise Barrett. - Il tuo nome è Balthasar O’Reilly. Sei nato nel 3163 sulla CASSIUS-Ω e sei orfano. Vent’anni fa, hai fregato il “ Vento dell’Ovest ” dal tavolo e il Mangiarane e io non abbiamo potuto finire la partita. Devo continuare? Pronunciò quelle informazioni top secret in un italiano perfetto, lasciando Bolt, alias Balthasar O’Reilly, con la mandibola a penzoloni. Sear non capì granché di ciò che Barrett disse, ma di sicuro afferrò il nome. “Cazzo! Vuoi vedere che si chiama Balthasar?” pensò il ragazzo, con una risata che gli fece male come un calcio nelle palle. Bolt sembrava un manichino, fermo e inerte, con l’IMPULSE ancora puntato e la faccia da mulo. Barrett espirò e fece un o indietro. - Come vuoi. - disse, mollando un high kick destro verso la tempia di Bolt. “Elegante, geometrico, rapido. Mike.” riuscì a pensare O’Reilly in una frazione di secondo. Barrett era stato talmente veloce che il suo avversario aveva solo potuto schivare il calcio e cadere così nella trappola: Michael fece abbassare Balthasar con la finta e poi tirò a sé la gamba, toccò con la punta per terra e sferrò in avanti la pianta del piede, colpendo così Bolt alla gola. Barrett non affondò il colpo bensì
usò il suo peso per schiacciare il contendente contro lo paratia dello scafo. “Ma stiamo scherzando? E io avrei dovuto aiutare quel mostro? Andatevene tutti affanculo…” si disse Sear, seguendo la scena. Si lasciò scivolare lungo la parete e si sedette, contorcendosi per il male al torace.
È lui, è veramente lui! Solo lui può battermi tanto facilmente. Mi conosce. Prevede le mie reazioni. Parla di fatti e persone che soltanto il mio amico fraterno può conoscere. È Michael Barrett. No, Michael Barrett è morto su Europa, molti anni fa. Il suo piede scalzo è sul mio pomo d’Adamo, per mandarmi all’altro mondo gli basterebbe esercitare una pressione maggiore. Avrei dovuto sparare, ma non l’ho fatto. Ho esitato. Io non esito mai. Gli occhi iniziano a lacrimare per la mancanza di ossigeno, sento il viso deformarsi bramando aria. Se ne accorge e allenta la presa. - Chi sei tu? - riesco a bofonchiare, a corto di fiato. Lui sorride e abbassa la gamba, lasciando che la mia gola inghiotta avidamente le molecole di O2 presenti nella stiva. - Sono Michael Barrett. Sono nato nel 3164 sulla CASSIUS-Δ. Tu, io e Morgan ci siamo conosciuti il giorno dell’arruolamento. - mi risponde in tono pacato. - NON TI CREDO! - urlo, puntando l’IMPULSE su questo impostore. Intravedo Sear, sanguinante e pesto, seduto per terra. Mi guarda, muove le labbra
e riesco a tradurre. Mi dice di ascoltarlo, di sospendere il mio maledetto caratteraccio per un minuto. - Tu non ti arrendi mai. Ricordo come cercasti di raddrizzare la navetta e come non tirasti indietro il braccio, quando quella montagna di ghiaccio ci crollò addosso. Come, come può sapere tutti questi dettagli? - La tua canzone preferita è “Jamming” di Bob Marley. - conclude scrutandomi con quei suoi dannati occhi grigi. Non ascolto quella canzone da oltre dieci anni. Mi ricorda quanto ho perso e che non riavrò mai più. Eppure, una parte del mio ato, una parte del mio essere, è qui di fronte a me. È lui, ne sono sicuro. Non può essere che lui. È Mike. È tornato. Le gocce salate continuano a scorrere anche se adesso respiro normalmente. Piango. Di gioia. È così bello… Mio Dio, è così bello piangere di gioia. Lo abbraccio facendo attenzione a non stritolarlo con l’arto meccanico. - Mike, sei tu… - Sì, Bolt. Sono io. Mi sei mancato. - sussurra, commosso a sua volta. Virgil annuisce anche se credo non capisca bene e piange pure lui.
- Cosa ti è successo? - gli domando staccandomi. Tiro su col naso e cerco di riprendermi. - Dovrò essere breve perché l’inibitore che ho nel collo ha attivato il segnalatore integrato. - dice mettendomi una mano sulla testa. Buon vecchio Mike. Sono stati anni molto lunghi senza di te.
Bolt indicò a Mike un ripostiglio con degli abiti, delle tute di volo di un colore indefinibile. Gli disse di vestirsi intanto che lui si occupava del ragazzo. Si avvicinò scuotendo la testa. - Ce la faccio da me, capo. - disse mentre lottava per rimettersi in piedi. - Sì, come no. E piantala di chiamarmi capo. - replicò O’Reilly, issandolo rudemente. Lo guardò trattenere una smorfia di sofferenza e poi continuò. - Scusami Virgil, non volevo farti male, ma la situazione è un po’ complicata… disse, picchettando le dita metalliche sulla paratia ed evitando di guardarlo negli occhi. Balthasar si vergognò molto di essersi fatto beccare a piangere, di non essere riuscito a controllarsi. - Tutto ok, capo. Non mi hai fatto niente. Ci vuole ben altro per mettermi fuori combattimento. - rispose accennando un sorriso sanguinolento. - Sei più uomo adesso di quanto tu sia mai stato. - aggiunse, tentando di respirare normalmente. “E questa saggezza chi gliel’ha infusa?” si domandò Bolt, sorpreso. - Vedi ragazzo, quell’uomo è un mio amico scomparso vent’anni fa. Io ero convinto fosse morto ma devo ricredermi. - proseguì, buttando uno sguardo allo stanzino delle tute. Il ragazzo lo interruppe con un cenno della mano. - Capo, io sono dalla tua parte ma non potevo lasciartelo ammazzare. - disse
ingoiando un po’ di sangue. Bolt colse una profondità, una consapevolezza nel suo atteggiamento completamente nuove e inedite. - Come sapevi dove tenevo il ferro di scorta? - gli chiese Balthasar incuriosito. - Non ci pensare, non ci credo io figurati se te lo racconto… - tagliò corto il ragazzo, con un risata dolente. - Piuttosto, tu ti chiami… - osò Sear, facendo avanzare minacciosamente un dito. - Non una parola, ragazzo. L’IMPULSE è ancora carico. - lo ammonì Bolt con sguardo intimidatorio. - Ok, sto zitto. - replicò il giovane, fingendo di cucirsi la bocca. In realtà pensò “E dove vuoi scappare? Tanto primo o poi ti devo sfottere…” Michael li chiamò dalla porta dalla stiva. - Dai, ragazzi! Saliamo all’abitacolo! Sear fu aiutato a prendere posto sul suo sedile, Bolt si accomodò e lasciò che Barrett fermasse le emorragie del giovanotto con il kit di pronto soccorso. Era stata un’altra prova a carico della realtà delle cose: Michael ricordava dove si trovava la valigetta sulla Windina e fu il primo posto dove controllò. - Bell’arma, fratello. - disse, aprendo delle compresse di garza e riferendosi all’aggeggio sonico. - Aggiornamenti continui, da quando te ne sei andato. - ribatté l’altro. L’acqua ossigenata toccò le escoriazioni e il ragazzo strinse i denti. - Sta bene. - fece Bolt, con un gesto sbrigativo della mano. - Mike, per vent’anni ti ho creduto morto. Adesso rispunti da una capsula criogenica, senza essere invecchiato di un giorno, vivo e vegeto. Cosa dovrei
fare? - domandò il capitano O’Reilly, esibendo il nocciolo della questione. Barrett annuì seriamente e smise di pulire le ferite. Toccando il volto di Virgil, percepì che il ragazzo era stato spronato da qualcuno a venire in suo soccorso, sfruttando una convergenza temporale, un punto morbido nel tessuto delle realtà. “Domino aveva ragione. È lui l’anomalia.” concluse Mike, sorridendo. - Hai ricevuto una visita inaspettata, non è vero? - chiese a Virgil, glissando la domanda del suo vecchio amico. Virgil lo guardò con un sorriso tirato e fece cenno di “sì” con la testa. Adesso capiva meglio, vedeva che i Camminatori erano stati molto attivi nel Mondo Dei Mondi. Barrett incrociò le braccia e si voltò, fissando Balthasar. Bolt fu travolto da sensazioni ignote, provocate dallo sguardo dell’amico. Con tono fermo cominciò a raccontare. - Il giorno che precipitammo su Europa venimmo toccati da una specie di raggio, ricordi? Era il risultato di un esperimento per il viaggio super-luce, organizzato nel Sistema Interno. Bolt cominciò a collegare e gli sovvenne l’ultimo ricordo prima di svegliarsi negli ospedali australiani: uomini con esoscheletri e un simbolo. - La AXIS. - enunciò con un certo disgusto il capitano, andosi una mano sulla barba. - Precisamente. - riprese Barrett - Tentarono di creare un wormhole e ci riuscirono, solo che non avevano considerato che l’energia si manifesta in innumerevoli modi, numerosi dei quali ancora sconosciuti. Il fascio che fece andare in avaria la nostra Windina era una di quelle forme. Prese una pausa e riallineò le idee. Si spostò verso la finestra ad osservare Saturno con i suoi incredibili anelli e Giapeto, con la sua superficie a due toni di colore. - All’interno del raggio c’era anche una comunicazione subspaziale che aveva il
compito di riversarsi in un individuo dal particolare codice genetico: io. Balthasar parve cadere dalle nuvole, Sear si tolse il tampone dalla bocca mostrando interesse. - Teletrasporto quantistico? - azzardò con le palpebre socchiuse e le orecchie dritte. - Qualcosa di simile, solamente un po’ più raffinato. - convenne Michael, apprezzando l’intelligenza di Virgil. Continuò ammirando il colore ocra del gigante gassoso. - Non siamo soli. Esistono milioni di altre dimensioni, popolate da razze civilizzate ed evolute. Una di esse è stata nel nostro Sistema quando l’umanità era ancora una probabilità nella scala evolutiva . Si fanno chiamare “I Camminatori” ed esplorano lo spettro delle esistenze. Possiedono una tecnologia basata sui tesseract stellari che permette loro di viaggiare al di fuori del tempo. Mi contattarono mentre morivo, sul fondo di quel baratro dove precipitai. Mi svelarono un segreto e mi proposero una scelta. Dissero che l’apertura di un sentiero spazio-temporale era il primo o verso la conquista delle stelle e l’inizio di un’età dell’oro per l’umanità. Mi chiesero se volessi diventare la chiave per aprire il loro regalo. Io accettai e iniziai un addestramento speciale per giungere a quello scopo. Ma qualcosa andò storto. Il segnale venne intercettato e seguito fino a me. Riuscirono ad interrompere le funzioni superiori del mio cervello troncando il contatto con la cultura aliena. Bolt e Sear si guardarono con il volto dello stupore. - Ero impotente, ancora ferito e solo. Fortunatamente, gli alieni trovarono comunque il modo per istruirmi a livello onirico, allungando di molto la mia permanenza nella capsula criogenica e scoprirono che un’altra persona era ricettiva al loro mezzo di comunicazione, una bambina sopravvissuta al fascio molecolare e modificata a livello cellulare dalle onde di collasso. - Domino. - intervenne Sear, dolorante ma sveglio. - Sì. È stata lei a contattare Bolt e a organizzare tutto. Con un piccolo aiuto del padre adottivo. - Non dirmi che è il direttore della Yudecca. Non dirmi che c’è anche Poe di
mezzo. - disse Bolt, dimostrando anche lui un cervello fino. - Se vuoi non lo faccio, ma è così. - gli rispose Mike, in tono scherzoso. Bolt si mise una mano in faccia. - Quindi, i quattro milioni erano uno specchietto per le allodole… - rifletté ad alta voce. - Quattro milioni di cucuzze! - esclamò Sear, come se fosse seduto sui chiodi. - Certo che sei un bel taccagno, capo! - disse ancora guardando storto il suo capitano. - Muto pivello. - lo zittì O’Reilly. Poi si alzò e si avvicinò all’amico Barrett. - Mike, che cosa ti sei impegnato a fare? - gli chiese, con la fronte corrucciata. Michael inspirò profondamente. Non c’era tempo di togliersi l’inibitore, una volta completata la sua trasformazione, lo avrebbe assorbito facilmente. - Dentro il container c’è una sostanza nanotecnologica. Il mio compito è fondermi con essa e divenire la chiave per aprire lo scrigno. Bolt sembrò non capire, ma si fidava ciecamente dell’amico. Sperava di non perderlo di nuovo, ma il suo pessimismo aveva subito un arresto non una regressione. Sear osservò quei due uomini così differenti; età, comportamenti, carattere. Decise che non li avrebbe abbandonati per nulla nell’universo, scelse di schierarsi dalla loro parte. Con uno sforzo immane, si mise in piedi, tenendosi il costato. - Credo di parlare per me e per il capo, signor Barrett: come l’aiutiamo? disse, sembrando all’improvviso più maturo. - Portatemi su Plutone. - rispose l’altro.
Sear lo osservò di sottecchi: il suo cervello stava elaborando i pochi dati disponibili. Fece un o barcollante verso Barrett. - Signor Barrett, il pianeta chiamato Plutone non è realmente qui, dico bene? chiese, studiandolo curioso. Barrett annuì con un sorriso smagliante e constatò che l’umanità era effettivamente in ottime mani. Bolt osservò con occhi cattivi il ragazzo. - Che c’è capo? Ho detto male? - interloquì il giovane. - “Signor Barrett” eh?! Poi facciamo i conti… - replicò Balthasar. A Sear e Mike, sfuggì una risata. Sembrava un scena da foto di famiglia, il cosmo girava imperterrito, i soli compivano la loro rivoluzione, Mike era vivo lì insieme a loro, Virgil ridacchiava. Non poteva durare, lo sapevano, ma SIGMA aveva un modo molto brusco di guastare le feste. I led dell’abitacolo diventarono rossi e gli allarmi iniziarono a suonare. Nel giro di un’ora scarsa, gli olomonitor stavano di nuovo segnalando che qualcuno si avvicinava con intenzioni poco amichevoli. I segnali “WARNING” e “ALERT” si alternavano intorno a loro, in una cacofonia impressionante. Sear si accostò alla consolle e pose fine all’irritante frastuono. Benché acciaccato, il ragazzo stringeva i denti e teneva duro, sapeva che c’era bisogno anche di lui quando selezionò la schermata del radar. - Navi in rapido avvicinamento. In testa ci sono la Ghibli, la Obama e la Ares. Dietro, almeno altre quindici navi, forse di più, di varia stazza. La Flotta Confederata ci sta venendo addosso. - annunciò il ragazzo spaventato. “E ti pareva!” pensarono tutti e tre all’unisono. Barrett sentì in quelle poche parole proferite dal giovane Virgil morire la speranza. Eppure sapeva che tutto sarebbe andato bene, molti mancavano ancora
all’appello. Lui aveva altro da fare, doveva lasciare i suoi compagni e dirigersi senza indugio nella stiva. Bolt lanciò un’occhiata a Michael e andò a prendere il posto del pilota. - Mike, di che hai bisogno? - gli chiese prestando attenzione ai dati che fluivano davanti al suo naso. - Tutto il tempo che potete darmi. - rispose, schizzando trafelato verso l’area di carico. Restarono da soli, Sear e Bolt. Il giovane si raddrizzò sulla poltrona perché stabilì di non darla vinta a quei rotti in culo che stavano venendo a fargli lo scalpo. Decise che se era arrivata la sua ora, sarebbe morto in piedi, sputando in faccia al suo nemico. Bolt era in preda alla frenesia della battaglia, aveva un sapore di rame in bocca e sapeva che non avevano alcuna possibilità di uscirne, se non come atomi elettrizzati. Vide il ragazzo eretto e fiero, che si schiariva la gola e si puliva gli occhi. - Pronto, capitano O’Reilly. Fino alla fine. - disse, facendo appello a tutto il suo coraggio. Gli strizzò l’occhio e sollevò il pollice destro. Bolt sentì il suo cuore stringersi e rimpicciolirsi. Doveva rivalutare il pivello, si stava dimostrando un eccellente elemento. - Bene Sear. A quanto pare dovremo farli fuori tutti. - ribatté il capitano Bolt, ben cosciente di dire magnifica stupidaggine. Virgil non ebbe tempo per una replica. I vascelli da guerra della Confederazione erano a portata di Gaitling, gli analisti avevano iniziato l’assalto informatico. Il giovane Virgil si scordò del dolore e della rassegnazione e si mise furiosamente all’opera cercando di proteggere SIGMA. Balthasar annuì con un sorriso e pensò
“Andarsene con gli amici vicino. Non è poi una fine così brutta.” Poi Sear imprecò a voce alta. Il capitano si volse a guardare fuori dalla finestra e vide l’orizzonte completamente ingombro di luci di posizione, leghe superleggere, torrette binate, macchie scure che inesorabilmente nascondevano il corpo celeste Saturno. La sagoma della nave arsenale Ares si stagliò contro il satellite Giapeto. Bolt era esterrefatto e le parole di Barrett si confermarono terribilmente vere. Locus voleva Michael, a qualsiasi costo. - Capo, comunicazione. - lo avvisò l’analista, senza staccarsi dalle sue tastiere optroniche. Bolt gli raccomandò di tenere d’occhio Michael e di smistare verso la sua consolle una copia delle telecamere della stiva. Il ragazzo gli ò i segnali all’istante. Un uomo con i baffi e il pizzetto biondo si ergeva in alta uniforme. Bolt credette di capire chi fosse, un vigliacco di nome Von Reuters. - Sono il contrammiraglio Raphael Von Reuters della Flotta Confederata, comandante della Ghibli. Questo è l’unico avvertimento: arrendetevi o preparatevi a morire. Una voce soave, senza alcun cenno di rimorso, un lupo travestito da agnello. Bolt strinse le cloche e lasciò che il suo cervello analizzasse la situazione. Pensò a Sear lì accanto che tentava di resistere strenuamente, esultando ogni volta che riusciva a deviare un assalto e inveendo nella foga del contrattacco. Guardò il monitor che incastonava Barrett, intento ad aprire il contenitore. Un alone di luce lo avvolse per un attimo e poi svanì. Mike sorrise e si accosciò sul pavimento di fronte al container. Tirò verso di sé le leve e la Valetudo si girò verso le navi da guerra, in chiaro segno di sfida.
Sear diede una manata sul bordo della postazione, bestemmiando come un ossesso. - Capo, è finita. - disse tristemente. Gli mandò una scansione da poppa e lo schermo fu riempito da un profilo assurdamente grande. Nella tensione del momento, si erano scordati che le navi confederate avevano arbitrariamente invaso il territorio di uno stato sovrano. Le Libere Colonie stavano reagendo per proteggere il loro spazio aereo, stavano inviando la Fleet e tutto il loro Esercito. Il diagramma che sconvolse Bolt apparteneva alla supercorazzata “Waikato”, il fiore all’occhiello della Flotta Esterna. Una dannatissima macchina da guerra lunga settecentotrenta metri scomponibile in decine di unità, dotata di tutte le armi più potenti, un’intera compagnia di Space Marines e uno stormo di caccia stellari. “Cristo, siamo nel mezzo di una guerra!” pensò Bolt, sbarrando gli occhi. - Capo, non resisterò per molto! - urlò Sear. Stava esaurendo le risorse per contrastare l’hacking di tre navi congiunte. - Ragazzo, ci siamo! - strillò O’Reilly a sua volta - Sai come si dice in questi casi? Attivò i collimatori, si scrocchiò le cinque dita organiche che gli rimanevano facendo un esame della sua vita. Avrebbe potuto fare di più e meglio, ma ormai non importava granché. Rivolse un pensiero a Virgil che era tanto, troppo giovane per far fronte a sessanta e più navi. Poi si dispiacque per Barrett: ancora una volta lo aveva deluso. Notò che l’amico non si era spostato e qualcosa di argenteo eppur cangiante stava uscendo dal container. - Se è noi che vogliono, devono venirci a prendere! - gridò a squarciagola il giovane, completamente vittima di un’euforia isterica.
“Bene. Adesso sono pronto.” pensò il capitano O’Reilly, con i pollici rigidi sui pulsanti dei cannoni. - Prendo atto che preferite perire. Addio. - fece quella carogna di Von Reuters, troncando il segnale. Guardò l’immagine che si sarebbe portato dietro, l’ultima vista della sua esistenza. Lo spazio pieno di navi, i pianeti in lontananza, una battaglia epica. Da solo contro due eserciti: fu soddisfatto nell’apprendere che uno solo non era bastato a fermarlo. Poi, senza alcun motivo apparente, la Ghibli cominciò ad esplodere. - Capo, sono arrivati i soccorsi! - disse Sear, sentendo che non era ancora tutto perduto. Nell’oloschermo del radar erano comparsi quattro puntini, quattro fori nella realtà tridimensionale. Di seguito se ne aggiunsero altri, tutti a distanza simmetrica. Fasci di particelle accelerate e proiettili da settanta millimetri ne scaturirono, inquadrati sulla Ghibli e la abbatterono. La Vengeance era arrivata a dar man forte. O a morire con loro. - Valetudo, siamo con voi. - disse il costrutto olografico di Brujo. - Dio ti ringrazio… - esalò Virgil, leggermente sollevato. Non sentiva più alcun dolore. - Vengeance, ritiratevi! Non ce la potete fare! - fece notare il capitano Bolt, osservando l’incrociatore pesante Ghibli depressurizzarsi ed implodere. - E chi ha detto che siamo soli? - replicò la voce baritonale di Shark. - Sei un pazzo, Morgan! - lo apostrofò Bolt. - Può darsi. Domino ci ha detto che avete una impegno da sbrigare. Andate, qui ci pensiamo noi. - affermò il comandante Shark, senza sprecare parole. - Non vi chiederò mai una cosa simile! - ribatté Balthasar stizzito.
- Infatti ci offriamo noi. - intervenne la bella Domino, comparendo in un altro schermo. Sear la guardò e seppe che non avrebbe vissuto senza di lei un minuto in più. - Domino, se sopravviviamo ti porto a cena fuori. - promise, certamente nel luogo meno consono a un appuntamento. - Ci conto. - rispose lei, arrossendo un po’. “Giovinastri. Adesso si mettono a tubare…” si disse Bolt, portando la nave in una rotta di evasione. - Reggiti Mike! - urlò all’intercom. Si rivolse di seguito a Shark. - Restiamo. Non vi possiamo abbandonare. - disse in tono che non ammetteva repliche. Shark sorrise e non rispose subito. Nello spazio circostante, infuriava la lotta. La Vengeance volava sopra lo schieramento confederato con L.S.C. attivo, con solo le bocche da fuoco scoperte, sparando a tappeto e colpendo varie navi in quel gruppo omogeneo di chiglie e carene. - Ti ho detto di levarti da qui. Ci pensiamo noi. - ribadì Shark, un poco seccato. Sear notò che uno sciame di navette stava arrivando alle spalle dei Confederati, usando gli anelli di Saturno come copertura. Erano decine e decine e non tutte erano navi da guerra. Vide rimorchiatori, lance, qualche datata corvetta, navi cargo e vascelli da diporto. L’eterogeneo stormo si divise e cominciò ad impegnare la Flotta. Sulla testa di Sear s’illuminò una lampadina. Bolt intuì, ma non seppe cosa pensare. - Ehi ragazzi! Avete bisogno di una mano? - trillò un ololed comparso alla sinistra di Virgil. - La Diehard! Bullet! - esclamò felice il ragazzo - Capo, è Bullet! Il volto amico e familiare di Will Gibson riempì di gioia O’Reilly.
- Non sai quanto sono felice di vederti, Will. - disse Bolt, con un filo di fede nella voce. - Lieto di essere d’aiuto. Adesso fate come dice Shark: levatevi e lasciate fare a noi. Bullet era sereno e sorridente, il suo profilo deciso incrinato in un ghigno. Le schermate si succedevano sugli schermi di Bolt, man mano che il database riconosceva le navi. La “Omnibus”, con Diz “Marauder” Finch ai comandi. La “Spectre”, rimorchiatore armato e modificato del capitano Ruud “Oneleg” Armstrong. La “Cerise”, lancia da trasporto di proprietà di Ines Sandoval. E tantissime altre ancora. Era l’esercito del Blue Bell Inn, l’armata dei diseredati che cercava redenzione. - Ehi pelatone! Guarda che Argento ha detto che poi si divideva! Era Diz Finch, con il suo cappello di paglia, la camicia a fiori e i baffi a manubrio di bicicletta. - Sono in debito, ragazzi. - riferì a voce bassa O’Reilly. - Ti vuoi dare una mossa, specie di scimmione? Levati da qui immediatamente! Era Ines che urlava. Se la stavano cavando bene, avevano gettato nella confusione le pesanti e poco maneggevoli navi confederate mentre la Vengeance le danneggiava pesantemente con l’artiglieria lineare. Bolt si chiese, senza un collegamento ben chiaro, quanti dei soldati confederati fossero pagati da Locus e quanti fossero lì loro malgrado. Accantonò quei pensieri e sbirciò lo schermo collegato alla stiva.
La sostanza che sembrava mercurio o argento liquido stava colando dal tavolo su Barrett assorto in meditazione. Bolt strinse i denti. - Sear, qui ci coprono loro. Noi dobbiamo superare quel cazzo di arsenale mobile. Pronto? - Quando vuoi, Bolt. - rispose seriamente Virgil “Adesso mi chiama per nome! Pivello!” pensò O’Reilly, lanciando la sua nave contro la Waikato. Alle spalle della nave ammiraglia, la Fleet si stava raccogliendo e Bolt non aveva la minima idea di come fare per aggirarla. Una comunicazione apparve dinanzi al capitano Balthasar. - Non cambi mai, pivello. Sempre a combinare casini. - disse l’uomo canuto che si costruì con raggi laser. Bolt non riuscì a fermare una risata che divenne a momenti forsennata. - Ciao paparino. - salutò Bolt come a vecchi tempi - Non immagini nemmeno chi c’è con me. - Piantala di chiamarmi paparino altrimenti ti faccio abbattere. - rispose l’ammiraglio Emerson Jacobi. Quattro mesi avanti, l’ammiraglio Jacobi era stato richiamato in servizio per prendere il comando della Waikato, la nuova nave della Fleet. Emerson era sempre rimasto in contatto con Stavros, quando riuscì a ripescarlo, sfruttando tutte le sue conoscenze e i favori arretrati: aveva già perso due figli, non avrebbe permesso che Morgan vivesse in solitudine e clandestinità. Adesso guidava la task-force mandata a contrastare la Confederazione. - Morgan mi ha informato che ti stanno dando la caccia. Vattene da qui, figliolo. Hai cose più importanti da fare. - continuò l’ufficiale maggiore, tormentandosi i bassi candidi. - E chi è questo bacucco? - domandò il giovane Sear rivolto al suo capitano. Bolt
fece per rispondere ma Jacobi fu più lesto. - Quanti anni hai, ragazzo? - gli chiese direttamente l’ammiraglio, corrugando la fronte. - Ventitré. - rispose fermamente il giovane. - Potrai parlare quando ne avrai trenta. - lo rimproverò il vecchio lupo dello spazio. Sear subì quell’ondata di carisma come un giunco travolto dalla piena, portò la mano tesa alla fronte e ribatté: - Sissignore! - Molto bene. È più disciplinato di te alla sua età, O’Reilly. - notò Jacobi. - Ho dato ordine ai miei di lasciarvi proseguire. Questa guerra non riguarda voi. Salutami Michael e buona fortuna. - terminò, piantando su Bolt i suoi occhi celesti. O’Reilly sospirò e non seppe dire altro che: - Ti ringrazio paparino. E perdonami, se puoi. - Oh, io l’ho già fatto molto tempo fa. Ora tocca a te perdonarti. L’ammiraglio sorrise bonariamente e disse a gran voce - Forza O’Reilly! Sapevo che voi tre avreste cambiato i mondi. Dimostramelo. Bolt non si perse in chiacchiere e con animo rinnovato fece volare con mano sicura la sua corvetta in mezzo ad una miriade di altre navi che si addensavano dietro la supercorazzata. Nel vuoto cosmico, le esplosioni non si possono avvertire, ma il cuore di Balthasar sobbalzò sapendo che la battaglia dietro di lui continuava senza sconti. Aveva lasciato i suoi amici a morire. Doveva tornare in fretta e aiutarli. Superò lo schieramento della Fleet senza problemi. Improvvisamente, Brujo Mallberg apparve sull’oloschermo visibilmente preoccupato.
- Sear, una lancia sconosciuta si è staccata dalla battaglia e viene… La comunicazione fu spezzata da una raffica di colpi che investì la Valetudo da destra, danneggiando gravemente il sistema di comunicazione a lungo e medio raggio, la gondola di navigazione (“È un vizio!” pensò Bolt furioso) e intaccò l’impianto di sopravvivenza. Scintille schizzarono dagli oloproiettori, una grata si staccò dal tetto dell’abitacolo cadendo rumorosamente sul pavimento metallico, un principio d’incendio si sviluppò verso la metà del vascello. Bolt fu sbalzato dal sedile perché non aveva l’imbragatura allacciata e sbatté contro l’armadietto metallico alla sua destra. Sear subì un colpo di frusta che lo fece svenire. “Non di nuovo. Non stavolta.” pensò O’Reilly, rialzandosi incurante della ferita alla testa da cui il sangue sgorgava copioso. Controllò la stiva mentre cercava di rianimare Virgil. Barrett sembrava non essersi accorto di nulla: era nella stessa posizione e il fluido color grigio metallizzato lo ricopriva quasi interamente, lasciando libera solo la testa. Balthasar avviò le procedure di sicurezza e SIGMA estinse le fiamme a bordo con l’impianto a schiuma. L’elaboratore, inoltre, isolò le sezioni danneggiate e deviò l’energia ai sistemi ridondanti superstiti. Stavano messi molto male. - Sear… Ragazzo… Su, riprenditi… - disse Bolt, dando dei colpetti al volto di Virgil. Il ato è una trappola paziente. - Non vi lascerò scappare. La voce perfetta e senza alcun accento proveniva da uno schermo apparso nella postazione analista. Bolt vide un uomo di mezza età, con lo sguardo crudele e il sorriso diabolico. “Locus! Quel bastardo è venuto di persona!” si disse O’Reilly. Virgil si riprese, anche se un po’ intontito. Si toccò il collo e un suono gutturale venne fuori dalle sue labbra. - Ehi, ragazzo! Come va? - gli chiese il capitano, piuttosto ansioso. - Una meraviglia… - replicò l’altro, scocciato per tutte le botte che aveva preso.
- Arrendetevi e consegnatemi la capsula. È l’unico avvertimento. - disse Locus, deformando i suoi lineamenti plastificati. “Ho un piano.” disse il capitano Bolt, muovendo solo le labbra. “Come volevasi dimostrare.” pensò il ragazzo. Fece il simbolo di “ok” e lo ò sotto il suo mento. Balthasar O’Reilly aveva escogitato un modo per screditare Locus e uccidere così anche il suo potere. Sperava di porre fine alle ingiustizie e alle angherie di quello schifoso parassita, ma della riuscita dell’azzardo non era affatto sicuro. Di certo c’era che non avevano nulla da perdere. La Valetudo era ridotta un catorcio, l’altra navetta era nuova di zecca e armata di tutto punto. Li fronteggiava a breve distanza. O’Reilly aguzzò la vista e qualcosa non lo convinse. Il profilo sembrava tremolare. - Sear, appena puoi fai una scansione di quella nave. Io prendo tempo. - ordinò, levandosi il sangue dalla testa con la mano bionica. Tolse dal gilet un piccolo oggetto nero con un cavetto che collegò al sistema comunicazioni. Pigiò un tasto sulla scatolina. - Perché dovremmo darti quello che vuoi? - domandò Bolt all’oloimmagine, premendo un bottone sull’oggetto. - Perché la capsula e il suo contenuto mi appartengono. E avete anche una cosa che voglio: il container. - affermò Boris nella sua ridicola tuta color pesca. - Che me ne viene in tasca? - chiese ancora O’Reilly. - Tu sai chi sono, vero? Posso coprirti di soldi o usare le tue ceneri per concimare i miei giardini. Scegli tu. Ti do dieci secondi. - propose l’omino, col viso rifatto incorniciato da capelli splendidi. - Tu sei Boris Ilveni-Locus e so di cosa sei capace. Di quanti soldi stiamo parlando? - disse in tono colloquiale Bolt, sedendosi ai comandi.
Scrisse il piano su un file che trasmise a Sear. Il messaggio diceva “lasciagli credere di controllare le comunicazioni. Poi digitalizza quello che ti o e stai pronto a ritrasmettere.” Sear annuì nervosamente. Il capitano gli fece cenno di stare calmo. - Vedo che sei ragionevole, capitano di corvetta Balthasar O’Reilly. - interloquì Boris - Quanto vuoi? - chiese. - Cinque milioni. - rispose Bolt, senza peli sulla lingua. Locus ci pensò un secondo poi replicò - Si può fare. Il capitano Bolt fece indietreggiare la nave, stava portando con cautela la Valetudo entro il raggio delle comunicazioni brevi. Accese la spia blu. Sear capì. E si tenne pronto. SIGMA aveva completato la diagnosi sul vascello nemico e il giovane la ò immediatamente al suo capo. Modello: ignoto. Progetto: sconosciuto. Alone (presumibilmente) di plasma freddo con funzione di scudo, ottimale per le armi superveloci: impulsi e ipercinetici. Accettabile sotto la velocità di soglia: siluri e supercinetici. Perfetto. - E ritira la Flotta. Non voglio altre vite sulla coscienza. - aggiunse Bolt. - Questo non posso farlo. La guerra è l’anima del commercio e mi servono molti fondi per creare il mio impero. - rispose Boris baldanzoso. “Parla, parla stronzo.” pensò Bolt, arretrando ancora con la nave. Tolse una chiave dal taschino sul petto e con quella aprì un piccolo sportello sulla plancia, premette un pulsante e un vecchio monitor tv venne fuori.
“Ma che cazzo fa? Gli ha dato di volta il cervello? Quella nave ha una barriera per le nostre armi!” rifletté allarmato Virgil. Balthasar guardò lo schermo olografico della stiva: Barrett era una massa informe di metallo liquido. Deglutì rumorosamente. - Allora abbiamo un problema. O fermi la guerra o col cazzo che ti do la capsula. - ruggì il capitano O’Reilly, posizionando la mano sull’interruttore di fuoco. - Pessima scelta, O’Reilly. - chiosò l’altro con voce colma di corruzione. - Se questo sistema non può essere mio, lo raderò al suolo. “Ecco quello che volevo sentire.” pensò Bolt, entrando con la sua nave nel campo del segnalatore Morse. - Io potrei non essere d’accordo e abbattere quella tua navetta fuoriserie. Che ne dici? - domandò Bolt, molto truce. Sear stava per morire di paura, il suo capo doveva essere bello che andato di testa. Quella navetta non poteva essere danneggiata da armi convenzionali, cosa sperava di fare con colpetti da 50? Uno schiocco delle dita richiamò la sua attenzione: Bolt gli ò l’oggetto con tutto il cavo. Un registratore. Un antiquato registratore a cassette. Figlio di puttana! Sear lo collegò all’elaboratore e impostò un programma per trasformare le informazioni. Restava sempre il problema dello scudo. - Ci puoi provare. Come il tuo analista Virgil Stephanos Searjianovic, che non mi sembra granché per inciso, ti può confermare la mia nave è inattaccabile. - disse il nano megalomane. - Sear, hai fatto quello che ti avevo chiesto? - domandò Bolt, dimenticandosi di Locus. - Certo capo. La riproduzione è nelle mani dei Brujo che sta provvedendo a ritrasmetterla. - confermò il ragazzo, un po’ stupito.
Bolt pregò per la prima volta dopo anni, chiedendo solamente che il suo folle piano fermasse i combattimenti. La sostanza colloidale adesso aderiva perfettamente al corpo di Barrett, imitandone i contorni. Bolt non disse nessuna frase epocale o motto di spirito. Guardò a prua e freddamente schiacciò il bottone per aprire il fuoco, spostando lateralmente la Valetudo. La vecchia tv inquadrava la nave di Locus. L’immagine di Boris rideva della grossa, con grossi rischi per il lifting. Sear vide un sentiero diventare rosso nel diagramma armamenti della nave e udì un pannello staccarsi dal ventre. Qualcosa era partito dalla nave. Virgil ne seguì il tragitto con la coda dell’occhio. - Capo, è un missile quello? - domandò ingenuamente il ragazzo. - Tecnologia del ventunesimo secolo, appena supersonico. - rispose l’altro, senza distogliere lo sguardo da prua. “Evviva i cinesi e le tecnologia obsoleta.” si disse il capitano Bolt. Il Maverick penetrò lo scudo di plasma come un coltello nel burro e si andò a conficcare nella chiglia, deflagrando un secondo dopo all’interno della navetta. Quello che era stato Boris Ilveni-Locus galleggiava nello spazio interstellare in forma di molecole: molto più di quanto meritasse. - SIGMA: riproduzione file 5501. - Eseguito. - rispose l’elaboratore con voce scura. Una musica soffice uscì dall’impianto stereo malconcio, una melodia che a Bolt piaceva molto. Lo faceva sentire solo, ma riusciva a calmarlo. Era l’ultimo movimento della Nona sinfonia in Re minore, Op. 125 di Beethoven, meglio noto come “Inno alla gioia”. Virgil viaggiò insieme alle note; lenzuola di seta, morbidi cuscini, alte montagne,
pianure aride e polverose, poi si alzò e fece alzare anche Bolt. Lo abbracciò stretto, con le lacrime agli occhi. Si staccò e riprese fiato. Bolt lo guardava con mezzo sorriso. - Meglio? - gli chiese con affetto il capitano. Sear non rispose, era troppo emozionato. Tirò un grosso respiro agitando le mani per sventolarsi e diede un cazzotto sul mento a Bolt, mandandolo a sbattere contro la finestra corazzata. - Ora va meglio! - esclamò il ragazzo tendendogli la mano - T’avevo avvertito di dirmele certe cose. Perché quel coso non compare sugli schemi? - chiese a sua volta. Bolt dovette riconoscere che il ragazzo aveva un bel gancio e che aveva ragione. - Quel coso è un Maverick, un missile a guida tv modificato per l’uso in assenza di gravità, ottimizzato per il corto raggio. Tu cercavi un circuito optronico, beh quello non ne ha. - spiegò Bolt, massaggiandosi la guancia. - Sei un bastardo Balthasar! - esclamò abbracciandolo nuovamente. Il dolore alle costole si riacutizzò e O’Reilly lo rimise seduto. Il viso di Bolt era coperto di sangue secco coagulato dalla parte destra. - Come stai, pivello? - s’informò il capitano. - Sempre sulla breccia. - rispose ridendo l’altro - Hai avuto una grande idea per sputtanare Locus in quel modo. - aggiunse, verificando la condizione dei denti. - Volevo solo evitare un altro massacro… - convenne Bolt con il pensiero rivolto a tutti i suoi compagni. Chissà se il suo stratagemma aveva funzionato. - Ehi piccioncini. Io sono pronto. Era la voce di Barrett. Gli altri due guardarono lo schermo e videro una figura ricoperta d’argento, completamente liscia, priva di occhi e bocca con un accenno di naso. Misteriosi solchi segnavano il corpo, forse una lingua aliena, magari simboli religiosi. Il metallo liquefatto emetteva piccole onde che ne increspavano la superficie.
Le membra di Barrett erano interamente ricoperte di quella sostanza che pareva agitarsi di volontà propria. - Mike… - sussurrò Bolt con gli occhi lucidi. - Portatemi su Plutone. Vi mostrerò cosa contiene lo scrigno che devo aprire. Il suono non sembrava provenire dall’essere nella stiva bensì direttamente dai sistemi della nave. - Capo, come farà il signor Barrett ad arrivare su Plutone? - domandò il ragazzo, sedutosi più comodamente. - Bella domanda. - convenne Bolt - La pianterai prima o poi di chiamarmi capo, Virgil? - aggiunse dandogli uno scappellotto. - Ehi di bordo! C’è nessuno? L’ololed mostrava Bullet tutto sporco e bruciacchiato. - Ottima pensata, figliolo. L’ologramma di Jacobi era raggiante. - Ben fatto Bolt. Il capitano Shark si complimentava via costrutto laser. - Siete vivi! Brutte iene! - disse O’Reilly molto contento. - Diz e Oneleg non ce l’hanno fatta… - informò Bullet visibilmente dispiaciuto. - Spero che sia servito… - si aggiunse Ines, apparendo a metà a causa del proiettore mal funzionante. - Lo spero anche io. - replicò Bolt rivolgendosi a tutti. Il piano di Bolt aveva avuto successo. La discussione con Locus ritrasmessa alle navi in battaglia aveva sedato gli animi. Gli uomini di Boris vennero presto individuati e messi in minoranza, i più furbi saltarono sul carro dei vincitori, gli altri avrebbero pagato le conseguenze delle loro azioni. La guerra era stata
scongiurata, ma le vittime si contavano a centinaia. Trenta navi della Fleet risultavano abbattute o gravemente danneggiate. Trentasei vascelli della Flotta distrutti e quattordici immobilizzati. La Vengeance aveva riportato danni considerevoli ma volava ancora bene e non riportava deceduti, al momento. Molti feriti, qualcuno serio però nessun morto. La Waikato era quasi intatta, vuoi per l’abilità di Jacobi vuoi per qualità assoluta della nave. - Ho mandato delle corvette a riferire di persona a entrambi i consigli di guerra. Le polizie planetarie sono state avvisate. - disse orgogliosamente l’ammiraglio Jacobi, girandosi come al solito i baffi. - Sei stato mitico, Sear! Brujo faceva le boccacce sopra la testa della piccola e serena Domino. Quest’ultima allontanò ridendo un fastidioso Mallberg e si rivolse a Sear. - Quando avremo un po’ di tempo, dovremo parlare. - disse, in tono allegro. - Puoi dirlo forte, ragazza… - ribatté il giovane, facendole l’occhiolino. Gli ololed diventarono una festa di fischi, suoni ammiccanti, moine e sbaciucchiamenti. - E piantatela, bastardi! - ringhiò Virgil - Ci sentiamo dopo. Uomini, si va su Plutone. - esortò poi il ragazzo. - Si va. - annunciò Bolt, prendendo i comandi. Colui che una volta era Michael Barrett ascoltò la conversazione tra gli essere umani direttamente delle frequenze dei computer. Ogni secondo che ava scopriva un nuovo senso. Era entrato in simbiosi, grazie all’addestramento dei Camminatori e alla sua particolare struttura genetica, con quell’organismo biometallico, diventando qualcosa di più di un semplice uomo. Adesso scrutava tutto lo spettro elettromagnetico, sentiva gli elettroni cambiare orbita. Riusciva a vedere sé stesso negli ololed delle navi con un’infinita serie di rimbalzi del segnale. Modificò progressivamente gli Shai sul suo corpo, si specchiò nell’eternità del flusso temporale, ascendendo ad altre realtà. I suoi
pensieri non avevano e non hanno un equivalente umano. La più grande flotta della storia scortava solenne una corvetta mezza scassata verso l’ultimo pianeta che un pianeta non era del Sistema Solare, senza sapere bene cosa aspettarsi. Bolt guardava con maggiore attenzione i disegni cambiare forma sul corpo di Mike. Tutto era accaduto in fretta, una catena di eventi, relazioni e rivelazioni incredibile. In brevissimo tempo aveva scoperto che Barrett non era esattamente morto, che gli extraterrestri esistono e che Sear era meno scemo di quanto sospettasse. - Fermati qui. Procedo da solo. Erano a pochi milioni di chilometri da Plutone e la voce di Barrett uscì limpida dagli altoparlanti. Era fermo di fronte alla telecamera, un perfetto uomo d’acciaio. Si era connesso direttamente ai fotocircuiti della nave. Bolt arrestò la Valetudo e si protese verso l’ololed. - Che significa “procedo da solo”? - chiese O’Reilly all’amico. - Ti faccio vedere. - rispose Mike, trasmettendo i suoi pensieri ai sistemi della Valetudo. Mosse una mano e le paratie interne della stiva si chio, quelle esterne si spalancarono. La stiva era depressurizzata e lui sembrava non accorgersene. Galleggiò un istante nel vuoto, poi si lanciò fuori. La Valetudo era la nave più vicina e i suoi occupanti si godettero lo spettacolo in prima fila, ma tutti gli equipaggi restarono stupefatti a quell’esibizione. Bolt seguì Barrett che di Barrett ormai aveva poco o nulla, volteggiare senza peso sullo sfondo della volta nera e stellata. Due membrane metalliche partirono dai polsi e dalle caviglie, incontrandosi a metà strada percorse da glifi sconosciuti. “Vele solari. Ha sviluppato delle vele solari.” intuì il giovane Virgil, dimentico nuovamente delle fitte di dolore e spiaccicato al vetro. Barrett volò tra le navi dello schieramento, leggero e splendidamente a suo agio. Sembrava un aquilone rapito dal vento, controllando al millimetro ogni movimento. Fece una piccola sosta al castello di prua della Waikato a salutare Jacobi, poi planò su correnti di protoni verso la Vengeance.
Shark era già sul ponte d’ osservazione. - Morgan, che bello rivederti. - disse la voce di Mike dai diffusori della coffa. Parlava dai sistemi senza alcun contatto con la nave. Al suo fianco c’era Domino. - Sei diventata bellissima, Domino. - aggiunse. - Mike, sei sempre stato il migliore di noi. - replicò Shark, con il cuore in mano e gli occhi lucidi pronti al pianto. - No, voi siete stati i migliori. Lo sarete sempre. - ribatté lui, librandosi a cinque centimetri dal vetro corazzato. - Michael, io non so cosa dire. Non credevo che ci saremmo riusciti, con tutte quelle variabili stocastiche… - fece Domino, con le mani giunte sul petto. - Te l’avevo detto che sarebbe andato tutto bene. - la schernì Barrett, per strapparle un sorriso. La pelle argentea rifletteva la Vengeance in avaria priva dell’L.S.C., distorcendola, i volti di Shark e Domino deformati. Barrett poggiò un dito sul vetro. Shark sorrise e sollevò Domino per farla entrare in contatto con Mike. Le dita non si toccarono ma fu come se lo fero, attraverso il corpo della nave. L’incrociatore leggero brillò un instante e tutto fu compiuto. Barrett aveva assunto la parte che ancora gli mancava, la preveggenza che era stata trasferita in Domino durante l’esperimento Cygnus. Michael l’aveva liberata dalla maledizione di scorgere innumerevoli pieghe delle dimensioni. Adesso era solo Domino. E Michael non era più Michael. - Addio. - disse con dolcezza e volò verso la Valetudo. Domino si strinse a Kat che era appena arrivata e pianse di felicità. Bolt vide comparire Barrett dal basso, levitando a gambe incrociate a prua della Valetudo. - Ragazzi, è giunto il momento di salutarci. - proferì senza aprir bocca, galleggiando nello spazio siderale.
Balthasar era immensamente triste; non aveva fatto in tempo a ritrovarlo che già lo perdeva. Non lo trovava giusto. - Mike, io… - iniziò O’Reilly - Volevo dirti che sei stato e rimarrai il mio migliore amico. - singhiozzò. - Signor Barrett, è stato un vero onore conoscerla. - disse Sear, in uno slancio di sincerità e sentimento. - Bolt, non ti preoccupare; ci incontreremo ancora. Virgil, l’onore resta mio. replicò l’uomo, danzando nell’universo. - Che cosa faremo, Mike? - chiese Bolt, più per trattenerlo che per curiosità. - Vi evolverete. - disse con allegria Barrett. - Sear, chiedi a Domino cosa ha sognato appena ne avrai l’occasione. - aggiunse rivolto al giovane analista. - Non mancherò, signor Barrett. Buona fortuna. - rispose un Sear rasserenato. Balthasar strinse i pugni, una ragnatela di rughe comparve agli angoli degli occhi, le labbra scomparvero sotto la barba. Sear lo incoraggiò dandogli un colpo col gomito. - Addio Mike. - disse con voce rotta dal pianto. Pochi colpi di vele e Michael era già in rotta per Plutone. L’attesa era snervante e pareva rincorrere sé stessa, nessuno parlava, tutti respiravano piano. Cominciò con un’impercettibile sfumatura. Il pianeta Plutone cambiò lentamente colore fino a diventare una sfera d’argento. - Ma che diavolo succede? - esclamò Jacobi per radio. Nessuno rispose. Il mondo davanti a loro iniziò a pulsare ritmicamente, diventando prima
iridescente con lampi di colore che andavano dall’equatore ai poli. Poi assunse una tonalità simile al piombo. Migliaia di occhi seguivano basiti la scena, Plutone non era un corpo planetario, era qualcos’altro. Gli unici occhi non completamente stupiti erano quelli di Domino: quella scena l’aveva già vista, vissuta in un sogno presciente che era ancora vivo nella sua memoria. Strati rilucenti iniziarono a ruotare in senso opposto, schiacciando la forma sferica del pianeta. - Capo… - bisbigliò Sear, a bocca spalancata. Bolt non riuscì a rispondere o a distogliere lo sguardo; osserva rapito con la testa inclinata da un lato. Dopo una breve attività, la forma ovale che era stata Plutone si quietò e una vela simile a quella che Michael aveva prodotto nel suo corpo, eruppe nello spazio esterno. Una struttura reticolare cominciò ad irradiarsi da quella figura ellittica, ricoperta lentamente poi da un velo tecnorganico. Sear riuscì a scuotersi per un secondo e osservò incuriosito i dati dei sensori che gli scorrevano davanti. L’onda di materia acquisì velocità, ando sopra la flotta riunificata e procedendo verso l’interno del Sistema Solare. - Capo, sono macchine. - annunciò Virgil, rivolgendo un sorriso a Bolt. Quest’ultimo strinse le sopracciglia e si accarezzò il mento col dorso della mano cibernetica. - Nanomacchine. Miliardi e miliardi di computer molecolari. - spiegò Sear, visualizzando l’analisi spettroscopica. - Comandati da Mike. - aggiunse Balthasar, annuendo e sorridendo. Una lacrima gli rigò lo stesso il viso. - Li vedi Sear? - domandò Brujo dalla Vengeance. - Sì, amico. Sono magnifici. - replicò il ragazzo mettendosi in piedi a fatica e accostandosi a Bolt. - Ma che cos’è? - chiese allora l’ammiraglio Jacobi, esprimendo un quesito che
aleggiava nella mente di tutti. Il fronte eburneo viaggiava quasi alla velocità della luce, era di già all’altezza di Urano e stava inglobando tutti i pianeti e le colonie; un’inconcepibile strato riflettente del diametro dell’orbita di Plutone. - È una sfera di Dyson, come è conosciuta in questa sfaccettatura dimensionale, nascosta in un’ ipersfera che voi chiamate Plutone. - era la voce di Mike. Si era connesso a tutte le navi e stava parlando direttamente dagli altoparlanti. - Non ci credo… - sussurrò Brujo, completamente stupefatto. - Incredibile … - gli fece eco il giovane Sear. Bolt e molti altri sembrarono non capire, allora Barrett che li vedeva dalle telecamere delle navi tentò di essere più chiaro. Era fuso con l’ipersfera, reso molto simile ai Camminatori dalla scintilla di consapevolezza cosmica; comprese lo smarrimento delle entità umane. - Questa sfera raccoglierà tutta l’energia della stella Sole, su ogni gamma di frequenze. Dovrete solo farne buon uso. L’universo vi attende. La vela ipersottile continuava a formare rettangoli due volte più grandi di qualunque colonia, riempiti facilmente e subito da un pannello nanotecnologico formato da microscopici esseri sintetici che si duplicavano ogni secondo. - Pazzesco… - disse Bullet con voce appena udibile. - Concordo. - si unì un ancora scettico Stavros. - È bellissima… - aggiunse Domino, un poco incredula. Aveva temuto che il piano fallisse e vederlo realizzato la sconcertava leggermente. Le menti si aprirono, i sogni assunsero contorni chiari e distinti, il cammino aureo si apriva davanti all’umanità. - SIGMA: riproduzione traccia “Barrett’s Song”. - ordinò Bolt allo stremato ma funzionante elaboratore.
- Eseguito. - rispose la I.A. tra i crepitii elettrostatici. - La tua preferita… - disse poi Bolt, rivolto alla sfera in espansione. Sembrava fatta apposta per l’occasione nonostante fosse stata scritta più di mille anni prima, “Glory Days” di Bruce Springsteen. Mike era ancora capace di ridere e lo dimostrò facendo risuonare la sua voce indescrivibile in tutti i vascelli. Utilizzando la sfera, diffuse la canzone per tutto il Sistema Solare, tutti avrebbero sentito che i giorni di gloria erano solo al principio. - Grazie, amico mio. - riprese Barrett, con tono sempre meno umano - Grazie a tutti. Siate gli artefici del vostro destino. Abbiate cura dei mondi che governerete. Addio. - MIKE! La voce di O’Reilly era vuota e triste. - Michael, che cosa farai? La sfera continuava la sua corsa curva, incorporando tutto quello che incontrava. - Camminerò e veglierò. - rispose l’essere un tempo noto come Mike Barrett. - Buona fortuna, anche se non credo ne avrete bisogno. - disse infine. La sua voce non apparteneva a quest’universo. - MIKE! BARRETT! - urlò Bolt sconvolto. Nessuna risposta. Era di nuovo solo. Sentì la mano di Sear toccargli la spalla. Si girò e lo vide piangere di gioia col volto tumefatto. Spostò l’attenzione sugli ololed; Shark, Bullet, Domino, il paparino. No, non era solo, non lo era mai stato. Era ciò che aveva voluto credere.
Il silenzio rispettoso fu squarciato dalla voce e dallo spirito pratico di Jacobi. - Avanti, scansafatiche! Abbiamo un sistema da ricostruire! - urlò a tutte le navi. Si prospettava un periodo di assestamento, di spiegazioni agli organi di governo, di trattati stracciati e ridiscussi. - Ehi Bolt, facci sentire un pezzo adatto all’occasione! - intervenne Mallberg, in via di ripresa. - Sì pelatone! We wanna dance! - confermò metà Ines, dimenandosi sulla poltrona. Bolt sorrise e guardò Sear contrarre la fronte. Il ragazzo prese fiato e disse - Ti chiami Balthasar! Ma ti rendi conto! Dannato pivello! O’Reilly scosse la testa e digitò un codice sull’olotastiera. Le note di “Let it be” dei Beatles si diffo e si fecero strada nostalgiche negli abitacoli e nelle plance, dagli armieri agli ufficiali di rotta. - Ma la vuoi piantare con ‘ste canzoni tristi? - urlò Ines. - Ha ragione! - continuò Bullet, ridendo - Non ti si può affidare nulla! - Dai Bolt, puoi fare di meglio. - s’intromise Shark ironico. - Non hai imparato una beneamata mazza. - aggiunse Jacobi, tutto serio. “Stronzi.” pensò con un sorriso Bolt. - Hanno ragione, capo. Giusto adesso ti viene da ascoltare ‘sta lagna… - fece Sear, analizzando i danni alla nave. - Ok, figli di buonissima donna! Beccatevi questa! - replicò il capitano O’Reilly allegro, selezionando un altro pezzo. Note d’archi e tappeto di fiati. Le parole della musica risuonarono nel petto di
tutti coloro che le ascoltavano. Un intro particolare, come delfini intenti a cantare, attirò l’attenzione e il silenzio di ogni uomo e donna dei dintorni. Una strofa diceva “possiamo essere eroi, anche solo per un giorno.” Poi il ritmo divenne incalzante e tolse un po’ di pathos all’atmosfera. - Questa mi piace! - comunicò Bullet, facendo dei cerchi con i pugni chiusi. Shark danzava con la sua Kat che aveva un braccio immobilizzato. Domino, il dottor Yueh e Brujo, tutti sozzi, si agitavano ridendo. L’ammiraglio Jacobi dondolava seraficamente e disse - Ogni tanto una la imbrocchi, ragazzo. - Invertire la rotta. - disse Bolt, ruotando la Windina - Si torna casa. La commozione gli incrinava la voce. Sulle rime di una canzone di David Bowie (“Suonata dai Quintorigo.” ci tenne a precisare Bolt) Sear sentiva le palpebre pesanti, gli ci volevano otto ore di sonno filate. Prima di scivolare tra le braccia di Morfeo, si ricordò che doveva chiedere una cosa a Domino. - Domino, ti vorrei chiedere una cosa. - esordì con le vocali impastate. - Dimmi pure. - fece lei, gaia e ilare, ma gli occhi la tradivano; era in pensiero per il giovane analista. Sear le fece segno che erano solo graffietti, di stare tranquilla. Il dolore cercava di piegarlo, resistette. - Che cosa hai sognato? - domandò con prudenza. La ragazza guardò l’angolo in basso a destra, come per ricordare. Poi osservò Sear negli occhi e rispose. - Cieli d’avorio. Immensi cieli d’avorio. L’ultima lacrima di contentezza le scivolò su una guancia. Virgil rise e sprofondò in un sonno senza incubi, il riposo sereno di chi è stato,
anche se solo per un minuto contro tutto e tutti, un eroe. Un filo di saliva gli uscì dalla bocca, la bauscina dell’assopimento meritato. L’ultimo pensiero coerente fu rivolto al suo sé del futuro, un ringraziamento profondo a una persona scomparsa tra le rapide dello scorrere del tempo, immolatasi per un ideale superiore. La sfera di Dyson era milioni di chilometri sopra Giove e puntava verso i pianeti interni. Presto il Sistema Solare sarebbe diventato un’immensa dinamo. Il futuro era alle porte.
Ghost Track
(Artisti vari, innumerevoli ere)
Sear si svegliò nell’ambulatorio del dottor McOwen e il primo volto che vide fu quello di Domino. Gli accarezzava la fronte. - Ciao… - disse più nel torpore che nella veglia. - Ciao. - rispose lei a voce bassa. Gli occhi verdi erano liberi da preoccupazioni, i capelli fulvi le cadevano sulle spalle, rendendo ancora più splendidi i suoi tratti delicati ed elfici. - Che mi sono perso? - chiese cercando di mettersi seduto sul letto. Una fitta di dolore lo fece trasalire. La ragazza si alzò e lo aiutò a sistemarsi. Lo osservò fasciato e contuso, i capelli lunghi e arruffati, l’espressione stanca. Eppure uno soffio vitale indomabile si agitava dentro di lui. - Niente di che. Il Sistema Solare è diventato un’immensa batteria, interamente coperto dalla sfera nanotecnologica. - rispose, mettendogli un cuscino dietro la nuca. Virgil strinse gli occhi e chiese ancora - Quanto sono stato svenuto? - Più o meno quattordici ore. - replicò lei, sedendosi accanto al letto. Il ragazzo prese coscienza della stanza bianca e pulita. Guardò dalla finestra e vide le strade rosse della OSIRIS. Poteva scorgere l’uscita posteriore del Blue Bell Inn. Molte figure si muovevano frettolose, alzando nuvolette di polvere
cremisi. - Come ti senti? - gli domandò premurosa. - Come se m’avesse investito una fregata… - ribatté lui tossendo nel tentativo di ridere. - Vacci piano. Bolt ti ha incrinato cinque costole e hai una commozione cerebrale. - fece la ragazza, versandogli un bicchiere d’acqua. Glielo porse e Sear bevve piano ma avidamente. L’ultima volta che aveva bevuto e mangiato era in compagnia di Domino sulla Vengeance. Il ragazzo aveva molti punti oscuri che desideravano un chiarimento, ma prima volle sincerarsi della sorte del suo capo. - Dove sono gli altri? Bolt, il capitano Shark, Bullet… Domino indicò fuori, verso il Blue Bell. - Si stanno organizzando. Quello che è successo ha avuto risonanza interplanetaria. I governi si chiedono cosa è accaduto, sono spaventati e chiedono spiegazioni al più presto. L’ammiraglio Jacobi sta mettendo in piedi un tavolo di trattative per far luce sugli ultimi eventi. Sicuramente, gli ufficiali dovranno comparire a testimoniare davanti a chissà quante commissioni d’inchiesta. Però le cose non vanno male: le flotte adesso sono unite e pronte a ricostruire il Sistema. Dolci notizie nelle orecchie di Sear: sospirò soddisfatto e si rilassò sui cuscini. - Insomma, ripartiremo da zero. - intervenne, fissando il vuoto. - Probabile. Dipende da noi. - replicò lei con filosofia. La mente di Virgil era un torrente di domande e congetture, ne isolò una e la propose a Domino. - Che rapporto hai con Barrett? Domino inspirò profondamente e cominciò a raccontare la storia che aveva
narrato a Shark. - Io sono l’unica sopravvissuta dell’esperimento Cygnus, un tentativo di viaggio oltre la velocità della luce. Durante quest’esperienza fu aperto un aggio dimensionale verso un’altra realtà. Come Michael ti avrà già detto, non siamo da soli: i Camminatori furono lieti di vedere che eravamo arrivati al viaggio interdimensionale. La sfera di Dyson che hanno lasciato nascosta sotto forma di iperpianeta era un dono da aprire solo una volta raggiunto quel traguardo. È un’anomalia topologica n-dimensionale. Non è mai stato completamente in questa realtà. Fece una pausa e prese un sorso d’acqua. Sear ascoltava attentissimo. - Barrett era dotato del codice genetico adatto per fondersi con la sostanza nota come “Chiave”, al sicuro sotto i ghiacci di Europa per miliardi di anni. Michael doveva aprire lo scrigno vent’anni fa, quando ebbe l’incidente insieme Bolt. Solo che accadde qualcosa d’imprevisto. - Già. - intervenne Virgil, scrocchiandosi la mascella - Locus e la AXIS li scoprirono. Domino fece segno di “sì” con la testa e proseguì. - Le funzioni corticali superiori del cervello di Barrett vennero offuscate e inibite: i Camminatori avevano perso il loro araldo. Ma non si arresero e trovarono me: un corredo cromosomico sufficiente per depositarvi una facoltà troppo importante per andare perduta: la prescienza. Divenni così il contatto degli alieni in questa realtà, un piccolo riflesso del multiverso che i Camminatori chiamano “Il Mondo Dei Mondi”. Riuscirono a trovare un’altra via per addestrare il loro agente; tramite i sogni, nella parte onirica costante in cui Barrett era costretto all’interno della capsula criogenica. La mia preveggenza non è mai stata esatta: era legata a Barrett e a un’altra persona. Si fermò un secondo guardando in basso. Virgil aspettò che proseguisse e notò che parlava della sua dote al ato. - Tu, Virgil. -
Il giovane rimase sorpreso e congiunse dei tasselli solitari che prima non riusciva a collocare. - Ogni realtà, mi dissero gli extraterrestri, possiede un’anomalia discriminante che si manifesta in una singola persona. Sei tu quest’anomalia. Da una tua scelta è dipesa l’apertura del dono. Se non ti fossi messo dalla parte di Michael spingendo il tuo capitano a riflettere, adesso forse non staremmo qui a chiacchierare. Sear deglutì e poi parlò. - Ho ricevuto un avvertimento e una spinta da un altro me proveniente dal futuro. Non riportò l’intera informazione, omise di proposito il fatto che lei era morta in quella particolare dimensione. Lo disse come fosse la cosa più normale del mondo, ben sapendo che era ai confini dell’immaginabile. Domino non rimase troppo sorpresa; strinse leggermente le labbra. - Ho visto in sogno un uomo che ti somigliava, con una cicatrice sul volto. riprese lei, stringendogli la mano - Mi salutava baciandomi e scompariva in una bolla temporale. - concluse. Rimasero qualche attimo in silenzio. Poi Virgil sorrise e disse - Ho fame. Come fosse un segnale segreto la porta si spalancò e Bolt, accompagnato da Argento, Shark e Jacobi portarono il pranzo a Sear. - Eccolo, il moccioso coraggioso! - esordì l’ammiraglio, mettendosi davanti alla finestra e porgendogli la mano. - Virgil Stephanos Searjianovic, molto piacere. Puoi chiamarmi Sear, paparino. si presentò il giovane accettando la mano. Jacobi gliela strinse e guardò in malo modo Bolt.
- Mi chiama capo. Fai un po’ tu. - replicò quello, rispondendo ad una domanda sottintesa. - Dato il tuo nome… - si permise ancora Sear. Il braccio metallico di Bolt scintillò e una grossa risata provenne dalla sua gola, contagiando tutti i presenti. - Mangi qualcosa, Virgil. Se l’è proprio meritato. - intervenne Shark, poggiando un vassoio con ogni ben di dio. I sentimenti di Morgan fluivano nella sua voce, calda e cavernosa. Sear stava per affondare la forchetta in una frittata, quando bloccò il gesto a metà. Guardò gli astanti e chiese a nessuno in particolare. - La AXIS? Gli altri si scambiarono occhiate compiaciute. - Grazie al piano di Bolt, la società è in ginocchio. Alcune sedi sono state addirittura messe a ferro e fuoco dai dipendenti stessi. Il consiglio dirigenziale è sotto processo per crimini contro l’umanità. Gli uomini di Locus sono stati scoperti e sono ricercati in tutto il Sistema. - riassunse Argento, parlando per tutti. Aveva il suo sorriso ambiguo di ordinanza. - Ci sarà bisogno di studiare la tecnologia della sfera. Solo con le conoscenze derivate e la reverse engineering saremo di fronte ad un cambiamento di paradigma. Mallberg si è già offerto volontario. Conto anche te ragazzo? - gli domandò Jacobi, agitando i baffi e spalancando gli occhi. - Volentieri. Dopo una bella vacanza, molto volentieri. - rispose il degente, azzannando la frittata. Un’altra risata collettiva e il mondo divenne ancor più luminoso. - Bene, è ora di andare. - L’ammiraglio interruppe l’idillio. - Ci aspettano al comando unificato per discutere di tutta questa storia. annunciò dirigendosi alla porta.
- Argento, resta qui e informa chiunque si presenti. O’Reilly, Stavros con me. Domino, tu occupati del ragazzo e poi raggiungici: la tua deposizione è fondamentale. - ordinò con falso cipiglio. - A presto ragazzo. - aggiunse scomparendo nel corridoio. Argento e Shark salutarono affettuosamente Virgil e seguirono l’ammiraglio. Bolt rimase per ultimo. Si avvicinò al ragazzo e gli sussurrò qualcosa l’orecchio. Poi risero, si abbracciarono e, dopo aver salutato anche Domino, se ne andò pure lui. - Che ti ha detto? - chiese lei divertita. - Prima un’ultima domanda. - fece lui - Hai ancora la capacità di vedere il futuro? Domino sorrise e Sear seppe che non l’avrebbe mai più lasciata. - Io vedevo infiniti futuri, ma questa dote non è mai stata veramente mia. La tenevo per Barrett e gliel’ho restituita. - rispose, sistemandosi una ciocca ribelle dietro l’orecchio un movimento che il ragazzo già adorava. Sear annuì e sorrise. - Di’ al tuo patrigno che mi deve mille eurosol. - disse e poi si mise a sghignazzare, incurante del dolore. Una scommessa è una scommessa.
La periferia di Rio de Janeiro era sudicia, puzzolente e ad alto rischio di malattie infettive. L’aria era povera di ossigeno e stagnante, riprovevole persino. Nella parte alta di un’anonima favela, un’insegna appesa ad una fatiscente palazzina recitava “Samba Libre” ed era uno squallido albergo di ultima categoria. E definirlo albergo è un autentico eufemismo. Jean-François Lefinne aveva affittato per pochi soldi una stanza con bagno al quinto piano, con vista sulla discarica.
Grossi ratti mutati cercavano carne fresca ogni notte, tentando di rosicchiare le assi di finto legno della porta e dei pavimenti. Ad ogni ora del giorno e della sera, si sentivano spari, urla, pianti disperati. Dabbasso una donna vendeva il suo corpo per un tozzo di pane. Usciva poco perché i trafficanti d’organi non hanno un orario d’ufficio. “Come mi sono ridotto…” pensava spesso seduto sul materasso di lattice tutto sformato. Ormai era solo l’ombra di sé stesso; rimuginava su tutto quello che aveva perso, il suo potere, i suoi soldi, le sue proprietà. Era ancora vivo, però. Quel bastardo di Locus era schiattato prima di lui: una piccola grande soddisfazione. Le squadre di ricerca setacciavano colonia per colonia tutto il Sistema, scovando tutti coloro che erano stati in qualsiasi modo collegati al dirigente supremo della AXIS. Li stavano stanando uno alla volta e prima o poi sarebbero arrivati anche a lui. L’afa era soffocante, il sudore non riusciva ad evaporare formando una patina appiccicosa sulla pelle. L’avvocato si alzò nella penombra sulfurea e si diresse al bugigattolo che era il bagno. Stava riflettendo su come potesse mettere in atto la sua resurrezione perché di certo sarebbe tornato a nuova vita, una volta riscossi un paio di favori molto grossi. Considerò quella situazione poco più di un imprevisto momentaneo. In mutande e canottiera, si aggirava come in gabbia macchinando assurdi piani di vendetta e rivalsa. Era sicuro che ce l’avrebbe fatta, con molta pazienza e sfrontatezza avrebbe riconquistato il suo ruolo nella società. Lefinne era impazzito. Il netphone trillò.
Non doveva succedere. Non poteva succedere. Nessuno sapeva dov’era. Quella chiamata non era prevista. La polizia brasiliana e gli Incursori della Flotta avevano circondato l’area e cercavano di prendere Lefinne vivo. Era stato il più stretto collaboratore di Locus e possedeva informazioni preziose. L’uomo magro e sudato lasciò squillare il telefono, vedendo chiaramente l’ultima alternativa che gli era rimasta. Se avesse risposto, avrebbe visto un qualche giovane ufficiale che gli avrebbe intimato di arrendersi e di uscire pacificamente. Poi lo avrebbero portato alla Yudecca (che un tempo era sotto la sua giurisdizione) e lo avrebbero sottoposto a metodi di estrazione sinaptica. Scorse vivida l’immagine della sua dipartita accidentale, durante l’immissione di una sonda mnemonica. Rise sommessamente e si staccò la copertura del secondo molare inferiore. Schiacciò l’innesco e l’esplosivo ad alta densità detonò fragorosamente. Il quinto piano fu polverizzato e poi il “Samba Libre” collassò a terra, facendo almeno cinquanta vittime. Lefinne era morto, portandosi appresso decine di persone non proprio innocenti però ignare. Anima nera fino all’ultimo.
Il Sistema Solare subì un’evoluzione. Gli schieramenti cessarono di esistere, i pianeti si coalizzarono e si unirono sotto la volta grigio opaco della sfera di Dyson. Il problema energetico venne superato, la sfera incamerava tutta la radiazione solare e poteva essere usata in maniera agevole. I componenti nanotecnologici emersi da Plutone vennero studiati a fondo, permettendo un balzo tecnologico incalcolabile.
Malattie incurabili vennero debellate, i prezzi delle materie prime scesero, l’informazione tornò di nuovo libera. Il genere umano stava ricostruendo interi pianeti e terraformando i satelliti maggiori. Nel giro di poco tempo, gli uomini sarebbero stati in grado di viaggiare tra le galassie, in pace e prosperità. Il capitano Morgan “Shark” Stavros si sposò con Ekatarina e divenne responsabile del Settore K della sfera. Argento tornò alla OSIRIS-23 e guidò la terraformazione di Marte. Conobbe una ragazza di nome Sandy e insieme diedero vita al primo governo marziano. Il Blue Bell Inn è meta di turisti e curiosi tutt’oggi. Virgil e Domino parteciparono attivamente a risolvere i misteri legati alla sfera, diventando i fari e le guide delle nuove generazioni. Si sposarono ed ebbero tre figli: Balthasar, Morgan e Stephanie. Brujo fu nominato Alto Custode a capo di un élite di tecnici che vigilava costantemente sulla sfera. Non si sposò mai, ma fu un gran dongiovanni. Shuriken si dedicò alla sua ione segreta, l’ikebana, facendo successo con i suoi capolavori floreali. E Bolt? Una santa donna di nome Tess, vai a sapere perché, s’innamorò di lui e del suo pessimo carattere. Era una a cui piacevano le sfide veramente ardue. Dopo aver aiutato il Sistema Solare a rimettersi in piedi, Balthasar O’Reilly decise che era ora di farsi da parte e lasciare che le nuove generazioni prendessero il loro posto nell’universo. Insieme alla sua compagna si trasferirono su Titano ormai terraformato e dotato di un’atmosfera propria, in un signorile chalet a tre piani gentile omaggio del Primo Governo Umano. ò tutti gli anni che gli rimasero a godersi pacificamente la vita, a veder crescer le piante, i suoi figli, i suoi nipoti e le grandi speranze dell’uomo. La sua Windina, la Valetudo, venne messa in mostra permanente nel Museo dello
Spazio su Europa: non era stata riparata né abbellita, era sforacchiata e malmessa esattamente come il giorno in cui Plutone rivelò la sua vera natura. La targa di platino sotto la nave recitava: “L’unico capitano che tutti noi avremmo seguito. Sempre sull’attenti, Sear.”
Indice
Dancing in the moonlight
Bulls on Parade
Nun te raggae più!
Das Spiegel
Fortress Europe
Twenty years ago
Heroes
Ghost Track