Alla Ricerca Di Un Sogno 1i1u65

Luigi Recami Alla ricerca di un sogno

Copyright© 2015 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it [email protected]

Prima edizione digitale: settembre 2015

ISBN 978-88-6537-414-6 (Print) ISBN 978-88-6537-854-0 (ePub) ISBN 978-88-6537-855-7 (mobi)

In copertina: Tramonto sulla Val d’Orcia Eduardo Festa e Corrado Zito

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Il libro

La poesia di Luigi Recami è scontro, scontro fra gli allettamenti di una realtà calda e intrigante e le urgenze interiori che non si accontentano e chiedono risposta alle domande supreme. Al poeta che si slancia con tutto il suo afflato in “Ninetta, scendi dal tuo tempio segreto… e invadimi con il fiotto inebriante della tua sconfinata femminilità”, inno al tentacolare e seducente richiamo dei sensi, si contrappone il mistico di “E tu beli come il capro di un lontano, pallido gregge di emozioni indecenti”, lamento struggente di un’anima che in questo “teatro dell’illusione” non trova soddisfazione. Soluzioni a questo eterno e meraviglioso conflitto qui non si trovano. Al lettore la scelta di cullarsi nel primato dei sentimenti e nel fascino dell’eros, o immergersi in una lancinante ma incomparabile ascesi di evoluzione interiore.

L’autore

Luigi Recami è nato in provincia di Treviso ma è quasi sempre vissuto a Firenze, dove ha frequentato il Liceo Artistico e pittura all’Accademia di Belle Arti. Nel 1971, terminati gli studi, si accorge che vivere di sola arte non è facile e cerca allora in altre direzioni finché viene assunto nella sanità pubblica. Vi lavora per 35 anni fino alla pensione nel 2010 e da quel momento si risveglia in lui la vena artistica, ma non nella pittura bensì nella poesia e nella musica. Oltre che con i versi egli infatti si esprime creando parole e melodie di una ballata campestre e di una scena d’opera, elaborate poi da un amico musicista. Per rendere più godibili a parenti e amici le sue poesie egli le legge (“recita”, dice, è una parola grossa!) e le accompagna con colonne sonore di autori vari. Il tutto viene registrato e raccolto in due CD, ai quali si aggiunge un libretto che riporta tutti i testi e commenta i brani più ermetici. Nel maggio 2014 si cimenta nella prosa con un racconto dal titolo “Era il grullo del paese…”, spaccato-affresco di una piccola comunità borghese-rurale, che con toni semiseri e note pittoresche, a volte spinte fino al crudo realismo, descrive le vicissitudini di una tipica figura di

quel piccolo mondo. Non tutto però è umoristico, c’è spazio anche per la riflessione e per un finale davvero sorprendente.

Alla ricerca di un sogno

a mia madre che non dimentico che è sempre con me

Introduzione

Questa raccolta di poesie è una metafora del dualismo in cui viviamo: nascita e morte, piacere e dolore, caldo e freddo, luce e ombra… Perciò ho unito versi che descrivono il gusto e l’apprezzamento per le belle cose della vita ad altri che mirano ad evaderne, riflettendo su concetti e valori interiori. Il mio è un modesto tentativo poetico, e non morale, di spostare il baricentro dell’esistenza dall’ipnosi di un feticcio illusorio all’estasi di un richiamo segreto. Senza presunzione. Con sincerità. E qualche innocente ripensamento.

L’autore

“C’è qui dolce musica che cade lieve più di petali di rosa giù sull’erba, o rugiada la notte su acque chete…”.

Alfred Tennyson, I Lotofagi – Canto corale

Ad Anna

(1976-77)

Un fiore rosso ti ha sempre illuminato con onde mosse di giovanil gaiezza vuol forse dire che non c’è bellezza se non splende un bel crine pettinato

Di un pallore di luna è colorata la pelle tua eterea, cristallina, si tinge di due perle acquamarina un volto di madonna delicata

Non bastano i tratti del viso belli e fini la snella fattezza del tuo corpo è tale che di Dante vorrei rifar l’eguale e dispiegar per te versi divini

Le mani son di gracile struttura

e il camminare tuo pare risenta dello sguardo ammirato di chi tenta di carpir col pensier la tua natura

Le vesti che cingono il corpo tuo discreto le usa delle donne una gran parte ma pel tuo gusto, per la tua innata arte, ti adornan come i fiori di un roseto

Ma quel che più colpisce il tuo cantore se ancor rimane vena alle sue rime non son soltanto le forme sopraffine che natura ti die’ per rallegrarne il cuore

È anche il vivo tuo sorriso, divertito, come una cascatella fresca di montagna sorge improvvisa e scompar, la fronda bagna, ma il sol l’ha vista, le manda un bacio ardito

Un sole senza tramonto

(gennaio 2007)

Sei bianco e blu e guardi nella luce

Hai lineamenti scavati ma il tuo sguardo è sublime

Vedi tutto, vedi oltre Sei un sole senza tramonto

Sei sottile come la brezza Sei vibrante come le parole di un giudice

Sei una madre ma dai modi reconditi

Parlaci,

siamo tuoi figli

e non studenti in una scuola perigliosa e ardua

Non bastan le parole

(18 febbraio 2010)

Per carità è tutto a posto, dimmi

Troviamoci doman che bello, amore

Lunga è questa stagion di sensi, o cara

Ricordi, l’interno dei ginocchi ti sfioravo

ed eran gli occhi tuoi come di fuoco

Il pane del mio ardor ora è più fresco

e sento solo adesso, che piacere

la ridda dei tuoi pregi e dei tuoi baci

La forza di vivere

(ottobre-novembre 2004)

a Paolo, Lori, Filippo dopo il 12 febbraio 2004

Non sei lontano, non mi sono nascoste le tue vie, mi parla in silenzio la tua vita

Ascolta: calma la tua mente affannata, non si addolori nel picco dei travagli il tuo cuore stanco

Prendi con cura il tuo giorno e loda il più piccolo dei germogli del cosmo, affinché sorga

nell’orda ansante dei tuoi pensieri la vivida sorgente della serenità

Sopporta con ricorrente coraggio il dualismo immanente della vita e chiedi con l’anelito della tua anima protezione e veglia su di te

Prova, insisti, impara Non accusi lo sforzo il tuo orgoglio,

espanda la sua energia il tuo regno interiore Ti attende un impero, o figlio! L’immensità silente e il respiro perenne dell’incommensurabile tuo padre aspettano che tu riprenda possesso della tua eredità perduta

Piove sul mondo, lucida è la pelle della rana allorché esce dallo stagno, profumato è il silenzio della intensa notte estiva, profondo e bianco di rugiada quello della calma notte invernale Ma io sono lì e vedo la tua opera e il tuo dolore

Si veste di trama fitta l’uomo, si apparecchiano di fragranza e bellezza i bocci di rosa e gli acini dell’uva, si precipitano nel rombo della nube acquea i vortici immensi della cascata e fluttuano come bimbi nel corpo materno gli astronauti nello spazio Ma io ti seguo e gemo nelle tue difficoltà ai colpi della vita

Mira l’occhio la testa del nemico ed esplode la violenza sul suo cranio Non così, figlio, non così! La beata dolcezza di porti al mio fianco non avrà questa strada di istinto e di morte Io sono in terra pallido e sporco e ti prendo la mano bagnata di sangue per dirti: andiamo, è tempo, e non ti voltare

a il tuo mondo, si gira la luna e vedi che arrivano i nuovi Altro gioire, altri palpiti, altri sogni e ferite E tutto torna nelle mie braccia, al mio cuore, dalle foreste al mio capo, dalle paludi al mio orecchio,

dalle profondità del mare e del cielo al mio occhio e alla mia bocca Ma io sono da te, non scendo dalla tua anima Tu sei il mio corpo fatto dolore, tu sei la mia mente fatta crogiolo Io so tutto di te, meno che il tuo desiderio di avermi

O figlio pensa, vivi, dormi con me Torna e dimora nella torre di tuo padre, di tua madre, dell’unico tuo amico E sia per te come all’inizio un morbido letto di petali d’amore e una promessa fulgida ed eterna: mai più fuori!

Dormi amore mio, dormi nella mia quiete eterna, nella mia pace eterna,

dormi nel mio eterno amore

Insondabile creatura

(25 dicembre 2011)

Una fanciulla mi è calata negli occhi e si è insediata nella mia mente

Una fanciulla ha ignorato le mie difese razionali, è penetrata nel mio cuore e si è congiunta a tutti i miei sensi

Una fanciulla ha atteso con calma solare, mi ha trafitto l’anima di delicate vibrazioni e ha irrorato il mio corpo di preziose e silenti energie

Chi sarà mai questa sconosciuta creatura che conosce l’arte antica e perenne di far germinare e fiorire nel cuore dell’uomo

le più profonde sensazioni di palpitante vitalità e le più accorte e sottili magie di un’occulta e inebriante alchimia?

Tutto racchiuso in un corpo di ineluttabile attrazione

Tutto avvolto da uno sguardo di ammaliante dolcezza

Tutto ispirato da un sorriso di incantevole seduzione

Questa, Carolina, questa sei tu!

“E su quest’erba deliziosa il cui tenero verde Impiuma la riva del fiume, ci posiamo; Oh, adàgiati lievemente perché nessuno sa Da quali labbra, un tempo belle, spunta in segreto!”

Omar Khayyàm, Le Rubaiyyàt

L’arpa

(15 ottobre 2010-8 agosto 2011)

Melodia cosmica profusa da un tocco ancestrale di divina dolcezza

Mormorio sorridente di fili carezzati da un’onda di ineffabile purezza spirituale

Canto intimo e stupendo che inghiotte il cerchio opaco dei nostri respiri tortuosi

e muta il nostro destino disagiato in lucido e vitale incanto di speranza

Tremulo ritmo dai mille argentei colori e dalle mille sfumature abissali e melanconiche

Devota amica, sponda fedele, nobile palpito

della più seducente e vibrante magia

Tu, arpa, limpido e sereno strumento di rigenerante elevazione interiore

accogli e invia per noi oltre i confini della creazione

le note sottili della tua delicata armonia la lode imperitura della nostra gratitudine

Da ultimo

(13 gennaio 2012)

Ciao Carolina,

fiore bellissimo dai colori intensi e delicati,

dai petali caldi e accoglienti, dal profumo tenero e selvaggio

Io non scorderò più questo idillio Grazie di essere la donna più attraente e femminile che abbia mai conosciuto

Grazie del tuo sguardo profondo, dolce e malinconico

e del sorriso complice e radioso

che rivolgi a noi

quasi fosse un colpo di bacchetta magica di una fata serena e indulgente

Mi ha affascinato il tuo volto aperto, pulito ma pieno di sottilissime, ammiccanti seduzioni

Mi appoggio alle tue rosse labbra in un lungo, interminabile bacio

Sei bella

La corsa dell’atomo adombra il girotondo delle pure costellazioni

(gennaio 2010)

Sei nei piedi dell’orfano dello tsunami, rabbrividisci nel pio chierichetto che inneggia all’Ave Maria nella santità della Messa

Sudi la gelida promessa che accompagna i tuoi deliri, dalle pieghe atomiche ai vortici delle nebulose, che non ti amano

Ma dov’è il diamante, il condottiero, il cupo rombo di valanga che dardeggia nel cosmico Io dell’albero della vita?

Fuggi col rapido zefiro di primavera

l’antica regola dentro il sangue e le ossa di un’impalcatura obsoleta

Premi sull’algido circuito del Web, induci le venature di un legno troppo screpolato a svelare gli aggregati chimici e i sordi proventi di un superiore disegno

Stacca ad una ad una,

o Dio del bene e dell’indifferenza, le mattonelle di un destino grasso e beffardo,

di un tripudio perenne dove il panico del rispetto umano vede l’ebbrezza agghindata puntare alla roulette dell’ “io sono”

E tu beli come il capro di un lontano,

pallido gregge di emozioni indecenti Parlami, o Dio, della tua cassetta dell’operaio, del tuo guanto del ricercatore,

della tua poppa di madre, che svolgono quieti e frementi il o dopo o del tuo amore senza febbre, senza colore, senza scivolate

Solo il tuo amore, non il tuo gemito di padre, puro, puro amore, senza me né te, dorato in un globo di flutti

Ondata dell’increato, bianca luce del cuore infinito, non più su, non più giù

Tu, l’Amore, quello

Maddalena e Cossato

(7 agosto 2014)

Leggera e profumata come il candore dei tuoi ricordi

Vispa e birichina come la bocca di un bimbo sul frutto proibito

Pensosa e materna come la Maria che si china col suo ago

La casa antica, le vie di un tempo, i giochi infantili

La mamma e te tremanti di felicità nelle nuove stanze

Una schiena curva sul canale

sventrato a colpi di piccone

L’affresco in villa, le siepi di bosso, le lotte e gli inganni nascosti nella storia

Ecco, Maddalena, tu sei questo Cossato è tua

Nelle pieghe del tuo animo si allungano le sue antiche radici

Nelle vene ribollenti del tuo sangue apionato

scorrono a dismisura i ricordi, e il mare profondo

della tua vita protegge e perpetua la tua gente

“E a volte come una spigolatrice che traversi un ruscello tieni alta la testa colla sua fascina; o accanto al torchio del sidro tu guardi con pazienza se an l’ore il traar di gocce”.

John Keats, All’autunno

Correndo correndo

(2 agosto 2011)

Stacca la mela dall’albero e correndo correndo mordila e succhia tutto il suo sapore

Cogli il ramo di rose e correndo correndo spargi sugli altri tutto il suo profumo

Alza lo sguardo sul tramonto e correndo correndo stupisci il tuo cuore con tutti i suoi colori

Taglia il pane sul desco e correndo correndo porta la buona novella del cibo a tutti gli affamati

Salta veloce sul ruscello e correndo correndo grida la tua gioia sui crinali dei monti e i pendii delle valli

Carezza il muso dell’asinello e correndo correndo risuonino i suoi i sui tuoi sentieri solitari

Bacia i capelli di tua madre e correndo correndo ricorda i suoi occhi pieni di attenzioni per te

Sbircia nel cielo stellato i segreti della notte e correndo correndo vivi fino all’alba il fremito dei suoi presagi

Taglia le spighe dorate del tuo campo di grano e correndo correndo brillino i tuoi occhi della loro solarità

Porta la mente sopra la tua fronte e correndo correndo salgano i pensieri i gradini del tuo tempio interiore

Accolga il vaso infinito del tuo cuore tutti i piaceri tutti i dolori

tutti i colori profumi e sapori

e correndo correndo varcherà ogni soglia correndo correndo si vestirà di luce correndo correndo si arresterà in Me

Ninetta

(15-20 maggio 2015)

Tiepido il vento salino carezza la sabbia e danzan lievi le onde frangendosi sulla battigia

Pigro un gabbiano s’invola sulle spiagge assolate perdendosi in lontananza

L’ora calda del meriggio attarda la mia mente e il mio spirito ma non i miei sensi

L’ho vista, l’ho vista! Non potevo credere che esistesse!

Il suo volto carico di pensieri antichi, di delicatezza femminea, di tacita e laboriosa determinazione,

si è svelato nella futile e sonnolenta comunità di clienti di un bar

Mi ha visto! D’un balzo i suoi occhi e il suo cuore hanno afferrato il mio sguardo incredulo

coprendolo di fremiti e di ione Non mi sbaglio, riconosco il dna dell’amore!

Ma se ne andrà…Quando la rivedrò? Quando ancora investirà come una folgore il mio animo e misteriosa lo incendierà di emozioni?

Dio degli amanti, non farla fuggire dalla mia vita, corri e riportami il suo volto pensoso,

fermala e rubale il pudore del suo sguardo, l’atavica semplicità dei suoi modi,

lo struggente sogno poetico che illumina i suoi occhi e danza segreto nell’incanto del suo cuore

No, come potrà la mia vita esser quella di prima?

Notte che cede all’alba

(16 febbraio 2010)

Proteggi la tua mente dai tentativi di scasso del fronte degli eventi

Il brano della tua giornata titola: chiuso per destino avverso? Baciami e io caverò il pistacchio scelto di un mai banale gourmet

per rottamare il tuo cuore assetato di clamore ma anche ansioso di trepida povertà claustrale

Tacita il delirante sviluppo

di semi avvinghiati al tuo pentagono genetico

È ora, è ora! L’ondata surfistica del tuo ego tirocinante, fatta di calci sui fondelli, ricchi di gloria masochista,

pugnace serva del secondo padrone, ceda l’arca del potere al fulmine globulare, al porcellaneo perseverante bambino di frate silenzio,

di suor acrobata, dei rosari e del cilicio, polvere fra le polveri

Un pessimo palinsesto per gli hacker assorbiti nei loro clic deflagranti

Tu, madre di un livido esacerbato coro di frammenti, tintinnanti sonagli sparati dalle segrete cose inebriate dall’eburneo respiro supremo

È ora! Non più il tronfio cavolo striato di virulente calunnie, non più la pèsca innevata dal gorgòglio saputello e stolido, coccolata da un’acqua perfida e mielosa

Baciami ancora, protendi il bagliore nervoso del collo, fremi nella provvida caviglia,

palesa nello scavo teso dei lombi e nel lussureggiante arco della fronte prassitelica leggiadria,

spumante effuso da una vigna di antica dolcezza,

ricordo d’un giocoso conflitto fra dei nella sempiterna aurea dimora di un Dio bambino

Pace rivesta le tue ossa di figliuol prodigo, amore come brocca di mistica ambrosia riversi nel tuo sangue pagliuzze d’oro e di mirra

delicatamente profumate dell’incenso spirante dalla bocca soffusa degli osanna di melodiosi arcangeli

Pace a me, madre di misericordiose cure, che provvedi amorevole al bisticcio dolente dei tuoi cuccioli umani

Quiete e santificazione

per il transfuga di un mondo arato dal male di un oscuro e madornale equivoco

Amami del tuo amore pacifico, dammi il bacio della buona notte e cali in me il torpore prezioso di un sonno celeste

Ecco il mattino, ed ecco la tua alba di ineffabile giubilo e festa e pazienza e mirabile ardore,

umiltà e ritmico boato di inaudita vittoria dell’eterno sul fallace

Sento la tua irrefrenabile verità su di me, Signore, e me ne approprio Nulla mi ferma, nulla mi distoglie

Ecco il tuo raggio di festa investe il mio corpo e la mia anima brucia nel desiderio di cantare il tuo inno

Amami, Signore, L’universo è tuo, io sono tuo

Per sempre, Dio mio, in te per sempre

Fiori per Ninetta

(21 agosto 2014)

Vorrei posare una rosa e tanti fiori sul tuo capo, e formare un diadema sui tuoi capelli d’oro che allevi la tristezza del tuo volto gentile

Vorrei posare una rosa e tanti fiori sulle tue spalle, e coprirle di una trapunta serica e delicata che ti avvolga di morbidezza e di calore

Vorrei posare una rosa e tanti fiori sulle tue mani,

e staccarne i petali per profumar le tue dita che scrivano nel cielo i sogni della tua struggente poesia

Vorrei posare una rosa e tanti fiori sui tuoi fianchi, ed esaltare la morbidezza rigogliosa e intrigante della tua feconda femminilità

Vorrei posare una rosa e tanti fiori sul tuo cuore, e illuminarlo di cangianti colori e inebrianti profumi che gridino a tutti:

tu sei il mio fiore, il più soave, il più seducente, il più prezioso

L’unico

Il momento molto originale del dolore

(7 agosto 2010)

È dura la vita per Satana Deve realizzare sempre novità per ingannare l’uomo

Deve appostarsi per incastrarlo con la mutevolezza di trappole inaspettate

Come può permettersi di riesumare espedienti già visti, che l’uomo ha metabolizzato

e che lo condurrebbero pericolosamente alla noia,

se non addirittura all’aborrita riflessione spirituale?

Povero Satana, costretto a sapere fin dalla creazione che il suo tempo finirà

Si arrabbia, diviso fra la fulminante, stratosferica, multiforme genialità per confondere i figli di Dio

e la terribile, sottile e…maligna stizza,

accorpata a un terrore cosmico e atomico,

che un dì potrebbe trasformarsi lui, attore e agitatore di millenni di potere sull’uomo,

non nel piccolo, non nel limitato, non nell’impotente, ma nel nulla

cioè qualcosa che non sente più, non ha più vita, né godimento, rabbia, ambizioni,

la incommensurabile, inimmaginabile sensazione che non saprà e non si ricorderà di essere mai esistito

Povero Satana, costretto a subire l’acida erosione di questa livida angoscia!

Non penserà, non ricorderà di averlo fatto,

non avrà più la coscienza di essere stato

il più grande mestatore dei destini umani

Quale orribile punizione, Lucifero!

Dio, il grande creatore anche dell’immensa bontà,

e se davvero ti giocasse uno scherzo del genere?

Se ti togliesse qualsiasi straccio di individualità cellulare,

di coerenza sensoria, elettrica, subatomica, cosmica o spirituale

di esserci?

Come puoi architettare il male, ora, con tale prospettiva?

O forse ci dai dentro sapendo che fine farai,

per non pensare al tuo allontanamento definitivo dall’aggregazione dell’esistente,

dei buoni o cattivi, dei belli e dei brutti,

tranquilli o nervosi, altruisti o assassini,

tutto, purché viventi?

Prova a chiedere perdono a Dio Lasciaci in pace

Forse così otterrai da lui lo scambio contrattuale

con qualche forma di vita semplice, bella o regredita Che importa?

Pensaci e dacci requie

Dio l’ha capito da sempre che l’avresti fatto

e pace, una volta,

una volta per sempre, fra tutti noi,

amico Satana!

A Ninetta lontana

(19 novembre 2014)

Lontana dagli occhi ma non lontana dal cuore

Immagino la tua anima trepidante, il tuo corpo rorido di rugiade interiori che accoglie la mia fremente vibrazione

Ninetta, scendi dal tuo tempio segreto, spingiti dalle occulte stanze della sua penombra incantata

e invadimi con il fiotto inebriante della tua sconfinata femminilità

Ninetta aspettami, non fuggire nel sogno delicato dei tuoi versi

Indugia con me, che la voce del vento i sopra di noi, carezzi i tuoi occhi teneri e tristi

e calmi i miei sussulti sconvolti dal desiderio inappagato di te

“Finisci l’ultimo canto e dividiamoci. Dimentica questa notte, or che la notte non è più. Chi provai a stringere fra le braccia? I sogni non possono imprigionarsi. Le mie avide mani stringono al cuore il vuoto, e il mio petto ne resta ferito”.

Rabindranath Tagore, Il Giardiniere

Non gioco la partita a scacchi dell’oblio

(luglio 2010)

Che avventura!

Che mondo, che bello, che dolce, che strano

Dire, vivere, sentire

la leggerezza magica di un mattino d’estate,

l’operosa, tacita alba d’inverno,

la speranza, il ricordo del bimbo che è in me,

dolcezza che preme avvolta di rimpianti,

il silenzio, la penombra, l’attesa terminale del malato solo

Non ho preferenze, no Chiedo, e mi addoloro

Prego Forse non prego, mi espongo al tuo cospetto

Sono alle prese con un Dio elastico, incomparabile e sfuggente

Ma sii, sii un po’ più rotondo,

meno velato, Signore,

galleggia da questo mare indefinito,

annuncia come il canto del gallo il tuo giorno fra noi,

sporgi da questo nulla e grida:

figli miei ci sono, vi vedo, vi vedo, vi credo

Voglio la vostra attenzione, la vostra quotidianità,

non sono un prodotto

dei libri,

non gioco la partita a scacchi dell’oblio!

Cercatemi nel campo della mia erba celeste,

trovatemi nel bagliore dei miei spazi siderali,

non dimenticate il tocco fresco della mia acqua

nel vostro deserto di solitudine,

lasciate il vostro teatro di burattini dorato dall’ipocrisia

Vi amo vi voglio, tutti miei!

Siate con me, udite il rullo di tamburi di questa esorbitante verità,

gridate all’effervescente segnale della mia immane presenza

in ogni atomo della vostra giornata,

pensate con il cervello di un fantasmagorico computer mentale

e amate col cuore di una delicata e purissima sposa

Sono mie queste opere, è mio questo interessamento

siete voi i miei figli e lo scoprirete, lo scoprirete presto

Oh! lo avete già saputo da sempre!

Questa è la mia eredità ata e futura:

io vi circondo e vi prendo con me,

anche voi prendetemi, siate con me, siate in me

Ecco svelato il mistero:

il mio bacio vi aprirà le porte

e sarete in me anche nel sogno,

un eterno sogno che più reale non potrebbe essere

Io in voi e voi fra le mie braccia,

sempre e solo dentro il mio cuore

Svegliatevi e sognate in me

Vi aspetto

Vi amo

Quando

(26 marzo 2015)

Ore troppo brevi, giorni troppo veloci, quando sei con me

Settimane come saltelli, mesi come folgori nella notte, quando entri nella mia vita

Silenzi troppo lunghi, attese troppo snervanti, quando sei lontana

I colori impallidiscono, i profumi si dileguano quando i petali della tua presenza si schiudono distanti da me

Ecco che ti rivedo, che martella febbrile il mio polso quando il tuo volto si affaccia e ridà luce ai miei occhi, all’affanno del mio cuore

Non perderti nella nebbia, non entrare nell’inverno della vita, a con la tua tenerezza sui gradini consunti delle mie delusioni

Riempi con la tua sensibilità la coppa dei miei sensi ingrigiti, appoggia la morbidezza del tuo seno sulla mia giornata orfana di gesti materni

Non uscire dalla mia vita,

prendila, avvolgila di femminilità,

circondala del tuo sorriso, delle tue calme attenzioni,

del tuo respiro pronto a cullarmi, del tuo calore pronto a placarmi, dei tuoi occhi pronti a inebriarmi

Fenomeni bianchi

(3 agosto 2011)

Eccoli i fenomeni bianchi e quando non ci sono li crei, li vedi, si perdono, ritornano, ci credi. Quanto corrono i fenomeni bianchi!

Intessi la tua vita di fenomeni bianchi: rompi e paghi, sali e dividi, crolli e applaudi. Quanto partecipano i fenomeni bianchi!

Regge la pentola sul fuoco dei tuoi desideri

mentre i fenomeni bianchi bivaccano sensuali negli occhi dell’appagamento? Quanto bruciano i fenomeni bianchi!

Oh! Potessi incartare in un pacco regalo tutte le congetture che sporgono dal palco della mia mente ed esporle alla fiera campionaria dei fenomeni bianchi!

Come sarà con te

(31 maggio – 15 agosto 2011)

Mi cadranno dal volto tante piccole stelle

e placide si assieperanno lungo i rivoli della mia mente

Brillerà furtivo come pioggia d’estate il pensiero

e un sussulto di antichi ricordi invaderà la camera del mio cuore

Trepidi si alzeranno i cigli al puro flusso delle idee

e frenetico correrà il ciuchino

della mia primitiva ed errabonda ricerca

verso l’oro che cola dalla Tua bocca traboccante di messaggi sacri

Mi investirà il Tuo vento di reconditi presagi

Cadrà su di me il bagliore radioso delle Tue mille intuizioni

e mi sommergerà il tepore largo e profondo della Tua inebriante saggezza

Squisito sarà il canto del più soave dei Tuoi Cherubini

bianco e tenero di sussurri d’amore il volto del più ingenuo dei Tuoi Serafini

Mi siederò bramoso al desco

dei Tuoi divini commensali

e la mia fame si sazierà di ogni Tua gloriosa rivelazione

Pescherò nel bucolico laghetto di improvvise malinconie

le trote guizzanti della Tua straripante festosità

e il febbrile ripercuotersi di echi nel mio cervello

le sindromi velenose che lacerano il mio cuore

la devastante solitudine che inaridisce il deserto della mia anima

cadranno esterrefatti

sull’altare della Tua purificazione

fisseranno atterriti la culla del neonato risveglio interiore

si scioglieranno estatici in eburnea e vitale energia

per innalzare a Te, Padre, Madre e Sorgente Ineffabile di ogni nostra beatitudine,

l’inno mistico della nostra incessante lode, il coro universale della nostra eterna riconoscenza

“Ho teso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo”.

Arthur Rimbaud, Illuminations

Ondate di piena

(7 agosto 2014)

Oggi è ato e domani sta per arrivare ma avrà lo stesso destino

Dal piatto traggo il sapore e lo spettacolo di un’illusione mostruosa

Tenero il burattinaio che abita sopra di me mi copre di dolce conforto

Riavvolto il nastro il domani è giunto e infanga il corso della giornata

L’occhio è abbacinato punto dai desideri

ma la mente è altrove di fronte al cuore

e grida: fino a quando?

Nell’estate e nel sole

(15-21 agosto 2010)

Vieni e ascoltami

Non pensare, non scrivere

L’ascolto sia col cuore, lo sguardo sia con la mente

Prendi l’occasione di decidere

fra me e il tuo accappatoio,

fra il mio raggio che fende le nubi,

fra il tuo orecchio che ascolta la mia pioggia di serenità

e il rozzo scuotersi di traffico nell’arenile,

sordo a ogni ambizione e speranza

Non ci siamo, no, non ci sei

Dove vanno i sogni eterici del tuo io colpiti dal mal di pancia?

Dov’è la pratolina fresca e ospitale della tua anima

di fronte all’ape spumeggiante di verità

del mio onnipervadente alveare di mistico miele?

Prova a caricarti della più insana,

folle e irrefrenabile degenerazione sociale

Buttati nel mare dell’isolamento e frangi, con la tua onda di scorrettezza,

la bulimica frenesia di una comunità gretta e ombrosa

Non piegarti alla paffuta seduzione di un richiamo smargiasso

Non cedere alla grassa improntitudine dell’anonimato spirituale

Scoperchiati dall’otre ipnotico di una mercanzia aulica ma insipida

e brucia, dentro la caldaia aurea

del tuo fuoco di mistici affetti,

l’esagitata torta di mille leccornie caduche e sdolcinate

Eccola l’ora! Ecco qualcuno che mira al centro del destino!

Raccogli in piena armonia di luce e amore

la rigogliosa messe nella vallata di divina abbondanza

Afferra la perla iridescente dai multiformi raggi di inenarrabile beatitudine

Non negare, non dimenticare

Io sono qui, dietro e dentro di te

Sporgiti dal sipario, sgombra la scena

dall’erba sudata delle tue sofferenze pulsanti

e calati nel mistero non più reale

ma disciolto nel mare della mia eternità gloriosa

Un salto ancora e la mia schiena curva di amorosa attenzione

si chinerà sulla tua ansia di conoscermi

Vedimi, scorgimi in quel che prima

era buio alla tua vista,

brancolante nel silenzio al tuo udito,

gorgòglio impetuoso nel tuo cervello

dalla goffa e tentacolare ricerca

Sono io, sono qui,

e sempre sarò

nella delicata eccellenza della tua individualità,

nella fulgida ed eterna perfezione della tua anima

Estate all’Elba

(25-28 agosto 2011)

Tamerici, pitosfori, tutto il verde asciutto e salino del Mediterraneo

si affaccia sulla greve sabbia color crema della Biodola

e dai fondali verdi e cristallini traspare la stella marina

Un’aria piena di iodio e di calura accompagna i i del viaggiatore

Il sole si apre varchi di luce fra i rami contorti del leccio

e fatica ancor più

tra i rampicanti, i ginepri,

le sempreverdi e selvatiche macchie di bosco

Ai porti il girovagare lento dei turisti si muta in pronto e curioso

assieparsi attorno ai barconi tornati dalla pesca

e variopinti si mescolano sui forti selciati di pietra

abbronzati uomini in pantaloni bianchi,

signore fruscianti di veli e cappelli a larga tesa,

con i volti rossi di fatica,

i braconi gommati

e i gesti rapidi ed esperti di chi sul mare e del mare vive

Ed ecco alzarsi un cicaleccio febbrile e pittoresco,

in mezzo a masse di reti e cassette di dentici e ombrine,

fra chi vende le sue primizie e chi acquista, goloso di quella freschezza

La lenta funivia che si alza serena e pacata

fra le casette e i campi coltivati della baia di Marciana

si fa strada nel pendio come un pellegrino

pronto a purificarsi nel silenzio

e nella ricerca di un solitario e rigenerante tempio di fede sul Monte Capanne

Sfilano accosti nel sud dell’Elba, solcato da antiche miniere,

insenature e golfi grigi di pietra e sabbia,

ricchi ancora di quel metallo sciolto e plasmato

dalla robusta tenacia di lontani e preziosi artigiani

i, osservi e afferri, desideroso di far tuo

ogni orizzonte di terra e di acqua

e la tua ansia di ricerca

rimane abbagliata dai riflessi del golfo di Fetovaia,

piccolo, affascinante microcosmo di mare insinuato nella roccia

ripida e via via sempre più morbida di foglie, cespugli e sabbia

Generano invece per contrasto virili moti di ardito piacere

i tuffi nelle acque profonde e incuneate fra aspre scogliere di Chiessi e Pomonte

Pace e riposo alle tue cure di attento e ammirato viaggiatore

offrono i paesini arroccati a mezza costa,

sereni e distaccati

dal tramestio fervido e concitato di baie e porti,

appartati nel verde pacifico dei colli e fitti di stradine, vicoli,

piazzette, chiese e terrazze e intenti a contemplare

lo spettacolo lontano di una natura in mirabile e antica convivenza

fra l’uomo, la terra il cielo e il mare

Vicende storiche e personaggi famosi rapiscono intriganti la mente

nella villa di Napoleone, immersa

nel verde di fastose memorie,

perla nobile di un’infinita collana di meraviglie in quest’isola incomparabile

minuta e opulenta, distensiva e tentatrice,

colorata e sobria, brulicante di vita,

affascinante di silente magia nei suoi tramonti,

ardita e vibrante nell’impeto dei suoi mari di scoglio,

mite e suadente nei suoi pendii sinuosi

verdeggianti di pini, sughere

corbezzoli e caprifoglio,

languida e carezzevole con le sue spiagge

lambite da un mare cristallino dalle più pure trasparenze e dai più incredibili colori

Ah, l’Elba!

La madre

(21 agosto 2011)

Ecco mia madre Non lo è dalla mia nascita ma dal mio concepimento

È da allora che la madre vive una vita condivisa,

che ogni sua sensazione, ogni sua situazione,

ogni respiro vitale del suo corpo, ogni fuga in avanti della sua mente,

ogni rapimento emotivo del suo cuore, si accalcano nel più alto,

multiforme, dignitoso e soave percorso della vita umana

Perché la madre pensa a te anche quando non ti pensa

Parlano i suoi gesti, il girarsi del suo corpo, il voltarsi della sua testa

Sono loro che pensano a te, che si dedicano a te

Non è la concentrazione della mente ma la linfa vitale del suo cuore che si assorbe nelle tue cure

La madre non pensa, vive, non agisce, si dedica, non calcola, si allarga

serena, pratica, delicata ad abbracciare ogni parte dell’esistenza del figlio

La madre non è solo un ingegnoso e biblico strumento per ripetere l’universale e misericordioso atto creativo di Dio,

non è solo carne e sangue sapientemente disposti per rinnovare il big bang della specie umana,

è anche la cassa di risonanza dalla quale si dipartono mille echi di quotidiano, umile, coraggioso empito d’amore,

del più puro, del più disinteressato

Chi può dire davvero cos’è la madre?

Questo sale della vita, questa disponibilità generosa, pacifica,

lacerata da moti interni ora silenti, ora accorati, ora intuitivi, ora ferreamente determinati

Ogni sua cellula, ogni suo istinto, ogni suo baleno di energia

mirano a rendere più accogliente, più vivibile, a profumare di tante piccole cose amorevoli il nostro destino

Non c’è lascito di Dio

su questa Terra,

fra tutte le gerarchie manifeste e immanifeste del creato,

che assurga a un più alto valore della madre

Non vi è niente di comparabile, in un pianeta attardato da estremismi della ragione e vilipeso da degenerazioni egoistiche,

alla figura, allo stampo, alla presenza di una madre

Solo davanti a questa creatura di inesprimibile, indefinibile, ineffabile eredità divina,

noi possiamo piegare le nostre ginocchia,

il nostro capo, la mente, l’ anima

e credere di parlare con Te

La collina di Montefiridolfi

(5-10 novembre 2010-11 aprile 2011)

Muovon tranquilli i i e in mormorio silente salgon lieti i pensieri,

sereni e grati al verde, tenue e pacato abbraccio di quel dolce declivio

Laggiù, dove il sentiero divide in due il vigneto, rallegrano il cammino umili fior di campo

a lieve e distratto lo sguardo sulle fronde, dalla rugosa quercia

al radicato cipresso

e coglie l’ansia inerme del giovane virgulto che l’edera avviluppa negandogli la luce

Cresce adesso nel petto lo sforzo del tragitto,

veloce un calcio sgombra la via dal sasso aguzzo

Ecco una curva e antico, di piogge e afa estiva, saldo il cancello blocca ogni aggio furtivo

Dopo il tornante, provvido, sta l’abbeveratoio, frutto sacro e prezioso

di schietta mano arcaica

Quando di buona lena si è giunti a mezza costa appare là sui colli, lontana, una chiesetta

La sommità del poggio pian piano si conquista, ecco chiaro il profilo possente del castello

cui stanno a fianco e intorno, forti di pietra e sasso, casupole e viuzze e formano un villaggio

Rapito va lo sguardo sull’erta lastricata cui fan corona gli orci d’esperta arte vasaia

e a bordura di ripide strade, muri e piazzette, fan bella mostra e odorano piante di rosmarino,

insieme alle solari siepi di bacche gialle Tutto ispira alla calma, tutto è un sentor di pace

S’addentra la stradella nel campo degli olivi e lì sobrio alla vista,

quieto nel verde amico,

raccoglie il tabernacolo, come un’urna di pietra, di una sudata terra l’umile agreste omaggio

Prendi il largo dalla tua mente

(30 agosto – 3 settembre 2011)

Liberami o Signore dai pingui pensieri cattivi come dai buoni gargarismi populisti

Inonda lo spettro dei miei faticati ragionamenti con la Tua generosa cascata di rinfrescante saggezza

Dichiara concluso lo scontro fra l’ebbra e setosa coperta del mio coriaceo girovagare

fra le discrepanze e gli intrighi ondivaghi di un cervello sfortunato

e il bianco e impalpabile lenzuolo che occhieggia dai pulpiti sereni della Tua magistrale sagacia

Sciogli in me l’artifizio che si dipana

dal pensiero sgomento

Revoca il demenziale proclama di folgoranti strategie

Tacita l’onnivoro richiamo della procace soldatessa dell’ego

Purifica il cervello, la sede della notte, dottrina maligna e fuorviante dai doveri dell’esistenza,

alibi beffardo delle mie auguste pigrizie Il cervello, governante sinuosa e putrida

dai sottili e venefici consigli, topo grasso e invadente incagliato nel lardo

delle mie affannose inquietudini Il cervello, chi se non lui compila

e pianifica convulsi dilemmi

e comate catastrofi dell’io?

Chi altri si pavoneggia con l’eminenza dell’inclito e scultoreo teorema

e l’angolare e granitica piramide delle mie evidenze razionali?

Chi se non lui legge nelle pieghe e rispecchia nelle pulsioni dell’attuale costume sociale

l’ovvia ed elegante sicurezza delle più sacrali convenienze?

Signore, fa del mio cervello un misurato, regolare, rispettoso rapporto di forze

Guardami, entra mangiando pane e salame nell’officina lacunosa e incoerente delle mie smanie quotidiane

Suggella, con gli epici spot del Tuo spirituale

e rigenerante mercato pubblicitario,

il raggiunto target del mio consumismo interiore, banale come una soap opera e riciclato come vecchi telefilm

Signore, perdi tempo e nobile, glorioso ma inefficace intento è il Tuo,

visti gli assurdi bemolle accalcati nello spartito della mia disordinata orchestra mentale?

Riuscirò ad afferrare il nesso spirituale fra i messaggi sibillini e affascinanti di un antico vangelo

e l’incerta, attaccaticcia e debilitante carretta trainata dall’imbellettato ippopotamo del mio intelletto?

Liberami, Signore, col Tuo soffio di stupenda armonia, mi riabiliti il Tuo sconfinato equilibrio

e affiori nella mia mente esagitata

il chiaro e purificante sussurro della mia anima

“E mi domandi perché mai si tace l’anima mia, senza versarsi in grembo alla notte che sogna? Colma di me, traboccherebbe tutta a spegnere le stelle”.

Rainer Maria Rilke, La notte e l’anima

Il bosco e la morte

(1-5 settembre 2011)

Ulula il licantropo e muto il cuore ospita gli occhi gelidi di un assassino notturno

Gira il suo sguardo esangue sulle frasche cupe del mio animo la luna

Piange da solo un barbagianni e trattengono il respiro piccole sagome accucciate in attesa di un’ora d’odio

Le pellicce dei furetti si scrollano l’acqua di pozzanghere melmose e i loro nervi

si drizzano allo spasimo, pronti a catapultarsi verso un respiro amico, se il corpo impietrito glielo permette

Bussa al cuore di un piccolo cervo l’ansia frenetica

di farsi da parte, di scomparire dall’erba, dall’aria, da tutto,

per sottrarsi a un canto lugubre, a un predatore evanescente, impenetrabile, implacabile e maligno

Non c’è più suono ma resta la scia nell’aria, nell’odore dell’anima, che spenge ogni speranza

L’energia sprigionata dall’urlo si stampa sui tronchi, sulle siepi, sui sassi,

che restituiscono desolati lo scarno, sbudellato triste e maleodorante odore della morte,

causata da chi non sai, non vedi, ma lui vede e progetta per te poche cose ma abiette, giallastre,

senza polvere, senza aria, senza idea di nulla e ti copre con un tremito che non se ne va, non se ne va

La tua anima scappa dai piedi e la testa snodata

si gira ma non è più tua, e gli occhi sentono e le orecchie vedono

il pesante attacco di una morte nera. E tu fuggi dove? La consolazione esce dalle tue braccia, la gola è un canale

di afa mescolata alla confusione e il collo è bastonato da un essere ributtante in questa notte senza Dio

Il tuo traguardo è raggiunto, Satana Ora la mia ombra uscirà dal tuo intestino fetido

e ballerà indisturbata sul piede sinistro, lanciando brandelli di anima a quel trono nero

dove lisci la tua barba e chiudi gli occhi al tuo amico licantropo, che ha fatto il suo dovere

Eh, ma come! Il color vitreo dei miei pensieri non si dilunga sul tuo fascino ancheggiante

di bella donna dall’utero esaltato e goloso e dal gorgòglio

che frulla orgiastico dalla schiena ai polpacci?

Che succede? Il mandato concessoti ha già esaurito la febbre di potere di vita e di morte su queste ossa sfibrate,

questa carne intorpidita, questo spirito derelitto? Grigio Satana, crepando ho messo il dito sulla piaga

della tua involuzione, ho tradito la mistificante fiaba dai sapori efebici e dalle scintillanti gocce di sudore

di un animale progredito e morto, di un atleta corridore e azzoppato, di un pittore avvolto dal buio,

di uno scienziato convertito in ameba, di un gentiluomo irrigidito in cadavere

Con la mia morte ti lascio freddo, sdentato, truffato, annegato, esautorato

È la mia espiazione,

ora il mio Io ha requie, il mio Sé vede la strada

Corro al mio destino, non voglio altro Non mi fermerai nella veglia,

non mi seguirai nel canto, non mi raggiungerai nel sogno

Al plumbago

(2 settembre 2010)

Fiore gentile,

che chini le tue testoline azzurre e setose

verso i viandanti, stupiti e immersi

nella continua bellezza di vicoli e giardini

Fiore grazioso,

che apprezzi lo sguardo ingenuo e la mano paffutella del piccolo turista,

in sosta a trastullarsi con le tue stelline rampicanti

Fiore seducente,

che dolce espandi sul muro bianco del meriggio estivo

le foglie capricciose e i teneri petali di morbido indaco

Fiore provvido,

che accompagni aggraziato il curvarsi delle palme sui pontili

e ti unisci alla calma verde e solare delle tamerici

a custodia delle spiagge e a guardia dei porti

Fiore sereno,

che rigeneri di freschezza interiore

gli stanchi e gli afflitti, che alzano lo sguardo

incontrando la purezza del tuo limpido colore di cielo

Grazie plumbago,

forte e gentile pianta amica dei nostri giardini mediterranei,

che attraversi il nostro cammino

e ci lasci la più pura, aggraziata e gentile testimonianza

dei meravigliosi prodigi creativi della vita

Sei sempre con me

(1 agosto 2015)

Corre il bacio antico dei miei pensieri

e come un dolce aprile carezza il tuo ricordo

la tua pena ai miei travagli le tue cure ai miei mattini lacerati e incogniti

l’ansia del tuo mascherato e mai domo vigilare sulle mie cadute

Quali disegni porrà il Divino sulle bilance assurde del nostro arbitrio?

Stanco di tanto vagare ebbro di orge dei sensi

o pio e silente verso i misfatti e le vendette del nostro indecifrabile correre a lui?

Ma ecco un fiore che spunta nel suo giardino fragrante di mistiche spezie

e giulivo e regale lo pone nel tuo ventre materno

per regalarmi la vita per regalarmi te

In treno

(21-26 agosto 2010)

Appoggia il capo, fratello

e odi il ritmo pulsante che avvolge il tuo corpo

Rialza gli occhi e lancia lo sguardo fra i campi

che scorrono veloci davanti a te

Essi sono il luogo dei messaggi sacri

di un onnipotente

sereno e prodigioso

Il vento che trapela fra i meli profumati,

il languore roseo delle pesche

carezzate dalle virgolette ombrose delle loro foglie,

il merlo incantato al aggio dei vagoni

che saltella dal filo della biancheria

al minuzzolo di pane accantucciato sotto il pergolato,

tutto mira,

ogni parte del bel giorno di Dio,

ad alleviare le tue tempie strette d’affanni,

tutto è un osanna al misticismo di ogni materiale essere vivente,

del più perduto e fossile dei figli di questo pianeta madre

Brucia l’impaccio appeso ai tuoi fianchi svigoriti

con lo zefiro delle pure vibrazioni mentali,

con la solarità devota

del tuo cuore

vigoroso e regale di palpiti trepidanti nel tuo tempio corporeo

Brinda a ciò che circonda la tua sembianza gloriosa di padrone del mondo,

incarnazione eretica od ortodossa di una cosmica, primigenia alleanza

Nessuna viltà nel dirompere del nulla verso una creazione a te asservita,

tu, quale sacra effige del redentore cosmico

Grazie, Dio,

del mio risorgere dal fango e dall’urlo primordiale

Lode a te, che mi poni al culmine

della tua opera magica di creatività senza limiti

Ch’io sia degno della tua mano pesante sul mio capo

Possa io meritarmi il sempiterno riposare delle tue grazie su di me

Umile e risoluto, rispecchino le mie fattezze e la mia condotta

la tua potenza rifluente dentro e fuori il creato

Mi inchino ai tuoi prati, supremo artefice,

alle tue fragole, alle tue spighe,

al vermicello che scivola nel sentiero bagnato fra gli steli odorosi

Bacia il mio sguardo, Signore,

mentre assisto all’ombroso incedere del tramonto

sul sole velato dalle nebbie e sulle vigne e i cipressi

delle tue dolci e ridenti colline,

mentre arretro all’incombere delle tue maestose vette montane,

fresche di ruscelli, verdeggianti di pascoli o ammantate di soffusa neve,

mentre mi inchino al glorioso e spumeggiante ondeggiare del tuo oceano,

ai morbidi lidi di sabbia benedetti dalle palme e dal volo dei tuoi gabbiani

Ti ringrazio e ti amo, mirabile creatore,

mi cullo e mi riconosco incondizionatamente nel tuo verbo

e ti lodo nel mistero ineffabile di ogni tua creatura

Il prato

(16 agosto 2011)

C’era un prato che accoglieva un antico sentiero che curva dopo curva portava alla casupola del contadino

C’era un prato che generoso ospitava tanti alberi dalle ricche chiome profumate di frutti

C’era un prato che costeggiava assetato un fiume specchiandosi nelle sue fresche e vorticose acque

C’era un prato

che rincorreva sé stesso esplodendo in fertili zolle sotto l’aratro del seminatore

C’era un prato che distribuiva opulento la sua tenera e rinfrescante erba al pascolo di buoi, pecore e capre

C’era un prato che rimbombava ai colpi degli zoccoli di mandrie impazzite per l’incendio dei boschi

C’era un prato che ascoltava il fitto cicaleccio di tanti piccoli animali nascosti negli anfratti dei suoi acquitrini e delle sue canne

C’era un prato

che attendeva ansioso le ombre della sera per ammirare il tramonto laggiù sopra il suo orizzonte di erba

E c’era ancora un prato, un piccolo prato, che avrebbe tanto voluto essere una immensa pianura erbosa

e invece era così limitato che ospitava soltanto i i di un fraticello nel cortile del suo convento

E il fraticello eggiava volentieri sul prato, finché un giorno i suoi calzari sdruciti

cominciarono a sollevarsi e a camminare sempre più su nel cielo infinito

Il prato rimase sconcertato nel vedere i calzari che, staccatisi da lui, si perdevano ormai in lontananza e d’improvviso si accorse che le sue dimensioni

crescevano a vista d’occhio e le sue erbe e le sue zolle divennero in breve così grandi da ricoprire tutta la Terra

Il prato guardò in su, gioioso, come per dire: finalmente il mio desiderio è stato esaudito

e vide che i due poveri calzari, ormai lontani nello spazio,

si erano fermati ed erano rivolti verso di lui Di colpo le sue dimensioni

ripresero di nuovo a rimpicciolire

e in un baleno tornò ad essere il piccolo prato che ospitava solo i i del fraticello nel suo convento

Il prato guardò ancora in su, gli parve che i calzari gli sorridessero e si sentì come avvolto in un sereno abbraccio di pace

E allora con ogni stelo, con ogni filo d’erba, con ogni zolla corse, veloce, finché con un ultimo sussulto

si pose sotto i calzari del fraticello e insieme proseguirono il cammino,

loro due soli,

sempre più lontano, sempre più in alto

Dorothea

(6 agosto 2015)

Chi fu, la mamma o il papà, ad addossarti questo nome così importante?

Sapevano che avrebbe aleggiato sul pallore del tuo volto

dandogli una dolcezza antica e riverberando sulla calma del tuo sguardo

gli echi di una quieta ma intrigante femminilità?

Che si sarebbe calato premuroso e solerte sulle tue piccole mani

infondendo una grazia delicata

alla loro morbida e composta armonia?

E non avrebbe certo dimenticato i tuoi capelli rosso scuri

dall’antica ascendenza vichinga che forse le spose avvolgevano

intorno al corpo dei loro uomini in un lontano e ancestrale rito di protezione

la notte prima della battaglia Troppe luci di un ato enigmatico

traversano i tuoi occhi dal languore sereno

inducendo gli altri a smarrirsi nel tuo abissale oceano di pensieri

Ma ecco che decisa e sbarazzina

interrompi in un attimo

la corrente alternata di polverose riflessioni

e ribalti su chi ti sta accanto un getto fresco di vitalità creativa

Intuizioni e rattoppi nelle fredde e impersonali tecnologie del tuo lavoro

si librano come rondini nell’aria e pongono rimedio a progetti oscuri

con tempismo e proficua efficacia, quasi cuccioletti vivaci e impertinenti

affidati alle cure attente della tua dedizione materna

Grazie, Dorothea,

per il tuo nome strano, meraviglioso,

egizio, surreale, ipnotico, che ti porta sugli scudi

di una occulta e primigenia origine, quasi mitica sacerdotessa

che ridà calore e fragranze balsamiche a quest’epoca comata e smorta

e la irradia col fascino rigenerante della sua gioiosa modernità!

L’amore come variabile

(24-26 agosto 2010)

Nel circolare dell’energia, nel controbattersi delle forze, unico si erge indipendente:

l’amore

Puoi tessere le geometrie più impensate, innescare le reazioni atomiche più imprevedibili, svelare la legge chimica più sbalorditiva,

ma ti torna indietro sempre un carico di responsabilità tremende o evanescenti

Non fuggi dalla norma che nulla distrugge: un profumo, il Nobel, un piatto in testa,

gli applausi al concerto, l’urina del cane sul tuo albero preferito,

qualcuno ti paga, discreto e sornione, di tutto quel che fai o che ti viene fatto,

nell’ordine corrente di questo fato ambiguo e crudele

E tu insisti, nonostante le prolifiche dimostrazioni dell’ineluttabilità:

scivoli nell’erba delle tue gatte da pelare,

ti impegoli nel cibo, sprofondi nella collera,

ti incastri in tentacolari pensieri e sofisticate apprensioni,

suscitando un sogghigno a ogni tuo inciampo

e il tuo smarrimento ansante accresce l’altrui fiducia di gabbarti

E via, ricomincia la routine al concorso pronostici della vita,

con l’assillo dei tuoi sogni impossibili che non ti rendono cespugli odorosi

ma sacchetti imbrattati maleodoranti per l’effetto delle tue cause perse

E quindi sei stanco, maledici chi ti ha messo in quest’improbo sentiero senza vie d’uscita

Lassù, Dio forse gratta nel suo campo, cercando nell’orto seminato di amorose creature

un profeta da mandare a recuperare gli esuli terreni

Da poco è stato il aggio di Cristo e nulla è cambiato in questa sdrucita e incredula progenie

E al Supremo, sconsolato, non resta che avocare a sé

il più splendido dei suoi mandati, nel ministero infinito della sua misericordia:

l’amore,

la variabile impazzita nel costrutto umano,

la resa senza trattative, il potere senza il dispendio della battaglia,

l’alba che si scioglie estatica all’inno del nuovo giorno interiore

L’amore,

variabile indipendente, senza condizioni, senza condizionamenti,

avulsa dall’azione-reazione che taglieggia ogni ambizione materiale,

esente dal temibile contratto vergato dall’insaziabile frenesia del lucro

L’amore,

impregnato di benefica consanguineità fra gli opposti

L’amore,

emanazione dell’imperituro messaggio salvifico

L’amore,

germe di autoconsolazione estatica

L’amore,

variabile suprema

“Però che le campane sonavano su da ‘l castello annunziando Cristo tornante dimane a’ suoi cieli; e sulle cime e al piano, per l’aure, pe’ rami, per l’acque, correa la melodia spiritale di primavera”;

Giosuè Carducci, Odi Barbare

Ricordo di madre

(13 marzo 2014)

Un’antica dolcezza riemerge ai miei sensi

Due seni morbidi e tremanti di materna sollecitudine

accolgono il mio capo in un’onda di beata tenerezza

Un tocco di femminile levità carezza le mie gote

perse nel ricordo di un’infanzia lontana

Tenue appare

al mio sguardo trasognato

il tuo volto e i tuoi occhi mi avvolgono di protezione infinita

Ecco la madre è venuta a me dai suoi cieli si è degnata

di posarsi sul piccolo fanciullo prende per mano il suo cuore

lo stringe e lo riporta nel suo nido di stelle e d’amore

A Nino

(16 agosto 2010)

Or che sei qui, amico, senza remore, senza intenzioni,

nel più puro ideale di fraternità spirituale, io ti osservo e ti ringrazio

E questo eburneo ricordo di mistica ascendenza e regale eredità dell’io,

che unisce ed accomuna la tua e la mia parte nello stesso effimero teatro della caducità?

Nulla va chiesto, tutto ci sfiora e va meritato

Cosa sta dietro l’inenarrabile solerzia di un Dio remoto?

Lo spasimo cosmico di un padre che ama le sue creature disperse nell’arena dell’errore,

o la benigna ma inesorabile teca ripiena della sua provvida, delicata ma rimarginante giustizia?

Noi, nello sbalestrato palco di questo insensato destino non sappiamo,

mentre tristemente intorno vegetano solo recessi di buia confusione

e grevi si inerpicano labirinti di cupo sbigottimento

Ma vivi, cogita e regala, vero amico,

le frecce profumate della tua serena intuizione,

la lucida effervescenza di riflessioni profonde,

frutto benefico del tuo intenso scavo spirituale

Grazie, amico, di essere con noi, per noi

E non manchi al tuo sforzo la trepida e riconoscente tenerezza

e l’aurea mercede di un Dio

tanto imperscrutabile nei suoi disegni quanto prossimo nei suoi doni

Sia pace e armonia con noi e divina amicizia in te,

amico

La mamma e la bambina

(7 giugno 2014)

La bambina appoggia la mano sul petto della madre e ne trae un’energia misteriosa e sottile che l’aiuta a diventare grande, a sentirsi donna

La mamma è distesa sul prato con la sua bambina e il mondo intorno è sereno, le persone sono calme,

la natura vibra di pace nelle foglie, nei petali, nei germogli profumati e accoglie nel suo letto di erba la mamma e questo piccolo essere che cresce

La mamma non ha occhi che per la sua creatura, sente il suo cuore e lo prende dentro di sé per farne il destino della sua vita

Anche la mamma tocca la piccolina e se la porta accanto nel segreto della loro profonda e delicata armonia di affetti

La natura si ritrae per lasciare la mamma sola con la sua bambina, per lasciarle crescere insieme nel corpo e nel cuore

Alice

(3 ottobre 2010)

Ecco che sei venuta in questo nostro mondo che abbellisci di rosa col tuo faccino tondo

Incantano i tuoi occhi curiosi e stupefatti si allungano i piedini e rotean come matti

Non puoi lasciare i nonni senza uno sguardo ancora le tue guanciotte floride carezzan da mezz’ora

Chi mai potrebbe essere

più dolce e delicata? Anche se poi la notte costringi a qualche alzata

Quando nell’acqua giochi sbattendo le manine sei tutta uno spettacolo meglio che andare al cine

La mamma tua ti veste che sembri un fiorellino e il più bello è senz’altro l’impermeabilino

Seduta sul divano ti lancian la pallina tu balzi su frenetica tendendo la manina

Maria la tua bisnonna può starti ad osservare

per ore intere e, strano, non ce la fa a parlare

Ma certo con il cuore ti dice tante cose e tu Alice, ascoltale, sono meravigliose!

Artù

(24 maggio 2010)

No, al mondo mai ci fu can migliore e più giocondo col suo pelo riccio e biondo che ti vede e fa buh! buh!

Svelto, furbo e birichino lui con tutti vuol giocare però non si fa agguantare ci ha uno scatto repentino

Se poi corre è come un jet ma è la curva che lo frega slitta, annaspa, poi si piega e si stende sul parquet

In famiglia è coccolato

quasi fosse un pargoletto se ti accosti al suo musetto slap e slap ti ha già leccato

Quando a tavola c’è gente lui diventa un po’ ruffiano cerca, gratta, spinge, invano non gli arriva proprio niente

Ma c’è un vero tormentone che sconvolge il cagnolino quando è in macchina, piccino, soffre un vero ribaltone

Se ogni tanto nei giardini si avvicina qualche cane si trasforma in piantagrane urla, abbaia, fa casini

Per proteggerlo se piove gli han comprato l’incerato

forse forse è anche griffato ma che vuol di più, per Giove!

E alla fine non diresti che il vivace barboncino vive come un cherubino con padroni come questi?

I sogni

(2-6 settembre 2011)

Gigi scarrozza i sogni e alle fermate vede sguardi estasiati d’ogni bimbo che in loro crede

Gigi va piano piano, sorride a tutti quanti, quando un bambino strano gli si para davanti

Gigi frena un pochino e i sogni in un baleno circondano il bambino dallo sguardo sereno

Gli chiedon tutti in coro:

chi sei vogliam saper! e il bimbo in mezzo a loro risponde: con piacer

Ero malato a letto e tu, bella fatina, dicevi: discoletto, prendi la medicina!

Rivolto ad un castello disse il fanciullo allora: sei grande, forte e bello e io ti sogno ancora

Si fa avanti un cerbiatto e dice il bimbo strano: venivi quatto quatto a leccarmi la mano

E tu sei Mangiafuoco, terrorizzi i piccini,

ma io so stare al gioco, so che ami i bambini

Ecco l’alba che sorge in un cielo ancor blu, un saluto mi porge: come stai? E ora su!

Sì, miei cari, vedete, vi ricordo uno ad uno, voi di gioia vivete dentro il cuor di ciascuno

Con i sogni la vita brilla come una stella, quando sembra finita rifiorisce più bella

Li baciò tutti e poi il fanciullo sparì, ma quei sogni, per noi,

grazie a Dio restan qui!

“Api d’oro cercavano il miele. Dove starà il miele? È nell’azzurro di un fiorellino, sopra un bocciolo di rosmarino”.

Federico Garcia Lorca, Api d’oro