Alla ricerca dei Draghi
Loris G. Navoni
Alla ricerca dei Draghi
Racconti
Ai miei figli. Che possano trovare nel fantastico la forza per vivere il presente.
L'uomo, da sempre, è in ricerca. Gilgamesh cercava il segreto dell'immortalità, i Cavalieri di Artù il Sacro Graal, i conquistadores spagnoli la mitica città di Eldorado. Tutti noi cerchiamo la felicità, a volte illudendoci di trovarla nei soldi, nel successo, nel potere. In realtà tutta l'umanità è alla ricerca di risposte alle domande universali: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. I draghi sono da una parte l'archetipo del male, la parte oscura della nostra storia, dall'altra sono reminiscenze di tempi mitologici (senza fondamento storico, peraltro) in cui il male e il bene erano realtà distinte, di facile identificazione. Tramite loro evochiamo un mondo che ci avvicini, perché narra di valori universali, alle verità che stiamo cercando. In questi tempi confusi, la ricerca dei draghi potrebbe essere un’impresa che vale la pena affrontare.
I tre fiori
Risplendevano i fiori di croco nei prati vuoti dell'ultima neve.
Lavinia eggiava tra le erbe, cantando.
A volte sostava, le punte dei piedi immerse nelle fredde acque del disgelo, e le pareva di udire la voce delle anguane, le fate dell'acqua, che dal ruscello dispensavano consigli e ammonimenti.
Giovane era, e bella, la sua voce dolce come il mormorio del vento tra le foglie del sorbo, il suo o leggero come il regolo che saltella sulla neve appena posata, la fama della sua bellezza era giunta sino alla pianura.
Il popolo all’ombra delle Conturines l’amava, ed ella ricambiava il loro affetto, dispensando carezze ai bambini e parole buone a tutti, ma a volte la malinconia la prendeva, cessava il canto e fissava l'orizzonte sino al calare del sole, sognando ad occhi aperti terre lontane che non avrebbe mai raggiunto.
Figlia di nobile, erede del grande Ey de Net, abile nel combattere come nel cavalcare, era destinata ad una vita accanto all’uomo che l’avrebbe sposata non per amore ma per saldare un patto d’alleanza tra le signorie.
Così si faceva, da sempre. Così aveva decretato suo padre, il re.
Il cuore le si induriva al vedere i molti arroganti, presuntuosi, che giungevano per chiederle la mano, ed aveva ottenuto dal padre il permesso di sottoporre ai pretendenti ardue prove.
Venne da lei un Signore dalle pianure, dalla città di Midiolan, condottiero dei Winnili, un Signore famoso per la sua ricchezza e la sua gloria. Cavalcava un possente destriero dal nero mantello, e al suo seguito un drappello di soldati che sostenevano ampi stendardi. Grandi battaglie lo avevano visto vincitore e, depredando e compiendo ogni sorta di nefandezze, aveva acquisito una fama sinistra.
Le chiese la sua mano, con modi aggraziati ma risoluti, come di chi era abituato a comandare. Le promise di farla diventare Regina della pianura, a dominio di una moltitudine di genti che a lui dovevano obbedienza.
Lavinia lo guardò negli occhi, e vide orgoglio, cattiveria e dolore; quindi gli disse, mostrando una rupe che si affacciava sulla valle:
“Vedi quella roccia, Signore della pianura? Se avrai la forza di restare tutta la notte su quella rupe, domani io ti seguirò”.
Il nobile signore si pose sulla roccia e attese la notte.
Venne l’oscurità, quindi si alzò il vento . Debole, all’inizio, poi sempre più forte, cominciò a far udire la sua voce incuneandosi tra le rocce e precipitando nella valle.
L’uomo era immobile sulle sue gambe, saldamente poggiate sulla roccia. Gli sembrò di udire, mescolate all’urlo del vento, delle voci, dei gemiti.
Si guardò intorno, ma l’oscurità era rotta solo dalle deboli luci dei villaggi a valle. Non ci fece più caso, ma nel cuore della notte il vento gelido cessò.
E i gemiti e le invocazioni si fecero più forti. Erano anime di morti radunate quella notte intorno a lui.
Comprese questo, e ne fu atterrito. Intorno a lui si aggiravano gli spiriti degli uomini delle donne e dei bambini assassinati per causa sua.
Il terrore lo sopraffece e quando la notte stava per scolorarsi nell’alba, fuggì urlando da quel luogo.
Dopo qualche tempo si presentò un mercante, di bell’aspetto e dai modi gentili. Veniva da un luogo dove il mare si mescola alla terra, e dove gli uomini amano le loro barche più delle loro donne e il denaro più dei loro figli.
Scese da una carrozza trainata da tre paia di bianche giumente. Le chiese di seguirlo, le avrebbe mostrato tutte le città che si affacciano sul grande mare, le avrebbe regalato flotte di navi e l’avrebbe resa ricca più di una regina.
Lei lo guardò negli occhi, ma non trovò fierezza nel suo sguardo, piuttosto brama di ricchezza e di potere.
Quindi gli disse: “Il grano deve essere seminato. Se vuoi la mia mano, ara il campo, semina il grano e attendi il raccolto. Quando avrai posato i covoni davanti a me, allora sarò la tua sposa”.
Sorridendo, l’uomo prese l’aratro e si avviò sul campo.
Ma il sole era alto nel cielo e l’uomo cominciò a sudare copiosamente. Era fastidioso, ed egli non era avvezzo al lavoro.
Finito che ebbe l’aratura, dovette lottare contro eri, storni e ogni sorta di uccelli affinché non mangiassero ciò che egli seminava.
Si apprestò quindi ad attendere il raccolto, ma parte dei semi era stata gettata malamente e seccò, parte fu mangiata dagli uccelli e dalle arvicole, e solo in un piccolo appezzamento il seme parve attecchire.
Attese ai bordi del campo, e i giorni avano.
Il giovane si annoiava nell’attesa, mentre pensava a quanto avrebbe potuto guadagnare gestendo i commerci nella sua città.
arono altri giorni, il grano cresceva con una lentezza esasperante. Non avendo imparato la pazienza, il principe dai modi gentili imprecò a gran voce e lasciò il campo in balia delle taccole e dei topi.
Giunse da lungi un giovane, Johan principe degli Oromboviri, dalle montagne a Occidente egli giunse, ché fin là si era spinta la fama della bellezza della ragazza.
Giunse a piedi, senza seguito, con null’altro se non la corta spada, con indosso un mantello prezioso un tempo, ma ora consunto e logoro. Si sosteneva con un bastone da pellegrino dal quale non si separava mai.
Gli occhi dei due si incontrarono, e ad entrambi il cuore balzò nel petto, ma ella non poté sottrarre il giovane alle tre prove che per lui aveva escogitato.
“Supera queste prove, e io sarò tua per sempre”. Poi gli disse: “Portami un fiore, il cui azzurro sia più cupo del colore del cielo che si specchia nel lago più alto”.
Egli andò, e i giorni si sommarono ai giorni.
Lei lo attese, sedendo all’ombra di un castagno, sino a che i frutti coprirono la terra. Allora il giovane tornò, col o stanco per i lunghi sentieri percorsi.
Portava un fiore di genziana, e disse:
“C’è un lago, nelle mie terre, come un occhio tra le montagne. Le stelle vi si specchiano e il sole lo fa splendere come diamante. Vi era questo fiore sulla sua sponda. Si chiama Fedeltà, che è amara come la sua radice”.
Quel fiore era di un blu così intenso che guardandolo pareva di specchiarsi nel cuore stesso del cielo infinito.
Vide il fiore e vide negli occhi dell’uomo una luce che mai aveva visto prima.
A malincuore, sottopose il giovane alla seconda prova.
“Portami un fiore, di un rosso così , che persino il sole nel suo più sfolgorante tramonto impallidisca e il fuoco del camino appaia come una stella lontana”.
Egli ancora la guardò lungamente, e lei non seppe resistere al suo sguardo, e abbassò gli occhi. Allora il giovane partì, senza più voltarsi.
Il peso dei giorni si fece più greve. Cadde la prima neve, e la fanciulla dovette attendere il principe al calore del camino.
Fu l’ondeggiare della fiamma a indicarle che egli era giunto. Recava con sé un giglio rosso, raccolto mentre il fuoco del tramonto si specchiava sulle pareti del monte, dal colore così che le braci del camino parevano pallide stelle.
“Ecco il fiore che chiedevi. Il suo nome è Speranza, che resiste sino all’ultimo bagliore di luce”.
Il principe si sedette ed ella si accorse della immane stanchezza che lo
attanagliava.
Al vederlo il cuore di Lavinia provò uno struggimento infinito, e la ragazza avrebbe voluto averlo accanto per sempre.
Andò da suo padre, chiedendogli di dispensare quel giovane dall’ultima prova, che il suo cuore già ardeva per lui.
“Mi rallegro che sia sbocciato in te l’amore che tanto cercavi, e mi rattrista vedere il giovane soffrire per te. Anch’io ho visto dentro i suoi occhi e vi ho letto l’amore. Tuttavia come potrei venire meno ai miei stessi ordini? Come apparirei ai miei sudditi, come un inetto che cambia idea ad ogni capriccio della figlia?
Ciò che è stato stabilito deve compiersi. Per avere la tua mano quel giovane deve affrontare un’ultima prova”.
Fu questa la richiesta che Lavinia fece, con le lacrime agli occhi, al giovane principe, accompagnandolo alla porta del castello.
“Portami un fiore bianco, di un bianco immacolato, che contenga in sé l'azzurro cupo del lago e il rosso del sole. Portamelo presto, che la mia pazienza è breve come il giorno d'inverno”.
E l’inverno colpì con violenza. Bufere di neve si alternarono a limpide giornate che portavano il gelo sin dentro le ossa. Dalle montagne provenivano i rombi
delle valanghe e il vento ululava tra le gole prima di riversare il suo sferzante alito nelle valli. Poi la turbolenta stagione si quietò e il primo pallido sole venne a rischiarare l’attesa.
Davanti alla fanciulla fu portato un mendicante: il o strascicato, le vesti laceri e le bende a coprire mani e volto. Un mantello incrostato di fango gli copriva le spalle. Porse alla giovane donna un fiore. Quando lo ebbe tra le mani, la fanciulla trasalì: era una stella alpina bianca come la neve del mattino, macchiato di rosso e d’azzurro.
L’uomo disse: “Ho trovato questo fiore ai margini del grande ghiacciaio oltre le valli a settentrione. E’ macchiato delle lacrime dei miei occhi e del sangue delle mie vene, perché ho pianto e sanguinato per l’amore che provo per te. E così Amore viene chiamato”.
In quel momento ella riconobbe il principe: ma Johan cadde a terra come colpito da un sonno profondo.
La fanciulla chiamò medici e sapienti per curare il giovane, ma non riprese conoscenza. Rimase al capezzale del giovane per giorni e notti. Quando ormai Lavinia iniziava a disperare egli aprì gli occhi.
“Portate il mio bastone” chiese con flebile voce.
Avutolo, lo porse a Lavinia. Ella osservò il legno intagliato in strani segni geometrici, che ornavano la zona dove si era soliti porre la mano.
“Porta questo alla mia gente, solo così potremo di nuovo ritrovarci. Và, io sarò con te. Prendi il mio mantello, ti proteggerà”. Detto questo, perse di nuovo conoscenza.
La ragazza non comprese il significato di quella richiesta, pure decise di fare ciò che il giovane, ormai amato sino a non riuscire a distogliere il pensiero da lui, le aveva chiesto.
Lavinia indossò il mantello del giovane, impugnò il bastone e portò con sé anche la spada, per distogliere i pensieri cattivi dai male intenzionati.
Suo padre pose sul suo capo il diadema che era appartenuto a Ey de Net, affinché tutti sapessero che ella era erede di re. Si mise subito in viaggio, dopo aver bagnato di lacrime il viso del giovane, verso la terra della gente di lui.
Scese la valle sino a raggiungere il corso dell’Ades, che risalì costeggiando i monti Anauni, si immise poi in una piccola valle dimenticata, volta ad occidente, l’unica non presidiata dai feroci Arimanni, che da anni insidiavano i confini del regno di suo padre.
Giunta al o il vento gelido la investì con violenza tanto che dovette appoggiarsi alla roccia per non cadere. Uno stridio la salutò.
Una gigantesca aquila planò accanto a lei, indifferente al turbinio dell’aria.
“Così, Lavinia, stai per lasciare la tua terra”
Lei non rispose, cercando di guadagnare qualche o contro il vento che la spingeva indietro.
“È la prima volta per te, vero? La prima volta che lasci il tuo regno”.
Silenzio.
“Non è quello che hai sempre desiderato? Visitare nuove terre, incontrare popoli diversi dal tuo!”.
Silenzio, se gli occhi dell’animale non tradivano nessuna emozione, nemmeno il volto della fanciulla lasciava intravedere ombra di dubbio.
“Sai che quando supererai questo o tu non sarai più Lavinia, la figlia del re, erede di Ey de Net, ma solo Lavinia la vagabonda?”.
“Non mi è caro il mio nome, non mi è caro il mio regno quanto mi è caro il mio amore. È per lui che percorro queste strade e sono pronta ad affrontare ciò che il destino mi porrà dinnanzi. Quindi ti prego di non ostacolarmi e lasciarmi proseguire”.
L’aquila si lisciò le penne.
“Ma io non intendo fermarti. Ho intenzione di aiutarti, invece”.
Un sorriso ironico spuntò sul viso contratto dal freddo di Lavinia.
“E quale motivo, pennuto compagno, ti induce ad aiutare la figlia di colui che caccia i tuoi simili per diletto?”.
“Esisteva anticamente un patto tra uomini e aquile, e non siamo stati noi a romperlo. Tuttavia, tempo fa Johan degli Orobij ha incrociato il mio volo e grazie a lui ho avuto salva la vita.
Ora mi metto al tuo servizio, affinché tu porti a compimento la tua missione. Tuttavia ho bisogno di un pegno da parte tua.
“C’era d’aspettarselo” replicò beffardamente la ragazza “E cosa vorresti da me? La mia vita ? Le mie virtù?
Non ti facevo così meschino, tu che solchi i cieli al di sopra degli affanni umani, così superbo e regale”.
“La tua ironia non mi colpisce, giovane dama, però dimostra che non hai ancora imparato a frenare la lingua al cospetto dei sovrani di questa terra. No, non chiedo né la tua vita né le tue virtù. Ti chiedo solo un fiore”.
Lavinia si sedette su una pietra. “Un fiore?”.
“Quel fiore blu che racchiude le stelle. Abbiamo perso i piccoli della nidiata, la scorsa stagione, e la mia compagna non trova consolazione. Spero di lenire il suo dolore con la bellezza di quei colori”.
Perplessa, Lavinia mise il fiore tra gli artigli dell’aquila.
“Grazie, e non temere” disse l’animale mentre dispiegava le ali e sfruttava una raffica di vento per sollevarsi da terra “sarò sempre sopra di te, e prima che la tua avventura si concluda, io avrò estinto il mio debito nei tuoi confronti. Buon volo!”.
E la giovane principessa proseguì il suo cammino, fermandosi al ricco desco di nobili e al povero focolare di contadini ospitali, dissetandosi alla gelida acqua di ruscelli e da boccali traboccanti di inebrianti distillati.
Chiese a molti, ma nessuno sapeva dove si trovasse la terra degli Oromboviri.
Dormì presso castelli di principi amici, in fienili insieme a cavalli e capre, al riparo di rocce spazzate dal vento gelido, sotto ghirigori di stelle come lumini nei giorni della processione.
Un giorno si trovò innanzi una grande foresta che riempiva l’ampia valle su sino ai contrafforti a settentrione e a meridione troppo impervi da poter essere superati agevolmente. In mezzo il fiume la attraversava ribollendo tra ripide rive. Lavinia stava cercando di capire come attraversare quell’intrico di alberi, quando un essere vestito di pelli, dalla folta capigliatura irsuta e ricoperto da una diffusa
crosta di fango gli si parò davanti.
“Ego sonto homo selvadego, e kesta l’è la mia tera!” urlò “ Cosa ti fa tu da keste parti, torna indrìo, no te volio ki!”
La fanciulla pose istintivamente la mano sull’elsa della spada, arretrando di un o.
“G’ho visto che ti g’ha una spada. Neh! Ma te si bona de usala? Mi g’ho el randel, te l’et visto?”
La sua voce non pareva minacciosa, ma quasi incuriosita.
Lavinia replicò “Non voglio usare la spada, non ce n’è bisogno. Forse che un gentiluomo come voi non voglia accompagnare una fanciulla attraverso questa oscura foresta?”
La risposta parve addolcire un poco l’uomo, che tuttavia tentò ancora di far valere il suo punto di vista.
“La foresta l’è mia e no ghe a nessun se non l’disi me”
“Ragione in più per non negarmi il braccio, Signore” fu la risposta della principessa. Colpito dalla prontezza della ragazza, l’uomo non replicò, e bofonchiando parole incomprensibili stette per qualche tempo ad osservarla,
mentre da parte sua Lavinia attendeva tranquilla.
Aveva riposto la spada nel fodero, e l’uomo di rimando aveva abbassato il grosso bastone. Si osservarono a lungo, e Lavinia notò il brillare azzurro degli occhi del suo singolare e indesiderato anfitrione
“E sia, seguite me.”
Mormorando tra sé, l’uomo fece cenno alla ragazza di seguirlo. Mentre camminavano, seguitava a borbottare frasi, delle quali Lavinia poteva udire solo frammenti: “l’è nela casa dell’omo selvadego…. L’è cà mia … ki sà sa la mia dona la turna … i sont du volte cinke anni ke’l no la vedo…”
Ad un tratto, forse vincendo la diffidenza, egli la attese per camminare affiancati.
“De dove è ke venite, voi?” Chiese curioso l’uomo.
“Dal regno dei Fanes, di là dall’ultima catena di monti che chiude la valle laggiù, ad oriente.”
“E perché siate ki?”
“Per amore” sospirò. E rispondendo a questa domanda andò col pensiero a Johan degli Oromboviri, che giaceva senza conoscenza in attesa che lei portasse a termine la ricerca del suo popolo.
“Per amore…” ripete` l’uomo quasi sospirando.
Non seguiva un vero e proprio sentiero, ma una traccia che solo lui riusciva ad identificare nell’intrico degli alberi. Fecero numerose svolte, tanto che Lavinia si sarebbe persa senza l’accompagnamento di quello strano uomo.
Giunti al limitare del bosco, l’uomo selvatico si fermò.
“Eco, l’bosco l’è bele ke finiì: adesso la ghe po’ andar de sola, dove ke g’ha de andare”
“Vi ringrazio signore, siete stato molto gentile” ,
L’uomo non si congedava dalla fanciulla, ed ella se ne accorse.
“Ditemi signore, dovete dirmi qualcosa?”
Pareva imbarazzato, e si vedeva che stava cercando le parole giuste.
“Una cosa, fiola, voleve dirghe. No g’ha mica veduu in giro ‘na dona vestida come mi, co li ochi verti e i cavei color del fogo? Son tanti anni, du volte la mia mano, che l’è ‘ndada via, e mi son ki ke l’aspeto”
“Mi rincresce, signore”, rispose la ragazza, sinceramente dispiaciuta del dolore dell’homo selvadego, “non ho visto nessuna donna come quella che descrivete. Ma se per caso la incontrassi, devo portarle una ambasceria da parte vostra?”
“Ecco, sì, Se la vide dighe kesto: ke son ki ke l’aspeto. E ke ghe vojo ben”
“Glielo dirò, non temete, e voi, quando tornerà, offritele questo” E quasi senza pensarci, gli porse il giglio vermiglio.
“Conservatelo con cura. Arriverà”. E si congedò da lui con un sorriso.
Giunse infine, dopo aver percorso il sentiero posto al centro della ampia valle, e superato un tratto paludoso, sulle rive del Larius, il grande lago.
La vista della superficie risplendente e le onde mormoranti sulle rive diede sollievo alla stanchezza che provava, ma non doveva lasciarsi sopraffare perché i giorni per il suo principe erano contati.
Chiese dunque del popolo degli Oromboviri agli abitanti di un villaggio denominato Summo Laco ma solo i più anziani ricordavano quel nome, appartenente alla gente che abitava oltre i monti che dal Pizzo Cengio proseguono a meridione sino alle creste del Monte Serada.
La invitarono a restare con loro per riprendere le forze, ma ella ringraziandoli per l’ospitalità chiese solo un po’ di cibo e di indicarle la direzione per il regno
del popolo di Johan.
Non avvezza a percorrere così lunghe distanze, sentiva la strada pesare sulle sue gambe. Si sosteneva appoggiandosi al bastone del suo amore.
Si apprestò a salire i versanti scoscesi della montagna, attanagliata dal timore di non giungere in tempo.
Ma la montagna era aspra e ripida, e presto il verde della foresta lasciò spazio ai ruvidi colori della terra e delle rocce.
Dopo breve tempo si sentì spossata e faticava a porre un o avanti all’altro. Ogni pochi i doveva riprendere fiato, ed essendo ella non nuova ai sentieri impervi, pensò di essere vittima di qualche incantesimo.
Proseguì lentamente sino a che si accorse di non riuscire più a vedere il terreno innanzi a se: era scesa una profonda oscurità, nonostante l’ora del tramonto fosse ancora lontana.
Il vento si alzò repentino, togliendo calore e portando pioggia pungente come aghi. Una tempesta improvvisa si abbatté con violenza sul fianco della montagna e presto la giovane si sentì gelata sino alle ossa, e nemmeno il mantello del principe riusciva a difenderla dalla tormenta.
Un imponente stambecco, incurante dello scatenarsi degli elementi, gli si parò innanzi.
“Vano è il tuo penare. Non arriverai mai in tempo. La terra di Johan degli Oromboviri dista ancora parecchi giorni di cammino, e la tormenta ti inchioda su questo versante della montagna. Torna indietro finché sei in tempo!”.
Ma ella replicò, ansando per contrastare la bufera che la lasciava senza fiato: “Allontanati dal sentiero, e lasciami il o, creatura della montagna. Se fosse stato solo per mio desiderio, già da tempo avrei abbandonato questa impresa. In verità, qualcosa di ben più grande mi guida, e questa tempesta non può fermarlo”.
“E cosa c’è di così potente da poter contrastare l’intero potere della natura? Io sono la natura stessa, e tu così debole non ti puoi opporre a me e alle mie leggi”.
“Eppure c’è qualcosa che ti resiste. Se sono qui è per l’amore che provo per Johan, e l’amore è più forte di ogni cosa”.
Lo stambecco si avvicinò, i suoi zoccoli possenti colpirono la roccia scaturendone scintille.
“Sciocca! Gli uomini cambiano, il tuo viso si coprirà delle rughe dell’inverno e l’amore svanirà tra voi come la neve in primavera. Vale la pena soffrire per questo?”.
Lavinia tentò di avanzare, ma il vento la ricacciava indietro.
Si sostenne al bastone di Johan e urlò in direzione dello stambecco senza più vederlo, che già la vista le si annebbiava.
“Vattene, niente potrà farmi desistere dal seguire il mio cuore. Io proseguirò nella mia ricerca, dovessi morire!”.
Si sentì mancare le forze, ma un ultima immagine riempì la sua mente: una imponente aquila scacciava a colpi di artigli lo stambecco e lo faceva fuggire. Pensò a Johan, che non avrebbe potuto salvare. Aveva fallito, aveva mancato alla promessa.
Poi perse conoscenza.
Si risvegliò tra le braccia di Johan.
“Tu qui? Ma stavi morendo solo pochi giorni fa! Com’è possibile che si compia tale miracolo!”.
Il giovane sorrise. “Pochi giorni! Forse non ti sei resa conto che vaghi tra le valli da più di due mesi. Ho avuto modo di riprendere completamente le forze. Anche grazie a te”.
La ragazza era confusa. “Così tanto! Credevo ormai di avere perso la speranza”. Si rifugiò tra le braccia di Johan, avvertendo con nuova emozione il calore del suo corpo.
“Ti sbagli, la speranza era sempre con te. Osserva la scritta sul bastone”.
Le porse il suo bastone che giaceva poco più in là, accanto alla bisaccia.
Ella osservò la superficie del legno. In alcuni punti il legno si era consumato e aveva modificato la forma delle incisioni, ora vi era rimasto un solo segno, una lettera dell’alfabeto runico .
“Che significa?”.
“Sul mio bastone vi era inciso in profondità solo quel simbolo, il resto erano ornamenti graffiati in superficie, per occultare la runa ad occhi non sapienti.
È un’antica runa, usata dai popoli del nord, il suo nome è Beorch, e rappresenta la betulla, albero di speranza. Per questo motivo ti chiesi di portare con te il bastone, affinché mai ti venisse meno la speranza. Mai”.
Lavinia si strinse più forte nell’abbraccio del principe.
Egli continuò:
“Mi avevi legato a te con un gioco crudele, e solo riscattandolo con il tuo sacrificio mi hai liberato dall’incantesimo, permettendo al mio corpo di riacquistare quella forza perduta nella ricerca dei tre fiori”.
“Ora però i tre fiori sono perduti!”.
“Non capisci? Non è grazie ai fiori che il nostro amore è suggellato, ma grazie al nostro cammino. Io ho fatto la mia ricerca solo per il tuo amore, e altrettanto hai fatto tu. È l’amore la cosa più importante”.
Le sorrise, ed ella ricambiò, e il loro sorriso univa in un solo luminoso sguardo il colore dei tre fiori.
La prese di nuovo in braccio e, alla luce del primo tramonto di primavera, la condusse a casa.
Artigli di drago
Solo chi è puro di cuore può stare al cospetto del Drago.
A percuotere tre volte il martello sacro sulla Roccia della Chiamata viene destinato Rutgard, sette primavere compiute da poco. Intorno a lui, illuminati dalla luna e da piccoli fuochi disposti a formare un grande cerchio, sedevano gli uomini delle tribù libere degli Orobii.
Hanno messo da parte le rivalità, i rancori. Hanno cessato di combattere tra loro per il raccolto dell'ultimo fieno della stagione, o per un diritto non rispettato.
Una minaccia più grande delle loro scorribande si è palesata, annunciata con rapide incursioni ai confini meridionali.
Ancora il suono del richiamo non ha cessato di echeggiare tra le pareti rocciose della piccola valle, e già il cielo è coperto da nere ali di Drago.
Il terrore antico è trattenuto a stento. Sanno che il nero Drago ha protetto la Valle per molte vite di uomini, ma nessuno di loro era ancora nato l'ultima volta che l'animale si era palesato alle tribù.
La cerimonia della Chiamata si è tramandata di sciamano in sciamano, ma nessun anatema può attenuare quel misto di terrore e speranza che sia annida nel cuore degli uomini della Valle.
Il superbo Essere è accolto con grida festose dagli uomini radunati:
“Onore a Bergh, drago fumante! Onore al salvatore del nostro popolo!”.
Le urla e il levare di scudi durano sino al momento in cui sono sovrastate da un agghiacciante ruggito, che ferma il cuore anche ai guerrieri più valorosi. In un attimo, il silenzio cade nella valle. Ignorando i capi e gli sciamani, lo sguardo del Drago si rivolge invece al bambino che lo osserva tremante avvinghiato alla roccia. Solo lui ha il permesso di parlare al drago.
“Bene, cosa abbiamo qui, un giovane guerriero! Dimmi, tu che hai avuto l’ardire di risvegliare Bergh il drago dal suo sonno: sai perché sono stato convocato?”.
Rutgard è stato istruito dagli anziani a rispondere a modo alle sue interrogazioni.
“Per difendere il nostro popolo dalla minaccia che giunge dalla Grande Pianura, così come hai fatto altre volte”.
“Hai risposto bene. Ho difeso queste valli dai Romani, poi dagli Arimanni, e così le difenderò anche dai Goti”.
“Ma come farai, li brucerai tutti?”.
Un mormorio di sgomento percorre il gruppo degli uomini: non era previsto che il bambino fe domande. Se Bergh si fosse indispettito per l’insolenza, essi avrebbero perso l’unica possibilità di salvezza.
“No, i popoli della Grande Pianura non si possono sconfiggere con le armi. I loro guerrieri sono troppo numerosi e il mio fuoco non è così potente. Dovremo vincerli con l'inganno, fare in modo che essi non si accorgano degli Orobii.
Renderò invisibile la valle, per loro non esisteremo”.
Il ragazzino replicò ,dimenticando le raccomandazioni degli anziani
“Ma perché lo fai? E come potrai renderci invisibili?”.
Ancora agitazione tra gli Orobii, ma un brontolio, simile ad una risata, giunse dall’essere.
“Sei sfrontato, ragazzino. Ma è grazie alla sfrontatezza di altri prima di te e del coraggio dei tuoi antenati che io mi sono preso a cuore il destino dei popoli di questa valle. Dunque ti risponderò”.
Si erse sulle zampe posteriori e allargò le ali, e il suo corpo grigio pareva un temporale pronto a scaricare fulmini sopra gli uomini ivi radunati.
“Sai cos'è la cosa più preziosa per un drago?”.
Di fronte al drago il minuscolo guerriero scosse la testa.
Bergh il drago si rimise a quattro zampe e avvicinò il muso al viso di Rutgard. La sua voce si fece sussurro.
“Molto lontano nel tempo ci fu un giorno in cui grandi eserciti invasero la pianura. Minacciarono anche le tribù degli Orobii, che non sarebbero state in grado, come non lo sono oggi, di opporre loro resistenza.
Un giovane uomo, poco più grande di te, trovò la mia tana, mi svegliò e mi chiese di proteggere le tribù della Valle. La sua sfrontatezza e il suo coraggio lo salvarono e mi convinsero a stringere con lui un patto di libertà: ogni volta che la Valle avrebbe avuto bisogno del mio aiuto, sarei accorso”.
“Sai perché mi convinse?” mormorò avvicinandosi al piccolo essere che lo guardava, ora, senza paura. Ancora una volta la testa del ragazzo si scosse in segno di diniego.
“Perché, al pari di molti uomini, la cosa più preziosa per i draghi è la libertà.
Pochi sono stati i draghi caduti nelle mani di uomini o di altri esseri molto più malvagi, ma nessuno di essi ha scelto di vivere, dovendo rinunciare alla libertà di volare oltre le nubi.”
“Libertà è poter sovrastare le montagne sino ad osservare la terra curvarsi in un
arco da oriente a occidente e da meridione a settentrione, e sentire che pure noi, draghi che coviamo il fuoco della Creazione nel nostro corpo, siamo testimoni delle età che furono e di quelle che verranno.
Libertà è essere i primi a sentire i raggi del sole scaldare il nostro cuore al suo sorgere.
Libertà è libertà di amare,qualunque sia la forma, il colore, la favella dell’essere amato”.
Pose la zampa sulla Roccia e vi piantò gli artigli, lasciando tre cavità rotonde su di essa.
“Questo sarà il sigillo del drago, il patto di alleanza con gli uomini. Porrò questo sigillo su molti massi nelle valli, formeranno una Cintura di protezione, e le nebbie nasconderanno le nostre terre.
Ricordalo Rutgard, ciò che il drago Bergh ti dice. La salvezza degli Orobii, tuo popolo e di tutti gli uomini sta nel saper lottare per la libertà.
Fai in modo che il tuo popolo lo ricordi per sempre”.
E con un solo battito d’ali, scompare, lasciando gli Orobii ammutoliti e perplessi, coi cuori colmi di speranza.
Rutgard posa la mano sulla Roccia della Chiamata, sfiorando con le dita le incavature della roccia lasciate dagli artigli del drago.
Poi si mette a giocare con una cicala trovata nell’erba.
Riccardo gioca da solo, cercando con le dita quelle incavature della roccia posta al centro del parco giochi. La noiosa vacanza con la nonna diventa avventura per un bambino di sette anni.
Coppelle, così chiamano quei segni , e gli hanno detto che sono testimonianze di riti preistorici.
Ma lui sa che sono ben altro.
Segni di antiche battaglie, o ferite sulla roccia inferte da animali fantastici.
Magari, perché no, tracce di artigli di drago.
Vento
Il fruscio dell’erba frustata dal vento di primavera salutò l’incontro dei corpi che lo generarono, e il brontolio del tuono e l’agghiacciare dei lampi annunciarono la sua venuta al mondo.
Conobbe l’asprezza delle cime e la dolcezza del latte appena munto, e quando ebbe l’età per camminare, apprezzò la tranquilla morbidezza del fondo valle, e l’aspro sapore delle mele ancora acerbe.
Il padre e la madre lo lasciarono alle cure del nonno Josepp, perché troppo presto la furia della montagna si appropriò dei loro corpi terreni, seppellendoli prematuramente sotto una frana. Ma egli insegnò al bambino che le loro anime, libere dai vincoli della Terra, sarebbero state sempre al suo fianco.
Da lui ereditò, oltre al nome, l’orecchio attento ai suoni del mondo, e fu il nonno a costruire per lui il primo strumento, una siringa fatta con le canne del lago, dall’incerta accordatura.
Ma prima di essa, Josepp aveva già imparato la musica della montagna che cantava per lui nel luccicante gorgogliare del ruscello, nei richiami degli uccelli e nei fischi delle marmotte.
Imparò a riconoscere il suono del vento, a distinguere il soffio leggero che accarezzava i prati dal sibilo minaccioso preludio di tempesta.
Al suo avo tornava sempre, dopo aver appreso un nuovo suono dalla montagna, per imparare a riprodurre quel suono con gli strumenti che il nonno, bravo artigiano, gli produceva.
Chiedeva: “Nonno, sai costruire un piffero? Fammi un piffero dal ramo di quel faggio laggiù, e insegnami a suonarlo, te ne prego”.
E il nonno costruiva un piffero, o un ottavino , o un tamburo o qualsiasi strumento egli desiderasse.
In breve tempo la sua abilità nel suonare fu tale che i pastori, ascoltandone la musica, lo pregavano di trattenersi con loro sino al tramonto.
Chiese al nonno: “Perché non mi fai un’ocarina? Ha un bel suono, l’ocarina, vi racchiude il canto della terra di cui è fatta”. E il nonno impastò l’argilla e fabbricò due ocarine, che insieme suonarono in cima al monte per salutare il tramonto.
ò al giovane tutte le conoscenze sulla costruzione di strumenti, mentre per comporre melodie e acconciare testi sopra di esse il nipote non ebbe mai bisogno di insegnanti.
Suonarono insieme musiche antiche e insieme composero nuove melodie: dal mormorio di una vecchia donna traevano spunto per una frase musicale che contenesse in essa la fatica e il peso del tempo che scorre, mentre dal ruscellare dell’acqua dopo un acquazzone nasceva un canto sulla bellezza del creato
Una stagione ò, e il chiudersi dei giorni si avvicinò al loro aprirsi. Il ragazzo sottopose al nonno una richiesta più difficile: “Tu sai come si costruisce un baghet? Mi piacerebbe suonarlo”.
Josepp il vecchio, sorridendo, chiese al ragazzo di aiutarlo, che quella era una impresa troppo difficile per un vecchio come lui. E arono l’inverno scegliendo legni, conciando pelli, fresando canne e limando ance, sino a che la piccola cornamusa di montagna fu pronta.
Allora insieme andarono per le osterie delle valli ad imparare e a cantare i canti della tradizione e insieme, alle feste, cavavano suoni dai loro strumenti. Divennero così famosi per tutti i villaggi, conosciuti come i portatori di musica.
Venne il giorno in cui il giovane chiese al nonno un nuovo strumento. “Nonno, ricordi la bella cetra che suonava il Berto? Saresti capace di farne una così?”.
Ma il nonno non rispose.
Più a nessuno parlò il nonno, perché i suoi giorni sulla terra si erano consumati.
Ad accompagnarlo al camposanto furono in molti , suoi debitori di un momento di serenità , mentre nenie struggenti create dal nipote riempivano il doloroso silenzio.
Dopo il funerale ò lunghi giorni nei boschi, o sopra le ruvide rocce, a gareggiare col vento nel comporre melodie. Era rimasto solo, e vagando sulle
montagne si ritrovava a piangere a ogni tramonto.
Un giorno il vento col quale duettava gli portò il ricordo delle serate ate a suonare, fu preso dalla nostalgia e si accorse che era tempo di riprendere quella vita.
Era giovane ancora, ma aveva imparato dal nonno a distinguere il vino buono da quello cattivo, a scorgere negli occhi la verità del cuore, o nel ghigno inespresso il tradimento incipiente.
Per questo la sua musica era sincera come il suo animo, e per essa era amato da tutti.
Quasi senza accorgersene, vagando di borgo in borgo per ricordare il suo mentore, divenne cantore delle storie delle valli, e col suo cantare cominciò a guadagnarsi il pane.
Fu chiamato Vento, perché come esso traeva suoni fa ogni cosa, e detti suoni raccontavano le stagioni della vita, così come il vento giunge ad ogni volgere del sole.
Ben presto il suo nome apparve nei proclami di annuncio delle feste più importanti, e la sua fama crebbe sino a giungere alle orecchie del conte Arduino, Signore della valle e dei suoi abitanti, gli Orobi.
Fu portato al suo cospetto, e gli fu chiesto di suonare per il suo signore. Dopo
averlo ascoltato, il conte Arduino chiese a Vento di restare presso di lui.
Era un signore generoso, e le giornate ate a corte erano ben ricompensate. Venne dunque accolto sotto l’ala protettrice del conte, che apprezzava la musica e si interessava a come delle composizioni di legno e di metallo potessero produrre suoni così mirabili.
Chiedeva al musico di spiegargli i meccanismi che permettevano di estrarre suoni dagli oggetti, e Vento, con pazienza, spiegava quanto aveva appreso da suo nonno.
Lentamente, senza avvedersene, il giovane si adagiò mollemente in quella vita fatta di feste, danze, grandi banchetti, oltre che ammiccamenti e corteggiamenti alle servette.
Trascorse ivi lieti giorni in compagnie di dame e cavalieri, ma vuoti, e nelle notti stellate, al sorgere frastagliato del disco lunare tra gli alberi già carichi di frutti, egli posava la cetra e vagava, col pensiero, sopra le valli addormentate, sopra villaggi punteggiati da insonni lanterne, sopra il volo silenzioso dei rapaci.
E in quei viaggi che con lo spirito faceva oltre le mura anguste del castello ritrovava il suo avo e maestro, e poteva confidare a lui i pensieri del suo cuore, il disagio che provava nel sopportare le malignità e le piccineria della vita di corte.
Solo nel conversare di musica e strumenti con il conte Vento ritrovava l’entusiasmo, che tuttavia permaneva non oltre la durata della conversazione.
Continuò a suonare, ma la sua musica si fece piatta, monotona, in essa non si riconoscevano più i suoni del vento sferzante le cime, o il mormorio delle acque solcanti le valli.
Ma gli mancava il coraggio di cambiare vita, di tornare alla semplicità delle serate nelle osterie, distratto com’era dai continui amoreggiare e dai motti e dai lazzi dei cortigiani.
Il conte si accorse dell’accidia che aveva colpito Vento, ma l’attribuì ai rumori della guerra incombente.
Si stava preparando infatti una guerra contro il popolo dei Reti che, discesi lungo la valle dei Camuni, premeva ai confini del regno.
Si accesero dunque i combattimenti, dapprima con scaramucce sui valichi di confine, poi con sanguinosi scontri nelle valli, per poi allargarsi nella pianura, coinvolgendo Insubri, Liguri, Cenomani.
Anche l’esercito del Signore degli Orobi, eccettuata una piccola guarnigione a difesa del castello, fu convocato dagli alleati della Grande Pianura.
Ma il numero di armati era troppo esiguo, e dunque il conte Arduino stabilì che chiunque fosse in buona salute e abile nel portare un’arma doveva contribuire all’esito della guerra.
L’ultimo drappello che lasciò il castello, accompagnato dal composto saluto dei
nobili e dal pianto delle donne, vide perciò anche Vento tra le sue file.
Con un impeto di ardore, il giovane aveva deciso che sarebbe stato meglio perdere la vita in battaglia piuttosto che sciuparla nelle schermaglie di corte.
Salutò i compagni delle feste nel castello e il conte, ma il suo cuore non era oppresso, in fondo non erano veramente suoi amici, e parenti non ne lasciava. Meditava anche di abbandonare per sempre quelle terre, e cercare fortuna, una volta cessata la guerra, in altri luoghi.
Quando però, ando per il villaggio natio, tra la folla che salutava gli armati scorse il volto di Rebecca, una ragazza che conosceva sin da piccolo, il cuore gli balzò in petto, e capì che la sua terra lo avrebbe richiamato a sé, un giorno.
Non era mai stato oltre l’inizio della valle , e al vedere la terra così uniforme, senza un’altura , una cima su cui posare lo sguardo fu preso da uno sgomento, un senso di insicurezza che fece dimenticare persino la paura della guerra.
Ebbe solo pochi giorni per coltivare questa sensazione, perché presto il suo drappello fu chiamato alla battaglia.
Dimenticò presto il suono dell’arpa, coperto dal clangore della spada, che spesso affondò nelle carni dei nemici.
Si coprì di gloria, così come di sangue e di polvere, e scoprì che la guerra è una cosa sporca e che la nobiltà non era data dal rango ma dall’animo.
Alla fine del grande scontro le armature create per splendere al sole giacevano come luridi rottami a coprire corpi un tempo pieni di vita.
Le tele dei vessilli eretti a testimoniare l’orgoglio delle signorie servivano ora ad asciugare il pianto e a contenere ferite.
Ovunque sui campi di battaglia lamenti a cui Vento poteva rispondere solo con il conforto di un sorso d’acqua o con la muta presenza sino a che l’anima si allontanava dal corpo martoriato.
Non seppe mai chi vinse, perché tra i comandanti dei regni avversi vi fu in seguito un accordo vantaggioso per entrambi, a spregio del sangue versato dall’una e dall’altra parte.
Il suo drappello era decimato, e si ritrovarono in pochi, sbandati, abbandonati da chi avrebbe dovuto guidarli sino alla morte ed era invece fuggito alla vista del primo sangue, ad allontanarsi da quei luoghi di morte per non sottostare alla prigionia che li attendeva, ostaggi di politiche troppo grandi per loro.
Di foresta in foresta, per timore di incontrare pattuglie nemiche, di borgo in borgo, nei quali recuperare, a volte pagando, più spesso sottraendo, qualcosa da mangiare, Vento seguì il gruppo di soldati dispersi.
Camminavano verso oriente, seguendo il corso del grande fiume, spesso rallentati da acquitrini, che sfruttavano sovente immergendosi sino ai ginocchi e anche oltre, per lasciare il minor numero di tracce.
Dormivano di giorno nascosti dai rovi del sottobosco o in casolari abbandonati nel fitto della foresta, e camminavano di notte, se solo la luna era loro amica, o nelle incerte ore a cavallo tra l'oscurità e l’alba.
Un giorno, oltre piccole alture coperte da una vegetazione rada e secca, videro il mare.
La più gran distesa d’acqua vista da Vento sino ad allora era stato il Grande Lago a occidente, la volta che il peregrinare lo aveva condotto ai villaggi che vi si affacciavano.
E già a quel tempo lo stupore fu grande, non immaginando potesse esistere più acqua di quella contenuta nei minuscoli laghetti alpini le cui rive si percorrevano in pochi minuti.
Chi li aveva accompagnati sino a lì disse che quello era un mare piccolo, e che a raggiungere l’altra sponda sarebbero stati necessari solo pochi giorni di navigazione. Esistevano invero, così gli aveva raccontato un suo cugino marinaio, mari così ampi da richiedere lunghi mesi per essere attraversati, e così pieni di creature terribili, leviatani e lamantini, kraken e calamari, da far impallidire qualsiasi rude lupo di mare.
Vento non li ascoltava, colpito dalla calma vastità di quella piatta superficie. Altri uomini d’alpe suoi compagni provarono inquietudine, distogliendo lo sguardo e ritornando nella terra oltre le dune.
Egli invece ne fu stregato, complice anche il rumore della risacca che suggeriva al suo orecchio e al suo cuore melodie incantatrici.
Ma l’incanto fu presto dissolto da un senso di vuoto, da una domanda che, sola, invadeva la sua mente: perché?
Al cospetto della vastità del mare egli pensò che tale doveva essere anche il creato: vasto e imperscrutabile e che agli occhi del Dio che lo governava i litigi degli uomini dovevano apparire poca cosa.
Mentre i compagni si apprestavano a seguire la costa verso sud alla ricerca di un rifugio, egli rimase sulla riva, ad osservare il mare che lentamente assumeva il colore del metallo brunito, infuocato talvolta sulla cima di un onda dai raggi del sole che stava morendo alle sue spalle.
Perché? Perché l’uomo infonde così tante energie, sacrifica così tante vite alla guerra?
Pensò che l’umanità non meritasse di vivere nella bellezza del creato. Che non meritasse nulla di ciò che vi era di bello in esso.
Che non meritasse la sua musica.
Aveva due strumenti nella sua bisaccia, da cui non si era mai voluto separare. Prese l'ocarina e la gettò tra le onde che andavano formandosi al sopraggiungere di un temporale.
Fu in quel momento che un vento impetuoso gonfiò le onde già alte, abbattendole con un rombo sulla battigia.
E tra il mugghiare della tempesta e il ruggito delle onde, a Vento parve di udire parole di rimprovero.
“Perché hai gettato tra le onde quello strumento? Forse pensi che non ne avrai più bisogno?
Perché vuoi fuggire al tuo destino? Sei stato predestinato per portare gioia e conforto alle genti, lo hai dimenticato?
Non cercare altrove ciò che puoi trovare dentro te.
Ascolta il vento, non porta più canzoni.
Porta la voce del tuo cuore. Questo devi fare! Dare voce al tuo cuore”.
E Vento ascoltò.
I compagni d'armi non vollero seguirlo nel viaggio a ritroso. Temevano che gli armati dell’opposta fazione cercassero ancora chi si era sottratto alla punizione prevista.
Sarebbero tornati forse, un giorno. Non oggi. Abbracciandoli, Vento si congedò da loro e prese la strada del ritorno.
Percorse a ritroso i luoghi della guerra, e a ritroso ritrovò il ricordo di ogni caduto , di ogni amico perduto.
Nessun armigero era rimasto, tutti avevano qualcuno da ritrovare, una famiglia con cui vivere, bambini con i quali giocare e ridere, vecchi amici da ritrovare. Tutti erano tornati a casa, dove qualcuno li stava aspettando. Tutti, tranne lui.
Quale fosse ora il senso della sua vita, non lo sapeva.
Come poteva tornare e seguitare a spostarsi da un villaggio all’altro a suonare melodie di festa? Con che coraggio si poteva accostare a mogli che avevano perduto i mariti, a madri che non avrebbero più rivisto i propri figli, a bambini cui il padre non avrebbe più provveduto?
E poi, chi avrebbe condiviso con lui il sommarsi dei giorni che portano tutti gli uomini verso la musica infinita?
Pure, proseguiva il suo cammino.
E il profilo dei rilievi si avvicinava ogni giorno di più.
Già riconosceva alcune cime imbiancate da brevi recenti nevicate. L’ inverno avanzava a grandi i, ed egli avrebbe voluto tornare al suo villaggio natio prima che la grande neve arrivasse a impedire il aggio.
Fu finalmente alle pendici dei primi boscosi contrafforti che delimitavano la valle. Si fermò, incerto se proseguire.
Che cosa avrebbe detto alla sua gente? Vento, il cantastorie, è tornato! A chi sarebbe importato? C’erano case da ricostruire, campi da coltivare, chi mai si sarebbe fermato ad ascoltare le musiche di uno sbandato?
Un rombo, forse un temporale fuori stagione, lo scosse. Troppo simile al ruggito del mare, quel suono gli ricordò le parole comprese sulla riva.
“Dai voce al tuo cuore!”.
Proseguì.
Giunto in prossimità del colle che sovrastava il villaggio, vi salì e lo osservò dall’alto.
Le vie erano affollate, ricordò che era giorno di mercato. Tutti parevano sereni, anche se egli sapeva che dolore e morte avevano colpito molte famiglie nel villaggio.
In essi egli tuttavia vide la speranza di un mondo migliore, che poteva sorgere dalle ceneri di questa guerra.
Non sarebbe stato domani, ma un giorno, forse, la pace, la vera pace avrebbe vinto.
Entrò nel villaggio e raggiunse la piazza. Nessuno lo aveva riconosciuto, ancora.
Estrasse dal tascapane il solo strumento che gli era rimasto.
Lo aveva costruito insieme al nonno, dal legno di un cirmolo che era stato abbattuto dal vento. Era destino che da una vittima della furia di Eolo si dovesse trarre uno strumento a fiato.
Era un semplice flauto di legno, così comune che quasi tutti gli abitanti della valle ne avevano uno; con esso incominciò a tessere melodie.
Poche note acute sovrastarono il brusio del mercato, ma sufficienti a richiamare i più attenti. Si radunò una piccola folla intorno a lui, molti gli indirizzarono cenni di saluto, sguardi di benvenuto, senza volerlo interrompere.
Suonò e suonò ancora, e il cuore della gente intorno si fuse al suo. I suoni, dall’aria entravano direttamente nell’anima. Il tempo di piangere era cessato, una vita nuova si stava aprendo.
Vento osservava ad uno ad uno tutti i volti, molti di essi gli erano familiari, e provava piacere nel vedere quella gente , ma nel contempo osservava i morsi della sofferenza che la guerra aveva causato sui loro volti.
Fu quando incontrò il volto di una giovane e in lei riconobbe colei che gli aveva gettato l’ultimo sguardo prima della partenza della guerra, riconobbe Rebecca.
La sua gente aveva bisogno di lui, della sua musica.
Ed egli aveva bisogno di loro, della loro felicità, di Rebecca e del sorriso dei bambini, del vino delle osterie e del suono del vento tra i rami dei larici.
Suonò più forte, con tutta la sua anima, e chi gli stava intorno fu rapita dalla sua musica. Iniziarono ad accompagnarlo con il battito delle mani, con tamburi improvvisati. Qualcuno tirò fuori dall’armadio una chitarra, poi apparve una fisarmonica.
Si aggiunsero altri strumenti, alla musica si sovrappose la voce di alcuni.
Le donne accennarono ad un o di danza, e presto una allegra sarabanda coinvolse tutto il villaggio.
Il volto rubizzo per il gran soffiare, Vento guardò ancora la sua gente euforica per la musica che aveva portato.
Era tornato.
Piana dell’Acquanigra
Ancora una volta è scesa la notte. E con essa l’alito gelido del drago che dimora su, al o.
C’è chi giura di averlo visto, ali di nebbia, sguardo di ghiaccio, silenzioso nel suo sorvolare i pendii rocciosi a portare gelo e solitudine, ma i più sono certi che sia solo una leggenda.
Altri sono i pericoli che attendiamo dall’alto: un cozzare di lance e di spade, un roteare di mazze e di picche. Siamo pronti, quei barbari non eranno.
Vogliono invadere la nostra terra, devastarne i raccolti, rubare le nostre bestie, violentare le nostre donne. I nostri cugini delle valli del Nord sono stati travolti da questi uomini nudi e urlanti una lingua mai udita prima.
Abituati più alla lama dell'aratro che a quella della spada, hanno posto loro una debole resistenza, e presto sono stati sopraffatti. Ma noi, popolo di guerrieri, siamo vigili, e al o abbiamo tenuto testa a centinaia di uomini, respingendo i loro attacchi per giorni e notti.
Ora attendiamo, qui alla Piana dell’Acquanigra. Abbiamo ripiegato per far credere loro di aver rinunciato alla difesa delle nostre belle montagne ed essere tornati alle nostre case.
Ci siamo fatti tutt’uno con la torba che riempie la piana. Neri siamo, e invisibili.
Altri di noi attendono tra gli arbusti di mirtilli e i giovani larici. Non temiamo il ghiaccio, non ci spaventa la neve. Ci siamo fatti roccia, ci siamo fatti terra, pronti a sguainare le armi al segnale.
I barbari attraverseranno la piana, allora ci muoveremo come fantasmi, come diavoli neri li circonderemo, non daremo loro tregua sino a che l’ultimo loro respiro non sarà cessato.
Ancora una volta è calata la notte. Fredda, più fredda delle altre.
L’attesa si fa tesa, il vento penetra e raggela anche sotto le pelli che ci proteggono. Le stelle rinunciano a farsi strada tra i barbigli di nuvole che si posano sui versanti rabbrividiti delle montagne.
Verranno, ne siamo certi. Solo non sappiamo l’ora.
La notte si allunga, il gelo morde con denti sempre più affilati. Molti nostri compagni hanno ceduto alla tentazione di chiudere gli occhi.
Hanno sognato il caldo conforto del focolare, la zuppa fumante e il giaciglio protetto dalle grosse travi scricchiolanti.
Ma hanno raggiunto un oblio più profondo, facendosi terra nella terra.
Altri hanno prolungato l'agonia, stringendo le armi sino ad impallidire le nocche, ma anche per loro il gelo ha preso il sopravvento.
È stato il freddo mantello della notte a sconfiggerci, non le orde di barbari invasori. Dodici dozzine di guerrieri sono stati divorati dal grande drago di ghiaccio. I nostri corpi giacciono nella piana, neri come la terra, in attesa.
Ci coprono manti di eriofori, che agitano al vento i loro candidi barbigli, che alla luce della luna paiono fantasmi vaganti per la piana, quali noi siamo.
Ci copre la coltre compatta e soffice della prima neve, che uniforma terra e roccia, rende uguali tutte le cose, crea evanescenti sculture quando si allea col vento e col gelo.
Le stagioni si inseguono, ma neppure il sole estivo scioglie il gelo che ci attanaglia.
Molte vite di uomo si sono succedute, e tanti sono i piedi, non più ostili, non più, che ci calpestano.
I nemici, tuttavia, un giorno arriveranno. Noi siamo pronti. Sotto la torba e quest'acqua nera vi sono le nostre anime.
Che attendono.
Il capitano e la fanciulla
Il sole aveva cessato di indorare l’acqua del lago e si era coricato dietro i monti.
L'uomo aveva posato la spada, la punta tra le onde a raffreddare l’odio e il sangue che la ricoprivano.
Era stanco.
L'erba sotto il suo corpo era fresca, emanava un sottile profumo. Erba novella, buona per il pascolo. Chissà se la sua mandria c'era andata, al pascolo, quest'estate.
Nauseato per tutto il sangue versato, le gambe verso l'acqua del lago che pigramente sciabordava, portava la testa all'indietro, scrutando le pendici della montagna striata dal sangue di guerrieri e di draghi.
Gli abitanti del borgo di Amandael avevano accolto lui e i suoi armigeri senza dire una parola, rifocillandoli e ospitandoli nelle loro case. Il nemico era stato respinto, ma il prezzo pagato era stato molto alto.
Tre dei suoi uomini erano stati uccisi, e molti giacevano senza conoscenza, preda dell’alito del drago. Anche tra gli uomini del lago molti erano stati e giacevano ancora in un torpore dal quale nulla poteva svegliarli.
Per altri, solo il silenzioso aggio al sonno eterno.
Lo sciamano del villaggio stava facendo tutto quanto era in suo potere, ma al vedere la natura delle ferite aveva scosso la testa.
Molti tra gli uomini persi erano stati suoi amici, e tra chi giaceva nella terra del piccolo cimitero del villaggio vi era suo fratello.
Con lui aveva ato molte stagioni a condurre le bestie sull’alpe. Avevano insieme riso e provato paura, arrampicato e scaracollato giù per discese interminabili, sognato giovinette da corteggiare e famiglie da costruire.
La vita lo aveva poi condotto per altri sentieri, lui Capitano delle guardie del Signore , e il fratello ancora là, sull’alpe a preparare formaggi e osservare tramonti.
Ora si rammaricava di aver chiamato anche lui, quando gli fu ordinato di raccogliere uomini per snidare i diavoli del Montcöden, che terrorizzavano la riva orientale del lago.
Il fratello aveva lasciato a malincuore le bestie e lo aveva seguito, perché aveva fama di grande Capitano, che mai aveva subito una sconfitta.
Piangeva, per quella e le altre perdite, ma un comandante obbedisce sempre al suo Signore, anche a costo della vita. Propria o degli altri. Anche a costo di sentirsi per l'eternità responsabile della morte o della mutilazione di chi ti
considera un eroe.
Pensieri vani, come il risaccare dell’acqua.
Un fruscio tra le canne lo allertò. Non mise mano alla spada: un nemico non avrebbe fatto un tale rumore.
Infatti apparve ai suoi occhi una giovane del borgo. Portava una cesta colma di cibo.
La osservò, sorpreso dal suo incedere a un tempo stesso leggiadro e incerto. Non portava le vesti infagottate dei contadini, ma una tunica leggera che ne esaltava le forme, suscitando in lui più di un’emozione.
Le spalle dritte, i seni sboccianti dalla tunica, le braccia diafane e vellutate la rendevano una creatura desiderabile a chiunque fosse dotato di occhi e non fosse più un bambino
“Il capo villaggio mi ha chiesto di portarti da mangiare e bere”.
Il cavaliere fece un cenno come per ringraziare, ma la ragazza lo fermò, posandogli la mano sulla spalla.
Ebbe come un brivido. La mano della fanciulla, avvertita da sotto la tunica, pareva senza calore.
Lei riprese: “No, non occorre. Siamo noi a doverti ringraziare. I diavoli del Montcöden opprimevano il villaggio da anni, pretendendo tributi, e quando i denari e le bestie scarseggiavano, il pagamento era richiesto sotto forma di giovani donne.
Nessuno riusciva a tener loro testa.
La nostra resistenza era debole, solo qualche audace osava porre mano alla spada, ma quelli erano troppi e troppo crudeli, e del ribelle restava in breve tempo solo il ricordo.
Si dice che i Diavoli lo affogassero nel punto più profondo del lago, affinché il suo corpo non potesse più tornare in superficie”.
La osservò. Era molto bella, ma qualcosa nel suo volto gli pareva ambiguo, sfuggente.
Gli zigomi alti, il viso lungo tradivano l'appartenenza ad una gente che non era di quel villaggio.
Cercò lo sguardo della giovane, ma ella si voltò. Per un attimo l’ondeggiare dei capelli rivelò una strana ferita sul collo, dietro l’orecchio. Svelta la ragazza si pose il cappuccio del mantello sulla testa, e quel gesto non fece che accrescere la curiosità del capitano.
“Com’è cominciata la guerra?”.
Sapeva già le ragioni, ma le volle sentire dalla voce della fanciulla. Forse per ascoltarne la cadenza sensuale, che rapiva nell’ascolto, o forse per un dubbio che lo rodeva nel cuore.
“Si iniziò a causa dell’acqua.
Le tribù del Montcöden chiedevano l’accesso al lago, che a loro dire, gli era stato concesso molti anni addietro, ma poi improvvisamente era stato loro negato.
I notabili del paese avevano consultato i documenti in loro possesso, ma non risultava nessuna concessione o contratto. Nessuna carta che parlasse delle tribù del Montcöden.
Quelli allora chiesero di nuovo, e i nostri negarono ancora il aggio. Iniziarono allora i primi scontri, si ò alle scaramucce, e da queste alle battaglie, che confluirono in una lunga guerra”.
Il Capitano aveva ascoltato il commento della ragazza in silenzio. Corrispondeva alla relazione che aveva spinto il suo Signore a convocare la sua Compagnia e a metterla a disposizione dei suoi alleati del Lago.
Un dubbio, tuttavia, si era affacciato dapprima con timidezza poi, al proseguire del racconto, con sempre più decisione.
“Li chiamate Diavoli del Montcöden, ma io li ho visti, ho visto il loro sangue, udito i loro lamenti. Sono uomini, coriacei e pericolosi, ma uomini.
E l’alito del drago altri non è che la nebbia che sale dalla pianura e si sfilaccia tra le guglie del monte”.
Posò il piatto colmo di cibo. Ne era stato attratto, ma ora era assalito da un senso di nausea.
Levatosi in piedi, incalzò la ragazza, con domande, mentre l’ansia lo prendeva, insieme alla paura di aver compiuto azioni inutili e di aver condotto alla morte uomini a causa di un disegno oscuro.
Ella abbassò il viso, forse a nascondere segreti che temeva di svelare.
“Guardami, quando ti parlo!”. Le prese il volto tra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi.
E da quegli occhi fu rapito.
Nello stesso tempo, comprese di essere vittima di un inganno e di avere di fronte l’essere femmineo più bello e sensuale mai visto sulla terra.
Seppe che a scatenare la guerra non erano stati gli abitanti della montagna, e nemmeno gli uomini del lago: altre presenze avevano la scintilla, perché il dolore del conflitto avvilisce le anime, e più facile è il loro controllo.
L’intento era proprio quello di mettere le genti le une contro le altre, per imporre la propria legge a entrambi i popoli.
E gli uomini scomparsi non erano morti, ma resi schiavi per soddisfare le ambizioni degli occulti esseri che si nutrivano di dolore.
Questo aveva saputo guardando negli occhi la fanciulla.
Lo aveva saputo perché anch’ella era parte di quella stirpe, che inseguiva il dominio di tutte le genti del lago, per instaurare un regno di dolore e di morte.
Voleva allontanarsi da lei, ma il suo sguardo lo ammaliava, e non riusciva a provare nessun sentimento ostile.
Mentre lui la guardava, sembrava recitare incantesimi. Quello che egli comprese fu una sola parola: “Resta”.
Ora nei suoi occhi vide promesse di notti infinite tra le stelle, cullati in una alcova galleggiante sul lago. Vide potere, voluttà, vide il dipanarsi di un amore esclusivo, apionato e sensuale.
L’immaginazione corse verso banchetti festosi approntati in suo onore, balli, musiche, cibi succulenti, poi notti calde, baci apionati e ancora potere, facoltà di decidere del destino di altri.
Ma, più forte, in lui albergava un senso di onestà e giustizia come mai in altri uomini , e il turbinio di immagini gli mostrò quale dura realtà di sofferenza lo avrebbe atteso.
Perché tutto questo si sarebbe realizzato giurando fedeltà alla stirpe della fanciulla, tessitori di trame avidi di puro potere.
La tentazione era forte, gli occhi lo stregavano, si sentiva scivolare verso il completo abbandono, ma il dolore per il sangue versato a motivo dell'interesse di altri lo scosse.
Rivide i suoi compagni feriti, il corpo esanime del fratello, i pianti delle donne e dei bambini che mai avrebbero dovuto vedere sangue e distruzione.
Allontanò bruscamente il volto della giovane dal suo. Era bella, ma di una bellezza perfida.
"Non posso" rispose.
Due parole, due sole parole racchiudevano tutta la nostalgia della sua terra, del sorriso della sua gente, tutto il dolore per il fratello perduto, tutta la fatica del combattere, e tutti i progetti per il domani.
Non più ammaliato dalla fanciulla, vide distintamente il suo futuro, ed era fatto di terre alte e bestie da accudire, di una casa e di una donna, di inverni accanto al fuoco e estati di canti e mietitura.
Mai più avrebbe mietuto vite.
Riprese, con voce bassa ma decisa. “Non avrai il mio cuore, incantatrice. Il tempo dell’inganno e finito”.
Lei gli voltò le spalle, sdegnata.
Raggiunta la riva, si liberò del mantello e della veste, rivelando la sua nudità diafana, e colmando il capitano di imbarazzata sorpresa.
Ma fu solo quando si gettò nell’acqua, disegnando un elegante cerchio e senza sollevare spruzzi, che notò le squame che aveva sulla schiena e l’elegante coda di pesce al posto dei piedi.
Al monte
In nomine Sancte Trinitatis. Amen.
Mio caro Jacobus , fratello nella Fede di Nostro Signore,
perdonami per aver mancato nei tuoi confronti, non avendo subitamente risposto alla tua lettera.
Gli accadimenti di cui sono stato spectatore e nei quali non per mia volontà, ma per volere divino, ho avuto pur piccola parte mi hanno condotto in uno stato di confusione che solo un lungo periodo di preghiera e digiuno hanno cancellato. Ora posso narrare di quanto ho veduto con serenità e chiarezza.
E volentieri rendo a te, amico caro con cui ho condiviso il pane per tanta parte del nostro cammino spirituale, testimonianza delle mie vicissitudini.
Ecco dunque quanto avvenne.
Tu sai come il mio ruolo di alluminatores che occupa la maggior parte delle ore di luce molte volte sino a compieta (dalla partecipazione comunitaria ai vespri sono stato dispensato dall’abate in persona, purché li recitassi durante il lavoro) mi pone sovente a studiare approfonditamente i testi che mi sono dati acciocché le immagini da me create siano confacenti a quanto scritto.
Orbene, mi era stata data una copia già completa della Apocalisse di San Giovanni, ben realizzata in littera textualis con mano ferma e tratto deciso da fratello Alcherius.
Sai anche bene, avendolo tu stesso appreso dal nostro abate di allora, padre Algiso, che i colori necessari ad acconciare in modo adeguato una miniatura sono otto, vale a dire il nero, che è una certa terra nera o pietra naturale, il bianco, che si trae dal piombo, il rosso che è terra rossa ovvero da zolfo e argento vivo, detto cinabro. Gli altri sono il giallo, l’azzurrino, il violaceo, il rosaceo e il verde.
Sappi dunque che per tale lavoro, il padre priore dettemi indicazione di usare il cinabro, in vece della terra rossa detta macra, per causa del grande valore di detto libro, comandato e pagato con molti danari da nobile persona.
Ne avevo completata già buona parte, e mi trovavo all’incipit del capitolo duodecimo, ove il terribile Drago insidia la Donna dell’Apocalisse. E lì mi fermai, a causa di due incidenti del tutto insignificanti, ma che mi condussero a patire grande spavento e a turbare il mio spirito.
Letto che ebbi il capitolo duodecimo, e trovatovi un errore sì picciolo che trascurai di chiamare Alcherius, ma che corressi subitamente, il mio pensiero si impicciò su quali forme dovessi dare al drago da porre nel capolettera.
Avevo bene in mente le figure pittate di draghi che avevamo posto sui sacri libri usciti dal nostro scriptorium, ma per questo tomo le immagini dovevano esser più ricche, più reali, indurre nel lettore la vivissima impressione di trovarsi lì nel momento dell’accadimento.
Mi venne peraltro un pensiero siffatto. Per quale ragione il male si debba rappresentare con una bestia, cotanto terribile quanto un dracoone, ma pur sempre priva di intelletto e di anima? Non sia forse più con ragione il male essere descritto secondo le fattezze umane?
Non sono forse gli uomini, ab initio con il nostro avo Adamo, a voltare le spalle a Dio? E tutto il male del mondo non è forse causato dall'agire di uomini che prestano ascolto al maligno. Dunque, perché un drago?
Era un pensiero forse eretico, e mi risolsi di confessarlo al più presto, onde chiedere anche spiegazioni che il mio corto intelletto non palesava.
Riflettevo dunque su come realizzare la figura, e attendendo che dalla biblioteca mi giungesse, come avevo richiesto, un antico rotolo che ricordavo avere immagini di creature fantastiche, mi apprestai a decorare i marginalia col rosso cinabro, com’è d’uso.
Attingendo alla ciotola del prezioso pigmento, mi accorsi che ne era rimasta meno di un’oncia, certamente non bastante a realizzare il capolettera sulla pagina che avevo aperto sopra .
Andai da fratello Johannes, anch’esso alluminatores come me, e quale stupore nel vedere che anch'esso non disponeva del colore che poche gocce, necessarie a concludere la pergamena stesa sul suo banco.
Con questi due patimenti per la mente, mi apparecchiai per andare dal nostro priore Leone, responsabile dello scriptorium e di quanto necessitasse al lavoro degli amanuensis, degli alluminatores e di tutti quante le attività che ivi si
svolgevano.
Questi fu sorpreso di tale mancanza, imputandola ad un cattivo calcolo nella stesura delle richieste e addebitando a se tutte le colpe.
Parlato che ne ebbi con il buon priore, avendo egli subitamente ingiunto di recarmi presso i nostri confratelli a ricercare una quantità di cinabro onde approntare colore bastante sino alla prossima imminente spedizione, mi chiese egli di incominciare il mio peregrinare dall'abbatia di San Petro posta sul monte Pedale, ad occidente della civitas detta Leuco , dovendo ivi scortare un nostro confratello di età avanzata, Gherardo, che svolgeva presso il nostro convento lavori di falegnameria e che che aveva scelto tal loco per trascorrere i suoi ultimi giorni.
Tosto preparammo le nostre poche cose e il mattino dopo, dopo aver cantato le lodi, ci avviammo verso la strada che raggiungeva Medlanum. Da lì si deve seguire per un tratto il Flumen Frigidum, indi deviare verso oriente per inoltrarsi tra le colline sino a Leuco.
Devo confessarti che non ero molto felice di condividere la strada con fratello Gherardo, perché temevo che, a causa della sua veneranda età, rendesse il nostro peregrinare lento e faticoso. Invece, con mia grande sorpresa, ello dimostravasi gran camminatore, costringendomi spesso ad affrettarmi per stare al suo o.
Giunti che fummo in prossimità della porta occidentale della città, quella detta Argentea, Gherardo mi chiese di accompagnarlo al suo borgo natio, nominato Cirnusculo, ove viveva ancora una sua sorella, più giovane di lui di un solo giro del sole. L'ora si era fatta tarda, e il pensiero di un po' di riposo si confaceva al mio stato d'animo.
Fummo ospitati dal parroco del borgo, e dopo aver recitato gli uffici, frate Gherardo si recò presso la sorella, che faceva di nome Belinda, mentre il parroco volle condividere il desco con me.
Durante il desinare, ai sacerdos è concesso conversare, e per non far torto al mio anfitrione risposi alle molte domande che continuamente mi faceva.
Mi chiese quale fosse il mio pensiero riguardo a quella diatriba che vede le fazioni guelfa e ghibellina in lotta tra loro. Non so se il parroco volesse con questa domanda investigare sulle preferenze che il nostro ordine ha rispetto alla politica della Chiesa. Da parte mia, che so poco o punto delle cose del mondo, risposi che parevami dialettica sterile, se in essi non albergava lo spirito di fratellanza e di carità che tanto predicò Nostro Signore.
Il mio ospite esplose in una sonora risata e trattenendo le lacrime mi disse che mai aveva udito una risposta così diplomatica da parte di un uomo di Chiesa.
Che cosa significasse quest’affermazione, non te lo so dire.
Il mattino dopo, con molti ringraziamenti ci congedammo dal sacerdos, e accompagnai frate Gherardo a dare un ultimo saluto a sua sorella.
Fu un incontro di molte lacrime e carezze e abbracci. Molti anni pesavano sulle di loro spalle, e non si sarebbero più rivisti in questa vita terrena, e il distacco, fiorito dei ricordi di momenti che più non potranno ritornare, fu per Gherardo e per Belinda molto doloroso.
Usciti dal borgo, la strada più comoda era quella che prendeva a Settentrione, toccando Modicia, Ledeximo, Besanus, dunque portammo i nostri calzari a calpestare le pietre di detta strada, sino al calar del sole.
Mentre camminavamo, rendendo sempre grazie a Dio per la protezione che ci concedeva, mi confidai con il fratello anziano, sul modo migliore di rappresentare il drago.
Egli così rispose: “Non sono alluminatores, come tu sai sono stato fabri lignarius presso il nostro comune convento.
Ho tuttavia appreso alcune cose sui draghi. So ad esempio che ad Oriente, oltre la Terra Santa, vi sono popoli che venerano il drago come portatore di fortuna, e non di sventura come lo intendiamo noi. Tali popoli non hanno ancora conosciuto la predicazione di Cristo, pertanto non so dirti se essi siano ispirati da Dio o dal Maligno. Tu sai però che talune bestie, considerate empie da alcuni popoli, non lo sono per altri. Non potrebbe essere così anche per i draghi?”.
Fermò il o e mi guardò, acciocché le sue parole giungessero ben chiare alle mie orecchie.
“Sovente quello in cui crediamo, e non sto parlando della nostra fede in Cristo o di quanto sta apposto nelle Sacre Scritture, ma nei convincimenti che guidano il vivere comune, nelle abitudini, nelle credenze, non sono pensieri dettati da Dio o dal demonio, ma sono pensieri instillati dalla poca o punto conoscenza che abbiamo del mondo.
Molti di noi credono che la Terra sia piatta, sorretta da un gigante di nome Atlante o da liofanti ai quattro angoli, eppure non solo i sapienti greci sapevano che la terra ha forma di sfera, ma addirittura il filosofo Eratostene ne ha calcolato le dimensioni”.
Ero sbalordito. Io pure pensavo che la Terra fosse piatta.
“Inoltre ho dimorato nel luogo in cui siamo diretti per un po' di tempo, tanti anni fa. Ivi sono certo troverai molto di più di quanto ti aspetti”.
Più altro non volle dire, lasciando che il pensiero meditasse sulle sue ultime parole. Forse c'era anche in quella abbatia uno scriptorium di antica tradizione, ove molti giovani fratelli avevano appreso l'arte del miniare figure? Oppure da qualche volume in quel loco conservato avrei potuto trarre idee per la realizzazione della pagina che mi ero prefisso?
Come risposta Gherardo prese ad intonare il Laudate Domini. Comprendendo che null'altro mi voleva dire, mi unii al canto.
Fu così che non ci avvedemmo dei figuri che dalla boscaglia vennero a sbarrarci la strada.
Con un salto ed un urlo da rendere il cuore al pari di un puledro scalpitante, un uomo ci si parò innanzi.
In un primo momento mi convinsi di essere al cospetto del famigerato homo
selvadego di tanto in tanto veduto traversare le foreste che circondano Midlanum.
Homo selvadego non era, ma terribile certamente sì. Menava fendenti con un coltellaccio rugginoso, e vestiva con pelli di lupo che lo coprivano sino alla testa.
Tosto all'avvento del losco, due suoi compagni i urlarono del pari alle nostre spalle, armati di bastoni.
Veduto che ci ebbe, sputò per terra.
“Bah! Monaci! Non ne ricaveremo un gran bottino”.
Uno dei due alle nostre spalle pensò che fosse giunto per noi il tempo di lasciare questa vita terrena.
“Possiamo almeno farli fuori?”.
“No” rispose quello di fronte a noi “non voglio macchiarmi della morte di un servo di Dio. Dategli una dose di bastonate e lasciateli andare, non senza aver preteso il giusto guidrigildo”.
I due si guardarono con occhi interrogativi, forse non usi a simil linguaggio. L’altro si spiegò con un ruggito.
“Svuotategli le tasche! Sono in viaggio, qualche denaro lo devono pure avere!”.
Ghignò beffardo, poi aggiunse.
“Col vecchio andateci piano, divertitevi col giovane”.
Già mi prefiguravo il rumore delle mie ossa che si spezzavano, quando frate Gherardo si rivolse al bandito.
“Tu! Tu sei Agilulfo, ti ho riconosciuto. Sei il piccolo Agilulfo, quello che perdeva sempre il calamo. Certo sei molto cambiato da quando ti istruivo, ma la tua parlata è la stessa”.
L’espressione stupita del brigante si tramutò in un attimo in sorpresa, quindi in muta domanda, in fine le guance ispide dell’uomo si stirarono sul volto per lasciare posto a un sorriso, non più beffardo.
“Fra Gherardo! Sei davvero tu? Il magister della mia infanzia! Non posso crederci. T’immaginavo già sepolto nel cimitero del convento, invece eccoti qui, e non sei cambiato per nulla!”.
Sorridendo, il nostro confratello replicò:
“Via! Ringrazio il Signore di avermi preservato in salute, ma soprattutto di aver riconosciuto il mio allievo per tempo, prima che i bastoni che portate avessero cominciato a colpire!”.
E allora sul volto del brigante apparve un’espressione che pareva quella di un bimbo che subisce un castigo.
Gli occhi gli si inumidirono, mentre i compagni osservavano sorpresi, senza però allontanare la mano dai bastoni, indi l’uomo si inginocchiò ai piedi del vecchio monaco.
“Perdonami Padre, perdona il tuo figlio sventurato che stava per compiere un sacrilegio”.
“Alzati, fatti abbracciare.” Replicò l’anziano frate.
Poi rivolto ai compari, il brigante comandò di accoglierci in modo più consono ad un cristiano.
“Avanti, voi due! Preparate per accamparci e rimediate qualcosa per la cena, mi raccomando non fatemi fare brutte figure, mi sono spiegato? Questi altri non è altri che frate Gherardo, mia guida negli anni della fanciullezza, mio maestro nell’apprendere le scienze e le arti, mio riferimento sino a quando il fato non mi ha condotto su una strada monca, che mi tocca condividere con voi”.
E preso sottobraccio il confratello, si addentrarono in una conversazione fitta,
costellata di esclamazioni di stupore e accenni di riso.
A me non restava altro che attendere il ritorno dei due briganti, che perplessi si erano allontanati per adempiere ai comandi del loro capo, e rallegrarmi per aver scampato randellate non richieste, mentre mi apprestavo a rinvigorire la fiamma del foco .
Quando ci svegliammo il mattino dopo, dopo una cena a base di lepre ed erbe profumate, i briganti erano scomparsi.
Non dovevano aver fatto alcun rumore, perché il mio sonno quella notte era stato, credo, più leggero di una piuma a causa del timore di giacere accanto a briganti assassini.
Avevano alimentato le braci, e ora un caldo foco scoppiettava ai nostri piedi, scaldando un pezzo di pane che quegli uomini ci avevano lasciato.
Mentre ci apprestavamo a ripartire, dopo aver ringraziato il Signore per aver fatto che un sì terribile incontro si tramutasse in occasione per glorificare la Sua bontà, meditai sul fatto che quanto appare ai nostri occhi non sempre mostra per intero la verità, che è bensì da scoprire, da sfogliare, da liberare come si libera una castagna dal suo involucro spinoso.
Ecco infine giungemmo sulle sponde di un lago. Dapprima mi figurai essere il lago che bagna la civitas di Leuco, ma il mio compagno di viaggio mi fece notare che, non avendo attraversato il flumen Addua, il grande lago avrebbe dovuto trovarsi alla nostra destra, e così non era.
Seppi, dunque, che stavamo costeggiando le sponde di un lago di gran parte più piccolo, denominato Adnonum come l’abitato che si intravedeva nella foschia sull’altra sponda.
Superammo il borgo di Claviatem, della cui parrocchia faceva capo l’abbatia di San Petro, e preso un sentiero che dal borgo partiva, salimmo per una pezza il monte Pedale, in mezzo ad un bel bosco di faggi e castagni.
Alla fine con le gambe molli come un calamo macerato nell'aceto, giungemmo in vista dell'abbatia. Era come la prua di una nave che puntava verso la pianura, che la foschia rendeva dorata. Al centro di un’ampia radura, la grande scalinata che conduceva all’ingresso della basilica dava una sensazione di solidità, ma nel contempo un’armonia con il creato traspariva dalle pietre e dalle architetture che gli uomini avevano dato loro.
Gherardo mi disse che ivi vivevano una ventina di monaci, la maggior parte in età avanzata, oltre ad un altro gruppo proveniente da conventi vicini, destinati a rimanere sino alla completa edificazione di un oratorio, resosi necessario per accogliere tutti i monaci.
“Cerchi il drago perfetto?” chiese improvvisamente fratello Gherardo prima di superare le mura che difendevano l’abbatia dalle belve a quattro zampe, mentre noi tutti monaci sappiamo che nulla si può contro quelle a due.
Non attese la mia risposta, che del resto non ci sarebbe stata, intento com’ero a cercare di comprendere il significato di tale domanda.
“Qui lo puoi trovare. Devi avere molta fede, tuttavia”.
Detto questo, attraversò la soglia, non senza aver letto ad alta voce il motto di San Benedetto impresso sulla pietra dell’arco di ingresso.
Ora et labora.
Ferveva l'attività nell’abbatia, alcuni monaci attendevano all’ampio orto posto in posizione riparata dai venti, altri tornavano dal bosco, carichi di fascine, altri ancora stavano concludendo la costruzione di una impalcatura in legno per proseguire nella edificazione dell’oratorio.
Avvertivo tuttavia un’aria strana. Erano tutti operosi, ma non come nelle nostre grandi abbazie di pianura, quelle in cui avevo soggiornato, per lo meno. Come che da noi si avverte sempre un senso di urgenza, una impellente volontà di fare presto, per potere fare e fare ancora, qui al contrario i monaci apparivano felici dei gesti che compivano.
La pace interiore, che continuamente cerchiamo attraverso la preghiera, le suppliche e le offerte a Dio e ai poveri, qui si percepiva reale e viva, veramente viva in mezzo ai monaci. Era la stessa sensazione che avevo provato osservando le architetture della basilica e del piccolo oratorio che stavano erigendo nel prato antistante.
Mi guardavo intorno, cercando di cogliere negli sguardi e nei gesti dei confratelli qualche segnale che mi aiutasse a capire da dove venisse quel senso di pace.
Espressi le mie impressioni a fratello Gherardo, che mi guardò, e mi parve che già fosse cambiato, ringiovanito direi, rinvigorito nel corpo e nell’animo, e parevami che il velo degli anni si fosse levato dal suo volto.
“Guardati intorno, forse ancora non la percepisci, solo dopo qualche giorno si rivela a chi è forestiero.
È una presenza, qualcosa che si avverte, ma non temere, non è uno spirito malvagio, né il maligno che insidia le nostre anime.
È piuttosto un nostro atteggiamento dell’animo, che in questo luogo è più libero che altrove”.
Non capivo dove voleva condurmi con il suo parlare, e glielo dissi.
Con uno sguardo di padre, replicò.
“Qui, più che altrove, percepiamo la vicinanza con il Creato. È come se proprio ieri fosse stato il giorno della Creazione.
Non so, forse a causa della posizione del monastero, forse per essere circondati da cotanta foresta, tutto qui vibra come se il Creatore fosse appena ato”.
Fratello Gherardo mi condusse dapprima dall’abate, tale Frederigo da Modicia, a lui esposi il problema che aveva animato il mio peregrinare.
Mi rispose che potevo disporre di quanto avevano nello scriptorium ma che, essendo quest’ultimo molto piccolo, disponeva infatti solo di pochi volumen, e lavorandovi in piena attività solo due monaci oltre ad un novizio, dubitava che avessimo tal quantità di materiale per soddisfare i nostri bisogni.
Ringraziai, onorando la sua generosità, e rispondendo che qualsiasi offerta sarebbe stata gradita.
Dandomi quindi congedo, invitò Gherardo, che a ogni apparizione di monaco si tratteneva dal salutarlo mentre era chiaro che avrebbe voluto correre da loro e abbracciarli tutti, ad accompagnarmi a visitare l’intera abbatia.
Mi condusse in primis a visitare la cripta, ove riposavano, tra le altre, le spoglie del grande vescovo Arnolfo , che aveva avuto vita tribolata e aveva fortemente voluto l’erezione della basilica così come la vediamo oggi.
Indi entrammo nella stessa. Ci inginocchiammo di fronte all’altare a ringraziare il Signore (avevamo mancato l’ora dei Vespri, dunque li recitammo). Eravamo confortati nella vista dallo splendore del ciborio, che si elevava sopra l’altare come una nuvola in ascesa verso il Cielo
Dopo le orazioni Gherardo mi fece segno di uscire, e avviandomi verso il nartece, alzai la testa, e rimasi a bocca aperta.
Sovrastante l’ingresso e le cappellette ai fianchi, delimitato da un grande arco che da parete a parete fungeva da cielo, un grande affresco dell’Apocalisse
colpiva i miei occhi con vividi colori.
La figura del Cristo troneggiava circondata dagli angeli, e sotto di essi un enorme drago rosso giaceva trafitto dalle lance dei cavalieri.
“Et visum est aliud signum in caelo: ecce draco magnus rufus habens capita septem, cornua decem in capitibus ejus diademata septem, cauda ejus trahebat tertiam pertem stellarum caeli, misit eam in terram.”
“E apparve un altro segno nel cielo: un gran dragone, dal colore del fuoco, con sette teste e dodici corna e sette diademi sulle teste. La sua coda trascinava la terza parte del cielo e le precipitò sulla terra.”
Mormorai i primi versetti del capitolo dodicesimo dell’Apocalisse quasi senza avvedermene, ero confuso e colpito dalla verosimiglianza dell’essere maligno.
Ovviamente veri draghi non ne avevo mai visti, diversamente forse non sarei qui, alla luce della lanterna, a scriverti questa mia, tuttavia la vividezza del colore, il tratto deciso, l’emozione che traspariva dal dipinto mi rapirono. Rimasi parecchio tempo a rimirare quel drago, tentare di catturarne tutti i particolari, immaginare il numero di scaglie e quanto veloce vorticasse la sua coda o quanto in alto fosse in grado di volare
Dopo qualche tempo Gherardo emise un sospiro, che mi distolse dal mio incanto.
“Terrificante, vero? Credo che questa rappresentazione dell'antico animale ti possa essere di aiuto. Però adesso è ora di andare, avrai ancora possibilità prossimamente di osservare quell’affresco”.
Rimasi all’abbatia per due giorni, che trascorsi tra lo scriptorium, dove impartii alcune lezioni al promettente novizio, e lo studio degli affreschi della basilica, usando alcuni fogli di vecchia pergamena consunta per tracciare copie delle figure dipinte. Era tuttavia la stesura del colore che più colpiva il mio interesse. Come avrei potuto replicare quelle intensità, quella saturazione di tinte, quella cura dei particolari in un pur piccolo riquadro di carta pergamena? Tutte domande, le mie, destinate a non trovare risposta.
Differentemente da altri conventi dove ero stato come ospite, non mi fu richiesto di partecipare alle attività di lavoro comunitarie, quali la raccolta di legna per l’inverno che si apprestava da nord con potentissimo vento e aria sempre più fredda, alle quali invece Gherardo aveva principiato a partecipare con molta soddisfazione.
Ti confesso che quando fu il momento di andarmene, mi dispiacque, tanto ero stato catturato dall’armonia che ivi regnava.
Era come stare ad un o dal paradiso.
Comprendevo perché fratello Gherardo avesse chiesto di terminare la sua esistenza terrena in quel luogo.
Commettendo un peccato di egoismo, mi ripromisi che, quando si sarebbero approssimati i miei giorni, a Dio piacendo avrei chiesto al mio abate di
trascorrerli in codesto luogo.
Congedandomi, l’abate mi accompagnò sul limite dell’abbatia.
“Siamo lieti che il vostro Abate abbia concesso a fratello Gherardo di tornare presso di noi. Qui è molto amato, e anche se non è più attivo come un tempo, sono certo che potrà ancora prestare la sua opera nella decorazione dell’oratorio”.
Fece un cenno con la mano all’erigenda costruzione, quasi prefigurandone la bellezza.
Forse Gherardo era stato un eccellente fabri lignarius, e certo nelle sue braccia ancora vi era energia, ma la costruzione di panche ed altari richiedeva braccia giovani e molto più robuste delle sue. Mi suonò quindi strana l’affermazione dell’abate, tanto che replicai.
“Necessitate di molte opere in legno?”
La sua risposta, ti devo confessare, mi lasciò a bocca aperta.
“Legno? Veramente mi riferivo all’affrescatura delle pareti. Gherardo è un valente artista.”
L’abate fece una pausa. Vide il dubbio agitare la mia mente
“Non te lo ha detto? Credevo foste venuti per vedere la sua opera”.
“La sua opera?”. Davvero il mio stupore era grande..
“Beh, quasi tutti gli affreschi della basilica sono opera sua. E mirabile è la sua rappresentazione dell’Apocalisse”.
Lasciai sulla soglia l'abate e mi precipitai indietro, nella basilica. Riguardai con occhi nuovi il grande affresco sopra l'ingresso. E, come se fossero state dipinte da poco, e il loro colore risaltasse sul pallido intonaco, riconobbi tra i volti dei Santi ivi dipinti la sorella di Gherardo, prestante il volto a Nostra Signora Madre di Dio , egli stesso, nell'atto di infliggere un colpo di lancia al drago, e mi parve persino che il Divino Fanciullo avesse le sembianze del bandito che ci aveva fatto salva la vita.
Cercai fratello Gherardo, ma era andato a raccogliere legna con altri confratelli, e non sarebbero tornati che al tramonto. Avrei voluto parlare con lui, comprendere com’era riuscito a rappresentare con così tanta accuratezza il drago. Avrei voluto chiedergli molte cose, ma dovevo fare ritorno al mio convento.
Salutai l’abate scusandomi per la fuga improvvisa, e gli augurai di poter presto completare l’oratorio eccosì rendere grazie al Signore in esso.
Scesi il sentiero boscoso meditando sulle vicende che mi avevano portato.
Era già meriggio inoltrato, il sole illuminava i picchi rocciosi che avevo di fronte ma poca luce restava nella selva che andavo attraversando.
Non me ne avvedevo, turbato com’ero dalla rivelazione: un frate che sino a pochi giorni prima avrei trattato con il rispetto che si deve ad un anziano ma che non avrei considerato nel novero dei venerabili, si era rivelato maestro d’arte e di vita.
Da egli avevo tratto una lezione. Quante volte mi ero sentito superiore ad altri alluminatores, specie se provenienti da conventi sperduti. Quante volte nel descrivere un procedimento, una stesura di lamina particolarmente difficoltosa, il mio orgoglio aveva prevalso, e mi ero vantato presso i fratelli di questa o di quella pagina miniata.
Da Gherardo non era mai giunta alle orecchie dei confratelli una sola parola sull’opera mirabile che aveva compiuto all’abbatia di San Petro. Davvero egli lavorava per la gloria del Signore, non per superbia, come invece sovente accade anche a chi come noi dovrebbe essere servo di Dio.
Andavo camminando con questi pensieri indosso quando un lampo scuro offuscò i miei occhi.
La poca luce che filtrava ove le cime degli alberi si diradavano fu oscurata per la durata di un battito di ciglia. Sollevai la testa, che tenevo puntata sul terreno per evitare di incespicare nel terreno accidentato, e osservai gli sprazzi di cielo libero dalla vegetazione. Non si vedeva nulla.
Scesi alcuni i onde avere migliore visione: dove l’intrico dei rami lasciava un’ampia finestra di luce riuscii a portare il mio sguardo sino all’orizzonte.
Una figura dalle grandi ali, scura come la notte, si allontanava emanando bagliori al rosso dei rimanenti raggi di sole.
Invero ero certo non fosse un’aquila ne’ finanche un avvoltoio, troppo differente era il profilo.
La lunga coda vorticante era peraltro segno inequivocabile dell’appartenenza di quella figura a un essere non comune. La distanza tuttavia non mi concedeva di sciogliere compiutamente il mio dubbio.
Forse inseguendo una corrente d’aria che riconduceva verso il versante del monte, l’essere compì un’ampia curva e si avvicinò al sentiero che stavo percorrendo.
Temendo di essere veduto mi nascosi dove l’intrico della vegetazione era più fitto.
Potei distintamente riconoscere, quando si fu avvicinato, le fattezze di un drago, nero come il manto della notte nella parte superiore del corpo, mentre il ventre e il collo viravano verso un rosso simile al sangue.
Volò sopra di me, senza fare alcun rumore. Rimasi nel mio nascondiglio per lungo tempo, atterrito dalla visione avuta.
Dopo lungo tempo, già si era fatto buio, mi convinsi a scendere sino al borgo di Claviatem. Tutte le porte erano sprangate, quindi mi arrangiai a are la notte in un fienile poco distante dall’abitato.
Non ti annoierò con il racconto del mio ritorno all’abbatia, che fu denso di riflessioni e paure.
L’immagine di quell’animale accompagnò per lunga pezza i miei pensieri, e invero, meditai a lungo su come potesse essere che l’abbatia non avesse mai avuto a che fare con esso, che certamente dimorava nei pressi.
Ne congetturai che i monaci erano ben consci della presenza della grande bestia, mantenendo tuttavia il segreto al mondo, e di par suo il drago sopportava o semplicemente ignorava quegli omuncoli che si aggiravano per i suoi boschi.
Comprendevo inoltre da dove venisse la perfezione nel tratto che evidenziava le forme dell’animale, sul muro dipinto della basilica.
Fratello Gherardo aveva potuto riprendere dal vero le fattezze del drago, lo aveva sicuramente veduto molte volte, e ne aveva impresso nella mente ogni aspetto ed ogni particolare, cosicché la dipintura ne aveva guadagnato in freschezza e immediatezza del tratto.
Tuttavia non fu la visione di quell’animale a turbare in maggior misura il mio animo.
Piuttosto una consapevolezza sottile che, lungo il cammino che mi riportava al loco che io chiamavo abitualmente casa crebbe dentro di me, sino a divenire certezza inconfessabile.
E cioè che l’uomo, l’essere umano è molto più sorprendente di quanto uno possa aspettarsi. E che Dio, l’essere perfettissimo osserva e si compiace delle nostre imperfezioni di uomini.
Invero, credo che a Lui appariamo come fanciulli, ingenui e ambiziosi di conoscere, e in noi Egli si rallegra. Credo che le meraviglie del Creato siano come giochi coi quali trastullarsi, e tali sono finanche esseri terribili come il drago ch'io vidi.
Come fratello Gherardo, non mi appare con tutta l'evidenza l'appartenenza del drago alla schiera degli animali demoniaci.
Credo piuttosto ch'esso sia creatura di Dio scelta dagli uomini a causa del suo spaventevole aspetto per dare immagine al male che da essi stessi scaturisce.
Questi e altri pensieri mi affollarono la mente durante i giorni del ritorno, e giunto all'abbatia, presto mi recai dal padre confessore per esprimere a lui i miei dubbi. Da esso non ricevetti conforto, ma solo penitenze, che scontai con animo sereno e per nulla contrito, questo lo confesso solo a te, nel buio della mia cella.
Tale è la vita di un povero frate qual sono.
Il lume si sta quasi esaurendo, devo congedarmi da te, ho sottratto fin troppo tempo alla preghiera e al riposo.
Abbi cura di te e loda il Signore per la nostra amicizia e per la salute dei nostri confratelli, cosi io farò da parte mia.
Io, Alberico, tuo fratello nella fede, ti saluto.
Deo Gratias. Amen.
Valle del Drago
Dove 6?
Viola. Lo avrebbe capito anche senza leggere il mittente. Tenace, la ragazza. Ci ha provato, lui, a ignorarla. Ma lei non molla.
Carina, lo è sicuramente.
Anzi, proprio bella, di quella bellezza che noti appena se gli i accanto. Non è appariscente, non ti volteresti, ma quando la guardi negli occhi, scopri che è veramente bella.
Bella fuori. Bella dentro.
Ogni volta si dice che è scemo a non approfittarne, anzi glielo dicono anche gli amici. Soprattutto gli amici, forse anche invidiosi che lui abbia alle costole una ragazza così.
È che non vorrebbe invischiarsi in un rapporto troppo complicato, soprattutto ora che si trova alle soglie della tesi.
Però le piace, Viola.
Le piace anche quando rompe, come ora.
Aggiusta lo zaino sulle spalle, poi risponde.
Valle del Drago
Michele lancia l'SMS senza una vera speranza che arrivi a destinazione. Hanno detto che i cellulari non prendono, qui.
Si rende conto di aver spedito un messaggio che non è veramente una risposta. Non la vuole irritare, apparendo scorbutico. Ne prepara un altro cercando di rimediare.
Sto cercando materiale per la tesi, torno stasera. Poi ci sentiamo.
Prova ad inviare anche quello, anche se il cellulare accetta imibile, senza .
Valle del drago, nome pittoresco. Nato chissà come per velare di magia un luogo mediocremente piacevole, del tutto indistinguibile dalle vallette vicine.
Incuneata nel fianco di una valle più grande, non la noteresti se non per il suo nome evocato da alcuni cartelli sulla strada.
Non pensa certo di trovarne, di draghi, e neppure loro tracce.
Le leggende però nascondono sempre frammenti di verità, episodi della storia di un popolo, di una comunità, quelli sì da tenere in considerazione.
Per la tesi di antropologia delle popolazioni europee si è scelta una brutta gatta da pelare: un tema a cavallo di storia letteratura e mito.
La difficoltà sta proprio nel distinguere la proiezione letteraria di un’immagine di drago cui hanno attinto centinaia di scrittori fantasy dal suo archetipo generato dalle storie e dalle paure dei popoli delle montagne.
Il suo professore lo aveva messo in guardia:
“I draghi esistono ancora, quella del mostro fa parte delle paure ataviche dell'umanità, come quella del buio. A ben vedere la paura fa parte della natura dell'uomo, che sovente la indirizza verso quanto di più misterioso lo circonda.
Ma distinguere i draghi che terrorizzavano i contadini di qualche centinaio di anni fa da quelli che esaltano la fantasia dei ragazzini non sarà compito facile”.
Michele pensa che da questa dicotomia tra l’immagine e l’immaginato ne potrebbero venir fuori un paio di capitoli.
Le Goff e il Medioevo, Tolkien con la sua mitopoiesi, Hilary Putnam, Silvana De Mari, Frazer con il suo Ramo d’Oro, mentalmente Michele ria i riferimenti bibliografici per quei possibili capitoli, dove potrebbe integrare l’esegesi scientifica con la letteratura di genere, magari anche Rowling e Paolini ci potrebbero stare.
No, Paolini no. Meglio di no.
Da evidenziare, il rischio che le testimonianze raccolte nei suoi itinerari possano venir corrotte dalle immagini moderne di draghi, quelle evocate dal cinema e dalla televisione.
Forse, anche questo potrebbe essere spunto per scrivere un paragrafo o due.
Ha alle spalle il rado bosco di abeti, porta d’ingresso alla valletta, il sole è tornato a riscaldare la pelle scoperta delle braccia e delle gambe.
Cammina da mezz’ora, di fronte a lui finalmente la valle giustifica almeno in parte il nome datole. Rocce di un colore indefinito, tra l'ocra e il grigio chiudono a bastione quasi tutto l’arco vallare, offrendo all'escursionista un solo ripido sentiero aperto nello sfasciume ai loro piedi.
Rocce da drago, ottime per ambientare storie.
Viole tra le rocce.
Viola nei pensieri.
Ogni volta l’associazione d’idee è inevitabile. Non vuole ammetterlo, cade sempre in quel paradosso. Si sforza di non pensare a lei, ma in questo modo l’ha sempre in mente.
Viola che lo guarda, se ne accorge con la coda dell’occhio, quando discute con un amico. Viola che anticipa l’uscita di casa per aspettarlo alla fermata del metrò. Viola che gli spedisce SMS ad ogni ora del giorno e della notte, e che riempie FB di messaggi, apparentemente non indirizzati a lui, ma sono solo messaggi romantici.
Viola, bellissima Viola. Sempre Viola, in mente, solo Viola.
Si pente di non averla invitata.
La tesi, prima. È importante, troppo importante.
Avesse scelto una tesi semplicemente compilativa a quest'ora si troverebbe in una qualche biblioteca di città a consultare testi antichi o a scovare in rete leggende più o meno attendibili (ne aveva già trovate alcune, improbabili adattamenti di fatti di cronaca piuttosto recenti) o ancora in qualche piccola biblioteca comunale a spulciare tra storie già lette nella speranza di trovare quel particolare che dava alla storia un significato, od un contesto, differenti da come era conosciuta.
Invece, a differenza di molti suoi colleghi di corso terrorizzati all'idea di affrontare una ricerca al di fuori delle protettive mura dell'istituto, a lui piace camminare da solo, e parlare con i vecchi abitanti di quelle montagne lo rallegra.
Gli pare di sentire, interrogando quelle persone che rispondono solo nella loro lingua madre, che non è mai l’italiano, un legame più forte con quelle terre.
“Cus'è chel'vor? Lu` l’è matt, ghe n'è miha de draghi chee. I gh’è ‘nudmè in di stori!” sono soliti rispondere quando spiega il motivo della sua presenza in quelle valli ormai abbandonate pure dal turismo.
Allora chiede loro di raccontarle quelle storie, così, vinta la diffidenza, ritrovavano nella loro memoria frammenti di filastrocche e brandelli di storie. A lui non resta che il compito di ricomporre le storie in un continuum necessario a dare corpo alla tesi.
Per rendere più interessante il suo lavoro, ha anche pensato di fornire una documentazione fotografica di luoghi che potrebbero essere teatro delle storie narrate. magari pure un video, se riuscisse a trovare qualche amico che lo aiutasse.
Eccolo dunque tra le Orobie e la Valtellina, le più facilmente raggiungibili da casa sua, percorrere le valli più piccole e sconosciute.
“Sarebbe una location perfetta” pensa Michele esaminando le friabili pareti che chiudono la piccola valle.
“La luce non è quella giusta, però. Dovrei tornare quando il cielo è più limpido e attendere il tramonto”.
La volta del cielo sta assumendo una tonalità opaca, un grigio ufficio appena smorzato dal debole sole che non ha forza per produrre ombre.
C’è un beep dal cellulare.
Messaggio, a dispetto dell’assenza di campo.
Stronzo!
Ecco, appunto.
Ha ragione, è stato uno stronzo nel non invitarla. Il fatto è che non è facile stare insieme a una donna che chiede molte più attenzioni di quanto tu sia disposto a concedere. E lui è concentrato su altro, ora.
Però quello stronzo gli fa male. Non lo merita. Non del tutto, almeno. Capisse quello che significa per lui questa tesi.
Si accorge che il sole è ancora più pallido: la bruma diffusa ha riempito l’aria, appiattendo le rocce e dilavando l’azzurro del cielo in un lattiginoso biancore.
Si addentra nell'incavo al centro della parete. Come un imbuto, le pareti si stringono man mano che sale.
L'aria è ferma. Non più sostenuta dal sole, la temperatura è scesa in picchiata costringendo Michele a una sosta per coprirsi.
Quella specie di canyon continua ad addentrarsi nella montagna, ora composta da rocce compatte, graniti dagli spigoli vivi, tagliati da lame impazzite.
Non domina più l’ocra, ma un grigio dai riflessi di piombo.
Sta calpestando neve. È raro trovarne, in quella stagione. Doveva essere salito di quota senza avvedersene. Poi, tra queste pareti buie, la temperatura non si alza di molto, nemmeno in piena estate.
L'aria calma trattiene il fiato, dipanatosi in larghe volute che vanno lentamente dissolvendosi.
Ha un brivido, ma non è il freddo.
Impronte sulla neve fresca. Di animale, e piuttosto grosso.
“Lupi, probabilmente” pensa, ma non sa riconoscerle, potrebbe essere un grosso cane. Lupi, da quelle parti, non ce ne sono.
Comincia a provare una sensazione che non riesce a riconoscere, quasi che la valle volesse respingerlo, impedirgli di proseguire.
Le pareti si allargano, concedendo sempre più spazio al cielo lattiginoso, ma il senso di oppressione non si dissolve.
Continua la salita, assillato dal dubbio di aver sbagliato strada. Impossibile, una sola è la traccia che si presenta davanti ai suoi piedi.
Improvvisamente, il buio. Non il buio completo della notte, piuttosto uno sporco mantello che smorza ogni luce.
Senza nuvole in cielo.
Ha riconosciuto la sensazione che lo sta invadendo.
È paura.
Si ferma. Gli pare di vedere un'ombra muoversi più in alto.
Trattiene il fiato. Non si ode nessun rumore, solo il vento sibilare. Riprende la salita, ora meno ripida.
Il freddo si è fatto più acuto, tanto da costringerlo a indossare la giacca.
Alza lo sguardo per riprendere il cammino e quello che vede...
Non può essere!
Pensa a un’allucinazione, magari per la stanchezza. In fretta cerca di trovare una spiegazione logica a quello che gli occhi vedono ma la sua mente non vuole accettare, e intanto fatica a controllare l’ondata di panico che sta per assalirlo.
Quello che sta vedendo, semplicemente non può esistere.
Pare un animale, sulle prime pensa ad un orso, ma quando dispiega le ali color cenere, capisce che non è simile a nessun animale conosciuto.
Il cuore gli si ferma.
Un drago, un autentico drago delle leggende.
Si staglia nel crepuscolo, gigantesco, emettendo un brontolio sordo che fa tremare le rocce e vibra nello stomaco di Michele.
Ali nere, coda vorticante, zampe possenti e fumo dalle narici, l'animale - ma lo può chiamare tale? - occupa con la sua mole non solo il sentiero, ma anche gran parte dell'incavo che la gola ha scavato tra le rocce.
Michele è immobile, i suoi sensi lo ingannano, ne è certo. Ma il panico lo sta sopraffacendo.
Cerca di far prevalere la razionalità, ma sente brividi di terrore invaderlo, scariche di sudore gelato si estendono dalla testa ai piedi.
Un essere del genere non può...
Si convince di avere di fronte un grosso cane e ne sta trasfigurando le fattezze a causa della stanchezza o di un calo di pressione.
“No, non sono un animale”.
“Cosa?”.
“Ti ho detto che non sono un animale!”.
La voce profonda del drago sembra giungere da ogni punto intorno a lui.
“Sono Bergh, ultimo della mia casata, destinato a proteggere questa valle dai nemici e da chi ne vuole prendere l'anima”.
Michele è senza parole. Una vertigine lo coglie, da farlo schiantare a terra.
“Io, io...pietà!”.
Ode le sue parole, e gli sembrano così stupide, che se ne vergogna.
Un tuono rimbomba nella valle. É la risata del drago.
“Povero sciocco umano! Guarda!”.
Spalanca la bocca e l'alito del drago lo investe in pieno. Strano, pensa, non è fetido, anzi quasi profuma.
Il cielo si fa viola. Curioso, pensa Michele, il colore della mia ragazza.
Ma il pensiero dura il tempo di un ammiccamento. Le palpebre diventano pesanti.
Michele è colto da un senso di vertigine; non è certo di essere sveglio o di vedere attraverso gli occhi del drago.
Come un astronauta schiacciato dall'accelerazione del suo Shuttle, così Michele si sente la mente schiacciata dalla volontà di quell’essere che lo osserva e lo sovrasta con le ali gigantesche che annullano la poca luce rimasta.
Vede con occhi non suoi, senza sapere se è l'oggi, il domani o il ato ciò che vede: il rotolo dei giorni si svolge e riavvolge in una girandola di immagini.
Una violenta battaglia si consuma in una piana tormentata da bufere, e decine di guerrieri sono uccisi, non da lance o spade, ma dall'agghiacciante alito dell’inverno. Giacciono per anni a terra senza che nessuno li ricomponga, e su di loro crescono erba e alberi, sino a essere dimenticati da tutti, ma non dal drago.
Un altro tempo, e le immagini innanzi ai suoi occhi sono ombre, nebbie dalle quali appaiono uomini di una tribù antica che rendono grazie al drago per la protezione che offre alla valle tutta.
E ancora osserva gli antichi e maestosi draghi occidentali, ultimi della loro razza, migrare verso Nord in cerca di rifugi sicuri, e solo alcuni rimanere per tenere fede al patto stabilito con gli uomini decine di generazioni prima.
Nella nebbia in cui la sua mente è immersa si fanno strada parole in una lingua antica, dimenticata. Pure riesce a comprenderla.
“Noi siamo il vostro specchio. Abbiamo accettato per secoli di essere l'immagine del male. Abbiamo racchiuso in noi l'essenza delle vostre paure, ma non siamo noi i portatori del male.
Siamo crudeli con voi, perché è così che voi siete. Siamo sanguinari perché in voi vi è brama di sangue e godete delle sofferenze dei più deboli.
Ma non siete disposti ad ammettere le vostre debolezze, così cercate qualcuno che paghi il fio della malvagità al posto vostro. Questo è il nostro destino”.
L'immagine del drago tremola, come una figura tracciata nell'aria scaldata dal sole. La voce si fa un ronzio intermittente.
“Ora tu hai visto quanto noi abbiamo visto.
Devi scrivere di queste valli e di tutti i luoghi che meritano protezione, devi raccontare di tutti i giardini della Creazione che meritano protezione.
Devi narrare la bellezza di questi luoghi, il loro valore. Con gli uomini dobbiamo suggellare un patto, una nuova alleanza. Un’alleanza per salvare non solo un popolo, non solo una valle, ma per salvare l'anima dell'uomo da se stesso”.
Le parole si perdono nel ronzio che aumenta di volume, diventa musica che proviene dal corpo di Michele.
È la musica dei Cranberries che stride nell’aria ghiaccia.
Cosa c’entrano i Cranberries , ora?
Ah! Il cellulare!
La canzone segnala una chiamata in arrivo e strappa bruscamente il velo di ombra che opprime la mente di Michele.
Stordito, guarda il display.
La mente ora e lucida, ma gli occhi sono come appannati, fatica a vedere cosa sta scritto sullo schermo.
“Pronto!”. La voce esce debole, stanca.
È Viola. Entra in lui come acqua fresca.
Lo sente strano, si preoccupa.
Viola come acqua fresca.
“Senti Viola, non sai cosa mi è capitato. No, sto bene. Sì, lo so che sono stato uno stronzo. Non importa non devi scusarti, me lo merito. Ma sai, qui ho visto …”.
Ora riesce a mettere a fuoco. Si è ripreso del tutto.
Alza lo sguardo, e lo vede.
All’imboccatura della gola le braccia contorte e levate verso l’alto quasi a difendersi dal cielo che incombe coi suoi colori accesi, un albero, forse un larice.
Sembrano le ali scheletriche di un drago, nere contro il tramonto stampato sui versanti delle cime lontane.
Un drago, sembra un drago e invece è solo un albero.
“No, niente. Non ci crederesti mai. Devo aver avuto una specie di collasso o qualcosa del genere, forse un colpo di sonno. E devo pure aver sognato.
Adesso sto bene, non preoccuparti. Senti mi dispiace di essere andato via senza dirti nulla, Dovevo invitare anche te. Ma pensavo che la mia tesi dovesse venire al di sopra di tutto, anche dei sentimenti”.
Pausa, anche all’altro capo della linea, Viola sta aspettando, forse che lui le dica qualcosa di più che un semplice scusa.
“Ho sbagliato, perdonami. Pensavo, se vuoi … ti va di parlarne stasera?”.
Dall’altra parte un diluvio di parole lo investe. Non capisce quel che le sta dicendo, non sono tutti complimenti ma Viola ci sarà questa sera, e questo è quello che importa.
Pensa al drago, a quello che ha visto, o ha creduto di vedere.
Sembrava così reale. Cosa può essere stato?
Quell’essere immaginato gli ha lasciato un compito, un messaggio da trasmettere agli uomini. Ma in fondo non è sempre stato cosi? Le fantasie degli uomini sono da sempre riflesso del mondo reale. Sta a noi imparare da esse, coglierne l’essenza.
La voce della ragazza ha cambiato tono, si è calmata, ora è una voce bassa, sensuale, che colpisce al cuore.
Viola, gli piace il nome Viola.
Appendice: Toponimi e nomi
Addua:fiume Adda
Ades:fiume Adige
Adnonum:Annone Brianza
Alluminatores:miniaturista, amanuense specializzato nella stesura delle miniature poste a capolettera e delle illustrazioni
Amandael:Mandello del Lario
Anauni (monti): catena montuosa tra la valle dell’Adige e il gruppo Cevedale
Arimanni:Guerrieri dei popoli germanici
Besanus:Besana in Brianza
Camuni:antico popolo italico abitante la val Camonica
Cenomani: popolo celtico abitante la pianura e le prime colline tra l’Adda e l’Oglio
Claviatem:Civate
Cirnusculo:Cernusco sul Naviglio
Conturines:Nome di una montagna nelle Dolomiti di Fanes
Ey de Net:guerriero protagonista della leggenda di Fanes
Fabri lignarius:falegname
Flumen Frigidum: fiume Lambro
Homo selvadego:essere umano leggendario presente in molte tradizioni popolari italiane, soprattutto alpine e appenniniche.
Insubri:antico popolo di incerta origine abitante la parte nord dell’attuale Lombardia
Ledeximo:Lesmo
Liguri:popolazione italica che ha dato il nome all’odierna Liguria e che occupava gran parte delle regioni occidentali (Piemonte, Liguria, Lombardia e Toscana ) sino all’avvento dei Celti.
Medlanum, MidiolanMilano
Modicia:Monza
Montcöden:Grigna Meridionale
Oromboviri, OrobiiAntichi nomi degli abitanti delle Prealpi Orobiche
Piana dell’Acquanigra:Piana dell’Acquanera, torbiera in val Mora, Alta Val Brembana,
Porta Argentea:antica porta delle mura di Milano, ove ora si trova Porta Venezia
Pizzo Cengio: Pizzo dei Tre Signori
Retipopolo abitante le zone del Tirolo e Trentino
Serada ( monte):monte Resegone
Summo Laco:paese di Samolaco, sul lago di Mezzola
Winnili:antico nome che indicava i popoli Longobardi