Table of Contents
I DUE GEMELLI VENEZIANI
L’AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA
SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA
SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA SCENA VENTUNESIMA SCENA VENTIDUESIMA SCENA VENTITREESIMA SCENA VENTIQUATTRESIMA SCENA VENTICINQUESIMA SCENA VENTISEIESIMA SCENA VENTISETTESIMA SCENA ULTIMA
I RUSTEGHI
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA ULTIMA
IL BUGIARDO
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII
SCENA XIV SCENA XV SCENA XVI SCENA XVII SCENA XVIII SCENA XIX SCENA XX SCENA XXI
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X
SCENA XI SCENA XII SCENA XIII SCENA XIV SCENA XV SCENA XVI SCENA XVII SCENA XVIII SCENA XIX SCENA XX SCENA XXI
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII
SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII SCENA XIV
IL BURBERO BENEFICO
PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII
SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII SCENA XIV SCENA XV SCENA XVI SCENA XVII SCENA XVIII SCENA XIX SCENA XX
ATTO SECONDO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V
SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII SCENA XIV SCENA XV
ATTO TERZO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII
SCENA IX SCENA X SCENA ULTIMA
IL CAMPIELLO
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA
SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA
SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA
L'AVARO
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO SOLO
SCENA PRIMA SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII
SCENA XIV SCENA XV SCENA ULTIMA
LA BOTTEGA DEL CAFFE’
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima
Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima
ATTO SECONDO
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava
Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima Scena ventunesima Scena ventiduesima Scena ventitreesima Scena ventiquattresima Scena venticinquesima Scena ventiseiesima
ATTO TERZO
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima Scena ventunesima
Scena ventiduesima Scena ventitreesima Scena ventiquattresima Scena venticinquesima Scena ultima
LA FAMIGLIA DELL'ANTIQUARIO
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA
SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA SCENA VENTUNESIMA SCENA VENTIDUESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA
SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA
SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA ULTIMA
LE BARUFFE CHIOZZOTTE
PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V
SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII SCENA XIII
ATTO SECONDO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X
SCENA XI SCENA XII SCENA XIII SCENA XIV SCENA XV SCENA XVI
ATTO TERZO
SCENA I SCENA II SCENA III SCENA IV SCENA V SCENA VI SCENA VII SCENA VIII SCENA IX SCENA X SCENA XI SCENA XII
SCENA XIII SCENA XIV SCENA XV SCENA XVI SCENA XVII SCENA XVIII SCENA XIX SCENA XX SCENA XXI SCENA XXII SCENA XXIII SCENA XXIV SCENA XXV SCENA ULTIMA
IL RITORNO DALLA VILLEGGIATURA
PERSONAGGI L'AUTORE A CHI LEGGE ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA
SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA ULTIMA
IL SERVITORE DI DUE PADRONI
L'AUTORE A CHI LEGGE PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA
SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA SCENA VENTUNESIMA SCENA VENTIDUESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA
SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA
SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA ULTIMA
IL VENTAGLIO
PERSONAGGI ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA YSCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA
LA LOCANDIERA
PERSONAGGI L'AUTORE A CHI LEGGE ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA
SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA VENTESIMA SCENA VENTUNESIMA SCENA VENTIDUESIMA SCENA VENTITREESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA
SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA SCENA DICIOTTESIMA SCENA DICIANNOVESIMA SCENA ULTIMA
LE AVVENTURE DELLA VILLEGGIATURA
PERSONAGGI L'AUTORE A CHI LEGGE ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA
SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA ULTIMA
LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA
PERSONAGGI L'AUTORE A CHI LEGGE ATTO PRIMO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA SCENA SECONDA SCENA TERZA SCENA QUARTA SCENA QUINTA SCENA SESTA
SCENA SETTIMA SCENA OTTAVA SCENA NONA SCENA DECIMA SCENA UNDICESIMA SCENA DODICESIMA SCENA TREDICESIMA SCENA QUATTORDICESIMA SCENA QUINDICESIMA SCENA SEDICESIMA SCENA DICIASSETTESIMA
CARLO GOLDONI 15 COMMEDIE
I DUE GEMELLI VENEZIANI I RUSTEGHI IL BUGIARDO IL BURBERO BENEFICO IL CAMPIELLO L’AVARO LA BOTTEGA DEL CAFFE’ LA FAMIGLIA DELL’ANTIQUARIO LE BARUFFE CHIOZZOTTE IL RITORNO DALLA VILLEGGIATURA IL SERVITORE DI DUE PADRONI IL VENTAGLIO LA LOCANDIERA LE AVVENTURE DELLA VILLEGGIATURA LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA
2020 Latorre Editore Italy www.latorre-editore.it
I DUE GEMELLI VENEZIANI
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR ANTONIO CONDULMER PATRIZIO VENETO E SENATORE AMPLISSIMO
Finché le mie Commedie chiamavano in Teatro le persone allegre soltanto, bizzarre, e, come suol dirsi, di mondo, tra me stesso io dubitava se fosse convenevole ad uomo onesto quella professione, nella quale, violentato dal nativo mio genio, mi andava impegnando. Era in concetto di scandaloso il Comico Teatro, e sebbene sin dal principio che mi diedi a scriver Commedie, mi fossi già posto in animo di voler sopratutto la modestia osservare, pur tuttavia mi affliggeva internamente il dolore di vedere il Mondo così malamente preoccupato, e non mi lasciava in pace il timore d’esser posto a fascio cogli altri tutti; per la qual cosa, nell’atto stesso che il genio comico a sé mi rapiva, sentivami dal zelo della mia propria riputazione tirar addietro. Ma quando ho veduto che le persone nobili, di dottrina, di senno, di esemplari costumi e di grado cospicuo, hanno creduto degno di sé l’onesto divertimento delle mie Commedie, e frequentar pressoché tutte le sere il Teatro nel qual recitavansi, allora fu che ho preso animo e lena, e che, liberatomi da ogni sorta di scrupolo, mi sono intieramente, e con animo quieto e tranquillo, alla intrapresa mia professione abbandonato. È indicibile la consolazione ch’io ho avuto, quando venni a sapere che V. E., Cavaliere tanto pio, tanto saggio, onorava sovente le mie Commedie. Erami nota per fama la virtù grande di V. E., la quale per lo innanzi tollerar non sapeva in verun conto le sciocche e molto meno scostumate sceniche Rappresentazioni, per la qual cosa o di rado, o non mai, soleva intervenirvi; onde veggendo con quanta bontà, con quanto generoso compiacimento favoriva le mie, non solo le riputai fortunate, ma giunsi a crederle qualche cosa di buono. So che V. E., per
naturale soavissima benignità, tutto sa compatire, tutto aggradir si compiace, ma ciò può verificarsi negli Uomini in quelle cose le quali si trovano essi per una tal quale necessità come costretti a soffrire, non già in quelle che liberamente si eleggono. Lo deggio dire, e lo dirò a mia gloria, la di lei presenza, la di lei benignissima approvazione, mi ha dato spirito, Mi ha somministrato valore e coraggio, e scrivendo alcuna Commedia, il solo pensiero che dovesse ella servir di spettacolo anche all’E. V., mi metteva in dovere di esaminarla con maggior diligenza e di renderla, per quanto mi fosse possibile, castigata e corretta. V. E., dopo di essersi dichiarata Protettore umanissimo delle mie Commedie, degnossi benignamente di manifestarsi anche Protettore della mia stessa persona; e questo è il grand’obbligo che avrò sempre al Teatro, d’essermi per tal mezzo acquistato il patrocinio di un Cavaliere rispettabile per la sua Nobiltà, per il suo Grado, e ammirabile per tante belle virtù che lo adornano. Un libro di Commedie non è luogo veramente adattato per esaltare le glorie di una Famiglia sì illustre, di un Senatore sì ragguardevole. Adoro il Sacro Triregno, venero le Mitre che hanno accresciuti i fregi al vostro antichissimo nobil Casato; applaudisco all’affetto distinto e ben giusto, che in ogni tempo ha manifestata la gloriosa vostra Serenissima Patria verso i chiari vostri Progenitori, ornandoli de’ più luminosi fregi ond’ella suol contrassegnar e premiar il merito de’ Figli suoi valorosi; e con mio sommo compiacimento lo veggo continuato ne’ dignissimi Senatori Vostri Fratelli, e in Voi medesimo, meritamente quant’altro mai esser lo possa, collocato fra i Padri Coscritti di quell’augusto Senato. Ma altri di me più valenti Scrittori decantino codeste glorie, che largo campo avranno di spaziare per esse, quando la vostra modestia si accomodi a prestar loro l’orecchio; io, contentandomi di ammirar con silenzio e le grandezze della vostra Famiglia, e tante vostre personali pregevolissime virtù, non posso a meno di non far parola di quella singolar umanità, che vi rende così liberale verso i poveri, così affabile verso gli inferiori, così adorabile a tutti; effetti questi non solo d’indole naturalmente benigna, ma di quella Cristianità di massime e di costumi, che vi rende affatto in tutte le vostre azioni ammirabile. Crederò che del molto che potrei dirne, il poco che ho detto possa bastare ad eccitar in altri l’emulazione di così rare prerogative; ma non lo sia per dimostrare al mondo ch’io vaglia a conoscerne tutto il pregio, sebben ne sperimenti tutto l’effetto. Ora che altro potrei mai fare io miserabil che sono, per dare una pubblica testimonianza dell’umilissima mia riconoscenza per le tante grazie da V. E.
ricevute, e per il solenne benefizio dell’autorevole vostra protezione impartita a me e alle cose mie, sennon offerirvi una delle Commedie, che mi si è voluto far dare alle stampe? Una Commedia a un Cavaliere sì grande è dono, a dir vero, troppo sproporzionato. Io lo conosco; ma se l’accompagnarla coll’offerta di un umilissimo cuore può di qualche grado accrescerne il prezzo, eccolo riverentemente a V. E. consagrato, insieme con questa mia Commedia dei Due Gemelli, che mi prendo l’ardire di dedicarvi. Degnatevi di benignamente aggradirlo, mentr’egli perfettamente conosce che niuna cosa lo può render felice, più che la benignissima protezione di V. E. a cui profondamente m’inchino.
Di V. E.
Mantova, li Giugno 1750.
Umiliss. Devotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni
L’AUTORE A CHI LEGGE
Convien dire che io ami la Patria mia veramente, poiché, lontano da essa, tre anni dopo ch’io n’era partito, dovendo scrivere una Commedia, sul gusto della mia Nazione ho voluto scriverla. In mezzo alla Toscana, in Pisa, dove la professione legale mi obbligava a parlare almeno nei Tribunali, comecché sia, la lingua Tosca, non mi sono dimenticato del mio dolce nativo linguaggio, e poiché non mi riusciva di poterlo continuamente parlare, mi ricreavo scrivendolo di quando in quando. Dopo la Commedia della Donna di garbo, tre anni stetti in trattenimento con Bartolo, Baldo, il Farinaccio, il Claro, ecc. senza più addimesticarmi con la Comica Musa. Ma finalmente la lusinghiera che ella è, ha saputo tirarmi a sé nuovamente, e frutto fu della riaperta pratica nostra la Commedia dei Due Gemelli, da me scritta in quel tempo pel valorosissimo Cesare d’Arbes, che solito a recitare colla maschera di Pantalone, sostenne questa mirabilmente a viso scoperto. L’argomento de’ due simili, sebbene maneggiato da tanti ne’ tempi addietro in tante fogge, mi è paruto atto a produr sempre nuove e non più immaginate Commedie. Quella di Plauto, intitolata i Menecmi, è la fonte universale donde tutti gli altri, che vennero poi, cavaron le loro. L’illustre Gio. Giorgio Trissino vicentino, gloria e splendor della Italia, per aver egli condotto il primo a calcare le nostre Scene il tragico coturno colla famosa sua Sofonisba, ha voluto ricondurvi anche il socco, trattando questo stesso argomento nella Commedia de’ Simillimi, nella quale imitò il gran latino scrittore, come se ne dichiara egli stesso al Cardinal Farnese scrivendo: laonde, dic’egli, avendo tolto una festiva invenzione da Plauto, vi ho mutati nomi, ed aggiuntevi persone, ed in qualche parte cambiato l’ordine, ed appresso introdottovi il Coro, e così avendola al modo mio racconcia, voglio mandarla con questo abito nuovo in luce. Molto più del Trissino attaccato stette al maestro il facetissimo Firenzuola, che nella sua bella Commedia de’ Lucidi espresse appuntino di scena in iscena i sentimenti tutti e pensieri di Plauto, conservando della Commedia antica persino l’ordine stesso, cosicché se cambiati non vi avesse egli i nomi degli attori, e non
vi avesse aggiunto un personaggio in carattere di servo, ed adornatala in alcuni luoghi di giocondi sali e motti equivoci, la si potrebbe piuttosto denominare una semplice traduzione de’ Menecmi di Plauto, di quel che sia una nuova produzione del lepidissimo Fiorentino scrittore, il quale in qualche modo lo confessa nella licenza, con queste parole: Spettatori, non vi partite ancora. Stentate un poco, di grazia, che or ne viene il buono. La Commedia non è fornita, che i nostri Lucidi si voglion portare più da gentiluomini che i Menecmi di Plauto, e mostrare ch’egli hanno avuto molto miglior coscienza i giovani del dì d’oggi, che quelli del tempo antico, ecc. Dopo di così illustri Scrittori dell’aureo secolo decimosesto, altri vari Italiani trattaron lo stesso soggetto nel susseguente; ed introducendo due somigliantissimi Gemelli, piantaron su questa perfetta rassomiglianza la loro azione, diversificandola da quella di Plauto bensì con vari accidenti ed equivoci; ma finalmente il fondo fu sempre lo stesso. Ne ho veduta una di Bernardino d’Azzi Aretino, intitolata le Due sche, stampata in Siena l’anno 1603. Altre due ne ho pur vedute del famoso Gio. Battista Andreini Fiorentino, tra’ comici detto Lelio, la prima stampata in Venezia nel 1620, e nominata la Turca; l’altra stampata in Parigi nel 1622, chiamata i Due Leli simili. Nelle quali tutte non è sennon variamente barattato il sesso tra i simili, dacché ne procede varietà di accidenti e di episodi. Nei tempi a noi più vicini, qual uso poi non è stato fatto sulle nostre scene di questo argomento, e a’ nostri giorni medesimi? Dopo quella bellissima delle due Gemelle di Niccolò Amenta, si può quasi asserire non esservi accreditato Comico, il quale non abbia voluto dar saggi del proprio ingegno su questo soggetto; e se molti riusciron con lode, accadde anche sovente che impastricciandosi da’ Comici molte di esse Commedie insieme, ne furon formati dei mostri. Alcuni non si contentaron di introdurre una coppia di gemelli, che ne introdusser due coppie: quindi a’ nostri tempi si videro in una istessa Commedia due Leandri fratelli, e due Eularie sorelle simili; in un’altra due fratelli padroni simili e due fratelli servi simili, e si rappresenta ancora una Commedia intitolata i Quattro simili di Plauto, che certamente non si sarebbe mai sognato di farla quel grand’Autore. Ho voluto farvi questa leggenda, perché veggiate che io so benissimo quanto rancido è l’argomento della mia Commedia presente, e da quante diverse mani è stato trattato. Potete però coll’incontro delle Commedie allegatevi assicurarvi, che poco mi sono approfittato dell’altrui invenzioni. Io ho creduto di poter
inalzare sul fondamento vecchio una fabbrica affatto nuova, e ciò mi venne in mente sull’osservazione da me fatta che in tutte le antiche pariglie i due Gemelli, oltre al doversi supporre somigliantissimi in tutto l’estrinseco della persona, il che è pur nella mia, sono rappresentati eziandio d’un somigliantissimo carattere, o certamente non guari diverso. Mi son però voluto provare a farli di carattere affatto differenti l’uno dall’altro, e dar loro nomi distinti. L’impresa mi venne agevolata dalla certa scienza ch’io aveva della straordinaria abilità del bravo Comico Cesare d’Arbes, nel fare il diverso Personaggio dello spiritoso e dello sciocco; ed ecco quel che mi ha condotto a scrivere questa Commedia. Se io abbia colto nel punto propostomi, tocca a’ Lettori il deciderlo. Io non ardisco di sostenere in ogni sua menoma parte perfetta né questa mia opera, né nessun’altra; ma se devo giudicarne dall’universale applauso, con che fu essa ricevuta e in Venezia, e in Firenze, e in Mantova, e in altre Città dell’Italia, mi lusingo che nel suo tutto ella possa are per buona; il che finalmente è quanto può mai pretendersi da uno scrittore ancora novello; da uno scrittore che non fu mai nell’impegno di far una o due sole Commedie; da uno scrittore, alla fine, che scrive per il Teatro, ch’è quanto a dire principalmente pel Popolo. Una cosa mi è certamente riuscita in questa Commedia, che non so a qual altro Comico Poeta sia mai riuscita. Per ben condurre al suo termine la mia azione, mi è convenuto far morire in iscena uno de’ due Gemelli, e la di lui morte, che difficilmente tollerata sarebbe in una Tragedia, non che in una Commedia, in questa mia non reca all’uditore tristezza alcuna; ma lo diverte per la sciocchezza ridicola, con cui va morendo il povero sventurato. Io non credo arrogante la mia franca asserzione, quando ricordomi delle risa da cui si smascellavano gli spettatori universalmente, sul momento delle sue agonie e de’ suoi ultimi respiri. Peraltro esser può che, in leggendola, il ridicolo che vi è non risalti tanto, quanto fece animato dalla grazia del valoroso Comico. Ma la Commedia è Poesia da rappresentarsi, e non è difetto suo che ella esiga, per riuscir perfettamente, de’ bravi Comici che la rappresentino, animando le parole col buon garbo d’un’azione confacevole; checché ne possan dir i severi Critici, egli è certo che tutti coloro i quali han veduto rappresentar la morte di Zanetto, han confessato esser ella uno de’ pezzi più ridicoli e nuovi della Commedia.
PERSONAGGI
Il DOTTORE BALANZONI avvocato bolognese in Verona; ROSAURA creduta sua figlia, poi scoperta sorella dei due gemelli; PANCRAZIO amico del Dottore e suo ospite; ZANETTO gemello sciocco; TONINO gemello spiritoso; LELIO nipote del Dottore; BEATRICE amante di Tonino; FLORINDO amico di Tonino; BRIGHELLA servo in casa del Dottore; COLOMBINA serva in casa del Dottore; ARLECCHINO servo di Zanetto; TIBURZIO orefice, che parla; BARGELLO che parla; Uno staffiere di Beatrice, che non parla; Birri; Servitori.
La Scena si rappresenta in Verona.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera di Rosaura.
Rosaura e Colombina, tutte due alla tavoletta, che si assettano il capo.
ROS. Signora Colombina garbata, mi pare che l’obbligo suo sarebbe, prima di mettersi in tante bellezze, di venire ad assettare il capo alla sua padrona. COL. Signora, l’obbligo mio l’ho fatto: vi sono stata dietro due ore ad arricciarvi, frisarvi e stuccarvi: ma se poi non vi contentate mai, e vi cacciate per dispetto le dita ne’ capelli, io non vi so più che fare. ROS. Guardate mo che presunzione! Voler lasciar me arruffata, per perdere il tempo intorno a se medesima. COL. E che! non ho io forse de’ capelli in capo, come ne avete voi? ROS. Sì, ma io son la padrona, e tu sei la serva. COL. Oh, di grazia, non mi fate dire. ROS. E bada a durare. Or ora verrà lo sposo che si attende a momenti, e mi troverà in questa maniera. COL. Anch’io, signora, aspetto lo sposo, e mi preme di comparire. ROS. E ti vuoi paragonare con me, sfacciatella che sei? COL. Ehi, signorina, non mi perdete il rispetto, sapete, che ve ne pentirete. ROS. Impertinente, levati, o ti farò levare con un bastone. COL. Poter del mondo! a me un bastone? (s’alza)
ROS. Così rispondi alla padrona? Disgraziata, lo dirò a mio padre. COL. Che padrona! Che padre! Eh, signorina, ci conosciamo. ROS. E che vorresti dire, bricconcella? COL. Alto, alto con questi titoli, che se mi stuzzicherete, vomiterò ogni cosa, sapete. ROS. Via, parla; che puoi tu dire, bugiarda? COL. Posso dire... basta. Se ho taciuto finora, adesso non voglio tacere.
SCENA SECONDA
Dottore e dette.
DOTT. Cos’è questo rumore? Cos’è stato? Che cosa avete? ROS. Ah signor padre! mortificate colei. Ella m’insulta, mi maltratta, mi perde il rispetto. DOTT. Come? Così tratti una mia figliuola? (a Colombina) COL. Eh, signore, so più di quello che v’immaginate. Mia madre m’ha detto tutto, sapete. DOTT. (Ah donna senza giudizio, se fosse viva, la vorrei scorticare). (da sé) (Colombina, per amor del cielo, non dir nulla di quello che sai. Sta cheta, e farò tutto per te e per i tuoi vantaggi). (piano a Colombina) COL. (Oh certo, tacerò, e mi lascerò maltrattare). (piano al Dottore) ROS. Dunque, signor padre... DOTT. Orsù, oggi si aspetta il vostro sposo, il signor Zanetto Bisognosi, figlio di quel famoso mercante veneziano che chiamavasi Pantalone, il quale è stato allevato a Bergamo da suo zio Stefanello, ed è uno de’ più ricchi mercanti di Lombardia. COL. Ricordatevi che anch’io mi ho a maritare con il suo servo. Così m’avete promesso. DOTT. (Benissimo, lo farò, ti contenterò: purché tu taccia) (piano a Colombina) COL. Fate bene, se volete ch’io taccia, a turarmi la bocca col matrimonio. DOTT. Quant’è, Rosaura, che non hai veduto il signor Pancrazio?
ROS. Oh, lo vedo spessissimo. DOTT. Egli è un grand’uomo di garbo! ROS. Certo che sì; non cessa mai di darmi de’ buoni consigli. DOTT. Fin ch’io vivo, non lo lascio uscire di casa mia. ROS. Fate bene. È un uomo che può molto giovarvi. COL. Quanto a me, con vostra buona grazia, lo credo un bel birbone. DOTT. Taci, mala lingua. Che motivo hai tu di parlare così? COL. So io quel che dico. Non mi voglio spiegare.
SCENA TERZA
Brighella e detti.
BRIGH. Sior padron, siora padrona, è arrivado in sto ponto el sior Zanetto da Bergamo; l’è smontà da cavallo, e l’è alla porta che el parla con uno che l’ha compagnà. DOTT. Sia ringraziato il cielo. Figliuola mia, vado in persona a riceverlo, e lo conduco subito a visitarti. (parte)
SCENA QUARTA
Rosaura, Colombina e Brighella
ROS. Dimmi un poco, Brighella, tu che hai veduto il signor Zanetto, che ti pare di lui? È bello? È grazioso? BRIGH. Ghe dirò siora; circa alla bellezza no gh’è mal: l’è zovene, e el pol ar; ma, per quel poco che ho visto, el me par molto gnocco. Nol saveva gnanca da che banda smontar da cavallo. Al viso el someggia tutto a un altro so fradello zemello, che gh’ha nome Tonin, el qual sta sempre a Venezia, dove ho avudo occasion de conosserlo: ma se el ghe someggia in tel viso, nol ghe someggia in tel resto, perché quello l’è spiritoso e disinvolto, e questo el par un zocco taggià colla manera. ROS. Questa relazione non mi dà gran piacere. COL. Col signor Zanetto doveva venire un certo Arlecchino suo servitore; è egli venuto? (a Brighella) BRIGH. No l’è ancora vegnù; ma el s’aspetta col bagaglio del so patron. COL. Me ne dispiace. Ho curiosità di vederlo. BRIGH. Lo so, lo so che l’è destinà al possesso delle vostre bellezze. COL. Se avete invidia, crepate. (parte)
SCENA QUINTA
Rosaura e Brighella
ROS. Narrami, o Brighella, come hai conosciuto questa famiglia in Venezia, e dimmi per qual cagione il signor Zanetto sia stato allevato a Bergamo. BRIGH. Mi serviva in Venezia un mercante ricchissimo, amigo intrinseco del fu sior Pantalon dei Bisognosi, padre de sti do fradelli zemelli. El sior Pantalon, oltre de questi, l’aveva anca una femena, e questa el l’ha mandada a Bergamo a un so fradello, per nome chiamado Stefanello, ricco e senza eredi, dove prima l’aveva mandà anca el sior Zanetto. Ho sentio a dir, praticando in quella casa, che la femena s’aveva perso; che a Bergamo no l’è arrivada, e che la s’è smarrida, non se sa come, per viazo; e mai più i ghe n’ha avudo nova: e questo è quanto ghe posso dir circa alle persone de sta fameggia. In quanto po al grado e alle facoltà, la casa Bisognosi in Venezia fa bona fegura in Piazza, e la a per una delle più comode tra i marcanti. ROS. Tutto va bene, ma mi rincresce che il signor Zanetto non sia spiritoso quanto il fratello. BRIGH. Eccolo che el vien in compagnia col patron. La lo esamina, e la vederà se ho dito la verità. (parte)
SCENA SESTA
Rosaura, poi il Dottore e Zanetto
ROS. Al viso non mi dispiace. Può essere che non sia tanto sciocco, quanto me l’ha dipinto Brighella. DOTT. Venga, venga liberamente, senza soggezione. Figlia mia, ecco il signor Zanetto. ZAN. Siora novizza(¹), la reverisso. ROS. Signore, io gli sono umilissima serva. ZAN. (Ah, la xe serva! Bondì sioria). Digo, sior missier(²), la novizza dov’ela? DOTT. Eccola qui: questa è mia figlia, questa è la sposa. ZAN. Mo se la m’ha dito che la xe serva. DOTT. Eh, non signore, ha detto gli sono umilissima serva, per complimento, per cerimonia. ZAN. Ho inteso; scomenzemo mal. DOTT. Per qual ragione? ZAN. Perché in tel matrimonio no ghe vuol né busie, né cerimonie. ROS. (È veramente sciocco, ma pure non mi dispiace). (da sé) DOTT. Eh via, non abbadi a queste inezie. ROS. Signor Zanetto, assicuratevi ch’io sono sincera, che non so simulare, e che avrò per voi tutta la stima ed il rispetto.
ZAN. Tutte cosse che no val un figo(³). ROS. Ma forse non aggradite queste mie espressioni? ZAN. Siora sì, come che la vol. ROS. Dispiace agli occhi vostri il mio volto? ZAN. Alle curte. Mi son vegnù a Verona per maridarme, e aspetto Arlecchin da Bergamo coi abiti, co le zogie e coi bezzi. ROS. E bene, non sono io destinata per vostra sposa? ZAN. Ma che bisogno ghe xe de tanti squinci e quindi? La me tocca la man, e la xe fenia. ROS. (Che temperamento curioso!) (da sé) DOTT. Ma, caro signor genero, vuol ella fare il matrimonio così ruvidamente? Dica qualcosa alla sposa, le parli con più di buona grazia ed amore. ZAN. Oh sì, disè ben. Son tutto, tutto vostro. Me piase quel bel visetto. Vorave... Caro sior missier, feme un servizio. DOTT. Cosa comanda? ZAN. Andè via de qua, perché me dè soggezion. DOTT. Benissimo, la servirò. Io sono un uomo compiacentissimo. (Figlia mia, abbi giudizio: è un poco scioccherello, ma ha de’ quattrini). (piano a Rosaura) Signor genero, la riverisco. (Guardate a chi dona la sorte i suoi favori!) (da sé, e parte)
SCENA SETTIMA
Rosaura e Zanetto
ZAN. Sioria vostra(⁴). (al Dottore) E cussì, siora novizza, nualtri semo mario e muggier(⁵). ROS. Così spero. ZAN. Donca cossa femio qua impalai( )? ROS. E che cosa vorreste fare? ZAN. Oh bella! mario e muggier. ROS. Marito e moglie lo saremo, torno a dir, così spero: ma ora il matrimonio non è ancora fatto. ZAN. No? Mo cossa ghe vol per far el matrimonio? ROS. Vi vogliono molte cerimonie e solennità. ZAN. Parlemose schietto. Me accetteu per vostro mario? ROS. Sì, signore, vi accetto. ZAN. E mi ve accetto per mia muggier. Cossa ghe xe bisogno de altre cerimonie? Questa xe la più bella cerimonia del mondo. ROS. Voi dite bene. Ma qui non si pratica in questa guisa. ZAN. No? Torno a Bergamo. Torno alle montagne, dove son stà arlevà. Là, co se vol ben, xe fatto tutto. Co do parole se fa un matrimonio: e tutte le cerimonie le se fa tra mario e muggier. ROS. Vi torno a dire che qui vi vogliono altre solennità.
ZAN. Ma ste solennità quando fenirale? ROS. Ci vogliono almeno due giorni. ZAN. Oh, figureve se aspetto tanto! ROS. Siete molto furioso. ZAN. O femo subito, o no femo gnente. ROS. Ma questo è un disprezzo che fate della mia persona. ZAN. Ghe disè desprezzo a voler concluder el matrimonio? Saveu quante putte(⁷) che vorave esser desprezzae in sta maniera? ROS. Ma che diavolo! non potete aspettar un giorno? ZAN. Ma disè, cara vu: ste solennità e ste cerimonie no le se poderave far dopo el matrimonio? Concludemo le cosse tra de nu, e po andemo drio a cerimoniar anca un anno, che no ghe penso gnente. ROS. Eh, signor Zanetto, mi pare che vi vogliate prender divertimento di me. ZAN. Seguro che me vorave devertir, ma col matrimonio. ROS. Lo farete a suo tempo. ZAN. Dise el proverbio: chi ha tempo, no aspetta tempo. Via, no me fe più penar. (s’accosta, e vuol toccarle la mano) ROS. Ma questa poi è un’impertinenza. ZAN. E via, che cade(⁸)! ROS. Abbiate giudizio, vi dico. ZAN. Siben, giudizio. (vuol abbracciarla, ella gli dà uno schiaffo) ROS. Temerario! ZAN. (Senza parlare si ferma attonito, si tocca la guancia. Guarda in viso
Rosaura, fa il motto dello schiaffo, la saluta, e alla muta correndo parte)
SCENA OTTAVA
Rosaura, poi Pancrazio
ROS. Poter del mondo! che uomo improprio! che giovine sfacciato! non mi sarei mai creduta una tale temerità in colui, che sembra a prima vista uno sciocco. Ma appunto questi guarda basso sono quelli che ingannano più degli altri. Noi altre donne mai non ci dovremmo trovare da sola a solo cogli uomini. Sempre s’incontra qualche pericolo. Me l’ha detto tante volte quel buon uomo del signor Pancrazio... Ma eccolo che viene; veramente nel di lui volto si vede a chiare note la bontà del suo cuore. PANC. Il ciel vi guardi, fanciulla; che avete, che vi veggo così alterata? ROS. Oh, signor Pancrazio, se sapeste cosa mi è accaduto! PANC. Che mai, che mai! Palesatemi il tutto con libertà. Già in me vi potete sicuramente fidare. ROS. Ve lo dirò, signore: sapete già che mio padre mi ha destinata in isposa ad un Veneziano. PANC. (Così non lo sapessi!) (da sé) ROS. Saprete ancora ch’egli, partitosi da Bergamo, oggi è arrivato in questa città. PANC. (Così si fosse rotto l’osso del collo). (da sé) ROS. Ora sappiate che costui è uno sciocco, ma però temerario. PANC. La temerità è propria di gente sciocca. ROS. Mio padre mi fece subito abboccare con esso lui. PANC. Male.
ROS. Poi seco lui ancora mi lasciò sola. PANC. Peggio. ROS. Ed egli... PANC. Già me l’immagino. ROS. Ed egli con parole indecenti... PANC. Ed anco tenere, non è così? ROS. Sì, signore. PANC. E con qualche atto immodesto? ROS. Per l’appunto. PANC. Seguite; che avvenne? ROS. Mi provocò a segno ch’io gli diedi uno schiaffo. PANC. Oh, brava, oh saggia, oh esemplare fanciulla! oh degna d’esser descritta nel catalogo dell’eroine del nostro secolo! Non ho lingua bastante per lodare la savia risoluzione del vostro spirito. Così si trattano cotesti insolenti; così si mortificano questi irriverenti del sesso. Oh mano eroica, oh mano illustre e gloriosa! Lasciate che per riverenza ed ammirazione imprima un bacio su quella mano, che merita gli applausi del mondo tutto. (le prende la mano, e la bacia teneramente) ROS. Merita dunque la vostra approvazione quest’atto del mio risentimento? PANC. Pensate! e in che modo! Al giorno d’oggi è un prodigio trovar una giovane, che per modestia dia uno schiaffo ad un amante. Seguite, seguite sì bel costume. Avvezzatevi a disprezzare la gioventù, dalla quale non potete sperare che mali esempi, infedeltà e strapazzi; e se mai il vostro cuore risolvere si volesse ad amare, cercate un oggetto degno del vostro amore. ROS. Ma dove ed in chi dovrei cercarlo? PANC. Oh, Rosaura, per ora non posso dirvi di più. Penso a voi ed al vostro
bene più di quello che vi credete; basta, lo conoscerete. ROS. Signor Pancrazio, sono certa della vostra bontà. Siete troppo interessato per i vantaggi di questa casa, per non isperare da voi ogni più segnalato favore. Però, se devo dirvi la verità, il signor Zanetto non mi dispiace, e se non fosse così sfacciato, forse forse... PANC. Oibò, oibò, chiudete l’incauto labbro, e non oscurate con sentimenti sì vili l’eroica impresa della vostra virtù. Via, odiate anzi un oggetto così abbominevole. Chi non sa esser modesto, mostra di non aver la ragione che lo governi. Il vostro merito d’altro oggetto più nobile vi rende degna. Non fate mai più ch’io vi senta a pronunziare quel nome. ROS. Dite bene, signor Pancrazio. Perdonate la mia debolezza. Vado a dire a mio padre che non lo voglio. PANC. Brava; ora vi lodo. Aggiungerò alle vostre le mie ragioni. ROS. Di grazia, non mi abbandonate. (Che uomo dabbene, che uomo saggio ch’è questo! Felice mio padre, che l’ha in sua casa! felice me, che sono ammaestrata da’ suoi consigli!) (da sé, e parte)
SCENA NONA
Pancrazio solo.
PANC. Se non mi acquisto Rosaura col mezzo di una falsa virtù e di una finta prudenza, né colla gioventù, né colla bellezza, né colla ricchezza io non ispero di acquistarla per certo. Ho trovata una strada, che forse forse mi condurrà al fine de’ miei disegni. In oggi chi sa più fingere sa meglio vivere; e per esser saggio basta parerlo. (parte)
SCENA DECIMA
Strada.
BEATRICE da viaggio, con un SERVITORE, e FLORINDO
BEAT. Tant’è, signor Florindo, io voglio tornar a Venezia. FLOR. Ma perché una risoluzione così improvvisa? BEAT. Sono ormai sei giorni ch’io sto attendendo il signor Tonino, con cui ar dovevo a Milano; e non per anco lo vedo a comparire. Dubito che siasi pentito di seguitarmi, oppure che qualche strano accidente non lo trattenga in Venezia; senz’altro voglio partire, e chiarirmi in persona di questo fatto. FLOR. Ma questa, perdonatemi, è un’imprudenza; volete ritornar a Venezia, da dove, per consiglio del signor Tonino, siete fuggita? Se vi trovano i vostri parenti, siete perduta. BEAT. Venezia è grande: s’entra di notte: farò in modo che non sarò conosciuta. FLOR. No, signora Beatrice, non isperate ch’io vi lasci partire. Il signor Tonino a me vi ha indirizzata, a me vi ha raccomandata, ho debito di trattenervi, ho debito di custodirvi; così vuole la legge dell’amicizia (e così richiede la forza di quell’amore, che a lei mi lega). (da sé) BEAT. Non vi lagnate, se ad onta del vostro volere mi procaccio da me stessa il modo di partire. Saprò trovare la Posta, e saprò col mio servo ritornare a Venezia, se con esso sono venuta a Verona. FLOR. Oh, questo sì che sarebbe il massimo degli errori. Non mi diceste voi stessa che un certo Lelio per viaggio vi ha di continuo perseguitata? E non l’ho veduto io stesso qui in Verona raggirarsi sempre d’intorno a voi, a segno tale che
più volte ho quasi seco dovuto precipitare? Se tornate a partire, ed egli giunge a penetrarlo, non vi esimerete da qualche insulto. BEAT. Una donna onorata non teme insulti. FLOR. Ma una donna sola con un servitore per viaggio, per quanto sia onorata, fa sempre una cattiva figura, ed è facile ricever un affronto. BEAT. Tant’è, voglio partire. FLOR. Aspettate ancora due giorni. BEAT. Ah, che il cuor mi predice, che ho perduto il mio Tonino. FLOR. Tolga il cielo gli auguri: ma se mai lo aveste perduto, che vorreste fare ritornando in Venezia? BEAT. E che avrei a fare stando in Verona? FLOR. Qui forse trovereste persona, che persuasa del vostro merito, potrebbe occupare il luogo del vostro caro Tonino. BEAT. Oh, questo non sarà mai. O sarò di Tonino, o sarò della morte. FLOR. (Eppure, se qui restasse e non venisse il suo amante, spererei a poco a poco di vincerla). (da sé) BEAT. (Quando meno lo crederà, gli fuggirò dalle mani). (da sé) FLOR. Ma ecco qui quel ganimede affettato di Lelio. Egli s’aggira sempre d’intorno a voi; guardi il cielo, se foste senza di me. BEAT. Partiamo. FLOR. Oh questo no: non diamo segno di timore. State pur sul vostro decoro, e non dubitate. BEAT. (Mancava questo impedimento alla mia partenza). (da sé)
SCENA UNDICESIMA
Lelio e detti.
LEL. Bellissima veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se così è, fate capitale di me: vi darò calesse, cavalli, staffieri, lacchè, denari e quanto volete, purché mi concediate il piacere di accompagnarvi. BEAT. (Che sguaiato!) (da sé) FLOR. Signore, mi favorisca. Con che titolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia? LEL. Che importa a me ch’ella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere? FLOR. Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere. Sono un uomo d’onore. Sono uno che ha impegno di custodir questa donna. LEL. Oh amico, siete in un difficile impegno! FLOR. E perché? LEL. Perché a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra. FLOR. Eppure mi dà l’animo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi. LEL. Orsù, alle corte. Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate (a Beatrice) FLOR. Voi mi farete perder la pazienza. LEL. Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo. Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.
BEAT. Mi sembrate un bell’impertinente. LEL. In amore vi vuole audacia. A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo. (la vuol prender per mano, ed ella si ritira) FLOR. Abbiate creanza, vi dico. (gli dà una spinta) LEL. A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non può vantarsi d’avermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa. Ho più terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho più centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate. FLOR. Ed io credo che tu abbia più pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo. (Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed è nipote del dottor Balanzoni). (da sé) LEL. O venga meco la donna, o tu caderai vittima del mio sdegno. FLOR. Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponderò colla spada. LEL. Povero giovine! Ti compatisco. Tu vuoi morire, non è così? BEAT. (Signor Florindo, non vi cimentate con costui). (piano a Florindo) FLOR. (Eh, non temete. Abbasserò io la sua alterigia). (a Beatrice) LEL. Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna. Delle donne n’è pieno il mondo. La vita è una sola. FLOR. Stimo più della vita l’onore. O partite, o impugnate la spada. (mette mano) LEL. Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vo’ batter teco. FLOR. O nobile, o plebeo, così si trattano i vili tuoi pari. (gli dà una piattonata) LEL. A me questo! Dei tutelari della mia nobiltà, assistetemi nel cimento. (pone
mano) FLOR. Ora vedremo la tua bravura. (si battono) BEAT. Oh me infelice! Non vo’ trovarmi presente a qualche tragedia. Mi ritirerò nell’albergo vicino. (Nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col Servo)
SCENA DODICESIMA
Florindo e Lelio che si battono, poi Tonino
FLOR. Ah! son caduto. (cade) LEL. Temerario, sei vinto. (gli sta colla spada al petto) FLOR. Sdrucciolai per disgrazia. LEL. Ti superò il mio valore. Mori... TON. (colla spada in mano in difesa di Florindo) A mi, mi: alto, alto: co la zente xe in terra, se sbassa la ponta. (a Lelio) LEL. Voi come c’entrate? TON. Gh’intro, perché son un omo d’onor, e no posso sopportar una bulada in credenza( ). FLOR. Come... Signor Tonino... Amico caro... (s’alza) TON. (Zitto.. son vostro amigo, e son arrivà in tempo de defender la vostra vita, ma no stè a dir el mio nome). Animo, sior canapiolo(¹ ), vegnì a nu(¹¹). (sfida Lelio) LEL. (Ci mancava costui). (da sé) Ma voi chi siete? TON. Son un venezian, che gh’ha tanto de cuor; che no gh’ha paura né de vu, né de diese della vostra sorte. LEL. Io non ho nulla con voi, né intendo di volermi battere. TON. E mi gh’ho qualcossa con vu, e me voggio batter. LEL. Mi sembrate uno stolto; che cosa avete meco?
TON. L’affronto che avè fatto a un mio amigo, lo risento come mio proprio. A Venezia se fa più conto dell’amicizia che della vita; e me parerave d’esser indegno del nome de venezian, se no seguitasse l’esempio dei nostri cortesani(¹²), che xe el specchio dell’onoratezza. LEL. Ma qual è quell’affronto ch’ho fatto a questo vostro sì grande amico? TON. Ghe disè poco! manazzar(¹³) un uomo in terra? Ghe disè gnente, dirghe muori, co l’è colegà(¹⁴)? Via, mettè man a quella spada. FLOR. No, caro amico, non vi cimentate per me. (a Tonino) TON. Eh via, cavève, che tanto stimo a batterme co sto scartozzo de pévere(¹⁵), come bever un vovo(¹ ) fresco. LEL. Ma io ho troppo lungamente sofferta la vostra petulanza, con discapito della delicatezza dell’onor mio e con iscorno de’ miei grand’avi. TON. È vero. Cossa dirà vostra nona nina nana? Cossa dirà vostro pare della poltroneria de sto gran fio? LEL. Ah, giuro al cielo. TON. Ah, giuro alla terra. LEL. Eccomi. (si pone in guardia contro Tonino) TON. Bravo, coraggio. (si battono; Tonino disarma Lelio) LEL. Sorte ingrata! Eccomi disarmato. TON. L’è disarmà, e tanto me basta: vedeu come se tratta? No ve manazzo, no digo muori. Me basta l’onor de averve vinto. Me basta la spada per memoria de sto trionfo: cioè la lama, che la guardia ve la manderò a casa, acciò la podiè vender, e podiè pagar el cerusico, che ve caverà sangue per el spasemo che avè abuo(¹⁷). LEL. Basta, ad altro tempo riserbo la mia vendetta. TON. Da muso a muso, son sempre in casa, co me volè.
LEL. Ci vedremo, ci vedremo. (parte)
SCENA TREDICESIMA
Florindo e Tonino
TON. Va pur, e per tua gloria basti Il poter dir che contro me pugnasti. FLOR. Caro amico, quanto vi son tenuto! TON. Alle curte. Beatrice dove xela? FLOR. Beatrice!... (Finger mi giovi). E chi è questa Beatrice? TON. Quella putta che ho fatto scampar da Venezia, e l’ho mandada qua da vu, pregandove de custodirla fina al mio arrivo. FLOR. Amico, io non ho veduto alcuno. TON. Come! diseu dasseno o burleu? FLOR. Dico davvero. Io non ho veduto la donna che dite, e mi sarei fatto gloria di potervi servire. TON. Ho inteso; la me l’ha fatta. Me pareva impossibile de trovar una donna fedel. Xe do anni che ghe fazzo l’amor. So pare no me la vol dar, perché el gh’ha in testa che sia un pochetto scavezzo(¹⁸), perché me piase goder i amici e far un poco de tutto, sempre però onoratamente e da vero cortesan. Mi, vedendo che no i me la voleva dar, l’ho consegiada a scampar. Ella, senza pensarghe suso, l’ha fatto fagotto e la xe vegnua via. L’ho fatta compagnar a Verona da un servitor mio fedel, e mi intanto m’ho trattegnù a Venezia per no dar sospetto. Un certo siorazzo(¹ ) forestier, che pretendeva sora sta putta, m’ha trovà mi, e sospettando che mi gh’abbia fatto la barca, el m’ha scomenzà a bottizar. Una parola tocca l’altra, gh’ho lassà andar un potentissimo schiaffo. S’ha sussurà mezza Venezia e i me voleva in cotego(² ) in ogni forma. Ho tiolto una gondola(²¹), e senza andar
a casa, senza tior né bezzi(²²), né roba, con quel poco che gh’aveva addosso, son vegnù qua. Credeva de trovar la mia cara Beatrice; ma sta cagna sassina me l’ha ficcada. Orsù, senti, amigo, ste poche ore che semo qua, no me chiamè col nome de Tonin, perché no vorave esser cognossuo. FLOR. E come volete ch’io vi chiami? TON. Diseme Zanetto. FLOR. Perché Zanetto? TON. Perché gh’ho un fradello a Bergamo, che gh’ha sto nome e el me someggia tutto. Se i me vede, i me crederà lu, e cussì scapolerò(²³) qualche pericolo. FLOR. Questo vostro fratello è tuttavia in Bergamo? TON. Credo de sì, ma no lo so de seguro, perché semo, co(²⁴) se sol dir, più parenti che amici. Lu gh’ha dei bezzi più de mi; ma mi godo el mondo più de lu. Anzi ho sentio a dir ch’ei se vol maridar, ma no so né dove, né con chi. El xe un alocco de vintiquattro carati: beata quella muggier che ghe tocca! Le donne le gh’ha più gusto d’un mario alocco, che d’una bona intrada. FLOR. Amico, se volete onorar la mia casa, siete padrone. TON. No vorave darve incomodo. FLOR. A me fareste piacere; ma per dirvela, ho un padre fastidioso, che non vorrebbe mai veder alcuno. TON. Eh no no, gnente, compare(²⁵), gnente, anderò all’osteria. FLOR. Mi rincresce infinitamente; per altro, se volete... TON. Tonin Bisognosi no ha mai costumà de piantar el bordon(² ) in casa dei so amici; e i cortesani della mia sorte i dà, e no i tiol. Vegnì a Venezia, e vederè come se tratta. Nualtri ai forestieri ghe demo el cuor; e gh’avemo sta vanità de trattar i forestieri in t’una maniera, che tutti diga ben de Venezia, più della so medesima patria. Ve son obbligà, cognosso el vostro bon cuor; ma la bona mare(²⁷) no la dise vustu, la dise tiò(²⁸).
FLOR. Ma caro amico, fatemi questo piacere, venite. TON. Fe conto che sia vegnù. Se posso, comandème. Son Tonin, e tanto basta. La vita, el sangue tutto, prima per la patria, e po per i amici. «Pugna per patria e traditor chi fugge». Sioria vostra. (parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
Florindo solo.
FLOR. Grand’è la mortificazione ch’io provo de’ rimproveri ben giusti del signor Tonino; ma l’amore ch’io ho per Beatrice, mi fa essere ingrato. S’io lo conduco in mia casa, è scoperto l’inganno. A me giova che parta Tonino, e resti meco Beatrice. Allora mi spiegherò, e forse non sarà contraria a’ miei desideri. Anderò a rintracciarla. Per oggi e domani la farò star ritirata. Il servitore lo manderò fuori di Verona. Farò tutto per acquistarmi questa rara bellezza. So che manco al dovere e l’amicizia tradisco, ma amore comanda con troppo arbitrio al mio cuore. Devo a Tonino la vita, e son pronto a sagrificarla per lui. Tutto son pronto a fare, fuorché privarmi di Beatrice che adoro. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Zanetto, poi Lelio
Zanetto mesto e pensoso, senza parlare, toccandosi la guancia dello schiaffo.
LEL. Or siete solo. Ecco il tempo di cimentarvi. (a Zanetto da lui creduto Tonino) ZAN. Servitor umilissimo. LEL. Meno cerimonie e più fatti. Ponete mano. ZAN. La man? Xe qua la man. LEL. Che? Fate lo scimunito? Ponete mano alla spada. ZAN. Alla spada? LEL. Sì, alla spada. ZAN. Mo perché? LEL. Perché non soffre il coraggioso mio cuore, che fra l’eroiche gesta del suo valore si conti una perdita sola. ZAN. De che paese xela, padron? LEL. Io son romano. Perché? ZAN. Perché no l’intendo gnente affatto. LEL. Se non intendete me, intenderete il lucido lampo di questo ferro. (pone mano alla spada)
ZAN. Oe, zente, agiuto, el me vol mazzar. (grida forte) LEL. Ma che! Fingete voi meco, per maggiormente deridermi? So che siete valoroso, ma in mio confronto cederebbe lo stesso Marte, se Giove di sua mano non mi disarmasse. Venite al cimento. ZAN. (Prima un schiaffo e adesso la spada? Stago fresco come una riosa). (da sé) LEL. Animo, dico, rispondete all’invito. (gli dà una piattonata) ZAN. Aseo(² )! LEL. O difendetevi, o vi o il petto. (in atto di ferirlo)
SCENA SEDICESIMA
Florindo e detti.
FLOR. (Colla spada alla mano) Eccomi in difesa dell’amico. A me volgete quel ferro. LEL. Colui è un vile, è un codardo. (a Florindo, intendendo parlare del creduto Tonino) ZAN. Sior sì, el dise la verità. (a Florindo) FLOR. Mentite, egli è un uom valoroso. (a Lelio) ZAN. (Sto sior me cognosse poco). (da sé) LEL. Perché dunque meco non si cimenta? ZAN. (Perché gh’ho paura). (da sé) FLOR. Perché più non si degna di combatter con voi. ZAN. (Che matto che xe costù). (da sé) FLOR. Ma comunque sia, meco avete da cimentarvi. (a Lelio) LEL. Eccomi, non temo né di voi, né di cento. (si battono) ZAN. Bravi, pulito, animo, dei, sbusèlo(³ ). FLOR. Ecco atterrato il superbo. (Lelio cade) LEL. Sorte crudele, nemica de valorosi! FLOR. La tua vita è nelle mie mani.
ZAN. Siben, mazzèlo. Ficheghela quella cantinella in tel corbame(³¹). FLOR. Non sarebbe azione da cavaliere. ZAN. Gierela azion da cavalier la soa, quando el me voleva sbusar? FLOR. Ma voi l’altra volta non rimproveraste colui, perché mi minacciò la morte, mentre era caduto? ZAN. Eh, che sè matto. Dei, mazzèlo. FLOR. No: vivi, e riconosci da me la vita. (a Lelio) LEL. Voi siete degno di starmi a fronte; ma colui è un vigliacco, un poltrone. (parte)
SCENA DICIASSETTESIMA
Florindo e Zanetto
ZAN. Tutto quel che ti vol. FLOR. Ma, caro amico, perché questa volta vi dimostraste cotanto da voi diverso? Fingete? O qual capriccio è il vostro? ZAN. Sior, no finzo gnente. Mai più in vita mia ho abuo tanta paura. Se no vegnivi vu, el me sbasiva de posta(³²). FLOR. Godo d’avervi salvata la vita. ZAN. Sieu benedio(³³): lassè che basa quella man che m’ha liberà. FLOR. Ma io ho fatto con voi quello che voi avete fatto con me: voi avete salvata la mia vita, ed io ho salvata la vostra. ZAN. Mi v’ho salvà la vita? FLOR. Sì, quando mi difendeste contro Lelio la prima volta. ZAN. No me l’arecordo. FLOR. I pari vostri si scordano i benefici che fanno, per modestia. Amico, io vi consiglio partir di Verona, perché dubito siate conosciuto. ZAN. Anca mi credo che i m’abbia cognossuo. FLOR. E se vi conoscono, guai a voi. ZAN. Sempre de mal in pezo. FLOR. Vi par poco aver dato uno schiaffo?
ZAN. Averlo tolto, volè dir. FLOR. Ah, l’avete avuto voi lo schiaffo? ZAN. Sior sì. Mo che credevi... che ghe l’avesse dà mi? FLOR. Così credeva. ZAN. Oibò, mi, mi l’ho buo(³⁴). FLOR. Ma la donna non l’avete più vista? ZAN. Sior no, no l’ho più vista. FLOR. (Nemmen io ho potuto ritrovar Beatrice). (da sé) ZAN. No me curo gnanca(³⁵) de véderla. FLOR. Oh sì, farete bene. Non ve ne curate più. Fate a mio modo, tornate a casa vostra. ZAN. Cussì diseva anca mi. FLOR. Posso servirvi in conto alcuno? ZAN. La so grazia. FLOR. A rivederci. ZAN. La reverisso. FLOR. (Pare diventato uno sciocco. Amore fa de’ brutti scherzi). (da sé, parte)
SCENA DICIOTTESIMA
Zanetto, poi Pancrazio
ZAN. Se no vegniva sto sior, stava fresco. Stimo che tutti sa che quella patrona(³ ) la m’ha dà un schiaffo. Pazenzia. Sto zovene me vol ben. El me conseggia che vaga via. Ma penso po anca che Rosaura la me piase, e che se la fusse mia muggier, gh’averave gusto. Me despiase che Arlecchin no xe gnancora vegnù co sti bezzi e co sta roba, che ghe vorave far un regalo e giustarla. PANC. (Ecco qui quel baccellone di Zanetto. Si aggira intorno di questa casa, e non sa allontanarsene). (da sé) ZAN. La m’ha dà un schiaffo, donca la me vol mal. Ma no, anca mia siora madre la me dava dei schiaffi e la me voleva ben. Finalmente no la m’ha miga coppà. Eh, che son matto. No voggio desgustarla. Voggio andar subito a domandarghe perdonanza. (va verso la casa del Dottore) PANC. Quel giovine, dove andate? ZAN. Vago dalla mia novizza. PANC. Da quella che vi ha dato lo schiaffo? ZAN. Siben, giusto da quella. PANC. E andate con risoluzione di pacificarvi e di sposarla? ZAN. Bravo, l’avè indovinada. PANC. Vi piace quella giovine? ZAN. Assae. PANC. Le volete bene?
ZAN. E come! PANC. La sposereste volentieri? ZAN. Oh magari(³⁷)! PANC. Povero giovane, quanto vi compatisco! ZAN. Coss’è stà? PANC. Siete sull’orlo del precipizio. ZAN. Mo perché? PANC. Non volete ammogliarvi? ZAN. Sior sì. PANC. Povero infelice, siete rovinato. ZAN. Mo perché? PANC. Io, che altro non bramo che giovar al mio prossimo, devo per debito di carità fraterna avvertirvi dell’enorme pazzia che siete per fare. ZAN. Mo comòdo(³⁸)? PANC. Sapete voi cosa sia matrimonio? ZAN. Matrimonio... sior sì... l’è, come sarave a dir... giusto... mario e muggier. PANC. Ah, se sapeste cosa vuol dir matrimonio, cosa vuol dir moglie, non ne parlereste con tanta indifferenza. ZAN. Mo via, cossa vorlo dir? PANC. Matrimonio vuol dire una catena, che tiene l’uomo legato come lo schiavo alla galera. ZAN. El matrimonio?
PANC. Il matrimonio. ZAN. Schienze(³ )! PANC. Il matrimonio è un peso che fa sudar i giorni e vegliar le notti. Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa e peso alla testa. ZAN. Gnaccara muso d’oro(⁴ )! PANC. E la donna che vi sembra tanto bella e gentile, che credete mai che ella sia? ZAN. Coss’èla, caro sior? PANC. La donna è una incantatrice sirena che alletta per ingannare, ed ama per interesse. ZAN. La donna? PANC. La donna. ZAN. Aséo! PANC. Quegli occhi così brillanti sono due fiamme di fuoco, che a poco a poco accendono e inceneriscono. ZAN. I occhi... do fiamme de fogo... PANC. La bocca è un vaso di veleno che lentamente per le orecchie s’insinua al cuore, ed uccide. ZAN. La bocca... un vaso de velen... PANC. Le guancie, così vaghe e vermiglie, sono stregherie, sono incanti. ZAN. Le ganasse(⁴¹)... strigherie... incanti... PANC. Quando una donna vi viene incontro, sappiate che quella è una furia che viene per lacerarvi. ZAN. Bagatelle per i putei!
PANC. E quando la donna viene per abbracciarvi, quello è un demonio che vi vuol tirar all’inferno. ZAN. Alla larga. PANC. Pensateci, e pensateci bene. ZAN. Gh’ho bello e pensà. PANC. Mai più donne. ZAN. Mai più donne. PANC. Mai più matrimonio. ZAN. Mai più matrimonio. PANC. Quanto benedirete il mio consiglio. ZAN. El ciel v’ha mandà. PANC. Via, abbiate giudizio. Il ciel vi benedica. ZAN. Sè mio pare: ve voggio ben. PANC. Prendete, baciatemi la mano. ZAN. Oh caro! Oh siestu benedio! (gli bacia la mano) PANC. Donne... ZAN. Uh... PANC. Matrimonio... ZAN. Oh... PANC. Mai più... ZAN. Mai più.
PANC. Certo? ZAN. Seguro. PANC. Bravo, bravo, bravo. (parte)
SCENA DICIANNOVESIMA
Zanetto, poi Beatrice col Servo
ZAN. Cancaro! Aveva fatto una bella cossa, se no capitava sto galantomo. Matrimonio.. peso qua, peso là, peso alla borsa, peso alla testa... Donne... sirene, strighe, diavoli. Ih, che imbroggio maledetto. BEAT. Oh me felice! Ecco il mio bene, ecco il mio sposo. Quando siete arrivato? (a Zanetto, credendolo Tonino) ZAN. Via, alla larga. BEAT. Come! Non son io la vostra sposa? Non siete voi qui venuto per stabilire i nostri sponsali? ZAN. Siben: la caena, come i galiotti. Brava, za so tutto. BEAT. Che catena? Che dite di catena? Non vi ricordate delle vostre promesse? ZAN. Promesse? De cossa? BEAT. Del matrimonio. ZAN. Seguro, el matrimonio. Peso alla borsa e peso alla testa. BEAT. Eh via, guardatemi: non vi burlate di me, che mi fate morire. ZAN. (Propriamente se ghe vede el fuogo in quei occhi). (da sé) BEAT. Dubitate forse di me? Uditemi, che vi renderò soddisfatto. ZAN. Serrè quella bocca, quella scatola de velen, che no vorave che me arrivessi a tossegar(⁴²) el cuor. BEAT. Oimè! Che parlare è il vostro? Voi mi fate arrossire senza colpa.
ZAN. Vela là, che la vien rossa. Lo so che sè una striga. BEAT. Son disperata. Ascoltatemi per pietà. (s’accosta a Zanetto) ZAN. Via furia, che vien per lacerarme. (fuggendo da lei) BEAT. Ma cieli! Che mai vi ho fatto? (s’accosta di nuovo) ZAN. Via diavolo, che me voria str all’inferno. (parte)
SCENA VENTESIMA
Beatrice sola.
BEAT. Tanto ascolto e non muoio? Che ho da pensare del mio Tonino? O egli è impazzito, o è stato di me sinistramente informato. Misera, che far deggio? Lo seguirò di lontano e tenterò ogni arte per discoprire la verità. Amore, tu che per mia sventura mi facesti abbandonare la patria, i genitori e gli amici, tu assistimi nel pericolo in cui mi trovo; se brami in ricompensa il mio sangue, versalo tutto, prima che mi vegga sprezzata dall’adorato mio sposo.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Strada. Da una parte la casa del Dottore, dall’altra osteria con insegna.
ARLECCHINO da viaggio, con un FACCHINO che porta una valigia ed un ferraiuolo.
ARL. Finalmente semo arrivadi alla bella città de Verona, dove Cupido ha scoccà quella frezza che m’ha ferido el cor, senza che veda l’arco. Dove poss dir d’esser innamorà in una che non ho mai visto; dove ho da sposar una donna che no cognosso. FACC. Vorrei che ci sbrigassimo, perché ho altri impegni, e voglio andarmi a guadagnare il pane. ARL. Mi no so dove mai sia allozado quell’alocco del mio patron. Dim, caro ti, cognosset ti el sior Zanetto Bisognosi? FACC. Non lo conosco, non so chi sia. ARL. Mo l’è el mio patron. L’è vegnù da Bergam a Verona per maridarse; lu l’ha da tor la patrona, e mi ho da tor la serva, per mantegnir el capital in casa. Lu l’è vegnù avanti de mi: mi son qua colla roba: ma no so dove el sia allozado, e no so come far a trovarlo. FACC. Quando non sapete più di così, Verona è grande; durerete fatica a ritrovarlo. ARL. Fortuna, te ringrazio. Zitto, che l’è qua che el vien. Retiremose in disparte: ghe vôi far una burla: vôi veder se el me cognosse. FACC. È troppa libertà scherzar col padrone. ARL. Eh, tra lu e mi semo amici: andemo, che me vôi tor un poco de so.
FACC. Ma spicciatevi, che non ho tempo da perdere. ARL. Va la, che te pagherò. (si ritirano)
SCENA SECONDA
Tonino e detti, ritirati.
TON. Gran cossa che no possa saver gnente de Beatrice! Pussibile che la m’abbia impiantà, che la m’abbia tradio? ARL. (Intabarrato con caricatura eggia avanti Tonino, da lui creduto Zanetto) TON. (Coss’è sto negozio? Costù cossa vorlo dai fatti mii?) (da sé) ARL. (Torna a riare avanti a Tonino, con aria brusca e minaccevole) TON. (Ch’el fusse qualche sicario mandà a Verona da quello del schiaffo?) (da sé) ARL. (Ria, battendo i piedi) TON. Coss’è, sior, cossa voleu? Chi seu? ARL. (Oh che matto, nol me cognosse). (da sé, ridendo) TON. Anemo, digo, diseme cossa che volè da mi. ARL. (Fa qualche atto di bravura) TON. Adesso vederemo chi xe sto bravazzo. (mette mano alla spada) ARL. Alto, alto: fermeve: no me cognossì? (si scopre) TON. Chi seu? Mi no ve cognosso. ARL. Come! no me cognossì? TON. Sior no, no ve cognosso.
ARL. (Stè a veder che l’aria della città l’ha fatt deventar matto). (da sé) TON. Voleu dirme chi sè? cossa che volè? ARL. Diseme: avì bevù? (ridendo) TON. Manco confidenza, che ve taggio i garétoli(⁴³). ARL. Donca no me cognossì? TON. Sior no, no ve cognosso. ARL. Adess me cognosserì. Tolì sta roba: me cognossive? (gli dà un bauletto con delle gioje) TON. (Gran belle zogie! Coss’è sto negozio?) (da sé) ARL. E cussì? Me cognossive? TON. Sior no, no ve cognosso. ARL. No? Adess me cognosserì. Tolì sti bezzi. Me cognossive? (gli dà una borsa con denari) TON. (Una borsa de bezzi?) (da sé) Sior no, no ve cognosso. ARL. Oh maledettissimo, no me cognossì? Tolì sta valise, e me cognosserì. TON. Con tutta sta valise mi no ve cognosso. ARL. Siu matt, o imbriago? TON. Matto o imbriago sarè vu. Ste zogie e sti bezzi no la xe roba mia: son galantomo e no la voggio. Tiolè, e portela de chi la xe. ARL. Me maraveggio de vu: quella l’è roba vostra. Le zogie, i bezzi, la valise, l’è quel che m’avì consegnà da portarve, e mi fedelmente ve l’ho portà. Disim, dove seu allozà. TON. In quell’osteria.
ARL. Che porta la valise là drento? TON. Sì, portèla pur, za che volè cussì. ARL. Ma no me cognossì? TON. No ve cognosso. ARL. Puh! Mamalucco maledetto. Vagh in te l’osteria. Porto in camera la valise, vegnirè a dormir, e quand averì digerida la cotta, me cognosserì. (prende la valigia e il tabarro, ed entra nell’osteria)
SCENA TERZA
Tonino, poi Colombina
TON. Questo el xe un bell’accidente. Un bauletto de zogie, una borsa de bezzi, per qualchedun i saria a proposito ma mi son un omo de onor, son un galantomo, e no voggio la roba de nissun. Colù xe un matto. Sa el cielo come ghe xe capità sto scrigno e sta borsa in te le man. Se no la tegniva mi, el l’averave dada a qualche baron. Mi custodirò l’un e l’altra; e se saverò chi abbia perso sta roba, ghe la restituirò con tutta pontualità. COL. Serva, Signor Zanetto. TON. A mi? COL. Sì a lei. Non è lei il signor Zanetto Bisognosi? TON. Son mi, per servirla. (Manco mal che la me cognosse per Zanetto). (da sé) COL. Se si compiace, la mia padrona gli vorrebbe parlare. TON. (Ho inteso. Solite avventure dei forestieri). (da sé) Volentiera: co no volè altro, ve servirò. COL. Uh che belle gioje che ha il signor Zanetto! TON. (Ah ah, adesso capisso megio. Dal balcon l’ha visto le zogie, e la m’ha mandà l’ambassada). (da sé) COL. Sicuro: m’immagino che saranno destinate per la signora Rosaura. TON. Che xe la vostra patrona? COL. La mia padrona, sì signore. TON. (Se ve digo mi che le tende alle zogie: ma sta volta le l’ha fallada. Voggio
però devertirme). (da sé) Pol esser anca de sì, segondo che la me anderà a genio. COL. In questo poi, non fo per dire, ma è una bella giovine. TON. (Brava! Come che la batte ben el canafio(⁴⁴)!) (da sé) Ma, digo, come s’avemio da regolar? COL. In che proposito? TON. Circa alle monee(⁴⁵). COL. Eh, lei non ha bisogno di denari. TON. (Eh sì, la tira alle zogie). (da sé) Donca la xe ricca la vostra patrona. COL. Figuratevi, è figlia di un Dottore. TON. La xe fia d’un Dottor! COL. Oh sì, che non lo sapete? TON. Ma el sior Dottor gh’è pericolo ch’el me diga gnente, sel me vede in casa? COL. Anzi lo desidera, e sono venuta a chiamarvi d’ordine ancora di lui. TON. (Bravi! Pare, fia e massera(⁴ ), tutti de balla(⁴⁷). No vorave intrar in qualche impegno). (da sé) Sentì, fia mia, diseghe alla vostra patrona che vegnirò un’altra volta. COL. No no, signore, desidera che venghiate subito; e se siete un uomo civile, non lasciate di compiacerla. TON. Lassè, tanto che vaga qua a metter zo sto bauletto, e po vegno. COL. Oh quest’è bella! Anzi dovete venire colle gioje, se volete consolarla. TON. (Eh, za, l’ho dito. I vol le zogie. Ma sta volta no i fa gnente siguro. No le xe mie: e po son cortesan(⁴⁸). So el viver del mondo). (da sé, e chiude il bauletto)
SCENA QUARTA
Il Dottore di casa e detti.
COL. Signor padrone, ecco qui il signor Zanetto. Io mi affatico a persuaderlo a venir in casa, ed egli non vuole. DOTT. Eh via, signor Zanetto, vada in casa, che mia figlia l’aspetta. TON. (Bravo, bravo, bravo). (da sé) DOTT. Questa sua renitenza è un torto manifesto, che lei fa a quella buona ragazza. TON. (Megio, megio, megio). (da sé) DOTT. Vuole che venga lei sopra della strada? TON. Oibò, più tosto anderò in casa. DOTT. Oh via dunque, da bravo. TON. Me dala licenza? DOTT. Padrone di giorno, di notte, a tutte le ore. TON. Sempre. Porta averta. DOTT. Per il signor Zanetto porta spalancata. TON. Ma per mi solo? DOTT. Per lei solo, sicuramente. TON. E per altri no certo?
DOTT. Se non fosse per qualche amico di casa. TON. Eh za, se gh’intende. Vago. DOTT. Sì, vada pure. TON. E posso andar, star e tornar?... DOTT. Quando ella vuole. TON. Cavarme zoso(⁴ ) e despogiarme?... DOTT. Sicuramente. TON. Magnar un boccon? DOTT. Padronissimo. TON. Ho inteso tutto. Sioria vostra. (va per entrare in casa) DOTT. Signor Zanetto, una parola in grazia. TON. (Stè a veder, ch’el vol la bonaman). (da sé) Comandè. DOTT. Perdoni la confidenza. Cos’ha di bello in quel bauletto? TON. (Ah ah, l’amigo ha lumà(⁵ ) le zogie). (da sé) Certe bagatelle. Certe zogiette. DOTT. Buono, buono. Mia figlia sarà tutta contenta. TON. (Oh che Dottor bon stomego(⁵¹)). (da sé) Basta, se l’averà giudizio, le sarà soe. (In tel comio(⁵²)) (da sé) DOTT. Veramente colle donne bisogna essere liberale. TON. Compare, son galantomo. Non averè da dolerve de mi né vu, né vostra fia. DOTT. Di ciò ne sono più che certo. COL. Via, finitela, andate una volta. (a Tonino)
TON. Vago solo? DOTT. Sì, con tutta libertà. TON. Bravo. Cussì me piase. (Questo xe un pare de garbo. Lori tende alle zogie, e mi spero cavarme dai freschi con un per de lirazze). (da sé, ed entra in casa del Dottore)
SCENA QUINTA
Dottore e Colombina
COL. Mi pare che questo signor Zanetto sia poco innamorato della signora Rosaura. DOTT. Ma perché? COL. Non vedete quanta fatica ci vuole a farlo andar in casa? Vago solo, sior sì, sioria vostra. Mi fa venire i dolori colici. DOTT. Da una parte lo compatisco. Sai cosa gli ha fatto Rosaura? COL. E che gli ha fatto? DOTT. Gli ha dato un potentissimo schiaffo. COL. Per qual cagione? DOTT. Credo perché egli volesse un poco stender le mani. COL. In questo poi la signora Rosaura ha ragione. E voi ora, perdonatemi, avete fatto male a rimandarglielo in tempo ch’è sola. DOTT. Eh, non è sola. Vi è il signor Pancrazio, che fa la guardia. COL. Sia maledetto quel vostro signor Pancrazio. DOTT. Cosa ti ha fatto, che lo maledisci? COL. Io non lo posso vedere. Fa il bacchettone; ma poi... DOTT. Ma che poi? COL. Basta, mi ha detto certe cose...
DOTT. Cosa ti ha detto? Parla. COL. Piace anche a lui allungar le mani. DOTT. Chetati, bocca peccatrice. Non parlar così di quell’uomo, che è lo specchio dell’onoratezza e dell’onestà. Portagli rispetto e rendigli ubbidienza, come faresti a me medesimo. Egli è un uomo dabbene, e tu sei una ignorante, una maliziosa. (parte)
SCENA SESTA
Colombina, poi Arlecchino
COL. Dica quel che vuole il signor padrone, sostengo e sosterrò sempre che il signor Pancrazio è un uomo finto e un poco di buono. ARL. Dove diavol l’è andà sto matto? L’è un’ora che aspett, e nol ved a vegnir. COL. Che morettino grazioso! ARL. Vôi domandar a sta ragazza, se la l’ha visto. Disim un po, bella putta, se no fallo, cognossì un cert sior Zanetto Bisognosi? COL. Lo conosco sicuro. ARL. L’avì vist che l’era qua? COL. L’ho veduto. ARL. Me faressi la carità de dirm dov che l’è andà? COL. È andato in quella casa. ARL. Chi ghe sta mo in quella casa? COL. La signora Rosaura, la sua sposa. ARL. La cognossela lei la siora Rosaura? COL. La conosco benissimo. ARL. E la so cameriera la cognossela? COL. Non volete che la conosca? Sono io.
ARL. Come? ela... la siora... Colombina? COL. Io sono Colombina. ARL. E mi sala chi son? COL. E chi mai? ARL. Arlecchin Battocchio. COL. Voi Arlecchino? ARL. Mi. COL. Il mio sposo! ARL. La mia sposa! COL. Oh carino! ARL. Oh bellina! COL. Oh che piacere! ARL. Oh che consolazione! COL. Quando siete arrivato? ARL. Fem una cossa; andem in cà, che discorreremo. COL. Aspettate un momento, che dica una parola alla padrona, prima d’introdurvi in casa. Non so s’ella l’accorderà. ARL. Ho da parlar anca mi col me patron. COL. Fermatevi qui, che subito torno. ARL. Mo sì molt bella! Mo son tutt contento. COL. Eh via, mi burlate.
ARL. Ve lo zuro da putto onorato. COL. Mi vorrete bene? ARL. Sì andè, no me fe più penar. COL. Vado, vado. (È veramente grazioso). (da sé, ed entra in casa)
SCENA SETTIMA
Arlecchino, Colombina di dentro, poi Zanetto
ARL. Fortuna, te rengrazio. Mo l’è molt bella! Mo l’è una gran bella cossa! Altro che Lugrezia Romana! Se Lugrezia Romana ha piass a Sesto, questa la saria capaze de dar soddisfazion anca al settimo. COL. Arlecchino, venite, venite, che la padrona se ne contenta (di dentro) ARL. Vegno, cara, vegno. (va per entrare in casa, e Zanetto sulla parte opposta lo vede per di dietro) ZAN. Oe(⁵³)! Arlecchin, Arlecchin. (lo chiama) ARL. Sior. (si volta) ZAN. Quando? ARL. Come? ZAN. Ti qua? ARL. Vu qua? ZAN. Seguro. ARL. Ma no sè in casa? ZAN. Dove? ARL. Dell’amiga? (accenna la casa di Rosaura) ZAN. Oibò. ARL. (Donca culia m’ha burlà). (da sé)
ZAN. Dov’è la roba? ARL. Oh bella! all’osteria. ZAN. Dove? ARL. Che mamalucco! Là, alle do Torre. ZAN. Gh’è tutto? ARL. Tutto. ZAN. I bezzi e le zogie? ARL. (Nol gh’ha gnente de memoria). (da sé) I bezzi e le zogie. ZAN. Andemo a veder. ARL. Andemo. ZAN. Gh’astu(⁵⁴) la chiave? ARL. De cossa? ZAN. Della camera. ARL. Mi no. ZAN. Mo ti lassi cussì i bezzi e le zogie? ARL. Ma dov’eli i bezzi e le zogie? ZAN. Dove xeli? ARL. Oh bella! ZAN. Oh bona! ARL. Ma no v’ho dà a vu i bezzi e le zogie? ZAN. Mi no gh’ho abù gnente.
ARL. (L’è matt in conscienza mia). (da sé) ZAN. Ma dov’ele le zogie de mio sior barba(⁵⁵)? Le astu portae? ARL. Le ho portae. ZAN. Ma dove xele? ARL. Caro vu, andemo drento, che debotto me scampa la pazenzia. ZAN. Mo via, subito ti va in collera. Le sarà de su in camera. ARL. Le sarà de su in camera. ZAN. Mo va là, che ti xe un gran alocco! (entra nell’osteria) ARL. Andè là, che sè un gran omo de garbo! (entra anche lui)
SCENA OTTAVA
Colombina sulla porta.
COL. Arlecchino, dove siete? Oh questa è graziosa! Se n’è andato. Bell’amore che ha egli per me! Ma dove sarà andato? Basta, se vorrà, tornerà; e se non torna, a una ragazza come son io, non mancheranno mariti. (entra in casa)
SCENA NONA
Camera in casa del Dottore, con tavolino e sedie.
Tonino solo a sedere, poi Brighella
TON. Xe un’ora che stago qua a far anticamera, e sta patrona no la se vede. No vorave che i m’avesse tolto per gonzo, e che i me volesse tegnir in reputazion la marcanzia, per farmela pagar cara. A Tonin no i ghe la ficca. Son venezian, son cortesan, e tanto basta. Anemo, o drento, o fora. Oe, gh’è nissun in casa? BRIGH. Son qua a servirla. Cossa comandela? TON. Chi seu vu, sior? BRIGH. Son servitor de casa. TON. (Cancarazzo! Livrea?) (da sé) Diseme, amigo, la vostra patrona fala grazia, o vaghio via? BRIGH. Adesso la vago subito a far vegnir. Perché mi, sala, son servitor antigo de casa, e anca bon servitor della fameggia Bisognosi. TON. Me cognosseu mi? BRIGH. Ho cognossuo el so signor fradello. Un zovene veramente de garbo. TON. Dove l’aveu cognossù? BRIGH. A Venezia. TON. Donca l’averè cognossù putelo(⁵ ). BRIGH. Anzi grando e grosso... Ma vien la patrona.
TON. No no, diseme. Come l’aveu cognossù a Venezia grando e grosso? BRIGH. La me perdona, bisogna che vada. Se parleremo meggio: all’onor de servirla. (parte)
SCENA DECIMA
Tonino, poi Rosaura
TON. Che diavolo dise costù? O che l’è matto, o che qualcossa ghe xe sotto. ROS. Serva, signor Zanetto; compatisca se l’ho fatto aspettare. TON. Eh gnente, patrona, me maravegio. (Oh che tocco! oh che babio(⁵⁷)!) (da sé) ROS. (Mi guarda a mezz’aria. Sarà in collera per lo schiaffo). (da sé) TON. (Stago a Verona. No vago più via). (da sé) ROS. Perdoni, se l’ho incomodata. TON. Gnente, gnente, patrona: anzi me posso chiamar fortunà, che la m’abbia fatto degno dell’onor della so compagnia. ROS. (Quest’insolito complimento mi fa creder ch’ei mi derida. Bisogna placarlo e secondar il suo umore). (da sé) TON. (E pur all’aria la par modesta). (da sé) ROS. È stato mio padre, che mi ha obbligata a farla venir in casa. TON. E se no giera so sior pare, no la me chiamava? ROS. Io certamente non avrei avuto tanto ardire. TON. (Vardè quando i dise dei pari, che precipita le fie!) (da sé) Donca per mi no la gh’ha nissuna inclinazion? ROS. Anzi ho tutta la stima per voi.
TON. Tutta so bontà. Possio sperar i effetti della so bona grazia? ROS. Potete sperar tutto, se mio padre così dispone. TON. (Poveretta! la me fa peccà. El pare ghe dà la spenta, e ella zoso). (da sé) Ma la prego, in grazia, no so se la me intenda. Come avemio da contegnirse? ROS. Circa a che? TON. Circa alla nostra corrispondenza? ROS. Parlatene con mio padre. TON. Ah, con lu se fa l’accordo: con lu se fa tutto. ROS. Certo che sì. TON. (Oh che Dottor cagadonao!) (da sé) Ma intanto che lu vien, za che semo tra de nu, no poderessimo mo... ROS. Che cosa? TON. Devertirse un pochetto. ROS. Ricordatevi dello schiaffo. TON. (Tiolè. Anca ella la sa del schiaffo che ho dà a quel sior a Venezia). (da sé) Eh, che no me le arecordo più ste bagatelle. ROS. Me le ricordo ben io. TON. Eh ben, cossa gh’importa? ROS. M’importa, perché siete troppo ardito. TON. Ma, cara ella, in te le occasion no bisogna farse star. ROS. Nelle occasioni conviene aver prudenza. TON. No so cossa dir, la gh’ha rason. No farò più. Me basta che la me voggia ben.
ROS. Di questo ne potete star sicuro. TON. Ah! (sospira) ROS. Sospirate? Perché? TON. Perché gh’ho paura che la diga cussì a tutti. ROS. Come a tutti? Mi meraviglio di voi. TON. Gnente, gnente, la me compatissa. ROS. Che motivo avete di dir questo? TON. Ghe dirò; siccome son vegnù a Verona in sta zornada, cussì no me posso persuader, che subito la s’abbia innamorà de mi. ROS. Eppure, appena vi ho veduto, subito mi sono sentito scorrere un certo ghiaccio nel cuore, che quasi m’ha fatto tramortire. TON. (Ghe credio, o no ghe credio? Ah, la xe donna, gh’è poco da fidarse). (da sé) ROS. E voi, signor Zanetto, mi volete bene? TON. Sè tanto bella, zentil e graziosa, che bisognerave esser de stucco a no volerve ben. ROS. Che segno mi date del vostro amore? TON. (Qua mo no so, se ghe voggia carezze o bezzi). (da sé) Tutto; comandè. ROS. Tocca a voi a dimostrarmi il vostro affetto. TON. (Ho inteso. Voggio darghe una tastadina(⁵⁸)). (da sé) Se no fusse troppo ardir, gh’ho qua certe zogiette, dirave che la se servisse. (apre lo scrignetto, e le fa vedere le gioje) ROS. Belle, belle davvero. Le avete destinate per me? TON. Se la comanda, le sarà per ella.
ROS. Accetto con giubilo un dono così prezioso, e lo conserverò come primo pegno della vostra bontà. TON. Basta, a so tempo descorreremo. (Oh che cara modestina! no la se farave miga pregar). (da sé) ROS. Ma ditemi, non volete con altro segno assicurarmi della vostra fede? TON. (Ah, la me voria despoggiar alla prima). (da sé) Son qua; gh’ho certi zecchini, se la li vol, ghe li darò anca quelli. ROS. No no, questi li potrete dare a mio padre. Io non tengo denaro. TON. (Sì ben, la fia traffega(⁵ ), el pare tien cassa). (da sé) Farò come che la vol. ROS. Ma però non vi disponete a darmi quello che vi domando. TON. Che diavolo! Vorla la camisa? Ghe la darò. ROS. Eh, non voglio da voi né la camicia, né il giubbone. Voglio voi. TON. Mi? Son qua tutto per ella. ROS. Oggi si può concludere. TON. Anca adesso, se la vol. ROS. Io sono pronta. TON. E mi prontissimo. ROS. Mi volete dar la mano? TON. La man, i pì( ), e tutto quel che la vol. ROS. Chiameremo due testimoni. TON. Oibò. Da cossa far de do testimoni? ROS. . Perché siano presenti.
TON. A cossa? ROS. Al nostro matrimonio. TON. Matrimonio? Punto e virgola. ROS. Ma non dite che siete pronto? TON. Son pronto, è vero: ma matrimonio, cussì subito... ROS. Andate, andate, che vedo che mi burlate. TON. (No la me despiase, e fursi fursi faria col tempo la capochieria( ¹). Ma sta facilità de invidar la zente in casa, no me piase). (da sé) ROS. Siete troppo volubile, signor Zanetto. TON. Volubile? No xe vero. Anzi son l’esempio della costanza e della fedeltà. Ma sta sorte de cosse, la sa meggio de mi, le se fa con un poco de comodo. Se ghe pensa suso, e no se precipita una resoluzion de tanto rimarco. ROS. E poi dite che non siete volubile. Ora volete far subito, non volete né cerimonie, né solennità; ed ora cercate il comodo, il pensamento ed il consiglio. TON. Se ho dito de voler subito... me sarò inteso... basta... no vorave che l’andasse in collera. ROS. No no, dite pure. TON. Che se avesse podesto aver una finezza... ROS. Prima del matrimonio non la sperate. TON. No certo? ROS. No sicuro. TON. Ma, e le zogie? ROS. Se me le date con questo fine, tenetele, ch’io non le voglio.
TON. Recusandole co sta bella vertù, la le merita più che mai. La xe una zovene de garbo, e xe peccà che la gh’abbia un pare cussì scellerato. ROS. Che ha fatto di male il mio genitore? TON. Ghe par poco? Introdur un omo in casa de so fia co sta polegana( ²), e metterla in cimento de precipitar! ROS. Ma egli l’ha fatto, perché siate mio sposo. TON. Me maraveggio, no xe vero gnente. No avemo mai parlà de sta sorte de negozi. ROS. Ma non ne avete trattato per lettera? TON. Siora no, no xe vero gnente. El se l’insonia, el ghe lo dà da intender. El xe un poco de bon, perché el sa che gh’ho un poco de bezzi, el m’ha tolto de mira, e el se serve della so bellezza per un disonesto profitto. ROS. Signor Zanetto, voi parlate male. TON. Pur troppo digo la verità. Ma la senta: vedo che ella merita tutto, e per la so bellezza e per la so onestà; no la se dubita gnente. La staga forte, la me voggia ben, e forsi col tempo la sarà mia muggier. ROS. Io resto molto mortificata per un tal accidente. Senza la speranza che foste mio sposo, non avrei avuto il coraggio di mirarvi in faccia. Se mio padre m’inganna, il cielo glielo perdoni. Se voi mi schernite, siete troppo crudele. Pensateci bene, e in ogni caso rammentate ch’io vi amo, ma coll’amore il più onesto e il più onorato del mondo. (parte)
SCENA UNDICESIMA
Tonino, poi Brighella
TON. Chi ha mai visto una fia più modesta de un pare più scellerato? Matrimonio? Tonin, forti in gambe. Co l’è fatta, l’è fatta. E pur custia( ³) me bisega( ⁴) in tel cuor. Ma, e Beatrice che gh’ho promesso, e xe scampada per causa mia? Ma dov’ela? Dove xela andada? Chi sa che no l’abbia finto de far per mi, e no l’abbia fatto per qualchedun altro? Qua no l’è vegnua. No se sa gnente de ella. La me pol aver tradio. No la sarave maraveggia, che la me l’avesse ficcada. La xe donna, e tanto basta. BRIGH. Comandela gnente? TON. No, amigo. Vago via. BRIGH. Cussì presto? TON. Cossa voleu che fazza? BRIGH. No la sta a disnar col sior Dottor? TON. No no, ve ringrazio. Diseghe al sior Dottor che el xe un bel fio. BRIGH. Come parlela? TON. So che intendè più de quel che digo. BRIGH. Me maraveggio. No so gnente. El m’ha dà ordine de servirla in tutto e per tutto. Se vorla despoggiar? TON. No, vecchio( ⁵), no vôi altro. Ma perché no crediè che ve voggia privar dei vostri incerti, tiolè sto mezzo ducato. BRIGH. Obbligatissimo alle so grazie. Ah, veramente la casa Bisognosi xe sempre stada generosa. Anca el so sior fradello a Venezia el giera cussì liberal.
TON. (E tocca via co sto mio fradello a Venezia). (da sé) Ma quando l’aveu cognossù mio fradello a Venezia? BRIGH. Sarà una cossa de do anni incirca. TON. Do anni? Come do anni? BRIGH. Sior sì; perché mi giera a Venezia...
SCENA DODICESIMA
Pancrazio e detti.
PANC. Brighella, va dalla padrona, che ha bisogno di te. BRIGH. Vago subito. TON. Caro vecchio, fenì de dir de Venezia. (a Brighella) PANC. Perdoni, deve partire. Va tosto, spicciati. BRIGH. Se vederemo. Lustrissimo, sior Zanetto! (parte) TON. (Sia maledetto sto intoppo. Son in t’una estrema curiosità). (da sé) PANC. Riverisco il signor Zanetto. TON. Patron mio stimatissimo. PANC. Ah! io ho comione di voi: ma mi pare alla cera che vossignoria poco si curi de’ miei consigli. TON. Anzi mi son uno che ascolta volentiera i omeni de garbo, come credo che la sia ella. PANC. Poi fate a vostro modo, non è così? TON. Come porla dir sta cossa? PANC. Mi pare, mi pare, e forse non sarà. Vi vedo in questa casa, e ne dubito. TON. (Vardemo, se podemo scoverzer( ) qualcossa). (da sé) In sta casa zente cattiva, nevvero? PANC. Ah, pur troppo!
TON. Zente che tira alla vita. PANC. Ed in che modo! TON. Quel Dottor particolarmente xe un omo indegnissimo. PANC. L’avete conosciuto alla prima. TON. La putta mo, la putta come xela? PANC. Non le credete, vedete, non le credete. È tutta inganni. TON. Con quella ciera patetica? PANC. Eh, amico, appunto queste che compariscono modestine e colli torti, queste la sanno più lunga dell’altre. TON. Saveu che no disè mal? PANC. Anzi dico bene. TON. Ma vu, sior, cossa feu in casa de sta zente cussì cattiva? PANC. Io m’affatico per illuminarli e far loro cambiar costume; ma sinora inutilmente seminai nella rena. Non si fa nulla, non si fa nulla. TON. Col mal xe in tel legno, la xe fenia. PANC. Sempre si va di male in peggio. TON. E pur quella zovene no me dispiase. PANC. Ha un’arte che farebbe innamorare i sassi; ma povero chi s’attacca! TON. La me voleva far zoso col matrimonio... PANC. Oibò. Matrimonio? Che orribile parolaccia! TON. Matrimonio, orribile parolazza? Anzi l’è la più bella parola che ghe sia in tutto el calepin delle sette lengue.
PANC. Ma non vi ricordate che il matrimonio è un peso, che fa sudar i giorni e vegliar le notti? Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa, peso alla testa? TON. Tutti sti pesi del matrimonio li sente l’omo che no gh’ha giudizio. Peso al spirito? No xe vero. L’amor della muggier, come che no l’è combattuo né dal desiderio, né dal rimorso, l’è un amor soave, dolce e durabile, che consola el cuor, rallegra i spiriti, e anzi tien l’animo sollevà e contento del mario, che comunica colla muggier i piaseri e i dispiaseri della fortuna. Peso al corpo? No xe vero. Anzi la muggier libera da molte fadighe el mario. Ella tende alla piccola economia de casa, ella regola la fameggia e comanda alla servitù. Provede a quello che no prevede el mario, e con quella natural suttilezza feminina, che qualcun chiama avarizia, in cao dell’anno la porta dei profitti alla casa. Peso alla borsa? No xe vero. L’omo che xe inclinà a spender, el spenderà sempre più fora de casa che in casa. Se el spende per la muggier, finalmente el lo fa con avantaggio del proprio onor, per lustro della so casa. Se la muggier xe discreta, con poco la se contenta. Se la xe viziosa e incontentabile, tocca al mario a moderarla, e se l’omo va in rovina per la muggier, no bisogna incolpar l’ambizion della donna, ma la dabbenaggine del mario. Peso alla testa? No xe vero. La donna o la xe onesta, o la xe desonesta. Se la xe onesta, no gh’è pericolo del cimier; se la xe desonesta, ghe xe un certo medicamento che se chiama baston, che gh’ha la virtù de far far giudizio anca alle donne matte. In somma el matrimonio xe bon per i boni e cattivo per i cattivi, e concludo coi versi d’un poeta venezian: El matrimonio è cossa da prudente, Ma bisogna saverse regolar; E quel che desconseggia el maridar, O l’è vecchio, o l’è matto, o l’è impotente. PANC. (Costui non mi pare lo sciocco di prima). (da sé) Non vi rammentate che la donna è un’incantatrice sirena, che alletta per ingannare ed ama per interesse? TON. Vedeu? Anca qua, compatime, sbarè delle panchiane( ⁷). Le donne no le se mesura tutte con un brazzolar( ⁸). Ghe ne xe tante de cattive, ma ghe ne xe molto più de bone, come se pol dir anca dei omeni. Le donne incanta? No xe vero gnente. Aveu mai visto la cazza che fa el rospo al rossignol? Lu no fa altro che metterse in t’un fosso co la bocca averta. a el rossignol, el s’innamora della
gola del rospo, el zira, el rezira, e da so posta el se va a far imbocconar. La colpa de chi xela? Del rospo o del rossignol? Cussì femo nu. Vedemo una donna, ghe demo drio; se lassemo incantar. De chi xela la colpa? nostra. Le donne no le poderave gnente sora de nu, se nu no ziressimo attorno de elle; e se le acquista co nu tanta superiorità, xe causa la nostra debolezza, che incensandole troppo, le fa deventar superbe. PANC. (Ho inteso! costui non fa per me). (da sé) Signor Zanetto, non so che dire; se volete la signora Rosaura, pigliatela, ma pensateci bene. TON. Mi non ho dito de volerla. Ho parlà in favor del matrimonio, ma non ho dito de volerme maridar. Ho parlà in favor delle donne, ma non ho dito ben de Rosaura. No so se la sia carne o pesce. Me par, e no me par: gh’ho i mi reverenti dubbi: vu m’avè messo in mazor sospetto, onde ressolvo de no voler far gnente. PANC. Farete benissimo, lodo la vostra risoluzione. Siete un uomo di garbo. TON. Ma za che sè un omo tanto da ben, ve voggio confidar una cossa. PANC. Dite pure con libertà. Io so custodir il segreto. TON. Vedeu sto bauletto de zogie? PANC. Son gioje quelle? TON. Sior sì. PANC. Vediamole. Belle, belle assai. (le osserva) TON. Ste zogie le me xe stae dae per forza da un povero matto, con un abito tutto tacconi. Mi no so de chi le sia; e el patron che le ha perse, anderà de smania( ) cercandole. Mi doman vago via, onde penso de consegnarle a vu, acciò, vegnindo fora el patron, ghe le podiè restituir. PANC. Lodo la vostra delicatezza. Siete veramente un uomo onorato. TON. Tutti i galantomeni i ha da esser cussì. PANC. E se dopo un lungo tempo, e dopo fatte le debite diligenze, non si trovasse il padrone, come volete che ne disponga?
TON. Impieghele a maridar delle putte. PANC. Voi altri veneziani siete poi di buon cuore. TON. Nualtri cortesani semo fatti apposta per far delle opere de pietà. Quante povere vergognose vive colle limosine dei galantomini! Xe vero che qualchedun fa, co se sol dir, la carità pelosa: ma ghe ne xe anca de quei che opera per bon cuor. Mi son de sta taggia: per i amici me despoggierave, e per le donne me caveria anca la camisa. (parte) PANC. Questa volta, se la carità deve esser pelosa, servirà questo pelo per medicar le mie piaghe. Se Rosaura le vorrà, dovrà comprarle con quella moneta che a lei costa poco, e per me valerebbe molto. (parte)
SCENA TREDICESIMA
Strada solita con osteria.
ARLECCHINO dall’osteria, poi ZANETTO dalla medesima.
ARL. Me maraveio, son galantomo: le zogie e i bezzi ve li ho dadi mi. (alla porta, altercando con Zanetto) ZAN. No xe vero gnente. Ti xe un furbazzo, no gh’ho abuo gnente. (di dentro) ARL. Ve ne mentì per la gola e per el gargato(⁷ ). ZAN. Ti è un ladro, ti è un sassin. Voggio le mie zogie. (vien fuori) ARL. Le zogie ve digo che l’avì avude. ZAN. Can, traditor, le mie zogie, i mi bezzi, la mia roba. ARL. Sè un pezzo de matto. ZAN. Ti m’ha robà, ti m’ha sassinà. ARL. Adessadesso ve trago una sassada.
SCENA QUATTORDICESIMA
Bargello coi birri, e detti.
BARG. Cos’è questo strepito? Chi è il ladro? Chi ha rubato? ZAN. Colù che xe là, l’è el mio servitor. El m’ha portà da Bergamo un bauletto de zogie e dei bezzi, e el m’ha robà tutto, el m’ha sassinà. ARL. Non è vero gnente, son galantomo. BARG. Legatelo e conducetelo in prigione. (ai birri, quali legano Arlecchino) ARL. Son innocente. BARG. Se sarete innocente, uscirete di carcere senza difficoltà. ARL. E intanto ho da andar preson? BARG. E intanto andate, e non vi fate strapazzare. ARL. Sia maledetto! Per causa toa, mamalucco, ignorante! ma se vegno fora, ti me la pagherà. (parte coi birri, che lo conducono via) BARG. Signore, se lei crede che colui sia veramente il ladro, ricorra, e gli sarà fatta giustizia. Io intanto darò la mia denunzia, appoggiata alle di lei querele. Se lei ha prove, vada in cancelleria, e le produca. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Zanetto, poi Beatrice
ZAN. Mi no so gnente cossa che el diga, mi no l’intendo, ma gh’ho speranza de recuperar le mie zogie. Le zogie che m’ha lassà mio sior barba, che el m’ha contà tante volte che el le ha portae da Venezia, co l’è andà a star alle vallade de Bergamo. BEAT. Mio caro, abbiate pietà di me. ZAN. (Occhi de fogo, bocca de velen). (da sé) BEAT. Per carità, non partite. Ascoltatemi un sol momento; vi domando quest’unico dono: eccomi ai vostri piedi; vi muovano a comione le mie lacrime. (s’inginocchia) ZAN. (Accosta una mano agli occhi di Beatrice) (I occhi mi no sento che i scotta. Fogo no ghe ne xe certo). (da sé) BEAT. Se m’udirete, rimarrete contento. ZAN. (Quella bocchina l’è tanto bella, che me lasseria velenar). (da sé) BEAT. Per vostra cagione ho posto a risico la vita e l’onore. ZAN. Per mi? BEAT. Sì, per voi, che amo più dell’anima mia; per voi, che siete l’unico oggetto de’ miei pensieri. ZAN. La me vol ben? BEAT. Sì, v’amo, v’adoro, siete l’anima mia. ZAN. (Sel fusse un diavolo?... Ma l’è un diavolo tanto bello!) (da sé)
BEAT. Orsù, l’amor mio non soffre maggior indugio. Venite, e datemi la mano di sposo. ZAN. (Oh questa me piase, senza tante cerimonie e tante solennità). (da sé) BEAT. Via, non mi fate penare. ZAN. Siora sì, son qua. Cossa vorla che fazza? BEAT. Datemi la mano. ZAN. Anca tutte do, se la vol. (le tocca la mano) Oh cara! oh che man, oh che bombaso(⁷¹)! oh che sea(⁷²)!
SCENA SEDICESIMA
Florindo, in disparte, e detti.
FLOR. (Che vedo! Tonino ha ritrovata Beatrice! Oh sventurato ch’io sono! Convien ritrovar partito per rimediarvi). (da sé) BEAT. Almeno vi fosse alcuno, che servir potesse di testimonio. ZAN. Quel sior saravelo bon? BEAT. Oh sì, signor Florindo, finalmente mi è riuscito pacificare il mio sposo; egli mi vuol dare la mano, e voi siete pregato a servire per testimonio. ZAN. Sior sì, per testimonio. FLOR. Questo veramente è un uffizio che ho sempre fatto mal volentieri, ma quando si tratta degli amici, si fa di tutto. Prima però, favoritemi una parola in grazia. (a Zanetto) ZAN. Volentiera. No la vaga via, che vegno subito, sala. (a Beatrice) FLOR. Ditemi, amico, non siete voi stato in quella casa? (mostra la casa del Dottore, parlando in disparte con Zanetto) ZAN. Sior sì. FLOR. Per che fare, se è lecito saperlo? ZAN. Per sposar la fia del sior Dottor. FLOR. Ed ora volete sposar la signora Beatrice? ZAN. Sior sì. FLOR. Ma se avete impegno colla signora Rosaura.
ZAN. Eh, le sposerò tutte do, n’importa. Son da ella. (a Beatrice) FLOR. No no, sentite. Ma voi burlate. ZAN. Digo dasseno mi. Son capace de sposarghene anca sie(⁷³). FLOR. Ma che! Siamo in terra di Turchi? Mi maraviglio di voi. Sapete meglio di me, che non ne potete sposar che una sola. ZAN. Donca sposerò questa. Adesso vegno. (a Beatrice) FLOR. Ma né tampoco potete farlo. ZAN. Mo perché? FLOR. Perché avete promesso alla figlia di quel Dottore, siete stato in sua casa; se mancate alla parola, vi faranno metter prigione e ve la faranno costar assai cara. ZAN. (Bona!) (da sé) No vegno altro. (a Beatrice) BEAT. Che dite? ZAN. No no, no ghe dago altro la man. BEAT. Ma io non v’intendo. ZAN. Intendo, o non intendo. Chi s’ha visto, s’ha visto. BEAT. Come! Così mi schernite? ZAN. La compatissa. In preson no ghe son mai stà, no ghe voggio gnanca andar. BEAT. Perché in prigione? ZAN. Do(⁷⁴) no se ghe ne pol sposar. Quella xe fia d’un Dottor. Gh’ho promesso. Se va in preson; sioria vostra(⁷⁵). (parte)
SCENA DICIASSETTESIMA
Beatrice e Florindo
BEAT. Oh me infelice! Il mio Tonino è impazzato. Parla in una guisa che più non lo riconosco. FLOR. Signora Beatrice, io vi spiegherò ogni cosa. Sappiate ch’egli vive amante della signora Rosaura, figlia del signor dottore Balanzoni, e ad essa ha data la parola di matrimonio. Perciò, agitato fra l’amore e il rimorso, si confonde, vacilla, e quasi quasi stolto diviene. BEAT. Oh stelle! E sarà vero quel che mi dite? FLOR. Pur troppo è vero, e se non siete cieca, voi stessa accorger ve ne potete dal modo suo di parlare. BEAT. Lo dissi che più non si riconosce. FLOR. Ora che pensate di fare? BEAT. Se Tonino mi abbandona, voglio morire.
SCENA DICIOTTESIMA
Lelio e detti.
FLOR. Se Tonino v’abbandona, ecco Florindo pronto a’ vostri voleri. LEL. Se Tonino v’abbandona, ecco un eroe vendicatore de’ vostri torti. FLOR. In me troverete un amante fedele. LEL. Io colmerò il vostro seno delle maggiori felicità. FLOR. La mia nascita è nobile. LEL. Io chiudo nelle vene un sangue illustre. FLOR. Di beni di fortuna non sono scarso. LEL. Ne’ miei erari vi sono le miniere dell’oro. FLOR. Spero non essere odioso agli occhi vostri. LEL. Mirate in me il più bel lavoro della natura. FLOR. Ah, signora Beatrice, non badate alle caricature di un affettato glorioso. LEL. Non vi lasciate sedurre da un cicisbeo, che combatte fra l’amore e la fame. FLOR. Sarò vostro, se mi volete. LEL. Sarete mia, se v’aggrada.
SCENA DICIANNOVESIMA
Tonino e detti.
TON. (Come! Beatrice... qua... in mezzo de do...) (in disparte, osservando) FLOR. Parlate, mia cara. TON. (Mia cara!) (come sopra) LEL. Sciogliete il labbro, mia bella. TON. (Mia bella! Come xelo sto negozio?) (come sopra) FLOR. Se Tonino vi lascia, è un traditore. LEL. Se Tonino vi abbandona, è un ingrato. TON. (S’alza e si fa vedere) Tonin no xe traditor, Tonin no xe ingrato, Tonin no abbandona Beatrice. Me maraveggio de vu, sior muso da do musi, sior amigo finto, sior canapiolo monzuo(⁷ ). (a Florindo) FLOR. Ma la signora Rosaura... TON. Che siora Rosaura? Tasè là, sier omo de stucco, e za che avè palesà el mio nome, e che me contè i i per pubblicar tutti i fatti mii, da qua avanti no ardì gnanca de nominarme, no me vegnì in ti pì(⁷⁷), se no volè che ve fazza della panza un crielo(⁷⁸). LEL. Io per altro... TON. E vu peraltro, sior cargadura, abbiè giudizio, se no, saveu? se una volta v’ho desarmà, un’altra volta ve caverò el cuor. Questa la xe roba mia, e tanto basta. (prende per mano Beatrice) BEAT. Dunque mi dichiarate per vostra...
TON. Zitto là; che con vu la descorreremo a quattr’occhi. Vegnì con mi. Scartozzi de pévere mal ligai(⁷ ), paronzini salvadeghi(⁸ ), cortesani d’albeo(⁸¹). (parte con Beatrice)
SCENA VENTESIMA
Florindo e Lelio
FLOR. Non son Florindo, se non mi vendico. LEL. Non son chi sono, se non fo strage di quel temerario. FLOR. Amico, siamo entrambi scherniti. LEL. Uniamoci nella vendetta. FLOR. Andiamo a meditarla. LEL. La vivacità del mio spirito partorirà qualche magnanima idea. FLOR. Andiamo ad attaccarlo colla spada alla mano. LEL. No, scarichiamogli una pistola nel dorso. FLOR. Questo saria tradimento. LEL. Vincasi per virtute o per inganno, Il vincer sempre fu lodevol cosa. (parte) FLOR. Bell’eroismo del signor Lelio! Orsù, meglio è ch’io tenti solo le mie vendette. O sarà mia Beatrice, o erà Tonino per la punta di questa spada. (parte)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Strada.
Pancrazio e Tiburzio orefice.
PANC. Appunto di voi andava in traccia, signor Tiburzio dabbene, e se qui non vi trovavo, venivo alla vostra bottega. TIB. Oh, signor Pancrazio, ella è mio padrone, mi comandi; in che posso servirla? PANC. Vi dirò: ho certe gioje da vendere, ch’erano di una buona vedova, la quale me le lasciò per maritar alcune fanciulle; vorrei che colla vostra sincerità mi diceste il loro valore. TIB. Volentieri, son pronto a servirvi. Le avete con voi? PANC. Eccole. Osservatele bene. (tira fuori il bauletto, e l’apre)
SCENA SECONDA
Il Bargello coi birri, osservando le gioje da lontano.
TIB. Signor Pancrazio, queste gioje sono di valore, non si possono stimar così su due piedi. Venite a bottega e vi servirò. PANC. Dite bene, verrò: ma sono alquanto sporche, avreste intanto qualche segreto per ripulirle? TIB. Io veramente ne ho uno singolarissimo: ma non soglio affidarlo a chicchessia, perché è un potentissimo veleno. PANC. A me però potreste usar qualche distinzione: non potete dubitar ch’io ne abusi. Sapete chi sono... TIB. So che siete un uomo onesto e da bene, e perciò vi voglio servire, giacché per buona fortuna me ne trovo avere indosso un piccolo scatolino. Eccolo, prendete, servitevene, e le vedrete riuscir terse e risplendentissime. In caso poi voleste privarvene, avrò forse l’incontro di farvele esitar con vantaggio. PANC. Non lascerò di valermi di voi. Intanto vi sono molto obbligato. Attendetemi domani. TIB. Siete sempre padrone. (parte)
SCENA TERZA
Pancrazio, Bargello e birri in disparte.
PANC. (Veramente son belle queste gioje: ma la legatura è antica, e i diamanti sono tanto sporchi che non compariscono. Con questa polvere risalteranno assai più). (da sé) BARG. (Quel bauletto di gioje è appunto quello che ha indicato Arlecchino). (osservando in disparte) PANC. (Spererei con questo bel regalo di guadagnarmi la grazia della mia cara Rosaura). (da sé) BARG. Alto, signore, con sua licenza. PANC. Che c’è? Cosa volete? BARG. Favorisca quelle gioje. PANC. Per qual ragione? BARG. Perché sono rubate. PANC. Come? Io sono un galantuomo. BARG. Da chi le ha avute vossignoria? PANC. Dal signor Zanetto Bisognosi. BARG. Il signor Zanetto Bisognosi dice che gli sono state rubate; onde ella che le tiene, è in sospetto di tale furto. PANC. Un uomo della mia sorte? Della mia esemplarità? BARG. Basta, si contenti che la lascio in libertà. Porto le gioje a Palazzo, e se
vossignoria è innocente, vada a giustificarsi. PANC. Io per la curia? Io per i tribunali? Son conosciuto, sono un uomo d’onore.
SCENA QUARTA
Zanetto e detti.
PANC. Oh, ecco appunto il signor Zanetto. Dica egli come ho avute codeste gioje. ZAN. Zogie? Le mie zogie? BARG. Signor Zanetto, conosce queste gioje? ZAN. Sior sì, queste xe le zogie che m’ha lassà mio sior barba. Le cognosso, le xe mie. PANC. Sentite? Le conosce. Erano del suo signor zio, erano sue. (al Bargello) BARG. Ed ella le ha date al signor Pancrazio? (a Zanetto) PANC. Signor sì, signor sì, egli me le ha date. Non è vero? ZAN. Mi no so gnente, mi no v’ho dà gnente. PANC. Come non mi avete dato nulla? Mi maraviglio di voi. ZAN. E mi me maraveggio de vu. Questa xe roba mia. PANC. Oh cielo! Volete farmi perdere la riputazione? ZAN. Perdè quel che volè, no ghe penso gnente. Quel zovene, deme la mia roba. (al Bargello) PANC. Poter del mondo! In casa del signor Dottore, in camera della signora Rosaura, voi me l’avete date e ne sapete il perché. ZAN. Sè un busiaro, che no contè altro che fandonie. M’avè anca dito che le donne gh’ha i occhi de fogo, e no xe vero gnente.
PANC. Signor bargello, costui è un pazzo. Datemi quelle gioje. BARG. O pazzo, o savio, le gioje le porteremo dal giudice, e toccherà a vossignoria a far conoscere chi gliel’abbia date. Andate, scarcerate Arlecchino, e conducetelo dal giudice ben custodito. (ai birri, e parte) PANC. Troverò testimoni. Ora, subito, il signor Dottore, Brighella, la signora Rosaura, Colombina: tutta, tutta la casa del Dottore... ora... subito... vado... aspettatemi... vengo... la mia riputazione, la mia riputazione, la mia riputazione. (parte)
SCENA QUINTA
Zanetto e il Bargello
ZAN. Mo via, deme le mie zogie. No me fe desperar. BARG. Andiamo dal giudice, e se egli dirà che gliele dia, gliele darò. ZAN. Cossa ghe intra el giudice in te la mia roba? BARG. Senza di lui non gliele posso dare. ZAN. E se lu no volesse che me le dessi? BARG. Non gliele darei. ZAN. Mo cossa ghe ne faressi? BARG. Quello che il giudice comandasse. ZAN. Donca le posso perder? BARG. Sicuramente, senza dubbio. ZAN. Gera meggio lassarle a quel vecchio, che almanco a robarle l’ha fatto qualche fadiga. BARG. Ha timore che il giudice gliele rubi? ZAN. Le xe mie, e per causa soa le posso perder. Dal robarle a no darle a chi le tocca(⁸²), ghe fazzo poca defferenza. BARG. Faccia così, si provveda d’un avvocato. ZAN. Da che far de un avvocato?
BARG. Acciò faccia constare al giudice che queste gioje sono sue. ZAN. E ghe xe bisogno d’un avvocato? Chi lo sa meggio de mi, che quelle zogie xe mie? BARG. Sì, ma a lei non sarà creduto. ZAN. A mi no, e all’avvocato sì? Donca se crede più alla busia che alla verità? BARG. Non è così: ma gli avvocati hanno la maniera per dir le ragioni dei clienti. ZAN. Ma se paghelo l’avvocato? BARG. Sicuramente, gli si dà la sua paga. ZAN. E al giudice? BARG. Anche a lui tocca la sua sportula. ZAN. E a vu ve vien gnente? BARG. E come! Ho da esser pagato io e tutti i miei uomini. ZAN. Sicché donca tra el giudice, l’avvocato, el baresello e i zaffi(⁸³), schiavo siore zogie. BARG. Ma non si può far a meno. Ognuno deve avere il suo. ZAN. Vualtri avè d’aver el vostro, e mi no ho d’aver gnente? Bona! bella! me piase. Torno alle mie montagne. Là no ghe xe né giudici, né avvocati, né sbiri. Quel che xe mio, xe mio; e no se usa a scortegar, col pretesto de voler far servizio. Compare caro, no so cossa dir. Spartì quelle zogie tra de vualtri, e se avanza qualcossa per mi, sappiemelo dir, che ve ringrazierò della caritae. Vegnì, ladri, vegnì; robeme anca la camisa, che no parlo mai più. Alla piegora(⁸⁴) tanto ghe fa che la magna el lovo(⁸⁵), quanto che la scana el becher(⁸ ). A mi tanto me fa esser despoggià dai ladri, quanto da vualtri siori. Sioria vostra. (parte) BARG. Costui mi pare un pazzo. Egli mi ha un po’ toccato sul vivo; ma non importa. Noi altri birri abbiamo buono stomaco e sappiamo digerire i rimproveri,
come lo struzzo digerisce il ferro. (parte)
SCENA SESTA
Tonino solo.
TON. Vardè quando che i dise dell’amicizia del dì d’ancuo(⁸⁷). Florindo xe stà a Venezia; l’ho trattà come un proprio fradello. Me fido de lu, ghe mando una donna che tanto me preme, e lu me tradisse! Mi no so con che stomego un amigo possa ingannar l’altro amigo. Me par a mi, che se fusse capace de tanta iniquità, gh’averia paura che la terra s’averzisse per inghiottirme. L’amicizia xe la più sagra leze del mondo. Leze che provien dalla natura medesima, leze che regola tutto el mondo, leze che, destrutta e annichilada, butta sottosora ogni cossa. L’amor delle donne el xe fondà sulla ion del senso inferior. L’amor della roba el xe fondà sul vizio della natura corrotta. L’amor dell’amicizia xe fondà sulla vera virtù; e pur el mondo ghe ne fa cussì poco conto. Pilade e Oreste no serve più d’esempio ai amici moderni. El fido Acate xe un nome ridicolo al dì d’ancuo. Se adora l’idolo dell’interesse; in liogo de amici se trova una manizada(⁸⁸) de adulatori, che ve segonda fina che i gh’ha speranza de recavarne profitto; ma se la sorte ve rebalta(⁸ ), i ve lassa, i ve abbandona, i ve deride, e i paga d’ingratitudine i benefizi che gh’avè fatto; come dise benissimo missier Ovidio: Tempore felici, multi numerantur amici: Si fortuna perit, nullus amicus erit.
SCENA SETTIMA
Lelio e detto.
LEL. (Ecco qui il mio fortunato rivale. Voglio vedere se colla dolcezza del mio pregare posso vincer l’amarezza del suo negare). (da sé) TON. (Basta, colù me la pagherà). (da sé) LEL. M’inchino all’elevato, anzi altissimo invidiabil merito del più celebre eroe dell’adriatico cielo. TON. Servitor strepitosissimo della sua altitonante grandezza. LEL. Perdoni, se colla noiosa articolazione de’ miei accenti ardisco offendere il timpano de’ suoi orecchi. TON. Regurgiti pure la tromba de’ suoi eloqui, che io lasserò toccarmi non solo el timpano, ma ancora el tamburo. LEL. Sappia ch’io sono delirante. TON. Me ne son accorto alla prima. LEL. Amore cogli avvelenati suoi strali ferì l’impenetrabil mio core. TON. Sarave poco ch’el v’avesse ferio el cuor: l’è che el v’ha ferio anca el cervello. LEL. Ah, signor Zanetto, voi che siete della famiglia de’ Bisognosi, soccorrete chi ha bisogno di voi. TON. La gh’ha bisogno de mi? Mo per cossa? LEL. Perché ardo d’amore.
TON. E mi l’ho da consolar? LEL. Voi solo avete da risanar la mia piaga. TON. Aséo! de che paese xela, patron? LEL. Sono del paese de’ sventurati, nato sotto il cielo de’ miseri ed allevato nel centro de’ disperati. TON. E el morirà all’ospeal dei matti. LEL. Troncherò il filo del laberintico mio discorso colle forbici della brevità. Amo Beatrice, la desidero, la sospiro; so che da voi dipende, la chiedo in dono alla vostra più che massima, più che esemplarissima generosa pietà. TON. Anca mi col cortelo della schiettezza taggierò el groppo della resposta. Beatrice xe mia, e cederò tutti i tesori del Gange, prima de ceder le belle bellezze della mia bella. (Siestu maledio, che el me fa deventar matto anca mi). (da sé) LEL. Voi mi uccidete. TON. Vi sarà un pazzo di meno. LEL. Ah ingrato! TON. Ah scortese! LEL. Ah tiranno! TON. Ah matto maledetto! LEL. Ma se il mio amore in furia si converte, tremerete al mio furore. TON. Sarò qual impenetrabile scoglio agl’infocati dardi della vostra furibonda bestialità. LEL. Vado TON. Andè. LEL. Vado
TON. Mo andè. LEL. Vado, crudele... TON. Mo andè, che ve mando. LEL. Vado, sì, vado a meditar vendette, pria che il sole nasconda in mare i rai. (parte)
SCENA OTTAVA
Tonino, poi Pancrazio e Brighella
TON. Chi nasse matto, no varisse( ) mai. Oh che bestia! oh che bestia! Se pol sentir de pezo? Se el stava troppo, el me fava deventar matto anca mi. Veramente a sto mondo tutti gh’avemo el nostro rametto, e chi crede d’esser savio, xe più matto dei altri. Ma costù l’è matto coi fiocchi. PANC. Andiamo, andiamo dal giudice. Voi sarete testimonio della mia innocenza. (a Brighella) BRIGH. Ecco qua el sior Zanetto. PANC. Come! potete voi negare d’avermi date quelle gioje colle vostre mani? (a Tonino) TON. Sior sì, xe vero: ve lo ho dae mi. PANC. Sentite? Lo confessa. Ditelo al signor giudice. (a Brighella) TON. Cossa gh’entra el sior giudice? PANC. Bella cosa che avete fatto! Mettere a repentaglio la mia riputazione. TON. (Stè a veder, che s’ha trovà el patron delle zogie). (da sé) Credeveli fursi che le avessi sgranfignae( ¹)? (a Pancrazio) PANC. Pur troppo lo credevano. E voi ne foste la cagione. TON. Caro sior, mi ho fatto a fin de ben. PANC. O a fin di bene, o a fin di male, voi mi avete precipitato.
SCENA NONA
Arlecchino e detti.
ARL. Manco mal che son vegnù fora de caponera( ²). TON. Ecco qua quello che m’ha dà le zogie. ARL. Chi ve l’ha dae le zogie? TON. Vu me l’avè dae. ARL. E anca i bezzi? TON. E anca i bezzi. ARL. E po disevi che no giera vero? Gh’avè un mustazzo, che negheressi un pasto a un osto. TON. Me maraveggio. No son capace de negar gnente a nissun. Per forza m’avè dà quelle zogie e sti bezzi. Per forza i ho tolti. Son galantomo, no gh’ho bisogno de nissun, e se gh’avesse bisogno, moriria più tosto dalla necessità, che far un’azion cattiva. Le zogie no le gh’ho più. Intendo che le xe dal sior giudice: recuperèle e feghene quel che volè. Sti bezzi no i xe mii, no li voggio. Qua me li avè dai, qua ve li restituisso. Un omo civil stima più la reputazion de tutti i bezzi del mondo. I bezzi i va e i vien. L’onor, perso una volta, nol se acquista mai più. Tiolè la vostra borsa: ve la butto in terra, per mostrarve con quanto desprezzo tratto l’oro e l’arzento che no xe mio; anzi vorave che in quella borsa ghe fusse tutto l’oro del mondo, per farve veder che no lo stimo, che no lo curo, e che più de tutti i tesori stimo l’onor de casa Bisognosi, la fama dei cortesani, la reputazion della patria, per la qual saverave morir, come Curzio e Caton xe morti per la so Roma. (parte)
SCENA DECIMA
Pancrazio, Brighella ed Arlecchino
ARL. L’è matto. (cantando) BRIGH. Per dir che l’è matto solenne, basta dir che el butta via la so roba. Vôi seguitarlo per curiosità. (parte) PANC. Questa borsa la raccoglierò io e la custodirò fino a tanto che Zanetto con qualche lucido intervallo ne disponga a dovere. Amico, venite meco dal giudice, e procuriamo di ricuperare le gioje. ARL. Savì cossa che v’ho da dir? Che voggio tornar alle vallade de Bergamo. PANC. Perché? ARL. Perché l’aria della città fa deventar matti. (parte) PANC. Per tutto il mondo spira un’aria consimile. La pazzia si è resa universale: chi è pazzo per vanità, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Io lo sono per amore, e dubito che la mia sia una pazzia molto maggiore d’ogn’altra. (parte)
SCENA UNDICESIMA
Zanetto, poi Rosaura alla finestra della sua casa.
ZAN. Sto amor, sto amor el xe una gran cossa. Subito che ho visto siora Rosaura, m’ho sentio a rostir co fa una brisiola( ³). No posso star se no la vedo, se no ghe parlo. Voggio andarla a trovar, e veder se podemo concluder sto matrimonio. (batte all’uscio di casa) ROS. Signor Zanetto, la riverisco. (venendo alla finestra) ZAN. Oh, patrona bella. Vorla che vegna su? ROS. No, signore, mio padre non vuole. ZAN. Mo perché? ROS. Acciò lei non dica ch’egli mi fa il mezzano. ZAN. Come vorla che diga sto sproposito? No avemio da esser mario e muggier? ROS. Almeno mio padre mi ha fatta veder la scrittura. ZAN. Giusto, la scrittura che ho fatto mi. ROS. L’avete fatta voi, e poi mi avete detto che non vi era trattato di matrimonio? ZAN. Mi no diseva de matrimonio. Diseva che fessimo subito quel che gh’avevimo da far. ROS. Io non vi so intender. Ora mi sembrate troppo sciocco, ora troppo accorto. ZAN. E via, la lassa che vegna su. Cossa vorla? che me storza el collo?
ROS. Eh, di sopra poi non si viene. ZAN. Donca la vegna zo ella. ROS. Peggio. Farei una cosa bella a venir sopra la strada! ZAN. La vuol donca che muora? ROS. Poverino! Certamente che la ione vi farebbe morire. ZAN. No la crede? Lontan da ella, son come el pesce fuora dell’acqua. Smanio, deliro per vegnirmeghe a buttar in sen: se no la me agiuta, se no la me dà una man, darò un crepo( ⁴) davanti ai so occhi: cascherò sbasìo( ⁵) su sta porta, per lassarme cusinar( ) in tel fogo della so crudeltae. ROS. Che spiritosi concetti! Fatemi sentir qualch’altra bella cosa. ZAN. Cossa vorla sentir, a star ella là suso e mi qua? Se la vol sentir qualcossa de bello, o la vegna zoso, o la lassa che vegna suso, che me impegno de farme onor. ROS. Ma non potete farvi onore anche in qualche distanza? ZAN. Oh, la me perdona. Mi lontan no so far gnente. ROS. Ma che fareste se foste vicino? ZAN. Farave... farave... a dirlo me vergogno. Se la se contenta, gh’el canterò in t’una canzonetta. ROS. L’ascolterò molto volentieri. ZAN. Se mi ve fusse arente, (canta) Mio caro bel visin, Voria da quel bochin Robar qualcossa. Se fusse dove sè,
Voria... se m’intendè, Ma el diavolo no vol Che far lo possa. Se fusse in vicinanza De vu, caro mio ben, Voria da quel bel sen Qualche ristoro. Za so che me capì. Voria... disè de sì. Lassè che vegna su, Se no mi muoro. Mo via, no siè tirana, No me fe star più qua. Voria butarme là Do orete sole. Spiegar tuto el mio cuor Voria... ma gh’ho rossor. A bon intendidor Poche parole. ROS. Bravo. Evviva. ZAN. Ala sentio? Se la vol, son qua.
ROS. Ma vorrei che mi spiegaste una cosa che non intendo. Voi mi fate due figure affatto contrarie. Ora mi sembrate uno scimunito, ora un giovine spiritoso; ora sfacciato, ora prudente. Che vuol dire in voi questa mutazione? ZAN. No so gnanca mi, segondo che me bisega( ⁷) in tel cuor quel certo no so che... Per esempio, se quei occhietti... perché se podesse... Siora sì, giusto cussì. ROS. Ecco qui, ora mi avete fatto un discorso da sciocco. ZAN. E pur drento de mi m’intendo, ma no me so spiegar. La vegna zoso, che me spiegherò meggio. ROS. Sapete cosa io comprendo da questo vostro modo di parlare? Che fingete meco, e che punto non mi amate.
SCENA DODICESIMA
Beatrice col Servitore, e detti.
BEAT. (Tonino che parla con una giovine? Ascoltiamo). (da sé, in disparte) ZAN. Ve voggio tanto ben, che senza de vu me par d’esser oselo( ⁸) senza frasca, pàvero( ) senza oca, monton senza piegora, porzeletto senza porzeletta. Sì, cara, ve voggio ben e no vedo l’ora de buttarme a nuar(¹ ) in tel mar della vostra bellezza; no vedo l’ora de sguatararme(¹ ¹) co fa una grua in tel bevaor(¹ ²) della vostra grazia, e de spolverarme(¹ ³) in te le vostre finezze, come... sì, come l’aseno se spolvera in tel sabbion. ROS. (Mi sembra ch’egli divenga sguaiato più che mai). (da sé) BEAT. Ah perfido! ah ingrato! ah infedele! Questa è la fede che mi giurasti? Testé mi desti la mano di sposo, ed ora così mi tradisci? Per la terza volta mi deludi e mi inganni? Guardami, scellerato, guardami in volto, se hai cuore di farlo: ma no, che il rossore t’avvilisce, ti confonde il rimorso, ti spaventa il mio sdegno. Anima indegna! cuor mendace! labbro spergiuro! A che sedurmi nella casa paterna? A che farmi abbandonare la patria? A che darmi la mano di sposo, se ad altra donasti il cuore? Mi fu detta la tua perfidia, ma non l’avrei mai creduta. Ora che gli occhi miei son testimoni del vero, ora scorgo i miei torti, i miei danni, i miei disonori. Va, che più non ti credo; va, che più non ti voglio. T’assolvo, barbaro, sì, t’assolvo dal giuramento, se pur te ne assolvono i numi. Più non curo il tuo amore, più non voglio la tua destra, non bramo più la tua fede. Attendi, che per maggiormente porre in libertà il tuo perfido cuore, ti vo’ render quel foglio con cui mi tradisti, con cui m’ingannasti. Sì, barbaro, sì, crudele; ama la mia rivale, adora il suo sembiante del mio più vago, ma non sperare in altra donna ritrovar la mia fede, la mia tolleranza, il mio amore. (Parte col servo. Zanetto, frattanto che parla Beatrice, l’ascolta attentamente senza dir nulla, poi si volta verso Rosaura)
SCENA TREDICESIMA
Rosaura, poi Zanetto
ZAN. Cussì, tornando al nostro proposito... (a Rosaura) ROS. A qual proposito tornar pretendi, mancatore, spergiuro? Desti la fede ad altra donna, ed ora me ingannare pretendi? No, perfido, no, scellerato, non ti verrà fatta. Ama chi amar devi per debito. Adempi l’impegno del tuo cuore mendace. Attendi, attendi, che per farti conoscere che non ti curo, anzi ti aborrisco e ti sprezzo, ora vo a prender quella scrittura con cui t’impegnasti tu meco, e vedrai, ingratissimo amante, che Rosaura non sa soffrire un inganno. (si ritira dalla finestra)
SCENA QUATTORDICESIMA
Zanetto solo.
ZAN. Adesso che son maridà, stago ben. Questa me dise perfido, quella crudel. Una barbaro, l’altra tiran. Ghe ne xe più? Povero Zanetto! Son desperà. Tutti me cria. Nissun me vol. No me posso più maridar. Dove xe un lazzo, che me picca? Dove un cortello, che me scanna? Dove xe un canal, che me nega? Per zelosia le donne me strapazza, e mi togo de mezzo, e stago a bocca sutta. Donne, gh’è nissuna che me voggia? No son po gnanca tanto brutto. Ma l’è cussì, nissun me vol, tutti me strapazza, tutti me cria. Maledetta la mia desgrazia, maledette le mie bellezze. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Rosaura, poi Tonino
ROS. (Alla finestra) Eccomi, eccomi con quella scrittura... Ma se n’è andato l’indegno. Mal mi lusingai, che qui mi attendesse. Il rossore, la confusione, l’hanno fatto partire. Ma lo farò ritrovare, vedrà s’io so vendicarmi. (arriva Tonino) Ma eccolo che ritorna. Sfacciato, hai tanto ardire di comparirmi sugli occhi? Va, che di te più non curo. Ecco la tua scrittura, eccola ridotta in pezzi. Eccola sparsa al vento; così potessi veder lacerato quel cuore indegno. (straccia una scrittura, la getta in istrada, e si ritira dalla finestra)
SCENA SEDICESIMA
Tonino, poi Beatrice col Servo
TON. (Senza parlare guarda la finestra, poi raccoglie i pezzi della scrittura, che sono in terra) BEAT. (Con un foglio in mano) L’ho alfin ritrovata questa scellerata scrittura. Eccola, indegno, eccola, traditore: mirala, e vedi quanto conto ne faccio. (la fa in pezzi, e la getta in terra) Così potessi squarciar quel petto, nido d’infedeltà. (parte col Servo)
SCENA DICIASSETTESIMA
Tonino solo.
TON. (Leva di terra i pezzi dell’altra scrittura, ed unendo questi e quelli, confronta le parole ed i caratteri, poi dice come segue) Coss’è sto negozio? Coss’è sto imbrogio? sta novità? Do donne me strassa la scrittura in fazza? Mi a Rosaura no so d’aver fatto scrittura, a Beatrice no so d’aver mancà de fede. O le xe tutte matte, o qualche equivoco ghe xe certo. Vedemo un poco cossa dise ste do scritture. (guarda quella di Beatrice, uniti i pezzi raccolti da terra) Prometto... alla signora Beatrice ecc. Io Antonio Bisognosi. Questa va ben. Cossa dise st’altra? Colla presente scrittura... ecc. resta concluso... matrimonio tra l’onesta... fanciulla... la signora Rosaura Balanzoni... ed il signor Zanetto Bisognosi... Come! Questa xe una scrittura falsa, mi no son Zanetto. Andemo avanti. Vedemo quando la xe stada fatta. Valle Brambana in Bergamasca. Addì 14 gennaro 1746. In Bergamasca? Coss’è sto negozio? Chi l’ha sottoscritta? Zanetto Bisognosi, mano propria. Xe vero che qua i me crede Zanetto, ma nissun s’averà tolto la libertà de sottoscriver per mi. No l’è mio carattere. Donca cossa sarà? Sto Zanetto Bisognosi saravelo mai mio fradello, che sta in t’una delle vallae de Bergamo? Se poderia dar; e chi sa che nol sia a Verona, senza che mi lo sappia? Quel Brighella servitor, che me andava disendo de mio fradello a Venezia, me dà sospetto che veramente el me creda Zanetto. Tante stravaganze che ancuo me xe nate, le me fa crescer el dubbio. Chi sa? Se pol dar. Oh la sarave bella! Me voggio chiarir. Se ghe xe quel servitor in casa, vôi saver la verità. Scoverzirò terren, senza palesarme. Cancaro! Ghe vol politica. Sta volta bisogna farla da vero cortesan. Oe de casa. (batte dal Dottore)
SCENA DICIOTTESIMA
Brighella di casa, e detto.
BRIGH. Servitor umilissimo; ela ella che batte? TON. Sì ben, son mi. BRIGH. La perdona, perché adesso in casa no se pol vegnir. TON. No? Perché? BRIGH. La patrona sbuffa e smania; el patron è sulle furie. Anzi la conseggio andar via; perché, se i la vede qua, i è capaci de far qualche sproposito. TON. Ma cossa gh’oggio fatto? BRIGH. No so. Sento che i se lamenta, e no so el perché. TON. Diseme, amigo, avè cognossù mio fradello a Venezia? BRIGH. Certo che l’ho cognossù. TON. Me someggielo? BRIGH. I par un pomo spartio. No se pol dir che no i sia do zemelli. TON. E xe do anni che no l’avè visto? BRIGH. Do anni in circa. TON. Mio fradello... BRIGH. Sior sì, el sior Tonin. TON. E mi mo chi songio?
BRIGH. O bella! el sior Zanetto. TON. Che vien da... BRIGH. Da Bergamo, a sposar la siora Rosaura. TON. Bravo! Vu savè tutto, sè un omo de garbo. (Adesso capisso el negozio). (da sé) BRIGH. La me diga, cara ella, e la perdona della curiosità. Ala mai savesto gnente de so sorella? TON. Mai. Ah, savè anca vu che la s’ha perso? BRIGH. Siguro. Quante volte me l’ha dito la bona memoria de so sior pare. TON. Ma! no gh’è altro; mentre che mio pare la mandava a Bergamo, la s’ha smario, e no se sa come. BRIGH. Cossa vorla far? Una dota de manco. Se no la me comanda gnente, vago in casa, perché se i me vede a parlar con ella, i me dirà roba. A bon reverirla. (entra in casa)
SCENA DICIANNOVESIMA
Tonino, poi Colombina di casa.
TON. Schiavo, amigo. Vardè quando che i dise dei accidenti del mondo! Se pol dar? Mio fradello xe in Verona e no se semo visti. Uno xe tolto per l’altro, e nasce mille imbrogi in t’un zorno. Adesso intendo el negozio delle zogie e dei bezzi; quell’Arlecchin sarà servitor de mio fradello, e quella roba doveva esser soa. Se saveva che i giera de mio fradello, no ghe li dava indrio(¹ ⁴). Quanto che pagherave de veder sto mio fradello! Ma basta, anderò tanto zirando, fina che el troverò. COL. Sentite quella pettegola di Rosaura, come parla male del signor Zanetto; mi viene una rabbia, che non la posso soffrire. TON. Coss’è, fia(¹ ⁵), che ve vedo cussì scalmanada(¹ )? Coss’è stà? COL. Se sapeste, signore, mi riscaldo per causa vostra. TON. Per causa mia? Ve son ben obbligà: mo per che motivo? COL. Perché quella presuntuosa di Rosaura, credendo di essere una gran signora, tratta tutti male. TON. De mi la deve dir cossazze(¹ ⁷). COL. Ed in che modo! E perché io ho prese le vostre parti, ed ho parlato in vostra difesa, ha principiato a strapazzarmi, come se fossi una bestia. Pettegola, sfacciata: se non si sapesse chi è, la compatirei. TON. Mo no xela fia del sior Dottor? COL. Eh! il malanno che la colga. È una venuta di casa del diavolo; trovata per le strade da un pellegrino. TON. Ma come? Se sior Dottor dise che la xe so fia?
COL. Perché ancor egli è un vecchio birbone; lo dice per rubare un’eredità. TON. (Eh, l’ho ditto che quel Dottor xe un poco de bon). (da sé) Donca siora Rosaura no se sa de chi la sia fia? COL. Non si sa e non si saprà mai. TON. Quanto xe che la a per fia del Dottor? COL. L’ebbe in fasce da bambina quella bella gioja. TON. Quanti anni gh’averala? COL. Lei dice che n’ha ventuno; ma credo non conti quelli della balia. TON. No la pol gnanca aver de più. Diseme, fia; sto pellegrin da dove vegnivelo? COL. Da Venezia. TON. E dove alo trovà quella putela(¹ ⁸)? COL. Dicono alle basse di Caldiera, tra Vicenza e Verona. TON. Gierela in fasse? COL. Sicuro, in fasce. TON. L’aveu viste vu quelle fasse? COL. Il signor Dottore mi pare che le conservi; ma io non le ho vedute. TON. Ma sto pellegrin come l’avevelo abua? Gierela so fia? Cossa gh’avevela nome? COL. Non era sua figlia; ma la trovò sulla strada, dove gli assassini avevano svaligiati alcuni eggieri, e questa bambina rimase colà viva per accidente. Il nome poi né pur egli lo sapeva, ed il signor Dottore le impose quello di Rosaura. TON. (Oh questa è bella! Stè a veder che la xe Flaminia mia sorella, giusto persa tra Vicenza e Verona, quando xe stà sassinà la mia povera mare, che la menava a
Bergamo). (da sé) COL. (Che diavolo dice tra sé?) (da sé) TON. Saveu che ghe fusse in te le fasse una medaggia col retratto de do teste? COL. Mi pare di averlo sentito dire. Ma perché mi fate tante interrogazioni? TON. Basta... lo saverè... (Questa xe mia sorella senz’altro. Cielo, te ringrazio. Vardè che caso! Vardè che accidente! Do fradei! Una sorella! Tutti qua! Tutti insieme! El par un accidente da commedia). (da sé) COL. (Sta a vedere che costei si scopre figlia di qualche signor davvero). (da sé) Signore, se mai la signora Rosaura fosse qualche cosa di buono, avvertite a non dirle che ho sparlato di lei, per amor del cielo. TON. No no, fia, no ve dubitè. Za so che el mestier de vualtre cameriere xe dir mal delle patrone, e che ve contenteressi de zunar pan e acqua, più tosto che lasar un zorno de mormorar. (parte)
SCENA VENTESIMA
Colombina, poi Pancrazio ed il Dottore
COL. Non vorrei, per aver parlato troppo, aver fatto del male a me e del bene a Rosaura. Quel signor Zanetto m’ha fatte troppe interrogazioni. Dubito che vi voglia essere qualche novità strepitosa. DOTT. Colombina, cosa fai sopra la strada? COL. Sono venuta a vedere se ava quel dell’insalata. DOTT. Animo, animo, in casa. COL. Avete veduto il signor Zanetto? DOTT. Va in casa, pettegola. COL. Uh, che vecchio arrabbiato! (entra in casa)
SCENA VENTUNESIMA
Il Dottore e Pancrazio
DOTT. Signor Pancrazio; a voi che siete il più caro amico ch’io m’abbia, confido la mia risoluta deliberazione di voler che immediatamente seguano gli sponsali di mia figlia Rosaura col signor Zanetto Bisognosi, ad onta di tutte le cose ate. PANC. Ma come! se ella gli ha stracciata la scrittura in faccia, e non lo vuole? DOTT. Ella ha ciò fatto per pura gelosia. Le cose sono avanzate a un segno, che senza scapito del mio decoro non si può sospendere un tal matrimonio. Tutta Verona ne parla; e poi, per dirvela, il signor Zanetto è assai ricco, e con poca dote assicuro la fortuna della mia figliuola. PANC. Ecco qui; l’avarizia, l’avarizia vi tenta a far il sacrificio di quella povera innocente colomba. DOTT. Tant’è, ho risolto! I vostri consigli, che ho sempre stimati e venerati, questa volta non mi rimoveranno da una risoluzione che trovo esser giusta, onesta e decorosa per la mia casa. PANC. Pensateci meglio. Prendete tempo. DOTT. Mi avete voi insegnato più volte a dire: chi ha tempo, non aspetti tempo. Vado subito a ritrovar il signor Zanetto, e avanti sera voglio che si concludano queste nozze. Caro amico, compatitemi, a rivederci. (parte)
SCENA VENTIDUESIMA
Pancrazio, poi Zanetto
PANC. Ecco precipitata ogni mia speranza. Il Dottore la vuol dar per forza a quel veneziano. Ed io, misero, che farò? Non ardisco palesare la mia ione, perché perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata ch’io m’abbia. S’ella si sposa a costui, la condurrà seco a Bergamo, e mai più la vedrò. Ah, questo non sarà mai vero. All’ultimo farò qualche bestialità. Mi leverò la maschera e mi farò anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra. ZAN. Sior Pancrazio, son desperà. PANC. La morte è la consolazione de’ disperati. ZAN. Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol. Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno. Sior Pancrazio, son desperà, no posso più. PANC. Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato. ZAN. Pazenzia! gh’avè rason. Vorave scampar dalle donne, e no posso. Me sento tirar per forza, giusto come un sion(¹ ) che tira l’acqua per aria. PANC. Ma voi non siete per il matrimonio. ZAN. Mo perché? PANC. Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete l’uomo più infelice e più misero della terra. ZAN. Donca cossa gh’oggio da far? PANC. Lasciar le donne.
ZAN. Mo se no posso. PANC. Fate a mio modo, partite subito da questa città, ritornate al vostro paese, e liberatevi da questa pena. ZAN. Sarà sempre per mi l’istesso. Anca le donne de Bergamo e de Val Brambana le me burla e le me strapazza. PANC. Dunque, che volete fare? ZAN. No so gnanca mi, son desperà. PANC. S’io fossi come voi, sapete che cosa farei? ZAN. Cossa faressi? PANC. Mi darei la morte da me medesimo. ZAN. La morte? Disème, caro sior, no ghe saria mo un altro remedio senza la morte? PANC. E che rimedio vi può essere per guarire il vostro male? ZAN. Vu, che sè un omo tanto virtuoso, no gh’averessi un secreto da farme andar via sta maledetta voggia de matrimonio? PANC. V’ho inteso. (Eccolo da sé nella rete). (da sé) Voi mi fate tanta comione, che quasi vorrei per amor vostro privarmi d’una porzione d’un rarissimo e prezioso tesoro ch’io solo possiedo, e che custodisco con la maggior segretezza. Io l’ho lo specifico da voi desiderato, e sempre lo porto meco per tutto quello che accadere mi può. Anch’io nella mia gioventù mi sentivo tormentato da questa peste d’importuno solletico, e guai a me se non avessi avuta questa polvere in questo scatolino rinchiusa. Con questa mi son liberato parecchie volte dai forti stimoli della concupiscenza, e replicando la dose ogni cinque anni, mi sono condotto libero da ogni pena amorosa, sino all’età in cui mi vedete. Una presa di questa polve può darvi la vita, può liberarvi da ogni tormento. Se la beveste nel vino, vi trovereste privo d’ogni ione, e mirando con indifferenza le donne, potreste, deridendole, vendicarvi de’ loro disprezzi. Anzi vi correranno dietro: ma voi non curandole colla virtù della mirabile polvere, le sprezzerete, e loro farete pagar a caro prezzo le ingiurie, colle quali vi
hanno trattato sinora. ZAN. Oh magari! Oh che gusto che gh’averave! Per amor del cielo, sior Pancrazio, per carità, deme un poco de quella polvere. PANC. Ma... privarmi di questa polvere... costa troppo. ZAN. Ve darò quanti bezzi che volè. PANC. Orsù, per farvi vedere ch’io non sono interessato e che quando posso, giovo volentieri al mio prossimo, vi darò una presa di questa polvere. Voi la berrete nel vino, e sarete tosto sanato. Subito presa, vi sentirete della confusione per verità nello stomaco e vi parerà di morire, ma acquietato il tumulto, vi troverete un altro uomo, sarete contento e benedirete Pancrazio. ZAN. Sior sì, sieu benedio. Dèmela, no me fe più penar. PANC. (Il veleno datomi da Tiburzio fa appunto al caso per liberarmi da questo sciocco rivale). (da sé) Questa è la polvere, ma ci vorrebbe il vino. (gli mostra lo scatolino) ZAN. Anderò a casa, e la beverò. PANC. (Si potrebbe pentire). (da sé) No, no, aspettate ch’io vi porterò il bisognevole. (Mi fa pietà, ma per levarmi dinanzi l’ostacolo de’ miei amori, conviene privarlo di vita). (da sé, ed entra in casa del Dottore) ZAN. In sta maniera no se pol viver. Co(¹¹ ) vedo una donna, me sento arder da cao a piè, e tutte le me minchiona, le me strapazza. Desgraziae! me vegnirè sotto, me correrè drio; e mi gnente, saldo. Faremo patta e pagai(¹¹¹). No vedo l’ora de far le mie vendette co quella cagna de Rosaura. Velo qua ch’el vien. Aveu portà el negozio? PANC. (Torna con un bicchiere con vino) Ecco il vino. Mettetevi dentro la polvere. ZAN. Cussì? (mette la polvere nel bicchiere di vino) PANC. Bravo. Bevete. Ma avvertite di non dire ad alcuno ch’io vi abbia dato il segreto.
ZAN. No dubitè. PANC. Animo. ZAN. Son qua. Forte come una torre. PANC. E se vi sentite male, soffrite. ZAN. Soffrirò tutto. PANC. Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perch’io gliene dessi. ZAN. Gh’avè rason. PANC. Oh, quanto vogliam ridere con queste donne! ZAN. Tutte drio de mi. E mi gnente. PANC. Niente! Crudo come un leone. ZAN. Pianzerale? PANC. E come! ZAN. E mi gnente! PANC. Niente. ZAN. Bevo. PANC. Animo. ZAN. Alla vostra salute. (beve mezzo bicchiere di vino) PANC. (Il colpo è fatto). (da sé, e parte)
SCENA VENTITREESIMA
Zanetto bevendo a sorso a sorso, poi Colombina
ZAN. Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss’è sto negozio? No vôi bever altro. (mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente. La polvere fa operazion. Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta. Me l’ha dito sior Pancrazio... ma... oimè... gh’ho troppo mal... me manca el fià... no posso più... Se no avesse bevù, no beverave altro... Oh poveretto mi... un poco de acqua... acqua... acqua... Deboto(¹¹²) no ghe vedo più... me trema la terra sotto i piè... le gambe no me reze(¹¹³)... oimè, el mio cuor... oimè, el mio cuor... Forti, Zanetto, forti, che le donne te correrà drio... e ti... ti le burlerà... oh che gusto!... no posso più star in piè... casco... moro... (cade in terra) COL. (Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos’è? Cos’è stato? Che cosa avete? ZAN. (Vardè... se xe vero... le donne me corre drio). (da sé) COL. Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca. Certo gli è venuto male. Poverino! Voglio chiamare aiuto, perché io sola non posso aiutarlo. (entra in casa)
SCENA VENTIQUATTRESIMA
Zanetto, poi Florindo
ZAN. Sentila... se la xe innamorada... la se despiera... e mi duro... ma... oimè, me manca el cuor... crepo, crepo... agiuto... agiuto. FLOR. Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi. ZAN. Un’altra donna me corre drio... (si va torcendo) FLOR. (Ma che vedo? Que’ moti paiono di moribondo). (da sé) ZAN. Son morto... Son morto... FLOR. (Muore davvero costui). (da sé) Ma che avete? ZAN. Son morto... FLOR. In che maniera?... che è stato?... (benché rivale, mi fa pietà). (da sé) ZAN. Ho bevù... sì... le donne... Sior Pancrazio... oimè... oimè... son velenà... son morto... ma no... Via, donne... forti... duro, vedè... oimè. (muore) FLOR. Ah che spirò il meschino! Chi mai l’ha assassinato? Come mai è egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come è torbido questo vino! L’infelice fu avvelenato. (osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)
SCENA VENTICINQUESIMA
Il Dottore, Brighella e Colombina di casa, e detti; poi Rosaura e Beatrice col Servitore, poi Arlecchino
COL. Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine. (al Dottore, uscendo di casa) DOTT. Presto, Brighella, va a chiamare un medico. FLOR. È inutile che cerchiate il medico, mentre il signor Zanetto è morto. DOTT. È morto? BRIGH. Oh poveretto, l’è morto? COL. Morto il povero signor Zanetto? ROS. (Di casa) Perdonate, signor padre, s’io vengo sopra la strada. Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; è forse vero? DOTT. Pur troppo è vero. Eccolo là, poverino. BEAT. Oimè! Che vedo? Morto il mio bene? Morta l’anima mia? (ando per la strada) ARL. Coss’è? Dormelo el sior Zanetto? BRIGH. Altro che dormir! L’è morto el povero sfortunado. ARL. Co l’è cussì, torno alle vallade de Bergamo. DOTT. Facciamolo condurre nell’osteria: in mezzo alla strada non istà bene. ROS. Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.
COL. Poverina! siete vedova prima di essere maritata. (Ho quasi piacere che resti mortificata). (da sé) DOTT. Brighella, fallo condurre nell’osteria. (accennando Zanetto) BRIGH. Animo, Arlecchin, dà una man a menarlo in casa. Quel zovene, fe anca vu el servizio de aiutarlo a portar. (al Servitore di Beatrice) BEAT. Misera Beatrice! cosa sarà di me? FLOR. Se è morto il vostro Tonino, potrò sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano) BEAT. Vi odierò eternamente. ARL. Camerada, portelo pulito, acciò, dopo che l’è morto, no ti ghe rompi la testa. (Arlecchino e il Servitore portano Zanetto morto nell’osteria) ROS. Mi sento strappar l’anima dal seno. BEAT. Chi mai sarà stato il perfido traditore? DOTT. Come mai è accaduta la sua morte? FLOR. Io dubito sia stato avvelenato. DOTT. E da chi? FLOR. Non lo so; ma ho de’ forti motivi per crederlo. ROS. Deh, scoprite ogni indizio, acciò si possa vendicar la morte dell’infelice.
SCENA VENTISEIESIMA
Tonino e detti, poi Arlecchino ed il Servo di Beatrice.
TON. Coss’è, siora Beatrice... DOTT. Come? (si spaventa) BRIGH. L’anima de sior Zanetto? (come sopra) ROS. Non è morto! BEAT. È vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi l’un l’altro con qualche spavento) ARL. (Esce col Servitore dall’osteria, vede Tonino, lo crede anch’egli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi! Cossa vedio. TON. Com’ela? Coss’è stà? Coss’è sti stupori, ste maraveggie? DOTT. Signor Zanetto, è vivo? TON. Per grazia del cielo. DOTT. Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto? TON. No xe vero gnente. Son vegnù in sto ponto. BRIGH. Com elo sto negozio? ARL. Adesso, adesso. (entra nell’osteria, poi ritorna subito) Oh bella! L’è mezzo morto e mezzo vivo. Salva, salva. (parte) BRIGH. Vegno, vegno. (fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.
DOTT. Voglio veder anch’io. (fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, colà dentro vi è un altro signor Zanetto. TON. Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto. Lassè che vaga là drento anca mi, e torno subito (entra nell’osteria) ROS. Voglia il cielo che Zanetto sia vivo. BEAT. Benché mi sia infedele, desidero ch’egli viva. TON. (Torna dall’osteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! L’ho visto tardi. L’ho cognossù troppo tardi. Quello che xe là drento, e che xe morto, l’è Zanetto, mio fradello. DOTT. E lei dunque chi è? TON. . Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto. ROS. Che sento! DOTT. Quale stravaganza è mai questa? BEAT. Dunque siete il mio sposo. (a Tonino) TON. Sì ben, son quello. Ma vu, perché strazzar la scrittura? Perché strapazzarme? Perché trattarme cussì? BEAT. E voi perché rinunziarmi ad altri? Perché sugli occhi miei parlar d’amore colla signora Rosaura? TON. Gnente, fia mia, gnente. Le somegianze tra mi e mio fradello ha causà tante stravaganze. Son vostro, sè mia, e tanto basta. ROS. Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data? TON. Do no le posso sposar. E po mi no son Zanetto. DOTT. O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia. (Egli sarà ancora più ricco del fratello, per cagion dell’eredità). (da sé)
TON. Son qua, son pronto a sposar vostra fia. DOTT. Datele dunque la mano. TON. Ma dov’ela vostra fia? DOTT. Eccola qui. TON. Eh via, me maraveggio de vu. Questa no xe vostra fia. DOTT. Come! Che cosa dite? TON. Orsù, so tutto. So del pellegrin. So ogni cossa. DOTT. Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina) COL. Ma io non so nulla, vedete... TON. Diseme, sior Dottor, quella medaggia che gh’avè trovà in te le fasse, la gh’averessi? DOTT. (E di più sa ancora della medaglia?) (da sé) Una medaglia con due teste? TON. Giusto: con do teste. DOTT. Eccola, osservatela, è questa? TON. Sì ben, l’è questa. (Fatta far da mio pare, quando che l’ha abù i do zemelli). (da sé) DOTT. Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldiera, fra Vicenza e Verona. Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano. Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l’ho sinora allevata. TON. Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldiera, dove l’istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e
ella, in grazia dell’età tenera, bisogna che i l’abbia lassada in vita. ROS. Ora intendo l’amore che aveva per voi. Era effetto del sangue. (a Tonino) TON. E per l’istessa rason anca mi ve voleva ben. BEAT. Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura. FLOR. (Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice). (da sé) TON. Adesso intendo l’equivoco della scrittura e delle finezze che m’avè fatto. (a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor. (al Dottore) DOTT. Ah, voi m’avete rovinato! TON. Mo perché? DOTT. Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio. La bambina è morta ed io perdeva l’eredità, poiché nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nell’eredità stessa un mio nipote. Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio sì ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura un’altra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e coll’aiuto della balia, madre di Colombina, mi riuscì agevole il cambio. Ora, scoperto il disegno, non tarderà mio nipote a spogliarmi dell’eredità ed a voler ragione de’ frutti sino ad ora malamente percetti. TON. Ma chi xelo sto vostro nevodo? DOTT. Un certo Lelio, figlio d’una sorella del testatore e mia. TON. Elo quel sior cargadura, che dise d’esser conte e marchese? DOTT. Appunto quegli. TON. Ve lo qua che el vien. Lassè far a mi, e no ve dubitè gnente.
SCENA VENTISETTESIMA
Lelio e detti.
LEL. Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato. TON. Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh’è remedio. Beatrice xe mia muggier. LEL. Sconvolgerò gli abissi. Porrò sossopra il mondo! TON. Mo perché vorla far tanto mal? LEL. Perché son disperato. TON. Ghe sarave un remedio. LEL. E quale? TON. Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor. LEL. Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace. TON. E la putta ghe piasela? LEL. A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza. TON. Non occorre altro, e se farà tutto: qua in strada no stemo ben. Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa. Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio. Ela contenta? (a Rosaura) ROS. Io farò sempre il volere di mio padre. DOTT. Brava, ragazza. Voi mi date la vita. Caro signor Tonino, vi sono obbligato. Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.
TON. Cussì tutti sarà contenti. FLOR. Non sarò già io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore d’aver tradita la nostra amicizia. TON. Vergogneve d’averme tradio, d’aver procurà de far l’azion più indegna che far se possa. Ve compatisso, perché sè stà innamorà, e se sè pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo. FLOR. Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicizia.
SCENA ULTIMA
Pancrazio e detti.
PANC. (Che vedo! Zanetto non è morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo). (da sé) DOTT. Signor Pancrazio, allegramente. Abbiamo delle gran novità. PANC. Con buona grazia di lor signori. (chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo) TON. Se ho bevù? Songio forsi imbriago? PANC. No. Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato. TON. (Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzer(¹¹⁴)). (da sé) Mi no, non ho gnancora bevù. PANC. Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle? TON. Come gh’oggio da far a liberarme? PANC. Subito che avete bevuto, sarete liberato. TON. E cossa gh’oggio da bever? PANC. Oh bella! quella polvere che vi ho dato. Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere? TON. (Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio). (da sé) Ah sier cagadonao(¹¹⁵), ah sier bronza coverta(¹¹ ), ipocrita maledetto! Vu sè stà, che ha mazzà mio fradello. Pur troppo l’ha bevù, pur troppo el xe andà all’altro mondo per causa vostra. Mi no son Zanetto, son Tonin. Gerimo do zemelli, e le nostre someggie v’ha fatto equivocar. Diseme, sior can, sassin, traditor per cossa l’aveu sassinà? Per cossa l’aveu mazzà? (forte, che tutti sentono)
PANC. Mi maraviglio di voi. Non so nulla, non intendo che dite. Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquità. TON. Ma cossa me disevi, se ho bevù? Se me voggio liberar dalle donne? PANC. Diceva così per dire... se voi bevendo... diceva per le nozze, per le nozze. TON. Vedeu che ve confondè? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello? PANC. Oh cielo! oh cielo! tanto ascolto, e non moro? DOTT. Il signor Pancrazio è un uomo onorato, l’attesto ancor io. FLOR. Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido. COL. Ed il signor Pancrazio poco fa è venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino. FLOR. Ora confronteremo. (prende il bicchiere che è in terra) TON. Senti, se ti l’ha mazzà, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe n’astu fatto! (a Pancrazio) PANC. Sono nelle mani del giudice. TON. Ben ben, ghe penserò mi a recuperarle. FLOR. Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto. (mostra il bicchiere) COL. E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio. TON. Xe vero? PANC. È vero. TON. Donca ti, ti l’ha avvelenà. PANC. Non è vero. Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.
FLOR. Prendete pure. PANC. Ecco ch’io bevo. DOTT. Se l’ho detto. Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità. TON. (Col beve, nol sarà velen). (da sé) COL. Almeno si fosse avvelenato costui. TON. Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal. PANC. (Avendo bevuto, sente l’effetto del veleno) Amici, son morto, non v’è più rimedio. Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire. Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch’ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell’infelice per liberarmi da un tal rivale. Oimè, non posso più. Moro, e moro da scellerato qual vissi. La mia bontà fu simulata, fu finta. Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è. Addio, amici: vado a morire da disperato. (traballando parte) COL. L’ho sempre detto ch’era un briccone. TON. L’ha levà sto vadagno al bogia(¹¹⁷). Povero mio fradello! Quanto che me despiase! Sorella cara, son consolà averve trovà vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto. ROS. Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza. DOTT. Orsù, andiamo in casa. TON. Se la se contenta, menerò la mia sposa. LEL. E verrò anch’io colla mia diva. DOTT. Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che s’hanno a fare. (Questo è quello che mi preme). (da sé) TON. Co l’eredità de mio fradello giusterò el Criminal de Venezia, e me tornerò a metter in piè. Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l’è morto,
anderò in Val Brambana a sunar(¹¹⁸) quelle quattro fregole(¹¹ ). Ringrazierò la fortuna che m’ha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazià sarà messi in chiaro tutti i equivochi, nati in t’un zorno, tra i do Veneziani Zemelli.
I RUSTEGHI
Commedia in tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nel carnevale dell'anno 1760
NB: le note al testo sono dell'autore
L'AUTORE A CHI LEGGE
I Rusteghi in lingua Veneziana non è lo stesso che i Rustici in lingua Toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo Rustego un uomo aspro, zottico, nemico della civiltà, della cultura, del conversare. Si scorge dal titolo della Commedia non essere un solo il Protagonista, ma varii insieme, e in fatti sono eglino quattro, tutti dello stesso carattere, ma con varie tinte delineati, cosa per dire il vero dificilissima, sembrando che più caratteri eguali in una stessa Commedia possano più annoiare che dilettare. Questa volta mi è riuscito tutto al contrario: il Pubblico si è moltissimo divertito, e posso dire quest'opera una delle mie più fortunate; perché non solo in Venezia riuscì gradita, ma da per tutto, dove finora fu dai comici rappresentata. Ciò vuol dire, che il costume ridicolo delle Persone è conosciuto da tutti, e poco scapita la Commedia per il linguaggio particolare. Quantunque per altro sia stata fuor di qui recitata con buona sorte, son sicurissimo che tutti i termini, e tutte le frasi nostre non possono esser capite, però con quanto studio ho potuto, ne ho posta in piè di pagina la spiegazione. Molti bramerebbero un Dizionario Veneziano per intendere questa lingua, ed io stesso ho pensato di farlo; ma credo sieno meglio i Leggitori serviti dando loro la spiegazione sul fatto, anzicché distrarli dalla lettura, per ricorrere al Dizionario, il quale non si può aver sempre vicino quando bisogna. Io non credea veramente dover sì presto annicchiare ne' primi Tomi di quest'edizione Commedie in Veneziana favella. L'ho fatto per la ragione accennata nella precedente epistola dedicatoria, e non mi pento d'averlo fatto, dacché parmi colle annotazioni più necessarie aver chiarito il più difficile da capirsi. Ho data la spiegazione a tutti quei termini, e a quelle frasi, che non possono dagli stranieri rinvenirsi nei Vocabolari Italiani; ma quelle voci, che hanno in qualche modo dell'analogia colle dizioni Toscane, le ho lasciate com'erano, potendo chi ha un po' di talento conoscerne la derivazione, e superare la picciola diferenza. Per esempio, le coniugazioni de' verbi sono alquanto diverse, ma si capiscono facilmente: "farave" per "farei"; "son andà" per "sono andato"; "se savessi" in luogo di "se sapeste", non sono modi sì strani, che abbino bisogno di spiegazione, né basterebbe il Dizionario a spiegarli, ma vi
vorrebbe ancor la Grammatica. Anche l'ortografia Veneziana altera talvolta il significato, ma chi vi abbada l'intende, ed è l'ortografia regolata secondo il suono della pronuncia. Noi, per esempio, non diciamo "bello", ma "belo", non "perfetto", ma "perfeto"; e per regola generale quasi tutte le consonanti doppie da noi si pronunciano semplici. Però in alcune voci le lettere semplici da noi si raddoppiano, come in luogo di "cosa" noi diciamo "cossa", ma queste sono pochissime. I pronomi hanno qualche diversità dai Toscani: i più osservabili sono "io", che si dice "mi", "tu", che si dice "ti", "egli", che dicesi "elo". Così è osservabile nella espressione dei verbi, che tanto nel singolare, che nel plurale, si dice nella stessa maniera. Per esempio: "io andava: mi andava"; "quelli andavano: queli andava". Molto vi vorrebbe per dir tutto su tal proposito. Per ora basti così. Può essere che in altra occasione dirò qualche cosa di più.
PERSONAGGI
Canciano, cittadino Felice, moglie di Canciano Il conte Riccardo Lunardo, mercante Margarita, moglie di Lunardo in seconde nozze Lucietta, figliuola di Lunardo del primo letto Simon, mercante Marina, moglie di Simon Maurizio, cognato di Marina Filippetto, figliuolo di Maurizio
La scena si rappresenta in Venezia
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Lunardo
MARGARITA che fila. LUCIETTA che fa le calze. Ambe a sedere
LUCIETTA Siora madre. MARGARITA Fia ¹² (1) mia. LUCIETTA Deboto ¹²¹(2) xè fenìo ¹²²(3) carneval. MARGARITA Cossa diseu, che bei si, che avemo abuo ¹²³(4) ? LUCIETTA De diana! gnanca una strazza de commedia no avemo visto. MARGARITA Ve feu maraveggia per questo? Mi gnente affato. Xè deboto sedese mesi, che son maridada, m'àlo mai menà in nissun liogo vostro sior padre? LUCIETTA E sì, sàla? no vedeva l'ora, che el se tornasse a maridar. Co giera ¹²⁴(5) sola, in casa, diseva tra de mi: lo compatisso sior padre; élo no me vol menar, nol gh'ha nissun da mandarme; se el se marida, anderò co siora maregna. El s'ha tornà a maridar, ma per quel, che vedo, no ghe xè gnente né per mi, né per éla. MARGARITA El xè un orso, fia mia; nol se diverte élo, e nol vol che se divertimo gnanca nu. E sì, savè? co giera da maridar, dei si no me ne mancava. Son stada arlevada ben. Mia mare ¹²⁵(6) giera una donna sutila, e se qualcossa no ghe piaseva la saveva criar, e la saveva menar le man. Ma ai so tempi la ne dava i nostri divertimenti. Figurarse, l'autuno se andava do o tre volte al teatro; el carneval cinque o sie.¹² (7) Se qualchedun ghe dava una chiave de palco la ne menava all'opera, se no, alla comedia, e la comprava la so bona
chiave, e la spendeva i so boni bezzeti. La procurava de andar dove la saveva, che se fava¹²⁷(8) delle comedie bone, da poderghe menar de le fie, e la vegniva con nu, e se divertivimo. Andévimo, figurarse, qualche volta a Reduto; un pochetin sul Liston,¹²⁸(9) un pochetin in Piazzeta da le stròleghe, dai buratini, e un pèr de volte ai casoti. Co stevimo po in casa, gh'avevimo sempre la nostra conversazion. Vegniva i parenti, vegniva i amici, anca qualche zovene; ma no ghe giera pericolo, figurarse. LUCIETTA (“Figurarse, figurarse”; la l'ha dito fin adesso sie volte). MARGARITA No digo; che no son de quele, che ghe piasa tutto el zorno andar a torziando¹² (10) . Ma, sior sì. Qualche volta me piaserave anca a mi. LUCIETTA E mi, poverazza, che no vago mai fora della porta? E nol vol mo gnanca¹³ (11) che vaga un fi๳¹(12) al balcon? L'altro zorno me son butada cusì, un pocheto in scampar; m'ha visto quella petazza¹³²(13) della lasagnera¹³³(14) , la ghe l'ha dito, e ho credesto, che el me bastona. MARGARITA E a mi quante no me n'àlo dito per causa vostra? LUCIETTA De diana! cossa ghe fazzio? MARGARITA Vu almanco, fia mia, ve mariderè; ma mi gh'ho da star fin, che vivo. LUCIETTA La diga, siora madre, me marideròggio? MARGARITA Mi crederave de sì. LUCIETTA La diga, siora madre, e quando me marideròggio? MARGARITA Ve mariderè, figurarse, quando, che el Cielo vorà. LUCIETTA El Cielo me marideràlo, senza che mi lo sappia? MARGARITA Che spropositi! l'avè da saver anca vu. LUCIETTA Nissun gnancora m'ha dito gnente. MARGARITA Se no i ve l'ha dito, i ve lo dirà.
LUCIETTA Ghe xè gnente in cantier?¹³⁴(15) MARGARITA Ghe xè, e no ghe xè; mio mario no vol che ve diga gnente. LUCIETTA Cara éla, la diga. MARGARITA No dasseno, fia mia. LUCIETTA Cara éla, qualcossa. MARGARITA Se ve digo gnente, el me salta ai occhi co fa¹³⁵(16) un basilisco. LUCIETTA Noi lo saverà miga sior padre, se la me lo dise. MARGARITA Oh figurarse, se no lo dirè! LUCIETTA No dasseno, figurarse, che no lo digo. MARGARITA Cossa gh'intra sto “figurarse”? LUCIETTA No so gnanca mi, gh'ho sto uso, el digo, che no me n'incorzo. MARGARITA (Gh'ho in testa, che la me burla mi sta frascona). LUCIETTA La diga, siora madre. MARGARITA Animo laorè,¹³ (17) l'aveu gnancora fenìa quella calza! LUCIETTA Deboto. MARGARITA Se el vien a casa élo¹³⁷(18) , e che la calza no sia fenìa, el dirà che sè stada su per i balconi, e mi no vòi figurarse... (sia maledeto sto vizio!) LUCIETTA La varda co spessego¹³⁸(19) . La me diga qualcossa de sto novizzo.¹³ (20) MARGARITA De qual novizzo? LUCIETTA No dìxela, che me mariderò? MARGARITA Pol esser.
LUCIETTA Cara éla, se la sa qualcossa. MARGARITA No so gnente. (con un poco di collera) LUCIETTA Gnanca mo gnente, mo, gnanca mo.¹⁴ (21) MARGARITA Son stuffa. LUCIETTA Sia malignazo¹⁴¹(22) .(con rabbia) MARGARITA Coss'è sti sesti?¹⁴²(23) LUCIETTA No gh'ho nissun a sto mondo, che me voggia ben. MARGARITA Ve ne voggio anca troppo, frascona. LUCIETTA Ben da maregna¹⁴³(24) . (a mezza voce) MARGARITA Cossa aveu dito? LUCIETTA Gnente. MARGARITA Sentì, savè, no me stè a seccar, che deboto, deboto... (con isdegno) Davantazo¹⁴⁴(25) ghe ne soporto assae in sta casa. Gh'ho un mario che me rosega¹⁴⁵(26) tutto el zorno, no ghe mancarave altro, figurarse, che m'avesse da inrabiar anca per la fiastra.¹⁴ (27) LUCIETTA Mo cara siora madre la va in colera molto presto! MARGARITA (La gh'ha squasi rason. No giera cusì una volta, son deventada una bestia. No gh'è remedio; chi sta col lovo¹⁴⁷(28) impara a urlar).
SCENA SECONDA
LUNARDO e dette
LUNARDO (entra e viene bel bello, senza parlare) MARGARITA (Vèlo qua per diana). (s'alza) LUCIETTA (El vien co fa i gatti). (s'alza) Sior padre, patron. MARGARITA Sioria. No se saludemo gnanca? (a Lunardo) LUNARDO Laorè, laorè. Per farme un complimento tralassè de laorar? LUCIETTA Ho laorà fin adesso. Ho deboto fenìo la calza. MARGARITA Stago a véder, figurarse, che siémo pagae a zornada.¹⁴⁸(29) LUNARDO Vu sempre, vegnimo a dir el merito¹⁴ (30) , me dè sempre de ste risposte. LUCIETTA Mo via, caro sior padre; almanco in sti ultimi zorni de carneval, che nol staga a criar. Se no andemo in nissun logo, pazenzia; stemo in pase¹⁵ (31) almanco. MARGARITA Oh, élo no pol star un zorno senza criar. LUNARDO Sentì che strambazza? Cossa songio? un tartaro? una bestia? De cossa ve podeu lamentar? Le cosse oneste le me piase anca a mi. LUCIETTA Via donca, che el ne mena un pocheto in maschera. LUNARDO In maschera? In maschera? MARGARITA (Adesso, el va zoso).¹⁵¹(32)
LUNARDO E avè tanto muso¹⁵²(33) de dirme, che ve mena in maschera? M'aveu mai visto mi, vegnimo a dir el merito, a meterme el volto sul muso? ¹⁵³(34) Coss'èla sta maschera? Per cossa se va in maschera? No me fe parlar; le putte¹⁵⁴(35) no ha da andar in maschera. MARGARITA E le maridae? LUNARDO Gnanca le maridae, siora no, gnanca le maridae. MARGARITA E per cossa donca le altre, figurarse, ghe vàle? LUNARDO “Figurarse, figurarse”. Mi penso a casa mia, e no penso ai altri. (la burla del suo intercalare) MARGARITA Perché, “vegnimo a dir el merito”, perché sè un orso. (fa lo stesso) LUNARDO Siora Margarita, la gh'abia giudizio. MARGARITA Sior Lunardo, no la me stuzzega. LUCIETTA Mo via, sia malignazo! sempre cusì. No m'importa d'andar in maschera. Starò a casa, ma stemo in bona. LUNARDO No sentìu? Vegnimo... no sentìu? La xè éla che sempre... MARGARITA (ride) LUNARDO Ridè, patrona? MARGARITA Ve n'aveu per mal, perché rido? LUNARDO Via, vegnì qua tutte do¹⁵⁵(36) , sentì. Delle volte anca mi gh'ho qualcossa per la testa, e par, che sia fastidioso, ma ancuo¹⁵ (37) son de voggia. Semo de carneval, e vòi, che se tolemo la nostra zornada.¹⁵⁷(38) LUCIETTA Oh magari.¹⁵⁸(39) MARGARITA Via mo, sentimo. LUNARDO Sentì; voggio, che ancuo disnemo in compagnia.
LUCIETTA Dove, dove, sior padre? (con allegria) LUNARDO In casa. LUCIETTA In casa? (malinconica) LUNARDO Siora sì, in casa. Dove voressi che andessimo? all'osteria? LUCIETTA Sior no all'osteria. LUNARDO In casa de nissun mi no vago¹⁵ (40) , mi no vago, vegnimo a dir el merito, a magnar le coste a nissun. MARGARITA Via, via, no ghe tendè. Parlè con mi, figuremose, voleu invidar qualchedun? LUNARDO Siora sì. Ho invidà della zente, e i vegnirà qua, e se goderemo, e staremo ben. MARGARITA Chi aveu invidà? LUNARDO Una compagnia de galantomeni, tra i quali ghe ne xè do de maridai, e i vegnirà co le so parone,¹ (41) e staremo alliegri. LUCIETTA (Via, via gh'ho a caro). (allegra) Caro élo, chi xèli? (a Lunardo) LUNARDO Siora curiosa! MARGARITA Via, caro vecchio¹ ¹(42) , no volè che sappiemo chi ha da vegnir? LUNARDO No voleu, che vel diga? Se sa. Vegnirà sior Canzian Tartuffola, sior Maurizio dalle Strope, e sior Simon Maroele. MARGARITA Cospeto de diana! tre cai su la giusta! I avè ben trovai fora del mazzo. LUNARDO Cossa voressi dir? No i xè tre omeni co se diè?¹ ²(43) MARGARITA Sior sì. Tre salvadeghi come vu.
LUNARDO Eh, patrona, al tempo d'ancuo, vegnimo a dir el merito, a un omo, che gh'ha giudizio se ghe dise un omo salvadego. Saveu perché? Perché vualtre donne xè tropo desmesteghe. No ve contentè dell'onesto; ve piaserave i chiasseti, i pacchieti, le mode, le buffonerie, i putelezzi.¹ ³(44) A star in casa, ve par de star in preson¹ ⁴(45) . Co i abiti no costa assae, no i xè beli; co no se pratica, ve vien la malinconia, e no pensè al fin; e no gh'avè un fià de giudizio, e ascoltè chi ve mette su, e no ve fa specie sentir quel che se dise¹ ⁵(46) de tante case, de tante fameggie precipitae; chi ve dà drio¹ (47) se fa menar per lengua,¹ ⁷(48) se fa meter sui ventoli,¹ ⁸(49) e chi vol viver in casa soa con riguardo, con serietà, con reputazion, se ghe dise, vegnimo a dir el merito, seccaggine, omo rustego, omo salvadego. Pàrlio ben? Ve par che diga la verità? MARGARITA Mi no vòi contender; tutto quel, che volè. Vegnirà donca a disnar con nu siora Felice, e siora Marina. LUNARDO Siora sì. Cusì, vedeu? me piase anca mi praticar. Tutti col so matrimonio. Cusì no ghe xè sporchezzi,¹ (50) no ghe xè, vegnimo a dir el merito... Cosa steu a ascoltar? Adesso no se parla con vu. (a Lucietta) LUCIETTA Xèle cosse, che mi no possa sentir? (a Lunardo) LUNARDO (No vedo l'ora de destrigarmela).(piano a Margherita) MARGARITA (Come va quel negozio?) (piano a Lunardo) LUNARDO (Ve conterò). (piano a Margherita) Andè via de qua. (a Lucietta) LUCIETTA Cossa ghe fazzio? LUNARDO Andè via de qua. LUCIETTA De diana! el xè impastà de velen. LUNARDO Andè via, che ve dago una schiaffazza in tel muso. LUCIETTA Séntela, siora madre? MARGARITA Via, col v'ha dito, che andè, obedì. (con caldezza) LUCIETTA (Oh, se ghe fusse mia mare bona! Pazzenzia, se me vegnisse un
scoazzer¹⁷ (51) , lo torìa). (parte)
SCENA TERZA
LUNARDO e MARGARITA
MARGARITA Caro sior Lunardo, sul so viso, no ghe dago rason, ma in verità sè troppo rustego con quela puta. LUNARDO Vedeu? vu no savè gnente. Ghe voggio ben, ma la tegno in timor. MARGARITA E mai che ghe dessi un devertimento. LUNARDO Le pute le ha da star a casa, e no le se mena a torziando. MARGARITA Almanco una sera alla comedia. LUNARDO Siora no. Vòi poder dir, co la marido; tolè, sior, ve la dago, vegnimo a dir el merito, che no la s'ha mai messo maschera sul viso, che no la xè mai stada a un teatro. MARGARITA E cusì, vàlo avanti sto maridozzo?¹⁷¹(52) LUNARDO Gh'aveu dito gnente a la puta? MARGARITA Mi? Gnente. LUNARDO Vardè ben, vedè. MARGARITA No in verità, ve digo. LUNARDO Mi credo, vedè, mi credo d'averla maridada. MARGARITA Con chi? se porlo saver? LUNARDO Zito, che gnanca l'aria lo sapia. (guarda intorno) Col fio de sior Maurizio.
MARGARITA Co sior Filipetto? LUNARDO Sì, zito, no parlè. MARGARITA Zito, zito, de diana! xèlo qualche contrabando? LUNARDO No voggio, che nissun sapia i fati mi. MARGARITA Se faràlo presto? LUNARDO Presto. MARGARITA L'àlo fata domandar? LUNARDO No pensè altro. Che l'ho promessa. MARGARITA Anca promessa ghe l'avè? (con ammirazione) LUNARDO Siora sì, ve feu maraveggia? MARGARITA Senza dir gnente? LUNARDO Son paron mi. MARGARITA Cossa ghe deu de dota? LUNARDO Quelo, che voggio mi. MARGARITA Mi son una statua, donca. A mi, figurarse, no se me dise gnente. LUNARDO “Figurarse, figurarse”, no ve lo dìghio adesso? MARGARITA Sior sì, e la puta quando lo saveràla? LUNARDO Co la se sposerà. MARGARITA E no i s'ha da véder avanti? LUNARDO Siora no. MARGARITA Seu seguro, che el gh'abia da piàser?
LUNARDO Son paron mi. MARGARITA Ben ben; la xè vostra fia. Mi no me n'impazzo¹⁷²(53) ; fè pur quel che volè vu. LUNARDO Mia fia no vòi che nissun possa dir d'averla vista, e quel che la vede, l'ha da sposar. MARGARITA E se col la vede nol la volesse? LUNARDO So pare m'ha dà parola. MARGARITA Oh che bel matrimonio! LUNARDO Cossa voressi? che i fasse prima l'amor? MARGARITA I bate, i bate; vago a véder chi è. LUNARDO No ghe xè la serva? MARGARITA La xè a far i leti, anderò a véder mi. LUNARDO Siora no. No vòi, che andè sul balcon. MARGARITA Vardè che casi! LUNARDO No vòi, che gh'andè, gh'anderò mi. Comando mi, vegnimo a dir el merito, comando mi. (parte)
SCENA QUARTA
MARGARITA, poi LUNARDO
MARGARITA Mo che omo, che m'ha toccà! no gh'è el compagno sotto la capa del cielo.¹⁷³(54) E po el me stuffa con quel so “vegnimo a dir el merito”; deboto, figurarse, no lo posso più soportar. LUNARDO Saveu chi xè? MARGARITA Chi? LUNARDO Sior Maurizio. MARGARITA El pare del novizzo? LUNARDO Tasè. Giusto élo. MARGARITA Viènlo per stabilir? LUNARDO Andè de là. MARGARITA Me mandè via? LUNARDO Siora sì; andè via de qua. MARGARITA No volè, che senta? LUNARDO Siora no. MARGARITA Vardè vedè! cossa songio mi?¹⁷⁴(55) LUNARDO Son paron mi. MARGARITA No son vostra muggier?¹⁷⁵(56)
LUNARDO Andè via de qua, ve digo. MARGARITA Mo che orso che sè! LUNARDO Destrighève¹⁷ (57) MARGARITA Mo che satiro! (incaminandosi a piano) LUNARDO La fenìmio? ¹⁷⁷(58) (con isdegno) MARGARITA Mo che bestia de omo! (parte)
SCENA QUINTA
LUNARDO, poi MARGARITA
LUNARDO La xè andada. Co le bone no se fa gnente. Bisogna criar. Ghe voggio ben assae, ghe ne voggio assae; ma in casa mia no gh'è altri paroni, che mi. MAURIZIO Sior Lunardo, patron. LUNARDO Bondì siorìa, sior Maurizio. MAURIZIO Ho parlà con mio fio. LUNARDO Gh'aveu dito, che el volè maridar? MAURIZIO Ghe l'ho dito. LUNARDO Cossa dìselo? MAURIZIO El dise, che el xè contento, ma el gh'averave gusto de véderla. LUNARDO Sior no, questi no xè i nostri pati. (con isdegno) MAURIZIO Via, via, no andè in colera, che el puto farà tuto quelo che voggio mi. LUNARDO Co volè, vegnimo a dir el merito, la dota xè parecchiada. V'ho promesso sie mile ducati, e sie mile ducati ve dago. Li voleu in tanti zecchini, in tanti ducati d'arzento, o voleu, che ve li scriva in banco? comandè. MAURIZIO I bezzi mi no li voggio. O zirème un capital de zecca, o investimoli meggio che se pol. LUNARDO Sì ben; faremo tutto quel che volè.
MAURIZIO No stè a spender in abiti, che no voggio. LUNARDO Mi ve la dago, come che la xè. MAURIZIO Gh'àla roba de séa?¹⁷⁸(59) LUNARDO La gh'ha qualche strazzeto. MAURIZIO In casa mia no voggio séa. Fin che son vivo mi, l'ha da andar co la vesta de lana, e no vòi né tabarini, né scuffie, né cerchi,¹⁷ (60) né toppè, né cartoline sul fronte.¹⁸ (61) LUNARDO Bravo, sieu benedeto. Cusì me piase anca mi. Zoggie¹⁸¹(62) ghe ne feu? MAURIZIO Ghe farò i so boni manini¹⁸²(63) d'oro, e la festa ghe darò un zoggielo, che giera de mia muggier, e un per de recchineti de perle. LUNARDO Sì ben, sì ben, e no stessi a far la minchioneria, de far ligar sta roba a la moda. MAURIZIO Credeu, che sia mato? Coss'è sta moda? Le zoggie le xè sempre a la moda. Cossa se stima? i diamanti, o la ligadura? LUNARDO E pur al dì d'ancuo¹⁸³(64) , vegnimo a dir el merito, se buta via tanti bezzi in ste ligadure. MAURIZIO Sior sì; fè ligar ogni dies'anni le zoggie, in cao de cent'anni¹⁸⁴(65) l'avè comprae do volte. LUNARDO Ghe xè pochi, che pensa come che pensemo nu. MAURIZIO E ghe xè pochi, che gh'abbia dei bezzi, come che gh'avemo nu. LUNARDO I dise mo, che nu no savemo gòder. MAURIZIO Poverazzi! ghe vèdeli drento del nostro cuor? Crédeli, che no ghe sia altro mondo, che quelo, che i gode lori? Oh compare,¹⁸⁵(66) el xè un bel gusto el poder dir: gh'ho el mio bisogno, no me manca gnente, e in t'una ocorenza posso meter le man su cento zecchini!
LUNARDO Sior sì, e magnar ben, dei boni caponi, delle bone polastre, e dei boni straculi de vedèlo.¹⁸ (67) MAURIZIO E tutto bon, e a bon marcà, perché se paga de volta in volta. LUNARDO E a casa soa; senza strepiti, senza sussuri. MAURIZIO E senza nissun, che v'intriga i bisi.¹⁸⁷(68) LUNARDO E nissun sa i fati nostri. MAURIZIO E semo paroni nu. LUNARDO E la muggier no comanda. MAURIZIO E i fioi sta da fioi.¹⁸⁸(69) LUNARDO E mia fia xè arlevada cusì. MAURIZIO Anca mio fio xè una perla. No gh'è pericolo che el buta via un bagatin.¹⁸ (70) LUNARDO La mia puta sa far de tuto. In casa ho volesto, che la faza de tuto. Fina lavar i piati. MAURIZIO E a mio fio, perché no voggio, che co le serve el se ne impazza, gh'ho insegnà a tirar suso i busi delle calze, e metter i fondèli alle braghesse.¹ (71) LUNARDO Bravo. (ridendo) MAURIZIO Sì dasseno. (ridendo) LUNARDO Via fémolo sto sposalizio; destrighemose. (fregandosi le mani, e ridendo) MAURIZIO Co volè, compare. LUNARDO Ancuo v'aspetto a disnar con mi. Za savè, che ve l'ho dito. Gh'ho quatro latesini,¹ ¹(72) vegnimo a dir el merito, ma tanto fati.
MAURIZIO I magneremo. LUNARDO Se goderemo. MAURIZIO Staremo aliegri. LUNARDO E po i dirà, che semo salvadeghi! MAURIZIO Puffe! LUNARDO Martuffi! (partono)
SCENA SESTA
Camera in casa del signor Simon
MARINA e FILIPPETTO
MARINA Coss'è, nevodo¹ ²(73) ? Che miracolo, che me vegnì a trovar? FILIPPETTO Son vegnù via de mez๠³(74) , e avanti de andar a casa son vegnù un pochetin a saludarla. MARINA Bravo, Filipeto; avè fato ben. Sentève¹ ⁴(75) , voleu marendar?¹ ⁵(76) FILIPPETTO Grazie, sior'àmia.¹ (77) Bisogna che vaga a casa, ché se sior padre no me trova, povereto mi. MARINA Disèghe, che sè stà da vostra àmia Marina, cossa diràlo? FILIPPETTO Se la savesse! nol tase mai, nol me lassa mai un momento de libertà. MARINA El fa ben, da una banda. Ma da vostr'àmia el ve doverave lassar vegnir. FILIPPETTO Ghe l'ho dito; nol vol che ghe vegna. MARINA Mo el xè ben un satiro compagno de mio mario. FILIPPETTO Sior barba¹ ⁷(78) Simon, ghe xèlo in casa? MARINA Nol ghe xè, ma no pol far che el vegna. FILIPPETTO Anca élo, co el me vede, co vegno qua, el me cria.
MARINA Lassè, che el diga. La sarave bela. Sè mio nevodo. Sè fio de una mia sorela; quela poverazza xè morta, e posso dir, che no gh'ho altri a sto mondo, che vu. FILIPPETTO No vorave, che, per causa mia, el ghe criasse anca a éla. MARINA Oh per mi, fio mio, no vo tolè sto travaggio. Se el me dise tantin, mi ghe respondo tanton. Povereta mi, se no fasse cusì! Su tuto el cateria da criar. No credo, che ghe sia a sto mondo un omo più rustego de mio mario. FILIPPETTO Più de sior padre? MARINA No so, vedè, la bate là. FILIPPETTO Mai, mai, dopo che son a sto mondo, nol m'ha mai dà un minimo so. El dì da laorar¹ ⁸(79) a mezà, e a casa. La festa a far quel che va fatto, e po subito a casa. El me fa compagnar dal servitor, e ghe n'ha volesto a persuader el servitor a menarme qua stamatina. Mai una volta alla Zueca¹ (80) , mai a Castelo² (81) , mi no credo de esser à in vita mia tre o quattro volte per Piazza² ¹(82) , quel, che el fa élo, el vol che fazza anca mi. La sera fina do ore se sta in mezà, se cena, se va in leto, e bondì siorìa. MARINA Povero puto; dasseno me fè peccà. Xè vero; la zoventù, bisogna tegnirla in fren, ma el tropo xè tropo. FILIPPETTO Basta; no so, se da qua avanti l'anderà cusì. MARINA Sè in ti ani de la discrezion, el ve doverave dar un pocheto de libertà. FILIPPETTO Sàla gnente, sior'àmia? MARINA De cossa? FILIPPETTO Nol gh'ha dito gnente sior padre? MARINA Oh xè un pezzo, che no lo vedo. FILIPPETTO No la sa gnente donca. MARINA No so gnente. Cossa ghe xè de niovo?
FILIPPETTO Se ghe lo digo, ghe lo diràla a sior padre? MARINA No, non v'indubitè. FILIPPETTO La varda ben, la veda. MARINA Ve digo de no, ve digo. FILIPPETTO La senta, el me vuol maridar. MARINA Dasseno? FILIPPETTO El me l'ha dito élo. MARINA Àlo trovà la novizza? FILIPPETTO Siora sì. MARINA Chi xèla? FILIPPETTO Ghe lo dirò, ma, cara éla, la tasa. MARINA Mo via, deboto me fè rabia. Cossa credeu, che sia? FILIPPETTO La xè fia de sior Lunardo Cròzzola. MARINA Sì, sì, la cognosso. Cioè, no la cognosso éla, ma cognosso so maregna, siora Margarita Salicola, che ha sposà sior Lunardo, e el xè amigo de mio mario, un salvadego co fa élo. Mo i s'ha ben catಠ²(83) , vedè, el padre del novizzo col padre de la novizza. L'aveu vista la puta? FILIPPETTO Siora no. MARINA Avanti de serar el contrato i ve la farà véder. FILIPPETTO Mi ho paura de no. MARINA Oh bela! e se no la ve piase? FILIPPETTO Se no la me piase, mi no la togo per diana.
MARINA Sarave meggio, che la vedessi avanti. FILIPPETTO Come vorla, che fazza? MARINA Disèghelo a vostro sior padre. FILIPPETTO Ghe l'ho dito, e el m'ha dà su la ose.² ³(84) MARINA Se savesse come far, vorave farvelo mi sto servizio. FILIPPETTO Oh magari! MARINA Ma anca quel orso de sior Lunardo nol la lassa véder da nissun so fia. FILIPPETTO Se se podesse, una festa..., MARINA Zito, zito che xè qua mio mario. FILIPPETTO Vorla, che vaga via? MARINA Fermève.
SCENA SETTIMA
SIMON e detti
SIMON (Cossa falo qua sto frascon?) FILIPPETTO Patron, sior barba. SIMON Sioria. (bruscamente) MARINA Un bel acèto, che ghe fè a mio nevodo! SIMON Mi v'ho tolto co sto pato, che in casa mia parenti no ghe ne voggio. MARINA Varè!² ⁴(85) ve viènli a bater a la porta, e a domandarve qualcossa i mi parenti? No i gh'ha bisogno de vu, sior; in cao de tanto,² ⁵(86) vien mio nevodo a trovarme, e ancora me brontolè?² (87) Gnanca se fussimo taggialegni,² ⁷(88) gnanca se fussimo dalle valade. Vu sè un omo civil? Sè un tangaro, compatìme. SIMON Aveu gnancora fenìo? Stamatin no gh'ho voggia de criar. MARINA No lo podè véder mio nevodo? Cossa v'àlo fato? SIMON Nol m'ha fato gnente; ghe voggio ben; ma savè che in casa mia no gh'ho gusto, che ghe vegna nissun. FILIPPETTO Che nol se indubita, che no ghe vegnirò più. SIMON Me farè servizio. MARINA E mi vòi che el ghe vegna. SIMON E mi no vòi, che el ghe vegna. MARINA Sta sorte de cosse no me le avè da impedir.
SIMON Tuto quelo, che no me piase, ve lo posso, e ve lo voggio impedir. FILIPPETTO Patron. (in atto di partire) MARINA Aspetè. (a Filippetto) Cossa gh'aveu co sto puto? SIMON No lo voggio. MARINA Mo per cossa? SIMON Per cossa, o per gamba² ⁸(89) , no vòi nissun. FILIPPETTO Sior'àmia, la me lassa andar via. MARINA Andè, andè, nevodo. Vegnirò mi da vostro sior padre. FILIPPETTO Patrona; patron, sior barba. SIMON Sioria. FILIPPETTO (Oh, el ghe pol a mio padre, el xè più rustego diese volte). (parte)
SCENA OTTAVA
MARINA e SIMON
MARINA Vardè che sesti! cossa voleu, che el diga quel putto! SIMON Lo savè pur el mio temperamento. In casa mia voggio la mia libertà. MARINA Che intrigo ve dàvelo mio nevodo? SIMON Gnente. Ma no voggio nissun. MARINA Perché no andeu in te la vostra camera? SIMON Perché voggio star qua. MARINA In verità, che sè caro. Aveu mandà la spesa?² (90) SIMON Siora no. MARINA No se disna ancuo?²¹ (91) SIMON Siora no. (più forte) MARINA No se disna? SIMON Siora no. MARINA Ghe mancarave anca questa, che andessi in collera anca col disnar. SIMON Za, chi ve sente vu, mi son un strambo, un alocco. MARINA Ma ancuo perché no se disna? SIMON Perché avemo da andar a disnar fora de casa.
MARINA E mel disè co sta bona grazia? SIMON Me fè vegnir suso el mio mal. MARINA Caro mario, compatìme, gh'avè un natural, che de le volte fè rabia. SIMON No lo cognosseu el mio natural? Co lo cognossè, cossa feu ste scene? MARINA (Ghe vol una gran pazienzia). Dove andémio a disnar? SIMON Vegnirè con mi. MARINA Ma dove? SIMON Dove, che ve menerò mi. MARINA Per cossa no voleu, che lo sappia? SIMON Cossa importa, che lo sappiè? Co sè co vostro mario, no stè a cercar altro. MARINA In verità, me parè matto. Bisogna ben che sappia dove che s'ha da andar, come che m'ho da vestir, che zente ghe xè. Se ghe xè suggizion, no voggio miga andar a farme smatar. SIMON Dove, che vago mi sè segura, che no ghe xè suggizion. MARINA Ma con chi andémio? SIMON Vegnirè con mi. MARINA Mo la xè mo curiosa lu!²¹¹(92) SIMON Mo la xè curiosa seguro. MARINA Ho da vegnir senza saver dove? SIMON Patrona sì. MARINA Muème el nome²¹²(93) se ghe vegno.
SIMON E vu resterè a casa senza disnar. MARINA Anderò da mio cugnಹ³(94) Maurizio. SIMON Sior Maurizio vostro cugnà anderà a disnar dove che anderemo nu. MARINA Ma dove? SIMON Vegnì con mi, che lo saverè. (parte)
SCENA NONA
MARINA, poi FELICE, CANCIANO ed il conte RICCARDO
MARINA Mo caro! mo siestu benedetto! mo che bona grazia, che el gh'ha! I batte.²¹⁴(95) Oe, vardè che i batte. (alla scena) La xè una cossa da far rider i capponi. Ho d'andar a disnar fora de casa senza saver dove? Gh'averave anca voggia de andarme a devertir un pocheto, ma senza saver dove, no vago. Se savesse come far a saverlo. Oh chi xè qua? Siora Felice! Chi xè con éla? Uno xè quel scempio²¹⁵(96) de so mario. E quell'altro chi mai xèlo? Eh éla la gh'ha sempre qualchedun, che la serve. So mario xè de la taggia del mio²¹ (97) ; ma Felice no se tol suggizion; la la vol a so modo, e quel poverazzo ghe va drio,²¹⁷(98) come un can barbin. Me despiase de mio mario. Cossa diralo, se el vede tuta sta zente? Oe! che el diga quel che el vol; mi no li ho fari vegnir. Malegrazie no ghe ne vòi far. FELICE Patrona, siora Marina. MARINA Patrona, siora Felice. Patroni riveriti. CANCIANO Patrona. (malinconico) RICCARDO Servitore umilissimo della signora. (a Marina) MARINA Serva sua. Chi xèlo sto signor? (a Felice) FELICE Un conte, un cavalier forestier, un amigo de mio mario; n'è vero,²¹⁸(99) sior Cancian? CANCIANO Mi no so gnente. RICCARDO Buon amico, e buon servitore di tutti. MARINA Col xè amigo de sior Cancian, nol pol esser che una persona de merito.
CANCIANO Mi ve digo, che no so gnente. MARINA Come no saveu gnente, se el vien con vu in casa mia? CANCIANO Con mi? FELICE Mo con chi donca? Caro sior Conte, la compatissa. Semo de carneval, sàla; mio mario se deverte un pocheto. El vol far taroccar siora Marina; n'è vero, sior Cancian? CANCIANO (Bisogna che ingiotta). MARINA (Oh co furba, che xè custìa!) Vorle sentarse? Le se comoda. FELICE Sì, sentémose un pochetin. (siede) La se comoda qua, sior Conte. RICCARDO La fortuna meglio non mi potea collocare. CANCIANO E mi dove m'òi da sentar? FELICE Andè là, arente²¹ (100) siora Marina. (a Canciano) MARINA No, cara fia,²² (101) che se vien mio mario, povereta mi. (piano a Felice) FELICE Vardè là; no ghe xè de le careghe?²²¹(102) (a Canciano) CANCIANO Eh siora sì, la ringrazio. (siede in disparte) RICCARDO Amico, se volete seder qui, siete padrone; non facciamo cerimonie. Io andrò dall'altra parte presso della signora Marina. (a Canciano) MARINA Sior no, sior no, no la s'incomoda. (a Riccardo) FELICE Per cossa dìsela ste fredure? Crédela fursi, che mio mario sia zeloso? Oe, sior Cancian, defendève.²²²(103) Sentì, i ve crede zeloso. Me maraveggio de éla, sior Conte. Mio mario xè un galantomo, el sa che muggier che el gh'ha, nol patisse sti mali, e se el li patisse, ghe li farave ar. La saria bela, che una donna civil no podesse tratar onestamente un signor, una persona pulita, che vien a Venezia, per sti quatro zorni de carneval, che me xè stada raccomandada da un mio fradelo che xè a Milan! Cossa diseu, Marina, no saràvela una inciviltà? no
saràvela un'asenaria? Mio mario no xè de sto cuor, el gh'ha ambizion de farse merito, de farse onor, el gh'ha gusto che so muggier se deverta, che la fazza bona figura, che la staga in bona conversazion. N'è vero, sior Cancian? CANCIANO Siora sì. (masticando) RICCARDO Per dire la verità, io ne avea qualche dubbio; ma poiché voi mi disingannate, ed il signor Canciano il conferma, vivrò quietissimo, e mi approfitterò dell'onor di servirvi. CANCIANO (Son stà mi una bestia, a receverlo in casa la prima volta). MARINA Stàla un pezzo, sior Conte, a Venezia? RICCARDO Aveva intenzione di starci poco; ma sono tanto contento di questa bella città, che prolungherò il mio soggiorno. CANCIANO (Pussibile, che el diavolo no lo porta via?) FELICE E cusì, siora Marina, ancuo disneremo insieme. MARINA Dove? FELICE Dove? no lo savè dove? MARINA Mio mario m'ha dito qualcossa de sto disnar, ma el logo nol me l'ha dito. FELICE Da siora Margarita. MARINA Da sior Lunardo? FELICE Sì ben.²²³(104) MARINA Adesso ho capìo. Fài nozze?²²⁴(105) FELICE Che nozze? MARINA No savè gnente? FELICE Mi no. Contème.²²⁵(106)
MARINA Oh, novità grande. FELICE De chi? De Lucietta? MARINA Sì ben; ma, zito. FELICE Cara vu, contème. (si tira appresso a Marina) MARINA Sénteli?²² (107) (accennando Riccardo e Canciano) FELICE Sior Riccardo, la ghe diga qualcossa a mio mario, la ghe vaga a rente; la fazza un poco de conversazion anca con élo, el gh'ha gusto che i parla con so muggier, ma nol vol mo gnanca élo esser lassà in t'un canton. N'è vero sior Cancian? CANCIANO Eh nol s'incomoda, che no me n'importa. (a Riccardo) RICCARDO Anzi avrò piacere di discorrere col signor Canciano. Lo pregherò informarmi di alcune cose. (si accosta a Canciano) CANCIANO (El sta fresco). FELICE E cusì? (a Marina) MARINA Andè là, che sè una gran diavola. (a Felice) FELICE Se no fosse cusì, morirave etica con quel mio mario. MARINA E mi?... FELICE Disème, disème. Cossa gh'è de Lucieta? MARINA Ve dirò tuto; ma appian, che nissun ne senta. RICCARDO Signore, parmi che voi mi badiate poco. (a Canciano) CANCIANO La compatissa, gh'ho tanti intrighi per mi, che no posso tòrmene per i altri. RICCARDO Bene dunque, non v'incomoderò più. Ma quelle signore parlano segretamente fra di loro, diciamo qualche cosa; facciamo conversazion fra di
noi. CANCIANO Cossa vorla, che diga? Mi son omo de poche parole; no stago su le novità, e no amo troppo la conversazion. RICCARDO (È un bel satiro costui). FELICE Nol l'ha vista? (a Marina) MARINA No, e no i vol, che el la veda. FELICE Mo questo el xè un gran codogno.²²⁷(108) MARINA Se savessi? pagheria qualcossa de belo che el la vedesse, avanti de serar el contrato.²²⁸(109) FELICE In casa nol ghe pol andar? MARINA Oh gnanca per insonio.²² (110) FELICE No se poderia co l'occasion de le maschere?... MARINA Disè appian, che i ne sente. FELICE Via, che i tenda²³ (111) ai fati soi. Che no i staga a spionar; che i parla, che parlemo anca nu. (a Riccardo) Sentì cossa, che me vien in testa. (a Marina, e si parlano piano) RICCARDO Dove si va questa sera? CANCIANO A casa. RICCARDO E la signora? CANCIANO A casa. RICCARDO Fate conversazione? CANCIANO Sior sì. In letto. RICCARDO In letto? A che ora?
CANCIANO A do ore.²³¹(112) RICCARDO Eh, mi burlate. CANCIANO Sì anca da so servitor. RICCARDO (Sono male impicciato, per quel, ch'io vedo). FELICE Cossa diseu? ve piàsela? (a Marina) MARINA Sì ben; cusì andarave pulito. Ma no so come far a parlar con mio nevodo. Se el mando a chiamar, mio mario va in bestia. FELICE Mandèghe a dir, che el vegna da mi. MARINA E so pare? FELICE No valo anca élo a disnar da sior Lunardo? Col xè fora de casa, che el vegna; lassème el travaggio a mi.²³²(113) MARINA E po?²³³(114) ... FELICE E po, e po! dopo el Po vien l'Adese²³⁴(115) . Lassème far a mi, ve digo. MARINA Adessadesso lo mando a avisar. FELICE Coss'è, seu mutti? (a Riccardo e Canciano) RICCARDO Il signor Canciano non ha volontà di parlare. FELICE Gramazzo! el gh'averà qualcossa per la testa. El xè pien d'interessi: el xè un omo de garbo, sàla, mio mario. RICCARDO Dubito stia poco bene. FELICE Dasseno? Oh povereta mi; me despiaserave assae. Cossa gh'aveu, sior Cancian? CANCIANO Niente. FELICE Per cossa dìselo, che el gh'ha mal? (a Riccardo)
RICCARDO Perché ha detto, che vuol andar a dormire a due ore di notte. FELICE Dasseno? Fè ben a governarve, fio mio. (a Canciano) CANCIANO Ma ghe vegnirè anca vu. FELICE Oh, aponto, no v'arecordè, che avemo da andar a l'opera? CANCIANO A l'opera mi no ghe vago. FELICE Come? Questa è la chiave del palco; me l'avè pur comprada vu. (a Canciano) CANCIANO L'ho comprada... l'ho comprada, perché m'avè incinganà; ma a l'opera mi no ghe vago, e no gh'avè d'andar gnanca vu. FELICE Oh caro! el burla sàla? El burla, savè, Marina? El mio caro mario me vol tanto ben, el m'ha comprà el palco, e el vegnirà a l'opera con mi: n'è vero fio? (Senti sa, no me far el mato, che povereto ti). (piano a Canciano) MARINA (O che gaìna²³⁵(116) !) FELICE Vorla restar servida con mi? Ghe xè logo in tel palco: n'è vero, sior Cancian? (a Riccardo) CANCIANO (Siestu maledeta! La me fa far tuto quel che la vol).
SCENA DECIMA
SIMON e detti
SIMON Marina. (bruscamente) MARINA Sior. SIMON (Cossa xè sto baccan? Cossa vorli qua? Chi xèlo colù?) (accenna a Riccardo) FELICE Oh, sior Simon, la reverisso. SIMON Patrona. (a Felice) Ah? (a Marina) FELICE Semo vegnui a farve una visita. SIMON A chi? FELICE A vu. N'è vero, sior Cancian? CANCIANO Siora sì. (a mezza bocca) SIMON Andè via de qua, vu. (a Marina) MARINA Volè, che usa una mala creanza? SIMON Lassème el pensier a mi; andè via de qua. FELICE Via, Marina, obedìlo vostro mario: anca mi, vedè, co sior Cancian me dise una cossa, la fazzo subito. MARINA Brava, brava, ho capìo. Patroni. RICCARDO Umilissima riverenza. (a Marina)
SIMON Patron. (ironico al Conte) MARINA Serva sua. (fa la riverenza al Conte) SIMON Patrona. (contrafà la riverenza) MARINA (Taso, perché, perché: ma sta vita no la voggio far). (parte) SIMON Chi èlo sto sior? (a Felice) FELICE Domandèghelo a mio mario. RICCARDO Se volete saper chi sono, ve lo dirò io, senza, che fatichiate, per domandarlo. Io sono il conte Riccardo degli Arcolai, cavaliere d'Abruzzo; son amico del signor Canciano, e buon servidore della signora Felice. SIMON E vu lassè praticar vostra muggier co sta sorte de cai?²³ (117) (a Canciano) CANCIANO Cossa voleu, che fazza? SIMON Puffeta!²³⁷(118) (parte) FELICE Vedeu, che bella creanza, che el gh'ha? El n'ha impiantà qua senza dir sioria bestia. Védela, sior Conte la differenza? Mio mario xè un omo civil; nol xè capace de un'azion de sta sorte. Me despiase, che a disnar con nu ancuo no la podemo menar. Ma ghe dirò po mi un no so che per dopo disnar, e sta sera anderemo a l'opera insieme. N'è vero, sior Cancian? CANCIANO Ma mi ve digo... FELICE Eh via vegnì qua, sior pampalugo²³⁸(119) . (prende per un braccio Canciano, per l'altro Riccardo, e partono)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Lunardo
MARGARITA vestita con proprietà, e LUCIETTA
LUCIETTA Brava, siora madre. Mo co pulito, che la s'ha vestìo. MARGARITA Cossa voleu, cara fia? Se vien sta zente ancuo, voleu, che staga, figurarse, co fa una massèra? LUCIETTA E mi, che figura vorla che fazza? MARGARITA Vu da puta stè ben. LUCIETTA Eh sì sì, stago ben! Co no son amalada, stago ben. MARGARITA Mi no so cossa dir, cara fia. Se podesse, me piaserave anca a mi che gh'avessi el vostro bisogno; ma savè chi xè vostro pare. Con élo no se pol parlar. Se ghe digo de farve qualcossa, el me salta a i occhi. El dise, che le pute le ha da andar desmesse²³ (1) ; el me sa dir, che ve meto su²⁴ (2) ; e mi, per no sentir a criar, no me n'impazzo; lasso, che el fazza élo. Finalmente no sè mia fia, no me posso tòr certe boniman.²⁴¹(3) LUCIETTA Eh lo so, lo so, che no son so fia. (mortificata) MARGARITA Cossa voressi dir? No ve voggio ben fursi?²⁴²(4) LUCIETTA Siora sì, la me ne vol; ma no la se scalda gnente per mi. Se fusse so fia, co²⁴³(5) vien zente de suggizion, no la lasserave miga che stasse co la traversa²⁴⁴(6) davanti. MARGARITA Via, cavèvela la traversa.
LUCIETTA E po, co me l'averò cavada? MARGARITA Co ve l'averà cavada, figurarse, no la gh'averè più. LUCIETTA Eh za! crédela, che no sappia, che la me burla? MARGARITA Me fè da rider. Cossa voressi? LUCIETTA Vorave anca mi comparir cofà²⁴⁵(7) le altre. MARGARITA Disèghelo a vostro padre. Voleu, che manda a chiamar un sartor in scondon²⁴ (8) , e che ve fazza un abito? E po? xèlo orbo sior Lunardo? Credeu, figurarse, che nol ve l'abia da véder? LUCIETTA Mi no digo un abito; ma qualcossa almanco. La varda; no gh'ho gnanca un fià de cascate²⁴⁷(9) . Gh'ho sto strazzo de goliè da colo, che me vergogno. E xè antigo cofà mia nona. Per casa co sto abito no stago mal; ma ghe voria, cusì, qualcossa, che paresse bon. Son zovene, e no son mo gnanca una pitocca, me par che qualche bagatela no la me desdiga.²⁴⁸(10) MARGARITA Aspetè. Se volè un pèr de cascate, ve le darò mi de le mie. Voleu una colana de perle? LUCIETTA Magari. MARGARITA Adesso ve la vago a tòr. (Poverazza! la compatisso. Nu altre donne, figurarse, semo tute cusì). (parte)
SCENA SECONDA
LUCIETTA e detta.
LUCIETTA Vardè! la dise, che mio sior padre no vol. Credo, che la sia éla mi, che no voggia. Xè vero, che sior padre xè un omo rustego, e che in casa nol vol certe bele cosse, ma éla però la s'ha savesto vestir, e co la vol un abito, la se lo fa, e la lassa che el diga. Ma per mi, poverazza, no se ghe pensa. Maregna²⁴ (11) , basta cussì. E po la cognosso, la gh'ha rabbia con mi, perché son più zovene, e più bela de éla. In casa ghe fazzo fastidio. La me dise fia co la boca streta; co ghe digo siora madre, la gh'ha paura che ghe fazza crescer i ani. MARGARITA Via, cavève quela traversa. LUCIETTA Siora sì, subito. (si cava il grembiale) MARGARITA Vegnì qua, che ve meterò le cascate. LUCIETTA Cara éla, la lassa véder. MARGARITA Vardè; le xè squasi nòve. LUCIETTA Cossa vorla, che fazza de sti scovoli²⁵ (12) da lavar i piati? MARGARITA Scovoli ghe disè? Un pèr de cascate de cambrada, che no le ho doperae quatro volte? LUCIETTA No la vede co fiappe²⁵¹(13) che le xè? MARGARITA Vardè, che desgrazia! certo, che i ve vegnirà a vardar le cascate, se le xè de lissìa.²⁵²(14) LUCIETTA Le soe però le xè nete. MARGARITA Che cara siora! vo voressi meter co mi? Queste xè le cascate: se le volè, metèvele; se ghe ne volè de meggio, catèvene.
LUCIETTA Via, no la vaga in colera, che me le meterò. MARGARITA Vegnì qua. Za, co ste spuzzete²⁵³(15) , più che se fa, se fa pezo. (mettendole le cascate) LUCIETTA Certo! la fa assae per mi. (accomodandosi le cascate) MARGARITA Fazzo più de quel che me tocca. (come sopra) LUCIETTA Cara éla, che no la se struppia. (come sopra) MARGARITA Sè ben insolente sta matina. (come sopra, tirandola) LUCIETTA Mo via, no la me staga a strascinar, che no son miga una bestia. MARGARITA No, no, no v'indubitè, che no ve vegnirò più intorno. Sè tropo delicata, siora. Fève servir da la serva, che con vu no me ne voggio impazzar. LUCIETTA Gh'àla le perle? MARGARITA No so gnente: no voggio più mustazzae.²⁵⁴(16) LUCIETTA Via mo; cara éla. MARGARITA Mata inspiritada, che son, a deventar mata co sta frascona. LUCIETTA (piange, e si asciuga col fazzoletto) MARGARITA Coss'è stà? cossa gh'aveu? LUCIETTA (piange) MARGARITA Pianzè? cossa v'òggio fato? LUCIETTA La m'ha dito... de darme... una colana de perle... e no la me la vol... più dar. (piangendo) MARGARITA Mo se me fè andar in colera. LUCIETTA Me la dàla?
MARGARITA Via, vegnì qua. (le vuol mettere la collana) LUCIETTA La lassa véder. MARGARITA Trovereu da dir anca in questo? Lassè, lassè, che ve la zola.²⁵⁵(17) LUCIETTA La sarà qualche antigaggia.²⁵ (18) (piano, brontolando) MARGARITA Cossa diseu? (allacciando la collana) LUCIETTA Gnente. MARGARITA Sempre brontolè. (come sopra) LUCIETTA La varda; una perla rota. (si trova una perla rotta in seno) MARGARITA E cusì? cossa importa? Slarghèle un pochetin.²⁵⁷(19) LUCIETTA Xèle tute rote? MARGARITA Deboto me faressi dir... LUCIETTA Quanti ani gh'àla sta colana? MARGARITA Voleu zogar²⁵⁸(20) , che ve la cavo, e la porto via? LUCIETTA De diana! sempre la cria. MARGARITA Mo se no ve contentè mai. LUCIETTA Staghio ben? MARGARITA Stè benissimo. LUCIETTA Me fàla ben al viso? MARGARITA Pulito, ve digo, pulito. (La gh'ha un'ambizion maledetonazza²⁵ (21) ). LUCIETTA (No ghe credo gnente, me vòi vardar² (22) ). (tira fuori di tasca
uno specchietto) MARGARITA El specchio gh'avè in scarsela² ¹(23) ? LUCIETTA Oh el xè un strazzetto² ²(24) . MARGARITA Se vostro sior padre ve lo vede! LUCIETTA Via, no la ghe lo staga a dir. MARGARITA Vèlo qua, vedè, che el vien. LUCIETTA Sia malignazo! No m'ho gnanca podesto véder ben. (mette via lo specchio)
SCENA TERZA
LUNARDO e dette
LUNARDO Coss'è, siora? andeu al festin? (a Margarita) MARGARITA Tolè. Vèlo qua. Me vesto una volta a l'anno, e el brontola. Aveu paura, figurarse, che ve manda in mal'ora? LUNARDO Mi no m'importa, che fruessi² ³(25) , vegnimo a dir el merito, anca un abito a la setimana. Grazie al Cielo, no son de quei omeni che patissa la spienza² ⁴(26) . Cento ducati li posso spender. Ma no in ste buffonarie; cossa voleu che diga quei galantomeni, che vien da mi? Che sè la piavola de Franza² ⁵(27) . No me vòi far smatar. LUCIETTA (Gh'ho gusto in verità, che el ghe diga roba² (28) ). MARGARITA Come credeu, che vegnirà vestìe quelle altre? Co una scarpa, e un zoccolo? LUNARDO Lassè, che le vegna come che le vol. In casa mia no s'ha mai praticà de ste cargadure, e no vòi scomenzar, e no me vòi far meter sui ventoli. M'aveu capìo? LUCIETTA Dasseno, sior padre, ghe l'ho dito anca mi. LUNARDO Senti sa, no tòr esempio da éla... Coss'è quela roba? Cossa xè quei diavolezzi, che ti gh'ha al colo? (a Lucietta) LUCIETTA Eh gnente, sior padre. Una strazzaria, un'antigaggia. LUNARDO Càvete quele perle. MARGARITA Dasseno, sior Lunardo, che ghe l'ho dito anca mi. LUCIETTA Via, caro élo, semo de carneval.
LUNARDO Cossa s'intende? che siè in maschera? No voggio sti putelezzi. Ancuo vien zente; se i ve vede, no voggio, che i diga, che la fia xè mata, e che el pare no gh'ha giudizio. Dà qua quele perle. (va per levarle, ella si difende) Cossa xè quei sbrindoli² ⁷(29) . Cascate, patrona? cascate? Chi v'ha dà quei sporchezzi? ² ⁸(30) LUCIETTA Me l'ha dae siora madre. LUNARDO Dona mata! cusì pulito arlevè mia fia? (a Margarita) MARGARITA Se no la contento, la dise che la odio, che no ghe vòi ben. LUNARDO Da quando in qua ve xè vegnù in testa sti grili? LUCIETTA L'ho vista éla vestìa, me xè vegnù voggia anca a mi. (a Margarita) LUNARDO Sentìu? Questa xè la rason del cativo esempio. MARGARITA Ela xè pura, e mi son maridada. LUNARDO Le maridae ha da dar bon esempio a le pute. MARGARITA Mi no m'ho maridà, figurarse, per vegnir a deventar mata co i vostri fioi. LUNARDO Né mi v'ho tolto, vegnimo a dir el merito, acciò, che vegnì a discreditar la mia casa. MARGARITA Ve fazzo onor più de quelo, che meritè. LUNARDO Anemo, andève subito a despoggiar. (a Margherita) MARGARITA No ve dago sto gusto gnanca se me copè. LUNARDO E vu no vegnirè a tola. MARGARITA No ghe penso né bezzo, né bagatin. LUCIETTA E mi, sior padre, vegniroggio a tola? LUNARDO Càvete quelle strazzarie.
LUCIETTA Sior sì, co nol vol altro che el toga. Mi son ubidiente. La varda che roba: gnanca vergogna che me le meta. (si cava le perle e cascate) LUNARDO Vedeu? Se cognosse che la xè ben arlevada. Eh la mia prima muggier povereta! quela giera una donna de sesto² (31) . No la se meteva un galan²⁷ (22) senza dirmelo; e co mi no voleva, giera fenìo, no ghe giera altre risposte. Siestu benedeta dove che ti xè²⁷¹(23) . Mato inspirità, che son stà mi a tornarme a maridar. MARGARITA Mi mi ho fato un bon negozio a tòr un satiro per mario. LUNARDO Povera grama! ve manca el vostro bisogno? no gh'avè da magnar? MARGARITA Certo! una dona co la gh'ha da magnar, no ghe manca altro! LUNARDO Cossa ve manca? MARGARITA Caro vu, no me fè parlar. LUCIETTA Sior padre. LUNARDO Cossa gh'è? LUCIETTA No me meterò più gnente, senza dirghelo sàlo? LUNARDO Ti farà ben. LUCIETTA Gnanca se me lo dirà siora madre. MARGARITA Eh mozzina! se cognossemo. Sul so viso, figurarse, tegnì da élo, e po da drio le spale tirè zoso a campane doppie. LUCIETTA Mi, siora? LUNARDO Tasè là. (a Lucietta) LUCIETTA La dise delle busie²⁷²(24) . (a Lunardo) MARGARITA Sentìu come che la parla? (a Lunardo) LUNARDO Tasè là ve digo. Co la maregna no se parla cusì. Gh'avè da portar
respeto; l'avè da tegnir in conto de mare. LUCIETTA De mi no la se pol lamentar. (a Lunardo) MARGARITA E mi... (a Lunardo) LUNARDO E vu, vegnimo a dir el merito, despoggiève, che farè meggio. MARGARITA Diseu dasseno? LUNARDO Digo dasseno. LUCIETTA (Oh magari!) MARGARITA Son capace de strazzarlo sto abito in cento tocchi. LUNARDO Animo scomenzè, che ve aggiuterò. LUCIETTA Sior padre, vien zente. LUNARDO Aseni! i averze senza dir gnente? Andè via de qua. LUCIETTA Mo per cossa? LUNARDO Andève a despoggiar. (a Margarita) MARGARITA Cossa voleu, che i diga? LUNARDO Cospeto, e tacca via!²⁷³(25)
SCENA QUARTA
SIMON, MARINA e detti.
MARINA Patrona, siora Margarita. MARGARITA Patrona, siora Marina.²⁷⁴(26) LUCIETTA Patrona. MARINA Patrona, fia, patrona. MARGARITA Sior Simon, patron. SIMON Patrona. (ruvido) MARINA Sior Lunardo, gnanca? Pazenzia. LUNARDO La reverisso. (Cavève²⁷⁵(27) ). (a Lucietta) LUCIETTA (Gnanca se i me coppa no vago via). SIMON Semo qua, sior Lunardo, a ricever le vostre grazie. LUNARDO (Quela mata de mia muggier, ancuo la me vol far magnar tanto velen). SIMON Mio cugnà Maurizio nol xè gnancora vegnù. (a Lunardo) LUNARDO (Figurève cossa che el dirà sior Simon in tel so cuor, a véder sta cargadura²⁷ (28) de mia muggier). MARINA (Vardè che bel sesto! nol ve bada gnanca). (a Simon) SIMON Tasè là, va; cossa gh'intreu? (a Marina)
MARINA Cara quela grazieta! (a Simon) MARGARITA Via, siora Marina, la se cava zoso. MARINA Volentiera. (vuole spuntarsi il zendale) LUNARDO Andè de là, siora, a cavarghe la vesta, e el zendà. (con rabbia a Margarita) MARGARITA Via, via, figurarse, no me magnè. Andemo, siora Marina. LUNARDO E despoggiève anca vu. (a Margarita) MARGARITA Anca mi m'ho da despoggiar? Cosa dìsela, siora Marina? El vol, che me despoggia. Xèlo belo mio mario? (ridendo) MARINA De mi no la gh'ha d'aver suggizion. (a Margarita) LUNARDO Sentìu? che bisogno ghe giera, vegnimo a dir el merito, che ve vestissi in andriè? (a Margarita) MARGARITA Che caro sior Lunardo! e éla, figurarse, come xèla vestìa? LUNARDO Éla xè fora de casa, e vu sè in casa. SIMON Anca mi ho combatù do ore co sta mata. La s'ha volesto vestir a so modo. (a Lunardo) Mandè a casa a tòr el vostro cotuss.²⁷⁷(29) (a Marina) MARINA Figurève se mando! MARGARITA Andémo, andémo, siora Marina. MARINA Vardè! gnanca se fussimo vestìe de ganzo²⁷⁸(30) ! MARGARITA I xè cusì. Se gh'ha la roba, e no i vol che la se dopera. MARINA I vederà siora Felice, come che la xè vestìa. MARGARITA L'aveu vista? MARINA La xè stada da mi.
MARGARITA Come gièrela, cara va? MARINA Oe, in tabarin. (con esclamazione) MARGARITA In tabarin? MARINA E co pulito! MARGARITA Sentìu, sior Lunardo? Siora Felice, figurarse, la xè in tabarin. LUNARDO Mi no intro in ti fati dei altri. Ve digo a vu, vegnimo a dir el merito, che la xè una vergogna. MARGARITA Che abito gh'avévela? (a Marina) MARINA Arzento a sguazzo.²⁷ (31) MARGARITA Sentìu? Siora Felice gh'ha l'abito co l'arzento, e vu criè perché gh'ho sto strazzeto de séa²⁸ (64) ? (a Lunardo) LUNARDO Cavèvelo, ve digo. MARGARITA Sè ben minchion, se el credè. Andémo, andémo siora Marina. Se ghe tendessimo a lori²⁸¹(65) , i ne meterave i moccoli drio²⁸²(66) . Se poderessimo ficcar in canèo²⁸³(67) . Della roba ghe n'ho, e fin che son zovene me la voggio gòder. (a Marina) Ma no gh'è altro; cusì la xè. (a Lunardo, e parte) LUNARDO Custìa la me vol tirar a cimento MARINA Caro sior Lunardo, bisogna compatirla. La xè ambiziosa; certo che no ghe giera bisogno, che per casa la mostrasse sta affetazion, ma la xè zovene: no la gh'ha gnancora el so bon intendacchio.²⁸⁴(68) SIMON Tasè là. Vardève vu, siora petegola. MARINA Se no portasse respeto dove che son... SIMON Cossa diressi? MARINA Ve diria di chi v'ha nanìo²⁸⁵(67) . (Orso del diavolo). (parte)
SCENA QUINTA
LUNARDO e SIMON
SIMON Maridève, che gh'averè de sti gusti. LUNARDO Ve recordeu de la prima muggier? Quella giera una bona creatura; ma questa la xè un muschieto! (a Simon) SIMON Ma mi, mato bestia, che le donne no le ho mai podeste soffrir, e po son andà a ingambararme co sto diavolo descaenà. LUNARDO Al dì d'ancuo no se se pol più maridar. SIMON Se se vol tegnir la muggier in dover, se xè salvadeghi; se la se lassa far, se xè alocchi. LUNARDO Se no giera per quella puta che gh'ho, ve protesto da galantomo, vegnimo a dir el merito, che no m'intrigava con altre donne. SIMON Me xè stà dito, che la maridè; xe vero? LUNARDO Chi ve l'ha dito? (con isdegno) SIMON Mia muggier. LUNARDO Come l'ala savesto? (con isdegno) SIMON Credo, che ghe l'abia dito so nevodo. LUNARDO Felipeto? SIMON Sì, Felipeto. LUNARDO Frascon, petegolo; babuin! So pare ghe l'ha confidà, e lu subito el lo xè andà a squaquarar? Conosso, che nol xè quel puto, che credeva, che el
fusse. Son squasi pentìo d'averla promessa, e ghe mancherave poco, vegnimo a dir el merito, che no strazzasse el contrato. SIMON Ve n'aveu per mal, perché el ghe l'ha dito a so àmia? LUNARDO Sior sì; chi no sa tàser, no gh'ha prudenza, e chi no gh'ha prudenza, no xè omo da maridar. SIMON Gh'avè rason, caro vecchio; ma al dì d'ancuo no ghe ne xè più de quei zoveni del nostro tempo. V'arecordeu? No se fava né più, né manco de quel che voleva nostro sior pare. LUNARDO Mi gh'aveva do sorele maridae: no credo averle viste diese²⁸ (68) volte in tempo de vita mia. SIMON Mi no parlava squasi mai gnanca co mia siora mare. LUNARDO Mi al dì d'ancuo no so cossa che sia un'opera, una comedia. SIMON Mi i m'ha menà una sera per forza all'opera, e ho sempre dormìo. LUNARDO Mio pare, co giera zovene, el me diseva: Vustu véder el Mondo niovo²⁸⁷(69) ? o vusto, che te daga do soldi? Mi me taccava ai do soldi. SIMON E mi? sunava le boneman²⁸⁸(70) , e qualche soldeto, che ghe bruscava²⁸ (71) , e ho fato cento ducati, e i ho investii al quatro per cento, e gh'ho quattro ducati de più d'intrada; e co i scuodo² (72) gh'ho un gusto cusì grando, che no ve posso fenir de dir. No miga per l'avarizia dei quatro ducati, ma gh'ho gusto de poder dir: tolè; questi me li ho vadagnai da putelo. LUNARDO Trovèghene uno ancuo, che fazza cusì. I li buta via, vegnimo a dir el merito, a palae² ¹(73) SIMON E pazenzia i bezzi, che i buta via. Xè che i se precipita in cento maniere. LUNARDO E tuto xè causa la libertà. SIMON Sior sì, co i se sa meter le braghesse² ²(72) da so posta, subito i scomenza a praticar.
LUNARDO E saveu chi ghe insegna? So mare. SIMON No me disè altro: ho sentìo cosse, che me fa drezzar i cavei. LUNARDO Sior sì; cusì le dise: Povero putelo! che el se deverta, povereto! voleu, che el mora da malinconia? Co vien zente, le lo chiama: Vien qua, fio mio; la varda, siora Lugrezia, ste care raìse² ³(73) , no fàlo vogia?² ⁴(74) Se la savesse co spiritoso, che el xè! Cànteghe quella canzoneta: dighe quela bela scena de Trufaldin. No digo per dir, ma el sa far de tuto; el bala, el zoga a le carte, el fa dei soneti; el gh'ha la morosa, sàla? El dise, che el se vol maridar. El xè un poco insolente, ma pazenzia, el xè ancora putelo, el farà giudizio. Caro colù; vien qua vita mia; dàghe un baso a siora Lugrezia... Via; sporchezzi; vergogna; donne senza giudizio. SIMON Cossa che pagherave, che ghe fusse qua a sentirve sete o oto de quele donne, che cognosso mi. LUNARDO Cospeto de diana! le me sgrafarave i occhi. SIMON Ho paura de sì; e cussì, disème: aveu serà el contrato co sior Maurizio? LUNARDO Vegnì in mezಠ⁵(75) da mi, che ve conterò tuto. SIMON Mia muggier sarà de là co la vostra. LUNARDO No voleu? SIMON No ghe sarà nissun m'imagino. LUNARDO In casa mia? no vien nissun senza che mi lo sappia. SIMON Se savessi! da mi stamatina... basta, no digo altro. LUNARDO Contème... cossa xè stà? SIMON Andémo, andémo; ve conterò. Donne, donne, e po donne. LUNARDO Chi dise donna, vegnimo a dir el merito, dise danno. SIMON Bravo da galantomo. (ridendo ed abbracciando Lunardo)
LUNARDO E pur, se ho da dir la verità, no le m'ha despiasso. SIMON Gnanca a mi veramente. LUNARDO Ma in casa. SIMON E soli. LUNARDO E co le porte serae. SIMON E co i balboni inchiodai. LUNARDO E tegnirle basse. SIMON E farle far a nostro modo. LUNARDO E chi xè omeni, ha da far cusì. (parte) SIMON E chi no fa cusì no xè omeni. (parte)
SCENA SESTA
Altra camera
MARGARITA e MARINA
MARINA Fème a mi sto servizio. Chiamè Lucieta, e disémoghe qualcossa de sto so novizzo. Consolémola, e sentimo cossa, che la sa dir. MARGARITA Credème, siora Marina, che no la lo merita. MARINA Mo perché? MARGARITA Perché la xè una frascona. Procuro per tuti i versi de contentarla, e la xè con mi, figurarse, ingrata, altiera, e sofistica al mazor segno. MARINA Cara fia, bisogna compatir la zoventù. MARGARITA Cossa credeu? che la sia una putela? MARINA Quanti anni gh'averàla? MARGARITA Mo la gh'averà i so disdot'ani fenii lu. MARINA Eh via!² (76) MARGARITA Sì! da quella che son. MARINA E mio nevodo ghe n'ha vinti deboto. MARGARITA Per età i va pulito. MARINA Disè mo anca, che el xè un bon puto.
MARGARITA Se ho da dir la verità, gnanca Lucieta no xè cativa; ma cusì; la va a lune. De le volte la me strucola de carezze,² ⁷(77) e de le volte la me fa inrabiar. MARINA I xè i so anni, fia mia. Credèmelo, che me recordo giusto come se fusse adesso: anca mi fava cusì con mia siora madre. MARGARITA Ma gh'è diferenza, vedeu? Una mare pol soportar, ma a mi no la me xè gnente. MARINA La xè de vostro mario. MARGARITA Giusto élo me fa ar la vogia de torme qualche pensier; perché se la contento, el cria; se no la contento, el brontola. In verità no so più quala far. MARINA Fè de tuto, che la se destriga. MARGARITA Magari doman. MARINA No xèli in contrato? MARGARITA No gh'è miga fondamento in sti omeni: i se pente da un momento a l'altro. MARINA E pur mi ghe scometeria qualcossa, che ancuo se stabilisse ste nozze. MARGARITA Ancuo? per cossa? MARINA So che sior Lunardo ha invidà a disnar anca mio cugnà Maurizio. No i xè soliti a far sti invidi; vederè quel che digo mi. MARGARITA Pol esser; ma me par impussibile, che no i diga gnente a la puta. MARINA No saveu, che zente, che i xè? I è capaci de dirghe dal dito al fato. Tocchève la man, e bondì sioria. MARGARITA E se la puta disesse de no? MARINA Per questo xè megio che l'avisemo.
MARGARITA Voleu, che la vaga a chiamar? MARINA Se ve par che sia ben, chiamémola. MARGARITA Cara fia, me reporto a vu. MARINA Eh cara siora Margarita; in materia de prudenza no ghe xè una par vostro. MARGARITA Vago, e vegno. (parte) MARINA Povera puta! lassarghe vegnir l'acqua adosso cusì! sta so maregna no la gh'ha un fiಠ⁸(78) de giudizio.
SCENA SETTIMA
MARGARITA, LUCIETTA e MARINA
MARGARITA Vegnì qua, fia, che siora Marina ve vol parlar. LUCIETTA La compatissa, sàla, se no son vegnua avanti, perché, se la savesse, ho sempre paura de falar. In sta casa i cata da dir sun tuto. MARINA Xè vero; vostro sior padre xè un poco tropo sutilo; ma consolève, che gh'avè una maregna, che ve vol ben. LUCIETTA Siora sì. (le fa cenno col gomito, che non è vero) MARINA (Figurarse. Se gh'avesse una fiastra, anca mi farave l'istesso). MARGARITA (Ghe voggio ben, ma no vedo l'ora, che la me vaga fora dai occhi). LUCIETTA E cusì, siora Marina, cossa gh'àla da dirme? MARINA Siora Margarita. MARGARITA Fia mia. MARINA Disèghe vu qualcossa. MARGARITA Mi ve lasso parlar a vu. LUCIETTA Povereta mi! de ben, o de mal? MARINA Oh de ben, de ben. LUCIETTA Mo via donca, che no la me fazza più sgangolir² (79) MARINA Me consolo con vu, Lucieta.
LUCIETTA De cossa? MARINA Che ghe lo diga? (a Margarita) MARGARITA Via, tanto fa,³ (80) disèghelo. (a Marina) MARINA Me consolo, che sè novizza. (a Lucietta) LUCIETTA Oh giusto! (mortificandosi) MARINA Vardè! no lo credè? LUCIETTA Mi no, la veda. (come sopra) MARINA Domandèghelo. (accennando Margarita) LUCIETTA Xèla la verità, siora madre? MARGARITA Per quel che i dise. LUCIETTA Oh! no ghe xè gnente de seguro?³ ¹(81) MARINA Mi credo, che sia sicurissimo. LUCIETTA Oh, la burla, siora Marina. MARINA Burlo? so anca chi xè el vostro novizzo. LUCIETTA Dasseno? Chi xèlo? MARINA No savè gnente vu? LUCIETTA Mi no la veda. El me par un insonio.³ ²(82) MARINA Lo spiegheressi volentiera sto insonio?³ ³(83) LUCIETTA No vorla?³ ⁴(84) MARGARITA Pol esser, che ve tocca la grazia. LUCIETTA Magari. Xèlo zovene? (a Marina)
MARINA Figurève, in circa della vostra età. LUCIETTA Xèlo belo? MARINA Più tosto. LUCIETTA (Siestu benedetto!) MARGARITA La s'ha mo messo, figurarse, in t'un boccon de gringola.³ ⁵(85) LUCIETTA Mo via no la me mortifica. Par, che ghe despiasa. (a Margarita) MARGARITA Oh v'inganè. Per mi piutosto stassera, che doman. LUCIETTA Eh lo so el perché. MARGARITA Disè mo. LUCIETTA Lo so, lo so, che no la me pol più véder. MARGARITA Sentìu, che bella maniera de parlar? (a Marina) MARINA Via, via, care creature, butè a monte.³ (86) LUCIETTA La diga: cossa gh'àlo nome? (a Marina) MARINA Filipetto. LUCIETTA Oh che bel nome! xèlo civil? MARINA El xè mio nevodo. LUCIETTA Oh sior'àmia!³ ⁷(87) gh'ho tanto a caro, sior'àmia, sia benedeto, sior'àmia. (con allegria bacia Marina) MARGARITA Vardè, che stomeghezzi.³ ⁸(88) LUCIETTA Cara siora, la tasa, che l'averà fato pezo de mi. MARGARITA Certo, per quela bela zoggia, che m'ha toccà.³ (89)
MARINA Dixè, fia mia. L'aveu mai visto? (a Lucietta) LUCIETTA Oh povereta mi! quando? dove? Se qua no ghe vien mai un can, se no vago mai in nissun liogo. MARINA Se lo vederè el ve piaserà. LUCIETTA Dasseno? Quando lo vederoggio? MARINA Mi no so; siora Margarita saverà qualcossa. LUCIETTA Siora madre, quando lo vederoggio? MARGARITA Sì, sì: “siora madre, quando lo vederoggio”! Co ghe preme, la se raccomanda. E po gnente gnente, la ranzigna la schizza³¹ (90) LUCIETTA La sa, che ghe vòi tanto ben. MARGARITA Va' là, va' là mozzina. MARINA (Caspita! la gh'ha de la malizia tanta, che fa paura). LUCIETTA La diga, siora Marina. Xèlo fio de sior Maurizio? MARINA Sì, fia mia, e el xè fio solo. LUCIETTA Gh'ho tanto da caro. La diga: saràlo rustego co fa so sior padre? MARINA Oh che el xè tanto bon! LUCIETTA Mo quando lo vederoggio? MARINA Per dir la verità, gh'averave gusto, che ve vedessi, perché se pol anca dar, che élo no ve piasa a vu, o che vu no ghe piasè a élo? LUCIETTA Pussibile, che no ghe piasa? MARGARITA Cossa credeu de esser, figurarse, la dea Venere? LUCIETTA No credo de esser la dea Venere, ma no credo mo gnanca de esser l'orco.
MARGARITA (Eh, la gh'ha i so catari). MARINA Sentì, siora Margarita, bisogna, che ve confida una cossa. LUCIETTA Mi possio sentir? MARINA Sì, sentì anca vo. Parlando de sto negozio co siora Felice, la s'ha fato de maraveggia, che avanti de serar el contrato sti puti no s'abbia da véder. La s'ha tolto éla l'impegno de farlo. Ancuo, come savè, la vien qua a disnar, e sentiremo cossa, che la dirà. LUCIETTA Pulito, pulito dasseno. MARGARITA Se fa presto a dir “pulito pulito”! e se mio mario se n'incorze? Chi tol de mezzo, figurarse, altri che mi? LUCIETTA Oh, per cossa vorla, che el se n'incorza? MARGARITA Àlo da vegnir in casa per el luminal³¹¹(91) ? LUCIETTA Mi no so gnente. Cossa dìsela, siora Marina? MARINA Sentì, ve parlo schieto. Mi no ghe posso dar torto gnanca a siora Margarita. Sentiremo quel, che dixe siora Felice. Se gh'è pericolo, gnanca mi no me ne voggio intrigar. LUCIETTA Vardè; le me mette in saor³¹²(92) , e po, tolè suso. MARGARITA Zito, me par de sentir... MARINA Vien zente. LUCIETTA Uh, se xè sior padre, vago via. MARINA Cossa gh'aveu paura? Omeni no ghe ne xè. MARGARITA Oh, saveu chi xè? MARINA Chi? MARGARITA Siora Felice in maschera. In t'un'aria malignazonazza.³¹³(93)
LUCIETTA Xèla sola? MARGARITA Sola. Chi voressi, che ghe fusse, patrona? (a Lucietta) LUCIETTA Via, siora madre, che la sia bona, che ghe vòi tanto ben. (allegra) MARINA Sentiremo qualcossa. LUCIETTA Sentiremo qualcossa. (allegra)
SCENA OTTAVA
FELICE in maschera in bavuta, e dette.
FELICE Patrone. (tutte rispondono patrona, secondo il solito) MARGARITA Molto tardi, siora Felice; v'avè fato desiderar. LUCIETTA De diana³¹⁴(94) se l'avemo desiderada. FELICE Se savessi! Ve conterò. MARINA Sola sè? No gh'è gnanca vostro mario? FELICE Oh, el ghe xè quel torso de verza.³¹⁵(95) MARGARITA Dove xèlo? FELICE L'ho mandà in mezà da vostro mario. No ho volesto, che el vegna de qua, perché v'ho da parlar. LUCIETTA (Oh se la gh'avesse qualche bona niova da darme!) FELICE Saveu chi ghe xè in mezzà con lori? MARINA Mio mario? FELICE Eh sì ben, ma ghe xè un altro. MARINA Chi? FELICE Sior Maurizio. LUCIETTA (El padre del puto!) (con allegria) MARINA Come l'aveu savesto?
FELICE Mio mario, che anca élo xè un tangaro, avanti de andar in mezà, l'ha volesto saver chi ghe giera, e la serva gh'ha dito, che ghe giera sior Simon, e sior Maurizio. MARINA Cossa mai fàli? FELICE Mi credo, vedè, mi credo, che i stabilissa quel certo negozio... MARINA Eh sì, sì, ho capìo. MARGARITA Gh'arivo anca mi. LUCIETTA (Anca mi gh'arivo). MARINA E de quel altro interesse gh'avémio gnente da novo? FELICE De quel amigo? MARINA Sì, de quel amigo. LUCIETTA (Le parla in zergo³¹ (96) ; le crede, che no capissa). FELICE Podémio parlar liberamente? MARGARITA Sì, cossa serve? Za Lucieta sa tutto. LUCIETTA Oh cara siora Felice, se la savesse quanto che ghe son obbligada. FELICE Mo andè là, fia mia, che sè fortunada. (a Lucietta) LUCIETTA Per cossa? FELICE Mi no l'aveva mai visto quel puto. V'assicuro che el xè una zoggia. LUCIETTA (si pavoneggia da sé) MARGARITA Tegnìve in bon, patrona.³¹⁷(97) (a Lucietta) MARINA No fazzo per dir, che el sia mio nevodo; ma el xè un puto de sesto.³¹⁸(98)
MARGARITA Ma ghe vol giudizio, figurarse, e bisogna farse voler ben. LUCIETTA Co saremo a quela³¹ (99) , farè el mio debito. MARINA E cusì? se vederàli sti puti? (a Felice) FELICE Mi ho speranza de sì. LUCIETTA Come? quando, siora Felice? quando, come? FELICE Puta benedeta, gh'avè più pressa de mi. LUCIETTA No vorla? FELICE Sentì. Adessadesso el vegnirà qua. (piano a tutti tre) MARGARITA Qua! (con maraviglia) FELICE Siora sì, qua. LUCIETTA Perché no porlo vegnir qua? (a Margarita) MARGARITA Tasè là, vu, siora, che no savè quel che ve disè. Cara siora Felice, lo cognossè mio mario, vardè ben, che no femo pezo.³² (100) FELICE No v'indubitè gnente. El vegnirà in maschera, vestìo da donna; vostro mario nol cognosserà. MARINA Sì ben, sì ben: l'avè pensada pulito. MARGARITA Eh cara siora, mio mario xè sutilo³²¹(101) ; se el se ne incorze, figurarse, povereta mi. LUCIETTA No séntela? el vegnirà in maschera. (allegra a Margarita) MARGARITA Eh via, frasconazza. (a Lucietta) LUCIETTA El vegnirà vestìo da donna. (mortificata, a Margarita) FELICE Credème, siora Margarita, che me fè torto. Stè sora de mi, no abbiè paura. No pol far che el vegna³²²(102) . Se el vien, che semo qua sole, come che
semo adesso, podemo un pochetin chiaccolar; se el vien, che siémo a tola³²³(103) , o che ghe sia vostro mario, lassème far a mi. So mi quel che gh'ho da dir. I se vederà come che i poderà. Un'occhiadina in sbrisson no ve basta? LUCIETTA In sbrisson³²⁴(104) ? (a Felice, pateticamente) MARGARITA Vegniràlo solo? FELICE No, cara fia; solo nol pol vegnir. Vedè ben, in maschera, vestìo da donna... MARGARITA Con chi vegniràlo donca³²⁵(104) ? (a Felice) FELICE Con un forestier. (a Margarita) Oe con quelo de stamatina. (a Marina) MARINA Ho capìo. MARGARITA Figurarse, se mio mario vuol zente in casa, che nol cognosse! FELICE El vegnirà in maschera anca élo. MARGARITA Pezo: no, no assolutamente. LUCIETTA Mo via, cara siora madre, la trova dificoltà in tuto. (La xè proprio una caga dubi). MARGARITA So quel che digo; e mio mario, figurarse, nissun lo cognosse meggio de mi. FELICE Sentì, fia mia, dal vostro al mio, semo là. I xè tuti do taggiai in t'una luna. Mi mo, vedeu? no me lasso far tanta paura. MARGARITA Brava, sarè più spiritosa de mi. LUCIETTA I bate. MARGARITA Eh che no i bate, no. MARINA Poverazza, la gh'ha el bataor in tel cuor. FELICE Vedè, cara siora Margarita, che mi in sto negozio no gh'ho né intrar, né
insir³² (105) . L'ho fato per siora Marina, e anca per sta puta, che ghe voggio ben. Ma se vu po ve n'avè per mal... LUCIETTA Eh giusto! cossa dìsela? MARINA Eh via za, che ghe semo. (a Margarita) MARGARITA Ben ben; se nasserà qualcossa sarà pezo per vu. (a Lucietta) LUCIETTA No la sente? I bate ghe digo. (a Margarita) MARGARITA Adesso sì, ch'i ha batù. LUCIETTA Bisogna che la dorma culìa. Anderò mi. MARGARITA Siora no, siora no, anderò mi. (parte)
SCENA NONA
FELICE, MARINA e LUCIETTA
LUCIETTA Cara éla, me racomando. (a Felice) FELICE No vorave desgustar siora Margarita. MARINA No ghe badè. Se stasse a éla, sta puta no se mariderave mai. LUCIETTA Se la savesse! FELICE Cossa vol dir? cossa gh'àla co sta creatura? (a Marina) MARINA No saveu? invidia. Gh'ha toccà un mario vecchio, la gh'averà rabbia, che a so fiastra ghe tocca un zovene. LUCIETTA Ho paura de sì mi, che la diga la verità. FELICE Ora la dise una cossa, ora la ghe ne dise un'altra. MARINA Se ve digo; no gh'è né sesto, né modelo.³²⁷(106) LUCIETTA No la sa dir altro, che “figurarse, figurarse”.
SCENA DECIMA
MARGARITA, e dette
MARGARITA A vu, siora Felice. FELICE A mi? cossa? MARGARITA Maschere, che ve domanda. LUCIETTA Mascare, che la domanda! (allegra a Felice) MARINA Saràlo l'amigo? (a Felice) FELICE Pol darse. (a Marina) Fèlo vegnir avanti. (a Margarita) MARGARITA E se vien mio mario? FELICE Se vien vostro mario, no ghe saverò dar da intender qualche panchiana? No ghe posso dir, che la xè mia sorela maridada a Milan? Giusto l'aspetava in sti zorni, e la pol capitar de momento in momento. MARGARITA E la maschera omo? FELICE Oh bela! no ghe posso dir, che el xè mio cugnà³²⁸(107) ? MARGARITA E vostro mario cossa diralo? FELICE Mio mario, co voggio, che el diga de sì, basta, che lo varda; con un'occhiada el me intende. LUCIETTA Siora madre, ghe n'àla più? MARGARITA Cossa? LUCIETTA Delle dificoltà?
MARGARITA Me faressi dir, deboto... orsù tanto fa, che le staga de là quele maschere come, che le vegna de qua. A l'ultima de le ultime, gh'averè da pensar vu più de mi. (a Lucietta) Siore maschere, le favorissa, le vegna avanti. (alla scena) LUCIETTA (Oh come, che me bate el cuor!)
SCENA UNDICESIMA
FILIPPETTO in maschera da donna, il conte RICCARDO e dette.
RICCARDO Servitor umilissimo di lor signore. FELICE Patrone, siore maschere. MARGARITA Serva. (sostenuta) MARINA Siora maschera donna, la reverisso. (a Filippetto) FILIPPETTO (fa la riverenza da donna) LUCIETTA (Vardè che bon sesto!).³² (108) FELICE Maschere, andeu a seti? RICCARDO Il carnovale desta l'animo ai divertimenti. (a Marina) MARINA Siora Lucieta, cossa diseu de ste maschere? LUCIETTA Cossa vorla, che diga? (mostrando di vergognarsi) FILIPPETTO (Oh cara! oh che pometo da riosa!)³³ (109) MARGARITA Siore maschere, le perdona la mala creanza; àle disnà ele? RICCARDO Io no. MARGARITA In verità, voressimo andar a disnar. RICCARDO Vi leveremo l'incomodo. FILIPPETTO (De diana! no l'ho malistente³³¹(110) vardada!)
RICCARDO Andiamo, signora maschera. (a Filippetto) FILIPPETTO (Sia malignazo!) MARINA Eh aspetè un pochetin. (a Riccardo e Filippetto) MARGARITA (Me lo sento in te le recchie quel satiro de mio mario). FELICE Maschera, sentì una parola. (a Filippetto) FILIPPETTO (si accosta a Felice) FELICE Ve piàsela? (piano a Filippetto) FILIPPETTO Siora sì. (piano a Felice) FELICE Xèla bela? (come sopra) FILIPPETTO De diana! (come sopra) LUCIETTA (Siora madre). MARGARITA (Cossa gh'è?) LUCIETTA (Almanco, che lo podesse véder un pochetin). MARGARITA (Adessadesso, ve chiapo per un brazzo, e ve meno via). LUCIETTA (Pazzenzia). MARINA Maschera. (a Filippetto) FILIPPETTO (s'accosta a Marina) MARINA Ve piàsela? FILIPPETTO Assae. MARINA Toleu tabacco, maschera? FILIPPETTO Siora sì.
MARINA Se comandè, servìve. FILIPPETTO (prende il tabacco colle dita, e vuol pigliarlo colla maschera al volto) FELICE Co se tol tabacco, se se cava el volto. (gli leva la maschera) LUCIETTA (Oh co belo!) (guardandolo furtivamente) MARINA Mo che bela puta! (verso Filippetto) FELICE La xè mia sorela. LUCIETTA (I me fa da rider).(ridendo) FILIPPETTO (Oh co la ride pulito!) FELICE Vegnì qua, tirève la bauta soto la gola. (gli cala la bauta) LUCIETTA (El consola el cuor). MARINA Chi xè più bela de ste do pute? (gi Filippetto e Lucietta) FILIPPETTO (si vergogna, e guarda furtivamente Lucietta) LUCIETTA (fa lo stesso) RICCARDO (Sono obbligato alla signora Felice, che oggi mi ha fatto godere la più bella commedia di questo mondo). MARGARITA Oh via, fenìmola, figurarse, che xè ora. No parlemo più in equivoco. Ringraziè ste signore, che ha fato sto contrabando, e racomandève al Cielo, che se sarè destinai, ve torè.³³²(111) (a Lucietta e Filippetto) FELICE Via andè, maschere; contentève cusì per adesso. FILIPPETTO (Mi no me so destaccar). LUCIETTA (El me porta via el cuor). MARGARITA Manco mal, che la xè andada ben.
MARINA Tirève su la bauta. (a Filippetto) FILIPPETTO Come se fa? No gh'ho pratica. FELICE Vegnì qua da mi. (gl accomoda la bauta) LUCIETTA (Poverazzo! nol se sa giustar la bauta). (ridendo forte) FILIPPETTO Me bùrlela? (a Lucietta) LUCIETTA Mi no. (ridendo) FILIPPETTO Furba! LUCIETTA (Caro colù).³³³(112) MARGARITA Oh povereta mi! oh povereta mi! FELICE Coss'è stà. MARGARITA Ve' qua mio mario. MARINA Sì per diana: anca el mio. FELICE No xèla mia sorela? MARGARITA Eh cara ela, se el me trova in busia, povereta mi. Presto, presto, scondève, andè in quela camera. (a Filippetto, spingendolo) Caro sior la vaga là drento. (a Riccardo) RICCARDO Che imbroglio è questo? FELICE La vaga, la vaga, sior Ricardo. La ne fazza sta grazia. RICCARDO Farò anche questo per compiacervi. (entra in una camera) FILIPPETTO (Spionerò intanto). (entra in una camera) LUCIETTA (Me trema le gambe, che no posso più). MARGARITA Ve l'òggio dito? (a Felice e Marina)
MARINA Via via, no xè gnente. (a Margarita) FELICE Co anderemo a disnar i se la baterà.³³⁴(113) MARGARITA Son stada tropo minchiona.
SCENA DODICESIMA
LUNARDO, SIMON, CANCIANO e dette.
LUNARDO Oh patrone, xèle stuffe d'aspetar? Adessadesso anderemo a disnar. Aspetemo sior Maurizio, e subito che el vien, andemo a disnar. MARGARITA No ghe gièrelo sior Maurizio? LUNARDO El ghe giera. El xè andà in t'un servizio, e el tornerà adessadesso. Cossa gh'àstu ti, che ti me par sbattueta³³⁵(114) ? (a Lucietta) LUCIETTA Gnente. Vorlo che vaga via? LUNARDO No no, sta qua, fia mia, che anca per ti xè vegnù la to zornada: n'è vero, sior Simon? SIMON Poverazza! gh'ho a caro. LUNARDO Ah! cossa diseu? (a Cancian) CANCIANO Sì, in verità, la lo merita. LUCIETTA (No me vol andar via sto tremazzo³³ (115) ). FELICE Gh'è qualche novità, sior Lunardo? LUNARDO Siora sì. MARINA Via, che sapiemo anca nu. MARGARITA Za mi sarò l'ultima a saverlo. (a Lunardo) LUNARDO Sentì, fia, ancuo disè quel che volè, che no gh'ho voggia de criar. Son contento, e voggio che se godemo. Lucieta vien qua.
LUCIETTA (si accosta tremando) LUNARDO Cossa gh'àstu? LUCIETTA No so gnanca mi. (tremando) LUNARDO Gh'àstu la freve³³⁷(116) ? Ascolta, che la te erà. In presenza de mia muggier, che te fa da mare; in presenza de sti do galantomeni, e delle so parone, te dago la niova, che ti xè novizza. LUCIETTA (trema, piange e quasi casca) LUNARDO Olà, olà, cossa fastu? Te despiase, che t'abbia fato novizza? LUCIETTA Sior no. LUNARDO Sastu chi xè el to novizzo? LUCIETTA Sior sì. LUNARDO Ti lo sa? come lo sastu? chi te l'ha dito? (sdegnato) LUCIETTA Sior no, no so gnente. La compatissa, che no so gnanca cossa che diga. LUNARDO Ah! povera inocente! così la xè arlevada, vedeu? (a Simon e Cancian) FELICE (Se el savesse tuto). (piano a Margarita) MARGARITA (M'inspirito³³⁸(117) che el lo sapia). (a Felice) MARINA (No gh'è pericolo). (a Margarita) LUNARDO Orsù sapiè che el so novizzo xè el fio de sior Maurizio, nevodo de siora Marina. MARINA Dasseno? mio nevodo? FELICE Oh cossa che ne contè!
MARINA Mo gh'ho ben a caro, dasseno. FELICE De meggio no podevi trovar. MARINA Quando se faràle ste nozze? LUNARDO Ancuo. MARGARITA Ancuo? LUNARDO Sior sì, ancuo, adessadesso. Sior Maurizio xè andà a casa; el xè andà a levar³³ (118) so fio, el lo mena qua, disnemo insieme, e po subito i se dà la man.³⁴ (119) MARGARITA (Oh povereta mi!) FELICE Cusì a la presta? LUNARDO Mi no voggio brui longhi.³⁴¹(120) LUCIETTA (Adesso me trema anca le buele³⁴²(121) ). LUNARDO Cossa gh'àstu? (a Lucietta) LUCIETTA Gnente.
SCENA TREDICESIMA
MAURIZIO e detti
LUNARDO Oh via; seu qua? (a Maurizio) MAURIZIO Son qua. (turbato) LUNARDO Cossa gh'aveu? MAURIZIO Son fora de mi. LUNARDO Coss'è stà? MAURIZIO Son andà a casa, ho cercà el puto. No l'ho trovà in nissun liogo. Ho domandà, me son informà, me xè stà dito, che l'è stà visto in compagnia de un certo sior Riccardo, che pratica siora Felice. Chi èlo sto sior Riccardo? Chi èlo sto forestier? cossa gh'ìntrelo con mio fio? (a Felice) FELICE Mi de vostro fio no so gnente. Ma circa al forestier el xè un cavalier onorato. N'è vero, sior Cancian? CANCIANO Mi no so gnente chi el sia, e no so chi diavolo l'abia mandà. Ho tasesto fin adesso, ho mandà zo dei boconi amari, per contentarve, per no criar; ma adesso mo ve digo, che per casa mia no lo voggio più. Siora sì, el sarà un fa pele.³⁴³(122)
SCENA QUATTORDICESIMA
RICCARDO e detti; poi FILIPPETTO
RICCARDO Parlate meglio dei cavalieri d'onore.(a Canciano) LUNARDO In casa mia? (a Riccardo) MAURIZIO Dove xè mio fio? (a Riccardo) RICCARDO Vostro figlio è là dentro. (a Maurizio) LUNARDO Sconto in camera? MAURIZIO Dov'èstu, desgrazià? FILIPPETTO Ah sior padre, per carità. (s'inginocchia) LUCIETTA Ah sior padre, per misericordia. (s'inginocchia) MARGARITA Mario, no so gnente, mario. (raccomandandosi) LUNARDO Ti, ti me la pagherà, desgraziada. (vuol dare a Margarita) MARGARITA Agiuto. MARINA Tegnìlo. FILIPPETTO Fermèlo. SIMON Stè saldo. CANCIANO No fè. (Simon e Canciano strascinano dentro Lunardo e partono in tre) MAURIZIO Vien qua, vien qua, furbazzo. (piglia per un braccio Filippetto)
MARGARITA Vegnì qua, frasconazza. (piglia per un braccio Lucietta) MAURIZIO Andemo. (lo tira) MARGARITA Vegnì via con mi. (la tira) MAURIZIO A casa la giustaremo. (a Filippetto) MARGARITA Per causa vostra. (a Lucietta) FILIPPETTO (andando via, saluta Lucietta) LUCIETTA (andando via, si dà de' pugni) FILIPPETTO Povereta! LUCIETTA Son desperada. MAURIZIO Va' via de qua. (lo caccia via, e partono) MARGARITA Sia maledeto co son vegnua in sta casa. (parte spingendo Lucietta) MARINA Oh che sussuro, o che diavolezzo! Povera puta, povero mio nevodo! (parte) RICCARDO In che impiccio mi avete messo, signora? FELICE Xèlo cavalier? RICCARDO Perché mi fate questa dimanda? FELICE Xèlo cavalier? RICCARDO Tale esser mi vanto. FELICE Donca, che el vegna con mi. RICCARDO A qual fine? FELICE Son una donna onorata. Ho falà, e ghe vòi remediar.
RICCARDO Ma come? FELICE Come, come! se ghe digo el come, xè fenìa la commedia. Andemo. (partono)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Lunardo
LUNARDO, CANCIANO e SIMON
LUNARDO Se trata de onor, se trata, vegnimo a dir el merito, de reputazion de casa mia. Un omo della mia sorte. Cossa dirài de mi? cossa dirài de Lunardo Cròzzola? SIMON Quietève, caro compare. Vu no ghe n'avè colpa. Xè causa le donne; castighèle³⁴⁴(1) , e tuto el mondo ve loderà. CANCIANO Sì ben, bisogna dar un esempio. Bisogna umiliar la superbia de ste muggier cusì altiere, e insegnar ai omei a castigarle. SIMON E che i diga pur, che semo rusteghi. CANCIANO E che i diga pur, che semo salvadeghi. LUNARDO Mia muggier xè causa de tuto. SIMON Castighèla. LUNARDO E quela frasconazza, la ghe tien drio. CANCIANO Mortifichèla. LUNARDO E vostra muggier ghe tien terzo. (a Cancian) CANCIANO La castigherò. LUNARDO E la vostra sarà d'accordo. (a Simon)
SIMON Anca la mia me la pagherà. LUNARDO Cari amici, parlemo, consegiemose. Con custìe³⁴⁵(2) , vegnimo a dir el merito, cossa avémio da far? Per la puta xè facile, e gh'ho pensà, e ho stabilio. Prima de tuto, a monte el matrimonio³⁴ (3) . Mai più, che no la parla de maridarse. La manderò a serar in t'un liogo³⁴⁷(4) , lontana dal mondo, tra quatro muri, e la xè fenìa. Ma le muggier come le avémio da castigar? Disè la vostra opinion. CANCIANO Veramente, confesso el vero; son un pochetin intrigà. SIMON Se poderave ficcarle³⁴⁸(5) anca ele in t'un retiro tra quatro muri, e destrigarse cussì. LUNARDO Questo, vegnimo a dir el merito, sarave un castigo più per nu, che per ele. Bisogna spender; pagar le spese, mandarle vestìe con un pocheto de pulizia, e per retirae che le staga, le gh'averà sempre là drento più so, e più libertà, che no le gh'ha in casa nostra. Pàrlio ben³⁴ (6) ? (a Simon) SIMON Disè benissimo. Specialmente da vu, e da mi, che no ghe lassemo la brena³⁵ (7) sul colo come mio compare Cancian. CANCIANO Cossa voleu, che diga? gh'avè rason. Poderessimo tegnirle in casa, serae in t'una camera; menarle un pochetin a la festa con nu, e po tornarle a serar, e che no le vedesse nissun, e che no le parlasse a nissun. SIMON Le donne serae? senza parlar con nissun? Questo xè un castigo, che le fa crepar in tre dì. CANCIANO Tanto meggio. LUNARDO Ma chi è quel omo, che voggia far l'aguzin? e po se i parenti lo sa, i fa el diavolo, i mete soto mezzo mondo, i ve la fa tirar fora, e po ancora i ve dise, che sè un orso, che sè un tangaro, che sè un can. SIMON E co avè molà³⁵¹(8) , o per amor, o per impegno, le ve tol la man, e no sé più paron de criarghe. CANCIANO Giusto cusì ha fato con mi mia muggier.
LUNARDO La vera saria, vegnimo a dir el merito, doperar un pezzo de legno. SIMON Sì, da galantomo, e lassar, che la zente diga.³⁵²(9) CANCIANO E se le se revolta contra de nu? SIMON Se poderave dar savè³⁵³(10) CANCIANO Mi so quel che digo. LUNARDO In sto caso, se troveressimo in t'un bruto cimento. SIMON E po? no saveu? Ghe ne xè dei omeni, che bastona le so muggier, ma credeu, che gnanca per questo i le possa domar? Oibò³⁵⁴(11) ; le fa pezo³⁵⁵(12) , che mai; le lo fa per despeto; se no i le copa, no gh'è remedio. LUNARDO Coparle po no. CANCIANO Mo no, certo; perché po, vòltela, ménela³⁵ (13) , senza donne no se pol star. SIMON Mo no saràvela una contentezza, aver una muggier bona, quieta, ubidiente? No saràvela una consolazion? LUNARDO Mi l'ho provada una volta. La mia prima, povereta, la giera un agnelo. Questa? la xè un basilisco. CANCIANO E la mia? Tuto a so modo la vol. SIMON E mi crio, strepito, e no fazzo gnente. LUNARDO Tuto xè mal, ma un mal, che se pol soportar; ma in tel caso, che son mi adesso, vegnimo a dir el merito, se trata de assae. Voria ressolver, e no so quala far. SIMON Mandèla dai so parenti. LUNARDO Certo! acciò, che la me fazza smatar.³⁵⁷(14) CANCIANO Mandèla fora³⁵⁸(15) . Fèla star in campagna.
LUNARDO Pezo! la me consuma le intrae³⁵ (16) in quatro zorni. SIMON Fèghe parlar; trovè qualchedun che la meta in dover. LUNARDO Eh! no l'ascolta nissun. CANCIANO Provè a serarghe i abiti, a serarghe le zoggie, tegnìla bassa; mortifichèla. LUNARDO Ho provà; se fa pezo, che mai. SIMON Ho capìo; fè cusì, compare. LUNARDO Come? SIMON Godèvela, come che la xè. CANCIANO Ho pensier anca mi, che no ghe sia altro remedio, che questo. LUNARDO Sì, l'ho capìa che xè un pezzo. Vedo anca mi, che, co l'è fata no ghe xè più remedio. M'aveva comodà el mio stomego de soportarla; ma questa, che la m'ha fato, la xè tropo granda. Ruvinarme una puta de quela sorte? farghe vegnir el moroso in casa? Xè vero, che mi ghe l'aveva destinà per mario, ma cossa savévela, vegnimo a dir el merito, la mia intenzion? Gh'ho dà qualche motivo³ (17) de maridarla. Ma no me podévio pentir? No se podeva dar, che no se giustessimo? No podeva portar avanti dei mesi, e dei anni? E la me lo introduse in casa? in maschera? da scondon³ ¹(18) ? La fa che i se veda? la fa che i se parla? Una mia puta? una colomba inocente? No me tegno; la vòi castigar, la vòi mortificar, se credesse, vegnimo a dir el merito, de precipitar. SIMON Causa siora Felice. LUNARDO Sì, causa quella mata de vostra muggier. (a Cancian) CANCIANO Gh'avè rason. Mia muggier me la pagherà.
SCENA SECONDA
FELICE e detti
FELICE Patroni reveriti, grazie del so bon amor. CANCIANO Cossa feu qua? LUNARDO Cossa vorla in casa mia? SIMON Xèla qua, per far che nassa qualche altra bela scena? FELICE I se stupisse perché son qua? Voléveli che fusse andada via? Credévelo sior Cancian, che fusse andada col forestier? CANCIANO Se anderè più con colù, ve farò véder chi son. FELICE Disème, caro vecchio, ghe songio mai andada senza de vu? CANCIANO La sarave bela! FELICE Senza de vu, l'òggio³ ²(19) mai recevesto in casa? CANCIANO Ghe mancarave anca questa! FELICE E perché donca credevi, che fusse andada con élo? CANCIANO Perché sè una mata. FELICE (El fa el bravo, perché el xè in compagnia). SIMON (Oe la gh'ha filo³ ³(20) ). (piano a Lunardo) LUNARDO (El fa ben a mostrarghe el muso). (piano a Simon) CANCIANO Andémo, siora, vegnì a casa con mi.
FELICE Abiè un pocheto de flema. CANCIANO Me maraveggio, che gh'abiè tanto muso de vegnir qua. FELICE Per cossa? cossa òggio fato? CANCIANO No me fè parlar. FELICE Parlè. CANCIANO Andémo via. FELICE Sior no. CANCIANO Andémo, che cospeto de diana... (minacciandola) FELICE Cospeto, cospeto... so cospetizar anca mi. Coss'è, sior? M'aveu trovà in t'un gatolo³ ⁴(21) ? Songio la vostra massèra? Cusì se parla con una donna civil? Son vostra muggier; me podè comandar, ma no me vòi³ ⁵(22) lassar strapazzar. Mi no ve perdo el respetto a vu, e vu no me l'avè da perder a mi. E dopo che sè mio mario, no m'avè mai più parlà in sta maniera. Coss'è sto manazzar? coss'è sto cospeto? cossa xè sto alzar le man? A mi manazzar? a una donna della mia sorte? Disè, sior Cancian, v'àli messo su sti patroni? v'àli conseggià, che me tratè in sta maniera? Ste asenarie l'aveu imparade da lori? Se sè un galantomo, tratè da quelo, che sè, se ho falà, corezème³ (23) ; ma no se strapazza, e no se manazza, e no se dise cospetto, e no se tratta cusì. M'aveu capìo, sior Cancian? Abiè giudizio vu, se volè, che ghe n'abbia anca mi. CANCIANO (resta ammutolito) SIMON (Aveu sentìo che ràcola³ ⁷(24) ?) (a Lunardo) LUNARDO (Adessadesso me vien voggia, de chiaparla mi per el colo. E quel martuffo³ ⁸(25) sta zito). (a Simon) SIMON (Cossa voleu, che el fazza? Voleu che el precipita?) FELICE Via, sior Cancian, no la dise gnente? CANCIANO Chi ha più giudizio el dopera.³ (24)
FELICE Sentenza de Ciceron! Cossa dìsele ele, patroni? LUNARDO Cara siora, no me fè parlar. FELICE Perché? son vegnua a posta, acciò, che parlè; so che ve lamentè de mi, e gh'ho gusto de sentir le vostre lamentazion. Sfoghève con mi, sior Lunardo, ma no stè a meter su mio mario. Perché se me dirè le vostre rason, son donna giusta, e se gh'ho torto sarò pronta a darve sodisfazion; ma arecordève ben, che el meter disunion tra mario e muggier el xè un de quei mali che no se giusta cusì facilmente, e quel che no voressi che i altri fasse con vu, gnanca vu coi altri no l'avè da far, e parlo anca co sior Simon, che con tuta la so prudenza el sa far la parte da diavolo co³⁷ (25) bisogna. Parlo con tutti do³⁷¹(26) , e ve parlo schieto, perché me capì. Son una donna d'onor, e se gh'avè qualcossa, parlè. LUNARDO Disème, cara siora, chi è stà, che ha fato vegnir quel puto in casa mia? FELICE Son stada mi. Mi son stada, che l'ha fato vegnir. LUNARDO Brava, siora! SIMON Pulito! CANCIANO Lodève, che avè fato una bel'azion! FELICE Mi no me lodo; so che giera meggio che no l'avesse fato; ma no la xè una cativa azion. LUNARDO Chi v'ha dà licenza, che lo fè vegnir? FELICE Vostra muggier. LUNARDO Mia muggier? v'àla parlà? v'àla pregà? xèla vegnua éla a dirvelo, che lo menè³⁷²(27) ? FELICE Sior no; me l'ha dito siora Marina. SIMON Mia muggier? FELICE Vostra muggier.
SIMON Ala pregà éla el forestier, che tegnisse terzo³⁷³(28) a quela pura? FELICE Sior no, el forestier l'ho pregà mi. CANCIANO Vu l'avè pregà? (con isdegno) FELICE Sior sì, mi. (a Canciano, con isdegno) CANCIANO (Oh che bestia! no se pol parlar!) LUNARDO Mo perché far sta cossa? mo perché menarlo? mo perché siora Marina se n'àla intrigà? mo perché mia muggier s'àla contentà? FELICE Mo perché questo, mo perché st'altro! Ascoltème; sentì l'istoria come che la xè. Lassème dir; no me interrompè. Se gh'ho torto, me darè torto; e se gh'ho rason, me darè rason. Prima de tuto, lassè, patroni, che ve diga una cossa. No andè in colera, e no ve n'abiè per mal. Sè tropo rusteghi; sè tropo salvadeghi. La maniera che tegnì co le donne, co le muggier, co la fia, la xè cusì stravagante fora de l'ordinario, che mai in eterno le ve poderà voler ben; le ve obedisse per forza, le se mortifica con rason, e le ve considera, no marii, no padri, ma tartari, orsi e aguzini. Vegnimo al fato. (No “vegnimo a dir el merito”, vegnimo al fato). Sior Lunardo vol maridar la so pura, nol ghe lo dise, nol vol che la lo sapia; no la lo ha fa véder; piasa, o no piasa, la lo ha da tòr. Accordo anca mi, che le pute no sta ben, che le fazza l'amor, che el mario ghe l'ha da trovar so sior padre, e che le ha da obedir, ma no xè mo gnanca giusto de meter alle fie un lazzo al colo, e dirghe: ti l'ha da tiòr. Gh'avè una fia sola, e gh'avè cuor de sacrificarla? (a Lunardo) Mo el puto xè un puto de sesto, el xè bon, el xè zovene, nol xè bruto, el ghe piaserà. Seu seguro, “vegnimo a dir el merito”, che el gh'abia da piàser? E se nol ghe piasesse? Una puta arlevada a la casalina con un mario fio d'un pare selvadego, sul vostro andar³⁷⁴(29) , che vita doveràvela far? Sior sì, avemo fato ben a far che i se veda. Vostra muggier lo desiderava, ma no la gh'aveva coraggio. Siora Marina a mi s'ha racomandà. Mi ho trovà l'invenzion de la maschera, mi ho pregà el forestier. I s'ha visto, i s'ha piasso³⁷⁵(30) , i xè contenti. Vu doveressi esser più quieto, più consolà. Xè compatibile vostra muggier, merita lode siora Marina. Mi ho operà per bon cuor. Se sè omeni, persuadève, se sè tangheri, sodisfève. La puta xè onesta, el puto no ha falà; nualtre semo donne d'onor. Ho fenito la renga; laudè el matrimonio, e compatì l'avocato.³⁷ (31) (Lunardo, Simon e Cancian si guardano l'un l'altro, senza parlare)
FELICE (I ho messi in sacco, ma con rason). LUNARDO Cossa diseu, sior Simon? SIMON Mi, se stasse a mi, lauderave.³⁷⁷(32) CANCIANO Gnanca mi no ghe vago in tel verde.³⁷⁸(33) LUNARDO E pur ho paura, che bisognerà che taggiemo.³⁷ (34) FELICE Per cossa? LUNARDO Perché el padre del puto, vegnimo a dir el merito... FELICE “Vegnimo a dir el merito”, al padre del puto xè andà a parlarghe sior Conte, el xè in impegno, che se fazza sto matrimonio, perché el dise, che inocentemente el xè stà causa élo de sti sussuri, e el se chiama affrontà, e el vol sta sodisfazion; el xè un omo de garbo; el xè un omo che parla ben, e son segura, che sior Maurizio no saverà dir de no. LUNARDO Cossa avémio da far? SIMON Caro amigo, de tante, che ghe ne avemo pensà, no ghe xè la meggio de questa. Tòr le cosse come che le vien. LUNARDO E l'affronto? FELICE Che affronto? co el xè mario³⁸ (35) xè fenìo l'affronto. CANCIANO Sentì, sior Lunardo; siora Felice gh'ha anca éla le so debolezze, ma per dir la verità, qualche volta la xè una donna de garbo. FELICE N'è vero sior Cancian? LUNARDO Mo via, cossa avémio da far? SIMON Prima de tuto, mi dirave de andar a disnar. CANCIANO Per dirla, pareva, che el disnar s'avesse desmentegà.³⁸¹(36) FELICE Eh chi l'ha ordenà no xè alocco.³⁸²(37) El l'ha sospeso, ma nol xè andà
in fumo. Fè cusì, sior Lunardo, se volè, che magnemo in pase: mandè a chiamar vostra muggier, vostra fia, disèghe qualche cossa, brontolè al solito un pochetin, ma po fenìmola; aspetemo QUARTA che vegna sior Riccardo, e se vien el puto, fenìmola. LUNARDO Se vien qua mia muggier, e mia fia, ho paura de no poderme tegnir. FELICE Via, sfoghève, gh'avè rason. Seu contento cussì? CANCIANO Chiamémole. SIMON Anca mia muggier. FELICE Mi, mi: aspettè mi. (parte correndo)
SCENA TERZA
LUNARDO, CANCIANO e SIMON
LUNARDO Una gran chiaccola gh'ha quela vostra muggier. (a Cancian) CANCIANO Vedeu! no me disè donca, che son un martuffo, se qualche volta me lasso menar per el naso. Se digo qualcossa, la me fa una renga , e mi laudo.³⁸³(38) SIMON Gran donne! o per un verso, o per l'altro le la vol a so modo seguro. LUNARDO Co le lassè parlar, no le gh'ha mai torto.
SCENA QUARTA
FELICE, MARINA, MARGARITA, LUCIETTA e detti.
FELICE Vèle qua, velè qua. Pentie, contrite, e le ve domanda perdon. (a Lunardo) LUNARDO Se me fa anca de queste? (a Margarita) FELICE No la ghe n'ha colpa, son causa mi. (a Lunardo) LUNARDO Cossa meriteressistu, frasconcela! (a Lucietta) FELICE Parlè con mi, ve responderò mi. (a Lunardo) LUNARDO I omeni in casa? i morosi sconti? (a Margarita e Lucietta) FELICE Criè co mi, che son causa mi. (a Lunardo) LUNARDO Andève a far squartar anca vu. (a Felice) FELICE “Vegnimo a dir el merito...” (a Lunardo, deridendolo) CANCIANO Come parleu co mia muggier? (a Lunardo) LUNARDO Caro vu, compatìme. Son fora de mi.(a Cancian) MARGARITA (mortificata) LUCIETTA (piange) MARGARITA Siora Felice. Cossa n'aveu dito? Cusì pulito la xè giustada? SIMON Anca vu siora meriteressi la vostra parte. (a Marina) MARINA Mi chiapo³⁸⁴(39) su, e vago via.
FELICE No, no, fermève. Al povero sior Lunardo ghe giera restà in corpo un poco de còlera: l'ha volesto butarla fora³⁸⁵(40) . Da resto el ve scusa, el ve perdona; e se vien el puto, el se contenterà, che i se sposa; n'è vero, sior Lunardo? LUNARDO Siora sì, siora sì. (ruvido) MARGARITA Caro mario, se savessi quanta ion, che ho provà! Credèmelo no saveva gnente. Co xè vegnù quele maschere, no voleva lassarle vegnir. Xè stà... xè stà... FELICE Via son stada mi, cossa ocore? MARINA (Disèghe anca vu qualcossa). (piano a Lucietta) LUCIETTA Caro sior padre, ghe domando perdonanza. Mi no ghe n'ho colpa... FELICE Son stada mi, ve digo, son stada mi. MARINA Per dir la verità, gh'ho anca mi la mia parte de merito. SIMON Eh savemo, che sè una signora de spirito. (a Marina, con ironia) MARINA Più de vu, certo. FELICE Chi xè? (osservando fra le scene) MARGARITA Oe, i xè lori.³⁸ (41) (a Felice) LUCIETTA (El mio novizzo). (allegra) LUNARDO Coss'è? chi xè? chi vien? Omeni? Andè via de qua. (alle donne) FELICE Vardè! cossa femio? Aveu paura, che i omeni ne magna? No semio in quarto? no ghe seu vu? Lassè, che i vegna. LUNARDO Comandeu vu, patrona? FELICE Comando mi. LUNARDO Quel forestier no lo voggio. Se el vegnirà élo, anderò via mi.
FELICE Mo perché nol voleu? El xè un signor onorato. LUNARDO Che el sia quel, che el vol, no lo voggio. Mia muggier, e mia fia no le xè use a véder nissun. FELICE Eh per sta volta le gh'averà pazenzia, n'è vero fie? MARGARITA Oh mi sì. LUCIETTA Oh anca mi. LUNARDO Mi sì, anca mi. (burlandole) Ve digo, che no lo voggio. (a Felice) FELICE (Mo che orso, mo che satiro!) Aspettè aspettè che lo farò star in drio.³⁸⁷(42) (si accosta alla scena) LUCIETTA (Eh no m'importa. Me basta uno che vegna).
SCENA ULTIMA
MAURIZIO, FILIPPETTO e detti
MAURIZIO Patroni. (sostenuto) LUNARDO Sioria. (brusco) FILIPPETTO (saluta furtivamente Lucietta. Maurizio lo guarda. Filippetto finge che non sia niente) FELICE Sior Maurizio, aveu savesto come che la xè stada? MAURIZIO Mi adesso no penso a quel che xè stà, penso a quel, che ha da esser per l'avegnir. Cossa dise sior Lunardo? LUNARDO Mi digo cusì, vegnimo a dir el merito, che i fioi, co i xè ben arlevai no i va in maschera, e no i va in casa, vegnimo a dir el merito, delle pute civil. MAURIZIO Gh'avè rason: andémo via de qua. (a Filippetto) LUCIETTA (piange forte) LUNARDO Desgraziada! cosa xè sto fifar³⁸⁸(43) ? FELICE Mo ve digo ben la verità, sior Lunardo, “vegnimo a dir el merito”, che la xè una vergogna. Seu omo, o seu putelo? Disè, desdisè, ve muè³⁸ (44) co fa le zirandole.³ (45) MARINA Vardè che sesti! No ghe l'aveu promessa? no aveu serà el contrato? Cossa xè stà? cossa xè successo? Ve l'àlo menada via? v'àlo fato disonor a la casa? Coss'è sti purelezzi? cossa xè ste smorfie? cossa xè sti musoni? (a Lunardo) MARGARITA Ghe voggio mo intrar anca mi in sto negozio. Sior sì, m'ha despiasso, che el vegna: l'ha fato mal a vegnir; ma col gh'ha dà la man no xè
fenìo tuto? Fina a un certo segno me l'ho lassada ar, ma adesso mo ve digo, sior sì, el l'ha da tòr, el l'ha da sposar. (a Lunardo) LUNARDO Che el la toga, che el la sposa, che el se destriga: son stuffo; no posso più. LUCIETTA e FILIPPETTO (saltano per allegrezza) MAURIZIO Co sta rabbia i s'ha da sposar? (a Lunardo) FELICE Se el xè inrabià, so danno. Nol l'ha miga da sposar élo. MARGARITA Via, sior Lunardo, voleu, che i se daga la man? LUNARDO Aspetè un pochetin. Lassè, che me daga zoso la còlera. MARGARITA Via, caro mario, ve compatisso. Conosso el vostro temperamento; sè un galantomo, sè amoroso, sè de bon cuor; ma, figurarse, sè un pocheto sutilo.³ ¹(46) Sta volta gh'avè anca rason; ma finalmente tanto vostra fia, quanto mi, v'avemo domandà perdonanza. Credème, che a redur una donna a sto o ghe vol assae. Ma lo fazzo, perché ve voggio ben, perché voggio ben a sta puta, benché no la 'l conossa, o no la lo voggia conosser. Per éla per vu, me caverave tuto quelo che gh'ho; sparzerave el sangue per la pase de sta fameggia; contentè sta puta, quietève vu, salvè la reputazion della casa, e se mi no merito el vostro amor, pazenzia, sarà de mi quel che destinerà mio mario, la mia sorte, o la mia cativa desgrazia. LUCIETTA Cara siora madre, sìela benedeta, ghe domando perdon anca a éla de quel, che gh'ho dito, e de quel che gh'ho fato. FILIPPETTO (La me fa da pianzer anca mi). LUNARDO (si asciuga gli occhi) CANCIANO Vedeu, sior Lunardo? Co le fa cusì no se se pol tegnir. (a Lunardo) SIMON In suma³ ²(47) , co le bone, o co le cative, le fa tuto quel che le vol. FELICE E cusì, sior Lunardo?...
LUNARDO Aspetè. (con isdegno) FELICE (Mo che zoggia!) LUNARDO Lucieta. (amorosamente) LUCIETTA Sior. LUNARDO Vien qua. LUCIETTA Vegno. (si accosta bel bello) LUNARDO Te vustu maridar? LUCIETTA (si vergogna, e non risponde) LUNARDO Via, respondi, te vustu maridar? (con isdegno) LUCIETTA Sior sì, sior sì.(forte, tremando) LUNARDO Ti l'ha visto ah, el novizzo? LUCIETTA Sior sì. LUNARDO Sior Maurizio. MAURIZIO Cossa gh'è? (ruvido) LUNARDO Via, caro vecchio, no me respondè, vegnimo a dir el merito, cusì rustego. MAURIZIO Disè pur su quel che volevi dir. LUNARDO Se no gh'avè gnente in contrario, mia fia xè per vostro fio. (i due sposi si rallegrano) MAURIZIO Sto baron no lo merita. FILIPPETTO Sior padre... (in aria di raccomandarsi) MAURIZIO Farme un'azion de sta sorte? (senza guardar Filippetto)
FILIPPETTO Sior padre... (come sopra) MAURIZIO No lo vòi maridar. FILIPPETTO Oh povereto mi.(traballando mezzo svenuto) LUCIETTA Tegnìlo, tegnìlo.³ ³(48) FELICE Mo via, che cuor gh'aveu³ ⁴(49) ? (a Maurizio) LUNARDO El fa ben a mortificarlo. MAURIZIO Vien qua. (a Filippetto) FILIPPETTO Son qua. MAURIZIO Xèstu pentìo de quel che ti ha fato? FILIPPETTO Sior sì, dasseno, sior padre. MAURIZIO Varda ben, che anca se ti te maridi, voggio che ti me usi l'istessa ubbidienza, e che ti dipendi da mi. FILIPPETTO Sior sì, ghe lo prometo. MAURIZIO Varda qua, siora Lucieta, ve acceto per fia; e ti, el Cielo te benedissa; dàghe la man. FILIPPETTO Come sa fa? (a Simon) FELICE Via, dèghe la man; cusì. MARGARITA (Poverazzo!) LUNARDO (si asciuga gli occhi) MARGARITA Sior Simon, sior Cancian, sarè vu i compari.³ ⁵(50) CANCIANO Siora sì semo qua, semo testimoni. SIMON E co la gh'averà un putelo?
FILIPPETTO (ride e salta) LUCIETTA (si vergogna) LUNARDO O via, puti, stè aliegri. Xè ora, che andémo a disnar. FELICE Disè; caro sior Lunardo, quel forestier che per amor mio xè de là che aspeta, ve par convenienza de mandarlo via? El xè stà a parlar co sior Maurizio, el l'ha fato vegnir qua élo. La civiltà non insegna a tratar cusì. LUNARDO Adesso andémo a disnar. FELICE Invidèlo anca élo. LUNARDO Siora no. FELICE Vedeu? sta rusteghezza, sto salvadegume che gh'avè intorno xè stà causa de tuti i desordeni, che xè nati ancuo³ (51) , e ve farà esser... Tuti tre, saveu? parlo con tuti tre; ve farà esser rabbiosi, odiosi, malcontenti, e universalmente burlai. Siè un poco più civili, tratabili, umani. Esaminè le azion de le vostre muggier, e co le xè oneste, donè qualcossa, soportè qualcossa. Quel Conte forestier xè una persona propria, onesta, civil; a tratarlo no fazzo gnente de mal; lo sa mio mario, el vien con élo; la xè una pura, e mera conversazion. Circa al vestir, co no se va drio a tute le mode, co no se ruvina la casa, la pulizia sta ben, la par bon. In soma, se volè viver quieti, se volè star in bona co le muggier, fè da omeni, ma no da salvadeghi, comandè, no tiraneggiè, e amè, se volè esser amai. CANCIANO Bisogna po dirla; gran mia muggier! SIMON Seu persuaso, sior Lunardo? LUNARDO E vu? SIMON Mi sì. LUNARDO Disèghe a quel sior forestier, che el resta a disnar con nu. (a Margarita) MARGARITA Manco mal. Vogia el Cielo, che sta lizion abia profità.
MARINA E vu, nevodo, come la tratereu la vostra novizza? (a Filippetto) FILIPPETTO Cusì; su l'ordene, che ha dito siora Felice. LUCIETTA Oh, mi me contento de tuto. MARGARITA Ghe despiase solamente co le cascate xè fiape. LUCIETTA Mo via no la m'ha gnancora perdonà? FELICE A monte tuto. Andemo a disnar, che xè ora. E se el cuogo de sior Lunardo non ha provisto salvadeghi, a tola³ ⁷(52) no ghe n'ha da esser, e no ghe ne sarà. Semo tuti desmesteghi³ ⁸(53) , tuti boni amici, con tanto de cuor. Stemo aliegri, magnemo, bevemo, e femo un prindese alla salute de tuti queli, che con tanta bontà, e cortesia n'ha ascoltà, n'ha sofferto, e n'ha compatìo.
IL BUGIARDO
COMMEDIA
Rappresentata per la prima volta in Mantova la primavera dell'anno 1750.
L'AUTORE A CHI LEGGE
Il valoroso Pietro Cornelio, colla più bella ingenuità del mondo, ha confessato al Pubblico aver lavorato il suo Bugiardo sul modello di quello che fu attribuito in Ispagna a Lopez de Vega, quantunque un altro Autore Spagnuolo lo pretendesse per suo. Io con altrettanta sincerità svelerò a' miei Leggitori aver il soggetto della presente Commedia tratto in parte da quella del sopraddetto Cornelio. Vanta l'Autor se aver condotto l'opera sua con quella varietà nell'intreccio, che più gli parve adattata al gusto della nazione, a cui doveva rappresentarsi. Tanto ho fatto io nel valermi di un tal soggetto: servito appena mi sono dell'argomento; seguito ho in qualche parte l'intreccio; ma chi vorrà riscontrarlo, dopo alcune scene che si somigliano, troverà il mio Bugiardo assai diverso dagli altri due; talmentechè avrei potuto darmi merito dell'invenzione ancora, se sopra un tal punto non fossi io assai scrupoloso, e nemicissimo di qualunque impostura. Pur troppo nella edizione di Venezia, stampandosi dal Bettinelli le mie Commedie, senza le piccole mie Prefazioni, e non leggendosi questa tale premessa al mio Bugiardo, non mancherà chi dirà il bugiardo esser io medesimo, arrogandomi l'altrui merito e l'altrui fatica; ed ecco la necessità de' miei ragionamenti al Lettore, la mancanza de' quali fa difetto notabilissimo nella prenarrata Edizione. Io per altro, come diceva, ho dato un giro assai più brillante ad una tale Commedia. Ho posto al confronto dell'uomo franco un timido, che lo fa risaltare. Ho posto il mentitore in impegni molto ardui e difficili da superare, per maggiormente intralciarlo nelle bugie medesime, le quali sono per natura così feconde, che una ne suol produr più di cento, e l'une han bisogno dell'altre per sostenersi. Il sonetto è forse la parte più ridicola della Commedia. Le lettere a Pantalone e a Lelio dirette accrescono l'imbarazzo e la sospensione. Tutte cose da me inventate, le quali potevano darmi sufficiente materia per una Commedia, che si potesse dir tutta mia, ciò non ostante, sapendo io d'aver fatto
uso del soggetto dell'Autore se, non ho voluto abusarmene, e Dio volesse che così da tutti si praticasse, che non si vederebbono tante maschere, tanti rappezzamenti, tante manifeste imposture.
PERSONAGGI
Il DOTTOR BALANZONI, bolognese, Medico in Venezia. ROSAURA, sua figlia. BEATRICE, sua figlia. COLOMBINA, loro cameriera. OTTAVIO, Cavaliere padovano, amante di Beatrice. FLORINDO, cittadino bolognese, che impara la medicina, e abita in casa del Dottore; amante timido di Rosaura. BRIGHELLA, suo confidente. PANTALONE, mercante veneziano, Padre di LELIO, il bugiardo. ARLECCHINO, suo servo. Un Vetturino napolitano. Un Giovine di mercante. Un Portalettere Una Donna che canta. Suonatori. Barcajuoli di peota. Barcajuoli di gondola.
La Commedia si rappresenta in Venezia.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Notte con luna.
Strada con veduta del canale. Da una parte la casa del Dottore, con un terrazzino. Dall'altra, locanda con l'insegna dell'Aquila. Nell'alzar della tenda vedesi una peota illuminata, disposta per una serenata con dentro i suonatori, ed una donna che canta. I suonatori suonano una sinfonia.
Florindo e Brighella in terra, da un lato della scena. Rosaura e Beatrice vengono sul terrazzino.
FLOR. Osserva, osserva, Brighella; ecco la mia cara Rosaura sul terrazzino con sua sorella Beatrice; sono venute a godere la serenata. Ora è tempo ch'io faccia cantare la canzonetta da me composta, per ispiegare con essa a Rosaura l'affetto mio. BRIG. ³ Mi non ho mai più visto un amor più curioso del vostro. Vusignoria ama teneramente la signora Rosaura: el ghe sta in casa, facendo pratica de medicina col signor dottor, padre della ragazza; el gh'ha quanto comodo el vol de parlarghe, e invece de farlo a bocca, el vol spiegarse con una serenada, el vol dirghelo con una canzonetta? Eh, no la butta via el so tempo cusì miseramente. La parla, la se fazza intender, la senta l'inclinazion della giovine; e se la ghe corrisponde, allora po la ghe fazza delle serenade, che almanco no la butterà via cusì malamente i so bezzi. FLOR. Caro Brighella, te l'ho detto altre volte: non ho coraggio. Amo Rosaura, ma non trovo la via di spiegarmi che l'amo. Credimi: se a faccia a faccia giungessi a dirle qualche cosa dell'amor mio, morirei di rossore.
BRIG. Donca la vol tirar avanti cussì? Penar senza dirlo? FLOR. Via, va alla peota, e ordina che si canti la nuova mia canzonetta. BRIG. La me perdona. Ho servido in Bologna so sior padre. Vusignoria l'ho vista a nascer, e ghe vojo ben. Siben che adesso in sta città servo un altro, co la vedo ella, me par de vèder el mio patron, e quelle ore che posso robar, le impiego volontiera... FLOR. Brighella, se mi vuoi bene, fa quello che ora ti ordino; va alla peota, e di' che si canti. BRIG. La servirò come la comanda. FLOR. Mi ritirerò dietro di questa casa. BRIG. Perchè retirarse? FLOR. Per non esser da nessuno osservato. BRIG. (Oh che amor stravagante! Oh che zovene fatto all'antiga! Ai nostri dì se ne trova pochi de sta sorte de mammalucchi.) (s'avvia verso la peota) FLOR. Cara Rosaura tu sei l'anima mia. Tu sei l'unica mia speranza. Oh se sapessi quanto ti amo! (si ritira)
I suonatori nella peota suonano il ritornello della canzonetta, e la donna dalla stessa peota canta la seguente canzonetta veneziana.
Idolo del mio cuor, Ardo per vu d'amor, E sempre, o mia speranza, Se avanza el mio penar.
Vorria spiegar, o cara, La mia ion amara; Ma un certo no so che... No so se m'intendè, Fa, che non so parlar.
Quando lontana sè, Quando no me vedè, Vorria, senza parlarve, Spiegarve el mio dolor; Ma co ve son arente, No son più bon da gnente. Un certo no so che... No so se m'intendè, Me fa serrar el cuor.
Se in viso me vardè, Fursi cognosserè Quel barbaro tormento, Che sento in tel mio sen. Dissimular vorria
La cruda pena mia; Ma un certo no so che... No so se m'intendè, Ve dise: el te vol ben.
Mio primo amor vu sè, E l'ultimo sarè, E se ho da maridarme, Sposarme vòi con vu; Ma, cara, femo presto... Vorave dir el resto, Ma un certo no so che... No so se m'intendè, No vol che diga più.
Peno la notte e 'l dì Per vu sempre cussì. Sta pena (se ho da dirla) Soffrirla più no so. Donca, per remediarla, Cara, convien che parla;
Ma un certo no so che... No so se m'intendè, Fa che parlar no so.
Sento che dise Amor: Lassa sto to rossor, E spiega quel tormento, Che drento in cuor ti gh'ha. Ma se a parlar me provo, Parole più no trovo, E un certo no so che... No so se m'intendè, Pur troppo m'ha incantà.
Frattanto che si canta la canzonetta, escono Lelio ed Arlecchino dalla Locanda, e stanno godendo la serenata. Terminata la canzonetta, i suonatori suonano, e la peota parte
BRIG. (piano a Florindo) Èla contenta? FLOR. Sono contentissimo. BRIG. Ela andada ben? FLOR. Non poteva andar meglio.
BRIG. Ma siora Rosaura no sa chi gh'abbia fatto sta serenada. FLOR. Ciò non m'importa: mi basta che l'abbia ella goduta. BRIG. La vada in casa, la se fazza veder, la fazza almanco sospettar che sta finezza vegna da Vusignoria. FLOR. Il cielo me ne liberi. Anzi, per non dar sospetto di ciò, vo per di qua. Faccio un giro, ed entro in casa per l'altra porta. Vieni con me. BRIG. Vegno dove la vol. FLOR. Questo è il vero amore. Amar senza dirlo. (partono)
SCENA II
Lelio e Arlecchino, Rosaura e Beatrice sul terrazzino.
LEL. Che ne dici, Arlecchino, eh? Bel paese ch'è questa Venezia! In ogni stagione qui si godono divertimenti. Ora che il caldo chiama di nottetempo al respiro, si godono di queste bellissime serenate. ARL. Mi sta serenada no la stimo un soldo ⁴ . LEL. No? Perchè? ARL. Perchè me piase le serenade, dove se canta e se magna. LEL. Osserva, osserva, Arlecchino, quelle due signore che sono su quel terrazzino. Le ho vedute anche dalla finestra della mia camera, e benchè fosse nell'imbrunir della sera, mi parvero belle. ARL. Per vusioria tutte le donne le son belle a un modo. Anca la siora Cleonice in Roma la ve pareva una stella, e adesso l'avì lassada. LEL. Non me ne ricordo nemmeno più. Stando tanto quelle signore sul terrazzino, mi do a credere che non sieno delle più ritirate. Voglio tentar la mia sorte. ARL. Con patto che ghe disè ogni quattro parole diese busìe. LEL. Sei un impertinente. ARL. Faressi mejo andar a casa del sior Pantalon vostro padre. LEL. Egli è in campagna. Quando verrà a Venezia, andrò a stare con lui. ARL. E in tanto volì star alla locanda? LEL. Sì, per godere la mia libertà. È tempo di fiera, tempo d'allegria: sono
vent'anni che manco dalla mia cara patria. Osserva, come al chiaro della luna, pajono brillanti quelle due signore. Prima d'inoltrarmi a parlar con esse, bramerei sapere chi sono. Fa una cosa, Arlecchino, va alla locanda, e chiedi ad alcuno de' camerieri chi sono e se son belle, e come si chiamano. ARL. Per tutta sta roba ghe vuol un mese. LEL. Va, sbrigati, e qui ti attendo. ARL. Ma sto voler cercar i fatti d'altri... LEL. Non far che la collera mi spinga a bastonarti. ARL. Per levarghe l'incomodo, vado a servirla. (torna in locanda) LEL. Vo' provarmi, se mi riesce in questa sera profittar di una nuova avventura. (va eggiando) ROS. È vero, sorella, è vero; la serenata non poteva essere più magnifica. BEAT. Qui d'intorno non mi pare vi sieno persone che meritino tanto, onde mi lusingo che sia stata fatta per noi. ROS. Almeno si sapesse per quale di noi, e da chi sia stata ordinata. BEAT. Qualche incognito amante delle vostre bellezze. ROS. O piuttosto qualche segreto ammiratore del vostro merito. BEAT. Io non saprei a chi attribuirla. Il signor Ottavio par di me innamorato, ma s'egli avesse fatta fare la serenata, non si sarebbe celato. ROS. Nemmen io saprei sognarmi l'autore. Florindo non può essere. Più volte ho procurato dirgli qualche dolce parola, ed egli si è sempre mostrato nemico d'amore. BEAT. Vedete colà un uomo che eggia? ROS. Sì, e al lume di luna pare ben vestito. LEL. (da sè eggiando) (Arlecchino non torna; non so chi sieno, nè come
regolarmi. Basta, starò sui termini generali). ROS. Ritiriamoci. BEAT. Che pazzia! Di che avete paura? LEL. Gran bella serenità di cielo! Che notte splendida e quieta! (verso il terrazzino) Mah! Non è maraviglia, se il cielo splende più dell'usato, poichè viene illuminato da due vaghissime stelle. ROS. (a Beatrice) (Parla di noi.) BEAT. (a Rosaura) (Bellissima! Ascoltiamo.) LEL. Non vi è pericolo che l'umido raggio della luna ci offenda, poichè due soli ardenti riscaldano l'aria. BEAT. (a Rosaura) (O è qualche pazzo; o qualche nostro innamorato.) ROS. (a Beatrice) (Pare un giovane molto ben fatto, e parla assai bene.) LEL. Se non temessi la taccia di temerario, ardirei augurare a lor signore la buona notte. ROS. Anzi ci fa onore. LEL. Stanno godendo il fresco? Veramente la stagion lo richiede. BEAT. Godiamo questo poco di libertà, per l'assenza di nostro padre. LEL. Ah, non è in città il loro genitore? BEAT. No, signore. ROS. Lo conosce ella nostro padre? LEL. Oh, è molto mio amico. Dove è andato, se è lecito saperlo? ROS. A Padova, per visitare un infermo. LEL. (Sono figlie d'un medico.) Certo è un grand'uomo il signor dottore: è
l'onore del nostro secolo. ROS. Tutta bontà di chi lo sa compatire. Ma in grazia, chi è lei che ci conosce, e non è da noi conosciuto? LEL. Sono un adoratore del vostro merito. ROS. Del mio? LEL. Di quello di una di voi, mie signore. BEAT. Fateci l'onore di dirci di qual di noi v'intendiate. LEL. Permettetemi che tuttavia tenga nascosto un tale arcano. A suo tempo mi spiegherò. ROS. (a Beatrice) (Questo vorrà una di noi per consorte.) BEAT. (a Rosaura) (Sa il cielo a chi toccherà tal fortuna.)
SCENA III
Arlecchino, dalla locanda, e detti.
ARL. (cercando Lelio) Dov'el andà? LEL. (piano ad Arlecchino, incontrandolo) (E bene, sai tu il loro nome?) ARL. (So tutto. El camerier m'ha dito tutto.) LEL. (Presto.) ARL. (Le son fie d'un certo...) LEL. (Non voglio saper questo. Dimmi il loro nome.) ARL. (Adesso. So pader l'è un medico.) LEL. (Lo so. Dimmi il loro nome, che tu sia maledetto.) ARL. (Una se chiama Rosaura, e l'altra Beatrice.) LEL. (Basta così.) (torna sotto al terrazzino) Perdonino. Ho data una commissione al mio servitore. ROS. Ma voi siete veneziano, o pur forestiere? LEL. Sono un cavaliere napolitano. ARL. (Cavaliere e napolitano? Do busìe in t'una volta.) ROS. Ma come ci conoscete? LEL. Sarà ormai un anno, ch'io albergo incognito in questa città. ARL. (Semo arrivadi jer sera). (da sè)
LEL. Appena arrivato, mi si presentarono agli occhi le bellezze della signora Rosaura e della signora Beatrice. Stetti qualche tempo dubbioso a chi dovessi donar il cuore, sembrandomi tutte due esserne degne, ma finalmente sono stato costretto a dichiararmi... ROS. Per chi? LEL. Questo è quello che dir non posso per ora. ARL. (da sè) (Se le ghe tenderà, el le torrà tutte do.) BEAT. Ma perchè avete renitenza a spiegarvi? LEL. Perchè temo prevenuta quella beltà ch'io desidero. ROS. Io vi assicuro che non ho amanti. BEAT. Nemmen io sono con alcuno impegnata. ARL. (a Lelio, piano) (Do piazze vacanti! l'è la vostra fortuna.) LEL. Però si fanno le serenate sotto le vostre finestre. ROS. Vi giuro sull'onor mio che non ne sappiamo l'autore. BEAT. Il cielo mi fulmini, se mi è noto chi l'abbia fatta. LEL. Lo credo anch'io che non lo saprete. Ma veramente avreste curiosità di saperlo? ROS. Io ne muojo di volontà. BEAT. Siamo donne, e tanto basta. LEL. Orsù, vi leverò io di queste pene. La serenata che avete goduta, è un piccolo testimonio di quell'affetto ch'io nutro per la mia bella. ARL. (Oh maledettissimo! Che boccon de carota!) ROS. E non volete dire per chi?
LEL. No certamente. Avete voi sentita quella canzonetta, ch'io feci cantare? Non parlava ella d'un amante segreto e timido? Quello appunto son io. ROS. Se dunque alcuna di noi non vi ringrazia, imputatelo a voi stesso, che non volete dichiarare a chi sieno stati diretti i vostri favori. LEL. Non merita ringraziamenti una tenue dimostrazione di stima. Se avrò l'onore di servire scopertamente quella ch'io amo, farò stupire Venezia per il buon gusto, con cui soglio dare i divertimenti. ARL. (E un de sti dì s'impegna i abiti, se no vien so padre.) ROS. (a Beatrice) (Sorella, questo è un cavalier molto ricco.) BEAT. (a Rosaura) Non sarà per me. Son troppo sfortunata. ROS. Signore, favoritemi almeno il vostro nome. LEL. Volentieri. Don Asdrubale de' Marchesi di Castel d'Oro. ARL. (Nomi e cognomi no ghe ne manca.) BEAT. (a Rosaura) (Ritiriamoci. Non ci facciamo credere due civette.) ROS. (Dite bene. Usiamo prudenza). Signor marchese, con sua licenza, l'aria principia a offenderci il capo. LEL. Volete già ritirarvi? BEAT. Una vecchia di casa ci sollecita, perchè andiamo al riposo. LEL. Pazienza! Resto privo di un gran contento. ROS. In altro tempo goderemo le vostre grazie. LEL. Domani, se il permettete, verrò in casa a riverirvi. ARL. (Sì, a drettura in casa.) ROS. Oh! bel bello, signor amante timido. In casa non si viene con questa facilità.
LEL. Almeno vi riverirò alla finestra. ROS. Sin qui ve lo concediamo. BEAT. E se vi dichiarerete, sarete ammesso a qualche cosa di più. LEL. Al ritorno del signor dottore, ne parleremo. Intanto... ROS. Signor marchese, la riverisco. (entra) BEAT. Signor Asdrubale, le son serva. (entra)
SCENA IV
Lelio ed Arlecchino.
ARL. (a Lelio ridendo) Signor napolitano, ghe baso la man. LEL. Che ne dici? Mi sono portato bene? ARL. Mi no so come diavolo fè a inventarve tante filastrocche, a dir tante busìe senza mai confonderve. LEL. Ignorante! Queste non sono bugie; sono spiritose invenzioni, prodotte dalla fertilità del mio ingegno pronto e brillante. A chi vuol godere il mondo, necessaria è la franchezza, e non s'hanno a perdere le buone occasioni. (parte)
SCENA V
Arlecchino, poi Colombina sul terrazzino.
ARL. No vedo l'ora che vegna a Venezia so pader, perchè sto matto el se vol precipitar. COL. Ora che le padrone vanno a letto, posso anch'io prendere un poco d'aria. ARL. Un'altra femena sul terrazzin! No la me par nissuna de quelle do. COL. Un uomo eggia e mi guarda; sarebbe tempo che anch'io, poverina, trovassi la mia fortuna. ARL. Vòi veder se me basta l'animo anca a mi de infilzarghene quattro, sul gusto del mio padron. COL. In verità, che si va accostando. ARL. Riverisco quel bello che anche di notte risplende, e non veduto, innamora ⁴ ¹. COL. Signore, chi siete voi? ARL. Don Piccaro di Catalogna. COL. (Il Don è titolo di cavaliere.) ARL. Son uno che more, spasima e diventa matto per voi. COL. Ma io non vi conosco. ARL. Sono un amante timido e vergognoso. COL. Con me può parlare con libertà, mentre sono una povera serva.
ARL. (Serva! Giusto un bon negozio per mi.) Ditemi, bella servetta, avete voi sentita a cantare quella canzonetta? COL. Sì, signore, l'ho sentita. ARL. Sapete chi l'ha cantata? COL. Io, no certamente. ARL. L'ho cantata io. COL. La voce pareva di donna. ARL. Io ho l'abilità di cantare in tutte le voci. I miei acuti vanno due ottave fuori del cembalo. COL. Era veramente una bella canzonetta amorosa. ARL. L'ho composta io. COL. È anche poeta? ARL. Ho succhiato anch'io il latte di una mussa ⁴ ². COL. Ma per chi ha fatto tutte queste fatiche? ARL. Per voi, mia cara, per voi. COL. Se credessi dicesse il vero, avrei occasione d'insuperbirmi. ARL. Credetelo, ve lo giuro per tutti i titoli della mia nobiltà. COL. Vi ringrazio di tutto cuore. ARL. Mia bella, che non farei per le vostre luci vermiglie? COL. Vengo, vengo. Signore, le mie padrone mi chiamano. ARL. Deh, non mi private delle rubiconde tenebri della vostra bellezza. COL. Non posso più trattenermi.
ARL. Ci rivedremo. COL. Sì, ci rivedremo. Signor Don Piccaro, vi riverisco. (entra) ARL. Gnanca mi no m'ho portà mal. Dise ben el proverbi, che chi stà col lovo, impara a urlar. Faria tort al me padron se andass via dal so servizio, senza aver imparà a dir cento mille busie. (va in locanda)
SCENA VI
Giorno.
Florindo e Brighella.
BRIG. Ecco qua: tutta la notte in serenada, e po la mattina a bon ora fora de casa. L'amor, per quel che vedo, ghe leva el sonno. FLOR. Non ho potuto dormire, per la consolazione recatami dal bell'esito della mia serenata. BRIG. Bella consolazion! Aver speso i so bezzi, aver perso la notte, senza farsi merito colla morosa! FLOR. Bastami che Rosaura l'abbia goduta. Io non ricerco di più. BRIG. La se contenta de troppo poco. FLOR. Senti, Brighella, intesi dire l'altr'jeri dalla mia cara Rosaura, ch'ella aveva desiderio d'avere un fornimento di pizzi di seta; ora che siamo in occasione di fiera, voglio io provvederglieli, e farle questo regalo. BRIG. Ben; e co stà occasion la poderà scomenzar a introdur el discorso, per descovrirghe el so amor. FLOR. Oh, non glieli voglio dar io. Caro Brighella, ascoltami e fa quanto ti dico, se mi vuoi bene. Prendi questa borsa, in cui vi sono dieci zecchini; va in Merceria, compra quaranta braccia di pizzi de' più belli che aver si possano, a mezzo filippo al braccio. Ordina al mercante che li faccia avere a Rosaura, ma con espressa proibizione di svelar chi li manda. BRIG. Diese zecchini buttadi via.
FLOR. Perchè? BRIG. Perchè no savendo la siora Rosaura da chi vegna el regalo, non l'averà nè obbligazion, nè gratitudine con chi la regala. FLOR. Non importa, col tempo lo saprà. Per ora voglio acquistar merito senza scoprirmi. BRIG. Ma come avì fatto a unir sti diese zecchini? FLOR. Fra le mesate che mi manda da Bologna mio padre, e qualche incerto delle visite ch'io vo facendo in luogo del mio principale... BRIG. Se unisce tutto, e se buta via. FLOR. Via, Brighella, va subito a farmi questo piacere. Oggi è il primo giorno di fiera: vorrei ch'ella avesse i pizzi avanti l'ora di pranzo. BRIG. No so cossa dir, lo fazzo de mala voja, ma lo servirò. FLOR. Avverti che sieno belli. BRIG. La se fida de mi. FLOR. Ti sarò eternamente obbligato. BRIG. (Co sti diese zecchini, un omo de spirito, el goderìa mezzo mondo.) (parte)
SCENA VII
Florindo, poi Ottavio.
FLOR. Ecco lì quel caro terrazzino, a cui s'affaccia il mio bene. S'ella ora venisse, mi pare che vorrei azzardarmi di dirle qualche parola. Le direi, per esempio... OTT. (sopraggiunge dalla parte opposta al terrazzino, e sta osservando Florindo) FLOR. Sì, le direi: Signora, io vi amo teneramente; non posso vivere senza di voi; siete l'anima mia. Cara, movetevi a comione di me. (si volta, e vede Ottavio) (Oimè, non vorrei che mi avesse veduto.) Amico, che dite voi della bella architettura di quel terrazzino? OTT. Bellissimo; ma, di grazia, siete voi architetto o ritrattista? FLOR. Che cosa volete voi dire? OTT. Voglio dire, se siete qui per copiare il disegno del terrazzino, o il bel volto delle padrone di casa. FLOR. Io non so quel che voi vi diciate. OTT. Benché, con più comodo, potete ritrarle in casa. FLOR. Io attendo alla mia professione. Fo il medico, e non il pittore. OTT. Caro amico, avete voi sentita la serenata, che fu fatta in questo canale la scorsa notte? FLOR. Io vado a letto per tempo. Non so di serenate. OTT. Eppure siete stato veduto ar di qui, mentre si cantava nella peota. FLOR. Sarò ato a caso. Io non so nulla. Io non ho innamorate...
OTT. (Parmi che si confonda. Sempre più credo ch'ei ne sia stato l'autore). FLOR. Signor Ottavio, vi riverisco. OTT. Fermatevi per un momento. Sapete che siamo amici. Non mi nascondete la verità. Io amo la signora Beatrice, e a voi non ho difficoltà di svelarlo. Se voi amate la signora Rosaura, potrò io forse contribuire a giovarvi; se amate la signora Beatrice, son pronto a cederla, se ella vi preferisce. FLOR. Vi torno a dire che io non faccio all'amore. Applico alla medicina e alla chirurgia, e non mi curo di donne. OTT. Eppure non vi credo. Più volte vi ho sentito gettar de' sospiri. Per la medicina non si sospira. FLOR. Orsù, se non mi volete credere, non m'importa. Vi torno a dire che io non amo donna veruna, e se guardavo quella finestra, erano attratti i miei lumi dalla vaghezza del suo disegno. (guarda le finestre, e parte)
SCENA VIII
Ottavio, poi Lelio.
OTT. Senz'altro è innamorato, e non volendolo a me confidare, temo che sia la sua diletta Beatrice. Se la scorsa notte foss'io stato alla locanda, e non l'avessi perduta miseramente al giuoco, avrei veduto Florindo, e mi sarei d'ogni dubbio chiarito; ma aprirò gli occhi, e saprò svelare la verità. LEL. (uscendo dalla locanda) Chi vedo! Amico Ottavio! OTT. Lelio mio dilettissimo. LEL. Voi qui? OTT. Voi ritornato alla patria? LEL. Sì; vi giunsi nel giorno di jeri. OTT. Come avete voi fatto a lasciar Napoli, dove eravate ferito da cento strali amorosi? LEL. Ah, veramente sono di là con troppa pena partito, avendo lasciate tante bellezze da me trafitte. Ma appena giunto in Venezia, le belle avventure che qui mi sono accadute, m'hanno fatto scordare tutte le bellezze napoletane. OTT. Mi rallegro con voi. Sempre fortunato in amore. LEL. La fortuna qualche volta sa far giustizia, e amore non è sempre cieco. OTT. Già si sa, è il vostro merito, che vi arricchisce di pellegrine conquiste. LEL. Ditemi, siete voi pratico di questa città? OTT. Qualche poco. Sarà un anno che vi abito.
LEL. Conoscete voi quelle due sorelle, che abitano in quella casa? OTT. (Voglio scoprir terreno.) Non le conosco. LEL. Amico, sono due belle ragazze. Una ha nome Rosaura, e l'altra Beatrice; sono figlie di un dottore di medicina, e tutt'e due sono innamorate di me. OTT. Tutt'e due? LEL. Sì, tutt'e due. Vi par cosa strana? OTT. Ma come avete fatto a innamorarle sì presto? LEL. Appena mi videro, furono esse le prime a farmi un inchino, e m'invitarono a parlar seco loro. OTT. (Possibile che ciò sia vero!) LEL. Pochissime delle mie parole bastarono per incantarle; e tutt'e due mi si dichiararono amanti. OTT. Tutt'e due? LEL. Tutt'e due. OTT. (Fremo di gelosia.) LEL. Volevano ch'io entrassi in casa... OTT. (Anco di più!) LEL. Ma siccome si avvicinava la sera, mi venne in mente di dar loro un magnifico divertimento, e mi licenziai. OTT. Avete forse fatto fare una serenata? LEL. Per l'appunto. Lo sapete anche voi? OTT. Sì, mi fu detto. (Ora ho scoperto l'autore della serenata; Florindo ha ragione.)
LEL. Ma non terminò colla serenata il divertimento della scorsa notte. OTT. (con ironia) Bravo, signor Lelio, che faceste di bello? LEL. Smontai dalla peota, feci portar in terra da' miei servidori una sontuosa cena, e impetrai dalle due cortesi sorelle l'accesso in casa, ove si terminò la notte fra i piatti e fra le bottiglie. OTT. Amico, non per far torto alla vostra onestà, ma giudicando che vogliate divertirvi meco, sospendo di credere ciò che mi avete narrato. LEL. Che? vi pajono cose straordinarie? Che difficoltà avete a crederlo? OTT. Non è cosa tanto ordinaria che due figlie oneste e civili, mentre il loro genitore è in campagna, aprano la porta di notte ad uno che può are per forestiere, e permettano, che in casa loro si faccia un tripudio.
SCENA IX
Arlecchino e detti.
LEL. Ecco il mio servo. Ricercatelo minutamente, se è vero quanto vi dissi. OTT. (Sarebbe un gran caso che avessero commessa una simile debolezza!) LEL. Dimmi un poco, Arlecchino, dove sono stato la scorsa notte? ARL. A chiappar i freschi. LEL. Non ho parlato io sotto quel terrazzino con due signore? ARL. Gnorsì, l'è vera. LEL. Non ho fatta fare una serenata? ARL. Siguro, e mi ho cantà la canzonetta. LEL. Dopo non abbiamo fatto la cena? ARL. La cena... LEL. Sì, la gran cena in casa della signora Rosaura e della signora Beatrice. (gli fa cenno che dica di sì) ARL. Sior sì, dalla siora Rosaura e dalla siora Beatrice. LEL. Non fu magnifica quella cena? ARL. E che magnada che avemo dà! LEL. (ad Ottavio) Sentite? Eccovi confermata ogni circostanza. OTT. Non so che ripetere: siete un uomo assai fortunato.
LEL. Non dico per dire, ma la fortuna non è il primo motivo delle mie conquiste. OTT. Ma da che derivano queste? LEL. Sia detto colla dovuta modestia, da qualche poco di merito. OTT. Sì, ve l'accordo. Siete un giovine di brio, manieroso; a Napoli ho avuto occasione di ammirare il vostro spirito: ma innamorar due sorelle così su due piedi... mi par troppo. LEL. Eh amico! ne vedrete delle più belle! OTT. Sono schiavo del vostro merito e della vostra fortuna. A miglior tempo ci goderemo. Ora, se mi date licenza, devo andare nella mia camera a prendere del denaro per pagare la perdita della scorsa notte. (s'incammina verso la locanda) LEL. Dove siete alloggiato? OTT. In quella locanda. LEL. (Oh diavolo!) Alloggio anch'io nella locanda istessa, ma nè jeri, nè la notte ata vi ho qui veduto. OTT. Andai a pranzo fuori di casa, ed ho giuocato tutta la notte. LEL. Siete qui da tanto tempo alloggiato e non conoscete quelle due signore? OTT. Le conosco di vista, ma non ho seco loro amicizia. (Non vo' scoprirmi). LEL. Sentite: se mai v'incontraste a parlar con esse, avvertite non far loro nota la confidenza che a voi ho fatta. Sono cose che si fanno segretamente. Ad altri che a un amico di cuore, non le avrei confidate. OTT. Amico, a rivederci. LEL. Vi sono schiavo. OTT. (Non mi sarei mai creduto che Rosaura e Beatrice avessero così poca riputazione.) (entra in locanda)
SCENA X
Lelio ed Arlecchino.
ARL. Sior patron, se farì cussì, s'imbroieremo. LEL. Sciocco che sei, secondami e non pensar altro. ARL. Femo una cossa. Quando volì dir qualche busìa... LEL. Asinaccio! Qualche spiritosa invenzione. ARL. Ben. Quando volì dir qualche spiritosa invenzion, feme un segno, acciò che anca mi possa segondar la spiritosa invenzion. LEL. Questa tua goffaggine m'incomoda infinitamente. ARL. Fe cusì, quando volì che segonda, tirè un starnudo. LEL. Ma vi vuol tanto a dir come dico io? ARL. Me confondo. No so quando abbia da parlar, e quando abbia da taser.
SCENA XI
Rosaura e Colombina mascherate, di casa, e detti.
LEL. Osserva, Arlecchino, quelle due maschere che escono di quella casa. ARL. Semio de carneval? LEL. In questa città, il primo giorno della fiera si fanno maschere ancor di mattina. ARL. Chi mai sarale? LEL. Assolutamente saranno le due sorelle, colle quali ho parlato la scorsa notte. ARL. Sti mustazzi coverti l'è una brutta usanza. LEL. Signore, non occorre celar il volto per coprire le vostre bellezze, mentre la luce tramandata da' vostri occhi bastantemente vi manifesta. ROS. (accennando Colombina) Anco questa? LEL. Sono impegnato per ora a non distinguere il merito di una sorella da quello dell'altra. ROS. Ma questa è la cameriera. ARL. Alto là, sior padron, questa l'è roba mia. LEL. Non è gran cosa ch'io abbia equivocato con due maschere. ROS. Però i raggi delle luci di Colombina fanno nel vostro spirito l'istessa impressione de' miei. LEL. Signora, ora che posso parlarvi con libertà, vi dirò che voi sola siete quella che attraete tutte le mie ammirazioni, che occupate intieramente il mio cuore, e
se parlai egualmente della creduta vostra sorella, lo feci senza mirarla. ROS. E mi distinguete da mia sorella, benchè mascherata? LEL. E come! Vi amerei ben poco, se non sapessi conoscervi. ROS. E da che mi conoscete? LEL. Dalla voce, dalla figura, dall'aria nobile e maestosa, dal brio de' vostri occhi, e poi dal mio cuore, che meco non sa mentire. ROS. Ditemi, in grazia, chi sono io? LEL. Siete l'idolo mio. ROS. Ma il mio nome qual è? LEL. (Conviene indovinarlo). Rosaura. ROS. Bravo! ora vedo che mi conoscete. (si scuopre) LEL. (Questa volta la sorte mi ha fatto coglier nel vero.) (piano ad Arlecchino) Osserva, Arlecchino, che volto amabile! ARL. (Crepo dalla curiosità de veder in tel babbio quell'altra.) ROS. Posso veramente assicurarmi dell'amor vostro? LEL. Asdrubale non sa mentire. Vi amo, vi adoro, e quando mi è vietato il vedervi, non fo che da me stesso ripetere il vostro nome, lodar le vostre bellezze. (ad Arlecchino) Di' tu, non è vero? ARL. (da sè) (Se podesse veder quella maschereta!) LEL. Rispondi, non è vero? (starnuta) ARL. Sior sì, l'è verissimo. ROS. Perchè dunque, se tanto mi amate, non vi siete finora spiegato? LEL. Vi dirò, mia cara. Il mio genitore voleva accasarmi a Napoli con una
palermitana, ed io che l'aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze. Scrissi a mio padre che, delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo jeri n'ebbi con lettera il di lui assenso. ROS. Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico. LEL. Eppure è la verità. (starnuta) ARL. Signora sì, la lettera l'ho letta mi. ROS. Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa. LEL. La casa di Castel d'Oro non ha bisogno di dote. Il mio genitore è un bravo economo. Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze. Voi sarete una ricca sposa. ROS. Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi. LEL. Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità. Da che ho l'uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia. (Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore. (starnuta) ARL. Signora sì; el me padron l'è la bocca della verità. ROS. Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite? LEL. Subito che ritorna vostro padre in Venezia. ROS. Vedrò se veramente mi amate di cuor leale. LEL. Non troverete l'uomo più sincero di me.
SCENA XII
Un Giovane di merceria, con scatola di pizzi, e detti.
GIOV. Questa mi par la casa del signor dottore. (si accosta per battere) ROS. Chi domandate, quel giovine? GIOV. Perdoni, signora maschera, è questa la casa del signor dottor Balanzoni? ROS. Per l'appunto: che ricercate? GIOV. Ho della roba da consegnare alla signora Rosaura, di lui figliuola. ROS. Quella sono io. Che roba è? Chi la manda? GIOV. Questi sono quaranta braccia di bionda. Il mio padrone m'ha detto che viene a lei; ma nè egli, nè io sappiamo chi sia la persona che l'ha comprata. ROS. Quand'è così, riportatela pure. Io non ricevo la roba se non so da chi mi viene mandata. GIOV. Io ho l'ordine di lasciargliela in ogni forma. Se non la vuol ricevere per la strada, batterò e la porterò in casa. ROS. Vi dico che non la voglio assolutamente. GIOV. È pagata: costa dieci zecchini. ROS. Ma chi la manda? GIOV. Non lo so, da giovine onorato. ROS. Dunque non la voglio. LEL. Signora Rosaura, ammiro la vostra delicatezza. Prendete i pizzi senza
riguardo, e poichè li ricusate per non sapere da qual mano vi vengono presentati, sono forzato a dirvi esser quei pizzi un piccolo testimonio della mia stima. GIOV. Sente? Li ha comprati questo signore. ARL. (si maraviglia) ROS. (a Lelio) Voi me li regalate? LEL. Sì, mia signora, e volevo aver il merito di farlo senza dirlo, per non avere il rossore di offerirvi una cosa così triviale. GIOV. Sappia, signora, che di meglio difficilmente si trova. LEL. Io poi sono di buon gusto. Il mio denaro lo spendo bene. ARL. (Oh che galiotto!) ROS. Gradisco sommamente le vostre grazie. Credetemi che quei pizzi mi sono cari all'eccesso. Per l'appunto li desideravo e li volevo comprare, non però così belli. Prendi, Colombina. Domani principierai a disporli pel fornimento. (Colombina riceve dal Giovane la scatola) GIOV. (a Lelio) Comanda altro? LEL. No, andate pure. GIOV. Illustrissimo, mi dona la cortesia? LEL. Ci rivedremo. GIOV. (a Rosaura) Signora, l'ho servita puntualmente. ROS. Aspettate, vi darò la mancia... LEL. Mi maraviglio. Farò io. GIOV. (a Lelio) Grazie infinite. Son qui da lei. LEL. Andate, che ci rivedremo.
GIOV. (Ho inteso, non lo vedo mai più.) (parte)
SCENA XIII
Lelio, Rosaura, Colombina e Arlecchino.
ROS. Se mi date licenza, torno in casa. LEL. Non volete ch'io abbia l'onore di servirvi? ROS. Per ora no. Uscii mascherata solo per vedervi e parlarvi e sentire da voi chi era la fortunata favorita dalla vostra predilezione. Ora tutta lieta me ne ritorno dentro. LEL. Vi portate con voi il mio cuore. ROS. A mia sorella che dovrò dire? LEL. Per ora non vi consiglio scoprire i nostri interessi. ROS. Tacerò, perchè m'insinuate di farlo. LEL. Sposina, amatemi di buon cuore. ROS. Sposa? Ancor ne dubito. LEL. Le mie parole sono contratti. ROS. Il tempo ne sarà giudice. (entra in casa) COL. (Quel morettino mi pare quello che parlò meco stanotte, ma l'abito non è di Don Piccaro. Or ora, senza soggezione, mi chiarirò.) (entra in casa)
SCENA XIV
Lelio ed Arlecchino, poi Colombina.
ARL. Sia maledetto, l'è andada via senza che la possa veder in fazza. LEL. Che dici della bellezza di Rosaura? Non è un capo d'opera? ARL. Ella l'è un capo d'opera de bellezza, e Vusioria un capo d'opera per le spiritose invenzion. LEL. Dubito che ella abbia qualche incognito amante, il quale aspiri alla sua grazia e non ardisca di dirlo. ARL. E vu mò, prevalendove dell'occasion, supplì alle so mancanze. LEL. Sarei pazzo, se non mi approfittassi d'una sì bella occasione. COL. (torna a uscire di casa, senza maschera) ARL. Oe, la cameriera torna in strada. La mia, in materia de muso, no la gh'ha gnente d'invidia della vostra. LEL. Se puoi, approfittati; se fai breccia, procura ch'ella cooperi colla sua padrona per me. ARL. Insegnème qualche busìa. LEL. La natura a tutti ne somministra. ARL. Signora, se non m'inganno, ella è quella de sta notte. COL. Sono quella di questa notte, quella di jeri e quella che ero già vent'anni. ARL. Brava, spiritosa! Mi mo son quello che sta notte gh'ha dito quelle belle parole.
COL. Il signor Don Piccaro? ARL. Per servirla. COL. Mi perdoni, non posso crederlo. L'abito che ella porta, non è da cavaliere. ARL. Son cavaliere, nobile, ricco e grande; e se non lo credete, domandatelo a questo mio amico. (starnuta verso Lelio) COL. Evviva. ARL. Obbligatissimo. (piano a Lelio) (Sior padron, ho starnudado.) LEL. (piano ad Arlecchino) (Sbrigati e vieni meco). ARL. (piano a Lelio) (Ve prego, confermè anca vu le mie spiritose invenzion.) COL. Di che paese è, mio signore? (ad Arlecchino) ARL. Io sono dell'alma città di Roma. Sono imparentato coi primi cavalieri d'Europa, ed ho i miei feudi nelle quattro parti del mondo. (starnuta forte) COL. Il ciel l'ajuti! ARL. Non s'incomodi, ch'è tabacco. (piano a Lelio) (Gnanca per servizio?) LEL. (Le dici troppo pesanti.) ARL. (Gnanca le vostre no le son liniere.) COL. Il signor Marchese, che ama la mia padrona, l'ha regalata; se Vossignoria fe stima di me, farebbe lo stesso. ARL. Comandate. Andate in Fiera, prendete quel che vi piace, ch'io pagherò; e disponete sino ad un mezzo milione. COL. Signor Don Piccaro, è troppo grossa. (entra in casa)
SCENA XV
Lelio ed Arlecchino.
LEL. Non te l'ho detto? Sei un balordo. ARL. Se l'ho da sbarar, tanto serve metter man al pezzo più grosso. LEL. Orsù, sieguimi; voglio andar nell'albergo. Non vedo l'ora di vedere Ottavio, per raccontargli questa nuova avventura. ARL. Me par a mi che no sia troppo ben fatto raccontar tutti i fatti soi. LEL. Il maggior piacer dell'amante è il poter raccontare con vanità i favori della sua bella. ARL. E con qualche poco de zonta. LEL. Il racconto delle avventure amorose non può aver grazia senza un po' di romanzo. (entra in locanda) ARL. Evviva le spiritose invenzion. (entra in locanda)
SCENA XVI
Una gondola condotta da due barcajuoli, dalla quale sbarcano Pantalone e il Dottore, vestiti da campagna.
DOTT. Grazie al cielo, siamo arrivati felicemente. PAN. Dalla Mira a Venezia no se pol vegnir più presto de quel che semo vegnui ⁴ ³. DOTT. Questo per me è stato un viaggio felicissimo. In primo luogo sono stato a Padova, dove in tre consulti ho guadagnato dieci zecchini. Questa notte sono stato in casa vostra trattato in Apolline, e poi soprattutto il matrimonio che abbiamo concluso fra il signor Lelio, vostro figlio, e Rosaura, mia figlia, mi colma d'allegrezza e di consolazione. PAN. Xè tanti anni che semo amici, ho gusto che deventemo parenti. DOTT. Quando credete che vostro figlio possa arrivare in Venezia? PAN. Coll'ultima lettera che el m'ha scritto da Roma el me dise che el parte subito. Ancuo o doman l'averave da esser qua. DOTT. Ditemi, caro amico, è poi un giovane ben fatto? Forte, prosperoso? Mia figlia sarà in grado di esser contenta? PAN. Mi veramente xè vinti anni che no lo vedo. De dies'anni l'ho mandà a Napoli da un mio fradello, col qual negozievimo insieme. DOTT. Se lo vedeste, non lo conoscereste? PAN. Siguro, perchè el xè andà via putello. Ma per le relazion ch'ho avude de elo, l'è un zovene de proposito, de bona presenza e de spirito. DOTT. Ho piacere. Tanto più mia figlia sarà contenta.
PAN. Xè assae che no l'abbiè maridada avanti d'adesso. DOTT. Vi dirò la verità. Ho in casa uno scolaro del mio paese, un certo signor Florindo, giovine di buona casa e d'ottimi costumi. Io ho sempre desiderato di darla a lui per moglie, ma finalmente mi sono assicurato ch'è contrarissimo al matrimonio e nemico del sesso femminino, onde ho risoluto di collocarla in qualch'altra casa. Fortunatamente son venuto da voi, e in quattro parole abbiamo concluso il miglior negozio di questo mondo. PAN. E siora Beatrice la voleu maridar? DOTT. Ora che marito Rosaura, se posso, voglio spicciarmi anche di lei. PAN. Farè ben. Le putte in casa, specialmente co no gh'è la madre, no le sta ben. DOTT. Vi è un certo signor Ottavio, cavalier padovano, che la prenderebbe, ma sin ad ora non ho voluto che la maggiore restasse indietro. Ora può darsi che gliela dia. PAN. Sior Ottavio lo cognosso; cognosso so sior pare e tutta la so casa. Dèghela, che fe un bon negozio. DOTT. Tanto più gliela darò, perchè voi mi date questo consiglio. Signor Pantalone, vi ringrazio d'avermi fatto condurre sin qui dalla vostra gondola. Vado in casa, vado a principiare il discorso a tutt'e due le mie figlie, ma specialmente a Rosaura, che, se non m'inganno, parmi di vedere in quegli occhi una grand'inclinazione al matrimonio. (apre la porta, ed entra in casa)
SCENA XVII
Pantalone solo.
Sta inclinazion ghe xè poche putte che no la gh'abbia. Chi per meggiorar condizion, chi per aver un poco più de libertà, chi per no dormir sole, no le vede l'ora de maridarse.
SCENA XVIII
Lelio ed un Vetturino, dalla locanda, e detto.
VETT. Mi maraviglio di lei, che non si vergogni darmi un zecchino di mancia da Napoli sino a Venezia. LEL. La mancia è cortesia, e non è obbligo; e quando ti do un zecchino, intendo trattarti bene. VETT. Le mance sono il nostro salario. Da Napoli a qui mi aspettavo almeno tre zecchini. PAN. (da sè) (Sto zentilomo vien da Napoli, chi sa che no l'abbia visto mio fio.) LEL. Orsù, se vuoi lo zecchino, bene; se no, lascialo, e ti darò in cambio una dozzina di bastonate. VETT. Se non fossimo a Venezia, le farei vedere quel che sono i vetturini napoletani. LEL. Vattene, e non mi rompere il capo. VETT. Ecco cosa si guadagna a servire questi pidocchi. (parte) LEL. Temerario! Ti romperò le braccia. (È meglio lasciarlo andare.) PAN. (Che el fusse elo mio fio?) LEL. Vetturini! Non si contentano mai. Vorrebbero potere scorticare il povero forestiere. PAN. (Voggio assicurarme con bona maniera, per no fallar.) Lustrissimo, la perdona l'ardir, vienla da Napoli? LEL. Sì, signore.
PAN. A Napoli gh'ho dei patroni e dei amici assae; carteggio con molti cavalieri; se mai vusustrissima fusse un de quelli, sarave mia fortuna el poderla servir. LEL. Io sono il conte d'Ancora per servirvi. PAN. (Cancarazzo! Nol xè mio fio. M'avea ingannà.) La perdona, lustrissimo sior conte, l'ardìr: ala cognossù in Napoli un certo sior Lelio Bisognosi? LEL. L'ho conosciuto benissimo; anzi era molto mio amico, un giovane veramente di tutto garbo, pieno di spirito; amato, adorato da tutti. Le donne gli corrono dietro, egli è l'idolo di Napoli, e quello che è più rimarchevole, è d'un cuore schietto e sincero, ch'è impossibile che egli non dica sempre la verità. PAN. (Cielo, te ringrazio.) El me consola con ste bone notizie. Me vien da pianzer dall'allegrezza.
SCENA XIX
Ottavio dalla locanda, e detti.
OTT. (a Pantalone) Signore, mi rallegro delle vostre consolazioni. PAN. De cossa, sior Ottavio, se rallegrela con mi? OTT. Dell'arrivo di vostro figlio. PAN. El xè arrivà? Dove xèlo? OTT. Bellissima! Non è qui il signor Lelio a voi presente? LEL. (Questi è mio padre? L'ho fatta bella.) PAN. (verso Lelio) Come? Sior conte d'Ancora? LEL. (ridendo) Ah, ah, ah. Caro signor padre, perdonate questo piccolo scherzo. Già vi avevo conosciuto, e stavo in voi osservando gli effetti della natura. Perdonatemi, ve ne prego, eccomi a' vostri piedi. PAN. Vien qua el mio caro fio, vien qua. Xè tanto che te desidero, che te sospiro. Tiò un baso, el mio caro Lelio, ma varda ben, gnanca da burla no dir de sta sorte de falsità. LEL. Credetemi, che questa è la prima bugia che ho detto da che so d'esser uomo. PAN. Benissimo, fa che la sia anca l'ultima. Caro el mio caro fio, me consolo a vederte cussì bello, cussì spiritoso. Asto fatto bon viazzo? Perchè no xestu vegnù a casa a drettura? LEL. Seppi che eravate in villa, e se oggi non vi vedeva in Venezia, veniva certamente a ritrovarvi alla Mira.
PAN. Oh magari! Anderemo a casa, che parleremo. T'ho da dir delle gran cosse. Sior Ottavio, con so bona grazia. OTT. Son vostro servo. PAN. (Oh caro! Siestu benedio! Vardè che putto! Vardè che tocco de omo! Gran amor xè l'amor de pare! Son fora de mi dalla consolazion.) (parte) LEL. Amico. Stamane ho pagata la fiera alle due sorelle. Son venute in maschera a cercare di me, le ho condotte al moscato. Ve lo confido, ma state cheto. (va dietro a Pantalone)
SCENA XX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT. Resto sempre più maravigliato della debolezza di queste due ragazze. Mi compariscono d'un carattere affatto nuovo. Per l'assenza del padre si prendono libertà; ma di tanto non le ho mai credute capaci. DOTT. (uscendo di casa) Gli son servitore, il mio caro signor Ottavio. OTT. (Povero padre! Bell'onore che gli rendono le sue figliuole!) DOTT. (Egli sta sulle sue. Sarà disgustato, perchè sino adesso ho negato di dargli Beatrice.) OTT. (Manco male, che avendomi egli negato Beatrice, mi ha sottratto dal pericolo di avere una cattiva moglie.) DOTT. (Ora l'aggiusterò io.) Signor Ottavio, gli do nuova che ho fatta sposa Rosaura mia figlia. OTT. Me ne rallegro infinitamente. (Lo sposo è aggiustato bene.) DOTT. Ora mi resta da collocare Beatrice. OTT. Non durerà fatica a trovarle marito. DOTT. So ancor io che ci sarà più d'uno che aspirerà ad esser mio genero, poichè non ho altro che queste due figlie, e alla mia morte tutto sarà di loro; ma siccome il signor Ottavio più e più volte ha mostrato della premura per Beatrice, dovendola maritare, la darò a lui piuttosto che ad un altro. OTT. Vi ringrazio infinitamente. Non sono più in grado di ricevere le vostre grazie. DOTT. Che vuol ella dire? Pretende di voler vendicarsi della mia negativa?
Allora non era in grado di maritarla; ora mi ritrovo in qualche disposizione. OTT. (con alterezza) La dia a chi vuole. Io non sono in caso di prenderla. DOTT. Vossignoria parla con tal disprezzo? Beatrice è figlia d'un ciabattino? OTT. È figlia d'un galantuomo; ma, degenerando dal padre, fa poco conto del suo decoro. DOTT. Come parla, padron mio? OTT. Parlo con fondamento. Dovrei tacere, ma la ione che ho avuta per la signora Beatrice, e che tuttavia non so staccarmi dal seno, e la buona amicizia che a voi professo, mi obbliga ad esagerare così e ad illuminarvi, se foste cieco. DOTT. Ella mi rende stupido e insensato. Che mai vi è di nuovo? OTT. Sia quello ch'esser si voglia, non vo' tacere. Le vostre due figlie, la scorsa notte, dopo aver goduta una serenata, hanno introdotto un forestiere nella loro casa, con cui cenando e tripudiando, hanno consumata la notte. DOTT. Mi maraviglio di voi, signore; questa cosa non può essere. OTT. Quel che io vi dico, son pronto a mantenervelo. DOTT. Se siete galantuomo, preparatevi dunque a farmelo constatare; altrimenti, se è una impostura la vostra, troverò la maniera di farmene render conto. OTT. Obbligherò a confermarlo quello stesso che, venuto ieri da Napoli, è stato ammesso alla loro conversazione. DOTT. Mie figlie non sono capaci di commettere tali azioni. OTT. Se sono capaci, lo vedremo. Se prendete la cosa da me in buona parte, sono un amico che vi rende avvisato; se la prendete sinistramente, son uno che in qualunque maniera renderà conto delle sue parole. (parte)
SCENA XXI
Il Dottore solo.
Oh misero me! Povera mia casa! Povera mia riputazione! Questo sì è un male, cui nè Ippocrate, nè Galeno mi insegnano a risanare. Ma saprò ben trovare un sistema di medicina morale, che troncherà la radice. Tutto consiste a far presto, non lasciar che il mal s'avanzi troppo, che non pigli possesso. Principiis obsta, sero medicina paratur. (entra in casa)
Fine dell'Atto primo.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Florindo.
FLOR. Creda, signor Dottore, glielo giuro sull'onor mio. In casa questa notte non è venuto nessuno. DOTT. So di certo che alle mie figlie è stata fatta una serenata. FLOR. È verissimo, ed esse l'hanno goduta sul terrazzino modestissimamente. Le serenate non rendono alcun pregiudizio alle figlie oneste. Fare all'amore con onestà è lecito ad ogni civile fanciulla. DOTT. Ma ricevere di notte la gente in casa? Cenare con un forestiere? FLOR. Questo è quello che non è vero. DOTT. Che ne potete saper voi? Sarete stato a letto. FLOR. Sono stato svegliato tutta la notte. DOTT. Perchè svegliato? FLOR. Per causa del caldo io non poteva dormire. DOTT. Conoscete il signor Ottavio? FLOR. Lo conosco. DOTT. Egli mi ha detto tutto ciò, ed è pronto a sostenere che ha detto la verità. FLOR. Il signor Ottavio mentisce. Lo troveremo; si farà che si spieghi con qual
fondamento l'ha detto, e son certo ritroverete essere tutto falso. DOTT. Se fosse così, mi spiacerebbe aver date tante mortificazioni alle mie figliuole. FLOR. Povere ragazze! Le avete ingiustamente trattate male. DOTT. Specialmente Rosaura piangeva dirottamente; nè si poteva dar pace. FLOR. Povera innocente! Mi fa comione. (si asciuga gli occhi) DOTT. Che cosa avete, figliuolo, che sembra che piangiate? FLOR. Niente: mi è andato del tabacco negli occhi. (mostra la tabacchiera)
SCENA II
Colombina e detti.
COL. Presto, signor padrone, presto. La povera signora Rosaura è svenuta, e non so come fare a farla rinvenire; (al dottore) correte per carità ad ajutarla. FLOR. (smania) DOTT. Presto! un poco di spirito di melissa. COL. Se sentiste come le palpita il cuore! Avrebbe bisogno d'una cavata di sangue. DOTT. Signor Florindo, andate a vederla, toccatele il polso, e se vi pare che abbia bisogno di sangue, pungetele la vena. So che siete bravissimo in queste operazioni. Io intanto vado a prendere lo spirito di melissa. (parte) COL. Per amor del cielo, non abbandonate la povera mia padrona. FLOR. Ecco l'effetto de' rimproveri ingiusti di suo padre. La soccorrerò, se potrò. (parte)
SCENA III
Camera di Rosaura con sedie.
Rosaura svenuta sopra una sedia; poi Colombina, poi Florindo, e poi il Dottore.
COL. Ecco qui, poverina! non è ancor rinvenuta; e sua sorella non la soccorre, non ci pensa; vorrebbe che ella morisse. Queste due sorelle non si amano, non si possono vedere. FLOR. Dove sono? Io non ci vedo. COL. Come non ci vedete, se siamo in una camera così chiara? Guardate la povera signora Rosaura svenuta. FLOR. Ohimè! non posso più. Colombina, andate a prendere quel che bisogna per cavarle sangue. COL. Vado subito. Per l'amor del cielo, non l'abbandonate. (parte, e poi ritorna) FLOR. Son solo, nessuno mi vede, posso toccar quella bella mano. Sì, cara, ti tasterò il polso. Quanto è bella, benchè svenuta! (le tocca il polso) Ahimè, ch'io muojo. (cade svenuto in terra, o sopra una sedia vicina) COL. (portando il cerino e qualche altra cosa per il sangue) Oh bella! Il medico fa compagnia all'ammalata. DOTT. Son qui, son qui; non è ancor rinvenuta? COL. Osservate. Il signor Florindo è venuto meno ancor esso per conversazione. DOTT. Oh diavolo! Che cos'è quest'istoria? Presto, bisogna dargli soccorso. Piglia questo spirito e bagna sotto il naso Rosaura, ch'io assisterò questo ragazzo.
COL. (bagnandola collo spirito) Ecco, ecco, la padrona si muove. DOTT. Anche Florindo si desta. Vanno di concerto. ROS. Ohimè! Dove sono? DOTT. Via, figlia mia, fatti animo, non è niente. FLOR. (s'alza, vede il Dottore, e si vergogna) (Povero me! Che mai ho fatto?) DOTT. Che cosa è stato, Florindo? Che avete avuto? FLOR. Signore... non lo so nemmen'io... Con vostra buona licenza. (parte confuso) DOTT. Se ho da dire la verità, mi sembra un pazzerello. COL. Animo, signora padrona, allegramente. ROS. Ah signor padre, per carità... DOTT. Figlia mia, non ti affligger più. Sono stato assicurato non esser vero ciò che mi è stato detto di te. Voglio credere che sia una calunnia, un'invenzione. Verremo in chiaro della verità. ROS. Ma, caro signor padre, chi mai vi ha dato ad intendere falsità così enormi, così pregiudichevoli alla nostra riputazione? DOTT. È stato il signor Ottavio. ROS. Con qual fondamento ha egli potuto dirlo? DOTT. Non lo so. Lo ha detto e s'impegna di sostenerlo. ROS. Lo sostenga, se può. Signor padre, si tratta dell'onor vostro, si tratta dell'onor mio: non vi gettate dietro le spalle una cosa di tanto rimarco. DOTT. Sì, lo ritroverò e me ne farò render conto. COL. Aspettate. Anderò io a ritrovarlo. Io lo condurrò in casa e, cospetto di bacco, lo faremo disdire.
DOTT. Va, e se lo trovi, digli che io gli voglio parlare. COL. Or ora lo conduco qui a suo dispetto. (parte)
SCENA IV
Rosaura e il Dottore.
ROS. Gran dolore mi avete fatto provare! DOTT. Orsù via, medicheremo il dolore sofferto con una nuova allegrezza. Sappi, Rosaura, che io ti ho fatta sposa. ROS. A chi mai mi avete voi destinata? DOTT. Al figlio del signor Pantalone. ROS. Deh, se mi amate, dispensatemi per ora da queste nozze. DOTT. Dimmi il perchè, e può essere che ti contenti. ROS. Una figlia obbediente e rispettosa non deve celar cos'alcuna al suo genitore. Sappiate, signore, che un cavalier forestiere, di gran sangue e di grandi fortune, mi desidera per consorte. DOTT. Dunque è vero che vi è il forestiere, e sarà vero della serenata e della cena. ROS. È vero che un forestiere mi ama, e che mi ha fatta una serenata; ma mi ha parlato una sol volta sotto del terrazzino, e mi fulmini il cielo s'egli ha posto piede mai in questa casa. DOTT. È un signor grande, e ti vuole per moglie? ROS. Così almeno mi fa sperare. DOTT. Guarda bene che egli non sia qualche impostore. ROS. Oggi si darà a conoscere a voi. Voi aprirete gli occhi per me.
DOTT. Senti, figlia mia, quando il cielo ti avesse destinata questa fortuna non sarei sì pazzo a levartela. Con Pantalone ho qualche impegno, ma solamente di parole: non mancheranno pretesti per liberarmene. ROS. Basta dire ch'io non lo voglio. DOTT. Veramente non basterebbe, perchè son io quello che comanda: ma troveremo una miglior ragione. Dimmi, come si chiama questo cavaliere? ROS. Il marchese Asdrubale di Castel d'Oro. DOTT. Capperi! figlia mia, un marchese?
SCENA V
Beatrice che ascolta, e detti.
ROS. È un anno ch'è innamorato di me, e solo jeri sera si è dichiarato. DOTT. Ti vuole veramente bene? ROS. Credetemi, che mi adora. DOTT. Sei sicura che ti voglia prender per moglie? ROS. Me ne ha data positiva parola. DOTT. Quando è così, procurerò di assicurare la tua fortuna. BEAT. Signor padre, non crediate sì facilmente alle parole di mia sorella. Non è vero che il marchese Asdrubale siasi dichiarato per lei. Egli ama una di noi due e, senza troppo lusingarmi, ho ragione di credere ch'egli mi preferisca. DOTT. (a Rosaura) Oh bella! Come va questa storia? ROS. (a Beatrice) Dove appoggiate le vostre speranze? BEAT. Dove avete appoggiate le vostre. ROS. Signor padre, io parlo con fondamento. BEAT. (al Dottore) Credetemi, ch'io so quel che dico. DOTT. Questa è la più bella favoletta del mondo. Orsù sentite cosa vi dico per concluderla in poche parole. Intanto state dentro delle finestre, e non andate fuori di casa senza licenza mia. Se il signor marchese parlerà con me, sentirò se sia vero quello m'avete detto, e chi di voi sia la prediletta; se poi sarà una favola, come credo, avrò motivo di dire, senza far torto nè all'una nè all'altra, che tutt'e due siete pazze. (parte)
SCENA VI
Rosaura e Beatrice.
BEAT. Signora sorella, qual fondamento avete voi di credere che il signor marchese si sia dichiarato per voi? ROS. Il fondamento l'ho infallibile, ma non sono obbligata di dirvi tutto. BEAT. Sì, sì, lo so. Siete stata fuori di casa in maschera. Vi sarete ingegnata di tirar l'acqua al vostro mulino; ma giuro al cielo, non vi riuscirà, forse, di macinare. ROS. Che pretensione avete voi? Ha egli detto essere per voi inclinato? Ha dimostrato volervi? BEAT. Ha detto a me quello che ha detto a voi; e non so ora con qual franchezza lo pretendiate per vostro. ROS. Basta, si vedrà. BEAT. Se saprò che mi abbiate fatta qualche soverchieria, sorella, me la pagherete. ROS. Mi pare che dovreste avere un poco di convenienza. Io finalmente son la maggiore. BEAT. Di grazia, baciatele la mano alla signora superiora. ROS. Già, l'ho sempre detto, insieme non si sta bene. BEAT. Se non era per causa vostra, sarei maritata che sarebbero più di tre anni. Cinquanta mi volevano. Ma il signor padre non ha voluto far torto alla sua primogenita. ROS. Certo, gran pretendenti avete avuti! Fra gli altri il garbatissimo signor
Ottavio, il quale forse per vendicarsi de' vostri disprezzi, ha inventate tutte le indegnità raccontate di noi a nostro padre. BEAT. Ottavio n'è stato inventore? ROS. Testè me lo disse il genitore medesimo. BEAT. Ah indegno! Se mi capita alle mani, vo' che mi senta. ROS. Meriterebbe essere trucidato.
SCENA VII
Colombina, poi Ottavio, e dette.
COL. Signore padrone, ecco qui il signor Ottavio che desidera riverirle. OTT. Son qui pien di rossore e di confusione... ROS. Siete un mentitore. BEAT. Siete un bugiardo. OTT. Signore, il mentitore, il bugiardo, non sono io. ROS. Chi ha detto a nostro padre che abbiamo avuta una serenata? OTT. L'ho detto io, ma però... BEAT. Chi gli ha detto che abbiamo ricevuto di notte un forestiere in casa? OTT. Io, ma sappiate... BEAT. Siete un bugiardo. ROS. Siete un mentitore. OTT. Sappiate che Lelio Bisognosi... ROS. Avete voi detto che siamo state sul terrazzino? OTT. Sì signore, ascoltatemi... BEAT. Avete detto che siamo state trattate dal forestiere? OTT. L'ho detto, perchè egli stesso...
BEAT. Siete un bugiardo. (parte) ROS. Siete un mentitore. (parte)
SCENA VIII
Ottavio e Colombina.
OTT. Ma se non mi lasciate parlare... Colombina, ti raccomando l'onor mio. Va dalle tue padrone, di' loro che, se mi ascolteranno, saranno contente. COL. Che cosa potete dire in vostra discolpa? OTT. Moltissimo posso dire, e che sia la verità, senti, e giudica tu, se ho ragione... COL. Veniamo alle corte. Voi avete detto al padrone che il forestiere è entrato in casa di notte. OTT. Ma se... COL. Voi avete detto che ha dato loro una cena. OTT. Sì, ma tutto questo... COL. L'avete detto, o non l'avete detto? OTT. L'ho detto... COL. Dunque siete un mentitore, un bugiardo. (parte)
SCENA IX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT. Anche la cameriera si burla di me? Vi è pur troppo il bugiardo, ma non sono io quello, e non posso giustificarmi. Il signor Florindo mi assicura non esser vero che Lelio sia stato introdotto in casa, e molto meno che abbia seco loro cenato. Una serenata non reca pregiudizio all'onestà d'una giovane, onde mi pento d'aver creduto, e molto più mi pento d'aver parlato. Lelio è l'impostore, Lelio è il bugiardo, ed io, acciecato dalla gelosia, ho avuta la debolezza di credere, e non ho avuto tempo di riflettere che Lelio è un giovinastro, venuto recentemente da Napoli. Come l'aggiusterò io con Beatrice, e quel che più importa, come l'aggiusterò con suo padre? Eccolo ch'egli viene; merito giustamente i di lui rimproveri. DOTT. Che c'è, signor Ottavio? Che fate in casa mia? OTT. Signore eccomi a' vostri piedi. DOTT. Dunque mi avete raccontate delle falsità. OTT. Tutto quello ch'io ho detto, non fu mia invenzione; ma troppo facilmente ho creduto, e troppo presto vi ho riportato, quanto da un bugiardo mi fu asserito. DOTT. E chi è costui? OTT. Lelio Bisognosi. DOTT. Il figlio del signor Pantalone? OTT. Egli per l'appunto. DOTT. È venuto a Venezia? OTT. Vi è giunto ieri, per mia disgrazia.
DOTT. Dov'è? È in casa di suo padre? OTT. Credo di no. È un giovine scapestrato, che ama la libertà. DOTT. Ma come ha potuto dire questo disgraziato tutto quello che ha detto? OTT. L'ha detto con tanta costanza, che sono stato forzato a crederlo, e se il signor Florindo, che so essere sincero e onorato, non mi avesse chiarito, forse forse ancora non ne sarei appieno disingannato. DOTT. Io resto attonito come colui, appena arrivato, abbia avuto il tempo di piantare questa carota. Sa che Rosaura e Beatrice sieno mie figlie? OTT. Io credo di sì. Sa che sono figlie d'un medico. DOTT. Ah disgraziato! Così le tratta? Non gli do più Rosaura per moglie. OTT. Signor Dottore, vi domando perdono. DOTT. Vi compatisco. OTT. Non mi private della vostra grazia. DOTT. Vi sarò amico. OTT. Ricordatevi che mi avete esibita la signora Beatrice. DOTT. Mi ricordo che l'avete rifiutata. OTT. Ora vi supplico di non negarmela. DOTT. Ne parleremo. OTT. Ditemi di sì, ve ne supplico. DOTT. Ci penserò. OTT. Vi chiedo la figlia, non vi disturberò per la dote. DOTT. Via, non occorre altro, ci parleremo. (parte)
OTT. Non mi curo perder la dote, se acquisto Beatrice. Ma vuol essere difficile l'acquistarla. Le donne sono più costanti nell'odio, che nell'amore. (parte)
SCENA X
Camera in casa di Pantalone
Lelio ed Arlecchino.
LEL. Arlecchino, sono innamorato davvero. ARL. Mi, con vostra bona grazia, no ve credo una maledetta. LEL. Credimi che è così. ARL. No ve lo credo, da galantomo. LEL. Questa volta dico pur troppo il vero. ARL. Sarà vero, ma mi no lo credo. LEL. E perchè, s'è vero, non lo vuoi credere? ARL. Perchè al busiaro no se ghe crede gnanca la verità. LEL. Dovresti pur conoscerlo ch'io sono innamorato, dal sospirar ch'io faccio continuamente. ARL. Siguro! perchè non savì suspirar e pianzer, quando ve comoda. Lo sa la povera siora Cleonice, se savì pianzer e suspirar, se savì tirar zo le povere donne. LEL. Ella è stata facile un poco troppo. ARL. Gh'avì promesso sposarla, e la povera romana la v'ha credesto. LEL. Più di dieci donne hanno ingannato me; non potrò io burlarmi di una?
ARL. Basta: preghè el cielo che la ve vaga ben, e che la romana non ve vegna a trovar a Venezia. LEL. Non avrà tanto ardire. ARL. Le donne, co se tratta d'amor, le fa delle cosse grande. LEL. Orsù, tronca ormai questo discorso odioso. A Cleonice più non penso. Amo adesso Rosaura, e l'amo con un amore straordinario, con un amore particolare. ARL. Se vede veramente che ghe volì ben, se non altro per i bei regali che gh'andè facendo. Corpo de mi! Diese zecchini in merlo. LEL. (ridendo) Che dici, Arlecchino, come a tempo ho saputo prevalermi dell'occasione? ARL. L'è una bella spiritosa invenzion. Ma, sior padron, semo in casa de vostro padre, e gnancora no se magna. LEL. Aspetta, non essere tanto ingordo. ARL. Com'elo fatto sto vostro padre, che no l'ho gnancora visto. LEL. È un buonissimo vecchio. Eccolo che viene. ARL. Oh, che bella barba!
SCENA XI
Pantalone e detti.
PAN. Fio mio, giusto ti te cercava. LEL. Eccomi a' vostri comandi. ARL. Signor Don Pantalone, essendo, come sarebbe a dire, il servo della mascolina prole, così mi do il bell'onore di essere, cioè di protestarmi di essere, suo di vusignoria!... Intendetemi senza ch'io parli. PAN. Oh, che caro matto! Chi elo costù? LEL. È un mio servitore, lepido ma fedele. PAN. Bravo, pulito. El sarà el nostro divertimento. ARL. Farò il buffone, se ella comanda. PAN. Me farè servizio. ARL. Ma avvertite; datemi ben da mangiare, perchè i buffoni mangiano meglio degli altri. PAN. Gh'avè rason. No ve mancherà el vostro bisogno. ARL. Vederò se si' galantomo. PAN. Quel che prometto, mantegno. ARL. Alle prove. Mi adesso gh'ho bisogno de magnar. PAN. Andè in cusina, e fèvene dar. ARL. Sì ben, sè galantomo. Vago a trovar el cogo. (a Lelio) Sior padron, una
parola. LEL. Cosa vuoi? ARL. (a Lelio piano) (Ho paura che nol sia voster pader.) LEL. (E perchè?) ARL. (Perchè lu el dis la verità, e vu si' busiaro.) (parte) LEL. (da sè) (Costui si prende troppa confidenza.)
SCENA XII
Pantalone e Lelio.
PAN. L'è curioso quel to servitor. E cusì, come che te diseva, fio mio, t'ho da parlar. LEL. Son qui ad ascoltarvi con attenzione. PAN. Ti ti xè l'unico erede de casa mia, e za che la morte del povero mio fradello t'ha lassà più ricco ancora de quello che te podeva lassar to pare, bisogna pensar alla conservazion della casa e della fameggia: onde, in poche parole, vôi maridarte. LEL. A questo già ci aveva pensato. Ho qualche cosa in vista, e a suo tempo si parlerà. PAN. Al tempo d'ancuo, la zoventù, co se tratta de maridarse, no pensa altro che a sodisfar el caprizio, e dopo quattro zorni de matrimonio, i se pente d'averlo fatto. Sta sorte de negozi bisogna lassarli manizar ai pari. Eli, interessai per el ben dei fioi più dei fioi medesimi, senza lassarse orbar nè dalla ion, nè dal caldo, i fa le cosse con più giudizio, e cussì col tempo i fioi se chiama contenti. LEL. Certo che senza di voi non lo farei. Dipenderò sempre da' vostri consigli, anzi dalla vostra autorità. PAN. Oh ben, co l'è cussì, fio mio, sappi che za t'ho maridà, e giusto stamattina ho stabilio el contratto delle to nozze. LEL. Come! Senza di me? PAN. L'occasion no podeva esser meggio. Una bona putta de casa e da qualcossa, con una bona dota, fia d'un omo civil bolognese, ma stabilio in Venezia. Te dirò anca, a to consolazion, bella e spiritosa. Cossa vustu de più? Ho chiappà so pare in parola, el negozio xè stabilio.
LEL. Signor padre, perdonatemi: è vero che i padri pensano bene per i figliuoli, ma i figliuoli devono star essi colla moglie, ed è giusto che si soddisfacciano. PAN. Sior fio, questi no xè quei sentimenti de rassegnazion, coi quali me avè fin adesso parlà. Finalmente son pare, e se per esser stà arlevà lontan da mi, no avè imparà a respettarme, son ancora a tempo per insegnarvelo. LEL. Ma non volete nemmeno che prima io la veda? PAN. La vederè, quando averè sottoscritto el contratto. Alla vecchia se fa cussì. Quel che ho fatto, ho fatto ben: son vostro pare, e tanto basta. LEL. (Ora è tempo di qualche spiritosa invenzione.) PAN. E cussì, cossa me respondeu? LEL. Ah, signor padre, ora mi veggo nel gran cimento, in cui mi pone la vostra autorità; non posso più a lungo tenervi celato un arcano. PAN. Coss'è? Cossa gh'è da niovo? LEL. (s'inginocchia) Eccomi a' vostri piedi. So che ho errato, ma fui costretto a farlo. PAN. Mo via, di' su, coss'astu fatto? LEL. Ve lo dico colle lagrime agli occhi. PAN. Destrighete, parla. LEL. A Napoli ho preso moglie. PAN. E adesso ti me lo disi? E mai no ti me l'ha scritto? E mio fradello no lo saveva? LEL. Non lo sapeva. PAN. Levete su, ti meriteressi che te depennasse de fio, che te scazzasse de casa mia. Ma te voio ben, ti xè el mio unico fio, e co la cossa xè fatta, no gh'è remedio. Se el matrimonio sarà da par nostro, se la niora me farà scriver, o me farà parlar, fursi fursi l'accetterò. Ma se ti avessi sposà qualche squaquarina...
LEL. Oh, che dite mai, signor padre? Io ho sposato una onestissima giovane. PAN. De che condizion? LEL. È figlia di un cavaliere. PAN. De che paese? LEL. Napoletana. PAN. Ala dota? LEL. È ricchissima. PAN. E d'un matrimonio de sta sorte no ti me avvisi? Gh'avevistu paura, che disesse de no? No son miga matto. Ti ha fatto ben a farlo. Ma perchè no dir gnente nè a mi, nè a to barba? L'astu fursi fatto in scondon dei soi? LEL. Lo sanno tutti. PAN. Ma perchè taser con mi e co mio fradello? LEL. Perchè ho fatto il matrimonio su due piedi. PAN. Come s'intende un matrimonio su do piè? LEL. Fui sorpreso dal padre in camera della sposa... PAN. Perchè geristu andà in camera della putta? LEL. Pazzie amorose, frutti della gioventù. PAN. Ah disgrazià! Basta, ti xè maridà, la sarà fenia. Cossa gh'ala nome la to novizza? LEL. Briseide. PAN. E so pare? LEL. Don Policarpio.
PAN. El cognome? LEL. Di Albacava. PAN. Xela zovene? LEL. Della mia età. PAN. Come astu fatto amicizia? LEL. La sua villa era vicina alla nostra. PAN. Come t'astu introdotto in casa? LEL. Col mezzo d'una cameriera. PAN. E i t'ha trovà in camera? LEL. Sì, da solo a sola. PAN. De dì, o de notte? LEL. Fra il chiaro e l'oscuro. PAN. E ti ha avudo cussì poco giudizio de lassarte trovar, a rischio che i te mazza? LEL. Mi son nascosto in un armadio. PAN. Come donca t'ali trovà? LEL. Il mio orologio di ripetizione ha suonate le ore, e il padre si è insospettito. PAN. Oh diavolo! Coss'alo dito? LEL. Ha domandato alla figlia da chi aveva avuta quella ripetizione. PAN. E ella? LEL. Ed ella disse subito averla avuta da sua cugina.
PAN. Chi ela sta so cugina? LEL. La duchessa Matilde, figlia del principe Astolfo, sorella del conte Argante, sopraintendente alle cacce di Sua Maestà. PAN. Sta to novizza la gh'ha un parentà strepitoso. LEL. È d'una nobiltà fioritissima. PAN. E cussì, del relogio cossa ha dito so pare? S'alo quietà? LEL. L'ha voluto vedere. PAN. Oh bella! Com'èla andada? LEL. È venuta Briseide, ha aperto un pocolino l'armadio, e mi ha chiesto sotto voce l'orologio. PAN. Bon; co ti ghel davi, no giera altro. LEL. Nel levarlo dal saccoccino, la catena si è riscontrata col cane d'una pistola che tenevo montata, e la pistola sparò. PAN. Oh poveretto mi! T'astu fatto mal? LEL. Niente affatto. PAN. Cossa ai dito? Cossa xè stà? LEL. Strepiti grandi. Mio suocero ha chiamata la servitù. PAN. T'hai trovà? LEL. E come! PAN. Me trema el cuor. Cossa t'ali fatto? LEL. Ho messo mano alla spada, e sono tutti fuggiti. PAN. E se i te mazzava?
LEL. Ho una spada che non teme di cento. PAN. In semola ⁴ ⁴, padron, in semola. E cussì, xestu scampà? LEL. Non ho voluto abbandonar la mia bella. PAN. Ella coss'ala dito? LEL. (tenero) Mi si è gettata a' piedi colle lagrime agli occhi. PAN. Par che ti me conti un romanzo. LEL. Eppure vi narro la semplice verità. PAN. Come ha fenio l'istoria? LEL. Mio suocero è ricorso alla Giustizia. È venuto un capitano con una compagnia di soldati, me l'hanno fatta sposare, e per castigo mi hanno assegnato venti mila scudi di dote. PAN. (Questa la xè fursi la prima volta, che da un mal sia derivà un ben.) LEL. (Sfido il primo gazzettiere d'Europa a inventare un fatto così bene circostanziato.) PAN. Fio mio, ti xè andà a un brutto rischio, ma za che ti xè riuscio con onor, ringrazia el cielo, e per l'avegnir abbi un poco più de giudizio. Pistole, pistole! Cossa xè ste pistole? Qua no se usa ste cosse. LEL. Da quella volta in qua, mai più non ho portate armi da fuoco. PAN. Ma de sto matrimonio, perchè no dirlo a to barba? LEL. Quando è successo il caso, era gravemente ammalato. PAN. Perchè no scriverlo a mi? LEL. Aspettai a dirvelo a voce. PAN. Perchè no astu menà la sposa con ti a Venezia?
LEL. È gravida in sei mesi. PAN. Anca gravia? In sie mesi? Una bagattella! El negozio no xè tanto fresco. Va là, che ti ha fatto una bella cossa a no me avvisar. Dirà ben to missier che ti gh'ha un pare senza creanza, non avendoghe scritto una riga per consolarme de sto matrimonio. Ma quel che non ho fatto, farò. Sta sera va via la posta de Napoli, ghe voggio scriver subito, e sora tutto ghe voggio raccomandar la custodia de mia niora e de quel putto che vegnirà alla luse, che essendo frutto de mio fio, el xè anca parto delle mie viscere. Vago subito... Ma no me arrecordo più el cognome de Don Policarpio. Tornemelo a dir, caro fio. LEL. (Non me lo ricordo più nemmen io!) Don Policarpio Carciofoli. PAN. Carciofoli? Non me par che ti abbi dito cussì. Adesso me l'arrecordo. Ti m'ha dito d'Albacava. LEL. Ebbene, Carciofoli è il cognome, Albacava è il suo feudo: si chiama nell'una e nell'altra maniera. PAN. Ho capio. Vago a scriver. Ghe dirò che subito che la xè in stato de vegnir, i me la manda a Venezia la mia cara niora. No vedo l'ora de vèderla: no vedo l'ora de basar quel caro putello, unica speranza e sostegno de casa Bisognosi, baston della vecchiezza del povero Pantalon. (parte)
SCENA XIII
Lelio solo.
Che fatica terribile ho dovuto fare per liberarmi dall'impegno di sposare questa bolognese, che mio padre aveva impegnata per me! Quand'abbia a far la pazzia di legarmi colla catena del matrimonio, altre spose non voglio che Rosaura. Ella mi piace troppo. Ha un non so che, che a prima vista m'ha colpito. Finalmente è figlia di un medico, mio padre non può disprezzarla. Quando l'avrò sposata, la napolitana si convertirà in veneziana. Mio padre vuol dei bambini? Gliene faremo quanti vorrà. (parte)
SCENA XIV
Strada col terrazzino della casa del Dottore
Florindo e Brighella.
FLOR. Brighella, son disperato. BRIG. Per che causa? FLOR. Ho inteso dire che il dottor Balanzoni voglia dar per moglie la signora Rosaura ad un marchese napolitano. BRIG. Da chi avì sentido a dir sta cossa? FLOR. Dalla signora Beatrice sua sorella. BRIG. Donca no bisogna perder più tempo. Bisogna che parlè, che ve dichiarè. FLOR. Sì, Brighella, ho risolto spiegarmi. BRIG. Sia ringrazià el cielo. Una volta ve vederò fursi contento. FLOR. Ho composto un sonetto, e con questo penso di scoprirmi a Rosaura. BRIG. Eh, che no ghe vol sonetti. L'è mejo parlar in prosa. FLOR. Il sonetto è bastantemente chiaro per farmi intendere. BRIG. Quando l'è chiaro, e che siora Rosaura el capissa, anca el sonetto pol servir. Possio sentirlo anca mi? FLOR. Eccolo qui. Osserva come è scritto bene.
BRIG. No l'è miga scritto de vostro carattere. FLOR. No, l'ho fatto scrivere. BRIG. Perchè mo l'avi fatto scriver da un altro? FLOR. Acciò non si conosca la mia mano. BRIG. Mo no s'ha da saver che l'avi fatto vu? FLOR. Senti, se può parlare più chiaramente di me.
SONETTO:
Idolo del mio cor, nume adorato Per voi peno tacendo, e v'amo tanto Che temendo d'altrui vi voglia il fato M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto. Io non son cavalier, nè titolato, Nè ricchezze o tesori aver mi vanto A me diede il destin mediocre stato, Ed è l'industria mia tutto il mio vanto. Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo. Mi vedete sovente a voi d'intorno. Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo. Sol per vostra cagion fo qui soggiorno.
A voi, Rosaura mia, noto è il mio zelo, E il nome mio vi farò noto un giorno.
FLOR. Ah, che ne dici? BRIG. L'è bello, l'è bello, ma nol spiega gnente. FLOR. Come non spiega niente? Non parla chiaramente di me? La seconda quaderna mi dipinge esattamente. E poi, dicendo nel primo verso del primo terzetto: Io nacqui in Lombardia, non mi manifesto per bolognese? BRIG. Lombardia è anca Milan, Bergamo, Bressa, Verona, Mantova, Modena e tante altre città. Come ala mo da indovinar, che voja dir bolognese? FLOR. E questo verso Mi vedete sovente a voi d'intorno, non dice espressamente che sono io? BRIG. El pol esser qualchedun altro. FLOR. Eh via, sei troppo sofistico. Il sonetto parla chiaro, e Rosaura l'intenderà. BRIG. Se ghel darì vu, la l'intenderà mejo. FLOR. Io non glielo voglio dare. BRIG. Donca come volì far? FLOR. Ho pensato di gettarlo sul terrazzino. Lo troverà, lo leggerà, e capirà tutto. BRIG. E se lo trova qualchedun altro? FLOR. Chiunque lo troverà, lo farà leggere anche a Rosaura. BRIG. No saria meio... FLOR. Zitto; osserva come si fa. (getta il sonetto sul terrazzino)
BRIG. Pulito! Sè più franco de man, che de lengua. FLOR. Parmi di vedere che venga gente sul terrazzino. BRIG. Stemo qua a gòder la scena. FLOR. Andiamo, andiamo. (parte) BRIG. El parlerà, quando no ghe sarà più tempo. (parte)
SCENA XV
Colombina sul terrazzino, poi Rosaura.
COL. Ho veduto venire un non so che sul terrazzino. Son curiosa sapere che cos'è. Oh! ecco un pezzo di carta. Che sia qualche lettera? (l'apre) Mi dispiace che so poco leggere. S, o, so; n, e, t, sonet, t, o, to, sonetto. È un sonetto. (verso la casa) Signora padrona, venite sul terrazzino. È stato gettato un sonetto. ROS. (viene sul terrazzino) Un sonetto? Chi l'ha gettato? COL. Non lo so. L'ho ritrovato a caso. ROS. Da' qui, lo leggerò volentieri. COL. Leggetelo, che poi lo farete sentire anche a me. Vado a stirare, sin tanto che il ferro è caldo. (parte) ROS. Lo leggerò con piacere. (legge piano)
SCENA XVI
Lelio e detta.
LEL. Ecco la mia bella Rosaura; legge con grande attenzione: son curioso di saper cosa legga. ROS. (Questo sonetto ha delle espressioni, che mi sorprendono.) LEL. Permette la signora Rosaura, ch'io abbia il vantaggio di riverirla? ROS. Oh perdonatemi, signor marchese, non vi aveva osservato. LEL. Che legge di bello? Poss'io saperlo? ROS. Ve lo dirò. Colombina mi ha chiamato sul terrazzino: ha ella ritrovato a caso questo sonetto, me lo ha consegnato, e lo trovo essere a me diretto. LEL. Sapete voi chi l'abbia fatto? ROS. Non vi è nome veruno. LEL. Conoscete il carattere? ROS. Nemmeno. LEL. Potete immaginarvi chi l'abbia composto? ROS. Questo è quello ch'io studio, e non l'indovino. LEL. È bello il sonetto? ROS. Mi par bellissimo. LEL. Non è un sonetto amoroso?
ROS. Certo, egli parla d'amore. Un amante non può scrivere con maggior tenerezza. LEL. E ancor dubitate chi sia l'autore? ROS. Non me lo so figurare. LEL. Quello è un parto della mia musa. ROS. Voi avete composto questo sonetto? LEL. Io, sì, mia cara; non cesso mai di pensare ai varj modi di assicurarvi dell'amor mio. ROS. Voi mi fate stupire. LEL. Forse non mi credete capace di comporre un sonetto? ROS. Sì; ma non vi credeva in istato di scriver così. LEL. Non parla il sonetto d'un cuor che vi adora? ROS. Sentite i primi versi, e ditemi se il sonetto è vostro: Idolo del mio cor, nume adorato, Per voi peno tacendo, e v'amo tanto... LEL. Oh, è mio senz'altro. Idolo del mio cor, nume adorato, Per voi peno tacendo, e v'amo tanto. Sentite? Lo so a memoria. ROS. Ma perchè tacendo, se jersera già mi parlaste? LEL. Non vi dissi la centesima parte delle mie pene. E poi è un anno che taccio: e posso dir ancora ch'io peno tacendo.
ROS. Andiamo avanti; Che temendo d'altrui vi voglia il fato, M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto. Chi mi vuole? Chi mi pretende? LEL. Solita gelosia degli amanti. Io non ho ancora parlato con vostro padre, non siete ancora mia, dubito sempre e dubitando io piango. ROS. Signor marchese, spiegatemi questi quattro versi bellissimi: Io non son cavalier, nè titolato, Nè ricchezze o tesori aver mi vanto; A me diede il destin mediocre stato, Ed è l'industria mia tutto il mio vanto. LEL. (Ora sì, che sono imbrogliato.) ROS. È vostro questo bel sonetto? LEL. Sì, signora, è mio. Il sincero e leale amore, che a voi mi lega, non mi ha permesso di tirar più a lungo una favola, che poteva un giorno esser a voi di cordoglio, e a me di rossore. Non son cavaliere, non son titolato, è vero. Tale mi finsi per bizzarria, presentandomi a due sorelle, dalle quali non volevo esser conosciuto. Non volevo io avventurarmi così alla cieca senza prima esperimentare se potea lusingarmi della vostra inclinazione: ora che vi veggo pieghevole a' miei onesti desiri, e che vi spero amante, ho risoluto di dirvi il vero, e non avendo coraggio di farlo colla mia voce, prendo l'espediente di dirvelo in un sonetto. Non sono ricco, ma di mediocri fortune, ed esercitando in Napoli la nobil arte della mercatura, è vero che l'industria mia è tutto il mio vanto. ROS. Mi sorprende non poco la confessione che voi mi fate; dovrei licenziarvi dalla mia presenza, trovandovi menzognero; ma l'amore che ho concepito per voi, non me lo permette. Se siete un mercante comodo, non sarete un partito per
me disprezzabile. Ma il resto del sonetto mi pone in maggiore curiosità. Lo finirò di leggere. LEL. (Che diavolo vi può essere di peggio!) ROS. Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo. Come si adatta a voi questo verso, se siete napoletano? LEL. Napoli è una parte della Lombardia. ROS. Io non ho mai sentito dire, che il regno di Napoli si comprenda nella Lombardia. LEL. Perdonatemi, leggete le istorie, troverete che i Longobardi hanno occupata tutta l'Italia: e da per tutto dove hanno occupato i Longobardi, poeticamente si chiama Lombardia. (Con una donna posso ar per istorico.) ROS. Sarà come dite voi: andiamo avanti. Mi vedete sovente a voi d'intorno. Io non vi ho veduto altro che ieri sera: come potete dire, mi vedete sovente? LEL. Dice vedete? ROS. Così per l'appunto. LEL. È error di penna, deve dire vedrete; mi vedrete sovente a voi d'intorno. ROS. Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo. LEL. È un anno ch'io taccio, ora non posso più. ROS. All'ultima terzina. LEL. (Se n'esco, è un prodigio.) ROS. Sol per vostra cagion fo qui soggiorno. LEL. Se non fosse per voi, sarei a quest'ora o in Londra, o in Portogallo. I miei
affari lo richiedono, ma l'amor che ho per voi, mi trattiene in Venezia. ROS. A voi Rosaura mia, noto è il mio zelo. LEL. Questo verso non ha bisogno di spiegazione. ROS. Ne avrà bisogno l'ultimo. E il nome mio vi farò noto un giorno. LEL. Questo è il giorno, e questa è la spiegazione. Io non mi chiamo Asdrubale di Castel d'Oro, ma Ruggiero Pandolfi. ROS. Il sonetto non si può intendere, senza la spiegazione. LEL. I poeti sogliono servirsi del parlar figurato. ROS. Dunque avete finto anche il nome. LEL. Ieri sera era in aria di fingere. ROS. E stamane in che aria siete? LEL. Di dirvi sinceramente la verità. ROS. Posso credere che mi amiate senza finzione? LEL. Ardo per voi, nè trovo pace senza la speranza di conseguirvi. ROS. Io non voglio essere soggetta a nuovi inganni. Spiegatevi col mio genitore. Datevi a lui a conoscere, e se egli acconsentirà, non saprò ricusarvi. Ancorchè mi abbiate ingannata, non so disprezzarvi. LEL. Ma il vostro genitore dove lo posso ritrovare? ROS. Eccolo che viene.
SCENA XVII
Il Dottore e detti.
DOTT. (a Rosaura, di lontano) È questi? ROS. Sì, ma... DOTT. (a Rosaura, non sentito da Lelio) Andate dentro! ROS. Sentite prima... DOTT. (come sopra) Va dentro, non mi fare adirare! ROS. Bisogna ch'io l'ubbidisca. (entra) LEL. (Veramente mi sono portato bene. Gil-Blas non ha di queste belle avventure.) DOTT. (All'aria si vede ch'è un gran signore; ma mi pare un poco bisbetico.) LEL. (Ora conviene infinocchiare il padre, se sia possibile.) Signor Dottore, la riverisco divotamente. DOTT. Le fo umilissima riverenza. LEL. Non è ella il padre della signora Rosaura? DOTT. Per servirla. LEL. Ne godo infinitamente, e desidero l'onore di poterla servire. DOTT. Effetto della sua bontà. LEL. Signore, io son uomo che in tutte le cose mie vado alle corte. Permettetemi dunque, che senza preamboli vi dica ch'io sono invaghito di vostra figlia, e che la
desidero per consorte. DOTT. Così mi piace: laconicamente; ed io le rispondo che mi fa un onor che non merito, che gliela darò più che volentieri, quando la si compiaccia darmi gli opportuni attestati dell'esser suo. LEL. Quando mi accordate la signora Rosaura, mi do a conoscere immediatamente. DOTT. Non è ella il marchese Asdrubale? LEL. Vi dirò, caro amico...
SCENA XVIII
Ottavio e detti.
OTT. (a Lelio) Di voi andava in traccia. Mi avete a render conto delle imposture inventate contro il decoro delle figlie del signor Dottore. Se siete uomo d'onore, ponete mano alla spada. DOTT. Come? Al signor marchese? OTT. Che marchese! Questi è Lelio, figlio del signor Pantalone. DOTT. Oh diavolo, cosa sento! LEL. Chiunque mi sia, avrò spirito bastante per rintuzzare la vostra baldanza. (mette mano alla spada) OTT. Venite, se avete cuore. (mette mano egli ancora) DOTT. (Entra in mezzo) Alto, alto, fermatevi, signor Ottavio, non voglio certamente. Perchè vi volete battere con questo bugiardaccio? (ad Ottavio) Andiamo, venite con me. OTT. Lasciatemi, ve ne prego. DOTT. Non voglio, non voglio assolutamente. Se vi preme mia figlia, venite meco. OTT. Mi conviene obbedirvi. (a Lelio) Ad altro tempo ci rivedremo. LEL. In ogni tempo saprò darvi soddisfazione. DOTT. Bello il signor marchese! Il signor napoletano! Cavaliere! titolato! Cabalone, impostore, bugiardo. (parte con Ottavio)
SCENA XIX
Lelio, poi Arlecchino.
LEL. Maledettissimo Ottavio! Costui ha preso a perseguitarmi: ma giuro al cielo, me la pagherà. Questa spada lo farà pentire d'avermi insultato. ARL. Sior padron, cossa feu colla spada alla man? LEL. Fui sfidato a duello da Ottavio. ARL. Avì combattù? LEL. Ci battemmo tre quarti d'ora. ARL. Com'ela andada? LEL. Con una stoccata ho ato il nemico da parte a parte. ARL. El sarà morto. LEL. Senz'altro. ARL. Dov'è el cadavere? LEL. L'hanno portato via. ARL. Bravo, sior padron, si' un omo de garbo, non avì mai più fatto tanto ai vostri zorni.
SCENA XX
Ottavio e detti.
OTT. Non sono di voi soddisfatto. V'attendo domani alla Giudecca: se siete uomo d'onore, venite a battervi meco. ARL. (Fa degli atti di ammirazione, vedendo Ottavio) LEL. Attendetemi, che vi prometto venire. OTT. Imparerete ad esser meno bugiardo. (parte) ARL. (ridendo) Sior padron, el morto cammina. LEL. La collera mi ha acciecato. Ho ucciso un altro invece di lui. ARL. M'immagino che l'averì ammazzà colla spada d'una spiritosa invenzion. (starnuta, e parte)
SCENA XXI
Lelio solo.
Non può are per spiritoso, chi non ha il buon gusto dell'inventare. Quel sonetto però mi ha posto in un grande impegno. Potea dir peggio? Io non son cavalier nè titolato, Nè ricchezze o tesori aver mi vanto! E poi nacqui in Lombardia sott'altro cielo! Mi ha preso per l'appunto di mira quest'incognito mio rivale, ma il mio spirito, la mia destrezza, la mia prontezza d'ingegno supera ogni strana avventura. Quando faccio il mio testamento, voglio ordinare che sulla lapide mia sepolcrale sieno incisi questi versi:
Qui giace Lelio, per voler del Fato, Che per piantar carote a prima vista Ne sapeva assai più d'un avvocato E ne inventava più d'un novellista: Ancorchè morto, in questa tomba il vedi, Fai molto, eggier, se morto il credi. (parte)
Fine dell'Atto secondo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Strada
Florindo di casa, Brighella l'incontra.
BRIG. Sior Florindo, giusto de ela andava in traccia. FLOR. Di me! Cosa vuoi, il mio caro Brighella? BRIG. Ala parlà? S'ala dichiarà colla siora Rosaura? FLOR. Non ancora. Dopo il sonetto, non l'ho più veduta. BRIG. Ho paura che nol sia più a tempo. FLOR. Oh dio! Perchè? BRIG. Perchè un certo impostor, busiaro e cabalon, l'è drio per levarghe la polpettina dal tondo. FLOR. Narrami: chi è costui? È forse il marchese di Castel d'Oro? BRIG. Giusto quello. Ho trovà el so servitor, che l'è un mio patrioto, e siccome l'è alquanto gnocchetto, el me ha contà tutto. La sappia che costù s'ha finto con siora Rosaura autor della serenada, autor del sonetto, e el gh'ha piantà cento mille filastrocche, una pezo dell'altra. Vusignoria spende, e lu gode. Vusignoria sospira, e lu ride. Vusignoria tase, e lu parla. Lu goderà la macchina, e Vusignoria resterà a muso secco. FLOR. Oh Brighella, tu mi narri delle gran cose! BRIG. Qua bisogna resolver. O parlar subito, o perder ogni speranza.
FLOR. Parlerei volentieri, ma non ho coraggio di farlo. BRIG. Ch'el parla con so padre. FLOR. Mi dà soggezione. BRIG. Ch'el trova qualche amigo. FLOR. Non so di chi fidarmi. BRIG. Parleria, mi, ma a un servitor da livrea no convien sta sorte d'uffizj. FLOR. Consigliami: che cosa ho da fare? BRIG. Anèmo in casa, e studieremo la maniera più facile e più adattada. FLOR. Se perdo Rosaura, son disperato. BRIG. Per no perderla, bisogna remediar subito. FLOR. Sì, non perdiamo tempo. Caro Brighella, quanto ti sono obbligato! Se sposo Rosaura, riconoscerò dal tuo amore la mia maggior felicità. (entra in casa) BRIG. Chi sa se po dopo el se recorderà più de mi? Ma pazienza, ghe vòi ben, e lo fazzo de cuor. (entra)
SCENA II
Pantalone con una lettera in mano.
Mi, mi in persona, voggio andar a metter sta lettera alla posta de Napoli; no voggio ch'el servitor se la desmentega; no vòi mancar al mio debito col sior Policarpio. Ma gran matto, gran desgrazià che xè quel mio fio! El xè maridà, e el va a far l'amor, el va a metter suso la fia del Dottor! Questo vol dir averlo mandà a Napoli. S'el fusse stà arlevà sotto i mii occhi, nol sarave cusì. Basta, siben che l'è grando e grosso, e maridà, el saverò castigar. El Dottor gh'à rason, e bisogna che cerca de farghe dar qualche sodisfazion. Furbazzo! Marchese de Castel d'Oro, serenade, cene, lavarse la bocca contra la reputazion d'una casa! L'averà da far con mi. Vòi destrigarme a portar sta lettera, e po col sior fio la discorreremo.
SCENA III
Un Portalettere e detto.
POR. Sior Pantalon, una lettera. Trenta soldi(⁴ ⁵). PAN. Da dove? POR. La vien dalla posta de Roma. PAN. La sarà da Napoli. Tolè trenta soldi. La xè molto grossa! POR. La me favorissa. Un tal Lelio Bisognosi chi xelo? PAN. Mio fio. POR. Da quando in qua? PAN. El xè vegnù da Napoli. POR. Gh'ho una lettera anca per elo. PAN. Demela a mi, che son so pare. POR. La toga. Sette soldi. PAN. Tolè, sette soldi. POR. Strissima(⁴ ). (parte)
SCENA IV
Pantalone solo.
Chi mai xè quello che scrive? Cossa mai ghe xè drento? Sto carattere mi no me par de cognoscerlo. El sigillo gnanca. L'averzirò, e saverò. Solito vizio! voler indivinar chi scrive, avanti de averzer la lettera. Signor mio riveritissimo. Chi elo questo che scrive? Masaniello Capezzali. Napoli, 24 Aprile 1750. No so chi el sia; sentimo. Avendo scritto due lettere per costì al signor Lelio di Lei figliuolo, e non avendo avuto risposta... Mio fio s'ha fermà a Roma, ste do lettere le sarà alla posta. Risolvo a scrivere la presente a Vossignoria mio signore, temendo ch'egli o non sia arrivato, o sia indisposto. Il signor Lelio, due giorni prima di partir da Napoli, ha raccomandato a me, suo buon amico, di fargli avere le fedi del suo stato libero, per potersi ammogliare in altre parti, occorrendo... Oh bella! S'el gera maridà! Niuno poteva servirlo meglio di me, mentre sino all'ultima ora della sua partenza sono stato quasi sempre al suo fianco, per legge di buona amicizia... Questo doveria saver tutto, anca del matrimonio. Onde unitamente al nostro comune amico Nicoluccio, abbiamo ottenute le fedi del suo stato libero, le quali a ciò non si smarriscano, mando incluse a Vossignoria, autentiche e legalizzate... Com'ela? Coss'è sto negozio? Le fede del stato libero? No l'è maridà? O le fede xè false, o el matrimonio xè un'invenzion. Andemo avanti. È un prodigio che il signor Lelio torni alla patria libero e non legato, dopo gl'infiniti pericoli ne' quali si è ritrovato per il suo buon cuore; ma posso darmi io il vanto d'averlo per buona amicizia sottratto da mille scogli, ond'egli è partito da Napoli libero e sciolto, lo che renderà non poca consolazione a Vossignoria, potendo procurargli costì un accasamento comodo e di suo piacere; e protestandomi sono. Cossa sentio? Lelio no xè maridà? Queste xè le fede del stato libero. (le spiega) Sì ben, fede autentiche e recognossue. False no le pol esser. Sto galantomo che scrive, per cossa s'averavelo da inventar una falsità? No pol esser, no ghe vedo rason. Ma perchè Lelio contarme sta filastrocca? No so in che modo la sia. Sentimo se da sta lettera, diretta a elo, se pol rilevar qualcossa. (vuol aprire la lettera)
SCENA V
Lelio e detto.
LEL. Signor padre, di voi appunto cercava. PAN. Sior fio, vegnì giusto a tempo. Diseme, cognosseu a Napoli un certo sior Masaniello Capezzali? LEL. L'ho conosciuto benissimo. (Costui sa tutte le mie bizzarrie, non vorrei che mio padre gli scrivesse.) PAN. Elo un omo de garbo? Un omo schietto e sincero? LEL. Era tale, ma ora non è più. PAN. No? Mo perchè? LEL. Perchè il poverino è morto. PAN. Da quando in qua xelo morto? LEL. Prima ch'io partissi da Napoli. PAN. No xè tre mesi che sè partio da Napoli? LEL. Per l'appunto. PAN. Ve voggio dar una consolazion; el vostro caro amigo sior Masaniello xè resuscità. LEL. Eh! Barzellette! PAN. Vardè, questo xelo el so carattere? LEL. Oibò, non è suo carattere. (Pur troppo è suo, che diavolo scrive?)
PAN. Seu seguro che nol sia el so carattere? LEL. Son sicurissimo... E poi, se è morto. PAN. (O che ste fede xè false, o che mio fio xè el prencipe dei busiari. Ghe vol politica per scoverzer la verità.) LEL. (Sarei curioso di sapere che cosa contien quella lettera.) Signor padre, lasciatemi osservar meglio, s'io conosco quel carattere. PAN. Sior Masaniello no xelo morto? LEL. È morto senz'altro. PAN. Co l'è morto, la xè fenia. Lassemo sto tomo da parte, e vegnimo a un altro. Cossa aveu fatto al dottor Balanzoni? LEL. A lui niente. PAN. A lu gnente; ma a so fia? LEL. Ella ha fatto qualche cosa a me. PAN. Ella a ti? Cossa diavolo te porla aver fatto? LEL. Mi ha incantato, mi ha acciecato. Dubito che mi abbia stregato. PAN. Contime mo, com'ela stada? LEL. Jeri, verso sera, andava per i fatti miei. Ella mi vide dalla finestra; bisogna dire che l'abbia innamorata quel certo non so che del mio viso, che innamora tutte le donne, e mi ha salutato con un sospiro. Io, che quando sento sospirar una femmina, casco morto, mi son fermato a guardarla. Figuratevi! I miei occhi si sono incontrati nei suoi. Io credo che in quei due occhi abbia due diavoli, mi ha rovinato subito, e non vi è stato rimedio. PAN. Ti xè molto facile a andar zo col brenton ⁴ ⁷. Dime, gh'astu fatto una serenata?
LEL. Oh pensate! ò accidentalmente una serenata. Io mi trovai a sentirla. La ragazza ha creduto che l'avessi fatta far io, ed io ho lasciato correre. PAN. E ti t'ha inventà d'esser stà in casa dopo la serenata? LEL. Io non dico bugie. In casa ci sono stato. PAN. E ti ha cenà con ella? LEL. Per dirvi la verità, sì signore, ho cenato con lei. PAN. E no ti gh'ha riguardo a tôrte ste confidenze con una putta? LEL. Ella mi ha invitato, ed io sono andato. PAN. Te par che un omo maridà abbia da far de ste cosse? LEL. È vero, ho fatto male: non lo farò più. PAN. Maridà ti xè certo. LEL. Quando non fosse morta mia moglie. PAN. Perchè ala da esser morta? LEL. Può morire di parto. PAN. Se la xè in siè mesi. LEL. Può abortire. PAN. Dime un poco. Sastu chi sia quella siora Rosaura, colla qual ti ha parlà e ti xè stà in casa? LEL. È la figlia del dottor Balanzoni. PAN. Benissimo: e la xè quella che stamattina t'aveva proposto de darte per muggier. LEL. Quella?
PAN. Sì, quella. LEL. M'avete detto la figlia d'un bolognese. PAN. Ben, el dottor Balanzoni xè bolognese. LEL. (da sè) (Oh diavolo, ch'ho io fatto!) PAN. Cossa distu? Se ti geri libero, l'averessistù tiolta volentiera? LEL. Volentierissimo, con tutto il cuore. Deh, signor padre, non la licenziate; non abbandonate il trattato, pacificate il signor Dottore, teniamo in buona fede la figlia. Non posso vivere senza di lei. PAN. Ma se ti xè maridà. LEL. Può essere che mia moglie sia morta. PAN. Queste le xè speranze da matti. Abbi giudizio, tendi a far i fatti toi. Lassa star le putte. Siora Rosaura xè licenziada, e per dar una sodisfazion al Dottor, te tornerò a mandar a Napoli. LEL. No, per amor del cielo. PAN. No ti va volentiera a veder to muggier? LEL. Ah, voi mi volete veder morire! PAN. Per cossa? LEL. Morirò, se mi private della signora Rosaura. PAN. Ma quante muggier voressistu tior? Sette, co fa i Turchi? LEL. Una sola mi basta. PAN. Ben, ti gh'ha siora Briseide. LEL. Oimè... Briseide... PAN. Cossa gh'è?
LEL. Signor padre, eccomi a' vostri piedi. (s'inginocchia) PAN. Via mo, cossa vorressi dir? LEL. Vi domando mille volte perdono. PAN. Mo via, no me fè penar. LEL. Briseide è una favola, ed io non sono ammogliato. PAN. Bravo, sior, bravo! Sta sorte de panchiane ⁴ ⁸ piantè a vostro pare? Leveve su, sier cabalon, sier busiaro; xela questa la bella scuola de Napoli? Vegnì a Venezia, e appena arrivà, avanti de veder vostro pare, ve tacchè con persone che no savè chi le sia, dè da intender de esser napolitan, Don Asdrubale de Castel d'Oro, ricco de milioni, nevodo de prencipi, e poco manco che fradello de un re; inventè mille porcaríe in pregiudizio de do putte oneste e civil. Sè arrivà a segno de ingannar el vostro povero pare. Ghe dè da intender che sè maridà a Napoli: tirè fuora la siora Briseide, sior Policarpio, el relogio de repetizion, la pistòla; e permettè che butta via delle lagreme de consolazion per una niora imaginaria, per un nevodo inventà e lassè che mi scriva una lettera a vostro missier(⁴ ), che sarave sta' fidecommisso perpetuo alla posta de Napoli. Come diavolo feu a insuniarve ste cosse? Dove diavolo troveu la materia de ste maledette invenzion? L'omo civil no se destingue dalla nascita, ma dalle azion. El credito del marcante consiste in dir sempre la verità. La fede xè el nostro mazor capital. Se no gh'avè fede, se no gh'avè reputazion, sarè sempre un omo sospetto, un cattivo mercante, indegno de sta piazza, indegno della mia casa, indegno de vantar l'onorato cognome dei Bisognosi. LEL. Ah, signor padre, voi mi fate arrossire. L'amore che ho concepito per la signora Rosaura, non sapendo esser quella che destinata mi avevate in isposa, mi ha fatto prorompere in tali e tante menzogne, contro la delicatezza dell'onor mio, contro il mio sincero costume. PAN. Se fusse vero che fussi pentio, no sarave gnente. Ma ho paura che siè busiaro per natura, e che fe pezo per l'avegnir. LEL. No certamente. Detesto le bugie e le aborrisco. Sarò sempre amante della verità. Giuro di non lasciarmi cader di bocca una sillaba nemmeno equivoca, non che falsa. Ma per pietà, non mi abbandonate. Procuratemi il perdono dalla mia cara Rosaura, altrimenti mi vedrete morire. Anche poc'anzi, assalito
dall'eccessiva ione, ho gettato non poco sangue travasato dal petto. PAN. (Poverazzo! El me fa peccà.) Se me podesse fidar de ti, vorave anca procurar de consolarte: ma gh'ho paura. LEL. Se dico più una bugia, che il diavolo mi porti. PAN. Donca a Napoli no ti xè maridà. LEL. No certamente. PAN. Gh'astu nissun impegno con nissuna donna? LEL. Con donne non ho mai avuto verun impegno. PAN. Nè a Napoli, nè fora de Napoli? LEL. In nessun luogo. PAN. Varda ben, vè! LEL. Non direi più una bugia per tutto l'oro del mondo. PAN. Gh'astu le fede del stato libero? LEL. Non le ho, ma le aspetto a momenti. PAN. Se le fusse vegnue, averessistu gusto? LEL. Il ciel volesse; spererei più presto conseguir la mia cara Rosaura. PAN. Varda mo. Cossa xele queste? (dà le fedi a Lelio) LEL. Oh me felice! Queste sono le mie fedi dello stato libero. PAN. Me despiase che le sarà false. LEL. Perchè false? Non vedete l'autentica? PAN. Le xè false, perchè le spedisse un morto.
LEL. Un morto? Come? PAN. Varda, le spedisse sior Masaniello Capezzali, el qual ti disi che l'è morto che xè tre mesi. LEL. Lasciate vedere; ora riconosco il carattere. Non è Masaniello, il vecchio, che scrive; è suo figlio, il mio caro amico. (ripone le fedi) PAN. E el fio se chiama Masaniello, come el pare? LEL. Sì, per ragione di una eredità, tutti si chiamano col medesimo nome. PAN. L'è tanto to amigo, e no ti cognossevi el carattere? LEL. Siamo sempre stati insieme, non abbiamo avuto occasione di carteggiare. PAN. E ti cognossevi el carattere de so pare? LEL. Quello lo conoscevo, perchè era banchiere e mi ha fatto delle lettere di cambio. PAN. Ma xè morto so pare, e sto sior Masaniello no sigilla la lettera col bolin negro? LEL. Lo sapete pure: il bruno non si usa più. PAN. Lelio, no vorria che ti me contassi delle altre fandonie. LEL. Se dico più una bugia sola, possa morire. PAN. Tasi là, frasconazzo. Donca ste fede le xè bone? LEL. Buonissime; mi posso ammogliar domani. PAN. E i do mesi e più che ti xè stà a Roma? LEL. Questo non si dice a nessuno. Si dà ad intendere che sono venuto a dirittura da Napoli a Venezia. Troveremo due testimoni che l'affermeranno. PAN. Da resto po, non s'ha da dir altre busie.
LEL. Questa non è bugia, è un facilitare la cosa. PAN. Basta. Parlerò col Dottor, e la discorreremo. Vardè sta lettera, che m'ha dà el portalettere. LEL. Viene a me? PAN. A vu; gh'ho dà sette soldi. Bisogna che la vegna da Roma. LEL. Può essere. Datemela, che la leggerò. PAN. Con vostra bona grazia, la voggio lezer mi. (l'apre bel bello) LEL. Ma favoritemi... la lettera è mia. PAN. E mi son vostro pare, la posso lezer. LEL. Come volete... (Non vorrei nascesse qualche nuovo imbroglio). PAN. (legge) Carissimo sposo. (guardando Lelio) Carissimo sposo? LEL. Quella lettera non viene a me. PAN. Questa xè la mansion: All'Illustriss. Sign. Sign. e Padron Colendiss. Il Sign. Lelio Bisognosi – Venezia. LEL. Vedete che non viene a me. PAN. No, perchè? LEL. Noi non siamo illustrissimi. PAN. Eh, al dì d'ancuo i titoli i xè a bon marcà, e po ti, ti te sorbiressi anca dell'Altezza. Vardemo chi scrive: Vostra fedelissima sposa Cleonice Anselmio. LEL. Sentite? La lettera non viene a me. PAN. Mo perchè?
LEL. Perchè io questa donna non la conosco. PAN. Busie non ti ghe n'ha da dir più. LEL. Il cielo me ne liberi. PAN. Ti ha fina zurà. LEL. Ho detto: possa morire. PAN. A chi vustu che sia indrizzada sta lettera? LEL. Vi sarà qualcun altro che avrà il nome mio ed il cognome. PAN. Mi gh'ho tanti anni sul cesto, e non ho mai sentio che ghe sia nissun a Venezia de casa Bisognosi, altri che mi. LEL. A Napoli ed a Roma ve ne sono. PAN. La lettera xè diretta a Venezia. LEL. E non vi può essere a Venezia qualche Lelio Bisognosi di Napoli o di Roma? PAN. Se pol dar. Sentimo la lettera. LEL. Signor padre, perdonatemi, non è buona azione leggere i fatti degli altri. Quando si apre una lettera per errore, si torna a serrar senza leggerla. PAN. Una lettera de mio fio la posso lezer. LEL. Ma se non viene a me. PAN. Lo vedremo. LEL. (Senz'altro, Cleonice mi dà de' rimproveri. Ma saprò schermirmi colle mie invenzioni). PAN. La vostra partenza da Roma mi ha lasciata in una atroce malinconia, mentre mi avevate promesso di condurmi a Venezia con voi, e poi tutto in un tratto siete partito...
LEL. Se lo dico, non viene a me. PAN. Mo se la dise che l'è partio per Venezia. LEL. Bene: quel tale sarà a Venezia. PAN. Ricordatevi che mi avete data la fede di sposo. LEL. Oh, assolutamente non viene a me. PAN. Digo ben; vu no gh'avè impegno con nissuna. LEL. No certamente. PAN. Busie no ghe ne disè più. LEL. Mai più. PAN. Andemo avanti. LEL. (Questa lettera vuol esser compagna del sonetto.) PAN. Se mai aveste intenzione d'ingannarmi, state certo che in qualunque luogo saprò farmi fare giustizia. LEL. Qualche povera diavola abbandonata. PAN. Bisogna che sto Lelio Bisognosi sia un poco de bon. LEL. Mi dispiace che faccia torto al mio nome. PAN. Vu sè un omo tanto sincero... LEL. Così mi vanto. PAN. Sentimo el fin. Se voi non mi fate venire costì, e non risolvete sposarmi, farò scrivere da persona di autorità al signor Pantalone vostro padre... Olà! Pantalon? LEL. Oh bella! S'incontra anco il nome del padre.
PAN. So che il signor Pantalone è un onorato mercante veneziano... Meggio! E benchè siate stato allevato a Napoli da suo fratello... Via, che la vaga,. avrà dell'amore e della premura per voi, e non vorrà vedervi in una prigione, mentre sarò obbligata manifestare quello che avete levato dalle mie mani, in conto di dote. Possio sentir de pezo? LEL. Io gioco che questa è una burla d'un mio caro amico... PAN. Una burla de un vostro amigo? Se vu la tiolè per burla, sentì cossa che mi ve digo dasseno. In casa mia no ghe mettè nè piè, nè o. Ve darò la vostra legittima. Andè a Roma a mantegnir la vostra parola. LEL. Come, signor padre... PAN. Via de qua, busiaro infame, busiaro baron, muso duro, sfrontà, pezo d'una palandrana⁴¹ . (parte) LEL. Forti, niente paura. Non mi perdo d'animo per queste cose. Per altro non voglio dir più bugie. Voglio procurare di dir sempre la verità. Ma se qualche volta il dir la verità non mi giovasse a seconda de' miei disegni? L'uso delle bugie mi sarà sempre una gran tentazione. (parte)
SCENA VI
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Rosaura.
DOTT. Ditemi un poco, la mia signora figlia, quant'è che non avete veduto il signor marchese Asdrubale di Castel d'Oro? ROS. So benissimo ch'egli non è marchese. DOTT. Dunque saprete chi è. ROS. Sì signore, si chiama Ruggiero Pandolfi, mercante napolitano. DOTT. Ruggiero Pandolfi? ROS. Così mi disse. DOTT. Mercante napolitano? ROS. Napolitano. DOTT. Pazza, stolida, senza giudizio; sai chi è colui? ROS. Chi mai? DOTT. Lelio, figlio di Pantalone. ROS. Quello che mi avevate proposto voi per consorte? DOTT. Quello; quella buona lana. ROS. Dunque, s'è quello, la cosa è più facile ad accomodarsi.
DOTT. Senti, disgraziata, senti dove ti potea condurre il tuo poco giudizio, la facilità colla quale hai dato orecchio ad un forestiere. Lelio Bisognosi, che con nome finto ha cercato sedurti, a Napoli è maritato. ROS. Lo sapete di certo? Difficilmente lo posso credere. DOTT. Sì, lo so di certo. Me l'ha detto suo padre. ROS. (piange) Oh me infelice! Oh traditore inumano! DOTT. Tu piangi, frasconcella? Impara a vivere con più giudizio, con più cautela. Io non posso abbadare a tutto. Mi conviene attendere alla mia professione. Ma giacchè non hai prudenza, ti porrò in un luogo dove non vi sarà pericolo che tu caschi in questa sorta di debolezze. ROS. Avete ragione. Castigatemi, che ben lo merito. (Scellerato impostore, il cielo ti punirà.) (parte)
SCENA VII
Il Dottore, poi Ottavio.
DOTT. Da una parte la compatisco, e me ne dispiace; ma per la riputazione, la voglio porre in sicuro. OTT. Signor Dottore, la vostra cameriera di casa mi ha fatto intendere, che la signora Beatrice desiderava parlarmi. Io sono un uomo d'onore, non intendo trattar colla figlia senza l'intelligenza del padre. DOTT. Bravo, siete un uomo di garbo. Ho sempre fatta stima di voi, ed ora mi cresce il concetto della vostra prudenza. Se siete disposto, avanti sera concluderemo il contratto con mia figliuola. (Non vedo l'ora di sbrattarla di casa.) OTT. Io per me sono disposto. DOTT. Ora chiameremo Beatrice, e sentiremo la di lei volontà.
SCENA VIII
Colombina e detti.
COL. Signor padrone, il signor Lelio Bisognosi, quondam marchese, gli vorrebbe dire una parola. OTT. Costui me la pagherà certamente. DOTT. Non dubitate, che si castigherà da se stesso. Sentiamo un poco che cosa sa dire. Fallo venire innanzi. COL. Oh che bugiardo! E poi dicono di noi altre donne. (parte) OTT. Avrà preparata qualche altra macchina. DOTT. S'egli è maritato, ha finito di macchinar con Rosaura.
SCENA IX
LELIO, OTTAVIO ed il DOTTORE
LEL. Signor Dottore, vengo pieno di rossore e di confusione a domandarvi perdono. DOTT. Bugiardaccio! OTT. (a Lelio) Domani la discorreremo fra voi e me. LEL. (ad Ottavio) Voi vi volete batter meco, voi mi volete nemico; ed io son qui ad implorare la vostra amichevole protezione. OTT. Presso di chi? LEL. Presso il mio amatissimo signor Dottore. DOTT. Che vuole dai fatti miei? LEL. La vostra figlia in consorte. DOTT. Come! Mia figlia in consorte? E siete maritato? LEL. Io ammogliato? Non è vero. Sarei un temerario, un indegno, se a voi fi una tale richiesta, quando ad altra donna avessi solamente promesso. DOTT. Vorreste voi piantarmi un'altra carota? OTT. Le vostre bugie hanno perduto il credito. LEL. Ma chi vi ha detto che io sono ammogliato? DOTT. Vostro padre l'ha detto; m'ha detto che avete sposata la signora Briseide, figlia di Don Policarpio.
LEL. Ah, signor Dottore, mi dispiace dover smentire mio padre; ma il zelo della mia riputazione, e l'amore che ho concepito per la signora Rosaura, mi violentano a farlo. No, mio padre non dice il vero. DOTT. Tacete; vergognatevi di favellare così. Vostro padre è un galantuomo: non è capace di mentire. OTT. (a Lelio) Quando cesserete d'imposturare? LEL. (mostra ad Ottavio le fedi avute da Napoli) Osservate, se io dico il falso. Mirate quali sono le mie imposture. Ecco le mie fedi dello stato libero, fatte estrarre da Napoli. Voi, signor Ottavio, che siete pratico di quel paese, osservate, se sono legittime ed autenticate. OTT. È vero; conosco i caratteri, mi sono noti i sigilli. DOTT. Poter del mondo! Non siete voi maritato? LEL. No certamente. DOTT. Ma per qual causa dunque il signor Pantalone mi ha dato intendere che lo siete? LEL. Ve lo dirò io il perchè. DOTT. Non mi state a raccontar qualche favola. LEL. Mio padre si è pentito di aver dato a voi la parola per me di prendere vostra figlia. DOTT. Per che causa? LEL. Perchè stamane in piazza un sensale, che ha saputo la mia venuta, gli ha offerto una dote di cinquanta mila ducati. DOTT. Il signor Pantalone mi fa questo aggravio? LEL. L'interesse accieca facilmente. OTT. (Io resto maravigliato. Non so ancor cosa credere.)
DOTT. Dunque, siete voi innamorato della mia figliuola? LEL. Sì, signore, pur troppo. DOTT. Come avete fatto ad innamorarvi sì presto? LEL. Sì presto? In due mesi, amor bambino si fa gigante. DOTT. Come in due mesi, se siete arrivato jer sera? LEL. Signor Dottore, ora vi svelo tutta la verità. OTT. (da sè) (Qualche altra macchina.) LEL. Sapete voi quanto tempo sia, ch'io sono partito da Napoli? OTT. Vostro padre mi ha detto, che saranno tre mesi in circa. LEL. Ebbene, dove sono stato io questi tre mesi? DOTT. Mi ha detto che siete stato in Roma. LEL. Questo è quello che non è vero. Mi fermai a Roma tre o quattro giorni, e venni a dirittura a Venezia. OTT. E il signor Pantalone non l'ha saputo? LEL. Non l'ha saputo, perchè, quando giunsi, egli era al solito al suo casino alla Mira. DOTT. Ma perchè non vi siete fatto vedere da lui? Perchè non siete andato a ritrovarlo in campagna? LEL. Perchè, veduto il volto della signora Rosaura, non ho più potuto staccarmi da lei. OTT. Signor Lelio, voi le infilzate sempre più grosse. Sono due mesi ch'io alloggio alla locanda dell'Aquila, e solo jeri voi ci siete arrivato. LEL. Il mio alloggio sinora è stato lo Scudo di Francia e per vagheggiare più facilmente la signora Rosaura sono venuto all'Aquila jeri sera.
DOTT. Perchè, se eravate innamorato di mia figlia, inventare la serenata e la cena in casa? LEL. Della serenata è vero, l'ho fatta far io. DOTT. E della cena? LEL. Ho detto di aver fatto quello che avrei desiderato di fare. OTT. E la mattina, che avete condotto le due sorelle alla malvagìa? LEL. Oh via! Ho detto delle facezie, son pentito, non ne dirò mai più. Venghiamo alla conclusione. Signor Dottore, io son figlio di Pantalone de' Bisognosi, e questo lo crederete. DOTT. Può esser anche che non sia vero. LEL. Io son libero, ed ecco gli attestati della mia libertà. DOTT. Basta che siano veri. LEL. il signor Ottavio li riconosce. OTT. Certamente, mi pajon veri. LEL. Il matrimonio fra la signora Rosaura e me è stato trattato fra voi e mio padre. DOTT. Mi dispiace che il signor Pantalone, colla lusinga dei cinquanta mila ducati, manca a me di parola. LEL. Vi dirò. La dote dei cinquanta mila ducati è andata in fumo, e mio padre è pentito d'aver inventata la favola del matrimonio. DOTT. Perchè non viene egli a parlarmi? LEL. Non ardisce di farlo. Ha mandato me in vece sua. DOTT. Eh! Mi pare un imbroglio. LEL. Ve lo giuro sulla mia fede.
DOTT. Orsù, sia come esser si voglia, ve la darò. Perchè, se il signor Pantalone è contento, avrà piacere; e se non fosse contento, mi ricatterei dell'affronto ch'egli voleva farmi. Che dice il signor Ottavio? OTT. Voi pensate benissimo. Finalmente, quando sarà maritata, non vi sarà da dir altro. DOTT. Date a me quelle fedi di stato libero. LEL. Eccole. DOTT. Ma in questi tre mesi potreste esser obbligato. LEL. Se sono stato sempre in Venezia. DOTT. Ve l'ho da credere? LEL. Non direi una bugia per diventare Monarca. DOTT. Ora chiamerò mia figlia; se ella è contenta, si concluderà. (parte)
SCENA X
Lelio, Ottavio; poi il Dottore e Rosaura.
LEL. (Il colpo è fatto. Se mi marito, cadono a terra tutte le pretensioni della Romana.) OTT. Signor Lelio, voi siete fortunato nelle vostre imposture. LEL. Amico, domani non mi potrò venire a batter con voi. OTT. Perchè? LEL. Perchè spero di fare un altro duello. DOTT. (a Rosaura) Ecco qua il signor Lelio. Egli si esibisce di essere tuo marito, che cosa dici? Sei tu contenta? ROS. Ma non mi avete detto che era ammogliato? DOTT. Credevo che avesse moglie, ma è libero ancora. ROS. Mi pareva impossibile, ch'ei fosse capace di una tal falsità. LEL. No, mia cara, non sono capace di mentire con voi, che v'amo tanto. ROS. Però mi avete dette delle belle bugie. DOTT. Animo, concludiamo. Lo vuoi per marito? ROS. Se me lo date, lo prenderò.
SCENA XI
Pantalone e detti.
PAN. Sior Dottor, con vostra bona grazia. Cossa fa qua mio fio? DOTT. Sapete cosa fa vostro figlio? Rende soddisfazione alla mia casa del torto e dell'affronto che voi mi avete fatto. PAN. Mi? Cossa v'oggio fatto? DOTT. Mi avete dato ad intendere che era ammogliato, per disobbligarvi dell'impegno di dargli la mia figliuola. PAN. Ho dito che el gera maridà, perchè lu el me lo ha dà da intender. LEL. Oh via, tutto è finito. Signor padre, questa è la mia sposa, voi me l'avete destinata. Tutti sono contenti. Tacete e non dite altro. PAN. Che tasa? Tocco de desgrazià! Che tasa?… Sior Dottor, sentì sta lettera, e vardè se sto matrimonio pol andar avanti. (dà al Dottore la lettera di Cleonice) LEL. Quella lettera non viene a me. DOTT. Bravo, signor Lelio! Due mesi e più che siete in Venezia? Non avete impegno con nessuna donna? Siete libero, liberissimo? Rosaura, scostati da questo bugiardaccio. È stato a Roma tre mesi, ha promesso a Cleonice Anselmi. Non può sposare altra femmina. Impostore, menzognero, sfacciatissimo, temerario. LEL. Giacchè mio padre mi vuol far arrossire, sono obbligato a dire essere colei una trista femmina, colla quale mi sono ritrovato casualmente all'albergo in Roma tre soli giorni, che colà ho dimorato. Una sera, oppresso dal vino, mi ha tirato nella rete e mi ha fatto promettere, senza saper quel ch'io fi: avrò i testimonj ch'ero fuori di me quando parlai, quando scrissi.
DOTT. Per mettere in chiaro questa verità, vi vuol tempo; intanto favorisca di andar fuori di questa casa. LEL. Voi mi volete veder morire. Come potrò resistere lontano dalla mia cara Rosaura? DOTT. Sempre più vado scoprendo il vostro carattere, e credo, sebben fingete di morir per mia figlia, che non ve ne importi un fico. LEL. Non me ne importa? Chiedetelo a lei, se mi preme l'amor suo, la sua grazia. Dite, signora Rosaura con quanta attenzione ho procurato io in poche ore di contentarvi. Narrate voi la magnifica serenata che ieri sera vi ho fatta, e la sincerità colla quale mi son fatto a voi conoscere con un sonetto.
SCENA XII
Florindo, Brighella e detti.
FLOR. Signor Dottore, signora Rosaura, con vostra buona licenza, permettetemi che io vi sveli un arcano, finora tenuto con tanta gelosia custodito. Un impostore tenta usurpare il merito alle mie attenzioni, onde forzato sono a levarmi la maschera e manifestare la verità. Sappiate, signori miei, che io ho fatto fare la serenata, e del sonetto io sono stato l'autore. LEL. Siete un bugiardo. Non è vero. FLOR. (dà due carte a Rosaura) Questa è la canzonetta da me composta, e questo è l'abbozzo del mio sonetto. Signora Rosaura, vi supplico riscontrarli. BRIG. Sior Dottor, se la me permette, dirò, per la verità, che son stà mi, che d'ordine del sior Florindo ho ordinà la serenada: e che me son trovà presente, quando colle so man l'ha buttà quel sonetto sul terrazzin. DOTT. Che dice il signor Lelio? LEL. Ah, ah, rido come un pazzo. Non poteva io preparare alla signora Rosaura una commedia più graziosa di questa. Un giovinastro sciocco e senza spirito fa fare una serenata, e non si palesa autore di essa. Compone un sonetto, e lo getta sul terrazzino, e si nasconde, e tace; sono cose che fanno crepar di ridere. Ma io ho resa la scena ancor più ridicola, mentre colle mie spiritose invenzioni ho costretto lo stolido a discoprirsi. Signor incognito, che pretendete voi? Siete venuto a discoprirvi un poco tardi. La signora Rosaura è cosa mia; ella mi ama, il padre suo me l'accorda, e alla vostra presenza le darò la mano di sposo. PAN. (Oh che muso! Oh che lengua!) DOTT. Adagio un poco, signore dalle spiritose invenzioni. Dunque, signor Florindo, siete innamorato di Rosaura mia figlia?
FLOR. Signore, io non ardiva manifestare la mia ione. DOTT. Che dite, Rosaura, il signor Florindo lo prendereste voi per marito? ROS. Volesse il cielo che io conseguir lo potessi! Lelio è un bugiardo, non lo sposerei per tutto l'oro del mondo. PAN. (E mi bisogna che soffra. Me vien voggia de scanarlo con le mie man). LEL. Come, signora Rosaura? Voi mi avete data la fede, voi avete da esser mia. DOTT. Andate a sposar la Romana. LEL. Una donna di mercato non può obbligarmi a sposarla.
SCENA XIII
Arlecchino e detti.
ARL. (a Lelio) Sior padron, salveve. LEL. Che c'è? PAN. (ad Arlecchino) Dime a mi, coss'è stà? ARL. (a Lelio) No gh'è più tempo de dir busìe. La Romana l'è vegnuda a Venezia. DOTT. Chi è questa Romana? ARL. Siora Cleonice Anselmi. DOTT. È una femmina prostituita? ARL. Via, tasì là. L'è fiola d'un dei primi mercanti de Roma. LEL. Non è vero, costui mentisce. Non sarà quella, sono un galantuomo. Io non dico bugie. OTT. Voi galantuomo? Avete prostituito l'onor vostro, la vostra fede, con falsi giuramenti, con testimoni mendaci. DOTT. Via di questa casa. PAN. (al Dottore) Cussì scazzè un mio fio? DOTT. Un figlio che deturpa l'onorato carattere di suo padre. PAN. Pur troppo disè la verità. Un fio scellerato, un fio traditor, che a forza de busìe mette sottosora la casa, e me fa comparir un babbuin anca mi. Fio indegno, fio desgrazià. Va, che no te voggio più veder; vame lontan dai occhi, come te
scazzo lontan dal cuor. (parte) LEL. Scellerate bugie, vi abomino, vi maledico. Lingua mendace, se più ne dici, ti taglio. ROS. (chiama) Colombina.
SCENA XIV
Colombina e detti.
COL. Signora. ROS. (Le parla all'orecchio) COL. Subito. DOTT. Vergognatevi di esser così bugiardo! LEL. Se mi sentite più dire una bugia, riputatemi per uomo infame. OTT. Cambiate costume, se volete vivere fra gente onesta. LEL. Se più dico bugie, possa essere villanamente trattato. COL. (colla scatola con i pizzi) Eccola. (la dà a Rosaura) ROS. Tenete signor impostore. Questi sono i pizzi, che mi avete voi regalati. Non voglio nulla del vostro. (offre a Lelio la scatola con i pizzi) FLOR. Come! Quei pizzi li ho fatti comprar io. BRIG. Sior sì, mi ho pagà i dieci zecchini all'insegna del Gatto, e li ho mandadi alla signora Rosaura per el zovene della bottega, senza dir chi ghe li mandasse. ROS. (li prende) Ora intendo; Florindo mi ha regalata, e l'impostore s'è fatto merito. LEL. Il silenzio del signor Florindo mi ha stimolato a prevalermi dell'occasione, per farmi merito con due bellezze. Per sostenere la favola, ho principiato a dire qualche bugìa, e le bugìe sono per natura così feconde, che una ne suole partorir cento. Ora mi converrà sposar la Romana. Signor Dottore, signora Rosaura, vi chiedo umilmente perdono, e prometto che bugìe non ne voglio dire mai più.
(parte) ARL. Sta canzonetta l'ho imparada a memoria. Busìe mai più, ma qualche volta, qualche spiritosa invenzion. DOTT. Orsù, andiamo. Rosaura sposerà il signor Florindo, e il signor Ottavio darà la mano a Beatrice. OTT. Saremo quattro persone felici, e goderemo il frutto de' nostri sinceri affetti. Ameremo noi sempre la bellissima verità, apprendendo dal nostro bugiardo, che le bugie rendono l'uomo ridicolo, infedele, odiato da tutti; e che per non esser bugiardi, conviene parlar poco, apprezzare il vero, e pensare al fine.
Fine della Commedia.
IL BURBERO BENEFICO
PERSONAGGI
Geronte Dalancour, nipote di Geronte Dorval, amico di Geronte Valerio, amante di Angelica Piccardo, lacchè di Geronte Un Lacchè di Dalancour Madama Dalancour Angelica, sorella del signor Dalancour Martuccia, donna di governo del signor Geronte
La scena stabile si rappresenta in Parigi, in una sala in casa dei signori Geronte e Dalancour. Essa ha tre porte, l'una delle quali introduce nell'appartamento del signor Geronte, l'altra dirimpetto, in quello del signor Dalancour, e la terza in fondo, serve di porta comune. Vi saranno delle sedie, dei sofà, ed un tavolino con uno scacchiere.
ATTO PRIMO
SCENA I
Martuccia, Angelica, e Valerio.
Angelica: Valerio, lasciatemi, ve ne prego. Io temo per me, temo per voi. Ah, se noi fossimo sorpresi! Valerio: Mia cara Angelica!... Martuccia: Partite, signore. Valerio: (a Martuccia) Di grazia, un momento. S'io potessi assicurarmi... Martuccia: Di che? Valerio: Del suo amore, della sua costanza... Angelica: Ah, Valerio, potreste voi dubitarne? Martuccia: Andate, andate, o signore. Ella v'ama anche troppo. Valerio: Questa è la felicità della mia vita. Martuccia: Presto, partite. Se il mio padrone sopraggiunge... Angelica: (a Martuccia) Egli non esce giammai sì per tempo. Martuccia: È vero. Ma in questa sala, ben lo sapete, egli eggia, egli si diverte. Ecco là i suoi scacchi. Egli vi giuoca spessissimo. Oh, non conoscete voi il signor Geronte? Valerio: Perdonatemi. Egli è lo zio d'Angelica. Lo so, mio padre era suo amico, ma io non ho giammai parlato con lui. Martuccia: Egli è un uomo, signore, di un carattere stravagante. È di buonissimo fondo, ma assai burbero, e fantastico al sommo.
Angelica: Sì; egli m'ha detto d'amarmi, e lo credo. Pure quando mi parla, mi fa tremare. Valerio: (ad Angelica) Ma che avete voi a temere? Voi non avete nè padre, nè madre. Il disporre di voi tocca a vostro fratello. Egli è mio amico. Io gli parlerò. Martuccia: Eh! sì, sì, fidatevi del signor Dalancour. Valerio: (a Martuccia) Che? potrebbe egli negarmela? Martuccia: Per mia fè, io credo di sì. Valerio: Come? Martuccia: Uditemi; vi spiego tutto in quattro parole. Mio nipote, il nuovo giovine di studio del procuratore del vostro signor fratello, (ad Angelica) mi ha informato di ciò che sto per dirvi. Siccome sono solamente quindici giorni dacchè egli è presso di lui, me l'ha detto questa mattina, ma me lo ha confidato sotto la più gran segretezza. Per pietà, non mi palesate. Valerio: Non temete di nulla. Angelica: Voi mi conoscete. Martuccia: (parlando con Valerio sotto voce e guardando sempre le portiere) Il signor Dalancour è un uomo rovinato, precipitato. Egli ha mangiato tutte le sue facoltà e fors'anche la dote di sua sorella. Angelica è un peso troppo eccedente le di lui forze, e per liberarsene vorrebbe chiuderla in un ritiro. Angelica: Oh Dio! che mi dite? Valerio: Come! ed è possibile? Io lo conosco da lungo tempo. Dalancour mi parve sempre un giovane saggio, onesto; talvolta impetuoso e collerico, ma... Martuccia: Impetuoso! Oh impetuosissimo, quasi al pari di suo zio! Ma egli è ben lontano dall'avere i medesimi sentimenti. Valerio: Egli era stimato, accarezzato da chicchessia. Suo padre era di lui contentissimo.
Martuccia: Eh! signore, dacchè è maritato, non è più quello di prima. Valerio: Sarebbe mai stata madama Dalancour? Martuccia: Sì, ella appunto, a ciò che dicono, è il motivo di questo bel cangiamento. Il signor Geronte non si è disgustato con suo nipote, che per la sciocca compiacenza ch'egli ha per sua moglie; e... non so nulla; ma scommetterei che il progetto del ritiro fu immaginato da lei. Angelica: (a Martuccia) Che intendo? Mia cognata che credevo sì ragionevole, che mi dimostrava tanta amicizia! Io non l'avrei mai pensato. Valerio: Ella ha il più dolce carattere. Martuccia: Questa dolcezza fu quella appunto che ha sedotto suo marito. Valerio: Io la conosco, e non posso crederlo. Martuccia: M'immagino che voi scherziate. Evvi una donna più ricercata di lei nelle sue acconciature? Esce nuova moda, ch'ella tosto non prenda? Vi sono balli o spettacoli cui non intervenga la prima? Valerio: Ma suo marito è sempre al suo fianco. Angelica: Sì, mio fratello non l'abbandona mai. Martuccia: Ebbene, sono pazzi ambedue, ed ambedue si rovinano insieme. Valerio: Pare impossibile! Martuccia: Animo, animo, signore. Eccovi istrutto di ciò che volevate sapere. Partite subito. Non esponete madamigella al pericolo di perdere la buona grazia di suo zio. Egli è quel solo che possa farle del bene. Valerio: Calmatevi, mia cara Angelica. L'interesse non formerà mai un ostacolo... Martuccia: Sento dello strepito: partite subito. (Valerio parte)
SCENA II
Martuccia, ed Angelica.
Angelica: Sventurata ch'io sono! Martuccia: Quello è certamente vostro zio! Non ve l'aveva io detto? Angelica: Vado. Martuccia: No, anzi restate, ed apritegli il vostro cuore. Angelica: Io lo temo come il fuoco. Martuccia: Via, via, coraggio. Egli è talvolta un poco caldo ma non è poi di cattivo cuore. Angelica: Voi siete la sua donna di governo. Avete credito presso di lui. Parlategli in mio favore. Martuccia: No; è necessario che gli parliate voi stessa. Al più, io potrei prevenirlo, e disporlo ad udirvi. Angelica: Sì, sì. Ditegli qualche cosa. Io gli parlerò dipoi. (vuole andarsene) Martuccia: Restate. Angelica: No, no, quando sarà tempo chiamatemi; io non sarà molto lontana. (parte)
SCENA III
Martuccia sola.
Quanto è dolce, quanto è amabile! Io l'ho veduta nascere; l'amo, la compiango, e vorrei vederla fortunata. Eccolo. (vedendo Geronte)
SCENA IV
Geronte, e detta.
Geronte: (parlando, con Martuccia) Piccardo! Martuccia: Signore... Geronte: Chiamatemi Piccardo. Martuccia: Sì, signore... Ma si potrebbe dirvi una parola? Geronte: (forte e con calore) Piccardo, Piccardo! Martuccia: (forte ed in collera) Piccardo, Piccardo?
SCENA V
Piccardo, e detti.
Piccardo: (a Martuccia) Eccomi, eccomi. Martuccia: (a Piccardo con rabbia) Il vostro padrone... Piccardo: (a Geronte) Signore! Geronte: Va a casa di Dorval mio amico: digli ch'io attendo per giuocare una partita a scacchi. Piccardo: Sì, signore, ma... Geronte: Che c'è? Piccardo: Ho una commissione. Geronte: Di far che? Piccardo: Il vostro signor nipote... Geronte: (riscaldato) Va a casa di Dorval. Piccardo: Egli vorrebbe parlarvi. Geronte: Vattene, briccone. Piccardo: (Che uomo!) (parte)
SCENA VI
Geronte, e Martuccia.
Geronte: (avvicinandosi al tavolino) Pazzo, miserabile! No, non voglio vederlo, non voglio che venga ad alterare la mia tranquillità. Martuccia: (da sè)(Eccolo subito arrabbiato. Non ci mancava che questo.) Geronte: (a sedere, esamina il giuoco) Che colpo mai fu quello di ieri! Qual fatalità! Come diamine ho potuto aver scaccomatto con un giuoco disposto sì bene! Vediamo un poco. Questo caso mi fece stare svegliato tutta la notte. Martuccia: Signore, si potrebbe parlarvi? Geronte: No. Martuccia: No? Eppure avrei a dirvi qualche cosa di premura. Geronte: Suvvia, che hai a dirmi? Spicciati. Martuccia: Vostra nipote vorrebbe parlarvi. Geronte: Ora non ho tempo. Martuccia: Oh bella! Ciò che voi fate è dunque cosa di grande importanza? Geronte: Sì, importantissima. Mi diverto poco; ma quando mi diverto, non voglio che mi si venga a rompere il capo. M'intendi? Martuccia: Questa povera figlia... Geronte: Che l'è accaduto? Martuccia: La vogliono chiudere in un ritiro.
Geronte: In un ritiro!... Chiudere mia nipote in un ritiro?... Dispor di mia nipote senza mio consenso, senza che io la sappia? Martuccia: Voi sapete i disordini di vostro nipote. Geronte: Io non entro punto nei disordini di mio nipote, nelle pazzie di sua moglie. Egli ha il suo. Se lo mangi, si rovini, tanto peggio per lui; ma per mia nipote... Io sono il capo di famiglia, io sono il padrone, io devo darle stato. Martuccia: Tanto meglio per lei. Mi consolo tutta vedendovi riscaldare per gl'interessi di questa cara ragazza. Geronte: Dov'è? Martuccia: È qui vicina, signore. Attende il momento... Geronte: Che venga. Martuccia: Sì; ella lo desidera ardentemente, ma... Geronte: Ma che? Martuccia: È timida. Geronte: Che vuol dire? Martuccia: Se voi le parlate... Geronte: È ben necessario ch'io le parli. Martuccia: Sì; ma questo tuono di voce... Geronte: Il mio tuono di voce non fa male ad alcuno. Che ella venga, e che s'affidi al mio cuore, non alla mia voce. Martuccia: È vero, signore; io vi conosco; so che siete buono, umano, caritatevole; ma, ve ne prego, non la intimorite, questa povera ragazza. Parlatele con un poco di dolcezza. Geronte: Sì; le parlerò con dolcezza.
Martuccia: Me lo promettete? Geronte: Te lo prometto. Martuccia: Non ve lo scordate. Geronte: (comincia a dar in impazienze) No. Martuccia: Sopra tutto non impazientitevi. Geronte: (vivamente) Ti dico di no. Martuccia: Io tremo per Angelica. (parte)
SCENA VII
Geronte solo.
Ella ha ragione. Mi lascio talvolta trasportare dal mio focoso temperamento. La mia nipote merita di esser trattata con dolcezza.
SCENA VIII
Angelica, e detto.
Angelica: (rimane a qualche distanza) Geronte: Accostatevi. Angelica: (con timore, facendo un sol o) Signore... Geronte: (un po' riscaldato) Come volete ch'io v'intenda, mentre siete tre miglia lontana da me? Angelica: (s'avanza tremando) Signore... scusate... Geronte: Che avete a dirmi? Angelica: Martuccia non v'ha ella detto qualche cosa? Geronte: (comincia con tranquillità, e si riscalda a poco a poco) Sì; mi parlò di voi, mi parlò di vostro fratello, di questo insensato, di questo stravagante, che si lasciò guidar per il naso da una femmina imprudente, che si è rovinato, che si è perduto, e che inoltre mi perde il rispetto. Angelica: (vuole andarsene) Geronte: (vivamente) Dove andate? Angelica: Signore, voi siete in collera... Geronte: Ebbene che ve n'importa? Se vado in collera contro uno sciocco, io, non ci vado contro di voi. Accostatevi, parlate, e non abbiate paura del mio sdegno. Angelica: Mio caro zio, non saprò mai parlarvi se prima non vi veggo tranquillo.
Geronte: (ad Angelica, facendosi forza) Che martirio! Eccomi tranquillo. Parlate. Angelica: Signore... Martuccia vi avrà detto... Geronte: Io non bado a ciò che m'ha detto Martuccia. Io voglio intendere da voi medesima. Angelica: (con timore) Mio fratello... Geronte: (contraffacendola) Vostro fratello... Angelica: Vorrebbe chiudermi in un ritiro. Geronte: Ebbene, inclinate voi al ritiro? Angelica: Ma signore... Geronte: (con caldo) Suvvia, parlate. Angelica: A me non tocca a decidere. Geronte: (ancora più riscaldato) Io non dico che voi decidiate, ma voglio sapere la vostra inclinazione. Angelica: Signore, voi mi fate tremare. Geronte: (da sè facendosi forza) (Crepo di rabbia.) Avvicinatevi. V'intendo. Dunque il ritiro non vi va a genio. Angelica: No signore. Geronte: Qual'è lo stato cui più inclinereste? Angelica: Signore... Geronte: Non temete di nulla. Sono tranquillo. Parlatemi liberamente. Angelica: Ah! non ho coraggio!... Geronte: Venite qui. Vorreste maritarvi?
Angelica: Signore... Geronte: Sì, o no? Angelica: Se voi voleste... Geronte: (vivamente) Sì o no? Angelica: Ma sì... Geronte: Sì? Volete maritarvi, perdere la libertà, la tranquillità? Ebbene: tanto peggio per voi. Sì, vi mariterò. Angelica: (da sè) (Eppure è amabile con tutta la sua collera.) Geronte: Avete voi qualche inclinazione? Angelica: (da sè) (Ah! se avessi coraggio di parlargli di Valerio!) Geronte: Come? Avreste di già qualche amante? Angelica: (da sè) (Questo non è il momento. Glie ne farò parlare dalla sua donna di governo.) Geronte: (sempre con calore) Suvvia, finiamola! La casa ove siete, la persona con cui vivete, v'avrebbero per avventura somministrata l'occasione d'attaccarvi ad alcuno? Io voglio sapere la verità. Sì, vi farò del bene, ma con patto che lo meritiate. M'intendete? Angelica: (tremando) Sì signore. Geronte: (con lo stesso tono) Parlatemi schiettamente, francamente. Avete forse qualche genietto? Angelica: (esitando e tremando) Ma... non signore. Non ne ho alcuno. Geronte: Tanto meglio. Io penserò a trovarvi un marito. Angelica: (a Geronte) Oh, Dio... non vorrei... Signore! Geronte: Che c'è?
Angelica: Voi conoscete la mia timidità. Geronte: Sì, sì, la vostra timidità... Io le conosco le femmine; voi siete al presente una colomba, ma quando sarete maritata, diverrete un dragone. Angelica: Deh! mio zio, giacchè siete così buono... Geronte: Anche troppo. Angelica: Permettete che vi dica... Geronte: (avvicinandosi al tavolino) Ma Dorval non viene ancora! Angelica: Uditemi, mio caro zio. Geronte: (attento al suo tavolino) Lasciatemi. Angelica: Una parola sola. Geronte: (assai vivamente) Basta così. Angelica: (da sè) (O cielo! eccomi più infelice che mai! Ah! la mia cara Martuccia non mi abbandonerà.) (parte)
SCENA IX
Geronte solo.
Questa è una buona ragazza. Io le fo del bene molto volentieri. Se avesse anche avuta qualche inclinazione, mi sarei sforzato, di compiacerla, ma non ne ha alcuna... Vedrò io. Cercherò io... Ma, che diavolo fa questo Dorval che non vien mai? Io muoio di voglia di tentare un'altra volta questa maledetta combinazione che mi fece perdere la partita. Certamente io doveva guadagnare. Avrebbe abbisognato che avessi perduta la testa. Vediamo un poco. Ecco la disposizione dei miei scacchi. Ecco quella di Dorval. Io avanzo il re alla casa della sua torre. Dorval pone il suo matto alla seconda casa del suo re. Io... scacco... sì, e prendo la pedina. Dorval... egli ha preso il mio matto... Dorval? Sì, egli ha preso il mio matto, ed io... Doppio scacco col cavaliere. Per bacco! Dorval ha perduto la sua dama. Egli giuoca il suo re, io prendo la sua dama. Questo sciagurato col suo re ha preso il mio cavaliere. Ma tanto peggio per lui; eccolo nelle mie reti; eccolo vinto con il suo re. Ecco la mia dama; sì, eccola. Scacco matto, questa è chiara. Scacco matto, questa è guadagnata... Ah! se Dorval venisse, glie la farei vedere. Piccardo? (chiama)
SCENA X
Geronte e Dalancour.
Dalancour: (a parte ed estremamente confuso) Mio zio è solo. Se volesse ascoltarmi... Geronte: Accomoderò il giuoco come era prima. (senza vedere Dalancour, chiama più forte) Piccardo? Dalancour: Signore. Geronte: (senza volgersi, credendo di parlare a Piccardo) Ebbene, hai tu trovato Dorval?
SCENA XI
Dorval, e detti.
Dorval: (entra per la porta di mezzo, a Geronte) Eccomi, amico. Dalancour: (con risoluzione) Mio zio! Geronte: (volgendosi vede Dalancour; s'alza bruscamente, getta a terra la sedia, parte senza parlare, ed esce per la porta di mezzo)
SCENA XII
Dalancour e Dorval.
Dorval: (sorridendo) Che vuol dir questa scena? Dalancour: È una cosa terribile!... Tutto ciò perchè mi ha veduto. Dorval: (sempre d'un tuono) Geronte è mio amico; conosco benissimo il suo naturale. Dalancour: Mi rincresce per voi. Dorval: Sono veramente arrivato in un cattivo momento. Dalancour: Scusate la sua impetuosità. Dorval: (sorridendo) Oh! lo sgriderò, lo sgriderò. Dalancour: Ah! mio caro amico!... Voi siete il solo che possa giovarmi presso di lui. Dorval: Io lo bramerei di tutto cuore, ma... Dalancour: Convengo che se si bada alle apparenze, mio zio ha ragione di rimproverarmi; ma se egli potesse leggermi nel fondo del cuore, mi renderebbe tutta la sua tenerezza, e sono sicuro che non se ne pentirebbe. Dorval: Sì, mi è nota l'indole vostra. Io credo che tutto da voi si potrebbe sperare; ma madama vostra moglie... Dalancour: (vivamente) Mia moglie, signore? Ah! voi non la conoscete. Tutto il mondo s'inganna sopra di lei, e mio zio, il primo di tutti. Fa d'uopo ch'io le renda giustizia, e che vi scopra la verità. Ella non sa alcuna delle disgrazie da cui sono oppresso. Ella m'ha creduto più ricco che io non fossi; le ho sempre tenuto occulto il mio stato. Io l'amo; noi ci siamo maritati assai giovani: non le ho mai
lasciato tempo di chieder nulla, di nulla bramare. Cercai sempre di prevenirla in tutto ciò, che potea esserle di piacere. In questa maniera mi sono rovinato. Dorval: Contentare una donna, prevenire i suoi desideri! Ci vuol altro! Dalancour: Sono sicuro che s'ella avesse saputo il mio stato, sarebbe stata la prima a proibirmi le spese che ho fatte per lei. Dorval: Frattanto non ve le ha proibite. Dalancour: No, perchè non dubitava punto... Dorval: (ridendo) Mio povero amico... Dalancour: (afflitto) Che c'è? Dorval: (sempre ridendo) Io vi compiango. Dalancour: (con ardore) Vi prendereste voi giuoco di me? Dorval: (sempre sorridendo) Oibò! Ma... voi amate vostra moglie prodigiosamente. Dalancour: Sì, l'amo, l'ho amata sempre e l'amerò fin che avrò vita. La conosco, conosco tutto il suo merito, e non soffrirò che le si diano de' torti che non ha. Dorval: (seriamente) Colle buone, amico, colle buone! vi riscaldate un po' troppo per la vostra famiglia. Dalancour: (sempre vivamente) Io vi chiedo mille scuse. Sarei alla disperazione di avervi recato dispiacere; ma quando si tratta di mia moglie... Dorval: Via, via. Non ne parliamo più. Dalancour: Ma vorrei che ne foste convinto. Dorval: (freddamente) Sì, lo sono. Dalancour: (vivamente) No, non lo siete. Dorval: (con un po' di caldo) Scusatemi, vi dico...
Dalancour: Ebbene, vi credo. Ne sono contentissimo. Ah! mio caro amico, parlate a mio zio in mio favore. Dorval: Gliene parlerò. Dalancour: Quanto vi sarò obbligato! Dorval: Ma converrà bene l'addurgli ancora qualche ragione. Come avete fatto a rovinarvi in sì poco tempo? Sono quattr'anni solo dacchè è morto vostro padre. V'ha lasciata una facoltà considerabile, e dicesi che voi l'abbiate tutta consumata. Dalancour: Se sapeste tutte le disgrazie, che mi sono accadute! Ho veduto che i miei affari erano in disordine, ho voluto rimediarvi, ed il rimedio fu peggiore ancora del male. Io ho ascoltati nuovi progetti, ho intrapresi nuovi affari, ho ipotecati i miei beni, ed ho perduto il tutto. Dorval: E questo è il male. Nuovi progetti! Se ne sono rovinati degli altri. Dalancour: Ed io singolarmente senza speranza. Dorval: Avete fatto malissimo, mio caro amico, tanto più che avete una sorella. Dalancour: Sì, e sarebbe oramai tempo che pensassi a darle stato. Dorval: Ogni giorno essa diventa più bella. Madama Dalancour riceve in sua casa molte persone, e la gioventù, mio caro amico, qualche volta... Dovreste capirmi. Dalancour: Questo è appunto il motivo, per cui, frattanto che io trovo qualche espediente, ho pensato di metterla in un ritiro. Dorval: Metterla in un ritiro; va benissimo: ma ne avete parlato con vostro zio? Dalancour: No. Egli non vuole ascoltarmi; ma voi gli parlerete per me, gli parlerete per Angelica. Mio zio vi stima, vi ama, vi ascolta, si fida di voi, non vi negherà cosa alcuna. Dorval: Non ne so nulla. Dalancour: (vivamente) Oh! ne sono sicuro. Vi prego, cercate di vederlo,
parlategliene subito. Dorval: Lo farei. Ma dov'è andato? Dalancour: Cercherò di saperlo... Vediamo, alcuno si inoltra.
SCENA XIII
Piccardo, e detti.
Piccardo: Signore... Dalancour: È partito mio zio? Piccardo: No signore. È disceso in giardino. Dalancour: In giardino! A quest'ora? Piccardo: Per lui è tutt'uno; quando è un poco in collera eggia, va a prender aria. Dorval: (a Dalancour) Vado a raggiungerlo. Dalancour: Signore, io conosco mio zio: fa d'uopo lasciargli il tempo di calmarsi. Conviene aspettarlo qui. Dorval: Ma se partisse; se non tornasse più sopra? Piccardo: (a Dorval) Perdonatemi, signore, egli non tarderà, molto a risalire. M'è noto il suo naturale: gli basta mezzo quarto d'ora. Vi so ben dire che sarà inoltre contentissimo di vedervi. Dalancour: (vivamente) Ebbene! mio caro amico, ate nel suo appartamento. Fatemi il piacere di attenderlo. Dorval: Volentieri. Comprendo benissimo quanto la vostra situazione è crudele; è d'uopo il porvi rimedio. Sì, gli parlerò per voi, ma con patto... Dalancour: (vivamente) Io vi do la mia parola d'onore. Dorval: Basta così. (entra nell'appartamento di Geronte)
SCENA XIV
Dalancour e Piccardo.
Dalancour: Tu non hai detto a mio zio ciò ch'io t'aveva ordinato. Piccardo: Perdonatemi, signore, glie l'ho detto, ma egli mi ha scacciato, secondo il solito. Dalancour: Mi dispiace. Avvertimi de’ buoni momenti, in cui poter parlargli. Un giorno ti saprò premiare a dovere. Piccardo: Ve ne sono obbligato, signore, ma, grazie al cielo, non ho bisogno di nulla. Dalancour: Sei dunque ricco? Piccardo: Non sono ricco, ma ha un padrone che non mi lascia mancar nulla. Ho moglie, ho quattro figliuoli; dovrei essere l'uomo più imbarazzato del mondo, ma il mio padrone è sì buono che li mantengo senza difficoltà, ed in casa mia non si conosce la miseria. (parte)
SCENA XV
Dalancour solo.
Ah! mio zio è un uomo dabbene!... Se Dorval ottenesse da lui qualche cosa? Se potessi sperare un soccorso adeguato al mio bisogno! Se potessi tener occulto a mia moglie! Ah!… perchè l'ho io ingannata? perchè mi sono ingannato io medesimo? Mio zio, non torna. Ogni momento per me è prezioso. Anderò frattanto dal mio procuratore. Oh, con quale pena ci vado!… È vero, ei mi lusinga, che malgrado la sentenza, troverà il mezzo di guadagnare del tempo; ma i cavilli sono odiosi; lo spirito pena, e ci va di mezzo l'onore. Sventurati quelli che hanno bisogno di raggiri vergognosi!
SCENA XVI
Dalancour e Madama.
Dalancour: (vedendo sua moglie) Ecco mia moglie. Madama: Ah! siete qui, marito mio? Vi cercava per tutto. Dalancour: Stava per partire. Madama: Ho incontrato adesso quel satiro... egli strillava, strillava come va. Dalancour: Parlate voi di mio zio? Madama: Sì. Ho veduto un raggio di sole, sono andata a eggiare nel giardino, e ve l'ho incontrato. Egli batteva i piedi, parlava da solo, e ad alta voce... Ditemi una cosa: ha egli in casa qualche servitore ammogliato? Dalancour: Sì. Madama: Certamente conviene che sia così; egli parlava molto male del marito e della moglie… ma male, ve ne assicuro… Dalancour: (da sè) (Io m'immagino bene di chi parlasse.) Madama: Egli è un uomo insopportabile. Dalancour: Eppure converrebbe avere per lui qualche riguardo. Madama: Può egli lagnarsi di me? Gli ho io mancato in nulla? Io rispetto la sua età, la sua qualità di zio. Se talvolta scherzo sopra di lui, il fo a quattr'occhi con voi, e voi me lo perdonate. Del resto, ho per esso tutti i riguardi possibili: ma, ditemi sinceramente, ne ha egli per voi, ne ha per me? Egli ci tratta con un'asprezza grandissima, ci odia quanto più può; ma sopratutto il suo disprezzo per me è giunto agli eccessi. Fa d'uopo nondimeno l'accarezzarlo, il fargli la corte?
Dalancour: (imbarazzato) Ma... quando anche gli fimo la corte... è nostro zio... Inoltre noi potremmo forse aver bisogno di lui. Madama: Bisogno di lui! Noi? Come? Non abbiamo noi del nostro quanto basta per vivere con decoro? Voi non fate disordini. Io sono ragionevole... Per me non vi chiedo di più di ciò che avete fatto fin ora... Continuiamo con la medesima moderazione, e non avremo bisogno di nessuno. Dalancour: (con un'aria apionata) Continuiamo con la medesima moderazione... Madama: Ma sì; io non ho vanità; io non vi domando nulla d'avvantaggio. Dalancour: (da sè) (Sfortunato che io sono!) Madama: Ma voi mi sembrate inquieto, pensoso: avete qualche cosa?... voi non siete tranquillo. Dalancour: V'ingannate. Non ho nulla. Madama: Perdonatemi, io vi conosco: se avete qualche travaglio, perchè volete nascondermelo? Dalancour: (sempre più imbarazzato) Quella che mi dà da pensare, è mia sorella. Eccovi spiegato il tutto. Madama: Vostra sorella! Ma perchè mai? Ella è la miglior ragazza del mondo; io l'amo teneramente. Uditemi. Se voi voleste fidarvi di me, potreste sollevarvi da questo pensiero, e render lei nello stesso tempo felice. Dalancour: Come? Madama: Voi volete metterla in un ritiro; ed io so da buona fonte, che ella non sarebbe contenta. Dalancour: (un poco inquieto) Alla sua età, deve dir forse, voglio, e non voglio? Madama: No; ella è saggia abbastanza per piegarsi ai voleri dei suoi parenti. Ma perchè non la maritate?
Dalancour: È ancora troppo giovane. Madama: Buono! Ero io più avanzata in età quando mi sono ammogliata con voi? Dalancour: (vivamente) Ebbene, dovrò andare a cercarle un marito di porta in porta? Madama: Ascoltatemi, ascoltatemi, marito mio; non vi inquietate, vi, prego. Se mal non m'appongo, io, credo d'essermi accorta che Valerio l'ama, e ch'essa pure è innamorata di lui. Dalancour: (a parte) (Cielo! quanto mi tocca soffrire!) Madama: Voi lo conoscete: v'avrebbe egli per Angelica un partito migliore di questo? Dalancour: (sempre più imbrogliato) Vedremo... Ne parleremo... Madama: Fatemi questo piacere, ve lo chiedo in grazia. Lasciate a me la cura di maneggiar quest'affare; avrei tutta l'ambizione di riuscirvi... Dalancour: (in un sommo imbarazzo) Madama... Madama: Che c'è? Dalancour: Non si può. Madama: No? E perchè? Dalancour: (sempre più imbarazzato) Mio zio v'acconsentirebbe? Madama: Ma, diamine! Voglio bene che non si manchi con lui ai nostri doveri, ma il fratello d'Angelica siete voi. La dote è fra le vostre mani; il più ed il meno dipende soltanto da voi. Permettete ch'io mi assicuri delle loro inclinazioni, e sopra l'articolo dell'interesse a un dipresso l'aggiusterò io. Dalancour: (vivamente) No. Se mi amate, guardatevene bene. Madama: Sarebbe che voi non vorreste maritar vostra sorella?
Dalancour: Tutto al contrario. Madama: Sarebbe che... Dalancour: (vuol partire) Mi conviene partire... Ne parleremo al mio ritorno. Madama: Vi dispiace che ci voglia entrar io? Dalancour: Niente affatto. Madama: Uditemi: sarebbe forse per la dote? Dalancour: Non so nulla. (parte)
SCENA XVII
Madama sola.
Che vuol dire questa faccenda?.... Non intendo nulla... Possibile che mio marito?... No. Egli è troppo saggio per aver a rimproverarsi di nulla.
SCENA XVIII
Angelica, e detta.
Angelica: (senza vedere Madama) Se potessi parlare con Martuccia... Madama: Cognata. Angelica: (inquieta) Madama. Madama: Dove andate, cognata? Angelica: (inquieta) Io me ne andavo, Madama... Madama: Ah, ah! Siete dunque adirata? Angelica: Lo devo essere. Madama: Siete voi sdegnata con me? Angelica: Ma, Madama... Madama: Uditemi, la mia ragazza; se v’inquieta il progetto del ritiro, non crediate ch'io v'abbia parte. La cosa è tutt’all'opposto. Vi amo, e farò anzi il possibile per rendervi fortunata. Angelica: (a parte piangendo) (Che doppiezza!) Madama: Che avete? piangete? Angelica: (s'asciuga gli occhi) (A qual segno mi ha ingannata!) Madama: Qual è il motivo del vostro dolore? Angelica: Oh Dio! I disordini di mio fratello.
Madama: (con sorpresa) I disordini di vostro fratello? Angelica: Sì, nessuno li sa meglio di voi. Madama: Che dite? Spiegatevi, se v'aggrada. Angelica: È inutile.
SCENA XIX
Geronte, Piccardo, e detti.
Geronte: (chiama) Piccardo? Piccardo:(uscendo dall'appartamento di Geronte) Signore... Geronte: (vivamente a Piccardo) Ebbene, dov'è Dorval? Piccardo: Egli vi attende, signore, nella vostra camera. Geronte: Egli è nella mia camera, e tu non mi dici nulla? Piccardo: Signore, non ho avuto tempo. Geronte: Che fate voi qui? (vedendo Angelica e Madama; parla ad Angelica, volgendosi tratto tratto verso Madama per essere inteso) Qui non voglio donne; non voglio alcuno della vostra famiglia... andate via. Angelica: Mio caro zio... Geronte: Vi dico che andiate via. Angelica: (parte mortificata)
SCENA XX
Madama, Geronte e Piccardo.
Madama: Signore, vi domando perdono. Geronte: (volgendosi verso la porta, per cui è uscita Angelica, ma di tempo in tempo, guardando Madama)Oh, questa sì, ch'è curiosa! Guardate l'impertinente! Vuol venire a darmi soggezione. Per discendere c'è un'altra scala. La chiuderò questa porta! Madama: Non v'adirate, o signore. Quanto a me v'assicuro... Geronte: (vorrebbe entrare nel suo appartamento, ma non vorrebbe are dinanzi a madama: dice a Piccardo) Dimmi, Dorval è nella mia camera? Piccardo: Sì, signore. Madama: (accorgendosi dell'imbarazzo di Geronte, da addietro)ate, signore. Io non ve l'impedisco. Geronte: (a Madama ando, e salutandola) Padrona mia... La chiuderò questa porta. (entra nel suo appartamento, Piccardo lo segue)
SCENA XXI
Madama sola.
Che strano carattere! Ma non è ciò quel che più m'inquieta. Ciò che più m'affligge si è il turbamento di mio marito, sono le parole d'Angelica. Io dubito;
temo; vorrei conoscere la verità e tremo di penetrarla.
Fine dell'atto Primo
ATTO SECONDO
SCENA I
Geronte e Dorval.
Geronte: Andiamo a giocare, e non me ne parlate più. Dorval: Ma si tratta di un nipote... Geronte: (vivamente) Di uno sciocco, d'un vigliacco ch'è lo schiavo di sua moglie, e la vittima della sua vanità. Dorval: Meno collera, mio caro amico, meno collera. Geronte: Eh, voi con la vostra flemma mi fareste arrabbiare. Dorval: Io parlo per bene. Geronte: Prendete una sedia. (siede) Dorval: (d'un tuono comionevole, mentre accosta la sedia) Povero giovane! Geronte: Vediamo, questo punto di ieri. Dorval: (sempre di un tuono) Voi lo perderete. Geronte: Forse che no. Vediamo. Dorval: Vi dico che lo perderete. Geronte: No, ne sono sicuro. Dorval: Se voi non lo soccorrerete, lo perderete assolutamente. Geronte: Chi? Dorval: Vostro nipote.
Geronte: (con ardore) Eh, ch'io parlo del giuoco. Sedete. Dorval: Io giuocherò volentieri: ma prima, ascoltatemi. Geronte: Mi parlerete tuttavia di Dalancour? Dorval: Potrebbe essere. Geronte: Non vi ascolto. Dorval: Dunque voi l'odiate? Geronte: No, signore. Io non odio nessuno. Dorval: Ma se non volete... Geronte: Finitela; giuocate. Giuochiamo, o ch'io me ne vo. Dorval: Una parola sola, ed ho finito. Geronte: Che pazienza! Dorval: Voi avete delle facoltà. Geronte: Sì, grazie al Cielo! Dorval: Più del vostro bisogno. Geronte: Sì; ne ho ancora per servire i miei amici. Dorval: E non volete dar nulla a vostro nipote? Geronte: Neppure un quattrino. Dorval: In conseguenza... Geronte: In conseguenza?.... Dorval: Voi l'odiate. Geronte: In conseguenza voi non sapete ciò che vi dite. Io odio, detesto la sua
maniera di pensare, la sua cattiva condotta. Il dargli del danaro non servirebbe che a fomentare la sua vanità, la sua prodigalità, le sue follie. Ch'egli cangi sistema, io lo cangerò parimente con lui. Io voglio che il pentimento meriti il beneficio, e non che il beneficio impedisca il pentimento. Dorval: (dopo un momento di silenzio, sembra convinto, e dice con molta dolcezza) Giuochiamo, giuochiamo. Geronte: Giuochiamo.. Dorval: (giuocando) Io ne sono afflitto. Geronte: (giuocando) Scacco al re. Dorval: (giuocando) E quella povera ragazza! Geronte: Chi? Dorval: Angelica. Geronte: (lascia il giuoco) Ah! per lei!... Questa è un'altra cosa... Parlatemi di lei. Dorval: Ella dee ben soffrire frattanto. Geronte: Ci ho pensato, ci ho provveduto. La mariterò. Dorval: Bravissimo! Lo merita bene. Geronte: Non è una giovanetta di molta buona grazia? Dorval: Sì. Geronte: (riflette un momento, indi chiama) Fortunato quello che l'avrà! Dorval? Dorval: Amico? Geronte: Udite. Dorval: Che C'è? Geronte: Voi siete mio amico.
Dorval: Ne dubitate? Geronte: Se la volete, io ve l'accordo. Dorval: Chi? Geronte: Sì, mia nipote. Dorval: Come? Geronte: Come, come! siete sordo? Non m'intendete? (vivamente) Io parlo chiara. Se la volete, ve l'accordo. Dorval: Ah! ah! Geronte: E se la sposate, oltre la sua dote, le donerò cento mila lire del mio. Eh?... Che ne dite?... Dorval: Mio caro amico, voi mi onorate. Geronte: So chi siete. Sono sicuro di formare in questa guisa la felicità di mia nipote. Dorval: Ma... Geronte: Che? Dorval: Suo fratello... Geronte: Suo fratello! Suo fratello non c'entra... A me tocca a disporre di lei; la legge, il testamento di mio fratello... Io ne sono il padrone. Orsù, sbrigatevi, decidete sul fatto. Dorval: Ciò che mi proponete, non è cosa da risolversi su due piedi. Voi siete troppo impetuoso. Geronte: Io non ci veggo alcuna difficoltà. Se l'amate, se la stimate, se ella vi conviene, è fatto tutto. Dorval: Ma...
Geronte: Ma, ma!... Udiamo il vostro ma. Dorval: Vi par poco la sproporzione da sedici a quarantacinque anni? Geronte: Niente affatto. Voi siete ancora giovane, ed io conosco Angelica; non è una testa sventata. Dorval: Ella potrebbe avere qualche altra inclinazione. Geronte: Non ne ha alcuna. Dorval: Ne siete ben sicuro? Geronte: Sicurissimo. Presto, concludiamo. Io vado a casa del mio notaro, gli fo stendere il contratto. Ella è vostra. Dorval: Adagio, mio amico, adagio. Geronte: (riscaldato) Ebbene? Come! volete ancora inquietarmi, tormentarmi, annoiarmi con la vostra lentezza, col vostro sangue freddo? Dorval: Dunque vorreste?... Geronte: Sì, darvi una figlia saggia, onesta, virtuosa, con cento mila scudi di dote, e cento mila lire di regalo alle sue nozze. Forse vi fo un affronto? Dorval: No; anzi mi fate un onore, che non merito. Geronte: (con ardore) La vostra modestia in questo momento mi farebbe dare al diavolo. Dorval: Non vi adirate. Volete ch'io l'accetti? Geronte: Sì. Dorval: Ebbene, io l'accetto... Geronte: (con gioia) Davvero? Dorval: Ma a condizione...
Geronte: Di che? Dorval: Che Angelica v'acconsentirà. Geronte: Non avete altra difficoltà? Dorval: Questa sola. Geronte: Voi mi consolate, io m'impegno per lei. Dorval: Tanto meglio, se ciò è vero. Geronte: Verissimo, sicurissimo. Abbracciatemi, mio caro nipote. Dorval: Abbracciamoci pure, mio caro zio.
SCENA II
Dalancour, Geronte e Dorval, e poi Piccardo.
Dalancour: (entra per la porta di mezzo, vede suo zio, lo ascolta in ando, va verso il suo appartamento, ma resta alla porta per ascoltarlo) Geronte: Questo è il giorno più felice della mia vita. Dorval: Caro amico, quanto siete adorabile! Geronte: Io men vo a casa del mio notaro. Dentr'oggi sarà fatto tutto. Piccardo? (chiama) Piccardo: (viene) Geronte: La mia canna, il mio cappello. Piccardo: (parte, e poi torna) Dorval: Frattanto me n'andrò a casa. Piccardo: (dà al suo padrone la canna, il cappello, e parte) Geronte: No, no; dovete aspettarmi qui. Torno subito. Pranzerete meco. Dorval: Ho da scrivere. Fa d'uopo ch'io faccia venire il mio intendente, che è una lega lontano da Parigi. Geronte: Andate nella mia camera, scrivete; inviate la lettera per Piccardo. Sì, Piccardo andrà a portarla in persona. Piccardo è un giovane dabbene, savio, fedele. Talvolta lo sgrido, ma gli voglio bene. Dorval: Via, dacchè volete assolutamente così; scriverò nella vostra camera. Geronte: Anche questa è fatta.
Dorval: Sì, siamo convenuti. Geronte: (prendendolo per la mano) In parola d'onore? Dorval: (dandogli la mano) In parola d'onore. Geronte: Mio caro nipote! (parte) Dalancour: (all'ultima parola mostra gioia)
SCENA III
Dalancour e Dorval.
Dorval: (da sè) (In verità, tutto ciò che m'avvenne, mi pare un sogno. Io maritarmi, io che non ci aveva mai pensato!) Dalancour: Ahi mio caro amico, io non so come dichiararvi la mia gratitudine. Dorval: Sopra di che? Dalancour: Non ho io udito ciò che disse mio zio? Mi ama, mi compiange. Egli va adesso a casa del suo notaro. Vi ha data la sua parola d'onore. Vedo benissimo quanto avete fatto per me. Io sono l'uomo più venturato del mondo. Dorval: Non vi lusingate tanto, mio caro amico. Fra le dolci cose, che v'immaginate, non ve n'ha pur una di vera. Dalancour: Ma come? Dorval: Io spero bene col tempo di potervi essere utile presso di lui, ed avrò quindi innanzi parimente un titolo d'avvantaggio per interessarmi a vostro favore, ma fino ad ora... Dalancour: (con ardore) Sopra di che vi died'egli dunque la sua parola d'onore? Dorval: Vel dico subito.... Egli mi fece l'onore di propormi vostra sorella in isposa. Dalancour: (con gioia) Mia sorella! L'accettate voi? Dorval: Sì, se ne siete contento! Dalancour: Voi mi colmate di giubbilo; mi sorprendete. Per la dote vi è noto attualmente il mio stato.
Dorval: Sopra di ciò, ne parleremo. Dalancour: Mio caro fratello, lasciate ch'io vi abbracci con tutto il cuore. Dorval: Mi lusingo che vostro zio in questa occasione... Dalancour: Ecco un legame, a cui dovrò la mia felicità. Io ne aveva il più grande bisogno. Sono stato a casa del mio procuratore, e non l'ho trovato.
SCENA IV
Madama Dalancour, e detti.
Dalancour: (vedendo sua moglie) Ah! Madama... Madama: (a Dalancour) Io vi attendeva con impazienza. Ho udita la vostra voce... Dalancour: Eccovi, o mia moglie, il signor Dorval. Io vel presento in qualità di mio cognato, e come sposo di Angelica. Madama: (con gioia) Sì? Dorval: Io sarò pienamente contento, Madama, se la mia felicità potrà meritare la vostra approvazione. Madama: (a Dorval) Signore, io ne sono lietissima. Mi rallegro con voi di tutto cuore. (a parte) (Che mi disse ella dunque del cattivo stato di mio marito?) Dalancour: (a Dorval) Mia sorella lo sa? Dorval: Credo di no. Madama: (da sè) (Dunque, quello che fece questo matrimonio non fu Dalancour?) Dalancour: Volete voi ch'io la faccia venire? Dorval: No. Converrebbe prevenirla. Potrebbe esservi ancora una difficoltà. Dalancour: Quale? Dorval: Quella della sua approvazione. Dalancour: Non temete di nulla. Io conosco Angelica, e poi il vostro stato... il
vostro merito... Lasciate fare a me. Parlerò io a mia sorella. Dorval: No, caro amico; di grazia, non guastiamo la cosa; lasciamo fare al signor Geronte. Dalancour: Come volete. Madama: (da sè) (Non intendo nulla.) Dorval: Io o nell'appartamento di vostro zio, per scrivere; egli me l'ha permesso; anzi mi ha ordinato espressamente d'aspettarlo colà. Senza cerimonie. Noi ci rivedremo quanto prima. (entra nell'appartamento di Geronte)
SCENA V
Dalancour e Madama, poi un Lacchè.
Madama: Per quanto io veggo, non siete quello che marita vostra sorella. Dalancour: (imbarazzato) La marita mio zio. Madama: Ve n'ha egli parlato vostro zio? Vi ha chiesto il vostro consenso? Dalancour: (un po' riscaldato) Il mio consenso? Non avete veduto Dorval? Non me l'ha egli detto? Non si chiama ciò un chiedere il mio consenso? Madama: (un po' vivamente) Sì, questa è una gentilezza per parte del signor Dorval; ma vostro zio non vi ha detto nulla? Dalancour: (imbarazzato) Ciò vuol dire che... Madama: Ciò vuol dire ch'egli non ci conta uno zero. Dalancour: (riscaldato) Ma voi prendete tutto in cattiva parte: Ella è una cosa terribile. Voi siete insopportabile. Madama: (un po' afflitta) Io insopportabile! Voi mi trovate insopportabile! (con molta tenerezza) Marito mio, questa è la prima volta che vi è uscita di bocca un'espressione simile. Fa d'uopo che abbiate dei gran dispiaceri per dimenticarvi a tal segno del vostro dovere. Dalancour: (con trasporto a Madama) (Ah! pur troppo dice il vero!) Mia cara moglie, vi chieggo perdono di tutto cuore. Ma voi conoscete mio zio: volete che noi l'irritiamo d'avantaggio? Volete che io pregiudichi a mia sorella? Il partito è buono, non c'è nulla da dire. Mio zio lo ha scelto, tanto meglio; ecco un imbarazzo di meno per voi e per me. Madama: Andiamo innanzi; mi piace che voi prendiate la cosa in buona parte; vi lodo e v'ammiro. Ma permettetemi di far un riflesso. Chi si prenderà il pensiero
de' preparativi necessari per una giovane che si fa sposa? Se ne incaricherà vostro zio? Sarebbe ciò conveniente, sarebbe onesto? Dalancour: Avete ragione. Ma ci resta ancora del tempo. Ne parleremo. Madama: Uditemi. Voi lo sapete, io amo Angelica. Questa ingrata non meriterebbe ch'io mi prendessi verun pensiero di lei; ma finalmente è vostra sorella... Dalancour: Come! voi chiamate mia sorella un'ingrata! Perchè? Madama: Per ora non ne parliamo. Io le chiederò a quattro occhi una spiegazione, e poi... Dalancour: No; voglio saperlo. Madama: Abbiate sofferenza, mio caro marito. Dalancour: No; vi dico che voglio saperlo. Madama: Poichè volete così, fa d'uopo l'appagarvi. Dalancour: (da sè) (Cielo! tremo sempre.) Madama: Vostra sorella... Dalancour: Proseguite. Madama: Io la credo troppo del partito di vostro zio. Dalancour: Perchè? Madama: Ella ebbe a dire a me, a me stessa, che i vostri affari erano in disordine, e che... Dalancour: I miei affari in disordine?… Lo credete voi? Madama: No: ma mi ha parlato in maniera da farmi credere ch'ella sospetta ch'io ne sia stata la cagione, o per lo meno che io vi abbia contribuito. Dalancour: (ancora più riscaldato)Voi? Ella sospetta di voi?
Madama: Non vi adirate, mio buon marito. Io vedo bene ch'essa non ha il suo buon giudizio. Dalancour: (con ione) Mia cara moglie! Madama: Non vi affliggete. Per me, credetemi, non ci penso più. Tutto viene da lui. Vostro zio è la cagione di tutto. Dalancour: Eh! No. Mio zio non è di cattivo cuore! Madama: Non è egli di cattivo cuore! Cielo, che v'ha di peggio al mondo di lui? Anche poco fa non mi ha fatto vedere?... Ma gli perdono. Lacchè: (a Dalancour) Signore, fu recata per voi questa lettera. Dalancour: Dammela. (agitato prende la lettera) Lacchè: (parte) Dalancour: Vediamo. (a parte e agitato) Questo è carattere del mio procuratore. (apre la lettera) Madama: Cosa vi scrive? Dalancour: Lasciatemi per un momento. (egli si ritira in disparte, legge piano, e mostra dispiacere) Madama: (da sè) (Vi sarebbe forse qualche disgrazia?) Dalancour: (dopo aver letto) (Io sono perduto.) Madama: (a parte) (Il cuore mi palpita.) Dalancour: (Mia povera moglie! che sarà di lei?... Come potrò dirglielo?... Ah! non ho coraggio.) Madama: (piangendo) Mio caro Dalancour, ditemi: che c'è? Fidatevi di vostra moglie; non sono io la miglior amica che abbiate? Dalancour: Prendete. Leggete.... Questo è il mio stato. (le dà la lettera, e parte)
SCENA VI
Madama sola.
Io tremo. (legge) Signore, tutto è perduto. I creditori non hanno voluto sottoscrivere. La sentenza fu confermata. Vi s'intimerà quanto prima. State bene in guardia, perchè il vostro arresto è ordinato... Che lessi!... Che intesi!... Mio marito... indebitato... in pericolo di perdere la libertà!... Ma come mai è possibile!... Egli non giuoca. Egli non ha cattive pratiche. Egli non è amante d'un lusso eccedente... Per colpa sua... Sarebbe dunque per colpa mia?... Oh Dio! qual infausto raggio m'illumina! I rimproveri diAngelica, l'odio del signor Geronte, il disprezzo ch'egli dimostra di giorno in giorno contro di me... Mi si squarcia la benda dinanzi agli occhi. Io vedo il fallo di mio marito, vedo il mio. Il suo troppo amor l'ha sedotto, la mia inesperienza m'ha abbagliato. Dalancour è colpevole, ed io lo sono forse al par di lui... Ma qual rimedio a questa situazione crudele? Suo zio solo... sì... suo zio potrebbe rimediarvi... Ma Dalancour sarebbe egli in istato in questi momenti d'abbattimento e di dolore?... Ah! s'io ne fui la cagione... sebbene involontaria... perchè non andrò io medesima?... sì... quand'anche dovessi gettarmi a' suoi piedi... Ma... con quel carattere aspro, intrattabile, potrà io lusingarmi di piegarlo?... Andrò io ad espormi ai suoi sgarbi?... Ah! che importa? e che sono tutte le umiliazioni in confronto allo stato orribile di mio marito?... sì, vi corro; questa sola idea dee darmi coraggio. (ella vuole andare nell'appartamento di Geronte)
SCENA VII
Martuccia, e detta.
Martuccia: Madama, che fate voi qui? Il signor Dalancour s’abbandona alla disperazione. Madama: Cielo!... Io volo in suo soccorso. (parte) Martuccia: Che sventura! Che disordine! Se è vero ch'ella ne sia la cagione, merita bene... Chi veggo?
SCENA VIII
Valerio, e detta.
Martuccia: Signore, che venite voi a far qui? Avete scelto un cattivo momento. Tutta la casa è immersa nel dispiacere. Valerio: Già ne dubitava. Ritorno in questo momento dal procuratore del signor Dalancour. Io gli ho offerta la mia borsa ed il mio credito. Martuccia: Questo è un oprar virtuoso. Nulla è più generoso della vostra azione. Valerio: Il signor Geronte è in casa? Martuccia: No. Il servitore m'ha detto che l'aveva veduto col suo notaro. Valerio: Col suo notaro? Martuccia: Sì. Egli ha sempre qualche affare. Volevate forse parlargli? Valerio: Sì; voglio parlare con tutti. Io veggo con pena il disordine del signor Dalancour. Son solo; ho delle facoltà; ne posso disporre. Amo Angelica; vengo ad offrirgli di sposarla senza dote, e dividere seco il mio stato e la mia fortuna. Martuccia: La risoluzione è ben degna di voi. Nulla più di essa mostra la stima, l'amore, la generosità. Valerio: Credete voi ch'io potessi lusingarmi?... Martuccia: Sì, tanto più che madamigella gode il favore di suo zio, e ch'egli vuole maritarla. Valerio: Vuol maritarla? Martuccia: Sì.
Valerio: Ma se vuole maritarla, vorrà parimente esser egli solo padrone di proporle il partito. Martuccia: (dopo un momento di silenzio) Potrebbe darsi. Valerio: È forse questa una consolazione per me? Martuccia: Perchè no?... Venite, venite, madamigella. (ad Angelica, che s'inoltra spaventata)
SCENA IX
Angelica, e detti
Angelica: Io sono tutta spaventata. Valerio: (ad Angelica) Che avete, madamigella? Angelica: Il mio povero fratello... Martuccia: Sta ancora così? Angelica: Un poco meglio. Egli è alquanto più tranquillo. Martuccia: Udite, udite, madamigella. Questo signore mi ha detto cose consolanti per voi, e per vostro fratello. Angelica: Anche per lui? Martuccia: Se sapeste il sacrificio che è disposto a fare! Valerio: (piano a Martuccia) (Non le dite nulla.) (volgendosi ad Angelica) Evvi forse alcun sacrificio ch'ella non meriti? Martuccia: Ma converrà parlarne al signor Geronte. Angelica: Cara amica, se voi voleste prendervi questo incomodo! Martuccia: Volentieri. Che dovrò dirgli?... Vediamo... Consigliamo.. Ma sento qualcuno. (corre verso il appartamento di Geronte) È il signor Dorval. (a Valerio) Non vi fate vedere. Andiamo nella mia camera, e parleremo a nostro bell'agio. Valerio: (ad Angelica) Se vedete vostro fratello... Martuccia: Eh andiamo, signore, andiamo. (lo spinge, e parte con lui)
SCENA X
Angelica, e Dorval.
Angelica: (da sè) (Che farò io qui col signor Dorval? Posso andarmene.) Dorval: (ad Angelica che sta per partire) Madamigella... madamigella? Angelica: Signore. Dorval: Avete veduto il vostro signor zio? V'ha egli detto nulla? Angelica: L'ho veduto questa mattina, signore. Dorval: Prima che uscisse di casa? Angelica: Sì signore. Dorval: È ritornato? Angelica: No signore. Dorval: Bene! (Non sa ancora nulla.) Angelica: Signore, vi chiedo scusa. Evvi qualche novità che mi riguardi? Dorval: Vostro zio vi vuol bene. Angelica: (con modestia) È tanto buono! Dorval: (seriamente) Egli pensa a voi. Angelica:Questa è una fortuna per me. Dorval: Egli pensa a maritarvi.
Angelica: (mostra modestia) Dorval: Eh? Che ne dite? Angelica: (come sopra) Avreste voi piacere di maritarvi? Angelica: (con modestia) Io dipendo da mio zio. Dorval: Volete che vi dica qualche cosa di più? Angelica: (con un poco di curiosità) Come più vi piace, signore. Dorval: La scelta dello sposo è di già fatta. Angelica: (da sè) (Oh cielo!... Tremo tutta.) Dorval: (da sè) (Mi pare di vederla contenta.) Angelica: (tremando) Signore, ardirò di chiedervi... Dorval: Che, madamigella? Angelica: Lo conoscete voi quello che m'è destinato? Dorval: Sì, lo conosco, e lo conoscete voi pure. Angelica: (con un poco di gioia) Io pure lo conosco? Dorval: Certamente: voi lo conoscete. Angelica: Signore, avrò io il coraggio Dorval: Parlate, madamigella. Angelica: Di chiedervi il nome di questo giovane? Dorval: Il nome di questo giovane? Angelica: Sì, se voi lo conoscete. Dorval: Ma... se egli non fosse tanto giovane?
Angelica: (da sè, con agitazione) (Cielo!) Dorval: Voi siete tanto saggia... dipendete da vostro zio... Angelica: (tremando) Credete voi, signore, che mio zio voglia sacrificarmi? Dorval: Che intendete voi per questo sacrificarvi? Angelica: (con ione) Ma... senza il consenso del mio cuore.. Mio zio è sì buono!... Chi potrebbe mai avergli dato questo consiglio? Chi avrà mai proposto questo partito? Dorval: (un poco punto) Ma... questo partito... Madamigella... E s'io fossi quello? Angelica: (con gioia) Voi, signore?... Il ciel lo volesse! Dorval:. (contento) Il ciel lo volesse? Angelica: Sì, io vi conosco. Voi siete ragionevole, siete sensibile, mi fido di voi. Se avete dato a mio zio questo consiglio, se gli avete proposto questo partito, spero che ritroverete ancora la maniera di farlo cangiar di parere. Dorval: (Eh! eh! Non c'è male.) (ad Angelica) Madamigella... Angelica: (afflitta) Ah, signore! Dorval: Avreste voi il cuor prevenuto? Angelica: (con ione) Signore! Dorval: V'intendo. Angelica: Abbiate pietà di me! Dorval: (Io l'avea ben detto; l'avea ben preveduto! Buon per me, che non ne sono innamorato, ma incominciava a prendervi un po' di gusto.) Angelica: Signore, non mi dite nulla? Dorval: Ma, Madamigella...
Angelica: Avreste voi forse qualche particolare premura per quello cui vorrebbero darmi? Dorval: Un poco. Angelica: (con ione e costanza) V'avverto che io l'odierò. Dorval: (da sè) (Povera ragazza! Mi piace la sua sincerità.) Angelica: Deh! Siate comionevole, siate generoso. Dorval: Sì, madamigella... sì, lo sarò... vel prometto. Io parlerò a vostro zio in vostro favore; e farò ogni possibile perchè siate soddisfatta. Angelica: (con gioia) Oh! quanto mi siete caro! Dorval: Poverina! Angelica: (con trasporto) Voi siete il mio benefattore, il mio protettore, il padre mio. (lo prende per la mano) Dorval: Mia cara ragazza!..
SCENA XI
Geronte, e detti.
Geronte: (alla sua maniera con brio) Benissimo, benissimo. Coraggio. Bravi, figli miei, bravi. Sono di voi contentissimo. Angelica: (si ritira tutta mortificata) Dorval: (sorride). Geronte: Come? la mia presenza vi fa paura? Io non condanno premure che sono legittime. Tu hai fatto bene, Dorval, a prevenirla. Suvvia, madamigella, abbracciate il vostro sposo. Angelica: (costernata) (Che intendo?) Dorval: (da sè sorridendo) (Eccomi scoperto.) Geronte: (ad Angelica con ardore) Che scena è questa? Qual modestia fuori di proposito? Quando io non ci sono, t'accosti, e quando giungo t'allontani? vicinati! (a Dorval in collera) Suvvia, avvicinatevi anche voi. Dorval: (ridendo) Colle buone, mio caro Geronte. Geronte: Ah! ridete? la sentite la vostra felicità? Io voglio ben che si rida, ma non voglio che mi si faccia andar in collera; m'intendete, signor bocca ridente? Venite qui, e ascoltatemi. Dorval: Ma ascoltate pur voi. Geronte: (ad Angelica, e vuol prenderla per mano) Avvicinatevi. Angelica: (piangendo) Mio zio.... Geronte: Piangi! Mi fai la bambina! Io credo che tu ti prenda giuoco di me. (la
prende per mano, e la sforza ad avanzarsi in mezzo alla scena, poi si volge a Dorval e gli dice con una specie di brio) La non può scapparmi. Dorval: Almeno lasciatemi parlare. Geronte: (vivamente) Zitto! Angelica: Mio caro zio... Geronte: (vivamente) Zitto! (egli muta tuono, e dice tranquillamente) Sono stato dal mio notaro: ho disposto il tutto. Egli ha stesa la minuta in mia presenza, la porterà qui quanto prima, e noi sottoscriveremo. Dorval: Ma se voleste ascoltarmi... Geronte: Zitto. Per la dote, mio fratello ha avuto la debolezza di lasciarla fra le mani di suo figlio. Io non dubito che non ci sia per essere dal canto suo qualche ostacolo; ma ciò non m'imbarazza. Quelli che avranno affari con lui li avranno mal fatti; la dote non può perire, e in ogni caso io me ne fo mallevadore. Angelica: (a parte) (Non posso più.) Dorval: (imbarazzato) Tutto va benissimo; ma... Geronte: Ma che? Dorval: (guardando Angelica) Madamigella avrebbe a dirvi sopra di ciò qualche cosa. Angelica: (in fretta, e tremando) Io, signore? Geronte: Vorrei bene ch'ella trovasse qualche cosa a ridire sopra ciò ch'io fo, sopra ciò ch'io ordino, e sopra ciò ch'io voglio. Ciò ch'io voglio, ciò ch'io ordino e ciò ch'io fo: lo fo, lo voglio, e l'ordino per suo bene. M'intendi? Dorval: Parlerò dunque io medesimo. Geronte: Che avete a dirmi? Dorval: Che mi rincresce; ma che questo matrimonio non può effettuarsi.
Geronte: Cospetto! (Angelica s'allontana tutta spaventata. Dorval parimente dà due i addietro) Voi mi avete data la vostra parola d'onore. (a Dorval) Dorval: Sì; ma con patto... Geronte: Sarebbe forse quest'impertinente? (volgendosi verso Angelica) S'io potessi crederlo... se ne avessi qualche dubbio... (la minaccia) Dorval: (seriamente) No, signore: avete torto. Geronte: (volgendosi verso Dorval) Siete voi dunque che mi mancate? Angelica: (coglie il momento e fugge)
SCENA XII
Dorval e Geronte.
Geronte: (continua a parlare con Dorval) Che? abusate della mia amicizia e del mio affetto per la vostra persona? Dorval: (alzando la voce) Ma udite le ragioni... Geronte: Che ragioni, che ragioni? Non c'è ragioni, io sono un uomo d'onore; e se lo siete voi pure, animo, subito... (volgendosi chiama) Angelica? Dorval: (Che diavolo d'uomo! Egli mi farebbe violenza sul fatto.) (fugge via)
SCENA XIII
Geronte solo.
Dov'è andata?… Angelica!… Eh, là! C'è nessuno?… Piccardo?... Martuccia?... Pietro?... Cortese?... Ma la ritroverò. Voi siete quello con cui voglio... (si volge, non vede più Dorval, e resta immobile) Come! Egli mi pianta così? (chiama) Dorval!... Amico… Dorval!... Amico… Dorval!... Ah indegno!.. ingrato!.. Eh, là, c'è nessuno... Piccardo?
SCENA XIV
Piccardo, e detto.
Piccardo: Signore. Geronte: Briccone! non rispondi? Piccardo: Perdonate, signore. Eccomi. Geronte: Disgraziato, ti ho chiamato dieci volte. Piccardo: Mi rincresce, ma... Geronte: Dieci volte, disgraziato!… Piccardo: (da sè, in collera) (Egli è ben rabbioso qualche volta.) Geronte: Hai veduto Dorval? Piccardo: (bruscamente) Sì, signore. Geronte: Dov'è? Piccardo: È partito. Geronte: Come è partito? Piccardo: (bruscamente) È partito come si parte. Geronte: (in collera grande lo minaccia, e lo fa dar addietro) Ah! ribaldo! Così si risponde al tuo padrone? Piccardo: (rinculando con aria estremamente adirata) Signore, datemi la mia licenza...
Geronte: La tua licenza, sciagurato! (lo minaccia e lo fa rinculare; Piccardo, rinculando, cade fra la sedia ed il tavolino. Geronte corre in suo soccorso, e lo rialza) Piccardo: (s'appoggia al guanciale della sedia e mostra molto dolore) Ahi! Geronte: Che c'è? che c'è? Piccardo: Sono ferito, signore. M'avete storpiato. Geronte: Oh, mi dispiace!... Puoi tu camminare? Piccardo: (sempre in collera) Credo di sì, signore. (si prova e cammina male) Geronte: (bruscamente) Vattene. Piccardo: (mortificato) Signore, voi mi scacciate. Geronte: (vivamente) No, va a casa di tua moglie, che ti medichi. (cava la borsa, e vuol dargli del danaro) Prendi, per farti curare. Piccardo: (a parte, intenerito) (Qual padrone!) Geronte: (porgendogli del danaro) Prendi. Piccardo:(con modestia) Eh! no, signore.. io spero che non sarà nulla. Geronte: Prendi, ti dico. Piccardo: (ricusandolo con civiltà) Signore... Geronte: (riscaldato) Come! tu rifiuti il mio danaro?... lo rifiuti per orgoglio, per dispetto, e per odio? Credi tu che io l'abbia fatto a bella posta?… prendi questo danaro, prendilo. Animo, non mi far arrabbiare. Piccardo: (prendendo il danaro) Non v'adirate, signore. Vi ringrazio della vostra bontà. Geronte: Va subito. Piccardo: (cammina male) Sì, signore.
Geronte: Va adagio. Piccardo: Sì, signore. Geronte: Aspetta, aspetta; prendi la mia canna. Piccardo: Signore... Geronte: Prendila, ti dico. Voglio così. Piccardo: (prende la canna e partendo dice) Che bontà (parte)
SCENA XV
Geronte e Martuccia.
Geronte: Questa è la prima volta in vita mia, che... maledetto il mio caldo!... (eggiando a gran i) È Dorval che m'ha fatto andare in collera. Martuccia: Signore, volete pranzare? Geronte: Il diavolo che ti porti. (corre, e si chiude nel suo appartamento) Martuccia: Bella! Bellissima! egli è sulle furie. Oggi, per Angelica non c'è caso di nulla. Tanto fa che Valerio se ne vada.
Fine dell'atto secondo
ATTO TERZO
SCENA I
Piccardo entra per la porta di mezzo, Martuccia per quella di Dalancour.
Martuccia: Come! siete già ritornato? Piccardo: (con la canna del suo padrone) Sì; vado un po' zoppicando, ma non è nulla. La paura è stata più grande del male: ciò non meritava il danaro che mi dette il padrone per farmi curare. Martuccia: Via, via: anche le disgrazie talvolta sono giovevoli. Piccardo: (con aria contenta) Povero padrone! Per mia fe', questo tratto di bontà mi ha intenerito sino a cavarmi le lagrime dagli occhi. Se m'avesse ancora rotto una gamba, glie l'avrei perdonato. Martuccia: Egli è d'un cuore... Peccato ch'abbia sì brutto difetto! Piccardo: E qual è quell'uomo che sia senza difetti? Martuccia: Andate, andate a trovarlo. Sapete voi ch'ei non ha ancor pranzato? Piccardo: E perchè? Martuccia: Vi sono, figlio mio, delle cose!.. delle cose terribili in questa casa. Piccardo: So tutto; ho incontrato vostro nipote, e mi ha raccontato tutto. Questo è il motivo, per cui mi vedete di ritorno sì presto. Il padrone lo sa? Martuccia: Credo di no. Piccardo: Ah! quanto ne sarà travagliato! Martuccia: Certamente... E la povera Angelica? Piccardo: Ma Valerio?...
Martuccia: Valerio? Valerio è qui tuttavia. Egli non ha voluto partire. È ancora nell'appartamento del signor Dalancour; fa coraggio al fratello; guarda la sorella; consola Madama. L'uno piange; l'altra sospira; l'altra si dispera. Questa è una confusione, una vera confusione. Piccardo: Non v'eravate voi impegnata di parlare al padrone? Martuccia: Sì, gli avrei parlato; ma in questo momento è troppo in collera. Piccardo: Vado a ritrovarlo; vado a riportargli la sua canna. Martuccia: Andate; e se vedete la burrasca alquanto calmata, ditegli qualche cosa dello stato infelice di sua nipote. Piccardo: Sì, gliene parlerò, e vi saprò dir qualche cosa. (apre piano, entra nell'appartamento di Geronte, e chiude la porta)
SCENA II
Martuccia sola.
Sì, mio caro amico. Andate piano. Questo Piccardo è un giovane dabbene, docile, civile, servizievole. Egli è il solo che mi piaccia in questa casa. Io non fo sì facilmente amicizia con chicchessia.
SCENA III
Dorval, e detta.
Dorval: (parlando basso e sorridendo) Ebbene, Martuccia? Martuccia: Umilissima serva, signore. Dorval: Il signor Geronte è più in collera? Martuccia: Non sarebbe cosa straordinaria se gli fosse ata. Voi. lo conoscete meglio d'ogni altro. Dorval: Egli si è bene sdegnato contro di me come va! Martuccia: Contro di voi, signore? Egli si è adirato contro di voi? Dorval: (ridendo e parlando sempre) Senza dubbio. Ma non è nulla. Io lo conosco. Scommetto che se vado a trovarlo, egli sarà il primo a gettarmisi al collo. Martuccia: Niente di più facile; vi ama, vi stima, voi siete il suo unico amico... La è una cosa singolare:... Un uomo come lui tutta furia. E voi, sia detto con rispetto, siete l’uomo più flemmatico di questo mondo. Dorval: Appunto per questa ragione la nostra amicizia si è conservata lungo tempo. Martuccia: Andate, andate a trovarlo. Dorval: No, è troppo presto. Io vorrei prima vedere madamigella Angelica. Dov'è? Martuccia: (con ione) Con suo fratello. Le sapete voi tutte le disgrazie di suo fratello?
Dorval: (con un'aria penetrata) Ah, pur troppo! Tutto il mondo ne parla. Martuccia: E che si dice? Dorval: Non si dimanda. I buoni lo compiangono, i malvagi se ne prendono giuoco, gl'ingrati l'abbandonano. Martuccia: Oh cielo!… E questa povera ragazza? Dorval: È necessario che io le parli. Martuccia: Potrei domandarvi di che si tratta? Io m'interesso tanto per lei, che spero di meritare questa compiacenza. Dorval: Ho saputo che un certo Valerio... Martuccia: Ah, ah! Valerio? (ridendo) Dorval: Lo conoscete? Martuccia: Molto, signore; questa faccenda è tutta opera mia. Dorval: Tanto meglio; mi seconderete? Martuccia: Più che volentieri. Dorval: Conviene ch'io vada ad assicurarmi, se Angelica... Martuccia: E di poi, se Valerio... Dorval: Sì, andrò parimente in traccia di lui. Martuccia: (sorridendo) Andate, andate nell'appartamento di Dalancour. Voi farete due cose ad un colpo. Dorval: Ma come? Martuccia: Egli è colà. Dorval: Valerio?
Martuccia: Sì. Dorval:Ne ho ben piacere. Vado subito. Martuccia: Aspettate, aspettate; volete che gli faccia far l'ambasciata? Dorval: (ridendo) Oh bella!... Farò far l'ambasciata a mio cognato? Martuccia: Vostro cognato? Dorval: Sì. Martuccia: Come? Dorval: Non sai nulla? Martuccia: Nulla. Dorval: Ebbene, lo saprai un'altra volta. (entra da Dalancour)
SCENA IV
Martuccia sola.
Assolutamente impazzisce.
SCENA V
Geronte e detta.
Geronte: (parlando sempre rivolto verso la porta del suo appartamento) Fermati lì; farò portar la lettera da un altro. Fermati lì... Voglio così... (si rivolge a Martuccia) Martuccia? Martuccia: Signore. Geronte: Va a cercar un servitore che porti subito questa lettera a Dorval. (volgendosi verso la porta del suo appartamento) L'imbecille! va tuttavia zoppicando e vorrebbe partire. (a Martuccia) Vanne. Martuccia: Ma signore... Geronte: Spicciati. Martuccia: Ma Dorval... Geronte: (vivamente) Sì, a casa di Dorval. Martuccia: Egli è qui. Geronte: Chi? Martuccia: Dorval. Geronte: Dov'è? Martuccia: Qui. Geronte: Dorval è qui? Martuccia: Sì signore.
Geronte: Dov'è? Martuccia: Nell'appartamento del signor Dalancour. Geronte: Nell'appartamento di Dalancour? (in collera) Dorval nell'appartamento di Dalancour? Ora veggo come sta la faccenda… Comprendo tutto. (a Martuccia) Va in traccia di Dorval, digli da parte mia... Ma no, non voglio che tu vada in quel maledetto appartamento. Se ci metti piede, ti licenzio sul fatto... Chiama un servitore di quello sciagurato... No che non venga nessuno... Vai tu... Sì, sì, ch'egli venga subito subito... Ebbene?… Martuccia: Vado o non vado? Geronte: Vanne. Non mi far impazientare d'avvantaggio. (Martuccia entra da Dalancour)
SCENA VI
Geronte solo.
Sì, ella è così. Dorval ha penetrato in qual abisso terribile quel disgraziato è caduto. Sì, egli l'ha saputo prima di me; ed io, se non me l'avesse detto Piccardo, ne sarei ancora all'oscuro. È così... è così senz'altro. Dorval teme la parentela d'un uomo perduto; egli è colà: forse l'esamina per assicurarsene maggiormente. Ma perchè non dirmelo? L'avrei persuaso, l'avrei convinto... Perchè non me n'ha parlato?... Dirà forse che la mia furia non glie n'ha dato il tempo?... No certamente. Bastava che avesse aspettato; che non fosse partito... la mia collera si sarebbe calmata ed egli avrebbe potuto parlarmi. Nipote indegno; traditore; perfido! Tu hai sacrificato i tuoi beni, il tuo onore; io t'amai, scellerato… Sì, t'amai anche troppo, ma ti cancellerò totalmente dal mio cuore, e dalla mia memoria... Vattene di qua, va a perire altrove... Ma dove andrà egli? Non me n'importa. non ci penso più... Sua sorella sola m'interessa, ella sola merita la mia tenerezza, i miei benefizi... Dorval è mio amico. Dorval la sposerà. Io le darò la dote, le donerò tutte le mie facoltà. Lascerò penare il reo, ma non abbandonerò mai l'innocente.
SCENA VII
Dalancour, e detto.
Dalancour: (atterrito si getta ai piedi di Geronte) Ah! mio zio! Uditemi per pietà... Geronte: Che vuoi? Alzati. (si volge, vede Dalancour, dà un o indietro) Dalancour: (nella stessa positura) Mio caro zio! Voi vedete il più sventurato di tutti gli uomini. Per pietà, ascoltatemi. Geronte: Alzati, ti dico. (un po' commosso, ma sempre in collera) Dalancour: (in ginocchio) Voi che avete un cuore sì generoso, così sensibile, m'abbandonereste voi per una colpa che è solamente una colpa d'amore, e d'un amore onesto e virtuoso? Io, senza dubbio, ho il torto di non essermi approfittato dei vostri consigli, d'aver trascurato la tenerezza vostra paterna; ma, mio caro zio, in nome di quel sangue, cui debbo la vita, di quel sangue che voi tenete meco comune, lasciatevi commuovere, lasciatevi intenerire. Geronte: (a poco a poco s'intenerisce, e s'asciuga gli occhi, nascondendosi da Dalancour, e dice a parte) Come! tu hai ancora coraggio?... Dalancour: Non è la perdita dello stato che m'affanni; un sentimento più degno mi sollecita. Egli è l'onore. Soffrireste voi l'infamia d'un vostro nipote? Io non vi chiedo nulla per noi. Che si salvi la mia reputazione, e vi do parola per mia moglie e per me, che l'indigenza non spaventerà punto i nostri cuori, quando, in seno alla miseria, avremo per conforto una probità senza macchia, il nostro amore scambievole, la vostra tenerezza, e la vostra stima. Geronte: Sciagurato!... Meriteresti!... Ma io sono un uomo debole, questa specie di fanatismo del sangue mi parla in favor d'un ingrato! Alzati, traditore, io pagherò i tuoi debiti, e ti porrò forse in tal guisa in istato di farne degli altri.
Dalancour: (commosso) Ah! no, mio zio! vi prometto... Vedrete la mia condotta avvenire... Geronte: Qual condotta! sciagurato senza cervello? Quella di un marito infatuato, che si lascia guidare a capriccio da sua moglie, da una femmina vana, presuntuosa, civetta. Dalancour: No, vel giuro.. Mia moglie non ne ha colpa. Voi non la conoscete. Geronte: (ancora più vivamente) Tu la difendi, tu menti in mia presenza!... Guardati bene... Ci vorrebbe poco che a cagione di tua moglie, non ritrattassi la promessa che m'hai strappata di bocca. Sì, sì, la ritratterò... Tu non avrai nulla del mio. Tua moglie! Tua moglie!... Io non posso soffrirla, non voglio vederla. Dalancour: Ah, mio zio! voi mi lacerate il cuore!
SCENA VIII
Madama, e detti.
Madama: Deh! Signore, se mi credete la cagione dei disordini di vostro nipote, è giusto che ne porti io sola la pena. L'ignoranza in cui ho vissuto sin'ora non è, lo veggo, dinanzi a' vostri occhi, una scusa che basti. Giovane, senza esperienza, mi sono lasciata dirigere da un marito che amavo. Il mondo seppe allettarmi, i cattivi esempi mi hanno sedotta; io ero contenta, e mi credeva felice... ma sembro la rea, e questo basta... Purchè mio marito sia degno de' vostri benefizi, soscrivo al fatale vostro decreto. Mi staccherò dalle sue braccia. Vi chiedo una grazia soltanto: moderate il vostro odio contro di me; scusate il mio sesso, la mia età; compatite un marito, che per troppo amore... Geronte: Eh! Madama! credereste voi forse di soverchiarmi? Madama: Oh cielo! Dunque non v’è più speranza? Ah mio caro Dalancour, io t'ho dunque perduto. Io muoio. (cade sopra un sofà.) Dalancour: (corre in suo soccorso) Geronte: (inquieto, commosso, intenerito) Eh, là? c'è nessuno? Martuccia?
SCENA IX
Martuccia, e detti.
Martuccia: Eccomi, signore. Geronte: Guardate là... subito... andate... vedete... recatele qualche soccorso. Martuccia: Madama, Madama, che c'è? Geronte: Prendete, prendete; eccovi l'acqua di Colonia. (dando a Martuccia una boccetta) Come va? (a Dalancour) Dalancour: Ah, mio zio!... Geronte: (s'accosta a Madama, e le dice bruscamente) Come state? Madama: (alzandosi languidamente, e con una voce fioca ed interrotta) Signore, voi avete troppa bontà ad interessarvi di me. Non abbiate riguardo alla mia debolezza; il cuore vuol fare i suoi moti. Ricupererò le mie forze, partirò, mi rassegnerò alla mia sciagura. Geronte: (s'intenerisce, ma non parla) Dalancour: (afflitto) Ah! mio zio, soffrireste, che... Geronte: (vivamente a Dalancour) Taci tu! (a Madama bruscamente) Restate in casa con vostro marito. Madama: Ah, signore! Dalancour: (con trasporto) Ah! mio caro zio! Geronte: (con serietà, ma senza collera, e prendendoli ambedue per mano) Uditemi. I miei risparmi non erano per me. Voi gli avreste un giorno, trovati. Ebbene, servitevene in questa occasione; la sorgente è esaurita; abbiate giudizio.
Se non vi muove la gratitudine, l'onore almeno vi faccia star a dovere. Madama: La vostra bontà... Dalancour: La vostra generosità... Geronte: Basta così. Martuccia: Signore.... Geronte: Taci tu, ciarliera. Martuccia: Signore, voi siete in disposizione di far del bene: non farete pur qualche cosa per madamigella Angelica? Geronte: A proposito dov'è? Martuccia: Ella non è lontana. Geronte: V'è ancora il suo pretendente? Martuccia: Il suo pretendente? Geronte: È corrucciata forse per questo? È per questo che non vuol più vedermi? Sarebbe egli partito? Martuccia: Signore... il suo pretendente c'è tuttavia. Geronte: Che vengano qui. Martuccia: Angelica ed il suo pretendente? Geronte: (riscaldato) Sì, Angelica ed il suo pretendente. Martuccia: Benissimo. Subito, signore, subito. (avvicinandosi alla portiera) Venite, venite, figli miei; non abbiate timore.
SCENA X
Valerio, Dorval, Angelica, e detti.
Geronte: (vedendo Valerio e Dorval) Che c'è?... Che vuole qui quell'altro? Martuccia: Signore, sono il pretendente, ed il testimonio. Geronte: (ad Angelica) Avvicinatevi. Angelica: (s'accosta tremando, e parla con Madama) Ah! Cognata, quanto vi debbo chieder perdono! Martuccia: (a Madama) Ed io pure, Madama. Geronte: (a Dorval) Venite qui, signor pretendente... Che c'è? siete ancora adirato? Non volete venire? Dorval: Parlate con me? Geronte: Sì con voi. Dorval: Perdonatemi; io sono soltanto il testimonio. Geronte: Il testimonio! Dorval: Sì. Vi spiego l'arcano... Se m'aveste lasciato parlare.. Geronte: Arcano!... (ad Angelica) Vi sono degli arcani? Dorval: (serio e risoluto) Uditemi, amico. Voi conoscete Valerio; egli ha saputi i disastri di questa famiglia. È venuto ad offrire le sue facoltà al signor Dalancour, e la sua mano ad Angelica. Egli l'ama, è pronto a sposarla senza dote, e ad assicurarle una contraddote di dodici mila lire di rendita. M'è noto il vostro carattere, e so che a voi piacciono le belle azioni; l'ho perciò trattenuto, e mi sono incaricato di presentarvelo.
Geronte: Tu non avevi alcuna inclinazione, eh? mi hai ingannato. Ebbene, non voglio che tu lo prenda; questa è una soperchieria d'ambe le parti; io non la soffrirò giammai. Angelica: (piangendo) Mio caro zio... Valerio: (apionato e supplichevole) Signore... Dalancour: Voi siete sì buono.... Madama: Voi siete sì generoso... Martuccia: Mio caro padrone... Geronte: Maledetto il mio naturale! Non posso durar in collera quanto ne ho voglia. Io mi schiaffeggerei volentieri (tutti insieme ripetono le loro preghiere, e lo circondano, e lo stordiscono) Tacete, lasciatemi... che il diavolo vi porti... Ch'egli la sposi. Martuccia: (forte) Che la sposi senza dote? Geronte: Come senza dote?... Io mariterò mia nipote senza dote? Non sarà forse in istato dì formarle la dote? Conosco Valerio; l'azione generosa, che venne a proporci, merita una ricompensa. Sì, egli avrà la dote, e le cento mila lire che ho promesso ad Angelica. Valerio: Quante grazie! Angelica: Quanta bontà! Madama: Qual cuore! Dalancour: Qual esempio! Martuccia: Viva il mio padrone! Dorval: Viva il mio buon amico! (tutti lo circondano, lo colmano di carezze, e ripetono le sue lodi) Geronte: (cerca liberarsi da loro, e grida forte) Zitto, zitto, zitto… (chiama) Piccardo?
SCENA ULTIMA
Piccardo, e detti.
Piccardo: Signore Geronte: Si cenerà nel mio appartamento; sono invitati tutti. Dorval, noi frattanto giuocheremo agli scacchi.
Fine Della Commedia
IL CAMPIELLO
L'AUTORE A CHI LEGGE
Questa è una di quelle Commedia che soglio preparare per gli ultimi giorni di Carnovale, sendo più atte in quel tempo a divertire il popolo che corre affollatamente al Teatro. L'azione di questa Commedia è semplicissima, l'intreccio è di poco impegno, e la peripezia non è interessante; ma ad onta di tutto ciò, ella è stata fortunatissima sulle scene in Venezia non solo, ma con mia sorpresa in Milano fu così bene accolta, che si è replicata tre volte a richiesta quasi comune. La mia maraviglia fu grande, perché ella è scritta coi termini più ricercati del basso rango e colle frasi ordinarissime della plebe, e verte sopra i costumi di cotal gente, onde non mi credeva che fuori delle nostre lagune potesse essere intesa, e così bene goduta. Ma vi è una tal verità di costume, che quantunque travestito con termini particolari di questa Nazione, si conosce comunemente da tutti. I versi di questa Commedia sono dissimili da tutti gli altri che si leggono ne' miei Tomi e che corrono alla giornata. Questi non sono i soliti Martelliani, ma versi liberi di sette e di undici piedi, rimati e non rimati a piacere, secondo l'uso dei drammi che si chiamano musicali. Una tal maniera di scrivere pare che non convenga all'uso delle Commedie, ma il linguaggio Veneziano ha tali grazie in se stesso, che comparisce in qualunque metro, ed in questo precisamente mi riuscì assai bene. Il titolo del Campiello riuscirà nuovo a qualche forastiere non pratico della nostra città. Campo da noi si dice ad ogni piazza, fuori della maggiore che chiamasi di San Marco. Campiello dunque è il diminutivo di Campo, che vale a dire è una Piazzetta, di quelle che per lo più sono attorniate da case povere e piene di gente bassa. Usasi nell'estate in queste piazzette un certo gioco che chiamasi il “Lotto della Venturina”, con cui si cava la grazia a similitudine del “Birbis”, con alcune pallottole, e il più o il meno guadagna, secondo è stato prima deciso, se il più od il meno dee guadagnare. Il premio di questo lotto suol consistere per lo più in pezzi di maiolica di poco prezzo, ed è un divertimento che chiama alle finestre o alla strada la maggior parte del vicinato. Con questo gioco principia la Commedia, la quale poi prosseguisce con quegli strepiti che sono soliti di cotal gente e di tali siti, e termina con quell'allegria che pure è frequente nelle medesime circostanze, e che va bene adattata alla stagione per
cui fu la Commedia presente ordinata.
PERSONAGGI
Gasparina, giovine caricata, che parlando usa la lettera Z in luogo dell'S. Donna Catte Panchiana, vecchia Lucietta, fia de donna Catte Donna Pasqua Polegana, vecchia Gnese, fia de donna Pasqua Orsola, frittolera Zorzetto, fio de Orsola Anzoletto, marzer Il Cavaliere Fabrizio, zio di Gasparina Sansuga, cameriere di locanda Orbi che sonano Giovani che ballano Facchini Simone zerman di Lucietta
La scena stabile rappresenta un Campiello con varie case, cioè da una parte la casa di Gasperina con poggiuolo, e quella di Lucietta con altana; dall'altra parte la casa di Orsola con terrazza, e quella di Gnese con altanella. In mezzo, al fondo, una locanda con terrazzo lungo, coperto da un pergolato.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
ZORZETTO con una cesta in terra con dentro piatti, e scodelle, col sacchetto in mano per il gioco detto la Venturina, poi tutte le donne, ad una per volta, dal luogo che sarà accennato.
ZORZETTO Pute, chi mette al lotto? Xè qua la Venturina. Son vegnù de mattina. Semo d'inverno fora de stagion; Ma za de carneval tutto par bon. Via, no ve fè pregar. Pute, chi zoga al lotto? Chi vien a comandar? LUCIETTA (sull'altana della sua casa) Zorzetto, son qua mi; tolè el mio bezzo. (getta il bezzo) ZORZETTO Brava, siora Lucietta. Za, che la prima sè, comandè vu. LUCIETTA Comando per el più. Se gh'avesse fortuna! ZORZETTO Vadagnerè senz'altro. Su per una.
Sìe bezzi amanca. GNESE Zorzi. (dal suo poggiolo) ZORZETTO Comandè, siora Gnese. GNESE Tolè el mio bezzo. ZORZETTO Via; buttèlo zo. GNESE Se vadagnasse almanco! (getta il bezzo) ZORZETTO Su per do. Cinque bezzi amanca. ORSOLA Oe matto! ti ti xè? (dal suo poggiolo) ZORZETTO Anca vu, siora mare. ORSOLA Quel, che ti vol. Tiò el bezzo. (getta il bezzo) ZORZETTO Su per tre. Quattro bezzi amanca. LUCIETTA Sior'Orsola, anca vu? ORSOLA Sì ben. Dixè, cossa vadagna? LUCIETTA Al più. GASPARINA Oe Zorzetto, zenti. ZORZETTO Son qua da ela, siora Gasparina. GASPARINA Chiappè. (getta il bezzo) ZORZETTO La xè ben franca; Su per quattro. Mo via tre bezzi amanca.
DONNA PASQUA Oe vegnì qua, Zorzetto. (dalla porta della sua casa) Anca mi vòi rischiar el mio bezzetto. ZORZETTO Son da vu, donna Pasqua. GNESE Anca vu, siora mare? DONNA PASQUA Anca mi vòi ziogar; no se pol gnanca? LUCIETTA Fè pur quel, che volè. ZORZETTO Do bezzi amanca. DONNA CATTE Oe, dalla Venturina. (dalla porta della sua casa) ZORZETTO (Donna Catte Panchiana). LUCIETTA Siora mare, anca vu? DONNA CATTE Anca mi. Tolè el bezzo. Cossa vadagna? ZORZETTO El più. GASPARINA No ze pol comandar? ZORZETTO Xè comandà, patrona. GASPARINA Dazzeno? No credeva. Ze zaveva cuzì, mi no metteva. LUCIETTA Vardè là, che desgrazia! GASPARINA (Zempre cuzì. Vol comandar cuztie). LUCIETTA Animo. (a Zorzetto) ZORZETTO Su per sìe.
Destrighève, mettè. GNESE Metterò mi. LUCIETTA Metterò mi. GASPARINA Tolè. (getta un altro bezzo) LUCIETTA Gran cazzada! GNESE Dei bezzi Che n'avemo anca nu. ORSOLA Mo via; cavemio? ZORZETTO E tutti questi al più. LUCIETTA Vegnì da mi, Zorzetto. GASPARINA Trèmelo a mi el zacchetto. LUCIETTA Vardè, che zentildona! Mi prima ho comandà. Mi son parona. GASPARINA Mi ziora gh'ho do bezzi. DONNA PASQUA Mia fia xè più putela. Trèghe el sacchetto, che ghe tocca a ela. ZORZETTO Giustève tra de vu. ORSOLA Via, tràghelo a to mare. ZORZETTO E tutti questi al più. (getta il sacchetto ad Orsola) GASPARINA Quezta zè un'inzolenza. ORSOLA Chi songio? una massera?
GASPARINA Pezo. Una frittolera. ORSOLA Vardè! se fazzo frittole? La xè una profession. GASPARINA Co la ferzora in ztrada zè par bon. ZORZETTO Via, cavè, destrighève. (ad Orsola) ORSOLA Vu, vu, siora, vardève. GASPARINA Mi zon chi zon, zorela. LUCIETTA Certo; chi sente ela, La viverà d'intrada. GNESE Tutti za la cognosse in sta contrada. GASPARINA Ve vorezzi, patrone, Metter con mi, vu altre? LUCIETTA Cossa femio? ZORZETTO Cavemio, o no cavemio? GASPARINA Mio zior pare Giera un foresto, el giera galantomo; E credo, che el zia nato zentilomo. Giera mia ziora mare Nazzua da un ztrazzariol: Gneze da un zavatter, E vu da un fruttariol.
DONNA CATTE El giera un fruttariol, ma de quei boni. GASPARINA L'ho vizto in Piazza a cuzinar maroni. DONNA PASQUA Mio mario, poveretto, El giera un zavatter, Ma sempre in sto mistier El s'ha fatto stimar. No ghe giera un par soo per tacconar. ZORZETTO E cusì cossa femio? Cavemio, o no cavemio? ORSOLA Sentì co le se vanta! Tiò la bala. (getta il sacchetto colla palla) ZORZETTO El sessanta. ORSOLA Xèlo un numero bon? ZORZETTO No so gnancora. GASPARINA El zè bazzo, fia mia. ORSOLA Mo che dottora! ZORZETTO A vu, sior'Agnesina. (getta il sacchetto) GASPARINA (Lo zaveva, Che l'andava da ela. La zè la zo moroza). GNESE Oe, la Stela. (getta giù il sacchetto e la palla)
ZORZETTO Brava. A vu, donna Pasqua. (fa cavare a donna Pasqua) GASPARINA (Che diria de zo nona, Povero zporco, el va da zo madona). DONNA PASQUA Vardè, cossa òi cavà? Coss'ela sta figura? ZORZETTO La Morte. DONNA PASQUA Malignazo! gh'ho paura. DONNA CATTE Avè ben cavà mal . ZORZETTO Tolè, parona, Cavè vu. (a donna Catte) DONNA CATTE Vegnì qua. (a Zorzetto) Coss'è sto piàvolo? No gh'ho i occhiali. Cossa xèlo? ZORZETTO El Diavolo. GNESE Avè ben cavà pezo. DONNA CATTE N'importa. Òi vadagnà? (a Zorzetto) ZORZETTO No so; ghe xè de meggio. LUCIETTA Buttè qua. (a Zorzetto) ZORZETTO Tolè. (getta il sacchetto a Lucietta) GASPARINA Mi zarò l'ultima. ZORZETTO La Stela al più. GNESE La Stela la xè mia.
DONNA PASQUA Certo, e la grazia l'ha d'aver mia fia. LUCIETTA Oe, ho cavà la Luna. DONNA CATTE Brava, brava, mia fia gh'ha più fortuna. ZORZETTO Presto. La Luna al più. GASPARINA Toccarà a mi zta volta. ZORZETTO Son da vu. GNESE Me darave dei pugni in te la testa. ZORZETTO Eh, vardève da questa. (getta il sacchetto a Gasparina) GASPARINA Vardè, cozza òi cavà? ZORZETTO El trenta. LUCIETTA La xè mia. GASPARINA Ma un'altra bala, Ziora, mi ho da cavar. LUCIETTA Ma mi ho da vadagnar; Nissun no me la tol. GASPARINA Cozza òi cavà? ZORZETTO Brava dasseno. El Sol. GASPARINA Oe, la grazia zè mia. LUCIETTA Malignaza culìa Sempre la venze ela.
ZORZETTO Vorla un piattelo? GASPARINA No; voggio una zquela. ZORZETTO Ghe la porto. GASPARINA Aspettè. Zta mattina ve zbanco. Zoghemo ancora, e mi comando: al manco. LUCIETTA No voggio più zogar. (Sento che peno). GASPARINA No, da zeno, patrona? (entra in casa) LUCIETTA No da zeno. (entra in casa) GNESE Xè meggio, che anca mi fazza cusì! GASPARINA La va via, ziora Gneze? GNESE Ziora zì. (entra in casa) ORSOLA Vien su, vien su, fio mio. El so xè fenio. El tempo se fa scuro. GASPARINA El zpazzo zè fenio? ORSOLA Certo zeguro. (entra in casa) GASPARINA Zte zporche me minchiona, ma per diana Le gh'ha da far con mi. ZORZETTO Vorla la squela? GASPARINA Tiéntela per ti.
No m'importa de zquele, Ghe n'ho de le più bele. Zte ziore, che le ingiotta, ze le vol, Che mi con ele zarò zempre el zol. (parte) ZORZETTO Puto, dame una man A portar via sta cesta; sta mattina No gh'è più Venturina. Tiò sto bezzo per ti. Sti sìe bezzetti Voggio andarli a investir in tre zaletti. (parte)
SCENA SECONDA
Donna PASQUA POLEGANA e donna CATTE PANCHIANA
DONNA PASQUA Cossa dixeu, comare? Stamattina Gh'ha toccà la fortuna a Gasparina. DONNA CATTE Za me l'ho imaginada. Quela se ghe pol dir la fortunada. DONNA PASQUA Me recordo so mare, La vegniva ogni dì A domandarme a mi Ora el sal, ora l'oggio, poverazza; Ela xè morta, e da so fia se sguazza. DONNA CATTE Quel forestier, credemio, Ch'el sia so barba? DONNA PASQUA Oibò. Da più de diese ho sentio a dir de no. DONNA CATTE Cossa voleu, che el sia? cossa ve par? DONNA PASQUA Ah! no vòi mormorar. Via, via, el sarà so barba, no parlemo.
DONNA CATTE Oe, che el sia quel, ch'el vol, nu no gh'intremo. Me despiase, che in casa gh'ho una fia, Che la vede, e la sente. DONNA PASQUA Per la vostra no gh'è sto gran pericolo, Che la xè mauretta; Ma la mia, poveretta, Che no la gh'ha gnancora sedes'ani. DONNA CATTE E la mia quanti ani, Credereu, che la gh'abbia? DONNA PASQUA Mi no so. Vinti un, vinti do. DONNA CATTE Vedeu, fia mia, che v'inganè? deboto La toccherà i disdoto. Anca mio chi me vede I dixe, che son vecchia; E sì vecchia no son, Ma son vegnua cusì da le ion. DONNA PASQUA E a mi, col vostro intender, Quanti ani me deu? DONNA CATTE Vu, fia mia, cossa seu? Tra i sessanta, e i setanta?
DONNA PASQUA Oh che spropositi! Se cognosse, che poco ghe vedè. DONNA CATTE Quanti xèli, fia mia? DONNA PASQUA Quaranta tre. DONNA CATTE Eh, no gh'è mal. E i mii Quanti ve par, che i sia? DONNA PASQUA Sessanta, e va. DONNA CATTE I xè manco dei vostri in verità. DONNA PASQUA Se no gh'avè più denti! DONNA CATTE Cara fia, Per le flussion i me xè andadi via. Oh se m'avessi visto in zoventù! DONNA PASQUA Come! DONNA CATTE Seu sorda? DONNA PASQUA Un poco, da sta recchia. DONNA CATTE Cara fia, no volè, ma sè più vecchia. DONNA PASQUA Se savessi, anca mi, quel che ho patio. Basta. El Ciel ghe perdona a mio mario. DONNA CATTE Certo, che sti marii I xè i gran desgraziai. El pan de casa non ghe basta mai.
DONNA PASQUA La xè cusì, sorela. Anca el mio, sto baron, giera de quei, E sì el mio pan noi xè de semolei. DONNA CATTE Mi, no fazzo per dir, ma giera un tòcco! Fava la mia fegura; Ma senza denti se se desfegura. Sentì; qua ghe n'ho do; qua ghe n'ho uno. (prende il dito di donna Pasqua, e se lo mette in bocca) Sentì ste do raìse, Sentì sto dente grosso, E ste zenzive dure co fa un osso. DONNA PASQUA Magneu ben? DONNA CATTE Co ghe n'ho. DONNA PASQUA Cusì anca mi. DONNA CATTE Ma no se pol magnar ben ogni dì. DONNA PASQUA Come! DONNA CATTE Me fè peccà, Cusì sorda. DONNA PASQUA Aspettè, vegnì de qua. DONNA CATTE No; voggio andar dessuso, Perché gh'ho quella puta
Che me dà da pensar. DONNA PASQUA La voleu maridar? DONNA CATTE Oh, se podesse! DONNA PASQUA Dèghela a quel marzer. DONNA CATTE Se el la volesse. E vu la vostra no la maridè? DONNA PASQUA Eh cara vu, tasè. Se sto fio de sior'Orsola Fusse un poco più grando! DONNA CATTE El crescerà. DONNA PASQUA E intanto la sta là. E mi, per confidarve al mio pensier, Vorave destrigarme; Perché dopo anca mi vòi maridarme. DONNA CATTE Oh anca mi certo; co xè via sta puta, La fazzo, vel protesto. DONNA PASQUA Destrighemole presto. Maridemose, Catte. DONNA CATTE Sì, fia mia. DONNA PASQUA Catte, bondì sioria. DONNA CATTE Bondì, sorela.
No son più una putela; No gh'ho quel, che gh'aveva Co giera zovenetta Ma ghe n'ho più de quattro, che me aspetta. (parte) DONNA PASQUA Mi ghe sento pochetto, Ma grazie al Cielo son ancora in ton, E fora de una recchia, Tutto el resto xè bon. (parte)
SCENA TERZA
GASPARINA sul poggiuolo, poi il CAVALIERE
GASPARINA Ancuo zè una zornada cuzì bela, Che proprio me vien voggia D'andarme a devertir; Ma zior barba con mi nol vol vegnir. Zia malignazo i libri! Zempre zempre ztudiar! Ze almanco me vegnizze Una bona occazion da maridar! Quel zior, che l'altro zorno Zè vegnudo a alozar a zta locanda, Ogni volta, che el pazza, el me zaluda; Ma no ze za chi el zia. Oh, vèlo qua, Dazzeno in verità. CAVALIERE (vien eggiando con qualche affettazione, e avvicinandosi alla casa di Gasparina, la saluta) GASPARINA (gli fa una riverenza) CAVALIERE (cammina un poco, poi torna a salutarla)
GASPARINA (repplica una riverenza) CAVALIERE (gira un poco, poi le fa un baciamano ridente) GASPARINA (corrisponde con un baciamano grazioso) CAVALIERE (s'incammina verso la locanda, poi torna indietro mostrando di volerle parlare; poi si pente, le fa una riverenza e torna verso la locanda. Sulla porta si ferma, e le fa un baciamano, ed entra) GASPARINA Oh ghe dago in tel genio. Ze vede, che el zè cotto. Ze con mi el fa dazzeno; Zte zporche, che zè qua Oh quanta invidia, che le gh'averà!
SCENA QUARTA
SANSUGA dalla locanda, e la suddetta.
SANSUGA Cossa mai se pol far? co sti foresti, No se pol dir de no. Parlerò co la puta, el servirò. Camerier anca mi son de locanda: No se pol dir de no, co i ne comanda. Patrona reverita. GASPARINA Ve zaludo. SANSUGA Cognossela quel sior, che xè venudo? GASPARINA Mi no. Chi zèlo? SANSUGA Un cavalier. GASPARINA Dazzeno? SANSUGA El xè un, ch'ha per ela de la stima, E col l'ha vista el xè cascà a la prima. GASPARINA E mi me cognozzeu? SANSUGA So chi la xè. GASPARINA Ben co me cognozzè,
Zaverè, che con mi No ze parla cuzì. SANSUGA No ghe xè mal. No voggio miga dir... Ghe basta de poderla reverir. GASPARINA No m'àlo zaludà? SANSUGA Xè vero, ma nol sa, Se la l'abbia aggradido el so saludo. GASPARINA Via dizèghe a quel zior, che nol reffudo. SANSUGA Se el vien sulla terazza Che dirala qualcossa? GASPARINA Via, zior zì. SANSUGA Che piàselo quel sior? GASPARINA Cuzì, e cuzì. SANSUGA Lo vago a consolar. GASPARINA Oe, lo zàlo, che zon da maridar? SANSUGA El lo sa certo. GASPARINA El zàlo, Che zon puta da ben, ma poveretta? SANSUGA Za l'ho informà de tuto. La staga là un tantin. GASPARINA Zioria, bel puto. (Sansuga entra nella locanda)
Oh la zè una gran cozza, Per una da par mio Non aver dota da trovar mario. Mio barba zè vegnù Da caza de colù; el va dizendo: “Vorave nezza, che ve maridezzi”. Ma gnancora no zo ze el gh'abbia bezzi. Zior? chiàmelo? El zè elo Dazzeno, che me chiama; tolè zuzo, Bizognerà, che vaga; Qua nol vol, che ghe ztaga. Come vorlo, che fazza a maridarme? Dazzeno, che zon ztuffa. E ze ghe tendo a lu farò la muffa. (parte)
SCENA QUINTA
LUCIETTA sull'altana, poi il CAVALLIER sulla loggia.
LUCIETTA Gnancora no se vede A vegnir Anzoletto. Tre ore, sto baron, xè che l'aspetto. L'ora la xè ada, Che el se sente a ar, Che el se sente a criar aghi, e cordoni. Oh sti puti, sti puti, i è pur baroni; No se se pol fidar. CAVALIERE (sulla loggia, guardando verso la casa di Gasparina) LUCIETTA Vàrdelo qua? me vorlo saludar? CAVALIERE Mi pare, e non mi pare. LUCIETTA Par, che el me varda mi. CAVALIERE (si cava il cappello e lo tien a mezz'aria, parendogli che sia e non sia Gasparina) LUCIETTA Patron caro. (lo saluta) CAVALIERE (termina di salutarla, e poi con un occhiale l'osserva) LUCIETTA M'àlo visto cusì?
CAVALIERE Vedo, che non è quella, Ma tanto e tanto non mi par men bella. (torna coll'occhiale) LUCIETTA Se el seguita a vardar co sto bel sesto, Adessadesso mi ghe volto el cesto. CAVALIERE (la saluta) LUCIETTA La reverisso in furia: Maneghi de melon, scorzi d'anguria. CAVALIERE Non intendo che dica. (la saluta) LUCIETTA Un'altra volta. Serva sua. CAVALIERE Mi perdoni.
SCENA SESTA
ANZOLETTO colle scatole da marzer, e detti
ANZOLETTO Aghi de Fiandra, spighetta, cordoni.(gridando ad uso di tal mestiere) LUCIETTA Anzoletto? (chiamandolo) ANZOLETTO V'ho visto. (minacciandola) CAVALIERE Signora, se comanda. Compri, che pago io. LUCIETTA Grazie, patron; De lu no me n'importa. Aspettème, che vegno sulla porta. (entra) CAVALIERE Quel giovine. ANZOLETTO Patron. CAVALIERE Quel, ch'ella vuole, Datele; pago io. ANZOLETTO (Ah sta cagna sassina m'ha tradio!).
SCENA SETTIMA
GNESE sull'altana, e detti
GNESE Oe marzer; vegnì qua.(Anzoletto s'accosta) CAVALIERE Ecco un'altra beltà. GNESE Gh'aveu cordoni bei? CAVALIERE Datele quel, che vuol, pago per lei. GNESE Dasseno? CAVALIERE Sì, servitela, Che tutto io pagherò. GNESE Vegnì de su, marzer. ANZOLETTO Ben, vegnirò. (entra in casa d'Agnese) CAVALIERE Tante bellezze unite! parmi un sogno. Servitevi, ragazza. GNESE Me torò el mio bisogno. (entra)
SCENA OTTAVA
LUCIETTA sulla porta, il CAVALIERE sulla loggia.
LUCIETTA Invece de aspettarme el va da Gnese? CAVALIERE Giovinetta cortese, Aspettate, ora vien. LUCIETTA Sior sì, l'aspetto. (Vòi parlar col foresto A so marzo despetto). CAVALIERE Come voi vi chiamate? LUCIETTA Lucietta per servirla. (Farme sta azion a mi? no vòi soffrirla). CAVALIERE Lucietta. LUCIETTA Cossa vorla? CAVALIERE Siete sposa? LUCIETTA Sior no. CAVALIERE Siete fanciulla? LUCIETTA Certo, Che qualcossa sarò.
CAVALIERE Voglio venir a basso. LUCIETTA Chi lo tien? (il Cavaliere entra) Vòi, che el me senta quel baron col vien. (verso Anzoletto) Cossa xè sto impiantarme?
SCENA NONA
Donna CATTE e LUCIETTA
DONNA CATTE Oe, Lucietta.(di dentro) LUCIETTA Sì, sì, podè chiamarme. Fina, che no me sfogo, No vago, se i me dà, via da sto liogo. DONNA CATTE Cossa fastu qua in strada? (esce di casa) LUCIETTA Gnente. DONNA CATTE Ti è inmusonada Per cossa, cara fia? LUCIETTA Quel baron del marzer... Xè à...l'ho chiamà... Noi m'ha gnanca aspettà. (piangendo) DONNA CATTE E ti pianzi per questo? LUCIETTA Siora sì. DONNA CATTE El vegnirà debotto.
SCENA DECIMA
IL CAVALIERE e dette
CAVALIERE Eccomi qui. DONNA CATTE Chi èlo sto sior? (a Lucietta) LUCIETTA Tasè.(a donna Catte) CAVALIERE Questa vecchia chi è? LUCIETTA La xè mia mare. DONNA CATTE Che el se metta i occhiai; se nol ghe vede; No son vecchia, patron, come che el crede. CAVALIERE Compatitemi, cara. Ah! vostra figlia è una bellezza rara. DONNA CATTE Lo so anca mi; la xè una bela puta. E po vardè, la me someggia tuta. CAVALIERE Ora verrà il merciaio; Provedetevi pure, ecco il danaio.(mostra la borsa)
SCENA UNDICESIMA
GNESE sull'altana, e detti
GNESE Patron, sàla? m'ho tolto Roba per quattro lire. CAVALIERE Anche per trenta. Io faccio ognor così. GNESE Ma me l'ho tolta, e l'ho pagada mi. Le pute Veneziane Le gh'ha pensieri onesti, E no le tol la roba dai foresti.(parte)
SCENA DODICESIMA
ANZOLETTO di casa, e detti
CAVALIERE Questa non fa per me, troppo eroina. Via, fatevi servire.(a Lucietta) LUCIETTA No vòi gnente. No me vegnir da rente, Tocco de desgrazià, baron, furbazzo. (a Anzoletto) ANZOLETTO A mi sto bel strapazzo: A mi, che gh'ho rason de lamentarme? LUCIETTA Ti gh'ha rason, che qua no vòi sfogarme. Ti me l'ha da pagar. ANZOLETTO Chi ha d'aver, ha da dar. DONNA CATTE Zitto; vegnì con nu. (a Anzoletto) ANZOLETTO In casa vostra no ghe vegno più. (parte) CAVALIERE Via, l'amante è partito. Prendete un anellino; Tenetelo, ch'è bello. LUCIETTA La reverisso, e grazie dell'anello.(parte senza prenderlo)
DONNA CATTE La diga, sior foresto. CAVALIERE Che volete? DONNA CATTE La me lo daga a mi. CAVALIERE Brava; prendete. Datelo alla ragazza in nome mio: Vecchia da ben, mi raccomando, addio. (parte) DONNA CATTE Oh, no ghe dago gnente. No vòi che la se instizza. El sarà bon, co me farò novizza. (parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Donna PASQUA di casa colla scopa, poi ORSOLA.
DONNA PASQUA Vòi scoar sto campiello; El xè pien de scoazze. Sempre ste frasconazze Le fa pezo dei fioi; Le magna i garaguoi, Le magna i biscoteli da Bologna, E tutto le trà zo, ch'è una vergogna. Vòi da scoar mi sola. Lasso, che tutti pensa a casa soa; E no vòi per nissun fruar la scoa.(va scopando dinanzi la sua porta) ORSOLA Oe dixè, donna Pasqua; donna Pasqua. La xè sordetta, grama! Oe sentì, donna Pasqua. DONNA PASQUA Chi me chiama? ORSOLA Za che gh'avè la scoa, fème un servizio, Dène una nettadina
Qua davanti de nu. DONNA PASQUA Quelo, che fazzo mi, fèlo anca vu. (spazza sul suo) ORSOLA No ve faressi mal, cara madona. DONNA PASQUA (Vardè, che zentildona!). ORSOLA El xè un pan, che se impresta. DONNA PASQUA (La vol, che se ghe fazza la massera. Chi crédela, che sia sta frittolera?). ORSOLA Slongar la scoa un tantin Xèla una gran fadiga? DONNA PASQUA Cossa? (No sento ben quel, che la diga). ORSOLA Digo cusì, sorela, che a sto mondo Quel, che servizio fa, servizio aspetta. DONNA PASQUA Che servizio? ORSOLA Sè sorda, poveretta. DONNA PASQUA Mi sorda? Sta mattina Ghe sentiva pulito. Una flussion se m'ha calà za un poco; Ma credo che sia causa sto siroco. ORSOLA Dixè, Pasqua, sentì. DONNA PASQUA Cossa voleu da mi? (s'accosta) ORSOLA Me seu amiga?
DONNA PASQUA Sì ben, no fazzo miga Per no voler scoar la vostra porta; Per vu no me n'importa; Ma no vòi, che ste frasche, che sta qua Le me diga massera Dela comunità. ORSOLA Via, via, gh'avè rason; disè, fia mia, Dove xè vostra fia? DONNA PASQUA La xè sentada, Che la laora: oh, no ghe xè pericolo Che in ozio la se veda in ste zornae. ORSOLA La xè una puta, che me piase assae. DONNA PASQUA Dasseno la xè bona. (si mette a spazzare alla casa di Orsola) ORSOLA No, no v'incomodè. DONNA PASQUA De quele no la xè... Se me capì... ORSOLA La xè una bona puta. DONNA PASQUA E per dir quel, che xè, non la xè bruta. ORSOLA Caspita! la xè un fior. DONNA PASQUA N'è vero, fia? (spazza più forte) ORSOLA Basta; basta cusì.
DONNA PASQUA Credèlo; la laora tutto el dì. ORSOLA Quando la marideu? DONNA PASQUA Grama! magari! Ma me capiu, fia mia? fala danari. ORSOLA Qualchedun la torave senza gnente. DONNA PASQUA Cossa? ORSOLA No m'intendè? vegnì darente. DONNA PASQUA Cossa diseu, sorela? ORSOLA La puta la xè bela, La xè bona; chi sa? DONNA PASQUA Magari! ORSOLA Vegnì qua. Vegnì de su da mi; vòi, che parlemo. DONNA PASQUA (Chi sa, che co so fio no se giustemo?). Vegno subito. Gnese.(chiama)
SCENA SECONDA
GNESE, e dette
GNESE Siora, m'aveu chiamà? (in altana) DONNA PASQUA Sì, fia mia, vago qua Da sior'Orsola sastu? Tornerò da qua un poco. GNESE Sior'Orsola, patrona. ORSOLA Sioria, fia mia. DONNA PASQUA (Cossa dixeu, che tòco?). (a Orsola) (Ma una volta anca mi giera cusì; Ma chi sa, che no torna quel, che giera. Lassè pur, che i me diga vecchia matta; Se me marido, vegno tanto fatta). (entra da Orsola) ORSOLA Gnese, steu ben? GNESE Mi sì. ORSOLA Cossa laoreu, dixè? GNESE M'inzegno a far dei fiori da topè. ORSOLA De quei de veludin?
GNESE De queli, e anca de queli de piumin. ORSOLA Lassè véder. GNESE Vardè. ORSOLA Brava dasseno. Per chi li feu, fia mia? Per quei de Marzaria? GNESE Oh, siora no; I me vien ordenai. Per Marzaria mi no laoro mai. Una volta laorava. Mai no i se contentava. Lori i me dava vinti soldi al fior, Ma con fadiga tanta, E i li vendeva po più de quaranta. Adesso i fazzo mi con del sparagno, E gh'ho manco fadiga, e più vadagno. ORSOLA Saveu far scuffie? GNESE Siora sì. ORSOLA Dasseno? Poderessi anca far la conzateste. GNESE Ma una puta, la vede...
ORSOLA Maridève. GNESE Oh cossa, che la dise. ORSOLA Sentì, care raìse, Ve voggio ben assae; vorave certo Véderve ben logada. Ma le bone occasion oh le xè rare. Sioria, vago a parlar co vostra mare. (parte)
SCENA TERZA
GNESE, poi LUCIETTA in altana
GNESE Mia mare, poverazza, La me marideria. E anca mi lo faria, se se trovasse Un partio de quei boni; Ma se ne catta tanti de baroni! LUCIETTA Siora Gnese garbata! (con ironia) GNESE Cossa gh'aveu con mi? LUCIETTA Con un'amiga no se fa cusì. GNESE Cossa v'òi fatto? LUCIETTA Fève da la vila. Lo savè, che Anzoleto me vol ben, E in casa vel tirè quando che el vien? GNESE Ho comprà de la roba. LUCIETTA Per comprar, De chiamarlo de su no gh'è bisogno. GNESE Mi a vegnir su la porta me vergogno.
LUCIETTA Vardè che casi! no ghe sè mai stada, Siora spuzzetta, in strada? GNESE Co gh'è mia siora mare; ma no sola. LUCIETTA Orsù in t'una parola, Lassème star quel puto. GNESE Chi vel tocca? LUCIETTA O ve dirò quel, che me vien in bocca. GNESE Mo no, cara Lucietta, Voggio, che siemo amighe. LUCIETTA Mi sì, che gh'ho buon cuor. GNESE E mi no ve vòi ben? Voggio donarve un fior. LUCIETTA Magari! GNESE Mandè a tòrlo. LUCIETTA Ma da chi? Se no ghe xè nissun, vegnirò mi. Oe aspettè. Zorzetto. (chiama)
SCENA QUARTA
ZORZETTO di strada, e dette
ZORZETTO Cossa voleu? LUCIETTA Vorave un servizietto. ZORZETTO Comandème. LUCIETTA Andè là. Gnese ve darà un fior, portèlo qua. ZORZETTO Volentiera; son qua, buttèlo zo. (a Gnese) GNESE Oh giusto! ZORZETTO Vegno suso? GNESE Missier no: Calerò zo el cestelo. (cala il fiore nel cestino) Portèghelo a Lucietta. ZORZETTO Mo co belo! El someggia dasseno a chi l'ha fatto. GNESE Andè via, che sè matto. LUCIETTA Ti lo sprezzi? ZORZETTO No me volè più ben?
GNESE Che puttellezzi! ZORZETTO Ve degnévi una volta de ziogar Co mi alle bagatele. GNESE Eh via, che le xè cosse da putele. LUCIETTA Adesso ti xè granda, Gnese, oe vàrdeme in ciera, Zogheravistu in t'un'altra maniera? GNESE Via, ghe lo deu quel fior? (a Zorzetto, irata) ZORZETTO Subito siora. Cossa gh'aveu con mi? Mo che desgrazia! Cossa mai v'òggio fatto? GNESE Uh mala grazia! (parte)
SCENA QUINTA
LUCIETTA e ZORZETTO
LUCIETTA Zorzi, Zorzi, ghe vedo da lontan. Culìa la te vol ben. ZORZETTO Giusto! una volta; Ma adesso no vedè. LUCIETTA Anzi più adesso. Co la giera putela No la pensava miga a certe cosse, Adesso la ghe pensa, e el se cognosse. ZORZETTO Anca mi, se ho da dir la verità Che vòi ben in t'un modo, Che mai più l'ho provà. Ma a sti desprezzi, Cara siora Lucieta, no son uso. LUCIETTA Pòrteme el fior, Zorzetto, vien desuso. ZORZETTO Quel che volè; gh'ho voggia, Che parlemo un tantin. LUCIETTA No ti è più fantolin; quanti ani gh'àstu?
ZORZETTO Sedese, o disisette. LUCIETTA Mio zerman S'ha maridà de quindese. ZORZETTO Mo adesso Me fè rabbia anca vu. LUCIETTA Povero pampalugo, vien de su. ZORZETTO Vegno. (va per entrare)
SCENA SESTA
ANZOLETTO e detti
ANZOLETTO Indrio, sior scartozzetto.(dà una spinta a Zorzetto) LUCIETTA Che strambazzo! ZORZETTO Cossa v'òi fatto? ANZOLETTO Indrio, Che ve dago uno schiaffazzo. ZORZETTO Mo per cossa? LUCIETTA Vardè là, che bel sesto! ANZOLETTO Senti, sastu? a sta porta No ghe vegnir mai più. ZORZETTO Che portava sto fior. Dèghelo vu.(getta il fiore in terra) ANZOLETTO A Lucietta sto fior? Tocco de desgrazià. ZORZETTO Siora mare, i me dà.
SCENA SETTIMA
ORSOLA sul pergolo, e detti
ORSOLA Cossa te fai, fio mio? Oe, lassè star mio fio, Che per diana de dia se vegno zo, Qualcossa su la testa ve darò. LUCIETTA Via, via, manco sussuro. ANZOLETTO Sto spuzzetta No voggio, che el ghe parla co Lucietta. ZORZETTO Cossa m'importa a mi? ORSOLA Za per culìa Sempre se fa baruffa. LUCIETTA Voleu, che ve la diga, che son stuffa? ORSOLA No se ghe poi più star in sto campielo Co sta sorte de zente. LUCIETTA Oe, oe, come parleu? ORSOLA Vardè là, che lustrissima! Chi seu? LUCIETTA Frittolera.
ANZOLETTO Tasè. (a Lucietta) ORSOLA Sporca. ANZOLETTO Sangue de diana, Che debotto debotto... (verso Orsola) ZORZETTO Cossa voressi far? (contro Anzoletto) ANZOLETTO Via, sior pissotto. (minacciandolo) ORSOLA Lassèlo star quel puto, e vu patrona Mio fio no lo vardè. LUCIETTA Oh, no v'indubitè, che no vel tocco; Vardè che bel aloco! Che no ghe sia de meggio in sto paese? Vardè, che fusto! Che lo lasso a Gnese.
SCENA OTTAVA
GNESE in altana, e detti
GNESE Cossa parleu de mi? LUCIETTA Coss'è, patrona? Seu vegnua fora, perché gh'è Anzoletto? GNESE Vardè, che sesti! ORSOLA Vien de su, Zorzetto. ZORZETTO Siora no, vòi star qua. ORSOLA Cusì ti parli? ZORZETTO Sta volta voggio far a modo mio. ORSOLA Vien de suso, te digo. LUCIETTA Oh che gran fio! ORSOLA Vardève vu, fraschetta.
SCENA NONA
Donna CATTE in istrada, e detti
DONNA CATTE Oe, no stè a strapazzar la mia Lucietta. ORSOLA Mi gh'ho qualche rason, se la strappazzo. DONNA CATTE In sto campiello se mettemio a mazzo? L'è una puta da ben; E no la xè de quele... GNESE Le altre, cara siora, cossa xèle? DONNA CATTE Tasi, che ti ha bon tàser. GNESE Oh no son miga muta.
SCENA DECIMA
Donna PASQUA di casa d'Orsola, e detti; poi il CAVALIERE
DONNA PASQUA Cossa voressi dir de la mia puta? DONNA CATTE Tasè, che la ghe sente. GNESE Vegnì su, siora mare. DONNA PASQUA Cossa gh'è? (a Gnese) CAVALIERE Sento gridar, si può saper perché? ANZOLETTO Cossa gh'ìntrelo, sior? CAVALIERE Se non vi spiace, Vi entro sol per la pace. ANZOLETTO La diga, mio patron, Su quela putta gh'àlo pretension? (accenna Lucietta) CAVALIERE Niente affatto. LUCIETTA Sentìu, sior Anzoletto? CAVALIERE Io per tutte le donne ho del rispetto. Mi piace l'allegria, Godo la compagnia; E quel tempo, ch'io sto quivi di stanza
Vorrei quieta mirar la vicinanza. Donne si può sapere La causa di un sì grande mormorio? ORSOLA La diga, sior, che i lassa star mio fio. CAVALIERE Chi l'oltraggia di voi? ZORZETTO Quel, che xè là. Mi no gh'ho fatto gnente, e lu el m'ha dà. CAVALIERE Per qual ragion? (ad Angiolo) ANZOLETTO No voggio Che el varda quella puta, Che el vaga in casa, e che el ghe porta i fiori. LUCIETTA Gnese, quel fior me l'àstu donà ti? GNESE Mi ghe lo ho dà. Sior sì. CAVALIERE Orsù, che si finisca Di gridar, buona gente. Amici come prima, allegramente. LUCIETTA Vienstu de su, Anzoletto? ANZOLETTO Sempre la xè cusì. DONNA CATTE Via, via, sior matto, vegnì via con mi. (prende Anzoletto per la mano, e lo conduce in casa) CAVALIERE Brava la vecchia; lo tirò con essa.
GNESE So fia la xè promessa Quello xè el so novizzo. No gh'è mal, sior foresto. CAVALIERE Questo si chiama un ragionare onesto. LUCIETTA E ti, che ti lo sa, làsselo star. GNESE No, no te indubitar, Che no lo chiamo più. LUCIETTA Vegno, vegno, fio mio; caro colù. (entra) CAVALIERE Siamo di carnevale; Siamo in luogo a proposito Per fare un po' di chiasso fra di noi. Son forastier, mi raccomando a voi. ORSOLA Zorzi vienstu dessuso? ZORZETTO Siora sì. ORSOLA Vien, che t'ho da parlar, vien su, fio mio. ZORZETTO Sior'Agnese, patrona. (parte) ORSOLA El m'ha obbedio. (entra) GNESE Via, vegnìu, siora mare? Siora mare. (forte) DONNA PASQUA Chiàmistu? GNESE Vegnìu su? DONNA PASQUA Vegno, t'ho da parlar.
GNESE Vegnì, che mi me sento a laorar. (vuol ritirarsi) CAVALIERE Riverisco. (a Gnese) GNESE Patron. CAVALIERE Ragazza addio. GNESE Ghe fazzo un repeton. (entra) CAVALIERE Ditemi, un repetone Cosa vuol dir? (A DONNA Pasqua, che s'incammina verso casa e non lo sente) DONNA PASQUA Patron. CAVALIERE Ditemi, che vuol dire un repeton? DONNA PASQUA Vol dir un bel saludo. Ghe lo fazzo anca mi. CAVALIERE Quella è la figliuola vostra? DONNA PASQUA Patron sì. CAVALIERE È una giovin di garbo. DONNA PASQUA No se sàlo? L'ho fatta mi. CAVALIERE Come le piace il ballo? DONNA PASQUA Cossa dìselo? CAVALIERE Dico, Se le piace ballar. DONNA PASQUA Caspita! e come!
Co la fa le furlane La par una saeta: I ghe dixe la bela furlaneta. CAVALIERE Vo' che balliamo dunque. DONNA PASQUA O sì, sì, caro sior, E anca mi co ghe son, me fazzo onor. CAVALIERE Ballerete con me? DONNA PASQUA L'è tanto belo! No vòi balar con altri, che con elo. (entra in casa)
SCENA UNDICESIMA
Il CAVALIERE, poi GASPARINA
CAVALIERE Oh, son pure obbligato A chi un sì bell'alloggio mi ha trovato. Nol cambierei con un palazzo augusto: Ci ho con gente simil tutto il mio gusto. GASPARINA Che el diga quel che el vol zto mio zior barba. Lu coi libri el zavaria, E mi voggio chiappar un poco de aria. Anderò da mia zantola, Che zè poco lontana. CAVALIERE (Ecco la giovine, Che ho veduto da prima). GASPARINA (Oh vèlo qua quel zior). CAVALIERE (Mi par bellissima). Servitore di lei. GASPARINA Zerva umilizzima. CAVALIERE (Che vezzoso parlar!).
GASPARINA (Voggio in caza tornar). (s'accosta alla casa) CAVALIERE Rigorosissima Meco siete così? GASPARINA Zerva umilizzima. CAVALIERE Io sono un cavaliere, Egli è ver, forastiere; Ma per le donne ho sentimenti onesti. GASPARINA (Oh, che i me piaze tanto zti foresti). CAVALIERE Bramo, se fia possibile, Di servirvi l'onore, e in me vedrete Esser per voi la servitù onestissima. Aggraditela almen. GASPARINA Zerva umilizzima. CAVALIERE Lasciam le cirimonie, favorite. Siete zitella? GASPARINA No lo zo dazzeno. CAVALIERE Nol sapete? tal cosa io non comprendo. GASPARINA Zto nome de zitella io non l'intendo. CAVALIERE Fanciulla voglio dir. GASPARINA No zo capirla. Ze zon puta?
CAVALIERE Così. GASPARINA Per obbedirla. CAVALIERE Troppo gentile! Avete genitori? GASPARINA No l'intende n'è vero, Troppo el noztro parlar? CAVALIERE Così e così. GASPARINA Me zaverò zpiegar. CAVALIERE Avete genitori? GASPARINA Mio padre zono morto, E la mia genitrice ancora ezza. M'intendela? CAVALIERE Bravissima, Voi parlate assai ben. GASPARINA Zerva umilizzima. CAVALIERE Ma chi avete con voi? GASPARINA Tengo, zignore, Un altro genitore. CAVALIERE Un altro padre? GASPARINA Oh zior no; cozza dizelo? Gh'ho un barba. CAVALIERE La barba? GASPARINA Adezzo, che ghe penza: un zio,
Che zè quel che comanda, e zta con io. CAVALIERE Ora capisco; brava. Ma questo zio non vi marita ancora? GASPARINA Zono un poco a bonora. CAVALIERE È ver, voi siete Ancora giovinissima, Ma graziosa però. GASPARINA Zerva umilizzima. CAVALIERE Voi avete, una grazia, che innamora. GASPARINA Zèlo più ztà a Venezia? CAVALIERE Questa è la prima volta. GASPARINA El vederà Ze ghe zè del bon gusto in zta città. CAVALIERE Lo capisco da voi. GASPARINA No fo per dire, Ma pozzo comparire. Me capìzzela? CAVALIERE Sì che vi capisco. GASPARINA Quando, ch'io voggio, zo parlar toscana, Che no par, che zia gnanca veneziana. CAVALIERE Avete una pronuncia, che è dolcissima.
Voi parlate assai bene. GASPARINA Obbligatizzima. CAVALIERE E quell'aria! GASPARINA La diga, m'àlo vizto A caminar? CAVALIERE Un poco, Fatemi la finezza, Voi eggiate, che a vedervi io resto. GASPARINA Vedela, zior forezto? Una volta ze andava Cuzzì, cuzzì, cuzzì. Adesso ze va via Cuzzì, cuzzì, cuzzì. CAVALIERE Brava in ogni maniera. GASPARINA Vago da ziora zantola. CAVALIERE Vi servo, se degnate Quella, ch'io vi offro, servitù umilissima. GASPARINA Li zono obbligatizzima. No voggio, che el zignor venga con io, Perché ho paura del zior barba zio. CAVALIERE Egli qui non vi vede, e non sa nulla.
GASPARINA Una puta fanziulla Deve ancor non veduta Aricordarzi, che è fanciulla, e puta. CAVALIERE Non volete onorarmi? GASPARINA La prego dizpenzarmi. CAVALIERE Ritornerete presto? GASPARINA Ritornerò a diznare. M'intende? CAVALIERE Sì, capisco, Ritornerete a pranzo. GASPARINA Zì, a pranzare. CAVALIERE Non mi private della grazia vostra. GASPARINA Ella è padrone della grazia noztra. CAVALIERE Andate pur, non vi trattengo più. GASPARINA Zerva. (s'inchina) CAVALIERE Madamigella. (s'inchina) GASPARINA Addio, monzù. (partono da varie parti)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Donna CATTE e ANGIOLETTO escono di casa
DONNA CATTE Vegnì con mi, fio mio. Parleremo tra mi, e vu, Che Lucietta no senta. ANZOLETTO Comandè. DONNA CATTE Sta puta ve vol ben, vu vegnì qua; Sè anca vu inamorà; Tempo avè tiolto de sposarla un ano, A farlo ancuo no se ve pol sforzar; Ma mi la guardia no ghe vòi più far. ANZOLETTO Cossa mo voleu dir? DONNA CATTE Vòi dir, fio mio, Che za, che no volè sposarla adesso, No vegnì cusì spesso. ANZOLETTO Cara siora, La sposeria, ma no se pol gnancora. Se aspetterè, che metta
Suso una botteghetta Come presto de far me proverò, Subito vostra fia la sposerò! DONNA CATTE Mi no digo, che el fè, co no podè; Ma intanto slontanève. ANZOLETTO Co sto parlar me fè vegnir la freve. No voria, che ghe fusse Sotto qualcossa. DONNA CATTE No dasseno, fio. Anca mi mio mario El me fava aspettar, nol la feniva; E mia madona mare, Me la recordo ancora, La gh'ha dito: sior Boldo, o drento, o fora. ANZOLETTO Lassè, che ve prometto De far più presto, che se poderà. DONNA CATTE Ma intanto mi no vòi, che vegnì qua. ANZOLETTO Mo perché, cara siora? DONNA CATTE Ve l'ho dito, No ghe vòi far la guardia. ANZOLETTO Xèla stà gran fadiga a star con nu
Tre, o quattro ore al dì? DONNA CATTE Prima de tutto ve dirò de sì; E po gh'è un'altra cossa, Che no la voggio dir. ANZOLETTO Sì ben, sì ben, me saverò chiarir. DONNA CATTE Cossa sospettereu? ANZOLETTO Che gh'abbiè voggia De darla a qualchedun. DONNA CATTE No, la mia zoggia. Ve dirò, per chiarirve; caro fio, Son vedua, no son vecchia, Anca a mi de le volte Me salta i schiribizzi... No posso far la guardia a do novizzi. ANZOLETTO Squasi me fè da rider. DONNA CATTE Mo per cossa rideu? Perché ho dito cusì me minchioneu? Povero sporco, se savessi tuto! Ma no ve voggio dir, perché sè puto. ANZOLETTO Maridève anca vu. DONNA CATTE Za ho stabilio;
Co ho destrigà sta puta. ANZOLETTO V'ho capio. Presto, presto voressi destrigarve, Per voggia, che gh'avè de maridarve. DONNA CATTE O per questa, o per quela Mi ve la digo schieta, Qua no vegnì, se no sposè Lucieta. ANZOLETTO No voria co le scattole Zirar per la città, quando la sposo. DONNA CATTE Oe saressi zeloso? Ca de diana de dia, Mi ve dago una fia ben arlevada, Che la podè menar in t'un'armada. ANZOLETTO Ma quel poco de dota, Che avè dito de darme? DONNA CATTE Vederò de inzegnarme, Ghe darò i so manini, el so cordon, Un letto belo, e bon coi so ninzioi, E quattro paneseli per i fioi. ANZOLETTO Quattro soli? no ghe n'avè de pì? DONNA CATTE Ghe n'ho, ma i altri i vòi salvar per mi.
ANZOLETTO Oh che cara donetta, che vu sè. DONNA CATTE Sior sì, cusì la xè. Ghe darò do vestine, e tre carpette Una vesta, un zendà, che xè bonetto, Tutto el so bisognetto; E po, come xè stadi i nostri pati, Mi ve darò a la man diexe ducati. ANZOLETTO I gh'aveu mo sti bezzi? DONNA CATTE No li gh'ho Ma presto i troverò. Se vago co la puta in do, o tre case, Che ne faremo più de vinti. ANZOLETTO Piase? Volè menarla a torzìo? Questo po no, sorela. DONNA CATTE Cossa credeu, che i li darà per ela? Per mi, vedè, per mi, che se savessi, Gh'ho più de un protetor; E co i me vede, i me darave el cuor. ANZOLETTO (Orsù, ghe voggio ben, e co sta vecchia No la me par segura,
Tòrghela da le man voggio a dretura). DONNA CATTE Cusì, sior Anzoleto, Diseu de sì, o de no? ANZOLETTO Anca ancuo, se volè, la sposerò. DONNA CATTE Mi ve la dago subito. Lucieta. (chiama)
SCENA SECONDA
LUCIETTA di dentro e detti
LUCIETTA Siora. (di dentro) ANZOLETTO Aspettè un tantin. No gh'el dixè gnancora. DONNA CATTE Mo perché? ANZOLETTO Cara siora, lassè Che fassa i fatti mii, la 'l saverà. Vòi comprarghe un anelo. LUCIETTA Aveu chiamà? (esce di fuori) DONNA CATTE Lucietta, me consolo. LUCIETTA De cossa? ANZOLETTO Mo tasè. (piano a donna Catte) DONNA CATTE De gnente. LUCIETTA Dime, cossa gh'è, Anzoletto? ANZOLETTO Gnente, gnente, fia mia. DONNA CATTE Vàrdalo in ciera. LUCIETTA Mo cossa gh'è?
DONNA CATTE Ti el saverà stassera. ANZOLETTO (No la pol tàser). LUCIETTA Via, disème tutto. DONNA CATTE Che ghel diga? (ad Anzoletto) ANZOLETTO Tasè. (a donna Catte) DONNA CATTE Mo se no posso, Se no me lassè dir, me vien el gosso. LUCIETTA Son curiosa dasseno. ANZOLETTO Via parlè. Dixè quel che volè. Vago a tòr quel servizio. LUCIETTA Ti va via? ANZOLETTO Vago, ma tornerò. Cara culìa! (parte)
SCENA TERZA
LUCIETTA e donna CATTE
LUCIETTA Siora mare, contème. DONNA CATTE Oe, sta aliegra, fia mia. Ancuo, col torna, el vol sposarte. LUCIETTA Eh via! DONNA CATTE Ma mi ho fatto pulito. Gh'àstu gusto? LUCIETTA E la sartora no m'ha fatto el busto. DONNA CATTE Eh che quel, che ti gh'ha; xè bon, e belo. LUCIETTA Dov'èlo andà Anzoletto? DONNA CATTE A tiòr l'anelo. LUCIETTA Dasseno? DONNA CATTE Sì te digo. LUCIETTA Gnese. (chiama) DONNA CATTE Tasi; No ghe lo dir gnancora.
SCENA QUARTA
GNESE e dette
GNESE Chiameu? (di dentro) LUCIETTA Sì, vegnì fuora. DONNA CATTE Tasi, no ghe lo dir. LUCIETTA Perché? DONNA CATTE Chi sa? el se poderia pentir. LUCIETTA Me fè cascar el cuor. DONNA CATTE Ma se el gh'ha de l'amor, el lo farà. GNESE Cossa voleu? son qua. (sull'altana) DONNA CATTE Cossa mo ghe dirastu? (a Lucietta) LUCIETTA Gnente, gnente, giustèmola. Voleu vegnir da basso A ziogar a la sémola? GNESE Magari! Se mia mare volesse. LUCIETTA Vegnì zo. GNESE Se la vien anca ela, vegnirò. (entra)
LUCIETTA Tolémio el taolin? (a donna Catte) DONNA CATTE Quel, che ti vol. LUCIETTA Se consolémo un pochetin al sol. DONNA CATTE Mi vardo, che ti gh'abbi Sta voggia de zogar. LUCIETTA Per cossa? DONNA CATTE Perché ancuo ti ha da sposar. LUCIETTA Giusto per questo stago allegramente. (va in casa) DONNA CATTE Oh, se cognosse, che la xè inocente! (va in casa)
SCENA QUINTA
DONNA PASQUA e GNESE; poi ZORZETTO, poi LUCIETTA E donna CATTE
DONNA PASQUA Dove xèle? GNESE Lucietta. (chiama forte) LUCIETTA Vegno, vegno. (di dentro) GNESE Son qua, se me volè. DONNA PASQUA Dove xèla la sémola? (forte) LUCIETTA Aspettè. (di dentro) ZORZETTO Se se zoga a la sémola, Vòi zogar anca mi. (di casa) DONNA PASQUA Sì, sì, fio mio, ti zogherà anca ti. Fèghe ciera a Zorzetto. (a Gnese) Ti sa quel, che t'ho dito: De qua a do anni el sarà to mario. Mo vien qua, caro fio; Vien arente de nu. GNESE Giusto mo adesso no lo vardo più. ZORZETTO Son qua; dove se zioga?
DONNA PASQUA T'ala dito to mare? ZORZETTO La m'ha dito, E la m'ha consolà. Sioria novizza. (a Gnese) GNESE Oh matto inspirità! (sorridendo) (Lucietta e donna Catte portano il tavolino colla sémola) LUCIETTA Semo qua, semo qua. DONNA CATTE Vòi contentarla. LUCIETTA Gh'èla to mare? (a Zorzetto) ZORZETTO Sì. LUCIETTA Voggio chiamarla. Sior'Orsola! (chiama)
SCENA SESTA
ORSOLA di casa, e detti
ORSOLA Chiameu? LUCIETTA Vegnì anca vu, vegnì a zogar; voleu? ZORZETTO Sì, cara siora mare. ORSOLA Perché no? DONNA PASQUA Semo qua in compagnia. ORSOLA Ben ziogherò. LUCIETTA Un soldeto per omo. DONNA PASQUA Via, salùdela. (a Gnese) GNESE Patrona. ORSOLA Bondì, Gnese. Cossa gh'àla? (piano a donna Pasqua) Gh'aveu dito? DONNA PASQUA Gh'ho dito. ORSOLA La vien rossa. DONNA PASQUA La xè contenta; ma no la se ossa. LUCIETTA (Oe siora mare, cossa gh'è de niovo In tra Gnese, e Zorzetto?). (a donna Catte)
DONNA CATTE (Credo, che i sia novizzi). LUCIETTA (Vara, che stropoletto!). GNESE Zoghemio? LUCIETTA Mettè suso; (mette il soldo nella sémola) Questo xè el mio. GNESE Anca mi. ORSOLA Questi qua xè do soldi. Anca per ti. DONNA PASQUA Gnese, imprèsteme un soldo. GNESE Oh, oh! varè! No la gh'ha mai un bezzo. Via, tolè. LUCIETTA Siora mare, metteu? DONNA CATTE Metterò, aspetta. (tira fuori uno straccio) ZORZETTO La gh'ha i bezzi zolai co la pezzetta! DONNA CATTE Fazzo per no li perder. Tolè el soldo. LUCIETTA Zoghemo, e no criemo. ORSOLA Per mi, no parlo mai. LUCIETTA Presto, missiemo. (mescola ma sémola) ORSOLA Vòi missiar anca mi. LUCIETTA Mo za, se sa; No la xè mai contenta. ZORZETTO Voggio darghe anca mi una missiadina.
LUCIETTA E missieremo fina domattina. GNESE Via basta, femo i mucchi. (mette le mani nella sémola) LUCIETTA I mucchi i vòi far mi. (fa alcuni mucchi colla sémola) ORSOLA Eh, che no savè far. Se fa cusì. LUCIETTA Oh, siora no, no voggio, Che m'insporchè la sémola de oggio. ORSOLA Gh'ho le man nete più de vu patrona. DONNA PASQUA Zitto. Li farò mi. LUCIETTA Via, la più vecchia. ORSOLA La più vecchia, sì ben. DONNA PASQUA Povere matte! Mi la più vecchia? tocca a donna Catte. DONNA CATTE Vecchia cottecchia! DONNA PASQUA Cossa? GNESE Gnente. DONNA PASQUA No v'ho capio. ORSOLA A monte, a monte; fali ti, fio mio. (a Zorzetto) ZORZETTO Ve contenteu? (poi va facendo i monti) LUCIETTA Provève, Quelo xè tropo picolo. Quelo xè tropo grosso.
ZORZETTO No ve contentè mai. LUCIETTA Fèli più destaccai. ZORZETTO Tolè, i xè fatti. LUCIETTA Questo mi. ORSOLA Lo vòi mi. DONNA CATTE Via, femo i patti. LUCIETTA Aspettè, che cusì Nissun più crierà. Tolemo suso per rason d'età. GNESE Ben, ben, mi sarò l'ultima. LUCIETTA No gh'è gran diferenza tra de nu. DONNA PASQUA Donna Catte, a zernir ve tocca a vu. DONNA CATTE Oh, ve cedo, sorela. DONNA PASQUA Come! DONNA CATTE Ve cedo de dies'ani, e più. DONNA PASQUA Povera vecchia fiappa. LUCIETTA Via, via, femo cusì: chi chiappa, chiappa. (ognuna prende il suo monte, e vi cerca dentro il soldo) DONNA CATTE Oe mi no trovo gnente. GNESE Ghe n'è uno. Un altro. Oe, altri do.
ORSOLA Brava dasseno. LUCIETTA Quatro da vostra posta? Sì, sì, sior Zorzi, l'avè fato a posta. A monte, no ghe stago. GNESE Se volè i quatro soldi, mi ve i dago. LUCIETTA, DONNA CATTE Siora sì, siora sì. DONNA PASQUA, ORSOLA, ZORZETTO Siora no, siora no.
SCENA SETTIMA
FABRIZIO con un libro in mano sul poggiolo, e detti.
FABRIZIO Che cos'è questo strepito? Zito, per carità. LUCIETTA Oh, oh, in campielo no se pol zogar? FABRIZIO Giocate, se volete, Senza metter sossopra la contrada. LUCIETTA Nu altre semo in strada. Volemo far quel, che volemo nu. ORSOLA E volemo zigar anca de più. FABRIZIO Vi farò mandar via. LUCIETTA Certo! seguro! Zoghemo da recao. ORSOLA Tolè sto palpagnacco. LUCIETTA Tolè sto canelao. GNESE Torno a missiar i bezzi. ORSOLA, DONNA PASQUA, ZORZETTO Siora no, siora no. FABRIZIO Ma cospetto di bacco!
Questa è troppa insolenza. Perderò la pazienza come va. LUCIETTA Volemo zogar, volemo star qua. Volemo zogar, volemo star qua. (cantando e ballando in faccia a Fabrizio) FABRIZIO O state zitte, o mi farò stimar. ORSOLA Volemo star qua, volemo zigar. Volemo star qua, volemo zigar. FABRIZIO Voi non mi conoscete. So io quel, che farò. TUTTI Oh oh oh oh. (ridendo forte) FABRIZIO Ad un uomo d'onor così si fa? TUTTI Ah ah ah. (ridendo forte) FABRIZIO Tacer non sanno chi le taglia in fette. TUTTI Ah ah ah ah ah ah. (ridendo forte) FABRIZIO Che siate maledette. (getta il libro sul tavolino, e fa saltare la sémola, e parte) TUTTI (gridano; s'infuriano a cercar i soldi; va parte della sémola in terra; cercando se vi è soldi in terra, gridando e prendendosela dalle mani)
SCENA OTTAVA
Il CAVALIERE da una parte, ANZOLETTO dall'altra; e detti
CAVALIER FABRIZIO, ANZOLETTO (vanno dicendo: Zitto zitto, e le acchetano) LUCIETTA Oe, tre ghe n'ho trovà. ORSOLA E mi do. ZORZETTO E mi uno. LUCIETTA Mi son stada valente. GNESE E mi, gramazza, no m'ha toccà gnente. CAVALIERE Ma cosa mai è stato? Che è accaduto di male? LUCIETTA Gnente affatto. Se zogava a la sémola. CAVALIERE Che diavolo di gioco! Credea, che andasse la contrada a foco. LUCIETTA Anzoletto, tre soldi. ANZOLETTO Brava, brava! Sempre in strada a zogar? LUCIETTA Oh via per questo me voreu criar?
ANZOLETTO Basta; la xè fenia. LUCIETTA L'àstu portà? ANZOLETTO Cossa? LUCIETTA L'anelo. ANZOLETTO Oh, donca lo savè. LUCIETTA Lo so, seguro, che lo so. ANZOLETTO Vardè. LUCIETTA Oh belo! Siora mare. GNESE Cossa gh'àlo portà? (a donna Pasqua) DONNA PASQUA No ghe vedo. GNESE Sior'Orsola, Cossa gh'àlo portà? (piano) ORSOLA L'anelo. GNESE Sì? ORSOLA Tasi, fia mia, ti el gh'averà anca ti. GNESE Quando? ORSOLA Co sarà tempo. GNESE Ma quando? ORSOLA Co mio fio Sarà vostro mario. GNESE (si volta per vergogna)
DONNA PASQUA Cossa gh'àla mia fia? (a Orsola) ORSOLA La se vergogna. DONNA PASQUA Via, no te far nasar, che no bisogna. (a Gnese) LUCIETTA Gnese. (le mostra l'anello) GNESE Me ne consolo. CAVALIERE Mi lasciate così negletto, e solo? ANZOLETTO Cossa gh'ìntrelo elo? CAVALIERE Galantuomo, Io sono un onest'uomo; Non intendo sturbar la vostra pace. Son buon amico, e l'allegria mi piace. LUCIETTA (Oe disè, siora mare, Se Anzoletto el volesse per compare!). DONNA CATTE Magari! aspetta mi. Zenero. (a Anzoletto) ANZOLETTO Me chiameu? DONNA CATTE El compare el gh'aveu? ANZOLETTO Mi no, no l'ho trovà. DONNA CATTE Doveressimo tòr quel, che xè là. ANZOLETTO Mo, se no so chi el sia. DONNA CATTE N'importa, za el va via;
Fenio sto carneval, No lo vedemo più. ANZOLETTO No disè mal. Cusì, quando le nozze xè fenie, No gh'averò el compare per i piè. DONNA CATTE Che ghel diga? ANZOLETTO Disèghelo. DONNA CATTE L'è fatta. (piano a Lucietta) La senta, sior paron, (al Cavaliere) Ghe vòi dir do parole in t'un canton. CAVALIERE Son da voi, buona donna. (s'accosta in disparte con donna Catte) ANZOLETTO (Una gran tribia, che xè mia madonna!). ORSOLA Disè, sior Anzoletto, Quando magnemio sti confetti? LUCIETTA Presto. ORSOLA Oh, v'ho visto alla ciera. LUCIETTA N'è vero fio? (ad Anzoletto) ORSOLA Quando sposeu? LUCIETTA Stassera. DONNA PASQUA (Tolè su; donna Catte Un de sti dì la se pol maridar;
E mi ancora do anni ho da aspettar?). DONNA CATTE Puti, sto zentilomo Sarà vostro compare. CAVALIERE Sì, signori, È un onor, ch'io ricevo. ANZOLETTO Grazie. (Za me consolo, che el va via). DONNA CATTE El l'ha fatto, n'è vero? in grazia mia. GNESE Ti xè contenta, che ti gh'ha l'anelo. LUCIETTA Puti voleu, che femo un garanghelo? ANZOLETTO Sì ben, un bianco, e un brun, Tutti se tanserà tanto per un. CAVALIERE Aspettate, a bel bello. Ditemi, che vuol dire un garanghello? ANZOLETTO Ghe lo spiegherò mi. Se fa un disnar; Uno se tol l'insulto de pagar; E el se rimborsa dopo de le spese, A vinti soldi, o trenta soldi al mese. ZORZETTO E ho sentio a dir da tanti, che i xè avvezzi Aver oltre el disnar anca dei bezzi. ORSOLA Ma in sta occasion, sior Anzoletto belo, Me par, che nol ghe calza el garanghelo.
CAVALIERE Eh che andate pensando? Che state fra di voi garanghellando? Il compare son io, E a tutti il desinar lo vo' far io. LUCIETTA Bravo. ORSOLA Bravo dasseno. DONNA CATTE Vu no gh'intrè, sorela. ORSOLA Che nol me invida? La saria ben bela! CAVALIERE Tutti, tutti v'invito. ORSOLA Grazie, e nu vegniremo. GNESE Mi no ghe vòi vegnir. DONNA PASQUA Sì, che anderemo. CAVALIERE Camerier. (chiama)
SCENA NONA
SANSUGA e detti
SANSUGA La comandi. CAVALIERE Preparate Un desinar per tutti; e dite al cuoco, Che onor si faccia. SANSUGA L'anderò a avisar. LUCIETTA No, no, aspettè, che mi vòi ordenar. CAVALIERE Comandate, sposina. LUCIETTA Volemo i risi co la castradina, E dei boni capponi, e de la carne, E un rosto de vedèlo, e del salà, E del vin dolce bon, e che la vaga; E fè pulito, che el compare paga. ORSOLA E mi farò le frittole. LUCIETTA Se sa. ORSOLA Ma sior compare me le pagherà. SANSUGA Xèla contenta de sto bel disnar? (al Cavaliere)
CAVALIERE Io lascio far a loro. SANSUGA No la xè Roba da pari soi. CAVALIERE Se non importa a me, che importa a voi? DONNA CATTE Che ghe sia del pan tondo. SANSUGA El ghe sarà. DONNA PASQUA Fène de la manestra in quantità. ORSOLA Del figà de vedèlo. ANZOLETTO Una lengua salada. ZORZETTO Quattro fette rostìe de sopressada. DONNA CATTE De le cervele tenere. ORSOLA Bisogna sodisfarne. SANSUGA Deboto è più la zonta della carne. (parte)
SCENA DECIMA
GASPARINA e detti
GASPARINA Cozza zè zto zuzzuro. CAVALIERE Oh madamina! LUCIETTA No savè, Gasparina? Son novizza, disnemo in compagnia. CAVALIERE Favorite voi pur per cortesia. GASPARINA Oh no pozzo dazzeno; Ella za, zignor mio, Che ziamo dipendente da mio zio. LUCIETTA Cossa dìsela? GASPARINA Zente? Grame! no le capizze gnente, gnente. CAVALIERE Verrò, se mi è permesso, Seco a parlare, e ad invitar lui stesso. GASPARINA La vol vegnir de zu? CAVALIERE Si può, madamigella? GASPARINA Uì, monzù.
LUCIETTA Oh cara! ORSOLA Oh che te pustu! CAVALIERE Gradisco assai l'esibizion cortese. GASPARINA Done, dizè, no l'intendè el franzeze? ORSOLA Caspita! siora sì. LUCIETTA Oh, lo so dir uì. (caricato) GASPARINA La zenta, zior monzù: (La prego dezpenzarme; Perché mi con cuztie no vòi zbazzarme). CAVALIERE Mi spiacerebbe assai. LUCIETTA (Oe, procuremo Che la vegna con nu, che rideremo). (a Orsola) ORSOLA (Sì ben, sì ben). Via, siora Gasparina, No semo degne de disnar con vu; Ma fè sta grazia, vegnì via con nu. GASPARINA Ze potezzi, verrei. Non vengo zola. LUCIETTA Via, che ve metteremo in cao de tola. GASPARINA Ve ringrazio dazzeno. Zerto, che ze vegnizze, L'ultimo logo no zarave el mio; Ma no pozzo vegnir zenza el zior zio.
Vol dir barba, zavè. LUCIETTA Veh! mi credeva, Che parlessi de un fior, in verità. GASPARINA (Povere zenza zezto, no le za). ORSOLA (Anca ti, Gnese dighe, che la vegna). (a Gnese) GNESE Via, vegnì; andemo tutte. GASPARINA Zta beno in caza le fanciulle pute. CAVALIERE Non si conclude nulla. GASPARINA Dizè, zaveu cozza vol dir fanciulla? GNESE Mi no lo so, sorela. GASPARINA Oe, zior monzù, la ghe lo zpiega ela.
SCENA UNDICESIMA
FABRIZIO e detti
GASPARINA Ecco zior barba zio. CAVALIERE Servitore divoto. FABRIZIO Padron mio. Cosa si fa qui in strada? GASPARINA Via, che el taza. Me faralo nazar? FABRIZIO Subito in casa. (a Gasparina) CAVALIERE Fate torto, signore, Alla nipote vostra, ch'è onestissima. FABRIZIO Non vel fate più dir. (a Gasparina) GASPARINA Zerva umilizzima. (al Cavaliere) FABRIZIO Via. (caricandola) GASPARINA La zcuzi. (al Cavaliere) CAVALIERE Mi spiace. GASPARINA Ghe zon zerva. FABRIZIO Un po' più. (caricandola)
CAVALIERE Servo, madamigella. GASPARINA Addio, monzù. (entra in causa) FABRIZIO Il suo genio bizarro, ora mi è noto. CAVALIERE Favorite, signor... FABRIZIO Schiavo divoto. E voi, donne insolenti... LUCIETTA Coss'è sto strappazzarne? ORSOLA Sto dirne villania? TUTTI Vardè, dixè, sentì. FABRIZIO No, vado via. TUTTI (ridono) CAVALIERE S'ella non può venir, non so, che fare. Andiamo a desinare; Io cercherò di rivederla poi; Andiamo intanto, e mangieremo noi. (entra in locanda) ORSOLA Vien via, Zorzetto; daghe man a Gnese. GNESE Anderò da mia posta. (entra in locanda) ZORZETTO Sempre cusì la fa. (entra in locanda) ORSOLA Tasi, che un dì la man la te darà. (entra in locanda con Zorzetto) DONNA PASQUA Vegno anca mi a disnar, Che magnada de risi, che vòi dar! (entra in locanda)
DONNA CATTE Andemo, puti, andemo. Quanto più volentiera Anderave anca mi Con un novizzo da vesin cusì! (entra in locanda) ANZOLETTO Andemo pur ancuo, femo a la granda; Ma no vòi più compari, né locanda. (entra in locanda) LUCIETTA Aspettème, Anzoletto. Ah, sento proprio, che el mio cuor s'impizza; Alliegra magnerò, che son novizza. (entra in locanda)
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Il CAVALIERE esce di locanda senza cappello e senza spada
CAVALIERE Io non ne posso più, confesso il vero, Non ho goduto mai una giornata Allegra come questa; Ma non resisto più, mi duol la testa. Che gridi! che rumore! Che brindisi sguaiati; Credo sian più di mezzi ubbriacati. Vo' prendere un po' d'aria, e vo' frattanto, Che il zio di Gasparina Mi venga a render conto Del trattamento suo, ch'è un mezzo affronto. Oggi la testa calda ho anch'io non poco, Se mi stuzzica niente, io prendo foco. Oh di casa!
SCENA SECONDA
GASPARINA sul poggiuolo, ed il suddetto
GASPARINA (viene sul poggiuolo) CAVALIERE Signora. (salutandola) GASPARINA Mo cozza vorlo? el vaga via in bon'ora. CAVALIERE Domando il signor zio. GASPARINA Oh ze el zavezze! CAVALIERE Ditemi, cosa è stato? GASPARINA No ghe pozzo parlar. Zon zfortunada. CAVALIERE Dite allo zio, che favorisca in strada. GASPARINA El m'ha dito cuzzì... CAVALIERE Non vi esponete A un insulto novel per causa mia. Ritiratevi pur. GASPARINA Oh, vago via. (in atto di ritirarsi, poi torna) La zenta, voggio dir zta cozza zola. Zior, el m'ha dito una brutta parola. CAVALIERE E che cosa vi ha detto?
GASPARINA No vorave, Che el me zentizze. Vago via. (come sopra) CAVALIERE Sì, brava. GASPARINA Oe, la zenta, el m'ha dito: “ziete ziocca”. Cozza vol dir? CAVALIERE Stolta vuol dire, alocca. Ma andate via, che non vi trovi qui. GASPARINA Oh che caro zior barba! alocca a mi? I dirà, che el zè matto, Ze a dir zte cozze el ze farà zentir. Ze de mi tutti no ghe n'ha che dir! Che el ghe ne trova un'altra Zovene in zto paeze, Che capizza el Tozcano, e anca el Franzeze. Che el ghe ne trova un'altra, co fa mi, Che ztaga notte, e dì coi libri in man, E che zappia i romanzi a menadeo. Co zento una canzon, l'imparo zubito; Co vago a una commedia, Zubito che l'ho vizta, Zo giudicar, ze la zè bona, o trizta;
E quando la me par cattiva a mi, Bizogna certo, che la zia cuzì! CAVALIERE Signora, vostro zio. GASPARINA No zon de quele, Che troppo gh'abbia piazzo a laorar; Ma me piaze ztudiar, e ze vien fora Zotto el Reloggio qualche bella iztoria, Zubito, in verità, la zo a memoria.
SCENA TERZA
FABRIZIO di casa, e detti
FABRIZIO (esce, e saluta il Cavaliere senza parlare) CAVALIERE Servitor suo. (salutando Fabrizio) GASPARINA Zerva, zior Cavalier, Me lazzelo cuzì? (credendo esser ella salutata) FABRIZIO La riverisco. (a Gasperina, facendosi vedere) GASPARINA Oh poveretta mi! (parte) FABRIZIO Signor, parmi l'ardire un po' soverchio. CAVALIERE Son venuto per voi. FABRIZIO Che vuol da' fatti miei? CAVALIERE Non si tratta così coi pari miei. FABRIZIO Non vi conosco, ma qualunque siate Saprete bene, che l'onor consiglia Di custodir con gelosia una figlia. CAVALIERE Io non l'insulto, e poi Non è una gran signora. FABRIZIO Chi ella si sia, voi non sapete ancora.
CAVALIERE Chi è sono informato, So, che in misero stato è la famiglia, E che alla fin di un bottegaio è figlia. FABRIZIO È ver, che mio fratello, Per ragion d'un duello, Da Napoli è fuggito, E in Venezia arrivato, Con femmina inegual si è maritato; Misero, fu costretto a far mestiere; Povero nacque, è ver, ma cavaliere. CAVALIERE Siete napoletani? FABRIZIO Sì signore. FABRIZIO Son di Napoli anch'io; Noto vi sarà forse il nome mio. FABRIZIO Dar si potrebbe. CAVALIERE Io sono Il cavaliere Astolfi. FABRIZIO Vi domando perdono Se il mio dovere non ho fatto in prima; Ebbi pel padre vostro della stima. CAVALIERE Lo saprete, ch'è morto.
FABRIZIO Il so pur troppo; E so, deh compatitemi Se parlovi sincero, Che voi vi siete rovinato. CAVALIERE È vero. Son tre anni, che giro per il mondo, Ed è la borsa mia ridotta al fondo. FABRIZIO Che pensate di far? CAVALIERE Non so; l'entrate Son per altri due anni ipotecate. FABRIZIO Compatite, signore, Questa non è la via. CAVALIERE Non mi parlate di malinconia. Per questi quattro giorni Di carnevale ho del denar, che basta. FABRIZIO Quando terminerà? CAVALIERE Non vo' pensar; quel che sarà, sarà. Voi come vi chiamate? FABRIZIO Fabrizio dei Ritorti. CAVALIERE Oh oh aspettate, Siete voi quel Fabrizio,
Ch'era in paese in povertà ridotto, E che ricco si è fatto con il lotto? FABRIZIO Ricco no; ma son quel che ha guadagnato, Tanto, che basta a migliorar lo stato. CAVALIERE Avrete del denaro. FABRIZIO Ho una nipote, Che abbisogna di dote. CAVALIERE Quanto le destinate? FABRIZIO Se troverà marito, Darò più, darò men giusta al partito. CAVALIERE Ella lo sa? FABRIZIO Non ne sa niente ancora. Conoscerla ho voluto, esaminarla; Ma presto, se si può, vuo' maritarla. CAVALIERE (Se avesse buona dote, Quasi mi esibirei Per aggiustare gl'interessi miei). FABRIZIO (Tre, o quattromila scudi, E anche più, se conviene, Io sborserei per colocarla bene). CAVALIERE A chi vorreste darla?
FABRIZIO Le occasioni Ancor non son venute.
SCENA QUARTA
LUCIETTA, ANZOLETTO, donna CATTE, donna PASQUA, ORSOLA, GNESE, ZORZETTO sulla loggia della locanda, e detti
LUCIETTA Oe, sior compare, alla vostra salute. (beve col bicchiere) CAVALIERE Evviva. FABRIZIO Con licenza. (al Cavaliere) CAVALIERE Dove andate? FABRIZIO Fuggo da queste donne indiavolate. (parte, e va in casa) LUCIETTA Mo cossa falo, che nol vien dessù? DONNA CATTE Ho magnà tanto, che no posso più. CAVALIERE Animo, buona gente, Bevete allegramente. DONNA PASQUA Via bevemo. LUCIETTA Sior compare, ghe 'l femo. (col bicchiere in mano) CAVALIERE Bevete pure, compagnia giuliva. DONNA PASQUA Alla salute di chi paga. TUTTI E viva. LUCIETTA Zitto, che voggio far Un bel prindese in rima.
“Co son in allegria, mi no me instizzo, Alla salute del mio bel novizzo”. TUTTI E viva, e viva. ORSOLA Anca mi, presto, presto. (col bicchiere si fa dar da bevere) ANZOLETTO Via sto poco de resto. (versa col boccale il vino ad Orsola) ORSOLA “Co sto gotto de vin, ch'è dolce, e bon, Fazzo un prindese in rima al più minchion”. TUTTI E viva, e viva. LUCIETTA Oe a chi ghe la dastu? ORSOLA Oh che gonza! No sastu? (accenna il Cavaliere) CAVALIERE Via, bravi, che si rida, e che si beva, Questo brindesi è mio, nessun mel leva. ANZOLETTO Anca mi, sior compare, “Un prindese ghe fazzo Co sto vin che gh'ho in man, Con patto, che el me staga da lontan”. CAVALIERE “Vi rispondo ancor io, compare, amico: Di star con voi non me n'importa un fico”. TUTTI E viva, e viva. DONNA PASQUA Son qua mi; patroni. Dème da béver. (ad Anzoletto)
ANZOLETTO Tolè pur vecchietta. DONNA PASQUA No me dir vecchia, razza maledetta. “E se son vecchia no son el demonio, Alla salute del bon matrimonio”. TUTTI E viva, e viva. DONNA CATTE Presto, presto a mi. (si fa dar da bere) “Senza mario mi no posso star più, Alla salute della zoventù”. TUTTI E viva, e viva. ZORZETTO Un prindese anca mi Vòi far; ve contentèu? ORSOLA Falo, falo, fio mio. ZORZETTO Via, me ne deu? (chiede da bevere ad Anzoletto) “Sto vin xè meggio assae dell'acqua riosa Alla salute de la mia morosa”. TUTTI E viva, e viva. DONNA PASQUA Via, Gnese, anca ti, Che ti xè cusì brava. ORSOLA Fàte onor! GNESE Dème da béver. (a Anzoletto) ORSOLA Fàghelo de cuor.
ZORZETTO Voggio dàrghelo mi. (leva la boccia di mano d'Anzoletto) ANZOLETTO Olà! debotto!... ZORZETTO Vardè, che sesti! LUCIETTA Tasi là, pissotto. GNESE “Co sto vin, che xè puro, e xè dolcetto Mi bevo alla salute...” DONNA PASQUA “De Zorzetto”. GNESE No, de sior Anzoletto. ZORZETTO Vardè che sesti! LUCIETTA Senti sa, pettazza Te darò una schiaffazza. ORSOLA Oe, oe, patrona? DONNA PASQUA Schiaffi, a chi scagazzera? DONNA CATTE Vecchiazza. ORSOLA Tasè là. LUCIETTA Via frittolera. TUTTI Cossa? via, tasè là; farò, dirò; Lassè star, vegnì qua, zito, sior no. (tutti insieme alternativamente dicono tai parole, e tutti entrano) CAVALIERE Dai brindesi al gridar ati sono; Questa è tutta virtù del vino buono.
Un disordine è questo, Ma se vad'io, li aggiusterò ben presto; E se non vonno intendere ragione, Da cavaliere adopero il bastone. (entra in locanda)
SCENA QUINTA
GASPERINA sul poggiuolo, poi FABRIZIO di casa
GASPARINA Mo cozza zè zto ztrepito? Mo la zè una gran cozza in zto campiello; Me par, che ziemo a caza de colù. FABRIZIO Per dispetto lo fan, non posso più. GASPARINA Dove valo, zior barba? FABRIZIO A ricercare Una casa lontana, e vuo' trovarla Innanzi domattina, Quando fosse ben anche una cantina. GASPARINA Mo zì dazzeno, che anca mi zon ztuffa. Zempre zuzzuri; zempre i fa baruffa. FABRIZIO Mi fa stupire il cavaliere Astolfi, Che di simile gente è il protettor. GASPARINA Chi zèlo zto zignor? FABRIZIO Quel, che ho veduto Fare a vossignoria più d'un saluto.
GASPARINA Lo cognozzelo? FABRIZIO Sì, è d'una famiglia Nobile assai, ma il suo poco giudizio Ha mandata la casa in precipizio. GASPARINA La me conta qualcozza. FABRIZIO In su la strada Vi parlerò? Si vede ben che avete Voi pur poca prudenza. Orsù andar voglio A proveder di casa innanzi sera. (fa qualche o) Oh, mandatemi giù la tabacchiera. GASPARINA Zubito. (entra) FABRIZIO In questo loco Parmi d'esser nel foco. Son dei mesi, Che ogni giorno si sente del fracasso, Ma non si è fatto mai così gran chiasso. E poi, e poi, cospetto! Perdere a me il rispetto? Meglio è, ch'io vada via di questa casa. GASPARINA Zon qua. (di casa, colla tabacchiera in mano) FABRIZIO Ma perché voi? (irato) GASPARINA Mo via, che
el taza. El za pur, che la zerva zè amalada. FABRIZIO Io non voglio, che voi venghiate in strada. Dal balcon si poteva buttar giù. (prende la tabacchiera con colera) GASPARINA No ghe vegnirò più. FABRIZIO La madre vi ha allevata Vil com'ella era nata, e il padre vostro Si è scordato egli pur del sangue nostro. GASPARINA Zior barba, zemio nobili? FABRIZIO Partite. GASPARINA Me zento un no zo che de nobiltà. FABRIZIO Andate via di qua; Entrate in quella casa, E non uscite più. GASPARINA Mo via, che el taza. (entra) FABRIZIO Fino che l'ho con me, non sto più bene Vuo' maritarla al primo che mi viene. (parte)
SCENA SESTA
Il CAVALIERE dalla locanda e SANSUGA
CAVALIERE L'abbiamo accomodata. SANSUGA La xè una baronata; La ghe doveva metter più spavento. CAVALIERE Io me la prendo per divertimento. Or ora scenderanno, Canteran, balleranno; E questo è il piacer mio, Veder ballare; e vuo' ballare anch'io. SANSUGA Vorla el conto? CAVALIERE Vediamo. SANSUGA Eccolo qua. (gli dà il conto) CAVALIERE Settanta lire! che bestialità! SANSUGA Ghe ne xè più de trenta De vin, ghe lo protesto; Porlo spender de manco in tutto el resto? CAVALIERE Bastano tre zecchini?
SANSUGA No vòi gnanca, Che la sia desgustada. CAVALIERE Eccoli qui. SANSUGA E po ghe xè la bona man a mi. CAVALIERE Ecco mezzo ducato. SANSUGA Obbligatissimo. CAVALIERE Siete contento ancor? SANSUGA Son contentissimo. CAVALIERE Dite che ponno ritornare a basso. SANSUGA Me par che i vegna; séntela che chiasso? (parte)
SCENA SETTIMA
Il CAVALIERE, poi GASPARINA
CAVALIERE Oh, se finisco il carnevale in bene, È un prodigio davvero. La borsa va calando; se Fabrizio Mi fe il servizio Di darmi sua nipote, Oh, mi accomodarebbe un po' di dote! Finalmente è di sangue Nobile, e se sua madre Era d'altra genia, Una dama non fu né men la mia. GASPARINA El cavalier Aztolfi. CAVALIERE Oh mia signora, Or che so il grado vostro, Di donarvi il mio cor mi son prefisso. Nobile siete, il so. GASPARINA La reverizzo. (sostenuta)
CAVALIERE Lo zio mi ha confidato, Ch'ambi siam d'una patria, e che ambi siamo Poco più, poco men... GASPARINA Già lo zappiamo. CAVALIERE Egli vuol maritarvi. GASPARINA Cozzì è. CAVALIERE Volesse il Ciel, che voi toccaste a me. GASPARINA La diga: èlo zelenza? CAVALIERE Me la sogliono dare in qualche loco. GASPARINA Che i me diga luztrizzima zè poco. CAVALIERE Titolata sarete. GASPARINA Zì dazzeno? (si sente strepito nella locanda) Cozza zè zto fracazzo? CAVALIERE Ecco la compagnia; ci ho un gusto pazzo. GASPARINA Ztar qui no ze convien a una par mio. La reverizzo. CAVALIERE Vi son servo. GASPARINA Addio. (parte)
SCENA OTTAVA
LUCIETTA, ORSOLA, GNESE, donna CATTE, donna PASQUA, ANZOLETTO, ZORZETTO. — Orbi, che vengono dalla campagna suonando, — Tutti escono dalla locanda; alcuna delle donne suona il zimbano alla veneziana; donna Pasqua cant alla villotta; ballano alcune furlane, ed anco le vecchie. Vengono altri di strada; si uniscono, e ballano con un ballo in tutti; poi come segue.
LUCIETTA No posso più; vien via con mi Anzoletto. DONNA CATTE Presto, che vaga a collegarme in letto. (parte, ed entra in casa) ANZOLETTO Seu stracca? v'averè cavà la pizza. (a Lucietta) LUCIETTA Oe, no volè che balla? son novizza. (parte, ed entra in casa) ANZOLETTO Eh, co son so mario, Sangue de diana, che la gh'ha fenio. (parte, ed entra con Lucietta) DONNA PASQUA Puti, mi no ghe vedo. GNESE Vegnì via. DONNA PASQUA Dame man, che no casca, cara fia. GNESE Andemo, vegnì qua. (dà mano a donna Pasqua) ZORZETTO Gnanca un saludo? GNESE Oh matto inspirità! ORSOLA Tasi, tasi, fio mio; no la xè usa. Ma da resto de drento la se brusa. (entra in casa)
ZORZETTO So, che la me vol ben, Per questo no me togo certi affani; Ma me despiase sto aspettar do ani. (entra in casa) CAVALIERE Schiavo di lor signori; Or che ciascuno è sazio, Non mi han detto nemmeno: vi ringrazio. (entra in locanda)
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
FABRIZIO con quattro Facchini, GASPARINA sul poggiuolo
FABRIZIO Sì, sì, venite meco. Voglio, che ci spicciamo immantinente. (ai facchini) GASPARINA Oe, zior barba, chi zè mai quela zente? FABRIZIO Questi sono i facchini. La casa ho ritrovata, E di qua innanzi sera andiamo via. GASPARINA Cuzì presto z'ha da far mazzaria? FABRIZIO Tant'è. Venite meco. (ai facchini) GASPARINA Ma, la diga. Z'ha d'andar via cuzzì? E ze la caza no me piaze a mi? FABRIZIO Credo, vi piacerà. GASPARINA Zèlo un palazzo? FABRIZIO È una casa civile. GASPARINA Gh'è riva in caza? tegniremio barca? FABRIZIO Che ne volete fare?
GASPARINA Almanco a un remo; O che zemo, zior barba, o che no zemo. FABRIZIO Son pur sazio di voi, la mia figliuola! Andiam. (ai facchini)
SCENA SECONDA
Il CAVALIERE e detti
CAVALIERE Signor Fabrizio, una parola. FABRIZIO (Ecco un altro disturbo). Che comanda? CAVALIERE Servitore di lei. (mostra salutare Fabrizio, e saluta Gasparina) FABRIZIO La riverisco. GASPARINA Gli zon zerva, zignore. FABRIZIO Ora capisco.(accorfendosi di Gasparina) Entrate in quella casa. (ai facchini, quali entrano) E voi, signora, se vi contentate A unir le robe vostre principiate. GASPARINA Zerva zua. (salutando il Cavaliere) FABRIZIO Mia padrona. CAVALIERE A voi m'inchino. FABRIZIO Un'altra volta a me? (al Cavaliere; poi s'avvede che si salutano a motti con gasparina) Bravi, me ne consolo. Subito andate via di quel poggiuolo. GASPARINA (Ze me podezze maridar!). (in atto di partire)
FABRIZIO (Bellissima!). GASPARINA (Anca me bazterave ezzer luztrizzima). (parte)
SCENA TERZA
Il CAVALIERE e FABRIZIO
FABRIZIO Quel, che mi avete a dir sollecitate. (al Cavaliere) CAVALIERE Dirò, signor; sappiate, Che mi ha ferito il cor vostra nipote. FABRIZIO Piacevi Gasperina, o la sua dote? CAVALIERE Desta il merito suo gli affetti miei. FABRIZIO (Quasi quasi davver gliela darei). CAVALIERE Voi sapete chi sono. FABRIZIO Lo so certo; So come siete nato, Ma vi siete un po' troppo rovinato. CAVALIERE È ver, ma sono stanco Di menar questa vita. Vo' moderar le spese; Vo' tornar con prudenza al mio paese. FABRIZIO Se sperar si potesse. CAVALIERE Ve lo giuro
Da cavalier d'onore. FABRIZIO Ma ditemi, signore, Come rimedierete Dei disordini vostri alla rovina? CAVALIERE Quanto date di dote a Gasperina? FABRIZIO Ecco quel, ch'i' dicea; Della dote vi cal per consumarla. CAVALIERE Su i miei beni potete assicurarla. FABRIZIO Non sono ipotecati? CAVALIERE Essere pon da voi ricuperati. Vi farò una cessione Di tutto il mio per anni dieci, e più; Dipenderò da voi, Se il vostro amor mi regge, e mi consiglia, Viverò come un figlio di famiglia. FABRIZIO Basta: vi è da pensar. CAVALIERE Non mi tenete Più lungamente a bada. FABRIZIO Concludere in istrada Quest'affare vorreste? CAVALIERE Entriamo in casa.
FABRIZIO Parleremo domani. CAVALIERE In questo punto Principiare vorrei A rinonziarvi gli interessi miei. FABRIZIO Ma! discorrer convien. CAVALIERE Ben, discorriamo. FABRIZIO (Sono fra il sì, ed il no). CAVALIERE Vi prego. FABRIZIO Andiamo. CAVALIERE (Per me strada miglior trovar non so). (entra in casa) FABRIZIO (S'egli dice davvero, io gliela do). (entra in casa)
SCENA QUARTA
LUCIETTA sull'altana, poi GNESE sull'altana, poi ORSOLA sul poggiolo.
LUCIETTA Bravi! I l'ha tirà drento. (vedendo il Cavaliere entrare da Gasperina) Gnese, Gnese. (forte chiamando) GNESE Chi chiama? LUCIETTA Oe, no ti sa? L'amigo... mio compare... GNESE Coss'è stà? LUCIETTA El xè andà dall'amiga. (accenna la casa di Gasperina) GNESE Eh via. LUCIETTA Sì anca Varenta le mie tatare Orsola.(chiama) ORSOLA Me chiameu? LUCIETTA Sentì: el foresto Xè andà da Gasperina. La se l'ha tirà in casa. ORSOLA Oh che mozzina!
LUCIETTA Oe, credeu che ghe sia Monea d'un tràiro? ORSOLA E so barba ghe xèlo? LUCIETTA Vara! se el gh'è? El ghe l'ha menà elo. ORSOLA Chiama, chiama to mare, Che ghe la vòi contar. (a Gnese) GNESE No, no gramazza, no, lassèla star. LUCIETTA Cossa gh'ala? GNESE Tasè. LUCIETTA Dòrmela ancora? GNESE El vin gh'ha fatto mal, l'ha buttà fuora. ORSOLA Ghe l'ho dito; sta vecchia La beve co fa un ludro. LUCIETTA Anca mia mare La xè là ben conzada. Oe quattro volte la me xè cascada. GNESE Dove xèla? LUCIETTA Sul letto, Che la ronchiza. ORSOLA Dove xè Anzoletto? LUCIETTA Anca elo xè qua,
In canton del fogher indromenzà ORSOLA Quando spósistu? LUCIETTA Aspetto mio zerman, E po de longo se darà la man. ORSOLA E el compare? LUCIETTA El compare xè liogà; Ma co lo chiameremo, el vegnirà. ORSOLA Sia con bona fortuna, Fia mia. LUCIETTA Cusì anca vu. ORSOLA Da qua do ani; vero Gnese? GNESE Cossa? LUCIETTA Via cossa vienstu rossa? In verità te toccherà un bon puto. ORSOLA Oe, vien da mi, che te conterò tutto. (a Lucietta) GNESE Che bisogno ghe xè, Che fè pettegolezzi? (ad Orsola) ORSOLA Oh che gran casi! No s'àla da saver? Vienstu, Lucietta? LUCIETTA Sì ben, fina, che i dorme. (entra) ORSOLA Via, da brava.
SCENA QUINTA
ORSOLA, GNESE poi LUCIETTA
GNESE Sior'Orsola, patrona. ORSOLA Me poderessi dir siora madona. GNESE Oh giusto! ORSOLA In verità Puta cara son stuffa De sti to stomeghezzi, GNESE Se me criè, mi no ve parlo più. ORSOLA Cara fia... LUCIETTA Vegno, vegno. (esce di casa correndo verso la casa di Orsola) ORSOLA Vien de su. (entra) LUCIETTA Altri do ani ghe vorà per ti. Oe, quanto pagherávistu A esser in pe de mi? (a Gnese, ed entra in casa di Orsola)
SCENA SESTA
GNESE, poi Facchini, poi ANZOLETTO
GNESE Le me fa tanta rabia! Lo tiorave Zorzetto, se podesse; Ma no voria, che nissun lo savesse. FACCHINI (escono di casa di Gasperina, con masserizie, e le portano altrove) GNESE Oe, fali massaria? Certo e seguro, che la va a star via. Se se svoda la casa, La toressimo nu. Oe, siora mare; (chiama) In sta casetta no me piase star. E po, se me marido; ma gh'è tempo. Cavallo no morir, Che bell'erba ha da vegnir. ANZOLETTO Oe disè, siora Gnese, saveu gnente Dove, che sia Lucietta? GNESE La xè andada Da sior'Orsola.
ANZOLETTO Brava, la lo sa: No vòi, che la ghe vaga, e la ghe va? Vòi, che la me la paga; e quela vecchia La ghe tende pulito a sta pettazza. Co la vien voggio darghe una schiaffazza. Ma prima co so mare Vòi dir l'anemo mio. Oe donna Catte, Desmissiève. (batte forte)
SCENA SETTIMA
Donna CATTE e detti.
DONNA CATTE Chi batte? ANZOLETTO Vegnì da basso, che v'ho da parlar. GNESE De diana el ghe vol dar Avanti gnanca, che la sia sposada? Cossa faralo co l'è maridada? DONNA CATTE Zenero, me chiameu? ANZOLETTO Cossa diavolo feu? Vu dormì co fa un zocco, e vostra fia... DONNA CATTE Oe dove xèla? ANZOLETTO La xè andada via. DONNA CATTE Dove s'àla cazzà sta scagazzera? ANZOLETTO Là da la frittolera. DONNA CATTE Via, no gh'è mal lassè, che la ghe staga. ANZOLETTO No vòi, che la ghe vaga. DONNA CATTE Oh saressi zeloso de so fio? De quel cosso scacchìo, malfatto, e bruto?
GNESE Oe, oe, sentì no strappazzè quel puto. DONNA CATTE Cossa gh'aveu paura? Che la ghe voggia ben? Vèla qua che la vien.
SCENA OTTAVA
LUCIETTA e detti
LUCIETTA Seu desmissiai? Coss'è? ti me fa el muso? Xèstu in colera fio? (a Anzoletto) ANZOLETTO Frasca. Tiò suso. (gli dà uno schiaffo) LUCIETTA Mo per cossa me dastu? (piangendo) DONNA CATTE Sior strambazzo, Alla mia putta se ghe dà un schiaffazzo? No ti è degno d'averla, No te la vogio dar. ANZOLETTO No me n'importa. DONNA CATTE Vien, vien, le mie raìse, Che no ghe xè pericolo, Che te manca mario. (piangendo) ANZOLETTO Dème l'anelo indrio. (a Lucietta) LUCIETTA Questo po no. (piangendo) DONNA CATTE Volè l'anelo indrio? Ve lo darò. (va per levar l'anello a Lucietta)
LUCIETTA Lassème star, siora. (piangendo) DONNA CATTE Furbazza! Dàmelo quel anelo. LUCIETTA No vel dago Gnanca se me coppè. DONNA CATTE El te tratta cusì E ti el tioressi ancora? LUCIETTA El voggio, siora sì. (piangendo) DONNA CATTE Oh ti meriteressi, Che el te coe. ANZOLETTO Senti, t'ho dà, perché te voggio ben. (singhiozzando) LUCIETTA Nol soggio? DONNA CATTE El xè un baron. LUCIETTA No me n'importa, el voggio. DONNA CATTE Tocco de desgrazià. ANZOLETTO Via, se sè dona, Cara siora madona, Compatìme anca mi. GNESE (Mi nol torave. Gh'averave paura). DONNA CATTE Cusì se tratta co la mia creatura?
ANZOLETTO Via, andemo. No ti vien? (a Lucietta) LUCIETTA Baron, me vustu ben? DONNA CATTE No stemo qua, che la xè una vergogna. ANZOLETTO Causa quela carogna de Zorzetto. GNESE Oe, oe, come parleu, sior Anzoletto? ANZOLETTO Parlo cusì, e disèghelo. LUCIETTA Via strambo. DONNA CATTE Via, no parlè cusì. ANZOLETTO Sanguenazzo de diana! DONNA CATTE Tasè. LUCIETTA Vien via con mi. DONNA CATTE Andemo in casa, vegnì via con nu. LUCIETTA Oe, Anzoletto, me darastu più? ANZOLETTO Se me darè occasion. LUCIETTA Mi no ve fazzo gnente, sior baron. (entra in casa) DONNA CATTE Poverazza! a bonora El me l'ha pettuffada! (entra in casa)
SCENA NONA
GNESE, poi ORSOLA e ZORZETTO
GNESE Bon pro te fazza. Povera negada! Sior'Orsola. (chiama) ORSOLA Chiameu? (sul poggiuolo) ZORZETTO (sulla porta) GNESE Aveu sentio, che scena? ORSOLA Mi no. Cossa xè stà? GNESE Ve conterò. Perché Lucietta xè vegnua da vu Un pocchettin de suso, Anzoletto ha crià, E po dopo el gh'ha dà Una man in tel muso. ORSOLA Oh tocco de baron! Chi songio mi? Cossa gh'àlo paura? Che in casa mia se fazza Urzi burzi?
GNESE Bisogna. E po a Zorzetto el gh'ha dito carogna. ZORZETTO Carogna a mi? ORSOLA Via tasi. ZORZETTO Vòi dir l'anemo mio; Che no son un pandolo. GNESE No, no ve n'impazzè Con quel scavezzacolo. ORSOLA Via, vien drento, fio mio. ZORZETTO Sì, sì (me vòi reffar). (entra) ORSOLA Anca vu de contarmelo Podevi lassar star. Cossa voleu? Che nassa un precepizio? GNESE Ve l'ho volesto dir. ORSOLA Senza giudizio. (entra) GNESE Me despiase dasseno... Siora mare, chiameu? Vegno son qua. Ghel dirò a ela la la giusterà. (entra)
SCENA DECIMA
ZORZETTO, poi donna CATTE, poi ORSOLA
ZORZETTO A mi carogna? Desgrazià, baron. (con dei sassi) Vòi trarghe in tel balcon de le pierae.(tira dei sassi nella finestra di Lucietta) DONNA CATTE Coss'è ste baronae? (sull'altana) ZORZETTO Tocco de vecchia matta, chiappa questa. (le tira un sasso) DONNA CATTE Aggiuto; una pierada in te la testa. (entra) ORSOLA Coss'è stà? cossa fastu? ZORZETTO Gnente, siora. ORSOLA Via, vien dessuso. No ti vien gnancora?
SCENA UNDICESIMA
ANZOLETTO di casa, col palosso, poi LUCIETTA, poi GNESE, poi ZORZETTO
ANZOLETTO Via, sior cagadonao. ORSOLA Zorzi! fio mio! (gridando forte sul poggiuolo) ZORZETTO (fugge in casa) ANZOLETTO Vien de fuora, baron. LUCIETTA Anzoletto, fio mio. (sull'altana) GNESE Zente, custion. (sull'altana) ANZOLETTO Baroni, mare, e fio. ORSOLA Tiò, desgrazià. (dal poggiuolo gli tira un vaso) LUCIETTA, GNESE Aggiuto! ANZOLETTO Vien de fuora, se ti è bon. (ritirandosi) ZORZETTO No gh'ho paura. (con un bastone) LUCIETTA Indrio con quel baston.
SCENA DODICESIMA
SANSUGA dalla locanda, con arma alla mano, poi il CAVALIERE, poi ORSOLA e detti.
SANSUGA Coss'è sta baronada? LUCIETTA Aggiuto! (entra) GNESE Aggiuto! CAVALIERE Coss'è questo fraccasso? GNESE Sior foresto, che la vaga da basso. (entra) ANZOLETTO El vòi mazzar. (contro Zorzetto) ZORZETTO Sta' indrio. SANSUGA Fermève, sanguenon. ORSOLA Mio fio, mio fio. (di casa , con una padella)
SCENA TREDICESIMA
LUCIETTA, poi ANZOLETTO e detti
LUCIETTA Mo vien via. (tirando Anzoletto) ORSOLA Vien in casa. (tirando Zorzetto) Lassème sto baston. (gli leva il legno) LUCIETTA Vien, se ti me vol ben. (tirando Anzoletto) ANZOLETTO Ti gh'ha rason. (verso Zorzetto, ed entra con Lucietta) ORSOLA Andè via con quell'arma. (a Sansuga) SANSUGA Sempre cusì. Vergogna. (entra in locanda) ORSOLA Va' in casa, desgrazià. (a Zorzetto) ZORZETTO Dirme carogna? (entra in casa) ORSOLA Nol temerave el diavolo, e so pare Sto giandussa; el xè fio de bona mare. (entra)
SCENA QUATTORDICESIMA
Donna PASQUA di casa, poi donna CATTE
DONNA PASQUA Se lo saveva avanti, Ca de diana de dia, Ghe ne voleva dir quattro a culìa! A quel puto carogna? DONNA CATTE E a mi, furbazzo, Romperme i veri, e trarme una pierada? A mi sta baronada? DONNA PASQUA Oe, seu qua, vecchia matta? DONNA CATTE Coss'è? Toleu le parte de colù? Se non andè via, me refferò con vu. DONNA PASQUA Vardè là, che fegura! Gnanca per questo no me fè paura. DONNA CATTE Anca sì, che debotto Ve chiappo per la petta. DONNA PASQUA Mi no farò cusì, Perché caveli non ghe n'avè pì.
DONNA CATTE Va' via, sorda. DONNA PASQUA Sdentada. DONNA CATTE Vecchiazza. DONNA PASQUA Magagnada. DONNA CATTE Vustu zogar? DONNA PASQUA Vien via. (s'attaccano) DONNA CATTE Ah! Lucietta. (chiama) DONNA PASQUA Fia mia. (chiama)
SCENA QUINDICESIMA
LUCIETTA, GNESE, ORSOLA, tutte in strada; poi ANZOLETTO e ZORZETTO
LUCIETTA Siora mare. GNESE Fermève. ORSOLA Desmettè. ANZOLETTO Lassè star mia madona. (col palosso) ZORZETTO Cossa gh'è? (col legno) LUCIETTA Aggiuto! GNESE Aggiuto! ORSOLA Aggiuto!
SCENA SEDICESIMA
Il CAVALIERE e detti
CAVALIERE Oh l'istoria va lunga. Non si finisce mai? Se non tacete, Meno giù col bastone a quanti siete. LUCIETTA I vol dar a mia mare. DONNA PASQUA La xè ela, Che xè una baruffante. ORSOLA Mi son qua per spartir. CAVALIERE State zitte dich'io. S'ha da finir. Come! in giorno di nozze Dopo tanta allegria, Si strepita così? che villania! Giù quell'arma, vi dico. (a Anzoletto) LUCIETTA Da' qua dàmela a mi. (leva il palosso a Anzoletto) (Nol lo gh'ha più). (lo porta in casa, poi torna) CAVALIERE Giù quel baston. (a Zorzetto) ORSOLA Sior sì. (leva il bastone a Zorzetto)
CAVALIERE Che diavol di vergogna! Sempre sempre gridar con questo, e quello? Maledetto campiello! LUCIETTA Mi no crio co nissun. ORSOLA No parlo mai. DONNA CATTE No la se sente gnanca la mia puta. DONNA PASQUA I ghe dise la muta. LUCIETTA Mo vu... GNESE Mo vu, patrone... LUCIETTA Cossa voressi dir? CAVALIERE Ma siate buone. Domani io vado via. E se la compagnia torna serena, Meco verrete a divertirvi a cena. DONNA CATTE Per mi no son in colera. DONNA PASQUA Pute, coss'àlo dito? ORSOLA No sentì? El n'ha dito cussì, Che se tornemo in pase Ceneremo con elo. DONNA PASQUA Sì, fia mia;
Mi no desgusto mai la compagnia. CAVALIERE Bravissime le vecchie. ORSOLA Oe, Lucietta, Gh'àstu gnente con mi? LUCIETTA Semio amighe? ORSOLA Tiò un baso. LUCIETTA Tiò anca ti. Gnese, ti cossa distu? GNESE Per mi taso. DONNA PASQUA Oe donna Catte. DONNA CATTE Donna Pasqua. DONNA PASQUA, DONNA CATTE Un baso. (si baciano) CAVALIERE E voi altri ragazzi Non vi baciate ancor? (A Zorzetto ed Anzoletto) ORSOLA Va là, Zorzetto, Dàghe un baso a Anzoletto. ANZOLETTO Che bisogno ghe xè? LUCIETTA Via, se ti me vol ben. (a Anzoletto) ANZOLETTO Sì ben. (si baciano con Zorzetto) ZORZETTO Tolè. (si baciano con Anzoletto) CAVALIERE Or, che la pace è fatta,
La cena si farà. E voglio dirvi un'altra novità. Sono lo sposo anch'io. Sposo stassera, E parto domattina. LUCIETTA La novizza chi xèla? CAVALIERE Gasperina.
SCENA DICIASSETTESIMA
GASPARINA sul poggiuolo, e detti
GASPARINA Ze podeva anca dir, Caro zior Cavalier, Che ziora Gazparina è zo muggier. LUCIETTA Brava. ORSOLA Me ne consolo. GNESE Come xèlo sto caso? LUCIETTA Vegnì da basso, che ve daga un baso. CAVALIERE Via, venite, signora, Ora più non comanda vostro zio. GASPARINA Vengo, zignor mario. (entra)
SCENA DICIOTTESIMA
FABRIZIO di casa, e detti; poi SIMONE
FABRIZIO E ver che mia nipote è vostra moglie, Ma nel vostro contratto Èvvi, signore, il patto Di dipender da me per anni dieci. Non vo, che seguitiate A gettar il danaro allegramente; E non si ha da cenar con questa gente. CAVALIERE La cena è preparata; L'ho ordinata, e pagata. Lasciatemi godere, Per cortesia, quest'ultimo piacere. FABRIZIO Pur, che l'ultimo sia, ve lo concedo. Ma io non ci verrò con questa gente Indiscreta, incivil, senza creanza. LUCIETTA Via, sior, ghe domandemo perdonanza. Quando semo in borrezzo
Gh'avemo sto defetto, Ma savemo anca nu portar respetto Oh xè qua, sior Simon. (viene Simone) Questo xè mio zerman Podemo dar la man, Quando che se contenta sior compare. CAVALIERE Fate quel, che vi pare. LUCIETTA Cossa distu, Anzoletto? ANZOLETTO Fazzo quel, che volè. DONNA CATTE Anemo via sposé. ANZOLETTO Questa xè mia muggier. LUCIETTA Questo xè mio mario. DONNA CATTE Séntime un de sti dì te vegno drio. (a Lucietta) DONNA PASQUA Uh! me viene l'acqua in bocca. GNESE Sia malignazo! e mi? ORSOLA Da qua do ani a ti. DONNA PASQUA Do anni s'ha da star? GNESE Vardè, che sesto! ORSOLA Eh, no t'indubitar, che i a presto.
SCENA DICIANNOVESIMA
GAPARINA e detti.
GASPARINA No voleva vegnir con tanta zente. CAVALIERE Venite allegramente; Siamo di carnevale, È lecito di far qualche allegria; Già domani mattina andiamo via. LUCIETTA Dove andeu, Gasparina? GASPARINA Ignorantizzima, Me poderezzi dar de la luztrizzima. Vado con mio conzorte, E col zior barba zio, Dove più conozziuta zarò io. LUCIETTA Me ne conzolo. ORSOLA Tanto zì dazzeno. CAVALIERE Animo allegramente, Andiam tutti in locanda, Che si i la notte in festa in brio;
Poi diremo diman: Venezia addio. GASPARINA Cara la mia Venezia, Me dezpiazerà certo de lazzarla; Ma prima de andar via vòi zaludarla. Bondì Venezia cara Bondì Venezia mia, Venezziani zioria. Bondì, caro Campielo, No dirò, che ti zii bruto, né belo. Ze bruto ti zè ztà, mi me dezpiaze: No zè bel quel, ch'è bel, ma quel che piaze.
- Fine -
L'AVARO
COMMEDIA
Rappresentata in Bologna da una nobilissima compagnia di Cavalieri e Dame nel 1756.
L'AUTORE A CHI LEGGE
Una Commedia di un atto solo sembrerà forse a taluno poca cosa per l'integrità del Tomo e cosa facile per un autore. Io, con buona grazia di chi ciò crede, non accordo nè l'una, nè l'altra delle sue conghietture. Rispetto all'integrità, quando una Commedia d'un atto solo ha tutte le parti che si richiedono in un simile componimento, è tanto Commedia intiera, quanto lo è Calisto e Melibea, che è composta in quindici atti. I si hanno moltissimo in uso le petites pièces, che vuol dire in italiano le picciole Commedie; picciole per la mole, non già per l'argomento, per l'intreccio e lo scioglimento. Sono utili tali Commedie per le conversazioni e per li Teatri, allora quando si rappresentino delle Tragedie, le quali per ordinario sono brevi e melanconiche, e la Commedia di un atto allunga il divertimento, e rallegra il popolo contristato. Questa fu da me scritta per comando di S. E. il Sig. Marchese sco Albergati Senator di Bologna, ad uso di Cavalieri e Dame di quella Città, ed ebbe la fortuna di essere recitata perfettamente, e di piacere non dirò per se stessa, ma per il merito degli Attori, e mi lusingo che recitata da bravi Comici, dopo di una Tragedia, non farebbe cattivo effetto in qualunque Teatro; anzi io credo necessarissimo, che al Teatro Italiano non manchi anche questa specie di divertimento, di cui abbonda il se, e che possa il pubblico compiacersene, siccome ne abbiamo veduto l'anno scorso in Venezia un favorevole esempio, avendo il dottissimo Conte Gasparo Gozzi tradotta dal se, e data al pubblico con fortuna, una simile rappresentazione. Se poi alcuno cosa facile la credesse, e di minore studio di una Commedia di tre o di cinque atti, s'ingannerebbe moltissimo. Il ritrovato dell'argomento è lo stesso, i caratteri servono egualmente alla brevità e alla lunghezza, l'intreccio, la peripezia, la catastrofe sono parti integrali e indispensabili tanto della Commedia più breve, quanto della più lunga. Ella è bensì cosa malagevole e difficoltosa consumare l'intiera azione in sì corto tempo, e vincolare la fantasia in così limitati confini. In una regolare Commedia, divisa in atti, abbiamo la libertà di estenderci a ventiquattr'ore di tempo. La divisione degli atti è comodissima per l'Autore, figurando fra un atto e l'altro delle cose che non si vedono, ma vengono poi artificiosamente accennate. Per lo contrario, nella Commedia di un atto solo, l'azione che si rappresenta dee consumarsi in iscena in quel ristretto tempo in cui un fatto vero potrebbe ragionevolmente accadere. Se ciò è facile a meditarsi e ad
eseguirsi, lo lascio giudicare a chi intende. Se alcuno si lagnerà di questa breve Commedia, sarà perchè, bramoso di leggere più lungamente, gl'increscerà di aver troppo presto finito il divertimento, ma se penserà poi alla fatica ch'essa mi costa, ed all'onesto fine per cui l'ho stampata, spero mi sarà grato, o per lo meno indulgente. Non creda però ch'io voglia abusarmi della sua compiacenza. Tre o quattro di queste brevi Commedie in una lunga serie di Tomi, mi sembrano compatibili anche da' più avidi di leggere e di divertirsi; e ve ne sono, e ve ne saranno di così lunghe che pesandole tutte insieme, credo vi sarà per tutti il giusto peso e la giusta misura.
PERSONAGGI
DON AMBROGIO, vecchio avaro. DONNA EUGENIA, vedova, nuora di Don Ambrogio. IL CONTE FILIBERTO dell'Isola. IL CAVALIERO COSTANZO degli Alberi. DON FERDINANDO, giovane Mantovano. CECCHINO, servitore. Un Procuratore, che non parla.
La Scena si rappresenta in Pavia, in una galleria in casa di don Ambrogio.
ATTO SOLO
SCENA PRIMA
Don Ambrogio solo.
Oh quanto vale al mondo un poco di buona regola! Ecco qui, in un anno, dopo la morte di mio figliuolo, ho avanzato due mila scudi. Sa il cielo, quanto mi è dispiaciuto il perdere l'unico figlio ch'io aveva al mondo, ma s'ei viveva un paio d'anni ancora, l'entrate non bastavano, e si sarebbono intaccati i capitali. È grande l'amor di padre, ma il danaro è pure la bella cosa! Spendo ancora più del dovere, per cagione della nuora ch'io tengo in casa. Vorrei liberarmene, ma quando penso che ho da restituire la dote, mi vengono le vertigini. Sono fra l'incudine ed il martello. Se sta meco, mi mangia le ossa; se se ne va, mi porta via il cuore. Se trovar si potesse... Ecco qui quest'altro tàccolo, che mi tocca soffrire in casa. Un altro regalo di mio figliuolo; ma ora dovrebbe andarsene.
SCENA II
Don Fernando e detto.
FER. Buon giorno, signor Don Ambrogio. AMB. Per me non vi è più nè il buon giorno, nè la buona notte. FER. Compatisco l'amor di padre. Voi perdeste nel povero Don Fabrizio il miglior cavaliere del mondo. AMB. Don Fabrizio era un cavaliere che avrebbe dato fondo alle miniere dell'Indie. Dacchè si è maritato, ha speso in due anni quello ch'io non avrei speso in dieci. Son rovinato, signor mio caro, e per rimettermi un poco, mi converrà vivere da qui in avanti con del risparmio, e misurare il pane col etto. FER. Perdonatemi. Non mi so persuadere che la vostra casa sia in questo stato. AMB. I fatti miei voi non li sapete. FER. Mi disse pure vostro figliuolo... AMB. Mio figliuolo era un pazzo, pieno di vanità, di grandezze. La moglie lo dominava, e gli amici gli mangiavano il cuore. FER. Signore, se voi lo dite per me, in un anno che ho l'onore di essere in casa vostra, a solo motivo di addottorarmi in questa università, credo che mio padre abbia bastantemente supplito. AMB. Io non parlo per voi. Mio figliuolo vi voleva bene, e vi ho tenuto in casa per amore di lui; ma ora che avete presa la laurea dottorale, perchè state qui a perdere il vostro tempo? FER. Oggi aspetto lettere di mio padre; e spero che quanto prima potrò levarvi l'incomodo.
AMB. Stupisco che non abbiate desiderio di andare alla vostra patria a farvi dire il signor dottore. Vostra madre non vedrà l'ora di abbracciare il suo figliuolo dottore. FER. Signore, la mia casa non si fonda su questo titolo. Credo vi sarà noto essere la mia famiglia... AMB. Lo so che siete nobile al par d'ogni altro; ma ehi! la nobiltà senza i quattrini non è il vestito senza la fodera, ma la fodera senza il vestito. FER. Non credo essere dei più sprovveduti. AMB. Oh, bene, dunque, andate a godere della vostra nobiltà, delle vostre ricchezze. Voi non istate bene nella casa di un pover'uomo. FER. Signor Don Ambrogio, voi mi fareste ridere. AMB. Se sapeste le mie miserie, vi verrebbe da piangere. Non ho tanto che mi basti per vivere, e quel capo sventato della mia illustrissima signora nuora vuole la conversazione, la carrozza, gli staffieri, la cioccolata, il caffè... Oh povero me! sono disperato. FER. Non è necessario che la tenghiate in casa con voi. AMB. Non ha nè padre, nè madre, nè parenti prossimi. Volete voi ch'io la lasci sola? In quell'età una vedova sola? Oh! non mi fate dire. FER. Procurate ch'ella si rimariti. AMB. Se capitasse una buona occasione. FER. La cosa non mi par difficile. Donna Eugenia ha del merito, e poi ha una ricca dote... AMB. Che dote? che andate voi dicendo di ricca dote? Ha portato in casa pochissimo, e intorno di lei abbiamo speso un tesoro. Ecco qui la nota delle spese che si son fatte per l'illustrissima signora sposa; eccole qui; le tengo sempre di giorno in tasca, e la notte sotto il guanciale. Tutte le disgrazie che mi succedono, mi pajono meno pesanti di queste polizze. Maledetti pizzi! maledettissime stoffe! oh moda, moda, che tu sia maledetta! Ci gioco io, che se
ora si rimarita, queste corbellerie, in conto di restituzione, non me le valutano la metà. FER. Dite nemmeno il terzo. AMB. Obbligato al signor dottore. (mostra di soler partire, poi torna indietro) Mi scordava di dirvi una cosa. FER. Mi comandi. AMB. Così, per mia regola, avrei piacer di sapere quando avete stabilito di andarvene. FER. Torno a ripetere che oggi aspetto le lettere di mio padre. AMB. E se non vengono? FER. Se non vengono... Mi sarà forza di trattenermi. AMB. Fate a modo mio, figliuolo: fategli una sorpresa; andate a Mantova, e comparitegli all'improvviso. Oh, con quanta allegrezza abbracceranno il signor dottore! FER. Da qui a Mantova ci sono parecchie miglia. AMB. Non avete denari? FER. Sono un poco scarso, per dire il vero. AMB. V'insegnerò io, come si fa. Si va al Ticino, si prende imbarco, e con pochi paoli vi conducono fino all'imboccatura del Mincio.
SCENA III
Don Fernando solo.
Ecco a che conduce gli uomini l'avarizia. Don Ambrogio nobile e ricco, reputa sè medesimo per il più vile, il più miserabile. E si può dire ch'egli sia tale, giacchè la nobiltà si fa risplendere colle azioni, e le ricchezze non vagliono, se non si fa di esse buon uso. Doveva andarmene di questa casa tosto che cessò di vivere l'amico mio Don Fabrizio, ma appunto la di lui morte è la cagione per cui mi arresto. Ah sì, il rispetto ch'io ebbi per donna Eugenia, vivente il di lei marito, si è cambiato in amore da che ella è vedova; e alimentandosi la mia speranza... Ma quale speranza posso aver io di rimanere contento, se ovunque mi volgo, trovo degli ostacoli all'amor mio? Ella non sa ch'io l'ami, e, sapendolo, può dispregiarmi. Ho due rivali possenti, che la circondano. Mio padre non vorrà per ora ch'io mi mariti; sarebbe per me la migliore risoluzione il partire. Sì, partirò; ma non voglio avermi un giorno a rimproverare d'aver tradito me stesso per una soverchia viltà. Sappia ella ch'io l'amo, e quando l'amor mio non gradisca... Eccola a questa volta. Vorrei pur dirle... ma non ho coraggio di farlo. Prenderò tempo... mediterò le parole... Oh cuor pusillanimo! ho rossore di me medesimo. (parte)
SCENA IV
Donna Eugenia, poi Cecchino
EUG. E fino a quando dovrò menar questa vita? Chi può soffrire le indiscretezze di Don Ambrogio? Le ioni d'animo hanno per sua cagione condotto a morte il povero mio marito, ed ora codesto vecchio vorrebbe farmi diventar tisica per la rabbia, per la disperazione. Sì, voglio rimaritarmi. Ma non basta che io lo voglia, conviene attendere l'occasione, e se non son certa di migliorare il mio stato, non vo' arrischiarmi di ricadere dalla padella alle brace. CEC. Signora, il signor Conte dell'Isola brama di riverirla. EUG. È padrone. (Cecchino parte) Questi non sarebbe per me un cattivo partito. È un cavaliere di merito, ma la di lui serietà mi riesce qualche volta stucchevole; al contrario del Cavaliere, che ha dello spirito un poco troppo vivace. E pure ad uno di questi due vorrei ristringere la mia scelta. So che mi amano entrambi, e so che una impegnata rivalità... Ma ecco il Conte.
SCENA V
Il Conte dell'Isola e detta.
CON. Servitore umilissimo di donna Eugenia. EUG. Serva, Conte. Favorite di accomodarvi CON. Per obbedirvi. (siedono) EUG. Siete appunto venuto in tempo ch'io aveva bisogno di compagnia. CON. Mi chiamerei fortunato, s'io potessi contribuire a qualche vostra soddisfazione. EUG. Le vostre espressioni sono effetti della vostra bontà. CON. Non mai al merito vostro adeguate. EUG. Sempre gentile il Conte dell'Isola. CON. Vorrei esserlo, per aver l'onor di piacervi. EUG. La vostra conversazione mi è sempre cara. CON. Lo voglio credere, perchè lo dite. Ma per il vostro spirito la mia conversazione è assai poca. EUG. Voi mi mortificate senza ragione. CON. Prendetela per una sciocchezza. Io non so divertirvi diversamente. EUG. Fate torto a voi stesso. Buon per voi che favellate con chi vi conosce. CON. No, donna Eugenia, io sono un uomo sincero e non ho altro di buono, oltre la conoscenza di me medesimo. A fronte del Cavaliere, so che io ci perdo,
ma non importa: non confido soltanto nel vostro spirito, ma nel vostro cuore; e mi lusingo che in mezzo ai disavvantaggi del mio costume, conoscerete il fondo della mia schiettezza. EUG. Non è scarso merito la sincerità. CON. Ma è poco fortunata per altro. EUG. Potete voi dolervi di me? CON. Non sarei sì ardito di dirlo. EUG. Ancorchè nol diciate, si conosce che siete poco contento. CON. Sarà un effetto di quella sincerità che lodaste. EUG. Dunque la stessa sincerità non me ne dee tacere i motivi. CON. Voi m'invitate a nozze, qualora mi provocate a parlare. EUG. L'eccitamento vien dal mio cuore. CON. E al vostro cuore rispondo che sarei felicissimo se non mi tormentasse un rivale. EUG. Questa è la prima volta che lo diceste. CON. L'ho detto a tempo, signora? EUG. Potrebbe darsi. CON. Le cose possibili sono infinite. Fra queste si confondono le mie speranze ed i miei timori. Quel che ora vi chiedo, è qualche cosa di certo. EUG. Esaminatelo bene, e confessate che quello che mi chiedete, non è sì poco. CON. Se mal non mi appongo, parmi di aver domandato pochissimo. Sarei temerario, se vi chiedessi l'intero possedimento della grazia vostra: chiedovi solo, se siete a tempo ancor di disporne. EUG. Ma se questo è un segreto, che con gelosia custodisco, non sarà eccedente
la vostra interrogazione? CON. Voi avete il dono di farvi intendere senza parlare. Capisco essere il vostro cuore occupato. EUG. E se ciò fosse, capireste con eguale facilità qual sia l'oggetto che l'occupi? CON. No, signora, codesto è il segreto. EUG. Dunque non potete voi giudicare di essere escluso. CON. Ma nè tampoco assicurarmi di essere il favorito. EUG. Gli animi discreti si contentano, se hanno una ragione di sperare, CON. Sì, quando una ragion più forte non li faccia temere. EUG. Qual è il gran fondamento di questo vostro timore? CON. Il mio demerito. EUG. No, Conte, pensate male. CON. Aggiungete: lo spirito audace del mio rivale. EUG. Una novella ragione, che più mi offende. CON. Vi supplico di compatirmi. EUG. Vi compatisco. CON. È il cuore che mi tramanda alle labbra... EUG. Conte, basta così. CON. (Che dura pena è il moderare i trasporti!) (da sè) EUG. (Non vo' precipitar le risoluzioni.) (da sè)
SCENA VI
Cecchino e detti, poi il Cavaliere degli Alberi
CEC. (da sè) (Questa è un'imbasciata che non piacerà al signor Conte.) Signora, è qui il signor Cavaliere per riverirla. EUG. Venga pure. Una sedia. (Cecchino va a prendere la sedia) CON. (s'alza) Signora, vi levo l'incomodo. EUG. No, Conte, non fate che la vostra apprensione si manifesti. CON. Il mio rispetto... EUG. Sedete. CON. (sedendo con agitazione) (Sono in cimento). CEC. (da sè) (L'ho detto io. Due galli in un pollaio non istan bene.) (parte) EUG. (da sè) (Spiacemi vederli uniti, ma sarebbe peggio s'ei si partisse.) CAV. M'inchino a questa dama. (le bacia la mano) CON. (vedendole baciar la mano, freme alquanto) EUG. Serva, cavalierino. Sedete. CAV. Conte, vi riverisco. CON. (al Cavaliere) Servitore. Con licenza del Cavaliere. (piano ad Eugenia, accostandosi all'orecchio) (Signora, io non ho ardito di baciarvi la mano.) EUG. (piano al Conte) (Chi vi ha impedito di farlo?)
CON. (da sè) (Pazienza; merito peggio.) EUG. (al Cavaliere) Compatite. CAV. (allegro) Servitevi, se avete degli interessi. EUG. (al Cavaliere) Niente, niente, era un non so che; si era scordato di dirmi una cosa. CAV. Appunto; anch'io ho una cosa da comunicarvi. Con licenza, Conte. (piano a donna Eugenia) (Lo vogliamo far disperare.) CON. (da sè) (Se resisto, è un prodigio.) EUG. Orsù, che si parli che tutti sentano. Che fate voi Cavaliere? CAV. Sto benissimo, quand'abbia l'onore della grazia vostra. EUG. La grazia mia è troppo scarsa. CAV. Anzi è sufficientissima quando anche fosse divisa in due. EUG. Siete voi di quelli che si contentano della metà? CAV. Sì certo, quando non si possa avere di più. CON. Donna Eugenia non sa dividere il cuore. CAV. (con serietà) Nè voi, nè io lo sappiamo. EUG. (al Cavaliere) Mi tenete voi nel numero delle lusinghiere? CAV. (allegro) Guardimi il cielo. So che siete la più saggia dama del mondo; ma io tengo per fermo, che non sia limitata la grazia delle belle donne, e che salvo l'onesto vivere, possano a più di uno distribuire i favori, a chi più, a chi meno, con una distribuzione economica la quale poscia produca diversi effetti secondo la disposizione dell'animo di chi ne riceve la sua porzione, ond'è che ad uno la metà non basta, e si contenta un altro di meno. CON. Questo non è pensare da uomo.
CAV. (con serietà al Conte) Non ho parlato con voi. EUG. (al Cavaliere) Sarebbe vano adunque, che una donna desse a voi solo tutto il possesso del di lei cuore. CAV. (allegro) Non sarei sì pazzo di ricusarlo, e ne terrei quel conto che merita un simil dono; ma la difficoltà di aver tutto, mi fa contentare del poco. EUG. Questa difficoltà non mi par ragionevole. CAV. (allegro) La fondo sull'esperienza. Mi sono lusingato assai volte di possedere il trono della bellezza. Ma le monarchie in amore non durano, e mi contento di essere repubblichista. CON. Il cuore di donna Eugenia non si misura cogli altri. CAV. (con serietà al Conte) La conosco al pari di voi. CON. Se meglio la conosceste, non parlereste così. CAV. Sì, la conosco. (con serietà, poi si cambia voltandosi a Eugenia) Non vorrei, donna Eugenia, che interpretando voi pure i miei sentimenti in sinistro modo, come si compiace di fare il conte, mi privaste di quella porzione della grazia vostra, che mi lusingo di possedere. Però permettetemi ch'io mi spieghi. Separiamo prima di tutto dalla grazia, di cui le donne sogliono essere liberali a molti, quell'amore che si conviene ad un solo. Il marito non deve essere in concorrenza cogli altri; il futuro sposo di una fanciulla ha da pretendere di esser solo; quel della vedova parimenti; ma quella grazia distributiva di cui favello, sta in una parte del cuore non occupata da tali affetti. Mi sovviene ora un esempio. Il padre ama teneramente il figliuolo, e ama nel tempo medesimo gli amici suoi; l'uno e l'altro di questi amori hanno la loro sede nel cuore, ma situata in diverse parti, o se vogliamo che in una parte sola tutto l'amor risieda, diciamo adunque che, se non istà sul luogo, starà la differenza nel modo. Sia pur la donna saggia, onorata, al marito fedele, all'amante sincera. D'intorno a quest'amore costante s'aggirano alcuni piccioli affetti di gratitudine, di stima, di compiacenza onesta, che grazie, che favori si chiamano, che possono in più parti distribuirsi, che di una picciola parte possono contentare un uomo discreto; che per metà concessi, possono rendere un cavaliere superbo, e che pretesi tutti da un solo, si rende ardito, mostrando egli o di non conoscerne il prezzo, o di volerli confondere con quegli ardori che sono ad un oggetto più nobile destinati. Signora, eccovi il
modo mio di pensare. Conte, se vi dà l'animo, rispondete. EUG. Via, conte, ora è tempo di farvi onore. CON. Signora, io son nemico delle dicerie. Ammiro lo spirito del Cavaliere, ma non sono persuaso della distinzione sua metafisica. Fra le cose inutili o false una ne ha egli detto di buona, ed a quest'unica gli rispondo. Donna Eugenia è una dama vedova, e prima di disporre di quella grazia di cui vuol supporre le donne liberali a più d'uno, è in grado di concepir quell'amore che conviene ad un solo. CAV. (seriamente al Conte) Ella può farlo liberamente, e il fortunato posseditore della sua mano sarà sicuro della più virtuosa dama del mondo. (allegro) Signora, parmi vedere il conte a parte degli arcani del vostro cuore. Io non farò che lodare le vostre risoluzioni; ma non credo di meritarmi di essere escluso da una simile confidenza. EUG. Il conte non sa di certo niente più di quello che voi sapete. CAV. (al Conte) È vano dunque che voi facciate l'astrologo per ributtare i miei sentimenti. CON. Pensate voi, che una vedova, giovane, ricca e nobile, che non può esser contenta del trattamento che in questa casa riceve, ar non voglia alle seconde nozze? CAV. (come sopra) Ella è padrona di sè medesima. Signora, io non ardisco d'indovinare, ma confesso che bramerei di saperlo. EUG. A due cavalieri ch'io stimo, non vo' celare la verità. La mia situazione mi sollecita a rimaritarmi. CON. (al Cavaliere) Vedete ora, se l'astrologia è mal fondata. CAV. Via dunque, voi che alzate l'oroscopo de' cuori umani, vi dà l'animo d'indovinare chi sarà il fortunato? CON. A ciò non voglio avanzarmi. Son però certo ch'ella non vorrà concedere il cuore a chi si contenta della metà. CAV. (alzandosi da sedere) Alto, alto, signore; siamo in un'altra tesi, e mi
dichiaro diversamente. So ch'io non merito sì gran fortuna, ma quando ella volesse meco profondere le sue grazie sino al punto di dichiararmi suo sposo, più della gioventù, e della ricchezza, e della nobiltà che di lei vantaste, farei capitale della virtù, sarei geloso della sua fede, senza esserlo de' sguardi suoi, e separando le convenienze di una moglie saggia da quelle di una dama di spirito, sarei un marito felice, senza essere un cavaliere indiscreto. EUG. (da sè) (Con uno sposo di tal carattere non potrei essere che contenta.) CON. Cavaliere, altro è l'immaginare in distanza, altro è il ritrovarsi nel caso. Capisco che voi cercate la via più facile per accreditarvi nel cuore di chi vi ascolta; ma la facilità che le proponete, non può far breccia nell'animo di donna Eugenia, amante assai più di un amor virtuoso, che della moderna galanteria. Se le espressioni vostre sono sincere, voi non l'amate, e se l'amate, ella non può fidarsi della libertà che le promettete. EUG. (da sè) (Il dubbio non è fuor di ragione.) CAV. Io non son qui venuto per sollecitare il cuore di Donna Eugenia. S'ella è per voi prevenuta, non ha che a dirmelo: so il mio dovere. EUG. No, Cavaliere, torno a ripetere, sono in libertà di disporre di me medesima. CAV. Disponete adunque. CON. Ella è a tempo di farlo. CAV. Il tempo a. I giorni della gioventù si piangono inutilmente perduti. CON. La virtù è sempre bella. CAV. Ma nella gioventù è più brillante. CON. Una moglie non ha bisogno di tanto brio. CAV. Ne ha di bisogno una dama. CON. Una dama dev'esser saggia.
CAV. Ma non per questo intrattabile. CON. Dee dipendere dalla volontà del marito. CAV. La liberi il cielo dalla indiscretezza che voi vantate. CON. Non la sagrifichi amore a chi non conosce il pregio della virtù. CAV. Se vi avanzate meco a tal segno... EUG. Cavalieri, se veniste per favorirmi, non vi riscaldate per mia cagione. Venero ciascheduno di voi, trovo in entrambi della ragione e del merito, ma non ho ancora di me disposto, nè ardisco dire che ad uno di voi mi crediate inclinata. Sono di me padrona, egli è vero; ma esige la convenienza che, nell'escire di questa casa, consigli, prima d'ogni altro, il padre del mio defunto marito. Se le di lui stravaganze non mi proporranno un partito indegno di me, preferirò ad ogni altra ione il dovere che ad un suocero mi assoggetta, e se l'uno o l'altro di voi mi verrà proposto, sarò egualmente contenta. CON. Ah, donna Eugenia, ciò non basta per consolarmi. CAV. Ed io ne son contentissimo, e in questo punto da voi mi parto per avanzar le mie suppliche a Don Ambrogio; e ve lo dico in faccia del Conte, perch'ei lo sappia, e sia sicuro da tutto questo, che saprò correre la mia lancia, senza che mi spaventi il merito di un tal rivale. Signora, all'onore di riverirvi. (le bacia la mano, e parte)
SCENA VII
Donna Eugenia e il Conte
CON. (da sè) (S'ella divien mia sposa, tu non le bacierai più la mano.) EUG. Conte, sarete voi meno sollecito del Cavaliere? CON. Vada pur egli altrove a rintracciar Don Ambrogio; io l'attenderò qui, se mel concedete. EUG. Siete padron di restare. Ma dovete permettere, che per un mio picciolo affare i nella mia camera. CON. Lo vedo; voi state meco mal volentieri. EUG. No, v'ingannate. Ritornerò fra poco. Addio, Conte. (in atto di partire) CON. Son vostro servo. EUG. (da sè, fermandosi) (Non curasi di baciarmi la mano!) CON. Avete qualche cosa da dirmi? EUG. Avete voi qualche cosa da domandarmi? CON. Non altro, se non che abbiate comione di me. EUG. (gli offre la mano) Povero Conte! tenete. CON. No, donna Eugenia, non è questo quel ch'io desidero. La mano che ora mi offrite, è ancor bagnata dalle labbra del Cavaliere. Son delicato in questo. EUG. Non mi dispiace la vostra delicatezza. Alcuno la chiamerebbe un difetto, ma i difetti che provengono dall'amore sono compatibili in un cuor sincero. (parte)
SCENA VIII
Il Conte, poi Don Ambrogio
CON. Queste picciole grazie, che son dall'uso concesse ai rispettosi serventi, non servono a chi si lusinga di divenire lo sposo. Impari ella per tempo il modo mio di pensare, e uniformandosi al mio sistema... Ecco qui Don Ambrogio. Il Cavaliere non dovrebbe averlo veduto, e se la sorte mi fa essere il primo, posso maggiormente sperare. AMB. Oh signor Conte, aspettate me forse? CON. Per l'appunto, signore. AMB. Che cosa avete da comandarmi? CON. L'affare che a voi mi guida è di tale importanza, che mi sollecita estremamente. AMB. Se mai a sorte (nol dico per offendervi), se mai voleste domandarmi danaro in prestito, vi prevengo che non ne ho. CON. Grazie al cielo, non sono in grado d'incomodare gli amici per così bassa cagione. AMB. Vi torno a dir: compatitemi. Al giorno d'oggi le spese che si fanno, riducono i più facoltosi in istato d'aver bisogno, e non è più vergogna il domandare. Io non ne ho, ma se si trattasse di far piacere ad un galantuomo ho qualche amico da cui con un'onesta ricognizione potrei compromettermi di qualche centinajo di scudi. CON. Ma io non ne ho di bisogno. AMB. Mi consolo, che non ne abbiate bisogno; se mai o per voi, o per altri, venisse il caso, sapete dove avete a ricorrere. Io non ho un soldo, ma si ritroverà
all'occorrenza. CON. Signore, voi avete una nuora. AMB. Così non l'avessi. CON. Perchè dite questo? AMB. Vi par poca spesa per un pover'uomo una donna in casa? CON. Quanto più vi riesce di aggravio, tanto meglio penserete a rimaritarla. AMB. Venisse oggi l'occasione di farlo. CON. L'occasione non può essere più sollecita. Io la bramo in isposa, e vi supplico dell'assenso vostro. AMB. S'ella si contenta, siate pur certo che io ne sarò contentissimo. CON. Spero di lei non compromettermi in vano. AMB. Dunque l'affare è fatto. Parlerò a donna Eugenia e se questa sera volete darle la mano, io non ho niente in contrario. CON. Quando ella il consenta, noi stenderemo il contratto. AMB. Che bisogno c'è di contratto? Perchè volete spendere del danaro superfluamente? Quello che volete dare al notaio, non è meglio che ce lo mangiamo qui fra di noi? CON. Ma della scritta non se ne può fare a meno. Se non altro per ragion della dote. AMB. Della dote? Oltre la sposa, pretendete ancora la dote? CON. Donna Eugenia, nel maritarsi con vostro figlio, non ha portato in casa la dote? AMB. Quel poco che ha portato, si è consumato, ed io non ho niente più nè del suo, nè del mio.
CON. Sedicimila scudi si sono consumati in due anni? AMB. Si è consumato altro che sedicimila scudi! Principiate a vedere le liste delle spese che si son fatte. (tira fuori le carte) CON. Non voglio esaminare quello che abbiate speso per lei; ma so bene che ad una vedova senza figliuoli si conviene la restituzion della dote. AMB. Voi siete venuto per assmi. CON. Son venuto per l'amore di donna Eugenia. AMB. Se amaste la donna, non ricerchereste la roba. CON. Non la cerco per me, ma per lei, nè posso, colla speranza di essere suo marito, tradir le ragioni che a lei competono. AMB. Senza che venghiate a fare il procuratore per donna Eugenia, so anch'io da me medesimo quello che può pretendere e quello che a me si spetta. La dote c'è e non c'è, la voglio dare, e non la voglio dare; ma se ci sarà, e se dovrò darla, la darò in modo che sia sicura, e che non abbia un giorno la povera donna a restar miserabile. CON. La casa mia non ha fondi bastanti per assicurarla? AMB. Vi parlo chiaro, come l'intendo. Se cercaste di maritarvi per l'amore della persona, non cerchereste con tanta ansietà la sua dote. CON. Io ne ho parlato per accidente. AMB. Ed io vi rispondo sostanzialmente: donna Eugenia è stata moglie di mio figliuolo; le sono in luogo di padre; e quando abbia volontà di rimaritarsi, ci penso io. CON. E s'ella presentemente avesse un tal desiderio? AMB. Me lo faccia sapere. CON. Fate conto ch'io ve lo dica per essa. AMB. Fate voi il conto di essere donna Eugenia, e sentite la mia risposta: il
conte dell'Isola non è per voi. CON. E perchè, signore? AMB. Perchè è un avaro. CON. Lasciamo gli scherzi, che io ne sono nemico. Don Ambrogio, spiegatevi seriamente. AMB. Sì, parliamo sul sodo. Conte, mia nuora non fa per voi. CON. La cagione vorrei sapere. AMB. Ho qualche impegno, compatitemi, non siete il primo che me la domandi. CON. Mi ha prevenuto forse il Cavaliere degli Alberi? AMB. Potrebbe darsi. (da sè) (Non l'ho nemmeno veduto.) CON. Quando vi ha egli parlato? AMB. Quando io l'ho sentito. CON. Non è codesto il modo di rispondere a un cavaliere. AMB. Servitore umilissimo. CON. Voi trattate villanamente. AMB. Padrone mio riverito. CON. Conosco le mire indegne del vostro animo. Voi negate di dar la nuora a chi vi chiede la dote, ma ciò non vi verrà fatto. Donna Eugenia sarà illuminata, e dovrete a forza restituire ciò che tentate di barbaramente usurpare. (parte)
SCENA IX
Don Ambrogio, poi il Cavaliere
AMB. La riverisco divotamente. Restituire? Me ne rido. Ho il mio procuratore, che è fatto apposta per tirar innanzi. Egli s'impegna di mantenere la lite in piedi, se occorre, dieci anni almeno, e in dieci anni posso morir io, e può morire la nuora. Per altro non ho piacere che si sparga per il paese, che io procuro che non si mariti per non restituire la dote. Da qui avanti mi regolerò un po' meglio, troverò degli altri pretesti, e cercherò di sottrarmi con pulizia, con destrezza. CAV. (ilare sempre) Servitore del mio carissimo Don Ambrogio. AMB. Padrone mio, signor Cavaliere garbato. CAV. Venite sempre più giovane. Mi consolo, quando vi vedo. AMB. Oh, quanto anch'io mi rallegro in vedervi! gioventù benedetta! CAV. Perchè non venite a favorirmi, a bevere la cioccolata da me? AMB. Vi voglio venire. CAV. E a pranzo ancora. AMB. E a pranzo ancora. CAV. (da sè) (Lo conosco, conviene allettarlo.) AMB. (da sè) (So quel che vuole. Non mi corbella.) CAV. Oh, quanto mi è rincresciuta la morte di vostro figlio! AMB. Obbligato; non parliamo di melanconie. CAV. Parliamo di cose allegre. Quando vi rimaritate?
AMB. Non sono fuori del caso. CAV. Animo, da bravo: ho un'occasione per voi la più bella del mondo. Eh! ci sono de' quattrini non pochi. AMB. Oh, io poi, se mi maritassi, la vorrei senza dote. CAV. Bravissimo: sono anch'io della stessa opinione. Se mi marito, non voglio niente. Le mogli che portano del danaro, pretendono comandare. No, no; soddisfare il genio, e non altro; una donna che piaccia, e non si cerchi di più. AMB. (da sè) (Se dicesse da vero? ma non me ne fido.) CAV. Quel che volete fare, fatelo presto. Liberatevi dall'impiccio di vostra nuora, e conducetevi a casa un pezzo di giovinotta, che vi rimetta il figliuolo che avete perduto, e che vi faccia essere contento nella vecchiaia. AMB. Oh, se lo voglio fare! Lasciate che mi liberi della nuora. CAV. Perchè non fate che si mariti? AMB. Se capitasse un'occasione a proposito. CAV. Per esempio, chi credereste voi che le convenisse? AMB. Io so com'è fatta quella povera donna; ha il più bel cuore di questo mondo. Ella avrebbe bisogno di uno, che se ne innamorasse, e che veramente le volesse bene di cuore. Al giorno d'oggi non si trovano i partiti che di due sorte: o discoli, o interessati; e tutti principiano dalla dote; è una miseria per una giovine che ha qualche merito, sentirsi chiedere per la dote. CAV. Questo è quello ch'io vi diceva poc'anzi. Se mi marito, non voglio dote. AMB. Voi siete un cavaliere veramente cavaliere, che sa la vera cavalleria. Ditemi un poco: lo conoscete voi il merito di mia nuora? CAV. Se lo conosco? lo sa il mio cuore, se lo conosco. AMB. E che sì, che siete venuto per domandarmela? CAV. Gran Don Ambrogio! gran Don Ambrogio! volpe vecchia! Come diamine
l'avete voi penetrato? AMB. Mi pareva che le carezze che mi avete fatte, tendessero a qualche fine. CAV. Oh, qui poi v'ingannate. Vi ho sempre voluto bene, e ve ne vorrò; e voglio vedervi con una sposa al fianco, bella, giovine, e senza dote. AMB. Su questo particolare si parlerà. Se avrò da maritarmi, la prenderò senza dote. Farò che il vostro esempio mi sia di regola in questo. CAV. Lo sapete: io non sono interessato. AMB. (da sè) (Batte sodo finora.) Volete che io ne parli a donna Eugenia? CAV. Lo potrete fare con comodo; bastami per ora che voi mi diciate, se dal canto vostro sarete di ciò contento. AMB. Contentissimo. Sarei un pazzo, sarei nemico di donna Eugenia, se mi opponessi alla sua fortuna. Un Cavalier che l'ama, e che per segno d'amore non domanda un soldo di dote! cospetto di bacco! a questa sì nobile condizione vi darei una mia figliuola. CAV. Viva il signor Don Ambrogio! AMB. Viva il signor Cavaliere degli Alberi! CAV. Siete lo specchio de' galantuomini. AMB. Siete la vera immagine del cavaliere. CAV. Caro, carissimo. (gli dà un bacio) AMB. (da sè) (Che tu sia benedetto!) CAV. Donna Eugenia quanto ha dato di dote a vostro figliuolo? AMB. (Rimane un poco confuso) Non mi parlate di melanconie. Il poveretto è morto, e non ho piacer che se ne discorra. CAV. Non parliamo di lui, parliamo di Donna Eugenia.
AMB. Sì, di lei parliamo quanto volete. CAV. Donna Eugenia quanto vi ha dato di dote? AMB. A me? CAV. Alla vostra casa. AMB. A voi che importa saperlo? Non la volete già senza dote? CAV. Sì, ci s'intende. Domando così, per curiosità. AMB. In un cavaliere di garbo, come voi siete, sta male la curiosità. Se donna Eugenia lo sa che mi facciate tale domanda, crederà che il vostro amore sia interessato, ed io, se me lo posso immaginare soltanto, vi dico un no, come ho detto al Conte dell'Isola. CAV. Vi ha parlato il Conte? AMB. Sì, mi ha parlato quell'avarone. Appena appena mi disse non so che della vedova, subito mi ricercò della dote. CAV. Io poi la metto nell'ultimo luogo. AMB. Nell'ultimo luogo? Tardi o presto dunque ci volete pensare. CAV. Questi sono discorsi inutili. Mi preme la sposa, ve la domando per quell'autorità che sopra di essa vi concede la parentela e non avete a dirmi di no. AMB. Ho detto di sì, mi pare; e torno a dirvi di sì un'altra volta; e se non vi sono altre difficoltà che questa, contate pure sopra il mio pienissimo consentimento. CAV. Voi mi consolate, voi mi mettete in giubilo: caro il mio Don Ambrogio, permettetemi, in segno di vero amore… (gli dà un bacio) AMB. Volete che facciamo fra voi e me (prima di parlare con donna Eugenia), volete che facciamo quattro righe di scritturetta? CAV. Per la dote forse? AMB. Sì, sul proposito della dote. Poniamo in carta l'eroismo del vostro amore.
CAV. Subito. In qual maniera? AMB. Una picciola protesta, che v'intendete di volere la sposa senza pretension della dote. CAV. Se ne offenderà donna Eugenia. AMB. Lasciate accomodare a me la faccenda. CAV. Ella può pretenderla senza di me. AMB. Andiamo dal mio procuratore: troverà egli un mezzo termine per ridurre la cosa legale. CAV. Si parlerà poi di questo. Andiamo subito da donna Eugenia. AMB. No, un o alla volta. CAV. Un o alla volta. Prima quel della sposa. AMB. Prima quello della rinunzia. CAV. Bravo, Don Ambrogio; voi siete il più spiritoso talento di tutto il mondo. AMB. Cavaliere garbato, andiamo; ci spicciamo in meno di un'ora. CAV. Oh, mi sovviene ora di un picciolo impegno. Sono aspettato in Piazza. Sarò da voi quanto prima. AMB. Verrò con voi, se volete. CAV. Non vi vo' dar quest'incomodo. Ci rivedremo. AMB. Sono sempre ai vostri comandi. CAV. Addio, il mio amatissimo Don Ambrogio. (lo abbraccia) AMB. Sì, con tutto il cuore. (lo abbraccia) CAV. (da sè) (La sa lunga il vecchio, ma non ha da fare con ciechi.)
AMB. (da sè) (Eh! Ci vedo del torbido, ma sono all'erta.) CAV. (da sè) (Avviserò donna Eugenia.) AMB. (da sè) (Che cosa fa che non parte?) Signore, avete qualche cos'altro da dirmi? CAV. Sì, una cosa sola; e vi lascio subito. Sentite in confidenza, che nessuno ci ascolti. (all'orecchio) Siete un volpone di prima riga. Servitore divoto. (con un poco di caricatura) AMB. (facendo lo stesso) Padrone mio riverito. CAV. (come sopra) La riverisco divotamente. (parte)
SCENA X
Don Ambrogio, poi Don Fernando
AMB. Vada pure, ch'io l'ho nel cuore. A me volpe? Per quel ch'io vedo, fra lui e me siamo da galeotto a marinaro. Che ti venga la rabbia: come ha preso la volta lunga per attrapparmi! Pareva, a principio, ch'ei fosse l'uomo più generoso del mondo, e si è scoperto alla fine un avaro peggio degli altri. Io non son tale; l'avaro non è quegli che cerca di mantenersi quel che possiede, ma colui che vorrebbe avere quel che non ha. FER. Signor Don Ambrogio... AMB. È venuta la posta? FER. Sì, signore. Ho avuto lettera da mio padre... AMB. E quattrini? FER. E quattrini ancora. AMB. Dunque principio fin da ora ad augurarvi il buon viaggio. FER. Ed io a ringraziarvi... AMB. Non vi è bisogno di cerimonie. Tenete un bacio e andate, che il cielo vi benedica. FER. Ah! mi converrà poi partire. AMB. Che avete, che sospirate? FER. Sono addolorato all'estremo. Mi si stacca il cuore dal petto; non posso trattenere le lagrime. AMB. Ehi, ragazzo, siete voi innamorato?
FER. Compatitemi per carità. AMB. Tanto peggio. Via di qua subito. FER. Voi mi vedrete cadere sulle soglie della vostra casa. AMB. Corpo di bacco baccone. Sareste voi innamorato di mia nuora? FER. (si volta da un'altra parte sospirando) AMB. Via di qua subito. FER. Finalmente non credo di farvi veruna ingiuria. Sono anch'io cavaliere nel mio paese. Son figlio solo, e vuol mio padre ch'io mi mariti. AMB. Aspirereste a sposarla dunque? FER. Sarei felice, ma non lo merito. AMB. Ditemi un poco. Parliamo sul sodo. Siete voi innamorato di lei, o della sua dote? FER. Che dote? che mi parlate di dote: rinunzierei per averla a tutti i beni di questo mondo. AMB. Lo sa ella, che le volete bene? FER. Non ho avuto coraggio di dirlo. AMB. Caro il mio Don Fernando, vi amo, come se foste un mio figlio. Mi spiace nell'anima vedervi andar sconsolato. Venite qui, discorriamola. FER. Voi mi rallegrate a tal segno... AMB. Spicciamoci in poche parole. La volete voi per isposa? FER. Volesse il cielo! Sarei il più contento giovine di questo mondo. AMB. Ma che dirà vostro padre? FER. Egli mi ama teneramente. Son certo che non ricà di accordarmi una sì
giusta soddisfazione. AMB. Quanti anni avete? FER. Vent'anni in circa. AMB. Non siete pupillo, la legge vi mette in grado di contrattare. Avreste difficoltà di fare a me una rinunzia della sua dote? FER. Sono prontissimo. AMB. Ed obbligarvi verso di lei, s'ella un giorno la pretendesse? FER. Sì, volentieri; con qualunque titolo: di donazione propter nuptias, di sopraddote, di contraddote, come vi aggrada. AMB. Subito, immantinente. Vado a trovar il procuratore, che è notaio ancora. Voi intanto presentatevi a donna Eugenia; ditele qualche cosa. FER. Non avrò coraggio, signore. AMB. Un giovine di vent'anni non saprà dir due parole ad una donna? Fatevi animo, se volete che si concluda. Principiate voi a disporla colle buone grazie. Verrò io in aiuto. FER. So ch'ella è pretesa da qualcun altro. AMB. Non temete nessuno. I due che la pretendono son due spilorci. Voi siete il più generoso e il più meritevole. Ha da esser vostra, se casca il mondo. Via, non perdete tempo. FER. Vado subito. Sento l'usato timore; ma voi mi fate coraggio. (parte)
SCENA XI
Don Ambrogio, poi Donna Eugenia
AMB. Finalmente l'ho poi trovato il galantuomo. Oh, non me lo lascio scappare. Quando è fatta, è fatta. Suo padre ci dovrà stare per forza... Oh, ecco donna Eugenia. Egli la cerca per di là, ed ella vien per di qua. EUG. Signor suocero, vi riverisco. AMB. Servo, signora sposa. EUG. Io sposa? AMB. Sì, consolatevi; spero che ne sarete contenta. EUG. E chi pensate voi che debba essere il mio sposo? AMB. Una persona che conoscete, che trattate, e che mi lusingo non vi dispiaccia. EUG. (da sè) (O il Conte o il Cavaliere, m'immagino.) Ma ditemi via chiaramente... AMB. Or ora lo mando qui a parlarvi da lui medesimo. Voglio lasciarvi in un poco di curiosità. Vo' farvi astrologare un pochino. È un galantuomo; ve lo assicuro. Prendetelo ad occhi chiusi. EUG. Via, ditemi almeno… AMB. Signora no; or ora lo vedrete. (parte)
SCENA XII
Donna Eugenia, poi il Conte
EUG. Uno dei due senz'altro. Per verità, mi appiglierei più volentieri al partito del Cavaliere. Ma sono in parola di dipendere dalla scelta di Don Ambrogio. Ecco il Conte: senz'altro è questi che mandami Don Ambrogio, questi è lo sposo che mi destina. CON. Perdonate, se sono ad incomodarvi. EUG. Conte, ho motivo di consolarmi con me medesima. CON. Di che, signora? EUG. Don Ambrogio mi ha detto... CON. Don Ambrogio è un villano, e del trattamento indegno che fece alla mia persona, e che medita di voler fare alla vostra, farò che, a suo malgrado, ne renda conto. EUG. Non accorda egli le nostre nozze? CON. All'incontrario: l'avidità di possedere la vostra dote, fa ch'ei procuri di attraversarvi ogni partito, e giunse a perdere a me il rispetto. EUG. Resto maravigliata; mi ha pure egli detto... (da sè) (Veggo il Cavaliere che viene. Sicuramente sarà codesto il prescelto). CON. Che vi ha egli detto, signora? EUG. Conte, voi sapete la mia indifferenza...
SCENA XIII
Il Cavaliere e detti.
CAV. Vengo innanzi senza imbasciata, sull'esempio del Conte. M'inchino alla dama. Amico, vi riverisco. (lo risalutano) EUG. Avete qualche novità, Cavaliere? CAV. Sì, certo; novità importantissime. Sono impaziente che le sappiate voi pure. EUG. Spiacemi che alla presenza del Conte... CON. Partirò, mia signora... CAV. Restate pure. Ho piacere che si sappia da tutto il mondo. EUG. Voi siete dunque da Don Ambrogio... CAV. Sì, sonoramente burlato. Mi ha dato delle buone speranze di essere favorito, ma pretendeva da me una rinunzia ingiustissima della vostra dote. Non è che io non preferisca la vostra mano a tutto l'oro del mondo; ma non mi è lecito arbitrare di quel ch'è vostro. Vedete dunque a che tendono le sue mire vili, indegnissime, e risolvete disporre di voi medesima. EUG. (da sè) (Ma chi può essere la persona da lui prescelta, che io conosco e ch'io tratto?) CON. Ormai la vostra dipendenza dal suocero diviene ingiusta, e la sua indiscretezza vi esime da ogni onesto riguardo. CAV. Siete in faccia del mondo bastantemente giustificata. EUG. (da sè) (Sempre si rende maggiore la mia curiosità.)
CON. Il Cavaliere aspetta le vostre risoluzioni. CAV. Le aspetta il Conte non meno. Siamo in due che vi bramiamo; voi dovete decidere. E in questo caso non ha luogo il ripiego della division per metà.
SCENA XIV
Cecchino e detti.
CEC. (ad Eugenia) Il signor Don Fernando brama di riverirla. EUG. Se non ha cosa di gran premura, digli che a pranzo noi ci vedremo. CEC. Ha avuto lettere di casa sua. Credo che debba andarsene. EUG. Così subito? Venga pure. Sentiamo. (Cecchino parte) CON. Cavaliere, la decisione che si aspetta da Donna Eugenia, non solo esclude la division per metà,ma ogni speranza di quelle picciole grazie che a voi rassembrano indifferenti. CAV. Ogni uno pensi a suo modo. In quanto a me, non farò mai un'ingiustizia alla virtù della sposa col dubitare di lei. S'ella sarà servita, tanto più sarò io contento d'aver per compagna una dama di merito; e riderò di coloro che pazzamente si lusingassero di usurparmi una scintilla di quell'ardore, che per me solo sarà nel di lei cuor custodito. EUG. (da sè) (Che nobili sentimenti!)
SCENA XV
Don Fernando e detti.
FER. (standosi lontano) È permesso? EUG. Avanzatevi, Don Fernando. FER. (da sè) (Ah! questi due mi tormentano.) EUG. È egli vero, che voi partite? FER. (come sopra) Signora... EUG. Fatevi innanzi, che timidezza è la vostra? FER. Tornerò, signora... Ho qualche cosa da dirvi. EUG. Potete parlare liberamente. Questi cavalieri li conoscete. Avete soggezione di loro? FER. La cosa ch'io deggio dirvi... (da sè) (Non è possibile che io lo dica.) CAV. (ritirandosi un poco per dar luogo a Don Fernando) Parlatele pure come vi aggrada. Io non ascolterò quel che dite. CON. (ritirandosi un poco) Servitevi; so il mio dovere. EUG. Dite quel che vi occorre. (a Don Fernando) FER. Compatitemi, se una violenta necessità... (Non so da dove principiare a spiegarmi. Don Ambrogio mi ha imbarazzato.) EUG. (da sè) (Fosse mai Don Fernando?) Ditemi, avete voi veduto mio suocero? FER. Signora... Egli è appunto che a voi mi manda.
EUG. (da sè) (Sarebbe bellissima la novità.) Che cosa vi ha egli detto di dirmi? FER. Vuole che io vi sveli... che se finora ho taciuto... (da sè) (Mi mancano le parole.) EUG. (da sè) (È così senz'altro. Mio suocero sempre più impazzisce! Un giovane soggetto al padre, nel mezzo degli studj suoi, sarebbe un precipitarlo). FER. (da sè) (Pare che mi abbia inteso. E mi lusingo dagli occhi suoi che non mi disprezzi.) CAV. Questi segreti non sono ancor terminati? FER. (al Cavaliere) Non ancora, signore. EUG. Venite, Cavalieri, venite. Don Fernando non ha che un complimento da farmi. Suo padre lo richiama in Mantova, ed egli ch'è un figliuolo saggio e prudente, conosce i doveri suoi, vuol partir subito, ed è venuto per congedarsi. So che in Pavia ha un amoretto che lo trattiene, e inclinerebbe ad unirsi colla persona che egli ama; però riflette da sè medesimo, che nell'età in cui si trova, dee pensare a terminar i suoi studj, e non a perdersi col matrimonio. Vede egli benissimo, che il padre suo ne sarebbe scontento, ed un figlio unico non dee rendere così trista mercede al genitore che l'ama. Ha risolto dunque di partire. Io lo stimolo a farlo, e voi lodatelo per così onesta risoluzione. FER. (da sè) (Senza ch'io parli, ho avuto la mia risposta.) CAV. Bravissimo, Don Fernando, mi consolo di vedervi in una età ancor tenera così prudente. FER. (al Cavaliere) Obbligatissimo alle grazie vostre. CON. Fuggite, Don Fernando, fuggite subito. Voi non sapete a che conduca l'amore. FER. (al Conte) Grazie del buon consiglio. EUG. (a Fernando) Fatelo di buon animo, e consolatevi. Tanto più ch'io posso assicurarvi, che la donna che voi amate vi stima, ma non vi ama.
FER. Questa che voi mi date, è una bella consolazione. Pazienza... Compatitemi... CAV. (ad Eugenia) Pare che sia innamorato di voi. CON. Non sarebbe fuor di proposito. EUG. Non è possibile. Egli era troppo amico di mio marito. CAV. Anzi per questo; può credere un effetto di buona amicizia il consolar la vedova dell'amico. FER. (adirato) Mi maraviglio di voi. CAV. Non andate in collera. FER. Servo di lor signori. (vuol partire)
SCENA ULTIMA
Don Ambrogio, un Procuratore e detti.
AMB. (incontrandolo) Dove si va, Don Fernando? FER. A Mantova. AMB. Senza la sposa? EUG. (a Don Ambrogio) Lodereste voi che si maritasse? AMB. Sì certo; ed è quegli che per vostro bene vi conviene accettare in isposo. FER. Non mi vuole, signore. AMB. Non vi vuole? Nuora mia, voi non lo conoscete. Altro merito ha egli, che non hanno questi due signori garbati. Lascio da parte la nobiltà e la ricchezza, chè non vo' svegliare puntigli; ma egli vi ama da vero, ed una prova grande dell'amor suo, a differenza degli altri, è che egli domanda voi, e non ha ancora parlato di dote. EUG. Ora conosco il merito, che in lui vi pare merito trascendente. Io della roba mia son padrona, e quel rispetto che ho usato finora al padre del mio defunto consorte, non lo merita la vostra ingiustizia, non lo speri più la vostra avarizia. AMB. (al Procuratore) Signor Dottore, la scritta che doveva farsi non si fa più; ma ponete in ordine quel che occorre per difendere le povere mie sostanze. Donna Eugenia, dopo aver consumata la dote in nastri e cuffie, vuole spogliarmi di quel poco che mi è restato. EUG. (a Don Ambrogio) Mi maraviglio di voi, signore. AMB. Ed io di voi. CAV. Zitto, signori miei. Lasciatemi dir due parole, e vediamo se mi dà l'animo
di accomodar la faccenda con soddisfazione di tutti. AMB. (verso Don Fernando) Questo povero giovane mi fa comione. FER. Per me non c'è caso. Ha detto che non mi vuole. CON. Si farà una lite per donna Eugenia, ed io m'impegno di sostenerla. CAV. No, senza liti. Ascoltatemi. Il povero Don Ambrogio, che ha tanto speso, non è dovere che si rovini colla restituzion di una dote. Questa dama non ha da restare nè vedova, nè indotata, e nè tampoco impegnar si deve una lite lunga, tediosa e pericolosa. Facciamo così: ch'ella si sposi con un galantuomo, che oggi non abbia bisogno della sua dote; che questa dote rimanga nelle mani di Don Ambrogio fino ch'ei vive; che corra a peso di Don Ambrogio il frutto dotale al quattro per cento; ma questo frutto ancora resti nelle di lui mani, durante la di lui vita. Alla sua morte la dote e il frutto, e il frutto de' frutti, i alla dama, o agli eredi suoi, e per non impicciare in conti difficili l'eredità di Don Ambrogio, in una parola, goda egli tutto fin a che vive, e dopo la di lui morte, non avendo egli nè figliuoli, nè nipoti, instituisca donna Eugenia erede sua universale. (a Don Ambrogio) Siete di ciò contento? AMB. Non mi toccate niente, son contentissimo. CAV. Voi, donna Eugenia, che dite? EUG. Mi riporto ad un cavaliere avveduto, come voi siete. CAV. Quando troviate oneste le mie proposizioni, eccovi in me il galantuomo, pronto a sposarvi senza bisogno per ora della vostra dote. CON. Una simile esibizione la posso fare ancor io. La sicurezza d'aver la dote un giorno aumentata per benefizio de' figliuoli, vale lo stesso che conseguirla, nè il ritrovato del Cavaliere ha nulla di sì stravagante, ch'io non potessi quanto lui immaginarlo. CAV. (al Conte) Il Colombo trovò l'America. Molti dopo di lui dissero ch'era facile il ritrovarla; col paragone dell'uovo in piedi, svergognò egli i suoi emuli, ed io dico a voi, che il merito della scoperta per ora è mio. AMB. Accomodatevi fra di voi, salvo sempre la roba mia, fin ch'io vivo.
CON. Donna Eugenia è in libertà di decidere. EUG. Conte, finora fui indifferente. Ma farei un'ingiustizia al Cavaliere, se mi valessi de' suoi consigli, per rendere altrui contento. Egli ha trovato il filo per trarmi dal labirinto. Sua deve essere la conquista. CAV. Oh saggia, oh compitissima dama! CON. Sia vero o falso il pretesto, non deggio oppormi alle vostre risoluzioni, e siccome, se io vi avessi sposata, non avrei sofferto l'amicizia del Cavaliere, così, sposandovi a lui, non mi vedrete mai più. CAV. Io non sono melanconico, come voi siete. Alla conversazion di mia moglie tutti gli uomini onesti potran venire: protestandomi che di lei mi fido, e che il vostro merito non mi fa paura. AMB. Andiamo, signor Dottore, a far un'altra scrittura, chiara e forte, sicchè, fin ch'io viva, non possa temer di niente. Voi, signor Don Fernando, andate a Mantova, e seguitate a studiare. Signor Cavaliere, fatto il contratto, darete la mano a mia nuora, e voi, signor Conte, se perdeste una tal fortuna, vi sta bene, perchè siete un Avaro.
Fine della Commedia
LA BOTTEGA DEL CAFFE’
L'AUTORE A CHI LEGGE Quando composi da prima la presente Commedia, lo feci col Brighella e coll'Arlecchino, ed ebbe, a dir vero, felicissimo incontro per ogni parte. Ciò non ostante, dandola io alle stampe, ho creduto meglio servire il Pubblico, rendendola più universale, cambiando in essa non solamente in toscano i due Personaggi suddetti, ma tre altri ancora, che col dialetto veneziano parlavano. Corse in Firenze una Commedia con simil titolo e con vari accidenti a questa simili, perché da questa copiati. Un amico mio di talento e di spirito fece prova di sua memoria; ma avendola uno o due volte sole veduta rappresentare in Milano, molte cose da lui inventate dovette per necessità framischiarvi. Donata ho all'amicizia la burla, ed ho lodato l'ingegno; nulladimeno, né voglio arrogarmi il buono che non è mio, né voglio che i per mia qualche cosa che mi dispiace. Ho voluto pertanto informare il Pubblico di un simil fatto, perché confrontandosi la mia, che ora io stampo, con quella dell'amico suddetto, sia palese la verità, e ciascheduno profitti della sua porzione di lode, e della sua porzione di biasimo si contenti. Questa Commedia ha caratteri tanto universali, che in ogni luogo ove fu ella rappresentata, credevasi fatta sul conio degli originali riconosciuti. Il Maldicente fra gli altri trovò il suo prototipo da per tutto, e mi convenne soffrir talora, benché innocente, la taccia d'averlo maliziosamente copiato. No certamente, non son capace di farlo. I miei caratteri sono umani, sono verisimili, e forse veri, ma io li traggo dalla turba universale degli uomini, e vuole il caso che alcuno in essi si riconosca. Quando ciò accade, non è mia colpa che il carattere tristo a quel vizioso somigli; ma colpa è del vizioso, che dal carattere ch'io dipingo, trovasi per sua sventura attaccato.
PERSONAGGI
RIDOLFO caffettiere DON MARZIO gentiluomo napolitano EUGENIO mercante FLAMINIO sotto nome di Conte Leandro PLACIDA moglie di Flaminio, in abito di pellegrina VITTORIA moglie di Eugenio LISAURA ballerina PANDOLFO biscazziere TRAPPOLA garzone di Ridolfo Un garzone del parrucchiere, che parla Altro garzone del caffettiere, che parla Un cameriere di locanda, che parla Capitano di birri, che parla Birri, che non parlano Altri camerieri di locanda, che non parlano Altri garzoni della bottega di caffè, che non parlano
La scena stabile rappresenta una piazzetta in Venezia, ovvero una strada alquanto spaziosa con tre botteghe: quella di mezzo ad uso di caffè; quella alla diritta, di
parrucchiere e barbiere; quella alla sinistra ad uso di giuoco, o sia biscazza; e sopra le tre botteghe suddette si vedono alcuni stanzini praticabili appartenenti alla bisca, colle finestre in veduta della strada medesima. Dalla parte del barbiere (con una strada in mezzo) evvi la casa della ballerina, e dalla parte della bisca vedesi la locanda con porte e finestre praticabili.
ATTO PRIMO
Scena prima
Ridolfo, Trappola e altri garzoni
RIDOLFO Animo, figliuoli, portatevi bene; siate lesti e pronti a servire gli avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito di una bottega dalla buona maniera di quei che servono. TRAPPOLA Caro signor padrone, per dirvi la verità, questo levarsi di buon ora, non è niente fatto per la mia complessione. RIDOLFO Eppure bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon'ora vengono quelli che hanno da far viaggio, i lavoranti, i barcaruoli, i marinai, tutta gente che si alza di buon mattino. TRAPPOLA E' veramente una cosa che fa crepar di ridere vedere anche i facchini venire a bevere il loro caffè. RIDOLFO Tutti cercan di fare quello che fanno gli altri. Una volta correva l'acquavite, adesso è in voga il caffè. TRAPPOLA E quella signora, dove porto il caffè tutte le mattine, quasi sempre mi prega che io le compri quattro soldi di legna, e pur vuole bere il suo caffé. RIDOLFO La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre quanto più l'uomo invecchia. TRAPPOLA Non si vede venir nessuno a bottega; si poteva dormire un'altra oretta. RIDOLFO Or ora verrà della gente; non è poi tanto di buon'ora. Non vedete? Il barbiere ha aperto: è in bottega lavorando parrucche. Guarda, anche il botteghino del giuoco è aperto. TRAPPOLA Oh! in quanto poi a questa biscazza, è aperta che è un pezzo.
Hanno fatto nottata. RIDOLFO Buono! A messer Pandolfo avrà fruttato bene. TRAPPOLA A quel cane frutta sempre bene: guadagna nelle carte, guadagna negli scrocchi, guadagna a far di balla coi baratori. I denari di chi va là dentro sono tutti suoi. RIDOLFO Non v'innamoraste mai di questo guadagno, perché la farina del diavolo va tutta in crusca. TRAPPOLA Quel povero signor Eugenio! Lo ha precipitato. RIDOLFO Guardate anche quello, che poco giudizio! Ha moglie una giovane di garbo e di proposito, e corre dietro a tutte le donne, e poi di più giuoca da disperato. TRAPPOLA Piccole galanterie della gioventù moderna. RIDOLFO Giuoca con quel conte Leandro, e li ha persi sicuri. TRAPPOLA Oh quel signor conte è un bel fior di virtù! RIDOLFO Oh via, andate a tostare il caffè, per farne una caffettiera di fresco. TRAPPOLA Vi metto gli avanzi di ieri sera? RIDOLFO No, fatelo buono. TRAPPOLA Signor padrone, ho poca memoria. Quant'è che avete aperto bottega? RIDOLFO Lo sapete pure. Saranno incirca otto mesi. TRAPPOLA E' tempo di mutar costume. RIDOLFO Come sarebbe a dire? TRAPPOLA Quando si apre una bottega nuova, si fa il caffè perfetto. Dopo sei mesi al più, acqua calda e brodo lungo. (parte)
RIDOLFO E' grazioso costui! spero che farà bene per la mia bottega, perché in quelle botteghe dove vi è qualcheduno che sappia fare il buffone, tutti corrono.
Scena seconda
Ridolfo e Messer Pandolfo dalla bottega del giuoco, strofinandosi gli occhi come assonnato.
RIDOLFO Messer Pandolfo, volete il caffè? PANDOLFO Sì, fatemi il piacere. RIDOLFO Giovanni, date il caffè a messer Pandolfo. Sedete, accomodatevi. PANDOLFO No, no, bisogna che io lo beva presto, e che ritorni al travaglio. (un giovane porta il caffè a Pandolfo) RIDOLFO Giuocano ancora in bottega? PANDOLFO Si lavora a due telai. RIDOLFO Così presto? PANDOLFO Giuocano da ieri in qua. RIDOLFO A che giuoco? PANDOLFO A un giuoco innocente: prima e seconda. RIDOLFO E come va? PANDOLFO Per me va bene. RIDOLFO Vi siete divertito anche voi a giuocare? PANDOLFO Sì, anch'io ho tagliato un poco. RIDOLFO Compatite, amico, io non ho da entrare ne' vostri interessi; ma non istà bene che il padrone della bottega giuochi anche lui perché se perde, si fa
burlare, e se guadagna, fa sospettare. PANDOLFO A me basta che non mi burlino; del resto poi, che sospettino quanto vogliono, non ci penso. RIDOLFO Caro amico, siamo vicini, e non vorrei, che vi accadessero delle disgrazie. Sapete che per il vostro giuoco siete stato dell'altre volte in cattura. PANDOLFO Mi contento di poco. Ho buscati due zecchini, e non ho voluto altro. RIDOLFO Bravo, pelar la quaglia senza farla gridare. A chi li avete vinti? PANDOLFO Ad un garzone d'orefice. RIDOLFO Male, malissimo: così si da mano ai giovani perché rubino ai loro padroni. PANDOLFO Eh! non mi venite a moralizzare. Chi è gonzo stia a casa sua. Io tengo giuoco per chi vuole giocare. RIDOLFO Tener giuoco stimo il meno; ma voi siete preso di mira per giuocator di vantaggio, e in questa sorta di cose si fa presto a precipitare. PANDOLFO Io bricconate non ne fo. So giuocare. Son fortunato e per questo vinco. RIDOLFO Bravo, tirate innanzi così. Il signor Eugenio ha giuocato questa notte? PANDOLFO Giuoca anche adesso. Non ha cenato, non ha dormito e ha perso tutti i denari. RIDOLFO (Povero giovine!) (da sé) Quanto avrà perduto? PANDOLFO Cento zecchini in contanti, e ora perde sulla parola. RIDOLFO Con chi giuoca? PANDOLFO Col signor Conte. RIDOLFO Con quello sì fatto?
PANDOLFO Appunto con quello. RIDOLFO E con chi altri? PANDOLFO Loro due soli: a testa a testa. RIDOLFO Poveraccio! Sta fresco davvero! PANDOLFO Che importa? A me basta che scozzino delle carte assai. RIDOLFO Non terrei giuoco, se credessi di farmi ricco. PANDOLFO No? Per quale ragione? RIDOLFO Mi pare, che un galantuomo non debba soffrire di veder ass la gente. PANDOLFO Eh, amico, se sarete così delicato di pelle, farete pochi quattrini. RIDOLFO Non me ne importa niente. Finora sono stato a servire, e ho fatto il mio debito onoratamente. Mi sono avanzato quattro soldi, e coll'aiuto del mio padrone di allora, ch'era il padre, come sapete, del signor Eugenio, ho aperta questa bottega, e con questa voglio vivere onoratamente, e non voglio far torto alla mia professione. PANDOLFO Oh! anche nella vostra professione vi sono de' bei capi d'opera! RIDOLFO Ve ne sono in tutte le professioni. Ma da quelli non vanno le persone ragguardevoli che vengono alla mia bottega. PANDOLFO Avete anche voi gli stanzini segreti. RIDOLFO E' vero; ma non si chiude la porta. PANDOLFO Il caffè non potete negarlo a nessuno. RIDOLFO Le chicchere non si macchiano. PANDOLFO Eh via! si serra un occhio. RIDOLFO Non si serra niente; in questa bottega non vien che gente onorata.
PANDOLFO Sì, sì, siete principiante. RIDOLFO Che vorreste dire? (Gente della bottega del giuoco chiama: Carte!) PANDOLFO La servo. (verso la sua bottega) RIDOLFO Per carità, levate dal tavolino quel povero signore Eugenio. PANDOLFO Per me, che perda anche la camicia, non ci penso. (s'incammina verso la sua bottega) RIDOLFO Amico, il caffé ho da notarlo? PANDOLFO Niente, lo giuocheremo a primiera. RIDOLFO Io non sono un gonzo, amico. PANDOLFO Via, che serve? Sapete pure che i miei avventori si servono alla vostra bottega. Mi meraviglio che attendiate a queste piccole cose. (s'incammina) (Tornano a chiamare) PANDOLFO Eccomi. (entra nel giuoco) RIDOLFO Bel mestiere! vivere sulle disgrazie, sulla rovina della gioventù! Per me non vi sarà mai pericolo che tenga giuoco. Si principia con i giuochetti, e poi si termina colla bassetta. No, no, caffè, caffè; giacché col caffè si guadagna il cinquanta per cento, che cosa vogliamo cercar di più?
Scena terza
Don Marzio e Ridolfo
RIDOLFO (Ecco qui, quel che non tace mai, e che sempre vuole aver ragione.) (da sè) DON MARZIO Caffè! RIDOLFO Subito, sarà servita. DON MARZIO Che vi è di nuovo, Ridolfo? RIDOLFO Non saprei, signore. DON MARZIO Non si è ancora veduto nessuno a questa vostra bottega. RIDOLFO E' per anco buon'ora. DON MARZIO Buon'ora? Sono sedici ore sonate. RIDOLFO Oh illustrissimo no, non sono ancora quattordici. DON MARZIO Eh, via, buffone! RIDOLFO Le assicuro io che le quattordici ore non sono sonate. DON MARZIO Eh, via, asino. RIDOLFO Ella mi strapazza senza ragione. DON MARZIO Ho contato in questo punto le ore, e vi dico che sono sedici; e poi guardate il mio orologio (gli mostra l'orologio); questo non fallisce mai. RIDOLFO Bene, se il suo orologio non fallisce, osservi; il suo orologio medesimo mostra tredici ore e tre quarti.
DON MARZIO Eh, non può essere. (cava l'occhialetto e guarda) RIDOLFO Che dice? DON MARZIO Il mio orologio va male. Sono sedici ore. Le ho sentite io. RIDOLFO Dove l'ha comprato quell'orologio? DON MARZIO L'ho fatto venir di Londra. RIDOLFO L'hanno ingannata. DON MARZIO Mi hanno ingannato? Perché? RIDOLFO Le hanno mandato un orologio cattivo. (ironicamente) DON MARZIO Come cattivo? E' uno dei più perfetti, che abbia fatto il Quarè. RIDOLFO Se fosse buono, non fallirebbe di due ore. DON MARZIO Questo va sempre bene, non fallisce mai. RIDOLFO Ma se fa quattordici ore meno un quarto, e dice che sono sedici. DON MARZIO Il mio orologio va bene. RIDOLFO Dunque saranno or ora quattordici, come dico io. DON MARZIO Sei un temerario. Il mio orologio va bene, tu di' male, e guarda ch'io non ti dia qualche cosa nel capo. (un giovane porta il caffè) RIDOLFO E' servita del caffè. (con sdegno) (Oh che bestiaccia!) (da sè) DON MARZIO Si è veduto il signor Eugenio? RIDOLFO Illustrissimo signor no. DON MARZIO Sarà in casa a carezzare la moglie. Che uomo effeminato! Sempre moglie! Non si lascia più vedere, si fa ridicolo. E' un uomo di stucco. Non sa quel che si faccia. Sempre moglie! sempre moglie! (bevendo il caffè)
RIDOLFO Altro che moglie! E' stato tutta la notte a giuocare qui da messer Pandolfo. DON MARZIO Se lo dico io. Sempre giuoco. Sempre giuoco! (da la chicchera e s'alza) RIDOLFO (Sempre giuoco; sempre moglie; sempre il diavolo, che se lo porti!) (da sè) DON MARZIO E' venuto da me l'altro giorno con tutta segretezza a pregarmi che gli prestassi dieci zecchini sopra un paio di orecchini di sua moglie. RIDOLFO Vede bene; tutti gli uomini sono soggetti ad avere qualche volta bisogno; ma non tutti hanno piacere poi che si sappia, e per questo sarà venuto da lei, sicuro che non dirà niente a nessuno. DON MARZIO Oh io non parlo. Fo volentieri servizio a tutti, e non me ne vanto. (mostra gli orecchini in una custodia) Eccoli qui; questi sono gli orecchini di sua moglie. Gli ho prestato dieci zecchini; vi pare che io sia coperto? RIDOLFO Io non me ne intendo, ma mi par di sì. DON MARZIO Avete il vostro garzone? RIDOLFO Ci sarà. DON MARZIO Chiamatelo. Ehi, Trappola.
Scena quarta
Trappola dall'interno della bottega, detti.
TRAPPOLA Eccomi. DON MARZIO Vieni qui. Va dal gioielliere qui vicino, fagli vedere questi orecchini, che sono della moglie del signor Eugenio, e dimandagli da parte mia, se io sono al coperto di dieci zecchini, che gli ho prestati. TRAPPOLA Sarà servita. Dunque questi orecchini sono della moglie del signor Eugenio? DON MARZIO Sì, or ora non ha più niente; è morto di fame. RIDOLFO (Meschino, in che mani è capitato!) (da sè) TRAPPOLA E al signor Eugenio non importa niente di far sapere i fatti suoi a tutti? DON MARZIO Io sono una persona, alla quale si può confidare un segreto. TRAPPOLA Ed io sono una persona, alla quale non si può confidar niente. DON MARZIO Perché? TRAPPOLA Perché ho un vizio, che ridico tutto con facilità. DON MARZIO Male malissimo; se farai così perderai il credito, e nessuno si fiderà di te. TRAPPOLA Ma come ella l'ha detto a me, così io posso dirlo ad un altro. DON MARZIO Va a vedere se il barbiere è a tempo per farmi la barba. TRAPPOLA La servo (da sè) (per dieci quattrini vuole bere il caffè, e vuole un
servitore a suo comando.) (entra dal barbiere) DON MARZIO Ditemi, Ridolfo: che cosa fa quella ballerina qui vicina? RIDOLFO In verità non so niente. DON MARZIO Mi è stato detto che il conte Leandro la tiene sotto la sua tutela. RIDOLFO Con grazia, signore, il caffè vuol bollire. (da sè) (Voglio badare a' fatti miei.) (entra in bottega)
Scena quinta
Trappola e Don Marzio.
TRAPPOLA Il barbiere ha uno sotto; subito che avrà finito di scorticar quello, servirà V. S. illustrissima. DON MARZIO Dimmi: sai niente tu di quella ballerina che sta qui vicino? TRAPPOLA Della signora Lisaura? DON MARZIO Sì. TRAPPOLA So, e non so. DON MARZIO Raccontami qualche cosa. TRAPPOLA Se racconterò i fatti degli altri, perderò il credito, e nessun si fiderà più di me. DON MARZIO A me lo puoi dire. Sai chi sono, io non parlo. Il conte Leandro la pratica? TRAPPOLA Alle sue ore la pratica. DON MARZIO Che vuol dire alle sue ore? TRAPPOLA Vuol dire, quando non è in caso di dar soggezione. DON MARZIO Bravo; ora capisco. E' un amico di buon cuore, che non vuole recarle pregiudizio. TRAPPOLA Anzi desidera che la si profitti per far partecipe anche lui delle sue care grazie. DON MARZIO Meglio! Oh che Trappola malizioso! Va via, va a far vedere gli
orecchini. TRAPPOLA Al gioielliere lo posso dire che sono della moglie del signor Eugenio? DON MARZIO Sì, diglielo pure. TRAPPOLA (da sè) (Fra il signor Don Marzio, ed io, formiamo una bellissima segreteria.) (parte)
Scena sesta
Don Marzio, poi Ridolfo.
DON MARZIO Ridolfo. RIDOLFO Signore. DON MARZIO Se voi non sapete niente della ballerina, vi racconterò io. RIDOLFO Io, per dirgliela, dei fatti degli altri non me ne curo molto. DON MARZIO Ma sta bene saper qualche cosa per potersi regolare. Ella è protetta da quella buona lana del conte Leandro, ed egli, dai profitti della ballerina ricava il prezzo della sua protezione. Invece di spendere, mangia tutto a quella povera diavola; e per cagione di lui forse è costretta a fare quello che non farebbe. Oh che briccone! RIDOLFO Ma, io son qui tutto il giorno, e posso attestare che in casa sua non vedo andare altri, che il conte Leandro. DON MARZIO Ha la porta di dietro; pazzo, pazzo! Sempre flusso e riflusso. Ha la porta di dietro, pazzo! RIDOLFO Io bado alla mia bottega, s'ella ha la porta di dietro, che importa a me? Io non vado a dar di naso a nessuno. DON MARZIO Bestia! Così parli con un par mio? (s'alza) RIDOLFO Le domando perdono, non si può dire una facezia? DON MARZIO Dammi un bicchier di rosolio. RIDOLFO (da sè) (Questa barzelletta mi costerà due soldi.) (fa cenno ai giovani, che dieno il rosolio)
DON MARZIO (Oh questa poi della ballerina voglio che tutti la sappiano.) (da sè) RIDOLFO Servita del rosolio. DON MARZIO Flusso e riflusso per la porta di dietro. (bevendo il rosolio) RIDOLFO Ella starà male quando ha il flusso e riflusso per la porta di dietro.
Scena settima
Eugenio dalla bottega del giuoco, vestito da notte e stralunato, guardando il cielo e battendo i piedi; e detti.
DON MARZIO Schiavo, signor Eugenio. EUGENIO Che ora è? DON MARZIO Sedici ore sonate. RIDOLFO E il suo orologio va bene. EUGENIO Caffè! RIDOLFO La servo, subito. (va in bottega) DON MARZIO Amico, com'è andata? EUGENIO Caffè! (non abbadando a Don Marzio) RIDOLFO Subito. (di lontano) DON MARZIO Avete perso? (ad Eugenio) EUGENIO Caffè. (gridando forte) DON MARZIO (Ho inteso, gli ha persi tutti.) (da sè, va a sedere)
Scena ottava
Pandolfo dalla bottega del giuoco e detti.
PANDOLFO Signor Eugenio, una parola. (lo tira in disparte) EUGENIO So quel che volete dirmi. Ho perso trenta zecchini sulla parola. Son, galantuomo, li pagherò. PANDOLFO Ma il signor Conte è là, che aspetta. Dice che ha esposto al pericolo i suoi denari, e vuol essere pagato. DON MARZIO (Quanto pagherei a sentire che cosa dicono.) (da sé) RIDOLFO (ad Eugenio) Ecco il caffè. EUGENIO (a Ridolfo) Andate via. (a Pandolfo) Ha vinti cento zecchini in contanti; mi pare che non abbia gettata via la notte. PANDOLFO Queste non sono parole da giuocatore; V. S. sa meglio di me come va l'ordine in materia di giuoco. RIDOLFO (ad Eugenio) Signore, il caffè si raffredda. EUGENIO (a Ridolfo) Lasciatemi stare. RIDOLFO Se non lo voleva... EUGENIO Andate via. RIDOLFO Lo beverò io (si ritira col caffè) DON MARZIO (a Ridolfo, che non gli risponde) (Che cosa dicono?) EUGENIO (a Pandolfo) So ancor io, che quando si perde, si paga ma quando non ve n'è, non si può pagare.
PANDOLFO Sentite, per salvare la vostra riputazione, son uomo capace di ritrovare trenta zecchini. EUGENIO Oh bravo! (chiama forte) Caffè! RIDOLFO (ad Eugenio) Ora bisogna farlo. EUGENIO Sono tre ore che domando caffè, e ancora non l'avete fatto? RIDOLFO L'ho portato, ed ella mi ha cacciato via. PANDOLFO Gliel'ordini con premura, che lo farà da suo pari. EUGENIO (a Ridolfo) Ditemi, vi dà l'animo di darmi un caffè ma buono? Via, da bravo. RIDOLFO Quando mi dia tempo, la servo. (va in bottega) DON MARZIO (da sé) (Qualche grand'affare. Sono curioso di saperlo.) EUGENIO Animo, Pandolfo, trovatemi questi trenta zecchini. PANDOLFO Io ho un amico, che gli darà; ma pegno, e regalo. EUGENIO Non mi parlate di pegno, che non facciamo niente. Ho que' panni a Rialto, che voi sapete; obbligherò que' panni, e quando li venderò pagherò DON MARZIO (da sé) (Pagherò. Ha detto pagherò. Ha perso sulla parola.) PANDOLFO Bene: che cosa vuol dar di regalo? EUGENIO Fate voi quel che credete a proposito. PANDOLFO Senta; non vi vorrà meno di un zecchino alla settimana. EUGENIO Un zecchino di usura alla settimana? RIDOLFO (col caffè, ad Eugenio) Servita del caffè. EUGENIO (a Ridolfo) Andate via.
RIDOLFO La seconda di cambio. EUGENIO (a Pandolfo) Un zecchino alla settimana? PANDOLFO Per trenta zecchini è una cosa discreta. RIDOLFO (ad Eugenio) Lo vuole, o non lo vuole? EUGENIO (a Ridolfo) Andate via, che ve lo getto in faccia. RIDOLFO (da sè) (Poveraccio! Il giuoco l'ha ubbriacato.) (porta il caffè in bottega) DON MARZIO (s'alza, e va vicino ad Eugenio) Signor Eugenio, vi è qualche differenza? Volete che l'aggiusti io? EUGENIO Niente, signor Don Marzio: la prego lasciarmi stare. DON MARZIO Se avete bisogno, comandate. EUGENIO Le dico che non mi occorre niente. DON MARZIO Messer Pandolfo, che avete voi col signor Eugenio? PANDOLFO Un piccolo affare, che non abbiamo piacere di far sapere a tutto il mondo. DON MARZIO Io sono amico del signor Eugenio, so tutti i fatti suoi, e sa che non parlo con nessuno. Gli ho prestati anche dieci zecchini sopra un paio d'orecchini; non è egli vero? e non l'ho detto a nessuno. EUGENIO Si poteva anche risparmiare di dirlo adesso. DON MARZIO Eh, qui con messer Pandolfo si può parlate con libertà. Avete perso sulla parola? Avete bisogno di nulla? Son qui. EUGENIO Per dirgliela, ho perso sulla parola trenta zecchini. DON MARZIO Trenta zecchini, e dieci, che ve ne ho dati, sono quaranta, gli orecchini non possono valer tanto.
PANDOLFO Trenta zecchini glieli troverò io. DON MARZIO Bravo; trovateneglie quaranta; mi darete i miei dieci, e vi darò i suoi orecchini. EUGENIO (da sè) (Maledetto sia quando mi sono impicciato con costui.) DON MARZIO (ad Eugenio) Perché non prendere il danaro che vi offerisce il signor Pandolfo? EUGENIO Perché vuole un zecchino alla settimana. PANDOLFO Io per me non voglio niente; è l'amico che fa il servizio, che vuole così. EUGENIO Fate una cosa: parlate col signor Conte, ditegli che mi dia tempo ventiquattr'ore; son galantuomo, lo pagherò. PANDOLFO Ho paura ch'egli abbia da andar via, e che voglia il danaro subito. EUGENIO Se potessi vendere una pezza o due di que' panni, mi spiccerei. PANDOLFO Vuole che veda io di ritrovare il compratore? EUGENIO Sì, caro amico, fatemi il piacere, che vi pagherò la vostra sensaria. PANDOLFO Lasci che io dica una parola al signor Conte, e vado subito. (entra nella bottega del giuoco) DON MARZIO (ad Eugenio) Avete perso molto? EUGENIO Cento zecchini, che aveva riscossi ieri, e poi trenta sulla parola. DON MARZIO Potevate portarmi i dieci, che vi ho prestati. EUGENIO Via, non mi mortificate più; ve li darò i vostri dieci zecchini. PANDOLFO (col tabarro e Cappello, dalla sua bottega). Il signor Conte si è addormentato colla testa sul tavolino. Intanto vado a veder di far quel servizio. Se si risveglia, ho lasciato l'ordine al giovane, che gli dica il bisogno. V.S. non si parta di qui.
EUGENIO Vi aspetto in questo luogo medesimo. PANDOLFO Questo tabarro è vecchio; ora è tempo di farmene uno nuovo a ufo. (da sè, parte)
Scena nona
Don Marzio ed Eugenio, poi Ridolfo.
DON MARZIO Venite qui, sedete, beviamo il caffè. EUGENIO Caffè! (siedono) RIDOLFO A che giuoco giuochiamo, signor Eugenio? Si prende so de' fatti miei? EUGENIO Caro amico, compatite, sono stordito. RIDOLFO Eh, caro, signor Eugenio, se V.S. volesse badare a me la non si troverebbe in tal caso. EUGENIO Non so che dire, avete ragione. RIDOLFO Vado a farle un altro caffè, e poi la discorreremo. (si, ritira in bottega) DON MARZIO Avete saputo della ballerina che pareva non volesse nessuno? Il Conte la mantiene. EUGENIO Credo di sì, che possa mantenerla, vince i zecchini a centinaia. DON MARZIO Io ho saputo tutto. EUGENIO Come l'avete saputo, caro amico? DON MARZIO Eh, io so tutto. Sono informato di tutto. So quando vi va, quando esce. So quel che spende, quel che mangia; so tutto. EUGENIO Il Conte è poi solo? DON MARZIO Oibò; vi è la porta di dietro.
RIDOLFO (col caffè) Ecco qui il terzo caffè. (ad Eugenio) DON MARZIO Ah! che dite, Ridolfo? So tutto io della ballerina? RIDOLFO Io le ho detto un'altra volta che non me ne intrico. DON MARZIO Grand'uomo son io, per saper ogni cosa! Chi vuol sapere quel che a in casa di tutte le virtuose, e di tutte le ballerine, ha da venir da me. EUGENIO Dunque questa signora ballerina è un capo d'opera? DON MARZIO L'ho veramente scoperta come va. E' roba di tutto gusto. Ah, Ridolfo, lo so io? RIDOLFO Quando V. S. mi chiama in testimonio, bisogna ch'io dica la verità. Tutta la contrada la tiene per una donna da bene. DON MARZIO Una donna da bene? Una donna da bene? RIDOLFO Io le dico che in casa sua non vi va nessuno. DON MARZIO Per la porta di dietro, flusso e riflusso. EUGENIO E sì ella pare una ragazza più tosto savia. DON MARZIO Sì savia! Il conte Buonatesta la mantiene. Poi vi va chi vuole. EUGENIO Io ho provato qualche volta a dirle delle paroline, e non ho fatto niente. DON MARZIO Avete un filippo da scommettere? Andiamo. RIDOLFO (da sè) (Oh che lingua!) EUGENIO Vengo qui a bever il caffè ogni giorno; e, per dirla, non ho veduto andarvi nessuno. DON MARZIO Non sapete che ha la porta segreta qui nella strada remota? Vanno per di là. EUGENIO Sarà così.
DON MARZIO E' senz'altro.
Scena decima
Il garzone del barbiere e detti.
GARZONE (a Don Marzio) Illustrissimo, se vuol farsi far la barba, il padrone l'aspetta. DON MARZIO Vengo. E' cosi come vi dico. Vado a farmi la barba, e come torno vi dirò il resto. (entra dal barbiere, e poi a tempo ritorna) EUGENIO Che dite, Ridolfo? La ballerina si è tratta fuori. RIDOLFO Cred'ella al signor Don Marzio? Non sa la lingua ch'egli è? EUGENIO Lo so, che ha una lingua che taglia e fende. Ma parla con tanta franchezza, che convien dire che ei sappia quel che dice. RIDOLFO Osservi, quella è la porta della stradetta. A star qui la si vede; e giuro da uomo d'onore, che per di là in casa non va nessuno. EUGENIO Ma il Conte la mantiene? RIDOLFO Il Conte va per casa, ma si dice che la voglia sposare. EUGENIO Se fosse cosi, non vi sarebbe male; ma dice il signor Don Marzio, che in casa vi va chi vuole. RIDOLFO Ed io le dico che non vi va nessuno. DON MARZIO (esce dal barbiere col panno bianco al collo e la saponata sul viso) Vi dico che vanno per la porta di dietro. GARZONE Illustrissimo, l'acqua si raffredda. DON MARZIO Per la porta di dietro. (entra dal barbiere col garzone)
Scena undicesima
Eugenio e Ridolfo.
RIDOLFO Vede? E' un uomo di questa fatta. Colla saponata sul viso. EUGENIO Sì, quando si è cacciata una cosa in testa vuole che sia in quel modo. RIDOLFO E dice male di tutti. EUGENIO Non so come faccia a parlar sempre de' fatti altrui. RIDOLFO Le dirò: egli ha pochissime facoltà; ha poco da pensare a' fatti suoi, e per questo pensa sempre a quelli degli altri. EUGENIO Veramente è fortuna il non conoscerlo. RIDOLFO Caro signor Eugenio, come ha ella fatto a intricarsi con lui? Non aveva altri da domandare dieci zecchini in prestito? EUGENIO Anche voi lo sapete? RIDOLFO L'ha detto qui pubblicamente in bottega. EUGENIO Caro amico, sapete come va: quando uno ha bisogno si attacca a tutto. RIDOLFO Anche questa mattina, per quel che ho sentito, V. S. si è attaccata poco bene. EUGENIO Credete che messer Pandolfo mi voglia gabbare? RIDOLFO Vedrà che razza di negozio le verrà a proporre. EUGENIO Ma che devo fare? Bisogna che io paghi trenta zecchini, che ho persi sulla parola. Mi vorrei liberare dal tormento di don Marzio. Ho qualche altra
premura; se posso vendere due pezze di panno, fo' tutti i fatti miei. RIDOLFO Che qualità di panno è quello che vorrebbe esitare? EUGENIO Panno padovano, che vale quattordici lire il braccio. RIDOLFO Vuol ella che veda io di farglielo vendere con riputazione? EUGENIO Vi sarei bene obbligato. RIDOLFO Mi dia un poco di tempo, e lasci operare a me. EUGENIO Tempo? Volentieri. Ma quello aspetta i trenta zecchini. RIDOLFO Venga qui, favorisca, mi faccia un ordine, che mi sieno consegnate due pezze di panno, ed io medesimo le presterò i trenta zecchini. EUGENIO Sì, caro, vi sarò obbligato. Saprò le mie obbligazioni. RIDOLFO Mi maraviglio, non pretendo nemmeno un soldo. Lo farò per le obbligazioni ch'io ho colla buona memoria del suo signor padre, che è stato mio buon padrone, e dal quale riconosco la mia fortuna. Non ho cuor di vederla asse da questi cani. EUGENIO Voi siete un gran galantuomo. RIDOLFO Favorisca di stender l'ordine in carta. EUGENIO Son qui; dettatelo voi, ch'io scriverò. RIDOLFO Che nome ha il primo giovane del suo negozio? EUGENIO Pasquino de' Cavoli. RIDOLFO (detta, ed Eugenio scrive) Pasquino de' Cavoli... consegnerete a Messer Ridolfo Gamboni... pezze due panno padovano... a sua elezione, acciò egli ne faccia esito per conto mio... avendomi prestato gratuitamente... zecchini trenta. Vi metta la data e si sottoscriva. EUGENIO Ecco fatto.
RIDOLFO Si fida ella di me? EUGENIO Capperi! Non volete? RIDOLFO Ed io mi fido di lei. Tenga, questi sono trenta zecchini. (gli numera trenta zecchini) EUGENIO Caro amico, vi sono obbligato. RIDOLFO Signor Eugenio, glieli do, acciò possa comparire puntuale e onorato; le venderò il panno io, acciò non le venga mangiato, e vado subito senza perder tempo: ma la mi permetta che faccia con lei un piccolo sfogo d'amore, per l'antica servitù che le professo. Questa che V. S. tiene, è la vera strada di andare in rovina. Presto presto si perde il credito e si fallisce. Lasci andare il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio. Poche parole, ma buone, dette da un uomo ordinario, ma di buon cuore; se le ascolterà, sarà meglio per lei. (parte)
Scena dodicesima
Eugenio solo, poi Lisaura alla finestra.
EUGENIO Non dice male; confesso che non dice male. Mia moglie, povera disgraziata, che mai dirà? Questa notte non mi ha veduto; quanti lunari avrà ella fatti? Già le donne, quando non vedono il marito in casa, pensano cento cose una peggio dell'altra. Avrà pensato, o che io fossi con altre donne, o che fossi caduto in qualche canale, o che per i debiti me ne fossi andato. So che l'amore, ch'ella ha per me, la fa sospirare; le voglio bene ancor io, ma mi piace la mia libertà. Vedo però, che da questa mia libertà ne ricavo più mal che bene, e che se fi a modo di mia moglie, le faccende di casa mia andrebbero meglio. Bisognerà poi risolversi, e metter giudizio. Oh quante volte ho detto così! (vede Lisaura alla finestra) (Capperi! Grand'aria! Ho paura di sì io, che vi sia la porticina col giuocolino) Padrona mia riverita! LISAURA Serva umilissima! EUGENIO E' molto, signora, che è alzata dal letto? LISAURA In questo punto. EUGENIO Ha bevuto il caffè? LISAURA E' ancora presto. Non l'ho bevuto. EUGENIO Comanda che io la faccia servire? LISAURA Bene obbligata: non s'incomodi. EUGENIO Niente, mi maraviglio. Giovani, portate a quella signora caffè, cioccolata; tutto quel ch'ella vuole, pago io. LISAURA La ringrazio, la ringrazio. Il caffè e la cioccolata li faccio in casa. EUGENIO Avrà della cioccolata buona?
LISAURA Per dirla, è perfetta. EUGENIO La sa far bene? LISAURA La mia serva s'ingegna. EUGENIO Vuole che venga io a darle una frullatina? LISAURA E' superfluo che s'incomodi. EUGENIO Verrò a beverla con lei, se mi permette. LISAURA Non è per lei, signore. EUGENIO Io mi degno di tutto; apra, via, che staremo un'oretta insieme. LISAURA Mi perdoni, non apro con questa facilità. EUGENIO Ehi, dica, vuole che io venga per la porta di dietro? LISAURA Le persone, che vengono da me, vengono pubblicamente. EUGENIO Apra, via, non facciamo scene. LISAURA Dica in grazia, signor Eugenio: ha veduto ella il conte Leandro? EUGENIO Così non lo avessi veduto. LISAURA Hanno forse giuocato insieme la scorsa notte? EUGENIO Pur troppo; ma che serve, che stiamo qui a far sentire a tutti i fatti nostri? Apra, che le dirò ogni cosa. LISAURA Vi dico, signore, che io non apro a nessuno. EUGENIO Ha forse bisogno che il signor Conte le dia licenza? Lo chiamerò. LISAURA Se cerco del signor Conte, ho ragione di farlo. EUGENIO Ora la servo subito. E' qui in bottega, che dorme.
LISAURA Se dorme, lasciatelo dormire.
Scena tredicesima
Leandro dalla bottega del giuoco e detti.
LEANDRO Non dormo, no, non dormo. Son qui che godo la bella disinvoltura del signor Eugenio. EUGENIO Che ne dite dell'indiscretezza di questa signora? Non mi vuole aprire la porta. LEANDRO Chi vi credete ch'ella sia? EUGENIO Per quel che dice Don Marzio, flusso e riflusso. LEANDRO Mente don Marzio, e chi lo crede. EUGENIO Bene. Non sarà così; ma col vostro mezzo non potrei io aver la grazia di riverirla? LEANDRO Fareste meglio a darmi i miei trenta zecchini. EUGENIO I trenta zecchini ve li darò. Quando si perde sulla parola, vi è tempo a pagare ventiquattr'ore. LEANDRO Vedete, signora Lisaura? Questi sono quei gran soggetti, che si piccano d'onoratezza. Non ha un soldo, e pretende di fare il grazioso. EUGENIO I giovani della mia sorta, signor Conte caro, non sono capaci di mettersi in un impegno senza fondamento di comparir con onore. S'ella mi avesse aperto, non avrebbe perduto il suo tempo, e voi non sareste restato al di sotto coi vostri incerti. Questi sono danari, questi sono trenta zecchini, e queste faccie quando non ne hanno, ne trovano. Tenete i vostri trenta zecchini, e imparate a parlare coi galantuomini della mia sorta. (va a sedere in bottega del caffè) LEANDRO (da sè) (Mi ha pagato, dica che che vuole, che non m'importa.) (a
Lisaura) Aprite! LISAURA Dove siete stato tutta questa notte? LEANDRO Aprite! LISAURA Andate al diavolo! LEANDRO Aprite! (versa gli zecchini nel Cappello, acciò Lisaura gli veda.) LISAURA Per questa volta vi apro. (si ritira ed apre) LEANDRO Mi fa grazia, mediante la raccomandazione di queste belle monete. (entra in casa) EUGENIO Egli sì, ed io no? Non sono chi sono, se non gliela faccio vedere.
Scena quattordicesima
Placida da Pellegrino ed Eugenio.
PLACIDA Un poco di carità alla povera pellegrina. EUGENIO (da sè) (Ecco qui; corre la moda delle pellegrine.) PLACIDA (ad Eugenio) Signore, per amor del cielo, mi dia qualche cosa. EUGENIO Che vuol dir questo, signora pellegrina? Si va cosi per divertimento o per pretesto? PLACIDA Né per l'uno, né per l'altro. EUGENIO Dunque per qual causa si gira il mondo? PLACIDA Per bisogno. EUGENIO Bisogno, di che? PLACIDA Di tutto. EUGENIO Anche di compagnia. PLACIDA Di questa non avrei bisogno, se mio marito non mi avesse abbandonata. EUGENIO La solita canzonetta. Mio marito mi ha abbandonata. Di che paese siete, signora? PLACIDA Piemontese. EUGENIO E vostro marito? PLACIDA Piemontese egli pure.
EUGENIO Che facev'egli al suo paese? PLACIDA Era scritturale d'un mercante. EUGENIO E perché se n'è andato via? PLACIDA Per poca volontà di far bene. EUGENIO Questa è una malattia che l'ho provata anch'io, e non sono ancora guarito. PLACIDA Signore, aiutatemi per carità. Sono arrivata in questo punto a Venezia. Non so dove andare, non conosco nessuno, non ho danari, son disperata. EUGENIO Che cosa siete venuta a fare a Venezia? PLACIDA A vedere se trovo quel disgraziato di mio marito. EUGENIO Come si chiama? PLACIDA Flaminio Ardenti. EUGENIO Non ho mai sentito un tal nome. PLACIDA Ho timore che il nome se lo sia cambiato. EUGENIO Girando per la città, può darsi che, se vi è, lo troviate. PLACIDA Se mi vedrà, fuggirà. EUGENIO Dovreste far cosi. Siamo ora di carnovale, dovreste mascherarvi, e così più facilmente lo trovereste. PLACIDA Ma come posso farlo, se non ho alcuno che mi assista? Non so nemmeno dove alloggiare. EUGENIO (da sé) (Ho inteso, or ora vado in pellegrinaggio ancor io). Se volete, questa è una buona locanda. PLACIDA Con che coraggio ho da presentarmi alla locanda, se non ho nemmeno da pagare il dormire?
EUGENIO Cara pellegrina, se volete un mezzo ducato, ve lo posso dare. (da sè) (Tutto quello che mi è avanzato dal giuoco.) PLACIDA Ringrazio la vostra pietà. Ma più del mezzo ducato, più di qual si sia moneta, mi sarebbe cara la vostra protezione. EUGENIO (da sè) (Non vuole il mezzo ducato; vuole qualche cosa di più.)
Scena quindicesima
Don Marzio dal barbiere e detti.
DON MARZIO (da sè) (Eugenio con una pellegrina! Sarà qualche cosa di buono!) (siede al caffè, guardando la pellegrina coll'occhialetto) PLACIDA Fatemi la carità; introducetemi voi alla locanda. Raccomandatemi al padrone di essa, acciò, vedendomi così sola, non mi scacci, o non mi maltratti. EUGENIO Volentieri. Andiamo, che vi accompagnerò. Il locandiere mi conosce, e a riguardo mio, spero che vi à tutte le cortesie che potrà. DON MARZIO (da sè) (Mi pare d'averla veduta altre volte). (guarda di lontano coll'occhialetto) PLACIDA Vi sarò eternamente obbligata. EUGENIO Quando posso, faccio del bene a tutti. Se non ritroverete vostro marito, vi assisterò io. Son di buon cuore. DON MARZIO (da sè) (Pagherei qualche cosa di bello a sentir cosa dicono.) PLACIDA Caro signore, voi mi consolate colle vostre cortesissime esibizioni. Ma la carità d'un giovane, come voi, ad una donna, che non è ancor vecchia, non vorrei che venisse sinistramente interpretata. EUGENIO Vi dirò, signora: se in tutti i casi si avesse questo riguardo, si verrebbe a levare agli uomini la libertà di fare delle opere di pietà. Se la mormorazione è fondata sopra un'apparenza di male, si minora la colpa del mormoratore; ma se la gente cattiva prende motivo di sospettare da un'azione buona o indifferente, tutta la colpa è sua, e non si leva il merito a chi opera bene. Confesso d'esser anch'io uomo di mondo; ma mi picco insieme d'esser un uomo civile, ed onorato.
PLACIDA Sentimenti d'animo onesto, nobile, e generoso. DON MARZIO (ad Eugenio) Amico, chi è questa bella pellegrina? EUGENIO (da sè) (Eccolo qui; vuol dar di naso per tutto). (a Placida) Andiamo in locanda. PLACIDA Vi seguo. (entra in locanda con Eugenio)
Scena sedicesima
Don Marzio, poi Eugenio dalla locanda.
DON MARZIO Oh, che caro signor Eugenio! Egli applica a tutto, anche alla pellegrina. Colei mi pare certamente sia quella dell'anno ato. Scommetterei che è quella che veniva ogni sera al caffè a domandar l'elemosina. Ma io però non glie ne ho mai dati, veh! I miei danari, che sono pochi, li voglio spender bene. Ragazzi, non è ancora tornato Trappola? Non ha riportati gli orecchini, che mi ha dati in pegno per dieci zecchini il signor Eugenio? EUGENIO Che cosa dice de' fatti miei? DON MARZIO Bravo, colla pellegrina! EUGENIO Non si può assistere una povera creatura, che si ritrova in bisogno? DON MARZIO Sì, anzi fate bene. Povera diavola! Dall'anno ato in qua, non ha trovato nessuno che la ricoveri? EUGENIO Come dall'anno ato! La conoscete quella pellegrina? DON MARZIO Se la conosco? E come! E' vero che ho corta vista, ma la memoria mi serve. EUGENIO Caro amico, ditemi chi ella è. DON MARZIO E' una, che veniva l'anno ato a questo caffè ogni sera, a frecciare questo e quello. EUGENIO Se ella dice che non è mai più stata in Venezia? DON MARZIO E voi glielo credete? Povero gonzo! EUGENIO Quella dell'anno ato di che paese era?
DON MARZIO Milanese. EUGENIO E questa è piemontese. DON MARZIO Oh sì, è vero; era di Piemonte. EUGENIO E' moglie d'un certo Flaminio Ardenti. DON MARZIO Anche l'anno ato aveva con lei uno, che ava per suo marito. EUGENIO Ora non ha nessuno. DON MARZIO La vita di costoro; ne mutano uno al mese. EUGENIO Ma come potete dire che sia quella? DON MARZIO Se la riconosco! EUGENIO L'avete ben veduta? DON MARZIO Il mio occhialetto non isbaglia; e poi l'ho sentita parlare. EUGENIO Che nome aveva quella dell'anno ato? DON MARZIO Il nome poi non mi sovviene. EUGENIO Questa ha nome Placida. DON MARZIO Appunto; aveva nome Placida. EUGENIO Se fossi sicuro di questo, vorrei ben dirle quello che ella si merita. DON MARZIO Quando dico una cosa io, la potete credere. Colei è una pellegrina, che in vece d'essere alloggiata, cerca di alloggiare. EUGENIO Aspettate, che ora torno. (Voglio sapere la verità.) (entra in locanda)
Scena diciassettesima
Don Marzio, poi Vittoria mascherata.
DON MARZIO Non può essere altro, che quella assolutamente; l'aria, la statura, anche l'abito mi par quello. Non l'ho veduta bene nel viso, ma è quella senz'altro; e poi quando mi ha veduto, subito si è nascosta nella locanda. VITTORIA Signor Don Marzio, la riverisco. (si smaschera) DON MARZIO Oh signora mascheretta, vi sono schiavo. VITTORIA A sorte, avreste voi veduto mio marito? DON MARZIO Sì, signora, l'ho veduto. VITTORIA Mi sapreste dire dove presentemente egli sia? DON MARZIO Lo so benissimo. VITTORIA Vi supplico dirmelo per cortesia. DON MARZIO Sentite. (la tira in disparte) E' qui in questa locanda con un pezzo di pellegrina, ma co' fiocchi. VITTORIA Da quando in qua? DON MARZIO Or ora, in questo punto, è capitata qui una pellegrina; l'ha veduta, gli è piaciuta, ed è entrato subitamente nella locanda. VITTORIA Uomo senza giudizio! Vuol perdere affatto la riputazione. DON MARZIO Questa notte l'avrete aspettato un bel pezzo. VITTORIA Dubitava gli fosse accaduta qualche disgrazia.
DON MARZIO Chiamate poca disgrazia aver perso cento zecchini in contanti, e trenta sulla parola? VITTORIA Ha perso tutti questi danari? DON MARZIO Sì! Ha perso altro! Se giuoca tutto il giorno, e tutta la notte, come un traditore. VITTORIA (Misera me! Mi sento o strappar il cuore.) (da sè) DON MARZIO Ora gli converrà vendere a precipizio quel poco di panno, e poi ha finito. VITTORIA Spero che non sia in istato di andar in rovina. DON MARZIO Se ha impegnato tutto! VITTORIA Mi perdoni; non è vero. DON MARZIO Lo volete dire a me? VITTORIA Io l'avrei a saper più di voi. DON MARZIO Se ha impegnato a me... Basta. Son galantuomo, non voglio dir altro. VITTORIA Vi prego dirmi che cosa ha impegnato. Può essere che io non lo sappia. DON MARZIO Andate, che avete un bel marito. VITTORIA Mi volete dire che cosa ha impegnato? DON MARZIO Son galantuomo, non vi voglio dir nulla.
Scena diciottesima
Trappola colla scatola degli orecchini e detti.
TRAPPOLA Oh, son qui; il gioielliere... (Uh! che vedo! La moglie del signor Eugenio; non voglio farmi sentire.) (da sè) DON MARZIO (piano a Trappola) Ebbene, cosa dice il gioielliere? TRAPPOLA (piano a Don Marzio) Dice che saranno stati pagati più di dieci zecchini, ma che non glieli darebbe. DON MARZIO (a Trappola) Dunque non sono al coperto? TRAPPOLA (a Don Marzio) Ho paura di no. DON MARZIO (a Vittoria) Vedete le belle baronate che fa vostro marito? Egli mi di in pegno questi orecchini per dieci zecchini, e non vagliono nemmeno sei. VITTORIA Questi sono i miei orecchini. DON MARZIO Datemi dieci zecchini, e ve li do. VITTORIA Ne vagliono più di trenta. DON MARZIO Eh! trenta fichi! Siete d'accordo anche voi. VITTORIA Teneteli fin a domani, ch'io troverò i dieci zecchini. DON MARZIO Fin a domani? Oh non mi corbellate. Voglio andare a farli vedere da tutti i gioiellieri di Venezia. VITTORIA Almeno non dite che sono miei, per la mia riputazione. DON MARZIO Che importa a me della vostra riputazione! Chi non vuol che si sappia, non faccia pegni. (parte)
Scena diciannovesima
Vittoria e Trappola.
VITTORIA Che uomo indiscreto, incivile! Trappola, dov'è il vostro padrone? TRAPPOLA Non lo so; vengo ora a bottega. VITTORIA Mio marito dunque ha giuocato tutta la notte? TRAPPOLA Dove l'ho lasciato iersera, l'ho ritrovato questa mattina. VITTORIA Maledettissimo vizio! E ha perso cento e trenta zecchini? TRAPPOLA Così dicono. VITTORIA Indegnissimo gioco! E ora se ne sta con una forestiera in divertimenti? TRAPPOLA Signora sì, sarà con lei. L'ho veduto varie volte girarle d'intorno; sarà andato in casa. VITTORIA Mi dicono che questa forestiera sia arrivata poco fa. TRAPPOLA No signora; sarà un mese che la c'è. VITTORIA Non è una pellegrina? TRAPPOLA Oibò pellegrina; ha sbagliato perché finisce in ina; è una ballerina. VITTORIA E sta qui alla locanda! TRAPPOLA Signora no, sta qui in questa casa. (accennando la casa) VITTORIA Qui? Se mi ha detto il signor Don Marzio, ch'egli ritrovasi in quella locanda con una pellegrina.
TRAPPOLA Buono! Anche una pellegrina? VITTORIA Oltre la pellegrina vi è anche la ballerina? Una di qua, e una di là? TRAPPOLA Sì, signora; farà per navigar col vento sempre in poppa. Orza, e poggia, secondo soffia la tramontana, o lo scirocco. VITTORIA E sempre ha da far questa vita? Un uomo di quella sorta, di spirito, di talento, ha da perdere così miseramente il suo tempo, sacrificare le sue sostanze, rovinar la sua casa? Ed io l'ho da soffrire? Ed io mi ho da lasciar maltrattare senza risentirmi? Eh voglio esser buona, ma non balorda; non voglio che il mio tacere faciliti la sua mala condotta. Parlerò, dirò le mie ragioni; e se le parole non bastano, ricorrerò alla giustizia. TRAPPOLA E' vero, è vero. Eccolo, che viene dalla locanda. VITTORIA Caro amico, lasciatemi sola. TRAPPOLA Si serva pure, come più le piace. (entra nell'interno della bottega)
Scena ventesima
Vittoria, poi Eugenio dalla locanda.
VITTORIA Voglio accrescere la di lui sorpresa col mascherarmi. (si maschera) EUGENIO Io non so quel ch'io m'abbia a dire; questa nega, e quei tien sodo. Don Marzio so che è una mala lingua. A queste donne che viaggiano non è da credere. Mascheretta? A buon'ora! Siete mutola? Volete caffè? Volete niente? Comandate. VITTORIA Non ho bisogno di caffè, ma di pane. (si smaschera) EUGENIO Come! Che cosa fate voi qui? VITTORIA Eccomi qui strascinata dalla disperazione. EUGENIO Che novità è questa? A quest'ora in maschera? VITTORIA Cosa dite eh? Che bel divertimento! A quest'ora in maschera. EUGENIO Andate subito a casa vostra! VITTORIA Anderò a casa, e voi resterete al divertimento. EUGENIO Voi andate a casa, ed io resterò dove mi piacerà di restare. VITTORIA Bella vita, signor consorte! EUGENIO Meno ciarle, signora: vada a casa, che farà meglio. VITTORIA Sì, anderò a casa; ma anderò a casa mia, non a casa vostra. EUGENIO Dove intendereste d'andare? VITTORIA Da mio padre; il quale, nauseato dei mali trattamenti che voi mi fate,
saprà farsi render ragione del vostro procedere e della mia dote. EUGENIO Brava, signora, brava. Questo è il gran bene che mi volete; questa è la premura che avete di me e della mia riputazione. VITTORIA Ho sempre sentito dire che crudeltà consuma amore. Ho tanto sofferto, ho tanto pianto, ma ora non posso più. EUGENIO Finalmente, che cosa vi ho fatto? VITTORIA Tutta la notte al giuoco! EUGENIO Chi vi ha detto che io abbia giuocato? VITTORIA Me l'ha detto il signor Don Marzio, e che avete perduto cento zecchini in contanti, e trenta sulla parola. EUGENIO Non gli credete, non è vero. VITTORIA E poi a’ divertimenti con la pellegrina. EUGENIO Chi vi ha detto questo? VITTORIA Il signor Don Marzio. EUGENIO (Che tu sia maledetto!) (da sè) Credetemi, non è vero. VITTORIA E di più impegnare la roba mia; prendermi un paio di orecchini, senza dirmi niente. Sono azioni di farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta come sono io? EUGENIO Come avete saputo degli orecchini? VITTORIA Me l'ha detto il signor Don Marzio. EUGENIO Ah lingua da tanaglie! VITTORIA Già dice il signor Don Marzio, e lo diranno tutti, che uno di questi giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che ciò succeda, voglio assicurarmi della mia dote.
EUGENIO Vittoria, se mi voleste bene, non parlereste così. VITTORIA Vi voglio bene anche troppo, e se non vi avessi amato tanto, sarebbe stato meglio per me. EUGENIO Volete andare da vostro padre? VITTORIA Sì, certamente. EUGENIO Non volete più star con me? VITTORIA Vi sarò quando avrete messo giudizio. EUGENIO (alterato) Oh, signora dottoressa, non mi stia ora a seccare. VITTORIA Zitto; non facciamo scene per la strada. EUGENIO Se aveste riputazione non verreste a cimentare vostro marito in una bottega da caffè. VITTORIA Non dubitate, non ci verrò più. EUGENIO Animo! via di qua. VITTORIA Vado, vi obbedisco, perché una moglie onesta deve obbedire anche un marito indiscreto. Ma forse, forse sospirerete d'avermi quando non mi potrete vedere. Chiamerete forse per nome la vostra cara consorte, quando ella non sarà più in grado di rispondervi e di aiutarvi. Non vi potrete dolere dell'amor mio. Ho fatto quanto far poteva una moglie innamorata di suo marito. M'avete con ingratitudine corrisposto; pazienza. Piangerò da voi lontana, ma non saprò così spesso i torti che voi mi fate. V'amerò sempre, ma non mi vedrete mai più. (parte) EUGENIO Povera donna! Mi ha intenerito. So che lo dice, ma non è capace di farlo; le andrò dietro alla lontana, e la piglierò con le buone. S'ella mi porta via la dote, son rovinato. Ma non avrà cuore di farlo. Quando la moglie è in collera, quattro carezze bastano per consolarla. (parte)
ATTO SECONDO
Scena prima
Ridolfo dalla strada, poi Trappola dalla bottega interna.
RIDOLFO Ehi, giovani, dove siete? TRAPPOLA Son qui, padrone. RIDOLFO Si lascia la bottega sola, eh? TRAPPOLA Ero lì coll'occhio attento, e coll'orecchio in veglia. E poi che volete voi che rubino? Dietro al banco non vien nessuno. RIDOLFO Possono rubar le chicchere. So io, che vi è qualcheduno che si fa l'assortimento di chicchere, sgraffignandone una alla volta a danno dei poveri bottegai. TRAPPOLA Come quelli che vanno dove sono rinfreschi, per farsi provvisione di tazze, e di tondini. RIDOLFO Il signor Eugenio è andato via? TRAPPOLA Oh se sapeste! E' venuta sua moglie. Oh che pianti! Oh che lamenti! Barbaro, traditore, crudele! Un poco amorosa, un poco sdegnata. Ha fatto tanto che lo ha intenerito. RIDOLFO E dove è andato? TRAPPOLA Che domande? Stanotte non è stato a casa. Sua moglie lo viene a ricercare; e domandate dove è andato? RIDOLFO Ha lasciato nessun ordine? TRAPPOLA E' tornato per la porticina di dietro a dirmi che a voi si raccomanda
per il negozio de' panni, perché non ne ha uno. RIDOLFO Le due pezze di panno le ho vendute a tredici lire il braccio, ed ho tirato il denaro, ma non voglio ch'egli lo sappia; non glieli voglio dar tutti, perché se gli ha nelle mani, gli farà saltare in un giorno. TRAPPOLA Quando sa che gli avete, gli vorrà subito. RIDOLFO Non gli dirò d'averli avuti, gli darò il suo bisogno, e mi regolerò con prudenza. TRAPPOLA Eccolo che viene: Lupus est in fabula. RIDOLFO Cosa vuol dire questo latino? TRAPPOLA Vuol dire: il lupo pesta la fava. (si ritira in bottega sorridendo) RIDOLFO E' curioso costui. Vuol parlar latino, e non sa nemmeno parlare italiano.
Scena seconda
Ridolfo, ed Eugenio.
EUGENIO Ebbene, amico Ridolfo, avete fatto niente? RIDOLFO Ho fatto qualche cosa. EUGENIO So che avete avute le due pezze di panno, il giovane me lo ha detto. Le avete esitate? RIDOLFO Le ho esitate. EUGENIO A quanto? RIDOLFO A tredici lire il braccio. EUGENIO Mi contento: danari subito? RIDOLFO Parte alla mano, e parte col respiro. EUGENIO Oimè! Quanto alla mano? RIDOLFO Quaranta zecchini. EUGENIO Via non vi è male. Datemeli, che vengono a tempo. RIDOLFO Ma piano, signor Eugenio: V. S. sa pure che le ho prestati trenta zecchini. EUGENIO Bene, vi pagherete quando verrà il restante del panno. RIDOLFO Questo, la mi perdoni, non è un sentimento onesto da par suo. Ella sa come l'ho servita, con prontezza, spontaneamente, senza interesse, e la mi vuol far aspettare? Anch'io, o signore, ho bisogno del mio.
EUGENIO Via, avete ragione. Compatitemi, avete ragione. Tenete li trenta zecchini, e date quei dieci a me. RIDOLFO Con questi dieci zecchini non vuol pagare il signor Don Marzio? Non si vuol levar d'intorno codesto diavolo tormentatore? EUGENIO Ha il pegno in mano, aspetterà. RIDOLFO Così poco stima V. S. la sua riputazione? Si vuol lasciar malmenare dalla lingua d'un chiacchierone? Da uno che fa servizio a posta per vantarsi d'averlo fatto, e che non ha altro piacere, che mettere in discredito i galantuomini? EUGENIO Dite bene, bisogna pagarlo. Ma ho io da restar senza danari? Quanto respiro avete accordato al compratore? RIDOLFO Di quanto avrebbe bisogno? EUGENIO Che so io? Dieci, o dodici zecchini. RIDOLFO Servita subito; questi sono dieci zecchini, e quando viene il signor Don Marzio, io ricupererò gli orecchini. EUGENIO Questi dieci zecchini che mi date, di qual ragione s'intende che sieno? RIDOLFO Gli tenga, e non pensi altro. A suo tempo conteggeremo. EUGENIO Ma quando tireremo il resto del panno? RIDOLFO La non ci pensi. Spenda quelli, e poi qualche cosa sarà; ma badi bene di spenderli a dovere, di non gettarli. EUGENIO Sì, amico, vi sono obbligato. Ricordatevi nel conto del panno tenervi la vostra senseria. RIDOLFO Mi maraviglio; fo il caffettiere, e non fo il sensale. Se m'incomodo per un padrone, per un amico, non pretendo di farlo per interesse. Ogni uomo è in obbligo di aiutare l'altro quando può, ed io principalmente ho obbligo di farlo con V. S. per gratitudine del bene che ho ricevuto dal suo signor padre. Mi
chiamerò bastantemente ricompensato, se di questi danari, che onoratamente le ho procurati, se ne servirà per profitto della sua casa, per risarcire il suo decoro e la sua estimazione. EUGENIO Voi siete un uomo molto proprio e civile; è peccato che facciate questo mestiere; meritereste miglior stato e fortuna maggiore. RIDOLFO Io mi contento di quello che il cielo mi concede, e non iscambierei il mio stato con tanti altri, che hanno più apparenza e meno sostanza. A me nel mio grado non manca niente. Fo un mestiere onorato, un mestiere nell'ordine degli artigiani pulito, decoroso e civile. Un mestiere che, esercitato con buona maniera e con riputazione, si rende grato a tutti gli ordini delle persone. Un mestiere reso necessario al decoro delle città, alla salute degli uomini e all'onesto divertimento di chi ha bisogno di respirare. (entra in bottega) EUGENIO Costui è un uomo di garbo; non vorrei però che qualcheduno dicesse che è troppo dottore. Infatti per un caffettiere pare che dica troppo; ma in tutte le professioni ci sono degli uomini di talento e di probità. Finalmente non parla nè di filosofia, nè di matematica: parla da uomo di buon giudizio; e volesse il cielo che io ne avessi tanto, quanto egli ne ha.
Scena terza
Conte Leandro di casa di Lisaura ed Eugenio.
LEANDRO Signor Eugenio, questi sono i vostri denari; eccoli qui tutti in questa borsa; se volete che ve gli renda, andiamo. EUGENIO Son troppo sfortunato, non giuoco più. LEANDRO Dice il proverbio: una volta corre il cane, e l'altra la lepre. EUGENIO Ma io sono sempre la lepre, e voi sempre il cane. LEANDRO Ho un sonno che non ci vedo. Son sicuro di non poter tenere le carte in mano; eppure per questo maledetto vizio non m'importa di perdere, purché giuochi. EUGENIO Anch'io ho sonno. Oggi non giuoco certo. LEANDRO Se non avete denari, non importa, io vi credo. EUGENIO Credete, che sia senza denari? Questi sono zecchini; ma non voglio giuocare. (mostra la borsa con i dieci zecchini) LEANDRO Giuochiamo almeno una cioccolata. EUGENIO Non ne ho volontà. LEANDRO Una cioccolata per servizio. EUGENIO Ma se vi dico... LEANDRO Una cioccolata sola sola, e chi parla di giuocar di più perda un ducato. EUGENIO Via, per una cioccolata, andiamo. (da sé) (Già. Ridolfo non mi vede.)
LEANDRO (Il merlotto è nella rete.) (entra con Eugenio nella bottega del giuoco)
Scena quarta
Don Marzio, poi Ridolfo dalla bottega.
DON MARZIO Tutti gli orefici gioiellieri mi dicono che non vagliono dieci zecchini. Tutti si maravigliano che Eugenio m'abbia gabbato. Non si può far servizio: non do più, più un soldo a nessuno, se lo vedessi crepare. Dove diavolo sarà costui? Si sarà nascosto per non pagarmi. RIDOLFO Signore, ha ella gli orecchini del signor Eugenio? DON MARZIO Eccoli qui; questi belli orecchini non vagliono un corno; mi ha trappolato. Briccone! si è ritirato per non pagarmi; è fallito, è fallito. RIDOLFO Prenda, signore, e non faccia altro fracasso; questi sono dieci zecchini, favorisca darmi i pendenti. DON MARZIO Sono di peso? (osserva coll'occhialetto) RIDOLFO Glieli mantengo di peso e se calano son qua io. DON MARZIO Li mettete fuori voi? RIDOLFO Io non c'entro: questi sono denari del signor Eugenio. DON MARZIO Come ha fatto a trovare questi denari? RIDOLFO Io non so i fatti suoi. DON MARZIO Li ha vinti al giuoco? RIDOLFO Le dico che non lo so. DON MARZIO Ah, ora che ci penso, avrà venduto il panno. Sì, sì, ha venduto il panno; gliel'ha fatto vender messer Pandolfo.
RIDOLFO Sia come esser si voglia, prenda i denari, e favorisca rendere a me gli orecchini. DON MARZIO Ve Li ha dati da sè il signor Eugenio, o ve Li ha dati Pandolfo? RIDOLFO Oh l'è lunga! Li vuole, o non Li vuole? DON MARZIO Date qua, date qua. Povero panno! L'avrà precipitato. RIDOLFO Mi dà gli orecchini? DON MARZIO Li avete a portar a lui? RIDOLFO A lui. DON MARZIO A lui, o a sua moglie? RIDOLFO (con impazienza) O a lui, o a sua moglie. DON MARZIO Egli dov'è? RIDOLFO Non lo so. DON MARZIO Dunque Li porterete a sua moglie? RIDOLFO Li porterò a sua moglie. DON MARZIO Voglio venire anch'io. RIDOLFO Li dia a me, e non pensi altro. Sono un galantuomo. DON MARZIO Andiamo, andiamo, portiamoli a sua moglie. (s'incammina) RIDOLFO So andarvi senza di lei. DON MARZIO Voglio farle questa finezza. Andiamo, andiamo. (parte) RIDOLFO Quando vuole una cosa, non vi è rimedio. Giovani badate alla bottega. (lo segue)
Scena quinta
Garzoni in bottega, Eugenio dalla biscazza.
EUGENIO Maledetta fortuna! Li ho persi tutti. Per una cioccolata ho perso dieci zecchini. Ma l'azione che mi ha fatto mi dispiace più della perdita. Tirarmi sotto, vincermi tutti i denari, e poi non volermi credere sulla parola? Ora sì, che son punto; ora sì, che darei dentro a giuocare sino a domani. Dica Ridolfo quel che sa dire; bisogna che mi dia degli altri denari. Giovani, dov'è il padrone? GARZONI E' andato via in questo punto. EUGENIO Dov'è andato? GARZONI Non lo so, signore. EUGENIO Maledetto Ridolfo! Dove diavolo sarà andato? (alla porta della bisca) Signor Conte, aspettatemi, che or ora torno. (in atto di partire) Voglio veder se trovo questo diavolo di Ridolfo.
Scena sesta
Pandolfo dalla strada e detto.
PANDOLFO Dove, dove, signor Eugenio, così riscaldato? EUGENIO Avete veduto Ridolfo? PANDOLFO Io no. EUGENIO Avete fatto niente del panno? PANDOLFO Signor sì, ho fatto. EUGENIO Via bravo, che avete fatto? PANDOLFO Ho ritrovato il compratore del panno; ma con che fatica! L'ho fatto vedere da più di dieci, e tutti lo stimano poco. EUGENIO Questo compratore, quanto vuol dare? PANDOLFO A forza di parole l'ho tirato a darmi otto lire al braccio. EUGENIO Che diavolo dite? Otto lire il braccio? Ridolfo me ne ha fatto vendere due pezze a tredici lire. PANDOLFO Denari subito? EUGENIO Parte subito, e il resto con respiro. PANDOLFO Oh che buon negozio! Col respiro! Io vi fo dare tutti i denari uno sopra l'altro. Tante braccia di panno, tanti bei ducati d'argento veneziani. EUGENIO (da sè) (Ridolfo non si vede! Vorrei denari; son punto.) PANDOLFO Se avessi voluto vendere il panno a credenza, l'avrei venduto anche
sedici lire. Ma col denaro alla mano, al di d'oggi, quando si possono pigliare, si pigliano. EUGENIO Ma se costa a me dieci lire. PANDOLFO Cosa importa perder due lire al braccio nel panno, se avete i quattrini per fare i fatti vostri, e da potervi riscattare di quel che avete perduto? EUGENIO Non si potrebbe migliorare il negozio? Darlo per il costo? PANDOLFO Non vi è speranza di crescere un quattrinello. EUGENIO (da sè) (Bisogna farlo per necessità.) Via, quel che s'ha da fare si faccia subito. PANDOLFO Fatemi l'ordine per aver le due pezze di panno, e in mezz'ora vi porto qui il denaro. EUGENIO Son qui subito. Giovani, datemi da scrivere. (I garzoni portano il tavolino col bisogno per scrivere) PANDOLFO Scrivete al giovane che mi dia quelle due pezze di panno che ho segnate io. EUGENIO Benissimo, per me è tutt'uno. (scrive) PANDOLFO (da sè) (Oh che bell'abito, che mi voglio fare.)
Scena settima
Ridolfo dalla strada e detti.
RIDOLFO (da sè) (Il signor Eugenio scrive d'accordo con messer Pandolfo. Vi è qualche novità.) PANDOLFO (da sè vedendo Ridolfo) (Non vorrei che costui mi venisse a interrompere sul più bello.) RIDOLFO Signor Eugenio, servitor suo. EUGENIO (seguitando a scrivere) Oh, vi saluto. RIDOLFO Negozi, negozi, signor Eugenio? negozi? EUGENIO (scrivendo) Un piccolo negozietto. RIDOLFO Posso esser degno di saper qualche cosa? EUGENIO Vedete cosa vuol dire dar la roba a credenza? Non mi posso prevalere del mio, ho bisogno di denari, e conviene ch'io rompa il collo ad altre due pezze di panno. PANDOLFO Non si dice che rompa il collo a due pezze di panno, ma che le vende come si può. RIDOLFO Quanto le danno il braccio? EUGENIO Mi vergogno a dirlo. Otto lire. PANDOLFO Ma i suoi quattrini l'un sopra all'altro. RIDOLFO E vossignoria vuol precipitar la roba così miseramente? EUGENIO Ma se non posso far a meno. Ho bisogno di denari.
PANDOLFO Non è anche poco da un'ora all'altra trovar i denari che gli bisognano. RIDOLFO (ad Eugenio) Di quanto avrebbe bisogno? EUGENIO Che? avete da darmene? PANDOLFO (da sè) (Sta a vedere che costui mi rovina il negozio.) RIDOLFO Se bastassero sei o sette zecchini, li troverei. EUGENIO Eh via! Freddure, freddure! Ho bisogno di denari. (scrive) PANDOLFO (da sè) (Manco male!) RIDOLFO Aspetti; quanto importeranno le due pezze di panno a otto lire il braccio? EUGENIO Facciamo il conto. Le pezze tirano sessanta braccia l'una: e due via sessanta, cento e venti. Cento e venti ducati d'argento. PANDOLFO Ma vi è poi la senseria da pagare. RIDOLFO (a Pandolfo) A chi si paga la senseria? PANDOLFO (a Ridolfo) A me, signore, a me. RIDOLFO Benissimo. Cento e venti ducati d'argento, a lire otto l'uno, quanti zecchini fanno? EUGENIO Ogni undici quattro zecchini. Dieci via undici cento e dieci; e undici, cento e vent'uno. Quattro via undici, quarantaquattro. Quarantaquattro zecchini meno un ducato. Quarantatré e quattordici lire, moneta veneziana. PANDOLFO Dica pure quaranta zecchini. I rotti vanno per la senseria. EUGENIO Anche i tre zecchini vanno ne' rotti? PANDOLFO Certo; ma i denari subito. EUGENIO Via, via, non importa. Ve li dono.
RIDOLFO (O che ladro!) Faccia ora il conto, signor Eugenio, quanto importano le due pezze di panno a tredici lire? EUGENIO Oh, importano molto più. PANDOLFO Ma col respiro; e non può fare i fatti suoi. RIDOLFO Faccia il conto. EUGENIO Ora il farò colla penna. Cento e venti braccia, a lire tredici il braccio. Tre via nulla; e due via tre sei; un via tre; un via nulla; un via due; un via uno. Somma: nulla; sei; due e tre cinque; uno. Mille cinquecento e sessanta lire. RIDOLFO Quanti zecchini fanno? EUGENIO Subito ve lo so dire. (conteggia) Settanta zecchini e venti lire. RIDOLFO Senza la senseria? EUGENIO Senza la senseria. PANDOLFO Ma aspettarli chi sa quanto. Val più una pollastra oggi che un cappone domani. RIDOLFO Ella ha avuto da me: prima trenta zecchini, e poi dieci, che fan quaranta; e dieci degli orecchini che ho ricuperati, che sono cinquanta; dunque ha avuto da me, a quest'ora dieci zecchini di più di quello che gli dà subito, alla mano, un sopra l'altro, questo onoratissimo signor sensale! PANDOLFO (Che tu sia maledetto!) (da sè) EUGENIO E', vero, avete ragione; ma adesso ho necessità di danari. RIDOLFO Ha necessità di danari? ecco i danari: questi sono venti zecchini e venti lire che formano il resto di settanta zecchini e venti lire, prezzo delle cento e venti braccia di panno, a tredici lire il braccio, senza pagare un soldo di senseria; subito, alla mano, un sopra l'altro, senza ladronerie, senza scrocchi, senza bricconate da truffatori. EUGENIO Quand'è cosi, Ridolfo caro, sempre più vi ringrazio; straccio quest'ordine, (a Pandolfo) e da voi, signor sensale, non mi occorre altro.
PANDOLFO (Il diavolo l'ha condotto qui. L'abito è andato in fumo.) Bene, non importa, avrò gettati via i miei i. EUGENIO Mi dispiace del vostro incomodo. PANDOLFO Almeno da bevere l'acquavite. EUGENIO Aspettate; tenete questo ducato (cava un ducato dalla borsa, che gli ha dato Ridolfo.) PANDOLFO Obbligatissimo. (da sè) (Già vi cascherà un'altra volta.) (ad Eugenio) Mi comanda altro? EUGENIO La grazia vostra. PANDOLFO (Vuole?) (gli fa cenno se vuol giuocare, in maniera che Ridolfo non veda) EUGENIO (di nascosto egli pure a Pandolfo) (Andate, che vengo.) PANDOLFO (Già se gli giuoca prima del desinare.) (va nella sua bottega e poi torna fuori) EUGENIO Come è andata, Ridolfo? Avete veduto il debitore cosi presto? Vi ha dati subito i danari? RIDOLFO Per dirgli la verità, gli avevo in tasca sin dalla prima volta; ma io non glieli voleva dar tutti subito, acciò non gli mandasse a male sì presto. EUGENIO Mi fate torto a dirmi così; non sono già un ragazzo. Basta... dove sono gli orecchini? RIDOLFO Quel caro, signor Don Marzio, dopo aver avuti i dieci zecchini, ha voluto per forza portar gli orecchini colle sue mani alla signora Vittoria. EUGENIO Avete parlato voi con mia moglie? RIDOLFO Ho parlato certo; sono andato anch'io col signor Don Marzio. EUGENIO Che dice?
RIDOLFO Non fa altro che piangere poverina! Fa comione. EUGENIO Se sapeste come era arrabbiala contro di me! Voleva andar da suo padre, voleva la sua dote, voleva far delle cose grandi. RIDOLFO Come l'ha accomodata? EUGENIO Con quattro carezze. RIDOLFO Si vede che le vuol bene: è assai di buon cuore. EUGENIO Ma quando va in collera, diventa una bestia. RIDOLFO Non bisogna poi maltrattarla. E' una signora nata bene, allevata bene. M'ha detto, che s'io lo vedo, gli dica che vada a pranzo a buon'ora. EUGENIO Sì sì, ora vado. RIDOLFO Caro signor Eugenio, la prego, badi al sodo, lasci andar il giuoco; non si perda dietro alle donne; giacchè V.S. ha una moglie giovine, bella, e che le vuol bene; che vuol cercare di più? EUGENIO Dite bene, vi ringrazio davvero. PANDOLFO (dalla sua bottega si spurga, acciò Eugenio lo senta e lo guardi. Eugenio si volta. Pandolfo fa cenno che Leandro l'aspetta a giuocare, Eugenio fa cenno che anderà. Pandolfo torna in bottega; Ridolfo non se ne avvede) RIDOLFO Io lo consiglierei andar a casa adesso. Poco manca al mezzogiorno. Vada, consoli la sua cara sposa. EUGENIO Sì, vado, subito. Oggi ci rivedremo. RIDOLFO Dove posso servirla, la mi comandi. EUGENIO Vi sono tanto obbligato. (vorrebbe andare al giuoco ma teme che Ridolfo lo veda) RIDOLFO Comanda niente? Ha bisogno di niente? EUGENIO Niente, niente. A rivedervi.
RIDOLFO Le son servitore. (si volta verso la sua bottega) EUGENIO (vedendo che Ridolfo non l'osserva, entra nella bottega del giuoco)
Scena ottava
Ridolfo, poi Don Marzio.
RIDOLFO Spero un poco alla volta tirarlo in buona strada. Mi dirà qualcuno: perchè vuoi tu romperti il capo per un giovine, che non è tuo parente, che non è niente del tuo? E per questo? Non si può voler bene ad un amico? Non si può far del bene a una famiglia, verso la quale ho delle obbligazioni? Questo nostro mestiere ha dell'ozio assai. Il tempo, che avanza, molti l'impiegano o a giuocare, o a dir male del prossimo. Io l'impiego a far del bene se posso. DON MARZIO Oh che bestia! Oh che bestia! Oh che asino! RIDOLFO Con chi l'ha signor Don Marzio? DON MARZIO Senti, senti, Ridolfo, se vuoi ridere. Un medico vuol sostenere che l'acqua calda sia più sana dell'acqua fredda. RIDOLFO Ella non è di quest'opinione? DON MARZIO L'acqua calda debilita lo stomaco. RIDOLFO Certamente rilassa la fibra. DON MARZIO Cos'è questa fibra? RIDOLFO Ho sentito dire che nel nostro stomaco vi sono due fibre, quasi come due nervi, dalle quali si macina il cibo, e quando queste fibre si rallentano, si fa una cattiva digestione. DON MARZIO Sì, signore; sì signore; l'acqua calda rilassa il ventricolo, e la sistole e la diastole non possono triturare il cibo. RIDOLFO Come c'entra la sistole e la diastole? DON MARZIO Che cosa sai tu, che sei un somaro? Sistole e diastole sono i
nomi delle due fibre, che fanno la triturazione del cibo digestivo. RIDOLFO (Oh che spropositi! altro che il mio Trappola!)
Scena nona
Lisaura alla finestra e detti.
DON MARZIO (a Ridolfo) Ehi? L'amica della porta di dietro. RIDOLFO Con sua licenza, vado a badare al caffè. (va nell'interno della bottega) DON MARZIO Costui è un asino, vuol serrar presto la bottega. (a Lisaura, guardandola di quando in quando col solito occhialetto) Servitor suo, padrona mia. LISAURA Serva umilissima. DON MARZIO Sta bene? LISAURA Per servirla. DON MARZIO Quant'è che non ha veduto il conte Leandro? LISAURA Un'ora in circa. DON MARZIO E' mio amico il conte. LISAURA Me ne rallegro. DON MARZIO Che degno galantuomo! LISAURA E' tutta sua bontà. DON MARZIO Ehi! E' vostro marito? LISAURA I fatti miei non li dico sulla finestra. DON MARZIO Aprite, aprite, che parleremo.
LISAURA Mi scusi, io non ricevo visite. DON MARZIO Eh via! LISAURA No davvero. DON MARZIO Verrò per la porta di dietro. LISAURA Anche ella si sogna della porta di dietro? Io non apro a nessuno. DON MARZIO A me non avete a dir così. So benissimo che introducete la gente per di là. LISAURA Io sono una donna onorata. DON MARZIO Volete che vi regali quattro castagne secche? (le cava dalla tasca) LISAURA La ringrazio infinitamente. DON MARZIO Sono buone, sapete? Le fo seccare io ne' miei beni. LISAURA Si vede che ha buona mano a seccare. DON MARZIO Perché? LISAURA Perchè ha seccato anche me. DON MARZIO Brava! Spiritosa! Se siete cosi pronta a fare le capriole, sarete una brava ballerina. LISAURA A lei non deve premere che sia brava, o non brava. DON MARZIO In verità non me ne importa un fico.
Scena decima
Placida, da pellegrina, alla finestra della locanda, e detti.
PLACIDA (da sè) (Non vedo più il signor Eugenio.) DON MARZIO (a Lisaura dopo avere osservato Placida coll'occhialetto) Ehi! Avete veduto la pellegrina? LISAURA E chi è colei? DON MARZIO Una di quelle del buon tempo. LISAURA E il locandiere riceve gente di quella sorta? DON MARZIO E' mantenuta. LISAURA Da chi? DON MARZIO Dal signor Eugenio. LISAURA Da un uomo ammogliato? Meglio! DON MARZIO L'anno ato ha fatto le sue. LISAURA (ritirandosi) Serva sua. DON MARZIO Andate via? LISAURA Non voglio stare alla finestra, quando in faccia vi è una donna di quel carattere. (si ritira)
Scena undicesima
Placida alla finestra, Don Marzio nella strada.
DON MARZIO Oh, oh, oh, questa è bella! La ballerina si ritira per paura di perdere il suo decoro! (coll'occhialetto) Signora pellegrina, la riverisco. PLACIDA Serva devota. DON MARZIO Dov'è il signor Eugenio? PLACIDA Lo conosce ella il signor Eugenio? DON MARZIO Oh, siamo amicissimi. Sono stato, poco fa, a ritrovare sua moglie. PLACIDA Dunque il signor Eugenio ha moglie? DON MARZIO Sicuro, che ha moglie; ma ciò non ostante gli piace divertirsi coi bei visetti: avete veduto quella signora che era a quella finestra? PLACIDA L'ho veduta; mi ha fatto la finezza di chiudermi la finestra in faccia, senza fare alcun motto, dopo avermi ben bene guardata. DON MARZIO Quella è una, che a per ballerina, ma! m'intendete. PLACIDA E' una poco di buono? DON MARZIO Sì; e il signor Eugenio è uno dei suoi protettori. PLACIDA E ha moglie? DON MARZIO E bella ancora. PLACIDA Per tutto il mondo vi sono de' giovani scapestrati.
DON MARZIO Vi ha forse dato ad intendere che non era ammogliato? PLACIDA A me poco preme che lo sia, o non lo sia. DON MARZIO Voi siete indifferente. Lo ricevete com'è. PLACIDA Per quello che ne ho da far io, mi è tutt'uno. DON MARZIO Già si sa. Oggi uno, domani un altro. PLACIDA Come sarebbe a dire? Si spieghi. DON MARZIO Volete quattro castagne secche? (le cava di tasca) PLACIDA Bene obbligata. DON MARZIO Davvero se volete, ve le do. PLACIDA E' molto generoso, signore. DON MARZIO Veramente al vostro merito quattro castagne sono poche. Se volete, aggiungerò alle castagne un paio di lire. PLACIDA Asino senza creanza. (serra la finestra e parte) DON MARZIO Non si degna di due lire, e l'anno ato si degnava di meno. (chiama forte) Ridolfo?
Scena dodicesima
Ridolfo e detto.
RIDOLFO Signore? DON MARZIO Carestia di donne. Non si degnano di due lire. RIDOLFO Ma ella le mette tutte in un mazzo. DON MARZIO Roba che gira il mondo? Me ne rido. RIDOLFO Gira il mondo anche della gente onorata. DON MARZIO Pellegrina! Ah, buffone! RIDOLFO Non si può saper chi sia quella pellegrina. DON MARZIO Lo so. E' quella dell'anno ato. RIDOLFO Io non l'ho più veduta. DON MARZIO Perché sei un balordo. RIDOLFO Grazie alla sua gentilezza. (da sé) (Mi vien volontà di pettinargli quella parrucca.)
Scena tredicesima
Eugenio dal giuoco e detti.
EUGENIO (allegro e ridente) Schiavo, signori, padroni cari. RIDOLFO Come! Qui il signor Eugenio? EUGENIO (ridendo) Certo; qui sono. DON MARZIO Avete vinto? EUGENIO Sì, signore, ho vinto, sì, signore. DON MARZIO Oh! Che miracolo! EUGENIO Che gran caso! Non posso vincere io? Chi sono io? Sono uno stordito? RIDOLFO Signor Eugenio, è questo il proponimento di non giuocare? EUGENIO State zitto. Ho vinto. RIDOLFO E se perdeva? EUGENIO Oggi non potevo perdere. RIDOLFO No? Perché? EUGENIO Quando ho da perdere me lo sento. RIDOLFO E quando se lo sente, perché giuoca? EUGENIO Perché ho da perdere. RIDOLFO E a casa quando si va?
EUGENIO Via, mi principierete a seccare? RIDOLFO Non dico altro. (da sé) (Povere le mie parole)
Scena quattordicesima
Leandro dalla bottega del giuoco e detti.
LEANDRO Bravo, bravo; mi ha guadagnati i miei denari; e s'io non lasciava stare, mi sbancava. EUGENIO Ah? Son uomo io? In tre tagli ho fatto il servizio. LEANDRO Mette da disperato. EUGENIO Metto da giuocatore. DON MARZIO (a Leandro) Quanto vi ha guadagnato? LEANDRO Assai. DON MARZIO (ad Eugenio) Ma pure quanto avete vinto? EUGENIO (con allegria) Ehi, sei zecchini. RIDOLFO (da sé) (Oh pazzo maledetto! Da jeri in qua ne ha perduti cento e trenta, e gli pare aver vinto un tesoro, ad averne guadagnati sei.) LEANDRO (da sé) (Qualche volta bisogna lasciarsi vincere per allettare.) DON MARZIO (ad Eugenio) Che volete voi fare di questi sei zecchini. EUGENIO Se volete che gli mangiamo, io ci sono. DON MARZIO Mangiamoli pure. RIDOLFO (da sé) (O povere le mie fatiche!) EUGENIO Andiamo all'osteria? Ognuno pagherà la sua parte.
RIDOLFO (piano ad Eugenio) (Non vi vada, la tireranno a giuocare.) EUGENIO (piano a Ridolfo) (Lasciateli fare; oggi sono in fortuna.) RIDOLFO (da sé) (Il male non ha rimedio.) LEANDRO In vece di andare all'osteria, potremo far preparare qui sopra nei camerini di messer Pandolfo. EUGENIO Sì, dove volete, ordineremo il pranzo qui alla locanda, e lo faremo portar là sopra. DON MARZIO Io con voi altri, che siete galantuomini, vengo per tutto. RIDOLFO (da sé) (Povero gonzo! non se ne accorge.) LEANDRO Ehi, messer, Pandolfo?
Scena quindicesima
Pandolfo dal giuoco e detti.
PANDOLFO Sono qui a servirla. LEANDRO Volete farci il piacere di prestarci i vostri stanzini per desinare? PANDOLFO Sono padroni; ma vede, anch'io... pago la pigione. LEANDRO Si sa, pagheremo l'incomodo. EUGENIO Con chi credete aver che fare? Pagheremo tutto. PANDOLFO Benissimo; che si servano. Vado a far ripulire. (va in bottega del giuoco) EUGENIO Via, chi va a ordinate? LEANDRO (ad Eugenio) Tocca a voi come il più pratico del paese. DON MARZIO (ad Eugenio) Sì, fate voi. EUGENIO Che cosa ho da ordinare? LEANDRO Fate voi. EUGENIO Ma dice la canzone: L'allegria non è perfetta, quando manca la donnetta. RIDOLFO (Anche di più vuol la donna!) (da sè) DON MARZIO Il signor Conte potrebbe far venire la ballerina. LEANDRO Perché no? In una compagnia d'amici non ho difficoltà di farla venire.
DON MARZIO (a Leandro) E' vero che la volete sposare? LEANDRO Ora non è tempo di parlare di queste cose. EUGENIO E io vedrò di far venire la pellegrina. LEANDRO Chi è questa pellegrina? EUGENIO Una donna civile e onorata. DON MARZIO (da sè) (Sì, sì, l'informerò io di tutto.) LEANDRO Via, andate a ordinate il pranzo? EUGENIO Quanti siamo? Noi tre, due donne, che fanno cinque; signor Don Marzio, avete dama? DON MARZIO Io no. Sono con voi. EUGENIO Ridolfo, verrete anche voi a mangiare un boccone con noi? RIDOLFO Le rendo grazie; io ho da badare alla mia bottega. EUGENIO Eh via, non vi fate pregare. RIDOLFO (piano ad Eugenio) Mi pare assai, che abbia tanto cuore. EUGENIO Che volete voi fare? Giacché ho vinto, voglio godere. RIDOLFO E poi? EUGENIO E poi, buona notte; all'avvenire ci pensano gli astrologi. (entra nella locanda) RIDOLFO (Pazienza. Ho gettato via la fatica.) (si ritira)
Scena sedicesima
Don Marzio e il Conte Leandro.
DON MARZIO Via, andate a prendere la ballerina. LEANDRO Quando sarà preparato, la farò venire. DON MARZIO Sediamo. Che cosa v'è di nuovo delle cose di mondo? LEANDRO Io di nuove non me ne diletto. (siedono) DON MARZIO Avete saputo che le truppe moscovite sono andate a' quartieri d'inverno? LEANDRO Hanno fatto bene; la stagione lo richiedeva. DON MARZIO Signor no, hanno fatto male; non dovevano abbandonare il posto che avevano occupato. LEANDRO E' vero. Dovevano soffrire il freddo, per non perdere l'acquistato. DON MARZIO Signor no; non avevano da arrischiarsi a star lì con il pericolo di morire nel ghiaccio. LEANDRO Dovevano dunque tirare avanti. DON MARZIO Signor no. Oh che bravo intendente di guerra! Marciar nella stagione d'inverno! LEANDRO Dunque che cosa avevano da fare? DON MARZIO Lasciate ch'io veda la carta geografica, e poi vi dirò per l'appunto dove avevano da andare. LEANDRO (Oh che bel pazzo!) (da sè)
DON MARZIO Siete stato all'Opera? LEANDRO Signor sì. DON MARZIO Vi piace? LEANDRO Assai. DON MARZIO Siete di cattivo gusto. LEANDRO Pazienza. DON MARZIO Di che paese siete? LEANDRO Di Torino. DON MARZIO Brutta città. LEANDRO Anzi a per una delle belle d'Italia. DON MARZIO Io son napolitano. Vedi Napoli e poi muori. LEANDRO Vi darei la risposta del Veneziano. DON MARZIO Avete tabacco? LEANDRO (gli apre la scatola) Eccolo. DON MARZIO Oh! che cattivo tabacco. LEANDRO A me piace così. DON MARZIO Non ve n'intendete. Il vero tabacco è rapè. LEANDRO A me piace il tabacco di Spagna. DON MARZIO Il tabacco di Spagna è una porcheria. LEANDRO Ed io dico che è il miglior tabacco che si possa prendere. DON MARZIO Come! A me volete insegnare che cosa è tabacco? Io ne faccio,
ne faccio fare, ne compro di qua, ne compro di là. So quel che è questo, so quel che è quello. (gridando forte) Rapè, rapè vuol essere, rapè. LEANDRO (forte ancor esso) Signor sì, rapè, rapè è vero; il miglior tabacco è il rapè. DON MARZIO Signor no. Il miglior tabacco non è sempre il rapè. Bisogna distinguere, non sapete quel che vi dite.
Scena diciassettesima
Eugenio ritorna dalla locanda e detti.
EUGENIO Che è questo strepito? DON MARZIO Di tabacco non la cedo a nessuno. LEANDRO (ad Eugenio) Come va il desinare? EUGENIO Sarà presto fatto. DON MARZIO Viene la pellegrina? EUGENIO Non vuol venire. DON MARZIO Via, signor dilettante di tabacco, andate a prendere la vostra signora. LEANDRO Vado. (Se a tavola fa così gli tiro un tondo nel mostaccio.) (picchia dalla ballerina) DON MARZIO Non avete le chiavi? LEANDRO Signor no. (gli aprono ed entra) DON MARZIO (ad Eugenio) Avrà quella della porta di dietro. EUGENIO Mi dispiace che la pellegrina non vuol venire. DON MARZIO Farà per farsi pregare. EUGENIO Dice che assolutamente non è più stata in Venezia. DON MARZIO A me non lo direbbe.
EUGENIO Siete sicuro che sia quella? DON MARZIO Sicurissimo; e poi, se, poco fa, ho parlato con lei, e mi voleva aprire... Basta, non sono andato, per non far torto all'amico. EUGENIO Avete parlato con lei? DON MARZIO E come! EUGENIO Vi ha conosciuto? DON MARZIO E chi non mi conosce? Sono conosciuto più della bettonica. EUGENIO Dunque fate una cosa. Andate voi a farla venire. DON MARZIO Se vi vado io, avrà soggezione. Fate così: aspettate che sia in tavola; andatela a prendere, e senza dir nulla conducetela su. EUGENIO Ho fatto quanto ho potuto, e m'ha detto liberamente che non vuol venire.
Scena diciottesima
Camerieri di locanda che portano tovaglia, tovaglioli, tondini, posate, vino, pane, bicchieri e pietanze in bottega di Pandolfo, andando e tornando varie volte, poi Leandro, Lisaura e detti.
UN CAMERIERE Signori, la minestra è in tavola. (va cogli altri in bottega del giuoco) EUGENIO (a don Marzio) Il Conte dov'è? DON MARZIO (batte forte alla porta di Lisaura) Animo, presto, la zuppa si fredda. LEANDRO (dando mano a Lisaura) Eccoci, eccoci. EUGENIO (a Lisaura) Padrona mia riverita. DON MARZIO Schiavo suo. (a Lisaura, guardandola con l'occhialetto) LISAURA Serva di lor signori. EUGENIO (a Lisaura) Godo che siamo degni della sua compagnia. LISAURA Per compiacere il signor Conte. DON MARZIO E per noi niente. LISAURA Per lei particolarmente, niente affatto. DON MARZIO Siamo d'accordo (piano ad Eugenio) (Di questa sorta di roba non mi degno.) EUGENIO (a Lisaura) Via, andiamo, che la minestra patisce; resti servita.
LISAURA Con sua licenza. (entra con Leandro nella bottega del giuoco) DON MARZIO Ehi! che roba! Non ho mai veduta la peggio. (ad Eugenio, col suo occhialetto, poi entra nella bisca) EUGENIO Né anche la volpe non voleva le ciriege. Io per altro mi degnerei. (entra ancor esso)
Scena diciannovesima
Ridolfo dalla bottega.
RIDOLFO Eccolo lì, pazzo più che mai. A tripudiare con donne, e sua moglie sospira, e sua moglie patisce. Povera donna! Quanto mi fa comione.
Scena ventesima
Eugenio, Don Marzio, Leandro, e Lisaura negli stanzini della biscaccia, aprono le tre finestre che sono sopra le tre botteghe, ove sta preparato il pranzo, e si fanno vedere dalle medesime. Ridolfo in istrada, poi Trappola.
EUGENIO (alla finestra) Oh che bell'aria! Oh che bel sole! Oggi non è niente freddo. DON MARZIO (ad altra finestra) Pare propriamente di primavera. LEANDRO (ad altra finestra) Qui almeno si gode la gente, che a. LISAURA (vicino a Leandro) Dopo pranzo vedremo le maschere. EUGENIO A tavola, a tavola. (siedono, restando Eugenio e Leandro vicini alla finestra) TRAPPOLA (a Ridolfo) Signor padrone, che cos'è questo strepito? RIDOLFO Quel pazzo del signor Eugenio col signor Don Marzio, ed il Conte colla ballerina, che pranzano qui sopra nei camerini di messer Pandolfo. TRAPPOLA (vien fuori e guarda in alto) Oh bella! (verso le finestre) Buon pro a lor signori. EUGENIO (dalla finestra) Trappola, evviva. TRAPPOLA Hanno bisogno d'aiuto? EUGENIO Vuoi venire a dar da bere? TRAPPOLA Darò da bere, se mi daranno da mangiare.
EUGENIO Vieni, vieni che mangerai. TRAPPOLA (a Ridolfo) Signor padrone, con licenza. (va per entrare nella bisca, ed un cameriere lo trattiene) CAMERIERE (a Trappola) Dove andate? TRAPPOLA A dar da bere ai miei padroni. CAMERIERE Non hanno bisogno di voi; ci siamo noi altri. TRAPPOLA Mi è stato detto una volta, che oste in latino vuol dir nemico. Osti veramente nemici del pover uomo! EUGENIO Trappola, vieni su. TRAPPOLA Vengo. (al Cameriere) A tuo dispetto. (entra) CAMERIERE Badate ai piatti, che non si attacchi su i nostri avanzi. (entra in locanda) RIDOLFO Io non so come si possa dare al mondo gente di così poco giudizio! Il signor Eugenio vuole andare in rovina, si vuol precipitare per forza. A me, che ho fatto tanto per lui, che vede con che cuore, con che amore lo tratto, corrisponde così? Mi burla, mi fa degli scherzi? Basta: quel che ho fatto l'ho fatto per bene, e del bene non mi pentirò mai. EUGENIO (forte) Signor don Marzio, evviva questa signora! (bevendo) TUTTI Evviva! evviva!
Scena ventunesima
Vittoria mascherata e detti.
VITTORIA (eggia avanti la bottega del caffè, osservando se vi è suo marito) RIDOLFO Che c'è, signora maschera? che domanda? EUGENIO (bevendo) Vivano i buoni amici. VITTORIA (sente la voce di suo marito, si avanza, guarda in alto, lo vede e smania). EUGENIO (col bicchiere di vino fuor della finestra, fa un brindisi a Vittoria non conoscendola) Signora maschera, alla sua salute! VITTORIA (freme, e dimena il capo) EUGENIO (a Vittoria come sopra) Comanda restar servita? E' padrona, qui siamo tutti galantuomini. LISAURA (dalla finestra) Chi è questa maschera, che volete invitare? VITTORIA (smania)
Scena ventiduesima
Camerieri con altra portata vengono dalla locanda, ed entrano nella solita bottega, e detti.
RIDOLFO E chi paga? Il gonzo. EUGENIO (a Vittoria come sopra) Signora maschera, se non vuol venire, non importa. Qui abbiamo qualche cosa meglio di lei. VITTORIA Oimè! Mi sento male. Non posso più! RIDOLFO (a Vittoria) Signora maschera, si sente male? VITTORIA (si leva la maschera) Ah Ridolfo, ajutatemi per carità. RIDOLFO Ella è qui? VITTORIA Son io pur troppo! RIDOLFO Beva un poco di rosolio. VITTORIA No, datemi dell'acqua. RIDOLFO Eh no acqua; vuol esser rosolio. Quando gli spiriti sono oppressi, vi vuol qualche cosa che li metta in moto. Favorisca, venga dentro. VITTORIA Voglio andar su da quel cane; voglio ammazzarmi sugli occhi suoi. RIDOLFO Per amor del cielo, venga qui, s'acqueti. EUGENIO (bevendo) E viva quella bella giovinotta. Cari quegli occhi. VITTORIA Lo sentite il briccone? Lo sentite? Lasciatemi andare. RIDOLFO (la trattiene) Non sarà mai vero che io la lasci precipitare.
VITTORIA Non posso più. Aiuto, ch'io muoRo. (cade svenuta) RIDOLFO Ora sto bene! (la va aiutando, e sostenendo alla meglio)
Scena ventitreesima
Placida sulla porta della locanda e detti.
PLACIDA Oh cielo! Dalla finestra mi parve sentire la voce di mio marito; se fosse qui, sarei giunta bene in tempo a svergognarlo. (esce il cameriere dalla biscaccia) Quel giovine, ditemi in grazia, chi vi è lassù in quei camerini? (al cameriere, che viene dalla biscaccia) CAMERIERE Tre galantuomini. Uno il signor Eugenio, l'altro il signor Don Marzio napolitano, ed il terzo il signor conte Leandro Ardenti. PLACIDA (da sé) (Fra questi non vi è Flaminio, quando non si fosse cangiato nome.) LEANDRO E viva la bella fortuna del signor Eugenio! TUTTI (bevendo) Evviva! PLACIDA (Questo è il mio marito senz'altro.) (al cameriere) Caro galantuomo, fatemi un piacere, conducetemi su da questi signori, che voglio loro fare una burla. CAMERIERE Sarà servita. (Solita carica dei camerieri.) (l'introduce per la solita bottega del gioco) RIDOLFO (a Vittoria) Animo, prenda coraggio, non sarà niente. VITTORIA (rinviene) Io mi sento morire. (dalle finestre dei camerini si vedono alzarsi tutti da tavola in confusione per la sorpresa di Leandro vedendo Placida, e perché mostra di volerla uccidere) EUGENIO No, fermatevi! DON MARZIO Non fate!
PLACIDA Aiuto, Aiuto! (fugge via per la scala, Leandro vuol seguirla colla spada, Eugenio lo trattiene) TRAPPOLA (con un tondino di roba in un tovagliuolo salta da una finestra, e fugge in bottega del caffè) PLACIDA (esce dalla bisca correndo, e fugge nella locanda) EUGENIO (con arme alla mano in difesa di Placida, contro Leandro, che la insegue) DON MARZIO (esce pian piano dalla biscaccia, e fugge via dicendo) Rumores fuge. I CAMERIERI (dalla bisca ano nella locanda, e serrano la porta) VITTORIA (resta in bottega assistita da Ridolfo) LEANDRO (colla spada alla mano contro Eugenio) Liberate il o. Voglio entrare in quella locanda. EUGENIO No, non sarà mai vero. Siete un barbaro contro la vostra moglie, ed io la difenderò sino all'ultimo sangue. LEANDRO Giuro al cielo, ve ne pentirete. (incalza Eugenio colla spada) EUGENIO Non ho paura di voi. (incalza Leandro, e l'obbliga a rinculare tanto, che trovando la casa della ballerina aperta, entra in quella e si salva)
Scena ventiquattresima
Eugenio, Vittoria e Ridolfo.
EUGENIO (Bravando verso la porta della ballerina) Vile, codardo, fuggi? Ti nascondi? Vien fuori, se hai coraggio. VITTORIA (si presenta ad Eugenio) Se volete sangue, spargete il mio. EUGENIO Andate via di qui, donna pazza, donna senza cervello. VITTORIA Non sarà mai vero ch'io mi stacchi viva da voi. EUGENIO (minacciandola con la spada) Corpo di bacco, andate via, che farò qualche sproposito. RIDOLFO (con arme alla mano corre in difesa di Vittoria e si presenta contro Eugenio) Che pretende di fare, padron mio? Che pretende? Crede per aver quella spada di atterrir tutto il mondo? Questa povera donna innocente non ha nessuno che la difenda, ma finché avrò sangue la difenderò io. Anche minacciarla? Dopo tanti strapazzi, che le ha fatti, anche minacciarla? (a Vittoria) Signora, venga con me, e non abbia timor di niente. VITTORIA No, caro Ridolfo; se mio marito vuol la mia morte, lasciate che si soddisfaccia. Via, ammazzami, cane, assassino, traditore: ammazzami, disgraziato, uomo senza riputazione, senza cuore, senza coscienza. EUGENIO (rimette la spada nel fodero senza parlare, mortificato) RIDOLFO (ad Eugenio) Ah, signor Eugenio, vedo che già è pentito, ed io le domando perdono, se troppo temerariamente ho parlato. Vossignoria sa se le voglio bene, e sa cosa ho fatto per lei, onde anche questo mio trasporto lo prenda per un effetto d'amore. Questa povera signora mi fa pietà. E' possibile, che le sue lagrime non inteneriscano il di lei cuore?
EUGENIO (si asciuga gli occhi, e non parla) RIDOLFO (piano a Vittoria) Osservi, signora Vittoria, osservi il signor Eugenio; piange, è intenerito, si pentirà, muterà vita, stia sicura, che le vorrà bene. VITTORIA Lacrime di coccodrillo! Quante volte mi ha promesso di mutar vita! Quante volte colle lagrime agli occhi mi ha incantata! Non gli credo più; è un traditore, non gli credo più. EUGENIO (freme tra il rossore, e la rabbia. Getta il cappello in terra da disperato, e senza parlare va nella bottega interna del caffè)
Scena venticinquesima
Vittoria e Ridolfo. VITTORIA (a Ridolfo) Che vuol dire che non parla? RIDOLFO E' confuso. VITTORIA Che si sia in un momento cambiato? RIDOLFO Credo di sì. Le dirò: se tanto ella, che io, non facevamo altro che piangere, e che pregare, si sarebbe sempre più imbestialito. Quel poco di muso duro, che abbiam fatto, quel poco di bravata, l'ha messo in suggezione, e l'ha fatto cambiare. Conosce il fallo, vorrebbe scusarsi, e non sa come fare. VITTORIA Caro Ridolfo, andiamolo a consolare. RIDOLFO Questa è una cosa che l'ha da fare V. S. senza di me. VITTORIA Andate prima voi, sappiatemi dire come ho da contenermi. RIDOLFO Volentieri. Vado a vedere; ma lo spero pentito. (entra in bottega)
Scena ventiseiesima
Vittoria e poi Ridolfo.
VITTORIA Questa è l'ultima volta che mi vede piangere. O si pente, e sarà il mio caro marito; o persiste, e non sarò più buona a soffrirlo. RIDOLFO Signora Vittoria, cattive nuove; non vi è più. E' andato via per la porticina. VITTORIA Non ve l'ho detto ch'è perfido, ch'è ostinato? RIDOLFO Ed io credo che sia andato via per vergogna, pieno di confusione, per non aver coraggio di chiederle scusa, di domandarle perdono. VITTORIA Eh, che da una moglie tenera, come son io, sa egli quanto facilmente può ottenere il perdono. RIDOLFO Osservi. E' andato via senza cappello. (prende il cappello in terra) VITTORIA Perché è un pazzo. RIDOLFO Perché è un confuso; non sa quel che si faccia. VITTORIA Ma se è pentito, perché non dirmelo? RIDOLFO Non ha coraggio. VITTORIA Ridolfo, voi mi lusingate. RIDOLFO Faccia così: si ritiri nel mio camerino; lasci che io vada a ritrovarlo, e spero di condurglielo qui, come un cagnolino. VITTORIA Quanto sarebbe meglio, che non ci pensassi più! RIDOLFO Anche per questa volta faccia a modo mio, e spero ch'ella non si
pentirà. VITTORIA Sì, così farò. Vi aspetterò nel camerino. Voglio poter dire che ho fatto tutto per un marito. Ma se egli se ne abusa, giuro di cambiare in altrettanto sdegno d'amore. (entra nella bottega interna) RIDOLFO Se fosse un mio figlio non avrei tanta pena. (parte)
ATTO TERZO
Scena prima
Leandro scacciato di casa da Lisaura.
LEANDRO A me un simile trattamento? LISAURA (sulla porta) Sì, a voi, falsario, impostore! LEANDRO Di che vi potete dolere di me? D'aver abbandonata mia moglie per causa vostra? LISAURA Se avessi saputo, che eravate ammogliato, non vi avrei ricevuto in mia casa. LEANDRO Non sono stato io il primo a venirvi. LISAURA Siete però stato l'ultimo.
Scena seconda
Don Marzio che osserva coll'occhialetto, e ride fra sé, e detti.
LEANDRO Non avete meco gittato il tempo. LISAURA Sì, sono stata anch'io a parte de' vostri indegni profitti. Arrossisco in pensarlo; andate al diavolo, e non vi accostate più a questa casa. LEANDRO Ci verrò a prendere la mia roba. DON MARZIO (ride, e burla di nascosto Leandro) LISAURA La vostra roba vi sarà consegnata dalla mia serva. (entra, e chiude la porta) LEANDRO A me un insulto di questa sorta? Me la pagherai. DON MARZIO (ride, e, voltandosi Leandro, si compone in serietà) LEANDRO Amico, avete veduto? DON MARZIO Che cosa? Vengo in questo punto. LEANDRO Non avete veduto la ballerina sulla porta? DON MARZIO No, certamente, non l'ho veduta. LEANDRO (da sé) (Manco male!) DON MARZIO Venite qua, parlatemi da galantuomo, confidatevi con me, e state sicuro, che i fatti vostri non si sapranno da chi che sia. Voi siete forestiere, come sono io, ma io ho più pratica del paese di voi. Se vi occorre protezione, assistenza, consiglio, e sopra tutto segretezza, son qua io. Fate pur capitale di me. Di cuore, con premura, da buon amico; senza che nessuno sappia niente.
LEANDRO Giacché con tanta bontà vi esibite di favorirmi, aprirò a voi tutto il mio cuore, ma per amor del cielo vi raccomando la segretezza. DON MARZIO Andiamo avanti. LEANDRO Sappiate che la pellegrina è mia moglie. DON MARZIO Buono! LEANDRO Che l'ho abbandonata in Torino. DON MARZIO (da sé, guardandolo con l'occhialetto) (Oh che briccone!) LEANDRO Sappiate ch'io non sono altrimenti il conte Leandro. DON MARZIO (da sé, come sopra) (Meglio.) LEANDRO I miei natali non sono nobili. DON MARZIO Non sareste già figliuolo di qualche birro? LEANDRO Mi maraviglio, signore; son nato povero, ma di gente onorata. DON MARZIO Via, via: tirate avanti. LEANDRO Il mio esercizio era di scritturale... DON MARZIO Troppa fatica, non è egli vero? LEANDRO E desiderando vedere il mondo... DON MARZIO Alle spalle de' gonzi. LEANDRO Son venuto a Venezia... DON MARZIO A fare il birbante. LEANDRO Ma voi mi strapazzate. Questa non è la maniera di trattare. DON MARZIO Sentite: io ho promesso proteggervi, e lo farò; ho promesso segretezza, e la osserverò; ma fra voi e me avete da permettermi che possa dirvi
qualche cosa amorosamente. LEANDRO Vedete il caso in cui mi ritrovo; se mia moglie mi scopre, sono esposto a qualche disgrazia. DON MARZIO Che pensereste di fare? LEANDRO Si potrebbe vedere di far cacciar via di Venezia colei? DON MARZIO Via, via. Si vede che siete un briccone. LEANDRO Come parlate, signore? DON MARZIO Fra voi e me, amorosamente. LEANDRO Dunque anderò via io; basta che colei non lo sappia. DON MARZIO Da me non lo saprà certamente. LEANDRO Mi consigliate ch'io parta? DON MARZIO Sì, questo è il miglior ripiego. Andate subito: prendete una gondola; fatevi condurre a Fusina, prendete le poste, e andatevene a Ferrara. LEANDRO Anderò questa sera; già poco manca alla notte. Voglio prima levar le mie poche robe, che sono qui in casa della ballerina. DON MARZIO Fate presto, e andate via subito. Non vi fate vedere. LEANDRO Uscirò per la porta di dietro, per non esser veduto. DON MARZIO (da sé) (Lo diceva io; si serve per la porta di dietro.) LEANDRO Sopra tutto vi raccomando la segretezza. DON MARZIO Di questa siete sicuro. LEANDRO Vi prego d'una grazia, datele questi due zecchini (gli dà due zecchini); poi mandatela via. Scrivetemi, e torno subito. DON MARZIO Le darò i due zecchini. Andate via.
LEANDRO Ma assicuratevi che ella parta... DON MARZIO Andate via, che siate maledetto! LEANDRO Mi scacciate? DON MARZIO Ve lo dico amorosamente, per vostro bene; andate, che il diavolo vi porti. LEANDRO (Oh che razza d'uomo! Se strapazza gli amici, che farà poi coi nemici!) (va in casa di Lisaura) DON MARZIO Il signor Conte! Briccone! Il signor Conte! Se non si fosse raccomandato a me, gli farei romper l'ossa di bastonate.
Scena terza
Placida dalla locanda e detto.
PLACIDA Sì, nasca quel che può nascere, voglio ritrovare quell'indegno di mio marito. DON MARZIO Pellegrina, come va? PLACIDA Voi, se non m'inganno, siete uno di quelli che erano alla tavola con mio marito? DON MARZIO Si, son quello delle castagne secche. PLACIDA Per carità ditemi dove si trova quel traditore. DON MARZIO Io non lo so, e quand'anche lo sapessi, non ve lo direi. PLACIDA Per che causa? DON MARZIO Perché se lo trovate, farete peggio. Vi ammazzerà. PLACIDA Pazienza. Avrò terminato almen di penare. DON MARZIO Eh, spropositi! Bestialità! Ritornate a Torino. PLACIDA Senza mio marito? DON MARZIO Sì; senza vostro marito. Ormai, che volete fare? E' un briccone. PLACIDA Pazienza! almeno vorrei vederlo. DON MARZIO Oh, non lo vedete più. PLACIDA Per carità, ditemi, se lo sapete; è egli forse partito?
DON MARZIO E' partito, e non è partito. PLACIDA Per quel che vedo, V. S. sa qualche cosa di mio marito? DON MARZIO Io? So, e non so, ma non parlo. PLACIDA Signore, muovetevi a comione di me. DON MARZIO Andate a Torino, e non pensate ad altro. Tenete, vi dono questi due zecchini. PLACIDA Il Cielo vi rimeriti la vostra carità; ma non volete dirmi nulla di mio marito? Pazienza! me ne anderò disperata. (in atto di partire piangendo) DON MARZIO Povera donna! (da sé) Ehi? (la chiama) PLACIDA Signore! DON MARZIO Vostro marito è qui in casa della ballerina, che prende la sua roba, e partirà per la porta di dietro. (parte) PLACIDA E' in Venezia! Non è partito! E' in casa della ballerina! Se avessi qualcheduno che mi assistesse, vorrei di bel nuovo azzardarmi. Ma così sola temo di qualche insulto.
Scena quarta
Ridolfo ed Eugenio e detta.
RIDOLFO Eh via, cosa sono queste difficoltà? Siamo tutti uomini, tutti soggetti ad errare. Quando l'uomo si pente, la virtù del pentimento cancella tutti il demerito dei mancamenti. EUGENIO Tutto va bene, ma mia moglie non mi crederà più. RIDOLFO Venga con me; lasci parlare a me. La signora Vittoria le vuol bene; tutto si aggiusterà. PLACIDA Signor Eugenio? RIDOLFO Il signor Eugenio si contenti di lasciarlo stare. Ha altro che fare, che badare a lei. PLACIDA Io non pretendo di sviarli da' suoi interessi. Mi raccomando a tutti nello stato miserabile in cui mi ritrovo. EUGENIO Credetemi, Ridolfo, che questa povera donna merita comione; è onestissima, e suo marito è un briccone. PLACIDA Egli mi ha abbandonata in Torino. Lo ritrovo in Venezia, tenta uccidermi, ed ora è sulle mosse per fuggirmi nuovamente di mano. RIDOLFO Sa ella dove egli sia? PLACIDA E' qui in casa della ballerina; mette insieme le sue robe e fra poco se ne andrà. RIDOLFO Se andrà via, lo vedrà. PLACIDA Partirà per la porta di dietro, ed io non lo vedrò, o se sarò scoperta mi ucciderò.
RIDOLFO Chi ha detto che anderà via per la porta di dietro? PLACIDA Quel signore che si chiama Don Marzio. RIDOLFO La tromba della comunità. Faccia così: si ritiri in bottega qui del barbiere; stando lì si vede la porticina segreta. Subito che lo vede uscire, mi avvisi, e lasci operare me. PLACIDA In quella bottega non mi vorranno. RIDOLFO Ora... Ehi, messer Agabito? (chiama)
Scena quinta
Il garzone del barbiere dalla sua bottega e detti.
GARZONE Che volete messer Ridolfo? RIDOLFO Dite al vostro padrone che mi faccia il piacere di tener questa pellegrina in bottega per un poco, fino che venga io a ripigliarla. GARZONE Volentieri, venga, venga, padrona, che imparerà a fare la barba. Benché, per pelare, la ne saprà più di noi altri barbieri. (rientra in bottega) PLACIDA Tutto mi convien soffrire per causa di quell'indegno. Povere donne! E’ meglio affogarsi, che maritarsi così. (entra dal barbiere)
Scena sesta
Ridolfo ed Eugenio.
RIDOLFO Se posso, voglio vedere di far del bene anche a questa povera diavola. E nello stesso tempo facendola partire con suo marito, la signora Vittoria non avrà più di lei gelosia. Già mi ha detto qualche cosa della pellegrina. EUGENIO Voi siete un uomo di buon cuore. In caso di bisogno, troverete cento amici che s'impegneranno per voi. RIDOLFO Prego il cielo di non aver bisogno di nessuno. In tal caso non so che cosa potessi sperare. Al mondo vi è dell'ingratitudine assai. EUGENIO Di me potrete disporre finch'io viva. RIDOLFO La ringrazio infinitamente. Ma badiamo a noi. Che pensa ella di fare? Vuol andar in camerino da sua moglie, o vuol farla venire in bottega? Vuol andar solo? Vuole che venga anch'io? Comandi. EUGENIO In bottega non istà bene; se venite anche voi, avrà soggezione. Se vado solo, mi vorrà cavare gli occhi... Non importa; ch'ella si sfoghi; che poi la collera erà. Anderò solo. RIDOLFO Vada pure col nome del cielo. EUGENIO Se bisogna, vi chiamerò. RIDOLFO Si ricordi che io non servo per testimonio. EUGENIO Oh, che caro Ridolfo! Vado. (in atto di incamminarsi) RIDOLFO Vai bravo! EUGENIO Che cosa credete che abbia da essere?
RIDOLFO Bene. EUGENIO Pianti, o graffiature? RIDOLFO Un poco di tutto. EUGENIO E poi? RIDOLFO Ognun dal canto suo cura si prenda. EUGENIO Se non chiamo, non venite. RIDOLFO Già ci s'intende. EUGENIO Vi racconterò tutto. RIDOLFO Via, andate. EUGENIO (Grand'uomo è Ridolfo! Gran buon amico!) (entra nella bottega interna)
Scena settima
Ridolfo, poi Trappola e giovani.
RIDOLFO Marito e moglie? gli lascio stare quanto vogliono. Ehi, Trappola, giovani, dove siete? TRAPPOLA Son qui. RIDOLFO Badate alla bottega, che io vado qui dal barbiere. Se il signor Eugenio mi vuole, chiamatemi, che vengo subito. TRAPPOLA Posso andar io a far compagnia al signor Eugenio? RIDOLFO Signor no, non avete da andare, e badate bene che là dentro non vi vada nessuno. TRAPPOLA Ma perché? RIDOLFO Perché no! TRAPPOLA Anderò a vedere se vuol niente. RIDOLFO Non andar, se non chiama. (Voglio intendere un po' meglio dalla pellegrina, come va questo suo negozio, se posso, voglio vedere d'accomodarlo.) (entra dal barbiere)
Scena ottava
Trappola, poi Don Marzio.
TRAPPOLA Appunto perché mi ha detto che non vi vada, son curioso d'andarvi. DON MARZIO Trappola, hai avuto paura? TRAPPOLA Un poco. DON MARZIO Si è più veduto il signor Eugenio? TRAPPOLA Sì, signore, si è veduto; anzi è lì dentro. Ma zitto. DON MARZIO Dove? TRAPPOLA Zitto! nel camerino. DON MARZIO Che vi fa? Giuoca? TRAPPOLA (ridendo) Signor sì, giuoca. DON MARZIO Con chi? TRAPPOLA (sotto voce) Con sua moglie. DON MARZIO Vi è sua moglie? TRAPPOLA Vi è; ma zitto! DON MARZIO Voglio andare a ritrovarlo. TRAPPOLA Non si può. DON MARZIO Perché?
TRAPPOLA Il padrone non vuole. DON MARZIO (vuole andare) Eh, via, buffone! TRAPPOLA (lo ferma) Le dico che non si va! DON MARZIO (come sopra) Ti dico che voglio andare! TRAPPOLA (come sopra) Ed io dico che non anderà! DON MARZIO Ti caricherò di bastonate!
Scena nona
Ridolfo dalla bottega del barbiere e detti.
RIDOLFO Che c'è? TRAPPOLA Vuol andare per forza a giuocar in terzo col matrimonio. RIDOLFO Si contenti, signore, che là dentro non vi si va. DON MARZIO Ed io ci voglio andare! RIDOLFO In bottega mia comando io, e non vi anderà. Porti rispetto, se non vuol che ricorra. (a Trappola, ed altri garzoni) E voi, finché torno, là dentro non lasciate entrar chicchessia. (batte alla casa della ballerina ed entra)
Scena decima
Don Marzio, Trappola e garzoni, poi Pandolfo.
TRAPPOLA Ha sentito? Al matrimonio si porta rispetto. DON MARZIO (A un par mio? Non vi anderà?... Porti rispetto?... A un par mio? E sto cheto? E non parlo? E non lo bastono? Briccone! Villanaccio! A me? A me?) (sempre eggiando) Caffé. (siede) TRAPPOLA Subito. (va a prendere il caffé, e glielo porta) PANDOLFO Illustrissimo, ho bisogno della sua protezione. DON MARZIO Che c'è, biscazziere? PANDOLFO C'è del male. DON MARZIO Che male c'è? Confidami, che t'ajuterò. PANDOLFO Sappia, signore, che ci sono dei maligni invidiosi, che non vorrebbero veder bene ai pover uomini. Vedono che io m'ingegno onoratamente per mantener con decoro la mia famiglia, e questi bricconi mi hanno dato una querela di baro di carte. DON MARZIO (ironico) Bricconi! Un galantuomo della tua sorta! Come l'hai saputo? PANDOLFO Me l'ha detto un amico. Mi confido però, che non hanno prove, perché nella mia bottega praticano tutti galantuomini, e niuno può dir male di me. DON MARZIO Oh s'io avessi da esaminarmi contro di te, ne so delle belle della tua abilita! PANDOLFO Caro illustrissimo, per amor del cielo, la non mi rovini; mi
raccomando alla sua carità, alla sua protezione, per le mie povere creature. DON MARZIO Via, sì, t'assisterò, ti proteggerò. Lascia fare a me. Ma bada bene. Carte segnate ne hai in bottega? PANDOLFO Io non le segno... Ma qualche giuocatore si diletta. DON MARZIO Presto, abbruciatele subito. Io non parlo. PANDOLFO Ho paura di non aver tempo per abbruciarle. DON MARZIO Nascondile! PANDOLFO Vado in bottega, le nascondo subito. DON MARZIO Dove le vuoi nascondere? PANDOLFO Ho un luogo segreto sotto le travature, che né anche il diavolo le ritrova. (entra in bottega del giuoco) DON MARZIO Va, che sei un gran furbo!
Scena undicesima
Don Marzio, poi un capo de' birri mascherato, ed altri birri nascosti, poi Trappola.
DON MARZIO Costui è alla vigilia della galera. Se trova alcuno che scopra la metà delle sue bricconate, lo pigliano prigione immediatamente. CAPO (ai birri sulla cantonata della strada, i quali si ritirano) (Girate qui d'intorno, e quando chiamo venite.) DON MARZIO (da sè) (Carte segnate! Oh che ladri!) CAPO (siede) Caffè! TRAPPOLA La servo. (va per il caffè, e lo porta) CAPO Abbiamo delle buone giornate. DON MARZIO Il tempo non vuol durare. CAPO Pazienza. Godiamolo finché è buono. DON MARZIO Lo goderemo per poco. CAPO Quando è mal tempo, si va in un casino, e si giuoca. DON MARZIO Basta andare in luoghi dove non rubino! CAPO Qui, questa bottega vicina mi pare onorata. DON MARZIO Onorata? E' un ridotto di ladri. CAPO Mi pare sia messer Pandolfo il padrone. DON MARZIO Egli per l'appunto.
CAPO Per dir il vero, ho sentito dire che sia un giuocator di vantaggio. DON MARZIO E' un baro solennissimo. CAPO Ha forse truffato ancora a lei? DON MARZIO A me no, che non son gonzo. Ma quanti capitano, tutti li tira al trabocchetto. CAPO Bisogna ch'egli abbia qualche timore, che non si vede. DON MARZIO E' dentro in bottega, che nasconde le carte. CAPO Perché mai nasconde le carte? DON MARZIO M'immagino, perché sieno fatturate. CAPO Certamente. E dove le nasconderà? DON MARZIO Volete ridere? Le nasconde in un ripostiglio sotto le travature. CAPO (da sè) (Ho rilevato tanto che basta.) DON MARZIO Voi, signore, vi dilettate di giuocare? CAPO Qualche volta. DON MARZIO Non mi par di conoscervi. CAPO Or ora mi conoscerete. (s'alza) DON MARZIO Andate via? CAPO Ora torno. TRAPPOLA (al Capo) Eh? Signore; il caffè. CAPO Or ora lo pagherò. (si accosta alla strada, e fischia. I birri entrano in bottega di Pandolfo)
Scena dodicesima
Don Marzio e Trappola.
DON MARZIO (s'alza, e osserva attentamente senza parlare) TRAPPOLA (anch'egli osserva attentamente) DON MARZIO Trappola... TRAPPOLA Signor Don Marzio... DON MARZIO Chi son coloro? TRAPPOLA Mi pare l'onorata famiglia.
Scena tredicesima
Pandolfo legato, birri e detti.
PANDOLFO Signor Don Marzio, gli sono obbligato. DON MARZIO A me? Non so nulla. PANDOLFO Io andrò forse in galera, ma la sua lingua merita la berlina. (va via coi birri) CAPO (a Don Marzio) Sì, signore, l'ho trovato che nascondeva le carte. (parte) TRAPPOLA Voglio andargli dietro, per veder dove va. (parte)
Scena quattordicesima
Don Marzio solo.
DON MARZIO Oh diavolo, diavolo! Che ho io fatto? Colui che io credeva un signore di conto, era un birro travestito. Mi ha tradito, mi ha ingannato. Io son di buon cuore; dico tutto con facilità.
Scena quindicesima
Ridolfo e Leandro di casa della ballerina e detto.
RIDOLFO (a Leandro) Bravo; così mi piace; chi intende la ragione fa conoscere che è un uomo di garbo; finalmente in questo mondo non abbiamo altro che il buon nome, la fama e la riputazione. LEANDRO Ecco lì quello che mi ha consigliato a partire. RIDOLFO Bravo, signor Don Marzio; ella dà di questi buoni consigli; invece di procurare di unirlo con la moglie lo persuade abbandonarla, e andar via? DON MARZIO Unirsi con sua moglie? E' impossibile, non la vuole con lui. RIDOLFO Per me è stato possibile; io con quattro parole l'ho persuaso. Tornerà con la moglie. LEANDRO (da sè) (Per forza, per non esser precipitato.) RIDOLFO Andiamo a ritrovare la signora Placida, che è qui dal barbiere. DON MARZIO (a Leandro) Andate a ritrovare quella buona razza di vostra moglie. LEANDRO Signor Don Marzio, vi dico in confidenza tra voi e me che siete una gran lingua cattiva. (entra dal barbiere con Ridolfo)
Scena sedicesima
Don Marzio, poi Ridolfo.
DON MARZIO Si lamentano della mia lingua, e a me pare di parlare bene. E' vero che qualche volta dico di questo e di quello; ma, credendo dire la verità, non me ne astengo. Dico facilmente quello che so; ma lo faccio, perché son di buon cuore. RIDOLFO (dalla bottega del barbiere) Anche questa è accomodata. Se dice davvero, è pentito, se finge, sarà peggio per lui. DON MARZIO Gran Ridolfo! Voi siete quello che unisce i matrimoni. RIDOLFO E ella è quello che cerca di disunirli. DON MARZIO Io ho fatto per far bene. RIDOLFO Chi pensa male non può mai sperar di far bene. Non s'ha mai da lusingarsi, che da una cosa cattiva ne possa derivare una buona. Separare il marito dalla moglie, è un'opera contro tutte le leggi, e non si possono sperare che disordini e pregiudizi. DON MARZIO (con disprezzo) Sei un gran dottore. RIDOLFO Ella intende più di me; ma mi perdoni, la mia lingua si regola meglio della sua. DON MARZIO Tu parli da temerario. RIDOLFO Mi compatisca, se vuole; e se non vuole, mi levi la sua protezione. MARZIO Te la leverò, te la leverò. Non ci verrò più a questa tua bottega. RIDOLFO (da sè) (Oh il ciel lo volesse!)
Scena diciassettesima
Un garzone della bottega del caffè e detti.
GARZONE Signor padrone, il signor Eugenio vi chiama. (si ritira) RIDOLFO Vengo subito; (a Don Marzio) con sua licenza. DON MARZIO Riverisco il signor politico. Che cosa guadagnate in questi vostri maneggi? RIDOLFO Guadagno il merito di far del bene; guadagno l'amicizia delle persone; guadagno qualche marca d'onore, che stimo sopra tutte le cose del mondo. (entra in bottega) DON MARZIO Che pazzo! Che idee da ministro, da uomo di conto! Un caffettiere fa l'uomo di maneggio! E quanto s'affatica! E quanto tempo vi mette! Tutte cose che io le avrei accomodate in un quarto d'ora.
Scena diciottesima
Ridolfo, Eugenio, Vittoria dal caffè e Don Marzio.
DON MARZIO (da sè) (Ecco i tre pazzi. Il pazzo discolo, la pazza gelosa, e il pazzo glorioso.) RIDOLFO (a Vittoria) In verità provo una consolazione infinita. VITTORIA Caro Ridolfo, riconosco da voi la pace, la quiete, e posso dire la vita. EUGENIO Credete, amico, ch'io era stufo di far questa vita, ma non sapeva come fare a distaccarmi dai vizi. Voi siate benedetto, m'avete aperto gli occhi, e un poco coi vostri consigli, un poco coi vostri rimproveri, un poco colle buone grazie, e un poco coi benefizi mi avete illuminato, mi avete fatto arrossire: son un altro uomo, e spero che sia durabile il mio cambiamento, a nostra consolazione, a gloria vostra, e ad esempio degli uomini savi, onorati e dabbene, come voi siete. RIDOLFO Dice troppo, signore: io non merito tanto. VITTORIA Sino ch'io sarà viva mi ricorderò sempre del bene che mi avete fatto. Mi avete restituito il mio caro consorte, l'unica cosa, che ho di bene in questo mondo. Mi ha costato tante lagrime il prenderlo, tante me ne ha costato il perderlo, e molte me ne costa il riacquistarlo; ma queste sono lagrime di dolcezza, lagrime d'amore, e di tenerezza, che m'empiono l'anima di diletto, che mi fanno scordare ogni affanno ato, rendendo grazie al cielo, e lode alla vostra pietà. RIDOLFO Mi fa piangere dalla consolazione. DON MARZIO (da sè, guardando sempre con l'occhialetto) (Oh pazzi maledetti!) EUGENIO Volete che andiamo a casa?
VITTORIA Mi dispiace, ch'io sono ancora tutta lagrime, arruffata e scomposta. Vi sarà mia madre, e qualche altra mia parente ad aspettarmi; non vorrei che mi vedessero col pianto agli occhi. EUGENIO Via, acchetatevi; aspettiamo un poco. VITTORIA Ridolfo non avete uno specchio? Vorrei un poco vedere come sto. DON MARZIO (da sè coll'occhialetto) (Suo marito le avrà guastato il tuppè.) RIDOLFO Se si vuol guardar nello specchio, andiamo qui sopra nei camerini del giuoco. EUGENIO No, là dentro non vi metto più piede. RIDOLFO Non sa la nuova? Pandolfo è ito prigione. EUGENIO Sì? Se lo merita; briccone! Me ne ha mangiati tanti. VITTORIA Andiamo, caro consorte. EUGENIO Quando non vi è nessuno, andiamo. VITTORIA Così arruffata non mi posso vedere. (entra nella bottega del giuoco con allegria) EUGENIO Poverina! Giubila dalla consolazione! (entra come sopra) RIDOLFO Vengo ancor io a servirli. (entra come sopra)
Scena diciannovesima
Don Marzio, poi Leandro e Placida.
DON MARZIO Io so perché Eugenio è tornato in pace con sua moglie. Egli è fallito, e non ha più da vivere. La moglie è giovine, e bella... Non l'ha pensata male, e Ridolfo gli farà il mezzano. LEANDRO (uscendo dal barbiere) Andiamo dunque alla locanda a prendere il vostro piccolo bagaglio. PLACIDA Caro marito, avete avuto tanto cuore di abbandonarmi? LEANDRO Via non ne parliamo più. Vi prometto di cambiare vita. PLACIDA Lo voglia il cielo. (s'avvicina alla locanda) DON MARZIO (a Leandro burlandolo) Servo di vosustrissima, signor Conte. LEANDRO Riverisco il signor protettore, il signor buona lingua. DON MARZIO (a Placida deridendola) M'inchino alla signora contessa. PLACIDA Serva, signor cavaliere delle castagne secche. (entra in locanda con Leandro) DON MARZIO Anderanno tutti e due in pellegrinaggio a battere la birba. Tutta la loro entrata consiste in un mazzo di carte.
Scena ventesima
Lisaura alla finestra e Don Marzio.
LISAURA La pellegrina è tornata alla locanda con quel disgraziato di Leandro. S'ella ci sta troppo, me ne vado assolutamente di questa casa. Non posso tollerare la vista, né di lui, né di lei. DON MARZIO (coll'occhialetto) Schiavo, signora ballerina. LISAURA (bruscamente) La riverisco. DON MARZIO Che cosa avete? Mi parete alterata. LISAURA Mi maraviglio del locandiere, che tenga nella sua locanda simil sorta di gente. DON MARZIO Di chi intende parlare? LISAURA Parlo di quella pellegrina, la quale è donna di mal affare, e in questi contorni non ci sono mai state di queste porcherie.
Scena ventunesima
Placida dalla finestra della locanda e detti.
PLACIDA Eh, signorina, come parlate dei fatti miei? Io sono una donna onorata, non so se cosi si possa dir di voi. LISAURA Se foste una donna onorata, non andreste pel mondo birboneggiando. DON MARZIO (ascolta, e osserva di qua e di la coll'occhialetto, e ride) PLACIDA Son venuta in traccia di mio marito. LISAURA Sì, e l'anno ato in traccia di chi eravate? PLACIDA Io a Venezia non ci sono più stata. LISAURA Siete una bugiarda. L'anno ato avete fatta una trista figura in questa città. (Don Marzio osserva, e ride come sopra) PLACIDA Chi vi ha detto questo? LISAURA Eccolo lì; il signor Don Marzio me l'ha detto. DON MARZIO Io non ho detto nulla. PLACIDA Egli non può aver detto una tal bugia; ma di voi si mi ha narrato la vita e i bei costumi. Mi ha egli informato dell'esser vostro, e che ricevete le genti di nascosto per la porta di dietro. DON MARZIO Io non l'ho detto. (sempre coll'occhialetto di qua, e di là) PLACIDA Sì che l'avete detto. LISAURA E' possibile che il signor Don Marzio abbia detto di me una simile iniquità?
DON MARZIO Vi dico, non l'ho detto.
Scena ventiduesima
Eugenio alla finestra de' camerini, poi Ridolfo da altra simile, poi Vittoria dall'altra, aprendole di mano in mano, e detti a' loro luoghi.
EUGENIO Sì, che l'ha detto, e l'ha detto anche a me, e dell'una, e dell'altra. Della pellegrina, che è stata l'anno ato a Venezia a birboneggiare; e della signora ballerina, che riceve le visite per la porta di dietro. DON MARZIO Io l'ho sentito dir da Ridolfo. RIDOLFO Io non son capace di far queste cose. Abbiamo anzi altercato per questo. Io sosteneva l'onore della signora Lisaura, e V. S. voleva che fosse una donna cattiva. LISAURA Oh disgraziato! DON MARZIO Sei un bugiardo. VITTORIA A me ancora ha detto che mio marito teneva pratica colla ballerina, e colla pellegrina; e me le ha dipinte per due scelleratissime femmine. PLACIDA Ah scellerato! LISAURA Ah maledetto!
Scena ventitreesima
Leandro sulla porta della locanda e detti.
LEANDRO Signor sì, signor sì, V. S. ha fatto nascere mille disordini! ha levata la riputazione colla sua lingua a due donne onorate. DON MARZIO Anche la ballerina onorata? LISAURA Tale mi vanto di essere. L'amicizia col signor Leandro non era che diretta a sposarlo, non sapendo che egli avesse altra moglie. PLACIDA La moglie l'ha; e son io quella. LEANDRO E se avessi abbadato al signor Don Marzio, l'avrei nuovamente sfuggita. PLACIDA Indegno! LISAURA Impostore! VITTORIA Maldicente! EUGENIO Ciarlone! DON MARZIO A me questo? A me, che sono l'uomo il più onorato del mondo? RIDOLFO Per essere onorato non basta non rubare, ma bisogna anche trattar bene. DON MARZIO Io non ho mai commesso una mala azione.
Scena ventiquattresima
Trappola e detti.
TRAPPOLA Il signor Marzio l'ha fatta bella. RIDOLFO Che ha fatto? TRAPPOLA Ha fatto la spia a Messer Pandolfo; l'hanno legato, e si dice che domani lo frusteranno. RIDOLFO E' uno spione! via dalla mia bottega. (parte dalla finestra)
Scena venticinquesima
Il garzone del barbiere e detti.
GARZONE Signore spione, non venga più a farsi far la barba nella nostra bottega. (entra nella sua bottega)
Scena ultima
Il cameriere della locanda e detti.
CAMERIERE Signora spia, non venga più a far desinari alla nostra locanda. (entra nella locanda) LEANDRO Signor protettore, tra voi e me in confidenza, far la spia è azion da briccone. (entra nella locanda) PLACIDA Altro che castagne secche! Signor soffione. (parte dalla finestra) LISAURA Alla berlina, alla berlina! (parte dalla finestra) VITTORIA O che caro Don Marzio! Quei dieci zecchini che prestasti a mio marito, saranno stati una paga di esploratore. (parte dalla finestra) EUGENIO Riverisco il signor confidente. (Parte dalla finestra) TRAPPOLA Io fo riverenza al signor referendario. (entra in bottega) DON MARZIO Sono stordito, sono avvilito, non so in qual mondo mi sia. Spione a me? A me spione? Per avere svelato accidentalmente il reo costume di Pandolfo, sarò imputato di spione? Io non conosceva il birro, non prevedeva l'inganno, non sono reo di quest'infame delitto. Eppur tutti m'insultano, tutti mi vilipendono, niuno mi vuole, ognuno mi scaccia. Ah sì, hanno ragione, la mia lingua, o presto o tardi, mi doveva condurre a qualche gran precipizio. Ella mi ha acquistato l'infamia, che è il peggiore de' mali. Qui non serve il giustificarmi. Ho perduto il credito e non lo riacquisto mai più. Anderò via di questa città; partirò a mio dispetto; e per causa della mia trista lingua mi priverò d'un paese, in cui tutti vivono bene, tutti godono la libertà, la pace, il divertimento, quando sanno essere prudenti, cauti ed onorati.
- FINE -
LA FAMIGLIA DELL'ANTIQUARIO
ossia
La suocera e la nuora
L'AUTORE A CHI LEGGE
In questa commedia non ho fatto che scrivere la parte del Brighella e dell'Arlecchino, li quali furono da me prima lasciati in libertà, acciocché si sfogassero questi due personaggi, malcontenti forse di me, siccome io non di essi, ma delle loro maschere, non son contento.
Osservate però che dopo il primo e secondo anno non ho lasciato le Maschere in libertà, ma dove ho creduto doverle introdurre, le ho legate a parte studiata, mentre ho veduto per esperienza che il personaggio talora pensa più a se medesimo che alla commedia; e pur che gli riesca di far ridere, non esamina se quanto dice convenga al suo carattere e alle sue circostanze; e sovente, senza avvedersene, imbroglia la Scena e precipita la Commedia.
Io sono costantissimo a non voler dir nulla sopra le mie Commedie; e molto meno a volerle difendere dalle critiche, che hanno con ragione o senza ragione sofferte. Ho letto il libro ultimamente uscito alla luce, e con una risata ho terminato di leggerlo. Può bene parlar degli altri chi non la perdona a se stesso, ed io sono molto contento di trovarmi colà in un fascio con Plauto, con Terenzio, con Aristofane e con cent'altri ch'io non ho letto, siccome letti non li averà né tampoco quel medesimo che li ha citati.
Circa il titolo della Commedia, io l'ho intitolata in due maniere, cioè: La famiglia dell'antiquario, o sia La Suocera e la Nuora, lo stesso trovandosi in quasi tutte le Commedie di Molier e in altre d'antichi Autori. I due titoli mi pare che convengano perfettamente. La Suocera e la Nuora sono le due persone che formano l'azione principale della Commedia; e l'Antiquario, capo di casa, per ragione del suo fanatismo per le antichità, non badano agl'interessi della famiglia, non accorgendosi de' disordini, e non prendendosi cura di correggere a tempo la Moglie e la Nuora, dà adito alle loro pazzie e alle loro dissensioni
perpetue, onde e nell'una e nell'altra maniera la Commedia può essere intitolata.
Aggiungerò soltanto aver io rilevato che alcuni giudicano la presente Commedia terminar male, perché non seguendo alcuna pacificazione fra Suocera e Nuora, manca, secondo loro, il fine della morale istruttiva, che dovrebbe essere, nel caso nostro, d'insegnar agli uomini a pacificare queste due persone, per ordinario nemiche. Ma io rispondo, che quanto facile mi sarebbe stato il renderle sulla scena pacificate, altrettanto sarebbe impossibile dar ad intendere agli Uditori che fosse per essere la loro pacificazione durevole; e desiderando io di preferire la verità disaggradevole ad una deliziosa immaginazione, ho voluto dar un esempio della costanza femminile nell'odio. Ciò però non sarà senza profitto di chi si trovasse nel caso. I Capi di famiglia si specchieranno nell'Antiquario, e trovandosi disattenti alle case loro, se non per ragione della Galleria, per qualche altra, o di conversazione, o di giuoco, potranno rimediare per tempo alle discordie domestiche, alle pretensioni delle donne, e soprattutto ai rapporti maligni della servitù.
PERSONAGGI
Il Conte Anselmo Terrazzani, dilettante di antichità La Contessa Isabella, sua moglie Il Conte Giacinto, loro figlio Doralice, sposata al Conte Giacinto, figlia di Pantalone Pantalone de' Bisognosi, mercante ricco veneziano Il Cavaliere del Bosco Il dottore Anselmi, uomo d'età avanzata, amico della Contessa Isabella Colombina, cameriera della Contessa Isabella Brighella, servitore del Conte Anselmo Arlecchino, amico, e paesano di Brighella Pancrazio, intendente di antichità Servitori del Conte Anselmo
La scena si rappresenta in Palermo
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera del Conte Anselmo, con vari tavolini, statue, busti e altre cose antiche
Il Conte Anselmo ad un tavolino, seduto sopra una poltrona, esaminando alcune medaglie, con uno scrigno sul tavolino medesimo; poi Brighella.
ANSELMO Gran bella medaglia! questo è un Pescennio originale. Quattro zecchini? L'ho avuto per un pezzo di pane. BRIGHELLA Lustrissimo (con vari fogli in mano). ANSELMO Guarda, Brighella, se hai veduto mai una medaglia più bella di questa. BRIGHELLA Bellissima. De medaggie no me ne intendo troppo, ma la sarà bella. ANSELMO I Pescenni sono rarissimi; e questa pare coniata ora. BRIGHELLA Gh'è qua ste do polizze... ANSELMO Ho fatto un bell'acquisto. BRIGHELLA Comàndela, che vada via? ANSELMO Hai da dirmi qualche cosa? BRIGHELLA Gh'ho qua ste do polizze. Una del mercante da vin, e l'altra de quello della farina. ANSELMO Gran bella testa! Gran bella testa! (osservando la medaglia). BRIGHELLA I xé qua de fóra, i voleva intrar, ma gh'ho dito che la dorme.
ANSELMO Hai fatto bene. Non voglio essere disturbato. Quanto avanzano? BRIGHELLA Uno sessanta scudi, e l'altro cento e trenta. ANSELMO Tieni questa borsa, pàgali, e màndali al diavolo (leva una borsa dallo scrigno). BRIGHELLA La sarà servida (parte). ANSELMO Ora posso sperare di fare la collana perfetta degl'imperatori romani. Il mio museo a poco a poco si renderà famoso in Europa. BRIGHELLA Lustrissimo (torna con altri fogli). ANSELMO Che cosa c'è? Se venisse quell'Armeno con i cammèi, fallo are immediatamente. BRIGHELLA Benissimo; ma son capitadi altri tre creditori: el mercante de' panni, quel della tela, e el padron de casa che vuol l'affitto. ANSELMO E ben, pàgali e màndali al diavolo. BRIGHELLA Da qua avanti no la sarà tormentada dai creditori. ANSELMO Certo che no. Ho liberate tutte le mie entrate. Sono padrone del mio. BRIGHELLA Per la confidenza che vossustrissima se degna de donarme, ardisso dir che l'ha fatto un bon negozio a maridar l'illustrissimo signor contin, suo degnissimo fiol, con la fia del sior Pantalon. ANSELMO Certo che i ventimila scudi di dote, che mì ha portato in casa in tanti bei denari contanti, è stato il mio risorgimento Io aveva ipotecate, come sai, tutte le mie rendite. BRIGHELLA Za che la xé in pagar debiti, la sappia che, co vago fóra de casa, no me posso salvar: quattro ducati qua, tre là; a chi diése lire, a chi otto, a chi sié; s'ha da dar a un mondo de botteghieri. ANSELMO E bene, che si paghino, che si paghino. Se quella borsa non basta, vi è ancor questa, e poi è finito (mostra un'altra borsa, che è nello scrigno).
BRIGHELLA De ventimile scudi no la ghe n' ha altri? ANSELMO Per dir tutto a te, che sei il mio servitor fedele, ho riposto duemila scudi per il mio museo, per investirli in tante statue, in tante medaglie. BRIGHELLA La me perdona; ma buttar via tanti bezzi in ste cosse... ANSELMO Buttar via? Buttar via? Ignorantaccio! Senti se vuoi avere la mia protezione, non mì parlar mai contro il buon gusto delle antichità; altrimenti ti licenzierò di casa mia. BRIGHELLA Diseva cussì, per quello che sento a dir in casa; per altro accordo anca mì, che el studio delle medaggie l'è da omeni letterati; che sto diletto è da cavalier nobile e de bon gusto; e che son sempre ben spesi quei denari che contribuisce all'onor della casa e della città. (El vol esser adulà? bisogna adularlo) (parte).
SCENA SECONDA
Il Conte Anselmo solo.
ANSELMO Bravo. Brighella è un servitore di merito. Ecco un bell'anello etrusco. Con questi anelli gli antichi Toscani sposavano le loro donne. Quanto pagherei avere un lume eterno, di quelli che ponevano i Gentili nelle sepolture de' morti! Ma a forza d'oro, l'avrò senz'altro.
SCENA TERZA
La Contessa Isabella e detto.
ISABELLA (Ecco qui la solita pazzia delle medaglie!) ANSELMO Oh, Contessa mia, ho fatto il bell'acquisto! Ho ritrovato un Pescennio. ISABELLA Voi colla vostra gran mente fate sempre de' buoni acquisti. ANSELMO Direste forse che non è vero? ISABELLA Si, è verissimo. Avete fatto anche l'acquisto di una nobilissima nuora. ANSELMO Che! sono stati cattivi ventimila scudi? ISABELLA Per il vilissimo prezzo di ventimila scudi avete sacrificato il tesoro della nobiltà. ANSELMO Eh via, che l'oro non prende macchia. Siam nati nobili, e siamo nobili, e una donna venuta in casa per accomodare i nostri interessi, non guasta il sangue delle nostre vene. ISABELLA Una mercantessa mia nuora? Non lo soffrirò mai. ANSELMO Orsú, non mì rompete il capo. Andate via, che ho da mettere in ordine le mie medaglie. ISABELLA E il mio gioiello quando me lo riscuotete? ANSELMO Subito. Anche adesso, se volete. ISABELLA L'ebreo lo ha portato, ed è in sala che aspetta.
ANSELMO Quanto vi vuole? ISABELLA Cento zecchini coll'usura. ANSELMO Eccovi cento zecchini. Ehi! sono di quelli della mercantessa. ISABELLA Non mì nominate colei. ANSELMO Se temete che vi sporchino le mani nobili, lasciateli stare. ISABELLA Date qua, date qua (li prende). ANSELMO Volesse il cielo che avessi un altro figliuolo. ISABELLA E che vorreste fare? ANSELMO Un'altra intorbidata alla purezza del sangue con altri ventimila scudi. ISABELLA Animo vile! Vi lasciate contaminar dal denaro? Mi vergogno di essere vostra moglie. ANSELMO Quanto sarebbe stato meglio, che voi ancora mì aveste portato in casa meno grandezze e più denari. ISABELLA Orsú, non entriamo in ragazzate. Ho bisogno di un abito ANSELMO Benissimo. Farlo! ISABELLA Per la casa abbisognano cento cose. ANSELMO Orsú, tenete. Questi, con i cento zecchini che vi ho dato, sono quattrocento zecchini. Fate quel che bisogna per voi, per la casa, per la sposa. Io non me ne voglio impacciare. Lasciatemi in pace, se potete. Ma ehi! questi denari sono della mercantessa. ISABELLA Il fate apposta per farmi arrabbiare. ANSELMO Senza di lei la faremmo magra. ISABELLA In grazia delle vostre medaglie.
ANSELMO In grazia della vostra albagìa. ISABELLA Io son chi sono. ANSELMO Ma senza questi non si fa niente (accenna i denari). ISABELLA Avvertite bene, che Doralice non venga nelle mie camere ANSELMO Chi? vostra nuora?ISABELLA Mia nuora, mia nuora, giacché il diavolo vuol così (parte).
SCENA QUARTA
II Conte Anselmo solo.
ANSELMO È pazza, e pazza la poverina. Prevedo che fra suocera e nuora vi voglia essere il solito divertimento. Ma io non ci voglio pensare. Voglio attendere alle mie medaglie, e se si vogliono rompere il capo, lo facciano, che non m'importa. Non posso saziarmi di rimirare questo Pescennio! E questa tazza di diaspro orientale non è un tesoro? Io credo senz'altro sia quella in cui Cleopatra stemprò la perla alla famosa cena di Marcantonio.
SCENA QUINTA
Doralice e detto.
DORALICE Serva, signor suocero. ANSELMO Schiavo, nuora, schiavo. Ditemi, v'intendete voi di anticaglie? DORALICE Sì,signore, me n'intendo. ANSELMO Brava! me ne rallegro; e come ve n'intendete? DORALICE Me n'intendo, perché tutte le mie gioje, tutti i miei vestiti sono anticaglie. ANSELMO Brava! spiritosa! Vostro padre prima di maritarvi doveva vestirvi alla moda. DORALICE Lo avrebbe fatto, se voi non aveste preteso i ventimila scudi in denari contanti, e non aveste promesso di farmi il mio bisogno per comparire. ANSELMO Orsù, lasciatemi un po' stare; non ho tempo da perdere in simili frascherie. DORALICE Vi pare una bella cosa, che io non abbia nemmeno un vestito da sposa? ANSELMO Mi pare che siate decentemente vestita. DORALICE Questo è l'abito ch'io aveva ancor da fanciulla. ANSELMO E, perché siete maritata, non vi sta bene? Anzi sta benissimo, e quando occorrerà, si allargherà. DORALICE Non è vostro decoro, ch'io vada vestita come una serva.
ANSELMO (Non darei questa medaglia per cento scudi) DORALICE Finalmente ho portato in casa ventimila scudi. ANSELMO (A compir la collana mì mancano ancora sette medaglie). DORALICE Avete voluto fare il matrimonio in privato, ed io non ho detto niente. ANSELMO (Queste sette medaglie le troverò). DORALICE Non avete invitato nessuno de' miei parenti; pazienza. ANSELMO (Vi sono ancora duemila scudi, le troverò). DORALICE Ma ch'io debba stare confinata in casa, perché non ho vestiti da comparire, è una indiscretezza. ANSELMO (Oh, son pur annoiato!). Andate da vostra suocera, ditele il vostro bisogno; a lei ho dato l'incombenza: ella farà quello che sarà giusto. DORALICE Con la signora suocera non voglio parlare di queste cose; ella non mì vede di buon occhio. Vi prego, datemi voi il denaro per un abito, che io penserò a provvederlo. ANSELMO Denaro io non ne ho. DORALICE Non ne avete? I ventimila scudi dove sono andati? (parla sempre flemmaticamente). ANSELMO A voi non devo rendere questi conti. DORALICE Li renderete a mio marito. La dote è sua, voi non gliel'avete a mangiare. ANSELMO E lo dite con questa flemma? DORALICE Per dir la sua ragione, non vi è bisogno di scaldarsi il sangue. ANSELMO Orsú, fatemi il piacere, andate via di qua; che se il sangue non si scalda a voi, or ora si scalda a me.
DORALICE Mi maraviglio di mio marito. E un uomo ammogliato, e si lascia strapazzare Così. ANSELMO Per carità, andate via.
SCENA SESTA
Il Conte Giacinto e detti.
GIACINTO Ha ragione mia moglie, ha ragione; una sposa non va trattata così. ANSELMO (Uh, povere le mie medaglie!). GIACINTO Nemmeno un abito? ANSELMO Andate da vostra madre, le ho dato quattrocento zecchini. GIACINTO Voi, signor padre, siete il capo di casa. ANSELMO Io non posso abbadare a tutto. GIACINTO Maledette quelle anticaglie! DORALICE Dei ventimila scudi dice che non ne ha più. GIACINTO Non ne ha più? Dove sono andati? DORALICE Per me non si è speso un soldo. GIACINTO Io non ho avuto un quattrino. DORALICE Signor suocero, come va questa faccenda? GIACINTO Signor padre, ho moglie, sono obbligato a prevedere il futuro. ANSELMO (Non posso più, non posso più; ho tanto di testa; non posso più) (prende le medaglie, le mette nello scrigno, e le porta via).
SCENA SETTIMA
Il Conte Giacinto e Doralice.
DORALICE Che ne dite, eh? Ci ha data questa bella risposta. GIACINTO Che volete ch'io dica? Le medaglie lo hanno incantato. DORALICE Se egli è incantato, non siate incantato voi. GIACINTO Cosa mì consigliereste di fare? DORALICE Dir le vostre e le mie ragioni. GIACINTO Finalmente è mio padre; non posso e non deggio mancare al dovuto rispetto. DORALICE Avete sentito? Vostra madre ha quattrocento zecchini da spendere. Fate che ne spenda ancora per me. GIACINTO Sarà difficile cavarglieli dalle mani. DORALICE Se non vuol colle buone, obbligatela colle cattive. GIACINTO È mia madre. DORALICE E io son vostra moglie. GIACINTO Vi vorrei pur vedere in pace. DORALICE È difficile. GIACINTO Ma perché? DORALICE Perché ella è troppo superba.
GIACINTO E voi convincetela coll'umiltà. Sentite, Doralice mia, due donne che gridano, sono come due porte aperte, dalle quali entra furiosamente il vento; basta chiuderne una, perché il vento si moderi. DORALICE La mia collera è un vento, che in casa non fa rumore. GIACINTO Sì è vero; è un vento leggiero; ma tanto fino ed acuto, che penetra nelle midolle dell'ossa. DORALICE Vuol atterrar tutti colla sua furia. GIACINTO E voi non vi perdete colla vostra flemma. DORALICE Sempre mette in campo la sua nobiltà. GIACINTO E voi la vostra dote. DORALICE La mia dote è vera. GIACINTO E la sua nobiltà non è una cosa ideale. DORALICE Dunque date ragione a vostra madre, e date torto a me ? GIACINTO Vi do ragione, quando l'avete. DORALICE Ho forse torto a pretendere d'esser vestita decentemente? GIACINTO No, ma per mia madre desidero che abbiate un poco più di rispetto. DORALICE Orsú, sapete che farò? Per rispettarla, per non inquietarla, anderò a star con mio padre. GIACINTO Vedete, ecco il vento leggiero leggiero, ma fino ed acuto. Con tutta placidezza vorreste fare la peggior cosa del mondo. DORALICE Farei sì gran male a tornar con mio padre? GIACINTO Fareste malissimo a lasciare il marito. DORALICE Potete venire ancor voi.
GIACINTO Ed io farei peggio ad uscire di casa mia. DORALICE Dunque stiamo qui, e tiriamo avanti Così. GIACINTO È poco che siete in casa. DORALICE Dal buon mattino si conosce qual esser debba essere la buona sera. GIACINTO Mia madre vi prenderà amore. DORALICE Non lo credo. GIACINTO Procurate di farvi ben volere. DORALICE È impossibile con quella bestia. GIACINTO Bestia a mia madre? DORALICE Si, bestia; è una bestia. GIACINTO E lo dite con quella flemma? DORALICE Io non mì voglio scaldare il sangue. GIACINTO Cara Doralice, abbiate giudizio. DORALICE Ne ho anche troppo. GIACINTO Via, se mì volete bene, regolatevi con prudenza DORALICE Fate che io abbia quello che mì si conviene, e sarò pazientissima. GIACINTO Il merito della virtú consiste nel soffrire. DORALICE Sì, soffrirò, ma voglio un abito. GIACINTO L'avrete, l'avrete. DORALICE Lo voglio, se credessi che me ne andasse la testa. Sono impuntata, lo voglio.
GIACINTO Vi dico che lo avrete. DORALICE E presto lo voglio, presto. GIACINTO Or ora vado per il mercante. (Bisogna in qualche maniera acquietarla). DORALICE Dite: che abito avete intenzione di farmi? GIACINTO Vi farò un abito buono. DORALICE M'immagino vi sarà dell'oro o dell'argento. GIACINTO E se fosse di seta schietta, non sarebbe a proposito? DORALICE Mi pare che ventimila scudi di dote possano meritare un abito con un poco d'oro. GIACINTO Via, vi sarà dell'oro. DORALICE Mandatemi la cameriera, ché le voglio ordinare una cuffia. GIACINTO Sentite: anche con Colombina siate tollerante. È cameriera antica di casa; mia madre le vuol bene, e può mettere qualche buona parola. DORALICE Che! Dovrò aver soggezione anche della cameriera? Mandatela, mandatela, ché ne ho bisogno. GIACINTO La mando subito. (Sto fresco. Madre collerica, moglie puntigliosa: due venti contrari. Voglia il cielo che non facciano naufragare la casa) (parte).
SCENA OTTAVA
Doralice e poi Colombina.
DORALICE Oh, in quanto a questo poi non mì voglio lasciar soverchiare. La mia ragione la voglio dir certamente. Mio marito si maraviglia, perché dico l'animo mio senza alterarmi. Mi pare di far meglio così. Chi va pazzamente in collera, pregiudica alla sua salute e fa rider i suoi nemici. COLOMBINA Il signor Contino mì ha detto che la padrona mì domanda, ma non la vedo. È forse andata via? DORALICE Io sono la padrona che ti domanda. COLOMBINA Oh! mì perdoni, la mia padrona è l''illustrissima signora Contessa. DORALICE Io in questa casa non son padrona ? COLOMBINA Io servo la signora Contessa. DORALICE Per domani mì farai una cuffia. COLOMBINA Davvero che non posso servirla. DORALICE Perché ? COLOMBINA Perché ho da fare per la padrona. DORALICE Padrona sono anch'io, e voglio essere servita, o ti farò cacciar via. COLOMBINA Sono dieci anni ch'io sono in questa casa. DORALICE E che vuoi dire per questo? COLOMBINA Voglio dire che forse non le riuscirà di farmi andar via.
DORALICE Villana! Malcreata! COLOMBINA Io villana? Lei non mì conosce bene, signora. DORALICE Oh, chi è vossignoria? Me lo dica, acciò non manchi al mio debito. COLOMBINA Mio padre vendeva nastri e spille per le strade. Siamo tutti mercanti. DORALICE Siamo tutti mercanti! Non vi è differenza da uno che va per le strade, a un mercante di piazza? COLOMBINA La differenza consiste in un poco di danari. DORALICE Sai, Colombina, che sei una bella impertinente? COLOMBINA A me, signora, impertinente? A me che sono dieci anni che sono in questa casa, che sono più padrona della padrona medesima? DORALICE A te, sì, a te; e se non mì porterai rispetto, vedrai quello che farò. COLOMBINA Che cosa farete? DORALICE Ti darò uno schiaffo (glielo dà, e parte).
SCENA NONA
Colombina sola.
COLOMBINA A me uno schiaffo? Me lo dà, e poi dice: te lo darò? Così a sangue freddo, senza scaldarsi? Non me l'aspettavo mai. Ma giuro al cielo, mì vendicherò. La padrona lo saprà. Toccherà a lei vendicarmi. Sono dieci anni che sto in casa sua. Senza di me non può fare; e non mì vorrà perdere assolutamente. Maladetta! uno schiaffo? Se me l'avesse dato la padrona, che è nobile, lo soffrirei. Ma da una mercante non lo posso soffrire (parte).
SCENA DECIMA
Camera della Contessa Isabella
La Contessa Isabella, poi il Conte Giacinto. ISABELLA Questa signora nuora e un'acqua morta, che a poco a poco si va dilatando; e s'io non vi riparo per tempo, ci affogherà quanti siamo. Ho osservato che ella tratta volentieri con tutti quelli che praticano in questa casa; e mì pare che vada acquistando credito. Non è già che sia bella; ma la gioventú, la novità, l'opinione, può tirar gente dal suo partito. In casa mia non voglio essere soverchiata. Non sono ancora in età da cedere l'armi al tempio. GIACINTO Riverisco la signora madre. ISABELLA Buon giorno. GIACINTO Che avete, signora, che mì parete turbata? ISABELLA Povero figlio! tu sei sagrificato. GIACINTO Io sagrificato ? Perché ? ISABELLA Tuo padre, tuo padre ti ha assassinato. GIACINTO Mio padre? Che cosa mì ha fatto? ISABELLA Ti ha dato una moglie che non è degna di te. GIACINTO In quanto a mia moglie, ne sono contentissimo; l'amo teneramente, e ringrazio il cielo d'averla avuta. ISABELLA E la tua nobiltà? GIACINTO La nostra nobiltà era in pericolo, senza la dote di Doralice.
ISABELLA Si poteva trovare una ricca che fosse nobile. GIACINTO Era difficile, nel disordine in cui si ritrovava la nostra casa. ISABELLA Con questi sentimenti non mì comparir più davanti. GIACINTO Signora, sono venuto da voi per un affar di rilievo. ISABELLA Come sarebbe a dire? GIACINTO A una sposa, che ha portato in casa ventimila scudi, mì pare che sia giusto di far un abito. ISABELLA Per quel che deve fare, è vestita anche troppo bene. GIACINTO Se non le si fa un abito buono, io non la posso condurre in veruna conversazione. ISABELLA Che? La vorresti condurre nelle conversazioni? Un bell'onore che faresti alla nostra famiglia. Se le faranno un affronto, la nostra casa vi andrà di mezzo. GIACINTO Dovrà dunque star sempre in casa? ISABELLA Signor sì, signor sì, sempre in casa. Ritirata, senza farsi vedere da chi che sia. GIACINTO Ma tutti sanno che Doralice è mia moglie; gli amici verranno a visitarla; alcune dame me l'hanno detto. ISABELLA Chi vuol venire in questa casa, ha da mandare a me l'ambasciata. Io sono la padrona; e chiunque ardirà venirci senza la mia intelligenza, ritroverà la porta serrata. GIACINTO Via, si farà tutto quello che voi volete. Ma anch'ella, poverina, bisogna contentarla. Bisogna farle un abito. ISABELLA Per contentar lei, niente affatto; ma per te, perché ti voglio bene, lo faremo. Di che cosa lo vuoi? Di baracane o di cambellotto ? GIACINTO Diavolo! vi pare che questa sia roba da dama?
ISABELLA Colei non è nata dama. GIACINTO È mia moglie. ISABELLA Ebbene, di che vorresti che si fe? GIACINTO D'un drappo moderno con oro o con argento. ISABELLA Sei pazzo? Non si gettano i denari in questa maniera. GIACINTO Ma, finalmente, mì pare di poterlo pretendere. ISABELLA Che cos'è questo pretendere? Questa parola non l'hai più detta a tua madre. Ecco i frutti delle belle lezioni della tua sposa. Fraschetta, fraschetta! GIACINTO Ma che ha da fare quella povera donna in questa casa? ISABELLA Mangiare, bere, lavorare e allevare i figliuoli, quando ne avrà. GIACINTO Così non può durare. ISABELLA O così, o peggio. GIACINTO Signora madre, un poco di carità. ISABELLA Signor figliuolo, un poco più di giudizio. GIACINTO Fatele quest'abito, se mì volete bene. ISABELLA Prendi, ecco sei zecchini, pensa tu a farglielo. GIACINTO Sei zecchini? Fatelo alla vostra serva (parte).
SCENA UNDICESIMA
La Contessa Isabella, poi il Dottore.
ISABELLA È diventato un bell'umorino costui. Causa quell'impertinente di Doralice. DOTTORE Con permissione; posso venire? (di dentro). ISABELLA Venite, Dottore, venite. DOTTORE Fo riverenza alla signora Contessa. ISABELLA È qualche tempo che non vi lasciate vedere. DOTTORE Ho avuto in questi giorni di molti affari. ISABELLA Eh! le amicizie vecchie si raffreddano un poco per volta. DOTTORE Oh signora, mì perdoni. La non può dire Così. Dal primo giorno che ella mì ha onorato della sua buona grazia, non può dire che io abbia mancato di servirla in tutto quello che ho potuto. ISABELLA Datemi quella sedia. DOTTORE Subito la servo (le porta una sedia). ISABELLA Avete tabacco ? (sedendo). DOTTORE Per dirla, mì sono scordato della tabacchiera. ISABELLA Guardate in quel cassettino, che vi è una tabacchiera; portatela qui. DOTTORE Sì signora (va a prendere la tabacchiera). ISABELLA (Mi piace il dottore, perché conosce i suoi doveri; non fa come
quelli che, quando hanno un poco di confidenza, se ne prendono di soverchio). DOTTORE Eccola (presenta la tabacchiera alla Contessa). ISABELLA Sentite questo tabacco (gli offerisce il tabacco). DOTTORE Buono per verità. ISABELLA Tenete, ve lo dono. DOTTORE Anche la tabacchiera? ISABELLA Sì, anche la tabacchiera. DOTTORE Oh! le sono bene obbligato. ISABELLA Oggi starete a pranzo con me. DOTTORE Mi fa troppo onore. Ho piacere, così vedrò la signora Doralice, che non ho mai veduta. ISABELLA Non mì parlate di colei. DOTTORE Perché, signora? È pure la moglie del signor Contino di lei figliuolo. ISABELLA Se l'ha presa, che se la goda. DOTTORE È vero ch'ella non è nobile; ma gli ha portato una bella dote. ISABELLA Oh! anche voi mì rompete il capo con questa dote. DOTTORE La non vada in collera, non parlo più. ISABELLA Che cos'ha portato? DOTTORE Oh! che cos'ha portato? Quattro stracci. ISABELLA Non era degna di venire in questa casa. DOTTORE Dice bene, la non era degna. Io mì sono maravigliato, quando ho sentito concludere un tal matrimonio.
ISABELLA Mi vengono i rossori sul viso. DOTTORE La compatisco. Non lo doveva mai accordare. ISABELLA Ma voi pure avete consigliato a farlo. DOTTORE Io? non me ne ricordo. ISABELLA M'avete detto che la nostra casa era in disordine, e che bisognava pensare a rimediarvi. DOTTORE Può essere ch'io l'abbia detto. ISABELLA Mi avete fatto vedere che i ventimila scudi di dote potevano rimetterla in piedi. DOTTORE L'avrò detto; e infatti il signor Conte ha ricuperato tutti i suoi beni, ed io ho fatto l'istrumento. ISABELLA L'entrate dunque sono libere? DOTTORE Liberissime ISABELLA Non si penerà più di giorno in giorno. Non avremo più occasione d'incomodare gli amici. Anche voi, caro dottore, mì avete più volte favorita. Non me ne scordo. DOTTORE Non parliamo di questo. Dove posso, la mì comandi.
SCENA DODICESIMA
Colombina e detti.
COLOMBINA Signora padrona, è qui il signor cavaliere del Bosco (mesta, quasi piangendo). ISABELLA Andate, andate, ché viene il signor Cavaliere (al Dottore). DOTTORE Perdoni, non ha detto ch'io resti?... ISABELLA Chi v'ha insegnato la creanza? Quando vi dico che andiate, dovete andare. DOTTORE Pazienza. Anderò. Le son servitore (partendo). ISABELLA Ehi! A pranzo vi aspetto. DOTTORE Ma se ella va in collera così presto... ISABELLA Manco ciarle. Andate, e venite a pranzo. DOTTORE (Sono tanti anni che pratico in questa casa, e non ho ancora imparato a conoscere il suo temperamento) (parte).
SCENA TREDICESIMA
La Contessa Isabella e Colombina.
ISABELLA È il signor cavaliere? COLOMBINA Signora si (mesta come sopra). ISABELLA Da Doralice vi è stato nessuno? COLOMBINA Signora no (come sopra). ISABELLA Che hai che piangi? (a Colombina) COLOMBINA La signora Doralice mì ha dato uno schiaffo. ISABELLA Come? Che dici? Colei ti ha dato uno schiaffo? Uno schiaffo alla mia cameriera? Perché? Cóntami: com'è stato? COLOMBINA Perché mì diceva che ella è la padrona; che Vossustrissima non conta più niente, che è vecchia. Io mì sono riscaldata per difendere la mia padrona, ed ella mì ha dato uno schiaffo (piangendo). ISABELLA Ah! indegna, petulante, sfacciata. Me la pagherà, me la pagherà. Giuro al cielo, me la pagherà.
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere Del Bosco e dette.
CAVALIERE Permette la signora Contessa? ISABELLA Cavaliere, siete venuto a tempo. Ho bisogno di voi. CAVALIERE Comandate, signora. Disponete di me. ISABELLA Se mì siete veramente amico, ora è tempo di dimostrarlo. CAVALIERE Farò tutto per obbedirvi. ISABELLA Doralice, che per mia disgrazia è sposa di mio figliuolo, mì ha gravemente offesa; pretendo le mie soddisfazioni, e le voglio. Se lo dico a mio marito, egli è uno stolido che non sa altro che di medaglie. Se lo dico a mio figlio, è innamorato della moglie e non mì abbaderà. Voi siete cavaliere voi siete il mio più confidente, tocca a voi sostenere le mie ragioni. CAVALIERE In che consiste l'offesa? COLOMBINA Ha dato uno schiaffo a me. CAVALIERE Non vi è altro male? ISABELLA Vi par poco dare uno schiaffo alla mia cameriera? COLOMBINA Sono dieci anni ch'io servo in questa casa. CAVALIERE Non mì pare motivo per accendere un sì gran fuoco. ISABELLA Ma bisogna sapere perché l'ha fatto. COLOMBINA Oh! qui sta il punto.
CAVALIERE Via, perché l'ha fatto? ISABELLA Tremo solamente in pensarlo. Non posso dirlo. Colombina, diglielo tu. COLOMBINA Ha detto che la mia padrona non comanda più. ISABELLA Che vi pare? (al Cavaliere). COLOMBINA Ha detto che è vecchia... ISABELLA Zitto, bugiarda; non ha detto così. Pretende voler ella comandare. Pretende essere a me preferita, e perché la mia cameriera tiene da me, le dà uno schiaffo! CAVALIERE Signora Contessa, non facciamo tanto rumore. ISABELLA Come? dovrò dissimulare un'offesa di questa sorta? E voi me lo consigliereste? Andate, andate, che siete un mal cavaliere; e se non volete voi abbracciare l'impegno, ritroverò chi avrà più spirito, chi avrà più convenienza di voi. CAVALIERE (Bisogna secondarla). Cara Contessa, non andate in collera; ho detto così per acquietarvi un poco; per altro l'offesa è gravissima, e merita risarcimento. ISABELLA Dare uno schiaffo alla mia cameriera? CAVALIERE È una temerità intollerabile. ISABELLA Dir ch'io non comando più? CAVALIERE È una petulanza. E poi dire che siete vecchia? ISABELLA Questo vi dico che non l'ha detto; non lo poteva dire, e non l'ha detto. COLOMBINA L'ha detto, in coscienza mia. ISABELLA Va via di qua.
COLOMBINA E ha detto di più: che avete da stare accanto al fuoco. ISABELLA Va via di qua; sei una bugiarda. COLOMBINA Se non è vero, mì caschi il naso. ISABELLA Va via, o ti bastono. COLOMBINA Se non l'ha detto, possa crepare (parte).
SCENA QUINDICESIMA
La Contessa Isabella e il Cavaliere Del Bosco.
ISABELLA Non le credete: Colombina dice delle bugie. CAVALIERE Dunque non sarà vero nemmeno dello schiaffo.ISABELLA Oh! lo schiaffo poi gliel'ha dato. CAVALIERE Lo sapete di certo ? ISABELLA Lo so di certo. E qui bisogna pensare a farmi avere le mie soddisfazioni. CAVALIERE Ci penserò. Studierò l'articolo, e vedrò qual compenso si può trovare, perché siate soddisfatta. ISABELLA Ricordatevi ch'io son dama, ed ella no. CAVALIERE Benissimo. ISABELLA Ch'io sono la padrona di casa. CAVALIERE Dite bene. E che anche per ragione d'età vi si deve maggior rispetto. ISABELLA Come c'entra l'età? Per questo capo non pretendo ragione alcuna. CAVALIERE Voglio dire... ISABELLA M'avete inteso. Ditelo al Conte mio marito, ditelo al Contino mio figlio, ch'io voglio le mie soddisfazioni, altrimenti so io quel che farò. Cavaliere, vi attendo colla risposta (parte). CAVALIERE Poco mì costa secondar l'umore di questa pazza, tanto più che con questa occasione spero introdurmi dalla signora Doralice, la quale è più giovine ed è più bella (parte).
SCENA SEDICESIMA
Salotto nell'appartamento del Conte Anselmo
Brighella ed Arlecchino vestito all'armena, con barba finta.
BRIGHELLA Cussì, come ve diseva, el me padron l'è impazzido per le antichità; el tól tutto, el crede tutto; el butta via i so denari in cosse ridicole, in cosse che no val niente. ARLECCHINO Cossa avi intenzion? Che el me tóga mì per un'antigàja? BRIGHELLA V'ho vestido con sti abiti, e v'ho fatto metter sta barba, per condurve dal me padron, dargh da intender che si un antiquario, e farghe comprar tutte quelle strazzarìe che v'ho dà. E po i denari li spartirem metà per uno. ARLECCHINO Ma se el signor cont me scovre, e inveze de denari el me favorisse delle bastonade, le spartiremo metà per un? BRIGHELLA Nol v'ha mai visto; nol ve conosce. E po, co sta barba e co sti abiti parì un armeno d'Armenia. ARLECCHINO Ma se d'Armenia no so parlar! BRIGHELLA Ghe vol tanto a finzer de esser armeno? Gnanca lu nol l'intende quel linguagio; basta terminar le parole in ira, in ara, e el ve crede un armeno italianà. ARLECCHINO Volìra, vedìra, compràra; dìghia ben? BRIGHELLA Benissimo. Arecordéve i nomi che v'ho dito per vendergh le rarità, e faremo pulito!
ARLECCHINO Un gran ben che ghe volì al voster padron! BRIGHELLA Ve dirò. Ho procurà de illuminarlo, de disingannarlo: ma nol vól. El butta via i so denari con questo e con quello; za che la casa se brusa, me voi scaldar anca mì. ARLECCHINO Bravissim. Tutt sta che me recorda tutto. BRIGHELLA Vardé no fallar... Oh! eccolo che el vien.
SCENA DICIASSETTESIMA
Il Conte Anselmo e detti
BRIGHELLA Signor padron, l'è qua l'armeno dalle antigàggie. ANSELMO Oh bravo! Ha delle cose buone?BRIGHELLA Cosse belle! cosse stupende!ANSELMO Amico, vi saluto (ad Arlecchino). ARLECCHINO Saludara, patrugna cara. (Dìghia ben?) (a Brighella). BRIGHELLA (Pulito). ANSELMO Che avete di bello da mostrarmi? ARLECCHINO (fa vedere un lume da olio, ad uso di cucina) Questo stara... stara. (cossa stara?) (piano a Brighella). BRIGHELLA (Lume eterno) (piano ad Arlecchino). ARLECCHINO Stara luma lanterna, trovata in Palàmida de getto, in sepolcro Bartolomeo. ANSELMO Cosa diavolo dice? Io non l'intendo. BRIGHELLA L'aspetta; mì intendo un pochetto l'armeno. Aracapi, nicoscópi, ramarcatà (finge parlare armeno). ARLECCHINO La racaracà, taratapatà, baracacà, curocù, caracà (finge risponder armeno a Brighella). BRIGHELLA Vedela? Ho inteso tutto. El dis che l'è un lume eterno trovà nelle piramidi d'Egitto, nel sepolcro de Tolomeo. ARLECCHINO Stara, stara.
ANSELMO Ho inteso, ho inteso. (Oh che cosa rara! Se lo posso avere, non mì scappa dalle mani). Quanto ne volete? ARLECCHINO Vinta zecchina. ANSELMO Oh! è troppo. Se me lo deste per dieci, ancor ancora lo prenderei. ARLECCHINO No podìra, no podìra. ANSELMO Finalmente... non è una gran rarità. (Oh! lo voglio assolutamente). BRIGHELLA Volela che l'aggiusta mì? ANSELMO (gli fa cenno con le mani che gli offerisca dodici zecchini). BRIGHELLA Lamacà, volenìch, calabà? ARLECCHINO Salamìn, salamùn, salamà. BRIGHELLA Curìch, maradàs, chiribàra? ARLECCHINO Sarich, micòn, tiribio. ANSELMO (Che linguaggio curioso! E Brighella l'intende!). BRIGHELLA Sior padron, l'è aggiustada. ANSELMO Sì, quanto? BRIGHELLA Quattórdese zecchini ANSELMO Non vi è male. Son contento. Galantuomo, quattordici zecchini? ARLECCHINO Stara, stara. ANSELMO Sì, stara, stara. Ecco i vostri denari (glie li conta). ARLECCHINO Obbligàra, obbligàra. ANSELMO E se avera altra... altra... rara, portàra.
ARLECCHINO Si, portàra, vegnìra, cuccàra. ANSELMO Che cosa vuol dir cuccara? (a Brighella). BRIGHELLA Vuol dir distinguer da un altro. ANSELMO Benissimo: se cuccàra mì, mì cuccàra ti (ad Arlecchino). ARLECCHINO Mi cuccàra ti, ma ti no cuccàra mì. ANSELMO Si, promettèra. BRIGHELLA Andara, andara. ARLECCHINO Saludara. Patrugna (parte). BRIGHELLA Aspettara, aspettara (vuol seguirlo). ANSELMO Senti (a Brighella). BRIGHELLA La lassa che lo compagna... (in atto di andarsene). ANSELMO Ma senti (lo vuol trattenere). BRIGHELLA Vegnira, vegnira. Pól esser che el gh'abbia qualcossa altro. (Maladetto! I mì sette zecchini) (parte correndo).
SCENA DICIOTTESIMA
Il Conte Anselmo, poi Pantalone.
ANSELMO Gran fortuna è stata la mia! Questa sorta d'antichità non si trova così facilmente. Gran Brighella per trovare i mercanti d'antichità! Questo lume eterno l'ho tanto desiderato, e poi trovarlo sì raro! Di quei d'Egitto? Quello di Tolomeo? Voglio farlo legare in oro, come una gemma. PANTALONE Con grazia, se pól vegnir? (di dentro). ANSELMO È il signor Pantalone? Venga, venga. PANTALONE Servitore umilissimo, sior Conte. ANSELMO Buon giorno, il mio caro amico. Voi che siete mercante, uomo di mondo, e intendente di cose rare, stimatemi questa bella antichità. PANTALONE La me ha ben in concetto de un bravo mercante a farme stimar una luse da oggio ! ANSELMO Povero signor Pantalone, non sapete niente. Questo è il lume eterno del sepolcro di Tolomeo. PANTALONE (ride). ANSELMO Sì, di Tolomeo, ritrovato in una delle piramidi d'Egitto. PANTALONE (ride). ANSELMO Ridete, perché non ve n'intendete. PANTALONE Benissimo, mì son ignorante, ella xé virtuoso, e non voi catar bega su questo. Ghe digo ben che tutta la città se fa maravéggia, che un cavalier della so sorte perda el so tempo, e sacrifica i so bezzi, in sta sorte de minchionerie.
ANSELMO L'invidia fa parlare i malevoli; e quei stessi che mì condannano in pubblico, mì applaudiscono in privato. PANTALONE No ghe nissun che gh'abbia invidia della so galleria, che consiste in tun capital de strazze. No gh'è nissun che ghe pensa un bezzo de vederlo un'altra volta andar in malora; ma mì che gh'ho in sta casa mia fia; mì che gh'ho dà el mio sangue, non posso far de manco da no sentir con della ion le pasquinade che se fa della so mala condotta. ANSELMO Ognuno a questo mondo ha qualche divertimento. Chi gioca, chi va all'osteria; io ho il divertimento delle antichità. PANTALONE Me dispiase de mia fia, da resto no ghe penso un figo. ANSELMO Vostra figlia sta bene, e non le manca niente. PANTALONE No ghe manca gnente! ma no la gh'ha gnanca un strazzo de abito d'andar fóra de casa. ANSELMO Sentite, amico; io in queste cose non me ne voglio impicciare. PANTALONE Ma qua bisogna trovarghe remedio assolutamente. ANSELMO Andate da mia moglie, parlate con lei, intendetevi con lei, non mì rompete il capo. PANTALONE E se no la ghe remedierà éla, ghe remedierò mì. ANSELMO Lasciatemi in pace; ho da badare alle mie medaglie, al mio museo, al mio museo. PANTALONE Perché mia fia la xé fia de un galantomo, e la pól star al pari de chi se sia. ANSELMO Io non so che cosa vi dite. Só che questo lume eterno è una gioja. Signor Pantalone, vi riverisco (parte).
SCENA DICIANNOVESIMA
Pantalone, poi Doralice.
PANTALONE Cusì el me ascolta? A so tempo se parleremo. Ma vien mia fia; bisogna regolarse con prudenza. DORALICE Caro signor padre, venite molto poco a vedermi. PANTALONE Cara fia; savé che gh'ho i mì interessi. E po no vegno tanto spesso, per no sentir pettegolezzi. DORALICE Quello che vi ho scritto in quel biglietto, è pur troppo la verità. PANTALONE Mo za, vu altre donne disé sempre la verità. DORALICE Dopo ch'io sono in questa casa, non ho avuto un'ora di bene. PANTALONE Vostro marìo come ve tràtelo? DORALICE Di lui non mì posso dolere. È buono, mì vuol bene e non mì dà mai un disgusto. PANTALONE Cossa voléu de più? No ve basta? DORALICE Mia suocera non mì può vedere. PANTALONE Andé colle bone, procuré de segondarla, dissimulé qualcossa; fé finta de no saver; fé finta de no sentir. Col tempo anca éla la ve vorrà ben. DORALICE In casa tutti si vestono, tutti spendono, tutti godono, ed io niente. PANTALONE Abbié pazienzia; vegnirà el zorno che staré ben anca vu. Sé ancora novella in casa; gnancora no podé comandar. DORALICE Sino la cameriera mì maltratta, e non mì vuol obbedire.
PANTALONE La xé cameriera vecchia de casa. DORALICE Però le ho dato uno schiaffo. PANTALONE Gh'avé dà un schiaffo? DORALICE E come che gliel'ho dato! E buono! PANTALONE E me lo conté a mì? e me lo disé co sta bella disinvoltura? Quattro zorni che sé in sta casa, scomenzè subito a menar le man, e po pretendé che i ve voggia ben, che i ve tratta ben e che i ve sodisfa? Me maraveggio dei fatti vostri; se saveva sta cossa, no ve vegniva gnanca a trovar. Se el fumo della nobiltà che avé acquistà in sta casa, ve va alla testa, consideré un poco mèggio quel che sé, quel che sé stada, e quel che poderessi esser, se mì no ve avesse volesto ben. Sé muggier de un conte, sé deventada contessa, ma el titolo no basta per farve portar respetto, quando no ve acquisté l'amor della zente colla dolcezza e colla umiltà. sé stada una povera putta perché, co sé nassua, no gh'aveva i capitali che gh'ho in ancuo, e col tempo e coll'industria i ho multiplicai più per vu, che per mì. Consideré che poderessi esser ancora una miserabile, se vostro pare no avesse fatto quel che l'ha fatto per vu. Ringraziè el cielo del ben che gh'avé. Porté respetto ai vostri maggiori; sié umile, sié paziente, sié bona, e allora saré nobile, saré ricca, saré respettada. DORALICE Signor padre, vi ringrazio dell'amorosa correzione che mì fate. PANTALONE Vostra madonna sarà in tutte le furie, e con rason. DORALICE Non so ancora se lo abbia saputo. PANTALONE Procuré che no la lo sappia. E se mai la lo avesse savesto, recordéve de far el vostro debito. DORALICE Qual è questo mio debito? PANTALONE Andé da vostra madonna, e domandeghe scusa. DORALICE Domandarle scusa poi non mì par cosa da mia pari. PANTALONE No la ve par cossa da par vostro? Cossa seu vu? Chi seu? Seu qualche principessa? Povera sporca! Via, via; sé matta la vostra parte.
DORALICE Non andate in collera. Le domanderò scusa. Ma voglio assolutamente che mì faccia quest'abito. PANTALONE Adesso, dopo la strambarìa che avé fatto, no xé tempo da domandarghelo. DORALICE Dunque starò senza? Dunque non anderò in nessun luogo? Sia maladetto quando sono venuta in questa casa. PANTALONE Via, vipera, via, subito maledir. DORALICE Ma se mì veggio trattata peggio di una serva. PANTALONE Orsù, vegnì qua; per sta volta voi remediar mì sti desordini. Tiolé sti cinquanta zecchini; féve el vostro bisogno; ma recordeve ben che no senta mai più reclami dei fatti vostri. DORALICE Vi ringrazio, signor padre, vi ringrazio. Vi assicuro che non avrete a dolervi di me. Un'altra cosa mì avreste a regalare, e poi non vi disturbo mai più. PANTALONE Cossa vorressi, via, cossa vorressi? DORALICE Quell'orologio. Voi ne avete altri due. PANTALONE Voi contentarve anca in questo. Tiolé. (No gh'ho altro che sta putta). Ma ve torno a dir, abbié giudizio e feve voler ben (le da il suo orologio d'oro). DORALICE Non dubitate; sentirete come mì conterrò. PANTALONE Via, cara fia, dàme un poco de consolazion. No gh'ho altri a sto mondo che ti. Dopo la mia morte, ti sarà parona de tutto. Tutte le mie strùscie, tutte le mie fadighe le ho fatte per ti. Co te vedo, me consolo. Co so che ti sta ben, vegno tanto fatto, e co sento criori, pettegolezzi, me casca el cuor, me vien la morte, pianzo co fa un putello (piangendo parte).
SCENA VENTESIMA
Doralice, poi Brighella.
DORALICE Povero padre, è molto buono. Non somiglia a queste bestie, che sono qui in casa. Se non fosse per mio marito, non ci starei un momento. BRIGHELLA Signora, gh'è qua un cavalier che ghe vorave far visita. DORALICE Un cavaliere? Chi è? BRIGHELLA II signor Cavalier del Bosco. DORALICE Mi dispiace ché sono così in confidenza. Venga, non so che dire. Ehi, sentite! BRIGHELLA La comandi. DORALICE Andate subito da un mercante, e ditegli che mì porti tre o quattro pezze di drappo con oro o argento, per farmi un abito. BRIGHELLA La sarà servida. Ma la perdona, lo salo el padron? DORALICE Che impertinenza! Fate quello che vi ordino, e non pensate altro. BRIGHELLA (Eh, la se farà, la se farà) (parte).
SCENA VENTUNESIMA
Doralice, poi il Cavaliere Del Bosco.
DORALICE In questa casa hanno molto avvezzata male la servitù; ma io col tempo vi porrò la riforma. Oh, non ha d'andare così. Un poco colle buone, un poco colle cattive, ha da venire il tempo che ho da essere io la padrona. CAVALIERE Madama, vi sono schiavo. DORALICE Vi son serva. CAVALIERE Perdonate se mì son preso l'ardire di venirvi a fare una visita. DORALICE È molto che il signor cavaliere si sia degnato di venire da me. Favorisce tutti i giorni questa casa, ma la mia camera mai. CAVALIERE Non ardivo di farlo, per non darvi incomodo. DORALICE Dite per non dispiacere alla signora Contessa Isabella. CAVALIERE A proposito, madama, avrei da discorrervi qualche poco di un affare che interessa tutte due egualmente. DORALICE V'ascolterò volentieri.Elà, da sedere (viene un servitore che porta le sedie). CAVALIERE So che voi, o signora, siete piena di bontà; onde spero riceverete in buon grado un ufficio amichevole, ch'io sono per farvi. DORALICE Quando saprò di che, vi risponderò. CAVALIERE Ditemi, signora Contessa, cosa avete fatto voi alla cameriera di vostra suocera? DORALICE Le ho dato uno schiaffo. E per questo ? Se è cameriera sua, è cameriera anche mia. Voglio esser servita, e non mì si ha da perdere il rispetto; e
se questa volta le ho dato uno schiaffo, un'altra volta le romperò la testa. CAVALIERE Signora, io credo che voi scherziate. DORALICE Perché lo credete? CAVALIERE Perché mì dite queste cose con placidezza, e si vede che non siete in collera. DORALICE Questo è il mio naturale. Io vado in collera sempre così. CAVALIERE La signora Contessa Isabella si chiama offesa. DORALICE Mi dispiace. CAVALIERE E sarebbe bene vedere di aggiustar la cosa, prima che gli animi s'intorbidassero soverchiamente. DORALICE Io non ci penso più. CAVALIERE Lo credo che non ci penserete più; ma ci pensa la signora suocera, che è restata offesa. DORALICE E così, che cosa pretenderebbe? CAVALIERE Troveremo il modo dell'aggiustamento. DORALICE Il modo è facile, ve l'insegnerò io. Cacciar di casa la cameriera. CAVALIERE In questa maniera la parte offesa pagherebbe la pena. DORALICE Orsú, signor cavaliere, mutiamo discorso. CAVALIERE Signora mia, quando il discorso vi offende, lo tralascio subito. (Non la vo' disgustare). DORALICE Mi pareva impossibile che foste venuto a visitarmi per farmi una finezza. CAVALIERE Perché, signora, perché?
DORALICE La signora suocera mì tien lontana dalle conversazioni; dubito sia perché tema ch'io le usurpi gli adoratori. CAVALIERE (È furba quanto il diavolo). DORALICE Ma non dubiti, non dubiti. Io prima non sono né bella, né avvenente; e poi abbado a mio marito, e non altro. CAVALIERE Sdegnereste dunque l'offerta d'un cavaliere, che senza offesa della vostra modestia aspirasse a servirvi? DORALICE E chi volete che si perda con me? CAVALIERE Io mì chiamerei fortunato, se vi compiaceste ricevermi per vostro servo. DORALICE Signor cavaliere, siete impegnato colla Contessa Isabella. CAVALIERE Io sono amico di casa; ma per essa non ho alcuna parzialità. Ella ha il suo dottore, quello è il suo cicisbeo antico. DORALICE È antica ancor ella. CAVALIERE Sì, ma non vuol esserlo. DORALICE Non si vergogna mettersi colla gioventú. Ella fa le grazie con tutti, vuol saper di tutto, vuol entrare in tutto. Mi fa una rabbia che non la posso soffrire. CAVALIERE E avvezzata così. DORALICE Bene, ma è ato il suo tempo; adesso deve cedere il luogo. CAVALIERE Deve cedere il luogo a voi. DORALICE Mi parrebbe di sì. CAVALIERE Eppure ancora ha i suoi grilli in capo. DORALICE Causa quel pazzo di suo marito.
CAVALIERE Signora, direte ch'io sono un temerario a supplicarvi di una grazia il primo giorno che ho l'onore di offerirvi la mia servitù?. DORALICE Comandate; dove posso, vi servirò. CAVALIERE Vorrei che mì faceste comparir bene colla signora Contessa Isabella. DORALICE Se lo dico: avete paura di lei. CAVALIERE Ma se possiamo coltivare la nostra amicizia con pace e quiete, non è meglio? DORALICE Con quella bestiaccia sarà impossibile. CAVALIERE (Vorrei vedere se potessi essere amico di tutte due). DORALICE Lo sapete pure: mia suocera è una pazza. CAVALIERE Sì, è vero, è una pazza. DORALICE Come pensereste di accomodare questa gran cosa? Non credo mai vi verrà in capo di consigliarmi a cedere. CAVALIERE Anzi avete a star sulle vostre. DORALICE Scusi, non mì pare che tocchi a me domandarla. CAVALIERE No, certamente, non tocca a voi. DORALICE (E mio padre mì diceva che toccava a me). CAVALIERE (Sono imbrogliato più che mai). DORALICE La servitù mì ha da portar rispetto. CAVALIERE Senz'altro. DORALICE E a chi mì perde il rispetto, non devo perdonare. CAVALIERE No certamente.
DORALICE (Oh guardate! Mio padre che mì vorrebbe umile!). CAVALIERE Ma pure qualche maniera bisogna ritrovare per accomodare questa differenza. DORALICE Purché io non resti pregiudicata, qualche cosa farò. CAVALIERE Faremo così. Procurerò che vi troviate a caso in un medesimo luogo. Dirò io qualche cosa per l'una e per l'altra. Mi basta che voi vi contentiate di salutar prima la vostra suocera. DORALICE Salutarla prima? Perché? CAVALIERE Perché è suocera. DORALICE Oh! questo non fa il caso CAVALIERE Perché è più vecchia di voi. DORALICE Oh! perché è più vecchia, lo farò. CAVALIERE Eccola che viene. DORALICE Mi si rimescola tutto il sangue, quando la vedo. (s'alzano).
SCENA VENTIDUESIMA
La Contessa Isabella e detti.
ISABELLA Signor cavaliere, vi siete divertito bene? Me ne rallegro. CAVALIERE (la tira in disparte) Signora Contessa, ho fatto tutto. La signora Doralice è pentita del suo trascorso. È pronta a domandarvi scusa; ma voi, savia e prudente, non l'avete a permettere. Vi avete a contentare della sua disposizione; e per prova di questa basta ch'ella sia la prima a salutarvi. ISABELLA Salutarmi, e non altro? (piano al Cavaliere). CAVALIERE (Adesso, adesso, aspettate). Signora Contessina, a voi. Compiacetemi di fare quello che avete detto (piano a Doralice). DORALICE Signora, perché siete più vecchia di me, vi riverisco (alla Contessa Isabella, e parte). ISABELLA Temeraria! Me la pagherai (parte). CAVALIERE Ecco fatto l'aggiustamento (parte).
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera di Doralice Doralice ed il Conte Giacinto.
GIACINTO Gran disgrazia! Gran disgrazia! In questa nostra casa non si può vivere un giorno in pace. DORALICE Lo dite a me? Io non do fastidio a nessuno. GIACINTO Eh, Doralice mia, se mì voleste bene, non vi regolereste così. DORALICE Ma di che mai vi potete dolere? GIACINTO Voi non volete rispettare mia madre. DORALICE Che cosa pretendete ch'io faccia, per darle un segno del mio rispetto? Volete che vada a darle l'acqua da lavare le mani? Che vada a tirarle le calze, quando va a letto? GIACINTO Oh! non la vogliamo finir bene. DORALICE Dite, non lo sapete ch'io sono stata stamattina la prima a salutarla? GIACINTO Sì, e nel salutarla l'avete strapazzata. DORALICE L'ho strapazzata? Non è vero. GIACINTO Le avete detto vecchia. DORALICE Oh, oh, oh! Mi fate ridere. Perché le ho detto vecchia, s'intende ch'io l'abbia strapazzata? Pretende forse di essere giovane? GIACINTO Non è una giovanetta, ma non le si può dire ancor vecchia.
DORALICE È vostra madre. GIACINTO Quando sarete voi di quell'età, avrete piacere che vi dicano vecchia? DORALICE Quando sarò di quell'età, vi risponderò. GIACINTO Fate con gli altri quello che vorreste che fosse fatto con voi. DORALICE Se a mia suocera le dicessi che è giovane, mì parrebbe in verità di burlarla. GIACINTO Che bisogno c'è che le diciate giovane o vecchia? Questo è il discorso più odioso che possa farsi a voi altre donne. Non vi è nessuna, per vecchia che sia, che se lo voglia sentir dire. Sino ai trent'anni ve li nascondete a tre o quattro per volta; dai trenta in su, si nascondono a decine e dozzine. Voi adesso avete ventitré anni; scommetto qualche cosa di bello, che da qui a dieci anni ne avrete ventiquattro. DORALICE Via, bravo. Se volete che vostra madre sia più giovane di me, lo sarà. GIACINTO Queste sono freddure. Vorrei, vi torno a dire, che consideraste che ella è mia madre, che le portaste un poco più di rispetto. DORALICE Sì, le farò carezze, le ballerò anche una furlanetta alla veneziana. GIACINTO Orsú, vedo che non posso sperar niente; e converrà pensare al rimedio. DORALICE Se foste un uomo, a quest'ora ci avreste pensato. Ma, compatitemi, siete ancora ragazzo. GIACINTO Io? Perché? DORALICE Perché se foste un uomo di senno, non avreste permesso che vostro padre e vostra madre consumassero miseramente ventimila scudi, senza nemmeno fare un abito alla vostra moglie. GIACINTO A proposito, l'abito mì ha detto mia madre che si farà...
DORALICE Non ho bisogno di lei. Lo farò senza di lei; questi sono denari, e or ora verrà il mercante (gli fa vedere una borsa). GIACINTO Chi ve li ha dati? DORALICE Mio padre mì ha regalato cinquanta zecchini e questo orologio. GIACINTO Ho rossore che vostro padre abbia ad incomodarsi per voi. Ma gli sono obbligato e voglio andare io medesimo a ringraziarlo. DORALICE Fatemi un piacere, mandatemi Colombina. GIACINTO Non vorrà venire. DORALICE Mandatela con qualche pretesto; mì preme di parlarle. GIACINTO Per amor del cielo, non fate peggio. DORALICE Non dubitate. GIACINTO Avrei piacere che vedeste mia madre. DORALICE Se mì vuol vedere, questa è la mia camera. GIACINTO Non so che dire, vi vuol pazienza (parte).
SCENA SECONDA
Doralice sola.
DORALICE Giacinto facilmente si fa piegare dove e come si vuole. Mi preme tenerlo forte e costante dal mio partito, perché, a suo tempo, spero ridurlo a far quello che non ha coraggio di fare.
SCENA TERZA
Colombina e detta.
COLOMBINA Oh, questa è bella! Tutti mì comandano. Anche il signor Contino si vuol far servire da me. DORALICE Colombina. COLOMBINA Signora. DORALICE Poverina! ti ho dato quello schiaffo; me ne dispiace infinitamente. COLOMBINA Ancora sento il bruciore. DORALICE Vieni qua, voglio che facciamo la pace. COLOMBINA La mia padrona, in tant'anni ch'io la servo, non mì ha mai toccato. DORALICE La tua padrona ? COLOMBINA Signora sì, signora sì, la mia padrona. DORALICE Dimmi un poco, quanto ti dà di salario la tua padrona? COLOMBINA Mi dà uno scudo il mese. DORALICE Povera ragazza! non ti dà altro che uno scudo il mese? Ti dà molto poco. COLOMBINA Certo, per dirla, mì dà poco, perché a servirla come la servo io... DORALICE Quando io era a casa mia, la mia cameriera aveva da mio padre uno zecchino il mese.
COLOMBINA Uno zecchino? DORALICE Sì, uno zecchino, e gl'incerti arrivavano fino a una doppia. COLOMBINA Oh, se capitasse a me una fortuna simile! DORALICE Lascieresti la tua padrona? COLOMBINA Per raddoppiare il salario, sarei ben pazza se non la lasciassi. DORALICE Senti, Colombina, se vuoi, l'occasione è pronta. COLOMBINA Oh, il cielo lo volesse! E con chi? DORALICE Con me, se non isdegni di venirmi a servire. COLOMBINA Con voi, signora ? DORALICE Sì, con me. Vedi bene che senza una cameriera non posso stare, e mio padre supplirà al salario. Io, benché abbia un poco gridato con te, finalmente capisco che sei una giovane di abilità, fedele ed attenta; onde, se non ricusi l'offerta, eccoti due zecchini per il salario anticipato dei due primi mesi. COLOMBINA Vossignoria illustrissima mì obbliga in una maniera, che non posso dire di no. DORALICE Dunque starai al mio servizio? COLOMBINA Illustrissima sì. DORALICE Ma mia suocera che dirà ? COLOMBINA Questo è il punto. Che dirà? DORALICE Troveremo la maniera di farglielo sapere. Per oggi non le diciamo nulla. COLOMBINA Benissimo, farò quello che comanda Vossignoria Illustrissima. Ma se la signora Isabella mì chiama, se mì ordina qualche cosa, l'ho da servire? DORALICE Sì, l'hai da servire. Anzi non hai da mostrare di essere per me,
prima che di ciò le sia parlato. COLOMBINA Ma io sono la cameriera di Vossignoria Illustrissima. DORALICE Per ora mì basta che tu non mì sia nemica, e che fedelmente mì riporti tutto quello che mia suocera dice di me. COLOMBINA Oh! circa alla fedeltà, potete di me star sicura. Vi dirò tutto; anzi, per farvi vedere che sono al vostro servizio, principierò fin da ora a dirvi alcune coserelle che ha dette di voi la mia padrona vecchia. DORALICE Dimmele, dimmele, che ti sarò grata. COLOMBINA Ha detto... Ma per amor del cielo, non le dite nulla. DORALICE Non dubitate, non parlerò. COLOMBINA Ha detto che siete una donna ordinaria, che non si degna di voi, e che vi tiene come la sua serva. DORALICE Ha detto questo? COLOMBINA L'ha detto in coscienza mia. Ha detto che vostro marito fa male a volervi bene, e che vuol far di tutto perché vi prenda odio. DORALICE Ha detto? COLOMBINA Ve lo giuro l'onor mio. DORALICE Ha detto altro? COLOMBINA Non me ne ricordo; ma starò attenta, e tutto quello che saprò, ve lo dirò. DORALICE Non occorr'altro, ci siamo intese. COLOMBINA Vado, per non dar sospetto. (Per uno zecchino il mese, non solo riporterò quello che si dice di lei, ma vi aggiungerò anche qualche cosa del mio) (parte).
SCENA QUARTA
Doralice, poi Colombina.
DORALICE Io sono una donna ordinaria? una donna ordinaria? Ardita! Non si degna di me? Io non mì degno di lei, che se non era io, si morirebbe di fame. Mio marito fa male a volermi bene? Fa male mio marito a rompermi il capo, perché io porti rispetto a questa gran dama. Vuol farmi odiare da suo figliuolo? È difficile, poiché ho io delle maniere da farmi amar da chi voglio, e da mettere in disperazione chi non mì va a genio. COLOMBINA Illustrissima DORALICE Che c' è? COLOMBINA Il signor cavaliere del Bosco vorrebbe riverirla. DORALICE Digli che i. COLOMBINA La servo subito. A Vossignoria Illustrissima sta bene un poco di cavalier servente, ma la signora Isabella dovrebbe aver finito (parte).
SCENA QUINTA
Doralice, poi il Cavaliere Del Bosco.
DORALICE Questi due zecchini gli ho spesi bene. CAVALIERE Madama, compatite s'io torno a darvi il secondo incomodo. DORALICE Signor cavaliere, conosco di non meritare le vostre grazie, e perciò permettetemi che, prima d'ogni altra cosa, vi faccia un'interrogazione. CAVALIERE V'ascolterò colla maggior premura del mondo. DORALICE Ditemi in grazia, ma non mì adulate, perché vi riuscirà di farlo per poco. CAVALIERE Vi giuro la più rigorosa sincerità. DORALICE Ditemi se siete venuto a favorirmi per qualche bontà che abbiate concepita per me, oppure perché unicamente vi prema di riconciliarmi colla Contessa Isabella. CAVALIERE Se ciò mì riuscisse di fare, sarei contento; ma in ogni modo vi accerto, o signora, che unicamente mì preme l'onore della vostra grazia. DORALICE Siete disposto a preferirmi a mia suocera? CAVALIERE Lo esige il vostro merito, e una rispettosissima inclinazione mì obbliga a desiderarlo. DORALICE Non avrete dunque difficoltà a dichiararvi in faccia della medesima. CAVALIERE Mi basta non mancare alla civiltà, per non offendere il mio carattere. DORALICE Non sono capace di chiedervi una mala azione.
CAVALIERE Comandate, e farò tutto per obbedirvi. DORALICE Sappiate ch'io sono da mia suocera gravemente offesa. CAVALIERE Ma come? anzi mì pare, perdonatemi, che voi l'abbiate molto bene beffata. DORALICE Eh, queste sono bagattelle. Le offese che ella mì ha fatte, sono di maggior rilievo. CAVALIERE Sono ate poche ore, dacché ho avuto l'onore di vedervi. È accaduto qualche cosa di nuovo? DORALICE È accaduto tanto, che mia suocera vuol vedere la rovina di casa sua. CAVALIERE Per amor del cielo, non dite così. DORALICE Che non dica così? che non dica così? Dunque avete ancora della parzialità per lei. CAVALIERE Ma, contessina mia, la rovina di questa casa viene a comprendere vostro marito e voi medesima. DORALICE Vada tutto, ma la cosa non ha da are così. CAVALIERE Son curiosissimo di sapere che cosa è stato. DORALICE Colei ha avuto la temerità di dire che mio marito fa male a volermi bene, e che vuol fare il possibile perché mì odii. CAVALIERE Signora mia, l'avete sentita voi dir queste cose? DORALICE Non l'ho sentita, ma lo so di certo. CAVALIERE Duro fatica a crederlo; non mì pare ragionevole. DORALICE Mi credete capace di rappresentarvi una falsità? CAVALIERE Non ardisco ciò pensare di voi. Ma chi vi ha riportate queste ciarle, può aver errato, o per malizia, o per ignoranza.
DORALICE Bene. Colombina! (chiama).
SCENA SESTA
Colombina e detti.
COLOMBINA Illustrissima. DORALICE Dimmi un poco, che cosa ha detto mia suocera di me? COLOMBINA Signora... mì perdoni. DORALICE No, non aver riguardo. Già il signor cavaliere non parla. CAVALIERE Oh! non parlo, non dubitate. DORALICE Via, di' sù, che ha detto quella cara signorina di me? COLOMBINA Ha detto che siete una donna ordinaria... DORALICE Non dico di questo. Che cosa ha detto di mio marito ? COLOMBINA Che fa male a volervi bene. DORALICE Sentite? E poi? COLOMBINA Che vi vuol far odiare da lui. DORALICE Avete inteso ? COLOMBINA Perché siete una donna ordinaria. DORALICE Va via di qui. Queste pettegole vi aggiungono sempre qualche cosa del loro. COLOMBINA E poi ha detto che non si degna... DORALICE Va via, non voglio altro.
COLOMBINA Per amor del cielo, non mì assassinate (al Cavaliere). CAVALIERE Per me non dubitare, ché non parlerò. COLOMBINA Ha detto anche qualche cosa di voi... (al Cavaliere). CAVALIERE E che cosa ha detto di me? COLOMBINA Che siete un cavaliere che pratica per le case, e non dona mai niente alla servitù (parte).
SCENA SETTIMA
Doralice ed il Cavaliere Del Bosco.
CAVALIERE Cara signora Contessa, volete credere a questa sorta di gente? DORALICE Me lo ha detto in una maniera, che mì assicura essere la verità. CAVALIERE Sapete pure che ella è cameriera antica della Contessa Isabella. DORALICE Appunto per questo; se non fosse la verità, non mì avrebbe detto cosa che potesse pregiudicare alla sua padrona. CAVALIERE Le avrà gridato; sarà disgustata. DORALICE Signor cavaliere, la riverisco (vuol partire). CAVALIERE Perché privarmi delle vostre grazie? DORALICE Perché siete parziale della signora suocera. CAVALIERE Io son servitore vostro. Ma vorrei vedervi quieta e contenta. DORALICE Una delle due: o siete per me, o siete per lei. CAVALIERE Da cavaliere, ch'io sono per voi. DORALICE Se siete con me, non mì avete da contraddire. CAVALIERE Dirò tutto quello che dite voi. DORALICE Fra mia suocera e me, chi ha ragione? CAVALIERE Voi. DORALICE Chi è l'offesa?
CAVALIERE Voi. DORALICE Chi ha da pretendere risarcimento? CAVALIERE Voi. DORALICE Chi ha da cedere? CAVALIERE Voi... DORALICE Io? CAVALIERE Voi no, volevo dire DORALICE Ella ha da cedere CAVALIERE Certamente. DORALICE Se c'incontriamo, chi ha da essere la prima a parlare? CAVALIERE Direi... DORALICE Come più vecchia non la posso nemmeno salutare. CAVALIERE Si potrebbe vedere... DORALICE Alle corte. Ella ha da essere la prima a parlarmi. CAVALIERE Sì, lo dicevo. Tocca a lei. DORALICE L'accordate anche voi? CAVALIERE Non posso contraddirlo. DORALICE Quando l'accordate voi, che siete un cavaliere di garbo, son sicura di non fallare. CAVALIERE Ma io, perdonatemi... DORALICE Se mì parlerà con amore, io le risponderò con rispetto.
CAVALIERE Brava, bravissima. Lodo la vostra rassegnazione. DORALlCE E mì diranno poi ch'io son cattiva. CAVALIERE Siete la più buona damina del mondo! DORALICE Credetemi, che altro non desidero che farmi voler bene da tutti. CAVALIERE Si vede in effetto. DORALICE La servitù mì adora. CAVALIERE Anco Colombina ? DORALICE Colombina è tutta mia. Starà con me, e le ho dato due zecchini. CAVALIERE Se farete così, sarete adorabile. DORALICE Mia suocera, che ha avuto ventimila scudi, non mì può vedere. CAVALIERE Perché, perché... DORALICE Perché è una donna cattiva. CAVALIERE Sarà così. DORALICE È così senz'altro. CAVALIERE Sì, senz'altro.
SCENA OTTAVA
Colombina e detti.
COLOMBINA Illustrissima, vi è l'illustrissimo suo signor padre che vorrebbe dirle una parola. DORALICE Digli che venga. COLOMBINA Non vuol venire; l'aspetta nella camera dell'arcova. DORALICE Vorrà farmi fare qualche figura ridicola con mia suocera. CAVALIERE Se il padre comanda... DORALICE Eh, ora ha finito di comandare. Son maritata. CAVALIERE Sì, ma da lui potete sempre sperare qualche cosa. DORALICE Oh, per questo lo ascolto. Basta, se vorrà ch'io parli alla Contessa Isabella, quando ella sia la prima, lo farò. Cavaliere, quando è partito mio padre, vi aspetto (parte). CAVALIERE Che vuol dire, Colombina, così attenta a servire la contessina? COLOMBINA Io sono una ragazza di buon cuore. Fo servizio volentieri a chi è generoso con me. CAVALIERE Orsú, sentite; acciò la vostra padrona non dica ch'io non dò mai nulla alla servitù, tenete questo mezzo ducato. COLOMBINA Grazie. Sapete ora che cosa dirà? CAVALIERE E che dirà? COLOMBINA Che avete fatto una gran cascata (parte).
CAVALIERE Che maladettissima cameriera! Costei e causa principale degli scandali di questa casa. Ella riporta a questa, riporta a quella; le donne ascoltano volentieri tutte le ciarle che sentono riportare; quando odono dir male, credono tutto con facilità, e si rendono nemiche senza ragione. Se posso, voglio vedere che Colombina, scoperta dall'una e dall'altra, paghi la pena delle sue imposture. Pur troppo è vero, tante e tante volte dipende la quiete d'una famiglia dalla lingua di una serva o di un servitore (parte).
SCENA NONA
Salotto
Il Conte Anselmo con un libro grosso manoscritto e Brighella.
ANSELMO Quanto mì dispiace non intendere la lingua greca! Questo manoscritto è un tesoro, ma non l'intendo. Brighella. BRIGHELLA Illustrissimo. ANSELMO Ho trovato un manoscritto greco, antichissimo, che vale cento zecchini, e l'ho avuto per dieci. BRIGHELLA (De questi a mì non me ne tocca). ANSELMO Questo è un Codice originale. BRIGHELLA Una bagattella! Un Codice original? Cara éla, cossa contienlo? ANSELMO Sono i trattati di pace fra la repubblica di Sparta e quella d'Atene. BRIGHELLA Oh che bella cossa! ANSELMO Questo posso dir che è una gioia, perché è l'unica copia che vi sia al mondo. E poi senti, e stupisci. È scritto di propria mano di Demostene. BRIGHELLA Cospetto del diavolo ! Cossa me tocca a sentir? Che la sia po cussì? ANSELMO Sarei un bell'antiquario, se non conoscessi i caratteri degli antichi. BRIGHELLA Cara ella, la prego. La me leza almanco el titolo.
ANSELMO Ti ho pur detto tante volte, che non intendo il greco. BRIGHELLA Ma come conossela el carattere, se no la ntende la lingua? ANSELMO Oh bella! Come uno che conosce le pitture e non sa dipingere. BRIGHELLA (Sa el cielo chi gh'ha magna sti diése zecchini. Za che el vól andar in malora, l'è mèggio che me profitta mì che un altro). ANSELMO Gran bel libro, gran bel codice! Pare scritto ora. BRIGHELLA La diga, sior padron, conóscela el sior capitanio Saracca? ANSELMO Lo conosco, lo conosco. Egli pretende avere una sontuosa galleria; ma non ha niente di buono. BRIGHELLA Eppur l'ha speso dei denari assai. ANSELMO Avrà speso in vent'anni più di diecimila scudi. Ma non ha niente di buono. BRIGHELLA La sappia che l'ha avudo una desgrazia. L'ha bisogno de quattrini, e el vol vender la galleria. ANSELMO La vuol vendere? Oh, la vi sarebbe da fare de' buoni acquisti. BRIGHELLA Se la vol, adesso xé el tempo. ANSELMO Le cose migliori le prenderò io. BRIGHELLA El vuol vender tutto in una volta. ANSELMO Ma vorrà de' migliaia di zecchini. BRIGHELLA Manco de quello che la se pensa. Con tre mille scudi se porta via tutta quella gran roba. ANSELMO Con tre mila scudi? Questo è un negozio da impegnarvi la camicia per farlo. Se l'avessi saputo quattro giorni prima, non avrei consumato il denaro con quegl'impertinenti de' creditori.
BRIGHELLA La senta, se no la gh'ha tutti i denari, no importa; m'impegno de farghe dar la roba, parte col denaro contante, e parte con un biglietto. ANSELMO Oh il ciel volesse! Caro Brighella, sarebbe la mia fortuna. Quanto denaro credi tu che vi vorrà alla mano? BRIGHELLA Almanco domille scudi. ANSELMO Io non ne ho altri che mille cinquecento, gli altri li ho spesi tutti. BRIGHELLA Vederò che el se contenta de questi. ANSELMO Brighella mio, non bisogna perder tempo; va subito a serrar il contratto. BRIGHELLA Bisognerà darghe la caparra. ANSELMO Sì, tieni questi venti zecchini. Daglieli per caparra. BRIGHELLA Vado subito. ANSELMO Ma avverti di farti dare l'inventario, riscontra cosa per cosa, poi vienmi ad avvisare, che verrò a vedere ancor io. BRIGHELLA Vado; perché, se se perde tempo, el negozio pól andar in qualch'altra man. ANSELMO No, per amor del cielo. Mi appiccherei dalla disperazione. BRIGHELLA (È vero che el signor capitanio vól vender la galleria, ma con questi venti zecchini comprerò i so scarti, ghe porterò qualch'altra freddura, e el gonzo, che non sa gnente, li pagherà a caro prezzo) (parte).
SCENA DECIMA
Il Conte Anselmo, poi Pantalone.
ANSELMO Non mì sarei mai creduto un incontro simile. Ma la fortuna capita, quando men si crede. PANTALONE Se pól vegnir? (di dentro). ANSELMO Ecco qui quel buon uomo di Pantalone. Non sa niente, non sa niente. Venite, venite, signor Pantalone. PANTALONE Fazzo reverenza al sior Conte. ANSELMO Ditemi, voi che avete delle corrispondenze per il mondo, sapete la lingua greca? PANTALONE La so perfettamente. Son stà dies'anni a Corfù. Ho scomenzà là a far el mercante, e tutto el mio devertimento giera a imparar quel linguaggio. ANSELMO Dunque saprete leggere le scritture greche? PANTALONE Ghe dirò: altro xé el greco litteral, altro xé el greco volgar. Me n'intendo però un pochetto e dell'un e dell'altro. ANSELMO Quand'è così, vi voglio far vedere una bella cosa. PANTALONE La vedrò volentiera. ANSELMO Un codice greco. PANTALONE Bon, ghe n'ho visto dei altri. ANSELMO Scritto di propria mano di Demostene. PANTALONE El sarà una bella cossa.
ANSELMO Osservate, e se sapete leggere, leggete. PANTALONE (osserva) Questo xé scritto da Demostene? ANSELMO Sì, e sono i trattati di pace tra Sparta e Atene. PANTALONE I trattati di pace tra Sparta e Atene? Sala cossa che contien sto libro? ANSELMO Via, che cosa contiene? PANTALONE Questo xé un libro de canzonette alla grega, che canta i putelli a Corfù. ANSELMO Già lo sapeva. Voi non sapete leggere il greco. PANTALONE La senta: Mattiamù, mattachiamù, callispèra, mattiamù. ANSELMO Ebbene, questi saranno i nomi propri degli Spartani o de' Tebani. PANTALONE Vuol dir: Vita mia, dolce mia vita; bonasera, vita mia. ANSELMO Non sapete leggere. Questo è un codice greco che mì costa dieci zecchini, e ne vale più di cento. PANTALONE El formaggier nol ghe dà tre soldi. ANSELMO Andate a intender di panni e di sete, e non di scritture antiche. PANTALONE Me despiase, sior Conte, che per quel che vedo, andémo de mal in pèzo. ANSELMO Come sarebbe a dire? PANTALONE Ella se perde in ste freddure, e la so casa va in precipizio. ANSELMO Io mì diverto senza incomodar la casa. L'entrate le maneggia mia moglie, né io pregiudico agl'interessi della famiglia. PANTALONE E alla pase e alla quiete de casa no la ghe pensa?
ANSELMO Io penso a me, e non penso agli altri. PANTALONE Mo no sala, che quando el capo de casa no gh'abbada, tutto va alla roversa? ANSELMO Quando tacciono, sono capo; quando gridano, sono coda. PANTALONE Dise mia fia che l'è stada offesa dalla siora Contessa Isabella. ANSELMO E dice mia moglie che è stata offesa da vostra figlia; ora guardate con che razza di matti abbiamo da fare. PANTALONE Eppur bisogna remediarghe. ANSELMO Io vi consiglierei a fare quello che fo io. PANTALONE Che vuol dir? ANSELMO Lasciarle friggere nel proprio grasso. PANTALONE Ma se ste cosse le va avanti, no so cossa che possa succeder. ANSELMO Che cosa volete che succeda? PANTALONE Siora Contessa xé un poco troppo altiera. ANSELMO E vostra figlia è troppo fastidiosa. PANTALONE Volémio veder de far sta pase tra niora e madonna? ANSELMO Che cosa vi vuole per far questa pace? PANTALONE Mi ho parlà con mia fia; e so che la farà a mio modo. ANSELMO È inutile ch'io parli a mia moglie. PANTALONE Perché? ANSELMO Perché mai abbiamo fatto né ella a mio modo, né io al suo. PANTALONE Ma questa l'averìa da esser una pase general de tutta la fameggia.
ANSELMO Io non sono in collera con nessuno. PANTALONE Mo no l'è gnanca so decoro, voler comparir un omo de stucco. ANSELMO Che cosa volete ch'io faccia? PANTALONE Avemo da procurar che ste dó creature se unissa. Avemo da far che le se parla, che le se giustifica, che le se pacifica, e xé ben che la ghe sia anca ella. ANSELMO Via, vi sarò. PANTALONE Bisogna metter qualche bona parola. ANSELMO La metterò. PANTALONE Ho parlà anca colla siora Contessa, e la m'ha promesso de vegnir in camera d'udienza, dove ghe sarà anca mia fia. ANSELMO Buono, avete fatto assai. PANTALONE Saremo nualtri soli; la, mì, so consorte, mia fia e mio zenero. ANSELMO E non altri? PANTALONE No gh'ha da esser altri. ANSELMO Sarà difficile. PANTALONE Perché? Chi gh'ha da esser? ANSELMO Le donne hanno sempre i loro consiglieri. PANTALONE Mia fia no credo che la gh'abbia nissun. ANSELMO Eh, l'avrà, l'avrà. PANTALONE Siora Contessa lo gh'ala? ANSELMO Oh, se l'ha? E come!
PANTALONE E ella lo comporta? ANSELMO Io abbado alle mie medaglie. PANTALONE Mio zenero non farà cussì. ANSELMO Ognun dal canto suo cura si prenda. PANTALONE Questa no xé la regola che ha da tegnir un capo de casa. ANSELMO Ditemi: quant'anni avete! PANTALONE Sessanta, per servirla. ANSELMO Volete vivere sino a cento? PANTALONE Magari, ch'el ciel volesse! ANSELMO Se volete vivere sino a cent'anni, prendetevi quei fastidi che mì prendo io (parte).
SCENA UNDICESIMA
Pantalone solo.
PANTALONE Vardé che bell'omo! Vardé in che bella casa che ho messo la mia povera fia! - Un de sti dí, co ste só medaggie, nol gh'ha più un soldo, e quel che xé pezo, el lassa che vaga in desordene la casa, senza abbadarghe. Ma se no 'l ghe bada lu, ghe baderò mì. No gh'ho altro a sto mondo che sta unica fia; se posso, no vói morir col rammarico de vederla malamente sagrificada. Oh quanto mèggio che giera, che l'avesse maridada con uno da par mio! Anca a mì me xé vegnù el catarro della nobiltà. Ho speso vintimile scudi. Ma cosa hòggio fatto? Ho buttà i bezzi in canal, e ho negà la putta.
SCENA DODICESIMA
Arlecchino, travestito con altr'abito, e detto.
ARLECCHINO (Oh, se trovass sto sior Conte, ghe vorria piantar dell'altre belle antichità, senza spartir l'utile con Brighella). PANTALONE (Chi diavolo xé costù?). ARLECCHINO (Sto barbetta mì nol conoss). PANTALONE Galantomo, chi seu? Chi domandéu? ARLECCHINO Innanz che mì responda, l'am favorissa de dirme chi l'è vussiorìa. PANTALONE Son un amigo del sior Conte Anselmo. ARLECCHINO Se dilettela de antichità? PANTALONE Oh assae! (Stè a veder che l'è un de quei che lo tira in trappola). ARLECCHINO Za che vussiorìa se diletta de antichità, la sappia che mì son un antiquari. Son vegnú per far la fortuna del sior Conte Anselmo. PANTALONE (voi torme so e scovèrzer terren). Caro amigo, se me faré a mì sto piaser, oltre al pagamento, ve servirò in quel che poderò, in quel che ve occorrerà. ARLECCHINO Za che ved che l'è un galantomo, l'osserva che roba! L'osserva che antichità! che rarità! che preziosità! Vedel questa? (mostra una pantofola vecchia). PANTALONE Questa la par una pantofola vecchia. ARLECCHINO Questa l'era la pantofola de Neron, colla qual l'ha dà quel
terribil calzo a Poppea, quand el l'ha scazzada dal trono. PANTALONE Bravo! Oh che rarità! Gh'aveu altro? (Oh che ladro!). ARLECCHINO Vedel questa? (mostra una treccia di capelli). Questa l'è la drezza de cavelli de Lugrezia romana, restada in man a Sesto Tarquini.. PANTALONE Bellissima! (Ah tocco de furbazzo!). ARLECCHINO La vederà... PANTALONE No voggio veder altro. Baron, ladro, desgrazià! Crédistu che sia un mamalucco? A mì ti me dà da intender ste fandonie? Furbazzo, te farò andar in galìa. ARLECCHINO Ah signor, per amor del cielo, ghe domand pietà. PANTALONE Chi t'ha introdotto in sta casa? ARLECCHINO L' è stà Brighella, signor. PANTALONE Come ! Brighella ? ARLECCHINO Sior sì, avem spartì l'altra volta metà per un. PANTALONE Donca Brighella sassìna el so patrón? ARLECCHINO El fa anca lu, come che fan tanti alter. PANTALONE Orsù, vegni con mì. (Voggio co sto mezzo disingannar sto sior Conte). Vegni con mì. ARLECCHINO Dove ? PANTALONE No ve dubitè. Vegni con mì, e non abbié paura. ARLECCHINO Abbié carità de un pover omo. PANTALONE Meriteressi de andar in preson; ma no son capace de farlo. Me basta che disé a sior Conte quel che avé dito a mì, e no vói altro.
ARLECCHINO Sior sì, dirò tutt quel che voll. PANTALONE Andemo. ARLECCHINO Son qua. (Tolí, anca a robar ghe vol grazia e ghe vol fortuna) (s'incammina). PANTALONE Femo sta pase, e po con costú farò veder al Conte che tutti lo burla, che tutti lo sassina. (Partono).
SCENA TREDICESIMA
Camera della Contessa Isabella
La Contessa Isabella e il Dottore.
ISABELLA Anche voi mì rompete la testa? DOTTORE Io non parlo; ma ha ella sentito che cosa ha detto il signor Pantalone? ISABELLA Come c'entra quel vecchio in casa mia? Qui comando io, e poi mio marito. DOTTORE Benissimo, non pretende già voler far da padrone; egli mostra dell'amore per questa casa, e desidera di vedere in tutti la concordia e la pace. ISABELLA Se vuol che vi sia la pace, faccia che sua figlia abbia giudizio. DOTTORE Egli protesta ch'ella è innocente. ISABELLA È innocente? È innocente? E voi ancora lo dite? Sia maladetto quando il diavolo vi porta qui! DOTTORE È il signor Pantalone che dice ch'ella è innocente. Io non lo dico. ISABELLA Basta, se vi sentite di dirlo, andate fuori di questa camera. DOTTORE Questa è una bellissima cosa. Ora mì vuole, ora mì scaccia. ISABELLA Se mì fate rabbia! Andatemi a prender da bere. DOTTORE Vado (si parte per prendere da bere).
ISABELLA Maladettissima! A me vecchia? DOTTORE Eccola servita (le porta un bicchier di vino colla sottocoppa). ISABELLA Non voglio vino. DOTTORE Anderò a pigliar dell'acqua (si parte, come sopra). ISABELLA Vi saluto, perché siete più vecchia di me? DOTTORE Ecco l'acqua (porta un bicchier d'acqua). ISABELLA Maladetto! Fredda me la portate? DOTTORE Ma la calda dov'è? ISABELLA Al fuoco, al fuoco. DOTTORE La prenderò calda (si parte, come sopra). ISABELLA Questa parola non me l'ha ancora detta nessuno. Ma che faceva il signor cavaliere in compagnia di colei? Sarebbe bella che avesse lasciata me, per servir Doralice!
SCENA QUATTORDICESIMA
Colombina e detta.
COLOMBINA Signora, il padrone la prega di are nel suo appartamento. ISABELLA Che cosa vuole da me? COLOMBINA Non lo so, signora; so che vi è il signor Pantalone. ISABELLA Bene, bene, sentiremo le novità. Dimmi un poco, hai veduto quando il cavaliere è andato nelle camere di Doralice? COLOMBINA L'ho veduto benissimo. ISABELLA Quanto vi e stato? COLOMBINA Più di due ore; e poi poco fa, vi e tornato. ISABELLA Vi è tornato? COLOMBINA Sì, signora, vi è tornato. ISABELLA Sei punto stata in camera? Hai sentito nulla? COLOMBINA Oh! io in quella camera non ci vado. Servo la mia padrona e non servo altri. ISABELLA Che balorda! né anche andar in camera a sentir qualche cosa, per sapermelo dire; va, che sei una scimunita. COLOMBINA Balorda! scimunita! Non voleva dirvelo; ma ci sono stata. ISABELLA Si? contami, che cosa facevano? COLOMBINA Parlavano segretamente.
ISABELLA Discorrevano forse di me? COLOMBINA Sicuro. ISABELLA Che cosa dicevano? COLOMBINA Che siete fastidiosa, sofistica, e che so io. ISABELLA Cavaliere malnato!
SCENA QUINDICESIMA
Il Dottore con l'acqua calda, e dette.
DOTTORE Ecco l'acqua calda. ISABELLA Andate al diavolo; non sentite che scotta? (la prende, le pare bollente, e gettandola via, coglie il Dottore). DOTTORE Obbligatissimo alle sue grazie. ISABELLA Di grazia, che vi avrò stroppiato! DOTTORE Io non parlo. ISABELLA E così, che altro hanno detto di me? (a Colombina). COLOMBINA Non ho potuto sentir altro. Ma se sentirò, dirò tutto. ISABELLA Sta attenta; ascolta e osserva, che mì preme infinitamente. COLOMBINA Signora padrona, vi ricordate quant'è che mì avete promesso un paio di scarpe? ISABELLA Tieni, comprale a tuo modo (le dà un ducato). COLOMBINA Che siate benedetta! (così si macina a due mulini) (parte). ISABELLA (Il cavaliere mì tratta Così?). DOTTORE Vuole ch'io le vada a prendere dell'acqua un poco tiepida? ISABELLA (In casa mia? sugli occhi miei?). DOTTORE Signora, è in collera? Non l'ho fatto apposta.
ISABELLA (Bell'azione!). DOTTORE Dica, signora Contessa... ISABELLA Non mì rompete la testa. DOTTORE Ma che cosa le ho fatto? Sempre la mì strapazza; sempre la mì mortifica. ISABELLA Venite con me nell'appartamento di mio marito (parte).
SCENA SEDICESIMA
Il Dottore solo.
DOTTORE Ecco il bell'onor che si acquista a servire una signora di rango! Per un poco di vanità mì convien soffrir cento villanie. Ma non so che fare. Ci sono avvezzo, e non so distaccarmi (parte).
SCENA DICIASSETTESIMA
Camera del Conte Anselmo
Il Conte Anselmo e Pantalone.
ANSELMO Eccomi qui, eccomi qui. Ma quanto ci dovrò stare? PANTALONE Aspettemo che le vegna. Disémo quattro parole; fémo sto aggiustamento, e l'anderà dove che la vól. ANSELMO (Brighella non si vede colla risposta della galleria). PANTALONE Vien zente. Chi èla questa, che no ghe vedo troppo? ANSELMO È mia moglie. PANTALONE E con éla chi gh'è? ANSELMO Non ve L'ho detto? Il suo consigliere. PANTALONE L'è el dottor Balanzoni! ANSELMO Cose vecchie, cose vecchie. PANTALONE Ma cossa gh'intrelo ? Averia gusto che fossimo soli. ANSELMO Eh, lasciatelo venire; che v'importa? PANTALONE (Che bel carattere che xé sto sior Conte!).
SCENA DICIOTTESIMA
La Contessa Isabella col Dottore, che le dà mano, e detti.
ANSELMO Ben venuti, ben venuti. DOTTORE Fo riverenza al signor Conte. PANTALONE Siora Contessa, ghe son umilissimo servitor. ISABELLA La riverisco. PANTALONE (La ghe diga qualcossa. Fémo pulito) (piano al Conte). ANSELMO (Orsú, giacché ci siamo, bisogna fare uno sforzo). Contessa mia, vi ho fatto qui venire per un affar d'importanza; in poche parole mì sbrigo. In casa mia voglio la pace. Se qualche cosa è ata fra voi e vostra nuora, s'ha da obliare il tutto. Voglio che ora vi pacifichiate, e che alla mia presenza torniate come il primo giorno che Doralice è venuta in casa. Avete inteso? Voglio che si faccia così (alterato). ISABELLA Voglio? ANSELMO Signora sì, voglio. Questa parola la dico una volta l'anno; ma quando la dico, la sostengo (come sopra). ISABELLA E volete dunque... ANSELMO Quello ch'io voglio, l'avete inteso. Non vi è bisogno di repliche. ISABELLA Io dubito sia diventato pazzo: non ha mai più parlato così. ANSELMO (Che dite? Mi sono portato bene?) (a Pantalone). PANTALONE Benissimo.
ANSELMO (Ho fatto una fatica terribile).
SCENA DICIANNOVESIMA
Doralice, il Cavaliere Del Bosco, Giacinto e detti.
PANTALONE (Cossa gh'intra quel sior co mia fia?) (ad Anselmo). ANSELMO (Non ve l'ho detto? Il suo consigliere). CAVALIERE Padroni miei, con tutto il rispetto. DORALICE Serva di lor signori. ANSELMO E voi, signora, non dite niente? (ad Isabella). ISABELLA Divotissima, divotissima (sostenuta). ANSELMO Sediamo un poco, e quello che abbiamo a fare, facciamolo presto. (Brighella non si vede). Che ora è? Signor cavaliere, che ora è? (Tutti siedono). CAVALIERE Non lo so davvero. Ho dato il mio orologio ad accomodare. DORALICE Guarderò io: è mezzogiorno vicino (guarda sull'orologio). ANSELMO Avete un bell'orologio. Lasciatemelo un poco vedere. DORALICE Eccolo. ISABELLA Mi rallegro con lei, signora (a Doralice). DORALICE È necessario un orologio, dove ognora si scandagliano i quarti della nobiltà. ISABELLA (L' impertinente!). ANSELMO Mi piace questo cammeo; sarà antico: da chi l'avete avuto?
DORALICE Me l'ha dato mio padre. ISABELLA Oh, oh, oh, suo padre! (ridendo forte). PANTALONE Siora sì, ghe l'ho dà mì, siora sì. ANSELMO Questo cammeo è bellissimo. PANTALONE (Orsù, vórla che scomenzémo a parlar? Vórla dir éla?) (piano ad Anselmo). ANSELMO La chioma di quella sirena non può esser più bella. La voglio veder colla lente (tira fuori una lente, osserva il cammeo, e non bada a chi parla). PANTALONE (El tempo a) (come sopra). ANSELMO Principiate voi, poi dirò io. Intanto lasciatemi prender gusto in questo cammeo. PANTALONE Signore, se le me permette, qua per ordine del sior Conte mio padron, del qual ho l'onor de esser anca parente... DORALICE Per mia disgrazia. PANTALONE Tasé là, siora, e fin che parlo, no m'interrompé. Come diseva, se le me permette, farò un piccolo discorsetto. Pur troppo xé vero che tra la madonna e la niora poche volte se va d'accordo... ISABELLA Quando la nuora non ha giudizio. PANTALONE Cara ella, per carità, la prego, la me lassa parlar; la sentirà con che rispetto, con che venerazion, con che giustizia parlerò de éla (ad Isabella). ISABELLA Io non apro bocca. PANTALONE E vu tasé (a Doralice). DORALICE Non parlo. PANTALONE Credo che per ordinario le dissension che nasce tra ste dó persone, le dipenda da chiàccole e pettegolezzi.
ISABELLA Questa volta son cose vere. DORALICE Vere, verissime. PANTALONE Oh poveretto mì! me làssele dir? ISABELLA Avete finito? Vorrei parlar anch'io. DORALICE Una volta per uno, toccherà ancora a me... PANTALONE Mo se non ho gnancora principià. Sior Conte, la parla éla, che mì no posso più (ad Anselmo). ANSELMO Avete finito? Si sono aggiustate? È fatta la pace? PANTALONE Dov'elo stà fina adesso? Non l'ha sentìo ste dó campane che no tase mai? ANSELMO Con un cammèo di questa sorta davanti agli occhi, non si sentirebbero le cannonate. PANTALONE Cossa avemio da far? ANSELMO Parlate voi, ché poi parlerò io (torna ad osservare il cammeo). PANTALONE Me proverò un'altra volta. Siora Contessa, voria pregarla de dir i motivi dei só desgusti contro mia fia (ad Isabella). ISABELLA Oh, sono assai. DORALICE I miei sono molto più. PANTALONE Tasé là, siora; lassé che la parla éla, e po parleré vu. DORALICE Ah! sì, deve ella parlare la prima, perché... (Ho quasi detto, perché è più vecchia) (al Cavaliere). CAVALIERE (Avreste fatto una bella scena!) PANTALONE La favorissa de dirghene qualchedun (ad Isabella).
ISABELLA Non so da qual parte principiare. GIACINTO Signor suocero, se aspettiamo che esse dicano tutto con regola e quiete, è impossibile. Io, che so le doglianze dell'una e dell'altra, parlerò io per tutte due. Signora madre, vi contentate ch'io parli? ISABELLA Parlate pure. (Già m'aspetto che tenga dalla consorte). GIACINTO E voi, Doralice, vi contentate che parli per voi? DORALICE Sì, sì, quel che volete. (Già terrà dalla madre). GIACINTO Prima di tutto mia madre si lamenta che Doralice le abbia detto vecchia. ISABELLA Via di qua, temerario (a Giacinto). GIACINTO Diceva... ISABELLA Va' via, che ti do una mano nel viso. GIACINTO Perdonatemi. ISABELLA Va', ti dico, impertinente. GIACINTO (Anderò per non irritarla. Eh! lo vedo, lo vedo; qui non si può più vivere) (parte). DORALICE (Mi ha dato più gusto, che se avessi guadagnato cento zecchini) (al Cavaliere). CAVALIERE (Quella parola le fa paura). PANTALONE Cossa dísela, sior Conte? No se pól miga andar avanti. ANSELMO Orsú, la finirò io. Signore mie... Ma prima che mì scordi, questo cammeo si potrebbe avere? PANTALONE El xé de mia fia, la ghe domanda a éla. ANSELMO Mi volete vendere questo cammeo? (a Doralice).
DORALICE Venderlo? mì maraviglio. Se ne serva, è padrone. ANSELMO Me lo donate? DORALICE Se si degna. ANSELMO Vi ringrazio, la mia cara nuora, vi ringrazio. Lo staccherò, e vi renderò l'orologio. ISABELLA Via, ora che la vostra dilettissima signora nuora vi ha fatto quel bel regalo, pronunziate la sentenza in di lei favore. ANSELMO A proposito. Ora, già che ci siamo, bisogna terminare questa faccenda. Signore mie, in casa mia non vi è la pace, e mancando questa, manca la miglior cosa del mondo. Sinora ho mostrato di non curarmene, per stare a vedere sin dove giungevano i vostri opposti capricci; ora non posso più, e pensandovi seriamente, ho deliberato di porvi rimedio. Ho piacere che si trovino presenti questi signori, i quali saranno giudici delle vostre ragioni e delle mie deliberazioni. Principiamo dunque...
SCENA VENTESIMA
Brighella e detti.
BRIGHELLA Sior padron (al Conte Anselmo). ANSELMO Che c' è? BRIGHELLA El negozio è fatto, la galleria è nostra, e gh'ho qua l'inventario. ANSELMO Con licenza di lor signori (s'alza). PANTALONE Tornela presto? ANSELMO Per oggi non torno più (parte con Brighella). PANTALONE Bella da galantuomo! DORALICE Possiamo andarcene ancora noi. PANTALONE Senza el sior Conte ghe remedio che vegnimo in chiaro del motivo de ste discordie? ISABELLA Ecco qui; il signor dottore è qualche anno che mì conosce. Mi ha tenuta in braccio da bambina, e sa chi sono. Dica egli, se io vado in collera senza ragione. DOTTORE Oh; è vero. Ella non parla mai senza fondamento. DORALICE Il signor cavaliere è buon testimonio di quello che ha detto di me la signora suocera, e sa egli se con ragione mì lamento. CAVALIERE Signore, lasciamo queste leggerezze da parte. Stiamo allegramente in buona pace, con buona armonia. DORALICE Leggerezze le chiamate? Leggerezze? Mi avete pure accordato
anche voi che io ho ragione, che io sono l'offesa, che non tocca a me cedere. ISABELLA Bravo, signor cavaliere! Vossignoria è quello che consiglia la signora Doralice. CAVALIERE Io non consiglio nessuno, parlo come l'intendo. Servitor umilissimo di lor signori (parte). PANTALONE Voleu che ve la diga? Sé una chebba de matti. Destrighévela tra de vu altri, e chi ha la rogna, se la gratta (parte). ISABELLA Son offesa, saprò vendicarmi, e la mia vendetta sarà da dama qual sono. Dottore, andiamo (parte col Dottore). DORALICE M'impegno colla mia placidezza di confondere e superare tutte le più furiose del mondo (parte).
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera del Conte Anselmo con tavolini
Il Conte Anselmo e Brighella
BRIGHELLA Ecco qua. Per tre mila scudi la varda quanta gran roba. ANSELMO Caro Brighella, son fuor di me dall'allegrezza. Qual è la cassa dei crostacei? BRIGHELLA El numero uno l'è la cassa dei crostacei, dove ghe sarà drento tre mila capi de frutti marini, cioè ostreghe, cappe e cose simili, trovade su le cime de' monti. ANSELMO Questi soli vagliono i tremila scudi. BRIGHELLA El numero dó l'è una cassa de pesci petrificadi de tutte le sorte. ANSELMO Questo sarebbe per la galleria d'un monarca. BRIGHELLA El numero tre l'è una cassa con una raccolta de mùmie d'Aleppo: tutte de animali uno differente dall'altro, fra i quali gh'è un basilisco. ANSELMO V'è anche il basilisco? BRIGHELLA E come! L'è grando come un quaggiotto. ANSELMO Si sa da dove l'abbiano portato? BRIGHELLA Se sa tutto. L'è nato da un uovo de gallo. ANSELMO Sì, Sì, ho inteso dire che i galli dopo tanti anni fanno un uovo, da cui nasce poi il basilisco. L'ho sempre creduta una favola.
BRIGHELLA No l'è favola, e là drento gh'è la prova della verità. ANSELMO Brighella, ti sono obbligato. M'hai fatto fare dei preziosi acquisti. BRIGHELLA Son un omo fatto a posta per sti negozi; gnancora non la me cognosse intieramente; fra poco la me cognosserà meggio. (Ma el me cognosserà in tempo che m'avrò messo in salvo mì e sti bezzi che gh'ho cuccào) (parte).
SCENA SECONDA
Il Conte Anselmo, poi Pantalone.
ANSELMO Io ho qui da divertirmi per due o tre mesi. Fino che non ho posto in ordine tutta questa roba, non vado in campagna, non vado in conversazioni, non vado nemmeno fuori di casa. Mi farò portar qui da mangiare. Mi voglio far portar qui un lettino da campagna e dormir qui; così non avrò lo stordimento di quella fastidiosissima mia consorte. Non voglio nessuno, non voglio nessuno. PANTALONE Sior Conte, se pól vegnir? (di dentro). ANSELMO Non voglio nessuno. PANTALONE La senta, ghe xé sior Pancrazio, quel famoso antiquario (di dentro). ANSELMO Oh! venga, venga, è padrone. Capperi! Ha saputo che ho fatta questa bella spesa e subito corre.
SCENA TERZA
Pantalone, Pancrazio e detto.
PANTALONE Caro sior Conte, la sa che ghe son bon amigo. ANSELMO Compatitemi, ero imbarazzato. Signor Pancrazio, che fortuna è la mia che siate venuto a favorirmi? PANCRAZIO Ho saputo che Vossignoria ha fatto una bella compra d'antichità, e sono venuto, se mì permette, a vedere le sue belle cose. PANTALONE L'ho menà mì, sior Conte, l'ho menà mì, perché anca mì ho savesto che l'ha fatto una bella spesa (Credo che l'abbia buttà i bezzi in canal, e pól esser che me riessa d'illuminarlo). ANSELMO Sentite, signor Pancrazio, ora posso dire che in questa città niuno possa arrivare alla mia galleria. Ho delle cose preziose. PANCRAZIO Le vedrò volentieri. Vossignoria sa ch'io ne ho cognizione. ANSELMO È vero; voi siete il più pratico e il più intendente antiquario di Palermo. Date un'occhiata a quelle casse e vedete se son piene di piccoli tesoretti. PANCRAZIO Con sua licenza (va a vedere nelle casse). ANSELMO Caro signor Pantalone, compatite se vi ho piantato, quando eravamo in camera colle due pazze. Moriva di voglia di veder queste belle cose. PANTALONE Sior Conte, possibile che alla só casa no la ghe vóggia pensar gnente? ANSELMO Se ci penso? E come! Ditemi, come è andata la cosa? Come si è terminato il congresso?
PANTALONE Ghe dirò; dopo che la xé andada via ella... ANSELMO Ebbene, signor Pancrazio, che dite? Sono cose stupende, cose rare, non più vedute? PANTALONE (Vardé come che el m'ascolta). PANCRAZIO Signor Conte, mì permette ch'io parli con libertà? ANSELMO Sì, dite liberamente il vostro parere. PANCRAZIO Prima di tutto, crede ella ch'io sia un uomo d'onore? ANSELMO Vi tengo per un uomo illibatissimo, come siete e come decanta tutta Palermo. PANCRAZIO Crede ch'io abbia cognizione di queste cose? ANSELMO Dopo di me, non vi è nessuno meglio di voi. PANCRAZIO Quanto ha pagato tutta questa roba? ANSELMO Sentite, ma in confidenza, che nessuno lo sappia; l'ho avuta a un prezzo bassissimo. Per tremila scudi. PANCRAZIO Signor Conte, in confidenza, che nessuno ci senta: questa è roba che non vale tremila soldi. ANSELMO Come non vale tremila soldi? PANTALONE (Bella da galantomo!). ANSELMO L'avete bene osservata? PANCRAZIO Ho veduto quanto basta per assicurarmi di ciò. ANSELMO Ma i crostacei? PANCRAZIO Sono ostriche trovate nell'immondizie, o gettate dal mare quando è in burrasca.
PANTALONE Trovate sui monti del poco giudizio. ANSELMO E i pesci petrificati? PANCRAZIO Sono sassi un poco lavorati collo scarpello, per ingannare chi crede. PANTALONE Ghe sarà anca petrificà e indurio el cervello de qualche antiquario. ANSELMO E le mummie? PANCRAZIO Sono cadaveri di piccoli cani, e di gatti, e di sorci sventrati e seccati. ANSELMO Ma il basilisco? PANCRAZIO È un pesce marino che i ciarlatani sogliono accomodare in figura di basilisco, e se ne servono per trattenere i contadini in piazza, quando vogliono vendere il loro balsamo. ANSELMO Signor Pancrazio, voi m'uccidete, voi mì cavate il cuore. E i quadri, le pitture, le miniature? PANCRAZIO Per quel poco che ho veduto, sono cose che possono valere cento scudi, se vi arrivano. ANSELMO Dubito che vi vogliate prendere so di me, o che lo facciate per indurmi a vendervi queste robe a buon mercato; ma v'ingannate, se lo credete. PANCRAZIO Io sono un uomo d'onore. Non son capace d'ingannarvi; ma vi dico bensì che siete stato tradito. PANTALONE E chi l'ha tradio xé quel baron de Brighella. ANSELMO Brighella è onorato. PANTALONE Brighella xé un furbazzo, e ghe lo proverò. ANSELMO Come lo potete dire! Come lo potete provare?
PANTALONE Se recòrdela dell'armeno che gh'ha vendù el lume eterno delle piramidi d'Egitto e tutte quell'altre belle cosse? ANSELMO Me ne ricordo sicuro; e quella pure è stata un'ottima spesa. PANTALONE Co só bona grazia, l'aspetta un momento: el xé qua, ghel fazzo vegnir (parte). ANSELMO Avrà qualche altra cosa rara da vendere. PANCRAZIO Caro signor Conte, mì dispiace sentire ch'ella getti malamente i suoi denari. ANSELMO Compatitemi, non ne sono ancor persuaso. Brighella mì ha fatto fare questo negozio. Brighella se ne intende quanto voi, e non è capace d'ingannarmi. PANCRAZIO Brighella se ne intende quanto me? Mi fa un bell'onore. Signor Conte, io sono venuto per illuminarla, mosso dall'onestà di galantuomo ed eccitato a farlo dal signor Pantalone. Vossignoria è attorniato da bricconi che l'ingannano e le fanno comprare delle porcherie, e però... ANSELMO Mi maraviglio, me n'intendo; non sono uno sciocco (alterato). PANCRAZIO Servitore umilissimo (parte). ANSELMO Che caro signor Pancrazio! Parla per invidia. Vorrebbe discreditare la mia galleria, per accreditare la sua. Me n'intendo; conosco; non mì lascio gabbare.
SCENA QUARTA
Pantalone, Arlecchino e detto.
PANTALONE (conducendo per mano Arlecchino) Vegnì qua, sior, no ve vergogné, no ve tiré indrio; confessé a sior Conte la bella vendita che gh'avé fatto, e chi ve l'ha fatta far. ARLECCHINO Siori, ve domando perdon... ANSELMO (Questi è l'armeno). Siete voi l'armeno? (ad Arlecchino) ARLECCHINO Sior sì; son un Armeno da Bergamo. ANSELMO Come! PANTALONE Chi v'ha introdotto in sta casa? Parlé (ad Arlecchino). ARLECCHINO Brighella (sempre timoroso). PANTALONE A cossa far? ARLECCHINO A vender le strazze al sior antiquario. PANTALONE Séntela, patron? (ad Anselmo). ANSELMO Come, stracci? Il lume eterno... ARLECCHINO L'è una luse da óggio che val dó soldi. ANSELMO Oimè! non è il lume eterno trovato nelle piramidi d'Egitto? ARLECCHINO Stara, stara, e mì cuccàra. ANSELMO Ah son tradito, sono assassinato! Ladro infame, anderai prigione.
PANTALONE El ladro, el baron xé Brighella che l'ha menà in casa, e s'ha servido de stó martuffo per tór in mezzo el patron. ARLECCHINO E mì che aveva imparà da quel bon maestro, son po vegnù colle drezze de Lucrezia romana. ANSELMO Dove sono le treccie di Lucrezia romana? PANTALONE Eh, no vedela che le xé furbarie? Mi l'ho scoverto, e gh'ho tolto de man tutte quelle cargadure che el vegniva a venderghe a éla. ANSELMO Ah scellerato! Signor Pantalone, mandiamo a chiamare gli sbirri. Facciamolo cacciar prigione. PANTALONE Mi no vóggio altri impegni; l'ho tegnú qua per disingannarla, e me basta cussì. Va' là, tòcco de furbazzo. Va' lontan de sta casa, e ringrazia el cielo che la te a cussì. ARLECCHINO Grazie della só carità... (in atto di partire). ANSELMO Maladetto! ti accopperò (vuol seguirlo). ARLECCHINO No me cuccàra, no me cuccàra (correndo parte).
SCENA QUINTA
Il Conte Anselmo e Pantalone.
PANTALONE Cossa disela, sior Conte? Brighella xélo un galantomo? ANSELMO È un briccone, è un traditore. PANTALONE Cossa vórla far de sti mobili ? ANSELMO Non saprei... lasciamoli qui, serviranno per accrescere la galleria. PANTALONE Ah! donca la vol seguitar a tegnir galleria? ANSELMO Ma che cosa vorreste ch'io fi, senza questo divertimento? PANTALONE Vorria che l'abbadasse alla só fameggia. Vorrìa che se giustasse ste differenze tra niora e madonna. ANSELMO Bene, aggiustiamole. PANTALONE Se ghe vórla metter de cuor? ANSELMO Mi ci metterò con tutto lo spirito. PANTALONE Se la farà cussì, no mancherò de assisterla dove che poderò. Me preme mia fia: no gh'ho altri al mondo che éla. La vorrave veder quieta e contenta; se se pól, ben; se no, sala cossa che farò? La torò suso e la menerò a casa mia. ANSELMO Signor Pantalone, preme anche a me la mia pace. Voglio che ci mettiamo in quest'affare con tutto lo spirito. PANTALONE La me consola; me vien tanto de cuor. ANSELMO Caro amico, giacché avete dell'amore per me, fatemi una finezza.
PANTALONE Comandela qualcossa? Son a servirla. ANSELMO Prestatemi otto o dieci zecchini, che poi, ricuperando quei di Brighella, ve li renderò. PANTALONE La toga, e la se serva. ANSELMO Ve li renderò. PANTALONE Me maravéggio. Vago da mia fia. La vaga éla dalla siora Contessa, e vedemo de pacificarle. ANSELMO Operate voi, e opererò ancor io. PANTALONE Vorrave aver da giustar un fallimento in piazza, piuttosto che trattar una pase tra niora e madonna (parte). ANSELMO Giacché ho questi dieci zecchini, non voglio tralasciare di comprare quei due ritratti del Petrarca e madonna Laura. In questi son sicuro che spendo bene il denaro. Non mì lascerò più ingannare. Imparerò a mie spese. Imparerò a mie spese (parte).
SCENA SESTA
Camera con tre porte, due laterali ed una in prospetto Il Cavaliere da una parte laterale, il Dottore dall'altra; poi tutti i personaggi vanno e vengono in questa scena, e tutte le loro entrate e tutte le loro sortite non fanno che una scena sola.
DOTTORE Caro signor Cavaliere, giacché siamo qui soli, e che nessuno ci sente, mì permette ch'io le dica quattro parole, da suo servitore e da buon amico? CAVALIERE Dite pure, v'ascolto. DOTTORE Non sarebbe meglio che vossignoria, per la parte della nuora, ed io, per la parte della suocera, procurassimo di far questa pace? CAVALIERE Io non ho questa autorità sopra la signora Doralice. DOTTORE Nemmeno io sopra la signora Isabella, ma spero che, se le parlerò, si rimetterà in me. CAVALIERE Così spererei anch'io della contessina. DOTTORE Facciamo una cosa, proviamo; e se ci riesce di far questo bene, avremo il merito di mettere in quiete, in concordia, tutta questa famiglia. CAVALIERE Benissimo, vado a ricevere le commissioni dalla signora Doralice. DOTTORE Ed io nello stesso tempo dalla signora Isabella. CAVALIERE Attendetemi, che ora torno (entra nell'appartamento di Doralice). ISABELLA (esce) Signor dottore, che discorsi avete avuti col Cavaliere? DOTTORE Tanto egli che io desideriamo di procurare la sua quiete, la sua pace, la sua tranquillità. ISABELLA Fino che colei sta in questa casa, non l'avrò mai. Ditemi, il Cavaliere
continua a dichiararsi per Doralice? DOTTORE Egli è un galantuomo, che fa per l'una e per l'altra parte. Mi creda: si fidi di me, si rimetta in me, e le prometto che ella sarà contenta. ISABELLA Benissimo, io mì rimetto in voi. DOTTORE Quello che farò io, sarà ben fatto? ISABELLA Sarà ben fatto. DOTTORE Lo approverà? ISABELLA L'approverò. DOTTORE Dunque stia quieta, e non pensi altro. ISABELLA Avvertite però di non risolver niente, senza che io lo sappia. DOTTORE In questa maniera ella non si rimette in me. ISABELLA Vi lascio la libertà di trattare. DOTTORE Ma non di concludere? ISABELLA Signor no, di concludere no. DOTTORE Dunque tratteremo. ISABELLA Il primo patto, che Doralice vada fuori di questa casa. DOTTORE E la dote? ISABELLA Prima la mia, e poi la sua. DOTTORE S'ha da rovinare la casa? ISABELLA Rovinar la casa; ma via Doralice. DOTTORE Eccola.
ISABELLA Temeraria! Ha tanto ardire di venirmi davanti gli occhi? Il sangue mì bolle. Non la voglio vedere. Venite con me (entra nel suo appartamento). DOTTORE Vengo. Ho paura che non facciamo niente (entra). DORALICE (esce, e il Cavaliere corre dal suo appartamento) Vedete! Io vengo per parlare con lei, ed ella mì fugge. CAVALIERE Giacché siete tanto discreta e ragionevole, mì date licenza che, salve tutte le vostre convenienze, tratti l'aggiustamento con vostra suocera? DORALICE Sì, mì farete piacere. CAVALIERE Volete rimettervi in me? DORALICE Vi dò ampia facoltà di far tutto. CAVALIERE Mi date parola? DORALICE Ve la dò, con patto però che l'aggiustamento sia fatto a modo mio. CAVALIERE Prescrivetemi le condizioni. DORALICE Una delle due, o che io debba essere la padrona in questa casa, senza che la suocera se ne abbia da ingerire punto, né poco; o ch'io voglio la mia dote, e tornarmene in casa di mio padre. CAVALIERE Troveremo qualche temperamento. DORALICE Sì, via, trovate de' mezzi termini, de' buoni temperamenti; ma ricordatevi che non voglio restare al disotto una punta di spilla (va nel suo appartamento). CAVALIERE Oh, questo è un grande imbarazzo! Ma ecco il dottore. Sentiamo che cosa dice della Contessa Isabella. DOTTORE (esce dall'appartamento d'Isabella) Signor cavaliere, ha parlato colla signora Doralice? CAVALIERE Signor sì, ho parlato ed ho facoltà di trattare.
DOTTORE Io pure ho l'istessa facoltà da quest'altra. CAVALIERE Dunque trattiamo. Vi faccio a prima giunta un progetto alternativo. O la signora Doralice vuol esser anch'ella padrona in questa casa, o vuole la sua dote e se n'anderà con suo padre. DOTTORE Rispondo per la signora Contessa. Se vuole andare, se ne vada; ma prima s'ha da levare la dote della suocera, e poi quella della nuora. CAVALIERE Facciamo così: che la signora Isabella dia il manéggio alla nuora di quattro cento scudi l'anno, e penserà ella alle spese per sé e per la cameriera. DOTTORE Con licenza, ora torno (va da Isabella, poi torna). CAVALIERE Non può risolvere. Anch'egli ha lo stesso arbitrio che ho io. Questa sarebbe la meglio. Ognun pensar per sé. DOTTORE (ritorna dall'appartamento d'Isabella) Quattrocento scudi non si possono accordare. Se ne accorderanno trecento. CAVALIERE Attendetemi, che ora vengo (va da Doralice). DOTTORE È plenipotenziario anch'egli, come sono io. PANTALONE (esce dalla porta di mezzo) Sior dottor, la riverisco (incamminandosi verso l'appartamento di Doralice). DOTTORE Dove, signor Pantalone? PANTALONE Da mia fia. DOTTORE Ora si tratta l'aggiustamento fra lei e la suocera. PANTALONE E chi lo tratta stó aggiustamento? DOTTORE Per la sua parte il cavaliere del Bosco. PANTALONE Come gh'intrelo sto sior Cavalier? CAVALIERE (ritorna dall'appartamento di Doralice) L'aggiustamento è fatto.
PANTALONE Sì? come, cara éla? (esce il Conte Anselmo dalla porta di mezzo). DOTTORE Signor Conte, l'aggiustamento è fatto. ANSELMO Ne godo, ne godo; e come? CAVALIERE La signora Doralice si contenta di trecento scudi l'anno. DOTTORE E la signora Contessa Isabella glieli accorda. PANTALONE Xéla matta mia fia? Adesso mo (va da Doralice, poi torna). ANSELMO È spiritata mia moglie? ora mì sentirà (va da Isabella). CAVALIERE Questi vecchi vogliono guastare il nostro manéggio (al Dottore). DOTTORE Questa era una convenzione onesta, perché, per dirla, la signora Doralice è troppo inquieta. CAVALIERE Ha ragione se vede di mal occhio la suocera, per tutto quello che ha saputo dire di lei. DOTTORE Anzi la nuora ha strapazzata la suocera fieramente. CAVALIERE Siete male informato. DOTTORE Ehi, Colombina. COLOMBINA (esce dalla camera d'Isabella) Signore! DOTTORE Dimmi un poco, che cosa ha detto la signora Doralice della Contessa Isabella? COLOMBINA Oh! Io non so nulla. CAVALIERE Non crediate a costei, mentre ella alla signora Doralice ha detto tutto il male della sua padrona. COLOMBINA Io non ho detto nulla.
CAVALIERE Credetelo, da cavaliere. DOTTORE Dunque la ciarliera di Colombina ha messo male fra queste due signore. CAVALIERE Senz'altro. DOTTORE Vado dalla Contessa Isabella (va da Isabella). COLOMBINA Avete fatto una bella cosa! (al Cavaliere). CAVALIERE Bricconcella, tu sei stata quella che ha detto male della nuora alla suocera? Ora vado dalla signora Doralice a scuoprire le tue iniquità (va da Doralice). COLOMBINA Oh, questa è bella! Se mì pagano acciò dica male, non l'ho da fare? ANSELMO (ritorna dall'appartamento d'Isabella) Tu, disgraziata, sei cagione di tutto (va da Doralice). COLOMBINA Anche questo stolido l'ha con me. DOTTORE (dall'appartamento d'Isabella) Or ora si scoprirà ogni cosa (va nell'appartamento di Doralice). COLOMBINA Mi vogliono tutti mangiare. PANTALONE (dall'appartamento di Doralice) Xé vero, desgraziada, che ti ha dito mal de mia fia alla to parona? COLOMBINA Io non so niente. PANTALONE Aspetta, aspetta (va da Isabella). COLOMBINA Credono di farmi paura. ANSELMO (dall'appartamento di Doralice) Or ora ho scoperto tutto. Te n'accorgerai (va da Isabella). COLOMBINA Principio ad avere un poco di paura.
DOTTORE (dall'appartamento di Doralice) Non me lo sarei mai creduto: oh che lingua! (va da Isabella). COLOMBINA Sono in cattura davvero. CAVALIERE (dall'appartamento di Doralice) Colombina, sei scoperta. Tu sei quella che hai riportato le ciarle da una parte e dall'altra. Ora tutte sono contro di te, e vogliono che tu ne paghi la pena. Ti consiglio andartene. COLOMBINA Ma dove? povera me! Dove? CAVALIERE Presto, va nella tua camera e chiuditi dentro. Vedrò io d'aiutarti. COLOMBINA Per amor del cielo, non mì abbandonate. CAVALIERE Presto, che vien gente. COLOMBINA Maladetta fortuna! E stato quel zecchino al mese che m'ha acciecata (parte per la porta di mezzo). CAVALIERE Ora che si è scoperta la malizia di costei, è più facile l'accomodamento. GIACINTO (esce dalla porta di mezzo) Cavaliere, che ha Colombina che piange e pare spaventata? CAVALIERE È stata scoperta essere quella che ha seminato discordie fra suocera e nuora; ed ora fra esse trattasi l'aggiustamento. GIACINTO Voglia il cielo che segua! DOTTORE (dall'appartamento d'Isabella) La signora Isabella è persuasa di tutto, e se la signora Doralice verrà nella sua camera a riverirla, l'abbraccerà con amore e con tenerezza. CAVALIERE Vado a dirlo alla signora Doralice (va da Doralice). GIACINTO Dunque mia madre è placata? DOTTORE Placatissima; tutto è accomodato.
GIACINTO Sia ringraziato il cielo! CAVALIERE (dall'appartamento di Doralice) La signora Doralice è prontissima a ricevere l'abbraccio della signora Isabella. Ma che venga ella nella sua camera. DOTTORE Glielo dirò, ma dubito non si farà nulla (va da Isabella). GIACINTO Mi pare veramente che tocchi a mia moglie. CAVALIERE Pretende ella d'essere l'offesa. PANTALONE (dall'appartamento d'Isabella) Mia fia no vol vegnir da so madonna? Aspetté, aspetté, che anderò mì a farla vegnir, e la vegnirà (va da Doralice). GIACINTO Vedete? Anche suo padre le dà il torto. CAVALIERE Il buon vecchio fa per metter bene. ANSELMO (dall'appartamento d'Isabella) Oh questa sì ch'è bella! La suocera anderà ad umiliarsi alla nuora? PANTALONE (dall'appartamento di Doralice) La xé giustada. Mia fia vegnirà da siora Contessa; basta che la ghe vegna incontra co la la vede, per darghe coraggio. ANSELMO Bene, bene, lo farà. Vado a dirlo a mia moglie (va da Isabella). PANTALONE Vardé cossa che ghe vól a unir ste dó donne! CAVALIERE Voi l'avete ridotta a fare un bel o (a Pantalone). GIACINTO Lodo la vostra prudenza (a Pantalone). DOTTORE (dall'appartamento d'Isabella) Signor Pantalone, dite pure a vostra figlia che non s'incomodi altrimenti. PANTALONE Perché ? DOTTORE Perché la signora Contessa dice così che, essendo dama, non si deve muovere dalla sedia per venire a riceverla.
CAVALIERE Ora vado io a dirlo alla signora Doralice (va da Doralice). PANTALONE Vardé che catarri, vardé che freddure! GIACINTO Anderò io da mia madre, e vedrò di persuaderla. PANTALONE Sì, caro fio, fé sto ben. GIACINTO Mia madre a me non dirà di no (va da Isabella). PANTALONE E a vu mo la ve par una bella cossa? (al Dottore). DOTTORE La pretensione non è stravagante. PANTALONE Mia fia no la gh'ha tante pretension. CAVALIERE (dall'appartamento di Doralice) Dice la signora Doralice, che non è dama, ma ha portato ventimila scudi di dote, e non vuol essere strapazzata. DOTTORE Vado subito a dirlo alla signora Contessa. PANTALONE Vegní qua, fermeve. DOTTORE Viene o non viene? DORALICE (sulla porta; la Contessa Isabella dal suo appartamento) Signor no, non vengo. Dite alla vecchia, che se vuol, venga lei. ISABELLA Sfacciatella, a me vecchia? DORALICE Signora giovinetta, la riverisco (parte). ISABELLA O via lei, o via io (parte). PANTALONE Oh poveretto mì! Coss'è sta cossa? CAVALIERE La signora Doralice ha ragione. DOTTORE Avete sentito vostra figlia? (a Pantalone). PANTALONE Oh che donne! Oh che donne!
ANSELMO (dall'appartamento d'Isabella) Le mie medaglie, le mie medaglie. Mai più non m'intrico con queste pazze. Dite quel che volete, voglio spendere il mio tempo nelle mie medaglie (parte per la porta di mezzo). PANTALONE Oh che matti! Oh che casa da matti! GIACINTO (dalla camera d'Isabella) Signor suocero, son disperato. PANTALONE Coss'è stà? GIACINTO Avete sentito? Mia moglie ha detto vecchia a mia madre, mia madre ha detto sfacciatella a mia moglie. Vi è il diavolo in questa casa, vi è il diavolo (parte per la porta di mezzo). PANTALONE Se ghe xé el diavolo, che el ghe staga. No so cossa farghe, gh'ho tanto de testa. No so in che mondo che sia. CAVALIERE Anderò io a placare la signora Doralice. DOTTORE E io anderò a calmare la signora Isabella. PANTALONE E mì credo che vualtri sié quelli che le fazza deventar sempre pèzo. CAVALIERE Io sono un cavaliere onorato. DOTTORE Io non sono un ragazzo. CAVALIERE Saprà la signora Doralice il torto che voi mì fate (va da Doralice). DOTTORE Voglio dire alla signora Contessa in qual concetto mì tiene il signor Pantalone (va da Isabella). PANTALONE Oh che bestie! Ma stimo quel vecchio matto. Se pól dar! Come che el se mette anca ello in riga de protettor! E mia fia col Cavalier che la serve? E quel matto de mio zènero lo comporta? Questi xé i motivi delle discordie de sta fameggia. Donne capricciose; marii senza cervello; serventi per casa. Bisogna per forza che tutto vaga a roverso (parte).
SCENA SETTIMA
Il Conte Anselmo, poi il Contino Giacinto.
ANSELMO Se avessi atteso solamente alle medaglie e ai cammèi, non mì sarebbe successo quello che mì è successo. Maladetto Brighella! Mi ha rovinato. GIACINTO Brighella non si trova più; egli è partito di Palermo, e non si sa per qual parte. ANSELMO Pazienza! Mi ha rovinato. GIACINTO Ah signor padre, siamo rovinati tutti. Dei ventimila scudi non ve ne sono più. Alla raccolta vi è tempo. E per mangiare ci converrà far dei debiti. ANSELMO Se lo dico: Brighella mì ha rovinato. GIACINTO E per condimento delle nostre felicità, abbiamo una moglie per uno, che formano una bella pariglia. ANSELMO Io non ci penso più. GIACINTO E chi ci ha da pensare? ANSELMO Oh! non ci penso più. M'hanno fatto impazzire tanto che basta.
SCENA OTTAVA
Pantalone e detti.
PANTALONE Con so bona grazia. ANSELMO (Eccolo qui il mio tormento). PANTALONE Sior Conte, sior zènero, me compatissa, se vegno avanti arditamente. Se tratta de assàe, se tratta de tutto, e qua bisogna trovarghe qualche remedio. ANSELMO Io lascio fare a voi. PANTALONE Ella vól tender alle só medaggie. ANSELMO Fin che posso, non le voglio lasciare. PANTALONE E vu, sior zènero, cossa diséu? Ve par che se possa tirar avanti cussì? Ve par che vaga ben i affari della vostra casa? GIACINTO Io dico che in poco tempo ci ridurremo miserabili più di prima. PANTALONE Sior Conte, séntela cossa che dise só fio? ANSELMO Lo sento, ma non so come rimediarvi. PANTALONE Se vórla redur a non aver da magnar? ANSELMO Ci sono l'entrate. PANTALONE Co le se magna in erba, no le frutta el terzo. E de ste care, niora e madonna, cossa dìsela? ANSELMO Io dico che non si può far peggio.
PANTALONE No la pensa a remediarghe? ANSELMO Io non ci vedo rimedio. PANTALONE Ghe lo vederàve ben mì, se gh'avesse un poco d'autorità in sta casa. ANSELMO Caro signor Pantalone, io vi dò tutta l'autorità che volete. GIACINTO Sì, caro signor suocero, prendete voi l'economia della nostra casa; assisteteci per amor del cielo; fatelo per vostra figlia, per il vostro sangue. PANTALONE Me despiase che anca éla xé mezza matta. Ma in casa mia non la giera cussì; la s'ha fatto dopo che la xé qua, onde spereria con facilità redurla in tel stato de prima. ANSELMO Anche mia moglie una volta era una buona donna, ora è diventata un serpente. PANTALONE Credéme, paroni, che ste donne le xé messe suso da sti só conseggieri. ANSELMO Credo anch'io ch'ella sia così. GIACINTO Ne dubito ancora io. PANTALONE Qua ghe vól resoluzion. Vórla che mì ghe fazza da fattor, da spendidor, da mistro de casa, senza vadagnar un soldo, e solamente per l'amor che porto a mia fia, a mio zenero e a tutta sta casa? GIACINTO Lo volesse il cielo! ANSELMO Non mì levate le mie medaglie, e per il resto vi dò amplissima facoltà di far tutto. PANTALONE Dó righe de scrittura, che me fazza arbitro del manizo e dell'economia della casa, e m'impegno che in pochi anni la se vederà qualche centenér la de zecchini; e crióri ghe ne sarà pochi. ANSELMO Fate la carta, ed io la sottoscriverò.
PANTALONE La carta non gh'ho aspettà adesso a farla; xé un pezzo che vedo el bisogno che ghe ne giera. Gh'ho da zontar do o tre capitoletti, e credo che l'anderà ben. Andemola a lezer in tel so mezzà. ANSELMO Non vi è bisogno di leggerla. La sottoscrivo senz'altro. PANTALONE Sior no. Vói che la la senta, e che la la sottoscriva alla presenza de testimoni, e cussì anca el sior zènero. GIACINTO Lo farò con tutto il cuore. ANSELMO Andiamo, ma ci siamo intesi: il primo patto che non mì tocchiate le mie medaglie (parte). PANTALONE Poverazzo! Anche questa xé una malattia: chi vól varirlo, no bisogna farlo violentemente, ma un pochetto alla volta. GIACINTO Caro signor suocero, vi raccomando la quiete della nostra famiglia. Mio padre non è atto per questa briga; fate voi da capo di casa, e son certo che, se il capo avrà giudizio, tutte le cose anderanno bene (parte). PANTALONE Questa xé la verità. El capo de casa xé quello che fa bona e cattiva la fameggia. Vói veder se me riesse de far sto ben, de drezzar sta barca, e za che co ste donne no se pól sperar gnente colle bone, vói provarme colle cattive (parte).
SCENA NONA
La Contessa Isabella ed il Dottore.
ISABELLA Non mì parlate più di riconciliarmi con Doralice, perché è impossibile. DOTTORE Ella ha ragione, signora Contessa. ISABELLA Può darsi una impertinente maggiore di questa? DOTTORE È una petulante. ISABELLA Assolutamente, assolutamente, la voglio fuori di questa casa. DOTTORE Savissima risoluzione. ISABELLA Io sono la padrona. DOTTORE È verissimo. ISABELLA E non è degna di stare in casa con me. DOTTORE Non è degna. ISABELLA Dottore, se mio marito non la manda via, voglio che le facciate fare un precetto. DOTTORE Ma! vuole accendere una lite? ISABELLA Non siete capace di sostenerla? DOTTORE Per me la sosterrò; ma s'ella anderà via, vorrà la dote. ISABELLA La dote, la dote! Sempre si mette in mezzo la dote. V'ho detto un'altra volta, che prima vi è la mia.
DOTTORE È verissimo, ma la dote della signora Doralice ascende a ventimila scudi, e la sua non è che di due mila. ISABELLA Siete un ignorante, non sapete niente. DOTTORE (Già, quando non si dice a modo suo, si comparisce ignorante).
SCENA DECIMA
Pantalone, il Conte Anselmo e detti.
ISABELLA Che cosa c'è, signori miei? qualche altra bella novità al solito? ANSELMO La novità la sentirete or ora. PANTALONE La compatissa se vegno a darghe un poco d'incomodo. ISABELLA Vostra figlia ha poco giudizio. PANTALONE Adess'adesso la sarà qua anca éla. ISABELLA Ella qui? Come c'entra nelle mie camere? ANSELMO Deve venire per un affar d'importanza. ISABELLA E non vi è altro luogo che questo? PANTALONE Avemo fatto per no incomodarla éla fóra della só camera. ISABELLA La riceverò come merita. PANTALONE La la riceva come che la vól, che no importa.
SCENA ULTIMA
Doralice, Giacinto, il Cavaliere Del Bosco e detti.
CAVALIERE Servitor umilissimo di lor signori. ANSELMO Sediamo, sediamo. (Tutti siedono). DORALICE Si può sapere per che cosa mì avete condotta qui? (a Giacinto). GIACINTO Or ora lo saprete. ANSELMO Moglie mia carissima, nuora mia dilettissima, sappiate ch'io non sono più capo di casa. ISABELLA Già si sa, quest'impiccio ha da toccare a me. ANSELMO Non dubitate, l'impiccio non tocca a voi. Il signor Pantalone ha assunto l'impegno di regolare la nostra casa. Mio figlio ed io abbiamo ceduto a lui tutte le nostre azioni e ragioni, e abbiamo sottoscritto alcuni capitoli, che ora anche voi sentirete. ISABELLA Questo è un torto che fate a me. DORALICE In quanto a questo poi, in mancanza del capo di casa, tocca a me. ISABELLA Io sono la padrona principale. DOTTORE Brava! PANTALONE Orsù, un poco de silenzio. Mi lezerò i capitoli della convenzion fermada e sottoscritta, e che i l'ascolta, perché ghe xé qualcossa per tutti. Capitoli convenzionali. Primo.
ANSELMO Che io possa divertirmi colle medaglie. PANTALONE Primo: che Pantalon dei Bisognosi abbia da riscuotere tutte l'entrate appartenenti alla casa del Conte Anselmo Terrazzani, tanto di città che di campagna. ISABELLA E consegnar il denaro o a mio marito, o a me. DORALICE (La signora economa!). PANTALONE Secondo: che Pantalon abbia da provveder la casa di detto Conte Anselmo di vitto e vestito a tutti della casa medesima. DORALICE Ho bisogno di tutto, che non ho niente di buono. PANTALONE Terzo: che sia in arbitrio di detto Pantalon di procurar i mezzi per la quiete della famiglia, e sopra tutto per far che stiano in pace la suocera e la nuora di detta casa. ISABELLA È impossibile, è impossibile. DORALICE È un demonio, è un demonio. PANTALONE Quart:, che né l'una né l'altra di dette due signore abbiano d'avere amicizie continue e fisse, e quella che ne volesse avere, possa essere obbligata andar ad abitare in campagna. ISABELLA Oh, questo è troppo! DORALICE Questo capitolo offende la civiltà. CAVALIERE Questo capitolo offende me. L'intendo, signori miei, l'intendo; e giacché vedo che la mia servitù colla signora Doralice si rende a voi molesta, parto in questo punto, mentre un cavalier ben nato non deve in verun modo contribuire all'inquietudine delle famiglie. (Mai più vado in veruna casa, ove vi siano suocera e nuora) (parte). DORALICE Se è andato via il cavaliere, non resterà nemmeno il dottore. PANTALONE Cossa disela, sior Dottor, àla visto con che prudenza ha operà el
sior cavalier? ISABELLA Il signor dottore non ha da partire di casa mia DOTTORE La nostra è amicizia vecchia. PANTALONE Giusto per questo la s'averìa da fenir. DOTTORE La finirò: anderò via e non ci tornerò più; ma vorrei sapere per che causa con una sì bella frase si licenzia di casa un galantuomo della mia sorta? ISABELLA Il signor Dottore non ha da partire da casa mia. PANTALONE Co nol savé, ve lo dirò mì, sior. Perché vu altri che volè far i ganimedi, no sé boni da altro che da segondar i mattezzi. DOTTORE Ho secondato la signora Contessa Isabella, perché, quando si ha della stima per una persona, non le si può contraddire. Vado via, signora Contessa. ISABELLA L'ho sempre detto che siete un dottore senza spirito e senza dottrina. DOTTORE Sentono, miei signori? Dopo che ho l'onore di servirla, queste sono le finezze che ho sempre avute (parte). PANTALONE Andemo avanti coi capitoli. Quinto: che ste due signore suocera e nuora, per maggiormente conservar la pace fra loro, abbiano d'abitare in due diversi appartamenti, una di sopra ed una di sotto ISABELLA Quello di sopra lo voglio io. DORALICE Io prenderò quello di sotto, che farò meno scale. PANTALONE Sentiu? Le se scomenza a accordar. Sesto: che si licenzi di casa Colombina. ISABELLA Sì,sì, licenziarla. DORALICE Sì, mandarla via. PANTALONE Anca qua le xé d'accordo. Via, me consolo; da brave, alla
presenza dei so maridi, che le se abbrazza, che le se basa in segno de pase. ISABELLA Oh! questo poi no. DORALICE Non sarà mai vero. PANTALONE Via, quella che sarà la prima a abbrazzar e basar quell'altra, la gh'averà sto anello de diamanti (mostra un anello). Tutte due s'alzano un poco in atto di andar ad abbracciar l'altra, poi si pentono e tornano a sedere. ISABELLA (Piuttosto crepare!). DORALICE (Piuttosto senza anelli tutto il tempo di vita mia!). PANTALONE Gnanca per un anello de diamanti? ANSELMO Se è antico, lo prenderò io. PANTALONE Orsú, vedo che xé impossibile de far che le se abbrazza, che le se basa, che le se pacifica; e se le lo fasse le lo faràve per forza, e doman se tornarave da capo. Avé sentìo i capitoli; mì son el direttor de sta casa, e mì penserò a provveder tutto, e no lasserò mancar el bisogno. Sior Conte, che el tenda pur alle so medaggie, e ghe fazzo un assegnamento de cento scudi all'anno per soddisfarse. Sior zènero m'agiuterà a tegnir l'economia della casa, e cussì l'imparerà. Vualtre dó sé stae nemighe per causa de una serva pettegola e de do conseggieri adulatori e cattivi; remosse le cause, sarà remossi i effetti. Siora Contessa Isabella, che la vaga in tel so appartamento de sóra, mia fia in quel de sotto. Ghe darò una cameriera per una, ghe farò per un poco tóla separada, e no vedendose e no trattandose, pól esser che le se quieta; e questo xé l'unico remedio per far star in pase la Niora e la Madonna. - FINE -
LE BARUFFE CHIOZZOTTE
PERSONAGGI
PADRON TONI (Antonio), padrone di tartana peschereccia. MADONNA PASQUA, moglie di padron Toni. LUCIETTA, fanciulla, sorella di padron Toni. TITTA-NANE (Giambattista) giovine pescatore. BEPPE (Giuseppe), giovine, fratello di padron Toni. PADRON FORTUNATO, pescatore. MADONNA LIBERA, moglie di padron Fortunato. ORSETTA (Orsolina), fanciulla, sorella di madonna Libera. CHECCA (sca), altra fanciulla, sorella di madonna Libera. PADRON VICENZO, pescatore. TOFFOLO (Cristoforo), battellaio. ISIDORO, Coadiutore del Cancelliere Criminale. IL COMANDADOR, cioè il Messo del Criminale. CANOCCHIA, giovine che vende zucca arrostita. Uomini della tartana di padron Toni. Servitore del Coadiutore.
La scena si rappresenta in Chiozza.
ATTO PRIMO
SCENA I
Strada con varie casupole.
PASQUA e LUCIETTA da una parte. LIBERA, ORSETTA e CHECCA dall'altra. Tutte a sedere sopra seggiole di paglia, lavorando merletti su i loro cuscini posti ne' loro scagnetti.
LUC. Creature, còssa diséu de sto tempo? ORS. Che órdene xélo? LUC. Mo no so, varé. Oe, cugnà, che órdene xélo? PAS. (a Ors.) No ti senti, che boccon de sirocco? ORS. Xélo bon da vegnire de sottovènto? PAS. Si bèn, si bèn. Si i vien i nostri òmeni, i gh'ha el vento in pòppe. LIB. Ancùo o doman i doveràve vegnire. CHE. Oh! bisogna donca, che spèssega a laorare; avanti che i vegna, lo voràve fenire sto merlo. LUC. Di', Chècca: quanto te n'amanca a fenire? CHE. Oh! me n'amanca un brazzo. LIB. (a Checca) Ti laóri molto puoco, fia mia. CHE. Oh! quanto xé che gh'ho sto merlo su sto balón? LIB. Una settemana.
CHE. Ben! una settemana? LIB. Destrìghete, se ti vuol la carpètta. LUC. Oe, Checca, che carpètta te fàstu? CHE. Una carpètta nióva de caliman. LUC. Dasséno? Te mèttistu in donzelón? CHE. In donzelón? No so miga còssa che vòggia dir. ORS. Oh che pandòla! Non ti sa, che co una putta xé granda, se ghe fa el donzelón: e che co la gh'ha el donzelón, xé segno che i soi i la vuòl maridare. CHE. (a Libera) Oe, sorèla! LIB. Fia mia. CHE. Me voléu maridare? LIB. Aspetta, che vegna mio marìo. CHE. Donna Pasqua: mio cugnà Fortunato no xélo andà a pescare co paron Toni? PAS. Sì, no lo sàstu, che el xé in tartana col mio paron e co Beppe so fradelo? CHE. No ghe xé anca Titta-Nane co lori? LUC. (a Checca) Sì ben: còssa voréssistu dire? Còssa pretenderàvistu da TittaNane? CHE. Mì? Gnente. LUC. No ti sa che xé do anni che mi ghe parlo? E che co 'l vien in terra, el m'ha promesso de darme el segno? CHE. (da sé) (Malignaza culìa! La i vól tutti per ela). ORS. Via, via, Luciètta, no star a bacilare. Avanti che Checca mia sorela se
maride, m'ho da maridare mì, m'ho da maridare. Co vegnirà in terra Beppe, to fradelo, el me sposerà mì, e se Titta-Nane vorà, ti te poderà sposare anca tì. Per mia sorèla, gh'è tèmpo. CHE. (ad Orsetta) Oh! vù, siora, no voressi mai che me maridasse. LIB. Tasi là; tendi al to laorière. CHE. Se fusse viva mia donna mare... LIB. Tasi, che te trago el balón in coste. CHE. (da sé) (Sì, sì, me vòggio maridare, se credesse de aver da tióre un de quei squartai, che va a granzi).
SCENA II
TOFFOLO, e le suddette, poi CANOCCHIA.
LUC. Oe, Bondí, Tòffolo. TOF. Bondí, Lucietta. ORS. Sior màmara, còssa sèmio nu altre? TOF. Se averé pazenzia, ve saluderò anca vu altre. CHE. (da sé) (Anca Tòffolo me piaseràve). PAS. Còss'è, putto? No laoré ancùo? TOF. Ho laorà fin adesso. So stà col battelo sotto marina a cargar de' fenocchj: i ho portài a Bróndolo al corder de Ferara, e ho chiappà la zornada. LUC. Ne paghéu gnente? TOF. Sì ben; comandé. CHE. (a Orsetta) (Uh! senti, che sfazzada?) TOF. Aspetté. (chiama) Oe, zucche barucche. CAN. (con una tavola, con sopra vari pezzi di zucca gialla cotta) Comandé, paron. TOF Lassé veder. CAN. Adesso: varé, la xé vegnua fora de forno. TOF. Voléu, Lucietta? (le offerisce un pezzo di zucca)
LUC. Si bèn, dé qua. TOF. E vu, donna Pasqua, voléu? PAS. De diana! la me piase tanto la zucca barucca! Démene un pezzo. TOF. Tolé. No la magné, Lucietta? LUC. La scotta. Aspetto, che la se giazze. CHE. Oe, bara Canocchia. CAN. So qua. CHE. Démene anca a mì un bezze. TOF. So qua mì; ve la pagherò mì. CHE. Sior no, no vòggio. TOF. Mo per còssa? CHE Perché no me degno. TOF. S'ha degnà Lucietta. CHE. Sì, sì, Lucietta xé degnévole, la se degna de tutto. LUC. Coss'è, sióra? Ve ne avéu per mal, perché so stada la prima mì? CHE. Mì co vù, siora, no me n'impazzo. E mì no tógo gnènte da nissùn. LUC. E mì cossa tóghio? CHE. Siora sì, avé tolto anca i trìgoli dal putto donzelo de bare Losco. LUC. Mì? Busiàra! PAS. A monte. LIB. A monte, a monte.
CAN. Gh'è nissun che vòggia altro? TOF. Andé a bon viazo. CAN. (gridando parte) Zucca barucca, barucca calda.
SCENA III
I suddetti, fuor di CANOCCHIA. TOF. (piano a Checca) (Arecordève, siora Checca, che m'avé dito, che de mi no ve degné) CHE. (a Toffolo) (Andé via, che no ve tèndo). TOF. (a Checca) (E sì, mare de diana! gh'avéa qualche bona intenzion). CHE. (come sopra) (De còssa?) TOF. (come sopra) (Mio sàntolo me vôl metter suso peòta; e co son a traghètto, anca mì me vói maridare). CHE. (come sopra) (Dasséno?) TOF. (come sopra) (Ma vu avé dito, che no ve degné). CHE. (come sopra) (Oh! ho dito de la zucca, no ho miga dito de vù). LIB. Oe, oe, digo, còssa xé sti parlari? TOF. Varé! Vardo a laorare. LIB. Andé via de là, ve digo. TOF. Còssa ve fàzzio? Tolé; anderò via (si scosta, e va bel bello dall'altra parte). CHE. (da sé) (Sia malignazo!) ORS. (a Libera) (Mo via, cara sorèla, se el la volesse, savé che putto che el xé: no ghe la voressi dare?) LUC. (a Pasqua) (Còssa diséu, cugnà? La se mette suso a bon'ora). PAS. (a Lucietta) (Se ti savessi. che rabbia. che la me fa!).
LUC. (da sé) (Varé che fusto! Viva cocchietto! La vòggio far desperare). TOF. Sfadighève a pian, donna Pasqua. PAS. Oh! no me sfadìgo, no, fio; no vedé che mazzette grosse? El xé merlo da diese soldi. TOF. E vu, Lucietta? LUC. Oh! el mio xé da trenta. TOF. E co belo che el xé! LUC. Ve piàselo? TOF. Mo co pulito! Mo cari quei deolìni! LUC. Vegnì qua; sentève. TOF. (siede) Oh! qua son più a la bonazza. CHE. (a Orsetta, facendole osservare Toffolo vicino a Lucietta) (Oe, còssa diséu?) ORS. (a Checca) (Lassa che i fazza, no te n'impazzare). TOF. (a Lucietta) (Se starò qua, me bastoneràli?) LUC. (a Toffolo) (Oh che matto!) ORS. (a Libera, accennando Lucietta) (Còssa diséu?) TOF. Donna Pasqua, voléu tabacco? PAS. Xélo bòn? TOF. El xé de quelo de Malamocco. PAS. Dàmene una presa. TOF. Volentiera.
CHE. (da sé) (Se Titta-Nane lo sa, poverètta ela!) TOF. E vù, Lucietta, ghe ne voléu? LUC. (Dé qua, sì ben. Per far despetto a culìa.) (accenna Checca) TOF. (a Lucietta) (Mo che occhi baroni!) LUC. (a Toffolo) (Oh giusto! No i xé miga queli de Checca). TOF. (a Lucietta) (Chi? Checca? Gnanca in mente). LUC. (a Toffolo accennando Checca con derisione) (Vardé, co bela che la xé!) TOF. (a Lucietta) (Vera chiòe!) CHE. (da sé) (Anca sì, che i parla de mì?) LUC. (a Toffolo) (No la ve piase?) TOF. (a Lucietta) (Made.) LUC. (a Toffolo sorridendo) (I ghe dise Puinètta.) TOF. (a Lucietta, sorridendo e guardando Checca) (Puinètta i ghe dise?) CHE. (forte verso Toffolo e Lucietta) Oe, digo; no so miga orba, varé. La voléu fenire? TOF. (forte, imitando quelli che vendono la “puina”, cioè la ricotta) Puìna fresca, puìna. CHE. (s'alza) Cossa xé sto parlare? Cossa xé sto puinare? ORS. (a Checca, e s'alza) No te n'impazzare. LTB. (a Orsetta e Checca, alzandosi) Tendi a laorare. ORS. Che el se varda elo, sior Tòffolo Marmottina. TOF. Còss'è sto Marmottina?
ORS. Sior sì, credéu che nol sappièmo che i ve dise Tòffolo Marmottina? LUC. Varé che sesti! Varé che bela prudenzia! ORS. Eh! via, cara siora Lucietta Panchiana. LUC. Cossa xé sta Panchiana? Tendé a vù, siora Orsètta Meggiòtto. LIB No sté a strapazzar mie sorèle, che mare de diana... PAS. (s'alza) Porté respetto a mia cugnà. LIB. Eh! tasé, donna Pasqua Fersóra. PAS. Tasé vù, donna Libera Galozzo. TOF. Se no fussi donne, sangue de un'anguria... LIB. Vegnirà el mio paron CHE. Vegnirà Titta-Nane. Ghe vói contare tutto, ghe vói contare. LUC. Cóntighe. Còssa m'importa? ORS. Che el vegna paron Toni Canestro... LUC. Sì, sì, che el vegna paron Fortunato Baicolo... ORS. Oh che temporale! LUC. Oh che sússio! PAS. Oh che bissabuòva! ORS. Oh che stramanìo!
SCENA IV
PARON VICENZO, e detti.
VIC. Olà olà, zitto, donne. Cossa diavolo gh'avéu? LUC. Oe, vegni qua, paron Vicènzo. ORS. Oe, senti, paron Vicenzo Lasagna. VIC. Quietève, che xé arivà in sto ponto la tartana de paron Toni. PAS. (a Lucietta) Oe, zitto, che xé arivà mio marìo. LUC. (a Pasqua) Uh, ghe sarà Titta-Nane! LIB. Oe, putte, no fé che vostro cugnà sappia gnènte. ORS. Zitto, zitto, che gnanca Beppo no sappia. TOF. Lucietta, so qua mì, no ve sté a stremire. LUC. (a Toffolo) Va via. PAS. (a Toffolo) Via! TOF. A mi? Sangue d'un bisatto! PAS Va a ziogare al trottolo. LUC. Va a ziogare a chiba. TOF. A mi, mare de diana! Anderò mo giusto, mo, da Checchina. (s'accosta a Checca) LTB. Via, spórco!
ORS. Càvete! CHE. Va in malora! TOF. (con isdegno) A mi, spórco? A mi, va in malora? VIC. Va in bùrchio! TOF (con caldo) Olà, olà, paron Vicenzo! VIC. (gli dà uno scappellotto) Va a tirare l'alzana. TOF. Gh'avé rason, che no vòggio precipitare. (parte) PAS. (a Vicenzo) Dove xéli co la tartana? VIC. In rio xé sècco, no i ghe può vegnire. I xé ligài a Vigo. Se volé gnènte, vago a vèdere, se i gh'a del pèsse; e se i ghe n'ha, ghe ne vói comprare per mandarlo a vèndere a Pontelongo. LUC. (a Vicenzo) Oe, no ghe disé gnente. LIB. Oe, paron Vicenzo, no ghe stèssi miga a contare. VIC. Che cade! ORS. No ghe stèssi a dire... VIC. Mo no sté a bacilare. LIB. Via, no femo che i nostri òmeni n'abbia da trovare in baruffa. PAS. Oh! mì presto la me monta, e presto la me e. LUC. Checca, xèstu in còlera? CHE. No ti sa far altro, che far despetti. ORS. A monte, a monte. Sèmio amighe? LUC. No voléu che lo sièmo?
ORS. Dàme un baso, Lucietta. LUC. Tiò, vissere. (si baciano). ORS. Anca ti, Checca. CHE. (piano) (No gh'ho bon stómego.) LUC. Via, matta. CHE. Via, che ti xé doppia co fa le céole. LUC. Mì? Oh! ti me cognossi puoco. Vié qua, dàme un baso. CHE. Tiò. Varda ben, no me minchionare. PAS. Tiò el to balon, e andèmo in cà, che po anderemo in tartana. (piglia lo scagno col cuscino, e parte) LIB. Putte, andemo anca nu, che li anderemo a incontrare. (parte col suo scagno) ORS. No vedo l'ora de vèderlo el mio caro Beppo. (parte col suo scagno) LUC. Bondí, Checca. (prende il suo scagno) CHE. Bondí. Vòggieme ben. (prende il suo scagno, e parte). LUC. No t'indubitare. (parte)
SCENA V
Veduta del canale con varie barche pescarecce, fra le quali la tartana di PARON TONI. PARON FORTUNATO, BEPPO, TITTA-NANE, e altri uomini nella tartana, e PARON TONI in terra, poi PARON VICENZO. TON. Via, da bravi, a bel belo, metté in terra quel pèsse. VIC. Ben vegnùo, paron Toni. TON. Schiào, paron Vicenzo. VIC. Com'èla andada? TON. Eh! No se podemo descontentare. VIC. Còssa gh'avéu in tartana? TON. Gh'avèmo un puoco de tutto, gh'avèmo. VIC. Me daréu quattro cai de sfòggi? TON Pare sì. VIC. Me daréu quattro cai de barboni? TON. Pare sì. VIC Bòseghe, ghe n'avéu? TON. Mare de diana! ghe n'avèmo de cusì grande, che le pare, co buò respetto, léngue de manzo, le pare. VIC. E rombi? TON. Ghe n'aèmo sie, ghe n'aèmo, co é el fondi d'una barila.
VIC. Se porlo veder sto pesse? TON. Andé in tartana, ch'e' xé paron Fortunato; avanti che lo spartìmo, févelo mostrare. VIC. Anderò a vede, se se podèmo giustare. TON. Andé a pian. Oe, déghe man a paron Vicenzo. VIC. (da sé) (Gran boni òmeni che xé i pescatori.) (va in tartana) TON. Magari lo podessimo vende tutto a bordo el pesse, che lo venderìa volentiera. Se andèmo in man de sti bazariotti, no i vuòl dar gnente; i vuòl tutto per lori. Nualtri, poverazzi, andèmo a rischiare la vita in mare, e sti marcanti col baretton de velùdo i se fa ricchi co le nostre fadighe. BEP. (scende di tartana con due canestri) Oe, fradèlo? TON. Còss'è, Beppo? Còssa vùstu? BEP. Se ve contentèssi, voria mandar a donare sto cao de barboni al lustrìssimo. TON. Per còssa mò ghe li vùstu donare? BEP. No savé, che l'ha da essere mio compare? TON. Ben! màndegheli, se ti ghe li vuòl mandare. ma còssa crédistu? che in t'un bisogno, che ti gh'avessi, el se moverave gnanca da la cariéga? Co 'l te vederà, el te metterà una man su la spala: - Bravo Beppo, te ringrazio, comàndeme - . Ma se ti ghe disi: - Lustrissimo, me premerìa sto servizio - ; no'l s'arecorda più dei barboni: no'l te gh'ha gnanca in mente; no'l te cognosse più, né per compare, né per prossimo, né per gnènte a sto mondo. BEP Còssa voléu che fazze? Per sta volta, lassé che ghe li mande. TON. Mi no te digo che no ti li mandi. BEP. Chiò, Ménola. Porta sti barboni a sior cavaliere; dighe che ghe lo mando mì sto presènte. (il putto parte)
SCENA VI
PASQUA, LUCIETTA e detti. PAS. (a Toni) Paron! TON. Oh muggière! LUC. (a Toni) Fradèlo! TON. Bondí, Lucietta! LUC. Bondí, Beppo. BEP. Stastu bèn, sorela? LUC. Mi sì. E tì? BEP. Ben, ben. E vù, cugnà, stéu ben? PAS. Sí, fio. (a Toni) Avéu fatto bon viazo? TON. Còssa parléu de viazo? Co sèmo in terra, no se recordèmo più de quel che s'ha ào in mare. Co se pesca, se fa bon viazo, e co se chiappa, no se ghe pensa a rischiar la vita. Avèmo portà del pèsse, e semo aliègri, e semo tutti contenti. PAS. Via, via, manco mal; séu stai in porto? TON. Sì ben, semo stai a Senegàggia. LUC. Oe, m'avéu portà gnente? TON. Sì, t'ho portà do pèra de calze sguarde, e un fazzoletto da colo. LUC. Oh! caro el mio caro fradèlo; el me vol ben mio fradèlo. PAS. E a mì, sior, m'avéu portà gnente?
TON. Anca a vù v'ho portào da farve un còttolo, e una vestina. PAS. De còssa? TON. Vederé. PAS. Mo de còssa? TON. Vederé, ve digo; vederé. LUC. (a Beppo) E ti m'àstù portà gnente? BEP. Vara chiòe! Còssa vùstu che mi te porte? Mi ho comprà l'anelo per la mia novizza. LUC. Xélo belo? BEP. Vèlo qua eh! Vara. (le mostra l'anello) LUC. Oh co belo che el xé! Per culìa sto anelo. BEP. Per còssa mo ghe distu curia? LUC. Se ti savessi, còssa che la n'ha fatto? Domàndighe a la cugnà; quela frascona de Orsetta, e quel'altra scagazzèra de Checca comuòdo che le n'ha strapazzào. Oh! Còssa che le n'ha dito! PAS. E donna Libera, n'àla dito puoco? Ne podévela malmenare più de quelo che la n'ha malmenào? TON. Còss'è? Còss'è stà? BEP. Còssa xé successo? LUC. Gnente. Léngue cattive. Lengue da tenaggiare. PAS. Sèmo là su la porta, che laorèmo col nostro balon... LUC. Nù no se n'impazzèmo... PAS. Se savèssi! Causa quel balon de Tòffolo Marmottina.
LUC. Le gh'ha zelusia de quel bel suggetto. BEP. Còssa! Le ha parlà co Tòffolo Marmottina? LUC. Se ve piase. TON. Oh via, no vegnì adesso a metter suso sto putto, e a far nàssere de le custion LUC. Uh se savessé! PAS. Tasi, tasi, Lucietta, che debòtto torèmo de mèzo nù. BEP. Con chi parlàvelo Marmottina? LUC. Con tutte. BEP. Anca con Orsetta? LUC. Me par de sì. BEP. Sangue de diana! TON. Oh! via, fenimola, che no vòggio sussuri. BEP. No, Orsetta no la vòggio altro; e Marmottina, corpo de una balena, el me l'ha da pagare. TON. Ànemo; andèmo a casa LUC. Titta-Nane dove xélo? TON. (con sdegno) El xé in tartana. LUC. Almanco lo voría saludare. TON. Andèmo a casa, ve digo. LUC. Via, che pressa gh'avéu? TON. Podevi far de manco, de vegnire qua a sussurare.
LUC. Vedéu, cugnà? Avévimo dito de no parlare. PAS. E chi xé stada la prima a schittare? LUC. Oh! mi coss'òggio dito? PAS. E mi coss'òggio parlà? BEP. Avé dito tanto che se fusse qua Orsetta, ghe darìa un schiaffazzo in t'el muso. Da culìa no vói altro. Vòggio vender l'anelo. LUC. Dàmelo a mi, dàmelo. BEP El diavolo che ve porta. LUC. Oh che bestia! TON To danno, ti meriti pèzo. A casa, te digo. Subito, a casa. LUC. Varé, che sèsti! Còssa sóngio? La vostra massèra? Sì, sì, no v'indubité, che co vù no ghe vòggio stare. Co vederò Titta-Nane, ghe lo dirò. O che el me sposa subito, o per diana de dia. vòggio andar più tosto a servire. (parte) PAS. Mo gh'avé dei gran tiri da matto. TON. Voléu ziogar che debòtto... (fa mostra di volerle dare) PAS. Mo che òmeni! mo che òmeni malignazi! (parte) TON. Mo che donne! mo che donne da pestare co fa i granzi per andare a pescare!
SCENA VII
FORTUNATO, TITTA-NANE, VICENZO, che scendono dalla tartana, con uomini carichi di canestri. TIT. Còssa diavolo xé stà quel sussuro? VIC. Gnente, fradelo, no savéu? donna Pasqua Fersóra la xé una donna che sempre cria. TIT. Con chi criàvela? VIC. Con so marìo. TIT. Lucietta ghe giérela? VIC. Me par de sì, che la ghe fusse anca ela. TIT. Sia maledìo. Giera là sotto próva a stivare el pesse, no ho gnanca podésto vegnire in terra. VIC. Oh che caro Titta-Nane! Avéu paura de no vèderla la vostra novizza? TIT. Se savessi! Muòro de vòggia. FOR. (parla presto, e chiama paron Vicenzo) Paró Izènzo. VIC. Còss'è, paron Fortunato? FOR. Questo xé otto pesse. Quato cai foggi, do cai baboni, sie, sie, sie bòseghe, e un cao bàccole. VIC. Còssa? FOR. E un cao bàccole. VIC. No v'intendo miga.
FOR. No intendé? Quattro cai de sfoggi, do cai de barboni, sie bòseghe, e un cao de baràccole. VTC. (da sé) (El parla in t'una certa maniera...) FOR. Mandé a casa e pèsse, vegniò po mì a tô i bèzzi. VIC. Missier sì, co volé i vostri bezzi, vegnì che i sarà parecchiài. FOR. Na pesa abacco. VIC. Come? FOR. Tabacco, tabacco. VIC. Ho capìo. Volentiera. (gli dà tabacco) FOR. Ho perso a scàttoa in mare, e in tartana gh'é puochi e tô tabacco. A Senegàggia e n'ho comprao un puoco; ma no xé e nostro da Chióza. Tabacco tabacco de Senegàggia, e tabacco e pare balini chioppo. VIC. Compatime, paron Fortunato, mi no v'intendo una maledètta. FOR. Oh bela, bela, bela! no intendé? Bela! no parlo mia foèto, parlo chiozotto, parlo. VIC. Ho capio. A revèderse, paron Fortunato. FOR. Sioìa, paó Izènzo. VIC. Schiavo, Titta-Nane. TIT Paron, ve saludo. VIC. Putti, andèmo. Porté quel pèsse con mi. (da sé) (Mo caro quel paron Fortunato! El parla che el consola.) (parte con gli uomini)
SCENA VIII
FORTUNATO, e TITTA-NANE. TIT. Voléu che andèmo, paron Fortunato? FOR. Peté. TIT. Còssa voléu che aspettèmo? FOR. Peté. TIT. Peté, peté, còssa ghe xé da aspettare? FOR. I ha a potare i terra de atro pèsse, e de a faina. Peté. TIT. (caricandolo) Petèmo. FOR. Coss'è to bulare? Coss'è to ciare, coss'è to zigare? TIT. Oh! tasé, paron Fortunato. Xé qua vostra muggière co so sorela Orsetta, e co so sorela Checchina. FOR. (con allegria) Oh, oh mia muggière, mia muggière!
SCENA IX
LIBERA, ORSETTA, CHECCA, e detti. LIB. (a Fortunato) Paron, còssa féu che no vegní a casa? FOR. Apetto e pesse, apetto. Òssa fàtu, muggière? Tàtu ben, muggière? LIB. Stago ben, fio: e vu stéu ben? FOR. Tago ben, tago. (saluta) Cugnà, saùdo: saùdo, Checca, saùdo. ORS. Sioria, cugnà. CHE. Cugnà, bondí sioría. ORS. Sior Titta-Nane, gnanca? TIT. Patróne. CHE. Sté molto a la large, sior. Còssa gh'avéu paura? Che Lucietta ve diga roba? TIT. Còssa fàla Lucietta? stàla ben? ORS. Eh! la stà ben, si, quela care zòggia. TiT. Còss'è, no sé più amighe? ORS. (ironica) Oh! e come che sèmo amighel CHE. (con ironia) La ne vôl tanto ben! LIB. Via, putte, tasé Avémo donà tutto; avèmo dito de no sparlare, e no vòggio che le possa dire de madesì, e de quà, de là, che vegnimo a pettegolare. FOR. Oe, muggière, ho potào de a faìna da sottovento, de a faìna e sogo tucco, e faèmo a poenta, faèmo.
Lìs. Bravo! avé portà de la farina de sorgo turco? Gh'ho ben a caro dasséno. FOR. E ho portào... TIT. (a Libera) Voràve che me disessi... FOR. (a Titta) Lassé parlare i òmeni, lassé parlare. TIT. (a Fortunato) Caro, vù, quietève un pochetto. (a Libera) Voràve che me disèssi, còssa ghe xé stà con Lucietta? LiB (con malizia) Gnente. TiT. Gnente? ORS. (urtando Libera) Gnente via gnente. CHE. (urtando Orsetta) Xé meggio cusì, gnente. FOR. (verso la tartana) Oe, putti, poté in terra e sacco faìna. TIT. Mo, via, care creature, se gh'é stà qualcossa disèlo. Mi no vòggio che sié nemighe. So che vu altre sé bona zènte. So che anca Lucietta la xé una perla! LIB. Oh caro! ORS. Oh che perla! CHE. Oh co palicària! TIT. Còssa podéu dire de quela putta? ORS. Gnente. CHE. Domandéghelo a Marmottina. TIT. Chi èlo sto Marmottina? LIB. Mo, via, putte, tasé. Cossa diavolo gh'avéu, che no ve podé tasentare? TIT. E chi èlo sto Marmottina?
ORS. No lo cognossé Tòffolo Marmottina? CHE. Quel battelante, no lo cognossé? (Scendono di tartana col pesce e un sacco) FOR. (a Titta) Andèmo, andèmo, el pèsse, e a faìna. TIT. (a Fortunato) Eh! sia maledetto. (a Checc. .) Còssa gl'ìntrelo con Lucietta? CHE. El se ghe senta darènte. ORS. El vôl imparare a laorare a mazzette. CHE. El ghe page la zucca barucca. LIB. E po sto balon, per cause soa el ne strapazza. TIT. Mo, me la disé ben grandonazza! FOR. (alle donne) A casa, a casa, a casa. LIB. (a Titta) Oe, el n'ha manazzà fina. CHE. El m'ha dito Puinetta. ORS. Tutto per causa de la vostra perla. TiT. (affannoso) Dov'èlo? Dove stàlo, dove zìrelo? Dove lo poderàvio trovare? ORS. Oe, el stà de casa in cale de la Corona, sotto el sottoportego in fondi per sboccar in canale. LIB. El sta in casa co bara Trìgolo. CHE. E el battelo, el lo gh'ha in rio de Palazzo in fazza a la Pescaria, arente al battelo de Checco Bòdolo. TIT. A mì, lassé far a mì: se lo trovo, lo tàggio in fétte co fa l'asiào. CHE. Eh! se lo volé trovare, lo troveré da Lucietta.
TiT. Da Lucietta? ORS. Sì, da la vostra novizza. TIT. No; no la xé più la mia novizza. La vòggio lassare, la vòggio impiantare; e quel galiotto de Marmottina, sangue de diana, che lo vòggio scannare. (parte) FOR. Ànemo, a casa, ve digo; andèmo a casa, andèmo. LIB. Sì. andèmo, burattaóra, andèmo. FOR. Còssa séu egnúe a dire? Còssa séu egnúe a fare? Còssa séu egnúe a tegolare? A fare precipitare, a fare? Mae e diana! Se nasse gnente gnente, se nasse, e òggio maccare el muso, òggio maccare; e òggio fae stae in letto, e òggio; in letto, in letto, maleetonazze, in letto. (parte) LIB. Tolé suso! Anca mio marìo me manazza. Per cause de vu altre pettazze me tocca sempre a tióre de mèzo a mì, me tocca. Mo còssa diavolo séu? Mo che léngua gh'avéu? Avé promesso de no parlare, e po vegnì a dire, e po vegnì a fare. Mare de tròccolo, che me volé far desperare. (parte) ORS. Séntistu? CHE. Oe, cossa gh'àstu paura? ORS. Mi? gnente. CHE. Se Lucietta perderà el novizzo, so danno. ORS. Mì lo gh'ho, intanto. CHE. E mì me lo saverò trovare. ORS. Oh che spàsemi! CHE. Oh che travaggi! ORS. Gnanca in mènte! CHE. Gnanca in t'i busi del naso. (partono)
SCENA X
Strada con casa, come nella prima scena. TOFFOLO, poi BEPPO. TOF. Sì ben, ho fatto male; ho fatto male, ho fatto male. Co Lucietta no me ne doveva impazzare. La xé novizza, co ela no me n'ho da impazzare. Checca xé ancora donzela: un de sti zorni i la metterà in donzelon, e co ela posso fare l'amore. La se n'ha avùo per male. La gh'ha rason, se la se n'ha avùo per male. Xé segno, che la me vol ben, xé segno. Se la podesse vede almanco! Se ghe podesse un puoco parlare, la vorìa pasentare. Xé vegnù paron Fortunato; sì ben, che no la gh'ha el donzelon, ghe la poderìa domandare. La porta xé serada; no so, se i ghe sia in casa, o se no i ghe sia in casa. (si accosta alla casa) BEP. (nscendo dalla sua casa) Vèlo qua, quel furbazzo. TOF. (si accosta di più) Se podesse, voràve un puoco spionare. BEP. Olà! olà! sior Marmottina. TOF. Còss'è sto Marmottina? BEP. Càvete. TOF. Vara, chiòe! Càvete! Coss'è sto càvete? BEP. Vustu zogare che te dago tante peàe quante che ti te ghe ne può portare? TOF. Che impazzo ve dàghio? BEP. Còssa fàstu qua? TOF. Fazzo quel che vòggio, fazzo. BEP. E mì qua no vòggio che ti ghe staghe. TOF. E mì ghe vòggio mo stare. Ghe vòggio stare, ghe vòggio.
BEP. Va via, te digo. TOF. Made! BEP. Va via, che te dago una sberla. TOF. Mare de diana, ve trarò una pierada. (raccoglie delle pietre) BEP. A mì, galiotto? (mette mano a un coltello) TOF. Làsseme stare, làsseme. BEP. Càvete, te digo. TOF. No me vòggio cavare gnente, no me vòggio cavare. BEP. Va via, che te sbuso. TOF. (con un sasso) Stà da lonzi, che te spacco la testa. BEP. Tìreme, se tì gh'ha cuor. TOF. (tira de' sassi, e Beppo tenta cacciarsi sotto).
SCENA XI
PARON TONI esce di casa, poi rientra, e subito torna a sortire; poi PASQUA, e LUCIETTA.
TON. Còssa xé sta cagnara? TOF. (tira un sasso a paron Toni). TON. Agiùto, i m'ha dà una pierà! Aspetta, galiotto, che vói che ti me la paghe. (entra in casa) TOF. Mi no fazzo gnente a nissun, no fazzo. Cossa me vegniu a insolentare? (prendendo sassi) BEP Metti zò quele piére. TOF Metti via quel cortelo. TON. (forte, con un pistolese) Via che te tàggio a tocchi. PAS. (trattenendo paron Toni) Paron, fermève. LUC. (trattenendo paron Toni) Fradèi, fermève. BEP Lo volemo mazzare. LUC. (trattiene Beppo) Via, strambazzo, fèrmite. TOF. (minacciando coi sassi) Sté in drio, che ve coppo. LUC. (gridando) Zènte! PAS. (gridando) Creature!
SCENA XII
PARON FORTUNATO, LIBERA, ORSETTA, CHECCA. Uomini che portano pesce e farina, ed i suddetti. FOR. Com'èla? Com'èla? Forti, forti, comtèla? ORS. Oe! Custión. CHE. Custión? Poveretta mi. (corre in casa) LIB. Inspiritài, fermève. BEP. (alle donne) Per causa vostra. ORS. Chi? Còssa? LIB. Me maravéggio de sto parlare. LUC. Sì, sì, vu altre tegnì tenzón. PAS. Sì, sì, vu altre sé zente da precipitare. ORS. Sentì, che sproposità! LTB. Sentì, che léngue! BEP. Ve lo mazzerò su la porta. ORS. Chi? BEP. Quel furbazzo de Marmottina. TOF. (tira de' sassi) Via, che mi no son Marmottina. PAS. (spingendo Toni) Paron, in casa.
LUC. (spingendo Beppo) In casa, fradèlo, in casa. TON. Sté ferma. PAS. In casa, ve digo, in casa. (lo fa entrare in casa con lei) BEP. (a Lucietta) Làsseme stare. LUC. Va drento, te digo, matto; va drento. (il fa entrare con lei. Serrano la porta) TOF. Baroni, sassini, vegni fuòra, se gh'avé coraggio. ORS. (a Toffolo) Va in malora! LIB. Vatte a far squartare. (lo spinge via) TOF. Còss'è sto spènzere? Còssa xé sto parlare? FOR. Va ìa, va ìa, che debotto, se te metto e ma a torno, te fazzo egni fuòra e buéle pe a bocca. TOF. Ve porto respetto, ve porto, perché sé vècchio; e perché sé cugnà de Checchina. (verso la porta di Toni) Ma sti baroni, sti cani, sangue di diana, me l'ha da pagare.
SCENA XIII
TITTA-NANE con pistolese, e detti. . TIT. (contro Toffolo battendo il pistolese per terra) Vàrdete che te sbuso. TOF. Agiùto. (si tira alla porta) FOR. (lo ferma) Saldi. Fermève. LIB. No fé! ORS. Tegnilo. TIT. (si sforza contro Toffolo) Lassème andare, lassème. TOF. Agiùto. (dà nella porta, che si apre, e cade dentro) FOR. (tenendolo e tirandolo) Titta-Nane, Titta-Nane, Titta-Nane. LIB. (a Fortunato) Menèlo in casa, menèlo. TIT. (sforzandosi) No ghe voggio vegnire. FOR. Tì gh'ha ben da egnire. (lo tira in casa per forza) LIB. Oh che tremazzo! ORS. Oh che batticuore! PAS. (cacciando di casa Toffolo) Va via de qua! LUC. (cacciando Toffolo) Va in malora! PAS. Scarcavàlo! (via)
LUC. Scavezzacolo! (via e serra la porta) TOF. (a Libera e Orsetta) Còssa diséu, creature? LIB. To danno. (parte) ORS. Magari pèzo. (parte) TOF. Sangue de diana, che li vói querelare. (parte)
ATTO SECONDO
SCENA I
Cancelleria Criminale.
ISIDORO al tavolino scrivendo, poi TOFFOLO, poi il COMANDADORE. ISI. (sta scrivendo). TOF. Lustrìssimo sió Canciliere. ISI. Mi no son el Cancelier; son el Cogitór. TOF. Lustrìssimo sió Cogitore. ISI. Còssa vùstu? TOF L'abbia da savere, che un balon, lustrìssimo, m'ha fatto impazzo, e el m'ha manazzào col cortélo, e el me voleva dare, e po dopo xé vegnù un'altra canaggia, lustrìssimo... ISI. Siéstu maledéto! Lassa star quel lustrìssimo. TOF. Mi no, sió Cogitore, la me staga a sentire; e cusì, comuòdo ch'a ghe diseva, mì no ghe fazzo gnente, e i m'ha dito, che i me vol amazzare. ISI. Vien qua: aspetta. (prende un foglio per scrivere) TOF. So qua, lustrissimo. (da sé) (Maledìi! I me la gh'ha da pagare). ISI. Chi éstu tì? TOF. So battelante, lustrissimo. ISI. Còssa gh'àstu nome? TOF. Tòffolo.
ISI. El cognome? TOF. Zavatta. ISI. Ah! no ti xé Scarpa, ti xé Zavatta. TOF. Zavatta, lustrìssimo. ISI. Da dove xéstu? TOF. So chiozotto da Chióza. ISI. Àstu padre? TOF. Mio pare, lustrìssimo, el xé morto in mare. ISI. Còssa gh'avévelo nome? TOF. Toni Zavatta, Baracucco. ISI. E ti gh'àstu nissun soranome? TOF. Mi no, lustrissimo. ISI. Xé impossibile che no ti gh'abbi anca ti el to soranome. TOF. Che soranòme vuòrla che gh'abbia? ISI. Dìme, caro tì: no xéstu stà ancora, me par, in Canceleria? TOF. Sió si, una volta me son vegnù a esaminare. ISI Me par, se no m'inganno, d'averte fatto citar col nome de Tòffolo Marmottina TOF. Mi so Zavatta, no so Marmottina. Chi m'ha messo sto nòme, xé stào una carogna, lustrissimo. ISI. Debotto te dago un lustrissimo su la copa. TOF. L'abbia la bontà de compatire.
ISI. Chi xé quei che t'ha manazzà? TOF. Paron Toni Canestro, e so fradèlo Beppo Cospettoni; e po dopo Titta-Nane Molètto. ISI. Gh'avéveli arme? TOF. Mare de diana, se i ghe n'aveva! Beppo Cospettoni gh'aveva un cortelo da pescaóre. Paron Toni xé vegnùo fuora con un spadon da taggiare la testa al toro; e Titta-Nane gh'aveva una sguea de quele che i tien sotto poppe in tartana. ISI. T'hai dà? T'hai ferio? TOF. Made. I m'ha fatto paura. ISI. Per còssa t'hai manazzà? Per còssa te voléveli dar? OF. Per gnente. ISI. Avéu crià? Ghe xé stà parole? TOF. Mì no gh'ho dito gnente. ISI. Xéstu scampà? T'àstu defeso? Come xéla fenìa? TOF. Mì so stà là... cusì... Fradeli, digo, se me volé mazzare mazzème, digo. ISI. Ma come xéla finìa? TOF. Xé arrivào de le buone creature, e i li ha fatti desmèttere e i m'ha salvao la vita. ISI Chi xé stà ste creature? TOF. Paron Fortunato Cavicchio, e so muggière donna Libera Galozzo, e so cugnà Orsetta Meggiotto, e un'altra so cugnà Checca Puinetta. ISI. (da sé, e scrive) (Sì, sì, le cognosso tutte custíe. Checca tra le altre xé un bon tocchétto). Ghe giera altri presenti? TOF. Ghe giera donna Pasqua Fersora e Lucietta Panchiana
ISI. (da sé, e scrive) (Oh anca queste so chi le xé.) Gh'àstu altro da dir? TOF. Mì no, lustrìssimo. ISI. Fàstu nissuna istanza a la Giustizia? TOF. De còssa? ISI. Domàndistu che i sia condannai in gnente? TOF. Lustrissìmo, sì. ISI. In còssa? TOF. In galìa, lustrissimo. ISI. Ti su le forche, pèzzo de àseno. TOF. Mi, sior? Per còssa? ISI. Via, via, pampalugo. Basta cusì, ho inteso tutto. (scrive un piccolo foglio) TOF. (da sé) (No voràve, che i me vegnisse anca lori a querelare, perché gh'ho tratto de le pieràe. Ma che i vegna pure; mi so stà el primo a vegnire; e chi è 'l primo, porta via la bandiera). ISI. (suona il camlo). COM. Lustrìssimo. ISI. (s'alza) Andé a citar sti testimoni. COM. Lustrìssimo, si, la sarà servida. TOF. Lustrissimo, me raccomando. ISI. Bondí, Marmottina. TOF. Zavatta, per servirlo. ISI. Sì, Zavatta, senza sióla, senza tomèra, senza sesto, e senza modelo. (parte)
TOF. (al Comandadore ridendo) El me vôl ben el sió Cogitore. COM. Sì, me n'accorzo. Xéli per vù sti testimoni? TOF. Sió sì, sió Comandadore. COM. Ve preme che i sia citài? TOF Me preme segùro siò Comandadore? COM. Me pagheréu da béver? TOF. Volentiera, sió Comandadore. COM. Ma mì no so miga dove che i staga. TOF. Ve l'insegnerò mì, sió Comandadore. COM. Bravo, sior Marmottina. TOF. Siéu maledètto, sió Comandadore. (partono)
SCENA II
Strada, come nella prima scena dell'Atto primo.
PASQUA e LUCIETTA escono dalla loro casa, portando le loro sedie di paglia, i loro scagni e i loro cuscini, e si mettono a lavorare merletti.
LUC. Àle mo fatto una bela còssa quele pettazze? Andare a dire a Titta-Nane che Marmottina m'è vegnù a parlare? PAS. E tì àstu fatto ben a dire ai to fradei quelo che tì gh'ha dito? LUC. E vù, siora? No avé dito gnente, siora? PAS. Sì ben; ho parlà anca mì, e ho fatto mal a parlare. LUC. Malignazo! avéa zurà anca mì de no dire. PAS. La xé cusì, cugnà, credéme, la xé cusi. Nu altre fémene, se no parlèmo, crepèmo. LUC. Oe, no voleva parlare, e no m'ho podèsto tegnir. Me vegniva la parole a la bocca, procurava a inghiottire, e me soffegava. Da una rècchia i me diseva: tasi; da quel'altra i diseva: parla. Oe, ho serà la recchia del tasi e ho slargà la recchia del parla, e ho parlà fina che ho podèsto. PAS. Me despiase che i nostri òmeni i ha avùo da precipitare. LUC. Eh gnente. Tòffolo xé un martuffo; no sarà gnente. PAS. Beppo vôl licenziar Orsetta. LUC. Ben! El ghe ne troverà un'altra! a Chioza no gh'è carestia de putte.
PAS. No, no; de quaranta mile àneme che sèmo, mi credo che ghe ne sia trenta mile de donne. LUC. E quante che ghe ne xé da maridare! PAS. Per questo, védistu? Me despiase, che se Titta-Nane te lassa, ti stenterà a trovàrghene un altro. LUC. Cossa gh'òggio fatto mì a Titta-Nane? PAS. Gnente non ti gh'ha fatto, ma quele pettegole l'ha messo suso. LUC. Se el me volesse ben, nol ghe crederàve. PAS. No sàstu che el xé zeloso? LUC. De cossa? No se può gnanca parlare? No se può ridere? No se se può divertire? I òmeni i stà diese mesi in mare; e nu altre avèmo da star qua muffe muffe a tambascare co ste malignaze mazzocche? PAS. Oe, tasi, tasi; el xé qua Titta-Nane. LUC. Oh! el gh'ha la smara. Me n'accorzo, co 'l gh'ha la smara. PAS. No ghe star a fare el muson. LUC. Se el me lo farà elo, ghe lo farò anca mì. PAS. Ghe vùstu ben? LUC. Mì sì. PAS. Mòlighe, se ti ghe vôl ben. LUC. Mi no, varé. PAS. Mo via, no buttare testarda. LUC. Oh! piuttosto crepare. PAS. Mo che putta morgnona!
SCENA III
TITTA-NANE, e dette, TIT. (da sé) (La vorìa licenziare; ma no so come fare.) PAS. (a Lucietta) (Vàrdelo un poco.) LUC. (a Pasqua) (Eh! che ho da vardare il mio merlo, mì, ho da vardare.) PAS. (da sé) (Ghe pesteràve la testa su quel balon). TIT. (da sé) No la me varda gnanca. No la me gh'ha gnanca in mènte.) PAS. Siorìa, Titta-Nane. TIT. Siorìa. PAS.(a Lucietta) (Salùdilo). LUC. (a Pasqua) (Figurève, se vòggio esser la prima mì!) TIT. Gran premura de laorare! PAS. Còssa diséu? Sémio donne de garbo, fio? TIT. Sì, sì: co se puòl, fé ben a spessegare, perché co vien dei zoveni a sentarse arènte, no se puòl laorare. LUC. (tossisce con caricatura.) PAS. (a Lucietta) (Mòlighe). LUC. (Made.) TIT. Donna Pasqua, ve piase la zucca barucca? PAS. Varé vedé! Per còssa me lo domandéu?
TIT. Perché gh'ho la bocca. LUC. (Sputa forte). TIT. Gran catàro, patròna! LUC. La zucca me fa spuare. (lavorando senza alzar gli occhi) TIT. (con isdegno) Cusì v'avéssela soffegà. LUC. (come sopra) Possa crepare chi me vuol male! TIT. (da sé) (Orsù l'ho dita, e la vòggio fare.) Donna Pasqua, parlo co vù, che sé donna, a vù v'ho domandà vostra cugnà Lucietta, e a vù ve digo che la licenzio. PAS. Varé che sesti! Per còssa? TIT. Per còssa, per còssa... LUC. (s'alza per andar via.) PAS. Dove vàstu? LUC. Dove che vòggio. (va in casa e a suo tempo ritorna) PAS. (a Titta) No sté a badare ai pettegolezzi. TIT. So tutto, e me maraveggio de vù, e me maraveggio de ela. PAS. Mo se la ve vôl tanto bèn! TIT. Se la me volesse ben, no la me voltaràve le spare. PAS. Poverazza! La sarà andada a piànzere, la sarà andada. TIT. Per chi a piànzer? Per Marmottina? PAS. Mo no, Titta-Nane, mo no che la ve vol tanto bèn; che co la ve vede andar in mare, ghe vien l'angóssa. Co vien suso dei temporali, la xé meza matta; la se stremisse per causa vostra. La se leva suso la notte, la va al balcon a vardar el tempo. La ve xé persa drio, no la varda per altri occhi che per i vostri.
TIT. E perché mo no dirme gnanca una bona parola? PAS. No la puòl, la gh'ha paura; la xé propriamente ingroppà. TIT. No gh'ho rason fursi de lamentarme de ela? PAS. Ve conterò mi, come che la xé stà. TIT. Siora no: vói che ela me'l diga, e che la confessa, e che la me domanda perdon. PAS. Ghe perdonaréu? TIT. Chi se? Poderàve esser de sì. Dove xéla andà? PAS. Vèla qua, vèla qua che la vien. LUC. Tolé, sior, le vostre scarpe, le vostre cordèle, e la vostra zendalina che m'avé dà. (getta tutto in terra) PAS. Oh poveretta mi! Xèstu matte? (raccoglie la roba, e la mette sulla seggiola) TTT. A mì sto affronto? LUC. No m'avéu licenzià? Tolé la vostra robe, e pettévela. TTT. Se parleré co Marmottina, lo mazzerò. LUC. Oh viva diana! M'avé licenzià, e me voressi anca mo comandare? TIT. V'ho licenzià per colù, v'ho licenzià. PAS. Me maraveggio anca, che credié che Lucietta se voggia taccare con quel squartáo. LUC. So brutta, so poveretta, so tutto quel che volé; ma gnanca co un battelante no me ghe tacco. TIT. Per còssa ve lo féu sentar arente? Per còssa toléu la zucca barucca? LUC. Varé, che casi!
PAS. Varé, che gran criminali! TIT. Mì co fazzo l'amore, no vòggio che nissun possa dire. E la vòggio cusì, la vòggio. Mare de diana! A Titta-Nane nissùn ghe l'ha fatta tegnire. Nissùn ghe la farà portare. LUC. (si asciuga gli occhi) Varé là, che spuzzetta! TIT. Mì so omo, savéu? so omo. E no so un puttelo, savéu? LUC. (piange mostrando di non voler piangere.) PAS. (a Lucietta) Còssa gh'àstu? LUC. Gnente. (piangendo dà una spinta a donna Pasqua) PAS. Ti pianzi? LUC. Da rabbia, da rabbia, che lo scanneràve co le mie man. TIT. (accostandosi a Lucietta) Via, digo! Còssa xé sto fiffare? LUC. Andé in malora. TIT. (a donna Pasqua) Sentìu, siora? PAS. Mo no gh'àla rasón? Se sé pèzo d'un can. TIT. Voléu ziogare, che me vago a trar in canale? PAS. Via, matto! LUC. (come sopra piangendo) Lassé che el vaga, lassé. PAS. Via, frascona! TIT. (intenerendosi) Gh'ho volèsto ben, gh'ho volèsto. PAS. (a Titta) E adesso no più? TIT. Còssa voléu? Se no la me vuòle.
PAS. Còssa dístu, Lucietta? LUC. Lassème stare, lassème. PAS. (a Lucietta) Tiò le to scarpe, tiò la to cordela, tiò la to zendalina. LUC. No vòggio gnente, no vòggio. PAS. (a Lucietta) Vien qua, sènti. LUC. Lassème stare. PAS. Dighe una parole. LUC. No. PAS. Vegnì qua, Titta-Nane. TIT Made. PAS. (a Titta). Mo via. TIT. No vòggio. PAS. Debòtto ve mando tutti do a far squartare.
SCENA IV
IL COMANDADORE, e detti.
COM. (a Pasqua) Séu vù donna Pasqua, muggièr de paron Toni Canestro? PAS. Missiersì; còssa comandéu? COM. (a Pasqua) E quela xéla Lucietta sorela de paron Toni? PAS. Siorsì: còssa voressi da ela? LUC. (da sé) (Oh poveretta mì! Còssa vuorlo el Comandadore?) COM. Ve cito per ordene de chi comanda, che andé subito a Palazzo in Cancelarìa a esaminarve. PAS. Per còssa? COM. Mi no so altro. Andé e obbedì, pena diese ducati, se no gh'andé. PAS. (a Lucietta) (Per la custión.) LUC. (Oh mì no ghe vòggio andare.) PAS. (Oh bisognerà ben che gh'andèmo.) COM. (a Pasqua) Xéla quela la casa de paron Fortunato? PAS. Siorsì, quela. COM. No occorr'altro. La porta xé averta, anderò de suso. (entra in casa)
SCENA V
PASQUA, LUCIETTA e TITTA-NANE.
PAS. Avéu sentìo, Titta-Nane? TiT. Ho sentìo; quel furbazzo de Marmottina m'averà querelào. Bisogna che me vaga a retirare. PAS. E mio marìo? LUC. E i mi fradeli? PAS. Oh, poverette nu! Va là, va a la riva, va a véde, se ti li catti, vàli a avisare. Mi anderò a cercare paron Vicenzo, e mio compare Dottore, anderò da la lustrissima, anderò da sior Cavaliere. Poveretta mi! la mia roba, el mio oro, la mia povera cà, la mia povera cà! (parte)
SCENA VI
LUCIETTA e TITTA-NANE.
TIT. Vedéu, siora? Per causa vostra. LUC. Mì? Còss'òggio fatto? Per causa mia? TIT. Perché no gh'avé giudizio, perché sé una frasca. LUC. Va in malora, strambazzo. TIT. Anderò via bandìo, ti sarà contènta. LUC. Bandìo ti anderà? Vié qua. Per còssa bandìo? TIT. Ma se ho da andare, se i m'ha da bandire, Marmottina lo vói mazzare. LUC. Xèstu matto? TIT. (a Lucietta minacciandola) E tì, e tì, ti me l'ha da pagare. LUC. Mì? Che colpa n'òggio? TIT. Vàrdete da un desperào, vàrdete. LUC. Oe, oe, vien el Comandadore. TIT. Poveretto mì! presto, che no i me vede, che no i me fazze chiappare. (parte) LUC. Can, sassin, el va via, el me manazza. Xélo questo el ben che el me vuole? Mo, che òmeni! Mo che zente! No, no me vòggio più maridare; più tosto me vòggio andar a negare. (parte)
SCENA VII
IL COMANDADORE (esce di casa) e PARON FORTUNATO.
COM. Mo, caro paron Fortunato, sé omo, savé còssa che xé ste còsse. FOR. Mì à suso, no e so mai stao à suso. Cancelaìa, mai stao mì Cancelaìa. COM. No ghe sé mai stà in Cancelarìa? FOR. Sió no, sió no, so mai stao. COM. Un'altra volta, no diré più cusì. FOR. E pe còssa gh'ha a andà mia muggière? COM. Per esaminarse. FOR. E cugnae anca? COM. Anca ele. FOR. Anca e putte ha andare? E putte, anca e putte? COM. No vàle co so sorela maridada? Còssa gh'àle paura? FOR. E pianze, e ha paura, no le vuò andare. COM. Se no le gh'anderà, sarà pèzo per ele. Mi ho fatto el mio dèbito. Farò la riferta, che sé citai, e penséghe vù. (parte) FOR. Bisogna andare, bisogna: bisogna andare, muggière; muggière, méttite el ninzoètto, muggière. Cugnà Orsetta, e ninzoètto. Cugnà Checca, e ninzoètto. (forte verso la scena) Bisogna andare, bisogna, bisogna andare. Maledio e baruffe, i baroni furbazzi. Via pètto, trighève, còssa féu? Donne, fèmene, maledìo, pètto. Ve végnio a petubare, ve végnio a petubare. (entra in casa)
SCENA VIII
Cancelleria.
ISIDORO e PARON VICENZO.
VIC. La vede, lustrìssimo, la xé una còssa da gnente. ISI. Mi no ve digo che la sia una gran còssa. Ma ghe xé l'indolenza, ghe xé la nomina dei testimoni, xé incoà el processo: la Giustizia ha d'aver el so logo. VIC. Crédela mo, lustrissimo, che colù che xé vegnù a querelare, sia innocente? L'ha tratto anca elo de le pieràe. ISI Tanto mèggio. Co la formazion del processo rileveremo la verità. VIC. La diga, lustrissimo; no la se poderave giustare? ISI. Ve dirò: se ghe fusse la pase de chi xé offeso, salve le spese del processo, la se poderave giustar. VIC. Via, lustrissimo; la me cognosse, so qua mi, la me varda mì. ISI. Ve dirò, paron Vicenzo. V'ho dito: che la se poderàve giustar, perché fin adesso dal costituto dell'indolente no ghe xé gran còsse. Ma no so quel che possa dir i testimoni: e almanco ghe ne vói esaminar qualcheduno. Se no ghe sarà de le cosse de più; che no ghe sia ruze vecchie, che la baruffa no sia stada premeditada, che no ghe sia prepotenze, pregiudizi del terzo, o cosse da sta nature; mì anzi darò man a l'aggiustamento. Ma mì per altro no vói arbitrar. Son Cogitor, e no son Cancelier, e ho da render conto al mio principal. El Cancelier xé a Venezia; da un momento a l'altro el s'aspetta. El vederà el processetto; ghe parleré vù, ghe parlerò anca mì; a mì, utile no me ne vien, e no ghe ne vòggio. Son galantomo, me interesso volentiera per tutti, se poderò farve del ben, ve farò
del ben. VIC. Ela parla da quel signor che la xé: e mi so quel che averò da fare. ISI. Per mi, ve digo, no vòggio gnénte. VIC. Via, un pèsse, un bel pèsse. ISI. Oh! fina un pésse, sì ben. Perché gh'ho la tola; ma anca a mì me piase far le mie regolette. VIC. Oh! lo so, che sió Cogitore el xé de bon gusto, sió Cogitore. ISI. Cossa voléu far? Se laóra: bisogna anca devertirse. VIC. E ghe piase i ninzoletti a sió Cogitore. ISI. Orsù, bisogna che vada a spedir un omo. Sté qua. Se vien sta zente, diséghe che adesso torno. Diséghe a le donne, che le vegna a esaminarse, che no le gh'abbia paura, che son bon con tutti, e co le donne son una pasta de marzapan. (parte)
SCENA IX
VICENZO solo.
VIC. Sió sì, el xé un galantomo; ma in casa mia no'l ghe bàzzega. Da le mie donne no'l vien a far careghètta. Sti siori da la perucca, co nu altri pescaóri no i ghe stà ben. Oh per diana! Vèle qua che le se vié a esaminare. Aveva paura che no le ghe volesse vegnire. Le gh'ha un omo con ele. Ah! sì, el xé paron Fortunato. Vegnì, vegnì, creature, che no gh'è nissùn.
SCENA X
PASQUA, LUCIETTA, LIBERA, ORSETTA, CHECCA, tutte in “ninzoletto”, PARON FORTUNATO, ed il suddetto.
CHE. Dove sèmio? ORS. Dove andèmio? LIB. Oh poveretta mì! No ghe so mai vegnùa in sto liógo. FOR. (saluta paron Vic.) Paró Izènzo, siorìa, paró Izènzo. VIC. (salutandolo) Paron Fortunato. LUC. Me trema le gambe, me trema. PAS. E mì? Oh che spàsemo che me sènto! FOR. (a Vicenzo) Doe xélo e sió Canceliere? VIC. Nol ghe xé; el xé a Venezia el sior Canceliere. Ve vegnirà a esaminare el sió Cogitore. LIB. (a Orsetta urtandola, facendo vedere che lo conoscono molto) (Oe, el Cogitore!) ORS. (a Checca urtandola e ridendo) (Oe, quel lustrissimo inspiritào.) PAS. (a Lucietta con piacere) (Àstu sentìo? Ne esaminerà el Cogitore). LUC. (a Pasqua) (Oh! gh'ho da caro. Almanco lo cognossèmo.) PAS. (a Lucietta) (Sì, el xé bonazzo.) LUC. (a Pasqua) (V'arecordéu che l'ha comprà da nù sie brazza de merlo da
trenta soldi, e el ne l'ha pagà tre lire?)
SCENA XI
ISIDORO e detti.
ISI. Cossa féu qua. TUTTE LE DONNE. Lustrissimo, lustrissimo. ISI. Cossa voléu? Che ve esamina tutti in t'una volta? Andé in sala, aspetté; ve chiamerò una a la volta. PAS. Prima nù. LUC. Prima nù. ORS. Sémo vegnùe prima nù. ISI. Mì no fazzo torso a nissùn: ve chiamerò per órdene, come che troverò i nomi scritti in processo. Checca xé la prima. Che Checca resta, e vu altre andé fore. PAS. Mo za, segùro; la xé zovenetta. (parte) LUC. No basta miga; bisogna essere fortunàe. (parte) ISI. (da sé) (Gran donne! Le vól dir certo, le vól dir, se le credesse de dir la verità.) FOR. Andèmo fuòa, andèmo fuòa, andèmo. ORS. Oe, sió Cogitore, no la ne fazza star qua tre ore, che gh'avèmo da fare, gh'avèmo. (parte) ISI Sì, sì, ve destrigherò presto. LIB. (ad Isidoro) Oe, ghe la raccomando, salo? El varda ben che la xé una
povera innocente. ISI. In sti loghi no ghe xé pericolo de ste còsse. LIB. (da sé) (El xé tanto ingalbanìo, che me fido puoco.) (parte)
SCENA XII
ISIDORO e CHECCA, poi il COMANDADORE.
ISI. Vegni qua, fia, sentéve qua. (siede) CHE. Eh! sior no, stago ben in pie. ISI. Sentéve, no ve vòggio veder in pie. CHE. Quel che la comanda. (siede) ISI. Cossa gh'avéu nome? CHE. Gh'ho nome Checca. ISI. El cognome? CHE. Schiantìna. I SI. Gh'avéu nissun soranòme? CHE. Oh giusto, soranòme! ISI. No i ve dise Puinetta? CHE. (s'ingrugna) Oh! certo, anca elo me vôl minchionare. ISI. Via se sé bella, sié anca bona. Respondéme. Savéu per còssa che sié chiamada qua a esaminarve? CHE. Sior sì, per una baruffa. ISI. Contéme come che la xé stada. CHE. Mì no so gnente, che mì no ghe giera. Andava a ca co mia sorela Libera, e
co mia sorela Orsetta, e co mio cugnà Fortunato; e ghe giera paron Toni, e Beppo Cospettoni, e Titta-Nane, che i ghe voleva dare a Tòffolo Marmottina, e elo ghe trava de le pieràe. ISI. Per còssa mo ghe voléveli dar a Toffolo Marmottina? CHE. Perché Titta-Nane fa l'amore co Lucietta Panchiana, e Marmottina ghe xé andào a parlare, e el gh'ha pagào la zucca barucca. ISI. Ben; ho capìo, baste cusì. Quanti anni gh'avéu? CHE. El vuol saver anca i anni? ISI. Siora sì; tutti chi se esamina, ha da dir i so anni; e in fondo de l'esame se scrive i anni. E cusì, quanti ghe n'avéu? CHE. Oh! mi no me li scondo i mi anni. Disisette fenìi. ISI. Zuré d'aver dito la verità. CHE. De còssa? ISI. Zuré, che tutto quel che avé dito nel vostro esame, xé la verità. CHE. Sior sì; zuro che ho dito la verità. ISI. El vostro esame xé finlo. CHE. Posso andar via donca? ISI. No, ferméve un pochetto. Come stéu de morosi! CHE. Oh! mì, no ghe n'ho morosi. ISI. No disé busìe. CHE. Òggio da zurare? ISI. No, adesso no avè più da zurar; ma le busie no sta ben a dirle. Quanti morosi gh'avéu?
CHE. Oh mì! nissun me vuol, perchè son poveretta. ISI. Voléu, che ve fazza aver una dota? CHE. Magàri! ISI. Se gh'avessi la dota, ve marideressi? CHE. Mì sì, lustrissimo, che me mariderìa. ISI. Gh'avéu nissun per le man? CHE. Chi vôrlo che gh'abbia? ISI. Gh'avéu nissun che ve vaga a genio? CHE. El me fa vergognare. ISI. No ve vergogné, semo soli; parléme con libertà. CHE. Titta-Nane, se lo podesse avere, mì lo chioràve. ISI. No xélo el moroso de Lucietta? CHE. El la gh'ha licenzià. ISI. Se el l'ha licenziada, podemo veder, se el ve volesse. CHE. De quanto saràla la dota? ISI. De cinquanta ducati. CHE. Oh siorsì! Cento me ne dà mio cugnà. Altri cinquanta me ne ho messi da banda col mio balon. Mi credo che Lucietta no ghe ne daghe tanti. ISI. Voléu che ghe fazza parlar a Titta-Nane? CHE. Magàri, lustrissimo! ISI. Dove xélo?
CHE. El xé retirà. ISI. Dove? CHE. Ghel dirò in t'una recchia, che no vorìa che qualcun me sentisse. (gli parla all'orecchia) ISI. Ho inteso. Lo manderò a chiamar. Ghe parlero mì, e lassé far a mi. Andé, putta, andé, che no i diga.... se me capì! (suona il camlo) CHE. Uh! caro lustrissimo benedetto COM. La comandi. ISI. Che vegna Orsetta. COM. Subito. ISI. Ve saverò dir, ve vegnirò a trovar. CHE. (s'alza) I ustrìssimo, sì. (da sé) (Magàri, che ghe la fasse veder a Lucietta! magari!)
SCENA XIII
ORSETTA, e detti, poi il COMANDADORE.
ORS. (piano a Checca) (Tanto ti xé stada? Còssa t'àlo esaminà?) CHE. (a Orsetta) (Oh sorela! Che bel esame che ho fatto! Te conterò tutto). (parte) ISI. Vegnì qua, sentéve. ORS. Sior sì (siede con franchezza). ISI. (da sé) (Oh la xé più franca, custia!) Còssa gh'avéu nome ? ORS. Orsetta Schiantina. ISI. Detta? ORS. Còss'è sto detta? ISI. Gh'avéu soranóme? ORS. Che soranòme vôrlo che gh'abbia? ISI. No ve dìseli de soranóme, Meggiotto? ORS. In veritàe, lustrìssimo, che se no fusse dove che son, ghe voràve pettenare quela perucca. ISI. Oe! parlé con rispetto. ORS. Còssa xé sto Meggiotto? I meggiòtti a Chióza xé fatti col semolèi, e co la farina zala; e mi no son né zala, né del color dei meggiòtti. ISI. Via, no ve scaldé, patrona, che questo no xé logo da far ste scene.
Respondéme a mì. Savéu la cause per la qual sé vegnùa a esaminarve? ORS. Sior no. ISI. Ve lo podéu immaginar? ORS. Sior no. ISI. Savéu gnente de una certa baruffa? ORS. So, e no so. ISI. Via, contéme quel che savé. ORS. Che el m'interoga, che responderò, ISI. (da sé) (Custia xé de quele, che fa deventar matti i poveri Cogitori). Cognosséu Tòffolo Zavatta? ORS. Sior no. ISI.Tòffolo Marmottina? ORS. Sior sì. ISI.Savéu, che nissùn ghe volesse dar? ORS. Mì no posso saver che intenzion che gh'abbia la zente. ISI. (da sé) (Oh che drétta!) Avéu visto nissùn con de le arme contra de elo? ORS. Sior sì. ISI. Chi giérili? ORS. No m'arecordo. ISI. Se i nominerò, ve i arecorderéu? ORS. Se la i nominerà, ghe responderò.
ISI. (da sé) (Siéstu maladétta! La me vuol far star qua fin stasera). Ghe giéra Titta-Nane Moletto? ORS. Sior sì. ISI. Ghe giéra paron Toni Canestro? ORS. Sior sì. ISI. Ghe giera Beppo Cospettoni? ORS. Sior sì. ISI. Brava, siora Meggiòtto ORS. El diga: gh'àlo nissùn soranome, elo? ISI. (scrivendo) Via, via, manco chiàccole. ORS. Oh! ghe lo metterò mi: El sior Cogitore giazzào. ISI. Tòffolo Marmottina àlo tratto de le pieràe? ORS. Sior sì, el ghe n'ha tratto. (da sé) (Magari in te la testa del Cogitore!) ISI. Còssa diséu? ORS. Gnente, parlo da mia posta. No posso gnanca parlare? ISI. Per còssa xé nato sta contesa? ORS. Còssa vôrlo che sappia? ISI. (da sé) (Oh, son debòtto stuffo!) Savéu gnente, che Titta-Nane gh'avesse zelusìa de Tòffolo Marmottina? ORS. Sior si; per Lucietta Panchiana. ISI. Savéu gnente, che Titta-Nane abbia licenzià Lucietta Panchiana? ORS. Sior sì; ho sentìo a dir, che el la gh'ha licenzià.
ISI. (da sé) (Checca ha dito la verità. Vederò de farghe sto ben). Oh! via, debòtto sé destrigada. Quanti anni gh'avéu? ORS. Oh ca de dia! anca i anni el vuol savere? ISI. Siorasì, anca i anni. ORS. El li ha da scrivere? ISI. I ho da scrìver! ORS. Ben; che el scriva disnove. ISI. (scrive) Zuré, d'aver dito la verità. ORS. Ho da zurare? ISI. Zuré d'aver dito la verità. ORS. Ghe dirò: có ho da zurare, veramente ghe n'ho ventiquattro. ISI. Mì no ve digo che zuré de i anni, che a vu altre donne sto zuramento nol se pól dar. Ve digo, che zuré, che quel che avé dito in te l'esame, xé la verità. ORS. Oh, sior sì, zuro. ISI. (suona il camlo). COM. Chi vôrla? ISI. Donna Libera. COM. La servo. (parte) ORS. (da se') (Varé. Anca i anni se gh'ha da dire!) (s'alza)
SCENA XIV
DONNA LIBERA e detti, poi il COMANDADORE.
LIB. (ad Orsetta) (T'àstu destrigà?) ORS. (a Libera) (Oe, sent). Anca i anni che se gh'ha, el vuòl savére), LIB. (Bùrlistu?) ORS. (a Libera) (E bisogna zurare). (parte) LIB. (da sé) (Varé che sughi! s'ha da dire i so anni, e s'ha da zurare? So ben quel che farò mi. Oh! i mìi anni no i vòggio dire, e no vòggio zurare). ISI. O via, vegnì qua, sentéve. LIB. (non risponde). ISI. Oe, digo, vegnì qua, sentéve. (facendole cenno che si sieda) LIB. (va a sedere). ISI. Chi séu? LIB. (non risponde). ISI. (urtandola) Respondé, chi séu. LIB. Sior? ISI. Chi séu? LIB. Còssa dixela? ISI. (forte) Séu sorda?
LIB. Ghe sento puoco. ISI. (da sé) (Stago frésco). Còssa gh'avéu nome? LIB. Piase? ISI. El vostro nome. LIB. La diga un poco più forte. ISI. Eh! che no vòggio deventar matto. (suona il camlo) COM. La comandi. ISI. Che vegna dentro quel'omo. COM. Subito. (tarte) ISI. (a Libera) Andé a bon viazo. LIB. Sior? ISI. (spingendola perché se ne vada) Andé via de qua. LIB. (da sé) (Oh! l'ho scapolada pulito. I fatti mi, no ghe li vòggio dire).
SCENA XV
ISIDORO, poi PARON FORTUNATO, poi il COMANDADORE.
ISI. Sto mistier xé belo, civil, decoroso, anca utile; ma de le volte le xé còsse da deventar matti. FOR. Tìssimo sió Cogitore, tìssimo. ISI. Chi séu? FOR. Fotunato Aìchio. ISI. Parlé schiétto, se volé che v'intenda. Capisso per discrezion: paron Fortunato Cavìcchio. Savéu per cossa che sié cità a esaminarve? FOR. Sió sì, sió. ISI. Via donca: disé per còssa che sé vegnù? FOR. So egnù, perché me ha dito e Comandadore. ISI. Bela da galantomo! So anca mi che sé vegnù, perché ve l'ha dito el Comandador. Savéu gnente de una certa baruffa? FOR. Sió sì, sió. ISI. Via diséme, come che la xé stada. FOR. L'ha a saére, che ancùo so egnù da mare, e so rivào a igo co a tatana; e xé egnùo mia muggière, e a cugnà Osetta, e a cugnà Checca. ISI. Se no parlé più schiétto, mi no ve capisso. FOR. Sió sì, sió. Andando a cà co mia muggière, e co mia cugnà, ho isto paró Toni, ho isto, e bare Beppe ho isto, e Titta-Nane Moetto, e Tòffolo Maottina. E
parò Toni: tiffe, a spade; e Beppe: alda, alda, o otello; e Maottina: tuffe, tuffe, pieràe; è egnùo Titta-Nane, è egnùo Titta-Nane: lago, lago, co paosso, lago. Tia, mole, baaca. Maottina è cacào, e mì no so altro, m'ala capìo? ISI. Gnanca una parola. FOR. Mi pao chiozotto, utìssimo. De che paese xéla, utissimo? ISI. Mi son Venezian; ma no ve capisso una maledetta. FOR. Omàndela e tone a dìe? ISI. Còssa? FOR. Comandela e tone a dire? A dire? A dire? ISI. Va in malora, va in malora, va in malora! FOR. (partendo) Tìssimo. ISI. Papagà maledetto! FOR. (allontanandosi) Tìssimo. ISI. Se el fusse un processo de premura, poveretto mi! FOR. (sulla porta) Sió Cogitore, tìssimo. (parte) ISI. El diavolo che te porta. (suona il camlo) COM. Son a servirla. ISI. Licenzié quele donne, mandéle via; che le vaga via, che no vòi séntir altro. COM. Subito. (parte)
SCENA XVI
ISIDORO, poi PASQUA e LUCIETTA, poi il COMANDADORE.
ISI. Bisogna dar in impazienze per forza. PAS. (con calore) Per còssa ne màndelo via? LUC. Per còssa no ne vórlo esaminare? ISI. Perché son stuffo. PAS. Sì, si, carètto, savèmo tutto. LUC. L'ha sentìo quele che gh'ha premèsto, e nu altre sèmo scoazze. ISI. La fenìmio? LUC. Puinetta el l'ha tegnùa più d'un'ora. PAS. E Meggiotto quanto ghe xéla stada? LUC. Ma nù anderemo da chi s'ha d'andare. PAS. E se faremo fare giustizia. ISI. No savé gnente. Sentì. PAS. Còssa voràvelo dire? LUC. Còssa ne voràvelo infenocchiare? ISI. Vu altre sé parte interessada, no podé servir per testimonio. LUC. No xé vero gnente, no xé vero gnente. No semo interessà, no xé vero gnente.
PAS. E anca nù volèmo testimoniare. ISI. Fenìla una volta. PAS. E se farèmo sentire. LUC. E saverèmo parlare. ISI. Siéu maledette! COM. Lustrissimo. ISI. Còssa gh'é? COM. Xé vegnù el lustrìssimo sior Cancelier. (parte) PAS. Oh! giusto elo. LUC. Anderemo da elo. ISI. Andé dove diavolo che volé. Bestie, diavoli, satanassi! (parte) PAS. Mare de diana! che ghe la faremo tegnire! (parte) LUC. Viva cocchietto! che ghe la faremo portare! (parte)
ATTO TERZO
SCENA I
Strada con casa, come nelle altre scene.
BEPPO, solo.
No m'importa; che i me chiappe, se i me vo' chiappare. Anderò in presón: no m'importa gnente; ma mì retirà no ghe vòggio più stare. No muoro contento, se a Orsetta no ghe dago una slèpa. E a Marmottina ghe vòggio taggiare una rècchia, se credesse d'andare in galìa, se credesse. La porta xé serà de custìe, xé serà anca da mì, xé serà. Lucietta, e mia cugnà le sarà andàe a parlare per mì e per mio fradelo Toni; e custìe le sarà andàe a parlare per Marmottina. Sento zènte, sento. Me pare sèmpre d'aver i zaffi a la schina. Zitto, che vié Orsetta. Vié, vié, che te vòggio giustare.
SCENA II
LIBERA, ORSETTA e CHECCA col ninzoletto sulle spalle, e detto
LIB. (amorosamente) Beppo! ORS. El mio caro Beppo! BEP. In malora, ìa! ORS. Con chi la gh'àstu? LIB. A chi in malora? BEP. In malora quante che sé. CHE. (a Beppo) Vàghe ti in malórzega. ORS. (a Checca) Tasi. (a Beppo) Còssa t'avèmio fatto? BEP. Ti sarà contenta, anderò in presón; ma avanti ch'a ghe vaghe... ORS. No, no t'indubitare. No sarà gnente. LIB. Paron Vicenzo l'ha dito cusì, ch'a no se stemo a travaggiare, che la còssa sarà giustà. CHE. E po gh'avèmo per nu el Cogitore. ORS. Se può savere con chi ti la gh'ha almanco? BEP. Con tì la gh'ho. ORS. Co mì? BEP. Sì, con tì.
ORS. Còssa t'òggio fatto? BEP. Còssa te vàstu a impazzare co Marmottina? Perché ghe pàrlistu? Per cossa te viénlo a cattare? ORS. Mì? BEP. Tì. ORS. Chi te l'ha dito? BEP. Mia cugnà, e mia sorela me l'ha dito ORS. Busiàre! LIB. Busiàre! CHE. Oh, che busiàre! ORS. El xé vegnù a parlare con Checca. LIB. E po el xé andao a sentarse da to sorela. ORS. E el gh'ha pagào la zucca. CHE. Basta dire, che Titta-Nane ha licenziào Lucietta. BEP. L'ha licenzià mia sorela? Per còssa? CHE. Per amore de Marmottina ORS. E mi còssa gh'òggio da intrare? BEP. (a Orsetta) Marmottina no xé vegnù a parlare co tì? L'ha parlao co Lucietta? Titta-Nane l'ha licenzià? ORS. Sì, can, no ti me credi, balon? No ti credi a la to povera Orsetta, che te vol tanto ben; che ho fatto tanti pianti per tì; che me disconisso per cause toe? BEP. Còssa donca me vienle a dire quele pettazze?
LIB. Per scaregarse ele, le ne càrega nù. CHE. Nù no ghe femo gnente, e ele le ne vuol male. BEP. (in aria minacciosa) Che le vègna a cà, che le vègna! ORS. Zitto che le xé qua. LIB. Tasé. CHE. No ghe disé gnente.
SCENA III
PASQUA e LUCIETTA col ninzoletto sulle spalle, e detti.
LUC. (a Beppo) Còss'è? PAS. (a Beppo) Còssa fàstu qua? BEP. (Con sdegno) Còssa me séu vegnùe a dire? LUC. Senti. PAS. Vié qua, senti. BEP. Còssa v'andéu a inventare?... LUC. (con affanno) Mo vié qua, presto! PAS Presto, poveretto tì! BEP. Còss'è? Còssa gh'é da niovo? (s'accosta e lo prendono in mezzo) LUC. Va via. PAS. Vàte a retirare. (intanto le altre due donne si cavano i ninzoletti) BEP. Mo se le m'ha dito, che no xé gnente. LUC. No te fidare. PAS. Le te vol se. LUC. Sèmo stae a Palazzo, e nù no i n'ha gnanca volèsto ascoltare. PAS. Ele i le gh'ha ricevèste, e nu altre i n'ha cazzào via.
LUC. E Orsetta xé stada drento più de un'ora col Cogitore. PAS. Ti xé processà! LUC. Ti xé in cattura. PAS. Vàte a retirare. BEP. (a Orsetta) Comuòdo? A sta via se sassina i òmeni? ORS. Còss'è stà? BEP. Tegnirme qua per farme precipitare? ORS. Chi l'ha dito? LUC. L'ho dito mi, l'ho dito. PAS. E savèmo tutto, savèmo. LUC. (a Beppo) Va via. PAS. (a Beppo) Va via. BEP (a Orsetta) Vago via... ma me l'averé da pagare
SCENA IV
PARON TONI, e detti.
PAS Marlo! LUC. Fradelo! PAS. Andé via. LUC. No ve lassé trovare. TON. Tasé tasé, non abbié paura, tasé. Xé vegnùo a trovarme paron Vicenzo, e el m'ha dito, che l'ha parlà co sior Canceliere, che tutto xé accomodao, che se può caminare. ORS. Sentìu? LIB. Ve l'avèmio dito? CHE. Sèmio nù le busiàre? ORS. Sèmio nù, che ve vôl se? BEP. (a Pasqua e Lucietta) Còssa v'insuniéu? Còssa v'andéu a inventare?
SCENA V
PARON VICENZO, e detti.
ORS. Vèlo qua paron Vicenzo. No xé giustà tutto, paron Vicenzo? VIC. No xé giustà gnente. ORS. Come, no xé giustà gnente? VIC. No gh'è caso che quel musso ustinà de Marmottina vòggia dar la pase; e senza la pase no se puol giustare. PAS. Oe, sentìu? LUC. No ve l'òggio dito? PAS. No ghe credé gnente. LUC. No xé giustà gnente. PAS. No ve fidé a camminare. LUC. Andéve subito a retirare.
SCENA VI
TITTA-NANE, e detti.
PAS. Oh! Titta-Nane, còssa féu qua? TIT. Fazzo quelo che vòggio, fazzo. PAS. (da sé) (Oh! no la ghe xé gnanca à). LUC. (a Titta) No gh'avé paura dei zaffi? TIT. (a Lucietta con sdegno) No gh'ho paura de gnente. (a paron Vicenzo) So stào dal Cogitore; el m'ha mandào a chiamare; e el m'ha dito, che camine quanto che vòggio, e che no staghe più a bacilare. ORS. (a Lucietta) Parlé mo adesso se gh'avé fià da parlare. No ve l'òggio dito, che gh'avemo per nù el Cogitore?
SCENA VII
COMANDADOR, e detti.
COM. Paron Toni Canestro, Beppo Cospettoni, e Titta-Nane Moletto, vegnì subito a Palazzo con mi da sior Cancelier. PAS. Oh poveretta mì! LUC. Semo sassinài! PAS. (a Orsetta) Che fondamento ghe xé in te le vostre parole? LUC. (a Orsetta) De còssa ve podéu fidare de quel panchiana de Cogitore?
SCENA VIII
ISIDORO, e detti.
LUC. (vedendo Isidoro) (Uh!) ISI. Chi è, che me favorisse? ORS. (accennando Lucietta! Vèla là, lustrissimo. Mì no so gnente. LUC. Còssa vôrli da i nostri òmeni? Còssa ghe vôrli fare? ISI. Gnente; che i vegna con mì, e che no i gh'abbia paura de gnente. Son galantomo. Me son impegnà de giustarla, e sior Cancelier se remette in mì. Andé, paron Vicenzo, andé a cercar Marmottina, e fé de tutto per menarlo da mi; e se nol vól vegnir per amor, diséghe, che lo farò vegnir mì per forza. VIC Sior sì; so qua co se tratta de far del ben. Vago subito. Beppo, paron Toni, vegnì co mi che v'ho da parlare. TON. So co vù, compare. Co so co vù, so seguro. (parte) TIT. (da sé) (Oe, mì no me slontàno dal Cogitore). BEP. Orsetta, a revèderse. ORS. (a Beppo) Xèstu in còlera? BEP. Via, che cade? A monte, a monte. Se parlerèmo. (parte con paron Toni e paron Vicenzo)
SCENA IX
ISIDORO, CHECCA, LUCIETTA, PASQUA e TITTA-NANE (più ORSETTA e LIBERA),
CHE. (a Isidoro, piano) (La diga, lustrissimo?) ISI. (a Checca, piano) (Còss'è, fia?) CHE. (Gh'àlo parlà?) ISI. (Gh'ho parlà). CHE. (Còss àlo dito?) ISI. (Per dirvela, no'l m'ha dito né sì, né no. Ma me par che i dusento ducati no ghe despiasa). CHE. (Me raccomando). ISI. (Lassé far a mi). Via andémo, Titta-Nane. TIT. (in atto di partire) So qua con ela. LUC. (a Titta) Gnanca, patron? Gnanca un strazzo de saludo? PAS. (a Titta) Che creanza gh'avéu? TIT. (con disprezzo) Patróne. ISI (a Titta) Via, saludé Checchina. TIT. (con buona grazia) Bela putta, ve saludo. (Lucietta smania) CHE. Siorìa, Titta-Nane.
TIT. (da sé) (Gh'ho gusto, che la magna l'agio Lucietta, gh'ho gusto; me vòggio refare). (parte) ISI. (da sé) (Anca questo per mì xé un divertimento). (parte)
SCENA X
LUCIETTA, ORSETTA, CHECCA, PASQUA e LIBERA.
LUC. (a Pasqua) (Avéu sentìo còssa che el gh'ha dito? Bela putta el gh'ha dito). PAS. (a Lucietta) (Mo via còssa vùstu andar a pensare?) LUC. (caricandola forte, che sentano) E ela? Siorla Titta-Nane, siorìa TittaNane. CHE. Coss'è, siora, me burléu? ORS. Dighe, che la se varda ela. I. IB. Che la gh'ha el so bel da vardare. LUC. Mì? Oh! de mi ghe xé puoco da dire: che cattive azion mi no ghe ne so fare. PAS. (a Lucietta) Via, tasi, no te n'impazzare. No sàstu, chi le xé? Tasi. CHE. Còssa sèmio? ORS. (a Libera) Còssa voressi dire? LIB. (a Orsetta) Via; chi ha più giudizio, el dòpera. LUC. Oh la savia Sibìla! Le putte, che gh'ha giudizio, parona, le lassa star i novizzi, e no le va a robare i morosi. ORS. A vù cossa ve robèmio? LUC. Titta-Nane xé mio novizzo. CHE. Titta-Nane v'ha licenzià.
PAS. No xé vero gnente. LIB. Tutta la contrà l'ha sentìo. PAS. Via, che sé una pettegola. ORS. Tasé là, donna stramba. LUC. Sentì, che sbrenà! LTB. (con ironia e collera) Sentì, che bela putta! LUC. Mèggio de to sorela. CHE. No ti xé gnanca degna de minzonarme. LUC. Povera spórca! ORS. Come pàrlistu! (s'avanzano in zuffa). PAS. Voléu ziogare, che ve petuffo? LIB. Chi? O RS. Mare de diana! che te sflazelo, vara. LUC. Oh, che giandussa! ORS. (le dà sulfa mano) Parla ben, parla. LUC. (alza le mani per dare) Oe! LIB. (spingendo Pasqua) Tìrete in là, oe! PAS. (spingendo Libera) Còss'è sto spenze? ORS. Oe, oe! (si mette a dare, e tutte si dànno, gridando) TUTTE. Oe, oe!
SCENA XI
PARON FORTUNATO, e dette.
FOR. Fermève, fermève, donne, donne, fermève. (le donne seguono a darsi, gridando sempre. Fortunato in mezzo, fìnchè gli riesce di separarle, e caccia le sue in casa). LIB. Ti gh'ha rason. (entra) CHE. Ti me l'ha da pagare. (entra) ORS. Te vói cavare la petta, vara. (entra) PAS. Maledetta! Se no me fava male a sto brazzo, te voleva colegare per terra. (entra) LUC. E vù, savé, sior Carogno, se no ghe faré far gindizio a culìe, ve trarò su la testa un de quei pittèri, che spuzza. (entra) FOR. Andé là, puh! maledìe! donne, donne, sempre baùffe, sempre chià. Dise bè e proverbio: donna danno; donna malanno, malanno, danno, malanno. (entra in casa).
SCENA XII
Camera in una casa parlicolare.
ISIDORO e TITTA-NANE.
ISI. Vegnì co mi, non abbié suggizion, qua no semo a Palazzo, qua no semo in Cancelaria. Semo in casa de un galantuomo, de un Venezian, che vien a Chioza do volte a l'anno, e co nol ghe xé elo, el me lassa le chiave a mì; e adesso de sta casa son paron mi, e qua s'ha da far sta pase, e s'ha da giustar tutti i pettegolezzi, perché mi son amigo d'i amici, e a vu altri Chiozotti ve vòggio ben. TIT. Pe so grazia, sió Cogitore. ISI. Vegnì qua, zà che semo soli... TIT Dove xéli sti altri? ISI. Paron Vicenzo xé andà a cercar Marmottina, e el vegnirà quà, che zà el sa dove che l'ha da vegnir. Paron Toni l'ho mandà da mì in Cancelaria a chiamar el mio servitor, perchè vói che sigilemo sta pase con un pèr de fiaschetti. E Beppo, co v'ho da dir la verità, el xé andà a chiamar donna Libera e paron Fortunato. TIT. E se Marmottina no volesse vegnire? ISI. Se no'l vorà vegnir, lo farò porter. Orsù zà che semo soli, respondéme a tòn sul proposito, che v'ho parlà. Checchina ve piàsela? La voléu? TIT. Co gh'ho da dire la giusta veritàe, la me piase puoco, e fazzo conto de no la volere. ISI. Come! No m'avé miga dito cusì stamattina. TIT. Còssa gh'òggio dito?
ISI. M'avé dito: no so, son mézo impegnà. M'avé dòmandà, còssa la gh'ha de dote. Mì v'ho anca dito, che la gh'aveva dusento e a ducati. M'ha parso, che la dote ve còmoda; mtha parve, che la putta ve piàsa. Còssa me scambiéu adesso le carte in man? TiT. Lustrìssimo, mì no ghe scambio gnente, lustrissimo. La abbia da saére, che a Lucietta, lustrìssimo, xé do anni, che ghe fazzo l'amore, e me son instizzào, e ho fatto quel che ho fatto per zelusìa, e per amore, e la gh'ho licenzià. Ma la gh'abbia da satre, lustrìssimo, che a Lucietta ghe vòggio ben, ghe vòggio; e co un omo xé instizzào, nol sa quelo ch'a se dighe. Stamattina Lucietta l'averàve mazzà, e zà un puoco gh'ho volèsto dare martelo; ma co ghe pènso, mare de diana! lustrìssimo, no la posso lassare; e ghe vòggio ben, ghe vòggio. La m'ha affrontào; la gh'ho licenzià: ma me schioppa el cuor. ISI. Oh bela da galantuomo! E mì ho mandà a chiamar donna Libera, e paron Fortunato, per parlarghe de sto negozio, e domandarghe Checca per vu. TIT. (Con dispiacere) Grazie, lustrìssimo. ISI. No la volé donca? TIT. (come sopra). Grazie a la so bontàe. ISI Si? o no? TIT. Co bo respetto: mi no. lustrìssimo. ISI. Andéve a far squartar, che no me n'importa. TIT. Comuòdo pàrlela, lustrissimo? So pover'omo, so un povero pescaóre; ma so galantomo, lustrissimo. ISI. Me despiase, perché gh'averave gusto de maridar quela putta. TIT. Lustrissimo, la me compatissa, se no ghe fasse affronto, ghe voràve dire do parole, ghe voràve dire. ISI. Disé pur: còssa mo voressi dir? TIT. Caro lustrìssimo, la prego, no la se n'abbia per male.
ISI. No, no me n'averò per mal. (da sé) (Son curioso de sentir, còssa che el gh'ha in testa de dirme.) TIT Mi parlo co tutto e respetto. Baso dove che zappa e sió Cogitore; ma se m'avesse da maridare, no vorìa che un lustrissimo gh'avesse tanta premura per mia muggièr. ISI Oh che caro Titta-Nane! Ti me fa da rider, da galantomo. Per cossa crédistu che gh'abbia sta premura per quela putta? TIT. (ironico) Che cade? Affin de ben, affin de ben, che cade? ISI. Son un zóvene onesto, e non son capace... TIT. Eh via, che cade? ISI. (da sé) (Oh che galiotto!)
SCENA XIII
PARON VICENZO e detti, poi TOFFOLO.
VIC. So qua, lustrìssimo. Finalmente l'ho persuaso a vegnire. ISI. Dov'elo? VIC. El xé de fuora; che lo chiame? ISI. Chiamélo. VIC. Tòffolo, vegni a nù. TOF So quà, pare. (a Isidoro salutandolo) Tissimo. ISI. Vien avanti. TOF. (salutandolo ancora) Lustrissimo sió Cogitore. ISI. Dime un poco, per còssa no vùstu afar la pase a quei tre òmeni, coi quali ti ha avù stamattina quela contesa? TOF Perché, lustrissimo, i me vuol amazzare. ISI. Co i te domanda la pase, no i te vuol mazzar. TOF. I xé galiotti, lustrìssimo. TIT. (a Toffolo, minacciandolo, acciò parli con rispetto) Olà, olà. ISI. (a Titta) Quietéve. E ti parla ben, o te farò andar in t'un camerotto. TOF. Quel che la comanda, lustrìssimo. ISI. Sàstu che per le pieràe che ti ha tratto, ti meriti anca ti d'esser processà; e
che, stante la malizia, co la qual ti xé vegnù a querelar, ti sarà condannà in te le spese? TOF Mi so pover'omo, lustrìssimo; mi no posso spèndere. (a Vicenzo e Titta) Vegni qua, mazzème; so pover'omo, mazzème. ISI. (da sé) (Costù el par semplice; ma el gh'ha un fondo de malizia de casa del diavolo.) VIC. Daghe la pase, e la xé fenìa. TOF. Vòggio essere seguro de la mia vita. ISI. Ben, e mi te farò assicurar. Titta-Nane, me déu parole a mì de no molestarlo? TIT. Mi sì, lustrissimo. Basta che el lassa stare Lucietta, e che nol bàzzega per quele contràe. TOF Mi, fradelo, Lucietta non la gh'ho gnanca in mente, e no ziro colà per ela, no ziro. ISI. Per chi ziristu donca? TOF. Lustrissimo, anca mi so da maridare. ISI. Mo via, di' suso. Chi gh'àstu da quele bande? TOF. Lustrìssimo... VIC. Orsetta? TOF. Made! ISI. Checca fursi? TOF. (ridendo) Ah, ah! bravo lustrissimo, bravo. TIT Ti xé un busiaro! TOF. Per còssa busiaro?
TIT. Perché Checca m'ha dito, e donna Libera, e Orsetta m'ha dito, che ti t'ha sentào da Lucietta, e che ti gh'ha pagào da marenda. TOF. Per fare despetto l'ho fatto. TIT. A chi? ISI. (a Titta) Quietéve. Distu dasséno, che ti ghe vól ben a Checca? TOF. Mi sì, da putto. ISI. La toréssistu per muggièr? TOF. Mare de diana, se la chioràve! ISI. E ela mo, te voràla? TOF Vara, chiòe! Per còssa no m'averàvela da volere? La m'ha dito de le parole, l'ha m'ha dito, che no le posso mo gnanca dire. So sorela m'ha descazzào, da resto... e co metto peota a Vigo, la poderò mantegnire. ISI. (da sé) (Mo el saràve giusto a proposito per Checchina)
SCENA XIV
PARON TONI, un Servitore con fiaschi, e detti.
TON. Xé qua el servitor, lustrissimo. ISI. Bravo! Metti zoso quei fiaschi, e va de là in cusina e varda in quel armeretto, che gh'é dei gotti. (servitore parte) TON. (Com'èla, paron Vicenzo?) VIC. (Ben, ben. S'ha scoverto de le còsse... Anderà tutto ben.) ISI. Tòffolo, alegramente, che vói che femo sto matrimonio. TOF. Magari, lustrissimo! TON. Olà, Toffolo, con chi? ISI. Con Checchina. TON. E mio fradelo Beppo sposerà Orsetta. ISI. Bravi! E Titta-Nane sposerà Lucietta. TIT. Se la vegnirà co le bone, può essere che mi la spose. ISI. A monte tutto. No gh'ha da esser puntigli. Avemo da far ste nozze, e vegnì qua tutti, e sposéve qua. Provederò mi i confetti, e ceneremo e faremo un festin, e staremo alegri. TOF. Paró Toni, aliègri. TON. Aliègri, paró Vicenzo. VIC. Aliègri.
ISI. Via, Titta-Nane, anca vu aliègri! TIT. So qua, so qua, no me cavo. ISI. Via, fé pase. TOF. Pase. (abbraccia Toni) TON. Pase. (abbraccia Toffolo) TOF. Amìgo. (abbraccia Titta) TIT. Amìgo. (abbraccia Toffolo) TOF. Paró Vicènzo. (abbraccia Vicenzo). VIC. Amici, amici.
SCENA XV
BEPPO e detti.
TOF. (salta ed abbraccia Betio) Amigo, pase, parente, amico. BEP. Férmete. (a Toni) Oh che strepiti! Oh che sussuri! Fradelo, no ve posso fenir de dire. ISI. Coss'é stà? BEP. (parla delle donne) Le ha criao, le s'ha dao, le stha petuffao. ISI. Chi? BEP. Mia cugnà Pasqua, Lucietta, donna Libera, Checca, Orsetta. So andao per andare, come che m'ha dito e sió Cogitore. No le m'ha volesto in cà, no le m'ha volesto. Orsetta m'ha serao el balcon in te'l muso. Lucietta no vól più Titta-Nane. Le cria, che le s'averze; e ho paura che le se voggia tornar a dare. TIT. Sangue de diana! Com'èla? Sangue de diana! (parte) TON Voggio andar a defendere mia muggière. (parte) BEP. Se daremo, se daremo, faremo custion, se daremo. (parte) VIC. Fermève, fermève, no sté a precipitare. (parte) TOF. Che i lassa stare Checca, oe! che i lassa stare. (parte) ISI. Siéu maledetti, siéu maledetti, siéu maledetti! (parte)
SCENA XVI
Strada con casa, come altre volte.
LUCIETTA e ORSETTA alla finestra delle loro casa. DONNA PASQUA di dentro. LUC. Còss'è? No ti vól più mio fradelo? No ti xé gnanca degna d'averlo. ORS. Oh! ghe vuol puoco a trovare de meggio. LUC. Chi troverastu? ORS. Rulo. LUC. Ghe mancheràve puoco, che no te fasse la rima. ORS. No se salo, che ti xé una sboccà? LUC. Sì se fusse co fa tì. ORS. Tasi se, che son una putta da ben. LUC. Se tale ti fussi, tale ti operaressi. ORS. Via sussurante. LUC. Cattabaruffe. PAS. (di dentro chiamandola forte) Lucietta, vien drento, Lucietta. LUC. Tì gh'anderà, via, ve', de sta contrà ORS. Chi? LUC. Ti.
PAS. (di dentro) Lucietta. ORS. Chiò, vara. (si batte nel gomito) LUC. Va al turo. (si ritira) ORS. Povera spórca! Con chi crédistu aver da fare? Mi sì, che me mariderò; ma tì? No ti troverà nissun che te vòggia. Uh! quel povero desgrazià che te voleva, el stava fresco; el giera conzà co le ceolette. No'l te vol più, ve'. Titta-Nane, no, ve', no'l te vól più, ve'. LUC. (torna al balcone). Mì no me n'importa, che anca se el me volesse, mì no lo vòggio. ORS. La volpe no vuol cerièse. LUC. Sì, sì, el sposerà quela sporca de to sorela. ORS. Oe, parla ben PAS. (di dentro) Lucietta. LUC. A mì, se ghe ne vòggio, no me n'amanca. ORS. Eh! lo so, che ti gh'ha el protettore. LUC. Tasi sa, che te farò desdire. PAS. (di dentro) Lucietta, Lucietta. ORS. (burlandosi di Lucietta) Oh che paura! LUC. Te farò vegnire l'angóssa. ORS. Maramèo, squaquarà, maramèo. LUC. Vago via, perché no me degno. (si ritira) ORS. Va via, va via, no te far smattare. (si ritira) LUC. (torna chiamandola col suo sopranome) Meggiòtto.
ORS. (torna e fa lo stesso) Panchiana. LUC. Tuffe. (si ritira) ORS. Malagrazia. (si ritira) LUC. (torna, e le dice con ironia e disprezzo) Mo che bela zòggia! ORS. (torna e le dice con ironia e disprezzo) Mo che boccoletto da riòsa!
SCENA XVII
TITTA-NANE, poi TONI e REPPO, e detti.
TIT. (a Lucietta) Còss'è? còssa àstu dito dei fatti mìi? LUC. Va in malora. Va a parlare con Checca. (parte) ORS. (a Titta) No ghe tendé, che la xé una matta. TON. (a Orsetta) Che muodo xé questo de strapazzare? ORS. (a Toni) Via, che sé tutta zente cattiva. BEP. Orsetta, Orsetta? ORS. Vatte a far squartare. (parte) TON. (a Titta) E tì no stare più a vegnire per casa, che no te vòggio. BEP. (a Titta) E no bazzegare qua oltra, che no te volèmo. TIT. Giusto, mo per questo, mo ghe vòggio vegnire. BEP. Se a Marmottina ghe l'ho promettue, a tì, mare de diana, te le darò, vara. (entra in casa). TIT. (fa un atto di disprezzo) Chiò sto canelào. TON. In tartana da mì no ghe stare a vegnire; provédite de paron, che mì me provederò de omo. (entra in casa)
SCENA XVIII
TITTA-NANE, poi PARON VICENZO, poi TOFFOLO, poi ISIDORO.
TIT. Corpo de una gaggiandra! qualchedun me l'ha da pagare. VIC. Titta-Nane, com'èla? TIT. Petto de diana! petto de diana! Arme, fora arme! VIC. Va via, matto. No star a precipitare. TIT. Voggio farme piccare; ma avanti, sangue de diana, ghe ne voggio colegare tre o quattro. TOF. So qua. Come xéla? TIT Arme, fora arme! TOF Mi no so gnente. (corre via, e s'incontra violentemeute con Isidoro urtandosi, ed Isidoro dà una spinta a Toffolo, e lo getta in terra). ISI. Ah bestia! TOF Ajuto! ISI. (a Toffolo) Con ghi la gh'àstu? TOF (alzandosi) I me vol dare. ISI. Chi è che te vuol dar? TOF Titta-Nane. TIT. No xé vero gnente.
ISI. (a Titta) Va via de quà, subito. VIC. No'l la gh'ha co elo, lustrissimo; el la gh'ha co Beppo, e co paron Toni. ISI. (a Titta) Va via de quà, te digo. VIC. (a Titta). Via, andèmo, cogné obbedire, cogné. ISI (a Vicenzo) (Menélo via, paron Vicenzo, e tegnilo con vù, e trattegnìve sotto el portego in piazza, dal barbier o dal marzeretto, che se vorò, se ghe sarà bisogno, ve manderò po a chiamar.) VIC. (a Isidoro) (Sarà obbedìa, lustrìssimo.) (a Titta) Andèmo. TIT. No voggio vegnire. VIC. Andèmo co mì, no te dubitare. So omo, so galantomo; vié co mì, non te dubitare. ISI. Via, va con elo; e fa quel che te dise paron Vicenzo; e abbi pazenzia, e aspetta: che pol esser, che ti sìi contento, e che te fazza afar quanta soddisfazion che ti vól. TIT. Me raccomando a ela, lustrissimo. So pover'omo, so galantomo, sió Cogitore; me raccomando a ela, sió Cogitore lustrissimo. (parte con Vicenzo)
SCENA XIX
ISIDORO e TOFFOLO.
ISI. (da sé) (Mì so, cossa ghe vorìa per giustarli. Un pezzo de legno ghe vorìa. Ma averàve perso el divertimento.) Vien qua, Tòffolo. TOF. Tìssimo. ISI. Vùstu che parlemo a sta putta, e che vedemo se se pol concluder sto maridozzo? TOF. Magari, lustrissimo! Ma bisogna parlare con donna Libera so sorela, e co so cugnà paró Fortunato. ISI. Saràli in casa, sta zente? TOF. No so, lustrìssimo. Adesso, se la vuò che chiame?... ISI. Andémo drento piuttosto. TOF. Mi in cà no ghe posso vegnire. ISI. Perché no ghe pùstu vegnir? TOF. A Chióza, lustrissimo, un putto donzelo nol ghe può andare, dove ghe xé de le putte da maridare. ISI. E pur so che tra vu altri se fa continuamente l'amor. TOF. In strà, lustrìssimo, se fa l'amore; e po la se fa domandare; e co la s'ha domandà, se po andare. ISI. Chiamémole in strada donca. TOF. Olà, paró Fortunato, ghe séu? Donna Libera, olà.
SCENA XX
DONNA LIBERA e detti, poi PARON FORTUNATO.
ISI. (da sé) (Eh! co sta sorda no me ne voggio impazzar). LIB. Cosstè? Cossa vùstu? TOF. Qua, e sió Cogitore LIB. Lustrissimo, còssa comàndelo? ISI. Com'éla? No sé più sorda? LIB. Oh! lustrissimo, no. Gh'aveva una flussion. So varìa. ISI. Cusì presto? LIB. Da un momento a l'altro. ISI. Anca sì, che giéri deventada sorda, per no dir... FOR. (a Isidoro) Tissimo. ISI. Ho gusto che sia qua anca compare Burataora. Son qua per dirve, se marideressi Checchina. LIB. Magàri, lustrìssimo! Me la destrigheria volentiera. FOR. Mì, utissimo, gh'ho promesso cento ducati. LIB. E altri cinquanta ghe li averemo sunai. ISI E mi ghe farò aver una grazia de altri cinquanta. LIB. Sièlo benedetto! Gh'àlo qualche partìo?
ISI. (accenna Toffolo) Vardé: ve piàselo quel partìo? FOR. Tòffao? Tòffao? Cattabaùffe, cattabaùffe. TOF. Mi no dago impazzo a nissun, co i me lassa stare... LIB. Con un puo' de battelo, come l'àla da mantegnire? TOF. No metteròggio suso peòta, no metteròggio? LIB. E dove la meneràstu, se no ti gh'ha né tétto, né cà? FOR. La ùstu menare i battelo la novizza a dormire? TOF. Ve podé tegnire i cento ducati, ve podé tegnire; e farme le spese a mi, e a mia muggière. ISI. Sì ben; nol dise mal, el gh'ha più giudizio che no credeva. Podé per qualche tempo tegnirlo in casa. LIB. Mo per quanto, lustrissimo? ISI. A conto de sti cento ducati, per quanto voréssistu, che i te fasse le spese? TOF. No so; almanco sie ani. FOR. Pùffeta! puffeta! sie ani? Puffeta! ISI. Ti voressi ben spender poco. TOF. Che la fazza ela, lustrissimo. ISI. (a Libera) Via, per un ano ve còmoda? LIB. (a Fortunato) Cossa diséu, paron? FOR. (a Libera) Fé vù, parona; parona, fé vù, parona. TOF. Mi stago a tutto, lustrissimo. ISI. (a Libera) Chiamé la putta. Sentimo còssa che la disc.
LIB. Oe, Checca. FOR. (chiama forte) Checca, Checca.
SCENA XXI
CBECCA e detti, poi ORSETTA, poi LUCIETTA.
CBE. So qua; còssa voléu? LIB. No ti se? CHE. Eh! ho sentìo tutto. FOR. Bava! é tà a pionare, bava! ISI. (a Checca) E cusì, còssa diséu? CHE. (a Isidoro) La senta una parola. ISI. Son qua. CHE. (a Isidoro) (De Titta-Nane no ghe xé speranza?) ISI. (a Checca) (El m'ha dito un de no tanto fatto.) TOF. (da sé, con sdegno) (Anca in rècchia el ghe parla?) CHE. (a Isidoro) (Mo per còssa?) ISI. (a Checca) (Perché el xé innamorà de Lucietta.) TOF. Lustrìssimo sió Cogitore. ISI. Cossa gh'é? TOF. Voràve sentire anca mì, voràve. ISI. (a Checca) Via, destrighéve. Lo voléu, o no lo voléu?
CBE. (a Libera) Còssa diséu, sorela? (a Fortunato) Còssa diséu, cugnà? LIB. (a Checca) Cossa dìstu ti? Lo vùstu? CHE. Perché no? TOF. (giubilando) Oh cara, la me vuole, oh cara! ISI. Fioli, Co gh'intro mì in te le còsse, mì no vòggio brui longhi. Destrighémose, e maridéve.
SCENA XXII
ORSETTA, e detti (poi BEPPO).
ORS. Comuòdo? Checca s'ha da maridare avanti de mì? Mì che xé tre anni che so in donzelon, no m'averò gnancora da maridare; e custìa, che xé la minore, s'ha da sposare avanti de la maggiore? FOR. Sì bè, sì bè, e gh'ha rasòn, sì bè. CHE. Gh'àstu invidia? Marìdete. Chi te tien che no ti te marìdi? FOR. Siò sì, siò sì, marìdete, se ti te vuò maridare. LIB. (a Orsetta) Ti lo gh'avevi el novizzo. Per còssa lo xèstu andà a desgustare? FOR. (a Orsetta) Ah! per còssa? ISI. (a Libera) No giérelo Beppo el so novizzo? LIB. Sior sì, Beppo. FOR. Beppo. ISI. Aspetté (alla sua casa) Beppo ghe xélo in casa? BEP. So qua, lustrissimo. ISI. Per còssa seu andà in còlera con Orsetta? BEP. Mì, lustrìssimo? L'è stada ela che m'ha strapazzào, l'è stada ela che m'ha descazzào. ISI. (a Orsetta) Sentìu, siora? ORS. No sàla, che la còlera orba, che no se sa de le volte quel che se diga!
ISI. (a Beppo) Sentìu? No la xé più in còlera. BEP. Anca mì son uno, che presto me la lasso are. ISI. Via donca: la xé giustada. (a Orsetta) Se no volé che Checca se marida prima de vù, e vù déghe la man a Beppo avanti de ela. ORS. (a Libera) Còssa diséu, sorela? LIB. A mì ti me domandi? FOR. (eccita con allegria Orsetta a maritarsi) Fala bela, Orsetta. Fala bela, fala bela.
SCENA XXIII
LUCIETTA e detti.
LUC. (a Beppo) Come, puoco de bon! sior omo senza reputazion, averessi tanto ardire de sposare culìa che n'ha strapazzà? ISI. (da sé) (Mèggio, da galantomo!) ORS. (a Lucietta con collera) Còssa xé sta culía? LIB. Oe, no se femo in vìssere. FOR. Olà; olà, olà. BEP. Mì no so còssa dire, mì no so còssa fare, mì me vói maridare. LUC. Mì prima m'ho da maridare; e fin che ghe so mì in cà, altre cugnà no ghe n'ha da vegnire. ISI. (a Beppo) Mo perchè no la maridéu? BEP. Perché Titta-Nane la gh'ha licenzià. ISI. Va là, Tòffolo; va in piazza sotto el pòrtego dal barbier; dighe a paron Vicenzo, che el vegna qua, e che el mena qua Titta-Nane, e che i vegna subito. TOF. Tìssimo sì. Checca, vegno ve', vegno. LUC. (da se') (Co Checca xé novizza co Marmottina, mi de Titta-Nane no gh'ho più zelusìa). ISI. Ghe xé caso, donne, donne, che no digo altro, che voggié far pase, che voggié tornar a esser amighe? LUC. Se ele no gh'ha gnente co mì, mì no gh'ho gnente co ele.
ISI. (a Libera, Orsetta e Checca) Cossa diséu? ORS. Mì da là a là no gh'è altro. LIB. Mì? Co no son tirada per i cavéi, no parlo mai co nissun. ISI. E vù, Checca? CHE. De diana! A mì me piase stare in pase co tutti. ISI. Via donca pacifichéve, baséve. ORS. Mì, sì. LUC. So qua.
SCENA XXIV
PASQUA e detti. PAS. Còssa? còssa fastu? Tì vuò far pase? Con custìe? Co sta zente? ISI. Oh! vegniréu vù adesso a romper le scattole? PAS. Me maraveggio: le m'ha strapazzà. ISI. Ouietéve anca vù. fenìmola. PAS. No me vòggio quietare; me diòle ancora sto brazzo. No me voggio quietare. ORS. (da sé) (Magàri l'avéssio struppià!)
SCENA XXV
PARON TONI e detti. ISI. Oe, paron Toni. TON. Lustrìssimo. ISI. Se no faré far giudizio a vostra muggièr... TON. Ho sentio, ho sentio, lustrìssimo, ho sentio. (a Pasqua) Animo; fa pase. PAS. No vòggio. TON. (minacciandola) Fa pase. PAS. No, no vòggio. TON. (tira fuori un legno) Fa pase, te digo: fa pase. PAS. (mortificata s'accosta) Sì, sì, mario, farò pase. ISI. Oh bravo! Oh bravo! Oh co bravo! LIB. Vié qua, Pasqua. PAS So qua. (s'abbracciano) LIB. Anca vù, putte. (tutte s'abbracciano e si baciano) ISI. Brave, e viva; e che la dra fin che la se rompe.
SCENA ULTIMA
PARON VICENZO, TITTA-NANE, TOFFOLOe detti; poi SERVITORE.
VIC. Sèmo qua, lustrìssimo. ISI. Oh! vegni qua. Titta-Nane, adesso xé el tempo, che mi ve fazza cognosser, se ve vói ben, e che vu fé cognosser che sé omo. VIC. Gh'ho tanto dito anca mi a Titta-Nane, che el me par mèzo a segno; e gh'ho speranza, che el farà tutto quelo che vuol el lustrissimo sió Cogitore. ISI. Via donca, mandé a monte tutto. Torné amigo de tutti, e disponéve a sposar Lucietta. TIT. Mi, lustrissimo? No la sposo, gnanca se i me picche. ISI. Oh bela! LUC. (da sé) (Mo no xéle còsse da pestarlo co fa el baccalà!) PAS. (a Titta) Oe, senti: se ti credessi che t'avesse da toccar Checca, vara ve': la s'ha da sposare co Tòffolo. FOR E mi cento ucati e dago. TIT. Mi no ghe ne penso; che la se spose con chi la vuole. ISI. (a Titta) E perché no voléu più Lucietta? TIT. Perché la m'ha dito: va in malora, la m'ha dito. LUC. Oh, vara ve'! E a mi còssa no m'àstu dito? ISI. Orsù, chi vól, vól, e chi no vól, so danno. Vu altri a bon conto, Checca e Tòffolo, déve la man.
TOF So qua. CHE. So qua anca mì. ORS. Sior no, fermève, che m'ho da maridar prima mì. ISI. Animo, Beppo, da bravo. BEP. Oe, mì no me farò pregare. LUC. (a Beppo) Sior no, se no me marido mì, no ti t'ha da maridar gnanca ti. PAS E la gh'ha rasón Lucietta. TON. E mì còssa sòggio? Mì no gh'ho da intrare? A mì no s'ha da parlare? Voléu che ve lo diga? Andé al diavolo quanti che sé, che son stuffo. (in atto di partire) CHE. (a Isidoro) Via, che no'l vaga. FOR. (a Isidoro) Tissimo. ORS. (a Isidoro) Che el se ferma. FOR. (a Isidoro fermandolo) Tissimo. LIB. (a Isidoro) Che el gh'abbia pazenzia. ISI. (a Lucietta) Per causa vostra tutti i altri torà de mèzo. LUC. Via, lustrissimo, che no'l me mortifica più davantazo. Per cause mia no vòggio che toga de mezo nissùn. Se son mì la cattiva, sarò mi la desfortunà. No'l me vuol Titta-Nane? pazenzia. Còssa gh'òggio fatto? se ho dito qualcòssa, el m'ha dito de pèzo elo. Ma mì ghe vòggio ben e gh'ho perdonà; e se elo no me vol perdonare, xé segno che no'l me vôl ben. (piange) PAS. (con ione) Lucietta. ORS. (a Titta-Nane) Oe, la pianze. LIB. (a Titta-Nane) La pianze.
CHE. (a Titta-Nane) La me fa peccao. TIT. (da sé) (Maledio! Se no me vergognasse!) LIB. (a Titta-Nane) Mo via, pussibile che gh'abbié sto cuor? Poverazza! Vardé, se no la farave muover i sassi. TIT. (a Lucietta rusticamente) Còssa gh'àstu? LUC. (piangendo) Gnente. TIT. (a Lucietta) Via, animo. LUC. Còssa vùstu? TIT. Coss'è sto fiffare? LUC. (a Titta-Nane con ione) Can, sassìn. TIT. (con imperio) Tasi. LUC. Ti me vuol lassare? TIT. Me faràstu più desperare? LUC. No. TIT. Me voràstu ben? LUC. Sì. TIT. Paron Toni, donna Pasqua, lustrìssimo, co bona licenzia. (a Lucietta) Dàme la man! LUC. (gli dà la mano) Tiò. TIT. (sempre ruvido) Tì xé mia muggière. ISI. Oh bella! (al servitore) Oe! Sansuga? SER. Lustrissimo!
ISI. Va subito a far quel che t'ho dito. SER. Subito. (parte) ISI. A vù, Beppo. Sotto vù. BEP. Mì? La varda con che facilitae. Paron Fortunato, donna Libera, lustrissimo, co so bona grazia. (dà la mano a Orsetta) Mario e muggière. ORS. (a Checca) Oh adesso mo, marìdete anca ti, che no me n'importa. ISI Tòffolo, chi é de volta? TOF. Mì, prima barca. Parò Fortunato, donna Libera, lustrissimo, co so bona licenzia. (dà la mano a Checca) CHE. (a Isidoro) Oe, la dote? ISI. Son galantomo, ve la prometto. CHE. (a Toffolo) Tiò la man. TOF. Muggière! CHE. Marìo! TOF. E viva! FOR. E viva, allegramente. Muggière, anca mi so in grìngola. SER. (a Isidoro) Xé qua tutti, co la comanda. ISI. Novizzi, allegramente. V'ho parecchià un poco de rinfresco; gh'ho un pèr de sonadori; vegnì con mí, che vói che se devertimo. Andémo, che baleremo quattro furlane. ORS. Qua, qua balemo, qua. ISI. Sì ben, dove che volé. Animo, porté fuora de le caréghe. Fé vegnir avanti quei sonadori; e ti, Sansuga, và al Casin, e porta qua quel rinfresco.
LUC. Sior sì, balemo, devertìmose, zà che semo novizzi; ma la sènta, lustrìssimo, ghe voràve dir dó parolètte. Mì ghe son obbligà de quel che l'ha fatto per mì, e anca ste altre novizze le ghe xé obbligae; ma me despiase, che el xé forèsto, e co'l va via de sto liógo, no voràve che el parlasse de nù, e che andasse fuora la nomina, che le Chiozotte xé baruffante; perché quel che l'ha visto e sentìo, xé stà un accidente. Semo donne da ben, e semo donne onorate; ma semo aliegre, e volemo stare aliegre, e volemo balare, e volemo saltare. E volemo che tutti posse dire: e viva le Chiozotte, e viva le Chiozotte!
IL RITORNO DALLA VILLEGGIATURA Commedia in tre atti. (1761)
PERSONAGGI Filippo Giacinta Leonardo Vittoria Guglielmo Costanza Rosina Tognino Bernardino, zio di Leonardo Fulgenzio Ferdinando Brigida Paolino Cecco Servitori
La scena si rappresenta, come nella prima, parte in casa di Filippo, e parte in casa di Leonardo.
L'AUTORE A CHI LEGGE Non trovo che gli Autori antichi, né gli Autori moderni, si siano molto divertiti a comporre più di una Commedia sullo stesso soggetto. Non conosco che il Menteur e la Suite du Menteur, due Commedie che Cornelio ha in parte tradotte ed in parte imitate dallo spagnuolo Lopez de Vega. Ma mi sia permesso di dire che il Seguito del Bugiardo non ha niente che fare colla commedia che lo precede. È vero che Damone, il Bugiardo, e Clitone suo servitore sono i medesimi personaggi nell'una e nell'altra, che si parla nella seconda di qualche avventura della prima, ma il soggetto è differentissimo, e il carattere dello stesso Bugiardo è cangiato: poiché nella prima commedia Damone mente per difetto, e nella seconda mente per generosità, e quasi per una indispensabile necessità. Io non ho inteso dunque d'imitare alcuno, allora quando ho cominciato a tentare una seconda Commedia in seguito di una prima, ed anche una terza in seguito delle altre due. La prima volta che ciò mi accadde, fu dopo l'esito fortunato della Putta onorata, Commedia Veneziana, alla quale feci succedere la Buona Moglie. Pamela e Pamela maritata sono due Commedie che hanno la stessa continuazione. Animato dalla buona riuscita di due Commedie consecutive, ho tentato le tre. Ciò mi è riuscito felicemente nelle Tre Persiane, di modo che il pubblico attendeva e domandava la quarta, e sempre più incoraggiato dall'esito fortunato, ho composto collo stesso legame le tre Commedie presenti; con questa differenza però, che le altre le ho immaginate una dopo dell'altra, e queste tutte e tre in una volta. Qual difficoltà (dirà forse taluno) è il compor tre Commedie sullo stesso soggetto? Quelle che ora tu doni al Pubblico, non formano che una sola Commedia, in nove atti divisa. Calisto e Melibea è una Commedia Spagnuola in quindici atti; non è maraviglia che tu ne abbia composta una in nove. Risponderei a chi parlasse in tal guisa, che Calisto e Melibea non potrebbe rappresentarsi in una sera, e non potrebbe dividersi in tre rappresentazioni; poiché l'azione di questa Commedia, irregolare e scandalosa, non è suscettibile di divisione alcuna. Ciascheduna delle mie tre Commedie principia all'incontro, e finisce, di maniera che se uno ne vede la seconda, e non ha veduto la prima, può esser contento, trovando una Commedia intelligibile, principiata e finita, e lo stesso si può dir della terza. Egli è vero che alla fine della seconda questa terza è promessa, ed ho lasciato ad arte qualche cosa indecisa per continuare il soggetto nella seguente; ma con dieci
righe di più si poteva nella seconda terminare l'azione perfettamente. Ho voluto lasciarmi libero il campo per una terza Commedia, la quale servisse come di conclusione alle due precedenti, per provare la follia delle smoderate villeggiature. Figurano in questa tutti i Personaggi della prima e della seconda, alla riserva di Sabina, che resta a Montenero, ma non è scordata del tutto, poiché una lettera arriva a tempo per farcela risovvenire. Questa continuazion dei caratteri, degl'interessi e delle ioni non dovrebbe sembrare indifferente e di poca fatica a chi ha qualche tintura di questa sorta di Componimenti teatrali. Mi resta a dir qualche cosa sul personaggio di Bernardino, novellamente in questa Commedia introdotto. Un personaggio che non ha che una scena sola, se non è un Servitore, un Notaro, un Messo, o cosa simile, pare debba essere un personaggio o inutile, o mal introdotto. Vedrà il Lettore che non è inutile, e comprenderà facilmente che un carattere odioso, come quello di Bernardino, può essere sofferto e anche goduto in una Scena; ma diverrebbe noioso ed insopportabile, se una seconda volta si rivedesse.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Leonardo. Leonardo, poi Cecco. LEONARDO: Tre giorni ch'io son tornato in Livorno, e la signora Giacinta e il signor Filippo non si veggiono. Mi hanno promesso, s'io non ritornava subito a Montenero, che sarebbero qui rivenuti bentosto, e non vengono, e non mi scrivono, e ho loro scritto, e non mi rispondono. La mia lettera l'avranno ricevuta ieri. Oggi dovrei aver la risposta. Ma l'ora è ata; dovrei averla già avuta. Se non iscrivono, probabilmente verranno. CECCO: Signore. LEONARDO: Che cosa c'è? CECCO: È domandato. LEONARDO: E da chi? CECCO: È un giovane che ha una polizza in mano. Credo sia il giovane del droghiere. LEONARDO: Perché non dirgli ch'io non ci sono? CECCO: Gliel'ho detto ieri e l'altr'ieri, com'ella mi ha comandato: ma vedendolo venire tre o quattro volte il giorno, è meglio ch'ella lo riceva, e lo spicci poi come vuole. LEONARDO: Va, digli che ho dato ordine a Paolino che saldi il conto. Che aspettasi a momenti da Montenero, e subito che sarà ritornato, lo salderà. CECCO: Sì, signore. (Parte.) LEONARDO: Ah! le cose mie vanno sempre di male in peggio. Quest'anno poi la villeggiatura mi è costata ancor più del solito.
CECCO: Signore, è qui quello della cera. LEONARDO: Ma bestia, perché non dirgli che non ci sono? CECCO: Ho detto secondo il solito: vedrò se c'è, non so se ci sia; ed egli ha detto: se non c'è, ho ordine di aspettarlo qui fin che torna. LEONARDO: Questa è un'impertinenza. Digli che lasci il conto, che manderò al negozio a pagarlo. CECCO: Benissimo, glielo dirò. (Parte.) LEONARDO: Pare che costoro non abbiano altro che fare; pare che non abbiano pan da mangiare. Sono sempre coll'arco teso a ferire il cuore de' galantuomini che non hanno con che pagare. CECCO: Anche questi se n'è andato poco contento, ma se n'è andato. Ecco il conto. (Dà il conto a Leonardo.) LEONARDO: Sieno maledetti i conti. (Straccia il conto.) CECCO: (Conto stracciato, debito saldato). LEONARDO: Va un po' a vedere dal signor Filippo, se fossero per avventura arrivati. CECCO: La servo subito. (Parte.) LEONARDO: Sono impazientissimo. In primo luogo per l'amore ch'io porto a quell'ingrata, a quella barbara di Giacinta; secondariamente, nello stato in cui sono, l'unico mio risorgimento potrebbe essere la sua dote. CECCO: Signore... LEONARDO: Spicciati; perché non vai dove ti ho mandato? CECCO: Vi è un'altra novità, signore. LEONARDO: E che cosa c'è? CECCO: Osservi. Una citazione.
LEONARDO: Io non so niente di citazioni. Io non accetto le citazioni: che la portino al mio procuratore. CECCO: Il procuratore non è in città. LEONARDO: E dov'è andato? CECCO: È andato in villeggiatura. LEONARDO: Cospetto! anche il mio procuratore in villeggiatura? Abbandona anch'egli per il divertimento gl'interessi propri e quelli de' suoi clienti! Io lo pago, gli do il salario, lascio di pagare ogni altro per pagar lui, fidandomi ch'ei m'assista, ch'ei mi difenda; e quando preme, non c'è, non si trova, è in villeggiatura? A me una citazione? Dov'è il messo che l'ha portata? CECCO: Oh! il messo è partito. L'ha consegnata a me; ha notato nel suo libretto il mio nome, ed è immediatamente partito. LEONARDO: Io non so che mi fare, aspetterò che torni il procuratore. Orsù, affrettati. Va a vedere se son tornati. CECCO: Vado immediatamente. (Parte.) LEONARDO: Sempre guai, sempre citazioni, sempre ricorsi. Ma giusto cielo! s'io non ne ho. E mi vogliono tormentare, e vogliono obbligarmi a quel ch'io non posso fare. Abbiano un po' di pazienza, li pagherò. Se sarò in istato di poterli pagare, li pagherò. CECCO: Signore, nello scendere le scale ho incontrato appunto il servitore del signor Filippo, che veniva per dar parte a lei ed alla signora Vittoria che sono ritornati a Livorno. LEONARDO: Fallo venire innanzi. CECCO: È partito subito. Mi ha fatto vedere una lista di trentasette case, alle quali prima del mezzogiorno ha da partecipare l'arrivo loro. LEONARDO: Portami il cappello e la spada. CECCO: Sì, signore. (Parte.)
LEONARDO: Sono impazientissimo di riveder Giacinta. Chi sa qual accoglimento mi farà ella in Livorno, dopo le cose occorse in campagna? Guglielmo tuttavia differisce a far la scritta con mia sorella. Sono in un mare d'agitazioni, e di più mi affliggono i debiti, mi tormentano i creditori. CECCO: Eccola servita. (Gli dà la spada e il cappello.) LEONARDO: Guarda se c'è nessuno in sala, o per le scale, o in terreno. CECCO: Sì, signore. (Parte.) LEONARDO: Ho sempre timore d'incontrar qualcheduno che mi faccia arrossire. Converrà, per andare dal signor Filippo, che allunghi la strada il doppio, per non are dalle botteghe de' creditori. CECCO: Signore, vi sono due che l'aspettano. LEONARDO: M'aspettano? Sanno eglino che ci sono? CECCO: Lo sanno, perché quello sciocco di Berto ha detto loro che c'è. LEONARDO: E chi sono costoro? CECCO: Il sarto e il calzolaio. LEONARDO: Licenziali; fa che vadano via. CECCO: E che cosa vuole ch'io loro dica? LEONARDO: Di' tutto quello che vuoi. CECCO: Non potrebbe dar loro qualche cosa a conto? LEONARDO: Mandali via, ti dico. CECCO: Signore, è impossibile. Costoro me l'hanno fatta dell'altre volte. Sono capaci di star qui fino a sera. LEONARDO: Hai tu le chiavi della porticina segreta? CECCO: Sono sulla porta, signore.
LEONARDO: Bene; andrò per di là. CECCO: Badi che la scala è oscura, è precipitosa. LEONARDO: Non importa; voglio andar via per di là. CECCO: Sarà piena di ragnatele, si sporcherà il vestito. LEONARDO: Poco male; non preme. (In atto di partire.) CECCO: E vuol che stieno colà ad aspettare? LEONARDO: Sì, che aspettino fin che il diavolo se li porti. (Parte.)
SCENA SECONDA
Cecco, poi Vittoria. CECCO: Ecco i deliziosi frutti della bella villeggiatura. VITTORIA: Dov'è mio fratello? CECCO: Non c'è, è andato via. (Piano.) VITTORIA: Perché lo dici piano, che è andato via? CECCO: Perché non sentino certe persone che sono in sala. VITTORIA: Se sono in sala, l'avranno veduto a partirsi. CECCO: Non signora, è andato per la porta segreta. VITTORIA: Questa mi pare una scioccheria, un'increanza. Ha delle visite in sala, e va via senza riceverle, e senza almen congedarle? Se sono persone di garbo, le riceverò io. CECCO: Le vuol ricever ella, signora? VITTORIA: Sì! chi son eglino? CECCO: Il sarto ed il calzolaro. VITTORIA: Di chi? CECCO: Del padrone. VITTORIA: E che cosa vogliono? CECCO: Niente altro che ricevere il saldo de' loro conti. VITTORIA: E perché mio fratello non li ha soddisfatti?
CECCO: Io credo ch'egli presentemente non si ritrovi in grado di farlo. VITTORIA: (Poveri noi!). Bada bene, non lo dir a nessuno; procura anzi che non si sappia. Vedi di mandar via quella gente con delle buone parole, che non s'abbiano a lamentare e che non facciano perdere la riputazione alla casa. Mio fratello non la vuol intendere, che quando si ha da dare, bisogna pagare o pregare. CECCO: (Parla assai bene la mia padrona. Ma anch'ella non opera come parla). VITTORIA: E dove è andato il signor Leonardo? CECCO: A far visita alla signora Giacinta. VITTORIA: È ritornata? CECCO: Sì, signora. VITTORIA: Quando? CECCO: Questa mattina. VITTORIA: Ed a me non ha mandato a dir niente? (Con isdegno.) CECCO: Sì, signora. Ha mandato il servitore coll'imbasciata per il padrone e per lei. VITTORIA: E perché non dirmelo? CECCO: Perdoni. Sono mezzo stordito. S'ella sapesse quanti imbrogli ci sono stati questa mattina. VITTORIA: Mi pareva impossibile che avesse trascurato di far con me il suo dovere. CECCO: Sento dello strepito in sala. Con sua licenza. VITTORIA: Cacciate via quei bricconi. CECCO: (Eh! già, ci s'intende. I poveri operai, quando domandano il sangue
loro, sono tutti bricconi). (Parte.) VITTORIA: Converrà ch'io vada a farle una visita. Come ultima ritornata, converrà ch'io sia la prima a complimentarla. Vi anderò, ma vi anderò di malanimo. Non l'ho mai potuta soffrire; ma ora poi, dopo le coserelle che nate sono in villeggiatura, quando mi viene in mente, mi si rimescola tutto il sangue. Guglielmo non ha ancora voluto firmar la scritta. Pochissimo si lascia da me vedere; sono in una agitazione grandissima. CECCO: Signora, è venuto il signor Fulgenzio. Ha domandato del padrone; gli ho detto che non c'è, ed ei lo vorrebbe aspettare. Se ella lo volesse ricevere... VITTORIA: Sì, sì, venga pure. Sono andati via coloro? CECCO: Parlano col signor Fulgenzio. (Parte.) VITTORIA: Ho piacere di parlare con questo vecchio, che ci ha fatto perdere sul più bello il piacere della campagna.
SCENA TERZA
Fulgenzio e la suddetta. FULGENZIO: (Povera casa! In che stato sei tu ridotta!). VITTORIA: Bravo, bravo, signor Fulgenzio. FULGENZIO: Servitor suo, signora Vittoria. VITTORIA: Che voglia è venuta a vossignoria di scrivere a mio fratello che nostro zio stava mal per morire, per farci venire a Livorno a rotta di collo? FULGENZIO: Io, dacché siete di qua partiti, non ho scritto una riga a vostro fratello; e vostro zio sta benissimo di salute, ed io in tal proposito non so quello che vi diciate. VITTORIA: Ma la lettera l'ho veduta io. FULGENZIO: Che lettera avete veduto? VITTORIA: Quella che fu scritta da voi. FULGENZIO: A chi? VITTORIA: A mio fratello. FULGENZIO: Signora, io dubito che ve lo abbiate sognato. VITTORIA: Come sognato, se siamo corsi a Livorno per essere a tempo, pria che spirasse lo zio? FULGENZIO: E chi vi ha detto questa bestialità? VITTORIA: La vostra lettera. FULGENZIO: Cospetto! voi mi fareste uscire de' gangheri. Vi dico ch'io non l'ho scritta, e non poteva ciò scrivere, e non l'ho scritta. (Con isdegno.)
VITTORIA: Ma che può essere dunque questa faccenda? FULGENZIO: Che può essere? Ve lo dirò io: cabale, invenzioni, alzature d'ingegno. VITTORIA: E di chi? FULGENZIO: Di vostro fratello. VITTORIA: Come di mio fratello? FULGENZIO: Sì, di lui, che ha menato finora una vita la più pazza, la più disordinata del mondo. Mi era stato detto da qualcheduno che le cose sue andavano per la mala strada; ma non credeva ch'ei fosse giunto a tal segno. Mi pento di essere entrato nell'affare di questo suo matrimonio; di aver colle mie parole accreditato in faccia del signor Filippo un uomo che non merita la sua figliuola. VITTORIA: Signor Fulgenzio, ella è un signore di garbo, le sono obbligata del panegirico che ci ha fatto, e della buona intenzione che ha di precipitar mio fratello. FULGENZIO: Si è precipitato da sé. Io sono portato per far del bene; ma quando però il bene di uno non rechi danno o disonore ad un altro. VITTORIA: Se foste portato per far del bene, procurereste almeno di liberare ora la nostra casa da questi insolenti, che per poche monete mettono a repentaglio la nostra riputazione. FULGENZIO: Fin qui ho potuto farlo, e l'ho fatto. In grazia mia si sono tutti partiti. Non ho fatto loro la sicurtà, perché non sono sì pazzo; ma con delle buone parole mi è riuscito far che si partissero, e sospendessero quella risoluzione che avevano in animo di voler prendere. Ma, signora mia, se non possono essere pagati, non gl'insultate almeno, non dite loro insolenti. Quando vostro fratello ha avuto d'essi bisogno, li ha maltrattati, li ha insultati; oppure con carezze, con parole dolci, con buone grazie ha cercato blandirli, allettarli, per essere servito, e servito bene? Ed ora che vengono per la quinta, sesta o settima volta a chiedere le loro mercedi, e perdono le loro giornate per essere stentatamente pagati, il fratello s'asconde e la sorella gl'insulta? È una ingiustizia, è una ingratitudine, è una tirannia.
VITTORIA: A me non serve che facciate di tai sermoni. FULGENZIO: Sì, lo so benissimo. È un predicare a' sordi. VITTORIA: Fateli a mio fratello, che ne ha più bisogno di me. FULGENZIO: E dov'è egli vostro fratello? VITTORIA: È andato a far visita alla signora Giacinta. FULGENZIO: Sono anch'eglino ritornati? Ho piacere... VITTORIA: Avvertite di non andar colà a far degli strepiti fuor di proposito. FULGENZIO: Farò tutto quello che crederò dover fare. VITTORIA: Non vi mettete all'azzardo di far disciogliere un contratto di matrimonio, ché queste cose non si possono fare. FULGENZIO: Eh! signora mia... scusatemi... Sapete cosa non si dee fare? Spendere più di quel che si può; far debiti per divertirsi; e stancheggiare e vilipendere i creditori. (Parte.)
SCENA QUARTA
Vittoria, poi Ferdinando. VITTORIA: Non si può dire ch'ei non dica la verità. Ma quando tocca, dispiace. FERDINANDO: Chi è qui? C'è nessuno? (Di dentro.) VITTORIA: Oh! il signor Ferdinando. Saprò da lui qualche novità. Venga, venga, signore: ci sono io. FERDINANDO: M'inchino alla signora Vittoria. VITTORIA: Serva sua. Ben tornato. FERDINANDO: Obbligatissimo. Ma non mi credea di dover ritornare sì presto. VITTORIA: Sarete venuto col signor Filippo e colla signora Giacinta. FERDINANDO: Sì, e si è fatto un viaggio così piacevole, che se durava due ore di più, mi veniva la febbre. VITTORIA: E perché? FERDINANDO: Perché la signora Giacinta non faceva che sospirare. Il signor Filippo ha dormito da Montenero sino a Livorno. La cameriera piangeva il morto; ed io ho patito una noia infinita. VITTORIA: E che aveva la signora Giacinta che sospirava? FERDINANDO: Aveva, aveva... delle pazzie per il capo, tante e poi tante, che io ne ho vergogna per parte sua. VITTORIA: Ma in che consistono le sue pazzie? FERDINANDO: Parliamo d'altro. L'avete saputa la nuova?
VITTORIA: Di che? FERDINANDO: Di Tognino. VITTORIA: Del figliuolo del signor dottore? FERDINANDO: Sì; è tornato suo padre. Ha saputo che voleva sposare quella ragazza. L'ha cacciato di casa, e non sapeva dove andar a mangiare e a dormire. La signora Costanza, che non vorrebbe che il matrimonio della nipote le costasse un quattrino, si è fatta pregare a riceverlo. Finalmente non ha potuto fare di meno. L'ha messo a dormire col servitore, gli dà la tavola; ma c'è poco da sbattere, ed il ragazzo è di buona bocca. Oggi dicevano di voler venire a Livorno, ed intendono di condur seco loro Tognino e mover lite a suo padre per gli alimenti, farlo sposar la fanciulla, e poi addottorarlo nell'università de' balordi. VITTORIA: L'istoriella è graziosa, ma non m'interessa gran fatto. Vorrei che mi diceste qualche cosa intorno la melanconia della signora Giacinta. FERDINANDO: Io, compatitemi, non soglio entrare ne' fatti altrui. VITTORIA: Ci siete entrato tanto, che basta per pormi in sospetto, e siete in obbligo di disingannarmi. FERDINANDO: E di che cosa potete voi sospettare? VITTORIA: Di quello che ho sospettato, anche prima di partire da Montenero. FERDINANDO: Io non so che pensaste allora, né quel che pensiate adesso. VITTORIA: S'ella sospira, avrà qualche cosa che la molesta. FERDINANDO: Naturalmente. VITTORIA: Per mio fratello non crederei ch'ella sospirasse. FERDINANDO: Oh! non mi è mai ato per mente di credere che ella sospirasse per lui.
VITTORIA: E per chi dunque? FERDINANDO: Chi sa? Non potrebbe ella sospirare per me? (Ridendo.) VITTORIA: Eh! no, per voi no; sospirerà forse per qualcun altro. FERDINANDO: A proposito. Ho perduto l'amante. La signora Sabina non mi vuol più. Dopo che le ho parlato di donazione, s'è affrontata, s'è fieramente sdegnata, e non ha più voluto nemmen vedermi; anzi, sentite s'ella è da ridere: per timore di dover venire con me, non ha voluto venire a Livorno. È restata lì a Montenero, e credo che ora si vergogni delle sue ragazzate e non voglia più venire in città, per non essere posta in ridicolo da tutto il mondo. VITTORIA: E voi avete il merito d'aver fatto sì buona opera. FERDINANDO: Io ho inteso di divertirmi, e di divertir la conversazione. VITTORIA: Lodatevi, che avete ragione di farlo. (Ironica.) FERDINANDO: Non mi pare di aver fatto cosa che meriti di essere criticata. Peggio assai mi parerebbe s'io tenessi a bada due fanciulle da marito, e fingessi d'amarne una per coprire la mia ion per un'altra. VITTORIA: E dove vanno a battere queste vostre parole? FERDINANDO: Battono nell'aria e lascio che l'aria le porti dove le vuol portare. VITTORIA: Sono parole le vostre orribili, velenose; parole che mi ano il cuore. FERDINANDO: E che cosa c'entrate voi? Io non le ho dette per voi. VITTORIA: E perché sospirava la signora Giacinta? FERDINANDO: Domandatelo a lei. VITTORIA: E chi è che tiene a bada due fanciulle? FERDINANDO: Domandatelo a lui.
VITTORIA: E chi è questo lui? FERDINANDO: Il signor lui in caso obbliquo, è il signor egli in caso retto. Nominativo hic, egli, genitivo huius, di lui. Signora Vittoria, ella mi pare di cattivo umore questa mattina. All'onore di riverirla; vado al caffè, dove mi aspettano i curiosi di sapere le avventure di Montenero. Ho da discorrerne per due settimane. Ho da divertire Livorno. Ho da far ridere mezzo mondo. (Parte.) VITTORIA: Oh lingua indemoniata! Si può sentire di peggio? Mi ha posto mille pulci nel capo. Ho da gran tempo de' sospetti, de' dubbi, de' batticuori. Costui ha finito di rovinarmi. Ho male in casa, vanno mal gl'interessi, sto pessimamente nel cuore. Povera me! Sconto bene il piacere della villeggiatura. Meglio per me ch'io non ci fossi nemmeno andata! (Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Filippo. Giacinta e Brigida. BRIGIDA: Via, via, signora padrona, non pensi tanto. Si diverta, stia allegra. Avverta bene, che la melanconia fa de' brutti scherzi. GIACINTA: A me non pare presentemente di essere melanconica, anzi sono così contenta, che non mi cambierei con una regina. Dopo che non vedo colui, mi pare di essere rinata. Sto così bene, che non sono mai stata meglio. BRIGIDA: Perdoni, non vorrei equivocare; per colui chi intende ella di dire? GIACINTA: Che sciocca difficoltà di capirmi! Non si sa, che quando dico colui, m'intendo di dire di Guglielmo? BRIGIDA: (Io tremava che dicesse colui allo sposo). GIACINTA: Non ho ragione di parlar di lui con disprezzo, con astio, con villania? Potea far peggio di quel che ha fatto? Tirarmi giù a tal segno? Innamorarmi sì pazzamente? Che vita miserabile non ho io menata per causa sua? Che spasimi, che timori non mi ha egli fatto provare? Non ho goduto un'ora di bene. Ha principiato a insidiarmi sino dal primo giorno. Ah! con qual arte si è egli insinuato nell'animo mio, nel mio cuore! Che artifiziose parole! Che sguardi languidi traditori! Che studiate attenzioni! E come sapea trovare i momenti per esser meco a quattr'occhi, e che soavi termini sapeva egli trovare, e con che grazia li pronunciava! (Con ione.) BRIGIDA: (Oh! non ci pensa più, me n'accorgo). (Ironica.) GIACINTA: Basta, grazie al cielo me ne son liberata. Parmi di avere avuto una malattia, ed essere perfettamente guarita. BRIGIDA: Perdoni, mi pare che vi sia un poco di convalescenza.
GIACINTA: No, t'inganni. Sono sana, sanissima, com'era prima. Ora tutti i mei pensieri sono occupati all'allestimento che si ha da fare per le mie nozze. Per quello che tocca a fare per mio padre, ho già pensato quello ch'io voglio ch'egli mi faccia. Per quello poi che appartiene allo sposo, io non voglio assolutamente che il signor Leonardo si riporti alla di lui sorella. Non voglio che diasi a lei l'incombenza di porre in ordine il mio vestiario; prima non le conviene, perché è fanciulla; e poi è di cattivo gusto. Si veste male per sé, e son sicura che sarebbe peggio per me. Ecco tutti i pensieri che mi occupano di presente; io non ho altro in testa che abiti, guarnizioni, gioje, pizzi di Fiandra, pizzi d'aria, fornimenti di bionda, scarpe, cuffie, ventagli. Questo è quanto m'interessa presentemente, e non penso ad altro. (Forzandosi di mostrare intrepidezza.) BRIGIDA: E fra tanti pensieri non le a per mente un po' di amore, un po' di bene allo sposo? GIACINTA: Io spero d'amarlo un giorno teneramente. Ho sentito dire che tanti che si sono sposati per amore, si sono prestissimo annoiati e pentiti; e che altri che l'hanno fatto per impegno, per rassegnazione semplice, e con poco amore, si sono poi innamorati col tempo, e sono stati bene fino alla morte. BRIGIDA: Certo, signora, ella non correrà pericolo d'annoiarsi per averlo troppo amato finora. Prego il cielo che la virtù del legame operi meglio per l'avvenire. GIACINTA: Sì, così ha da essere, e così sarà. Io prendo il signor Leonardo come un marito che mi è stato destinato dal cielo, che mi è dato dal padre. So ch'io devo rispettarlo ed amarlo. Circa al rispetto, farò il mio dovere; e circa all'amore, farò tutto quel ch'io potrò. BRIGIDA: Perdoni, proponendosi ella di volerlo sì ben rispettare, non farà dunque né più né meno di quello ch'egli vorrà. GIACINTA: Sì, ma il rispetto ha da esser reciproco. S'io ho del rispetto per lui, egli ne ha d'avere per me. Non ha perciò da trattarmi villanamente, e da tenermi in conto di schiava. BRIGIDA: (Eh! già; vuol rispettare il marito, ma vorrà fare a suo modo). GIACINTA: È molto che quel temerario di Guglielmo non abbia ancora tentato di farmi una visita.
BRIGIDA: S'egli venisse, m'immagino ch'ella non lo vorrebbe ricevere. GIACINTA: Perché‚ non l'ho da ricevere? Perché‚ ho da usare questa viltà di mostrar paura di lui? Non ho da esser padrona di me medesima? Non avrò bastante virtù per vederlo e trattarlo con indifferenza? Sono stata debole, è vero; ma in tre giorni ch'io non lo tratto, ho avuto campo di ravvedermi, e di fortificarmi lo spirito e il cuore. Bisogna pur ch'io mi avvezzi a ritrovarmi con esso lui, come mi ho da ritrovare con tanti altri. Ha da esser marito di mia cognata. Poco o molto, dobbiamo essere qualche volta insieme. Che cosa direbbe il mondo, se io sfuggissi la di lui vista? No, no, vo' principiare per tempo ad accostumarmi a trattarlo come se mai non lo avessi né amato, né conosciuto; e son capace di farlo, ed ho coraggio di farlo, e vedrai tu stessa con che bravura, con che spirito, mi darà l'animo di eseguirlo. BRIGIDA: E se il signor Leonardo non volesse ch'ella lo trattasse? GIACINTA: Il signor Leonardo sarebbe un pazzo. Perché non ha da voler che io pratichi un suo cognato? BRIGIDA: Non sa ella quanto è sottile la gelosia? GIACINTA: Il signor Leonardo sa che gelosie non ne voglio. BRIGIDA: Ma per altro, diciamola qui fra noi, ha avuto qualche motivo d'averne. GIACINTA: Quello che è stato, è stato. Ha avuto la soddisfazione che Guglielmo dia parola di sposar sua sorella, e la sposerà, e ciò gli deve bastare. Finalmente Guglielmo è un giovane onesto e civile, ed io sono una donna d'onore; e sarebbe una temerità il pensare diversamente. BRIGIDA: (Può dir quel che vuole, io non mi persuaderò mai che la piaga sia risanata).
SCENA SESTA
Servitore e le suddette. SERVITORE: Signora, è qui il signor Guglielmo che le vorrebbe far riverenza. BRIGIDA: (Veggiamo un poco la sua bravura). GIACINTA: (Oimè! che mai vuol dire questo gran foco che improvvisamente m'accende?). BRIGIDA: (Oh! come vien rossa la poverina!). GIACINTA: (Eh! coraggio ci vuole. Superiamola quest'indegna ione). Venga pure, è padrone. SERVITORE (parte.) BRIGIDA: Coraggio, signora padrona. GIACINTA: Perché coraggio? A che mi vai tu insinuando il coraggio? Di che cosa ho d'aver timore? (Eccolo. Oh cieli? tremo tutta, la ion mi tradisce ed il valore mi manca). Brigida, un improvviso dolor di stomaco mi obbliga a ritirarmi. Ricevi tu il signor Guglielmo, e digli che mi perdoni... (Ah! mi ucciderei colle mie mani). (Parte.)
SCENA SETTIMA
Brigida, poi Guglielmo. BRIGIDA: Gran virtù, gran coraggio! Eh poverina! è donna anch'ella, è di carne e d'ossa come le altre. GUGLIELMO: Dov'è la signora Giacinta? BRIGIDA: Perdoni, signore, mi ha imposto di far le sue scuse. GUGLIELMO: Mi ha pur detto il servitore ch'ella era qui. BRIGIDA: C'era, per verità; ma l'ha chiamata il suo signor padre. (Se gli dico che ha mal di stomaco, non lo crede, è una magra scusa). GUGLIELMO: Aspetterò il suo comodo. BRIGIDA: Scusi. Che cosa vuole da lei? GUGLIELMO: Ho da renderne conto a voi? Vo' fare il mio debito, riverirla, consolarmi del suo ritorno. Ecco quello ch'io voglio; ed ecco soddisfatta la vostra curiosità. BRIGIDA: Bene, signore. Io rappresenterò alla padrona le di lei finezze, e sarà come se le avesse ricevute in persona. GUGLIELMO: Non mi è permesso il vederla? BRIGIDA: Non mancherà tempo. È ancora stanca dal viaggio. GUGLIELMO: Questo è un insulto che mi vien fatto. Sono un uomo d'onore, e non credo di meritarlo. BRIGIDA: Caro signor mio, prenda la cosa come le pare; io non so che dirle. (Voglio veder io di rompere quest'amicizia, se posso). GUGLIELMO: Dite alla signora Giacinta che io sono lo sposo della signora
Vittoria. BRIGIDA: Credo ch'ella lo sappia, senza ch'io glielo dica. GUGLIELMO: E se non avessi questo carattere, non sarei venuto ad incomodarla. BRIGIDA: In virtù di questo carattere, avrà tempo di vederla e di rivederla, e di dirle tutto quello che vuole. GUGLIELMO: Voi dunque non le volete dir niente? BRIGIDA: Niente affatto, con sua buona licenza. GUGLIELMO: C'è in casa il signor Filippo? BRIGIDA: Io non lo so, signore. GUGLIELMO: Come dite di non saperlo, se poco fa mi diceste ch'egli ha chiamato la signora Giacinta? BRIGIDA: E se io gli ho detto che ha chiamato la signora Giacinta, perché mi domanda se c'è? GUGLIELMO: Per dir la verità, voi siete particolare. BRIGIDA: Perdoni... ho qualche cosa anch'io per il capo... (Ha ragion da una parte; il zelo mi trasporta un po' troppo).
SCENA OTTAVA
Leonardo e detti. LEONARDO: (Come! Guglielmo qui? Appena giunta Giacinta). BRIGIDA: (Ecco il signor Leonardo. E questo diavolo di Guglielmo non ha voluto andarsene). LEONARDO: Dov'è la signora Giacinta? (A Brigida.) BRIGIDA: È di là col suo signor padre. (A Leonardo.) GUGLIELMO: Amico. (Salutando Leonardo.) LEONARDO: Schiavo suo. (A Guglielmo, bruscamente.) Domandatele se mi è permesso di riverirla. (A Brigida.) BRIGIDA: Sì, signore, la servo. Perdoni: Paolino non è ancor ritornato? LEONARDO: No, non è ancor ritornato. BRIGIDA: Compatisca. Quando ritornerà? LEONARDO: Volete andare, o non volete andare? BRIGIDA: Vado, vado. (Oh! quest'è bella! Preme anche a me quanto possa premere a loro). (Parte.) LEONARDO: Siete molto sollecito a venir a complimentare la signora Giacinta. GUGLIELMO: Fo il mio dovere. LEONARDO: Non siete né sì attento, né sì polito verso la vostra sposa. GUGLIELMO: Favorite dirmi in che cosa ho mancato.
LEONARDO: Non mi fate parlare. GUGLIELMO: Se non parlerete, sarà impossibile ch'io vi capisca. LEONARDO: L'avete veduta la signora Giacinta? GUGLIELMO: Non signore. Volea riverirla, e non mi è stato ancora permesso. A voi non sarà negato l'accesso; onde vi supplico, col mezzo vostro, far ch'io possa esercitar con lei il mio dovere. LEONARDO: Signor Guglielmo, quando pensate voi di concludere le nozze con mia sorella? GUGLIELMO: Caro amico, io non credo che un matrimonio fra due persone civili s'abbia a formare senza le debite convenienze. LEONARDO: Ma perché intanto si differisce di sottoscrivere il nuzial contratto? GUGLIELMO: Questo può farsi qualunque volta vi piaccia. LEONARDO: Facciamolo dentro d'oggi. GUGLIELMO: Benissimo... LEONARDO: Favorite di andar dal notaro a renderlo di ciò avvisato. GUGLIELMO: Bene. Andrò ad avvisarlo. LEONARDO: Ma andate subito, se lo volete trovare in casa. GUGLIELMO: Sì, vado subito. Vi prego di pormi a' piedi della signora Giacinta; dirle ch'era venuto per un atto del mio rispetto. (Convien dissimulare. Non son contento s'io non le parlo ancora una volta). (Parte.)
SCENA NONA
Leonardo, poi Brigida. LEONARDO: Costui è d'un carattere che non arrivo ancora a comprendere. Mi dà motivo di sospettare, e poi mi fa talvolta pentire de' miei sospetti. La premura ch'egli ha di veder Giacinta, pare un po' caricata; ma se fosse reo di qualche indegna ione, non ardirebbe di parlar con me come parla, ed esibirsi ad accelerare il contratto con mia sorella. BRIGIDA: Signore, la mia padrona la riverisce, la ringrazia della sua attenzione, e la supplica di perdono se questa mattina non può ricevere le di lei grazie, perché sta poco bene, ed ha bisogno di riposare. LEONARDO: È a letto la signora Giacinta? BRIGIDA: Non è a letto veramente, ma è sdraiata sul canapè. Le duole il capo, e non può sentire a parlare. LEONARDO: E non mi è permesso di vederla, di riverirla, e di sentire da lei medesima il suo incomodo? BRIGIDA: Così m'ha detto, e così le dico. LEONARDO: Bene. Ditele che mi dispiace il suo male, che ne prevedo la causa, e che dal canto mio cercherò di contribuire alla sua salute. (Con isdegno.) BRIGIDA: Signore, non pensasse mai... LEONARDO: Andate, e ditele quel che v'ho detto. (Come sopra.) BRIGIDA: (Ha ragione, per verità, ha ragione. È cieca affatto, e la sua gran virtù se n'è andata in fumo). (Parte.)
SCENA DECIMA
Leonardo, poi il Servitore. LEONARDO: Sì, merito questo, e merito ancor di peggio. Dovea avvedermene prima d'ora, ch'ella non ha per me né amore, né stima, né gratitudine. Sono perdute le mie attenzioni; è vana la mia speranza, e guai a me se io arrivassi a sposarla. Ho dunque da perderla? Ho da metterla in libertà, perché poi con mio scorno, e con disonore della mia casa, si vegga ella sposar Guglielmo, e quell'indegno burlarsi di me, e dell'impegno contratto con mia sorella? No, non lo sperino certamente. Saprò scordarmi di quest'ingrata, ma non soffrirò vilmente l'insulto. Troverò la maniera di vendicarmi. Mi vendicherò ad ogni costo. A costo di perdermi, di precipitarmi. Sono in disordine, è vero, ma ho tanto ancora da potermi prendere una soddisfazione. Vo' far vedere al mondo che ho spirito, che ho sentimento d'onore. Sì, perfida, sì, amico traditore, mi vendicherò, me la pagherete. SERVITORE: Signore, un di lei servo ha portata per lei questa lettera. LEONARDO: E dov'è costui? SERVITORE: Mi ha domandato se ella c'era. Gli ho detto che sì. Mi ha dato la lettera, ed è partito. LEONARDO: Bene, bene. Non occorr'altro. (Legge la lettera piano.) SERVITORE: (È molto in collera questo signore. Ma anche la padrona è furente. Sono andati in campagna con allegria, e sono tornati col diavolino pel capo). (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
LEONARDO (solo): Povero me! Che sento! Che lettera è questa che mi scrive Paolino! Sequestrati i beni miei di campagna? Sequestrati i mobili del palazzino? Sino la biancheria, le posate e l'argenteria che mi fu prestata? Paolino medesimo arrestato in campagna per ordine della giustizia? Questa è l'ultima mia rovina, la riputazione è perduta. Piena ancora di gente è la villeggiatura di Montenero. Che diranno di me i villeggianti? Quale strapazzo si farà colà del mio nome? Che serve ch'io abbia figurato sinora con tanto sfarzo e con tanto lustro, se ora si scoprono le mie miserie, e sarà condannata la mia ambizione? Ah! questo colpo mi avvilisce, mi atterra. Giacinta, Guglielmo, si burleranno anch'essi di me. Qual vendetta vo' io meditando contro di loro? Chi è il nemico maggiore ch'io abbia fuor di me stesso? Io sono il pazzo, lo stolido, il nemico di me medesimo. (Parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera di Leonardo. LEONARDO (solo): Io non so che mi fare. Penso, e i miei tristi pensieri, anziché suggerirmi il rimedio, mi spingono alla disperazione. Io non so più in Livorno come sussistere, e non ho il modo e non ho il coraggio di allontanarmi. Che dirà di me la signora Giacinta? Come potrò io pretendere dal signor Filippo la di lui figliuola e gli ottomila scudi di dote nello stato miserabile in cui ora sono? Povero me! Fra le mie disgrazie non cessa ancora di tormentarmi l'amore. Oh cieli! Ecco il signor Fulgenzio. Arrossisco in vederlo; mi ricordo delle sue ammonizioni, de' suoi consigli, e so d'averne abusato.
SCENA SECONDA
Fulgenzio e il suddetto. FULGENZIO: (Eccolo qui il pazzo, il prodigo, l'infatuato). LEONARDO: Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. FULGENZIO: Servitor suo. (Sostenuto.) Si è divertito bene in campagna? LEONARDO: Caro signore, non mi parlate più di campagna. Le ho concepito un odio sì grande, che non andrei più a villeggiare per tutto l'oro del mondo. FULGENZIO: Sì, il proponimento è buono. Il male è che l'avete fatto un po' tardi. LEONARDO: È meglio tardi che mai. FULGENZIO: Basta che si sia in tempo, e che il proponimento non nasca dall'impotenza, piuttosto che dalla volontà di far bene. (Con caldo.) LEONARDO: Io non credo di essere in tal precipizio... FULGENZIO: E che cosa vi resta per essere rovinato più di quello che siete? Volete vendere a me pure lucciole per lanterne? Mi maraviglio di voi. Mi maraviglio che abbiate avuto il coraggio d'imbarazzare un galantuomo della mia sorte a chiedere per voi una fanciulla in isposa. Voi sapevate lo stato vostro, e chiamasi un tradimento, una baratteria bella e buona. Ma dal canto mio ci rimedierò: farò sapere al signor Filippo la verità; faccia poi egli quel che vuole, me ne vo' lavare le mani, e faccio un solenne proponimento di non imbarazzarmi mai più. LEONARDO: Ah! signor Fulgenzio, per amor del cielo, non mi mettete all'ultima disperazione. Giacché sapete lo stato mio, movetevi a comione di me. Io sono in circostanze lagrimose, che non mi resta alcun angolo in cui sperare di rifugiarmi, sarò costretto ad abbandonarmi alla più disperata
risoluzione. Senza roba, senza credito, senza amici, senza assistenza, la vita non mi serve che di rossor, che di pena. Assistetemi, signor Fulgenzio, assistetemi; sono sull'orlo del precipizio, non fate che termini la mia casa con una tragedia, con uno spettacolo della mia persona. FULGENZIO: Se foste mio figliuolo, vorrei rompervi l'ossa di bastonate. Ecco il linguaggio de' vostri pari: sono disperato, voglio strozzarmi, voglio affogarmi. A me poco dovrebbe premere, perché non ho verun interesse con voi. Ma son uomo, sento l'umanità, ho comione di tutti; meritate di essere abbandonato, ma non ho cuore di abbandonarvi. LEONARDO: Ah! il cielo vi benedica. Salvate un uomo, salvate una desolata famiglia. Liberatemi dal rossore, dalla miseria, dalla folla de' creditori. FULGENZIO: Ma che credete? Ch'io voglia rovinar me per aiutar voi? Ch'io voglia pagarvi i debiti, perché ne facciate degli altri? LEONARDO: No, signor Fulgenzio, non ne farò più. FULGENZIO: Io non vi credo un zero. LEONARDO: In che consistono dunque le esibizioni che finora mi avete fatte? FULGENZIO: Consistono in volermi adoperare per voi con dei buoni uffizi verso di vostro zio Bernardino, con delle buone parti verso chi ha più il modo di me, e qualche maggior obbligazione di soccorrervi nelle vostre disgrazie. E se impiego per voi il tempo, i i, e le parole, e i consigli, faccio più ancora di quello che mi s'aspetta. LEONARDO: Signore, io sono nelle vostre mani; ma con mio zio Bernardino non si farà niente. FULGENZIO: E perché non si farà niente? LEONARDO: Perché è sordido, avaro, e non darebbe un quattrino, chi l'appiccasse; e poi ha una maniera così insultante, che non si può tollerare. FULGENZIO: Sia come esser si voglia, si ha da far questo o, si ha da principiare da qui per andare innanzi. Se non v'aiuta lo zio, chi volete voi che lo
faccia? LEONARDO: È vero, non so negarlo; tutto quello che dite, è verissimo. FULGENZIO: Venite dunque con me. LEONARDO: Sì, vengo, ma ci vengo malissimo volentieri. (In atto di partire.)
SCENA TERZA
Vittoria in abito di gala, e detti. VITTORIA: Una parola, signor Leonardo. LEONARDO: Ditela presto, ch'io non ho tempo da trattenermi. VITTORIA: Voleva dirvi se volevate venir con me dalla signora Giacinta. LEONARDO: Ci verrei volentieri, ma presentemente non posso. Andateci voi. Sappiatemi dire come sta, come vi riceve, come parla di me, e in quale disposizione si trovi rispetto ai nostri sponsali. VITTORIA: Voi non l'avete ancora veduta? LEONARDO: No, non l'ho potuta ancora vedere. FULGENZIO: (Sollecitatevi, signor Leonardo). LEONARDO: Eccomi. (A Fulgenzio.) VITTORIA: Caro fratello, se principiate a diminuire le attenzioni per lei, sapete com'ella è, vi resta pochissimo da sperare. LEONARDO: Signor Fulgenzio, mezz'ora prima o mezz'ora dopo, mi pare sia lo stesso. FULGENZIO: (Vostro zio va a pranzo per tempo, e dopo pranzo è solito di dormire). (A Leonardo.) LEONARDO: (Non perdiamo tempo dunque). (A Fulgenzio.) VITTORIA: S'ella mi domanda di voi, s'ella si lamenta che non mostrate premura di rivederla, che cosa volete ch'io le dica per iscusarvi? LEONARDO: (Non si potrebbe differire a andar dallo zio dopo desinare.). (A Fulgenzio.)
FULGENZIO: (Volete un'altra volta vedervi la casa piena di creditori?). LEONARDO: (Cospetto! sarebbe per me una nuova disperazione). FULGENZIO: (Andiamo. Liberatevi da quest'affanno di cuore). VITTORIA: Stupisco, signor fratello, che dopo quel che è accaduto in villa usiate tanta freddezza in una cosa che vi dovrebbe interessare all'estremo. LEONARDO: (Ah! sì: Vittoria non dice male. È pericolosa l'indifferenza. Giacinta non mostra per me grand'amore, e tutto le potrebbe servir di pretesto). FULGENZIO: (O venite, o vi pianto). (A Leonardo.) LEONARDO: (Un momento per carità). (A Fulgenzio.) VITTORIA: (Ehi! Ricordatevi di quella visita che ha fatto la signora Giacinta alla gastalda di Montenero). (A Leonardo.) LEONARDO: (Oh malizioso rimprovero che mi trafigge!). Signor Fulgenzio, non potreste andar voi dallo zio Bernardino, e parlargli, ed intendere... FULGENZIO: Ho capito! buon giorno a vossignoria. (In atto di partire.) LEONARDO: No, trattenetevi; verrò con voi. (Dovunque mi volga, non ravviso che scogli, che tempeste, che precipizi). Andate, dite alla signora Giacinta... non so che risolvere... ditele quel che vi pare. Andiamo. (A Fulgenzio.) Son fuori di me; non so quel che mi voglia. S'accrescono i miei timori, le mie angustie, le mie crudeli disperazioni. (Parte con Fulgenzio.)
SCENA QUARTA
Vittoria, poi Guglielmo e Ferdinando. VITTORIA: È insolentissimo questo vecchio. Ma nello stato in cui siamo, convien credere che mio fratello abbia bisogno di lui, e convien soffrirlo. Oh, oh, ecco il signor Guglielmo! È tempo che si degni di favorirmi. Ma c'è con lui quello sguaiato di Ferdinando. Pare che Guglielmo lo faccia a posta. Pare ch'egli fugga l'incontro di esser meco da solo a sola. Quest'è segno di poco amore. Sempre più si aumentano i miei sospetti. FERDINANDO: (Ma, caro amico, ho i miei affari: io non mi posso trattener lungamente). (A Guglielmo.) GUGLIELMO: (Scusatemi. La visita sarà breve. Ho necessità di parlarvi). (A Ferdinando.) (Giacché ci ho da venire per mio malanno, la compagnia d'un terzo mi giova). (Da sé.) VITTORIA: (Hanno de' gran segreti que' due signori). FERDINANDO: M'inchino alla signora Vittoria. VITTORIA: Signore, che mai vuol dire ch'ella con tanta bontà mi frequenta le di lei grazie? (A Ferdinando.) FERDINANDO: Sono qui in compagnia dell'amico. VITTORIA: Ha paura a venir solo il signor Guglielmo? GUGLIELMO: Signora, scusatemi. Fin ch'io non ho l'onore di essere vostro sposo, parmi che il decoro vostro esiga questo rispetto. FERDINANDO: Ma, signori miei, quando si concludono le vostre nozze? VITTORIA: Quando piacerà al gentilissimo signor Guglielmo. GUGLIELMO: Signora, sapete meglio di me che un matrimonio non si può concludere su due piedi.
FERDINANDO: Avete fatta ancora la scritta? VITTORIA: Signor no, non ha ancora trovato il tempo per eseguire questa gran cosa che si fa in un momento, e che dovea esser fatta al nostro arrivo in Livorno. GUGLIELMO: Non mi è ancora riuscito di poter avere il notaro. FERDINANDO: E che bisogno ci è di notaro? Tali scritture si fanno anche privatamente. Mi era esibito di servirvi io a Montenero; e lo posso far qui, se volete. VITTORIA: Se si contenta il signor Guglielmo. GUGLIELMO: Per verità, il signor Leonardo mi ha incaricato di rintracciar il notaro. L'ho già veduto, e siamo in concerto ch'ei si ritrovi qui questa sera. Non mi pare che gli si abbia a fare una malagrazia, e che dalla mattina alla sera vi sia quest'estrema necessità per anticipare. VITTORIA: Via, via, quando si ha da far questa sera... FERDINANDO: Io credo che la signora Vittoria di già lo sapesse che si doveva in oggi sottoscrivere questa scritta. VITTORIA: Perché credete voi ch'io il sapessi? FERDINANDO: Perché si è vestita da sposa. VITTORIA: No, v'ingannate. Sono vestita un poco decentemente per far visita alla signora Giacinta. GUGLIELMO: Volete andar ora dalla signora Giacinta? VITTORIA: Sì, certo; giacché l'ho da far questa ceremonia, me ne vo' spicciare immediatamente. GUGLIELMO: Andate sola? VITTORIA: Voleva che venisse con me mio fratello; ma i suoi affari non gliel'hanno permesso.
GUGLIELMO: Vi servirò io, se lo comandate. VITTORIA: Oh! signor Guglielmo, la ringrazio della bontà che ha per me; questa è la prima volta ch'io la ritrovo meco così gentile. No, no, signore, non le voglio dar quest'incomodo. (Ironicamente.) FERDINANDO: (Ora principia la visita a divertirmi). GUGLIELMO: Signora, scusatemi. Io credo che l'andarvi insieme non sia che bene. Sono in debito anch'io di far un simil dovere col signor Filippo e colla signora Giacinta; e se mi accompagno con voi, non ne dovreste essere malcontenta. VITTORIA: Mi ricordo il vostro saggio riflesso. Finché non siete mio sposo, non è conveniente che ci veggano andar insieme. FERDINANDO: Dice bene; parla prudentemente. Andate voi a sollecitare il notaio. Io avrò l'onor di servirla dalla signora Giacinta. VITTORIA: Non sarebbe mal fatto che al mio ritorno, fra un'ora al più, vi ritrovassi qui col notaio. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: E volete andare col signor Ferdinando? VITTORIA: Sì, andrò con lui, per non andar sola. GUGLIELMO: Con lui vi piace, e con me vi dispiace? FERDINANDO: Io mi esibisco per far piacere ad entrambi. VITTORIA: Con lui non posso essere criticata. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Sì, signora, ho capito. Il mio cattivo temperamento v'annoia. Il signor Ferdinando è spiritoso e brillante. Principiate assai di buon'ora a farmi comprendere che io devo essere un marito poco felice. Parliamoci chiaro, signora: se io vi dispiaccio, siete ancora in libertà di risolvere. VITTORIA: Se non avessi amore per voi non m'inquieterei per la vostra freddezza, e non vi darei tanti stimoli per sollecitare la scritta.
GUGLIELMO: Dite d'amarmi, e in faccia mia preferite un altro? FERDINANDO: Ehi! amico, sareste per avventura di me geloso? VITTORIA: Non credo mai che vi venissero in capo di tai pensieri. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Io non penso fuor di ragione; e mi persuado di quel ch'io vedo. VITTORIA: Signor Guglielmo, parlatemi con sincerità. GUGLIELMO: Io non vi posso parlare in miglior modo di quel che vi faccio. Dicovi che questo è un torto che voi mi fate, e che non mi credeva di meritarlo. VITTORIA: (Mi ama dunque più di quello ch'io supponeva). FERDINANDO: Signori, se io ho da esser d'incomodo, me ne vado immediatamente. GUGLIELMO: No, no, restate pure; e servite la signora Vittoria. VITTORIA: No, caro signor Guglielmo, non prendete la cosa in sinistra parte. Vi chiedo scusa se ho potuto spiacervi. Vi amo colla maggior tenerezza del mondo. Ho da essere vostra sposa, e da voi solo vogl'io dipendere. Verrò con voi dalla signora Giacinta. Tralascierò d'andarvi, se pur piace. GUGLIELMO: Il nostro debito ci sprona egualmente a quest'atto di convenienza. VITTORIA: Andiamoci dunque immediatamente. Scusi, signor Ferdinando, s'io non mi prevalgo delle sue grazie. FERDINANDO: Si serva pure. Per me sono indifferente. GUGLIELMO: Il signor Ferdinando favorirà di venir con noi. VITTORIA: Ma non c'è bisogno... GUGLIELMO: Sì, signora, ce n'è bisogno per quella massima di onestà, di decoro, che io ho suggerita, e che voi avete approvata.
FERDINANDO: Sicché dunque io ho da servire di comodino. VITTORIA: Ah! signor Guglielmo, se è ver che mi amate... GUGLIELMO: Via, andiamo, prima che si avvicini l'ora del pranzo. VITTORIA: Eccomi pronta, come vi piace. GUGLIELMO: Amico, favorite la signora Vittoria. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Volete ch'io le dia braccio? (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Sì, fateci quest'onore. VITTORIA: E perché non lo fate voi? GUGLIELMO: So le mie convenienze, signora. Mi basta di non essere maltrattato. VITTORIA: Ma, io certamente... GUGLIELMO: Signora, un poco più di rassegnazione: vi prego di lasciarvi servire. VITTORIA: Obbedisco. (Principio ad essere un po' più contenta). (Dà la mano a Ferdinando.) FERDINANDO: (Per dire la verità, mi fanno fare certe figure... Basta; mi consolo che al pasto nuziale ci avrà da essere la mia posata). (Parte con Vittoria.) GUGLIELMO: (Quanto mai ho dovuto fingere e faticare, per cogliere l'opportunità di rivedere Giacinta). (Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Bernardino. Bernardino in veste da camera all'antica, e Pasquale servitore; poi Fulgenzio. BERNARDINO: Chi è che mi vuole? Chi mi domanda? (A Pasquale.) PASQUALE: È il signor Fulgenzio che desidera riverirla. BERNARDINO: Padrone, padrone. Venga il signor Fulgenzio, padrone. FULGENZIO: Riverisco il signor Bernardino. BERNARDINO: Buon giorno, il mio caro amico. Che fate? State bene? È tanto che non vi vedo. FULGENZIO: Grazie al cielo sto bene, quanto è permesso ad un uomo avanzato che principia a sentire gli acciacchi della vecchiaia. BERNARDINO: Fate come fo io, non ci abbadate. Qualche male si ha da soffrire; ma chi non ci abbada, lo sente meno. Io mangio quand'ho fame, dormo quando ho sonno, mi diverto quando ne ho volontà. E non bado; non bado. E a che cosa s'ha da badare? Ah, ah, ah, è tutt'uno! non ci s'ha da badare. (Ridendo.) FULGENZIO: Il cielo vi benedica: voi avete un bellissimo temperamento. Felici quelli che sanno prendere le cose come voi le prendete. BERNARDINO: È tutt'uno, è tutt'uno. Non ci s'ha da badare. (Ridendo.) FULGENZIO: Sono venuto ad incomodarvi per una cosa di non lieve rimarco. BERNARDINO: Caro signor Fulgenzio, sono qui, siete padrone di me. FULGENZIO: Amico, io vi ho da parlare del signor Leonardo vostro nipote. BERNARDINO: Del signor marchesino? Che fa il signor marchesino? Come
si porta il signor marchesino? FULGENZIO: Per dir la verità, non ha avuto molto giudizio. BERNARDINO: Non ha avuto giudizio? Eh capperi! Mi pare che abbia più giudizio di noi. Noi fatichiamo per vivere stentatamente; ed ei gode, scialacqua, tripudia, sta allegramente: e vi pare ch'ei non abbia giudizio? FULGENZIO: Capisco che voi lo dite per ironia, e che nell'animo vostro lo detestate, lo condannate. BERNARDINO: Oh! io non ardisco d'entrare nella condotta dell'illustrissimo signor marchesino Leonardo. Ho troppo rispetto per lui, per il suo talento, per i suoi begli abiti gallonati. (Ironico.) FULGENZIO: Caro amico, fatemi la finezza, parliamo un poco sul serio. BERNARDINO: Sì, anzi; parliamo pure sul serio. FULGENZIO: Vostro nipote è precipitato. BERNARDINO: È precipitato? È caduto forse di sterzo? I cavalli del tiro a sei hanno forse levato la mano al cocchiere? FULGENZIO: Voi ridete, e la cosa non è da ridere. Vostro nipote ha tanti debiti, che non sa da qual parte scansarsi. BERNARDINO: Oh! quando non c'è altro mal, non è niente. I debiti non faranno sospirar lui, faranno sospirare i suoi creditori. FULGENZIO: E se non vi è più roba, né credito, come farà egli a vivere? BERNARDINO: Niente; non è niente. Vada un giorno per uno da quelli che hanno mangiato da lui, e non gli mancherà da mangiare. FULGENZIO: Voi continuate sul medesimo tuono, e pare che vi burliate di me. BERNARDINO: Caro il signor Fulgenzio, sapete quanta amicizia, quanta stima ho per voi.
FULGENZIO: Quand'è così, ascoltatemi come va, e rispondetemi in miglior maniera. Sappiate che il signor Leonardo ha una buona occasione per maritarsi. BERNARDINO: Me ne consolo, me ne rallegro. FULGENZIO: Ed è per avere ottomila scudi di dote. BERNARDINO: Me ne rallegro, me ne consolo. FULGENZIO: Ma se non si rimedia alle sue disgrazie, non averà la figlia, e non averà la dote. BERNARDINO: Eh! un uomo come lui? Batte un piè per terra, e saltano fuori i quattrini da tutte le parti. FULGENZIO: (Or ora perdo la sofferenza. Me l'ha detto il signor Leonardo). Io vi dico che vostro nipote è in rovina. (Sdegnato.) BERNARDINO: Sì eh? Quando lo dite, sarà così. (Fingendo serietà.) FULGENZIO: Ma si potrebbe rimettere facilmente. BERNARDINO: Benissimo, si rimetterà. FULGENZIO: Però ha bisogno di voi. BERNARDINO: Oh! questo poi non può essere. FULGENZIO: E si raccomanda a voi. BERNARDINO: Oh il signor marchesino! è impossibile. FULGENZIO: È così, vi dico, si raccomanda alla vostra bontà, al vostro amore. E se non temessi che lo riceveste male, ve lo farei venire in persona a far un atto di sommissione, e a domandarvi perdono. BERNARDINO: Perdono? Di che mi vuol domandare perdono? Che cosa mi ha egli fatto da domandarmi perdono? Eh! mi burlate: io non merito queste attenzioni; a me non si fanno di tali uffizi. Siamo amici, siamo parenti. Il signor Leonardo? Oh! il signor Leonardo mi scusi, non ha da far con me queste ceremonie.
FULGENZIO: Se verrà da voi, l'accoglierete con buon amore? BERNARDINO: E perché non l'ho da ricevere con buon amore? FULGENZIO: Se mi permettete dunque, lo farò venire. BERNARDINO: Padrone, quando vuole; padrone. FULGENZIO: Quand'è così, ora lo chiamo, e lo fo venire. BERNARDINO: E dov'è il signor Leonardo? FULGENZIO: È di là in sala, che aspetta. BERNARDINO: In sala, che aspetta? (Con qualche maraviglia.) FULGENZIO: Lo farò venire, se vi contentate. BERNARDINO: Sì, padrone; fatelo venire. FULGENZIO: (Sentendo lui, può essere che si muova. Per me mi è venuto a noia la parte mia). (Parte.)
SCENA SESTA
Bernardino, poi Fulgenzio e Leonardo, poi Pasquale. BERNARDINO: Ah, ah, il buon vecchio! se l'ha condotto con lui. Ha attaccato egli la breccia, e poi ha il corpo di riserva per invigorire l'assalto. FULGENZIO: Ecco qui il signor Leonardo. LEONARDO: Deh! scusatemi, signor zio... BERNARDINO: Oh! signor nipote, la riverisco; che fa ella? Sta bene? Che fa la sua signora sorella? Che fa la mia carissima nipotina? Si sono bene divertiti in campagna? Sono tornati con buona salute? Se la ano bene? Sì, via, me ne rallegro infinitamente. LEONARDO: Signore, io non merito di esser da voi ricevuto con tanto amore, quanto ne dimostrano le cortesi vostre parole; onde ho ragion di temere, che con eccessiva bontà vogliate mascherare i rimproveri che a me sono dovuti. BERNARDINO: Che dite eh? Che bel talento che ha questo giovane! Che maniera di dire! che bel discorso! (A Fulgenzio.) FULGENZIO: Tronchiamo gl'inutili ragionamenti. Sapete quel che vi ho detto. Egli ha estremo bisogno della bontà vostra, e si raccomanda a voi caldamente. BERNARDINO: Che possa... in quel ch'io posso... se mai potessi... LEONARDO: Ah! signor zio... (Col cappello in mano.) BERNARDINO: Si copra. LEONARDO: Pur troppo la mia mala condotta... BERNARDINO: Metta il suo cappello in capo. LEONARDO: Mi ha ridotto agli estremi.
BERNARDINO: Favorisca. (Mette il cappello in testa a Leonardo.) LEONARDO: E se voi non mi prestate soccorso... BERNARDINO: Che ora abbiamo? (A Fulgenzio.) FULGENZIO: Badate a lui, se volete. (A Bernardino.) LEONARDO: Deh! signor zio amatissimo... (Si cava il cappello.) BERNARDINO: Servitor umilissimo. (Si cava la berretta.) LEONARDO: Non mi voltate le spalle. BERNARDINO: Oh! non farei questa mal'opera per tutto l'oro del mondo. (Colla berretta in mano.) LEONARDO: L'unica mia debolezza è stata la troppa magnifica villeggiatura. (Sta col cappello in mano.) BERNARDINO: Con licenza. (Si pone la berretta.) Siete stati in molti quest'anno? Avete avuto divertimento? LEONARDO: Tutte pazzie, signore; lo confesso, lo vedo, e me ne pento di tutto cuore. BERNARDINO: È egli vero che vi fate sposo? LEONARDO: Così dovrebbe essere, e ottomila scudi di dote potrebbono ristorarmi. Ma se voi non mi liberate da qualche debito... BERNARDINO: Sì, ottomila scudi sono un bel danaro. FULGENZIO: La sposa è figliuola del signor Filippo Ganganelli. BERNARDINO: Buono, lo conosco, è un galantuomenone; è un buon villeggiante; uomo allegro, di buon umore. Il parentado è ottimo, me ne rallegro infinitamente. LEONARDO: Ma se non rimedio a una parte almeno delle mie disgrazie...
BERNARDINO: Vi prego di salutare il signor Filippo per parte mia. LEONARDO: Se non rimedio, signore, alle mie disgrazie... BERNARDINO: E ditegli che me ne congratulo ancora con esso lui. LEONARDO: Signore, voi non mi abbadate. BERNARDINO: Sì, signore, sento che siete lo sposo, e me ne consolo. LEONARDO: E non mi volete soccorrere?... BERNARDINO: Che cosa ha nome la sposa? LEONARDO: Ed avete cuore d'abbandonarmi? BERNARDINO: Oh! che consolazione ch'io ho nel sentire che il mio signor nipote si fa sposo. LEONARDO: La ringrazio della sua affettata consolazione, e non dubiti che non verrò ad incomodarla mai più. BERNARDINO: Servitore umilissimo. LEONARDO: (Non ve l'ho detto? Mi sento rodere; non la posso soffrire). (A Fulgenzio, e parte.) BERNARDINO: Riverisco il signor nipote. FULGENZIO: Schiavo suo. (A Bernardino, con sdegno.) BERNARDINO: Buondì, il mio caro signor Fulgenzio. FULGENZIO: Se sapeva così, non veniva ad incomodarvi. BERNARDINO: Siete padroni di giorno, di notte, a tutte le ore. FULGENZIO: Siete peggio d'un cane. BERNARDINO: Bravo, bravo. Evviva il signor Fulgenzio.
FULGENZIO: (Lo scannerei colle mie proprie mani). (Parte.) BERNARDINO: Pasquale? PASQUALE: Signore. BERNARDINO: In tavola. (Parte.)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Filippo. Giacinta e Brigida, poi il Servitore. BRIGIDA: No, signora, non occorre dire: dirò, farò, così ha da essere, così voglio fare. In certi incontri non siamo padrone di noi medesime. GIACINTA: E che sì, che in un altro incontro non mi succederà più quello che mi è succeduto? BRIGIDA: Prego il cielo che così sia, ma ne dubito. GIACINTA: Ed io ne son sicurissima. BRIGIDA: E donde può ella trarre una tal sicurezza? GIACINTA: Senti: convien dire che il cielo mi vuol aiutare. Nell'agitazione in cui era, per cercare di divertirmi ho preso un libro. L'ho preso a caso, ma cosa più a proposito non mi potea venir alle mani; è intitolato: Rimedi per le malattie dello spirito. Fra le altre cose ho imparato questa: Quand'uno si trova occupato da un pensiere molesto, ha da cercar d'introdurre nella sua mente un pensier contrario. Dice che il nostro cervello è pieno d'infinite cellule, dove stan chiusi e preparati più e diversi pensieri. Che la volontà può aprire e chiudere queste cellule a suo piacere, e che la ragione insegna alla volontà a chiuder questa e ad aprire quell'altra. Per esempio, s'apre nel mio cervello la celletta che mi fa pensare a Guglielmo, ho da ricorrere alla ragione, e la ragione ha da guidare la volontà ad aprire de' cassettini ove stanno i pensieri del dovere, dell'onestà, della buona fama; oppure se questi non s'incontrano così presto, basta anche fermarsi in quelli delle cose più indifferenti, come sarebbe a dire d'abiti, di manifatture, di giochi di carte, di lotterie, di conversazioni, di tavole, di eggi e di cose simili; e se la ragione è restia, e se la volontà non è pronta, scuoter la macchina, moversi violentemente, mordersi le labbra, ridere con veemenza, finché la fantasia si rischiari, si chiuda la cellula del rio pensiero, e s'apra quella cui la ragione addita ed il buon voler ci presenta.
BRIGIDA: Mi dispiace non saper leggere; vorrei pregarla mi permettesse poter anch'io leggere un poco su questo libro. GIACINTA: Hai tu pure de' pensieri che ti molestano? BRIGIDA: Ne ho uno, signora, che non mi lascia mai, né men quando dormo. GIACINTA: Dimmi qual è, che può essere ch'io t'insegni qual cellula devi aprire per discacciarlo. BRIGIDA: Egli è, signora mia, per confessarle la verità, ch'io sono innamoratissima di Paolino, ch'ei mi ha dato speranza di sposarmi; ed ora è a Montenero per servizio del suo padrone, e non si sa quando possa tornare. GIACINTA: Eh! Brigida, questo tuo pensiere non è sì cattivo, né può essere sì molesto, che tu abbia d'affaticarti per discacciarlo. Il partito non isconviene né a te, né a lui. Non ci vedo ostacoli al tuo matrimonio; basta che, senza chiudere la cellula dell'amore, tu apra quella della speranza. BRIGIDA: Per dir la verità, mi pare che tutte e due sieno ben aperte. SERVITORE: Signora, vengono per riverirla la signora Vittoria, il signor Ferdinando ed il signor Guglielmo. GIACINTA: (Oimè!). Niente, niente, vengano. Son padroni. SERVITORE (parte.) BRIGIDA: Eccoci al caso, signora padrona. GIACINTA: Sì, ho piacere di trovarmi nell'occasione. BRIGIDA: Si ricordi della lezione. GIACINTA: L'ho messa in pratica immediatamente. Appena volea molestarmi un pensier cattivo, l'ho subito discacciato pensando al signor Ferdinando, che è persona giocosa, che mi farà ridere infinitamente. BRIGIDA: Rida e scuota la macchina, e si diverta.
SCENA OTTAVA
Vittoria, Guglielmo, Ferdinando e le suddette. VITTORIA: Ben venuta, la mia cara Giacinta. GIACINTA: Ben trovata, ben trovata. Padroni. Presto, da sedere. (Con grande allegria.) FERDINANDO: Sta bene la signora Giacinta? GIACINTA: Bene, benissimo. Non sono mai stata meglio. GUGLIELMO: Mi consolo di vederla star bene. GIACINTA: Grazie, grazie. Presto, le sedie. Date qui, una sedia qui. (Prende una sedia con forza.) BRIGIDA: (Ha bisogno di scuoter la macchina). GIACINTA: Via, seggano, favoriscano. Che novità ci sono in Livorno? (Con allegria.) VITTORIA: Io non ho sentito a dir niente di particolare. GIACINTA: Qui, qui, il signor Ferdinando che sa tutto, che gira per tutto, ci dirà egli le novità del paese. FERDINANDO: Signora, io sono venuto stamattina con voi; che cosa volete ch'io sappia dirvi? Quando non sa qualche cosa il signor Guglielmo. GUGLIELMO: Ci è una novità, ma qui non la posso dire. GIACINTA: Eh! diteci voi qualche cosa di allegro. (A Ferdinando, battendolo con forza nel braccio.) FERDINANDO: Ma io non so cosa dire.
VITTORIA: Sentiamo, se non tutto, qualche cosa almeno di ciò che voleva dire il signor Guglielmo. GIACINTA: Voi, voi, raccontateci voi. (A Ferdinando, battendolo come sopra.) BRIGIDA: (Ora scuote la macchina del signor Ferdinando). FERDINANDO: Signora, voi mi volete rompere questo braccio. GIACINTA: Poverino! povero delicatino! V'ho fatto male? GUGLIELMO: Un poco di carità, signora, un poco di carità. GIACINTA: (Oh! che tu sia maladetto!). Ma quanto è grazioso questo signor Ferdinando! Mi fa ridere, mi fa crepar di ridere, e quando rido di core, mi manca il fiato. VITTORIA: Che vuol dire, signora Giacinta, che oggi siete sì allegra? GIACINTA: Non lo so nemmen io. Ho un brio, ho un'allegrezza di core, che non ho mai provata la simile. FERDINANDO: Ci deve essere il suo perché. GUGLIELMO: Sarà probabilmente perché si avvicinano le sue nozze. GIACINTA: (Gli si possa seccar la lingua!). Avete un gran bell'abito, Vittorina. VITTORIA: Eh! un abitino abile. FERDINANDO: Principia anche in lei ad esservi qualche segnale di sposa. GIACINTA: L'avete fatto quest'anno? VITTORIA: Veramente è dell'anno ato. GIACINTA: È alla moda per altro. VITTORIA: Sì, l'ho fatto un po' ritoccare.
GIACINTA: Ve l'ha fatto monsieur de la Réjouissance? VITTORIA: Sì, quello che mi ha fatto il mio mariage. FERDINANDO: A proposito di mariage, signore mie, quando si fanno le loro nozze? GIACINTA (dà una spinta forte a Ferdinando): Gran vizio che avete voi di voler sempre interrompere quando si parla. FERDINANDO: Questa mattina voi mi avete preso a perseguitare. GIACINTA: Sì, voglio perseguitarvi. Voglio far le vendette di quella povera vecchia di mia zia, che voi avete sì maltrattata. FERDINANDO: E che cosa ho fatto io alla signora Sabina? GIACINTA: Che cosa le avete fatto? Tutto quel peggio che far le poteste. (Durante questo discorso, Giacinta va guardando Guglielmo.) Avete conosciuto la sua debolezza. L'avete tirata giù, l'avete innamorata perdutamente. E un uomo d'onore non ha da fare di queste azioni; un galantuomo non ha da cercar d'innamorare una persona vecchia, o giovane ch'ella sia, quando l'amore non può avere un onesto fine; e quando sa di poter essere di pregiudizio agl'interessi, o al buon concetto di una donna, sia vedova o sia fanciulla, ha da desistere, ha da ritirarsi, e non ha da seguitare a insidiarla, a tormentarla con visite, con importunità, con simulazioni. Sono cose barbare, pericolose, inumane. FERDINANDO (si volta a guardare Guglielmo.) GIACINTA: Dico a voi, dico a voi. Non occorre che vi voltiate. Intendo di parlare con voi. (A Ferdinando.) FERDINANDO: (La burla a il segno. I suoi scherzi diventano impertinenze). VITTORIA: (Si è riscaldata bene la signora Giacinta. Per una parte ha ragione, ma lo ha strapazzato un po' troppo). GUGLIELMO: (Povero Ferdinando! Egli non capisce dove vanno a ferire le sue parole. Tol di mezzo per causa mia).
FERDINANDO: (Non voglio espormi a soffrir di peggio). Con licenza di lor signore. (S'alza.) GIACINTA: Dove andate? FERDINANDO: Vo' levarle l'incomodo. GIACINTA: Eh! via, non fate scene, restate qui. (Allegra.) VITTORIA: Povero galantuomo, l'avete malmenato un po' troppo. GIACINTA: Eh! via, sedete qui. Ho scherzato. (Lo fa sedere a forza.) Povero signor Ferdinando, ve n'avete avuto per male? FERDINANDO: Signora, gli scherzi quando sono pungenti... GIACINTA: Oh! ecco, ecco mio padre. Ora la conversazione sarà compita. Così vecchio com'è, il cielo lo benedica, terrebbe in allegria mezzo mondo. È più allegro di me cento volte. (Con allegria.) VITTORIA: (Ma oggi Giacinta è in un'allegria stupenda). (Piano a Guglielmo.) GUGLIELMO: (Sì, è vero). (Piano a Vittoria.) (Ed io credo ch'ella si maceri dal veleno. Ma se patisco io, patisca ella ancor qualche cosa). (Da sé.)
SCENA NONA
Filippo e detti poi il Servitore. FILIPPO: Servo di lor signori. VITTORIA: Benvenuto, signor Filippo. FILIPPO: Sono venuti a pranzo con noi? VITTORIA: Oh! no, signore, per me sono venuta a fare il mio debito. GIACINTA: (Poteva far di meno di venir con colui). FILIPPO: Se vogliono favorire, sono padroni. Mi faranno piacere. Faremo conto di essere in villeggiatura. VITTORIA: Per parte mia vi ringrazio. Oggi aspetto visite, ed è necessario che mi trovi in casa. FILIPPO: E che cos'è del signor Leonardo? (A Vittoria.) VITTORIA: Sta bene. Non l'avete ancora veduto? FILIPPO: Ancora non ci ha favorito, e ho volontà di vederlo. Suo zio è vivo, o morto? VITTORIA: È vivo, è vivo: è tornato indietro, non ha ancor volontà di morire. FILIPPO: Oh! guardate. E i medici l'avevano dato per ispedito. Ho piacere, povero galantuomo! Dite al signor Leonardo che favorisca venir da noi, che si ha da parlare. Si hanno da concludere queste nozze colla mia figliuola. GIACINTA: (Ecco qui, pare che non si possa parlare, se non si parla di nozze). VITTORIA: Glielo dirò, signore, e credo ch'egli sarà dispostissimo.
GUGLIELMO: È poco sollecito il signor Leonardo. Fa torto al merito della signora Giacinta. GIACINTA: (Ma che hanno quelle sue indegne parole, che mi fan perfino sudare?). (Cava il fazzoletto e si asciuga.) SERVITORE: Signori, manda a riverirli la signora Costanza, e dar loro parte ch'è tornata ora a Livorno colla sua nipote. (Parte.) GIACINTA: Oh! brava, ho piacer grandissimo. Sarà venuto anche il dottorino. Sentiremo le novità di questo bel matrimonio. Quel caro Tognino me lo voglio proprio godere. (Con allegria forzata.) FERDINANDO: Gran matrimoni! Gran nozze! Ecco qua la signora Rosina, la signora Vittoria, la signora Giacinta. GIACINTA: (Oh! che ti venga la rovella!). Oh, voglio subito andar da loro. Ho curiosità grandissima di sapere. Ci andrete anche voi, Vittoria? (Alzandosi.) VITTORIA: Ci anderò. Ma non a quest'ora. FILIPPO: È ora di desinare. Che bisogno c'è che ci andiate adesso? GIACINTA: Sì, è vero, ci anderò dopo pranzo. Ho da vestirmi, ho da acconciarmi. Ho d'andare alla tavoletta... VITTORIA: Signora Giacinta, vi leveremo l'incomodo. (S'alza.) GIACINTA: Addio, Vittorina. VITTORIA: Serva, signor Filippo. FILIPPO: All'onore di riverirla. Si ricordi di dire al signor Leonardo... GIACINTA: Voi avete questo vizio di dir cento volte una cosa. Credete che tutti abbiano la poca memoria che avete voi? (A Filippo, con sdegno.) FILIPPO: Via, via, signora, la non mi mangi. (A Giacinta.) VITTORIA: A buon rivederci. (Partendo.)
GIACINTA: Addio. GUGLIELMO: Servo di lor signori. (Saluta Filippo e Giacinta.) FILIPPO: Riverisco il signor Guglielmo. GUGLIELMO: M'inchino alla signora Giacinta. (Partendo.) GIACINTA: Serva, serva. (A Guglielmo.) Ci divertiremo col signor dottorino. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Moltissimo. Servitor loro. (Partendo.) FILIPPO: Padrone. (A Ferdinando.) GIACINTA: Padrone. (A Ferdinando; partono i tre suddetti.) FILIPPO: Se andate alla tavoletta, spicciatevi, ch'io ho fame e voglio andar a pranzare. (Parte.)
SCENA DECIMA
Giacinta, poi Brigida. GIACINTA: Son fuor di me. Non so in che mondo mi sia. BRIGIDA: Signora padrona, come va la macchina? GIACINTA: Taci, per carità. Non cimentarti con barzellette a provocare la mia sofferenza. BRIGIDA: Signora, avrei una cosa da dirvi; ma non vorrei che vi metteste in maggior ardenza. GIACINTA: E che cosa vorresti dirmi? BRIGIDA: Se non vi calmate, non ve la dico. GIACINTA: Via, compatiscimi, che merito di essere compatita. Parlami, che ti ascolterò senza sdegno. BRIGIDA: Nell'atto che scendeva le scale la signora Vittoria, servita dal signor Ferdinando... GIACINTA: Non la serviva Guglielmo? Era servita da Ferdinando? BRIGIDA: Sì, signora, il signor Ferdinando le dava braccio. GIACINTA: (L'ho sempre detto. Guglielmo non la può soffrire). BRIGIDA: Nell'atto dunque ch'essi scendevano, restò indietro il signor Guglielmo. Mi chiamò sottovoce... GIACINTA: E che cosa ti ha detto quel temerario? BRIGIDA: Se andate in collera, non vi dico altro. GIACINTA: No, non sono in collera. Ti ascolto placidamente. Che cosa ti ha
detto? BRIGIDA: Aveva in mano una lettera... GIACINTA: Per chi una lettera? BRIGIDA: Per voi. GIACINTA: Per me una lettera? Hai tu avuto l'imprudenza di prenderla? BRIGIDA: Signora no, signora no; non l'ho presa. (Se le dico di averla presa, mi salta agli occhi). GIACINTA: (A me una lettera? Che mai avrebbe egli ardito di scrivermi?). BRIGIDA: (Non la voleva; me l'ha voluta dare per forza). GIACINTA: (Per altro mi avrebbe potuto giovar moltissimo sentir com'egli pensa presentemente). BRIGIDA: (Faccio conto di gettarla nel foco). GIACINTA: Ti ha detto nulla nel volerti dare la lettera? BRIGIDA: Niente affatto, signora. GIACINTA: Come hai fatto a capire che ti voleva dare una lettera? BRIGIDA: Mi ha chiamato. Ho veduto ch'egli aveva la carta in mano. GIACINTA: E come sapesti che quella carta veniva a me? BRIGIDA: Me l'ha detto. GIACINTA: Dunque ti ha parlato. BRIGIDA: Due parole si dicon presto. GIACINTA: E perché hai tu ricusato di pigliar quella lettera? BRIGIDA: Perché è un impertinente, che non vuol finire d'importunarvi.
GIACINTA: Gran disgrazia è la mia, che tu abbia sempre da fare il peggio. Sono in un'estrema curiosità. Pagherei quanto ho al mondo, a poter veder quella lettera che tu hai ricusato di prendere. BRIGIDA: Ma io, signora... GIACINTA: Tu vuoi far sempre la sufficiente, la politica, la dottoressa. BRIGIDA: Eh! vi conosco, signora, voi dite così per assicurarvi s'io l'ho presa, o s'io non l'ho presa. GIACINTA: Brigida, l'hai tu pigliata la lettera? (Dolcemente.) BRIGIDA: E se l'avessi pigliata, mi dareste voi delle bastonate? GIACINTA: No, cara, ti ringrazierei, ti benedirei, ti farei un regalo che ne resteresti contenta. BRIGIDA: (Io non so se mi possa fidare). GIACINTA: Brigida, l'hai tu presa? (Dolcemente.) BRIGIDA: Se devo dirvi la verità, dubitando ch'egli la desse a qualchedun altro, ho creduto meglio di prenderla. GIACINTA: Ah! dammela. Non mi far morire. BRIGIDA: Eccola. Ho fatto male a pigliarla? GIACINTA: No, che tu sia benedetta. Lasciala un po' vedere. BRIGIDA: Tenete. GIACINTA: Oh cieli! Mi trema il core, mi trema la mano. Ah! che questa lettera potrebbe essere la mia rovina. BRIGIDA: Fate a modo mio, signora, abbruciatela, non la leggete. GIACINTA: Va via. Lasciami sola. BRIGIDA: Oh! no, compatitemi, non vi lascio sola.
GIACINTA: Va via, dico, non m'inquietare. (Sdegnata.) BRIGIDA: Sì, signora, come comanda. (Eh! già il mio regalo ha da consistere in ingiurie, in rimproveri; già me l'aspetto). (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
GIACINTA (sola): Non gli basta tormentarmi con delle visite, vuole ancora insolentire con lettere. Ma dica tutto quel che sa dire, è tutt'uno. La massima è già fissata. Gli risponderò in un modo che lo farà arrossire, che lo farà desistere e disperare. Se si è scordato ciò che ho avuto il coraggio di dirgli nel boschetto di Montenero, potrò, scrivendo, farglielo risovvenire. Veggiamo ciò ch'egli ha l'ardire di scrivermi. (Apre la lettera e siede.) Madamigella. Sono venuto questa mattina per riverirvi. Non mi è stato permesso. La cameriera vostra mi ha trattato alquanto villanamente... Brigida qualche volta è una ragazza arditissima, petulante. Perché trattar male colle persone? S'io non voleva ricevere il signor Guglielmo, non aveva ella per questo da prendersi la libertà di rispondergli con impertinenza. Sopraggiunto il vostro futuro sposo, quello che avrà la felicita di possedere la vostra mano ed il vostro cuore... Ah! non so, il cuore, non so. Con maniere anch'egli non meno aspre e insultanti, mi ha costretto ad allontanarmi... Come! In casa mia? Principia a far da padrone? Vuol comandare prima del tempo? Oh! questo poi non lo vo' soffrire. Ma, povero Leonardo, non ha egli forse motivo di sospettare? Amandomi com'egli mi ama, non sono compatibili i suoi trasporti? Dovendo essere mio consorte, non ha egli da vedere mal volentieri chi gli fa ombra, chi lo inquieta, chi lo conturba? Sì, Leonardo ha ragione. Guglielmo ha il torto. Non so quand'io potrò avere la fortuna di rivedervi. Volesse il cielo ch'io non lo vedessi mai più! Onde mi sono preso l'ardire di scrivervi quest'umilissimo foglio per due ragioni. La prima si è per farvi noto ch'io non ho mancato al mio debito... Non si può dire ch'egli non sia civile e cortese. E assicurarvi che dal canto mio non soffrirete inquietudini, promettendovi sull'onor mio che, a costo ancor di morire, sfuggirò ogn'incontro d'importunarvi. Questa virtuosa rassegnazione ha un grado di merito che non è indifferente. Ah! se prima avessi conosciuto il pregio del suo bel cuore... Ma non vi è più rimedio. Vuol così il mio decoro, il mio impegno, il mio nemico destino. La seconda ragione che mi muove ad importunarvi con questa lettera, assicuratevi non procedere in me da mal animo, ma da cuor sincero e leale. Si dice pubblicamente, e si sa di certo, essere in tale sconcerto ed in tale rovina il signor Leonardo, che egli non potrà assolutamente supplire ai pesi di un
maritaggio, né vostro padre vorrà vedervi precipitata. Oh cieli! che colpo è questo! Che sconvolgimento d'affari! Che novità inaspettata! Seguite ad amare colui che deve essere vostro sposo. Ma se mai tal non fosse, se mai, senza colpa vostra, vi trovaste disobbligata, permettetemi ch'io vi dica ch'io sono libero tuttavia, che non ho ancora firmata la scritta, e che non m'indurrò mai a sottoscriverla, se non quando vi vedrò maritata. Di più non ardisco dirvi. Compatitemi, e sono col maggior rispetto, e colla più sincera rassegnazione, vostro umilissimo servitore... Ah! non vi voleva di più per mettermi nella maggiore agitazione del mondo. Poss'io credere a questo foglio? Ma ei non ardirebbe inventare una falsità che si ha ben tosto a verificare; e se Leonardo è in rovina, sono io per questo in libertà di lasciarlo? Ciò dee dipendere da mio padre. E se mio padre fosse debole a segno di volermi sagrificare, sarei io obbligata ad acconsentire alla mia rovina? No, non sarei obbligata. Ogni ragione mi scioglierebbe da un tale impegno. E sciolta ch'io fossi dal vincolo di tali sponsali, potrei dar la mano liberamente a Guglielmo? Che dice il cuore? La ragion che dic'ella? Ah! la ragione ed il cuore mi parlano con due diversi linguaggi. Questo mi stimola a lusingarmi, quella mi anima ai più giusti, ai più virtuosi riflessi. Che cosa mi ha trattenuto finora dal recedere da un impegno che non è indissolubile, e preferire ad uno sposo, sì poco amato, un oggetto amabile agli occhi miei? Non altro che il mio decoro, il giusto timore di essere criticata; qualunque trista avventura dell'infelice Leonardo non metterebbe al coperto la mia debolezza. L'aver io stessa procurato gli sponsali fra Vittoria e Guglielmo, mi vieta assolutamente di farmi io stessa l'origine del loro discioglimento. Guglielmo con questa lettera viene a tentare la mia virtù. Si ha da resistere ad ogni costo. Si ha da lasciar Leonardo, s'ei non mi merita; ma non si ha da rapire alla di lui germana il consorte. Si ha da penare, si ha da morire. Ma si ha da vincere, e da trionfare. (Parte.)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Filippo. Fulgenzio, Leonardo ed un Servitore. FULGENZIO: Quant'è ch'è andato a pranzo il signor Filippo? (Al Servitore.) SERVITORE: È un pezzo, signore. Hanno messo in tavola i frutti e poco può tardar a finire. Se vuol ch'io l'avvisi... FULGENZIO: No, no, lasciatelo terminar di mangiare. So che la tavola è la sua ione, e gli dispiace assaissimo d'incomodarsi. Non gli dite niente per ora; ma quando è alzato, avvisatelo allora ch'io sono qui. SERVITORE: Sarà servita. (Parte.) LEONARDO: Voglia il cielo che il signor Filippo non sappia i miei disordini, le mie disgrazie. FULGENZIO: Sono poche ore ch'egli è arrivato in città. Non è uscito di casa, probabilmente non saprà nulla. LEONARDO: Sono sì pieno di rossore e di confusione, che non ardisco presentarmi a nessuno. Quel sordido di mio zio ha terminato di avvilirmi, di mortificarmi. FULGENZIO: Venga il canchero all'avaraccio. LEONARDO: Ma non ve l'ho detto, signor Fulgenzio? Non v'ho io prevenuto di quel che si poteva sperare da quel cuore disumanato? FULGENZIO: Non ho mai creduto una simil cosa. Pazienza il dire: non ne ho, non ne posso dare, non ne vo' saper niente. Mi è dispiaciuto la manieraccia impropria con cui ci ha trattati; quella derisione continua, quella corbellatura sfacciata. LEONARDO: Ho incontrato questo dispiacere per voi, e l'ho sofferto per
amor vostro. FULGENZIO: Non so che dire. Me ne dispiace infinitamente; ma per l'altra parte questo tentativo doveva farsi, ed ho piacere che si sia fatto. Se è andato male, pazienza. Io non vi abbandonerò. Mi sono sempre più interessato nelle cose vostre. Sono in impegno d'assistervi, e vi assisterò. Ponetevi in quiete, rasserenatevi, che vi assisterò. LEONARDO: Ah! sì, il cielo non abbandona nessuno. È una provvidenza per me il vostro tenero cuore, la vostra generosa bontà. FULGENZIO: Facciamo ora questo secondo tentativo col signor Filippo. Io mi lusingo riuscirne. Ma in caso contrario non vi perdete d'animo, non vi lascierò perire sicuramente. LEONARDO: Il progetto vostro non può essere meglio concepito, e il facile temperamento del signor Filippo ci può lusingare d'un esito fortunato. Preveggo bensì difficile il persuadere Giacinta a lasciar Livorno, e venir meco lontana dal suo paese. FULGENZIO: Quando non vi siano maggiori obbietti per concludere le vostre nozze, ella, o per amore o per forza, sarà obbligata a venir con voi. LEONARDO: È vero, ma vorrei ci venisse amorosamente; e dubito molto della sua resistenza. FULGENZIO: Veramente la signora Giacinta è un po' capricciosa ed ostinatella. Me ne sono avveduto allora quando ha voluto seco per forza quel ganimede. Ditemi, come è poi ata in campagna? LEONARDO: Non so che dire. Ho avuto delle inquietudini e dei dispiaceri non pochi. Finalmente poi il signor Guglielmo ha dato parola di sposar mia sorella. FULGENZIO: Sì, sì, lo so, un altro frutto della villeggiatura. Se va bene, è un miracolo. (Oh libertà, libertà! Oh come in oggi si maritano le fanciulle!) LEONARDO: Ecco il signor Filippo. FULGENZIO: Ritiratevi, se volete. Lasciate che io introduca il discorso.
LEONARDO: Ne attendo l'esito con un'estrema impazienza. (Parte.)
SCENA SECONDA
Fulgenzio, poi Filippo. FULGENZIO: Poh! io sono inimicissimo degl'impicci; e ora mi ci trovo dentro senza volerlo. Ci sono entrato per bene, e vo' vedere se mi riesce di far del bene. FILIPPO: Oh! oh! ecco qui il mio caro signor Fulgenzio. FULGENZIO: Ben tornato, signor Filippo. FILIPPO: Ben trovato il mio caro amico. FULGENZIO: Vi siete divertito bene in campagna? FILIPPO: Benissimo; siamo stati in ottima compagnia. Si è mangiato bene: vitello prezioso, capponi stupendi, tordi, beccafichi, quaglie, starne, pernici. Ho dato mangiate, v'assicuro io, solennissime. FULGENZIO: Ho piacere che ve la siate goduta. Ora poi che siete ritornato... FILIPPO: Quel pazzo di Ferdinando ci ha fatto crepar di ridere. FULGENZIO: Sì, in campagna ci vuol sempre qualcheduno che promova il divertimento. FILIPPO: Si è messo in capo di far disperare quella povera sciocca di mia sorella. Sentite se è maladetto... FULGENZIO: Mi racconterete con comodo; permettete che ora vi dica... FILIPPO: No, no, sentite, se volete ridere... FULGENZIO: Ora non ho gran voglia di ridere. Ho necessità di parlarvi. FILIPPO: Eccomi, parlate pure come vi aggrada.
FULGENZIO: Ora, signor Filippo, che siete ritornato in città... FILIPPO: Conoscete voi il medico di Montenero? FULGENZIO: Lo conosco. FILIPPO: E il suo figliuolo lo conoscete? FULGENZIO: No, non l'ho mai veduto. FILIPPO: Oh che capo d'opera! Oh che testa balorda! Oh che carattere delizioso! Cose, cose da smascellarsi. FULGENZIO: Non mancherà tempo. Sentirò anch'io volentieri... FILIPPO: Ed è toccato a me giocare a bazzica con questo sciocco. FULGENZIO: Amico, se non mi volete ascoltare, ditemelo liberamente. Me n'anderò. FILIPPO: Oh! cosa dite mai? Se vi voglio ascoltare? Capperi! Il mio caro amico Fulgenzio, v'ascolterei se veniste di mezzanotte. FULGENZIO: Alle corte. Ora che siete tornato a Livorno, pensate voi di voler concludere il maritaggio di vostra figliuola? FILIPPO: Ci ho pensato, e ci penserò. FULGENZIO: Avete ancora veduto il signor Leonardo? FILIPPO: No, non l'ho ancora veduto. So che è stato qui; ma non l'ho ancora veduto. Già io ho da esser l'ultimo in tutto, e sarò l'ultimo ancora in questo. FULGENZIO: (Da quel ch'io sento, pare non sappia niente dei disordini di Leonardo). FILIPPO: A Montenero io era sempre l'ultimo in ogni cosa. Sino al caffè i garzoni servivano tutti, ed io l'ultimo. FULGENZIO: Ora, nell'affare di cui si tratta, voi avete da essere il primo.
FILIPPO: Eh! lo so perché ho da essere il primo. Perché ho da metter fuori gli ottomila scudi di dote. FULGENZIO: Ditemi, in confidenza, fra voi e me: questi ottomila scudi li avete voi preparati? FILIPPO: Per dirvi sincerissimamente la verità, presentemente non le potrei dare nemmeno ottomila soldi. FULGENZIO: E come intendereste dunque di fare? FILIPPO: Non saprei. Ho de' fondi, ho de' capitali; credete voi che non si potessero ritrovare? FULGENZIO: Sì, a interesse si potrebbero ritrovare. FILIPPO: Bisognerà dunque ch'io li ritrovi a interesse. FULGENZIO: E che paghiate almeno il quattro per cento. FILIPPO: Bisognerà ch'io paghi il quattro per cento. FULGENZIO: Sapete voi che il quattro per cento, per un capitale di ottomila scudi, porta in capo all'anno trecento e venti scudi d'aggravio? FILIPPO: Corpo di bacco! Trecento e venti scudi di meno? FULGENZIO: Eppure questo matrimonio si ha da concludere. La scritta è fatta. La dote voi l'avete promessa. FILIPPO: Ma io son uno che fa e promette, perché mi fanno fare e promettere. Quando siete venuto voi a parlarmi, perché non mi avete fatti allora que' conti che mi fate presentemente? Scusatemi, io credo di aver occasione di lamentarmi di voi. Se mi foste quel buon amico che dite... FULGENZIO: Sì, vi son buon amico. E un mio consiglio vi metterà in calma di tutto, e vi farà comparir con onore. Voglio che maritiate la figlia senza incomodarvi di un paolo, senza dipendere da nessuno. E colla sicurezza ch'ella stia bene, e che non le possa essere intaccata la dote.
FILIPPO: Se mi fate veder questa, vi stimo per il primo uomo, per la prima testa di questo mondo. FULGENZIO: Ditemi un poco: a Genova non avete voi degli effetti? FILIPPO: Sì, ci ho qualche cosa che mi ha lasciato un mio zio. Ma non so dire precisamente che cosa. Maneggia uno ch'era il di lui ministro. In sei anni non mi ha mandato altro che due ceste di maccheroni. FULGENZIO: Io sono stato a Genova in vita di vostro zio e dopo la di lui morte, e so quel che c'è e che non c'è. Il ministro vi mangia tutto, e giacché per l'incuria vostra non ne ricavate profitto alcuno, fate così: assegnate in dote a vostra figliuola i beni che avete in Genova. Io farò che il signor Leonardo li accetti, e se ne contenti. Andrà egli ad abitare in Genova colla consorte, maneggierà uxorio nomine quegli effetti, non li potrà consumare o disperdere, perché saranno ipotecati alla dote; e per dirvela schiettamente, a voi non rendono nulla, e a lui sul fatto, con un poco di direzione, possono rendere il doppio di quello che gli renderebbero gli ottomila scudi in Livorno. Ah! cosa dite? FILIPPO: Bene, benissimo, glieli do volentieri. Vadano a Genova; se li godano in pace, rendano quel che san rendere, non ci penso. Fate voi, mi rimetto in voi. FULGENZIO: Non occorr'altro. Lasciate operare a me. FILIPPO: Ehi! dite: non si potrebbe vedere di obbligare Leonardo a mandarmi qualche cesta di maccheroni? FULGENZIO: Sì, vi manderà delle paste quante volete, dei canditi di Genova, delle melarancie di Portogallo. FILIPPO: Oh! che le melarancie mi piacciono tanto. Oh! che mi piacciono tanto i canditi. La cosa è fatta. FULGENZIO: È fatta dunque. FILIPPO: È fattissima. FULGENZIO: E vostra figlia sarà poi contenta?
FILIPPO: Questo è il diavolo. FULGENZIO: Ma voi non avete animo di farla fare a modo vostro? FILIPPO: Non ci sono avvezzo. FULGENZIO: Questa volta dovete farlo. FILIPPO: Lo farò. FULGENZIO: Si tratta di tutto. FILIPPO: Lo farò, vi dico, lo farò. FULGENZIO: Quando le parlerete? FILIPPO: Ora, in questo momento. Vado immediatamente: aspettatemi colla risposta. (In atto di partire.) Non sarebbe meglio ch'io la fi venir qui, e che le diceste qualche cosa voi? FULGENZIO: Perché non le volete parlar voi? FILIPPO: Le parlerò poi ancor io. FULGENZIO: Via, andate, e fatela venir, se volete. FILIPPO: Subito, immediatamente. (Felice me, se succede! Se resto solo, se non isminuisco l'entrata, me la voglio godere da paladino). (Parte.)
SCENA TERZA
Fulgenzio, poi Leonardo FULGENZIO: La cosa finora va bene. Basta che non ci faccia disperare quel capolino di sua figliuola. LEONARDO: Signor Fulgenzio, mi par che siamo a buon porto. FULGENZIO: Avete sentito? LEONARDO: Ho sentito ogni cosa. Prego il cielo che Giacinta si accomodi a questa nuova risoluzione. FULGENZIO: Or or sentiremo. Finalmente, se il padre non è un babbuino, la figliuola dee rassegnarsi. LEONARDO: Pensava a un'altra cosa, signor Fulgenzio. Come ho da fare per i debiti di Livorno? Ho d'andarmene di nascosto? Ho da fare una figura trista? FULGENZIO: Ho pensato anche a questo. Stabilito che sia il nuovo accordo col signor Filippo, voi farete a me una procura. Metterete i beni vostri nelle mie mani, ed io mi farò mallevadore per voi: pagherò i creditori, e col tempo vi renderò i vostri effetti liberi, netti, e ben custoditi. LEONARDO: Oh cieli! Io non ho termini sufficienti per ringraziarvi. FULGENZIO: Ringraziate vostro zio Bernardino. LEONARDO: E perché ho da ringraziare quel sordido? FULGENZIO: Perché io ho sempre desiderato di farvi del bene; ma per cagion sua mi ci sono impegnato a tal segno, che sagrificherei del mio se occorresse. LEONARDO: Sì, ma non lo fareste se non aveste un cuor buono.
SCENA QUARTA
Filippo e detti. FILIPPO: La sapete la nuova?... Oh! schiavo, signor Leonardo. LEONARDO: Riverisco il signor Filippo. FULGENZIO: E che c'è di nuovo? (A Filippo.) FILIPPO: Mia figlia è sortita di casa, e mi hanno detto che è andata a far visita alla signora Costanza. LEONARDO: Ah! me ne dispiace infinitamente. FILIPPO: Vi ha detto nulla il signor Fulgenzio? (A Leonardo.) LEONARDO: Sì, signore. Qualche cosa mi ha detto. FILIPPO: Ebbene, siete voi contento? (A Leonardo.) LEONARDO: Son contentissimo. FILIPPO: Sia ringraziato il cielo, saremo tutti contenti. LEONARDO: Ma la signora Giacinta? FILIPPO: Andiamola a ritrovare dalla signora Costanza. FULGENZIO: Si può aspettar ch'ella torni. LEONARDO: Mia sorella deve andarci ancor ella. Può esser ci siano insieme. FILIPPO: Non sarebbe mal fatto che ci andassimo ancora noi. LEONARDO: È vero. Noi dobbiamo una visita alla signora Costanza.
FILIPPO: E con questa occasione parleremo a Giacinta. FULGENZIO: Ma in casa d'altri non si può parlare liberamente. FILIPPO: Se non si potrà parlare, la farò venir via. LEONARDO: Che dite, signor Fulgenzio? FULGENZIO: Io dico che un'ora prima, un'ora dopo... FILIPPO: Ed io vi dico che si ha da andare immediatamente. (Con sdegno.) LEONARDO: Andiamo, non lo facciamo irritare. (Parte.) FULGENZIO: Siete ben ostinato, signor Filippo! (Parte.) FILIPPO: Eh! son uomo. So quel che faccio, so quel che dico. Per politica, per direzione, non la cedo a nessuno di questo mondo. (Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Costanza. Costanza e Rosina. COSTANZA: Rosina, mettetevi all'ordine, che andiamo a far queste visite. ROSINA: E dove abbiamo da andare sì presto? Siamo appena arrivate. COSTANZA: Voglio che andiamo dalla signora Giacinta e dalla signora Vittoria. ROSINA: Scusatemi, signora zia, essendo noi venute a Livorno dopo di loro, tocca a loro a far visita prima a noi. COSTANZA: E questo è quello ch'io non vorrei. Se vengono qui, come volete ch'io le riceva? Non vedete che casa è questa? Non c'è una camera propria, tutto vecchio, tutto antico, tutto in disordine. ROSINA: Per dire la verità, c'è una gran differenza da questa casaccia al bel casin di campagna. COSTANZA: La differenza si è, che quello me l'ho fornito io di mio gusto, e questa casa è fornita secondo il genio zotico di mio marito. ROSINA: Oh! il signor zio non ci pensa. Egli non tratta che bottegai, e non gli preme niente la pulizia. COSTANZA: Questa cosa io non la posso soffrire; da qui innanzi voglio stare in campagna dieci mesi dell'anno. Almeno lì sono rispettata. ROSINA: Il signor dottore non vi servirà più. COSTANZA: Per verità mi dispiace aver perduta l'amicizia del signor dottore. Ho fatto questo sacrifizio per amor vostro. Vi voglio bene, desiderava di maritarvi, voi non avete dote ed io non poteva darvene; e se non capitava questo ragazzo, ho timore che sareste stata lì per un pezzo.
ROSINA: Son maritata, è vero; ma questo mio matrimonio mi dà finora pochissima consolazione. Non ho un anelletto, non ho un abitino da sposa, non ho niente da comparire; che cosa volete che dicano le persone? COSTANZA: Col tempo avrete il vostro bisogno. Per ora non è necessario di dire che vi ha sposata. Si sono fatte le cose segretamente, e non l'ha da sapere nessuno. Quando poi il signor dottore sarà obbligato a ar gli alimenti al figliuolo, allora si pubblicherà il matrimonio. ROSINA: Tutto sta che Tognino non lo vada egli dicendo a chi non lo vorrebbe sapere. COSTANZA: Basta avvisarlo. Dov'è Tognino che non si vede? ROSINA: È di là che si veste. COSTANZA: Si veste? E come si veste? ROSINA: Mi ha detto che essendo in città, si vuol vestire con pulizia. COSTANZA: E cosa si vuol mettere, se non ha altro al mondo che quell'anticaglia che portava per Montenero? ROSINA: Mi ha detto che ha portato via un abito di suo padre. COSTANZA: Suo padre è un palmo più alto di lui. ROSINA: Eh, Tognino non è tanto piccolo di statura. COSTANZA: Bisognerà che subito subito ei vada a Pisa, e che si metta a studiare. ROSINA: Subito subito ha da andare a Pisa? COSTANZA: Volete voi ch'egli perda il tempo? ROSINA: No, ma così subito! COSTANZA: Quanto vorreste ch'egli aspettasse? ROSINA: Un mese almeno.
COSTANZA: Basta, poco più, poco meno. ROSINA: Eccolo, eccolo, è già vestito.
SCENA SESTA
Tognino con un abito assai lungo, con parrucca lunga a tre nodi e cappello colla piuma all'antica; poi un Servitore. TOGNINO: Oh! eccomi. Ah! sto bene? COSTANZA: Oh che figura! Non ve l'ho detto io, che sarebbe stato una caricatura? (A Rosina.) ROSINA: Eh! gli è un poco lungo, ma non vi è male. COSTANZA: Eh! andatevi a levar quel vestito. Parete in veste da camera. TOGNINO: Volete ch'io vada per città col giubbone da viaggio? COSTANZA: E non avete il vostro abito consueto? TOGNINO: Signora no. COSTANZA: E che cosa ne avete fatto? TOGNINO: L'ho dato al servitore acciò m'aiutasse a portar via questo a mio padre. COSTANZA: Certo avete fatto un bel cambio! TOGNINO: È bello, è gallonato. È un po' lunghetto, ma non importa. Ah! non mi sta bene? Ah! cosa dite, Rosina? Ah! ROSINA: Bisognerebbe che ve lo faceste accomodare alla vita. TOGNINO: Me lo farete accomodare, signora zia? (A Costanza.) COSTANZA: Zitto, malagrazia. Non mi dite zia; per ora non si ha da sapere che sia seguito fra di voi il matrimonio. Non lo dite a nessuno, e abbiate giudizio, e non vi fate scorgere.
TOGNINO: Oh! io non parlo. ROSINA: E bisognerà che pensiate a mettere il cervello a partito. TOGNINO: Cosa vuol dire mettere il cervello a partito? ROSINA: Far giudizio, studiare, imparar bene la professione del medico. TOGNINO: Oh! per istudiare, studierò quanto voi volete. Basta che non mi lasciate mancar da mangiare, che mi conduciate a so, che mi lasciate giocar a bazzica. COSTANZA: Eh povero scimunito! TOGNINO: Che cos'è questo scimunito? COSTANZA: Se non avrete cervello... TOGNINO: Io non voglio essere strapazzato... SERVITORE: Signora... (A Costanza.) TOGNINO: Son maritato, e non voglio essere strapazzato. COSTANZA: Zitto. ROSINA: Zitto. SERVITORE: È maritato il signor Tognino? COSTANZA: Egli non sa quello che si dica. E tu non entrare in quelle cose che non ti appartengono. (Al Servitore.) SERVITORE: Perdoni. La signora Giacinta è qui poco lontana, che viene per riverirla. COSTANZA: (Povera me!). La signora Giacinta! (A Rosina.) ROSINA: Cosa volete fare? Convien riceverla. (A Costanza.) COSTANZA: Sa che sono in casa? (Al Servitore.)
SERVITORE: Lo saprà certamente. Ha mandato il servitore, e il servitore lo sa. COSTANZA: (Ci vuol pazienza, convien riceverla). Dille che è padrona... Senti: dille che compatisca, che sono venuta ora di villa, che ho la casa sossopra. Senti: va alla bottega ad ordinare il caffè. Ehi! senti: se viene a casa mio marito, digli che non mi comparisca dinanzi come sta in bottega: o che si vesta bene, o che si contenti di stare nella sua camera. SERVITORE: (Oh quanta maladetta superbia!). (Parte.) COSTANZA: E voi andate via di qui. Non vi lasciate vedere in quella caricatura. (A Tognino.) TOGNINO: Certo, mi mandate via perché non beva il caffè; e io ci voglio stare. COSTANZA: Andate, vi dico, che se mi fate muover la bile, vi caccio via di casa come un birbante. TOGNINO: Son maritato. COSTANZA: Rosina, or ora non posso più. ROSINA: Via, via, caro, andate di là, che il caffè lo porterò io. TOGNINO: Son maritato, e son maritato. (Parte.)
SCENA SETTIMA
Costanza, Rosina, poi Giacinta. COSTANZA: Sentite, se continua così, io non lo soffro assolutamente. (A Rosina.) ROSINA: Compatitelo, è ancor ragazzo. COSTANZA: Ehi! sì, scusatelo. ROSINA: Ma, signora, se è mio marito, convien ben ch'io lo scusi. Finalmente me l'avete dato voi, ed io l'ho preso per consiglio vostro. COSTANZA: Ecco la signora Giacinta. (Mi sta bene, merito peggio). ROSINA: Se non sa più di così, è inutile di rimproverarlo. GIACINTA: Serva, signora Costanza. COSTANZA: Serva umilissima. ROSINA: Serva divota. GIACINTA: Riverisco la signora Rosina. COSTANZA: Si è voluta incomodare la signora Giacinta. GIACINTA: Anzi son venuta a fare il mio debito. COSTANZA: Mi spiace infinitamente ch'ella mi trova qui colla casa sì malandata, che propriamente mi fa arrossire. GIACINTA: Oh! sta benissimo. Non ha da far con me queste ceremonie. COSTANZA: È poco tempo ch'io sono venuta a star qui, e poi sono andata in campagna, e tutte le cose sono ancora alla peggio. Favorisca d'accomodarsi. Compatisca se la seggiola non è propria.
GIACINTA: Anzi è proprissima. (Tanto sfarzo in campagna, e sta qui in un porcile). (Da sé.) ROSINA: (Che dite eh? Si è messa in magnificenza). (A Costanza.) COSTANZA: (Eh! in quanto a questo, se è venuta per farmi visita, non doveva venire in succinto). GIACINTA: Che nuove mi portano di mia zia? ROSINA: Oh! la povera signora Sabina è travagliatissima. Sono stata a farle una visita prima di partire, e mi ha dato una lettera per il signor Ferdinando. GIACINTA: Oh! quanto volentieri sentirei quello che gli scrive. ROSINA: Io credo che il signor Ferdinando non avrà difficoltà di mostrarla. GIACINTA: (Cerco ogni strada per divertirmi; ma ho una spina nel core che mi tormenta). COSTANZA: Come sta il signor Leonardo, signora Giacinta? GIACINTA: Sta bene. ROSINA: E la signora Vittoria? GIACINTA: Benissimo. COSTANZA: E il signor Guglielmo?... GIACINTA: È egli vero che il signor Tognino è venuto a Livorno con loro? COSTANZA: Sì, signora, ci è venuto per qualche giorno. ROSINA: Perché deve are a Pisa. COSTANZA: Per istudiare. ROSINA: Per addottorarsi. GIACINTA: Sì, sì, è venuto per andare a Pisa, e le male lingue dicevano che
aveva sposato la signora Rosina. ROSINA: Le male lingue dicevano? GIACINTA: Io ho sempre detto, ch'ella non avrebbe mai fatta questa bestialità. ROSINA: Sarebbe una bestialità veramente? COSTANZA: Favorisca, le di lei nozze si faranno presto? GIACINTA: Non lo so ancora. Io dipenderò da mio padre. ROSINA: E quelle della signora Vittoria col signor Guglielmo? GIACINTA: Che vuol dire che sono anch'esse ritornate quest'anno prima del solito? COSTANZA: Non c'era più nessuno in campagna. Il signor Leonardo e la signora Vittoria hanno sconcertato il divertimento. ROSINA: Ma quando si marita la signora Vittoria? (A Giacinta.) GIACINTA: Io non lo so, signora, lo domandi a lei. ROSINA: Per quel ch'io vedo, anche il matrimonio della signora Vittoria a lei deve parere un'altra bestialità. (A Giacinta.) GIACINTA: Con permissione. Le voglio levar l'incomodo. (Si alza.) COSTANZA: Favorisca, aspetti, che prenderemo il caffè. GIACINTA: No, le sono obbligata. COSTANZA: Eccolo, eccolo. Mi faccia questa finezza. GIACINTA: Per non ricusar le sue grazie. (Siedono. Portano il caffè.) (Pare che lo facciano apposta per tormentarmi). COSTANZA: Si serva. (Dà il caffè a Giacinta.)
ROSINA: Con permissione. (Vuol portare il caffè a Tognino; lo dà al Servitore, e ritorna subito.) Visite, signora zia; abbiamo dell'altre visite. COSTANZA: E chi viene? ROSINA: La signora Vittoria, il signor Ferdinando e il signor Guglielmo. GIACINTA: (Oh povera me!) ROSINA: Guardi, guardi, che ha versato il caffè sull'andriene. GIACINTA: (Maladetto sia chi mi ha obbligato a restare). (Si pulisce.) ROSINA: Vuole dell'acqua fresca? GIACINTA: Eh! Non s'incomodi, non importa. (Con dispetto.) ROSINA: Eccoli, eccoli.
SCENA OTTAVA
Vittoria, Guglielmo e dette. VITTORIA: Serva sua, ben trovate. COSTANZA: Serva. ROSINA: Serva. GUGLIELMO: Servitor loro. VITTORIA: Voi pure siete qui, signora Giacinta? GIACINTA: Sono venuta anch'io a fare il mio debito. ROSINA: A farmi grazia. GIACINTA: (Così mi fossi rotto uno stinco pria di venirci). COSTANZA: Favoriscano. Ho fatte già le mie scuse colla signora Giacinta; non ho ancora potuto ammobigliar la casa; favoriscano di seder come possono. GUGLIELMO: Scusi, signora Costanza, se sono venuto io pure ad incomodarla. Mi ha ritrovato a caso per istrada la signora Vittoria, e mi ha obbligato ad accompagnarla. GIACINTA: (Lo capisco, il perfido! lo capisco). ROSINA: Anzi mi ha fatto grazia; e sono obbligata di ciò alla signora Vittoria. GIACINTA: Dite, signora Vittoria, non era con voi il signor Ferdinando? VITTORIA: Sì, il signor Ferdinando è stato a pranzo da noi. Il signor Guglielmo si compiace poco di favorirmi, ed io, per non venir sola, ho profittato della compagnia del signor Ferdinando.
GIACINTA: E che vuol dire ch'ei vi ha lasciata sola col signor Guglielmo? GUGLIELMO: Egli è venuto fino alla porta di questa camera. VITTORIA: Ella parla con me, e volete risponder voi? (A Guglielmo.) E che importa alla signora Giacinta che sia venuto o non venuto il signor Ferdinando? GIACINTA: M'importa, perché queste signore hanno da presentargli una lettera della signora Sabina. ROSINA: Sì, certo. Eccola qui; e gliela devo dare in mano propria. COSTANZA: Anch'io, stando qui, l'ho veduto in sala: non so dove si sia trattenuto. ROSINA: Sarà in casa; sarà in qualche camera. Io non lo vado a cercare sicuramente. COSTANZA: (Non vorrei che si divertisse a far parlare quello stolido di Tognino). GUGLIELMO: La signora Sabina scrive adunque una lettera al signor Ferdinando? ROSINA: Sì, signore, e l'ha consegnata a me. GUGLIELMO: Sarà giusto che il signor Ferdinando risponda. ROSINA: Risponderà, se avrà volontà di rispondere. GUGLIELMO: Vuole la convenienza, che quando si riceve una lettera, si risponda. (Guardando Giacinta.) GIACINTA: Bisogna vedere se la lettera merita una risposta. GUGLIELMO: Qualunque lettera costringe le persone civili a rispondere; molto più se è una lettera onesta, scritta con sincerità e con amore. GIACINTA: L'amore non è lecito in tutti, e l'onestà si confonde talvolta coll'interesse.
VITTORIA: Per quel ch'io sento, il signor Guglielmo e la signora Giacinta sono bene informati del contenuto di quella lettera. GUGLIELMO: A tutti è nota la ione della signora Sabina. GIACINTA: E tutti sanno essere una ione che non merita di essere secondata. VITTORIA: Questa lettera la sentirei anch'io volentieri. Eccolo, eccolo, il signor Ferdinando.
SCENA NONA
Ferdinando, Tognino e detti; poi il Servitore. FERDINANDO: Venite qui, gioia mia, dolcezza mia, amabilissimo il mio Tognino. VITTORIA: (Oh bello!). COSTANZA: (L'ho detto!). ROSINA: (Grand'impertinente è quel signor Ferdinando!). TOGNINO: Padroni. Servitor suo. COSTANZA: Andate via di qua. (A Tognino.) FERDINANDO: Lasciatelo stare, signora, e portategli rispetto, che è maritato. COSTANZA: Chi ve l'ha detto che è maritato? FERDINANDO: Mi è stato detto da lui. COSTANZA: Non è vero niente. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Non è vero niente? (A Tognino.) TOGNINO: Non è vero niente. (A Ferdinando, mortificato.) FERDINANDO: Oh! bene dunque se non è vero, ci ho gusto. Se non siete sposato colla signora Rosina, sappiate che io ci pretendo, e che voi non l'avrete, e la sposerò io. TOGNINO: Cu cu! (Fa il verso del cucco, burlandosi di lui.) FERDINANDO: Cu, cu? Che cosa vuol dire questo cu, cu?
TOGNINO: Corpo di bacco! Vuol dire che la Rosina... ROSINA: Tacete voi. Dite al signor Ferdinando che vada a sposare la signora Sabina. Ecco una sua lettera che viene a lui. FERDINANDO: Una lettera della mia cara Sabina? ROSINA: Sì, signore, me l'ha consegnata questa mattina. FERDINANDO: Oh! cara la mia gioietta! La leggerò col maggior piacere del mondo. VITTORIA: La vogliamo sentire anche noi. COSTANZA: Sì, certo, anche noi. GUGLIELMO: Ricordatevi che alle lettere si risponde. (A Ferdinando.) GIACINTA: Quando meritino d'aver risposta. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Benissimo, ci s'intende. VITTORIA: Leggete forte, che tutti sentano. FERDINANDO: Vi prometto di non lasciar fuori una virgola. (Apre la lettera.) SERVITORE: Signora, il signor Filippo, il signor Leonardo e il signor Fulgenzio, che bramano riverirla. (A Costanza.) COSTANZA: Dite loro che son padroni, che restino serviti. Portate qui delle seggiole. (Al Servitore.) SERVITORE: (Se ce ne fossero; ma non ce ne sono tante che bastino). (Parte.) VITTORIA: Mi dispiace ora quest'interrompimento. Vorrei sentir quella lettera. Date qui, non l'avete da leggere senza di noi. (Leva la lettera di mano a Ferdinando.)
SCENA DECIMA
Filippo, Leonardo, Fulgenzio e detti. FILIPPO: Servo di lor signori. (Tutti si alzano.) TOGNINO: Oh! padrone, signor Filippo. FILIPPO: Oh la bella figura! TOGNINO: Vuol giocare a bazzica? FILIPPO: Eh! non mi seccate. Giacinta, con licenza della padrona di casa, avrei bisogno di dirvi una parolina. COSTANZA: Servitevi come vi piace. LEONARDO: Scusatemi, signore. Noi siamo qui per fare il nostro dovere colla signora Costanza. Non vi mancherà tempo di parlare alla signora Giacinta. (A Filippo.) FILIPPO: Ma io, quando ho qualche cosa nel capo, sono impaziente. La signora Costanza è buona, e me lo permetterà. COSTANZA: Vi torno a dire, signore, accomodatevi come vi piace. GIACINTA: (Che mai vuol dirmi mio padre? Sono in un'estrema curiosità). FILIPPO: Se ci favorisce una camera, le dico due parole, e poi torniamo qui a godere della sua amabile compagnia. (A Costanza.) GIACINTA: Se la ci fe questo piacere... (A Costanza.) COSTANZA: Perdonino, le camere sono ancora ingombrate. Se comandano, si ponno servire in sala. FILIPPO: Sì, sì, tutto comoda; andiamo, andiamo. Con permissione. (Oh io, quando si tratta di far presto, e bene!). (Parte.)
GIACINTA: Con licenza. Ora torno. (Mi trema il core). (Parte.) FULGENZIO: (Oh! cosa sperate.?). (A Leonardo.) LEONARDO: (Pochissimo). (A Fulgenzio.) (Ah! Guglielmo vuol essere la mia rovina). (Parte.) FULGENZIO: (Se fosse mia figlia, o dovrebbe fare a mio modo, o crepare). (Parte.) TOGNINO: (Voglio andare in cucina a sentir quel che dicono). (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Vittoria, Guglielmo, Costanza, Rosina e Ferdinando. GUGLIELMO: (Mi par di essere al punto di dover sentire la mia sentenza. Chi sa ancora ch'ella non sia favorevole?). FERDINANDO: Chi sa quanto staranno in questo colloquio; ed io muoio di volontà di leggere quella lettera. VITTORIA: Via, se la volete legger, leggetela. La sentiremo noi; e non mancherà tempo di farla sentire alla signora Giacinta. COSTANZA: Confesso il vero, che la sento anch'io volentieri. ROSINA: Povera donna! quando me l'ha data, piangeva. FERDINANDO: Cospetto! pare scritta in arabico. VITTORIA: Signor Guglielmo, dormite? GUGLIELMO: Signora no, non dormo. VITTORIA: (Io non so come abbia da essere con quest'uomo. Egli è tutto flemma, io son tutta foco). FERDINANDO: Ora ho principiato a trovare il filo. VITTORIA: Leggete tutto, e non ci fate la baronata di lasciar fuori qualche bel sentimento. FERDINANDO: Colla maggiore onoratezza del mondo. Sentite: Crudele: (tutti ridono moderatamente) voi mi avete ferito il cuore; voi siete il primo che abbia avuto la gloria di vedermi piangere per amore. Se sapeste, se vi potessi dir tutto, vi farei forse piangere per comione. Ah! la modestia non mi permette dir d'avvantaggio. Dacché siete di qua partito, non ho mangiato, non ho bevuto, non ho potuto dormire. Povera me! mi son guardata allo specchio, e quasi più non mi riconosco. S'imiscono le mie guancie, e il lungo pianto m'indebolisce
la vista a segno, che appena veggio la carta su cui vi scrivo. Ah! Ferdinando, cuor mio, mia speranza, bellezza mia. (Tutti ridono.) Ridete forse perché mi dice bellezza sua? VITTORIA: Ci vede poco la poverina. ROSINA: Ha cispi gli occhi. COSTANZA: Ha la lacrimetta perenne. FERDINANDO: Bene, bene. Ella conosce il merito, e tanto basta. VITTORIA: Sentiamo la conclusion della lettera. FERDINANDO: Meritereste che non leggessi più oltre. VITTORIA: Eh! via, vogliamo sentire. FERDINANDO: Dove sono? Dove ho lasciato? VITTORIA: Dormite, signor Guglielmo? GUGLIELMO: Signora no. FERDINANDO: Ecco, l'ho ritrovato. Mia speranza, bellezza mia, venite per pietà a consolarmi. Ah! sì, venite; se voi mi amate, non sarò ingrata; e se non vi basta il cuore che vi ho donato, venite, o caro, che vi esibisco e prometto... Che diavolo! Scrive qui, che non si capisce; quando ha scritte queste due righe, convien dire che le tremasse molto la mano. Ora, ora, principio a intendere. Venite, o caro, che vi esibisco e prometto una donazione, la donazione, un'ampia donazione, vi prometto la donazione (un'altra volta), la donazione vi prometto di tutto il mio! Vostra fedelissima amante e futura sposa Sabina Borgna VITTORIA: Bravo! COSTANZA: Me ne consolo.
ROSINA: E che vivano le bellezze del signor Ferdinando. VITTORIA: Sicché dunque cosa risolvete di fare? FERDINANDO: Un'eroica risoluzione. Prendo immediatamente la posta, e me ne vo a consolare, a soccorrere la mia adorata Sabina. Servitor umilissimo di lor signori. (Parte.) VITTORIA: Si va a consolar colla donazione. COSTANZA: Povera vecchia pazza! VITTORIA: Signor Guglielmo, dormite? GUGLIELMO: Non signora. VITTORIA: Non ridete di queste cose? GUGLIELMO: Non ho voglia di ridere. VITTORIA: (Oh che satiro!). ROSINA: Oh! eccoli: il congresso è finito. GUGLIELMO: (Sono in ansietà di sapere). (S'alza.) VITTORIA: Pare che ora vi risvegliate. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Credetemi, che non ho mai dormito. (Tutti si alzano.)
SCENA DODICESIMA
Giacinta, Filippo, Fulgenzio, Leonardo e detti. FILIPPO: Siamo qui, scusateci, signora Costanza. COSTANZA: Padrone, signor Filippo. VITTORIA: Che nuove abbiamo, signor fratello? (Con caricatura.) LEONARDO: Buonissime, signora sorella; domani di buon mattino partirò per Genova. VITTORIA: Per Genova? LEONARDO: Sì, signora. VITTORIA: Solo, o in compagnia? LEONARDO: In compagnia. VITTORIA: Con chi, se è lecito?... LEONARDO: Colla signora Giacinta. VITTORIA: M'immagino che prima vi sposerete. LEONARDO: Senz'alcun dubbio. VITTORIA: E noi, signor Guglielmo? GUGLIELMO: Va a Genova la signora Giacinta? GIACINTA: Sì, signore, vo a Genova: per grazia del cielo, di mio padre, e dell'amorosissimo signor Fulgenzio. Vi stupirete tutti ch'io vada a Genova, tutti vi farete le maraviglie che in un momento mi sia lasciata condurre ad una sì violenta risoluzione. Confesso che il distaccarmi dalla mia Patria, che abbandonare quella persona ch'io amo più di me stessa... parlo di voi, caro padre,
padre mio tenerissimo; ah! nell'abbandonare un sì caro oggetto mi si stacca il cuore dal seno, ed è un miracolo ch'io non soccomba. Ma lo stato mio lo richiede, la mia virtù mi sollecita, l'onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta, m'intende. Voi, sposo mio, m'intendete; voi, che nelle contingenze in cui siamo, miglior destino non potevate desiderare. Partirò da una patria per me funesta, mi scorderò i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze... Sì, scorderommi, voglio dir, l'ambizione, la vanità, il fanatismo delle mie superbe villeggiature. Se seguitata avessi la strada incautamente calcata, chi sa in qual precipizio sarei caduta? Cangiando cielo, si ha da cangiar sistema. Ecco il mio sposo, ecco colui che mi destinano i numi, e che mi ha accordato mio padre. Io farò il mio dovere, facciano gli altri il loro. Signor Leonardo, domani si ha da partire: voi avrete gli affari vostri da porre in ordine. A me pure non mancheranno le occupazioni, gl'impicci. Senza perdere molto tempo in cosa che si può far sul momento, alla presenza del padre mio, della padrona di questa casa, di tutti questi signori, vi esibisco la mano, e vi ridomando la vostra. FILIPPO: Ah! che ne dite? Mi fa piangere per tenerezza. (A Fulgenzio.) LEONARDO: Sì, adorata Giacinta, se il vostro genitor lo acconsente... FILIPPO: Contentissimo, contentissimo. LEONARDO: Eccovi la mano accompagnata dal cuore. GIACINTA: Sì, anch'io... (Oimè! mi si oscura la vista, non posso reggermi in piedi). LEONARDO: Oh cieli! impallidite? tremate? Ah! quest'è segno di poco amore. Deh! se forzatamente vi uniste meco... GIACINTA: No, forzatamente non mi conduco a sposarvi. Niuno potrebbe usarmi violenza, quand'io non fossi da me medesima persuasa. Scusate la debolezza del sesso, se non vi pare che meriti qualche lode la verecondia. ar dallo stato di libera a quello di maritata non si può far senza orgasmo, senza una interna commozione di spiriti e di pensieri. Staccarsi tutt'ad un tratto un affetto dal seno per introdurne un novello, lasciar il padre per seguire lo sposo, non può a meno di non agitar un cuor tenero, un cuor sensibile e indebolito. La ragione mi scuote. La mia virtù mi soccorre, ecco la mano: son vostra sposa. (Dà la mano a Leonardo.)
LEONARDO: Sì, cara, io son vostro, voi siete mia. (Dà la mano a Giacinta.)
SCENA ULTIMA
Tognino e detti. TOGNINO: Nozze, nozze, evviva: si son fatte le nozze. (Saltando.) COSTANZA: Sciocco! ROSINA: Ma via! Sempre lo mortificate. (A Costanza.) LEONARDO: Signor Guglielmo, prima ch'io parta, mi lusingo che si stabilirà un po' meglio l'impegno vostro con mia sorella. VITTORIA: Questa sera io spero che si sottoscriverà questa carta. GIACINTA: A che servon le carte? A che servon le scritture? A null'altro che a intorbidar gli animi e ad inquietare. Volesse il cielo ch'io avessi sposato il signor Leonardo quel giorno medesimo che io mi sono in carta obbligata. Vari disordini sono nati, che non sarebbero succeduti. La signora Vittoria ha in deposito la sua dote; che il signor Guglielmo si ricordi de' suoi doveri, le dia la mano, e la sposi. VITTORIA: Dormite, signor Guglielmo? GUGLIELMO: Non dormo, signora mia, non dormo. Sono bastantemente svegliato per intendere gli altrui detti, e per conoscere i miei doveri. Sono un uomo d'onore; se tal non fossi, non avrei impegnata la mia parola. Merita lode la signora Giacinta, meritano lode i di lei consigli; ho sempre ammirato la di lei virtù, e per ultimo contrassegno della mia stima, eccomi, signora Vittoria, eccomi pronto ad offerirvi la mano. VITTORIA: Per la stima che avete di lei, non per l'amore che voi provate per me? GIACINTA: Ha ragione la signora Vittoria, e mi maraviglia che siate così poco compiacente...
GUGLIELMO: Non v'inquietate, di grazia; son ragionevole più di quel che credete. Signora Vittoria, assicuratevi di avere in me un conoscitore del vostro merito, uno sposo fedele, un rispettoso consorte. VITTORIA: Tutto, fuori che amante. LEONARDO: Finiamola con queste vostre caricature. O porgete ad esso la mano, o vi metterò in un ritiro. VITTORIA: Mi fa ridere il signor fratello. Signor Guglielmo, non forzata, come voi parete di esserlo, ma del miglior cuore del mondo vi do la mano. GUGLIELMO: E per mia sposa vi accetto. VITTORIA: Abbiate almeno comione di me. (A Guglielmo, teneramente.) GUGLIELMO: (Io merito più comione di lei). TOGNINO: Nozze, nozze, dell'altre nozze. (Saltando.) FILIPPO: Sì, nozze, nozze. E quando si faranno le vostre nozze? (A Tognino.) TOGNINO: Sono fatte, le abbiamo fatte. Sì, sì, lo voglio dire, son maritato. COSTANZA: Sciocco, imprudente, senza giudizio. (A Tognino.) ROSINA: Sì, sì, non si può nascondere, si ha da sapere, ed ho piacere ch'ei l'abbia detto. GIACINTA: Compatisco la signora Costanza, s'ella desiderava di celare un maritaggio che può essere criticato; e voglia il cielo che non si lagnino un giorno questi due sposi, del comodo che ha loro offerto la troppo libera villeggiatura. Di più non dico; so io qual piacere ho provato, e quanto caro mi costa il divertimento. Lode al cielo son maritata; parto per Genova, e parto con animo risoluto di non rammentarmi che il mio dovere. Desidero a mia cognata quella pace e quella tranquillità ch'io bramo per me medesima. Supplico il caro mio genitore amarmi sempre, benché lontano; e se non fosse temerità in me soverchia, lo pregherei di regolare un po' meglio gli affari suoi, e villeggiar con
giudizio, e spendere con parsimonia. Ringrazio il signor Fulgenzio del bene che dall'opera sua riconosco; e vi assicuro, signore, che non me ne scorderò fin ch'io viva. Fo il mio dovere colla padrona di questa casa; auguro ogni bene ai di lei nipoti. Riverisco il signor Guglielmo. (Patetica.) Parto per Genova col mio caro sposo. (Risoluta.) Prima di andarmene, mi si permetta rivolgermi rispettosa a chi mi ascolta e mi onora. Vedeste le Smanie per villeggiare. Godeste le Avventure de' villeggianti, compatite il Ritorno dalla campagna; e se aveste occasione di ridere dell'altrui cattiva condotta, consolatevi con voi stessi della vostra prudenza, della vostra moderazione, e se non siete di noi malcontenti, dateci un cortese segno d'aggradimento.
Fine della Commedia.
IL SERVITORE DI DUE PADRONI
L'AUTORE A CHI LEGGE Troverai, Lettor carissimo, la presente Commedia diversa moltissimo dall'altre mie, che lette avrai finora. Ella non è di carattere, se non se carattere considerare si voglia quello del Truffaldino, che un servitore sciocco ed astuto nel medesimo tempo ci rappresenta: sciocco cioè in quelle cose le quali impensatamente e senza studio egli opera, ma accortissimo allora quando l'interesse e la malizia l'addestrano, che è il vero carattere del villano. Ella può chiamarsi piuttosto Commedia giocosa, perché di essa il gioco di Truffaldino forma la maggior parte. Rassomiglia moltissimo alle commedie usuali degl'Istrioni, se non che scevra mi pare di tutte quelle improprietà grossolane, che nel mio Teatro Comico ho condannate, e che dal Mondo sono oramai generalmente aborrite. Improprietà potrebbe parere agli scrupolosi, che Truffaldino mantenga l'equivoco della sua doppia servitù, anche in faccia dei due padroni medesimi soltanto per questo, perché niuno di essi lo chiama mai col suo nome; che se una volta sola, o Florindo, o Beatrice, nell'Atto terzo, dicessero Truffaldino, in luogo di dir sempre il mio Servitore, l'equivoco sarebbe sciolto e la commedia sarebbe allora terminata. Ma di questi equivoci, sostenuti dall'arte dell'Inventore, ne sono piene le Commedie non solo, ma le Tragedie ancora; e quantunque io m'ingegni d'essere osservante del verisimile in una Commedia giocosa, credo che qualche cosa, che non sia impossibile, si possa facilitare. Sembrerà a taluno ancora, che troppa distanza siavi dalla sciocchezza l'astuzia di Truffaldino; per esempio: lacerare una cambiale per disegnare la scalcherìa di una tavola, pare l'eccesso della goffaggine. Servire a due padroni, in due camere, nello stesso tempo, con tanta prontezza e celerità, pare l'eccesso della furberia. Ma appunto quel ch'io dissi a principio del carattere di Truffaldino: sciocco allor che opera senza pensamento, come quando lacera la cambiale; astutissimo quando opera con malizia, come nel servire a due tavole comparisce. Se poi considerar vogliamo la catastrofe della Commedia, la peripezia, l'intreccio, Truffaldino non fa figura da protagonista, anzi, se escludere vogliamo la supposta vicendevole morte de' due amanti, creduta per opera di questo servo, la Commedia si potrebbe fare senza di lui; ma anche di ciò abbiamo infiniti esempi, quali io non adduco per non empire soverchiamente i fogli; e perché non
mi credo in debito di provare ciò che mi lusingo non potermi essere contraddetto; per altro il celebre Molière istesso mi servirebbe di scorta a giustificarmi. Quando io composi la presente Commedia, che fu nell'anno 1745, in Pisa, fra le cure legali, per trattenimento e per genio, non la scrissi io già, come al presente si vede. A riserva di tre o quattro scene per atto, le più interessanti per le parti serie, tutto il resto della Commedia era accennato soltanto, in quella maniera che i commedianti sogliono denominare "a soggetto"; cioè uno scenario disteso, in cui accennando il proposito, le tracce, e la condotta e il fine de' ragionamenti, che dagli Attori dovevano farsi, era poi in libertà de' medesimi supplire all'improvviso, con adattate parole e acconci lazzi, spiritosi concetti. In fatti fu questa mia Commedia all'improvviso così bene eseguita da' primi Attori che la rappresentarono, che io me ne compiacqui moltissimo, e non ho dubbio a credere che meglio essi non l’abbiano all’improvviso adornata, di quello possa aver io fatto scrivendola. I sali del Truffaldino, le facezie, le vivezze sono cose che riescono più saporite, quando prodotte sono sul fatto dalla prontezza di spirito, dall’occasione, dal brio. Quel celebre eccellente comico, noto all’Italia tutta pel nome appunto di Truffaldino, ha una prontezza tale di spirito, una tale abbondanza di sali e naturalezza di termini, che sorprende: e volendo io provvedermi per le parti di lui. Questa Commedia l’ha disegnata espressamente per lui, anzi mi ha egli medesimo l’argomento proposto, argomento un po' difficile in vero, che ha posto in cimento tutto il genio mio per la Comica artificiosa, e tutto il talento suo per l’esecuzione. L'ho poi veduta in altre parti da altri comici rappresentare, e per mancanza forse non di merito, ma di quelle notizie che dallo scenario soltanto aver non poteano, parmi ch’ella decadesse moltissimo dal primo aspetto. Mi sono per questa ragione indotto a scriverla tutta, non già per obbligare quelli che sosterranno il carattere del Truffaldino a dir per l’appunto le parole mie, quando di meglio ne sappian dire, ma per dichiarare la mia intenzione, e per una strada assai dritta condurli al fine. Affaticato mi sono a distendere tutti i lazzi più necessari, tutte le più minute osservazioni, per renderla facile quanto mai ho potuto, e se non ha essa il merito della Critica, della Morale, della istruzione, abbia almeno quello di una ragionevole condotta e di un discreto ragionevole gioco. Prego però que' tali, che la parte del Truffaldino rappresenteranno, qualunque
volta aggiungere del suo vi volessero, astenersi dalle parole sconce, da' lazzi sporchi; sicuri che di tali cose ridono soltanto quelli della vil plebe, e se ne offendono le gentili persone.
PERSONAGGI Pantalone de' Bisognosi Clarice, sua figliuola Il Dottore Lombardi Silvio, di lui figliuolo Beatrice, torinese, in abito da uomo sotto nome di Federigo Rasponi Florindo Aretusi, torinese di lei amante Brighella, locandiere Smeraldina, cameriera di Clarice Truffaldino, servitore di Beatrice, poi di Florindo Un cameriere della locanda, che parla Un servitore di Pantalone, che parla Due facchini, che parlano Camerieri d'osteria, che non parlano
La scena si rappresenta in Venezia
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Pantalone Pantalone, il Dottore, Clarice, Silvio, Brighella, Smeraldina, un altro Servitore di Pantalone. SILVIO Eccovi la mia destra, e con questa vi dono tutto il mio cuore (a Clarice, porgendole la mano). PANTALONE Via, no ve vergognè; dèghe la man anca vu. Cusì sarè promessi, e presto presto sarè maridai (a Clarice). CLARICE Sì caro Silvio, eccovi la mia destra. Prometto di essere vostra sposa. SILVIO Ed io prometto esser vostro. (Si danno la mano.) DOTTORE Bravissimi, anche questa è fatta. Ora non si torna più indietro. SMERALDINA (Oh bella cosa! Propriamente anch'io me ne struggo di voglia). PANTALONE Vualtri sarè testimoni de sta promission, seguida tra Clarice mia fia e el sior Silvio, fio degnissimo del nostro sior dottor Lombardi (a Brighella ed al Servitore). BRIGHELLA Sior sì, sior compare, e la ringrazio de sto onor che la se degna de farme (a Pantalone). PANTALONE Vedeu? Mi son stà compare alle vostre nozze, e vu se testimonio alle nozze de mia fia. Non ho volesto chiamar compari, invidar parenti, perchè anca sior Dottor el xè del mio temperamento; ne piase far le cosse senza strepito, senza grandezze. Magneremo insieme, se goderemo tra de nu, e nissun ne disturberà. Cossa diseu, putti, faremio pulito? (a Clarice e Silvio). SILVIO Io non desidero altro che essere vicino alla mia cara sposa. SMERALDINA (Certo che questa è la migliore vivanda).
DOTTORE Mio figlio non è amante della vanità. Egli è un giovane di buon cuore. Ama la vostra figliuola, e non pensa ad altro. PANTALONE Bisogna dir veramente che sto matrimonio el sia stà destinà dal cielo, perché se a Turin no moriva sior Federigo Rasponi, mio corrispondente, savè che mia fia ghe l'aveva promessa a elo, e no la podeva toccar al mio caro sior zenero (verso Silvio). SILVIO Certamente io posso dire di essere fortunato. Non so se dirà così la signora Clarice. CLARICE Caro Silvio, mi fate torto. Sapete pur se vi amo; per obbedire il signor padre avrei sposato quel torinese, ma il mio cuore è sempre stato per voi. DOTTORE Eppur è vero; il cielo, quando ha decretato una cosa, la fa nascere per vie non prevedute. Come è succeduta la morte di Federigo Rasponi? (a Pantalone). PANTALONE Poverazzo! L'è stà mazzà de notte per causa de una sorella... No so gnente. I gh'ha dà una ferìa e el xè restà sulla botta. BRIGHELLA Elo successo a Turin sto fatto? (a Pantalone). PANTALONE A Turin. BRIGHELLA Oh, povero signor! Me despiase infinitamente. PANTALONE Lo conossevi sior Federigo Rasponi? (a Brighella). BRIGHELLA Siguro che lo conosseva. So stà a Turin tre anni e ho conossudo anca so sorella. Una zovene de spirito, de corazo; la se vestiva da omo, l'andava a cavallo, e lu el giera innamorà de sta so sorella. Oh! chi l'avesse mai dito! PANTALONE Ma! Le disgrazie le xè sempre pronte. Orsù, no parlemo de malinconie. Saveu cossa che v'ho da dir, missier Brighella caro? So che ve diletè de laorar ben in cusina. Vorave che ne fessi un per de piatti a vostro gusto. BRIGHELLA La servirò volentiera. No fazzo per dir, ma alla mia locanda tutti se contenta. I dis cusì che in nissun logo i magna, come che se magna da mi. La sentirà qualcossa de gusto.
PANTALONE Bravo. Roba brodosa, vedè, che se possa bagnarghe drento delle molene de pan. (Si sente picchiare). Oh! i batte. Varda chi è, Smeraldina. SMERALDINA Subito (parte, e poi ritorna). CLARICE Signor padre, con vostra buona licenza. PANTALONE Aspettè; vegnimo tutti. Sentimo chi xè. SMERALDINA (torna) Signore, è un servitore di un forestiere che vorrebbe farvi un'imbasciata. A me non ha voluto dir nulla. Dice che vuol parlar col padrone. PANTALONE Diseghe che el vegna avanti. Sentiremo cossa che el vol. SMERALDINA Lo farò venire (parte). CLARICE Ma io me ne anderei, signor padre. PANTALONE Dove? CLARICE Che so io? Nella mia camera. PANTALONE Siora no, siora no; stè qua. (Sti novizzi non vòi gnancora che i lassemo soli) (piano al Dottore). DOTTORE (Saviamente, con prudenza) (piano a Pantalone).
SCENA SECONDA
Truffaldino, Smeraldina e detti. TRUFFALDINO Fazz umilissima reverenza a tutti lor siori. Oh, che bella compagnia! Oh, che bella conversazion! PANTALONE Chi seu, amigo? Cossa comandeu? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Chi èla sta garbata signora? (a Pantalone, accennando Clarice). PANTALONE La xè mia fia. TRUFFALDINO Me ne ralegher. SMERALDINA E di più è sposa (a Truffaldino). TRUFFALDINO Me ne consolo. E ella chi èla? (a Smeraldina). SMERALDINA Sono la sua cameriera, signore. TRUFFALDINO Me ne congratulo. PANTALONE Oh via, sior, a monte le cerimonie. Cossa voleu da mi? Chi seu? Chi ve manda? TRUFFALDINO Adasio, adasio, colle bone. Tre interrogazion in t'una volta l'è troppo per un poveromo. PANTALONE (Mi credo che el sia un sempio costù) (piano al Dottore). DOTTORE (Mi par piuttosto un uomo burlevole) (piano a Pantalone). TRUFFALDINO V. S. è la sposa? (a Smeraldina). SMERALDINA Oh! (sospirando) Signor no. PANTALONE Voleu dir chi sè, o voleu andar a far i fatti vostri?
TRUFFALDINO Co no la vol altro che saver chi son, in do parole me sbrigo. Son servitor del me padron (a Pantalone). E cusì, tornando al nostro proposito... (voltandosi a Smeraldina). PANTALONE Mo chi xèlo el vostro padron? TRUFFALDINO L'è un forestier che vorave vegnir a farghe una visita (a Pantalone). Sul proposito dei sposi, discorreremo (a Smeraldina, come sopra). PANTALONE Sto forestier chi xèlo? Come se chiamelo? TRUFFALDINO Oh, l'è longa. L'è el sior Federigo Rasponi torinese, el me padron, che la reverisse, che l'è vegnù a posta, che l'è da basso, che el manda l'ambassada, che el vorria ar, che el me aspetta colla risposta. Èla contenta? Vorla saver altro? (a Pantalone. Tutti fanno degli atti di ammirazione). Tornemo a nu... (a Smeraldina, come sopra). PANTALONE Mo vegni qua, parlè co mi. Cossa diavolo diseu? TRUFFALDINO E se la vol saver chi son mi, mi son Truffaldin Batocchio, dalle vallade de Bergamo. PANTALONE No m'importa de saver chi siè vu. Voria che me tornessi a dir chi xè sto vostro padron. Ho paura de aver strainteso. TRUFFALDINO Povero vecchio! El sarà duro de recchie. El me padron l'è el sior Federigo Rasponi da Turin. PANTALONE Andè via, che sè un pezzo de matto. Sior Federigo Rasponi da Turin el xè morto. TRUFFALDINO L'è morto? PANTALONE L'è morto seguro. Pur troppo per elo. TRUFFALDINO (Diavol! Che el me padron sia morto? L'ho pur lassà vivo da basso!). Disì da bon, che l'è morto? PANTALONE Ve digo assolutamente che el xè morto.
DOTTORE Sì, è la verità; è morto; non occorre metterlo in dubbio. TRUFFALDINO (Oh, povero el me padron! Ghe sarà vegnù un accidente). Con so bona grazia (si licenzia). PANTALONE No volè altro da mi? TRUFFALDINO Co l'è morto, no m'occorre altro. (Voi ben andar a veder, se l'è la verità) (da sé, parte e poi ritorna). PANTALONE Cossa credemio che el sia costù? Un furbo, o un matto? DOTTORE Non saprei. Pare che abbia un poco dell'uno e un poco dell'altro. BRIGHELLA A mi el me par piuttosto un semplizotto. L'è bergamasco, no crederia che el fuss un baron SMERALDINA Anche l'idea l'ha buona. (Non mi dispiace quel morettino). PANTALONE Ma cossa se insonielo de sior Federigo? CLARICE Se fosse vero ch'ei fosse qui, sarebbe per me una nuova troppo cattiva. PANTALONE Che spropositi! No aveu visto anca vu le lettere? (a Clarice). SILVIO Se anche fosse egli vivo e fosse qui, sarebbe venuto tardi. TRUFFALDINO (ritorna) Me maraveio de lor siori. No se tratta cusì colla povera zente. No se inganna cusì i forestieri. No le son azion da galantomeni. E me ne farò render conto. PANTALONE (Vardemose, che el xè matto). Coss'è stà? Cossa v'ali fatto? TRUFFALDINO Andarme a dir che sior Federigh Rasponi l'è morto? PANTALONE E cusì? TRUFFALDINO E cusì l'è qua, vivo, san, spiritoso e brillante, che el vol reverirla, se la se contenta.
PANTALONE Sior Federigo? TRUFFALDINO Sior Federigo. PANTALONE Rasponi? TRUFFALDINO Rasponi. PANTALONE Da Turin? TRUFFALDINO Da Turin. PANTALONE Fio mio, andè all'ospeal, che sè matto. TRUFFALDINO Corpo del diavolo! Me farissi bestemiar come un zogador. Mo se l'è qua, in casa, in sala, che ve vegna el malanno. PANTALONE Adessadesso ghe rompo el muso. DOTTORE No, signor Pantalone, fate una cosa; ditegli che faccia venire innanzi questo tale, ch'egli crede essere Federigo Rasponi. PANTALONE Via, felo vegnir avanti sto morto ressuscità. TRUFFALDINO Che el sia stà morto e che el sia resuscità pol esser, mi no gh'ho niente in contrario. Ma adesso l'è vivo, e el vederì coi vostri occhi. Vagh a dirghe che el vegna. E da qua avanti imparè a trattar coi forestieri, coi omeni della me sorte, coi bergamaschi onorati (a Pantalone, con collera). Quella giovine, a so tempo se parleremo (a Smeraldina, e parte). CLARICE (Silvio mio, tremo tutta) (piano a Silvio). SILVIO (Non dubitate; in qualunque evento sarete mia) (piano a Clarice). DOTTORE Ora ci chiariremo della verità. PANTALONE Pol vegnir qualche baronato a darme da intender delle fandonie. BRIGHELLA Mi, come ghe diseva, sior compare, l'ho conossudo el sior Federigo; se el sarà lu, vederemo.
SMERALDINA (Eppure quel morettino non ha una fisonomia da bugiardo. Voglio veder se mi riesce...). Con buona grazia di lor signori (parte).
SCENA TERZA
Beatrice in abito da uomo, sotto nome di Federigo, e detti. BEATRICE Signor Pantalone, la gentilezza che io ho ammirato nelle vostre lettere, non corrisponde al trattamento che voi mi fate in persona. Vi mando il servo, vi fo ar l'ambasciata, e voi mi fate stare all'aria aperta, senza degnarvi di farmi entrare che dopo una mezz'ora? PANTALONE La compatissa... Ma chi xèla ella, patron? BEATRICE Federigo Rasponi di Torino, per obbedirvi. (Tutti fanno atti d'ammirazione). BRIGHELLA (Cossa vedio? Coss'è sto negozio? Questo no l'è Federigo, l'è la siora Beatrice so sorella. Voi osservar dove tende sto inganno). PANTALONE Mi resto attonito... Me consolo de vederla san e vivo, quando avevimo avudo delle cattive nove. (Ma gnancora no ghe credo, savè) (piano al Dottore). BEATRICE Lo so: fu detto che in una rissa rimasi estinto. Grazie al cielo, fui solamente ferito; e appena risanato, intrapresi il viaggio di Venezia, già da gran tempo con voi concertato. PANTALONE No so cossa dir. La so ciera xè da galantomo: ma mi gh'ho riscontri certi e seguri, che sior Federigo sia morto; onde la vede ben... se no la me dà qualche prova in contrario... BEATRICE È giustissimo il vostro dubbio; conosco la necessità di giustificarmi. Eccovi quattro lettere dei vostri amici corrispondenti, una delle quali è del ministro della nostra banca. Riconoscerete le firme, e vi accerterete dell'esser mio (dà quattro lettere a Pantalone, il quale le legge da sé). CLARICE (Ah Silvio, siamo perduti!) (piano a Silvio). SILVIO (La vita perderò, ma non voi!) (piano a Clarice).
BEATRICE (Oimè! Qui Brighella? Come diamine qui si ritrova costui? Egli mi conoscerà certamente; non vorrei che mi discoprisse) (da sé, avvedendosi di Brighella). Amico, mi par di conoscervi (forte a Brighella). BRIGHELLA Sì signor, no la s'arrecorda a Turin Brighella Cavicchio? BEATRICE Ah sì, ora vi riconosco (si va accostando a Brighella) Bravo galantuomo, che fate in Venezia? (Per amor del cielo, non mi scoprite) (piano a Brighella). BRIGHELLA (Non gh'è dubbio) (piano a Beatrice). Fazzo el locandier, per servirla (forte alla medesima). BEATRICE Oh, per l'appunto; giacché ho il piacer di conoscervi, verro ad alloggiare alla vostra locanda. BRIGHELLA La me farà grazia. (Qualche contrabando, siguro). PANTALONE Ho sentio tutto. Certo che ste lettere le me accompagna el sior Federigo Rasponi, e se ella me le presenta, bisognerave creder che la fosse... come che dise ste lettere. BEATRICE Se qualche dubbio ancor vi restasse, ecco qui messer Brighella; egli mi conosce, egli può assicurarvi dell'esser mio. BRIGHELLA Senz'altro, sior compare, lo assicuro mi. PANTALONE Co la xè cusì, co me l'attesta, oltre le lettere, anca mio compare Brighella, caro sior Federigo, me ne consolo con ella, e ghe domando scusa se ho dubita. CLARICE Signor padre, quegli è dunque il signor Federigo Rasponi? PANTALONE Mo el xè elo lu. CLARICE (Me infelice, che sarà di noi?) (piano a Silvio). SILVIO (Non dubitate, vi dico; siete mia e vi difenderò) (piano a Clarice). PANTALONE (Cossa diseu, dottor, xèlo vegnù a tempo?) (piano al Dottore).
DOTTORE Accidit in puncto, quod non contingit in anno. BEATRICE Signor Pantalone, chi è quella signora (accennando Clarice). PANTALONE La xè Clarice mia fia. BEATRICE Quella a me destinata in isposa? PANTALONE Sior sì, giusto quella. (Adesso son in t'un bell'intrigo). BEATRICE Signora, permettetemi ch'io abbia l'onore di riverirvi (a Clarice). CLARICE Serva divota (sostenuta). BEATRICE Molto freddamente m'accoglie (a Pantalone). PANTALONE Cossa vorla far? La xè timida de natura. BEATRICE E quel signore è qualche vostro parente? (a Pantalone, accennando Silvio). PANTALONE Sior sì; el xè un mio nevodo. SILVIO No signore, non sono suo nipote altrimenti, sono lo sposo della signora Clarice (a Beatrice). DOTTORE (Bravo! Non ti perdere. Di'la tua ragione, ma senza precipitare) (piano a Silvio). BEATRICE Come! Voi sposo della signora Clarice? Non è ella a me destinata? PANTALONE Via, via. Mi scoverzirò tutto. Caro sior Federigo, se credeva che fosse vera la vostra disgrazia che fussi morto, e cussi aveva dà mia fia a sior Silvio; qua no ghe xè un mal al mondo. Finalmente sè arriva in tempo. Clarice xè vostra, se la volè, e mi son qua a mantegnirve la mia parola. Sior Silvio, no so cossa dir; vedè coi vostri occhi la verità. Savè cossa che v'ho dito, e de mi no ve podè lamentar. SILVIO Ma il signor Federigo non si contenterà di prendere una sposa, che porse ad altri la mano.
BEATRICE Io poi non sono si delicato. La prenderò non ostante. (Voglio anche prendermi un poco di divertimento). DOTTORE (Che buon marito alla moda! Non mi dispiace). BEATRICE Spero che la signora Clarice non ricà la mia mano. SILVIO Orsù, signore, tardi siete arrivato. La signora Clarice deve esser mia, né sperate che io ve la ceda. Se il signor Pantalone mi farà torto, saprò vendicarmene; e chi vorrà Clarice, dovrà contenderla con questa spada (parte). DOTTORE (Bravo, corpo di Bacco!). BEATRICE (No, no, per questa via non voglio morire). DOTTORE Padrone mio, V. S. è arrivato un po' tardi. La signora Clarice l'ha da sposare mio figlio. La legge parla chiaro. Prior in tempore, potior in iure (parte). BEATRICE Ma voi, signora sposa, non dite nulla? (a Clarice). CLARICE Dico che siete venuto per tormentarmi (parte).
SCENA QUARTA
Pantalone, Beatrice e Brighella, poi il Servitore di Pantalone. PANTALONE Come, pettegola? Cossa distu? (le vuol correr dietro). BEATRICE Fermatevi, signor Pantalone; la compatisco. Non conviene prenderla con asprezza. Col tempo spero di potermi meritare la di lei grazia. Intanto andremo esaminando i nostri conti, che è uno dei due motivi per cui, come vi è noto, mi son portato a Venezia. PANTALONE Tutto xè all'ordine per el nostro conteggio. Ghe farò veder el conto corrente; i so bezzi xè parechiai, e faremo el saldo co la vorrà. BEATRICE Verrò con più comodo a riverirvi; per ora, se mi permettete, andrò con Brighella a spedire alcuni piccioli affari che mi sono stati raccomandati. Egli è pratico della città, potrà giovarmi nelle mie premure. PANTALONE La se serva come che la vol; e se la gh'ha bisogno de gnente, la comanda. BEATRICE Se mi darete un poco di denaro, mi farete piacere; non ho voluto prenderne meco per non discapitare nelle monete. PANTALONE Volentiera, la servirò. Adesso no gh'è el cassier. Subito che el vien, ghe manderò i bezzi fina a casa. No vala a star da mio compare Brighella? BEATRICE Certamente, vado da lui; e poi manderò il mio servitore; egli è fidatissimo, gli si può fidar ogni cosa. PANTALONE Benissimo; la servirò come la comanda, e se la vol restar da mi a far penitenza, la xè parona. BEATRICE Per oggi vi ringrazio. Un'altra volta sarò a incomodarvi. PANTALONE Donca starò attendendola.
SERVITORE Signore, è domandato (a Pantalone). PANTALONE Da chi? SERVITORE Di là... non saprei... (Vi sono degl'imbrogli) (piano a Pantalone, e parte). PANTALONE Vegno subito. Con so bona grazia. La scusa, se no la compagno. Brighella, vu sè de casa; servilo vu sior Federigo. BEATRICE Non vi prendete pena per me. PANTALONE Bisogna che vaga. A bon reverirla. (Non voria che nascesse qualche diavolezzo) (parte).
SCENA QUINTA
Beatrice e Brighella. BRIGHELLA Se pol saver, siora Beatrice?... BEATRICE Chetatevi, per amor del cielo, non mi scoprite. II povero mio fratello è morto, ed è rimasto ucciso o dalle mani di Florindo Aretusi, o da alcun altro per di lui cagione. Vi sovverrete che Florindo mi amava, e mio fratello non voleva che io gli corrispondessi. Si attaccarono non so come: Federigo morì, e Florindo, per timore della giustizia, se n'è fuggito senza potermi dare un addio. Sa il cielo se mi dispiace la morte del povero mio fratello, e quanto ho pianto per sua cagione; ma oramai non vi è più rimedio, e mi duole la perdita di Florindo. So che a Venezia erasi egli addrizzato, ed io ho fatto la risoluzione di seguitarlo. Cogli abiti e colle lettere credenziali di mio fratello, eccomi qui arrivata colla speranza di ritrovarvi l'amante. Il signor Pantalone, in grazia di quelle lettere, e in grazia molto più della vostra asserzione, mi crede già Federigo. Faremo il saldo dei nostri conti, riscuoterò del denaro, e potrò soccorrere anche Florindo, se ne avrà di bisogno. Guardate dove conduce amore! Secondatemi, caro Brighella, aiutatemi; sarete largamente ricompensato. BRIGHELLA Tutto va bene, ma no vorave esser causa mi che sior Pantalon, sotto bona fede, ghe pagasse el contante e che po el restasse burlà. BEATRICE Come burlato? Morto mio fratello, non sono io l'erede? BRIGHELLA L'è la verità. Ma perché no scovrirse? BEATRICE Se mi scopro, non faccio nulla. Pantalone principierà a volermi far da tutore, e tutti mi seccheranno, che non istà bene, che non conviene, e che so io? Voglio la mia libertà. Durerà poco, ma pazienza. Frattanto qualche cosa sarà. BRIGHELLA Veramente, signora, l'è sempre stada un spiritin bizzarro. La lassa far a mi, la staga su la mia fede. La se lassa servir. BEATRICE Andiamo alla vostra locanda.
BRIGHELLA El so servitor dov'elo? BEATRICE Ha detto che mi aspetterà sulla strada. BRIGHELLA Dove l'ala tolto quel martuffo? Nol sa gnanca parlar. BEATRICE L'ho preso per viaggio. Pare sciocco qualche volta, ma non lo è; e circa la fedeltà non me ne posso dolere. BRIGHELLA Ah, la fedeltà l'è una bella cossa. Andemo, la resta servida, vardè amor cossa che el fa far. BEATRICE Questo non è niente. Amor ne fa far di peggio (parte). BRIGHELLA Eh, avemo principià ben. Andando in là, no se sa cossa possa succeder (parte).
SCENA SESTA
Strada colla locanda di Brighella Truffaldino solo. TRUFFALDINO Son stuffo d'aspettar, che no posso più. Co sto me patron se magna poco, e quel poco el me lo fa suspirar. Mezzozorno della città l'è sonà che è mezz'ora, e el mezzozorno delle mie budelle l'è sonà che sarà do ore. Almanco savesse dove s'ha da andar a alozar. I alter subit che i arriva in qualche città, la prima cossa i va all'osteria. Lu, sior no, el lassa i bauli in barca del corrier. el va a far visite, e nol se recorda del povero servitor. Quand ch'i dis, bisogna servir i padroni con amor! Bisogna dir ai padroni, ch'i abbia un poco de carità per la servitù. Qua gh'è una locanda; quasi quasi anderia a veder se ghe fuss da devertir el dente; ma se el padron me cerca? So danno, che l'abbia un poco de discrezion. Voi andar; ma adess che ghe penso, gh'è un'altra piccola difficoltà, che no me l'arrecordava; non ho gnanca un quattrin. Oh povero Truffaldin! Più tost che far el servitor, corpo del diavol, me voi metter a far... cossa mo? Per grazia del Cielo, mi no so far gnente
SCENA SETTIMA
Florindo da viaggio con un Facchino col baule in spalla, e detto. FACCHINO Ghe digo che no posso più; el pesa che el mazza. FLORINDO Ecco qui un'insegna d'osteria o di locanda. Non puoi far questi quattro i? FACCHINO Aiuto; el baul va in terra. FLORINDO L'ho detto che tu non saresti stato al caso: sei troppo debole: non hai forza (regge il baule sulle spalle del Facchino). TRUFFALDINo (Se podess vadagnar diese soldi) (osservando il Facchino). Signor, comandela niente da mi? La possio servir? (a Florindo). FLORINDO Caro galantuomo, aiutate a portare questo baule in quell'albergo. TRUFFALDINO Subito, la lassa far a mi. La varda come se fa. a via (va colla spalla sotto il baule, lo prende tutto sopra di sé, e caccia in terra il Facchino con una spinta). FLORINDO Bravissimo. TRUFFALDINO Se nol pesa gnente! (entra nella locanda col baule). FLORINDO Vedete come si fa? (al Facchino). FACCHINO Mi no so far de più. Fazzo el facchin per desgrazia; ma son fiol de una persona civil. FLORINDO Che cosa faceva vostro padre? FACCHINO Mio padre? El scortegava i agnelli per la città.
FLORINDO (Costui è un pazzo; non occorr'altro) (vuol andare nella locanda). FACCHINO Lustrissimo, la favorissa. FLORINDO Che cosa? FACCHINO I bezzi della portadura. FLORINDO Quanto ti ho da dare per dieci i? Ecco lì la corriera (accenna dentro alla scena). FACCHINO Mi no conto i i; la me paga (stende la mano). FLORINDO Eccoti cinque soldi (gli mette una moneta in mano). FACCHINO La me paga (tiene la mano stesa). FLORINDO O che pazienza! Eccotene altri cinque (fa come sopra). FACCHINO La me paga (come sopra). FLORINDO (gli dà un calcio) Sono annoiato. FACCHINO Adesso son pagà (parte).
SCENA OTTAVA
Florindo, poi Truffaldino. FLORINDO Che razza di umori si danno! Aspettava proprio che io lo maltrattassi. Oh, andiamo un po' a vedere che albergo è questo... TRUFFALDINO Signor, l'è restada servida. FLORINDO Che alloggio è codesto? TRUFFALDINO L'è una bona locanda, signor. Boni letti, bei specchi, una cusina bellissima, con un odor che consola. Ho parlà col camerier. La sarà servida da re. FLORINDO Voi che mestiere fate? TRUFFALDINO El servitor. FLORINDO Siete veneziano? TRUFFALDINO No son venezian, ma son qua del Stato. Son bergamasco, per servirla. FLORINDO Adesso avete padrone? TRUFFALDINO Adesso... veramente non l'ho. FLORINDO Siete senza padrone? TRUFFALDINO Eccome qua; la vede, son senza padron. (Qua nol gh'è el me padron, mi no digo busie). FLORINDO Verreste voi a servirmi? TRUFFALDINO A servirla? Perché no? (Se i patti fusse meggio, me cambieria de camisa).
FLORINDO Almeno per il tempo ch'io sto in Venezia. TRUFFALDINO Benissimo. Quanto me vorla dar? FLORINDO Quanto pretendete? TRUFFALDINO Ghe dirò: un altro padron che aveva, e che adesso qua nol gh'ho più, el me dava un felippo al mese e le spese. FLORINDO Bene, e tanto vi darò io. TRUFFALDINO Bisognerave che la me dasse qualcossetta de più. FLORINDO Che cosa pretendereste di più? TRUFFALDINO Un soldetto al zorno per el tabacco. FLORINDO Sì, volentieri; ve lo darò. TRUFFALDINO Co l'è cusì, stago con lu. FLORINDO Ma vi vorrebbe un poco d'informazione dei fatti vostri. TRUFFALDINO Co no la vol altro che informazion dei fatti mii, la vada a Bergamo, che tutti ghe dirà chi son. FLORINDO Non avete nessuno in Venezia che vi conosca? TRUFFALDINO Son arrivà stamattina, signor. FLORINDO Orsù; mi parete un uomo da bene. Vi proverò. TRUFFALDINO La me prova, e la vederà. FLORINDO Prima d'ogni altra cosa, mi preme vedere se alla Posta vi siano lettere per me. Eccovi mezzo scudo; andate alla Posta di Torino, domandate se vi sono lettere di Florindo Aretusi; se ve ne sono, prendetele e portatele subito, che vi aspetto. TRUFFALDINO Intanto la fazza parecchiar da disnar.
FLORINDO Sì, bravo, farò preparare. (È faceto: non mi dispiace. A poco alla volta ne farò la prova) (entra nella locanda).
SCENA NONA
Truffaldino, poi Beatrice da uomo e Brighella. TRUFFALDINO Un soldo al zorno de più, i è trenta soldi al mese; no l'è gnanca vero che quell'alter me daga un felippo; el me dà diese pauli, Pol esser che diese pauli i fazza un felippo, ma mi nol so de seguro. E po quel sior turinese nol vedo più. L'è un matto. L'è un zovenotto che no gh'ha barba e no gh'ha giudizio. Lassemolo andar; andemo alla Posta per sto sior... (vuol partire ed incontra Beatrice). BEATRICE Bravissimo. Così mi aspetti? TRUFFALDINO Son qua, signor. V'aspetto ancora. BEATRICE E perchè vieni a aspettarmi qui, e non nella strada dove ti ho detto? È un accidente che ti abbia ritrovato. TRUFFALDINO Ho seggià un pochetto, perché me asse la fame. BEATRICE Orsù, va in questo momento alla barca del corriere. Fatti consegnare il mio baule e portalo alla locanda di messer Brighella... BRIGHELLA Eccola l'à la mia locanda; nol pol fallar. BEATRICE Bene dunque, sbrigati, che ti aspetto. TRUFFALDINO (Diavolo! In quella locanda!). BEATRICE Tieni, nello stesso tempo anderai alla Posta di Torino e domanderai se vi sono mie lettere. Anzi domanda se vi sono lettere di Federigo Rasponi e di Beatrice Rasponi. Aveva da venir meco anche mia sorella, e per un incomodo è restata in villa, qualche amica le potrebbe scrivere; guarda se ci sono lettere o per lei, o per me. TRUFFALDINO (Mi no so quala far. Son l'omo più imbroià de sto mondo). BRIGHELLA (Come aspettela lettere al so nome vero e al so nome finto, se l'è
partida segretamente?) (piano a Beatrice). BEATRICE (Ho lasciato ordine che mi si scriva ad un servitor mio fedele che amministra le cose della mia casa; non so con qual nome egli mi possa scrivere. Ma andiamo, che con comodo vi narrerò ogni cosa) (piano a Brighella). Spicciati, va alla Posta e va alla corriera. Prendi le lettere, fa portar il baule nella locanda, ti aspetto (entra nella locanda). TRUFFALDINO Sì vu el padron della locanda? (a Brighella). BRIGHELLA Si ben, son mi. Porteve ben, e no ve dubitè, che ve farò magnar ben (entra nella locanda).
SCENA DECIMA
Truffaldino, poi Silvio. TRUFFALDINO Oh bella! Ghe n'è tanti che cerca un padron, e mi ghe n'ho trovà do. Come diavol oia da far? Tutti do no li posso servir. No? E perché no? No la saria una bella cossa servirli tutti do, e guadagnar do salari, e magnar el doppio? La saria bella, se no i se ne accorzesse. E se i se ne accorze, cossa pèrdio? Gnente. Se uno me manda via, resto con quell'altro. Da galantomo, che me vai provar. Se la durasse anca un dì solo, me vòi provar. Alla fin averò sempre fatto una bella cossa. Animo; andemo alla Posta per tutti do (incamminandosi). SILVIO (Questi è il servo di Federigo Rasponi). Galantuomo (a Truffaldino). TRUFFALDINO Signor. SILVIO Dov'è il nostro padrone? TRUFFALDINO El me padron? L'è là in quella locanda. SILVIO Andate subito dal vostro padrone, ditegli ch'io gli voglio parlare; s'è uomo d'onore, venga giù, ch'io l'attendo. TRUFFALDINO Ma caro signor... SILVIO Andate subito (con voce alta). TRUFFALDINO Ma la sappia che el me padron... SILVIO Meno repliche, giuro al cielo. TRUFFALDINO Ma qualo ha da vegnir?... SILVIO Subito, o ti bastono. TRUFFALDINO (No so gnente, manderò el primo che troverò) (entra nella locanda).
SCENA UNDICESIMA
Silvio, poi Florindo e Truffaldino.
SILVIO No, non sarà mai vero ch'io soffra vedermi innanzi agli occhi un rivale. Se Federigo scampò la vita una volta, non gli succederà sempre la stessa sorte. O ha da rinunziare ogni pretensione sopra Clarice, o l'avrà da far meco... Esce altra gente dalla locanda. Non vorrei essere disturbato (si ritira dalla parte opposta). TRUFFALDINO Ecco là quel sior che butta fogo da tutte le bande (accenna Silvio a Florindo). FLORINDO Io non lo conosco. Che cosa vuole da me? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Mi no so gnente. Vado a tor le lettere; con so bona grazia. (No voggio impegni) (da sé, e parte). SILVIO (E Federigo non viene). FLORINDO (Voglio chiarirmi della verità). Signore, siete voi che mi avete domandato? (a Silvio) SILVIO Io? Non ho nemmeno l'onor di conoscervi. FLORINDO Eppure quel servitore, che ora di qui è partito, mi ha detto che con voce imperiosa e con minaccie avete preteso di provocarmi. SILVIO Colui m'intese male; dissi che parlar volevo al di lui padrone. FLORINDO Bene, io sono il di lui padrone. SILVIO Voi, il suo padrone? FLORINDO Senz'altro. Egli sta al mio servizio.
SILVIO Perdonate dunque, o il vostro servitore è simile ad un altro che ho veduto stamane, o egli serve qualche altra persona. FLORINDO Egli serve me, non ci pensate. SILVIO Quand'è così, torno a chiedervi scusa. FLORINDO Non vi è male. Degli equivoci ne nascon sempre. SILVIO Siete voi forestiere, signore? FLORINDO Turinese, a'vostri comandi. SILVIO Turinese appunto era quello con cui desiderava sfogarmi. FLORINDO Se è mio paesano, può essere ch'io lo conosca, e s'egli vi ha disgustato, m'impiegherò volentieri per le vostre giuste soddisfazioni. SILVIO Conoscete voi un certo Federigo Rasponi? FLORINDO Ah! l'ho conosciuto pur troppo. SILVIO Pretende egli per una parola avuta dal padre togliere a me una sposa, che questa mane mi ha giurato la fede. FLORINDO Non dubitate, amico, Federigo Rasponi non può involarvi la sposa. Egli è morto. SILVIO Si, tutti credevano ch'ei fosse morto, ma stamane giunse vivo e sano in Venezia, per mio malanno, per mia disperazione. FLORINDO Signore, voi mi fate rimaner di sasso. SILVIO Ma! ci sono rimasto anch'io. FLORINDO Federigo Rasponi vi assicuro che è morto. SILVIO Federigo Rasponi vi assicuro che è vivo. FLORINDO Badate bene che v'ingannerete.
SILVIO Il signor Pantalone de' Bisognosi, padre della ragazza, ha fatto tutte le possibili diligenze per assicurarsene, ed ha certissime prove che sia egli proprio in persona. FLORINDO (Dunque non restò ucciso, come tutti credettero, nella rissa!). SILVIO O egli, o io, abbiamo da rinunziare agli amori di Clarice, o alla vita. FLORINDO (Qui Federigo? Fuggo dalla giustizia, e mi trovo a fronte il nemico!). SILVIO È molto che voi non lo abbiate veduto. Doveva alloggiare in codesta locanda. FLORINDO Non l'ho veduto; qui m'hanno detto che non vi era forestiere nessuno. SILVIO Avrà cambiato pensiere. Signore, scusate se vi ho importunato Se lo vedete, ditegli che per suo meglio abbandoni l'idea di cotali nozze. Silvio Lombardi è il mio nome; avrò l'onore di riverirvi. FLORINDO Gradirò sommamente la vostra amicizia. (Resto pieno di confusione). SILVIO Il vostro nome, in grazia, poss'io saperlo? FLORINDO (Non vo' scoprirmi). Orazio Ardenti per obbedirvi. SILVIO Signor Orazio, sono a' vostri comandi (parte).
SCENA DODICESIMA
Florindo solo. FLORINDO Come può darsi che una stoccata, che lo ò dal fianco alle reni, non l'abbia ucciso? Lo vidi pure io stesso disteso al suolo, involto nel proprio sangue. Intesi dire che spirato egli era sul colpo. Pure potrebbe darsi che morto non fosse. Il ferro toccato non lo avrà nelle parti vitali. La confusione fa travedere. L'esser io fuggito da Torino subito dopo il fatto, che a me per la inimicizia nostra venne imputato, non mi ha lasciato luogo a rilevare la verità. Dunque, giacché non è morto, sarà meglio ch'io ritorni a Torino, ch'io vada a consolare la mia diletta Beatrice, che vive forse penando, e piange per la mia lontananza.
SCENA TREDICESIMA
Truffaldino con un altro Facchino che porta il baule di Beatrice, e detto. Truffaldino s'avanza alcuni i col Facchino, poi accorgendosi di Florindo e dubitando esser veduto, fa ritirare il Facchino. TRUFFALDINO Andemo con mi... Oh diavol! L è qua quest'alter padron. Retirete, camerada, e aspetteme su quel canton (il Facchino si ritira). FLORINDO (Sì, senz'altro. Ritornerò a Torino). TRUFFALDINO Son qua, signor... FLORINDO Truffaldino, vuoi venir a Torino con me? TRUFFALDINO Quando? FLORINDO Ora, subito. TRUFFALDINO Senza disnar? FLORINDO No; si pranzerà, e poi ce n'andremo. TRUFFALDINO Benissimo; disnando ghe penserò. FLORINDO Sei stato alla Posta? TRUFFALDINO Signor sì. FLORINDO Hai trovato mie lettere? TRUFFALDINO Ghe n'ho trovà. FLORINDO Dove sono?
TRUFFALDINO Adesso le troverò (tira fuori di tasca tre lettere). (Oh diavolo! Ho confuso quelle de un padron con quelle dell'altro. Come faroio a trovar fora le soe? Mi no so lezer). FLORINDO Animo, dà qui le mie lettere. TRUFFALDINO Adesso, signor. (Son imbroiado). Ghe dirò, signor. Ste tre lettere no le vien tutte a V. S. Ho trovà un servitor che me cognosse, che semo stadi a servir a Bergamo insieme; gh'ho dit che andava alla Posta, e el m'ha pregà che veda se gh'era niente per el so padron. Me par che ghe ne fusse una, ma no la conosso più, no so quala che la sia. FLORINDO Lascia vedere a me; prenderò le mie, e l'altra te la renderò. TRUFFALDINO Tolì pur. Me preme de servir l'amigo. FLORINDO (Che vedo? Una lettera diretta a Beatrice Rasponi? A Beatrice Rasponi in Venezia!). TRUFFALDINO L'avì trovada quella del me camerada? FLORINDO Chi è questo tuo camerata, che ti ha dato una tale incombenza? TRUFFALDINO L'è un servitor... che gh'ha nome Pasqual. FLORINDO Chi serve costui?
TRUFFALDINO Mi no lo so, signor. FLORINDO Ma se ti ha detto di cercar le lettere del suo padrone, ti avrà dato il nome. TRUFFALDINO Naturalmente. (L'imbroio cresce). FLORINDO Ebbene, che nome ti ha dato? TRUFFALDINO No me l'arrecordo. FLORINDO Come!...
TRUFFALDINO El me l'ha scritto su un pezzo de carta. FLORINDO E dov'è la carta? TRUFFALDINO L'ho lassada alla Posta. FLORINDO (Io sono in un mare di confusioni). TRUFFALDINO (Me vado inzegnando alla meio). FLORINDO Dove sta di casa questo Pasquale? TRUFFALDINO Non lo so in verità. FLORINDO Come potrai ricapitargli la lettera? TRUFFALDINO El m'ha dito che se vederemo in piazza. FLORINDO (Io non so che pensare). TRUFFALDINO (Se la porto fora netta, l'è un miracolo). La me favorissa quella lettera, che vederò de trovarlo. FLORINDO No, questa lettera voglio aprirla. TRUFFALDINO Ohibò; no la fazza sta cossa. La sa pur, che pena gh'è a avrir le lettere. FLORINDO Tant'è, questa lettera m'interessa troppo. È diretta a persona, che mi appartiene per qualche titolo. Senza scrupolo la posso aprire (l'apre). TRUFFALDINO (Schiavo siori. El l'ha fatta). FLORINDO (legge)
Illustrissima signora padrona. La di lei partenza da questa città ha dato motivo di discorrere a tutto il paese; e tutti capiscono ch'ella abbia fatto tale risoluzione per seguitare il signor
Florindo. Lo Corte ha penetrato ch'ella sia fuggita in abito da uomo, e non lascia di far diligenze per rintracciarla e farla arrestare. Io non ho spedito la presente da questa Posta di Torino per Venezia a dirittura, per non iscoprire il paese dov'ella mi ha confidato che pensava portarsi; ma l'ho inviata ad un amico di Genova, perché poi di la la trasmettesse a Venezia. Se avrò novità di rimarco, non lascerò di comunicargliele collo stesso metodo, e umilmente mi rassegno. Umilissimo e fedelissimo servitore Tognin della Doira.
TRUFFALDINO (Che bell'azion! Lezer i fatti d'i altri). FLORINDO (Che intesi mai? Che lessi? Beatrice partita di casa sua? in abito d'uomo? per venire in traccia di me? Ella mi ama davvero. Volesse il cielo che io la ritrovassi in Venezia!). Va, caro Truffaldino, usa ogni diligenza per ritrovare Pasquale; procura di ricavare da lui chi sia il suo padrone, se uomo, se donna. Rileva dove sia alloggiato, e se puoi, conducilo qui da me, che a te e a lui darò una mancia assai generosa. TRUFFALDINO Deme la lettera; procurerò de trovarlo. FLORINDO Eccola, mi raccomando a te. Questa cosa mi preme infinitamente. TRUFFALDINO Ma ghe l'ho da dar cusì averta? FLORINDO Digli che è stato un equivoco, un accidente. Non mi trovare difficoltà. TRUFFALDINO E a Turin se va più per adesso? FLORINDO No, non si va più per ora. Non perder tempo. Procura di ritrovar Pasquale. (Beatrice in Venezia, Federigo in Venezia. Se la trova il fratello, misera lei; farò io tutte le diligenze possibili per rinvenirla) (parte).
SCENA QUATTORDICESIMA
Truffaldino solo, poi il Facchino col baule. TRUFFALDINO Ho gusto da galantomo, che no se vada via. Ho volontà de veder come me riesce sti do servizi. Vòi provar la me abilità. Sta lettera, che va a st'alter me padron, me despias de averghela da portar averta. M'inzegnerò de piegarla (fa varie piegature cattive). Adess mo bisogneria bollarla. Se savess come far! Ho vist la me siora nonna, che delle volte la bollava le lettere col pan mastegà. Voio provar (tira fuori di tasca un pezzetto di pane). Me despiase consumar sto tantin de pan; ma ghe vol pazenzia (mastica un po'di pane per sigillare la lettera, ma non volendo l'inghiotte). Oh diavolo! L'è andà zo. Bisogna mastegarghene un altro boccon (fa lo stesso e l'inghiotte). No gh'è remedio, la natura repugna. Me proverò un'altra volta (mastica, come sopra. Vorrebbe inghiottir il pane, ma si trattiene, e con gran fatica se lo leva di bocca). Oh, l'è vegnù. Bollerò la lettera (la sigilla col pane). Me par che la staga ben. Gran mi per far le cosse pulito! Oh, no m'arrecordava più del facchin. Camerada, vegnì avanti, tolì su el baul (verso la scena). FACCHINO (col baule in spalla) Son qua, dove l'avemio da portar? TRUFFALDINO Portel in quella locanda, che adess vegno anca mi. FACCHINO E chi pagherà?
SCENA QUINDICESIMA
Beatrice, che esce dalla locanda, e detti. BEATRICE È questo il mio baule? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Signor sì. BEATRICE Portatelo nella mia camera (al Facchino). FACCHINO Qual èla la so camera? BEATRICE Domandatelo al cameriere. FACCHINO Semo d'accordo trenta soldi. BEATRICE Andate, che vi pagherò. FACCHINO Che la fazza presto. BEATRICE Non mi seccate. FACCHINO Adessadesso ghe butto el baul in mezzo alla strada (entra nella locanda). TRUFFALDINO Gran persone gentili che son sti facchini! BEATRICE Sei stato alla Posta? TRUFFALDINO Signor si. BEATRICE Lettere mie ve ne sono? TRUFFALDINO Ghe n'era una de vostra sorella. BEATRICE Bene, dov'è? TRUFFALDINO Eccola qua (le dà la lettera).
BEATRICE Questa lettera è stata aperta. TRUFFALDINO Averta? Oh! no pol esser. BEATRICE Aperta e sigillata ora col pane. TRUFFALDINO Mi no saveria mai come che la fusse. BEATRICE Non lo sapresti, eh? Briccone, indegno; chi ha aperto questa lettera? Voglio saperlo. TRUFFALDINO Ghe dirò, signor, ghe confesserò la verità. Semo tutti capaci de fallar. Alla Posta gh'era una lettera mia; so poco lezer; e in fallo, in vece de averzer la mia, ho averto la soa. Ghe domando perdon. BEATRICE Se la cosa fosse così, non vi sarebbe male. TRUFFALDINO L'è così da povero fiol. BEATRICE L'hai letta questa lettera? Sai che cosa contiene? TRUFFALDINO Niente affatto. L'è un carattere che no capisso. BEATRICE L'ha veduta nessuno? TRUFFALDINO Oh! (maravigliandosi). BEATRICE Bada bene, veh! TRUFFALDINO Uh! (come sopra). BEATRICE (Non vorrei che costui m'ingannasse) (legge piano). TRUFFALDINO (Anca questa l'è tacconada). BEATRICE (Tognino è un servitore fedele. Gli ho dell'obbligazione). Orsù, io vado per un interesse poco lontano Tu va nella locanda, apri il baule, eccoti le chiavi e da'un poco d'aria ai miei vestiti. Quando torno, si pranzerà (Il signor Pantalone non si vede, ed a me premono queste monete) (parte).
SCENA SEDICESIMA
Truffaldino, poi Pantalone. TRUFFALDINO Mo l'è andada ben, che no la podeva andar meio. Son un omo de garbo; me stimo cento scudi de più de quel che no me stimava. PANTALONE Disè, amigo, el vostro padron xèlo in casa? TRUFFALDINO Sior no, nol ghe xè. PANTALONE Saveu dove che el sia? TRUFFALDINO Gnanca. PANTALONE Vienlo a casa a disnar? TRUFFALDINO Mi crederave de sì. PANTALONE Tolè, col vien a casa, deghe sta borsa co sti cento ducati. No posso trattegnirme, perché gl'ho da far. Ve reverisso (parte).
SCENA DICIASSETTESIMA
Truffaldino, poi Florindo. TRUFFALDINO La diga, la senta. Bon viazo. Non m'ha gnanca dito a qual dei mi padroni ghe l'ho da dar. FLORINDO E bene, hai tu ritrovato Pasquale? TRUFFALDINO Sior no, no l'ho trovà Pasqual, ma ho trovà uno, che m'ha dà una borsa con cento ducati. FLORINDO Cento ducati? Per farne che? TRUFFALDINO Disim la verità, sior padron, aspetteu denari da nissuna banda? FLORINDO Sì ho presentata una lettera ad un mercante. TRUFFALDINO Donca sti quattrini i sarà vostri. FLORINDO Che cosa ha detto chi te li ha dati? TRUFFALDINO El m'ha dit, che li daga al me padron. FLORINDO Dunque sono miei senz'altro. Non sono io il tuo padrone? Che dubbio c'è? TRUFFALDINO (Nol sa gnente de quell'alter padron). FLORINDO E non sai chi te li abbia dati? TRUFFALDINO Mi no so; me par quel viso averlo visto un'altra volta, ma no me recordo. FLORINDO Sarà un mercante, a cui sono raccomandato. TRUFFALDINO El sarà lu senz'altro.
FLORINDO Ricordati di Pasquale. TRUFFALDINO Dopo disnar lo troverò. FLORINDO Andiamo dunque a sollecitare il pranzo (entra nella locanda). TRUFFALDINO Andemo pur. Manco mal che sta volta non ho fallà. La borsa l'ho dada a chi l'aveva d'aver (entra nella locanda).
SCENA DICIOTTESIMA
Camera in casa di Pantalone Pantalone e Clarice, poi Smeraldina. PANTALONE Tant'è; sior Federigo ha da esser vostro mario. Ho dà parola, e no son un bambozzo. CLARICE Siete padrone di me, signor padre; ma questa, compatitemi, è una tirannia. PANTALONE Quando sior Federigo v'ha fatto domandar, ve l'ho dito; vu non m'avè resposo de no volerlo. Allora dovevi parlar; adesso no sè più a tempo. CLARICE La soggezione, il rispetto, mi fecero ammutolire. PANTALONE Fè che el respetto e la suggizion fazza l'istesso anca adesso. CLARICE Non posso, signor padre. PANTALONE No? per cossa? CLARICE Federigo non lo sposerò certamente. PANTALONE Ve despiaselo tanto? CLARICE È odioso agli occhi miei. PANTALONE Anca sì che mi ve insegno el modo de far che el ve piasa? CLARICE Come mai, signore? PANTALONE Desmenteghève sior Silvio, e vederè che el ve piaserà. CLARICE Silvio è troppo fortemente impresso nell'anima mia; e voi coll'approvazione vostra lo avete ancora più radicato. PANTALONE (Da una banda la compatisso). Bisogna far de necessità vertù.
CLARICE Il mio cuore non è capace di uno sforzo sì grande. PANTALONE Feve animo, bisogna farlo... SMERALDINA Signor padrone, è qui il signor Federigo, che vuol riverirla. PANTALONE Ch'el vegna, che el xè patron. CLARICE Oimè! Che tormento! (piange). SMERALDINA Che avete, signora padrona? Piangete? In verità avete torto. Non avete veduto com'è bellino il signor Federigo? Se toccasse a me una tal fortuna, non vorrei piangere, no; vorrei ridere con tanto di bocca (parte). PANTALONE Via, fia mia, no te far veder a pianzer. CLARICE Ma se mi sento scoppiar il cuore.
SCENA DICIANNOVESIMA
Beatrice da uomo, e detti. BEATRICE Riverisco il signor Pantalone. PANTALONE Padron reverito. Àla recevesto una borsa con cento ducati? BEATRICE Io no. PANTALONE Ghe l'ho dada za un poco al so servitor. La m'ha dito che el xè un omo fidà. BEATRICE Sì, non vi è pericolo. Non l'ho veduto: me li darà, quando torno a casa. (Che ha la signora Clarice che piange?) (piano a Pantalone). PANTALONE (Caro sior Federigo, bisogna compatirla. La nova della so morte xè stada causa de sto mal. Col tempo spero che la se scambierà) (piano a Beatrice). BEATRICE (Fate una cosa, signor Pantalone, lasciatemi un momento in libertà con lei, per vedere se mi riuscisse d'aver una buona parola) (come sopra). PANTALONE Sior Sì; vago e vegno. (Voggio provarle tutte). Fia mia, aspetteme, che adesso torno. Tien un poco de compagnia al to novizzo. (Via, abbi giudizio) (piano a Clarice, e parte).
SCENA VENTESIMA
Beatrice e Clarice. BEATRICE Deh, signora Clarice... CLARICE Scostatevi, e non ardite d'importunarmi. BEATRICE Così severa con chi vi è destinato in consorte? CLARICE Se sarò strascinata per forza alle vostre nozze, avrete da me la mano, ma non il cuore. BEATRICE Voi siete sdegnata meco, eppure io spero placarvi. CLARICE V'aborrirò in eterno. BEATRICE Se mi conosceste, voi non direste così. CLARICE Vi conosco abbastanza per lo sturbatore della mia pace. BEATRICE Ma io ho il modo di consolarvi. CLARICE V'ingannate; altri che Silvio consolare non mi potrebbe. BEATRICE Certo che non posso darvi quella consolazione, che dar vi potrebbe il vostro Silvio, ma posso contribuire alla vostra felicità. CLARICE Mi par assai, signore, che parlandovi io in una maniera la più aspra del mondo, vogliate ancor tormentarmi. BEATRICE (Questa povera giovane mi fa pietà; non ho cuore di vederla penare). CLARICE (La ione mi fa diventare ardita, temeraria, incivile). BEATRICE Signora Clarice, vi ho da confidare un segreto.
CLARICE Non vi prometto la segretezza. Tralasciate di confidarmelo. BEATRICE La vostra austerità mi toglie il modo di potervi render felice. CLARICE Voi non mi potete rendere che sventurata. BEATRICE V'ingannate; e per convincervi vi parlerò schiettamente. Se voi non volete me, io non saprei che fare di voi. Se avete ad altri impegnata la destra, anch'io con altri ho impegnato il cuore. CLARICE Ora cominciate a piacermi. BEATRICE Non vel dissi che aveva io il modo di consolarvi? CLARICE Ah, temo che mi deludiate. BEATRICE No, signora, non fingo. Parlovi col cuore sulle labbra; e se mi promettete quella segretezza che mi negaste poc'anzi, vi confiderò un arcano, che metterà in sicuro la vostra pace. CLARICE Giuro di osservare il più rigoroso silenzio. BEATRICE Io non sono Federigo Rasponi, ma Beatrice di lui sorella. CLARICE Oh! che mi dite mai! Voi donna? BEATRICE Sì, tale io sono. Pensate, se aspiravo di cuore alle vostre nozze. CLARICE E di vostro fratello che nuova ci date? BEATRICE Egli morì pur troppo d'un colpo di spada. Fu creduto autore della di lui morte un amante mio, di cui sotto di queste spoglie mi porto in traccia. Pregovi per tutte le sacre leggi d'amicizia e d'amore di non tradirmi. So che incauta sono io stata confidandovi un tale arcano, ma l'ho fatto per più motivi; primieramente, perché mi doleva vedervi afflitta; in secondo luogo, perché mi pare conoscere in voi che siate una ragazza da potersi compromettere di segretezza; per ultimo, perché il vostro Silvio mi ha minacciato e non vorrei che, sollecitato da voi, mi ponesse in qualche cimento. CLARICE A Silvio mi permettete voi ch'io lo dica?
BEATRICE No, anzi ve lo proibisco assolutamente. CLARICE Bene, non parlerò. BEATRICE Badate che mi fido di voi. CLARICE Ve lo giuro di nuovo, non parlerò. BEATRICE Ora non mi guarderete più di mal occhio. CLARICE Anzi vi sarò amica; e, se posso giovarvi, disponete di me. BEATRICE Anch'io vi giuro eterna la mia amicizia. Datemi la vostra mano. CLARICE Eh, non vorrei... BEATRICE Avete paura ch'io non sia donna? Vi darò evidenti prove della verità. CLARICE Credetemi, ancora mi pare un sogno. BEATRICE Infatti la cosa non è ordinaria. CLARICE È stravagantissima. BEATRICE Orsù, io me ne voglio andare. Tocchiamoci la mano in segno di buona amicizia e di fedeltà. CLARICE Ecco la mano; non ho nessun dubbio che m'inganniate.
SCENA VENTUNESIMA
Pantalone e dette. PANTALONE Bravi! Me ne rallegro infinitamente. (Fia mia, ti t'ha giustà molto presto) (a Clarice). BEATRICE Non vel dissi, signor Pantalone, ch'io l'avrei placata? PANTALONE Bravo! Avè fatto più vu in quattro minuti, che no averave fatto mi in quattr'anni. CLARICE (Ora sono in un laberinto maggiore). PANTALONE Donca stabiliremo presto sto matrimonio (a Clarice). CLARICE Non abbiate tanta fretta, signore. PANTALONE Come! Se se tocca le manine in scondon, e non ho d'aver pressa? No, no, no voggio che me succeda desgrazie. Doman se farà tutto. BEATRICE Sarà necessario, signor Pantalone, che prima accomodiamo le nostre partite, che vediamo il nostro conteggio. PANTALONE Faremo tutto. Queste le xè cosse che le se fa in do ore. Doman daremo l'anello. CLARICE Deh, signor padre... PANTALONE Siora fia, vago in sto ponto a dir le parole a sior Silvio. CLARICE Non lo irritate, per amor del cielo. PANTALONE Coss'è? Ghe ne vustu do? CLARICE Non dico questo. Ma... PANTALONE Ma e mo, la xè finia. Schiavo, siori (vuol partire).
BEATRICE Udite... (a Pantalone). PANTALONE Sè mario e muggier (partendo). CLARICE Piuttosto... (a Pantalone). PANTALONE Stassera la descorreremo (parte).
SCENA VENTIDUESIMA
Beatrice e Clarice. CLARICE Ah, signora Beatrice, esco da un affanno per entrare in un altro. BEATRICE Abbiate pazienza. Tutto può succedere, fuor ch'io vi sposi. CLARICE E se Silvio mi crede infedele? BEATRICE Durerà per poco l'inganno. CLARICE Se gli potessi svelare la verità... BEATRICE Io non vi disimpegno dal giuramento. CLARICE Che devo fare dunque? BEATRICE Soffrire un poco. CLARICE Dubito che sia troppo penosa una tal sofferenza. BEATRICE Non dubitate, che dopo i timori, dopo gli affanni, riescono più graditi gli amorosi contenti (parte). CLARICE Non posso lusingarmi di provar i contenti, finchè mi vedo circondata da pene. Ah, pur troppo egli è vero: in questa vita per lo più o si pena, o si spera, e poche volte si gode (parte).
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Cortile in casa di Pantalone Silvio e il Dottore. SILVIO Signor padre, vi prego lasciarmi stare. DOTTORE Fermati; rispondimi un poco. SILVIO Sono fuori di me. DOTTORE Per qual motivo sei tu venuto nel cortile del signor Pantalone? SILVIO Perché voglio, o che egli mi mantenga quella parola che mi ha dato, o che mi renda conto del gravissimo affronto. DOTTORE Ma questa è una cosa che non conviene farla nella propria casa di Pantalone. Tu sei un pazzo a lasciarti trasportar dalla collera. SILVIO Chi tratta male con noi, non merita alcun rispetto. DOTTORE È vero, ma non per questo si ha da precipitare. Lascia fare a me, Silvio mio, lascia un po' ch'io gli parli; può essere ch'io lo illumini e gli faccia conoscere il suo dovere. Ritirati in qualche loco, e aspettami; esci di questo cortile, non facciamo scene. Aspetterò io il signor Pantalone. SILVIO Ma io, signor padre... DOTTORE Ma io, signor figliuolo, voglio poi esser obbedito. SILVIO Sì, v'obbedirò. Me n'anderò. Parlategli. Vi aspetto dallo speziale. Ma se il signor Pantalone persiste, avrà che fare con me (parte).
SCENA SECONDA
Il Dottore, poi Pantalone. DOTTORE Povero figliuolo, lo compatisco. Non doveva mai il signor Pantalone lusingarlo a tal segno, prima di essere certo della morte del torinese. Vorrei pure vederlo quieto, e non vorrei che la collera me lo fe precipitare. PANTALONE (Cossa fa el Dottor in casa mia?). DOTTORE Oh, signor Pantalone, vi riverisco. PANTALONE Schiavo, sior Dottor. Giusto adesso vegniva a cercar de vu e de vostro fio. DOTTORE Sì? Bravo, m'immagino che dovevate venir in traccia di noi, per assicurarci che la signora Clarice sarà moglie di Silvio. PANTALONE Anzi vegniva per dirve... (mostrando difficoltà di parlare). DOTTORE No, non c'è bisogno di altre giustificazioni. Compatisco il caso in cui vi siete trovato. Tutto vi si a in grazia della buona amicizia. PANTALONE Seguro, che considerando la promessa fatta a sior Federigo... (titubando, come sopra). DOTTORE E colto all'improvviso da lui, non avete avuto tempo a riflettere; e non avete pensato all'affronto che si faceva alla nostra casa. PANTALONE No se pol dir affronto, quando con un altro contratto... DOTTORE So che cosa volete dire. Pareva a prima vista che la promessa col turinese fosse indissolubile, perché stipulata per via di contratto. Ma quello era un contratto seguito fra voi e lui; e il nostro è confermato dalla fanciulla. PANTALONE Xè vero; ma... DOTTORE E sapete bene che in materia di matrimoni: Consensus et non
concubitus facit virum. PANTALONE Mi no so de latin; ma ve digo... DOTTORE E le ragazze non bisogna sacrificarle. PANTALONE Aveu altro da dir? DOTTORE Per me ho detto. PANTALONE Aveu fenio? DOTTORE Ho finito. PANTALONE Possio parlar? DOTTORE Parlate. PANTALONE Sior dottor caro, con tutta la vostra dottrina... DOTTORE Circa alla dote ci aggiusteremo. Poco più, poco meno, non guarderò. PANTALONE Semo da capo. Voleu lassarme parlar? DOTTORE Parlate. PANTALONE Ve digo che la vostra dottrina xè bella e bona; ma in sto caso no la conclude. DOTTORE E voi comporterete che segua un tal matrimonio? PANTALONE Per mi giera impegnà, che no me podeva cavar. Mia fia xè contenta; che difficoltà possio aver? Vegniva a posta a cercar de vu o de sior Silvio, per dirve sta cossa. La me despiase assae, ma non ghe vedo remedio. DOTTORE Non mi maraviglio della vostra figliuola; mi maraviglio di voi, che trattiate si malamente con me. Se non eravate sicuro della morte del signor Federigo, non avevate a impegnarvi col mio figliuolo; e se con lui vi siete impegnato, avete a mantener la parola a costo di tutto. La nuova della morte di Federigo giustificava bastantemente, anche presso di lui, la vostra nuova risoluzione, né poteva egli rimproverarvi, né aveva luogo a pretendere veruna
soddisfazione. Gli sponsali contratti questa mattina fra la signora Clarice ed il mio figliuolo coram testibus non potevano essere sciolti da una semplice parola data da voi ad un altro. Mi darebbe l'animo colle ragioni di mio figliuolo render nullo ogni nuovo contratto, e obbligar vostra figlia a prenderlo per marito; ma mi vergognerei d'avere in casa mia una nuora di così poca riputazione, una figlia di un uomo senza parola, come voi siete. Signor Pantalone, ricordatevi che l'avete fatta a me, che l'avete fatta alla casa Lombardi verrà il tempo che forse me la dovrete pagare: sì, verrà il tempo: omnia tempus habent (parte).
SCENA TERZA
Pantalone, poi Silvio. PANTALONE Andè, che ve mando. No me n'importa un figo, e no gh'ho paura de vu. Stimo più la casa Rasponi de cento case Lombardi. Un fio unico e ricco de sta qualità se stenta a trovarlo. L'ha da esser cussì. SILVIO (Ha bel dire mio padre. Chi si può tenere, si tenga). PANTALONE (Adesso, alla segonda de cambio) (vedendo Silvio). SILVIO Schiavo suo, signore (bruscamente). PANTALONE Patron reverito. (La ghe fuma). SILVIO Ho inteso da mio padre un certo non so che; crediamo poi che sia la verità? PANTALONE Co ghe l'ha dito so sior padre, sarà vero. SILVIO Sono dunque stabiliti gli sponsali della signora Clarice col signor Federigo? PANTALONE Sior sì, stabiliti e conclusi. SILVIO Mi maraviglio che me lo diciate con tanta temerità. Uomo senza parola, senza riputazione. PANTALONE Come parlela, padron? Co un omo vecchio della mia sorte la tratta cussì? SILVIO Non so chi mi tenga, che non vi i da parte a parte. PANTALONE No son miga una rana, padron. In casa mia se vien a far ste bulae? SILVIO Venite fuori di questa casa.
PANTALONE Me maraveggio de ella, sior. SILVIO Fuori, se siete un uomo d'onore. PANTALONE Ai omeni della mia sorte se ghe porta respetto. SILVIO Siete un vile, un codardo, un plebeo. PANTALONE Sè un tocco de temerario. SILVIO Eh, giuro al Cielo... (mette mano alla spada). PANTALONE Agiuto (mette mano al pistolese).
SCENA QUARTA
Beatrice colla spada alla mano, e detti. BEATRICE Eccomi; sono io in vostra difesa (a Pantalone, e rivolta la spada contro Silvio). PANTALONE Sior zenero, me raccomando (a Beatrice). SILVIO Con te per l'appunto desideravo di battermi (a Beatrice). BEATRICE (Son nell'impegno). SILVIO Rivolgi a me quella spada (a Beatrice). PANTALONE Ah, sior zenero... (timoroso). BEATRICE Non è la prima volta che io mi sia cimentato. Son qui, non ho timore di voi (presenta la spada a Silvio). PANTALONE Aiuto. No gh'è nissun? (Parte correndo verso la strada). Beatrice e Silvio si battono. Silvio cade e lascia la spada in terra, e Beatrice gli presenta la punta al petto.
SCENA QUINTA
Clarice e detti. CLARICE Oimè! Fermate (a Beatrice). BEATRICE Bella Clarice, in grazia vostra dono a Silvio la vita; e voi, in ricompensa della mia pietà, ricordatevi del giuramento (parte).
SCENA SESTA
Silvio e Clarice. CLARICE Siete salvo o mio caro? SILVIO Ah, perfida ingannatrice! Caro a Silvio? Caro ad un amante schernito, ad uno sposo tradito? CLARICE No, Silvio, non merito i vostri rimproveri. V'amo, v'adoro, vi son fedele. SILVIO Ah menzognera! Mi sei fedele, eh? Fedeltà chiami prometter fede ad un altro amante? CLARICE Ciò non feci, ne farò mai. Morirò, prima d'abbandonarvi. SILVIO Sento che vi ha impegnato con un giuramento. CLARICE Il giuramento non mi obbliga ad isposarlo. SILVIO Che cosa dunque giuraste? CLARICE Caro Silvio, compatitemi, non posso dirlo. SILVIO Per qual ragione? CLARICE Perché giurai di tacere. SILVIO Segno dunque che siete colpevole. CLARICE No, sono innocente. SILVIO Gl'innocenti non tacciono. CLARICE Eppure questa volta rea mi farei parlando. SILVIO Questo silenzio a chi l'avete giurato?
CLARICE A Federigo. SILVIO E con tanto zelo l'osserverete? CLARICE L'osserverò per non divenire spergiura. SILVIO E dite di non amarlo? Semplice chi vi crede. Non vi credo io già, barbara, ingannatrice! Toglietevi dagli occhi miei. CLARICE Se non vi amassi, non sarei corsa qui a precipizio per difendere la vostra vita. SILVIO Odio anche la vita, se ho da riconoscerla da un'ingrata. CLARICE Vi amo con tutto il cuore. SILVIO Vi aborrisco con tutta l'anima. CLARICE Morirò, se non vi placate. SILVIO Vedrei il vostro sangue più volentieri della infedeltà vostra. CLARICE Saprò soddisfarvi (toglie la spada di terra). SILVIO Sì, quella spada potrebbe vendicare i miei torti. CLARICE Così barbaro colla vostra Clarice? SILVIO Voi mi avete insegnata la crudeltà. CLARICE Dunque bramate la morte mia? SILVIO Io non so dire che cosa brami. CLARICE Vi saprò compiacere (volta la punta al proprio seno).
SCENA SETTIMA
Smeraldina e detti. SMERALDINA Fermatevi; che diamine fate? (leva la spada a Clarice). E voi, cane rinnegato, l'avreste lasciata morire? (a Silvio). Che cuore avete di tigre, di leone, di diavolo? Guardate lì il bel suggettino, per cui le donne s'abbiano a sbudellare! Oh siete pur buona, signora padrona. Non vi vuole più forse? Chi non vi vuol, non vi merita. Vada all'inferno questo sicario, e voi venite meco, che degli uomini non ne mancano; m'impegno avanti sera trovarvene una dozzina (getta la spada in terra, e Silvio la prende). CLARICE (piangendo) Ingrato! Possibile che la mia morte non vi costasse un sospiro? Sì, mi ucciderà il dolore; morirò, sarete contento. Però vi sarà nota un giorno la mia innocenza, e tardi allora, pentito di non avermi creduto, piangerete la mia sventura e la vostra barbara crudeltà (parte).
SCENA OTTAVA
Silvio e Smeraldina. SMERALDINA Questa è una cosa che non so capire. Veder una ragazza che si vuol ammazzare, e star lì a guardarla, come se vedeste rappresentare una scena di commedia. SILVIO Pazza che sei! Credi tu ch'ella si volesse uccider davvero? SMERALDINA Non so altro io so che, se non arrivavo a tempo, la poverina sarebbe ita. SILVIO Vi voleva ancor tanto prima che la spada giungesse al petto. SMERALDINA Sentite che bugiardo! Se stava lì lì per entrare. SILVIO Tutte finzioni di voi altre donne. SMERALDINA Sì, se fossimo come voi. Dirò, come dice il proverbio: noi abbiamo le voci, e voi altri avete le noci. Le donne hanno la fama di essere infedeli, e gli uomini commettono le infedeltà a più non posso. Delle donne si parla, e degli uomini non si dice nulla. Noi siamo criticate, e a voi altri si a tutto. Sapete perché? Perché le leggi le hanno fatte gli uomini; che se le avessero fatte le donne, si sentirebbe tutto il contrario. S'io comandassi, vorrei che tutti gli uomini infedeli portassero un ramo d'albero in mano, e so che tutte le città diventerebbero boschi (parte).
SCENA NONA
Silvio solo. SILVIO Sì, che Clarice è infedele, e col pretesto di un giuramento affetta di voler celare la verità. Ella è una perfida, e l'atto di volersi ferire fu un'invenzione per ingannarmi, per muovermi a comione di lei. Ma se il destino mi fece cadere a fronte del mio rivale, non lascierò mai il pensiero di vendicarmi. Morirà quell'indegno, e Clarice ingrata vedrà nel di lui sangue il frutto de'suoi amori (parte)
SCENA DECIMA
Sala della locanda con due porte in prospetto e due laterali Truffaldino, poi Florindo. TRUFFALDINO Mo gran desgrazia che l'è la mia! De do padroni nissun è vegnudo ancora a disnar. L'è do ore che è sonà mezzozorno, e nissun se vede. I vegnirà po tutti do in una volta, e mi sarò imbroiado; tutti do no li poderò servir, e se scovrirà la fazenda. Zitto, zitto, che ghe n'è qua un. Manco mal. FLORINDO Ebbene, hai ritrovato codesto Pasquale? TRUFFALDINO No avemio dito, signor, che el cercherò dopo che averemo disnà? FLORINDO Io sono impaziente. TRUFFALDINO El doveva vegnir a disnar un poco più presto. FLORINDO (Non vi è modo ch'io possa assicurarmi se qui si trovi Beatrice). TRUFFALDINO El me dis, andemo a ordinar el pranzo, e po el va fora de casa. La roba sarà andada de mal. FLORINDO Per ora non ho volontà di mangiare. (Vo' tornare alla Posta. Ci voglio andare da me; qualche cosa forse rileverò). TRUFFALDINO La sappia, signor, che in sto paese bisogna magnar, e chi no magna, s'ammala. FLORINDO Devo uscire per un affar di premura. Se torno a pranzo, bene; quando no, mangerò questa sera. Tu, se vuoi, fatti dar da mangiare. TRUFFALDINO Oh, non occorr'altro. Co l'è cusì, che el se comoda, che l'è padron.
FLORINDO Questi danari mi pesano; tieni, mettili nel mio baule. Eccoti la chiave (dà a Truffaldino la borsa dei cento ducati e la chiave). TRUFFALDINO La servo, e ghe porto la chiave. FLORINDO No, no, me la darai. Non mi vo'trattenere. Se non torno a pranzo, vieni alla piazza; attenderò con impazienza che tu abbia ritrovato Pasquale (parte).
SCENA UNDICESIMA
Truffaldino, poi Beatrice con un foglio in mano. TRUFFALDINO Manco mal che l'ha dito che me fazza dar da magnar; cusì andaremo d'accordo. Se nol vol magnar lu, che el lassa star. La mia complession no l'è fatta per dezunar. Voi metter via sta borsa, e po subito... BEATRICE Ehi, Truffaldino! TRUFFALDINO (Oh diavolo!). BEATRICE Il signor Pantalone de' Bisognosi ti ha dato una borsa con cento ducati? TRUFFALDINO Sior sì, el me l'ha dada. BEATRICE E perché dunque non me la dai? TRUFFALDINO Mo vienla a vussioria? BEATRICE Se viene a me? Che cosa ti ha detto, quando ti ha dato la borsa? TRUFFALDINO El m'ha dit che la daga al me padron. BEATRICE Bene, il tuo padrone chi è? TRUFFALDINO Vussioria. BEATRICE E perché domandi dunque, se la borsa è mia? TRUFFALDINO Donca la sarà soa. BEATRICE Dov'è la borsa? TRUFFALDINO Eccola qua (gli dà la borsa). BEATRICE Sono giusti?
TRUFFALDINO Mi no li ho toccadi, signor. BEATRICE (Li conterò poi). TRUFFALDINO (Aveva fallà mi colla borsa; ma ho rimedià. Cossa dirà quell'altro? Se no i giera soi, nol dirà niente). BEATRICE Vi è il padrone della locanda? TRUFFALDINO El gh'è è, signor si. BEATRICE Digli che avrò un amico a pranzo con me, che presto presto procuri di accrescer la tavola più che può. TRUFFALDINO Come vorla restar servida? Quanti piatti comandela? BEATRICE Il signor Pantalone de' Bisognosi non è uomo di gran soggezione. Digli che faccia cinque o sei piatti; qualche cosa di buono. TRUFFALDINO Se remettela in mi? BEATRICE Sì, ordina tu, fatti onore. Vado a prender l'amico, che è qui poco lontano; e quando torno, fa che sia preparato (in atto di partire). TRUFFALDINO La vederà, come la sarà servida. BEATRICE Tieni questo foglio, mettilo nel baule. Bada bene veh, che è una lettera di cambio di quattromila scudi. TRUFFALDINO No la se dubita, la metterò via subito. BEATRICE Fa' che sia tutto pronto. (Povero signor Pantalone, ha avuto la gran paura. Ha bisogno di essere divertito) (parte).
SCENA DODICESIMA
Truffaldino, poi Brighella. TRUFFALDINO Qua bisogna veder de farse onor. La prima volta che sto me padron me ordina un disnar, voi farghe veder se son de bon gusto. Metterò via sta carta, e po... La metterò via dopo, no vòi perder tempo. Oe de là; gh'è nissun? Chiameme missier Brighella, diseghe che ghe vòi parlar (verso la scena). No consiste tanto un bel disnar in te le pietanze, ma in tel bon ordine; val più una bella disposizion, che no val una montagna de piatti. BRIGHELLA Cossa gh'è, sior Truffaldin? Cossa comandeu da mi? TRUFFALDINO El me padron el gh'ha un amigo a disnar con lu; el vol che radoppiè la tavola, ma presto, subito. Aveu el bisogno in cusina? BRIGHELLA Da mi gh'è sempre de tutto. In mezz'ora posso metter all'ordine qualsesia disnar. TRUFFALDINO Ben donca. Disìme cossa che ghe darè. BRIGHELLA Per do persone, faremo do portade de quattro piatti l'una; anderà ben? TRUFFALDINO (L'ha dito cinque o sie piatti; sie o otto, no gh'è mal). Anderà ben. Cossa ghe sarà in sti piatti? BRIGHELLA Nella prima portada ghe daremo la zuppa, la frittura, el lesso e un fracandò. TRUFFALDINO Tre piatti li cognosso; el quarto no so cossa che el sia. BRIGHELLA Un piatto alla franzese, un intingolo, una bona vivanda. TRUFFALDINO Benissimo, la prima portada va ben; alla segonda. BRIGHELLA La segonda ghe daremo l'arrosto, l'insalata, un pezzo de carne pastizzada e un bodin.
TRUFFALDINO Anca qua gh'è un piatto che no cognosso; coss'è sto budellin? BRIGHELLA Ho dito un bodin, un piatto all'inglese, una cossa bona. TRUFFALDINO Ben, son contento; ma come disponeremio le vivande in tavola? BRIGHELLA L'è una cossa facile. El camerier farà lu. TRUFFALDINO No, amigo, me preme la scalcaria; tutto consiste in saver metter in tola ben. BRIGHELLA Se metterà, per esempio, qua la soppa, qua el fritto, qua l'alesso e qua el fracandò (accenna una qualche distribuzione). TRUFFALDINO No, no me piase; e in mezzo no ghe mettè gnente? BRIGHELLA Bisognerave che fessimo cinque piatti. TRUFFALDINO Ben, far cinque piatti. BRIGHELLA In mezzo ghe metteremo una salsa per el lesso. TRUFFALDINO No, no savè gnente, caro amigo; la salsa no va ben in mezzo; in mezzo ghe va la minestra. BRIGHELLA E da una banda metteremo el lesso, e da st'altra la salsa... TRUFFALDINO Oibò, no faremo gnente. Voi altri locandieri savì cusinar, ma no savi metter in tola. Ve insegnerò mi. Fè conto che questa sia la tavola (s'inginocchia con un ginocchio, e accenna il pavimento). Osservè come se distribuisse sti cinque piatti; per esempio: qua in mezzo la minestra (straccia un pezzo della lettera di cambio, e figura di mettere per esempio un piatto nel mezzo). Qua da sta parte el lesso (fa lo stesso, stracciando un altro pezzo di lettera, e mettendo il pezzo da un canto). Da st'altra parte el fritto (fa lo stesso con un altro pezzo di lettera, ponendolo all'incontro dell'altro). Qua la salsa, e qua el piatto che no cognosso (con altri due pezzi della lettera compisce la figura di cinque piatti). Cossa ve par? Cusì anderala ben? (a Brighella). BRIGHELLA Va ben; ma la salsa l'è troppo lontana dal lesso.
TRUFFALDINO Adesso vederemo come se pol far a tirarla più da visin.
SCENA TREDICESIMA
Beatrice, Pantalone e detti. BEATRICE Che cosa fai ginocchioni? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Stava qua disegnando la scalcaria (s'alza). BEATRICE Che foglio è quello? TRUFFALDINO (Oh diavolo! la lettera che el m'ha da!). BEATRICE Quella è la mia cambiale. TRUFFALDINO La compatissa. La torneremo a unir... BEATRICE Briccone! Così tieni conto delle cose mie? Di cose di tanta importanza? Tu meriteresti che io ti bastonassi. Che dite, signor Pantalone? Si può vedere una sciocchezza maggior di questa? PANTALONE In verità che la xè da rider. Sarave mal se no ghe fusse caso de remediarghe; ma co mi ghe ne fazzo un'altra, la xè giustada. BEATRICE Tant'era se la cambiale veniva di lontan paese. Ignorantaccio! TRUFFALDINO Tutto el mal l'è vegnù, perché Brighella no sa metter i piatti in tola. BRIGHELLA El trova difficoltà in tutto. TRUFFALDINO Mi son un omo che sa... BEATRICE Va via di qua (a Truffaldino). TRUFFALDINO Val più el bon ordine... BEATRICE Va via, ti dico.
TRUFFALDINO In materia de scalcheria no ghe la cedo al primo marescalco del mondo (parte). BRIGHELLA No lo capisso quell'omo: qualche volta l'è furbo, e qualche volta l'è alocco. BEATRICE Lo fa lo sciocco, il briccone. Ebbene, ci darete voi da pranzo? (a Brighella). BRIGHELLA Se la vol cinque piatti per portada, ghe vol un poco de tempo. PANTALONE Coss'è ste portade? Coss è sti cinque piatti? Alla bona, alla bona. Quattro risi, un per de piatti, e schiavo. Mi no son omo da suggizion. BEATRICE Sentite? Regolatevi voi (a Brighella). BRIGHELLA Benissimo; ma averia gusto, se qualcossa ghe piasesse, che la me lo disesse. PANTALONE Se ghe fusse delle polpette per mi, che stago mal de denti, le magneria volentiera. BEATRICE Sentite? Delle polpette (a Brighella). BRIGHELLA La sarà servida. La se comoda in quella camera, che adessadesso ghe mando in tola. BEATRICE Dite a Truffaldino che venga a servire. BRIGHELLA Ghe lo dirò, signor (parte).
SCENA QUATTORDICESIMA
Beatrice, Pantalone, poi Camerieri, poi Truffaldino. BEATRICE Il signor Pantalone si contenterà di quel poco che daranno. PANTALONE Me maraveggio, cara ella, xè anca troppo l'incomodo che la se tol; quel che averave da far mi con elo, el fa elo con mi; ma la vede ben, gh'ho quella putta in casa; fin che no xè fatto tutto, no xè lecito che la staga insieme. Ho accettà le so grazie per devertirme un pochetto; tremo ancora dalla paura. Se no gieri vu, fio mio, quel cagadonao me sbasiva. BEATRICE Ho piacere d'esser arrivato in tempo. (I Camerieri portano nella camera indicata da Brighella tutto l'occorrente per preparare la tavola, con bicchieri, vino, pane ecc.) PANTALONE In sta locanda i xè molto lesti. BEATRICE Brighella è un uomo di garbo. In Torino serviva un gran cavaliere, e porta ancora la sua livrea. PANTALONE Ghe xè anca una certa locanda sora Canal Grando, in fazza alle Fabbriche de Rialto, dove che se magna molto ben; son stà diverse volte con certi galantomeni, de quei della bona stampa, e son stà cusì ben, che co me l'arrecordo, ancora me consolo. Tra le altre cosse me recordo d'un certo vin de Borgogna che el dava el becco alle stelle. BEATRICE Non vi è maggior piacere al mondo, oltre quello di essere in buona compagnia. PANTALONE Oh se la savesse che compagnia che xè quella! Se la savesse che cuori tanto fatti! Che sincerità! Che schiettezza! Che belle conversazion, che s'ha fatto anca alla Zuecca! Siei benedetti. Sette o otto galantomeni, che no ghe xè i so compagni a sto mondo. (I Camerieri escono dalla stanza e tornano verso la cucina.)
BEATRICE Avete dunque goduto molto con questi? PANTALONE L'è che spero de goder ancora. TRUFFALDINO (col piatto in mano della minestra o della zuppa) La resta servida in camera, che porto in tola (a Beatrice). BEATRICE Va innanzi tu; metti giù la zuppa. TRUFFALDINO Eh, la resti servida (fa le cerimonie). PANTALONE El xè curioso sto so servitor. Andemo (entra in camera). BEATRICE Io vorrei meno spirito, e più attenzione (a Truffaldino, ed entra). TRUFFALDINO Guardè che bei trattamenti! Un piatto alla volta! I spende i so quattrini, e no i gh'ha niente de bon gusto. Chi sa gnanca se sta minestra la sarà bona da niente; voi sentir (assaggia la minestra, prendendone con un cucchiaio che ha in tasca). Mi gh'ho sempre le mie arme in scarsella. Eh! no gh'è mal; la poderave esser pezo (entra in camera).
SCENA QUINDICESIMA
Un Cameriere con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice ed altri Camerieri. CAMERIERE Quanto sta costui a venir a prender le vivande? TRUFFALDINO (dalla camera) Son qua, camerada; cossa me deu? CAMERIERE Ecco il bollito. Vado a prender un altro piatto (parte). TRUFFALDINO Che el sia castrà, o che el sia vedèllo? El me par castrà. Sentimolo un pochetin (ne assaggia un poco). No l'è né castrà, né vedèllo: l'è pegora bella e bona (s'incammina verso la camera di Beatrice). FLORINDO Dove si va? (l'incontra). TRUFFALDINO (Oh poveretto mi!). FLORINDO Dove vai con quel piatto? TRUFFALDINO Metteva in tavola, signor. FLORINDO A chi? TRUFFALDINO A vussioria. FLORINDO Perché metti in tavola prima ch'io venga a casa? TRUFFALDINO V'ho visto a vegnir dalla finestra. (Bisogna trovarla). FLORINDO E dal bollito principi a metter in tavola, e non dalla zuppa? TRUFFALDINO Ghe dirò, signor, a Venezia la zuppa la se magna in ultima. FLORINDO Io costumo diversamente. Voglio la zuppa. Riporta in cucina quel piatto.
TRUFFALDINO Signor sì la sarà servida. FLORINDO E spicciati, che voglio poi riposare. TRUFFALDINO Subito (mostra di ritornare in cucina). FLORINDO (Beatrice non la ritroverò mai?) (entra nell'altra camera in prospetto). Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice. CAMERIERE (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo. Truffaldino (chiama). TRUFFALDINO (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell'altra camera, che l'è arrivado quell'altro forestier, e portè la minestra subito. CAMERIERE Subito (parte). TRUFFALDINO Sta piatanza coss'èla mo? Bisogna che el sia el fracastor (assaggia). Bona, bona, da galantomo (la porta in camera di Beatrice. Camerieri ano e portano l'occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo). Bravi. Pulito. I è lesti come gatti (verso i Camerieri). Oh se me riuscisse de servir a tavola do padroni; mo la saria la gran bella cossa. (Camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina). Presto, fioi, la menestra. CAMERIERE Pensate alla vostra tavola, e noi penseremo a questa (parte). TRUFFALDINO Voria pensar a tutte do, se podesse. (Cameriere torna colla minestra per Florindo). Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell'altra camera. (Leva la minestra di mano al Cameriere e la porta in camera di Florindo). CAMERIERE Ê curioso costui. Vuol servire di qua e di la. Io lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano. Truffaldino esce di camera di Florindo. BEATRICE Truffaldino (dalla camera lo chiama). CAMERIERE Eh! servite il vostro padrone (a Truffaldino).
TRUFFALDINO Son qua (entra in camera di Beatrice; i Camerieri portano il bollito per Florindo). CAMERIERE Date qui (lo prende). Camerieri partono. Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi. FLORINDO Truffaldino (dalla camera lo chiama forte). TRUFFALDINO De qua (vuol prendere il piatto del bollito dal Cameriere). CAMERIERE Questo lo porto io. TRUFFALDINO No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo). CAMERIERE È bellissima. Vuol far tutto. (I Camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al Cameriere e partono). CAMERIERE Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui. (Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi). Tenete, signor faccendiere; portate queste polpette al vostro padrone. TRUFFALDINO Polpette? (prendendo il piatto in mano). CAMERIERE Sì, le polpette ch'egli ha ordinato (parte). TRUFFALDINO Oh bella! A chi le òi da portar? Chi diavol de sti padroni le averà ordinade? Se ghel vago a domandar in cusina, no voria metterli in malizia; se fallo e che no le porta a chi le ha ordenade, quell'altro le domanderà e se scoverzirà l'imbroio. Farò cussi... Eh, gran mi! Farò cusì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cusì chi le averà ordinade, le vederà (prende un altro tondo di quelli che sono in sala, e divide le polpette per metà). Quattro e quattro. Ma ghe n'è una de più. A chi ghe l'òia da dar? No voi che nissun se n'abbia per mal; me la magnerò mi (mangia la polpetta). Adesso va ben. Portemo le polpette a questo (mette in terra l'altro tondo, e ne porta uno da Beatrice). CAMERIERE (con un bodino all'inglese) Truffaldino (chiama) TRUFFALDINO Son qua (esce dalla camera di Beatrice).
CAMERIERE Portate questo bodino... TRUFFALDINO Aspettè che vegno (prende l'altro tondino di polpette, e lo porta a Florindo). CAMERIERE Sbagliate; le polpette vanno di la. TRUFFALDINO Sior si, lo so, le ho portade de là; e el me padron manda ste quattro a regalar a sto forestier (entra). CAMERIERE Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme. TRUFFALDINO (torna in camera di Florindo) E cusì, coss'elo sto negozio? (al Cameriere). CAMERIERE Questo è un bodino all'inglese. TRUFFALDINO A chi valo? CAMERIERE Al vostro padrone (parte). TRUFFALDINO Che diavolo è sto bodin? L'odor l'è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Voi sentir (tira fuori di tasca una forchetta). No l'è polenta, ma el ghe someia (mangia). L'è meio della polenta (mangia). BEATRICE Truffaldino (dalla camera lo chiama). TRUFFALDINO Vegno (risponde colla bocca piena). FLORINDO Truffaldino (lo chiama dalla sua camera). TRUFFALDINO Son qua (risponde colla bocca piena, come sopra). Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno (segue a mangiare). BEATRICE (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire (torna nella sua camera). Truffaldino mette il bodino in terra, ed entra in camera di Beatrice. FLORINDO (esce dalla sua camera) Truffaldino (chiama). Dove diavolo è costui?
TRUFFALDINO (esce dalla camera di Beatrice) L'è qua (vedendo Florindo). FLORINDO Dove sei? Dove ti perdi? TRUFFALDINO Era andà a tor dei piatti, signor. FLORINDO Vi è altro da mangiare? TRUFFALDINO Anderò a veder. FLORINDO Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare (torna nella sua camera). TRUFFALDINO Subito. Camerieri, gh'è altro? (chiama). Sto bodin me lo metto via per mi (lo nasconde). CAMERIERE Eccovi l'arrosto (porta un piatto con l'arrosto). TRUFFALDINO Presto i frutti (prende l'arrosto). CAMERIERE Gran furie! Subito (parte). TRUFFALDINO L'arrosto lo porterò a questo (entra da Florindo). CAMERIERE Ecco le frutta, dove siete? (con un piatto di frutta). TRUFFALDINO Son qua (di camera di Florindo). CAMERIERE Tenete (gli dà le frutta). Volete altro? TRUFFALDINO Aspettè (porta le frutta a Beatrice). CAMERIERE Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui. TRUFFALDINO Non occorr'altro. Nissun vol altro. CAMERIERE Ho piacere. TRUFFALDINO Parecchiè per mi. CAMERIERE Subito (parte).
TRUFFALDINO Togo su el me bodin; evviva, l'ho superada, tutti i è contenti, no i vol alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell'altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro (parte).
SCENA SEDICESIMA
Strada con veduta della locanda Smeraldina, poi il Cameriere della locanda. SMERALDINA Oh, guardate che discretezza della mia padrona! Mandarmi con un viglietto ad una locanda, una giovane come me! Servire una donna innamorata è una cosa molto cattiva. Fa mille stravaganze questa mia padrona; e quel che non so capire si è, che è innamorata del signor Silvio a segno di sbudellarsi per amor suo, e pur manda i viglietti ad un altro. Quando non fosse che ne volesse uno per la state e l'altro per l'inverno. Basta... Io nella locanda non entro certo. Chiamerò; qualcheduno uscirà. O di casa! o della locanda! CAMERIERE Che cosa volete, quella giovine? SMERALDINA (Mi vergogno davvero, davvero). Ditemi.. Un certo signor Federigo Rasponi è alloggiato in questa locanda? CAMERIERE Sì, certo. Ha finito di pranzare che è poco. SMERALDINA Avrei da dargli una cosa. CAMERIERE Qualche ambasciata? Potete are. SMERALDINA Ehi, chi vi credete ch'io sia? Sono la cameriera della sua sposa. CAMERIERE Bene, ate. SMERALDINA Oh, non ci vengo io là dentro. CAMERIERE Volete ch'io lo faccia venire sulla strada? Non mi pare cosa ben fatta; tanto più ch'egli è in compagnia col signor Pantalone de' Bisognosi. SMERALDINA Il mio padrone? Peggio! Oh, non ci vengo. CAMERIERE Manderò il suo servitore, se volete.
SMERALDINA Quel moretto? CAMERIERE Per l'appunto. SMERALDINA Si, mandatelo. CAMERIERE (Ho inteso. Il moretto le piace. Si vergogna a venir dentro. Non si vergognerà a farsi scorgere in mezzo alla strada) (entra).
SCENA DICIASSETTESIMA
Smeraldina, poi Truffaldino. SMERALDINA Se il padrone mi vede, che cosa gli dirò? Dirò che venivo in traccia di lui; eccola bella e accomodata. Oh, non mi mancano ripieghi. TRUFFALDINO (con un fiasco in mano, ed un bicchiere, ed un tovagliolino) Chi è che me domanda? SMERALDINA Sono io, signore. Mi dispiace avervi incomodato. TRUFFALDINO Niente; son qua a ricever i so comandi. SMERALDINA M'immagino che foste a tavola, per quel ch'io vedo. TRUFFALDINO Era a tavola, ma ghe tornerò. SMERALDINA Davvero me ne dispiace. TRUFFALDINO E mi gh'ho gusto. Per dirvela, ho la panza piena, e quei bei occhietti i è giusto a proposito per farme digerir. SMERALDINA (Egli è pure grazioso!). TRUFFALDINO Metto zo el fiaschetto e son qua da vu, cara. SMERALDINA (Mi ha detto cara). La mia padrona manda questo viglietto al signor Federigo Rasponi; io nella locanda non voglio entrare, onde ho pensato di dar a voi quest'incomodo, che siete il suo servitore. TRUFFALDINO Volentiera, ghe lo porterò; ma prima sappiè che anca mi v'ho da far un'imbassada. SMERALDINA Per parte di chi? TRUFFALDINO Per parte de un galantomo. Disime, conossive vu un certo Truffaldin Battocchio?
SMERALDINA Mi pare averlo sentito nominare una volta, ma non me ne ricordo. (Avrebbe a esser lui questo). TRUFFALDINO L'è un bell'omo: bassotto, traccagnotto, spiritoso, che parla ben. Maestro de cerimonie... SMERALDINA Io non lo conosco assolutamente. TRUFFALDINO E pur lu el ve cognosse, e l'è innamorado de vu. SMERALDINA Oh! mi burlate. TRUFFALDINO E se el podesse sperar un tantin de corrispondenza, el se daria da cognosser. SMERALDINA Dirò, signore; se lo vedessi e mi desse nel genio, sarebbe facile ch'io gli corrispondessi. TRUFFALDINO Vorla che ghe lo fazza veder? SMERALDINA Lo vedrò volentieri. TRUFFALDINO Adesso subito (entra nella locanda). SMERALDINA Non è lui dunque. (Truffaldino esce dalla locanda, fa delle riverenze a Smeraldina, le a vicino; poi sospira ed entra nella locanda). Quest'istoria non la capisco. TRUFFALDINO L'ala visto? (tornando a uscir fuori). SMERALDINA Chi? TRUFFALDINO Quello che è innamorato delle so bellezze. SMERALDINA Io non ho veduto altri che voi. TRUFFALDINO Mah! (sospirando). SMERALDINA Siete voi forse quello che dice di volermi bene? TRUFFALDINO Son mi (sospirando).
SMERALDINA Perché non me l'avete detto alla prima? TRUFFALDINO Perché son un poco vergognosetto. SMERALDINA (Farebbe innamorare i sassi). TRUFFALDINO E cusì, cossa me disela? SMERALDINA Dico che... TRUFFALDINO Via, la diga. SMERALDINA Oh, anch'io sono vergognosetta. TRUFFALDINO Se se unissimo insieme, faressimo el matrimonio de do persone vergognose. SMERALDINA In verità, voi mi date nel genio. TRUFFALDINO Èla putta ella? SMERALDINA Oh, non si domanda nemmeno. TRUFFALDINO Che vol dir, no certo. SMERALDINA Anzi vuol dir, sì certissimo. TRUFFALDINO Anca mi son putto. SMERALDINA Io mi sarei maritata cinquanta volte, ma non ho mai trovato una persona che mi dia nel genio. TRUFFALDINO Mi possio sperar de urtarghe in tela simpatia? SMERALDINA In verità, bisogna che io lo dica, voi avete un non so che... Basta, non dico altro. TRUFFALDINO Uno che la volesse per muier, come averielo da far? SMERALDINA Io non ho né padre, né madre. Bisognerebbe dirlo al mio padrone, o alla mia padrona.
TRUFFALDINO Benissimo, se ghel dirò, cossa dirali? SMERALDINA Diranno, che se sono contenta io... TRUFFALDINO E ella cossa dirala? SMERALDINA Dirò... che se sono contenti loro... TRUFFALDINO Non occorr'altro. Saremo tutti contenti. Deme la lettera, e co ve porterò la risposta, discorreremo. SMERALDINA Ecco la lettera. TRUFFALDINO Saviu mo cossa che la diga sta lettera? SMERALDINA Non lo so, e se sapeste che curiosità che avrei di saperlo! TRUFFALDINO No voria che la fuss una qualche lettera de sdegno, e che m'avess da far romper el muso. SMERALDINA Chi sa? D'amore non dovrebbe essere. TRUFFALDINO Mi no vòi impegni. Se no so cossa che la diga, mi no ghe la porto. SMERALDINA Si potrebbe aprirla... ma poi a serrarla ti voglio. TRUFFALDINO Eh, lassè far a mi; per serrar le lettere son fatto a posta; no se cognosserà gnente affatto. SMERALDINA Apriamola dunque. TRUFFALDINO Saviu lezer vu? SMERALDINA Un poco. Ma voi saprete legger bene. TRUFFALDINO Anca mi un pochettin. SMERALDINA Sentiamo dunque. TRUFFALDINO Averzimola con pulizia (ne straccia una parte).
SMERALDINA Oh! che avete fatto? TRUFFALDINO Niente. Ho el segreto d'accomodarla. Eccola qua, l'è averta. SMERALDINA Via, leggetela. TRUFFALDINO Lezila vu. El carattere della vostra padrona l'intenderè meio de mi. SMERALDINA Per dirla, io non capisco niente (osservando la lettera). TRUFFALDINO E mi gnanca una parola (fa lo stesso). SMERALDINA Che serviva dunque aprirla? TRUFFALDINO Aspettè; inzegnemose; qualcossa capisso (tiene egli la lettera). SMERALDINA Anch'io intendo qualche lettera. TRUFFALDINO Provemose un po'per un. Questo non elo un emme? SMERALDINA Oibò; questo è un erre. TRUFFALDINO Dall'erre all'emme gh'è poca differenza. SMERALDINA Ri, ri, a, ria. No, no, state cheto, che credo sia un emme, mi, mi, a, mia. TRUFFALDINO No dirà mia, dirà mio. SMERALDINA No, che vi è la codetta. TRUFFALDINO Giusto per questo: mio.
SCENA DICIOTTESIMA
Beatrice e Pantalone dalla locanda, e detti. PANTALONE Cossa feu qua? (a Smeraldina). SMERALDINA Niente, signore, venivo in traccia di voi (intimorita). PANTALONE Cossa voleu da mi? (a Smeraldina). SMERALDINA La padrona vi cerca (come sopra). BEATRICE Che foglio è quello? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Niente, l'è una carta... (intimorito). BEATRICE Lascia vedere (a Truffaldino). TRUFFALDINO Signor sì (gli dà il foglio tremando). BEATRICE Come! Questo è un viglietto che viene a me. Indegno! Sempre si aprono le mie lettere? TRUFFALDINO Mi no so niente, signor... BEATRICE Osservate, signor Pantalone, un viglietto della signora Clarice, in cui mi avvisa delle pazze gelosie di Silvio; e questo briccone me l'apre. PANTALONE E ti, ti ghe tien terzo? (a Smeraldina). SMERALDINA Io non so niente, signore. BEATRICE Chi l'ha aperto questo viglietto? TRUFFALDINO Mi no. SMERALDINA Nemmen io.
PANTALONE Mo chi l'ha portà? SMERALDINA Truffaldino lo portava al suo padrone. TRUFFALDINO E Smeraldina l'ha portà a Truffaldin. SMERALDINA (Chiacchierone, non ti voglio più bene). PANTALONE Ti, pettegola desgraziada, ti ha fatto sta bell'azion? Non so chi me tegna che no te daga una man in tel muso. SMERALDINA Le mani nel viso non me le ha date nessuno; e mi maraviglio di voi. PANTALONE Cusì ti me rispondi? (le va da vicino). SMERALDINA Eh, non mi pigliate. Avete degli impedimenti che non potete correre (parte correndo). PANTALONE Desgraziada, te farò veder se posso correr; te chiaperò (parte correndo dietro a Smeraldina).
SCENA DICIANNOVESIMA
Beatrice, Truffaldino, poi Florindo alla finestra della locanda. TRUFFALDINO (Se savess come far a cavarme). BEATRICE (Povera Clarice, ella è disperata per la gelosia di Silvio; converrà ch'io mi scopra, e che la consoli) (osservando il viglietto). TRUFFALDINO (Par che nol me veda. Voi provar de andar via) (pian piano se ne vorrebbe andare). BEATRICE Dove vai? TRUFFALDINO Son qua (si ferma). BEATRICE Perché hai aperta questa lettera? TRUFFALDINO L'è stada Smeraldina. Signor, mi no so gnente. BEATRICE Che Smeraldina? Tu sei stato, briccone. Una, e una due. Due lettere mi hai aperte in un giorno. Vieni qui. TRUFFALDINO Per carità, signor (accostandosi con paura). BEATRICE Vien qui, dico. TRUFFALDINO Per misericordia (s'accosta tremando). Beatrice leva dal fianco di Truffaldino il bastone, e lo bastona ben bene, essendo voltata colla schiena alla locanda. FLORINDO (alla finestra della locanda) Come! Si bastona il mio servitore? (parte dalla finestra). TRUFFALDINO No più, per carità. BEATRICE Tieni, briccone. Imparerai a aprir le lettere (getta il bastone per terra e parte).
SCENA VENTESIMA
Truffaldino, poi Florindo dalla locanda. TRUFFALDINO (dopo partita Beatrice) Sangue de mi! Corpo de mi! Cusì se tratta coi omeni della me sorte? Bastonar un par mio? I servitori, co no i serve, i se manda via, no i se bastona. FLORINDO Che cosa dici? (uscito dalla locanda non veduto da Truffaldino). TRUFFALDINO (Oh!) (avvedendosi di Florindo). No se bastona i servitori dei altri in sta maniera. Quest'l'è un affronto, che ha ricevudo el me padron (verso la parte per dove è andata Beatrice). FLORINDO Sì, è un affronto che ricevo io. Chi è colui che ti ha bastonato? TRUFFALDINO Mi no lo so, signor: nol conosso. FLORINDO Perché ti ha battuto? TRUFFALDINO Perché... perché gh'ho spudà su una scarpa. FLORINDO E ti lasci bastonare così? E non ti muovi, e non ti difendi nemmeno? Ed esponi il tuo padrone ad un affronto, ad un precipizio? Asino, poltronaccio che sei (prende il bastone di terra). Se hai piacere a essere bastonato, ti darò gusto, ti bastonerò ancora io (lo bastona, e poi entra nella locanda). TRUFFALDINO Adesso posso dir che son servitor de do padroni. Ho tirà el salario da tutti do (entra nella locanda).
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Sala della locanda con varie porte Truffaldino solo, poi due Camerieri. TRUFFALDINO Con una scorladina ho mandà via tutto el dolor delle bastonade; ma ho magnà ben, ho disnà ben, e sta sera cenerò meio, e fin che posso vòi servir do padroni, tanto almanco che podesse tirar do salari. Adess mo coss'òia da far? El primo patron l'è fora de casa, el segondo dorme; poderia giust adesso dar un poco de aria ai abiti; tirarli fora dei bauli, e vardar se i ha bisogno de gnente. Ho giusto le chiavi. Sta sala l'è giusto a proposito. Tirerò fora i bauli, e farò pulito. Bisogna che me fazza aiutar. Camerieri (chiama). CAMERIERE (viene in compagnia d'un garzone) Che volete? TRUFFALDINO Voria che me dessi una man a tirar fora certi bauli da quelle camere, per dar un poco de aria ai vestidi. CAMERIERE Andate: aiutategli (al garzone). TRUFFALDINO Andemo, che ve darò de bona man una porzion de quel regalo che m'ha fatto i me padroni (entra in una camera col garzone). CAMERIERE Costui pare sia un buon servitore. È lesto, pronto, attentissimo; però qualche difetto anch'egli avrà. Ho servito anch'io, e so come la va. Per amore non si fa niente. Tutto si fa o per pelar il padrone, o per fidarlo. TRUFFALDINO (dalla suddetta camera col garzone, portando fuori un baule) A pian; mettemolo qua (lo posano in mezzo alla sala). Andemo a tor st'altro. Ma femo a pian, che el padron l'è in quell'altra stanza, che el dorme (entra col garzone nella camera di Florindo). CAMERIERE Costui o è un grand'uomo di garbo, o è un gran furbo: servir due persone in questa maniera non ho più veduto. Davvero voglio stare un po'attento; non vorrei che un giorno o l'altro, col pretesto di servir due padroni, tutti due li spogliasse.
TRUFFALDINO (dalla suddetta camera col garzone con l'altro baule) E questo mettemolo qua (lo posano in poca distanza da quell'altro). Adesso, se volè andar, andè, che no me occorre altro (al garzone). CAMERIERE Via, andate in cucina (al garzone che se ne va). Avete bisogno di nulla? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Gnente affatto. I fatti mii li fazzo da per mi. CAMERIERE Oh va, che sei un omone; se la duri, ti stimo (parte). TRUFFALDINO Adesso farò le cosse pulito, con quiete, e senza che nissun me disturba (tira fuori di tasca una chiave) Qual èla mo sta chiave? Qual averzela de sti do bauli? Proverò (apre un baule). L'ho indovinada subito. Son el primo omo del mondo. E st'altra averzirà quell'altro (tira fuori di tasca l'altra chiave, e apre l'altro baule). Eccoli averti tutti do. Tiremo fora ogni cossa (leva gli abiti da tutti due i bauli e li posa sul tavolino, avvertendo che in ciaschedun baule vi sia un abito di panno nero, dei libri e delle scritture, e altre cose a piacere). Voio un po veder, se gh'è niente in te le scarselle. Delle volte i ghe mette dei buzzolai, dei confetti (visita le tasche del vestito nero di Beatrice, e vi trova un ritratto). Oh bello! Che bel ritratto! Che bell'omo! De chi saral sto ritratto? L'è un'idea, che me par de cognosser, e no me l'arrecordo. El ghe someia un tantinin all'alter me padron; ma no, nol gh'ha né sto abito, nè sta perrucca.
SCENA SECONDA
Florindo nella sua camera, e detto. FLORINDO Truffaldino (chiamandolo dalla camera). TRUFFALDINO O sia maledetto! El s'ha sveià. Se el diavol fa che el vegna fora, e el veda st'alter baul, el vorrà saver... Presto, presto, lo serrerò, e dirò che no so de chi el sia (va riponendo le robe). FLORINDO Truffaldino (come sopra). TRUFFALDINO La servo (risponde forte). Che metta via la roba. Ma! No me recordo ben sto abito dove che el vada. E ste carte no me recordo dove che le fusse. FLORINDO Vieni, o vengo a prenderti con un bastone? (come sopra). TRUFFALDINO Vengo subito (forte, come sopra). Presto, avanti che el vegna. Co l'anderà fora de casa, giusterò tutto (mette le robe a caso nei due bauli, e li serra). FLORINDO (esce dalla sua stanza in veste da camera) Che cosa diavolo fai? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Caro signor, no m'ala dito che repulissa i panni? Era qua che fava l'obbligo mio. FLORINDO E quell'altro baule di chi è? TRUFFALDINO No so gnente; el sarà d'un altro forestier. FLORINDO Dammi il vestito nero. TRUFFALDINO La servo (apre il baule di Florindo, e gli dà il suo vestito nero). Florindo si fa levare la veste da camera, e si pone il vestito; poi, mettendo le mani in tasca, trova il ritratto.
FLORINDO Che è questo? (maravigliandosi del ritratto). TRUFFALDINO (Oh diavolo! Ho fallà. In vece de metterlo in tel vestido de quel alter, l'ho mess in questo. El color m'ha fatto fallar). FLORINDO (Oh cieli! Non m'inganno io già. Questo è il mio ritratto; il mio ritratto che donai io medesimo alla mia cara Beatrice). Dimmi, tu, come è entrato nelle tasche del mio vestito questo ritratto, che non vi era? TRUFFALDINO (Adesso mo no so come covrirla. Me inzegnerò). FLORINDO Animo, dico; parla, rispondi. Questo ritratto, come nelle mie tasche? TRUFFALDINO Caro sior padron, la compatissa la confidenza che me son tolto. Quel ritratt l'è roba mia; per no perderlo, l'aveva nascosto là drento. Per amor del ciel, la me compatissa. FLORINDO Dove hai avuto questo ritratto? TRUFFALDINO L'ho eredità dal me padron. FLORINDO Ereditato? TRUFFALDINO Sior Sì, ho servido un padron, l'è morto, el m'ha lassa delle bagattelle che le ho vendude, e m'è resta sto ritratt. FLORINDO Oimè! Quanto tempo è che è morto questo tuo padrone? TRUFFALDINO Sarà una settimana. (Digo quel che me vien alla bocca). FLORINDO Come chiamavasi questo tuo padrone? TRUFFALDINO Nol so, signor; el viveva incognito. FLORINDO Incognito? Quanto tempo lo hai tu servito? TRUFFALDINO Poco: diese o dodese zorni. FLORINDO (Oh cieli! Sempre più tremo, che non sia stata Beatrice! Fuggi in abito d'uomo... viveva incognita... Oh me infelice, se fosse vero!).
TRUFFALDINO (Col crede tutto, ghe ne racconterò delle belle). FLORINDO Dimmi, era giovine il tuo padrone? (con affanno). TRUFFALDINO Sior si, zovene. FLORINDO Senza barba? TRUFFALDINO Senza barba. FLORINDO (Era ella senz'altro) (sospirando). TRUFFALDINO (Bastonade spereria de no ghe n'aver). FLORINDO Sai la patria almeno del tuo defonto padrone? TRUFFALDINO La patria la saveva, e no me l'arrecordo. FLORINDO Turinese forse? TRUFFALDINO Sior si, turinese. FLORINDO (Ogni accento di costui è una stoccata al mio cuore). Ma dimmi: è egli veramente morto questo giovine torinese? TRUFFALDINO L'è morto siguro. FLORINDO Di qual male è egli morto? TRUFFALDINO Gh'è vegnù un accidente, e l'è andà. (Cusì me destrigo). FLORINDO Dove è stato sepolto? TRUFFALDINO (Un altro imbroio). No l'è stà sepolto, signor; perché un alter servitor, so patrioto, l'ha avù la licenza de metterlo in t'una cassa, e mandarlo al so paese. FLORINDO Questo servitore era forse quello che ti fece stamane ritirar dalla Posta quella lettera? TRUFFALDINO Sior sì, giusto Pasqual.
FLORINDO (Non vi è più speranza. Beatrice è morta. Misera Beatrice! i disagi del viaggio, i tormenti del cuore l'avranno uccisa. Oimè! non posso reggere all'eccesso del mio dolore (entra nella sua camera).
SCENA TERZA
Truffaldino, poi Beatrice e Pantalone. TRUFFALDINO Coss'è st'imbroio? L'è addolorà, el pianze, el se despera. No voria mi co sta favola averghe sveià l'ippocondria. Mi l'ho fatto per schivar el complimento delle bastonade, e per no scovrir l'imbroio dei do bauli. Quel ritratto gh'ha fatto mover i vermi. Bisogna che el lo conossa. Orsù, l'è mei che torna a portar sti bauli in camera, e che me libera da un'altra seccatura compagna. Ecco qua quell'alter padron. Sta volta se divide la servitù, e se me fa el ben servido (accennando le bastonate). BEATRICE Credetemi, signor Pantalone, che l'ultima partita di specchi e cere è duplicata. PANTALONE Poderia esser che i zoveni avesse fallà. Faremo ar i conti un'altra volta col scrittural; incontreremo e vederemo la verità. BEATRICE Ho fatto anch'io un estratto di diverse partite cavate dai nostri libri. Ora lo riscontreremo. Può darsi che si dilucidi o per voi, o per me. Truffaldino? TRUFFALDINO Signor. BEATRICE Hai tu le chiavi del mio baule? TRUFFALDINO Sior sì; eccole qua. BEATRICE Perché l'hai portato in sala il mio baule? TRUFFALDINO Per dar un poco de aria ai vestidi. BEATRICE Hai fatto? TRUFFALDINO Ho fatto. BEATRICE Apri e dammi... Quell'altro baule di chi è? TRUFFALDINO L'è d'un altro forestier, che è arrivado.
BEATRICE Dammi un libro di memorie, che troverai nel baule. TRUFFALDINO Sior sì. (El ciel me la manda bona) (apre e cerca il libro). PANTALONE Pol esser, come ghe digo, che i abbia fallà. In sto caso, error no fa pagamento. BEATRICE E può essere che così vada bene; lo riscontreremo. TRUFFALDINO Elo questo? (presenta un libro di scritture a Beatrice). BEATRICE Sarà questo (lo prende senza molto osservarlo, e lo apre). No, non è questo... Di chi è questo libro? TRUFFALDINO (L'ho fatta). BEATRICE (Queste sono due lettere da me scritte a Florindo. Oimè! Queste memorie, questi conti appartengono a lui. Sudo, tremo, non so in che mondo mi sia). PANTALONE Cossa gh'è, sior Federigo? Se sentelo gnente BEATRICE Niente. (Truffaldino, come nel mio baule evvi questo libro che non è mio?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO Mi no saveria.. BEATRICE Presto, non ti confondere, dimmi la verità. TRUFFALDINO Ghe domando scusa dell'ardir che ho avudo de metter quel libro in tel so baul. L'è roba mia, e per non perderlo, l'ho messo là. (L'è andada ben con quell'alter, pol esser che la vada ben anca con questo). BEATRICE Questo libro è tuo, e non lo conosci, e me lo dai in vece del mio? TRUFFALDINO (Oh, questo l'è ancora più fin). Ghe dirò: l'è poc tempo che l'è mio, e cusì subito no lo conosso. BEATRICE E dove hai avuto tu questo libro? TRUFFALDINO Ho servido un padron a Venezia, che l'è morto, e ho eredità sto
libro. BEATRICE Quanto tempo è? TRUFFALDINO Che soia mi? Dies o dodese zorni. BEATRICE Come può darsi, se io ti ho ritrovato a Verona? TRUFFALDINO Giust allora vegniva via da Venezia per la morte del me padron. BEATRICE (Misera me!). Questo tuo padrone aveva nome Florindo? TRUFFALDINO Sior sì, Florindo. BEATRICE Di famiglia Aretusi? TRUFFALDINO Giusto, Aretusi. BEATRICE Ed è morto sicuramente? TRUFFALDINO Sicurissimamente. BEATRICE Di che male è egli morto? Dove è stato sepolto? TRUFFALDINO L'è cascà in canal, el s'ha negà, e nol s'ha più visto. BEATRICE Oh me infelice! Morto è Florindo, morto è il mio bene, morta è l'unica mia speranza. A che ora mi serve questa inutile vita, se morto è quello per cui unicamente viveva? Oh vane lusinghe! Oh cure gettate al vento! Infelici strattagemmi d'amore! Lascio la patria, abbandono i parenti, vesto spoglie virili, mi avventuro ai pericoli, azzardo la vita istessa, tutto fo per Florindo e il mio Florindo è morto. Sventurata Beatrice! Era poco la perdita del fratello, se non ti si aggiungeva quella ancor dello sposo? Alla morte di Federigo volle il cielo che succedesse quella ancor di Florindo. Ma se io fui la cagione delle morti loro, se io sono la rea, perchè contro di me non s'arma il Cielo a vendetta? Inutile è il pianto, vane son le querele, Florindo è morto. Oimè! Il dolore mi opprime. Più non veggo la luce. Idolo mio, caro sposo, ti seguirò disperata (parte smaniosa, ed entra nella sua camera).
PANTALONE (inteso con ammirazione tutto il discorso, e la disperazione di Beatrice) Truffaldino! TRUFFALDINO Sior Pantalon! PANTALONE Donna! TRUFFALDINO Femmena! PANTALONE Oh che caso! TRUFFALDINO Oh che maraveia! PANTALONE Mi resto confuso. TRUFFALDINO Mi son incanta. PANTALONE Ghe lo vago a dir a mia fia (parte). TRUFFALDINO No so più servitor de do padroni, ma de un padron e de una padrona (parte).
SCENA QUARTA
Strada colla locanda Dottore, poi Pantalone dalla locanda. DOTTORE Non mi posso dar pace di questo vecchiaccio di Pantalone. Più che ci penso, più mi salta la bile. PANTALONE Dottor caro, ve reverisso (con allegria). DOTTORE Mi maraviglio che abbiate anche tanto ardire di salutarmi. PANTALONE V'ho da dar una nova. Sappiè... DOTTORE Volete forse dirmi che avete fatto le nozze? Non me n'importa un fico. PANTALONE No xè vero gnente. Lassème parlar, in vostra malora. DOTTORE Parlate, che il canchero vi mangi. PANTALONE (Adessadesso me vien voggia de dottorarlo a pugni). Mia fia, se volè, la sarà muggier de vostro fio. DOTTORE Obbligatissimo, non v'incomodate. Mio figlio non è di sì buono stomaco. Datela al signor turinese. PANTALONE Co saverè chi xè quel turinese, no dirè cusì. DOTTORE Sia chi esser si voglia. Vostra figlia è stata veduta con lui, et hoc sufficit. PANTALONE Ma no xè vero che el sia... DOTTORE Non voglio sentir altro. PANTALONE Se no me ascolterè, sarà pezo per vu.
DOTTORE Lo vedremo per chi sarà peggio. PANTALONE Mia fia la xè una putta onorata; e quella... DOTTORE Il diavolo che vi porti. PANTALONE Che ve strascina. DOTTORE Vecchio senza parola e senza riputazione (parte).
SCENA QUINTA
Pantalone e poi Silvio. PANTALONE Siestu maledetto. El xè una bestia vestio da omo costù. Gh'oggio mai podesto dir che quella xè una donna? Mo, sior no, nol vol lassar parlar. Ma xè qua quel spuzzetta de so fio; m'aspetto qualche altra insolenza. SILVIO (Ecco Pantalone. Mi sento tentato di cacciargli la spada nel petto). PANTALONE Sior Silvio, con so bona grazia, averave da darghe una bona niova, se la se degnasse de lassarme parlar, e che no la fusse come quella masena de molin de so sior pare. SILVIO Che avete a dirmi? Parlate. PANTALONE La sappia che el matrimonio de mia fia co sior Federigo xè andà a monte. SILVIO È vero? Non m'ingannate? PANTALONE Ghe digo la verità, e se la xè più de quell'umor, mia fia xè pronta a darghe la man. SILVIO Oh cielo! Voi mi ritornate da morte a vita. PANTALONE (Via, via, nol xè tanto bestia, come so pare). SILVIO Ma! oh cieli! Come potrò stringere al seno colei che con un altro sposo ha lungamente parlato? PANTALONE Alle curte. Federigo Rasponi xè deventà Beatrice, so sorella. SILVIO Come! Io non vi capisco. PANTALONE S'è ben duro de legname. Quel che se credeva Federigo, s'ha scoverto per Beatrice.
SILVIO Vestita da uomo? PANTALONE Vestia da omo. SILVIO Ora la capisco. PANTALONE Alle tante. SILVIO Come andò? Raccontatemi. PANTALONE Andemo in casa. Mia fia non sa gnente. Con un racconto solo soddisfarò tutti do. SILVIO Vi seguo, e vi domando umilmente perdono, se trasportato dalla ione... PANTALONE A monte; ve compatisso. So cossa che xè amor. Andemo, fio mio, vengì con mi (parte). SILVIO Chi più felice è di me? Qual cuore può essere più contento del mio? (parte con Pantalone).
SCENA SESTA
Sala della locanda con varie porte Beatrice e Florindo escono ambidue dalle loro camere con un ferro alla mano, in atto di volersi uccidere: trattenuti quella da Brighella, e questi dal Cameriere della locanda; e s'avanzano in modo che i due amanti non si vedono fra di loro. BRIGHELLA La se fermi (afferrando la mano a Beatrice). BEATRICE Lasciatemi per carità (si sforza per liberarsi da Brighella). CAMERIERE Questa è una disperazione (a Florindo, trattenendolo). FLORINDO Andate al diavolo (si scioglie dal Cameriere). BEATRICE Non vi riuscirà d'impedirmi (si allontana da Brighella). Tutti due s'avanzano, determinati di volersi uccidere, e vedendosi e riconoscendosi, rimangono istupiditi. FLORINDO Che vedo! BEATRICE Florindo! FLORINDO Beatrice! BEATRICE Siete in vita? FLORINDO Voi pur vivete? BEATRICE Oh sorte! FLORINDO Oh anima mia! Si lasciano cadere i ferri, e si abbracciano.
BRIGHELLA Tolè su quel sangue, che nol vada de mal (al Cameriere scherzando, e parte). CAMERIERE (Almeno voglio avanzare questi coltelli. Non glieli do più) (prende i coltelli da terra, e parte).
SCENA SETTIMA
Beatrice, Florindo, poi Brighella. FLORINDO Qual motivo vi aveva ridotta a tale disperazione? BEATRICE Una falsa novella della vostra morte. FLORINDO Chi fu che vi fece credere la mia morte? BEATRICE Il mio servitore. FLORINDO Ed il mio parimente mi fece credere voi estinta, e trasportato da egual dolore volea privarmi di vita. BEATRICE Questo libro fu cagion ch'io gli prestai fede. FLORINDO Questo libro era nel mio baule. Come ò nelle vostre mani? Ah si, vi sarà pervenuto, come nelle tasche del mio vestito ritrovai il mio ritratto; ecco il mio ritratto, ch'io diedi a voi in Torino. BEATRICE Quei ribaldi dei nostri servi, sa il cielo che cosa avranno fatto. Essi sono stati la causa del nostro dolore e della nostra disperazione. FLORINDO Cento favole il mio mi ha raccontato di voi. BEATRICE Ed altrettante ne ho io di voi dal servo mio tollerate. FLORINDO E dove sono costoro? BEATRICE Più non si vedono. FLORINDO Cerchiamo di loro e confrontiamo la verità. Chi è di là? Non vi è nessuno? (chiama). BRIGHELLA La comandi. FLORINDO I nostri servidori dove son eglino?
BRIGHELLA Mi no lo so, signor. I se pol cercar. FLORINDO Procurate di ritrovarli, e mandateli qui da noi. BRIGHELLA Mi no ghe ne conosso altro che uno; lo dirò ai camerieri; lori li cognosserà tutti do. Me rallegro con lori che i abbia fatt una morte cussi dolce; se i se volesse far seppelir, che i vada in un altro logo, che qua no i stà ben. Servitor de lor signori (parte).
SCENA OTTAVA
Florindo e Beatrice. FLORINDO Voi pure siete in questa locanda alloggiata? BEATRICE Ci sono giunta stamane. FLORINDO Ed io stamane ancora. E non ci siamo prima veduti? BEATRICE La fortuna ci ha voluto un po'tormentare. FLORINDO Ditemi: Federigo, vostro fratello, è egli morto? BEATRICE Ne dubitate? Spirò sul colpo. FLORINDO Eppure mi veniva fatto credere ch'ei fosse vivo, e in Venezia. BEATRICE Quest'è un inganno di chi sinora mi ha preso per Federigo. Partii di Turino con questi abiti e questo nome sol per seguire... FLORINDO Lo so, per seguir me, o cara; una lettera, scrittavi dal vostro servitor di Turino, mi assicurò di un tal fatto. BEATRICE Come giunse nelle vostre mani? FLORINDO Un servitore, che credo sia stato il vostro, pregò il mio che ne ricercasse alla Posta. La vidi, e trovandola a voi diretta, non potei a meno di non aprirla. BEATRICE Giustissima curiosità di un amante. FLORINDO Che dirà mai Turino della vostra partenza? BEATRICE Se tornerò colà vostra sposa, ogni discorso sarà finito. FLORINDO Come posso io lusingarmi di ritornarvi sì presto, se della morte di vostro fratello sono io caricato?
BEATRICE I capitali ch'io porterò di Venezia, vi potranno liberare dal bando. FLORINDO Ma questi servi ancor non si vedono. BEATRICE Che mai li ha indotti a darci sì gran dolore? FLORINDO Per saper tutto non conviene usar con essi il rigore. Convien prenderli colle buone. BEATRICE Mi sforzerò di dissimulare. FLORINDO Eccone uno (vedendo venir Truffaldino). BEATRICE Ha cera di essere il più briccone. FLORINDO Credo che non diciate male.
SCENA NONA
Truffaldino, condotto per forza da Brighella e dal Cameriere, e detti. FLORINDO Vieni, vieni, non aver paura. BEATRICE Non ti vogliamo fare alcun male. TRUFFALDINO (Eh! me recordo ancora delle bastonade) (parte). BRIGHELLA Questo l'avemo trovà; se troveremo quell'altro, lo faremo vegnir. FLORINDO Sì, è necessario che ci sieno tutti due in una volta. BRIGHELLA (Lo conosseu vu quell'altro?) (piano al Cameriere). CAMERIERE (Io no) (a Brighella). BRIGHELLA (Domanderemo in cusina. Qualchedun lo cognosserà) (al Cameriere, e parte). CAMERIERE (Se ci fosse, l'avrei da conoscere ancora io) (parte). FLORINDO Orsù, narraci un poco come andò la faccenda del cambio del ritratto e del libro, e perché tanto tu che quell'altro briccone vi uniste a farci disperare. TRUFFALDINO (fa cenno col dito a tutti due che stiano cheti) Zitto (a tutti due). La favorissa, una parola in disparte (a Florindo, allontanandolo da Beatrice). (Adessadesso ghe racconterò tutto) (a Beatrice, nell'atto che si scosta per parlare a Florindo). (La sappia, signor (parla a Florindo) che mi de tutt sto negozi no ghe n'ho colpa, ma chi è stà causa l'è stà Pasqual, servitor de quella signora ch'è là (accennando cautamente Beatrice). Lu l'è sta quello che ha confuso la roba, e quel che andava in t'un baul el l'ha mess in quell'alter, senza che mi me ne accorza. El poveromo s'ha raccomandà a mi che lo tegna coverto, acciò che el so padron no lo cazza via, e mi che son de bon cor, che per i amici me faria sbudellar, ho trovà tutte quelle belle invenzion per veder d'accomodarla.
No me saria mo mai stimà, che quel ritratt fosse voster, e che tant v'avess da despiaser che fusse morto quel che l'aveva. Eccove contà l'istoria come che l'è, da quell'omo sincero, da quel servitor fedel che ve ne son). BEATRICE (Gran discorso lungo gli fa colui. Son curiosa di saperne il mistero). FLORINDO (Dunque colui che ti fece pigliar alla Posta la nota lettera, era servitore della signora Beatrice?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (Sior Sì, el giera Pasqual) (piano a Florindo). FLORINDO (Perché tenermi nascosta una cosa, di cui con tanta premura ti aveva ricercato?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (El m'aveva pregà che no lo disesse) (piano a Florindo). FLORINDO (Chi?) (come sopra). TRUFFALDINO (Pasqual) (come sopra). FLORINDO (Perché non obbedire al tuo padrone?) (come sopra). TRUFFALDINO (Per amor de Pasqual) (come sopra). FLORINDO (Converrebbe che io bastonassi Pasquale e te nello stesso tempo) (come sopra). TRUFFALDINO (In quel caso me toccherave a mi le mie e anca quelle de Pasqual). BEATRICE Ê ancor finito questo lungo esame? FLORINDO Costui mi va dicendo... TRUFFALDINO (Per amor del cielo, sior padron, no la descoverza Pasqual. Piuttosto la diga che son stà mi, la me bastona anca, se la vol, ma no la me ruvina Pasqual) (piano a Florindo). FLORINDO (Sei così amoroso per il tuo Pasquale?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (Ghe voi ben, come s el fuss me fradel Adess voi andar da
quella signora, voi dirghe che son sta mi, che ho fallà; vai che i me grida, che i me strapazza, ma che se salva Pasqual) (come sopra, e si scosta da Florindo). FLORINDO (Costui è di un carattere molto amoroso). TRUFFALDINO Son qua da ella (accostandosi a Beatrice). BEATRICE (Che lungo discorso hai tenuto col signor Florindo?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (La sappia che quel signor el gh'ha un servidor che gh'ha nome Pasqual; l'è el più gran mamalucco del mondo; l'è stà lu che ha fatt quei zavai della roba, e perchè el poveromo l'aveva paura che el so patron lo cazzasse via, ho trovà mi quella scusa del libro, del padron morto, nega, etecetera. E anca adess a sior Florindo gh'ho ditt che mi son stà causa de tutto) (piano sempre a Beatrice). BEATRICE (Perchè accusarti di una colpa che asserisci di non avere?) (a Truffaldino, come sopra). TRUFFALDINO (Per l'amor che porto a Pasqual) (come sopra). FLORINDO (La cosa va un poco in lungo). TRUFFALDINO (Cara ella, la prego, no la lo precipita) (piano a Beatrice). BEATRICE (Chi?) (come sopra). TRUFFALDINO (Pasqual) (come sopra). BEATRICE (Pasquale e voi siete due bricconi) (come sopra). TRUFFALDINO (Eh, sarò mi solo). FLORINDO Non cerchiamo altro, signora Beatrice, i nostri servitori non l'hanno fatto a malizia; meritano essere corretti, ma in grazia delle nostre consolazioni, si può loro perdonare il trascorso. BEATRICE È vero, ma il vostro servitore... TRUFFALDINO (Per amor del cielo, no la nomina Pasqual) (piano a Beatrice).
BEATRICE Orsù, io andar dovrei dal signor Pantalone de'Bisognosi; vi sentireste voi di venir con me? (a Florindo). FLORINDO Ci verrei volentieri, ma devo attendere un banchiere a casa. Ci verrò più tardi, se avete premura. BEATRICE Si, voglio andarvi subito. Vi aspetterò dal signor Pantalone; di là non parto, se non venite. FLORINDO Io non so dove stia di casa. TRUFFALDINO Lo so mi, signor, lo compagnerò mi. BEATRICE Bene, vado in camera a terminar di vestirmi. TRUFFALDINO (La vada, che la servo subito) (piano a Beatrice). BEATRICE Caro Florindo, gran pene che ho provate per voi (entra in camera).
SCENA DECIMA
Florindo e Truffaldino. FLORINDO Le mie non sono state minori (dietro a Beatrice). TRUFFALDINO La diga, sior patron, no gh'è Pasqual; siora Beatrice no gh'ha nissun che l'aiuta a vestir; se contentelo che vada mi a servirla in vece de Pasqual? FLORINDO Si, vanne pure; servila con attenzione, avrò piacere. TRUFFALDINO (A invenzion, a prontezza, a cabale, sfido el primo sollicitador de Palazzo) (entra nella camera di Beatrice).
SCENA UNDICESIMA
Florindo, poi Beatrice e Truffaldino. FLORINDO Grandi accidenti accaduti sono in questa giornata! Pianti, lamenti, disperazioni, e all'ultimo consolazione e allegrezza. ar dal pianto al riso è un dolce salto che fa scordare gli affanni, ma quando dal piacere si a al duolo, è più sensibile la mutazione. BEATRICE Eccomi lesta. FLORINDO Quando cambierete voi quelle vesti? BEATRICE Non istò bene vestita così? FLORINDO Non vedo l'ora di vedervi colla gonnella e col busto. La vostra bellezza non ha da essere soverchiamente coperta. BEATRICE Orsù, vi aspetto dal signor Pantalone; fatevi accompagnare da Truffaldino. FLORINDO L'attendo ancora un poco; e se il banchiere non viene, ritornerà un'altra volta. BEATRICE Mostratemi l'amor vostro nella vostra sollecitudine (s'avvia per partire). TRUFFALDINO (Comandela che resta a servir sto signor?) (piano a Beatrice, accennando Florindo). BEATRICE (Si, lo accompagnerai dal signor Pantalone) (a Truffaldino). TRUFFALDINO (E da quella strada lo servirò, perché no gh'è Pasqual) (come sopra). BEATRICE Servilo, mi farai cosa grata. (Lo amo più di me stessa) (parte).
SCENA DODICESIMA
Florindo e Truffaldino. TRUFFALDINO Tolì, nol se vede. El padron se veste, el va fora de casa, e nol se vede. FLORINDO Di chi parli? TRUFFALDINO De Pasqual. Ghe voio ben, l'è me amigo, ma l'è un poltron. Mi son un servitor che valo per do. FLORINDO Vienmi a vestire. Frattanto verrà il banchiere. TRUFFALDINO Sior padron, sento che vussioria ha d'andar in casa de sior Pantalon. FLORINDO Ebbene, che vorresti tu dire? TRUFFALDINO Vorria pregarlo de una grazia. FLORINDO Sì, te lo meriti davvero per i tuoi buoni portamenti. TRUFFALDINO Se è nato qualcossa, la sa che l'è stà Pasqual. FLORINDO Ma dov'è questo maledetto Pasquale? Non si può vedere? TRUFFALDINO El vegnirà sto baron. E cusì, sior padron, voria domandarghe sta grazia. FLORINDO Che cosa vuoi? TRUFFALDINO Anca mi, poverin, son innamorado. FLORINDO Sei innamorato? TRUFFALDINO Signor sì; e la me morosa l'è la serva de sior Pantalon; e voria mo che vussioria...
FLORINDO Come c entro io? TRUFFALDINO Oh, no digo che la ghe intra; ma essendo mi el so servitor, che la disess una parola per mi al sior Pantalon. FLORINDO Bisogna vedere se la ragazza ti vuole. TRUFFALDINO La ragazza me vol. Basta una parola al sior Pantalon; la prego de sta carità. FLORINDO Si, lo farò; ma come la manterrai la moglie? TRUFFALDINO Farò quel che poderò. Me raccomanderò a Pasqual. FLORINDO Raccomandati a un poco più di giudizio (entra in camera). TRUFFALDINO Se non fazzo giudizio sta volta, no lo fazzo mai più (entra in camera, dietro a Florindo).
SCENA TREDICESIMA
Camera in casa di Pantalone Pantalone, il Dottore, Clarice, Silvio, Smeraldina. PANTALONE Via, Clarice, non esser cusì ustinada. Ti vedi che l'è pentio sior Silvio, che el te domanda perdon; se l'ha dà in qualche debolezza, el l'ha fatto per amor; anca mi gh'ho perdonà i strambezzi, ti ghe li ha da perdonar anca ti. SILVIO Misurate dalla vostra pena la mia, signora Clarice, e tanto più assicuratevi che vi amo davvero, quanto più il timore di perdervi mi aveva reso furioso. Il Cielo ci vuol felici, non vi rendete ingrata alle beneficenze del Cielo. Coll'immagine della vendetta non funestate il più bel giorno di nostra vita. DOTTORE Alle preghiere di mio figliuolo aggiungo le mie. Signora Clarice, mia cara nuora, compatitelo il poverino; è stato lì lì per diventar pazzo. SMERALDINA Via, signora padrona, che cosa volete fare? Gli uomini, poco più, poco meno, con noi sono tutti crudeli. Pretendono un'esattissima fedeltà, e per ogni leggiero sospetto ci strapazzano, ci maltrattano, ci vorrebbero veder morire. Già con uno o con l'altro avete da maritarvi; dirò, come si dice agli ammalati, giacché avete da prender la medicina, prendetela. PANTALONE Via, sentistu? Smeraldina al matrimonio la ghe dise medicamento. No far che el te para tossego. (Bisogna veder de devertirla) (piano al Dottore). DOTTORE Non è ne veleno, né medicamento, no. Il matrimonio è una confezione, un giulebbe, un candito. SILVIO Ma, cara Clarice mia, possibile che un accento non abbia a uscire dalle vostre labbra? So che merito da voi essere punito, ma per pietà, punitemi colle vostre parole, non con il vostro silenzio. Eccomi ai vostri piedi; movetevi a comione di me (s'inginocchia). CLARICE Crudele! (sospirando verso Silvio).
PANTALONE (Aveu sentio quella sospiradina? Bon segno) (piano al Dottore). DOTTORE (Incalza l'argomento) (piano a Silvio). SMERALDINA (Il sospiro è come il lampo: foriero di pioggia). SILVIO Se credessi che pretendeste il mio sangue in vendetta della supposta mia crudeltà, ve lo esibisco di buon animo. Ma oh Dio! in luogo del sangue delle mie vene, prendetevi quello che mi sgorga dagli occhi (piange). PANTALONE (Bravo!). CLARICE Crudele! (come sopra, e con maggior tenerezza). DOTTORE (È cotta) (piano a Pantalone). PANTALONE Animo, leveve su (a Silvio, alzandolo). Vegni qua (al medesimo, prendendolo per la mano). Vegni qua anca vu, siora (prende la mano di Clarice). Animo, torneve a toccar la man; fe pase, no pianzè più, consoleve, fenila, tolè; el cielo ve benediga (unisce le mani d'ambidue). DOTTORE Via, è fatta. SMERALDINA Fatta, fatta. SILVIO Deh, signora Clarice, per carità (tenendola per la mano). CLARICE Ingrato! SILVIO Cara. CLARICE Inumano! SILVIO Anima mia. CLARICE Cane! SILVIO Viscere mie. CLARICE Ah! (sospira).
PANTALONE (La va). SILVIO Perdonatemi, per amor del cielo. CLARICE Ah! vi ho perdonato (sospirando). PANTALONE (La xè andada). DOTTORE Via, Silvio, ti ha perdonato. SMERALDINA L'ammalato è disposto, dategli il medicamento.
SCENA QUATTORDICESIMA
Brighella e detti. BRIGHELLA Con bona grazia, se pol vegnir? (entra). PANTALONE Vegni qua mo, sior compare Brighella. Vu sè quello che m'ha dà da intender ste belle fandonie, che m'ha assicurà che sior Federigo gera quello, ah? BRIGHELLA Caro signor, chi non s'averave ingannà? I era do fradelli che se somegiava come un pomo spartido. Con quei abiti averia zogà la testa che el giera lu. PANTALONE Basta; la xè ada. Cossa gh'è da niovo? BRIGHELLA La signora Beatrice l'è qua, che la li vorria reverir. PANTALONE Che la vegna pur, che la xè parona. CLARICE Povera signora Beatrice, mi consolo che sia in buono stato. SILVIO Avete comione di lei? CLARICE Si, moltissima. SILVIO E di me? CLARICE Ah crudele! PANTALONE Sentiu che parole amorose? (al Dottore). DOTTORE Mio figliuolo poi ha maniera (a Pantalone). PANTALONE Mia fia, poverazza, la xè de bon cuor (al Dottore). SMERALDINA (Eh, tutti due sanno fare la loro parte).
SCENA QUINDICESIMA
Beatrice e detti. BEATRICE Signori, eccomi qui a chiedervi scusa, a domandarvi perdono, se per cagione mia aveste dei disturbi... CLARICE Niente, amica, venite qui (l'abbraccia). SILVIO Ehi? (mostrando dispiacere di quell'abbraccio). BEATRICE Come! Nemmeno una donna? (verso Silvio). SILVIO (Quegli abiti ancora mi fanno specie). PANTALONE Andè là, siora Beatrice, che per esser donna e per esser zovene, gh'avè un bel coraggio. DOTTORE Troppo spirito, padrona mia (a Beatrice). BEATRICE Amore fa fare delle gran cose. PANTALONE I s'ha trovà, né vero, col so moroso? Me xè stà conta. BEATRICE Si, il cielo mi ha consolata. DOTTORE Bella riputazione! (a Beatrice). BEATRICE Signore, voi non c'entrate nei fatti miei (al Dottore). SILVIO Caro signor padre, lasciate che tutti facciano il fatto loro non vi prendete di tai fastidi. Ora che sono contento io, vorrei che tutto il mondo godesse. Vi sono altri matrimoni da fare? Si facciano. SMERALDINA Ehi, signore, vi sarebbe il mio (a Silvio). SILVIO Con chi?
SMERALDINA Col primo che viene. SILVIO Trovalo, e son qua io. CLARICE Voi? Per far che? (a Silvio). SILVIO Per un poco di dote. CLARICE Non vi è bisogno di voi. SMERALDINA (Ha paura che glielo mangino. Ci ha preso gusto).
SCENA SEDICESIMA
Truffaldino e detti. TRUFFALDINO Fazz reverenza a sti signori. BEATRICE Il signor Florindo dov'è? (a Truffaldino). TRUFFALDINO L'è qua, che el voria vegnir avanti, se i se contenta. BEATRICE Vi contentate, signor Pantalone, che i il signor Florindo? PANTALONE Xèlo l'amigo sì fatto? (a Beatrice). BEATRICE Sì, il mio sposo. PANTALONE Che el resta servido. BEATRICE Fa che i (a Truffaldino). TRUFFALDINO Zovenotta, ve reverisso (a Smeraldina, piano). SMERALDINA Addio, morettino (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO Parleremo (come sopra). SMERALDINA Di che? (come sopra). TRUFFALDINO Se volessi (fa cenno di darle l'anello, come sopra). SMERALDINA Perchè no? (come sopra). TRUFFALDINO Parleremo (come sopra, e parte). SMERALDINA Signora padrona, con licenza di questi signori, vorrei pregarla di una carità (a Clarice). CLARICE Che cosa vuoi? (tirandosi in disparte per ascoltarla).
SMERALDINA (Anch'io sono una povera giovine, che cerco di collocarmi: vi è il servitore della signora Beatrice che mi vorrebbe; s'ella dicesse una parola alla sua padrona, che si contentasse ch'ei mi prendesse, spererei di fare la mia fortuna) (piano a Clarice). CLARICE (Sì, cara Smeraldina, lo farò volentieri: subito che potrò parlare a Beatrice con libertà, lo farò certamente) (torna al suo posto). PANTALONE Cossa xè sti gran secreti (a Clarice). CLARICE Niente, signore. Mi diceva una cosa. SILVIO (Posso saperla io?) (piano a Clarice). CLARICE (Gran curiosità! E poi diranno di noi altre donne).
SCENA ULTIMA
Florindo, Truffaldino e detti. FLORINDO Servitor umilissimo di lor signori. (Tutti lo salutano). È ella il padrone di casa? (a Pantalone). PANTALONE Per servirla. FLORINDO Permetta ch'io abbia l'onore di dedicarle la mia servitù, scortato a farlo dalla signora Beatrice di cui, siccome di me, note gli saranno le vicende ate. PANTALONE Me consolo de conoscerla e de reverirla, e me consolo de cuor delle so contentezze. FLORINDO La signora Beatrice deve esser mia sposa, e se voi non isdegnate onorarci, sarete pronubo delle nostre nozze. PANTALONE Quel che s'ha da far, che el se fazza subito. Le se daga la man. FLORINDO Son pronto, signora Beatrice. BEATRICE Eccola, signor Florindo. SMERALDINA (Eh, non si fanno pregare). PANTALONE Faremo po el saldo dei nostri conti. Le giusta le so partie, che po giusteremo le nostre. CLARICE Amica, me ne consolo (a Beatrice). BEATRICE Ed io di cuore con voi (a Clarice). SILVIO Signore, mi riconoscete voi? (a Florindo). FLORINDO Si, Vi riconosco; siete quello che voleva fare un duello.
SILVIO Anzi l'ho fatto per mio malanno. Ecco chi mi ha disarmato e poco meno che ucciso (accennando Beatrice). BEATRICE Potete dire chi vi ha donato la vita (a Silvio). SILVIO Si, è vero. CLARICE In grazia mia però (a Silvio). SILVIO È verissimo. PANTALONE Tutto xè giustà, tutto xè fenio. TRUFFALDINO Manca el meggio, signori. PANTALONE Cossa manca? TRUFFALDINO Con so bona grazia, una parola (a Florindo, tirandolo in disparte). FLORINDO (Che cosa vuoi?) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (S'arrecordel cossa ch'el m'ha promesso?) (piano a Florindo). FLORINDO (Che cosa? Io non me ne ricordo) (piano a Truffaldino). TRUFFALDINO (De domandar a sior Pantalon Smeraldina per me muier?) (come sopra). FLORINDO (Sì, ora me ne sovviene. Lo faccio subito) (come sopra). TRUFFALDINO (Anca mi, poveromo, che me metta all'onor del mondo). FLORINDO Signor Pantalone, benché sia questa la prima volta sola ch'io abbia l'onore di conoscervi, mi fo ardito di domandarvi una grazia. PANTALONE La comandi pur. In quel che posso, la servirò. FLORINDO Il mio servitore bramerebbe per moglie la vostra cameriera; avreste voi difficoltà di accordargliela?
SMERALDINA (Oh bella! Un altro che mi vuole. Chi diavolo è? Almeno che lo conoscessi). PANTALONE Per mi son contento. Cossa disela ella, patrona? (a Smeraldina). SMERALDINA Se potessi credere d'avere a star bene... PANTALONE Xèlo omo da qualcossa sto so servitor? (a Florindo). FLORINDO Per quel poco tempo ch'io l'ho meco, è fidato certo, e mi pare di abilita. CLARICE Signor Florindo, voi mi avete prevenuta in una cosa che dovevo far io. Dovevo io proporre le nozze della mia cameriera per il servitore della signora Beatrice. Voi l'avete chiesta per il vostro; non occorr'altro. FLORINDO No, no; quando voi avete questa premura, mi ritiro affatto e vi lascio in pienissima libertà. CLARICE Non sarà mai vero che voglia io permettere che le mie premure sieno preferite alle vostre. E poi non ho, per dirvela, certo impegno. Proseguite pure nel vostro. FLORINDO Voi lo fate per complimento. Signor Pantalone, quel che ho detto, sia per non detto. Per il mio servitore non vi parlo più, anzi non voglio che la sposi assolutamente. CLARICE Se non la sposa il vostro, non l'ha da sposare nemmeno quell'altro. La cosa ha da essere per lo meno del pari. TRUFFALDINO (Oh bella! Lori fa i complimenti, e mi resto senza muier). SMERALDINA (Sto a vedere che di due non ne avrò nessuno). PANTALONE Eh via, che i se giusta; sta povera putta gh'ha voggia de maridarse, dèmola o all'uno, o all'altro. FLORINDO Al mio no. Non voglio certo far torto alla signora Clarice. CLARICE Né io permetterò mai che sia fatto al signor Florindo.
TRUFFALDINO Siori, sta faccenda l'aggiusterò mi. Sior Florindo, non ala domandà Smeraldina per el so servitor? FLORINDO Sì, non l'hai sentito tu stesso? TRUFFALDINO E ella, siora Clarice, non àla destinà Smeraldina per el servidor de siora Beatrice? CLARICE Dovevo parlarne sicuramente. TRUFFALDINO Ben, co l'è cusì, Smeraldina, deme la man. PANTALONE Mo per cossa voleu che a vu la ve daga la man? (a Truffaldino). TRUFFALDINO Perché mi, mi son servitor de sior Florindo e de siora Beatrice. FLORINDO Come? BEATRICE Che dici? TRUFFALDINO Un pochetto de flemma. Sior Florindo, chi v'ha pregado de domandar Smeraldina al sior Pantalon? FLORINDO Tu mi hai pregato. TRUFFALDINO E ella, siora Clarice, de chi intendevela che l'avesse da esser Smeraldina? CLARICE Di te. TRUFFALDINO Ergo Smeraldina l'è mia. FLORINDO Signora Beatrice, il vostro servitore dov'è? BEATRICE Eccolo qui. Non è Truffaldino? FLORINDO Truffaldino? Questi è il mio servitore. BEATRICE Il vostro non è Pasquale? FLORINDO Pasquale? Doveva essere il vostro.
BEATRICE Come va la faccenda? (verso Truffaldino). (Truffaldino con lazzi muti domanda scusa). FLORINDO Ah briccone! BEATRICE Ah galeotto! FLORINDO Tu hai servito due padroni nel medesimo tempo? TRUFFALDINO Sior si, mi ho fatto sta bravura. Son intrà in sto impegno senza pensarghe; m'ho volesto provar. Ho durà poco, è vero, ma almanco ho la gloria che nissun m'aveva ancora scoverto, se da per mi no me descovriva per l'amor de quella ragazza. Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti sti siori me perdonerà.
Fine della commedia.
IL VENTAGLIO di Carlo Goldoni
PERSONAGGI Il signor Evaristo La signora Geltruda, vedova La signora Candida, sua nipote Il Barone del Cedro Il Conte di Rocca Marina Timoteo, speziale Giannina, giovane contadina La signora Susanna, merciaia Coronato, oste Crespino, calzolaio Moracchio, contadino fratello di Giannina Limoncino, garzone di caffè Tognino, servitore delle due signore Scavezzo, servitore d'osteria
La scena è una villa del Milanese della Case nuove
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
TUTTI - Disposizione e colpo d'occhio di questa prima scena. - GELTRUDA e CANDIDA a seder sulla terrazza. La prima facendo de' gruppetti, la seconda dell'entoilage. EVARISTO ed il BARONE vestiti propriamente da cacciatori, sedendo su i seggioloni, e bevendo il caffè co' loro schioppi al fianco. Il CONTE da campagna con rodengotto, cappello di paglia e bastone, sedendo vicino allo Speciale, e leggendo un libro. TIMOTEO dentro la sua bottega, pestando in un mortaio di bronzo sulla balconata. GIANNINA da paesana, sedendo vicino alla sua porta filando. SUSANNA sedendo vicino alla sua bottega, e lavorando qualcosa di bianco. CORONATO sedendo sulla banchetta, vicino all'osteria, con un libro di memorie in mano ed una penna da lapis. CRESPINO a sedere al suo banchetto, e lavorando da calzolaro con una scarpa in forma. MORACCHIO di qua dalla casa di Giannina verso i lumi, tenendo in mano una corda con un cane da caccia attaccato, dandogli del pane a mangiare. SCAVEZZO di qua dell'osteria, verso i lumini, pelando un pollastro. LIMONCELLO presso alli due, che bevono il caffè colla sottocoppa in mano, aspettando le tazze. TOGNINO spazzando dinanzi alla porta del palazzino, e sulla facciata del medesimo. Alzata la tenda, tutti restano qualche momento senza parlare, ed agendo come si è detto, per dar tempo all'uditorio di esaminare un poco la scena. EVARISTO Che vi pare di questo caffè? (al Barone) BARONE Mi par buono. EVARISTO Per me lo trovo perfetto. Bravo, signor Limoncino, questa mattina vi siete portato bene. LIMONCINO La ringrazio dell'elogio, ma la prego di non chiamarmi con questo nome di Limoncino. EVARISTO Oh bella! Tutti vi conoscono per questo nome, siete famoso col nome di Limoncino. Tutti dicono: andiamo alle Case nove a bevere il caffè da Limoncino, e ve ne avete a male per questo? LIMONCINO Signore questo non è il mio nome.
BARONE Oh via da qui innanzi vi chiameremo signor Arancio, signor Bergamotto. (bevendo il caffè) LIMONCINO Le dico che io non son fatto per far il buffone. CANDIDA (ride forte) EVARISTO Che ne dice signora Candida? CANDIDA (si fa fresco col ventaglio, e lo rimette sul poggio) Che vuole ch'io dica? Sono cose da ridere veramente. GELTRUDA Via signori, lasciatelo stare quel buon ragazzo, egli fa del buon caffè, ed è sotto la mia protezione. BARONE Oh quando è sotto la protezione della signora Geltruda, gli si porterà rispetto. (Sentite la buona vedova lo protegge). (piano ad Evaristo) EVARISTO Non dite male della signora Geltruda. Ella è la più saggia, e la più onesta donna del mondo. (piano al Barone) BARONE Tutto quel che volete, ma si dà aria di protezione come lei… il signor Conte, che siede e legge con un'aria da giurisdicente. (come sopra) EVARISTO Oh in quanto a lui, non avete il torto, è una vera caricatura, ma è troppo ingiusta la comparazione colla signora Geltruda. (come sopra) BARONE Un per un verso, l'altra per l'altro, per me li trovo ridicoli tutti due. (come sopra) EVARISTO E cosa trovate di ridicolo nella signora Geltruda? BARONE Troppa dottrina, troppo contegno, troppa sufficienza. EVARISTO Scusatemi, voi non la conoscete. (piano fra loro) BARONE Stimo più la signora Candida cento volte. (Il Barone ed Evaristo finiscono di bere il caffè. Si alzano, rendono le tazze a Limoncino. Tutti e due vogliono pagare. Il Barone previene; Evaristo lo ringrazia piano. Limoncino con le tazze e i denari va in bottega. In questo tempo
Timoteo pesta più forte) EVARISTO Sì, è vero… La nipote ha del merito… (Non vorrei che costui mi fosse rivale). CONTE Eh! signor Timoteo (grave) TIMOTEO Che mi comanda? CONTE Questo vostro pestamento m'annoia. TIMOTEO Perdoni… (battendo) CONTE Non posso leggere, mi rompete la testa. TIMOTEO Perdoni, or ora ho finito. (seguita, staccia e ripesta) CRESPINO Ehi Coronato. (lavorando e ridendo) CORONATO Cosa volete mastro Crespino? CRESPINO Il signor Conte non vuole che si batta. (batte forte sulla forma) CONTE Che diavolo d'impertinenza! Non la volete finire questa mattina? CRESPINO Signor illustrissimo non vede cosa faccio? CONTE E cosa fate? (con sdegno) CRESPINO Accomodo le sue scarpe vecchie. CONTE Zitto là impertinente. (si mette a leggere) CRESPINO Coronato! (ridendo batte, e Timoteo batte) CORONATO Or ora non posso più. (dimenandosi sulla sedia) SCAVEZZO Moracchio. (chiamandolo e ridendo) MORACCHIO Cosa c'è Scavezzo?
SCAVEZZO Il signor Conte! (ridendo e burlandosi del Conte) MORACCHIO Zitto, zitto che finalmente è un signore… SCAVEZZO Affamato. GIANNINA Moracchio. (chiamandolo) MORACCHIO Cosa vuoi? GIANNINA Cosa ha detto Scavezzo? MORACCHIO Niente, niente bada a te, e fila. GIANNINA Oh è gentile veramente il mio signor fratello. Mi tratta sempre così. (Non vedo l'ora di maritarmi). (con sdegno volta la sedia, e fila con dispetto) SUSANNA Cos'è Giannina? Che cosa avete? GIANNINA Oh se sapeste signora Susanna! Non credo che si dia al mondo un uomo più grossolano di mio fratello. MORACCHIO Eh bene! Son quel che sono. Cosa vorresti dire? Finché state sotto di me… GIANNINA Sotto di te? Oh, spero che vi starò poco. (con dispetto fila) EVARISTO Via cosa c'è? (a Moracchio) Voi sempre tormentate questa povera ragazza. (s'accosta a lei) E non lo merita, poverina. GIANNINA Mi fa arrabbiare. MORACCHIO Vuol saper tutto. EVARISTO Via via basta così. BARONE È comionevole il signor Evaristo. (a Candida) CANDIDA Pare anche a me veramente. (con un poco di ione)
GELTRUDA Gran cosa! Non si fa che criticare le azioni altrui, e non si prende guardia alle proprie. (a Candida) BARONE (Ecco questi sono que' dottoramenti ch'io non posso soffrire). CRESPINO (Povera Giannina! Quando sarà mia moglie, quel galeotto non la tormenterà più). (lavorando) CORONATO (Sì la voglio sposare se non fosse che per levarla da suo fratello). EVARISTO Ebbene signor Barone volete che andiamo? (accostandosi a lui) BARONE Per dirvi la verità, questa mattina non mi sento in voglia d'andar alla caccia. Sono stanco di ieri… EVARISTO Fate come vi piace. Mi permetterete che ci vada io? BARONE Accomodatevi. (Tanto meglio per me. Avrò comodo di tentare la mia sorte colla signora Candida). EVARISTO Moracchio. MORACCHIO Signore. EVARISTO Il cane ha mangiato? MORACCHIO Signor sì. EVARISTO Prendete lo schioppo, e andiamo. MORACCHIO Vado a prenderlo subito. Tieni. (a Giannina) GIANNINA Cosa ho da tenere? MORACCHIO Tieni questo cane fin che ritorno. GIANNINA Date qui mala grazia. (prende il cane e lo carezza; Moracchio va in casa) CORONATO (È proprio una giovane di buon cuore. Non vedo l'ora ch'ella divenga mia).
CRESPINO (Che bella grazia che ha a far carezze! Se le fa ad un cane tanto più le farà ad un marito). BARONE Scavezzo. SCAVEZZO Signore. (si avanza) BARONE Prendete questo schioppo e portatelo nella mia camera. SCAVEZZO Sì, signore. (Questo almeno è ricco e generoso. Altro che quello spiantato del Conte!) (porta lo schioppo nell'osteria) EVARISTO Pensate voi di restar qui per oggi? (al Barone) BARONE Sì, mi riposerò all'osteria. EVARISTO Fate preparare che verrò a pranzo con voi. BARONE Ben volentieri, vi aspetto. Signore a buon riverirle. (alle signore) (Partirò per non dar sospetto). Vado nella mia camera, ed oggi preparate per due. (a Coronato, ed entra) CORONATO S'accomodi, sarà servita.
SCENA SECONDA
MORACCHIO, EVARISTO e dette MORACCHIO (collo schioppo esce di casa, e si fa dare il cane da Giannina) Eccomi, signore sono con lei. (ad Evaristo) EVARISTO Andiamo. (a Moracchio) Signore mie, se me lo permettono vado a divertirmi un poco collo schioppetto. (verso le due signore, e prende lo schioppo) GELTRUDA S'accomodi, e si diverta bene. CANDIDA L'auguro buona preda, e buona fortuna. EVARISTO Son sicuro d'essere fortunato, se sono favorito da' suoi auspizi. (a Candida, e va accomodando lo schioppo e gli attrezzi di caccia) CANDIDA (Veramente è gentile il signor Evaristo!) (a Geltruda) GELTRUDA (Sì è vero. È gentile e compito. Ma nipote mia non vi fidate, di chi non conoscete perfettamente). CANDIDA (Per che cosa dite questo signora zia?) GELTRUDA (Perché da qualche tempo ho ragione di dirlo). CANDIDA (Io non credo di poter esser condannata…) GELTRUDA (No non mi lamento di voi, ma vi prevengo perché vi conserviate sempre così). CANDIDA (Ah, è tardo il suo avvertimento. Sono innamorata quanto mai posso essere). EVARISTO Oh tutto è all'ordine: andiamo. (a Moracchio) Nuovamente servitor umilissimo di lor signore. (saluta le due signore in atto di partire)
GELTRUDA Serva. (s'alza per fargli riverenza) CANDIDA Serva umilissima. (s'alza ancor ella, urta, ed il ventaglio va in istrada) EVARISTO Oh! (raccoglie il ventaglio) CANDIDA Niente, niente. GELTRUDA La non s'incomodi. EVARISTO Il ventaglio è rotto, me ne dispiace infinitamente. CANDIDA Eh non importa, è un ventaglio vecchio. EVARISTO Ma io sono la cagione ch'è rotto. GELTRUDA Non si metta in pena di ciò. EVARISTO Permettano ch'abbia l'onore… (vorrebbe portarlo in casa) GELTRUDA La non s'incomodi. Lo dia al servo Tognino. (chiama) TOGNINO Signora. (a Geltruda) GELTRUDA Prendete quel ventaglio. TOGNINO Favorisca. (lo dimanda ad Evaristo) EVARISTO Quando non mi vonno permettere… tenete… (dà il ventaglio a Tognino, che lo prende e va dentro) CANDIDA Guardate quanta pena si prende, perché si è rotto il ventaglio! (a Geltruda) GELTRUDA Un uomo pulito, non può agir altrimenti. (Lo conosco che c'entra della ione).
SCENA TERZA
Tognino sulla terrazza dà il ventaglio alle donne; esse lo guardano e l'accomodano. EVARISTO, SUSANNA, e detti EVARISTO (Mi spiace infinitamente che quel ventaglio si sia rotto per causa mia; ma vo' tentare di rimediarvi). Signora Susanna. (piano alla stessa) SUSANNA Signore. EVARISTO Vorrei parlarvi. Entriamo in bottega. SUSANNA Resti servita. S'accomodi. (s'alza) EVARISTO Moracchio. MORACCHIO Signore. EVARISTO Andate innanzi. Aspettatemi all'entrata del bosco, ch'or ora vengo. (entra con Susanna) MORACCHIO Se perde il tempo così prenderemo delle zucche, e non del selvatico. (via col cane) GIANNINA Manco male che mio fratello è partito. Non vedo l'ora di poter dire due parole a Crespino; ma non vorrei che ci fosse quel diavolo di Coronato. Mi perseguita, e non lo posso soffrire.(da sé, filando) CONTE Oh oh bella, bellissima. (leggendo) Signora Geltruda. CRESPINO Cosa ha trovato di bello signor Conte? CONTE Eh cosa c'entrate voi? Cosa sapete voi che siete un ignorantaccio? CRESPINO (Ci scometto che ne so più di lei). (batte forte sulla forma) GELTRUDA Che mi comanda il signor Conte?
CONTE Voi che siete una donna di spirito, se sentiste quello, ch'io leggo presentemente è un capo d'opera. GELTRUDA È qualche istoria? CONTE Eh! (con sprezzatura) GELTRUDA Qualche trattato di filosofia? CONTE Oh! (come sopra) GELTRUDA Qualche bel pezzo di poesia? CONTE No. (come sopra) GELTRUDA E ch'è dunque? CONTE Una cosa stupenda, meravigliosa, tratta dal se: è una novella, detta volgarmente una favola. CRESPINO (Maledetto! Una favola! stupenda! maravigliosa!) GELTRUDA È di Esopo? CONTE No. GELTRUDA È di monsieur de la Fontaine? CONTE Non so l'autore, ma non importa… La volete sentire? GELTRUDA Mi farà piacere. CONTE Aspettate. Oh ch'ho perduto il segno. La troverò… (cerca la carta) CANDIDA Voi che leggete de' buoni libri amate di sentir delle favole? (a Gertruda) GELTRUDA Perché no? Se sono scritte con sale, istruiscono, e divertono infinitamente. CONTE Oh, l'ho trovata. Sentite…
CRESPINO (Maledetto! legge le favole!) (pesta forte) CONTE Oh principiate a battere? (a Crespino) CRESPINO Non vol che li metta li soprattacchi? (al Conte, e batte) TIMOTEO (torna a pestar forte nel mortaio) CONTE Ecco qui quest'altro canchero che viene a pestar di nuovo. La volete finire? (a Timoteo) TIMOTEO Signore io faccio il mio mestiere. (pesta) CONTE Sentite. “Eravi una donzella di tal bellezza…”. (a Gertruda) Ma quietatevi, o andate a pestare in un altro luogo. (a Timoteo) TIMOTEO Signore, mi scusi. Io pago la mia pigione, e non ho miglior luogo di questo. (pesta) CONTE Eh andate al diavolo con questo maledetto mortaio. Non si può leggere, non si può resistere. Signora Geltruda verrò da voi. Sentirete che pezzo, che robba, che novità. (batte sul libro, ed entra in casa di Gertruda) GELTRUDA È un poco troppo ardito questo signor speziale. Andiamo a ricevere il signor Conte. (a Candida) CANDIDA Andate pure, sapete che le favole non mi divertono. GELTRUDA Non importa, venite, che la convenienza lo vuole. CANDIDA Oh questo signor Conte! (con sprezzo) GELTRUDA Nipote mia; rispettate, se volete essere rispettata. Andiamo via. CANDIDA Sì sì verrò per compiacervi. (s'alza per andarvi)
SCENA QUARTA
EVARISTO e SUSANNA escono dalla bottega, CANDIDA, SUSANNA e detti. CANDIDA Come! Ancora qui il signor Evaristo! Non è andato alla caccia? Son ben curiosa di sapere il perché. (osserva in dietro) SUSANNA La non si lagni di me, perché le assicuro che le ho dato il ventaglio a buonissimo prezzo. (a Evaristo) EVARISTO (Non v'è più la signora Candida!) Mi dispiace che non sia qualche cosa di meglio. SUSANNA Non ne ho né di meglio, né di peggio: questo è il solo, questo è l'ultimo che m'era restato in bottega. EVARISTO Benissimo mi converrà valermi di questo. SUSANNA M'immagino che ne vorrà fare un presente. (ridendo) EVARISTO Certo ch'io non l'avrò comprato per me. SUSANNA Alla signora Candida? EVARISTO (È un poco troppo curiosa la signora Susanna). Perché credete voi, ch'io voglia darlo alla signora Candida? SUSANNA Perché ho veduto che si è rotto il suo. EVARISTO No, no il ventaglio l'ho disposto diversamente. SUSANNA Bene bene lo dia a chi vuole. Io non cerco i fatti degl'altri. (ride e lavora) EVARISTO (Non li cerca ma li vuol sapere. Questa volta però, non l'è andata fatta). (si accosta a Giannina)
CANDIDA Gran segreti colla merciaia. Sarei bene curiosa di sapere qualche cosa. (s'avanza un poco) EVARISTO Giannina. (piano accostandosi a lei) GIANNINA Signore. (sedendo e lavorando) EVARISTO Vorrei pregarvi d'una finezza. GIANNINA Oh cosa dice! comandi se la posso servire. EVARISTO So che la signora Candida ha dell'amore per voi. GIANNINA Sì signor per sua grazia. EVARISTO Anzi m'ha ella parlato, perché m'interessi presso di vostro fratello. GIANNINA Ma è una gran disgrazia la mia! Sono restata senza padre, e senza madre, e mi tocca essere soggetta ad un fratello, ch'è una bestia, signore, è veramente una bestia. (fila con sdegno) EVARISTO Ascoltatemi. GIANNINA Parli pure che il filare non mi tura l'orecchie. (altiera, filando) EVARISTO (Suo fratello è stravagante, ma ha anche ella il suo merito mi pare). (ironico) SUSANNA (Che avesse comprato il ventaglio per Giannina, non credo mai). CORONATO e CRESPINO: (mostrano curiosità di sentir quel che dice Evaristo a Giannina, ed allungano il collo per sentire) CANDIDA (Interessi colla merciaia, interessi con Giannina! non capisco niente). (si avanza sulla terrazza) EVARISTO Posso pregarvi di una finezza? (a Giannina) GIANNINA Non le ho detto di sì? Non le ho detto che mi comandi? Se la rocca le dà fastidio, la butterò via. (s'alza, e getta la rocca con dispetto)
EVARISTO (Quasi quasi non direi altro, ma ho bisogno di lei). CANDIDA (Cosa sono mai queste smanie?) CRESPINO (Getta via la rocca?) (colla scarpa e martello in mano s'alza e s'avanza un poco) CORONATO (Mi pare che si riscaldino col discorso!) (col libro s'alza e s'avanza un poco) SUSANNA (Se le fe un presente non andrebbe in collera). (osservando) GIANNINA Via eccomi qua mi comandi. (ad Evaristo) EVARISTO Siate buona, Giannina. GIANNINA Io non so d'essere mai stata cattiva. EVARISTO Sapete che la signora Candida ha rotto il ventaglio? GIANNINA Signor sì. (col muso duro) EVARISTO Ne ho comprato uno dalla merciaia. GIANNINA Ha fatto bene. (come sopra) EVARISTO Ma non vorrei lo sapesse la signora Geltruda. GIANNINA Ha ragione. (come sopra) EVARISTO E vorrei che voi glie lo deste secretamente. GIANNINA Non lo posso servire. (come sopra) EVARISTO (Che risposta villana!) CANDIDA (Mi dà ad intendere che va alla caccia, e si ferma qui). CRESPINO (Quanto pagherei sentire!) (s'avanza e mostra di lavorare) CORONATO (Sempre più mi cresce la curiosità). (s'avanza, fingendo sempre di
conteggiare) EVARISTO Perché non volete farmi questo piacere? (a Giannina) GIANNINA Perché non ho ancora imparato questo bel mestiere. EVARISTO Voi prendete la cosa sinistramente. La signora Candida ha tanto amore per voi. GIANNINA È vero ma in queste cose… EVARISTO Mi ha detto che vorreste maritarvi a Crespino… (dicendo così si volta, e vede li due che ascoltano) Che fate voi altri? Che baronata è questa? CRESPINO Io lavoro, signore. (torna a sedere) CORONATO Non posso scrivere, e eggiare? (torna a sedere) CANDIDA (Hanno dei segreti importanti). SUSANNA (Che diavolo ha costei, che tutti gl'uomini le corrono dietro?) GIANNINA Se non ha altro da dirmi, torno a prendere la mia rocca. EVARISTO Sentite: mi ha pregato la signora Candida, acciò m'interessi per voi, per farvi avere delle doti, e acciò Crespino sia vostro marito. GIANNINA Vi ha pregato? (cangia tuono, e getta via la rocca) EVARISTO Sì, ed io sono impegnatissimo perché ciò segua. GIANNINA Dov'avete il ventaglio? EVARISTO L'ho qui in tasca. GIANNINA Date qui, date qui, ma che nessuno veda. EVARISTO Eccolo. (glie lo dà di nascosto) CRESPINO (Le dà qualche cosa). (tirando il collo)
CORONATO (Cosa mai le ha dato?) (tirando il collo) SUSANNA (Assolutamente le ha donato il ventaglio). CANDIDA (Ah sì, Evaristo mi tradisce. Il Conte ha detto la verità). EVARISTO Ma vi raccomando la segretezza. (a Giannina) GIANNINA Lasci far a me, e non dubiti niente. EVARISTO Addio. GIANNINA A buon riverirla. EVARISTO Mi raccomando a voi. GIANNINA Ed io a lei. (riprende la rocca, siede e fila) EVARISTO (vuol partire, si volta e vede Candida sulla terrazza) (Oh, eccola un'altra volta sulla terrazza. Se potessi prevenirla!) (guarda intorno, e le vuol parlare) Signora Candida? CANDIDA (gli volta le spalle, e parte senza rispondere) EVARISTO Che vuol dir questa novità? Sarebbe mai un disprezzo? Non è possibile… So che mi ama, ed è sicura che io l'adoro. Ma pure… Capisco ora cosa sarà. Sua zia l'avrà veduta, l'avrà osservata, non avrà voluto mostrare presso di lei… Sì sì, è così, non può essere diversamente. Ma bisogna rompere questo silenzio, bisogna parlare alla signora Geltruda, ed ottenere da lei il prezioso dono di sua nipote. (via) GIANNINA In verità sono obbligata alla signora Candida che si ricorda di me. Posso far meno per lei? Fra noi altre fanciulle sono piaceri che si fanno, e che si cambiano senza malizia. (filando) CORONATO (s'alza, e s'accosta a Giannina) Grand'interessi, gran segreti col signor Evaristo! GIANNINA E cosa c'entrate voi? e cosa deve premere a voi? CORONATO Se non mi premesse non parlerei.
CRESPINO (s'alza pian piano dietro Coronato per ascoltare) GIANNINA Voi non siete niente del mio, e non avete alcun potere sopra di me. CORONATO Se non sono ora niente del vostro, lo sarò quanto prima. GIANNINA Chi l'ha detto? (con forza) CORONATO L'ha detto e l'ha promesso, e mi ha data parola, chi può darla, e chi può disporre di voi. GIANNINA Mio fratello forse… (ridendo) CORONATO Sì vostro fratello, e gli dirò i segreti, le confidenze, i regali… CRESPINO Alto alto padron mio! (entra fra li due) Che pretensione avete voi sopra questa ragazza? CORONATO A voi non deggio rendere questi conti. CRESPINO E voi che confidenza avete col signor Evaristo? (a Giannina) GIANNINA Lasciatemi star tutti due, e non mi rompete la testa. CRESPINO Voglio saperlo assolutamente. (a Giannina) CORONATO Cos'è questo voglio? Andate a comandare a chi v'appartiene. Giannina m'è stata promessa da suo fratello. CRESPINO Ed io ho la parola da lei, e val più una parola della sorella che cento parole di suo fratello. CORONATO Su questo ci toccheremo la mano. (a Crespino) CRESPINO Cosa vi ha dato il signor Evaristo? (a Giannina) GIANNINA Un diavolo che vi porti. CORONATO Eh ora ora. L'ho veduto sortire dalla merciaia. La merciaia me lo dirà. (corre da Susanna)
CRESPINO Che abbia comprato qualche galanteria? (va alla medesima) GIANNINA (Oh, io non dico niente sicuro… Non vorrei che Susanna…) CORONATO Ditemi in grazia. Che cosa ha comprato da voi il signor Evaristo? (a Susanna) SUSANNA Un ventaglio. (ridendo) CRESPINO Sapete voi che cosa ha donato a Giannina? SUSANNA Oh bella! Il ventaglio. (ridendo) GIANNINA Non è vero niente. (contro Susanna) SUSANNA Come non è vero niente? (a Giannina, alzandosi) CORONATO Lasciate veder quel ventaglio. (a Giannina, con forza) CRESPINO Voi non c'entrate. (dà una spinta a Coronato) Voglio veder quel ventaglio. (a Giannina) CORONATO (alza la mano, e minaccia Crespino) CRESPINO (lo stesso) GIANNINA Per causa vostra. (a Susanna) SUSANNA Per causa mia? (a Giannina, con sdegno) GIANNINA Siete una pettegola. SUSANNA A me pettegola? (s'avanza minacciando) GIANNINA Alla larga che giuro al Cielo… (alza la rocca) SUSANNA Vado via perché ci perdo del mio. (ritirandosi) GIANNINA Ci perde del suo? SUSANNA Siete una contadina, trattate da quella che siete. (corre via in
bottega) GIANNINA (vorrebbe seguitarla. Crespino la trattiene) Lasciatemi stare. CRESPINO Lasciatemi vedere il ventaglio. (con forza) GIANNINA Io non ho ventaglio. CORONATO Cosa vi ha dato il signor Evaristo? (a Giannina) GIANNINA Vi dico ch'è un'impertinenza la vostra. (a Coronato) CORONATO Voglio saperlo. (si accosta a Giannina) CRESPINO Non tocca a voi vi dico. (lo rispinge) GIANNINA Non si tratta così colle fanciulle onorate. (s'accosta alla sua casa) CRESPINO Ditelo a me Giannina. (accostandosi a lei) GIANNINA Signor no. (s'accosta di più alla sua porta) CORONATO Io, io ho da saperlo. (rispinge Crispino, e s'accosta a Giannina) GIANNINA Andate al diavolo. (entra in casa, e li serra la porta in faccia) CORONATO A me quest'affronto? (a Crespino) Per causa vostra. (minacciandolo) CRESPINO Voi siete un impertinente. CORONATO Non mi fate riscaldare il sangue. (minacciandosi) CRESPINO Non ho paura di voi. (minacciandosi) CORONATO Giannina dev'esser mia. (con forza) CRESPINO No, non lo sarà mai. E se questo fosse, giuro al Cielo… CORONATO Cosa sono queste minaccie? Con chi credete di aver che fare?
CRESPINO Io sono un galantuomo, e son conosciuto. CORONATO Ed io cosa sono? CRESPINO Non so niente. CORONATO Sono un oste onorato. CRESPINO Onorato? CORONATO Come! ci avreste voi qualche dubbio? CRESPINO Non sono io che lo mette in dubbio. CORONATO E chi dunque? CRESPINO Tutto questo villaggio. CORONATO Eh amico non è di me che si parla. Io non vendo il cuoio vecchio per il cuoio nuovo. CRESPINO Né io vendo l'acqua per vino, né la pecora per castrato, né vado di notte a rubbar i gatti per venderli o per agnelli, o per lepre. CORONATO Giuro al Cielo… (alza la mano) CRESPINO Ehi!… (fa lo stesso) CORONATO Corpo di bacco! (mette la mano in tasca) CRESPINO La mano in tasca! (corre al banchetto per qualche ferro) CORONATO Non ho coltello… (corre, e prende la sua banchetta) CRESPINO (lasciai ferri e prende un seggiolone dello speciale, e si vogliono dare)
SCENA QUINTA
TIMOTEO, SCAVEZZO e detti TIMOTEO (dalla sua bottega, col pisteto in mano) LIMONCINO (dal caffè, con un legno) SCAVEZZO (dall'osteria, con uno spiedo) CONTE (dall casa di Gertruda, per dividere) Alto, alto, fermatevi, ve lo comando. Sono io, bestie, sono il conte di Roccamonte; ehi bestie, fermatevi, ve lo comando. (temendo però di buscare) CRESPINO Hai ragione che porto rispetto al signor Conte. (a Coronato) CORONATO Sì, ringrazia il signor Conte, altrimenti t'avrei fracassato l'ossa. CONTE Animo, animo, basta così. Voglio saper la contesa. Andate via voi altri. Ci sono io, e non c'è bisogno di nessuno. TIMOTEO C'è alcuno che sia ferito? (Limoncino e Scavezzo partono) CONTE Voi vorreste che si avessero rotto il capo, scavezzate le gambe, slogato un braccio, non è egli vero? Per avere occasione di esercitare il vostro talento, la vostra abilità. TIMOTEO Io non cerco il mal di nessuno, ma se avessero bisogno, se fossero feriti, storpiati, fracassati, li servirei volentieri. Sopra tutti servirei di cuore in uno di questi casi V. S. illustrissima. CONTE Sei un temerario, ti farò mandar via. TIMOTEO I galantuomini non si mandano via così facilmente. CONTE Si mandano via i speciali ignoranti, temerari, impostori, come voi siete. TIMOTEO Mi maraviglio, ch'ella parli così, signore; ella che senza le mie
pillole sarebbe morto. CONTE Insolente! TIMOTEO E le pillole non me l'ha ancora pagate. (via) CORONATO (Il Conte in questo caso mi potrebbe giovare). CONTE Ebbene cosa è stato? cos'avete? qual è il motivo della vostra contesa? CRESPINO Dirò, signore… Non ho riguardo di dirlo in faccia di tutto il mondo… Amo Giannina… CORONATO E Giannina dev'esser mia. CONTE Ah, ah ho capito. Guerra amorosa. Due campioni di Cupido. Due valorosi rivali. Due pretendenti della bella Venere, della bella dea delle Case nove. (ridendo) CRESPINO Se ella crede di volermi porre in ridicolo… (vuol partire) CONTE No. Venite qui. (lo ferma) CORONATO La cosa è seriosa, glie l'assicuro. CONTE Sì lo credo. Siete amanti, e siete rivali. Cospetto di bacco! guardate le combinazioni! Pare la favola ch'ho letto alla signora Geltruda. (mostrando il libro, e legge) “Eravi una donzella d'una bellezza sì rara…” CRESPINO (Ho capito). Con sua licenza. CONTE Dov'andate? Venite qui. CRESPINO Se mi permette, vado a terminar di accomodare le sue scarpe. CONTE Oh sì, andate che siano finite per domattina. CORONATO E sopra tutto che non siano accomodate col cuoio vecchio. CRESPINO Verrò da voi per avere del cuoio nuovo.
CORONATO Per grazia del Cielo, io non faccio né il ciabattino, né il calzolaro. CRESPINO Non importa, mi darete della pelle di cavallo, della pelle di gatto. CORONATO (Certo colui ha da morire per le mie mani). CONTE Che ha detto di gatti? Ci fareste voi mangiare del gatto? CORONATO Signore, io sono un galantuomo, e colui è un impertinente, che mi perseguita a torto. CONTE Questo è un effetto della ione, della rivalità. Siete voi dunque amante di Giannina? CORONATO Sì signore, ed anzi voleva raccomandarmi alla di lei protezione. CONTE Alla mia protezione? (con aria) Bene si vedrà. Siete voi sicuro ch'ella vi corrisponda? CORONATO Veramente dubito, ch'ella sia portata più per colui, che per me. CONTE Male. CORONATO Ma io ho la parola di suo fratello. CONTE Non è da fidarsene molto. CORONATO Moracchio me l'ha promessa sicuramente. CONTE Questo va bene, ma non si può violentare una donna. (con forza) CORONATO Suo fratello può disporre di lei. CONTE Non è vero: il fratello non può disporre di lei. (con caldo) CORONATO Ma la di lei protezione… CONTE La mia protezione è bella e buona; la mia protezione è valevole; la mia protezione è potente. Ma un cavaliere, come son io, non arbitra, e non dispone del cuor di una donna.
CORONATO Finalmente è una contadina. CONTE Che importa questo? La donna è sempre donna; distinguo i gradi, le condizioni, ma in massima rispetto il sesso. CORONATO (Ho capito la sua protezione non val niente). CONTE Come state di vino? Ne avete provveduto di buono? CORONATO Ne ho del perfetto, dell'ottimo, dell'esquisito. CONTE Verrò a sentirlo. Il mio quest'anno è riuscito male. CORONATO (Son due anni che l'ha venduto). CONTE Se il vostro è buono mi provvederò da voi. CORONATO (Non mi curo di questo vantaggio). CONTE Avete capito? CORONATO Ho capito. CONTE Ditemi una cosa. S'io parlassi alla giovane, e con buona maniera la disponessi? CORONATO Le sue parole potrebbero forse oprar qualche cosa in mio vantaggio. CONTE Voi finalmente meritate d'essere preferito. CORONATO Mi parrebbe che da me a Crespino… CONTE Oh, non vi è paragone. Un uomo come voi, proprio, civile, galantuomo… CORONATO Ella ha troppo bontà per me. CONTE E poi rispetto alle donne, è vero, ma appunto per questo trattandole, com'io le tratto, vi assicuro che fanno per me quel che non farebbero per nessuno.
CORONATO Questo è quello che pensavo anch'io, ma ella mi voleva disperare. CONTE Io faccio, come quegli avvocati che principiano dalle difficoltà. Amico, voi siete un uomo che ha una buona osteria, che può mantenere una moglie con proprietà, fidatevi di me, mi voglio interessare per voi. CORONATO Mi raccomando alla sua protezione. CONTE Ve l'accordo, e ve la prometto. CORONATO Se volesse darsi l'incomodo di venir a sentir il mio vino… CONTE Ben volentieri. In casa vostra non vi ho alcuna difficoltà. CORONATO Resti servita. CONTE Buon galantuomo! (gli mette la mano sulla spalla) Andiamo. (entra) CORONATO Due o tre barili di vino non saranno mal impiegati.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
SUSANNA sola, ch'esce dalla bottega, e accomoda la roba della mostra. SUSANNA Gran poche faccende si fanno in questo villaggio! Non ho venduto che un ventaglio fin ora, ed anche l'ho dato ad un prezzo… Veramente per disfarmene. Le persone che ponno spendere, vanno alla città a provvedersi. Dai poveri vi è poco da guadagnare. Sono una gran pazza a perdere qui il mio tempo; e poi in mezzo a questi villani senza convenienza, senza rispetto, non fanno differenza da una mercante merciaia a quelle che vendono il latte, l'insalata, e le ova. L'educazione ch'io ho avuta alla città non mi val niente in questa campagna. Tutte eguali, e tutti compagni: Susanna, Giannina, Margherita, Lucia, la mercante, la capraia, la contadina; si fa d'ogni erba un fascio. Si distinguono un poco queste due signore, ma poco v'è; poco pochissimo. Quell'impertinente di Giannina poi, perché ha un poco di protezione, si crede di essere qualche cosa di grande. Gli hanno donato un ventaglio! Cosa vuol fare una contadina di quel ventaglio? Oh, farà la bella figura! Si farà fresco… la… così… Oh, che ti venga del bene! Sono cose da ridere; ma cose che qualche volta mi fan venire la rabbia. Son così, io che sono allevata civilmente, non posso soffrire le male grazie. (siede e lavora)
SCENA SECONDA
CANDIDA, ch'esce dal palazzino, e detta CANDIDA Non son quieta, se non vengo in chiaro di qualche cosa. Ho veduto Evaristo sortire dalla merciaia, e poi andar da Giannina, e qualche cosa sicuramente le ha dato. Vo' veder se Susanna sa dirmi niente. Dice bene mia zia, non bisogna fidarsi delle persone, senza bene conoscerle. Povera me! Se lo trovassi infedele! È il mio primo amore. Non ho amato altri che lui. (a poco a poco s'avanza verso Susanna) SUSANNA Oh signora Candida, serva umilissima.(si alza) CANDIDA Buon giorno, signora Susanna che cosa lavorate di bello? SUSANNA Mi diverto, metto assieme una cuffia. CANDIDA Per vendere? SUSANNA Per vendere, ma il Cielo sa quando. CANDIDA Può essere, ch'io abbia bisogno d'una cuffia da notte. SUSANNA Ne ho di fatti. Vuol restar servita? CANDIDA No no, c'è tempo, un'altra volta. SUSANNA Vuol accomodarsi qui un poco? (le offre la sedia) CANDIDA E voi? SUSANNA Oh, io prenderò un'altra sedia. (entra in bottega e piglia una sedia di paglia) S'accomodi qui che starà meglio. CANDIDA Sedete anche voi, lavorate. (siede) SUSANNA Mi fa grazia a degnarsi della mia compagnia. (siede) Si vede ch'è nata bene. Chi è ben nato si degna di tutti. E questi villani sono superbi come
luciferi, e quella Giannina poi… CANDIDA A proposito di Giannina, avete osservato quando le parlava il signor Evaristo? SUSANNA Se ho osservato? e come! CANDIDA Ha avuto una lunga conferenza con lei. SUSANNA Sa dopo cosa è succeduto? Sa la baruffa ch'è stata? CANDIDA Ho sentito uno strepito, una contesa. Mi hanno detto che Coronato e Crespino si volevano dare. SUSANNA Certo, e per causa di quella bella grazia, di quella gioia. CANDIDA Ma perché? SUSANNA Per gelosia fra di loro, per gelosia del signor Evaristo. CANDIDA Credete voi che il signor Evaristo abbia qualche attacco con Giannina? SUSANNA Io non so niente, non bado ai fatti degli altri, e non penso mal di nessuno, ma l'oste, e il calzolaio se sono gelosi di lui, avranno le loro ragioni. CANDIDA (Povera me! L'argomento è troppo vero in mio danno!) SUSANNA Perdoni, non vorrei commettere qualche fallo. CANDIDA A proposito di che? SUSANNA Non vorrei, ch'ella avesse qualche parzialità per il signor Evaristo… CANDIDA Oh io! non ce n'ho nessuna. Lo conosco, perché viene qualche volta in casa; è amico di mia zia. SUSANNA Le dirò la verità. (Non credo, ch'ella si potrà offendere di questo). Credeva quasi che fra lei ed il signor Evaristo vi fosse qualche buona corrispondenza… lecita e onesta, ma dopo ch'è stato da me questa mattina, mi sono affatto disingannata.
CANDIDA È stato da voi questa mattina? SUSANNA Sì signora, le dirò… È venuto a comprar un ventaglio. CANDIDA Ha comprato un ventaglio? (con premura) SUSANNA Sì certo, e come io aveva veduto, ch'ella aveva rotto il suo, quasi per causa di quel signore, dissi subito fra me: lo comprerà per darlo alla signora Candida… CANDIDA L'ha dunque comprato per me? SUSANNA Oh signora no; anzi le dirò che ho avuto la temerità di domandarglielo, se lo comprava per lei. In verità mi ha risposto in una maniera, come se io l'avessi offeso; non tocca a me, dice, cosa c'entro io colla signora Candida? L'ho destinato altrimenti. CANDIDA E che cosa ha fatto di quel ventaglio? SUSANNA Cosa ne ha fatto? L'ha regalato a Giannina. CANDIDA (Ah, son perduta, son disperata!) (agitandosi) SUSANNA Signora Candida. (osservando la sua inquietudine) CANDIDA (Ingrato! Infedele! E perché? per una villana?) SUSANNA Signora Candida. (con premura) CANDIDA (L'offesa è insopportabile). SUSANNA (Povera me l'ho fatta!) Signora s'acquieti la cosa non sarà così. CANDIDA Credete voi, ch'egli abbia dato a Giannina il ventaglio? SUSANNA Oh, in quanto a questo l'ho veduto io con questi occhi. CANDIDA E cosa dunque mi dite che non sarà? SUSANNA Non so… non vorrei vederla per causa mia…
SCENA TERZA
GELTRUDA sulla porta del palazzino. SUSANNA Oh, ecco la sua signora zia. (a Candida) CANDIDA Per amor del cielo, non dite niente. (a Susanna) SUSANNA Non v'è pericolo. (E voleva dirmi di no. Suo danno, perché non dirmi la verità?) GELTRUDA Che fate qui nipote? (Candida e Susanna si alzano) SUSANNA È qui a favorirmi, a tenermi un poco di compagnia. CANDIDA Son venuta a vedere se ha una cuffia da notte. SUSANNA Sì è vero, me l'ha domandata. Oh, non dubiti niente, che con me può esser sicura. Non sono una frasca, e in casa mia non vien nessuno. GELTRUDA Non vi giustificate fuor di proposito signora Susanna. SUSANNA Oh io sono assai dilicata signora. GELTRUDA Perché non dirlo a me se avete bisogno d'una cuffia? CANDIDA Voi eravate nel vostro gabinetto a scrivere; non ho voluto sturbarvi. SUSANNA Vuol vederla? La vado a prendere. S'accomodi qui, favorisca. (dà la sua sedia a Geltruda, ed entra in bottega) GELTRUDA Avete saputo niente di quella contesa ch'è stata qui fra l'oste, ed il calzolaio? (a Candida, e siede) CANDIDA Dicono per amore, (siede) per gelosie. Dicono che sia stata causa Giannina. GELTRUDA Mi dispiace, perché è una buona ragazza.
CANDIDA Oh signora zia scusatemi, ho sentito delle cose di lei che sarà bene che non la facciamo più venire per casa. GELTRUDA Perché? cosa hanno detto? CANDIDA Vi racconterò poi. Fate a modo mio signora, non la ricevete più che farete bene. GELTRUDA Siccome ella veniva più da voi che da me, vi lascio in libertà di trattarla, come volete. CANDIDA (Indegna! Non avrà più l'ardire di comparirmi dinnanzi). SUSANNA (che torna) Ecco le cuffie signora, guardi, scelga, e si soddisfi. (tutte e tre si occupano alla scelta delle cuffie, e parlano piano tra loro)
SCENA QUARTA
Il CONTE ed il BARONE escono insieme dall'osteria. CONTE Ho piacere che mi abbiate fatto la confidenza. Lasciatevi servire da me, e non dubitate. BARONE So che siete amico della signora Geltruda. CONTE Oh amico vi dirò. Ella è una donna che ha qualche talento, io amo la letteratura, mi diverto con lei più volentieri che con un'altra. Del resto poi ella è una povera cittadina. Suo marito le ha lasciato quella casuppola con qualche pezzo di terra, e per essere rispettata in questo villaggio ha bisogno della mia protezione. BARONE Viva il signor Conte, che protegge le vedove, che protegge le belle donne. CONTE Che volete? A questo mondo bisogna essere buoni da qualche cosa. BARONE Mi farete dunque il piacere… CONTE Non dubitate, le parlerò, le domanderò la nipote per un cavaliere mio amico; e quando gliela dimando io son sicuro che non avrà ardire, che non avrà coraggio di dire di no. BARONE Ditele chi sono. CONTE Che serve? Quando gliela domando io. BARONE Ma la domandate per me? CONTE Per voi. BARONE Sapete voi bene chi sono? CONTE Non volete che io vi conosca? Non volete che io sappia i vostri titoli, le vostre facoltà, i vostri impieghi? Eh fra noi altri titolati ci conosciamo.
BARONE (Oh come me lo goderei, se non avessi bisogno di lui!) CONTE Oh, collega amatissimo… (con premura) BARONE Cosa c'è? CONTE Ecco la signora Geltruda con sua nipote. BARONE Sono occupate, credo che non ci abbiano veduto. CONTE No certo. Se Geltruda mi avesse veduto, si sarebbe mossa immediatamente. BARONE Quando le parlerete? CONTE Subito se volete. BARONE Non è bene che io ci sia. Parlatele, io anderò a trattenermi dallo speciale. CONTE Perché dallo speciale? BARONE Ho bisogno di un poco di reobarbaro per la digestione. CONTE Del reobarbaro? Vi darà della radica di sambuco. BARONE No no lo conosco. Se non sarà buono non lo prenderò. Mi raccomando a voi. CONTE Collega amatissimo. (lo abbraccia) BARONE Addio collega carissimo. (È il più bel pazzo di questo mondo). (entra nella bottega dello speziale) CONTE Signora Geltruda. (chiama forte) GELTRUDA Oh, signor Conte, perdoni, non l'aveva veduta. (si alza) CONTE Una parola in grazia. SUSANNA Favorisca se comanda si servi qui; è padrone.
CONTE No no; ho qualche cosa da dirvi segretamente. Scusate l'incomodo, ma vi prego di venir qui. (a Geltruda) GELTRUDA La servo subito. Mi permetta di pagar una cuffia che abbiamo preso, e sono da lei. (tira fuori la borsa per pagare Susanna, e per tirare in lungo) CONTE Vuol pagar subito! questo vizio io non l'ho mai avuto.
SCENA QUINTA
CORONATO esce dall'osteria con SCAVEZZO, che porta un barile di vino in spalla. CORONATO Illustrissimo questo è un barile che viene a lei. CONTE E l'altro? CORONATO Dopo questo si porterà l'altro; dove vuol che si porti? CONTE Al mio palazzo. CORONATO A chi vuole che si consegni? CONTE Al mio fattore, se c'è. CORONATO Ho paura che non vi sarà. CONTE Consegnatelo a qualcheduno. CORONATO Benissimo, andiamo. SCAVEZZO Mi darà poi la buona mano il signor Conte. CONTE Bada bene a non bever il vino, e non vi metter dell'acqua. Non lo lasciate andar solo. (a Coronato) CORONATO Non dubiti, non dubiti, ci sono anch'io. (via) SCAVEZZO (Sì sì non dubiti che fra io ed il padrone, l'abbiamo accomodato a quest'ora). (via) GELTRUDA (ha pagato, e si avanza verso il Conte. Susanna siede e lavora. Candida resta a sedere, e parlano piano fra di loro) Eccomi da lei signor Conte. Cosa mi comanda? CONTE In poche parole. Mi volete dar vostra nipote?
GELTRUDA Dare? Cosa intendete per questo dare? CONTE Diavolo! non capite? In matrimonio. GELTRUDA A lei? CONTE Non a me, ma a una persona che conosco io, e che vi propongo io. GELTRUDA Le dirò signor Conte, ella sa che mia nipote ha perduto i suoi genitori, e ch'essendo figliuola d'un unico mio fratello, mi sono io caricata di tenerle luogo di madre. CONTE Tutti questi, compatitemi sono discorsi inutili. GELTRUDA Mi perdoni. Mi lasci venire al proposito della sua proposizione. CONTE Bene, e così? GELTRUDA Candida non ha ereditato dal padre tanto che basti per maritarla secondo la sua condizione. CONTE Non importa, non vi è questione di ciò. GELTRUDA Ma mi lasci dire. Io sono stata beneficata da mio marito. CONTE Lo so. GELTRUDA Non ho figliuoli… CONTE E voi le darete una dote… (impaziente) GELTRUDA Sì signore, quando il partito le convenirà.(con caldo) CONTE Oh ecco il proposito necessario. Lo propongo io, e quando lo propongo io, le convenirà. GELTRUDA Son certa che il signor Conte non è capace che di proporre un soggetto accettabile, ma spero che mi farà l'onore di dirmi, chi è. CONTE È un mio collega.
GELTRUDA Come? Un suo collega? CONTE Un titolato, come son io. GELTRUDA Signore… CONTE Non ci mettete difficoltà. GELTRUDA Mi lasci dire se vuole; e se non vuole gli leverò l'incomodo, e me n'anderò. CONTE Via via siate buona; parlate, vi ascolterò. Colle donne sono civile, sono compiacente; vi ascolterò. GELTRUDA In poche parole le dico il mio sentimento. Un titolo di nobiltà fa il merito di una casa, ma non quello di una persona. Non credo mia nipote ambiziosa, né io lo sono per sacrificarla all'idolo della vanità. CONTE Eh si vede che voi avete letto le favole. GELTRUDA Questi sentimenti non s'imparano né dalle favole, né dalle storie. La natura gl'ispira, e l'educazione li coltiva. CONTE La natura, la coltivazione, tutto quel che volete. Quello ch'io vi propongo è il barone del Cedro. GELTRUDA Il signor Barone è innamorato di mia nipote? CONTE Oui madame. GELTRUDA Lo conosco, ed ho tutto il rispetto per lui. CONTE Vedete che pezzo ch'io vi propongo? GELTRUDA È un cavaliere di merito… CONTE È mio collega. GELTRUDA È un poco franco di lingua, ma non c'è male. CONTE Animo dunque. Cosa mi rispondete?
GELTRUDA Adagio, adagio, signor Conte, non si decidono queste cose così sul momento. Il signor Barone avrà la bontà di parlare con me… CONTE Quando lo dico io, scusatemi, non si mette in dubbio, io ve la domando per parte sua, e si è raccomandato, e mi ha pregato, e mi ha supplicato, ed io vi parlo, vi supplico, non vi supplico, ma ve la domando. GELTRUDA Supponiamo che il signor Barone dica davvero. CONTE Cospetto! Cos'è questo supponiamo? La cosa è certa; e quando lo dico io… GELTRUDA Via la cosa è certa. Il signor Barone la brama. Vossignoria la domanda. Bisogna bene, ch'io senta se Candida vi acconsente. CONTE Non lo saprà, se non glie lo dite. GELTRUDA Abbia la bontà di credere che glielo dirò. CONTE Eccola lì, parlatele. GELTRUDA Li parlerò. CONTE Andate, e vi aspetto qui. GELTRUDA Mi permetta, e sono da lei. (fa riverenza) (Se il Barone dicesse davvero, sarebbe una fortuna per mia nipote. Ma dubito, ch'ella sia prevenuta). (va verso la merciaia) CONTE Oh, io poi colla mia buona maniera faccio fare alle persone tutto quello che io voglio. (tira fuori un libro, si mette sulla banchetta, e legge) GELTRUDA Candida andiamo a fare due i. Ho necessità di parlarvi. SUSANNA Se vogliono restar servite nel mio giardinetto, saranno in pienissima libertà. (si alzano) GELTRUDA Sì andiamo che sarà meglio, perché devo tornar qui subito. (entra in bottega) CANDIDA Cosa mai vorrà dirmi? Son troppo sfortunata, per aspettarmi alcuna
consolazione. (entra in bottega) CONTE È capace di farmi star qui un'ora ad aspettarla. Manco male che ho questo libro che mi diverte. Gran bella cosa è la letteratura! Un uomo con un buon libro alla mano non è mai solo.(legge piano)
SCENA SESTA
GIANNINA di casa, ed il CONTE. GIANNINA Oh via, il desinare è preparato, quando verrà quell'animale di Moracchio non griderà. Nessuno mi vede; è meglio che vada ora a portar il ventaglio alla signora Candida. Se posso darglielo senza che la zia se ne accorga glielo do; se no aspetterò un altro incontro. CONTE Oh ecco Giannina. Ehi! quella giovine. (s'incammina al palazzino) GIANNINA Signore. (dove si trova, voltandosi) CONTE Una parola. (la chiama a sé) GIANNINA Ci mancava quest'impiccio ora. (si avanza bel bello CONTE (Non bisogna che io mi scordi di Coronato. Gli ho promesso la mia protezione, e la merita). (si alza e mette via il libro) GIANNINA Son qui, cosa mi comanda? CONTE Dove eravate indirizzata? GIANNINA A fare i fatti miei, signore. (rusticamente) CONTE Così mi rispondete? Con quest'audacia? con quest'impertinenza? GIANNINA Come vuol ch'io parli? Parlo come so, come sono avezza a parlare. Parlo così con tutti, e nessuno mi ha detto che sono una impertinente. CONTE Bisogna distinguere con chi si parla. GIANNINA Oh io non so altro distinguere. Se vuol qualche cosa, me lo dica; se vuol divertirsi, io non ho tempo da perdere con vossignoria… CONTE Illustrissima.
GIANNINA E eccellentissima ancora se vuole. CONTE Venite qui. GIANNINA Son qui. CONTE Vi volete voi maritare? GIANNINA Signor sì. CONTE Brava, così mi piace. GIANNINA Oh io quel che ho in core ho in bocca. CONTE Volete che io vi mariti? GIANNINA Signor no. CONTE Come no? GIANNINA Come no? perché no. Perché per maritarmi non ho bisogno di lei. CONTE Non avete bisogno della mia protezione? GIANNINA No in verità, niente affatto. (ridendo dolcemente) CONTE Sapete voi quel che io posso in questo villaggio? GIANNINA Potrà tutto in questo villaggio, ma non può niente nel mio matrimonio. CONTE Non posso niente? GIANNINA Niente in verità, niente affatto. CONTE Voi siete innamorata in Crespino. GIANNINA Oh, per me ha dello spirito che mi basta. CONTE E lo preferite a quel galantuomo, a quell'uomo ricco, a quell'uomo di proposito di Coronato?
GIANNINA Oh, lo preferirei bene ad altri che a Coronato. CONTE Lo preferireste a degli altri? GIANNINA Se sapesse a chi lo preferirei! (ridendo, ed a moti si spiega per lui) CONTE E a chi lo preferireste? GIANNINA Cosa serve? non mi faccia parlare. CONTE No, perché sareste capace di dire qualche insolenza. GIANNINA Comanda altro da me? CONTE Orsù io proteggo vostro fratello, vostro fratello ha dato parola per voi a Coronato, e voi dovete maritarvi con Coronato. GIANNINA Vossignoria… CONTE Illustrissima. GIANNINA Vossignoria illustrissima protegge mio fratello? CONTE Così è, sono impegnato. GIANNINA E mio fratello ha dato parola a Coronato? CONTE Sicuramente. GIANNINA Oh, quando è così… CONTE E bene? GIANNINA Mio fratello sposerà Coronato. CONTE Giuro al Cielo, Crespino non lo sposarete. GIANNINA No? perché? CONTE Lo farò mandar via di questo villaggio.
GIANNINA Anderò a cercarlo dove sarà. CONTE Lo farò bastonare. GIANNINA Oh in questo ci penserà lui. CONTE Lo farò accoppare. GIANNINA Questo mi dispiacerebbe veramente. CONTE Cosa fareste s'egli fosse morto? GIANNINA Non so. CONTE Ne prendereste un altro? GIANNINA Potrebbe darsi di sì. CONTE Fate conto ch'egli sia morto. GIANNINA Signor non so né leggere, né scrivere, né far conti. CONTE Impertinente! GIANNINA Mi comanda altro? CONTE Andate al diavolo. GIANNINA M'insegni la strada. CONTE Giuro al cielo, se non foste una donna! GIANNINA Cosa mi farebbe? CONTE Andate via di qua. GIANNINA Subito l'obbedisco, e poi mi dirà ch'io non so le creanze. (s'incammina verso il palazzino) CONTE Creanze, creanze! Va via senza salutare. (sdegnato dietro a Giannina)
GIANNINA Oh, perdoni. Serva di vossignoria… CONTE Illustrissima. (sdegnato) GIANNINA Illustrissima. (ridendo corre nel palazzino) CONTE Rustica progenies nescit habere modum. (sdegnato) Non so cosa fare, se non vuol Coronato, io non la posso obbligare; non ha mancato da me. Cosa si è messo in capo colui di voler una moglie che non lo vuole! Mancano donne al mondo? Glie ne troverò una io. Una meglio di questa. Vedrà, vedrà l'effetto della mia protezione.
SCENA SETTIMA
GELTRUDA e CANDIDA fuori dalla bottega della merciaia, e detto. CONTE E così, signora Geltruda? GELTRUDA Signore, mia nipote è una giovane saggia e prudente. CONTE E così, alle corte. GELTRUDA Ma ella m'affatica in verità, signor Conte. CONTE Scusatemi; se sapeste quel ch'ho ato con una donna! è vero che un'altra donna… (Ma tutte donne!) E così cosa dice la saggia e prudente signora Candida? GELTRUDA Supposto che il signor Barone… CONTE Supposto, maledetti i vostri supposti! GELTRUDA Dato, concesso, assicurato, concluso, come comanda vossignoria. CONTE Illustrissima. (frà denti, da sé) GELTRUDA Signore. (domandandogli cosa ha detto) CONTE Niente niente, tirate innanzi. GELTRUDA Accordate le condizioni e le convenienze, mia nipote è contenta di sposare il signor Barone. CONTE Brava, bravissima. (a Candida) (Questa volta almeno ci sono riuscito). CANDIDA (Sì, per vendicarmi di quel perfido d'Evaristo). GELTRUDA (Non credeva, certo, ch'ella v'acconsentisse. Mi pareva impegnata in certo amoretto… ma mi sono ingannata).
SCENA OTTAVA
GIANNINA sulla terrazza, e detti. GIANNINA (Non c'è, non la trovo in nessun luogo). Oh, eccola lì. CONTE Così dunque la signora Candida sposerà il signor barone del Cedro. GIANNINA (Cosa sento? cosa risponderà?) GELTRUDA Ella lo farà quando le condizioni… (al Conte) CONTE Quali condizioni ci mettete voi? (a Candida) CANDIDA Nessuna, signore, lo sposerò in ogni modo. (al Conte) CONTE Viva la signora Candida, così mi piace. (Eh! quando mi meschio io negli affari, tutto va a meraviglia). (si pavoneggia) GIANNINA (Questa è una cosa terribile. Povero signor Evaristo! È inutile ch'io le dia il ventaglio).(via) GELTRUDA (Mi sono ingannata. Ella amava il Barone, ed io la credeva accesa del signor Evaristo). CONTE Se mi permette, vado a dare questa buona nuova al Barone, al mio caro amico, al mio caro collega. GELTRUDA E dov'è il signor Barone? CONTE Mi aspetta dallo speziale. Fate una cosa. Andate a casa; ed io ve lo conduco immediatamente. GELTRUDA Cosa dite nipote? CANDIDA Sì, parlerà con voi. (a Geltruda) CONTE E con voi. (a Candida)
CANDIDA Mi rimetto a quello che farà la signora zia. (Morirò, ma morirò vendicata). CONTE Vado subito. Aspettateci. Verremo da voi… Come l'ora è un poco avanzata non sarebbe male che gli offeriste di tenerlo a pranzo. GELTRUDA Oh per la prima volta! CONTE Eh queste sono delicatezze superflue. L'accetterà volentieri, mi impegno io, e per obbligarlo ci resterò ancor io. (parte, ed entra dallo speziale) GELTRUDA Andiamo ad attenderli adunque. (a Candida) CANDIDA Andiamo. (malenconica) GELTRUDA Che cosa avete? Lo fate voi di buon animo? (a Candida) CANDIDA Sì, di buon animo. (Ho data la mia parola, non vi è rimedio). GELTRUDA (Povera fanciulla, la compatisco. In questi casi, (s'incammina verso il palazzino) malgrado l'amore, si sente sempre un poco di confusione). (come sopra)
SCENA NONA
GIANNINA dal palazzino, e CANDIDA. GIANNINA Oh signora Candida. CANDIDA Cosa fate voi qui? (in collera) GIANNINA Veniva in traccia di lei… CANDIDA Andate via, e in casa nostra non ardite più di mettervi il piede. GIANNINA Come! A me quest'affronto? CANDIDA Che affronto! Siete un'indegna, e non deggio, e non posso più tollerarvi. (entra nel palazzino) GELTRUDA (È un poco troppo veramente). GIANNINA (Io resto di sasso!) Signora Geltruda… GELTRUDA Mi dispiace della mortificazione che avete provata, ma mia nipote è una giovane di giudizio, e se vi ha trattata male, avrà le sue ragioni per farlo. GIANNINA Che ragioni può avere? Mi maraviglio di lei. (forte) GELTRUDA Ehi portate rispetto. Non alzate la voce. GIANNINA Voglio andare a giustificarmi… (in atto di partire) GELTRUDA No no fermatevi. Ora non serve, lo farete poi. GIANNINA Ed io le dico che voglio andare adesso. (vuol andare) GELTRUDA Non ardirete di are per questa porta. (si mette sulla porta)
SCENA DECIMA
CONTE e BARONE dallo speciale, per andar al palazzino, e dette. CONTE Andiamo, andiamo. BARONE Ci verrò per forza. GELTRUDA Impertinente! (a Giannina; poi entra e chiude la porta nell'atto che si presentano il Conte ed il Barone, non veduti da lei) GIANNINA (arrabbiata s'allontana e smania) CONTE (resta senza parlare, guardando la porta) BARONE Come ci chiude la porta in faccia? CONTE In faccia? Non è possibile. BARONE Non è possibile? Non è possibile quel ch'è di fatto? GIANNINA A me un affronto? (da sé, eggiando e fremendo) CONTE Andiamo a battere, a vedere, a sentire. (al Barone) BARONE No, fermatevi, non ne vo' saper altro. Non voglio espormi a novelli insulti. Mi son servito di voi male a proposito. V'hanno deriso voi, ed hanno posto in ridicolo me per cagion vostra. CONTE Che maniera di parlare è codesta? (si scalda) BARONE E ne voglio soddisfazione. CONTE Da chi? BARONE Da voi.
CONTE Come? BARONE Colla spada alla mano. CONTE Colla spada? Sono vent'anni che sono in questo villaggio, e che non adopero più la spada. BARONE Colla pistola dunque. CONTE Sì, colle pistole. Anderò a prendere le mie pistole. (vuol partire) BARONE No, fermatevi. Eccone due. Una per voi e una per me. (le tira di saccoccia) GIANNINA Pistole? Ehi gente. Aiuto, pistole. Si ammazzano. (corre in casa) CONTE (imbarazzato)
SCENA UNDICESIMA
GELTRUDA sulla terrazza, e detti [poi LIMONCINO e TOGNINO]. GELTRUDA Signori miei, cos'è questa novità? CONTE Perché ci avete serrata la porta in faccia? (a Geltruda) GELTRUDA Io? Scusatemi. Non sono capace di un'azione villana con chi che sia. Molto meno con voi, e col signor Barone che si degna di favorir mia nipote. CONTE Sentite. (al Barone) BARONE Ma, signora mia nell'atto che volevamo venir da voi, ci è stata serrata la porta in faccia. GELTRUDA Vi protesto che non vi aveva veduti, ed ho serrato la porta per impedire che non entrasse quella scioccherella di Giannina. GIANNINA (mette fuori la testa con pausa dalla sua porta) Cos'è questa scioccarella? (caricando con disprezzo, e torna dentro) CONTE Zitto lì impertinente. (contro Giannina) GELTRUDA Se vogliono favorire darò ordine che sieno introdotti. (via) CONTE Sentite? (al Barone) BARONE Non ho niente che dire. CONTE Cosa volete fare di quelle pistole? BARONE Scusate la delicatezza d'onore… (mette via le pistole) CONTE E volete presentarvi a due donne colle pistole in saccoccia? BARONE Le porto in campagna per mia difesa.
CONTE Ma se lo sanno che abbiate quelle pistole: sapete cosa sono le donne, non vorranno che vi accostiate. BARONE Avete ragione. Vi ringrazio di avermi prevenuto, e per segno di buona amicizia, ve ne faccio un presente. (le torna a tirar fuori e gliele presenta) CONTE Un presente a me? (con timore) BARONE Sì, spero che non lo ricusarete. CONTE Le accetterò perché vengono dalle vostre mani. Sono cariche? BARONE Che domanda! Volete ch'io porti le pistole vuote? CONTE Aspettate. Ehi dal caffè. LIMONCINO (dalla bottega del caffè) Cosa mi comanda? CONTE Prendete queste pistole, e custoditele che le manderò a pigliare. LIMONCINO Sarà servito. (prende le pistole del Barone) CONTE Badate bene che sono cariche. LIMONCINO Eh ch'io le so maneggiare. (scherza con le pistole) CONTE Ehi, ehi non fate la bestia. (con timore) LIMONCINO (È valoroso il signor Conte). (via) CONTE Vi ringrazio, e ne terrò conto. (Dimani le venderò). TOGNINO (dal palazzino) Signori, la padrona li aspetta. CONTE Andiamo. BARONE Andiamo. CONTE Ah! che ne dite? Sono uomo io? Eh collega amatissimo. Noi altri titolati! La nostra protezione val qualche cosa. (s'incammina)
GIANNINA (di casa, pian piano, va dietro di loro per entrare. Il Conte ed il Barone entrano, introdotti da Tognino, che resta sulla porta. Giannina vorrebbe entrare, e Tognino la ferma) TOGNINO Voi non ci avete che fare. GIANNINA Signor sì, ci ho che fare. TOGNINO Ho ordine di non lasciarvi entrare. (entra e chiude la porta) GIANNINA Ho una rabbia a non potermi sfogare, che sento proprio che la bile mi affoga. (avanzandosi) A me un affronto? A una giovane della mia sorte? (smania per la scena)
SCENA DODICESIMA
EVARISTO di strada, collo schioppo in spalla, e MORACCHIO collo schioppo in mano, una sacchetta col salvatico, ed il cane attaccato alla corda; e detta [poi TOGNINO].
EVARISTO Tenete, portate il mio schioppo da voi. Custodite quelle pernici fino che io ne dispongo. Vi raccomando il cane. (siede al caffè, piglia tabacco e s'accomoda) MORACCHIO Non dubiti che sarà tutto ben custodito. (ad Evaristo) Il desinare è all'ordine? (a Giannina, avanzandosi) GIANNINA È all'ordine. MORACCHIO Cosa diavolo hai? Sei sempre in collera con tutto il mondo, e poi ti lamenti di me. GIANNINA Oh è vero. Siamo fratelli, non vi è niente che dire… MORACCHIO Via andiamo a desinare ch'è ora. (a Giannina) GIANNINA Sì sì va' avanti che poi verrò. (Voglio parlare col signor Evaristo). MORACCHIO Se vieni, vieni, se non vieni mangerò io. (entra in casa) GIANNINA Se ora mangiassi, mangerei del veleno. EVARISTO (Non si vede nessuno nella terrazza. Saranno a pranzo probabilmente. È meglio ch'io vada all'osteria. Il Barone mi aspetta). (si alza) Ebbene Giannina avete niente da dirmi? (vedendo Giannina) GIANNINA Oh sì signore ho qualche cosa da dirli. (bruscamente) EVARISTO Avete dato il ventaglio?
GIANNINA Eccolo qui il suo maladetto ventaglio. EVARISTO Che vuol dire? non avete potuto darlo? GIANNINA Ho ricevuto mille insulti, mille impertinenze, e mi hanno cacciato di casa come una briccona. EVARISTO Si è forse accorta la signora Geltruda? GIANNINA Eh, non è stata solamente la signora Geltruda. Le maggiori impertinenze me l'ha dette la signora Candida. EVARISTO Perché? Cosa li avete fatto? GIANNINA Io non le ho fatto niente, signore. EVARISTO Le avete detto che avevate un ventaglio per lei? GIANNINA Come poteva dirglielo, se non mi ha dato tempo, e mi hanno scacciata come una ladra? EVARISTO Ma ci deve esser il suo perché. GIANNINA Per me so di non averle fatto niente. E tutto questo maltrattamento son certa, son sicura che me lo ha fatto per causa vostra. EVARISTO Per causa mia? La signora Candida che mi ama tanto? GIANNINA Vi ama tanto la signora Candida? EVARISTO Non vi è dubbio, ne son sicurissimo. GIANNINA Oh sì vi assicuro anch'io che vi ama bene, bene, ma bene. EVARISTO Voi mi mettete in una agitazione terribile. GIANNINA Andate, andate a ritrovare la vostra bella, la vostra cara. EVARISTO E perché non vi posso andare? GIANNINA Perché il posto è preso.
EVARISTO Da chi? (affannato) GIANNINA Dal signor barone del Cedro. EVARISTO Il Barone è in casa? (con meraviglia) GIANNINA Che difficoltà c'è che sia in casa, se è lo sposo della signora Candida? EVARISTO Giannina, voi sognate, voi delirate, voi non fate che dire degli spropositi. GIANNINA Non mi credete, andate a vedere, e saprete, s'io dico la verità. EVARISTO In casa della signora Geltruda… GIANNINA E della signora Candida. EVARISTO Vi è il Barone? GIANNINA Del Cedro… EVARISTO Sposo della signora Candida… GIANNINA L'ho veduto con questi occhi, e sentito con queste orecchie. EVARISTO Non può stare, non può essere, voi dite delle bestialità. GIANNINA Andate, vedete, sentite, e vedrete s'io dico delle bestialità. (cantando) EVARISTO Subito immediatamente. (corre al palazzino e batte) GIANNINA Povero sciocco! Si fida dell'amore d'una giovane di città! Non sono come noi no, le cittadine. (Evaristo freme, e poi torna a battere) TOGNINO (apre, e si fa vedere sulla porta) EVARISTO E bene!
TOGNINO Perdoni, io non posso introdur nessuno. EVARISTO Avete detto che sono io? TOGNINO L'ho detto. EVARISTO Alla signora Candida? TOGNINO Alla signora Candida. EVARISTO E la signora Geltruda non vuole ch'io entri? TOGNINO Anzi la signora Geltruda aveva detto di lasciarla entrare, e la signora Candida non ha voluto. EVARISTO Non ha voluto? Ah, giuro al Cielo! Entrerò. (vuol sforzare e Tognino gli serra la porta in faccia) GIANNINA Ah! cosa le ho detto io? EVARISTO Son fuor di me. Non so in che mondo mi sia. Chiudermi la porta in faccia? GIANNINA Oh, non si maravigli. L'hanno fatto anche a me questo bel trattamento. EVARISTO Com'è possibile che Candida m'abbia potuto ingannare? GIANNINA Quel ch'è di fatto non si può mettere in dubbio. EVARISTO Ancora non lo credo, non lo posso credere, non lo crederò mai. GIANNINA Non lo crede? EVARISTO No, vi sarà qualche equivoco, qualche mistero, conosco il cuore di Candida; non è capace. GIANNINA Bene. Si consoli così. Speri, e se la goda che buon pro le faccia. EVARISTO Voglio parlar con Candida assolutamente.
GIANNINA Se non l'ha voluto ricevere! EVARISTO Non importa. Vi sarà qualche altra ragione. Andrò in casa del caffettiere. Mi basta di vederla, di sentire una parola da lei. Mi basta un cenno per assicurarmi della mia vita, o della mia morte. GIANNINA Tenga.
SCENA TREDICESIMA
CORONATO e SCAVEZZO vengono da dove sono andati. SCAVEZZO va dirittura all'osteria, CORONATO resta in disparte ad ascoltare; e detti [poi CRESPINO.] EVARISTO Cosa volete darmi? GIANNINA Il ventaglio. EVARISTO Tenetelo, non mi tormentate. GIANNINA Me lo dona il ventaglio? EVARISTO Sì tenetelo, ve lo dono. (Son fuor di me stesso). GIANNINA Quand'è così, la ringrazio. CORONATO (Oh oh, ora ho saputo cos'è il regalo. Un ventaglio). (senza esser veduto entra nell'osteria) EVARISTO Ma se Candida non si lascia da me vedere, se per avventura non si affaccia alle sue finestre, se vedendomi ricusa di ascoltarmi, se la zia glielo vieta, sono in un mare di agitazioni, di confusioni. CRESPINO (con un sacco di curame e scarpe ecc. va per andare alla sua bottega, vede li due, si ferma ad ascoltare) GIANNINA Caro signor Evaristo ella mi fa pietà, mi fa comione. EVARISTO Sì, Giannina mia lo merito veramente. GIANNINA Un signore sì buono, sì amabile, sì cortese! EVARISTO Voi conoscete il mio core, voi siete testimonio dell'amor mio.
CRESPINO (Buono, sono arrivato a tempo). (col sacco in spalla) GIANNINA In verità, se sapessi io la maniera di consolarlo! CRESPINO (Brava!) EVARISTO Sì ad ogni costo voglio tentar la mia sorte. Non voglio potermi rimproverare di aver trascurato di sincerarmi. Vado al caffè, Giannina, vado e vi vado tremando. Conservatemi l'amor vostro, e la vostra bontà. (la prende per mano, ed entra nel caffè) GIANNINA Da una parte mi fa ridere, dall'altra mi fa comione. CRESPINO (mette qui il sacco, tira fuori le scarpe ecc., le mette sul banchetto e in bottega, senza dir niente) GIANNINA Oh, ecco Crespino. Ben ritornato. Dove siete stato sin ora? CRESPINO Non vedete? A comprare del cuoio, e a prendere delle scarpe d'accomodare. GIANNINA Ma voi non fate che accomodar delle scarpe vecchie. Non vorrei che dicessero… Sapete che non vi sono che delle male lingue. CRESPINO Eh le male lingue avranno da divertirsi più sopra di voi che sopra di me. (lavorando) GIANNINA Sopra di me? che cosa possono dire di me? CRESPINO Cosa m'importa che dicano, ch'io faccio più il ciabattino che il calzolaro? Mi basta d'essere un galantuomo, e di guadagnarmi il pane onoratamente. (lavorando) GIANNINA Ma io non vorrei mi dicessero la ciabattina. CRESPINO Quando? GIANNINA Quando sarò vostra moglie. CRESPINO Eh!
GIANNINA Eh! cosa questo eh? cosa vuol dir questo eh? CRESPINO Vuol dire che la signora Giannina non sarà né ciabattina, né calzolaia, ch'ella ha delle idee vaste e grandiose. GIANNINA Siete pazzo, o avete bevuto questa mattina? CRESPINO Non son pazzo, non ho bevuto, ma non sono né orbo, né sordo. GIANNINA E che diavolo volete dire? Spiegatevi, se volete ch'io vi capisca. CRESPINO Vuol che mi spieghi? Mi spiegherò. Credete ch'io non abbia sentito le belle parole col signor Evaristo? GIANNINA Col signor Evaristo? CRESPINO Sì Giannina mia… voi conoscete il mio core… voi siete testimonio dell'amor mio. (contrafacendo Evaristo) GIANNINA Oh matto! (ridendo) CRESPINO In verità se sapessi la maniera di consolarlo! (contrafacendo Giannina) GIANNINA Oh matto! (come sopra) CRESPINO Giannina conservatemi l'amor vostro e la vostra bontà. (contrafacendo Evaristo) GIANNINA Matto, e poi matto. (come sopra) CRESPINO Io matto? GIANNINA Sì, voi, voi, matto, stramatto, e di là di matto. CRESPINO Corpo del diavolo non ho veduto io? Non ho sentito la bella conversazione col signor Evaristo? GIANNINA Matto. CRESPINO E quello che gli avete risposto?
GIANNINA Matto. CRESPINO Giannina finite con questo matto che farò da matto da vero. (minacciando) GIANNINA Ehi ehi! (con serietà, poi cangia tuono) Ma credete voi che il signor Evaristo abbia della premura per me? CRESPINO Non so niente. GIANNINA E ch'io sia così bestia per averne per lui? CRESPINO Non so niente. GIANNINA Venite qua, sentite. (dice presto presto) Il signor Evaristo è amante della signora Candida, e la signora Candida lo ha burlato, e vuol sposare il signor Barone. E il signor Evaristo è disperato, è venuto a sfogarsi meco, ed io lo comionava per burlarmi di lui, ed egli si consolava con me. Avete capito? CRESPINO Né anche una parola. GIANNINA Siete persuaso della mia innocenza? CRESPINO Non troppo. GIANNINA Quando è così, andate al diavolo. Coronato mi brama, Coronato mi cerca. Mio fratello gli ha dato parola. Il signor Conte mi stimola, mi prega. Sposerò Coronato. (presto) CRESPINO Adagio, adagio. Non andate subito sulle furie. Posso assicurarmi che dite la verità? Che non avete niente a che fare col signor Evaristo? GIANNINA E non volete che vi dica matto? Caro il mio Crespino che vi voglio tanto bene che siete l'anima mia, il mio caro coccolo, il mio caro sposino. (accarezzandolo) CRESPINO E cosa vi ha donato il signor Evaristo? (dolcementei) GIANNINA Niente. CRESPINO Niente sicuro? niente?
GIANNINA Quando vi dico niente, niente. (Non voglio che sappia del ventaglio che subito sospetterebbe). CRESPINO Posso esser certo? GIANNINA Ma via non mi tormentate. CRESPINO Mi volete bene? GIANNINA Sì vi voglio bene. CRESPINO Via facciamo la pace. (le tocca la mano) GIANNINA Matto. (ridendo) CRESPINO Ma perché matto? (ridendo) GIANNINA Perché siete un matto.
SCENA QUATTORDICESIMA
CORONATO ch'esce dall'osteria, e detti. CORONATO Finalmente ho saputo il regalo che ha avuto la signora Giannina. GIANNINA Cosa c'entrate con me voi? CRESPINO Da chi ha avuto un regalo? (a Coronato) CORONATO Dal signor Evaristo. GIANNINA Non è vero niente. CRESPINO Non è vero niente? CORONATO Sì sì, e so che regalo è. (a Giannina) GIANNINA Sia quel ch'esser si voglia, a voi non deve importare, io amo Crespino, e sarò moglie del mio Crespino. CRESPINO E bene che regalo è? (a Coronato) CORONATO Un ventaglio. CRESPINO Un ventaglio? (a Giannina, in collera) GIANNINA (Maladetto colui). CRESPINO Avete ricevuto un ventaglio? (a Giannina) GIANNINA Non è vero niente. CORONATO Tanto è vero che lo avete ancora in saccoccia. CRESPINO Voglio veder quel ventaglio. GIANNINA Signor no. (a Crespino)
CORONATO Troverò io la maniera di farvelo metter fuori. GIANNINA Siete un impertinente.
SCENA QUINDICESIMA
MORACCHIO di casa colla salvietta, e mangiando; e detti. MORACCHIO Cos'è questo baccanale? CORONATO Vostra sorella ha avuto un ventaglio in regalo, lo ha in saccoccia, e nega di averlo. MORACCHIO A me quel ventaglio. (a Giannina con comando) GIANNINA Lasciatemi stare. (a Moracchio) MORACCHIO Dammi quel ventaglio che giuro al Cielo… (minacciandola) GIANNINA Maladetto! Eccolo qui. (lo fa vedere) CRESPINO A me, a me. (lo vorrebbe prendere) CORONATO Lo voglio io.(con collera lo vuole prendere) GIANNINA Lasciatemi stare, maladetti. MORACCHIO Presto, da' qui che lo voglio io. GIANNINA Signor no. (a Moracchio) Piuttosto lo voglio dare a Crespino. MORACCHIO Da' qui dico. GIANNINA A Crespino. (dà il ventaglio a Crespino, e corre in casa) CORONATO Date qui. MORACCHIO Date qui. CRESPINO Non l'avrete. (tutti due attorno a Crespino per averlo, egli fugge via per le quinte, e loro appresso
SCENA SEDICESIMA
CONTE sulla terrazza, TIMOTEO alla balconata [poi il BARONE e detti]. CONTE Ehi, signor Timoteo. (forte con premura) TIMOTEO Cosa comanda? CONTE Presto, presto, portate dei spiriti, dei cordiali. È venuto male alla signora Candida. TIMOTEO Subito vengo. (entra in bottega) CONTE Che diavolo ha avuto a quella finestra? Bisogna che nel giardino del caffettiere vi siano delle piante avvelenate. (entra) CRESPINO (traversa il teatro, e va dall'altra parte correndo) CORONATO e MORACCHIO (gli corrono dietro senza dir niente, e tutti via) BARONE (dal palazzo va a sollecitare lo speziale) Animo presto signor Timoteo TIMOTEO (dalla speziaria con una sottocoppa di varie boccette) Eccomi, eccomi. BARONE Presto che vi è bisogno di voi. (corre nel palazzino) TIMOTEO Son qui, son qui. (va per entrare) (Crespino, Coronato, Moracchio da un'altra quinta corrono come sopra. Urtano Timoteo, e lo fanno cadere con tutte le sue boccette, che si fracassano. Crespino casca e perde il ventaglio. Coronato lo prende e lo porta via. Timoteo si alza e torna in bottega) CORONATO Eccolo, eccolo lo ho avuto io. (a Moracchio) MORACCHIO Ci ho gusto, tenetelo voi. Giannina mi renderà conto da chi l'ha
avuto. (entra in casa) CORONATO Intanto gliel'ho fatta vedere, l'ho avuto io. (entra nell'osteria) CRESPINO Oh maladetti! Mi hanno stroppiato. Ma pazienza. Mi dispiace più che Coronato abbia avuto il ventaglio. Pagherei sei para di scarpe a poterlo ricuperare, per farlo in pezzi… Per farlo in pezzi? Perché? Perché è un regalo fatto alla mia amorosa? Eh pazzie pazzie: Giannina è una buona ragazza, le voglio bene, e non bisogna esser così delicati. (zoppicando entra in bottega)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Muta sino alla sortita del CONTE e del BARONE. — CRESPINO esce dalla bottega con del pane, del formaggio, un piatto con qualche cosa da mangiare, ed un boccale vuoto. Si fa luogo al suo banchetto per desinare. TOGNINO dal palazzino con la scopa in mano corre alla speziaria ed entra. Crespino si mette a tagliare il pane, sempre senza parlare. CORONATO dall'osteria con SCAVEZZO, che porta una barila in spalla, simile a quella che ha portato al Conte. Coronato a davanti a Crespino, lo guarda e ride, Crespino lo guarda e freme. Coronato ridendo a oltre, e va per la stessa scena ove ha portato la prima barila. Crespino guarda dietro a Coronato che parte e, quando non lo vede più, seguita le sue faccende. Tognino, dalla speziaria, viene a spazzare i vetri delle caraffe rotte. TIMOTEO, correndo dalla speziaria, a al palazzino con sottocoppe e caraffe, ed entra. Tognino spazza, Crespino prende il suo boccale e va pian piano e malenconico all'osteria, ed entra. Tognino spazza. SUSANNA esce di bottega, accomoda la sua mostra, poi si mette a sedere e lavorare. Tognino va in casa, e serra la porta. Crespino esce dall'osteria col boccale pieno di vino, e ridendo guarda il ventaglio che ha sotto la gabbana, per consolarsi da sé, ma per farlo vedere al popolo; e va al suo banchetto e mette il boccale in terra. GIANNINA esce di casa, siede e si mette a filare. Crespino si mette a sedere; fa vedere a tirar fuori il ventaglio, e lo nasconde ridendo sotto il curame, e si mette a mangiare. Coronato solo torna dalla stessa strada. a davanti a Crespino e ride. Crespino mangia e ride. Coronato alla porta dell'osteria mangia, ride ed entra. Crespino tira fuori il ventaglio, lo guarda e ride, poi lo rimette, poi seguita a mangiare e bere (Qui termina la scena muta). — Il CONTE e il BARONE escono dal palazzo. CONTE No, amico, scusatemi, non vi potete doler di niente. BARONE Vi assicuro che non ho nemmeno ragione di lodarmi. CONTE Se la signora Candida si è trovata male, è un accidente, vi vuol pazienza. Sapete che le donne sono soggette ai vapori, agli affetti sterili. BARONE Sterili? Isterici vorrete dire… CONTE Sì, isterici, isterici come volete. In somma, se non vi ha fatto tutta
l'accoglienza, non è colpa sua, è colpa della malattia. BARONE Ma quando siamo entrati, non era ammalata, e appena mi ha veduto si è ritirata nella sua camera. CONTE Perché si sentiva il cominciamento del male. BARONE Avete osservato la signora Geltruda, quando è sortita dalla camera della nipote, con che premura, con che ammirazione leggeva alcuni fogli che parevano de' viglietti? CONTE È una donna che ha degli affari assai. Saranno viglietti arrivati allora di fresco. BARONE No, erano viglietti vecchi. Ci scommetto, ch'è qualche cosa che ha trovato o sul tavolino, o indosso della signora Candida. CONTE Siete curioso, collega mio, siete caro, siete particolare. Cosa vi andate voi immaginando? BARONE M'immagino quel che potrebbe essere. Ho sospetto che vi sia dell'intelligenza fra la signora Candida, ed Evaristo. CONTE Oh non vi è dubbio. Se fosse così lo saprei. Io so tutto. Non si fa niente nel villaggio che io non sappia. E poi se fosse quello che dite voi, credete ch'ella avrebbe acconsentito alla vostra proposizione? Ch'ella avrebbe ardito di compromettere la mediazione di un cavaliere della mia sorte? BARONE Questa è una buona ragione. Ella ha detto di sì senza farsi pregare. Ma la signora Geltruda dopo la lettura di quei viglietti, non mi ha fatte più le gentilezze di prima, anzi in certo modo ha mostrato piacere che ce ne andiamo. CONTE Vi dirò. Tutto quello, di cui si possiamo dolere della signora Geltruda si è, ch'ella non ci abbia proposto di restar a pranzo da lei. BARONE Per questo non mi fa spezie. CONTE Le ho dato io qualche tocco, ma ha mostrato di non intendere. BARONE Vi assicuro, ch'ella aveva gran volontà che le si levasse l'incomodo.
CONTE Mi dispiace per voi… Dove pranzate oggi? BARONE Ho ordinato all'oste il desinare per due. CONTE Per due? BARONE Aspetto Evaristo ch'è andato alla caccia. CONTE Se volete venire a pranzo da me… BARONE Da voi? CONTE Ma il mio palazzo è mezzo miglio lontano. BARONE Vi ringrazio, perché il pranzo è di già ordinato. Ehi dall'osteria. Coronato.
SCENA SECONDA
CORONATO dall'osteria, e detti. CORONATO Mi comandi. BARONE È venuto il signor Evaristo? CORONATO Non l'ho ancora veduto, signore. Mi dispiace che il pranzo è all'ordine, e che la robba patisce. CONTE Evaristo è capace di divertirsi alla caccia fin sera, e farvi star senza pranzo. BARONE Cosa volete che io faccia? Ho promesso aspettarlo. CONTE Aspettarlo, va bene fino ad un certo segno. Ma caro amico, non siete fatto per aspettare un uomo di una condizione inferiore alla vostra. Accordo la civiltà, l'umanità, ma, collega amatissimo, sosteniamo il decoro. BARONE Quasi quasi vi pregherei di venir a occupare il posto del signor Evaristo. CONTE Se non volete aspettare, e se vi rincresce di mangiar solo, venite da me, e mangeremo quello che ci sarà. BARONE No caro Conte fatemi il piacere di venir con me. Mettiamoci a tavola, e se Evaristo non ha discrezione a suo danno. CONTE Che impari la civiltà. (contento) BARONE Ordinate che diano in tavola. (a Coronato) CORONATO Subito resti servita. (Avanzerà poco per la cucina). BARONE Andrò a vedere che cosa ci hanno preparato da pranzo. (entra) CONTE Avete portato l'altro barile di vino? (a Coronato)
CORONATO Signor sì l'ho mandato. CONTE L'avete mandato? Senz'accompagnarlo? Mi faranno qualche baronata. CORONATO Le dirò, ho accompagnato il garzone fino alla punta dello stradone, ho incontrato il suo uomo… CONTE Il mio fattore? CORONATO Signor no. CONTE Il mio cameriere? CORONATO Signor no. CONTE Il mio lacchè? CORONATO Signor no. CONTE E chi dunque? CORONATO Quell'uomo che sta con lei che va a vendere i frutti, l'insalata, gli erbaggi… CONTE Come! quello… CORONATO Tutto quel che comanda. L'ho incontrato, gli ho fatto veder il barile, ed egli ha accompagnato il garzone. CONTE (Diavolo! colui che non vede mai vino è capace di bevere la metà del barile). (vuol entrare) CORONATO Favorisca. CONTE Cosa c'è? (brusco) CORONATO Ha parlato per me a Giannina? CONTE Sì, l'ho fatto. CORONATO Cosa ha detto?
CONTE Va bene, va bene. (imbarazzato) CORONATO Va bene? CONTE Parleremo, parleremo poi. (in atto di entrare) CORONATO Mi dica qualche cosa. CONTE Andiamo, andiamo che non voglio far aspettare il Barone. (entra) CORONATO (Ci ho buona speranza… È un uomo che quando vi si mette… qualche volta ci riesce). Giannina. (amoroso e brusco) GIANNINA (fila e non risponde) CORONATO Almeno lasciatevi salutare. GIANNINA Fareste meglio a rendermi il mio ventaglio. (senza guardar, e filando) CORONATO Sì… (Uh, a proposito mi ho scordato il ventaglio in cantina!) Sì sì, parlaremo poi del ventaglio. (Non vorrei che qualcheduno lo portasse via). (entra) CRESPINO (ride forte) SUSANNA Avete il cuor contento signor Crespino, ridete molto di gusto. CRESPINO Rido perché ho la mia ragione di ridere. GIANNINA Voi ridete, ed io mi sento rodere dalla rabbia. (a Crespino) CRESPINO Rabbia? E di che avete rabbia? GIANNINA Che quel ventaglio sia nelle mani di Coronato. CRESPINO Sì, è nelle mani di Coronato. (ridendo) GIANNINA E per che cosa ridete? CRESPINO Rido perché è nelle mani di Coronato. (si alza, prende gl'avanzi del
desinare, ed entra in bottega) GIANNINA È un ridere veramente da sciocco. SUSANNA Non credeva che il mio ventaglio avesse da are per tante mani. (lavorando) GIANNINA Il vostro ventaglio? (voltandosi con dispetto) SUSANNA Sì, dico il mio ventaglio, perché è sortito dalla mia bottega. GIANNINA M'immagino che ve l'avranno pagato. SUSANNA Ci s'intende. Senza di questo non l'avrebbero avuto. GIANNINA E l'avranno anche pagato il doppio di quel che vale. SUSANNA Non è vero, e se fosse anche vero, cosa v'importa? Per quello che vi costa lo potete prendere. GIANNINA Cosa sapete voi quello che mi costi? SUSANNA Oh se vi costa poi qualche cosa… non so niente io… Se chi ve l'ha dato ha delle obbligazioni… (con flemma caricata, satirica) GIANNINA Che obbligazioni? Cosa parlate d'obbligazioni? Mi maraviglio de' fatti vostri. (balza in piedi) SUSANNA Ehi, ehi non crediate di farmi paura. CRESPINO (dalla bottega) Cosa c'è? Sempre strepiti, sempre gridori. GIANNINA (Ho una volontà di rompere questa rocca). (siede e fila) SUSANNA Non fa che pungere, e non vuol che si parli. CRESPINO Siete in collera Giannina? (siede e si mette a lavorare) GIANNINA Io in collera? Non vado mai in collera io. (filando) SUSANNA Oh ella è pacifica, non si altera mai. (ironica)
GIANNINA Mai, quando non mi tirano per li capelli, quando non mi dicono delle impertinenze, quando non pretendono di calpestarmi. (in modo che Susanna senta) SUSANNA (mena la testa, e brontola da sé) CRESPINO Sono io che vi maltratta che vi calpesta? (lavorando) GIANNINA Io non parlo per voi. (filando con dispetto) SUSANNA No non parla per voi, parla per me. (burlandosi) CRESPINO Gran cosa! In questo recinto di quattro case non si può stare un momento in pace. GIANNINA Quando vi sono delle male lingue… CRESPINO Tacete, ch'è vergogna… SUSANNA Insulta, e poi non vuol che si parli. GIANNINA Parlo con ragione, e con fondamento. SUSANNA Oh è meglio, ch'io taccia, ch'io non dica niente. GIANNINA Certo, ch'è meglio tacere che dire delle scioccherie. CRESPINO E vuol esser l'ultima. GIANNINA Oh sì anche in fondo d'un pozzo. TIMOTEO (dal palazzino,con sottocoppa e caraffe) GIANNINA Chi mi vuole mi prenda, e chi non mi vuole mi lasci. CRESPINO Zitto, zitto non vi fate sentire. TIMOTEO (In questa casa non ci vado più. Che colpa ci ho io, se queste acque non vagliano niente? Io non posso dare che di quello che ho. In una campagna pretenderebbero di ritrovare le delizie della città. E poi cosa sono i spiriti, gli elisiri, le quintessenze? Ciarlatanate. Questi sono i cardini della medicina: acqua,
china e mercurio). (entra nella speziaria) CRESPINO Bisogna che ci sia qualcheduno d'ammalato in casa della signora Geltruda. (verso Giannina) GIANNINA Sì quella cara gioia della signora Candida.(con disprezzo) SUSANNA Povera signora Candida! (forte) CRESPINO Che male ha? GIANNINA Che so io che male abbia! Pazzia. SUSANNA Eh, so io che male ha la signora Candida. CRESPINO Che male ha? (a Susanna) SUSANNA Dovrebbe saperlo anche la signora Giannina. (caricata) GIANNINA Io? Cosa c'entro io? SUSANNA Sì, perché è ammalata per causa vostra. GIANNINA Per causa mia? (balza in piedi) SUSANNA Già con voi non si può parlare. CRESPINO Vorrei ben sapere, come va quest'imbroglio. (si alza) GIANNINA Non siete capace che di dire delle bestialità. (a Susanna) SUSANNA Via, via la non si scaldi. CRESPINO Lasciatela dire. (a Giannina) GIANNINA Con qual fondamento potete dirlo? (a Susanna) SUSANNA Non parliamo altro. GIANNINA No, no parlate.
SUSANNA No Giannina non mi obbligate a parlare. GIANNINA Se siete una donna d'onore parlate. SUSANNA Oh quando è così, parlerò. CRESPINO Zitto zitto, viene la signora Geltruda, non facciamo scene dinnanzi a lei. (si ritira al lavoro) GIANNINA Oh, voglio che mi renda ragione di quel che ha detto. (da sé, camminando verso la sua causa) SUSANNA (Vuol che si parli? Sì parlerò). (siede e lavora) CRESPINO (Se posso venire in chiaro di quest'affare…) (siede e lavora)
SCENA TERZA
GELTRUDA dal palazzino, e li suddetti. GELTRUDA Dite voi. È ritornato vostro fratello? (a Giannina, con gravità) GIANNINA Signora sì. (con malagrazia, e camminando verso casa sua) GELTRUDA Sarà tornato anche il signor Evaristo. (come sopra) GIANNINA Signora sì. (come sopra) GELTRUDA Sapete dove sia il signor Evaristo? (a Giannina) GIANNINA Non so niente. (con dispetto) Serva sua. (entra in casa) GELTRUDA (Che maniera gentile!) Crespino. CRESPINO Signora. (si alza) GELTRUDA Sapete voi dove si trovi il signor Evaristo? CRESPINO No signora, in verità non lo so. GELTRUDA Fatemi il piacere di andare a vedere se fosse nell'osteria. CRESPINO La servo subito. (va nell'osteria) SUSANNA Signora Geltruda. (sottovoce) GELTRUDA Che volete? SUSANNA Una parola. (si alza) GELTRUDA Sapete niente voi del signor Evaristo? SUSANNA Eh signora mia so delle cose assai. Avrei delle cose grandi da dirle.
GELTRUDA Oh Cieli! Ho delle cose anch'io che m'inquietano. Ho veduto delle lettere che mi hanno sorpreso. Ditemi, illuminatemi, ve ne prego. SUSANNA Ma qui in pubblico?… Si ha da fare con delle teste senza ragione… Se vuole ch'io venga da lei… GELTRUDA Vorrei prima vedere il signor Evaristo. SUSANNA O se vuol venire da me… GELTRUDA Piuttosto. Ma aspettiamo Crespino. SUSANNA Eccolo. CRESPINO (dall'osteria) GELTRUDA E così? CRESPINO Non c'è, signora. L'aspettavano a pranzo, e non è venuto. GELTRUDA Eppure dalla caccia dovrebbe essere ritornato. CRESPINO Oh, è ritornato sicuramente. L'ho veduto io. GELTRUDA Dove mai può essere? SUSANNA Al caffè non c'è. (guarda in bottega) CRESPINO Dallo speziale nemmeno. (guarda dallo speziale) GELTRUDA Vedete un poco. Il villaggio non è assai grande, vedete, se lo ritrovate. CRESPINO Vado subito per servirla. GELTRUDA Se lo trovate, ditegli che mi preme parlargli, e che l'aspetto qui in casa della merciaia. (a Crespino) CRESPINO Sarà servita. (s'incammina) GELTRUDA Andiamo, ho ansiosità di sentire. (entra in bottega)
SUSANNA Vada, vada; sentirà delle belle cose. (entra) CRESPINO Vi sono degl'imbrogli con questo signor Evaristo. E quel ventaglio… Ho piacere di averlo io nelle mani. Coronato si è accorto che gli è stato portato via… Manco male che non sospetta di me. Nessuno gli avrà detto che sono stato a comprar del vino. Sono andato a tempo. Chi mai mi avrebbe detto che io avrei trovato il ventaglio sopra una botte? Sono casi che si danno, accidenti che accadono. Sciocco! lasciar il ventaglio sopra una botte! Il garzone tirava il vino, ed io prendilo, e mettilo via. E Coronato ha la debolezza di domandar a me se l'ho veduto, se ne so niente! Sono pazzo io a dirgli che l'ho preso io? Acciò vada dicendo che sono andato a posta, che ho rubato… È capace di dirlo. Oh è così briccone, ch'è capace di dirlo. Ma dove ho d'andar io per trovar il signor Evaristo? Dal Conte no, perché è all'osteria che lavora di gusto. (dà cenno che mangia) Basta cercherò nelle case buone. Sono sei, o sette, lo troverò. Mi dispiace che sono ancora all'oscuro di quel che ha detto Susanna. Ma le parlerò. Oh se trovo Giannina in difetto, se la trovo colpevole!… Cosa farò? L'abbandonerò? Eh poco più, poco meno. Le voglio bene. Cosa mai sarà? (va per partire)
SCENA QUARTA
LIMONCINO dal caffè, e detto [poi CORONATO]. CRESPINO Oh, mi sapreste dire dove sia il signor Evaristo? LIMONCINO Io? Cosa sono? Il suo servitore? CRESPINO Gran cosa veramente! non potrebbe esser nella vostra bottega? LIMONCINO Se ci fosse lo vedreste. (si avanza) CRESPINO Limoncino del diavolo. LIMONCINO Cos'è questo Limoncino? CRESPINO Vieni vieni a farti rappezzare le scarpe. (via) LIMONCINO Birbante! Subito anderò a dirgli che il signor Evaristo è nel nostro giardino. Ora ch'è in giubilo, in consolazione, non ha bisogno di essere disturbato. Ehi dall'osteria. (chiama) CORONATO (alla porta) Cosa c'è? LIMONCINO Ha mandato a dire il signor Evaristo che dite al signor Barone che desini, e non l'aspetti, perché è impegnato, e non può venire. CORONATO Ditegli che l'ambasciata è arrivata tardi, e che il signor Barone ha quasi finito di pranzare. LIMONCINO Bene, bene, glie lo dirò quando lo vedrò. (va per partire) CORONATO Dite quel giovane. LIMONCINO Comandate. CORONATO A caso, avreste sentito a dire che qualcheduno avesse ritrovato un ventaglio?
LIMONCINO Io no. CORONATO Se mai sentiste a parlare, vi prego farmi avvisato. LIMONCINO Signor sì, volentieri. L'avete perduto voi? CORONATO L'aveva io. Non so come diavolo si sia perduto. Qualche briccone l'ha portato via, e quei stolidi de' miei garzoni non sanno nemmeno chi sia stato a prender del vino. Ma se lo scopro! Se lo scopro! Mi raccomando a voi. (entra) LIMONCINO Dal canto mio farò il possibile. (s'incammina)
SCENA QUINTA
Il CONTE alla finestra dell'osteria, e LIMONCINO [poi GIANNINA]. CONTE Ho sentito la voce di Limoncino. Ehi quel giovane. (forte) LIMONCINO Signore. (si volta) CONTE Portateci due buoni caffè. LIMONCINO Per chi, illustrissimo? CONTE Per me. LIMONCINO Tutti due per lei? CONTE Uno per me, ed uno per il Barone del Cedro. LIMONCINO Sarà servita. CONTE Subito, e fatto a posta. (entra) LIMONCINO (Ora che so che vi è il Barone che paga, glieli porterò). (s'incammina) GIANNINA (di casa, senza la rocca) Ehi Limoncino. LIMONCINO Anche voi volete seccarmi con questo nome di Limoncino? GIANNINA Via via non andate in collera. Non vi ho detto né rava, né zucca, né cocomero, né melenzana. LIMONCINO Ne avete ancora? GIANNINA Venite qui, ditemi: il signor Evaristo e ancor là? LIMONCINO Dove là?
GIANNINA Da voi. LIMONCINO Da noi? GIANNINA Sì da voi. (si scalda un poco) LIMONCINO La bottega è lì, se ci fosse lo vedreste. GIANNINA Puh! nel giardino. LIMONCINO Puh! non so niente. (via, ed entra in bottega) GIANNINA Pezzo d'animalaccio! Se avessi la rocca gliela scavezzerei sul collo. E poi dicono ch'io son cattiva. Tutti mi strapazzano; tutti mi maltrattano. Quelle signore di là, questa sguaiata di qua, Moracchio, Coronato, Crespino… Uh maledetti quanti che siete.
SCENA SESTA
EVARISTO dal caffè. Correndo con allegria, e detta [poi CORONATO] EVARISTO Oh eccola, eccola. Son fortunato. (a Giannina) GIANNINA Ih! ih! Cosa vuol dir quest'allegria? EVARISTO Oh Giannina, sono l'uomo il più felice, il più contento del mondo. GIANNINA Bravo, me ne consolo. Spero che mi farete dare soddisfazione delle impertinenze che m'hanno detto. EVARISTO Sì tutto quel volete. Sappiate, Giannina mia che voi eravate presa in sospetto. La signora Candida ha saputo ch'io aveva dato il ventaglio, credeva che lo avessi comprato per voi, era gelosa di me, era gelosa di voi. GIANNINA Era gelosa di me? EVARISTO Sì, certo. GIANNINA Ah che ti venga la rabbia! (verso il palazzino) EVARISTO Si voleva maritar con altri per sdegno, per vendetta, per disperazione. Mi ha veduto, è caduta, è svenuta. Sono stato un pezzo senza più poterla vedere. Finalmente per sorte, per fortuna sua zia è sortita di casa. Candida è discesa nel suo giardino; ho rotto la siepe, ho saltato il muro, mi son gettato a' suoi piedi; ho pianto, ho pregato, l'ho sincerata, l'ho vinta, è mia, è mia, non vi è più da temere. (con giubilo, e affannoso) GIANNINA Me ne rallegro, me ne congratulo, me ne consolo. Sarà sua, sua sempre sua, ne ho piacer, ne ho contento, ne ho soddisfazione. (lo carica un poco) EVARISTO Una sola condizione ella ha posto alla mia sicura, alla mia intera felicità. GIANNINA E qual è questa condizione?
EVARISTO Per giustificare me intieramente, per giustificar voi nel medesimo tempo, e per dar a lei una giusta soddisfazione, è necessario, ch'io le presenti il ventaglio. (come sopra) GIANNINA Ora stiamo bene. EVARISTO Ci va del mio, e del vostro decoro. Parerebbe, ch'io l'avessi comprato per voi, si darebbe credito a' suoi sospetti. So che siete una giovane saggia, e prudente. Favoritemi quel ventaglio. (sempre con premura) GIANNINA Signore… Io non l'ho più il ventaglio. (confusa) EVARISTO Oh via, avete ragione. Ve l'ho donato, e non lo domanderei, se non mi trovassi in questa estrema necessità. Ve ne comprerò un altro. Un altro molto meglio di quello; ma per amor del cielo datemi subito quel che vi ho dato. GIANNINA Ma vi dico signore, ch'io non l'ho più. EVARISTO Giannina si tratta della mia vita, e della vostra riputazione. GIANNINA Vi dico sull'onor mio, e con tutti i giuramenti del mondo che io non ho quel ventaglio. EVARISTO Oh cielo! cosa dunque ne avete fatto? (con caldo) GIANNINA Hanno saputo, ch'io aveva quel ventaglio, mi sono saltati intorno come tre cani arrabbiati… EVARISTO Chi? (infuriato) GIANNINA Mio fratello… EVARISTO Moracchio… (corre a chiamrlo alla casa) GIANNINA No fermate, non l'ha avuto Moracchio. EVARISTO Ma chi dunque? (battendo i piedi) GIANNINA Io l'ho dato a Crespino… EVARISTO Ehi? Dove siete? Crespino! (corre alla bottega)
GIANNINA Ma venite qui, sentite… EVARISTO Son fuor di me. GIANNINA Non l'ha più Crespino. EVARISTO Ma chi lo ha? Chi lo ha? Presto. GIANNINA Lo ha quel birbante di Coronato. EVARISTO Coronato? Subito. Coronato? (all'osteria) CORONATO Signore. EVARISTO Datemi quel ventaglio. CORONATO Qual ventaglio? GIANNINA Quello che avevo io, e ch'è robba sua. EVARISTO Animo, subito, senza perder tempo. CORONATO Signore, me ne dispiace infinitamente… EVARISTO Che? CORONATO Ma il ventaglio non si trova più. EVARISTO Non si trova più? CORONATO Per distrazione l'ho messo sopra una botte. L'ho lasciato lì, son andato, son ritornato, non l'ho trovato più, qualcheduno l'ha portato via. EVARISTO Che si trovi. CORONATO Dove? Ho fatto di tutto. EVARISTO Dieci, venti, trenta zecchini lo potrebbero far ritrovare? CORONATO Quando non c'è, non c'è.
EVARISTO Son disperato. CORONATO Mi dispiace, ma non so cosa farle. (entra) EVARISTO Voi siete la mia rovina, il mio precipizio. (contro Giannina) GIANNINA Io? Che ci ho colpa io?
YSCENA SETTIMA
CANDIDA sulla terrazza, e detti. CANDIDA Signor Evaristo. (lo chiama) EVARISTO (Eccola, eccola: son disperato). GIANNINA Che diavolo! È finito il mondo per questo? CANDIDA Signor Evaristo! (torna a chiamare) EVARISTO Ah Candida mia dilettissima sono l'uomo più afflitto, più mortificato del mondo. CANDIDA Eh che sì che il ventaglio non si può più avere? GIANNINA (L'ha indovinata alla prima). EVARISTO Quante combinazioni in mio danno! Sì pur troppo è la verità. Il ventaglio è smarrito, e non è possibile di ritrovarlo per ora. (a Candida) CANDIDA Oh, so dove sarà. EVARISTO Dove? dove? Se aveste qualche indizio per ritrovarlo… GIANNINA Chi sa? Può essere che qualcheduno l'abbia trovato. EVARISTO Sentiamo. (a Giannina) CANDIDA Il ventaglio sarà nelle mani di quella, a cui lo avete donato, e non vuol renderlo, ed ha ragione. GIANNINA Non è vero niente. (a Candida) CANDIDA Tacete. EVARISTO Vi giuro sull'onor mio…
CANDIDA Basta così. Il mio partito è preso. Mi meraviglio di voi che mi mettete a fronte di una villana. (via) GIANNINA Cos'è questa villana? (alla terrazza) EVARISTO Giuro al cielo, voi siete cagione della mia disperazione, della mia morte. (contro Giannina) GIANNINA Ehi, ehi non fate la bestia. EVARISTO Ella ha preso il suo partito. Io deggio prendere il mio. Aspetterò il mio rivale, l'attaccherò colla spada, o morirà l'indegno, o sagrificherò la mia vita… Per voi, per voi a questo duro cimento. GIANNINA Oh è meglio che vada via. Ho paura che diventi matto. (va pian piano verso la casa) EVARISTO Ma come! la ione mi opprime il core; mi manca il respiro. Non mi regge il piede; mi si abbagliano gli occhi. Misero me! chi m'aiuta? (si lascia cadere su una sedia del caffè, e si abbandona affatto) GIANNINA (voltandosi lo vede cadere) Cos'è? cos'è? More povero diavolo! More, aiuto gente, ehi Moracchio! Ehi dal caffè!
SCENA OTTAVA
LIMONCINO dal caffè, con le due tazze di caffè per andare all'osteria; MORACCHIO dalla casa accorre in aiuto di Evaristo [seguono CRESPINO e TIMOTEO, poi il CONTE]. CRESPINO (di strada) Oh eccolo qui il signor Evaristo. Cos'è stato? GIANNINA Dell'acqua, dell'acqua. (a Limoncino) CRESPINO Del vino, del vino. (corre in bottega) LIMONCINO Dategli del vino. Io porterò il caffè all'osteria. (parte) MORACCHIO Animo, animo, signor Evaristo. Alla caccia, alla caccia. GIANNINA Sì altro che caccia! È innamorato. Ecco tutto il suo male. TIMOTEO (dalla speziaria) Cosa c'è? MORACCHIO Venga qui, venga qui, signor Timoteo GIANNINA Venga a soccorrere questo povero galantuomo. TIMOTEO Che male ha? GIANNINA È in accidente. TIMOTEO Bisogna cavargli sangue. MORACCHIO È capace vossignoria? TIMOTEO In caso di bisogno si fa di tutto. (va alla speziaria) GIANNINA (Oh povero signor Evaristo, lo stroppia assolutamente). CRESPINO (dalla bottega con un fiasco di vino) Ecco, ecco, questo lo farà
rinvenire, è vino vecchio di cinque anni. GIANNINA Pare che rinvenga un poco. CRESPINO Oh questo fa risuscitare i morti. MORACCHIO Animo animo si dia coraggio. TIMOTEO (dalla speziaria con bicchiere, pezze e rasoio) Eccomi qui, presto, spogliatelo. MORACCHIO E cosa volete far del rasoio? TIMOTEO In caso di bisogno serve meglio di una lancetta. CRESPINO Un rasoio? GIANNINA Un rasoio? EVARISTO Chi è che vuol assmi con un rasoio? (pateticamente, alzandosi) GIANNINA Il signor Timoteo TIMOTEO Son un galantuomo, non assassino alcuno, e quando si fa quello che si può, e quello che si sa, nessuno ha occasione di rimproverare. (Che mi chiamino un'altra volta che or verrò!) (entra in bottega) MORACCHIO Vuol venire da me, signor Evaristo? Riposerà sul mio letto. EVARISTO Andiamo dove volete. MORACCHIO Mi dia il braccio, s'appoggi. EVARISTO Quanto meglio saria per me che terminassi questa misera vita! (s'incammina sostenuto da Moracchio) GIANNINA (Se ha volontà di morire basta che si raccomandi allo speziale). MORACCHIO Eccoci alla porta. Andiamo.
EVARISTO Pietà inutile a chi non desidera che di morire. (entrano) MORACCHIO Giannina, vieni ad accomodar il letto per il signor Evaristo. (sulla porta, ed entra) GIANNINA (vorrebbe andare anch'ella) CRESPINO Giannina? (la chiama) GIANNINA Cos'è? CRESPINO Siete molto comionevole per quel signore! GIANNINA Faccio il mio debito perché io e voi siamo la causa del suo male. CRESPINO Per voi non so che dire. Ma io? Come c'entro io? GIANNINA Per causa di quel maladetto ventaglio. (entra) CRESPINO Maladetto ventaglio! L'avrò sentito nominare un milione di volte. Ma ci ho gusto per quell'ardito di Coronato. È mio nemico, e lo sarà sempre, fino che non arrivo a sposar Giannina. Potrei metterlo quel ventaglio in terra, in qualche loco, ma se gli camminano sopra, se lo fracassano? Qualche cosa farò, io non voglio che mi mettano in qualche imbarazzo. Ho sentito a dire che in certe occasioni i stracci vanno all'aria. Ed io i pochi che ho, me li vo' conservare. (va al banco suo, e prende il ventaglio) LIMONCINO Ed il… CONTE (dall'osteria) Vien qui aspetta. (prende un pezzetto di zucchero e se lo mette in bocca) Per il raffreddore. LIMONCINO Per la gola. CONTE Che? LIMONCINO Dico che fa bene alla gola. (parte e va in bottega) CONTE (eggia contento, mostrando aver ben mangiato) CRESPINO (Quasi, quasi… Sì questo è il meglio di tutto). (s'avanza col
ventaglio) CONTE Oh buon giorno, Crespino. CRESPINO Servitor di V. S. illustrissima. CONTE Sono accomodate le scarpe? (piano) CRESPINO Domani sarà servita. (fa vedere il ventaglio) CONTE Che cosa avete di bello in quella carta? CRESPINO È una cosa che ho trovato per terra vicino all'osteria della posta. CONTE Lasciate vedere. CRESPINO Si servi. (glie lo dà) CONTE Oh un ventaglio! Qualcheduno ando l'averà perduto. Cosa volete fare di questo ventaglio? CRESPINO Io veramente non saprei cosa farne. CONTE Lo volete vendere? CRESPINO Oh venderlo! Io non saprei cosa domandarne. Lo crede di prezzo questo ventaglio? CONTE Non so, non me n'intendo. Vi sono delle figure… ma un ventaglio trovato in campagna non può valere gran cosa. CRESPINO Io avrei piacere che valesse assai. CONTE Per venderlo bene. CRESPINO No in verità, illustrissimo. Per aver il piacere di farne un presente a V. S. illustrissima. CONTE A me? Me lo volete donare a me? (contento) CRESPINO Ma come non sarà cosa da par suo…
CONTE No no, ha il suo merito, mi par buonino. Vi ringrazio, caro. Dove posso, vi esibisco la mia protezione. (Ne farò un regalo, e mi farò onore). CRESPINO Ma la supplico d'una grazia. CONTE (Oh, già lo sapevo. Costoro non danno niente senza interesse). Cosa volete? Parlate. CRESPINO La prego non dire di averlo avuto da me. CONTE Non volete altro? CRESPINO Niente altro. CONTE (Via via è discreto). Quando non volete altro… ma ditemi in grazia, non volete che si sappia che l'ho avuto da voi? Per avventura l'avreste rubbato? CRESPINO Perdoni illustrissimo, non son capace… CONTE Ma perché non volete che si sappia che l'ho avuto da voi? Se l'avete trovato, e se il padrone non lo domanda, io non ci so vedere la ragione. CRESPINO Eh c'è la sua ragione. (ridendo) CONTE E qual è? CRESPINO Le dirò. Io ho un'amorosa. CONTE Lo so benissimo. È Giannina. CRESPINO E se Giannina sapesse che io aveva questo ventaglio, e che non l'ho donato a lei se ne avrebbe a male. CONTE Avete fatto bene a non darglielo. Non è ventaglio per una contadina. (lo mette via) Non dubitate, non dirò niente d'averlo avuto da voi. Ma a proposito: come vanno gli affari vostri con Giannina? Avete veramente volontà di sposarla? CRESPINO Per dirle la verità… Le confesso il mio debole. La sposerei volontieri. CONTE Quand'è così non dubitate. Ve la faccio sposar questa sera, se voi
volete. CRESPINO Davvero! CONTE Che sono io? Cosa val la mia protezione! CRESPINO Ma Coronato che la pretende? CONTE Coronato?… Coronato è uno sciocco. Vi vuol bene Giannina? CRESPINO Assai. CONTE Bene dunque. Voi siete amato, Coronato non lo può soffrire: fidatevi della mia protezione. CRESPINO Fin qui l'intendo ancor io. Ma il fratello? CONTE Che fratello? che fratello? Quando la sorella è contenta, cosa c'entra il fratello? Fidatevi della mia protezione. CRESPINO Mi raccomando dunque alla sua bontà. CONTE Sì, alla mia protezione. CRESPINO Vado a terminare d'accomodar le sue scarpe. CONTE Dite piano. Ne avrei bisogno d'un paio di nuove. CRESPINO La servirò. CONTE Eh! le voglio pagare, sapete? Non credeste mai… Io non vendo la mia protezione. CRESPINO Oh per un paio di scarpe! CONTE Andate, andate a fare le vostre faccende. CRESPINO Vado subito. (va per andare al banco) CONTE (tira fuori il ventaglio, e a poco a poco lo esamina)
CRESPINO (Oh cospetto di bacco! Mi era andato di mente. Mi ha mandato la signora Geltruda a cercar il signor Evaristo, l'ho trovato qui, e non gli ho detto niente. Ma la sua malattia… Il ventaglio… Me ne sono scordato. Andarei ad avvertirlo, ma in quella casa non ci vado per cagion di Moracchio. Farò così, anderò a ritrovare la signora Geltruda. Le dirò che il signor Evaristo è in casa di Giannina, e lo manderà a chiamare da chi vorrà). (entra nella bottega della merciaia) CONTE Eh! (con sprezzo) Guarda e riguarda: è un ventaglio. Che può costar?… che so io? Sette o otto paoli. Se fosse qualche cosa di meglio, lo donerei alla signora Candida, che questa mattina ha rotto il suo. Ma perché no? Non è poi tanto cattivo. GIANNINA (alla finestra) (Non vedo Crespino. Dove sarà andato a quest'ora?) CONTE Queste figure non sono ben dipinte, ma mi pare che non siano mal disegnate. GIANNINA (Oh cosa vedo! Il ventaglio in mano del signor Conte! Presto presto andiamo a risvegliare il signor Evaristo). (via) CONTE Basta, non si ricusa mai niente. Qualche cosa farò.
SCENA NONA
BARONE dall'osteria, e detto [poi TOGNINO]. BARONE Amico, mi avete piantato lì. CONTE Ho veduto che non avevate volontà di parlare. BARONE Sì, è vero; non posso ancor darmi pace… Ditemi, vi pare che possiamo ora tentar di riveder queste signore? CONTE Perché no? Mi viene ora in mente una cosa buona. Volete, ch'io vi faccia un regalo? Un regalo, con cui vi potete far onore colla signora Candida. BARONE Cos'è questo regalo? CONTE Sapete che questa mattina ella ha rotto il suo ventaglio? BARONE È vero; m'è stato detto. CONTE Ecco un ventaglio. Andiamola a ritrovare, e presentateglielo voi colle vostre mani. (lo dà al Barone) Guardate, guardate non è cattivo. BARONE E volete dunque… CONTE Sì, presentatelo come voi. Io non voglio farmi alcun merito. Lascio tutto l'onore a voi. BARONE Accetterò volentieri quest'occasione, ma mi permetterete che dimandi cosa vi costa? CONTE Cosa v'importa a sapere quel che mi costa? BARONE Per soddisfarne il prezzo. CONTE Oh cosa serve! Mi meraviglio. Anche voi mi avete donato quelle pistole…
BARONE Non so che dire. Accetterò le vostre finezze. (Dove diavolo ha trovato questo ventaglio? Mi pare impossibile, ch'egli l'abbia comprato). (guardandolo) CONTE Ah cosa dite? Non è una galanteria? Non è venuto a tempo? Oh io in queste occasioni so quel che ci vuole. So prevedere. Ho una camera piena di queste galanterie per le donne. Orsù andiamo, non perdiamo tempo. (corre e batte al palazzino) TOGNINO (sulla terrazza) Cosa comanda? CONTE Si può riverire queste signore? TOGNINO La signora Geltruda è fuori di casa, e la signora Candida è nella sua camera che riposa. CONTE Subito che si sveglia avvisateci. TOGNINO Sarà servita. (via) CONTE Avete sentito? BARONE Bene, bisogna aspettare. Ho da scrivere una lettera a Milano, andrò a scriverla dallo speziale. Se volete venire anche voi… CONTE No no da colui vi vado mal volentieri. Andate a scrivere la vostra lettera, io resterò qui ad aspettare l'avviso del servitore. BARONE Benissimo. Ad ogni cenno sarò con voi. CONTE Fidatevi di me, e non dubitate. BARONE (Ah, mi fido poco di lui, meno della zia, e meno ancora della nipote). (va dallo speziale) CONTE Mi divertirò col mio libro; colla mia preziosa raccolta di favole meravigliose. (tira fuori il libro, e siede)
SCENA DECIMA
EVARISTO dalla casa di Giannina, e detto. EVARISTO (Oh, eccolo ancora qui, dubitava, ch'ei fosse partito. Non so come il sonno abbia potuto prendermi fra tante afflizioni. La stanchezza… la lassitudine. Ora mi par di rinascere. La speranza di ricuperar il ventaglio…) Signor Conte la riverisco divotamente. CONTE Servitor suo. (leggendo e ridendo) EVARISTO Permette, ch'io possa dirle una parola? CONTE Or ora son da voi. (come sopra) EVARISTO (Se non ha il ventaglio in mano, io non so come introdurmi a parlare). CONTE (si alza ridendo, mette cvia il libro e s'avanza) Eccomi qui. Cosa posso fare per servirvi? EVARISTO Perdonate se vi ho disturbato. (osservando se vede il ventaglio) CONTE Niente, niente finirò la mia favola un'altra volta. EVARISTO Non vorrei che mi accusaste di troppo ardito. CONTE Cosa guardate? Ho qualche macchia d'intorno? (si guarda) EVARISTO Scusatemi. Mi è stato detto che voi avevate un ventaglio. CONTE Un ventaglio? (confondendosi) È vero, l'avete forse perduto voi? EVARISTO Sì signor l'ho perduto io. CONTE Ma vi sono bene dei ventagli al mondo. Cosa sapete che sia quello che avete perduto?
EVARISTO Se volete aver la bontà di lasciarmelo vedere… CONTE Caro amico mi dispiace che siete venuto un po' tardi. EVARISTO Come tardi? CONTE Il ventaglio non è più in mano mia. EVARISTO Non è più in mano vostra? (agitato) CONTE No, l'ho dato ad una persona. EVARISTO E a qual persona l'avete dato? (riscaldandosi) CONTE Questo è quello, ch'io non voglio dirvi. EVARISTO Signor Conte mi preme saperlo; mi preme aver quel ventaglio, e mi avete a dire chi l'ha. CONTE Non vi dirò niente. EVARISTO Giuro al cielo, voi lo direte. (trasportato) CONTE Come! mi perdereste il rispetto? EVARISTO Lo dico, e lo sosterrò; non è azione da galantuomo. (con caldo) CONTE Sapete voi che ho un paio di pistole cariche? (caldo) EVARISTO Che importa a me delle vostre pistole? Il mio ventaglio signore. CONTE Che diavolo di vergogna! Tanto strepito per uno straccio di ventaglio che valerà cinque paoli. EVARISTO Vaglia quel che sa valere, voi non sapete quello che costa, ed io darei per riaverlo… Sì, darei cinquanta zecchini. CONTE Dareste cinquanta zecchini! EVARISTO Sì, ve lo dico, e ve lo prometto. Se si potesse ricuperare darei cinquanta zecchini.
CONTE (Diavolo, bisogna che sia dipinto da Tiziano, o da Raffaelo d'Urbino). EVARISTO Deh signor Conte fatemi questa grazia, questo piacere. CONTE Vedrò se si potesse ricuperare, ma sarà difficile. EVARISTO Se la persona che l'ha, volesse cambiarlo in cinquanta zecchini, disponetene liberamente. CONTE Se l'avessi io, mi offenderei d'una simile proposizione. EVARISTO Lo credo benissimo. Ma può essere che la persona che l'ha non si offenda. CONTE Oh in quanto a questo, la persona si offenderebbe quanto me, e forse forse… Amico, vi assicuro che sono estremamente imbrogliato. EVARISTO Facciamo così, signor Conte. Questa è una scattola d'oro, il di cui solo peso val cinquantaquattro zecchini. Sapete che la fattura raddoppia il prezzo; non importa, per ricevere quel ventaglio, ne offerisco il cambio assai volentieri. Tenete. (glie la dà) CONTE Ci sono de' diamanti in quel ventaglio? Io non ci ho badato. EVARISTO Non ci sono diamanti, non val niente, ma per me è prezioso. CONTE Bisognerà vedere di contentarvi. EVARISTO Vi prego, vi supplico, vi sarò obbligato. CONTE Aspettate qui. (Sono un poco imbrogliato!) Farò di tutto per soddisfarvi… e volete, ch'io dia in cambio la tabacchiera? EVARISTO Sì datela liberamente. CONTE Aspettate qui. (s'incammina) E se la persona mi rendesse il ventaglio, e non volesse la tabacchiera? EVARISTO Signore la tabacchiera l'ho data a voi, è cosa vostra, fatene qual uso che vi piace.
CONTE Assolutamente? EVARISTO Assolutamente. CONTE (Il Barone finalmente è galantuomo, è mio amico). Aspettate qui. (Se fossero i cinquanta zecchini non li accetterei, ma una tabacchiera d'oro? Sì signore, è un presente da titolato). (va alla spezieria) EVARISTO Sì per giustificarmi presso dell'idol mio farei sagrifizio del mio sangue medesimo, se abbisognasse.
SCENA UNDICESIMA
CRESPINO dalla bottega della merciaia, e detti [poi GIANNINA] CRESPINO (Oh, eccolo qui). Signore la riverisco. La signora Geltruda vorrebbe parlar con vossignoria. È qui in casa dalla merciaia, e la prega di darsi l'incomodo di andar colà che l'aspetta. EVARISTO Dite alla signora Geltruda che sarò a ricevere i suoi comandi, che la supplico d'aspettar un momento, tanto ch'io vedo se viene una persona, che mi preme vedere, e verrò subito ad obbedirla. CRESPINO Sarà servito. Come sta? Sta meglio? EVARISTO Grazie al cielo sto meglio assai. CRESPINO Me ne consolo infinitamente. E Giannina sta bene? EVARISTO Io credo di sì. CRESPINO È una buona ragazza Giannina. EVARISTO Sì è vero; e so che vi ama teneramente. CRESPINO L'amo anch'io, ma… EVARISTO Ma che? CRESPINO Mi hanno detto certe cose… EVARISTO Vi hanno detto qualche cosa di me? CRESPINO Per dir la verità, signor sì. EVARISTO Amico io sono un galantuomo, e la vostra Giannina è onesta. CRESPINO (Oh sì, lo credo anch'io. Non mancano mai delle male lingue).
CONTE (sulla porta della spezieria, che torna) EVARISTO Oh andate dalla signora Geltruda, e ditele che vengo subito.(a Crespino) CRESPINO Signor sì. (s'incammina) Son sicuro, non vi è pericolo, son sicuro. (a vicino al Conte) Mi raccomando a lei per Giannina. CONTE Fidatevi della mia protezione. CRESPINO Non vedo l'ora. (entra da Susanna) EVARISTO Ebbene, signor Conte? CONTE Ecco il ventaglio. (lo fa vedere) EVARISTO Oh, che piacere! Oh quanto vi sono obbligato! (lo prende con avidità) CONTE Guardate se è il vostro? EVARISTO Sì, è il mio senza altro. (vuol partire) CONTE E la tabacchiera? EVARISTO Non ne parliamo più. Vi son schiavo. (corre ed entra dalla merciaia) CONTE Cosa vuol dire non conoscere le cose perfettamente! Io lo credevo un ventaglio ordinario, e costa tanto! Costa tanto, che merita il cambio d'una tabacchiera d'oro di questo prezzo! (piglia la tabacchiera) Evaristo non l'ha voluta indietro. Il Barone forse forse… non l'avrebbe voluta ricevere… Sì, è un poco disgustato veramente, ch'io gli abbia ridomandato il ventaglio, ma avendogli detto, ch'io lo presenterò in nome suo, si è un poco acquietato. Ne comprerò uno di tre, o quattro paoli, che farà la stessa figura. CRESPINO (che torna dalla merciaia) Manco male che la mia commissione è poi andata assai bene. La signora Geltruda merita d'esser servita. Oh, signor Conte, adunque ella mi dà buone speranze? CONTE Buonissime. Oggi è una giornata per me fortunata, e tutte le cose mi
vanno bene. CRESPINO Se gli andasse bene anche questa! CONTE Sì, subito aspettate. Ehi Giannina. GIANNINA (di casa) Signore, cosa vuole? Cosa pretende? (in collera) CONTE Non tanta furia, non tanto caldo. Voglio farvi del bene, e maritarvi. GIANNINA Io non ho bisogno di lei. CRESPINO Sente? (al Conte) CONTE Aspettate. (a Crespino) Voglio maritarvi a modo mio. (a Giannina) GIANNINA Ed io gli dico di no. CONTE E voglio darvi per marito Crespino. GIANNINA Crespino? (contenta) CONTE Ah! cosa dite? (a Giannina) GIANNINA Signor sì, con tutta l'anima, con tutto il core. CONTE Vedete l'effetto della mia protezione? (a Crespino) CRESPINO Sì signore lo vedo.
SCENA DODICESIMA
MORACCHIO di casa, e detti. MORACCHIO Cosa fate qui? GIANNINA Cosa c'entrate voi? CONTE Giannina si ha da maritare sotto gli auspici della mia protezione. MORACCHIO Signor sì, son contento, e tu vi acconsentirai o per amore, o per forza. GIANNINA Oh vi acconsentirò volentieri. (con serietà) MORACCHIO Sarà meglio per te. GIANNINA E per farti vedere che vi acconsento, do la mano a Crespino. MORACCHIO Signor Conte. (con affanno) CONTE Lasciate fare. (placidamente) MORACCHIO Non era ella signor Conte impegnata per Coronato?
SCENA TREDICESIMA
CORONATO dall'osteria, e detti CORONATO Chi mi chiama? MORACCHIO Venite qui, vedete. Il signor Conte vuol che mia sorella si mariti. CORONATO Signor Conte…(con smania) CONTE Io sono un cavalier giusto, un protettor ragionevole, umano. Giannina non vi vuole, ed io non posso, non deggio, e non voglio usarle violenza. GIANNINA Signor sì, voglio Crespino a dispetto di tutto il mondo. CORONATO Cosa dite voi? (a Moracchio) MORACCHIO Cosa dite voi? (a Coronato) CORONATO Non me n'importa un fico. Chi non mi vuol, non mi merita. GIANNINA Così va detto. CONTE Ecco l'effetto della mia protezione. (a Crespino) CORONATO Signor Conte ho mandato l'altro barile di vino. CONTE Portatemi il conto, e vi pagherò. (dicendo così, tira fuori la scatola d'oro e prende tabacco) CORONATO (Ha la scatola d'oro, mi pagherà). (via) MORACCHIO Hai poi voluto fare a modo tuo. (a Giannina) GIANNINA Mi par di sì. MORACCHIO Se te ne pentirai sarà tuo danno.
CONTE Non se ne pentirà mai; avrà la mia protezione. MORACCHIO Pane, pane, e non protezione. (entra in casa) CONTE E così quando si faranno le vostre nozze? CRESPINO Presto. GIANNINA Anche subito.
SCENA QUATTORDICESIMA
BARONE dalla spezieria, e detti. BARONE Ebbene signor Conte, avete veduta la signora Candida? Le avete dato il ventaglio? Perché non avete voluto che avessi io il contento di presentarglielo? GIANNINA (Come! non l'ha avuto il signor Evaristo?) CONTE Io non ho ancora veduto la signora Candida, e circa il ventaglio ne ho degli altri, e ve ne ho destinato un migliore. Oh ecco qui la signora Geltruda.
SCENA QUINDICESIMA
GELTRUDA, EVARISTO, SUSANNA, tutti tre dalla bottega di Susanna. GELTRUDA Favoritemi di far discendere mia nipote, ditele che li ho da parlare, che venga qui. (a Susanna) SUSANNA Sarà servita. (va al palazzino, batte, aprono ed entra) GELTRUDA Non ho piacere che il signor Conte, ed il signor Barone entrino in casa. A quest'ora possiamo discorrere qui. (piano ad Evaristo) CONTE Signora Geltruda, appunto il signor Barone, ed io volevamo farvi una visita. GELTRUDA Obbligatissima. Adesso è l'ora del eggio, prenderemo un poco di fresco. BARONE Ben tornato signor Evaristo. (serio) EVARISTO Vi son servitore. (serio)
SCENA SEDICESIMA
CANDIDA e SUSANNA dal palazzino, e detti. CANDIDA Che mi comanda la signora zia? GELTRUDA Andiamo a far quattro i. CANDIDA (Ah, è qui quel perfido d'Evaristo!) GELTRUDA Ma che vuol dire che non avete il ventaglio? (a Candida) CANDIDA Non sapete che questa mattina si è rotto? GELTRUDA Ah sì è vero; se si potesse trovarne uno! BARONE (Ora è il tempo di darglielo). (piano al Conte, urtandolo con premura) CONTE (No in pubblico, no). (piano al Barone) GELTRUDA Signor Evaristo, ne avrebbe uno a sorte? EVARISTO Eccolo a' vostri comandi. (a Gertruda lo fa vedere, ma non lo dà) CANDIDA (si volta dall'altra parte con dispetto) BARONE (Il vostro ventaglio). (piano al Conte) CONTE (Diavolo! oibò). (al Barone) BARONE (Fuori il vostro). (al Conte) CONTE (No, ora no). (al Barone) GELTRUDA Nipote non volete ricevere le grazie del signor Evaristo? CANDIDA No signora, scusatemi; non ne ho di bisogno.
CONTE (Vedete non l'accetta). (al Barone) BARONE (Date a me, date a me il vostro). (al Conte) CONTE (Volete far nascere una disfida?) (al Barone) GELTRUDA Si potrebbe sapere, perché non volete ricevere quel ventaglio? CANDIDA Perché non è mio, perché non era destinato per me. (a Geltruda, con caricatura) E perché non è mio, né vostro decoro, ch'io lo riceva. GELTRUDA Signor Evaristo a voi tocca a giustificarvi. EVARISTO Lo farò, se mi vien permesso. CANDIDA Con licenza. (vuol andar via) GELTRUDA Restate qui che ve lo comando. (Candida resta) BARONE (Che imbroglio è questo?) (al Conte) CONTE (Io non so niente). (al Barone) EVARISTO Signora Susanna conoscete voi questo ventaglio? SUSANNA Sì signore, è quello che avete comprato da me questa mattina, e ch'io imprudentemente ho creduto che l'aveste comprato per Giannina. GIANNINA Oh così mi piace: imprudentemente! (a Susanna) SUSANNA Sì, confesso il mio torto, e voi imparate da me a render giustizia alla verità. Per altro io aveva qualche ragione, perché il signor Evaristo ve l'aveva dato. EVARISTO Perché vi aveva io dato questo ventaglio? (a Giannina) GIANNINA Per darlo alla signora Candida: ma quando voleva darglielo mi ha strapazzato; e non mi ha lasciato parlare. Io poi voleva rendervelo, voi non l'avete voluto, ed io lo ho dato a Crespino. CRESPINO Ed io son caduto, e Coronato l'ha preso.
EVARISTO Ma dov'è Coronato? Come poi è sortito dalle mani di Coronato? CRESPINO Zitto, non lo stiano a chiamare che giacché non c'è dirò io la verità. Piccato sono entrato nell'osteria per trovar del vino, l'ho trovato a caso, e l'ho portato via. EVARISTO E che cosa ne avete fatto? CRESPINO Un presente al signor Conte. CONTE Ed io un presente al signor Barone. BARONE Voi l'avete riavuto! (al Conte, con sdegno) CONTE Sì, e l'ho rimesso nelle mani del signor Evaristo. EVARISTO Ed io lo presento alle mani della signora Candida. CANDIDA (fa una riverenza, prende il ventaglio, e ridendo si consola) BARONE Che scena è questa? Che impiccio è questo? Sono io messo in ridicolo per cagione vostra? (al Conte) CONTE Giuro al Cielo, giuro al Cielo signor Evaristo! EVARISTO Via via signor Conte si quieti. Siamo amici, mi dia una presa di tabacco. CONTE Io son così, quando mi prendono colle buone non posso scaldarmi il sangue. BARONE Se non ve lo scaldate voi, me lo scalderò io. GELTRUDA Signor Barone… BARONE E voi signora vi prendete so di me? (a Geltruda) GELTRUDA Scusatemi, voi mi conoscete poco, signore. Non ho mancato a tutti i numeri del mio dovere. Ho ascoltate le vostre proposizioni, mia nipote le aveva ascoltate, ed accettate, ed io con piacere vi acconsentiva.
CONTE Sentite? Perché le avevo parlato io. (al Barone) BARONE E voi, signora, perché lusingarmi? Perché ingannarmi? CANDIDA Vi domando scusa, signore. Ero agitata da due ioni contrarie. La vendetta mi voleva far vostra, e l'amore mi ridona ad Evaristo. CONTE Oh qui non c'entro. EVARISTO E se foste stato amante meno sollecito, ed amico mio più sincero, non vi sareste trovato in caso tale. BARONE Sì è vero, confesso la mia ione, condanno la mia debolezza. Ma detesto l'amicizia, e la condotta del signor Conte. (saluta e via) CONTE Eh niente, siamo amici. Si scherza. Fra noi altri colleghi ci conosciamo. Animo facciamo queste nozze, questo matrimonio. GELTRUDA Entriamo in casa, e spero che tutto si adempirà con soddisfazione comune. CANDIDA (si fa fresco col ventaglio) GELTRUDA Siete contenta d'aver nelle mani quel sospirato ventaglio? (a Candida) CANDIDA Non posso spiegare l'eccesso della mia contentezza. GIANNINA Gran ventaglio! ci ha fatto girar la testa dal primo all'ultimo. CANDIDA È di Parigi questo Ventaglio? SUSANNA Vien di Parigi ve l'assicuro. GELTRUDA Andiamo; v'invito tutti a cena da noi. Beveremo alla salute di chi l'ha fatto. E ringrazieremo umilmente, chi ci ha fatto l'onore di compatirlo.
LA LOCANDIERA
PERSONAGGI Il Cavaliere di Ripafratta Il Marchese di Forlipopoli Il Conte d'Albafiorita Mirandolina, locandiera Ortensia comica Dejanira comica Fabrizio, cameriere di locanda Servitore, del Cavaliere Servitore, del Conte La scena si rappresenta in Firenze, nella locanda di Mirandolina.
L'AUTORE A CHI LEGGE Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere della Locandiera, e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute. Mirandolina fa altrui vedere come s'innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l'avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui vedendo scemare la ruvidezza, in lei s'aumenta l'ardire. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch'ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover'uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l'arresta, e con uno svenimento l'atterra, lo precipita, l'avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti loro, e dove fondino la speranza de' loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi dell'inimico. Io medesimo diffidava quasi a principio di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della Commedia, e pure, condotto dalla natura, di o in o, come nella Commedia si vede, mi è riuscito di darlo vinto alla fine dell'Atto secondo. Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne' loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene. La Scena dello stirare allora quando la
Locandiera si burla del Cavaliere che languisce, non muove gli animi a sdegno contro colei, che dopo averlo innamorato l'insulta? Oh bello specchio agli occhi della gioventù! Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!... Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle mie debolezze. Bastami che alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le donne che oneste sono, giubileranno anch'esse che si smentiscano codeste simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere arrossiranno in guardarmi, e non importa che mi dicano nell'incontrarmi: che tu sia maledetto! Deggio avvisarvi, Lettor carissimo, di una picciola mutazione, che alla presente Commedia ho fatto. Fabrizio, il cameriere della Locanda, parlava in veneziano, quando si recitò la prima volta; l'ho fatto allora per comodo del personaggio, solito a favellar da Brighella; ove l'ho convertito in toscano, sendo disdicevole cosa introdurre senza necessità in una Commedia un linguaggio straniero. Ciò ho voluto avvertire, perché non so come la stamperà il Bettinelli; può essere ch'ei si serva di questo mio originale, e Dio lo voglia, perché almeno sarà a dover penneggiato. Ma lo scrupolo ch'ei si è fatto di stampare le cose mie come io le ho abbozzate, lo farà trascurare anche questa comodità.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala di locanda. Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d'Albafiorita MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza. CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio. MARCHESE: Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi. CONTE: Per qual ragione? MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli. CONTE: Ed io sono il Conte d'Albafiorita. MARCHESE: Sì, Conte! Contea comprata. CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato. MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto. CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando... MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me. CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch'io amassi Mirandolina? Perché credete ch'io sia in Firenze? Perché credete ch'io sia in questa locanda? MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente. CONTE: Io no, e voi sì?
MARCHESE: Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione. CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione. MARCHESE: Denari?... non ne mancano. CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente. MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico. CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa. MARCHESE: Non si sa tutto. CONTE: Sì! caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno. MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio. CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi. MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò. CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno. MARCHESE: Quel ch'io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (Chiama.) CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!). (Da sé.)
SCENA SECONDA
Fabrizio e detti. FABRIZIO: Mi comandi, signore. (Al Marchese.) MARCHESE: Signore? Chi ti ha insegnato la creanza? FABRIZIO: La perdoni. CONTE: Ditemi: come sta la padroncina? (A Fabrizio.) FABRIZIO: Sta bene, illustrissimo. MARCHESE: È alzata dal letto? FABRIZIO: Illustrissimo sì. MARCHESE: Asino. FABRIZIO: Perché, illustrissimo signore? MARCHESE: Che cos'è questo illustrissimo? FABRIZIO: È il titolo che ho dato anche a quell'altro Cavaliere. MARCHESE: Tra lui e me vi è qualche differenza. CONTE: Sentite? (A Fabrizio.) FABRIZIO: (Dice la verità. Ci è differenza: me ne accorgo nei conti). (Piano al Conte.) MARCHESE: Di' alla padrona che venga da me, che le ho da parlare. FABRIZIO: Eccellenza sì. Ho fallato questa volta? MARCHESE: Va bene. Sono tre mesi che lo sai; ma sei un impertinente.
FABRIZIO: Come comanda, Eccellenza. CONTE: Vuoi vedere la differenza che a fra il Marchese e me? MARCHESE: Che vorreste dire? CONTE: Tieni. Ti dono uno zecchino. Fa che anch'egli te ne doni un altro. FABRIZIO: Grazie, illustrissimo. (Al Conte.) Eccellenza... (Al Marchese.) MARCHESE: Non getto il mio, come i pazzi. Vattene. FABRIZIO: Illustrissimo signore, il cielo la benedica. (Al Conte.) Eccellenza. (Rifinito. Fuor del suo paese non vogliono esser titoli per farsi stimare, vogliono esser quattrini). (Da sé, parte.)
SCENA TERZA
Il Marchese ed il Conte. MARCHESE: Voi credete di soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre monete. CONTE: Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere. MARCHESE: Spendete pure a rotta di collo. Mirandolina non fa stima di voi. CONTE: Con tutta la vostra gran nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser denari. MARCHESE: Che denari? Vuol esser protezione. Esser buono in un incontro di far un piacere. CONTE: Sì, esser buono in un incontro di prestar cento doppie. MARCHESE: Farsi portar rispetto bisogna. CONTE: Quando non mancano denari, tutti rispettano. MARCHESE: Voi non sapete quel che vi dite. CONTE: L'intendo meglio di voi.
SCENA QUARTA
Il Cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, e detti. CAVALIERE: Amici, che cos'è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri? CONTE: Si disputava sopra un bellissimo punto. MARCHESE: II Conte disputa meco sul merito della nobiltà. (Ironico.) CONTE: Io non levo il merito alla nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser denari. CAVALIERE: Veramente, Marchese mio... MARCHESE: Orsù, parliamo d'altro. CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa? CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra. MARCHESE: Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo. CONTE: Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l'amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola? MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo. CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (Al Cavaliere.) CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che io meriti meno. Una donna vi altera? vi scompone? Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l'uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario. CONTE: Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile. MARCHESE: Quando l'amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande. CAVALIERE: In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all'altre donne? MARCHESE: Ha un tratto nobile, che incatena. CONTE: È bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto. CAVALIERE: Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch'io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna. CONTE: Guardatela, e forse ci troverete del buono. CAVALIERE: Eh, pazzia! L'ho veduta benissimo. È una donna come l'altre. MARCHESE: Non è come l'altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro. CONTE: Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito. CAVALIERE: Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono. CONTE: Non siete mai stato innamorato? CAVALIERE: Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l'ho voluta. MARCHESE: Ma siete unico della vostra casa: non volete pensare alla successione?
CAVALIERE: Ci ho pensato più volte ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una donna, mi a subito la volontà. CONTE: Che volete voi fare delle vostre ricchezze? CAVALIERE: Godermi quel poco che ho con i miei amici. MARCHESE: Bravo, Cavaliere, bravo; ci goderemo. CONTE: E alle donne non volete dar nulla? CAVALIERE: Niente affatto. A me non ne mangiano sicuramente. CONTE: Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile. CAVALIERE: Oh la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia. MARCHESE: Se non la stimate voi, la stimo io. CAVALIERE: Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.
SCENA QUINTA
Mirandolina e detti. MIRANDOLINA: M'inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori? MARCHESE: Io vi domando, ma non qui. MIRANDOLINA: Dove mi vuole, Eccellenza? MARCHESE: Nella mia camera. MIRANDOLINA: Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa verra il cameriere a servirla. MARCHESE: (Che dite di quel contegno?). (Al Cavaliere.) CAVALIERE: (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza). (Al Marchese.) CONTE: Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l'incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono? MIRANDOLINA: Belli. CONTE: Sono diamanti, sapete? MIRANDOLINA: Oh, gli conosco. Me ne intendo anch'io dei diamanti. CONTE: E sono al vostro comando. CAVALIERE: (Caro amico, voi li buttate via). (Piano al Conte.) MIRANDOLINA: Perché mi vuol ella donare quegli orecchini? MARCHESE: Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de' più belli al doppio.
CONTE: Questi sono legati alla moda. Vi prego riceverli per amor mio. CAVALIERE: (Oh che pazzo!). (Da sé.) MIRANDOLINA: No, davvero, signore... CONTE: Se non li prendete, mi disgustate. MIRANDOLINA: Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor Conte, li prenderò. CAVALIERE: (Oh che forca!). (Da sé.) CONTE: (Che dite di quella prontezza di spirito?). (Al Cavaliere.) CAVALIERE: (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno). (Al Conte.) MARCHESE: Veramente, signor Conte, vi siete acquistato gran merito. Regalare una donna in pubblico, per vanità! Mirandolina, vi ho da parlare a quattr'occhi, fra voi e me: son Cavaliere. MIRANDOLINA: (Che arsura! Non gliene cascano). (Da sé.) Se altro non mi comandano, io me n'anderò. CAVALIERE: Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio, mi provvederò. (Con disprezzo.) MIRANDOLINA: Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza. CAVALIERE: Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti. CONTE: Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (A Mirandolina.) CAVALIERE: Eh, che non ho bisogno d'essere da lei compatito. MIRANDOLINA: Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere? CAVALIERE: Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza.
Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel servitore. Amici, vi sono schiavo. (Parte.)
SCENA SESTA
Il Marchese, il Conte e Mirandolina. MIRANDOLINA: Che uomo salvatico! Non ho veduto il compagno. CONTE: Cara Mirandolina, tutti non conoscono il vostro merito. MIRANDOLINA: In verità, son così stomacata del suo mal procedere, che or ora lo licenzio a dirittura. MARCHESE: Sì; e se non vuol andarsene, ditelo a me, che lo farò partire immediatamente. Fate pur uso della mia protezione. CONTE: E per il denaro che aveste a perdere, io supplirò e pagherò tutto. (Sentite, mandate via anche il Marchese, che pagherò io). (Piano a Mirandolina.) MIRANDOLINA: Grazie, signori miei, grazie. Ho tanto spirito che basta, per dire ad un forestiere ch'io non lo voglio, e circa all'utile, la mia locanda non ha mai camere in ozio.
SCENA SETTIMA
Fabrizio e detti. FABRIZIO: Illustrissimo, c'è uno che la domanda. (Al Conte.) CONTE: Sai chi sia? FABRIZIO: Credo ch'egli sia un legatore di gioje. (Mirandolina, giudizio; qui non istate bene). (Piano a Mirandolina, e parte.) CONTE: Oh sì, mi ha da mostrare un gioiello. Mirandolina, quegli orecchini, voglio che li accompagniamo. MIRANDOLINA: Eh no, signor Conte... CONTE: Voi meritate molto, ed io i denari non li stimo niente. Vado a vedere questo gioiello. Addio, Mirandolina; signor Marchese, la riverisco! (Parte.)
SCENA OTTAVA
Il Marchese e Mirandolina. MARCHESE: (Maledetto Conte! Con questi suoi denari mi ammazza). (Da sé.) MIRANDOLINA: In verità il signor Conte s'incomoda troppo. MARCHESE: Costoro hanno quattro soldi, e li spendono per vanità, per albagia. Io li conosco, so il viver del mondo. MIRANDOLINA: Eh, il viver del mondo lo so ancor io. MARCHESE: Pensano che le donne della vostra sorta si vincano con i regali. MIRANDOLINA: I regali non fanno male allo stomaco. MARCHESE: Io crederei di farvi un'ingiuria, cercando di obbligarvi con i donativi. MIRANDOLINA: Oh, certamente il signor Marchese non mi ha ingiuriato mai. MARCHESE: E tali ingiurie non ve le farò. MIRANDOLINA: Lo credo sicurissimamente. MARCHESE: Ma dove posso, comandatemi. MIRANDOLINA: Bisognerebbe ch'io sapessi, in che cosa può Vostra Eccellenza. MARCHESE: In tutto. Provatemi. MIRANDOLINA: Ma verbigrazia, in che? MARCHESE: Per bacco! Avete un merito che sorprende. MIRANDOLINA: Troppe grazie, Eccellenza.
MARCHESE: Ah! direi quasi uno sproposito. Maledirei quasi la mia Eccellenza. MIRANDOLINA: Perché, signore? MARCHESE: Qualche volta mi auguro di essere nello stato del Conte. MIRANDOLINA: Per ragione forse de' suoi denari? MARCHESE: Eh! Che denari! Non li stimo un fico. Se fossi un Conte ridicolo come lui... MIRANDOLINA: Che cosa farebbe? MARCHESE: Cospetto del diavolo... vi sposerei. (Parte.)
SCENA NONA
MIRANDOLINA (sola): Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
SCENA DECIMA
Fabrizio e detta. FABRIZIO: Ehi, padrona. MIRANDOLINA: Che cosa c'è? FABRIZIO: Quel forestiere che è alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria, e che non la vuole. MIRANDOLINA: Lo so, lo so. Lo ha detto anche a me, e lo voglio servire. FABRIZIO: Benissimo. Venitemi dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare. MIRANDOLINA: Andate, andate, gliela porterò io. FABRIZIO: Voi gliela volete portare? MIRANDOLINA: Sì, io. FABRIZIO: Bisogna che vi prema molto questo forestiere. MIRANDOLINA: Tutti mi premono. Badate a voi. FABRIZIO: (Già me n'avvedo. Non faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente). (Da sé.) MIRANDOLINA: (Povero sciocco! Ha delle pretensioni. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedelta). (Da sé.) FABRIZIO: Si è sempre costumato, che i forestieri li serva io. MIRANDOLINA: Voi con i forestieri siete un poco troppo ruvido. FABRIZIO: E voi siete un poco troppo gentile.
MIRANDOLINA: So quel quel che fo, non ho bisogno di correttori. FABRIZIO: Bene, bene. Provvedetevi di cameriere. MIRANDOLINA: Perché, signor Fabrizio? è disgustato di me? FABRIZIO: Vi ricordate voi che cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch'egli morisse? MIRANDOLINA: Sì; quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre. FABRIZIO: Ma io son delicato di pelle, certe cose non le posso soffrire. MIRANDOLINA: Ma che credi tu ch'io mi sia? Una frasca? Una civetta? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che voglio fare io dei forestieri che vanno e vengono? Se il tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De' regali non ne ho bisogno. Per far all'amore? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi... mi ricorderò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito... Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (Parte.) FABRIZIO: Chi può intenderla, è bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere. Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa. Finalmente i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre per me. (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Camera del Cavaliere. Il Cavaliere ed un Servitore. SERVITORE: Illustrissimo, hanno portato questa lettera. CAVALIERE: Portami la cioccolata. (Il Servitore parte.) (Il Cavaliere apre la lettera.) Siena, primo Gennaio 1753. (Chi scrive?) Orazio Taccagni. Amico carissimo. La tenera amicizia che a voi mi lega, mi rende sollecito ad avvisarvi essere necessario il vostro ritorno in patria. È morto il Conte Manna... (Povero Cavaliere! Me ne dispiace). Ha lasciato la sua unica figlia nubile erede di centocinquanta mila scudi. Tutti gli amici vostri vorrebbero che toccasse a voi una tal fortuna, e vanno maneggiando... Non s'affatichino per me, che non voglio saper nulla. Lo sanno pure ch'io non voglio donne per i piedi. E questo mio caro amico, che lo sa più d'ogni altro, mi secca peggio di tutti. (Straccia la lettera.) Che importa a me di centocinquanta mila scudi? Finché son solo, mi basta meno. Se fossi accompagnato, non mi basterebbe assai più. Moglie a me! Piuttosto una febbre quartana.
SCENA DODICESIMA
Il Marchese e detto. MARCHESE: Amico, vi contentate ch'io venga a stare un poco con voi? CAVALIERE: Mi fate onore. MARCHESE: Almeno fra me e voi possiamo trattarci con confidenza; ma quel somaro del Conte non è degno di stare in conversazione con noi. CAVALIERE: Caro Marchese, compatitemi; rispettate gli altri, se volete essere rispettato voi pure. MARCHESE: Sapete il mio naturale. Io fo le cortesie a tutti, ma colui non lo posso soffrire. CAVALIERE: Non lo potete soffrire, perché vi è rivale in amore! Vergogna! Un cavaliere della vostra sorta innamorarsi d'una locandiera! Un uomo savio, come siete voi, correr dietro a una donna! MARCHESE: Cavaliere mio, costei mi ha stregato. CAVALIERE: Oh! pazzie! debolezze! Che stregamenti! Che vuol dire che le donne non mi stregheranno? Le loro fattucchierie consistono nei loro vezzi, nelle loro lusinghe, e chi ne sta lontano, come fo io, non ci è pericolo che si lasci ammaliare. MARCHESE: Basta! ci penso e non ci penso: quel che mi dà fastidio e che m'inquieta, è il mio fattor di campagna. CAVALIERE: Vi ha fatto qualche porcheria? MARCHESE: Mi ha mancato di parola.
SCENA TREDICESIMA
Il Servitore con una cioccolata e detti. CAVALIERE: Oh mi dispiace... Fanne subito un'altra. (Al Servitore.) SERVITORE: In casa per oggi non ce n'è altra, illustrissimo. CAVALIERE: Bisogna che ne provveda. Se vi degnate di questa... (Al Marchese.) MARCHESE (prende la cioccolata, e si mette a berla senza complimenti, seguitando poi a discorrere e bere, come segue): Questo mio fattore, come io vi diceva... (Beve.) CAVALIERE: (Ed io resterò senza). (Da sé.) MARCHESE: Mi aveva promesso mandarmi con l'ordinario... (Beve.) venti zecchini... (Beve.) CAVALIERE: (Ora viene con una seconda stoccata). (Da sé.) MARCHESE: E non me li ha mandati... (Beve.) CAVALIERE: Li manderà un'altra volta. MARCHESE: Il punto sta... il punto sta... (Finisce di bere.) Tenete. (Dà la chicchera al Servitore.) Il punto sta che sono in un grande impegno, e non so come fare. CAVALIERE: Otto giorni più, otto giorni meno... MARCHESE: Ma voi che siete Cavaliere, sapete quel che vuol dire il mantener la parola. Sono in impegno; e... corpo di bacco! Darei della pugna in cielo. CAVALIERE: Mi dispiace di vedervi scontento. (Se sapessi come uscirne con riputazione!) (Da sé.)
MARCHESE: Voi avreste difficoltà per otto giorni di farmi il piacere? CAVALIERE: Caro Marchese, se potessi, vi servirei di cuore; se ne avessi, ve li avrei esibiti a dirittura. Ne aspetto, e non ne ho. MARCHESE: Non mi darete ad intendere d'esser senza denari. CAVALIERE: Osservate. Ecco tutta la mia ricchezza. Non arrivano a due zecchini. (Mostra uno zecchino e varie monete.) MARCHESE: Quello è uno zecchino d'oro. CAVALIERE: Sì; l'ultimo, non ne ho più. MARCHESE: Prestatemi quello, che vedrò intanto... CAVALIERE: Ma io poi... MARCHESE: Di che avete paura? Ve lo renderò. CAVALIERE: Non so che dire; servitevi. (Gli dà lo zecchino.) MARCHESE: Ho un affare di premura... amico: obbligato per ora: ci rivedremo a pranzo. (Prende lo zecchino, e parte.)
SCENA QUATTORDICESIMA
CAVALIERE (solo): Bravo! Il signor Marchese mi voleva frecciare venti zecchini, e poi si è contentato di uno. Finalmente uno zecchino non mi preme di perderlo, e se non me lo rende, non mi verrà più a seccare. Mi dispiace più, che mi ha bevuto la mia cioccolata. Che indiscretezza! E poi: son chi sono. Son Cavaliere. Oh garbatissimo Cavaliere!
SCENA QUINDICESIMA
Mirandolina colla biancheria, e detto. MIRANDOLINA: Permette, illustrissimo? (Entrando con qualche soggezione.) CAVALIERE: Che cosa volete? (Con asprezza.) MIRANDOLINA: Ecco qui della biancheria migliore. (S'avanza un poco.) CAVALIERE: Bene. Mettetela lì. (Accenna il tavolino.) MIRANDOLINA: La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio. CAVALIERE: Che roba è? MIRANDOLINA: Le lenzuola son di rensa. (S'avanza ancor più.) CAVALIERE: Rensa? MIRANDOLINA: Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi. CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato. MIRANDOLINA: Questa biancheria l'ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei. CAVALIERE: Per esser lei! Solito complimento. MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola. CAVALIERE: Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me. MIRANDOLINA: Per un Cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S.
illustrissima. CAVALIERE: (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). (Da sé.) MIRANDOLINA: (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). (Da sé.) CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v'incomodiate per questo. MIRANDOLINA: Oh, io non m'incomodo mai, quando servo Cavaliere di sì alto merito. CAVALIERE: Bene, bene, non occorr'altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (Da sé.) MIRANDOLINA: La metterò nell'arcova. CAVALIERE: Sì, dove volete. (Con serietà.) MIRANDOLINA: (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (Da sé, va a riporre la biancheria.) CAVALIERE: (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (Da sè.) MIRANDOLINA: A pranzo, che cosa comanda? (Ritornando senza la biancheria.) CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà. MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell'altra, lo dica con libertà. CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere. MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l'attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le pie qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col Conte e col Marchese. MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler fare all'amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza. CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità. MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità. CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere. MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se ho mai dato loro un segno d'affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà. CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro. MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente. CAVALIERE: So io ben quel che faccio. Alla larga. MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima? CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne. MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male. CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch'io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini, che hanno paura del nostro sesso. CAVALIERE: (È curiosa costei). (Da sé.) MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima. (Finge voler partire.) CAVALIERE: Avete premura di partire? MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna. CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite. MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m'intende, e mi fanno i cascamorti. CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera. MIRANDOLINA: Troppa bontà, illustrissimo. (Con una riverenza.) CAVALIERE: Ed essi s'innamorano. MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna! CAVALIERE: Questa io non l'ho mai potuta capire. MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità! CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane! MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano. CAVALIERE: Perché volete ch'io vi porga la mano? MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita. CAVALIERE: Ecco la mano. MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l'onore d'aver per la mano un
uomo, che pensa veramente da uomo. CAVALIERE: Via, basta così. (Ritira la mano.) MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que' due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch'io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l'oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto in conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell'attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo. CAVALIERE: Per quale motivo avete tanta parzialità per me? MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate. CAVALIERE: (Che diavolo ha costei di stravagante, ch'io non capisco!). (Da sé.) MIRANDOLINA: (Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando). (Da sé.) CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me. MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei atempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere. CAVALIERE: Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri. MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta. CAVALIERE: Da me... Perché? MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo. CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s'innamorano. (Mi caschi il naso, se avanti domani non l'innamoro). (Da sé.)
SCENA SEDICESIMA
CAVALIERE (solo): Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un'altra. Ma per fare all'amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s'innamorano delle donne. (Parte.)
SCENA DICIASSETTESIMA
Altra camera di locanda. Ortensia, Dejanira, Fabrizio. FABRIZIO: Che restino servite qui, illustrissime. Osservino quest'altra camera. Quella per dormire, e questa per mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano. ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete voi padrone, o cameriere? FABRIZIO: Cameriere, ai comandi di V.S. illustrissima. DEJANIRA: (Ci dà delle illustrissime). (Piano a Ortensia, ridendo.) ORTENSIA: (Bisogna secondare il lazzo). Cameriere? FABRIZIO: Illustrissima. ORTENSIA: Dite al padrone che venga qui, voglio parlar con lui per il trattamento. FABRIZIO: Verrà la padrona; la servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All'aria, all'abito, paiono dame). (Da sé, parte.)
SCENA DICIOTTESIMA
Dejanira e Ortensia. DEJANIRA: Ci dà dell'illustrissime. Ci ha creduto due dame. ORTENSIA: Bene. Così ci tratterà meglio. DEJANIRA: Ma ci farà pagare di più. ORTENSIA: Eh, circa i conti, avrà da fare con me. Sono degli anni assai, che cammino il mondo. DEJANIRA: Non vorrei che con questi titoli entrassimo in qualche impegno. ORTENSIA: Cara amica, siete di poco spirito. Due commedianti avvezze a far sulla scena da contesse, da marchese e da principesse, avranno difficoltà a sostenere un carattere sopra di una locanda? DEJANIRA: Verranno i nostri compagni, e subito ci sbianchiranno. ORTENSIA: Per oggi non possono arrivare a Firenze. Da Pisa a qui in navicello vi vogliono almeno tre giorni. DEJANIRA: Guardate che bestialità! Venire in navicello! ORTENSIA: Per mancanza di lugagni. È assai che siamo venute noi in calesse. DEJANIRA: È stata buona quella recita di più che abbiamo fatto. ORTENSIA: Sì, ma se non istavo io alla porta, non si faceva niente.
SCENA DICIANNOVESIMA
Fabrizio e dette. FABRIZIO: La padrona or ora sarà a servirle. ORTENSIA: Bene. FABRIZIO: Ed io le supplico a comandarmi. Ho servito altre dame: mi darò l'onor di servir con tutta l'attenzione anche le signorie loro illustrissime. ORTENSIA: Occorrendo, mi varrò di voi. DEJANIRA: (Ortensia queste parti le fa benissimo). (Da sé.) FABRIZIO: Intanto le supplico, illustrissime signore, favorirmi il loro riverito nome per la consegna. (Tira fuori un calamaio ed un libriccino.) DEJANIRA: (Ora viene il buono). ORTENSIA: Perché ho da dar il mio nome? FABRIZIO: Noialtri locandieri siamo obbligati a dar il nome, il casato, la patria e la condizione di tutti i eggeri che alloggiano alla nostra locanda. E se non lo fimo, meschini noi. DEJANIRA: (Amica, i titoli sono finiti). (Piano ad Ortensia.) ORTENSIA: Molti daranno anche il nome finto. FABRIZIO: In quanto a questo poi, noialtri scriviamo il nome che ci dettano, e non cerchiamo di più. ORTENSIA: Scrivete. La Baronessa Ortensia del Poggio, palermitana. FABRIZIO: (Siciliana? Sangue caldo). (Scrivendo.) Ella, illustrissima? (A Dejanira.)
DEJANIRA: Ed io... (Non so che mi dire). ORTENSIA: Via, Contessa Dejanira, dategli il vostro nome. FABRIZIO: Vi supplico. (A Dejanira.) DEJANIRA: Non l'avete sentito? (A Fabrizio.) FABRIZIO: L'illustrissima signora Contessa Dejanira... (Scrivendo.) Il cognome? DEJANIRA: Anche il cognome? (A Fabrizio.) ORTENSIA: Sì, dal Sole, romana. (A Fabrizio.) FABRIZIO: Non occorr'altro. Perdonino l'incomodo. Ora verrà la padrona. (L'ho io detto, che erano due dame? Spero che farò de' buoni negozi. Mancie non ne mancheranno). (Parte.) DEJANIRA: Serva umilissima della signora Baronessa. ORTENSIA: Contessa, a voi m'inchino. (Si burlano vicendevolmente.) DEJANIRA: Qual fortuna mi offre la felicissima congiuntura di rassegnarvi il mio profondo rispetto? ORTENSIA: Dalla fontana del vostro cuore scaturir non possono che torrenti di grazie.
SCENA VENTESIMA
Mirandolina e dette. DEJANIRA: Madama, voi mi adulate. (Ad Ortensia, con caricatura.) ORTENSIA: Contessa, al vostro merito ci converrebbe assai più. (Fa lo stesso.) MIRANDOLINA: (Oh che dame cerimoniose). (Da sé, in disparte.) DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da ridere!). (Da sé.) ORTENSIA: Zitto: è qui la padrona. (Piano a Dejanira.) MIRANDOLINA: M'inchino a queste dame. ORTENSIA: Buon giorno, quella giovane. DEJANIRA: Signora padrona, vi riverisco. (A Mirandolina.) ORTENSIA: Ehi! (Fa cenno a Dejanira, che si sostenga.) MIRANDOLINA: Permetta ch'io le baci la mano. (Ad Ortensia.) ORTENSIA: Siete obbligante. (Le dà la mano.) DEJANIRA: (ride da sé.) MIRANDOLINA: Anche ella, illustrissima. (Chiede la mano a Dejanira.) DEJANIRA: Eh, non importa... ORTENSIA: Via, gradite le finezze di questa giovane. Datele la mano. MIRANDOLINA: La supplico. DEJANIRA: Tenete. (Le dà la mano, si volta, e ride.)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima? Di che? ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l'ha fatta ridere. MIRANDOLINA: (Io giuocherei che non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (Da sé.) ORTENSIA: Circa il trattamento, converrà poi discorrere. (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Ma! Sono sole? Non hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno? ORTENSIA: Il Barone mio marito... DEJANIRA: (ride forte). MIRANDOLINA: Perché ride, signora? (A Dejanira.) ORTENSIA: Via, perché ridete? DEJANIRA: Rido del Barone di vostro marito. ORTENSIA: Sì, è un Cavaliere giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col Conte Orazio, marito della Contessina. DEJANIRA (fa forza per trattenersi dal ridere). MIRANDOLINA: La fa ridere anche il signor Conte? (A Dejanira.) ORTENSIA: Ma via, Contessina, tenetevi un poco nel vostro decoro. MIRANDOLINA: Signore mie, favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia, sarebbe mai... ORTENSIA: Che cosa vorreste voi dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà? MIRANDOLINA: Perdoni, illustrissima, non si riscaldi, perché farà ridere la signora Contessa. DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (Minacciandola.) MIRANDOLINA: Io so che cosa voleva dire, illustrissima. (A Dejanira.) DEJANIRA: Se l'indovinate, vi stimo assai. MIRANDOLINA: Volevate dire: Che serve che fingiamo d'esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è vero? DEJANIRA: E che sì che ci conoscete? (A Mirandolina.) ORTENSIA: Che brava commediante! Non è buona da sostenere un carattere. DEJANIRA: Fuori di scena io non so fingere. MIRANDOLINA: Brava, signora Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza. ORTENSIA: Qualche volta mi prendo un poco di so. MIRANDOLINA: Ed io amo infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che siete padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest'appartamento, ch'io vi darò dei camerini assai comodi. DEJANIRA: Sì, volentieri. ORTENSIA: Ma io, quando spendo il mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo appartamento ci sono, e non me ne anderò. MIRANDOLINA: Via, signora Baronessa, sia buona... Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti. ORTENSIA: È ricco? MIRANDOLINA: Io non so i fatti suoi.
SCENA VENTUNESIMA
Il Marchese e dette. MARCHESE: È permesso? Si può entrare? ORTENSIA: Per me è padrone. MARCHESE: Servo di lor signore. DEJANIRA: Serva umilissima. ORTENSIA: La riverisco divotamente. MARCHESE: Sono forestiere? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Eccellenza sì. Sono venute ad onorare la mia locanda. ORTENSIA: (È un'Eccellenza! Capperi!). (Da sé.) DEJANIRA: (Già Ortensia lo vorrà per sé). (Da sé.) MARCHESE: E chi sono queste signore? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Questa è la Baronessa Ortensia del Poggio, e questa la Contessa Dejanira dal Sole. MARCHESE: Oh compitissime dame! ORTENSIA: E ella chi è, signore? MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli. DEJANIRA: (La locandiera vuol seguitare a far la commedia). (Da sé.) ORTENSIA: Godo aver l'onore di conoscere un cavaliere così compito. MARCHESE: Se vi potessi servire, comandatemi. Ho piacere che siate venute
ad alloggiare in questa locanda. Troverete una padrona di garbo. MIRANDOLINA: Questo cavaliere è pieno di bontà. Mi onora della sua protezione. MARCHESE: Sì, certamente. Io la proteggo, e proteggo tutti quelli che vengono nella sua locanda; e se vi occorre nulla, comandate. ORTENSIA: Occorrendo, mi prevarrò delle sue finezze. MARCHESE: Anche voi, signora Contessa, fate capitale di me. DEJANIRA: Potrò ben chiamarmi felice, se avrò l'alto onore di essere annoverata nel ruolo delle sue umilissime serve. MIRANDOLINA: (Ha detto un concetto da commedia). (Ad Ortensia.) ORTENSIA: (Il titolo di Contessa l'ha posta in soggezione). (A Mirandolina.) (Il Marchese tira fuori di tasca un bel fazzoletto di seta, lo spiega, e finge volersi asciugar la fronte.) MIRANDOLINA: Un gran fazzoletto, signor Marchese! MARCHESE: Ah! Che ne dite? È bello? Sono di buon gusto io? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Certamente è di ottimo gusto. MARCHESE: Ne avete più veduti di così belli? (Ad Ortensia.) ORTENSIA: È superbo. Non ho veduto il compagno. (Se me lo donasse, lo prenderei). (Da sé.) MARCHESE: Questo viene da Londra. (A Dejanira.) DEJANIRA: È bello, mi piace assai. MARCHESE: Son di buon gusto io? DEJANIRA: (E non dice a' vostri comandi). (Da sé.)
MARCHESE: M'impegno che il Conte non sa spendere. Getta via il denaro, e non compra mai una galanteria di buon gusto. MIRANDOLINA: Il signor Marchese conosce, distingue, sa, vede, intende. MARCHESE (piega il fazzoletto con attenzione): Bisogna piegarlo bene, acciò non si guasti. Questa sorta di roba bisogna custodirla con attenzione. Tenete. (Lo presenta a Mirandolina.) MIRANDOLINA: Vuole ch'io lo faccia mettere nella sua camera? MARCHESE: No. Mettetelo nella vostra. MIRANDOLINA: Perché... nella mia? MARCHESE: Perché... ve lo dono. MIRANDOLINA: Oh, Eccellenza, perdoni... MARCHESE: Tant'è. Ve lo dono. MIRANDOLINA: Ma io non voglio. MARCHESE: Non mi fate andar in collera. MIRANDOLINA: Oh, in quanto a questo poi, il signor Marchese lo sa, io non voglio disgustar nessuno. Acciò non vada in collera, lo prenderò. DEJANIRA: (Oh che bel lazzo!). (Ad Ortensia.) ORTENSIA: (E poi dicono delle commedianti). (A Dejanira.) MARCHESE: Ah! Che dite? Un fazzoletto di quella sorta, l'ho donato alla mia padrona di casa. (Ad Ortensia.) ORTENSIA: È un cavaliere generoso. MARCHESE: Sempre così. MIRANDOLINA: (Questo è il primo regalo che mi ha fatto, e non so come abbia avuto quel fazzoletto). (Da sé.)
DEJANIRA: Signor Marchese, se ne trovano di quei fazzoletti in Firenze? Avrei volontà d'averne uno compagno. MARCHESE: Compagno di questo sarà difficile; ma vedremo. MIRANDOLINA: (Brava la signora Contessina). (Da sé.) ORTENSIA: Signor Marchese, voi che siete pratico della città, fatemi il piacere di mandarmi un bravo calzolaro, perché ho bisogno di scarpe. MARCHESE: Sì, vi manderò il mio. MIRANDOLINA: (Tutte alla vita; ma non ce n'è uno per la rabbia). (Da sé.) ORTENSIA: Caro signor Marchese, favorirà tenerci un poco di compagnia. DEJANIRA: Favorirà a pranzo con noi. MARCHESE: Sì, volentieri. (Ehi Mirandolina, non abbiate gelosia, son vostro, già lo sapete). MIRANDOLINA: (S'accomodi pure: ho piacere che si diverta). (Al Marchese.) ORTENSIA: Voi sarete la nostra conversazione. DEJANIRA: Non conosciamo nessuno. Non abbiamo altri che voi. MARCHESE: Oh care le mie damine! Vi servirò di cuore.
SCENA VENTIDUESIMA
Il Conte e detti. CONTE: Mirandolina, io cercava voi. MIRANDOLINA: Son qui con queste dame. CONTE: Dame? M'inchino umilmente. ORTENSIA: Serva divota. (Questo è un guasco più badia! di quell'altro). (Piano a Dejanira.) DEJANIRA: (Ma io non sono buona per miccheggiare). (Piano ad Ortensia.) MARCHESE: (Ehi! Mostrate al Conte il fazzoletto). (Piano a Mirandolina.) MIRANDOLINA: Osservi signor Conte, il bel regalo che mi ha fatto il signor Marchese. (Mostra il fazzoletto al Conte.) CONTE: Oh, me ne rallegro! Bravo, signor Marchese. MARCHESE: Eh niente, niente. Bagattelle. Riponetelo via; non voglio che lo diciate. Quel che fo, non s'ha da sapere. MIRANDOLINA: (Non s'ha da sapere, e me lo fa mostrare. La superbia contrasta con la povertà). (Da sé.) CONTE: Con licenza di queste dame, vorrei dirvi una parola. (A Mirandolina.) ORTENSIA: S'accomodi con libertà. MARCHESE: Quel fazzoletto in tasca lo manderete a male. (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Eh, lo riporrò nella bambagia, perché non si ammacchi! CONTE: Osservate questo piccolo gioiello di diamanti. (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Bello assai. CONTE: È compagno degli orecchini che vi ho donato. (Ortensia e Dejanira osservano, e parlano piano fra loro.) MIRANDOLINA: Certo è compagno, ma è ancora più bello. MARCHESE: (Sia maledetto il Conte, i suoi diamanti, i suoi denari, e il suo diavolo che se lo porti). (Da sé.) CONTE: Ora, perché abbiate il fornimento compagno, ecco ch'io vi dono il gioiello. (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Non lo prendo assolutamente. CONTE: Non mi farete questa male creanza. MIRANDOLINA: Oh! delle male creanze non ne faccio mai. Per non disgustarla, lo prenderò. (Ortensia e Dejanira parlano come sopra, osservando la generosità del Conte.) MIRANDOLINA: Ah! Che ne dice, signor Marchese? Questo gioiello non è galante? MARCHESE: Nel suo genere il fazzoletto è più di buon gusto. CONTE: Sì, ma da genere a genere vi è una bella distanza. MARCHESE: Bella cosa! Vantarsi in pubblico di una grande spesa. CONTE: Sì, sì, voi fate i vostri regali in segreto. MIRANDOLINA: (Posso ben dire con verità questa volta, che fra due litiganti il terzo gode). (Da sé.) MARCHESE: E così, damine mie, sarò a pranzo con voi. ORTENSIA: Quest'altro signore chi è? (Al Conte.)
CONTE: Sono il Conte d'Albafiorita, per obbedirvi. DEJANIRA: Capperi! È una famiglia illustre, io la conosco. (Anch'ella s'accosta al Conte.) CONTE: Sono a' vostri comandi. (A Dejanira.) ORTENSIA: È qui alloggiato? (Al Conte.) CONTE: Sì, signora. DEJANIRA: Si trattiene molto? (Al Conte.) CONTE: Credo di sì. MARCHESE: Signore mie, sarete stanche di stare in piedi, volete ch'io vi serva nella vostra camera? ORTENSIA: Obbligatissima. (Con disprezzo.) Di che paese è, signor Conte? CONTE: Napolitano. ORTENSIA: Oh! Siamo mezzi patrioti. Io sono palermitana. DEJANIRA: Io son romana; ma sono stata a Napoli, e appunto per un mio interesse desiderava parlare con un cavaliere napolitano. CONTE: Vi servirò, signore. Siete sole? Non avete uomini? MARCHESE: Ci sono io, signore: e non hanno bisogno di voi. ORTENSIA: Siamo sole, signor Conte. Poi vi diremo il perché. CONTE: Mirandolina. MIRANDOLINA: Signore. CONTE: Fate preparare nella mia camera per tre. Vi degnerete di favorirmi? (Ad Ortensia e Dejanira.) ORTENSIA: Riceveremo le vostre finezze.
MARCHESE: Ma io sono stato invitato da queste dame. CONTE: Esse sono padrone di servirsi come comandano, ma alla mia piccola tavola in più di tre non ci si sta. MARCHESE: Vorrei veder anche questa... ORTENSIA: Andiamo, andiamo, signor Conte. Il signor Marchese ci favorirà un'altra volta. (Parte.) DEJANIRA: Signor Marchese, se trova il fazzoletto, mi raccomando. (Parte.) MARCHESE: Conte, Conte, voi me la pagherete. CONTE: Di che vi lagnate? MARCHESE: Son chi sono, e non si tratta così. Basta... Colei vorrebbe un fazzoletto? Un fazzoletto di quella sorta? Non l'avrà. Mirandolina, tenetelo caro. Fazzoletti di quella sorta non se ne trovano. Dei diamanti se ne trovano, ma dei fazzoletti di quella sorta non se ne trovano. (Parte.) MIRANDOLINA: (Oh che bel pazzo!). (Da sé.) CONTE: Cara Mirandolina, avrete voi dispiacere ch'io serva queste due dame? MIRANDOLINA: Niente affatto, signore. CONTE: Lo faccio per voi. Lo faccio per accrescer utile ed avventori alla vostra locanda; per altro io son vostro, è vostro il mio cuore, e vostre son le mie ricchezze, delle quali disponetene liberamente, che io vi faccio padrona. (Parte.)
SCENA VENTITREESIMA
MIRANDOLINA (sola): Con tutte le sue ricchezze, con tutti li suoi regali, non arriverà mai ad innamorarmi; e molto meno lo farà il Marchese colla sua ridicola protezione. Se dovessi attaccarmi ad uno di questi due, certamente lo farei con quello che spende più. Ma non mi preme né dell'uno, né dell'altro. Sono in impegno d'innamorar il Cavaliere di Ripafratta, e non darei un tal piacere per un gioiello il doppio più grande di questo. Mi proverò; non so se avrò l'abilità che hanno quelle due brave comiche, ma mi proverò. Il Conte ed il Marchese, frattanto che con quelle si vanno trattenendo, mi lasceranno in pace; e potrò a mio bell'agio trattar col Cavaliere. Possibile ch'ei non ceda? Chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell'arte sua? Chi fugge non può temer d'esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o presto o tardi a suo dispetto cadere. (Parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera del Cavaliere, con tavola apparecchiata per il pranzo e sedie. Il Cavaliere ed il suo Servitore, poi Fabrizio. Il Cavaliere eggia con un libro. Fabrizio mette la zuppa in tavola. FABRIZIO: Dite al vostro padrone, se vuol restare servito, che la zuppa è in tavola. (Al Servitore.) SERVITORE: Glielo potete dire anche voi. (A Fabrizio.) FABRIZIO: È tanto stravagante, che non gli parlo niente volentieri. SERVITORE: Eppure non è cattivo. Non può veder le donne, per altro cogli uomini è dolcissimo. FABRIZIO: (Non può veder le donne? Povero sciocco! Non conosce il buono). (Da sé, parte.) SERVITORE: Illustrissimo, se comoda, è in tavola. (Il Cavaliere mette giù il libro, e va a sedere a tavola.) CAVALIERE: Questa mattina parmi che si pranzi prima del solito. (Al Servitore, mangiando.) (Il Servitore dietro la sedia del Cavaliere, col tondo sotto il braccio.) SERVITORE: Questa camera è stata servita prima di tutte. Il signor Conte d'Albafiorita strepitava che voleva essere servito il primo, ma la padrona ha voluto che si desse in tavola prima a V.S. illustrissima. CAVALIERE: Sono obbligato a costei per l'attenzione che mi dimostra.
SERVITORE: È una assai compita donna, illustrissimo. In tanto mondo che ho veduto, non ho trovato una locandiera più garbata di questa. CAVALIERE: Ti piace, eh? (Voltandosi un poco indietro.) SERVITORE: Se non fosse per far torto al mio padrone, vorrei venire a stare con Mirandolina per cameriere. CAVALIERE: Povero sciocco! Che cosa vorresti ch'ella fe di te? (Gli dà il tondo, ed egli lo muta.) SERVITORE: Una donna di questa sorta, la vorrei servir come un cagnolino. (Va per un piatto.) CAVALIERE: Per bacco! Costei incanta tutti. Sarebbe da ridere che incantasse anche me. Orsù, domani me ne vado a Livorno. S'ingegni per oggi, se può, ma si assicuri che non sono sì debole. Avanti ch'io superi l'avversion per le donne, ci vuol altro.
SCENA SECONDA
Il Servitore col lesso ed un altro piatto, e detto. SERVITORE: Ha detto la padrona, che se non le pie il pollastro, le manderà un piccione. CAVALIERE: Mi piace tutto. E questo che cos'è? SERVITORE: Disse la padrona, ch'io le sappia dire se a V.S. illustrissima piace questa salsa, che l'ha fatta ella colle sue mani. CAVALIERE: Costei mi obbliga sempre più. (L'assaggia.) È preziosa. Dille che mi piace, che la ringrazio. SERVITORE: Glielo dirò, illustrissimo. CAVALIERE: Vaglielo a dir subito. SERVITORE: Subito. (Oh che prodigio! Manda un complimento a una donna!). (Da sé, parte.) CAVALIERE: È una salsa squisita. Non ho sentita la meglio. (Va mangiando.) Certamente, se Mirandolina farà così, avrà sempre de' forestieri. Buona tavola, buona biancheria. E poi non si può negare che non sia gentile; ma quel che più stimo in lei, è la sincerità. Oh, quella sincerità è pure la bella cosa! Perché non posso io vedere le donne? Perché sono finte, bugiarde, lusinghiere. Ma quella bella sincerità...
SCENA TERZA
Il servitore e detto. SERVITORE: Ringrazia V.S. illustrissima della bontà che ha d'aggradire le sue debolezze. CAVALIERE: Bravo, signor cerimoniere, bravo. SERVITORE: Ora sta facendo colle sue mani un altro piatto; non so dire che cosa sia. CAVALIERE: Sta facendo? SERVITORE: Sì signore. CAVALIERE: Dammi da bere. SERVITORE: La servo. (Va a prendere da bere.) CAVALIERE: Orsù, con costei bisognerà corrispondere con generosità. È troppo compita; bisogna pagare il doppio. Trattarla bene, ma andar via presto. (Il Servitore gli presenta da bere.) CAVALIERE: Il Conte è andato a pranzo? (Beve.) SERVITORE: Illustrissimo sì, in questo momento. Oggi fa trattamento. Ha due dame a tavola con lui. CAVALIERE: Due dame? Chi sono? SERVITORE: Sono arrivate a questa locanda poche ore sono. Non so chi sieno. CAVALIERE: Le conosceva il Conte? SERVITORE: Credo di no; ma appena le ha vedute, le ha invitate a pranzo seco.
CAVALIERE: Che debolezza! Appena vede due donne, subito si attacca. Ed esse accettano. E sa il cielo chi sono; ma sieno quali esser vogliono, sono donne, e tanto basta. Il Conte si rovinerà certamente. Dimmi: il Marchese è a tavola? SERVITORE: È uscito di casa, e non si è ancora veduto. CAVALIERE: In tavola. (Fa mutare il tondo.) SERVITORE: La servo. CAVALIERE: A tavola con due dame! Oh che bella compagnia! Colle loro smorfie mi farebbero ar l'appetito.
SCENA QUARTA
Mirandolina con un tondo in mano, ed il Servitore, e detto. MIRANDOLINA: È permesso? CAVALIERE: Chi è di là? SERVITORE: Comandi. CAVALIERE: Leva là quel tondo di mano. MIRANDOLINA: Perdoni. Lasci ch'io abbia l'onore di metterlo in tavola colle mie mani. (Mette in tavola la vivanda.) CAVALIERE: Questo non è offizio vostro. MIRANDOLINA: Oh signore, chi son io? Una qualche signora? Sono una serva di chi favorisce venire alla mia locanda. CAVALIERE: (Che umiltà!). (Da sé.) MIRANDOLINA: In verità, non avrei difficoltà di servire in tavola tutti, ma non lo faccio per certi riguardi: non so s'ella mi capisca. Da lei vengo senza scrupoli, con franchezza. CAVALIERE: Vi ringrazio. Che vivanda è questa? MIRANDOLINA: Egli è un intingoletto fatto colle mie mani. CAVALIERE: Sarà buono. Quando lo avete fatto voi, sarà buono. MIRANDOLINA: Oh! troppa bontà, signore. Io non so far niente di bene; ma bramerei saper fare, per dar nel genio ad un Cavalier sì compìto. CAVALIERE: (Domani a Livorno). (Da sé.) Se avete che fare, non istate a disagio per me.
MIRANDOLINA: Niente, signore: la casa è ben provveduta di cuochi e servitori. Avrei piacere di sentire, se quel piatto le dà nel genio. CAVALIERE: Volentieri, subito. (Lo assaggia.) Buono, prezioso. Oh che sapore! Non conosco che cosa sia. MIRANDOLINA: Eh, io, signore, ho de' secreti particolari. Queste mani sanno far delle belle cose! CAVALIERE: Dammi da bere. (Al Servitore, con qualche ione.) MIRANDOLINA: Dietro questo piatto, signore, bisogna beverlo buono. CAVALIERE: Dammi del vino di Borgogna. (Al Servitore.) MIRANDOLINA: Bravissimo. Il vino di Borgogna è prezioso. Secondo me, per pasteggiare è il miglior vino che si possa bere. (Il Servitore presenta la bottiglia in tavola, con un bicchiere.) CAVALIERE: Voi siete di buon gusto in tutto. MIRANDOLINA: In verità, che poche volte m'inganno. CAVALIERE: Eppure questa volta voi v'ingannate. MIRANDOLINA: In che, signore? CAVALIERE: In credere ch'io meriti d'essere da voi distinto. MIRANDOLINA: Eh, signor Cavaliere... (Sospirando.) CAVALIERE: Che cosa c'è? Che cosa sono questi sospiri? (Alterato.) MIRANDOLINA: Le dirò: delle attenzioni ne uso a tutti, e mi rattristo quando penso che non vi sono che ingrati. CAVALIERE: Io non vi sarò ingrato. (Con placidezza.) MIRANDOLINA: Con lei non pretendo di acquistar merito, facendo unicamente il mio dovere.
CAVALIERE: No, no, conosco benissimo... Non sono cotanto rozzo quanto voi mi credete. Di me non avrete a dolervi. (Versa il vino nel bicchiere.) MIRANDOLINA: Ma... signore... io non l'intendo. CAVALIERE: Alla vostra salute. (Beve.) MIRANDOLINA: Obbligatissima; mi onora troppo. CAVALIERE: Questo vino è prezioso. MIRANDOLINA: Il Borgogna è la mia ione. CAVALIERE: Se volete, siete padrona. (Le offerisce il vino.) MIRANDOLINA: Oh! Grazie, signore. CAVALIERE: Avete pranzato? MIRANDOLINA: Illustrissimo sì. CAVALIERE: Ne volete un bicchierino? MIRANDOLINA: Io non merito queste grazie. CAVALIERE: Davvero, ve lo do volentieri. MIRANDOLINA: Non so che dire. Riceverò le sue finezze. CAVALIERE: Porta un bicchiere. (Al Servitore.) MIRANDOLINA: No, no, se mi permette: prenderò questo. (Prende il bicchiere del Cavaliere.) CAVALIERE: Oibò. Me ne sono servito io. MIRANDOLINA: Beverò le sue bellezze. (Ridendo.) (Il Servitore mette l'altro bicchiere nella sottocoppa.) CAVALIERE: Eh galeotta! (Versa il vino.)
MIRANDOLINA: Ma è qualche tempo che ho mangiato: ho timore che mi faccia male. CAVALIERE: Non vi è pericolo. MIRANDOLINA: Se mi favorisse un bocconcino di pane... CAVALIERE: Volentieri. Tenete. (Le dà un pezzo di pane.) (Mirandolina col bicchiere in una mano, e nell'altra il pane, mostra di stare a disagio, e non saper come fare la zuppa.) CAVALIERE: Voi state in disagio. Volete sedere? MIRANDOLINA: Oh! Non son degna di tanto, signore. CAVALIERE: Via, via, siamo soli. Portale una sedia. (Al Servitore.) SERVITORE: (Il mio padrone vuol morire: non ha mai fatto altrettanto.) (Da sé; va a prendere la sedia.) MIRANDOLINA: Se lo sapessero il signor Conte ed il signor Marchese, povera me! CAVALIERE: Perché? MIRANDOLINA: Cento volte mi hanno voluto obbligare a bere qualche cosa, o a mangiare, e non ho mai voluto farlo. CAVALIERE: Via, accomodatevi. MIRANDOLINA: Per obbedirla. (Siede, e fa la zuppa nel vino.) CAVALIERE: Senti. (Al Servitore, piano.) (Non lo dire a nessuno, che la padrona sia stata a sedere alla mia tavola). SERVITORE: (Non dubiti). (Piano.) (Questa novità mi sorprende). (Da sé.) MIRANDOLINA: Alla salute di tutto quello che dà piacere al signor Cavaliere. CAVALIERE: Vi ringrazio, padroncina garbata.
MIRANDOLINA: Di questo brindisi alle donne non ne tocca. CAVALIERE: No? Perché? MIRANDOLINA: Perché so che le donne non le può vedere. CAVALIERE: È vero, non le ho mai potute vedere. MIRANDOLINA: Si conservi sempre così. CAVALIERE: Non vorrei... (Si guarda dal Servitore.) MIRANDOLINA: Che cosa, signore? CAVALIERE: Sentite. (Le parla nell'orecchio.) (Non vorrei che voi mi faceste mutar natura). MIRANDOLINA: Io, signore? Come? CAVALIERE: Va via. (Al Servitore.) SERVITORE: Comanda in tavola? CAVALIERE: Fammi cucinare due uova, e quando son cotte, portale. SERVITORE: Come le comanda le uova? CAVALIERE: Come vuoi, spicciati. SERVITORE: Ho inteso. (Il padrone si va riscaldando). (Da sé, parte.) CAVALIERE: Mirandolina, voi siete una garbata giovine. MIRANDOLINA: Oh signore, mi burla. CAVALIERE: Sentite. Voglio dirvi una cosa vera, verissima, che ritornerà in vostra gloria. MIRANDOLINA: La sentirò volentieri. CAVALIERE: Voi siete la prima donna di questo mondo, con cui ho avuto la
sofferenza di trattar con piacere. MIRANDOLINA: Le dirò, signor Cavaliere: non già ch'io meriti niente, ma alle volte si danno questi sangui che s'incontrano. Questa simpatia, questo genio, si dà anche fra persone che non si conoscono. Anch'io provo per lei quello che non ho sentito per alcun altro. CAVALIERE: Ho paura che voi mi vogliate far perdere la mia quiete. MIRANDOLINA: Oh via, signor Cavaliere, se è un uomo savio, operi da suo pari. Non dia nelle debolezze degli altri. In verità, se me n'accorgo, qui non ci vengo più. Anch'io mi sento un non so che di dentro, che non ho più sentito; ma non voglio impazzire per uomini, e molto meno per uno che ha in odio le donne; e che forse forse per provarmi, e poi burlarsi di me, viene ora con un discorso nuovo a tentarmi. Signor Cavaliere, mi favorisca un altro poco di Borgogna. CAVALIERE: Eh! Basta... (Versa il vino in un bicchiere.) MIRANDOLINA: (Sta lì lì per cadere). (Da sé.) CAVALIERE: Tenete. (Le dà il bicchiere col vino.) MIRANDOLINA: Obbligatissima. Ma ella non beve? CAVALIERE: Sì, beverò. (Sarebbe meglio che io mi ubbriacassi. Un diavolo scaccerebbe l'altro). (Da sé, versa il vino nel suo bicchiere.) MIRANDOLINA: Signor Cavaliere. (Con vezzo.) CAVALIERE: Che c'è? MIRANDOLINA: Tocchi. (Gli fa toccare il bicchiere col suo.) Che vivano i buoni amici. CAVALIERE: Che vivano. (Un poco languente.) MIRANDOLINA: Viva... chi si vuol bene... senza malizia tocchi! CAVALIERE: Evviva...
SCENA QUINTA
Il Marchese e detti. MARCHESE: Son qui ancor io. E che viva? CAVALIERE: Come, signor Marchese? (Alterato.) MARCHESE: Compatite, amico. Ho chiamato. Non c'è nessuno. MIRANDOLINA: Con sua licenza... (Vuol andar via.) CAVALIERE: Fermatevi. (A Mirandolina.) Io non mi prendo con voi cotanta libertà. (Al Marchese.) MARCHESE: Vi domando scusa. Siamo amici. Credeva che foste solo. Mi rallegro vedervi accanto alla nostra adorabile padroncina. Ah! Che dite? Non è un capo d'opera? MIRANDOLINA: Signore, io ero qui per servire il signor Cavaliere. Mi è venuto un poco di male, ed egli mi ha soccorso con un bicchierin di Borgogna. MARCHESE: È Borgogna quello? (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Sì, è Borgogna. MARCHESE: Ma di quel vero? CAVALIERE: Almeno l'ho pagato per tale. MARCHESE: Io me n'intendo. Lasciate che lo senta, e vi saprò dire se è, o se non è. CAVALIERE: Ehi! (Chiama.)
SCENA SESTA
Il Servitore colle ova, e detti. CAVALIERE: Un bicchierino al Marchese. (Al Servitore.) MARCHESE: Non tanto piccolo il bicchierino. Il Borgogna non è liquore. Per giudicarne bisogna beverne a sufficienza. SERVITORE: Ecco le ova. (Vuol metterle in tavola.) CAVALIERE: Non voglio altro. MARCHESE: Che vivanda è quella? CAVALIERE: Ova. MARCHESE: Non mi piacciono. (Il Servitore le porta via.) MIRANDOLINA: Signor Marchese, con licenza del signor Cavaliere, senta quell'intingoletto fatto colle mie mani. MARCHESE: Oh sì. Ehi. Una sedia. (Il Servitore gli reca una sedia e mette il bicchiere sulla sottocoppa.) Una forchetta. CAVALIERE: Via, recagli una posata. (Il Servitore la va a prendere.) MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, ora sto meglio. Me n'anderò. (S'alza.) MARCHESE: Fatemi il piacere, restate ancora un poco. MIRANDOLINA: Ma signore, ho da attendere a' fatti miei; e poi il signor Cavaliere... MARCHESE: Vi contentate ch'ella resti ancora un poco? (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Che volete da lei?
MARCHESE: Voglio farvi sentire un bicchierino di vin di Cipro che, da che siete al mondo, non avrete sentito il compagno. E ho piacere che Mirandolina lo senta, e dica il suo parere. CAVALIERE: Via, per compiacere il signor Marchese, restate. (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Il signor Marchese mi dispenserà. MARCHESE: Non volete sentirlo? MIRANDOLINA: Un'altra volta, Eccellenza. CAVALIERE: Via, restate. MIRANDOLINA: Me lo comanda? (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Vi dico che restiate. MIRANDOLINA: Obbedisco. (Siede.) CAVALIERE: (Mi obbliga sempre più). (Da sé.) MARCHESE: Oh che roba! Oh che intingolo! Oh che odore! Oh che sapore! (Mangiando.) CAVALIERE: (Il Marchese avrà gelosia, che siate vicina a me). (Piano a Mirandolina.) MIRANDOLINA: (Non m'importa di lui né poco, né molto). (Piano al Cavaliere.) CAVALIERE: (Siete anche voi nemica degli uomini?). (Piano a Mirandolina.) MIRANDOLINA: (Come ella lo è delle donne). (Come sopra.) CAVALIERE: (Queste mie nemiche si vanno vendicando di me). (Come sopra.) MIRANDOLINA: (Come, signore?). (Come sopra.) CAVALIERE: (Eh! furba! Voi vedrete benissimo...). (Come sopra.)
MARCHESE: Amico, alla vostra salute. (Beve il vino di Borgogna.) CAVALIERE: Ebbene? Come vi pare? MARCHESE: Con vostra buona grazia, non val niente. Sentite il mio vin di Cipro. CAVALIERE: Ma dov'è questo vino di Cipro? MARCHESE: L'ho qui, l'ho portato con me, voglio che ce lo godiamo: ma! è di quello. Eccolo. (Tira fuori una bottiglia assai piccola.) MIRANDOLINA: Per quel che vedo, signor Marchese, non vuole che il suo vino ci vada alla testa. MARCHESE: Questo? Si beve a gocce, come lo spirito di melissa. Ehi? Li bicchierini. (Apre la bottiglia.) SERVITORE (porta de' bicchierini da vino di Cipro.) MARCHESE: Eh, son troppo grandi. Non ne avete di più piccoli? (Copre la bottiglia colla mano.) CAVALIERE: Porta quei da rosolio. (Al Servitore.) MIRANDOLINA: Io credo che basterebbe odorarlo. MARCHESE: Uh caro! Ha un odor che consola. (Lo annusa.) SERVITORE (porta tre bicchierini sulla sottocoppa.) MARCHESE (versa pian piano, e non empie li bicchierini, poi lo dispensa al Cavaliere, a Mirandolina, e l'altro per sé, turando bene la bottiglia): Che nettare! Che ambrosia! Che manna distillata! (Bevendo.) CAVALIERE: (Che vi pare di questa porcheria?). (A Mirandolina, piano.) MIRANDOLINA: (Lavature di fiaschi). (Al Cavaliere, piano.) MARCHESE: Ah! Che dite? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Buono, prezioso. MARCHESE: Ah! Mirandolina, vi piace? MIRANDOLINA: Per me, signore, non posso dissimulare; non mi piace, lo trovo cattivo, e non posso dir che sia buono. Lodo chi sa fingere. Ma chi sa fingere in una cosa, saprà fingere nell'altre ancora. CAVALIERE: (Costei mi dà un rimprovero; non capisco il perché). (Da sé.) MARCHESE: Mirandolina, voi di questa sorta di vini non ve ne intendete. Vi compatisco. Veramente il fazzoletto che vi ho donato, l'avete conosciuto e vi è piaciuto, ma il vin di Cipro non lo conoscete. (Finisce di bere.) MIRANDOLINA: (Sente come si vanta?). (Al Cavaliere, piano.) CAVALIERE: (Io non farei così). (A Mirandolina, piano.) MIRANDOLINA: (Il di lei vanto sta nel disprezzare le donne). (Come sopra.) CAVALIERE: (E il vostro nel vincere tutti gli uomini). (Come sopra.) MIRANDOLINA: (Tutti no). (Con vezzo, al Cavaliere, piano.) CAVALIERE: (Tutti sì.) (Con qualche ione, piano a Mirandolina.) MARCHESE: Ehi? Tre bicchierini politi. (Al Servitore, il quale glieli porta sopra una sottocoppa.) MIRANDOLINA: Per me non ne voglio più. MARCHESE: No, no, non dubitate: non faccio per voi. (Mette del vino di Cipro nei tre bicchieri.) Galantuomo, con licenza del vostro padrone, andate dal Conte d'Albafiorita, e ditegli per parte mia, forte, che tutti sentano, che lo prego di assaggiare un poco del mio vino di Cipro. SERVITORE: Sarà servito. (Questo non li ubbriaca certo. (Da sé; parte.) CAVALIERE: Marchese, voi siete assai generoso. MARCHESE: Io? Domandatelo a Mirandolina.
MIRANDOLINA: Oh certamente! MARCHESE: L'ha veduto il fazzoletto il Cavaliere? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Non lo ha ancora veduto. MARCHESE: Lo vedrete. (Al Cavaliere.) Questo poco di balsamo me lo salvo per questa sera. (Ripone la bottiglia con un dito di vino avanzato.) MIRANDOLINA: Badi che non gli faccia male, signor Marchese. MARCHESE: Eh! Sapete che cosa mi fa male? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Che cosa? MARCHESE: I vostri begli occhi. MIRANDOLINA: Davvero? MARCHESE: Cavaliere mio, io sono innamorato di costei perdutamente. CAVALIERE: Me ne dispiace. MARCHESE: Voi non avete mai provato amore per le donne. Oh, se lo provaste, compatireste ancora me. CAVALIERE: Sì, vi compatisco. MARCHESE: E son geloso come una bestia. La lascio stare vicino a voi, perché so chi siete; per altro non lo soffrirei per centomila doppie. CAVALIERE: (Costui principia a seccarmi). (Da sé.)
SCENA SETTIMA
Il Servitore con una bottiglia sulla sottocoppa, e detti. SERVITORE: Il signor Conte ringrazia V.E., e manda una bottiglia di vino di Canarie. (Al Marchese.) MARCHESE: Oh, oh, vorrà mettere il suo vin di Canarie col mio vino di Cipro? Lascia vedere. Povero pazzo! È una porcheria, lo conosco all'odore. (S'alza e tiene la bottiglia in mano.) CAVALIERE: Assaggiatelo prima. (Al Marchese.) MARCHESE: Non voglio assaggiar niente. Questa è una impertinenza che mi fa il Conte, compagna di tante altre. Vuol sempre starmi al di sopra. Vuol soverchiarmi, vuol provocarmi, per farmi far delle bestialità. Ma giuro al cielo, ne farò una che varrà per cento. Mirandolina, se non lo cacciate via, nasceranno delle cose grandi, sì, nasceranno delle cose grandi. Colui è un temerario. Io son chi sono, e non voglio soffrire simile affronti. (Parte, e porta via la bottiglia.)
SCENA OTTAVA
Il Cavaliere, Mirandolina ed il Servitore. CAVALIERE: Il povero Marchese è pazzo. MIRANDOLINA: Se a caso mai la bile gli fe male, ha portato via la bottiglia per ristorarsi. CAVALIERE: È pazzo, vi dico. E voi lo avete fatto impazzire. MIRANDOLINA: Sono di quelle che fanno impazzare gli uomini? CAVALIERE: Sì, voi siete... (Con affanno.) MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, con sua licenza. (S'alza.) CAVALIERE: Fermatevi. MIRANDOLINA: Perdoni; io non faccio impazzare nessuno. (Andando.) CAVALIERE: Ascoltatemi. (S'alza, ma resta alla tavola.) MIRANDOLINA: Scusi. (Andando.) CAVALIERE: Fermatevi, vi dico. (Con imperio.) MIRANDOLINA: Che pretende da me? (Con alterezza voltandosi.) CAVALIERE: Nulla. (Si confonde.) Beviamo un altro bicchiere di Borgogna. MIRANDOLINA: Via signore, presto, presto, che me ne vada. CAVALIERE: Sedete. MIRANDOLINA: In piedi, in piedi. CAVALIERE: Tenete. (Con dolcezza le dà il bicchiere.)
MIRANDOLINA: Faccio un brindisi, e me ne vado subito. Un brindisi che mi ha insegnato mia nonna. Viva Bacco, e viva Amore: L'uno e l'altro ci consola; Uno a per la gola, L'altro va dagli occhi al cuore. Bevo il vin, cogli occhi poi... Faccio quel che fate voi. (Parte.)
SCENA NONA
Il Cavaliere, ed il Servitore. CAVALIERE: Bravissima, venite qui: sentite. Ah malandrina! Se nè fuggita. Se n'è fuggita, e mi ha lasciato cento diavoli che mi tormentano. SERVITORE: Comanda le frutta in tavola? (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Va al diavolo ancor tu. (Il Servitore parte.) Bevo il vin, cogli occhi poi, faccio quel che fate voi? Che brindisi misterioso è questo? Ah maladetta, ti conosco. Mi vuoi abbattere, mi vuoi asse. Ma lo fa con tanta grazia! Ma sa così bene insinuarsi... Diavolo, diavolo, me la farai tu vedere? No, anderò a Livorno. Costei non la voglio più rivedere. Che non mi venga più tra i piedi. Maledettissime donne! Dove vi sono donne, lo giuro non vi anderò mai più. (Parte.)
SCENA DECIMA
Camera del Conte. Il Conte d'Albafiorita, Ortensia e Dejanira. CONTE: Il Marchese di Forlipopoli è un carattere curiosissimo. È nato nobile, non si può negare; ma fra suo padre e lui hanno dissipato, ed ora non ha appena da vivere. Tuttavolta gli piace fare il grazioso. ORTENSIA: Si vede che vorrebbe essere generoso, ma non ne ha. DEJANIRA: Dona quel poco che può, e vuole che tutto il mondo lo sappia. CONTE: Questo sarebbe un bel carattere per una delle vostre commedie. ORTENSIA: Aspetti che arrivi la compagnia, e che si vada in teatro, e può darsi che ce lo godiamo. DEJANIRA: Abbiamo noi dei personaggi, che per imitare i caratteri sono fatti a posta. CONTE: Ma se volete che ce lo godiamo, bisogna che con lui seguitiate a fingervi dame. ORTENSIA: Io lo farò certo. Ma Dejanira subito dà di bianco. DEJANIRA: Mi vien da ridere, quando i gonzi mi credono una signora. CONTE: Con me avete fatto bene a scoprirvi. In questa maniera mi date campo di far qualche cosa in vostro vantaggio. ORTENSIA: Il signor Conte sarà il nostro protettore. DEJANIRA: Siamo amiche, goderemo unitamente le di lei grazie. CONTE: Vi dirò, vi parlerò con sincerità. Vi servirò, dove potrò farlo, ma ho un certo impegno, che non mi permetterà frequentare la vostra casa.
ORTENSIA: Ha qualche amoretto, signor Conte? CONTE: Sì, ve lo dirò in confidenza. La padrona della locanda. ORTENSIA: Capperi! Veramente una gran signora! Mi meraviglio di lei, signor Conte, che si perda con una locandiera! DEJANIRA: Sarebbe minor male, che si compie d'impiegare le sue finezze per una comica. CONTE: Il far all'amore con voi altre, per dirvela, mi piace poco. Ora ci siete, ora non ci siete. ORTENSIA: Non è meglio così, signore? In questa maniera non si eternano le amicizie, e gli uomini non si rovinano. CONTE: Ma io, tant'è, sono impegnato; le voglio bene, e non la vo' disgustare. DEJANIRA: Ma che cosa ha di buono costei? CONTE: Oh! Ha del buono assai. ORTENSIA: Ehi, Dejanira. È bella, rossa. (Fa cenno che si belletta.) CONTE: Ha un grande spirito. DEJANIRA: Oh, in materia di spirito, la vorreste mettere con noi? CONTE: Ora basta. Sia come esser si voglia; Mirandolina mi piace, e se volete la mia amicizia, avete a dirne bene, altrimenti fate conto di non avermi mai conosciuto. ORTENSIA: Oh signor Conte, per me dico che Mirandolina è una dea Venere. DEJANIRA: Sì, sì, vero. Ha dello spirito, parla bene. CONTE: Ora mi date gusto. ORTENSIA: Quando non vuol altro, sarà servito. CONTE: Oh! Avete veduto quello ch'è ato per sala? (Osservando dentro la
scena.) ORTENSIA: L'ho veduto. CONTE: Quello è un altro bel carattere da commedia. ORTENSIA: È uno che non può vedere le donne. DEJANIRA: Oh che pazzo! ORTENSIA: Avrà qualche brutta memoria di qualche donna. CONTE: Oibò; non è mai stato innamorato. Non ha mai voluto trattar con donne. Le sprezza tutte, e basta dire che egli disprezza ancora Mirandolina. ORTENSIA: Poverino! Se mi ci mettessi attorno io, scommetto lo farei cambiare opinione. DEJANIRA: Veramente una gran cosa! Questa è un'impresa che la vorrei pigliare sopra di me. CONTE: Sentite, amiche. Così per puro divertimento. Se vi dà l'anima d'innamorarlo, da cavaliere vi faccio un bel regalo. ORTENSIA: Io non intendo essere ricompensata per questo: lo farò per mio so. DEJANIRA: Se il signor Conte vuol usarci qualche finezza, non l'ha da fare per questo. Sinché arrivano i nostri compagni, ci divertiremo un poco. CONTE: Dubito che non farete niente. ORTENSIA: Signor Conte, ha ben poca stima di noi. DEJANIRA: Non siamo vezzose come Mirandolina; ma finalmente sappiamo qualche poco il viver del mondo. CONTE: Volete che lo mandiamo a chiamare? ORTENSIA: Faccia come vuole.
CONTE: Ehi? Chi è di là?
SCENA UNDICESIMA
Il Servitore del Conte, e detti. CONTE: Di' al Cavaliere di Ripafratta, che favorisca venir da me, che mi preme di parlargli. (Al Servitore.) SERVITORE: Nella sua camera so che non c'è. CONTE: L'ho veduto andar verso la cucina. Lo troverai. SERVITORE: Subito. (Parte.) CONTE: (Che mai è andato a far verso la cucina? Scommetto che è andato a strapazzare Mirandolina, perché gli ha dato mal da mangiare). (Da sé.) ORTENSIA: Signor Conte, io aveva pregato il signor Marchese che mi mandasse il suo calzolaro, ma ho paura di non vederlo. CONTE: Non pensate altro. Vi servirò io. DEJANIRA: A me aveva il signor Marchese promesso un fazzoletto. Ma! ora me lo porta! CONTE: De' fazzoletti ne troveremo. DEJANIRA: Egli è che ne avevo proprio di bisogno. CONTE: Se questo vi gradisce, siete padrona. È pulito. (Le offre il suo di seta.) DEJANIRA: Obbligatissima alle sue finezze. CONTE: Oh! Ecco il Cavaliere. Sarà meglio che sostenghiate il carattere di dame, per poterlo meglio obbligare ad ascoltarvi per civiltà. Ritiratevi un poco indietro; che, se vi vede, fugge. ORTENSIA: Come si chiama?
CONTE: Il Cavaliere di Ripafratta, toscano. DEJANIRA: Ha moglie? CONTE: Non può vedere le donne. ORTENSIA: È ricco? (Ritirandosi.) CONTE: Sì, Molto. DEJANIRA: È generoso? (Ritirandosi.) CONTE: Piuttosto. DEJANIRA: Venga, venga. (Si ritira.) ORTENSIA: Tempo, e non dubiti. (Si ritira.)
SCENA DODICESIMA
Il Cavaliere e detti. CAVALIERE: Conte, siete voi che mi volete? CONTE: Sì; io v'ho dato il presente incomodo. CAVALIERE: Che cosa posso fare per servirvi? CONTE: Queste due dame hanno bisogno di voi. (Gli addita le due donne, le quali subito s'avanzano.) CAVALIERE: Disimpegnatemi. Io non ho tempo di trattenermi. ORTENSIA: Signor Cavaliere, non intendo di recargli incomodo. DEJANIRA: Una parola in grazia, signor Cavaliere. CAVALIERE: Signore mie, vi supplico perdonarmi. Ho un affar di premura. ORTENSIA: In due parole vi sbrighiamo. DEJANIRA: Due paroline, e non più, signore. CAVALIERE: (Maledettissimo Conte!). (Da sé.) CONTE: Caro amico, due dame che pregano, vuole la civiltà che si ascoltino. CAVALIERE: Perdonate. In che vi posso servire? (Alle donne, con serietà.) ORTENSIA: Non siete voi toscano, signore? CAVALIERE: Sì, signora. DEJANIRA: Avrete degli amici in Firenze? CAVALIERE: Ho degli amici, e ho de' parenti.
DEJANIRA: Sappiate, signore... Amica, principiate a dir voi. (Ad Ortensia.) ORTENSIA: Dirò, signor Cavaliere... Sappia che un certo caso... CAVALIERE: Via, signore, vi supplico. Ho un affar di premura. CONTE: Orsù, capisco che la mia presenza vi dà soggezione. Confidatevi con libertà al Cavaliere, ch'io vi levo l'incomodo. (Partendo.) CAVALIERE: No, amico, restate... Sentite. CONTE: So il mio dovere. Servo di lor signore. (Parte.)
SCENA TREDICESIMA
Ortensia, Dejanira ed il Cavaliere. ORTENSIA: Favorisca, sediamo. CAVALIERE: Scusi, non ho volontà di sedere. DEJANIRA: Così rustico colle donne? CAVALIERE: Favoriscano dirmi che cosa vogliono. ORTENSIA: Abbiamo bisogno del vostro aiuto, della vostra protezione, della vostra bontà. CAVALIERE: Che cosa vi è accaduto? DEJANIRA: I nostri mariti ci hanno abbandonate. CAVALIERE: Abbandonate? Come! Due dame abbandonate? Chi sono i vostri mariti? (Con alterezza.) DEJANIRA: Amica, non vado avanti sicuro. (Ad Ortensia.) ORTENSIA: (È tanto indiavolato, che or ora mi confondo ancor io). (Da sé.) CAVALIERE: Signore, vi riverisco. (In atto di partire.) ORTENSIA: Come! Così ci trattate? DEJANIRA: Un cavaliere tratta così? CAVALIERE: Perdonatemi. Io son uno che ama assai la mia pace. Sento due dame abbandonate dai loro mariti. Qui ci saranno degl'impegni non pochi; io non sono atto a' maneggi. Vivo a me stesso. Dame riveritissime, da me non potete sperare né consiglio, né aiuto. ORTENSIA: Oh via, dunque; non lo tenghiamo più in soggezione il nostro
amabilissimo Cavaliere. DEJANIRA: Sì, parliamogli con sincerità. CAVALIERE: Che nuovo linguaggio è questo? ORTENSIA: Noi non siamo dame. CAVALIERE: No? DEJANIRA: Il signor Conte ha voluto farvi uno scherzo. CAVALIERE: Lo scherzo è fatto. Vi riverisco. (Vuol partire.) ORTENSIA: Fermatevi un momento. CAVALIERE: Che cosa volete? DEJANIRA: Degnateci per un momento della vostra amabile conversazione. CAVALIERE: Ho che fare. Non posso trattenermi. ORTENSIA: Non vi vogliamo già mangiar niente. DEJANIRA: Non vi leveremo la vostra reputazione. ORTENSIA: Sappiamo che non potete vedere le donne. CAVALIERE: Se lo sapete, l'ho caro. Vi riverisco. (Vuol partire.) ORTENSIA: Ma sentite: noi non siamo donne che possano darvi ombra. CAVALIERE: Chi siete? ORTENSIA: Diteglielo voi, Dejanira. DEJANIRA: Glielo potete dire anche voi. CAVALIERE: Via, chi siete? ORTENSIA: Siamo due commedianti.
CAVALIERE: Due commedianti! Parlate, parlate, che non ho più paura di voi. Son ben prevenuto in favore dell'arte vostra. ORTENSIA: Che vuol dire? Spiegatevi. CAVALIERE: So che fingete in iscena e fuor di scena; e con tal prevenzione non ho paura di voi. DEJANIRA: Signore, fuori di scena io non so fingere. CAVALIERE: Come si chiama ella? La signora Sincera? (A Dejanira.) DEJANIRA: Io mi chiamo... CAVALIERE: È ella la signora Buonalana? (Ad Ortensia.) ORTENSIA: Caro signor Cavaliere... CAVALIERE: Come si diletta di miccheggiare? (Ad Ortensia.) ORTENSIA: Io non sono... CAVALIERE: I gonzi come li tratta, padrona mia? (A Dejanira.) DEJANIRA: Non son di quelle... CAVALIERE: Anch'io so parlar in gergo. ORTENSIA: Oh che caro signor Cavaliere! (Vuol prenderlo per un braccio.) CAVALIERE: Basse le cere. (Dandole nelle mani.) ORTENSIA: Diamine! Ha più del contrasto, che del Cavaliere. CAVALIERE: Contrasto vuol dire contadino. Vi ho capito. E vi dirò che siete due impertinenti. DEJANIRA: A me questo? ORTENSIA: A una donna della mia sorte?
CAVALIERE: Bello quel viso trionfato! (Ad Ortensia.) ORTENSIA: (Asino!). (Parte.) CAVALIERE: Bello quel tuppè finto! (A Dejanira.) DEJANIRA: (Maledetto). (Parte.)
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere, poi il di lui Servitore. CAVALIERE: Ho trovata ben io la maniera di farle andare. Che si pensavano? Di tirarmi nella rete? Povere sciocche! Vadano ora dal Conte e gli narrino la bella scena. Se erano dame, per rispetto mi conveniva fuggire; ma quando posso, le donne le strapazzo col maggior piacere del mondo. Non ho però potuto strapazzar Mirandolina. Ella mi ha vinto con tanta civiltà, che mi trovo obbligato quasi ad amarla. Ma è donna; non me ne voglio fidare. Voglio andar via. Domani anderò via. Ma se aspetto a domani? Se vengo questa sera a dormir a casa, chi mi assicura che Mirandolina non finisca a rovinarmi? (Pensa.) Sì; facciamo una risoluzione da uomo. SERVITORE: Signore. CAVALIERE: Che cosa vuoi? SERVITORE: Il signor Marchese è nella di lei camera che l'aspetta, perché desidera di parlargli. CAVALIERE: Che vuole codesto pazzo? Denari non me ne cava più di sotto. Che aspetti, e quando sarà stracco di aspettare, se n'anderà. Va dal cameriere della locanda e digli che subito porti il mio conto. SERVITORE: Sarà obbedita. (In atto di partire.) CAVALIERE: Senti. Fa che da qui a due ore siano pronti i bauli. SERVITORE: Vuol partire forse? CAVALIERE: Sì, portami qui la spada ed il cappello, senza che se n'accorga il Marchese. SERVITORE: Ma se mi vede fare i bauli? CAVALIERE: Dica ciò che vuole. M'hai inteso.
SERVITORE: (Oh, quanto mi dispiace andar via, per causa di Mirandolina!), (Da sé, parte.) CAVALIERE: Eppure è vero. Io sento nel partir di qui una dispiacenza nuova, che non ho mai provata. Tanto peggio per me, se vi restassi. Tanto più presto mi conviene partire. Sì, donne, sempre più dirò male di voi; sì, voi ci fate del male, ancora quando ci volete fare del bene.
SCENA QUINDICESIMA
Fabrizio e detto. FABRIZIO: È vero, signore, che vuole il conto? CAVALIERE: Sì, l'avete portato? FABRIZIO: Adesso la padrona lo fa. CAVALIERE: Ella fa i conti? FABRIZIO: Oh, sempre ella. Anche quando viveva suo padre. Scrive e sa far di conto meglio di qualche giovane di negozio. CAVALIERE: (Che donna singolare è costei!). (Da sé.) FABRIZIO: Ma vuol ella andar via così presto? CAVALIERE: Sì, così vogliono i miei affari. FABRIZIO: La prego di ricordarsi del cameriere. CAVALIERE: Portate il conto, e so quel che devo fare. FABRIZIO: Lo vuol qui il conto? CAVALIERE: Lo voglio qui; in camera per ora non ci vado. FABRIZIO: Fa bene; in camera sua vi è quel seccatore del signor Marchese. Carino! Fa l'innamorato della padrona; ma può leccarsi le dita. Mirandolina deve esser mia moglie. CAVALIERE: Il conto. (Alterato.) FABRIZIO: La servo subito. (Parte.)
SCENA SEDICESIMA
CAVALIERE (solo): Tutti sono invaghiti di Mirandolina. Non è maraviglia, se ancor io principiava a sentirmi accendere. Ma anderò via; supererò questa incognita forza... Che vedo? Mirandolina? Che vuole da me? Ha un foglio in mano. Mi porterà il conto. Che cosa ho da fare? Convien soffrire quest'ultimo assalto. Già da qui a due ore io parto.
SCENA DICIASSETTESIMA
Mirandolina con un foglio in mano, e detto. MIRANDOLINA: Signore. (Mestamente.) CAVALIERE: Che c'è, Mirandolina? MIRANDOLINA: Perdoni. (Stando indietro.) CAVALIERE: Venite avanti. MIRANDOLINA: Ha domandato il suo conto; l'ho servita. (Mestamente.) CAVALIERE: Date qui. MIRANDOLINA: Eccolo. (Si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto.) CAVALIERE: Che avete? Piangete? MIRANDOLINA: Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi. CAVALIERE: Del fumo negli occhi? Eh! basta... quanto importa il conto? (legge.) Venti paoli? In quattro giorni un trattamento si generoso: venti paoli? MIRANDOLINA: Quello è il suo conto. CAVALIERE: E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto? MIRANDOLINA: Perdoni. Quel ch'io dono, non lo metto in conto. CAVALIERE: Me li avete voi regalati? MIRANDOLINA: Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di... (Si copre, mostrando di piangere.)
CAVALIERE: Ma che avete? MIRANDOLINA: Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi. CAVALIERE: Non vorrei che aveste patito, cucinando per me quelle due preziose vivande. MIRANDOLINA: Se fosse per questo, lo soffrirei... volentieri... (Mostra trattenersi di piangere.) CAVALIERE: (Eh, se non vado via!). (Da sé.) Orsù, tenete. Queste sono due doppie. Godetele per amor mio... e compatitemi... (S'imbroglia.) MIRANDOLINA (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia.) CAVALIERE: Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina... Cara? Io cara ad una donna? Ma se è svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto?... Anderò io. Poverina! Che tu sia benedetta! (Parte, e poi ritorna.) MIRANDOLINA: Ora poi è caduto affatto. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna. (Si mette come sopra.) CAVALIERE (torna con un vaso d'acqua.): Eccomi, eccomi. E non è ancor rinvenuta. Ah, certamente costei mi ama. (La spruzza, ed ella si va movendo.) Animo, animo. Son qui cara. Non partirò più per ora.
SCENA DICIOTTESIMA
Il Servitore colla spada e cappello, e detti. SERVITORE: Ecco la spada ed il cappello. (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Va via. (Al Servitore, con ira.) SERVITORE: I bauli... CAVALIERE: Va via, che tu sia maledetto. SERVITORE: Mirandolina... CAVALIERE: Va, che ti spacco la testa. (Lo minaccia col vaso; il Servitore parte.) E non rinviene ancora? La fronte le suda. Via, cara Mirandolina, fatevi coraggio, aprite gli occhi. Parlatemi con libertà.
SCENA DICIANNOVESIMA
Il Marchese ed il Conte, e detti. MARCHESE: Cavaliere? CONTE: Amico? CAVALIERE: (Oh maldetti!). (Va smaniando.) MARCHESE: Mirandolina. MIRANDOLINA: Oimè! (S'alza.) MARCHESE: Io l'ho fatta rinvenire. CONTE: Mi rallegro, signor Cavaliere. MARCHESE: Bravo quel signore, che non può vedere le donne. CAVALIERE: Che impertinenza? CONTE: Siete caduto? CAVALIERE: Andate al diavolo quanti siete. (Getta il vaso in terra, e lo rompe verso il Conte ed il Marchese, e parte furiosamente.) CONTE: Il Cavaliere è diventato pazzo. (Parte.) MARCHESE: Di questo affronto voglio soddisfazione. (Parte.) MIRANDOLINA: L'impresa è fatta. Il di lui cuore è in fuoco, in fiamme, in cenere. Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda pubblico il mio trionfo, a scorno degli uomini presuntuosi, e ad onore del nostro sesso. (Parte.)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Mirandolina con tavolino e biancheria da stirare. Mirandolina, poi Fabrizio. MIRANDOLINA: Orsù, l'ora del divertimento è ata. Voglio ora badare a' fatti miei. Prima che questa biancheria si prosciughi del tutto, voglio stirarla. Ehi, Fabrizio. FABRIZIO: Signora. MIRANDOLINA: Fatemi un piacere. Portatemi il ferro caldo. FABRIZIO: Signora sì. (Con serietà, in atto di partire.) MIRANDOLINA: Scusate, se do a voi questo disturbo. FABRIZIO: Niente, signora. Finché io mangio il vostro pane, sono obbligato a servirvi. (Vuol partire.) MIRANDOLINA: Fermatevi; sentite: non siete obbligato a servirmi in queste cose; ma so che per me lo fate volentieri ed io... basta, non dico altro. FABRIZIO: Per me vi porterei l'acqua colle orecchie. Ma vedo che tutto è gettato via. MIRANDOLINA: Perché gettato via? Sono forse un'ingrata? FABRIZIO: Voi non degnate i poveri uomini. Vi piace troppo la nobiltà. MIRANDOLINA: Uh povero pazzo! Se vi potessi dir tutto! Via, via andatemi a pigliar il ferro. FABRIZIO: Ma se ho veduto io con questi miei occhi... MIRANDOLINA: Andiamo, meno ciarle. Portatemi il ferro.
FABRIZIO: Vado, vado, vi servirò, ma per poco. (Andando.) MIRANDOLINA: Con questi uomini, più che loro si vuol bene, si fa peggio. (Mostrando parlar da sé, ma per esser sentita.) FABRIZIO: Che cosa avete detto? (Con tenerezza, tornando indietro.) MIRANDOLINA: Via, mi portate questo ferro? FABRIZIO: Sì, ve lo porto. (Non so niente. Ora la mi tira su, ora la mi butta giù. Non so niente). (Da sé, parte.)
SCENA SECONDA
Mirandolina, poi il Servitore del Cavaliere. MIRANDOLINA: Povero sciocco! Mi ha da servire a suo marcio dispetto. Mi par di ridere a far che gli uomini facciano a modo mio. E quel caro signor Cavaliere, ch'era tanto nemico delle donne? Ora, se volessi, sarei padrona di fargli fare qualunque bestialità. SERVITORE: Signora Mirandolina. MIRANDOLINA: Che c'è, amico? SERVITORE: Il mio padrone la riverisce, e manda a vedere come sta! MIRANDOLINA: Ditegli che sto benissimo. SERVITORE: Dice così, che beva un poco di questo spirito di melissa, che le farà assai bene. (Le dà una boccetta d'oro.) MIRANDOLINA: È d'oro questa boccetta? SERVITORE: Sì signora, d'oro, lo so di sicuro. MIRANDOLINA: Perché non mi ha dato lo spirito di melissa, quando mi è venuto quell'orribile svenimento? SERVITORE: Allora questa boccetta egli non l'aveva. MIRANDOLINA: Ed ora come l'ha avuta? SERVITORE: Sentite. In confidenza. Mi ha mandato ora a chiamar un orefice, l'ha comprata, e l'ha pagata dodici zecchini; e poi mi ha mandato dallo speziale e comprar lo spirito. MIRANDOLINA: Ah, ah,ah. (Ride.) SERVITORE: Ridete?
MIRANDOLINA: Rido, perché mi manda il medicamento, dopo che son guarita del male. SERVITORE: Sarà buono per un'altra volta. MIRANDOLINA: Via, ne beverò un poco per preservativo. (Beve.) Tenete, ringraziatelo. (Gli vuol dar la boccetta.) SERVITORE: Oh! la boccetta è vostra. MIRANDOLINA: Come mia? SERVITORE: Sì. Il padrone l'ha comprata a posta. MIRANDOLINA: A posta per me? SERVITORE: Per voi; ma zitto. MIRANDOLINA: Portategli la sua boccetta, e ditegli che lo ringrazio. SERVITORE: Eh via. MIRANDOLINA: Vi dico che gliela portiate, che non la voglio. SERVITORE: Gli volete fare quest'affronto? MIRANDOLINA: Meno ciarle. Fate il vostro dovere. Tenete. SERVITORE: Non occorr'altro. Gliela porterò. (Oh che donna! Ricusa dodici zecchini! Una simile non l'ho più ritrovata, e durerò fatica a trovarla). (Da sé, parte.)
SCENA TERZA
Mirandolina, poi Fabrizio. MIRANDOLINA: Uh, è cotto, stracotto e biscottato! Ma siccome quel che ho fatto con lui, non l'ho fatto per interesse, voglio ch'ei confessi la forza delle donne, senza poter dire che sono interessate e venali. FABRIZIO: Ecco qui il ferro. (Sostenuto, col ferro da stirare in mano.) MIRANDOLINA: È ben caldo? FABRIZIO: Signora sì, è caldo; così foss'io abbruciato. MIRANDOLINA: Che cosa vi è di nuovo? FABRIZIO: Questo signor Cavaliere manda le ambasciate, manda i regali. Il Servitore me l'ha detto. MIRANDOLINA: Signor sì, mi ha mandato una boccettina d'oro, ed io gliel'ho rimandata indietro. FABRIZIO: Gliel'avete rimandata indietro? MIRANDOLINA: Sì, domandatelo al Servitore medesimo. FABRIZIO: Perché gliel'avete rimandata indietro? MIRANDOLINA: Perché... Fabrizio... non dica... Orsù, non parliamo altro. FABRIZIO: Cara Mirandolina, compatitemi. MIRANDOLINA: Via, andate, lasciatemi stirare. FABRIZIO: Io non v'impedisco di fare... MIRANDOLINA: Andatemi a preparare un altro ferro, e quando è caldo, portatelo.
FABRIZIO: Sì, vado. Credetemi, che se parlo... MIRANDOLINA: Non dite altro. Mi fate venire la rabbia. FABRIZIO: Sto cheto. (Ell'è una testolina bizzarra, ma le voglio bene). (Da sé, parte.) MIRANDOLINA: Anche questa è buona. Mi faccio merito con Fabrizio d'aver ricusata la boccetta d'oro del Cavaliere. Questo vuol dir saper vivere, saper fare, saper profittare di tutto, con buona grazia, con pulizia, con un poco di disinvoltura. In materia d'accortezza, non voglio che si dica ch'io faccia torto al sesso. (Va stirando.)
SCENA QUARTA
Il Cavaliere e detta. CAVALIERE: (Eccola. Non ci volevo venire, e il diavolo mi ci ha strascinato!. (Da sé, indietro.) MIRANDOLINA: (Eccolo, eccolo). (Lo vede colla coda dell'occhio, e stira.) CAVALIERE: Mirandolina? MIRANDOLINA: Oh signor Cavaliere! Serva umilissima. (Stirando.) CAVALIERE: Come state? MIRANDOLINA: Benissimo, per servirla. (Stirando senza guardarlo.) CAVALIERE: Ho motivo di dolermi di voi. MIRANDOLINA: Perché, signore? (Guardandolo un poco.) CAVALIERE: Perché avete ricusato una piccola boccettina, che vi ho mandato. MIRANDOLINA: Che voleva ch'io ne fi? (Stirando.) CAVALIERE: Servirvene nelle occorrenze. MIRANDOLINA: Per grazia del cielo, non sono soggetta agli svenimenti. Mi è accaduto oggi quello che mi è accaduto mai più. (Stirando.) CAVALIERE: Cara mirandolina... non vorrei esser io stato cagione di quel funesto accidente. MIRANDOLINA: Eh sì, ho timore che ella appunto ne sia stata la causa. (Stirando.) CAVALIERE: Io? Davvero? (Con ione.)
MIRANDOLINA: Mi ha fatto bere quel maledetto vino di Borgogna, e mi ha fatto male. (Stirando con rabbia.) CAVALIERE: Come? Possibile? (Rimane mortificato.) MIRANDOLINA: È così senz'altro. In camera sua non ci vengo mai più. (Stirando.) CAVALIERE: V'intendo. In camera mia non ci verrete più? Capisco il mistero. Sì, lo capisco. Ma veniteci, cara, che vi chiamerete contenta. (Amoroso.) MIRANDOLINA: Questo ferro è poco caldo. Ehi; Fabrizio? se l'altro ferro è caldo, portatelo. (Forte verso la scena.) CAVALIERE: Fatemi questa grazia, tenete questa boccetta. MIRANDOLINA: In verità, signor Cavaliere, dei regali io non ne prendo. (Con disprezzo, stirando.) CAVALIERE: Li avete pur presi dal Conte d'Albafiorita. MIRANDOLINA: Per forza. Per non disgustarlo. (Stirando.) CAVALIERE: E vorreste fare a me questo torto? e disgustarmi? MIRANDOLINA: Che importa a lei, che una donna la disgusti? Già le donne non le può vedere. CAVALIERE: Ah, Mirandolina! ora non posso dire così. MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, a che ora fa la luna nuova? CAVALIERE: Il mio cambiamento non è lunatico. Questo è un prodigio della vostra bellezza, della vostra grazia. MIRANDOLINA: Ah, ah, ah. (Ride forte, e stira.) CAVALIERE: Ridete? MIRANDOLINA: Non vuol che rida? Mi burla, e non vuol ch'io rida?
CAVALIERE: Eh furbetta! Vi burlo eh? Via, prendete questa boccetta. MIRANDOLINA: Grazie, grazie. (Stirando.) CAVALIERE: Prendetela, o mi farete andare in collera. MIRANDOLINA: Fabrizio, il ferro. (Chiamando forte, con caricatura.) CAVALIERE: La prendete, o non la prendete? (Alterato.) MIRANDOLINA: Furia, furia. (Prende la boccetta, e con disprezzo la getta nel paniere della biancheria.) CAVALIERE: La gettate così? MIRANDOLINA: Fabrizio! (Chiama forte, come sopra.)
SCENA QUINTA
Fabrizio col ferro, e detti. FABRIZIO: Son qua. (Vedendo il Cavaliere, s'ingelosisce.) MIRANDOLINA: È caldo bene? (Prende il ferro.) FABRIZIO: Signora sì. (Sostenuto.) MIRANDOLINA: Che avete, che mi parete turbato? (A Fabrizio, con tenerezza.) FABRIZIO: Niente, padrona, niente. MIRANDOLINA: Avete male? (Come sopra.) FABRIZIO: Datemi l'altro ferro, se volete che lo metta nel fuoco. MIRANDOLINA: In verità, ho paura che abbiate male. (Come sopra.) CAVALIERE: Via, dategli il ferro, e che se ne vada. MIRANDOLINA: Gli voglio bene, sa ella? È il mio cameriere fidato. (Al Cavaliere.) CAVALIERE: (Non posso più). (Da sé, smaniando.) MIRANDOLINA: Tenete, caro, scaldatelo. (Dà il ferro a Fabrizio.) FABRIZIO: Signora padrona... (Con tenerezza.) MIRANDOLINA: Via, via, presto. (Lo scaccia.) FABRIZIO: (Che vivere è questo? Sento che non posso più). (Da sé, parte.)
SCENA SESTA
Il Cavaliere e Mirandolina. CAVALIERE: Gran finezze, signora, al suo cameriere! MIRANDOLINA: E per questo, che cosa vorrebbe dire? CAVALIERE: Si vede che ne siete invaghita. MIRANDOLINA: Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore; non sono di sì cattivo gusto io. Quando volessi amare, non getterei il mio tempo sì malamente. (Stirando.) CAVALIERE: Voi meritereste l'amore di un re. MIRANDOLINA: Del re di spade, o del re di coppe? (Stirando.) CAVALIERE: Parliamo sul serio, Mirandolina, e lasciamo gli scherzi. MIRANDOLINA: Parli pure, che io l'ascolto. (Stirando.) CAVALIERE: Non potreste per un poco lasciar di stirare? MIRANDOLINA: Oh perdoni! Mi preme allestire questa biancheria per domani. CAVALIERE: Vi preme dunque quella biancheria più di me? MIRANDOLINA: Sicuro. (Stirando.) CAVALIERE: E ancora lo confermate? MIRANDOLINA: Certo. Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente. (Stirando.) CAVALIERE: Anzi potete dispor di me con autorità. MIRANDOLINA: Eh, che ella non può vedere le donne.
CAVALIERE: Non mi tormentate più. Vi siete vendicata abbastanza. Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte, se pur ve ne sono. Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà. MIRANDOLINA: Sì signore, glielo diremo. (Stirando in fretta, si fa cadere un manicotto.) CAVALIERE (leva di terra il manicotto, e glielo dà): Credetemi... MIRANDOLINA: Non s'incomodi. CAVALIERE: Voi meritate di esser servita. MIRANDOLINA: Ah, ah, ah. (Ride forte.) CAVALIERE: Ridete? MIRANDOLINA: Rido, perché mi burla. CAVALIERE: Mirandolina, non posso più. MIRANDOLINA: Le vien male? CAVALIERE: Sì, mi sento mancare. MIRANDOLINA: Tenga il suo spirito di melissa. (Gli getta con disprezzo la boccetta.) CAVALIERE: Non mi trattate con tanta asprezza. Credetemi, vi amo, ve lo giuro. (Vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta.) Aimè! MIRANDOLINA: Perdoni: non l'ho fatto apposta. CAVALIERE: Pazienza! Questo è niente. Mi avete fatto una scottatura più grande. MIRANDOLINA: Dove, signore? CAVALIERE: Nel cuore. MIRANDOLINA: Fabrizio. (Chiama ridendo.)
CAVALIERE: Per carità, non chiamate colui. MIRANDOLINA: Ma se ho bisogno dell'altro ferro. CAVALIERE: Aspettate... (ma no...) chiamerò il mio servitore. MIRANDOLINA: Eh! Fabrizio... (Vuol chiamare Fabrizio.) CAVALIERE: Giuro al cielo, se viene colui, gli spacco la testa. MIRANDOLINA: Oh, questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente? CAVALIERE: Chiamate un altro; colui non lo posso vedere. MIRANDOLINA: Mi pare ch'ella si avanzi un poco troppo, signor Cavaliere. (Si scosta dal tavolino col ferro in mano.) CAVALIERE: Compatitemi... son fuori di me. MIRANDOLINA: Anderò io in cucina, e sarà contento. CAVALIERE: No, cara, fermatevi. MIRANDOLINA: È una cosa curiosa questa. (eggiando.) CAVALIERE: Compatitemi. (Le va dietro.) MIRANDOLINA: Non posso chiamar chi voglio? (eggia.) CAVALIERE: Lo confesso. Ho gelosia di colui. (Le va dietro.) MIRANDOLINA: (Mi vien dietro come un cagnolino). (Da sé, eggiando.) CAVALIERE: Questa è la prima volta ch'io provo che cosa sia amore. MIRANDOLINA: Nessuno mi ha mai comandato. (Camminando.) CAVALIERE: Non intendo di comandarvi: vi prego. (La segue.) MIRANDOLINA: Ma che cosa vuole da me? (Voltandosi con alterezza.)
CAVALIERE: Amore, comione, pietà. MIRANDOLINA: Un uomo che stamattina non poteva vedere le donne, oggi chiede amore e pietà? Non gli abbado, non può essere, non gli credo. (Crepa, schiatta, impara a disprezzar le donne). (Da sé, parte.)
SCENA SETTIMA
CAVALIERE (solo): Oh maledetto il punto, in cui ho principiato a mirar costei! Son caduto nel laccio, e non vi è più rimedio.
SCENA OTTAVA
Il Marchese e detto. MARCHESE: Cavaliere, voi mi avete insultato. CAVALIERE: Compatitemi, fu un accidente. MARCHESE: Mi meraviglio di voi. CAVALIERE: Finalmente il vaso non vi ha colpito. MARCHESE: Una gocciola d'acqua mi ha macchiato il vestito. CAVALIERE: Torno a dir, compatitemi. MARCHESE: Questa è una impertinenza. CAVALIERE: Non l'ho fatto apposta. Compatitemi per la terza volta. MARCHESE: Voglio soddisfazione. CAVALIERE: Se non volete compatirmi, se volete soddisfazione, son qui, non ho soggezione di voi. MARCHESE: Ho paura che questa macchia non voglia andar via; questo è quello che mi fa andare in collera. (Cangiandosi.) CAVALIERE: Quando un cavalier vi chiede scusa, che pretendete di più? (Con isdegno.) MARCHESE: Se non l'avete fatto a malizia, lasciamo stare. CAVALIERE: Vi dico, che son capace di darvi qualunque soddisfazione. MARCHESE: Via, non parliamo altro. CAVALIERE: Cavaliere malnato.
MARCHESE: Oh questa è bella! A me è ata la collera, e voi ve la fate venire. CAVALIERE: Ora per l'appunto mi avete trovato in buona luna. MARCHESE: Vi compatisco, so che male avete. CAVALIERE: I fatti vostri io non li ricerco. MARCHESE: Signor inimico delle donne, ci siete caduto eh? CAVALIERE: Io? Come? MARCHESE: Sì, siete innamorato... CAVALIERE: Sono il diavolo che vi porti. MARCHESE: Che serve nascondersi?... CAVALIERE: Lasciatemi stare, che giuro al cielo ve ne farò pentire. (Parte.)
SCENA NONA
MARCHESE (solo): È innamorato, si vergogna, e non vorrebbe che si sapesse. Ma forse non vorrà che si sappia, perché ha paura di me; avrà soggezione a dichiararsi per mio rivale. Mi dispiace assaissimo di questa macchia; se sapessi come fare a levarla! Queste donne sogliono avere della terra da levar le macchie. (Osserva nel tavolino e nel paniere.) Bella questa boccetta! Che sia d'oro o di princisbech? Eh, sarà di princisbech: se fosse d'oro, non la lascerebbero qui; se vi fosse dell'acqua della regina, sarebbe buona per levar questa macchia. (Apre, odora e gusta.) È spirito di melissa. Tant'è tanto sarà buono. Voglio provare.
SCENA DECIMA
Dejanira e detto. DEJANIRA: Signor Marchese, che fa qui solo? Non favorisce mai? MARCHESE: Oh signora Contessa. Veniva or ora per riverirla. DEJANIRA: Che cosa stava facendo? MARCHESE: Vi dirò. Io sono amantissimo della pulizia. Voleva levare questa piccola macchia. DEJANIRA: Con che, signore? MARCHESE: Con questo spirito di melissa. DEJANIRA: Oh perdoni, lo spirito di melissa non serve, anzi farebbe venire la macchia più grande. MARCHESE: Dunque, come ho da fare? DEJANIRA: Ho io un segreto per cavar le macchie. MARCHESE: Mi farete piacere a insegnarmelo. DEJANIRA: Volentieri. M'impegno con uno scudo far andar via quella macchia, che non si vedrà nemmeno dove sia stata. MARCHESE: Vi vuole uno scudo? DEJANIRA: Sì, signore, vi pare una grande spesa? MARCHESE: È meglio provare lo spirito di Melissa. DEJANIRA: Favorisca: è buono quello spirito? MARCHESE: Prezioso, sentite. (Le dà la boccetta.)
DEJANIRA: Oh, io ne so fare del meglio. (Assaggiandolo.) MARCHESE: Sapete fare degli spiriti? DEJANIRA: Sì, signore mi diletto di tutto. MARCHESE: Brava, damina, brava. Così mi piace. DEJANIRA: Sarà d'oro questa boccetta? MARCHESE: Non volete? È oro sicuro. (Non conosce l'oro del princisbech). (Da sé.) DEJANIRA: È sua, signor Marchese? MARCHESE: È mia, e vostra se comandate. DEJANIRA: Obbligatissima alle sue grazie. (La mette via.) MARCHESE: Eh! so che scherzate. DEJANIRA: Come? Non me l'ha esibita? MARCHESE: Non è cosa da vostra pari. È una bagattella. Vi servirò di cosa migliore, se ne avete voglia. DEJANIRA: Oh, mi meraviglio. È anche troppo. La ringrazio, signor Marchese. MARCHESE: Sentite. In confidenza. Non è oro. È princisbech. DEJANIRA: Tanto meglio. La stimo più che se fosse oro. E poi, quel che viene dalle sue mani, è tutto prezioso. MARCHESE: Basta. Non so che dire. servitevi, se vi degnate. (Pazienza! Bisognerà pagarla a Mirandolina. Che cosa può valere? Un filippo?). (Da sé.) DEJANIRA: Il signor Marchese è un cavalier generoso. MARCHESE: Mi vergogno a regalar queste bagattelle. Vorrei che quella boccetta fosse d'oro.
DEJANIRA: In verità, pare propriamente oro. (La tira fuori, e la osserva.) Ognuno s'ingannerebbe. MARCHESE: È vero, chi non ha pratica dell'oro, s'inganna: ma io lo conosco subito. DEJANIRA: Anche al peso par che sia oro. MARCHESE: E pur non è vero. DEJANIRA: Voglio farla vedere alla mia compagna. MARCHESE: Sentite, signora Contessa, non la fate vedere a Mirandolina. È una ciarliera. Non so se mi capite. DEJANIRA: Intendo benissimo. La fo vedere solamente ad Ortensia. MARCHESE: Alla Baronessa? DEJANIRA: Sì, sì, alla Baronessa. (Ridendo parte.)
SCENA UNDICESIMA
Il Marchese, poi il Servitore del Cavaliere. MARCHESE: Credo che se ne rida, perché mi ha levato con quel bel garbo la boccettina. Tant'era se fosse stata d'oro. Manco male, che con poco l'aggiusterò. Se Mirandolina vorrà la sua boccetta, gliela pagherò, quando ne avrò. SERVITORE (cerca sul tavolo): Dove diamine sarà questa boccetta? MARCHESE: Che cosa cercate, galantuomo? SERVITORE: Cerco una boccetta di spirito di melissa. La signora Mirandolina la vorrebbe. Dice che l'ha lasciata qui, ma non la ritrovo. MARCHESE: Era una boccettina di princisbech? SERVITORE: No signore, era d'oro. MARCHESE: D'oro? SERVITORE: Certo che era d'oro. L'ho veduta comprar io per dodici zecchini. (Cerca.) MARCHESE: (Oh povero me!). (Da sé.) Ma come lasciar così una boccetta d'oro? SERVITORE: Se l'è scordata, ma io non la trovo. MARCHESE: Mi pare ancora impossibile che fosse d'oro. SERVITORE: Era oro, gli dico. L'ha forse veduta V.E.? MARCHESE: Io?... Non ho veduto niente. SERVITORE: Basta. Le dirò che non la trovo. Suo danno. Doveva mettersela in tasca. (Parte.)
SCENA DODICESIMA
Il Marchese, poi il Conte. MARCHESE: Oh povero Marchese di Forlipopoli! Ho donata una boccetta d'oro, che val dodici zecchini, e l'ho donata per princisbech. Come ho da regolarmi in un caso di tanta importanza? Se recupero la boccetta dalla Contessa, mi fo ridicolo presso di lei; se Mirandolina viene a scoprire ch'io l'abbia avuta, è in pericolo il mio decoro. Son cavaliere. Devo pagarla. Ma non ho danari. CONTE: Che dite, signor Marchese, della bellissima novità? MARCHESE: Di quale novità? CONTE: Il Cavaliere Selvatico, il disprezzator delle donne, è innamorato di Mirandolina. MARCHESE: L'ho caro. Conosca suo malgrado il merito di questa donna; veda che io non m'invaghisco di chi non merita; e peni e crepi per gastigo della sua impertinenza. CONTE: Ma se Mirandolina gli corrisponde? MARCHESE: Ciò non può essere. Ella non farà a me questo torto. Sa chi sono. Sa cosa ho fatto per lei. CONTE: Io ho fatto per essa assai più di voi. Ma tutto è gettato. Mirandolina coltiva il Cavaliere di Ripafratta, ha usato verso di lui quelle attenzioni che non ha praticato né a voi, né a me; e vedesi che, colle donne, più che si sa, meno si merita, e che burlandosi esse di che le adora, corrono dietro a chi le disprezza. MARCHESE: Se ciò fosse vero... ma non può essere. CONTE: Perché non può essere? MARCHESE: Vorreste mettere il Cavaliere a confronto di me? CONTE: Non l'avete veduta voi stesso sedere alla di lui tavola? Con noi ha
praticato mai un atto di simile confidenza? A lui biancheria distinta. Servito in tavola prima di tutti. Le pietanze gliele fa ella colle sue mani. I servidori vedono tutto, e parlano. Fabrizio freme di gelosia. E poi quello svenimento, vero o finto che fosse, non è segno manifesto d'amore? MARCHESE: Come! A lui si fanno gl'intingoli saporiti, e a me carnaccia di bue, e minestra di riso lungo? Sì, è vero, questo è uno strapazzo al mio grado, alla mia condizione. CONTE: Ed io che ho speso tanto per lei? MARCHESE: Ed io che la regalava continuamente? Le ho fino dato da bere di quel vino di Cipro così prezioso. Il Cavaliere non avrà fatto con costei una minima parte di quello che abbiamo fatto noi. CONTE: Non dubitate, che anch'egli l'ha regalata. MARCHESE: Sì? Che cosa le ha donato? CONTE: Una boccettina d'oro con dello spirito di melissa. MARCHESE: (Oimè!) (Da sé.) Come lo avete saputo? CONTE: Il di lui servidore l'ha detto al mio. MARCHESE: (Sempre peggio. Entro in un impegno col Cavaliere). (Da sé.) CONTE: Vedo che costei è un'ingrata; voglio assolutamente lasciarla. Voglio partire or ora da questa locanda indegna. MARCHESE: Sì, fate bene, andate. CONTE: E voi che siete un cavaliere di tanta riputazione, dovreste partire con me. MARCHESE: Ma... dove dovrei andare? CONTE: Vi troverò io un alloggio. Lasciate pensare a me. MARCHESE: Quest'alloggio... sarà per esempio...
CONTE: Andremo in casa d'un mio paesano. Non ispenderemo nulla. MARCHESE: Basta, siete tanto mio amico, che non posso dirvi di no. CONTE: Andiamo, e vendichiamoci di questa femmina sconoscente. MARCHESE: Sì, andiamo. (Ma come sarà poi della boccetta? Son cavaliere, non posso fare una malazione). (Da sé.) CONTE: Non vi pentite, signor Marchese, andiamo via di qui. Fatemi questo piacere, e poi comandatemi dove posso, che vi servirò. MARCHESE: Vi dirò. In confidenza, ma che nessuno lo sappia. Il mio fattore mi ritarda qualche volta le mie rimesse... CONTE: Le avete forse da dar qualche cosa? MARCHESE: Sì, dodici zecchini. CONTE: Dodici zecchini? Bisogna che sia dei mesi, che non pagate. MARCHESE: Così è, le devo dodici zecchini. Non posso di qua partire senza pagarla. Se voi mi faceste il piacere... CONTE: Volentieri. Eccovi dodici zecchini. (Tira fuori la borsa.) MARCHESE: Aspettate. Ora che mi ricordo, sono tredici. (Voglio rendere il suo zecchino anche al Cavaliere). (Da sé.) CONTE: Dodici o tredici è lo stesso per me. Tenete. MARCHESE: Ve li renderò quanto prima. CONTE: Servitevi quanto vi piace. Danari a me non ne mancano; e per vendicarmi di costei, spenderei mille doppie. MARCHESE: Sì, veramente è un'ingrata. Ho speso tanto per lei, e mi tratta così. CONTE: Voglio rovinare la sua locanda. Ho fatto andar via anche quelle due commedianti.
MARCHESE: Dove sono le commedianti? CONTE: Erano qui: Ortensia e Dejanira. MARCHESE: Come! Non sono dame? CONTE: No. Sono due comiche. Sono arrivati i loro comnpagni, e la favola è terminata. MARCHESE: (La mia boccetta!). (Da sé.) Dove sono alloggiate? CONTE: In una casa vicino al teatro. MARCHESE: (Vado subito a ricuperare la mia boccetta). (Da se, parte.) CONTE: Con costei mi voglio vendicar così. Il Cavaliere poi, che ha saputo fingere per tradirmi, in altra maniera me ne renderà conto. (Parte.)
SCENA TREDICESIMA
Camera con tre porte. MIRANDOLINA (sola): Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (Serra la porta da dove è venuta.) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere quelche cosa di grande. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch'io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia reputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere di dentro, e detta; poi Fabrizio. Il Cavaliere batte per di dentro alla porta. MIRANDOLINA: Battono a questa porta: chi sarà mai? (S'accosta.) CAVALIERE: Mirandolina. (Di dentro.) MIRANDOLINA: (L'amico è qui). (Da sé.) CAVALIERE: Mirandolina, apritemi. (Come sopra.) MIRANDOLINA: (Aprirgli? Non sono sì gonza). Che comanda, signor Cavaliere? CAVALIERE: Apritemi. (Di dentro.) MIRANDOLINA: Favorisca andare nella sua camera, e mi aspetti, che or ora son da lei. CAVALIERE: Perché non volete aprirmi? (Come sopra.) MIRANDOLINA: Arrivano de' forestieri. Mi faccia questa grazia, vada, che or ora sono da lei. CAVALIERE: Vado: se non venite, povera voi. (Parte.) MIRANDOLINA: Se non venite, povera voi! Povera me, se vi andassi. La cosa va sempre peggio. Rimediamoci, se si può. È andato via? (Guarda al buco della chiave.) Sì, sì, è andato. Mi aspetta in camera, ma non vi vado. Ehi? Fabrizio. (Ad un'altra porta.) Sarebbe bella che ora Fabrizio si vendicasse di me, e non volesse... Oh, non vi è pericolo. Ho io certe manierine, certe smorfiette, che bisogna che caschino, se fossero di macigno. Fabrizio. (Chiama ad un'altra porta.) FABRIZIO: Avete chiamato?
MIRANDOLINA: Venite qui; voglio farvi una confidenza. FABRIZIO: Son qui. MIRANDOLINA: Sappiate che il Cavaliere di Ripafratta si è scoperto innamorato di me. FABRIZIO: Eh, me ne sono accorto. MIRANDOLINA: Sì? Ve ne siete accorto? Io in verità non me ne sono mai avveduta. FABRIZIO: Povera semplice! Non ve ne siete accorta! Non avete veduto, quando stiravate col ferro, le smorfie che vi faceva? La gelosia che aveva di me? MIRANDOLINA: Io che opero senza malizia, prendo le cose con indifferenza. Basta; ora mi ha dette certe parole, che in verità, Fabrizio, mi hanno fatto arrossire. FABRIZIO: Vedete: questo vuol dire perché siete una giovane sola, senza padre, senza madre, senza nessuno. Se foste maritata, non andrebbe così. MIRANDOLINA: Orsù, capisco che dite bene; ho pensato di maritarmi. FABRIZIO: Ricordatevi di vostro padre. MIRANDOLINA: Sì, me ne ricordo.
SCENA QUINDICESIMA
Il Cavaliere di dentro e detti. Il Cavaliere batte alla porta dove era prima. MIRANDOLINA: Picchiano. (A Fabrizio.) FABRIZIO: Chi è che picchia? (Forte verso la porta.) CAVALIERE: Apritemi. (Di dentro.) MIRANDOLINA: Il Cavaliere. (A Fabrizio.) FABRIZIO: Che cosa vuole? (S'accosta per aprirgli.) MIRANDOLINA: Aspettate ch'io parta. FABRIZIO: Di che avete timore? MIRANDOLINA: Caro Fabrizio, non so, ho paura della mia onestà. (Parte.) FABRIZIO: Non dubitate, io vi difenderò. CAVALIERE: Apritemi, giuro al cielo. (Di dentro.) FABRIZIO: Che comanda, signore? Che strepiti sono questi? In una locanda onorata non si fa così. CAVALIERE: Apri questa porta. (Si sente che la sforza.) FABRIZIO: Cospetto del diavolo! Non vorrei precipitare. Uomini, chi è di là? Non ci è nessuno?
SCENA SEDICESIMA
Il Marchese ed il Conte dalla porta di mezzo, e detti. CONTE: Che c'è? (Sulla porta.) MARCHESE: Che rumore è questo? (Sulla porta.) FABRIZIO: Signori, li prego: il signor Cavaliere di Ripafratta vuole sforzare quella porta. (Piano, che il Cavaliere non senta.) CAVALIERE: Aprimi, o la getto abbasso. (Di dentro.) MARCHESE: Che sia diventato pazzo? Andiamo via. (Al Conte.) CONTE: Apritegli. (A Fabrizio.) Ho volontà per appunto di parlar con lui. FABRIZIO: Aprirò; ma le supplico... CONTE: Non dubitate. Siamo qui noi. MARCHESE: (Se vedo niente niente, me la colgo). (Da sé.) (Fabrizio apre, ed entra il Cavaliere.) CAVALIERE: Giuro al cielo, dov'è? FABRIZIO: Chi cercate, signore? CAVALIERE: Mirandolina dov'è? FABRIZIO: Io non lo so. MARCHESE: (L'ha con Mirandolina. Non è niente). (Da sé.) CAVALIERE: Scellerata, la troverò. (S'incammina, e scopre il Conte e il Marchese.)
CONTE: Con chi l'avete? (Al Cavaliere.) MARCHESE: Cavaliere, noi siamo amici. CAVALIERE: (Oimè! Non vorrei per tutto l'oro del mondo che nota fosse questa mia debolezza). (Da sé.) FABRIZIO: Che cosa vuole, signore, dalla padrona? CAVALIERE: A te non devo rendere questi conti. Quando comando, voglio esser servito. Pago i miei denari per questo, e giuro al cielo, ella avrà che fare con me. FABRIZIO: V.S. paga i suoi denari per essere servito nelle cose lecite e oneste: ma non ha poi da pretendere, la mi perdoni, che una donna onorata... CAVALIERE: Che dici tu? Che sai tu? Tu non entri ne' fatti miei. So io quel che ho ordinato a colei. FABRIZIO: Le ha ordinato di venire nella sua camera. CAVALIERE: Va via, briccone, che ti rompo il cranio. FABRIZIO: Mi meraviglio di lei. MARCHESE: Zitto. (A Fabrizio.) CONTE: Andate via. (A Fabrizio.) CAVALIERE: Vattene via di qui. (A Fabrizio.) FABRIZIO: Dico, signore... (Riscaldandosi.) MARCHESE: Via. CONTE: Via. (Lo cacciano via.) FABRIZIO: (Corpo di bacco! Ho proprio voglia di precipitare). (Da sé, parte.)
SCENA DICIASSETTESIMA
Il Cavaliere, il Marchese ed il Conte. CAVALIERE: (Indegna! Farmi aspettar nella camera?). (Da sé.) MARCHESE: (Che diamine ha?). (Piano al Conte.) CONTE: (Non lo vedete? È innamorato di Mirandolina). CAVALIERE: (E si trattiene con Fabrizio? E parla seco di matrimonio?). (Da sé.) CONTE: (Ora è il tempo di vendicarmi). (Da sé.) Signor Cavaliere, non conviene ridersi delle debolezze altrui, quando si ha un cuore fragile come il vostro. CAVALIERE: Di che intendete voi di parlare? CONTE: So da che provengono le vostre smanie. CAVALIERE: Intendete voi di che parli? (Alterato, al Marchese.) MARCHESE: Amico, io non so niente. CONTE: Parlo di voi, che col pretesto di non poter soffrire le donne, avete tentato rapirmi il cuore di Mirandolina, ch'era già mia conquista. CAVALIERE: Io? (Alterato, verso il Marchese.) MARCHESE: Io non parlo. CONTE: Voltatevi a me, a me rispondete. Vi vergognate forse d'aver mal proceduto? CAVALIERE: Io mi vergogno d'ascoltarvi più oltre, senza dirvi che voi mentite. CONTE: A me una mentita?
MARCHESE: (La cosa va peggiorando). (Da sé.) CAVALIERE: Con qual fondamento potete voi dire?... (Il Conte non sa ciò che si dica). (Al Marchese, irato.) MARCHESE: Ma io non me ne voglio impiciare. CONTE: Voi siete un mentitore. MARCHESE: Vado via. (Vuol partire.) CAVALIERE: Fermatevi. (Lo trattiene per forza.) CONTE: E mi renderete conto... CAVALIERE: Sì, vi renderò conto... Datemi la vostra spada. (Al Marchese.) MARCHESE: Eh via, acquietatevi tutti due. Caro Conte, cosa importa a voi che il Cavaliere ami Mirandolina?... CAVALIERE: Io l'amo? Non è vero; mente chi lo dice. MARCHESE: Mente? La mentita non viene da me. Non sono io che lo dico. CAVALIERE: Chi dunque? CONTE: Io lo dico e lo sostengo, e non ho soggezione di voi. CAVALIERE: Datemi quella spada. (Al Marchese.) MARCHESE: No, dico. CAVALIERE: Siete ancora voi mio nemico? MARCHESE: Io sono amico di tutti. CONTE: Azioni indegne son queste. CAVALIERE: Ah giuro al Cielo! (Leva la spada al Marchese, la quale esce col fodero.)
MARCHESE: Non mi perdete il rispetto. (Al Cavaliere.) CAVALIERE: Se vi chiamate offeso, darò soddisfazione anche a voi. (Al Marchese.) MARCHESE: Via; siete troppo caldo. (Mi dispiace...) (Da se, rammaricandosi.) CONTE: Io voglio soddisfazione. (Si mette in guardia.) CAVALIERE: Ve la darò. (Vuol levar il fodero, e non può.) MARCHESE: Quella spada non vi conosce... CAVALIERE: Oh maledetta! (Sforza per cavarlo.) MARCHESE: Cavaliere, non farete niente... CONTE: Non ho più sofferenza. CAVALIERE: Eccola. (Cava la spada, e vede essere mezza lama.) Che è questo? MARCHESE: Mi avete rotta la spada. CAVALIERE: Il resto dov'è? Nel fodero non v'è niente. MARCHESE: Sì, è vero; l'ho rotta nell'ultimo duello; non me ne ricordavo. CAVALIERE: Lasciatemi provveder d'una spada. (Al Conte.) CONTE: Giuro al cielo, non mi fuggirete di mano. CAVALIERE: Che fuggire? Ho cuore di farvi fronte anche con questo pezzo di lama. MARCHESE: È lama di Spagna, non ha paura. CONTE: Non tanta bravura, signor gradasso. CAVALIERE: Sì, con questa lama. (S'avventa verso il Conte.) CONTE: Indietro. (Si pone in difesa.)
SCENA DICIOTTESIMA
Mirandolina, Fabrizio e detti. FABRIZIO: Alto, alto, padroni. MIRANDOLINA: Alto, signori miei, alto. CAVALIERE: (Ah maledetta!). (Vedendo Mirandolina.) MIRANDOLINA: Povera me! Colle spade? MARCHESE: Vedete? Per causa vostra. MIRANDOLINA: Come per causa mia? CONTE: Eccolo lì il signor Cavaliere. È innamorato di voi. CAVALIERE: Io innamorato? Non è vero; mentite. MIRANDOLINA: Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s'inganna. Posso assicurarla, che certamente s'inganna. CONTE: Eh, che siete voi pur d'accordo... MIRANDOLINA: Si, si vede... CAVALIERE: Che si sa? Che si vede? (Alterato, verso il Marchese.) MARCHESE: Dico, che quando è, si sa... Quando non è, non si vede. MIRANDOLINA: Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d'innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può sperare d'innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d'innamorare il
signor Cavaliere, ma non ho fatto niente. (Al Cavaliere.) CAVALIERE: (Ah! Non posso parlare). (Da sé.) CONTE: Lo vedete? Si confonde. (A Mirandolina.) MARCHESE: Non ha coraggio di dir di no. (A Mirandolina.) CAVALIERE: Voi non sapete quel che vi dite. (Al Marchese, irato.) MARCHESE: E sempre l'avete con me. (Al Cavaliere, dolcemente.) MIRANDOLINA: Oh, il signor Cavaliere non s'innamora. Conosce l'arte. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride. CAVALIERE: Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti? MIRANDOLINA: Come! Non lo sa, o finge di non saperlo? CAVALIERE: Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile nel cuore. MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch'è innamorato davvero. CONTE: Sì, lo è, non lo può nascondere. MARCHESE: Si vede negli occhi. CAVALIERE: No, non lo sono. (Irato al Marchese.) MARCHESE: E sempre con me. MIRANDOLINA: No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo. CAVALIERE: (Non posso più). (Da sé.) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada. (Getta via la mezza spada del Marchese.) MARCHESE: Ehi! la guardia costa denari. (La prende di terra.)
MIRANDOLINA: Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch'ella sia innamorato; bisogna disingannarli. CAVALIERE: Non vi è questo bisogno. MIRANDOLINA: Oh sì, signore. Si trattenga un momento. CAVALIERE: (Che far intende costei?). (Da sé.) MIRANDOLINA: Signori, il più certo segno d'amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch'io fossi d'un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno... CAVALIERE: Di chi volete voi essere? MIRANDOLINA: Di quello a cui mi ha destinato mio padre. FABRIZIO: Parlate forse di me? (A Mirandolina.) MIRANDOLINA: Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo' dar la mano di sposa. CAVALIERE: (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo). (Da sé, smaniando.) CONTE: (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere). (Da sé.) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi. MARCHESE: Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini. MIRANDOLINA: Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d'innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo... CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m'ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d'avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch'io ti strapi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue
finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (Parte.)
SCENA DICIANNOVESIMA
Mirandolina, il Conte, il Marchese e Fabrizio. CONTE: Dica ora di non essere innamorato. MARCHESE: Se mi dà un'altra mentita, da cavaliere lo sfido. MIRANDOLINA: Zitto, signori zitto. È andato via, e se non torna, e se la cosa a così, posso dire di essere fortunata. Pur troppo, poverino, mi è riuscito d'innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio. Non ne vo' saper altro. Fabrizio, vieni qui, caro, dammi la mano. FABRIZIO: La mano? Piano un poco, signora. Vi dilettate d'innamorar la gente in questa maniera, e credete ch'io vi voglia sposare? MIRANDOLINA: Eh via, pazzo! È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio. Ero fanciulla, non avevo nessuno che mi comandasse. Quando sarò maritata, so io quel che farò. FABRIZIO: Che cosa farete?
SCENA ULTIMA
Il Servitore del Cavaliere e detti. SERVITORE: Signora padrona, prima di partire son venuto a riverirvi. MIRANDOLINA: Andate via? SERVITORE: Sì. Il padrone va alla Posta. Fa attaccare: mi aspetta colla roba, e ce ne andiamo a Livorno. MIRANDOLINA: Compatite, se non vi ho fatto... SERVITORE: Non ho tempo da trattenermi. Vi ringrazio, e vi riverisco. (Parte.) MIRANDOLINA: Grazie al cielo, è partito. Mi resta qualche rimorso; certamente è partito con poco gusto. Di questi si non me ne cavo mai più. CONTE: Mirandolina, fanciulla o maritata che siate, sarò lo stesso per voi. MARCHESE: Fate pure capitale della mia protezione. MIRANDOLINA: Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più. Questi è mio marito... FABRIZIO: Ma piano, signora... MIRANDOLINA: Che piano! Che cosa c'è? Che difficoltà ci sono? Andiamo. Datemi quella mano. FABRIZIO: Vorrei che fimo prima i nostri patti. MIRANDOLINA: Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese. FABRIZIO: Vi darò la mano... ma poi...
MIRANDOLINA: Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me ti amerò sempre, sarai l'anima mia. FABRIZIO: Tenete, cara, non posso più. (Le dà la mano.) MIRANDOLINA: (Anche questa è fatta). (Da sé.) CONTE: Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l'abilità di condur gli uomini dove volete. MARCHESE: Certamente la vostra maniera obbliga infinitamente. MIRANDOLINA: Se è vero ch'io possa sperar grazie da lor signori, una ne chiedo loro per ultimo. CONTE: Dite pure. MARCHESE: Parlate. FABRIZIO: (Che cosa mai adesso domanderà?). (Da sé.) MIRANDOLINA: Le supplico per atto di grazia, a provvedersi di un'altra locanda. FABRIZIO: (Brava; ora vedo che la mi vuol bene). (Da sé.) CONTE: Sì, vi capisco e vi lodo. Me ne andrò, ma dovunque io sia, assicuratevi della mia stima. MARCHESE: Ditemi: avete voi perduta una boccettina d'oro? MIRANDOLINA: Sì signore. MARCHESE: Eccola qui. L'ho ritrovata, e ve la rendo. Partirò per compiacervi, ma in ogni luogo fate pur capitale della mia protezione. MIRANDOLINA: Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell'onestà. Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.
Fine della Commedia
LE AVVENTURE DELLA VILLEGGIATURA Commedia in tre atti. (1761)
PERSONAGGI Dell'altra commedia
Filippo Giacinta Leonardo Vittoria Ferdinando Guglielmo Brigida Paolino
Nuovi
Sabina, vecchia, zia di Giacinta Costanza Rosina, sua nipote Tognino, giovane sciocco, amante di Rosina Tita, Servitore di Costanza Beltrame, Servitor del padre di Tognino
Un altro Servitore di Filippo
La scena si rappresenta a Montenero, luogo di villeggiatura de' Livornesi, poche miglia distante da Livorno.
L'AUTORE A CHI LEGGE L'azione della precedente Commedia è l'andata in campagna. Le difficoltà insorte l'hanno ritardata, e quasi impedita; le difficoltà superate, gli Attori hanno il loro intento, e la Commedia è finita. Guglielmo in essa è un personaggio necessario, poiché è quegli che eccita le gelosie di Leonardo, e dà i movimenti all'azione, ora col ritardo ed ora colla sollecitazione al fine; ma senza una seconda Commedia, il suo carattere freddo e flemmatico lascierebbe qualche cosa a desiderare. Questo personaggio si disviluppa a questa seconda Commedia, e lo stesso carattere freddo e flemmatico produce la principale delle Avventure, cioè l'azione principale di questo secondo dramma. Questa continuazione produce qualche altro buon effetto. La baldanza di Giacinta è mortificata. La follia di Filippo è derisa. I pronostici di Fulgenzio verificati. In fine l'abuso delle Villeggiature è provato, e le conseguenze pericolose sono esposte alla vista e al disinganno degli Spettatori. Anche questa Commedia è finita. Non dirò come essa finisce, per non prevenire il Lettore, e togliere a lui il piacere della sospensione; ma si accorgerà egli al fine della lettura, che vi resta qualche cosa a desiderare, e sarà contento, io spero, alla lettura della terza Commedia. Tutti gli Attori della prima intervengono in questa seconda, alla riserva di Fulgenzio, di cui per altro si parla, e figurerà nella terza. Oltre gli Attori suddetti, se ne introducono quattro nuovi, i quali tutti contribuiscono a moltiplicar le Avventure della Villeggiatura, e tutti servono all'azion principale. L'unità dell'azione è un precetto indispensabile da osservarsi ne' Drammi, quando l'argomento riguarda un personaggio principalmente. Ma quando il titolo collettivo abbraccia più persone, l'unità stessa si trova nella moltiplicità delle azioni. Di questo genere sono (parlando delle mie commedie) il Teatro Comico, La Bottega del caffè, i Pettegolezzi delle Donne; e precisamente le tre Commedie presenti. Tutti i personaggi agiscono per lo stesso fine, e tutte le loro diverse azioni si riducono a provar l'argomento.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala terrena in casa di Filippo, con tavolini da gioco, sedie, canapè ecc. Gran porta aperta nel fondo, per dove si a nel giardino. Brigida, Paolino, Tita, Beltrame.
BRIGIDA: Venite, venite, che tutti dormono. PAOLINO: Anche da noi non è molto che si son coricati. TITA: E le mie padrone non c'è dubbio che si sveglino per tre ore almeno. BELTRAME: Se vegliano tutta la notte, bisogna che dormano il giorno. PAOLINO: E voi, signora Brigida, come avete fatto a levarvi sì di buon'ora? BRIGIDA: Oh! io ho dormito benissimo. Quando ha principiato la conversazione, io sono andata a dormire. Hanno giocato, hanno cenato, hanno ritornato a giocare, ed io me la godeva dormendo. A giorno la padrona mi ha fatto chiamare; mi sono alzata, l'ho spogliata, l'ho messa a letto, ho serrata la camera, e mi sono bravamente vestita. Ho fatto una buona eggiata in giardino, ho raccolto i miei gelsomini, e ho goduto il maggior piacere di questo mondo. PAOLINO: Così veramente qualche cosa si gode. Ma che cosa godono i nostri padroni? BRIGIDA: Niente. Per loro la città e la villa è la stessa cosa. Fanno per tutto la medesima vita. PAOLINO: Non vi è altra differenza, se non che in campagna trattano più persone, e spendono molto più. BRIGIDA: Orsù, questa mattina voglio aver anch'io l'onore di trattare i miei cavalieri. (Scherzando.) Come volete essere serviti? Volete caffè, cioccolata,
bottiglia? Comandate. PAOLINO: Io prenderò piuttosto la cioccolata. TITA: Anch'io cioccolata. BELTRAME: Ed io un bicchiere di qualche cosa di buono. BRIGIDA: Volentieri; vi servo subito. (In atto di partire.) TITA: Ehi! la cioccolata io non la prendo senza qualche galanteria. (A Brigida.) BRIGIDA: Eh! ci s'intende. PAOLINO: La signora Brigida sa ben ella quel che va fatto. BRIGIDA: Già della roba ce n'è, già la consumano malamente; è meglio che godiamo qualche cosa anche noi. (Parte.)
SCENA SECONDA
Paolino, Tita, Beltrame.
PAOLINO: Domani mattina, alla stessa ora, vi aspetto a favorire da me. TITA: Bene, e un'altra mattina favorirete da me. PAOLINO: Il vostro padrone è in campagna? (A Tita.) TITA: Il mio padrone è a Livorno, e la padrona sta qui a godersela. Il marito fatica in città a lavorare, e la moglie in campagna a spendere e a divertirsi. PAOLINO: Sì, certo, la signora Costanza fa qui la sua gran figura. Chi non la conoscesse, non direbbe mai che è moglie d'un bottegaio. BELTRAME: Capperi, se fa figura! La chiamano per soprannome la governatrice di Montenero. PAOLINO: E chi è quella giovane che in quest'anno è venuta a villeggiare con lei? TITA: È una sua nipote, povera, miserabile, che non ha niente al mondo. Tutto quello che ha in dosso, glielo ha prestato la mia padrona. PAOLINO: E perché aggravar suo marito di quest'altra spesa? Perché far venire in campagna una nipote, col peso di doverla vestire? TITA: Vi dirò, ci è il suo perché. La signora Costanza, la mia padrona, è ancora giovane, è vero; ma in oggi a Montenero ci sono delle giovani più di lei. E dove vi è la gioventù, vi è il gran mondo; ed ella, per non esser di meno, si è provveduta di una nipote di sedici anni.
SCENA TERZA
Brigida, Servitori che portano cioccolate, vino ecc.; e detti.
BRIGIDA: Eccomi, eccomi, compatite se vi ho fatto un poco aspettare. PAOLINO: Niente, ci siamo benissimo divertiti. BRIGIDA: Come? PAOLINO: A dir bene del prossimo. (Ridendo.) BRIGIDA: Bravi, bravi, ho capito. Oh! chi volesse dire... chi volesse discorrere su quel che succede in villa, vi sarebbero da far de' tomi. Si vanno a struggere i poeti per far commedie? Vengano qui, se vogliono fare delle commedie. Signor Paolino, a voi. (Gli dà la cioccolata.) Che vengano a vedere la nostra vecchia, se vogliono un bell'argomento. A voi, Tita. (Gli dà la cioccolata.) Sessantacinque anni, e si dà ancora ad intendere di essere corteggiata. (Dà i biscottini a tutti e due.) E il signor Ferdinando la sa sì ben secondare, che pare innamorato morto di lei, e la buona vecchia se ne lusinga; ma credo che quel drittaccio la pilucchi ben bene. Signor Beltrame, questo vi dovrebbe piacere. (Vuota il vino in un bicchiere, e glielo dà.) BELTRAME: Questa mi pare la miglior cioccolata del mondo. BRIGIDA: Tenete due biscottini. E questa novità di cui tutti parlano, che il signor Guglielmo si sia scoperto amante della signora Vittoria, è vera, o non è vera? Voi, Paolino, lo dovrete sapere. PAOLINO: Dicono che in calesso sia corsa qualche parola. Lo staffiere, ch'era di dietro al calesso, dice ch'era il finestrino aperto, che poi l'hanno serrato, ma che tant'e tanto qualche cosa ha sentito. BRIGIDA: Eh! sì, due giovani in un calesso è una bella occasione.
BELTRAME: Buono, veramente buono. (Vuol rendere il bicchiere.) BRIGIDA: Ne volete un altro? BELTRAME: No; sto bene. BRIGIDA: Eh! via, un altro. BELTRAME: No, davvero, sto bene. BRIGIDA: Per amor mio, un altro. BELTRAME: Corpo di bacco! date qui. Si può far meno per amor vostro? BRIGIDA: Così mi piace, che gli uomini sian compiacenti. PAOLINO: Domattina, signora Brigida, signor Tita, signor Beltrame, vi aspetto da me. TITA: E dopo domani da me. BELTRAME: Io non sono in caso di potervi trattare. Il mio padrone beve il caffè e la cioccolata fuori di casa, e da noi non se ne sente l'odore. PAOLINO: Il vostro padrone non è il signor dottore, il medico di condotta di Montenero? (A Beltrame.) BELTRAME: Sì, appunto. Sono tant'anni che è medico di campagna, e non ha mai potuto avere la grazia di essere medico di città. PAOLINO: Ieri è stato da noi a bevere la cioccolata. BRIGIDA: Da voi? L'ha bevuta anche da noi. TITA: E se vi dicessi, che l'ha bevuta anche da noi? BRIGIDA: Buon pro faccia al signor dottore. PAOLINO: Questa mattina farà probabilmente lo stesso giro. BELTRAME: Per questa mattina no, perché non c'è a Montenero. È andato a
fare una visita in Maremma, e non vi tornerà fin domani. BRIGIDA: Che vuol dire, che voi non siete andato con lui? BELTRAME: Sono venuti a prenderlo con sedia e servitore, ed ha lasciato me in custodia di suo figliuolo. BRIGIDA: Di quello sciocco del signor Tognino? TITA: Sì, sciocco! È un certo sciocco! Fa l'amore da disperato colla signora Rosina. BRIGIDA: Colla nipote della signora Costanza? BELTRAME: Sì, è vero. L'hanno tirato giù ben bene. Coll'occasione che il signor dottore suo padre fa il servente alla signora Costanza, egli si è attaccato alla nipote. BRIGIDA: Davvero, raccontatemi... PAOLINO: Vien gente. TITA: Andiamo via. BRIGIDA: Andiamo, andiamo in giardino; vo' saper la cosa com'è. PAOLINO: Cose belle. (Parte.) TITA: Cose solite. (Parte.) BELTRAME: Frutti di gioventù! (Parte.) BRIGIDA: Avventure della campagna. (Parte.)
SCENA QUARTA
Ferdinando in abito di confidenza, poi un Servitore.
FERDINANDO: Ehi! chi è di là? Chi è di là? Non c'è nessuno? Che dormano ancora tutti costoro? Ehi, chi è di là? SERVITORE: Comandi. FERDINANDO: Che diavolo, s'ha da sfiatarsi per aver un servitore. SERVITORE: Perdoni. FERDINANDO: Portatemi la cioccolata. SERVITORE: Sarà servita. (Scroccone! comanda con questa buona grazia, come se fosse in casa sua, o come se fosse in un'osteria). (Parte.) FERDINANDO: Il signor Filippo è un buonissimo galantuomo; ma non sa farsi servire. Tuttavolta si sta meglio qui, che in ogni altro luogo. Si gode più libertà, si mangia meglio, e vi è migliore conversazione. È stato bene per me, che mi sia accompagnato in calesso colla cameriera di casa; con questo pretesto sono restato qui, in luogo di andar dal signor Leonardo. Colà pure non si sta male, ma qui si sta egregiamente. In somma tutto va bene, e per colmo di buona sorte, quest'anno il gioco non mi va male. Facciamo un po' di bilancio; veggiamo in che stato si trova la nostra cassa. (Siede ad un tavolino, e cava un libretto di tasca.) A minchiate, vincita, lire dieciotto. A primiera, vincita, lire sessantadue. Al trentuno, vincita, lire novantasei; a faraone, vincita, zecchini sedici, fanno in tutto... (Conteggia.) in tutto sarò in avvantaggio di trenta zecchini incirca. Eh! se continua così... Ma che diavolo fate? Mi portate questa cioccolata? Venite mai, che siate maledetti? (Grida forte.)
SCENA QUINTA
Filippo ed il suddetto.
FILIPPO: Caro amico, fatemi la finezza di non gridare. FERDINANDO: Ma voi non dite mai niente, e la servitù fa tutto quello che vuole. FILIPPO: Io son servito benissimo, e non grido mai. FERDINANDO: Per me non ci penso. Ma avete degli altri ospiti in casa; e si lamentano della servitù. FILIPPO: Vi dirò, amico; i miei servitori li pago io, e chi non è contento, se ne può andare liberamente. FERDINANDO: Avete ancora bevuto la cioccolata? FILIPPO: Io no. FERDINANDO: E che cosa aspettate a prenderla? FILIPPO: Aspetto il mio comodo, la mia volontà e il mio piacere. FERDINANDO: Ma io la prenderei volentieri. FILIPPO: Servitevi. FERDINANDO: Son tre ore che l'ho ordinata. Ehi, dico, vi è caso d'aver questa cioccolata? (Alla scena, forte.) FILIPPO: Ma non gridate. FERDINANDO: Ma se non la portano.
FILIPPO: Abbiate pazienza. Saranno più del solito affaccendati; oggi si dà pranzo. Saremo in undici o dodici a tavola; la servitù non può far tutto in un fiato. FERDINANDO: (Per quel ch'io vedo, questa mattina non ci ha da essere fondamento). Schiavo, signor Filippo. FILIPPO: Dove andate? FERDINANDO: A bevere la cioccolata in qualche altro luogo. FILIPPO: Caro amico, fra voi e me, che nessuno ci senta: voi peccate un poco di ghiottoneria. FERDINANDO: Il mio stomaco ci patisce. Non mangio quasi niente la sera. FILIPPO: Mi pare, per altro, che ieri alla bella cena del signor Leonardo vi siate portato bene. FERDINANDO: Oh! ieri sera è stato un accidente. FILIPPO: Se avessi mangiato quel che avete mangiato voi, digiunerei per tre giorni. FERDINANDO: Oh! ecco la cioccolata. (Il Servitore ne porta una tazza.) FILIPPO: Non andate a prenderla fuori? Accomodatevi. Questa la prenderò io. FERDINANDO: Ve ne avete avuto a male? FILIPPO: No, non mi ho per male di queste cose. Andate liberamente, che questa la prenderò io. FERDINANDO: Siete pure grazioso, signor Filippo. Siamo buoni amici; non voglio che andiate in collera. La prenderò io. (Prende la cioccolata.) FILIPPO: Benissimo. La ceremonia non può essere più obbligante. Sbattetene una per me. (Al Servitore.) SERVITORE: Signore, se non viene Brigida, non ce n'è.
FILIPPO: Ieri sera non ne avete messo in infusione, secondo il solito? SERVITORE: Sì, signore, ma ora non ce n'è più. FILIPPO: Mia figlia non l'ha bevuta, mia sorella non l'ha bevuta, il signor Guglielmo non l'ha bevuta; dove è andata la cioccolata? SERVITORE: Io non so altro, signore; so che nella cioccolatiera non ce n'è più. FILIPPO: Bene, se non ce n'è più, toccherà a me a star senza. Oh! a queste cose già sono avvezzo. FERDINANDO: È buona. Veramente la vostra cioccolata è perfetta. FILIPPO: Procuro di farla fare senza risparmio. FERDINANDO: Con permissione. Vado a far quattro i. FILIPPO: Venite qua; giochiamo due partite a picchetto. FERDINANDO: A quest'ora? FILIPPO: Sì, ora che non c'è nessuno; se aspetto l'ora della conversazione, si mettono a tagliare, fanno le loro partite, ed io non trovo un can che mi guardi. FERDINANDO: Caro signor Filippo, io ora non ho volontà di giocare. FILIPPO: Due partite, per compiacenza. FERDINANDO: Scusatemi, ho bisogno di camminare; più tardi, più tardi, giocheremo più al tardi. (Figurarsi s'io voglio star lì a giocare due soldi la partita con questo vecchio). (Parte.) FILIPPO: Se lo dico! nessuno mi bada. Tutti si divertono alle mie spalle, ed io, se vorrò divertirmi, mi converrà andare alla spezieria a giocare a dama collo speziale. Oh! mi ha parlato pur bene il signor Fulgenzio. Basta; anche per quest'anno ci sono. Se marito la mia figliuola, vo' appigionare la casa e la possessione, e non voglio altra villeggiatura. Ma io, se non villeggio, ci patisco. Se non ho compagnia, son morto. Non so che dire. Sono avvezzato così. Il mio
non ha da essere mio; me l'hanno da divorare; e la minor parte ha da esser sempre la mia. (Parte.)
SCENA SESTA
Saletta in casa di Costanza. Costanza e Rosina.
COSTANZA: Brava, nipote, brava, mi piacete. Siete assettata perfettamente. ROSINA: Ci ho messo tutto il mio studio questa mattina per farmi un'acconciatura di gusto. COSTANZA: Avete fatto benissimo, perché oggi dal signor Filippo ci saranno tutte le bellezze di Montenero, e si vedranno delle acconciature stupende. ROSINA: Oh! sì; si vedranno le solite caricature. Furie, teste di leoni e medaglioni antichi. COSTANZA: È vero; propriamente si disfigurano. ROSINA: Che si tengano i loro parrucchieri, ch'io non li stimo un'acca. Questi non fanno che copiar le mode che vengono; e non badano se la moda convenga o disconvenga all'aria e al viso della persona. COSTANZA: Verissimo; è una cosa mostruosa vedere un visino minuto in mezzo una macchina di capelli, che cambia perfino la fisionomia. ROSINA: Che mai vuol dire, che non si è ancora veduto il signor Tognino? Mi ha detto che sarebbe venuto a far colazione con noi. COSTANZA: Eh! verrà, non temete. Si vede che vi vuol bene. ROSINA: Sì, s'io volessi, mi sposerebbe domani. COSTANZA: La professione del medico è finalmente una professione civile, e potreste andar del pari con chi che sia.
ROSINA: Mi dispiace che vi vuol tempo, prima ch'egli sia in istato di esercitarla. COSTANZA: Oh! quanto ci vuole? È stato a Pisa a studiare; presto si addottora, e presto può fare il medico. ROSINA: Dicono che sa poco, e che se non istudia un po' meglio, sarà difficile ch'egli riesca. COSTANZA: Eh! mi fate ridere. Per addottorarsi non ci vuol molto. Un poco di memoria, un poco di protezione, in quindici giorni è bell'e spicciato. Quando è addottorato, non gli manca subito una condotta. Gli amici suoi, gli amici nostri gliela faranno ottenere. ROSINA: E la pratica? COSTANZA: La pratica la farà in condotta. ROSINA: Beati i primi che gli capitan sotto. COSTANZA: Se sarà fortunato, tutte le cose gli anderan bene. ROSINA: Suo padre sarà poi contento? COSTANZA: Io spero di sì. Il signor dottore, non fo per dire, ha della bontà grande per me.
SCENA SETTIMA
Ferdinando e le suddette.
FERDINANDO: O di casa. Si può venire? (Di dentro.) COSTANZA: Venga, venga, è padrone. (Verso la scena.) Il signor Ferdinando. (A Rosina.) ROSINA: Che vuol da noi questo seccatore? COSTANZA: Non lo sapete? È uno che si caccia per tutto; e bisogna fargli delle finezze, perché è una lingua che taglia e fende. ROSINA: Corbella quella povera vecchia, che è una comione. FERDINANDO: Servo, signore, padrone mie riverite. ROSINA: Serva. COSTANZA: Serva divota. FERDINANDO: Cospetto! che bellezze son queste? ROSINA: Ci burla, signore. FERDINANDO: Ma siete così sole? Non avete compagnia, non avete nessuno? COSTANZA: Questa mattina non è ancora venuto nessuno. FERDINANDO: E il signor dottore non è ancora venuto questa mattina? COSTANZA: Non signore, è in Maremma a fare una visita. FERDINANDO: E il dottorino in erba non si è veduto?
COSTANZA: Non ancora. FERDINANDO: Gran bel capo d'opera è quel ragazzo! Ma, oh diavolo! non mi ricordava ch'è l'idolo della signora Rosina. Scusatemi, signora, voi siete una giovane che ha del talento; non credo che la parzialità vi possa dare ad intendere, ch'egli sia spiritoso. ROSINA: Io non dico che abbia molto spirito; ma non mi pare che sia da porre in ridicolo. FERDINANDO: No, no, ha il suo merito, è di buona grazia. (Il secondare non costa niente). COSTANZA: Signor Ferdinando, volete che vi faccia fare il caffè? FERDINANDO: Obbligatissimo. La mattina non lo prendo mai. COSTANZA: Avrete preso la cioccolata. FERDINANDO: Sì, una pessima cioccolata. COSTANZA: E dove l'avete avuta così cattiva? FERDINANDO: Dove sto, dal signor Filippo. Un uomo che spende assai, che spende quello che può e quello che non può, ed è pessimamente servito. ROSINA: Oggi siamo invitate a pranzo da lui. FERDINANDO: Sì, vedrete della robaccia; della roba, se siamo in dodici, bastante per ventiquattro, ma senza gusto, senza delicatezza: carnaccia, piatti ricolmi, montagne di roba mal cotta, mal condita, tutta grasso, carica di spezierie; roba che sazia a vederla, e non s'ha un piacere al mondo a mangiarla. COSTANZA: Per dir la verità, ieri sera dal signor Leonardo ci hanno dato una cena molto polita. FERDINANDO: Sì, polita se voi volete. Ma niente di raro. COSTANZA: C'erano de' beccafichi sontuosi. FERDINANDO: Ma quanti erano? Io non credo che arrivassero a otto
beccafichi per ciascheduno. ROSINA: Io mi sono divertita bene col tonno. FERDINANDO: Oibò! era condito con dell'olio cattivo. Quando non è olio di Lucca del più perfetto, io non lo posso soffrire. ROSINA: Oh! vedete chi viene, signora zia? COSTANZA: Sì, sì, Tognino. FERDINANDO: Ho ben piacere che venga il signor Tognino. COSTANZA: Vi prego, signor Ferdinando: quel povero ragazzo non lo prendete per mano. FERDINANDO: Mi maraviglio, signora Costanza, io non sono capace... ROSINA: Perché poi chi volesse dire del signor Ferdinando colla sua vecchia, se ne potrebbono dir di belle. FERDINANDO: Lasciatemi star la mia vecchia, che quella è l'idolo mio. (Ironicamente.) COSTANZA: Sì sì, l'idolo vostro, ho capito.
SCENA OTTAVA
Tognino e detti.
TOGNINO: Padrone, ben levate. Cosa fanno? Stanno bene? Me ne consolo. ROSINA: Buon giorno, signor Tognino. FERDINANDO: Signor Tognino carissimo, ho l'onor di protestarle la mia umilissima servitù. (Con caricatura.) TOGNINO: Padrone. (Salutando Ferdinando.) COSTANZA: Avete dormito bene la scorsa notte? TOGNINO: Signora sì. ROSINA: Vi ha fatto male la cena? TOGNINO: Oh male! Perché male? Non mi ha fatto niente male. FERDINANDO: E poi, se gli avesse fatto male, non sa egli di medicina? Non saprebbe egli curarsi? TOGNINO: Signor sì, che saprei curarmi. FERDINANDO: A un uomo che avesse mangiato troppo, che si sentisse aggravato lo stomaco, che cosa ordinereste voi, signor Tognino? ROSINA: Oh! egli non è ancor medico; e non è obbligato a saper queste cose. TOGNINO: Signora sì, ch'io lo so. FERDINANDO: Egli lo sa, signora mia, egli lo sa benissimo, e voi, compatitemi, gli fate torto, e non avete di lui quella stima ch'ei merita. Dite a me,
signor Tognino, che cosa gli ordinereste? TOGNINO: Gli ordinerei della cassia, e della manna, e della sena, e del cremor di tartaro, e del sal d'Inghilterra. COSTANZA: Cioè, o una cosa, o l'altra. FERDINANDO: E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno. TOGNINO: E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno. FERDINANDO: Bravo; evviva il signor dottorino. ROSINA: Orsù, mutiamo discorso. COSTANZA: A che ora è partito vostro signor padre? (A Tognino.) TOGNINO: Quando è partito, io dormiva. Non so che ora fosse. COSTANZA: Non ve l'hanno detto in casa a che ora è partito? TOGNINO: Me l'hanno detto, ma non me ne ricordo. FERDINANDO: (Spiritosissima creatura!). ROSINA: E quando credete ch'egli ritorni? TOGNINO: Io credo che ritornerà, quando avrà finito di fare quello che deve fare. FERDINANDO: Non c'è dubbio. Dice benissimo. In quell'età, pare impossibile ch'ei sappia dir tanto. ROSINA: Orsù, signore, gliel'ho detto e glielo torno a dire: guardi se stesso, e non istia a corbellare. (A Ferdinando.) TOGNINO: Mi corbella il signor Ferdinando? (A Ferdinando.) COSTANZA: Ditemi. Avete fatto colezione? (A Tognino.) TOGNINO: Io no, sono venuto qui a farla.
ROSINA: Ed io v'ho aspettato, e la faremo insieme. FERDINANDO: Ma! è fortunato il signor Tognino. TOGNINO: Perché fortunato? FERDINANDO: Perché fa spasimar le fanciulle. COSTANZA: Lasciamo andare questi discorsi. (A Ferdinando.) ROSINA: (Povero il mio Tognino, non gli badate). (Piano a Tognino.) TOGNINO: (Quando sarete mia, per casa non ce lo voglio). (Piano a Rosina, e battendo i piedi.) FERDINANDO: Che cosa ha il signor Tognino? COSTANZA: Lasciatelo stare. FERDINANDO: Ma io gli voglio bene. TOGNINO: E a me non importa niente del vostro bene. (Gli fa uno sgarbo.) FERDINANDO: Grazioso, amabile, delizioso!
SCENA NONA
Tita e detti.
TITA: Signora, una visita. (A Costanza.) COSTANZA: E chi è? TITA: La signora Vittoria COSTANZA: Padrona, mi fa grazia. (A Tita.) TOGNINO: E la colazione? ROSINA: Vi contentate, signora zia, che andiamo a far colazione? COSTANZA: Tita, conducete di là mia nipote e il signor Tognino, date loro qualche cosa di buono, e state lì con essi loro, e non vi partite. TITA: Sì, signora. (Parte.) FERDINANDO: (Donna di garbo! Buona custodia! Ammirabile cautela!). (Con ironia.) ROSINA: Andiamo. (A Tognino.) FERDINANDO: Buon pro faccia al signor Tognino. TOGNINO: Grazie. Padrone. FERDINANDO: Mi faccia un brindisi. ROSINA: Oh, sono pure annoiata! (A Ferdinando.) FERDINANDO: Viva mille anni il signor Tognino.
TOGNINO: Oh, sono pure annoiato! (A Ferdinando.) ROSINA: Andiamo. (Prende Tognino per un braccio, e lo strascina in maniera che si vede la goffaggine di Tognino.)
SCENA DECIMA
Costanza e Ferdinando, poi Vittoria.
COSTANZA: Ma, caro signor Ferdinando... FERDINANDO: Ma, cara signora Costanza, chi si può tenere, si tenga. VITTORIA: Serva sua, signora Costanza. Perdoni se ho tardato a fare il mio debito. COSTANZA: Cosa dice mai? In ogni tempo mi fa onore; mi favorisce. La prego d'accomodarsi. (Siedono.) FERDINANDO: (Che dite eh? In che gala si è messa?). (Sedendo, piano a Vittoria.) VITTORIA: (Tutto cattivo; non si sa nemmeno vestire). (A Ferdinando.) COSTANZA: (Oh, che ti venga la rabbia! Ha il mariage alla moda). (Si guardano sott'occhio, e non parlano.) FERDINANDO: (Si sono ammutolite, non parlano). E così, signore, che cosa dicono di questo tempo? VITTORIA: Eh! per la stagione che corre, non c'è male. COSTANZA: (Ora capisco, perché è venuta da me: per farsi vedere il bell'abito. Ma non le vo' dar piacere, non le vo' dir niente). FERDINANDO: È molto magnifica la signora Vittoria, è vestita veramente di gusto. VITTORIA: È una galanteria; è un abitino alla moda. COSTANZA: Starà molto in campagna la signora Vittoria?
VITTORIA: Fino che durerà la villeggiatura. FERDINANDO: Mi piace infinitamente la distribuzion dei colori. VITTORIA: In questa sorta d'abiti tutto consiste nell'armonia de' colori. COSTANZA: (L'armonia de' colori!). (Caricandola.) FERDINANDO: Questo vuol dire essere di buon gusto. COSTANZA: Questa mattina, m'immagino, sarà anch'ella invitata dalla signora Giacinta. VITTORIA: Sì, signora. Ci va ella pure? COSTANZA: Oh! non vuole? VITTORIA: Va a piedi, se è lecito, o va in isterzo? COSTANZA: Oh! vado a piedi. Io lo sterzo non l'ho, ché non sono sì ricca; ma quando anche l'avessi, per quattro i mi parerebbe un'affettazione. VITTORIA: Eh! non si fa per questo, si fa per la proprietà. COSTANZA: Se vogliamo parlare di proprietà... FERDINANDO: Saremo in molti, io credo, questa mattina. VITTORIA: Per me, ci sia chi ci vuol essere, non mi voglio mettere in soggezione. Mi sono vestita così in abito di confidenza. FERDINANDO: Ma questo, signora, è un abito con cui può presentarsi in qualunque luogo. COSTANZA: (Ma che maladetto ciarlone!). FERDINANDO: Che dic'ella, signora Costanza? Non è questo un vestito magnifico, e di buon gusto? COSTANZA: Vossignoria non sa che interrompere quand'uno parla. A che ora fa conto d'andare dalla signora Giacinta? (A Vittoria.)
VITTORIA: (Oh! si vede che quest'abito la fa delirare). Dirò, signora, ho da fare ancora due visite, e poi erò dalla signora Giacinta. Se sarà presto, si farà una partita. COSTANZA: Oh! sì, per giocare poi, in quella casa si gioca a tutte le ore. Pazienza che giocassero a piccioli giochi, ma c'è quel maladettissimo faraone, che ha da essere la rovina di qualcheduno. FERDINANDO: Io non so che finora sia accaduto alcuno di questi malanni. VITTORIA: Quest'anno, per dirla, ho perduto anch'io quanto basta, e poi ho fatto delle spesette. Mi piace andar ben vestita. Ogni stagione mi piace farmi qualche cosa di nuovo. Tutti hanno la loro ione. Io ho quella del vestir bene, e di vestir alla moda. Ecco qui, quest'anno è uscita la moda del mariage, e sono stata io delle prime. COSTANZA: (Fa propriamente venire il vomito. Non si può soffrire). FERDINANDO: La pulizia certamente è quella che fa distinguere le persone. VITTORIA: Che dice, signora Costanza, ella che è di buon gusto, le piace quest'abito? COSTANZA: Signora, io non voleva dir niente, perché sono una donna sincera, e non mi piace adulare, e dall'altra parte sprezzare la roba degli altri non è buona creanza; ma se deggio dirle la verità, non mi piace niente. VITTORIA: Non le piace? COSTANZA: Non so che dire, sarò di cattivo gusto, ma non mi piace. FERDINANDO: Cospetto! Questa è una cosa grande. Ma che ci trova, che non le piace? COSTANZA: Ma che cosa ci trova di bello, di maraviglioso, il signor lodatore? È altro che un abito di seta schietto, guarnito a più colori, come si guarniscono le livree? Con sua buona grazia, non mi piace, e mi pare che non meriti tanti elogi.
FERDINANDO: Eh! i gusti sono diversi. VITTORIA: Per altro, signora Costanza, io non sono venuta mai a disprezzare i suoi abiti. (Si alzano.) COSTANZA: Né io, mi perdoni... FERDINANDO: Io vedo che la signora Vittoria ha volontà di partire. Se comanda, la servirò io. VITTORIA: Mi farà piacere. COSTANZA: Ella è padrona di servirsi come comanda. VITTORIA: Serva umilissima. COSTANZA: Serva divota. FERDINANDO: Il mio rispetto alla signora Costanza. VITTORIA: (Merito peggio, non ci doveva venire. Povera, superba e ignorante). (Parte.) FERDINANDO: (Bel soggetto per una cantata per musica! L'ambizione e l'invidia). (Parte.) COSTANZA: Gran signora! Gran principessa! Piena di debiti e di vanità, senza fondamento. (Parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Sala in casa di Filippo. Giacinta e Brigida.
BRIGIDA: Che ma vuol dire, signora padrona, ch'ella è così melanconica? Quest'anno pare ch'ella non goda il piacere della villeggiatura. GIACINTA: Maledico l'ora e il punto che ci sono venuta. BRIGIDA: Ma perché mai questa cosa? GIACINTA: Lasciami stare, non m'inquietar d'avvantaggio. BRIGIDA: Ma io lo voglio sapere assolutamente. La mia padrona non mi ha mai tenuto nascosto niente, e spero non vorrà darmi ora questa mortificazione. GIACINTA: Brigida mia, conosco che sono stata una pazza, che sono una pazza, e che le mie pazzie mi voglion far sospirare. BRIGIDA: Ma perché mai? È ella pentita d'aver a sposare il signor Leonardo? GIACINTA: No, non mi pento di questo. Leonardo ha del merito, mi ama teneramente, e non è indocile da farmi temere di essere maltrattata. Mi pento bensì, ed amaramente mi pento, d'aver insistito ad onta di tutto di voler con noi il signor Guglielmo, e di aver permesso che mio padre lo abbia alloggiato in casa. BRIGIDA: Si è forse perciò disgustato il signor Leonardo? GIACINTA: Ma lascia stare il signor Leonardo, ch'egli non c'entra. Egli soffre anche troppo, ed arrossisco io per lui della sua sofferenza. BRIGIDA: Ma che cosa le ha fatto dunque il signor Guglielmo? Mi pare un giovane tanto onesto e civile...
GIACINTA: Ah! sì, per l'appunto, la sua civiltà, la sua politezza; quella maniera sua insinuante, dolce, patetica, artifiziosa, mi ha, mio malgrado, incantata, oppressa, avvilita. Sì, sono innamorata, quanto può essere donna al mondo. BRIGIDA: Come, signora? Ma come mai? Se di lui, mi ha detto tante volte, non ci pensava né poco, né molto? GIACINTA: È vero, non ho mai pensato a lui, l'ho sempre trattato con indifferenza, e ho riso dentro di me di quelle attenzioni ch'egli inutilmente mi usava. Ma oimè! Brigida mia, quel convivere insieme, quel vedersi ogni dì, a tutte l'ore, quelle continue finezze, quelle parole a tempo, quel trovarsi vicini a tavola, sentirmi urtare di quando in quando (sia per accidente, o per arte), e poi chiedermi scusa, e poi accompagnare le scuse con qualche sospiro, sono occasioni fatali, insidie orribili, e non so, e non so dove voglia andare a finire. BRIGIDA: Ma ella non ne ha colpa. È causa il padrone. GIACINTA: Sì, è vero, vo studiando anch'io di dar la colpa a mio padre. Da lui è venuto il primo male; ma toccava a me a rimediarvi, ed io sola poteva farlo, ed io lo doveva fare; ma la maledetta ambizione di non voler dipendere, e di voler essere servita, mi ha fatto soffrire i primi atti d'indifferenza, e l'indifferenza è divenuta compiacimento, ed il compiacimento ione. BRIGIDA: S'è accorto di niente il signor Leonardo? GIACINTA: Non credo. Uso ogni arte perché egli non se ne accorga, ma ti giuro ch'io patisco pene di morte. Quel dover usar al signor Leonardo le distinzioni che sono da una sposa ad uno sposo dovute, e vedere dall'altra parte a languire, a patire colui che mi ha saputo vincere il cuore, è un tale inferno, che non lo saprei spiegare volendo. BRIGIDA: Ma come ha da finire, signora mia? GIACINTA: Questo è quello ch'io non so dire, e che mi fa continuamente tremare. BRIGIDA: Finalmente ella non è ancora sposata. GIACINTA: E che vorresti tu ch'io fi? Che mancassi alla mia parola?
Che si lacerasse un contratto? L'ho io sottoscritto. L'ha sottoscritto mio padre. È noto ai parenti, è pubblico per la città. Che direbbe il mondo di me? Ma vi è di peggio. Se si scoprisse ch'io avessi della ione per questo giovane, chi non direbbe che io l'amava in Livorno, che ho procurato d'averlo meco per un attacco d'amore, e che ho avuto la temerità di sottoscrivere un contratto di nozze col cuore legato, e coll'amante al fianco? Si tratta della riputazione. Sono cose che fanno inorridire a pensarvi. BRIGIDA: Per bacco! Me ne dispiace infinitamente. Ma non dicevasi comunemente, che il signor Guglielmo avesse della premura per la signora Vittoria? GIACINTA: Non è vero niente. È arte la sua, è finzione, per nascondere la parzialità che ha per me. BRIGIDA: Dunque lo sa il signor Guglielmo, che vossignoria ha della ione per lui. GIACINTA: Ho procurato nascondermi quanto ho potuto, ma se n'è accorto benissimo, e poi quella vecchia pazza di mia zia, vecchia maliziosissima, se n'è anch'ella avveduta, e in luogo d'impedire, di rimediare, pare che ci abbia gusto ad attizzare il foco, ed ha ella una gran parte in questa mia debolezza. BRIGIDA: A proposito della vecchia, eccola qui per l'appunto. GIACINTA: L'età l'ha fatta ritornare bambina. Fa ella mille sguaiataggini, e vorrebbe che tutte fossero del di lei umore. BRIGIDA: Diciamole qualche cosa. Avvisiamola che non istia a lusingare il signor Guglielmo. GIACINTA: No, no, per amor del cielo, non le diciamo niente, lasciamo correre, perché si farebbe peggio. BRIGIDA: (Ho capito. La mia padrona è un'ammalata, che ha paura della medicina).
SCENA SECONDA
Sabina e dette.
SABINA: Nipote, avete veduto il signor Ferdinando? GIACINTA: Non signora, questa mattina non l'ho veduto. SABINA: E voi, Brigida, l'avete veduto? BRIGIDA: L'ho veduto di buonissima ora: è sortito, e non è più ritornato. SABINA: Guardate che malagrazia! Mi ha detto ieri sera, ch'io l'aspettassi questa mattina a bevere la cioccolata nella mia camera, e non si è ancora veduto: va tutto il dì a girone; ha cento visite, ha cento impegni. Più che si fa, meno si fa con questi uomini. Sono propriamente ingrati. BRIGIDA: (Povera giovanetta! Le fanno veramente un gran torto). SABINA: Voi avete presa la cioccolata? (A Giacinta.) GIACINTA: Non signora. SABINA: Perché non siete venuta da me quando vi ho mandato a chiamare, che l'avremmo bevuta insieme? GIACINTA: Non ne aveva volontà stamattina. SABINA: C'era anche il signor Guglielmo. (Sorridendo.) BRIGIDA: (La buona vecchia!). SABINA: È venuto a favorirmi in camera il signor Guglielmo; ho fatto portare la cioccolata, ed ha avuto egli la bontà di frullarla colle sue mani. Se vedeste come sa frullare con buona grazia! Quel giovane, tutto quello che fa, lo fa bene.
BRIGIDA: (Ed ella, per verità, non si porta male). SABINA: Che avete? Siete ammalata? GIACINTA: Mi duole un poco la testa. SABINA: Io non so che razza di gioventù sia quella del giorno d'oggi. Non si sente altro che mali di stomaco, dolori di testa e convulsioni. Tutte hanno le convulsioni. Io non mi cambierei con una di voi altre, per tutto l'oro del mondo. GIACINTA: Dice bene la signora zia; ella ha un buonissimo temperamento. SABINA: Mi diverto almeno, e non istò qui a piangere il morto, e non vengo in villeggiatura per annoiarmi. Mi dispiace che non ci sia Ferdinando; chiamatemi un servitore, che lo voglio mandar a cercare. (A Brigida.) GIACINTA: Eh! via, signora zia, non vi fate scorgere, non vi rendete ridicola in questo modo. SABINA: Che cosa intendereste di dire? Io mi fo scorgere? Io mi rendo ridicola? Non posso avere della stima, della parzialità per una persona? Non sono vedova? Non sono libera? Non sono padrona di me? GIACINTA: Sì, è verissimo. Ma nell'età in cui siete... SABINA: Che età, che età? Non sono una giovinetta; ma sono ancor fresca donna, ed ho più spirito e più buona grazia di voi. GIACINTA: Io, se fossi in voi, mi vergognerei a dire di queste cose. SABINA: Per che cosa ho da vergognarmi? A una donna libera, sia vedova o sia fanciulla, è permesso avere un amante. Ma due alla volta non è permesso. Credo che mi possiate capire. GIACINTA: Mi maraviglio, signora, che parliate in tal modo. Fate quel che vi piace. Io non entrerò più ne' fatti vostri, e voi non v'impicciate ne' miei. (Parte.)
SCENA TERZA
Sabina e Brigida
SABINA: Fraschetta, insolente! Se non si sapessero i suoi segreti! BRIGIDA: Ma mi compatisca, signora, ella si regola male. Se conosce che vi sia qualche cosa, ella lo ha da impedire, o per lo meno ha da procurare che non si sappia. Non si tratta mica di bagattelle, si tratta di riputazione. Le parerebbe di aver fatta una bella cosa, se fosse causa del precipizio di sua nipote? Se ella vede che vi sia qualche cosa, non ha da permettere che continui, e non ha da essere quella che attizzi il foco, stuzzichi la gioventù, ché pur troppo il diavolo è grande; e quel ch'è stato, è stato, e non bisogna parlarne, e non mettere degli scandali e delle dissensioni nella famiglia. SABINA: Mandatemi a chiamare il signor Ferdinando.
SCENA QUARTA
Ferdinando e dette.
FERDINANDO: Eccomi, eccomi. Sono qui; sono qui a servirla. SABINA: Dove siete stato finora? (Sdegnata.) FERDINANDO: Sono stato dallo speziale. Mi sentiva un poco di mal di stomaco, e sono stato a masticar del reobarbaro. SABINA: State meglio ora? (Dolcemente.) FERDINANDO: Sì, sto un poco meglio. SABINA: Poverino! Per questo non sarete venuto da me a prendere la cioccolata. (Come sopra.) BRIGIDA: (Ma si può dare una vecchia più pazza, più rimbambita?). FERDINANDO: Mi è dispiaciuto moltissimo a non poter venire. Ma so che ha dell'amore per me, mi compatirà. SABINA: Andate via di qua, voi. (A Brigida.) BRIGIDA: Oh! sì, signora, non dubiti, che io non interromperò le sue tenerezze. (Parte.)
SCENA QUINTA
Ferdinando e Sabina.
SABINA: (Dicano quel che vogliono; mi basta che il mio Ferdinando mi voglia bene). FERDINANDO: (Ora ho da digerire tutto il divertimento che ho avuto questa mattina). SABINA: Caro il mio Ferdinando. FERDINANDO: Cara la mia cara signora Sabina. SABINA: Datemi da sedere. FERDINANDO: Subito. Volentieri. (Le porta una sedia.) SABINA: E voi, perché non sedete? (Siede.) FERDINANDO: Sono stato a sedere finora. SABINA: Sedete, vi dico. FERDINANDO: Me lo comanda? SABINA: Sì, posso comandarvelo, e ve lo comando. FERDINANDO: Ed io deggio obbedire, e obbedisco. (Va a prendere la sedia.) SABINA: (Ma che figliuolo adorabile!). FERDINANDO: (Quanto ha da durare questa seccatura?). (Porta la sedia.) SABINA: (Ma quanto ben che mi vuole!).
FERDINANDO: Eccola obbedita. (Siede.) SABINA: Accostatevi un poco. FERDINANDO: Sì, signora. (Si accosta un poco.) SABINA: Via, accostatevi bene. FERDINANDO: Signora... ho preso il reobarbaro... SABINA: Ah bricconcello! M'accosterò io. (S'accosta.) FERDINANDO: (Che ti venga la rabbia). SABINA: Caro figliuolo, governatevi, non disordinate. Ieri sera avete mangiato un poco troppo. Basta; questa mattina a tavola starete appresso di me. Vi voglio governar io; mangerete quello che vi darò io. FERDINANDO: Eh! da qui all'ora del pranzo vi è tempo. Può essere ch'io stia bene, e che mangi bene. SABINA: No, gioia mia; voglio che vi regoliate. FERDINANDO: Che ora è presentemente? SABINA: Ecco, diciassett'ore; osservate. Non avete anche voi l'oriuolo? (Mostrando il suo.) FERDINANDO: Ne aveva uno... non saprei... andava male; l'ho lasciato a Livorno. SABINA: Perché lasciarlo? Un galantuomo senza l'oriuolo, specialmente in campagna, fa cattiva figura. FERDINANDO: È vero, se sapessi come fare... Arrossisco di non averlo. Andrei quasi a posta a pigliarlo. SABINA: Se il mio avesse la catena da uomo, ve lo presterei volentieri. FERDINANDO: Una catena d'acciaio si può trovare facilmente: a Montenero se ne trovano.
SABINA: Sì, si potrebbe trovare. Ma io poi avrei da restare senza il mio oriuolo? FERDINANDO: Che serve? Credete ch'io non lo sappia, che l'avete detto per ridere, per burlarmi? Andrò a Livorno... SABINA: No, no, caro; ve l'ho detto di cuore. Tenete, gioia mia, tenete. Ma ve lo presto, sapete? FERDINANDO: Oh! ci s'intende. (Questo non lo avrà più). SABINA: Vedete, se vi voglio bene? FERDINANDO: Cara signora Sabina, siete certa di essere corrisposta. SABINA: E se continuerete ad amarmi, avrete da me tutto quel che volete. FERDINANDO: Io non vi amo per interesse. Vi amo perché lo meritate, perché mi piacete, perché siete adorabile. SABINA: Anima mia, metti via quell'oriuolo, che te lo dono. (Piangendo.) FERDINANDO: (Oh! se potessi ridere! Riderei pur di cuore). SABINA: Senti, figliuolo mio, io ho avuto diecimila scudi di dote. Col primo marito non ho avuto figliuoli. Sono miei, sono investiti, e ne posso disporre. Se mi vorrai sempre bene, io ho qualche anno più di te, e un giorno saranno tuoi. FERDINANDO: E non vi volete rimaritare? SABINA: Briccone! per che cosa credi ch'io ti voglia bene? Pensi ch'io sia una fraschetta? Se non avessi intenzione di maritarmi, non farei con te quel ch'io faccio. FERDINANDO: Cara signora Sabina, questa sarebbe per me una fortuna grandissima. SABINA: Gioia mia, basta che tu lo voglia. Quest'è una cosa che si fa presto. FERDINANDO: E avete diecimila scudi di dote?
SABINA: Sì, e in sei anni che sono vedova, ho accumulati anche i frutti. FERDINANDO: E ne potete disporre liberamente? SABINA: Sono padrona io. FERDINANDO: Che vuol dire, non avreste difficoltà a farmi una piccola donazione. SABINA: Donazione? A me si domanda una donazione? Sono io in tale stato da non potermi maritare senza una donazione? FERDINANDO: Ma non avete detto, che un giorno la vostra dote può essere cosa mia? SABINA: Sì, dopo la mia morte. FERDINANDO: Farlo prima, o farlo dopo, non è lo stesso? SABINA: E se ci nascono dei figliuoli? FERDINANDO: (Oh vecchia pazza! Ha ancora speranza di far figliuoli). SABINA: Ditemi un poco, signorino, è questo il bene che mi volete senza interesse? FERDINANDO: Io non parlo per interesse. Parlo perché, se fossi padrone di questo danaro, potrei mettere un negozietto a Livorno, e farmelo fruttare il doppio, e star bene io, e fare star bene benissimo la mia cara consorte. SABINA: No, disgraziato, tu non mi vuoi bene. (Piange.) FERDINANDO: Cospetto! se non credete ch'io vi ami, farò delle bestialità, mi darò alla disperazione. SABINA: No, caro, no, non ti disperare, ti credo: che tu sia benedetto! FERDINANDO: Ho un amore per voi così grande, che non lo posso soffrire. SABINA: Sì, ti credo, ma non mi parlare di donazione. Non ti basta ch'io t'abbia donato il core?
FERDINANDO: (Eh! col tempo può essere che ci caschi).
SCENA SESTA
Filippo e detti.
FILIPPO: E così, signor Ferdinando, volete ora che facciamo quattro partite a picchetto? SABINA: Cosa ci venite voi a seccare col vostro picchetto? FILIPPO: Io non parlo con voi. Parlo col signor Ferdinando. SABINA: Il signor Ferdinando non vuol giocare. FERDINANDO: (Non saprei dire delle due seccature, quale fosse la peggio). FILIPPO: Volete giocare, o non volete giocare? (A Ferdinando.) FERDINANDO: Con permissione. (S'alza.) FILIPPO: Dove andate? FERDINANDO: Con permissione. (Corre via.) SABINA: Lasciatelo andare. Ha pigliato il reobarbaro. FILIPPO: Mangia come un lupo, e poi gli si aggrava lo stomaco. SABINA: Non è vero, è delicato, e ogni poco di più gli fa male. FILIPPO: Dove ha preso il reobarbaro? SABINA: Dallo speziale. FILIPPO: Non è vero niente: appena è egli uscito di qui, sono io andato dallo speziale. Ho giocato a dama finora, e non c'è stato, e non ci può essere stato.
SABINA: Siete orbo, e non l'avrete veduto. FILIPPO: Ci vedo meglio di voi. SABINA: Il signor Ferdinando non è capace di dir bugie. FILIPPO: Sapete, quando dice la verità? Quando dice per tutto il mondo, che voi siete una vecchia pazza. (Parte.) SABINA: Bugiardo, vecchio catarroso, maligno! Lo so perché lo dice, lo so perché lo perseguita. Ma sì, gli voglio bene, e lo voglio sposare al dispetto di tutto il mondo. (Parte.)
SCENA SETTIMA
Giacinta, poi Guglielmo.
GIACINTA: Ah! Guglielmo vuol essere il mio precipizio. Non so dove salvarmi. Mi seguita dappertutto. Non mi lascia in pace un momento. GUGLIELMO: Ma perché mi fuggite, signora Giacinta? GIACINTA: Io non fuggo; bado a me, e vado per la mia strada. GUGLIELMO: È vero, ed io sono sì temerario di seguitarvi. Un'altra, che non avesse la bontà che voi avete, mi avrebbe a quest'ora per la mia importunità discacciato. Ma voi siete tanto gentile, che mi soffrite. Sapete la ragione che mi fa ardito, e la compatite. GIACINTA: (Non so che cosa abbiano le sue parole. Paiono incanti, paiono fattucchierie). GUGLIELMO: S'io credessi che la mia persona vi fosse veramente molesta, o ch'io potessi pregiudicarvi, a costo di tutto vorrei in questo momento partire; ma esaminando me stesso, non mi pare di condurmi sì male, che possa io produrre verun disordine, né alterare la vostra tranquillità. GIACINTA: (Eh! pur troppo mi ha fatto del male più di quello che egli si pensa). GUGLIELMO: Signora, per grazia, due parole a proposito di quel che vi ho detto. GIACINTA: Quest'anno non ci possiamo discontentare. Il bel tempo ci lascia godere una bella villeggiatura. GUGLIELMO: Ciò non ha niente che fare con quello ch'io vi diceva. GIACINTA: Che cosa dite della cena di ieri sera?
GUGLIELMO: Tutto è per me indifferente, fuor che l'onore della vostra grazia. GIACINTA: Non so se il nostro pranzo di questa mattina corrisponderà al buon gusto del trattamento, che abbiamo avuto iersera. GUGLIELMO: In casa vostra non si può essere che ben trattati. Qui si gode una vera felicità, e s'io sono il solo a rammaricarmi, è colpa mia, non è colpa di nessun altro. GIACINTA: (Si può dare un'arte più sediziosa di questa?). GUGLIELMO: Signora Giacinta, scusatemi se v'infastidisco. Mi date permissione ch'io vi dica una cosa? GIACINTA: Mi pare che abbiate parlato finora quanto avete voluto. (Con un poco di caldo.) GUGLIELMO: Non vi adirate: tacerò, se mi comandate ch'io taccia. GIACINTA: (Che mai voleva egli dirmi?). GUGLIELMO: Comincio ad essere più sfortunato che mai. Veggio che le mie parole v'annoiano. Signora, vi leverò l'incomodo. GIACINTA: E che cosa volevate voi dirmi? GUGLIELMO: Mi permettete ch'io parli? GIACINTA: Se è cosa da dirsi, ditela. GUGLIELMO: So il mio dovere, non temete ch'io ecceda, e che mi abusi della vostra bontà. Dirovvi solamente ch'io vi amo; ma che se l'amor mio potesse recare il menomo pregiudizio o agli interessi vostri, o alla vostra pace, son pronto a sagrificarmi in qualunque modo vi aggrada. GIACINTA: (Chi può rispondere ad una proposizione sì generosa?). GUGLIELMO: Ho detto io cosa tale, che non meriti da voi risposta? GIACINTA: Una fanciulla impegnata con altri non dee rispondere ad un tale
ragionamento. GUGLIELMO: Anzi una fanciulla impegnata può rispondere, e deve rispondere liberamente. GIACINTA: Sento gente, mi pare. GUGLIELMO: Sì, ecco visite. Rispondetemi in due parole. GIACINTA: È la signora Costanza con sua nipote. GUGLIELMO: Vi sarò tanto importuno, fino che mi dovrete rispondere. GIACINTA: (Sono così confusa, che non so come ricevere queste donne. Converrà ch'io mi sforzi per non mi dar a conoscere).
SCENA OTTAVA
Costanza Rosina, Tognino e detti.
GUGLIELMO (si ritira da una parte). COSTANZA: Serva, signora Giacinta. GIACINTA: Serva sua, signora Costanza. ROSINA: Serva divota. GIACINTA: Serva, signora Rosina. TOGNINO: Servitor suo. GIACINTA: Signor Tognino, la riverisco. COSTANZA: Siamo qui a darle incomodo. GIACINTA: Anzi a favorirci; mi dispiace che saranno venute a star male. COSTANZA: Oh! cosa dice? Non è la prima volta ch'io abbia ricevute le sue finezze. GIACINTA: Ehi, chi è di là? Da sedere. (I Servitori portano le sedie.) (Perché non venite avanti?) (A Guglielmo, piano.) GUGLIELMO: (Sono mortificato). (A Giacinta.) GIACINTA: Le prego di accomodarsi. (Siedono.) Favorisca, signor Guglielmo, qui c'è una seggiola vuota. vicino a lei. GUGLIELMO: (Quella non è per me, signora). GIACINTA: (E per chi dunque?).
GUGLIELMO: (Non tarderà a venire chi ha più ragion di me di occuparla). GIACINTA: (Se principiate a far delle scene, vi darò quella risposta che non ho avuto cuore di darvi). GUGLIELMO: (Vi obbedirò, come comandate). (Siede.) COSTANZA: (Che dite, eh? Anch'ella ha il mariage alla moda). (A Rosina.) ROSINA: (Eh! sì, queste due signore illustrissime vanno a gara). GIACINTA: Che fa il signor Tognino? Sta bene? TOGNINO: Servirla. GIACINTA: Che fa il signor padre? TOGNINO: Servirla. GIACINTA: Non è andato in Maremma, mi pare? TOGNINO: Servirla. GIACINTA: (Che sciocco!). (Piano a Guglielmo.) GUGLIELMO: (Ma è fortunato in amore). (Piano a Giacinta.) COSTANZA: Anch'ella, signora Giacinta, s'è fatto il mariage alla moda? GIACINTA: Eh! un abitino di poca spesa. COSTANZA: Sì, è vero, è un cosettino di gusto. Mi piace almeno, ch'ella lo spaccia per quel che è; ma la signora Vittoria ne ha uno cento volte peggio di questo, e si dà ad intendere d'avere una cosa grande, un abito spaventoso. GIACINTA: Vogliono divertirsi? Vogliono fare una partita? Gioca all'ombre la signora Costanza? COSTANZA: Oh! sì signora. GIACINTA: E la signora Rosina?
ROSINA: Per obbedirla. GIACINTA: E il signor Tognino? TOGNINO: Oh! io non so giocare che a bazzica. GIACINTA: Gioca a bazzica la signora Rosina? ROSINA: Perché vuol ella ch'io giochi a bazzica? GIACINTA: Non saprei. Vorrei fare il mio debito. Non vorrei dispiacere a nessuno; s'ella volesse far la partita col signor Tognino... ROSINA: Oh! non vi è questo bisogno, signora. COSTANZA: Via, la signora Giacinta è una signora compita, e fra di noi c'intendiamo. Ma il signor Tognino, che giochi o che non giochi, non preme; starà a veder a giocare all'ombre, imparerà: starà a veder la Rosina. GIACINTA: Ella sa meglio di me, signora Costanza, l'attenzion che ci vuole nel distribuir le partite. COSTANZA: Oh! lo so, per esperienza. Lo so che si procura di unire quelle persone, che non istanno insieme mal volentieri. Anch'io ho tutta l'attenzione per questo; ma quel che mi fa disperare si è, che qualche volta vi è fra di loro qualche grossezza, o per gelosia, o per puntiglio, e s'ingrugnano, senza che si sappia il perché: a chi duole il capo, a chi duole lo stomaco, e si dura fatica a mettere insieme due tavolini. Verrà una per esempio, e dirà: ehi, questa sera vorrei far la partita col tale. Verrà un'altra: ehi, avvertite, non mi mettete a tavolino col tale e colla tale, che non mi ci voglio trovare. Pazienza anche, se lo dicessero sempre. Il peggio si è, che qualche volta pretendono che s'indovini. Ci vuole un'attenzione grandissima: pensare alle amicizie e alle inimicizie. Cercare di equilibrar le partite fra chi sa giocare. Scegliere quel tal gioco, che piace meglio a quei tali. Dividere chi va via presto, e chi va via tardi, e qualche volta procurar di mettere la moglie in una camera, ed il marito nell'altra. GIACINTA: Vero, vero; lo provo ancor io: sono cose vere. Sento una carrozza, mi pare. Sarà la signora Vittoria e il signor Leonardo. Fatemi un piacere, signor Guglielmo, andate a vedere se sono dessi.
GUGLIELMO: Sì, signora, è giusto; questa seggiola non è per me. (S'alza.) GIACINTA: Se non volete, non preme... GUGLIELMO: Contentatevi. Son giovane onesto, e so il mio dovere. (Parte.) GIACINTA: (Oggi m'aspetto di dover are una giornata crudele). COSTANZA: Dica, signora Giacinta, è egli vero che il signor Guglielmo si sia dichiarato per la signora Vittoria? GIACINTA: Lo dicono. COSTANZA: Siccome deve essere sua cognata, ella lo dovrebbe sapere. GIACINTA: Finora non c'è stata gran confidenza fra lei e me. COSTANZA: E le nozze sue si faranno presto? GIACINTA: Non so, non glielo so dire. E ella, signora Costanza, quando fa sposa la signora Rosina? COSTANZA: Chi sa? potrebbe darsi. ROSINA: Oh! non c'è nessun che mi voglia. TOGNINO: (Nessuno?). (Piano a Rosina, urtandola forte.) ROSINA: (Zitto, malagrazia). (Piano a Tognino.) GIACINTA: Mi pare, se non m'inganno... (Verso Tognino ecc..) COSTANZA: Le pare, signora Giacinta? (Sogghignando per piacere.) ROSINA: Qualche volta l'apparenza inganna. GIACINTA: Il signor Tognino non è giovane capace di burlare. TOGNINO: Ah? (Fa uno scherzo a Rosina ridendo, poi s'alza e eggia sgarbatamente.)
GIACINTA: (È un buon ragazzo, mi pare). (A Costanza.) COSTANZA: (Non ha molto spirito). (A Giacinta.) GIACINTA: (Cosa importa? Basta che abbia il modo di mantenerla). (A Costanza.) COSTANZA: (Oh! sì, è figlio solo). (A Giacinta.)
SCENA NONA
Leonardo e Vittoria, servita di braccio da Guglielmo, e detti. Tutti s'alzano.
GIACINTA: Serva, signora Vittoria. (Incontrandola.) VITTORIA: Serva, la mia cara signora Giacinta. (Si baciano.) LEONARDO: Scusate, vi prego, signora Giacinta, se ho tardato più del solito questa mattina a venire a vedervi. Ho dovuto far delle visite, ho avuto degli altri affari domestici, che mi hanno tenuto occupato. Spero che compatirete la mia mancanza, né mi vorrete perciò incolpare di trascuratezza, o di poco amore. GIACINTA: Io non credo che mi abbiate mai conosciuta indiscreta. Quando venite, mi fate grazia; quando non potete, io non vi obbligo di venire. LEONARDO: (Non so s'io l'abbia da credere discretezza, o poca curanza). GIACINTA: Favoriscano d'accomodarsi. (Costanza, Rosina e Tognino siedono ai loro posti.) Signor Guglielmo, favorisca presso la signora Vittoria. GUGLIELMO: Come comanda. (Siede presso a Vittoria, Giacinta presso Guglielmo, e Leonardo presso Giacinta.) VITTORIA: Questa mattina non si è degnato di favorirmi il signor Guglielmo. GUGLIELMO: In verità, signora, non ho potuto. VITTORIA: So pure che siete stato tutta la mattina in casa. GUGLIELMO: È verissimo, sì signora ho avuto da scrivere delle lettere di premura. VITTORIA: C'era anche da noi il calamaio e la carta.
GUGLIELMO: Non mi sarei presa una simile libertà. VITTORIA: Sì, sì, carino, ho capito. (Sdegnosa.) GIACINTA: Signora Vittoria, non bisogna essere sì puntigliosa. LEONARDO: Imparate dalla signora Giacinta. Ella è compiacentissima. Non tormenta mai per iscarsezza di visite. GIACINTA: Io non credo che vi siano degli uomini, a' quali piacciano le seccature. LEONARDO: Eppure vi sono di quelli che volentieri si sentono rimproverare, e prendono qualche volta i rimproveri per segni d'amore. GIACINTA: Tutti pensano diversamente; ed io non amo le affettazioni. LEONARDO: Ora che so il genio vostro, mi affannerò molto meno nella premura di rivedervi. GIACINTA: Siete padrone d'accomodarvi, come vi pare. COSTANZA: (Ho paura che voglia essere il loro un matrimonio di poco amore). (A Rosina.) ROSINA: (Sì, sarà un matrimonio più per impegno che per inclinazione). (A Costanza.)
SCENA DECIMA
Sabina, servita di braccio da Ferdinando, e detti.
TOGNINO: (Ehi, la vecchia). (A Rosina.) ROSINA: (La vecchia). (A Costanza.) COSTANZA: (Sì, col suo amorino). (A Rosina.) SABINA: Serva umilissima di lor signori. VITTORIA: Serva sua, signora Sabina. COSTANZA: Riverisco la signora Sabina. ROSINA: Come sta la signora Sabina? SABINA: Bene, bene, sto bene. Che bella compagnia! Chi è quel giovanotto? (Accennando a Tognino.) TOGNINO: Servitor suo, signora Sabina. SABINA: Vi saluto, caro: chi siete? ROSINA: Non lo conosce? È il figliuolo del signor dottore. SABINA: Di qual dottore? COSTANZA: Del medico; del nostro medico. SABINA: Bravo, bravo, me ne consolo. È un giovanetto di garbo. È maritato? (A Rosina.) ROSINA: Signora no.
SABINA: Quanti anni avete? (A Tognino.) TOGNINO: Sedici anni. SABINA: Perché non ci venite mai a trovare? ROSINA: Ha da fare. COSTANZA: Ha da studiare. ROSINA: Non va in nessun luogo. SABINA: Sì, sì, ho capito. Bravi, bravi; non dico altro. Io poi, quando si tratta... se mi capite, non abbiate paura, che non sono di quelle. Ferdinando. FERDINANDO: Signora. SABINA: Cara gioia, datemi il fazzoletto. FERDINANDO: Vuole il bianco? SABINA: Sì, il bianco. Ieri sera ho preso dell'aria ed ho una flussioncella a quest'occhio. FERDINANDO: Eccola servita. (Le dà il fazzoletto con un poco di sdegno.) SABINA: Cos'è, che mi parete turbato? (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Niente, signora). (A Sabina.) SABINA: (Avete rabbia, perché ho parlato con quel giovanotto?). (A Ferdinando.) FERDINANDO: Eh! signora no. (Ho rabbia di dovermi in pubblico far minchionare). SABINA: (No, caro, non abbiate gelosia, che non parlerò più con nessuno). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Parli anche col diavolo, che non ci penso).
SABINA: (Tenete il fazzoletto). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Mi stanno sul cuore quei diecimila scudi). SABINA: (Non dico tutto, ma qualche cosa bisognerà poi ch'io gli doni). GIACINTA: Orsù, signori, si vogliono divertire? Vogliono fare qualche partita? VITTORIA: Per me faccio quello che fanno gli altri. COSTANZA: Disponga la signora Giacinta. SABINA: Di me non disponete, ché la mia partita l'ho fatta. (A Giacinta.) GIACINTA: E a che vuol giocare la signora zia? SABINA: A tresette in tavola col signor Ferdinando. FERDINANDO: (Oh povero me! Sto fresco). Signora, questo è un gioco che annoia infinitamente. (A Sabina.) SABINA: Eh! signor no, è un bellissimo gioco. E poi, che serve? Avete da giocare con me. FERDINANDO: (Ci vorrà pazienza). SABINA: Avete sentito? Per me sono accomodata. (A Giacinta.) GIACINTA: Benissimo. Faranno un ombre in terzo la signora Vittoria, la signora Costanza e il signor Guglielmo. COSTANZA: (Poteva far a meno di mettermi a tavolino con quella signora del mariage). VITTORIA: (Mettermi con lei! Non sa distribuir le partite). (Da sé.) GUGLIELMO: (Non sono degno della vostra partita?). (A Giacinta.) GIACINTA: (Mi maraviglio che abbiate ardir di parlare). (A Guglielmo.) Faremo un altro tavolino d'ombre il signor Leonardo, la signora Rosina ed io.
ROSINA: Come comanda. (Può essere ch'io goda qualche bella scena). (Da sé.) GIACINTA: È contento, signor Leonardo? LEONARDO: Io sono indifferentissimo. GIACINTA: Se volesse servirsi a qualche altro tavolino, è padrone. LEONARDO: Veda ella, se le pare che le partite non sieno disposte bene. GIACINTA: Io non posso sapere precisamente il genio delle persone. LEONARDO: Per me non ho altro desiderio che di dar piacere a lei, ma mi pare che sia difficile. GIACINTA: Oh! è più facile ch'ella non crede. Ehi! chi è di là? (Vengono i Servitori.) GUGLIELMO: Accomodate tre tavolini. Due per l'ombre, ed uno per un tresette in tavola. (I Servitori eseguiscono.) VITTORIA: Mi pare un po' melanconico il signor Guglielmo. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Non lo sa, signora? Son così di natura. VITTORIA: Voi amate poco, signor Guglielmo. GUGLIELMO: Anzi amo più di quello che vi credete. VITTORIA: (Manco male, che mi ha detto una buona parola). GIACINTA: (Bravo, signor Guglielmo, me ne consolo. Ho piacere che amiate la signora Vittoria). (A Guglielmo.) GUGLIELMO: (Ognuno può interpretar le cose a suo modo). (A Giacinta.) LEONARDO: (Signora Giacinta, che cosa avete detto piano al signor Guglielmo?). (A Giacinta.)
GIACINTA: (Ho da rendervi conto di tutte le mie parole?). (A Leonardo.) LEONARDO: (Mi pare che ci sia un poco troppo di confidenza). (A Giacinta.) GIACINTA: (Questi ingiuriosi sospetti non sono punto obbliganti). (A Leonardo.) LEONARDO: (È una condizione la mia un poco troppo crudele). (Da sé.) GIACINTA: Orsù, è preparato, signori. L'ora è tarda, e se non si sollecita, or ora ci danno in tavola. SABINA: Per me son lesta. Andiamo, Ferdinandino. FERDINANDO: Eccomi ad obbedirla. (Per una volta si può soffrire). (Da sé, e va a sedere al tavolino indietro con Sabina.) VITTORIA: Favorite, signor Guglielmo. GUGLIELMO: Sono a servirla. VITTORIA: S'accomodi, signora Costanza. COSTANZA: (Vuole stare nel mezzo per non guastare il bell'abito). (Siedono a tavolino.) GIACINTA: Se comanda, signora Rosina... ROSINA: Eccomi. (Tognino, venite con me.) (A Tognino.) TOGNINO: Signora, sì. (Vorrei che si andasse a tavola). (Tutti siedono, e principiano a giocare.)
SCENA UNDICESIMA
Filippo e detti.
FILIPPO: Servo di lor signori. (Tutti salutano senza moversi.) E io non ho da far niente? Tutti giocano, e per me non c'è da giocare? GIACINTA: Vuol giocare, signor padre? FILIPPO: Mi parerebbe di sì. GIACINTA: Ehi! portate un altro tavolino. Vada a giocare a bazzica col signor Tognino. FILIPPO: A bazzica? GIACINTA: Non c'è altra partita. Il signor Tognino non sa giocare che a bazzica. FILIPPO: E non posso giocare con qualcun altro? Non posso giocare a picchetto col signor Ferdinando? SABINA: Il signor Ferdinando è impegnato. FILIPPO: Oh! questa è bella da galantuomo. ROSINA: Caro signor Filippo, non si degna di giocare col signor Tognino? FILIPPO: Non occorr'altro. Andiamo a giocare a bazzica. (A Tognino.) TOGNINO: Avverta ch'io non gioco di più d'un soldo la partita. FILIPPO: Sì, andiamo; giocheremo d'un soldo. (S'incammina al tavolino.) Ehi! senti, va subito in cucina, e di' al cuoco che si solleciti quanto può, e che, crudo o cotto, dia in tavola. (Ad un Servitore, che parte.) (Figurarsi s'io voglio star qui un'ora a giocare a bazzica con questo ceppo!). (Siede al tavolino con
Tognino e giocano.) VITTORIA: Mi pare che un addio stamane si poteva venire a darmelo. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Ma non vi ho detto, signora, che non sono uscito di casa? VITTORIA: Sì, è vero; state in casa assai volentieri. Io dubito che a questa casa siate un poco troppo attaccato. GUGLIELMO: Non so con qual fondamento lo possiate dire. COSTANZA: Ma, signori miei, si gioca o non si gioca? GUGLIELMO: Ha ragione la signora Costanza. VITTORIA: (Or ora getto le carte in tavola). GIACINTA: (Vittoria, per quel ch'io sento, vuol far nascere delle scene). LEONARDO: Perché non bada al suo gioco, signora Giacinta? ROSINA: Via, risponda. Ho giocato picche. GIACINTA: Taglio. ROSINA: Taglia? Se ha rifiutato a trionfo. LEONARDO: Non vuol che rifiuti? Non ha il cuore al gioco. GIACINTA: Fo il mio dovere. Sento che qualcheduno si lamenta, e non so di che. LEONARDO: (Non veggio l'ora che finisca questa maladetta villeggiatura). SABINA: Ah! ah! gli ho dato un cappotto; un cappotto, gli ho dato un cappotto. FERDINANDO: Brava, brava; mi ha dato un cappotto. VITTORIA: Ha sempre gli occhi qui la signora Giacinta. (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: La padrona di casa ha da tenere gli occhi per tutto. VITTORIA: Sì, sì, difendetela. Trionfo. (Giocando con dispetto.) COSTANZA: Questo non è trionfo, signora. VITTORIA: Che so io che diavolo giochi? COSTANZA: In verità, così non si può giocare. (Forte.) GIACINTA: Che ha, signora Costanza? COSTANZA: Sono cose... VITTORIA: Eh! badi al suo gioco, signora Giacinta. (Ridendo.) GIACINTA: Perdoni... sento che si lamentano... TOGNINO: Bazzicotto, bazzicotto. FILIPPO: Sì, sì, bazzicotto, bazzicotto. (Con rabbia.) GIACINTA: Mi pare che la signora Vittoria non abbia per me grande amicizia. (Piano a Leonardo.) LEONARDO: Non so che dire; ma in ogni caso si mariterà. (Piano a Giacinta.) GIACINTA: Quando? LEONARDO: Può essere che non i molto. GIACINTA: Sperate voi che il signor Guglielmo la sposi? LEONARDO: Se il signor Guglielmo non prenderà mia sorella, né anche in casa vostra non ci verrà più. GIACINTA: Davvero? LEONARDO: Davvero.
ROSINA: Ma via, risponda. (A Giacinta.) VITTORIA: (Parlano di me, mi pare).
SCENA DODICESIMA
Servitore e detti.
SERVITORE: Signori, è in tavola. (Parte.) COSTANZA: (Sia ringraziato il cielo). (S'alza.) SABINA: Io voglio finire la mia partita. FILIPPO: Finitela, che noi pranzeremo. (S'alza.) FERDINANDO: Con sua permissione, ho appetito. (S'alza.) SABINA: Bravo, bravo; il reobarbaro ha operato bene. (S'alza.) TOGNINO: Tre soldi, signor Filippo. FILIPPO: (Scioccone!). Via, favoriscano. Andiamo. GIACINTA: Si servino. Fanno ceremonie? VITTORIA: Si servino pure. ROSINA: Io non vado avanti sicuro. SABINA: Orsù, senz'altri complimenti. Favorisca, signor Ferdinando. (Gli chiede la mano.) FERDINANDO: Sono a servirla. (Le dà braccio.) SABINA: Con permissione. (Fa una riverenza.) FERDINANDO: E chi ha invidia, suo danno. (Parte con Sabina.) GIACINTA: Via, si serva, signora Vittoria.
VITTORIA: Favorisce? (A Guglielmo, chiedendogli che la serva.) GUGLIELMO: Sono a servirla. (Le dà braccio.) VITTORIA: Soffra; compatisca. (Parte con Guglielmo.) GUGLIELMO: (Sì, soffro più di quello ch'ella si crede). (Parte con Vittoria.) GIACINTA: Vadano, signore. (A Costanza e Rosina.) COSTANZA: Andate innanzi, Rosina. ROSINA: Andiamo, Tognino. TOGNINO: (Oh! che mangiata che voglio dare). (Parte con Rosina.) COSTANZA: Con licenza. (A Giacinta, in atto di partire.) FILIPPO: Vuole che abbia l'onor di servirla? (A Costanza.) COSTANZA: Mi fa grazia. (A Filippo.) FILIPPO: Se si degna. (A Costanza.) COSTANZA: Mi fa onore. (A Filippo.) FILIPPO: Qualche cosa anche a me poveruomo. (Le dà braccio.) COSTANZA: Povero signor Filippo! Qualche cosa anche a lui. (Parte con Filippo.) GIACINTA: Vuol che andiamo? (A Leonardo.) LEONARDO: Vuol che la serva? (A Giacinta.) GIACINTA: Se non lo merito, non lo faccia. LEONARDO: Ah crudele! GIACINTA: Non facciamo scene, signor Leonardo.
LEONARDO: Vi amo troppo, Giacinta. GIACINTA: Sì, al mio merito sarà troppo. LEONARDO: E voi mi amate pochissimo. GIACINTA: Vi amo quanto so, e quanto posso. LEONARDO: Non mi mettete alla disperazione. GIACINTA: Non facciamo scene, vi dico. (Lo prende con forza e lo tira.) LEONARDO: (Sorte spietata!). (Parte con Giacinta.) GIACINTA: (Oh amore! oh impegno! oh maladetta villeggiatura!). (Parte con Leonardo.)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Boschetto. Brigida e Paolino.
BRIGIDA: Qui, qui, signor Paolino. Fermiamoci qui, che godremo un poco di fresco. PAOLINO: Ma se il padrone mi cerca, e non mi trova... BRIGIDA: Ora sono tutti in sala a pigliare il caffè. Dopo il caffè si metteranno a giocare. State un poco con me, se non vi dispiace la mia compagnia. PAOLINO: Cara signora Brigida, la vostra compagnia mi è carissima. BRIGIDA: Propriamente desiderava di star con voi mezz'oretta. PAOLINO: Bisogna poi dire la verità, in campagna si possono trovare più facilmente dei buoni momenti, delle ore libere, dei siti comodi per ritrovarsi a quattr'occhi. BRIGIDA: Li trovano le padrone e i padroni? Li possiamo trovare anche noi. PAOLINO: Sì, è vero, nascono in villa di quegli accidenti, che non nascerebbono facilmente in città. BRIGIDA: N'è nato uno alla mia padrona degli accidenti, che dubito se ne voglia ricordar per un pezzo. PAOLINO: Che cosa le è accaduto? BRIGIDA: Mi dispiace che non posso parlare; del resto sentireste delle cose da far arricciar i capelli.
PAOLINO: Qualche cosa certo convien dir che sia nato. Il mio padrone è agitatissimo; la signora Giacinta pare stordita. Io sono stato dietro di loro, come sapete, a servire a tavola; e so che in tutti e due non hanno mangiato un'oncia di roba. BRIGIDA: E chi era dall'altra parte della mia padrona? PAOLINO: Il signor Guglielmo. BRIGIDA: Maladetto colui! non la vuol finire. Vuol essere la rovina di questa casa. PAOLINO: Vi è qualche imbroglio forse fra lui e la vostra padrona? BRIGIDA: Eh! no, non c'è niente. E la signora Vittoria dov'era? PAOLINO: Vicino anch'essa al signor Guglielmo. BRIGIDA: Guardate che galeotto! Andarsi a mettere in mezzo di tutte e due. PAOLINO: Di quando in quando con quella sua patetichezza diceva qualche parola alla signora Giacinta; ma non ho potuto capire. BRIGIDA: Se n'è accorto il signor Leonardo? PAOLINO: Una volta mi pare di sì. Tant'è vero, che nel darmi il tondo da mutare, l'ha fatto con tal dispetto, che ha urtato nella spalla della signora Giacinta, e le ha un poco macchiato l'abito. BRIGIDA: Le ha macchiato l'abito nuovo? Avrà dato nelle furie la mia padrona. PAOLINO: No, no, se l'è ata con somma disinvoltura. BRIGIDA: È molto; si vede bene che qualche cosa le sta nel cuore più dell'abito. PAOLINO: Anzi il padrone la volea ripulire, ed ella non ha voluto. BRIGIDA: Eppure la pulizia è la sua gran ione. Oh povera fanciulla! È fuor di sé propriamente.
PAOLINO: Ci gioco io, che l'occasione ed il comodo l'ha fatta innamorare del signor Guglielmo. BRIGIDA: Eh! via, che diavolo dite? Vi pare? Non è ella promessa al signor Leonardo? Non ci sono dei discorsi fra il signor Guglielmo e la signora Vittoria? PAOLINO: Oh! io credo che la mia padrona si lusinghi assai male. Non faceva a tavola che tormentar il signor Guglielmo, ed egli non le dava risposta, non le badava nemmeno. BRIGIDA: E parlava colla mia padrona? PAOLINO: Sì, qualche volta colla bocca, e qualche volta col gomito, e qualche volta coi piedi. BRIGIDA: Cospetto di bacco! Se fossi stata lì io, dove eravate voi, non so se mi sarei tenuta di dargli il tondo sul capo. PAOLINO: Vedete? Se non ci fossero delle cose fra loro, non ci sarebbe bisogno che deste voi in queste smanie. BRIGIDA: Orsù, parliamo d'altro. La vecchia sarà stata vicina a quel drittaccio di Ferdinando. PAOLINO: Sì, certo; e non faceva che dirgli delle cosette tenere ed amorose, ed egli mangiava, o piuttosto divorava, che pareva fosse digiuno da quattro giorni. BRIGIDA: E la povera padrona non mangiava niente? PAOLINO: Come poteva ella mangiare, s'era lì angustiata fra lo sposo e l'amante? BRIGIDA: Eh! via, lasciamo questi discorsi. Come si sono portate a tavola la signora Costanza e la signora Rosina? PAOLINO: Eh! non si sono portate male; ma chi ha fatto bene la parte sua, quasi quanto il signor Ferdinando, è stato quella cara gioia del signor Tognino. BRIGIDA: Era vicino alla sua Rosina?
PAOLINO: Ci s'intende, e come se la godevano! Hanno sempre parlato sottovoce fra loro due, che era una cosa che faceva male allo stomaco. BRIGIDA: Anche quello è un matrimonio vicino. PAOLINO: Per quel che si vede. BRIGIDA: Anche quella è un'amicizia fatta in villeggiatura. Se la signora Rosina non veniva qui, difficilmente in Livorno si sarebbe maritata, ed io, in tanti anni che ci vengo, sono ancora così. Convien dire, o che non abbia alcun merito, o che sia sfortunata. PAOLINO: Signora Brigida, avete desiderio di maritarvi? BRIGIDA: Ho anch'io quel desiderio che hanno tutte le fanciulle che non si vogliono ritirare dal mondo. PAOLINO: Quando si vuole, si trova. BRIGIDA: Per me, so che non l'ho ancora trovato; eppure son giovane. Bella non sono, ma non mi pare di esser deforme: dell'abilità ne ho quant'un'altra, e forse più di tant'altre. Per dote, fra denari e roba, tre o quattrocento scudi non mi mancano. Eppure nessun mi cerca, e nessun mi vuole. PAOLINO: Mi dispiace che devo andar via, per altro vi direi qualche cosa su questo proposito. BRIGIDA: Dite, dite, non mi lasciate con questa curiosità. PAOLINO: È peccato che perdiate così il vostro tempo. BRIGIDA: Avreste qualche cosa voi da propormi? PAOLINO: Avrei io... ma... BRIGIDA: Ma che? PAOLINO: Non so se fosse di vostro genio. BRIGIDA: Quando non ho da prendere un galantuomo, un uomo proprio e civile come siete voi, voglio star piuttosto così come sono.
PAOLINO: Signora Brigida, ci parleremo. BRIGIDA: Questa sera, in tempo della conversazione. PAOLINO: Sì, avremo quanto tempo vorremo. Verrò da voi, verremo qui nel boschetto. BRIGIDA: Oh! di notte poi nel boschetto... PAOLINO: Via, via, ho detto così per ischerzo. Son galantuomo, fo stima di voi, e spero che le cose anderanno bene. BRIGIDA: Voi mi consolate a tal segno... PAOLINO: Addio, addio. A questa sera (Parte.) BRIGIDA: Chi sa che la campagna in quest'anno non produca qualche cosa di buono ancora per me? (Parte.)
SCENA SECONDA
GIACINTA (sola): Vorrei respirare un momento. Vorrei un momento di quiete. Giochi chi vuol giocare. Niente mi alletta, niente mi diverte, tutto anzi m'annoia, tutto m'inquieta. Bella villeggiatura che mi tocca fare quest'anno! Non l'avrei mai pensato. Io che mi rideva di quelle che spasimavano per amore, ci son caduta peggio dell'altre. Ma perché, pazza ch'io sono stata, perché lasciarmi indurre sì presto e sì facilmente a dar parola a Leonardo, ed a permettere che se ne fe il contratto? Sì, ecco l'inganno. Ho avuto fretta di maritarmi, più per uscire di soggezione, che per volontà di marito. Ho creduto, che quel poco d'amore ch'io sentia per Leonardo, bastasse per un matrimonio civile, e non mi ho creduto capace d'innamorarmi poi a tal segno. Ma qui convien rimediarci. Quest'amicizia non può tirar innanzi così. Ho data parola ad un altro. Quegli ha da essere mio marito, e voglia o non voglia s'ha da vincere la ione. Finirà quest'indegna villeggiatura. A Livorno Guglielmo non mi verrà più per i piedi. Sfuggirò le occasioni di ritrovarmi con esso lui. Possibile che col tempo non me ne scordi? Ma intanto come ho da vivere qui in campagna? Le cose sono a tal segno, che temo di non potermi nascondere. Cent'occhi mi guardano; tutti mi osservano. Leonardo è in sospetto. Vittoria mi teme. La vecchia è imprudente, ed io non posso sempre dissimulare. Oh cieli! cieli, aiutatemi. Mi raccomando, e mi raccomando di cuore.
SCENA TERZA
Guglielmo e la suddetta.
GUGLIELMO: Finalmente vi ho potuto poi rinvenire. GIACINTA: Che volete da me? Anche qui venite ad importunarmi? GUGLIELMO: Parto, sì, non temete. Concedetemi ch'io possa dirvi due parole soltanto. GIACINTA: Spicciatevi. (Guardando d'intorno.) GUGLIELMO: Vi supplico della risposta, di cui vi avea pregato stamane. GIACINTA: Io non mi ricordo che cosa mi abbiate detto. GUGLIELMO: Ve lo tornerò a replicare. GIACINTA: Non c'è bisogno. GUGLIELMO: Dunque ve ne sovverrete benissimo. GIACINTA: Andate, vi prego, e lasciatemi in pace. GUGLIELMO: Due parole, e me ne vado subito. GIACINTA: (Qual arte, qual incanto è mai questo!). E così? GUGLIELMO: Ho da vivere, o ho da morire? GIACINTA: Sono queste domande da fare a me? GUGLIELMO: Bisogna ch'io lo domandi a chi ha l'autorità di potermelo comandare.
GIACINTA: Pretendereste voi ch'io mancassi al signor Leonardo, e che mi fi scorgere da tutto il mondo? GUGLIELMO: Io non ho l'ardir di pretendere; ho quello solamente di supplicare. GIACINTA: Fareste meglio a tacere. GUGLIELMO: Non isperate ch'io taccia, senza una positiva risposta. GIACINTA: Orsù dunque, giacché s'ha da parlare, si parli. Riflettete, signor Guglielmo, che voi ed io siamo due persone infelici, e lo siamo entrambi per la cagione medesima. Se la nostra infelicità si estendesse soltanto a farci vivere in pene, si potrebbe anche soffrire; ma il peggio si è, che andiamo a perdere il decoro, l'estimazione, l'onore. Io manco al mio dovere, ascoltandovi; voi mancate al vostro, insidiandomi il cuore. Io manco al rispetto di figlia, al dovere di sposa, all'obbligo di fanciulla saggia e civile; voi mancate alle leggi dell'amicizia, dell'ospitalità, della buona fede. Qual nome ci acquisteremo noi fra le genti? Qual figura dovremo fare nel mondo? Pensateci per voi stesso, e pensateci per me ancora. Se è vero che voi mi amiate, non procacciate la mia rovina. Avrete voi un animo sì crudele di sagrificare alla vostra ione una povera sfortunata, che ha avuto la debolezza d'aprire il seno alle lusinghe d'amore? Avrete un cuore sì nero per ingannare mio padre, per tradire Leonardo, per deludere sua germana? Ma a qual pro tutto questo? Qual mercede vi promettete voi da sì vergognosa condotta? Tutt'altro aspettatevi, fuor ch'io receda dal primo impegno. Sì, vel confesso, io vi amo, dicolo a mio rossore, a mio dispetto, vi amo. Ma questa mia confessione è quanto potete da me sapere. Assicuratevi ch'io farò il possibile per l'avvenire o per iscordarmi di voi, o per lasciarmi struggere dalla ione, e morire. Ad ogni costo noi ci abbiamo da separare per sempre. Se avrete voi l'imprudenza d'insistere, avrò io il coraggio di cercar le vie di mortificarvi. Farò il mio dovere, se voi non farete il vostro. Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea d'intendere il mio sentimento, l'avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire; a ciò vi rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l'onore si dee preferire alla vita. GUGLIELMO: (Oimè! Non so in che mondo mi sia. Mi ha confuso a tal segno, che non so più che rispondere). GIACINTA: (Ah! è pur grande lo sforzo che fare mi è convenuto!
Grand'affanno, gran tormento mi costa!).
SCENA QUARTA
Leonardo e detti.
LEONARDO: Voi qui, signora? GIACINTA: (Oh cieli!). LEONARDO: Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo? GUGLIELMO: (Ah! è inevitabile il precipizio). GIACINTA: (Si tratta dell'onore. Vi vuol coraggio). (Da sé.) Gli affari ch'io tratto con esso lui, dovrebbero interessar voi più di me. L'onore che ho di essere vostra sposa, rende mie proprie le convenienze della vostra famiglia. Parlasi per Montenero, che siano corse parole di qualche impegno fra lui e la signora Vittoria. So che ella se ne lusinga, e in pubblico ha dimostrata la sua ione. Cose son queste delicatissime, dalle quali può dipendere il buon concetto di una fanciulla. Io non sapeva precisamente di qual animo fosse il signor Guglielmo. Ho cercato di assicurarmene, ed ecco ciò che ne ho ricavato. Ei sa benissimo, che un uomo d'onore non dee abusarsi della debolezza di un'onesta fanciulla. Conosce il proprio dovere, fa quella stima di lei che merita la vostra casa, e se voi gliela concedete, col mezzo mio ve la domanda in isposa. GUGLIELMO: (Misero me! in qual impegno mi trovo!). LEONARDO: Me la domanda col mezzo vostro? (A Giacinta.) GIACINTA: Sì, signore, col mezzo mio. LEONARDO: Non v'erano altri nel mondo, se non si prevaleva di voi? GIACINTA: Io sono quella che gli ha parlato. Sa il signor Guglielmo quel che gli ho detto. Le mie parole deggiono aver fatta impressione in un uomo
d'onore, in un cuore onesto e civile; ed è ben giusto che io medesima compisca un'opera, che non può essere che applaudita. LEONARDO: Che dice il signor Guglielmo? GUGLIELMO: (Ceda la ione al dovere). Sì, amico, se non isdegnate accordarmela, vi chiedo la sorella vostra in consorte. GIACINTA: (Ah! la sinderesi lo ha convinto). LEONARDO: Signore, questa sera vi darò la risposta. (A Guglielmo.) GIACINTA: Che difficoltà avete voi di accordargliela presentemente? LEONARDO: È giusto ch'io parli con mia sorella. GIACINTA: Ella non può essere che contenta. LEONARDO: Andiamo, signora, ci aspettano per andare al eggio. (A Giacinta.) GIACINTA: Eccomi. Andiamo pure. LEONARDO: Vuol ch'io abbia l'onor di servirla? GIACINTA: Mi maraviglio di voi, che mi facciate di queste scene. C'è bisogno de' complimenti? Se non mi date il braccio voi, chi me l'ha da dare? LEONARDO: Siete qui venuta senza di me... GIACINTA: E ora voglio ritornare a casa con voi. (Lo prende pel braccio con forza.) (Costa pene il dissimulare). (Da sé, partendo.) LEONARDO: (Ancora non sono quieto che basti). (Parte con Giacinta.) GUGLIELMO: Chi ha mai veduto caso più stravagante e più doloroso del mio? (Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Filippo. Filippo e Vittoria.
VITTORIA: Favorisca, signor Filippo. Ho piacer di dirle due parole qui in questa camera, che nessuno ci senta. FILIPPO: Sì, volentieri. Già io in sala ci sto come una statua. Giocano al faraone, ed io al faraone non gioco. VITTORIA: Fatemi grazia. Presentemente la signora Giacinta dov'è? FILIPPO: Io non so dove sia. Io non le tengo dietro. Oh! sì, che in campagna si può tener dietro a voialtre fanciulle. VITTORIA: E il signor Guglielmo dov'è? FILIPPO: Peggio. Volete ch'io sappia dove vanno tutti quelli che sono in casa da me? VITTORIA: Il punto sta, signore, che mancano tutti e due. FILIPPO: E chi sono questi due? VITTORIA: Il signor Guglielmo e la signora Giacinta. FILIPPO: E che importa questo? Uno sarà in un loco, e l'altra sarà nell'altro. VITTORIA: E se fossero insieme? FILIPPO: Oh! in materia di questo poi, mia figlia non è una frasca. VITTORIA: Io non dico diversamente. Ma so bene che alla tavola, dove ora si gioca, non si fa che parlare di questa cosa; e vedendo che sono tutti e due
spariti... FILIPPO: Spariti? VITTORIA: Mancano tutti e due, e non si sa dove siano. FILIPPO: Cospetto! cospetto! Cosa dice il signor Leonardo? VITTORIA: Mio fratello è andato in traccia di loro. FILIPPO: Se scopro niente... Se me ne accorgo... Vo' andare in questo momento... Ma ecco il signor Leonardo, sentiremo qualche cosa da lui.
SCENA SESTA
Leonardo e detti.
LEONARDO: Signor Filippo, mi fareste il piacere di permettermi ch'io scrivessi una lettera? FILIPPO: Accomodatevi. Là vi è carta, penna e calamaio. VITTORIA: (Mi pare torbido. Vi dovrebbero essere delle novità). FILIPPO: Ditemi un poco, signor Leonardo, sapete voi dove sia mia figliuola? LEONARDO: Sì, signore. (Accomodandosi al tavolino.) FILIPPO: E dov'è? LEONARDO: Giù in sala. (Come sopra.) FILIPPO: E dov'è stata finora? LEONARDO: Era andata a visitar la castalda, che la notte ata ha avuto un poco di febbre. (Come sopra.) FILIPPO: E con chi è andata? LEONARDO: Sola. FILIPPO: È andata sola? LEONARDO: Sì, signore. FILIPPO: Non è andato il signor Guglielmo con lei? LEONARDO: E perché il signor Guglielmo doveva andare con lei? Non può
andar sola dalla castalda? E se aveva bisogno di compagnia, non c'era io da poterla servire? FILIPPO: Sentite, signora Vittoria? VITTORIA: Avete pure sentito in sala cosa dicevano. So pure che anche voi eravate fuor di voi stesso. (A Leonardo.) LEONARDO: Presto si pensa male, e con troppa facilità si giudica indegnamente. Sono stato io a rintracciarla. L'ho trovata sola dalla castalda, e l'ho servita a casa io medesimo. (Vuol il dovere che così si dica. Tutti non sarebbero persuasi del motivo che li faceva essere nel boschetto; intieramente non ne son nemmen io persuaso). (Principiando a scrivere.) FILIPPO: Ha sentito, signora Vittoria? Mia figlia non è capace... VITTORIA: E il signor Guglielmo è tornato? (A Leonardo.) LEONARDO: È tornato. (Scrivendo.) VITTORIA: E dov'era andato? (A Leonardo.) LEONARDO: Non lo so. (Come sopra.) VITTORIA: Sarà stato a visitare il castaldo. (A Leonardo, ironica.) LEONARDO: Prudenza, sorella, prudenza. (Come sopra.) VITTORIA: Io ne ho poca, ma non vorrei che voi ne aveste troppa. (A Leonardo.) LEONARDO: Lasciatemi terminar questa lettera. VITTORIA: Scrivete a Livorno? LEONARDO: Scrivo dove mi pare. Signor Filippo, la supplico d'una grazia: favorisca mandar uno de' suoi servitori a cercar il mio cameriere, e dirgli che venga subito qui, e se non mi trovasse più qui, che verso sera sia alla bottega del caffè, e che non manchi. FILIPPO: Sì, signore, vi servo subito. (Signora Vittoria, pensi meglio di me,
e della mia famiglia, e della mia casa. Basta! A buon intenditor poche parole.) (Parte.)
SCENA SETTIMA
Leonardo scrivendo, e Vittoria.
LEONARDO: (Questa mi pare la miglior risoluzione ch'io possa prendere). (Da sé, poi scrive.) VITTORIA: Ditemi, signor fratello, siete voi contento della condotta della signora Giacinta? LEONARDO: Sì, signora. (Scrivendo.) VITTORIA: Le apparenze per altro non vi dovrebbero contentar molto. LEONARDO: Son contentissimo. (Scrivendo.) VITTORIA: E del signor Guglielmo? LEONARDO: Anche di lui. (Scrivendo.) VITTORIA: Vi par che si porti bene egli pure? LEONARDO: Il signor Guglielmo è un galantuomo, è un uomo d'onore. (Scrivendo.) VITTORIA: Eppure io so che da tutti... LEONARDO: Ma lasciatemi scrivere, tormentatrice perpetua. (Sdegnato.) VITTORIA: Lasciate ch'io dica una cosa, e poi vi levo il disturbo. LEONARDO: Che cosa volete dirmi? (Scrivendo.) VITTORIA: Non s'era egli spiegato d'aver dell'inclinazione per me? LEONARDO: Sì, signora. (Scrivendo.)
VITTORIA: E come si può credere questa cosa? LEONARDO: Si può credere. (Scrivendo.) VITTORIA: Si può credere? LEONARDO: (Oh! sono pure annoiato). (Scrivendo.) VITTORIA: Ha fatto nessun o con voi? LEONARDO: L'ha fatto. (Come sopra.) VITTORIA: L'ha fatto? LEONARDO: Sì, lasciatemi terminare. (Come sopra.) VITTORIA: E a me non si dice niente? LEONARDO: Vi parlerò, se mi lascierete finir questa lettera. VITTORIA: Sì, finitela pure. (Io non so che cosa m'abbia da credere. Potrebbe anche darsi che m'ingannassi, che fosse la gelosia che mi fe travedere). Quando vi ha parlato il signor Guglielmo? (A Leonardo.) LEONARDO: Acchetatevi una volta. Che vi si possa seccar la lingua. (Una lettera artifiziosa ha bisogno di essere studiata bene, e costei mi tormenta). (Rilegge piano la lettera.) VITTORIA: (Ardo, muoio di curiosità di sapere). (Da sé.) LEONARDO: (Sì, sì, così va bene. La cosa parerà naturale. Basta che sia bene eseguita). (Da sé.)
SCENA OTTAVA
Brigida e detti.
BRIGIDA: Signori, hanno terminato di giocare. Vogliono andare a far due i fino al caffè, e mandano a vedere se vogliono restar serviti. LEONARDO: Andiamo. (S'alza.) VITTORIA: E non mi volete dir niente? LEONARDO: Vi parlerò questa sera. VITTORIA: Datemi un cenno di qualche cosa. LEONARDO: Questo non è né il tempo, né il luogo. VITTORIA: Ma io non posso resistere. LEONARDO: Ma voi siete la più inquieta donna del mondo. (Parte.)
SCENA NONA
Vittoria e Brigida.
VITTORIA: Dite, Brigida. Dov'è stata oggi dopo pranzo la vostra padrona? BRIGIDA: Che vuol ch'io sappia? Non so niente io. VITTORIA: Come sta la castalda? BRIGIDA: La castalda? Io credo stia bene. VITTORIA: Non ha avuto la febbre la notte ata? BRIGIDA: Oh! la febbre. Se ha aiutato anch'ella in cucina per il pranzo d'oggi. VITTORIA: (Se lo dico! Tutti m'ingannano, tutti mi deridono, ma mi fa specie quello sciocco di mio fratello). BRIGIDA: Non va ella cogli altri al caffè? VITTORIA: Sono ritornati insieme il signor Guglielmo e la signora Giacinta? BRIGIDA: Oh! io non so niente. A me non si domandano di queste cose. La mia padrona è una signora onesta e civile, e se vi sono dei giovani poco di buono, non si può dar la colpa alle persone savie e da bene. Se vuol andar, vada, se non vuole, io ho fatto il mio debito. (Parte.) VITTORIA: Tanto più mi mette in sospetto. Basta, da qui a sera c'è poco. Sentirò che cosa m'ha da dire Leonardo. Taccio, taccio; ma se mi fanno parlare, s'hanno da sentire di quelle cose che non si sono mai più sentite. (Parte.)
SCENA DECIMA
Campagna con bottega di caffè e qualche casa. Due o tre panche per comodo di quelli che vanno al caffè, situate bene. Tita e Beltrame, garzoni del caffè.
BELTRAME: Tita, come stai d'appetito? TITA: Oh! bene. Non veggio l'ora d'andar a cena. BELTRAME: Questa mattina dal signor Filippo ci credevamo di fare un gran pasto, e non c'era da cavarsi la fame. TITA: Venivano via i piatti di tavola netti netti, che non c'erano appena l'ossa. BELTRAME: E di quel poco che è avanzato, che cosa ha toccato a noi? TITA: Niente. S'hanno portato via tutto. Il castaldo, la castalda, la giardiniera, la lavandaia, i famigli, tutti hanno voluto la parte loro. BELTRAME: S'intende che ci abbiano fatto un regalo grande a farci la minestra a posta. TITA: Ma che minestra! Pareva fatta nelle lavature de' piatti. BELTRAME: Vino pessimo. TITA: Di quello che si può dar da bere ai feriti. BELTRAME: Ci fosse stato almeno del pane. TITA: Bisognava, chi voleva del pane, domandarlo per elemosina. BELTRAME: Io mi sono attaccato ad un buon pezzo di manzo, che per
verità era tenero come il latte. TITA: Ed io ho adocchiato un cossame di cappone, a cui vi era per accidente un'ala intiera attaccata, e me l'ho pappolata in due colpi. BELTRAME: Non era cattivo quel pasticcio di maccheroni. TITA: Mi sono anche piaciute quelle polpette. BELTRAME: L'arrosto, se fosse stato caldo, era di buona ragione. TITA: Sì, era vitella di latte. Ne ho portato via un buon pezzo in una carta, per mangiarmelo questa sera. BELTRAME: Ed io mi ho portato via quattro pasticciotti ed un pezzo di parmigiano. TITA: Oh! se fosse stato un pranzo, come dich'io, si poteva portar via un buon tovagliolo di roba. BELTRAME: E che non ci fossero stati tanti occhi d'intorno. TITA: Basta dire, che se avanzava roba sui tondi, erano lì pronti i servitori di casa, per paura che ci ponessimo noi la roba in saccoccia. BELTRAME: Oh! io non sono di quelli che portano le saccoccie di pelle. TITA: Io pure di queste viltà non ne faccio. Se ce n'è, mangio, se non ce n'è, buon viaggio. BELTRAME: Poco più, poco meno, pur che si viva. TITA: Oh! ecco la compagnia; diamo luogo. BELTRAME: E la vecchia innanzi di tutti. TITA: E come mangia quella vecchietta! BELTRAME: E il signor Ferdinando? TITA: E il vostro caro signor Tognino?
BELTRAME: Ma ehi! avete veduto come si portava bene con quella ragazza? TITA: E come! BELTRAME: Se succede, vuol essere il gran bel matrimonio. TITA: L'appetito e la fame. (Parte.) BELTRAME: Il bisogno e la necessità. (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Vengono tutti accompagnati come segue: Sabina e Ferdinando, Giacinta e Leonardo, Vittoria e Guglielmo, Rosina e Tognino, Costanza e Filippo. Si pongono tutti a sedere. Un Garzone si presenta a domandar cosa vogliono, andando da tutti a uno per uno, e ciaschedun domanda al Garzone come segue.
GIACINTA: Un caffè. LEONARDO: Un bicchier d'acqua pura. ROSINA: Un cedrato. TOGNINO: Una cioccolata. VITTORIA: Un caffè senza zucchero. COSTANZA: Una limonata. FILIPPO: Dell'acqua con dell'agro di cedro. FERDINANDO: Un bicchier di rosolio. SABINA: E a me portatemi una pappina. VITTORIA: (Sapete quel che mi dee dir mio fratello, e non mi volete far il piacere di dirmelo voi?). (A Guglielmo.) GUGLIELMO: (Perdonatemi; tocca a lui, ed io non mi ho da prendere questa libertà). (A Vittoria.) VITTORIA: (Se mi voleste bene, sareste un poco più compiacente). (A Guglielmo.)
GIACINTA: (Tutto posso soffrire, ma vederlo cogli occhi miei, mi fa dar nelle smanie). (Da sé, osservando Guglielmo.) LEONARDO: (Che avete, signora Giacinta?). GIACINTA: A questa bottega non si può venire. Per un caffè ci fanno aspettare mezz'ora. LEONARDO: Ci vuol pazienza. Non avete sentito che siamo in dieci, e nessuno ha ordinato la stessa cosa? GIACINTA: Pazienza dunque. (Ne ho tanta della pazienza, che or ora non posso più). (Da sé, fremendo.) ROSINA: (Avete sentito? La principessa vuol essere servita subito). (A Tognino.) TOGNINO: (Oh! mi sono scordato di dire, che mi portino due ciambelle). (A Rosina.) ROSINA: (Avete fame a quest'ora?). (A Tognino.) TOGNINO: (Sicuro. Non ho mica merendato). (A Rosina.) FILIPPO: (Non mi dite niente, signora Costanza?). COSTANZA: (Che cosa volete ch'io dica?). FILIPPO: (Raccontatemi qualche cosa. È vero che vostra nipote fa l'amore con quel babbeo di Tognino?). COSTANZA: (Non so niente. Per dirvi la verità, a queste cose ci abbado e non ci abbado; finalmente non è mia figlia). SABINA: (Mi pare che l'aria cominci ad essere un poco umida. Non vorrei raffreddarmi). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Poverina! copritevi il capo. Non l'avete il cappuccietto?). SABINA: (No, no, aspettate). (Tira fuori di tasca un ombrellino.) (Tenetemi quest'ombrellino). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Oh, povero me!). (Da sé.) (E ho da star qui mezz'ora con quest'imbroglio?) (A Sabina.) SABINA: (Quando si vuol bene, niente incomoda, niente pesa). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Dunque voi non mi volete bene). (A Sabina.) SABINA: (Perché?). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Perché vi pesa farmi una miserabile donazione). (A Sabina.) SABINA: (Ancora mi tormentate?). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (O donazione, o vi pianto). (A Sabina.) SABINA: (Ingrato!). (Piangendo, e si asciuga gli occhi.) (Vengono i garzoni a portare le cose ordinate, e sbagliano, e si confondono.) TOGNINO: La cioccolata a me. ROSINA: A me il sorbetto. COSTANZA: Ehi, limonata. SABINA: La mia pappina. LEONARDO: Un bicchier d'acqua. VITTORIA: Il caffè! GIACINTA: Il caffè! (Danno il caffè a Giacinta.) Sciocchi! io non l'ho domandato senza lo zucchero. FERDINANDO: Si può avere questo rosolio? FILIPPO: Quel giovane! La sapete anche voi la lezione? Lo sapete anche voi, ch'io ho da essere sempre l'ultimo? Se tutti si sono serviti, fatemi l'alto onore di darmi l'agro di cedro che vi ho domandato.
SCENA DODICESIMA
Paolino e detti.
PAOLINO (Si fa veder dal padrone.) LEONARDO: Ora vengo. (A Paolino, e s'alza.) Scusatemi. Ho da dir qualche cosa al mio servitore. (A Giacinta, e si scosta.) GIACINTA: Servitevi pure. (A Leonardo.) (Pagherei non so quanto a poter sentire quel che dicono Guglielmo e Vittoria). (Da sé.) FERDINANDO: Con permissione. (A Sabina, e s'alza.) SABINA: Dove andate? (A Ferdinando.) FERDINANDO: Vengo subito. (Va a sedere dov'era Leonardo.) SABINA: (Briccone! mi vuol bene, e mi fa centomila dispetti). (Da sé.) FERDINANDO: Oimè; non ne poteva più. (A Giacinta.) GIACINTA: Mi maraviglio di voi, che abbiate ardire di corbellare mia zia. È vecchia, è semplice, ma è una donna civile. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Ma io, signora... (A Giacinta.) GIACINTA: Tacete, che sarà meglio per voi. FERDINANDO: E così, signora Rosina, come vi divertite? ROSINA: Lasciatemi stare, che io non ho che fare con voi. FERDINANDO: (Ho capito. Qui non vi è da far bene). Eccomi qui con voi, la mia cara gioia. (Siede presso Sabina.)
SABINA: Meritereste ch'io non vi guardassi. Ma non ho cuore di farlo. (A Ferdinando.) LEONARDO: (Sì, trovate qualcheduno che copi la lettera, o copiatela voi, e procurate di contraffare il carattere. Sigillatela, fate la soprascritta diretta a me; poi, quando siamo in casa del signor Filippo, sul punto di principiar la conversazione, venitemi a portar la lettera, come se da un uomo a posta mi fosse da Livorno spedita, e trovate un uomo che, instruito da voi, vaglia a sostener la finzione. Regolatevi poscia anche voi, secondo il contenuto della lettera stessa. Fate la cosa come va fatta, assicurandovi che estremamente mi preme). (A Paolino.) PAOLINO: Sarà puntualmente servita. (Parte.) GIACINTA: (La scena va troppo lunga, non la posso più tollerare: accordo e desidero che Guglielmo si determini a sposar Vittoria; ma non ho cuor di vederlo cogli occhi miei). (Da sé, alzandosi.) GUGLIELMO: (Giacinta smania. E non sa forse in quali affanni io mi trovi). (Da sé.) LEONARDO: Eccomi qui. Vi veggo molto agitata. (A Giacinta.) GIACINTA: Quest'aria assolutamente m'offende. LEONARDO: Andiamo a casa, se comandate. VITTORIA: Sì, andiamo, andiamo. (Non veggo l'ora di saper tutto. Questa faccia tosta non c'è caso che mi voglia dir niente). (S'alza, e tutti s'alzano.) SABINA: Lasciatemi andar innanzi. Sapete ch'io sono sempre stata di vista corta. (Andiamo; non voglio che chi è avanti di noi, senta quello che noi diciamo). (A Ferdinando.) FERDINANDO: (Sì, andiamo, che parleremo della donazione). (A Sabina.) SABINA: (Che tu sia maladetto!). (Lo prende per mano con dispetto, e partono.) GIACINTA: Vadano pure, se vogliono.
VITTORIA: No, no, servitevi. Seguitiamo l'ordine, come siamo venuti. (A Giacinta.) LEONARDO: Andiamo, senza ceremonie. (Dà mano a Giacinta.) GIACINTA: (Oh cieli! mi par d'andar alla morte). (Da sé, e parte con Leonardo.) VITTORIA: (Oh! io m'aspetto delle cattive nuove, signor Guglielmo). GUGLIELMO: (E perché, signora?). VITTORIA: (Vi veggo troppo melanconico). GUGLIELMO: (Son così di temperamento). (Parte con Vittoria.) COSTANZA: (Ehi! Rosina, cosa vi pare?). (A Rosina.) ROSINA: (Veggo di gran nuvoloni per aria). (A Costanza.) (Oh! caro il mio Tognino, andiamo). (Parte con Tognino.) COSTANZA: Andiamo, signor Filippo? FILIPPO: Sì, eccomi qui. Già si sa; sempre l'ultimo. (Parte con Costanza.)
SCENA TREDICESIMA
Sala in casa di Filippo, con lumiere ecc. Brigida e Servitori.
BRIGIDA: Presto, preparate i lumi. Li ho veduti venire dalle finestre. (I Servitori preparano.) (Mi confido che verrà anche Paolino. In questi sette o otto giorni che mancano a terminar la villeggiatura, spero di condur a fine l'affare mio. Oh! la sarebbe bella che, in mezzo a tanti matrimoni, il mio si fe prima di tutti). Sentite, se viene Paolino, il cameriere del signor Leonardo, avvisatemi. (Ad un Servitore.) Bisognerà ch'io stia qui a levar le mantiglie a tutte queste signore. Oh! eccole, eccole.
SCENA QUATTORDICESIMA
Vengono tutti i suddetti coll'ordine istesso, e Brigida leva la mantiglia alle donne, e i Servitori prendono i cappelli.
SABINA: Oimè! sono un poco stracchetta. (Siede.) Venite qui voi. (A Ferdinando.) FERDINANDO: Eccomi, eccomi. (La cosa va lunga. Domani, o dentro, o fuori). (Siede presso di lei.) GIACINTA: Se vogliono accomodarsi, qui ci son delle seggiole. (Tutti siedono, e non vi resta da seder per Filippo.) FILIPPO: E per me, non c'è da sedere? BRIGIDA: Io, io, signor padrone. (Va a prender una sedia.) FILIPPO: Sì, una sedia anche a me per limosina. BRIGIDA: Eccola servita. (Gli porta una sedia.) FILIPPO: (Oh! un altr'anno voglio essere padrone io in casa mia). (Siede.) VITTORIA: (S'alza.) Signor fratello, una parola in grazia. LEONARDO: (Ho capito. La curiosità la tormenta). (S'alza.) VITTORIA: E così, che cosa avete da dirmi? (In disparte.) LEONARDO: (In due parole vi dico tutto. Il signor Guglielmo vi ha domandata in isposa). VITTORIA: (Davvero?). (Guarda ridendo verso Guglielmo.) GUGLIELMO (s'accorge di Vittoria, e si volge altrove per non vederla.)
LEONARDO: (Onde tocca a voi a risolvere). VITTORIA: (Per me, quando siete contento voi, sono contentissima). LEONARDO: Favorisca, signor Guglielmo. (Lo chiama.) GUGLIELMO: Eccomi. (Andiamo a sagrificarci). GIACINTA (mostra ansietà di sentire.) LEONARDO: Mia sorella ha inteso con piacere la bontà che avete per lei, ed è pronta ad acconsentire. GUGLIELMO: Benissimo. VITTORIA: Benissimo? Non sapete dir altro che benissimo? GUGLIELMO: Signora, che cosa volete ch'io dica? VITTORIA: Io non so che naturale sia il vostro. Non si sa mai, se siate disgustato o se siate contento. GUGLIELMO: Soffritemi come sono. VITTORIA: (Può essere, che quando è mio marito, si svegli). LEONARDO: Signor Filippo, signor Ferdinando, favoriscano in grazia una parola. FILIPPO: Volentieri. (S'alza e s'avanza.) FERDINANDO: Sono a' vostri comandi. (S'alza e s'avanza.) LEONARDO: Si compiacciano d'esser testimoni della vicendevole promissione di matrimonio fra il signor Guglielmo e Vittoria mia sorella. GIACINTA: (È fatta). (Si getta a sedere con ione.) FILIPPO: Bravi! FERDINANDO: Me ne consolo infinitamente.
SABINA: (Vedete? Così si fa). (A Ferdinando.) FERDINANDO: Donazione, e facciamolo. (A Sabina.) SABINA: Sia maladetta la donazione. (Va a sedere.) LEONARDO: Or ora si farà la scritta, e lor signori porranno in carta la loro testimonianza. FILIPPO: Sì, signore. FERDINANDO: Se volete che vi serva io della scritta, ne ho fatte delle altre, in un momento vi servo. VITTORIA: Ci farete piacere. LEONARDO: Sì, fatela. FERDINANDO: Vado subito. (A queste nozze ci voglio essere ancor io). (Parte.) VITTORIA: E voi non dite niente, signore? (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Approvo tutto. Che volete ch'io dica di più? VITTORIA: Pare che lo facciate più per forza, che per amore. GUGLIELMO: Anzi lo faccio, perché amore mi costringe a doverlo fare. VITTORIA: (Manco male. Ha confessato una volta che mi vuol bene). Via, andiamo a sedere. (A Guglielmo. Vanno tutti al loro posto.) COSTANZA: Mi consolo, signora Vittoria. VITTORIA: Grazie. ROSINA: Mi consolo. (A Vittoria.) VITTORIA: Obbligatissima. ROSINA: (Vedete? Essi l'hanno fatta). (A Tognino.)
TOGNINO: (E noi la faremo). (Ridendo, a Rosina)
SCENA QUINDICESIMA
Paolino e detti.
PAOLINO: Signore. (A Leonardo.) LEONARDO: Cosa c'è? PAOLINO: Un messo, spedito a posta da Livorno, ha portato per lei questa lettera di premura. LEONARDO: Vediamo che cosa è. Date qui. (S'alza, e apre la lettera.) È il signor Fulgenzio che scrive. (Verso Filippo.) FILIPPO: Sì, il nostro amicone. Che cosa dice? LEONARDO: Cospetto! Una novità che mi mette in agitazione. Sentite cosa mi scrive. Amico carissimo. Vi scrivo in fretta, e vi spedisco un uomo a posta per avvisarvi che vostro zio Bernardino per un male di petto in tre giorni si è ridotto agli estremi, e i medici gli danno poche ore di vita. Ha mandato a chiamare il notaro, onde pensate a' casi vostri, perché si tratta del vostro stato, ed io vi consiglio venire immediatamente a Livorno. FILIPPO: Per bacco! Vi consiglio anch'io che non vi tratteniate un momento. Si dice che sarà padrone di cinquanta e più mille scudi. VITTORIA: Sì, certo, subito, subito. E ci vengo anch'io. LEONARDO: Mi dispiace dover abbandonare la compagnia. VITTORIA: A buon conto il signor Guglielmo verrà con noi. GUGLIELMO: (Tutto si combina per mio malanno). GIACINTA: (Sì, sarà bene per me. Mi sento rodere, mi sento crepare Ma una volta s'ha da finire).
LEONARDO: Paolino, andate subito alla posta, e ordinate quattro cavalli, e fate preparare lo sterzo, che si anderà a Livorno con quello. Siamo in quattro, il signor Guglielmo, mia sorella, io e voi. Non ci è bisogno di far bauli. PAOLINO: Sarà servita. BRIGIDA: (Paolino). PAOLINO: (Figliuola mia). BRIGIDA: (Andate via?) PAOLINO: (Sì, ma tornerò a pigliar la roba). BRIGIDA: (Per amor del cielo, non vi scordate di me). PAOLINO: (Non c'è pericolo. Vi do parola). (Parte.) BRIGIDA: (Povera me! Sul più bello mi tocca a provare questo disgusto). (Parte.) FILIPPO: Quando siete a Livorno, scrivete subito. Se tornate, vi aspettiamo qui. Quando no, verremo presto anche noi. (A Leonardo.) VITTORIA: Non perdiamo tempo. Signora Giacinta, compatisca l'incomodo. Mi conservi la sua buona grazia, e a buon riverirla a Livorno. GIACINTA: Sì, vita mia, a buon rivederci. (Si baciano.) GUGLIELMO: (Mi tremano le gambe, mi manca il fiato). LEONARDO: E non volete aspettare che si sottoscriva il contratto? (A Vittoria.) VITTORIA: Ma sì, s'ha da sottoscrivere. Ehi! signor Ferdinando, ha finito? (Forte alla scena.)
SCENA ULTIMA
Ferdinando e detti.
FERDINANDO: Eccomi, eccomi. Che novità son queste? Andate via? Ci lasciate? VITTORIA: È terminata la scritta? FERDINANDO: Eccola terminata. GUGLIELMO: Scusatemi. Non si può far a Livorno? Non è meglio farla stendere da un notaio? FERDINANDO: Ma se è già fatta! GUGLIELMO: S'ha da leggere, s'ha da firmare. Signor Leonardo, vi consiglio non perder tempo. È meglio assai partir subito, e si farà la scritta a Livorno. Eccomi, io sono con voi. Io non mi distacco da voi. LEONARDO: Non dite male. Andiamo, si farà a Livorno. GUGLIELMO: (Respiro un poco. Qualche cosa può nascere). LEONARDO: Signora Giacinta, venite presto, conservatemi il vostro affetto. (Le tocca la mano.) Signor Filippo, addio. (Lo bacia.) Padroni tutti. Schiavo di lor signori. (A Livorno ci regoleremo diversamente). (Parte.) VITTORIA: Nuovamente, signora Giacinta. Padrone mie riverite. Signor Filippo! Padroni tutti. Andiamo. (Prende per mano Guglielmo.) COSTANZA: Buon viaggio. ROSINA: Buon viaggio. SABINA: Buon viaggio.
GUGLIELMO: Contentatevi. (A Vittoria, con un poco di sdegno.) Signor Filippo, scusate, e vi ringrazio. FILIPPO: Addio, a rivederci a Livorno. GUGLIELMO: Signora Giacinta... perdoni... (Confuso.) GIACINTA: Buon viaggio. (Non posso più). VITTORIA: Che diavolo avete? Par che piangete. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Andiamo. (Risoluto.) VITTORIA: Così! Andiamo. (Parte con Guglielmo.) FERDINANDO: Signora Sabina. SABINA: Che cosa volete? FERDINANDO: Tenga, che gliene faccio un presente. SABINA: Cosa mi date? FERDINANDO: Una scritta di matrimonio. SABINA: È per me forse? FERDINANDO: Veramente non è per lei. Perché nella sua ci ha da essere la donazione. SABINA: Orsù, questa è un'insolenza, e ne sono stufa. Avete avuto abbastanza, e vi dovreste contentare così. Ingrato, tigna, avaraccio. (Parte.) FERDINANDO: La vecchia è in collera. La donazione è in fumo, e la commedia per me è finita. (Parte.) COSTANZA: Signora Giacinta, le vogliamo levar l'incomodo. GIACINTA: Vogliono andar via? FILIPPO: Non vogliono far da noi la partita?
COSTANZA: Ho premura d'andar a casa. GIACINTA: S'accomodi, come comanda. COSTANZA: (Andiamo, giacché Tognino è disposto, non ce lo lasciamo scappare). (A Rosina.) ROSINA: Serva umilissima. Compatisca. (A Giacinta, e parte.) TOGNINO: Servo suo. Compatisca. (A Giacinta, e parte.) FILIPPO: Andiamo, che vi voglio servire a casa. (A Costanza.) COSTANZA: Mi farà finezza. (Già di questo vecchio non ci prendiam soggezione). (Parte.) FILIPPO: (Se non c'è altro, giocherò due partite a bazzica con quel baggiano). (Parte.) GIACINTA: Lode al cielo, son sola. Posso liberamente sfogare la mia ione, e confessando la mia debolezza... Signori miei gentilissimi, qui il poeta con tutto lo sforzo della fantasia aveva preparata una lunga disperazione, un combattimento di affetti, un misto d'eroismo e di tenerezza. Ho creduto bene di ommetterla per non attediarvi di più. Figuratevi qual esser puote una donna che sente gli stimoli dell'onore, ed è afflitta dalla più crudele ione. Immaginatevi sentirla a rimproverare se stessa per non aver custodito il cuore come doveva; indi a scusarsi coll'accidente, coll'occasione e colla sua diletta villeggiatura. La commedia non par finita; ma pure è finita, poiché l'argomento delle Avventure è completo. Se qualche cosa rimane a dilucidare, sarà forse materia di una terza commedia, che a suo tempo ci daremo l'onore di rappresentarvi, ringraziandovi per ora del benignissimo vostro compatimento alle due che vi abbiamo sinora rappresentato.
Fine della Commedia.
LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA Commedia in tre atti. (1761)
PERSONAGGI Filippo, cittadino, vecchio, e gioviale Giacinta, figliuola di Filippo Leonardo, amante di Giacinta Vittoria, sorella di Leonardo Ferdinando, scrocco Guglielmo, amante di Giacinta Fulgenzio, attempato amico di Filippo Paolo, cameriere di Leonardo Brigida, cameriera di Giacinta Cecco, servitore di Leonardo Berto, servitore di Leonardo
La scena si rappresenta a Livorno, parte in casa di Leonardo, e parte in quella di Filippo.
L'AUTORE A CHI LEGGE L'innocente divertimento della campagna è divenuto a' dì nostri una ione, una manìa, un disordine. Virgilio, il Sannazzaro, e tanti altri panegiristi della vita campestre, hanno innamorato gli uomini dell'amena tranquillità del ritiro; ma l'ambizione ha penetrato nelle foreste: i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle Città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori, i quali dalla superbia de' loro padroni apprendono la loro miseria. Quest'argomento è sì fecondo di ridicolo e di stravaganze, che mi hanno fornito materia per comporre cinque Commedie, le quali sono tutte fondate sulla verità: eppure non si somigliano. Dopo aver dato al pubblico i Malcontenti e la Villeggiatura, la prima nel Tomo terzo, la seconda nel Tomo quarto del mio Teatro Comico dell'edizion del Pitteri; ho trovato ancora di che soddisfarmi e di che fornire, non so s'io dica il mio capriccio o il mio zelo, contro un simile fanatismo. Ho concepita nel medesimo tempo l'idea di tre commedie consecutive. La prima intitolata: Le Smanie per la Villeggiatura; la seconda: Le Avventure della Villeggiatura; la terza; Il Ritorno dalla Villeggiatura. Nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono. I personaggi principali di queste tre rappresentazioni, che sono sempre gli stessi, sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri. L'ambizione de' piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch'io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile. Queste tre Commedie, fortunate egualmente pel loro incontro, e per l'universale aggradimento del pubblico, sono state separatamente rappresentate con una distanza di qualche tempo dall'una all'altra, essendo con tal arte composte, che ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre insieme si uniscono perfettamente. Poteva io dunque per la stessa ragione separarle ne' Tomi della mia novella edizione, contentandomi di dare una Commedia inedita per ciascheduno, a tenore della promessa. Ma ho esaminato il fondo che ho ancora delle cose inedite: veggo che posso abbondare senza timor che mi manchino, ed ho piacere di dar unito un quadro, che piacerà davantaggio. Osserverà meglio così il Leggitore la continuazion de' caratteri sostenuti in tre
differenti azioni; e se una delle difficoltà del Dramma consiste nel sostenere i caratteri in un'opera sola, piacerà ancor più vederli in tre sostenuti.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Leonardo. Paolo che sta riponendo degli abiti e della biancheria in un baule, poi Leonardo. LEONARDO: Che fate qui in questa camera? Si han da far cento cose, e voi perdete il tempo, e non se ne eseguisce nessuna. (A Paolo.) PAOLO: Perdoni, signore. Io credo che allestire il baule sia una delle cose necessarie da farsi. LEONARDO: Ho bisogno di voi per qualche cosa di più importante. Il baule fatelo riempir dalle donne. PAOLO: Le donne stanno intorno della padrona; sono occupate per essa, e non vi è caso di poterle nemmen vedere. LEONARDO: Quest'è il diffetto di mia sorella. Non si contenta mai. Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei. Per andare in villeggiatura non le basta un mese per allestirsi. Due donne impiegate un mese per lei. È una cosa insoffribile. PAOLO: Aggiunga, che non bastandole le due donne, ne ha chiamate due altre ancora in aiuto. LEONARDO: E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa qualche nuovo vestito? PAOLO: Non, signore. Il vestito nuovo glielo fa il sarto. In casa da queste donne fa rinovare i vestiti usati. Si fa fare delle mantiglie, de' mantiglioni, delle cuffie da giorno, delle cuffie da notte, una quantità di forniture di pizzi, di nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per andare in campagna. In oggi la campagna è di maggior soggezione della città. LEONARDO: Sì, è pur troppo vero, chi vuol figurare nel mondo, convien
che faccia quello che fanno gli altri. La nostra villeggiatura di Montenero è una delle più frequentate, e di maggior impegno dell'altre. La compagnia, con cui si ha da andare, è di soggezione. Sono io pure in necessità di far di più di quello che far vorrei. Però ho bisogno di voi. Le ore ano, si ha da partir da Livorno innanzi sera, e vo' che tutto sia lesto, e non voglio, che manchi niente. PAOLO: Ella comandi, ed io farò tutto quello che potrò fare. LEONARDO: Prima di tutto, facciamo un poco di scandaglio di quel, che c'è, e di quello, che ci vorrebbe. Le posate ho timore che siano poche. PAOLO: Due dozzine dovrebbero essere sufficienti. LEONARDO: Per l'ordinario lo credo anch'io. Ma chi mi assicura, che non vengano delle truppe d'amici? In campagna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati. Le posate si mutano frequentemente, e due coltelliere non bastano. PAOLO: La prego perdonarmi, se parlo troppo liberamente. Vossignoria non è obbligata di fare tutto quello che fanno i marchesi fiorentini, che hanno feudi e tenute grandissime, e cariche, e dignità grandiose. LEONARDO: Io non ho bisogno che il mio cameriere mi venga a fare il pedante. PAOLO: Perdoni; non parlo più. LEONARDO: Nel caso, in cui sono, ho da eccedere le bisogna. Il mio casino di campagna è contiguo a quello del signor Filippo. Egli è avvezzo a trattarsi bene; è uomo splendido, generoso; le sue villeggiature sono magnifiche, ed io non ho da farmi scorgere, non ho da scomparire in faccia di lui. PAOLO: Faccia tutto quello che le detta la sua prudenza. LEONARDO: Andate da monsieur Gurland, e pregatelo per parte mia, che mi favorisca prestarmi due coltelliere, quattro sottocoppe, e sei candelieri d'argento. PAOLO: Sarà servita.
LEONARDO: Andate poscia dal mio droghiere, fatevi dare dieci libbre di caffè, cinquanta libbre di cioccolata, venti libbre di zucchero, e un sortimento di spezierie per cucina. PAOLO: Si ha da pagare? LEONARDO: No, ditegli, che lo pagherò al mio ritorno. PAOLO: Compatisca; mi disse l'altrieri, che sperava prima ch'ella andasse in campagna, che lo saldasse del conto vecchio. LEONARDO: Non serve. Ditegli, che lo pagherò al mio ritorno. PAOLO: Benissimo. LEONARDO: Fate, che vi sia il bisogno di carte da giuoco con quel che può occorrere per sei, o sette tavolini, e soprattutto che non manchino candele di cera. PAOLO: Anche la cereria di Pisa, prima di far conto nuovo, vorrebbe esser pagata del vecchio. LEONARDO: Comprate della cera di Venezia. Costa più, ma dura più, ed è più bella. PAOLO: Ho da prenderla coi contanti? LEONARDO: Fatevi dare il bisogno; si pagherà al mio ritorno. PAOLO: Signore, al suo ritorno ella avrà una folla di creditori, che l'inquieteranno. LEONARDO: Voi m'inquietate più di tutti. Sono dieci anni che siete meco, e ogni anno diventate più impertinente. Perderò la pazienza. PAOLO: Ella è padrona di mandarmi via; ma io, se parlo, parlo per l'amore che le professo. LEONARDO: Impiegate il vostro amore a servirmi, e non a seccarmi. Fate quel che vi ho detto, e mandatemi Cecco.
PAOLO: Sarà obbedita. (Oh! vuol ar poco tempo, che le grandezze di villa lo vogliono ridurre miserabile nella città). (Parte.)
SCENA SECONDA
Leonardo, poi Cecco. LEONARDO: Lo veggo anch'io, che faccio più di quello che posso fare; ma lo fanno gli altri, e non voglio esser di meno. Quell'avaraccio di mio zio potrebbe aiutarmi, e non vuole. Ma se i conti non fallano, ha da crepare prima di me, e se non vuol fare un'ingiustizia al suo sangue, ho da esser io l'erede delle sue facoltà. CECCO: Comandi. LEONARDO: Va' dal signor Filippo Ghiandinelli; se è in casa, fagli i miei complimenti, e digli che ho ordinato i cavalli di posta, e che verso le ventidue partiremo insieme. a poi all'appartamento della signora Giacinta di lui figliuola; dille, o falle dir dalla cameriera, che mando a riverirla, e ad intendere come ha riposato la scorsa notte, e che da qui a qualche ora sarò da lei. Osserva frattanto, se vi fosse per avventura il signor Guglielmo, e informati bene dalla gente di casa, se vi sia stato, se ha mandato, e se credono ch'ei possa andarvi. Fa bene tutto, e torna colla risposta. CECCO: Sarà obbedita. (Parte.)
SCENA TERZA
Leonardo, poi Vittoria. LEONARDO: Non posso soffrire che la signora Giacinta tratti Guglielmo. Ella dice che dee tollerarlo per compiacere il padre; che è un amico di casa, che non ha veruna inclinazione per lui; ma io non sono in obbligo di creder tutto, e questa pratica non mi piace. Sarà bene che io medesimo solleciti di terminare il baule. VITTORIA: Signor fratello, è egli vero che avete ordinato i cavalli di posta, e che si ha da partir questa sera? LEONARDO: Sì certo. Non si stabilì così fin da ieri? VITTORIA: Ieri vi ho detto che sperava di poter essere all'ordine per partire; ma ora vi dico che non lo sono, e mandate a sospendere l'ordinazion dei cavalli, perché assolutamente per oggi non si può partire. LEONARDO: E perché per oggi non si può partire? VITTORIA: Perché il sarto non mi ha terminato il mio mariage. LEONARDO: Che diavolo è questo mariage? VITTORIA: È un vestito all'ultima moda. LEONARDO: Se non è finito, ve lo potrà mandare in campagna. VITTORIA: No, certo. Voglio che me lo provi, e lo voglio veder finito. LEONARDO: Ma la partenza non si può differire. Siamo in concerto d'andar insieme col signor Filippo, e colla signora Giacinta, e si ha detto di partir oggi. VITTORIA: Tanto peggio. So che la signora Giacinta è di buon gusto, e non voglio venire col pericolo di scomparire in faccia di lei. LEONARDO: Degli abiti ne avete in abbondanza; potete comparire al par di
chi che sia. VITTORIA: Io non ho che delle anticaglie. LEONARDO: Non ve ne avete fatto uno nuovo anche l'anno ato? VITTORIA: Da un anno all'altro gli abiti non si possono più dire alla moda. È vero, che li ho fatti rifar quasi tutti; ma un vestito novo ci vuole, è necessario, e non si può far senza. LEONARDO: Quest'anno corre il mariage dunque. VITTORIA: Sì, certo. L'ha portato di Torino madama Granon. Finora in Livorno non credo che se ne siano veduti, e spero d'esser io delle prime. LEONARDO: Ma che abito è questo? Vi vuol tanto a farlo? VITTORIA: Vi vuol pochissimo. È un abito di seta di un color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori. Tutto consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uniscano bene, che risaltino, e non facciano confusione. LEONARDO: Orsù, non so che dire. Mi spiacerebbe di vedervi scontenta; ma in ogni modo s'ha da partire. VITTORIA: Io non vengo assolutamente. LEONARDO: Se non ci verrete voi, ci anderò io. VITTORIA: Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi in Livorno? LEONARDO: Verrò poi a pigliarvi. VITTORIA: No, non mi fido. Sa il Cielo, quando verrete, e se resto qui senza di voi, ho paura che quel tisico di nostro zio mi obblighi a restar in Livorno con lui; e se dovessi star qui, in tempo che l'altre vanno in villeggiatura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione. LEONARDO: Dunque risolvetevi di venire. VITTORIA: Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto, ed a terminare il mio mariage.
LEONARDO: Io non ho tempo da perdere. Ho da far cento cose. VITTORIA: Maledetta la mia disgrazia! LEONARDO: Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema. (Ironico.) VITTORIA: Sì, signore, la mancanza di un abito alla moda può far perder il credito a chi ha fama di essere di buon gusto. LEONARDO: Finalmente siete ancora fanciulla, e le fanciulle non s'hanno a mettere colle maritate. VITTORIA: Anche la signora Giacinta è fanciulla, e va con tutte le mode, con tutte le gale delle maritate. E in oggi non si distinguono le fanciulle dalle maritate, e una fanciulla che non faccia quello che fanno l'altre, suol are per zotica, per anticaglia; e mi maraviglio che voi abbiate di queste massime, e che mi vogliate avvilita e strapazzata a tal segno. LEONARDO: Tanto fracasso per un abito? VITTORIA: Piuttosto che restar qui, o venir fuori senza il mio abito, mi contenterei d'avere una malattia. LEONARDO: Il Cielo vi conceda la grazia. VITTORIA: Che mi venga una malattia? (Con isdegno.) LEONARDO: No, che abbiate l'abito, e che siate contenta.
SCENA QUARTA
Berto e detti. BERTO: Signore, il signor Ferdinando desidera riverirla. (A Leonardo.) LEONARDO: Venga, venga, è padrone. VITTORIA: Sentimi. Va immediatamente dal sarto, da monsieur de la Réjouissance, e digli che finisca subito il mio vestito, che lo voglio prima ch'io parta per la campagna, altrimenti me ne renderà conto, e non farà più il sarto in Livorno. BERTO: Sarà servita. (Parte.) LEONARDO: Via, acchetatevi, e non vi fate scorgere dal signor Ferdinando. VITTORIA: Che importa a me del signor Ferdinando? Io non mi prendo soggezione di lui. M'immagino che anche quest'anno verrà in campagna a piantare il bordone da noi. LEONARDO: Certo, mi ha dato speranza di venir con noi, e intende di farci una distinzione; ma siccome è uno di quelli che si cacciano da per tutto, e si fanno merito rapportando qua e là i fatti degli altri, convien guardarsene e non fargli sapere ogni cosa; perché se sapesse le vostre smanie per l'abito, sarebbe capace di porvi in ridicolo in tutte le compagnie, in tutte le conversazioni. VITTORIA: E perché dunque volete condur con noi questo canchero, se conoscete il di lui carattere? LEONARDO: Vedete bene: in campagna è necessario aver della compagnia. Tutti procurano d'aver più gente che possono; e poi si sente dire: il tale ha dieci persone, il tale ne ha sei, il tale otto, e chi ne ha più, è più stimato. Ferdinando poi è una persona che comoda infinitamente. Gioca a tutto, è sempre allegro, dice delle buffonerie, mangia bene, fa onore alla tavola, soffre la burla, e non se ne ha a male di niente.
VITTORIA: Sì, sì, è vero; in campagna questi caratteri sono necessari. Ma che fa, che non viene? LEONARDO: Eccolo lì, ch'esce dalla cucina. VITTORIA: Che cosa sarà andato a fare in cucina? LEONARDO: Curiosità. Vuol saper tutto. Vuol saper quel che si fa, quel che si mangia, e poi lo dice per tutto. VITTORIA: Manco male, che di noi non potrà raccontare miserie.
SCENA QUINTA
Ferdinando e detti. FERDINANDO: Padroni miei riveriti. Il mio rispetto alla signora Vittoria. VITTORIA: Serva, signor Ferdinando. LEONARDO: Siete, amico, siete dei nostri? FERDINANDO: Sì, sarò con voi. Mi sono liberato da quel seccatore del conte Anselmo, che mi voleva seco per forza. VITTORIA: Il conte Anselmo non fa una buona villeggiatura? FERDINANDO: Sì, si tratta bene, fa una buona tavola; ma da lui si fa una vita troppo metodica. Si va a cena a quattr'ore, e si va a letto alle cinque. VITTORIA: Oh! io non farei questa vita per tutto l'oro del mondo. Se vado a letto prima dell'alba, non è possibile ch'io prenda sonno. LEONARDO: Da noi sapete come si fa. Si gioca, si balla; non si va mai a cena prima delle otto; e poi col nostro carissimo faraoncino il più delle volte si vede il sole. VITTORIA: Questo si chiama vivere. FERDINANDO: E per questo ho preferito la vostra villeggiatura a quella del conte Anselmo. E poi quell'anticaglia di sua moglie è una cosa insoffribile. VITTORIA: Sì, sì, vuol fare ancora la giovinetta. FERDINANDO: L'anno ato, i primi giorni sono stato io il cavalier servente; poi è capitato un giovanetto di ventidue anni, e ha piantato me per attaccarsi a lui. VITTORIA: Oh! che ti venga il bene. Con un giovanetto di ventidue anni?
FERDINANDO: Sì, e mi piace di dire la verità; era un biondino, ben cincinato, bianco e rosso come una rosa. LEONARDO: Mi maraviglio di lui, che avesse tal sofferenza. FERDINANDO: Sapete, com'è? È uno di quelli che non hanno il modo, che si appoggiano qua e là, dove possono; e si attaccano ad alcuna di queste signore antichette, le quali pagano loro le poste, e danno loro qualche zecchino ancor per giocare. VITTORIA: (È una buona lingua per altro). FERDINANDO: A che ora si parte? VITTORIA: Non si sa ancora. L'ora non è stabilita. FERDINANDO: M'immagino che anderete in una carrozza da quattro posti. LEONARDO: Io ho ordinato un calesso per mia sorella e per me, ed un cavallo per il mio cameriere. FERDINANDO: Ed io come vengo? LEONARDO: Come volete. VITTORIA: Via, via. Il signor Ferdinando verrà con me, voi anderete nello sterzo col signor Filippo e la signora Giacinta. (A Leonardo.) (Farò meglio figura a andar in calesso con lui, che con mio fratello). LEONARDO: Ma siete poi risolta di voler partire? (A Vittoria.) FERDINANDO: Che? Ci ha qualche difficoltà? VITTORIA: Vi potrebbe essere una picciola difficoltà. FERDINANDO: Se non siete sicuri di partire, ditemelo liberamente. Se non vado con voi, andrò con qualchedun altro. Tutti vanno in campagna, e non voglio che dicano, ch'io resto a far la guardia a Livorno. VITTORIA: (Sarebbe anche per me una grandissima mortificazione).
SCENA SESTA
Cecco e detti. CECCO: Son qui, signore... (A Leonardo.) LEONARDO: Accostati. (A Cecco.) Con licenza. (A Ferdinando.) CECCO: (Il signor Filippo la riverisce, e dice che circa ai cavalli da posta, riposa sopra di lei. La signora Giacinta sta bene; lo sta attendendo, e lo prega sollecitare, perché di notte non ha piacer di viaggiare). LEONARDO: (E di Guglielmo mi sai dir niente?). CECCO: (Mi assicurano che questa mattina non si è veduto). LEONARDO: (Benissimo: son contento). Andrai ad avvisare il fattore della posta, che siano lesti i cavalli per ventun'ora. VITTORIA: Ma se quell'affare non fosse in ordine?... LEONARDO: Ci sia, o non ci sia. Venite, o non venite, io vo' partire alle ventun'ora... FERDINANDO: Ed io per le ventuna sarò qui preparato. VITTORIA: Vorrei vedere ancor questa... LEONARDO: Sono in impegno, e per una scioccheria voi non mi farete mancare. Se vi fossero delle buone ragioni, pazienza; ma per uno straccio d'abito non si ha da restare. (A Vittoria, e parte.)
SCENA SETTIMA
Vittoria, Ferdinando e Cecco. VITTORIA: (Povera me, in che condizione miserabile che mi trovo! Non son padrona di me; ho da dipendere dal fratello. Non veggo l'ora di maritarmi; niente per altro, che per poter fare a mio modo). FERDINANDO: Ditemi in confidenza, signora, se si può dire: che cosa vi mette in dubbio di partire o di non partire? VITTORIA: Cecco. CECCO: Signora. VITTORIA: Sei tu stato dalla signora Giacinta? CECCO: Sì, signora. VITTORIA: L'hai veduta? CECCO: L'ho veduta. VITTORIA: E che cosa faceva? CECCO: Si provava un abito. VITTORIA: Un abito nuovo? CECCO: Novissimo. VITTORIA: (Oh maledizione! Se non ho il mio, non parto assolutamente). FERDINANDO: (E che sì, ch'ella pure vorrebbe un vestito nuovo, e non ha denari per farselo? Già tutti lo dicono: fratello e sorella sono due pazzi. Spendono più di quello che possono, e consumano in un mese a Montenero quello che basterebbe loro un anno in Livorno).
VITTORIA: Cecco. CECCO: Signora. VITTORIA: E com'è quest'abito della signora Giacinta? CECCO: Per dir la verità, non ci ho molto badato, ma credo sia un vestito da sposa. VITTORIA: Da sposa? Hai tu sentito dire, che si faccia la sposa? CECCO: Non l'ho sentito dire precisamente. Ma ho inteso una parola se, che ha detto il sarto, che mi par di capirla. VITTORIA: Intendo anch'io il se. Che cosa ha detto? CECCO: Ha detto mariage. VITTORIA: (Ah! sì, ora ho capito; si fa ella pure il mariage: mi pareva impossibile che non lo fe). Dov'è Berto? Guarda, se trovi Berto. Se non c'è, corri dal mio sartore, digli che assolutamente, in termine di tre ore, vo' che mi porti il mio mariage. CECCO: Mariage non vuol dir matrimonio? VITTORIA: Il diavolo, che ti porti. Va subito, corri. Fa quel che ti dico, e non replicare. CECCO: Sì, signora, subito corro. (Parte.)
SCENA OTTAVA
Vittoria e Ferdinando. FERDINANDO: Signora, dite la verità, sareste in dubbio di partire per la mancanza dell'abito? VITTORIA: E bene? Mi dareste il torto per questo? FERDINANDO: No, avete tutte le ragioni del mondo: è una cosa necessarissima. Lo fanno tutte, lo fanno quelle che non lo potrebbono fare. Conoscete la signora Aspasia? VITTORIA: La conosco. FERDINANDO: Se n'è fatto uno ella pure, e ha preso il drappo in credenza per pagarlo uno scudo al mese. E la signora Costanza? La signora Costanza, per farsi l'abito nuovo, ha venduto due paia di lenzuola ed una tovaglia di Fiandra e ventiquattro salviette. VITTORIA: E per qual impegno, per qual premura hanno fatto questo? FERDINANDO: Per andare in campagna. VITTORIA: Non so che dire, la campagna è una gran ione, le compatisco; se fossi nel caso loro, non so anch'io che cosa farei. In città non mi curo di far gran cose; ma in villa ho sempre paura di non comparire bastantemente... Fatemi un piacere, signor Ferdinando, venite con me. FERDINANDO: Dove abbiamo d'andare? VITTORIA: Dal sarto, a gridare, a strapazzarlo ben bene. FERDINANDO: No, volete ch'io v'insegni a farlo sollecitare? VITTORIA: E come direste voi che io fi? FERDINANDO: Perdonate: lo pagate subito?
VITTORIA: Lo pagherò al mio ritorno. FERDINANDO: Pagatelo presto, e sarete servita presto. VITTORIA: Lo pago quando voglio, e vo' che mi serva quando mi pare. (Parte.) FERDINANDO: Bravissima, bel costume! Far figura in campagna, e farsi maltrattare in città. (Parte.)
SCENA NONA
Camera in casa di Filippo. Filippo e Guglielmo incontrandosi. FILIPPO: Oh, signor Guglielmo, che grazie, che finezze son queste? GUGLIELMO: Il mio debito, signor Filippo; il mio debito, e niente più. So che oggi ella va in campagna, e sono venuto ad augurarle buon viaggio e buona villeggiatura. FILIPPO: Caro amico, sono obbligato all'amor vostro, alla vostra attenzione; oggi finalmente si anderà in campagna. In quanto a me ci sarei che sarebbe un mese, e ai miei tempi, quando era giovane, si anticipavano le villeggiature, e si anticipava il ritorno. Fatto il vino, si ritornava in città; ma allora si andava per fare il vino, ora si va per divertimento, e si sta in campagna col freddo, e si vedono seccar le foglie sugli alberi. GUGLIELMO: Ma non siete voi il padrone? Perché non andate quando vi pare, e non tornate quando vi comoda? FILIPPO: Sì, dite bene, lo potrei fare; ma sono stato sempre di buon umore; mi ha sempre piacciuto la compagnia, e nell'età in cui sono, mi piace vivere, mi piace ancora godere un poco di mondo. Se dico d'andar in villa il settembre, non c'è un can che mi seguiti, nessuno vuol venire con me a sagrificarsi. Anche mia figlia alza il grugno, e non ho altri al mondo che la mia Giacinta, e desidero soddisfarla. Si va, quando vanno gli altri, ed io mi lascio regolar dagli altri. GUGLIELMO: Veramente quello che si fa dalla maggior parte, si dee credere, che sia sempre il meglio. FILIPPO: Non sempre, non sempre, ci sarebbe molto che dire. Voi dove fate quest'anno la vostra villeggiatura? GUGLIELMO: Non so; non ho ancora fissato. (Ah! se potessi andare con lui; se potessi villeggiare coll'amabile sua figliuola!)
FILIPPO: Vostro padre era solito villeggiare sulle colline di Pisa. GUGLIELMO: È verissimo. Colà sono situati i nostri poderi, e vi è un'abitazione abile. Ma io son solo, e dirò, come dite voi: star solo in campagna è un morir di malinconia. FILIPPO: Volete venir con noi? GUGLIELMO: Oh! signor Filippo, io non ho alcun merito, né oserei di dare a voi quest'incomodo. FILIPPO: Io non son uomo di ceremonie. Posso adattarmi allo stile moderno in tutt'altro, fuor che nell'uso de' complimenti. Se volete venire, vi esibisco un buon letto, una mediocre tavola, ed un cuore sempre aperto agli amici, e sempre eguale con tutti. GUGLIELMO: Non so che dire. Siete così obbligante, ch'io non posso ricusare le grazie vostre. FILIPPO: Così va fatto. Venite, e stateci fin che vi pare; non pregiudicate i vostri interessi, e stateci fin che vi pare. GUGLIELMO: A che ora destinate voi di partire? FILIPPO: Non lo so; intendetevi col signor Leonardo. GUGLIELMO: Viene con voi il signor Leonardo? FILIPPO: Sì, certo, abbiamo destinato d'andare insieme con lui e con sua sorella. Le nostre case di villa sono vicine, siamo amici, e anderemo insieme. GUGLIELMO: (Questa compagnia mi dispiace. Ma né anche per ciò voglio perdere l'occasione favorevole di essere in compagnia di Giacinta). FILIPPO: Ci avete delle difficoltà? GUGLIELMO: Non, signore. Pensava ora, se dovea prendere un calesso, o, essendo solo, un cavallo da sella. FILIPPO: Facciamo così. Noi siamo in tre, ed abbiamo un legno da quattro,
venite dunque con noi. GUGLIELMO: Chi è il quarto, se è lecito? FILIPPO: Una mia cognata vedova, che viene con noi per custodia di mia figliuola; non già ch'ella abbia bisogno di essere custodita, ché ha giudizio da sé, ma per il mondo, non avendo madre, è necessario che vi sia una donna attempata. GUGLIELMO: Va benissimo. (Procurerò ben io di cattivarmi l'animo della vecchia). FILIPPO: E così? Vi comoda di venir con noi? GUGLIELMO: Anzi è la maggiore finezza che io possa ricevere. FILIPPO: Andate dunque dal signor Leonardo, e ditegli che non s'impegni con altri per il posto, che è destinato per voi. GUGLIELMO: Non potreste farmi voi il piacere di mandar qualcheduno? FILIPPO: I miei servitori sono tutti occupati. Scusatemi, non mi pare di darvi sì grande incomodo. GUGLIELMO: Non dico diversamente. Aveva un certo picciolo affare. Basta non occorr'altro. Anderò io ad avvisarlo. (Dica Leonardo quel che sa dire, prenda la cosa come gli pare, ci penso poco, e non ho soggezione di lui). Signor Filippo, a buon rivederci. FILIPPO: Non vi fate aspettare. GUGLIELMO: Sarò sollecito. Ho degli stimoli, che mi faranno sollecitare. (Parte.)
SCENA DECIMA
Filippo, poi Giacinta e Brigida. FILIPPO: Or, che ci penso. Non vorrei che mi criticassero, invitando un giovane a venir con noi, avendo una figliuola da maritare. Ma, diacine, è una cosa che in oggi si accostuma da tanti, perché hanno da criticare me solo? Potrebbono anche dire del signor Leonardo, che viene con noi, e di me, che vado con sua sorella, che sono vecchio, è vero, ma non sono poi sì vecchio, che non potessero sospettare. Eh! al giorno d'oggi non vi è malizia. Pare che l'innocenza della campagna si comunichi ai cittadini. Non si usa in villa quel rigore che si pratica nelle città; e poi in casa mia so quanto mi posso compromettere: mia figlia è savia, è bene educata. Eccola, che tu sia benedetta! GIACINTA: Signor padre, mi favorisca altri sei zecchini. FILIPPO: E per che fare, figliuola mia? GIACINTA: Per pagare la sopravveste di seta da portar per viaggio per ripararsi dalla polvere. FILIPPO: (Poh! non si finisce mai). Ed è necessario, che sia di seta? GIACINTA: Necessarissimo. Sarebbe una villania portare la polverina di tela; vuol essere di seta, e col capuccietto. FILIPPO: Ed a che fine il capuccietto? GIACINTA: Per la notte, per l'aria, per l'umido, per quando è freddo. FILIPPO: Ma non si usano i cappellini? I cappellini non riparano meglio? GIACINTA: Oh, i cappellini! BRIGIDA: Oh, oh, oh, i cappellini! GIACINTA: Che ne dici, eh, Brigida? I cappellini!
BRIGIDA: Fa morir di ridere il signor padrone. I cappellini! FILIPPO: Che! ho detto qualche sproposito? Qualche bestialità? A che far tante maraviglie? Non si usavano forse i cappellini? GIACINTA: Goffaggini, goffaggini. BRIGIDA: Anticaglie, anticaglie. FILIPPO: Ma quanto sarà, che non si usano più i cappellini? GIACINTA: Oh! due anni almeno. FILIPPO: E in due anni sono venuti anticaglie? BRIGIDA: Ma non sapete, signore, che quello che si usa un anno, non si usa l'altro? FILIPPO: Sì, è vero. Ho veduto in pochissimi anni cuffie, cuffiotti, cappellini, cappelloni; ora corrono i cappuccietti; m'aspetto, che l'anno venturo vi mettiate in testa una scarpa. GIACINTA: Ma voi che vi maravigliate tanto delle donne, ditemi un poco, gli uomini non fanno peggio di noi? Una volta, quando viaggiavano per la campagna, si mettevano il loro buon giubbone di panno, le gambiere di lana, le scarpe grosse: ora portano anch'eglino la polverina, gli scappinetti colle fibbie di brilli, e montano in calesso colle calzoline di seta. BRIGIDA: E non usano più il bastone. GIACINTA: Ed usano il palossetto ritorto. BRIGIDA: E portano l'ombrellino per ripararsi dal sole. GIACINTA: E poi dicono di noi. BRIGIDA: Se fanno peggio di noi. FILIPPO: Io non so niente di tutto questo. So che come s'andava cinquant'anni sono, vado ancora presentemente.
GIACINTA: Questi sono discorsi inutili. Favoritemi sei zecchini. FILIPPO: Sì, veniamo alla conclusione; lo spendere è sempre stato alla moda. GIACINTA: Mi pare di essere delle più discrete. BRIGIDA: Oh! signore, non sapete niente. Date un'occhiata in villa a quel che fanno le altre, e me la saprete poi raccontare. FILIPPO: Sicché dunque devo ringraziare la mia figliuola, che mi fa la finezza di farmi risparmiare moltissimo. BRIGIDA: Vi assicuro che una fanciulla più economa non si dà. GIACINTA: Mi contento del puro puro bisognevole, e niente più. FILIPPO: Figliuola mia, sia bisognevole, o non sia bisognevole, sapete ch'io desidero soddisfarvi, e i sei zecchini venite a prenderli nella mia camera, che ci saranno. Ma circa all'economia, studiatela un poco più, perché, se vi maritate, sarà difficile che troviate un marito del carattere di vostro padre. GIACINTA: A che ora si parte? FILIPPO: (A proposito). Io penso verso le ventidue. GIACINTA: Oh! credo che si partirà prima. E chi viene in carrozza con noi? FILIPPO: Ci verrò io, ci verrà vostra zia, e per quarto un galantuomo, un mio amico che conoscete anche voi. GIACINTA: Qualche vecchio forse? FILIPPO: Vi dispiacerebbe che fosse un vecchio? GIACINTA: Oh! non, signore. Non ci penso, basta che non sia una marmotta. Se è anche vecchio, quando sia di buon umore, son contentissima. FILIPPO: È un giovane. BRIGIDA: Tanto meglio.
FILIPPO: Perché tanto meglio? BRIGIDA: Perché la gioventù naturalmente è più vivace, è più spiritosa. Starete allegri; non dormirete per viaggio. GIACINTA: E chi è questo signore? FILIPPO: È il signor Guglielmo. GIACINTA: Sì, sì, è un giovane di talento. FILIPPO: Il signor Leonardo, mi figuro, andrà in calesso con sua sorella. GIACINTA: Probabilmente. BRIGIDA: Ed io, signore, con chi anderò? FILIPPO: Tu andrai, come sei solita andare; per mare, in una feluca, colla mia gente e con quella del signor Leonardo. BRIGIDA: Ma, signore, il mare mi fa sempre male, e l'anno ato ho corso pericolo d'annegarmi, e quest'anno non ci vorrei andare. FILIPPO: Vuoi, ch'io ti prenda un calesso apposta? BRIGIDA: Compatitemi, con chi va il cameriere del signor Leonardo? GIACINTA: Appunto: il suo cameriere lo suol condurre per terra. Povera Brigida, lasciate che ella vada con esso lui. FILIPPO: Col cameriere? GIACINTA: Sì, cosa avete paura? Ci siamo noi; e poi sapete che Brigida è una buona fanciulla. BRIGIDA: In quanto a me, vi protesto, monto in sedia, mi metto a dormire, e non lo guardo in faccia nemmeno GIACINTA: È giusto ch'io abbia meco la mia cameriera. BRIGIDA: Tutte le signore la conducono presso di loro.
GIACINTA: Per viaggio mi possono abbisognar cento cose. BRIGIDA: Almeno son lì pronta per assistere, per servir la padrona. GIACINTA: Caro signor padre. BRIGIDA: Caro signor padrone. FILIPPO: Non so che dire; non so dir di no, non son capace di dir di no, e non dirò mai di no. (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Giacinta e Brigida. GIACINTA: Sei contenta? BRIGIDA: Brava la mia padrona. GIACINTA: Oh! io poi ho questo di buono; faccio far alla gente tutto quello che io voglio. BRIGIDA: Ma, come andrà la faccenda col signor Leonardo? GIACINTA: Su che proposito? BRIGIDA: Sul proposito del signor Guglielmo; sapete quanto è geloso; e se lo vede in carrozza con voi... GIACINTA: Converrà che lo soffra. BRIGIDA: Io ho paura che si disgusterà. GIACINTA: Con chi? BRIGIDA: Con voi. GIACINTA: Eh! per appunto. Gliene ho fatte soffrir di peggio. BRIGIDA: Compatitemi, signora padrona, il poverino vi vuol troppo bene. GIACINTA: Ed io non gli voglio male. BRIGIDA: Ei si lusinga, che siate un giorno la di lui sposa. GIACINTA: E può anche essere che ciò succeda. BRIGIDA: Ma se avesse questa buona intenzione, procurate un poco più di renderlo soddisfatto.
GIACINTA: Anzi per lo contrario, prevedendo ch'ei possa un giorno essere mio marito, vo' avvezzarlo per tempo a non esser geloso, a non esser sofistico, a non privarmi dell'onesta mia libertà. Se principia ora a pretendere, a comandare, se gli riesce ora d'avvilirmi, di mettermi in soggezione, è finita: sarò schiava perpetuamente. O mi vuol bene, o non mi vuol bene. Se mi vuol bene, s'ha da fidare, se non mi vuol bene, che se ne vada. BRIGIDA: Dice per altro il proverbio: chi ama, teme; e se dubita, dubiterà per amore. GIACINTA: Questo è un amore che non mi comoda. BRIGIDA: Diciamola fra di noi; voi l'amate pochissimo il signor Leonardo. GIACINTA: Io non so quanto l'ami; ma so che l'amo più di quello ch'io abbia amato nessuno; e non avrei difficoltà a sposarlo, ma non a costo di essere tormentata. BRIGIDA: Compatitemi, questo non è vero amore. GIACINTA: Non so che fare. Io non ne conosco di meglio. BRIGIDA: Mi pare di sentir gente. GIACINTA: Va a vedere chi è. BRIGIDA: Oh! appunto è il signor Leonardo. GIACINTA: Che vuol dir che non viene innanzi? BRIGIDA: E che sì, che ha saputo del signor Guglielmo? GIACINTA: O prima, o dopo, l'ha da sapere. BRIGIDA: Non viene. C'è del male. Volete, che io vada a vedere? GIACINTA: Sì, va a vedere, fallo venire innanzi. BRIGIDA: (Capperi, non mi preme per lui, mi preme per il cameriere). (Parte.)
SCENA DODICESIMA
Giacinta e Leonardo. GIACINTA: Sì, lo amo, lo stimo, lo desidero, ma non posso soffrire la gelosia. LEONARDO: Servitor suo, signora Giacinta. (Sostenuto.) GIACINTA: Padrone, signor Leonardo. (Sostenuta.) LEONARDO: Scusi se son venuto ad incomodarla. GIACINTA: Fa grazia, signor ceremoniere, fa grazia. (Con ironia.) LEONARDO: Sono venuto ad augurarle buon viaggio. GIACINTA: Per dove? LEONARDO: Per la campagna. GIACINTA: E ella non favorisce? LEONARDO: Non signora. GIACINTA: Perché, se è lecito? LEONARDO: Perché non le vorrei essere di disturbo. GIACINTA: Ella non incomoda mai; favorisce sempre. È così grazioso, che favorisce sempre. (Con ironia.) LEONARDO: Non sono io il grazioso. Il grazioso lo averà seco lei nella sua carrozza. GIACINTA: Io non dispongo, signore. Mio padre è il padrone, ed è padrone di far venire chi vuole.
LEONARDO: Ma la figliuola si accomoda volentieri. GIACINTA: Se volentieri, o malvolentieri, voi non avete da far l'astrologo. LEONARDO: Alle corte, signora Giacinta. Quella compagnia non mi piace. GIACINTA: È inutile che a me lo diciate. LEONARDO: E a chi lo devo dire? GIACINTA: A mio padre. LEONARDO: Con lui non ho libertà di spiegarmi. GIACINTA: Né io ho l'autorità di farlo fare a mio modo. LEONARDO: Ma se vi premesse la mia amicizia, trovereste la via di non disgustarmi. GIACINTA: Come? Suggeritemi voi la maniera. LEONARDO: Oh! non mancano pretesti, quando si vuole. GIACINTA: Per esempio? LEONARDO: Per esempio si fa nascere una novità, che differisca l'andata, e si acquista tempo; e quando preme, si tralascia d'andare, piuttosto che disgustare una persona per cui si ha qualche stima. GIACINTA: Sì, per farsi ridicoli, questa è la vera strada. LEONARDO: Eh! dite che non vi curate di me. GIACINTA: Ho della stima, ho dell'amore per voi; ma non voglio per causa vostra fare una trista figura in faccia del mondo. LEONARDO: Sarebbe un gran male, che non andaste un anno in villeggiatura? GIACINTA: Un anno senza andare in villeggiatura! Che direbbero di me a Montenero? Che direbbero di me a Livorno? Non avrei più ardire di mirar in
faccia nessuno. LEONARDO: Quand'è così, non occorr'altro. Vada, si diverta, e buon pro le faccia. GIACINTA: Ma ci verrete anche voi. LEONARDO: Non signora, non ci verrò. GIACINTA: Eh! sì, che verrete. (Amorosamente.) LEONARDO: Con colui non ci voglio andare. GIACINTA: E che cosa vi ha fatto colui? LEONARDO: Non lo posso vedere. GIACINTA: Dunque l'odio, che avete per lui, è più grande dell'amore che avete per me. LEONARDO: Io l'odio appunto per causa vostra. GIACINTA: Ma per qual motivo? LEONARDO: Perché, perché*... non mi fate parlare. GIACINTA: Perché ne siete geloso? LEONARDO: Sì, perché ne sono geloso. GIACINTA: Qui vi voleva. La gelosia che avete di lui, è un'offesa, che fate a me, e non potete essere di lui geloso, senza credere me una frasca, una civetta, una banderuola. Chi ha della stima per una persona, non può nutrire tai sentimenti, e dove non vi è stima, non vi può essere amore; e se non mi amate, lasciatemi, e se non sapete amare, imparate. Io vi amo, e son fedele, e son sincera, e so il mio dovere, e non vo' gelosie, e non voglio dispetti, e non voglio farmi ridicola per nessuno, e in villa ci ho d'andare, ci devo andare, e ci voglio andare. (Parte.) LEONARDO: Va, che il diavolo ti strascini. Ma no; può essere che tu non ci vada. Farò tanto forse, che non ci anderai. Maladetto sia il villeggiare. In villa ha
fatto quest'amicizia. In villa ha conosciuto costui. Si sagrifichi tutto: dica il mondo quel che sa dire; dica mia sorella quel che vuol dire. Non si villeggia più, non si va più in campagna. (Parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera di Leonardo. Vittoria e Paolo. VITTORIA: Via, via, non istate più a taroccare. Lasciate, che le donne finiscano di fare quel che hanno da fare, e piuttosto v'aiuterò a terminare il baule per mio fratello. PAOLO: Non so, che dire. Siamo tanti in casa, e pare ch'io solo abbia da fare ogni cosa. VITTORIA: Presto, presto. Facciamo, che quando torna il signor Leonardo, trovi tutte le cose fatte. Ora son contentissima, a mezzogiorno avrò in casa il mio abito nuovo. PAOLO: Gliel'ha poi finito il sarto? VITTORIA: Sì, l'ha finito; ma da colui non mi servo più. PAOLO: E perché, signora? Lo ha fatto male? VITTORIA: No, per dir la verità, è riuscito bellissimo. Mi sta bene, è un abito di buon gusto, che forse forse farà la prima figura, e farà crepar qualcheduno d'invidia. PAOLO: E perché dunque è sdegnata col sarto? VITTORIA: Perché mi ha fatto un'impertinenza. Ha voluto i danari subito per la stoffa e per la fattura. PAOLO: Perdoni, non mi par che abbia gran torto. Mi ha detto più volte che ha un conto lungo, e che voleva esser saldato. VITTORIA: E bene, doveva aggiungere alla lunga polizza anche questo conto, e sarebbe stato pagato di tutto.
PAOLO: E quando sarebbe stato pagato? VITTORIA: Al ritorno della villeggiatura. PAOLO: Crede ella di ritornar di campagna con dei quattrini? VITTORIA: È facilissimo. In campagna si gioca. Io sono piuttosto fortunata nel gioco, e probabilmente l'avrei pagato senza sagrificare quel poco che mio fratello mi a per il mio vestito. PAOLO: A buon conto quest'abito è pagato, e non ci ha più da pensare. VITTORIA: Sì, ma sono restata senza quattrini. PAOLO: Che importa? Ella non ne ha per ora da spendere. VITTORIA: E come ho da far a giocare? PAOLO: Ai giochetti si può perder poco. VITTORIA: Oh! io non gioco a giochetti. Non ci ho piacere, non vo applicare. In città gioco qualche volta per compiacenza; ma in campagna il mio divertimento, la mia ione, è il faraone. PAOLO: Per quest'anno le converrà aver pazienza. VITTORIA: Oh, questo poi, no. Vo' giocare, perché mi piace giocare. Vo' giocare, perché ho bisogno di vincere, ed è necessario che io giochi, per non far dire di me la conversazione. In ogni caso io mi fido, io mi comprometto di voi. PAOLO: Di me? VITTORIA: Sì, di voi. Sarebbe gran cosa, che mi anticipaste qualche danaro, a conto del mio vestiario dell'anno venturo? PAOLO: Perdoni. Mi pare che ella lo abbia intaccato della metà almeno. VITTORIA: Che importa? Quando l'ho avuto, l'ho avuto. Io non credo, che vi farete pregare per questo. PAOLO: Per me la servirei volentieri, ma non ne ho. È vero che quantunque
io non abbia che il titolo, ed il salario di cameriere, ho l'onor di servire il padrone da fattore e da mastro di casa. Ma la cassa ch'io tengo è così ristretta, che non arrivo mai a poter pagare quello che alla giornata si spende; e per dirle la verità, sono indietro anch'io di sei mesi del mio onorario. VITTORIA: Lo dirò a mio fratello, e mi darà egli il bisogno. PAOLO: Signora, si accerti che ora è più che mai in ristrettezze grandissime, e non si lusinghi, perché non le può dar niente. VITTORIA: Ci sarà del grano in campagna. PAOLO: Non ci sarà nemmeno il bisogno per fare il pane che occorre. VITTORIA: L'uva non sarà venduta. PAOLO: È venduta anche l'uva. VITTORIA: Anche l'uva? PAOLO: E se andiamo di questo o, signora... VITTORIA: Non sarà così di mio zio. PAOLO: Oh! quello ha il grano, il vino e i danari. VITTORIA: E non possiamo noi prevalerci di qualche cosa? PAOLO: Non signora. Hanno fatto le divisioni. Ciascheduno conosce il suo. Sono separate le fattorie. Non vi è niente da sperare da quella parte. VITTORIA: Mio fratello dunque va in precipizio. PAOLO: Se non ci rimedia. VITTORIA: E come avrebbe da rimediarci? PAOLO: Regolar le spese. Cambiar sistema di vivere. Abbandonar soprattutto la villeggiatura. VITTORIA: Abbandonar la villeggiatura? Si vede bene che siete un uomo da
niente. Ristringa le spese in casa. Scemi la tavola in città, minori la servitù; le dia meno salario. Si vesta con meno sfarzo, risparmi quel che getta in Livorno. Ma la villeggiatura si deve fare, e ha da essere da par nostro, grandiosa secondo il solito, e colla solita proprietà. PAOLO: Crede ella, che possa durar lungo tempo? VITTORIA: Che duri fin che io ci sono. La mia dote è in deposito, e spero che non tarderò a maritarmi. PAOLO: E intanto?... VITTORIA: E intanto terminiamo il baule. PAOLO: Ecco il padrone. VITTORIA: Non gli diciamo niente per ora. Non lo mettiamo in melanconia. Ho piacere che sia di buon animo, che si parta con allegria. Terminiamo di empir il baule. (Si affrettano tutti e due a riporre il baule.)
SCENA SECONDA
Leonardo e detti. LEONARDO: (Ah! vorrei nascondere la mia ione, ma non so se sarà possibile. Sono troppo fuor di me stesso). VITTORIA: Eccoci qui, signor fratello, eccoci qui a lavorare per voi. LEONARDO: Non vi affrettate. Può essere che la partenza si differisca. VITTORIA: No, no, sollecitatela pure. Io sono in ordine, il mio mariage è finito. Son contentissima, non vedo l'ora d'andarmene. LEONARDO: Ed io, sul supposto di far a voi un piacere, ho cambiato disposizione, e per oggi non si partirà. VITTORIA: E ci vuol tanto a rimettere le cose in ordine per partire? LEONARDO: Per oggi, vi dico, non è possibile. VITTORIA: Via, per oggi pazienza. Si partirà domattina pel fresco; non è così? LEONARDO: Non lo so. Non ne son sicuro. VITTORIA: Ma voi mi volete far dare alla disperazione. LEONARDO: Disperatevi quanto volete, non so che farvi. VITTORIA: Bisogna dire che vi siano de' gran motivi. LEONARDO: Qualche cosa di più della mancanza d'un abito. VITTORIA: E la signora Giacinta va questa sera? LEONARDO: Può essere ch'ella pure non vada.
VITTORIA: Ecco la gran ragione. Eccolo il gran motivo. Perché non parte la bella, non vorrà partire l'amante. Io non ho che fare con lei, e si può partire senza di lei. LEONARDO: Partirete, quando a me parerà di partire. VITTORIA: Questo è un torto, questa è un'ingiustizia, che voi mi fate. Io non ho da restar in Livorno, quando tutti vanno in campagna, e la signora Giacinta mi sentirà se resterò a Livorno per lei. LEONARDO: Questo non è ragionare da fanciulla propria, e civile, come voi siete. E voi che fate colà ritto, ritto, come una statua? (A Paolo.) PAOLO: Aspetto gli ordini. Sto a veder, sto a sentire. Non so, s'io abbia a seguitar a fare, o a principiar a disfare. VITTORIA: Seguitate a fare. LEONARDO: Principiate a disfare. PAOLO: Fare e disfare è tutto lavorare. (Levando dal baule.) VITTORIA: Io butterei volentieri ogni cosa dalla finestra. LEONARDO: Principiate a buttarvi il vostro mariage. VITTORIA: Sì, se non vado in campagna, lo straccio in centomila pezzi. LEONARDO: Che cosa c'è in questa cassa? (A Paolo.) PAOLO: Il caffè, la cioccolata, lo zucchero, la cera e le spezierie. LEONARDO: M'immagino che niente di ciò sarà stato pagato. PAOLO: Con che vuol ella ch'io abbia pagato? So bene che per aver questa roba a credito, ho dovuto sudare; e i bottegai mi hanno maltrattato, come se io l'avessi rubata. LEONARDO: Riportate ogni cosa a chi ve l'ha data, e fate che depennino la partita.
PAOLO: Sì, signore. Ehi! chi è di là? Aiutatemi. (Vien servito.) VITTORIA: (Oh, povera me! La villeggiatura è finita). PAOLO: Bravo, signor padrone: così va bene. Far manco debiti che si può. LEONARDO: Il malan che vi colga. Non mi fate il dottore, che perderò la pazienza. PAOLO: (Andiamo, andiamo, prima che si penta. Si vede, che non lo fa per economia, lo fa per qualche altro diavolo che ha per il capo). (Porta via la cassetta, e parte.)
SCENA TERZA
Vittoria e Leonardo. VITTORIA: Ma si può sapere il motivo di questa vostra disperazione? LEONARDO: Non lo so nemmen io. VITTORIA: Avete gridato colla signora Giacinta? LEONARDO: Giacinta è indegna dell'amor mio, è indegna dell'amicizia della mia casa, e ve lo dico, e ve lo comando, non vo' che la pratichiate. VITTORIA: Eh! già, quando penso una cosa, non fallo mai. L'ho detto, e così è. Non si va più in campagna per ragione di quella sguaiata, ed ella ci anderà, ed io non ci potrò andare. E si burleranno di me. LEONARDO: Eh! corpo del diavolo, non ci anderà nemmen ella. Farò tanto che non ci anderà. VITTORIA: Se non ci andasse Giacinta, mi pare che mi spiacerebbe meno di non andar io. Ma ella sì, ed io no? Ella a far la graziosa in villa, ed io restar in città? Sarebbe una cosa, sarebbe una cosa da dar la testa nelle muraglie. LEONARDO: Vedrete, che ella non anderà. Per conto mio, ho levato l'ordine de' cavalli. VITTORIA: Oh sì, peneranno assai a mandar eglino alla posta! LEONARDO: Eh! ho fatto qualche cosa di più. Ho fatto dir delle cose al signor Filippo, che se non è stolido, se non è un uomo di stucco, non condurrà per ora la sua figliuola in campagna. VITTORIA: Ci ho gusto. Anch'ella sfoggierà il suo grand'abito in Livorno. La vedrò a eggiar sulle mura. Se l'incontro, le vo' dar la baia a dovere. LEONARDO: Io non voglio che le parliate.
VITTORIA: Non le parlerò, non le parlerò. So corbellare senza parlare.
SCENA QUARTA
Ferdinando, da viaggio, e detti. FERDINANDO: Eccomi qui, eccomi lesto, eccomi preparato pel viaggio. VITTORIA: Oh! sì, avete fatto bene ad anticipare. LEONARDO: Caro amico, mi dispiace infinitamente, ma sappiate che per un mio premuroso affare, per oggi non parto più. FERDINANDO: Oh, cospetto di bacco! Quando partirete? Domani? LEONARDO: Non so, può essere che differisca, per qualche giorno, e può anche essere, che per quest'anno i miei interessi m'impediscano di villeggiare. FERDINANDO: (Povero diavolo! Sarà per mancanza di calor naturale). VITTORIA: (Quando ci penso, per altro, mi vengono i sudori freddi). LEONARDO: Voi potrete andare col conte Anselmo. FERDINANDO: Eh! a me non mancano villeggiature. Il conte Anselmo l'ho licenziato; fo il mio conto, che andrò col signor Filippo, e colla signora Giacinta. VITTORIA: Oh! la signora Giacinta per quest'anno potrebbe anch'ella morir colla voglia in corpo. FERDINANDO: Io vengo di là in questo punto, e ho veduto che sono in ordine per partire, ed ho sentito che hanno mandato a ordinare i cavalli per ventun'ora. VITTORIA: Sente, signor Leonardo? LEONARDO: (Il signor Fulgenzio non avrà ancora parlato al signor Filippo). FERDINANDO: Eh, in quella casa non tremano. Il signor Filippo si tratta da
gran signore, e non ha impicci in Livorno, che gl'impediscano la sua magnifica villeggiatura. VITTORIA: Sente, signor Leonardo? LEONARDO: Sento, sento, ed ho sentito, ed ho sofferto abbastanza. Mi è noto il vostro stile satirico. In casa mia, in città e fuori, siete stato più volte, e non siete morto di fame; e se non vado in villa, ho i miei motivi per non andarvi, e non ho da render conto di me a nessuno. Andate da chi vi pare, e non vi prendete più l'incomodo di venir da me. (Scrocchi insolenti, mormoratori indiscreti!). (Parte.)
SCENA QUINTA
Vittoria e Ferdinando. FERDINANDO: È impazzito vostro fatello? Che cosa ha egli con me? Di che può lamentarsi dei fatti miei? VITTORIA: Veramente pare dal vostro modo di dire, che noi non possiamo andare in campagna per mancanza del bisognevole. FERDINANDO: Io? Mi maraviglio. Per gli amici mi farei ammazzare: difenderei la vostra riputazione colla spada alla mano. Se ha degli affari in Livorno, chi l'obbliga a andar in villa? Se ho detto che il signor Filippo non ha interessi, che lo trattengano, m'intesi dire, perché il signor Filippo è un vecchio pazzo, che trascura gli affari suoi per tripudiare, per scialacquare; e la sua figliuola ha meno giudizio di lui, che gli fa spendere l'osso del collo in centomila corbellerie. Io stimo la prudenza del signor Leonardo, e stimo la prudenza vostra, che sa addattarsi alle congiunture; e si fa quello che si può, e che si rovinino quelli che si vogliono rovinare. VITTORIA: Ma siete curioso per altro. Mio fratello non resta in Livorno per il bisogno. FERDINANDO: Lo so; ci resta per la necessità. VITTORIA: Necessità di che? FERDINANDO: Di accudire agli affari suoi. VITTORIA: E la signora Giacinta credete voi che ci vada in campagna? FERDINANDO: Senz'altro. VITTORIA: Sicuro? FERDINANDO: Infallibilmente. VITTORIA: (Io ho paura che mio fratello me la voglia dare ad intendere.
Che dica di non andare, e poi mi pianti, e se ne vada da sé). FERDINANDO: Ho veduto l'abito della signora Giacinta. VITTORIA: È bello? FERDINANDO: Bellissimo. VITTORIA: Più del mio? FERDINANDO: Più del vostro non dico; ma è bello assai; e in campagna ha da fare una figura strepitosissima. VITTORIA: (Ed io ho da restare col mio bell'abito a spazzar le strade in Livorno?). FERDINANDO: Quest'anno io credo che si farà a Montenero una bellissima villeggiatura. VITTORIA: Per qual ragione? FERDINANDO: Vi hanno da essere delle signore di più, delle spose novelle, tutte magnifiche, tutte in gala, e le donne traggono seco gli uomini, e dove vi è della gioventù, tutti corrono. Vi sarà gran gioco, gran feste di ballo. Ci divertiremo infinitamente. VITTORIA: (Ed io ho da stare in Livorno?). FERDINANDO: (Si rode, si macera. Ci ho un gusto pazzo). VITTORIA: (No, non ci voglio stare; Se credessi cacciarmi per forza con qualche amica). FERDINANDO: Signora Vittoria, a buon riverirla. VITTORIA: La riverisco. FERDINANDO: A Montenero comanda niente? VITTORIA: Eh! può essere che ci vediamo.
FERDINANDO: Se verrà, ci vedremo. Se non verrà, le faremo un brindisi. VITTORIA: Non vi è bisogno ch'ella s'incomodi. FERDINANDO: Viva il bel tempo! Viva l'allegria, viva la villeggiatura! Servitore umilissimo. VITTORIA: La riverisco divotamente. FERDINANDO: (Se non va in campagna, ella crepa prima che termini questo mese). (Parte.)
SCENA SESTA
VITTORIA (sola): Ma! La cosa è così pur troppo. Quando si è sul candeliere, quando si è sul piede di seguitare il gran mondo, una volta che non si possa, si attirano gli scherni, e le derisioni. Bisognerebbe non aver principiato. Oh! costa molto il dover discendere. Io non ho tanta virtù, che basti. Sono in un'afflizione grandissima, e il mio maggior tormento è l'invidia. Se le altre non andassero in villa, non ci sarebbe pericolo, ch'io mi rammaricassi per non andarvi. Ma chi sa mai, se Giacinta ci vada o non ci vada? Ella mi sta sul cuore più delle altre. Vo' assicurarmene, lo vo' sapere di certo. Vo' andar io medesima a ritrovarla. Dica mio fratello quel che sa dire. Questa curiosità vo' cavarmela. Nasca quel che sa nascere, vo' soddisfarmi. Son donna, son giovane. Mi hanno sempre lasciato fare a mio modo, ed è difficile tutt'ad un tratto farmi cambiar costume, farmi cambiare temperamento. (Parte.)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Filippo. Filippo e Brigida. BRIGIDA: Sicché dunque il signor Leonardo ha mandato a dire che non può partire per ora? FILIPPO: Sì certo, l'ha mandato a dire. Ma ciò non sarebbe niente. Può essergli sopraggiunto qualche affare d'impegno. Non stimo niente. Mi fa specie che ha mandato alla posta a levar l'ordine dei cavalli per lui e dei cavalli per me, come s'egli avesse paura ch'io non pagassi, e che dovesse toccar a lui a pagare. BRIGIDA: (L'ho detto io, l'ho detto. La padrona vuol far di sua testa, che il cielo la benedica). FILIPPO: Io non mi aspettava da lui questo sgarbo. BRIGIDA: E così, signor padrone, come avete pensato di fare? FILIPPO: Ho pensato che posso andar in campagna senza di lui, che posso avere i cavalli senza di lui, e li ho mandati a ordinare per oggi. BRIGIDA: Se è lecito, quanti cavalli avete ordinato? FILIPPO: Quattro, secondo il solito, per il mio carrozzino. BRIGIDA: E per me, poverina? FILIPPO: Bisognerà che tu ti accomodi a andar per mare. BRIGIDA: Oh! per mare non ci vado assolutamente. FILIPPO: E come vorresti tu ch'io fi? Ch'io levassi per te una sedia? Fino che ci fosse stato il cameriere del signor Leonardo, per una metà avrei supplito alla spesa, ma per l'intiero sarebbe troppo, e mi maraviglio che tu abbia tanta indiscretezza per domandarlo.
BRIGIDA: Io non lo domando, io mi accomodo a tutto. Ma fatemi grazia: il signor Ferdinando non viene anch'egli con voi? FILIPPO: Sì, è vero: doveva andar col signor Leonardo, ed è venuto poco fa a dirmi che verrà con me. BRIGIDA: Bisognerà che pensiate voi a condurlo. FILIPPO: E perché ci ho da pensar io? BRIGIDA: Perché egli intende di venire per farvi grazia. Perché egli è solito andar in campagna, non per divertimento, ma per mestiere. Se conduceste con voi l'architetto, il pittore, l'agrimensore, per impiegarli in servizio vostro, non dovreste loro pagare il viaggio? Lo stesso dovete fare col signor Ferdinando che vien con voi per fare onore alla vostra tavola, e per divertire la compagnia. E se conducete lui, non sarebbe gran cosa che conduceste anche me; e se non vado in calesso col cameriere del signor Leonardo, posso andare in calesso col signor cavaliere del dente. FILIPPO: Brava, io non ti credeva sì spiritosa. Hai fatto un bel panegirico al signor Ferdinando. Basta, se sarò costretto a pagar il viaggio al signor cavaliere del dente, sarà servita la signora contessa della buona lingua. BRIGIDA: Sarà per sua grazia, non per mio merito. FILIPPO: Chi c'è in sala? BRIGIDA: C'è gente. FILIPPO: Guarda un poco. BRIGIDA: È il signor Fulgenzio. (Dopo averlo osservato.) FILIPPO: Domanda di me forse? BRIGIDA: Probabilmente. FILIPPO: Va a veder cosa vuole. BRIGIDA: Subito. Chi sa che non sia un altro ospite rispettoso, che venga ad
esibirvi la sua umile servitù in campagna? FILIPPO: Padrone. Mi farebbe piacere. Con lui ho delle obbligazioni non poche, e poi in campagna io non ricuso nessuno. BRIGIDA: Non ci dubitate, signore, non vi mancherà compagnia. Dove c'è miglio, gli uccelli volano, e dove c'è buona tavola, gli scrocchi fioccano. (Parte.)
SCENA OTTAVA
Filippo, poi Giacinta. GIACINTA: A quest'ora, signore, vi potrebbero risparmiare le seccature. Vien tardi, a ventun'ora si ha da partire. Mi ho da vestir da viaggio da capo a piedi, e abbiamo ancora da desinare. FILIPPO: Ma io ho da sentire che cosa vuole il signor Fulgenzio. GIACINTA: Fategli dire che avete che fare, che avete premura, che non potete... FILIPPO: Voi non sapete quello che vi diciate, ho con lui delle obbligazioni, non lo deggio trattare villanamente. GIACINTA: Spicciatevi presto dunque. FILIPPO: Più presto che si potrà. GIACINTA: È un seccatore, non finirà sì presto. FILIPPO: Eccolo che viene. GIACINTA: Vado, vado. (Non lo posso soffrire. Ogni volta che viene qui, ha sempre qualche cosa da dire sul vivere, sull'economia, sul costume. Vo' un po' star a sentire, se dice qualche cosa di me). (Parte.)
SCENA NONA
Filippo, poi Fulgenzio. FILIPPO: Gran cosa di queste ragazze! Quel giorno che hanno d'andar in campagna, non sanno quel che si facciano, non sanno quel che si dicano, sono fuori di lor medesime. FULGENZIO: Buon giorno, signor Filippo. FILIPPO: Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che buon vento vi conduce da queste parti? FULGENZIO: La buona amicizia, il desiderio di rivedervi prima che andiate in villa, e di potervi dare il buon viaggio. FILIPPO: Son obbligato al vostro amore, alla vostra cordialità, e mi fareste una gran finezza, se vi compiaceste di venir con me. FULGENZIO: No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina, sono tornato per le biade minute, e ci anderò per il vino. Ma son solito di andar solo, e di starvi quanto esigono i miei interessi, e non più. FILIPPO: Circa agl'interessi della campagna, poco più, poco meno, ci abbado anch'io, ma solo non ci posso stare. Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di agire, e di divertirmi. FULGENZIO: Benissimo, ottimamente. Dee ciascuno operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la compagnia sia buona, sia conveniente, e non dia occasione al mondo di mormorare. FILIPPO: Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio, che pare abbiate intenzione di dare a me delle staffilate. FULGENZIO: Caro amico, noi siamo amici da tanti anni. Sapete se vi ho
sempre amato, se nelle occasioni vi ho dati dei segni di cordialità. FILIPPO: Sì, me ne ricordo, e ve ne sarò grato fino ch'io viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete sempre somministrato senz'alcuna difficoltà. Ve li ho per altro restituiti, e i mille scudi che l'altro giorno mi avete prestati, li avrete, come mi sono impegnato, da qui a tre mesi. FULGENZIO: Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. Ma permettetemi che io vi dica un'osservazione che ho fatta. Io veggo che voi venite a domandarmi denaro in prestito quasi ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Segno evidente che la villeggiatura v'incomoda; ed è un peccato che un galantuomo, un benestante come voi siete, che ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s'incomodi e domandi denari in prestito per ispenderli malamente. Sì, signore, per ispenderli malamente, perché le persone medesime che vengono a mangiare il vostro, sono le prime a dir male di voi, e fra quelli che voi trattate amorosamente, vi è qualcheduno che pregiudica al vostro decoro ed alla vostra riputazione. FILIPPO: Cospetto! voi mi mettete in un'agitazione grandissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e farmi mangiare il mio malamente, ve l'accordo, è vero, ma sono avvezzato così, e finalmente non ho che una sola figlia. Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene fino ch'io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come potete dirlo, signor Fulgenzio? FULGENZIO: Lo dico con fondamento, e lo dico appunto, riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so che vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di domandarvela, perché voi la lasciate troppo addomesticar colla gioventù, e non avete riguardo di ammettere zerbinotti in casa, e fino di accompagnarli in viaggio con essolei. FILIPPO: Volete voi dire del signor Guglielmo? FULGENZIO: Io dico di tutti e non voglio dir di nessuno. FILIPPO: Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo. FULGENZIO: Ella è giovane.
FILIPPO: E mia figlia è una fanciulla prudente. FULGENZIO: Ella è donna. FILIPPO: E vi è mia sorella, donna attempata... FULGENZIO: E vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani. FILIPPO: Era venuto anche a me qualche dubbio su tal proposito, ma ho pensato poi, che tanti altri si conducono nella stessa maniera... FULGENZIO: Caro amico, de' casi ne avete mai veduti a succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si sono poi trovati della loro condotta contenti? FILIPPO: Per dire la verità, chi sì e chi no. FULGENZIO: E voi siete sicuro del sì? Non potete dubitare del no? FILIPPO: Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo l'ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli che dite voi, che la vorrebbe in consorte? FULGENZIO: Per ora non posso dirvelo. FILIPPO: Ma perché? FULGENZIO: Perché per ora non vuol essere nominato. Regolatevi diversamente, e si spiegherà. FILIPPO: E che cosa dovrei fare? Tralasciar d'andare in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo. FULGENZIO: Che bisogno c'è, che vi conduciate la figlia? FILIPPO: Cospetto di bacco! se non la conducessi, ci sarebbe il diavolo in casa. FULGENZIO: Vostra figlia dunque può dire anch'ella la sua ragione. FILIPPO: L'ha sempre detta.
FULGENZIO: E di chi è la colpa? FILIPPO: È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di buon cuore. FULGENZIO: Il troppo buon cuore del padre fa essere di cattivo cuore le figlie. FILIPPO: E che vi ho da fare presentemente? FULGENZIO: Un poco di buona regola. Se non in tutto, in parte. Staccatele dal fianco la gioventù. FILIPPO: Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Guglielmo! FULGENZIO: Alle corte: questo signor Guglielmo vuol essere il suo malanno. Per causa sua il galantuomo che la vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete che se ne parli, e che si tratti, fate a buon conto che non si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da comandar più del padre. FILIPPO: Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono stato io che l'ha invitato a venire. FULGENZIO: Tanto meglio. Licenziatelo. FILIPPO: Tanto peggio; non so come licenziarlo. FULGENZIO: Siete uomo, o che cosa siete? FILIPPO: Quando si tratta di far malegrazie, io non so come fare. FULGENZIO: Badate che non facciano a voi delle malegrazie che puzzino. FILIPPO: Orsù, bisognerà, ch'io lo faccia. FULGENZIO: Fatelo, che ve ne chiamerete contento. FILIPPO: Potreste ben farmi la confidenza di dirmi chi sia l'amico che aspira alla mia figliuola. FULGENZIO: Per ora non posso, compatitemi. Deggio andare per un affare di premura.
FILIPPO: Accomodatevi, come vi pare. FULGENZIO: Scusatemi della libertà, che mi ho preso. FILIPPO: Anzi vi ho tutta l'obbligazione. FULGENZIO: A buon rivederci. FILIPPO: Mi raccomando alla grazia vostra. FULGENZIO: (Credo di aver ben servito il signor Leonardo. Ma ho inteso di servire alla verità, alla ragione, all'interesse e al decoro dell'amico Filippo). (Parte.)
SCENA DECIMA
Filippo, poi Giacinta. FILIPPO: Fulgenzio mi ha dette delle verità irrefragabili, e non sono sì sciocco ch'io non le conosca, e non le abbia conosciute anche prima d'ora. Ma non so che dire, il mondo ha un certo incantesimo, che fa fare di quelle cose che non si vorrebbono fare. Dove però si tratta di dar nell'occhio, bisogna usare maggior prudenza. Orsù, in ogni modo mi convien licenziare il signor Guglielmo, a costo di non andare in campagna. GIACINTA: Mi consolo, signore, che la seccatura è finita. FILIPPO: Chiamatemi un servitore. GIACINTA: Se volete che diano in tavola, glielo posso dire io medesima. FILIPPO: Chiamatemi un servitore. L'ho da mandare in un loco. GIACINTA: Dove lo volete mandare? FILIPPO: Siete troppo curiosa. Lo vo' mandare dove mi pare. GIACINTA: Per qualche interesse che vi ha suggerito il signor Fulgenzio? FILIPPO: Voi vi prendete con vostro padre più libertà di quello che vi conviene. GIACINTA: Chi ve l'ha detto, signore? Il signor Fulgenzio? FILIPPO: Finitela, e andate via, vi dico. GIACINTA: Alla vostra figliuola? Alla vostra cara Giacinta? FILIPPO: (Non sono avvezzo a far da cattivo, e non lo so fare). GIACINTA: (Ci scommetterei la testa, che Leonardo si è servito del signor Fulgenzio per ispuntarla. Ma non ci riuscirà).
FILIPPO: C'è nessuno di là? C'è nessun servitore? GIACINTA: Ora, ora, acchetatevi un poco. Anderò io a chiamar qualcheduno. FILIPPO: Fate presto. GIACINTA: Ma non si può sapere, che cosa vogliate fare del servitore? FILIPPO: Che maledetta curiosità! Lo voglio mandare dal signor Guglielmo. GIACINTA: Avete paura che egli non venga? Verrà pur troppo. Così non venisse. FILIPPO: Così non venisse? GIACINTA: Sì, signore, così non venisse. Godremmo più libertà, e potrebbe venire con noi quella povera Brigida, che si raccomanda. FILIPPO: E non avreste piacere d'aver in viaggio una compagnia da discorrere, da divertirvi? GIACINTA: Io non ci penso, e non v'ho mai pensato. Non siete stato voi che l'ha invitato? Ho detto niente io, perché lo facciate venire? FILIPPO: (Mia figliuola ha più giudizio di me). Ehi, chi è di là? Un servitore. GIACINTA: Subito lo vado io a chiamare. E che volete far dire al signor Guglielmo? FILIPPO: Che non s'incomodi, e che non lo possiamo servire. GIACINTA: Oh bella scena! bella, bella, bellissima scena. (Con ironia.) FILIPPO: Glielo dirò con maniera. GIACINTA: Che buona ragione gli saprete voi dire? FILIPPO: Che so io?... Per esempio... che nella carrozza ha da venire la cameriera, e che non c'è loco per lui.
GIACINTA: Meglio, meglio, e sempre meglio. (Come sopra.) FILIPPO: Vi burlate di me, signorina? GIACINTA: Io mi maraviglio certo di voi, che siate capace di una simile debolezza. Che cosa volete ch'ei dica? Che cosa volete che dica il mondo? Volete essere trattato da uomo incivile, da malcreato? FILIPPO: Vi pare cosa ben fatta, che un giovane venga in sterzo con voi? GIACINTA: Sì, è malissimo fatto, e non si può far peggio; ma bisognava pensarvi prima. Se l'avessi invitato io, potreste dir non lo voglio; ma l'avete invitato voi. FILIPPO: E bene, io ho fatto il male, ed io ci rimedierò. GIACINTA: Basta che il rimedio non sia peggiore del male. Finalmente, s'ei viene con me, c'è la zia, ci siete voi: è male; ma non è gran male. Ma se dite ora di non volerlo, se gli fate la mal'azione di licenziarlo, non arriva domani, che voi ed io per Livorno e per Montenero siamo in bocca di tutti: si alzano sopra di noi delle macchine, si fanno degli almanacchi. Chi dirà: erano innamorati, e si son disgustati. Chi dirà: il padre si è accorto di qualche cosa. Chi sparlerà di voi, chi sparlerà di me; e per non fare una cosa innocente, ne patirà la nostra riputazione. FILIPPO: (Quanto pagherei che ci fusse Fulgenzio che la sentisse!) Non sarebbe meglio che lasciassimo stare d'andar in campagna? GIACINTA: Sarebbe meglio per una parte; ma per l'altra poi si farebbe peggio. Figurarsi! quelle buone lingue di Montenero che cosa direbbono de' fatti nostri! Il signor Filippo non villeggia più, ha finito, non ha più il modo. La sua figliuola, poveraccia! ha terminato presto di figurare. La dote è fritta; chi l'ha da prendere? chi l'ha da volere? Dovevano mangiar meno, dovevano trattar meno. Quello che si vedeva, era fumo, non era arrosto. Mi par di sentirle; mi vengono i sudori freddi. FILIPPO: Che cosa dunque abbiamo da fare? GIACINTA: Tutto quel che volete. FILIPPO: S'io fuggo dalla padella, ho paura di cader nelle bragie.
GIACINTA: E le bragie scottano, e convien salvar la riputazione. FILIPPO: Vi parrebbe dunque meglio fatto, che il signor Guglielmo venisse con noi? GIACINTA: Per questa volta, giacché è fatta. Ma mai più, vedete, mai più. Vi serva di regola, e non lo fate mai più. FILIPPO: (È una figliuola di gran talento). GIACINTA: E così? Volete che chiami il servitore, o che non lo chiami? FILIPPO: Lasciamo stare, giacché è fatta. GIACINTA: Sarà meglio, che andiamo a pranzo. FILIPPO: E in villa abbiamo da tenerlo in casa con noi? GIACINTA: Che impegni avete presi con lui? FILIPPO: Io l'ho invitato, per dirla. GIACINTA: E come volete fare a mandarlo via? FILIPPO: Ci dovrà stare dunque. GIACINTA: Ma mai più, vedete, mai più. FILIPPO: Mai più, figliuola, che tu sia benedetta, mai più! (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Giacinta, poi Brigida. GIACINTA: Nulla mi preme del signor Guglielmo. Ma non voglio che Leonardo si possa vantare d'averla vinta. Già son sicura che gli erà, son sicura che tornerà, che conoscerà non essere questa una cosa da prendere con tanto caldo. E se mi vuol bene davvero, com'egli dice, imparerà a regolarsi per l'avvenire con più discrezione, ché non sono nata una schiava, e non voglio essere schiava. BRIGIDA: Signora, una visita. GIACINTA: E chi è a quest'ora? BRIGIDA: La signora Vittoria. GIACINTA: Le hai detto che ci sono? BRIGIDA: Come voleva, ch'io dicessi, che non ci è? GIACINTA: Ora mi viene in tasca davvero: e dov'è? BRIGIDA: Ha mandato il servitore innanzi. È per la strada che viene. GIACINTA: Valle incontro. Converrà ch'io la soffra. Ho anche curiosità di sapere se viene o se non viene in campagna; se vi è novità veruna. Venendo ella a quest'ora, qualche cosa ci avrebbe a essere. BRIGIDA: Ho saputo una cosa. GIACINTA: E che cosa? BRIGIDA: Ch'ella pure si è fatto un vestito nuovo, e non lo poteva avere dal sarto, perché credo che il sarto volesse esser pagato; e c'è stato molto che dire, e se non aveva il vestito, non voleva andare in campagna. Cose, cose veramente da mettere nelle gazzette. (Parte.)
SCENA DODICESIMA
Giacinta, poi Vittoria. GIACINTA: È ambiziosissima. Se vede qualche cosa di nuovo ad una persona, subito le vien la voglia d'averla. Avrà saputo, ch'io mi ho fatto il vestito nuovo, e l'ha voluto ella pure. Ma non avrà penetrato del mariage. Non l'ho detto a nessuno; non avrà avuto tempo a saperlo. VITTORIA: Giacintina, amica mia carissima. GIACINTA: Buon dì, la mia cara gioia. (Si baciano.) VITTORIA: Che dite eh? È una bell'ora questa da incomodarvi? GIACINTA: Oh! incomodarmi? Quando vi ho sentita venire, mi si è allargato il core d'allegrezza. VITTORIA: Come state? State bene? GIACINTA: Benissimo. E voi? Ma è superfluo il domandarvi: siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che consolate. VITTORIA: Voi, voi avete una ciera che innamora. GIACINTA: Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mattina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi duole il capo, figurarsi che buona ciera ch'io posso avere. VITTORIA: Ed io non so cosa m'abbia, sono tanti giorni che non mangio niente; niente, niente, si può dir quasi niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco. GIACINTA: Sì, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non sono stecchi. VITTORIA: Eh! a voi non vi si contano l'ossa. GIACINTA: No, poi. Per grazia del cielo, ho il mio bisognetto.
VITTORIA: Oh cara la mia Giacinta! GIACINTA: Oh benedetta la mia Vittorina! (Si baciano.) Sedete, gioia; via sedete. VITTORIA: Aveva tanta voglia di vedervi. Ma voi non vi degnate mai di venir da me. (Siedono.) GIACINTA: Oh! caro il mio bene, non vado in nessun loco. Sto sempre in casa. VITTORIA: E io? Esco un pochino la festa, e poi sempre in casa. GIACINTA: Io non so come facciano quelle che vanno tutto il giorno a girone per la città. VITTORIA: (Vorrei pur sapere se va o se non va a Montenero, ma non so come fare). GIACINTA: (Mi fa specie, che non mi parla niente della campagna). VITTORIA: È molto che non vedete mio fratello? GIACINTA: L'ho veduto questa mattina. VITTORIA: Non so cos'abbia. È inquieto, è fastidioso. GIACINTA: Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre ore buone e le nostre ore cattive. VITTORIA: Credeva quasi che avesse gridato con voi. GIACINTA: Con me? Perché ha da gridare con me? Lo stimo e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter gridare con me. (Ci gioco io, che l'ha mandata qui suo fratello). VITTORIA: (È superba quanto un demonio). GIACINTA: Vittorina, volete restar a pranzo con noi? VITTORIA: Oh! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi aspetta.
GIACINTA: Glielo manderemo a dire. VITTORIA: No, no assolutamente non posso. GIACINTA: Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in tavola. VITTORIA: (Ho capito. Mi vuol mandar via). Così presto andate a desinare? GIACINTA: Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto, bisogna sollecitare. VITTORIA: (Ah! maledetta la mia disgrazia). GIACINTA: M'ho da cambiar di tutto, m'ho da vestire da viaggio. VITTORIA: Sì, sì, è vero; ci sarà della polvere. Non torna il conto rovinare un abito buono. (Mortificata.) GIACINTA: Oh! in quanto a questo poi, me ne metterò uno meglio di questo. Della polvere non ho paura. Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo capuccietto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio. VITTORIA: (Anche la sopravveste col capuccietto! La voglio anch'io, se dovessi vendere de' miei vestiti). GIACINTA: Voi non l'avete la sopravveste col capuccietto? VITTORIA: Sì, sì, ce l'ho ancor io; me l'ho fatta fin dall'anno ato. GIACINTA: Non ve l'ho veduta l'anno ato. VITTORIA: Non l'ho portata, perché, se vi ricordate, non c'era polvere. GIACINTA: Sì, sì, non c'era polvere. (È propriamente ridicola). VITTORIA: Quest'anno mi ho fatto un abito. GIACINTA: Oh! io me ne ho fatto un bello. VITTORIA: Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.
GIACINTA: In materia di questo, vedrete qualche cosa di particolare. VITTORIA: Nel mio non vi è né oro, né argento, ma per dir la verità, è stupendo. GIACINTA: Oh! moda, moda. Vuol esser moda. VITTORIA: Oh! circa la moda, il mio non si può dir che non sia alla moda. GIACINTA: Sì, sì, sarà alla moda. (Sogghignando.) VITTORIA: Non lo credete? GIACINTA: Sì, lo credo. (Vuol restare quando vede il mio mariage). VITTORIA: In materia di mode poi, credo di essere stata sempre io delle prime. GIACINTA: E che cos'è il vostro abito? VITTORIA: È un mariage. GIACINTA: Mariage! (Maravigliandosi.) VITTORIA: Sì, certo. Vi par che non sia alla moda? GIACINTA: Come avete voi saputo, che sia venuta di Francia la moda del mariage? VITTORIA: Probabilmente, come l'avrete saputo anche voi. GIACINTA: Chi ve l'ha fatto? VITTORIA: Il sarto se monsieur de la Réjouissance. GIACINTA: Ora ho capito. Briccone! Me la pagherà. Io l'ho mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del mariage. Io che aveva in casa l'abito di madama Granon. VITTORIA: Oh! madama Granon è stata da me a farmi visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.
GIACINTA: Sì, sì, scusatelo. Me l'ha da pagare senza altro. VITTORIA: Vi spiace, ch'io abbia il mariage? GIACINTA: Oibò, ci ho gusto. VITTORIA: Volevate averlo voi sola? GIACINTA: Perché? Credete voi, ch'io sia una fanciulla invidiosa? Credo che lo sappiate, che io non invidio nessuno. Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perché pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare più d'una volta. VITTORIA: Io credo che tutte paghino. GIACINTA: No, tutte non pagano. Tutte non hanno il modo, o la delicatezza che abbiamo noi. Vi sono di quelle che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche premura, il sarto s'impunta. Vuole i danari sul fatto, e nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappiatemi dir se è alla moda). VITTORIA: (Non crederei, che parlasse di me. Se potessi credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar, come merita). GIACINTA: E quando ve lo metterete questo bell'abito? VITTORIA: Non so, può essere, che non me lo metta nemeno. Io son così; mi basta d'aver la roba, ma non mi curo poi di sfoggiarla. GIACINTA: Se andate in campagna, sarebbe quella l'occasione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in quest'anno! VITTORIA: Chi v'ha detto che io non ci vada? GIACINTA: Non so: il signor Leonardo ha mandato a licenziar i cavalli. VITTORIA: E per questo? Non si può risolvere da un momento all'altro? E lo credete che non possa andare senza di lui? Credete ch'io non abbia delle amiche, delle parenti da poter andare?
GIACINTA: Volete venire con me? VITTORIA: No, no, vi ringrazio. GIACINTA: Davvero, vi vedrei tanto volentieri. VITTORIA: Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo. GIACINTA: Oh! che l'avrei tanto a caro. VITTORIA: A che ora partite? GIACINTA: A ventun'ora. VITTORIA: Oh! dunque c'è tempo. Posso trattenermi qui ancora un poco. (Vorrei vedere questo abito, se potessi). GIACINTA: Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco. (Verso la scena.) VITTORIA: Se avete qualche cosa da fare, servitevi. GIACINTA: Eh! niente. M'hanno detto che il pranzo è all'ordine, e che mio padre vuol desinare. VITTORIA: Partirò dunque. GIACINTA: No, no, se volete restare, restate. VITTORIA: Non vorrei che il vostro signor padre si avesse a inquietare. GIACINTA: Per verità, è fastidioso un poco. VITTORIA: Vi leverò l'incomodo. (S'alza.) GIACINTA: Se volete restar con noi, mi farete piacere. (S'alza.) VITTORIA: (Quasi, quasi, ci resterei, per la curiosità di quest'abito). GIACINTA: Ho inteso; non vedete? Abbiate creanza. (Verso la scena.)
VITTORIA: Con chi parlate? GIACINTA: Col servitore che mi sollecita. Non hanno niente di civiltà costoro. VITTORIA: Io non ho veduto nessuno. GIACINTA: Eh, l'ho ben veduto io. VITTORIA: (Ho capito). Signora Giacinta, a buon rivederci. GIACINTA: Addio, cara. Vogliatemi bene, ch'io vi assicuro che ve ne voglio. VITTORIA: Siate certa, che siete corrisposta di cuore. GIACINTA: Un bacio almeno. VITTORIA: Sì, vita mia. GIACINTA: Cara la mia gioia. (Si baciano.) VITTORIA: Addio. GIACINTA: Addio. VITTORIA: (Faccio de' sforzi a fingere, che mi sento crepare). (Parte.) GIACINTA: Le donne invidiose io non le posso soffrire. (Parte.)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Leonardo. Leonardo e Fulgenzio. LEONARDO: Voi mi date una nuova, signor Fulgenzio, che mi consola infinitamente. Ha dunque dato parola il signor Filippo di liberarsi dall'impegno che aveva col signor Guglielmo? FULGENZIO: Sì, certo, mi ha promesso di farlo. LEONARDO: E siete poi sicuro che non vi manchi? FULGENZIO: Son sicurissimo. ano delle cose fra lui e me, che mi rendono certo della sua parola; e poi l'ho trovato assai pontuale in affari di rimarco. Non dubito di ritrovarlo tale anche in questo. LEONARDO: Dunque Guglielmo non andrà in campagna colla signora Giacinta. FULGENZIO: Questo è certissimo. LEONARDO: Son contentissimo. Ora ci andrò io volentieri. FULGENZIO: Ho detto tanto, ho fatto tanto, che quel buon uomo si è illuminato. Egli ha un ottimo cuore. Non crediate ch'ei manchi per malizia; manca qualche volta per troppa bontà. LEONARDO: E credo che la sua figliuola lo faccia fare a suo modo. FULGENZIO: No, non è cattiva fanciulla. Mi ha confessato il signor Filippo, ch'ella non avea parte alcuna nell'invito del signor Guglielmo; e ch'egli l'avea anzi pregato d'andar con loro, per quella ione ch'egli ha d'aver compagnia, e di farsi mangiare il suo. LEONARDO: Ho piacere che la signora Giacinta non ne abbia parte. Mi pareva quasi impossibile, sapendo quel che è ato fra lei e me.
FULGENZIO: E che cosa è ato fra lei e voi? LEONARDO: Delle parole che l'assicurano ch'io l'amo, e che mi fanno sperare ch'ella mi ami. FULGENZIO: E il padre suo non sa niente? LEONARDO: Per parte mia non lo sa. FULGENZIO: E convien credere ch'ei non lo sappia, perché dicendogli che vi sarebbe un partito per sua figliuola, non gli è caduto in mente di domandarmi di voi. LEONARDO: Non lo saprà certamente. FULGENZIO: Ma è necessario ch'egli lo sappia. LEONARDO: Un giorno glielo faremo sapere. FULGENZIO: E perché non adesso? LEONARDO: Adesso si sta per andare in campagna. FULGENZIO: Amico, parliamo chiaro. Io vi ho servito assai volentieri presso il signor Filippo, per far ch'ei staccasse da sua figliuola una compagnia un poco pericolosa, perché mi parve che l'onestà l'esigesse, e perché mi avete assicurato di aver buona intenzione sopra di lei, e che ottenuta questa soddisfazione, l'avreste chiesta in isposa. Ora non vorrei che seguitasse la tresca senza conclusione veruna, ed essere stato io cagione di un mal peggiore. Finalmente col signor Guglielmo potea essere che non ci fosse malizia, ma di voi non si può dire così. Siete avviticchiati, per quel ch'io sento, e poiché mi avete fatto entrare in cotesta danza, non ne voglio uscire con disonore. Una delle due dunque, o dichiaratevi col signor Filippo, o gli farò, riguardo a voi, quella lezione medesima che gli ho fatto rispetto al signor Guglielmo. LEONARDO: E che cosa mi consigliate di fare? FULGENZIO: O chiederla a drittura, o ritirarvi dalla sua conversazione. LEONARDO: E come ho da fare a chiederla in questi brevi momenti?
FULGENZIO: Questa è una cosa che si fa presto. Mi esibisco io di servirvi. LEONARDO: Non si potrebbe aspettare al ritorno dalla campagna? FULGENZIO: Eh! in una villeggiatura non si sa quel che possa accadere. Sono stato giovane anch'io; per grazia del cielo, pazzo non sono stato, ma ho veduto delle pazzie. L'obbligo mio vuol ch'io parli chiaro all'amico, o per domandargli la figlia, o per avvertirlo che si guardi da voi. LEONARDO: Quand'è così, domandiamola dunque. FULGENZIO: Con che condizione volete voi ch'io gliela domandi? LEONARDO: Circa alla dote, si sa che le ha destinato otto mila scudi e il corredo. FULGENZIO: Siete contento? LEONARDO: Contentissimo. FULGENZIO: Quanto tempo volete prendere per isposarla? LEONARDO: Quattro, sei, otto mesi, come vuole il signor Filippo. FULGENZIO: Benissimo. Gli parlerò. LEONARDO: Ma avvertite che oggi si dee partire per Montenero. FULGENZIO: Non si potrebbe differir qualche giorno? LEONARDO: Non c'è caso, non si può differire. FULGENZIO: Ma, l'affare di cui si tratta, merita che si sagrifichi qualche cosa. LEONARDO: Se si trattiene il signor Filippo, mi tratterrò ancor io, ma vedrete che sarà impossibile. FULGENZIO: E perché impossibile? LEONARDO: Perché tutti vanno, e il signor Filippo vorrà andare, e la
signora Giacinta infallibilmente oggi vorrà partire, e mia sorella mi tormenta all'estremo per l'impazienza d'andare, e per cento ragioni io non mi potrò trattenere. FULGENZIO: Poh! fin dove è arrivata la ione del villeggiare! Un giorno pare un secolo. Tutti gli affari cedono; via, anderò subito; vi servirò, vi soddisfarò. Ma, caro amico, soffrite dalla mia sincerità due parole ancora. Maritatevi per far giudizio, e non per essere piucché mai rovinato. So che le cose vostre non vanno molto felicemente. Otto mila scudi di dote vi possono rimediare; ma non gli spendete intorno di vostra moglie, non li sagrificate in villeggiatura; prudenza, economia, giudizio. Val più il dormir quieto, senza affanni di cuore, di tutti i divertimenti del mondo. Fin che ce n'è, tutti godono. Quando non ce n'è più, motteggi, derisioni, fischiate, scusatemi. Vado a servirvi immediatamente. (Parte.)
SCENA SECONDA
Leonardo, poi Cecco. LEONARDO: Eh! dice bene; mi saprò regolare; metterò la testa a partito. Ehi, chi è di là? CECCO: Signore. LEONARDO: Va subito dal signor Filippo, e dalla signora Giacinta. Di loro che mi sono liberato da' miei affari, e che oggi mi darò l'onore di essere della loro partita per Montenero. Soggiungi che avrei una compagnia da dare a mia sorella in calesso, e che, se me lo permettono, andrò io nella carrozza con loro. Fa presto, e portami la risposta. CECCO: Sarà obbedita. LEONARDO: Di' al cameriere che venga qui, e che venga subito. CECCO: Sì, signore. (Oh quante mutazioni in un giorno!) (Parte.)
SCENA TERZA
Leonardo, poi Paolo. LEONARDO: Ora che nella carrozza loro non va Guglielmo, non ricanno la mia compagnia; sarebbe un torto manifesto che mi farebbono. E poi, se il signor Fulgenzio gli parla, se il signor Filippo è contento di dare a me sua figliuola, come non dubito, la cosa va in forma; nella carrozza ci ho d'andar io. Con mia sorella vedrò che ci vada il signor Ferdinando. Già so com'egli è fatto, non si ricorderà più quello che gli ho detto. PAOLO: Eccomi a' suoi comandi. LEONARDO: Presto, mettete all'ordine quel che occorre, e fate ordinare i cavalli, che a ventun'ora s'ha da partire. PAOLO: Oh! bella! LEONARDO: E spicciatevi. PAOLO: E il desinare? LEONARDO: A me non importa il desinare. Mi preme che siamo lesti per la partenza. PAOLO: Ma io ho disfatto tutto quello che aveva fatto. LEONARDO: Tornate a fare. PAOLO: È impossibile. LEONARDO: Ha da esser possibile, e ha da esser fatto. PAOLO: (Maledetto sia il servire in questa maniera). LEONARDO: E voglio il caffè, la cera, lo zucchero, la cioccolata. PAOLO: Io ho reso tutto ai mercanti.
LEONARDO: Tornate a ripigliare ogni cosa. PAOLO: Non mi vorranno dar niente. LEONARDO: Non mi fate andar in collera. PAOLO: Ma, signore... LEONARDO: Non c'è altro da dire. Spicciatevi. PAOLO: Vuole che gliela dica? Si faccia servire da chi vuole, ch'io non ho abilità per servirla. LEONARDO: No, Paolino mio, non mi abbandonate. Dopo tanti anni di servitù, non mi abbandonate. Si tratta di tutto. Vi farò una confidenza non da padrone, ma da amico. Si tratta, che il signor Filippo mi dia per moglie la sua figliuola, con dodicimila scudi di dote. Volete ora ch'io perda il credito? Mi volete vedere precipitato? Credete ch'io sia in necessità di fare gli ultimi sforzi per comparire? Avrete core ora di dirmi che non si può, che è impossibile, che non mi potete servire? PAOLO: Caro signor padrone, la ringrazio della confidenza che si è degnato di farmi: farò il possibile; sarà servita. Se credessi di far col mio, la non dubiti, sarà servita. (Parte.)
SCENA QUARTA
Leonardo, poi Vittoria. LEONARDO: È un buon uomo, amoroso, fedele; dice che farà, se credesse di far col suo. Ma m'immagino già che quel che ora è suo, una volta sarà stato mio. Frattanto vo' rimettere in ordine il mio baule. VITTORIA: Orsù, signor fratello, vengo a dirvi liberamente che da questa stagione in Livorno non ci sono mai stata, e non ci voglio stare, e voglio andare in campagna. Ci va la signora Giacinta, ci vanno tutti, e ci voglio andar ancor io. (Con caldo.) LEONARDO: E che bisogno c'è che mi venite ora a parlare con questo caldo? VITTORIA: Mi scaldo, perché ho ragione di riscaldarmi, e andrò in campagna con mia cugina Lugrezia e con suo marito. LEONARDO: E perché non volete venire con me? VITTORIA: Quando? LEONARDO: Oggi. VITTORIA: Dove? LEONARDO: A Montenero. VITTORIA: Voi? LEONARDO: Io. VITTORIA: Oh! LEONARDO: Sì, da galantuomo. VITTORIA: Mi burlate?
LEONARDO: Dico davvero. VITTORIA: Davvero, davvero? LEONARDO: Non vedete ch'io fo il baule? VITTORIA: Oh! fratello mio, come è stata? LEONARDO: Vi dirò: sappiate che il signor Fulgenzio... VITTORIA: Sì, sì, mi racconterete poi. Presto, donne, dove siete? Donne, le scatole, la biancheria, le scuffie, gli abiti, il mio mariage. (Parte.)
SCENA QUINTA
Leonardo, poi Cecco. LEONARDO: È fuor di sé dalla consolazione. Certo, che se restava in Livorno, non le si poteva dare una mortificazione maggiore. E io? Sarei stato per impazzire. Ma! il puntiglio fa fare delle gran cose. L'amore fa fare degli spropositi. Per un puntiglio, per una semplice gelosia, sono stato in procinto di abbandonare la villeggiatura. CECCO: Eccomi di ritorno. LEONARDO: E così, che hanno detto? CECCO: Li ho trovati padre e figlia, tutti e due insieme. M'hanno detto di riverirla; che avranno piacere della di lei compagnia per viaggio, ma che circa il posto nella carrozza, abbia la bontà di compatire, che non la possono servire, perché sono impegnati a darlo al signor Guglielmo. LEONARDO: Al signor Guglielmo? CECCO: Così m'hanno detto. LEONARDO: Hai tu capito bene? Al signor Guglielmo? CECCO: Al signor Guglielmo. LEONARDO: No, non può essere. Sei uno stolido, sei un balordo. CECCO: Io le dico, che ho capito benissimo, e in segno della mia verità, quando io scendeva le scale, saliva il signor Guglielmo col suo servitore col valigino. LEONARDO: Povero me! non so dove mi sia. Mi ha tradito Fulgenzio, mi scherniscono tutti, son fuor di me. Sono disperato. (Siede.) CECCO: Signore.
LEONARDO: Portami dell'acqua. CECCO: Da lavar le mani? LEONARDO: Un bicchier d'acqua, che tu sia maladetto. (S'alza.) CECCO: Subito. (Non si va più in campagna). (Parte.) LEONARDO: Ma come mai quel vecchio, quel maladetto vecchio, ha potuto ingannarmi? L'averanno ingannato. Ma se mi ha detto che Filippo ha con esso lui degli affari, in virtù dei quali non lo poteva ingannare; dunque il male viene da lui; ma non può venire da lui. Verrà da lei, da lei; ma non può venire nemmeno da lei. Sarà stato il padre; ma se il padre ha promesso. Sarà stata la figlia; ma se la figlia dipende. Sarà dunque stato Fulgenzio; ma per qual ragione mi ha da tradire Fulgenzio? Non so niente, son io la bestia, il pazzo, l'ignorante... CECCO (viene coll'acqua). LEONARDO: Sì, pazzo, bestia. (Da sé, non vedendo Cecco.) CECCO: Ma! perché bestia? LEONARDO: Sì, bestia, bestia. (Prendendo l'acqua.) CECCO: Signore, io non sono una bestia. LEONARDO: Io, io sono una bestia, io. (Beve l'acqua.) CECCO: (Infatti le bestie bevono l'acqua, ed io bevo il vino). LEONARDO: Va subito dal signor Fulgenzio. Guarda s'è in casa. Digli che favorisca venir da me, o che io andrò da lui. CECCO: Dal signor Fulgenzio, qui dirimpetto? LEONARDO: Sì, asino, da chi dunque? CECCO: Ha detto a me? LEONARDO: A te.
CECCO: (Asino, bestia, mi pare che sia tutt'uno). (Parte.)
SCENA SESTA
Leonardo, poi Paolo. LEONARDO: Non porterò rispetto alla sua vecchiaia, non porterò rispetto a nessuno. PAOLO: Animo, animo, signore, stia allegro, che tutto sarà preparato. LEONARDO: Lasciatemi stare. PAOLO: Perdoni, io ho fatto il debito mio, e più del debito mio. LEONARDO: Lasciatemi stare, vi dico. PAOLO: Vi è qualche novità? LEONARDO: Sì, pur troppo. PAOLO: I cavalli sono ordinati. LEONARDO: Levate l'ordine. PAOLO: Un'altra volta? LEONARDO: Oh! maledetta la mia disgrazia! PAOLO: Ma che cosa gli è accaduto mai? LEONARDO: Per carità, lasciatemi stare. PAOLO: (Oh! povero me! andiamo sempre di male in peggio).
SCENA SETTIMA
Vittoria con un vestito piegato, e detti. VITTORIA: Fratello, volete vedere il mio mariage? LEONARDO: Andate via. VITTORIA: Che maniera è questa? PAOLO: (Lo lasci stare). (Piano a Vittoria.) VITTORIA: Che diavolo avete? LEONARDO: Sì, ho il diavolo; andate via. VITTORIA: E con questa bella allegria si ha da andare in campagna? LEONARDO: Non vi è più campagna; non vi è più villeggiatura, non vi è più niente. VITTORIA: Non volete andare in campagna? LEONARDO: No, non ci vado io, e non ci anderete nemmeno voi. VITTORIA: Siete diventato pazzo? PAOLO: (Non lo inquieti di più, per amor del Cielo). (A Vittoria.) VITTORIA: Eh! non mi seccate anche voi. (A Paolo.)
SCENA OTTAVA
Cecco e detti. CECCO: Il signor Fulgenzio non c'è. (A Leonardo.) LEONARDO: Dove il diavolo se l'ha portato? CECCO: Mi hanno detto, che è andato dal signor Filippo. LEONARDO: Il cappello e la spada. (A Paolo.) PAOLO: Signore... LEONARDO: Il cappello e la spada. (A Paolo, più forte.) PAOLO: Subito. (Va a prendere il cappello e la spada.) VITTORIA: Ma si può sapere? (A Leonardo.) LEONARDO: Il cappello e la spada. PAOLO: Eccola servita. (Gli dà il cappello e la spada.) VITTORIA: Si può sapere, che cosa avete? (A Leonardo.) LEONARDO: Lo saprete poi. (Parte.) VITTORIA: Ma che cosa ha? (A Paolo.) PAOLO: Non so niente. Gli vo' andar dietro alla lontana. (Parte.) VITTORIA: Sai tu, che cos'abbia? (A Cecco.) CECCO: Io so che m'ha detto asino; non so altro. (Parte.)
SCENA NONA
Vittoria, poi Ferdinando. VITTORIA: Io resto di sasso, non so in che mondo mi sia. Vengo a casa, lo trovo allegro, mi dice: Andiamo in campagna. Vo di là, non ano tre minuti. Sbuffa, smania. Non si va più in campagna. Io dubito che abbia data la volta al cervello. Ecco qui, ora sono più disperata che mai. Se questa di mio fratello è una malattia, addio campagna, addio Montenero. Va là tu pure, maledetto abito. Poco ci mancherebbe che non lo tagliassi in minuzzoli. (Getta il vestito sulla sedia.) FERDINANDO: Eccomi qui a consolarmi colla signora Vittoria. VITTORIA: Venite anche voi a rompermi il capo? FERDINANDO: Come, signora? Io vengo qui per un atto di urbanità, e voi mi trattate male? VITTORIA: Che cosa siete venuto a fare? FERDINANDO: A consolarmi che anche voi anderete in campagna. VITTORIA: Oh! se non fosse perché, perché... mi sfogherei con voi di tutte le consolazioni che ho interne. FERDINANDO: Signora, io sono compiacentissimo. Quando si tratta di sollevar l'animo di una persona, si sfoghi con me, che le do licenza. VITTORIA: Povero voi, se vi fi provar la bile che mi tormenta. FERDINANDO: Ma cosa c'è? Cosa avete? Cosa v'inquieta? Confidatevi meco. Con me potete parlare con libertà. Siete sicura ch'io non lo dico a nessuno. VITTORIA: Sì, certo, confidatevi alla tromba della comunità. FERDINANDO: Voi mi avete in mal credito, e non mi pare di meritarlo.
VITTORIA: Io dico quello che sento dire da tutti. FERDINANDO: Come possono dire ch'io dica i falli degli altri? Ho mai detto niente a voi di nessuno? VITTORIA: Oh! mille volte; e della signora Aspasia, e della signora Flamminia, e della signora sca. FERDINANDO: Ho detto io? VITTORIA: Sicuro. FERDINANDO: Può essere che l'abbia fatto senza avvedermene. VITTORIA: Eh! già, quel che si fa per abito, non si ritiene. FERDINANDO: In somma, dunque siete arrabbiata, e non mi volete dire il perché? VITTORIA: No, non vi voglio dir niente. FERDINANDO: Sentite. O sono un galantuomo, o sono una mala lingua. Se sono un galantuomo, confidatevi, e non abbiate paura. Se fossi una mala lingua, sarebbe in arbitrio mio interpretare le vostre smanie, e trarne quel ridicolo che più mi paresse. VITTORIA: Volete ch'io ve la dica? Davvero, davvero, siete un giovane spiritoso. (Ironica.) FERDINANDO: Son galantuomo, signora. E quando si può parlare, parlo, e quando s'ha da tacere, taccio. VITTORIA: Orsù, perché non crediate quel che non è; e non pensiate quel che vi pare, vi dirò che per me medesima non ho niente, ma mio fratello è inquietissimo, è fuor di sé, è delirante, e per cagione sua divento peggio di lui. FERDINANDO: Sì, sarà delirante per la signora Giacinta. È una frasca, è una civetta, dà retta a tutti, si discredita, si fa ridicola dappertutto. VITTORIA: Per altro voi non dite mal di nessuno.
FERDINANDO: Dov'è il signor Leonardo? VITTORIA: Io credo che sia andato da lei. FERDINANDO: Con licenza. VITTORIA: Dove, dove? FERDINANDO: A ritrovare l'amico, a soccorrerlo, a consigliarlo. (A raccogliere qualche cosa per la conversazione di Montenero). (Parte.) VITTORIA: Ed io, che cosa ho da fare? Ho da aspettar mio fratello, o ho da andare da mia cugina? Bisognerà che io l'aspetti, bisognerà, ch'io osservi dove va a finire questa faccenda. Ma no, sono impaziente, vo' saper subito qualche cosa. Vo' tornar dal signor Filippo, vo' tornar da Giacinta. Chi sa, ch'ella non faccia apposta perch'io non vada in campagna? Ma nasca quel che sa nascere, ci voglio andare, e ci anderò a suo dispetto. (Parte.)
SCENA DECIMA
Camera in casa del signor Filippo. Filippo e Fulgenzio. FILIPPO: Per me, vi dico, son contentissimo. Il signor Leonardo è un giovane proprio, civile, di buona nascita, ed ha qualche cosa del suo. È vero che gli piace a spendere, e specialmente in campagna, ma si regolerà. FULGENZIO: Eh! per questa parte, non avete occasion di rimproverarlo. FILIPPO: Volete dire, perché faccio lo stesso anch'io? Ma vi è qualche differenza da lui a me. FULGENZIO: Basta, non so che dire. Voi lo conoscete. Voi sapete il suo stato; dategliela, se vi pare; se non vi pare, lasciate. FILIPPO: Io gliela do volentieri. Basta ch'ella ne sia contenta. FULGENZIO: Eh! mi persuado che non dirà di no. FILIPPO: Sapete voi qualche cosa? FULGENZIO: Sì, so più di voi, e so quello che dovreste saper meglio voi. Un padre dee tener gli occhi aperti sulla sua famiglia, e voi che avete una figliuola sola, potreste farlo meglio di tanti altri. Non si lasciano praticar le figlie. Capite? Non si lasciano praticare. Non ve lo diceva io? È donna. Oh, oh! mi dicevate: è prudente. Ed io vi diceva: è donna. Con tutta la sua saviezza, con tutta la sua prudenza, sono ati degli amoretti fra lei e il signor Leonardo. FILIPPO: Oh! sono ati degli amoretti? FULGENZIO: Sì, e ringraziate il cielo che avete a fare con un galantuomo; e dategliela, che farete bene. FILIPPO: Sicuramente. Gliela darò, ed ei l'ha da prendere, ed ella l'ha da volere. Fraschetta! Amoretti, eh!
FULGENZIO: Cosa credete? Che le ragazze siano di stucco? Quando si lasciano praticare... FILIPPO: Ha detto di venir qui il signor Leonardo? FULGENZIO: No, anderò io da lui; e lo condurrò da voi, e che concludiamo. FILIPPO: Sempre più mi confesso obbligato al vostro amore, alla vostra amicizia. FULGENZIO: Vedete se ho fatto bene io a persuadervi a staccare dal fianco di vostra figlia il signor Guglielmo? FILIPPO: (Oh diavolo! E l'amico è in casa). FULGENZIO: Leonardo non l'intendeva, ed aveva ragione, e se il signor Guglielmo andava in campagna con voi, non la prendeva più certamente. FILIPPO: (Povero me! Sono più che mai imbarazzato). FULGENZIO: E badate bene, che il signor Guglielmo non si trovi più in compagnia di vostra figliuola. FILIPPO: (Se Giacinta non trova ella qualche ragione, io non la trovo sicuro). FULGENZIO: Parlate con vostra figlia, ch'io intanto andrò a ritrovare il signor Leonardo. FILIPPO: Benissimo... Bisognerà vedere... FULGENZIO: Vi è qualche difficoltà? FILIPPO: Niente, niente. FULGENZIO: A buon rivederci, dunque. Or ora sono da voi. (In atto di partire.)
SCENA UNDICESIMA
Guglielmo e detti. GUGLIELMO: Signore, le vent'una sono poco lontane. Se comandate, anderò io a sollecitare i cavalli. FULGENZIO: Cosa vedo? Guglielmo? FILIPPO: (Che tu sia maladetto!). No, no, non importa; non si partirà più così presto. Ho qualche cosa da fare... (Non so nemmeno quel, che mi dica). FULGENZIO: Si va in campagna, signor Guglielmo? GUGLIELMO: Per obbedirla. FILIPPO: (Io non ho coraggio di dirgli niente). FULGENZIO: E con chi va in campagna, se è lecito? GUGLIELMO: Col signor Filippo. FULGENZIO: In carrozza con lui? GUGLIELMO: Per l'appunto. FULGENZIO: E colla signora Giacinta? GUGLIELMO: Sì, signore. FULGENZIO: (Buono!). FILIPPO: O via, andate a sollecitare i cavalli. (A Guglielmo.) GUGLIELMO: Ma se dite che vi è tempo. FILIPPO: No, no, andate, andate.
GUGLIELMO: Io non vi capisco. FILIPPO: Fate che diano loro la biada, e fatemi il piacere di star lì presente, perché la mangino, e che gli stallieri non gliela levino. GUGLIELMO: La pagate voi la biada? FILIPPO: La pago io. Andate. GUGLIELMO: Non occorr'altro. Sarete servito. (Parte.)
SCENA DODICESIMA
Fulgenzio e Filippo. FILIPPO: (Finalmente se n'è andato). FULGENZIO: Bravo, signor Filippo. FILIPPO: Bravo, bravo... quando si dà una parola... FULGENZIO: Sì, mi avete dato parola, e me l'avete ben mantenuta. FILIPPO: E non aveva io data prima la parola a lui? FULGENZIO: E se non volevate mancar a lui, perché promettere a me? FILIPPO: Perché aveva intenzione di fare quello che mi avete detto di fare. FULGENZIO: E perché non l'avete fatto? FILIPPO: Perché... d'un male minore si poteva fare un male peggiore; perché avrebbero detto... perché avrebbero giudicato... oh cospetto di bacco! Se aveste sentito le ragioni che ha detto mia figlia, vi sareste ancora voi persuaso. FULGENZIO: Ho capito. Non si tratta così coi galantuomini pari miei. Non sono un burattino da farmi far di queste figure. Mi giustificherò col signor Leonardo. Mi pento d'esserci entrato. Me ne lavo le mani, e non c'entrerò più. (In atto di partire.) FILIPPO: No, sentite. FULGENZIO: Non vo' sentir altro. FILIPPO: Sentite una parola. FULGENZIO: E che cosa mi potete voi dire? FILIPPO: Caro amico, sono così confuso, che non so in che mondo mi sia.
FULGENZIO: Mala condotta, scusatemi, mala condotta. FILIPPO: Rimediamoci, per carità. FULGENZIO: E come ci volete voi rimediare? FILIPPO: Non siamo in tempo ancora di licenziare il signor Guglielmo? FULGENZIO: Non l'avete mandato a sollecitare i cavalli? FILIPPO: Per levarmelo d'attorno, che miglior pretesto potea trovare? FULGENZIO: E quando tornerà coi cavalli? FILIPPO: Sono in un mare di confusioni. FULGENZIO: Fate così, piuttosto tralasciate d'andare in campagna. FILIPPO: E come ho da fare? FULGENZIO: Fatevi venir male. FILIPPO: E che male m'ho da far venire? FULGENZIO: Il cancaro che vi mangi. (Sdegnato.) FILIPPO: Non andate in collera.
SCENA TREDICESIMA
Leonardo e detti. LEONARDO: Ho piacere di ritrovarvi qui tutti e due. Chi è di voi che si prende so di me? Chi è che si burla de' fatti miei? Chi mi ha fatto l'insulto? FULGENZIO: Rispondetegli voi. (A Filippo.) FILIPPO: Caro amico, rispondetegli voi. (A Fulgenzio.) LEONARDO: Così si tratta coi galantuomini? Così si tratta coi pari miei? Che modo è questo? Che maniera impropria, incivile? FULGENZIO: Ma rispondetegli. (A Filippo.) FILIPPO: Ma se non so cosa dire! (A Fulgenzio.)
SCENA QUATTORDICESIMA
Giacinta e detti. GIACINTA: Che strepito è questo? Che piazzate son queste? LEONARDO: Signora, le piazzate non le fo io. Le fanno quelli che si burlano dei galantuomini, che mancano di parola, che tradiscono sulla fede. GIACINTA: Chi è il reo? Chi è il mancatore? (Con caricatura.) FULGENZIO: Parlate voi. (A Filippo.) FILIPPO: Favoritemi di principiar voi. (A Fulgenzio.) FULGENZIO: Orsù, ci va del mio in quest'affare. Poiché il diavolo mi ci ha fatto entrare, a tacere ci va del mio, e se non sa parlare il signor Filippo, parlerò io. Sì, signora. Ha ragione il signor Leonardo di lamentarsi. Dopo avergli dato parola che il signor Guglielmo non sarebbe venuto con voi, mancargli, farlo venire, condurlo in villa, è un'azion poco buona, è un trattamento incivile. GIACINTA: Che dite voi, signor padre? FILIPPO: Ha parlato con voi. Rispondete voi. GIACINTA: Favorisca in grazia, signor Fulgenzio, con qual autorità pretende il signor Leonardo di comandare in casa degli altri? LEONARDO: Con quell'autorità che un amante... GIACINTA: Perdoni, ora non parlo con lei. (A Leonardo.) Mi risponda il signor Fulgenzio. Come ardisce il signor Leonardo pretendere da mio padre e da me, che non si tratti chi pare a noi, e non si conduca in campagna chi a lui non piace? LEONARDO: Voi sapete benissimo... GIACINTA: Non dico a lei; mi risponda il signor Fulgenzio.
FILIPPO: (Oh! non sarà vero degli amoretti, non parlerebbe così). FULGENZIO: Poiché volete che dica io, dirò io. Il signor Leonardo non direbbe niente, non pretenderebbe niente se non avesse intenzione di pigliarvi per moglie. GIACINTA: Come! Il signor Leonardo ha intenzione di volermi in isposa? (A Fulgenzio.) LEONARDO: Possibile che vi giunga nuovo? GIACINTA: Perdoni. Mi lasci parlar col signor Fulgenzio. (A Leonardo.) Dite, signore, con quale fondamento potete voi asserirlo? (A Fulgenzio.) FULGENZIO: Col fondamento che io medesimo, per commissione del signor Leonardo, ne ho avanzata testé a vostro padre la proposizione. LEONARDO: Ma veggendomi ora sì maltrattato... GIACINTA: Di grazia, s'accheti. Ora non tocca a lei; parlerà, quando toccherà a lei. (A Leonardo.) Che dice su di ciò il signor padre? FILIPPO: E che cosa direste voi? GIACINTA: No, dite prima quel che pensate voi. Dirò poi quello che penso io. FILIPPO: Io dico che, in quanto a me, non ci avrei difficoltà. LEONARDO: Ma io dico presentemente... GIACINTA: Ma se ancora non tocca a lei! Ora tocca parlare a me. Abbia la bontà d'ascoltarmi, e poi, se vuole, risponda. Dopo che ho l'onor di conoscere il signor Leonardo, non può egli negare ch'io non abbia avuto per lui della stima; e so e conosco ch'ei ne ha sempre avuta per me. La stima a poco a poco diventa amore, e voglio credere che egli mi ami, siccome, confesso il vero, non sono io per lui indifferente. Per altro, perché un uomo acquisti dell'autorità sopra una giovane, non basta un equivoco affetto, ma è necessaria un'aperta dichiarazione. Fatta questa, non l'ha da saper la fanciulla solo, l'ha da saper chi le comanda, ha da esser nota al mondo, s'ha da stabilire, da concertare colle debite formalità.
Allora tutte le finezze, tutte le attenzioni hanno da essere per lo sposo, ed egli acquista qualche ragione, se non di pretendere e di comandare, almeno di spiegarsi con libertà, e di ottenere per convenienza. In altra guisa può una figlia onesta trattar con indifferenza, e trattar tutti, e conversare con tutti, ed esser egual con tutti; ma non può, e non deve usar distinzioni, e dar nell'occhio, e discreditarsi. Con quella onestà con cui ho trattato sempre con voi, ho trattato col signor Guglielmo e con altri. Mio padre lo ha invitato con noi, ed io ne sono stata contenta, come lo sarei stata d'ogni altro; e vi lagnate a torto, se di lui, se di me vi dolete. Ora poi che dichiarato vi siete, ora che rendete pubblico l'amor vostro, che mi fate l'onore di domandarmi in isposa, e che mio padre lo sa, e vi acconsente, vi dico, che io ne sono contenta, che mi compiaccio dell'amor vostro, e vi ringrazio della vostra bontà. Per l'avvenire tutte le distinzioni saranno vostre, vi si convengono, le potrete pretendere e le otterrete. Una cosa sola vi chiedo in grazia, e da questa grazia può forse dipendere il buon concetto ch'io deggio formar di voi, e la consolazione d'avervi. Vogliatemi amante, ma non mi vogliate villana. Non fate che i primi segni del vostro amore siano sospetti vili, difidenze ingiuriose, azioni basse, e plebee. Siam sul momento di dover partire. Volete voi che si scacci villanamente, che si rendano altrui palesi i vostri sospetti, e che ci rendiamo ridicoli in faccia al mondo? Lasciate correre per questa volta. Credetemi, e non mi offendete. Conoscerò da ciò, se mi amate. Se vi preme il cuore, o la mano. La mano è pronta, se la volete. Ma il cuore meritatelo, se desiderate di conseguirlo. FILIPPO: Ah! che dite? (A Fulgenzio.) FULGENZIO: (Io non la prenderei, se avesse cento mila scudi di dote). (Piano a Filippo.) FILIPPO: (Sciocco!). (Da sé.) LEONARDO: Non so che dire, vi amo, desidero sopra tutto il cuor vostro. Mi avete dette delle ragioni che mi convincono. Non voglio esservi ingrato. Servitevi, come vi pare, ed abbiate pietà di me. FULGENZIO: (Uh il baccellone!). GIACINTA: (Niente m'importa che venga meco Guglielmo. Basta che non mi contraddica Leonardo). (Da sé.)
SCENA QUINDICESIMA
Brigida e detti. BRIGIDA: Signore, è qui la sua signora sorella col di lei cameriere. LEONARDO: Con permissione, che ino. BRIGIDA: (Si va, o non si va?). (Piano a Giacinta.) GIACINTA: (Si va, si va). (Piano a Brigida.) BRIGIDA: (Aveva una paura terribile che non si andasse). (Parte.)
SCENA SEDICESIMA
Vittoria, Paolo, Brigida e detti. VITTORIA: È permesso? (Melanconica.) GIACINTA: Sì, vita mia, venite. VITTORIA: (Eh vita mia, vita mia!). Come vi sentite, signor Leonardo? (Come sopra.) LEONARDO: Benissimo, grazie al cielo. Paolino, presto, fate che tutto sia lesto e pronto. Il baule, i cavalli, tutto quel che bisogna. Noi partirem fra poco. VITTORIA: Si parte? (Allegra.) GIACINTA: Sì, vita mia, si parte. Siete contenta? VITTORIA: Sì, gioia mia, sono contentissima. FILIPPO: Ho piacere che fra cognate si amino. (Piano a Fulgenzio.) FULGENZIO: Io credo che si amino come il lupo e la pecora. (A Filippo.) FILIPPO: (Che uomo fantastico!). PAOLO: Sia ringraziato il cielo, che lo vedo rasserenato. (Parte.) VITTORIA: Via, fratello, andiamo anche noi. LEONARDO: Siete molto impaziente. GIACINTA: Poverina! è smaniosa per andare in campagna. VITTORIA: Sì, poco più, poco meno, come voi all'incirca. FULGENZIO: E volete andare in campagna senza concludere, senza stabilire il contratto?
VITTORIA: Che contratto? FILIPPO: Prima di partire si potrebbe fare la scritta. VITTORIA: Che scritta? LEONARDO: Io son prontissimo a farla. VITTORIA: E che cosa avete da fare? GIACINTA: Si chiamano due testimoni. VITTORIA: Che cosa far di due testimoni? BRIGIDA: Non lo sa? (A Vittoria.) VITTORIA: Non so niente. BRIGIDA: Se non lo sa, lo saprà. VITTORIA: Signor fratello. LEONARDO: Comandi. VITTORIA: Si fa lo sposo? LEONARDO: Per obbedirla. VITTORIA: E a me non si dice niente? LEONARDO: Se mi darete tempo, ve lo dirò. VITTORIA: È questa la vostra sposa? GIACINTA: Sì, cara, sono io che ha questa fortuna. Mi vorrete voi bene? VITTORIA: Oh quanto piacere! Quanta consolazione ne sento! Cara la mia cognata. (Si baciano.) (Non ci mancava altro che venisse in casa costei!). GIACINTA: (Prego il cielo che vada presto fuori di casa!).
BRIGIDA: (Quei baci credo che non arrivino al core). FILIPPO: (Vedete se si vogliono bene!) (A Fulgenzio.) FULGENZIO: (Sì, lo vedo. Voi non conoscete le donne). (A Filippo.) FILIPPO: (Mi fa rabbia). GIACINTA: Eccoli, eccoli; ecco due testimoni. LEONARDO: (Ah! ecco Guglielmo, egli è la mia disperazione; non lo posso vedere). (Da sé, osservando fra le scene.) VITTORIA: (Che caro signor fratello! Prender moglie prima di dare marito a me! Sentirà, sentirà, se gli saprò dire l'animo mio...).
SCENA DICIASSETTESIMA
Guglielmo, Ferdinando e detti GUGLIELMO: I cavalli son lesti. FERDINANDO: Animo, animo, che fa tardi. Come sta l'amico Leonardo? Vi è ata la melanconia? LEONARDO: Che cosa sapete voi di melanconia? FERDINANDO: Oh! ha detto un non so che la signora Vittoria. VITTORIA: Non è vero niente, non v'ho detto niente. FERDINANDO: Eh! una mentita da una donna si può soffrire. FILIPPO: Signori, prima di partire si ha da fare una cosa. Il signor Leonardo ha avuto la bontà di domandarmi la mia figliuola, ed io gliel'ho promessa. Si faranno le nozze... Quando vorreste voi si fero? (A Leonardo.) LEONARDO: Io direi dopo la villeggiatura. FILIPPO: Benissimo, si faranno dopo la villeggiatura, e intanto si ha da fare la scritta. Onde siete pregati ad esser voi testimoni. GUGLIELMO: (Questa è una novità ch'io non m'aspettava). FERDINANDO: Son qui; molto volentieri. Facciamo presto quello che si ha da fare, e partiamo per la campagna. Ma a proposito, signori miei, a me qual luogo vien destinato? FILIPPO: Non saprei... Che dite voi, Giacinta? GIACINTA: Tocca a voi a disporre. FILIPPO: E il signor Guglielmo? Mi dispiace... Come si farà?
VITTORIA: Permettetemi che io dica una cosa. (A Filippo.) FERDINANDO: Trovate voi l'espediente, signora. VITTORIA: Io dico che se mio fratello è promesso colla signora Giacinta, tocca a lui a andare in carrozza colla sua sposa. FULGENZIO: Così vorrebbe la convenienza, signor Filippo. FILIPPO: Che cosa dice Giacinta? GIACINTA: Io non invito nessuno e non ricuso nessuno. LEONARDO: Cosa dice il signor Guglielmo? GUGLIELMO: Io dico che se sono d'incomodo, tralascierò di venire. VITTORIA: No, no, verrete in calesso con me. GUGLIELMO: (La convenienza vuole ch'io non insista). Se il signor Leonardo me lo permette, accetterò le grazie della signora Vittoria. LEONARDO: Sì, caro amico, ed io della vostra compiacenza vi sarò eternamente obbligato. GIACINTA: (Quando ha ceduto da sé, non m'importa. Io ho sostenuto il mio punto). (Da sé.) FILIPPO: (Ah! che dite? Va bene ora?). (A Fulgenzio.) FULGENZIO: (Non va troppo bene per la signora Vittoria). (A Filippo.) FILIPPO: (Eh! freddure). (A Fulgenzio.) FERDINANDO: Ed io con chi devo andare? GIACINTA: Signore, se vi degnaste di andar colla mia cameriera? FERDINANDO: In calesso? GIACINTA: In calesso.
FERDINANDO: Sì, gioia bella, avrò il piacere di godere la vostra amabile compagnia. (A Brigida.) BRIGIDA: Oh! sarà una gloria per me strabocchevole. (Sarei andata più volentieri col cameriere). (Da sé.) FULGENZIO: Bravi, bene, tutti d'accordo. VITTORIA: Oh via! finiamola una volta. Andiamo a questa benedetta campagna. GIACINTA: Sì, facciamo la scritta, e subitamente partiamo. Finalmente siamo giunti al momento tanto desiderato d'andare in villa. Grandi smanie abbiamo sofferte per paura di non andarvi! Smanie solite della corrente stagione. Buon viaggio dunque a chi parte, e buona permanenza a chi resta.
Fine della Commedia.
Note
[←1] () Novizza, sposa.
[←2] () Missier, suocero.
[←3] () Figo, fico, termine veneziano ch’equivale al niente.
[←4] () Sioria vostra, saluto basso e triviale.
[←5] () Mario e muggier, marito e moglie.
[←6] () Impalai, ritti e fermi come pali.
[←7] () Putte, fanciulle.
[←8] () Che cade! cosa serve?
[←9] () Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.
[←10] () Canapiolo, termine di disprezzo, che si può spiegare spaccone.
[←11] () Vegnì a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me.
[←12] () Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava.
[←13] () Manazzar, minacciare.
[←14] () Colegà, disteso in terra.
[←15] () Scartozzo de pévere, cartoccio di pepe, frase derisoria.
[←16] () Vovo, ovo.
[←17] () Abuo, avuto.
[←18] () Scavezzo, rotto, cioè discolo.
[←19] () Siorazzo, signorone.
[←20] () In cotego, in trappola, cioè in prigione.
[←21] () Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.
[←22] () Bezzi, denari.
[←23] () Scapolerò, sfuggirò.
[←24] () Co, come.
[←25] () Compare, termine d’amicizia usato in Venezia.
[←26] () Piantar el bordon, introdursi a scroccare.
[←27] () Mare, madre.
[←28] () Proverbio veneziano.
[←29] () Aseo! Aceto! esclamazione di sorpresa.
[←30] () Dei, dategli. Sbusèlo, bucatelo.
[←31] () Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.
[←32] () El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.
[←33] () Sieu benedio, siate benedetto.
[←34] () Mi, mi l’ho buo. Io, io l’ho avuto.
[←35] () Gnanca, né anche.
[←36] () Patrona, per signora.
[←37] () Oh magari: oh, il ciel volesse.
[←38] () Mo comòdo, Ma come?
[←39] () Schienze! vuol dire: schegge; e per frase: bagatelle. Con ammirazione.
[←40] () Gnaccara muso d’oro! Esclamazione bergamasca di meraviglia.
[←41] () Ganasse, guance.
[←42] () Tossegar, avvelenare.
[←43] () Garétoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.
[←44] () Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.
[←45] () Monee, monete.
[←46] () Massera, serva di cucina.
[←47] () De balla, termine furbesco, d’accordo.
[←48] () Cortesan, accorto.
[←49] () Cavarme zoso, levarmi la giubba.
[←50] () Ha lumà, ha veduto, termine furbesco in gergo.
[←51] () Bon stomego buono stomaco, cioè di poco onore.
[←52] () In tel comio, nel gomito, cioè all’incontrario.
[←53] () Pe! Ehi!
[←54] () Gastu, hai tu.
[←55] () Barba, zio.
[←56] () Putelo, ragazzo.
[←57] () Babio, viso, frase burlesca.
[←58] () Voggio darghe una tastadina, una toccatina, cioè, darle la prova.
[←59] () Traffega, traffica.
[←60] () I pì, i piedi.
[←61] () Capochieria, corbelleria.
[←62] () Polegana, arte fina, disinvoltura.
[←63] () Custia, costei.
[←64] () Me bisega in tel cuor, mi va a genio.
[←65] () Vecchio, termine amoroso de’ Veneziani.
[←66] () Scoverzer, scoprire.
[←67] () Sbarè delle panchiane, dite delle bugie.
[←68] () Brazzolar, misura di braccio.
[←69] () De smania, smanioso
[←70] () Gargato, gozzo.
[←71] () Bombaso, bambagia, cotone.
[←72] () Sea, seta. Termini allusivi alla morbidezza delle mani.
[←73] () Sie, sei.
[←74] () Do, due.
[←75] () Sioria vostra, saluto burlevole.
[←76] () Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.
[←77] () Pì, piedi.
[←78] () Crielo, crivello.
[←79] () Scartozzi de pévere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti; termine di disprezzo.
[←80] () Pronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cioè supposti.
[←81] () Cortesani d’albeo: suona quasi lo stesso. Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.
[←82] () A chi le tocca, a chi spettano.
[←83] () Zaffi, birri.
[←84] () Piegora, pecora
[←85] () Lovo, lupo.
[←86] () Becher, macellaro.
[←87] () Del dì d’ancuo, del giorno d’oggi.
[←88] () Manizada, ammasso.
[←89] () Ve rebalta, vi rovescia.
[←90] () Varisse, guarisce.
[←91] () Sgranfignae, rubate.
[←92] () Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi. Per metafora, prigione.
[←93] () Brisiola, bragiuola, pezzo di carne d’arrostirsi alla graticola.
[←94] () Un crepo, uno scoppio.
[←95] () Sbasìo, morto.
[←96] () Cusinar, cuocere.
[←97] () Bisegare, frugare.
[←98] () Oselo, uccello.
[←99] () Pàvero, papero.
[←100] () Nuar, nuotare.
[←101] () Sguatarar, dimenarsi nell’acqua.
[←102] () Bevaor, vaso in cui bevono volatoli.
[←103] () Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.
[←104] () Indrio, indietro.
[←105] () Fia, figlia. Termine grazioso che danno i veneziani alla gioventù.
[←106] () Scalmanada, riscaldata.
[←107] () Cossazze, gran cose
[←108] () Putela, bambina.
[←109] () Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.
[←110] () Co, quando.
[←111] () Patta e pagai, del pari.
[←112] () Deboto, or ora.
[←113] () No me reze, non mi reggono.
[←114] () Scoverzer, scoprire.
[←115] () Cagadonao, parola ingiuriosa.
[←116] () Sier bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.
[←117] () Bogia, boia, carnefice.
[←118] () A sunar, a raccogliere.
[←119] () Fregole, bricciole.
[←120]
(1) Figlia.
[←121] (2) Or'ora.
[←122] (3) È finito; servendo per sempre, che il xè in veneziano vuol dire “è”. “est”.
[←123] (4) Avuto.
[←124] (5) Quando io era.
[←125] (6) Madre.
[←126] (7) Sei.
[←127] (8) Si faceva.
[←128] (9) Situazione stabilita dall'uso nella gran Piazza di San Marco, ove si fa il eggio delle maschere.
[←129] (10) Andar gironi.
[←130] (11) Nemmeno.
[←131] (12) Un poco.
[←132] (13) Sguaiata.
[←133] (14) Che vende le paste.
[←134] (15) C'è niente per aria?
[←135] (16) Come
[←136] (17) Via lavorate.
[←137] (18) Egli, cioè s'intende il padrone di casa.
[←138] (19) Come io mi sollecito.
[←139] (20) Sposo.
[←140] (21) Quel mo repplicato è un certo modo caricato di lamentarsi, conveniente all'età di Lucietta.
[←141] (22) Lo stesso che maledetto, ma con più modestia.
[←142] (23) Che malegrazie son queste?
[←143] (24) Matrigna
[←144] (25) Di vantaggio.
[←145] (26) Mi rode, mi tormenta
[←146] (27) Figliastra
[←147] (28) Lupo
[←148] (29) Pagate a giornata.
[←149] (30) Un intercalare vizioso.
[←150] (31) In pace.
[←151] (32) Va giù, dà fuori.
[←152] (33) E avete tanta faccia?
[←153] (34) La maschera sulla faccia?
[←154] (35) Le fanciulle.
[←155] (36) Tutte due
[←156] (37) Oggi.
[←157] (38) Che ci prendiamo la nostra giornata. I capi di casa all'antica concedevano una giornata di carnovale alla famiglia. Ora tutti i giorni sono compagni.
[←158] (39) Il Ciel volesse.
[←159] (40) Non vado
[←160] (41) Padrone, cioè mogli
[←161] (42) Parola detta per amore
[←162] (43) Co se diè: è un detto di baso volgo, che spiega essere quei' taliuomini di proposito, cioè come devono essere.
[←163] (44) Ragazzate.
[←164] (45) Prigione
[←165] (46) Quello che si dice.
[←166] (47) Chi vi seconda.
[←167] (48) Fa mormorare
[←168] (49) Farsi mettere sui ventagli, è lo stesso che farsi ridicoli.
[←169] (50) Porcherie.
[←170] (51) Uno di quelli che raccolgono le immondizie
[←171] (52) Trattato di matrimonio, in modo di dire bassissimo.
[←172] (53) Non m'impiccio.
[←173] (54) Modo di dire, che è lo stesso, come se si dicesse sotto il cielo, semplicemente.
[←174] (55) Cosa sono io?
[←175] (56) Moglie
[←176] (57) Spicciatevi
[←177] (58) La vogliamo finire?
[←178] (59) Di seta?
[←179] (60) Guardinfanti.
[←180] (61) Papigliotti.
[←181] (62) Gioje
[←182] (63) Smanigli
[←183] (64) Al giorno d'oggi
[←184] (65) In capo a cent'anni.
[←185] (66) Termine d'amicizia.
[←186] (67) La coscia del vitello.
[←187] (68) Vhe venga a infastidirvi.
[←188] (69) E i figliuoli stanno da figliuoli.
[←189] (70) La duodecima parte d'un soldo.
[←190] (71) Le pezze ai calzoni.
[←191] (72) Animelle.
[←192] (73) Nipote.
[←193] (74) Studio, scrittoio.
[←194] (75) Sedete.
[←195] (76) Far colazione.
[←196] (77) Zia.
[←197] (78) Zio.
[←198] (79) I giorni da lavoro.
[←199] (80) La Giudecca, isola deliziosa dirimpetto a Venezia, e poco distante
[←200] (81) Uno de' sentieri di Venezia, che ha delle eggiate piacevoli.
[←201] (82) Intendesi in Venezia, quando si dice la Piazza, quella di San Marco; le altre piazze si chiamano campi.
[←202] (83) Si sono per l'appunto trovati.
[←203] (84) Mi ha dato su la voce.
[←204] (85) Guardate.
[←205] (86) Dopo tanto tempo.
[←206] (87) Borbottate?
[←207] (88) Se fossimo taglialegni, gente villana, nata nelle valli più incolte.
[←208] (89) In veneziano “cosa” si dice “cossa”, e “coscia” si dice “cossa”, dunque succede l'equivoco scherzoso di cossa e gamba.
[←209] (90) S'intende il bisognevole per il pranzo.
[←210] (91) Non si pranza oggi?
[←211] (92) Questo lu dà una certa forza all'espressione, che non si può tradurre.
[←212] (93) Cambiatemi il nome.
[←213] (94) Cognato.
[←214] (95) Picchiano.
[←215] (96) Stolido.
[←216] (97) Suo marito è del fare del mio.
[←217] (98) Le va dietro.
[←218] (99) Non è egli vero?
[←219] (100) Appresso
[←220] (101) Cara fia, cara figlia, dicesi per amicizia.
[←221] (102) Seggiole.
[←222] (103) Difendetevi.
[←223] (104) Lo stesso che sì.
[←224] (105) Fanno nozze in casa?
[←225] (106) Raccontatemi.
[←226] (107) Sentono?
[←227] (108) Codogno vuol dire melcotogno, ma qui s'intende per uno sproposito, per una cosa malfatta.
[←228] (109) Vuol dire sottoscriver la scritta.
[←229] (110) Nemen per sogno.
[←230] (111) Che badino.
[←231] (112) A due ore di notte, cioè due ore dopo il tramontar del sole.
[←232] (113) Lasciate la cura a me.
[←233] (114) E poi?
[←234] (115) Scherzo di parole fra il Po fiume, e po proposizione, che vuol dire “poi”. Dopo il Po vien l'Adese vuol dire, che dopo il Po si trova il fiume Adige, onde da cosa nasce cosa.
[←235] (116) Finta, accorta, maliziosa.
[←236] (117) Con questa sorte di gente?
[←237] (118) Espressione che spiega assaissimo la maraviglia e il dispregio.
[←238] (119) Babbeo, scioccone.
[←239]
(1) Senza adornamenti.
[←240] (2) Che vi do io de' consigli.
[←241] (3) Arbitrî.
[←242] (4) Forse?
[←243] (5) Quando.
[←244] (6) Grembiale.
[←245] (7) Come
[←246] (8) Di nascosto
[←247] (9) Manicotti.
[←248] (10) Non mi discovenga.
[←249] (11) Matrigna.
[←250] (12) Scovolo in veneziano è uno spazzolino di sarmenti di biade minute, con cui si ripuliscono i tondi in cucina.
[←251] (13) Apite.
[←252] (14) Di bucato.
[←253] (15) Begli umoretti.
[←254] (16) Rimbrotti.
[←255] (17) Che io v'allacci.
[←256] (18) Anticaglia.
[←257] (19) Allargatele un poco.
[←258] (20) Volete giuocare.
[←259] (21) Maledettissima
[←260] (22) Guardare.
[←261] (23) Saccoccia.
[←262] (24) Straccietto.
[←263] (25) Che logoraste.
[←264] (26) Spienza vuol dire la milza, ma in proverbio patire la spienza s'intende per uomo avaro.
[←265] (27) Bamboccia che si espone in Venezia dai professori di mode.
[←266] (28) Che le gridi.
[←267] (29) Ciondoli.
[←268] (30) Chi vi ha dato quelle porcherie?
[←269] (31) Una donna di garbo.
[←270] (22) Un nastro.
[←271] (23) Che tu sia benedetta dove tu sei.
[←272] (24) Bugie.
[←273] (25) Cospetto e tacca via, esclamazione bassa, collerica, per non bestemmiare.
[←274] (26) Questo saluto: patron, patrona è l'ordinario, e quasi indispensabile di questo ordine di persone.
[←275] (27) Andate via.
[←276] (28) Caricatura.
[←277] (29) Abito assai succinto, che si usava molti anni prima.
[←278] (30) Di broccato.
[←279] (31) Argento in quantità.
[←280] (64) Di seta?
[←281] (65) Se badassimo a loro.
[←282] (66) “Mettere i moccoli dietro a qualcheduno” vuol dire svergognarlo, deriderlo.
[←283] (67) Andarsi a nascondere.
[←284] (68) Giudizio, detto burlescamente.
[←285] (67) Vi direi delle villanie.
[←286] (68) Dieci
[←287] (69) Quelle macchinette che si mostrano in Piazza ai curiosi per poco prezzo.
[←288] (70) Raccoglieva le mance.
[←289] (71) Ch'io gli cavava di mano.
[←290] (72) E quando li riscuoto.
[←291] (73) Li gettano con la pala.
[←292] (72) I calzoni.
[←293] (73) Espressione tenera, amorosa, lo stesso che “viscere”.
[←294] (74) Non muove a baciarlo, a vezzeggiarlo? Ecc.
[←295] (75) Mezzà in Venezia dicesi a quella stanza, in cui si fanno le maggiori faccende: mezzà è lo studio degli avvocati, sei ministri, dei legali, dei mercadanti; dicesi anche mezzà ad una o più stanze, che sono ad un primo piano al di sotto del piano nobile, ed alcuni ve ne sono anche a terreno.
[←296] (76) Espressione di meraviglia.
[←297] (77) Mi carica di carezze.
[←298] (78) Niente.
[←299] (79) Penare.
[←300] (80) È tutt'uno.
[←301] (81) Non vi è niente di certo.
[←302] (82) Mi pare un sogno.
[←303] (83) Spiegare il sogno, s'intende verificarlo.
[←304] (84) C'è dubbio?
[←305] (85) Allegrezza con desiderio.
[←306] (86) Non parlate altro.
[←307] (87) Si repplica, che àmia vuol dire zia
[←308] (88) Che sguaiataggini.
[←309] (89) Intende ironicamente del suo cattivo marito.
[←310] (90) Aggrinza il naso.
[←311] (91) Finestra a tetto per dar lume al soffitto.
[←312] (92) Mi mettono in sapore, cioè in lusinga.
[←313] (93) Grandissima.
[←314] (94) Lo stesso come se si dicesse: Per Bacco!
[←315] (95) Tronco di cavolo.
[←316] (96) Parlano in gergo.
[←317] (97) Insuperbite.
[←318] (98) Un giovine di garbo.
[←319] (99) Quando sarò nel caso.
[←320] (100) Peggio.
[←321] (101) Delicato.
[←322] (102) Può star poco a venire
[←323] (103) A tavola.
[←324] (104) Un'occhiata alla sfuggita.
[←325] (104) Dunque.
[←326] (105) Né entrata, né uscita, cioè non ci ho interesse veruno.
[←327] (106) Lo stesso che dire né dritto, né rovescio
[←328] (107) Cognato.
[←329] (108) Che bel garbo!
[←330] (109) Mela rosa.
[←331] (110) Appena.
[←332] (111) Se sarete destinati, vi sposarete.
[←333] (112) Colui.
[←334] (113) Se ne andranno
[←335] (114) Di malavoglia.
[←336] (115) Tremore.
[←337] (116) Febbre.
[←338] (117) Tremo, ho paura.
[←339] (118) A prendere.
[←340] (119) Si sposano.
[←341] (120) Brodi lunghi.
[←342] (121) Le budella.
[←343] (122) Un ingaggiator di soldati.
[←344] (1) Castigatele
[←345] (2) Costoro.
[←346] (3) Non si parli più del matrimonio.
[←347] (4) Loco.
[←348] (5) Metterle per forza.
[←349] (6) Parlo bene?
[←350] (7) La briglia.
[←351] (8) E quando avete ceduto.
[←352] (9) Lasciar che la gente dica quel che sa dire.
[←353] (10) Sapete.
[←354] (11) Messer no.
[←355] (12) Peggio.
[←356] (13) Volta, rivolta.
[←357] (14) Svergognare, deridere.
[←358] (15) S'intende in villa.
[←359] (16) Le entrate.
[←360] (17) Qualche cenno.
[←361] (18) Di nascosto.
[←362] (19) L'ho
[←363] (20) Ha timore.
[←364] (21) Quasi tutte le strade di Venezia hanno de' piccioli canaletti lateralmente, dove si uniscono le immondizie, e per dove scorre e si perde l'acqua piovana, e si chiamano gattoli.
[←365] (22) Non mi voglio.
[←366] (23) Correggetemi
[←367] (24) Che bagatella?
[←368] (25) Sciocco.
[←369] (24) Lo adoperi.
[←370] (25) Quando
[←371] (26) Due
[←372] (27) Che lo conduciate.
[←373] (28) Che tenesse mano.
[←374] (29) Fatto alla vostra maniera.
[←375] (30) Si son piaciuti
[←376] (31) Ho terminato l'aringa, approvate il matrimonio, e compatite l'avvocato. Scherza sulla maniera con cui si terminavano ordinariamente le aringhe degli avvocati in Venezia.
[←377] (32) Approverei.
[←378] (33) L'urna verde è quella de' voti contrari
[←379] (34) Temo che si dovrà revocare.
[←380] (35) Marito.
[←381] (36) Si fosse scordato.
[←382] (37) Qui l'autore parla di se stesso, che non si scorda ciò di cui ha parlato.
[←383] (38) Mi fa un'aringa, ed io approvo.
[←384] (39) Chiapo vuol dire prendo: qui s'intende risolvo sul momento, e vado via.
[←385] (40) Gettarla fuori.
[←386] (41) Ehi, son dessi.
[←387] (42) Indietro.
[←388] (43) Pianger, detto bassamente.
[←389] (44) Vi cambiate.
[←390] (45) Ruotelle di fuochi artificiali, ed anco gioccolini da bambini, che girano coll'agitazione dell'aria.
[←391] (46) Sottile, delicato.
[←392] (47) Insomma.
[←393] (48) Tenetelo, sostenetelo.
[←394] (49) Che core avete?
[←395] (50) In Venezia quelli che servono da testimonio nei matrimoni, si chiamano “compari dall'anello”.
[←396] (51) Oggi.
[←397] (52) Tavola.
[←398] (53) Domestici, cioè umani, trattabili.
[←399] Il linguaggio di Brighella può are per veneziano.
[←400] Gli Arlecchini oggi comunemente usano il linguaggio veneziano.
[←401] Affetta di parlare toscano per finzione.
[←402] Mussa con due ss, in veneziano, vuol dire asina.
[←403] Il linguaggio di Pantalone è tutto veneziano.
[←404] Detto burlesco, derisorio, che vuol dire mettere la spada nella crusca.
[←405] () Parla veneziano.
[←406] () Modo di dire: servo di Vosustrissima.
[←407] Proverbio veneziano: vuol dire esser facile a far qualche cosa.
[←408] Fanfaluche, bugie.
[←409] () Suocero.
[←410] Donna di mal affare.