Alberto Pestelli
Una notte su Monte Ceceri
Youcanprint Self - Publishing
Titolo | Una notte su Monte Ceceri Autore | Alberto Pestelli ISBN |9788891137814 Prima edizione digitale: 2014
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I
Il famosissimo musicista russo Modest Petrovič Musorgskij[1 – vedi note al termine del romanzo] quando compose “Una notte su monte Calvo[2]” sicuramente pensò o sognò – secondo il mio parere fu un incubo destato da chissà quale artificio – un’ordalia satanica.
Il risultato? Semplice! Fu un capolavoro unico, tanto che le sue note violente furono prese a prestito dalla Disney per la colonna sonora di Fantasia. Nacque il personaggio Chernabog[3] che fu forse considerato il più cattivo tra i cattivi creati da Walt Disney.
Adesso vi domanderete: ma cosa c’incastra tutto questo discorso con Monte Ceceri? Se avete un attimo di pazienza ci arrivo. Volevo solo fare un paragone un po’ bizzarro... ovvìa, dicevo...
Mi sono sempre chiesto se quella montagna, sua fonte d’ispirazione, il russo l’abbia vista realmente. Magari l’ha pure scalata. Chissà, dovrei consultare la Treccani o la Britannica, ma ho dei seri dubbi a proposito.
Un mio carissimo amico mi disse un giorno, per scherzo e per caso, mentre guardavamo alla tele una tappa del tour de :
«Osserva il Mont Ventù[4]... la montagna calva e ventosa» – scusate se lo scrivo all’italiana, ma ignoro il se – «Il musicista russo sarà andato lassù a cercar i su’ diavoli.»
Spinto dalla curiosità e dalla ione per il ciclismo e soprattutto dal fatto che la Provenza era ed è tuttora una delle mète preferite per le mie ferie, qualche tempo dopo visitai il luogo.
Ebbene, come allora anche oggi non mi sognerei mai e poi mai – nemmeno per tutto l’oro del mondo – di trascorrerci una sola notte, sul colle del tour de .
Cosa che invece feci anni fa lassù su monte Ceceri[5], insieme al mio nonno paterno.
Ceceri? Suona strano questo nome, vero? Ma cosa vuol dire in effetti questa parola? Forse – e credo di esserne sicuro quasi al 91,99 per cento – nemmeno qualche fiesolano della mia età conosce il suo significato e ricorda la ragione per la quale è stato chiamato così questo poggio.
Adesso arrivo al nòcciolo della questione. Sempre che abbiate voglia di ascoltarmi.
Il nonno diceva: «Quando ero giovane, e ‘un mi faceva fatica andar lassù, dai cigni.»
Io non capivo allora. Lo seppi solo dopo aver trascorso – in età matura – quella benedetta notte al capanno diroccato delle vecchie cave di pietra serena[6] che hanno dato tanta fama alla città etrusca dominatrice – dall’alto, ovvio – della città gigliata.
E se da Fiesole si gode uno dei panorami più belli di Firenze, dal Monte dei Cigni[7], oltre al panorama fiorentino, ci si affaccia sulla sottostante vallata, dove si trovano le cave di Maiano.
Proprio dal punto dove il colle scende a precipizio sulla valletta, un bel giorno di qualche secolo fa, un bischero, un certo Zoroastro da Peretola[8] - dove nacque ci hanno fatto pure l’aeroporto di Firenze[9]... chissà se per caso o in memoria sua - si buttò di sotto con delle ali posticce.
Secondo varie dicerie, molti asserirono che nemmeno il leggendario Icaro fece di meglio; il Masini non si avvicinò al sole ma toccò subito la punta d’un leccio secolare rompendosi le gambe[10].
Insomma, per cercare di farla breve – dovete scusarmi ma avete già compreso che sono un gran chiacchierone – monte Ceceri è un luogo ricco di storia, e di storie sia famose sia sconosciute.
Le prime danno prestigio alla città, le seconde sono episodi di vita vissuta da gente comune, lavoratori, donne e uomini umili e spesso maltrattati.
E dalle sue rocce, da secoli se non da millenni, i Fiesolani, prima come Etruschi liberi, poi come Rasenna[11] soggiogati dai Romani ci cavano la pietra serena. Forse è meglio dire cavavano perché ormai è tutto abbandonato. Beh, non proprio. La zona è diventata un parco.
Quella che sto per iniziare è la storia di un cavatore che, per guadagnar di più,
faceva anche lo scalpellino. Lui si definiva “uno scalpellino fiesolano verace...”. E lo era sul serio. Più che cavarla, nonno amava scolpire, scalpellare, modellare, plasmare la pietra che estraeva dalla cava. Era un vero maestro anche se non era l’unico, ovvio!
Sento dire da qualcuno di voi che da un po’ di tempo tutti discutono di questo nobile e umile mestiere...
Sì, lo so, par che adesso sia di moda parlare degli scalpellini fiesolani. Lo stanno facendo un po’ tutti. Anche un signore caldinese che adesso vive in Francia da tanti anni ha scritto qualcosa su di un vecchio scalpellino che si chiamava Scheggia[12]. Mio nonno lo conosceva di vista e di fama, anche se non hanno mai lavorato insieme.
«Lo Scheggia morì quando l’Arno venne a far du’ i e danni per le strade fiorentine» mi disse un giorno. «Ero andato a trovarlo nella casa di riposo dove era ospite poho prima che andasse a babboriveggioli[13].»
«Come lo sai?» risposi.
«Perché mi avete portato nello stesso ospizio! I’ povero vecchio l’è morto in questa stanza. Aveva cent’anni. Me lo disse un vecchietto quando sono arrivato come ospite in questa casa di tristezza e di attendisti.»
«Attendisti... Perché mi dici queste cose?» chiesi guardandolo con sospetto, «Che cosa hai da dire, che non vuoi rimanere qui? Hai paura di far la fine dello Scheggia in questa stessa stanza?»
«Beh, non aspiro certo di hampar un seholo, però l’hai detto tu, nipote... io non voglio attendere che vengano a portarmi via quelli dell’Ofisa [14] o della Misericordia [15] finché sto qua dentro. Voglio star fori quando l’è i’ momento.»
«Insomma... spara!» chiesi con fermezza.
«Portami lassù fino a far nottata.»
«Dove, e soprattutto a fare cosa?»
«E sono affar mia. Tu portami lassù e poi vedrai, forse capirai.»
«Forse capirò, però sai benissimo che non posso fare una cosa del genere. Si deve chiedere il permesso della direttrice anche per farti venire a pranzo da me.»
«Basta che tu diha che mi porti, appunto, da te, a casa tua a pranzo. La direttrice l’è talmente pissera[16] ... e ci crederà subito. E poi tu gli garbi... ma non li vedi quanti sorrisi che la ti fa?»
«Vien via, nonno... potrebb’esser la mi’ zia. E poi sembra una lottatrice grecoromana.»
«Tu provaci a convincella[17] e poi si va...» «Spero di non pentirmene... Ti va
bene sabato?» «Sì, va bene, come no?» mi rispose con un sorriso di soddisfazione il nonno.
Fu così che un tardo pomeriggio di fine estate di qualche anno fa – più o meno quando riaprirono la vecchia linea ferroviaria della Faentina[18] – feci uscire mio nonno dalla casa di riposo con una scusa. Quando varcammo il portone, fui subito colto dal sospetto che si trattasse di più di una fuga. Non vorrà andare a babboriveggioli proprio lassù? Scossi la testa e dissi tra me e me: “No, vuole solo fare una visita alle vecchie cave... e poi quando fa buio, viene a dormire da me...”
Con quella convinzione in testa lo accompagnai, dopo aver lasciato la mia automobile in Pian di Mugnone[19], per la salita verso Fiesole. Volle in tutti modi percorrere a piedi via del Paretaio[20]. Dopo un bel po’ arrivammo molto affaticati a Borgunto[21]... no, io con molta fatica, perché mio nonno sembrava ringiovanito di... di... sì, insomma, ringiovanito e basta.
«Una volta c’era una fonte qui vicino» disse mio nonno guardandosi intorno «Ora ricordo... sta là. La fonte Sotterra[22].»
«Guarda che la conosco anch’io. Non sono nato ieri. Non ti ricordi che mi portasti quando ero bambino?»
«Ah sì? Ho fatto tante di quelle hose che a volte mi an via da’ i’ ccapo. Forza prendiamo da bere e fai pohi discorsi. C’hai inteso?»
«Forte e chiaro, nonno!»
Riempimmo quattro borracce di acqua fresca e riprendemmo il cammino per monte Ceceri, seguendo il sentiero – chiamato Via degli Scalpellini – che inizia subito dopo il complesso delle Scuole Medie.
Non ricordo quanto ci mettemmo a percorrere il sentiero in mezzo al bosco, ma credo che ci volle una buona mezzora. Forse qualcosa di più. Tuttavia quando arrivammo in prossimità delle vecchie cave non avevo la forza sufficiente per parlare. Capii che eravamo giunti a destinazione quando il nonno si sedette su di un grosso sasso accanto ad un antico capanno. Il suo capanno. Lo sentii sospirare.
II
«Ahhh! Senti nipote, senti che aria frizzina[23] c’è quassù. L’eran cent’anni che ‘un ci salivo» esclamò girandosi attorno con un’espressione soddisfatta.
Ricordo bene il suo sorriso di compiacimento. Mi sembra di vederlo proprio in questo momento. Era felice.
«Mah! Sarà! A me sembra la solita aria che c’è a Fiesole o nel paese giù in basso» risposi nascondendo il mio affanno per la camminata.
«Annusala quest’aria. Annusala per benino.»
«Ma come vuoi che faccia, non mi riesce... uff... la salita che abbiamo fatto mi ha fatto venire il fiatone. Non faccio a tempo a sentire gli odori.»
«Ti sembro grullo, vero? Grullo, bischero e rincoglionito lo dovento[24] se hontinuo a restare rinchiuso all’ospizio giù a Firenze. E poi fuma di meno.»
«Ma che cosa vuoi fare quassù? Accidenti a me e a quando ti ho dato retta. Non ti ci dovevo portare. E per che cosa? Per annusare questi quattro sassi murati senza un fil di malta e le foglie ammuffite del bosco. Andiamo nonno, ti riporto giù. Tra poco calerà il sole.»
In effetti il sole stava preparandosi a vestirsi del più bel tramonto che abbia mai visto in vita mia. Ma lo spettacolo non sarebbe avvenuto così in fretta come mi ero immaginato.
Avevo capito che il nonno voleva tirarla per le lunghe e rimanere su quel sasso fino a buio. Per essere sinceri, io non avevo certo una gran voglia di dargli retta.
Feci il gesto di prendere lo zaino per portarlo sulla spalla destra. Il nonno se ne accorse.
«’Un t’azzardare sai! ‘Un m’impedire di respirare l’aria di qui. È la hosa che più amo di questo posto.»
«Sant’Iddio... ma quale aria? Come fai ad amare questo poggio boscoso dove in gioventù sei stato sfruttato per due lire, randellato, purgato e rirandellato anche dai tuoi vecchi amici del paese. Chiamali amici, vero? Hai sempre lavorato come un somaro e per che cosa? Per una sacchettata di calci in cu... ehm, nel sedere.»
«A parte i’ fatto che quegli amici, o presunti tali, l’erano in due e basta, le randellate l’ho rese fino all’ultima scheggia di’ legno del randello a quei du’ doddi[25]. Pure i’ sale ingrese gliò[26] dato perché ‘un c’era più olio di ricino. ‘Un saprei dire quale de’ due fa più schifo. Fanno schifo e basta! Figliolo, l’è vero, m’hanno sfruttato fino all’osso, ma quassù ci son pratihamente venuto a’ i’ mondo. Ciò vissuto tutt’una vita e ti posso assihurare che qui c’è pace. L’odore dell’aria di qui, caro i’ mi’ nipote, l’è i’ profumo della libertà. Nell’ospizio sento solo altri profumi, specialmente quando cambian’ i’ pannolone a’ i’ mi’ hompagno di stanza. Pohero Cristo anche lui. Icchè l’ha vissuto. L’è più giovane di me, ti rendi honto?»
«Me ne rendo conto benissimo» dissi dopo aver riflettuto sul suo lungo sfogo.
Lo guardai dall’alto. Ancora non mi ero messo a sedere. Non sapevo se farlo oppure insistere per andare via. La tentazione era assai forte, ma la curiosità di come sarebbe andata a finire quest’avventura mi stuzzicava. Senza contare che il nonno in quell’istante mi fece tenerezza.
Gli sorrisi.
«O’ che sorriso a ebete t’ha fatto? Ma perché tu stai ancora in piedi, bischero. Mettiti a sedere su questi sassi, perdinci... e poi nipote, a forza di guardatti[27] da’ i’ basso, mentre tu stai ‘n piedi, e mi fa venire i’ torcihollo.»
Ubbidii rassegnandomi a rimanere ancora nel bosco sperando – forse è il caso di dire... illudendomi – di sbrigarmela almeno in un’ora o al massimo in due.
«O bravo! Dai, smoviti[28 un pohino e apri i’ sacco e ami un panino. Quello più morbido. Ciò i’ mal di denti. Ma proprio alla mi’ età mi doveva spuntare i’dente di’ giudizio?», disse toccandosi la guancia destra e facendo una smorfia che interpretai a fatica. Se di dolore o di rottura di scatole. Optai per la seconda possibilità.
«Meglio tardi che mai» mi azzardai a dire con una puntina di strafottenza nella voce.
«Sappilo[29] nipote, che io, di giudizio, ce n’ho[30] sempre avuto... e di molto
per giunta. Tu’ pae[31] e[32] potrebbe dissentire, ma anche lui dovrebbe star zittino. ‘Un gliò fatto mancare mai nulla. Alla tu’ nonna... alla tu’ nonna invece sì. Le ho fatto mancare me stesso, a volte. Questo lo rihonosco. Icché tu voi... ero sempre quassù a cavare e a scalpellare e dar di mazzolo a destra e a manca e... spesso anche ni’ letto di quarche[3] sposina che ciaveva i’ marito a lavorare un po’ distante da casa...»
«Povera nonna.»
«Eh sì. Quante gliel’ho fatte are. Alla fine m’ha sempre sopportato e...»
«Il senno di poi, vero?» gli domandai interrompendo il suo discorso.
«Ma chiamalo come tu vvoi[34]. Sì, l’è così.»
«Va bene, va bene, nonno. Non mi hai mai raccontato niente della nonna.»
«Ma se l’hai honosciuta...»
«Volevo dire che non mi hai mai raccontato com’era da ragazza, da giovane. Raccontami di quando vi siete incontrati la prima volta. Per favore!»
«O giù! Mettiti homodo su’ qui’ sasso scomodo. Ascolta, se mi scapperà ‘na lacrima mentre racconto il giorno del nostro incontro e tutti i’ seguito... tu, beh, lasciamela hadere.»
La frittata era fatta. Io che non vedevo l’ora di tornare verso casa, in quel preciso istante mi rassegnai a trascorrere un’altra ora o due su Monte Ceceri.
Potevo farmi raccontare la storia dei nonni lungo la strada del ritorno ma, tutto sommato, tra quelle piante si sprigionava una certa magia che già mi stava catturando l’anima. Valeva la pena di ascoltare la sua voce stenta.
Sì che ne valeva!
Mi sistemai per benino su di un’altra pietra – scomoda anche questa, inutile ripeterlo ancora – di fronte al nonno.
Mi stava osservando. Guardai l’orologio tanto per non fissare il suo sguardo. A volte m’imbarazzava.
«Levati l’orologio!» «Ma come faccio a...» «Levati l’orologio e ascolta. Il tempo si deve fermare quando parlo di certe hose.» «Va bene nonno... allora inizia!»
III
«La mi’ povera Elvira, la pazienza fatta di ciccia.» «In carne ossa vorrai dire» cercai di correggere l’inesattezza. «Senti nipote caro, io parlo e te intendi, intesi?» mi disse con uno sguardo misto tra il serio e il faceto. Abbassai lo sguardo.
Come già detto in precedenza, ho sempre avuto timore di quel suo modo di guardarmi quando lo contraddicevo. Non ero nemmeno l’unico a sostenere tale opinione.
Molti erano soggiogati dal suo modo di fare ora fiero e severo, ora allegro e canzonatorio.
L’unica persona che non si faceva mettere i piedi in testa da lui era la povera nonna Elvira.
Quindi a seguito di quello sguardo annuii e dissi: «Ho capito, nonno, ho inteso. Vai avanti.»
«Se diho che la tu’ nonna e l’era la pazienza fatta di ciccia è perché quando la honobbi l’era parecchio in carne.»
«Ma se era secca come un chiodo» dissi quasi sotto voce, riprendendolo di nuovo per ciò che non mi quadrava. Questa volta mi sorrise bonario.
«Quando l’hai conosciuta forse... ma ‘un n’è sempre stata hosì. All’età di diciotto anni la tu’ nonna l’era rotondina, bella pienotta!»
Mi ricordo ancora questa scena a distanza di qualche anno. Quando il mio vecchio disse quelle parole, aveva una luce tale negli occhi che mi fece quasi rabbrividire dall’emozione.
«...ahhh, era proprio un bigiù e brancicarla[35] per benino l’era un gran piacere. Era la più timida di’ paese.»
«La più timida? Ma che dici, nonno? Ma se era una donnina disinvolta!»
«Zitto! Che ne sai di hom’era un tempo... quando eravamo giovani noi due tu t’eri ancora ni’ tonchio[36] di tu’ pae[37] che ciaveva ancora da venire a’ i’ mondo...» disse alzando la voce e puntandomi il dito addosso. Rimasi di sasso.
Si accorse di aver esagerato. Abbassando il tono della voce riprese il suo discorso.
«Sì, proprio hosì, era la più timida. Se solo la guardavi per sbaglio, l’arrossiva come un pomodoro e abbassava i suoi occhioni azzurri. Quanto erano belli, sembravano du’ stelle.»
«Sì, è vero. Ricordo il suo bellissimo sguardo. Ora dolce e materno. Ora di rimprovero quando le dannavo l’anima con tutto quel chiasso che facevo in casa.
Era una donna battagliera e non ricordo assolutamente di averla vista arrossire.»
«Caro nipote mio, la tu’ nonna l’è doventata[38] hosì a una certa età, dopo i’ fatto.»
I’ fatto...
Questa notizia mi lasciò perplesso. Non avevo alcuna memoria di un certo fatto accaduto tra loro due. Li avevo visti sempre andare d’amore e d’accordo.
Certo, ogni tanto li sentivo alzare la voce. Pensavo che fosse a causa della loro lieve sordità. Invece...
«Quale fatto, nonno? Che cosa è successo e perché non so niente?» chiesi preoccupato e ansioso di sapere del misterioso accadimento.
«Tutto a’ i’ su’ tempo, giovane» rispose sorridendo il vecchio cavatore. No, scalpellino come amava definirsi.
Poi, come catturato da non so cosa, mi osservò intensamente. Le labbra si chio e si arcuarono verso il basso come se volessero esprimere non tanto la tristezza, quanto, con tutta probabilità, la malinconia degli anni ati.
Intuii che anche la sua giovinezza interiore lo stava abbandonando. Rimasi in ossequioso silenzio aspettando che dicesse qualcosa.
Non aspettai a lungo.
«...Mmm... giovane, tu? Tu inizi ad avere una cert’età anche te[39]. Va bene, meglio che ‘un ti guardi... mi fai sentire ancor più vecchio di quel che sono.»
«Fai come vuoi, nonno.»
«D’accordo, va bene... fammici arrivare. Prima voglio raccontarti di quant’era belloccia la tu’ nonna. L’era davvero una bella fanciulla.»
«Non ho mai visto una sua fotografia di quando era giovane.» «Ne avevamo tante, ma sono state perse durante l’alluvione ni’ sessantasei.» «Mi ricordo dell’alluvione.»
«Tu eri già grande. T’avrai avuto, t’avrai avuto... o, ma quant’anni tu ciai? ‘Un me ne rihordo miha... insomma quando traboccò l’Arno t’eri di molto giovane, ma dovresti aver ancora impresse quelle immagini. Ti rihordi quando ci siamo trasferiti in casa di’ tu’ zio Ezio? Stava dietro a’ i’ Bargello. La nostra roba l’era tutta in cantina. Insomma, si perse tutto in que’ rifrulli di mer... ehm, di mota.»
«Per la precisione avevo dieci anni nel 1966. Quindi ora non sono più tanto un ragazzino. Ma...» «Ma?» «Sai una cosa, nonno?» dissi sorridendo. «Icché?»
«Tu hai la grande capacità di iniziar un discorso e vai a finire in un altro... e in quale modo lo sai solo tu. A volte non riesco a seguirti. Anzi il più delle volte è
proprio così. Dai, parla della nonna.»
«Ah già... i suoi occhioni azzurri. Conobbi l’Elvira mia alla fiera delle Haldine[40].»
«Che cosa? C’era una fiera in paese? Non lo sapevo!»
«’Un tu sai mai nulla te... ‘ndo tu’ vivi? Eppure queste hose sono importanti. Va beh, ‘’un n’è colpa tua.
Era la fiera delle bestie. Mucche, ciuhi, cavalli, polli e coniglioli. Ma io ‘un ciandavo per questo motivo. Mi garbava i’ gioho della rulla[41]. Sai come si gioha?»
IV
«Ero un gran campione. Da giovanotto partecipavo a tutte le fiere dove praticavano questo sano sport. Ora, non si può parlare proprio di disciplina sportiva, però per noi umili era come se lo fosse stata. Comunque, di solito il gioco della rulla coincideva sempre con la raccolta dei baccelli.»
«Per quale motivo?» «E tu sei ignorante a modo, perdinci!»
«Fregatene della mia ignoranza. Se non lo so che ci posso fare? Tu non hai sempre vissuto insieme a noi. Il babbo non ci ha mai detto niente.»
«Che gran bischero l’è i’ mi’ figliolo. Lo so, lo so! Aveva sempre da fare. Anche ora che l’è in pensione cià sempre qualcosa da maneggiare o raccomodare. Ma torniamo alla rulla. Icché si mangia di solito co’ baccelli?»
«Il formaggio!»
«O bravo nacchero! I’ Pehorino co’ le fave e un paio di bicchieri di vino l’eran i’ premio delle fiere più povere, mentre in quelle più importanti c’era in palio la classiha spalla di maiale, i’ pehorino stagionato e un fiasco di rosso della zona. A volte c’era anche l’olio, ma era raro trovallo a buon mercato e i’ paese o i’ paesello doveva essere parecchio importante e ricco.
Ero arrivato a una bravura tale che gli organizzatori della gara m’iscrivevano
senza che io ne sapessi nulla. Davano per scontata la mia presenza in pista. E sai hosa? Mi toccava andarci anche quando ‘un ce ne avevo voglia. ‘Un potevo tirarmi indietro. Tutti quanti volevano gareggiare contro di me. Sono rimasto imbattuto
per moltissimi anni. Solo una persona l’è riuscita a battermi. Dopo quel giorno ho attaccato i’ nastro a’ i’ chiodo e ‘un n’ho più giohato. ‘Un sono più andato anche alle varie fiere. Troppo triste veder tirare gli altri mentre io, per colpa d’un piccolo infortunio, avevo perso l’ultima gara con un pivello.»
«Un pivello?» domandai al nonno che mostrava segni di insofferenza al ricordo della sconfitta. «Ma chi ti ha battuto?»
«Lascia perdere che è meglio.» «Lo zio Ezio?» «No, sieee[42]...» «Mio padre?»
«E tu ce lo vedi i’ tu’ babbo a tirare le rulle? No, ‘un è stato lui!»
«Dimmelo!»
«Forse. Ora ciò da dire della tu’ nonna o icché tu te ne sei scordato?»
«Va bene, nonno, vai avanti con il tuo racconto, ma sappi che voglio sapere chi ti ha sconfitto alla rulla.»
«Dicevo che ho sempre vinto le gare tranne l’ultima. Ma c’è stata una volta che
non persi perché mi ritirai prima di iniziare a gareggiare.»
«Ma...»
«Chetati, perdinci, tu mi fai perder i’ filo di’ discorso. Dicevo che i’ giorno che incontrai la tu’ nonna fui sfortunato a’ i’ gioho, ma ebbi la più grande fortuna di tutta la mi’ vita. Stavo facendo du’ tiri d’allenamento tanto per fammi i’ braccio quando la mi’ Elvira la sbuhò vicino alla pista in posizione ottimale per assistere alla gara. Lanciai fortissimo. I’ cacio prese una traiettoria non prevista, a causa di un sasso che non era stato tolto dagli organizzatori. Iniziò a rimbalzare... ora si rompe, ora i’ cacio si sbriciola per benino dicevo tra me e me... oh, doveva essere ben stagionato qui’ formaggio. ‘Un si ridusse in briciole per un miraholo. Faceva de’ balzi pareva ‘na gazzella di Serengeti...»
«O nonno, ma almeno lo sai dove sta questo parco?» «No, siee... però vedo i programmi di Piero Angela alla tele.» «Bravo nonno, ti fai la cultura. Insomma ma chi ti sconfisse?» «L’è rinova... sei peggio d’un gatto attaccato a’ hoglioni... non molli mai. Te lo dirò dopo se c’è tempo.» «C’è tempo, c’è tempo...» «Sì, i' tempo delle mele[43]... e de’ halci che ti do se ‘un ti heti un po’. Su, dammi da bere.» «Acqua o vi-no?» «Tutte e due, mi disseta di più.» Il nonno bevve tutto d’un fiato. Si pulì la bocca e dopo un ahhh di soddisfazione continuò il suo racconto.
«...i’ cacio continuò a rimbalzare sempre più forte e, balzo dopo balzo, balzò addosso alla tu’ nonna. L’andò a sbattere preciso su’ i’ su’[44] ginocchio sinistro. Poherina! La mi hadde per le terre[45]. ‘Un feci discorsi. Mi precipitai subito a soccorrerla. Mi hinai[46] su di lei. Piangeva... i’ ginocchio, i’ mi’ ginocchio, fa male... mi diceva tra un singhiozzo e l’altro. Le sollevai delicatamente la sottana, la sottoveste e... nipote mio, che gambotte che aveva. Belle, piene e sode. Cercavo di non guardarle, ma come potevo fare? Era più forte di me e ogni tanto i’ mi’ sguardo si soffermava sulle su’ hosce. E tra una sbirciata e l’altra mi accorsi che i’ su’ ginocchio s’era gonfiato come un pallone. La guardai negli
occhi. Era la prima volta che li vedevo così da vicino. Rimasi a bocca aperta senza sapere che cosa dire. Ero come stordito da quanto mi avevano catturato. Ero talmente rapito che ‘un facevo haso alle voci delle vecchine che mi sbraitavano...svergognato, le rihopra le gambe alla bambina... se ne vada pezzo di farabutto... delinquente[47]...»
«Ti conoscevano bene le donne del paese, vero?»
«Chetati! Dicevo... Senza badare a quelle vecchie ciane le abbassai le vesti. La sollevai e la presi in collo. Mammina se la pesava! Meno male che ero forte come un toro! Insomma, patendo un po’ riuscii a portarla fino a casa sua, dalle Haldine fino a sant’Andrea. Tutta ‘n salita... o’ icchè t’hai da guardar con quest’aria a presa di hulo. ‘Un tu’ ci credi? Lo so icchè tu’ mi vuoi dire. La salita l’avrebbe stroncato le reni anche a’ i’ bue di’ compianto Collini. Attento nipote che io e ‘un sono un mentitore. Perdiana! La tu’ nonna, l’era sì grassoccia ma miha un pezzo di lardone come l’è tu’ mae[48] che poi, in fondo, l’è la mi’ nora[49]. ‘Un guardare che son ingobbito da’ i’ peso degli anni, ma prima l’ero più alto di te. Di poho, inteso?»
«O nonno, ma se son alto un metro e settantadue. Tre, toh!»
«Senti nacchero[50] che mi lasci finire? Arrivai a casa sua e la lasciai lì a sedere su uno sgabello davanti all’uscio. Le accarezzai i hapelli biondi e le dissi: «Signorina Elvira, un giorno o l’altro torno e la sposo”.»
«Sei andato per le spicce, vecchio marpione!» «Miha tanto. Rividi Elvira dopo qualche mese alla battitura di’ grano, su a Bivigliano.
«Ci sono stato quest’anno! Era la prima volta che vedevo una cosa del genere. Mio figlio è rimasto incantato. Beh, anch’io!»
«Evvivaddio! Qualcosa tu la sai anche te!»
«Continua, nonno!»
«C’era tutta la su’ famiglia. Io ero intento a divorare le fihattole[51] con i’ prosciutto di’ Pratomagno[52] quando la mi ò davanti. Ebbi un sussulto di gioia, quando vidi che mi stava guardando con un bel sorriso. Da quel momento non le staccai gli occhi di dosso. Alla fine mi feci avanti. Chiesi la su’ mano a’ i’ su’ babbo. Ci sposammo dopo du’ anni. Poco dopo nacquette i’ tu’ zio Ezio. Dopo due anni tuo padre.»
«Nacquette? Eh eh eh, nel senso di nacquere? Certo t’hai studiato di molto.»
«Ti diverti eh, bischeraccio d’un nipote? Vedi? Basta poho per riprendere la vecchia honfidenza che ci s’aveva tant’anni fa. Basta una bischerata detta di sproposito che ti faccio ridere.»
«Tutto sommato ho fatto proprio bene ad accompagnarti fin quassù. Mi sembri ringiovanito. Sì, l’aria che qui si respira fa proprio bene. Però voglio farti due domande. Chi ti ha sconfitto alla rulla?»
«Ancora? No, basta... la sehonda domanda?» «Prima mi hai detto che le hai combinate di tutte i colori. Che cosa intendevi dire?»
«C’è stato che... per un periodo ‘un sono stato un buon marito per la tu’ nonna. Io ciavevo la fama d’esser stato un gran puttaniere. Le donne le mi garbavan troppo. Oddìo, le mi garban ancora, eh... sia ben inteso.»
«Vuoi dire che hai tradito la nonna?» «Sì. Più d’una volta. Ma tornavo sempre da lei e dai mi’ figlioli. L’amavo troppo.»
«Troppo comodo. E lei non diceva niente? Povera nonna. E tu che gran figlio d’una bona donna. Ma raccontami come avvenne il fatto.»
«Ora ciarrivo. I primi tempi mangiava sempre la foglia. Forse ‘un sospettava niente o se sapeva qualcosa lo teneva ben nascosto e ingoiava i’ rospo. Sono andato avanti hosì per molto tempo. Ma un giorno mi vide ritornare a casa mezzo ‘briaho, co’ i’ viso pieno di segni di rossetto e un succhiotto su’ i’ collo.
La mi urlò: “Tu ciai la ganza, lurido figliolo d’una donna in disordine”. La tu’ nonna ‘un ci vide più dalla rabbia. Mi raccomando, nipote mio, ‘un far mai arrabbiare la tu’ moglie perché tu ne paghi le conseguenze e in modo assai haro.»
«Sì, ma continua, non divagare...»
«Accehata dalla rabbia la mi rifece i’ cervello con una padellata su’ i’ ceppihone[53]. Da allora son doventato[54] un altro uomo. Povera la mi’ Elvirina. Quanto mi manca. A volte penso... perché ‘un cianno chiamato insieme all’accettazione in cielo... Invece no! Forse dovevo pagare per i’ fatto che l’avevo tradita. Espiare la colpa. Un anno in più di vita per ogni anno di
tradimenti. Caro i’ mi’ nipote, vent’anni e son tanti.
V
Scoprire che il nonno era stato da giovane un gran donnaiolo non fu una sorpresa. Sapevo che era un bell’uomo e come le donne gli svenissero ai piedi. Ma che addirittura che fosse stato capace di tradire la nonna – non una volta ma per anni – mi sconcertò e non di poco.
E comunque al di là della disonestà coniugale protrattasi per diverso tempo e terminata con la padellata sistema-bischeri o raddrizza-stronzi – a seconda dei punti di vista – mio nonno è sempre stato un brav’uomo, un onesto lavoratore e, a modo suo, un filosofo e poeta.
Beh, non esageriamo con il termine filosofo. Non era certo un Platone o un Kant o chi altro, ma riusciva a dare una sua interpretazione della vita, del comportamento umano che non aveva nulla da invidiare ai più blasonati pensatori del ato. Forse anche di quelli più moderni.
Volete un esempio semplice semplice del suo filosofeggiare? Ebbene, a chi si lamentava delle complicazioni o si trovava infognato in problemi complessi e contorti, lui diceva sempre... ragiona nini[55], questa qui l’è fatiha, ‘un tu devi averne a far o a intender le hose, perché la fatiha la morì di fame e di stenti, intesi? E poi le homplicazioni e ‘un n’esistano, le diventan tali se tu pensi che lo siano per davvero, quindi applihati! Che t’ha hapito, pallino[56]?
Forse non erano discorsi da grande uomo di cultura, però alla gente comune le sue esternazioni o, per dirla in modo odierno, le sue picconate a destra e a manca facevano effetto.
Poi c’era la sua poesia. La poesia della pietra, sulla pietra che cavava o scalpellava ogni giorno quand’era giovane. Erano, anzi sono versi semplici, campagnoli di un uomo che si riempieva gli occhi con gioia della bellezza della propria terra.
È quanto l’ha amata la sua hollina dei cigni[57], Fiesole e la sua valle, quella del Mugnone di Calandrino[58] tanto per intenderci. In gioventù non ha mai viaggiato tranne in due occasioni...
Il nonno rimase silenzioso per diversi minuti. Aveva lo sguardo rivolto sul terriccio che le sue scarpe stavano calpestando. Anche se da quella zona non riuscivamo a vederlo, sapevo che il sole era ormai dietro monte Morello[59].
L’aria divenne più fresca. Fortunatamente erano i primi giorni di settembre per cui si stava ancora bene vestiti leggeri. Ma temevo che potesse far male al mio vecchio quell’aria frizzante della sera.
Con il trascorrere delle ore ero diventato molto più premuroso nei suoi confronti. Tolsi dal mio zaino la sua giacca a vento.
Mi avvicinai e dissi: «Nonno, stai tremando. Sei sicuro di voler trascorrere la notte tra questi sassi, sotto questi alberi? Lo senti come fa freschino stasera? Ti beccherai il raffreddore. Lo sai che alla tua età... su avanti, mettiti questo.»
«Nipote, ‘un dir bischerate. Se tremo è perché ciò ancora le immagini di lei, di quando s’era giovani sposini. E poi sono abituato a stare a’ i’ diaccio[60].»
«Forse un tempo lo eri. Ma da quanti anni non vivi quassù e sei ospite della casa di riposo?» «Saranno... boh!» «Sono tanti anni, te lo dico io, nonno.»
«Dicevo prima che tu mi interrompessi, che quasi tutti i giorni l’Elvira saliva in cava per portammi i’ pranzo. Io avevo una gavetta che mio fratello aveva fregato quando fece i’ soldato nella grande guerra. Era sempre piena di fagioli, pezzi di ciccia, a volte quando i’ pizzihagnolo riusciva ad avello[61] mi portava i’ pehorino di Pienza. Miha que’ troiai che ci sono ora. I sofficini, bastoncini, la simmentalle, i quattro salti ni’ tegame. Via, che l’è mangiare quello? Nemmeno i’ gatto dell’ospizio si degna d’annusallo... mmm... mi rihordo che la mi portava i fiasco di’ vino che i’ mi’ socero faceva in fattoria. Quello sì che l’era un bere da cristiani. E che piacere dividerlo co’ mi’ hompagni di scalpello! Ogni tanto, quando la mi’ socera[62] l’era in grazia di Dio, la mi portava le poppe di monaha[63] fatte da su’ mae’. Le mi garbavan tanto.»
«E ci credo che ti piacevano le ciocce[64] ! Tuttavia, ritornando al discorso di prima, doveva essere bello aver vissuto a quei tempi. Adesso tutto è più freddo. Si va a mangiar a mensa con i colleghi e ci scambiamo sì e no due parole. La solidarietà... mmm... sì, forse ogni tanto c’è, ma ognuno tira l’acqua al proprio mulino.»
«Forse da quel punto di vista sì, hai ragione tu. Si viveva più semplicemente e soprattutto ‘un c’era l’ansia di possedere qualsiasi hosa. Ma eran comunque tempi difficili. C’era stata la guerra, e poi i’ ventennio e poi di novo la guerra...»
«Lo so, mi hai raccontato tante volte della tua vita.» «O nacchero, miha ti disturba se ancora racconto le mi’ storie? È questo che tu vo’ dire?»
«Oh no, affatto, non mi stancherò mai di ascoltarti.»
«E perché e ‘un ti se’ fatto vedere per anni? ‘Un[65] tu m’ha’ fatto mai honoscere i’ tu’ figliolo. Quant’anni cià? Due, tre?»
«Ma che dici? Se si fe ancora sarebbe pronto per il servizio militare. Un giorno te lo farò conoscere, te lo prometto.»
«Va bene, me l’hai promesso. Ha già l’età giusta per ascoltare le storielle. Voglio raccontargli tante hose di te quand’avevi la metà dei suoi anni.»
«Sai nonno? Mi ricordo che,– forse avevo tre anni – tu mi tenevi sulle ginocchia. Facevi la cavallina e il verso del cavallo. E via, si partiva al galoppo. Quando eri stanco mi narravi quelle che io credevo delle favole e invece parlavi di Gramsci, Togliatti e mi leggevi gli articoli de’ L’Unità.»
«’Un ciavevo altro da leggere... e poi, era un bel giornale. Beh, anche adesso. Lo leggi anche tu?»
«No, ho fatto indigestione da piccolo. Non mi fraintendere però. Non lo leggo perché non ho proprio il
tempo di farlo. Nemmeno un libro riesco ad aprire.»
«Altrimenti...»
«Sì, lo farei.»
«Voglio crederti... mi rihordo di un’altra hosa di te, figliolo.»
«Di quando ti tiravo i baffi? Che risate quando urlavi... ohiii!»
«Anche, intendevo dire di quando tu mi pisciavi su’ pantaloni da i’ tanto ridere...»
«Acqua santa mi dicevi sempre»
«Acqua santa e mer.. diavola. Ovvìa ‘un mi far dire degli spropositi. Tu sai che sono una personcina a modino.»
«Chie? Te? Vien via... I’ babbo mi raccontava che quando ti vedeva i’ priore, costui si faceva sempre i’ segno della croce.»
«O’ perdinci! L’era l’ora. Tu parli ‘n fiorentino come me. Ma che ti ci voleva tanto? Mi sembri un’alborella[66] fora[67] dall’acqua dell’Arno quando tu cerchi di parlar per benino. Icché tu dicevi? Ah già, i’ priore. Io invece mi toccavo gli zibidei. Portava sculo... ehm sfortuna. Ogni volta che lo incontravo mi succedeva sempre qualcosa. Un dito spiaccihato sotto i’ mazzolo quand’andava di lusso.»
«Mi sarebbe garbato vederti quando lo prendevi per le mele!»
Il nonno non rispose alle mie parole. Non ho mai creduto che abbia fatto finta di nulla proprio per non rispondermi. Aveva un udito fine. Non riuscivamo mai a fregarlo, anche quando parlavamo a bassa voce.
Notai che aveva di nuovo abbassato il suo sguardo e il suo volto si era fatto malinconico, come se improvvisamente si fosse ricordato di qualcosa di particolarmente triste. Una delle tante in vita sua.
«Mi mancano que’ tempi, sai?» esordì rialzando lo sguardo e fissando i miei occhi con intensità.
«Non perché ero più giovane. Mi manca la mi’ famiglia. Mi mancano gli amici e le pietre che cavavo e poi scalpellavo.»
Prese un sasso dal muretto della casupola diroccata e disse: «Vedi nipote, osserva! Fiesole l’è piena di sassi come questo, scalpellati da me. Nelle ville de’ signori, nelle strade e ne’ palazzi di Firenze. In ciascuna c’è la mi’ firma. Lo Scheggia una volta mi disse quando lo incontrai a Fiesole... devi far sì che venga fuori una sinfonia con le tu’ martellate, musiha... Mi disse solo quelle parole. Io ho fatto tesoro del su’ honsiglio e dovevi sentire la mia musiha, i’ ritmo... una sonata per mazzolo e scalpello sulla pietra serena. E sai una hosa? A me dava serenità la mia musiha, mi toglieva la malinconia. Una volta un signore ingrese[68] mi disse che, quando usavo i’ mi attrezzi, era come se scrivessi poesie.»
«Icché ci faceva un’ingrese a Monte Ceceri?» «Che ne so? Ce ne venivan tanti di gente forestiera a Fiesole.»
«Comunque quel tizio ‘un ciaveva tutti i torti, tu sei poeta e hai scritto poesie non solo sulle pietre che hai cavato e scalpellato.»
«Erano solo frasi d’un bischero qualunque. ‘Un n’ho mai studiato. Ho fatto solo l’elementari e nemmeno le ho finite. Mi hanno insegnato solo a spaccare le pietre. Di quello ho campato. È stata tutta la mi’ vita. Mi rihordo quando scesi per l’ultima volta pe’ i’ sentiero che dalle have porta a Borgunto... da oggi e tu’ vai in pensione, nonno... mi disse i’ padrone della hava. E io, mogio com’un cane bastonato, presi la sacca di mi’ pohero babbo e scesi giù a valle. Hai inteso? Congedato, hosì senza nemmeno un grazie per il proprio lavoro. Nemmeno un sorriso e una stretta di mano. Niente di niente. Tutta questa scortesia dopo aver dato l’anima per lo scalpello, i’ core per la pietra, du’ dita fratturate e perso l’occhio destro a causa di una scheggia stonata. Non che io volessi chissà icché e soprattutto trascorrere i’ resto della mi’ vita qui, in questi hasottini di sassi murati a secco e di travi, oppure nel buio delle latomie a cavar pietre. Sì, nipote mio, quel giorno ho scritto la peggior poesia della mia vita: lasciai la pagina in bianco.»
«Forse quel giorno. Ma so che la vita t’ha donato tante hose. E quella più preziosa l’è la tua grande sensibilità. Riesci a vedere oltre l’orizzonte.»
«Ma cosa dici? Ma quale orizzonte? Se io ‘un son mai andato oltre la mi’ Valle. Laggiù in buha e quassù su Monte Ceceri...»
«Nonno... non intendevo dire proprio questo, non quell’orizzonte che vediamo laggiù o da un’altra parte. È un altro tipo di orizzonte, quello che hai nel tu’ ceppihone, sì, proprio dentro la tu’ testa.»
«Ah sì... va beh, è lo stesimo[69]. Per ripigliare i’ discorso, le hose più esaltanti che ho visto sono i’ primo scudetto della Fiorentina nel maggio del 1956 e ancor prima, la volta che ho visto i’ treno[70] a vapore che ava per Caldine. Ero un bambinello con tante speranze e voglia d’andar via. Invece son rimasto uno spirito libro. Sì, libero ma a Fiesole e dintorni.»
VI
«Forse ‘un tu l’hai mai saputo, ma io ‘un sono nato nella zona della Valle di’ Mugnone. I miei erano originari dell’altra parte di’ colle di Fiesole, tra Montebeni e Compiobbi[71]. Dopo qualche anno ci trasferimmo sopra il Calderaio in via di Fontelucente[72] quasi di fronte alle vecchie have del colle di fronte a Fiesole. Avrò avuto sette anni, forse otto.
Quando la mattina successiva a’ i’ nostro trasferimento nella nuova hasa sentii i’ su’ fischio, mi affacciai di horsa alla finestra della mi’ hameretta. Lo vidi... Ogni giorno, alla stessa ora rinnovavo l’appuntamento con i’ treno per vedere i’ su’ pennacchio di fumo nero sbuhare dalla galleria di monte Rinaldi[73]. Dovevi sentire i’ su’ fischio. Era interminabile. Ero honvinto che era una sorta di saluto. La lohomotiva salutava me. Iniziai poho dopo a galoppare con la fantasia. Sognavo di viaggiare su quel treno. Mi vedevo ad aiutare i’ macchinista tutto hoperto di fuliggine. Ciuff, ciuff, ciuff... ‘Un t’immagini quante volte ho chiesto a’ i’ mi’ babbo di portarmi alla stazione di Caldine e di prendere i’ treno...»
«Ti ha mai accontentato?» «Sì, certo ma dopo mesi di insistenza l’ho avuta vinta.» «Hai fatto i capricci?» chiesi con un sorriso beffardo.
«No, non sono mai stato il tipo. Facevo tutto ciò che mi dicevano di fare in casa. Ogni tanto gli rihordavo il mio desiderio. Un giorno mi portò alla stazione, comprò i biglietti e aspettammo i’ treno. Ma lo sai, caro nipote, che se chiudo gli occhi adesso, mi par di vederlo arrivare tra gli sbuffi di vapore e lo stridio dei freni. Signori in carrozzaaa... vociò il capotreno. Salimmo su un vagone e ci sistemammo a sedere su di un sedile di legno, duro quanto un sasso. Al fischio del capo-stazione il treno partì e, via veloci verso l’avventura. Beh, insomma, lenti, perché i’ tratto l’è in salita.»
«Lo immagino, honosco la tratta ferroviaria della Faentina.»
«Mi sembrava di volare. I macchinisti gettavano i’ carbone nella gran caldaia. La locomotiva faceha un fumo nero che ‘un ti diho. Per un attimo i’ sole sparì ni’ cielo.»
«Lo sai che anch’io ho fatto una gita su un vecchio treno a vapore qualche tempo fa? Ho portato la mi’ famiglia a Marradi durante i’ periodo delle hastagne. È stata un’esperienza stupenda. Siamo tornati a casa neri come de’ harbonai.»
«Durante i’ viaggio fino a Borgo San Lorenzo[74], mio padre disse che i’ carbone nel tender usato dai macchinisti proveniva da’ i’ Surcis.»
«Nonno, si dice Sulcis.»
«Surcis, Sulcis, l’è la madesima hosa. Io parlo tu intendi. E poi anche mi’ pae lo disse hosì. ‘Un sapeva nemmeno lui in quale parte di mondo si trovasse. Lui lo seppe da un su’ conoscente ch’aveva un cugino carbonaio.»
«Ma senti un po’ che rigirìo di parole t’ha fatto...» dissi tanto per prenderlo un po’ in giro.
«O’ palle[75]... che mi pigli per le mele?»
«Va bene, nonno, stavi parlando del Sulcis.»
«Sì. Io e ‘un sapevo icché l’era i’ Sulcis. O’ che l’ho detto bene adesso? Ma e ‘un m’importava. M’ero fatto una certa idea di questa zona del mondo.»
«Ma lo sai dove si trova?» «Sì, adesso lo so. Ho studiato un po’ di geografia in questi ultim’anni. In Sardegna.» «Bravo nonno.»
«Ti dirò di più, ho conosciuto una persona che veniva da lì, dal Sulcis. Faceva il minatore ma poi è venuto in continente a cercar lavoro. È finito a cavar pietre e poi se n’è andato in Belgio a lavorare di nuovo in miniera. Mi sembra a Marcinelle. Se ne andò nel 1955.»
«O perdinci... ma lo sai che cosa accadde proprio a Marcinelle nell’agosto del 1956? Ci fu un incendio in una miniera. Morirono tanti minatori, mi sembra 260. Fu una tragedia immensa.»
«Non lo sapevo, ti giuro, ‘un lo sapevo davvero. Mi fai intristire i’ core adesso. Vedi nipote, io mi ero già fatto una bell’idea di Sulcis e della Sardegna. Gente un po’ come noi, abituata a lavorare duramente per un pezzo di pane. I’ mi’ honoscente me l’ha confermato i’ giorno di’ su’ arrivo. Gran lavoratore, instancabile. Peggio d’un mulo. Tirava dritto senza mai fare un uff di stanchezza. Adesso mi dici che è successa questa disgrazia... Chissà se? No, non oso pensacci[76]... era troppo un brav’uomo.»
«Dai nonno, magari non è detto che sia...»
«Mi aveva invitato ad andare in Sardegna. Comunque sin da bambino mi dicevo
sempre che quando sarei stato grande avrei preso i’ vecchio treno per andare a visitare i’ Surcis... cioè i’ Sulcis. È stata l’unica volta che e ‘un son riuscito a mantenere du’ promesse... una a quel minatore e l’altra a me stesso.»
«Nonno, sei sempre a tempo a mantenerla quella promessa.» «Alla mi’ età? Ormai s’aspetta di fare un altro viaggio.»
«Un giorno prenderemo i’ vecchio treno. Sai? Sbuffa ancora per le salite della Faentina. Ti accompagnerò dove vorrai, se mi accetti come compagno di viaggio.»
«Le tu’ parole...» «Le mi’ parole cosa, nonno?»
«Guardami negli occhi nipote... le tue parole le sono come quelle che scrissi tant’anni fa in una vecchia poesia. Quella che ho più amato in vita mia.»
«Com’è che adesso ‘un tu parli più fiorentino?» domandai incuriosito. Era da qualche minuto che non usava più la sua solita parlata fiorentina e mi stavo preoccupando. Io invece forzavo ancor di più il mio vernacolo.
«Si vede che a star con te perdo la mia identità linguistica. Ma fregatene di come parlo adesso e rispondi alla mia domanda. Come fai a conoscere quelle parole?»
«Conosco bene la tu’ poesia. I tu’ versi... guarda, ciò ‘na sorpresa per te.»
Presi lo zaino accanto a me. Feci finta di frugare a lungo nel suo interno e dopo poco estrassi un vecchio quaderno dalla copertina consunta.
«Eccolo qui. Lo rihonosci?»
«Ma è il mio vecchio quadernino.»
«Sì, i’ tu’ diario. L’ho trovato in soffitta in casa di’ babbo.»
«Allora ce l’aveva lui. Quante volte gliel’ho chiesto a tuo padre e lui, boh... tu l’avrai perso da qualche parte mi diceva sempre. Su porgimelo, ti prego.»
Vidi una lacrima che rigava il suo volto rugoso. La vedevo splendere alla luce della luna che filtrava attraverso i rami degli alberi. Non l’avevo mai visto piangere se non al funerale della povera nonna. Mi sentii
intenerire. Mi avvicinai. Mi inchinai verso di lui e gli porsi il suo diario dalle pagine ingiallite. Un’altra lacrima gli cadde. Questa volta sulla mano che reggeva il suo diario. C’era la sua gioventù scritta lì dentro, le ioni dell’uomo maturo, il volto della sua compagna. C’erano pure le bastonate dei fascisti. La guerra che non aveva combattuto a causa della sua invalidità. Quel poco di lotta partigiana alle porte di Firenze. Le sue poesie.
Lo vidi tornare a sfogliare, dopo tanti anni, le prime pagine. Soffermarsi quanto bastava sulla calligrafia della giovinezza, svelta, sicura e leggibile. Rimanere un po’ di più sulle ultime pagine dove la mano era più incerta. Le parole scritte
erano tremolanti come la sua voce di anziano.
Mi accorsi che aveva difficoltà. Mi guardava e poi ritornava a osservare il suo quadernino. Lo rigirava di continuo il diario cercando di avvicinarlo più alla luce della luna. Ritornava a cercare il mio sguardo e poi continuava imperterrito nell’inutile ricerca di un po’ di chiarore. Mi sembrava un bambino in quell’istante. Un bambino che cercava un po’ di aiuto.
Non riusciva a leggere e questo lo riempiva di sgomento. In effetti era diventato buio.
Si sentivano cantare i grilli e i richiami degli animali notturni mi facevano un po’ effetto, devo dire la verità. Troppo abituato alla vita di città dove i rumori non sono della natura ma dell’uomo, purtroppo.
Ruppi quell’attimo di silenzio che era caduto tra noi e gli chiesi stupidamente: «Come fai a leggere con questo buio?»
«Semplice. Tu accendi un fuoco qui, in questa che era la mi’ baracca.»
Senza discutere ulteriormente, accesi un piccolo falò sistemando della legna secca nel mezzo a un cerchio di pietre che era lì da chissà quanto tempo. La luce era appena sufficiente per guardarsi in faccia.
«Bravo! Adesso leggi tu. Io non ho portato gli occhiali per veder da vicino. E poi con un occhio solo dimmi come potrei...»
Spostai il sasso, dove mi ero sistemato dopo aver il falò in un’altra posizione. Mi ritrovai esattamente dall’altra parte del fuoco e di fronte al nonno. La luce gialla rossastra del falò lo faceva apparire strano. Mi rimane complicato ancor oggi spiegare la sensazione che ebbi nell’osservarlo. Sembrava più alto, più giovane. Forse più sereno. Come se la sua figura giganteggiasse su tutte le cose che ci circondavano: le pietre, le frasche, gli alberi, me. Ebbi il sentore – e per fortuna sbagliando – che stesse per andarsene in quel bosco, proprio sulla soglia del capanno dove aveva dimorato tutta una vita.
Improvvisamente la sua voce mi destò da quell’attimo di assenza-presenza. Ebbi una scarica di adrenalina a causa della tensione emotiva che si era accumulata in quel frangente.
«Allora? Che fai costì mezzo imbambolato a fissarmi come se fossi uno spettro? Mi sembri ebete. Su forza inizia a leggere qualche poesia...»
«Sono tante e tutte talmente belle che non saprei quale scegliere per prima.»
«Nipote, non cincischiare... non devi fare alcuna scelta. Apri la prima pagina del mio vecchio diario e leggi i versi. Mi pare che sia una poesia su Fiesole. È breve...»
Fiesole[77]
Si culla nella sua notte la stella sulla falce di luna[78]. Come Venere profuma di bacche di ginepro. Inebria le pietre eterne del popolo degli uomini[79].
«Che fai ti blocchi? Continua a leggere... Nella stessa paginetta ci deve essere un’altra poesia breve.»
«Sì, ho visto nonno.» Lui non sapeva che io le avevo già lette e rilette le sue bellissime poesie. Avevo trascritto i suoi brani usando il personal computer di mio figlio. L’intenzione era di pubblicare un libro.
Continuai la lettura.
Mugnone[80]
Cala tra i sassi della valle come lacrima nell’Arno alla prima calura dell’estate. Riversa il suo pianto
In limaccioso turbinio Sotto le nuvole dell’autunno.
«Nonno sono bellissime queste due poesie...» dissi fingendomi meravigliato. Beh, a dire il vero lo ero sul serio, perché ogni verso di quelle poesie era nato dal profondo del cuore, dall’amore per la propria terra. Ogni tanto riprendo il libro che feci stampare prima di quella nottata. Se il nonno avesse saputo che i suoi capolavori si trovavano già in libreria, mi avrebbe lapidato con quelle stesse pietre su cui aveva appoggiato il suo vecchio diario...
«Non mi prendere per le mele, nipote. Sono solo parole vecchie scritte da un vecchio... quand’era giovane. Sono nate già con le rughe!»
«Ascoltami bene, nonno...»
«Ascoltami bene tu!» disse puntandomi l’indice della mano destra con fare quasi minaccioso «Adesso tu prendi quella pagina e la strappi... gettala al vento.»
«Perché mi chiedi questo?» «’Un me lo domandare. Non saprei risponderti. Tu fallo e basta. Di ogni hosa che leggerai tu fai lo stesso.» «Lo stesso? Che hosa?» «Strappa la pagina e gettala al vento. Le mi’ parole le deve raccogliere solo il vento.» «Ma si perderà tutto quello che t’hai scritto.»
«Dici? Il vento è strano sai? A volte soffia come gli pare e piace, sparpagliando semi ovunque. Altre volte, raccoglie il tutto in un mucchietto. Ho la sensazione che farà entrambe le hose. Ammucchia con perizia e diffonde verbi, aggettivi e congiunzioni e...»
«Avverbi?»
«Non so cosa siano... ma sì, anche loro! Nipote, ci tengo a dirti che è tutto qui, nella mi’ testa calva. Potrei recitartele a memoria. E ‘un temere, queste parole le rihorderai anche tu. Sono parole libere di un uomo libero e che ama la libertà. Sono nato così, senza catene, e così un giorno me ne andrò.»
Convinto dalle sue parole e dal fatto che non c’era pericolo che le sue opere andassero perdute, eseguii l’ordine del mio vecchio poeta scalpellino. Strappai quella pagina e la gettai al vento, stando attento che non finisse sul fuoco.
«Ecco... bravo. E adesso leggimi un’altra poesia.»
A Firenze in cerca delle pietre della Luna[81]
[Sogno...]
Scesi il torrente in secca
e lasciai la valle al tramonto;
oltre la porta nella roccia[82]
apparve la città del fiore.
M’immersi nei vicoli torti
dove il sole è bene raro
e la serena ruvida pietra
piange acqua e sangue
dai volti scuri delle case.
Le rovine di Fiesole sono là,
come tessere di mosaico
della storia fiorentina;
corpi estranei
tra petali d’Iris regale
mutato in giglio.
M’osservarono le pietre
con occhi della madre
e alle carezze che donai
il brivido m’assalì
quando sciolsero la lingua
nell’idioma della terra.
“Un figlio della Luna
non s’è scordato
che viviamo ancora.
Ma non togliere la malta
dalle crepe del nostro tempo.
La nostra casa, adesso,
s’è fusa con la gloria
di chi vinse e ci catturò.
Non restituir il maltolto al colle...”
Le mani si staccarono dalle pietre;
la volontà socchiuse gli occhi,
ché la magia de’ sassi fiesolani
dona bellezza e orgoglio
a colei che gelosamente li custodisce.
Nell’alzare gli occhi al cielo
sorrise la Luna
al mio goffo tentativo e,
sospirando al cuore, disse:
“Stanno bene lì ora
che son preziose gemme incastonate
ne’ gioielli di Firenze,
per ammaliare e poi stupire l’occhio
del viandante forestiero.
Lascia che il mio raggio
su di esse si rifletta
e guidi i tuoi i
verso il ritorno.
Finii di leggere i versi che stavo quasi singhiozzando. Anche adesso, ricordando l’episodio, ho un nodo alla gola che mi impedisce di parlare. Nonno aveva praticamente scritto un breve...
«...poemetto, nonno, questo è un poemetto, così credo che sia. Te ne rendi conto di ciò che hai scritto?»
«È semplicemente un sogno che ebbi dopo aver letto un o della storia di Fiesole. Fu distrutta dai Fiorentini tanti seholi fa, lo sapevi?»
«No, cioè qualcosa ho letto, ma chi studia più la storia ormai...»
«Tanti nocchini[83] su’ i’ capo ti darei. Essa è basilare per un popolo, bischeraccio. Una nazione che dimentica la propria storia non merita di chiamarsi...»
«Nazione, giusto?» dissi finendo la sua frase. «Sì, proprio hosì.»
«Adesso ‘un mi farai miha una paternale perché ‘un so quando l’è stata devastata Fiesole, oppure di quando ci fu l’ultima vittoria dell’impero romano nella battaglia delle Haldine[84] ni’ 405 dopo Cristo?»
«Lo dicevo io che te mi pigli pe’ i... ‘ndo la schiena hambia nome!»
«Nonno, quella storia tu me l’hai raccontata tante di quelle volte che mi è rimasta impressa in testa.»
«Ah sì?»
«Guardatelo ora... fa i’ finto tonto... dai che te lo rihordi anche te. Mi raccontavi della battaglia e del re barbaro ucciso dai romani fino al giorno del mi’ matrimonio, in altre parole fino a qualche anno fa.»
«Poi tu sei scomparso, altrimenti te ne avrei accennato ancora.» «Lo immagino, su via, nonno che devo fare, continuo a leggere?»
«Che t’ho detto di smettere? Vai avanti che ora c’è la mi preferita... o’ che l’hai strappata la pagina di quella di prima?»
«Sì, sì. Stai tranquillo. Guarda quante pagine ci sono qui intorno, pare che abbia nevihato.»
«Bravo. Leggimi quella di’ treno e poi ci si ferma un po’. Ciò fame e sete. Ascoltare le mi’ poesie lette da te mi fa quest’effetto...»
Ricordi il treno che saliva lento sulla Faentina?[85]
l’ho rivisto stamani
quel vecchio treno...
Sbuffa quieto i suoi
ricordi antichi
e rinnova ancora
quel sentimento
di volar via lontano.
Volti anneriti
d’un tempo
ormai tramontato
mostrano un
candido sorriso
di profumata nostalgia.
Sembra di sfiorar
un sogno consumato
tra le verdi
colline fiesolane
e i granai del Mugello,
quando le odierne rughe
erano desideri di fanciulli
di rincorrere l’ultimo
vagone per un posto
nel domani.
E chi teneva loro
per mano per paura
di perder quel bene,
scoteva lento il capo
nell’osservar il
fumo che fuggiva.
Verso un mondo nuovo
ormai non più lontano
e sospirando tristi
nel comprender
il futuro senza un
figlio della valle.
Lasciavano, infine,
scivolar via quella
minuscola mano,
e guardando distante
oltre il confine
della vigna e
degli scoscesi campi
biondi di grano,
sognavano il momento
della gioia
d’un abbraccio
nel giorno del ritorno
a scaldarsi ancora
nel focolar di casa sua.
VII
Anche se mi ero tolto l’orologio, sapevo che le ore continuavano il loro viaggio verso un altro giorno.
Ogni tanto facevamo una sosta per bere o mangiare un pezzo di pane imbottito con il prosciutto. Quando vedevo che il fuoco si affievoliva, mettevo altre frasche o pezzi di legno che avevo trovato qua e là.
Era piacevole sentire lo scoppiettio dei ramoscelli che ardevano tra le fiamme. Sentivo quel tepore che mi solleticava lo spirito.
Sì, ero stato bene quella notte. Ne avrei trascorse altre centomila nottate su Monte Ceceri insieme al nonno. Magari avrei portato anche mio fratello e mio figlio. Ma era impossibile farlo subito. Anche in seguito non fu possibile riportarlo sulla collina dei cigni.
Nonno purtroppo iniziò a spengersi. Lentamente e serenamente. Ma fece in tempo a mantenere una promessa.
Leggevo le sue poesie e poi strappavo le pagine ingiallite del suo diario. Lo facevo automaticamente. Non mi preoccupavo di perdere quei fogli... quel tesoro. Avevo già progettato di raccoglierli tutti quanti non appena nonno fosse crollato dal sonno.
In effetti lo vedevo più propenso a bearsi nel mondo dei sogni che a rimanere sveglio per ascoltare le sue parole e i suoi pensieri scritti. Non so che ora era quando provai a interrompere la lettura per dedicarmi alla raccolta. Non feci a tempo a chinarmi verso una pagina strappata, quando il nonno disse con voce impastata dalla stanchezza: «Nipote, icché tu fai? Perché t’hai smesso di leggere? E ce ne sono tante ancora...»
«Volevo riprendere fiato!» mentii. «Ah sì? Attento a ‘un soffohatti con tant’aria... Prosegui a leggere.»
Feci buon viso a cattivo gioco. Ogni tanto ripetevo il tentativo. Ma non c’era niente da fare. Si accorgeva sempre delle mie interruzioni.
Solo poco prima dell’alba nonno si addormentò. Rimasi un attimo interdetto per tutti quei tentativi fatti durante la notte. Ero un po’ deluso ma al contempo contento che il mio vecchio fosse sprofondato nel mondo dei sogni.
Sentivo una grande stanchezza addosso. Era la prima volta, dopo tanti anni, che trascorrevo una notte senza dormire. L’ultima volta era stata quando nacque mio figlio. Il sonno sparisce quando ci sono di mezzo degli eventi speciali e soprattutto forieri di gioia, come può esserlo la nascita di un figlio.
Anche se non era la stessa cosa, dentro di me ero felice di aver accontentato mio nonno in questa sua stranezza.
Mi sentivo profondamente molto cambiato, come se avessi carpito..., no, non è il termine esatto... fatto tesoro della sua grande esperienza umana ed esistenziale.
Mentre lo guardavo dormire, ebbi un rimpianto; di non averlo mai ascoltato durante l’età della ragione. Da piccolo era diverso, ovviamente. Nonno per me era una fonte di giochi e nient’altro di più.
Poi avvenne l’oblio di quelle risate di fanciullo e subentrarono altre cose che determinarono, purtroppo, un distacco via via sempre più profondo. Non saprei dire se questo allontanamento è successo un po’ a tutti. Non mi sono mai confrontato con i miei conoscenti su questo tema.
Posso dirlo? Quanto son stato bischero in vita mia...
Dopo essermi assicurato che nonno fosse ben ricoperto dalla sua giacca a vento e che continuasse a dormire, iniziai la raccolta delle pagine strappate. Fortunatamente non c’era stato vento durante la notte. Solo a tratti si
era affacciata – timidamente – una leggera brezzolina che riusciva a mala pena a muovere le foglie degli alberi. E in alto per giunta. Per cui le pagine strappate non si erano sparpagliate.
Ero a metà dell’opera quando sentii dei rumori e del chiacchiericcio provenire dal sentiero che scende dal Piazzale Leonardo.
Dopo pochi attimi apparvero due persone. Un brigadiere della stazione dei Carabinieri di Fiesole e una donna. La riconobbi. Era la direttrice della casa di riposo, un pezzo di donnone alto e massiccio. Poteva apparire una di quelle tante educatrici teutoniche che appaiono nei film.
Belloccia – perché in fin dei conti, non era da disprezzare – e terribile. Aveva il volto tirato sia per la faticosa camminata sia per la rabbia che sicuramente aveva in corpo.
Rimanemmo a guardarci a lungo senza proferir parole. Io non avevo niente da dire; aspettavo che fosse lei a dare inizio alle ostilità. Quando le ritornò il fiato nei polmoni, mi disse facendo delle pause tra una parola e l’altra – segno che ancora aveva difficoltà a parlare: «Perché siete qui? Ma è impazzito? Come si fa a portare un povero vecchio quassù?»
«Lei fuma troppo...» le risposi prendendola in giro per il suo modo di parlare. Sempre con un po’ di affanno e puntando l’indice contro di me, minacciò: «Stia attento a quel che dice!»
«Senta lei... non ha nessun diritto di minacciarmi. Dico bene brigadiere?» «Sì» rispose il carabiniere. «Lei non sa chi sono io... io posso portarla in tribunale, vero maresciallo?» «A parte che sto attendendo la promozione, ma sono ancora brigadiere. Comunque, sì.»
«Ahhh... sempre con queste frasi, lei non sa chi sono io... lo so benissimo, una raccomandata, una che ha le spalle coperte da qualche potente. Io non ho niente da perdere e lei tutto quanto da un processo. Lei si sputtana e lo stesso il suo anfitrione... mecenate, o protettore. Dico bene brigadiere?»
«Sentite... io vado via, mi sono rotto le scatole a sentirvi litigare. Avete ragione tutti e due. Contenti? Farò finta di niente e mi asterrò dal verbalizzare. Non voglio far la figura del fesso. Arrivederci.»
Rimanemmo a osservare a bocca aperta il carabiniere mentre se ne andava via. Aveva ragione quel brav’uomo. Anch’io mi sarei comportato così. Mi voltai verso il nonno. Dormiva alla grande e con un sorriso di soddisfazione sulle labbra.
«Senta» dissi con un tono pacato, «Abbiamo semplicemente trascorso tutta la notte qui a parlare e a leggere le sue poesie. Che male c’è?»
«Ma poteva almeno avvertirci! Lei non sa che cosa abbiamo ato giù alla casa di riposo.» «Ma io ieri le avevo parlato, non si ricorda?»
«Sì, certo. Però aveva detto che l’avrebbe portato a casa sua e soprattutto che l’avrebbe riportato la sera stessa.»
«E così ho fatto. Vede quel rudere? Ebbene quella è stata la sua casa per moltissimi anni. Non ho mai detto che l’avrei riportato la sera stessa. Si frughi ni’ cervello se ‘un si rihorda le mi’ parole...»
«Sarà... comunque lei può are dei guai seri se il suo nonno si sentirà male... vero capit... ehm.»
«A parte che era solo brigadiere e che se ne è andato da almeno cinque minuti, la smetta di essere di essere così sgradevole. Immagino benissimo quello che potrebbe capitarmi. Non me ne importa un accidente e poi... lo sa che posso ben capire in quale modo vi siete preoccupati? Di perdere i soldi della retta. Altro che ione e amore per gli anziani. Li tenete a vegetare finché non sentite
l’ultimo sospiro. Cambiate le lenzuola, pulite il materasso, date un filo di deodorante per ambienti ed è già tutto pronto... avanti il prossimo.»
«Le sue parole sono troppo dure. Non ha nessun diritto di trattarmi così!»
«Diritto non lo so, ma il dovere ce l’ho eccome. E le dirò che mio nonno, che di doveri ne ha rispettati tanti in vita sua, ha ancora qualche diritto. Quello di vivere e di essere libero. Ha ancora tante cose da dire. Ma voi? Gli avete mai chiesto chi era? Gli avete mai chiesto di farvi leggere le sue poesie? Di raccontare le sue storie? O di quante pietre ha scalpellato in vita sua? O di come è stato a sua volta scolpito dal tempo? Se ne sta zitta, vero? Ed è giusto così, deve stare zitta di fronte a lui. Lo lasci in pace. Non vede come sta dormendo tranquillo?»
«Va bene, d’accordo. Però adesso è ora di tornare alla casa di riposo. Lo deve svegliare.»
«NO!» esclamai alzando la voce. Poi, volgendomi verso mio nonno che ancora stava dormendo indisturbato, dissi: «Lui non torna da voi, verrà a casa mia.»
«Ma come farete?»
«Non si preoccupi, signora direttrice, ho tanto di quel posto. Mio nonno deve ancora raccontarmi la sua vita. Io, di lui, ho sempre conosciuto solo una parte, quella che potevo capire quand’ero solo un bambino e mi narrava le storie. Ascolterò di nuovo quei racconti e anche quelli che non ho mai sentito prima. Voglio che anche mio figlio s’incanti e faccia tesoro delle sue parole.»
«Non ci lascia altra scelta che lasciarlo andare... va bene! Però una cosa è da chiarire: è in arretrato con la retta. Siamo creditori di due mesi, e...»
«Lo dicevo io, solo per i soldi... solo per quelli vi commuovete! Non ci sono problemi, basta che mi rilasci regolare fattura.»
«Sta bene, giusto!» rispose la donna con un sorriso amaro sulle labbra.
«Domani verrò a prendere la sua roba alla casa di riposo. Me la faccia preparare e badi bene che ci sia tutto. Io ho la lista di ciò che avete in custodia... non so se mi spiego.»
«Si è spiegato benissimo. Non si fida di noi, vero?»
«Mai dette queste parole... però sarei portato davvero a non fidarmi. Adesso se ne vada. Lo voglio lasciare dormire ancora. Sta sognando, non vede? Sta sognando tutte quelle notti trascorse quassù su monte Ceceri quando era giovane. Sono sicuro che si sveglierà quando nei suoi sogni udirà il suono dello scalpello sulla pietra... le sue pietre.»
Mio nonno udì sul serio il rumore di uno scalpello sulla pietra. Ma non seppe mai che quel rumore l’avevo fatto io, picchiando sasso su sasso.
Si stava facendo tardi ed era quasi l’ora di pranzo ed io avevo una gran fame.
Quella nottata sulla collina dei cigni mi aveva messo su una bella voglia di mangiar cose semplici ma gustose.
Si destò dal sonno ristoratore con un grande sorriso sulle labbra. Mi chiese di aiutarlo ad alzarsi dal suo giaciglio di erba. Lasciò che con una mano lo ripulissi dalle foglie e dal terriccio che si erano attaccati ai suoi vestiti.
Poi lo presi a braccetto e lentamente ci avviammo verso Borgunto, Fiesole e infine a casa mia.
Durante quasi tutto il percorso fu silenzioso. Però sentivo parlare il suo cuore. Ed erano delle belle parole. Quando giungemmo al parcheggio dove avevo lasciato la mia auto, mi disse: «Ciò voglia di mangiar del lampredotto. Che me lo hompri?»
«E anche una bottiglia di quello buono, nonno. Il lampredotto te lo hucino io, perché mia moglie ‘un sa nemmeno icché l’è!»
«O giù, che s’aspetta a scendere a Firenze? Conosco un trippaino... speriamo che ‘un sia andato in pensione!»
«Staremo a vedere... io diho che un trippaio lo troveremo sempre in riva d’Arno.» «E son gli scalpellini che ‘un si trovan più.»
Mio nonno riuscì a mantenere la sua promessa grazie a me. Ma prima lo portai a Faenza con il vecchio treno a vapore – avevano tirato fuori la vecchia
locomotiva sbuffante per un’occasione speciale. Mi aveva detto che nella città romagnola era la patria dei cohomeri... Brucia Faenzaaaa... vociano i cohomerai di Firenze per dire, guardate come son rossi dentro...
Poi, un bel giorno di tarda primavera, facemmo finalmente un bellissimo e lungo viaggio. Destinazione...
VIII
...Sardegna. Lui ed io. Avevo prenotato per tempo i biglietti andata e ritorno sia per il treno sia per il traghetto. Ad Olbia avrei noleggiato una macchina alla Hertz.
Due giorni prima della partenza dovetti cambiare un biglietto ferroviario. Perché? Ora vi spiego.
Il viaggio sul treno che transita sul tratto della Faentina è piuttosto breve. Servono circa una decina di minuti, partendo da Caldine, per raggiungere la stazione di Santa Maria Novella di Firenze. Da lì dovevamo prendere il convoglio per Livorno dove ci attendeva un traghetto per Olbia.
«Come sarebbe a ddire[86] che in un decinaio[87] di minuti s’arriva a Firenze?» «Nonno, i tempi sono hambiati. I treni vanno un po’ più veloci rispetto al ato.»
«Da’ retta, palle, lo so anch’io medesimo che vanno più veloci. Oggi va tutto quanto più lesto che a’ tempi mia.»
«Spiegati... cioè vieni a’ i’ dunque!»
«Voglio partire da Borgo San Lorenzo!»
«Questa poi... andare ‘n su per arrivare ‘n giù!»
«O bravo! Visto che ogni tanto dimostri d’esser intelligente.»
« Ma se ti ci ho portato tempo fa fino a Borgo e poi a Faenza. Dai nonno, si potrebbe perder i’ treno per Livorno.»
«No, nipote mio, ‘un c’è verso di perderlo. Ho visto gli orari. I treno che parte da Borgo l’è quello che si dovrebbe prendere alle Haldine per andà a Firenze.»
«E dove hai visto la tabella degli orari?»
«Ho telefonato alla stazione di Hampo di Marte e m’hanno dato la dritta...»
«Ho compreso, vai! E si parte da’ i’ Mugello. Mah! Bisogna farci accompagnare.»
«’Un scomodare la tu’ moglie. Guiderai tu. Lasciamo la tu’ auto a’ i’ parcheggio della stazione. La riprenderemo quando si torna a casa.»
«Icché ti devo dire, nonno? Uso le tu’ solite parole... o come tu dici? Ah già, tu dici sempre... semplice no?» «Sei te che tu[88] la fai apparire homplihata!»
Insomma, avete già compreso che mio nonno non fece molta fatica a convincermi a eseguire questa “variazione del tema”.
Partimmo prestissimo da casa per Borgo San Lorenzo. Prendemmo il locale per Firenze SMN. Inutile dire che il nonno era felice come una Pasqua.
Dopo un’ora circa eravamo già in viaggio per Livorno dove arrivammo molto in anticipo nei pressi del porto.
La partenza del traghetto era prevista per le 22,00. Avevo calcolato male i tempi di percorrenza. Avevamo tutto il giorno da trascorrere in città prima di imbarcarci. Potete immaginare la reazione del vecchietto. Mi dette di bischero una sola volta. Gridai al miracolo. Forse era contento anche lui di trascorrere mezza giornata nella città di Modigliani. Non lo disse, ma ebbi questa netta sensazione.
«Nonno, ‘ndiamo!» «’Ndò?» «Si piglia un taxi e si va in centro. Ti offro un cacciucchino come solo a Livorno lo sanno fa. E poi...» «Poi icché?» «Si va a’ i’ bar Civili.» «O chillè ‘sto Civili?» «’Un ti preoccupare, l’è un barre dove fanno la torpedine. Sentirai che bontà.» «Dopo i’ cacciucco tu mi fai rimangiar i’ pesce un’altra volta?» «Ma che dici? La torpedine l’è i’ ponci[89] livornese.»
La traversata fu molto tranquilla. Il nonno dormì profondamente fino a poco prima dell’alba quando mi svegliò. Fu allora che iniziò il tormento.
«Voglio vedere sorgere i’ sole. Non mai visto l’alba su’ i’ mare.»
«Sul serio?»
«Certo! Io, i’ mare, prima di ier mattina ‘un l’avevo mai visto.»
Non dissi niente. Lo aiutai a indossare una giacca a vento perché sapevo che a quell’ora, sul ponte, fa piuttosto freddino.
Uscimmo e vedemmo il sole spuntare a est. Una gigantesca palla di fuoco. Impressionò anche me... «Nipote, ciò da fare un po’ d’acqua!» «Capito! Si torna in cabina. Andiamo, svelto. Ce la fai a reggerla?» «Io reggo tutto, anche le tu bischerate, figurati se mi piscio addosso...»
L’automobile che avevo prenotato all’autonoleggio nei pressi dello scalo marittimo di Olbia era anche fin troppo grande per due persone. Un Ford Escort station wagon. Era l’ultimo modello prima che venisse messa fuori produzione a favore della Focus.
Non ebbi problemi a guidarla. Sicura e maneggevole. Veloce quel tanto che serviva per non apparire delle lumache...
L’unico inconveniente che ebbi durante il viaggio in direzione di Cagliari fu la vescica del nonno.
«Perché quando ti ho detto di andare a svuotatti ‘un ci sei andato? Si fa sempre hosì prima di intraprendere un viaggio lungo.»
«’Un mi scappava. Miha piscio a comando!»
«Ora mi fermo.»
« Ecco, sosta in quello spiazzo. Io vado a farla dietro quel mucchio di sassi.»
«Quale mucchio di pietre, nonnooo! ‘Un tu lo vedi che quello l’è un nuraghe? Abbi l’accortezza e i’ rispetto di quell’antiho monumento.»
«E si vede quanto rispetto... l’è pieno di hadaveri[90]. Comunque vo’ dietro quell’albero.» «Quella è una quercia da sughero.» «No, ‘un piscio nemmeno qui. ‘Un voglio che quando stappano i’ vino sappia di...» «Nonnoooo... sbrigati!»
Ho perso il conto di quante volte mi fece fermare l’auto per fare i suoi bisogni. In quasi trecento chilometri mi sarò fermato quattro, toh... cinque volte di sihuro. La sesta fermata la feci perché, come dice il vecchio adagio... chi ‘un piscia in compagnia...
Quando arrivammo a Cagliari mi fermai per consultare la cartina stradale. A quel tempo non c’erano gli strani marchingegni chiamati navigatori satellitari che ti portavano dritto dritto a destinazione. S’andava quasi a fiuto e non ci si perdeva mai. Adesso ho il TomTom regalato da mio figlio. Ha una voce con uno spiccato accento fiorentino. Sembra quella del nonno. Ho la sensazione che l’autore della voce del navigatore si sia ispirato a lui. Ricordo quando prendemmo la superstrada per Iglesias. Io procedevo lentamente... mi disse: «Ma che ti ci vole i’ cucchiaio per imboccare ‘sto hazzo d’autostrada?»
Rimasi di sasso quando udii questa frase un po’ sboccatella dal TomTom! Nonno si è reincarnato in quell’apparecchio... pensai sorridendo.
Quando arrivammo a destinazione gli dissi: «Nonno siamo quasi nel SulcisIglesiente...»
Aveva gli occhi lucidi dall’emozione. Capii che voleva dire qualcosa ma le parole non riuscivano a venir fuori. Rimanevano strozzate in gola.
«Chissà se...», continuava a dire «Che cosa, nonno?» «Oh, niente, niente! Pensavo a voce alta. A proposito, non mi hai detto se hai prenotato un albergo.» «Certo che l’ho fatto. Andiamo, deve essere in questa zona di Iglesias.»
Non feci fatica a trovare l’hotel che avevo prenotato qualche mese prima. La camera con due letti singoli era molto confortevole e moderna. Cenammo nel suo ristorante.
Non avevo mai visto mio nonno mangiare così tanto e di gusto. Volle riprendere un’altra porzione di malloreddus alla campidanese.
Visto che era ancora troppo presto per andare a dormire, decidemmo di fare quattro i per la città famosa per le sue miniere.
«Quando andiamo a visitare i’ posti di questo Sulcis?» «Iniziamo domani. In hotel ho trovato delle guide turistiche. Ci lasceremo consigliare da quei
depliant.» «Va bene! Chissà se è ancora vivo...» «Chi? Praticamente ti fai questa domanda dall’inizio del viaggio.»
«Mi riferisco al mio vecchio compagno di scalpello. Anche se non era un vero e proprio scalpellino ma un grande minatore.»
«Magari avessi il dono della preveggenza, nonno, ma come possiamo saperlo? Il mondo è talmente grande! Chiederemo informazioni, va bene?»
Fu sufficiente quella promessa per acquietarlo fino al giorno successivo.
Il nonno era galvanizzato dalla gita che avevo programmato. L’avrei portato alle miniere di Nebida e Masua. Soprattutto l’avrei fatto visitare porto Flavia.
Ancora non gli avevo detto che lì – è questa era la mia sorpresa – in una di quelle case di Nebida abitava...
IX
...il suo vecchio amico. Non chiedetemi come ho fatto a rintracciarlo perché richiederebbe molto tempo. Ho dovuto smuovere un bel po’ di persone per ottenere, dopo un paio di mesi, le informazioni sulla persona.
Mi rivolsi anche all’ambasciata italiana in Belgio, visto che questo signore se ne era andato a lavorare in miniera a Marcinelle proprio nel periodo del disastro. Fortuna volle che fu uno degli scampati.
Riuscii, o dopo o, a ricostruire il percorso che dalla Sardegna fece per arrivare a quella tragica miniera ando dalle cave e dalle latomie di monte Ceceri. Infine, dal Belgio fino a Nebida, transitando per Parigi, Zurigo e Cagliari. Un’impresa di non poco conto. Ma fui e sono tuttora felice di averlo fatto. Per il nonno avrei fatto questo e altro.
Parcheggiai la Escort nella piazzetta principale di Nebida. Aiutai il nonno a scendere.
«Adesso, vieni con me!», lo esortai.
«Dove?»
Non dissi niente. Presi dalla giacca un foglietto dove c’era scritto un indirizzo.
Quando ci aprirono la porta dopo aver bussato, apparve una persona anziana, bassa di statura. Un volto reso rugoso dalla fatica del proprio mestiere di minatore.
Si riconobbero all’istante. Il vecchio scalpellino e il vecchio minatore del Sulcis si abbracciarono e piansero come due bambini.
Tornarono a guardarsi di nuovo negli occhi, tenendo strette le mani dell’uno nell’altro. Poi si sciolsero di nuovo in un abbraccio.
Ci misero un bel quarto d’ora prima di iniziare a pronunciare una parola. Dette fuoco alle polveri mio nonno.
«Seu felici de dibiri, caru Giuseppi.» (Sono felice di rivederti, caro Giuseppe.)
«Deu puru.» (Anch’io.) «Non creia de dibiri aicci arzillu.» (Non credevo di rivederti così arzillo.) «Deu puru.» (Anch’io.) «Mi mancanta cussus tempusu...» (Mi mancano quei tempi...)
«A mei puru! Ma poitta chistionasa in sardu? Deu chistionu e comprendu beni s’italianu. Non esti prusu comente una borta...» (Pure a me! Ma perché parli in sardo? Io parlo e comprendo bene l’italiano. Non è più come una volta.)
«Su gunnu deaundi! E du chistionasa mellusu de mei!» (non traduco la prima parte per non ferire orecchie sensibili – e lo parli pure meglio di me), rispose
ridendo il nonno.
Entrammo in casa. La tavola era apparecchiata a festa. Pabassini, pistoccu, sospiri, amaretti, mirto, filu ‘e ferru e tante altre specialità erano lì che ci tentavano. Mi rimpinzai fino allo sfinimento. Mio nonno assaggiò e bevve qualcosa. Senza esagerare. Più che altro parlava, parlava. Pino, il suo amico, ascoltava, ascoltava e annuiva.
Compresi subito che il signor Giuseppe non era di molte parole. Tuttavia sembrava che il nonno non ci fe tanto caso.
Spesso mi domando anche adesso se in ato i loro dialoghi erano così telegrafici oppure quel giorno c’era dell’emozione in quel vecchio minatore.
La cosa che mi stupì di quel dialogo è che mio nonno aveva parlato in dialetto sardo. Campidanese... come poi mi disse...
«Com’è che sai parlare il sardo?»
«Quando lui venne a Fiesole non conosceva se non qualche parola di fiorentino...»
«Italiano vorrai dire!»
«No, no! Ho detto giusto. Ragiona, figliolo, io che parlo l’italiano?»
«Male, ma lo parli!»
«Insomma, io parlo come mi pare e piace. T’ha hapito? Dicevo? Ah... non parlava fior... italiano. M’è toccato imparare la su’ lingua. Dopo du’mesi ci s’intendeva bene.»
«Sei incredibile. Ogni giorno che a scopro sempre qualcosa di nuovo. Perché non mi hai mai detto che sai il sardo?»
«Campidanese!» «Va bene.» «Me l’hai mai chiesto?» «No!» «Allora di che cosa ti lamenti?»
Quindici giorni di vacanza volarono. L’ultimo giorno lo trascorremmo insieme al minatore.
Faceva molto caldo. Decisi di rimanere sulla piccola spiaggia di Masua mentre i due amici avevano progettato di fare una breve eggiata nei dintorni. Non mi preoccupai della loro sicurezza. Nonno era in buone mani.
Nonostante la presenza di molti bagnanti, era piacevole lasciarsi accarezzare i piedi dalla leggera risacca. Mi addormentai.
Non so quante ore rimasi a crogiolarmi al sole. Mi svegliai di soprassalto. Il sole stava già preparandosi per il riposo serale.
Era un incanto. Se l’alba sul mare è uno spettacolo, altrettanto lo era un tramonto. Gli ultimi raggi sfioravano le rocce e le falesie vicine regalando loro una sinfonia di colori. Presi la mia reflex e scattai una foto...
Mentre rimettevo a posto la macchina fotografica mi ricordai di mio nonno e del suo amico. Mi girai attorno. Non li vidi. La gente era quasi tutta andata via. Indossati i miei vestiti e riposto l’asciugamano nello zainetto iniziai la ricerca dei due vecchi. «Nonnooo... Pinoooo...», urlai a squarciagola.
Un signore di Nebida, che stava tornando a casa dopo un pomeriggio al mare, mi disse: «Se sta cercando tziu Giuseppe e il suo amico fiorentino le dico io dove sono andati. Cerchi a Porto Flavia. Li ho visti entrare in galleria qualche ora fa. Sono ad ammirare il tramonto. Tziu Giuseppe, quando il tempo è bello, va tutti i giorni a guardare il mare al tramonto.»
Erano proprio dove la galleria finisce e inizia il porto minerario. Stavano seduti su di un grosso masso.
Era impressionante vedere il sole che illuminava il ventre della montagna. Forse sarà stata la magia del luogo, forse chissà che cos’altro, io iniziai a fantasticare. O meglio, a riflettere. Meglio ancora a pensare come mai avevo fatto prima. Può darsi che il patrimonio genetico della poesia di mio nonno sia stato trasmesso anche a me.
Sembrava di uscire da un mondo oscuro. Un mondo senza speranza. Mentre mi avvicinavo a loro, quello che era solo un puntino di luce diventò sorgente di vita... una rinascita? Forse! Per mio nonno lo fu davvero, altrimenti non saprei spiegare il significato della poesia che scrisse quella notte. La prima dopo anni e
anni di digiuno...
Tramonto sul porto[98]
Di quella scogliera
conosco i colori d’agosto
le onde lievi che si rincorrono
e accarezzano i suoi piedi.
Di Nebida conservo,
all’alba del mio scoprire il mondo,
le case colorate di minatori smessi
sotto l’occhio di pietra
della montagna assorta
alla magia del mare
E poco più in la Masua
che del suo porto
è rimasto impresso
solo il nome d’una donna
ricordo d’un malinconico vecchio
che visse nel ventre
dell’antica madre.
Siede sui gradini alla spiaggia.
E osserva...
Dal Pan di Zucchero
sorge al tramonto il sole.
Si colora in rosso
il cuore della roccia.
Fu la sua ultima poesia. Ricordo quando il giorno dopo, sul traghetto che ci riportava sul continente, me la fece leggere. Con il cuore in gola gli chiesi se voleva gettare al vento anch’essa.
«No! Questa la spediremo al mio amico Giuseppe. Non so se ci rivedremo ancora. È stato un viaggio magnifico ma non ho più la forza per questi svaghi.»
«Non dire bischerate, nonno! Piuttosto perché dici all’alba del mio scoprire il mondo? Non sei un bambino alla scoperta della bellezza della natura...»
«Lo so, ma io, caro nipote mio, non ho mai viaggiato in vita mia. Non mi sono mai mosso dalla collina dei cigni, non mi sono mai mosso dalla mia valle. Questo è il mio primo viaggio e forse l’ultimo.»
«Hai ancora tante cose da vedere.»
«Che potevo vedere. Adesso posso fare solo una cosa.»
«Che cosa?»
«Posso raggiungere la mia Elvira, adesso», mi disse con un fil di voce come se fosse timoroso di spaventarmi con quelle parole che sapevano di commiato.
Mantenne il suo ultimo impegno dopo cinque anni lasciando in me quel senso di vuoto che si prova quando una persona cara viene a mancare. Ma bastava riprendere in mano quelle pagine strappate – le conservo ancora gelosamente – per sentire ancora la sua voce, il suo spirito dentro il mio cuore.
Avevo capito che ciascuno di noi ha un luogo speciale che lo cattura sin da giovane. Mio nonno amava Monte Ceceri, nonostante si sia stroncato la schiena a lavorare nelle sue cave di pietra. L’amava come io amo la cascata dell’Acqua Cheta per altri motivi. Quando avrò l’età di mio nonno, mi farò portare da mio nipote in quella vallata al confine con la Romagna. Mi farò leggere le poesie. Quelle del nonno e quelle che ho iniziato a scrivere qualche anno fa. Ma non farò strappare le pagine. No, non si possono strappare i ricordi. Ah, dimenticavo. Il tizio che vinse mio nonno al gioco della rulla era una persona a lui e a tutti noi molto cara. La nonna Elvira.
Note dell’Autore
[1] Modest Petrovič Musorgskij; Pskov, 21 marzo 1839 – San Pietroburgo, 28 marzo 1881.
[2] Mussorgskij compose la prima versione per pianoforte e orchestra nel 1860. Successivamente riscrisse il poema sinfonico nel 1868, nel 1871 e nel 1875. Una notte su Monte Calvo non fu mai rappresentata durante la vita del musicista.
[3] I disegnatori di Disney si ispirarono al personaggio interpretato dall’attore Bela Lugosi.
[4] Il Mont Ventoux, è un massiccio montuoso che si trova in Provenza. È alto 1.912 metri s.l.m. È chiamato così perché sulla sommità soffia costantemente e con violenza il Mistral o Maestrale. Addirittura la velocità del vento può superare i 160 km/h.
[5] Il Monte Ceceri è una collina vicino alla città di Fiesole (FI). Il nome Ceceri gli è stato dato perché, in ato, vivevano dei cigni. Questi uccelli hanno un’escrescenza sul becco simile a un cecio. I fiorentini battezzarono i cigni ceceri, quindi la collina si chiamerebbe, in realtà, Monte dei Cigni.
[6] Monte Ceceri e le zone limitrofe sono state sfruttate sin dal tempo degli etruschi come cava per la costruzione degli abitati di Fiesole e in età più moderna di Firenze. La zona è visitabile: nel percorso ci sono i ruderi dei rifugi dei cavatori e degli scalpellini.
[7] Vedi nota 5.
[8] Monte Ceceri è famoso grazie a Leonardo da Vinci. Fu qui che fece collaudare (riportato dallo stesso Leonardo nel suo Codice del Volo) la sua Macchina volante, nel 1506, a Zoroastro da Peretola, al secolo Tommaso Masini.
[9] A Peretola c’è l’aeroporto fiorentino.
[10] Secondo le testimonianze dell’epoca, forse date dallo stesso Leonardo, la Macchina riuscì a planare per circa mille metri. L’atterraggio – senza conseguenze - avvenne a Camerata, che si trova al confine tra i territori di Fiesole e Firenze.
[11] Rasenna è il nome romanizzato di Rasnas il vero nome degli Etruschi. Significa “popolo degli uomini”. [12] Personaggio del mio romanzo “Il guardiano del grano” – Ferrari editore [13] Andare all’altro mondo. Praticamente significa andare a rivedere il proprio babbo. [14] Agenzia di pompe funebri fiorentina.
[15] La Misericordia di Firenze fu fondata nel 1244 ed è la più antica confraternita dedita all’assistenza dei bisognosi sia dell’Italia sia del mondo. Oltre all’assistenza, al trasporto degli infermi e altre attività caritatevoli, la Misericordia si occupa anche dei funerali e della sepoltura dei morti nei cimiteri della Confraternita stessa.
[16] Il vocabolo pissera/o, è una tipica parola fiorentina. Non lo troverete mai
nei dizionari se non in quelli dialettali regionali. In questo caso una donna pissera è un soggetto insignificante, che bazzica spesso nei luoghi comuni. Per dirla in due parole è una donna perbene ma vista in modo caricaturale.
[17] Convincerla.
[18] Vedi nota 43.
[19] Frazione del comune di Fiesole nella Valle del Mugnone.
[20] Una erta via che parte dalla strada tra Pian di Mugnone e Fiesole. Porta anche questa alla cittadina etrusca.
[21] Un rione di Fiesole.
[22] La Fonte Sotterra è una grotta sotterranea scavata dall’uomo larga circa dieci metri e lunga una trentina di metri. La Fonte è stata utilizzata come sorgente d'acqua del quartiere fiesolano di Borgunto dal Medioevo fino a pochi anni dopo la seconda guerra mondiale.
[23] Frizzantina, frescolino. [24] Divento [25] Stupidi, idioti, grullerelli. [26] L’ho.
[27] Guardarti. [28] Datti da fare. [29] Devi sapere... [30] L’ho. [31] Padre. [32] Nella parlata fiorentina viene inserita la lettera e come rafforzativo in un
discorso. [33] La lettera l solitamente in qualche caso viene pronunciata r. [34] In questa parola, la v viene pigiata, raddoppiata. [35] Brancicare ovvero toccare, in questo caso palpeggiare.
[36] Essere ancora nei desideri dei propri genitori. In realtà il tonchio è un parassita dei piselli, dei fagioli, del grano. Esso ha una forma tondeggiante In Firenze e soprattutto in Val di Pesa, in modo scherzoso, i tonchi sono i testicoli...
[37] Padre.
[38] Diventata.
[39] Tu inizi ad avere una cert’età anche te... Molto spesso durante un dialogo si ascoltano delle frasi che, per chi non è fiorentino o toscano, non sono esattamente corrette. Anzi, tutt’altro. Ad esempio si dice: “Te tu sei andato da’ i’ giornalaio...” o come nel caso sopracitato: “Tu inizi ad avere... te!”
[40] Caldine, mio paese natale in comune di Fiesole.
[41] Si arrotolava a un nastro attorno ad una forma di formaggio. Presa una breve rincorsa si lanciava la rulla. Vinceva chi tirava più lontano. In palio, forme di cacio pecorino. Adesso le rulle sono di legno... il formaggio costa troppo.
[42] È un rafforzativo della negazione, come per dire, No, figùrati!
[43] Inteso come natiche. Le mele in vernacolo fiorentino (anticamente dette i melaranci) sono le natiche.
[44] Sul suo...
[45] Cadde per terra.
[46] Chinai.
[47] Gli anziani dei vari paesi – e spesso anche quelli della città – cambiano le consonanti alle parole. Così delinquente diventa delinguente, siringa diventa silinga, ecc.
[48] Madre. [49] Nuora.
[50] Alla lettera un nacchero è un piccolo uomo mezzo sciancato. Tuttavia la parola viene utilizzata per richiamare vivamente l’attenzione di qualcuno.
[51] Le ficattole sono focaccine di pasta di pane fritte. Per quanto riguarda la loro origine si contendono il primato sia il Mugello sia Prato. Di solito si mangiano con il prosciutto, salumi e con lo stracchino.
[52] Il Pratomagno è un gruppo montuoso tra il Valdarno superiore e il Casentino. Si trova sia in provincia di Arezzo sia in provincia di Firenze (in minima parte).
[53] Testa. [54] Diventato.
[55] Si tratta di un vezzeggiativo familiare che di solito si rivolge non solo ai bambini ma anche ai grandi: O nini icché tu voi da bere?
[56] Pallino è una parola che viene usata quando si vuol richiamare l’attenzione di una persona che ci ha stancato con i suoi modi di fare o di dire.
[57] Monte Ceceri.
[58] In una novella del Decamerone di Boccaccio, Calandrino va alla ricerca della pietra filosofale nel torrente Mugnone.
[59] Alta collina che domina Sesto Fiorentino e un quartiere periferico di Firenze. C’è un detto simpatico: “Quando Monte Morello ha il cappello, fiorentin prendi l’ombrello.”
[60] Ghiaccio. [61] Averlo. [62] Suocera. [63] Le poppe di monaca sono delle meringhe. [64] Poppe.
[65] Non. ‘Un è la forma toscanizzata del nun usato in altri vernacoli o dialetti. [66] Piccolo pesce di acqua dolce che vive sia nei torrenti sia nei fiumi. [67] Fuori. [68] Inglese.
[69] Stesso.
[70] La linea ferroviaria della Faentina collega Firenze a Faenza ando per i comuni di Fiesole, Vaglia, San Piero a Sieve, Borgo san Lorenzo, Marradi e Brisighella (quest’ultimo paese è già in territorio romagnolo). Fu inaugurata il 23 aprile 1893. Fu distrutta durante la seconda guerra mondiale dai tedeschi durante la loro ritirata. La linea è stata riaperta il 9 gennaio 1999.
[71] Frazioni del comune di Fiesole.
[72] Località lungo la via Faentina nel comune di Fiesole.
[73] Collina dirimpettaia al colle di Fiesole. È leggermente più bassa e ai suoi piedi ci sono le latomie abbandonate di pietra serena. A metà collina c’è la via Bolognese, la statale che porta in Emilia ando per il o della Futa.
[74] È praticamente la cittadina più importante di tutto il Mugello.
[75] Palle viene usata per richiamare l’attenzione di qualcuno che dice o fa una cosa in maniera furbesca.
[76] Pensarci.
[77] Scritta l’11 agosto 2004 e postata su www.liberodiscrivere.it il 26 ottobre 2004. La poesia fa parte della mia silloge “Terramordimare” pubblicata per
www.ilmiolibro.it
[78] La collina di Fiesole è formata da due rilievi: Sant’Apollinare e San sco (c’era l’antica acropoli etrusca). Questi due poggi danno a Fiesole l’aspetto di una falce di luna. infatti lo stemma del comune di Fiesole c’è, appunto, la falce di luna e una stella.
[79] Così si definivano gli antichi etruschi, il popolo degli uomini, ovvero Rasnas o Rasenna.
[80] La poesia fa parte della mia silloge “Terramordimare” pubblicata per www.ilmiolibro.it
[81] Scritta il 13 agosto 2004 e postata su www.liberodiscrivere.it il 22 settembre 2004 – La poesia fa parte della mia silloge “Terramordimare” pubblicata per www.ilmiolibro.it – Nel 1125 Fiesole fu rasa al suolo dalle truppe fiorentine. Gli abitanti dell’antica città etrusca furono deportati a Firenze per costruire le sue mura e i palazzi con le pietre rubate alla loro antica città.
[82] La stretta gola tra il colle di Fiesole e monte Rinaldi dove scorre il Mugnone.
[83] Piccole botte in testa date con il pugno. Fanno più male se date con le nocche.
[84] Nel 405 dopo Cristo, nella Valle del Mugnone, ebbe luogo una battaglia a
difesa di Firenze e di Fiesole. Le due città erano assediate da oltre trecentomila barbari comandati da re Radagaiso. L’esercito dell’impero romano, guidati da Stilicone, sbaragliò e trucidò l’esercito invasore aiutato dal gran caldo di quell’estate. Questa fu l’ultima vittoria dell’impero romano. La leggenda vuole che Caldine, il mio paese, fu chiamato così in memoria di quel caldo giorno.
[85] La poesia fa parte della mia silloge “Terramordimare” pubblicata per www.ilmiolibro.it
[86] La doppia “d” vuol dire che in quel caso la consonante va indurita. Ad esempio va pronunciata come fosse tutta una parola: “come sarebbe “addire”, ovvero ... che cosa vuoi dire...
[87] Decina. [88] In vernacolo fiorentino e nel fiorentino parlato si usa spesso quel tu rafforzativo. [89] I’ ponci livornese o torpedine (ponce). Ha cinque ingredienti: caffè, rum, zucchero, limone e cannella.
[90] Condom usati.
[91] Scritta il 30 agosto 2005 e pubblicata sul www.liberodiscrivere.it il 5 settembre 2005. La poesia fa parte della mia silloge “L’isola di mia madre” pubblicata per www.ilmiolibro.it. Il porto in questione è Porto Flavia, nei pressi del villaggio minerario di Masua in provincia di Iglesias. Di fronte a questo scalo, scavato nella roccia a strapiombo sul mare c’è il famoso Pan di Zucchero.