Riccardo Iaccarino
Tre diversi racconti
Palermo, 2015
ISBN 9786050404777 Prima edizione Agosto 2015 Edizione ebook © 2015 - Riccardo Iaccarino
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Ringraziamenti
A mia moglie.
La Promoter
Dubbio, sulla sensazione di sollievo. Alla sensazione di gelo appena entrati. No, di sollievo, proprio no. Meglio che nel caldo torrido di fuori, ma non parlerei di sollievo. Di minor sofferenza, ecco. ‘’Hai preso il carrello?’’ mi rimprovera subito Dora. No, non c’è bisogno di dirlo. L’ho dimenticato come sempre. Caldo di nuovo, cerco lo spicciolo giusto per sbloccarlo. Gelo, di nuovo. Tutto normale.
La prima fase è la peggiore, girare con il carrello vuoto nei negozi secondari, evitando bambini, clienti distratti. Invidio un autista di tir che dovesse fare retromarcia in un parcheggio a pagamento. C’è chi parla al telefono, chi digita sul telefono. Chi legge qualcosa, sul suo telefono, o forse se lo rimira e basta. Ragazzi in gruppo, ma di più, coppie. Coppie, coppie e ancora coppie. Tanta umanità. Troppa, qui, nel centro commerciale: il villaggio, la moderna piazza del paese, il centro città contemporaneo.
La seconda fase la preferisco, quella della spesa vera e propria. C’è sì sempre confusione, ma c’è anche una certa logica, un criterio razionale che seguiamo durante gli acquisti. Almeno qui i corridoi sono ordinati: quello grande, centrale, e gli altri che lo tagliano ortogonalmente, sin da su, dai depositi, giù fino alle casse. Perché sicuro ci deve essere una lieve, impercettibile pendenza verso le casse, che la gente alla fine si affolla tutta lì. Solo che noi non riusciamo a vederla. E poi, qui dentro, mia moglie almeno un minimo di ordine lo segue. E tanto ci pensa lei, in automatico, che sa già perfettamente quali biscotti o quale saponetta io desideri. Se ci sono offerte, ci pensa lei a cercarle. Ed io che faccio, nel frattempo, direte.
Guardo, osservo. No, non le belle ragazze, come nella fase uno. Sì, magari
anche, ma non principalmente. Qua guardo solo i carrelli, cosa prendono, cosa scelgono le altre persone. Innanzi tutto, distinguo. Tra chi ha il carrello, e chi no. Se ci sono più cibi di questo o quel tipo. Se c’è roba ‘’bio’’, che va tanto di moda, o magari un po’ di carne, oppure solo verdura e frutta. C’è sì chi è solo, ma davvero quasi tutti sono in coppia, chi con uno o più figli al seguito. E contenti, non so perché, ne vedo pochi. Non come quei servizi estivi del telegiornale, tutti in spiaggia. Tutti che ballano. Per forza. Dietro all’istruttore o alle istruttrici, ad imparare il ballo che, non si capisce chi, ha deciso sarà di moda quest’estate. Guardo, dicevo. Guardo gli altri. Anche gli addetti: chi si affanna, chi sistema con calma, chi vaga non so verso dove, chi accenna come un mezzo o di quella danza, in mezzo al vociare di fondo ed alla musica. Ma forse è solo una mia impressione.
E poi, ci sono loro. Le promoter. Le corrispondenti delle istruttrici in spiaggia, delle animatrici al villaggio turistico. Quelle ragazze, o molto più di rado signore, con il sorriso a comando. Con in mano un formaggio, una confezione di tortellini, un caffè caraibico. Tutti questi sono rigorosamente o nuove linee di prodotti, o a volte marchi da rilanciare. Non ci crederete, lo so. Ma mai, mai una promoter mi ha rivolto la parola. Perché io le evito rigorosamente. Prima di tutto, stando vicino a mia moglie, di norma tutte si rivolgono alle signore, senz’altro più disponibili agli argomenti proposti, ed alla novità. E poi, per scongiurare di dare loro un inutile e scontato diniego, non le guardo mentre o vicino. E non c’è verso, che io assaggi la tartina omaggio con su l’ultima formaggetta industriale, o sorseggi il caffettino gratuito, rigorosamente in un micro-bicchiere di plastica. Niente, rifiuto, anche se è gratis. Perché nessuno ti regala niente, ne sono convinto.
Ah, il prologo. La fase prologo, prima della fase uno. L’avevo dimenticata, anzi rimossa. Perché la odio, la fase prologo. Più di un criminale senza movente, che sceglie le sue vittime a caso. Più di una malattia pandemica. La ricerca del parcheggio.
Che la ricerca della felicità, al confronto, è una eggiata. All’inizio era un dramma kafkiano. Od un racconto di Garcia Marquez. Se stavo fermo in una zona, aspettando che qualcuno uscisse, in realtà avano i minuti ed aspettavo invano. Probabilmente, perfino in un’altra zona, dove ha parcheggiato Godot per fare la spesa, avrebbero aspettato meno. Da un minimo di 30 minuti, fino anche a 90, una volta. E spesso sotto il sole. Allora ho cambiato tattica, giro come un forsennato, avanti e indietro, e dove mi pare qualcuno si stia avvicinando all’auto, mi accodo come un puma. Eh, ma non sempre funziona, solo qualche volta. Ad esempio può capitare, più spesso di quanto pensiate, che i tizi tornino all’auto, posino la spesa, ma purtroppo hanno in piano di ritornare dentro, nel paese virtuale, per finire di occupare la loro insulsa giornata. E lì vi guardano con lo sguardo perso, un po’ scusandosi e un po’ pensando ‘’che me ne frega’’, che insomma la mia ricerca della felicità dovrà giocoforza proseguire.
Ma che strano, oggi ho trovato parcheggio al primo colpo, anche se di sabato quando andiamo è quasi impossibile. Complice l’estate, ma tutto mi sembra lo stesso pieno di umanità, troppo pieno, come al solito. E allora siamo avanti di una mezz’ora, sulla nostra tabella di marcia. ‘’Dora, siamo in anticipo per andare da Gianni e sua moglie. Ci prendiamo un caffè al bar, qui di fronte all’uscita?’’ ‘’Dove?’’ fa Dora un po’ distratta. ‘’All’uscita, appena oltre le casse’’? In realtà io mi sarei fermato volentieri, finalmente, nel negozio di videogiochi vicino al bar, che ancora non sono riuscito a entrarci in quasi otto anni che iamo di qua. Ma come fa un uomo di 40 anni a entrare lì senza far ridere tutti, pensavo. ‘’Cerco un gioco per mio figlio!’’ ecco sarebbe una buona scusa, forse. Ma non abbiamo figli, io e Dora. Insomma, al massimo il caffè. ‘’Va bene’’ accondiscende Dora, mentre proseguiamo con la fase tre: la cassa. Per questa abbiamo ottimizzato il processo sin dalla prima volta: lei mette sul tapis-roulant della cassa prima le cose fresche e i surgelati, a seguire il resto e per ultimo le
cose ingombranti, tipo bottiglie. Io vado avanti e inizio a riempire solo dopo che lei ha riempito la prima busta, quella dei surgelati, e carico il carrello. Appena la cassiera è pronta, tocca a me digitare il pin del bancomat che lei le ha fornito, dato che non se lo ricorda mai. O forse fa solo finta, per non farmi sentire completamente inutile.
Mi avvio anche oggi lento, a posare la spesa in auto, e prendermi alla fine sto benedetto caffè, la mia carota per la giornata così esclusivamente ‘’yin’’ che sto trascorrendo, come sempre, in questo maledetto centro commerciale. Mi giro ma Dora non c’è. Non mi è difficile vederla quasi subito, dieci metri indietro, si è fermata davanti ad un banchetto promozionale. Che novità. Beh questo però non è di cibo. È fatto dei soliti cartonati, è bianco e c’è scritto sopra PRANA in blu, in maiuscolo. Mi avvicino, rigorosamente senza guardare la promoter in viso, che non vorrei mai mi rivolgesse la parola, e mi parrebbe brutto non risponderle. Da dietro, tanto, è la solita figura femminile magra, giovanile, pare bella sì, ma in fondo deve gettare via la sua giornata in queste futili discussioni, cercando di integrare con qualche contratto chissà quale misero fisso mensile. Ammesso che ci sia.
‘’3 kilowatt?’’. ‘’Sì, utenza domestica’’. ‘’Gas, per uso domestico?’’ fa la signorina. È elegante, sembra molto giovane. Mi sono messo dietro, così lei parla con Dora e forse non si accorge di me, lo spero. ‘’Vede, per il suo profilo verrebbero 54 euro al mese‘’ fa la tizia querula verso mia moglie. Insomma non è cibo, sono quelle compagnie dell’energia libera. Questa, propaganda un’offerta omnicomprensiva, tutto incluso. Ma Dora, scusa, ma che hanno che non va i nostri fornitori? Ti è mai mancata la corrente? E per il gas, spendiamo una miseria rispetto a quello di prima, boh. ‘’Ma il cellulare all’ultima moda in omaggio, per averlo, come si fa?’’ incalza lei. E qui la signorina traballa: ‘’Ma sul nostro sito può trovare tutte le informazioni’’, e comincia a digitare nervosamente sul suo tablet. Dora ha fiutato la preda. La protettrice dei consumatori che è in lei prende il sopravvento. ‘’Ma chi mi garantisce che spendo solo 54 euro al mese, alla fine’’. Il mio caffè si sta raffreddando. Peggio, volatilizzando. ‘’Dora, andiamo’’ faccio da dietro, fingendo di possedere un briciolo di quella autorità che non possiedo con lei, completamente. La promoter si volta di scatto, non mi aveva percepito, tutta presa dalla linea di fuoco
dall’altra parte. So che non devo parlarle, ma non posso non vederla. È mora, molto bella, con un viso ovale e il nasino che pare disegnato. Non avevo mai incrociato gli occhi di una promoter. Sono di un bel castano . Intensi. Sono sicuro che ci sono tante cose dentro, ma nel primo istante, prima di tutto, ci ho visto la malinconia.
‘’E’ mio marito!’’ squittisce Dora. ‘’Buongiorno, guardi vuol mica provare lei a spiegarlo a sua moglie…’’. Cosa? Ma sei fuori. Non le rispondo. Hai scelto quello giusto. Far cambiare idea a mia moglie? Conosci una donna che cambi mai idea sulle cose? ‘’Ma guardi, tanto le dico che è no’’ fa Dora pietosamente, per togliermi dall’imbarazzo. Intanto sto pensando, che se una promoter del formaggio ti fa assaggiare delle tartine, cosa potrebbe mai fare una promoter di energia, mi chiedo: ecco mi potrebbe far caricare un po’ il cellulare, che sarà già mezzo scarico, è tutto il pomeriggio che siamo qua. ‘’Ma mi lasci i dati la prego, poi vi richiamo io. Oppure una mail’’. No, mai. Non c’è verso che ti diamo le nostre mail. Scordatelo. ‘’Vabbè lasciagli il tuo’’ fa Dora, come fa sempre quando vuole levarsi un problema poco importante dai piedi. Che se il problema è veramente importante, lei scende in campo, lancia in resta, e guai a non seguire pedissequamente le sue indicazioni. Quando invece il problema è da poco, me lo a, tipo questo. Manda avanti me, come un segretario, come un punchingball. Tanto, per ribadirle che non ci interessa quest’offerta, un adolescente basta e avanza.
‘’Hai capito, ti attirano offrendo l’ultimo cellulare, ma sul sito non c’è niente’’. Dora è ancora imbufalita, dopo due giorni, non capisco se per la presunta truffa in sé o perché le è svanito il sogno dello telefonino all’ultima moda. ‘’E vabbè Dora, ma tanto prima bisognava firmare un contratto e spedirlo. Non pensarci’’. Eh, le donne, quando si fissano con un’idea. Non si rassegnano facilmente. È stato un lunedì tranquillo al lavoro, oggi. Speriamo non me lo rovini. In fondo uno dei pregi di questo caldo torrido è proprio apprezzare di più l’ufficio e la sua aria condizionata. E la macchinetta del caffè, che i capi non ci sono, o quasi, e possiamo fermarci qualche minuto in più con i colleghi, Gianni e Sergio in particolare, per raccontarci l’un l’altro le nostre imminenti vacanze. Un sabato del villaggio informatico. ‘’Dove vai quest’anno?’’ chiede Sergio. Che sicuramente mi sta prendendo interiormente per i fondelli, mentre gli spiego che per il settimo anno consecutivo andiamo nella casa al mare, che Dora ha ereditato dalla madre. E giù a spiegargli che gli alberghi costano, che molti non vogliono il cane, le solite ovvietà ripetute ogni anno che ora odio, ma che forse mi mancheranno tra qualche anno, quando scendere una piccola rampa di scale per portare fuori il nipote del cagnolino diventerà un problema serio. E vabbè, ai problemi seri, ci penserà Dora.
Sergio invece è un single convinto, ha solo cinque anni meno di me, ma essendo un uomo e non essendo stata ancora inventata la parola ‘’zitello’’ ci fa ancora un’ottima figura quando, con fare sicuro, mi controbatte: ‘’Ibiza’’. Certo, dimostra un poco di più dei suoi 35 anni, e indubbiamente ha quel tipo di fascino e savoir-faire che sulle ragazzine o ex-ragazzine che abbiano qualche grave problema con la figura paterna non può non fare colpo. Eh lo so, al ritorno mi dovrò subire il racconto delle sue tre o quattro avventure, che con la tale biondina ha fatto questo e con la signora appena sposata ha fatto quest’altro. E nemmeno ci penso più né ad essere invidioso, né a capire se una parte o tutti questi racconti siano veri, che tanto lui non è mai troppo volgare, e ti lascia con l’idea che lui si è divertito, le donne con lui si siano divertite, e se alla fine è andata davvero così e tutti sono meno infelici, incluso il marito della signora, viva Sergio. ‘’Lunedì prossimo, vieni alla cena aziendale? Andiamo insieme?’’, mi chiede speranzoso. Oddio, l’avevo dimenticato, rimosso, come il prologo. ‘’Con piacere Sergio!’’. Due volte l’anno, cena di reparto. Prima delle vacanze estive. Prima di Natale. Tanto non tocca a me pagare, almeno. E però mi dà
fastidio, come se il lavoro mi invadesse una parte del mondo che non gli spetta, quella dopo l’orario d’ufficio. Non l’ho mai sopportato, ed è per quello che ho rinunciato a fare il dirigente, e sono rimasto col contratto collettivo, come qualsiasi impiegato. No no, il salotto è la mia Svizzera, zona franca. Non dico a casa, in assoluto, ma da quando sono sul salotto, almeno, non voglio davvero essere più disturbato, guai.
Odio la tv. È l’unica cosa che seguo meno di Dora, seduto sul salotto. A Nora ogni tanto devo dare un poco di attenzione, sennò diventa una furia. E non ha torto. Non perché aspetti proprio me, ma perché aspetta qualcuno che le dia attenzione da mezza giornata, dato che lei lavora solo part-time alla mattina, in un supermercato. Non che ne abbiamo economicamente bisogno, ma davvero lei si sentirebbe inutile a non avere un’attività. La comprendo. Stasera ci sarebbe in tv la finale del campionato italiano di pallacanestro, gara 7 di spareggio. Ma con Dora lo sport è tabù. Film o dibattiti. O documentari sulla Storia. Non è previsto altro nel menu.
Ecco, la tv mi piace solo quando trasmettono lo sport, allora la adoro, letteralmente. Solo guardando un evento, sono sicuro che uno dei miei idoli, spinto dal mio tifo, dalla mia forza, farà meglio. Non può perdere, se lo sto guardando io, in tv. Questo pensavo quand’ero piccolo, ed è una convinzione che mi ha preso e non mi ha lasciato per qualche anno, anche se un giorno del 1994, poi, è finita. Ma anzi ha toccato il picco nel Giugno 1982, quando di pomeriggio i miei genitori mi hanno lasciato solo in casa dal loro irrinunciabile giro spesa e caffè, per seguire Argentina-Italia e Brasile-Italia, ai mondiali. Uscite, uscite pure infedeli, pensavo, come pensa probabilmente un militante del califfato arabo, oggi. E mi ricordo perfettamente molte di quelle azioni. E le emozioni, tutte.
Argentina-Italia. Telecronista: Nando Martellini. Spettatori, uno, pensavo, davanti alla tv. Bei tempi, quando avevo tanta autostima. Spettatori, uno, mentre Antognoni serve Tardelli che insacca. Ma fuorigioco, Dio. Oltre a Maradona, pure Dio contro, penso. Ma finalmente lo schema si ripete e stavolta non ho
dubbi, gol. Brividi terribili nella schiena. Come uno che vede la luce da in fondo un fosso. E lo sale, poi, con sforzo, soffrendo. Intanto Dio si ferma sul palo, un suo apostolo sulla traversa, e finalmente con un salto esco fuori, quando Bruno Conti appoggia indietro per il raddoppio di Cabrini. Beh il resto è storia. Va bene, Brasile-Italia 2-3 e tutto quanto, chissà quanti spettatori alla tv. Ma con l’Argentina, sono sicuro, spettatori: solo io. Ed i parenti dei calciatori, via. Solo quelli che gli volevano veramente bene. Che è facile tifare quando il tuo idolo sta vincendo. Che mio fratello non tifa più Schumi oggi, tifa Vettel. Io invece tifo ancora per Ayrton.
Al telefono mi chiama quasi sempre solo Dora, che i miei li chiamo io, quindi questa chiamata quasi alle nove di sera mi fa sobbalzare. Non so di chi è il numero. ‘’Dora non lo so chi è. Rispondo?’’. ‘’Sarà l’amministratore’’. Rispondo riluttante, spero non sia l’amministratore, vorrebbe dire che c’è qualche lavoro condominiale extra da foraggiare. ‘’Buonasera, sono Vania, della Prana’’. Focalizzo a stento, che sono stanco. ‘’Ah la compagnia elettrica, certo’’. ‘’Volevo solo chiederle se aveva valutato la nostra offerta tutto compreso, luce, gas, internet e telefono, tutto incluso, al prezzo speciale a lei riservato…’’ fa la tizia, con un tono trascinato, come se stesse leggendo. Non rispondo, ma lei insiste un poco: ‘’Ma noi le offriamo un’unica soluzione, tutto incluso’’. La congedo cercando di essere gentile per quanto possibile. ‘’Tutto il pomeriggio queste telefonate, al telefono di casa’’ fa Dora. ‘’Chissà da dove prendono i numeri da chiamare’’ faccio io, con malcelata ironia, tanto che lei mi guarda storto, ‘’ma tanto sul cellulare puoi rifiutare i numeri, no?’’. Al massimo un pareggio, come sempre. Pareggio in casa e sconfitta fuori. Media da retrocessione. E sia, torniamo a guardare il dibattito di stasera, con i protagonisti del moderno avanspettacolo, i politici. Che ormai selezionano apposta tra di loro quelli bravi in tv e quelli no.
‘’Davvero non sei interessato?’’. Leggo questa scritta strana nel WhatsApp. Nessuno mi scrive mai in WhatsApp, sarà un’altra pubblicità del cavolo. Ma chi altri ha il mio numero, penso. Ah forse per lavoro, ma certo. ‘’Pensaci. Vania’’. Sento il cuore che batte all’improvviso, fuori tempo, come uno spavento. Non ci credo, lo riguardo. È un messaggio, un secondo messaggio. Ed è vero. Dio santo, e mannaggia a te Dora. Mi rigetto nel dibattito, come se non fosse successo nulla. Inveisco contro un politico a caso, il primo che dice cose senza senso, e non ci metto molto ad identificarne uno. ‘’Dobbiamo assistere tutti i migranti, tutti, appena arrivano in Italia’’, sì certo, come no. Mi ricorda tanto una che suggeriva di mangiare brioche in assenza del pane.
‘’Non ti ho mai visto così partecipe ai dibattiti’’ fa Dora, a letto. ‘’E sai, quando sento certe sciocchezze’’. Ma non sto pensando al politico. ‘’Buonanotte Amore’’ fa Dora, mentre la saluto in silenzio con un casto bacio sulla labbra,
come succede direi 360 giorni all’anno su 365. Gli altri cinque sono quelli in cui ci provo penosamente, e se va bene ci riesco una o due volte. Un matrimonio normale, insomma, come ce ne sono tanti. Mica siamo più fidanzatini, dopo sette anni di matrimonio e tre, appunto, di fidanzamento. Ma sono sicuro che Nora mi vuole tanto bene, anzi di più, che non si dimentica mai la mia saponetta o i miei biscotti preferiti.
Penso a WhatsApp. Secondo me è uno scherzo. Sarei anche curioso. Che poi con tutti i tizi che vede sta tipa durante il giorno. Sì la promoter, chissà quante persone, quanti bei tipi incontra, e sta a vedere che cerca proprio me. Sicuro una ragazza così bella è fidanzata. Sennò sarà una matta, o una ninfomane. Farà così: prende i numeri dei maschi che le interessano e poi ci tenta così, e magari di dieci, uno risponde. Qualche disperato. Ma pensa un po’, così giovane. Non avrebbe bisogno di fare ste cose, non era neanche male. Sì, sicuro, deve essere uno scherzo, mi rassicuro, e me ne convinco anche, che finalmente mi viene sonno.
‘’Riccardo, a che percentuale siamo sul progetto Delta?’’. Oggi la capa è incazzata. Per quello non fanno fare carriera alle donne facilmente, secondo me: hanno l’handicap delle loro cose. Mi sembra un motivo più che plausibile. ‘’Dottoressa, dal Project mi segnala al 42%, siamo abbondantemente nei tempi’’. ‘’Beh mi raccomando la riunione di domani, in ogni caso. Stia in guardia, non mi fido di questi’’. Ma che si affanna, dottoressa. Ormai vanno tutti in vacanza, tra poco. Anche noi. Hai le tue cose, nemmeno un pool di scienziati o di investigatori troverebbe un altro motivo plausibile. O forse vuole solo ricordarmi che dopo le vacanze sarà sempre tutto uguale, lei comanda ed io eseguo. Va bene, dottoressa, per intanto tra quattro giorni saremo sempre al 42% del progetto, nonché allo 0% delle mie vacanze, e tanti saluti fino a Settembre. Meno male che non ho fatto il capo.
‘’Allora?’’. Da quando la mia direttrice ha iniziato ad usare WhatsApp? Ma non è lei. Il numero è lo stesso di ieri sera. Il mio primo pensiero, fulmineo, è per Dora. Dora fai che non mi debba cambiare numero di cellulare, per colpa tua e di questa matta. Dora ti stanno fischiando le orecchie, sicuro. Oddio, potrei andare là di persona da sta sciroccata e dirglielo, dirle che non mi interessano, lei, le sue energie riunite e cos’altro voglia offrirmi, o peggio pretenda da me. E vabbè ma c’è davvero bisogno di andare di persona, subito? Cominciamo a scriverglielo magari.
‘’Chi sei?’’. Un bell’equivalente, chiaro, di un non ti conosco, inviato dopo qualche altro minuto di tentennamento. La risposta è velocissima, fulminea, prima che abbia il tempo di immaginarne una dopo aver schiacciato l’invio. ‘’Sono Vania, non ti ricordi di me?’’. ‘’No’’ rispondo. Subito. Già ne dico poche di bugie, ma mai veloci come questa. La conversazione si fa serrata, mi alzo dalla scrivania e vado vicino all’area break, non voglio farmi vedere a perdere tempo proprio alla postazione lavorativa. Prendo un caffè alla macchinetta e mi appoggio ad uno dei tavolini tondi, solo: una cosa che non ricordo di aver mai fatto.
‘’Sono io Vania, la promoter. Sabato scorso, eri con tua moglie. Quanti anni hai? Io ne ho 21’’. ‘’Non ci credo che sei te’’ rispondo mentre la conversazione si fa ancora più serrata. Sento come qualcosa che mi cede dentro però, mentre schiaccio invio. Come una piccola frana. ‘’Avevi la camicia bordeaux con le maniche corte e dei pantaloni grigi estivi’’. Oh mio Dio. Se mi chiedeste come ero vestito sabato scorso, non me lo ricorderei giuro. Lei si ricorda. Ma è lei? ‘’Beh, può essere. Ma che vuoi?’’, digito con l’ultima evasività che mi è rimasta. ‘’Senti, la nostra offerta include tutto, tutto. Sicuro che non ti interessa?’’. Ah sono rassicurato. Questa è una che ha inventato un nuovo metodo. Originale però: vuole sedurre il marito. Così, o firma lui, o convince la moglie. Io non sono un uomo di marketing, ma mi pare un’idea interessante, anche se è un po’ spudorata. E più o meno le sintetizzo questo, nel messaggio successivo. Ma la risposta è raggelante: ‘’Ah ah sei fuori strada. No, ti voglio. Non mi credi? Anche adesso. Mettimi alla prova’’.
Il cuore mi batte di nuovo forte e fuori tempo. Ma io, continuo a ripetermi: sono un uomo normale. Capirei se fossi un attore, un sex-symbol. Io sono un quarantenne medio, brutto non credo, ma nemmeno tanto bello di certo, da far perdere la testa a una ragazza di… quanto avrà… ah sì ventun’anni. È uno scherzo, ripeto tra me e me. E poi sto già pensando che dovrò cancellare tutta questa conversazione, non vorrei mai che Dora leggesse di sta fuori di testa. Ma perché le ho scritto, altro che andarci, dovevo ignorarla, ignorarla completamente. E così faccio.
Di giorno tra il lavoro e il sistemare gli ultimi dettagli delle vacanze, prima della partenza, non ho tempo, ma di notte, il pensiero a Vania torna. Certo, è una presa in giro. Sarà qualcuno dell’ufficio che mi ha visto da lontano e mi vuole fare uno scherzo articolato. Questa è la teoria più rassicurante che ho trovato. Ho cancellato tutte quelle poche righe, e per fortuna non mi ha cercato più, la bella Vania o chi per essa. Che poi, una ragazza così carina, avrà stuoli di fidanzati o aspiranti tali. No, questo dev’essere De Donati degli acquisti, con uno dei suoi scherzi malefici. O Sergio? Ma no, non è roba da Sergio questa, lui mi prende per i fondelli sul mio status di sposato in modo più indiretto, senza cercare paragoni. Lui racconta le sue avventure ed io abbozzo, col silenzio, tanto alla mattina io c’ho Dora che si alza e mi prepara la colazione, mentre tu o sei già
scappato verso casa tua, o stai pensando a quale scusa dal tuo libro mastro della seduzione ai per liberarti di lei. Di notte ci penso, ma non mi ha scritto più, forse domattina glielo rimetto il suono ai messaggi WhatsApp, che gliel’ho tolto in questi, giorni, pensa te se sta matta mi riscriveva mentre ero a casa. Dora dorme, mi avvicino e la abbraccio. La bacio piano, senza svegliarla. Neanche stasera era una delle cinque notti, ma non importa, anche io la amo tanto. Sono sicuro.
‘’Buongiorno. Oggi ci vediamo, dai. Non darmi buca’’. Per fortuna mi sveglio prima di Dora, che il cellulare, al buio, lampeggiava sinistramente, prima che il messaggio fosse letto. ‘’Ma com’è possibile lasciare avvicinare così tanto le persone, per colpa di questi cosi maledetti’’ penso. Da una che sa che sono sposato, e mi manda messaggi di notte così, come la più scontata delle amanti. Ma chi ti conosce. Ma chi cazzo ti conosce, mi verrebbe da sbottare. Perché c’hai un bel viso e un bel culo, ti senti autorizzata a entrarmi di notte, in stanza, in questo modo. Con mia moglie a fianco poi, che potrebbe scoprire il tuo messaggio. Che poi cosa pensa, che scopiamo assieme, perdio.
Avevo rimosso che oggi è sabato. Altro che prologo, fase uno eccetera. Le mie ferie inizierebbero lunedì, con purtroppo la cena aziendale in serata, e quindi la partenza è programmata per il giorno dopo. Ma qua c’è sta sciroccata che mi aspetta all’uscita delle casse, con la sua offerta di merda, tutto incluso. Che manco posso dire niente a Dora, ho cancellato i messaggi, e poi cosa mi direbbe. Penserebbe che ho attaccato bottone, io. Non è credibile che questa strafica di vent’anni meno di me si spinga a tanto per me. Impossibile, incredibile. Già ho poca voglia di andare al supermarket, ma oggi meno di zero. Io, che manco c’ho mai parlato con una di queste zoccolette che fanno le promozioni, con queste promoter. Mai. E che bisogno c’è poi di vestirsi così eleganti, dovreste solo promuovere il formaggetto, per di più, di norma, a delle casalinghe. Mica siete a bordo strada, e non ne vedo marciapiedi qua dentro il supermarket, solo corsie. Né marciapiedi, né lampioni.
Abbiamo quasi finito, ed oggi ho guardato solo i carrelli, come non mai, nemmeno le persone. Ma purtroppo tra poco sono alla cassa. Se alzassi lo sguardo… forse lei è già lì. Mi faccio coraggio mentre siamo in coda per pagare, alzo lo sguardo. E non c’è. C’è una ragazza bionda, e decisamente grassoccia, non è lei. Sono assolutamente sicuro. Grazie Signore! Che sollievo. Improvvisamente mi viene da ridere e scherzare, che anche Dora se ne accorge: ‘’Oggi sei allegro’’. Meno male. Avrà trovato uno, penso tra me e me, uno dei venti a cui ha preso il numero e che ha richiamato. Ma sì magari un single, tipo Sergio, così lunedì anche lui torna in ufficio e racconta ai suoi colleghi qualche
performance, ma mi raccomando fate come lui, senza mai eccedere in volgarità. Eh se fossi stato single, penso ancora… qualche anno fa. Ma non poteva capitarmi quando ero solo, prima di conoscere Dora? E archiviando, sollevato, questo lievissimo rimpianto, con un filo di più che inopportuno orgoglio maschile, o oltre i cartonati della Prana, guidando il carrello tronfio, come se fossi alla guida del quarto stato nel quadro di Pelizza da Volpedo.
‘’Signore, signore, le è caduto questo’’. Non mi giro ma mi sento toccare sul braccio. Mi giro, e vedo lei. ‘’Le è caduto questo, dal carrello’’ e mi porge una confezione di qualcosa, che lì per lì mi sembra un deodorante, uno shampoo. Ma invece è un gel. Un gel di quelli per coppie, di marca. Trasecolo. La mente mi aiuta per un istante: ‘’Non è mio, si deve essere sbagliata’’. Mi giro verso Dora, ma Dora è indietro, ferma a parlare con la tizia grassoccia allo stand della Prana. ‘’Perché non mi hai scritto più?’’ mi dice Vania, a un millimetro dagli occhi. E non è più gentile, affatto. ‘’Senta, io sono sposato’’. Non mi esce di meglio. Sento che forse non ho più difese. ‘’Stasera a casa mia. Via Charles Baudelaire 21. 21, quanti i miei anni’’. E infine, stringendomi il braccio forte, mi bacia a tradimento, solo due secondi ma con impeto assoluto. ‘’Ti aspetto. Non farmi incazzare’’. Stento a riprendermi. Nora avrà visto. Vania non la vedo più. Nora è ancora là che blatera, voltata. Bene, anzi: malissimo. Giro il carrello e torno indietro dei dieci metri che ci separano, questi dieci metri di troppo. ‘’Signorina, non mi ha convinto, non ho capito come si fa a ricevere il cellulare in omaggio’’. Dora è inchiodata lì, sulla sua posizione, come sette giorni fa, da quando il suo sguardo ha incrociato il cartonato con su scritto ‘’tutto incluso’’ e la fotografia, la decalcomania in alta definizione dell’oggetto di culto del momento. E non si schioda. Come tutte le donne. ‘’Dora basta. Andiamo. Non sono seri’’.
Per una volta, Dora mi segue, anche perché qualcuno attorno stava cominciando a guardarla, imbarazzato. ‘’Dai fanno solo il loro lavoro, e te che ci caschi. Non prendertela’’. Ed anche la mia residua saggezza, ora, mi sembra di averla estratta tutta da me stesso. Ora a parte questo ‘’Vania, Via Baudelaire 21, alle 21’’ che rimbomba in ogni dove riesco ancora a pensare. O forse riesco solo a guidare mentre il mio pensiero vaga, il mio cervello ridisegna il volto di Vania e la sua silhouette.
Sbircio veloce sul cellulare e vedo che Via Baudelaire è alquanto in periferia, anche se vicino al mare. Mica come una volta che c’era il Tuttocittà e avrei dovuto inseguire Vania per tutte le tavole, ora con due click son già sopra di lei, cioè sopra la sua abitazione. Arriviamo a casa, mentre scarico la spesa, penso che sono fottuto. Se non ci vado ha detto fra le righe che me la farà pagare. Se ci vado devo tradire Dora, che follia. Devo dirlo a Dora, devo dirle tutto. Ma mi crederà? Salgo su con i sacchetti, e squilla il telefono. Mamma mia la pazza, che incubo!... E invece no, è Sergio, trafelatissimo. ‘’Contrordineeee! E’ stasera, staseraaaa’’. Sergio sei impazzito? Mi racconta che il marito della direttrice, che ovviamente fa il dirigente anche lui da noi, ha trovato un last minute per le Canarie e quindi la cena aziendale è stata spostata a stasera. ‘’Stasera? Ma di sabato sera… e mancano solo tre ore! Ma cosa credono, che la gente sia a loro disposizione?’’. Sergio è disperato. ‘’Senti, non dirlo a me. Avevo appuntamento con una della produzione. L’ho tampinata per due mesi, cosa le dico adesso?’’. E la direttrice non transige, me lo ricorda lui: ‘’Ti ricordi di Mario l’anno scorso, dopo che ha saltato la cena di Natale?’’. Cacchio, se me lo ricordo. Giusto ricordarmelo, posso, perché di persona non c’è più in azienda, da Marzo. Dimesso per motivi familiari, la spiegazione ufficiale. Che quando si aggiunge a qualcosa l’aggettivo ufficiale, sa sempre di balla che si vuole far assurgere a verità. La verità, infatti, non ha bisogno di aggettivi.
Già cosa dico, cosa faccio? Glielo dico a Dora, di questa storia assurda. E se poi lei va dalla pazza e la affronta a muso duro. E se quella nega, che figura di merda ci faccio. Vabbè Dora mi crederà, ma… niente è un disastro. Mi sento perso. Però, la cena aziendale. Potrei uscire, poi con una scusa mi congedo e vado dalla tizia, la affronto io a muso duro. Le dico di piantarla, sennò la denuncio, la denuncio per stalking. E almeno lascio Dora fuori. Ci mancava solo questo, mentre penso ai momenti belli della mia vita, per tirarmi un po’ su di morale. Ad esempio, a quando trovo subito parcheggio al centro commerciale. ‘’Dora, era Sergio. La cena è anticipata a stasera. Si fanno proprio i cazzi loro, pensano che siamo degli schiavi. Mi dispiace’’. ‘’Non preoccuparti’’ mi rassicura subito. ‘’Fai solo attenzione al volante. Te non sei uno che beve, ma non farti trascinare’’. Ma che bere, sto pensando a Vania. A cosa devo dirle, che da un lato ho paura sia una violenta, una che si arrabbia subito. Devo rifiutarla, certo, ma con dolcezza. Deciso, ma con dolcezza, ecco.
‘’Lei dove andrà in vacanza’’ mi incalza la direttrice, mentre aspettiamo i secondi piatti. In realtà vorrei scappare da questo universo di ipocrisia, ma devo continuare a sorridere, perennemente. Come una promoter. A Vania ho sintetizzato in WhatsApp che arriverò da lei alle dieci e mezzo, forse anche dopo. Ho pensato che darle buca senza avvisarla avrebbe potuto urtarla. Davvero non ho ancora capito cosa mi è capitato, con che tipo di pazza abbia a che fare. Perché una bella ragazza che fa di queste cose per un mediocre uomo sposato, come me… non può essere normale con la testa. Questo è un dato razionale, inoppugnabile da cui partire. ‘’Dottoressa, per il settimo anno consecutivo andiamo nella casa al mare, che Dora ha ereditato dalla madre’’ ripeto a pappagallo, come Vania quando presenta le offerte tutto compreso. Intanto mi sembra di vedere Sergio che ridacchia. Del fatto che gli alberghi costino, taccio, non vorrei mai che la direttrice pensasse che sto chiedendo un aumento. L’unica cosa che chiedo è di andarmene prima del dolce, verso le dieci e trenta, con la scusa che Dora non si sentiva tanto bene e mi pare se la bevano proprio tutti, prima del solito spumante finale.
Almeno questa è andata, penso, mentre cerco di farmi coraggio e il navigatore
dal lungomare mi indica quando infilare Via Baudelaire. Il 21 è l’ultima palazzina, in fondo alla strada, la quale si inerpica giusto per due tornanti, ma in tal modo si gode una vista bellissima sul lungomare stesso. Al buio, è di colore chiaro, con due grandi giardinetti al piano terra, uno per lato. Intuisco che potrebbe essere una villetta bifamiliare a due piani, dato che il giardino lato mare è equamente diviso in due parti, che corrono senza interruzioni, almeno sul mio lato. Da una scaletta salgo verso il giardino davanti, e nel cancelletto ci sono due targhette sul citofono. Su una c’è scritto ‘’Tardozzi V.’’ e sull’altra nulla. Ecco una buona scusa per andarmene, non mi hai detto a quale interno. Si vabbè, tra soli due. E usare WhatsApp? Oppure chiamare al telefono, no? E vabbè proviamo questo con la V. ‘’Scusi c’è Vania?’’ chiedo alla voce maschile, assai stupito. ‘’No, è l’altro camlo’’. Dallo stupore o alle scuse, ma nemmeno suono, che lei è davanti al cancelletto. ‘’Ciao’’.
Reduce dalla cena, sono vestito da ufficio, completo classico, cravatta. Non ero così al centro commerciale. Lei non è affatto vestita da promoter, che già era molto intrigante. Ha una vestaglia turchese sexy, corta, e le pantofole dello stesso colore. Mi sento come se io fossi il postino e lei venisse a ritirare una lettera. Ma francamente, ancora devo suonare la prima volta. ‘’Vieni, accomodati’’. Non mi va di parlare nel piccolo androne, in effetti. Entro. Sarei ingiusto se non pensassi che è molto bella e affascinante. Magra ma formosa, le gambe levigate, con la giusta abbronzatura. ‘’Come sei abbronzata, ma non sei sempre al centro commerciale?’’ le faccio, cercando di rendermi simpatico, almeno adesso, almeno all’inizio. Che dopo ho un compito arduo.
‘’Dai, De Donati mi ha confessato tutto’’, tento, bluffando. La casa è bellissima, arredata in modo moderno, su due piani. È quasi tutta una living room, con salotto davanti a un megaschermo impressionante, con un impianto di amplificazione, che domina la scena. Una scala in metallo dorato sale sopra, presumo nella zona notte. ‘’Accomodati. Vuoi da bere?’’. ‘’Mi stanno filmando?’’ insisto, preoccupato. Dalla sua reazione, non da lei. Dal suo fascino, forse, un poco. ‘’Perché è uno scherzo, no?’’. ‘’Ma chi è De Donati? Dai, rilassati’’. Mi sembra di parlare con un muro, imperturbabile. Intanto mi siedo sul divano, e lei si siede vicino. ‘’Senti, non ti preoccupare. So essere discreta’’. ‘’Allora io sono un uomo sposato, te lo ripeto’’, e intanto penso che glielo sto
dicendo di nuovo col tu e non più col lei. Ha su, o dovrei dire indossa, un profumo al mango, inconfondibile ma mai invadente. Si toglie le pantofole e sistema le gambe sul salotto, vicino a me. ‘’Non preoccuparti, so essere discreta. Come posso rassicurarti?’’. ‘’Forse non mi spiego. Sono venuto apposta a dirtelo. Sì per carità sei una ragazza, anzi una donna affascinante, ma non tradirei mai mia moglie’’, tento inutilmente di blandirla. Inutilmente, perché non serve. ‘’Ah ah, ma che bisogno c’era di venire qui a dirmelo, se lo pensavi davvero?’’. ‘’Ma se non la smettevi più di scrivermi, scusa’’, mi a un ultimo barlume di raziocinio. ‘’E allora? Che bisogno c’era di rispondermi? Potevi filtrare il mio numero di telefono, no?’’.
Improvvisamente, mi sento smontato. Vero Vania, vero. È la pura verità. Anche se pura non mi sembra l’aggettivo più giusto. Quanto è bella Vania. Dolce, bella, profumata. Con la pelle ambrata, il trucco giusto, appena accennato. Sono le undici ate, Dora mi aspetta. ‘’Guardi un film insieme a me? Guardiamo un film insieme? Non penso tua moglie abbia da ridire’’. Beh insomma, immagino se mi vedesse. Lei pensa che, al massimo, sto bevendo un secondo bicchiere di spumante, e si preoccupa per il ritorno. Mi immagino la scena, inseguito da lei che brandisce un mattarello. Ma poi, il mattarello in casa ce lo abbiamo? Sicuramente al centro commerciale ce l’hanno, appena la vedrò che se lo compra, capirò che ha capito.
‘’Allora facciamo così’’, mi propone Vania: ‘’Tu scrivi su un foglio il tuo film preferito, se indovino lo vediamo insieme. Ho un sistema con vari hard disk, ne contiene più di un migliaio!’’. Non capisco davvero come Vania possa permettersi una casa del genere, e per di più con tali accessori. O, forse è benestante di suo, ma allora non capisco quel lavoro così modesto. ‘’Io lavoro solo sabato e domenica, perché hanno bisogno solo quei giorni lì. O al massimo nel periodo di Natale’’ mi chiarisce. ‘’Ok, ma come ti mantieni, come mantieni tutto questo?’’. ‘’Secondo te?’’ fa, mentre va a cercare un cartoncino bianco ed una penna, porgendomeli poco dopo. Il mio film preferito. Ma figurati se indovina. Il mio film preferito è ‘’Film Rosso’’ di Kieslowski, lei avrà avuto al massimo un anno, allora. ‘’Ok, ci sto’’ faccio tutto spavaldo, come un ragazzino. Ancora penso che a Vania manchi qualche rotella, ma in un certo senso mi sto anche rilassando. Scrivo ‘’Film Rosso’’ sul foglietto coprendomi con la mano come a scuola, come per non farmi copiare. Non vorrei che ci fosse qualche specchio o qualche trucco per fregarmi. ‘’Hai scritto?’’ dice lei, ed intanto mi sistemo il foglietto, piegato, nella tasca interna della giacca.
‘’Vai!’’ le dico, proseguendo la sfida. E lei, con calma, comincia a guardarmi negli occhi. Vicina, molto vicina. Che bella Vania, che occhi espressivi che ha. Di un castano intenso ma anche delicato, profondo. E restiamo così per un po’ di secondi. E ancora. La scena sembra fissarsi in un fermo immagine, finché le dico: ‘’E allora?’’. Ma lei non parla, solo si avvicina ancora. E ancora. E alla fine
le sue labbra sono ad un millimetro. E mi bacia, ma non come al centro commerciale. Mi bacia lentamente, intensamente. Mi sembra di impazzire dal piacere, che non ricordo di aver provato mai nulla così. Poggio le sue mani sulla vita, le scosto leggermente la vestaglia, intuisco che sotto non porta veramente null’altro. Ma improvvisamente lei si scosta. ‘’Film Rosso!’’. E mi guarda con un sorriso beato.
Sono impietrito. Ma come hai fatto, come. ‘’No, ora mi spieghi!’’ protesto. Stupefatto, ma anche quasi adorante. ‘’Cosa ti devo spiegare, avevo voglia e ti ho baciato’’. ‘’Ma no, il film’’. ‘’Va bene, ma solo alla fine del film. Te lo prometto’’. Non fiato più. Lei prende il telecomando, e il megaschermo si accende, illuminando la stanza. Velocemente la vedo digitare F e poi I, e già il televisore propone alcune scelte, tra cui la trilogia. E la visione parte, mentre lei si avvinghia a me e mi poggia delicatamente la testa sulla spalla. Non ho più paura. Sento un buonissimo profumo. Sento tanta bellezza su di me. Mi sento bene.
Penso e ripenso alla falsa casualità degli incontri, mentre scorrono i titoli di coda. Mi sento strano. Vorrei tanto fare l’amore con Vania, ma non voglio tradire Dora, non me lo perdonerei mai. ‘’Bello eh? Ora però mi spieghi. L’hai promesso’’. ‘’Sei stato bene?’’ mi domanda lei? ‘’Questo è l’importante. Comunque… guarda nella tasca interna della tua giacca’’. Controllo, trafelato, ma il foglietto non c’è più. ‘’L’ho preso e l’ho letto mentre ti baciavo. Non sono una maga. O forse sì’’. ‘’Sì sono stato bene, ma non scherzare più con me’’. Mi riprendo un minimo di dignità, ma il viso dolce di Vania si rabbuia un poco. No, forse non lo merita. ‘’Ora devo proprio andare. Tra qualche giorno parto per le vacanze, con mia moglie. Comunque, sono stato bene, sì’’. ‘’Domani do una festa qui, vieni?’’. Mi piacerebbe, ma mi sembra improponibile. Sono solo due all’anno le occasioni in cui esco da solo la sera, le due cene aziendali, ed una era proprio stasera. ‘’Non lo so. Non ti prometto niente. Però non mi tempestare di messaggi se non o’’. Vania non dice nulla, mi bacia ancora molto dolcemente e mi accompagna alla porta.
Mentre torno a casa, penso che non ho bevuto nemmeno un bicchiere di spumante, in fondo. Dora sarà fiera di me.
C’è traffico sulla strada del ritorno. Poco mare, tanta tv, le solite vacanze nella casa al mare. Meno male che almeno un paio di sere abbiamo ospitato Gianni e la moglie, che almeno abbiamo spezzato un poco la routine, io e Dora, Dora ed io. Vania non mi ha scritto più, e penso che mi abbia già dimenticato. Intanto, in questa lontananza, la mia mente ha elaborato una teoria sicuramente inoppugnabile, mica come quella dello scherzo di De Donati. Vania fa la escort. Di lusso. Non trovo altra spiegazione logica, per l’opulenza di quella casa, e per lei che non ha voluto spiegarmi meglio. Sicuramente si rifarà viva chiedendomi dei soldi. Che se è una ricattatrice, me ne frego, Dora non ci crederà mai. E poi non ho fatto niente, solo un bacio. Le dirò che era uno scherzo, o per una qualche scommessa con quelli dell’ufficio, mi metto d’accordo con Sergio. Lui è un amico, non si tirerà indietro, ma inutile disturbarlo già ora. Comunque, questa è la spiegazione sono sicuro, al 95%. Un 5% lo lascio ancora sulla teoria della pazza. Che lei si sia innamorata di me, non ci penso proprio, e poi non mi ha cercato più. Quindi scartiamola questa ipotesi, a priori.
‘’Non c’è veramente niente in casa, domani mi devi accompagnare per la spesa’’. Abbiamo appena scaricato i bagagli e già vengo richiamato all’ordine. ‘’Comandi!’’ la solita ironia un pelo fuori luogo, nel matrimonio. Va bene per corteggiare, principalmente. E solo un poco. Il pensiero corre a Vania, chissà se c’è, o forse è in ferie pure lei. Oppure ha cambiato centro commerciale e non la vedrò più. E sia, pazienza: è stata una bella parentesi, una serata diversa.
Oggi aspetto per parcheggiare, non ho fretta. Ma bastano pochi minuti di attesa. Godot aveva qualche altro appuntamento oggi, la spesa l’avrà posticipata a domani, a domenica. Entriamo, nel gelo, e il carrello questa volta non l’ho scordato. La spesa è più lunga del solito, normale dopo una lunga vacanza. E l’attesa monta, monta sempre più finché non mi avvicino alle casse e comincio a guardare là oltre. Vedo solo i cartonati con la solita scritta Prana, ma non vedo nessuno. Il nostro processo appositamente studiato durante il aggio alla cassa, diminuisce la mia attesa ormai spasmodica. Prendo il carrello pieno, oltre la cassa, lo giro in direzione delle uscite principali. Ma avevo visto bene, la postazione è vuota. Mi guardo un po’ intorno, ma niente. Vania non c’è. E non
c’è neppure una collega, ma del resto mica mi potrei fermare e chiedere di lei. Con mia moglie a fianco.
‘’Ah, l’hanno smessa questa pagliacciata’’ sentenzia Dora. ‘’Saranno scappati con tutti i telefoni-omaggio’’ ribatto. Mai ironia più fuori luogo di questa. Sento un sottile velo di dispiacere. Almeno rivederla qua, arle vicino, mi sarebbe piaciuto. Ripenso alla sua bellezza, devastante. Al suo profumo mentre guardavamo il film insieme. Ma non posso dire che mi manchi lei. Al massimo, un filo di nostalgia della situazione. Che tanto poi, mica avrebbe potuto ripetersi, se non fino alla cena aziendale, quella prenatalizia.
Sistemo la spesa in auto, e mentre riporto il carrello sento vibrare e suonare il cellulare. È lei. ‘’Vania’’ lampeggia sul display. Non mi ricordo quando l’ho salvato, questo numero. ‘’Sì?’’. ‘’Come stai? Ti sono mancata?’’. Mi sento più che preso di sorpresa. Dora è in auto lontana. Ma non posso stare molto. ‘’Dove sei? Mi stai guardando, mi stai spiando?’’. ‘’Ma sei sempre sulle tue, te. Ma perché. Ma dai rilassati. Easy!’’. ‘’Non c’è da scherzare, Vania. Cosa vuoi?’’. ‘’Sei tornato, no? Ho voglia di vederti. Quando i da me?’’. ‘’Non posso’’. Maledizione, non è più che non voglio. Non posso. ‘’Come faccio, non esco mai di sera’’. ‘’Facile, ti chiamo io. Fingo che sei il tuo capo’’. ‘’Come fai a sapere che ho un capo al lavoro? Io sono un libero professionista’’, mento spudoratamente. ‘’Abbiamo tutti un capo’’ chiosa Vania. Niente, non c’è donna che non abbia l’ultima parola. Con me. O vale anche per tutti gli altri uomini? Boh.
Sono le nove e un quarto. ‘’Si va in scena’’, il messaggio di Vania su WhatsApp è emblematico. a solo qualche secondo e il cellulare squilla. Me lo trovo in mano e rispondo al volo, per evitare che la scritta lampeggiante diventi intellegibile a Dora. ‘’Dottoressa… che succede’’. Vania mi prende sguaiatamente in giro, all’altro capo del telefono, mentre mi arrampico sugli specchi. ‘’Come, la relazione non va bene. Senta io sono a casa ora, ma le assicuro che domattina… me ne occupo subito’’. Intanto che di qua fingo ci sia la mia direttrice a vessarmi con una più che improbabile richiesta di lavoro
notturno urgente, Vania si diverte alle mie spalle, sussurrandomi parole dolci al telefono. ‘’Sì, ti voglio qua… a lavorarmi’’. Guardo Dora con lo sguardo disperato, un po’ per davvero e un po’ no, che cosa mi aspetta a casa di Vania mi attira, ma mi fa paura, allo stesso tempo, nello stesso modo.
Non è facile fingere ira, quando si prova altro. È un sentimento difficile da imitare, l’ira. Comunque, ci provo. ‘’Ma guarda te, sta disgraziata. Lo sapevo, non dovevo andarci alla cena all’ultimo momento… Ora dà tutto per scontato. Sempre peggio questo lavoro’’. Dora mi rassicura, come sempre. Del resto, il nostro essere benestanti, dipende proprio da questo lavoro. ‘’Forse non si sono ancora rassegnati, amore. Vogliono testarti ancora, per vedere se vuoi fare il capo. Vedere come reagisci allo stress’’. Abbraccio e bacio Dora con grande impeto, con sincera spontaneità. Non tanto per il o morale, solo un poco.
Soprattutto per la grande idea. Sere e sere con la direttrice virtuale mi si parano davanti, all’improvviso. Ma io la carriera non l’ho mai voluta. Però è un’idea pazzesca. Quasi non ci credo, che mi sia arrivata proprio da Dora, che sia venuta a Dora e non a me. Oppure a Vania. Vado a vestirmi, sorridente. ‘’Le ho mandato un messaggio’’ confermo a Dora che sono entrato appieno in questa nuova fase, in questa nuova e falsa prospettiva di carriera. ‘’Arrivo Vania’’ due parole che non avrei mai pensato, nemmeno sperato di scrivere, stasera.
È mezzanotte. ‘’Vania, devo rientrare. Non voglio esagerare da subito’’. ‘’Va bene’’. Lei è abbracciata a me, nel letto. La testa, morbida, abbandonata su di me. Il mango pervade tutta la stanza, mischiato a qualche altro incenso che lei mi ha fatto trovare, al mio arrivo. Abbiamo fatto l’amore, ci siamo fatti l’amore, intensamente. Subito, e poi una volta ancora, dopo tante coccole. E tante coccole ancora, fino a mezzanotte. ‘’La prossima volta guardiamo un film insieme, che ne dici? Lo vuoi scegliere tu?’’. ‘’Va bene’’. Vania improvvisamente mi pare assente. Presente solo nella sua bellezza indescrivibile, con i capelli lievemente scompigliati. Nuda ed abbracciata a me. ‘’Ascolta, forse… non ti ho fatto stare abbastanza bene… Non so… dimmi’’. ‘’Ma noooo’’ fa lei, ravvivandosi, ma solo un istante. ‘’Cosa succede allora, Vania… tesoro’’. ‘’Non vorrei che andassi via’’.
Non capisco. Lo sa che sono un uomo sposato. ‘’Non lascerò mai mia moglie, Vania. Voglio essere sincero. Non posso’’. Lei si rabbuia, ancora di più. ‘’Va bene. Ti accompagno’’. Provo a salutarla sulla porta, con un bacio dolce, ma sento la sua freddezza. Del resto non ne abbiamo mai parlato prima. Già ho tradito Dora, non ci credo. Ora che la bellezza di Vania l’ho posseduta, mi sento già travolto dai sensi di colpa. Mi sento una merda. Davvero, lasciare Dora sta oltre l’impossibile. Non voglio. Punto e basta. ‘’Vania, ho trovato un filone di scuse per are qualche sera assieme. Ti devi accontentare. Di più, non posso’’. Lei non dice niente. Mi guarda. Mi guarda fisso e mi accarezza il viso, inaspettatamente. ‘’Buonanotte, Amore’’. Mi allontano, senza dirle più nulla. Non penso più che Vania fa la escort, me ne vorrei quasi scusare con lei, anche se non lo sa. Però anche così, non mi spiego le sue disponibilità economiche.
Entro a casa facendo il più piano possibile, via Baudelaire non è poi così distante la seconda volta, in auto. Il cane mi fa le feste, senza abbaiare o fare versi, per fortuna. Dora, dorme. Mi sistemo piano nel letto, accanto a lei. Ripenso a Vania, al suo corpo, al suo odore, al suo sapore. Non dormo. Prendo il cellulare, con cautela assoluta, senza farmi percepire. Tolgo l’audio nelle opzioni della chat. ‘’Mi manchi’’, le scrivo. Nessuna risposta. Penso che l’ho ferita, ma che dovevo fare. I minuti ano, ho sonno, forse ora dormo. Il cellulare, finalmente, si
illumina: ‘’Anche tu’’.
Oggi Vania compie 24 anni. Non è stato difficile, dopo un inizio di carriera parallela e inesistente, simulare una riunione di alto livello a Londra, che ormai vivo per davvero da un anno in simbiosi con la direttrice. Ho scelto di tentare il grande o ed entrare nella dirigenza. Non ho più il contratto da impiegato, ed in un certo senso mi sembra di mentire di meno a Dora, in questo modo. Che se lei non la conoscesse di vista, questa signora minuta e ossuta, ormai sopra la cinquantina, sicuramente penserebbe male.
Intanto, così, non è ata settimana senza che io e Vania ci vedessimo almeno una sera, a volte anche due, ma raramente. Come abitudine, direi una volta alla settimana. Abbiamo ato tanto tempo insieme, Vania ed io, a fare l’amore, a parlare. A guardare film, abbracciati sul salotto, davanti al megaschermo. Alcuni non li abbiamo mai visti, nel migliaio e più a nostra disposizione, ma altri l’abbiamo visti due, o anche tre volte. Tipo… non ricordo. Ah ecco, ‘’Le conseguenze dell’amore’’: per ben tre volte.
Non usciamo mai, perché ho paura che ci vedano. Questa città in fondo è un paesotto. E poi qua abbiamo tutto. Abbiamo noi due. A dire il vero, Vania avrebbe voluto fare una festa, con i suoi amici, ma per me l’ha posticipata a domani. Oggi, il compleanno vero, lo festeggia con me. È la terza volta che festeggiamo il compleanno insieme, da soli. Il suo, ovviamente, che il mio sono a casa con Dora. Nelle sere che ci sono, a casa, ora partecipo molto ai dibattiti televisivi, discuto e mi schiero. Se c’è un documentario storico, seguo con attenzione, specialmente quelli sulla seconda guerra mondiale. A letto, non è cambiato niente, ma tanto quelle rare volte mi fa piacere riabbracciare intimamente Dora e cambiare un po’.
Non è facile vedere i cambiamenti di una persona che vediamo spesso, ma Vania mi pare diventata davvero più donna, mentre spegne le sue 24 candeline, anche se di certo è sempre tanto bella e affascinante. Quando o al sabato, con Dora, e la vedo presentare l’offerta a qualche signora, non mi pare vero che tutta quella bellezza sia mia, e ancora meno che sia stata mia. E o lento col carrello,
rigorosamente un o dietro a Dora, che lo stand come sempre non lo può sopportare e si gira dall’altra parte, anzi si è arrabbiata molto quando l’ha visto riaperto ed ha capito che era solo una breve sospensione estiva. Il cellulare ultimo modello gliel’ho regalato io, due natali fa, e ormai è diventato già il quart’ultimo modello, ma Dora si è affezionata a quello e non ci pensa più a Prana ed alle sue offerte omnicomprensive, con il cellulare all’ultimo grido in omaggio. o lento e la guardo, e le sorrido a Vania, e se può lei mi ricambia sempre. Se capita le mostro ridendo anche la mia faccia scocciata, che devo trascinare quel carrello sempre stracolmo, tutto quel peso. E lei mi sorride. Sorride anche oggi, che stasera c’è la sua festa, e mi spiace di non poterci essere.
Sto pensando a lei con i suoi amici, ma non sono geloso mai, chissà perché. Stasera i dibattiti mi sembrano più noiosi del solito, e quasi mi sto appisolando, ma Dora ha previsto qualcosa di diverso, molto diverso. ‘’Devo parlarti, tesoro’’. Non ricordo mi abbia mai chiamato così. ‘’Che succede?’’. Ma sono già preoccupato, penso all’amministratore del condominio. Qualcosa di extracapitolato da pagare. ‘’Mi sono innamorata di un altro’’. ‘’Comeeee?’’. Me lo faccio ripetere, perché non riesco a credere a quello che sento. No, non sono proprio presente nella scena. Dora, tu, la mia vera direttrice. ‘’E chi è?... Ma da quando?’’. ‘’Senti, è già da tempo’’. Ma che risposta è? Vorrei vedere se l’avessi confessato io. Da due anni e mezzo, sì, da due anni e mezzo. Con una di vent’anni di meno. E tu, tu non mi dici niente, mi dai queste risposte vaghe, e pensi di cavartela così? Ma scusa, tu sei mia moglie, e poi sei una donna. ‘’No, tu ora mi racconti tutto’’. ‘’Ma perché?’’.
Insomma, se ne esce che io la trascuravo, che non uscivamo mai. Che o tante sere via, per il lavoro. Ma quali tante sere, ma quale lavoro, poi, che non è mica per davvero così. O almeno, tre volte su quattro. ‘’C’hai scopato?’’. iamo alle cose più importanti, indipendentemente da chi sia, da quanto dura. ‘’C’hai scopato?’’. Devo ripeterla, la domanda, per avere di nuovo un chiaro silenzio come risposta, un silenzio che dice tutto. Solo ora, chissà perché, focalizzo lei con un altro tra le gambe, ma provo solo rabbia, tanta rabbia.
Devo uscire, devo parlare con Vania. Devo vederla. Dora mi fai schifo. ‘’Ho bisogno di stare solo’’. Non so più cosa pensare. Raccatto i vestiti dell’ufficio, qualche effetto personale e mi faccio su una sorta di trolley con la mia vita dentro. Chissà se Vania mi terrà a dormire. Non lo so. ‘’Ma dove vai, parliamo’’. Ma che c’è da parlare. Non si dicono queste cose, si sta zitti. E poi, di cosa vuoi parlare, non mi dici niente, chi è, da quando. Cosa ti manca, cosa ti mancava, Dora. ‘’Ma tu, non ci sei mai’’. Sì, è vero, non ci sono più. Sono sempre più vicino a Vania.
‘’Senti… aspetta… è il tuo collega, Sergio. Ma ti prego, non fare pazzie!’’.
‘’Sergio?’’. Non ci posso credere. ‘’Ma quando mai vi siete frequentati?’’. ‘’Alla cena di Natale, l’anno scorso. Sono venuta anch’io. C’erano anche le mogli, le compagne’’. Ah sì, quando Sergio si è presentato con una tizia equivoca, secondo me era proprio una vera escort, dato che non avrà avuto idea di chi portarci alla cena, a parte sua madre. ‘’E’ stato un momento di debolezza, tesoro. Ci siamo scambiati i numeri. E poi…’’. Cacchio, non mi chiamare tesoro, che ti uccido. Cioè, ed io, tra le altre cose, avrei messo il mio coso lì dentro dopo Sergio, come se avessi mangiato un avanzo raccolto da terra. No, io me ne vado.
Non mi viene da piangere in auto. Non mi viene da piangere. Finchè, all’improvviso, mi vedo vecchio e solo. E questo stronzo invece, vecchio ma assistito da lei, dalla mia Dora, dopo che, da giovane, se l’è sata tutto il tempo, per vent’anni o giù di lì. Ed io da solo a spingermi il carrello, al centro commerciale.
Squilla il telefono, e rispondo al volo: ‘’Non ti voglio parlareeee!’’, grido, urlo. Una voce chioccia mi richiama all’ordine. Non è Dora, è la direttrice. ‘’Ma che dice?’’. ‘’Mi scusi dottoressa. Mi perdoni. Piccole discussioni in famiglia, sa’’. Sì, certo. Come no. ‘’Scusi l’ora. Senta per quanto riguarda il progetto Delta. Mi sembrava di essere stata chiara, da mesi e mesi’’. ‘’Mi dica dottoressa’’. Non so perché, ora sento come un brivido. ‘’Mi ha detto De Donati che ci sarà un extra costo’’. Ma quando mai. Ma che novità è. De Donati, non fare scherzi del cavolo. Cerco di fare mente locale. ‘’Lo sponsor ha rinunciato. Infatti, abbiamo trovato un extra costo del 18% e siamo solo all’85% del progetto, dopo tre anni’’. Cerco di spiegare che noi facciamo anche ricerca, faccio fare cose innovative. ‘’La aspetto domattina alle 9, nel mio ufficio’’.
‘’Chissà cosa vuole da me la direttrice, alle 9’’. Mi sono tornate in mente all’improvviso, le ultime parole che ho sentito da Mario. È finita, domani sarò licenziato. Ma non capisco, al momento, assolutamente il perché. Ecco perché non volevo entrare nel gruppo della dirigenza, perché non c’è alcuna tutela rispetto a quando sei un impiegato, guadagni il doppio e più, ma possono cacciarti dalla sera alla mattina. Ma io non volevo entrarci infatti; ma da quando
ho iniziato a vedere Vania, e Dora mi ha dato l’idea… Altro brivido. Mi sento proprio un idiota. E da quando ho iniziato a vedere Vania, dicevo, e poi ho ricevuto per davvero l’opportunità di essere nel team della direttrice… Vania. Mi è rimasta solo lei.
Imbocco Via Baudelaire, vedo luci in giardino. Ci sono diverse auto, devo parcheggiare più lontano. Suono. Vania dove sei. È bellissima, vestita da sera, un vestitino nero, corto e attillato, con gli strass. È mia. Ma sarà vero? ‘’Che sorpresaaa!’’, stampandomi un bacio e finalmente ho un senso di sollievo, che mi aspettavo una faccia stupita, che magari c’era il Sergio di turno al suo compleanno. ‘’Ora ti presento a tutti!’’. ‘’Devo parlarti, Vania’’. Le racconto che mi sta crollando il mondo in testa, che mi è rimasta solo lei. Solo lei. ‘’Torno subito’’ fa ai suoi amici riuniti in giardino, e ci chiudiamo su noi due nella stanza da letto. ‘’Amore, ma che mi dici’’ fa, incredula, mentre mi fa raccontare tutto di nuovo, daccapo. Ma ora mi sento piccolo, rispetto a lei. Mi sento improvvisamente diventato tanto tanto piccolo.
‘’Non fare così, Amore’’. Vania cerca di calmarmi, ma tutto mi sembra diverso, ormai. Anche questa stanza, questo letto. Mi ritornano in mente, le mie mani sul suo meraviglioso corpo, e ancora di più le sue sul mio, con quel gel morbido e vellutato. Ed i suoi baci. Quanto possono essere diversi nel significato, gli oggetti, i brividi, le circostanze. Dora e Sergio a letto, invece, no: non riesco neppure a figurarmeli. Ma che ci troverà in Sergio, poi, boh. E all’improvviso, il buio: nemmeno io e Vania insieme, purtroppo, riesco a figurarmi. Già mi sembra il ato, anche se lei è lì a consolarmi. Ma sono io che non ci sono più. ‘’No, non voglio parlare con i tuoi amici… non stasera. Mi spiace Vania’’. ‘’Almeno torna più tardi, alle due massimo mando via tutti. Torna qui a dormire da me stasera, ti prego’’. ‘’Certo Vania, grazie’’. Ma certo, dove vuoi che vada. Mi sei rimasta solo tu. Per te ho lasciato le mie abitudini. Per te ho lasciato il mio contatto standard e sono diventato dirigente, anche se non l’avevo mai voluto. Non mi mancano né Dora, né quegli insulsi dibattiti: mi manca il mio salotto, la mia zona franca. La mia Svizzera.
Cerco il primo bar aperto, sul lungomare. Non voglio allontanarmi troppo, ho solo voglia di bere. Tanto spumante, per cominciare, e poi qualcos’altro. Inizio con due bicchieri di spumante in fila, finalmente. Penso a quanto è bella Vania, mentre sono qua da solo al tavolo, ma ho paura. Da oggi ho paura di perderla. Giorno dopo giorno l’ho vissuta sempre come un di più, come una bellezza immeritata di cui potevo godere, come di un nettare rubato agli dei, ma che non mi spettava, non spettava a me, uomo mediocre. Nulla mi spettava di questa bellissima creatura, forse rubata a qualche dio greco, a qualche satiro, a qualche divinità cui era destinata. Bevo, ma non piango. Né rido. Sento solo la testa un poco più pesante, sento che il falso me sta uscendo fuori da me stesso, ma solo temporaneamente, e prontissimo a giudicarmi, come sempre.
Sono le due ate, devo tornare da Vania. Ma ho paura. Non so perché. Ho paura di perderla. Domattina dovrei andare in ufficio alle 9, ma a che serve, già lo so che sarà pleonastico. Senza Dora, senza lavoro. Senza Vania, penso, ora che sono diventato un relitto di uomo. Senza certezze e senza lavoro. Ma forse è solo un sogno. Forse è solo tutto un brutto sogno. Una sottilissima speranza,
come una musica, o una luce lontanissima mi si accende tra i fumi dell’alcol. Forse è tutto solo un brutto sogno, e la mia vita di prima è proprio lì, basta solo che mi svegli. Devo tornare là, una forza misteriosa mi spinge. Devo tornare là.
Non ci sono guardiani, almeno non mi pare. Forse all’interno del supermarket, ma tra me e lo stand di Prana c’è solo una porta tagliafuoco. Con il cric della macchina cerco di forzarla, ed anche se non è proprio una cosa da me, ci riesco con tanta naturalezza. E se suona un qualche allarme, o a proprio ora un metronotte? Ma c’è una forza misteriosa che mi spinge, e non mi può fermare. Entro e mi avvicino ai cartonati, nella desolazione più assoluta. Privo delle persone, il centro commerciale mi pare così enorme come in realtà è, ed anche così inutile. Arrivano dei i alle mie spalle, un rumore come di tacchi. Mi giro e c’è Vania.
‘’Sapevo di trovarti qua’’. ‘’Come hai fatto?’’. Non l’ho scritto in nessun biglietto. L’ho pensato solo venti minuti fa. ‘’Non avere paura, Amore. Andiamo a casa. Ho avvisato io i guardiani, l’ho pregati di non intervenire. Ma tra due minuti devono intervenire per forza. Andiamo a casa’’. ‘’Io non ho più una casa. E non ci voglio stare con Dora, non la voglio vedere più’’. ‘’Io ti amo’’, fa Vania, mentre avanza lentamente verso di me. ‘’Io ti amo, ti ho sempre amato, dal primo giorno che ci siamo incontrati, mentre spiegavo l’offerta a tua moglie. E finalmente ora possiamo vivere insieme, alla luce del sole, senza nasconderci più. Perché fai così, Amore’’. Sì, mi ricordo quel giorno. Da quel giorno tutto è cambiato, tutta la mia vita è cambiata, per starti vicino. ‘’vedi, è il destino che mi ha portato da te’’. ''Ma che dici, ma quale destino!'' le urlo, rabbioso. A me piaceva la mia vita di prima, come era fino a stasera. A me piaceva così, con il mio lavoro, con Dora e con te. Non solo con te. A fare che cosa poi, a farmi mantenere? Che nemmeno mi hai mai voluto dire come ti mantieni tu. ‘’Amore, ma che dici. Siamo stati benissimo insieme in questi anni. Sono io che ho rinunciato a vivere per te, ad aspettarti, a non poter uscire insieme, a nasconderci come due amanti’’. Vania è ormai vicina a me, che mi appoggio sconfortato al bancone dove lei a tutti i sabati e tutte le domeniche, dalle 9 alle 21. Vania è vicina e mi abbraccia. ‘’Va bene, andiamo’’. ‘’Andiamo a casa, Amore’’.
‘’Non dimenticare di ritirare le tartine in rosticceria, le ho fatte preparare apposta, con una V sopra’’. Oggi è il compleanno di Vania, fa 27 anni. Sono ati tre anni, da quella sera, dall’abbandono di Dora e dal mio licenziamento. Stasera aspettiamo tutti gli amici di Vania a casa sua. A casa dove abitiamo, dove viviamo insieme. Dora l’ho rivista una volta sola, dall’avvocato per il divorzio, poi ho ato la pratica al mio di avvocato, ma comunque non ho più fiducia in nessuno. Non appena mi sono ripreso un attimo, Vania mi ha aiutato a fare un curriculum orientato in modo giusto per lavorare part time al centro commerciale, come promoter, dato che come ingegnere mi scarterebbero subito per questioni di motivazione. Però non lavoro proprio vicino a lei, sto all’interno e mi occupo solo di cibi, solo prodotti novità oppure marchi da rilanciare.
Non si guadagna molto, ma non paghiamo affitto e quindi tiriamo avanti. Certo, ancora oggi non ho capito come Vania possa possedere un’abitazione del genere, ed io non ho più osato chiederglielo dalla prima volta, e tanto poi sono sicuro che non mi risponderebbe. Come non le chiedo mai che cosa ci trovi in me.
Una componente fondamentale per fare il promoter, oltre alla pazienza, è sicuramente avere la capacità di accettare i rifiuti, perché più o meno solo una volta su venti la persona cui vi rivolgete vi parla, rivolgendovi altrimenti tutto un campionario delle scuse più banali, quando non girano proprio la testa dall’altro lato. Questi stronzi. Insomma un ottimo allenamento per un futuro da clochard. L’ultima importante caratteristica poi, è avere una memoria limitata, limitata nella capacità, perché serve sapere solo le poche informazioni dello specifico prodotto in promozione, ed inoltre è importante saper dimenticare, dimenticare tutti i prodotti del ato, e cosa ben più importante, come dicevo, tutte le centinaia e centinaia di rifiuti che si ricevono in un giorno. Quando poi finalmente una persona si arresta per un istante ad ascoltarvi, bisogna avere anche la capacità di dare il meglio di voi stessi, con gentilezza. Non è semplice, affatto. Anzi, è frustrante.
Vania è raggiante stasera, nel giardino illuminato. Ha tanti amici simpatici, e si
capisce che le vogliono molto bene. Hanno tutti un grande rispetto per me, da quando ormai sono diventato ufficialmente il suo fidanzato, nell’attesa di diventarne il marito. Ora possiamo uscire, spesso in coppia con una o altre due coppie di questi squisiti amici, ma come all’inizio la serata ideale per noi è rimanere davanti al megaschermo e guardarci, anzi riguardarci tutti i nostri film preferiti, con il suono inappuntabile dell’impianto dedicato. Stasera per certo no, che un amico di Vania fa il deejay, e si balla e ci si diverte in giardino, in questa bella serata estiva e per fortuna senza pioggia, che si vedono tutte le stelle anche se il lungomare è pieno di luci, e mi spiace per il signor Tardozzi V. ma di certo capirà che prima delle due, stasera non si dorme. Stasera si balla e si festeggia in Via Baudelaire, che sono contento di come la mia vita sia felice, ora che ruota tutta intorno alla stella più bella, alla mia Vania. Forse, troppo intorno.
Neppure Sergio ho sentito più, e meno male che non l’ho incontrato, né la mattina dopo la rivelazione e il licenziamento in tronco, in ufficio, né dopo, che gli avrei alzato le mani, come minimo. È probabile che Dora lo avesse avvisato. Ma come, con tutte le donne che ci raccontavi di aver posseduto, a me e Gianni, era il caso di venire a infilarti dentro mia moglie? Fossi in Gianni farei un controllo pure con la sua; ma l’ho potuto salutare solo brevemente, la mattina in cui sono stato licenziato. Mi manca non avere un amico, un amico mio, che già mi manca non solo mia moglie, ma ancora di più il matrimonio apparentemente tranquillo che avevo. Mi manca il lavoro di prima, prima di cedere alla logica ed alla tentazione, ed accettare la dirigenza per avere più flessibilità e credibilità nel poter poi are tante serate con Vania. Vania, meno male che c’è lei, ma allo stesso tempo, tutta la mia vita ruota ora intorno a lei. L’amore di Vania, gli amici di Vania, che vengono a trovarci nella casa di Vania. Il corpo di Vania, che non saprei neppure immaginarmi a baciarne, ad assaggiarne un altro. Né ormai un altro che lo faccia, al posto mio.
Vania è davvero tutto per me. Include tutto. Omnicomprensiva.
Oggi si festeggia il mio compleanno a casa di Vania. Compio 50 anni, un’età molto importante. Per la mia festa, Vania ha scelto una torta che richiama un poco quella del nostro matrimonio, che abbiamo celebrato ormai due estati fa. Questo, perché la torta nuziale ha di norma parecchia panna, che mi piace moltissimo, come ad esempio i cavolini, non so se le conoscete queste particolari paste. Naturalmente non ho voluto far mettere 50 candeline sulla torta, ma abbiamo messo solo le due cifre cinque e zero, non volevamo rischiare di mandare a fuoco il giardino. Abbiamo invitato anche il signor Tardozzi V., e finalmente di questo condominio ho capito almeno che la V sta per Valerio.
Con Vania abbiamo pianificato di avere un figlio, ma per ora questo desiderio è rimasto inesaudito. Del resto, meglio così, dato che non abbiamo fatto molta carriera, anche se siamo stati fortunati a conservare i nostri posti da promoter, nonostante abbiano aperto un altro centro commerciale nei pressi, ed i clienti siano sensibilmente calati, che l’altro è più grande e più nuovo. Ci piacerebbe anche cambiare il megaschermo per i film, che ora ci sono dei modelli molto più evoluti, dopo che sono trascorsi tutti questi anni, ma hanno per noi un costo esorbitante. Al massimo, una o due volte l’anno, scarichiamo un nuovo film nel nostro sistema con gli hard disk, ma pare che a fine anno lo sostituiranno con uno senza fili ed il nostro non verrà più commercializzato, e quindi nemmeno ato. Speriamo non si guasti. La vita costa sempre di più, e per arrotondare ora la mattina abbiamo preso in gestione uno spazio al mercato, dove io mi arrangio vendendo materiale elettrico, e pure libri e dischi del ato, che cerco come un rigattiere casa per casa o nei mercatini rionali.
È stata una festa serena, ma ora che abbiamo sistemato alla bell’e meglio e ci siamo ritirati in camera da letto, siamo più sollevati, che non si sa mai, può sempre capitare qualche imprevisto imbarazzante, quando si organizzano feste di compleanno. ‘’Mi sono divertito Vania, è stata una bellissima festa, grazie’’. ‘’Eh sì casa nostra non ci tradisce mai. E poi tutti i nostri amici adorano il nostro giardino, no?’’. Vorrei dire il tuo giardino, non il nostro, ma ancora resisto, per ora. ‘’Grazie Vania, sono felice di averti incontrato. Che tu sei entrata così di colpo nella mia vita’’ le dico, guardandola nei generosi occhi castani. Le do un
bacio casto sulla bocca e mi giro sul fianco dal lato opposto. Ho tanto sonno.
Ormai abbiamo quasi finito i nostri risparmi, che Vania è stata licenziata da promoter. In parte è dovuto alla crisi del centro commerciale, in parte perché ha 34 anni, e le hanno detto che ormai è un po’ in là con l’età e preferiscono puntare su ragazze più giovani per quel lavoro. Per fortuna, essendo sposati, il nostro capo ha fatto di tutto per non licenziarci entrambi, e così per me hanno trovato un posto, ma al magazzino però. Per fortuna mi sento ancora abbastanza in forma, nonostante i miei 53 anni, ma più avanti ancora non so come farò ad occuparmi di tutti quei bancali e dei loro prodotti da sistemare. Però, almeno, abbiamo da mangiare. I film, più o meno, li abbiamo visti tutti, sul nostro megaschermo, e così abbiamo incominciato a guardare la tv.
A me piace lo sport, ma a Vania devo dire non molto. Certo, se c’è qualche evento particolarmente importante, tipo una partita dell’Italia ai mondiali, la vediamo insieme, ma se ad esempio ci fosse una finalissima di basket, non se ne parla proprio. Se poi c’è un gran premio di formula 1, nemmeno glielo chiedo. Non ho il coraggio. Ultimamente, Vania facendo zapping è capitata su un dibattito televisivo, di quelli tipo con i politici che fanno finta di discutere animatamente tra loro, e devo dire che l’ho vista molto apionata.
Di solito ci serviamo ad un piccolo supermercato all’inizio di Via Baudelaire, giusto all’angolo, a fianco del lungomare. Che tra l’altro ha un sacco di prodotti biologici molto buoni. Ma oggi Vania mi ha preso di sorpresa, perché ha visto in tv la pubblicità di un detersivo che nel mini-supermercato non hanno. Allora stiamo andando insieme al centro commerciale, ma da clienti, per la prima volta. Manco a dirlo, faccio una fatica pazzesca a trovare un parcheggio, ma finalmente dopo una trentina di minuti di attesa strategica, si libera un posto. Gelo all’ingresso. ‘’Senti tesoro, prendi un carrello, che magari mi viene voglia di prendere qualcos’altro’’. Caldo, ricerca spicciolo, gelo. Sì, Vania è ancora molto bella, qui davanti a me. Ma insomma anche questa promoter che voleva offrirmi un nuovo caffè boliviano non è malaccio, devo essere sincero. Intanto mi guardo i contenuti dei carrelli altrui. Sì, c’è meno gente rispetto a quando venivo con Dora, ma per la maggior parte sono coppie. Non è cambiato molto, in fondo. Mi è persino tornata in mente, Dora. Sarà in un supermercato a Ibiza, ora, con ogni
probabilità. Speriamo sia felice.
Un signore si lamenta con sua moglie e sua figlia piccola di quanto loro siano petulanti, le sue due donne. Siamo alla cassa. Mi viene così, in maniera naturale, andare per primo oltre la cassa, ma se si avvicina un surgelato assolutamente non lo imbusto. ‘’Scusa tesoro, non mi ricordo il pin del bancomat’’: Vania mi distoglie dai miei ricordi. Riempio il carrello con i nostri sacchetti, e mi avvio lento verso l’uscita, dopo aver girato il carrello. Oltreo lo stand cartonato, nemmeno quello è cambiato, è sempre bianco e con la scritta PRANA blu sui lati. C’è una ragazza bionda con lo sguardo perso nel vuoto, ma non ci faccio molto caso. Faccio ancora qualche metro e mi giro, non vedo Vania accanto a me. Mi volto e sta indietro allo stand, parla con la ragazza bionda.
‘’3 kilowatt?’’. ‘’Sì, utenza domestica’’. ‘’Gas, per uso domestico?’’ fa la signorina. È elegante, sembra giovanile. Mi sono messo dietro, così lei parla con Vania e forse non si accorge di me, lo spero. Anzi, ne sono pressoché certo. ‘’Vede, per il suo profilo verrebbero 154mila lire al mese‘’ fa la tizia querula verso mia moglie. Sì lo so, Prana è oggi una delle compagnie all’avanguardia nel campo dell’energia libera, seconda in Europa e prima in Sudamerica. Ma al mio curriculum, lo stesso non hanno mai risposto. E comunque, che bisogno ha Vania di farselo spiegare? Questa propaganda è un’offerta omnicomprensiva, tutto incluso. Ma Vania scusa, ma hai visto qualcosa di diverso da quello che conoscevi tu? E poi, non abbiamo già Prana in casa come fornitore, ora che ci penso? ‘’Ma il cellulare all’ultima moda in omaggio, per averlo, come si fa?’’ incalza lei. E qui la signorina bionda traballa: ‘’Ma sul nostro sito può trovare tutte le informazioni’’, e comincia a digitare nervosamente sul suo tablet. Vania ha fiutato la preda. La giovane ragazza che l’ha sostituita non è perfettamente preparata e lei si vuole prendere la sua rivincita. ‘’Ma chi mi garantisce che spendo solo 154 mila lire al mese, alla fine’’. ‘’Vania, andiamo’’ faccio da dietro, fingendo di possedere un briciolo di quella libertà che non possiedo con lei, completamente. La promoter si volta di scatto, non mi aveva percepito, tutta presa dalla linea di fuoco dall’altra parte. So che non devo parlarle, ma non posso non vederla. È bionda, molto bella, con un bell’ovale di viso e il nasino che pare disegnato. Gli occhi sono di un bell’azzurro, . Intensi. Sono sicuro che ci sono tante cose dentro, ma nel primo istante, prima di tutto, vi
leggo la malinconia.
‘’E’ mio marito!’’ squittisce Vania. ‘’Buongiorno, guardi vuol mica provare lei a spiegarlo a sua moglie…’’. Cosa? Ma sei fuori. Non le rispondo. Mi trattengo a stento dal riderle in faccia. Hai scelto quella giusta, penso: ha fatto questo lavoro per oltre dieci anni. ‘’Ma guardi, tanto le dico che è no’’ fa Vania pietosamente, per togliermi dall’imbarazzo. Intanto sto guardando il display del cellulare, e vedo che la batteria è quasi scarica, come al solito: è tutto il pomeriggio che siamo qua. ‘’Ma mi lasci i dati la prego, poi vi richiamo io. Oppure una mail’’. No, mai. Non c’è verso che ti dia le nostre e-mail. Scordatelo. ‘’Vabbè lasciagli il tuo’’ fa Vania, come se volesse levarsi un problema poco importante dai piedi.
Wimbledon
Maledizione, ripenso tra me e me, a quel campo infame. Quell’esibizione sul sintetico, l’anno scorso. Praticamente a fine stagione. Ok, erano ben centodiecimila dollari di compenso per un solo set di esibizione. Ma dai, è un po’ come scivolare da soli nella vasca da bagno: volevo fare il figo ed ho allungato il movimento solo un attimo, volevo proprio fare il figo e infilarlo con un diritto choppato: una mossa leggendaria, da entrare nella storia del tennis, tipo la battuta di Chang a Lendl. E per recuperare quei tre decimi di secondo che avevo volutamente lasciato trascorrere, per andare in chop invece di arrivare per tempo con un bel dritto top spin in lungolinea, ho esteso il como quel decimo di grado di troppo e sono scivolato come un baccalà. E la classifica del tennis professionistico, la classifica ATP è così: si sale, si sale anche velocemente, il difficile è rimanerci, in cima. E altrettanto velocemente si scende. Dal numero 2, dove sono stato ben 117 settimane, dietro a Jenkins, sono stato fermo sette mesi, e solo da poco mi sono riaffacciato sul circuito. Ma io sono fiducioso, Ioana, la mia donna, è fiduciosa. Ed anche Pedro, il mio allenatore lo è: torneremo in alto, anzi più in alto di prima, quindi al numero 1. Al posto di Jenkins.
Pedro l’ho scelto subito, quando ho fatto un giro di colloqui insieme al mio manager, tre anni fa, e abbiamo deciso di dare una svolta definitiva alla mia carriera. Perché da giovane promessa mi affacciavo ventenne al circuito professionistico, e il mio maestro di sempre, Donati, non mi bastava più. Che poi io sono principalmente forte sull’erba, o sul sintetico, col mio servizio naturalmente devastante. Un dono di Dio, un dono dall’alto. Dall’alto dei miei 190 centimetri. Mi ricordo che non ero così forte da ragazzino, dato che io ho iniziato tardi, perché i miei mi volevano far giocare a basket, ma anche se ero alto non lo ero abbastanza. E poi a me gli sport di squadra non piacciono, alla fine trovavo sempre qualcosa da ridire a questo o a quel compagno. Ed a me piace sbagliare da solo, e ancora di più vincere da solo. E così, la speranza di diventare uno sportivo professionista l’ho sempre avuta, non l’ho mai persa, e ho scelto il tennis contro tutto e contro tutti. Ed anche ora dopo questo sciocco
infortunio lo so che un giorno, prima o poi, diventerò il numero 1. Non ho dubbi.
Mi ricordo da ragazzino, quando Donati mi ha visto la prima volta, ha fatto due scambi con me e poi dopo solo cinque minuti, mi fa: ‘’Fai un po’ di servizi’’. Il servizio è la parte del gioco che preferisco, per tutta una serie di motivi che nemmeno vi dovrei spiegare, se conoscete il mio sport. Comunque, diciamo che mi permette di concludere rapidamente lo scambio. Mi permette, quando mi riesce un ace o un ace sporco, come si chiamano, di vincere il punto rapidamente e con relativamente poco sforzo. Soprattutto, senza far entrare in gioco il mio avversario. Nello scambio invece, non mi sono mai sentito un numero uno ma uno dei tanti, e così grazie a Pedro e la sua esperienza da terraiolo, finalista al Roland Garros ed a Montecarlo, ho pensato che sicuramente sarei migliorato sulla terra battuta e negli scambi da fondo. E così è stato, tanto che alla fine del mio secondo anno da professionista stavo già al numero 2, finalista agli US Open il primo anno, ed all’Australian Open nel secondo. Ma poi, ho voluto fare il figo.
Oggi sono tornato, a metà della mia terza stagione da pro, al numero 102, dopo aver raggiunto la finale subito al mio rientro, al torneo di casa, in Italia, e quindi sono contentissimo di partecipare a Wimbledon senza dover fare le qualificazioni. Che mi sarebbe sembrato di tornare ragazzino, anche se ragazzino poi lo sono ancora, e poi il tennis è uno sport strano, particolare, non si sa mai. Meglio essere ragionieri, meglio evitare rischi.
Ok, non ero testa di serie, ma in un tabellone a 128, estrarre subito il mio nome per primo: ma che sfortuna. Ed ora devo incontrare subito la testa di serie numero uno. Cioè, ovviamente, Jenkins, al primo turno. Chi altri è la testa di serie numero 1 in un torneo qualsiasi dove lui partecipi, se non lui. Ma io la speranza di batterlo ce l’ho, ce l’ho sempre, perché solo così diventerò il numero 1. Che poi, da quando ero numero 2, e per fortuna mia ancora adesso, dato che i miei sponsor non mi hanno mai abbandonato, non c’è mica tutta sta differenza in termini di soldi. E se la mettiamo a simpatia, poi, non c’è match: Jenkins, è spocchioso, antipatico e ogni tanto se ne parte con quei suoi soliloqui in
inglese… shit, fuck, eccetera. Certo ad alcuni piace: a quei ragazzini arroganti, prepotenti, che lui corre su e giù per il campo che sembra un fulmine, e non è che ha sto servizio da numero 1, anzi, mica come me, ma corre e corre su ogni punto e non si arrende mai. Devi vincerlo due o tre volte un punto, contro di lui. Ma io sono l’estetica del tennis, sono più naturale. Un primo naturale.
Central Court, Monday, ore 12. Scontatissimo, che siamo sul centrale, lo prevede il protocollo: campione uscente e match difficile. È previsto pure caldo domani, una calda giornata di Luglio. Sì, sono speranzoso ma non proprio per domani in senso stretto, rientrando poco dopo un lungo infortunio, ai 5 set. Ok sull’erba, il servizio conta e la partita sarà un po’ meno lunga e faticosa, ma ai 5 set, e con il caldo, no è dura. E subito un avversario tremendo, sarebbero state meglio un paio di partite normali prima, così avrei fatto un po’ di punti ATP e sarei risalito ancora un poco. Pedro lo sa e mi tranquillizza: non forzare, gioca tranquillo. Lui è molto favorito domani, però non farti travolgere. Tieni i servizi. Ricorda che comunque sei più giovane e sei già stato numero due, mentre lui remava nei challenger di tutto il mondo. Già, remava: prima di vincere, di trionfare a Parigi sputando anche l’anima su quella terra battuta, sotto quel sole di maggio stranamente implacabile.
Ma sì, ha ragione Pedro, ormai il mio sport è un lavoro per me, scendo in campo ma non c’è mica più l’emozione della prima volta. La prima volta sul centrale qui, no, è stata contro il serbo l’anno scorso, quando ho perso nei quarti di finale, ma finalmente il mondo si è accorto di me, prima di sfiorare il trionfo in USA, e poi a Melbourne. Sì è stato emozionante, fare l’inchino alla duchessa di Kent ed a tutti gli altri, l’atmosfera, la gente, ma in fondo poi non così diversa dai campi dietro, ad esempio dal famigerato campo 18. No no, io intendo la prima volta davanti a un grande pubblico, cioè la prima volta che ho fatto un torneo B, a 14 anni, e la finale l’hanno fatta nello stadio sul lungomare. Anche allora ero la sorpresa, la sorpresa assoluta, tranne che per Donati, che mi ha fatto iscrivere. Io avevo paura di perdere, non avrei voluto neanche iscrivermi. Poi ho ato un primo turno semplice, gli ottavi per ritiro dell’avversario e sono arrivato fresco alla semifinale. E lì ancora in finale, e quasi non ci credevo, davanti a quella gente, che mi giocavo il trofeo che Donati aveva vinto 25 anni prima.
Quella emozione lì, così bella, non l’ho provata più. I miei mi avevano comprato un completo nuovo di pacca, e forse stavano cominciando a crederci anche loro, che invece di studiare potevo fare strada nello sport, del resto fino a lì eravamo stati sempre io e Donati contro tutti, contro gli avversari e contro chi ci stava
vicino. Non c’era una nuvola in cielo. Il trofeo giovanile prestigioso, risplendeva argentato a bordo campo, con tanti nomi di futuri campioni e meteore sopra, ma certo non sempre le speranze si realizzano. Ma io credo che basta volerlo, ci vuole il talento, sia chiaro, ma quello non mi manca mica, e poi tanta forza di volontà. Anche se quel trofeo lì, poi, non l’ho mica vinto. Ho perso 7-6, 7-6.
Chissà come sarà la mia carriera futura. E come sarebbe potuta essere se Jimmy Van Halen non avesse inventato il tiebreak. Che lo sapete, è quel meccanismo perverso che sul 6 a 6 si gioca punto a punto, e il primo che arriva a 7 o più, con due punti di scarto, vince il set. Una volta il tiebreak non c’era e si giocava e si giocava, e chissà quanto duravano le partite. Ma ora non c’è più tanta voglia di aspettare nel pubblico, nelle persone, nei network televisivi, che dicono vogliano seguire per missione i gusti del pubblico, e così oltre al tiebreak hanno inventato il tiebreak al posto del terzo set, nel doppio. Ma infatti così non è più il mio sport, non mi va, e il doppio ho smesso di giocarlo. Gioco solo il doppio misto per divertimento e per gli sponsor con Erica.
Ioana è la mia donna, fa la modella. Quest’inverno abbiamo fatto lo shooting per una ditta di intimo e forse ci avete visto abbracciati su tante riviste, su tante pubblicità, felici e in mutande, mentre io le abbraccio dolcemente i seni per coprirli. Su Ioana li capisco, ma in me non capisco cosa ci trovino, comunque una volta un giornalista mi ha detto che sono un’icona gay, e quando l’ho raccontato ad Erica ci abbiamo riso su un’ora. Con lei ci capiamo molto meglio, sia perché posso parlare in italiano, sia perché fa la tennista come me e condividiamo tutto, praticamente tutto. Nei tornei meno importanti, cerchiamo di iscriverci assieme e spesso Ioana è in giro per lavoro, per il mondo, e con Erica ci facciamo compagnia tutto il giorno. E anche di notte. Che almeno un vizio lo abbiamo tutti, ed io da sportivo non posso permettermene nessuno, ma davvero non mi manca nemmeno di provarle quelle robe di merda come la droga. Shit, come direbbe Jenkins. Comunque poi, Erica non è un vizio, è una necessità per me.
Con la campagna pubblicitaria dell’intimo, ho guadagnato tanto quanto tutti i
miei sponsor tecnici insieme, e il mio manager dice che detratti i suoi compensi e qualche piccola tassa proforma per il Principato, questi soli due elementi sommati mi hanno fatto guadagnare sette volte i premi dei tornei dell’anno scorso. Io mi fido molto del mio manager, ma voglio comunque l’ultima parola su tutto ed i vari conti li gestisco io, nel senso che nessuno ha le ed il direttore della banca conosce solo me. Ho letto tante brutte storie di pugili ed altri atleti truffati o ridotti sul lastrico, e quindi questi dettagli fondamentali li seguo io. Cioè una volta al mese entro nei vari saldi, un po’ qua e un po’ là, e semplicemente controllo che i saldi siano sempre di quell’ordine di grandezza, di tot milioni di dollari e tot milioni di sterline. Per ora non voglio fare investimenti, accumulo e basta. Per ora ho solo un’idea fissa, diventare il numero uno della classifica, e certo per riuscire a diventarlo dovrò cominciare a vincere qualche torneo del grande slam, e non perdere sempre in finale.
Anche Erica si è un po’ scoraggiata, nonostante il suo tabellone buono, dovrebbe farcela ad arrivare agli ottavi ma da lì per lei ci sono le gemelle Mayer, in sequenza teorica, e sappiamo già come va a finire. Eh lo sport è così, sconfiggi avversari su avversari ma ne basta qualcuno, anche uno migliore di te e quasi sempre con loro esci battuto. Lo sport professionistico è così, i dettagli fanno la differenza, un briciolo di talento, che qua lo hanno davvero tutti, un grammo solo di differenza segna il tuo destino. E il mio, non è al numero 2. Lo so. È ben più di una speranza.
Ioana è furente per il sorteggio, mentre mi spiega in inglese che lei resta a Londra comunque. E va bene, restiamo a Londra anche se perdo, come è probabile, deve fare due sfilate, una in settimana ed una la prossima, e intanto mi parla di nuovo di quella villa in Florida. Ma io non ci voglio andare in Florida, io voglio tornare ad Alessandria, e prendere il posto del maestro Donati al circolo, e insegnare ai ragazzini. E con i soldi che ho da parte, seguire i più talentuosi, e insegnargli tutto quello che ho imparato e che imparerò, non dico per diventare numero 1, ma per diventare dei validi professionisti, e rendere orgogliosi di loro papà e mamma, che è veramente la cosa più importante di tutte.
Le sensazioni sono buone oggi, domenica, nel mio allenamento di rifinitura. Il mio corpo risponde di nuovo alla perfezione ad ogni stimolo, ad ogni ordine della mia mente. Non ho forzato il rientro e non sento più alcun fastidio. Pedro e il fisioterapista hanno combattuto ogni giorno insieme a me, contro le mie paure, ed una ricaduta è davvero un pericolo lontano, un pericolo del quale la mia mente si sente più forte. E vedo scorrere via veloci come saette i miei servizi, da destra come da sinistra. Interni, come slice a uscire. Prime su prime e seconde su seconde, a comando, come una macchina spara-palle, ma anche umana, ed esteticamente perfetta.
Ioana mi ha svegliato lei stamattina, come sempre nei giorni con i match di singolare. Con Erica invece, mettiamo la sveglia, e se si rompe pazienza, non ci interessa, qualcuno ci penserà a svegliarci all’ultimo e farci correre in campo mezzi addormentati. Ma finora, la sveglia non si è rotta mai. Certo, non è semplice stare accanto a me, ma con Ioana siamo due individualità troppo forti entrambe, ci capiamo ma litighiamo anche, perché non c’è uno della coppia che ha preso il sopravvento, siamo entrambi belli, giovani e di successo, e ci teniamo uno all’altro ma in fondo possiamo avere chi vogliamo e non ci pensiamo molto a perderci di vista. Diamo lo stesso un po’ tutto per scontato. Invece, Erica mi adora, mi vede come un idolo. Ma quando parliamo, è come un’amica, la mia migliore amica.
Mi piace quando il match è il primo su un determinato campo, così ho un orario preciso per la colazione, o eventualmente per un’alimentazione sempre controllatissima, e per il riscaldamento con Pedro. Quando invece il match è il secondo, o peggio il terzo, non è semplice e poi mi mette tanta ansia. Alla fine tocca anche a me, sempre, ma a livello teorico potrebbe non capitare mai. Non ne parlo mai con nessuno nel circuito, perché me ne vergogno, a parte Erica, ma in teoria secondo me prima o poi potrebbe capitare una partita infinita, nel nostro sport. Certo non quando si conclude con il tie break, che si fa presto ad avere almeno due punti di differenza. Ma quando il tie break non c’è, come ancora capita solamente al quinto set nei tornei del grande Slam ed in coppa Davis, allora in teoria potrebbe capitare di trovarsi a giocare ad infinito. Il tennis è sulla carta uno sport potenzialmente infinito. Non c’è un limite di tempo. Non c’è un limite nel punteggio. Solo con Erica ho parlato di questo, e lei pensa che per stanchezza fisica o psicologica uno dei due cede, sempre, prima o poi. Non si può mantenere l’equilibrio a lungo più di tanto. Certo però, come in una distribuzione gaussiana, prima o poi deve capitare, non la partita infinita ma quella che finirà attorno ai 300 game, o magari 500, perché no.
Questo concetto non l’ho pensato io, ci mancherebbe, ma è Donati che l’ha chiamato così, che mi ha spiegato tutto su quando la palla colpisce il nastro nel servizio. Ed io non capivo perché a volte cadeva nel mio campo, a volte appena
oltre, a volte lo pizzicava e volava via, alta e lenta, e ricadeva appena di qua o appena di là del quadrato del servizio. ‘’Ogni palla ha la sua storia’’ mi ha detto il maestro, e mi spiegava che qualunque sia l’esito del toccare il nastro, lo devo accettare, senza lamentarmi. L’unico modo per non essere insicuri di dove andrà a finire la palla è di non toccarlo proprio il nastro, ma mica è sempre possibile. L’unica cosa sicuramente impossibile, mi ha detto un giorno, è che la palla si fermi lì, esattamente sopra il nastro. O di qua o di là, cade. Quindi, la partita infinita non capiterà mai, me l’ha spiegato così lui, in questo modo. La partita infinita non è di questo mondo. E però prima o poi una partita che finisce sopra ai 100 game al quinto me la aspetto.
Incrocio lo sguardo di Jenkins nello stretto corridoio, fuori dagli spogliatoi. Ma qua siamo al tennis, Jenkins, mica al pugilato, quello sport di strada da dove probabilmente vieni tu. Io facevo il basket prima, da piccolo, mica la boxe. Ed io sono qua non per vincere oggi, che sarò al 60, al 70% della forma dopo l’infortunio, ma ti voglio dare una lezione di stile. Ti faccio vedere che il pubblico mi ama, ama me ed anche Ioana, ed a te non ti sopporta proprio, te e quella burina di tennista che hai per fidanzata. Lei doveva essere, a fare le qualificazioni maschili, insieme a sua sorella, l’altra Mayer. Altro che il torneo femminile. Io sono l’estetica, il bello di questo sport, col mio servizio, con le mie movenze, le discese a rete, le volee ineccepibili e precise, le palle corte irridenti, e sull’erba saranno ancora più irridenti. Al diavolo le tue mazzate da fondo campo, prima di tutto devi riuscirci a rispondere al mio servizio, e poi ti faccio vedere io. La tua forza bruta è vecchia, io sono il ato che ritorna, in una nuova bellezza, in una nuova modalità di manifestarsi della bellezza di questo sport, e della Bellezza in senso lato. Una cosa è sicura. Jenkins, non me lo strapperai il servizio, oggi. Mai.
Ormai lo so cosa devo fare, l’inchino e tutto il resto, ma in fondo l’ho sempre saputo sin da quando guardavo Wimbledon in televisione, da bambino. Lo sapevo che un giorno ci sarei stato io lì, su quel campo, a fare l’inchino, con l’attenzione di mezzo mondo addosso. Ero un filo acerbo ancora, l’anno scorso, e poi per me era la prima volta a Londra, l’avevo presa come una gita. Pensavo di non are nemmeno un turno delle qualificazioni ed invece mi sono ritrovato fino ai quarti di finale, ai quarti di Wimbledon, capite. Ero appagato, contro il serbo: la sorpresa, due set a zero avanti, la semifinale a un o. Poi il campione serbo ha tirato fuori l’orgoglio ed io ero più che appagato, cominciavo ad essere vuoto. Ed un poco stanco anche, con tre turni di qualificazione in più di lui nelle gambe. E poi c’è il tiebreak, che se non c’era, mica prendevo 67 67 nel terzo e nel quarto, chissà come finiva. Nel quinto non ne avevo proprio più, forse mi ero anche alimentato male, e Pedro mi ha ripreso duramente su questo, e ha fatto bene: di sicuro non sbaglierò più ad alimentarmi in queste lunghe battaglie.
Ho fatto la foto a metà campo ma son sceso in campo un po’ distratto, tanto che invece di guardare il fotografo stavo cercando Erica con lo sguardo. Ma non la vedo. Chissà come sono venuto in foto: dopo il match controllo, ma tanto non sarà così importante. Pedro e Ioana invece sono lì, nel box riservato, vicino a quei burini dello staff di Jenkins, che faranno i loro pugnetti stretti e le loro urla sguaiate ad ogni punto vinto. Non li invidio proprio. Ma nemmeno invidio me, ora c’è da soffrire perché tutti mi stanno guardando, non voglio deludere i miei fans, non voglio deludere i tifosi con un match poco combattuto. Soprattutto non voglio deludere me stesso.
Primo set, 6 a 5. Le fragole sugli spalti volano via a tonnellate, ma per ora non ho fame, non ho sete, e tuttavia mi alimento rigorosamente. Ho vinto il sorteggio ed ovviamente ho scelto di servire per primo, nemmeno da pensarci. Ho avuto un poco di paura solo nel primo gioco, quando mi sono trovato 0-30, ma poi ho tirato due ace, un ace sporco e con un serve and volley sul 40-30 ho chiuso la pratica. Jenkins serve molto bene finora, pur con i suoi limiti, ma davvero molto meglio di quanto mi ricordavo, e mi ritrovo spesso due metri dietro la linea di fondo a rispondere. In sintesi, non ci sono ancora state palle break. Devo sorprenderlo. Devo sorprenderlo ora, perché mi sento bene e finora ho speso relativamente poche energie, sono fresco come una rosa. La prima di Jenkins esce. Forse è un piccolissimo segno di un temporaneo cedimento. La seconda è abbordabile, spingo una bella risposta di diritto incrociato, Jenkins recupera choppando, ora è due metri fuori dal campo, sul suo lato destro, ed io sto già avanzando verso la rete. Infilo la volee in controtempo mentre lui si stava catapultando attraverso il campo a tutta velocità e lo sorprendo perfettamente. 015.
Seconda di servizio. Alzo la racchetta apposta, mentre è già pronto, che un raccattapalle non si è ancora riposizionato bene dopo aver raccattato la tua prima in rete, Jenkins. Forse. La seconda è potente, lo vedo, ma sfiora il nastro e sento il bip del dispositivo del nastro, e poi il bip della palla che va oltre la riga del quadrato. 0-30. Dai, è il momento! È il momento di azzannarlo e vincere il set. Per questo devo servire sempre per primo nel set, quando posso, perché ogni
palla break è una palla set in caso, e il viceversa no. Sventaglio una risposta a tutto braccio e Jenkins è venuto avanti, la prende solo steccandola. Arrivo comodo al centro del campo e lo o con un diritto tutto giocato di polso, senza forzare la profondità. Ora sento gli applausi, improvvisamente fortissimi. Qualche clap clap ritmato dagli ottusi tifosi suoi, ma la maggior parte è con me. C’è vociare, un vociare che supera e spegne il battere ritmico delle mani. ‘’Vai Riccardo!’’, si sente e subito l’umpire lo riprende, ci facciamo sempre riconoscere noi italiani: ‘’Silence, please!’’. Sicuro è un compatriota che lavora qua a Londra. Chissà quanto ha speso per questo biglietto. Sei il primo a cui firmerò la pallina, uscendo. Non posso deluderlo. E non lo deludo. Mal che vada, sono tornato tra i grandi.
Jenkins è nel pallone, incredibile, ed io mi sento fresco. Strappo il servizio sull'10, con tre azzardatissime risposte seguite da altrettante discese a rete in controtempo. Jenkins reagisce, ma ormai sono 15-40. E volo 2-0 e servizio. Non me lo prendi il servizio Jenkins. Quando c’è il sole servo meglio, perché sono più bello, divento un dio greco che esplode la sua potenza a piacimento, ora verso un lato ora verso l’altro lato del quadrato, tanto da destra quanto da sinistra. Non me lo strappi il servizio oggi, burino. Per ora, la Bellezza vince. Ioana applaude e mi saluta, della tribunetta. Nel lato del vaccaro c’è uno scoramento totale. Non mi aspetto che duri, ma per ora ho fatto il massimo. Non tocco nulla, non cambio nulla nel mio gioco, se vuoi cambiare devi fare una mossa tu Jenkins. 5-3 e servizio. Sento il bip dell’out sulla prima, solo al 40-0. È solo un incidente di percorso. Tiro una seconda come la prima, se non ora sul 400, quando? Jenkins non arriva nemmeno a toccarla, pur lanciandosi verso il centro del campo. ‘’Game and second set’’. La folla è agitata, è in delirio. Tranne quelli che avranno scommesso su Jenkins, che sicuro su di me avranno scommesso in pochi. Io non ne ho mai avuto bisogno di scommettere, ovviamente. Mi guardo in giro, ma Erica ancora non la vedo.
Jenkins è un osso duro. Davvero. Io sarò il numero 1, è più di una speranza, ma per ora il numero 1 è lui. E capisco che lui non sta più combattendo una battaglia ora, ma una guerra. Mette un sacco di prime palle, quasi al 90%. Non arriva ai 220km/h dei miei servizi, ma molti sono sopra i 200 e non riesco più a rispondere, a giocare sul suo servizio. A volte mi martella da fondo, a volte scende anche a rete per sorprendermi, e non trovo mai il ante, specialmente sul rovescio. Mi sta tenendo sotto pressione, sta dando tutto. Io comincio a sentirmi stanco. La folla rumoreggia meno, c’è un sottile suono di scoramento.
Pedro mi incoraggia che nemmeno un secondo all’angolo del pugile, pugni stretti e indicazioni che nemmeno comprendo tutte, ma credo mi abbia raccomandato di insistere sul serve and volley, che per ora, in uno scambio normale, non ci siamo ancora. 5 a 6, servo per rimanere nel set, ed avere una grande chance al tiebreak di chiudere i conti. Di fare, dal mio punto di vista, un miracolo sportivo. Il tabellone segna 2 ore e 33 minuti di gioco. Il servizio non me lo strappi Jenkins, mi ripeto come un mantra, ma mentre faccio il lancio di pallina lo sento minimamente imperfetto, e provando a colpirlo lo stesso, vedo la palla appena oltre la destra del quadrato e sento il bip del dispositivo. ‘’Second serve… silence please!’’. L’umpire riporta tutti all’ordine, italiani inclusi. Riparto e servo una seconda, una di quelle che le metto dentro con il pilota automatico, all’80% della forza, e mentre riguadagno la posizione per la risposta, sento il bip.
‘’Thirty-Forty!’’. Doppio fallo. Non ci credo. L’unica seconda importante dopo diecimila l’ho tirata fuori. Di un centimetro, ma fuori. Setpoint Jenkins. Ora è tutto un crogiuolo di urla sguaiate e pugni stretti nel silenzio. ‘’Come on Jenkins!’’ risuona dagli spalti una, due, tre volte. È bastato un piccolissimo aggio a vuoto, e dal giocarmi un ghiotto tiebreak con tutta la pressione del mondo su di lui, ora devo affrontare il setpoint avverso. E rischio di perdere il servizio. Ci risiamo con la paura. Il mio limite. La fragilità, nella mia bellezza estetica. La combattività, che latita. La prima è una seconda, molliccia; Jenkins mi spara all’incrocio delle righe, recupero appena solo per choppare, ma lui è già a rete e chiude comodo. Game and third set, Jenkins’’.
Erica dove sei? Non ci credo che ho perso il servizio. Non ci credo, ancora. Eppure l’ho perso, e riperso. E lo perdo una terza volta. Mi sento vuoto, sconfitto anche se il tabellone non segna manco le 3 ore di gioco e i set sono 2 a 1 per me, ma vado a servire sullo 0-5, nel quarto. Sto per alzarmi e finalmente sento la sua voce. ‘’Dai Ricky’’, c’è Erica a bordo campo, si è fatta aiutare dal supervisor per arrivare vicino, tra la folla degli addetti. Sorrido e se mi vede Ioana pazienza, tanto sa tutto, immagino. È pieno di spioni qua. Ma per ora le conviene, conviene a tutti e due, sembrare felici fuori e dentro il manifesto. Che tanto la vita è tutta apparenza, e i soldi delle campagne, dei servizi, sono reali. Io invece non lo voglio nemmeno sapere se mi tradisce con qualcuno, che mi importa. Tanto lei ad Alessandria con me, anzi nel Monferrato, manco ci vuole venire. Nemmeno lo sa pronunciare, dice ‘’in Monferattooo, nooo’’, credetemi. Dice proprio così.
E bastato un sorriso di Erica e mi sono tornate le forze, non so se per vincere, ma almeno per rialzarmi e combattere colpo su colpo, che nulla è perduto. Non dico per vincere, anche se poi quando faccio i tornei dove dormo con Erica non perdo mai, mai. Ma in quelli fondamentali invece Ioana c’è sempre. Certo devo tenere almeno questo gioco, così poi inizio io a servire, nel quinto set: è un vantaggio troppo, troppo importante per continuare a sperare.
Alzo la pallina. Lo so cosa devo fare, devo sentirmi bello, bellissimo, nel gesto. Un attimo allora. Rinuncio al lancio, che non mi sembrava perfetto. Chiedo l’asciugamano di nuovo al raccattapalle. ‘’Warning’’ fa l’umpire impietoso, ma chi se ne importa: ora non posso più sbagliare, sono tutti matchpoint. Torno sulla linea del servizio tra gli applausi, prima fiochi poi piano piano scroscianti. Il pubblico, in grande maggioranza, è con me, non con quell’antipatico. Sento le forze che mi stanno tornando.
Alzo la pallina, nel sole caldo, vedo nuvole all’orizzonte, non le avevo viste finora. Ma il lancio è perfetto. La palla e’ interna, forte, inarrivabile, anche per Jenkins. ‘’Fifteen, Love’’.
Ha iniziato a piovere poco dopo l’inizio del quinto e decisivo set. 3 a 2 per me, ma servirà Jenkins. Peccato, mi ero appena ripreso, ero in risalita psicofisica netta. Comunque, niente tiebreak, niente ‘’jeu decisif’’ in quest’ultima partita, e quindi sono estremamente sollevato. Sto andando oltre le più rosee previsioni, che dire. Non solo sto combattendo alla pari, ma ho visto Jenkins in difficoltà sia prima che andassi 2 set a zero, sia poco prima dell’interruzione, quando ho cominciato a sentire qualche soliloquio coi soliti ‘’fuck’’ e ‘’shit’’ dentro.
Sicuramente a breve sarà pronta la copertura mobile, ma tra una cosa e l’altra ci sarà un’ora di interruzione. Sinceramente, adesso, mi metterei con Erica al tavolino in tribuna riservata, a sorseggiare un Pimm’s, e sicuro lo farò io più avanti, quando tornerò solo come ospite, o al massimo come telecronista. Per ora invece devo sorbirmi Pedro ed il suo debriefing: attaccalo qua, avanza sulla seconda, arretra, prova un lob. E la faccia assente di Ioana da dietro gli occhialoni da sole che mi guarda come sempre nei momenti difficili, come dire che vuoi da me, siamo mica a una sfilata: sei tu il campione, no?
Rientriamo che si sono fatte le 6, e poverini quelli dei due match dopo, non vorrei essere nei loro panni. Ma sì, li sposteranno su un campo secondario, o domani, io c’ho altro da pensare, scusate. E in fondo, penso anche che stiamo dando un buon spettacolo di tennis, per ora, in questa specie di finale o almeno semifinale anticipata, che il pubblico non ha proprio intenzione di perdersi come va a finire: vedo le tribune stracolme, mentre ripetiamo come di norma il riscaldamento.
Erica è ancora a bordo campo, e ormai guardo più lì che in tribunetta, ma non voglio consigli, né il vacuo sguardo dietro agli occhialoni da sole di Ioana. Voglio il suo di sorriso, quello di Erica che per me vale più di cento incoraggiamenti. E lo trovo, sul 5 pari, 0-15, e poi sul 15-30, che infilo due ace e un altro paio di servizi vincenti, ma me la stavo vedendo davvero brutta. Jenkins si dimostra il grande che è, peccato per i suoi modi, per il suo carattere. Irascibile, sgraziato. Ma non molla, non molla un millimetro nei suoi turni di
battuta, ed arrivare ad avere una palla break, cioè un incredibile matchpoint per me, mi sembra davvero un miraggio, al momento. Devo appendermi con tutte le mie forze al servizio. E così faccio fino al 9-8, e qui comincio ad invocare l’oscurità, che mi sento davvero stanco.
Ho smesso di alimentarmi ancora una volta, che sciocco. Sono nelle mani dell’umpire, insisto che non si vede nulla, che è troppo scuro, anche se in effetti non è del tutto così. Lo so che se insisto prendo un penalty point, ma pazienza, non voglio andare di nuovo a servire prima del riposo, assolutamente no. Conquistato il 9 pari, mi sembra che anche Jenkins si appaghi; probabilmente per lui va già bene non trovarsi l’indomani costretto a ripartire dovendo subito servire per rimanere nel match, ed anche lui fa cenno all’arbitro di sedia che sì, sarebbe il caso di rassegnarci a sapere domani da quale lato del campo cadrà l’ultima pallina. E così è, e tra gli applausi scroscianti del pubblico ancora straripante, e dopo l’inchino, ci avviamo verso il futuro, intanto che questa partita non è ancora diventata il ato.
Siamo il terzo incontro sul centrale, oggi. Prosecuzione da 9 pari. È normale che non ci mettano subito ad inizio giornata, per farci recuperare qualche ora in più dalla faticaccia di ieri, pronti per la battaglia finale, che comunque più o meno saremo lì, il primo che fa un o falso è perduto. Non dovrebbe certo mancare molto, solo qualche game. L’attesa mi divorerà, per intanto faccio ancora massaggi e fisioterapia come ieri sera, perché d’accordo il risultato, ma prima di tutto non voglio perdere la mia bellezza, specialmente nel gesto del servizio.
Piove, anche oggi, ma sul central court si va avanti, almeno, e verso le 17 e 30 ci invitano a prepararci per scendere in campo. Già ho fatto un riscaldamento breve, e, cosa più importante, sono vestito di tutto punto in modo identico a ieri, vedo che invece Jenkins ha messo una maglia rigorosamente bianca ma con il numero 1 stilizzato che in controluce appare. Chissà cosa vuole comunicarmi. Prima di tutto provo e riprovo i servizi, per quasi tutti i 5 minuti, ma dai, mi sento ok, il movimento scorre fluido. E si riparte. Oggi la finiamo qua, anzi tra poco. Io il servizio non lo mollo più, e prima o poi Jenkins mi deve dare un’opportunità, sono sicuro.
17 pari. Senza palle break, non ci credo. 18, 19 e ancora e ancora. 27 a 26, non si vede quasi più, dai. 27 pari. Nessuno perde il servizio, nessuno perde mai nemmeno il primo quindici del proprio servizio. Nessuna palla break, nessun segno di cedimento. La pallina è sempre lì, in equilibrio sul nastro e non si capisce, nemmeno, intuisce assolutamente da che parte potrebbe cadere. Domani. Domani, sì, che l’oscurità è ormai intensa dopo le 21 e l’umpire deve cedere, deve interrompere. La folla è attonita. Ammirata sempre sì, ma attonita, silente. Vorrebbe sapere, vorrebbe capire, ed anche io, chi andrà al secondo turno ad affrontare Salgado, un modesto terraiolo che veleggia attorno alla cinquantesima posizione, ma che qui sull’erba non vale nulla al nostro cospetto, come del resto a quello di tutti i primi venti del mondo. Domani sapremo. Io ci spero ormai, di vincere.
Oggi c’è di nuovo il sole, molti i match del secondo turno che sono già terminati, e noi nemmeno sappiamo chi dei due arriverà a giocarsi il secondo turno. C’è un filo di preoccupazione negli organizzatori, ma, sia per farci recuperare, ma ancora di più per esigenze televisive, siamo ancora il terzo match sul centrale. Sono le 20 e per me fa già scuro, ma non mi azzardo più minimamente a protestare, mi sembra di intravvedere uno sguardo di odio nel supervisor. Sul 44 pari anzi, vado a servire canticchiando la canzoncina, ‘’44 gatti’’, ma sicuro Jenkins non avrà capito nulla, chissà, forse penserà a qualche manovra psicologica. Ioana non segue più da ore: si è messa piuttosto spogliata, in bikini e shorts molto corti, e con un pannello che sembra di carta stagnola per abbronzarsi, ma mi pare di ricordare però che se lo è fatto fare apposta, e costa 4000 dollari.
Pedro lo vedo stanco, sudato quasi quanto me, forse anche lui vorrebbe che finisse, in un modo o nell’altro. Erica invece è sempre lì, a bordo campo, e mi guarda. Lo so che vorrebbe mandarmi un bacio soffiandolo sulla mano, ma ha paura che Ioana la spii e quindi mi guarda solamente, fisso, con gli occhi sgranati, incitandomi in mezzo agli spettatori delle prime file.
Alle 21 e 30 torno a guardare Jenkins, che ormai non lo guardavo quasi più, penso solo ai miei turni di servizio, a sparare una bomba dietro l’altra, al massimo rischio qualche doppio fallo sul 30 o sul 40 a 0. Sono entrato per la prima volta in campo tre giorni fa, chissà se stiamo battendo qualche record. Sono 68 a 67 grazie al mio ace numero 130, mi informa Pedro in serata, e siamo a pochi i dal record, che è stato stabilito di recente nel 2010: 70 a 68 per l’americano Isner sul se Mahut. Vorrei parlarne con Erica, così le mando almeno un sms: ‘’Hai visto che avevo ragione? Per me superiamo i 100!’’, ma lei ha risposto in un modo che non pare condividere il mio entusiasmo: ‘’Pensa solo a non far cadere l’ultima pallina al di qua, da te’’.
Ioana mi ha detto che domani ha la sfilata a Londra e non possono più rinviarla per causa mia, quindi che non c’è, però ha promesso di incoraggiarmi fino
all’ultimo, fino a domattina. Poi mi ha avvisato che c’è Corbic, un giovane croato amico suo che vorrebbe accompagnarla, e voleva sapere se avevo nulla in contrario, dato che lui è dall’altro lato del tabellone ed è già qualificato per gli ottavi. L’ho guardata senza la forza di risponderle, che forze non ne ho davvero più. Stasera poi è ato a trovarmi pure Salgado, in compagnia del supervisor, e un po’ scherzando e un po’ no mi hanno detto che domani sicuro o vinco o perdo, insomma di non fare il ‘’loco’’ che il torneo deve andare avanti. Che tanto il record lo batteremo di sicuro ormai. ‘’Eh no’’ ho tentato di spiegargli nel mio inglese scolastico ‘’the distribution, Gauss function… it will happen once, 100 games or even more, up to 200, up almost to infinity!… Coach Donati said’’. Il supervisor mi ha guardato con odio, sono sicuro. Ma io sono la bellezza in campo, io non accetto queste minacce. Io il servizio non lo perdo più, chiedete a lui, a Jenkins cosa vuole fare.
Stamattina siamo primo match alle 12. Sono esausto, la fisioterapia e il riposo non possono più nulla. Salgado gongola, che anche Jenkins mi sembra ai minimi termini, quasi nemmeno gioca più sui miei servizi, al massimo ribatte malamente quando proprio non faccio ace. Ci hanno spostato sul campo 18, perché c’è un ottavo di finale più importante, un incontro ormai molto più importante del nostro. Io non lo so più cosa è davvero importante per me. Ci sono vari spettatori qua, ma volendo spazio si trova. Ioana è alla sfilata. Allora Erica si è messa proprio dietro a me, dal lato sinistro della tribuna, così parliamo ad ogni cambio di campo, e finalmente anche Pedro l’ha capito ed è venuto a sedersi a fianco a lei, ma non dice più nulla.
Sì lo capisco, dovremmo lasciare spazio agli altri, lasciare andare avanti il torneo in un modo o nell’altro. Ma io non lo faccio apposta, sto semplicemente appeso al mio servizio, e non riesco ad avere palle break su quello di Jenkins, tutto qua. Non è più che voglio vincere a tutti i costi, anzi io volevo solo non soccombere in questo match, non farmi travolgere: non te lo ricordi, Pedro? Poi, nel futuro, spero di diventare numero 1; anzi, è certo. Ma per ora non voglio vincere questo match, non l’ho mai voluto! Al massimo ci avevo sperato un poco, alla fine del secondo e del quarto set. Ora non è più che voglio vincere, semplicemente: non voglio perdere. Io sono un campione, non sono programmato per quello
Sopra i 100 non ci sono numeri a tre cifre nel tabellone, pensavo l’avessero prevista questa eventualità i programmatori. Eppure sono anche uno degli sponsor del torneo. Ma se l’ha capito anche il maestro Donati, che non è certo un matematico; che se gli prenotavi la lezione alle nove, dovevi stare attento che non capisse alle nove di sera, per quelli che vengono dopo il lavoro, invece che di mattina. Quindi il tabellone segna 49 a 48 ma in realtà siamo 149 a 148, e a questo punto sono le sette di sera mi pare, e potremmo essere anche 549 a 548 da quanto sono esausto. Non gioco più, raccolgo solo le ultime energie ogni turno di servizio, in questo quarto giorno di ione, e cerco di mandare di là con la forza della disperazione qualcosa di angolato, ma in campo e sui 180 orari. Finora ha funzionato, per restare vivo, per restare nel match.
Non so più cosa pensare, non so più che dire. Sento che anche il servizio di Jenkins va calando ma non riesco più a scambiare, nemmeno a rispondere anzi. Mi giro verso Erica. Ma Erica non ride più, al cambio di campo. Mi fa come un cenno con la mano. Ma lo sa che non posso avvicinarmi e lei altrettanto. Allora mi alzo al ‘’time’’ dell’umpire, mentre Jenkins mi sembra stracotto e forse starà pensando di essere tornato ragazzino e di star facendo un incontro di pugilato, è sicuro. Mi alzo e o a fianco a lei, lentissimo, e la guardo. ‘’Ora basta Ricky. Non ti aspetto più. Io me ne vado nella mia stanza, in albergo. Domattina parto. Fai te’’. E senza aggiungere, senza nemmeno guardarmi, si alza e se ne va. 149 a 148. 19 ore e 40 minuti di gioco fa, quattro giorni e mezzo fa, entravo sul centrale. Finalmente realizzo. Dove mi ha portato l’ambizione. Dove mi ha portato la speranza.
Molti spettatori se ne sono andati, ci sono ampi spazi sulle tribune. Pedro ne ha approfittato per sdraiarsi un attimo sugli scaloni e credo si sia addormentato. Mi fa male ogni muscolo del corpo, e a bordo campo Salgado aspetta, sicuro ormai di vincere contro chi dei due relitti scenderà in campo contro di lui, ma è improbabile che ne troveremo mai la forza, entrambi. Il supervisor intanto mi guarda con sempre più odio, da bordo campo, e altrettanto vale almeno per Jenkins, a seconda di chi stia servendo. Non ho più nessuno che mi segue a bordo campo, mentre lo staff di Jenkins è numeroso e dandosi il cambio,
qualcuno c’è sempre. Ioana sarà a cena con Corbic in qualche locale chic. Erica mi ha abbandonato, sempre che non la raggiunga subito in hotel, a breve. Non ho più nessuno, non ho più una donna vicino a me. Forse i miei mi stanno guardando, a casa, ma temo non ci sia nemmeno più la copertura televisiva su questo campo, o almeno mi pare che il supervisor mi abbia detto questo ieri sera.
È finita. Sento quella sensazione, quella di quando arrivava l’under 20, il campioncino borioso, ed aveva l’ora prenotata nel campo dopo di me, al circolo del Monferrato. Quando vedete arrivare quello che giocherà l’ora dopo, più importante di voi, e non importa se siete 6 pari col vostro miglior amico, dovete farvi da parte che lui ha una sessione di dritti col maestro federale e tu sei una caccoletta di 12 anni. Il tennis è un gioco infinito sulla carta, come la vita, ma la vostra ora, prima o poi, finisce. Anche se il tennis continuerà. Ed anche il nostro primato, verrà battuto un giorno, me lo ha spiegato il maestro Donati, e se non l’avete capito, cavoli vostri. È come correre oggi i 100 metri in 9 secondi, ma tanto tra duecento anni li correranno in 8, e ma tra un milione di anni, in un decimo di secondo. Ma in meno di un decimo di secondo si potrà mai? Qual è il limite assoluto? Ma non è questa la domanda fondamentale, e nemmeno sapere se un limite assoluto esiste o meno. Tante, tante domande come queste hanno solo una risposta, che nessuno scienziato ha mai il coraggio di dare, che per carità il progresso è importante, ci fa stare meglio, ci fa vivere di più, ma non c’è che una risposta a quella domanda: non lo sapremo mai, se c’è il limite o no. Non lo sapremo mai. E francamente, cosa me ne importa di vivere più a lungo, senza Erica?
Basta, Jenkins. Te lo dico: è finita. Ho un appuntamento in albergo, io. Con la mia numero uno.
Arriva un servizio abbordabile da destra, rispondo lungolinea sulla mia destra all’80% della forza, Jenkins resta di sasso, a metà campo. Lo guardo, lo guardo fisso avanzando anche io fino a metà campo. Lo guardo, e finalmente vedo una stilla di paura nei suoi occhi, come un pugile contato fino ad otto, che si è appena rialzato e l’arbitro gli tiene le mani e gli parla. La sua prima da sinistra è in rete. La seconda, tocca il nastro, bip. E cade in campo, nel mio quadrato. Di nuovo seconda, ‘’Second serve!’’ fa l’umpire. Arrotata, troppo. Per me è lunga. Bip, senza sforzo. Out. 0-30. Mi giro sulla destra e il supervisor mi sorride. Mi incoraggia. La mia risposta incrociata da destra, la vede sfilare tra i suoi piedi, venendo avanti solo con la forza della disperazione, ma non basta più, vaccaro. Domani, sarò un numero uno. Del resto l’ho sperato, sempre. Sin da bambino.
‘’Love, forty!’’ Vociare, misto a sorpresa. ‘’Quiet, please!’’. Vociare più forte, l’umpire si sgola: ‘’Quiet, pleeeaase!!!’’.
Erica, arrivo.
Maria Elena
Odio il Trota. No, odiavo il Trota. Eppure ho conquistato subito il suo rispetto. A soli dieci anni, giocare in porta già nelle partite dei grandi, di quelli della terza media. Significava vari privilegi, tra i quali, principalmente, giocare. Essere della partita. Arrivare e cacciare via i bimbi, anzi che poi nemmeno serve, si allontanavano in silenzio, da soli. Ci vuole tanto a conquistarsi il rispetto, e molto poco a perderlo, ma in fondo anche nel guadagnarselo conta solo qualche episodio fondamentale.
Io non me ne sono andato di corsa la prima volta, mica per coraggio, ma solo perché sono lento nel comprendere le situazioni, e il Trota poi non lo conoscevo ancora. A me non viene facile, non ho la risposta pronta, o le parole giuste da dire, sul momento. Magari mi vengono in mente solo la mattina dopo.
‘’Resta lì, cazzetto!’’ mi fa, sistemando il pallone sul dischetto del rigore, che nel piccolo campo dei giardinetti di quartiere, a Marassi alta, era a pochi metri dalla mia faccia. Non ho avuto il tempo di avere paura, sempre perché sono lento di comprendonio, ma sapevo bene cosa dovevo fare. Che l’istinto del portiere, di evitare per quanto possibile che il pallone varcasse quella maledetta linea, ce l’ho sempre avuto. Piegarsi leggermente, guardare chi tira negli occhi, poi guardare la palla, attento, concentrato. E pronto a respingere coi pugni, non con le mani aperte, quando il tiro è ravvicinato.
Il Trota ha mirato alla mia faccia, con tutta la sua violenza, ma i miei pugni sono stati più veloci e sento solo che la palla li sfiora appena e poi vola alta, dietro, alle mie spalle, oltre la rete di recinzione. ‘’Ora la vai a prendere!’’ mi fa lui, stringendomi il braccio con cattiveria, ma non c’era bisogno di dirmelo, ci sarei andato comunque. Ero pronto ad andarmene altrove, ma invece, da quella volta
ci sono rimasto in porta, anche se arrivava il Trota.
E così, andando a recuperare il pallone nelle sterpaglie, oltre la ringhiera, l’ho vista da sopra per la prima volta, dall’alto. La piccola valle del Fereggiano, lì sotto. Che a me è sempre sembrata per quello che era: una valle. Anche se nell’era in cui ci ho vissuto a fianco, per caso, nella mia infanzia e nella mia adolescenza, ormai non era diventata altro che due insiemi informi di case abbarbicate, lungo tutti i due costoni, e con lo spazio di un torrente vero in fondo, in un alveo stretto, stretto a tratti tra due muri, secco e ghiaioso, che poi si infila sotto l’asfalto della strada. Solo la parte sotto ai giardinetti, che per la prima volta mi si apriva davanti agli occhi, rimaneva abbarbicata, circondata dal cemento come un’oasi di sterpaglie alte e invalicabili. La palla, per fortuna, è subito lì davanti a me. Riconosco le case di qualche mio compagno di scuola, dove siamo stati magari per una festa di compleanno o per giocare tutto il pomeriggio a Subbuteo, il calcio da tavolo. Quella di Massimo sta proprio qua sotto, dove il torrente si infila nel tunnel sotto la strada. Quasi in fondo, sul lato destro, duecento metri più avanti, c’è quella di Stefano.
Dò la palla al Trota, che mi guarda ma non dice niente. ‘’Lui gioca con noi’’ fa Massimo, il suo braccio ancora più armato, anche se ha solo la mia età, e tanto basta.
Oggi non a mai il 356. E non ava mai nemmeno quando si chiamava 56, e c’erano un percorso di andata e uno di ritorno, su fino al capolinea del Biscione, ma casa mia per fortuna è prima, e fino al Biscione non ci sono andato mai. Specialmente su in alto, dove è crollato un pezzo nel 1970 e non so quante persone sono morte lì, dimenticate lì. Avevo grandi speranze, da quando l’autobus è diventato a tre cifre e circolare, ma alla fine sempre stracolmo lo trovo alla mattina, per andare al liceo, e sempre stracolmo lo trovo poco dopo la una, quando è ora di tornare a casa.
Di solito andiamo con Stefano e Roberto fino al capolinea, alla stazione Brignole. Da qua salutiamo Stefano dopo qualche fermata, che lui abita in fondo a via Fereggiano, con quattro o cinque fermate, anche di qualche altro bus se serve, è già arrivato, fortunello. Da lì il bus arancione imbocca Viale Bracelli e comincia a inerpicarsi su su per il viale, sempre più stretto, e verso la fine dopo un famigerato tornante tra i palazzi c’è un falsopiano, e lì scende Roberto, giusto la fermata prima della mia. Roberto mi ha fatto conoscere gli U2, che per ora non li conosce quasi nessuno, ma da quando ho sentito The Unforgettable Fire sono diventato più fan di lui. A volte mi ricorda che per suo padre i più grandi sono sempre i Rolling Stones, ma io gli rispondo che sono vecchi, anche se in realtà nemmeno li conosco. Comunque, gli U2 sono il futuro, e tra un po’ i Rolling Stones non se li ricorderà nessuno.
Da quando Roberto esce con Betta, ci vediamo solo fino a qua, sull’autobus, dato che al pomeriggio esce sempre con lei, ma perlomeno non ci siamo del tutto persi di vista. Ormai la seconda liceo sta finendo, ma io penso ancora al Subbuteo, non alle compagne, e con Stefano ci sfidiamo ancora per interi pomeriggi, a campi rigorosamente alternati. Il suo mi piace tantissimo, con le tribune e gli spettatori veri, cioè con le miniature degli spettatori: è assolutamente il più bello di tutte le trasferte nelle case dei compagni che ho affrontato. Il mio invece è un campo di provincia, su una base sottile di compensato e la recinzione di plastica bassa bassa. Non c’è altro. Il pallone però è perfetto, rigorosamente il Tango di Spagna ’82, e non solo bianco, ce l’ho anche giallo ed arancione, non sia mai che quella volta l’anno che cade la neve
sulle alture di Genova dovessimo rinviare la partita: che figura. Comunque sia, di tutto questo, non penso che a Betta importi nulla.
Tra pochi giorni partiamo per la nostra prima gita di classe, che in realtà sarebbe la seconda, ma l’anno scorso i nostri genitori non ci hanno lasciato andare, né a me né a Stefano. Questa volta però non è possibile, perché andiamo a Roma per tre giorni e addirittura visiteremo il Quirinale, ed insieme ad altre scolaresche verremo ricevuti dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. La prof di italiano aveva insistito tanto che anche noi scrivessimo una lettera e parteciimo a non so quale iniziativa, e così la nostra classe, la II B, è stata ufficialmente invitata. Non sono mai stato a Roma, non sono nemmeno mai stato da solo fuori di casa, quindi c’è grande agitazione in casa. ‘’Non bere, e non prendere cose dagli sconosciuti. Non allontanarti dagli altri’’, mi ripetono fino alla nausea, e già mi immagino entrare al Quirinale di corsa, protetto a stento da due corazzieri, inseguito da una torma di maniaci sessuali non meglio identificabili, ma ai quali sicuramente non piace il Subbuteo.
Non è mai stato un problema svegliarmi all’alba, che tanto in casa sono abituato ad andare a dormire molto presto e poi c’è la scuola. Prendere il torpedone davanti alla scuola, alle sette e mezza, non mi sembra niente di che, a parte che ho dovuto studiare con precisione a che ora a il 356. Sì, ci sono quasi tutti stavolta: saluto Roberto, ma c’è anche Betta e quindi erò molto tempo con Stefano in questa gita. Il bus è davvero capiente, ma infatti non ci siamo solo noi trenta circa, anche la I B viene con noi. Non ci sono nemmeno mai entrato in I B, e non conosco nessuna faccia, al massimo appena di vista, mica come Massimo che nella ricreazione entra e va fare gli scherzi ai ragazzi più piccoli, tipo timbrarli, che sarebbe riempire il cancellino di gesso e tirarglielo, se non stamparglielo addosso, possibilmente in faccia. Almeno, così mi raccontano i compagni che ci vanno, e del resto lo abbiamo subìto anche noi, lo scorso anno, con il fratello di Massimo in testa. Ma almeno ero stato avvisato, non è stata una gran sorpresa. Che l’informazione, sapere le cose prima, è tutto. L’ignoranza uccide, o quantomeno lascia il segno.
‘’Michela c’è? L’hai già vista?’’, mi chiede Stefano, trafelato. Tranquillo, non sei in ritardo. E come potresti poi, abiti a cinque sole fermate. Sì, c’è la tua bella. Dio santo, si prospetta una gita noiosa, con i miei amici persi dietro a queste due,
ma almeno Roberto ci esce al pomeriggio, e sicuramente si baciano con la lingua, in giro per il centro o al parco di Nervi, tra gli scoiattoli, oppure chissà dove. Insomma mi ritrovo solo nel pullman, quando parte e attraversa il piazzale della stazione, e in fondo fa quasi la stessa strada del 356 e rivedo casa, lassù in alto, prima di girare a sinistra per lo stadio e dirigersi allo svincolo di Genova Est. Meno male che ho portato il Walkman, e così parto con gli U2, speriamo che almeno Bono non voglia stare con sua moglie, nel pullman.
Rio così infine per la terza volta vicino casa stamattina, ma non si vede dal viadotto, che hanno messo delle barriere alte alte e non si vede più niente attorno, solo i monti un poco verdi e un poco ingialliti, con la riga del binario del trenino di Casella e le strisce marroni dei sentieri verso i forti. Le hanno messe, da quando un pullman di militari è precipitato giù a Nervi, nella pioggia, dal viadotto che viene dopo. Ed oggi che ci o sopra per la prima volta provo a immaginarmi, in mezzo al vociare del nostro pullman che fa da sottofondo agli U2, cosa si possa provare a vedersi precipitare giù nel vuoto: probabilmente chiuderei gli occhi. Chissà se il mio cuore cederebbe prima o quale dolore fisico impressionante dovrei affrontare alla fine della terribile attesa. Ma oggi, per fortuna, alzo lo sguardo e c’è il sole.
Ho dormicchiato da dopo La Spezia e non riconosco dove siamo al risveglio. Del resto, non ci sono mai stato. Il mare, non c’è più, e il walkman l’ho lasciato , e così le prime quattro pile stilo si sono già esaurite. Lo capisco dal fatto che Bono parte a cantare lentissimo, che pare stanco, e dopo qualche secondo smette. Si vede che la moglie l’ha chiamato vicino.
‘’Ciao, come ti chiami?’’. E chi è questa tizia? ‘’Sei della prima?’’ la apostrofo con la mia naturale simpatia da secchione, ma non ottengo il risultato sperato: non provare paura di lei. ‘’Io sono Maria Elena, ma mi chiamano tutti Marilena’’. Anche se è seduta, mi sembra grassoccia, e quasi mi sembra che invada il mio spazio vitale, infatti. Ha i capelli neri mossi, quasi ricci. Non mi piace, ma certo non è proprio brutta come Iole, che Massimo mi prende in giro quando lei mi si avvicina in classe e mi spiega la piantina di casa sua, come se fosse un problema trovarla, una volta entratoci; il problema semmai sarebbe come uscirne. Certo è una ragazza molto intelligente, ma che ci posso fare. Io non mi schioderei dal Subbuteo per nessuna. Proprio non mi viene in mente ancora nessuna che possa impedirmi di espugnare il campo da gioco di Stefano e zittire tutte le miniature sulle tribune.
‘’Sei emozionato di incontrare il Presidente?’’. Ma figurati Marilena, penso, che io la politica non so nemmeno cosa sia, che alle medie avevo una prof che si addormentava in classe, e della storia ho studiato solo fino all’antica Roma. A me piace la matematica. Insomma non è cosa, l’hai capito, e finalmente te ne torni dalla tua amica. Tanto è bastato però, perché il aparola dentro l’autobus mi conduca già alle soglie del fidanzamento. ‘’Ma ti piace Marilena?’’, già Alessandra è venuta al posto vicino, per informarsi e riferire meglio. ‘’Non so chi sia’’, e finiamola qua, ma quando arriviamo ad un’area di servizio? Meno male che Stefano è tornato a sedersi al suo posto, così non sono più solo ed esposto al pubblico ludibrio. ‘’Ma che ti piace quella?’’. Addio.
Certo io non sono un tipo avventuroso, ma non potevo immaginarmi per nulla di tutto quello che troviamo a Roma: la nostra prenotazione non risulta. Cosa? Come? Ed ora dove troviamo cinquanta posti in albergo, e meno male che non è ancora estate. Alla fine, finiamo non so come in una pensione ad una stella, di quelle che ispirano i tizi che fanno i film dell’orrore, secondo me. Ma tanto loro non lo sanno, che a casa c’è mia madre che controlla sempre, e se parte una scena di orrore, o di sesso, subito cambia il canale fulmineamente con quell’accessorio che c’ha la nostra televisione a colori, il telecomando.
Alessandra ha trovato una blatta nel letto, o almeno questa è la voce che si sparge subito. Tempo un’ora e invece di dormire l’alcol scorre a fiumi, e mi verrebbe non solo da stare a letto, blatta o meno, ma proprio da rifugiarmi nel mio di letto, a Genova, e coprirmi col lenzuolo sopra la testa per proteggermi da questi irriconoscibili scalmanati. Per esempio come ho fatto a Maggio, nel ’76, quando mi sono sentito muovere il salotto dietro, a casa a Genova, e vedevo il lampadario oscillare ed allora i miei mi hanno mandato a letto subito. E lì mi sono coperto col lenzuolo, così mi sono sentito al sicuro. Ma il terremoto è così, mentre ci pensi è sicuro che non succede, sono gli attimi nei quali ti trovi più al sicuro, in assoluto.
Ora mi vogliono far fidanzare con un'altra della I B, una biondina che non so nemmeno come si chiama, ma di soprannome fa la Zanzara e non promette nulla di buono. Meno male che invece lei ha poca costanza e lo scherzo dura poco, prima che diventi una cosa pericolosamente seria, dato che si era infilata vestita nel letto. Almeno non portava le scarpe, penso. Qualcuno ha vomitato nel bagno, ed è dura, dal candore innaturale che mia madre tiene tutti i giorni, affrontare per la prima volta un simile scempio. Vabbè tanto domattina siamo al Quirinale, e tutto è dimenticato.
Non avevo mai visto Roma, anche se ero stato a Firenze e Venezia con i miei. Capisco che c’è tanta storia, ma il fascino che mi dà uno stadio di calcio, sinceramente, non lo provo. Nemmeno davanti al Colosseo. Invece, mi piace molto un monumento, che mi spiegano essere l’altare della Patria, detto anche il Vittoriano. Non c’entra quasi nulla, ergendosi come un finto tempio greco biancastro sullo sfondo di tutto quel marrone vecchio delle rovine, ma è proprio quello che me lo rende interessante, con i cavalli e le bighe sulla cima. Sembra odierno, contemporaneo. Meno vecchio. La visita al Quirinale ieri è andata bene, nel senso che uno dei compagni ha letto la lettera che ci ha procurato il prestigioso invito senza errori e sbavature, e tutto va così in archivio, rapidamente.
Oggi andiamo a San Pietro a piedi, ma niente Cappella Sistina o Musei Vaticani, saliamo sulla cupola dopo aver visitato la Basilica, e mi impressiona più di ogni cosa quanto sia alta la visione dall’interno, prima di percorrere gli ultimi claustrofobici tratti finali e sbucare al sole, in un meraviglioso panorama. Finalmente, lì mi sento piccolo e insignificante, come dovrei essere, altro che avere l’attenzione del Presidente mentre leggo. Maria Elena l’ho persa di vista, nel frattempo che ogni tanto la Zanzara si fa viva e giustifica il suo soprannome. ‘’In quei giardini eggia il Papa’’ ci rammenta la prof di italiano, e tutti a cercare una macchia bianca, chi dal lato giusto, chi dal lato sbagliato. Io sinceramente mi chiedo solo dove sia lo Stadio Olimpico, e lo cerco invano con lo sguardo.
‘’Ciao!’’. Non esco quasi mai dalla classe in ricreazione, ma oggi devo portare un documento in segreteria e Maria Elena la incrocio quasi subito. ‘’Dove vai?’’, indaga. ‘’Vado in segreteria, ma non è un segreto’’. ‘’Ah ah, sei spiritoso però’’. Bello percepire il disprezzo in una donna: mi rassicura. Del resto ancor più tranquillo mi ha reso Stefano qualche giorno fa, che mi ha avvisato che Maria Elena sta dietro a Massimo, e tanto poi io non solo non avevo voglia di perdere il Subbuteo, ma anche se ci uscissi il pomeriggio con Marilena non saprei cosa farci, mica come Roberto che con Betta ci si bacia di continuo, anche in ricreazione.
E così non ci ho pensato più a lei, tanto devo ancora fare l’interrogazione di latino, che è molto più importante. Ho preso la mia prima insufficienza di sempre, dopo due anni. In latino, un bel 4 nel compito scritto: deve essere una vendetta del Vaticano. Comunque sono stato il più alto di tutti, che molti han preso 2 e qualcuno addirittura 1 meno meno. Ma che voto è, uno meno meno. Mi chiedo cosa abbiano consegnato, forse un foglio bianco, bianco come il Vittoriano. Nemmeno oggi sono stato interrogato, peccato perché ero ben preparato, avevo pure messo le pile nuove nel walkman stamattina. Vado a casa sull’autobus, da solo, Roberto non c’era oggi in classe, forse era malato o forse non voleva rischiare l’interrogazione.
‘’Ciao, come stai?’’. È lei. Vista in mezzo ad altre ragazze sul bus, mi sembra ancora più grassoccia, e con sti capelli scuri poi, non ci siamo proprio, dato che io credo di preferire i capelli biondi, ma certo non quanto infilare una punizione ad effetto al Subbuteo, fuori casa. O parare un calcio di rigore per la squadra del Trota. Lei già scende in fondo a Corso Sardegna, alla fermata dove inizia via Fereggiano ed il 356 inizia a salire, la stessa di Stefano. Ci ano diversi autobus dalla stazione a lì, quindi non capiterà spesso di incrociarla all’uscita, e per quello non è capitato mai finora. ‘’Devo scendere’’. ‘’Vabbè ciao’’. Non la guardo andare via, penso che domani latino non c’è, e quindi Roberto ci dovrebbe essere. Meno male.
Ci siamo fermati all’uscita della scuola oggi, sabato, con Roberto, al negozio di dischi in centro. Cerchiamo un nuovo disco degli U2, un bootleg, cioè una registrazione pirata di un concerto, che per ora non vale molto ma in futuro avrà un valore enorme, ne sono sicuro. Ho avvisato mia madre che avrei ritardato una mezz’ora, sennò immagino il suo dramma di non vedermi all’ora giusta, nemmeno fossero le due di notte, invece che le due del pomeriggio. La caccia è andata a buon fine, ed io e Roberto abbiamo entrambi questo vinile con la copertina gialla che ci renderà ricchi tra qualche anno, è certo. Saliamo sul bus raggianti, ma dopo poco sento ‘’Ciao’’. Non so perché, stavolta il cuore perde un colpo, impercettibilmente. Un colpo a vuoto l’ho sentito, sono sicuro.
‘’Dove siete stati?’’. ‘’Al negozio di dischi’’. ‘’Non conosco questo gruppo fa lei’’, e ti credo. Solo noi sappiamo prevedere il futuro, razionalmente. Noi siamo la futura classe dirigente, qui al liceo, pronti per un raggiante futuro, domani. Basta saper aspettare. Roberto, non so perché, prima si gira, poi si allontana un poco. Ma che fai, non mi interessa, e poi a lei piace Massimo, capito? Non so perché, finiamo a parlare della sua sorellina piccola, e poi se ne esce con sta frase, ‘’Sei bravo a comprare i dischi. Perché non mi accompagni oggi?’’. Ma che dici pazza, oggi sono in trasferta da Stefano, che devo espugnargli lo stadio della Samp!
Me ne esco con la frase più stupida della mia vita: ‘’Ma…’’. ‘’Ti aspetto alle tre, qui alla fermata davanti. Dall’altro lato della strada’’. Ma, non ho saputo dire altro. Roberto, che ha seguito tutto, mi guarda e ride. ‘’E bravo, bravooo’’, e mi assesta una vigorosa pacca sulla spalla. ‘’Ma Roberto, io… veramente’’. Devo essere in viso di un colore violaceo. ‘’Ma devo andare da Stefano oggi. Come faccio?’’. E proseguo a lamentarmi per l’invasione con lui, mentre un filo di malcelato, stupido, immotivato orgoglio mi pervade. ‘’Ma non le piace Massimo?’’: continuo ad appendermi ad ogni giustificazione. ‘’Fai te, se non ci vuoi andare’’, conclude lui, che ormai, dopo Betta, non può più capire le mie rimostranze, le mie paure.
Mi preparo dopo pranzo come se niente fosse. ‘’Vado a giocare da Stefano, torno alle sette’’ è la dichiarazione obbligatoria standard da fornire per essere autorizzati ad uscire, fuori dall’orario scolastico: luogo, scopo, orario massimo di rientro. In camera, mi vesto normale. Ma se la trovo però? Ma come, se: quando! Ed io non so neanche immaginare che cosa devo fare. Baciarla, non so come si fa. Altre cose, da grandi, figuriamoci: mia madre cambia sempre canale. A Roberto non ho chiesto niente, anche perché non ho tutta questa confidenza. Fosse stato Stefano, ecco, gli avrei chiesto qualche consiglio, ma anche lui pensa ancora al Subbuteo. Cerco di pettinarmi con molta attenzione, non mi viene da fare nulla in più.
Non farò nulla di particolare, penso, mentre scendo giù per i ciottoli di Salita dell’Aquila. Non posso aspettare il bus oggi, che se tarda, mica posso arrivare in ritardo. In fondo sì, Marilena è grassoccia, ma ha anche i seni grossi, e pensandoci mi viene un po’ di paura. Paura e voglia di sfiorarglieli. Chissà cosa si sente, con le mani, immagino. È un bel pomeriggio di sole quasi estivo. Non ho pensato dove potremmo andare, ma direi a fare un giro in centro, a vedere le vetrine, ha detto che vuole essere aiutata a comprare i dischi. Certo, mi piacerebbe andare con lei al parco di Nervi, ma è lontano e poi come faccio ad essere a casa per le 7? Boh, vedremo. Ma non potevo dire 7 e mezza? Idiota.
Ci sono le giostre qui in piazza Ferraris, alle spalle di Via Fereggiano, ormai la discesa è finita. Ma a quest’ora sono chiuse. E poi non ho spiccioli da infilare, anche se ormai sono un po’ grande per fare un giro sopra le macchinine: ho solo diecimila lire intere e la tessera del bus. Speriamo che bastino per un appuntamento con una ragazza. La fermata è qua, oltre piazza Ferraris, giusto qua dietro, cioè davanti a questo palazzo che copre e chiude la vista di via Fereggiano, appena prima che si allarghi in una piazza e diventi corso Sardegna. Il mio orologio fa dieci alle tre, perfetto, mi sento un bravo soldatino che ha fatto il suo dovere e ora devo solo aspettarla.
Ci sono ato mille volte qua, alla mattina, o attorno all’una e mezza: è la
fermata per andare a casa di Stefano, ma di solito ci o solo davanti, o dall’altro lato della strada quando salgo col bus. Non l’avevo mai notato, ma non avendo niente da fare mi metto a osservare. La ringhiera corre lungo tutta la strada attorno al grosso palazzo, da questo lato, e in oltre 50 metri c’è solo uno stretto cancello da cui si accede al portone. A sinistra il vetro è aperto e l’androne si divide in due, a sinistra scende, immagino nei sotterranei o forse nelle cantine. A destra, le scale salgono, strette.
Guardo l’ora, sono le 3 e 10. Comincio a cercarla con lo sguardo, prima sui due lati del marciapiede, e poi anche da tutti i lati, tipo se stia attraversando la strada, ma nulla. La luce del sole si abbassa un attimo, forse sta ando una nuvola davanti. Sono le 3 e 20, saranno già ati almeno due 356, potevo anche venire in autobus, mi rimprovero. A Stefano non ho detto niente, ma se lei viene mi capirà che oggi c’è stato un rinvio per cause di forza maggiore. Lui è un amico. Ma persino la UEFA avrebbe capito. Poco dopo le 3 e mezza, mi ricordo di una regola, che se una squadra si presenta oltre i 45 minuti di ritardo, ha partita persa. E così vado via, che forse riesco ancora a scendere in campo. Vado da Stefano. Dentro però, sento qualcosa di diverso, una sensazione strana. Come se mi avessero rubato un pezzo dentro senza che me ne accorgessi.
‘’Gooool!’’ fa Stefano, quasi sguaiatamente, e pompandomi il pugnetto proprio davanti. ‘’Quattroooo!’’. Oggi lo stadio con i suoi omini fermi, fissati per l’eternità come le vittime di Pompei, mi pare invece ribollire. ‘’Quattro a zero!’’ fa ancora Stefano, felice e incredulo. ‘’Ma che succede, sei irriconoscibile. Già essere in ritardo, non è da te’’. Eppure avevo tante speranze oggi, di are una giornata diversa, tanto diversa. Forse non gli dovrei raccontare niente, che potrebbe offendersi, che in fondo lo avrei tradito. Ma tanto, tempo qualche giorno e lo sapranno tutti. E mentre mi giustifico interiormente dicendomi che non è poi successo niente di che, il dolore erutta come il vulcano. ‘’Ma niente Ste’’ faccio, omettendo ovviamente dei particolari che potessero turbare il pomeriggio, ma senza modificare il significato complessivo della cosa. ‘’Marilena, quella della IB? Ah bravo, bravo’’ fa lui con aria disinteressata ‘’Mah guarda, ti posso dire: anche io avrei fatto esattamente come te, se ti può aiutare. Al massimo dopo mi offri un milkshake da Burghy, per farti perdonare… Ma non prendertela. Le donne sono strane’’. E lì si ferma, voltandosi verso la cucina, lontana, verso il poggiolo da cui filtra la luce di nuovo intensa del pomeriggio di primavera.
‘’Cioè, le ragazzine’’. E comincia a guardarsi con attenzione i suoi spettatorini sugli spalti, piano piano, come se cercasse qualcosa. Poi, indicandemola col dito, mi fa il segno di una, una micro-ragazza che mi pare ha su una sciarpa e si sta forse lamentando di qualcosa con l’arbitro, con il braccio teso verso il campo. ‘’Guarda, questa’’, mi dice e con l’indice e il pollice, quasi tra le unghie la rimuove, forzandola via dalla sua base incollata, come una piccola formica che ora sta tra le sue dita. E senza dire niente, si avvia verso il poggiolo. C’era proprio un bel sole oggi. Roberto e Betta sicuramente si stanno baciando da qualche parte, al parco. Via Fereggiano è trafficata come sempre, anche di sabato pomeriggio. La miniatura vola via, che Stefano la lancia dal poggiolo del quarto piano e finisce in strada. È così piccola, insignificante, nel vuoto dei quattro piani sotto che la perdo di vista, ma credo sia finita o in strada o nel giardino di quelli del piano terra.
‘’Torniamo’’ mi fa Ste con aria sicura. E rientrando nel soggiorno, mi chiede:
‘’Ric dimmi: guardando il mio stadio, nel suo insieme… è cambiato qualcosa?’’. Apparentemente mi verrebbe da dire di no. Tutti gli spettatori sono sempre lì, fermi nella loro eterna fissità. Gli omini del Subbuteo sono lì, nelle stesse posizioni di prima, aspettando di vedere se la nostra partita, dall’esito ormai scontato, riparta. Credo, dopo aver meditato qualche secondo, di aver dato la risposta più corretta: ‘’Apparentemente… no, Ste’’. Mancava poco tempo ormai alla fine del match, ma per la cronaca, ho accorciato le distanze ed ho perso 4-1.
Ho rivisto Maria Elena tre giorni dopo sull’autobus. L’ho rivista e come prima reazione, ho fatto finta di non vederla. ‘’Ciao’’. ‘’Ciao’’ rispondo, con la granitica idea di non aggiungere una parola in più. ‘’Senti, parliamo?’’. ‘’No’’, rispondo, capitolando subito, e uscendo da me stesso, come quando non riesco a pensare prima di parlare. ‘’Dai, scendiamo un attimo’’. La seguo senza capire, scendiamo alla prima fermata utile. Mia madre sarà già in pensiero. Aspetto che lei parli, senza guardarla. ‘’Senti, mi piacete tutti e due. Te e Massimo. Sono stata tanto per decidere, ma quando ho detto a Massimo che ti avevo dato un appuntamento, lui è andato su tutte le furie, e così ho capito e mi sono messa con lui. Sei arrabbiato?’’. Mi sento come se alle elementari, invece della maestra, una mattina avessi trovato un professore universitario. E non mi viene da dire niente, maledizione. Assolutamente niente. Sei grassoccia, non mi piaci, vorrei dirle. Se non mi avesse rubato quel qualcosa dentro, senza farsene accorgere. Non ci riesco. E nemmeno posso cambiare canale, che il telecomando è a casa. Alla fine, i geni del matematico in me non riescono a proseguire il silenzio: ‘’E quindi?’’, le faccio.
Maria Elena mi guarda con comione, e mi saluta con un ciao, mentre io rimango lì inebetito, che finalmente la vedo, riesco a vederla in giro per il centro, con Massimo che le infila tutta la lingua in bocca, specialmente davanti alle vetrine, o la mano nella camicetta, mentre la riaccompagna a casa sul 356. E mi sale su una rabbia, una rabbia che non ho provato mai in vita mia, nemmeno quando Stefano ha vinto a casa mia 2-1 su autorete, all’ultimo minuto di gioco.
Ma chi ha avuto questa idea balzana della cena di classe. Lo dicevo io che Facebook non mi piaceva. Ma un collega di lavoro ha insistito tanto, diceva che serve per restare sempre in contatto anche fuori, e già sarebbe una motivazione contraria, ma tant’è. E così un giorno mi sono visto comparire questa ‘’richiesta di amicizia’’ da Stefano; e come l’ho visto diverso in foto! Ma davvero siamo diventati così vecchi, a soli 43 anni. I miei colleghi che conosco solo da qualche anno li vedo tutti sempre uguali, ma rivedere persone che hai visto da giovanissime, te le fa vedere anziane, e ti fa sentire, inesorabilmente, vecchio. Decrepito. E così mi sono ritrovato coinvolto in questo progetto di ‘’cena di classe’’, che dovevamo fare sin dalla scorsa primavera e abbiamo rinviato fino ad oggi, al Novembre 2011. ‘’Cena di classe, 20 anni dopo’’, recita il nome del gruppo che Marco ha creato apposta per l’occasione, e qualcuno pietosamente e penosamente, glielo fa notare in un commento, sotto: ‘’Sono 25. Dall’inizio, 30’’.
Vabbè, non mi dispiacerà rivedere ancora una volta Genova, e girare un po’ di nuovo per il centro, ma più di tutto rivedere la casa della mia infanzia e adolescenza, che peraltro ormai non abitano più lì i miei, stanno in campagna nel Monferrato. Ma sono cambiate così tante cose, in viale Bracelli. Non c’è più la scuola elementare, e tutti i posti sono diversi. Le strade, le curve, i sentieri sono rimasti uguali, come degli scheletri. Ma gli edifici, i negozi, i colori, le persone, il sangue, le cellule sono tutte cambiate. O non sono più loro, da quanto sono diverse, oppure non ci sono più.
La casa di Stefano è sempre lì, almeno nello stesso posto, che gentilmente mi ha invitato a pranzo da lui e sua moglie, dato che sono io che vengo da lontano, insomma, da Milano per lo meno, e ha insistito così tanto che non ho potuto dire di no. La mattinata è grigia a Milano, ma superando in auto gli Appennini la pioggia è intensa e costante, e il cielo è diventato di un plumbeo che non ricordavo più. Pazienza, anche se piove, tanto oggi, tra che ero ospite da Stefano, la cena in pizzeria stasera e il viaggio, niente giro della città, non avrei avuto tempo. Ho visto solo la mia vecchia casa, sopra viale Bracelli. Domani, magari, la giornata me la prendo tutta per me. E per visitare i miei nonni, al cimitero.
Il cielo è sempre più plumbeo, mentre Stefano mi accoglie in casa, e mi presenta sua moglie, Marisa. Si sono conosciuti al lavoro, in uno studio immobiliare. ‘’Doveva proprio piovere per rivederti!’’ fa lui ironico. ‘’Beh, scommetto che non è proprio da ora che piove’’, ribatto, anche se il cielo non promette nulla di buono. ‘’Ma le previsioni cosa dicevano?’’. ‘’Boh? Temporale, mi pare’’, fa, mentre transitiamo per il soggiorno e al posto dello stadio del Subbuteo c’è ormai la tovaglia imbandita per il pranzo. ‘’Hai fatto buon viaggio?’’. ‘’Certo, le solite due ore, senza correre. Lo sai che sono prudente. Comunque, sono già tornato a visitare Genova tre volte in questi anni, ma sai, stando lontani… non è che non ci si pensi agli amici, è che si pensa sempre e solo al futuro. Tutto qua’’. La verità espressa nel ruolo di giustificazione riluce, nell’oscurità della casa. ‘’Dovremmo accendere la luce, non è meglio tesoro?’’ fa sua moglie. E ci accomodiamo a tavola, mentre altri rombi di temporale si alternano a scrosci di una forza preoccupante.
Ultimamente sembra di stare ai tropici, come tempo. Anche a Milano, vicino a Milano, ogni tanto capitano trombe d’aria. ‘’Eh, le cose cambiano’’ pontifica Stefano, e come dargli torto, anche se lui ha avuto la fortuna di non dover cambiare città, per trovare un lavoro. Anche se comunque a me la Brianza piace, sia chiaro, e molto. Solo che non ha il mare. Né i torrenti coperti con l’asfalto, e poi con le case messe proprio lì sopra.
Il rumore dalla strada sale oltre il limite della nostra indifferenza, che ormai la pasta l’abbiamo mangiata e fuori tuona e scroscia in un modo che non ricordo di aver mai visto, nemmeno quando arrivavano i temporali coi fulmini a casa mia, e mia madre abbassava di corsa le tapparelle di legno, le persiane. Per non far sporcare i vetri, diceva lei, ma non è mica una mossa giusta, perché attraverso il legno i fulmini ano uguale, anzi li attirano. A quello pensavo, io, non alla pulizia dei vetri.
Al suono dei clacson impazziti, si unisce quello degli allarmi antifurto, di qualche macchina, o forse di qualche negozio. ‘’Vediamo un po’, ma cosa sta succedendo?‘’, dice Stefano, invitandomi a seguirli sul poggiolo della cucina, e qua mi si para davanti qualcosa che mai avrei immaginato, nemmeno pensando di trovarmi in fondo ad una valle. Istintivamente, per prima cosa, controllo dove sta la mia auto: e la mia auto, adesso, non c’è più.
‘’Marisa, il Fereggiano!’’, urla Ste, ed il suo volto che già mi sembrava cambiato dopo averlo rivisto in questi anni, lo vedo cambiato di nuovo, quasi trasfigurato. Dal poggiolo, riguardo incredulo ancora verso dove avevo lasciato l'auto, ed al suo posto ora ce n’è proprio un’altra, ma girata come parcheggiata in senso inverso alla strada. E nemmeno è ferma, si muove. E vedo scorrere un fiume, un fiume marrone di acqua, di fango, di auto che nonostante la pendenza lieve corre via come a cento all’ora, trascinandosi via tutto. Comprendo che il rio Fereggiano è tracimato, sicuramente è così, là in alto un due o trecento metri prima, quando la strada si stringe, salendo, e la copertura artificiale lascia spazio all’alveo. Stefano mi appare disperato; sua moglie terrorizzata, piange. Io dovrei essere molto ansioso per la mia auto, che non vedo più, oppure sentirmi in pericolo per me, ma in realtà penso solo alle persone che vedo sotto.
Chi si difende come può a piedi, chi resta inerme chiuso nell’auto, qualcuno più propenso alla sofferenza con le quattro frecce, e vedo tutti questi mezzi sballottati lentamente ma inesorabilmente dall’alto verso il basso, dalla mia destra alla mia sinistra trascinati via dalla corrente e che, come in un enorme
autoscontro, cozzano ora contro uno ora contro l’altro, senza più controllo.
C’è un’ambulanza a sirene spiegate, ma quasi ferma, contro il senso dell’acqua, che lentamente ma inesorabilmente la trascina indietro, verso sinistra, verso corso Sardegna. Un auto dei vigili più avanti quasi sommersa. C’è perfino un autobus, poco più avanti ancora, che schiaccia un’auto al bordo della strada e con due, forse tre auto accatastate dietro. La pioggia ha ormai da chissà quanto la stessa forza, ma man mano l’onda cresce, cresce ancora, e dei tuoni implacabili tra le grida, il clangore, i clacson e le sirene, crescono altrettanto. La pioggia ora strepita e picchetta sulle nostre teste attonite, mentre inerme vedo che ormai il fiume marrone ha preso possesso di quella che una volta era una strada quasi al centro città, e tutti i mezzi e le persone travolte sono ai bordi della strada, con una violenta melma alta anche due metri, forse anche tre o quattro qui davanti a noi, dove essa si va ad infrangere contro il palazzo che segna l’inizio di piazza Ferraris e che come un frangiflutti ha separato, ha setacciato alla sua destra carcasse di auto tutte impilate, a sinistra solo una colonna d’acqua di forza devastante, lì davanti al portone del palazzo, nella fermata del bus a scendere. Mi sembra di aver visto una signora anziana con una bambina tirata per il braccio infilarsi proprio dentro il portone, insieme, in mezzo alla valanga d’acqua, ma quando dò un colpo sul braccio a Stefano per farglielo notare, lui dice che non ha visto e non ne sono più tanto sicuro.
Poco oltre, verso corso Sardegna, altre auto accatastate, ognuna in una direzione diversa, e mi sembra di vedere una ragazza in scooter che lotta, lotta per are oltre, o forse per salvarsi ma non sa dove ripararsi, contro la forza dell’acqua e delle lamiere impazzite. E poco dopo, non la vedo più.
Dovremmo fare qualcosa Ste, ma cosa. Scendere ora è folle, saremmo travolti all’uscita del portone. Ma sicuro qualcuno ha bisogno di noi, sicuro. ‘’Ste, che facciamo’’. ‘’Appena finisce l’onda, scendiamo, me ne fotto. Marisa, dove sono gli scarponi da montagna? Tirali fuori’’. ano forse altri cinque minuti, ma l’onda non si placa. Poi finalmente, comincia a scendere, poco dopo che l’ha fatto il ritmo della pioggia, e riappaiono nella loro interezza saracinesche, portiere delle auto, cassonetti della spazzatura e scooter rovesciati.
‘’Andiamo Ric’’ fa uno Stefano mai visto, di un’intraprendenza mai veduta, nemmeno quella volta che ha partecipato alla coppa Italia di Subbuteo, a Pegli. Scendiamo per le scale, non sia mai che manchi la corrente proprio ora, e siamo fuori dal portone. Vista da giù, la scena è altrettanto apocalittica. Un’auto sta appena alla nostra destra, col muso sollevato a cavalcioni del didietro di un’altra, e dietro una terza a sua volta a cavalcioni di questa. Ed altre due ancora appoggiate di fianco, in strada. Come se i robot cattivi di Mazinga Z ci avessero attaccato. Ai bordi della strada ormai marrone scorre poltiglia scura, oggetti, spazzatura travolta. Ma subito ci catturano urla dal lato opposto della strada, dalla fermata di fronte, dal portone.
‘’Presto, presto’’ c’è una piccola folla con l’acqua quasi alle ginocchia, nel cortiletto davanti al portone, mentre ancora l’acqua invade lo stretto cancello e fin lì nell’androne. Avanziamo di pochi i, e a sinistra, come l’imbocco di una grotta, c’è solo acqua, mentre a destra riemergono le piccole scale dopo qualche scalino. Persone sono affollate anche lì, da sopra. ‘’C’è qualcuno, c’è qualcuno sicuro, l’ho visti’’ ci avvisano, mentre le sirene fuori aumentano, pare che si avvicinino. ‘’Una corda l’avete?’’ fa Ste, o qualsiasi belva orgogliosa ci fosse dentro di lui in quegli istanti, e qualcuno scatta su per le scale a prendergliela. Una signora si sente male. ‘’La nonna con la bambina, io li ho visti’’ fa uno degli astanti del cortile. Allora avevo visto bene. Per una volta che desideravo che la mia mente si fosse sbagliata, come fa di solito, purtroppo ci ha visto bene.
‘’Dai!’’, fa Stefano, con la corda legata alla vita, che gli ho fatto il doppio nodo che mi ha insegnato mio padre e sono tranquillo. Non ci vediamo da vent’anni, penso, ma mi sembra che siamo tornati esattamente là, ai giorni del Subbuteo, solo che stavolta affrontiamo in doppio i campioni del mondo. Una bicellata a testa. ‘’Non mollarmi’’. Ma figurati. Non so nuotare, almeno quello, tenerti. Un genovese che non sa nuotare, che vergogna. Ma non mi abbatto. Ste è sotto, e arrivano i pompieri, fuori. Sento tirare un poco la corda sono sicuro. ‘’Tirate, aiutatemi!’’ grido con tutte le mie forze, con una voce che non sapevo di avere, e finalmente qualcuno si scuote dal torpore della paura e in un istante Stefano riemerge, già stremato, con un corpicino tenuto per un braccio. Sono davanti e la prendo per primo. È una bimba che avrà dieci, o dodici anni. È zuppa, infangata, inerte. Non so se respira. Non so cosa fare, io non sono un medico. Ma per fortuna sono arrivati i pompieri, e probabilmente un’ambulanza, coi suoi volontari, e dopo soli cinque inutili secondi tra le mie braccia non la vedo più.
‘’Saliamo, non mi sento più le forze’’ fa Stefano, appoggiandosi a me, fradicio e trasfigurato. ‘’Tranquillo, appoggiati’’, e ci riavviamo nella melma, che l’acqua nel cortile all’improvviso non entra più, come se non ci fosse mai entrata, nemmeno scorre un rivolo. All’uscita vedo una donna disperata piangere sola, davanti all’ambulanza, e un’altra donna prova a trattenerla, impotente. Stefano, tossisce, si ferma, sputa. Pare come accasciarsi un istante, poi fiero mi si appende al braccio e prosegue. Lo tiro un poco per avvicinarmi a lei, forse è la madre della bimba, ma mi sembra quasi troppo anziana per essere la madre della bimba, non abbastanza anziana per esserne la nonna.
La donna piange, tanto, e mi ha catturato l’attenzione. Ha i capelli neri mossi, quasi ricci. Il fisico un po’ corpulento, e con un’aria strana, di non sconosciuto. Mi avvicino ancora un poco e lei si volta, disperata. Lascio Stefano e faccio un ultimo o, al che lei mi abbraccia e mi si getta al collo, piangente e disperata. ‘’Perché?... Perché?’’. Non so cosa dire. I suoi singhiozzi mi pervadono, dentro. Sento qualche sua lacrima scorrermi sul collo, tra le gocce di pioggia. Sento come un peso, come un qualcosa che mi pesa dentro. Come un peso nuovo, che non avevo mai provato prima. E mi sciolgo dall’abbraccio, sentendomi ora così
inutile, così insignificante verso quel dolore, immane. ‘’Dai!’’ fa Stefano, con un poco delle ultime forze, mentre mi implora quasi di riportarlo a casa. Un uomo intanto ci si para davanti all’improvviso correndo, mentre stiamo per riattraversare e tornare dentro, e spintona via tutti, pare impazzito. Stefano ha come uno scatto e fa ‘’Massimo?’’, ma la domanda non ha risposta, mentre l’uomo devia e ci sfiora solamente, correndo verso l’ambulanza.
Non è andato come pensavo questo pranzo, non è andata come immaginavo questa giornata. Un tranquillo pranzo da Stefano, una cena per ritrovarsi. Ste si è ripreso bene, un poco già in ascensore, che a fare le scale no, non ci riusciva. Ma almeno, quando l’ha rivisto, Marisa è apparsa molto sollevata. ‘’Noi andiamo a lavarci’’ mi fa lei, anche se si deve lavare solo lui, e intanto io continuo a pensare seduto, non ho la forza di andare sul poggiolo e guardare cosa succede fuori. Non è più un dolore che mi compete, penso.
Sono le 17 ormai, ancora non abbiamo parlato di cosa fare stasera, di come procedere. Ma non ci pare proprio più il caso di festeggiare. Ormai seguiamo solo alla televisione, su un qualche canale locale, cosa succede. Principalmente, anche se non solo, principalmente quello che succede quattro piani sotto di noi. Alla mia macchina non ci penso più, dopo quello che ho visto. Immagino che si sarà andata a parcheggiare da sola davanti allo stadio, all’ingresso dei distinti, così ho una scusa per rivederlo, lo stadio Ferraris.
Squilla il telefono grigio di casa, risponde Marisa. ‘’È Luca’’, fa lei, e Stefano molto a fatica si alza e va alla cornetta. '’Ah''. Non dice altro. Lungo silenzio. Il volto scuro come il cielo di stamane fuori, quello sugli Appennini. ‘’Ok, ciao’’. ‘’Cosa succede?’’ chiede Marisa, con la faccia di chi ha già capito. ‘’Era Luca, sì. Niente cena stasera’’. ‘’Ebbè con questo casino’’ fa una sollevata Marisa. ‘’Non è per quello, a me non mi fermano quattro gocce, lo sai’’ la rimprovera lui, e vedo che lo sguardo fiero è ritornato. Fiero e cupo. ‘’Ci sono dei morti qua sotto. Alla tv non lo hanno ancora detto, perché non erano sicuri. Ci sono dei morti lì, nelle cantine. Mi ha detto Luca, una era la figlia piccola di Massimo, di Massimo e Marilena’’. Marisa si copre istintivamente la bocca con la mano, gli occhi disperati. ‘’Stavano tornando a casa loro lei e la nonna, qua vicino, in Via della Zebra. Infatti, mi sembrava di averlo visto, uscendo’’.
Ho un brivido mai sentito nella schiena. Il sangue che mi si congela. Marilena. Maria Elena. Di colpo mi riemerge tutto l’episodio, che avevo rimosso per venti, trenta, cento anni, dentro di me. ‘’Sei morti’’, gracchia la televisione, ‘’la Prefettura ci ha confermato la notizia. Sei morti, tra cui una bimba di dodici anni’’. Corro al poggiolo, ma ormai ovviamente c’è solo una piccola folla di curiosi. Non c’è più la morte, come qualche ora fa, né i morti, né i pompieri, né Maria Elena. La strada è marrone ma quasi sgombra in mezzo. Un bus come quelli che fanno il 356, ma con su scritto ‘’fuori servizio’’ scende da viale Bracelli, e transita sotto, vuoto, verso il centro, dal lato dell’androne della morte, del palazzo segnato per sempre. Sicuramente era rimasto bloccato su da ore, e, finalmente, prosegue la sua corsa. Se ne va via.
Alla fermata, non si ferma. Del resto, non serve più.
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Ringraziamenti La Promoter Wimbledon Maria Elena