Michele Rizzi
Surf pensiero
Battitore libero
Titolo originale: “Surf pensiero”
© 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea novembre 2013
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-413-4
I edizione e-book gennaio 2014
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-448-6
www.giovaneholden.it
[email protected]
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Michele Rizzi www.giovaneholden.it/autori-michelerizzi.html
Indice dei contenuti
Surf e limiti Surf e caratteristiche Surf ed esibizionismo Surf e odori Surf fatica e scelte Surf e amici Surf e albori Surf e informazione Surf e novizi Surf e tavole Surf e meteo Surf sbandamento e riconciliazione Surf e onde Surf ed età Surf e strade Surf e affini Surf e infortuni Surf e gesti
Surf, ignoranza e falsi miti Surf e il mare Surf e ottimismo Surf e arte
Ringraziamenti
L'Autore
Note
A mio padre, un vero selvaggio, per avermi insegnato a vivere a contatto con la natura.
Surf e limiti
Una cosa che mi è sempre piaciuta del surf è che il mare quasi sempre ti avvisa, cioè ti manda dei messaggi per farti capire che forse non è il giorno giusto per te, per le tue capacità, per la tua energia e la tua esperienza; quindi in mille modi diversi ti avvisa e spesso, sapendo che la vista è un senso sopravvalutato, si aiuta con altri mezzi: per esempio con l’udito, emettendo al frangersi delle onde boati degni di un’esplosione, onde sonore in bassa frequenza che ti fanno vibrare le interiora e ti fanno percepire consciamente e inconsciamente la potenza di quei milioni di molecole di acqua organizzate nell’abbattersi all’unisono sul tuo corpicino per sbatacchiarlo come un fuscello. Altri due messaggi usati dal mare sono la corrente e la forza delle schiume (ancor peggio se abbinati). Non ti è mai capitato di entrare in acqua e, dopo venti secondi di remate e tentativi di duke dive,[1] trovarti spostato di duecento metri con la riva che si trova sempre alla stessa distanza dove l’avevi lasciata, solo che non è più la stessa e quella che ti guarda sulla riva non è più la tua ragazza ma quella di un altro che magari è finito già nella spiaggia del paese successivo? Ecco, quello è un avviso del mare che ti dice: Stai a riva che è meglio. Recepisco sempre questo messaggio quando in acqua non c’è nessuno, ma faccio sempre molta fatica ad apprenderlo quando al di là della line up[2] c’è qualcuno che surfa le onde apparentemente come se nulla fosse; non è più una sfida con il mare ma con un mio simile umano e mortale. Risultato: lingua penzoloni, maratona di nuoto, concentrazione massima sul momento propizio tra una serie e l’altra e tanta tanta grinta. Una volta raggiunta la line-up, dopo una remata che con mare piatto ti avrebbe consentito tranquillamente di raggiungere la Corsica, aspetti cinque, dieci minuti che le braccia smettano di bruciare e ritornino a una minima funzionalità; è giunto il momento di prendere un’onda e decidi di partire alla prima utile. A questo punto i surfisti si dividono in due gruppi. I furbi e saggi, che prendono l’onda e la mollano volontariamente dopo poche decine di secondi in modo da trovarsi sempre in una zona d’acqua abbastanza
alta da riuscire con relativa facilità a tornare sulla line up . Il secondo gruppo è quello dei rancorosi e fessi che surfano l’onda fino a riva, quasi in trance dovuta alla necessità di essere ripagati dopo tanto sforzo. Morale dell’operazione: Fottuto, non avrai più energie e voglia di rifarti la maratona di nuoto per uscire nuovamente. Un altro monito che manda il mare è la luce cupa che acuisce il senso di freddo e pericolo. Il mare quindi di solito ti avvisa, specie nei beach break .[3] Esiste poi un capitolo a parte chiamato Point (meglio se su roccia tipo Varazze per intenderci), in cui il mare se ne fotte altamente di mandarti messaggi di avvertimento e anche il surfista alle prime armi arrivato sul molo in una splendida giornata di sole e onde pensa: Figo, vado anch’ io. L’avviso acustico funziona poco, la luce e il colore del mare mentono, le onde frangono fuori, si alzano e diventano smeraldine e quasi trasparenti, dando un’impressione di leggerezza e nascondendo molto bene la potenza e l’energia che cova al loro interno. Ciliegina sulla torta: il mare al di fuori dell’ A frame (zona in cui rompe l’onda a forma di A) è placido e tranquillo, si muove leggermente e produce solo un timido risaccone a riva. Anche il più sfigato dei surfisti può entrare in acqua e remare verso il picco costeggiando la zona in cui frangono le onde. In queste circostanze Poseidone si sdoppia e ti scruta con due facce: una malevola e cattiva che ti osserva risalire verso il picco e sogghigna pregustando la botta incredibile che ti sta preservando; l’altra bonaria e materna che ti avvisa con il rumore emesso dal frangersi delle onde. A questo punto, se sei un po’ sordo o malauguratamente hai messo i tappi, sei un uomo finito e te ne accorgi solo all’arrivo della prima serie: le onde, che da fuori sembravano quasi piccole, dall’acqua fanno una certa impressione complice anche la posizione sdraiata. La sorte del surfista viene quindi giocata dal tempo tra una serie e l’altra e dal posizionamento che ha scelto sulla line up; se si è piazzato spavaldamente al centro del picco la frittata è fatta. Quelle che erano leggere ondulazioni del mare a cento, duecento metri da te in poche decine di secondi diventano muri d’acqua che ti corrono incontro ed è qui che si divide il mondo dei surfisti e degli uomini in altre due categorie ben distinte: - il coraggioso, che spesso sconfina nelle sottocategorie ingenuo e coglione;
- il pauroso, che spesso confina con la sottocategoria saggio e attento alla propria sopravvivenza ed incolumità. Attenzione, stiamo parlando di un surfista alle prime armi ma potremmo parlare di un professionista esperto che parte per la prima volta su una bomba di Waimea o Teahupoo. Stiamo parlando di surf ma potremmo facilmente spostare l’esempio su un’infinità di campi e attività che la vita ci costringe a compiere quotidianamente (lavoro, relazioni, azioni). Stiamo parlando di surfista uomo ma come ben sappiamo esistono anche surfiste donne, che molto spesso nella vita quotidiana dimostrano di avere coraggio e determinazione da vendere agli uomini; figuriamoci quelle che praticano uno sport come il surf. A oggi posso dire che non ho ancora capito di che categoria faccio parte; so solo che alcune volte sono rientrato nella prima categoria e altre volte sono entrato con le mie azioni a pieno diritto nella seconda. L’unica costante di questo bivio è che in quei pochi istanti in cui matura la scelta e segue l’azione è di fondamentale importanza quello che hai pensato, mangiato, respirato e scopato fino a poco tempo prima. Mi spiego meglio. Facciamo l’esempio che tu arrivi da un periodo in cui il lavoro ha girato male, o peggio, devi sopportare tutti i giorni un lavoro di merda che però ti dà la garanzia di arrivare a fine mese riuscendo a pagare le cose di merda che possiedi e che ti puoi permettere. La tua ragazza è un tipo (non una strafiga), o peggio è carina ma è una spaccamaroni, o ancora peggio, è cessa e spaccamaroni e ti ha permesso di andare a surfare ma pagherai questa liberatoria con il sangue. Secondo voi, quale scelta potrà prendere quest’uomo di fronte a tale bivio? Semplice, tutto sta nell’atteggiamento con il quale quest’uomo è entrato in acqua: se arrivato sulla battigia si è legato alla caviglia la sua tavola più incazzata ed è entrato in acqua ringhiando e remando con gli sbuffi di vapore che uscivano dal naso, se si è piazzato al centro del picco senza salutare nessuno concentrandosi solo sui frangenti, ebbene quest’uomo oggi ha deciso di non ingoiare merda e dimostrare a se stesso e al mondo intero (compreso Poseidone con le sue due facce di merda) che ha le palle per reagire e affrontare la vita, la
sua fisica, la sua chimica, la sua spiritualità e tutte quelle essenze che la compongono. Il nostro surfista allora in un secondo si gira verso riva e rema con la decisione di un samurai e una consapevolezza che scatena in sé un’adrenalina che non è dovuta alla sensazione fisica esteriore bensì a quella bomba emotiva che ti esplode dentro quando senti che stai giocando ai limiti delle tue possibilità e sai che in caso di errore potresti rimetterci qualcosa. Se invece è entrato pensando ancora a quanto dovrà pagare a lungo questa giornata di surf, che nessuno dei suoi amici lo ha accompagnato, che quelle onde che ha fiancheggiato sembrano davvero potenti e rumorose, che è tanto tempo che non surfa e che ha la preparazione fisica di un giocatore di subbuteo, arrivato sul picco saluterà con rispetto e timore i local e si metterà in posizione defilata e remissiva guardando l’orizzonte con sguardo preoccupato. State pur certi che, al materializzarsi dei muri d’acqua, in un nano secondo quest’uomo avrà un solo pensiero, quello di remare con tutta l’energia che il suo fisico da giocatore di subbuteo gli consentirà in direzione esattamente opposta a quella che ha scelto l’uomo dell’esempio precedente. Verso il largo! Solo una parola echeggia nel suo cervello: Fuori! Lì troverà la salvezza e la panacea, remerà come un forsennato in modo da superare la linea in cui i frangenti inizieranno a rompere. L’unica adrenalina che avrà sarà quella scatenata dalla paura e il rischio di finire sotto quelle montagne d’acqua turbinanti. Attenzione: nulla vieta che anche il primo uomo Mister coraggio abbia una preparazione fisica inadeguata, ma ciò rende la sfida per lui ancora più emozionante e dall’esito incerto. C’è da dire che anche un giocatore di subbuteo, concentrando tutte le proprie energie vitali, alla prima onda può riuscire a sviluppare una remata sufficiente per riuscire in un take off,[4] soprattutto se il surfista ha quel talento che hanno i buoni goleador, stare al momento giusto nel punto giusto. Se poi parliamo di un uomo che, in mancanza di mareggiate, si è preparato fisicamente in modo serio praticando sport, corsa, bici, nuoto, esercizi di stretching e addirittura yoga, quest’uomo ha fatto già metà del suo lavoro.
Surf e caratteristiche
Il surf scaturisce da noi in modo naturale e soggettivo proprio come molte altre attività umane tipo camminare, nuotare, correre, andare in bici. Il nostro modo di surfare risulta essere influenzato da una miriade di cose, soprattutto dalla nostra conformazione fisica, dalle nostre capacità di equilibrio, potenza, elasticità e agilità. Ovviamente la conformazione fisica influenza molto le nostre prestazioni anche se la vita spesso si diverte a incasinare le cose e crea per suo divertimento e nostro stupore esemplari di surfer tozzi e robusti con agilità da gatti, oppure esemplari smilzi che sprigionano potenza da tutti i pori o ancora atleti con fisici da ballerini legnosi come tronchi; ma si tratta di rarità e fenomeni sporadici. Un altro elemento fondamentale in questo sport è il carattere che può essere più o meno aggressivo. Essere aggressivi vuol dire cercare lo scontro e cercare di sovrastare e sovvertire gli elementi che ti trovi ad affrontare, snaturandone il più possibile le caratteristiche e cercando di imporre la propria volontà nel modo più visibile possibile. Essere meno aggressivo vuol dire assecondare gli elementi, giocare con loro e non prenderti gioco di loro; si tratta di sfruttare le caratteristiche degli elementi per trarne vantaggio. Per fare qualche esempio, il surfista aggressivo ama distruggere il lip e squarciare le onde con curvoni in cui sprigiona tutta la sua potenza e si diverte a sollevare bidoni d’acqua dalle creste delle onde. Si diverte a prendersi gioco delle onde in modo vistoso, salendoci sopra in floater[5] o aerial[6]; si tratta in sostanza di abbattere il toro prendendolo per le corna, quindi si può immaginare una lotta. Il surfista meno aggressivo che chiamerò soul è un esempio di leggerezza e velocità, scappa dall’onda, gioca con essa e con essa si fonde. Il tubo è la manovra che descrive meglio questo atteggiamento: vorrei fondermi con te ma non posso, devo scappare e proprio nel momento in cui carne e acqua stanno per
fondersi in una cosa sola il surfista soul abbandona all’ultimo istante il suo compagno di giochi e torna al suo elemento naturale. È logico che esistono surfisti e persone che hanno entrambe le caratteristiche o che, a seconda del momento e dello stato d’animo, privilegiano uno o l’altro approccio. Se appartieni a questa categoria alla quale appartengo anch’io fai attenzione a non esagerare perché lo sdoppiamento della personalità è uno dei primi sintomi della schizofrenia. Il fattore mentale nel surf come in qualsiasi sport risulta essere determinante. La cosa strana è che è quasi più importante la preparazione mentale eseguita all’asciutto di quella che si effettua in acqua dove le azioni sono per il novanta percento istintive o dettate dall’improvvisazione. L’onda con la sua azione veloce e continua non ti consente molto tempo per ragionare, anzi le decisioni vengono prese in brevissimi istanti e sono influenzate da quanto la tua mente ha ricevuto dai sensi e il tuo cervello ha elaborato. A tutto ciò si aggiunge un elemento caratteristico ed importantissimo di questo fantastico e unico sport. Ecco, l’ho già detto, si tratta dell’unicità. Se ci pensate bene questo sport viene praticato su un campo che è liquido e in quanto tale risulta essere di una forma in costante trasformazione. In assenza di vento e correnti, il mare risulterebbe immobile e perfettamente complanare. Sottoposto a un’infinità di input e sollecitazioni, il mare e le sue onde creano un campo da gioco unico e irripetibile. Ogni onda non sarà mai esattamente uguale a un’altra surfata. Ogni onda è unica e irripetibile come lo siamo noi. In uno spot, specie se su roccia, probabilmente avrà sempre le stesse caratteristiche, ma difficilmente l’onda successiva sarà identica nella forma, nella velocità e nell’evoluzione a quella precedente. Questo comporta che il surfista deve continuamente avere il polso della situazione e deve elaborare molto velocemente ciò che i suoi occhi vedono e il suo corpo sente e percepisce. Il tutto arriva al cervello e quasi in modo inconscio dall’analisi di questi messaggi il cervello decide il da farsi e i movimenti da eseguire.
La mente è fondamentale per il lavoro di analisi e risposta: fotografo la situazione, faccio l’analisi di ciò che vedo e trasmetto un’indicazione al corpo. In pratica il nostro cervello fa una comparazione: prende la fotografia che ha scattato e la paragona alle migliaia di fotografie che gli sono rimaste impresse. A questo punto, se tutto funziona normalmente, non gli resta che scegliere l’azione che in ato era stata la più proficua in quella situazione. Il problema nasce quando il cervello sceglie l’azione che gli viene più naturale e quest’ultima non coincide con quella che dovrebbe essere l’azione più corretta. In uno sport normale non resterebbe che replicare le condizioni di quel momento e ripetere all’infinito il movimento e l’azione corretta in modo che la mente si imposti su quel movimento. Questo nel surf non è possibile poiché le condizioni non sono ripetibili nel breve periodo, non posso rifare nell’onda successiva il movimento corretto che avevo sbagliato nell’onda precedente. Qui entra in gioco la mente e la sua capacità di simulazione. La mente umana è fornita della capacità di rivivere in slow motion ciò che abbiamo vissuto e visto su quell’onda e addirittura, arrivati al momento cruciale dell’azione, ci consente di resettare l’errore e di immaginare e vivere approssimativamente l’azione che avremmo dovuto compiere; il tutto a occhi chiusi o aperti, in maniera conscia o inconscia. Se vi è capitato di sognare di surfare e lo avete fatto, vi sarete accorti che come per qualsiasi altra cosa sognata le sensazioni rasentano la realtà e spesso anche il godimento dell’azione risulta grandioso. Quelle onde che voi avete surfato in sogno entreranno nel vostro cervello e si posizioneranno come nuovi file a disposizione nel vostro schedario. Questo comporta che più file abbiamo più l’analisi sarà adeguata. Ora entra in gioco un altro aspetto fondamentale: l’analisi di ciò che si fa e il tentativo di correzione delle proprie azioni. Come nella vita di tutti i giorni in una certa situazione noi ci comportiamo in un determinato modo nel tentativo di ottenere un certo risultato.
Supponiamo che nella vita lavorativa il mio intento sia quello di guadagnare tanti soldi ma che a fine anno io abbia guadagnato meno dell’anno precedente. Cosa fa una persona intelligente? Analizza la situazione e cerca di capire dove ha sbagliato; fa delle ipotesi e cerca di intervenire in modo da cambiare le condizioni sperimentate in precedenza. Così si deve procedere nel surf. Sono arrivato sulla cresta dell’onda e ho cercato di staccare l’aerial ma la tavola è rimasta attaccata all’onda. Dove ho sbagliato? Forse non ero posizionato correttamente, forse non ero nel punto giusto dell’onda o forse non ero abbastanza veloce o può essere che è stato un insieme delle cose precedenti. Si capisce che quello che noi chiamiamo talento si potrebbe benissimo chiamare genio. Il fuori classe dello sport è a mio avviso un intellettuale del movimento che è abituato a ragionare e valutare ad una velocità supersonica. Quello che viene sbrigativamente chiamato istinto o intuito è il risultato di milioni di movimenti analizzati e provati in precedenza. Kelly Slater e Messi hanno in comune la velocità e la capacità di analizzare ciò che l’onda e l’avversario stanno facendo e la capacità di scegliere cosa è più opportuno fare in quella precisa situazione. Il tutto non avviene in modo istintivo come molti sbrigativamente dicono. I loro movimenti sono il risultato di valutazioni fatte a freddo o semplicemente riguardandosi in filmati, o mentalmente o guardando altri e valutandone i comportamenti. Essi fanno quello che pensano e agiscono in modo che al pensiero segua l’azione compiuta; non smettono di provare le azioni necessarie all’ottenimento di un risultato. Ho studiato attentamente i filmati di Kelly Slater (cosa che può far ridere) e da ciò salta all’occhio innanzitutto che ha una capacità di lettura dell’onda impressionante, al punto che sembra avere il potere di far fare all’onda ciò che vuole lui. Sfrutta al massimo il potenziale propulsivo dell’onda rimanendo più tempo possibile nella zona ripida al punto di trovarsi spesso nel bel mezzo della schiuma, dalla quale esce alla massima velocità per esplodere successivamente manovre potenti sulla parete pulita. Su alcune onde, subito dopo il take off, se si rende conto che l’onda non rompe veloce, esegue una curva verso il lato in cui
frange l’onda, a differenza della quasi totalità dei surfisti che già in fase di partenza tende a scappare verso la spalla dell’onda pulita. Kelly effettua una curva anomala che gli consente di scendere l’onda nella parte più ripida e soprattutto di rincontrarla nuovamente in una zona altrettanto ripida. Questo non è semplice istinto, qui si tratta di analisi; significa affrontare gli elementi nella maniera più vantaggiosa, trovare soluzioni e usare la mente a bocce ferme ed in movimento. Dubito che Kelly sia arrivato a questo per caso ma penso che sia frutto di esperienze, analisi e ragionamenti. A proposito di capacità straordinarie, avete notato con quale velocità riesce a recuperare la parete pulita dell’onda dopo che una lunga sezione gli ha chiuso davanti? Riesce a pompare su quello che rimane di pendenza alla base dell’onda. Roba che noi ignoriamo esistere o non siamo in grado di sfruttare. Infatti al minimo frangere dinanzi ai nostri piedi di una sezione, per noi comuni mortali, salvo rari casi, la cavalcata è finita. Un’altra cosa che deve fare un buon surfista è non cercare inutilmente di produrre velocità sulla parete quando la parete non è abbastanza ripida. In attesa che l’onda diventi più ripida Kelly di solito effettua una serie di curve che oltre a tenere più alta la velocità della tavola, gli consente di avere sott’occhio ambo i lati dell’onda. Al momento giusto scatta dalla parte migliore ed effettua le manovre. Risultato dell’operazione: sulla stessa onda noi avremmo percorso cento metri mentre lui ne ha percorsi centocinquanta con le sue continue curve e manovre. E visto che la fisica dice che la velocità è uguale a spazio fratto tempo (V=S/T), la sua velocità sarà stata il cinquanta percento superiore alla nostra con quello che ne deriva.
Surf ed esibizionismo
Diciamocelo una volta per tutte: il surf è uno sport da esibizionisti, come molti altri, ma si parla di uno sport che sta nella serie A degli sport da esibizionista e si gioca il campionato con pochi altri. Lo so che molti scatteranno toccati nell’intimo da questa affermazione ma è proprio così e ve lo dimostro. Pensate a una di quelle mareggiate che non vedevate da anni nel vostro spot preferito. Onde di due metri e mezzo, lisce come poche volte, leggero vento da terra e acqua calda (una volta ogni due, tre anni). Ora mettetevi soli sul picco nella condizione di forma fisica e condizione surfistica migliore mai raggiunta. Inizierete a prendere tutte le onde che vorrete e farete, onda dopo onda, tutto quello che sognavate di fare da molto tempo. Tutto, e per questo proverete vera goduria. Ma senza qualcuno che divida con voi in acqua o assista da fuori alle vostre performance, la goduria e la soddisfazione non saranno la stessa cosa. Oltre ad essere uno sport, il surf è una forma estetica e il surfare diventa una forma di espressione e come tale necessita di un pubblico. È come dipingere per il gusto personale di dipingere e non far vedere a nessuno le proprie opere. Voi mi direte che un surfista alle prime armi risulta inguardabile e non ha nessun interesse a farsi guardare; ma se ci pensate bene il principiante gode come il professionista e forse più di lui al minimo cenno di miglioramento in quanto anela a diventare bravo e ammirato da tutti. Vuole arrivare a emulare le gesta e vivere le sensazioni dei suoi idoli surfistici. Surfare in solitaria è come ballare da soli nella propria camera. Magari ti diverti, ma la realizzazione nasce dal pensiero di proporsi in pubblico.
Una cosa è certa: a me è sempre dispiaciuto molto surfare belle onde senza avere la possibilità di condividerle con almeno un amico. Magari costava dover lasciare qualche onda agli altri, ma la soddisfazione di essere osservati mentre surfi e risalire sulla line up dopo una bella corsa e chiedere a un amico se ti ha visto risulta essere molto ridicolo ma molto gratificante. Poi se a riva o sul molo c’è il pubblico la goduria arriva a livelli massimi. Il surfista medio dopo una session fenomenale esce dall’acqua con la tavola sotto il braccio con la fierezza di un cavaliere medioevale. Molti diranno che sto dicendo cazzate e che non valgono per tutti, ma nel loro intimo sanno che sto dicendo una verità fastidiosa da accettare.
Surf e odori
Dopo il profumo delle donne e quello per me afrodisiaco delle creme solari, il profumo che scatena in me emozioni forti è l’odore della paraffina, qualunque essa sia (cocco, fragola ecc.). L’odore della paraffina[7] è l’apertura emozionale di una giornata di surf. Mi sono ritrovato spesso ad annusare in trance la paraffina, soprattutto dopo lunghe astinenze e l’effetto è sempre lo stesso: ricordarmi che pratico il surf troppo poco in questa vita. L’odore della paraffina ti mette in diretto contatto con ricordi positivi e spensierati; mi ricorda giornate, situazioni, amici, avventure e disavventure. Dovrei portarmene una al collo come cura in quei momenti di depressione totale che ogni anno si ripetono a dicembre e gennaio. Un altro odore importante e soprattutto più naturale è quello del mare in tutte le sue sottili varianti. Mare incazzato con aerosol finissimo, odore di mare scogli e alghe che soprattutto in estate diventa il massimo dell’essenza marina, odore salmastro delle foci, che se condito con scarichi fognari è quanto di peggio possa capitare. Ma tutti, attirati da onde perfette e astinenze prolungate, si sono cacciati in queste acque putride a rischio di prendere malattie. Faccio due esempi solo perché sento ancora oggi in bocca lo schifo che ho provato. Zarautz (costa basca), parte destra della baia in prossimità del campeggio, un angolo meraviglioso se non fosse per il ruscello che è una fogna a cielo aperto che scarica in mare. Ricordo che mentre uscivo sulla line up, a un certo punto attraverso la cresta di un’onda di un colore che andava tra il verde, il grigio e il color diarrea intravidi tre o quattro ombre scure. Subito pensai a un branco di cefali, mi era già capitato di vedere dei pesci nelle onde. Nell’onda successiva essendo più vicino iniziai perplesso a domandarmi che razza di pesci fossero visto la strana siluette che avevano e vista la mia buona conoscenza dei pesci. A
un certo punto mi venne un’idea che era nata più dall’odore che sentivo che da ciò che avevo visto; il solo pensiero mi provocò un brivido. Ebbene sì, si trattava di un’allegra compagnia di topi di fogna della dimensione approssimativa di un pallone di football americano con tanto di coda pelata. Ma lo schifo non era completo. Mentre uscivo dall’acqua dopo pochi i vidi una di quelle pantegane morte mezza pelata e gonfia con quegli enormi dentoni che mi faceva un ghigno di scherno. Di me si può dire di tutto, ma non che io sia schizzinoso, anzi, e chi mi conosce lo sa e lo ha vissuto a sue spese. Ma dopo quella visione non ho resistito e ho cominciato a sputare come mai nella mia vita; ho iniziato alle quattro del pomeriggio e ho finito a tarda sera. Risultato: la mattina seguente smontaggio dell’accampamento e partenza per nuovi lidi. Un altro odore molto apprezzato da me e penso da molti altri surfisti è quello della muta, soprattutto al primo ingresso quando è lavata e asciutta. Diverso è il discorso della muta al secondo ingresso, il puzzo di sudore misto alla brodaglia marina inizia a farsi sentire. Se poi uno ci ha pure urinato dentro, il miscuglio inizia a farsi importante. Apice dell’escalation è la fermentazione notturna del tutto nel bagagliaio della macchina; la mattina dopo il puzzo inizia a farsi imperiale! Non resta che trattenere il fiato e ricoprirsi il più velocemente possibile con quel guscio maleodorante e freddo che vive di vita propria, con una carica batterica che qualche scienziato potrebbe utilizzare per sviluppare qualche energia alternativa.
Surf fatica e scelte
Ho già trattato in precedenza quel genere di giornate in cui per uscire sulla line up occorrono lunghe ed estenuanti maratone di nuoto. Ora voglio sottolineare un aspetto che per me è risultato un insegnamento di vita sul quale ho meditato più volte. In quelle giornate per entrare in acqua il surfista inesperto sceglie un punto della spiaggia che spesso coincide con il punto più vicino e comodo; scelto il punto di ingresso, punta perpendicolare alla linea della costa ed inizia a remare come un forsennato. Se la potenza del mare e la corrente saranno troppo forti per le sue capacità verrà immancabilmente risputato fuori sulla battigia. Il surfista esperto arriva in spiaggia e si sofferma il tempo di un paio di serie a osservare il mare ed il posizionamento di eventuali surfisti già in acqua. Da questa osservazione scaturisce la decisione di dove e quando entrare in acqua, e spesso il punto scelto dista anche qualche centinaio di metri dal punto di osservazione. Fidatevi, quei cento metri a piedi sulla spiaggia corrispondono a un risparmio di energie ignoranti sprecate in acqua a remare inutilmente. Questo insegnamento nella vita quotidiana e soprattutto nel lavoro mi è tornato più volte in mente. In quei giorni in cui tutto ti rema contro, i tuoi sforzi risultano insufficienti a contrastare gli eventi e non riesci ad avanzare di un solo centimetro e anzi regredisci, il paragone con quelle condizioni trovate più volte in mare nasce spontaneo. Forse è il caso quindi di fermarsi, uscire dall’acqua, respirare un attimo ed
osservare attentamente quello che succede davanti a te, e se sei furbo puoi osservare il comportamento di chi è più esperto di te. In alcuni casi basta individuare il punto esatto in cui la corrente porta fuori e valutare attentamente un momento di calma tra una serie e l’altra per uscire sulla line up con uno sforzo ed uno spreco di energie minimo. Questo riportato nella vita di tutti i giorni mi fa sorgere un dubbio al quale non ho dato ancora risposta. Quando trovo molta difficoltà e fatica nel fare una cosa significa che sto sbagliando qualcosa e quindi devo fare qualcosa di diverso o è semplicemente necessario aumentare gli sforzi per vincere la resistenza degli eventi? Forse come sempre la verità sta nel mezzo. È necessario scegliere bene il da farsi e concentrare gli sforzi per realizzare quanto si desidera. Bisogna come sempre aumentare il tempo dedicato all’osservazione prima dell’azione, e una volta valutata attentamente l’azione procedere con decisione. Questa di solito è una cosa che nasce dall’esperienza e quindi fa difetto ai giovani.
Surf e amici
Sarà banale ma inizio con il dire che se nella vita hai trovato anche un solo vero amico puoi reputarti fortunato. Ma se hai un carattere accettabile e allegro in compagnia, un’onestà di fondo e un’imparzialità intellettuale nei confronti delle cose, delle persone e delle situazioni, hai ottime possibilità di trovarne anche più di uno. Logicamente dovranno essere delle persone che possiederanno anch’esse buona parte di queste caratteristiche. Attenzione, non sto disegnando un soggetto superficiale, che si fa andare bene tutto ed è simpatico a tutti; conosco bene questo genere di persone che hanno contatti in mezzo mondo, ma un vero amico non sanno cosa sia. Un vero amico lo riconoscete innanzi tutto in un momento di difficoltà e in una situazione fastidiosa: quelle situazioni in cui tutti iniziano ad allontanarsi da te per la paura di essere insozzati dagli avvenimenti o infastiditi dalla puzza dell’atmosfera negativa. Solo durante le mareggiate di merda puoi capire chi sono i tuoi amici. Quel giorno sarà tuo amico chi sarà lì a fare duke dive a ripetizione in quello schifo senza fartelo pesare troppo. Ora io posso dire che, per fortuna, nella mia vita vere mareggiate del genere non le ho vissute direttamente, ma ho remato nella merda più volte per stare vicino ai miei cari. Questa premessa era fatta per sottolineare la differenza degli amici dagli Amici. Se nella vostra vita avete avuto uno o più Amici siete già fortunati. Se poi avete avuto la fortuna di dividere con loro viaggi, avventure, donne e onde, potete mettere in cassaforte questi regali di Dio; sì, perché sono questi i
beni che vi terranno compagnia e vi solleveranno quando guarderete indietro la strada percorsa. Certo i soldi e la fama sono importanti, ma se per queste cose hai compromesso l’amicizia hai fatto un grosso errore; sarà dura condividere dei ricordi con un conto in banca o con qualche foto su una rivista o un’apparizione televisiva. Fare surf con gli amici è una delle cose più belle del mondo, soprattutto quando si è giovani e spensierati; più in là con l’età sarà divertente, ma tutto sarà velato da una patina di malinconia per i tempi ati. Quando si è giovani tutto ha una luce diversa ed è eccitante all’ennesima potenza. Cosa c’è di meglio che essere giovani e fare i preparativi per un viaggio, caricare la macchina, furgone o prendere l’aereo per un surf trip in estate con gli amici? L’eccitazione dell’avventura della scoperta è, come dice Tonino Guerra, il profumo dell’ottimismo. Partire con il solo intento di fare le cose che più ti piacciono nella vita e farle in compagnia dei tuoi amici. Ma volete mettere le risate per le cazzate raccontate durante il viaggio o le disavventure negli autogrill o le fantasticherie, i commenti e gli abbordaggi con o senza stile a ragazze incrociate per qualche istante; le prese per il culo e i modi di dire inventati che iniziavano alla partenza e morivano alla fine del viaggio. Sembrava che sarebbero rimasti nel nostro modo di parlare per sempre e invece sono stati spazzati via in un amen da parole come esame, contributi, iva, ballottaggio, corso prematrimoniale, mutuo e nido. Poi le due cose che non smetteranno mai di emozionarmi: le donne e le onde. Ho messo prima le donne perché a parità di livello sono sempre state in pole position. Ma la differenza sta nel fatto che, salvo qualche raro caso, le donne si vivono individualmente, mentre le onde sono più facilmente condivisibili e diventano il cacio sui maccheroni dell’amicizia. Le partenze sulle onde di fronte ai tuoi amici che gridano questa è tua!; le onde contese, i litigi per le precedenze, gli scherzi; le corse in due o tre sulla stessa onda, i wipe out ridicoli per il quale vieni sfottuto per un paio di giorni, le manovre esagerate, le schermaglie con i local arroganti e in qualche raro caso le risse; le feste, la sfacciataggine e la sensazione di poter fare qualsiasi cosa e la
consapevolezza di essere in grado di farlo. E poi la magia della ricerca. La ricerca di cosa? La ricerca del meteo che ti dica quello che vuoi sentire, la ricerca di qualche amico che venga con te, la ricerca dei soldi, la ricerca della strada giusta, la ricerca del sentiero sterrato che porta allo spot tanto agognato, la ricerca di un posto al riparo dove indossare la muta, e ancora prima la ricerca di un posto dove fare la cacca, la ricerca di un posto dove nascondere le chiavi della macchina, la ricerca di quel bastardo che ti ha spiato e ti ha fregato il portafoglio, la ricerca del picco giusto, la ricerca della manovra giusta tanto immaginata e sognata, la ricerca di emozioni e immagini da conservare, la ricerca di quel senso di scontro e unione con il mare, la ricerca della stanchezza rilassata che ti fa sentire in pace con il mondo, la ricerca di quel senso di abbandono che ti fa sentire vicino ai barboni con quella istintiva voglia di buttarsi in un angolo della spiaggia e sonnecchiare, la ricerca del vuoto pneumatico nel cervello per smettere di pensare e cercare soluzioni per un po’ di tempo, la ricerca di un pezzo di pane e di un sorso d’acqua, la ricerca di quel senso di intimità e fiducia che c’è quando dormi nel viaggio di ritorno mentre un tuo amico guida. Ho messo abbastanza la ricerca.
Surf e albori
La prima tavola non si scorda mai! La cosa anomala è stata iniziare con un wind surf. A me è successo così. Finito militare, comprato windsurf, usato tre volte, alla quarta niente vento e grandi onde di scaduta.[8] Il gioco è fatto, senza pensarci un momento stacco albero e vela e via a remare verso i frangenti. Arrivo fuori abbastanza agevolmente e all’avvicinarsi della prima onda remo a doppia bracciata verso riva; grazie al suo volume da super sup la tavola parte come niente e via, si scivola sull’onda fino a riva. Risultato: muore un windsurfista e nasce un piccolo surfista in erba che grazie al volume della tavola prende senza interruzione onde per circa due ore con il risultato di essersi procurato gravi escoriazioni a ginocchia, braccia e mani dovute al deck[9] della tavola tipo cartavetro. Qualche ingavonata e wipe out ma tutto sommato sembravo nato per fare quello nella vita. Il giorno seguente all’alba due ragazzi con mute estive da sub giravano per il budello di Alassio con una tavola da windsurf, uno a poppa e uno a prua del tavolone lungo trecentoventisei centimetri che sarà pesato trenta chili. Stavamo cercando il nostro secondo spot come dei pionieri del surf non sapendo che erano già quindici anni che qualche pazzo cavalcava le onde nel mediterraneo. Era il 10 di giugno e surfammo tutto il giorno dandoci il turno fino al tramonto un’onda di scaduta di un metro. Non dimenticherò mai quella sensazione incredibile, quella gioia portata da un azione fisica ed estetica. Ero entrato a piè pari nel tunnel di questa droga. Ricordo di aver sognato per tre notti di seguito le onde.
Il o successivo fu informarsi su come e dove procurarsi una vera tavola da surf. Trovammo un tizio di nome Anemone che ne vendeva una se (Stark 6.4) a Pietra Ligure; comprata cara in giornata e caricata in macchina. Entrammo in acqua come due bambini ansiosi di provare il bolide ma la sorpresa fu amara. Con più o meno le stesse condizioni del giorno prima questa volta non riuscivamo a prendere nemmeno un’onda; facevamo fatica a partire e la tavola affondava miseramente sotto di noi. Riuscimmo a prendere qualche onda solo con la spinta sovrumana data da quello dei due che a turno non surfava e la cavalcata successiva più che una cavalcata sembrava la pigiatura dell’uva o il ritorno a casa di un ubriaco di grappa. Eravamo convinti di progredire con quella nuova tavola, d’altronde era un mezzo studiato e costruito proprio per fare quel mestiere. Giuro che in quelle ore di frustrazione sono stato tentato di andare a riprendere a casa il tavolone da windsurf che era stato sbrigativamente abbandonato e non sarebbe più entrato in acqua per i successivi vent’anni (è ancora lì in garage con due dita di polvere a chiedersi cosa aveva fatto di male il giorno prima). Mi ricordo che ammo giornate intere a teorizzare su cosa non andava e ammo in rassegna un’infinità di argomenti. Partimmo con il mettere in dubbio la tavola acquistata (che di certo era un po’ piccina per imparare). In effetti eravamo ati dalla mannaia al fioretto, dal trattore alla formula uno. ammo ad analizzare la remata che da doppia diventò alternata, al posizionamento sulla tavola sia in fase di remata che in piedi. Finimmo con il dare la colpa alla stanchezza smodata dovuta alla giornata precedente e alla serata alcolica. I dubbi sparirono al materializzarsi di tre o quattro surfisti evoluti liguri che con delle tavolette simili a quella nostra riuscivano a prendere le onde e a surfarle. E come di incanto i dubbi svanirono e la convinzione di poterci riuscire diede i suoi frutti. Uscii sulla line up e aspettai l’onda giusta. Arrivò un’onda di un metro e mezzo che mi prese, mi portò su e io a quel punto scattai in piedi con una velocità che
non ho più ed una concentrazione da lanciatore di coltelli. L’onda sotto i miei piedi non era più molle e tumultuosa, ma rigida e veloce. Planai giù a una velocità tale che non feci in tempo a capire nulla, ero arrivato sull’acqua piatta e istintivamente avevo girato a destra come è normale che sia per un regular,[10] ma la velocità era finita e l’onda che avevo disceso mi stava salutando. Una barra d’acqua mi chiuse addosso senza possibilità di fuga. Era fatta, si era aperta una nuova porta e la malattia si stava aggravando. La sensazione di planata veloce che dava la nuova tavola era stata breve ma di un’intensità da urlo. La fase successiva fu quella dell’informazione e della ricerca.
Surf e informazione
[12]L’informazione sul surf fu una necessità: dovevo sapere cosa fare e dove farlo. A seguito di una non facile ricerca avevo finalmente trovato anche in una città come Torino una copia di Surf Magazine, rivista nata e curata da Alessandro Dini, un personaggio che non ho mai conosciuto ma che innegabilmente è stato colui che ha informato, organizzato e creato con l’aiuto di altri buona parte del mondo surf in Italia. Come mi era già successo da bambino con le riviste di pesca, Surf Magazine diventò una droga; attendevo l’uscita del nuovo numero davanti all’edicola come un tossico in attesa del pusher (scherzo ma non troppo). L’edicolante oramai mi conosceva molto bene e bastava che io mi materializzassi davanti alla sua vetrina per vederlo partire con la sua manina e fare segno che non era ancora arrivata; poi per incanto, proprio quando stavi perdendo le speranze e non ci pensavi più, vedevi al tuo aggio l’edicolante sgranare gli occhi e annuire felice come un bambino nel darti la buona novella. Quindi nell’ordine: lettura della copertina con grandi titoli che facevano pregustare il contenuto, sfogliata veloce in piedi sul marciapiede, ritorno a casa e come in un rito pagano ingresso nel bagno con rivista al seguito, chiusura a chiave per evitare scocciatori (all’epoca vivevo con i miei) e maratona di lettura di almeno tre o quattro articoli. Erano momenti di puro relax ed evasione: volare per il mondo e surfare con l’immaginazione immedesimandosi in ogni fotogramma pur stando seduti sulla tazza di casa tua rimangono momenti impagabili e, ahimè, sempre più rari. Ricordo che a volte ero rimasto talmente a lungo sulla tazza che mi venivano le formiche alle gambe e al momento di alzarmi quasi cadevo. Non parliamo poi dei sospetti che generavano le mie lunghissime sedute al cesso blindato con tanto di rivista.
Ora però a rigor di cronaca devo anche ricordare che venivano pubblicate foto al limite del ridicolo. Surfista su trenta centimetri di onda color marmellata di castagne e vento trenta nodi, con commento a fianco che diceva: Davide Piadina (nome di fantasia) in un iper off the lip[11] alza una sventagliata d’acqua. A parte che la manovra si poteva benissimo chiamare elicopter per come sventolava in alto le braccia quasi da voler sfogliare le pagine della rivista. Gli spruzzi poi erano dovuti al vento. Non voglio infierire sugli amici surfisti dell’Adriatico che sono, non per capacità e ione, ma per le condizioni del mare, gli sfigati degli sfigati; dopo di loro rimangono solo i surfisti senza mare come me, i montanari e una rara forma di surfista del quale avevo preso atto in un articolo stile National Geographic: il surfista del lago di Garda!!! Attenzione, ho detto surfista e non windsurfista. Ebbene sì, su una sponda del lago di Garda esiste la possibilità che in giornate di vento strappa mutande proveniente da nord, si formino conformazioni ondose che possono raggiungere i novanta centimetri di onda; occasione che qualche surfista locale giustamente non si lascia scappare. Questa cosa mi ricorda il pollo del cartone animato Surf up che surfava su una tavola a forma di pannocchia e aveva imparato sulle onde di un lago del Kansas o giù di lì. Si ironizza sulla nostra condizione sfigata per ridere; e pensare che c’è qualcuno in Italia che pensa anche seriamente di fare il local. Ma bisogna anche guardare alle cose belle. Ricordo infatti come se le avessi davanti agli occhi adesso foto bellissime di onde italiane e surfisti che non si arrabbieranno se li avrò o non li avrò citati (insomma scusate). Ricordo un Paolo Bulgarelli (noto surfista ligure), con tanto di ginocchiera di ordinanza, surfare delle pareti smeraldo a Varazze, foto che se non sbaglio vennero pubblicate anche su Surfer o Surfing americano. Tubo impressionante con longboard di Marco Fracas a Back Door Varazze. Il big wave rider Guglielmino su una barra grigia considerevole ad Arenzano. Zed Cordoni a Levanto su una sinistra doble over head.
Ricordo i servizi sulle onde della Versilia con Alessanrdo Dini, Michele Dini, Farina. Giorgio Pietrangeli su onde di un paio di metri a Varazze e al Sale con una 6.1 tiratissima dell’epoca. Matteo Ferrari in partenza su una bomba sempre a Levanto. Stefano Giuliani nei primi surf trip a Latte (Ventimiglia). Leo Ranzoni con il longboard su onde enormi a Capo Mannu e Santa Marinella. Sole Rosi e Valerio Mastracci sull’onda ghigliottina del Sale a Livorno. Spinas, Lodi, Stagno e il più giovane Vallifuoco in giro per gli spot sardi. Marco Romano, Alessandro Maddaleni e Lorenzo Pellegrini nelle prime vere manovre radicali a Banzai durante i contest. La seconda generazione di Varazze con Ettore Burdese, Filippo Piacentini, Leoncini, Colaneri, Gino Ravizza, Perata, Fabio Giusto (che ricordo bambino) a Varazze. Fino ad arrivare ai primi veri aerial chiusi con sicurezza dai toscani Ronny Baldini,Nicola Bresciani, Alessio Poli, Jacopo Conti and company. Ricordo anche con molto piacere a differenza dei local, i servizi in cui venivano spiegati e illustrati gli spot più importanti e più belli d’Italia.
Surf e novizi
Ho già trattato nei capitoli precedenti alcune massime filosofiche nate dal surf pensiero, che farebbero rabbrividire qualche mio amico intellettuale. Ma anche loro dopo un breve tremore non potrebbero far altro che constatare la verità celata al loro interno. Una di queste massime mi è scaturita in una di quelle giornate di scaduta con un metrino d’onda ad Andora, con venti persone in acqua, quattro o cinque novizi del surf. Premetto che lo spot di Andora è un beach break su sabbia che produce onde destre e sinistre nella baia che fiancheggia il molo del porto dove il dolce degradare del suo fondale produce normalmente onde lunghe, lisce, raramente potenti. In quell’occasione, tra una serie e l’altra, mi soffermavo a guardare i novizi che come tutti quelli che iniziano e sono bramosi di prendere un’onda continuavano a remare da destra a sinistra ,da riva al largo con il risultato di stremarsi per raggiungere un’onda che romperà fuori o più a riva. Li vedevo remare come pazzi su onde inesistenti o non remare su onde che sarebbe bastato battere un alluce per partire. Risultato della fatica: cavalcare qualche spumone a riva. I poveri novizi non sapevano che per prendere quelle onde non serviva inseguire ciò che si materializzava, ma era necessario prevedere ciò che si sarebbe materializzato. Guardando l’orizzonte, era necessario capire in anticipo da quale parte della baia si sarebbe creata la parete dell’onda migliore e, stimata la grandezza dell’onda, remare verso fuori, verso riva o stare fermi.
Si trattava in pratica di una battaglia navale (A3, B8, C2). Il vecchio si spostava in anticipo con il minimo dello sforzo necessario e si trovava sempre nel punto giusto al momento giusto, come Paolo Rossi nel mondiale dell’82, con le braccia belle fresche pronte a dare la remata decisiva per la partenza su un’ennesima autostrada liquida. Esperienza che si sviluppa nel tempo; ma necessità di osservazione, curiosità e informazione. In uno spot del genere con un fondale che degrada dolcemente, l’onda rompe in punti che distano notevolmente a seconda dell’altezza della cresta. Diversamente in uno spot in cui il fondale forma un gradino o in cui vi sono rocce, il punto di rottura risulterà, nonostante la differenza di altezza dei frangenti, non variare molto. L’esperienza è sopravvivenza ma l’energia è il super potere. Pensate a un surfista che ha iniziato a surfare a sette anni; a diciotto sarà esperto e potente e al vecchietto esperto di prima con il longboard non resterà che prendere ciò che rimane.
Surf e tavole
Ho già detto in precedenza del mio inizio surfistico con una tavola da windsurf che è ancora sul soppalco del box a chiedersi perché gli è toccato un destino così anomalo e avaro di soddisfazioni. Ora dovrò fare una breve storia della mia prima vera tavola da surf in quanto meritevole di questo tributo alla memoria. Surf Patrol 6.6 gialla con un volume che oggi mi avrebbe consentito di usarla come sup, noleggiata a Tenerife da un negozio toscano che aveva organizzato la vacanza in collaborazione con l’agenzia di viaggi . La tavola era stata noleggiata al costo di cinquantamila lire ma io, affezionato al mezzo dopo una settimana di avventure e disavventure, l’avevo portata a casa con me come se l’avessi comprata. Dopo due settimane arrivò la telefonata molto gentile del negozio che per ulteriori due centoni mi avrebbe lasciato la tavola cadavere da me sequestrata. Così fu. Ero il fiero proprietario di un tavolone voluminoso e giallo chiamato dai miei compagni di surf lo spugnone. Lo spugnone era un tavolone docile e tranquillo che raramente mi consentiva manovre radicali, la sua fama di tavola cattiva era dovuta ad un paio di cadaveri lasciati in acqua a Hossegor, rinomata località della costa basca conosciuta per la qualità e la misura delle onde. Era semplicemente successo che a Hossegor (non ricordo quale fosse lo spot) in due occasioni fortuite nel giro di una settimana io e lo spugnone eravamo partiti completamente fuori controllo giù da un’onda di due, due metri e mezzo e in entrambe le occasioni avevamo centrato la tavola del malcapitato di turno che annaspava nella schiuma. Risultato dell’operazione: una tavola tranciata di netto e una gravemente ferita, io illeso, lo spugnone solo qualche graffio. La domanda nasceva spontanea: in quale straordinario modo erano state fissate
le pinnette e di che materiale erano composte? In una sola settimana all’estero il mitico tavolone si era fatto una fama di tavola assassina al punto che nel viaggio di ritorno la tavola venne ribattezzata, con un rito pagano che non sto a descrivervi, e il suo nome ò da spugnone a barone giallo e segnammo due tacche sul fianco destro. Lo spugnone tornato dalle campagne di Francia come un reduce osannato e pluridecorato ebbe l’onore di varcare nuovamente i confini e solcare i mari di Grecia. Venne da me dato in consegna per un’estate al mio amico Ronny (Italo-greco di Patrasso) che venne informato della pericolosità del mezzo e istruito sul da farsi. Lo spugnone quell’estate fece il giro del Peloponneso e di qualche isola Greca, surfò in baie che avevano visto Ulisse ma non avevano mai visto un uomo cavalcare le onde. Si comportò bene e non creò problemi in acqua, anche perché unico della sua specie. Unico tentativo di aggressione, dettato dalla sua natura assassina, fu quello di attaccare il materassino fucsia di un bagnante tedesco. Tolto qualche pioniere, fece da nave scuola per la prima generazione di surfisti della Grecia. Sopravvisse ancora per un anno, dopo di che, forse offesa per la comparsa di un’altra tavola più performante, si lascio morire annegando. Sulla sua superficie si formarono in brevissimo tempo un infinità di screpolature che ad ogni ingresso in acqua bevevano l’impossibile, rendendo la tavola sempre più pesante. Visse per il mare, morì di mare. Costa ovest 6.6 da me modificata a 6.5. Tavola venduta di seconda mano da un mio amico, presentava le solite rotture e screpolature sul tail.[13] Io che all’epoca ero soprannominato Mc Gyver, per la mia grande capacità di modificare, taroccare ed inventare le cose, in un amen ho
tracciato un amputazione del tail ammalorato e ho risolto brutalmente il problema, in barba alle leggi di tutti gli shaper[14] del pianeta. La mia prima tavola italiana si è comportata egregiamente per un paio di anni ed ha subito qualche perdita di pinnetta ma tutto sommato nulla di grave. Ha finito la sua vita come tavola di scorta per un altro amico longboarder. Evito di continuare la carrellata perché potrei andare avanti per pagine e pagine e perché non ho più avuto il coinvolgimento che ho avuto con le prime. Ricordo una volta in cui mia madre inavvertitamente, mentre puliva, aveva urtato e fatto cadere lo spugnone che giaceva come una reliquia in piedi nell’angolo della stanza. Io avevo effettuato una rincorsa e un triplo carpiato scontrandomi con la quasi totalità dell’arredamento della stanza pur di evitare danni maggiori alla tavola. Subito dopo con gli occhi iniettati di sangue avevo aggredito a male parole la mamma che era rimasta ammutolita e sconvolta dalla mia reazione, a suo parere spropositata (oggi me ne vergogno profondamente). Successivamente mi ero accorto che nel raggio di un metro dalla tavola la polvere stanziava indisturbata. Trovare la tavola ideale è come trovare la donna ideale. Infatti non esiste; esiste il compromesso ideale che si avvicina il più possibile alla tavola ideale. A qualsiasi surfista piacerebbe avere una tavoletta che abbia il volume e la facilità di partenza di un longboard dieci piedi, la manovrabilità e la facilità di duke dive di una 5.8, i bordi affilati come rasoi e le linee che cambiano a seconda delle necessità. È come avere una donna con il fisico di Belen, l’intelligenza di Rita Levi Montalcini, la grazia di Grace Kelly, che al momento giusto diventi sensuale come Moana Pozzi (anche se Belen molto probabilmente poteva andare bene anche per questo esempio). Se poi hai un portafoglio e un bagagliaio capiente puoi portarti dietro un quiver da sogno che ti consentirà, come un giocatore di golf, di scegliere il ferro giusto al momento giusto.
Personalmente una delle cose che amo nel surf è la limitatezza dei mezzi necessari. Io, la tavola, un laccetto, eventualmente la muta; quindi muoversi con una marea di attrezzature va contro il mio surf pensiero. Normalmente ho con me un fishone 6.5 per le onde piccole e mosce e una tavola 6.6 che va benissimo dal metro ai tre metri; oltre non trovo mai le condizioni e, anche se ci fossero, non ho più il fisico quindi è inutile avere la tavola adatta. Trattiamo ora la figura del vero artista del surf: lo shaper. Lo shaper è un artista alchimista che quotidianamente mischia e assembla linee curve e forme per creare la tavola perfetta che consenta ai funamboli delle onde prestazioni sempre migliori. Se il surfista ha il senso dell’acqua, lo shaper ha il senso della forma nell’acqua. La loro mente è concentrata su come si comporta l’acqua attorno alle loro creature. Sanno esattamente cosa comporta un grado in più di inclinazione delle pinnette, un millimetro in più di curvatura o un centimetro in più di larghezza. La prima cosa che imparano è che se miglioro la performance di una caratteristica quasi sicuramente perdo da qualche altra parte. La legge della coperta troppo corta domina anche sulle surf board e sui loro costruttori. Una cosa è certa e provata, esistono professionisti delle tavole che hanno raggiunto l’eden degli shaper. Queste poche persone sono in grado di tirar fuori da un pezzo di Clarkfoam le formula uno del mare, oggetti che hanno al loro interno il sapere di generazioni di shaper e che riassumono le linee e le forme più congeniali. È come nell’arte: nulla di nuovo si crea, ma si reinterpreta, e si ricompone ciò che già esiste. La magia sta nell’equilibrio, nell’armonia e a volte nell’originalità della creazione. Personalmente sono rimasto sconvolto da cosa riuscivo a fare con una Rusty 6.3, misura troppo piccola per le mie dimensioni e il mio peso. Lasciando da parte la difficoltà nel partire, una volta con i piedi sulla tavola questa schizzava e consentiva manovre che non ero mai riuscito a fare o almeno mai con quella continuità e la tavola al minimo cenno di alleggerimento si staccava dall’onda
con una facilità incredibile. Attualmente, sopra tutti, a detta di molti nel mondo delle short board, All Merrick seguito da Rusty Preisendorfer e forse negli ultimi anni Matt Biols di Lost Surfboards. Per i longboard lascio il parere a chi ha più esperienza di me in merito. A proposito di tavole ancora oggi spero di fare l’incontro della mia vita. Incontrare lei, la mia tavola, fatta per me, la tavola che possa sprigionare le qualità surfistiche che fino a oggi erano rimaste inesplorate ed inespresse dentro di me. La tavola che mi permetta con facilità di fare quello che il mio cervello vuole fare. Lo sapevo, era solo una questione di tavola sbagliata, era per questo che non riuscivo a surfare con scioltezza e velocità, non riuscivo a superare le sezioni, volare sui close out e staccarmi in aria con facilità. Posso finalmente togliermi il vestito da brutto anatroccolo e diventare uno splendido cigno bianco. Ora sì, posso finalmente confrontarmi con gente come Rob, Taylor, Dane e perché no anche con Kelly!!! Posso finalmente far valere la mia creatività sulle onde e dare qualche lezione a questi quattro bovari che ci hanno fratturato i maroni sui video e sulle riviste facendoci sentire costantemente minorati e limitati. Drin driin. Sveglia, ore 6:45. Cicciopio devi andare a lavorare. A cento anni voglio morire mentre faccio un sogno come questo e non al risveglio. Per un ennesimo risveglio così amaro potrei morire ugualmente ma sarebbe una fine molto più amara. Dopo una vita di bocconi amari un ultimo dolce boccone. Dimenticavo; se poi è possibile, dopo la session in cui umilio i migliori surfer del mondo vorrei incrociare sulla spiaggia quella ragazza che alloggia nel mio albergo. Come si chiama? Ah sì, Cameron Diaz, che ammaliata dalle mie acrobazie mi lascia un biglietto con scritto il numero della sua stanza e un gentile invito per la notte che accetterei molto volentieri. Grazie di cuore ora posso tirare l’ultimo respiro.
Surf e meteo
Bernacca era mancato già da qualche tempo, ma non troppo. Le mie previsioni del moto ondoso erano all’epoca il risultato di un incrocio di dati. Non avendo un’indicazione univoca attendibile, come mi insegnava la ricerca scientifica imparata alle superiori, l’unica alternativa era raccogliere più informazioni e calcolarne la media o tirare fuori una qualche conclusione. I mezzi a mia disposizione all’epoca erano in ordine di importanza: - previsioni meteo su televideo; - previsioni sulla stampa; - previsioni meteo televisive prima del telegiornale. Risultato: una volta su tre si andava incontro al pacco e alla piatta sconfortante. Ricordo che nel mio caso non bastava fare un salto sul lungo mare a guardare le condizioni. Si trattava di intraprendere un vero e proprio viaggio (Torino-Liguria) di un paio d’ore con costi e rottura di palle annesse. Ricordo l’emozione che dava il primo sguardo alle condizioni del mare. A seconda dello spot sapevo con esattezza quale era l’ultima curva, galleria o palazzo dopo il quale sarebbe apparso il mare. Emozioni da roulette russa. Alla vista delle condizioni del mare si apriva un ventaglio sconfinato di possibili reazioni che andavano dalla depressione totale all’euforia smodata. Primo caso: onde bellissime. Alla vista del mare e quindi delle onde urla disumane, pacche e pugni in qualsiasi parte della macchina e tra eggeri,
compreso l’autista (con il rischio più di una volta di finire fuori strada). I eggeri, a sfregio del conducente, iniziavano a spogliarsi e a mettersi la muta ancora in fase viaggio in modo da scendere dal mezzo già mutati e non perdere un solo secondo di surf. Follia pura. All’epoca le session potevano durare anche otto ore, dall’ora di arrivo all’ora di ripartenza. Ho visto gente uscire dall’acqua in condizioni da ricovero immediato. Sintomi: disidratazione, ipotermia, tremori , perdita di coscienza e difficoltà nell’uso della parola. Ho visto gente cercare la propria macchina nel parcheggio sbagliato o cercare di aprire macchine non proprie e badate bene, non si trattava né dello stesso modello e nemmeno dello stesso colore! Ho visto gente bere acque putride e calde per dissetarsi e mangiare qualsiasi cosa per sfamarsi, dalla simmenthal in un sol boccone alle scatolette di tonno con cucchiai rudimentali costruiti con il coperchio della scatoletta, pane secco, pane e banana, omogeneizzati per bambini. Ho visto gente seduta nel vano portabagagli che trangugiava spaghetti freddi al sugo di tonno da una bottiglia in vetro per conserva; ho visto con lo stesso metodo trangugiare minestroni freddi con conchiglioni. Ho visto un amico rappresentante farmaceutico surfista bombarsi con campioni gratuiti di integratori di qualsiasi foggia, natura o effetto e regalarli al compagno di turno con il rischio di portarlo nel tunnel dell’integratore. Vorrei precisare che una parte delle cose qui sopra le ho viste fare anche al mio corpo. Secondo caso: onde pessime o peggio inesistenti. Alla vista del mare silenzio di tomba in attesa che si materializzi un’onda, una schiuma o qualsiasi cosa che abbia un’attinenza con quella cosa. Il silenzio in questo caso può essere rotto da un Nooo!!! profondo e prolungato o da una sonora bestemmia del solito blasfemo di turno. Lo sconforto diventa depressione quando le condizioni scoraggiano o non consentono nemmeno l’ingresso in acqua.
Se invece le onde non sono all’altezza delle aspettative ma esiste una speranza di surfare ha inizio il rito della scelta dello spot più proficuo in quelle condizioni meteo marine. I più anziani iniziano a discutere e confabulare di condizioni marine, venti, direzioni, periodi, lunghezza d’onda, altezza d’onda, fach,[15] umidità, temperature, maree, lune, oroscopo del giorno e lettura dei fondi di caffè. Alcuni iniziano a raccontare di giornate ate in cui con mezzo metro ventoso a perdita d’occhio, in un tale spot dal nome improbabile tipo il Bistrot, il sale, Latte, Nautilus, la Ciaccia, Coccia di morto, la fogna, le troie, il balubino, bagno maria, le onde per una serie di motivazioni e fattori sconosciuti alla fisica e ad altre forme di scienza raggiungevano i due metri. Quindi i più temerari e i più ingenui (spesso le due figure coincidono) seguono il guru meteo di turno nella speranza che quanto auspicato diventi realtà. Tutti in macchina alla ricerca del fantomatico spot e via, dieci, trenta, cento, anche duecento chilometri, per raggiungere l’agognato spot salva giornata. Va da sé che più aumentano i chilometri percorsi più è facile che il desiderio diventi realtà. Un’altra cosa è sperare che nello spot del paese vicino la situazione migliori notevolmente. La ricerca dello spot magico è invece una necessità nel caso di giornate molto ventose o con mare molto attivo. In questo caso una baia riparata dai forti venti di giornata può effettivamente creare le condizioni per entrare in acqua e surfare belle onde . Ogni surfista esperto ha nella propria mente una cartina geografica delle zone che batte regolarmente punteggiata di questi spot salva giornate. Tornando al discorso delle giornate pacco, si può dire che l’uomo surfista ha tanti difetti ma se fa parte della specie Homo serfarium pacco sapiens possiede una grande qualità. È un animale che al terzo pacco si organizza e tenta di evitarne un quarto. Quindi nel nostro caso ci inventammo un’ulteriore forma di controllo anti piatta
prima della partenza. Non so chi e non so come, qualcuno aveva scovato una vecchietta settantacinquenne di Varazze che, gratuitamente e con una gentilezza dei tempi ati, rispondeva al telefono e dopo una rapida occhiata dal balcone di casa dava un ulteriore conferma sullo stato del mare in un italiano misto al dialetto ligure. Ero riuscito ad avere il numero magico e al momento propizio l’avevo usato. “Pronto chi è ?” “Sono un ragazzo di Torino che fa surf e volevo sapere se il mare è mosso.” “Aspetti un momento che vado a dare un’ occhiata.” Momento di suspense… “In acqua ci sono dei ragazzi e ci sono delle belle schiume.” “Grazie signora molto gentile.” Ulteriori domande cadevano nel vuoto a meno che non avessimo perso un week end e fare un corso video all’anziana signora sulle condizioni del mare. La signora era un servizio ventiquattr’ore, più volte ci disse di chiamare anche la mattina molto presto dalle 4:00 era sveglia e non c’erano problemi. Un bel giorno la signora non rispose più e noi elaborammo una serie di ipotesi che andavano dal ionale al lugubre. Facendo parte del ceppo più evoluto Homo Serfarium pacco sapiens, ci adeguammo e semplicemente cambiammo spacciatore di informazioni onde. Il successivo fu il bar Margherita di Varazze che in maniera molto meno gentile ma altrettanto efficace ci dava quel che ci serviva. Negli ultimi tempi all’ennesima telefonata ci informava che avevamo rotto i maroni e che era in funzione una webcam. Con internet era nata una nuova e incredibile epoca delle previsioni e delle
constatazioni delle condizioni. Inutile dire che ci era cambiata la vita e che i pacchi erano diventati scelte puramente personali. Ora però devo confidarvi una cosa. Oggi, dopo vent’anni di previsioni meteo, siti, webcam e constatazioni continue, in alcuni rari momenti, quando il mio cervello esce per un attimo dalla modalità Lavoro-Soldi-Devo portare a casa i soldi, mi basta guardare la forma e l’altezza delle nuvole, sentire il vento, guardare da che parte e con che intensità si piega il pioppo, captare la limpidezza e l’elettricità nell’aria per sapere con una certa precisione se e quanta onda c’è al mare a centocinquanta chilometri da casa mia. Ho perso elasticità, potenza e resistenza fisica, ma ho guadagnato come uno sciamano indiano quello che ho chiamato l’occhio meteo. Fottuta tecnologia posso fare anche a meno di te, ma in questo caso grazie di esistere.
Surf sbandamento e riconciliazione
Ci sono stati dei giorni e ne arriveranno altri in cui il mio amore e la mia ione per il surf hanno vacillato. In alcuni momenti per mia natura tutte le cose, le azioni, i concetti e i pensieri di questo mondo iniziano a cambiare forma e nella mia mente questa metamorfosi crea confusione e contraddizioni. Basta un evento scatenante, a volte anche apparentemente trascurabile, per creare nella mia mente un rimescolamento più o meno violento. Essendo un artista e quindi una spugna emozionale, è bastato in ato vedere la sera prima in TV un documentario sulle condizioni delle popolazioni africane o un servizio su qualche strana malattia che colpisce i bambini per trovarmi il giorno successivo di fronte al mare con una faccia da ebete e senza gioia negli occhi. La domanda che nasceva spontanea era: Cosa cazzo sto a fare qui il bambinone con la tavola sotto braccio quando nel mondo, in Africa, nel mio paese, dietro casa mia e se guardo bene anche nella mia famiglia c’è qualcuno che ha bisogno di me e del mio aiuto?. Se ora vi ho messo in crisi vuol dire che avete ancora un briciolo di altruismo nel vostro animo. Ma se questa considerazione non vi ha fatto nemmeno il solletico vuol dire che il vostro egocentrismo e individualismo nel tempo è ingrassato come una scrofa in un orto incustodito e quindi camperete in modo incantevole fino al giorno in cui i problemi li avrete voi e state pur certi che prima o poi l’inferno trova il vostro indirizzo e vi viene a bussare. Poi un bel giorno di primavera quando meno te lo aspetti, ti ritrovi a caricare la macchina e nel mio caso anche la famiglia e parti per il mare. L’inverno è stato duro è hai lottato con un infinità di problemi, hai avuto qualche malanno e hai aiutato ad uscire da qualche difficoltà un famigliare o un amico. Quella mattina quando entrerai in acqua la tua mente sarà pulita e scarica e ogni molecola del tuo corpo sarà esclusivamente concentrata a godere per le sensazioni regalate dal mare. Non ti sembrava più possibile sentirti così leggero e in armonia con l’universo. All’arrivo della prima onda il tuo corpo viene
portato su e in un momento di magia, mentre prima galleggiava pesante nell’acqua scura diventa leggero ed inconsistente, perde la gravità e inizia a volare sul pelo dell’acqua come il corpo di un Gesù Cristo moderno. In quella corsa le molecole del tuo corpo avranno vibrato all’unisono con quelle del mare e del cielo e si saranno caricate di energia pulita e in un istante avranno scaricato tutta la negatività residua. Questa energia personalmente mi rimane dentro per un paio di giorni e il benefico influsso può durarmi per una settimana. Mia moglie è ormai abituata a vedermi tremare a scatti durante la notte dopo quelle rare giornate di surf consistente. Non sono un medico e non so se questo fenomeno sia legato alla tensione muscolare, all’adrenalina accumulata o sia dovuto all’attività celebrale legata ai sogni. Mi piace pensare che sia l’energia accumulata in eccesso che lentamente mi abbandona per non farmi impazzire. Il surf inoltre rende belli, nei giorni successivi ad una bella surfata ho effettivamente gli occhi più verdi e sia il corpo che la faccia diventano più tonici. Le braccia e i pettorali sprizzano potenza e la pancia sembra ritirarsi, ma e solo una finta.
Surf e onde
Avevo sentito dire in qualche documentario che i polinesiani attribuiscono un nome al mare a seconda delle innumerevoli forme e condizioni che assume. La medesima cosa potrebbe essere fatta per le onde all’italiana. E ora ci proviamo. Filomena: un’onda lunga e tranquilla, raramente sopra il metro, con una pendenza che arriva al minimo sindacale e riesce in qualche modo a formare uno scivolamento della schiuma sulla parete. Non riuscirete mai a scorgere una cavità vuota nel suo ventre. Per partire su queste onde anche con longboard dovete produrre una remata alla Phelps o avere un quindici cavalli a poppa. Si consiglia ai credenti di non entrare in acqua in spot con queste condizioni. Ogni set porta con sé le bestemmie dei surfisti che nonostante gli sforzi disumani non riescono a partire su queste scoregge liquide. Quest’onda sarà destinata a diventare terreno di scorribanda per i cultori del sup.[16] Robertina: un’onda da vento, che può raggiungere anche il metro. È l’onda figlia di quello che in Liguria chiamano bulesume. Si ha l’impressione che le onde vadano in tutte le direzioni e il loro incrociarsi genera un ribollire e sbattere delle creste. Spesso è dovuto ad un vento intenso e rafficato sottocosta. Surfare in queste condizioni è sconsigliato a chi è postumo di una sbronza o ha mangiato come un vitello il pranzo domenicale dalla mamma. Il continuo incessante sballottolamento in tutte le direzioni porta facilmente alla nausea e al vomito. Il periodo e quindi la distanza tra le onde è brevissimo il che comporta un continuo susseguirsi di micro duke dive o in alternativa il fastidioso ripetersi di schiaffi in faccia da parte delle creste. Non bastasse, arrivano in rinforzo gli spruzzi sollevati dalle raffiche di vento. Dritti sulle cornee si insinuano sotto le palpebre e sembra abbiano la capacità di raggiungere le terminazioni nervose addette all’avvertimento del dolore e del fastidio. Se il surfista vuole sperare di prendere qualche onda decente in queste
condizioni deve tirare fuori tutta la sua capacità di concentrazione e il suo potenziale da talent scout delle onde. Si deve infatti rimanere concentrati su cosa succede nei cinquanta metri innanzi a te; guardare oltre risulta uno spreco di energia. Quella che a cento metri sembrava una bella barra una volta arrivata a te può anche scomparire. Mentre a dieci metri da te uno scalino può sommarsi ad una cresta che andava di traverso per i fatti suoi e formare come per magia un piccone per un ottimo take off. Insomma si tratta di un mare per chi ha una grande esperienza o molta fantasia; inutile dire che surfare in queste condizioni non è proprio un momento di relax. Lato positivo della situazione è che con queste condizioni in acqua entra poca gente e soprattutto poca gente capace. È finalmente possibile surfare e prendere un sacco di onde in spot generalmente sovraffollati. Moana: un’onda seria e dura, soda con un corpo e delle forme da urlo, un’onda che ha covato la sua energia durante il suo lungo viaggio. Il suo ventre è largo e profondo e non fa altro che chiamarti. Al suo apparire confuso all’orizzonte ti viene una sorta di magone da innamorato e al suo materializzarsi dietro la prima onda del set corri il rischio di rimanere lì imbambolato, folgorato da tutta la sua bellezza… Sveglia! Devi girarti e posizionarti velocemente nel punto giusto del suo ventre. Anche se le volgi le spalle stai godendo al are inesorabile del tempo perché sei sicuro che lei ti sta correndo dietro con tutta la sua bellezza selvaggia e tra qualche istante ti butterà le braccia al collo. Anche se non sarebbe il momento opportuno stai pregustando l’idillio che questo incontro sta per scatenare. La senti arrivare da dietro e sollevarti dolce, poi sempre più veloce e decisa fino a farti entrare brutalmente nel punto G del suo ventre. A questo punto siete arrivati entrambi all’atto finale della vostra corsa, dovete solo fare quello che la vostra natura vi dice di fare e per il quale siete nati. Nikita: con questa non si scherza, e se sbagli sono tutti cazzi tuoi! Più che un’onda è una massa d’acqua, uno scalino liquido, un mini tsunami. Quello che contraddistingue Nikita sono le proporzioni. Il lip (labbro superiore dell’onda) che generalmente in un’onda normale misura come spessore un quarto dell’altezza dell’onda, in Nikita può arrivare e superare un mezzo. Ciò vuol dire che, a parità di altezza d’onda, una di queste può arrivare a scaricarti addosso una massa d’acqua che è più del doppio di una normale onda, con il conseguente aumento di forza. A ciò va sommata la velocità con la quale
quest’acqua ti piomba addosso. Di solito questo tipo di onda si forma quando una massa d’acqua in movimento incontra in modo repentino uno scalino, generalmente di roccia ma può essere anche di sabbia o ciotoli (Teahupoo o Garagolo per fare anche un esempio Italiano). Risultato dell’azione è che la parte superiore della circonferenza che disegna l’onda in movimento una volta urtato lo scalino si spezza e parte in avanti sospinta da tutta la massa d’acqua che segue. Una Nikita di un metro e mezzo può tranquillamente spezzarti la tavola a metà. Questo tipo di onda incute timore solo a guardarla; due metri di questo genere d’onda iniziano a essere una cosa seria. Se poi hai la sfortuna di prenderla sui reni mentre stai risalendo verso la line up puoi constatare a tue spese la sua consistenza e potenza. Si sconsiglia vivamente di tentare di arla in duke dive se sta rompendo o ha già rotto: l’acqua sotto di te generalmente è poca e sotto è duro e se ti rompe addosso oltre i reni e la tavola ti spacchi anche la faccia. Se poi ami il brivido e vuoi sfondarla in duke dive mentre sta rompendo sentirai un torrente in piena che ti scorre a fianco per qualche secondo e ti sibila nelle orecchie. Il percorso subacqueo per uscire dall’altra parte della sezione è più lungo del solito a causa della sua forma tozza. Per partire su una di queste quando supera i due metri e mezzo bisogna avere almeno uno di questi requisiti, più di uno o tutti: - grande esperienza; - abilità tecniche sopra la media; - il tempismo del funambolo che salta la Lamborghini in corsa; - il coraggio del domatore di leoni; - l’incoscienza del domatore di leoni già sopravvissuto a un precedente attacco; - la preparazione fisica di Laird Hamilton; - una tavola di scorta in macchina con rinforzi in carbonio; - un leash molto robusto; - una testa di cazzo; - una gran fortuna.
Massimo rispetto ai body boarder che cercano questo tipo di onda come le api cercano il miele. Si divertono un mondo a farsi scartabellare sul fondo e fanno delle evoluzioni impressionanti su queste onde adrenaliniche. Un’altra constatazione è che a loro questo gioco costa meno dal punto di vista tavole rotte.
Surf ed età
A cinque anni mi buttavo tra le onde e nuotavo nell’acqua alta per vedere l’orgoglio dipinto negli occhi di mio padre. A quindici anni facevo tuffi dalle scogliere per impressionare le ragazzine del campeggio. A vent’anni facevo il surf perché era il massimo per me e la diretta conseguenza di ciò che avevo fatto prima. Inoltre mi sembrava fe colpo sulle ragazze. Pura illusione. Negli scontri diretti ho preso mazzate colossali da giocatori di pallacanestro e calciatori. Non avevo tenuto conto che le ragazze a vent’anni iniziavano a buttare un occhio al tenore di vita prospettato. A venticinque, nel mio piccolo, facevo il migliore surf della mia vita e prendevo le onde più belle e consistenti, fottendomene di tutto il resto. A trent’anni ero fidanzato e il mio pubblico era ormai composto da una sola ragazza. A trentacinque ero sposato ed ero diventato padre. Onde vere, poche. Trovare il tempo per surfare diventa un sudoku. Inizia una dolce discesa nella parabola che sta a indicare la prestazione fisica del surfista. A quaranta sono impaziente di insegnare a mio figlio il surf prima che il mio fisico collassi definitivamente nonostante gli sforzi per tenermi in forma e allenato. Sempre che non preferisca fare una partita a racchettoni sulla spiaggia con la mamma o peggio fare shopping (destino infame del padre sportivo, da mettere in conto). A sessanta sarò costretto a are al longboard o in alternativa per rimanere radicale fino alla fine ò una 6.6 spessa una spanna che dovrò autocostruirmi.
Surferò e mi confronterò a colpi di onde con il Nelzi, Gragnolati , Luca Fioravanti, Don e tutta quella banda di ragazzi datati che saranno lì nonostante i reumatismi, i legamenti usurati, le panze, le braccia flaccide e le famiglie che li deridono. A ottanta, se ci arriverò, mi auto-costruirò un longboard a forma di cassa da morto giusto per ironizzare sulla preparazione fisica ed esorcizzare il vicino trao. A cento le mie ceneri verranno sparse in mare; viaggeranno spinte dalle correnti e arriveranno a vedere mari caldi turchesi e onde scure giganti. Vedranno animali marini di ogni forma e colore e alcune mangiate dai pesci viaggeranno in business class negli intestini per poi finire scagazzate su uno splendido reef tropicale. Ora sì che posso stare beatamente spalmato in mare e sul mare e godermi inerme, tranquillo e sereno lo spettacolo più bello del mondo come semplice spettatore.
Surf e strade
Non sono mai riuscito ad avere uno dei miei migliori amici come compagno di surf. Salvo qualche viaggio o week end in cui mi hanno seguito, ho dovuto fare viaggi e uscite in mare in solitaria o condividere questa ione con ragazzi surfisti che conoscevo ma che non erano e non sarebbero mai diventati Amici con la A maiuscola. Questa cosa da un lato mi è molto dispiaciuta ma dall’altro mi ha arricchito notevolmente e mi ha formato il carattere. Mi è servito coltivare in uno splendido campo di solitudine la mia malinconia. Grasso che cola per un artista. I miei bellissimi viaggi in solitaria con la Uno rossa alla velocità di crociera dei centodieci chilometri orari senza autoradio. A quella velocità tutt’oggi mi sembra di viaggiare con il pilota automatico. Le energie destinate alla guida sono ridotte ai minimi termini e il mio sguardo può concentrarsi sul paesaggio e la mia mente può vagare liberamente tra mille pensieri. Arrivavo al mare senza quasi rendermi conto della strada percorsa e del tempo trascorso. Ancora oggi quando o a queste velocità, gli autovelox mi sputano; i più recenti tutor mi farebbero la pipì sulla cappotta. Sono un soul man delle autostrade italiane. o sotto i cavalcavia con poesia, le balle di fieno e le cascine mi riconoscono dal lento e tranquillo incedere e mi salutano. Ai benzinai preferisco il self service. Non è per il risparmio di euro, quanto il risparmio di parole; non vorrei disturbare la meditazione. Do una sniffata alla
benzina e riparto nel trip. Sono il re della prima corsia e quando l’autostrada è vuota gioco a fare il re della seconda. Non oso mai invadere la terza. Quando mi capita per causa di forza maggiore (tipo per lavori in corso) provo un senso di inadeguatezza. Viaggio con il braccio destro che abbraccia il sedile a fianco come se stessi abbracciando un eggero immaginario (forse il fedele compagno di surf che non ho mai trovato e che mi auspico possa diventare mio figlio) . Il mio schienale è reclinato tipo poltroncina dello psicologo. Godo nel sentire il rumore dei pneumatici e il rumore sereno del motore ai bassi regimi. Soffro con il mio motore nelle salite, godiamo nelle discese. Ora che con il mio Cubo arancione vado a metano e sono pulito, quando scorro lentamente a fianco di un pascolo sembra che le mucche mi salutino con il movimento della coda. La poiana appollaiata sul traliccio mi strizza l’occhio. Il riccio ha tutto il tempo di vedermi arrivare e attraversa la strada in sicurezza. Mio figlio e mia moglie sul sedile posteriore dopo trenta chilometri si sono naturalmente arresi al dolce ronzio del viaggio e dormono. Le tavole sulla cappotta della macchina sibilano nell’aria nell’attesa di affrontare la più densa acqua del mare. Splendono come due piccoli specchi d’acqua in movimento nella sconfinata pianura. L’autogrill naturalmente diventa per me una botta di vita, Time Square a mezzanotte l’ultimo dell’anno. Salgo gli scalini è inizio a uscire dal trip, o il girello è mi sveglio a causa dello sforzo di coordinazione. L’odore del caffè mi da la botta finale. Vado diritto al bancone dei panini e la rustichella per l’ennesima volta mi parla e mi ricorda che devo fare prima lo scontrino.
Faccio lo scontrino e torno verso il bancone come un ebete, tenendolo ben in vista tra le dita. Cedo lo scontrino e aspetto. Prendo la rustichella e la birra (ultimamente la coca, pena ritiro patente). Posso finalmente uscire! Sono a metà del temibile percorso sulla via d’uscita, la rustichella è praticamente stata annientata in tre morsi. L’occhio immancabilmente, nella curva a gomito, mi cade sui prodotti tipici, alla ricerca inconscia della noce di prosciutto al pepe nero e la pasta verde, che faccio sempre più fatica a scorgere. Con la mano liberata dalla rustichella ata a miglior vita, inizio a coprire gli occhi a mio figlio mentre o la zona giochi e la zona dolciumi (fessi, dovevano metterli all’inizio del giro quando avevo ancora le mani impegnate) ma lui cerca di smarcarsi come un centravanti d’esperienza in area di rigore. Per la moglie non posso far nulla, posso solo sperare o tentare con una gamba di farla scorrere verso l’uscita. Uscito dal labirinto consumistico torno al veicolo, do un’occhiata alle macchine che sfrecciano, fletto dolcemente la carcassa in un tentativo abbozzato di stretching. Ruttino di ordinanza che per la truppa suona come una sirena di imbarco. Mia moglie Paci manca all’appello; è andata per la quarta volta nella giornata al bagno. Attesa. Arriva. Si riparte. Imbocco nuovamente l’autostrada. Seconda, terza, quarta, quinta. Okay, siamo nuovamente ai fatidici centodieci chilometri orari. Io inizio a meditare sul perché di tanti pit stop delle donne al bagno. Certo! Il creatore dovendo fare tutto quel popò di apparato riproduttivo e sessuale deve aver limitato lo spazio a disposizione della vescica. Senza accorgermene, meditando su un mare di cose, più o meno profonde, sono arrivato al casello! Pago e mi incazzo per l’ennesimo rincaro. Devo fare il tele! Così non vedo e non mi incazzo. Vedo invece già il mare e sto per dire qualcosa, ma mia moglie e ultimamente anche mio figlio mi anticipano.
“Oh, oh, oh c’è onda!!!” Tocca farmi prendere per il culo. Speriamo ne valga la pena.
Surf e affini
Estate, luglio 2011. Come da alcuni anni a questa parte ero a Isola Rossa sulla costa nord della Sardegna e me la savo nelle giornate di maestrale e libeccio nella baia di Marinedda. Una splendida mattina alle otto con un metro d’onda di scaduta in acqua c’eravamo io e un mio amico. Le famiglie erano ancora a casa e la vita scorreva dolcemente. Appare sulla battigia un tizio con pantaloncino mimetico e licra nera. L’abbigliamento avrebbe dovuto già metterci in allarme. Questo personaggio entra in acqua con un sup e il suo remo e si dirige verso il picco dove eravamo posizionati. Il sup non era per me una cosa nuova, ne avevo già visti altri in Liguria ma quasi sempre ad una certa distanza e qualche mese prima ne avevo provato uno durante una manifestazione al Lido di Camaiore in Toscana. Non so se per intelligenza o timore, ma li avevo sempre visti in zone dove non interferivano con i surfisti tradizionali. Avevano un po’ l’atteggiamento dei canoisti da onda che consci del peso e della misura dei loro mezzi stavano molto attenti a quello che facevano e spesso per evitare problemi si posizionavano ad una certa distanza. Questa nuova specie di suppista (quando scrivo suppista la correzione automatica mi da supposta, sarà anche questo un segno) invece ci puntava con determinazione e dopo una ventina di pagaiate ci a a un metro di distanza, senza salutare e si piazza esattamente davanti a noi. Io e il mio amico ci guardiamo con facce ebeti come Sponge Bob e Patrik, lui duro e incurante aspetta un’onda buona. Arriva l’onda, lui in largo anticipo gira il tavolone, noi dopo qualche secondo
iniziamo a remare. Io desisto e lascio partire il mio amico in precedenza che dopo venti metri si ritrova il suppista che viene giù dall’onda e si scontrano in modo violento. Io rimango perplesso e mi aspetto che questo quanto meno chieda immediatamente scusa. Il mio amico inizia a lamentarsi e questo inizia a sbraitare in un italiano che fa trasparire non poco di essere daaa capitale. Sosteneva in pratica di avere la precedenza in quanto aveva iniziato a remare prima di noi. Scusa, allora io che ho iniziato a remare da quando sono entrato in acqua alle sette e mezza avrei sempre la precedenza. Ora, a parte gli scherzi, è logico che qualsiasi onda fosse arrivata e da qualsiasi direzione lui avrebbe sempre iniziato a remare per primo. Morale della storia, il mio amico evita per poco di accapigliarsi con questo che incurante dell’accaduto continua a piazzarsi davanti a noi e a remare su ogni cosa si muova dal largo verso riva. Cerco di calmare il mio amico e inizio a innervosirmi io. Dentro di me il bene e il male stanno sempre a braccetto come nel famoso simbolo orientale e in quell’occasione il male iniziava a gonfiarsi; iniziavo a prefigurarmi attaccato al suo collo e lo vedevo chiaramente rischiare l’annegamento. L’altra parte di me continuava a ripetersi stai calmo e lascia che faccia. Qui nasce uno dei grandi enigmi dell’esistenza umana alla quale non ho ancora trovato risposta: quando nella vita incontri sul tuo cammino delle persone come questa (il fatto che sia un suppista e romano è puramente casuale) che senza alcun dubbio sono arroganti, aggressive, stupide e portano nocumento, tensione, dolore, energia negativa e sporcizia, cosa devi fare? Lasciar perdere e non curarsi di quanto sta accadendo in modo che lui o loro possano indisturbati continuare con i loro atteggiamenti nel tempo, nello spazio e con altre persone. Affrontarli e cercare di dargli una lezione in modo da arginare i loro atteggiamenti, a rischio di mettere a repentaglio la propria incolumità e lo
scorrere tranquillo della propria esistenza. Se lasciamo perdere rischiamo tutti di vincere la battaglia e perdere la guerra poiché questi soggetti agiranno sempre di più e indisturbati e ce ne troveremo uno a ogni o. Se agiamo corriamo il rischio di prenderci a carico un peso che non è solo nostro ma è della collettività. Sono anche cosciente del fatto di abbattere un piccolo albero nella foresta sterminata che continuamente si rigenera. C’è sempre la possibilità di agire in modo non violento ma facendo notare le proprie ragioni, ma con questo genere di persone non porta a nessun risultato. Voglio inoltre far presente che sono ben consapevole di non essere un santo e che a volte, maggiormente in gioventù, quel tizio arrogante e aggressivo sono stato io e che qualcuno avrebbe dovuto darmi una lezione e grazie a Dio qualcuno lo ha fatto e per questo lo ringrazio enormemente. Ma qui stiamo parlando di un quarantenne che in una giornata baciata dal sole con onde in un posto bellissimo non ha di meglio da fare che entrare in acqua e creare nervosismo e tensione. Mi sono concentrato e ho pensato a mio figlio ancora nel letto che dormiva come un angelo e immediatamente ho abbandonato l’ascia di guerra, mi sono spostato a destra nella baia e ho aspettato che il pirlone si stancasse e finisse la sua benzina. Ora, premesso che di cretini se ne trovano in tutte le categorie, prevedo alta tensione tra il surfista con tavola e quello con il sup. Il solo vederli avanzare in piedi sulla tavola come Homo erectus con remus gli dà un’aria altezzosa e antipatica; il fatto poi che ti stiano vicino con quegli oggetti grossi e duri ti mette addosso un nervosismo istintivo ma logico. Non stiamo parlando di acqua piatta ma di situazioni in cui è un attimo che un tavolone di quelli in un frullone ti apra la testa in due. Devo però ammettere per onestà intellettuale che noi surfisti con tavola facciamo vivere una situazione analoga ai body border. Ai loro occhi siamo altrettanto altezzosi, mancanti di rispetto e cavalchiamo attrezzi molto più pericolosi e duri dei loro.
Sono discorsi tediosi che potrebbero andare avanti per pagine e pagine Meglio lasciar stare, mi è venuto mal di testa dallo sforzo. Unica soluzione è avere intelligenza, rispetto, pazienza e tolleranza; Mettersi continuamente nei panni degli altri per vedere la cosa con occhi diversi e quando proprio la situazione inizia ad essere tesa, meglio spostarsi o cambiare spot. Meglio surfare un’onda mediocre in una situazione tranquilla e rilassante, magari in compagnia di qualche amico, che surfare un’onda bella, teso e aggressivo come un lottatore di wresling in uno di quegli incontri totali, tutti contro tutti.
Surf e infortuni
Mai ostinarsi a voler surfare a ogni costo quando tutto l’universo sembra dirti in tutti i modi che non è il caso di entrare in acqua. 1 gennaio 2010. I messaggi che mi sono stati mandati sono stati in ordine cronologico: - rottura del motore della mia macchina qualche giorno prima; - litigata furiosa con moglie la sera prima (capodanno); - la Ka di mia moglie fa fatica a mettersi in moto causa batteria scarica; - la Ka non ha un portapacchi e devo inventarmi con fasce e corde un porta tavola; - all’uscita del casello mi ferma la stradale; - il tempo al mare è pessimo ed il cielo è plumbleo; - le onde sono grosse e potenti e io ho solo un fishone 6.4 a punta tonda; - arrivo sulla battigia carico e incazzato e butto la tavola nell’acqua bassa ma sento un rumore anomalo. Giro la tavola, ho rotto la pinnetta centrale. Porca troia. Torno alla macchina e la cambio. A questo punto mi è venuto il dubbio che forse non era la mia giornata. Ma ho pensato che gente come Cristoforo Colombo, Galileo, Gandi, Mandela e molti altri non avrebbero mai fatto quello che hanno fatto se si fossero fermati al primo segno di sfiga. Fanculo! Ho proprio ragione e su questo pensiero mi butto in acqua e inizio a remare. Surfo onde consistenti con una grinta che non avevo da molti anni. Ne prendo atto e fiero continuo a osare. Floater e manovre su onde potenti.
Ecco che all’ennesimo rischio qualcuno o qualcosa si è reso conto che avevo oltreato la sottile linea rossa e che era il caso di pagare per questa spocchia, mancanza di umiltà e sopravvalutazione dei propri mezzi. Mi dico: è l’ultima onda, dopo di questa esco. Ma l’atteggiamento non è quello di uno che ha dato abbastanza e prende l’ultima onda sulla pancia ed esce. No, è quello di uno che vuole finire con il botto. È ormai il tramonto di una giornata invernale con un marone ignorante. Vedo arrivare l’ultima onda. È un barrellone scuro sopra i due metri che non mi fa minimamente paura. Sono venti anni che surfo in questo spot su sabbia e non mi è mai successo nulla. Parto deciso e aggressivo con le ultime forze che mi rimangono, un po’ rattrappito dal freddo. Button turn[17] a destra e mi si materializza davanti agli occhi una cavità verde scuro che mi chiama. So esattamente cosa devo fare. Devo dirigermi contro la parete e un attimo prima di incontrarla girare la tavola rapidamente e posizionarla con la punta in basso e caricare il peso in avanti. Mi sembrava che la cosa sarebbe potuta riuscire e che anche se avessi sbagliato al massimo mi sarebbe caduta addosso una bidonata d’acqua. Mi avrebbe frullato a dovere ma non avrebbe causato grosse conseguenze. Mi sembrava! Mi sembrava? Mi sembrava! Ho fatto tutto in modo perfetto ma nel momento in cui ho messo il peso in avanti ho avuto la sensazione che forse qualcosa poteva andare diversamente da come l’avevo immaginata. Il DVD che stavo vedendo nella mia mente improvvisamente si era inceppato e cominciava a stridere. Non ho capito se il puntone tondo è stato risucchiato dall’onda o se l’onda mi è piombata sulla schiena facendomi schizzare la tavola da sotto i piedi. Sono però certo che qualcosa di molto duro era stato scaraventato contro la mia faccia con una potenza impressionante. Ero scioccato e al tempo stesso lucidissimo. Negli attimi successivi ero inerme in acqua quasi aspettandomi che dal cielo una mano gigante scendesse a finirmi.
Stavo pancia in giù con la faccia nell’ acqua gelida ed il corpo afflosciato. Non ero ancora riemerso a respirare, forse speravo che il freddo mi anestetizzasse il dolore. Non so come sia riuscito a non svenire. Forse perché l’acqua era ghiacciata. Se fossi svenuto in quelle condizioni di mare e luce, con tre persone in acqua, il giorno dopo sarei uscito sui giornali con tanto di fototessera. Quello che è seguito è stato constatare con la mano la rottura completa del setto nasale con tanto di bordi frastagliati delle ossa, uscire dall’acqua, guardarmi nello specchietto laterale della prima auto a tiro, tamponare la perdita di sangue ,cercare la famiglia e andare all’ospedale dove altri due surfisti aspettavano di essere suturati e curati. Dimenticavo. La seconda lezione di questa avventura è stata: mai paragonarsi ai grandi personaggi della storia. E se proprio non ne potete fare a meno, mai prendere come esempio solo personaggi che sono riusciti nelle loro imprese. Bisogna inserire anche qualche personaggio meno fortunato tipo Icaro, Giulio Cesare, Giovanna D’Arco, e i più recenti miti televisivi come Ambrogio Fogar, l’attore di Super Man Cristopher Reeve, Mr. Crocodile (australiano folle conduttore di documentari sugli animali pericolosi). Mai farsi lasciare dagli amici in uno spot isolato a surfare soli, specie se si è molto lontani da casa. Bird Rock , San Diego California. Uno spot A frame con onde bellissime e acqua liscissima, pettinata dal Kelp. [18] Piccolo neo dello spot: sulla destra a un certo punto affiora un bel roccione largo circa tre metri, dopo di che la parete continua a srotolare per altri cento metri. La manovra a prima vista sembra una cosa da folli. Prima onda: partenza tranquilla, bottom turn, un paio di cut back e all’apparire del roccione, preannunciato dal formarsi di una serie di gorghi, si risale sull’ampia spalla dell’onda e il gioco è fatto. Prendo in un’ora una decina di onde e supero ogni volta la roccia agevolmente finché arriva una serie un po’ più grossa delle precedenti. Parto quasi senza remare e via, mi godo la parete e quasi dimentico il mio amico che sta per uscire a prendere una boccata d’aria. Eccolo a sei metri da me, guardo la parete, che questa volta non è più inclinata ma quasi verticale e dà proprio l’impressione di voler chiudere sullo scoglio, con me nel mezzo come
companatico. Mi si palesano due soluzioni: provo a are oltre lo scoglio quasi intubato con il rischio che ne deriva; provo ad uscire all’ultimo istante dall’onda. Scelgo la seconda e spingo come un forsennato sul deck della tavola e sul bordo interno nel tentativo di risalire l’onda il più possibile. Giunto a metà altezza dell’onda mi sparo in alto e cerco di superare il lip come un Sergey Bubka d’acqua salata; peccato che il lip asticella mi batte sulle gambe e mi fa piroettare nell’aria. Nel frattempo l’onda esplode e scompare sotto di me. A questo punto il mio cervello e il mio corpo si pongono un’unica grande domanda. Non gli interessa più degli enigmi sulla creazione del mondo, la vita dopo la morte, esistenza degli extra terrestri, come conquistare le donne o come fare i soldi facili. L’unico grande quesito è: dove cazzo sto cadendo? Quesito immediatamente successivo: dove si trova il roccione bastardo!? Scusate la volgarità ma in quei momenti non esiste galateo. Ricordo che mentre cadevo sono riuscito a girarmi come un gatto a pancia in giù. Ora la posizione mi consentiva di vedere con chiarezza dove stavo atterrando. Il mio amico di roccia scura dalle guglie barocche mi stava aspettando. Sono atterrato a quattro zampe sul bordo più interno, alla meno peggio tra roccia, schiuma e acqua; tre quarti del corpo se la sono cavata, la gamba sinistra non ha trovato un appoggio e si è infilata nella schiuma tra le rocce. Scarica di adrenalina, prendo atto che ho salvato la pelle anche questa volta e mi tolgo da quella posizione di merda il più velocemente possibile prima che arrivi un’altra onda. Sento male alla gamba. Prendo la prima onda sulla pancia ed esco. Prima di uscire completamente dall’acqua tiro fuori la gamba e dò un’occhiata; una lunga strisciata sulla tibia da sotto il ginocchio alla caviglia appare di colore bianco. Sembra di avere una lunga fetta di lardo di Colonnata sulla tibia, penso che
poteva andare peggio ed esco. Faccio dieci i sulle rocce, poso la tavola e riguardo con più calma la ferita. Quella che era una strisciata bianca è diventata rossa e gronda sangue a tutto spiano, inoltre mi accorgo di sanguinare anche da alcuni tagli sotto i piedi e dal polso destro. Nasce un’altra grande domanda: adesso cosa cavolo faccio? Sono le cinque del pomeriggio e gli accordi con i miei amici erano che mi sarebbero venuti a prendere alle sei; in quelle condizioni faccio quasi in tempo a schiattare dissanguato. La spiaggia dove sono i miei amici dista più o meno cinque minuti di macchina. Decido di andargli incontro. Mi tolgo la lycra e la avvolgo alla gamba che vomita grumi di sangue. Tavola sotto braccio e via lungo il marciapiede che costeggia la strada. I tagli sotto i piedi bruciano e fanno più male della gamba. Mi giro e prendo atto che come in un film dell’orrore sto seminando una lunga scia di sangue. Questa visione mi preoccupa ma al tempo stesso in qualche modo mi gratifica. Sono sempre stato un masochista. Dopo circa un chilometro inizio ad avere seri dubbi sulla distanza dell’altro spot. Inizio seriamente a pensare di fermare qualche macchina e chiedere soccorso. Faccio un altro isolato e vedo in lontananza una macchina bianca arrivare. Prego San Gennaro e Sant’Antonio e spero che la grazia arrivi nonostante la distanza dal paese natale. Fai che siano loro. Mi butto in mezzo alla strada per essere più visibile. È una ford Taurus bianca e non vedo la luce filtrare del lunotto posteriore, possono solo essere loro con la macchina stipata di tavole. Vedo quel bel faccione di Domenico che guida e non mi è mai sembrato più bello; a fianco Diego con uno di quegli sguardi tra l’interrogativo e lo schifato guarda il reietto umano sanguinante e rattoppato che ero. Mi caricano senza tante domande e via!
Surf e gesti
Sono finalmente arrivato al parcheggio. Le onde oltre l’arenile scoppiano alla fine della corsa. Stai calmo non fare cazzate e cerca di non dimenticare niente. Prima cosa: svestizione. Scarpe con ripieno di calzino barricato due giorni. Maglia con ripieno di maglietta salmistrata. Per ultimo a finire nel bagagliaio, jeans ripieno di slip ai profumi di laguna. Sono finalmente nudo e libero da ogni costrizione fisica e lavorativa. Bestia come godo. Respiro con pezzi di polmone che credevo atrofizzati. Prendo la muta, posso finalmente indossare il mio vestito della festa. Posso trasformarmi e diventare un animale acquatico. Infilare la testa nel colletto sotto muta ha un qualcosa della vestizione dei cavalieri medioevali. Tirare la zip l’ultimo atto. Inginocchiato in un gesto di rispetto e reverenza da antico samurai stendo uno strato di paraffina sul legno. Un gesto che faccio sempre in modo troppo frettoloso e immancabilmente con la paraffina per acque calde in inverno e quella per acque fredde in estate. Allaccio il leash[19] ed è fatta. Chiudo la macchina, sbrigo la pratica chiavi (a proposito devo mandare la mia maledizione mensile a quel bastardo che anni fa ci ha spiato alle otto del mattino mentre nascondevamo le chiavi dell’auto e ci ha fregato i portafogli). Via verso la battigia. Trovo una certa soddisfazione a entrare nei beach break in cui il risaccone a riva ha una certa consistenza. Mi piace prendere il tempo alla serie, correre incontro all’onda, tuffarmici sopra e planare per qualche metro sdraiato sulla tavola. Un gesto che è già una manovra; rende immediatamente la capacità di coordinazione e agilità del surfista e mi ricorda un mercoledì da leoni.
Devo dire che mentre quando ero più giovane riuscivo anche a mettermi in piedi nella breve planata oggi devo solo sperare che l’operazione riesca senza intoppi. A questo proposito non posso non raccontare questo episodio. Ricordo un’ estate di molti anni fa in cui in una spiaggia abbastanza affollata di Hossegor un mio amico (di cui non posso fare il nome, ma lui sa) decise di entrare in acqua per l’ultima surfata della giornata. Si alzò con piglio mussoliniano e chiese ai numerosi presenti chi lo avrebbe seguito nell’impresa. Nessuno aveva intenzione di seguirlo, anche perché chi doveva dare a quell’ora aveva già dato. Il sole stava tramontando alle spalle delle onde e la luce era spettacolare. Tutta la spiaggia guardava verso il mare questo spettacolo di tramonto. Quel baldo giovane sprezzante della fatica e amareggiato del far parte di uno squadrone di senza palle, ci apostrofò con parole poco gentili. Sollevò il suo legno fieramente, ci diede un ultimo sguardo schifato, si girò e partì. La sua corsa lenta ed elegante man mano che si avvicinava al risaccone si faceva sempre più corta, veloce e potente. Sprizzava energia da tutti i pori e noi in quegli otto secondi eravamo tutti assorti da tanta fierezza e potenza. L’intera spiaggia lo ammirava. Attendevamo l’apice del gesto, il salto di quasi due metri oltre il risaccone, lo spiccare il volo. Ma qualcosa negli ultimi istanti stava andando storto. Pochi istanti prima del balzo la gamba destra non riusciva a fare più l’intera escursione di movimento, qualcosa stava limitando il gesto atletico. Il leash si stava in modo confuso attorcigliando come un boa costrictor attorno alla gamba destra, fin quando decise di avvolgere con un gesto repentino anche la caviglia sinistra. Gli eventi in un paio di secondi precipitarono e presero una brutta china. Quella che era iniziata come la corsa della gazzella, poi diventata la corsa del leone in caccia, era diventata il ballo della taranta e in un istante il nostro prode si piantò, nel vero senso della parola, di testa con tanto di tavola al seguito nella ghiaia esattamente trenta centimetri prima del terribile risaccone, il quale terminò
l’opera con un esplosione pirotecnica contro quel groviglio umano fatto di carne, ossa, poliuretano e maledetto traditore laccio in caucciù. Le facce nostre e dei numerosi spettatori arono in pochi secondi queste fasi: ammirazione, confusione, incredulità, ilarità all’ennesima potenza. Non sapevamo ancora se il povero malcapitato era sopravvissuto all’incidente quando tutta la spiaggia era scoppiata a ridere. Noi che avevamo assistito anche al preambolo e conoscevamo il personaggio non credevamo ai nostri occhi che ora, dal ridere, si erano ricoperti di lacrime. A questo punto io al posto suo mi sarei staccato il leash e avrei cercato di allontanarmi sott’acqua in apnea il più possibile tra le onde per poi uscire dall’acqua nella spiaggia del vicino Cap Breton. Lui essendo molto pigro, optò per la seconda possibilità che gli rimaneva, cioè quella di fingere un malore postumo e un’incapacità di deambulazione. Noi andammo in suo soccorso e la preoccupazione smorzò in parte le grandi risate e i pianti dovuti al troppo ridere. Inutile dire che ogni volta che sto per incespicare nel leash penso a lui e a quel giorno e mi appare sul viso un risolino ebete. Per continuare con la rassegna dei gesti possiamo parlare della remata. Bella la sensazione della remata potente che fende l’acqua e fa avanzare sobbalzando la tavola. Schiena bella inarcata faccia alta rivolta all’orizzonte. Meno bella l’immagine dopo un paio d’ore di remate. Schiena a pezzi che non riesce più a tenere sollevato il busto, braccia molli, doloranti e prive di forza, la faccia guarda ormai il deck della tavola il cervello conta le bracciate come se fossero anni di galera (le ultime dieci, dai che ce la fai). Quello che all’ingresso in acqua poteva sembrare un surfista professionista padrone degli elementi, ora sembra un surfista provinciale, alle prime armi che annaspa in balia delle onde e delle correnti. Arrivato sul picco ti siedi sulla tavola in posizione di attesa. Dopo anni di surf
stai ormai seduto come sulla poltrona di casa tua e sei immerso nell’acqua più o meno a seconda del volume della tavola. Se la misura delle onde lo consente e c’è in acqua qualche amico o qualche altro surfista si può conversare e chiacchierare (quasi sempre di onde e condizioni meteo, viaggi, tavole e comunque quasi sempre argomenti attinenti il surf). All’avvistamento del set ognuno sceglie la propria strategia e ognuno si richiude nella propria mente focalizzato sull’onda. Remi e a un certo punto, come abbiamo già detto in precedenza si varca la linea in cui non sei più tu a permettere l’avanzamento remando ma è l’onda che ti ha adottato e ti trascina nella sua corsa con sé. Questo momento è il più magico della pratica del surf, si vive in un tempo in cui sembra vengano abrogate le normali leggi della fisica. Si scivola giù dall’onda in un’accelerazione che hai imparato ad assecondare. Arrivato alla base dell’onda, se vai front side[20] riesci per un istante a vedere nitidamente la parete dell’onda. Se sei back side[21] devi fidarti delle tue sensazioni avute durante il take off e impostare un buttom turn ipotizzando quello che immagini sia lo sviluppo della parete. È un anticipare il gesto. Arrivato alla base dell’onda devi essere ben posizionato sulle gambe, divaricate e flesse al punto giusto, le braccia ben larghe con le mani all’altezza delle ginocchia. A questo punto devi solo roteare le spalle e le braccia in direzione della parete dell’onda. Soprattutto il braccio interno deve accentuare la rotazione. Il collo si sarà immediatamente girato in direzione dell’onda e avrai già preso visione di ciò che ti aspetta. Ora avendo chiara la situazione, puoi accentuare o limitare il raggio della curva. Devi fissare un punto sulla parete dell’onda e andare a raggiungerlo. Le gambe, che nel pieno della curva ben piegate avevano sopportato la compressione dovuta alla forza centrifuga ora possono distendersi progressivamente. In uscita da un bottom turn ben eseguito si deve avere la sensazione per qualche istante di staccarsi dall’acqua e sfrecciare verso la parete dove subito le gambe dovranno tornare a flettersi per riuscire a salire maggiormente l’onda e per avere una posizione più compatta e di maggiore equilibrio. Nella fase di risalita della parete bisogna simultaneamente iniziare a spostare il corpo dalla parte opposta rispetto alla tavola. Se all’uscita del bottom il corpo era completamente
sbilanciato verso l’onda in fase di risalita bisogna portare il baricentro verso riva per prepararsi a incassare la spinta che l’onda sta per imprimervi. Ora siete arrivati all’apice della manovra e sarà vostra immensa goduria decidere se esagerare e allungare nuovamente le gambe e in particolar modo quella posteriore sollevando dalla cresta una sventagliata d’acqua o effettuare una lunga curva e mantenere una elevata velocità per poi ridiscendere la parete. Nel primo caso bisogna fare attenzione a posizionare immediatamente tutto il peso del corpo sul piede anteriore per evitare di perdere l’onda a causa della brusca frenata che la manovra genera. In front side le cose cambiano leggermente. Arrivati alla base dell’onda si ha immediatamente ben chiara la situazione dinnanzi agli occhi, quindi si focalizza il punto in cui si intende impattare il lip o la parete e si imposta il bottom che può essere più o meno secco. Il bordo interno della tavola si pianta progressivamente nell’acqua, la schiena e le gambe sono molto flesse e il ventre appoggia quasi sulle ginocchia. Il palmo della mano interna cerca in automatico il contatto della superficie dell’acqua e diventa un punto di appoggio ed un organo sensoriale aggiuntivo. Per riuscire a mantenere focalizzato il punto sulla parete, la parte alta della schiena ed il collo si flettono molto verso l’alto. Per un istante si vola verso la parete a gambe scariche per poi subito dopo posizionarsi rannicchiati e compatti per eseguire la manovra sul lip che anche in questo caso può andare dalla corsa rettilinea sulla cresta tipo floater, al secco off the lip con tanto di bidone d’acqua sollevato. Le spalle e braccia devono anticipare il movimento e fare da direttore d’orchestra del tutto. Questi sono i movimenti fondamentali e imprescindibili del surf, tutto quello che segue è una variante, una conseguenza o un’accentuazione ed esagerazione di questi pochi movimenti. Il surfista capace si riconosce dalla velocità, dalla potenza e dalla fluidità con cui esegue questi fondamentali, riuscendo ad avere sempre il pieno controllo della situazione e riuscendo a sviluppare velocità e potenza che non si riescono a ottenere in nessun altro modo. Il movimento delle gambe, il posizionamento del
baricentro, le rotazioni del busto e delle braccia e lo sfruttamento massimo del proprio peso sono i fattori determinanti della formula surf. Altri gesti mi hanno da sempre particolarmente affascinato nella pratica del surf. Magari meno fondamentali ma che esprimono lo stile del surfer. Grebbare[22] il bordo della tavola nei cut back alla Occhilupo. I floater interminabili e i floater ibridati con gli aerial e con gli off the lip. I tubi in back side appoggiati con la schiena o il fianco alla parete dell’onda per rallentare la corsa e in front side rannicchiati sul piede anteriore. Gli aerial in tutte le salse e le rotazioni. I 360° senza staccarsi dall’onda belli ampi e rotondi alla Kelly Slater. Gli slash[23] sventra onde alla Pancho Sullivan. Terminare uno slash front side, finire di schiena nell’acqua con un piede solo sulla tavola e nonostante tutto planando sulle mani nella schiuma riuscire a recuperare la tavola e tornarci in piedi. Una cosa che mi ha fatto sentire veramente realizzato come surfista la prima volta che mi è riuscita (una prova di vera acquaticità). Oggi quando mi capita ci provo ancora, ma spesso mi manca il colpo di reni finale necessario. Uscire dall’onda è un’altra cosa che mi esalta. Uscita planando per qualche metro sulla schiena dell’onda. Uscita con aerial, dal piccolo saltello al volo stellare. Uscita con salto oltre la cresta, ma attenzione a farlo in spot su roccia e soprattutto quando si è molto a riva o si surfano onde piccole. Ho visto alcuni surfisti esperti farsi molto male in questo modo e pasturare ai pesci di scoglio. Un’uscita che ha qualcosa di poetico è quella semplice che si effettua sollevando la punta della tavola girandola in direzione del mare aperto. Mi ricorda come
gesto quello del pistolero che dopo un duello adrenalinico riposiziona con calma e controllo la pistola nel fodero. Devo ammettere che risulta molto più stiloso con il longboard.
Surf, ignoranza e falsi miti
Domande e affermazioni base, very base dell’italiano medio a proposito di surf. Ah fai surf!! Allora devi andare dove sono stata quest’estate, c’è sempre un sacco di vento. Aaah! con le onde. E dove lo fai sull’oceano? In Italia? Ma le onde non sono troppo piccole ? Io non le ho mai viste così grandi. Ma dimmi, i piedi sono attaccati alla tavola? Ma come fai se non è legata? Vero che si mette una cera sotto la tavola per farla andare più veloce? Ma la tavola è legata con un cavetto? Quando cadi la tavola non ti viene addosso? (a questa domanda il mio naso vorrebbe esplodere con una grossissima parolaccia). Ho frequentato una ragazza (durata poco) la quale nonostante le avessi spiegato abbastanza bene come funzionasse il surf, continuava a confondere le mareggiate con l’acqua alta. Immancabilmente mi chiedeva se c’era o si prevedeva l’acqua alta. A distanza di anni mi chiedo come si possono confondere le due cose. Se fosse stata la stessa cosa a Venezia ogni anno ci sarebbe la tappa più importante dell’Asp tour,[24] al posto dei gondolieri ci sarebbero i surfisti e si svolgerebbe il festival del cinema surf.
Un altro mi diceva che doveva venire a fare il surf per rilassarsi un po’. Il surf agli inizi è tutto tranne che rilassante. Ingavonate, bevute d’acqua, frullate al limite dell’annegamento, schiaffi dalle onde, tavolate addosso, escoriazioni, fatica bestiale e incapacità totale di gestire il mezzo anche solo da seduti o sdraiati. Il relax agli inizi arriva solo quando sei uscito dall’acqua, ti sei cambiato e vai sul molo a guardare gli altri. Un tizio che conosco da anni ogni volta che mi vede continua a prendermi per i fondelli, dicendo che deve essere una cosa ridicola fare surf con le onde che ci sono in Liguria. Non so cosa darei per farlo materializzare, con un colpo di bacchetta magica, sulla line up di Levanto in uno di quei giorni giusti (tre o quattro metri) in cui il mare pare si sia stufato della tua presenza e ti voglia inghiottire per sempre. Io apparirei sorridente, tra le nuvole come una fatina con la mia bacchettina magica e il vestitino azzurro e gli direi in modo garbato: “Adesso ridi sto…!!!”
Surf e il mare
Nella mia vita ho amato enormemente e visceralmente il mare. Ho praticato molti sport, ma nessuno di quelli praticati sulla terra ferma ha mai fin da quando ero bambino potuto competere con gli sport praticati Sopra, dentro e sotto il mare. Già da piccolo ne ero profondamente innamorato. Vivendo in città, per me purtroppo, il mare era sinonimo di ferie. Quando arrivavo in Puglia la prima cosa che facevo era cercare tutta l’attrezzatura sul soppalco e prepararla per il giorno seguente. Eravamo distanti quaranta chilometri dal mare ma ogni sacrosanta mattina, tempo permettendo, mio padre ci dava la sveglia alle sei, si caricava l’attrezzatura e si partiva; breve sosta al forno per comprare la focaccia appena sfornata che emanava un profumo indescrivibile. Resistergli fino alle dieci era una tortura. Arrivati nel paese di mare l’eccitazione aumentava ed iniziavano le palpitazioni. Ad aumentare l’eccitazione un traffico bestiale con motorini che sfrecciavano in tutte le direzioni con sopra due, tre, anche quattro persone (erano avanti nell’affrontare il problema traffico ed inquinamento). Macchine e autisti che avevano una propria concezione del regolamento stradale e della segnaletica. Semafori che erano equiparati alle luminarie delle feste di paese e soprattutto un uso smodato e frenetico del clacson. Persone che attraversavano la strada ciabattando con borse e figli incuranti delle traiettorie dei mezzi. Ricordo di una volta in cui un vecchietto ci prese a bastonate sul cofano della mitica 127. Quando imboccavamo l’ultimo viale iniziavo a sentire forte l’odore del mare e
mi si aggrovigliavano le budella al punto da farmi venire mal di pancia. Scendevo, caricavo la mia attrezzatura e via il più in fretta possibile verso gli scogli. Sì perché per noi il mare non era la spiaggia, ma il mare, l’acqua, al massimo lo scoglio. Negli anni il mare l’ho vissuto da sopra con il surf, da dentro con la pesca subacquea e l’apnea, da fuori con la pesca. Adesso mi faccio una domanda alla Marzullo: “Si faccia una domanda e si dia una risposta”. Se devo riassumere questi tre modi di vivere il mare in poche parole direi: Il surf è il balletto sul mare, prova di abilità, coraggio e gesto estetico. Se dovessi identificare un animale che lo rappresenti direi il delfino o il pesce volante. La pesca subacquea è diventare un pesce predatore, conoscenza del mondo subacqueo, istinto, freddezza, e aggressività. Molti contrari alla pesca e alla caccia aggiungeranno sicuramente cattiveria, insensibilità e stupidità. L’animale il barracuda e il cormorano. L’apnea è il controllo della mente, consapevolezza del proprio corpo. Un viaggio in completa solitudine in un altro mondo e contemporaneamente all’interno di se stessi. L’animale che lo rappresenta il cetaceo in generale. La pesca è inganno prova di astuzia conoscenza dei pesci, sorpresa, immaginazione, mistero e magia. Un animale che la rappresenti, l’uomo e forse il polpo. Devo ammettere che la pesca negli ultimi anni è stata da me abbandonata a causa dei sempre più forti sensi di colpa. Non riesco ad accettare che una mia ione e il mio divertimento coincidano con la morte di un essere. Mi rimangono sempre il surf e l’apnea. Oggi a quarant’anni quando vedo il mare e le onde vivo ancora quell’emozione e frenesia. Logicamente non può essere paragonata all’emozione di un bambino
ma ci si avvicina. C’è da dire che all’epoca il mare era una stagione anzi un mese, agosto. Oggi il mare lo vedo è lo vivo tutto l’anno. Il mare più bello per me è quando a fine settembre e tutto ottobre quando i bagnanti sono ormai un brutto ricordo. L’acqua ha una temperatura ancora mite e le mareggiate diventano una cosa seria. La luce diventa più garbata e romantica e con essa i colori assumono un accento poetico. La spiaggia è umida, piena di legni e detriti trasportati dal mare. Qualche persona gioca sull’arenile con bambini e cani e i gabbiani volano disegnando nell’aria traiettorie perfette. Il vecchio pescatore sul moletto gode anche lui per l’estinzione del bagnante, e immagina orate pascolare sotto riva. Qualche furgone e qualche station wagon parcheggiato vista mare con mute appese ad asciugare sono il segno che la sagra del surfista è in corso. Tavole di tutte le fogge e colori. Ragazzi che tornano lentamente distrutti alle macchine, altri rischiano di fare qualche cazzata per la foga e la fretta con la quale si preparano. Uno stende la paraffina a casaccio sulla tavola e nel frattempo è girato a guardare le onde che arrivano. Un altro dorme nel furgone, ha già dato e ora gode. All’improvviso senti una pacca, ti giri e vedi un ragazzo che ormai è un uomo e nemmeno tanto giovane. Erano anni che non lo vedevi. La vita lo aveva portato lontano ma oggi lo ha riportato, un po’ come fanno i salmoni, in quella spiaggia dove aveva iniziato a fare surf. Saluti e abbracci e via in acqua. Molte facce non le hai mai viste, sono quelle più giovani. Sono te vent’anni
prima con lo stesso entusiasmo e con gli stessi amici, solo che sono vestiti un po’ più stretti come vuole la moda di oggi e guidano un altro modello di macchina. È come per le onde, solo un continuo e costante reiterarsi delle situazioni, delle vite, delle facce, delle ioni. Anche il paese è cambiato e, se guardi bene, anche la spiaggia. L’unica cosa a non cambiare è lui, il mare, con il fascino e le emozioni che da sempre sprigiona. In spiaggia qualcuno si stiracchia su una sacca delle tavole e qualche ragazza aspetta paziente che il ragazzo si sfoghi tra i frangenti. Qualcuno è stato in acqua giusto una mezz’ora e poi è uscito. A lui interessa stare con gli amici, è uno tranquillo. Il surf non lo coinvolge più di tanto e preferisce il sole e una birra. Mi giro verso il mare è vedo una serie degna di nota e un surfista che la sfrutta a dovere. Mi ha convinto. Mi sale la scimmia. È ora di entrare in acqua.
Surf e ottimismo
Una sera mentre viaggiavamo con il Nelzi-furgone di ritorno da un lavoro, il vecchio guru degli sport da tavola Paolo Nelzi mi disse una frase che si stampò nella mente per poi essere oggi riesumata e ritenuta degna di are ai posteri. Si stava parlando di lavoro e di prospettive future in un periodo in cui la crisi era molto seria. Il buon Nelzi che rientra nel mio schedario mentale come primo in classifica alla voce ottimisti senza ritegno e pudore (sottotitolo beati voi) disse esattamente queste parole: “Io sono contento che ci sia la crisi. Bisogna solo cambiare ed adeguarsi ai nuovi tempi. E poi la sai una cosa? Io preferisco stare sdraiato in bottom alla base dell’onda e guardare in faccia la cresta smeraldo sopra di me che stare in off the lip. Perché è lì sotto che godi al pensiero di cosa puoi fare”. Avevo capito! Il bottom turn non era altro che il sabato del villaggio del surfista ed in questo caso dell’imprenditore. Il momento prima della festa. Il momento in cui si immagina e si vive di speranza e fantasia. Ed è proprio questo il suo messaggio e l’approccio mentale con cui affronta il lavoro e la vita in generale.
Surf e arte
Se avessi la capacità con i miei quadri e con le mie parole di rendere il dieci percento della poesia e dell’emozione che ho vissuto facendo surf e vivendo il mare in molti suoi aspetti, potrei considerarmi un artista soddisfatto del proprio operato. Ci sono impressi nella mia memoria fotogrammi e slow motion che mi hanno letteralmente fatto godere e vibrare interiormente. Momenti in cui non ho avuto bisogno di rivedermi in un filmato per capire che nel mio piccolo avevo fatto la cosa giusta al momento giusto, che il tutto era riuscito armonioso e potente al tempo stesso, che quello che stavo facendo agli occhi di chi guardava poteva risultare spettacolare. Come è stato per me spettacolare vedere partire su pareti smeraldo altri surfisti o vedermi sfrecciare a fianco e sparire in sezioni tubanti local dalle abilità surfistiche impressionanti; vedere volare sulle creste delle onde ragazzini che non rispettavano le leggi della fisica di questo pianeta. Il surf è uno spettacolo e vederlo dall’acqua è come essere a La Scala del mare in prima fila, anzi guardare il balletto del Bolshoi in mezzo al palcoscenico e se non fai attenzione qualche ballerina ti vola in braccio. Mi sono chiesto più volte se il mezzo più adatto a rendere tali emozioni non fosse la fotografia, in quanto mezzo prossimo e affine all’occhio umano; o ancora meglio il video in quanto restituisce anche il movimento dell’immagine e la reale fluidità delle azioni. Cosa serve dipingere il surf quando esistono questi mezzi portentosi che assolvono alla funzione egregiamente? Serve per tirare fuori dalla persona il succo delle emozioni. Non ne scaturisce la riproduzione ma l’accentuazione, il particolare, l’atmosfera interiore di quel momento e di quella cosa. Con un’equazione che può servire alla comprensione o a farvi uscire il sangue dal naso per il troppo sforzo intellettivo, la surf art sta alla spremuta di arancia
come il video e la fotografia stanno all’arancia o alla sua restituzione in immagine. È un’alchimia, un cambio di stato e di materia. La potenza della surf art come tutta la pittura in generale sta anche nella sua marcata unicità e quindi riconoscibilità. Con questo non voglio sminuire arti come la fotografia e i video, altrettanto importanti , ma evidenziarne le differenze. Sia chiaro che per me soprattutto la fotografia rimane una fonte di ispirazione potente e fondamentale. In alcune mie opere infatti uso ritagli di riviste surf e li assemblo come uno scienziato pazzo assembla pezzi di uomini diversi per creare Frankenstein. Assemblo emozioni e le metto in relazione o in contrasto e le amalgamo dipingendoci sopra per ricucire gli strappi e renderla una famiglia di emozioni rinchiuse nello spazio di una tela. Tirate fuori quello che avete dentro, se lo avete. Dipingete, scrivete, ballate, cantate, cucinate. Trovate la vostra forma espressiva, sarà l’unica cosa che rimarrà di voi, insieme ai vostri figli e al buon o cattivo ricordo che lascerete nelle persone. Create qualcosa di positivo e possibilmente che migliori ma soprattutto che non peggiori la situazione di questo pianeta e dell’umanità. Non abbiate paura di provare, come per il surf il miglior artista è quello che si diverte di più. Farete un gran casino ma vi divertirete e trascorrerete il tempo piacevolmente chiacchierando con voi stessi. Se non avete queste qualità di creatori e comunicatori, fate del bene e cercate di essere di aiuto alle persone che vi circondano, non sarà sicuramente da meno. Abbiate un occhio di riguardo per gli artisti, e in particolar modo per i ragazzi che sono la pietra che può scavalcare il muro; noi dobbiamo sollevarli e portarli più in alto possibile.
Aiutiamo le scuole d’arte i conservatori, le orchestre, il teatro, il cinema, la fotografia, la letteratura e soprattutto l’istruzione pubblica e consentiremo la nascita di molti fiori che allevieranno e daranno gioia alla nostra esistenza. Scusate ma sono partito per la tangente e sono andato un po’ fuori tema, ma dovevo dirlo visto che ne ho l’occasione e sento molto questo argomento. Rimane il fatto che se fate i panettieri o qualsiasi altro lavoro o servizio e lo fate bene, Dio vi benedica!!!
Ringraziamenti
Ringrazio in primis mia moglie e mio figlio per il o e la pazienza. Un ringraziamento alla casa editrice Giovane Holden Edizioni per la professionalità con cui mi hanno accompagnato in questa surfata letteraria.
L'Autore
Michele Rizzi è nato a Torino il 27/12/1971. Laureato presso il Politecnico di Torino in Architettura. Architetto e artista, vive e lavora a Pianezza (To) nella sua casa studio con la moglie e il figlio di sei anni. Amante del mare da sempre, surfista da più di vent’anni. Uno dei più conosciuti esponenti della Surf Art in Italia.
note
[1] Manovra che si effettua per are al di sotto delle onde (paperetta).
[2] Linea in corrispondenza della quale iniziano a frangere le onde.
[3] Spiaggia in cui le onde rompono su un fondale sabbioso.
[4] Partenza sull’onda.
[5] Manovra sulla cresta spumosa dell’onda.
[6] Manovra in cui la tavola si stacca dalla superficie dell’acqua.
[7] Cera che si stende sulla superficie superiore della tavola per migliorare l’aderenza ai piedi.
[8] Periodo finale della mareggiata (tendenzialmente con onde lisce e assenza di vento).
[9] Superficie superiore della tavola.
[10] Surfista che posiziona il piede sinistro avanti.
[11] Manovra in cui si risale l’onda e si impatta il labbro dell’onda verticalmente.
[12] Altezza dell’onda doppia rispetto a quella del surfista.
[13] Parte posteriore della tavola.
[14] Costruttori di tavole.
[15] Distanza percorsa dall’onda.
[16] Tavola molto voluminosa che si utilizza in piedi con l’ausilio di un remo.
[17] Curva alla base dell’onda.
[18] Lunghissime alghe dell’Oceano Pacifico.
[19] Laccetto in caucciù che collega la tavola alla caviglia del surfista.
[20] Surfare guardando l’onda.
[21] Surfare di schiena all’onda.
[22] Afferrare con la mano il bordo della tavola.
[23] Curva molto marcata sull’onda che solleva sventagliate d’acqua.
[24] Circuito surf professionistico.