Simone Dolci
Senza Posto
ISBN: 9786050356786
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Ringraziamenti
Per papà
Capitolo 1
2 Febbraio Odio alzarmi la mattina. Maledizione, non che sia pigro, che mi costi fatica, non che sia il tipo che desidera starsene tutto il giorno a letto, ma lo odio, o almeno era così in quel periodo. Era deprimente dover calpestare lo stesso pavimento della notte precedente e del giorno precedente, la sentenza che esistevo, . Quel giorno più degli altri odiavo dover buttare giù dal letto la mia carcassa, era il mio compleanno. Le persone non odiano il proprio compleanno, a meno che non ricordi loro qualche brutta esperienza o quando si accorgono che il meglio della propria esistenza molto probabilmente se ne è andata, ma non era il mio caso, in teoria, avevo tutta la vita davanti (purtroppo) e non avevo alcun tipo di trauma legato a quella giornata. È solo uno stupido giorno in cui festeggi la tua sopravvivenza per altri 365 giorni. È un giorno come lo è il Natale, per esempio, che è come se rappresentasse una promessa non mantenuta, insomma, in quel giorno ti rendi conto che hai buttato via un altro calendario, che ti aspettavi di essere un altro, di aver fatto qualcosa di memorabile, invece eri sempre il solito stronzo. Scesi dal letto evitando la ragazza che mi ero portato a letto la sera prima, Jane, Joanne, neanche ricordavo il nome, di quello schifo di donna, un bel corpo per carità, ma uno schifo di anima, sudicia, come il posto in cui l'avevo incontrata, mi disgustò il suo alito alcolico, cosa aveva bevuto Napalm? Al bagno,lì davanti allo specchio, in uno stato comatoso, cercavo di tirare fuori il dentifricio da quello schifoso tubetto senza tappo. Quel grande stronzo del mio coinquilino non lo rimetteva mai quel tappo e gli avevo chiesto di usare due tubetti differenti, ma non gliene importava niente, per non parlare delle ore che ci ava dentro, quel maledetto segaiolo, e poi il disordine e la puzza che lasciava. Se non si fosse dimostrato in diverse occasioni un buon amico, me ne sarei andato e avrei lasciato la convivenza con lui ad un altro poveretto. Non mi interessava più di tanto, ma quella mattina volevo tirarglielo dietro quel maledetto dentifrcio, ma non potevo entrare in camera sua, sul pomello, c’era la classica cravatta. Che tristezza questo tipo di abitudini, che alla fine avevo
anch’io, ero un fottuto ipocrita. Mi dovevo preparare in fretta e sbrigarmi ad arrivare in facoltà per sostenere un esame proprio il giorno del mio stramaledettissimo compleanno, ed ero in ritardo, non mi feci neanche la doccia, mi vestii e andai. Evitai di dire agli altri della data della prova, perché non volevo sentirmi dire in bocca al lupo, buona fortuna ecc., lo odio, ogni volta che qualcuno mi augura il meglio va sempre tutto male. Lascio un post-it sul comodino affianco al letto ‘grazie della serata meravigliosa, ti lascio dieci dollari per il taxi, Au Revoir’. Che schifo di persona stavo diventando, anzi che ero. Prendo Caffè, sigaretta e Prozac che da tempo usavo come se fossero caramelle, e esco di casa. In modo automatico tutte le mattine percorrevo quella decina di minuti tra l’appartamento di Grove street e la facoltà, le strade erano sempre e irrimediabilmente piene di traffico, io andavo a piedi, sempre, con tutte le condizioni meteorologiche, anche quando diluviava. Non portavo neanche l’ombrello. Ho sempre avuto un grande amore per la pioggia, ti accompagna, quella meravigliosa sensazione dei vestiti bagnati e poi quando cade, non c’è niente di più puro. La pioggia è come se lavasse per qualche minuto il catrame dentro di me. Facevo quei quattro i per arrivare in facoltà, in quei pochi momenti potevo rilassarmi, sentire me stesso, mettevo le cuffie, la musica per me era come la pioggia, una compagna. Il più delle volte la mattina ascoltavo Girl from the North country, quella voce di Dylan lontana che canta della ragazza che ha amato, questa meravigliosa Lei delle terre di frontiera e poi apriva Cash, O Cash il graffio della tua voce per me è come un cerotto, vecchio drogato. Dopo quella canzone ne potevo ascoltare solo altre due prima di arrivare al college, queste erano quasi sempre Blues Run the game, di Jackson C. Frank, povero stronzo che dalla vita ha avuto solo fiamme, letteralmente. La terza era sempre un pezzo del ragazzo cresciuto sull’altra sponda dell’Hudson, Springsteen. Canta le strade quel tronfio istrione, le strade, quante ne avrei volute percorrere, quanto avrei voluto accanto a me una donna dinamica con un motore 3000 di cilindrata al posto del cuore. Così non è purtroppo, io sono io, il corpo il mio limite, la mia esistenza è la gabbia stessa. Mentre ascoltavo la musica e percorrevo il cuore del Village mi lasciavo andare e potevo pensare in pace. Pensavo a quella sottospecie di romanzo che stavo scrivendo. Parlava di un cantautore folk, e l’amore per una ragazza troppo ricca per lui. Volevo portarlo a termine, ma io non portavo mai niente a termine, sempre tutto a metà. Quello che stavo scrivendo faceva abbastanza schifo comunque.In quei momenti liberi pensavo troppo, su troppe cose. Durante quei mesi mi sentivo distaccato dal mondo, stanco, l’ectoplasma di me stesso, le giornate scorrevano ed io ero solo uno spettatore, bloccato in un castello di cristallo, era come se la mia anima stesse vivendo un inverno nucleare. Era parecchio tempo che mi sentivo così,
forse mi sono sempre sentito così. Non capivo perché il mio cuore dovesse continuare a contrarsi e a spingere il sangue nelle arterie, perché i miei occhi si dovessero aprire al mattino, perché maledizione io dovessi essere io, se ci fosse qualche scopo nella mia fottuta esistenza. Cazzo, avevo scelto il college per essere qualcuno, avevo scelto lettere, anche contro il parere dei più, per il mio amore verso la letteratura e il sogno di scrivere qualcosa di mio in futuro, ma queste cose in quel momento mi sembravano solo idee di un altro me stesso, come se il Jude che aveva appena finito il liceo ora fosse scomparso. I suoi desideri, la sua essenza caduta in una palude melmosa. Non credevo più in quello che facevo, anche se lo facevo e fino a qualche tempo fa, anche con discreti risultati, ma sentivo che quella tensione per andare avanti si era bloccata. Io ero bloccato. Io ero nelle sabbie mobili e più mi muovevo o pensavo e andavo sempre più a fondo. Ero nauseato dall’ambiente universitario, da quelle facce di culo, classici figli di papà, che dovevo sopportare ogni mattina, la loro spocchia, odiavo vederli e capire che loro si trovavano nel posto che desideravano, loro erano quello che volevano essere oppure non ci pensavano proprio, vivevano, così come si butta giù un Whiskey secco, io invece ero in un limbo senza uscita. Odiavo sentirli parlare i miei colleghi universitari. I loro discorsi erano annebbiati da uno sciatto egocentrismo. Parlavano solo di stessi, esami e cazzate. Quante cazzate dovevo sentire, ne avevo sentite talmente tante che ero diventato bravo a dirle anch’io. Il vuoto, nei loro discorsi, solo il vuoto, le persone che avevo intorno non facevano altro che farmi pensare di più all’inutilità della vita, soprattutto della mia di vita.Perché io non potevo essere tranquillo come loro. Perché non ero in grado di accontentarmi di andare in qualche sudicio locale la sera, rimorchiarmi una ragazza o divertirsi semplicemente, eppure lo facevo, ma mi lasciava sempre più vuoto. Probabilmente io ero diverso, non mi bastava mai niente e desideravo sempre qualcos’altro, fondamentalmente un idiota che no sa quel che cazzo vuole. Forse volevo solo sentirmi di essere diverso, come uno stupido tentativo di giustificare le sensazioni o il mio essere inadatto a una normale e soddisfacente vita sociale, esprimendo un latente comportamento da intellettuale incompreso e sofferente. So solo che la mia mente e la mia sicurezza erano appannate e anche miei risultati accademici avevano cominciato a far cagare. Ma non mi interessava come sarebbe andato l’esame, o i miei voti, non mi interessava niente di niente di qualsiasi cosa, chiunque poteva farmi quello che voleva non sarebbe uscita una goccia di sangue da una coltellata, ero a due dimensioni, piatto. Decisi così, per provare ad uscire da questo pantano ad andare in psicoterapia. Per me era una cosa quasi divertente, mettersi lì, sdraiati sul divanetto, mi sembrava di vivere un film. Ti metti sul lettino e l’analista ti ascolta. Pensavo, che lavoro di merda deve essere lo psicologo o lo psichiatra o
quello che sia, cioè, ti prendi tutto lo schifo che un tizio ha dentro di sé e il tizio si aspetta che glielo rimpacchetti come la cosa più semplice del mondo, un bene necessario. Ti devono portare ad affrontare la vita, ma come è possibile, non l’ho mai capito. Gli psicologi li considero un po’ delle macchine riciclatrici, tu gli dai i rifuti loro te li devono far diventare oro. Il mio cammino terapeutico è finito con la prima seduta, non pensavo che qualcuno al mondo potesse togliermi il sudiciume dal cuore, ci andai solo sporadicamente e mi limitai al Prozac, il più comune degli antidepressivi, per me, forse, il più comune dei poveri derelitti depressi.
Capitolo 2
Quella mattina l’aria era gelida, tagliente, rendeva tutto più nitido. Il cielo, terso, puro. Il mondo era cristallino, imibile. Mi sentivo parte di quest’aria, non so come spiegarlo ma quel freddo era come se mi confortasse, quell’atmosfera così sospesa mi portò ad avere una sensazione positiva ma allo stesso tempo amara, io e il mondo eravamo bloccati, persi in un presente infinito, un ato mai dimenticato e un futuro che si lascia solo intravedere, rimanendo irraggiungibile, lì, all’orizzonte. Erano le 9 in punto, ma il gelo intenso aveva probabilmente spento i programmi della gente. In strada poche auto, per non parlare delle persone a piedi, praticamente solo io, tralasciando gli operai che lavorano sulle tubature fognarie o del gas, non so. Ero raccolto nel mio giubbotto, la sciarpa che mi copriva il viso fino al naso e un cappello in testa, uno di quelli ridicoli con i paraorecchie, naso e zigomi erano liberi alla glaciazione. Ma sono felice. tempo fa lessi La Nausea di Sartre e in un punto diceva: ”La Nausea è rimasta laggiù nella luce gialla. Sono felice, questo freddo è così puro, così pura è questa notte; che non sia io un’onda d’aria gelata? Non avere né sangue, né linfa, né carne. Scorrere in questo lungo canale verso quel pallore laggiù, non essere altro che un po di freddo” Era esattamente quel che provavo. Quella sensazione la provai da bambino, molti anni fa, avrò avuto 8 anni ed era sempre il 2 febbraio. La sera prima il meteo dava una forte nevicata con ovvia conseguenza di chiusura delle scuole, compleanno senza scuola e con la neve, quale bambino avrebbe potuto desiderare di più. La mattina mi alzo, mi precipito per le scale, papà mi da un bel bacio, io mi
catapulto fuori dalla porta, rimango sull’uscio della porta, alzo il naso all’insù e vedo questo cielo limpido e sento questo freddo puro, mi sentii pieno, non so di cosa, ma il mio animo era stato nutrito da quel freddo, in quel tempo come adesso. Alzai di nuovo lo sguardo verso il l cielo color indaco e seducente, non c’era una nuvola, sempre più immobile. Mi bloccai a metà strada, il pensiero dell’esame mi disgustava, ma andava fatto. Arrivai in facoltà, salii le odiose scale per arrivare all’aula ma erano stranamente semivuote , mi avvicinai alla porta; dal vetro vidi tutte le teste di quei futuri premi Nobel chine sul compito. Si avvicina un bidello “ragazzo mio sei in ritardo di un’ora”. “Già…” risposi. Maledizione avevo sbagliato orario. Ero un coglione, anzi il Gran Visir dei coglioni. Spensi il telefono, non volevo ricevere gli auguri di compleanno, da nessuno, tanto la giornata era bella che macchiata. La cosa che mi preoccupò é che non mi interessava, ero completamente apatico, senza quell’esame avrei dovuto rifare il semestre per quella materia, ma io nella mia mente non c’ero, non mi interessava niente. Iniziai così a camminare senza meta. Le fogne fumanti sembravano prendermi per il culo, i miei i erano guidati solamente dal vento gelido, io ero lì tra le vie della città, ma non mi trovavo in nessun luogo, io non facevo parte dell’ambiente, era come se anche il mio riflesso fosse stato eliminato dalle vetrine, non intravedevo la mia ombra stessa, ero il nulla, una bolla vuota e pura. Non so per quanto durò questo mio stato, ma ad un certo punto tornai corporeo. Entrai in un bar, presi uno Scotch, poi subito un altro, poi un Whisky doppio, poi un altro. Senza neanche capire il perché scoppiai a piangere, abbracciai il barista, un uomo sulla cinquantina grasso, con un grembiule bianco, e con la barba folta e unta. Il gentiluomo mi scansa esige di essere pagato, poi mi butta fuori strada a pedate. Quanta poca empatia in questo mondo, ahimè. Uscii dal bar confuso, non molto lontano dall’essere ubriaco e ricominciai a
girovagare. Mi sentivo tanto un Holden Caufield un po’ cresciuto, lì a girovagare per New York City senza meta, con quel ridicolo berretto, proprio come il vecchio Caufield. Maledizione, mi sembra me lo regalò Rust quel cappello, anzi si me lo regalò proprio lui per Natale, mi disse che l’avevano regalato a lui ma che non gli non piaceva, così per risparmiare lo regalò a me, che amico del cazzo avevo. Rust era un ragazzo di Philadelphia, di un anno più grande di me, lo conobbi 4 anni fa quando iniziammo il college, l’appartamento era il suo, glielo aveva lasciato la vecchia zia dopo il trao e mi faceva pagare una miseria di affitto. Era piuttosto alto, carnagione chiara e capelli neri, aveva un fisico ben strutturato e un sorriso che lui autodefiniva da latin lover. Sembrava sempre che avesse sotto controllo la situazione e gli piaceva fare lo spaccone. Ogni sera si portava una donna a casa ed io, di solito, mi accontentavo dell’amica. Era fenomenale con le donne, le attraeva come una calamita. Fenomenale era anche negli studi, facoltà di economia, voti alti. Era normale mi sentissi inferiore a lui, ma avevamo stretto una gran bella amicizia. Era un tipo veramente particolare, il suo modo di essere era particolare, nonostante l’eccellenza negli studi e lo charme con le ragazze, a casa e con gli amici si comportava come un camionista (con tutto il rispetto dei camionisti). Non riusciva a finire una frase senza un’ imprecazione o una parolaccia. Era sempre il primo a cominciare la gara di rutti o di scorregge. Spesso il bastardo andava in bagno e non scaricava lo sciacquone, lasciando il regalino a chi andava al bagno dopo di lui. Era incredibilmente disordinato, ma lo ero anch’io, e così, il nostro appartamento era una fogna a cielo aperto. Rust però quando hai bisogno c’è sempre, pensate che durante una vacanza in montagna nel Colorado, mi ruppi una gamba, lui poche ore dopo era lì per riportarmi a casa dall’ospedale prima dei miei. In un sacco di occasioni ci siamo dovuti salvare a vicenda. Quel maledetto freddo pensavo mi avesse reso lucido sul mio stato. Io non potevo andare a farlo e basta quell’esame, il mio subconscio mi aveva autosabotato, convincendomi che iniziasse un’ora dopo. Io quel giorno volevo solo non esistere, contemplare in silenzio lo spettacolo del mondo davanti ai miei occhi. Per questo uscito da quel bar continuai nell’impresa di impersonare una corrente d’aria gelata e niente di più. Quanti labirinti prendevano la mia
mente in quel periodo, scuse per tutti i miei errori, erano come deliri psicotici per razionalizzare ciò che non potevo razionalizzare. Non ammettevo mai di sbagliare qualcosa, anche se in cuor mio lo sapevo, facevo di tutto per trovare una scappatoia per liberare la mia coscienza. In troppe occasioni nafraugavo in un oceano di ingranaggi che non diventavano mai un macchinario. Camminai, ancora, nella mia amata New York City. Consola il mio animo almeno tu, tu sei donna per sognatori, la possibilità di essere. Ma oggi mia cara lady siamo distanti, io non riesco neanche a vederti, oggi tu non sei il mio posto, ma non preoccuparti niente può consolarmi ora, quindi mia amata, continua ad ospitare il senzatetto che vive sotto la Metro a Union Square, fai sentire Dio il broker appena uscito da Wall Street, dai posto all’arte, alla follia, alla speranza delle persone, ma per me non c’è niente che tu possa fare, io non appartengo a nulla. Arrivai fino al Madison Square Park, mi sedetti su una panchina. Osservai per un tempo che mi sembrò infinito l’unica foglia attaccata con tenacia ad un albero spoglio, poi mi venne fame e mangiai un hamburger. Dopo aver consumato voracemente il panino, sentii lo stomaco ribellarsi. Probabilmente non che bere alle 9.30 due scotch e due whisky più l’antidepressivo mattutino, sia stato molto intelligente mangiare anche un doppio bacon cheeseburger. Sentivo che stavo per vomitare, quando però mi resi conto che la foglia era caduta, così il mio stomaco si rilassò. La foglia era libera! Adesso il vento chissà dove l’avrebbe portata, chissà quale uomo la calpesterà, la natura l’avrebbe consumata o ne avrebbe protratto il viaggio? Immaginai di essere quella foglia mentre si staccava dall’albero, quegli attimi di pura libertà, come se fosse un parto. Quella sensazione lenì il mio mal di stomaco per un attimo. dopo pochi i vomitai. Era il caso di tornare a casa, ma non ne avevo voglia, volevo ancora camminare. Presi la 23th fino all’incrocio con la 7th e proseguii su questa. Ora faceva leggermente meno freddo, sui 2 gradi penso, il vento era sempre lì tagliente e implacabile, ma a me non interessava. Decisi di andare verso l’Upper West Side, non avevo programmi e questo era fantastico, di sicuro il miglior regalo di compleanno che potessi ricevere in quel periodo. I volti delle persone sembravano quelli di fantasmi, infreddoliti, non avevano luce, ognuno immerso nella propria esistenza, ognuno doveva adempiere al proprio ruolo sociale, lo sguardo fisso verso la loro meta, ognuno come imbrigliato in uno stato senza scampo o scelta.
Questo pensiero mi lasciò un laconico senso di tristezza. Io credevo in un concetto di vita come materia fluida, non come cemento che al massimo puoi abbattere. Le persone che vedevo in strada invece erano bloccate, un po’ come me, ma non se ne accorgevano, l’egoismo, l’egocentrismo spingeva ogni loro azione e la società li ripaga anche per questo, perché sono qualcosa hanno un posto e questo meccanismo diabolico va avanti e avanti, tutti devono entrare in un puzzle ed essere tessere perfette che combaciano una con l’altra, come quel maledetto puzzle della scuola di Atene di Raffaello che buttai a un quarto dell’opera, (lo iniziai con una tipa e potete immaginare che ci sono cose più divertenti dei puzzle da fare) ma tornando a noi, se sei una tessera che non entra, stai pur sicuro che ti spezzano ti storcono ma ti ci fanno entrare! Altrimenti, cassonetto, fanno a meno di te. Io non volevo essere una tessera, ma nemmeno un reietto, volevo solo qualcosa, il mio posto, sia fisico che sociale che mentale, un posto dove sai chi sei tu e che gli altri possono frequentare, ma non una scatola di cemento da cui non puoi uscire. Ho paura che non lo troverò mai il mio posto. Ero inquieto ovunque, avevo cominciato ad odiare tutto, qualsiasi cosa che avessi intorno mi dava la nausea. vorrei proprio farmi una chiacchierata con il signor Sartre su queste cose, ma ahimè il tempo ci ha diviso. Continuavo sulla 7th e notai una donna anziana, una gentile nonnina che tremava nel tentativo di attraversare la strada. Le persone avano e facevano finta di non vederla, anzi non la vedevano proprio, tanto erano centrati su se stessi, ma io no, io non lo ero, io quella dolce vecchina l’avevo vista, io l’avrei aiutata, io non ero come loro mi dissi, ed aiutare qualcuno è qualcosa di materiale che lo dimostra e la cosa mi riempì di serenità. Così le andai vicino “Signora si poggi a me che la aiut..” Neanche facevo in tempo a finire di parlare che mi ritrovavo quel pugno raggrinzito sul naso, poi la dannata vecchia inizia a urlare come posseduta dal demonio “Aiuto! Questo maledetto figlio di puttana vuole derubarmi dei pochi soldi che ho, aiuto!!” Cercai di spiegare alla vecchiaccia che volevo solo aiutarla, ma lei continuava a sbraitare. Due poliziotti in una volante ferma lì vicino arrivarono. Scesero i due classici poliziotti, grassi e arroganti e vanno sempre in coppia uno bianco e uno nero, forse per pubblicità agli Oreo.
Quello bianco, più grasso del nero mi stese a terra con le mani dietro la schiena e mi mise le manette, mentre la vecchia mi dava un calcio sul naso che iniziava a sanguinare. Ci volle più di mezzora per fargli capire che volevo solo aiutarla, che non avevo armi, che era un atto di gentilezza. Alla fine i due mi liberarono e mi intimorirono che la prossima sarei finito in centrale. “Riga dritto! E tagliati quei capelli” Nel frattempo la vecchia continuava a lanciarmi improperi e poi se ne andò. Io rimasi sconcertato, questo significava che al mondo non esisteva il bene o almeno nessuno ci credeva più. Incredibile, cerchi di aiutare una fottuta vecchia ad attraversare la strada e ti trovi col naso sanguinante e i rimproveri dei poliziotti. avevo deciso che non avrei mai più aiutato uno sconosciuto. Neanche se stesse annegando. Era mezzogiorno ato. Che giornata del cazzo pensai. Decisi di andare verso Central park verso il mio luogo preferito della città, e speravo che con il freddo fosse poco popolato. Camminavo con un o estremamente lento. Dal naso continuava a colare sangue, lo stomaco sottosopra, mani e piedi congelati. Arrivai a Strawberry Fields, in quel luogo si respira un’aria sospesa, quando mi trovavo lì mi sentivo quasi un ospite, il signor Lennon non mi aveva invitato eppure io ero li con tante altre persone, soprattutto turisti infreddoliti che fotografavano il mosaico Imagine. Sotto gli alberi, su quel prato verde si sente la sua presenza. Quando ero piccolo, il giorno del mio compleanno, io, i miei 2 fratelli più grandi Lucy e John, mamma e papà, venivamo e cantavamo insieme Hey Jude, si aggiungeva sempre qualche estraneo o turista e io timidissimo diventavo rosso, ma quando iniziavamo con il NA-NA-NANANANANA, esplodevo, cantavo a squarcia gola, HEY JUUUUDE!! Era bellissimo e sono grato di avere questi ricordi. Con il tempo certe cose si perdono, cresci, finisce la magia. Dio quanto vorrei tornare piccolo, quando vorrei ancora sentire quel tipo di gioia, che scompare, si dilegua dall’animo, il quale più ano gli anni più si riempie di catrame. Chiesi il permesso al signor John di sedermi sotto il suo albero e cercare di trovare un po’ di calma interiore. Misi le cuffie, per rispetto di Lennon, ascoltai prima Yesterday e poi come tradizione Hey Jude. La ascoltai due ,tre, quattro
volte, ogni volta nella mia mente si ricreava la scena della mia infanzia e invidiavo quel bambino, gli avrei voluto dire di goderselo ancora di più quel momento. Ero molto stanco, saranno state le due del pomeriggio, la notte non avevo dormito perché avevo fatto sesso con quella puttana, e la giornata era stata piuttosto agitata, senza calcolare il freddo pungente che ancora si abbatteva sulla grande Mela. Quindi crollai di sonno sotto quell’albero, spero il signor Lennon non si offenda.
Capitolo 3
Dormii rilassato come non mai, il tronco dell’albero era uno splendido cuscino. Sognai, non ricordo precisamente cosa, sicuramente quel genere di sogni che non ti lasciano niente quando ti risvegli. Il mio incantato riposo fu rotto da quel principe azzurro con le mani più grandi di una palla da basket, il principe mi diede una sberla che ancora oggi ricordo, dritta sulla guancia destra. Eccolo lì il mio grande amico, sempre pronto a ritrovarmi da qualche parte, delle volte sembrava giocassimo a nascondino. “Ciao razza di idiota, è un’ora che ti cerco!!” “Beh non è così tanto tempo Rust” risposi. Mi diede un malrovescio sull’altra guancia. “Lo sai che oggi è il tuo fottuto compleanno, e che vengono i tuoi genitori e Lucy e John e altra gente che ho invitato”. “Cosa? Altra gente? Tu sei fuori di testa, sei uno stronzo, sai che odio il mio compleanno e tu inviti altra gente, che magari non conosco, che tu mi presenterai ma che in un millesimo di secondo scorderò! E poi mi faranno gli auguri io odio gli…..” Mi interruppe con un grassa risata. “Chiudi quella bocca e guardati i piedi, ahhahahahah” .Non capii cosa dovevano avere di strano i miei piedi, poi mi accorsi che per il freddo non li sentivo proprio i miei piedi, guardai in basso, porca puttana mi avevano rubato scarpe e calzini, mi piacevano anche un sacco quelle scarpe, dei bei scarponcini marroni, di quelli che più diventano vecchi e più sono belli. “ che ridi coglione, ho i piedi congelati, può darsi me li amputino, non li sento più!!!” “ Parere mio? Credo che qui ci sia un caso raro di piede dell’idiota che si fa
rubare le scarpe a Central park, controlla sei hai ancora cellulare e portafoglio piuttosto” Controllai la tasca destra del giubbotto dove tenevo il portafoglio ed era vuota, controllai la sinistra, dove tenevo il cellulare, vuota anche quella, maledizione a me, ma quale razza di beota dormirebbe un’ora a Central park con quel freddo e con tutti gli stronzi che girano per il mondo. “Caro Rust, compiaciti della mia demenza, niente portafoglio e telefono”. Dissi con voce dismessa. “Non voglio infierire, ora andiamo a casa e di fretta, rischi l’ipotermia”. Mi portò sulla schiena in macchina, una Land Rover Defender, che gli aveva regalato il padre da pochi mesi. In auto spiaccicai la faccia contro il finestrino e non aprii bocca, mi divertii ad appannare il vetro con il fiato fino all’arrivo a casa. Rust invece mi fece una mezza predica, ma non sentii una sola parola. Il fatto che io non rispondessi e che ero lì come se stesse parlando ad un sacco di concime buttato sul sedile anteriore, lo irritò parecchio, infatti smise di parlare e cominciò a guardare dritto immergendosi nel traffico della gelida New York. Erano le 3:30 quando arrivammo a casa, Rust scese dalla macchina, chiuse con forza la portiera e scuro in volto mi disse: “Comunque non ho invitato nessuno, siamo solo noi, sei l’uomo più strano del mondo, c’è il tuo fottuto compleanno e i la giornata girovagando come un senzatetto, spengi il telefono, i tuoi genitori volevano farti gli auguri, invece tu sei sparito, per un attimo ho pensato ti volessi suicidare!”. Era molto irritato. “I miei sono in casa?” “No, c’è solo John e ho parlato con Lucy, sembra l’aereo dei tuoi abbia fatto ritardo di un’ora, ma non c’è problema, mangiamo più tardi”. I miei genitori tornavano dai Caraibi. Lucy invece era sempre in ritardo. Così io annuii con la testa. “Ora entriamo in casa che ho bisogno di scaldarmi”.
Rust mi portò sulla schiena fino all’uscio della porta di casa. Aprii la porta salutai velocemente John e mi fiondai in bagno. Una bella doccia bollente dopo quella giornata ci voleva proprio. Feci una doccia di un’ora quasi, mi vestii, scesi e mi misi sul divano, stavo appena rilassando le mie stanche membra, quando arrivò Rust. “L’ho visto il tuo naso, non pensare che io sia un coglione che non l’ho notato, chi è stato, ti sei messo nei guai? roba di droga? Qualche drogato sulla…” “Che palle!” lo interruppi. “Hai una fissazione per la droga, da quando hai visto Breaking Bad sono tutti drogati, sono tutti spacciatori e boss della droga”. “Ok niente droga, ma che hai fatto al naso?” “Sono inciampato ok?” “Impossibile.” Io ho sempre avuto un grosso difetto, non saper mentire, la verità usciva dalla mia bocca come un fiume in piena, io la verità la vomitavo, così gli raccontai della storia della vecchia. Potete immaginare la reazione di Rust, cominciò a ridere tanto che credevo si sentisse male. “Smettila di ridere stronzo, da oggi in poi eviterò di aiutare la gente, è un maledetto segno del destino! Io Jude devo essere preso a calci anche quando faccio del bene.” “Le hai prese da una vecchia, non ci posso credere, John vieni di qua, senti che storia” “Che è successo? Fammi finire la birra almeno” disse quel coglione d mio fratello dalla cucina, “Sono stufo di sentirti ridere, e tanto meno voi due insieme, esco a fare 2 i, prendo il tuo cellulare quando arrivano i miei chiamami e arrivo, vado giusto qualche minuto a sentire il vento che tira sulla riva dell’Hudson.” “Ok vai, ahahahah, attento alle ottantenni. Sei una barzelletta vivente”.
Mi misi il cappotto e gli lanciai un bel dito medio. La temperatura probabilmente era di qualche grado sotto lo zero, ma il vento si era calmato, Le strade erano piuttosto vuote. Dopo 10 minuti arrivai sulla riva dell’Hudson, eccola lì, la mia solita panchina e mi sedetti. L’Hudson era calmo, mio grande amico, spesso mi siedo su questa panchina e parlo con lui, mi abbandono, e mi consola. Il mio compleanno era quasi ato, 24 anni, e dentro di me sentivo il vuoto, non sapevo neanche cosa avrebbe potuto riempirlo. So solo che avevo bisogno di un cambiamento drastico, ero vicino all’autodistruzione. Sono ormai così depresso che la gente se ne accorge, questo mi preoccupa, e la cosa mi infastidisce. Rust prima credeva mi fossi suicidato. Suicidarsi, non credo sia la soluzione a niente, ma ci ho pensato. Insomma è così facile, ti impicchi, anneghi, farmaci, tagli le vene, gas, poi via, tutte le sofferenze ate, il nero. Se mi calassi nelle acque dell’Hudson? Se lasciassi riempire i miei polmoni d’acqua e andarmene, dolcemente nel fiume che nutre New York. Ma cosa cazzo pensavo, i miei pensieri diventavano ormai incontrollabili, un fluido senza dimensioni, un delirio, diventavo sempre più confuso e cupo. E poi arrivò. Voi credete di prendere decisioni, che il corso della vostra vita nasca da scelte. Il libero arbitrio è un fottuto inganno. Voi non scegliete, voi siete pura e fottuta probabilità, incastro di orari, eventi lontani determinano vita o morte. La vita, cos’è, è solo scontro, noi siamo solo scontro, atomi, gettati a caso in questo spazio. Spaesati in questa landa di odio e amore, l’unico ruolo è quello di combinarsi in rapporti, conflitti, amicizie, amori, nel mio caso esplosioni. Alzo gli occhi, una ragazza dai capelli castani mi a accanto come un fantasma, va dritta, verso la banchina, con difficoltà sale sulle transenne di protezione, si ferma un attimo, trova l’equilibrio, un secondo, e si lascia cadere nel gelido Hudson. Per un attimo rimasi imibile, mi sembrò una cosa naturale, neanche gridai. Mi guardai attorno per trovare qualcuno che mi desse una mano, ma ero solo. Non ci pensai più di 2 secondi, mi tolsi il cappotto, superai le transenne e mi tuffai. Nuotai verso la profondità di quel fiume, il freddo non permetteva i movimenti, sentivo di svenire, quando raggiunsi la sua mano la strinsi e portai
tutto il suo corpo verso di me. la ragazza, aveva perso conoscenza, La tenni in modo più stretto possibile e cercai di risalire, tenetti duro per non farmi vincere dal freddo e dall’acqua, che sentivo entrare nei polmoni, mi sentivo sempre più pesante. Riportammo le teste fuori dal fiume, lei era pallida, svenuta, speravo non morta, con difficoltà arrivai alla banchina, era troppo alta non potevamo superarla, gridai con tutta la voce che avevo in corpo aiuto, un uomo in lontananza sentii e corse verso di noi, insieme ad un'altra persona che ava lì per caso ci ritirarono su, poi svenni. Mi risvegliai in ospedale, su una barella, con una di quelle coperte termiche argentate, tutta la mia famiglia era lì, stavano parlando con un medico ed un poliziotto. Dopo qualche minuto, si avvicinarono tutti attorno a me. Mia madre mi abbracciò, Rust Lucy e John ai piedi della barella entrambi con la stessa espressione di orgoglio, mio padre all’altro lato mi teneva la mano. Il poliziotto esordì. “Lei è un vero eroe ragazzo, un vero eroe, è difficile di questi tempi trovare una persona come lei.” “Lei, la ragazza come sta?” chiesi io. “Se la caverà, è in terapia intensiva ma se la caverà, aveva assunto un cocktail di antidepressivi, più l’ipotermia per il ‘tuffo’ nell’Hudson” disse il dottore. “Quando posso vederla?” chiesi. “Non so, bisogna solo aspettare, bene io vado, c’è un tipo al letto 16 che pensa di essere Bruce Willis, non posso perdermelo! In bocca al lupo ragazzo!” Così il medico e in seguito il poliziotto si congedarono. Rimase tutta la famiglia, ognuno di loro aveva uno sguardo fiero e occhi lucidi “Buon compleanno Jude.” disse mia sorella Lucy, “Non ti preoccupare festeggeremo domani” “Che bello” dissi molto ironicamente. Per quella sera ero un eroe, io Jude, la stessa persona depressa e vuota che ero.
Avevo ato una giornata da derelitto, adesso ero un eroe che rischia la vita per una sconosciuta, chissà, se non avesse avuto quel bel culo probabilmente non l’avrei salvata, com’è strana la fottuta vita, fin troppo direi. Adesso ero un cavaliere, un eletto, che aveva salvato una vita. Già avevo salvato una vita, ma a qualcuno che non la voleva.
Capitolo 4
ai una notte in ospedale, più che altro per sicurezza. Non dormii neanche un secondo, vedevo solo il viso pallido di quella ragazza, i suoi capelli nell’acqua, la sua mano… Dio santo, quando le ho toccato la mano si era colmato il vuoto. Tutta la notte cercai quella mano nell’aria, ne avevo un bisogno fisico. Per me era un classico, avevo bisogno di qualcosa che non c’era, ma stavolta la cosa peggiore è che non voleva esistere. Lei voleva suicidarsi, Lei aveva deciso che la sua vita doveva finire lì, punto. Io sono stato un ostacolo, io non sono un eroe ma un vile che quasi ci rimane solo per far perpetuare il dolore di qualcuno. Io per la povera ragazza sono solo il destino che le ha negato la morte. Chissà a quali dolori l’ho costretta, solo per il mio becero buonismo, il mio ego, eccola lì col petto gonfio come un gallo che si vanta, l’ho salvata, guardatemi, sono un conservatore della vita, sono come Gesù Cristo con Lazzaro. Ma Chi sono per decidere, perché non ci ho pensato nemmeno un secondo a salvarla. Mi sentivo in colpa, avevo pensato tante volte all’idea del suicidio, io stesso avevo pensato in quel momento di lasciare la mia vita nelle mani dell’Hudson. Credevo che l’uomo in quanto libero, dovesse essere libero di terminare la propria vita quando e come volesse. Ma in pratica le cose non sono così facili, l’anelito ad essere vivi è spesso più forte. Chissà perché Lei ha preso quella scelta, decisi di non pensarci più, ma fu impossibile. Verso le 5 mi addormentai. Arrivato il mattino, i miei genitori mi riportarono a casa. Papà teneva in mano il Times con il volto pieno di fierezza, me lo sbattè in faccia “Guarda ciccio guarda!”
C’era un trafiletto tra la cronaca di New York che raccontava dell’accaduto, a me non faceva né caldo né freddo, lo ridiedi in mano a papà e gli dissi che era una forza, che aveva un figlio del quale vantarsene, ma non lo pensavo. Poi arrivò anche mia madre con la faccia serena ma stanca, mi abbracciò e mi disse “ Sono molto fiera di te, sei un ragazzo speciale, ma per favore la prossima volta chiama aiuto, non fare da te, mi hai fatto perdere cinque anni di vita” Annuì e sorrisi. Tornato a casa trovai Rust, Lucy e John. Lucy aveva le lalcrime agli occhi e mentre mi teneva stretto quasi da non respirare. "Hai salvato una vita rischiando la tua, ti rendi conto l’enormità di questo gesto la tua anima che ha vinto la paura! È incredibile, non tutti l’avrebbero fatto sei un essere prezioso”. Oh Lucy, che spirito hippie che hai, d’altronde con quel nome, preso da una canzone che parla di LSD c’era da aspettarselo. Di aspetto era molto bella e lo sapeva. Alta, Bionda, occhi verdi come me e un seno piuttosto generoso. Aveva portato a casa una ventina di fidanzati, ma nessuno era stato quello giusto, Così a 35 anni era single, viveva dai miei, dopo aver vissuto praticamente ovunque, Londra, Roma, Pechino, Nuova Delhi e altre città che non ricordo. Aveva frequentato la Julliard per il pianoforte, in cui era bravissima sin da piccola, poi si stufò, non completò gli studi. Quando avevo nove anni e lei stava per partire per l’Europa le diedi Il mio orsacchiotto di peluche Roy, e le chiesi di fargli una foto in ogni posto dove sarebbe andata nella sua vita, lei mi diede un bacio e me lo promise. Così col are degli anni Lucy mi spedì foto di Roy al Colosseo o sotto la Tour Eiffel, vicino al Partenone, poi in Asia, Roy Mao Tse Tung, o vicino alla Grande Muraglia. Era un gran brava sorella e io le volevo bene, anche se la vedevo molto poco, lei per me era un punto di riferimento. Lucy e John erano gemelli, ma maledizione, non ho mai incontrato persone più diverse, fisicamente si somigliavano, i lineamenti del viso erano estremamente simili, anche lui era biondo con gli occhi verdi, alto, sul metro e novanta, circa dieci in più di me. John terminato il liceo si arruolò in marina, ben presto divenne un Navy Seal. Aveva un fisico mastodontico quasi imbarazzante stargli vicino. Era tornato da un paio di mesi dalla sua ultima missione a Falluja e noi tutti speravamo fosse l’ultima dato che ne aveva già fatte altre due . Mio fratello era un tipo più freddo, classico atteggiamento da militare, era l’opposto di Lucy. John si era fidanzato con una ragazza del Connecticut, Katy, L’aveva messa in
cinta e quindi doveva andare a vivere lì con lei. Comunque essendo molto più piccolo di loro di undici anni, da loro e dai miei genitori ricevetti sempre un incredibile e talvolta protezione, era come se fossi un oggetto di cristallo, ero iperprotetto, per questo non vedevo l’ora di fuggire dal nido. Però io in quel nido rimanevo sempre in qualche modo intrappolato. Io non potevo pagare né college né appartamento e miei provvedevano a questo. Con qualche difficoltà mi pagavano gli studi e il resto. Avevano una libreria ‘Woods Books’ una cosa di famiglia, lasciata a mio padre e a mio zio da mio nonno. Aveva resistito all’onda della crisi economica e ora andava piuttosto bene. Si trovava a Brooklyn, un negozio storico, quindi avevano sempre la propria clientela. Ora ne avevano aperta un’altra a Tribeca, con cafè letterario abbinato. Un bel posto devo dire. Spesso quando non dovevo studiare davo una mano alla libreria giù a Brooklyn e ultimamente anche a quella a Tribeca, lo stesso faceva Lucy, quando non era in viaggio. Il non avere la completa indipendenza economica, non aver costruito ancora niente con le mie mani, mi faceva sentire come se stessi vivendo ancora a casa loro, ma la sera dormivo fuori nella tenda da campeggio, a giocare agli indiani, come facevo da bambino. Ora però la mia situazione attuale, di grosso dubbio sul continuo degli studi, mi dava incredibili sensi di colpa. Avevo trovato ogni tanto qualche piccolo lavoro usa e getta, per alleggerire i conti ai miei ma niente che mi desse indipendenza economica. Da tre mesi davo lezioni di chitarra ad un bambino di otto anni, si chiamava Noah, abitava di fronte al mio appartamento. All’inizio mi facevo dare dieci dollari a lezione, poi da qualche tempo iniziai a farlo gratis, perché eravamo diventati amici, e io gli amici non li faccio pagare. Noah era un bambino particolarissimo, era come se fosse un piccolo adulto, con lui ci parlavo di tutto, si fottessero tutti gli psicologi, lui si che sapeva ascoltare ma soprattutto rispondere, con la semplicità che solo un bambino può avere. ai la giornata con la mia famiglia. Mi diedero i regali di compleanno, mamma e papà mi regalarono uno bel maglione stile Fair Isle, John mi regalò una banalissima felpa di Gap, Rust invece mi stupì, per la prima volta mi aveva fatto un regalo ragionato, il vinile di Naturally di JJ Cale. Lucy mi regalò Roy, il famoso orsetto viaggiatore, con allegate tutte le foto che non mi aveva ancora inviato o dato e un buono per fare un tatuaggio “ è ora che vai a fartene uno, pensa a qualcosa di unico per te, di significativo e vai te lo fai!” questo fu come un pugno allo stomaco. Chiaramente non per il tatuaggio, ma per la storia di qualcosa di unico e importante per te, io non sento niente che tatuaggio posso farmi un punto senza
motivo? L’unica cosa unica e che mi aveva fatto sentire qualcosa era la mano gelida di quella ragazza. Quel contatto mi aveva portato in un’altra dimensione. Il resto della giornata ò velocemente, pranzammo, spensi le candeline che avrei dovuto spegnere il giorno prima, su una cheesecake al cioccolato, mi cantarono tanti auguri e così via. Alle sei i miei se ne andarono e poco più tardi Rust andò a una festa di alcuni amici del college, mi chiese di andare, ma declinai l’offerta. Volevo stare un po’ da solo. Misi il vinile che mi aveva regalato. Poggiai la puntina sulla quinta traccia, Magnolia, e mi sdraiai sul divano. Trovai sotto la testa il giornale cha aveva portato mio padre la mattina, lo presi e per curiosità lessi quel trafiletto,era intitolato ‘Miracolo sulle rive dell’Hudson’ mi davano del piccolo eroe americano o cose simili, scorsi il breve articolo fino ad arrivare al suo nome, lei si chiamava Althea, Althea Harris……. Ripetei quel nome migliaia di volte, è lei che avevo salvato e non ne avuto nemmeno l’opportunità di trovarla…. Mi addormentai sul divano, durante la notte cercavo sempre quella mano che aveva riempito il vuoto, la mano di Althea.
Capitolo 5
I giorni seguenti furono un deserto di sale, non successe nulla. In realtà poi le cose accadevano ma io non c’ero. Io ero rimasto nel fiume a tenderle la mano e a stringerla a me. Non sapevo neanche se si fosse rimessa. Mi capitava, facendo una doccia che mi sentissi soffocare, poi la vedevo sul fondo dello specchio appannato del bagno. salvare questa ragazza mi aveva segnato, stavo entrando quasi in paranoia. Avrei tanto voluto conoscerla, sapere qualcosa di lei. La cercai su tutti i maledetti social-network ma niente. Nel frattempo io dovevo comunque tornare in facoltà e purtroppo realizzare che avrei dovuto ripetere il semestre per quella fottuta materia, che adesso neanche ricordo. Ma non mi interessava, poteva succedermi qualsiasi cosa non me ne sarebbe importato. Non avevo più né sentimenti o sensazioni, una scultura di gelido marmo. L’unica cosa che mi faceva sentire vivo era quando pensavo a lei, in quel momento tornavo a sentire qualcosa, di preciso non so cosa, ma mi riempiva. Spesso sognavo di notte di afferrare quella mano e mi svegliavo col braccio teso, e il sudore freddo. Delle volte ne sognavo il volto e le parlavo come se ci conoscessimo da una vita. arono una ventina di giorni, forse qualcuno in più, e il ricordo della sua mano stava svanendo. Era una sensazione orrenda, il voler ricordare, ma poi il ricordo fisico di quel tocco non si manifestava più nella mia mente. L’unica persona con cui ne parlavo era il piccolo Noah. Oltre a dargli lezioni di chitarra ogni tanto gli facevo da baby sitter. Quelle devo dire erano delle belle serate, ci mettevamo sul divano e vedevamo un film, il film lo lasciavo scegliere a Noah, esperto cinefilo. Come vi ho detto era un piccolo adulto. “Prima del film gara di scorregge vecchio mio?” “Perché no.” Finita la gara di scorregge che ovviamente vinse lui, Noah mise il film, 2001: Odissea nello spazio, lo sapevamo a memoria quel film, ma non ci dispiaceva mai guardarlo un’altra volta. Non chiedetemi come un film di Kubrik potesse essere il preferito di un bambino di 8 anni, lui era così, punto. Gli avevo
cominciato a dare anche una cultura musicale e ora sentiva Clapton, Hendrix, U2, Dylan, un po’ di tutto. Per Natale si era anche fatto regalare un giradischi e questo mi rendeva orgoglioso. Ci buttammo sul divano, birra per me Coca Cola per lui. “Hai ancora quei problemi strani Jude? Che non dormi la notte che pensi alla ragazza che hai salvato?” “ E già, proprio non riesco a levarmi quella sensazione da dosso.” Noah con una semplicità disarmante disse: “ Senti, ma non è che ti sei innamorato vecchio mio?” La cosa mi spiazzò. “ Noah non te ne puoi uscire con una cosa così! Come posso essere innamorato di una che né conosco né ho mai sentito parlare, innamorato ma per favore, vediamo il film va.” “ Mamma mi ha detto che l’amore non si capisce è come un film dei fratelli Coen.” “Vediamo il film Noah, oggi non ho voglia di parlarne, ma poi che razza di paragoni fa tua madre!” con il viso sorridente Noah disse “infatti li faccio io non mamma.” Io scossi la testa. “Sei senza speranze mezzo nano.” Lui cominciò a picchiarmi col cuscino, poi smise “Basta, picchiarti è faticoso, Vediamo il film” Così mise la pellicola di Kubrik. Entrambi adoravamo la scena dell’astronave con Strauss come sottofondo. Noah si addormentò a metà film, così lo presi in braccio e lo portai a letto. Volevo bene a Noah come a un fratello, il fratello minore che non avevo, io ero sempre stato il più piccolo, ed ero stato privato di quella sensazione di poter proteggere, di occuparsi di qualcun altro. Verso mezzanotte tornarono i genitori di Noah dal teatro, li salutai e tornai a casa. Pioveva quella sera. Camminavo sotto la pioggia felice, come al solito, quando piove, mentre intravedo una figura, col cappuccio e senza ombrello seduta davanti ai gradini del mio appartamento. Pensai fosse un’allucinazione. Sveltii il o e arrivai davanti
casa mia. “Sei Jude Woods giusto?” Era Lei Althea, era venuta da me, era venuta a ringraziare il suo salvatore! “ Si, sono io, tu sei Alt…” Non finii la frase che mi diede uno schiaffo violentissimo. La mano che avevo sognato per tutte quelle notti, la mano che riempiva il vuoto, ora era lì a schiaffeggiarmi. La pioggia si intensificò, tanto che era difficile sentire le parole, ma lei iniziò a gridare. “Brutto stronzo! Chi ti ha dato il permesso di salvarmi, volevi fare il grande eroe coraggioso, sei solo un povero idiota, classico maschio che si sente Dio, tu non sei nessuno sei solo uno stronzo che vive in questo schifo di Village, pieno di coglioni che se la tirano, proprio come te. Io volevo farla finita e c’erano dei bei motivi ed ero libera di farlo!” Althea gridava, ogni tanto mi dava uno spintone, ma io ero paralizzato dai suoi occhi, erano blu, un blu scuro, un colore che non avevo mai visto e io ci naufragai dentro, il mio relitto sprofondava giù sempre più giù fino alla fossa delle Marianne, quello era il colore dei suoi occhi, quello del mare più profondo. Ma mi accorsi anche che quegli occhi erano vuoti, occhi di chi voleva annegare il proprio dolore. Eravamo fradici come se avessimo fatto un bagno in piscina vestiti. “Althea calmati adesso, mi dispiace averti salvata ma ora entra in casa ti chiamo un taxi” Non rispose, il suo sguardo si faceva sempre più vacuo, lei diventava sempre più assente, svenne e cadde, la afferrai prima che toccasse il suolo, la presi in braccio, Salii i gradini e con difficoltà aprii la porta di casa e la sistemai sul divano. Non sapevo che fare, mi tolsi il cappotto e il maglione e mi chinai verso di lei, fortunatamente respirava. Le tolsi il cappotto e controllai le tasche; tutte vuote. Né portafogli né cellulare né niente, controllai una tasca interna e trovai un pacchetto di Xanax, forse lo aveva mischiato con l’alcool e quello era stato il risultato, era capitato anche a me, un paio di volte, quindi Althea aveva solo bisogno di riposare. Mi accorsi che tremava così le poggiai due plaid sopra, le asciugai anche un po’ i capelli, poi presi il phon e tentai di asciugarle un po’ gli indumenti, e non riuscii a far più niente tranne che guardarla. Era bella, ma aveva qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Anche se non lo capivo mi
riempiva, straordinariamente risentivo il mio corpo, esistevo di nuovo, mi bastava guardarle il suo viso ed ero pieno. Cercai di stringerle la mano, ma lei cercò per prima la mia, mi ritrovai di nuovo nelle acque gelide del fiume la mia mano nella sua. Mi sedetti per terra vicino al divano con il braccio teso a darle la mano. La strinsi per tutta la notte. Non dormii, neanche un attimo, non ci riuscii, era impossibile, la guardai per tutta la notte, la mia mano nella sua, era sovrannaturale. Althea al contrario non aprì mai gli occhi, dormiva come se fossero giorni che non lo faceva. Pensai tutta la notte. Pensai all’amore e a quel poco che conoscevo a riguardo. Avevo avuto un’unica storia seria, durò tre anni. Ci conoscemmo al liceo, lei due anni più piccola. Con lei ho avuto tutte le prime esperienze che ti portano ad essere una sottospecie di adulto. Andò tutto in macerie per il mio carattere ma soprattutto perché si trasferì sulla costa ovest e l’amore a distanza è una malattia, così mi lasciò. Dopo questa storia il nulla, solo donne usa e getta, come faceva Rust, ma io non mi sentivo bene. Io avrei voluto qualcosa di più, ma non sapevo cosa. Io non sapevo cosa fosse l’amore, forse era quello che provavo tenendo la mano di Althea? Non lo so, io non so niente riguardo l’amore. Probabile ne sappia più Noah che me. So solo che vedere il volto di quella ragazza così problematica e fuori da tutto, è come dare una picconata alla mia anima congelata, la sua mano nella mia era tutto quel che volevo al mondo, Mi aveva riempito di insulti ma non mi interessava, poteva dire e fare quel che voleva io sarei rimasto lì a darle la mano. Delle volte credo sia tutto un inganno, l’amore non è altro che neurotrasmettitori e ormoni rilasciati in circolo, il tutto per farti scopare una e preservare la specie, anche il bene ai familiari è tutto solo per proteggere i geni e tramandarli nelle generazioni future, quindi non esiste né amore, né sentimento, siamo strumenti dell’evoluzione e basta. Non chiedetemi come mi escano questi ragionamenti, ma delle volte la mia mente va alla deriva e non riuscendo a spiegare le cose, comincia a produrre idee sempre più strane, frutto forse di troppe letture e qualche articolo di Nature, o forse per proteggermi dalle delusioni (sicuramente la seconda.) Verso le sei di mattina arrivò Rust, fece un baccano infernale per aprire la porta, era mezzo ubriaco e aveva la solita puttana dietro. “Rust fai piano! C’è questa ragazza che sta male! Sta dormendo fate piano per favore”.
Rust con la bocca allappata dall’alcool disse: “Si è fatta di brutto questa è? Non ti preoccupare noi andiamo su, faremo piano, vero Sally?” “ Mi chiamo Sarah stronzo e io con te non faccio niente, mi hai portata in questa casa di tossici, e non credo vogliano condividere la roba, io me ne vado.” così Sarah la puttana con i suoi tacchi 13 e shorts che sembravano più mutande, se ne andò sbattendo la porta drogata di non si sa cosa. “ No tesoro vieni dai” tentò Rust inutilmente, rincorrendola fino alla strada. Poi rientrato, dalla porta mi fa “ Mi hai fatto saltare una scopata da dio!” “Ti ho risparmiato la sifilide con quella.” Gli risposi. Se ne andò su in camera sua a dormire e io tornai a dare la mano ad Althea. Althea si svegliò verso le 9, era pallidissima, confusa. Le spiegai un pò come era andata la nottata. Non feci in tempo a spiegarle tutto che vomitò per terra, praticamente sui miei piedi. “Scusami tanto! Ti prego scusami io non sono così” scoppia a piangere e si getta tra le mie braccia, sento l’odore forte del vomito, i suoi vestiti umidi, ma avrei voluto che quell’abbraccio non finisse più. Le indicai dov’era il bagno, se voleva darsi una ripulita. “Grazie sei molto gentile.” così lei andò in bagno e io ripulii pavimento e piedi dal vomito. Era tutto un po’ surreale quel giorno, ma mi adattai all’atmosfera e al luogo, era tempo che ero estraneo da qualsiasi contesto, quel giorno invece tornai di pelle, muscoli, ossa. Il mio cuore quasi batteva di nuovo e i polmoni respiravano, che tipo strano che sono, una ragazza mi vomita sui piedi e io sono felice. Si, quella mattina sentii di nuovo, dopo anni, la felicità o almeno un abbozzo.
Capitolo 6
Althea uscì dal bagno, si era data una risistemata, aveva messo in ordine i suoi capelli castani in una coda di cavallo, certo si vedeva che era un pò malconcia, ma a me non importava, era di una bellezza segreta, ma folgorante la potevo capire solo io. aveva un fisico perfetto, forse un po’ troppo magro. Portava dei semplici jeans e sneakers ai piedi, un maglione blu, che le cadeva perfettamente sui fianchi e sul seno. Aveva qualcosa di misterioso, il suo viso era quello di una persona che aveva sofferto e stava soffrendo. Sotto quegli occhi blu scurissimo trovavano posto profonde occhiaie, il naso leggermente all’insù, labbra ben disegnate. La cosa che mi faceva impazzire di lei era il non essere sana, quello sguardo era di chi aveva vissuto l’inferno, di chi aveva combattuto ma perso, lei viveva con difficoltà tanto da portarla al suicidio, questo ai miei occhi la rendeva irresistibile. “Grazie di tutto Jude, veramente, mi dispiace per il disordine che ti ho combinato e per quello che ti ho detto ieri notte, ho mischiato i medicinali e sai non ero in me…. ” “Bè certo mi hai dato un bel disturbo, mi hai preso a schiaffi, vomitato sui piedi e soprattutto non mi hai fatto dormire, come minimo andiamo a fare colazione fuori insieme.” Le si arricciarono le labbra e con un mezzo sorriso “Diciamo che va bene.” “Bene andiamo allora”. Mettemmo entrambi il cappotto, scendemmo le scalette di casa e uscimmo fuori. La temperatura era più mite dei giorni ati e si poteva stare all’aperto con più tranquillità. Dopo pochi i entrammo in una caffetteria piuttosto vecchia e brutta, con i classici tavolini e sedie anni ’50, un jukebox sicuramente rotto, un posto comune e piuttosto sciatto insomma.
Ci sedemmo, Il tavolino era vicino alla finestra, arrivò la cameriera, una donna grassa dai capelli rossi e ile con il classico grembiule bianco pieno di macchie. “Buongiorno ragazzi, cosa vi porto?” “Per me pancake e 2 caffè belli lunghi” disse Althea. “Per me lo stesso, però solo un caffè grazie” “Perfetto, arriva tutto subito”. così la grassa cameriera andò via e ci lasciò soli. “allora Jude, perché mi hai salvata? Insomma non ce n’era motivo, non mi conoscevi, ero solo una che voleva morire, potevi girarti dall’altra parte e andare via, perché non l’hai fatto?” “Normalmente non mi giro dall’altra parte, poi vuoi saperla una cosa, due secondi prima che ti buttassi nel fiume stavo pensando di farlo anch’io, quindi cronologicamente tu hai salvato me.” gli risposi. “Non ci credo che volevi ucciderti, non ne hai motivo” Mi avvicinai a lei e le dissi “ Non riesco a dire bugie, sono nato con questo problema, poi che ne sai che non ho problemi per cui vorrei uccidermi, soffro di depressione prendo il prozac, il suicdio è l’ultimo o della malattia”. “Non hai gli occhi di un depresso, comunque anche se fosse, dovevi capire meglio di chiunque altro il motivo per cui volevo mettere fine alla mia vita.” “è stato istintivo salvarti, non so che dirti, spero che un giorno potrai dirmi grazie di quel che ho fatto” Arrivarono i pancake e poi i caffè. “ Althea, invece perché tu l’hai fatto?” rispose subito senza neanche finissi la frase. “Bipolarismo, è difficile conviverci, vivi sulle montagne russe, il suicidio come hai detto prima è l’ultimo o del periodo depressivo”.
“Capisco.” Risposi con la testa bassa, non volevo chiederle altro sulla questione suicidio. Iniziai ad affogare i pancake nello lo sciroppo d’acero. Non riuscivo a guardarla per quanto mi attraeva, lei invece ogni tanto mi lanciava un piccolo sorriso. Parlammo per una, forse, due ore, su un po’ di tutto. ”Jude tu di dove sei del Village o ti sei trasferito?” “No, sono di Brooklyn, la mia famiglia vive lì, e lavorano anche lì, hanno una libreria” “Bello una libreria! Il lavoro di mio padre è sicuramente più grigio, fa il neurochirurgo, sai è tra i migliori della nazione, lo vedo poco. Mia madre purtroppo è morta quando avevo 8 anni” “Mi dispiace tanto, dove abiti?” le chiesi. “Agli Hamptons, io però adesso vivo a Manhattan, ieri sera ero ad una festa al Village. Poi mi sono stufata e sono venuta a picchiarti!” disse ridendo. Mi disse poi che aveva 22 anni, e che aveva provato a seguire le orme del padre studiando medicina, ma non si era sentita in grado di continuare, lasciando il college e l’amaro in bocca al padre. Ora doveva capire la sua strada. Adorava la fotografia, l’arte e viaggiare. Io anche le raccontai tutto di me. Mai nella mia vita avevo sentito un simile legame con qualcuno e la conoscevo da poche ore. “Hey Jude, che bello chiamarti così, sembra di cantare è fantastico, cos’è che ti piace fare? C’è qualcosa per cui bruci?” “ Posso dirti che quattro cose sono indispensabili nella mia vita e sono: i miei vinili, il cinema, i miei libri e la mia Stratocaster.” “Allora dimmi un disco, un film, un libro.” “Allora sceglierne uno è difficile comunque, non ti dirò i più belli ma quelli che più mi hanno segnato, proviamo: due dischi per forza, Rubber soul dei Beatles e
Making Movies dei Dire straits, Notting Hill come film, sono costretto a dirti anche due libri; On the road e il giovane Holden” Althea scoppiò a ridere. “Notting Hill? Ma è un film per ragazze, una commedia d’amore, anch’io lo adoro ma è proprio strano che sia tra i tuoi film preferiti.” “Che ti devo dire, mi piacciono le commedie romantiche di quel tipo, quelle che finiscono bene, sarebbe stato troppo scontato dirti qualche sconosciuto film se di Truffaut”, “Sei proprio un tipo strano” disse scuotendo la testa “Grazie mille, li odio i normali.” Risposi. “Senti Jude, non so te ma io sono stufa di questa caffetteria, andiamo via” “ Ok, solo che dovremmo pagare…” Ma lei si alzò di botto e andò via. Io la seguii, senza pagare, così usciti fuori in strada corremmo come centometristi via dalla caffetteria. Sentii le urla della cameriera sulla porta del cafè, “Maledetti bastardi! Frank, valli a prendere!” Mi girai e vidi questo Frank, un cinquantenne grasso e stempiato. Ci corse dietro ma rinunciò dopo pochi metri e gridò “Tornate qui figli di puttana!” mentre sbraitava ruzzolò per terra come un povero idiota. Corremmo fino a un vicolo stremati e ci sedemmo e per terra vicino a un cassonetto. Entrambi ridemmo sinceramente, quelle risate che ti capitano poche volte nella vita. “Vai veloce ragazza bipolare…” “ Grazie mille ragazzo depresso, al liceo ero nella squadra di triathlon” rispose orgogliosa. “Certo poveretti quei due” dissi io con il fiato corto per la corsa “A me non interessa, mi ha dato un po’ di adrenalina questo ‘furto’ e mi ha fatto ridere”. Pioveva. Eravamo lì uno accanto all’altra vicino ad un dannato cassonetto in un sudicio vicolo, con la pioggia, ma io giuro non avevo mai sentito qualcosa di così potente in vita mia. Ci guardammo, ridemmo, poi la baciai. Sentii la lava
dentro di me, scendeva nelle vene, non ero più io, mi sentivo come sotto effetto degli acidi. Poi ci staccammo, nessuno dei due sapeva che dire. “Bè che facciamo adesso” dissi io come se non fosse successo nulla, avevo ancora il fiato corto, ma adesso per l’emozione. “A me piace camminare sotto la pioggia, a te?” dissi. “Veramente no, mi sono bagnata abbastanza ieri.” Rise. Poi continuò “Ascolta, io voglio rivederti, non so quando, no so come potrà andare, ma promettimi da subito che non ci innamoriamo. Ora vorrei tornare a casa darmi una sistemata insomma, riposarmi.” “Certo hai ragione” Aspettammo qualche minuto, in silenzio. Io pensavo a quanto fosse strana e pazza e al fatto che io fossi già innamorato di lei. Il silenzio non fu imbarazzante, era naturale. ò un taxi, lo chiamò lei con un fischio, il taxi si fermò, Althea mi diede un bacio sulla guancia e salì, “Althea aspetta, puoi darmi il tuo numero?” il taxi era già partito, lei si sporse dal finestrino “te lo farò avere!!” “Grazie!!” gridai io, quando non poteva più sentirmi. Rimasi così, sotto la pioggia. Per qualche minuto rimasi fermo a guardare quel cassonetto, a pensare se fosse stato troppo presto baciarla, se veramente provassi qualcosa nei suoi confronti, se lei ne provasse per me. Sicuramente ero tornato definitivamente tornato un essere umano, quel bacio aveva asportato il veleno dalla mia anima, ero tornato ad avere sentimenti, ora dovevo solo dargli un nome. Per questo non sapevo come comportarmi. Non sapevo se quello fosse amore o solamente pulsione. Decisi che era il punto di tornare a casa a riposare, non mi reggevo più in piedi. Arrivai in una decina di minuti a casa, entrai e mi buttai sul divano, ero completamente bagnato ma troppo stanco per cambiarmi. Mi addormentai subito. Dopo un paio d’ore penso, sentii come un peso estraneo sullo stomaco, mi svegliai, Il peso era un gatto, un bel gatto nero, che si stava leccando beatamente poggiato sulla mia pancia, ero così stanco che neanche mi domandai cosa ci fe un gatto in casa mia, di chi era come era arrivato a sdraiarsi su di me, mi riaddormentai, per pochi minuti perché ecco rientra Rust e addio riposo. “Jude hai visto chi ti ho portato?”, con gli occhi semichiusi gli risposi “Si l’ho
visto, sta sopra di me.” " Bè non sei contento? Il nostro terzo coinquilino!” “Quindi paga anche lui l’affitto?”. In realtà non mi dispiaceva affatto avere quel coso peloso girare per casa, il punto è che sembrava abituato a starci in casa, non era un randagio e aveva anche il collare con il nome, mi avvicinai per leggerlo, Albert, si chiamava Albert che bel nome. “Sono contento per il gatto, ma dove l’hai preso.” Allora Rust si siede sul divano io ritiro un po’ le gambe per fargli posto e Albert rimane sempre lì sul mio stomaco “avo qui dietro su Christopher Street per andare in facoltà e vedo una donna che caccia via questo poveraccio a pedate, scendo dalla bici e le chiedo perché era così incazzata con quella povera bestiola, così mi dice che la padrona è morta e non riuscivano a mandarlo via da quella casa, e che portava sfortuna, così me lo sono preso io. L’ho portato a casa, gli ho dato latte, acqua e un asciugamano per i bisogni, poi sono dovuto tornare all’università ”. Io risposi subito. “Allora hai fatto bene, se non aveva una casa. Caro Albert, ben venuto in famiglia”. “Senti Jude ma chi era quella strafatta ieri sera?” risposi senza tanti particolari. “Era la ragazza che ho salvato nel fiume, era venuta per ringraziarmi, poi si è sentita male e l’ho fatta rimanere qui” “No perché un paio di volte sono sceso e tu eri seduto ai piedi del divano e le tenevi la mano, insomma, non è una cosa che si fa per una sconosciuta” “Rust, io provo a chiedetertelo ma dato che so che sei un coglione mi darai una risposta da coglione.” “ Spara!” disse Rust. “ Tu sai cos’è l’amore? tu sai quando una ragazza non è solo pulsione sessuale, quando il suo aspetto fisico per te è solo una cornice e senti qualcos’altro, un sentimento puro, ecco che voglio dire, purezza.” sapevo benissimo che con Rust non avrei mai potuto parlare di cose simili, lui pensava solo al sesso.
Così Rust mi disse “Io ho un segreto, quando non riesci a farti una sega pensando a lei sei innamorato, fortunatamente, a me non è mai capitato.” “Sei veramente un’idiota.” Gli risposi. Poi lo scacciai dal divano, anche Albert scese ed io tornai a dormire.
Capitolo 7
Erano ati dieci giorni da quando avevo visto Althea. Promise che si sarebbe fatta sentire, ma il nulla, sparita. Ne parlai con Noah, durante una lezione di chitarra, stava imparando a suonare The Wind Cries Mary di Jimi Hendrix, durante una pausa fu lui a chiedermi. “allora questa Althea? Vi siete rivisti? Mi hai detto del bacio vicino al cassonetto io non credo la vedrai mai più, cioè tu la baci per la prima volta vicino ai rifiuti che ti aspetti? E poi da quel che mi hai detto, questa è a un o dal manicomio se non si fa sentire ti salvi vecchio mio.” “Ma del fatto del cassonetto per me è stato bello, magari lo è stato anche per lei, non so..” “Io ti dico una cosa vecchio mio, questa ragazza è troppo strana lasciala stare, già tu sei strano, se vi mettete insieme uscite fuori completamente di testa”. “Va bene basta su, torniamo a noi e ad Hendrix che è meglio, che quel poveraccio si starà rivoltando nella tomba per come suoni da schifo”. alla fine un pò la imparò la canzone. Un paio di giorni dopo mi chiama la mamma di Noah, Sue, diceva che quel disgraziato stesse suonando dalla mattina alla sera a pieno volume. io ero la loro ultima spiaggia, mi chiesero di dirgli di fare una pausa. Non gli dissi proprio niente, anzi, è proprio quando non riesci a smettere di fare qualcosa che esplode la ione. Lo feci solo venire più spesso a suonare da me, così non dava fastidio ai genitori. Una domenica mattina stavo facendo colazione a casa, latte e cereali, Albert salì sul tavolo e io lo accarezzai, poi scese e si sedette sulla sedia affianco a me. Era incredibile, quel gatto si comportava come un umano e io avevo iniziato a parlare con lui sempre più spesso.
“Caro Albert, sono sospeso, quella ragazza mi ha lasciato sospeso, secondo me non si farà più vedere” Lasciai un po’ del mio latte nella ciotola di Albert. “Albert, stai ingrassando da quando sei qui” lo accarezzai. Non avevo programmi di alcun tipo, pensavo di are la giornata in pigiama sul divano a vedere la tv, tanto di studiare non ne avevo la minima intenzione, e non trovavo senso in qualsiasi altra attività. Mentre mettevo la tazza nel lavandino, sentii un rumore di vetri infranti dal salone. Mi precipitai a vedere cosa fosse stato, trovai la finestra infranta, mentre per terra c’era un sasso avvolto da un pezzo di carta, Mi sentii il cuore in gola, quello era il classico gesto per una minaccia. Albert era lì vicino a me a darmi man forte, raccolsi il sasso e presi il biglietto: Ciao Jude, scusa se non mi sono fatta sentire, ti do appuntamento per le 10 di oggi a Central Park a Strawberry fields. Althea. Questa ragazza era completamente fuori di testa, che razza di modo di dare un appuntamento, sfondare le finestre. Ma questo non faceva altro che alimentare la mia curiosità e la ione vero si di lei. Nessuno avrebbe mai fatto una cosa simile maledizione! Poi Strawberry Fields, come faceva a sapere che io legato particolarmente a quel posto? La dovevo smettere di farmi domande, erano le 9. e dovevo ancora lavarmi e vestirmi e di certo non avrei fatto tardi all’appuntamento. Uscii in strada, la notte aveva nevicato, e la città era tutta imbiancata, dovevo sbrigarmi, presi la metro e scesi all’altezza della 72nd strada. Entrai nel parco, così meravigliosamente imbiancato, arrivai a Strawberry fields, erano le 10 in punto, ma Althea non c’era. Mi sedetti su una panchina e aspettai. ò un’ora, e di Althea neanche l’ombra. Un’altra ora, niente, cominciai a sentirmi un pupazzo di neve, fatto da qualche bambino, mi mancava solo il naso
di carota e il cilindro. Nella mia testa nemmeno per un secondo era ata l’idea che non sarebbe venuta. Infatti dopo 2 ore eccola lì, veniva verso di me, era fantastica, sembrava un cristallo di ghiaccio nell’atmosfera gelata, portavo un cappotto rosso e un cappello bianco con il pon-pon abbinato a una vistosa sciarpa, poi jeans e stivali marroni, le feci cenno con la mano, lei ricambiò il saluto e affrettò il o. Mi diede un bacio sul naso, e disse “scusa il ritardo…” Già scusa il ritardo, 2 ore maledette , al gelo tremendo ad aspettare te, però non mi interessava, adesso era lì. “Figurati che saranno mai un paio d’ore” Lei rise e disse “ Sai sono 2 ore che sono qui, dietro quell’albero, volevo vedere quanto eri disposto ad aspettare, quindi abbiamo aspettato entrambi con questo freddo” “Non riesci a fare niente di comune vero?” Rise di nuovo. “ No, forse no, ma almeno rompo la monotonia” disse Althea sorridendo. “Come mai proprio qui, a Strawberry fields?” le chiesi. “Adoro questa parte di Central Park, il fatto che fosse il posto preferito di John Lennon le dona un’atmosfera diversa, malinconica ma serena allo stesso tempo. Ha la forma di una lacrima e mi trovo bene quando vengo qui, ci vengo molto spesso.” “Hai ragione, è lo stesso per me” risposi, ed era la verità, maledizione, ragazza mia tu mi cominci a spaventare, sto piano piano cadendo nel tuo vortice. “ Poi dato che ti chiami Jude ho pensato subito ai Beatles, è un posto speciale per te questo o sbaglio?” “Già, i miei genitori da ragazzi adoravano i Beatles, io ero il terzo filgio e la mia nascita ebbe qualche complicazione. I miei giurano che sul corridoio c’era un
ragazzo con l’armonica che suonava Hey Jude, anche se con qualche difficoltà e giorni di incubazione, beh eccomi! Poi sai quando ero piccolo ci venivo con tutta la famiglia qui e cantavamo Hey Jude a squarciagola il giorno del mio comp…” Non mi permise di finire la frase, mi baciò. Quel bacio durò un tempo infinito.le nostre labbra erano gelate, rimanemmo quasi adesi. Quando ci staccamo, Althea mi diede una spinta ed io sprofondai nella neve “Molto forte Mr. Jude, molto virile, farsi atterrare da una ragazza”, mi rialzai avevo le orecchie e gli occhi pieni di neve, corsi verso di lei e la placcai. Perdonami signor Lennon per quel trambusto, ma la ragazza mi ha sfidato. Finimmo entrambi infossati nella neve. Le diedi un piccolo bacio sulle labbra e mi rialzai. Le porsi la mano per rialzarsi ma lei rispose, “No Jude sto bene immersa nella neve, guardo il cielo, non c’è più una nuvola, forse tutto il bianco del mondo è finito qui, dai vieni anche tu.” Mi sdraiai con la testa perpendicolare alla sua. “Angelo di neve?” Proposi “Certo” Rispose lei. Entrambi cominciammo a muovere braccia e gamba, eravamo scordinati. “Come ti senti” disse Althea “In questo momento?” “No, in generale.” “ È difficile da spiegare.” “Dai prova…” Faticai a risponderle. “Sai, io mi sento il nulla, invisibile, etereo, un alito di vento, come se non esistessi. Sai Althea, penso che per esistere devi avere una scenografia, un’ambiente dietro di te, un luogo, un posto, uno spazio tuo dove incastrarti. Io sento di essere senza posto, un posto in cui riconoscermi, un posto del quale conosco le regole, un posto mio, dove non mi sento inadatto, ma non è qualcosa di fisico, potrei vivere in tutte le città del mondo, aver provato tutti i mestieri, ma
io continuerei ad essere senza posto. Ecco, sai io non so perché mi sento così, ma da quando ho stretto la tua mano nel gelo del fiume, è apparso un lembo di terra sotto i miei piedi. È come se dal fango io stia tornando di carne.” Althea si alzò e si mise in ginocchio, di fronte a me, allora io mi sedei con le ginocchia attaccate al corpo e le braccia lungo i fianchi. “ Credo di capirti sai, anch’io ho avuto questa sensazione delle volte, mi sono sentita come se l’ambiente e gli altri continuassero ad andare avanti, vivendo, ed io rimanevo ferma a guardarli. ma non ho mai capito il perché.” “Il perché di cosa?” Le chiesi. “Il perché del loro andare avanti. Il perché di tutto. Nascere, essere bambini, apprezzare il mondo, essere curiosi, essere puri, avere fiducia. Poi pian piano il nulla, il lavoro, lo sporco, lo schifo del mondo, la realtà delle cose, la morte. Non capisco perché sbattersi tanto dal momento della nascita a quello della morte. Però, dopo che mi hai afferrato la mano nel fiume gelido, qualcosa è cambiato, forse esiste un qualcosa che abbia senso, forse sei tu, non lo so.” “Al momento credo che io, te e questa neve abbiano senso” Il viso di Althea cambiò espressione, divenne determinato, quasi incuteva timore, ma aveva qualcosa di strano io suoi occhi erano lucidi, mi sembrava fosse malata. “Sai cosa vorrei Jude, liberarmi da questa immobilità, da questo stato, io voglio credere nel senso del mondo, vorrei del disordine nella mia esistenza, non che non abbia problemi, ed è chiaro, non ne voglio di più, ma voglio andare via, lontano, toccare la fiamma della vita, voglio camminare senza meta, io voglio are per un luogo senza nome, io voglio provare il nulla, e il caos eterno! io voglio arrivare fino alla fine del mondo e gridare io ci sono!! Io ho senso, io e te, Jude, noi esistiamo non è così forse? Il Nostro posto non esiste, è inutile cercarlo. Perché stiamo qui su questa neve a parlare, dovremmo bruciare, dovremmo essere tu il tuono e io il fragore che viene dopo. Ma perché?” “No non lo so” dissi io. “Non lo so neanche io.” “OK” risposi sorridendo, ma da quel momento in poi la mia vita era
completamente compromessa. Sentii la scossa, Althea dentro era fatta di elettricità, fuori sembrava normale, ma dentro, era una centrale elettrica. “Comunque credo che un giorno un posto lo troveremo, io ho ancora la speranza” Mi alzai da terra, mi scrollai la neve dal cappotto. Tesi la mano e lei la afferrò, si alzò così anche lei. “Che facciamo?” disse Althea. “Camminiamo un po’?” “Ok.” Rispose lei Però poi mi accorsi che qualcosa non andava, il viso di Althea era sofferente e tremava. “Althea cos’hai? Tutto ok?” “Si non ti preoccupare, giusto un po’ influenzata, mal di pancia. Continuiamo è così bella questa neve.” Mentiva, non riusciva neanche più a stare in piedi, mi tolsi il cappotto e glielo poggiai sulle spalle. Le toccai la fronte ed era bollente “Jude dai non preoccuparti, rimetti il cappotto, ti ammalerai” “Non mi interessa, vieni qui”. La presi in braccio, tremava come una foglia, mi spaventò, così mi sbrigai per portarla a casa. “Althea dove abiti? ” “Sulla 73rd” Per fortuna era vicino, stavo congelando. Abitava al quinto piano, entrammo in casa, era un bell’appartamento, ordinato e ben arredato. Althea andò a mettersi a letto ed io per la terza volta ero lì a stringerle la mano, tremava. “Althea come è possibile che stai male così tanto, così all’improvviso!”
“Jude non ti preoccupare mi capita..” “Tuo padre è medico lo chiamo, ami il tuo telefono” “Inutile è fuori città” “Ok, allora che posso fare!?” “Niente, stai qui, mettiti nel letto vicino a me” Mi sdraiai sul letto, le diedi un bacio “Vedrai starai bene, riposati” “Ok” disse Althea tremando. Provai un dolore lancinante a vederla così, era lì nel letto, avvolta tra le coperte, teneva gli occhi chiusi e tremeva. Io la abbracciai per riscaldarla. In quel momento capii cosa fosse l’amore e maledizione io lo provavo per quella ragazza. Mi addormentai. Mi risvegliai sul letto di Althea, ma lei non c’era, mi alzai, guardai fuori dalla finestra ed era già buio, dovevo aver dormito parecchio. Mi accorsi che sul comodino di Althea c’era un bicchiere con un blister di pasticche vuoto, avrà preso qualcosa per l’influenza pensai. Uscii dalla camera da letto, arrivai nel salone, uno splendido salone, un arredamento minimalista ma estremamente curato, Stampe di Chagall, Keith Haring e Kandinsky sulle pareti, e anche delle foto in bianco e nero, molto particolari, me ne colpì una, di una bambina sotto la pioggia con le braccia aperte, sempre in bianco e nero, con l’ombrello per terra colorato di rosso Arrivai in cucina, grande, sempre in linea con l’arredamento del salone “Ciao dormiglione, sto preparando la cena” “Stai meglio! Wow ti sei ripresa con poche ore” dissi. “Era una cosa eggera, adesso ho solo un po’ di mal di testa e forse due linee
di febbre” “Dovresti riposarti, comunque come vuoi, non sei tipo da farti convincere” “No, proprio no” rispose lei sorridendo. La cena fu pronta in una mezzora, non ricordo che mangiammo. Dopocena parlammo un po’ sul divano in salone, mentre vedevamo i Simpson in TV. Notai in un angolo in salone un violoncello. “Vedo un violoncello, non hai coinquiline quindi è tuo, sai suonarlo?” dissi “Non è vero che non ho coinquiline perché qui con me abita mia sorella Julia, te l’ho detto già mi pare, però si, il violoncello è il mio, non lo suono da tanto….” “Dovresti invece, fammi sentire qualcosa dai!” “No Jude mi dispiace, non posso.” “Come vuoi” Risposi. “Ti spiego. Ho iniziato a studiare musica e il violoncello da molto piccola, ho continuato per 10 anni, tutti mi dicevano fossi un talento. Poi dopo il liceo feci il provino alla Julliard, ma l’ansia mi bloccò e non riuscii a suonare. Dopo tentai medicina ma dopo un paio d’anni ho lasciato, come vedi sono una perdente.” “perdente? non pensarlo nemmeno, hai qualcosa che non ho mai visto in nessuno, poi le ho viste le foto, sono fantastiche, giuro.” “Grazie Jude è una mia grande ione, sai, bloccare il momento in un’immagine è come andare contro natura, contro il tempo.” “Quella della bambina sotto l’acqua chi l’ha fatta?” “Quella l’ho fatta quando avevo 11 anni, preparai l’autoscatto e mi misi in posa ruppi la fotocamera per la pioggia ma la pellicola rimase intatta, poi l’ho rieditata poco tempo fa, colorando di rosso l’ombrello”
“Mi piace da impazzire.” Probabilmente toccai un punto dolente per Althea riguardo la musica. Allora le dissi, “Dai non pensarci, un giorno tornerai a suonarlo quello stramaledetto violoncello e spaccherai il mondo! E poi quanto potrà essere difficile!” Allora andai presi il violoncello, presi quel coso per suonarlo, che non so come si chiama, e cominciai a uccidere lo strumento tentando di suonarlo. Althea si fece una bella risata nel vedermi fare il cretino. “Grazie Jude.” Mi avvicinai a lei e l’abbracciai, lei si strinse a me “Sai, non ho mai provato questa sensazione nell’abbracciare qualcuno, non so come si chiama, ma mi sento bene.” Disse Althea sottovoce. Poi continuò. “Mi fai diventare matta… non so più come comportarmi con te”. "Non esiste nessun modo di comportarsi, o mi mandi via a calci fuori di casa o mi baci." Si girò e mi diede un profondo bacio. Svenni, non il mio corpo, ma la mia anima svenne, non sopportava più quel magma, si sciolse, non ne rimase più niente. Restammo lì con i Simpson in TV, e quel bacio. Il naturale proseguimento di quella situazione era chiaro, ma non successe nient’altro, fu un contatto estremamente puro.
Capitolo 8
La Prima volta che io e Althea abbiamo fatto l’amore è una storia da pazzi, ed anche piuttosto lunga. Dunque, era ata una settimana dalla giornata a Central Park, non ci eravamo mai scambiati il numero di telefono, una cosa che aveva voluto lei. “Voglio che il nostro rapporto sia reale, solo tangibile, mi fanno schifo queste relazioni tecnologiche, vorrei qualcosa di più capisci? Una volta le persone mandavano lettere, aspettavano mesi e anni le notizie, e allora si che si laceravano nell’attesa del ricevere una lettera, non uno stupido SMS”. Provai a spiegarle in tutti i modi che il telefono era stato inventato da un paio di secoli e che era solo un modo per sentirsi più spesso, ma niente da fare, Althea era testarda come un mulo e aveva delle idee quantomeno poco convenzionali. Ogni volta che dovevamo incontrarci trovava un modo diverso per dirmelo. Il martedì mattina mi trovo un palloncino rosso attaccato al pomello della porta di casa, lo tiro giù. C’è scritto con un pennarello nero: Ciao Jude oggi ho voglia di visitare con te il gabinetto più grande di New York City, ci vediamo lì alle dieci , sii puntuale! Althea “Ehi Rust senti qua, Althea vuole che ci incontriamo davanti al gabinetto più grande di New York City” “Liberati al più presto di questa pazza, quale gabinetto vuole, ma poi un invito con un palloncino, senza parole, poi il vetro rotto dell’altra volta! però prima fattela, non è niente male” Rispose il mio grande amico. “Certo una un po’ più semplice potevo trovarm… il gabinetto!!”
Presi e uscii di casa preso dalla frenesia ma dovetti rientrare dato che dimenticai cappotto, scarpe e soprattutto i pantaloni. Rust si fece una risata irritante delle sue e come nostra abitudine gli lanciai un bel dito medio. Il gabinetto era sicuramente il Guggenheim, meravigliosa struttura che non ho mai capito e non avevo mai capito neanche una di quelle “opere” dentro. Un giorno ci andai, presi una di quelle audioguide, e mi visitai tutto il museo, volevo sentirmi un acculturato triste. Non capii un cazzo, rimasi solo impressionato da una grande tela tutta a chiazze di colore blu. Insomma quel quadro era stato dipinto così, il pittore, Klein, mi pare, scopava una, la immergeva nel colore blu e poi la usava come pennello umano. In quello trovai tanta genialità, nel resto seghe mentali, niente di più. Arrivai al “gabinetto” alle dieci in punto e stranamente era stupendamente lì anche lei, Il Guggenheim in realtà mi è sempre piaciuto, la struttura mi intrigava. Si avvicinò, mi diede un bacio. “Non vedo l’ora di vedere questo posto con te, il ragazzo che mi ha salvato la vita deve conoscere le cose che amo” Annuì. Davanti a quelle tele Althea si perdeva completamente, il suo viso si trasfigurava, neanche la riconoscevo più. Si fermò davanti a Chagall, Duchamp, Magritte, sembrava presa da una forza sconosciuta, come se avesse la sindrome di Stendhal. “Althea, scusa se ti offendo, ma perché si ritiene un’opera d’arte un disegno che saprei fare anch’io, o dei tagli su una tela?” “Jude, sta tutto nell’emozione, sai, l’emozione di Fontana di praticare quei tagli sulle tele è rimasta intatta e si rinnova ugualmente quando qualcuno la guarda. Dei segni, dei gesti semplici sono solo il fenomeno, il risultato tangibile di una mente, dove dietro c’è la pura essenza, il ragionamento, lo scopo.” Mi lasciò lì con la faccia inebetita e prosegui verso l’opera successiva. Più tardi vedemmo la mostra temporanea sul periodo pre-astratto di Kandinsky, che apprezzai anch’io. I colori forti, espressivi bucavano la tela e andavano oltre.
Quegli abbozzi di paesaggi erano semplicemente sereni. Forse era questo quello che provava Althea davanti ai quadri, non so. Erano già 2 ore che visitavamo il ‘gabinetto’ di New York City quando Althea si fermò di scatto su una tela. Era number 18. Di Jackson Pollock. “Incredibile, il caos totale o forse teorizzato, io mi sento dentro quest’azione, questo movimento, ci abito. Sai Jude, Pollock non sapeva cosa sarebbe uscito sulla sua tela, certo, forse una schema mentale dei colori c’era, ma lui liberava completamente la sua essenza, la sua rabbia ed abbandonato tutti gli strumenti del pittore, il suo quadro per me è avventura, non sai cosa può accadere. Lui si lasciava guidare dal subconscio. Vorrei vivere io così, perché siamo fermi qui. Hey Jude perché siamo fottutamente fermi qui!” La guardai, mi aveva quasi messo paura, il volume della sua voce si era alzato un po’ troppo, in fatti le persone intorno si girarono. Ma aveva ragione maledizione. Dovevo trovare anch’io il mio ‘caos ordinato’ “Jude”, disse lei con lo sguardo più bollente che abbia mai visto “Andiamo via, non so dove ma andiamo via, prendiamo la macchina e la rendiamo il colore, la terra la tela, senza progetto, senza niente, creiamo il nostro capolavoro,” La guardai negli occhi, le stavo per dire tu sei pazza ti porto a casa. Ma non ci riuscii, il suo fuoco mi aveva ustionato. Poi l'idea mi faceva tanto sentire un personaggio di Kerouac, divenni una fiamma. “ Bene andiamo, di corsa no voglio aspettare un altro minuto” Le dissi. Tornammo a casa mia, Presi uno zaino con due bottiglie d’acqua e una vecchia cartina stradale degli USA. Saltammo sulla mia vecchia Jeep Wrangler nera, aveva troppi anni, dovevo rottamarla, ma volevo bene a quell’auto, me ne fregai, quel catorcio ci avrebbe portato ovunque. Partiamo, “Direzione?” “Non lo so e non voglio saperlo” Mi faceva impazzire dio santo. Srotolai la cartina. “Guarda, questa è la cartina degli Stati Uniti, chiudi gli occhi e punta uno stato.”
Io lo dissi molto ironicamente. Ma lei lo fece, puntò il dito aprì gli occhi “Montana, splendido il Montana, la natura vera e incontaminata, è proprio quello di cui abbiamo bisogno”. Non che non mi pie il Montana è che in auto ci sarebbero voluti diversi giorni. Poi la guardai. La sua eccitazione, il suo voler uscire da una realtà sofferente, stare via per un pò e poi quanto cazzo era bella, era impossibile dirle di no. “Ok andiamo Althea, lasciamoci guidare dal caos. Montana bene, è lì che andremo” Mi ò la cartina, così ci dirigemmo nord-ovest. Prendemmo l’autostrada, la nostra avventura senza limiti iniziava. non eravamo preparati, non avevamo bagagli, pochi soldi, in quel momento ragionavamo fuori dal mondo, era come se fossimo animali, ci guidava solo l’istinto. Ma credo restassimo comunque due idioti. Per la prima volta in vita mia mi sentii vivo, il tramonto avanzava, Lei era accanto a me, aveva un incendio dentro, mise una bandana blu in testa, le gambe incrociate e le scarpe sul cruscotto, aveva un sorriso che mi rendeva pazzo e si, il suo cuore era un cinquemila di cilindrata, una fuori serie, la sua bellezza nascondeva il tramonto. La strada si srotolava davanti a noi, senza dimensioni, vincoli o distanze; noi eravamo lì a viverlo, vivere quel momento eterno. The Joshua Tree alla radio, cantammo violentemente Where the streets have no name, l’uno contro l’altra, i finestrini abbassati, il vento di metà Marzo era ancora carico di freddo ma ne avevamo bisogno, eravamo surriscaldati, io pensavo di scoppiare, quel sentimento fu potente, incredibilmente potente, sfociò in un bacio, il più bello della mia esistenza. Durante la strada chiamai Rust, non feci in tempo a prendere il telefono che Althea me lo prese e gettò dal finestrino. “Voglio che siamo liberi da tutti, da tutto.” Disse questo e mi baciò. “Ma si, un po’ di libertà, non essere collegati a niente, solo a te” Mi baciò di nuovo. Althea aveva portato una vecchia polaroid, iniziò a scattarmi foto a ripetizione e poi me le lanciava, non si rendeva conto che stavo guidando, alcune le facevamo insieme, Poi si fece una foto da sola “Portala con te per sempre, ovunque,
giuramelo” “Te lo giuro”. Risposi, l’istantanea era stupenda, la piegai e la riposi nel portafoglio. Guidai per otto ore circa, erano le dieci di sera, eravamo arrivati in Ohio, vicino Columbus, ci fermammo in una sudicia area di servizio. Io mettevo benzina mentre lei prendeva qualcosa da mangiare. Althea rientrò, aveva preso due cheeseburger, due coca cola, una bottiglia d’acqua, due buste di patatine una di popcorn e di biscotti. “Queste cose ci bastano per altre otto-dieci ore” “Ok” risposi. Aveva fatto il rifornimento di alimenti che avrebbe voluto un bambino. Io cominciavo ad essere stanco e a non capire neanche più di tanto che cosa cazzo stessimo facendo, comunque ero vicino a lei, le leggi pratiche e del mondo sono cenere. “Althea, sono parecchio stanco, che ne pensi se ci prendiamo una pausa?” “Guido io, te lo volevo dire anche prima.” “Sei sicura di sentirtela?” le chiesi. “Allora, solo perché sono una ragazza no sono in grado di guidare come te?, hai proprio sbagliato, salta su, ti do una bella lezione” “Allora vediamo questa pilota come se la cava” Così il nostro viaggio continuò, Althea guidava bene, io mi addormentai per un paio d’ore. Poi mi svegliai. “Ti sei svegliato finalmente, abbiamo superato l’Ohio, siamo in Indiana” “Bene.” Risposi assonnato. “Certo se ci pensi è incredibile!” disse Althea. “Cosa?” “Di me e te, di tutto quello che è successo. sai che mi stupisce , la casualità,
quando ci penso divento matta. Mi vieni in mente tu, che con la tua mano salvi la mia vita e se non fossi stato lì? Io adesso non esisterei più, non avrei potuto vivere questi giorni con te. Sai Jude, prima non sapevo per cosa continuare a vivere, ora ci sei tu e le esperienze che possiamo fare insieme” Quasi mi venne da piangere, ma mi contenei. “Non credo sia tutta casualità, ho deciso io di sedermi su quella panchina in riva all’Hudson, nessuno me lo ha imposto. Però è vero. Sai che significa che io e te dovevamo incontrarci, se non in quel lago i un altro posto, prima o dopo” le risposi. “Sai quel giorno, io non dovevo essere lì” “E dove?.” “In Giappone, c’è una foresta, un luogo bellissimo, ai piedi del monte Fuji si chiama Aokigahara. Sai perché famosa? È un luogo per i suicidi. Io non volevo andarmene in un modo qualunque e dato che adoro il Giappone e non ci sono mai stata ho chiesto a mio padre di regalarmi un viaggio a Tokyo. Sarei dovuta partire il 3 febbraio, ma non resistetti, dovevo morire prima e le mie gambe mi portavano senza che io decidessi” Althea era in lacrime e quasi anche io “Ho girovagato tutto il giorno, mi sono ubriacata, drogata, preso psicofarmaci e mi sono ritrovata senza sapere come sulle rive dell’Hudson, allora mi buttai. Quindi, pensa quanti avvenimenti sono andati a combaciare ordinatamente per salvarmi.” “Althea io credo che tu debba buttarti alle spalle tutto questo schifo e ricominciare, adesso pensa che siamo solo tu ed io e non esiste nient’altro. Tu non dovevi morire, Punto.” “Hai ragione, tu ed io, due folli, sognatori due amanti, nient’altro” Althea guidò per altre quattro o cinque ore, avevamo superato l’Illinois, ed eravamo entrati nell’Iowa quando l’imprevisto da noi tanto agoniato, il disordine che doveva regnare come sulla tela di Pollock arrivò, il motore della mia vecchia e adorata Wrangler morì, così dal nulla, un fumo nero, quasi esplose, Althea si spaventò, finimmo fuori dalla carreggiata tra cespugli e alberi. Io e Althea ci guardavamo e ci veniva da ridere, Non ava un auto sulla strada non avevamo cellulari, la mia Wrangler andata, ma noi ridevamo.
Quando smettemmo di ridere, tra me e lei ci fu uno sguardo di fuoco, la pulsione divenne forte, la ione venne dal nulla in quella situazione e divenne insostenibile. Mi saltò addosso. Althea mi baciò ma era come se mi divorasse ed io lo stesso. Mi tolse la maglia, io la sua e il reggiseno, le toccai baciai il seno, La mano di Althea scese. Così io e lei facemmo l’amore per la prima volta, Non so dove nel’Iowa, sbattuti fuori dall’autostrada, in una macchina distrutta.Fu per me, probabilmente, l’unica volta che il contatto fisico non finiva lì, ma andava oltre. Era l’alba, eravamo nudi sui sedili posteriori dell’auto, era come se ci trovassimo in un altro luogo, non sapevamo che maledizione fare ma eravamo felici. Althea mi disse “promettimi che non diventeremo mai come le altre coppie, smielate, idiote, voglio che noi siamo reali, che ogni bacio sia un pericolo mortale io non voglio la normalità!” “Sono d’accordo Althea, il nostro rapporto non verrà mai rotto dalla routine”. Mi scattò una foto, poi io una a lei. Cominciò a fare poi alcune foto all’alba, alla strada, pentendosi di non aver preso la fotocamera migliore. Ci rivestimmo e cominciammo a renderci conto che eravamo dispersi sull’autostrada. “Credo che l’autostop sia l’unica soluzione” Dissi io. “Non a una macchina e poi ho il terrore di incontrare uno di quei maniaci, Chiamo il servizio stradale, è la cosa migliore” “Si sarebbe fantastico, ma siamo senza telefoni, idea tua” Althea tirò fuori dalla tasca il suo cellulare. “Solo per le emergenze, scusa…” Mi aveva buttato fuori dal finestrino il mio cellulare appena comprato e lei invece se lo era tenuto, ma come facevo ad arrabbiarmi contro quegli occhi… “Non fa niente dai, ti perdono, il tuo era un gesto simbolico, ora chiama dai.”
Althea chiamò il servizio stradale, indicò la nostra posizione di massima, dissero che entro un’ora sarebbero stati lì. “Althea dai, non siamo arrivati in Montana ma abbiamo comunque seguito la strada senza un piano, abbiamo seguito il disordine!” “Già… Lo voglio seguire ancora” lo disse con uno sguardo strapieno di sesso. Meno di un minuto ed io ero sopra di lei. Ci rivestimmo di nuovo e aspettammo il servizio stradale. Althea aveva un aspetto sfinito, i suoi occhi erano spenti e la pelle aveva un colorito pallidissimo, eravamo scesi dall’auto, ma Althea tremava, in effetti faceva piuttosto freddo, così le dissi di tornare in macchina e le misi un plaid che tenevo dietro al bagagliaio sulle spalle, continuava a tremare, era confusa, portò le mani alla testa come se le stesse per esplodere, le toccai la fronte ed era calda. . Io andai nel panico. Poi lei mi disse "Sei uno stronzo comunque" "Perché mai?" "Perché ti avevo detto di non innamorarci" disse Althea "Mica l'ho deciso io." Le risposi "Sei uno stronzo ugualmente" “Ti senti male un po’ troppo spesso” Le dissi cambiando argomento e piuttosto preoccupato. “è l’emozione di stare con te.” Feci finta di non sentire quella cazzata. Arrivò il soccorso, dal carroattrezzi scese un ragazzo sulla trentina dall’aria simpatica, era mezzo messicano, grassoccio. Si avvicinò a noi. “Allora ragazzi, motore fuso è? Io sono Phil, piacere di conoscervi.” Rimasi stupito dalla sua gentilezza. “Piacere nostro, io sono Jude, lei è Althea” Dissi io, a nome di entrambi.
“Ascolta la ragazza si sta sentendo molto male, possiamo fare il prima possibile?” “Dannazione, certo amico, in cinque minuti faccio venire un’ambulanza, noi siamo troppo lenti” Arrivò l’ambulanza, Presero Althea e io la seguii nell’ambulanza “Che faccio con la macchina?” chiese Phil, l’uomo del carroattrezzi. “Tienila, rottamala, fai quel che vuoi! Aspetta un secondo però” . Salii in macchina e raccolsi tutte le nostre foto, poi andai in ambulanza, Althea venne portata all’ospedale di Davenport, erano le otto del mattino. Aveva perso conoscenza e ora in terapia subintensiva. Dovevo avvisare il padre. Avevo il cappotto di Althea in mano, fortunatamente c’era il cellulare, Così chiamai il padre, mi presentai e gli spiegai tutto. “Grazie di tutto, prendo il primo aereo e sono lì, prenditi cura di mia figlia ti supplico, è molto problematica, tu sei il ragazzo che l’ha salvata, lei non fa altro che parlare di te. Prenditi cura di lei, ci vediamo tra poche ore.” “Ci sono io accanto a lei, farò tutto il possibile, glielo giuro.” Dopo una mezzora arrivò un medico che disse che era fuori pericolo solo uno svenimento per la stanchezza e la febbre. ma aveva bisogno di controlli. Fui sollevato, ma allo stesso tempo non capivo perché ogni tanto doveva stare così, Forse quei lunghi giorni in cui non ci vedevamo lei stava male, comunque dopo poco la mia mente si calmò e pensai solo che era cagionevole di salute. Entrai nella stanza dove si trovava Althea, mi baciò “Scusami, non so che mi è preso, forse ero solo stanca e già quando eravamo partiti ero raffreddata.” Poi tossì. “Tranquilla ora arriva tuo padre” le dissi per rincuorarla. “Mio padre? Lui non centra niente in questo perché l’hai chiamato!” Althea si
infuriò e non capii il perché. “Tuo padre deve sapere che sei a Davenport maledizione, poi è un medico e non è la prima volta che svieni davanti a me, che dovevo fare.” “Ok.” disse Althea con il broncio di un bambino. Mi addormentai su una sedia, al mio risveglio c’era il signor Harris che abbracciava la figlia, lo salutai gli strinsi la mano e lui mi abbracciò, lo stesso tipo di abbraccio che si da a un figlio. “Grazie” mi disse “Grazie devo dirlo io a lei, ero nel panico, parlare con lei mi ha calmato” “Sai Althea con il suo bipolarismo, delle volte vuole fare cose anche quando sta male.” “Capisco” dissi. Poi scusami ma non mi sono presentato mi chiamo Robert, il tuo nome già lo so” Sorrisi. Verso le 3 del pomeriggio, quando le condizioni di Althea erano buone, andammo in aeroporto e prendemmo il primo volo per New York.
Capitolo 9
Tornai a casa la sera, trovai Lucy ad aprirmi la porta, era venuta a trovarmi il giorno prima ed era rimasta a dormire nel mio appartamento finchè non arrivassi. “Eccoti! Ci hai fatto prendere un colpo a tutti, tanto per cambiare, ma dove sei stato?” Non le avevo parlato di Althea, così dovetti spiegarle tutto. Con Lucy mi confidavo sempre, specialmente sul tema ragazze, ma non le dissi niente di lei, non so perché, forse non volevo che fosse una delle tante che mia sorella giudicava per me. “Non mi hai mai detto niente che ti sei messo insieme alla ragazza che hai salvato?” “Si ma non è che stiamo proprio insieme, è strano, abbiamo un’intesa su tutti i livelli, ma lei si fa vedere quando vuole, ano le settimane e neanche posso sentirla per telefono, ha questa fissazione di non usarlo.” Nel frattempo scese Rust “Solo una fuori di testa così, poteva stare con lui, hai anche dovuto buttare la Wrangler!” “Fanculo Rust” gli risposi. “E la Wrangler era da rottamare.” Il nostro gatto Albert si strusciò lungo la mia gamba, lo presi in braccio e mi sedetti con lui sul divano. “Mi hai proprio deluso Jude, non mi hai detto assolutamente niente, a me la tua amata sorella” disse Lucy. “Comunque sai che conosco molto bene la sorella di Althea?” “Cosa?”
“Si, io e Julia Harris, anche se lei è più piccola di me, abbiamo frequentato la Julliard per un paio d’anni, poi io mollai, lei no, lei è una pianista eccezionale, ci siamo sentite quando ho letto sul giornale il nome della sorella e guarda caso tu l’hai salvata!” “Pensa te!” disse Rust. “Non mi hai detto niente che ti sei fidanzato. Almeno dimmi cosa hai fatto di romantico per lei, qualcosa che l’ha sbalordita?”. Disse Lucy, l’interrogatorio continuava. Pensai un attimo prima di rispondere, a parte salvarle la vita, non le avevo fatto niente, né un regalo né una cena, ero uno schifo di ragazzo. “Non siamo fidanzati, non lo so cosa siamo, lo lascio decidere a lei. È un rapporto troppo strano, però è vero io non ho mai fatto niente per lei, ma capisci Lucy, mi ha rotto la finestra per darmi appuntamento, porca puttana, capisci lei vive su un altro mondo, tipo me, ma delle volte lei sembra di essere di un’altra galassia, e cosa puoi fare per una di un’altra galassia?” Risposi. “Beh, può essere particolare quanto vuoi, ma tu te ne sei innamorato, devi fare qualcosa per lei, anche per riportarla un po’ sulla terra” “Mah” risposi. Poi venne anche lei sul divano e ci addormentammo vedendo la televisione. I giorni avano e come al solito Althea non si faceva sentire né vedere, così decisi di andare io da lei, ma prima dovevo fare qualcosa di speciale per lei, ma non sapevo cosa. E maledizione a forza di pensarci la trovai, grazie all’aiuto di Lucy. Così una mattina di fine Marzo andai a casa sua, sulla 73rd. Entrai in quel palazzo signorile e andai verso l’ascensore, abitava al quinto piano. Bussai alla porta un paio di volte, poi eccola, alzata da poco ma comunque tanto bella da accecare, le bianche tende svolazzavano per il vento, e lei era nel mezzo, era un maledetto quadro, sentivo che sarei morto d’infarto a breve.
“Jude! Che ci fai qui!! Ti avrei chiamato io, come al solito” “Stavolta no, ho una sorpresa per te, preparati e andiamo, e anche questi sono per te” da gentiluomo quale sono le portai un bel mazzo di rose. “ Grazie…” mi baciò, poi mi invitò a mettermi sul divano “Mi preparo subito” Aspettai più o meno un’ora. Ma l’avevo programmato. “Bene ora usciamo ma metti questa benda sugli occhi” “Cosa? Benda sugli occhi, fiori, ma cosa ti sei messo in testa che siamo fidanzatini?” Disse ridendo “Beh una specie, ora andiamo .” Scendemmo con l’ascensore, uscimmo dal palazzo e ci dirigemmo su Columbus Avenue per una decina di minuti. Ogni tanto Althea si lamentava, urlava e ogni tanto mi dava un calcio, ma capii benissimo che era felice e incredibilmente ansiosa di togliersi la benda e vedere la sorpresa, mentre io avevo paura che dopo mi avrebbe dato un calcio sulle palle. Arrivammo così alla Julliard. Entrammo e mia sorella Lucy e la sorella di Althea, ci scortarono fino all’Auditorium per le prove. Era incredibile come sia Julia e Lucy avessero frequentato la Julliard, e si conoscessero molto bene. Julia aveva sei anni in più di Althea, le somigliava molto se non per quegli occhi blu e sofferenti che aveva Althea. Julia terminò il percorso alla Julliard. Avendo varie amicizie nell’amministrazione, permisero ad Althea un’audizione, fuori sessione, che se fosse andata bene le avrebbe permesso di entrare nella lista dei candidati per l’anno seguente. Dietro il sipario tolsi la benda ad Althea. “Ma dove siamo Jude? Questo è un teatro, anzi un auditorium” Althea cominciò ad andare in paranoia, sudava e stava perdendo il controllo. “Perché mi hai portato qui!” gridò
“Althea, calma, guardami negli occhi, non scollare mai il tuo sguardo dal mio, sei nel nostro mondo”. Poi la baciai e le dissi “vai lì fuori e suona, ci sono solo io, voglio vederti brillare Althea, voglio vedere te stessa, Vai e prenditi quel che è tuo!” Lei rimase pietrificata, poi mi diede un bacio intenso e uscì. Mi sedetti tra le prime file, dietro c’erano tre tizi piene di sé, e poi Julia e Lucy. “Salve.” Disse Althea, porto la suite N.1 di Bach per violoncello. Mentre suonava, come le avevo detto, non scollava gli occhi dal mio sguardo, lei suonò magnificamente, era perfetta superlativa, mi venne la pelle d’oca a sentire quello strumento vibrare e il suo volto, concentrato era quello di una ninfa della mitologia greca. La musica mi entrò dentro, era come un freddo gelido che ti toccava l’anima. Sentivo che quella di Althea si liberava dal ato. Finita l’esibizione però ad applaudire fui solo io, Lucy e Julia. Forse era troppo arrugginita per certi livelli. I professori chiesero di uscire dalla sala in modo brusco e arrogante. Dopo il consulto parlarono con Althea, le fecero i complimenti ma le dissero che non era abbastanza per la Julliard. Usciti, abbracciai Althea, che era in lacrime. “Althea mi dispiace tanto, non so come scusarmi. Non avrei dovuto, non suonavi da tempo” “Scusarti? Tu hai organizzato tutto questo, mi hai fatto suonare davanti a un pubblico dopo anni, lo hai fatto solo per amore, sei la persona più meravigliosa del mondo, piango per la gioia, almeno ci ho provato, ho suonato non mi sono bloccata, ho superato quell’incubo ato, tutto grazie a te, alla forza e alla tranquillità che mi hai dato” Scappò una lacrima anche a me, poi ricordai che le sorelle erano lì a guardarci e mi contenni. “Jude, nessuno in vita mia aveva fatto una cosa così per me. Grazie,”
Non riuscii a parlare, rimasi lì come un manico di una scopa, riuscii solo a baciarla, ma il mio corpo mi diceva di piangere, le parole di Althea mi avevano scaldato l’anima. Avevo paura che questa delusione la buttasse giù, invece nei suoi occhi vedevo splendere una luce mai vista. Aveva cancellato un fallimento del ato. “Noi andiamo, vero Julia?” Julia era lì a guardarci come se fossimo cerbiatti, o coniglietti pelosi. “Si andiamo, ho delle cose da fare”. Così io e Althea camminavamo, nella nostra New York, eravamo entrambi sereni, come il cielo azzurro, senza nuvole, ma tirava molto vento. Io avevo le mani in tasca, Althea si stringeva con tutto il corpo attorno al mio braccio sinistro, la testa sulla mia spalla. Eravamo la copia della copertina di Freewheelin Bob Dylan, lo dissi ad Althea, rise e si strinse ancora di più. Mangiammo un hot dog. Ci trovavamo al Lincoln Center, Althea disse. “Senti Jude, ti andrebbe di venire a casa mia per cena, quella agli Hamptons, casa mia è a Southampton , non avere pregiudizi, non ci abitano solo ricconi come la mia famiglia” Sorrisi “Andiamo. Non vedo l’ora di vedere dove sei cresciuta”. Prendemmo la sua macchina, una Prius. Ci vollero un paio d’ore ed arrivammo dove abitava, a Southampton. C’era una simile tranquillità in quel posto e si trovava a sole due ore da New York. Il mare, i gabbiani, un posto per meditare, calmare l’anima, mi sarei seduto su una di quelle panchine sul mare per ore. Poi arrivammo a casa sua. Chiesi per tre volte ad Althea se mi stesse prendendo in giro, poi aprì la porta e quindi no, non lo stava facendo. Era una di quelle case che si vedono su quei giornali di design, si trovava di fronte all’oceano, stile moderno e lineare, il legno e il vetro ne facevano da padroni, grandi spazi, il vero senso di quella casa mi sembrava la luce e l’aria, immaginai come dovesse essere alle prime luci del mattino, il senso di leggerezza che traava quelle vetrate. Il giardino che percorreva il perimetro della casa era estremamente ordinato e curato, stile Zen. Mentre salivamo le scale di legno per arrivare alla porta le dissi
“Althea, questa casa è fantastica, non mi avevi detto che eravate milionari” “Ti ho detto papà, è un importante neurochirurgo, e la mamma era architetto, lei ha progettato questa casa ma non è riuscita a vederla completata.” “Mi dispiace molto..” le presi la mano Entrati in casa rimasi ancora più meravigliato che dall’esterno, era di un'eleganza unica, adoravo quelle decorazioni essenziali e il profumo di legno che abitava gli interni. Gli spazi erano grandissimi, i muri non esistevano, solo finestre che davano sulla baia. “Prima la casa era molto più piccola, poi mamma studiò un modo per ampliarla e modificarla, amava gli spazi ampi, soffriva un po’ di claustrofobia, l’avrebbe adorata finita” C’era molta malinconia nella voce di Althea. “Althea che ne pensi di due i in riva all’atlantico?” “Certo non c’è niente di meglio, noi l’Atlantico e il tramonto” Camminammo lungo la riva per una decina di minuti, poi ci sedemmo su un vecchio arbusto, col tramonto davanti. “Maledettamente bello qui” dissi. “Era il punto preferito anche di mia madre, L’avresti dovuta conoscere, ti sarebbe stata simpatica, in alcuni lati me la ricordi” “Quali?” “Per esempio l’aiutare gli altri, non appena qualcuno aveva bisogno lei c’era”. “Grazie è una cosa per cui andare fieri aver avuto una mamma così.” Fece una pausa e con gli occhi lucidi e voce tremate disse: “Sai Jude, un giorno stavamo giocando tutte e 3 nel giardino a nascondino, poi non sentimmo più la sua voce, io e Julia ci spaventammo.
La chiamavamo ma niente, poi la trovammo sdraiata ai piedi di una quercia in giardino.” Althea iniziò a piangere, “un ictus fulminante, come un’ interruttore, chissà chi decide, di far finire la vita di una madre mentre gioca con le figlie.” Cominciò a piangere, così la strinsi a me “Althea, io non credo in Dio, proprio non ci riesco, ma credo nella probabilità, nella casualità degli eventi, gli urti sono inevitabili. Il tempo è un flusso ciclico, se lo vedessimo da un’altra prospettiva sarebbe come vedere un cerchio che ruota all’ infinito, parte da un punto e torna allo stesso. Tutto sta nella prospettiva, noi ci siamo dentro, per noi quel che finisce è finito. Dal di fuori la tua vita ricomincia ogni volta che finisce, riparte sempre e continua allo stesso modo e in quel preciso punto di tempo. Sai Althea ho cominciato a vederla così la vita per dargli un senso, per dare un senso ai cambiamenti. Gli infiniti giri che avvengono, sono nello stesso attimo. Tua madre per esempio, adesso è qui, a godersi il tramonto con noi, ma nello stesso istante ci siamo noi, i tuoi figli o il niente. Non puoi vederlo solo perché non puoi cambiare prospettiva. L’unica cosa che lascia traccia in questo fiume temporale è l’amore, io credo in questo, io credo nell’amore, ho capito che non è solo ossitocina o neurotrasmettitori, l’amore è l’unica arma per lasciare un solco nel tempo. Tua madre la rivedrai nel prossimo giro, uguale a prima, forse fa paura che non possiamo poi cambiare gli avvenimenti, ma l’amore per tua madre può cambiare il flusso che si ripete immutabile. E ricorda ogni momento rimane eterno, io e te saremo qui per l’eternità.” Althea avvicinò lo sguardo verso il mio, arrivò a tre centimetri dal mio volto, poi con voce bassa, quasi come se mi stesse rivelando un segreto “perché tu, perché proprio tu, hai un’intelligenza stupenda, non quella degli spocchiosi, ma acuta. Tu sei buono, non l’ho mai incontrata una persona come te, perché tu hai dovuto incontrare me, perché tu…” Continuava a piangere. “Calmati Althea, mangiamo adesso, e grazie delle parole, mi hai commosso” Tornammo a casa e Althea si era calmata. Ci spostammo sul divano, Non mangiammo, bevemmo solo del Merlot, forse troppo, davanti al camino, io mi sedetti, lei si sdraiò con la testa sulle mie gambe, parlammo per una mezzora, forse di più. Poi l’aria cambiò. Nemmeno me ne accorsi ed eravamo in camera da letto. Althea si spogliò e si pose delicatamente supina sul letto . Il suo corpo nudo su
quel letto era un paesaggio impressionista. La bocca, il seno, le gambe, trasudavano di sesso. Il tempo cominciò a scorrere più lentamente. I suoi occhi, dio i suoi occhi mi uccidevano, scese dal letto, mi tolse i pantaloni e lo mise tra le sue labbra, ero vicino all’estasi, poi mi spogliò completamente e mi gettò sul letto. Si mise sopra, poi la rovesciai, sentivo la ione salire sempre di più, Le baciai le labbra, il seno, ed arrivai fino in fondo, sentivo il suo piacere, si dibatteva nelle coperte, poi mi poggiò una mano sulla testa, e spinse con crudezza, per culminare nell’orgasmo. Tirai su la testa, un qualcosa di primordiale cominciò a vibrare tra di noi, continuammo per tutta la notte e più volte. In tutti i modi i nostri corpi si attorcevano e gridavano di piacere, i suoi gemiti si facevano sempre più forti, il suo corpo mi cercava e il mio il suo, due parti nel cosmo che dovevano unirsi. La mattina seguente mi alzai e accanto a me non trovai Althea. Mi rivestii ma non trovai il mio maglione, quando eccola arrivare, con la colazione pronta per entrambi e indosso il mio maglione. Sembrava un film, la perfetta sceneggiatura per un film romantico. Quando mi alzai realmente Althea non c’era, in nessuna delle fottute meravigliose stanze. Tornai in camera da letto per mettere il maglione, quando notai una lettera sul comodino una lettera, avevo paura ad aprirla. Jude, tu sei stata l’unica persona al mondo che io abbia mai amato, i momenti che ho ato con te sono stati i migliori della mia vita, spero che tu possa essere felice anche senza di me in futuro. Non possiamo continuare a vederci, ti distruggerei, mi dispiace ma finisce qui. Addio, Althea P.S. ti ho lasciato le chiavi della macchina di mio padre lui sa tutto, puoi tenerla quanto vuoi poi la verrà a riprendere. La lettera mi cadde dalle mani, non me ne capacitavo di quel che era successo, la sera prima era tutto perfetto, ora tutto finito. Capisco il bipolarismo ma non è per quello, c’è qualcos’altro. Comunque me ne andai da quella casa, ignorai il prestito dell’auto e presi il treno.
Erano le dieci di mattina rientrai a casa alle sei di sera. Rientrai in casa, Albert mi fece subito le feste. “Eccolo il perforatore del Village, dimmi un po’ come è andata la nottata?” chiese Rust “La nottata fin troppo bene, ma al mattino mi ha scaricato” “Sul serio? Pensa quanto ce l’hai piccolo” “Non è aria Rust, sul serio” “Mi dispiace amico” Mi abbracciò, quel tanto da non sembrare gay. “Perché l’ha fatto?” “Non lo so mi ha lasciato solo questo biglietto” “Senti, io non so te, ma questa è anche al di sopra del tuo limite di sopportazione.” “Forse”. Non mangiai e andai a letto. Il mattino seguente andai di corsa al suo appartamento sulla 73rd. Arrivai davanti la porta e bussai, continuai a bussare per 10 minuti ma niente. Così scesi e andai a parlare col portiere “Salve, per caso ha visto la signorina Harris ?” chiesi. “Mi dispiace ma entrambe le ragazze sono partite e hanno lasciato l’appartamento libero” Ringraziai e me ne andai. Non mi vergogno di dire che piansi molto. Althea era stata la cura del mio malessere, il mio amore verso di lei aveva guarito il gelo del mio cuore, la piattezza della mia anima, ma non potevo farci niente lei era andata.
Capitolo 10
Le miei funzioni biologiche cominciavano molto lentamente a ripartire; il cuore ormai danneggiato mandava quel poco di sangue che serviva ai miei arti a portarmi sul divano, ad aprirmi la birra e a vedere i cartoni in TV. La sensazione dell’abbandono da qualcuno che ami veramente non l’avevo mai provata. Non era più il dolore del sentirsi vuoto, che comunque riaffiorava, ma qualcosa di più profondo e stupidamente concreto. Era un vuoto allo stomaco, avrei dato fuoco a tutto, perchè tutto mi ricordava lei. Per quale fottuto motivo l’aveva fatto, eravamo qualcosa, non so dirvelo, ma eravamo qualcosa di forte, il nostro rapporto era durato un paio di mesi, a me erano sembrati anni. I suoi occhi, il suo corpo, il suo modo di parlare, erano rimasti lì in qualche lobo del mio cervello. Quando sorrideva tutto quello che c’era intorno crollava. Io credevo fosse la cura, in realtà peggiorò la malattia definitivamente, ero ormai prossimo alla morte. Sapete la cosa che più mi distruggeva? Era il non poter più toccare la sua mano, l’ultima volta che le ho stretto la mano era nel letto dove avevamo fatto l’amore. Quella era l’ultima, ma il pensiero della prima volta che la presi mi mandava ai matti, lì giù nel fiume, io la sentivo ancora fisicamente e niente poteva lavarlo via. Odio una cosa: stringere la mano a qualcuno per l’ultima volta, è una cosa che mi distrugge. Perchè desidero avere la possibilità di farlo per sempre, non riesco a sopportare qualcuno che esce dalla mia vita ma questo accade costantemente e per questo quante mani, quanti saluti dovrò dare a qualcuno che non vedrò più e poi ricordarlo in futuro. Perchè le cose devono cambiare? Delle volte penso che siamo tutti soldati di piombo nelle mani di un bambino pestifero.
Neanche Rust faceva battute, avevo capito il mio stato, almeno credo, stava lì sul divano con me, non mi diceva niente se non “erà amico mio, erà”. Ormai non uscivo quasi mai da casa, prima che incontrassi Althea era come se non avessi corpo, come se non esistessi, ora ce l’avevo, lo sentivo, il mio corpo, sentivo la gravità, sentivo le lacrime, che bruciavano sul viso. ate due settimane Noah mi chiamò per l’ennesima volta al telefono, non risposi lasciai la segreteria. “Juuuude! Lo so che sei lì!! Ti prego vieni a farmi lezione, poi mamma e papà vanno a cena fuori, ci vediamo un film, non so qualcosa per tirarti su come Taxi Driver!!” Risposi “Va bene vengo nano!” “Evvai!” rispose. La sera verso le 7 andai da Noah, entrai in casa, salutai i genitori Sue e Stuart. “Sei proprio un bravo ragazzo Jude, non hai idea quanto Noah ti voglia bene, sei il suo idolo” disse la mamma, “Grazie, io o del tempo stupendo con Noah.” Risposi. Non gli feci lezione perché non ne avevo voglia, però mangiammo la pizza e vedemmo Taxi Driver. Come per tradizione lui si addormenta e lo porto a letto, io scendo e aspetto i genitori. Mi addormentai verso mezanotte. Alle 3 sento suonare il camlo, si saranno dilungati pensai, ma vidi il riflesso delle luci della polizia sulle finestre, mi si gelò il sangue. Aprii la porta e maledizione, mi trovai due agenti davanti, il berretto tolto, mi venne da piangere, sapevo già cosa stava per accadere, Sue e Stuart hanno avuto un tremendo incidente e lì è finita la loro vita. Noah scese le scale, dopo essersi accolto del rumore. “Hey dove sono mamma e papà?” disse con la voce tremante. Dovetti essere io a dirglielo, vederlo straziato dal pianto mi lacerò dentro. “Ci sarò sempre io per te, capito! Non ti lascerò mai un attimo solo.”
Eravamo in ginocchio abbracciati davanti la porta, Noah urlava dal dolore. Il baccano svegliò i vicini e Rust corse in mutande verso di noi. Ci abbracciammo, saremmo stati la sua famiglia. I giorni che vennero furono tremendi. Vi fu il funerale, un rituale che aumenta solo il dolore. Nei giorni seguenti si aprì un problema grandissimo: Noah non aveva né zii né nonni. Quel ragazzino così buono e intelligente sarebbe finito in un istituto. Per fortuna aveva degli zii di secondo grado e una di loro era disposta a prendersene cura, solo che abitava a Los Angeles , ma disse che per lei non era un problema cambiare città ma doveva avere il tempo di arrivare e sistemare il tutto. Così per 2 settimane Noah visse con noi. Gli permettevamo di fare di tutto, anche i miei fratelli lo sommersero di regali, mangiava tutte le schifezze che voleva, ma come vi ho detto Noah non era un bambino come gli altri. “Ok voglio bene a tutti voi anche ad Albert che sta sempre a farmi le fusa, però per favore, torniamo alla normalità” Annuimmo tutti, quasi anche Albert. Noah era un bambino molto forte, teneva la sofferenza per sé e al di fuoti lasciava la solita immagine di bambino, tranquillo e ironico qual era. I suoi genitori erano molti giovani Sue aveva trentatre anni, Stewart uno in più. Avrebbero potuto ancora tutto, insomma, vacanze, litigi, il figlio con uno spinello, crescere e vivere e morire insieme. Hanno potuto condividere l’ultima parte, che con crudezza devo dire che è una fortuna, veder morire la persona amata credo sia il dolore più grande che esista. Guardavo la lapide e pensavo allo schifo di vita che ci viene data. Piangevo ma era sempre Noah a tirarmi su, paradossale ma era così. Da quando erano morti i suoi genitori, è strano da dire ma mi sentii leggermente meglio, doveva occuparmi di lui, non avevo tempo di pensare ad Althea, anche
se comunque era incollata nella mia mente. arono le due settimane. Era il primo maggio, l’aria era secca e calda, si stava bene anche in T-Shirt e calzoncini. Si presenta così una vecchia station wagon rossa, strapiena di pacchi, davanti casa di Noah, io, lui e Albert scrutavamo dalla finestra di casa mia. “Deve essere la zia” disse Noah! Scende dall’auto una ragazza mora, con un corpo da manicomio, seno esplosivo; nei jeans strettissimi un culo da svenimento. Era la famosa zia di secondo grado di Noah. Menomale che Rust stava una settimana fuori a casa dei familiari a Philadelphia, perché la nonna stava male. Così io e Noah uscimmo di casa a far conoscenza, neanche lui la conosceva bene, non l’aveva vista tante volte, forse un paio, ad alcune feste di famiglia. “ Ciao ragazzi” esordì lei. “Benvenuta nella grande mela, stai pur sicura che ti mancherà Los Angeles” Le strappai subito un sorriso “Speriamo di no!” “Noah, vieni qui, non sai quanto mi dispiace per mamma e papà” “Lo so, così è la vita Meg, un bella merda” che tipo che era mi faceva ridere anche in situazioni tristi. “Hai proprio ragione.” Rispose la ragazza. “Comunque mi presento” mi diede la mano “Sono Meg Martin.” “Jude Woods.” Poi continuò “ adesso mi dovete dare una mano a scaricare l’auto e a sistemare le cose in casa” Lo disse con un sorriso da commessa di Abercrombie, ed io dotato di cromosoma Y non potei rispondere che “Si certo”.
Tre ore, tre santissime piene di sudore e fatica ore per portare tutta la sua stramaledetta roba in casa. Noah non faceva altro che guardarle le tette, non che io ogni tanto non gli buttassi un’occhiata, almeno alleviava un po’ la tortura. Mentre facevamo i traslocatori, Meg straparlava su tutti i luoghi che voleva vedere di New York, ci riempì la testa di fottute banalità lette su una guida turistica. Finito il lavoro, Meg fece “che ne dite di andare a Coney Island” Erano le quattro del pomeriggio, lei aveva viaggiato da costa a costa e aveva ancora voglia di andare a Coney Island. “Io devo finire i compiti, li rimando da due giorni” Disse Noah atterrito. “Tu Jude? Che ne pensi” “Certo andiamo” a decidere era stato solo il coso in mezzo alle gambe, perché ero stanco morto e depresso, ma magari uscire un po’, con una ragazza così, mi avrebbe fatto bene. Presi il Defender di Rust, lei saltò in macchina “Cazzo che bella macchina.” “Non è mia è del mio coinquilino Rust” Così presi rotta per Coney Island, fra tutti i posti meravigliosi di New York, voleva andare lì. “Allora Jude, che fai nella vita?” “Studio lettere, o almeno ci provo” risposi, ma quanto non sopportavo quel tipo di domande quel periodo, dato che ero piuttosto immobile riguardo il futuro e lo studio “Bello, credo sia interessante” “Per me lo è, tu che fai o facevi, dato che ti sei trasferita qui?” “A Los Angeles lavoravo in un coffee bar, ma ho fatto un paio di volte la comparsa in televisione, adesso cercherò una lavoro nuovo da qualche parte, sai avevo voglia di cambiare aria, i miei non volevano, così sono molto felice di stare con Noah.”
Arrivati a Coney Island, scende dalla macchina e come una bambina corre verso l’entrata. “Dai sbrigati!” disse ad alta voce Meg. Questa Meg, maledizione se era bella, emanava sesso da tutti i pori. Entriamo ne parco giochi, li ho sempre odiati i luna park per questo non ricordo bene quello che facemmo, sicuramente la ruota, montagna russa e quant’altro, quello che mi rimase in testa fu lo zucchero filato. Mangiava quella robaccia con sensualità, era da perdercisi nel guardarla, poi alzai lo sguardo e mi lanciò un’occhiata, un treno che mi ò sopra. Uscimmo dal parco presto, perché Noah era solo a casa. Andando verso la macchina si accese una sigaretta e mi diede la mano, fu un gesto completamente inaspettato. Saliti in macchina lei abbassò il finestrino per fumare “Grazie della serata Jude, si sta bene con te, hai un tocco di umorismo che trovo molto affascinante, per non parlare del tuo culo.” Rimasi surgelato. “Ehm grazie Meg” le risposi fortemente imbarazzato “Grazie di niente è la verità, di un po’hai la ragazza?” “Non al momento” Risposi. Lei sorrise e mosse i capelli come un leone nella savana. Dopo un po’ arrivammo a casa. Era evidente che lei volesse altro, ma io non ero nello stato d’animo “Allora ciao Meg, occupati della peste.” Entrai in casa bollente. Non mi era mai capitata una cosa simile. Insomma io ero completamente pieno di Althea, sentivo ancora il suo respiro, il suo battito, del cuore, la sua mano, il suo sorriso il suo corpo, la sua leggerezza, eleganza, era eterea e di una mente fine e sofferente che ci accomunava, un desiderio di autodistruzione, di perdersi ovunque. Non la vedevo da un mese ma per me non era cambiato niente, io aspettavo un suo biglietto sotto la porta o una palla da demolizione con l’orario di un appuntamento sopra. Ma questa stramaledetta ragazza, Meg era il desiderio sessuale fatto persona. Aveva il suo corpo e lo mostrava con fierezza, era concreta, pratica, praticamente una strafiga. Era in salute e non la voleva perdere, la sua anima non era
cristallina e non si vedeva dietro quella corporeità così forte. In poche parole, era una stramaledetta ragazza bellissima, che abitava davanti a me e che voleva farmisi ed io avevo praticamente detto no perché innamorato di una che mi ha lasciato con un biglietto sul comodino. Giudizio a voi. arono altre giornate, ovviamente non raccontai la storia a Rust altrimenti avrei dovuto cambiare casa, però la vide, si presentarono. Non appena conosciuta poi lui in corse in bagno. Meg trovò lavoro nella caffetteria ‘Da Frank’ dove io e Althea non avevamo pagato, quasi risi quando me lo disse. Una sera, verso la metà di maggio, Noah andò a una festa di compleanno di sera. Meg mi chiese di farle compagnia per accompagnarlo e io accettai. Lo portammo e noi ritornammo a casa. Meg mi propose di rimanere lì con lei a vedere un film ed io le dissi di si, tanto non avevo tanto di meglio da fare. Non calcolai che Meg non voleva vedere nessun film. Ero seduto sul divano di casa loro con un birra in mano. Lei si avvicina sul divano e mi bacia sul collo, nel frattempo cercava la zip dei pantaloni, arriva al punto giusto, poi si mette sopra di me e mi bacia furiosamente. Ero completamente preso da lei e dal suo corpo. Poi mi prese la mano, così, istintivamente. Sentii un nodo in gola e niente nel cuore, io stavo tradendo l’unico sentimento puro e reale che avevo mai avuto. Ma dall’altro lato, il piano fisico, Meg era nell’iperuranio della ione, un caldo vento che ti accarezza e ti tocca, maledizione se ti tocca. Ero diviso in due, ma vinse la carne, la materia, quel che potevo toccare e possedere. Quel divano vide le peggiori profanazioni del corpo umano. Quel corpo perfetto di Meg, lo stavo distruggendo, la presi da dietro e andai con così tanta veemenza che ruppi il divano, ma non ci interessò continuammo a farlo 2 o 3 volte. Cominciava ad arrivare il caldo, e io lo odiavo il caldo, ma quell’anno insieme al caldo arrivò Meg. Non ero sicuro per niente di quello che stavo facendo, non provavo niente per Meg, solo sesso, incredibile, ma solo e
puro sesso. “Senti, io ho 8 anni, e ancora certe cose non le ho capite, dovresti parlare con qualcun altro. Però una cosa la capisco vecchio mio, tu aspetti che la tua Althea, ti bussi alla porta che il ato non esiste più e che vuole, stare con te. Allo stesso modo io vorrei tanto che mamma e papà arrivassero, come facevano sempre quando tornavano da lavoro.” Le lacrime scorrevano lungo il viso di Noah, e anche sul mio, lo abbracciai forte. Mi aveva fatto capire, comunque, come solo lui poteva fare, che Althea non c’era più, potevo piangere e dannarmi l’anima ma lei non mi voleva, se ne era andata, ora c’era Meg, lei provava qualcosa per me ed era una bomba. “Giù c’è il divano rotto comunque” “Ci penso io, ora va a studiare” Risposi imbarazzato. Decisi comunque di tornare dall’analista perché la mia testa barcollava, volevo evitare la caduta. “Come sto dottore? Un’autentica merda.” “Bene. Mi definisca questa merda, insomma può voler dire tante cose.” “Prima di tutto, mi sento come a Febbraio, piatto, inconsistente, etereo, ma stavolta anche incazzato, perché avevo trovato la mia cura, una splendida ragazza, ma adesso è fuggita nel nulla.” “Cosa aveva questa ragazza di tanto speciale?” “Che domanda mi fa, maledizione, lei era bellissima, era… non ce la faccio a descriverla dottore, il fatto dottore che c’è un’altra ragazza, al polo opposto di Althea. Una ragazza provocante, pazzesca, ma non sento per lei quel che sento per Althea, sono due cose fottutamente distinte.” “Lei deve capire se prova qualcosa oltre il sesso per la ragazza in questione.”
“Già, forse questo è il punto. ” “ Senta, per capire, ma quando si masturba a chi pensa?” Questo pervertito! mi alzai gli diedi i soldi e me ne andai “Alla settimana prossima!” “Arrivederci” disse lo psicoterapeuta.
Capitolo 11
“Amore cosa facciamo stasera? Ti va il Cinema?” Era Meg al telefono, mentre mi salutava con la mano dalla finestra di fronte. Dopo quella sera, erano ati una ventina di giorni, Io e Meg avevamo approfondito i rapporti. Mi ero legato in una relazione ma il sottofondo però era torbido, io stavo ingannando quella stupenda ragazza. Non riuscivo a prendere le distanze da Althea, anche se mi aveva lasciato con un pezzo di carta, mi aveva lacerato il cuore. Mi aveva fatto tornare alla nauseante esistenza che conducevo prima di conoscerla. Meg mi aveva scosso. Era una ragazza normale, forse un pò ingenua per i suoi 26 anni, ma non stupida, anzi. Si era laureata in scienze dei media o roba simile all’Università della California, ma non aveva trovato un posto di lavoro inerente ai suoi studi. Così si era trovata lavori più umili, sempre meglio che stare bloccati e farsi mantenere. Quindi, oltre ad essere molto bella era intelligente, cosa rara, ma lei lo era. Insieme parlavamo un pò di tutto, anche di sport. Essendo una ragazza normale, che viveva sul pianeta terra, mi aveva dato il suo numero, la sera uscivamo, andavamo ai ristoranti romantici, al teatro al cinema. Vivevamo uno davanti casa dell’altra, stavamo praticamente sempre insieme. Non è che stessi male con Meg, ma mancava qualcosa, o mi dava qualcosa di diverso. Andavo sempre dall’analista per cercare di capire cosa avessi nella mia testa malata ma ogni volta era un buco nell’acqua. A Meg mancava quell’essere vulnerabile, quello sguardo sofferente, che però lasciava intravedere una resistenza fuori dal comune. Althea, dentro fuoco e ghiaccio insieme, era pericolosa, nessuno era in grado di tenerle il o, viveva e parlava come qualcuno che fosse stato catapultato su questa merda di mondo
per sbaglio. Althea c’era e non c’era non lo capivi, dovevi studiarla ogni volta. Meg invece era più semplice, non avevi bisogno del pentagono per decriptarla, quando ti guardava sapevi sempre quello che voleva, lei il fuoco lo mostrava, non lo lasciava dentro, lei era tutto corpo, lei era quel che era non c’erano interpretazioni diverse, lei era sensazione fisica. Questo era il problema, Meg non riempiva il vuoto interiore, non scaldava il gelo attorno al cuore, non mi liberava dal castello di cristallo. Meg non guariva, ma lo mascherava il problema, era un antidolorifico, era morfina. Quando ero con lei spengevo tutte le sensazioni, diventavo concreto e mi dimenticavo del mio dolore, del vuoto e di Althea. “Certo per me va bene il cinema, Noah?” “Noah va a dormire da Joy un suo amichetto stasera” disse lei. “Ok allora andiamo” “A dopo tesoro” Vedete, la mia vita in quel periodo era così, quasi serena, avevo trovato una sottospecie di dimensione in cui mi ero adattato. Andavo sempre più a lavorare alla libreria giù a Tribeca e studiavo meno, quasi zero. Continuavo a scrivere quel romanzo su quel musicista Folk, ma sinceramente faceva pena, scrivevo e cancellavo più o meno allo stesso ritmo. Meg mi ava a trovare quando staccava e un paio di volte lo abbiamo fatto nel bagno della libreria. Lo avevamo fatto praticamente ovunque; bagni sotto la Metro e di ristoranti, al cinema, al teatro,(il bello è che seguivamo la trama tranquillamente) sul frigo, contro la finestra, sul treno e sull’aereo. Già l’aereo. Il 18 maggio era il compleanno di Noah, così decidemmo di portarlo a Disneyland in Florida. Vennero anche Rust e Lucy. Furono 3 giorni divertenti, ma tra Topolino e Pluto e Pippo capii che non potevo continuare a stare con lei. In fin dei conti stavamo bene, c’erano momenti d’intesa, ma non era amore, lei non aveva colpe, ero solo io, un idiota che non sapeva cosa voleva, avrei dovuto
spiegare tutto sin dall’inizio. Il suo effetto antidolorifico era finito, ma non sapevo come spiegarlo a Meg, che era radiosa e stupenda e felice. Meg, mia cara, tu sei un oppiaceo potente, ma io sono assuefatto ormai, vai e cura qualcun altro, maledizione a me. Pensavo solo ad Althea, mi chiedevo dove fosse, chi le stava toccando la mano, chi la baciava, impazzivo. Noah almeno si divertì tantissimo, fece tutti i giochi 3 o 4 volte, io non li facevo, giusto qualcuno, odio i parchi divertimento. Lucy mi trascinava come se fossi un bambino, alle montagne russe, era una specie di tradizione, lo faceva da quando avevo sei anni. Io le montagne russe le vivevo tutti i giorni, il vuoto d’aria era la sensazione del mio risveglio, più che altro un pugno sullo sterno. Tornati a casa, cominciai a scrivere discorsi su discorsi per spiegarle come stavano le cose per non ferirla, ma non esisteva nessun discorso, così, le bussai alla porta. Le dissi quel che dovevo, senza die niente richiuse la porta. I giorni seguenti Meg fece come se non esistessi. Parlai con Noah e mi disse che piangeva tutto il giorno. Complimenti Jude hai spezzato un cuore, che uomo di merda sei. Non sapevo che fare, così un giorno feci quello che mi imponeva la malattia della verità, al massimo non mi avrebbe parlato più oppure mi avrebbe ucciso. Le bussai alla porta e le dissi tutto, ma proprio tutto su di me e Althea, la depressione il suicidio, tutto. “Jude, tu avrai tutti i problemi del mondo, potrai essere strano quanto ti pare, puoi vivere su un altro pianeta come quella ragazza, ma la verità è una: tu sei uno stronzo che ha trovato una che gliela dava in un momento di sofferenza. Posso anche capirlo, ma finiscila di metterla sul trascendentale, sei un comunissimo stronzo.” Bene questa risposta era quel che ci voleva.
Capitolo 12
Adesso ero libero di soffrire per Althea. Mentre il caldo avanzava sempre più, il mio animo tornava ad essere una terra desolata, chilometri e chilometri pieni di sassi, sabbia, senz’acqua, arido, ogni tanto solo un tuono, il pensiero di Althea, niente pioggia solo polvere, che mi asfissiava e mi gettava a terra, avevo bisogno d’acqua, avevo bisogno della sua mano. avevo bisogno della cura. Perché, perchè se n’era andata così, neanche nel suo essere lunatico trovavo una motivazione, perchè Althea, perchè!? Forse non sei mai esistita, sei solo un miraggio in questo deserto di morte. Questo vuoto, questo dolore, vorrei morire. La mia depressione era molto peggiorata, sentivo la morte dietro di me, sentivo gli avvoltoi, sentivo il ruotare del mondo che mi dava la nausea. Sentivo che non avrei resistito. E poi, poi, il tuono, stavolta portò pioggia. Era il 10 giugno, ore 16:00. Suona il camlo, vado faticosamente ad aprire la porta ed era lei. La fissai un attimo. Gli sbatto la porta in faccia. E me ne torno sul divano. Althea continua a suonare e a chiamarmi, Albert si avvicina e gratta sulla porta. “Jude, dai!! Aprimi e ti spiego tutto, mi dispiace sono stata costretta”. Andai e aprii la fottuta porta. “Cosa vuoi” le dissi. “Andiamo in Patagonia, io e te, adesso.”
Le richiusi la porta in faccia. Poi non so cosa, nella landa desolata del mio animo rifiorì, allora le aprii di nuovo. “La Patagonia.” disse lei. “Che?” “Si, io e te, partiamo da Buenos Aires, arriviamo alla fine del mondo e gridiamo che ci siamo.” “Servono delle attrezzature, lì è inverno in pratica e io non ho niente e mi devo ancora lavare e..” “è tutto in quel minivan, sia per te che per me, lavati prendi qualcosa di personale e vieni ti aspetto in macchina.” “Ok.. entra siedi sul divano fai come ha sempre fatto” Althea aveva tagliato i capelli, li portava alla ‘se’ adesso, era dimagrita, pallida, i suoi occhi erano incavati, trapelava la sofferenza. “Althea? Che ci fai qui” disse Rust “Andiamo in Patagonia” “Andate in Patagonia, bello, è un locale nuovo o cosa?” disse Rust. “No, no in Argentina” disse lei mentre teneva Albert sulle ginocchia. “Bene buon divertimento!” Rust se ne andò di sopra, senza neanche salutare. Io mi infilai, jeans, maglietta, felpa e zaino, dove misi una decina di CD, Più un trolley nel quale ho messo alla rinfusa vari vestiti. Avvisai i miei col cellulare, vado via 3 settimane ciao, ciao. “Eccomi io sono pronto, devo prendere qualcos’altro?” “Ho preso tutto io, ho anche i tuoi documenti, tranne il volo di ritorno.” “Come fai ad avere i miei documenti?” “Lucy” rispose.
Così usciamo di casa, lei mi prende la mano, io rinasco. Appena usciti ricordo di aver dimenticato qualcosa di primaria importanza. “Che hai preso Jude?” tiro fuori Roy dallo zaino, Althea inizia a ridere. “Roy ha foto in tutto il mondo, vuoi rimanga senza una in Patagonia?” “Sei proprio matto”. Mi rispose quella che dopo mesi si ripresenta e mi fa andare in Patagonia con lei. Arrivammo allo JFK con 2 borsoni enormi e partiamo, il volo NYC-BUE, in orario. Questa è di gran lunga la cosa più folle che abbia mai fatto. Il volo durava undici ore. “Ti prego alla fine puoi spiegarmi tutto? perchè sei stata via?” “Certo a Ushuaia, promesso” Sull’aereo si strinse a me dalla partenza al decollo, mentre sentivamo tutta la musica che avevo sul mio Ipod, le piaceva tanto John Mayer e anche a me, poi i Dire Straits, Johnny Cash, avevamo gusti molto simili e la cosa era fantastica, provavamo le stesse emozioni durante un pezzo. Alle 8.25 di mattina eravamo atterrati a Buenos Aires. Il freddo era pungente e tirava vento, Althea aveva già prenotato all’autonoleggio un fuoristrada grigio. Saliti in macchina Althea mi disse “Jude non farei questo viaggio con nessun altro mondo, non chiedermi dei due mesi e mezzo che non ci siamo visti, pensa solo a ciò che stiamo per vivere”. La fissai per un secondo poi le dissi “Stai meglio con i capelli corti, ami la cartina, speriamo vado meglio dell’ultima volta” Althea rise e mi ò la cartina.
La nostra meta era Ushuaia, ma volevamo percorrere la famosa Ruta 40. con un pennarello rosso tracciai la rotta, per prima cosa dovevamo arrivare a Mendoza, l’imboccco della ruta 40, erano più o meno a 1200 chilometri. Chiesi ad Althea perché non avesse preso l’aereo per Mendoza, ma disse che era un miracolo se li aveva trovati per Buenos Aires il giorno prima. eggiamo per la Recoleta, un veloce sguardo all’avenida 9 de julio, vivemmo la vivacità de La Boca, dove prendemmo una pensione per la notte. Le pareti della camera completamente azzurre, decorate da crocifissi e immagini religiose, un gran bel sudicio letto dove ci tuffavamo nello stesso tempo. “Stanca?” le chiesi. “Distrutta!” rispose sorridendo. Così ci addormentavamo sereni e pieni di adrenalina su quel letto. Un nuovo letto rispetto a ieri, quello di casa, come quando si dorme sul divano, il meraviglioso sconvolgimento del letto. Mi spiego, tu sei abituato a dormire in un letto, ad aprire gli occhi e vedere una finestra, una parete. Ci sono quei momenti durante il sonno in cui devi capire su quale letto stai dormendo, se non è il solito ecco il problema e la stupenda sensazione. Se il letto cambia, è uno sconvolgimento, non sei padrone del luogo del sonno, ti sei spostato, è questo il bello del viaggio, lo sconvolgimento dello stato di abitudine, domani altro letto, altri riflessi negli occhi, altre vite da incontrare e così anche il tuo corpo è vero e vivo, non sente l’aria, gli odori, non tocca i corpi del giorno prima, vede esistenze differenti. È così che si dovrebbe vivere, seguendo lo sconvolgimento del letto. Alle 6:00 sveglia puntuale, dovevamo prendere la Ruta 40. La strada era una specie di deserto, pochissime macchine e anche l’autostrada, dritta e spoglia. Althea era lì, splendida, con una mia felpa, le gambe sul cruscotto e il caffè in mano, occhiali specchiati da aviatore
“Althea, posso dirti una cosa?” “Certo.” “Sei bella, eccezionalmente bella” “Grazie, ma neanche tu scherzi” I chilometri se ne andavano via veloci, sotto le note di Springsteen, sentivo la potenza, la necessità di percorrere quella strada, la violenza del mio piede sull’acceleratore, mi era stato impedito per troppo, il vuoto sembrava un ricordo lontano, Althea mi faceva delle foto mentre guidavo, mi girai verso di lei e le sorrisi, io sentivo di nuovo qualcosa, cazzo c’ero, ero lì mi avviavo verso la fine del mondo. Quella pazza della mia ragazza aveva comprato della coca a Buenos Aires. “Jude, siamo due persone fin troppo brave, è ora di provare certe cose, maledizione!” E Così, drogati entrambi, gridavamo le canzoni, ci fermavamo ai lati della carreggiata per fare sesso, tutto ad uno velocità insensata, noi eravamo insensati, ma chi maledizione se ne fregava, ci sentivamo entrambi vivi! Arrivammo curiosamente sani e salvi dodici ore dopo. Erano le 6 di sera, così imboccai la Ruta 40 e ci fermammo in una località chiamata Maipù. Offrii ad Althea una bella cena di carne in un bel ristorante. Quasi non ci facevano entrare per come eravamo conciati. Un bel Asado a la Cruz per entrambi. Dopo aver cenato, avevamo deciso di dormire in auto, in una specie di piazzale vuoto, dove facemmo l’amore in tutti i modi possibili prima di dormire. Continuammo sulla 40 per chilometri e chilometri. La strada offriva un deserto immobile, il nostro aggio non la sfiorava, neanche il fuoco che ci invadeva, la sfiorava, la strada, la terra per sognatori, non c’è segno del pasaggio
dell’uomo. Entrammo nella regione del Neuquen, cercavo di regolarmi con quella stramaledetta cartina, perché Althea non aveva voluto il navigatore. Facevamo turni alla guida, ogni tanto ci fermavamo in paesi di paesaggio come Malargue . Poi La Payunia, un’immensa distesa di vulcani, non sembrava neanche il nostro pianeta, Althea impazziva con le sue foto, fatte con una vecchia Leica a rullini ,io la guardavo, ed ero incredibilmente affascinato da lei. Ci godevamo il nulla della strada, e la Natura maestosa. “Ordineremo tutto in un reportage una volta tornati” disse lei Andammo a ritmi frenetici. Era il 7 giugno, non mi lavavo da qualche giorno, lo stesso Althea, eravamo stanchi, ma noi dovevamo arrivare alla fine del mondo, nella Tierra de Fuego Eravamo fieri di quel che avevamo fatto eppure eravamo nemmeno a metà. San Martin de los Andes, eccola qui, i suoi laghi eccezionali, da lì continuammo per Bariloche, dove era il momento di fare una sosta vera in ostello. Bariloche si trova ai piedi delle Ande, è una zona sciistica, quindi piena di servizi. Erano le 3:00 ,trovammo subito un ostello. C’era la neve, riportò alla mente me ed Althea a Central park. Althea tirò fuori gli abiti per la neve per lei e per me. Tra laghi e montagne ci rilassammo e progettammo il cammino futuro. Mentre le illustravo la via sulla mappa, Althea mi blocca. “Jude, sei felice?” “Certo che lo sono, mai stato più libero, mai stato più felice” “Bene.” Disse così e mi baciò. Faceva molto freddo, entrammo in una caffetteria e prendemmo 2 cioccolate calde
Illustrai quindi il cammino prossimo, ma Althea aveva qualcosa che non andava, “Althea, stai male?” “Solo un po’, niente di che” disse. Andammo in camera e mi indicò una scatola con dei farmaci. Glieli diedi, poi dormì, si alzò un paio di volte per vomitare, per il resto dormì. Fuori nevicava, io ero seduto davanti la finestra e vedevo cadere i fiocchi, bianchi come il colore della pelle di Althea. Era il momento che dovevo sapere. Non ero stupido doveva soffrire di qualcosa. Si svegliò la mattina, presto, sembrava stesse bene. “Buongiorno amore” disse lei. “Althea, dobbiamo parlare, non siamo ancora ad Ushuaia ma è l’ora che tu mi dica cos’hai.” Quasi avevo le lacrime agli occhi, avevo paura della risposta. “Promettimi che termineremo il viaggio,” “Te lo giuro” risposi. “Ho la leucemia.” Mi paralizzai, il cuore smise di battere. “il mio è un caso raro, L’ho saputo il giorno che mi hai salvata, volevo morire quando lo dicevo io, non quando lo diceva la malattia, in più sai il mio bipolarismo e il mio prendere decisioni stupide, mi hanno fatto tentare il suicidio. Non ci siamo visti né sentiti per giorni perché ero in ospedale, appena uscivo dall’ospedale avevo bisogno di vederti, poi però dovevo tornarci comunque. Mio padre ha girato i migliori centri di oncologia del paese, mi ha portato al John Hopkins dove per due mesi ho fatto cicli di chemio, con piccoli miglioramenti, ma non sufficenti, stavo malissimo non sembravo neanche me stesa e io non volevo assolutamente che tu mi vedessi soffrire così. volevo che il mio dolore fosse fuori dalla tua vita. Ho pregato tua sorella e Rust di non dirti niente e starti vicino. Adesso il dottore mi ha dato da uno a due mesi di vita, volevo arli con te, perché ti amo”
Piansi e forte. “Althea, io ti amo dal secondo che ho toccato il tuo dito nel fiume, andremo ad Ushuaia, poi torneremo, e maledizione tu guarirai, non mi interessa quello che dicono, io lo sento! Quel che mi chiedo, come è possibile che tu possa affrontare un viaggio simile…” “Jude mi resta davvero poco, non guardarmi così, prendo le medicine di mantenimento, con mio padre e i medici abbiamo deciso che sarebbe stato l’ultimo periodo in cui ce l’avrei potuta fare, perché le medicine hanno fatto qualcosa, non mi hanno salvato la vita, ma posso farcela a terminare il viaggio.” “Ok, adesso basta piangere, basta malattia, sofferenze e tutto, andiamo a gridare ai pinguini!” Le dissi io, ma avevo paura. Così ci vestiamo, porto i bagagli in auto e accendo il motore. Althea stava meglio, riprendemmo il cammino, sulla Ruta 40, la prossima tappa era Esquel, dovevamo attraversare la regione del Chubut, per poi entrare nella Patagonia vera e propria Esquel era incredibilmente bello, quasi irreale, doveva essere vissuto contemplato, ma Althea non stava affatto bene, anche qui faceva veramente freddo la temperatura era -1 per questo dopo una piccola eggiata e foto a raffica di Althea andammo in un buon Hotel a mangiare e poi dormire. La notte mi svegliavo in continuo per sentirle il battito del cuore, mi sentivo in colpa, non le avrei permesso un viaggio simile se avessi saputo. Piansi quella notte, piansi al pensiero di vederla morta. Ma questo non doveva accadere, una volta tornati si sarebbe messo tutto bene. Si tutto bene…. Il mattino seguente, molto presto, iniziò la tratta più lunga per il ghiacciaio del Perito Moreno. Chiesi più volte ad Althea se volesse tornare indietro, ma disse “ Voglio camminare su quel cazzo di ghiacciaio” era su di giri, probabilmente le era rimasta un pò di coca di quella famosa sera. La strada era il nostro terzo compagno, ci sarebbero volute più di 10 ore di auto e andavamo verso un freddo glaciale, ma Althea non l’avrebbe sentito, lei sarebbe andata avanti, lei era il coraggio e la ribellione a quel che aveva dentro. Guidai per otto ore filate, nella steppa argentina, le restanti due o tre le lasciai ad
Althea. Arrivammo al Perito Moreno all’ora del tramonto, scendemmo dall’auto nonostante il freddo. Sentii muoversi qualcosa dentro di me, era uno spavento quasi, quel tramonto, quei colori, quei chilometri di ghiaccio che sembravano quelli del mio cuore prima di Althea, un posto magnifico, ci appoggiammo all’auto fino all’arrivo della notte. Trovammo un posto dove poter stare e dormimmo in macchina. Dormire in macchina diventava volta dopo volta migliore; io e lei, sedili abbassati, sotto una coperta stile navajos, lei che mi abbracciava. Il giorno dopo Althea volle assolutamente fare del trekking sul ghiacciaio, non potei far altro che accontentarla. Fu comunque un’esperienza grandiosa, il ghiaccio sotto i ramponi era come se parlasse e Althea stava piuttosto bene, e fotografava, era stupenda quando lo faceva, la vedevi, la sua anima era tutta nella foto. “Fotografa Roy mi raccomando” le dissi “Certo, facciamola noi tre insieme.” Rispose ridendo. Ci mettiamo e facciamo la foto. Poi la facciamo a lui da solo, il mitico orsetto viaggiatore. Finita la eggiata, riprendemmo la strada, stavolta verso il parco Torres del Paine, un altro luogo pazzesco, arrivammo dopo sette ore, verso le 4 del pomeriggio. Giuro che colori così non li vedrò mai più in vita mia, le montagne della cordigliera delle Torres del Paine che sfidavano il cielo e si rispecchiavano nel lago Grey. Ma Althea stava male, molto, le venne la febbre, tremava, non riuscivo a vederla così. La portai al centro medico più vicino dove la curarono come poterono, io gli diedi i farmaci per le emergenze che aveva. ò lì tutta la notte. Quando si alza, mi vede e mi dice “ti prego, arriviamo a Ushuaia”
“Te l’ho promesso.” dovevo portarla lì, in qualsiasi modo. Così anche contro il parere dei medici ce ne andammo via. Arrivati a punta Arenas dopo 300 Km eravamo a un o dalla fine del mondo. Althea era sempre più pallida e parlava sempre meno. Lasciammo la macchina a Punta Arenas. Tramite bus e traghetto arriviamo finalmente nelle Tierra del Fuego, e poi eccola Ushuaia. Appena scesi dal bus, Althea torna ad essere se stessa, mi bacia. “Grazie, sei la mia cura” mi disse “Tu sei la mia Althea”. In questa Terra di Fuoco, uniti, indelebili, invincibili, malati. Noi ci siamo. Non siamo più persi, siamo tutto quel niente che prima ci uccideva, In questo ultimo lembo di terra, Dove il ghiaccio è nostro compagno, Io ho trovato il mio posto, Io ho trovato un angolo in lei, Qui è caduto il tuono, Pura, vera, vita, sofferenza, sorriso, coraggio, Sorpresa, rabbia, follia, malattia, amore. In lei io ho trovato il mio posto Ora ho bisogno di gridarlo qui con lei, Dammi la mano e grida, grida contro quest’ultima linea di cielo
Che noi esistiamo. Che noi respiriamo. Che noi non siamo Senza Posto! Andammo lì, vicino all’ultimo faro della terra ferma con una barca, arrivammo lì e insieme a braccia aperte Gridammo: “SIAMO QUI, ESISTIAMO, DOPO DI QUI IL NULLA, SOLO NOI, FOTTETEVI TUTTI” Vedemmo in lontananza una balena. La salutammo e ci scusammo per le grida e per il linguaggio. Dopo più di 6.000 strazianti km in 16 giorni, un’avventura pazzesca non per me, ma per lei, malata di leucemia. Ma Althea era fin troppo straordinaria, solo per gridare qualcosa contro il niente ha rischiato la vita, già breve che possedeva. Il progetto era ultimato, tornammo a casa.
Capitolo 13
29 giugno Althea era ricoverata alla clinica Mayo, la sua situazione era tragica, lo stress del viaggio aveva aggravato il suo stato. Io ero seduto in un corridoio a contare le mattonelle finchè non potessi vederla. Il padre di Althea si sedette vicino a me. “Jude non hai colpe, le ho permesso io di fare il viaggio e sapevo che non si poteva fare niente, le hai regalato dei giorni stupendi, me l’ha detto prima,” “Capisco.” “Puoi andare a trovarla, se vuoi.” Bussai alla porta, entrai e la trovai lì, bella come sempre, con il camice da ospedale, la bombola d’ossigeno attaccata al naso, seduta sul letto a gambe incrociate a leggere In Patagonia di Chatwin. “Jude! Vieni qui che ho le flebo non posso avvicinarmi” disse lei sorridendo. La abbracciai e le diedi una decina di baci. Mi sedetti vicino a lei. “Come va?” “Una merda, neanche posso sviluppare le foto, sto leggendo questo coso per rivivere alcuni momenti” “è bellissimo quel libro, leggilo.” Quei giorni li ai tutti all’ospedale, da mattina a sera. Althea più o meno era sempre stabile. Vennero a trovarla Rust, tutta la mia famiglia e anche Noah.
Più avano i giorni più mi arrendevo all’idea che l’avrei persa. Una sera a casa lessi su internet l’ipotesi del trapianto di midollo e il perché ancora non ci avessero provato. L’indomani lo chiesi al Dr. Harris “Jude, devi capire che è una cosa pericolosa, potrebbe ucciderla, e non abbiamo trovato donatori compatibili” “Morirà ugualmente se non facciamo niente!” “Servirebbe un donatore ed è molto raro. Poi, il trapianto dovrebbe essere immediato.” Disse Robert quasi piangendo. “Capisco…” ai di nuovo tutta la giornata con Althea, come sempre, e Althea stava peggio giorno dopo giorno. Ma non lo faceva vedere, parlava sempre allo stesso modo, non ti faceva pesare il suo dolore. Mentre stavo uscendo rincorsi il padre di Althea “Robert, proviamo se il mio midollo è compatibile” “Ragazzo mio torna a casa” “Io ho deciso, sono in ottima salute, posso superare l’operazione, che ha un rischio bassissimo, quello che non posso è superare la morte di Althea”. “Possiamo provarci, ma le probabilità sono basse, ricordalo, non sperarci troppo” Poi mi abbracciò e piangendo mi disse grazie. La probabilità, ve l’ho già detto, è tutta questione di probabilità, chissà se mia madre e mio padre e ancora prima nonni e bisnonni, abbiano tramandato a me quei geni giusti per far vivere Althea. Spero di si. Il giorno dopo andai di corsa alla clinica.
I medici mi dovevano far firmare il consenso e le solite cose. “Guardate che se muoio durante questa puttanata di operazione fate schifo come medici e la mia famiglia vi manderà sul lastrico intesi?” dissi mentre firmavo, loro risero, ma giusto perché dovevano. Insomma mi fanno anestesia e tutto e prelevano il midollo. Mi sveglio come dopo una notte a bere con Rust, una mezzora e torno nelle mie facoltà cognitive. stavo bene, non vedevo l’ora di salvarla, lei mi aveva cambiato la vita, in pochi mesi mi aveva ricostruito e smontato quante volte voleva, Lei era Lei, il mio posto, ognuno ne ha bisogno di uno. Ero incredibilmente in ansia, per la prima volta pregai non so chi o cosa ma pregai. Arriva la risposta. È compatibile, io grido dalla gioia, esco con il camice da operazione, praticamente nudo, corro per i corridoi, non so dove vado. Come era possibile che proprio io potessi salvarla, era come uno stupido e scontato film, ma questa era la realtà, lei aveva provato a farla finita ma è successo tutto il contrario, io ero determinante per lei come lei per me. Poi ritrovo la strada e vado in camera di Althea, ma lei non c’era, esco e incontro Robert che con un sorriso, non l’avevo mai visto sorridere fino a quel momento mi dice “Althea è andata a fare la preparazione, incrociamo le dita Jude, fra un paio di settimane sapremo se potrà continuare a farci diventare matti.” “Ho grande fiducia.” dissi. Althea tornò su in camera, non sapeva niente ancora. Così mi rivestii e per prima cosa le portai le foto sviluppate “Ho deciso io quali dovevano essere in bianco e nero e quali a colori” le dissi. Aprì la busta “sono stupende, guarda questa!” Era un autoscatto, io e lei con dietro il faro di Ushuaia. “Guarda quelle con Roy, che so!”
“Che tipo Roy, e la nostra è stupenda, dovrebbero farci una copertina National Geographic” Poi le dissi. “Senti ma lo sai?” “Cosa” “Che molto probabilmente vivrai, sognerai, piangerai, starai vicino a me, viaggerai e mi farai diventare matto per molto e molto ancora?” “Jude vaneggi” disse Althea. “Il mio midollo è compatibile, adesso dovrai soffrire un po’ ma fra 2 settimane starai una bomba” Althea scoppiò a piangere e mi prese la mano, come al solito la sua mano era come toccare una tazza di cioccolata calda con panna in pieno inverno. “Mi stai salvando la vita di nuovo, grazie, non te lo avevo mai detto ancora, ma grazie che mi hai salvato la vita, grazie di avermi dato il futuro” “Averci salvato, non pensare mai più di scappare da me, e di fare la stronza” Annuì mentre piangeva e mi baciava. Le due settimane di infusione del midollo furono rigide per Althea. Era incredibile che una parte del mio corpo la stesse salvando. Poi di nuovo chemio e radio, ma io le stetti vicino, ogni santo giorno. Furono momenti brutti e complicati, ma alla fine non lo rigettò, poteva vivere. Dopo due mesi fu dimessa, ancora un po’ malconcia ma guarita.
Capitolo 14
Il romanzo che stavo scrivendo sul cantante folk faceva veramente vomitare. Una sequela di parole senza senso e stupidi, stupidissimi clichè. Così mentre camminavo in casa, ho trovato sotto la scrivania, un quaderno impolverato, con la copertina graffiata da Albert con scritto sopra JUDE+ALTHEA. Era tanto che non lo vedevo. Lo lessi, la mia vita era abbastanza interessante in quel periodo, così ho deciso di sistemare quei fogli, sudici, strappati, sporchi di hot dog,mmacchiati da caffè o birra e renderli una storia. Una storia vera. La mia di storia. Detto questo, ecco come continuò la vita di questi due sfasati, romantici, attori della vita. arono tre mesi da quando Althea uscì dall’ospedale. Mancavano dieci giorni a Natale, fuori il gelo più assoluto, era strano, una volta io e il vento freddo eravamo come una coppia, ora non era più così. In inverno Althea era più bella che nelle altre stagioni, il caldo in casa le faceva venire le guance rosse e contrastava con il suo naturale, stupendo pallore. Aveva Albert sulle ginocchia, sul divano e io accanto a lei. “Quindi a Natale scappate, belli stronzi che siete.” Disse Rust, al quale si accodò Lucy. Questa pure è una storia da far ridere, quello stronzone si era messo con mia sorella, non chiedetemi com’è successo, ma un giorno rientro in casa e li trovo sul divano nudi. Volevo ammazzarlo, ma alla fine a chi importa, viva l’amore, però quel giorno il naso glielo ruppi. Tornando a noi a Natale saremmo andati in Giappone, fu un caso che ci andammo a Natale, solo perchè fu il primo momento buono per Althea di sostenere un lungo viaggio. Lei voleva andare a tutti i costi, aveva una missione da compiere disse, di certo non sarei stato io a bloccarla.
“In Giappone poi, ma che andate a fare? Al posto del tacchino, il sushi, voi siete pazzi, il tacchino della mamma è una di quelle poche belle cose nella vita”. “E io, che sono io” disse Rust col broncio. “Anche tu lo sei piccolo mio”. Giuro che stavo per vomitare, Lucy aveva addomesticato quell’animale selvatico del mio coinquilino. Comunque il 24 partimmo, salutammo tutti la sera prima. Arrivammo a Tokyo il giorno di Natale. Prima di visitarla, dovevamo compiere la nostra missione. Così ci facciamo portare da un taxi fino alle pendici del monte Fuji. Eccola la foresta Aokigahara, la foresta dei suicidi. C’era un’aria talmente particolare, sospesa, la neve e il freddo contribuivano. La foresta era come se fosse incantata, un peccato il significato attribuitogli. Althea era lì per lasciare il suo segno, lei aveva superato quel tipo di dolore, doveva chiudere un cerchio, lei voleva morire in quella foresta, questi erano i suoi piani originali. così a tutti gli alberi che potemmo attaccamo un biglietto, con su scritto un Haiku. Vivi, Non per altri. Trova il tuo posto, esiste. Appendemmo centinaia di biglietti, poi ci godemmo il tramonto sull’imbiancato monte Fuji, anche se faceva un freddo quasi insostenibile, in seguito andammo via e tornammo a Tokyo. Bastava che una persona lo leggesse, solo una, che capisse, che non morisse. Tornammo dieci giorni dopo. Il calore di tutta la nostra famiglia ci investì .Così come quando si ritorna da un
viaggio, si mostrano le foto, chiedono racconti, esperienze. Parlammo di tutto tranne che della Foresta.
Capitolo 15
2 febbraio Di nuovo il mio compleanno, quest’anno mi alzai di corsa e uscii. Avevo appuntamento con la mia sorpresa. Ormai l’università l’avevo lasciata, ero felice così, se lo tenessero per loro tutto quel fottuto sapere statico, io avevo altro. Continuavo ad odiarlo il mio compleanno ma qualcosa era cambiato; Althea, ecco cos’era cambiato nel mio mondo, io adesso esistevo, grazie a lei. Ci incontrammo sotto casa sua, quel giorno nevicava, era bello perché nevicava piano, la neve scendeva dolcemente come zucchero nel caffè. Come al solito vedere Althea era un vuoto d’aria. Corse verso di me. “Buon compleanno Jude” e mi diede un freddissimo bacio, profondo sotto la neve. I migliori auguri che io abbia mai ricevuto. “Metti questa benda sugli occhi” “No Althea le odio queste puttanate dai..” “Tu l’hai fatto con me l’anno ato, non lamentarti, fottuto piagnone.” Non potei ribellarmi. Così la seguivo come un non vedente segue il suo labrador. “Althea, che palle, quanto manca!”
“Vuoi stare zitto!” “Ok, starò calmo.” Ad un certo punto ci fermiamo, Althea dice di sedermi per terra. “Althea dai anche per terra ora, fa freddo c'è la neve.” “Si non lamentarti, sembri un vecchio con l’arteriosclerosi” Sento la neve che cade su New York e sul mio viso, è incredibile come la neve somigli ad Althea, avevo gli occhi chiusi e non riuscivo a capire chi mi desse la mano, forse lei era più fredda e bianca della neve stessa. “Jude, Leva la benda ora” Tolsi la benda. Ci trovavamo a Strawberry Fields,ero contento che mi avesse portato lì. “Jude, girati ora” Mi girai, c’era la famiglia al completo più Noah, Albert ma anche il Dr. Harris e Julia la sorella di Althea. Così tutti quanti sotto la neve iniziarono a cantare Hey Jude. Io mi trovavo al centro, seduto, quasi mi veniva da piangere, Althea mi abbracciò da dietro e mi sussurò all’orecchio “Ti amo, buon compleanno ancora.” Tutti i anti anche se sotto la neve si fermarono a cantare, come quando ero bambino. E cantai anch’io e in quel momento sembrava che i Beatles si fossero riuniti lì per me, Grazie John, di avergli permesso questo. Quando arrivammo verso la fine gridai con tutto quel che avevo dentro, come da bambino “NA-NA-NANANA NANA HEY JUDE!” Finì la canzone. Poi mi fecero spegnere una candelina su un muffin, non so come fecero ad accenderla con la neve. Da tradizione la spensi, ricevetti gli auguri di tutti anche dei anti. Quel giorno odiai di meno il mio maledetto compleanno. Se ne andarono tutti, lasciando soli me ed Althea.
“Sei contento?” “Anche troppo” risposi. Camminavamo tranquilli, eravamo io, lei e la neve. Arrivò il pomeriggio, smise di nevicare stavamo per tornare nel mio appartamento, dove ci aspettavano tutti, tranne John. Non era potuto tornare dal Connecticut, ma c’era Lucy che aspettava un bambino e aveva già le rotondità della gravidanza. Lei e Rust stavano mettendo su famiglia, era inverosimile, ma è la vita che è inverosimile. “Andiamo un attimo verso l’Hudson, è un anno che non ci o” mi chiese Althea sorridendo. “Certo andiamo.” Ci sedemmo sulla mia solita panchina, era quasi il tramonto come l’anno ato. Appena seduti Althea mi diede un pacchetto. Lo scartai, ed era una nostra bellissima foto, in bianco e nero e incorniciata. Era una di quelle che fece durante la nostra prima fuga improvvisata. La ringraziai con un bacio, poi ò qualche minuto. Le mostrai quella che si era fatta da sola, la tenevo sempre nel portafogli. Si strinse a me. “Jude, hai parlato con papà vero?” disse Althea con gli occhi lucidi” “Si, ci ho parlato, so tutto” risposi trattenendo il dolore. Mi abbracciò in lacrime. “Jude, sai io non voglio più sentire parlare di vita, amore, morte, malattia, io voglio solo una cosa, che questo momento rimanga congelato così com’è, ora sono felice e non potrei esserlo di più, con te vicino, in questo momento.” FINE
Indice dei contenuti
Ringraziamenti Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15