Vincenzo Napolillo
San sco di Paola Testimonianze storico-letterarie
ISBN: 9788889013823
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Indice dei contenuti
Giacomo Simonetta sco Franchino Girolamo Marafioti Cesare Malpica Victor M. Hugo Viandante in Francia Il Cardinale miracolato Bibliografia
Vincenzo Napolillo
San sco di Paola Testimonianze storico-letterarie
Sesto centenario della nascita
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Edito nel 2016 da Nuova Santelli Edizioni, Rende
ISBN 9788889013823
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Ai miei familiari, in particolare ai nipoti Anna Maria, Josephine e Vincenzo Napolillo, perché San sco di Paola non sia relegato a memoria monumentale, ma rimanga modello straordinariamente vivo.
Giacomo Simonetta
Giacomo Simonetta, buon letterato e vero ecclesiastico, nacque a Milano il 1475 da nobilissima famiglia. Suo padre fu Giovanni Simonetta, che con suo fratello sco, detto Cicco, furono al servizio di sco Sforza a Milano; sua madre fu Caterina Barbavara. Studiò presso l’Università di Padova. Girolamo Ghilino accademico scrisse, nel Theatro d’huomini illustri (Venezia 1647), che Giacomo Simonetta, espertissimo nell’una e nell’altra Legge, fu «veramente grande e nella bontà di vita e nel valore delle lettere». Il papa Giulio II, irriducibile nemico dei Borgia, lo fece avvocato concistoriale (1505) e uno dei giudici della S. Rota Romana. Simonetta frequentò il quinto Concilio Lateranense, che si chiuse nello stesso anno in cui Martin Lutero pubblicò le sue 95 tesi (1517). Leone X lo mandò a Firenze per mettere pace nella guerra tra Senesi e Fiorentini per la signoria di Montepulciano. Clemente VII lo nominò vescovo di Pesaro (19 dicembre 1528-10 dicembre 1537 dimesso). Paolo III nel concistoro del 21 maggio 1535 lo elevò al cardinalato col titolo di San Ciriaco; Simonetta preferì il titolo cardinalizio di Sant’Apollinare (1537). Giacomo Simonetta fu vescovo di Perugia (20 dicembre 1535-20 luglio 1538 dimesso); amministrò le chiese di Lodi, Sutri e Nepi, Conza. Fu onorato anche della Prefettura della Segnatura di Grazia. Morì il 1° novembre 1539 e fu seppellito nella chiesa della Santissima Trinità dei Monti, fondata sul Pincio dal re di Francia Carlo VIII nel 1495 (un anno in meno per il calendario se) a domanda del patriarca sco di Paola, allora in vita, e per desiderio del defunto suo padre, Luigi XI. Scrisse il Tractatus reformationum beneficiorum e le Epistolae. In veste di Uditore di Sacra Rota Romana redasse, nel 1518, una Relazione a papa Leone X per dimostrare - giuridicamente e con sicurezza - che si poteva procedere alla canonizzazione di sco di Paola, insigne per splendore di santità. Leone X proclamò sco di Paola beato nel 1513 e lo ascrisse, il primo
maggio del 1519, fra i Santi fissando la sua festa il 2 aprile. Dalla Relazione di Giacomo Simonetta estratta da tutti i Processi, si ricavarono le Lezioni per l’Ufficio proprio dello stesso Santo. La Relazione sopra la vita e i miracoli di San sco da Paola, istitutore dell’Ordine dei Minimi, fu pubblicata da Mons. Luigi Patrizi-Accursi a Roma, nel 1907. Mons. Gian Domenico De Zazi si espresse, però, negativamente sulla canonizzazione, che era stata proposta dalla corte di Francia, pur riconoscendo che sco di Paola ne aveva i requisiti. Non ci è stato tramandato il resoconto preparato da Angelo De Cesis, avvocato concistoriale. sco Martolilla nacque a Paola, il 27 marzo 1416, da Giacomo e Vienna di Fuscaldo. Morì a Plessis- lès-Tours il 2 aprile 1516. Giacomo Simonetta attesta: «Il suo umile luogo di nascita fu Paola, oppido della Calabria». Il nome oppido si può intendere come città o paese fortificato. Paola fu elevata a città nel 1494 da Alfonso II d’Aragona re di Napoli. Paola era feudo di Donna Lucente de Frisa quando sco Martolilla, figlio primogenito tanto atteso, diede il suo primo vagito. Brigida, sua sorella, andò in moglie ad Antonio d’Alessio, cui diede cinque figli: Nicola, Pietro, Angela, Paolo, Andrea. Gabriele Barrio fece derivare il nome di Paola non da «pabula» ma dal fiume che la bagna, mentre sco Fulvio Frugoni pensò che Paola, di piccole dimensioni, derivasse dal latino «parva», cioè piccola: «Paula, di piccol nome, al ciel si spinge / col Minimo, che grande in sen le nasce: / quindi ha per padre e figlio; e se le fasce / gli diè, questi di gloria, hoggi, la cinge». Papa Giovanni Paolo II, che pernottò due volte nel Santuario di Paola, dichiarò: Venendo in Calabria, ho pensato che forse il luogo più importante fosse Reggio Calabria, forse Catanzaro, forse Cosenza, ma vedo che il luogo più importante è quello dove è San sco di Paola. Poche note di storia sono tracciate nei Notamenti ricavati dai repertori dei Quinterni della Regia Camera, ove si legge: «La detta terra di Paula una etiam con la terra di Fuscaldo fu ab olim di Polisena de Castellis, seu di Fuscaldo, e le possedeva immediate et in capite dall’Illustris.mo Marino Ruffo Principe di
Rossano, e perché detta Polisena morì senza heredi, le dette terre legittime devoluerunt ad Regiam Curiam; per questo Re Alfonso, in anno 1452, asserendo tenere le terre predette per lo titolo predetto, quelle donò e concesse al detto Marino Ruffo de Marzano suo genero e come figlio carissimo. Nell’anno 1496 Re Ferrante II, asserendo tenere e possedere come cosa sua propria, le terre di Paula e Fuscaldo cum earum Casalibus, per li bisogni della sua Regia Corte vendé quelle libere al marchese Gio. Battista Spinello milite, consiliario, oratore e fedele suo dilettissimo pro se et suis haeredibus et succesoribus in perpetuum». Leandro Alberti O. P. fece una breve descrizione di Paola e del suo territorio: Ha dato gran nome a questo castello, e parimenti a tutta la regione, S. sco di Paola, primo istitutore della religione dei frati minimi, il quale dopo grande austerità di vita, e dopo gran segni di santità, ò a miglior diporto, nella nostra età in Torse (Tours) città della Francia, e fu canonizzato da Leone X nel 1519. La casa dove nacque sco di Paola, in contrada Terravecchia, fu trasformata in cappella; sull’ingresso fu posta la scritta: Charitas / Hic anno MCCCCXVI / nativitatis S. Patris / angelico cantu decorata. Nella biografia di sco, un punto essenziale, dopo l’anno di «famulatus» trascorso a San Marco (Argentano) e il pellegrinaggio ad Assisi e a Roma, è la contemplazione delle cose divine come campo di contatto con la natura ed esigenza purificatrice dell’anima mediante la preghiera senza fine. sco si ritirò, all’età di tredici anni (1429), in una proprietà paolana di suo padre, infiammato - come i Padri del deserto - dall’ardore per la solitudine e la pace, e dal rigore della disciplina corporale per giungere alla beatitudine attraverso la ricerca coraggiosa e positiva del Sommo Bene. sco, votato alla povertà e alla rinuncia alle cose mondane, scalzo e vestito di povero saio, coperto da umile cappuccio, capì, benché incolto, nell’intimo del cuore, che la carità coincide con la retta volontà e con la pratica della legge evangelica: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Fu illitteratus ma sapiente, poiché era stato alla scuola del Vangelo e servì il Signore con grande onore e gioia. Ebbe una sola scienza, quella dello Spirito, che dice: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Fiorentino da Paola, Angelo Alipatti da Saracena e Nicola da San Lucido,
spronati dalla sua vita virtuosa, chiesero di mettersi al suo seguito. Nacque così il primo nucleo di Eremiti penitenti. Il Breviario Romano recita: Edificò la Chiesa vicino a Paola, ove gettò le prime fondamenta del suo Ordine. Simonetta attesta che sco costruì a Paola, all’età di 19 anni (1435), un oratorio molto angusto con tre piccole celleper i suoi tre discepoli. Bernardo Caracciolo Pasquizio, arcivescovo di Cosenza, diede la sua necessaria approvazione. Crescendo il numero dei suoi «figli» e il contributo dei devoti, sco cominciò, nel 1452, a costruire la seconda chiesa e un convento, intorno al chiostro, cui dovette aggiungervi sulla sinistra un’altra grande navata. La prima pietra fu posta da Pirro Caracciolo, arcivescovo di Cosenza, che esentò dalla propria giurisdizione la Congregazione dei Poveri eremiti di Paola, rimettendo il «locus religionis» alle immediate dipendenze della Santa Sede. Papa Sisto IV concesse alla Congregazione il riconoscimento ufficiale (17 maggio 1474). sco ne fu nominato Superiore Generale a vita. L’Europa si trovava di fronte a due problemi: la riforma della chiesa e la concreta minaccia turca. sco di Paola affrontò il primo problema dando un grande esempio di santità personale, sempre pronto a guidare e a consolare quelli che lo avvicinavano, a sanare tanti ammalati che dalla scienza medica erano stati dichiarati inguaribili, a restituire persino in vita chi era definitivamente spirato. Affrontò il problema dei musulmani donando lumi al conte di Arena che andava a combattere contro il furore tracio e avvertendo il re di Napoli dell’arrivo dei Turchi. sco de Fiore trovò, nel mese di dicembre 1479, in un bosco vicino Paterno il «Buon Eremita» che predicava a circa trecento persone. Egli gli chiese l’esito delle guerre che Ferdinando I d’Aragona combatteva in Toscana. sco rispose che esse sarebbero finite nel nulla, ma vedeva anche che il Turco sarebbe entrato nel regno di Napoli. Nel 1480, i turchi saccheggiarono e quasi distrussero Otranto. sco, recatosi in Francia, era sempre attento a rispondere ai consigli che il potente sovrano Luigi XI gli chiedeva, ma si rifiutò di salvarlo dalla morte
corporale e lo condusse alla serena accettazione del volere divino, cui nessuno sfugge. Il re Ludovico XI spirò, il 30 agosto 1483, invocando Nostra Signora d’Embrum. sco di Paola, traboccante di umiltà e fervida carità, resse con prudenza e saggezza il suo Ordine, cui diede una delle regole più severe e austere di vita monastica. Interdisse ogni cibo, con l’eccezione di quelli Quaresimali, allargando il regime penitenziale a tutto l’anno. Nei lunghi anni di vita eremitica, egli fu ispirato all’ideale di perfezione evangelica, che aveva trovato un campione in San sco d’Assisi. Diventò testimone della fede cristiana per l’autenticità del suo tenore di vita «austero e sobrio», per la misericordia, madre di opere buone, per la preghiera a Dio e a Santa Maria degli Angeli, per il duro lavoro, per la naturalezza dei miracoli. Attraversò lo Stretto di Messina sul mantello, in compagnia di un discepolo a bordo, come se fosse stato con i piedi sulla terraferma (Posuit se in mare, cum quodam socio suo, ac si super continentem, seu terram firmam deambularet, et iter faceret, et sic transfretavit). Si appoggiò al bastone del pellegrino, simbolo del patriarca, lungo la via del rinnovamento della Chiesa e della salvezza dell’anima umana, espressa nel ritorno a Dio con la penitenza, la giustizia, la misericordia e l’abbondanza di prodigi e di opere caritatevoli.
Il testo della relazione
sco, di umili origini, nato a Paola, piccolissimo borgo di Calabria, fin dall’infanzia fornì prova di futura probità e cominciavano dai più teneri anni a risplendere delle scintille dalle quali sarebbe uscita una fiamma d’immensa grandezza. Aveva compiuto appena tredici anni di età quando, guidato dallo Spirito Santo, egli si ritirò nell’eremo, dove prestò i primi servizi della milizia divina; e fino al diciannovesimo anno gettò le fondamenta del tirocinio. Ben presto, poiché il Signore sommo aveva destinato un così egregio milite a essere a capo di moltitudini nella chiesa, lasciata la solitudine, accolse dei
confratelli nel cenobio. E quanto più avanzava negli anni, tanto più cresceva la sua santità. Ormai il suo nome non solo era celebre fra i Calabresi, ma ciò che in primo luogo desta meraviglia è che la fama dell’uomo mendicante, quasi nascosto nell’ultimo angolo d’Italia, arrivò a Luigi XI re dei si. Il quale, preso da incredibile desiderio di un uomo così raro, invitandolo con molte promesse, cercò di averlo con sé in Francia; ma per niente la forza della magnificenza regia riuscì a cambiare l’animo di costui, che disprezzava il mondo. Infine, Luigi ricorse all’apostolica autorità del Papa, e così avvenne che il Beato sco da Paola per ordine di Sisto, allora sommo Pontefice (al quale egli riteneva peccato disubbidire), si recò dal Re, presso il quale fu tenuto in grandissimo onore. Scelse la lontana Tours, città della Francia, nobilissima, dove fissare la prima residenza in quelle regioni. In poco tempo, il seme della santissima vita, che egli sparse nel campo del Signore, in lungo e in largo diffuso e moltiplicato, produsse frutti copiosi, non solo in quasi tutte le parti della Francia, ma costruì in Spagna e in Germania molti monasteri ai quali non manca la moltitudine dei religiosi, né la magnificenza delle opere. Taccio di quelli che prima di partire per la Francia aveva edificato in Calabria quando era molto giovane. Ciò che non deve stupire è che un uomo rustico, assolutamente senza alcuna conoscenza delle lettere, poverissimo, sia riuscito con facilità a fondare fra le nazioni straniere, diverse per lingua e costumi, un nuovo ordine, che cresciuto in pochi anni è arrivato a un grado di grandissima celebrità, tanto che pare incredibile trovarne uno più rigoroso e duro, o pochi che non siano scoraggiati dall’eccessiva severità. Anche a quelli che in esso hanno un titolo, sono proibiti tutti i cibi (eccetto quelli Quaresimali). Anche in tutti gli altri le leggi impongono una regola di vita con simile rigore. Negli indumenti, nelle preghiere, nei digiuni e nelle varie macerazioni del corpo non troverai qualcosa che non sia tollerabile per la natura umana (mortale). Come capo e artefice di questa professione e disciplina, egli sapeva che a quelli che amano Dio non mancano le forze dell’anima, né del corpo, per sopportare estremi sacrifici, ma che l’umana debolezza (se forse in qualcosa s’affatica) è rafforzata dalla protezione della potenza divina. Né aveva capito questo
dall’esempio degli altri, ma l’aveva scoperto dalla propria esperienza. Pane e acqua fornivano la sua mensa (per cominciare a scrivere in modo particolareggiato qualcosa sulla sua vita e sui costumi dell’uomo), poi bevande e pietanze. E se il misero corpo s’indeboliva per la privazione di necessari alimenti, egli ricorreva alle erbe e ai legumi. Beveva raramente un po’ di vino e con questo ristoro integrava il vigore esausto del corpo; mangiava di sera, una sola volta durante il giorno. Non mancano quelli che affermano che quando era tutto concentrato nella contemplazione, spesso prolungò il digiuno per due o tre giorni. La qual cosa essi congetturano dal fatto che il cibo portato in cella dai frati che lo servivano, era trovato intatto per altrettanti giorni. Non portava calzari d’estate né d’inverno e camminava nelle gelide nevi, nella polvere indurita, nella fanghiglia, sulle pietre appuntite, sui rovi, a piedi nudi, che restavano sempre illesi, poiché né il freddo li congelava, né il caldo li bruciava, né il fango li sporcava, né i sassolini li tormentavano, né le spine li ferivano. Il Signore, infatti, aveva ordinato ai suoi Angeli di custodirlo in tutte le vie. La veste era di una foggia che non consentiva di coprire la nudità del corpo; era rozza, sudicia, unica, e smetteva di usarla quando il tessuto si era consumato per il troppo uso. Lasciò una veste, (anzi esattamente dei pezzi di tonaca) e alcune reliquie ai frati del convento, che egli aveva fabbricato vicino a Paola. Essa è tenuta in grandissima venerazione da quei popoli, che al solo suo contatto la presenza della divina volontà concede le grazie implorate. Ora bisogna considerare in quale dura servitù ridusse il corpo tanto che il riposo notturno che ristora quelli che si sono affaticati per il lavoro giornaliero, per lui era invece come il giorno. Nell’eremo dormì sulla dura terra. Nel cenobio, quando viveva ancora in Calabria, le stanche membra giacevano su una tavola. In Francia utilizzò i sarmenti come letto; in tal modo, anche quando riposava, tormentava severamente il corpo. Nessuna ora ava senza frutto, né il tempo o solo un momento inutilmente. i La virtù non venne mai meno, l’animo era sempre occupato. All’alba usciva dalla cella per andare in chiesa a pregare. Di poi dedicatosi alle cose sacre, riceveva dal sacerdote la comunione. Alle volte, dopo avere ascoltato tutti gli inni (che la chiesa canta nelle ore liturgiche) si ritirava nella sua piccola cella. Qui di nuovo si dicevano di nuovo le orazioni, qui lo assaliva un ardore di contemplazione, secondo una frequente e costante opinione, che con lo spirito era rapito in estasi alle cose celesti.
Anzi dicono che i cori degli Angeli scendessero da lui, poiché nella cella fu udita l’armonia dei loro canti. Né credo che non accogliesse Carlo VIII, allora Re di Francia, quando i ministri, che stavano già sull’uscio, gli annunciavano che il Re era arrivato, se non per il motivo che avrebbe trascurato il principe terreno mentre contemplava l’ineffabile Re dei Re e la maestà del Signore dei regnanti. Talvolta si ritirava nell’orto che coltivava con le proprie mani. Ivi neppure si distraeva dalle cose divine. Infatti, o pregava, o sembrava simile a uno che prega. Nella costruzione dei conventi prese le parti principali fra gli operai. Non gli pareva mai bastante disporre e coltivare il suo animo come fosse tempio vivente di Dio. Si applicò anche con il lavoro manuale a costruire gli edifici a Dio e per i suoi seguaci. A questo proposito non bisogna per nulla dimenticare che sebbene usasse un’unica veste (come abbiamo sopra detto) e praticasse diversi lavori nessun cattivo odore, però, fu in lui, niente di sporco, anzi quella sporcizia recava in sé un pulito e una soavità di odore del corpo trasandato, poiché concorrevano, come per accordo, a onorarlo di tutte le virtù. Eccellevano fra le altre l’umiltà e la pazienza, era sommo capo, come generalmente dicono, della sua religione e sebbene amministrasse un così alto ufficio, tuttavia ai più piccoli e più vili servizi si umiliava. Reputava grandissima dignità servire gli altri con molta diligenza. Invitta fu la pazienza, che né il desiderio dei piaceri minacciò, né la tarda vecchiaia fece sminuire, né la peregrinazione scuotere, né l’avversa salute espugnò. Fu sempre lo stesso, menò sempre il medesimo tenore di vita. Egli però praticava con se stesso una così severa censura da essere inesorabile, anche quando la necessità del corpo reclamava qualche sostentamento. Avvinceva e curava gli altri con incredibile benignità. Talvolta castigò i suoi religiosi che sbagliavano in modo che il castigo (come la fragilità della condizione umana tollera) non discordasse dalla paterna carità e clemenza. Non mancarono i calunniatori che lanciarono contro di lui il veleno della loro malignità e spudoratamente accusarono la sua santissima vita come pazzia o sfacciatamente come simulazione. Siccome l’uomo non li ascoltava e non aveva il rimprovero sulla sua bocca, li sopportò con pazienza e li disdegnò risolutamente.
Molti poi che avevano affilato le loro lingue come spade, pentitisi di una così grande empietà, non si vergognarono di ritrattare, predicando qua e là l’innocenza dell’uomo e confessando pubblicamente il loro peccato. Della castità, poi, che cosa dire? Chi negherebbe, infatti, che fino all’ultimo conservò nell’integrità virginale il suo corpo incorrotto e la mente pura. Egli non ancora adolescente si raccolse nella solitudine, per non essere contaminato dal contagio del mondo, e fin dalla tenera età consacrò direttamente a Dio la sua anima come ostia immacolata. Davvero la carne potrebbe ardentemente solleticare gli stimoli di uno in cui quasi morta essa languiva? Potrebbe forse con qualche solletico la voluttà muovere i sensi, che resistettero contro tutte le delizie! Vigilava insonne il custode oculatissimo e aveva l’animo sempre in guardia in modo che nessuna forza irrompesse. Aveva rafforzato tutte le entrate, per le quali la debolezza dei mortali può essere tentata, contro l’impeto e le insidie del nemico. Sebbene poi rifuggisse dalla frequentazione degli uomini e amasse la solitudine della celletta dalla quale si elevava al Cielo e si univa a Dio, tuttavia accolse con mirabile umanità quelli che vi andavano affetti da varie malattie e per diverse cure (come il caso richiedeva) con le medicine. La piena consolazione della sapienza asciugava le lacrime dei miseri e dei deboli di carattere. Parlava poi molto a lungo di disprezzo delle ricchezze, di afflizione del mondo. Accendeva con parole focose gli animi di quelli che ascoltavano, perché abbracciassero la virtù e conquistassero la disciplina angelica! Fra gli altri carismi dello spirito divino, non mancò anche quello del vaticinio. A molti predisse le cose future, che si avverarono secondo la profezia. Ormai il fortissimo atleta, percorso con somma lode lo stadio, aveva raggiunto la meta e sentendo avvicinarsi il giorno in cui ricevere la corona della gara da Dio,chiamati attorno a sé i frati, li esortò in primo luogo a coltivare la concordia e la reciproca carità, e di osservare costantemente e fedelmente i voti
della religione che avevano professato. Allora diede disposizioni sull’elezione del successore, e nominò quello che fungesse da capo, fino a che l’anno successivo si radunasse a Roma l’assemblea, in cui si sarebbe scelto il superiore con i voti di tutti i frati. Così il primo e provvido padre propagò, anche dopo la sua morte, la cura dei figli, che la morte portava a termine. Morì lieto ed esultante nell’anno 1506 dalla nascita di Cristo, contando secondo l’uso se; secondo il calendario romano, invece, il 1507, all’età di 91 anni, il giorno in cui si ricordano la ione e l’anniversario della morte del Signore, dopo quattro giorni di altissima febbre, essendosi recato in chiesa e ivi avendo ricevuto con i frati l’Eucaristia. È incredibile quanta sovrabbondanza di popoli, quanta moltitudine di ambo i sessi e di ogni età, la notizia della morte di quest’uomo abbia richiamato dalle loro dimore. Accorrevano da ogni parte, per le strade piene, a vedere il corpo, non ancora mandato alla sepoltura. Veneravano il nobilissimo luogo in cui un’anima tanto insigne era stata ospitata. Baciavano le parti del corpo, che erano state strumento di tante sante opere, di cui avevano particolarmente imparato a conoscere in terra la singolare pietà e la beneficenza, e imploravano il suo aiuto in Cielo presso Dio. Né le preghiere dei supplicanti erano inutili; la divina bontà nulla negava, per i meriti e le intercessioni di un servo così fedele. Qui sembra richiedere che io prenda in considerazione la serie dei miracoli; ma poiché essi sono molti, non ritengo opportuno occuparmi di pochi, che peraltro esigono la trattazione di un grosso volume. Aggiungi quelli che finora sono noti, soprattutto presso i Calabresi e quasi tutti i luoghi e popoli della Francia, la cui testimonianza non ha bisogno della nostra narrazione. Se però qualcuno desideri conoscere più esattamente la cosa, ricerchi e indaghi su quelli che furono mirabilmente compiuti dal Beato sco di Paola.
Altri scrittori li hanno riportati con somma diligenza e con pari fedeltà. Pertanto mi basta dichiarare che Dio Ottimo massimo, in virtù dello stesso sco di Paola, è così presente con favore ai voti degli uomini da dissipare la caligine dei ciechi, sciogliere dai legami la lingua dei muti, aprire le orecchie dei sordi. Taccio degli storpi che camminano, dei lebbrosi mondati, degli indemoniati liberati, delle infermità curate, che la medicina aveva dato per inguaribili. È restituita anche la calma ai furiosi e sono sanati i malati di mente. Ciò nei tempi antichi nessuna volta oppure di rado era capitato. Chi dunque potrebbe giudicare che non sia da venerare con onori speciali nella chiesa di Dio costui che Dio stesso adornò di particolari doni? Chi non potrebbe pensare che non sia da unire ai cori degli Angeli un così grande uomo, che quando viveva sulla terra, si spogliava di ogni cosa terrena e si volgeva al Cielo? Si devono rendere grazie a Dio Immortale, che manifestò al mondo, ai nostri tempi, la grandezza della gloria e delle sue misericordie per mezzo del Beato sco. Godano ed esultino le città di Paola e Tours, delle quali l’una diede sulla terra un astro fulgentissimo di santità, l’altra lo immise nel Cielo.[1]
[1] L. PATRIZI ACCURSI, Relazione della vita, delle virtù e dei miracoli diSan sco di Paola Fatta dal Sommo Pontefice Leone X da GIACOMO SIMONETA Uditore di S. Rota Romana poi Cardinale della S. Chiesa, Roma, Libreria Pontificia di F. Pustet, 1907, pp. 5-13.
sco Franchino
sco Franchino, figlio di Pietro, si denominò Cosentino ma nacque a Scigliano. A 24 anni si recò a Roma, dove incontrò i cosentini Coriolano Martirano e Antonio Telesio e frequentò prelati e letterati illustri. Non si mosse da Roma fino al 1534, anno della morte di papa Clemente VII, con cui aveva condiviso la concezione della poesia come immagine della «vera immortalità». Servì l’imperatore Carlo V nell’esercizio delle armi e lo seguì nella spedizione in Africa. Nel 1541 ad Algeri una violenta tempesta fece naufragare la nave su cui egli si trovava. Nell’elegia De suo naufragio Numidarum ad litora, il poeta temette non solo per la propria salvezza, ma anche di perdere le sue liriche, con le quali poteva inabissarsi la speranza di continuare a vivere presso gli uomini. Trovò tuttavia la forza di uscire a riva e di rimanere fedele alla sua vocazione poetica. Non ebbe alcun entusiasmo per i campi di battaglia, ma non gettò lo scudo nella mischia, come fecero Alceo, Archiloco e Orazio. Alla morte del padre, sfogò il suo dolore in un epitaffio e tornò a Roma. A Parma stette alla corte dei Farnese. Fece parte del corpo di spedizione inviato da Paolo III Farnese in Ungheria contro i Turchi. Alla morte di Paolo III (10 novembre 1549), da cui fu annoverato fra i suoi familiari, si mise a fare il corrispondente da Roma per la famiglia Farnese. Viaggiò molto: in Germania, Francia, Spagna, Fiandre. Nel 1553 pubblicò a Roma la lode poetica di San sco di Paola. Reggeva il pontificato Giulio III, che incarnava bene la magnificenza del Rinascimento e la vita di mondanità e di sfarzo. sco Franchino fu nominato vescovo della chiesa di Massa Marittima e Piombino (20 ottobre 1556), in Toscana, da Paolo IV Carafa. Morì a Roma, all’età di 59 anni, e fu sepolto nella chiesa di Trinità dei Monti. Benedetto Croce dichiarò che Franchino usò la lingua latina in «modo vivo», esprimendo «l’animo e la vita sua». Squisito umanista, scrisse il poemetto Manna, formato da 544 esametri, otto
Carmi in esametri, altri in vario metro, dodici Elegie e cinque libri di Epigrammi. Tutti i suoi componimenti furono raccolti nel volume: Francisci Franchini Cosentini Poemata, segnato nell’Indice dei libri proibiti di Paolo IV per i versi d’amore non casti e altri versi satirici. Si rivelò negli Epigrammi il «Marziale delle Calabrie». Nel primo libro, rilucono i distici per la morte di Vittoria Colonna, la poetessa ammirata da Michelangelo e da Galeazzo di Tarsia. Nel quarto libro si compiacque di glorificare il cardinale inglese Reginaldo Polo, che consolò, per non essere stato eletto papa, dicendogli che era degno di governare non la terra, ma «gli astri del cielo». Esplorò il mondo dei piccoli e dei grandi; gli eroi dei suoi carmi furono: Carlo V, Pietro Antonio Sanseverino, Paolo III, Ottavio Farnese, Livia Colonna, Giovan Martinez Siliceo, Carlo Farnese, uno dei gemelli di Ottavio (morto in tenera età), Giulio III (Giovanni Maria del Monte), Margherita d’Austria, San sco di Paola, ardente apostolo della carità, di cui «parlano i paesi, le città, i monti, le selve e i vasti lidi» (oppida et urbes montesque silvaeque et littora lata loquuntur). sco Franchino, nel carme «In lode di San sco di Paola» (In laudem Beati Francisci Paulani), ammirò sco di Paola per la sua spiritualità e per il contatto ravvicinato con Dio, che gli permise di dominare le leggi della natura, di svelare i misteri del futuro, di fondare l’Ordine dei Minimi, di unire la vita apostolica di propagatore della fede a quella contemplativa. Chiamato in Francia, il Paolano esortò il re Luigi XI, terrorizzato dall’idea della morte, a impiegare bene il tempo in opere di carità e in frutti degni di penitenza, con la stessa intrepidezza d’animo di cui si armò il profeta Isaia per annunciare la morte di Ezechia, re di Giuda. I versi latini di sco Franchino (in tutto 121) sono una sorta d’illustrazione edificante, dove abbondano momenti di luminosa purezza, mentre la voce del cuore e l’amore per la bellezza della natura sono il crescendo di una poesia, che non è solo racconto di vita ma testimonianza di fede. sco di Paola è visto come modello non ingannevole, nato sotto i segni del ripiegamento interiore, del sacrificio, dell’altruismo e del prodigio. Ottenne da Dio molti miracoli. Di suo fece un solo miracolo: quello della perseveranza nella missione. Fu degno di lode e di venerazione, perché ebbe fede in Dio, praticò la carità, «che non viene mai a finire», osservò, con i suoi
frati Minimi, il quarto voto di penitenza Quaresimale. Non mangiò mai carne, uova, latte, formaggio e solo in tarda età, ma raramente, prese pesce e vino; avvertì che le ingiustizie gridano vendetta al cospetto di Dio, patrocinò i diritti degli umili contro i signori dominanti. Nel cenobio condusse vita di mortificazione dei sensi e di sprezzante condanna dell’illusoria felicità, che non consiste nell’edonismo e nella ricerca della ricchezza materiale, ma soprattutto nella qualità interiore, nel progresso spirituale, nella coscienza morale e religiosa, che sono nel mondo preludio alle gioie celesti. Si presentò nel suo tempo, dominato da conflitti inconciliabili, da rinnovate propensioni magiche e da eretica malvagità, come persona affidabile e graniticamente afferrata alla fede cristiana, vista in chiave di universale salvezza. Non fu uomo di lettere e fece, però, la sua proposta concreta di riforma della società ecclesiastica e di quella civile. sco Franchino chiude il carme di lode con la sublime visione di sco di Paola che parla e palpita di luce stellare, di carità e di pace, nel suo regolare andare, come il fluire del Tevere e della Garonna, verso l’irrinunciabile meta, che è Dio. Sublime la visione del Santo nella gloria celeste: è Dio stesso che lo bacia sulla fronte, se lo stringe al cuore accogliendolo nella schiera degli eletti, unti con l’ambrosia, che l’eremita aveva raccolto lungo il litorale di Paola.
Il carme di Franchino
Sulle altre città che vanta la terra bruzia, Cosenza è la prima, ricca di campi e potente nelle armi. Non lontano da essa, è situata, presso l’onda del mare Tirreno, Paola, il piccolo oppido gradito al cielo e caro a Lieo (per la coltivazione della vite), madre felice di uomini e di santi. In tempi di costumi corrotti e di nessuna probità e fede sulla terra, il Padre Onnipotente, dall’alto della sua sede, preso da pietà per il genere umano, decise di porre rimedio allo stato di decadenza, e perché ci fosse chi purificasse il mondo da ogni macchia, fece nascere in Paola, sotto un piccolo tetto, un uomo pieno d’ogni virtù e di grazia divina; e come lui si comportò sulla terra, lo dicono i paesi, le città, i monti, le selve e i vasti lidi. Felice quel giorno che portò questa gloria sulle nostre rive, che innalzò sul nostro mondo questa luce! In quel giorno, la terra
benevolentissima sparse dappertutto le dolcezze, diede spontaneamente nuovi colori ai fiori dei prati e spirò soavi nuovi profumi. Mentre un folto stuolo di Paolani gli faceva corona, Leone (decimo), pontefice massimo, sovrano di uomini e nello stesso tempo di sacri riti, lo celebrò lungo il Tevere, dentro le mura vaticane, lo mostrò degno di essere venerato e lo proclamò Santo, perché era stato, fin dalla fanciullezza, senza peccato, amante dell’onestà, ottimo prima del tempo, assai osservante della giustizia. Vestito di logoro, pesante e nero sacco, nella grotta, per le selve e le inaccessibili valli, innalzava voti e preghiere a Dio, lodi e sacri canti; pativa il freddo, il sole, la fame e disprezzava gli aiuti regali o di biondo oro. Allora dichiara come camminasse con i suoi piedi nudi sulle braci, sui vetri, sulle nevi e sulle pietre aguzze e come ormai i carboni accesi e le caldaie arroventate erano presi in mano e come le fiamme non avessero la loro potenza distruttiva su tutte le cose. E narra come costruisse nei paesi nuove chiese a Dio e come spronasse uomini scelti al culto divino e alla religione. E a queste cose aggiunge che dal petto di molti scaccia gli spiriti che, senza corpo, errano leggeri nel grande vuoto, penetrano nei corpi vivi, tormentano le membra dei viventi e opprimono i sensi. Guarisce anche te, o Marcello (Cardilla), col corpo coperto di lebbra, stordito per le orecchie otturate, paralizzato per le ginocchia contorte e muto. Pure te mezzo morto, o afflittissimo Tarsia, poiché nessuna mano e nessuna erba s’erano trovate sulla terra per lenire il dolore dell’orribile piaga, rimanda sano per volere divino. Allora ricorda come nella grande Sila (sopra Paterno), bianca per la neve, restituisse Tazio, privo di vita, alle aure vitali; allora fa sapere a tutti che restituisce la luce del giorno ai ciechi, fa camminare gli zoppi, dona la favella ai muti, rende l’udito ai sordi, raddrizza le braccia agli storpi. Come non ricordare che le travi quand’erano corte e non potevano toccare l’una e l’altra parte del tempio in costruzione, né mai aderire alle pareti, furono allungate dalla sua destra dinanzi alla folla ammirata degli operai? O come Antonio (Scozzetta), potente nell’arte socratica, invidiasse sco, l’eremita privo di dottrina, poiché osservava che da ogni parte si conferivano onori a lui, che si reggeva soltanto sull’onestà; o come, dopo aver riconosciuto la virtù dell’uomo, che gli proveniva dall’alto volere, di prendere con intrepide mani il carbone e i
tizzoni ardenti, sereno nel volto e nel cuore, ti chiedesse perdono, umiliato nella polvere, con supplichevole voce, e spesso innalzasse alle stelle del cielo il Paolano, aggiungendo che era un padre degno di lode e di rispetto?Allora sembrando più grande, parendo un re ispirato da Dio, ora con cuore infiammato, ora con tutta l’anima, facendo risuonare una voce divina, così comincia con alte parole: «O veramente felice perché molto ti predilessero le stelle e Dio dal cielo infuse in te una mente pura e ognuno giustamente ti chiama Beato per volere di Dio. Ahimè quanto è inutile ricercare il perché delle cose, le vie degli astri e i moti del profondo mare, l’origine degli atomi, delle anime e i princìpi del vasto mondo! Chi difatti adora Dio, con la profondità del pensiero e riconosce Dio come unico re degli uomini e padre delle cose, eccelle sugli altri per sapienza, conosce ogni cosa, ha appreso a spiegare l’origine di tutte le cose. O veramente felice chi fortificato dalla religione, Dio stesso ascrisse in cielo e nel numero dei suoi!». E non indietreggiò dinanzi alla rabbiosa fornace col calore minaccioso e con le grandi fiamme agitate dal vento; intrepido la affrontò con tutto il cuore, sfidò l’impeto delle vampe e le furenti masse di fumi, camminò sulla pietra infocata e fermò il macigno mentre cadeva. Né di lui tace il lungo viaggio, lontano dai confini della patria, verso i territori della Loira, del lento Arar, della grande Garonna, di là dalle forze di una vecchiaia annosa e curva: infatti, aveva valicato, su invito del Re, le gelide Alpi. Né quanta gente si accalcasse intorno al vecchio e lo circondasse nonostante volesse chiamarsi col nome di «Minimo» (così, infatti, egli si considerava fra i mortali), per tutto il suo viaggio, dovunque, per le campagne e per le borgate, e quanto la Francia lo venerò come padre e con quanto amore il re lo antepose agli altri. Né tace come avesse dato delle risposte a coloro che lo interpellavano fino al punto che giustamente le popolazioni le chiamavano sicure profezie; e come a te, che desideravi avere teneri figli, o Luisa (di Savoia), fortunatissima fra le madri, annunciò: «Rallegrati ormai; ti nascerà un figlio e tu stessa lo vedrai diventare re, padre di re e Augusto». E aggiunge come, compiuto il ciclo naturale di vita, morisse dopo aver predetto e previsto l’ora della sua morte e come fe, presago dell’età futura, queste profezie degne a Dio con veneranda maestà. Ancora queste cose aggiunge rivolgendo il sacro volto alle stelle, lo stesso Leone, sommo padre in terra, e dice: «Giustamente ti è, dunque, aperta la reggia dello splendido cielo, o grande padre, e il consesso dei Santi ti accolse al tuo arrivo e Dio si accostò al tuo volto, e per tutte le tue inclite azioni compiute sulla terra, di te compiaciutosi, ti diede di poter godere dell’odorosa ambrosia e
ti cinse l’almo e santo capo con una raggiante corona di stelle splendenti. E poiché il reggitore dei Santi ti concede benevolo ascolto, sostienici santamente, buono e propizio assisti gli uomini». Dopo queste dichiarazioni, sono approntate al padre solenni funzioni sacre, e il Tevere, per questa proclamazione, parve rallentare la corrente delle sue acque e parve esultare lungo il profondo corso, mentre la tarda sera, alfine giunta su nere quadrighe, oscurò i fulgidi raggi del lento tramonto di Febo. [1]
GIROLAMO MA
[1] V. NAPOLILLO, I gradini del Santo. Un sentiero di carità e fede. Cinque secoli nella spiritualità di San sco di Paola, Montalto Uffugo, Centro Europeo Informazioni, 2007, pp. 41-44.
Girolamo Marafioti
Girolamo Marafioti (Polistena 1567- dopo il 1626), storico e umanista, fu padre dell’Ordine dei Minori dell’Osservanza. Scrisse Croniche et antichità di Calabria (Napoli, 1596); la seconda edizione accresciuta e corretta fu edita a Padova nel 1601. Il trattato dilettevole di mnemotecnica s’intotola: De arte reminiscentiae per loca et imagines ac per notas et figuras in manibus positas. Nelle sue Croniche, dedicate al Signor D. Baldassarre Milano, marchese di San Giorgio, trattò della Repubblica di Reggio, di antiche città, abitanti, luoghi, monti e fiumi, e di tutti gli antichi filosofi e uomini illustri di Calabria. Distinse tre eccellenti modi di scrivere degli antichi: uno basso, osservato da Teocrito negli «Idilli» e dall’elegante Sannazzaro nel romanzo pastorale «Arcadia»; il medio per la descrizione delle cose con elevate parole ma non con «celebre e innalzato stile»; il lirico per narrare le cose che eccedono nella nobiltà mondana tutte le altre, come sono gli uomini, le scienze e le armi, che richiedono «parole alte e stile grave», come osservarono Omero e Virgilio narrando le antiche battaglie «al suono della lira». Dichiarò che gli autori moderni rivolgevano la penna e le parole ad altrettanti modi: alle cose del tutto spirituali che ricercano il dire alto; alle cose secolari, che ammettono lo stile basso; alle cose miste dell’uno e dell’altro stato, che richiedono uno stile mezzano. Girolamo Marafioti specificò che aveva composto, con mediocri parole, le storie della Calabria per diletto e quelle dei Santi per curiosità di studiare cose diverse da quelle secolari e per dare «alquanta ricreazione allo spirito». Aveva racchiuso, come Artaserse, in un piccolo dono un animo grande. Attinse dal Thesaurus di Tommaso da Truggillo le notizie su Paola, il cui nome per i «detti» di Stefano sarebbe derivato da Paticos, lontana una giornata di cammino da Cosenza. Particolare attenzione egli rivolge alle gesta taumaturgiche, di cui è ricca la vita del Santo, che però sono da lui ristrette a quelle operate a Paola e a Paterno, dove per primo l’eremita gettò le fondamenta della chiesa e della sua religione.
Marafioti, padre scano, è lieto di riportare che alla presenza di Fra Antonio Scozzetta dell’Ordine dei Minori, sco prese con le mani i tizzoni di fuoco vivi. Altre inesplicabili meraviglie confermano che «a chi ama Dio, nulla è impossibile». Salito in tanta fama, il patriarca paolano fu da Sisto IV inviato in Francia come ambasciatore di pace, a seguito delle insistenze di Luigi XI, che gli edificò «un ampio e magnifico» monastero con la chiesa. Luigi IX morì serenamente a Plessis-lès-Tours nel 1483. Marafioti segnala l’ammirevole e grande «continenza» dell’uomo di Dio; si può aggiungere che Leone X affermò, nella bolla di canonizzazione, che sco «pareva fatto di solo spirito, per niente di carne». Prima di are ad altra vita, sco di Paola istituì tre Regole: una dei frati, l’altra delle suore, la terza dei terziari di ambo i sessi. Chiamò a sé i suoi religiosi Minimi e li esortò a obbedire sempre al pontefice romano e all’osservanza dei voti di obbedienza, povertà, castità e il quarto voto di vita Quaresimale. sco menò, infatti, vita solitaria e si nutrì solo di cibi quaresimali. sco da Paola spirò santamente nel secondo giorno di aprile del 1507. Fu proclamato Santo con rito celebrato il 1° maggio 1519 nella Basilica di San Pietro.
La cronaca
So che della vita e morte e dei miracoli del glorioso Padre San sco da Paola sarebbe di mestiere scrivere un libro particolare, essendo stata la sua vita, e morte miracolosissima e piena di grandissime dottrine ed esempi di santità, nondimeno, conoscendomi impotente a scrivere tanto, mi ristringo alla brevità e quivi noterò solamente che presso Tommaso da Truggillo nella seconda parte del suo libro, intitolato «Thesaurus Concionatorum», ho ritrovato il o che comincia in questo modo: «Constat in Regno Neapolitano, inter Brectios et Lucanos, Paulae oppidum situm esse».
La quale storia interamente nella lingua volgare così suona: «È cosa chiarissima che nel Regno di Napoli, tra Brettii e Lucani, si trova situato un castello chiamato Paola, ch’è lontano da Cosenza, metropoli di quella provincia, per cammino di una giornata; indi dunque diciamo che portò l’origine sua questo beato confessore di Cristo sco, figliolo di padre e madre cristiani e pietosi, i quali s’ingegnarono molto bene di educarlo e istruirlo nelle virtù. Ma essendo il loro detto figliolo infervorato dello spirito di Dio, deliberò nella sua patria di edificare una chiesa ed egli fu il primo che cominciò a cavare le fondamenta. La quale opera, essendosi divulgata fra quei vicini popoli, d’ogni parte cominciarono a concorrere a giovarlo. Alcuni stavano intenti all’esercizio dell’opera, altri portavano pietre, calce, legni e altre cose necessarie alla fabbrica. Nel parlare era tanto piacevole e affabile che mai persona alcuna a lui s’accostò, la quale non si fosse tutta consolata dalle sue dolci e melate parole e presa da un’indicibile dolcezza del suo parlare e, quel che più importa, quasi ripiena dello spirito di Dio.Ancora la sua umiltà si conosce dal cognome del suo ordine, perché siccome egli voleva tra tutte le altre cose essere riputato minimo, così ancora determinò e istituì che il suo ordine fosse chiamato dei Minimi. Anche essendo egli istitutore e generale correttore del suo ordine, per quanto poteva, si dimostrava inferiore a tutti, e non disdegnava inchinarsi a fare tutte le opere servili, e a ciò che donasse agli altri esempio d’umiltà già serviva i suoi discepoli mentre mangiavano; spesso scopava la chiesa e gli altari e accomodava i paramenti e altre cose necessarie al culto divino; colle proprie mani lavava le vesti dei suoi fratelli, anche se ancora coloro fossero novizi nell’ordine; e mentre egli era giovane, camminando per la Calabria, sempre andava a piedi scalzi sopra ghiacci, nevi, monti, acuti sassi, triboli e spine; e quantunque spesse volte fosse oppresso da gravissimi pesi, mai nei piedi, essendo scalzo, sentì afflizione, il che era cagionato dall’ardentissimo amore che portava a Dio. Anzi pubblicamente consta che con i piedi nudi spesse volte calpestò il fuoco e colle nude mani portò le pietre ardenti.
Era certamente l’austerità della sua vita ammirabile, la quale perciò si deve stimare meravigliosissima, perché nella fanciullezza, nell’adolescenza, nella gioventù, nella vecchiezza e nella sua decrepitezza, fra le fatiche, le vigilie, i digiuni, le astinenze e molte altre macerazioni del proprio corpo, sempre quasi ha tenuto un medesimo modo di vivere. Per queste e moltissime altre opere tanto è stato abbracciato dalla grazia dello Spirito Santo, che per i suoi pietosi meriti e le preghiere sono stati nel nome di Cristo spesse volte discacciati i demoni dai corpi umani; e molti infermi, oppressi da diversi morbi, dai medici abbandonati per essere coloro vicinissimi alla morte, furono alla prima sanità ritornati. Il medesimo beato Padre molti altri infermi di sensi di ragione e d’intelletto restituì alla sanità. A molti zoppi ha dato la potestà di camminare, ai sordi l’udito, ai muti la parola e ai ciechi ha restituito il lume degli occhi. Mondò lebbrosi e molti morti, ovvero per morti giudicati, ritornarono al lume della vita. Dei quali miracoli, spargendosi la fama quasi per tutto il mondo, ed essendo venuti alle orecchie di Paolo II di felice memoria, il sommo pontefice romano mandò un suo cameriere a Pirro (Caracciolo) di buona memoria, arcivescovo di Cosenza, al quale comandò che su questi miracoli prendesse diligentissima informazione; e lo stesso persuase che di propria persona, con un compagno ch’egli gli assegnò, andasse al beato uomo e che della vita di colui, della fama e dei miracoli strettamente s’informasse. Il detto cameriere, confidato al consiglio dell’arcivescovo, andò dal beato uomo; e mentre che, nel salutarlo, volle baciare la mano al Santo, egli totalmente si ritirò, e lo pregò che piuttosto egli si degnasse di porgergli la mano a baciarla, affermando che questa sarebbe cosa molto più giusta e conveniente, perché era cameriere del papa e sacerdote da trent’anni; la qual cosa volgendo nella memoria il cameriere, conobbe che tutto ciò era vero, e molto si meravigliò dello spirito (di profezia) del beato uomo. Dopo andò a parlare con lui in camera, dove essendo il primo ragionamento sulla sua vita tanto ardua e difficile, della quale il cameriere diceva da nessuno potersi sopportare, eccetto se fosse uomo robusto e forte, il beato Padre intesa la parola di quello, avvicinandosi al fuoco e prendendo senza lesione alcuna i carboni ardenti nelle mani, disse: «A colui che serve Dio con perfetto cuore tutte le cose create ubbidiscono». Stupito quello del miracolo, gli domandò perdono,
e mentre voleva umilmente baciare i piedi al beato uomo, questo ricusò. Nei tempi innanzi, un certo uomo nobile, chiamato Giacomo di Tarsia, barone d’una terra detta Belmonte, essendo da acerbissimo e gravissimo dolore di una postema, quasi insanabile, per lungo tempo nella gamba travagliato, vedendo che dai medici e chirurghi nessun profitto si faceva, ma piuttosto il male della piaga s’aggravava, e applicato qualsivoglia rimedio la cosa era ridotta fuori di ogni speranza di salute, commosso dalla fama della santità e dei miracoli del beato uomo, che allora era a Paola, non senza grande sua fatica portato, si presentò innanzi a quello, al quale, mostrata la sua piaga, devotissimamente si raccomandò, e da prima veduto il male non solamente dal Santo, ma da tutti i circostanti, il beato uomo ammonì colui che avesse ferma fede in Dio e speranza certa, perché starebbe per conseguire la sanità; e subito mandò uno dei suoi fratelli che dovesse raccogliere alcune fronde d’erba, ch’è chiamata unghia cavallina, che ivi nasce, e colle stesse fronde portasse alcune polveri, che l’uomo di Dio teneva nella cella. Mentre il frate osservava quanto dal beato uomo gli era stato comandato, egli si volse ad una vicina immagine del Crocifisso e pregò che a quel barone, che confidava nella grazia della Sua divinità, si degnasse mostrare la Sua divina misericordia; non molto tempo corse che, portate le fronde e le polveri, come egli aveva comandato, fatto il segno della croce, pose quelle sulla piaga e, con tre foglie di quell’erba della stessa piaga, coprì e ogni cosa legò insieme ponendo la sua speranza in Dio, che colui ricevesse la sanità, e gli comandò che ritornasse nella propria casa. Dopo avere colui camminato sul cavallo per lo spazio forse meno di due miglia, si volse alla sua sposa Giovanna, la quale in quel cammino sempre gli era stata in compagnia, e le disse: «Mi pare che io sia sano, perché non sento più quell’acerbo dolore e quel pessimo fetore ch’io sentivo», e avendo traato un certo monticello, Giacomo, avidamente desiderando conoscere se poteva camminare, scendendo dal cavallo cominciò con i propri piedi a camminare e coll’infermo piede, calpestando fortemente la terra e non sentendo più dolore, conobbe essere sano. Dunque, rendendo grazie a Dio e al beato sco da Paola, lo sposo e la sposa, contenti del loro desiderio, ritornarono a casa. In quegli stessi giorni, stette nella città di Cosenza un uomo, chiamato Marcello di Cardilla, con i piedi e le mani in sé contratti e tutto lebbroso, in tal modo che quasi persa tutta la voce, appena la sua parola si poteva udire, che essendo menato dai suoi parenti al monastero di Paola e presentatosi innanzi al beato uomo, quello mosso a comione, alquanto segretamente pregò, dopo ritornato dall’orazione, colla sua mano lo sollevò, e subito fu fatto sano della
contrazione delle membra e anche mondato dalla lebbra. Essendo anche l’uomo di Dio nel monastero di Paterno, che allora si edificava, venne da lui un uomo nobile di Cosenza chiamato Guidone Lupanto, infetto d’una gravissima lebbra, e subito gli restituì la sanità. Quando lo stesso padre cominciò la fabbrica del monastero, nella sua patria Paola fu portato da lui un giovane muto dal padre e dalla madre di quello, ai quali l’uomo Santo disse che tre volte gridassero il nome di Gesù, che in questo modo gli fece aprire il senso, il beato Padre cominciando e i parenti di quello seguitando, similmente il muto, con alta voce disse: «Gesù», cosicché libero e sano nella parola si mantenne fino al giorno della sua morte. Ancora Giulia, figliola di Antonio Catalano, che allora abitava a Paola, essendo dalla sua natività cieca senza poter vedere cosa alcuna, essendo menata dal padre e dalla madre innanzi all’uomo di Dio, che allora era forse nell’orto del monastero, lo stesso beato uomo svelse una certa erba e, fatto il segno della croce, pose quella negli occhi della cieca figliola, la quale subito cominciò a vedere e possedette il senso della vista mentre ch’ella visse. Nella fabbrica del monastero di Paterno, due giovani, mentre cavavano la terra dalla fossa, furono dalla stessa fossa coperti, per essere la terra caduta sopra di loro, ed essendo stimati morti, fu chiamato il Santo a soccorrerli, che fece cavare dall’una e l’altra parte la terra e i medesimi due giovani uscirono vivi senza lesione alcuna. In quella stessa scrittura racconta il predetto autore molti altri miracoli del Santo, cioè che senza fuoco cosse fave per dare da mangiare a un mastro chiamato Antonio, che fabbricava il monastero di Paterno. Un altro, che mentre si doveva celebrare la messa, non trovandosi fuoco in chiesa, egli prese la corda per scendere la lampada, la quale in aria, a metà discesa, miracolosamente si accese. Un altro, di un giovane (di Montalto), che essendo per la grave infermità ridotto quasi all’estremo della vita, fu dalla morte liberato e restituito nel lume della sanità. Un altro, che essendo egli nel monastero di Paterno, con acqua benedetta e calce viva sanò l’albugine degli occhi ad uno che pativa. Un altro di un uomo morto dentro la neve, che fu portato per essere sepolto, e dal Santo fu risuscitato. Un altro, che stando la fornace della calce (mentre cuoceva) per cadere, egli entrò per mezzo le fiamme e l’acconciò che non cadesse. Un altro, che liberò un uomo dalla rovina, che gli poteva fare un pezzo d’artiglieria. Un
altro, che in presenza di un frate, Antonio (Scozzetta), del nostro ordine (dei Minori), prese i tizzoni del fuoco vivi colle mani nude, simile al predetto miracolo dei carboni, e molti altri miracoli si leggono dello stesso Santo presso diversi autori. Soggiunge poi Tommaso da Truggillo in quella sua scrittura, e dice che per questa moltitudine di miracoli, essendo assai celebre il suddetto uomo, pervenne la sua fama alle orecchie di Ludovico (Luigi XI), re di Francia, il quale desideroso di vederlo di persona, ottenne da Sisto papa quarto di questo nome, che in virtù della santa ubbidienza il beato uomo dalla Calabria andasse in Francia; dove il predetto re, con singolare devozione prendendolo e domandando da lui di essere benedetto, gli usò grandissimo onore e riverenza, come ad un uomo di Dio; finalmente, avendo egli conosciuto la santità dell’uomo, gli assegnò un luogo per lui e per i suoi fratelli nella città di Turone (Tours), vicino al palazzo reale, dove gli edificò un ampio e magnifico monastero colla chiesa unitamente, la quale insino ad oggi sta edificata, per abitazione e uso del beato sco da Paola e dei suoi fratelli. È stato ancora il Santo di tanta gran continenza, che appariva «non composto di carne, ma di solo spirito». Prima che egli asse da questa vita, ad onore e lode e gloria dell’onnipotente Dio e propagazione della sua religione e ammaestrato dalla divina ispirazione (come piamente si crede) istituì tre regole: una dei fratelli, la seconda delle sorelle e la terza dei terziari, nella quale si comprendono l’uno e l’altro sesso; e siccome egli era amatore dell’umiltà e desiderava che la stessa fosse molto dai suoi riverita, ordinò che i suoi fratelli si chiamassero minimi e le sorelle minime. E comandò loro che osservando i dieci precetti di Dio e comandamenti della chiesa fedelmente ubbidissero al romano pontefice, che in ogni tempo vi sarà, e che fero professione sempre di vivere sotto il voto dell’ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale, aggiungendo ancora capitoli alle regole dei fratelli, tanto per la direzione e formazione delle persone, quanto ancora per l’aumento dell’onore divino e debita istituzione e osservanza. Le stesse regole dei fratelli, delle sorelle e dei terziari, con sette capitoli ordinate, furono approvate da Giulio II sommo pontefice romano, che allora viveva, come consonanti alla cristiana religione e adornò il medesimo ordine di diversi privilegi, grazie e indulgenze, come hanno fatto ancora molti altri
pontefici, siccome appare per le loro lettere. Conoscendo dopo il Santo essere vicino la fine della sua vita per divina ispirazione, un giorno innanzi la sua morte, che fu il Giovedì Santo, essendo presenti molti frati, i quali da diverse province e regni erano a lui venuti, nella messa conventuale avendo prima preso il sacramento della penitenza dalle mani di un sacerdote del suo ordine, battendosi il petto con molta effusione di lacrime, prese il santissimo sacramento della eucaristia; dopo avendo reso grazie a Cristo nostro Signore, alla beata Vergine sua Madre e a tutti i Santi, essendosi celebrata la messa, quantunque per la vecchiezza fosse debole e infermo, appoggiato nondimeno al bastone, che sempre soleva portare nelle mani, ritornò con i propri piedi in cella; nel seguente giorno, vedendo il fedele e vero servo di Dio, che già gli stava imminente il tempo di partire da questa valle di lacrime, comandò che fossero chiamati a sé i suoi fratelli, e li confortò alla fraterna pace e al reciproco amore con dolcissime parole e con molte salutifere ammonizioni e, secondo il solito costume, avendo data la benedizione, avendo già compiuto il novantunesimo anno, nell’anno del Signore 1507, nel giorno secondo di Aprile, che fu il Venerdì Santo, circa l’ora nella quale Cristo per noi patì in croce, fattosi il segno della santa croce, e adornato debitamente con i santissimi sacramenti, essendogli letta innanzi la ione di Gesù Cristo, abbracciando più volte e baciando il legno della croce e dicendo quelle parole del Salmo: «In manus tuas domine commendo spiritum meum» («Nelle tue mani Signore metto lo spirito mio») e altre devote orazioni, senza dolore o segno alcuno di mortalità, alzando gli occhi in cielo, ò da questo mondo all’altro. Il suo corpo, essendo stato undici giorni senza sepoltura, non si mutò, né cagionò fetore, ma piuttosto odore soavissimo.Cominciarono dopo, per divina virtù e per i meriti del Santo, ad apparire tanti miracoli, che Leone decimo sommo pontefice romano, nel settimo anno del suo pontificato, che è stato l’anno del Signore 1519, lo ha canonizzato e scritto nel numero dei Santi. Questo è quanto abbiamo raccolto del glorioso sco di Paola». [1]
[1] G. MARAFIOTI, Cronache et antichità di Calabria, Padova, Uniti, 1601, pp. 269-273.
Cesare Malpica
Cesare Malpica, romanziere, poeta e giornalista, nato a Capua il 1804, morì a Napoli il 1852. Visitò la Calabria e, nel suo libro Dal Sebeto al Faro (Napoli 1845), rivolse particolare attenzione a Cosenza, regina del Vallo, dove assistette a una tornata accademica, rimanendo colpito «dalla folta schiera di giovani che vi assisteva». Ospite del giudice Giuseppe de Robertis, sostò in preghiera nella cappella, dove fu poi murata una lapide, che attesta la protezione del Santo sulla città natale: In questa casa benedetta / quattro secoli fa nacque sco da Paola, miracolo di fede, di penitenza, di fortezza, apostolo nuovo. I Paolani scampati per protezione di lui / dal terremoto dell’otto settembre MCMV/ a ricordo della loro perpetua gratitudine posero. Cesare Malpica descrisse Paola, con un linguaggio forbito, suggestionato dalle strade, dalle fontane, dal mare Tirreno, dalla porta di San sco, su cui si erge una piccola statua, dalla casa nativa del Santo paolano, dal complesso conventuale, dai particolari momenti storici vissuti dalla cittadina. ò per il castello, con torre cilindrica e un bastione quadrilatero, e quando giunse al santuario, situato nella gola del torrente Isca, esclamò di trovarsi davanti alla «più bella gemma di Paola». Il viaggiatore Malpica, tenendo presenti le fonti documentarie, principalmente di Gabriele Barrio e del suo continuatore Girolamo Marafioti, segnalò le virtù eroiche del Santo: umiltà, penitenza, carità. Frate sco, che non celebrò mai messa, fu da tutti stimato e amato per la sua vita esemplare e per la saggezza dei suoi consigli. Nel volume del Barrio trovò scritta la seguente lode all’integrità di vita del servitore di Dio, nel cui amore «soltanto trovava pace»: Era mirabile specchio di tutte le virtù. Il suo volto, invero, significava di per sé l’idea di Dio. Portò nudi i piedi per tutto il tempo della sua vita. Rifulse per moltissimi segni, poiché richiamò alla vita molti defunti, restituì all’antica e feconda condizione di salute, ammalati di lebbra e di altre ulcere e malattie. Spesso, a piedi nudi camminò sul fuoco; entrato a piedi nudi in una fornace ardente, che minacciava di rovinare, con le mani nude la rafforzò perché non cadesse. Liberò gli ossessi dai demoni.
Né fu privo del dono della profezia: infatti, pieno dello spirito divino, predisse cose future e rivelò cose ate, altrimenti a lui sconosciute. Spesso rimase senza cibo per più giorni e notti. Non mangiò mai carni, anzi vietò ai suoi cenobiti carni, uova, latticini, eccetto il tempo dell’infermità e, allora, col parere del medico. Poiché la fama della sua santità era giunta fino a Ludovico, re delle Gallie, messo da parte ogni indugio, il re lo fece chiamare a sé con somma venerazione. Ma egli non si recò da lui se non per ordine di Sisto IV, sommo pontefice. Morì a Tours, in Francia (…), durante il pontificato di Giulio II, nel giorno e nell’ora in cui Cristo morì, di venerdì all’ora nona. Cesare Malpica dichiara che la statua del Santo è «povera e rozza», aprendo così la discussione sulla rappresentazione figurativa di San sco di Paola, il cui vero ritratto fu fedelmente dipinto da Giovanni Bourdichon, che fece per due volte il calco sul cadavere, per raffigurarlo «con maggiore precisione». Furono tre i ritratti da lui eseguiti. Uno fu collocato sulla tomba di sco di Paola con la seguente iscrizione: «Il retracto del buon homo de naturale, quale tenea una gran barba bianca, scarno e d’una faccia grave et piena di santità». L’altra vera effigie, eseguita dal Bourdichon, pittore di re Luigi XII (1498-1515), fu portata al processo di beatificazione, che si celebrò a Tours, dai vescovi di Parigi, d’Auxerre e di Grenoble, l’anno 1513. Nel processo, Bourdichon rilasciò la sua testimonianza (19 luglio 1513). L’altro ritratto eseguito ancora dal Bourdichon fu inviato dal re sco I di Valois (1494-1547) a Papa Leone X per il processo di santificazione, l’anno 1519. Sono finora state infruttuose le ricerche presso il Vaticano per conoscere l’effigie del Santo, eseguita dal Bourdichon, assai cara a Clemente XI Albani (papa, 1700-1721), che la fece mettere in una cornice dorata e ordinò di appendere il quadro sopra il letto della sua camera. Nel frontespizio e nella prolusione del libro del correttore Giovanni Abbiati Forieri, Vita e miracoli del Glorioso Patriarca S. sco di Paola fondatore dell’Ordine de’ Minimi (Milano, sco Vigone e fratelli, 1710) il problema è risolto dalla copia «cavata dal prototipo» da Durello.
Viaggio a Paola
Delle casette costruite di recente sulla marina, in mezzo a torrenti ricchi di bella coltura, dove finiscono le case, un lungo ponte a molti archi gettato da poco sulla valle, che rade, salendo da manca a ritta, il fianco della collina, lasciandosi a manca l’antica strada, terminata da una porta antichissima in sembianza d’arco trionfale, ecco la marina di Paola e la via che vi mena.Quando ha raggiunto il colle, il sentiero formando un gomito si volge a manca: al finire di questa seconda linea si fa piano, e diventa un lungo viale fiancheggiato da ombrose e antiche piante, che sempre costeggiando la valle ha a dritta una campagna amenissima, a manca dei rigogliosi e verdeggianti giardini di agrumi, in fondo l’odierna porta della città, sulla di cui sommità, entro una nicchia è una statuetta del glorioso taumaturgo. Entrando trovi una piccola piazza col nel mezzo una fontana d’acqua limpidissima. A manca della piazza s’apre una dritta e spaziosa via, terminata a manca dall’antico convento dei Gesuiti oggi palazzo della sottintendenza e del giudicato, a ritta da un’altra fontana d’acqua abbondante: qui si restringe alquanto e va così fin dove da quel lato la città finisce. Presso la fonte un’altra via mena alla parte superiore. Questa è Paola, oggi divenuta un punto interessante delle Calabrie per il aggio continuo dei vapori. D’aria salubre, circondata da perenne verdura, ricca d’acque scorrenti, popolata da tranquilli, decenti e industriosi abitatori, colle sue case bianchissime tutte volte alla marina, coi fiorenti giardini che le sono ai piedi e ai fianchi, colle rovine del castello feudale che la dominano, col maestoso ponte alzato sul vasto torrente che le scorre a lato, col monte che le sovrasta, veduta dal mare presenta un panorama magnifico e ridentissimo. Fu decorata del titolo di città fin dai tempi degli Aragonesi; e poi specialmente per concessione di Re Filippo III. La sua antichità risale agli Enotri; fino a cinque secoli prima della caduta di Troia quando Enotrio la edificò. Il suo nome in prima fu Paticos: gli artefici più chiari di quei tempi ebbero stanza in lei. E quel suo castello, già dimora degli Spinelli Fuscaldi suoi Signori, era ricco, bello e forte; rammenta l’assalto patito per opera di Adrieno Barbarossa, quando di qui ando recava gli aiuti di Solimano a sco di Francia contro Carlo V. Mi dà grazioso ospizio il giudice Sig. Giuseppe de Robertis. Erudito, delicatissimo, scrittore latino di purgata eleganza, egli mostra in sé congiunti il giurisperito e l’archeologo. Conversando con lui e col sottintendente mi
rinfranco della stanchezza che mi opprime, dopo sì lunga e incomoda veglia. A ritta della fontana della piazza, al cominciare d’un viottolo, vedi una piccola chiesa; è la casa del taumaturgo mutata in tempio. Qui nacque, qui ò gli anni dell’infanzia, qui umile e modesto si dispose a calcare quella via al termine di cui brillava l’aureola dei Santi. E non sapeva che il suo nome sì oscuro allora sarebbe un dì glorioso nella cristianità; che quel povero abituro un giorno sarebbe una chiesa; che poco lungi s’alzerebbe un cenobio d’una innumerevole famiglia che avrebbe da lui nome, origine e fama; che la sua patria (Paola) per lui sarebbe famosa nei fasti della religione di Cristo. Preso da santo rispetto mi prostro e bacio la sacra reliquia. Ora andiamo a visitare il Santuario. È bella e amena la via che vi conduce; domina un lato della città, è dominata da monti, signoreggia il mare, s’affaccia sopra valli, serpeggia fra vigneti, è coronata di rupi e boschi, è irrigata da piccoli torrenti, che balzano infranti fra ciottoli, è fiancheggiata da zolle erbose, è agevole, è solitaria, il sole che volge all’occaso la copre d’un manto d’oro, su cui in mille modi si alternano le ombre. Ti vedo, ti godo, ti sento, ti saluto alfine o placida solitudine delle montagne! Alfine la mia anima può abbandonarsi ai sogni delle sue speranze, alle memorie del cuore. Senza temere la prosa delle splendide prigioni che si chiamano città, senza paventare lo stridore delle ruote, che trascinano fra le delizie della natura la ricchezza pasciuta d’ignoranza. Oh! io mi sento felice. Un pensiero, un solo pensiero che traversa la mente disperde tre lustri interi di dolore. Or vieni a me, discendi dal cielo; posati sulla mia fronte pensosa, o colomba dei firmamenti, poesia divina, sentimento dell’eterno Vero, emanazione della legge di carità e di amore, gioia solenne e misteriosa, che Dio manda alle sue creature affannate; estasi che le trasporta in un mondo sconosciuto e sublime; scintilla di vita; lampo che rischiara le tenebre, disperde le nebbie, e veste i cieli d’ineffabile splendore; mostrando ai mesti la patria eternamente beata. Vieni a me, scordiamo insieme il secolo della dea moneta. Questa via fu anch’essa calcata dal santo di Paola.
Hanno un bel gridare i figli del secolo ato, cencioso retroguardo d’un esercito sconfitto! Quel religioso col mezzo d’un cilicio e d’un sacco pervenne a radunare sotto le sue leggi migliaia di discepoli, non era al certo un uomo ordinario; le molle da lui usate, lo spirito che domina le sue istituzioni, la costanza con cui si tengono salde, non furono e non sono certamente opera della terra. Nasceva per intercessione del Santo d’Assisi, e ne riceveva il nome al fonte battesimale, il Santo di Paola. Vestiva a tredici anni le ruvide lane. In quell’età sì tenera dava l’esempio d’incredibile austerità di vita; mortificando i sensi, vegliando nella penitenza e nel digiuno. Uscito dal monastero, dopo qualche pellegrinaggio, si chiude nella solitudine e rinnova i prodigi dei prischi anacoreti della Tebaide, fra questi monti. Parecchi discepoli accorrono a lui. I Paolani loro fabbricano delle piccole celle, che presto divengono un cenobio. Ma il Santo non abita con essi. Il deserto è il suo cenobio, la nuda rupe il suo letto, l’erba dei campi e qualche radice sono il suo cibo. La fama narra questi fatti, i prodigi confermano la grazia che lo assiste, la sua famiglia si accresce, qui e oltre il faro. Gli uomini abbracciano una vita di abnegazione e di penitenza, che farebbe tremare il più forte degli spiriti forti, come si abbraccia un diletto. Sapreste spiegarmi ciò o sapienti del gran secolo! Sisto IV alza la mano a benedirla, la esenta dalla giurisdizione dell’ordinario; sco è il suo superiore. Dall’Italia si trapianta in Francia. Luigi XI paventa la morte; perché la morte è mandata da Dio, e non ha paura d’alcuno. Vorrebbe allontanarla dal suo letto dorato Luigi XI! E chiama sco, perché le imponga di non picchiare alla porta del forte castello. Ma i Santi di Dio non sono i ministri dei grandi contro l’umanità. Conoscere e deplorare la sua vita, morire non come aveva vissuto, perché bisogna morire, ecco i consigli del Santo, ben più preziosi d’ogni farmaco!
Ecco l’opera di sco nel tremendo palazzo di Plessis-les-Tours. Dopo di avere spaventato e scandalizzato le genti (il re) le edificò accogliendo nei suoi limiti i figli dell’ordine spaventoso. Portati dallo spirito immortale varcano i Pirenei, prendono le armi cristiane contro i Mori di Malaga. Ferdinando quinto loro dà il nome di «Padri della Vittoria». E ben si appone. Massimiliano li chiama in Alemagna. Intanto la triplice regola è già scritta. Comanda la quaresima perenne, il silenzio, la povertà nelle vesti, i capitoli frequenti. Ma la sua base fondamentale è il digiuno. È per il fratello ciò che è l’olio fra i liquidi: deve sempre andare a galla. E questi deve sempre ricordarsi del dettame di Colui che disse ai discepoli nell’ora suprema della Cena: «Il maggiore fra voi sia come il minore». Poi vuole che si dicano Minimi, perché rammentino al mondo e a se stessi che il Signore disse: «Ogni volta che avete fatto qualche cosa ad uno di questi miei minimi fratelli l’avete fatto a me» (amen dico vobis: quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis, mihi fescistis). Umiltà e carità: ecco il codice del Santo. Alessandro VI e Giulio II lo sanciscono. L’opera è compiuta. Sono garanti della sua santità le benedizioni dei popoli, gli operati prodigi e il sempre fervente amore verso i poveretti di Cristo. Plessis-les-Tours, che vide morire Luigi XI, vide pure morire sco di Paola! Quali diversi quadri! Volge il 1507. Col corpo macerato, ma con lo spirito fortificato dalla purità, pregò e patì sulla terra per novantuno anni. Emulo del Santo d’Assisi salì al cielo. Trovatemi un poema che vinca questa storia! Volle ritrarla sulla fisionomia dell’Eroe celeste il povero scultore della rozza statua a cui m’inchino. Ma che monta che sia rozza! Le grandi virtù non hanno bisogno dell’arte; non hanno neanche bisogno di pompose frasi, come quelle che stanno incise sul piedistallo. Ma sono opera d’un dotto! Sì! Era proprio il caso di dotti e di dottrina! Che siete voi o dotti, e parliate pur latino, al cospetto dei sapienti della fede! Dei poveri vermi orgogliosi. Io avrei scritto su questa base: «Ora pro nobis», prega
per noi!…le parole della chiesa, madre d’ogni dottrina. Oh! queste parole avrebbero avuto il valore di cento volumi. Sì io venero questa statua, povera e rozza com’è. Sta sul luogo della prima dimora, veglia il bosco sacro, ha a piedi il masso gigante arrestato da sco sull’orlo dell’abisso, domina la valle silenziosa, signoreggia il Tirreno, protegge il romitorio. Poeti dalla testa vuota e dal cuore superbo, professori d’ironia, quanti siete voi che avete il viso come il deserto, in cui cerchi invano la traccia d’un pensiero, non v’appressate al sacro romitorio. Questo è l’asilo della fede fervente, del cuore che crede, spera ed ama, e voi siete pari a steli inariditi. Ma o voi che intendete la missione qual sia dell’uomo e del cristiano, guardate. Il monte verdeggiante in cima si apre in due e mostra i suoi fianchi ispidi e nudi, che cingono la valle interposta: in fondo a questa valle corre strepitoso un torrentaccio: a manca è il primitivo cenobio, rozzo, annerito dal tempo, senza ordine, senza disegno, con finestre quali alte, quali che guardano la montagna: dirimpetto sul lato opposto è il tempio: a ritta, e congiunto al tempio è il convento dalla bianca facciata, dai due piani simmetrici: un arco di ponte congiunge questi due edifici al primo: un ampio sentiero dritto ed erboso guida al delubro. Il silenzio e il raccoglimento regnano intorno: la preghiera viene spontanea sulle labbra; si sposa al fragore delle acque spumanti, al pigolio di innumeri colombi, che fatti sacri dalla devozione svolazzano sicuri da questo al tetto. La chiesa non è grandissima ma bella e decente. In fondo al lato diritto è la santa cappella ove si serbano le venerate reliquie. Una schiera di religiosi cortesemente ci accompagna. Con ceri accesi, in atto devoto si prostrano innanzi all’altare e recitano una preghiera mentre uno di loro offre alla nostra venerazione le testimonianze innegabili della lunga e severa penitenza dell’uomo straordinario: il suo scapolare, il prodigioso mantello, i sandali, le calze, la camicia, il rosario, povere vesti, ruvide e grossolane ma oh quanto più preziose di tutte le seriche vesti incensate dal mondo!
Sull’altare è una tavola colla vera effigie del fondatore. Opera antica e pregevolissima anche come lavoro di arte. Una porticina guida al deserto. Percorsa una angusta via giungi al limitare d’una valletta, che ha dall’altra parte un bosco. In fondo a ritta è una specie di umido e basso covile. Là dentro per molti anni stette il santo pregando, digiunando, meditando. Il sole è tramontato; il vento della sera spira nella foresta e mormorando tra le fronde produce quel soave mormorio, che è la melodia della natura: l’inno che essa innalza al suo creatore. I pensieri mondani qui non hanno né forza né favella; gli affetti caduchi della terra qui non conturbano il cuore; l’anima intenerita sente le delizie di questa pace solenne, di quest’ora solenne. Seduto sopra un sasso, all’incerta luce del giorno che muore, mentre i religiosi mi stanno intorno, taciturni, io scrivo colla matita soli quattro versi, povero tributo di me oscuro pellegrino. «O santa solitudine del pio! / Qual rimprovero acerbo dei rei profani! / Perché non vengono qui tutti i mondani / a pianger colpe e a favellar di Dio!». Addio bosco su cui già si addensano le notturne ombre; addio stanza che sei la reggia della santità; addio sacro deserto ispiratore di sublimi pensieri; addio valle romita; silvestri fiori, zolle verdeggianti addio. Fra i triboli della vita, nelle tempeste del cuore, nei giorni desolati l’anima sospirerà questa calma e questo riposo silente e da lungi correrà a ritemprarsi qui dove lo spirito, che è immortale, è signore della polvere che a. Giunti presso alla statua la campana del convento suona l’angelico saluto: lo ripetono le campane della città: Ave Maria. Gli sponsali della luce colla natura sono interrotti: le tenebre s’alzano vittoriose dal fondo delle valli e sotto forma di vapori coprono il ciglione dei monti. Il Tirreno, Stromboli, le coste, prima appaiono quali masse nere, poi come masse grigie, poi si confondono colle ombre. I contadini che tornano dalla fatica ando ci augurano la buona sera. L’astro di Venere, la sola luce restata nei firmamenti, ha seguito il carro del sole; ha ceduto il luogo ad altre stelle che man mano vanno luccicando.
O giorno fecondo di tante impressioni come potrei dimenticarti?[1]
[1] C. MALPICA, Dal Sebeto al Faro: scoperta della Calabria, Belvedere Marittimo, 1990, pp. 48-53.
Victor M. Hugo
Torquemada è un dramma in versi di Victor Marie Hugo, diviso in due parti e in quattro atti. Oltre a documentarsi sull’Inquisizione presso Paul Meurice, che aveva sposato Palmyre Granger, una fedele amica della famiglia, Hugo stese, nella pubblicazione di Angelo (1835), una lunga nota sull’Inquisizione di Stato a Venezia, che egli aveva estratto da un testo autentico, mostrando il lavoro sotterraneo e la crudeltà degli inquisitori. In ricorrenza del Natale del 1869, Hugo lesse in famiglia il suo dramma Torquemada, che fu pubblicato soltanto il 1882, ma non fu rappresentato quando l’autore era ancora in vita. Victor Hugo morì a Parigi nel 1885 all’età di ottantatré anni. Nei suoi Châtiments (1853) diede sfogo a potenti accenti di collera, adergendosi a giustiziere odiatore dei tiranni. Nel romanzo più popolare, Les Misérables, egli espresse idee umanitarie con indimenticabili accenti e un linguaggio rivelatore d’una volontà più forte del male. In Torquemada, Victor M. Hugo mise in luce l’orrore per il fanatismo religioso, fornendo possenti contrasti e suscitando, con poetiche immagini, riflessioni e forte emozione. Nell’atto secondo, la scena si svolge in Italia, presso una grotta eremitica. Si vedono tre protagonisti d’eccezione: Tomàs de Torquemada, appartenente all’Ordine domenicano; sco di Paola, fondatore della Congregazione degli Eremiti di San sco, che fu poi l’Ordine dei Minimi; papa Alessandro VI Borgia. Tommaso de Torquemada (1420-1498) parte dal principio dell’innata malvagità umana per perseguitare con estrema intransigenza la rilassatezza dei costumi e gli eretici con i roghi. sco di Paola vive nell’umile osservanza di una regola che impone doveri spirituali di preghiera, di grande penitenza con mortificazioni corporali. Torquemada innalza il vessillo dell’unificazione cristiana della Spagna perseguitando eretici ed ebrei. Lo storico Juan Antonio Llorente ha tracciato un raccapricciante ritratto di Torquemada, che fece morire, durante il suo mandato,
10.280 vittime fra le fiamme, «oltre a 6.860 che fece bruciare in effigie perché latitanti o già decedute; altre 27.321 persone furono punite con l’infamia, la confisca dei beni, il carcere perpetuo o l’esclusione da ogni carica e ufficio». Torquemada, inquisitore generale al servizio dei Re cattolici, rovinò per sempre 114.401 famiglie. Lo storico inglese Wals respinge queste critiche senza appello dicendo che quando fu aperto il sepolcro di Torquemada per rimuoverne i resti, la gente si mise a pregare davanti a quella tomba da cui proveniva un profumo dolce e piacevole: «Torquemada era un pacifico dotto che abbandonò il chiostro per espletare un incarico sgradevole ma necessario, cosa che fece con spirito di giustizia temperato da pietà e sempre con grande abilità e prudenza; insieme con il re Ferdinando (il Cattolico) e la regina Isabella (e a Cristoforo Colombo), fu l’uomo che più efficacemente contribuì alla grandezza della Spagna dell’epoca del siglo de Oro. Secondo alcuni fu qualcosa di più di tutto questo: un santo». sco di Paola (1416-1507) è il sant’uomo che lasciò la grotta di Paola l’anno dopo l’esplosione dell’unanime deplorazione degli abusi commessi dalla corte di papa Sisto IV. Si recò come pellegrino d’amore in Francia, dove Luigi XI, malato nel corpo e afflitto nell’anima, gli chiese di pregare Dio di prolungargli la vita. sco aiutò il re se soltanto a recuperare la salvezza dell’anima. Dalla sua cella eremitica contemplava il miracolo della natura e meditava, con un teschio davanti a sé, sulla caducità e sullo scorrere del tempo (memento mori), vale a dire sul significato della vita, applicandosi al rinnovamento della chiesa nel segno del Vangelo, dal quale traeva la norma a sempre perdonare e a sempre amare. Dalla Francia scrisse ai suoi confratelli esortandoli alla pace e alla conversione: Poiché la fine è certa per tutti e la vita è breve e altro non è che fumo, che presto svanisce, badate a non adirare il Padre nostro. Amate la pace, perché è meglio di qualsiasi tesoro che i popoli possano avere, e ricordatevi che quel che nascondete al mondo non si può nascondere a Dio: convertitevi sinceramente. Una lezione attuale di misericordia, d’amore universale, di spiritualità. Nella Centuria delle epistole, raccolta da P. sco Preste e messa all’Indice, si legge che sco di Paola ricevette tre lettere da Girolamo Savonarola di Ferrara, cui il romito paolano predisse che sarebbe stato condannato per falsa testimonianza e che per falso processo sarebbe stato impiccato in mezzo a due
ladroni e messo al rogo. Savonarola bollò il comportamento di Rodrigo de Borja con queste parole: «Io vi giuro che quest’uomo non è papa; io affermo che non è cristiano e non crede in Dio». Alessandro VI Borgia (1431-1503) rappresenta, per Hugo, il «cacciatore», mentre per sco di Paola è un bandito, che ha una concezione materialistica dell’esistenza, poiché il pontefice attribuisce la nascita dell’uomo al caso, per cui bisogna esclusivamente vivere per godere, senza preoccuparsi di amare e perdonare sempre. Victor Hugo traccia, attraverso le tre grandi figure della storia, opposte e inconciliabili concezioni della vita e della missione della chiesa sulla terra ed esalta, nonostante la miseria che investe il destino degli uomini, la carità come virtù fondamentale nella vita penitente di sco di Paola, che rinnega la gloria umana e ricerca ad ogni o l’amore di Dio. Il drammaturgo e poeta se rivolge la sua simpatia a sco di Paola, mentre lancia la sua condanna contro la spietata crudeltà di Tommaso de Torquemada, che fu tale che lo stesso Alessandro VI dovette intervenire per moderarne il rigore inquisitoriale, e contro la spregiudicatezza di papa Borgia, cacciatore di donne e d’intrighi, simbolo di vita sfarzosa, gaudente e scandalosa, di turpitudini che macchiarono il suo pontificato.
Il dramma “Torquemada” Scena I SCO DI PAOLA Che sento là? Devo sbagliarmi. È la campana. No, è il corno. Il corno risonante di roccia in roccia! Talvolta il torrente sembra una marea di voci che il vento interrompe e mescola al rumore dei boschi. No, si caccia. Oh! prima della muta, la fanfara, l’hallalì, il bosco misterioso si atterrisce, e per la bestia, allora, l’uomo, è il demonio. Orrido scandalo! Dopo Dorotea e Simone, in questo deserto benedetto, feudo consacrato dal santo padre, l’eremita con il lupo divide la tana; sotto la fraternità dei fitti rami, ci si ama, e la natura e l’uomo hanno fatto la pace. Nessuno, principe o re, la tiara romana avendo questo sacro monte in dominio, ha il diritto di condurre in quest’aspra foresta i cani, i corni, le grida. Il papa soltanto lo potrebbe e non può, poiché egli non è che il cacciatore delle anime. No, nemmeno i più infami violatori verrebbero a versare il sangue in questo santo luogo, e a turbare gli uccelli del cielo, che sono di Dio. Qualcuno pur osa, chi è questo temerario?
Scena II TORQUEMADA Salute a te, vecchio e padre!
SCO DI PAOLA Salute, frate.
TORQUEMADA Permetti che un istante mi riposi qui?
SCO DI PAOLA Mio frate entrate.
TORQUEMADA Sono bruciato, assiderato, la febbre e il sole mi divorano, cammino, entro, indegno ante, da te, santo patriarca, sono stanchissimo. Io dico: “Lamma sabacthani”! Dio mio, perché mi hai abbandonato? Salute, sii benedetto, frate.
SCO DI PAOLA Uomo, siate benedetto.
TORQUEMADA Sono un sacerdote.
SCO DI PAOLA Possa condurvi Dio! Va bene, Voi avete diritto di dire o non dire dove andate e da dove venite, poiché i i vengono tutti dall’aurora e vanno tutti verso il tramonto. Ciò che voi siete, fratello sconosciuto, noi lo siamo. Figlio, lo stesso infinito grava su tutti gli uomini, e lo stesso viaggio è fatto da tutti i mortali. I nostri piedi sono alla tomba, le nostre ginocchia davanti all’altare.
TORQUEMADA Io vengo dall’Universo e vado alla Città. Vado a Roma.
SCO DI PAOLA A Roma?
TORQUEMADA Sì, io, capo umile e vile, ho qualche cosa da fare e i tempi sono arrivati. Mi sono messo in strada all’avventura, solo, con i piedi nudi, ho camminato sulla sabbia e camminato nella neve, la mia supplica è già pervenuta alla santa sede, poiché conosco il papa Alessandro VI.
SCO DI PAOLA Chi? Il nuovo papa?
TORQUEMADA Egli è spagnolo come me. Noi ci siamo conosciuti a Valenza. Si chiama Borgia. Ma tu, frate, in quest’aspro oratorio, chi sei tu, vecchio, che Dio in questo deserto guidò? Il tuo nome?
SCO DI PAOLA E voi?
TORQUEMADA sco di Paola! un santo!
SCO DI PAOLA No.
TORQUEMADA Tu fai delle profezie!
SCO DI PAOLA No.
TORQUEMADA.
Ma tu fai, si dice, mio padre, dei miracoli?
SCO DI PAOLA Io ne vedo. Tutte le mattine l’alba inargenta le acque, l’enorme sole viene per gli uccellini, la mensa universale assiste gli affamati, si prepara nei campi e i boschi, e la vita riempie l’ombra, e il fiore s’apre, e il grande cielo blu risplende; però non sono io che faccio questo, ma Dio.
TORQUEMADA Padre, Gesù ci mette l’uno di fronte all’altro. Io che sono il veggente, parlo a te l’apostolo; ascolta. Non hai qualche volta meditato sul papa, uomo con la tiara e sepolcro imbiancato, e non ti sei forse detto alla presenza del falso pontefice, che uno sconosciuto è il vero sacerdote e che rimanendone, per dovere, tutto prostrato davanti all’altero vicario, coronato per caso, questo sconosciuto porta in lui l’anima stessa della chiesa, di cui l’altro ha il suo diadema? Ebbene, che diresti se questo capo della fede e se questo sconosciuto fossi io?
SCO DI PAOLA Il papa, uomo di Dio, regna. Non ci sono due Rome.
TORQUEMADA Nessuno è l’uomo di Dio se non è l’uomo degli uomini. Io sono quell’uomo. L’inferno e la sua caligine attendono l’universo. Io sono il guaritore dalle mani insanguinate. Calmo, salva, e sembra orribile. Io mi getto, sbigottito, nella pietà terribile, vera, efficace; e ho per abisso l’amore.
SCO DI PAOLA Io non vi capisco. Preghiamo.
TORQUEMADA Nel ato, un giorno, ero giovane, e da poco avevo quest’abito, ho visto in Santa Croce di Segovia un globo che raffigura il mondo con tutti gli stati; i fiumi, le foreste; tutta la terra; un ammasso d’imperi; i paesi, le frontiere, le città; la neve con i suoi monti, il mare con le sue isole; tutte le profondità dove si muove con strepito il vasto genere umano brulicante nella notte. Tu sai, padre, non è imperatore chi non tiene un globo nella sua mano, idolatra o cristiana; io ho avuto sotto i miei occhi questa visione, l’universo; ogni zona e ogni nazione; Europa, Africa; e l’India, dove si vede nascere l’alba; e ho detto: Si muove per divenirne il padrone. E ho detto: Si agita per dominare questo per Gesù, che spesso in sogno mi chiamò. Bisogna prendere la terra e restituirla al cielo. Padre, sì, la sfera terrestre, con le sue grida, la sua guerra, i suoi regni, i suoi urti, i suoi fracassi, il suo terrore, è il mio globo, intendi.
SCO DI PAOLA Ecco la mia sfera per me. Questo resta del destino che naufraga, e che affonda la meditazione di questo enigma, l’ombra che fa l’eternità su questo pensoso nulla, questo terrificante teschio che tutti noi abbiamo sotto le nostre fronti, questa larva che sa ciò che noi ignoriamo, questo rottame informato sulla fine ignota, sì, sotto questo freddo sguardo sentire la mia anima nuda, pensare, sognare, vegliare, vivere di meno in meno, con questi due buchi neri e fissi per testimoni, pregare e contemplare questo niente, questa polvere, questo silenzio, intento nell’ombra alla mia preghiera, ecco tutto ciò che ho; è abbastanza.
TORQUEMADA Un lampo attraversa il mio spirito nell’ascoltare. In cielo, una volta, Costantino, che fu degno di regnare, ha visto il labaro ed io vedo questo segno! E vincerò per
esso, come Costantino. Sì, questo sant’eremita mostra al mio sguardo abbagliato l’altro aspetto del vero, l’altro chiarore cristiano. Sì, io conservo la mia sfera e lui custodisce la sua! Di modo che lo scoglio indicherà il porto, e la vita avrà per vessillo la morte! Ascolta. Domenico ha capito male la fiamma. Essa è sublime, salvo che non sia infame. Domenico voleva punire, io voglio salvare. I roghi sono spenti, io vengo a innalzarli. Comprendi adesso?
SCO DI PAOLA Sì.
TORQUEMADA Io vedo sulla terra divampare l’incendio enorme e salutare. Padre, nessuno se ne vagheggiò migliore. E ascolto nella mia notte Gesù che mi dice: Va’! raggiungerai lo scopo se riuscirai a colpirlo. Io vado.
SCO DI PAOLA Ecco acqua, pane e castagne. Bevete a vostra sazietà, mangiate a vostra volontà. E quanto ai vostri progetti, di cui intravedo la fine, prima che il primo dei vostri roghi arda, pregherò Dio per voi, affinché vi fulmini, perché meglio vorrei, per voi e per il genere umano, la vostra morte, che un tale o, figlio, in una tale cammino!
TORQUEMADA Triste affievolimento di uno spirito solitario! Questo povero santo non ha capito.
SCO DI PAOLA
L’uomo è sulla terra per amare tutti. Egli è il fratello. È l’amico. Deve sapere perché si uccide una formica. Dio ha fatto dell’anima umana un’ala spiegata sulla creazione, e, sotto la verde fronda, nell’erba, nel mare, nell’onda e nel vento, l’uomo non deve proscrivere alcun essere vivente. Al popolo (spetta) un lavoro libero, all’uccello il boschetto, a tutti la pace. Mai una catena. Nessuna gabbia. Se l’uomo è un boia, Dio non è più che un tiranno. Il vangelo ha la croce, la spada è del corano. Risolviamo tutto il male, tutto il lutto, tutta l’ombra, in benedizione su quest’oscura terra. Chi colpisce può sbagliare. Noi non colpiamo mai. Figlio, ahimè, gli eccitamenti sono sfide spaventose. Lasciamo la morte a Dio. Servirsi della tomba! Quale audacia! Il ragazzo, la donna, la colomba, il fiore, il frutto, tutto è sacro, tutto è benedetto, ed io sento agitarsi in me quest’infinito quando, giorno e notte, meditabondo, dall’alto di questa cima, rivolgo la preghiera immensa nell’abisso. In quanto al papa, egli è papa, bisogna venerarlo. Figlio, sempre perdonare e sempre sperare, niente colpire, non giudicare, se si vede uno sbaglio farne penitenza, pregare, credere, adorare. È la legge. È la mia legge. Chi la osserva è salvato.
TORQUEMADA Tu non salvi che te! Ma gli altri, vecchio? Ah! L’eterna caduta delle anime, notte e giorno, padre, in ogni minuto nell’inferno, pozzo fatale, nera voragine aperta! Nell’orrore, nella fiamma! Ah! Tu ti salvi, sì! Ma che cosa fai dei tuoi fratelli gli uomini? Tu vivi sereno, mangiando le tue noci, mangiando le tue mele come Anselmo e Pacomio nel deserto libico, e ciò deve bastare al mondo! E tutto è bene! E niente è terribile! ombra, inferno, anime maledette, che cos’è questo fatto, beneficiato che tu mediti con il tuo letto di paglia e la tua brocca d’acqua, solo! Ma è vivere da bambino e non da avo! Tu non hai dunque in te, come il Dio che crea, una fraternità formidabile e sacra! E la famiglia umana, è niente? Ma si ha cura di un bue! ma si guarisce un cane! E l’uomo è in pericolo! Tu sei dunque senza cuore! Vivi sotto il cielo come fra quattro mura. Non ti senti dunque legato con mille nodi all’uomo spaventevole, empio e velenoso, trascinando dappertutto, al fondo degli antri, sulle cime, in tutti i luoghi, la sua sventura da dove stillano i suoi crimini. Nessuno di tutti questi mali sparsi ti risuona! Che! vedendo i viventi are, tu non unisci la tua ombra a tutti questi fantasmi! Ah! tu incroci le mani! Ah! tu canti dei salmi! Ah! tu vai e vieni dall’altare alla croce, da questo mucchio di pietre a questo pezzo di bosco! Ma è l’isolamento! Ora, quando tutto vacilla, crolla e perisce, il dovere, vecchio, è un
mucchio! Il dovere innumerevole, implacabile, inclemente, è nella coscienza un nero formicolio! Il dovere vi strappa al chiostro, alle solitudini, e vi grida: aiuto! pensate alle moltitudini! Pensate al genere umano! non dormite più! andate! Questi fanciullini, cielo! Essere per sempre bruciati! Tutte queste donne, tutti questi vecchi, tutti questi uomini, tutte queste anime, cadere nelle urlanti sodome! Correte! Salvate a colpi di forca questi maledetti, fateli entrare per forza in paradiso! Vecchio, ecco perché siamo sulla terra. La tua legge, è la purezza, la mia legge è il mistero. Tu non sei che la speranza ed io sono la salvezza. Io aiuto Dio.
Scena III
IL CACCIATORE In fede mia, tutti i miei sonatori di liuto non mi trastulleranno più di come voi fate. Vi ascolto con piacere. Voi siete due idioti. Mi trovavo in basso, e cacciavo. Ho lasciato lì i cani, le trappole, i lacci, e ho detto: Andiamo dunque lassù a vedere questo buon uomo. Arrivo. Ah! voi mi avete divertito! Ma, insomma, vivere sarebbe molto noioso, se fosse quello che dite. Dio - se esiste, tace certamente facendo l’uomo, ha fatto uno sciocco capolavoro. Ma l’evoluzione dal verme alla biscia, dal serpente al dragone, dal dragone a Satana è bella. Torquemada io ti conosco. Vattene. Ritorna nel tuo paese; ho ricevuto la tua domanda; io te la accordo. Va’, figlio. La tua idea è grande. Io ne rido. Rientra in Spagna e fa’ ciò che vuoi. Io dono tutti i beni degli ebrei ai miei nipoti. Figlio, voi vi domandate perché l’uomo è sulla terra. Vado a dirlo in due parole. Perché tacere la verità? Godere è vivere. Amici, niente vedo al di fuori di questo mondo, e in questo mondo me. Ciascuno vede una parola risplendere attraverso tutti i prismi. Per te è pregare; per me è godere.
TORQUEMADA Due egoismi.
IL CACCIATORE Il caso ha impastato la cenere con l’istante; quest’amalgama è l’uomo. Ora, io stesso non essendo come voi che materia, ah! sarei stupido d’essere esitante e tardo quando la gioia è rapida, da non afferrare in fretta e da non gustare di tutto, giacché tutto fugge! Anzitutto essere felice. Prendo a mio servizio ciò che si chiama crimine e ciò che si chiama vizio. L’incesto, pregiudizio. L’omicidio, espediente. Io onoro lo scrupolo nel rifiutarlo. E checché crediate, se mia figlia è bella, per me la generai, per essere l’amante di lei. Ah su via, ma io sarò un imbecille. Bisogna che esista. Andate dunque a domandare al girifalco, all’aquila, allo sparviero, se questa carne umana che essi maciullano è loro concessa, se sanno da qual nido esce la loro preda. Dato che voi portate una veste nera o bianca, vi credete forzati a essere inetto e tremante e abbassate gli occhi davanti a questo spettacolo immenso della fortuna, che vi fa l’universo in demenza. Abbiamo dunque dello spirito. Approfittiamo del tempo. Poiché niente è il risultato, viviamo bene! La sala da ballo rovina e diviene catacomba. L’anima del saggio arriva danzando nella tomba. Servitemi il mio banchetto. Se oggi per altri si esige una pozione di veleno, sia. Io ho la vita. Sono un’avidità vasta, ardente, insaziata. Morte, io voglio dimenticarti; Dio, voglio ignorarti. Sì, il mondo è per me il frutto da divorare. Vivente, io in fretta sono felice; morte, io mi salvo con la fuga!
SCO DI PAOLA Chi è questo bandito?
TORQUEMADA.O mio padre, è il papa.
Viandante in Francia
Nato a Paola il 1416, sco Martolilla crebbe nel nome e nel culto di San sco d’Assisi, che gli aveva accordato la sua protezione alla nascita e quando stava perdendo l’occhio sinistro per un ascesso. A tredici anni d’età, i suoi genitori lo accompagnarono a San Marco a sciogliere il duplice voto. Il 1429 fu l’anno decisivo per la sua formazione religiosa. Il giovinetto rivelò, in San Marco, le sue virtù taumaturgiche: fu visto contemporaneamente servire le Messe in chiesa e a preparare le vivande in cucina; prese il fuoco con le mani per riporlo nel turibolo in sacrestia; preparò, col segno della croce, le vivande in cucina, dove lavorava, essendosi dimenticato di accendere il fuoco per pregare in chiesa. Lasciò il convento di San Marco dopo un anno, senza esservi stato novizio, e si recò, con i suoi genitori, in pellegrinaggio ad Assisi. Il giovane pellegrino pregò sulla tomba del San Pietro in Roma e sulla tomba di San sco d’Assisi, che scelse di morire, come racconta Bonaventura da Bagnoregio, nella “Legenda maior”, nella Porziuncola, l’oratorio incorporato oggi nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. È da credere che sco di Paola abbia visitato anche la Casa di Loreto, il romitorio di Sant’Isacco presso Spoleto e la comunità benedettina di Monte Cassino. Al ritorno dal pellegrinaggio, scelse di ritirarsi a vita solitaria in Paola e di pregare e fare penitenza nella grotta che si trovava dentro il campo di proprietà paterna. La fama della sua santa vita attirò la folla, che si recò a vedere nel «deserto» il novello Giovanni Battista. Costretto a lasciare quel luogo, sco si portò nella proprietà di una sua parente, dove trovò modo di cavarsi una cella. Si racconta che una cerva, inseguita dai cacciatori, si rifugiò nella selva dove sco menava vita nascosta agli sguardi degli uomini. Fu scoperto e dovette abbandonare la grotta. Fiorentino di Paola, Angelo Alipatti di Saracena e Nicola di San Lucido gli chiesero di pregare assieme a lui e di costruire tre cellette (fecit pulchram Cappellam cum tribus cellulis, vel parvis cameris). Nacque, a somiglianza dei primi cenobi, una rudimentale vita associata. P. Giovanni Minozzi scrive: «Nessuna regola speciale, per vario tempo, e nessun
regolamento tipo; soltanto il vincolo della carità e della penitenza teneva stretti i quattro in un sogno comune d’ardua perfezione, in un’ardente aspirazione di santità». Bramosi di preghiera e penitenza, indossarono una rozza tonaca e andarono scalzi per la via, per servire la Chiesa con la carità. Affluirono poi alla dimora paolana altri discepoli con i quali egli fondò la Congregazione degli Eremiti di San sco. I loro nomi sono scritti nella storia, ma gli atti eroici delle loro virtù si trovano registrati, come affermava P. Roberti, «nel libro dell’immortalità». Nella prima Regola si legge: I nostri alimenti, per tutta la nostra vita, saranno quaresimali, sia nei conventi e loro ambito, come anche fuori; a nessuno, eccetto che agli infermi dietro parere del medico, sarà lecito cibarsi, in qualsiasi modo e tempo, di carni,uova, formaggio o latticini. Da molti centri della Calabria pervennero all’eremita paolano richieste di fondazioni. Le scritture agiografiche non diedero importanza alle date. Don Giovanni Antonachio di Paola, teste n. 6 esaminato al Processo Cosentino, precisò che sco costruì i conventi di Paola, Paterno, Spezzano e Corigliano, dall’età di quindici anni fino alla sua partenza per la Francia (1483). sco si trovava a Paterno quando fu invitato a Milazzo, in Sicilia. Partì a piedi, in compagnia di Paolo Rendace e di Fra Giovanni di San Lucido, camminando lungo la via delle Calabrie. Per are lo stretto di Messina, sco chiese a un barcaiolo di traghettarlo, ma si ebbe un rifiuto. Allora sco stese il suo mantello sulle acque e veleggiò, assieme a Paolo Rendace, fino a Messina, tra lo stupore generale per quello strano tipo d’imbarcazione. Dal pulpito fu accusato di stregoneria e impostura; anzi P. Antonio Scozzetta di Amantea, che viveva nel convento dei frati minori di Cosenza, andò a Paterno per inveire più acremente contro sco, che prese con le mani i carboni ardenti e disse: «Mio buon Padre, per carità, riscaldatevi, perché dovete sentir freddo. Quanto al resto, nulla potrà mai impedire che si compia la volontà del Signore». Padre Scozzetta si pentì e diventò il più entusiasta ammiratore della spiritualità di sco di Paola, che proseguì nel compito formativo dei seguaci,come dichiara Vincenzo Segreti. Radicando tutte le sue azioni nella fede e nella speranza, sco di Paola fondò l’Ordine dei Minimi, di cui Bourdalou ha evidenziato, nello scritto Un homme humble, gli aspetti essenziali: Si tratta di un
Ordine, cui sco ha dato come fondamento l’umiltà, di un Ordine che egli guida solo con lo spirito di umiltà. Tutti gli Ordini religiosi hanno un proprio carattere, ed è perciò che il corpo della Chiesa ha una sua misteriosa varietà. C’è chi ha come particolarità l’austerità di vita, chi la povertà, chi la contemplazione, chi lo zelo per la salvezza delle anime. Che cosa fece sco di Paola? Abbracciò tutti questi aspetti, l’austerità degli uni, la povertà degli altri, la contemplazione di questi e lo zelo di quelli. Ma, a tutti questi caratteri egli ne aggiunse uno che vuole essere il segno particolare dei suoi discepoli: l’umiltà. Per questo chiede e ottiene dal Sommo Pontefice, come privilegio e come una grazia, che essi si chiamino Minimi, cioè i più piccoli nella Chiesa di Dio. Non vuole che i suoi discepoli portino i loro nomi, perché non vuole che essi vivano nella memoria degli uomini. Non vuole che portino un nome particolare che li faccia conoscere come penitenti, sebbene hanno tutti i rigori della penitenza, o come poveri secondo il Vangelo, sebbene osservino tutta la povertà evangelica, o come abili maestri della vita spirituale e contemplativa, sebbene possiedano tutti i tesori spirituali, o come ministri zelanti per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, sebbene lavorino con edificazione e con frutto per l’una e per l’altra. Egli vuole che il loro nome sia di sotto a tutto ciò che vi è tra gli uomini sulla terra. sco di Paola fece suo l’ammonimento di S. Agostino: Se vuoi elevarti, comincia con l’abbassarti. Sviluppò la sua spiritualità all’insegna della fedeltà a Dio e all’uomo, condividendo con la gente, che a lui accorreva, le fatiche, le ansie, le gioie e le speranze. Misericordioso, accogliente, ospitale, cercò di assicurare il riconoscimento della triplice famiglia in tutta la Chiesa. P. Giovanni Cozzolino scrive che papa Paolo II inviò come visitatore Baldassarre De Gutrossis (P. Baldassarre de Spigno) e che Sisto IV approvò definitivamente la Congregazione eremitica paolana di San sco d’Assisi (1474). Alessandro VI Borgia approvò la prima stesura della Regola dei Frati (1493), poi la seconda stesura della Regola per i Frati e la prima stesura della Regola per i Terziari (1501), infine la terza stesura della Regola dei Frati e la seconda stesura della Regola per i Terziari (1502). L’eremita calabrese gli apparve quasi un secondo sco d’Assisi, imitatore ardentissimo del nostro Redentore. Giulio II approvò la quarta stesura della Regola dei Frati, la Regola delle Monache, la terza stesura della Regola per i Terziari (1506).
Il re Luigi XI, saputo dal suo familiare Jean Moreau che la moglie di Matteo Coppola, mercante napoletano, era stata guarita dall’eremita di Paola, nominò Guynot de Bussière suo inviato speciale presso Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, per ottenere che sco di Paola, che aveva operato molti prodigi in Calabria e in Sicilia, si recasse in Francia a guarirlo. Luigi XI era stato colpito da un attacco di apoplessia e si sentiva molto debilitato; cercava con ogni mezzo, terreno e celeste, di prolungare una vita che poteva essere ancora preziosa per il regno di Francia; anche perché suo figlio Carlo era minorenne. L’uomo di Dio oppose resistenza alla richiesta regia, ma piegò il capo all’obbedienza di Sisto IV, che gli comandò, per lettera, di recarsi oltralpe senz’altro indugio. sco di Paola si trovava nel convento di Paterno, dove placando la contesa tra i due fratelli Grandinetti fece da «pacificatore», come scrive Luigi Costanzo. Impugnò il bastone del pellegrino e la zucca ripiena d’acqua da bere e partì. Spoglio di tutto, persino del molare che aveva regalato alla sorella Brigida come ricordo personale. Pellegrino d’amore, andando come ambasciatore di Dio e della Santa Sede in Francia, si fermò, assieme a due suoi discepoli, alle falde del monte Pollino per benedire la Calabria e lanciare l’ultimo sguardo alla sua terra amata. Lasciò sulla roccia le impronte dei suoi piedi. A Lauria avvenne il prodigio dell’asino Martinello, che restituì i ferri degli zoccoli all’avaro maniscalco. A Polla tracciò con il carbone il proprio ritratto. A Salerno assicurò ai coniugi Capograsso, che avevano perduto l’unico erede, che avrebbero avuto altri figli. E la profezia si avverò. Pia Basile riporta che sco, viandante caritatevole, lasciò le impronte del suo volto su una salvietta che si conserva a Vietri (nella chiesa di Santa Maria delle Grazie in Benincasa) e segnala che Fra Dionisio Colomba riuscì ad avere dalla regina di Francia la reliquia dell’alluce e il sudario, che si trovano a Oriolo. Da Cava dei Tirreni arrivò, il 27 febbraio 1483, a Napoli. Fu ricevuto in trionfo dal re Ferdinando, dalla famiglia reale, dalla corte e da una folla festosa. sco, ando per Porta Capuana, fu ospitato in Castelnuovo, ma anche spiato nei suoi movimenti. Dal buco della toppa fu visto, nella stanza illuminata, sospeso da terra. Un pittore lo dipinse, a sua insaputa, su tavola col bastone di
pellegrino in mano e la barba al mento. Il ritratto dell’intera figura di sco di Paola è custodito a Montalto Uffugo (CS), nella chiesa dell’Annunziata, detta poi di San sco di Paola. A Napoli, l’eremita paolano fece rivivere i pesci fritti (perché il sovrano voleva fargli commettere un peccato di gola) e spezzò una moneta d’oro, dalla quale uscì sangue vivo,e così rimproverò il re di Napoli: Sire, ecco il sangue dei poveri sudditi, che tu opprimi. Allontanatosi da Napoli, fece un viaggio tranquillo fino alla foce del Tevere. A Roma, per prima cosa, entrò in una chiesa per ringraziare Dio dello scampato pericolo al lido di Ostia. Il papa Sisto IV, per non confermare il quarto voto della rigorosa regola, pensò di consacrarlo sacerdote. sco rispose di non meritare una tale dignità e si contentò solo di ricevere l’autorizzazione di benedire le corone. Rimase a Roma circa una settimana; quindi si portò verso Genova. In Francia sbarcò presso capo Colombo, alla riviera di Borme, flagellata dalla peste. Anche lì lasciò le sue vestigia impresse sul sasso. Uscito dalla Provenza, pervenne nel Delfinato. Ad Amboise fu accolto, con tutti gli onori, dal Delfino, che fu poi Carlo VIII re di Francia. La comitiva tenne la via che conduceva al Palazzo di Plessis del Parco, lontano un miglio dalla città di Tours, che fioriva per l’industria della seta e degli arazzi. Quivi il re lo aspettava con ansia. Solenne fu l’ingresso a Tours, giacché sco vi entrò con lo sparo delle artiglierie e al suono delle campane. Il re di Francia era un uomo malato nel corpo e afflitto nell’anima. In ginocchio, pregò sco di Paola di chiedere a Dio affinché gli prolungasse la vita. L’eremita gli rispose saggiamente che non poteva allungargli la vita, e però si adoperò per riportare a Dio il re disperato. Il suo esempio e il suo conforto aiutarono il re Luigi XI ad affrontare con serenità e speranza gli ultimi giorni della sua vita. Luigi XI spirò, alle otto di sera, tra le braccia di sco di Paola, dopo essersi comunicato e rappacificato con Dio. Lo storico Philippe De Commynes così descrisse la morte del re di Francia: «Dopo tante paure e sospetti nostro Signore fece per lui un miracolo e lo guarì nell’animo e nel corpo, come sempre suol fare quando fa qualche miracolo, giacché lo tolse da questo misero mondo in gran pienezza di senno e di intelletto, in buona memoria, dopo aver ricevuto tutti i sacramenti senza sofferente
apparenza, ma parlando fino a un Pater noster prima di morire. Diede disposizioni circa la sepoltura, circa quelli che dovevano prendere parte all’accompagnamento e circa le vie da seguire; e diceva che sperava di morire sabato e che la Madonna, nella quale aveva avuto sempre fiducia e devozione, gli avrebbe fatto quella grazia. E andò proprio così, perché morì l’ultimo sabato di agosto del 1483, nel castello di Plessis, dove era caduto ammalato il lunedì prima. Che nostro Signore lo abbia seco nel suo reame del paradiso! Amen». sco di Paola svolse, con umiltà e finezza, nel castello di Plessis, il suo impegno evangelico e apostolico unito a una diplomatica missione di pace e di diffusione della sua religione, come dimostra la lettera che gli scrisse Ferdinando d’Aragona, pubblicata dallo storico Ernesto Pontieri: Venerabile e religioso padre, a noi dilettissimo. Abbiamo ricevuto la vostra lettera del 16 maggio per mano del magnifico sco Galeota, dalla quale abbiamo avuto tanta consolazione che non facilmente potremmo descriverla: considerato con quanta carità e vero amore vi siete adoperato circa le cose concernenti il nostro bene e l’onere nostro e dei nostri popoli: e che non poteva essere diversamente per la singolare virtù e per la vostra provata vita, vi prego che vogliate attendere con tutte le vostre forze e l’ingegno in tutto quello che conoscerete appartenere alla pace e alla quiete di questa povera Italia, la quale non pensa ad altro che a trovarsi preparata nella difesa della religione cristiana per poter andare contro i suoi nemici. Il maggiore desiderio che noi abbiamo al presente è che questo cristianissimo re, che teniamo come padre, sia liberato da ogni infermità conoscendo pertanto quanto in questo può valere lo studio e la vostra opera. Ve ne preghiamo con tanto affetto, che maggiore non sarebbe possibile, che vogliate pregare nostro Signore Dio che prestissimo gli voglia dare la salute, che siamo certissimi che per la vostra perfetta devozione ascolterà le vostre preghiere. In grazia di Sua Maestà ci raccomanderete assicurandola che la amiamo come un padre, e così desideriamo la sua salute come la nostra. Delle altre cose pertinenti la pace dell’Italia, ci rimettiamo a voi che siamo certi la desiderate non meno di noi per la quiete di questi popoli che vi amano come padre e desiderano grandemente la vostra presenza. E può essere certo questo cristianissimo re che, se non ci fosse stato l’interesse della persona di Sua Maestà, mai avremmo consentito che foste partito da questo nostro regno, perché siamo persuasi che solo la vostra ombra ci difendeva da ogni sinistro caso; noi e tutti i nostri sudditi ora sappiamo quanto piacere e quanta
consolazione ci causava la vostra presenza. Ma portando noi un così perfetto amore al predetto cristianissimo re, non abbiamo potuto negargli cosa alcuna, per grande che fosse, e sempre abbiamo pregato nostro Signore Dio per la sua santità. Le benedizioni che avete mandato a noi, alla Serenissima Regina nostra consorte, all’Illustrissimo principe nostro e a tutti i nostri sudditi, ci sono state tanto care da darci grandissima consolazione. Vi piaccia averci tutti raccomandati alla vostra devota preghiera. Preghiamo nostro Signore Dio che vi faccia contento e santo come è vostro desiderio e vostra sana volontà. sco di Paola visse in Francia, sempre nel segno del Vangelo, per ventiquattro anni: prima in una piccola dimora nel parco reale, poi nel convento vicino al fiume Cher a Montils. sco di Paola, durante la reggenza di Anna di Beaujeu e i regni di Carlo VIII e Luigi XII, continuò a esercitare una benefica influenza sull’animo dei membri della casa reale se, rimanendo sempre ostile al sopruso, come aveva detto in alcune lettere contro il fiscalismo e la tirannia, e facendosi propugnatore della giustizia sociale con l’arma della carità. Predisse il giorno della sua morte. Raccolse intorno al letto i religiosi del convento e parlò loro di Dio, della vita futura, dell’obbedienza, della disciplina, della Regola approvata per la quarta volta. Piangevano gli astanti, ma egli, come Giacobbe, levò gli occhi al cielo, incrociò le braccia e pregò per tutti. Raccomandò a Bernardino di Cropalati, rappresentante dell’Italia, e a P. Binet, rappresentante della Francia, di adoperarsi alla diffusione dell’Ordine dei Minimi nel mondo. Nominò P. Bernardino come suo successore sino a che si fosse provveduto diversamentenel Capitolo Generale, secondo le leggi canoniche.Si asperse con l’acqua benedetta, recitò i sette Salmi penitenziali e le litanie, ascoltò la ione del Signore dal Vangelo secondo Giovanni, e recitò l’ultima sua preghiera: «Signore Gesù Cristo, buon Pastore delle anime nostre, conserva i giusti, converti i peccatori, abbi pietà delle anime dei defunti e sii propizio a me miserabilissimo peccatore». La sua candida anima volò in cielo. In un manoscritto, che si conserva nel convento di Tours, si legge l’annuncio della sua morte, inviato dai confratelli che avevano assistito all’evento e a tutti i monasteri dell’Ordine: Il primo Istitutore e Superiore generale dell’Ordine dei Minimi Fra sco di Paola è morto alla nostra presenza il Venerdì Santo 2 aprile 1507 alle ore 10 del mattino. La sua anima riposi in pace. Amen. Il suo corpo stette undici giorni senza sepoltura, né si mutò, ma piuttosto mandò soavissimo odore. Anche dopo la morteavvenneroi miracoli. Leone X, nel
settimo anno del suo pontificato, lo iscrisse nel numero dei Santi. Il discepolo Anonimo stese un bel ritratto di sco di Paola, riassunto nel Panegirico sopra le feste dei Santi(1850) con mirabili parole: «Unì l’innocenza all’austerità, l’austerità alla carità, la carità all’umiltà». Il 13 aprile 1560, alcuni eretici Ugonotti profanarono la tomba del Santo, bruciandone il corpo che era rimasto ancora intatto. Nel 1943 Pio XII proclamò sco di Paola Patrono celeste della gente del mare. Nel 1962 Giovanni XXIII lo dichiarò «Patrono della Calabria». È invocato dalle coppie che desiderano avere figli. Per questa ragione, i genitori di San Pio da Pietrelcina ottennero per intercessione di San sco di Paola un figlio maschio, che al fonte battesimale prese il nome di sco Forgione.
Il Cardinale miracolato
sco di Paola è il Santo dei miracoli, che non sono ostentazione di potere magico o di potenza ma eventi storici di carattere straordinario, che comunicano alla gente la fede nella provvidenza divina o l’accettazione della prova come forte richiamo alla conversione. È questa l’interpretazione di Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo metropolita di Reggio Calabria. L’eremita paolano quando era supplicato d’intercedere presso il Signore in favore degli ammalati e dei bisognosi, raccomandava sempre la fede in Dio. Per le sue preghiere e per la sua intercessione, i prodigi spuntarono come fiori a primavera: sono numerosi per numero e per varietà. L’Anonimo discepolo, e biografo, che risponde al nome di Padre Lorenzo della Chiavi (o Clavense) di Regina, assicurò che l’umile eremita usò misericordia verso gli ammalati e i sofferenti: Tante persone buone, ma in grande desolazione, ricevettero da Dio grande conforto per i meriti di sco. L’anonimo attestò ripetutamente: Operò innumerevoli prodigi nelle creature, oltre le forze della natura. Da ciò appare che la potenza del Signore era nel suo Servo. I medici non sapevano capacitarsi delle guarigioni operate con erbe, frutta e altri rimedi irrisori: erano, però, le sue preghiere a restituire conforto, salute e conversione in Dio. Severo con i grandi, ma umile con gli indigenti, si mostrò padre e benefattore di tutti, apostolo della carità. Lo stemma dell’ordine da lui istituito è Charitas. Giordano Carincella di Paola, teste n. 17, ammise che sco raccomandava la fede e la carità alle persone che accorrevano a lui e se ne tornavano «con la gioia nel cuore per le grazie ricevute». Un miracolo fu ottenuto, per intercessione di sco di Paola, da Pietro Paolo Parisio, futuro vescovo di Nusco e cardinale e protettore dell’Ordine dei Minimi. Fabiano Senatore di Paterno, teste n. 70, giurò: Frate sco era una persona che godeva buona fama per la vita esemplare che conduceva. Camminava sempre scalzo anche per i boschi sopra le spine e i rovi e mai si vedeva macchia
alcuna ai suoi piedi e alle gambe. Dormiva per terra in tutte le stagioni dell’anno; il suo abito, rammendato e rattoppato, copriva le sue carni. I suoi discorsi non trattavano diverso argomento se non Dio e la pratica della virtù, sicché le folle che si recavano da lui se ne partivano edificate, cercando di imitarlo. Fabiano Senatore dichiarò anche che un giovane, arrivato a Paterno da Torano o da Regina, era sfigurato dalla lebbra. sco gli disse: «Lavati in quell’acqua che è davanti al convento e il Signore ti guarirà». E così avvenne. Fabiano Senatore dichiarò che il richiamo alla fede e alla volontà di Dio è decisivo per il miracolo. Da Paterno era venuto un servo di Mastro Ruggiero di Parisi, notissimo dottore di Cosenza, perché un figlio del suddetto dottore versava in imminente pericolo di vita con il Crocifisso sopra il guanciale e fra sco pregasse per la salute del bambino. Frate sco si piegò per terra, prese una foglia della prima erba che gli capitò sottomano e la porse a quella persona a lui dinanzi. Portagli questa foglia e lo troverai sano, perché il Signore gli ha fatto la grazia. Il servo, ritornato a Cosenza, trovò il bambino guarito, che si levò da letto il giorno seguente. Nel manoscritto intitolato: Libro della vera origine ed aumento delle Famiglie nobili del Sedile di Cosenza e delli nobili fuori di esso, concepito nella seconda metà del Seicento e continuato fino al 1738, sono riportate utili notizie sulla famiglia Parise: «Filippo Parise fu il primo di questa famiglia che fu Regio Notaro del Regio Casale di Figline, che venne in Cosenza ad esercitare tale impiego nell’anno 1444. Del detto Filippo nacque Roggiero Parise, uomo di molto talento, e fu dottore dell’una e dell’altra legge, il quale come tale fu aggregato al Sedile dei Nobili nell’anno 1500. Il suddetto Roggiero Parise procreò Giovanni, Pietro Paulo e sco Parise; e fu ancora professore di legge menzionato in più scritture nell’anno 1532 il suddetto Giovanni. Pietro Paolo Parise fu dottore di legge e prese per moglie Sigismunda Tarsia di Galeazzo, Barone della terra di Belmonte, come dalli Capitoli matrimoniali stipulati per mano del Notar Matteo di Donato fol. 1509. Il suddetto dr. Pietro Paolo Parise nell’anno 1510 come deputato della città di Cosenza intervenne
nell’accordare contratto di promiscuità di territorio coll’unità della terra di Rende, rogato per l’istesso NotarDonato. Dopo di che reso vedovo di detta moglie senza figli, ò ad abitare nella città di Roma, dove per il suo buon talento ebbe la cattedra di legge; ed indi ò a leggere nella città di Bologna e si fece prete; che poi dal pontefice Paolo III fu fatto Uditore di Rota, ed indi fu creato cardinale di Santa Chiesa, e diede alla luce tre tomi di Consigli legali, che sono molto dotti conforme si legge nei suoi epitomi dei cardinali, in cui vi sta il suo epitaffio sepolcrale: Deo OptimoMaximo / Petrus Paulus Parisius Cosentinus / Calabrer, Praesbiter cardinalis, titulo / Sanctae Sabinae obiit Romae / anno 1545 et sepultus est in ecclesia / SS. Mae Trinitatis Montium / Fratrum Sancti Francisci de Paula / ex dispositione Flaminii Parisij / Episcopi Bitontensis de anno 1598 fuit / conditum sepulcrum. sco Parise figlio del suddetto Ruggiero, professore di legge, procreò con sua moglie, più figli; alcuni dei quali rimasero in Cosenza; altri andarono a far domicilio nella città di Reggio in Calabria Ultra, dove furono aggregati ed ebbero otto posteri. Dal medesimo lignaggio vi è stato un altro ramo Parise in Cosenza nell’anno 1478 atteso a 22 novembre, si trova descritto: Thomas Parise U.I. D. nei Privilegi della città di Cosenza, concedutile da Ferdinando I, fol. 10. Pietro sco Parise con Giovanni Rocco furono mandati da Cosenza nell’anno 1495 al Gran Capitano, come dal libro dei parlamenti di detto anno fol. 73. Da questo ramo del dr Tomaso e Pietro sco Parise si suppone discenda Giovanni Paulo Parise detto comunemente Giano Parrasio di cui si fa menzione nelle «Vite degli uomini illustri». Oggi di questo casato non vi è rimasto altro in Cosenza che Guglielmo, figlio di Filippo Parise, il quale per la prima volta si casò nella terra della Scala con Isabella Caligiuri. Il detto Guglielmo Parise, che nacque dal detto Filippo e Isabella Caligiuri, ebbe in moglie Gianna Quattromani nobile del sedile figlia del detto Girolamo Quattromani. I suddetti Filippo e Guglielmo Parise successivamente hanno goduto e posseduto li stabili ereditati dal fu cardinale Pietro Paulo Parise; e tra gli altri un palazzotto nel quartiere di Portapiana, seu Capopiazza, sopra la porta del quale vi erano l’armi di Parise col cappello rosso, quelli si venderono dal dr fisico Fabio Sergio per ducati 250. Dal suddetto
Guglielmo discende il dottor dell’una e dell’altra legge, Gaetano Parise, che fu un ottimo avvocato, nacque dal detto Guglielmo e da Giovanna Quattromani coniugi. Il suddetto dr Gaetano Parise ebbe due mogli. La prima Toccia Garritano del quondam sco, da cui nacquero D. Guglielmo e D. Pietro Paolo Parise amendue preti e canonici della cattedrale di Cosenza; e la seconda moglie fu D. Belluccia Morelli del quondam Scipione, da cui nacquero Scipione, Nicola, sco, Giuseppe Parise ed Antonio. Il 1° fu dottore in Napoli, il 2° casato colla famiglia Parise di Cola estinta di maschi; sco e Giuseppe amendue cavalieri di Malta e il detto Antonio monaco benedettino, chiamato D. Faustino». Pietro Paolo Parisio, nato a Figline (CS) nel 1473, da Ruggero e Caterina di Francia, sposò Sigismonda di Tarsia (1509), dalla quale nacque Ruggero, che morì in tenera età, e poco dopo sua madre. Diventato chierico cosentino, non fu mai vescovo di Anglona, come erroneamente scrissero Salvatore Spiriti e Angelo Zavarrone. Dopo un soggiorno a Roma, ritornò a Padova, dove aveva studiato, per insegnare prima diritto canonico e poi diritto civile. Nel 1531 fu mandato a Bologna per l’insegnamento. Il Papa Paolo III lo chiamò a Roma, dove ricoprì l’alta carica di Uditore generale della rev. Camera Apostolica. Pietro Paolo Parisio fu nominato vescovo di Nusco (11 gennaio 1538), mantenendo la carica di Uditore generale. Nel Concistoro del 19 dicembre 1539 fu elevato alla dignità di cardinale. Nel 1542 fu nominato Legatus ad ConciliumTridentinum, assieme al vescovo di Modena, card. Giovanni Girolamo Morone, e al vescovo di Canterbury, card. Reginaldo Pole. La commissione cardinalizia fu ricevuta in Trento dai vescovi Cristoforo Mandruzzo e Giovanni Tommaso Sanfelice. Nel 1543, il cardinale Parisio incontrò a Busseto l’imperatore Carlo V. Nel 1544 diventò Camerlengo del Sacro Collegio. Il 4 gennaio 1545, da papa Paolo III Farnese fu nominato Protettore dell’Ordine dei Minimi. Quattro mesi dopo, Pietro Paolo Parisio morì a Roma (9 maggio 1545), dove fu seppellito. Nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, alle Terme di Diocleziano, fu posta l’epigrafe: Petro Paulo Parisio Consentino S. R. E. Presbytero Cardinali qui ob celebrem iurisprudentiae famam in nobilissimis Italiae Cathedris spectatam
a Paulo III Pont. Max. Bononia Romam accitus Apostolicae primum Cam. Auditor creatus mox in amplissimum ordinem adscriptus signandisq; gratiae libellis Praepositus Sacri tandem Concilii Tridentini Legatus et Praeses electus ut vivens aetati suae christianaeque Reipublicae consilio atque virtute ita post mortem praeclarissimis editis ingenii atque doctrinae monumentis plurimum posteritati profuit. Obiit V Idus Maii Anno salutis M.D.XLV Aetatis suae LXXII Flaminius Parisius Episcopus Bituntinus gentilis sui studiorum et gloriae aemulus Patriae et familiae ornamento fieri testamento mandavit Qui vixit annos XL Fabritius Caieta et Prosper Parisius Executores curarunt Anno M.DCIV. Corpus humo tegitur Fama per ora volat
Spiritus astra tenet.
Nell’Istoria dei Cosentini di Sertorio Quattromani si legge: Pietro Paolo Parisio dottore di legge lesse molti anni la ragione civile in Padova e in Bologna, e con molto suo onore e soddisfazione di tutti quei popoli, ed ebbe stipendio dal Pubblico. Fu fatto poi Auditore della Camera, dove governò molti anni con molta sincerità e prudenza, ultimamente fu innalzato alla dignità del cardinalato da Paolo terzo, e fu mandato al Consiglio di Trento insieme col cardinale Cantareno e col cardinale Sadoleto. Compose quattro volumi di Consigli, i quali sono in molta stima, così appresso coloro, che difendono le cause civili, come appresso coloro, che espongono i modi delle genti a studenti. Fece le aggiunzioni alle lettere di Bartolo, e commentò anche i digesti e il codice. Ma gran parte di quei suoi scritti, che non furono pochi, né di picciolo pregio, si sono smarriti e perduti, e non sono per venire mai più in luce. La guarigione di Pietro Paolo Parisio, che a quattro anni d’età ottenne la grazia per intercessione dell’eremita di Paola, è registrata nelle sedute processuali di Cosenza. Autenticata dall’autorità della chiesa, non fa che provare l’azione prodigiosamente benefica di sco di Paola, che indossò il ruvido saio di eremita, impugnò il bastone di pellegrino e procedette nella strada della santità con il cuore illuminato dalla fede e riscaldato dalla luce dell’amore divino.
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