Racconti Divini 4s4hm

Marco Nasta

Racconti divini

ISBN: 9786050310085

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Indice dei contenuti

Racconti divini

Petito 1 2 3 4 5 Colpi di fortuna Alice Roberto Alessio Pasquale Federico Paolo Il geometra 1

2 3 4 5 6 Dialogo divino

Racconti divini

ma anche di birra e di gin

Basta omettere uno spazio e un calice di vino diventa il santo graal MARCO NASTA

Petito

tanto alcool, poco sesso e strana anarchia

1

Luglio. Sabato mattina. PierVittorio Stantoni, Petito per gli amici, è sdraiato sul divano di casa, intento ad ascoltare il silenzio della stanza, stordito ancora dalla serata ata al pub con la compagnia. Le tapparelle socchiuse lasciano intrufolare il sole nella stanza, facendogli creare strani giochi di luce sulle pareti e sul soffitto. I capelli sono umidi per il sudore grondato durante la notte, colpa del caldo torrido e della sbornia smaltita durante il sonno. La maglia è appiccicaticcia per il gin versatogli addosso dall’amico. L’alcol misto al sudore che traspira dal suo corpo ha riempito la stanza di un odore acre. Disteso, immobile. Non si muove; gli occhi sbarrati osservano il soffitto, uno schermo sul quale si incrociano i ricordi di qualche ora prima con quelli di giorni lontani ancora vivi nella sua testa. Ricordi forse non suoi, ricordi sentiti dire, ricordi pensati e mai vissuti. Intontito. Chiunque lo avesse visto ora, avrebbe pensato che Petito fosse totalmente rincoglionito. Le mani massaggiano il sopracciglio destro indolenzito, un dolore deciso come quello provocato da una testata. Eppure sa di non aver litigato; di aver fatto il bravo; di essere finito sul divano logoro di casa dopo aver lasciato il bancone del bar. Quel dolore, però, al sopracciglio destro è la mazzata finale. “Quell’ultimo whisky non ci voleva proprio, cazzo!”. Solita scusa; solita giustificazione per quel rimorso proveniente dalla bocca dello stomaco. Ad alzarsi non ci pensa minimamente. Lo aveva fatto mezz’ora prima, per soddisfare il bisogno impellente di pisciare. I due metri che separavano il divano dal bagno li aveva fatti camminando a zig zag, inciampando nelle scarpe abbandonate sul pavimento, sbattendo il ginocchio contro lo spigolo di un mobile e calciando inavvertitamente una sedia.

Ora steso sul divano non ha alcuna intenzione di riprovarci. E' deciso a non alzarsi più; a non aggiungere dolore su dolore. Disteso, immobile. Così immobile da dare l’impressione di essere parte del divano; di essere un cuscino da seduta o, meglio, un copridivano: si, un copridivano a forma d’uomo. Immediatamente la mente poco lucida ma vivissima lo pone steso in vetrina, con le mani sul petto, un sorriso smagliante ed un cartellino appeso al naso indicante il prezzo e la dicitura “Uomo Copridivano”. Pensa ad un ladro entrato furtivamente in casa che ruba quel copridivano, alla faccia sorpresa di questo di capire che quell’uomo copridivano è l’unica cosa di valore in quella stanza puzzolente. Immaginare la faccia del ladro esclamante “Cazzio che chiulo!” lo fa scoppiare a ridere, ma la risata si tramuta subito in una tosse secca che gli toglie il fiato. Un rumore simile ad un motore diesel ingolfato, smorzato da una bestemmia roca di incoraggiamento a smettere di fumare. Si alza di scatto, restando in piedi qualche secondo a vedere la stanza ruotargli intorno. La ferma con un sonoro rutto. Infila le scarpe recuperate dal pavimento, si accende una sigaretta ed esce di casa diretto al bar per un caffè. Nel bar Doc, Paolo Pirola per l’anagrafe, sta in piedi vicino al bancone. La sera prima è tornato presto a casa dal pub, ed ora è vestito di tutto punto: completo grigio, scarpe nere lucide, camicia bianca aperta sul collo ad evidenziare la mancanza della cravatta. Parla con Rosy, la donna del barista del Gray Bar. Petito sulla porta del bar capisce subito che Doc ci sta provando con Rosy: evidentemente Lucio, il barista, è uscito per delle commissioni. Doc è fatto così: lo rende euforico provarci con le donne impegnate. Quella mattina, però, Petito non ha voglia di ascoltare discorsi altrui, né la forza di fare cose. Tanto meno potrebbe sopportare l’euforia di Doc. “Buongiorno Petito. Serataccia ieri, eh? Sai che io mi sono davvero divertito molto.”

“Doc… ‘ngiorno… Un caffè…” “Rosy… Rosy! … ti ho mai detto che la grazia con cui muovi il dosatore del caffè e la dolcezza ferma con cui inserisci il miscelatore nella macchina del caffè mi lascia senza parole? Credo sia questo il motivo per cui il caffè fatto da te è di una qualità sublime, celestiale…” “Eh… un caffè della madonna…”, interviene Petito nella frase sperando inutilmente di convincere Doc, guardandolo torvo, a finire la commedia. “Eh già! Eh sì! Una vera madonna! Cosa può fare un uomo dinanzi a tale superbia? Oh! Rosy.. Rosy…” Rosy porge la tazzina del caffè a Petito mentre incrocia lo sguardo di Doc in cerca di un ulteriore complimento, e fa quasi cadere la tazza. “Ocio! cazzo fai?” Rosy non si cura di Petito: le piace ricevere complimenti, soprattutto nel modo in cui glieli porge Doc. A sentirla, per lei quell’uomo è il più acculturato del mondo. La fa sentire come la donna di cui era innamorata quello scrittore famoso del ato, quello che aveva scritto l’Inferno. Le sembra si chiamasse Leonardo o qualcosa del genere. “Petito, domani partiamo, no?” “Sì…sì… andiamo…” Doc non stacca gli occhi da Rosy e lei lo guarda incuriosita. “Sai domani partiamo per un viaggetto. Non è la prima volta che lo facciamo. Siamo un po’ zingari noialtri. Non riusciamo ad abituarci ai comandamenti che ci vengono imposti. Ci adeguiamo, perché dobbiamo. Ma appena possiamo, mandiamo tutto a quel paese e via… partiamo.”. Petito non ha le forze di sentire altro e si allontana con la scusa di andare a fumare. Esce dal bar scuotendo la testa e mormorando “E’ proprio un vero coglione, simpatico ma coglione”.

Rosy avrebbe voluto farlo anche lei un viaggio. Spera sempre che Lucio entri nel bar e le dica “Andiamo”. Spera di partire, dimenticare per qualche giorno il bar, la macchina del caffè e tutto il resto. Doc si accorge del sogno che attraversa gli occhi luccicanti di Rosy. Se ne compiace: è sicuro di essere riuscito a fare breccia. Pensa che sia il momento di affondare il colpo. “Non vedo l’ora, domani, di ingroppare la mia moto e assaporare il vento sulla faccia. La sensazione di libertà…. E’ un Harley la mia moto... la dovresti vedere la mia signora. Ne sono innamorato. Sentirla vibrare sotto di me sulla strada è una sensazione senza paragoni.” Rosy non lo sente più. Lo fissa pensando a dove sarebbe potuta andare con Lucio. Pensa ad una spiaggia deserta bagnata dal mare blu. Anzi no, verde, un mare verde, come quello che si vede sui cataloghi delle agenzie di viaggio. Meglio Parigi o un’altra città romantica. In Italia, meglio una città italiana: con le lingue non è brava e neanche Lucio se la cava. Gli occhi le brillano più di prima. Doc è soddisfatto di aver mandato in paranoia la tipa: già si immagina di entrare nel bar e guardare con aria sornione il barista reso cornuto da lui medesimo. A questo punto, seguendo la sua tattica, lascia la preda in balia dello sbattimento, per poi tornare dopo un po’ ad affondare il colpo finale. Estrae una sigaretta dal pacchetto. “Vado a fumare una sigaretta.” Rosy sorride, prendendo la tazza sporca dal bancone. Petito, ancora fuori, è seduto sullo scalino con la schiena appoggiata ad una vetrina del bar. Lo sguardo fisso riflette il vuoto che avvolge la sua mente. Una situazione in cui si ritrova spesso anche in condizioni di umore normale. Momenti in cui non pensa a niente, come avesse il dono di riuscire a mettere il cervello in stand-by. A volte gli capita anche quando è in compagnia, provocando la derisione degli amici che lo iniziano a sfottere imitando il suono dell’encefalogramma piatto. L’avvicinarsi di Doc lo fa riprendere.

“Allora, domani ti o a prendere. A che ora?” “Colpita! Ora è solo da affondare. Il maestro ha colpito ancora!” “Si, ma a che ora?” “Se le chiedo vieni anche tu, quella molla tutto e viene subito… in tutti i sensi.” Sorride, mentre la sua mente si affolla di immagini di lui intento ad amare Rosy. “Ormai è mia!” “Doc… DOC… sta con Lucio. Quello ti fa un culo così se scopre che ci provi. Smettila di fare il coglione. E poi, secondo me, lei non ti caga neanche di striscio.” “Cosa ne sai tu delle donne? Tu che fermi i tuoi sogni per la paura della rabbia di un uomo. La rabbia che nasce dal non essere in grado di tenersi la propria donna. Se non riesce a tenersela, vuol dire che non se la merita. Io sì che saprei cosa farmene di un angelo così al mio fianco.” “Ma vuoi che ti mando a fare in culo in una volta sola o a rate fino a Natale?” “Eh! Io sì. Avresti dovuto vedere i suoi occhi quando le ho detto della moto. Ho raggiunto l’apice. Era persa nel vuoto. Secondo me si vedeva già abbracciata a me mentre volavamo via sulla mia Harley.” “E perché mo’ stai qua?” “Perché tu non capisci niente. Ora la faccio prima bollire un po’ nel suo brodo. Poi, vado dentro, e faccio l’affondo finale.” “Ah! Come il polipo. Oh oh, peccato che sia troppo tardi. Guarda un po’ chi c’è. Ciao Lucio!” “Ciao ragazzi.” Doc rimane imibile all’arrivo del barista. “Bene, ci vediamo domani alla solita ora, non troppo presto non troppo tardi. Verso le 9, le 10, massimo le 11.” “Vabbè Doc, ho capito! Ci vediamo domani! Adesso che fai? Vuoi un caffè così

mi fai vedere l’affondo finale?” “No, grazie, ho un po’ di cose da fare prima di partire. Finisco la sigaretta e vado. Anzi, mi avvio che è già tardi. Ciao!” “See, ciao, ciao!” Petito entra nel bar per prendere un altro caffè. Non è il primo della giornata e sa che non sarà neanche l’ultimo. Getta un’occhiata all’orologio da parete che segna le undici e tre quarti. Si gira verso il bancone ed ordina un caffè. Porge gli spiccioli di euro per pagare questo e quello di prima. “La colazione di Doc la paghi tu? O gliela metto in conto?” gli chiede Rosy sorridendo. Anche Petito fa seguire allo sbuffo un sorriso e le porge altri due euro. “Fa niente, gliela pago io a quel grandissimo figlio…” Esce dal bar, scuotendo la testa e pensando a che razza di amici frequenta. Si ferma, alza la testa verso l’alto imitando il gesto di sputare: un modo come un altro per esternare la voglia di sputarsi in faccia da solo.

2

Libertà. L’aria che spinge sulla faccia; le case che scappano via; le auto che sfrecciano lontano e le auto che rimangono dietro; la voce di una radio. A volte basta poco per assaporare la libertà; a volte basta solo una moto ed una strada veloce. Doc cavalcando la sua Harley, stretto nei suoi pantaloni neri di pelle, nel chiodo indossato sulla maglietta bianca, nella tracolla della chitarra e nel bracciale di pelle al polso, la assapora tutta, questa libertà. I capelli sciolti al vento gli danno la sensazione del volo. Guida ritto sulla schiena, tenendo il manubrio saldo nelle mani. Lo sguardo fisso sulla strada non concede distrazioni, nessuna distrazione. Neanche ora che un cretino lo sta sorando schernendolo con una strombazzata di clacson. Corre Doc sulla sua moto, corre verso l’orizzonte. Anche Petito, al volante della sua Ape Car rossa fiammante, assapora la libertà. Guida comodo, con un piede appoggiato sul cruscotto, picchiettando la lamiera dello sportello a ritmo della musica rock che esce dalla radio. L’aria che scorre tra i due finestrini aperti gli rinfresca le ascelle nude, gonfiando la canotta bianca e rendendolo libero. Libero di una libertà che assapora correndo sulla strada asfaltata. Eccolo il cretino strombazzante che lo sora. Si gira per guardarlo in faccia. A vederlo ridere non riesce a rimanere imibile. Gli urla in faccia mostrando il dito medio “Vaffanculo stronzo! Suonami questo! Figlio di puttana!”. Lo sguardo gli rimane fermo sulla sinistra ad ammirare la campagna. La rabbia per l’irrisione subita è già dimenticata e le dita riprendono a picchiettare la

lamiera. Dall’auricolare sente la voce di Doc, “Petito fermiamoci alla prossima stazione di servizio”. “Occhei.” risponde in automatico. L’area di servizio è gremita di auto e di persone per l’esodo estivo iniziato prima del previsto. Entrando nell’area di parcheggio, Petito ha l’impressione che tutti lo guardino ridendo: non è solo un’impressione. Le voci si accavallano ma è abituato e non se ne preoccupa. Il suo scopo è trovare un posto all’ombra dove potersi raddrizzare la schiena e fumare in calma una sigaretta. Non lo trova e, allora, se lo inventa nei pressi dei bagni, accostandosi ai bidoni di riciclo della pompa di benzina. Spegne il motore e esce dall’abitacolo, mentre Doc è ancora in sella alla sua moto. “Tutto a posto Doc?” Lo guarda dall’alto “Sì. Tutto ok.” Scende dalla moto, e con un salto abbandona il piano di carico dell’Ape; toglie la chitarra dalla tracolla appoggiandola sull’automezzo. “Andiamo a turno al bagno. Inizio io.” Petito obbedisce con un cenno del capo; si appoggia allo sportello dell’Ape, accende una Lucky’s e inizia a gustarsela tutta. Si avvicinano due ragazzi ridendo e parlottando tra di loro. Il più biondo ed impertinente dei due inizia “Scusi…” Petito lo guarda con aria scura: spera in cuor suo che gli chiedano solo una sigaretta. “Bella moto. E’ rotta?”

Petito fa una smorfia infastidita. “No, funziona benissimo.” “Ah, ma perché allora viaggia sull’Ape? Cioè, mi sembra strano. Cioè, il suo amico seduto sulla moto. Cioè…” “Oh! Ma mi stai pigliando per il culo?” “No, no. E' solo che, cioè, ci ha fatto strano.” “Eh… ho capito, ma però ti devi fare i cazzi tuoi!” Il ragazzo diventa paonazzo per i modi bruschi di Petito. Doc arriva in quel momento “Buongiorno ragazzi!” “Buongiorno, stavamo ammirando la moto. Bella. Magari ad averla.” “Ah! Allora ammirate la mia signora! Asciugatevi la bava, è una signora per bene lei e non sta bene guardarla con tanta lussuria. Potrei offendermi.” “In effetti, eravamo curiosi di capire come mai la trasporta sull’Ape, invece di guidarla in strada.” “Giusto! Petito, che bella cosa la gioventù! Hai sentito come si pongono domande? E’ la voglia di imparare. Chiedono per capire. Bravi, bravi! Mi compiaccio! Diventerete sicuramente qualcuno nella vita! Petito, vado al bar a prendere qualcosa da mangiare. Aspetti qui, vero?” “Sì, comunque io devo ancora pisciare. Se dopo mi fai andare…” “Sì, sì, dopo.” Doc si avvia verso il bar senza curarsi dei due ragazzi che sono rimasti a bocca aperta. Ancora non capiscono perché uno dovesse cavalcare una moto caricata su di un’Ape Car. Petito fa un ultimo tiro alla sigaretta ormai quasi al filtro, la getta a terra e la spegne con il piede. Guarda i ragazzi e fa una smorfia di sorriso. “Non la sa portare! Non è capace! Allora lo porto io in giro e lui si gode il

meglio della moto. Sei troppo giovane per capire, tra una ventina di anni può essere che ci riuscirai. Mo', non rompere più le palle!” I ragazzi vanno via parlottando e facendo gesti dai quali si intuisce che pensano che quei due sono completamenti fusi. Petito infila la testa nella cabina per accendere la radio e sentire un po’ di musica. Rivolge lo sguardo verso il bar. “E facciamo presto con ‘sto bar che già mi sono rotto i coglioni!” Riprendono il viaggio verso la loro meta. Qualunque essa fosse. Ognuno di loro si gode la propria libertà a suo modo. Il cartello luminoso indica la possibilità di code a tratti. Le code a tratti. Petito non riesce a comprendere come si possano formare le code a tratti su una via a scorrimento veloce. La notizia gli dà lo spunto per confrontarsi con il suo compagno di viaggio. “Doc, ma che vuol dire code a tratti? Mica ci sono i semafori o gli incroci.” “Le code a tratti sono dovute ad una congestione temporanea del traffico. E’ normale e capita spesso in questo tratto di strada.” “Ah! La congestione. Ma per farlo vuol dire che qualcuno si ferma. Sarà spuntato un semaforo rosso?” “Non fare lo sciocco! Se si formano è perché si realizzano condizioni tali da provocarle. Mi sembra ovvio, no?” “Ma quali sono ‘ste cazzo di condizioni?” “Sono le tipiche condizioni per la formazione di code a tratti.” “Quali?” “Non mettermi nella condizione di trattarti da stupido e non distrarti che potrebbe essere pericoloso.” E fermi in coda si godono la libertà di domandare e di non dare risposte.

3

Petito è un tipo molto legato agli amici. C'è stato, però, un periodo in cui si era allontanato dalla compagnia; giorni trascorsi la maggior parte del tempo con una donna conosciuta per caso in un giorno di ottobre. Doveva comprare un pezzo di ricambio per il motore dell’Ape, ma la pioggia interrotta lo avevano fatto desistere per due giorni dal proposito. Quella mattina, il cielo apparentemente sereno gli aveva dato il coraggio di uscire di casa per l’acquisto. Si sarebbe dovuto muovere usando l’autobus, cosa che non gli dava particolare piacere, soprattutto nell’ora di punta con i mezzi pubblici sempre pieni oltre il limite consentito. Sulla via del ritorno, alla fermata, in attesa dell’autobus, c’era questa donna. Aveva subito attirato l’attenzione di Petito. All’improvviso il caso si infilò nelle loro vite: la pioggia riprese a cadere e Petito, sprovvisto di ombrello, si accostò alla donna per chiederle di poter usufruire del riparo di quello di lei. La donna acconsentì in modo gentile e la situazione sfociò in una conversazione formale di conoscenza reciproca che continuò per una ventina di minuti, fino all’arrivo dell’autobus. Alla vista del mezzo pubblico, Petito cinse la vita della donna con il braccio sinistro e le mise la mano sul culo accarezzando la chiappa sinistra. Il tramonto vide la donna assopita nel letto, mentre lui era in cucina ad attendere che la moca filtrasse il caffè. Petito non ricorda niente di quello che si erano detti. Ricorda che si chiama Betta. Forse.

4

Petito non ha mai lavorato in vita sua. Il mondo del lavoro lo ha sempre vissuto attraverso le esperienze sentite dire o raccontategli dagli altri. Nonostante ciò, è sempre pronto a lottare per difendere i diritti dei lavoratori, fossero impiegati o operai. A sentirlo parlare di lavoro, sembra sia un sindacalista di quelli bravi; i suoi discorsi sul mondo del lavoro sono così intensi, che non si può non rimanere incantati nel sentirglieli raccontare. Le sue parole allontanano, anche in chi lo sa, ogni pensiero che inquadri Petito come uno che non si sia mai sbattuto per cercare un posto di lavoro o che non abbia mai dovuto puntare la sveglia la mattina. Questa sua ione spontanea, senza alcun fine secondario, è un sentimento che viene da lontano, ereditato dal padre. Il padre che, ancora oggi da morto, continua a mantenere un figlio da lui giudicato un parassita sociale, incarnazione del suo fallimento di genitore. L’Onorevole Primo Stantoni, eminente esponente della Repubblica Italiana per quasi quarant’anni, eletto per la prima volta all’età di trentasei anni nelle file del Partito Comunista Italiano, ha lasciato in eredità al figlio il ricordo di una dottrina di stampo sovietico ed un appartamento in pieno centro città. Alla moglie, ormai quasi ottantenne, una pensione vitalizia che si aggira sui quattromila euro, la cui metà va tutti i mesi nelle tasche di Petito, figlio unico e parassita. Se lo avesse saputo per tempo, l’Onorevole sicuramente si sarebbe impegnato a favore di una legge per impedire ai figli di appropriarsi delle pensioni materne, ma invece l'Onorevole non aveva mai pensato ad una legge contro i figli parassiti o, forse, non aveva mai avuto il coraggio di proporla.

A Petito non pesa affatto campare in quel modo. Non si reputa un parassita, ma anzi ritiene quella pensione la giusta ricompensa per essersi saputo salvare dall’indottrinamento paterno ed il risarcimento per i torti compiuti dal padre nei confronti della classe proletaria di cui si era eletto portavoce. Tutto nasce il giorno in cui in Petito, appena ventenne, esplode il desiderio di seguire le orme del padre. Un desiderio nato dal bisogno di stima e rispetto paterno. Si iscrive al Partito e inizia a frequentare la sezione, rivelandosi subito uno dei più attivi giovani iscritti. Trascorre così i due anni successivi della sua vita, frequentando la sezione dalla mattina alla sera, dal lunedì alla domenica. Fu proprio una domenica che in sezione incontra Michele, un operaio in pensione sopra la sessantina. Lo conosce, come conosce tutti gli iscritti, ma la confidenza non è mai andata al di là delle opinioni sulla critica della cronaca politica. Come quasi ogni domenica, Michele è sopraffatto dall’amarezza, che, di solito, sbollisce eggiando per la città o, nel caso il tempo non permetta di uscire, rimanendo a casa spiaggiato sulla poltrona ad inveire contro i programmi nazional-popolari che infestano le frequenze televisive. Quella domenica, però, si trova in sezione a sfogare la rabbia che ha in corpo. E' uscito di casa verso le otto mentre suo figlio ancora dormiva, tornato da poco, forse dalla discoteca o chissà da dove. eggiando, si rende conto che non ne sa niente della vita di suo figlio. Ha un solo pensiero in testa che gli fa aumentare la rabbia: ha fallito in qualcosa; un figlio così non se lo merita, e non lo vuole. Camminando si trova, per caso o per destino, davanti al cancello aperto della sezione. Petito è intento ad arrotolare manifesti e il materiale avanzato dal presidio fatto il giorno prima. “Ciao Michele. Come va?” Michele non sente la voce del ragazzo. Sta pensando che da quelle poche volte in cui ha scambiato idee con suo figlio sulla vita reale, da quelle poche volte in cui ha messo a confronto la sua idea di vita con quella del figlio, ne ha ricavato solo delle grandi incazzature.

La cosa che, poi, lo fa incazzare ancora di più è il doversi sorbire la difesa del figlio da parte della moglie “E’ ragazzo, lascialo stare. Tu sei vecchio non puoi capire. Ti sei dimenticato quando avevi la sua età? Facevi peggio.”. In fondo a vent’anni anche lui aveva la testa di cazzo, anche lui non era d’accordo con suo padre, contestava le sue idee, anche se non apertamente. Allora non c’era ancora il sessantotto, ma lui nel partito già ci credeva. A sedici anni era entrato in fabbrica. Le sere le ava con gli amici nell'osteria. L’osteria sempre la stessa. Con il padre litigava spesso per tutto: i capelli folti, la mancanza della cravatta. I rimproveri, sempre gli stessi, “Ti vuoi sposare? Vuoi mettere la testa a posto? Sempre ad ubriacarti e fare festa!”. Fosse stato solo questo, non si sarebbe incazzato così tanto con il figlio. La sua incazzatura è un’altra. Di colpo si rende conto che c’è Petito. I capelli lunghi e un finto eskimo: sembra una simpatica caricatura del sessantotto. “Parlare con questo ragazzo mi darà soddisfazione. Forse, avrò anche qualche risposta.”, pensa. “Petito, io non ho studiato, ma certe cose le so. A vent’anni lavorare e farsi il culo in fabbrica per portare un po’ di soldi a casa. La schiena ti sostiene e, anche se mi sono incazzato a vedere i miei coetanei studiare, c’è stato sempre il partito.” Piccola pausa, poi continua. “In osteria ho trovato spesso ragazzi che la fabbrica manco lo sapevano com’era. Parlavano di politica, parlavano del mondo che avrebbero costruito. E mi convincevano che qualcosa sarebbe cambiato, che non ero solo. Qualcuno che pensava a noi operai c’era!” Altra pausa; “Anche se avevano le mani lisce, senza calli da catena di montaggio, erano dalla nostra parte e, se studiavano invece di spaccarsi la schiena, lo facevano comunque per noi. Non tutti possono pensare. Qualcuno

che si spacca la schiena ci deve essere… E poi se ci fosse stato bisogno, sarebbero sicuramente venuti in catena…” Gli occhi di Michele si stanno bagnando per la rabbia. “Loro dovevano organizzare la nostra rivoluzione. Quei ragazzi oggi sono uomini con le mani lisce e la schiena intera. Non parlano più di rivoluzione perché il muro è caduto… Fa niente… Che si fe la rivoluzione non ci ho mai creduto.” La frase gli fa male e gli fa scoccare il labbro superiore. “Lo vuoi sapere perché sono incazzato? Sono incazzato perché nella mia vita mi sono sempre spaccato la schiena convinto che fosse la cosa giusta, che le cose vanno così: si lavora, si fa famiglia e poi si muore. I soldi servono per vivere un po’ meglio, ma senza dignità non si ci può guardare allo specchio la mattina.” Guarda Petito aspettando una parola. Poi, ricomincia. “Io a mio figlio ho sempre insegnato questo, accettando i suoi no e i suoi però. Lo sai cosa mi ha detto ieri sera?” Tira forte l’aria per prendere coraggio. “Mi ha chiamato sfigato! Mi ha detto che sono uno sfigato! Mi ha detto che l’unica cosa che importa nella vita sono i soldi, e che per farsi i soldi non bisogna spaccarsi la schiena. Solo gli sfigati lo fanno. Io con mio padre ci ho litigato ma non ho mai pensato che fosse uno sfigato.” Gli occhi sono sempre più bagnati e la vista gli si è appannata. “Come si fa a contrastare l’educazione della televisione? Come posso spiegare a mio figlio che la soddisfazione non è apparire in televisione? Come posso spiegargli che deve ignorare quelli là in televisione?” Prende fiato. “Quello che ha i soldi, che si vanta di non aver mai tirato la zappa, di avere donne a palate, di fare quello che vuole? Come posso fargli capire che le cose non funzionano così?”

Il susseguirsi delle domande di Michele fanno rimanere Petito senza fiato, impedendogli di formulare le risposte che ha in mente. “Perché il partito non mi aiuta più? Perché quei sapientoni che mi dicevano che era giusto spaccarsi la schiena, ora stanno zitti? Dove sono? Io mi sento un coglione ad averci creduto. Mio figlio è vittima loro come lo fu lui al mio tempo. Lo sai cosa ho letto su un muro mentre camminavo?” Petito rimane in silenzio, non sapendo cosa rispondere ad una domanda del genere. Incomincia ad affiorare in lui il pensiero che Michele non è affatto interessato alle sue risposte. Il suo è uno sfogo puro e semplice. Michele continua la sua filippica. “C’era scritto: -L’unica chiesa che mi illumina è quella in fiamme-.” A Petito non fa effetto la cosa, anzi non capisce dove il ragionamento dell’uomo possa arrivare. “Io in chiesa non ci vado da anni. I preti non li sopporto, anzi li considero i peggiori. Ma quella scritta… quella scritta del cazzo… l’avrebbe potuta scrivere mio figlio!” “Ma anarchico è meglio che fascista, no?”. La frase di Petito interrompe per un istante Michele, che riprende con più foga di prima, facendo pentire Petito di aver parlato. “Io Bakunin l’ho letto. Non mi ha convinto più di tanto perché dello stato c’è bisogno. Forse, sarei potuto diventare anch’io senza dio e senza stato. Ma chi ha scritto quella frase no. Non è anarchico. E’ uno che pensa solo ai cazzi suoi, e cerca di circondare con un alone di importanza il suo egoismo.” Fa una pausa cercando una reazione di Petito, che fa un cenno con la testa per lasciare trasparire incertezza. Anche Petito ha letto Bakunin, e non gli va di pensare che quella frase fosse stata scritta da un coglioncello qualsiasi. “La società è diventata questa: ognuno si guarda i fatti suoi. Non ci sentiamo più parte di qualcosa, ognuno vuole essere al di sopra. Ognuno si sente migliore. E’ vero, senza i fessi, i dritti come vivrebbero? Ma ai miei tempi i dritti erano pochi e venivano isolati. Poi, facevano lo stesso il cazzo che volevano, ma almeno

stavano attenti a non farlo sapere.” Michele ha la gola secca per la rabbia. “Ora no. Nessuno vuole are per fesso e fanno a gara a chi è più dritto dell’altro.” A Petito inizia a sfuggire il senso delle parole di Michele. “E il partito dov’è? Quel partito che, quando i miei coetanei incominciarono ad impugnare le P38, mi convinse a dire no; mi convinse che i terroristi non facevano il mio interesse. Io ci ho creduto che i calli da catena o le mani lisce da intellettuale possono contribuire alla rivoluzione, mentre i calli da grilletto non appartengono al quadro rivoluzionario.” Sorride, “Io, poi, figurati se potrei essere capace di gambizzare o ammazzare qualcuno… al massimo potrei menare…” Di colpo il viso si tira. Ad un tratto, pensa alla cucina nuova pagate a rate. “Lo sai che ho finito di pagare le rate della cucina il mese scorso. E’ diventata vecchia la mia cucina… Hai capito che inculata le rate? Vai a comprare una cosa, ti dicono - prego la prenda a rate - e tu sei contento, perché in quel momento la tua schiena rotta acquista valore, ha un senso.” Storce la bocca. “Poi finisci di pagare e ti accorgi che c’è un altro che la schiena non se l’è rotta mai, ma di cucine se ne è comprato quattro mentre tu pagavi le fottutissime rate. E a me che resta? Il senso di una vita ata a prenderlo nel culo… e la gioia del ricordo di tua moglie che sorride quando hai comprato la cucina nuova.” Petito si sente stringere il cuore. Sua madre, la cucina, l’ha cambiata per la quarta o quinta volta tre mesi fa. “La mia vita è costruita sui sorrisi. A Natale non ho mai fatto mancare i regali, anche quando c’era la cassa integrazione, perché non mi sarei mai potuto permettere un Natale con mio figlio che non sorride quando apre i regali. Il televisore a colori! Il giorno che arrivai a casa con il televisore a colori, mi sentii un re.”

Altra pausa. Petito ha capito che quelle pause sono l’inizio di un’incazzatura, ed infatti Michele si incazza di nuovo. “Stronzo io che l’ho comprato la prima volta il televisore! Invece di comprare il televisore a colori, dovevo prendere quello in bianco e nero e buttarlo giù dalla finestra. Girarmi verso di loro e urlargli in faccia - Dimenticatevi la televisione! -” Quasi piange. “Ma io che ne sapevo! Quando mio figlio era piccolo, mi bastava guardargli gli occhi per essere contento. Ora, invece, è diventato come gli altri. Come quelli che neanche ti ringraziano se gli tieni il portone aperto. Cazzo, il minimo dovuto. La base dell’educazione. Non c’è più educazione!” Petito sbuffa, credendo il discorso di Michele sia diventato il tipico discorso di un vecchio che non capisce le nuove generazione. In pochi secondi si pente di aver sbuffato. “Anche io quando ero giovane, per conflitto generazionale, odiavo i vecchi. Quando ero giovane il rivoluzionario doveva essere maleducato. Vedere i vecchi incazzarsi e sbraitare perché non gli cedevi il posto sull’autobus, mi faceva sentire rivoluzionario.” Guarda Petito in cerca di un commento. “Lo facevo per dare il segnale che il mondo lo facevo girare io e loro si dovevano fare da parte. Perché è giusto che i vecchi si facciano da parte. Ma io, ai vecchi, non gli ho mai chiesto niente. Da casa sono andato via presto… a ventidue anni. Non ho mai campato sulle spalle di mio padre. La rivoluzione l’ho aspettata spaccandomi la schiena.” Petito pensa che Michele sia un vero compagno, di quelli tosti e non merita di essere sbuffato in faccia. Lo solleva, però, capire dal suo parlare ininterrotto che lo sbuffo non lo ha neanche considerato. “Oggi invece quello che mi fa incazzare è vedere un ragazzino che non ti fa sedere sull’autobus e ti chiama anche vecchio di merda. Poi, va dai vecchi di famiglia ad elemosinare i soldi per farsi i cazzi suoi.” Michele è tutto rosso in faccia.

“Hai capito? Non fanno il gesto rivoluzionario: reputano i vecchi un peso perché hanno il culo floscio e la pelle incartapecorita, utili solo a fare da salvadanaio.” Si calma d’improvviso. “Magari, hanno paura di diventare vecchi. Boh! Io a mio figlio, vorrei insegnargli ad essere rivoluzionario nel proprio tempo. Gli vorrei far capire che ai miei tempi la maleducazione era rivoluzionaria, ma oggi la rivoluzione la si fa con l’educazione.” “Cazzo se sei grande, Michè!” “A mio figlio della rivoluzione non gliene frega niente. Mica vuole un mondo migliore, lui. Vuole solo tanti soldi per fare il cazzo che vuole. Hai capito?” L’ultima considerazione di Michele, fa rabbuiare lo sguardo di Petito. Michele, il cui fervore è terminato con quell’ultima domanda, nota lo sguardo tetro di Petito e è assalito dal dubbio di averlo offeso, magari avendo preso il suo sfogo per un attacco al padre, che sa essere dirigente del Partito. Cerca, quindi, le parole per esprimergli le sue scuse. Petito lo interrompe. “Michele, non devi chiedermi scusa, non mi hai offeso. In questi pochi minuti mi hai fatto capire tante cose della mia vita. Mi hai aperto gli occhi. Mi hai messo un tarlo in testa, e già sento che sta frullando. Ti ringrazio, perché sono sicuro che vivrò la mia vita in modo diverso da ora in avanti.” Quella giornata memorabile, Petito la finì con una bottiglia di vino bevuto insieme all’amico di sempre. I sorsi erano interrotti dalle parole di Petito, che cercava di spiegare il discorso di Michele, mescolando le emozioni del vecchio alle sue di giovane rivoluzionario. A fine serata prese la decisione. “Stasera quando torno a casa, gliele conto a mio padre! Gliela straccio in faccia la tessere del partito. E poi glielo dico senza peli sullo stomaco, che io non sono più comunista. Non voglio essere più comunista come lui.” Un sorso di vino e “Da oggi il mio credo sarà la fiaccola dell’anarchia e il martello lo ò per menarlo in testa ai dirigenti di partito e la falce per tagliare

le palle dei padroni e dei preti.” Altro sorso. “Tanto quelli non ne hanno più bisogno perché i comunisti come mio padre li fanno campare con il falso anticapitalismo ed anticlericalismo.” Fiero della sua decisione, alzò il pugno verso la luna, imitato dall’amico che non aveva capito niente di quello che Petito aveva detto. Tornato a casa, andò diretto a letto. Anche se non fece mai alcun discorso al padre, da quel giorno visse nella convinzione di aver tracciato un confine tra lui, il padre ed il partito. Ora vive nella fierezza di non sentirsi complice dell’amarezza di Michele e di tutti i compagni come lui. Dice, “Il mio credo è l’anarchismo petitiano”.

5

Il ristorante. Petito va spesso al ristorante; sempre lo stesso ristorante, “Al giglio d’oro”. Lui e quelli della sua compagnia lo descrivono come una specie di locanda vecchio stile; in realtà, di vecchio ha tutto, ma di stile neanche l’ombra. La proprietaria, la signora Caterina, è una vecchia di almeno settant’anni, fiera di essere una delle poche rimasta a tramandare la tradizione culinaria della città. E' solita lamentarsi dell’invasione di cinesi nel settore gastronomico e del fatto che tutti i ristoranti ormai hanno una cucina imbastardita da culture estranee alla zona. A mangiare nel suo ristorante, a chiunque verrebbe spontaneo dire “Meno male che ci sei rimasta solo tu!”, ma per Petito e la sua compagnia, invece, la cucina della signora Caterina è la migliore e la più salutare di tutta la nazione. Ne sono convinti a tal punto da aver iniziato, in più di una occasione, ad organizzare il subentro nel ristorante; L’ultima volta è successo un paio di mesi prima. La compagnia si riuniva ogni giorno per discutere il piano di investimento, programmare tutti i i, immaginare di fare soldi a palate. Poi, come capitava sempre, è arrivato il giorno in cui l’attenzione del gruppo è deviata a favore di un altro argomento, uno qualsiasi, ed in un paio di ore il loro rapporto con il settore della ristorazione è ridiventato quello di semplici clienti. Petito e gli amici in quel ristorante hanno il posto assegnato: il primo tavolo a destra della porta di ingresso. Ormai il loro tavolo. La sedia che Petito preferisce è quella vicino al muro. Da quel posto gli riesce di controllare chiunque entri nel locale, sentendosi sicuro con le spalle coperte dal muro. Il bisogno di avere il controllo del locale è una sua fissazione. Se la porta addosso da sempre; ne è cosciente e si prende in giro affermando che è ricercato

e costretto per questo a dover tenere d’occhio la porta. Ha ancora lo stomaco in subbuglio dalla sera prima ed il caffè non ha migliorato la situazione quando, verso l’una, si presenta alla locanda di Caterina. Sveglio da poco meno di un’ora, sciacquato via il puzzo della settimana appena finita, cambiata la maglietta lurida con un’altra che non vede il detersivo da almeno due settimane, è uscito di corsa con l’affezionata sigaretta accesa per raggiungere l’amico Doc che lo aspetta per il pranzo. Entrando nella locanda vede Doc seduto già al solito tavolo impugnare con fierezza reale il telecomando. Ascolta il telegiornale o, meglio, guarda il telegiornale; non può ascoltarlo perché lanciato in un discorso a cavallo tra la sociologia e la filosofia, con incroci a raso con l’etologia, la storia, la politica e la religione. Caterina, che dovrebbe essere l’interlocutore di Doc in questo discorso, partecipa alternando ai “si” detti a mezza voce con dei “fanno tutti schifo” a voce più alta. La donna, quando vede entrare Petito, si sente sollevata sapendo che da lì a pochi minuti il suo posto nel discorso sarà preso dal nuovo arrivato. “Ciao Doc, scusa il ritardo…” “Ciao Petito. Come dicevo a Caterina, il problema serio che dobbiamo assolutamente risolvere è fermare queste valanghe di persone che ci cadono addosso da ogni parte…” “Ah sì, la rivolta della prigione di stato per gli immigrati…” “Dai… sto parlando seriamente. Non è politica la mia… Bisogna fare in modo che arrivino solo i migliori. Ora noi riceviamo solo quelli che nel loro paese non sono graditi.” “Certo, i migliori. Magari dovremmo accettare solo africani con gli occhi azzurri e biondi. Oppure, potremmo rilanciare l’economia italiana, finanziando il settore dell’ottica e delle tinture, e costringere tutti alla frontiera a comprare lenti a contatto azzurre e tintura bionda per capelli…”

“Con te non si può parlare di certe cose…” Caterina si avvicina ai due. “Cosa ti porto? L'amico tuo ha già ordinato.” “Non ho tanta fame. Ho un po’ di bruciore di stomaco… una guerra intestina” e ride alla propria battuta. Caterina non capisce o non fa caso alle sue parole. Del resto lo conosce bene e sa che di stronzate ne dice parecchie. Ormai non ci fa più caso e, quando non capisce, fa semplicemente finta di niente. “Cosa hai cucinato oggi di buono, Caterina?” La domanda ha un tono sarcastico, anche perché il menu è sempre lo stesso e la donna lo ripete ogni volta sempre con la stessa cadenza, come fosse la preghiera del giorno. L’unica cosa che cambia ogni volta è il piatto che enfatizza durante l’elenco. L’enfasi la getta di volta in volta su quello che, a suo giudizio, è il piatto più indicato al cliente. A volte, semplicemente, su quello che ha voglia di preparare. “Come primo ho i tortellini in brodo, i ravioli burro e salvia, rigatoni al ragù oppure posso farti un po’ di pasta al pomodoro…” Petito non sta ascoltando. E' ricaduto nel suo stato di vuoto. “… per secondo ho una cotoletta alla milanese, agnello con i piselli, roastbeef, o una frittata con gli spinaci… Mentre ci pensi ti porto acqua e mezzo di vino?” Petito la guarda inebetito. “Fammi una cotoletta… patate ne hai?” “Fritte, va bene?” “Sì.” La donna si avvicina al tavolo dove sono i cesti con il pane. Ne prende uno e, insieme ad un posacenere di rame, lo porta al tavolo. Va sul retro dove c’è la cucina e ne esce con una caraffa di vetro piena di vino ed

una bottiglia d’acqua. Li mette sul tavolo dove sono i due. Prende un bicchiere e lo riempie di vino. Lo beve. Quando il bicchiere è vuoto lo rimette sul tavolo e socchiudendo l’occhio fa cenno a Petito che la qualità è ottima. Petito allora riempie il suo bicchiere, quello di Doc e quello da cui ha bevuto la donna. Lo alza in aria e beve anche lui. “Caterina quando vuoi, il vino sta qua! Alla nostra.” Poi prende il pacchetto di sigarette dalla tasca, ne tira fuori una e getta il pacchetto sul tavolo. Cerca l’accendino nell’altra tasca e si accende la sigaretta. “Al giglio d'oro” è rimasto l’unico locale in cui ancora si fuma. Già da un paio d’anni è vietato il fumo in tutti i locali aperti al pubblico, ma a Caterina non importa. A chi glielo fa notare, lei risponde sempre allo stesso modo. “Questo posto è mio, e non è aperto. Non è mica il mercato. Qui entra chi dico io. Se a qualcuno gli dà fastidio, se ne può andare da un’altra parte. Anzi, non ce lo voglio.” Doc mangia un piatto di tortellini burro e salvia. Petito gusta il vino e divora la cotoletta. Quando ha finito, si accende un’altra sigaretta. Caterina si siede al tavolo a bere il vino che gli ha versato Petito. La vecchia inala di sfuggita il fumo ivo della sigaretta. Non hai mai fumato in vita sua, ma ha vissuto per quasi quarant’anni con un fumatore ed è abituata a subire le esalazioni della sigaretta di altri. Come sempre succede, Doc si lascia andare in disquisizioni su fatti di cronaca. “Secondo me abbiamo perso il senso delle cose!” “Secondo me l’alcool ti fa male” “No, ascoltami! Fino al secolo scorso il motore delle rivoluzioni e dei cambiamenti è stata la terra. Le rivolte contadine sono state quelle che hanno

dato l’impulso iniziale e che hanno creato il gene della rivoluzione in quella classe che a poco a poco si è trasformata da contadina ad operaia. Alla fine si è avuto la distribuzione del benessere e quindi la possibilità di avere giustizia sociale.” “Minchia che palle. Ma parliamo della figa. Dai… non rompere le palle” “Lascialo stare, lo sai che poi si incazza, fallo parlare”, interviene Caterina. “Quello che è successo dopo, è che il benessere a cui oggi siamo abituati è sottoposto alla tecnologia e quindi all’energia. Ci hanno tolto la terra, ci hanno chiuso dentro celle di cemento. Perché? Perché così sei costretto ad avere l’energia. Capisci che tu non puoi dire di avere la residenza in un posto se non hai il contratto della luce? Ma allo stato cazzo gliene frega se ho la luce oppure no?” Quel giorno Petito non ha voglia di parlare. Il loro discorso termina subito e diventa un breve parlare di sorrisi ed incroci di occhi, intervallati da smorfie di apprezzamento del vino sorseggiato. Finita la sigaretta, Petito butta i soliti dieci euro dovuti per il pranzo sul tavolo e si alza. “Aspetta, hai preso solo il secondo… sono troppi.” La vecchia si dirige verso la credenza in fondo alla sala e prende dalla vetrinetta una bottiglia senza etichetta di limoncello fatto in casa. Petito si risiede al tavolo. Riempie i tre bicchieri con l’acqua, in modo che ognuno potesse pulire il proprio dal sapore di vino. Poi, la vecchia riempie a metà i tre bicchieri con il liquido giallo della bottiglia. Petito lo beve in un colpo e riempie un altro mezzo bicchiere che fa subito la stessa fine. Si asciuga la bocca con il tovagliolo ed esce, lasciando la donna con l'amico Doc intenti a svuotare ognuno il proprio bicchiere di limoncello.

Colpi di fortuna

Alice

Lunedì ore 5.30

La luce del sole nascente si infiltra tra le fessure delle tapparelle facendo aprire gli occhi di soprassalto ad Alice. In pochi secondi si accorge di aver accanto quel tizio conosciuto qualche ora prima; le affiorano alla mente le immagini confuse della serata appena trascorsa. Era al pub con le sue due amiche per una serata tranquilla. Era qualche mese che non si incontravano e avevano tante cose da dirsi. Una delle sue amiche non vedeva l’ora di raccontare della storia che aveva appena iniziato. Alice non è mai stata interessata ai particolari di queste storielle; li immagina tutti a priori, cambiano le note a margine ma il copione resta sempre lo stesso. E' sicura che sia la solita storia fatta di luccichii di occhi a forma di cuoricino, che da lì a un anno si tramuterà in tragedia greca costringendola a are i mesi seguenti a tirar su di morale l’amica e, forse, andare insieme a lei a caccia di uomini per dimenticare la storia. Nonostante ciò stava ad ascoltare con finto interesse l’amica, la quale iniziò a raccontare dal primo incontro: i due si erano conosciuti al supermercato. Lui le si era avvicinato per chiederle consiglio sul detersivo da usare per il bucato. Lei, che nelle faccende domestiche era un asino, aveva evitato di dirgli che di bucato non ne sapeva niente e, con fare disinvolto, gli aveva consigliato la marca che sapeva usare sempre la madre, spadroneggiando in irreali disquisizioni sul

bucato. Lui, in maniera molto timida, le chiese se potesse essere interessata a dargli il suo numero di telefono nel caso avesse avuto bisogno di aiuto: era contento di aver trovato una persona davvero competente. L’amica confessò che gli sarebbe saltato addosso in quel momento e se lo sarebbe fatto tra gli scaffali, ma alla richiesta del ragazzo però rispose in maniera dubbiosa e con maestria, dandogli la possibilità di insistere in modo da acconsentire alla seconda richiesta di lui. Ovviamente, si sentirono per telefono, ma di lavatrice non ne parlarono. L’elettrodomestico invece diventò loro buon compagno nelle serate ate a casa di lui. Alice sente nascere di nuovo, per un secondo, quel senso di fastidio avuto mentre l'amica, con scrupolosa dovizia di particolari, esaltava le doti amatoriali del ragazzo. Le sembrava quasi che l’amica sentisse il bisogno di liberarsi dal proprio rossore di timidezza cristiana esponendo tutti i luoghi e i modi in cui faceva sesso con il tipo. Il senso di fastidio di Alice cresceva accompagnato dal pensiero che lei preferisse il letto, molto più comodo per fare sesso. Un pensiero che, ovviamente, evitò di far notare alle amiche per non essere accusata di bigottismo sessuale. L'altra amica, invece, era un continuo di domande e risolini che facevano traspirare il suo morboso desiderio di sapere ancora più particolari. Poi, quando l'orgasmo stava diventando l'argomento principale del discorso, un tipo, mai visto prima, si intrufolò tra loro. Era uscito dal locale per fumare una sigaretta; con fare simpatico si intromise nel loro discorso e incominciò ad impartire lezioni scherzose su cosa fosse veramente importante nel rapporto uomo donna. In un attimo Alice si ritrovò seduta a un tavolo insieme alle sue amiche, a questo tipo e due suoi amici. In maniera quasi naturale le sue amiche si spartirono i due tizi che stavano già al tavolo. A lei rimase di dover parlare con il tipo

impertinente. Guardava l’amica appena fidanzata e pensava che del resto non faceva niente di male a farsi corteggiare da uno sconosciuto al pub, il quale, tra l’altro, non era affatto scoraggiato dal saperla fidanzata. L’altra amica, invece, aveva assunto l’aria immacolata di scolaretta ingenua scatenando le voglie poco romantiche del suo corteggiatore occasionale. La serata continuò ridendo, scherzando e, soprattutto, bevendo. Per uno strano gioco del destino lei e quel tipo bevevano lo stesso drink: mojito, che in quel locale assomigliava ad una granita per la quantità di ghiaccio spropositata usata per ogni dose. Alice ricorda di aver ballato al ritmo della colonna sonora di Pulp Fiction. In quel frangente, lui l’aveva stretta approfittando del ballo e lei aveva capito che il tipo era molto interessato di conoscerla, per usare un eufemismo. Fu al quarto drink che Alice decise di portarselo a letto. Dopo la chiusura del locale andarono tutti ad un chiosco lì vicino, dove presero una bottiglia di birra a testa perché non c’erano drink da ordinare. Alice non vedeva l’ora di smarcarsi dal resto della comitiva: annunciò che, finita la birra, avrebbe preso un taxi per tornare a casa poiché l’indomani avrebbe avuto una giornata pesante al lavoro e non voleva costringere le amiche a finire la serata in anticipo. Il tipo non accettò che lei prendesse un taxi, offrendosi di accompagnarla a casa con l’auto dell’amico. Per fortuna di lui e di lei, l'amico gli resse il gioco e acconsentì al prestito, sperando fosse una cosa veloce. Alice pensò “E’ fatta!”. Un sorriso spunta sul volto di Alice al ricordo di averlo quasi dovuto convincere a salire da lei: continua a non capire la resistenza di un uomo all’invito di una donna conosciuta al bar che ti chiede di salire da lei. “Sarà un atteggiamento ipocrita, paura di are per uno che considera le donne accendini usa e getta. Ma chi gli ha mai chiesto di frequentarlo? Una trombata e

via!”. Ora, invece, sa che le tocca convincerlo ad andare via, sparire. Lo scuote con la mano fino a svegliarlo. Il ragazzo sorridendo dice “Buongiorno”. Lei lo guarda in modo serio e gli dice “Te ne devi andare. Ora!”. Alice si alza dal letto coprendosi con la coperta di pile, lasciando il tipo nel letto affossato nel suo sconcerto; raccoglie dal pavimento i vestiti che qualche ora prima gli ha strappato di dosso, per sbrigarsi a soddisfare la sua voglia prima che svanisse, e glieli lancia addosso. “Vado a farmi un caffè. Tu se vuoi, lo puoi prendere al bar.” “Non bevo caffè…” Ma mentre lo sta dicendo capisce che a lei non importa niente e che non sta scherzando. Non è abituato a situazioni del genere; si veste e fa capolino nella cucina dove Alice sta aspettando che il caffè esca dalla moca. “Ciao allora io vado”. Alice non gli risponde. Lo guarda facendo un cenno di consenso con la testa e lo accompagna alla porta chiudendogliela alle spalle. In cucina, si risiede al tavolo iniziando a sorseggiare il caffè appena fatto. La sua colazione è semplice: un caffè e un bicchiere d’acqua. Per un attimo ripensa al tipo che ha appena sbattuto fuori casa, ma il pensiero muore subito perché non è interessante. Va in bagno. Fa cadere la coperta di pile che indossa al posto della camicia da notte e si infila nella doccia. Finiti i riti mattutini di purificazione, si dirige in accappatoio nel soggiorno. Accende la televisione e ascolta la rassegna stampa: niente di nuovo. Il meteorologo prevede tempo buono, giornata soleggiata, niente pioggia.

Spegne la televisione prima che inizi l’oroscopo. Non crede a quella che per molti è una scienza. Ritorna in camera da letto e dall’armadio prende il tailleur beige e lo indossa dopo aver legato i capelli in una treccia. Controllate che tutte le luci di casa siano spente e chiusa la porta blindata con le solite due mandate, si avvia verso il garage. Sale in macchina e si avvia verso il lavoro. Il solito imbecille suona il clacson al suo indirizzo per l’attesa al solito incrocio sotto casa. Le sembra volare mentre guida per arrivare al lavoro. Un lavoro che non le è mai piaciuto: impiegata amministrativa in un’azienda di imballaggi. Un lavoro del quale non ha mai sopportato tutti quei conti sul costo del pet, della merce che arriva e che deve ripartire, dell’odore di plastica eternamente impresso nelle narici. Il suo sogno è aprire un negozio di cianfrusaglie, di quelli che non vendono niente di utile ma servono solo a regalare soddisfazione dallo shopping. Lo avrebbe aperto vicino casa e avrebbe smesso di macinare chilometri ogni giorno; avrebbe conosciuto i suoi vicini e sarebbe diventata un riferimento per tutte le donne del quartiere. Chissà, forse un giorno, un uomo sarebbe entrato nel negozio per comprare qualcosa e lei ne sarebbe uscita con l’anello al dito. La prospettiva la fa rabbrividire. “Ma come mi vengono 'sti pensieri così macabri di prima mattina... Sarà iniziato il ciclo...”, pensa ridendo. Parcheggiata l’auto si accorge che sono solo le 8 e 20. “Ho fatto presto. Quasi mezz’ora in anticipo rispetto agli altri giorni. Eppure sono partita da casa allo stesso orario e ho trovato lo stesso traffico degli altri giorni. Cosa fantastica l’onda verde dei semafori… neanche un rosso. Mi sa che oggi sarà proprio una giornata fortunata”.

Roberto

Lunedì ore 5.30

Il bar è ancora chiuso, oggi è il turno di Gennaro. A differenza del socio, Gennaro apre sempre dieci minuti più tardi ma almeno Roberto sa di trovare le brioche pronte e di poterne mangiare una senza avere ustioni al palato. Al rumore della saracinesca che si alza, spegne la sigaretta con il piede ed entra nel bar prima che la serranda sia completamente su. Il barista lo saluta amichevolmente: Roberto è di casa in quel bar, facendo lì colazione ogni mattina prima di andare al lavoro. I baristi lo trattano bene, forse più interessati al suo lavoro nella polizia locale che alla sua persona, e non sono insoliti a chiedere di togliere qualche multa di divieto di sosta o a tentare di ricevere informazioni su eventuali controlli al loro locale. Gennaro conosce bene i gusti di Roberto e, senza aspettare che chieda, gli porta la solita brioche con la nutella e il cappuccino, bollente e con la cannella. Roberto fissa la tazza mentre gira la schiuma del cappuccino col cucchiaio fino a farla sparire. Poi, immerge la brioche nella tazza e l'addenta facendo gocciolare sul tavolino il latte di cui è impregnata. Vedendo il giornale sul tavolino di fianco, rimane attratto dal titolo a tutta pagina. Lo prende e inizia a leggicchiare l’articolo di prima: niente di nuovo, niente di bello; probabilmente ci sarebbero state presto le elezioni. “Avanti il prossimo…” è l’unico pensiero che gli viene in mente. Fuori dal bar, Roberto si accende una sigaretta aspettando il collega che deve are a prenderlo con la macchina di servizio. Roberto aveva vinto il concorso tre anni fa. Uno dei tanti concorsi a cui aveva partecipato in cerca di un’occupazione. Dodici anni per una laurea in Scienze Politiche, quattro anni da disoccupato e un numero imprecisato di comizi elettorali a cui aveva assistito, in ognuno dei quali il politicante di turno,

indipendentemente dal colore politico, aveva la sua soluzione definitiva e radicale al problema della disoccupazione. Roberto, la soluzione alla sua disoccupazione l’aveva trovata. E non gli era costata tanta fatica. Il cugino della mamma, una parola buona detta alla persona giusta, un cesto di natale abbondante, e il problema era sparito. Alla soglia dei quarant’anni si era trasferito a più di mille chilometri da casa per lavorare: un esito insperato se non fosse stato voluto. Era fidanzato, ma la sua metà era rimasta al paese natio. Si sarebbe trasferita dopo le nozze, perché un giorno si sarebbero sposati. Un giorno sempre lontano nei discorsi di Roberto, aspettando la promozione per fare fronte a un costo della vita esageratamente alto. Una promozione che, fortunatamente, non arrivava mai. Da qualche mese gli è stato assegnato il turno del mattino. Inizia presto, alle sei e mezzo; Il collega lo lascia all’incrocio tra la via Dalì e il viale dell’Orto; tre ore di gestione del traffico, a maneggiare l’incrocio semaforico e il resto della giornata lavorativa in caserma a sbrigare le pratiche d’ufficio. Giusto il tempo di gestire il traffico mattutino dei pendolari. La serata, poi, sarebbe stata tranquilla, ata davanti al televisore. L’anno prima, invece, quando abitava nell’altra casa, le serate le ava tutte a casa della vicina di allora. Una donna sopra i quaranta, divorziata con un figlio già indipendente. Non ne era stato mai innamorato, ma l’odore della sua pelle lo faceva impazzire a tal punto da fargli meditare il pensiero di mollare la fidanzata. Ma poi l’amico di sempre gli fece capire che una cosa è scopare, un’altra è are la vita con una donna. Così decise di cambiare casa e di allontanarsi il più possibile dalla donna. Era riuscito a metà nell’intento. I grilli per la testa gli erano ati, la fidanzata era il suo futuro, ma non mancava mai almeno una volta al mese la solita capatina dalla signora. Il camion della spazzatura illumina la strada con il suo lampeggiante giallo. Un lampo di luce che lo fa ridestare dai suoi pensieri. Il guidatore scende dal camion, carica svogliatamente i bidoni sull’elevatore, li scarica nel camion e poi li ributta al loro posto. Sgomma via verso il portone successivo. Il vicino di casa, il ragioniere Filippetti, esce dal portone. Lancia uno sguardo al cielo: il tempo sembra non convincerlo e il pensiero è accompagnato da un gesto con la mano che va ad assicurare l’ombrello infilato nella ventiquattrore. Sembra già essere indaffarato e di fretta, come se avesse fatto tardi. Si salutano cordialmente

mentre Roberto si accende un’altra sigaretta. Incomincia ad essere preoccupato. Il suo collega è un tipo piuttosto preciso, mai in ritardo. Non lo può definire un amico, anche se fuori dal lavoro si sono visti spesso. Hanno l’abitudine di giocare a calcetto ogni giovedì sera nel torneo provinciale organizzato dalla prefettura e dopo la partita vanno a mangiare una pizza tutti insieme. In quelle occasioni i ruoli si ribaltano, con Roberto che riaccompagna in auto il collega a casa. Discorsi seri non ne hanno mai fatti e, in effetti, del collega ne sa ben poco. Non ricorda neanche se sia sposato. Di solito scambiano due chiacchiere sul tempo o lanciano commenti su qualche bella tipa di aggio. Da qualche mese, alle chiacchiere sul tempo si sono aggiunte le chiacchiere mattutine sulla serata appena trascorsa mentre si recano all’incrocio. Poi, la firma della consegna della radio d’ordinanza e si sarebbero rivisti a pranzo. Il collega con l’auto svolta l’incrocio e si ferma davanti il portone di casa di Roberto. “Scusa ho avuto un imprevisto. Ora ti porto subito al lavoro. Inizia a firmare il modulo per la radio.” Arrivato all’incrocio, Roberto apre subito la cassetta di controllo dell’impianto semaforico e commuta il sistema da automatico a manuale. Comunica in radio la sua situazione. “Dieci minuti di ritardo... per fortuna che quel rompicoglioni del comandante non mi ha contestato il ritardo.”

Alessio

Lunedì ore 5.30

Non ha voglia di alzarsi quella mattina. Non ne ha mai di voglia. La sveglia sta suonando già per la terza volta e con estrema fatica capisce che se non si fosse alzato ora non lo avrebbe più fatto. Si dirige in cucina, apre il frigorifero e prende il cartone del latte. Dal pensile prende la tazza gialla, quella grande perché odia fare colazione usandone una piccola. I biscotti: deve ricordarsi di comprare i biscotti perché sono quasi finiti. Versa il latte nella tazza, un po’ di zucchero e incomincia a riempirla con i biscotti. Appena ammorbiditi li tira su con il cucchiaio insieme al latte. Si è abituato a fare colazione da solo. Due anni prima aveva divorziato dalla moglie. Una brutta avventura finita male con una lite. Lei si era fatta dare in uso la casa e l’affidamento del figlio di quattro anni. Alessio era stato costretto a trasferirsi in un appartamento in affitto di fretta e furia. Non aveva dato importanza al fatto che fosse davvero squallido e posto in uno dei peggiori quartieri della città. Un tempo la via dove sorgeva il palazzo era affollata di negozi di tutti i generi. Ora sopravvivevano un kebabbaro, un bar ed una sala scommesse. Gli inquilini degli altri appartamenti erano per lo più nordafricani o peruviani. Di italiani sopravviveva qualche vecchietta. C’erano poi due coppie di rumeni. Aveva impiegato un po’ di tempo a capire lo fossero, perché inizialmente pensava fossero alle solite coppie di terroni emigrati. Per lui non faceva tanta differenza. L’appartamento lo condivide con un tipo mezzo matto, senza lavoro. Non si è mai chiesto come faccia ad avere sempre i soldi per pagare l’affitto. Sente aprire la porta di casa. E' quello squinternato del suo coinquilino che invece di dormire sta rientrando allegramente alle 6 della mattina. Un ciao di sfuggita e si rintana nel bagno. Ecco ora gli fa fare tardi. “Muoviti che mi serve il bagno. Io devo andare al lavoro”. Niente da fare, quel cretino gli avrebbe fatto fare tardi. Liberato il bagno si fionda dentro. Una sciacquata veloce e una lavata di denti.

Poi, di corsa si veste ed esce di casa. Nell’andare a prendere il collega, guidando come un pazzo, rischia un paio di volte di tamponare qualche altra auto. Alla fine riesce a contenere i tempi. Sicuramente gli avrebbero fatto delle storie per il ritardo. Si ricorda che fortunatamente l’auto di servizio era da portare in autofficina quel giorno cosicché avrebbe mascherato il ritardo in qualche modo.

Pasquale

Lunedì ore 5.30

“Due studentesse inglesi! Con tanta era in giro, è proprio necessario rimorchiare due inglesi? Non capisco niente di quello che dicono... e devo pisciare!”. Pasquale sbotta verso l'amico mentre si tiene l'uccello in mano per non pisciarsi addosso. Gli scappa di pisciare da un'ora ma spera ancora di concludere la serata e non gli va di andare al bagno con il rischio che il primo coglione di aggio gli porti via la tipa. Insieme ad un brivido di minzione spunta l'altro ragazzo con cui è uscito stasera. L'amico scatta in piedi e decide di chiudere la serata. Il percorso verso casa è un tormento. I due stronzi non gli hanno permesso di pisciare per strada e Pasquale è al limite. Arrivato sotto casa li saluta con un vaffanculo e scappa nel portone. Fa le scale di corsa: se aspetta l’ascensore è finita. Entra in casa, conquista il bagno e inizia a svuotare la vescica dal piscio e la mente dai ricordi. Pasquale, disoccupato a tempo pieno, sbarca il lunario lavorando a nero nella salumeria sotto casa. Consegna la spesa alle vecchiette per dieci euro al giorno. Con le mance riesce ad arrotondare a 20 scarsi, quando va bene. Con quei soldi non sarebbe mai riuscito a campare e a pagare ogni mese l’affitto. Meno male che il secondo lavoro è molto redditizio. Non lo fa a tempo pieno, ma saltuariamente. Lui dice di essere nella distribuzione di prodotti vegetali al parchetto di fronte casa. In pratica, spaccia erba ai ragazzi del quartiere. La sera prima, la telefonata dell’amico che lo invitava al pub per are una serata era arrivata al momento giusto. Non aveva voglia di stare a casa a sorbirsi le fisime del suo coinquilino. Un tipo triste che Pasquale considerava un vero fallito. Sapeva che era stato mollato dalla moglie e che ora lavorava per pagare lei e i loro figli. Non lo aveva mai visto sorridere e l'unico giorno che usciva di casa era il giovedì sera per il calcetto con i colleghi. Uscire da solo non era il caso e sperare nella compagnia del suo coinquilino era illusione allo stato puro.

Si vestì in poco tempo e si avviò al pub prima del tempo deciso ad aspettare l’amico lì. Sapeva che ci sarebbe stato anche un altro ragazzo, non gli stava simpatico ma al pub difficilmente dava spazio alle simpatie e alle antipatie. Gli andava tutto giù insieme all’alcol. Erano un paio di mesi che non scopava e la cosa incominciava a dargli fastidio. Qualche sera prima preso dalla disperazione aveva richiamato l'ultima tipa con cui era stato l'anno prima. Sapeva che si era fidanzata con un altro, un ragioniere sfigato quanto il suo coinquilino. Nonostante ciò si erano rivisti un paio di volte e lei era venuta in soccorso dei suoi bisogni. Questa volta invece lei gli aveva detto che non era possibile, stava per sposarsi e menate di questo genere. Lui fece finta di capire “Sarà per un'altra volta…”. Al pub aveva portato l'erba sapendo che gliela avrebbero chiesta. La serata si mise bene. Avevano rimorchiato tre tipe. Non sapeva quale delle tre fosse più arrapata e tutto sommato quella che gli era toccata a lui non era malaccio. Non gli sembrava una facile da portare a letto. Ogni volta che lui o i suoi amici facevano una battuta a doppio senso, doveva rispiegarle il senso e, quando, capiva arrossiva stringendo le gambe. La cosa glielo faceva venire duro e lo istigava a provarci ancora di più. Del resto era una missione piuttosto facile visto che la tipa non era stupida e ci si poteva parlare alternando cose serie a giochi di parole. La tipa lo arrapava di brutto: gli ricordava la sua ex e il fatto che fosse fidanzata da poco gli faceva sperare che gliela avrebbe mollata entro fine serata, perché lui sapeva, per esperienza, che le tipe fidanzate la mollano meglio e più volentieri delle altre. Parlava tanto, raccontava un sacco di cose, il tono della voce era dolce, ma Pasquale pensava solo a come scoparsela. Dopo il pub andarono ad un chiosco vicino. Dopo poco, rimasero in due, lui e l'amico, per aspettare il ritorno dell'auto e del terzo ragazzo che si era andato a scopare la tipa rimorchiata al pub. Anche le due tipe erano andate via. “Certo che te la potevi fare stasera quella lì. Io ho il rompicoglioni a casa, ma tu che abiti solo potevi provare a portartela a casa. Secondo me hai perso un'occasione”, disse all'amico in quel momento reputato un emerito coglione mentre erano seduti al chiosco con altre due tipe, due studentesse inglesi. “Lo sai che 'ste due non ce le faremo mai…” aggiunse. Le urla del suo coinquilino mentre tira lo sciacquone. Gli sta facendo la menata perché deve andare al lavoro e gli serve il bagno. “Però per poco non mi pisciavo addosso. Prostata d'acciaio e gran culo.”.

Federico

Lunedì ore 5.30

Seduto al chiosco a parlare con due tipe e l’amico. Stanco. Voglia di tornare a casa. Erano giunti al chiosco dopo che il pub era chiuso. Si sedettero tutti ad un tavolo e presero una birra. La serata era iniziata per caso con l'invito dell'amico di andare al pub. Un invito a cui non poteva dire di no. Di tutti gli amici che aveva, quello lo conosceva dai tempi della scuola. Ne avevano fatte di cazzate insieme. E quante canne. Federico ora fumava ogni tanto, ma l'amico no, gli dava giù di brutto ancora. Aveva esteso l'invito anche ad un altro suo amico. Si conoscevano già i tre. Se la serata avesse buttato male, si sarebbero ritrovati al parchetto a fumare. Con i due suoi amici l'erba non mancava mai. Al pub si era visto arrivare l'amico con le tre tipe. Nulla di speciale, ma una delle tre gli diede l'impressione della vergine addolorata. La cosa lo fece arrapare di brutto e decise che la serata l'avrebbe ata a provarci con lei. Parlando capì che tanto vergine non era, ma addolorata per qualcosa che le mancava sì. Ad ogni doppio senso arrossiva, ma la voglia con cui ascoltava i discorsi di sesso dell'amica lo faceva arrapare sempre di più. Ora, mentre beveva la birra a canna, la tipa rimase incuriosita da una statua nella piazza e chiese chi fosse il tipo a cavallo. Arrivarono risposte strambe che trasportarono il personaggio nel tempo da Machiavelli a Garibaldi. Federico approfittò del momento invitando la curiosa a vedere da vicino chi fosse stato davvero quel tizio a cavallo. Ai piedi della statua, Federico cinse la vita di lei cercando di baciarla. Dopo essersi fatta limonare per una decina di minuti, lei incominciò a lagnarsi “Non sono quel tipo di ragazza… Devo aver bevuto troppo… ho perso il controllo…” e menate di ogni genere. Federico senza colpo ferire le chiese il numero di telefono, così per verificare cosa sarebbe successo senza alcol. Ora è seduto al tavolo con l'amico e queste due biondine conosciute da pochi

minuti. Non la finiscono di parlare, di dire parole senza senso intercalate da suggerimenti all’amica per quale smalto usare o quale parrucchiere usare. In più neanche una parola in italiano. Federico pensa solo se usare o meno quel numero di telefono in tasca per richiamarla, mentre l'amico lo tartassa di rimproveri per non essersela fatta. Non è sicuro che sia una tipa che la molla facilmente e non ha la minima voglia di infognarsi in una storia malata solo per potersi fare una scopata. All’altro amico, l'organizzatore della serata, invece gli è andata bene. E ora sta aspettando che finisca: sono già quasi tre ore che aspetta. Arriva, salgono in macchina, qualche chiacchiera qualche domanda di rito durante il tragitto verso casa. Lasciati tutti alle proprie tane, fa ritorno anche lui alla sua. “Però tutto sommato bella serata... mi ritrovo con un numero di telefono in tasca e, come si dice, mezza scopata assicurata, serata fortunata.”

Paolo

Lunedì ore 5.30

Nel pieno del sonno si sente scuotere. Apre gli occhi e vede la ragazza sveglia. “Dai muoviti devi andare via”. Lui le sorride non capendo cosa intenda dire, ma quando lei gli getta addosso i vestiti intimandogli di togliersi dalle palle, capisce che forse sarebbe meglio andare. Pensare che era iniziato tutto per caso, la sera prima. Una domenica iniziata all’insegna dello scazzo. Sveglia tardi, aperitivo al posto della colazione, pranzo inesistente. Il pomeriggio ato al parchetto sotto casa, due chiacchiere con gli amici di aggio, un paio di canne e si era fatta sera. Verso le otto gli venne in mente l’amico di sempre, l’unico che gli avrebbe sicuramente risposto. Erano amici dai tempi della scuola. Ne avevano ate tante insieme. “Ue che fai stasera? Ci vediamo al pub? Dai allora verso le dieci e mezzo ci si vede lì. Ciao.” Andare al pub sarebbe stato il modo migliore di chiudere quella giornata. Un po’ di alcool, qualche patata da conoscere e magari buttare giù le basi per un po’ di scopate a gratis. Arrivò al pub che erano quasi le undici e mezzo. In ritardo come sempre. Fu felice di vedere l’amico in compagnia del tipo che si portava sempre appresso. Non si ricordava come si chiamasse, ma gli stava abbastanza simpatico perché aveva sempre dell'ottima maria da rifilare. Erano già usciti insieme in qualche altra occasione. Non era propriamente uno sballato ma anche lui non era del tutto regolare. Almeno non gli avrebbero fatto delle menate per il ritardo. Si salutarono. Paolo ordinò un mojito. Il primo apprezzamento della serata fu per il culo della ragazza che gli prese l’ordinazione. Uscì fuori per fumare una sigaretta imbattendosi in un gruppo di tre ragazze. L'oggetto della loro conversazione era il sesso. Una delle tre parlava di scopate sulla lavatrice. “Uhm… questa parla di scopate, quindi è una che scopa tanto. Tu sei tutta rossa e interessata... bella mia manco te lo ricordi come è fatto il cazzo. Quest'altra, invece, se ne frega del discorso... e tu ne sai tanto di cazzo!”. E mentre le scrutava, decise di dare un senso alla serata intrufolandosi nel discorso e poi

invitandole al tavolo per spartirsele con gli amici. Le coppie nacquero in modo automatico combaciando perfettamente con i gusti di tutti. La serata continuò tra chiacchiere. Chiacchierò del più e del meno con la tipa di sua competenza. Quando nel locale risuonò una canzone che lo aveva sempre preso di brutto, si mise a ballare con la tipa: lei si muoveva bene e lo fece arrapare. La prese e la strinse per farle sentire il pacco. Era sicuro che la cosa avrebbe dato una svolta alla serata. Ma la tipa sembrò non interessarsi a quella `presenza`. Dopo l’ennesimo drink, la tipa incominciò ad avere la parlata biascicata e sembrò iniziare a mostrare molta più attenzione verso Paolo. Il tempo trascorse e furono costretti ad abbandonare il locale in chiusura. Si spostarono verso un chiosco che rimaneva aperto fino a tardi. Presero un tavolo, una birra e continuarono a chiacchierare. La tipa espresse la necessità di dover tornare a tutti i costi a casa perché il giorno dopo avrebbe avuto una giornata pesante al lavoro. Voleva prendere un taxi per non far andare via anche le amiche. Paolo capì che ora toccava a lui. Chiese all'amico di prestargli l'auto per accompagnare la tipa a casa. Non era insolito fare una cosa del genere, L'amico acconsentì, convinto che avrebbe impiegato il tempo necessario per cercare di limonare e recuperare il numero di telefono: mezz'oretta e sarebbe riapparso. Saliti in auto, la tipa si dimostrò disinibita come Paolo non avrebbe mai pensato. La mano di lei fu tutto il tempo vicina al suo uccello, distraendolo quasi dalla guida. Paolo salì in casa e in un attimo si ritrovò a letto, nudo e montato da lei. Arriva al chiosco senza accorgersene. Non è mai stato così confuso. Non gli è mai capitata una cosa simile. “La vita è davvero strana. A raccontare in giro la giornata non mi crederebbero”. E forse è meglio se non avesse detto esattamente tutto. Ne sarebbe potuto uscire denigrato. “Se deve raccontare, racconto a modo mio.”, per uscirne pulito e in grande stile, acclamato ed invidiato senza lasciare spazio a stupide insinuazioni. I due amici gli si fiondano in auto. Dubbi sulla sua prestazione lo avvolgono per un nano secondo. “Ma va… ha goduto la troia”. “Cazzo se è tardi!” le sue scuse trovano i due amici allegri. Hanno rimorchiato altre due biondine nell'attesa. Diretti verso casa l'amico gli chiede “Allora te la sei fatta? Com’è che si chiama? Certo che tu c’hai proprio culo!” “Boh, mi sembra Alice… che scopata… Madonna... mah, forse un po’ di culo l’ho avuto a trovarne una così a gratis.”

Il geometra

1

Come ogni mattina di un qualsiasi giorno feriale, alle 7 in punto, il silenzio regnante nella camera da letto è interrotto da due interminabili trilli provenienti dalla sveglia. L'uomo, già sveglio da qualche minuto prima che la sveglia inizi a trillare, scopre lentamente il suo corpo sollevando gentilmente il lenzuolo e la coperta e, con un unico movimento, si siede sul bordo del letto per infilare i piedi nelle pantofole lasciate sullo scendiletto la sera prima. Un respiro profondo prima di tendere le mani verso il comodino a cercare un paio di occhiali da vista adagiati nella loro custodia. Inforcate le lenti, si alza e si dirige verso la cucina, dove la donna seduta al tavolo è intenta a leggere l'ultimo numero della sua rivista scandalistica preferita. I bigodini gialli e azzurri e la camicia da notte a fiori di lei si intonano perfettamente nei colori del pigiama a righe dell'uomo. Lui prende la moca dalla credenza e inizia a riempirla stando attento a non perdere neanche un granellino di caffè, avvita la caffetteria e la mette sul gas. Lancia uno sguardo attraverso le tendine bianche di pizzo per convenire che, tutto sommato, è una bella giornata. Appoggiato al mobile, inizia a sorseggiare il caffè tenendo lo sguardo rivolto verso la moglie intenta ad istruirsi sulle ultime avventure amorose del suo attore preferito. E' un uomo sulla cinquantina capelli brizzolati fisico asciutto; la sua vita continua a viverla da più di trent'anni con la diligenza di un aratro sul solco del terreno, senza mai deviare verso percorsi sconosciuti, senza mai una sfasatura, senza mai un dubbio esistenziale. All’età di trent’anni aveva preso per moglie una ragazza che abitava nel palazzo dei suoi genitori. Sapeva che era una brava ragazza senza grilli per la testa e di buona famiglia. Di figli ne avrebbe di certo voluti ma, per uno strano gioco del destino, non ne erano arrivati. Sicuro di poter essere un buon padre, di saper educare e far diventare uomo un bambino, non ha voluto cedere alla tentazione di adottarne uno, non essendo pronto a affrontare una cosa difficile come quella di mettersi in casa il figlio di chissà quale delinquente, volergli bene, mischiare la sua vita con quella di un altro. No, l'idea di adottare un figlio non gli è andata mai giù. Dopo la rasatura giornaliera e la solita sciacquata alle ascelle e alla faccia. In camera da letto, indossato il completo grigio con sotto la camicia stirata, inforca la sua ventiquattrore, saluta la moglie ed esce per dirigersi al

lavoro. Diretto alla fermata dell'autobus, la sua attenzione cade sulla solita donna seduta davanti la vetrina del negozio all'angolo. Sicuro che sia una zingara proveniente da qualche accampamento nelle vicinanze di cui ignora la posizione, cambia marciapiede per evitare di arle accanto, perché gli hanno detto che gli zingari riescono a rubarti le cose senza che tu te ne accorga. Negli ultimi tempi gli extracomunitari nel suo quartiere sono aumentati. L'autobus ne è pieno e vive le cinque fermate che lo portano al lavoro come un tormento, sentendosi in un covo di delinquenti, costretto a tenere stretta la ventiquattrore e a controllare ogni paio di minuti che sia chiusa. Quasi per beffa, alla sua fermata l'autobus si svuota. Da lì all’ufficio ha ancora dieci minuti a piedi. Il geometra Pietro Cascione lavora da quasi trent’anni all’ufficio catastale della sua città.

2

Pietro esce dal lavoro che è già scuro, ma non gli importa perché sarebbe andato diritto di filata a casa dove c’è sua moglie che lo aspetta. Guai a fare tardi. Sull’autobus c'è meno ressa del mattino e trova posto al centro. Per tutte e cinque le fermate scruta le persone che salgono e scendono dall’autobus. La sua attenzione ricade su due ragazze sotto la trentina, probabilmente polacche. Non riesce a capire cosa dicano e la cosa gli dà molto fastidio: odia queste persone estranee al suo paese, questa gente venuta da lontano a modificare la sua vita. Il pensiero, poi, che un giorno possa essere costretto a affidare la sua vecchiaia ad una di queste loro, gli dà ancora più fastidio. Odia la loro lingua, il loro paese, odia tutti loro. A casa, la moglie lo investe raccontandogli storie accadute nella giornata. Non ci fa caso: la moglie dice sempre un sacco di cose poco interessanti, quasi sempre relative a personaggi dello spettacolo di cui lui non sa neanche l’esistenza. Per distrarsi, si occupa di apparecchiare in sala da pranzo, così da poter sfumare le parole della moglie, la quale continua a parlare dalla cucina mentre agita il mestolo nella padella. Dopo cena iniziano a vedere un programma televisivo, di quelli dove c’è gente che balla e canta; nel giro di mezz'ora è già nel letto pronto a dormire. Riposti gli occhiali sul comodino, chiude gli occhi e la sua mente è inondata da una folla di extracomunitari. Poi gli torna in mente la collega che gli sorride sempre in mensa. Un sentimento di rabbia lo avvolge pensando che, mentre a lui è toccata quella racchia della moglie, qualcuno di certo sta possedendo la sua collega in quel momento. Poi, si ricorda che l’indomani sarebbe stato sabato e sarebbe stato, quindi, autorizzato ad andare al bar per i risultati delle partite. Un sussulto di felicità e accoglie il sonno sorridendo.

3

Pietro non è di sicuro un uomo che fa la bella vita. L’unico svago che si concede, con il permesso della moglie, è andare al bar il sabato pomeriggio per discutere dei risultati delle partite di campionato. Il bar è sotto casa, gestito da un amico di infanzia di Pietro, succeduto al proprio padre. Durante la sua vita ha visto are tanta gente in quel bar. Il personaggio del momento è un uomo sulla sessantina che Pietro non ricorda di avere mai visto nel quartiere, ma qualcuno gli ha assicurato che ha sempre abitato lì anche se, per una ventina di anni, è stato nel nord Europa, emigrato per lavoro. Qualcuno, invece, ha supposto che sia stato nell’Europa dell’est perché una specie di spia. Lo chiamano o’ comunista per via della sua ata fede politica. Da quando è caduto il muro e il comunismo è stato dichiarato morto, ha mosso la sua intransigenza dai mali dell’impero capitalista ai mali di tutte le ideologie estremizzate e i suoi discorsi hanno una continua critica verso tutti gli ismi del mondo, probabilmente per il bisogno di ripulire la sua anima dall’avere creduto ciecamente in uno di questi ismi. Pietro non si è mai occupato di politica tranne quella volta che ha fatto parte del comitato elettorale dell’onorevole suo amico di infanzia, costretto a are mesi in un ambiente non suo, facendo fatica a far finta di essere interessato. Poi dopo quella volta, la sua vita è tornata ad essere separata dall’agone politico, pensando che continuare a votare l’amico sarebbe bastato a disobbligarsi per l'avere ricevuto un posto in catasto. Anche per il calcio, Pietro non ha una vera e propria fede. Tifa ovviamente per la squadra della sua città, ma non si è mai lasciato trasportare da nessun fanatismo calcistico e accetta sia le sconfitte che le vittorie con la stessa assenza di ione. Sa, però, infervorarsi quando è necessario. Il suo unico interesse è stare lì al bar e godere di quel paio di ore di libertà, sentendosi uguale agli altri mariti i quali, forse, riescono a dominare le proprie mogli.

4

Pietro non è abituato a bere, ma non ha potuto rifiutare il bianchino offertogli dall’amico. Ora cammina con la testa che gli gira leggermente e, quasi si sia chiamato la caduta, inciampa su di una mattonella sollevata del marciapiede cadendo rovinosamente in terra. I riflessi pronti gli fanno protrarre le mani in avanti, provocando una lieve escoriazione alle mani ma impedendo danni al viso. Nonostante ciò non riesce a evitare che gli occhiali gli cadano dal viso e si frantumino i vetri delle lenti. La disperazione lo coglie: d’un tratto il mondo che ha conosciuto fino ad allora sparisce; la visuale gli diventa annebbiata. Un signore con voce gentile gli si avvicina. “Signore vuole ti accompagno. Stai bene?” “Grazie... grazie. Abito qui vicino. Al numero 12. Se per voi non è un problema, preferirei essere accompagnato...”. Pietro affascinato dal tono soave della voce, si fa prendere sotto braccio. Quella stretta lo fa sentire sicuro, protetto come non gli è capitato ormai da anni. “E' bello rendersi conto che esiste ancora chi è capace di fare una gentilezza al prossimo. La ringrazio ancora. Lei è davvero gentile”. Arrivati al portone, il tizio insiste per accompagnarlo fino alla porta di casa perché non si fida a lasciarlo solo. La moglie, aperta la porta di casa, rimane attonita per la scena. Poi, preso il marito sotto braccio ringrazia velocemente il soccorritore e spranga la porta. “Tesoro, sapessi che persona gentile. E' accorso subito in mio aiuto quando sono caduto e si è subito offerto di accompagnarmi a casa; e, poi, ha insistito per portarmi fino alla porta... Che bella persona!” “Caro, ho avuto tanta paura. Non devi essere così avventato. E se avesse voluto derubarci? Lo hai portato fino a dentro casa! Lo sai come sono 'sti africani, no?” “Africano? Ma cosa dici?” “Africano o arabo… non so… per me sono tutti uguali: un negro insomma…” Pietro rimane stupito dal capire che una voce così gentile possa appartenere ad un extra comunitario. Va a dormire sereno ma incredulo sull’origine di quel gen-

tiluomo. Sicuramente la moglie si è confusa per la luce bassa. L’indomani sarebbe stata una domenica tranquilla e, poi, lunedì la moglie sarebbe andata dall’ottico per fargli fare le lenti nuove.

5

La mattina il geometra si alza presto abituato all’orario della sveglia. Le mani protese sul comodino in cerca di un paio di occhiali che non ci sono lo lasciano attonito in presa al panico. Entrato in cucina con la vista annebbiata dalla cecità cerca la moglie per abbracciarla e riscoprire il calore del suo corpo. Una sensazione ormai dimenticata da anni. Nonostante la moglie cerchi di scoraggiarlo, Pietro non vuole restare a casa. Esce di casa per andare a sentire messa. Lungo il tragitto riesce ad evitare una signora seduta in terra. Chiede scusa e si informa se la signora abbia avuto un malore. La donna gli risponde di no, anzi si preoccupa del fatto che Pietro non abbia la messa a fuoco regolata. Pietro, le risponde dicendole che sarebbe arrivato solo fino alla chiesa e che un sacrificio minimo per Dio può essere fatto. La donna ride in modo gentile. Un uomo li supera e di fretta getta una moneta in un bicchiere di plastica posto davanti i piedi della donna. Il tintinnio della moneta fa capire a Pietro che sta parlando con quella donna che se ne sta sempre accucciata in terra il negozio. Quel giorno non solo non ha cambiato strada ma ha anche scoperto che è veramente cortese e si pente di averla evitata per tutto quel tempo. La chiesa dista una fermata d’autobus, per cui decide di usufruirne per evitare inciampi ulteriori. Come al solito si siede al centro dell’autobus. Sente due ragazze parlare dolcemente alle sue spalle. Ridono di gusto. Ha l’impressione di capire cosa stiano dicendo, sembra che parlassero di ragazzi. Poi capisce che non parlano in italiano e, mentre scende dall’autobus, realizza che sono le stesse che fino all’altro giorno non riusciva a sopportare. Entra in chiesa. E è una delle più belle messe a cui abbia assistito fino ad allora.

6

Il lunedì mattina, Pietro comunica che non sarebbe andato al lavoro. Ne approfitta per rimanere a letto più del solito. La moglie esce presto per cercare di avere gli occhiali in fretta. Conosce l’ottico e sa che avrebbe capito l’urgenza del marito. Per guadagnare tempo, mentre gli occhiali sono in lavorazione, fa il solito giro dei negozianti per fare la spesa. Oggi avrebbe cucinato un bel minestrone di verdure e per secondo avrebbe fatto una frittata con contorno di spinaci. Deve ricordare di comprare il burro per fare la torta. Finito il giro, torna dall’ottico per farsi consegnare il nuovo paio di occhiali per il marito. Arrivata a casa appoggia gli occhiali sul comodino proprio come era solito fare il marito. Non vedendolo a letto pensa fosse in bagno. Bussa alla porta per dirgli che ha una sorpresa, ma in bagno non c’è. Le viene il dubbio che sia uscito e la cosa la fa arrabbiare. Entra in cucina per poggiare le buste della spesa e vede sul tavolo un foglietto di carta. Il cuore incomincia a batterle. Incomincia a leggere. “Sono sicuro che sei riuscita ad avere un nuovo paio di occhiali per me. Perdonami, ma non ho intenzione di usarli. Non ho alcuna voglia di rinunciare al mondo che ho scoperto esistere da quando ho rotto il paio vecchio. Vado via incontro a quello che non ho mai cercato. Perdonami se puoi.”. La moglie fissa il foglio immobile mentre il viso viene bagnato dalle lacrime.

Dialogo divino

“Ciao e tu chi sei?” “Sono un effetto post sbornia. Non ti preoccupare, sono qui solo per parlare e rispondere alle tue domande.” “Come fai a sapere che ho delle domande? E perché dovrei chiederle a te? Cosa sei la proiezione del mio subconscio?” “No, non lo sono. Almeno per te. Puoi fare meglio... chiamarmi a modo tuo.” “Non capisco, scusa, ma ho bevuto troppo vino.” “Ecco, chiamami come il vino che stai bevendo. E' buono, sbaglio?” “No, non sbagli. Allora ti chiamerò Gragnano. Ma io chiamerei così solo due esseri. Il mio cane e il mio Dio.” “Ecco, diciamo che io non sono un cane. Almeno non per tutti.” “Uhm, non vorrei sbagliarmi ma mi sembra che tu mi stia dicendo che sei Dio…” “Bene! Hai indovinato! Ora chiedi!” “Gesù Cristo.” “Non bestemmiare la tua religione, mi dà fastidio.” “No. Chiedevo.... Gesù Cristo cosa mi dici?” “Cosa dirti. Brava persona. Un rivoluzionario, un visionario.” “Ma è tuo figlio?” “Che io sappia no.” “E quindi cosa mi dici del cristianesimo? Una bufala?” “No. E' una religione. Nata da un'ottima operazione di marketing. Gente che

aveva sniffato il business da subito. Poi, appena si è fatto ammazzare per quello in cui credeva, ne hanno sfruttato l'immagine. E hanno fatto i soldi.” “Mi lasci senza parole...” “Perché associ lui a me. Ti faccio un esempio più terreno che ti farà capire. Il 'Che'. Lui è morto per quello che credeva. Dopo che è morto c'è chi ha comandato per anni usando il suo nome e il suo valore. C'è chi ha fatto i soldi mettendo la sua faccia su una maglietta. C'è chi è diventato famoso con le foto di lui morto. Poi hanno cercato di fare business sulle sue ossa ritrovate. C'è un mausoleo. Non ti sembrano tutte cose che ricordano altre. Poi potrei dirti di Malcom X, Marthin Luther King, Ghandi e così via.” “Uhm… sono troppo ubriaco per seguirti. Magari ne riparliamo.” “Hai altre domande o vuoi dormire? Tanto Dio lo incontri tutti i giorni, no?” “Ok... hai ragione, ma non fare il permaloso. La Bibbia: dimmi della Bibbia. E' davvero il libro delle tue scritture?” “Mie scritture? No, io non so scrivere; non ho bisogno di scrivere. Sono scritture di uomini.” “Quindi mi stai confermando che la religione è un grande imbroglio?” “No, sbagli. La religione è importante. La cosa più importante che ci sia. Almeno lo è per me. Ma sono sicuro che voi uomini non riuscireste a vivere senza. Ma per farti capire ti devo raccontare i miei sbagli. All'inizio io non mi nascondevo agli uomini. Ero giovane, inesperto. E' così che è nata la Bibbia. Gli uomini raccontavano di me e di chi mi aveva visto. Poi, capii che non potevo farmi vedere. Ma non mi rassegnavo a lasciarvi con la religione. Non capivo che il fatto che ne aveste a centinaia era dovuto al fatto che non potevate farne a meno. Allora sbagliavo e investivo sulla filosofia: chi siamo? dove andiamo? da dove veniamo? Ero contento che ci fossero uomini che seguivano la gnosi e a dire il vero io tifavo per loro. Poi, col tempo ho capito che era meglio che gli uomini si ammazzassero per le cose loro terrene: i soldi, il potere, le donne. Allora smisi di investire sui filosofi. Oggi quanti filosofi conosci che non lavorano in un call center?” “Quindi...”

“Quindi fammi parlare! Voi uomini siete cocciuti però. Tanti uomini diventati potenti, tanti in cui ho sperato, molti che mi hanno deluso. Loro e quella loro mania della religione.” “Fammi un esempio” “Uno solo? Sai quanti te ne potrei fare! Marx: ottima idea la sua, ma quella cosa dell'oppio dei popoli; era ovvio che non sarebbe durato. Io dico, ma che ti frega se la gente segue la religione? Non ci voleva tanto ad imitare l'impero romano. A loro che fregava della religione delle genti? Quanto erano forti? Poi hanno iniziato a non sopportare i cristiani, poi se li sono messi in casa e sono caduti piano piano. Guarda gli USA. Loro quasi ogni giorno ne fanno nascere una nuova, esagerati, ma hanno capito il vero spirito.” “Ma che sei comunista?” “Non dire stronzate. Vuoi un esempio diverso? Franco in Spagna. E' durato quasi quarant'anni perché non ha messo becco nella religione come ha fatto quello tuo, l'Italiano che ha seguito quello Tedesco” “Hitler?” “Sì sì quello.” E qui sembrò avesse sonoramente scorreggiato. “Dio, però io sarò ubriaco, sarò anche uno stupido senza valore, ma mi sembra che il tuo discorso sia in fondo in fondo un po' contrario alla religione. Non è che a dire queste cose va a finire che perdi il posto?” “Oh cazzo!” e sparì proprio come l'ultimo goccio di Gragnano.