Racconti 3nf1m

Siegfried Futterlieb

Racconti di Siegfried Futterlieb

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Indice dei contenuti

Un imponderabile destino. Un traffico internazionale di stupefacenti viaggia su aerei di linea della Compagnia di bandiera. La Polizia indaga.

L’amico russo. A Mosca, ai tempi dell’Unione Sovietica, un dipendente di una società italiana è in serio pericolo. Aiutarlo non è prudente, è solo gratitudine.

M. Johnson agente della CIA. Un agente segreto della CIA scopre casualmente del marcio ai massimi livelli dell’Agenzia

In una calda serata d’agosto a Milano, in zona Greco Turro, in via Montalbino, il commissario Nicola Rizzo e l’agente scelto De Luca attendevano gli sviluppi della loro indagine, in un’anonima Panda di colore grigio scuro, posteggiata lungo il viale alberato. Il commissario non avrebbe dovuto trovarsi lì. Le sue mansioni, le sue funzioni e lo status di commissario contemplavano che dirigesse le indagini soprattutto dal suo ufficio nel Commissariato di Polizia del quartiere. Rizzo, tuttavia, era essenzialmente un uomo d’azione. La sua promozione aveva origine da molte caratteristiche fra le quali spiccavano le iniziative personali e l’efficienza delle sue imprese. Era da qualche tempo sulle tracce di una banda che controllava lo smercio di cocaina sia nel quartiere sia in tutta la città e la regione. In una fortunata retata era riuscito ad arrestare alcuni spacciatori, per lo più manovalanza ma anche un elemento, un certo Saponaro, che era stato, e forse lo era ancora, aiutante di Giovanni Greco il boss a capo della banda. Il commissario aveva dedicato parecchie energie all’interrogatorio di Saponaro impostandolo con equilibrio e intuito. Avevano comuni origini. Entrambi nati a Bari più o meno negli stessi anni. Venuti al mondo in quartieri diversi, cresciuti in ambienti disuguali, ricevuto dissimili insegnamenti. Il padre di Rizzo maresciallo dei carabinieri, quello di Saponaro contrabbandiere. Il dialetto che entrambi padroneggiavano era un buon fondamentale veicolo di comunicazione e facilitò i loro iniziali contatti. Saponaro era un delinquente incallito con già alcune condanne a carico. Una recente amnistia gli aveva temporaneamente ridato la libertà. Non avrebbe mai tradito sia perché non faceva parte della sua cultura sia per il timore di rivalse e vendette. Tuttavia le riflessioni e le argomentazioni del commissario iniziavano a penetrare nelle istintive difese che aveva costruito. Non ti chiedo di tradire nessuno, sarebbe stupido da parte mia pensare che uno come te possa fare la spia. So da dove vieni e conosco i concetti essenziali del mondo cui appartieni. Mi dispiace che tu debba pagare un prezzo troppo elevato per responsabilità che non sono tue. Non sei tu a organizzare il traffico di stupefacenti, tu esegui degli ordini. La quantità di droga che vi abbiamo

sequestrato tuttavia vi manda in galera per parecchio tempo, soprattutto a te che sei recidivo. Io non so cosa tu possa fare per me ma so che io posso facilitare la tua posizione a seconda di come espongo i fatti. Lasciò che il concetto si fe strada nella mente dell’arrestato. Ricordati però che nessuno fa niente per nulla. Tu aiutami ed io vedrò cosa posso fare. La partita di scacchi fra i due avversari era ancora da definire. Il malvivente attendeva la prossima mossa per valutare come muoversi. Io, ad esempio, proseguì Rizzo, posso raccontare che, al momento dell’irruzione nella casa dei pusher, tu non eri lì! Tu sei arrivato dopo, senza sapere della nostra presenza nell’appartamento, hai suonato il camlo ed io ti ho arrestato per presunta complicità. Con un buon avvocato e un poco di buona sorte te la puoi cavare molto meglio degli spacciatori che erano nell’appartamento. L’offerta era buona, anzi ottima, tuttavia era impensabile tradire il suo capo perché sarebbe stato l’ultimo atto della sua carriera criminale. Non ti sto a raccontare balle ma dove trovare Giovanni Greco non te lo dirò mai, anche se lo sapessi. Posso darti una dritta di dove cercare anche se non garantisco nulla. Sentiamo, fu la risposta. Giovanni ha una donna cui tiene molto. Non vivono insieme, lei forse non sa neanche chi è veramente Giovanni Greco. Però si vedono e se tu segui lei, con un poco di fortuna, puoi arrivare a lui. Mi sembra un buon compromesso. Ricordati comunque che se stai cercando di bidonarmi te ne pentirai amaramente. Lo dico qui in confidenza e non ci sono testimoni. Se mi hai fregato, se in un qualche modo mi accorgo che non esistono più contatti fra questa donna e il tuo capo perché lui è stato avvertito io ti rovino. Se da quest’arresto ne esci pulito grazie a me, io ti ritrovo ovunque tu sia. Ti piazzo della cocaina nel bagno e poi ti arresto. Fosse l’ultima cosa che faccio, ma ti giuro che tengo sempre fede alle mie promesse. Io ti do solo un nome e un indirizzo. Se poi le cose fra loro vanno male e si lasciano, io non posso essere ritenuto responsabile.

Non ti preoccupare per questo. Io sarò in grado di valutare se e cosa è successo. Tu non mi fregare ed io non ti rovinerò. Quando saprò il nome della donna, in poco tempo, potrò ricostruire tutto il percorso della sua vita e già da quel momento saprò se hai mentito oppure no. Saponaro prese la sua decisione. La donna si chiama Franca Macchi e abita al N° 7 di Via Montalbino a Milano. Una prima sommaria indagine aveva svelato che nel suo ato la donna aveva avuto esperienze che potevano rendere plausibile una sua relazione con un criminale. Aveva ripreso il suo cognome da ragazza dopo il divorzio dal marito, un noto malvivente arrestato anni prima per una rapina a una banca in Brianza. Una vita tormentata la sua. Proveniva da una povera famiglia emigrata dalla Calabria, aveva frequentato la scuola fino alle superiori. Attiva e intelligente era riuscita a trovare un posto da segretaria in una piccola azienda di trasporti, posizione che aveva inorgoglito la famiglia e in particolare il padre che era un semplice muratore. L’incontro con l’uomo che diventò suo marito le cambiò totalmente la vita. Si sposarono, si trasferirono a Como, lei perse il lavoro ed ebbero due figli in rapida successione. Il marito era un violento e presto le cose in famiglia degenerarono. Diverse denuncie per violenze furono al Commissariato di Como. Alcuni brevi accertamenti al Pronto Soccorso dell’ospedale lariano confermarono la veridicità delle accuse. Il marito oltretutto era dedito al consumo di alcol e droghe e sotto gli effetti dell’uno o dell’altro non era più gestibile. Lei iniziò le pratiche per il divorzio, lasciò la casa di Como e fu ospitata dai genitori a Milano. Con le evidenze dei maltrattamenti subiti, i tempi per il divorzio furono rapidi. Franca Macchi ritornò single molto prima che il marito fosse arrestato a Fino Mornasco per una rapina alla Cassa Rurale. Da allora erano ati diversi anni. Viveva, in un modesto appartamento con i due figli che frequentavano entrambi le scuole medie. Lavorava come impiegata di un’impresa edile e da discrete indagini non risultava alcuna relazione affettiva. E sempre difficile immaginare la vita, creare un profilo, stimare la personalità di una persona sconosciuta. E quello che il commissario, seduto nella Panda, continuava a ripetersi. Aveva già sposato un delinquente, un violento. Ci aveva anche fatto due figli insieme. Era probabilmente incline a unirsi a uomini aggressivi, spregiudicati e senza scrupoli. Quindi potrebbe essere la pista giusta per arrivare a Giovanni Greco. O forse erano solo fantasie. Magari è stata semplicemente sfortunata nel suo matrimonio. Capita a tante donne.

Al momento poteva fare solo congetture. Doveva avere pazienza, come sempre e sperare nella buona sorte. Adesso era quasi mezzanotte e stava per terminare il loro turno. I continui tagli alle spese di tutto il settore della pubblica sicurezza avevano inciso in modo rilevante anche sul suo Commissariato. Non aveva fondi sufficienti per retribuire tutte le ore straordinarie che un’inchiesta del genere richiedeva. Doveva arrangiarsi come sempre. Aveva tuttavia la fortuna di avere un gruppo di uomini eccezionali alle sue dipendenze. Diversi avevano lavorato con lui in ato in altre questure. Era riuscito a far trasferire alcuni di loro da diversi centri operativi a Milano.

I suoi agenti lo stimavano e lo rispettavano. Era regolarmente il primo a rischiare in ogni azione, prendeva su di sé tutta la responsabilità delle indagini mentre condivideva con la sua squadra i successi acquisiti. Era puntualmente vicino ai suoi uomini per ogni preoccupazione da risolvere sia di carattere personale sia di servizio. Quella sera era lì perché aveva deciso di rimpiazzare un agente della squadra che aveva la moglie in ospedale per la nascita del primo figlio. Aveva sacrificato la sua serata, cosi come faceva molto spesso. Tutta la vita era imperniata sul suo lavoro. Era molto ambizioso ma la sua dedizione non era proiettata esclusivamente sulla carriera. Svolgeva un lavoro che lo riempiva di soddisfazioni anche se, come tutte le attività, era anche disseminato da delusioni, insuccessi e sconfitte. Il turno stava per terminare ma la sua mente era già rivolta all’indomani, ai consigli da dare ai suoi sia per questo caso sia per tutto quello che bolliva nella pentola del suo commissariato.

Un cielo stellato in una notte di piena luna è una vista mozzafiato dal cockpit di un aereo di linea a 11.000 metri di quota. Malgrado tutti i suoi problemi, Luca Conte, pilota del volo Alitalia 687 da Caracas a Milano stava godendosi lo spettacolo. Non era certo nella migliore disposizione d’animo. Troppi problemi lo tormentavano. La sua vita privata e professionale era appesa a un filo. Stava lottando con cuore, voglia e coraggio ma la trama della sua vita era, al momento, amministrata da altri. Il suo secondo pilota si era appisolato. Il Boeing 767 volava con il pilota automatico. Le previsioni del tempo erano ottime su tutta la rotta e il radar confermava le anticipazioni di un ottimo viaggio. Luca era solo con se stesso, con i suoi pensieri e i suoi problemi. Era sempre stato sin da bambino uno scavezzacollo. Prima la bicicletta, poi il motorino. La velocità lo attraeva, guidava in modo istintivo con reazioni ottimali. Riflessi prontissimi, un occhio attento alle distanze e alle misure, naturalmente spericolato. Diverse cadute, due ricoveri al Pronto Soccorso di Nervi a Genova, sua città natale. Di famiglia agiata, padre avvocato e madre medico anestesista, figlio unico aveva sempre ottenuto dai suoi genitori tutto quanto desiderasse, se non altro da un punto di vista materiale. A sedici anni, suggestionato da Massimo il suo più caro amico, scopre l’irrefrenabile impulso per il volo. Superate le deboli difese di genitori che avevano altre priorità nella vita, s’iscrive al locale aereo club di Genova una delle scuole di eccellenza per l’ottenimento del brevetto di pilota in Italia. Non avendo problemi economici riuscì in un anno di corsi teorici e pratici a conseguire il brevetto di pilota privato di velivolo. Il aggio successivo, durato altri due anni, fu la licenza di pilota commerciale che ottenne per il suo diciannovesimo compleanno. La sua era un’autentica ione. Affrontò notevoli sacrifici per portare a termine sia la licenza di pilota sia il diploma del liceo scientifico, titolo

indispensabile per la carriera per la quale si era addestrato. Nel frattempo la famiglia si era dissolta. Sua madre aveva chiesto il divorzio e i due coniugi avevano preso strade diverse. La nuova situazione non lo sconvolse più di tanto. Erano anni ormai che viveva una vita da separato in casa e il solo suo vero affetto era per Massimo il compagno con cui era cresciuto. L’unico problema pratico era collegato alla vendita della loro casa, una graziosa villetta che costeggiava la bella eggiata a mare di Nervi. In occasione delle pratiche di divorzio venne a trovarli lo zio, fratello della madre, che viveva a Montreal in Canada. Luca, da sempre lo considerava un amico più che un parente. Erano legati entrambi da sentimenti di stima e considerazione ma per lo zio, che non aveva avuto maschi, il nipote era come un figlio. Per diventare piloti di aerei di linea i costi in Canada erano molto ridotti rispetti a quelli italiani. Anche le possibilità di lavoro erano di gran lunga superiori considerando la diffusione della rete aerea in Canada e nei vicini Stati Uniti d’America. A un suo trasferimento in Canada tutti avevano convenienza, anche se lo zio si caricava di una notevole responsabilità. Gli inizi furono molto più complicati di quanto si aspettasse. Era straniero e troppo giovane per essere ammesso come pilota sia nella compagnia di bandiera sia in altre importanti linee interne e charter canadesi. Tramite conoscenze venne assunto da una società che disponeva di piccoli aerei per diversi utilizzi. Fu un’ottima scuola per la diversità dei lavori eseguiti. Dal paracadutismo sportivo, ai voli turistici, alla ricerca di aerei dispersi, osservazioni e conteggi della fauna selvatica, immagini per cartografie. Voli in ogni condizione di tempo e di clima. Così iniziò la sua esperienza canadese e contemporaneamente cominciarono a presentarsi i sintomi dei suoi futuri problemi. Luca era molto bello. Non aveva fino allora attribuito alcuna importanza a quell’indubbia parte del su essere. Le ragazze lo corteggiavano da sempre ma sembrava che il fatto non lo interessasse più di tanto. La sua indole, soprattutto negli ultimi anni era tutta orientata al raggiungimento degli obiettivi che si era

prefisso. Terminare gli studi e ottenere il brevetto di pilota. In Canada, all’improvviso, scoprì il piacere del sesso e si rese conto di quanto gli fosse facile ottenerlo grazie al fascino che per natura possedeva. I primi anni furono molto intensi ma limitati al prendere e lasciare nuove fanciulle, donne sposate, ragazze tutte sempre molto disponibili. Il tempo ò rapidamente. Terminata l’esperienza dei voli sui piccoli aerei e costruito un ottimo curriculum e reputazione, fu assunto da Air Canada. Secondo pilota, prima aerei più piccoli a elica, poi i jet per arrivare rapidamente ai grandi aeromobili per voli intercontinentali. Nella sua vita sentimentale entrò di prepotenza una bella ragazza, volitiva, capricciosa e molto ricca. Fu lei l’artefice di tutta la loro storia. Lui si ritrovò, senza una sua precisa intenzione ai piedi dell’altare. La famiglia di lei cercò in ogni modo di ostacolare un matrimonio che non condividevano. Avevano piani molto ambiziosi per l’unica figlia, progetti che avrebbero consolidato il prestigio della loro dinastia, di pura ascendenza anglosassone, e magari, perché no, irrobustito la potenza industriale ed economica dei loro interessi. L’ingresso nella loro famiglia di un immigrato di origine italiana, che da discrete indagini, risultava anche impenitente dongiovanni non era il massimo delle loro aspirazioni. Il matrimonio fu burrascoso sin dall’inizio. Lei era molto gelosa e lui alimentava quest’ossessione con continue scappatelle. La nascita di un figlio rasserenò per un breve periodo la situazione familiare. Nell’età formativa della sua adolescenza i genitori di Luca avevano compiuto un percorso di allontanamento e Luca non aveva mai conosciuto realmente l’essenza e i valori di una vera famiglia. I rapporti con il nuovo nucleo familiare erano stati sin dall’inizio piuttosto tesi e con l’andare del tempo si erano sempre più inaspriti. Non sopportava le feste e i party che la famiglia della moglie organizzavano di continuo. Non gli piaceva il golf che sembrava fosse un obbligo sociale cui doveva obbligatoriamente sottoporsi. Pativa l’arroganza del potere che il suocero esprimeva con sufficienza, orgoglio e pregiudizi, potere che aveva origine dai suoi avi fra i primi colonizzatori del Canada. In parole povere, salvo per il suo lavoro, riteneva vivere un’esistenza deprimente e banale. Era quindi inevitabile che le continue e costanti tentazioni dell’altro sesso

riprendessero a condizionare la sua esistenza. Ricorrenti nuove avventure e relativi avvilenti sotterfugi resero insopportabile la vita della coppia. Al primo anniversario del loro figlio il suocero convocò Luca nei suoi uffici di Boulevard René-Lévesque a Montreal. Ad attenderlo il suocero, la moglie e un detective che lo aveva pedinato nelle ultime settimane. Fotografie, fotocopie di registrazioni in vari alberghi del Canada, un bagaglio di prove inesorabili dei suoi tradimenti. In pratica era licenziato dalla famiglia che intendeva anche rendergli la vita molto complicata con richieste esorbitanti di alimenti, danni morali e condizioni vessatorie per la custodia del figlio. Superfluo aggiungere che gli interessi della Famiglia erano affidati a uno degli studi legali più importanti della città. Luca ne uscì malconcio con il pesante onere di dover versare una parte molto consistente del suo stipendio per gli alimenti del figlio e di una moglie che, ironia della sorte, apparteneva a una delle famiglie più ricche della città. Fu l’inizio dei suoi problemi. Continuò, per reazione una vita dispendiosa nonostante le sue fortemente diminuite disponibilità. Primi debiti, primi prestiti che otteneva facilmente data la sua professione e posizione. Una vita in ogni caso disordinata, dispendiosa nella quale sembrava che la sua unica ragione di vita fossero le avventure, dove la continua conquista di donne fosse il risarcimento per una vita che non era quella che aveva desiderato. In uno dei suoi scali internazionali aveva, per pura casualità, incontrato nell’albergo in cui alloggiava un vecchio amico con cui aveva condiviso a Genova gli anni di apprendistato. Adesso era un pilota della Società di bandiera italiana. Avevano ricordi e interessi in comune e la serata fu un piacevole presagio di cambiamento nella sua vita. Si rese conto di avere nostalgia della sua terra, di quelle piccole e grandi tradizioni di cui aveva perso lo spirito. La prospettiva di tornare in Italia prese una forma concreta dopo aver coinvolto Massimo, l’amico che, in Italia, aveva percorso rapidamente e con successo la scalata della politica nazionale. Non era un periodo felice per la Compagnia di bandiera ma l’intervento di un onorevole del partito di maggioranza era tale da non poter essere ignorato. Oltretutto il curriculum e l’esperienza di Luca erano sicuramente garanzie di un ottimo livello professionale. Prima di tornare in patria doveva risolvere un problema. Negli ultimi due anni di vita da scapolo si era fortemente indebitato. Un suo collega lo aveva indirizzato,

anni prima, a una finanziaria che operava con il personale viaggiante dell’Air Canada. Aveva iniziato a chiedere prestiti quando era ancora legato da vincoli matrimoniali. In seguito le sue esigenze erano fortemente aumentate e di pari o si era dilatata la sua posizione debitoria. Fra interessi e capitale aveva accumulato un debito superiore a due anni del suo stipendio. Considerando che, più della metà delle sue entrate era in ogni caso destinata agli alimenti dell’ex famiglia, la sua situazione era obbiettivamente precaria. La Società Finanziaria Canadese, nell’ipotesi di un suo trasferimento in Europa, non era disponibile a mantenere il credito concesso. Luca fece presente di non essere in grado di onorare il debito se non a condizioni di versamenti rateali spalmati nel tempo. Fu proposta una soluzione non del tutto trasparente ma alla quale acconsentì in assenza di altre possibili scelte. Una società della British Colombia con sede a Burnaby avrebbe acquisito l’intero debito. La Società affermava avere interessi economici e finanziari sia in Canada sia in Europa e in particolare in Italia. Gli interessi sul debito sarebbero aumentati e il debitore avrebbe poi potuto programmare in Italia un piano di restituzione con i referenti della Società Canadese in Italia. Nell’orizzonte familiare Luca non poteva contare su alcun aiuto. Il padre era deceduto a seguito di un infarto e la madre, dopo aver speso la sua parte del valore della villa di Nervi, si era nuovamente separata e viveva in ristrettezze economiche. Le sue vicende familiari avevano anche interrotto e cancellato i rapporti con suo zio in Canada. Scoprì dopo che quest’ultimo era in stretti rapporti d’affari con suo suocero. Il ritorno in Italia rappresentò un effettivo e radicale cambiamento di vita e di prospettive. Qualcosa finalmente scattò nella sua mente. Si rese conto di aver buttato via gli anni che potevano essere i migliori della sua vita. Non poteva continuare così avrebbe rovinato per sempre anche il futuro. Smise di correre dietro ad ogni gonnella o di farsi tentare da ogni occasione. Conobbe una ragazza, più giovane di lui, che non rassomigliava in alcun modo alle donne che aveva sempre frequentato. Era bella, giudiziosa, intelligente e soprattutto aveva la testa sulle spalle. Se ne innamorò in modo totale e sincero. Rivolse tutte le sue energie al lavoro e alla famiglia. Il matrimonio e la nascita di un figlio completarono il percorso del suo nuovo equilibrio. Smise con le spese pazze e la nuova compagna lo aiutò a programmare la loro vita risparmiando quanto possibile. Il debito restò l’unica angoscia della sua nuova vita. La società canadese che aveva acquisito il suo debito aveva affidato la sua rappresentanza a

una società finanziaria di Milano. Erano degli intermediari che si dimostrarono ragionevoli e con i quali Luca stabilì degli accordi equi per il rientro del debito. Gli interessi sul denaro dovuto erano tuttavia aumentati rispetto a quanto richiesto dalla finanziaria canadese. Non erano ancora a livello di usura ma erano in ogni modo molto elevati. In pratica riusciva a pagare mensilmente soltanto gli interessi dovuti senza diminuire il capitale. Comandante la cena è pronta ! I pensieri di Luca s’interruppero bruscamente con l’arrivo dell’hostess nella cabina di pilotaggio. Le sue costanti preoccupazioni gli avevano tolto completamente l’appetito ma erano giorni che si nutriva di tanti caffè e pochi panini. Decise che qualche boccone doveva pur mandarlo giù.

Alle ore sette e mezzo del mattino il commissario Rizzo era già in ufficio. Aveva dormito poco e malissimo. Il previsto intervento di angioplastica al cuore di suo padre lo preoccupava. La notte prima, dopo il turno di sorveglianza in via Montalbino era tornato a casa e verso l’una aveva telefonato alla sorella, che viveva a Bari con il padre, per chiedere notizie. Lei si era abituata alle chiamate del fratello a ogni ora e aveva anche smesso di mugugnare per essere regolarmente svegliata nel cuore della notte. Alle sei era nuovamente sveglio e alle sette era tornato in Via Montalbino dove il suo agente aveva iniziato il turno di sorveglianza. Adesso doveva lottare con le scartoffie che erano e restavano il suo maggior tormento quotidiano. Purtroppo la burocrazia era diventata sempre più soffocante mentre lo Stato tagliava mezzi e risorse. La sua vita sarebbe stata certamente migliore con un’amministrazione pubblica moderna e non quella arcaica con la quale doveva convivere. Alle nove stava gustando un caffè al vicino bar quando un ansimante appuntato lo informò di una rapina in corso nella filiale di una banca a pochi isolati dal loro commissariato. Dopo soli due minuti Rizzo e altri tre agenti erano già su di una volante a sirene spiegate. Una seconda vettura li seguiva a vista. La rapidità di reazione era uno dei fattori sui quali il commissario aveva maggiormente lavorato con i suoi uomini. Nonostante la prontezza dei loro riflessi, all’arrivo in banca, i rapinatori si erano già dileguati in direzione di Piazzale Maciachini. Una delle due volanti proseguì in quella direzione mentre, via radio, diede l’allarme al pronto intervento per predisporre blocchi stradali in uscita dalla città direzione nord verso il viale Enrico Fermi. Non sapeva ancora nulla, non aveva testimoni, non conosceva il numero dei rapinatori, con che tipo di vettura erano fuggiti, di che colore fosse la loro auto ma, per esperienza era consapevole che, da quella zona, la via di fuga più rapida per uscire dalla città era la superstrada che portava a Cormano sull’autostrada Milano Brescia. Bloccando la superstrada si poteva sperare che, se intercettati, si sarebbero traditi con una prevedibile reazione di fuga. Se invece avessero preso

la direzione del centro, non c’era modo di poterli intercettare. Rapidamente si attivò la consueta trafila delle indagini. I tre agenti sapevano cosa fare e il commissario, in brevissimo tempo, ebbe gli elementi essenziali della rapina. I malviventi erano due, entrambi giovani sotto i trent’anni. Uno alto circa un metro e settanta, l’altro di poco più piccolo. Non si sapeva se fossero italiani o stranieri. Avevano puntato una pistola alla schiena della guardia giurata che, al loro ingresso in filiale girava loro le spalle. Appena all’interno del locale si erano messi una mascherina sul volto, mascherina che copriva occhi, naso e bocca. Il più alto si era immediatamente posto di fronte all’unico cassiere spostando con violenza l’unico cliente in coda. Aveva pronunciato soltanto la parola “soldi” e puntato la pistola sul cassiere. Il secondo rapinatore aveva spinto la guardia giurata contro la parete e gli aveva sfilato l’arma dalla fondina. Erano calmi e determinati. Il cassiere impaurito aveva tolto dalla cassa un po’ di banconote ripetendo l’operazione per due volte. Afferrato il denaro, con rapidità e agilità, aperta la porta dell’agenzia, erano fuggiti a piedi. A venti metri dalla filiale avevano parcheggiato una potente motocicletta, una Honda CBR 600 ABS. Messa in moto con destrezza e rapidità avevano preso il largo prima che guardia giurata e impiegati della filiale potessero bloccarli. Il bottino della rapina era misero: la rivoltella della guardia giurata e circa duemila euro. Via radio Rizzo aggiornò le informazioni al pronto intervento modificando i parametri di ricerca. Non una vettura da rintracciare ma una moto di cui non aveva la targa ma soltanto la descrizione del modello, moto che quasi certamente era stata rubata. Chiamò anche gli agenti della sua seconda macchina chiedendo loro di iniziare sul posto la solita trafila delle indagini. L’amministrazione delle investigazioni richiedeva altre necessarie lungaggini. Tutte le persone coinvolte nell’avvenimento, dal responsabile della filiale agli altri impiegati e clienti, dovevano essere identificate. Tutte furono interrogate sulla dinamica del furto e sulla descrizione dei rapinatori. Il commissario chiese di visionare le registrazioni delle due videocamere di sorveglianza, una posta all’ingresso della filiale e l’altra all’interno. Furono convocati urgentemente i tecnici di una ditta esterna che aveva installato le telecamere e aveva un contratto di manutenzione degli impianti e conservazione dei filmati. Dati i tempi necessari all’arrivo dei tecnici Rizzo chiese di visionare le bobine dei video in commissariato chiedendo di portare tutta la necessaria attrezzatura.

Due ore dopo nel suo ufficio iniziò a visionare le registrazioni. La filiale della banca rapinata era stata aperta una settimana prima e non disponeva ancora di un sistema di sicurezza di porte blindate per l’entrata e l’uscita. Per contro il sistema di videoregistrazione era di ultima generazione, molto chiaro, nitido e soprattutto a colori. I due malviventi non erano degli sprovveduti. La filiale della banca era in Via sco Arese e la telecamera all’ingresso messa in direzione di Viale Zara. I due erano entrati provenendo da via Lario e cioè dalla direzione opposta. Nei primi fotogrammi del loro ingresso nella filiale si erano coperti il volto con un giornale e con l’altra mano avevano messo la mascherina sul volto fissata subito dopo con un elastico che consentiva loro di avere entrambe le mani libere. La protezione delle maschere era efficace nel nascondere i connotati principali dei loro volti. Per il resto l’abbigliamento era dei più diffusi, jeans e giubbotti del tutto anonimi. L’altezza segnalata dai testimoni valutata sul metro e settanta, i capelli dell’uno ricci e scuri, dell’altro la capigliatura era più rada, con indizi di calvizie. Un particolare attirò l’attenzione dei poliziotti. Uno dei due malviventi calzava delle sneaker, calzature molto diffuse ma la nota distintiva erano i colori che le caratterizzavano. Bianche, blu, rosse e nere. Il commissario chiese e ottenne alcuni fotogrammi che, ingranditi mostravano alcune scritte. Sul dorso la dicitura “Pantofole d’oro”, sul lato sinistro della scarpa l’incisione di tre stelle e la parola “italia” su fondo nero. Fatemi vedere le registrazioni di tutta la settimana, da quando l’agenzia ha aperto i battenti, chiese agli operatori delle videocamere. E possibile che i due abbiano fatto prima un sopraluogo prima della rapina e magari se siamo fortunati, l’uomo calzava le stesse sneakers. Arrivò una telefonata urgente che esigeva la presenza del commissario. Era una chiamata da Bari che Luca attendeva con ansia. Lasciò la riunione e dall’altro lato della linea trovò un’angosciata sorella. Ci volle un poco di tempo per riuscire a calmarla e dare un significato alle sue apprensioni. In pratica, all’ospedale di Bari, a seguito dell’intervento di angioplastica si erano manifestate delle complicazioni e il padre era stato ricoverato in rianimazione. Ci volle altrettanto tempo per ottenere dalla sorella sia il nome del chirurgo che aveva eseguito l’intervento sia il suo recapito telefonico. La tranquillizzò soltanto promettendole che sarebbe arrivato nella

serata a Bari. Il successivo colloquio telefonico con il primario di cardiologia rese meno drammatica la situazione. In pratica vi era stata una complicanza di un’embolia periferica e il paziente non era in pericolo di vita ed era stato ricoverato in rianimazione solo per meglio monitorare le sue reazioni. Luca chiamò subito la questura centrale, riferì al suo superiore la necessità di assentarsi per pochi giorni e convocò nel suo ufficio il suo vice per concordare la momentanea sostituzione. Erano quasi le sei di sera e una volante si mise in moto verso l’aeroporto di Linate sperando di arrivare in tempo per il volo AZ 1647 delle 18.35 diretto a Bari Palese.

L'aereo procedeva in pieno oceano atlantico ancora lontano dalle coste del Portogallo. Il velivolo tuttavia era già stato preso in carico dal centro di controllo di Lisbona. Il tempo si manteneva calmo lungo tutta la rotta con l’unica indicazione di cielo nuvoloso previsto sul nord dell’Italia. Il suo secondo pilota aveva ripreso il controllo del velivolo dal sistema automatico. Nel cockpit regnava un’atmosfera tranquilla, rilassata e serena. Sereno non era invece per niente il morale di Luca. Negli ultimi tre mesi aveva vissuto le peggiori vicende della sua vita. L’equilibrio mentale rischiava il collasso e si era chiesto più volte come e quando si sarebbe risolto il suo dramma. La parte peggiore dei suoi problemi era invero iniziata cinque mesi prima quando l’Alitalia gli aveva cambiato rotta e destinazione. Aveva lavorato per sei mesi sul percorso diretto, quasi tredici ore di volo senza scali, Milano Tokio. Aveva anche svolto alcune sostituzioni sulla rotta Roma Pechino. Poi lo avevano trasferito sui voli del Sud America e operava adesso da tre mesi fra Milano e Caracas via Roma. Al ritorno di uno di questi voli, nell’atrio dell’aeroporto della Malpensa uno sconosciuto lo aveva fermato chiedendogli se era il capitano Luca Conte. Aveva risposto cortesemente di sì e l’interlocutore aveva bofonchiato le sue generalità delle quali Luca aveva captato soltanto il nome Calogero. Possiamo sederci un attimo al bar e fare due chiacchiere chiese lo sconosciuto. Scusi ma non la conosco e non vedo motivo di fare due chiacchiere con lei rispose Luca. Il motivo è il suo debito, disse l’uomo. Ma lei chi è? Che cosa vuole da me ripeté questa volta aggressivamente Luca. Le ho detto chi sono e aggiungo che sono suo creditore di una cifra che supera il mezzo milione di euro, quindi farebbe bene a calmarsi e ascoltarmi. Lo dico per il suo bene aggiunse in modo intimidatorio.

Luca era stanco. Era rimasto alla guida del suo Airbus per più di dodici ore, aveva sonno e voleva rientrare a casa. Lo sconosciuto aveva un’aria incivile e villana. Tuttavia aveva accennato al problema più scabroso della sua vita, un’angoscia che lo seguiva da anni, e che imponeva di capire subito cosa l’uomo sapesse e soprattutto cosa volesse. Salirono al bar del terzo piano. L’esposizione fatta dallo sconosciuto fu schematica ed eloquente. La posizione debitoria di Luca Conte, con la società d’import ed export Cottoni e Bruni di Burnaby nella British Colombia, era stata ceduta a una finanziaria italiana, con sede a Catania, di cui Calogero si dichiarava il proprietario. Il debito ammontava adesso a 910.000 dollari canadesi. Io non ho mai avuto un tale debito replicò Luca. Quando sono partito dal Canada, il mio ivo era di circa 500.000 dollari e non di 910.000. Sì, è vero, rispose l’uomo ma sono ati tre anni e ci sono gli interessi. Ho pagato tutti gli interessi a una finanziaria di Milano. Quelli sono gli interessi morbidi di una finanziaria, i nostri sono di diversa entità. Lei ha quattrini nostri e deve sottostare ai nostri interessi, Non facciamo beneficienza e quindi tu ti devi adeguare. Il tono da stucchevole era ato a sarcastico il Lei si era tramutato in Tu. Un cupo silenzio aveva dato il cambio all’ultimo scambio di parole. Il cuore di Luca aveva iniziato a battere sempre più forte e la rabbia e la frustrazione in pochi secondi ebbero il sopravvento. Lei è matto, Lei è un delinquente, io la denuncio, questa è usura e la legge di questo paese prevede e punisce questo reato. Io la mando in galera. Una lunga pausa poi l’uomo sospirò sfacciatamente e riprese il suo ragionamento. Stai calmo, così non risolvi nulla e peggiori soltanto la tua situazione. Stammi ad ascoltare e vedrai che troviamo una soluzione buona per entrambi.

Fece una pausa e poi riprese il suo monologo. Evidentemente hai un debito che non riesci a rispettare. In tre anni hai versato soltanto degli interessi che non erano gravosi, quanto sono i nostri. Sappiamo che guadagni molto bene, ma con quello che devi pagare alla tua precedente famiglia, non ce la farai mai a estinguere il tuo debito. Sappiamo che i legali del tuo ex suocero di fatto hanno imposto all’Alitalia il sequestro mensile, a loro favore, di metà circa del tuo stipendio. Era evidente che l’illustre estraneo conoscesse bene non solo vita, affari e interessi di Luca ma avesse anche contatti e conoscenze presso il suo datore di lavoro. Ti voglio parlare con estrema franchezza. Il nostro mestiere non è quello di prestare denaro. Se i nostri amici canadesi hanno investito della moneta su di te, è perché avevano le loro buone ragioni. Adesso noi abbiamo occupato il posto loro e dobbiamo chiederti di fare qualche cosa per noi. Se tu collabori e poi ti spiegherò come, in un paio di mesi ti cancelliamo il debito. Il nostro mondo è completamente diverso dal tuo. Dato che qui nessuno ci ascolta e tu non hai un registratore su di te, ti spiego chi siamo. Dato che sei un uomo intelligente, la situazione ti diventerà subito molto più chiara e non perdiamo tempo a fare l’opera dei pupi. Noi traffichiamo in droga. E un’attività violenta ma noi cerchiamo di evitare inutili crudeltà. Siamo ragionevoli, a noi interessa soltanto il business. Con noi si può fare buoni affari, rispettiamo sempre i nostri impegni e la nostra parola. Il bar era semivuoto e per Luca il silenzio che venne dopo queste testimonianze, fu assordante. Quello che ti chiediamo è molto semplice. Tu non dovrai fare nulla di diverso dal solito. A ogni viaggio e a ogni conseguente sosta in Venezuela ti sarà consegnata una borsa da pilota identica alla tua, quella con il trolley che hai accanto a te. Dovrai semplicemente portarla con te in viaggio e poi all’arrivo seguire le istruzioni che ti darò io stesso al nostro prossimo e forse ultimo incontro. Non rischi nulla. Le nostre borse da pilota, oltre ad essere esteticamente uguali a

quelle che voi piloti utilizzate, sono a perfetta tenuta stagna. Nessun cane da droga potrà mai fiutare il contenuto. Te lo dico con la medesima onestà con la quale ti ho informato dei nostri affari, non hai altra scelta che quella di lavorare con noi. Non parlarne con nessuno, devi essere tu e soltanto tu il garante del nostro accordo. Sappiamo come sei entrato in Alitalia, chi è il tuo padrino politico. Non farne parola con lui e neanche con tua moglie. Anche chi ti vuole bene e di cui ti fidi, ciecamente, può avere un attimo di debolezza e magari parlandone a sproposito svelare quello che deve rimanere un segreto fra noi. Fammi aggiungere che se mai ti saltasse in mente di denunciarci alla Polizia, se mai ti venisse la tentazione di tradirci non esiteremmo un attimo a prendercela con te e soprattutto con la tua famiglia. Siamo ben informati della vostra vita, delle vostre abitudini, come puoi vedere anche da queste immagini, aggiunse mettendo una busta sul tavolino del bar. Mi raccomando, non cercare di fare il furbo, non chiedere di lavorare su di un’altra rotta che non sia Caracas, lo verremmo a sapere comunque. Questa a distanza di un paio di mesi la ricostruzione più fedele alla realtà di com’era iniziato quell’incubo che Luca ripercorreva mentalmente quasi ogni giorno. Dopo quell’incontro aveva svolto alcune verifiche. La prima presso la Società finanziaria di Milano dove aveva versato gli interessi sul capitale. Aveva avuto conferma che proprio pochi giorni prima la Cottoni e Bruni di Burnaby aveva tolto il mandato d’incasso alla Finanziaria milanese. Nessuno a Milano era in grado di fornire alcuna notizia sulla società creditrice. Questo tipo di mandato era abbastanza particolare ma del tutto regolare da un punto di vista legale. La Finanziaria era anche disposta su mandato di un giudice o della tributaria a mostrare sia il documento attestante il debito del Dott. Conte verso la Società canadese sia tutti i bonifici degli interessi versati in Canada. Aveva anche chiesto a un avvocato di Toronto, suo amico, di indagare rapidamente sulla Cottoni e Bruni con sede a Venables Street a Burnaby. Una sua pronta risposta lo avvertì che l’ufficio dei controlli dei fallimenti aveva dichiarato che la Società era sotto accertamento del fisco per vari reati d’evasione e altri illeciti in corso d’indagini.

Luca non riuscì a dormire per due notti di seguito. Aveva esaminato il problema da tutte le prospettive possibili. Era convinto che l’uomo avesse raccontato una storia vera, che la pretesa organizzazione fosse reale e soprattutto che se non si fosse adeguato alle loro richieste avrebbe messo in serio pericolo se stesso e la sua famiglia. Era consapevole di cacciarsi in un guaio enorme ma non sapeva come venirne fuori. Avrebbe potuto denunciarli. Prima però doveva convincere la Polizia della pericolosità della sua situazione, ma dello sconosciuto non sapeva nulla. La Polizia avrebbe dovuto pedinarlo da subito e al prossimo contatto arrestare l’uomo. Con quali accuse e con quali prove? Nessuna soltanto la sua parola. In seguito forse se andava bene, poteva far arrestare qualche corriere e un carico di droga. Poi però avrebbe dovuto entrare in un programma di protezione della Polizia, situazione che lo terrorizzava al solo pensiero. E poi, magari per anni, cosa avrebbe fatto? L’unico mestiere che conosceva era quello di pilota, per il resto non sapeva far nulla. Decise così di accettare l’offerta, senza condividere con altri l’enorme responsabilità che si era assunto.

Quell’agente meritava di essere ricordato. Era nuovo del commissariato, appena arrivato dalla questura di Pinerolo. Giovane e ancora alle prime armi ma un gran pilota. A sirena spiegata era arrivato a Linate in un batter d’occhio, senza prendere rischi, con una guida attenta e sicura. Il commissario Rizzo non aveva valigie da consegnare ma soltanto una sacca a mano da portare in cabina. Riuscì quindi per un pelo a salire sul volo AZ 1647 Milano Bari delle 18.35. L’ora e mezzo di volo consentì al commissario di mangiare una cena frugale e distendere i nervi che la lunga giornata di lavoro e la rapina in banca avevano messo a rischio. Doveva prepararsi all’incontro con la sorella per la quale provava tanto affetto e qualche rimorso. Fra i due vi erano parecchi anni di differenza. Quando si era laureato e aveva lasciato Bari per la scuola superiore di Polizia, lei aveva appena dodici anni. La loro madre era ancora in vita e la sorella doveva essere nata per uno di quei classici incidenti di percorso piuttosto che per esplicita volontà dei

suoi genitori. All’improvvisa morte della madre sua sorella aveva vent’anni. Il padre aveva già lasciato l’Arma per problemi di salute e lei da allora si era dedicata interamente all’assistenza del genitore. Il commissario si sentiva responsabile per tutti i sacrifici che la sorella aveva sopportato negli anni, rinunciando a una propria e indipendente vita. Anni prima aveva proposto un trasferimento della famiglia a Milano, anche se il rischio del suo mestiere includeva possibilità di repentini trasferimenti da una città all’altra. La salute del padre tuttavia richiedeva un clima più salubre di quello della metropoli lombarda e soprattutto era diventato più complicato staccarlo dalla sua casa e dal suo ambiente. Nicola Rizzo credeva che nella programmazione della propria vita andasse sempre inserita una buona dose di fatalità. Il suo era un mestiere pericoloso e difficile. Amava quel lavoro e per svolgerlo, libero da ogni vincolo e condizionamento, si era imposto di non creare una sua famiglia. Pensava spesso però che alla perdita di suo padre avrebbe desiderato vivere con la sorella se lei nel frattempo non avesse costruito un suo nucleo familiare. Ormai era arrivato e nell’atrio dell’aeroporto vide la sorella che lo salutava affettuosamente. La trovò sciupata e stanca. Gli ultimi giorni prima dell’intervento del padre erano stati per lei pieni di preoccupazione e impegni. Lei lo informò degli ultimi sviluppi che sostanzialmente non differivano dalle notizie che aveva avuto telefonicamente dal chirurgo prima di partire. La situazione era stabile e la sua presenza in sala di rianimazione era più una precauzione che un’esigenza. Data l’ora non era possibile vederlo e la visita al Policlinico della città era rinviata all’indomani. arono una piacevole serata confortandosi vicendevolmente e riandando con la memoria a tanti episodi felici della loro vita e della loro famiglia. L’indomani fu subito e nuovamente un susseguirsi di emozioni e apprensioni miscelate all’invadenza del suo lavoro che non allentava la pressione neanche da

lontano. Il chirurgo che aveva in cura il padre non comunicò loro le notizie che avevano sperato ricevere. Il padre non era in pericolo di vita ma era necessario un nuovo intervento di angioplastica. L’azione del giorno precedente era da considerarsi riuscita ma al termine dell’operazione si era verificato un nuovo restringimento di un vaso sanguigno. Data l’età e le condizioni generali del paziente, non avevano ritenuto adeguato ripetere l’angioplastica. Nella giornata lo avrebbero trasferito dal reparto cure intensive e rianimazione a medicina. Appena le sue condizioni lo avrebbero reso possibile era previsto un nuovo intervento di angioplastica. Era anche programmato, in caso di nuovi problemi, un eventuale trattamento chirurgico di rivascolarizzazione, in pratica la messa a punto di un by . Aveva trovato il genitore in buone condizioni soprattutto di spirito ma questo non era una novità data la tempra d’acciaio della sua personalità. Terminata la breve visita al reparto rianimazione, si ripromettevano di tornare a trovarlo nel primo pomeriggio in medicina con minori vincoli di tempo. All’ora di pranzo una telefonata dal suo ufficio di Milano interruppe il godimento di un ottimo piatto di spaghetti alle vongole. Era il suo sostituto, il maresciallo Lombardo. Dopo i preamboli e le rituali scuse per il disturbo in un momento inopportuno, il maresciallo comunicò le ultime novità. Nicola guarda che hai avuto ragione ancora una volta. Per che cosa rispose il commissario. Abbiamo visionato una settimana di video registrazioni della Banca di Piazzale Maciachini, quella della rapina di ieri. Abbiamo trovato quello che cercavamo. L’uomo ha fatto una ricognizione quattro giorni fa. Ci è andato da solo e in più è una vecchia conoscenza. Siete sicuri? Sicurissimi! Si chiama Antonino Catalano ed è uscito dalla prigione un mese fa.

Era dentro per rapina in banca. Va buono ma il fatto che sia un pregiudicato non significa necessariamente che fosse lui ieri in banca. Guarda Nicola che abbiamo le foto e non vi è alcun dubbio che le sneakers di Catalano sono identiche a quelle dell’uomo mascherato. Stessa marca la scritta “Pantofole d’oro” e la parola “Italia” sul fondo nero. Oltre a tutto questo c’è una macchia scura sul tallone della scarpa destra in entrambe le riprese. Abbiamo ingrandito i fotogrammi e non ci sono dubbi. Non vi resta che andarlo ad arrestare, ma sapete dove? E in libertà vigilata e abbiamo un indirizzo preciso. Andate subito e mi raccomando di perquisire bene i locali dove vive, potreste trovare la maschera che ha usato per la rapina. Sarebbe la prova conclusiva per incastrarlo. Con gli indizi che abbiamo, non so se riusciamo a inchiodarlo. E del complice, quello più basso di statura avete tracce ? No, credo che il sopralluogo l’ha fatto lui da solo salvo che non siano andati in tempi diversi, ma non credo. Abbiamo anche esaminato con attenzione gli abiti che indossavano, ma entrambi erano vestiti con jeans e giubbotti senza particolari che potessero aiutarci a distinguerli. E della Franca Macchi che mi dici? Niente non ci sono novità. Tutto regolare niente di anomalo. E rientrato Zedda, sai quello di Cagliari, e ho raddoppiato la vigilanza. So quanto sia importante questo caso e quanto tu ci tenga. E nient’altro di nuovo ? Solita vita, due rumeni che si menavano a casa con forti grida. Ci hanno chiamato dal condominio, una casa popolare in Via Arganini. Come siamo arrivati, si sono subito calmati. Gente regolare, forse avevano bevuto un poco. Un paio di denunce per truffa, qualche schiamazzo di ragazzi che suonano ai camli e poi scappano, uno con la moto è andato dritto dentro la vetrina di un negozio, insomma tutto regolare. In ogni caso non ti preoccupare ce la caviamo bene anche senza di te.

Ignorando la battuta, il commissario Rizzo rispose. Maresciallo non so ancora quando torno, ma spero presto. Comunque chiamami, non farti scrupoli, sono sempre reperibile e sai che mi fa piacere seguire i problemi, anche se da lontano. Nel pomeriggio arono un paio d’ore con il loro padre che era sempre avido di notizie e storie della vita di Nicola. Era un genitore molto fiero della carriera del figlio. La sera una pizza e poi il cinema, un programma di vita semplice che, in un momento per loro difficile, attenuò le preoccupazioni per la salute del padre.

Luca tornava di continuo con il pensiero ai momenti che avevano deciso il suo destino. Non riusciva a capacitarsi di come aveva potuto accettare una situazione, miserevole sotto tutti i punti di vista e molto pericolosa per il suo presente e quasi certamente per il suo futuro. La molla che aveva fato scattare gli avvenimenti era stata probabilmente la visione delle immagini che l’anonimo sconosciuto, con voluta noncuranza, aveva gettato sul tavolino del bar della Malpensa. La busta conteneva parecchie fotografie scattate in momenti diversi e in differenti luoghi. I protagonisti erano sempre gli stessi. Sua moglie e suo figlio. Il bambino in carrozzella, al parco seduto in braccia alla madre, di fronte al portone della loro casa di Milano. Quelle foto erano un complemento alle minacce enunciate dallo sconosciuto e insinuavano e alludevano a quello che poteva capitare ai soggetti ritratti se lui non avesse ceduto alle loro proposte. Il suo primo impeto, alla visione delle immagini, era stato quello di saltare al collo di chi le aveva ideate e scattate. A Luca era proposta l’incolumità dei suoi cari in cambio della sua trasformazione da uomo libero a corriere della droga. Se avesse ceduto all’impulso della violenza, le conseguenze potevano essere e diventare immediatamente disastrose. La scelta che aveva operato era la migliore possibile date le circostanze? La decisione di opporsi e di denunciare tutto alla Polizia avrebbe avuto veramente conseguenze fatali per lui e la sua famiglia? Era realmente in gioco la vita soprattutto dei suoi cari? Era effettivamente pensabile di tirare a campare, magari per anni, sotto falsa identità e con la protezione costante della Polizia? E con che mezzi poteva sopravvivere? Questo è quanto si era più volte chiesto in questi ultimi quattro mesi. Non aveva alcuna risposta a tutti i suoi interrogativi ma cercava di giustificare a se stesso di aver scelto il male minore. Calogero si fece vivo due giorni dopo il loro primo incontro. Era un giorno feriale e Luca era di riposo. Uscito da casa per una commissione, si trovò all’improvviso l’uomo al suo fianco. Facciamo due i fu la sua proposta

I due i diventarono molti di più e i due uomini finirono per sedersi su di una panchina appartata nei giardini pubblici adiacenti a Corso Venezia, non lontani dal condominio di Luca. L’uomo aveva preparato minuziosamente la relazione e la presentazione di come, nella sua ottica, si sarebbe sviluppata la loro collaborazione. Era evidente che non aveva messo per nulla in forse la sua collaborazione. Questa chiara evidenza contrariava Luca ma rendeva ovvia la realtà della situazione. Lo schema e i piani elaborati erano a prima vista semplici e ingegnosi. Tutto sarebbe cominciato con il suo prossimo viaggio in Venezuela. La Compagnia di bandiera aveva stipulato con la catena di alberghi della Mariott un contratto per tutti gli equipaggi in transito a Caracas. Avrebbe trovato, in quell’albergo, nella sua camera, prima del volo di ritorno in Italia una borsa da pilota sostitutiva di quella già da lui posseduta. Il trolley aveva una maniglia estraibile a diverse lunghezze con facilità di trasporto grazie alle ruote sottostanti e confezione rigida in materiale sintetico. Forse sarà soltanto un poco più pesante della sua fu l’ironica e provocante battuta dell’interlocutore di Luca. Dovrà soltanto trascinarla con sé in cabina come avviene normalmente per voi piloti. Calogero aveva ripreso a darle del lei. Come già detto, le garantisco che il contenuto è protetto a tenuta stagna e nessun cane da droga o metal detector potrà svelarne il contenuto. Queste sono le chiavi di un’autovettura Fiat Punto, 3 porte, targa DG386KT, colore grigio che lei troverà al suo arrivo nel parcheggio pubblico all’aeroporto della Malpensa. All’interno della vettura rintraccerà il tagliando che le servirà per uscire. Lei metterà la sua borsa nel bagagliaio della vettura, guiderà la stessa fino a Milano per parcheggiarla all’interno dell’autosilo San Marco in Via San Marco 13. Si ricordi di lasciare in auto il tagliando per chi prenderà in carico la vettura. Stessa prassi per le sue partenze. Ritiro della medesima vettura dall’autosilo San Marco il giorno del suo volo con presa di possesso della borsa questa volta più

leggera che all’andata. Posteggio al parcheggio pubblico di Malpensa con il solito scontrino a disposizione all’interno della Punto. Come vede la sua non è un’attività che richiederà molti sforzi. Pensi che questo sacrificio sia per la sua famiglia, per suo figlio, per il vostro futuro e sarà per lei molto proficuo e redditizio. Abbiamo calcolato una media di tre/quattro viaggi ogni mese e se tutto procede, come entrambi desideriamo, alla fine del quinto mese o del suo ventesimo trasporto, il suo debito sarà completamente estinto. Noi, da adesso, non ci vedremo più. Per meglio dire noi la terremo d’occhio sempre, lei non ci vedrà ma dei suoi movimenti noi sapremo sempre tutto concluse con un tono vagamente minaccioso. Al termine del nostro impegno sarò io a prendere contatto con lei. Porterò con me tutti gli originali dei documenti da lei firmati in Canada, materiale che comprova il suo debito iniziale. Li distruggeremo insieme. Se poi aggiunse, lei vorrà continuare questa collaborazione con noi saremo lieti di farle delle offerte particolarmente vantaggiose. Terminato, il lungo monologo Calogero tacque. Luca era silenzioso e ormai rassegnato ad affrontare un futuro pieno di angosce, a seguire un percorso il cui tracciato era impostato da altri ed era pieno d’insidie e trappole. Sapeva di essere terribilmente solo e di non poter condividere i suoi tormenti con nessuno. Era anche consapevole di vivere una storia alla quale pochi o nessuno avrebbero mai creduto. Dei trafficanti di droga conosceva soltanto Calogero, un non identificato anonimo. Avrebbe potuto forse, al massimo, contribuire alla stesura di un identikit. Se fosse stato scoperto per mitigare le sue responsabilità non aveva nulla da dare in cambio se non una trama fantasiosa, delle borse con doppi fondi e una Punto che certamente era stata rubata. Stimava fosse troppo poco per convincere gli inquirenti di non essere lui l’artefice del traffico di stupefacenti.

Il Rizzo era tornato a Milano. L’intervento di angiografia previsto per suo padre era stato nuovamente rimandato. Il chirurgo riteneva non ci fosse un’urgenza tale da giustificare un’eventuale operazione prima che il paziente non si fosse completamente ristabilito dalla prima angioplastica. Aveva ripreso l’intensa attività che il suo incarico esigeva. I suoi agenti non erano riusciti a localizzare Antonino Catalano, il presunto rapinatore della Banca di Piazzale Maciachini. Era in libertà vigilata ma all’indirizzo segnalato era irreperibile. Avevano diramato un avviso di ricerca a tutte le questure in Italia ma ancora non era arrivata alcuna segnalazione. La sorveglianza della presunta amica del boss Giovanni Greco continuava con assiduità senza alcun risultato pratico. Tre uomini addetti alla vigilanza si alternavano dedicando ognuno in media quindici ore al controllo quotidiano. Per il fine settimana gli agenti diminuivano a due. Non aveva abbastanza personale né sufficienti mezzi economici per coprire straordinari nelle ore notturne. Una nuova inattesa emergenza era il recente aumento di banconote false spacciate per lo più nei supermercati e negozi della sua zona. Per il resto era la solita routine. La domenica susseguente il suo rientro a Milano verso le due pomeridiane squillò il cellulare. Capo, sono Guido, volevo informarla di una novità. Dimmi rispose il commissario avendo riconosciuto Guido Rivoira, un abile agente, da anni nella sua squadra, convinto credente della Chiesa Valdese. Niente, volevo solo dirle che il nostro soggetto, alludeva alla Signora Macchi, sta andando presumibilmente allo stadio. Ha preso la linea verde da Maciachini al Duomo, poi la rossa fino a Piazzale Lotto e adesso cammina lungo Via Caprilli in direzione di San Siro. Ho pensato fosse strano che una donna vada allo stadio da sola. Magari con i figli, con un’amica, con dei conoscenti, ma da sola è insolito. Ho pensato che era meglio informarla. Hai fatto bene. Il tuo collega adesso dov'è?

Centro metri dietro di me, ci alterniamo come da manuale rispose. Che partita giocano? Milan Napoli Nella mente del commissario Rizzo era scattato un click. Il fascicolo del pluriricercato Giovanni Greco non aveva più segreti per lui. Lo conosceva a memoria. Giovanni aveva iniziato ad avere i primi guai giudiziari a causa della sua ione per il calcio. Nato nei quartieri spagnoli di Napoli era entrato a far parte di un ristretto gruppo di ultrà della squadra di calcio azzurra. Era stato accusato di associazione a delinquere per una serie di violenze di cui il suo gruppo si era reso responsabile. Ne uscì con una lieve condanna anche e soprattutto data la sua giovane età. Da allora aveva iniziato una rapida carriera criminale che lo aveva portato al culmine della distribuzione e traffico di droga nell’area della Lombardia e del Piemonte. Un solo successivo arresto dopo le sue disavventure da ultrà, arresto avvenuto quindici anni prima dalla questura di Torino che, per un deprecabile errore, lo aveva lasciato andare dopo un fermo di tre giorni. La pratica nell’archivio, oltre all’elenco dei reati accertati e altri presunti, conteneva poche immagini, alcune risalenti ai tempi del suo arresto a Napoli e altre, più recenti, scattate in questura a Torino. Erano in ogni caso fotografie vecchie di anni e non esisteva in archivio alcun fotogramma riconducibile alle sue attuali sembianze. Guido hai fatto benissimo a informarmi. Può darsi che non si arrivi a nulla di utile ma sicuramente vale la pena di seguire anche questa traccia. Bisogna sempre seguire il proprio istinto e il mio dice che forse abbiamo una buona pista. Mi raccomando, avvisa subito il tuo collega. Seguite la donna all’interno dello stadio, non perdetela di vista neanche un attimo ma mi raccomando non avvicinatevi troppo. Io nel giro di massimo tre quarti d’ora sarò lì con una squadra. Manteniamoci in contatto telefonico. Quaranta minuti dopo Rizzo entrava nello stadio a partita da poco iniziata. Un agente attendeva nei pressi dello stadio su una motocicletta. Due vetture civili, senza contrassegni della Polizia, erano anch’esse posteggiate a due ingressi diversi.

Il commissario telefonicamente localizzò l’agente Rivoira. Questi lo informò che la loro sorvegliata si era seduta accanto ad un uomo che doveva conoscere bene date le affettuosità scambiate. Vide anche rapidamente dove era seduta la coppia. Era nel primo anello dello stadio nel settore 165 all’altezza di una delle due aree di rigore. Chiamo l’altro agente e gli consegnò la sua Nikkon con obiettivo 18200 mm. L’incarico era di non farsi assolutamente notare ma cercare di riprendere al meglio con lo zoom le immagini della coppia. L’anello arancio dello stadio era abbastanza affollato ma Rizzo riuscì a trovare un posto due file più in alto e più laterale rispetto all’area di rigore. Non era in posizione ideale per vedere il volto dell’uomo. Le sue sembianze, a prima vista, non sembravano quelle delle fotografie segnaletiche scattate quindici anni prima a Torino. L’individuo allo stadio aveva una folta barba sale e pepe. Le foto scattate in questura a Torino esponevano un uomo privo di barba ma soprattutto più giovane di quindici anni. Occhio si stanno muovendo fu l’avviso del commissario ai suoi uomini. Si era appena terminato il primo tempo e la coppia risalendo i gradini dell’anello, per avvicinarsi all’uscita, si fecero vicini a dove Rizzo era seduto. Istintivamente si girò dalla parte opposta coprendosi il volto con il giornale sportivo che aveva in mano. Era possibile che Greco avesse visto in ato qualche sua immagine apparsa sui giornali. La prudenza in questo caso era d’obbligo. La coppia, infilate le scale del primo anello, si avvio verso le uscite dallo stadio. Rizzo aveva sette uomini di cui tre all’esterno di San Siro e quattro che a distanze diverse seguivano a vista i due sospettati. La coppia usci dallo stadio e si diresse verso Via San Giusto attraversando via Dessiè. A poche centinaia di metri svoltarono a destra in Via Pellice, dove era posteggiata una Giuletta 1.4 turbo. Quattro agenti li seguivano due su entrambi i marciapiedi di Via San Giusto. La moto era rimasta indietro mentre le due vetture erano ancora ferme allo stadio. L’agente sulla motocicletta accelerando giunse a tempo per vedere la Giulietta ferma al semaforo fra Via San Giusto e Via Novara. In contatto radio con gli equipaggi delle vetture diede la sua precisa posizione, la targa della vettura che stava seguendo e la direzione che la medesima aveva preso. Le auto con targa civile della Polizia recuperarono sia il commissario sia

gli altri agenti e la caccia iniziò. A sorpresa di tutti la corsa terminò nel giro di pochi minuti. La vettura aveva deviato verso Via Rossellini e alla rotonda girando a sinistra si avviò in Via Zaia. Al numero civico 280 rallentarono vicino a un’anonima villetta, protetta da un muretto bianco e una siepe. Al lato della costruzione un vecchio cancello scorrevole in legno che al loro arrivo si aprì messo probabilmente in azione da un telecomando. Rizzo, euforico ed eccitato per lo sviluppo degli eventi aveva però ancora dubbi sull’identità dell’uomo. Se avesse proceduto all’arresto e se l’anonimo dello stadio non era Giovanni Greco, si sarebbe bruciato ogni futuro tentativo di arrivare a lui tramite la Macchi. Doveva avere ancora un poco di pazienza, vedere se le fotografie scattate allo stadio e analizzate da specialisti in uno studio antropologico dessero risultati definitivi. La dimora di campagna di vecchia costruzione, a un piano, aveva prospiciente un campo da baseball. Quasi di fronte alla villa una piccola tribuna, costruita in modo spartano, era l’ideale per predisporre un controllo di tutto l’esterno della costruzione. Riunì gli uomini a sua disposizione per assegnare compiti e turni di sorveglianza. Di ritorno al commissariato stanco della tensione ma ancora esaltato dagli avvenimenti inviò tutte le fotografie scattate allo stadio al centro elaborazione dati della Polizia scientifica e di antropologia criminale. Attuò tutte le pressioni che il suo ruolo e la sua posizione potevano consentirgli per avere risposta più veloce possibile. Non voleva, adesso che era vicino alla cattura di uno dei trafficanti più ricercati d’Italia, perdere tempo, con il rischio sempre in atto nel suo mestiere, di vedere svanire la sua preda. Diede quindi le disposizioni di trovare il nome e le coordinate del proprietario della villa di Via Zaia 280. Si lo so che è domenica tardo pomeriggio ma trovatemi questi dati entro stasera. Questa è un’emergenza. Andate a prendere un qualche responsabile del catasto, portatelo in ufficio al computer e fatemi avere queste informazioni ancora stasera. Non accetto ritardi né scuse, ho assoluto bisogno di conoscere soprattutto la planimetria della villa tanto probabilmente il proprietario ufficiale sarà un vecchietto pulito che vive tranquillo in qualche ospizio.

Un’ora dopo il commissario era tornato in Via Zaia. I suoi timori intuivano che la donna sarebbe tornata a casa sua nella serata. Sapeva che non avrebbe avuto i risultati della scientifica prima dell’indomani e non voleva intervenire prima di essere certo che l’uomo fosse il ricercato Giovanni Greco. Pertanto cautela e sorveglianza sulla villa. Aveva disposto alle due estremità di Via Zaia la presenza di due moto in modo che chiunque fosse uscito dalla villa con un mezzo di trasporto fosse subito pedinato. In effetti, due delle moto erano degli scooter di proprietà di suoi agenti. Il parco veicoli del commissariato era limitato e Rizzo doveva aggiustarsi come poteva. Alle dieci di sera il cancello della villa si spalancò e usci la stessa Giulietta 1.4 turbo che avevano seguito quel pomeriggio. La vettura prese la direzione di Via Zurigo. Avendo visori a raggi infrarossi videro al volante un uomo diverso da quello dello stadio, accanto a lui una donna sicuramente la Macchi. Dopo circa venti minuti la vettura rientrò dal cancello della villa. Uno degli agenti informò il commissario che la donna era salita sulla metropolitana alla fermata Bisceglie in Via Lucca. Nessuno l’aveva seguita, non era forse più necessario. Rizzo aveva gli uomini contati ed erano tutti necessari al controllo della villa. Iniziò così l’attesa di una lunga notte.

Luca stremato, stanchissimo, con i nervi a fior di pelle si chiedeva ogni giorno come fare fronte alla tensione fisica e mentale della sua quotidiana esistenza. Erano ati già tre mesi dall’ultimo incontro con il fantomatico Calogero. Ogni giorno era stato un tormento. I suoi nervi erano sistematicamente messi a dura prova nell’affrontare ogni evento della sua vita professionale e privata. Era diventato morboso nella routine del suo lavoro, i consueti controlli prima della partenza erano diventati, all’interno del cockpit, un tormento per gli altri membri dell’equipaggio. Le previsioni del tempo, le condizioni atmosferiche lungo la rotta erano anch’esse affrontate con un’anomala inquietudine che preoccupava i suoi colleghi. Sembrava aver perso fiducia in se stesso mentre la sua abilità, l’esperienza e la pratica di volo accumulata avevano sempre tranquillizzato i suoi compagni di lavoro. I rapporti interpersonali erano radicalmente cambiati. Da persona affabile, cortese, paziente con tutti era diventato scorbutico, irascibile e scontroso. In un paio d’occasioni alcuni colleghi, hostess e piloti, che avevano incidentalmente maneggiato o anche solo toccato la sua borsa da pilota erano stati ripresi malamente. La sua tensione diventava particolarmente evidente nella sosta di Caracas. In genere l’equipaggio aveva da ventiquattro a quarantotto ore di riposo nello scalo della capitale venezuelana. L’equipaggio si ritrovava di solito ai bordi della piscina dell’hotel Playa Grande della catena Marriott, oppure al fitness center dell’albergo. Luca negli ultimi viaggi sembrava troppo irrequieto per rilassarsi al sole o mantenersi in forma fisica. Si assentava spesso senza comunicare dove andava e non aveva in alcune occasioni risposto a chiamate sul suo cellulare. Sembrava ignorasse che, sia la consuetudine sia le direttive della Compagnia, esigevano un costante contatto con il comandante dell’aereo durante i turni di riposo negli scali internazionali. Un attento osservatore avrebbe notato che la sua irrequietezza aumentava sempre nel giorno della partenza del volo per l’Italia. A volte sembrava si rendesse volontariamente irreperibile. Le sue reazioni erano obbiettivamente infantili. Il volo per Milano partiva nel tardo pomeriggio e Luca aveva tentato, un paio di volte, di rimanere nella sua camera d’albergo fino all’ultimo minuto prima della partenza del furgone che portava l’equipaggio all’aeroporto. Dato che la sua borsa da pilota era sempre sostituita poco prima della partenza per l’Italia, sperava puerilmente che la sua presenza in camera potesse evitare lo scambio fra la sua borsa originale e quella con le intercapedini piene di stupefacenti. A metà mattinata, il telefono era squillato diverse volte,

Non aveva risposto. Qualcuno poi aveva bussato alla porta. Non aveva risposto. Un addetto alla reception era entrato con un partout avvertendo il cliente che era urgentemente richiesto da un ospite dell’albergo nell’atrio. Ovviamente non aveva trovato alcuno all’ingresso. Al ritorno in camera la sua borsa era di nuovo più pesante sia materialmente sia idealmente. Il culmine del suo turbamento era messo in scena a ogni arrivo alla Malpensa. Attraversare la corsia riservata agli equipaggi, il successivo transito per il controllo aporti e infine la dogana erano esercizi che avevano senza dubbio contribuito a logorare le sue coronarie. I controlli sugli equipaggi, soprattutto da parte della dogana, erano di solito molto blandi, In una sola occasione, un doganiere, con il suo cane antidroga, si era avvicinato all’equipaggio. Si erano tutti bloccati a qualche metro ma il cane non aveva manifestato alcuna alterazione. Ogni rientro in macchina su Milano rappresentava per Luca una vittoria che si trasformava in temporanea euforia. Desiderava comunque costruire una fisionomia, un volto, dare un aspetto umano ai fantasmi che lo tormentavano. Nel tragitto dall’aeroporto alla città sorvegliava ogni veicolo che lo seguiva o che lo superava. Era convinto di essere costantemente seguito e controllato da qualcuno. Una volta, dopo aver parcheggiato la vettura all’autosilo San Marco, era tornato al parcheggio meno di un’ora dopo aver lasciato la vettura. La Punto era già stata prelevata. Sicuramente il compito più difficile da gestire per Luca era quello famigliare. Aveva sposato una donna meravigliosa e aveva creato con lei quell’equilibrio magico che aveva sempre, senza rendersene conto, desiderato. Lei era bella anzi meravigliosa, dolce, premurosa, intelligente e adesso anche una madre stupenda. Avrebbe fatto qualsiasi cosa al mondo per non perderla e il destino sembrava invece voler frantumare il suo sogno. Era il destino o più semplicemente la sua stupidità ad aver compromesso l’equilibrio della loro esistenza? Era l’interrogativo che si era posto e che si proponeva quotidianamente. Perché si era cacciato in quell’imbroglio? Non vi era veramente alcun’altra via d’uscita? Non aveva troppo drammatizzato le minacce della mafia? Non era stata forse soltanto un’ostentazione di spietatezza e di violenza per piegarlo ai loro voleri?

La concreta realtà tuttavia era la fragilità della situazione dei suoi cari così facilmente esposti a pericoli di vendette e rappresaglie. Le fotografie di sua moglie e di suo figlio al parco, per strada, all’uscita dal loro portone erano non solo eloquenti ma rappresentavano un brutale presagio. L’apprensione suscitata da quelle immagini era la vera motivazione della sua scelta. Sua moglie era troppo sensibile e razionale per non essersi subito accorta dei cambiamenti del suo uomo. Aveva cercato in ogni modo di capire quali fossero i motivi delle preoccupazioni che visibilmente lo turbavano. Aveva cercato di farlo parlare, di interrogarlo ma si era trovata di fronte ad un inspiegabile muro di silenzio. Non era nelle corde della sua personalità ma forse soltanto un comportamento più aggressivo avrebbe costretto Luca a esporre i suoi problemi. Così per la prima volta la felice armonia della coppia si era un po’ incrinata facendo soffrire entrambi senza che vi fosse una via di uscita. Luca nelle sue costanti fantasticherie, pur facendovi un affidamento molto limitato, percorreva mentalmente la promessa di Calogero. Quest’ultimo aveva tracciato un suo piano nel quale prevedeva che con quattro consegne mensili, nel giro di cinque mesi avrebbe completato venti rimesse che, a suo dire, avrebbero estinto il debito. Adesso dopo tre mesi il conteggio esatto era di undici viaggi a Caracas e quindi era in ritardo rispetto alle previsioni. Fino allora era in ogni modo andata bene soprattutto in virtù dei controlli doganali molto blandi sugli equipaggi, almeno di quelli della Compagnia di Bandiera. Non doveva e non voleva illudersi, però la speranza era la sua ultima risorsa e se non fosse stata un’illusione, forse la vita, poteva ancora riservargli un futuro sereno.

Il commissario Rizzo e l’agente De Luca avevano trascorso un’ingrata e pessima nottata Dal crinale della piccola tribuna di cemento che fiancheggiava Via Zaia, si erano alternati al controllo della villa. Grazie a dei visori notturni avevano potuto osservare ogni movimento attorno alla villa. Quello che avevano notato non li aveva però aiutati un granché. Le finestre che davano sulla strada al primo piano avevano tutte le tende tirate. Al piano terreno grate e persiane in ferro rigorosamente chiuse. Sopra la porta d’ingresso una luce che era rimasta accesa tutta la notte. Ai due lati della casa impianti di videosorveglianza e una piccola webcam sul portone d’ingresso. La luce in due camere al primo piano era rimasta accesa fino a tardi. Dalle loro osservazioni avevano dedotto che nella casa ci fossero quattro persone. L’uomo che era allo stadio, presumibilmente Giovanni Greco, quello che aveva accompagnato la Macchi alla metropolitana, un altro che aveva aperto e chiuso il portone e infine un quarto che era giunto alla villa a piedi in tarda serata. Dal commissariato era giunto nella serata il risultato delle indagini svolte al catasto. La casa era intestata a un tale Claudio Russo residente a Frattamaggiore in Campania. Erano state chieste informazioni urgenti ai carabinieri della locale stazione di Afragola. Alle dieci del mattino successivo il commissario non aveva ancora le risposte che attendeva per la progettata irruzione nella villa. Oltretutto con la luce del giorno la sorveglianza diventava più difficile da schermare agli occupanti della casa. Mezz’ora dopo sul cellulare arrivò la risposta dal centro elaborazione dati di Roma. Il personaggio della fotografia inviata all’identificazione di antropologia criminale era proprio Giovanni Greco. Come sempre in questi casi la riserva degli uffici comportava un minimo, ambiguo e ipocrita particolare. La prova incontrovertibile potrà essere definita con le impronte digitali del soggetto sospettato. Era arrivato il momento dell’azione. Il piano era troppo impegnativo per le sole forze di cui disponeva. Era diventato indispensabile chiedere aiuto sia di uomini

sia di mezzi e ottenere l’avallo e il sostegno della Direzione interregionale. Conosceva abbastanza bene il questore di Milano ed era consapevole della stima che lo stesso aveva nelle sue capacità. Questo rese semplice e veloce il loro telefonico dialogo. Aveva prima riassunto gli avvenimenti, poi lo stato dell’arte e infine richiesto l’assistenza di una ventina di uomini e automezzi. Il Questore aveva acconsentito senza indugio delegando a Rizzo la totale responsabilità dell’operazione. A inizio pomeriggio aveva definito i dettagli, istruito il personale e tutto era pronto per l’azione. Aveva deciso che era meglio agire subito, alla luce diurna rinunciando a una manovra di sorpresa che avrebbe necessitato l’attesa del buio e della notte. La villa confinava da un lato con Via Zaia mentre tutti gli altri fianchi dell’edificio erano circondati da campi incolti. Un’incursione notturna avrebbe potuto consentire una fuga nei campi più difficile da controllare. Il piano consisteva nel bloccare con due furgoni gli ingressi di Via Zaia sia dalla parte del rondò di Via Rossellini sia dall’altra estremità di Via del Fabbro. Era possibile che avvenisse una sparatoria intorno alla villa e doveva evitare che qualcuno di aggio potesse ferirsi o peggio. Una compagnia di diciotto agenti, armati di mitra, suddivisi in tre gruppi, doveva entrare nei terreni incolti da Via Barocco per poi circondare l’edificio dai tre lati. L’agente De Luca e altri tre del suo commissariato si sarebbero schierati di fronte e ai lati del portone della villa. Rizzo e due tiratori scelti sarebbero rimasti sul crinale della tribuna di fronte all’edificio. Stava per dare il via all’azione quando una Punto Grigia si fermò di fronte al portone d’ingresso e l’autista suonò il clacson per farsi aprire. Il vecchio cancello scorrevole si schiuse manovrato da un uomo con un telecomando. A De Luca che era il più vicino al cancello, sembrò che l’uomo avesse una pistola nel cavo della mano. Adesso gli uomini all’interno erano cinque. L’uomo al volante della Punto era appena ato dal rondò di Via Rossellini, dove aveva certamente notato sia i due furgoni della Polizia che stavano per bloccare il traffico sia alcuni poliziotti. Avrebbe subito informato Greco e i suoi uomini. Era tempo di dare inizio all’operazione. Pochi minuti e la villa era circondata da ogni lato. Aveva fatto installare un megafono collegato a un amplificatore. La

sua voce risuonò forte nell’aria. Sono in commissario Rizzo, la villa è completamente accerchiata. Arrendetevi e uscite dal portone con le mani in alto. Non cercate di fare resistenza, i miei uomini hanno l’ordine di sparare. Non avete alcuna possibilità di fuga. Fece mezzo minuto di pausa affinché le sue parole potessero essere assimilate senza provocare incontrollato panico. Giovanni Greco arrenditi non hai via di scampo. Ti do due minuti di tempo e poi uscite tutti dal cancello mani in alto. Un silenzio irreale sostituì le sue ultime parole. Le tende delle finestre e del balcone del primo piano si spostarono e dietro i vetri apparvero alcuni volti. Spari secchi e susseguenti rumori di vetri rotti ruppero il silenzio. I due cecchini, sull’argine della tribuna, avevano centrato i due impianti di videosorveglianza e la webcam sul portone. arono alcuni minuti senza che accadesse nulla. Dall’adiacente campo da baseball alcuni ragazzi si erano avvicinati alla tribuna credendo che fosse in corso la realizzazione di un film. Un agente li cacciò via malamente. Greco i due minuti sono ati. Non costringermi a sparare. Ripeto non hai via d'uscita, sei circondato. Non fare fesserie. Ti do ancora due minuti poi cominciamo a sparare. I centoventi secondi trascorsero in fretta. Allo scadere i due tiratori scelti mirarono sulle due finestre del primo piano sparando candelotti lacrimogeni. Poco dopo dall’ingresso principale della villa uscirono tre uomini con le braccia alzate. Contemporaneamente si udì dall’interno un crepitare secco di colpi e uscì il quarto uomo che Rizzo riconobbe essere l’uomo che aveva visto allo stadio. Aperto il portone uscirono tutti e quattro le mani ben in alto e in vista. Attenti urlò Greco dentro c’è uno con un mitra. E ferito ma non vuole arrendersi, è molto pericoloso. Ci volle poco per stanarlo, un paio di altri candelotti sparati nell’atrio d’ingresso della casa. Venne fuori barcollando e senza armi.

A parte Greco gli altri uomini erano tutti incensurati salvo il ferito, di nazionalità serba, ricercato dal suo paese per diversi reati fra i quali due omicidi. Nella villa oltre ad un ingente quantitativo di droga fu scoperto un intero arsenale di armi e munizioni ben oleate, imballate e presumibilmente pronte alla spedizione. Quello che intrigò Rizzo fu anche la scoperta, nel bagagliaio della Punto, di una borsa da piloti che, dopo l’attento esame della scientifica, si rivelò, essere piena di droga. Una struttura molto ingegnosa e ben eseguita, in cui ogni intercapedine del trolley e ogni interno delle pareti della borsa, erano zeppe di cocaina. Il peso degli stupefacenti era di circa venticinque chili per un valore di mercato di un milione e trecentomila euro. Sia la vettura sia la borsa furono attentamente esaminate dalla scientifica che rilevò molte impronte digitali. Alcune combaciavano con quelle di uno degli uomini arrestati che aveva guidato il veicolo fino alla villa. Altre invece non trovarono alcuna corrispondenza negli archivi della Polizia. I periti della scientifica identificarono la cocaina di assoluta purezza e sicuramente proveniente dal Sud America, quasi certamente dalla Colombia. Dai primi interrogatori l’autista dichiarò aver rubato la vettura su indicazioni di Greco, in periferia della città. Quest’ultimo invece aveva reagito opponendo un silenzio ostinato a ogni domanda degli inquirenti. Rizzo avrebbe voluto ottenere l’autorizzazione al prelievo delle impronte digitali degli equipaggi di tutte le compagnie aeree che operavano sulle rotte dell’America Latina con scalo alla Malpensa. Beninteso la Magistratura rifiutò e il commissario prima di ripartire per il secondo intervento di angioplastica del padre ebbe un solenne encomio per la brillante operazione e l’arresto di uno dei più ricercati trafficanti di droga in Italia. Luca non riusciva a capacitarsi. L’autosilo interrato San Marco a Milano era di ampie proporzioni. La sua esperienza nelle precedenti prese di consegna della vettura era trovare la stessa sempre nel medesimo settore del parcheggio. Quel giorno la Punto Grigia non c’era. Controllò tutte le vetture presenti a quel piano del parcheggio. Si spostò ai piani superiori e dell’automobile nessuna traccia. Rifece il giro una seconda volta e alla fine si arrese all’evidenza. Trovò un taxi e si fece portare alla stazione Cadorna e da li raggiunse rapidamente l’aeroporto di

Malpensa. Comprò nei negozi dell’aeroporto sia una borsa da pilota simile alla sua sia articoli da toilette e un cambio di biancheria. Normalmente trovava questi oggetti nella borsa che all’andata pesava poco ed era semivuota. Al Marriott di Caracas osservò con molta attenzione tutto il personale dell’albergo. Qualcuno fra essi doveva essere al servizio dei trafficanti di droga. Sapevano dove e quando sostituire il suo bagaglio e ragionevolmente dovevano essere informati del contenuto della borsa. L’emotività di quei giorni non gli consentiva di essere sufficientemente razionale per valutare con obbiettività chi lo attorniava. Attendeva con impazienza il giorno della partenza per riscontrare se gli avessero cambiato la borsa che aveva appena acquistato. All’ora della partenza dell’equipaggio per l’aeroporto La Maiquetia di Caracas la sua borsa era la medesima del viaggio di andata. Era leggera e conteneva soltanto i suoi pochi effetti personali. Luca non sapeva se gioire o inquietarsi di questo nuovo singolare cambiamento. Non aveva modo di poter chiarire l’evoluzione degli avvenimenti, era consentito solo subirli sperando che portassero a qualche positiva novità. All’arrivo a Milano, nel solito percorso riservato al personale di bordo, vide il suo equipaggio, che camminava davanti a lui, fermarsi al varco del controllo doganale. Era ancora distratto dai suoi pensieri e mancò poco che non si sentisse male quando si accorse che uomini della Guardia di Finanza stavano sottoponendo a perquisizione i bagagli di hostess, steward e piloti. Per giunta i militari erano affiancati da due pastori tedeschi addestrati alla ricerca di droga. Come in un film immaginò come si sarebbe sentito se avesse avuto la solita borsa carica di droga e di riflesso, pur non essendo credente, rivolse un ringraziamento al Signore. Convinto che non avrebbe trovato la consueta vettura, fece lo stesso un controllo al parcheggio dell’aeroporto, nella zona, dove in ato, era sempre parcheggiata la Punto Grigia. La presenza della Guardia di Finanza, la scomparsa della vettura, l’interruzione del suo coinvolgimento erano segnali che la logica suggeriva fossero riconducibili al traffico di droga di cui era stato e tuttora era sottomesso protagonista.

La nuova situazione all’inizio lo rese più teso e nervoso del solito. Non ci credeva ma aveva bisogno di aggrapparsi a una speranza. Il sogno era che Calogero non avesse mentito e che assolto l’impegno dei venti carichi di droga, avrebbe riacquistato la sua vita e la sua serenità. Adesso tutto era indefinito e forse lo sarebbe stato per lungo tempo ancora. Era certo che un’indagine fosse in corso. Com’era nata, quali evidenze potevano essere state scoperte, quali personaggi erano venuti alla ribalta? Per quanto ne sapeva e per quanto lo riguardava la struttura creata, sembrava essere a comparti stagni. Nei tre mesi della sua attività delittuosa, salvo Calogero, non aveva né visto né conosciuto alcun all’interno del sistema Era certo, però, di essere sorvegliato e quindi conosciuto da qualcuno dall’organizzazione malavitosa. L’eventuale arresto di qualche elemento della struttura criminale poteva portare a confessioni che lo coinvolgessero. Per questo non si rallegrava della mutata situazione che si prolungò per lunghi quaranta giorni. Era appena tornato dal Venezuela ed era uno splendido pomeriggio di sole. Stava per uscire per una eggiata al parco con il figlio. Sua moglie, approfittando della sua presenza a casa, era appena andata dal parrucchiere. Suonò il citofono Pronto? Sono l’ispettore Mancuso della Polizia di Stato. Vorrei parlare con il Dott. Conte. Sono io Ho bisogno di un’informazione, posso salire da lei un attimo? Luca sentì gelarsi le vene. Una breve pausa poi rispose sì. Stiamo al quinto piano. La aspetto. Lo attese di fronte all’ascensore e l’ispettore mostrò il suo tesserino di riconoscimento. Si sedettero nel salotto. Dott. Conte sono qui perché collaboratore in un’indagine svolta dalla Polizia Canadese che ha chiesto la nostra assistenza per chiarire un particolare delle loro

investigazioni. Ho una domanda da porle. Conosce un certo Antonio Genovese? La risposta venne facile e spontanea: No Era la verità non conosceva alcun Genovese di cognome. Come dicevo è un’indagine dei nostri colleghi canadesi. Questo Genovese appartiene a una nota famiglia mafiosa che gestiva grossi traffici di droga sia in Canada sia nel Nord America. Sul suo cellulare è stato trovato il suo cognome e il suo numero di telefono. Lei è certo di non conoscerlo? Senza attendere la risposta proseguì: ha forse una supposizione del perché abbia memorizzato il suo numero telefonico? Non ne ho alcuna idea, non conosco nessuno con quel cognome né ho dimestichezza con mafiosi, aggiunse Luca. Perché la Polizia Canadese non pone la domanda a Genovese direttamente? Perché l’uomo è morto in uno scontro a fuoco, rispose l’ispettore. Magari non lo ricorda come cognome ma forse la sua fisionomia potrebbe esserle di memoria disse porgendo a Luca una fotografia. Fu il momento più importante della vita di Luca Conte, ne fu certo in quell’istante e lo ebbe presente per il resto della sua vita. La fotografia ritraeva Calogero, l’uomo che lo aveva incastrato e ricattato. Ebbe più volte e per sempre a complimentarsi con se stesso. Non mosse ciglio, non ebbe alcuna esitazione, guardò la fotografia e poi dritto negli occhi il brigadiere e disse: mai visto quest’uomo. Il dialogo fra l’ispettore e il pilota proseguì. Sarebbe stato probabilmente utile far capire al poliziotto che l’ambiente cui Luca apparteneva non aveva assolutamente nulla in comune con il mondo delle attività criminali sul quale la Polizia canadese stava indagando. Avendo vissuto lunghi anni in Canada il nesso con il paese dell’indagine avrebbe potuto generare qualche equivoco. Tutto della sua esistenza ciò nonostante lo poneva al di sopra di ogni possibile

sospetto. In pochi anni era salito velocemente ai ranghi più elevati nell’elite dei piloti della prima Compagnia aerea del paese. L’appartenenza, anche se indiretta, tramite precedente matrimonio, alla famiglia di uno dei più importanti industriali e uomini d’affari della nazione non rendeva credibile che avesse contatti con il mondo del crimine e della droga. La sua successiva e presente attività di primo pilota della Compagnia di bandiera italiana non faceva altro che confermare il suo rango e status nella società civile. Dottore il riassunto della sua vita è per me molto interessante ma tengo a precisare subito che né noi né tantomeno la Polizia Canadese ha mai minimamente messo in dubbio un suo coinvolgimento negli affari loschi di Genovese. Ci capita quotidianamente di dover indagare su indizi che per lo più non portano a nulla. Tuttavia è nostro dovere farlo e la collaborazione fra le varie polizie internazionali è essenziale nel mondo globale in cui viviamo. Non si preoccupi. Il suo numero telefonico nella memoria di un criminale non ha alcuna risposta ragionevole e quindi il dato sarà semplicemente archiviato. D’altra parte per quanto ci è stato riferito il caso, è chiuso. La Polizia era da qualche tempo sulle sue tracce. L’uomo era molto abile e aveva impostato un importante traffico di cocaina dalla Colombia al Canada e alle zone settentrionali degli Stati Uniti, limitrofe ai confini canadesi. La DEA americana è riuscita a infiltrare uomini all’interno della sua organizzazione. La rete di distribuzione era stata per due volte violentemente aggredita. Genovese sembra però fosse particolarmente competente, accorto e prudente. Aveva costruito una rete molto complessa e ingegnosa costruita a compartimenti stagni. Distrutto in alcuni comparti, il sistema era riuscito a sopravvivere e, nel giro di pochi mesi, a rigenerarsi con le medesime capacità di distribuzione. Alcuni anni dopo con l’arresto di diversi spacciatori, l’ufficio narcotici canadese mise nuovamente in crisi l’organizzazione di Genovese. Infine, come spesso capita nei paesi dove il fisco è particolarmente attento, il cuore dell’organizzazione criminale è stato scoperto un po’ per caso un po’ per

abilità controllando una Società con molteplici attività con sede a Burnaby nella Colombia Britannica. Alcuni conti non quadravano e il fisco ebbe il fondato sospetto che esistesse una contabilità parallela segreta riservata e inconfessata. Burnaby è in pratica una periferia di Vancouver e qui vennero anche scoperti alcuni depositi e locali di proprietà che non figuravano nelle attività della Società. Precauzionalmente il giudice autorizzò di sigillare gli uffici della Cottoni & Bruni. I sigilli furono apposti il venerdì pomeriggio nell’attesa della ripresa dell’ispezione il lunedì successivo. Nella notte di sabato Genovese e alcuni suoi uomini penetrarono nella sede cospargendo gli uffici di benzina e sistemando alcune bombe incendiarie. Una pattuglia della polizia che sorvegliava la zona li sorprese, chiamò immediati rinforzi e ne nacque una vera battaglia stradale con alcuni morti fra i quali Genovese e diversi feriti anche fra gli agenti. La sede della Società andò completamente distrutta e con essa probabilmente tutti i dettagli e segreti dell’attività criminale della banda. Come vede il tutto dista anni luce dal suo mondo. Non si preoccupi quindi, mi spiace averla disturbata per un particolare che non ha alcuna spiegazione e che non avendola non può essere di aiuto all’indagine della Polizia Canadese. Quella sera Luca Conte rinacque. Il suo incubo si stava dissolvendo e la vita sembrava nuovamente piena di speranza e serenità. La moglie intuì che qualcosa d’importante era successo, ne fu felice, anche se avrebbe desiderato condividerne i motivi. Per Luca quello che era successo doveva rimanere un inconfessabile segreto ma la vita adesso sembrava ed era meravigliosa. Nove mesi dopo nacque il loro secondo figlio, una bella bambina cui dedicarono il nome di Felicità.

Incontrai Andrei Oskin per la prima volta a Hoddesdon, una borgata all’estrema periferia di Londra. Alto, massiccio, forma del volto ovale, guance rosa, i capelli biondi che tendevano un po’ al rossastro, uno sguardo attento e penetrante dissimulato da occhi di un azzurro intenso. Il suo inglese, privo di ogni accento, era leggermente gutturale e aspro. Era evidente non fosse la sua lingua materna, ma non era facile intuirne il luogo d’origine. Il nostro appuntamento aveva lo scopo di valutare l’eventualità di una possibile collaborazione. Cercavo da qualche tempo un agente per i nostri interessi in Unione Sovietica. Di nazionalità russa, abitante a San Pietroburgo, allora Leningrado, lavorava per un’azienda finlandese e questo era il suo secondo viaggio in occidente. Era entrato in contatto con il nostro concessionario inglese e quest’ultimo aveva organizzato l’incontro. Il colloquio si svolse nella veranda di uno splendido castello della campagna dell’Hertfordshire, nella cintura verde di Londra. Il porticato del maniero, adibito a ristorante, era chiuso da ampie vetrate, giustificate dalle condizioni atmosferiche costantemente precarie dell’estate inglese. Un servizio inappuntabile, un panorama incantevole sulle verdeggianti colline che circondavano il castello resero gradevole anche una cucina non all’altezza dell’ambiente. Fu soprattutto piacevole e interessante la conversazione con un giovane che rappresentava un mondo che io allora conoscevo ancora poco. All’inizio, palesemente maldestro nel cercare di fare buona impressione, poi lentamente, presa maggior confidenza, riuscì a evidenziare gli aspetti positivi della sua personalità forte e attraente. Ricordo che mi stupì soprattutto la sua cultura, il bagaglio di nozioni nei più svariati campi dell’arte, della musica, del teatro e della letteratura. La sua giovane età, la sua limitata esperienza di lavoro, l’insufficiente conoscenza del mondo occidentale mi sembrarono compensati dalla sua vivace intelligenza, dal suo pratico buon senso e dall’astuta conoscenza della società sovietica. Il pranzo si prolungò fino al tardo pomeriggio e finii per assumerlo considerando preziosa la sua abilità di negoziatore. Ottenne uno stipendio, tutto in dollari, tutto in nero, tutto in Svizzera che per quell’epoca, l’anno 1987, era molto più che vantaggioso per un cittadino sovietico. Fu un ottimo acquisto e per anni la Società che rappresentavo concluse eccellenti affari in Unione Sovietica. Il nostro rapporto si fece molto stretto e i disagi, le difficoltà di un lavoro stressante, svolto spesso in condizioni ambientali difficili consolidò quella che poi divenne una sincera amicizia nonostante la differenza

d’età. Nel corso degli anni ebbi conferma della sua attitudine agli affari, capacità intravista nel nostro primo incontro. Mi resi conto anche di tutti o almeno di una parte dei suoi difetti. Molto suscettibile, abbastanza presuntuoso, era diffidente quasi paranoico nei riguardi della presunta ingerenza dei servizi segreti e del KGB nella vita personale sua e nostra. Sin dall’inizio dei nostri rapporti fu faticoso svolgere con lui una riservata conversazione d’affari in qualsiasi luogo pubblico. Mi costringeva alcune volte a uscire dall’atrio dell’albergo, ad andare per strada, con temperature glaciali, semplicemente per parlare dei soliti affari. Se, in un qualsiasi albergo sovietico, gli capitava di entrare nella mia camera, muoveva i mobili, sollevava i tappeti, spostava i quadri, cercava ovunque tracce di microfoni nascosti o d’altre diavolerie. Era letteralmente ossessionato dalla convinzione che ogni nostra conversazione telefonica fosse captata da complicati sistemi d’ascolto. Per i nostri affari dovevamo distribuire costantemente a tutti, a ogni livello, mance, omaggi, doni, buste e bustarelle. Di conseguenza, pur essendo obbiettivamente abbastanza rischioso, spesso era necessario maneggiare e consegnare dollari in contanti, introdotti illegalmente nel paese. Andrei non aveva alcuna difficoltà nel proporre le tangenti, anzi era particolarmente fantasioso nelle sue proposte. Il problema, che fu nostro motivo di conflitto, consisteva nel suo rifiuto di consegnare materialmente le mazzette. In realtà sapeva che nessun altro avrebbe potuto sostituirlo in quel compito ma era terrorizzato dalla paura di essere sorpreso e arrestato dal KGB. Era comunque un uomo pieno di sorprese. Poteva essere, secondo i momenti e le circostanze, poliedrico e uniforme, simpatico e odioso, scanzonato e introverso. Poteva conciliare situazioni particolarmente complesse oppure intestardirsi su banalissimi argomenti. Ricordo un viaggio in ferrovia da Mosca a Tscherepowez. Problemi di neve e gelo avevano fatto chiudere lo scalo aereo. Dovevamo assolutamente partecipare a un importante convegno. Ci aspettava un interminabile viaggio notturno. Un treno senza vagone letto, senza vagone ristorante, tutte le carrozze superaffollate, in breve dodici ore di garantite sofferenze. Avevamo avuto una lunga giornata di lavoro e, in pratica non avevamo pranzato. Prima di raggiungere la stazione di Laroslavskaja ci fermammo a uno dei pochissimi negozi “duty free” nati negli ultimi mesi a Mosca. Erano piccoli supermercati, con prodotti di marca occidentali, beni totalmente sconosciuti alla popolazione dell’Unione Sovietica. Erano le prime aperture al consumismo, limitate, allora, ai soli turisti o stranieri residenti a Mosca. Era la prima volta che Andrei vi metteva piede e la sua eccitazione raggiunse i massimi livelli. Già esaltato da una giornata dove

avevamo concluso ottimi affari, iniziò a saccheggiare gli scaffali lanciandomi sguardi imploranti. Avevamo acquistato prodotti ben oltre le nostre eventuali necessità alimentari. Non dissi nulla anche perché pensavo che la maggior parte delle provviste sarebbe, a fine viaggio, finita sulla tavola della famiglia Oskin. Pagai quindi con la carta di credito aziendale contento di aver contribuito all’allegria del mio collaboratore. Raggiunta la stazione ferroviaria ci attendeva un treno vecchio e obsoleto con vagoni a scomparti da sei posti. I nostri compagni di viaggio erano quattro studenti universitari che rientravano a casa per le ferie. Andrei era in grande forma e iniziò subito a coinvolgere i ragazzi con mille pretesti. Fortunatamente per me i giovani parlavano quasi tutti inglese il ché mi consenti di seguire e partecipare alle loro conversazioni. L’ambiente era interessante, così come i loro dialoghi grazie soprattutto agli impulsi creati dal mio aiutante. A un certo momento iniziò a spacchettare i nostri acquisti e, chiedendomi l’assenso con lo sguardo, cominciò a offrire ai ragazzi le nostre compere. Provocarono, inutile dirlo smisurato e genuino entusiasmo. La prima bottiglia di vodka fu poi accolta con cori da stadio e l’atmosfera divenne sempre più allegra e simpatica. Non rimase nulla delle nostre provviste e ancora oggi, a distanza di anni, ricordo con nostalgia quell’inconsueto e sorprendente viaggio che nelle previsioni avevo preventivato come un incubo. Avevo erroneamente valutato l’ingordigia del mio assistente e avevo anche scoperto in lui un piacevole aspetto caratteriale diverso dalla severità che mostrava nell’attività professionale. Andrei sapeva essere anche detestabile, conseguenza di alcune ossessioni ereditate non so dove e quando. Una sera, cenando nel lussuoso ristorante di un nuovissimo albergo a San Pietroburgo, due musicisti si avvicinarono al nostro tavolo per suonare alcune romanze. Iniziò subito ad agitarsi e senza alcun avviso si avvicinò ai suonatori e con estremo malgarbo li allontanò. Alla mia immediata reazione di dissenso e riprovazione chiese subito scusa e assicurò, rosso come un peperone, che la cosa non si sarebbe mai più ripetuta. ato il momento di tensione, giustificò il suo gesto con la convinzione che i musicisti fossero agenti del KGB che volevano captare le nostre conversazioni. Tentai in ogni modo di dimostrargli che le sue idee erano assurde e improponibili. Alla fine mi diede ragione ma sospetto che lo fe solo per convenienza, per compiacermi e non certo per convinzione. Poteva anche diventare insopportabile. A un certo punto della nostra collaborazione si era messo in testa di ottenere da me, e quindi dalla società che rappresentavo, delle prestazioni sociali e assicurative che erano irrealizzabili e

assurde da immaginare all’epoca dell’Unione Sovietica. ai, con un altro mio collaboratore, una serata intera per convincerlo. Dopo aver esaurito tutti gli argomenti logici e ragionevoli e per chiudere una giornata che si era protratta fino a tarda notte gli proposi di farlo incontrare con uno dei legali della nostra società che doveva venire a Mosca per altri motivi. Ebbe una reazione violentissima manifestando il più assoluto e ingiustificabile dissenso. Anche in questo caso, ma soltanto il giorno successivo si scusò senza tuttavia motivare le sue reazioni. In conclusione, malgrado alcuni aspri aspetti caratteriali il mio rapporto con Andrei Oskin può essere definito solo come positivo. Mi ha aiutato a portare a termine un’attività complessa, in un momento difficile, in un mercato in piena trasformazione e in un paese che stava per vivere una trasformazione storica. Indipendentemente dall’aspetto professionale e dalla convenienza della nostra collaborazione mi ero affezionato a questo giovane che, a modo suo, tentava di raggiungere quel benessere che allora non era certo frequente nella sua patria. Nel 1992 un’inaspettata malattia anticipò l’epilogo della mia attività lavorativa. Mi stabilii ad Antibes, in Costa Azzurra. Rapidamente persi tutti i legami con l’ambiente del lavoro. Mi restò qualche amicizia fra cui proprio quella con Andrei. Nei primi anni ci sentimmo alcune volte per telefono. Si ricordava sempre del mio compleanno e mi chiamava a Natale e Capodanno. Poi venne a trovarmi in Francia. Ritornò più volte, sempre di corsa, per un pranzo, una cena e poi ripartiva. Sembrava che il successo sostenesse ogni sua impresa. Aveva lasciato la Società di cui eravamo stati entrambi dipendenti e si era messo in proprio. Sfruttava le sue conoscenze del mondo sovietico, soprattutto nel settore logistico, offrendo a società straniere la soluzione degli enormi problemi di trasporto all’interno del suo grande paese. Chi, straniero, era interessato ad acquistare prodotti dalla Siberia al Caucaso trovava in lui ogni possibile soluzione, costosa, in dollari, ma la trovava. In seguito aveva cominciato lui stesso a comprare e vendere materie prime, a fare del trading. Aveva allargato i propri interessi investendo anche nei trasporti marittimi con l’acquisto di navi. Riusciva così a seguire tutto il percorso delle merci, dalla miniera fino al pontile dei suoi clienti. Si era anche inserito, realizzando suppongo enormi utili, nel settore della privatizzazione d’alloggi e appartamenti che lo stato sovietico, unico proprietario, aveva cominciato a cedere. Aveva creato una società di comodo a Cipro e uffici di rappresentanza a Mosca e Pietroburgo. Credo non pagasse tasse o in ogni caso ne pagasse in misura infima rispetto ai suoi guadagni. Tutte queste notizie che io apprendevo da lui, erano ovviamente da

prendere con riserva ma ritenevo fossero vere salvo qualche piccola millanteria. Sosteneva sovente di considerarmi come un suo secondo genitore. Suo padre era una persona semplice, conduttore d’autobus per una vita, adesso in pensione. Non si erano mai intesi e tantomeno si capivano adesso. Ora il figlio provvedeva al benessere dei genitori, consentendo loro una vecchiaia agevole. Suo papà rimpiangeva i tempi del comunismo e vedeva nel figlio il simbolo del male capitalistico che si era abbattuto sul suo paese. Nei racconti del mio amico, il padre aveva anche il vizio di bere e spesso i loro incontri sfociavano in litigi e rancori. Anche la vita privata di Andrei era cambiata. Aveva lasciato moglie e figlio e si era risposato con una certa Irina. La conobbi in una delle sue visite. Donna istruita, buona conoscenza di diverse lingue, forte di carattere, credo che fosse diventata per lui un valido braccio destro. La loro più grande aspirazione era di riuscire a vivere in qualche paese occidentale. Avevano comprato una villa a Cipro e ottenuto un permesso di soggiorno che riuscivano a rinnovare annualmente. Il loro sogno era tuttavia una nazionalità diversa, un valido aporto che non fosse quello russo. Andrei mi raccontava di tutti gli innumerevoli tentativi fatti per raggiungere la sua massima aspirazione. A Cipro, spregiudicati consulenti lo avevano turlupinato per anni facendogli balenare la possibilità di un aporto greco grazie alla scoperta di presunti nonni macedoni. Aveva tentato anche con il Canada, con l’Irlanda e ultimamente con l’Argentina. Grazie a doppi aporti russi che si era procurato, era residente permanentemente a Buenos Aires già da due anni e, al compimento del terzo, avrebbe potuto iniziare la pratica per ottenere la nazionalità argentina. Il suo chiodo fisso era diventato il terrore di una prossima rivoluzione nel suo paese. Erano diversi mesi che non lo sentivo più, quando all’improvviso mi telefonò dall’aeroporto di Nizza. Aveva alcune ore, fra un volo e l’altro, e voleva parlarmi urgentemente. Mi chiese di raggiungerlo in fretta all’aerostazione e così feci. Lo trovai affaticato e teso. Raccontò una prolissa storia che a grandi linee si poteva riassumere così: Aveva venduto a un uomo politico locale, un appartamento nel pieno centro di San Pietroburgo. Mi spiegò dove e ricordai di esserci stato in quanto, a quell’epoca, era la sede di una società marittima, ovviamente statale. Avevano concordato un prezzo di 950.000 dollari da pagarsi estero su estero. L’acquirente, molto legato alle autorità comunali di San Pietroburgo era riuscito a far modificare i documenti originali facendo risultare la sua proprietà e cancellando quella del mio amico. La rivoluzione epocale nel paese aveva fortemente incrementato l’endemico problema della corruzione in Russia. Così, mi spiegò,

avvengono oggi alcune transazioni immobiliari nel suo paese. Pochi giorni dopo la rimessa del denaro e la consegna dell’appartamento, che era tutto da ristrutturare, l’uomo politico fu cruentamente assassinato in un agguato che i giornali definirono di mafia. Comprensibile lo sgomento del mio amico e lo smarrimento che chiunque prova nell’apprendere la fine violenta di una persona a noi nota. arono due anni dall’avvenimento senza che la Polizia avesse trovato alcun colpevole del crimine, Inaspettatamente e all’improvviso Andrei fu convocato alla centrale di Polizia. Rientrò subito da un viaggio all’estero e si recò negli uffici del magistrato. Questi, nel frattempo, non si sa attraverso quali canali, aveva ottenuto dalla magistratura inglese la consegna degli estratti bancari del conto aperto a Londra, presso una banca della City, dall’uomo politico. Le ultime due transazioni risultavano essere i versamenti rispettivamente di 500.000 e di 450.000 dollari a favore della società cipriota di Andrei Oskin. Non poteva giustificare un’entrata di denaro così elevata e non poteva comprovare la vendita di un alloggio che non era mai stato di sua proprietà. Si fece prendere dal panico e s’inventò improbabili affari in nero con il politico. Il magistrato dichiarò al mio amico di aver apprezzato la disponibilità dimostrata e la rapidità con cui si era presentato e pertanto non avrebbe attuato un eventuale fermo di polizia, previsto in simili casi. Tuttavia lo pregava di restare a disposizione. Andrei chiese consiglio a un suo caro amico, diplomatico di rango a Mosca. Questi, dopo una breve indagine, affermò che non si pensava a una sua possibile colpevolezza ma che, per ragion di stato, autorevoli politici sollecitassero la ricerca di un capo espiatorio e lui era un perfetto ipotizzabile indiziato. Irina non sembrava essere ancora coinvolta in questa storia ed era partita da giorni per Cipro. Lui d’istinto aveva deciso un’immediata, irrazionale fuga. Era salito su una macchina e in poche ore, raggiunto il confine con la Finlandia, era arrivato a Helsinki da dove aveva proseguito per Francoforte e Nizza. Stavo per manifestare il mio pensiero quando il mio amico, interrompendomi, mi pregò d’aiutarlo. Disse di non voler più tornare in Russia fintanto che questa vicenda non si fosse chiarita. Per risolverla doveva prima essere completamente e ufficialmente scagionato. Possedeva l’indiscutibile prova che il denaro da lui ricevuto si riferiva soltanto ed esclusivamente alla vendita dell’appartamento. Aveva segretamente registrato le trattative svolte con il compratore. I nastri di tali conversazioni li aveva depositati con altri documenti in una borsa lasciata in custodia, pochi giorni prima, al deposito bagagli della stazione principale di Pietroburgo. Non li aveva portati con sé perché terrorizzato dalla paura di essere arrestato alla frontiera, con conseguente sequestro e scomparsa dei nastri. Voleva affidare le sue prove, dopo averle duplicate, ai suoi avvocati a Mosca, ma per cautela voleva farlo restando al

sicuro, lontano dal paese. Tutto si era svolto così all’improvviso e così in fretta che ogni decisione era più conseguenza della paura che d’altro. Il tentativo di incastrarlo poteva basarsi soltanto sul giro di denaro da lui ricevuto dalla vittima pochi giorni prima della morte del politico. Per quanto il rapporto di amicizia si fosse consolidato negli anni rispetto all’inizio della nostra conoscenza, credo che una naturale esitazione e una forte perplessità fossero, da parte mia, più che giustificati. Conoscevo, o almeno ritenevo conoscere bene, un giovane all’inizio della sua carriera. Sapevo delle sue capacità, della sua intelligenza, ero cosciente delle sue doti umane e ragionevolmente convinto della sua onestà. Tuttavia qualcuno, credo De Coubertin, diceva che l’onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. Sapevo che erano trascorsi anni da quando avevo conosciuto un volenteroso apprendista che, nel frattempo, era diventato molto ricco. Presumibilmente aveva accumulato una fortuna in un mondo che premiava, nel suo disordinato ma enorme sviluppo, i più astuti ed efficienti ma forse anche i più disonesti. Confesso che ero anche attratto dalla sua proposta che conteneva due lusinghiere considerazioni nei miei confronti. Fiducia nella mia persona che non lo avrebbe tradito e convinzione che avrei portato a termine l’incarico. Forse il mio amico aveva anche fatto leva sul mio desiderio di evasione dal mondo dorato ma anche terribilmente monotono di un manager in pensione. Non so quali fossero esattamente i suoi pensieri al riguardo ma la prospettiva di un diversivo, anche se pur breve, era effettivamente una dolce attrattiva. Accettai e capitolai, dopo molte sue insistenze, promettendo di recarmi a San Pietroburgo, ritirare la borsa e consegnarla a Cipro dove lui stava per recarsi per raggiungere la moglie. Mi offrì un favoloso compenso che, per un’atavica e sconsiderata morale, rifiutai subito. Dissi invece di sì al rimborso totale del viaggio e del soggiorno in Russia. Forse mi convinsi per spirito di solidarietà, di amicizia, diciamo anche per un insieme di motivi fra i quali preponderante era la certezza che Andrei con il suo ombroso carattere avesse drammatizzato la situazione oltre ogni misura. Mi diede il nuovo numero telefonico della sua villa a Cipro raccomandandomi di non chiamarlo sul cellulare. Anzi mi disse: ho buttato via sia il mio telefonino

sia quello di Irina. Sai, anche se il cellulare non è , un esperto tecnico riesce sempre a rintracciare, dove ti trovi. Ricordo aver pensato che anche questo concetto era dovuto al consueto fanatismo del mio amico. Ci lasciammo con l’impegno di rivederci a Cipro subito al mio ritorno. Il mio primo problema da risolvere era domestico. Dovevo inventare una storia credibile e convincente per mia moglie. Sapevo che raccontare la verità avrebbe provocato prima la massima ilarità poi serie riflessioni sul mio stato di salute mentale. Dovevo impostare una trama verosimile ma anche arginare un suo probabile desiderio di accompagnarmi in Russia. Mi arrampicai sugli specchi inventando una consulenza su un progetto minerario al quale avevo lavorato in ato e che mi avrebbe forse portato in zone impervie e disagiate del paese. Non credo d’averla convinta veramente ma, visto il mio entusiasmo, accettò la mia argomentazione e decise di recarsi temporaneamente presso una delle nostre figlie. Dopo un paio di giorni con un volo da Nizza via Parigi arrivai a San Pietroburgo. Devo ammettere che, superate le iniziali perplessità, il viaggio e l’incarico stavano popolando la mia mente, con effetti perversi e contrastanti. Da un lato ero pronto ad affrontare la situazione, convinto di portare a termine l’incarico con soddisfazione mia e del mio amico. Dall’altra parte il tarlo del pericolo era subdolamente entrato nei miei orizzonti. Continuavo a soppesare il carattere di Andrei, le sue innate ossessioni ma anche i clamorosi risultati raggiunti che, proprio per la loro ampiezza, potevano nascondere traffici illeciti e illegali che io non potevo conoscere. Mi ripetevo che, nel corso degli anni, anche e soprattutto dopo aver lasciato l’attività lavorativa, Andrei mi aveva sempre dimostrato affetto e amicizia. Non credevo che potesse essere falso, ambiguo e ipocrita a tal punto da mettermi intenzionalmente in una situazione di pericolo. San Pietroburgo non era molto cambiata da come la ricordavo e in alcune aree era e restava straordinariamente bella. Decisi di approfittare dell’occasione e iniziai a comportarmi da turista visitando le splendide meraviglie della città. Inconsapevolmente una sottile ma tenace apprensione continuava ad agitarmi. M’illudevo di avere la padronanza della situazione facendo continue verifiche, come quella di osservare nelle vetrine dei negozi tracce d'eventuali ignoti

nemici. Provai anche a saltare nella carrozza del metro, all’ultimo istante, alla chiusura delle porte. In apparenza nessuno mi stava seguendo ma non ne ero per nulla certo. Andai alcune volte alla stazione centrale sulla Zanevsky Prospect dove, al deposito bagagli, era custodita la borsa che avrei dovuto prelevare. Continuavo a esitare e stavo dando inizio a una sottile paranoia. Avevo anche pensato di trovare un intermediario che ricompensato adeguatamente potesse prelevare la borsa a nome mio. Riflettendo meglio scartai l’idea riconoscendola come assurda da eseguire in un paese dove non conoscevo né la lingua né persone di cui potermi fidarmi. Pensai anche di tentare di riprendere vecchi contatti con funzionari di uffici governativi con i quali avevo lavorato in ato. Scartai anche questa ipotesi perché non risolveva in alcun modo i miei timori, anzi avrebbe potuto aggravarli anticipatamente. Dovevo decidermi. Ormai avevo rivisitato l’Ermitage, la Cattedrale di Sant’Isacco, il bellissimo museo etnografico e nonostante il mio grande entusiasmo non mi ero goduto per niente le meraviglie visitate. Ormai l’ansia aveva preso il sopravvento e non vedevo l’ora di arrivare alla decisione finale. Prenotai il volo di ritorno. Diverse ore prima della partenza lasciai l’albergo e continuando a controllare che nessuno mi sorvegliasse presi un taxi e mi recai alla stazione centrale. Consegnato il tagliando al deposito bagagli, mi sembrò che l’impiegato ci mettesse un’eternità a portarmi l’atteso bagaglio. Finalmente arrivò, vidi la borsa e fu immediato panico quando l’addetto iniziò a parlarmi concitatamente. Poi mi guardò, capì che non parlavo la sua lingua e scoppiò in una fragorosa risata. Aveva evidentemente fatto una battuta senza sospettare il male arrecato alle mie coronarie. Il percorso dal deposito bagagli al taxi che mi aspettava fuori dalla stazione mi sembrò lunghissimo e la borsa che trasportavo pesantissima. Il mio incedere era incerto e mi sembrava che le gambe andassero autonomamente senza una mia guida. Il percorso fino all’aeroporto di Pulkovo fu la prova finale per la salute dei miei nervi. Imprecai parecchio verso la mia irresponsabilità e feci molte promesse di buone azioni se riuscivo a tornare sano e salvo a casa. L’aereo non mi era mai sembrato così accogliente come in quel volo da San Pietroburgo a Zurigo. Ero partito con la convinzione che la paranoia del mio

amico fosse l’elemento dominante di quest’avvenimento. Forse lo era perché non conoscevo ancora la fine della storia, ma di certo aveva contagiato fortemente il mio equilibrio mentale. Mi ero comportato da irresponsabile e me ne rendevo conto adesso che il pericolo era ato. Forse avevo anche esagerato, non lo so, ma mi rendevo conto di non avere la stoffa per azioni fuori dagli schemi tradizionali. Tutta la tensione degli ultimi giorni si era manifestata all’improvviso, di fatto ero stanchissimo e sfinito. Arrivato a Zurigo decisi di fermarmi per la notte all’Hilton che dista meno di un chilometro dall’aeroporto. Pensavo all’ansia con la quale probabilmente il mio amico attendeva notizie sul mio viaggio e decisi di chiamarlo al numero della villa di Cipro che mi aveva indicato. Non riuscivo a comporre il numero che la linea saltava. Chiesi al centralino dell’Hilton di provare per me e dopo una mezz’ora mi fu detto che la linea con l’isola era interrotta e che stavano lavorando per il ripristino. Decisi di dormire perché non riuscivo più a tenere gli occhi aperti. Fu questo un evento fortunato ma lo realizzai soltanto in seguito. L’indomani mattino il mio volo per Larnaca partiva presto. Nonostante la sveglia antelucana ero in ritardo e soltanto correndo evitai di rimanere a terra. Ero quindi nuovamente in volo senza aver potuto avvertire Andrei. Sapevo che la villa, che aveva acquistato, era vicina all’aeroporto di Larnaca e quindi, appena sbarcato, mi precipitai a un telefono pubblico per chiedergli di venirmi a prendere. Era inutile che mi recassi nella capitale, Nicosia, che dista cinquanta chilometri dallo scalo. Pensavo anche che mi sarei fermato da lui piuttosto che andare in albergo. Dopotutto credo che sarebbe stato felice di darmi ospitalità. Dopo pochi squilli rispose in greco una voce maschile. Chiesi di Andrei. Mi si domandò in inglese chi fossi io. Risposi un amico. La voce sconosciuta, con un tono che non poteva essere quello di un domestico, insistette chiedendo il mio nome. Non so neanche perché ma mi venne l’impulso di agganciare la cornetta. Feci due i nell’atrio cercando di riflettere sulla mia reazione e pensai aver forse trascritto un numero di telefono sbagliato. Non era un errore e me ne resi conto immediatamente quando la locandina di un giornale locale in inglese attirò la mia attenzione. In caratteri cubitali spiccava un titolo che mi fece gelare il sangue: Assassinati nella loro villa due coniugi russi a Larnaca. Comprai il

giornale e lessi tremando la storia. Nel tardo pomeriggio del giorno precedente due uomini armati avevano fatto irruzione nella villa e sparando all’impazzata avevano ucciso i coniugi Oskin e ferito la loro domestica. Questa era piantonata in ospedale senza aver potuto ancora fornire elementi d’identificazione dei sicari che, fra l’altro, erano mascherati. La Polizia era convinta che i due assassini fossero ancora a Cipro. S’indagava in un campo profughi palestinesi. Il primo logico pensiero fu quello d'essermi cacciato in un bel guaio e la seconda tragica costatazione di aver perso un amico. Poi ragionai che questo era il mio secondo fortunato evento nelle ultime ventiquattro ore. Il giorno prima non ero riuscito a parlare al telefono causa interruzione della linea. Oggi avevo inopinatamente interrotto la conversazione senza un reale motivo. In conclusione la Polizia non sapeva della mia esistenza, dell’amicizia con i coniugi Oskin, del mio viaggio a San Pietroburgo e soprattutto del prelievo della borsa il cui contenuto era a me ignoto. Che cosa potevo fare? Raccontare tutto quello che sapevo alla Polizia cipriota, non avrebbe riportato in vita i miei amici. Come da copione, almeno inizialmente, non mi avrebbero creduto. Non poteva esistere alcuna accusa nei miei confronti. Oltretutto il delitto era avvenuto il giorno prima ed io potevo provare che ero a migliaia di chilometri di distanza da Cipro. La mia preoccupazione principale era diversa. Non si riferiva né alle indagini della pubblica sicurezza cipriota né a quelle della polizia russa cui avrei dovuto sottopormi se mi fossi presentato quale persona informata dei fatti. Non conoscevo nulla del mondo reale in cui viveva il mio amico. Era evidente, o comunque ragionevole pensare, che Andrei non mi avesse raccontato la verità. Lui temeva di essere incastrato dalla magistratura russa che non immagino potesse essere né l’autrice né l’istigatrice del suo omicidio. Che cosa conteneva la borsa che avevo recuperato dal deposito bagagli di San Pietroburgo? Era anche qui probabile che contenesse la soluzione del mistero o almeno parte di essa. Non volevo e non osavo aprirla. Era già fin troppo coinvolto in questa storia e mi rendevo conto di non aver la stoffa, l’età e la voglia per proseguire in questa pazzesca avventura. Presi il primo volo in partenza da Larnaca per Parigi con coincidenza per Nizza e

tornai nella mia casa di Antibes. Nei giorni successivi depositai la borsa, ancora intatta e chiusa a chiave, in una cassetta di sicurezza di una banca locale. Mi ero ripromesso di dimenticarla per un lungo periodo, poi quando il tempo avrebbe cancellato tutta l’emotività della vicenda, avrei deciso cosa fare. Intanto era al sicuro e forse, non lo so, un giorno poteva cambiare la mia vita o magari, chi lo sa, salvarla.

Mathias Johnson era un ex agente della CIA. La sua esperienza nell’Agenzia si era sviluppata in lunghi anni di rischiose azioni svolte a ogni livello, in ogni continente. L’ultima operazione era stata una fra le molte sanguinose, inutili, tragiche e sterili iniziative create dall’Agenzia. Il teatro dell’impresa la Turchia, il palcoscenico Istambul, l’albergo Hilton, il simbolo più ovvio delle loro origini. I fatti si erano svolti in modo e imprevisto e improvviso. Erano le nove del mattino di una splendida giornata di sole. Si trovava nella camera 504 con due suoi agenti. Avrebbero dovuto incontrare un personaggio di alto grado dell’esercito turco. Asseriva avere prove di piani politici eversivi di una frazione del governo. L’intento era di creare rapporti militari segreti con la Siria e sostegno ad azioni militari ostili verso Israele. Nella camera una sacca di tipo militare con una somma di 400.000 dollari che, a seconda delle informazioni ricevute, Mathias avrebbe consegnato al generale turco a compenso delle prove di quanto da lui asserito. Mathias era in bagno e qualcuno aveva bussato alla porta. Uno dei due agenti, con un riflesso condizionato, aveva aperto la porta con la pistola nascosta nel grembo della mano. Dall’esterno due uomini si affacciavano sulla soglia della porta, entrambi armati, un terzo a pochi metri di distanza nel corridoio. Come spesso capita in queste circostanze non si seppe chi aveva iniziato a sparare ma l’effetto fu devastante. In pochi secondi quattro uomini erano a terra feriti. Le armi erano tutte pistole con silenziatori quindi il maggior rumore prodotto fu quello dei corpi che cadendo andarono a colpire il mobilio della camera, un tavolino in particolare. L’uomo del corridoio fece un o in avanti vide, i suoi colleghi a terra e Mathias che dalla porta del bagno gli puntava l’arma addosso. Sparò un primo colpo che andò a vuoto poi tentò la fuga nel corridoio. Mathias non poteva lasciarlo scappare, gli corse dietro e nel lungo corridoio gli fu facile piazzare due colpi alla schiena del fuggitivo. Tornò indietro, sparò un altro colpo a uno dei due sconosciuti che sembrava riprendersi, verificò le condizioni dei suoi agenti, uno morto, l’altro ferito, prese la sacca con il denaro, chiuse la porta della camera e si diresse verso le scale di servizio. Con la porta della camera chiusa, trovato l’uomo morto o ferito nel corridoio, si sarebbe perso tempo per capire cosa fosse successo. Tempo che per lui era vitale per cercare di allontanarsi dall’albergo. Spesso la vita di un agente segreto è legata a particolari, dettagli che l’uomo

qualunque non si sognerebbe mai di verificare e controllare. Mathias, ovunque andasse, cercava sempre in anticipo una possibile via di fuga. Nell’albergo di Istambul le uscite di soccorso al piano erano sia le scale di servizio sia l’ascensore per i carrelli delle cameriere e il catering del room service. Entrambi erano posizionati alla fine di una lunga corsia che terminava con una parete esterna, un’ampia finestra posta non lontano dalla sua camera. Scese un piano a piedi sulla scala di servizio, uscì al quarto piano e chiamò l’ascensore di servizio. Un cameriere con un vassoio di piatti e bicchieri sporchi usci da una camera, si diresse verso l’ascensore di servizio, lo vide e tentò di fargli capire che quello non era l’ascensore giusto per lui. Mathias prese una banconota da cinquanta dollari, la mise in mano al cameriere, gli puntò un dito sul petto e gli disse: aspettami qui! L’uomo non capì nulla di quello che stava succedendo, né di quello che voleva il cliente, salvo, e questo lo realizzò immediatamente, il valore della mancia che per lui rappresentava un vero tesoro. Restò immobile di fronte all’ascensore di servizio mentre le porte si chiudevano e il cliente spariva alla sua vista. Il montacarichi si fermò al piano cucine da cui si diramavano diverse porte rivolte all’atrio, ai ristoranti, alle boutique della hall. Mathias con o svelto ma contenuto attraversò tutto l’ingresso dell’albergo, salì su di un taxi e chiese di essere portato a Sirkeci la stazione ferroviaria principale della città. In meno di venti minuti era arrivato a destinazione. Lasciò il taxi e a piedi si diresse verso il bazar principale che distava circa una mezz’ora a piedi dalla stazione. Alle spalle del bazar delle spezie aveva un sicuro rifugio. Idris Emre, un agente dormiente della CIA, turco di origine armena, possedeva un negozietto di tessuti, in una stretta via nel dedalo dei percorsi del Grande Bazar. Sopra il negozio due insospettati locali ai quali si accedeva attraverso una porta segreta e nascosta. I due uomini si conoscevano per essersi incontrati a Langley, nella sede della CIA e successivamente all’ambasciata americana di Ankara. L’uomo non fece domande ma capì immediatamente che qualcosa di importante e grave era successo. Non fece domande

I due locali pur perfettamente attrezzati per eventuali lunghi soggiorni non disponevano di linea telefonica sicura né per l’interno né per l’estero. Nel quartiere il sistema telefonico risaliva a tempi preistorici e non sarebbe stato sensato, per quel dissimulato e clandestino alloggio, provvedere alla richiesta di una linea telefonica. Esisteva, a meno di trecento metri dal suo rifugio, una cabina telefonica e Mathias dopo essersi cambiato d’abiti, indossando strapazzati pantaloni, malridotte maglie e un orribile berretto vi si diresse. Il termine cabina telefonica era, nel caso specifico, un vero eufemismo. Il telefono di antico formato, agganciato a un malconcio palo telefonico, circondato da un rivestimento di sporca plastica gialla non consentiva la minima protezione contro i rumori della via né tantomeno concedeva discrezione alle proprie parole. Si sbrigò in fretta. Conosceva a memoria il numero della CIA presso l’Ambasciata Americana di Ankara. Si qualificò, fece scattare automaticamente il sistema di protezione che rendeva incomprensibile ogni eventuale malevolo ascolto delle sue parole e in sintesi fece un breve rapporto dell’accaduto. Dei suoi due agenti, sicuramente uno morto, l’altro ferito, quanto gravemente non lo sapeva. Gli assalitori, probabilmente turchi, armi automatiche con silenziatori, forse uomini del controspionaggio. Il denaro richiesto dalla transazione era in suo possesso. Avrebbe lasciato al più presto il paese con iniziativa personale. Chiedeva nessuna interferenza da parte della sezione locale della Cia. Avrebbe fatto rapporto direttamente a Langley. Chiuse la comunicazione senza neanche un saluto. Era probabile che lo stessero già cercando e il bazar era un luogo naturale dove indagare. Rientrò in fretta al suo rifugio. Adesso doveva accertare le reali capacità dell’agente di cui era ospite. Accettò di buon grado il caffè turco che l’uomo gli aveva preparato. Dichiarando il minimo indispensabile raccontò soltanto l’epilogo della vicenda, la sparatoria, i feriti, le sue deduzioni su chi fossero gli assalitori. Non disse nulla dei motivi della loro presenza all’Hilton e l’uomo si limitò ad ascoltare attentamente. Adesso ho bisogno del tuo aiuto per lasciare in fretta il paese. Cerca di non farci derubare ma sono pronto a pagare il giusto per attraversare la frontiera con la Grecia. Ho denaro con me e paghiamo in contanti. Fai solo in fretta. Non so ancora chi erano gli uomini che ci hanno sparato in albergo. Può darsi che se sono del controspionaggio turco si diano da fare per non denunciare i fatti e,

almeno momentaneamente, mettere tutto a tacere. Se non lo sono, in capo a qualche ora i giornali pubblicheranno titoli a piena pagina. Il mio trasporto allora diventa terribilmente rischioso e i prezzi andranno alle stelle. In ogni caso prima concludiamo e meglio è. Mi devo affidare totalmente a te, al tuo giudizio. O parto subito stanotte oppure forse è meglio che mi fermi qui per un poco. Ripongo la mia sorte al tuo giudizio di cui ho piena fiducia. Molte ore più tardi Idris tornò. Non si sa ancora nulla in giro. Nessun titolone sui giornali del pomeriggio. Soltanto un quotidiano parla di un incidente con feriti in un grande albergo della città, senza menzionare il nome dell’Hilton. C’è però molto nervosismo in giro. Nulla di preciso ma la gente che conosco ha antenne particolarmente sensibili. Gestiscono un traffico di clandestini verso la Grecia, gente che viene sia dal Medio Oriente, quasi tutti siriani, iraniani e giordani sia dall’Est Bulgaria e Ucraina. Queste organizzazioni hanno bisogno di avere agganci, contatti sia con la Polizia sia con la Guardia Costiera. Pagano tangenti per sapere come e quando muoversi, evitare controlli e imboscate. Non sanno cosa sia successo perché le notizie non sono arrivate ancora ai loro contatti ma sanno che gli apparati di Polizia sono in allerta. Credo sia meglio evitare questa soluzione perché in questo momento può essere pericolosa. Parti comunque questa notte. Ti ho messo su una barca da pesca di gente che conosco e di cui mi fido. E una vecchia imbarcazione che ti porterà fino a Izmir. Ci metteranno il tempo necessario ad arrivare considerando che si fermeranno anche a pescare. Sono barche che non vengono controllate perché restano nelle acque territoriali turche e non sono dedite a traffici illeciti. A Izmir fatti portare al Caffè Bayrakli. E in pieno centro lo conoscono tutti. Chiedi di Batu, Batu Emre. E mio fratello e lui ti farà arrivare a Chios senza are da alcuna dogana per evitare controlli. Il costo del viaggio e di 5.000 dollari e dobbiamo pagare stasera prima della partenza. E un poco caro ma in questo momento è il sistema più sicuro e forse più economico. Verso le undici la vecchia e sgangherata Fiat di Idris li portò al terminale di Yenikapi e Mathias si imbarcò, al termine del lungo molo, sul peschereccio prescelto. Ebbe quattro giorni e tre notti per calmarsi, riflettere e definire soluzioni che

d’istinto aveva già maturato da tempo e che gli avvenimenti dell’Hilton avevano fatto precipitare. Era il secondo episodio, nell’arco degli ultimi sei mesi, in cui aveva rischiato la vita in modo del tutto irragionevole e assurdo, per quanto sempre irragionevole sia la perdita della vita. Nel mestiere che si era scelto il rischio era parte integrante della professione e ogni agente doveva esserne consapevole e cosciente. Aveva vissuto per lunghi anni mettendo continuamente a repentaglio la propria vita. Lo aveva sempre fatto con la coscienza di aver preso, per se e per i suoi uomini, tutte le precauzioni e le cautele che la sua esperienza e il suo equilibrio gli suggerivano. Aveva perso un uomo, aveva abbandonato al suo destino un secondo, perché sicuramente qualcuno aveva tradito. Anche nell’azione precedente, nel sud della Spagna, il segreto della loro presenza era stato violato e solo per la sua abilità non vi erano state vittime nella sua squadra. Ora aveva preso la sua decisione. Avrebbe lasciato il servizio attivo, non si sentiva più parte di un’organizzazione che, al suo interno aveva persone ai vertici della dirigenza che facevano il doppio gioco e avevano cercato di far uccidere lui e i suoi uomini. Era l’unica attività che conosceva e sapeva svolgerla al meglio delle sue capacità. Aveva esperienza in tutti i settori e gli anni lo avevano corazzato dalle iniziali debolezze sulla vita e la morte e oggi era in grado di portare a termine qualsiasi missione gli fosse assegnata. Voleva affrontare la sua situazione con William, l’amico William che lo aveva fatto assumere alla CIA e che, a Langley, ricopriva una posizione di vertice. Doveva a questo punto cambiare i suoi piani. Sapeva che gli agenti locali della CIA ad Atene, informati da Idris del suo programma di viaggio, lo avrebbero atteso all’isola di Chios o al successivo arrivo aereo ad Atene. Era proprio quello che voleva evitare. All’arrivo del peschereccio a Izmir si mise in contatto telefonico con il fratello di Idris e gli disse di aver cambiato idea e di voler l’indomani proseguire con un volo interno in direzione di Ankara. Aveva urgente bisogno di mettersi in contatto con l’Ambasciata Americana e con i suoi colleghi locali della CIA. Non aveva bisogno di assistenza ma si sarebbe fatto vivo l’indomani prima della sua

partenza. Aveva poi repentinamente chiuso la telefonata. Il suo vero programma invece prevedeva un viaggio in autobus da Izmir a Cesme. Da questa cittadina turca si sarebbe imbarcato sul ferry che, in tre quarti d’ora, lo avrebbe portato all’isola greca di Chios. Il suo era un rischio calcolato, anche se si era reso subito conto che i controlli all’imbarco erano molto blandi. Il giorno successivo l’agente Johnson saliva sul volo OA 767 da Chios ad Atene su un De Havilland Dash 8. La sosta ad Atene fu breve. Doveva rendersi nuovamente presentabile avendo volutamente viaggiato con i malandati abiti forniti da Idris a Istambul. Lasciò la sacca al deposito bagagli dell’aeroporto e si recò in centro città per acquistare alcuni vestiti e un completo guardaroba senza badare a spese. Pagava la CIA e lui anticipava soltanto il denaro di cui la sua bisaccia era ben fornita. La preziosa sacca conteneva anche documenti che gli consentivano di assumere diverse identità. Non aveva trovato nessuno ad attenderlo né a Chios né tantomeno ad Atene e la stessa sera proseguiva con un volo diretto per Zurigo in Svizzera. Nella città elvetica stabilì telefonicamente l’appuntamento con una delle primarie banche svizzere con sede nella prestigiosa Bahnhofstrasse. Conosceva bene diversi funzionari della banca per aver più volte trattato direttamente in sede i suoi affari. Erano ormai parecchi anni che viveva sulle spese dell’Agenzia e riusciva a risparmiare tutto il suo lauto stipendio e i vari aggiuntivi premi ricevuti. A questi considerevoli risparmi aveva anche aggiunto denaro che agenti del suo livello spesso ottengono in modo più o meno lecito e che viene tollerato come “bottino di guerra” dalla direzione dell’Agenzia. Era stato anche fortunato negli investimenti che, a onor del vero, era stata la Banca a consigliare e il suo patrimonio si era notevolmente rafforzato. In altri termini la sua situazione economica era molto soddisfacente e avrebbe potuto consentirgli di vivere agiatamente per il resto della vita. Adesso aggiungeva ai suoi beni anche il contenuto della sacca che non intendeva in alcun modo restituire alla CIA. Terminato l’incontro con la Banca iniziava la parte più delicata del piano. Prendere contatto con il suo mentore all’Agenzia, convincerlo a un incontro privato per trattare con lui la sua uscita dalla CIA. La telefonata con Langley fu breve e veloce. William Stanley era uno dei più influenti funzionari dell’Agenzia. Lui e Mathias erano cresciuti insieme

nonostante differenze sociali e origini molto diverse fra le loro famiglie. Era stata proprio l’amicizia di William a impedire che il giovane Johnson prendesse la strada accidentata dell’illegalità che aveva caratterizzato la vita del padre e del fratello. Il loro era stato un percorso di profonda fratellanza nel quale avevano condiviso gioie e sofferenze dell’adolescenza, si erano innamorati delle stesse ragazze, si erano battuti l’uno per l’altro, avevano le stesse ioni per lo sport e per l’avventura. Uno dei luoghi a cui erano rimasti entrambi legati era una capanna su di un laghetto del Maine dove si arrivava esclusivamente per impervi sentieri noti soltanto a qualche locale cacciatore. Vi erano andati molto spesso da ragazzi e nei primi anni da adulti. Il terreno per miglia apparteneva alla famiglia Stanley, i genitori di William che, a loro volta lo avevano ereditato dai loro antenati che, primi coloni della zona, lo avevano sottratto agli Abenaki, tribù di indiani di lingua algonchina. I due ragazzi pescavano, cacciavano in un mondo silenzioso e il contatto con la natura era stato da sempre per entrambi fonte di gioia. Nella veloce telefonata William si era tranquillizzato. Era ovviamente preoccupato per l’amico di cui non aveva notizia da una settimana. Aveva anche, senza esitazioni, accettato di vedersi in “paradiso” così chiamavano il loro rifugio. Anche se la telefonata fosse stata intercettata nessuno, al di fuori di loro, aveva idea di cosa potesse essere il “paradiso”. Qualche giorno dopo arrivarono entrambi all’appuntamento con dei piccoli idrovolanti affittati in località diverse ma vicine alla zona Fra l’altro erano ambedue ottimi piloti. arono due giorni e una notte nella capanna del lago. William capiva lo stato d’animo del suo amico che, per due volte consecutive, aveva visto la morte sfiorarlo per motivi che risalivano ai vertici dell’Azienda. Tentò in ogni modo di convincerlo a restare prendendosi un periodo di aspettativa durante il quale egli avrebbe tentato di risanare il sistema. Gli offrì anche una posizione amministrativa e non operativa a Langley. Mathias fu irremovibile. L’attività di agente era per lui la vera ragione di vita. La svolgeva con abilità e perizia e negli anni le sue capacità lo avevano proiettato, all’interno della CIA, in una sfera di primo piano per le operazioni più rischiose.

Era aggressivo e polemico sia sul campo sia nei rapporti con i suoi superiori. Aveva ricevuto lodi ed elogi ma si era anche creato un nutrito numero di nemici e detrattori. La sua convinzione era che qualcuno, nelle alte sfere, avesse tentato di farlo fuori. Voleva continuare la sua attività nella CIA ma a modo suo e soprattutto non voleva morire in qualche agguato organizzato ad arte. Sapeva di aver anche abusato dei suoi poteri e ogni tanto di aver infranto regole e direttive. Gli unici a quali era rimasto fedele erano i suoi uomini e aveva avuto molte testimonianze del loro rispetto. Questa era stata la prima volta che aveva abbandonato, a ignoti oppositori, uno dei suoi agenti feriti. Era una piaga che bruciava e non se ne era dato ancora pace. Sapeva che non sarebbe riuscito a uscire vivo da Istambul se avesse tentato di salvare anche il suo agente. Nello spietato mondo dei servizi segreti, anche se nessuno avrebbe mai osato dichiararlo, sarebbe stato meglio ucciderlo che lasciarlo a chi poteva poi interrogarlo, torturarlo e ottenere dichiarazioni compromettenti per l’Agenzia. Nei suoi lunghi anni di servizio aveva ucciso più persone senza provare particolari problemi di coscienza ma non si poteva chiedergli di eliminare un amico, un suo agente. Mathias ripeteva a William di non avere le prove ma di essere certo che qualcuno che entrambi conoscevano, al corrente dei dettagli delle operazioni in Spagna e Turchia, avesse tradito con il preciso intento di farlo uccidere. Sopravvivere a due operazioni considerate dei veri disastri era poco probabile. Lo avrebbero sicuramente accusato di incompetenza e forse di tradimento e la sua posizione, la sua vita, era ormai segnata. Ma così facendo dai loro ragione, è un comportamento il tuo da ammissione di colpa argomentò William. Credo che i miei lunghi anni di servizio, i successi di numerose operazioni, le mie ferite sul campo dovrebbero essere le prove della mia competenza, integrità e lealtà. Se inizia a insinuarsi la sfiducia, considerati i segreti che gli anni di servizio mi hanno consentito di possedere, non mi sentirei mai più al sicuro. Non ho voglia di vivere il resto della mia vita guardandomi le spalle a ogni secondo. Non ho voglia di dormire ogni notte con la pistola sul comodino e per strada fermarmi a ogni vetrina per vedere se qualcuno mi segue. Posso sparire, so come farlo, ho i mezzi per farlo e se la CIA ha ancora fiducia in me sono pronto a lavorare come agente esterno su commissione.

Mathias sai che gli agenti esterni sono solo degli assassini professionisti. E quello che veramente vuoi ? Perché in questi anni che cosa abbiamo fatto d’altro se non uccidere, falsificare, inquinare sottomettere e corrompere persone e cose ai nostri interessi. Che differenza fa? Questo mestiere lo so fare bene e a Langley lo sanno. Se non faccio più parte dell’agenzia, anche se fallisco un incarico, la responsabilità è mia, non sono più un dipendente della CIA e non posso più danneggiare o compromettere il mio datore di lavoro. Continuarono a lungo nella loro discussione ma, alla fine, ognuno rimase sulle proprie posizioni e con rammarico si separarono con la percezione che forse anche la loro amicizia si era incrinata. Mathias, come stabilito, cambiò identità e iniziò una nuova vita. Amava viaggiare e ne approfittò muovendosi in lungo e largo negli Stati Uniti, come un turista qualunque. Aveva cambiato alcune identità per non lasciare tracce evidenti, anche se forse nessuno si stava curando di lui. Il contatto avvenne inaspettatamente cinque mesi dopo. Prima di lasciarsi con William avevano concordato la procedura da seguire qualora la CIA avesse eventualmente accettato di servirsi delle sue prestazioni. Un annuncio su Ebay nella categoria “lost and found” dove abitualmente si inserivano fotografie di cani e gatti persi e ritrovati. Rispetto alle altre categorie di questo mercato mondiale, i cani e gatti persi erano tipologia da pochi annunci, più facili e semplici da controllare. Il messaggio concordato avrebbe avuto come oggetto un cane lupo nero, di nome Rocky, perso nel quartiere Cicero di Chicago. Si pregava chi lo avesse visto o avesse informazioni al riguardo di telefonare a un numero locale. Mathias chiamò presentandosi, come concordato, con un nome convenzionale. L’enunciazione fu rapida ma completa negli aspetti essenziali che riguardavano il bersaglio. Le condizioni erano anch’esse prestabilite, salvo casi particolari e questo non lo era. Il compenso di cui la metà sarebbe stato versato in anticipo su di un conto nelle isole Cayman, conto transitorio da dove l’importo avrebbe raggiunto a tappe, con gli opportuni filtri, la sua finale destinazione in Svizzera. A lavoro ultimato l’altra metà avrebbe percorso lo stesso tragitto. Non vi era un tempo prestabilito per l’esecuzione ma, nella pratica si considerava che due mesi

fossero un periodo necessario per portare a termine il lavoro. I dettagli dell’obiettivo erano pochi ma essenziali. Il nome: Alan Kay, almeno quello ufficiale. L’attività: proprietario della Winsun Limited, società di import / export nel settore macchinari e impianti. Domicilio: San Francisco. Per il resto toccava a lui completare il quadro. Procurarsi fotografie del soggetto, analizzare vita e abitudini, verificare scorte e protezioni insomma mettersi nella situazione migliore per portare a termine l’incarico. D’altra parte era pagato profumatamente per affrontare anche la parte della progettazione. Ci vollero quindici giorni circa per farsi un’idea delle reali attività del suo bersaglio. Riuscì ad ottenere le migliori informazioni da una delle segretarie dell’ufficio che, piuttosto bruttina, sembrava apprezzare molto la corte di Mathias. Ottenne dei ragguagli sulla vita della sua vittima, prese atto che l’uomo non era abitudinario e che cambiava costantemente orari e routine di vita. Due uomini di scorta lo seguivano sempre nel percorso quotidiano fra gli uffici e l’abitazione. Non era sposato ma frequentava parecchie donne. Si era fatto un’idea e la verificò con un amico che, in Europa, ad Amsterdam, conosceva bene il mondo sommerso di affari illeciti. Ebbe sentore che la società collegata al suo uomo trafficava in armi e i suoi maggiori clienti erano i paesi arabi dell’aerea mediterranea. Iniziò per quanto possibile a pedinare il soggetto studiando le varie alternative per scoprire il luogo e il momento ideale per eliminarlo. Credeva in quella che definiva una “esecuzione pulita”. Disprezzava, anche se in ato ne aveva fatto uso l’utilizzo di esplosivi. Aveva, a modo suo, rispetto per la vita umana e avrebbe considerato un crimine coinvolgere degli innocenti nelle sue azioni. Delle armi da fuoco di cui si serviva l’M40 era l’arma che prediligeva e di cui si considerava uno specialista. Arma leggera, quattro chilogrammi, caricatore estraibile da cinque colpi, tiri utili 800 metri. L’approccio all’azione era sempre basato sulle possibilità di potersi avvalere della sua arma preferita. Le giornate organizzative erano spesso intense e di frequente monotone e tediose. Ore a osservare i movimenti del suo obiettivo, i luoghi dove viveva e dove lavorava. Sia la villa a Sausalito a pochi chilometri dal Golden Gate bridge sia gli uffici situati downtown, in Market Street, si prestavano poco a un’azione come avrebbe desiderato condurre. Tutto attorno alla villa, recentemente costruita, prato all’inglese, poche piante, nessun cespuglio dove poter nascondersi. Ai lati da tutti i versanti c’erano altre case, tutte abitate, tutte recintate. La facciata della villa, prospiciente alla strada d’accesso era l’unica

posizione nella quale, in una vettura posteggiata, si poteva ragionevolmente pensare di programmare un attentato. Tuttavia la presenza persistente di una vettura avrebbe suscitato troppi e immediati sospetti. Era un piano che aveva poche possibilità di successo. Per quanto riguardava gli uffici, gli stessi si trovavano in uno stabile al ventesimo piano. L’edificio non aveva ai lati altri caseggiati della stessa altezza. Non era quindi ipotizzabile un tentativo di sparare a distanza. Al ventesimo giorno di osservazione si verificò l’evento che avrebbe risolto i suoi problemi. L’uomo era uno sportivo e, dopo un periodo di affaticamento e influenza, aveva ripreso la pratica di un quotidiano jogging. Prima di recarsi in ufficio, dopo aver attraversato il Golden Gate, Alan Kay si fermava nella Central Avenue a pochi i dal Buena Vista Park. Uno dei due uomini di scorta rimaneva nella vettura, l’altro lo accompagnava nel footing mattutino. Entrambi erano equipaggiati con tute e scarpe di ginnastica. Al termine delle loro corse una rinfrescante doccia e cambio d’abiti li attendeva nell’ufficio di Market Street, distante, traffico permettendo, meno di dieci minuti di auto. Il Buena Vista Park è un luogo molto amato dagli abitanti di San Francisco. Un’oasi, anche se piccola, di verde in mezzo a quartieri densamente abitati. Il Parco era costituito da una collina dalla cui cima si godeva una bellissima vista su parte della città. Alberi secolari in mezzo ad una rigogliosa vegetazione, dal punto di vista di un sicario il luogo ideale per un attentato. Mathias si assentò dalla città per un breve viaggio. Si recò a Los Angeles dove disponeva di un piccolo appartamento utile sia come rifugio sia quale magazzino per custodire armi, munizioni e attrezzi propri alla sua attività. In particolare necessitava dell’arma che gli sarebbe servita per l’attentato. Il suo Remington M40 era un vero gioiellino, era costato una fortuna ma ne era valsa la pena. Un artigiano aveva realizzato un capolavoro di assemblaggio. Il fucile smontato, compreso il treppiedi, trovava posto all’interno di una normale ventiquattrore Samsonite. L’unico pezzo che avrebbe, a fine lavoro, sostituito e di cui aveva un’ampia scorta, era la canna. Lasciava segni inconfondibili sui proiettili esplosi e consentiva di associare l’autore di attentati diversi. Al suo ritorno a San Francisco si concentrò sulla conoscenza del parco in ogni suo aspetto e settore. Dopo pochi giorni ne conosceva ogni sentiero, ogni albero,

ogni scalino. Alan Kay e la sua guardia del corpo seguivano ogni giorno lo stesso percorso e mediamente salivano due volte fino alla cima della collina impiegando complessivamente circa mezz’ora. Trovò a metà percorso l’angolo perfetto per il suo piano. Fra due enormi alberi, molti arbusti consentivano un’ottimale mimetizzazione. A circa 100 metri si snodava il sentiero che i due uomini percorrevano quotidianamente. Cambiando, come faceva d’altronde ogni giorno, aspetto, vestiti, magliette e soprattutto berretti prese in affitto uno scooter da un’agenzia locale. Inventò la scusa di aver dimenticato le sue carte di credito e lasciò, quale garanzia, un apprezzabile deposito in contanti. Naturalmente lo fece con una nuova e diversa identità. Con un ampio berretto da tifoso di baseball, calato il più possibile sulla fronte e con gli immancabili occhiali scuri, era di difficile descrizione per qualsiasi futura indagine sulla sua persona. Il giorno prescelto per l’azione si recò al Parco alle prime luci dell’alba. Alle dieci del mattino i due jogger non era ancora ati. Attese di malavoglia ancora mezz’ora. Aveva osservato, in tutte le mattine precedenti, che il suo obiettivo iniziava il percorso fra le sette e mezzo e le otto del mattino. Oltretutto verso metà della mattinata aumentavano i visitatori, soprattutto gente che portava a so il proprio cane. La sua presenza, anche ne nascosta, diventava a rischio. Durante la serata seppe dalla sua amica dipendente della Winsun Ltd. che Kay era partito per un viaggio. Non sapeva quando sarebbe tornato. Lei lavorava in contabilità e dei movimenti del capo aveva notizie solo per interposta persona. Ostentava molte conoscenze nell’azienda fra le quali la segretaria di Kay. Mathias tuttavia non voleva dimostrare troppe curiosità sul proprietario della Winsun. Terminato il lavoro, la sua amica avrebbe potuto insospettirsi e riferire i suoi dubbi alla polizia. Era, in quel contesto, l’unica che lo aveva visto bene e che, ben consigliata avrebbe potuto contribuire alla stesura di un suo identikit. Doveva quindi rassegnarsi e attendere pazientemente il ritorno dell’oggetto del suo impegno. Erano gli incerti del suo mestiere. Tante attese, ansie, inquietudini, ore, spesso giornate, di appostamenti molte volte in luoghi disagiati, al freddo, al caldo, pause con speranze e delusioni e poi l’azione, l’adrenalina del sistema

nervoso. Aveva fatto il ritratto dell’esistenza di un agente segreto, della sua vita, di una realtà che aveva anche altri aspetti positivamente pragmatici. Concludeva sempre queste sue riflessioni con la considerazione che in ogni caso era l’unico mestiere che conosceva e che, metteva a frutto il meglio di tutte le sue abilità. Una settimana dopo Alan Kay ritornò dal suo viaggio. Dopo un paio di giorni riprese le sue corse mattutine al Buena Vista Park. Mathias ormai non aveva più nulla da programmare. Doveva soltanto decidere il momento dell’azione. Era una mattina piovigginosa e dopo un’ora di attesa fra gli arbusti Mathias sentiva l’umidità nelle ossa ed era infreddolito. Nel mirino telescopico del suo M40 vide per primo la guardia del corpo di Kay. La sua vittima seguiva a pochi metri. La visuale era perfetta. Lui, pur disteso negli arbusti aveva una posizione leggermente più alta della sua vittima che, correva in posizione eretta. L’unico breve e intermittente intralcio era l’uomo che correva prima di Kay. Entrambi, come tutti gli jogger correvano, soprattutto in un’ardua salita, oscillando a destra e sinistra. Avrebbe mirato alla testa, era il bersaglio più sicuro, considerando che intendeva sparare un solo colpo. Pochi attimi, il volto di Alan Kay che si alternava nel mirino a quello della sua guardia del corpo, poi la decisione, il dito che seguendo l’ordine della mente preme il grilletto. Nessun rumore, il silenziatore provocava solo un breve fruscio, il rinculo del fucile venne attutito dai treppiedi. Il guardia spalle non si accorse di nulla continuando la sua corsa. Kay cadde pesantemente in avanti e dal mirino del suo fucile Mathias vide chiaramente il grosso foro sulla tempia della sua vittima. Era il momento più delicato del suo intervento. Era a circa trenta metri dall’uomo di scorta che non si era ancora accorto di quanto era avvenuto alle sue spalle. Si alzò rapidamente da terra e si buttò a capofitto alla sua sinistra lungo il ripido sentiero che lo avrebbe portato fino alla base della collina, dove aveva posteggiato il suo scooter. Aveva più volte simulato la fuga cronometrando i tempi. Aveva anche calcolato che, quel giorno, la carabina e il treppiede lo avrebbero penalizzato nei tempi di discesa. Molto dipendeva dalla reazione della guardia del corpo, dai suoi riflessi e dalla possibilità che avesse intuito da che parte della collina era fuggito. Raggiunto lo scooter non avrebbe comunque avuto il tempo di smontare il suo

fucile e riporlo nella custodia della Samsonite. Doveva, anche se era una scelta rischiosa, mettere la carabina a tracolla e fuggire. Aveva una breve distanza da percorrere e sperava di non incrociare nessuna pattuglia di polizia. Appena messo in moto il suo scooter vide con la coda dell’occhio un uomo scivolare lungo la collina del parco. Doveva attraversare Haight Street e imboccare a cinquanta metri Lyons Street. Un percorso brevissimo e in meno di tre minuti era arrivato a Panhandle, un’estensione del parco del Golden Gate, una striscia di verde che divideva lunghi isolati di grandi edifici. Anche questa un’oasi di verde anche se di dimensioni ridotte rispetto al Buena Vista Park. Si addentrò subito in un sentiero che lo avrebbe portato in una zona poco frequentata dove aveva individuato fra parecchi cespugli un possibile nascondiglio. Si inoltrò fra gli arbusti, lasciò cadere per terra lo scooter, smontò il fucile lo mise in ordine nella sua custodia, cambio abbigliamento mettendo altra maglietta e berretto con colori diversi e in meno di due minuti raggiungeva la sua vettura parcheggiata lì vicino in Oak Street. Allontanandosi dalla zona sentiva l’avvicinarsi di sirene della polizia. Sapeva che erano sulle sue tracce. Pochi giorni dopo gli eventi riscosse il resto del compenso per la sua prestazione, corrispettivo che segui lo stesso tormentato percorso dell’anticipo per finire regolarmente nei suoi conti in una banca svizzera. Nei successivi due anni gli furono assegnati altri tre casi. Un trafficante di droga a Miami, un funzionario dell’ambasciata di un paese dell’est a Roma e un losco trafficante di emigranti a Tijuana al confine con il Messico. Dall’ultimo incarico erano trascorsi solo pochi mesi quando apparve su Ebay un nuovo messaggio. La struttura della notizia era quella concordata. Il cane ricercato si chiamava Rex, il quartiere Covington, la città Cincinnati. Le iniziali erano quelle previste una R e due C. Scattò subito durante il contatto telefonico un segnale d’allarme nella mente di Mathias. Era come una premonizione, nulla di realmente concreto, più che altro un’intuizione. Nei precedenti collegamenti le istruzioni erano state sempre schematiche, veloci, brevi e condensate. Questa volta erano quasi prolisse e ripetitive. Ebbe la sensazione che si volesse allungare i tempi della telefonata per individuare la località dalla quale stava chiamando.

Il bersaglio era un russo, veniva definito un uomo d’affari, un ricco possidente terriero, proprietario fra l’altro di enormi torbiere. Viveva in Russia ed era prevista una sua visita d’affari in Canada, nella zona del Quebec, dove intendeva acquistare terreni nel New Brunswick. Aveva una nutrita scorta di uomini, ben armati e non si aveva conoscenza di quanto tempo si sarebbe fermato in Canada. Sembrava un’azione anomala così come inconsueta era la richiesta di successivamente richiamare per una conferma della data e dell’aeroporto d’arrivo dell’uomo in Canada. Una missione fuori dalle regole e dalle consuetudini per questo genere di azioni. Aveva tutta l’aria di una trappola. Il bersaglio si chiamava Anton Kozlow. Mathias aveva sperimentato in questi ultimi quattro anni da agente autonomo quanto fosse problematico mantenere attiva la rete dei suoi informatori. Non era una preoccupazione economica. Le informazioni costavano e lui era pronto a pagarle. Era principalmente una questione di baratti. Do ut des. Quando lavorava all’Agenzia riusciva sempre, anche se non era del tutto etico, a ricambiare le informazioni ricevute con altre che venivano richieste. Adesso non aveva nulla da offrire, soltanto denaro e le sue fonti si erano ridotte notevolmente, soprattutto in giro per il mondo. Nel caso specifico si era rivolto al suo amico Murzin, un ex agente del KGB che lavorava in proprio. Non aveva nulla di preciso su Anton Kozlow. Si sapeva solo che si era arricchito con il grano, facendo da agente per venditori americani nei momenti di crisi dell’agricoltura russa. Era tutto quello che aveva ricavato dalle informazioni ricevute. Apparentemente nessun motivo da giustificare un’esecuzione. Forse esistevano scheletri negli armadi di Kozlow che Murzin non conosceva, oppure era fuori dal giro delle informazioni che contano. Il bersaglio era mobile, si sarebbe spostato in zone disabitate, dove sarebbe stato difficile per Mathias mimetizzarsi. Il tempo dell’esecuzione era limitato, la durata dipendeva da quanto si sarebbe fermato in Quebec e non si conosceva neanche la data precisa d’arrivo. Non c’erano le condizioni per portare a termine il lavoro. Era strano che William avesse lasciato inoltrare una proposta che sapeva Mathias non avrebbe accettato. Si era ripromesso di non chiamare più il suo amico. Di certo non lo avrebbe contattato nella sede della CIA a Langley. Le sue linee potevano essere

controllate e se lo erano avrebbe allarmato chi forse, cercava di incastrarlo. Cercò di risolvere il problema prendendolo alla larga. Chiamò la villa degli Stanley a Westbrook vicino a Portland nel Maine. Conosceva perfettamente i genitori di William. Aveva frequentato per anni la loro casa ed era sempre stato trattato più come un figlio che un ospite. Al telefono rispose il vecchio Alexander che aveva vissuto una vita come domestico della famiglia. Adesso era anziano e nessuno aveva avuto il coraggio di mandarlo in pensione. Aiutava, con la sua esperienza, il personale più giovane e cercava che tutto filasse al meglio nella gestione della villa. Dopo i convenevoli Mathias chiese ad Alexander se William fosse per caso in villa. Vi fu un attimo di silenzio poi la voce dell’uomo si incrinò per l’emozione. Signor Mathias ma non lo sapete? Non so nulla Alexander, torno adesso da un lungo soggiorno all’estero e mi chiedevo, dove fosse il mio amico. E morto, signor Mathias, è terribile. E stato un incidente d’auto, circa due settimane fa. I funerali si sono svolti la settimana scorsa a Portland. Mathias era a New York e chiamava da una cabina telefonica. Quando era all’Agenzia era molto fiero del suo autocontrollo. La vita solitaria degli ultimi anni aveva indubbiamente scalfito le sue sicurezze. Rimase senza parole, con il telefono in mano, il cuore che batteva all’impazzata. Aveva perso il suo miglior amico e protettore. Adesso sapeva che il lavoro commissionato era un tranello e che i sospetti per i quali aveva lasciato l’Agenzia erano autentici. Il suo successivo primo pensiero fu rivolto alla telefonata di due giorni prima. Aveva avuto dei sospetti ma adesso aveva la certezza che il tempo trascorso era stato sufficiente a reperire la città, il quartiere, il numero della cabina telefonica che aveva usato. Per vecchia abitudine e cautela cambiava di continuo i telefoni pubblici che utilizzava. Aveva usato una cabina di Pearl Street nel settore finanziario della città. Probabilmente da Langley avevano analizzato ogni dettaglio della chiamata compresi tutti i rumori di fondi che potevano essere isolati. Alcune volte questa pratica aveva dato ottimi risultati.

Sapevano quindi che lui era in città. Non sapevano il nome che utilizzava perché apparteneva a un archivio che si era creato nel tempo e non sapevano neanche chi fosse l’abile artigiano che ad Amsterdam, anni prima, gli aveva fornito diverse identità che rappresentavano un suo bene prezioso. Non era certo ma era possibile che avessero avvertito la Polizia locale fornendo sue fotografie. Doveva evitare stazioni ferroviarie, traghetti, aeroporti, linee di autobus a lungo raggio, anche la metropolitana, tutti luoghi facilmente controllabili anche se in una metropoli del genere erano di complicata verifica. Non chiamando nuovamente il numero di Ebay, come gli era stato chiesto, era come annunciare di essere consapevole delle loro intenzioni. Telefonare era altrettanto pericoloso perché se rapidamente localizzata la chiamata potevano arrivare rapidamente a lui. Decise che la soluzione migliore era quella di nascondersi per un poco di tempo e lasciare che le loro ricerche in città si esaurissero. Prese un taxi e si fece portare nell’undicesima strada a Union City nel New Jersey. A pochi isolati di distanza, nella New York Avenue al numero venti, aveva un piccolo alloggio che gli serviva, come quello di Los Angeles, quale rifugio, in casi di necessità, deposito di materiale e nel cortile dello stabile aveva posteggiato una vettura pronta ad ogni evenienza. A pochi metri dal portone dello stabile si trovava un negozietto messicano con ogni genere di provviste. Si rintanò nel suo rifugio per tre settimane senza quasi uscire da casa se non sporadicamente per qualche indispensabile acquisto. La forzata volontaria clausura gli concesse il tempo e l’opportunità di riflettere a fondo le scelte della sua vita, il presente e il futuro entrambi molto incerti e il ato che ritornava violentemente nella sua esistenza. All’origine dei suoi problemi, come di frequente capita nella vita, il verificarsi di una singolare coincidenza. Era in Svizzera a Losanna in incognito, in un breve viaggio personale organizzato in un lungo week end. Era partito un giovedì pomeriggio da Washington con un volo diretto per Zurigo per sistemare alcune pendenze dei suoi averi presso la Banca Svizzera. Un’occasionale avventura gli aveva fatto ritardare il ritorno negli Stati Uniti e lo aveva invece trascinato fino a Losanna. Aveva soggiornato al Beau Rivage, uno splendido albergo sulle rive del Lago Lemano. Lei lo aveva lasciato al mattino successivo direzione

Friburgo, dove l’attendeva un devoto marito e un paio di figli. Mathias era sceso nell’atrio dell’albergo che era particolarmente affollato da una comitiva di asiatici in partenza. Anche il lungo bancone della reception era pieno di clienti. Stava consultando con il portiere gli orari ferroviari. Doveva tornare a Zurigo per riprendere il volo verso Washington. Nonostante l’attenzione che prestava alla ricerca del portiere era, per abitudine, attento e vigile a quanto avveniva intorno a se. In mezzo alla folla vide un volto che gli era familiare. Il suo primo impulso fu di stupore. Aveva a pochi i da lui Rudolph Maethner, uno dei direttori più potenti della CIA. Lo conosceva appena per averlo incontrato, nei suoi uffici, un paio di volte. Si diceva di lui che aveva dedicato tutta la vita all’altare dell’Agenzia. Si sosteneva fosse per lui un’idea fissa. Si insinuava che non avesse casa, famiglia, parenti, nessun altro interesse al di fuori dell’attività lavorativa. Si spettegolava che non uscisse mai dai cancelli di Langley e adesso era lì, in un lussuoso albergo svizzero e stava velocemente uscendo dal portone. Era certo che non si fosse accorto di lui, sembrava teso e inquieto. D’istinto Mathias, per deformazione professionale, ringraziò il portiere che non aveva ancora terminato la sua ricerca, uscì dall’albergo e lo seguì. A meno di cinquecento metri dal Beau Rivage, il castello d’Ouchy, un altrettanto noto albergo di lusso direttamente sul lago. A pochi metri dal castello il pontile della CGN la Compagnia di Navigazione sul lago Lemano. Maether camminava veloce e si dirigeva verso l’imbarcadero. Attraccato al molo il battello “La Suisse” un’imbarcazione d’epoca perfettamente operante. Maethner salì a bordo. Mathias diede un’occhiata veloce al programma del battello che stava per partire. Era una crociera di circa tre ore che avrebbe fatto scalo in alcune note località turistiche offrendo anche, data la splendida giornata di sole, una meravigliosa vista sulle Alpi. Pagò il biglietto e si unì agli ultimi turisti che salivano a bordo. Cercò subito di individuare, dove era andato Maether e vide che parlava con qualcuno di fronte al ristorante sul ponte inferiore. Cercò di mimetizzarsi

unendosi a una comitiva che era salita al piano superiore dell’imbarcazione. Lasciò are del tempo prima di muoversi dalla panchina dove si era rifugiato. Scese con cautela le scale e dove queste svoltavano ebbe una visione chiara del ristorante e scorse nuovamente Maethner di spalle e la persona che era con lui di fronte. Fu il secondo evento imprevedibile della giornata. Un uomo di colore olivastro, capelli ricci, bassa statura, baffetti, spessi occhiali da vista, l’aspetto tipico di un mediorientale. Anche se gli occhiali modificavano un poco il suo aspetto quell’uomo, lo aveva impresso nella sua mente, aveva analizzato le sue fotografie molte volte, era uno dei volti degli uomini di Al Queda maggiormente ricercati. Un Yemenita da anni ricercato con una grossa taglia sulla sua cattura. Mathias era confuso, non sapeva cosa pensare, se stesse assistendo a uno straordinario evento in cui la CIA concludeva accordi che avrebbero portato a grandi risultati sul fronte del terrorismo oppure alla perversa scoperta di un traditore ad altissimo livello. Decise di aver visto a sufficienza e scese dal battello alla seconda fermata di Montreux. La sua permanenza a bordo, dato lo spazio comunque ristretto, poteva essere scoperta e non voleva che ciò avvenisse. Prese un taxi e si fece riportare velocemente a Losanna. Chiese al tassista di fermarsi in un negozio di fotografie e acquistò una Nikkon reflex con un potente teleobbiettivo, macchina fotografica che conosceva a perfezione essendo un apionato fotografo. Si fece portare al pontile da dove era partito il battello “La Suisse”, cercò il miglior punto di osservazione e attese l’arrivo dell’imbarcazione. I due uomini scesero separatamente ma le prime fotografie che scattò li ritraevano in prospettiva a circa 10 metri l’uno dietro l’altro e le immagini erano inequivocabilmente rappresentative. Lasciò are un poco di tempo, rientrò in albergo, mise in valigia i suoi pochi effetti personali, la macchina fotografica e, tornato nell’atrio si avviò alla cassa posta sul lato del bancone della reception. Sig. Johnson come sta? Si girò e vide di fronte a se Maethner. Il mestiere e lunghi anni di pratica lo avevano addestrato a dominare ogni emozione e dal suo volto non trasparì nessun turbamento o apprensione. Dott. Maethner che piacere incontrarla.

Come mai qui Mathias? Affari privati dottore, un viaggio veloce per sistemare alcune pendenze finanziarie. La Svizzera è fatta per questo, no! Ho dormito poco stanotte e questa mattina ho cercato di ricuperare il sonno perso! Confesso di essermi alzato soltanto adesso e sto andando in stazione per partire per Zurigo. Io sono qui per un raduno familiare rispose Maethner. Qui sono le mie origini, anche se sono nato negli Stati Uniti. Tutti i miei parenti vivono in questa terra. Anch’io sto per partire aggiunse, ho l’aereo dell’Agenzia all’aeroporto di Ginevra, perché non viene con me e rientriamo insieme? La ringrazio ma devo ancora chiudere una pratica a Zurigo e rientrerò a Washington martedì. Va bene mi ha fatto piacere vederla disse con un’espressione cordiale ma nei suoi occhi, Mathias, vide, o ritenette di vedere, segnali di ansia, inquietudine e paura. Due giorni dopo lasciava Zurigo dopo aver depositato in cassetta di sicurezza tutte le fotografie che aveva scattato a Losanna. Non sapeva cosa avrebbe fatto, era sconvolto, aveva cercato di valutare ogni aspetto delle due uniche scelte per cui poteva optare. Denunciare quanto aveva visto e produrre le foto a o della sua dichiarazione. Un tale accusa a uno degli uomini di più elevata posizione alla CIA poteva essere per lui fatale. Le fotografie si possono truccare, ci sono specialisti, proprio alla Cia, che possono costruire qualunque fotomontaggio anche quello del Presidente a braccetto di Bin Laden. Erano stati entrambi a Losanna ma questo non era un crimine. Avrebbe dovuto provare la presenza dello yemenita nella stessa città ma non ne aveva alcuna prova. Forse avrebbe dovuto seguirlo dopo che aveva lasciato l’imbarcazione. Non lo aveva fatto, era disorientato e aveva in mente soltanto di sparire, lasciare l’albergo e Losanna. Allora era solo la sua parola contro quella di un uomo molto più potente. Decise per il silenzio ma non riuscì a resistere fino in fondo e ne parlò con William, l’unica persona all’interno della Cia di cui si fidava ciecamente. L’amico condivise la sua scelta di non andare avanti con una denuncia. Dopo Losanna vennero le due operazioni in cui stava per rimetterci la vita. A

Marbella in Spagna riuscì ad evitare un agguato per un eccesso di prudenza. Aveva inviato un suo agente in avanscoperta sul luogo dell’incontro con gente che trattava operazioni importanti di clandestini che fuggivano dal Marocco. IL suo uomo si era accorto di anomalie sul territorio, aveva dato l’allarme ed erano riusciti a fuggire indenni. Poi i fatti dell’Hilton a Istambul. Anche qui qualcuno aveva tradito. Per Mathias era evidente che si era cercato di eliminarlo e l’unico motivo plausibile lo riconduceva a quanto aveva visto a Losanna. Anche William alla fine aveva condiviso le sue preoccupazioni, anche se aveva tentato di trattenerlo in servizio attivo a Langley. Delle foto scattate Mathias ne aveva tenuta una segretamente occultata su di un sito del web che solo lui conosceva. Era accessibile soltanto conoscendo una tripla impenetrabile . L’aveva mostrata a William. Adesso lui non c’era più e Mathias supponeva che l’incidente d’auto non fosse un evento della malasorte. Mathias ritenne che le settimane ate nell’alloggio nel New Jersey avessero raffreddato la tensione della sua ricerca. Non aveva più un lavoro e non aveva alcuna intenzione di cercarne un altro. Aveva abbastanza denaro da vivere di rendita. Si era reso conto che la vita randagia che aveva condotto negli ultimi anni non aveva senso. Il mestiere che si era scelto era amorale, per svolgerlo al meglio richiedeva totale dedizione e rinuncia a ogni parvenza di vita normale, una famiglia, dei figli degli amici. Non ne valeva la pena ma forse era ancora in tempo a rimediare, a costruirsi un’esistenza nuova e naturale. Aveva scoperto, nell’ultimo periodo della sua vita e relativa libertà, un incantevole paesino di pescatori. Era in Messico, fuori dalle rotte turistiche, lungo la ancora selvaggia e arida penisola di Baja California. Aveva conosciuto gente del posto, persone semplici, molto accoglienti che lo avevano accolto come un amico. Era andato a pesca con gli uomini del villaggio e il mare locale abbondava di prede eccitanti, grossi Blue Marlin, tonni enormi. Oltretutto aveva conosciuto una giovane bellissima ragazza, figlia di americani che si erano stabiliti nella zona da anni. Lei era forse il motivo principale per il quale aveva deciso di cambiare vita. Adesso era pronto. Avrebbe percorso l’America da nord a sud, avrebbe attraversato il confine messicano lasciando la sua vettura in Texas. Avrebbe pagato per entrare in Messico dagli impervi sentieri che venivano usati, in senso

contrario, dagli emigranti sudamericani diretti verso gli Stati Uniti. Non voleva lasciare alcuna traccia ai suoi inseguitori e sapeva che i valichi di frontiera erano non solo sorvegliati attentamente ma monitorati costantemente da videocamere. Aveva viaggiato ininterrottamente dal mattino presto, fermandosi soltanto per fare benzina. Aveva attivato tutti i suoi criteri d’allarme. Continuava a controllare lo specchietto retrovisore della vettura per vedere se qualche auto lo pedinasse. Se aveva un minimo sospetto diminuiva la velocità e si lasciava superare. Sorvegliava di continuo la sua velocità. Non voleva rischiare che qualche radar nascosto potesse far scattare un controllo della Polizia. Dopo tante ore di guida in tensione era stanco e affamato. Viaggiava sull’autostrada 95 e aveva da non molto lasciato alle sue spalle Petersburg in Virginia. Attraversato il confine con il North Carolina vide le insegne di Gaston e decise che era ora di fermarsi. Non amava i ristoranti delle autostrade, solitamente si mangiava male e chissà perché il personale era sempre scortese e scorbutico. Pensava anche al rischio di poter essere riconosciuto da qualche pattuglia che si fermava per una breve sosta e uno stimolante caffè. Continuava a immaginare che la sua fotografia potesse essere stata diffusa alle Polizie dei vari stati. I rischi di essere riconosciuto in un ristorante di una sperduta cittadina erano molto minori. Appena uscito dal raccordo autostradale, vide le insegne luminose di un ristorante messicano “Los Arcos”. Non gli importava poi tanto mangiare bene o male, aveva solo una gran fame e anche la probabile imitazione di cibo messicano andava bene per lui. Vide un edificio lungo e basso con alcuni negozi chiusi e, nella parte centrale, diverse vetrine illuminate. Era il suo ristorante. Quasi di fronte all’ingresso trovò un parcheggio libero. Fu tutto sommato una piacevole sorpresa. Il locale era pulito, abbastanza pieno da far pensare che la cucina fosse all’altezza, il personale gentile e simpatico. Provò l’enchiladas di pollo e fece seguire un piatto di pescado che consisteva in un branzino un poco pasticciato. Aveva intenzione, dopo la cena, di trovare un posto tranquillo in campagna e farsi una bella dormita in macchina. Quindi ci poteva stare anche una bottiglia di vino e perché no anche una tequila. Forse, anzi probabilmente si sarebbe pentito di aver ecceduto in cibo piccante e di difficile digestione. IL conto in ogni caso lo sorprese piacevolmente. Era

veramente a buon mercato. Il ristorante si era nel frattempo svuotato e uscendo vide parecchi posteggi vuoti. Un leggero vento fresco lo fece rabbrividire. Si diresse verso la sua macchina quando dall’oscurità intravide una vettura avvicinarsi. Non aveva i fari e lui se ne era accorto troppo tardi. Dai finestrini anteriori e posteriori aperti una sventagliata di mitra e Mathias rimase sul selciato con i suoi sogni infranti.