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L’ESTATE DEL DIAVOLO
Luigi Milani
Copyright © 2012 by Delirium Editions Cover design by Lorenzo De Luca Book design by Emily V All rights reserved. No part of this book may be reproduced in any form or by any electronic or mechanical means including information storage and retrieval systems, without permission from the Editor/Author. The only exception is by a reviewer, who may quote short excerpts in a review. First Release: November 2012 ISBN: 9788866071105
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L’ESTATE DEL DIAVOLO
Luigi Milani
Degli Astri celesti invocherò
il sacro splendore,
con voci conformi al rito,
chiamando i Demoni santi.
(Inni Orfici, Profumo degli Astri)
Gli uomini prima o poi se ne vanno
Prologo
«Gli uomini prima o poi se ne vanno, ricordatelo».
Questa la frase che era solita ripetere Paola Russo a sua figlia, come un mantra malevolo, quando la ragazza cominciò a frequentare l’altro sesso.
Voleva metterla in guardia, alla luce delle esperienze poco piacevoli vissute da lei nel corso degli anni. Non servivano Jung o Freud per capirlo, visto che Paola si era trovata ad allevare da sola sua figlia, dopo che il marito Emilio, funzionario di banca, l’aveva abbandonata per una, diciamo così, intraprendente collega.
1. Un’unione transitoria
«Una puttana, altro che “intraprendente collega”!» esplose la donna, fissando la foto sul comò, un’istantanea che la ritraeva in abito nuziale assieme al marito sul sagrato della chiesa, il giorno del loro matrimonio.
Due giovani di cosiddette belle speranze come tanti: lei, insegnante elementare, lui fresco d’assunzione in banca, rampante quanto bastava da sperare in una buona carriera, e non senza ragione, avendo ottenuto una sudatissima laurea cum laude in Giurisprudenza.
E così era stato, infatti. In capo a pochi anni Emilio aveva bruciato tutte le tappe, ando rapidamente da un modesto incarico di sportello a mansioni più importanti, fino a giungere alla carica di funzionario, con una possibile nomina a direttore di filiale all’orizzonte.
Fu proprio nel momento di maggior ascesa, a un o dall’apice del cursus honorum bancario, che accadde il fattaccio.
Apparve sulla scena Claudia Colletti, avvenente e disinvolta – beh, molto disinvolta, a detta delle solite lingue affilate – collega che, facendo leva sulla consueta vanità maschile, non tardò a irretire il brillante funzionario, trasformandolo in poco tempo in una specie di scimmietta ammaestrata.
Emilio abbandonò la moglie senza starci a pensare troppo, travolto da una ione che non aveva mai assaporato prima.
Quella donna gli faceva ribollire il sangue. Cosa importava se la maggior parte dei colleghi ammiccava al loro aggio? Anzi, sotto sotto Emilio era perfino gratificato dalle loro reazioni. E poi, in filiale, gli uomini mostravano di apprezzare la sua scelta. Lo invidiavano per le notti infuocate che certamente doveva trascorrere con l’avvenente collega.
Le donne, al contrario, non si sa bene se per reale convinzione o per ipocrisia, non esitavano ad additarli come fedifraghi. I loro strali si appuntavano in particolare su Claudia, rea di aver distrutto un matrimonio felice. La consideravano una rampante sgualdrina. E presto, vaticinavano le più navigate, una volta ottenuto il massimo tornaconto da quelle relazione, avrebbe liquidato lo sprovveduto schiavo d’amore per dedicarsi a nuovi e più proficui amori.
La giovane coppia andò a vivere in un nido acquistato a peso d’oro, un attico spettacolare in una zona esclusiva della capitale. La terrazza dall’esposizione magnifica, con una non meno formidabile esposizione sul conto in banca dell’ingenuo innamorato, si affacciava nientemeno che su Piazza di Spagna. L’arredamento fu all’altezza del luogo.
Emilio, dopo essersi sobbarcato un terrificante mutuo multi decennale, finì per normalizzare quello che era stato fino ad allora un rendimento lavorativo poco meno che eccezionale, con il risultato che la sua carriera entrò in una pericolosa fase di stand-by. Pericolosa non tanto per le sue prospettive lavorative, quanto per le conseguenze che non tardò a provocare nel suo nuovo assetto sentimentale.
A poco meno di un anno dall’inizio della torrida liaison, l’inarrestabile Claudia Colletti, dopo aver effettuato un’accurata ricognizione sul campo, individuò un’altra, più promettente vittima, e non ci pensò due volte ad abbandonare il vecchio amante.
Particolare non di poco conto, se l’adulterio non era durato che un anno o poco più, la sua fine non portò al riavvicinamento del transfuga con la famiglia legittima, posto che sua moglie Paola avesse accettato di perdonarlo. Paradossalmente, quella relazione era stata infatti spalleggiata, per non dire benedetta, dalla madre dell’uomo.
Quella donna altezzosa e severa, dal viso incartapecorito e i capelli di stoppa, non aveva mai visto di buon occhio il matrimonio del figlio con quella “sciatta maestrina”.
2. Chat
Paola aveva sempre odiato la mancanza di determinazione di Emilio. Anche durante il loro matrimonio, giungeva sempre il momento in cui suo marito finiva per trincerarsi dietro una cortina di risposte monosillabiche e timidi mugugni, un atteggiamento che la faceva letteralmente infuriare. Di solito accadeva quando si trattava di assumere decisioni importanti, o appena più impegnative del solito. Re del temporeggiamento, Emilio Dettori era il genere d’uomo che preferiva sottrarsi alle azioni più scomode, delegandole nel migliore dei casi alla moglie o, peggio, al caso.
«Credi di risolvere i problemi aggirandoli, tu. Dovresti stampare questo motto sul biglietto da visita, Emilio, “Decidere di non decidere”» lo rimproverò una volta Paola, al culmine di una lite scatenata da questioni condominiali che l’inerzia del marito aveva trasformato da normali contrasti tra vicini in vere e proprie cause civili.
«Ma no, è che voglio mantenere i rapporti su un piano di civiltà…» aveva obiettato lui, lo sguardo fisso sul pavimento.
«Storie, sei un debole, uno smidollato senza attributi. Ecco cosa sei! Ma vedrai dove ti porterà, la tua splendida politica!»
«Quale politica, che vai dicendo?» aveva ribattuto Emilio, in evidente affanno.
«Decidere di non decidere, caro Emilio» aveva ribattuto Paola, sconsolata.
Anni dopo – era riuscito a convincerlo ad accettare un incontro quando lui era già tornato a vivere alla casa materna – solo per averlo attaccato con particolare veemenza, lo vide dapprima impallidire e poco dopo accasciarsi sotto i suoi occhi.
Troppa emozione, pover’uomo.
«Suo marito è un animo eccezionalmente sensibile», diagnosticò, non senza un’ombra di sarcasmo, la dottoressa del Pronto Soccorso.
… Sarà stato anche fragile e “inadatto” ai normali stress della vita, eppure il coraggio di abbandonare la sua famiglia, beh, quello ha saputo trovarlo, cara Carla! E non cercare di giustificarlo, come quella vecchia megera di sua madre! Non cadere anche tu nella trappola della comione, ti prego! Certo che mio marito sarebbe potuto tornare a casa! Ma si è guardato bene dal farlo, lo stronzo. E questo è quanto!
digitò rabbiosa Paola, inondando di lacrime la tastiera del notebook, chattando con una amica d’infanzia, anche lei vittima di un matrimonio infelice.
Erano stati anni difficili, quelli successivi alla separazione, segnati da sforzi e sacrifici immani. Una figlia piccola da crescere, senza il sostegno economico di un marito dal quale non solo non si era mai separata, ma neppure riceveva un soldo.
Difficoltà lavorative, insicurezze, sempre a un o dal baratro, Paola fu costretta ad arrotondare il magro stipendio da insegnante impartendo ripetizioni.
Era ancora una donna giovane e attraente. Non le sfuggivano certe occhiate lanciate dai colleghi maschi, a dire il vero rivolte più al suo corpo che al viso, a conferma della sessualità spesso essenziale degli uomini. Quando la incrociavano nei corridoi dalle lunghe pareti bicolori, con gli appendiabiti bassi per i grembiulini dei bambini, non risparmiavano gli sguardi. A volte si soffermavano a scambiare commenti tra loro. Paola poteva ben immaginare, e in fondo non le dispiaceva troppo farlo, le loro parole.
3. Il sapore del sangue
La prima volta lo fece per una sorta di contorta rivincita nei confronti del marito. Per mettersi alla prova e verificare se poteva ancora risultare interessante. Anche in quel senso lì, sì.
Scoprì di piacere ancora. In un modo diverso da prima, però, quando era una donna sposata. Ora piaceva veramente agli uomini.
Sperimentò vari amanti tra i suoi colleghi, incurante delle convenzioni sociali, in spregio aperto di una moralità che ora le appariva ridicola, superata, bacchettona.
Da qualcuno di essi accettò, dapprima ritrosa, poi via via sempre più indifferente, anche denaro.
Cominciò così.
In fondo vendere il proprio corpo non era poi un cattivo affare. Poco sforzo, ottimi risultati.
Lo faceva due volte a settimana, recandosi per l’occasione in una cittadina della provincia a un’ora di treno. Esercitava in una villetta affittata assieme a Livia, sedicente sfortunata fotomodella, cocainomane persa, che aveva intrapreso la stessa carriera.
Si procurò i primi incontri mediante annunci sui giornali. Certo, il primo cliente fu uno shock. E non tanto per l’atto in sé, una banale scopata di pochi minuti con un ansimante agente di commercio occhialuto di mezza età.
Fu il denaro contante lasciato sul comò a scuoterla, a farle provare schifo e vergogna.
Per se stessa.
Per la situazione.
Ma soprattutto per quei porci degli uomini, squallidi omuncoli col cervello innestato sul pene. Per pochi minuti di sordido piacere, non esitavano a sborsare moneta sonante.
Fu quando cominciò a eliminarli, che le cose cambiarono. Non era stata una scelta premeditata, la sua.
In fondo era stato quasi per legittima difesa, aveva spiegato a Livia, per liberarsi dall’invadenza eccessiva di un cliente, che aveva commesso il primo omicidio. Si era servita dell’abat jour, col quale aveva fulminato il malcapitato.
Non era stato facile liberarsi del cadavere. Avevano dovuto attendere notte fonda. Poi, sia pur con grande fatica, erano riuscite a liberarsi del corpo, occultandolo nel folto di un canneto sul greto del Tevere.
Il grassone fu solo il primo di una nutrita serie di omicidi. Paola scoprì che uccidere quelli che ai suoi occhi sembravano i peggiori rappresentanti dell’altro sesso le regalava un senso di completezza ed un appagamento ineguagliabili.
“Disinfestarono” – questo il verbo che usavano le due donne per definire la loro nuova missione – diverse cittadine del Lazio, trucidando almeno una decina di clienti. Dopo il primo, in fondo troppo faticoso, omicidio, fecero ricorso a strumenti più tradizionali e comodi, perlopiù il veleno. Solo in un caso Paola, dopo aver soggiaciuto alle pratiche particolarmente violente di un impiegato del Catasto di mezz’età con la fissa del sadomaso, si lasciò andare. In quell’occasione, dopo aver legato e imbavagliato il cliente, lo evirò con un grosso coltello da cucina e lo costrinse a mangiare i suoi genitali, prima di lasciarlo morire per dissanguamento.
Nessuno sospettò mai di loro. Davano appuntamento ai vari candidati all’obitorio sempre a tarda ora, in modo da are inosservati. “Per evidenti ragioni di riservatezza”, spiegavano in tono complice agli sventurati.
Poi, quando le Autorità cominciarono a occuparsi delle misteriose scomparse avvenute in certe zone della provincia laziale con uno zelo che le due donne giudicarono pericoloso, il duo assassino decise di interrompere “l’opera di disinfestazione”. Dall’oggi al domani accantonarono i propositi omicidi,
interrompendo anche le attività a pagamento, divenute ormai solo uno specchio per le sfortunate allodole.
Paola e Livia si salutarono commosse, augurandosi un giorno di poter riprendere la missione, solo rimandata a momenti più propizi.
L’arrivo del treno a Monte Palo
«Un istromento del Dimonio, ecco cos’è il vostro cinematografo!» tuonò Don Fortunato Caronte, parroco di Monte Palo, piccolo comune montano dell’entroterra laziale, dal pulpito della chiesa gremita di fedeli.
Un brusio, misto di sgomento e disapprovazione, si levò tra i parrocchiani che fino a quel momento avevano assistito alla predica con la consueta, sonnolenta attenzione.
Donna Caterina, consorte del Cavaliere Enrico Gagliardi, nel tentativo di risvegliare il marito sopito, dette un colpetto di tosse. Manovra inutile, perché l’uomo proseguì imperterrito il proprio sonno. Si vide allora costretta a sferrargli una lieve gomitata al fianco destro, mossa questa che, oltre al risveglio del dormiente, sortì un altro, deprecabile effetto, il prorompere di quest’ultimo in una tremenda bestemmia, a stento soffocata da una nuova raffica di colpi di tosse muliebri.
“Dì un po’, moglie, sei uscita di senno?» sibilò il Cavaliere, massaggiandosi lo sterno.
«Taci, e cerca piuttosto di ascoltare Don Caronte. Sta parlando del tuo giocattolo preferito» lo zittì la donna, scuotendo il cappellino adorno di piume multicolore.
«… Proprio così, cari fratelli e sorelle! Ditemi voi: come può l’uomo arrogarsi il diritto di immortalare immagini e scene di diabolica provenienza? Perché so bene» proseguì il religioso, avvolgendo con sguardo severo l’intera assemblea
dei parrocchiani, «che quelle bobine mostrano immagini pericolose per la moralità di ogni buon cristiano! Inoltre, la circostanza che tali visioni contengono persino immagini in movimento non fa che accrescere la loro nocività!»
Le espressioni disgustate e sinceramente preoccupate delle anziane popolane e delle contadine contrastavano con le pose di finto disgusto adottate dalla maggior parte dei fedeli di sesso maschile. Più d’uno s’interrogò, tra l’altro, sull’insolita preparazione del prete in una materia così nuova e diabolica, ma anche così interessante.
«Non desidero affliggervi oltre. Spero piuttosto di aver raggiunto l’intento, mettendovi in guardia dal grave pericolo che correremmo se accettassimo la trista proposta di un nostro pur stimato parrocchiano, il primo concittadino…» disse severo il prete, appuntando lo sguardo sul Cavaliere Erminio Gagliardi, sindaco del paese, che ricambiò la cortesia con un inchino e un sorriso fin troppo aperto.
«È vero! Don Caronte ha ragione!» proruppe la signora Dora Cappella, vedova da lunga data, pia donna tra le più attive nell’attività di parrocchia. «Dobbiamo proibire questo sconcio! La proiezione del film dei – come si chiamano? – Fratelli Lumini non dovrà tenersi al Regio Teatro del nostro paese, noto per la sua inveterata morigeratezza!»
Il prete placò la donna con un gesto autorevole della mano, non senza sorridere tra sé per l’aiuto inaspettato. Gagliardi, dal canto suo, si limitò a scuotere la testa, sorridendo apertamente.
Tornando a casa sull’elegante calesse il Cavaliere glissò sulle domande insidiose rivoltegli dalla moglie. Gli accenni del sacerdote a presunti contenuti licenziosi
l’avevano turbata. Cosa faceva, si chiedeva, l’illustre marito quando trascorreva notti intere in compagnia del proiezionista e di qualche amico cinefilo, chiuso in sala a visionare le nuove pellicole?
Eppure i film proiettati finora erano innocenti cortometraggi, perlopiù documentari a sfondo giornalistico.
«Erminio, sii sincero con me. A cosa si riferiva Don Caronte prima, durante l’omelia, quando ha parlato di contenuti peccaminosi?»
«Ma a niente, figurati, cara…» rispose evasivo il Sindaco, rispondendo con un cenno del capo al saluto rispettoso dei tanti concittadini appiedati. «Li conosci, i preti, no? Vedono il peccato ovunque. La verità è che la Chiesa come sempre è oscurantista, avversa in toto alle grandi novità della tecnica!»
«Sarà» sospirò Donna Caterina, stringendo lo scialle al collo.
… Quello scemo del prete, lui e i suoi anatemi! Ma pensasse invece ai casi suoi, alle tante pecorelle smarrite, ah! Come ad esempio quella pia mign… pardon, donna di Dora Cappella. Ah, davvero sarebbe il caso di dire “Nomen Omen” nel suo caso, viste le cure che con tanta dedizione propizia ai… più bisognosi, ahah!
«E ora cos’hai da ridacchiare, Erminio? Trovi così divertenti i giusti ammonimenti impartiti da quel sant’uomo del nostro parroco?» lo rimproverò sua moglie, una mano sul cappellino, a un soffio dal restituire alle piume sulla sua sommità l’ebbrezza del volo.
«Eh? Come dici, cara?» rispose il Cavaliere, distratto dalla vista della figlia adolescente del Segretario Comunale. Tra qualche anno sarebbe stata un bel bocconcino. «Ma no, sorridevo al pensiero che Don Caronte non ha proprio niente di cui preoccuparsi. La proiezione di sabato prossimo non mostrerà proprio nulla di sconveniente, anzi!»
«Davvero, caro? Dunque posso stare tranquilla? Potrò assistervi senza timore di dare scandalo, come temo sempre quando mi coinvolgi nelle tue attività?»
«Fingerò di non aver ascoltato l’ultima parte del tuo discorso, cara. E comunque sì, puoi, anzi devi, nutrire la massima fiducia nelle mie scelte.»
«Ma cosa proietterai, di grazia?»
«Prometti di non rivelarlo alle tue amiche bizzoche?»
«Io non ho amiche bizzoche» protestò stizzita Donna Caterina, slanciandosi in avanti per afferrare il frustino. La mossa non piacque neanche all’augusto coniuge, che infatti ò lo strumento nell’altra mano, fuori della portata della moglie, e si affrettò a ribadire, una volta di più, la moralità della pellicola. Oltre a filmati già mostrati in precedenza, come L’uscita dalle officine Lumière, il clou della serata sarebbe stato la proiezione di un cortometraggio che mostrava l’arrivo di un treno in stazione, «Uno spettacolo di assoluta, eccezionale e terrifica verosimiglianza», come recitava il dépliant esplicativo inviato direttamente dai Fratelli Lumière.
Per l’occasione il proiettore sarebbe stato azionato da un tecnico inviato all’uopo dalle stesse officine Lumière.
Nonostante l’invito recapitatogli di persona dal Sindaco stesso, Don Caronte rifiutò sdegnosamente di prendere parte alla “serata sacrilega”. Preferì ritirarsi nel silenzio della canonica a pregare per le anime di quei miscredenti dei suoi parrocchiani.
L’afflusso al teatro fu copioso fin dal tardo pomeriggio, nonostante l’inizio delle proiezioni fosse stato programmato per le 21.30. Si respirava un’aria di grande eccitazione, grazie anche ai tanti manifesti pubblicitari affissi un po’ ovunque. Il Cavaliere aveva visto giusto, il cinematografo costituiva una novità assoluta per l’ingenuo pubblico di paese. L’attrattiva che esercitavano quei brevi filmati non mancava mai di sorprenderlo.
Alle venti e trenta in punto le porte del teatro si spalancarono, e una folla festosa e schiamazzante – famiglie intere agghindate come nelle grandi occasioni, giovani, anziani, bambini – sciamò in sala. Ben presto tutte le poltrone, dalla costosa platea alla più economica galleria, accolsero le terga del pubblico pagante. Dopo una ventina di minuti il vocio crebbe d’intensità, e il Cavaliere, dietro le quinte, sollecitò l’apertura del sipario.
Una vezzosa marcetta, eseguita al pianoforte con tutto il brio concesso al Maestro Bruffaldi dalle sue ottantacinque primavere, introdusse l’esibizione del «celebre Mago Brofferio», come recitava la locandina sovrapposta all’ultimo momento al poster dei Fratelli Lumière.
A dire il vero il numero dell’illusionista non riuscì a… illudere proprio nessuno.
L’estrazione di una colomba e di un coniglio bianco dal solito cilindro non colpì granché il pubblico. Né ottennero maggior successo gli esperimenti di lettura telepatica delle carte da gioco, realizzati con l’ausilio di spettatori compiacenti.
Giunto a metà del numero conclusivo, l’artista dovette darsela a gambe, seriamente preoccupato per la sua incolumità fisica. Più d’uno l’aveva infatti omaggiato di ortaggi assortiti, conditi con saporiti insulti di stagione.
Andò anche peggio all’attempata coppia di ballerini che, con grande sprezzo del pericolo, apparve sul palcoscenico per rappresentare una scena tratta dal Lago dei Cigni. L’eco degli sghignazzi e delle pernacchie giunse a sovrastare l’accompagnamento musicale.
C’era un motivo, se il Direttore Artistico del Regio Teatro – che poi altri non era se non il solito Cavalier Gagliardi – aveva deciso di tirare per le lunghe: il numero dei filmati da proiettare era ridotto, e per di più la durata degli stessi cortometraggi era esigua, una manciata di minuti nel migliore dei casi.
L’intento di far crescere l’attesa, sino a spingerla quasi al parossismo, fu coronato dal successo. Quando finalmente si spensero le luci in sala, il pubblico esplose in un applauso fragoroso.
Le immagini tremolanti di una recente visita a Firenze di Umberto I, Re d’Italia, e della di lui consorte, la Regina Margherita di Savoia, suscitarono viva attenzione. Più d’uno, soprattutto tra gli anziani, si alzò a gridare il suo devoto omaggio al Re, tra l’emozione generale.
Il filmato successivo, inserito in scaletta forse per compiacere l’eventuale
presenza del locale rappresentante del clero, mostrò addirittura Il Santo Padre, Leone XIII, in preghiera nei Giardini Vaticani. Il Pontefice, con sorprendente naturalezza e padronanza del mezzo, guardava «in camera» e impartiva quella che sarebbe ata alla storia come la prima benedizione papale della storia del cinema.
Donne e bambini chinarono devoti il capo, e, accolta la benedizione, si fecero il segno della croce.
Al termine del benedicente filmato, la musica si arrestò di colpo. Dopo qualche istante di rapito silenzio, riprese, più drammatica, cadenzata, quasi martellante. Lo schermo restava buio, ma le note del Maestro Bruffaldi instillavano ansia e timore negli animi già turbati dalle solenni apparizioni.
Lo schermo si rianimò «come per magia», riferirono in seguito i fortunati spettatori, e l’immagine di una stazione invase il campo visivo degli astanti. Una signora con un sontuoso copricapo si muoveva lungo la banchina e… «MIO DIO, MIO DIO!» gridò all’unisono il pubblico, sovreccitato dai fischi e dallo scamlio emessi ad hoc dall’accorto pianista. Un’enorme locomotiva, terribile nella sua meccanica grandiosità, invase lo schermo.
Gli spettatori delle prime file balzarono in piedi, terrorizzati. Quelli delle file posteriori rimasero paralizzati dallo spavento. Altri, levando alte grida di terrore, presero a correre all’impazzata, ammassandosi verso l’uscita.
Sullo schermo intanto il treno fece il suo trionfale ingresso in stazione, sferragliando glorioso verso l’obiettivo dei fratelli Auguste e Louis Lumière.
Ma ciò che più scosse la pubblica opinione fu la notizia della morte improvvisa del parroco. L’indomani del fortunatissimo evento cinematografico, grande fu lo sgomento della perpetua, quando, preoccupata per l’inusuale protrarsi del riposo del prete, varcò la soglia della modesta camera da letto.
La visione che le si prospettò la fece quasi uscire di senno. Il corpo di Don Caronte giaceva esanime sul letto in una pozza di sangue, il volto sfigurato, le membra orrendamente squarciate.
Eppure, le circostanze che più turbarono il medico condotto e il Maresciallo della locale Stazione dei Carabinieri furono altre.
In primis, ciò che restava della camicia da notte del religioso mostrava le impronte evidenti di rotaie.
In secundis, le ferite e le abrasioni inducevano a pensare ad un urto con una struttura pesante e di grandi dimensioni, ipotesi suggerita anche dalle macchie di grasso presenti su tutto il corpo e dall’odore di ferro e ozono che impregnava i poveri resti del prete e la stanza tutta.
Non fosse stata un’ipotesi tanto folle e assurda anche solo da concepire, si sarebbe potuto pensare che Don Caronte Fortunato avesse trovato la morte investito da un treno in corsa.
L’ultimo lancio
Oscar Richter ha sessant’anni.
Almeno, così dicono le cronache mondane, di solito così ben informate. Ma potrebbe anche averne cinquantacinque, cinquanta, forse anche meno: chi può dirlo? L’aspetto di un artista a volte è ingannevole, specie se truccato a dovere o circonfuso da luci sapienti, come quelle dei più importanti palcoscenici della vecchia Europa, ma anche delle due Americhe, che Richter ben conosce per averli lungamente calcati nel corso della sua lunga e fortunata carriera.
Certo ne è ato di tempo, da quando era universalmente considerato il più grande lanciatore di coltelli di tutti i tempi. I suoi numeri erano sempre tra i più richiesti: teatri e café chantant facevano a gara per ospitare il suo nome in cartellone.
Poi però, nel corso degli anni Cinquanta, l’avvento del piccolo schermo ha rubato fascino e magia a certe attrazioni e lo stesso Richter, il grande Richter, si è dovuto arrendere, sia pure con sommo rammarico, all’evidenza. È per questo che si è aggregato alla compagnia del Barnum & Bailey Circus, assieme alla variopinta turba di giocolieri, clown, donne cannone e funamboli.
«Proprio così. Oggi sono i clown i miei compagni di scena. Anzi, forse sono io, il vero pagliaccio. Non loro» sospira Richter, con un sorriso amaro, alla giornalista che annuisce e prende nota sul suo blocco.
«Bene» s’intromette Cecilia Gantz, l’appariscente addetta stampa del Circo
Bailey, «Ci sono altre domande da voi signori della Stampa?»
Una donna in tailleur grigio Dior, i lineamenti algidi di straordinaria bellezza, solleva lentamente l’indice.
«Prego, dica pure.»
«Volevo fare una domanda all’assistente del Maestro, se mi è consentito.»
Più di qualche testa si gira a guardare la donna. Cecilia Gantz scocca un’occhiata interrogativa a Richter, che annuisce indolente, chissà a quante conferenze stampa deve aver partecipato, in tutti questi anni.
«Ma certo, può parlare.»
«Grazie. Signorina Brigitte, lei sa che, mai come in questa esibizione, la sua vita sarà davvero appesa a un filo?»
Cecilia Gantz balza in piedi, anzi, quasi sull’attenti. «Signora, ma cosa sta dicendo? Il Maestro è il più grande lanciatore del mondo!»
«Così recita la pubblicità, certo. Ma vorrei sentire la risposta dalle labbra della signorina, se siete d’accordo!» replica la sconosciuta, rivolgendosi al pubblico.
«Sì, ha ragione! Fatela parlare, sentiamo cos’ha da dire, la… vittima sacrificale, ahah!» gracchia il solito spiritoso dal fondo della sala.
A Brigitte il sangue è completamente defluito dalle guance, né il trucco può fare nulla per celare il suo sgomento. Gli occhi dilatati dall’emozione, sbatte le palpebre, socchiude le labbra, trattiene il respiro. Poi Richter le sfiora una mano, sorride amabile, le sussurra qualcosa.
«La mia vita non è mai stata in mani più salde, cara signora» risponde la ragazza, con voce stridula ma impetuosa.
«Brava, piccola mia. Così si fa! » le sussurra Richter, dandole un bacio sulla guancia.
Mentre le note di una ridicola marcetta circense scandiscono la conclusione della conferenza stampa, Oscar Richter abbandona rapido il palco. Fende la folla di fotografi e reporter, proteso verso la donna dal tailleur grigio, ma non c’è niente da fare. Quando riesce a guadagnare qualche o nella sua direzione, è già scomparsa.
“In fondo”, pensa Richter, seduto in camerino, di fronte a un vecchio specchio sormontato da una schiera di lampadine colorate, “hai sempre saputo che la tua carriera presto o tardi sarebbe finita. E allora meglio chiudere in bellezza, con un’uscita di scena che lasci il segno, no?”
Bussano alla porta, che sia già ora? No, è Brigitte, che dopo un attimo di esitazione, coglie qualcosa nello sguardo del compagno di scena che non le piace per niente. L’ombra della disfatta, o qualcosa di peggio. Di slancio gli cinge le
spalle e lo tempesta di baci teneri, intensi, quasi disperati.
Richter le accarezza i lunghi capelli biondi, deglutisce forte, finché, liberatosi dall’abbraccio, le sussurra: «Sta’ tranquilla tesoro. Andrà tutto bene… Come sempre.»
Brigitte annuisce in silenzio, le labbra serrate in una sottile linea vermiglia.
Il numero d’avanspettacolo di Mascheroni, il comico da strapazzo che precede l’esibizione di Richter, è alle battute finali. Richter lo capisce dal tono in crescendo dell’artista. Smorza la sigaretta contro il muro scrostato, ravvia il ciuffo screziato di grigio, sistema i gemelli d’oro ai polsini. Stasera indossa lo smoking delle grandi occasioni. È tanto che non lo faceva, pensa fuggevolmente, controllando il trucco allo specchio che gli ha appena porto una ballerina, che per inciso un paio d’anni fa è transitata nel suo letto, anche se Richter a malapena ne ricorda il viso.
Il presentatore, un guitto senz’arte né parte, troppo giovane per sapere davvero chi si accinge a introdurre, dopo un noioso preambolo fin troppo pieno di autocompiacimento, lancia finalmente il numero. Il tono che usa è iperbolico. Suona ridicolo, parodistico. O così sembra a Richter, che attende l’uscita di scena del conduttore prima di lasciare le quinte.
Un tappeto leggero di archi e una sciabolata di luce rivelano al pubblico la presenza del lanciatore sul palco.
Con lenti, sapienti movimenti consolidati in decenni di carriera, Oscar Richter, salutato con un leggero inchino il pubblico, indica sorridente la figura sinuosa in
piedi all’altra estremità del palco, ora inquadrata da uno spot di luce. Accanto all’artista, un tavolino di cristallo dal lungo stelo d’acciaio. Le lame acuminate di una schiera di coltelli scintillano minacciose.
La musica cambia. Ora sono le note inconfondibili dei Carmina Burana di Orff a sottolineare la drammaticità del momento.
Un’altra assistente, in smoking anche lei, ma da procace starlette, emerge dal buio, si accosta a Richter e gli cinge gli occhi con una benda scarlatta. Il lanciatore si lascia guidare al centro del palco, in prossimità del punto prescelto per i lanci, e qui, dalle mani guantate della ragazza, riceve la prima lama.
Mentre le note salgono di tono, l’uomo abbassa il capo. Deglutisce. Cerca di rilassarsi, ma senza diluire la concentrazione, affidandosi all’istinto. Non serve vedere con gli occhi, non più. In questo momento esistono solo lui, la lama che scintilla tra le sue dita e Brigitte.
La sagoma della ragazza sembra vibrare attraverso il riflesso metallico della lama. Forse anche lei, come Richter, si rende conto che tutta la sua vita è racchiusa in quell’unico gesto. Lo stesso pensiero, come un’innegabile verità telepatica, divampa nella mente della donna misteriosa in tailleur, confusa tra il pubblico delle ultime file. Un paio di occhiali scuri Chanel le celano gli occhi.
Il pubblico, che fino a un attimo prima ha assistito distratto all’inizio dell’esibizione, perso nel lezzo dolciastro dei pop-corn, dello zucchero filato e della Coca-Cola trangugiata a litri, è ammutolito.
Questa non è una serata qualunque. Stanotte l’uomo chiamato Oscar Richter
compirà qualcosa di straordinario.
Poi, la scia azzurrina della lama che solca fulminea l’aria lacera ogni altro pensiero, rarefà i fiati, dilata le pupille. Il primo lancio vellica i capelli del bersaglio e va a insinuarsi subito sopra la bella testa bionda.
Il pubblico espira, non ha ancora il coraggio di applaudire. Il numero prevede altri lanci, così ha annunciato il presentatore prima.
Il secondo tiro solletica l’avambraccio sinistro della ragazza. Più d’uno in sala mormora un «Ooh» di eccitazione mista a sollievo.
Il terzo lancio, gemello, s’incastona sicuro alla destra della giovane.
Oscar Richter è sempre un grande. Forse il più grande, devono senz’altro pensare in molti, nella sala percorsa da fremiti e lampi d’eccitazione.
La sua figura elegante si staglia netta contro il buio, non più vecchio di quella coppia di ragazzi in prima fila. Magia del palcoscenico, l’artista non può invecchiare. Non può permettersi di sfiorire come una persona qualunque.
Un singolo raggio di luce illumina ora il medaglione circolare che rifulge dal collo sottile della ragazza. Il disegno di un bersaglio dai cerchi concentrici rossi e bianchi ammicca all’ultimo lancio, il più pericoloso.
Richter s’inginocchia, bacia la lama. Cieco, eppure mai così vigile, l’allinea a un invisibile baricentro, flette all’indietro il braccio, ruota il polso.
Il coltello spicca il volo.
È il secco clangore della punta metallica che incontra la superficie decorata dell’amuleto a scandire il trionfo, Oscar Richter non ha fallito il colpo.
Il pubblico è stordito, stupito, estasiato. Uomini, donne e bambini tributano una standing ovation trionfale al Dio dei Coltelli, che, in piedi al centro del palco, gli occhi finalmente snudati, offre un inchino solenne alla folla.
Sottile, non vista, una stilla vermiglia s’insinua sotto l’orlo dorato del monile.
In fondo alla sala, la donna in tailleur scuro abbozza un sorriso fugace.
«Mamma, mamma!» piagnucola un bambino panciuto, le labbra striate di gelato al cioccolato.
«Che c’è, Hans? Cosa vuoi? Non ti è piaciuto lo spettacolo?»
La donna in tailleur sorride al ragazzino. Gli fa ciao con la mano ingioiellata.
«Ma sì, certo, mamma! È che...»
«Su, avanti, piccolino, cosa devi dirmi? Devi far pipì, forse?»
«No, no, è che per un attimo ho creduto di vedere... la Morte, mamma, la Morte!»
«Oh, piccolino! Vieni qui, lasciati abbracciare! Devi smettere di guardare certi film, sai? Ti mettono in testa questi brutti pensieri, e non va bene, lo sai… La Morte, poi! Ma che sciocchezza! Non sai che è tutto finto lassù, sul palco?»
«Davvero, mamma?» chiede il bambino, il viso premuto sulla gonna plissettata della madre.
«Ma certo! Ti sei lasciato suggestionare, ecco tutto» lo rincuora la donna, lo sguardo fisso sulla figura elegante che, ticchettando sui tacchi vertiginosi, si allontana, soddisfatta di sé.
La Torre
Dopo ampio errare per perigliosi sentieri e innumeri pugne, giungo alfin in vista di una torre oscura, che dall’altopiano si estolle sulla brulla vallata sottostante. All’orizzonte, nere colonne di fumo s’insinuano minacciose tra i nembi, vacue vestigia di corpi arsi in gran copia.
Questo il retaggio della nostra ultima spedizione in Terra Santa. Lungi dal riconquistare le terre care al nostro Duce et Signore Gesù Cristo, il Maligno ci ha sferzato con la pestilenza diffusa dai bruni infedeli.
Abbiamo inflitto morte e dolore, reciso arti al nemico, nonostante questi di molto sopravanzasse la nostra armata. L’immondo sangue degli adoratori di Baphomet è corso a fiumi, a maggior gloria del vero Dio.
Invero, sostengono i più insigni cerusici, in ciò confortati dalla saggezza degli speziali, che la causa prima del contagio sia da ravvisare proprio in tale forzoso aspergimento dei fluidi corporei. Il morbo, da questi generato, avrebbe aggredito con diabolica virulenza i nostri organismi per annidarvisi, nella perfida attesa che fimo ritorno alle nostre terre.
E così è stato, ahimè. La peste non tardò a dispiegare tutta la sua potenza, scatenando la sua pressoché invincibile perniciosità tra le nostre fila e mietendo vittime come la falce le spighe di grano.
Da settimane, o forse mesi – il tempo per me non essendo altro ormai che una trista litania di giorni sempre eguali – vago per questa landa, che stento a
riconoscere, tale è la devastazione che l’ha piagata. I compagni di Croce dispersi, la sacra missione perduta, la salute fiaccata, trascino le membra stanche e smagrite da una contrada all’altra.
La cavalcatura mi fu sottratta poche notti or sono, per farne carne da macello, temo. Io stesso ho avuto a stento salva la vita, grazie al filo ancora aguzzo della mia spada. Ho scagliato all’Inferno più d’un predone durante quell’attacco, ma non so se riuscirò a ripetere l’impresa, dovesse occorrere di nuovo.
Sarà ciò che Iddio vorrà.
Cosa vo cercando non saprei dirlo neppure io. Potrei rispondere che cerco riparo da questo morbo terribile, che non lascia scampo, ma più i miei i progrediscono, più m’avvedo che morti viventi e predoni sono gli unici viandanti in cui m’imbatto.
Stanchi monatti raccolgono cadaveri orrendamente sfigurati, li depongono su carretti trascinati da bestie macilente, quindi li radunano in cumuli osceni, che gridano il loro orrore al Cielo.
Ma il Cielo, che non conosce più luce, ha smarrito la sua misericordia, credo, o concederebbe tregua alla schiera sempre crescente di morituri.
Mentre mi affliggevo con questi pensieri non mi son avveduto che il mio cammino non è più solitario. Mi era parso di intuire a tratti un vago trepestio alle spalle, ma confesso che in tanto clamore non vi avevo dato peso. Ma ora non v’è più dubbio, qualcuno mi segue da presso.
Mi volto, già pronto a sguainar la spada. Ciò che vedo mi impensierisce, ma non spaura. Una sagoma scarna, avvolta in un saio oscuro come la notte, il capo celato dalla penombra di un largo cappuccio, percorre i miei i.
«Chi sei, o viandante? Un religioso, forse?» domando, cercando d’indovinare il volto celato.
«Un religioso, dici? In un certo senso lo sono, sì. Ma considerami piuttosto un compagno di strada, cavaliere» risponde la figura, facendomi trasalire per lo stupore. È muliebre infatti la voce che ho appena udito, il timbro cristallino e giovanile. Mi chiedo quale motivo la conduca a percorrere, sola, queste strade irte di pericoli.
Ella, quasi in risposta alla mia domanda, soggiunge, scoprendo appena il volto: «Son diretta anch’io a quella torre.»
Una raffica di vento le ghermisce una lunga ciocca bionda, che per un attimo danza alla luce del tramonto. Resto affascinato dal profilo di questa donna, finché due occhi di smeraldo mi traano l’anima.
Non è ione il sentimento che trasmettono, ma gelo e morte. Non importa, ho avuto la mia risposta. Dunque anche codesta donzella è in cerca di un riparo, per quanto vano possa essere.
«E sia. Sarò tua scorta e baluardo sino all’edifizio.»
La donna annuisce con un cenno lesto del capo. E diresti che non abbia poi così bisogno di sostegno, nel vederla incedere a o deciso, leggero ma prestante, lungo la mulattiera fangosa.
In vista del portone, le ingiungo di tacere, e soprattutto di non mostrare il viso. Chissà quali istinti potrebbe scatenare la sua vista negli uomini da chissà quante lune asserragliati all’interno della torre.
Afferrato con forza il pesante battente a lungo busso, ma invano. Tiro la fune che, nel far risuonare una camla, scatena uno stridente concerto metallico. È allora che una voce dall’interno ci ingiunge di andare via, di desistere.
«Cerchiamo solo un riparo per la notte, io e il mio compagno. Sono un reduce dalla Terra Santa e questi è un povero penitente.»
«Via, via, lungi da noi! Chi ci assicura che non siate invece sordidi untori?»
«La parola di un Crociato in Cristo, fratello!» grido in risposta, mostrando la croce che sempre reco al collo.
Con gran stridio di metallo e scricchiolio di legno marcito, il portale alfine si dischiude. Faccio cenno alla mia compagna di entrare. Questa col capo accenna un impercettibile cenno di assenso.
Siamo dentro, nell’andito della costruzione di pietra e marmo, l’oscurità
rischiarata appena dalla luce di una torcia affissa a una parete. Non v’è più traccia del guardiano, o chiunque fosse l’uomo che voleva negarci l’ingresso. Intravvedo una scala a forma elicoidale, che s’inerpica verso la sommità del torrione.
Cominciamo a salire gli stretti gradini, non senza difficoltà, ricoperti come sono di fango stratificato e persone, uomini e donne, che vi sostano – chi rannicchiato, chi sdraiato – in attesa forse di avere il permesso di salire, o troppo spossati per procedere. Noi stessi arranchiamo nel nostro incedere, e più volte sono costretto a sorreggere la mia compagna, afferrandole la mano o sostenendola per le spalle. Contatti fugaci, che sembrano irradiare freddo in tutto il mio essere, ma, scosso come sono, immagino che ogni mia percezione sia falsata, assai lontana dalla realtà. E del resto, se questo è reale, meglio sarebbe allora sprofondare in illusorio incubo.
Giunti al limitare di un pericolante ballatoio, una guardia scheletrica scruta le nostre figure – con sguardo sommario me, con occhio curioso il viso della mia compagna, tuttora celato dal cappuccio. Prima che ella possa sottrarsi, l’uomo scosta brusco il tessuto e ne contempla il volto, al bagliore intermittente della torcia che tiene stretta nell’altra mano. L’istante seguente prorompe in una bestemmia sacrilega e dà uno spintone alla donna.
«Strega, strega! Via, via, via da qui!»
Snudata la spada, ne accosto la punta acuminata al sozzo collo lanuginoso dell’armato, parandomi innanzi alla donna.
«Miserabile, vorresti negare la salvezza a una povera donna?»
Quegli, paonazzo, strabuzza gli occhi e, balbettando, mi scongiura di arretrare, portando via con me la mia compagna. «È una strega, non vedi?» ripete. «Moriremo tutti, dal primo all’ultimo!» soggiunge in lacrime, lasciandosi poi cadere in ginocchio.
Lo allontano da noi con un calcio, cingo le spalle della donna e proseguiamo. La dama non parla. Che potrebbe dire, d’altronde, al cospetto di simili spettacoli?
Alto sulle nostre teste comincia a trapelare chiarore. Cerco d’infondere coraggio alla mia compagna, tra poco raggiungeremo la sommità dell’edificio, e con essa troveremo riparo, forse, dal terribile male che strazia questa nostra terra desolata.
Giunto in vista dell’ultima rampa, un nuovo ostacolo si frappone fra noi e la meta finale. La scala è interrotta, credo volutamente, e per proseguire occorre arrampicarsi a una fune.
«Temo che il mio cammino termini qui, cavaliere» dice sconsolata la donna alle mie spalle.
«Giammai! Fosse l’ultima mia fatica prima di rendere l’anima a Dio ti condurrò in salvo, mia signora!» esclamo, afferrandole le braccia e cingendole al mio collo. Quindi, fattomi il segno della croce, inspiro a pieni polmoni, raccolgo le forze e prendo a scalare la fune. E sarà l’impeto della disperazione, o un ottundimento momentaneo dell’intelletto già fiaccato, ma ho la sensazione che il mio fardello sia lieve, quasi trascurabile.
Dall’alto occhi dilatati dallo stupore ammirano la nostra ascesa. Qualcuno lancia grida d’incitamento. Non molti, invero.
E sarà stata poca cosa il peso che recavo con me, eppure quando raggiungo finalmente la meta sono comunque esausto, prossimo a perdere i sensi. Ma uno scoppio improvviso di bestemmie e insulti mi tengon desto, si ripete il triste spettacolo di poc’anzi. Di nuovo la mia compagna è cagion di tumulto e più d’uno grida, con voce dilaniata dall’odio e dal terrore, d’ucciderla, prima che sia troppo tardi.
Estraggo il ferro. La lama scintilla alla fiamma delle torce, mentre digrigno i denti: «Fatevi sotto, cani! Sapeste quanto sangue d’infedeli ha saggiato questa spada!»
È un lampo, un baluginio, uno scherzo della mente o degli occhi, immagino: l’eburneo viso della donna al mio fianco per un attimo ha assunto le sembianze di un teschio.
La torma di sciacalli s’addossa alle pareti, di colpo silente. Qualcuno, vinto da subitaneo panico, si getta a precipizio giù per la scala, cercando di afferrare la corda. Altri si lanciano nel vuoto.
Non capisco cosa stia accadendo. O forse sì, comincio a intuire, ma fingo il contrario.
La donna, senza più cercare rifugio dietro di me, varca risoluta l’uscio consunto che dà sugli spalti esterni. Raggiunto il parapetto, scruta l’orizzonte invaso dal fumo. Si volta lentamente, mi fa cenno di raggiungerla. Obbedisco, oppresso da un senso d’angoscia e di tragedia imminente. Ha scoperto il capo, ora. Il viso atteggiato a una dignità così alta e solenne da farmi dubitare si tratti della stessa donna che ho condotto sin qui, contempla lo scempio operato dalla pestilenza,
alla luce, ora fin troppo accesa, della pallida Ecate.
Mi sporgo a guardare anch’io. Le braci delle pire ardono ancora, e con esse la speranza di sopravvivere all’empia catastrofe. Un lezzo nauseabondo e dolciastro di carne bruciata ottunde le narici.
«È la fine, mia signora. Non c’è più scampo per alcuno, ormai. Non vedremo la prossima alba» mi dolgo, inseguendo i suoi occhi.
Lei scuote leggera la testa, le labbra serrate. Quindi, sospirando, ribatte: «No. Ci vorrà ancora del tempo, e certo morirete ancora in innumerevole copia, ma qualcuno sopravviverà, Lodovico.»
Impallidisco, un tremore irrefrenabile s’impossessa delle mie membra.
«Conosci il mio nome, donna?» domando, facendomi forza.
«Oh sì. E non solo quello» risponde la donna, noncurante, senza voltarsi, come se la mia domanda fosse di poco conto.
«Chi sei? Sei dunque davvero una strega, come affermano quei bifolchi senza fede?»
La donna si gira e scuote il capo. «Tu chi dici che io sia, uomo?» sorride amara.
Barcollo, la vista s’annebbia, una tensione mortale m’avvince i precordi.
Perché ora so.
Ho commesso un tragico errore, fidandomi delle apparenze. Codesta non è affatto la giovane donna indifesa che credevo, ma una terribile divinità, ora intenta a contemplare le schiere di anime che a frotte accorrono al suo regno.
Il regno delle Ombre.
Guardo i rifugiati alle nostre spalle.
«Che ne sarà di loro?» chiedo, contando gli istanti che mi separano dall’oblio.
La donna non risponde, scioglie i capelli, che prendono a fluttuare liberi nella brezza notturna. Non sembra contenta di ciò che vede. Poi, scoccandomi un’occhiata che in altre circostanze mi ruberebbe il cuore, e non la vita, come immagino stia invece per accadere, apre le braccia con fare distratto e risponde, la voce arrochita dalla stanchezza: «Loro? È questione di poco. Entro il sorgere del sole le loro sofferenze avranno fine.»
«Perché fai questo?» grida un vecchio dal viso ricoperto di pustole, che, abbandonata la schiera di individui tremanti, si è improvvisamente avvicinato a noi.
Occhi divini e occhi mortali s’incontrano: il vecchio cade in ginocchio. La donna si china su di lui, ne sfiora la fronte con delicatezza e sussurra: «È il mio retaggio, vecchio. Riposa, ora.»
L’uomo emette un rantolo soffocato, mentre l’aria e la vita fuggono dalla sua gola. Reclina il capo dalla cute purulenta e ristà inerte.
Poi, improvviso come un temporale estivo, un vento impetuoso prende a sferzare la vallata sottostante, scostando i teli che mani pietose hanno steso sui cadaveri sfigurati e putrefatti, ammonticchiati come logore marionette abbandonate al proprio destino.
Scosso da conati di vomito, ho la certezza che presto farò loro compagnia, il terrore acuito dall’incedere della donna verso di me. Quasi ne bramo il tocco, almeno porrò fine a quest’angoscia infinita. Ora comprendo le parole di Seneca, quando affermava che la paura fosse sentimento di gran lunga peggiore del dolore stesso. O della morte.
La testa gira, il vuoto oltre gli spalti esercita la sua malia sulla volontà ormai infiacchita. Sto per lanciarmi di mia volontà nella forra oscura, quando avverto il tocco, lieve ma saldo, sulla spalla.
Rasserenato come un infante, faccio per inginocchiarmi al cospetto dell’Oscura Signora, ma ella mi trattiene, carezzandomi il viso. La fine può giungere dolce, rifletto.
«Sei stato generoso e coraggioso con me» dice, con sussurro d’amante, con richiamo di madre, con carezza di sorella.
«E a che giovò il mio coraggio, se tale poi fu?» ribatto, liberandomi dalla cotta che, pesante, mi grava sul petto.
«A salvarti la vita, Lodovico» risponde lei, sfiorandomi le guance con le dita.
«Per stanotte, forse. Ma domani? Il giorno appresso?»
«Non è dato sapere, amico mio. Morrai quando verrà la tua ora. Ora però respingi gli affanni, e resta qui, a farmi compagnia. Fuori, come vedi, non è salutare aggirarsi» risponde, indicando con ampio gesto lo spazio circostante.
«Ma come sopravvivrò, rinchiuso qui? Non credo che, ov’anche vi fossero masserizie, basterebbero a sfamare a lungo noi e i nostri compagni.»
«Basteranno, amico mio. Presto saremo soli, in questa torre» sorride la divina compagna.
«Hai detto “saremo”. Davvero hai intenzione di rimanere qui?»
«Perché no? Il più ormai è fatto» risponde, mentre le nubi a ponente si diradano, e il manto della notte ci avvolge nei suoi rassicuranti drappeggi.
Troppe foglie
«Troppe foglie!» salmodiava ossessivo Antonio ogni anno, al primo approssimarsi della stagione autunnale.
Quel maledetto leccio, ridicolo orgoglio di famiglia dei Signori di Roma, era divenuto una vera e propria ossessione per il factotum della famiglia Bernardi. L’aveva fatto presente più volte sia al Signore che alla Signora, ma non c’era stato niente da fare. Quelli facevano spallucce, sorridevano noncuranti e rispondevano invariabilmente: «Dai Antonio, non esagerare! Cosa vuoi che siano quattro foglie da spazzare ogni tanto?»
Quattro foglie?
Che ne sapevano loro della fatica improba che doveva sobbarcarsi lui dalla metà di settembre fino a tutto dicembre? Che ne sapevano, i signori incravattati e imbellettati, del nervo sciatico che puntualmente s’infiammava, dopo giornate intere trascorse a ramazzare e raccogliere quelle maledettissime foglie?
«Sembrano vivere di vita propria, quelle disgraziate!» ripeteva Antonio agli amici del baretto vicino all’ospedale, dove lavorava come guardiano notturno. Tutti ormai sapevano della lotta personale che da anni aveva ingaggiato con quell’albero.
Aveva tentato vari rimedi, nel tentativo inane di arginare la torrenziale caduta del fogliame, ma si erano rivelati tutti vani.
Alla fine era andato maturando propositi apertamente omicidi nei confronti di quella spara-foglie, come ormai chiamava la pianta. Sì, aveva deciso di eliminare il problema alla radice. In senso letterale, dal momento che il piano per uccidere la responsabile delle sisifesche fatiche si basava sull’avvelenamento delle sue radici.
Con la complicità di un amico benzinaio, anch’egli feroce nemico degli alberi che erano soliti dispensare foglie ai primi freddi, si procurò ingenti quantità di oli esausti e lubrificanti, che prese a riversare e inoculare nelle radici del leccio, dopo averle scalzate e portate alla luce.
Dovette ripetere l’operazione più volte, poiché l’albero sembrava del tutto indifferente alle vessazioni che Antonio metteva in atto con gusto quasi sadico. Ben presto si scoprì capace di un accanimento da vero e proprio aguzzino del mondo vegetale.
Continuò ad avvelenare il nemico vegetale per tutta la primavera, certo di riuscire a infliggergli il maggior danno possibile. Colpiva infatti la pianta nel momento del risveglio dal sonno invernale, quando era più esposta a possibili attacchi dall’esterno, quali parassiti o intemperie. Ma la furia devastatrice di Antonio superava in intensità e pervicacia quella di qualunque nemico naturale.
Qualche blando sintomo d’indebolimento ebbe a manifestarsi verso Ferragosto: la chioma dell’albero, pur sempre folta e rigogliosa, appariva meno verdeggiante del solito.
Era anche vero che quell’estate si stava rivelando particolarmente torrida, con giornate di sole rovente, quasi mai lenite da una goccia di pioggia. Antonio non
era perciò in grado di attribuire con certezza l’apparente indebolimento del nemico alle sue azioni di sabotaggio. Né poteva essere sicuro che l’albero stesse davvero attraversando un periodo di reale sofferenza.
Decise quindi di adottare un’altra soluzione, la più scellerata. Incurante delle conseguenze che il suo gesto avrebbe potuto causargli anche nei confronti dei padroni di casa, decise che, se l’albero fosse stato ancora in vita a fine estate, se ne sarebbe liberato a colpi d’accetta, quant’era vero Iddio! Non intendeva certo are un altro autunno a rompersi la schiena spazzando foglie!
L’estate volgeva al termine e le giornate cominciavano già a rinfrescare, in quella località collinare dal clima così volubile. Non era infrequente che, lasciata la vicina capitale a crogiolarsi al sole, giunto in vista del paese di Monte Brullo, opprimenti nubi grigie velassero il cielo, e soprattutto l’umore di Antonio.
L’anziano giardiniere factotum cominciava ormai a contare i giorni che lo separavano dall’odiato momento in cui l’albero avrebbe ripreso a bersagliarlo di foglie.
Quel giorno le prime gocce di pioggia lo sorpresero mentre era intento a bonificare il giardino dagli aghi di pino – altra maledizione gravante sulle sue spalle, ma prima o poi avrebbe rivolto le sue cure anche al pino secolare, poco ma sicuro – armato di rastrello, badile e carriola.
Fu questione di attimi.
L’iniziale piovigginio, al quale dapprima Antonio non aveva prestato grande attenzione, prese forza sino a trasformarsi in un acquazzone torrenziale, scandito
da tuoni così fragorosi da sembrare colpi d’obice. Lui, che era stato soldato sul Carso, quei suoni li conosceva bene, e ogni volta trasaliva quando udiva rombi come quelli.
All’orizzonte, lo spettacolo scintillante dei lampi che sferzavano le montagne lo colpì in tutta la sua pericolosa bellezza. Incurante della pioggia, continuò a spingere la carriola ricolma di aghi fradici su per la salita sterrata che conduceva al piazzale antistante la villa. Ancora pochi metri e avrebbe trovato riparo nei portici dai grandi archi di pietra.
Ma la pioggia cresceva rapidamente d’intensità, al punto che non riusciva più a vedere a un palmo dagli occhi. Densi rivoli di pioggia gelata s’insinuavano nel colletto della camicia, giù lungo la schiena, fin dentro i pantaloni e la biancheria intima.
Fu sopra un cumulo di foglie cadute dal maledetto leccio che Antonio scivolò e cadde a terra. A faccia in giù, su un cumulo di sterco di cavallo.
Bestemmiò più volte, a squarciagola, mentre l’occhio cadeva sul tronco della maledetta pianta. Un corvo, nascosto forse tra le fronde ancora folte, benché ingiallite, gracchiò la sua risata dall’albero.
Antonio, pazzo di rabbia, rovesciò con un calcio la carriola e, afferrato il badile, cominciò a menare terribili fendenti contro la corteccia della pianta.
«Crepa, bastarda, crepa! Ti odio, ti odio! Sei la mia rovina, tu! Ah, ma vedrai se non t’ammazzo, quant’è vero che mi chiamo…»
Un sibilo acutissimo, un’accecante sciabolata di luce blu, e infine un boato squassante, come l’esplosione di una bomba. Questo fu ciò che percepì Antonio, prima di perdere i sensi.
* * *
«Sai che proprio non ti capisco, Antò?» disse Pasquale, il vivaista che aveva appena scaricato nello spiazzo antistante la grande fossa, dove prima sorgeva l’albero schiantato dal fulmine, una nuova pianta della stessa specie. Di più, l’avresti detto un clone, un duplicato quasi perfetto del leccio originario, per quanto appariva indistinguibile. Antonio aveva fatto mettere a soqquadro tutto il vivaio, pur di trovare una pianta con caratteristiche del tutto simili a quelle della consorella defunta.
«E che vuoi che ci sia da capire, Pasquale? Ho semplicemente rimpiazzato un albero morto con un altro. Siccome non mi andava di stare a sentire i rimproveri dei signori di Roma, ho messo mano alla saccoccia e ho fatto di tasca mia. Tutto qua» sbuffò Antonio, tergendosi il sudore dalla fronte col dorso della mano nero di terra, col risultato di lordarsi ancora di più il viso arrossato dalla fatica. Aveva sudato le proverbiali sette camicie per mettere a dimora la pianta, rifiutando per giunta l’aiuto dell’amico.
Quasi volesse espiare qualcosa, pensò Pasquale, scuotendo il capo.
«Siamo d’accordo, Antò. Ma non capisco però perché tu abbia voluto ripiantare proprio un leccio, oltretutto tirando fuori di tasca tua un mucchio di soldi, bah! Ma come, è da quando ti conosco che maledicevi quell’albero, e tu…» obiettò il giardiniere, appoggiando il tacco dello scarpone al fusto annerito della pianta,
che giaceva al suolo come un vecchio soldato colpito sul campo di battaglia, «… E tu che fai? Te ne procuri uno identico, perdio, e lo piazzi pure nello stesso identico posto? Beh, ma allora sai che ti dico? Che sei tutto scemo, tu!»
«Vaffanculo, Pasquale! Fatti i cazzi tuoi, capito?» sbottò Antonio, indossando la vecchia giacca di velluto dismessa anni prima dal padrone di casa. Ormai era autunno inoltrato, l’aria si era fatta pungente.
Il giardiniere, sempre senza staccare lo sguardo dall’amico, si diresse alla vecchia Ape Piaggio e avviò il motore. Quindi, insinuando la sinistra fuori del finestrino a sistemare lo specchietto laterale, lanciò un saluto all’amico, condito come di consueto da una sonora bestemmia.
Antonio arretrò di qualche o, fino a raggiungere la sommità della collinetta che si affacciava sulla valle arrossata dalle tinte accese di novembre.
Gli ultimi raggi del sole al tramonto sembravano carezzare le chiome lussureggianti di una distesa sconfinata di lecci.
Strano, rifletté Antonio andosi una mano sulla fronte improvvisamente accaldata, non li aveva mai notati prima.
Il turno stava per finire
Vi racconterò io come è andata quella notte. Non date retta alle cronache dei giornali. Quelli, si sa, devono per forza avere delle storie da raccontare.
A volte ce l’hanno belle e scodellate dalla cronaca nera, che da noi è sempre così prodiga di belle notizie, e allora è più facile. Oppure azzardano ipotesi, cercano testimonianze, qualche volta addirittura le fabbricano, in mancanza d’altro.
Insomma, si danno da fare come possono. Quelli che hanno voglia di lavorare, perlomeno. Non come adesso, che tutti trovano tutto su Internet. E poi, alla bisogna, tanto per raggiungere il numero di cartelle richieste, lavorano di fantasia, per aggiungere colore e pathos alle storie. Gli ingredienti sono i soliti, li conosciamo tutti. Sesso, violenza e morbosità versati a piene mani.
Nel mio caso, però, la storia da raccontare c’era sul serio. Non serve infiorettarla di panzane da scribacchini.
O forse no, magari è una vicenda come tante altre, chi lo sa. Giudicherete voi. Non ci vorrà molto a leggerla. Non sono mica uno scrittore, io.
Il nostro turno stava per finire. Era novembre, l’alba era a un o dal rischiarare quella notte, fredda e densa di smog che t’intossica appena commetti l’errore di annusare l’aria.
Non mi è mai piaciuto l’autunno, la scialba stagione intermedia che fa da sadica anteprima al gran freddo, che dalle nostre parti ti ghiaccia le ossa e ti piaga l’anima. È in autunno che le notti ti sembrano eterne, e il solito schifo di risse, omicidi, furti, stupri, insomma tutto il ricco campionario di noi, bestie umane, diventa quasi insostenibile.
Io davvero non ne potevo più. Unica consolazione, di lì a qualche giorno sarei andato finalmente in pensione. Magari a quel punto sarei morto di noia o d’infarto, o mia moglie mi avrebbe cacciato di casa. Sapete com’è, non siamo abituati alla presenza l’uno dell’altra. E come potremmo, del resto? In tutti questi anni “di onorata carriera”, come recitano gli encomi che ti rifilano per esserti beccato qualche pallottola in corpo nonostante lo stipendio da fame, sono più le ore ate a rincorrere delinquenti che quelle trascorse a casa. A volte, sapete, credo che la mia vera famiglia sia la polizia.
Neanche sarei dovuto montare di servizio, quella notte, ma siamo sotto organico, noi della Polizia. Lo sanno tutti, anche se quei rottinculo dei politici fanno finta di niente. In campagna elettorale ti rincoglioniscono di promesse, pacche sulle spalle e belle parole, ma poi... Poi tanto siamo noi a rischiare la pelle per mille, fetenti, euro al mese, che neanche puoi portare una sera tua moglie a mangiare una pizza, perché i soldi non ci sono. Cos’è che cantava Lucio Battisti quando sono entrato in polizia, «Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti»? I nostri a quella data son finiti da un pezzo.
Comunque, in tempi di magra anche una vecchia scarpa come me può tornare utile, e allora insomma ero lì, il culo affondato nel sedile sfondato della volante, 300.000 Km. di corse sul groppone anche lei, poveraccia. Ma i soldi per le Forze dell’Ordine non ci sono, anzi dobbiamo tagliare ulteriormente le spese, hanno pontificato quei parassiti su al Governo. Ma certo, come no? Tagliamoci anche le palle, così non ne parliamo più.
Franco, il collega di pattuglia, molto più giovane di me, armeggiava col
computer di bordo. Avevo l’impressione che non riuscisse a cavarne un ragno dal buco, con tutta la sua bravura di segaiolo internettaro.
«Allora, Franchino, riesci a far funzionare quel giocattolo?» dissi, rallentando in vista del semaforo disattivato.
«Ancora con quel diminutivo da checca, Sal! E basta! Ma proprio non capisci quando rompi il cazzo?»
«Per me sei sempre Franchino, c’è poco da fare! Ma scusa, potresti essere mio figlio...»
«Ah, bell’affare avrei fatto, a ritrovarmi te per padre! Sai che scazzi?» ribatte lui, assestando una manata all’attrezzatura lampeggiante. «E comunque quest’aggeggio non va! Come tutto il resto, poi! Il navigatore funziona quando vuole lui, il terminale idem. Tra poco non funzionerà più neanche la radio e buonanotte al secchio!»
«E ti stupisci? Ormai non abbiamo più neanche i soldi per la benzina, metà del nostro parco auto è fuori uso e ti lamenti perché non funzionano quei gingilli?»
«È che ti vengono certe madonne, a lavorare così. Come se il nostro lavoro non contasse un cazzo, ecco!»
«Non “come se”, ragazzo mio. Per i nostri cari governanti noi siamo l’ultima ruota del carro, ricordalo.»
«Chiaro. Loro hanno troppo da fare a sniffare coca, fare festini allegri con le escort e sbattersi i trans.»
«Bah, come gli andrà, poi.»
«Cos’è che non dovrebbe più andargli?» fa lui.
«Scopare. Tanta fatica per nulla, ah ah! Sarà che ormai sono vecchio, ma guarda, m’è proprio ata la voglia di intingere il biscotto, sai?»
«Tu vecchio, Salvatore? Ma che cazzo dici? Sei solo un gran rompicoglioni!»
«Se lo dici tu, Franchino...»
«‘Fanculo, vecchio! Ora te lo sei proprio cercato!» ridacchiò Franco.
Il blu denso della notte stemperava nel solito, slavato grigiore mattutino. Non era arrivata nessuna segnalazione degna di nota. Forse quella notte, dopo tutto, non avrebbe insufflato altra aria stantia nei nostri coglioni sempre più gonfi.
«Franc... o» mi corressi, appena in tempo, prima di buscarmi un altro rimbrotto, «Ormai abbiamo finito il turno, e allora sai che fa il tuo vecchio? Ti dà uno strappo a casa, ecco cosa fa!»
A volte un piacere da niente può sortire un effetto straordinario. È una cosa che ho capito con gli anni. E infatti al mio collega si rischiarò il viso, neanche gli avessi detto che aveva vinto al Superenalotto. Siamo fatti così, noi gente semplice. Ci basta poco.
Mi lasciai il centro alle spalle in pochi minuti – uno dei vantaggi del turno di notte – e puntai diretto verso casa di Franco, a Quarto Oggiaro.
«Riporta la carretta al garage, e poi a letto, capito, vecchio? Non andartene a scroccare cornetti caldi al bar della moretta, OK?» mi esortò Franco, aprendo la portiera.
«Chi, io? Cornetti? Morette? E quando mai? Mi conosci, no? Sono una persona seria, io, mica come te, ahah!»
«Sta’ in campana, Sal, o tua moglie chi la sente sabato sera?»
«... Sabato sera?» ripetei, inserendo la freccia per ripartire.
«Ma sì, non ti ricordi?» rispose Franco, girandosi dal cancelletto cadente, «Dopodomani siamo tutti a cena da te!»
Mi detti una manata sulla fronte. «Cristo Santo, hai ragione! Mi sa che sono davvero rincoglionito» feci, ingranando la marcia e salutandolo con un cenno del capo.
Mi stavo avviando alla volta di quel baretto notturno che verso mattina ti sforna certi cornetti che al diavolo il colesterolo, quando il display sul ricevitore s’illuminò come un albero di Natale e la radio gracchiò insistente. In Centrale erano arrivate diverse segnalazioni di un tale che, dal tetto di una palazzina di una strada di periferia, stava sparacchiando con un’arma a ripetizione.
È il mese dei morti, Salvatore: che t’aspetti?, pensai. Continuai a guidare verso il bar, pregustando il cappuccino caldo e tutto il resto. Era bello percorrere le strade della città ancora deserta. In quei rari momenti riesci quasi a percepire l’anima che pare ancora aleggiare nei palazzi antichi, per le strade e i vicoli calpestati da chissà quanta gente prima di noi. Ti sembra tutto più sopportabile, tanto per ripetermi. Ve l’ho detto, non sono bravo con le parole, io.
Stavo accostando l’auto al marciapiede, quando la radio tornò a belare. Lo scimunito di prima, non pago di smerdare proiettili qua e là, ora minacciava di farsi saltare in aria, grazie all’imbottitura di esplosivo che si era legato alla cintura.
Era un momento brutto, il cambio di turno. Di conseguenza, non si capiva bene chi dovesse o potesse recarsi sul posto. Di certo non c’era nessuno che spingesse per farsi avanti. Fatto sta che non distavo poi molto dal luogo oggetto della segnalazione, e decisi, benché il mio turno fosse ormai terminato, di andare a dare un’occhiata.
Accesi il lampeggiante, ma non la sirena. Non mi andava di far troppo casino a quell’ora. Bucai più di un semaforo rosso, guidando troppo veloce, e, l’ammetto, in maniera un po’ imprecisa. Urtai con la coda della Volante un cassonetto che qualche furbone aveva piazzato troppo sporgente dal marciapiede e rischiai di rovinare la gomma posteriore destra contro l’orlo di una di quelle nuove, maledette piazzole che il Comune ha appiccicato agli incroci.
Ero stanco, dovete capirmi.
Credevo avrei trovato già qualcuno di utile sul posto, che so, i Vigili del Fuoco o qualche intrepido vigilante in cerca di notorietà. Invece c’era solo un metronotte obeso dall’aria spaurita e l’inevitabile manipolo di curiosi, forse vicini dello scemo armato.
In quel momento il tipo non si vedeva né si sentiva. Chiesi notizie al ciccione, ma non seppe dirmi granché. Riuscii solo a sapere che con tutta probabilità si trattava di un litigio domestico degenerato in qualcosa di più serio.
«Sai com’è» ammiccò il metronotte, «un vicino mi ha raccontato che la moglie di quello stronzo c’ha una storia con un altro. Lui deve aver mangiato la foglia e allora hanno cominciato a darsele di santa ragione, finché quel... cornuto, appunto, eheh!, deve aver tirato fuori il fucile.»
Prevenendo la mia domanda, il grassone proseguì: «Ha combattuto in Afghanistan, ed è tornato fuori di testa come un balcone. Non lavora. Ha una pensione di guerra. Pare soffra di disturbi nervosi.»
«Ho capito» risposi, allontanando a gesti le persone che nel frattempo si erano avvicinate a noi. «Un’ultima cosa. Cos’è questa storia della cintura imbottita d’esplosivo? Credi sia vera?»
«Non lo so, l’ha detto lui. Certo, visti i posti dov’è stato in ato non mi stupirei... Lì la gente si fa saltare in aria come niente fosse.»
«Già» annuii, controllando la radio ricetrasmittente, che stranamente taceva.
Chiamai la centrale, chiesi rinforzi. Mi risposero che stavano cercando di mettersi in contatto col questore e con qualche vertice militare, vista la vecchia appartenenza del fesso all’esercito. Ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo, specificò l’agente centralinista.
Quella quiete non mi piaceva affatto. E proprio mentre, cercando di adattare la vista alla luce ancora incerta dell’alba, tentavo di controllare la facciata dell’edificio, un nuovo sparo riecheggiò nell’oscurità, non troppo distante dalla mia postazione. Dunque lo sparatore non aveva cambiato idea, e non era escluso che mi stesse prendendo di mira.
«Via, via! Allontanatevi tutti!» gridai, dopo aver sparato a mia volta al lampione che illuminava fin troppo bene la strada, trasformandola in improvvisata piazzola di tiro per il coglione col fucile.
Fui fortunato, centrai la lampada al primo colpo. Forse, dopotutto, non ero ancora da buttare, pensai di sfuggita, correndo verso il retro della mia auto.
Un altro colpo, stavolta meno preciso, risuonò nella mia direzione. Feci scattare la serratura del cofano e afferrai il megafono, un attimo prima che lo specchietto anteriore destro esplodesse sotto i nuovi colpi del folle.
Che disponesse di un mirino a infrarossi? Non potevo escluderlo, a meno che non si fosse trattato solo di un tiro fortunato.
La risposta giunse puntuale l’istante seguente, quando saltò il lampeggiante sul tettuccio. Quel figlio di puttana stava proprio giocando al tiro a segno.
Carponi, al riparo dell’auto, accesi il megafono e mi qualificai. «Chi c’è con te?» chiesi poi.
L’idiota mi rispose abbattendo lo specchietto di sinistra, tanto per pareggiare i conti.
«Va bene, ho capito che la mia macchina non ti piace, ma anche se la distruggi non cambia molto, sai? Ti ripeto la domanda: sei solo?»
«Sì, siamo solo io e il mio bel fucile! Perché vuoi saperlo, vecchio?»
… Vecchio? Avevo sentito bene? La mia voce tradiva così l’età? Quell’aggettivo, l’ammetto, mi fece uscire dai gangheri. Non avrei dovuto cedere alla rabbia, lo so. Oltretutto quella risposta mi lasciava credere che forse il pazzo non disponesse affatto di una cintura esplosiva.
Decisi di correre il rischio.
«Beh, sai com’è: ora che so che te ne stai lì solo soletto, potrei anche farmi invitare da te a casa. Magari potresti offrirmi un caffè. Che ne pensi?» ribattei, correndo a zig-zag verso il portone, che riuscii a raggiungere senza danni.
«L’unica cosa che offrirò a te e a chiunque tenterà di avvicinarsi sarà una bella scarica di piombo, capito? Capito?» latrò l’esagitato, che doveva aver visto troppi spaghetti-western.
M’insinuai all’interno dell’androne del palazzo, e poi, veloce ma col fiato maledettamente corto, su per le scale dai gradini slabbrati.
L’appartamento era al settimo piano, e i miei polmoni non gradirono la salita. Proseguii, cercando di non fare troppo rumore. Dall’esterno i colpi di fucile e di pistola giungevano attutiti. Avevo pregato il ciccione di sparare qualche colpo in aria, standosene però ben nascosto. Speravo così di tenere impegnato il reduce, e magari riuscire a coglierlo di sorpresa.
Sia pure col fiato corto – e va bene, molto corto – riuscii a raggiungere l’appartamento accanto a quello dello squilibrato. Come mi aveva spiegato il metronotte, in quel momento era vuoto, dal momento che il suo anziano inquilino era stato da poco ricoverato – allegria! – in ospedale.
Attesi un momento di particolare frastuono, quindi, con una rapida spallata, riuscii ad aprire la porta senza grandi problemi.
All’interno, l’odore della casa rimasta a lungo chiusa mi fece tossicchiare, e mi maledii per questo. Pregando che i miei colpi di tosse non avessero varcato le mura dell’appartamento, cercai di sfruttare il barlume di luce che filtrava dalle tapparelle dissestate. Individuata la porta finestra che immetteva sul balcone adiacente a quello dell’appartamento del folle, sollevai la serranda quel tanto che bastava per scivolarvi sotto.
Insinuarsi in quella specie di fessura non fu una eggiata, non alla mia età almeno. Ma ci riuscii. Mi ritrovai sul balcone infestato da piante grasse, rampicanti e fioriere vuote, nello stomaco la paura di rovesciare qualche vaso o suppellettile.
Per mia fortuna il rumore non era diminuito d’intensità, segno che il Nostro era sempre impegnato nella sua personale guerra contro l’Umanità. Dovevo stare ben attento a non farmi scoprire, specialmente nello scavalcare il tratto di muretto scoperto che confinava con la terrazza, alla cui estremità opposta si trovava il soldatino armato di fucile e chissà che altro, pronto a farmi la pelle.
Varcai l’orlo del parapetto come un disinvolto Spiderman di sessant’anni e mi acquattai dietro un armadietto di metallo arrugginito. Insinuando lo sguardo nell’interstizio tra il mobile e la parete, scorsi finalmente la sagoma dell’uomo. In mimetica, berretto calato sugli occhi e fucile appoggiato alla spalla, se ne stava girato di tre quarti rispetto alla mia postazione.
E sparava. Oh, se sparava! Sembrava che la sua unica ragione di vita fosse esplodere colpi su colpi. Certo, avrebbe potuto trovare modi meno chiassosi e soprattutto meno pericolosi per combattere l’insonnia, pensai, mentre, mi sporgevo leggermente in fuori.
«Soldato!» gridai, tenendo le mani bene in vista.
Lo vidi girarsi di scatto, gli occhi dilatati dalla sorpresa, e forse non solo da quella. Era il bagliore malato della follia che vedevo brillare nel suo sguardo.
«Che vuoi? Chi cazzo sei?» ululò di rimando, puntandomi il fucile contro.
«Sono un amico, ragazzo.»
«Io non ho amici, e non chiamarmi “ragazzo”!» sibilò, facendomi brillare la luce del puntatore laser sulla fronte imperlata di sudore.
«D’accordo, non siamo amici…»
Lo vidi sorridere malevolo, mentre premeva lentamente il grilletto del fucile.
«… Ma direi che per stasera ti sei divertito abbastanza, non credi? Sai, c’è il rischio che qualcuno possa farsi male a sparare alla gente come fai tu.»
«Ho le mie buone ragioni per farlo!» urlò, la voce roca di disperazione.
«Ah sì? E quali sarebbero? Dimmele, su, coraggio!» risposi, insinuando la mano sotto il giubbotto, in cerca della fondina.
«La mia donna mi ha tradito!»
«E allora? Succede, amico mio! Non sei né il primo, né l’ultimo a farsi cornificare, rassegnati. Ti sembra un motivo sufficiente per fare ricami di
piombo ai anti?»
Con la punta delle dita carezzai la canna della pistola.
«Credevo che almeno lei mi amasse» piagnucolò il cornuto.
«Ti capisco. Ma forse dovresti prendere le cose con più filosofia, non credi?»
Dalla strada intanto gli spari del grassone erano cessati. Ci fosse stato un tiratore scelto al suo posto, la mia manovra diversiva avrebbe avuto un senso, ma così non avevo molte chance. Me ne rendevo conto perfettamente.
«Sai cosa credo invece?» disse, abbassando il fucile.
«No, dimmelo.»
«Credo che prima mi toglierò la soddisfazione di far secco te. Poi vedremo» farfugliò, rialzando il fucile e sparandomi, rapido come una serpe incazzata.
Risposi al fuoco, chiaro. E lo centrai anche, al collo, nonostante il buio, l’età, la paura e tutto il resto.
Quale resto? Oh, il fatto che mi avesse colpito anche lui. Dove? Al petto, un bel
paio di forellini ben assestati al muscolo cardiaco.
Proprio lì. Al cuore, esatto.
E, sì, ci lasciai le penne anch’io, ma almeno risolsi la situazione a modo mio, senza ulteriori spargimenti di sangue.
A parte il mio, s’intende.
Ma sono cose che capitano, se fai un mestiere pericoloso.
Portami con te
Settembre
Alle sei la luce ambrata del mattino incombente filtra pigra tra le persiane della vecchia casa di mia nonna, due piani ripartiti come usava una volta in campagna.
Al piano terra, uno stanzone funge da cucina e soggiorno, dominato dal grande camino dai marmi anneriti. Due vecchie credenze, una vecchia di mezzo secolo, l’altra di poco più giovane, si guardano in cagnesco dalle loro pareti bicolori. Una tendina a fiori ricavata da un vecchio copriletto cela alla vista i detersivi collocati sotto il lavandino di ceramica.
Nel sottoscala, uno sgabuzzino tanto profondo quanto scomodo – non puoi non sbattere la testa contro il basso soffitto obliquo quando ti ci avventuri – funge da ripostiglio per scatole di conserva, pasta e, sospetto, anche qualche ospite squittente sfuggito alla caccia svogliata di Diavolo, il vecchio gatto dal manto tigrato.
«Sono gli ultimi giorni di settembre, è così bello dormire acciambellati sulla sedia di paglia» sembra pensare il felino, mentre socchiude gli occhi per ripararli da una stilettata di luce.
A guardarla bene, la stanza non è grande, ma racchiude in sé tutto un mondo, un piccolo sistema solare che orbita placidamente attorno a questa donna, vedova da molti anni.
L’ho sempre percepita come una persona d’altri tempi, avvolta da un’aura di maestosa arcaicità. È una vecchia contadina, sempre vissuta in campagna: il tempo e lo spazio che governano il suo mondo non sono gli stessi della gente di città. Non voglio dire che siano migliori, né peggiori. Diversi, questo sì.
La sua giornata è scandita da gesti sempre uguali a se stessi, eppure mai davvero ripetitivi. Non usa orologi, si serve del rintocco delle campane e del canto del gallo. Non l’ho mai sentita chiedere l’ora. La sa già, come gli animali più evoluti. Diavolo, per esempio, sa sempre quando è ora di cena. La nonna ridacchia, mentre lo accarezza con mano pesante e gli indirizza improperi bonari.
«Come stai, vecchio mio? Dormito bene, almeno tu, o fanno male le ossa anche a te?» chiede all’animale, che si struscia addosso alle sue caviglie avvolte in pesanti calze di lana grigie e risponde con il solito miagolio inframmezzato da fusa.
È un messaggio che la sua padrona coglie subito: «Ho capito, ho capito. Pensi sempre a riempire lo stomaco, tu, eh? Ora ti do da mangiare, sta’ tranquillo. Prima però usciamo a prendere un po’ d’aria, così vediamo che tempo farà oggi.»
Deve essere trascorsa qualche ora. Lo capisco dalla luce calda che indora la collina punteggiata di ulivi e mandorli. Un tuono riecheggia lontano, oltre la cresta innevata di Monte Gennaro.
Spettatore invisibile di una scena che conosco bene, osservo la nonna lasciare il sedile di marmo con un gran sospiro. Immancabile, il gatto la segue da presso. La coppia raggiunge il centro del piazzale dalla pavimentazione sconnessa per il
lento, ma implacabile, lavorio delle radici dei grandi pini e volge lo sguardo al cielo: l’eco di un tuono ha sfiorato le cime degli alberi.
A poco a poco, quasi impercettibilmente, una scia cenerina traccia una sottolineatura a un groppo di nubi. Non era la voce del temporale in arrivo, ma il bang sonico di un aereo a reazione, forse proveniente dal vicino aeroporto militare di Guidonia.
Forse.
“O forse no, che importa?”, deve aver pensato la nonna, legando i capelli in una crocchia elaborata, dello stesso colore della scia d’aereo.
«Scendiamo nell’orto, coraggio!» dice al gatto, o a se stessa, chissà.
L’animale le risponde con un miagolio rassegnato. I due s’incamminano lungo il vialetto sterrato.
È di nuovo mattino, ma stavolta non sono più un semplice spettatore, perché mi risveglio nella camera da letto dei miei genitori, adiacente a quella della nonna.
Il letto è quello nel quale dormivo da bambino. In un angolo, la grande specchiera che mi ha sempre fatto pensare a una bizzarra conchiglia troppo cresciuta.
Ai piedi del talamo dalla grande spalliera d’ottone, un maestoso baule verde e nero, le grandi borchie brunite dagli anni. Attraverso gli scuri i rami del vecchio pino oggi rimosso – lo colpì un fulmine, durante uno dei tanti temporali che in quella zona pedemontana segnano il aggio dall’autunno all’inverno – ondeggiano pigri.
Percorro con lo sguardo la parete che conduce al soffitto altissimo, come non se ne vedono più nei moderni appartamenti di città. Vaghe tracce di umidità essudano come sempre dal tubo che, proveniente dal bagno, percorre il muro troppo in superficie. La sua corsa sfocia all’esterno, nella vasca lavatoio, dove l’acqua gorgoglia libera notte e giorno.
Né manca qualche ragnatela, aggrappata al muro in posizione troppo impervia perché si possa rimuovere agevolmente. Presenze abituali, in una vecchia casa rurale.
Allungo d’istinto il braccio alla mia sinistra. Sul letto matrimoniale c’è la nonna. Sono oppresso da una tristezza che mi ruba il respiro, perché sento che in realtà non sono veramente qui.
«Nonna, nonna!» le sussurro, scuotendola appena.
«Che c’è, Filippo? Non riesci a dormire?» risponde subito lei, segno che evidentemente non stava dormendo.
«No. Ho paura.»
«Non devi averne. Ci sono qui io, non vedi?» sorride la nonna. Rughe profonde scandiscono i tratti del suo viso, che, nella penombra azzurrina del mattino, appare solenne come un’apparizione.
«Nonna» insisto, «Che mi succederà, ora che sono morto?»
Ecco, l’ho detto. Non credevo sarei riuscito a pronunciare quella parola. Eppure è così, deve essere per forza così. Altrimenti come potrei essere di nuovo qui, in compagnia di questa persona amatissima, che però è morta da decenni?
La nonna sospira, si tira su a fatica, scosta i lunghi capelli grigi dal viso per raccoglierli nella solita crocchia maestosa, che ho sempre pensato, nella mia ingenuità infantile, dovesse procurarle un gran fastidio. Si protende verso di me, mi accarezza la guancia, con quel tocco greve e un poco ruvido che credevo di non ricordare più. Sono anni che non vedevo il suo volto, questa stanza, queste vecchie pareti un poco scrostate.
«Non succederà niente, sta’ tranquillo.»
«Ma tu… tu sei viva, nonna?»
Siede sulla sponda del letto, ora. Sorride, non risponde alla mia domanda.
Mi alzo, vado in bagno, il vecchio stanzone dal soffitto e le pareti tinteggiate d’avorio.
In un angolo, riconosco la piccola vasca da bagno a sedile, tirata a lucido come sempre. In alto, nel cassone sorretto da grandi staffe di ferro rugginose, sento scorrere la solita acqua gelata, che d’inverno frusta la pelle e fa trasalire.
Apro il rubinetto, rinfresco il collo e il viso, quando la mia attenzione è catturata da un clamore di voci e dal crepitio del motore di una Vespa. Mi arrampico sulla scarpiera, sbircio dal finestrone: sono i miei cugini. Chi a piedi, chi in scooter, attraversano di gran carriera il prato. Schiamazzano festosi: chissà dove vanno.
Torno in camera da letto. Non c’è più nessuno. Il sole è alto ormai. Scendo le scale a precipizio, raggiungo il vecchio telefono grigio a disco al piano terra. Un’occhiata al calendario appeso alla parete fa vacillare la mia mente.
È il 1973.
Settembre 2003
Compongo con dita tremanti il numero di casa tua. Trascorrono vari secondi prima di sentirti alzare la cornetta, e quando finalmente lo fai non rispondi al mio saluto. Eppure sono certo che tu abbia identificato la mia voce. Non puoi non averla riconosciuta, mi dico.
«Valentina, sono io, Filippo! Rispondimi, ti prego!»
«Filippo? Oddio no! Chiunque tu sia, non puoi essere lui!» gridi, la voce ispessita dal sonno bruscamente interrotto.
«Invece sono proprio io! Ti sto chiamando da casa di mia nonna!» mi sento rispondere.
«Ma sei davvero tu, Filippo?»
«Ma sì, sì, te l’ho detto!» ripeto, consapevole dell’assurdità della situazione.
«E saresti nella vecchia casa di campagna di tua nonna. È così? Dio, che incubo è mai questo? E chi sei tu, per sapere queste cose su Filippo, eh? Parla, ti prego!»
Dovrei essere felice di udire dopo tanto tempo – quanto ne è trascorso dall’ultima volta che abbiamo parlato? – il suono della tua voce, ma l’ansia che tradisce mi abbatte a tal punto che mi limito a confermarti, in tono sconsolato, che sono proprio io. Non c’è nessun inganno, tento di rassicurarti, chiamandoti intenzionalmente con il diminutivo che usavamo tra noi, Vale.
«Ma non puoi essere davvero Filippo... Chi sei? Avanti, dimmelo!»
«Lo so che è assurdo, ma sono proprio io. Vuoi che ti dica di quel neo che ti spuntò in quel punto così... ben nascosto, o magari che ti racconti di quella volta che restammo fuori tutta la notte e al mattino tuo padre aveva avvertito la polizia? O preferisci invece che...»
«Basta, basta, ti scongiuro!» ansima lei. La sento singhiozzare, prima che
soggiunga «Perché mi fai questo, se sei davvero tu?»
«Tesoro, non so cosa stia accadendo. So solo che ho bisogno di te» rispondo, mentre un’improvvisa fitta di dolore mi traa il petto. Vacillo, la vista si annebbia, sto per svenire.
«Filippo! Sei ancora lì? Perché non parli più?» grida Valentina all’altro capo del telefono. La sua voce in qualche modo mi scuote e allontana la spossatezza estrema che pervade ogni fibra del mio essere.
«Ci sono ancora, sì. Scusami, ho avuto un leggero mancamento, ma è stato un attimo. Ora sembra sia ato, forse grazie a te.»
«Che significa “grazie a me”? Oddio, Filippo, non capisco…» balbetti, a un o dall’isteria. E non so come darti torto: c’è davvero di che uscire di senno, in un momento come questo.
«Neanche io capisco cosa sta accadendo. Una cosa però la comprendo bene, e cioè che ho bisogno di te. Devo vederti, parlarti, devo… capire». È in quel momento che azzardo l’impossibile, quando mi sento dire: «Ho deciso, verrò lì da te, va bene?»
«Cosa? Dici davvero? Sul serio puoi venire qui? Ma allora è tutto vero...» ribatti esitante.
«Non so se sia vero, né cosa lo sia, ma puoi star certa che almeno ci proverò, a
raggiungerti.»
«D’accordo. Almeno ti guarderò in faccia, chiunque tu...»
«… Vale, ancora non mi credi?» la interrompo, la vista di nuovo annebbiata. Sta per cadermi di mano la cornetta del telefono. Prego che Valentina risponda subito alla mia domanda.
«Vorrei crederti, ma come posso, Cristo santo?»
«Valentina, salvami, ti prego.»
La sento singhiozzare, prima che risponda, dopo essersi schiarita la voce: «Non parlare così, non è giusto ciò che stiamo facendo – lo capisci o no?»
«Lo capisco» dico, senza aggiungere altro. Strani scherzi gioca il destino, trastullandosi così crudelmente con le nostre anime.
Poi però ti sento soggiungere: «Davvero puoi raggiungermi? Ma, aspetta, hai una macchina? Vuoi che venga a prenderti?»
«Aspetta, controllo.»
Depongo la cornetta sul ripiano di formica della vecchia credenza e raggiungo il portoncino. Lo libero dal chiavistello e apro. Sul piazzale, il vecchio Maggiolino verde di mio padre. Io però non ero ancora nato quando lo guidava lui, strano. Guardo attraverso il finestrino: la chiave è inserita, bene. Torno dentro, afferro il ricevitore.
«Vale, ci sei ancora?» dico, divorato dall’ansia.
«Ci sono. Allora?»
«La macchina c’è. Parto subito. Tra un’ora sarò lì.»
«Filippo... ho paura. È tutto così assurdo…»
Mi ha chiamato per nome. Non è poco, per uno come me, che ha scordato il suono del proprio nome.
«Lo so. Hai ragione. Ma devo rivederti.»
«Tieni il cellulare , ti prego.»
«Il… cellulare, amore? Di cosa parli?»
Valentina accenna una risposta, poi lascia cadere il discorso. «Niente, non far caso alle mie parole. Va bene, ti aspetto.»
Salgo in auto, siedo al posto di guida e una pioggia di aghi mi trafigge la schiena, risucchiandomi tutto il fiato. Artiglio il volante, inspiro a fondo e mi faccio forza.
«erà», mi dico.
Avvio il motore e, calpestando cumuli di rametti spezzati, foglie secche e aghi di pino, riesco a guadagnare il vialetto sterrato che conduce alla via comunale, e di lì alla provinciale, giù in pianura.
La luce filtra appena tra gli alti canneti che fiancheggiano la strada. L’orizzonte oltre le colline e le montagne, screziato com’è dei primi raggi del sole, evoca l’immagine illusoria di un mare impossibile.
Continuo a viaggiare, cerco di concentrarmi sulla guida. Impresa non facile, anche perché le strade sembrano diverse dall’ultima volta che le ho percorse. Diversi i segnali, gli svincoli.
Mi avvicino a una rotonda che prima non c’era. Percorro un viadotto che aggira e scavalca d’un balzo la piccola stazione ferroviaria un tempo protetta da un aggio a livello. Lo ricordo bene, incappavo sempre nell’arrivo del treno, mi costringeva a fermarmi proprio quando avevo più fretta. Ed è proprio la scia incolore di un convoglio in avvicinamento a provocarmi di nuovo quella brutta sensazione d’irrealtà. Forse, in qualche oscuro modo che non ricordo più, il treno è intimamente legato a me, a questa mia strana condizione di vita.
“Ma esisto poi davvero, io?”, mi chiedo, approdando in velocità all’altra estremità del cavalcavia.
Sono prossimo all’innesto con la statale. Non c’è più traccia di colori, ora. Il verde dei campi solcato dalla strada è svanito. Le immagini che scorrono davanti a miei occhi mostrano le tinte inquietanti di un negativo fotografico.
Mentre m’immetto sulla via Salaria ancora libera dal transito delle auto dei pendolari, la testa sembra esplodere. Digrigno i denti, impreco tra me. Tutto il lato sinistro del corpo è in fiamme. Il dolore che prima mi sferzava la schiena pare attenuato, ma ora nuovi spasmi mi attanagliano mani e piedi. Mi auguro di riuscire a tenere saldo lo sterzo. Strizzo gli occhi, nel tentativo di schiarirmi la vista. Schiaccio a fondo l’acceleratore, con tutta la forza che riesce a trasmettermi la mia disperazione. In pochi minuti sono alle porte di Roma. Tiro giù il finestrino, l’aria frizzante e umida del mattino sembra rivitalizzarmi.
Ormai sono sulla Tangenziale, dove m’imbatto nel transito, come sempre troppo veloce, di furgoni, guardie notturne al termine del loro turno di lavoro e ragazzi di ritorno da qualche scorribanda notturna.
Tossisco, ansimo. Sarà colpa dei gas di scarico che filtrano a piene mani nell’abitacolo della Volkswagen. Si vede che lo smog non giova neanche a quelli come me, sorrido amaro, mentre entro in città.
È ancora notte, la luce giallastra dei lampioni riverbera riflessi lugubri sull’asfalto bagnato dalla guazza notturna. Poi avverto come uno sfarfallio nel panorama, e un nuovo, imprevedibile, mutamento di luci e colori mi assale. Qualcosa è cambiato attorno a me. Di nuovo, ma cosa? Le dita, strette al volante,
fanno sempre più male, ma non posso arrendermi proprio ora.
Lungo Corso Francia una Giulietta mi sora come una freccia incendiaria, unica traccia di colore in questa notte canna di fucile. Io, più modestamente, supero una Fiat 500 beige dall’aria vissuta e un autobus tinteggiato di verde. Una Ritmo Abarth ruggisce al semaforo prima di imprimere il segno degli pneumatici sull’asfalto.
Accendo la radio, in tempo per sentire la voce di Gianni Bisiach che accenna sdegnato agli sviluppi di un grave scandalo politico scoppiato in America. Una storia di intercettazioni per motivi elettorali.
Imbocco più di un senso unico contromano, prima di ritrovare la strada di casa tua, ma la fortuna mi assiste, forse perché gli abitanti del tuo quartiere dormono ancora. È una zona residenziale di un certo livello, la tua. Te ne vantavi sempre, nonostante io ti prendessi in giro ogni volta che tiravi fuori il discorso. Ti davo della “sporca capitalista”, che sciocco.
Casa tua è sempre laggiù in fondo, sul lato sinistro della strada. La sommità della palazzina è trafitta da strane antenne paraboliche che non ho mai visto prima, ma sono arrivato ormai. Arresto l’auto dove capita, scendo di corsa. Intravvedo la tua figura snella dietro il cancelletto, le mani serrate sulle sbarre.
Ti raggiungo, e l’occhiata che mi riservi è più eloquente del tuo silenzio. Mi scruti attonita, quasi inebetita.
«Valentina!» cerco di scuoterti, sfiorandoti il dorso della mano destra.
Sussulti, mi fai entrare. Continui a fissarmi, come se stessi vedendo... un fantasma.
«Vale, toccami, ti prego. Non riesco più a distinguere i colori.»
Esiti un attimo, mi abbracci. In tempo perché la sensazione di poco fa si attenui, anche se le tinte rimangono cupe, oscure. Anche i contorni degli oggetti appaiono evanescenti, sfocati.
Affondi il viso nel mio petto, mi accarezzi la schiena, poi ti stacchi di colpo da me, riprendi a guardarmi. i le dita tra i miei capelli, ho la sensazione che tu voglia imprimere il mio volto nella tua memoria.
«Amore, tu… tu non puoi essere qui!» balbetti, ritrovando infine la voce.
«Eppure ci sono» ribatto, «anche se non so per quanto tempo ancora. Né so perché sia… tornato qui, Vale.»
Mi guardi pensosa, il tuo versante razionale sta avendo il sopravvento. Ti vedo serrare le labbra in una linea sottile, mentre mi esorti a seguirti.
«Dove?» chiedo, mentre mi sospingi oltre il cancelletto.
«Al lago. A casa di mio nonno. Andiamo a trovarlo.»
«Tuo nonno? Ma...»
Lo so, fa sorridere anche me, stavo per domandarle come possiamo andare a trovare un morto. Poi mi sono ricordato che in teoria dovrei essere defunto anch’io: dunque perché stupirsi a questo invito? Piuttosto, cosa crede di trovare Valentina in quella vecchia casa? Quali risposte? Non troveremo invece altre domande?
«Niente “ma”, amore! Non è il momento. Forza, vieni! Prendiamo la mia macchina. Guido io.»
In auto non parliamo molto. Ti limiti a stringermi ogni tanto il ginocchio, a controllarmi con la coda dell’occhio.
Le strade e il panorama, già per me difficili da riconoscere, sembrano avvolti da una strana opalescenza, che ne altera colori e contorni. Il senso di estraneità aumenta di pari o con la crescente certezza di non appartenere a questo tempo, né a questi luoghi.
«Rallenta, ci siamo!» ti dico, a voce troppo alta. È che non riesco a sentire bene il suono prodotto dalle mie corde vocali: distorto e offuscato com’è, mi sembra di parlare nel collo di una bottiglia.
«Ah, te la ricordi la casa del nonno, eh?» dici, in un tono che vorrebbe essere
colloquiale, ma tale non è. Al contrario, la tua apprensione è palpabile, mentre inserisci la freccia e lasci la strada provinciale, imboccando decisa il vialetto che conduce alla casa di tuo nonno.
«Certo. Ricordo bene quando tuo nonno era ancora vivo e…»
… E lui è vivo, per quanto folle e insensato sia tutto questo.
In piedi, le braccia incrociate sul petto, se ne sta appoggiato alla palizzata che ha costruito lui stesso molti anni fa, come mi hai raccontato tante volte tu, Valentina. Sorride sereno, mentre ci saluta con gesto ampio della mano.
«Che ti dicevo, tesoro? Vedi che il tuo amore non sbaglia mai?» dici, stringendomi forte l’avambraccio.
Tiri il freno a mano, mi inviti a scendere con un bacio. Il suono degli sportelli che si aprono riecheggia a lungo nello spiazzo antistante il portoncino d’ingresso. Smontati dall’auto, accorri dalla mia parte e mi prendi per mano, conducendomi come un bambino.
«Nonno, nonno!» esulti, quando finalmente raggiungiamo l’uomo che ci attende in maniche di camicia nonostante l’aria pungente del mattino.
Io e lui ci scrutiamo per qualche istante: tuo nonno ha lo sguardo dell’uomo giusto, ed è una bella sensazione perdersi nei suoi occhi. Mi sento rassicurato, per quanto possa esserlo un uomo nella mia condizione.
Lo abbracci. Lui ti carezza la testa con un gesto che racchiude tenerezza e forza allo stesso tempo.
«Nonno, lui è...»
«Shh… Lo so chi è, tesoro. Forza, entrate. Vi preparo la colazione, dài.»
Valentina e io ci scambiamo occhiate silenziose. Esito un poco, anche perché sto di nuovo smarrendo i colori. Tu lo capisci subito però: mi afferri un braccio e l’effetto negativo si attenua di colpo, fin quasi a cessare del tutto.
Attraversiamo il giardino lussureggiante. Una scala poggiata al fusto di un grande ulivo ti induce a rimproverare bonariamente tuo nonno: non dovrebbe fare certe cose alla sua età, gli dici.
Lui ribatte sorridente che ormai può permettersi questo e altro. Ma il tono nel quale risponde non è brusco: il tuo interesse per la sua salute lo gratifica, è evidente.
Entriamo in cucina. La tavola è già imbandita per tutti noi.
Spalanchi la bocca, sgrani gli occhi. «Nonno...»
«Sì, piccolina. Dimmi tutto.»
«Nonno, forse sei tu che devi dirci qualcosa…» esclami, la voce rotta dal pianto trattenuto a stento.
Il vecchio ci fa cenno di sederci a tavola. Obbediamo, come in trance. Versa tè fumante nella mia tazza, mi porge una scatola di metallo dal coperchio riccamente decorato. La schiudo, e una fragranza dolce, di biscotti artigianali d’altri tempi, mi carezza le narici.
Tu sorseggi il latte, deglutisci rumorosamente. Sei perplessa almeno quanto me. Sentiamo lo sguardo di tuo nonno aleggiare su di noi.
«Nonno, come puoi conoscere Filippo?» dice Valentina, le mani adagiate, quasi premute sul tavolo. Forse a impedirne il tremore, rifletto, non senza sgomento.
«Oh, lo conosco, lo conosco» risponde il vecchio, serafico.
«Ma tu… sì, insomma, non c’eri già più, quando io e Filippo ci siamo conosciuti. E poi ho la sensazione che tu sappia benissimo che lui, come te, è...» Valentina esita, mi dà un’occhiata stralunata, come se mi vedesse per la prima volta. Sospira, finché, con uno sforzo che di certo deve costarle caro, conclude «… è morto, ecco.»
La mia fidanzata ha appena pronunciato queste ultime, terribili parole, che le pareti della stanza cominciano a ondeggiare, a perdere consistenza. Decido di
ignorare il fenomeno, ma c’è dell’altro.
Mi è parso di vedere qualcuno oltre il vetro. Mi alzo, raggiungo la finestra. Non mi sbagliavo, è mia nonna, un canestro pieno di albicocche sotto braccio. Si è accorta che la sto guardando. Sorride, mi saluta tranquilla, sollevando appena il mento verso di me.
Se non è un incubo questo, non so cosa lo possa essere. Mi auguro solo che, risvegliandosi, ci si possa riscuotere da tutto ciò.
Torno a sedere, la camera è piombata in una penombra che mi ricorda chi sono ora. Ma sento la tua mano calda sfiorarmi il collo, e recupero la vista quel poco che basta per vedere tuo nonno che sta accendendo la sua pipa.
«Vedi, ragazza mia... Le cose non sono come sembrano», dice.
«Sì, ma io sono morto! Lo so, lo sento!» prorompo, masticando le parole, alzandomi di scatto. «E anche voi – lei, mia nonna, che ho intravisto qua fuori – non esistete, siete morti da anni!»
Mi fai cenno di tacere, dopo avermi scoccato uno sguardo severo. «Filippo ha ragione nonno, anche tu non dovresti essere qui.»
«Ebbene, bambina, tanto per cominciare sappi che il tuo Filippo non è morto. Non ancora, almeno. Ma potrebbe esserlo tra poco, se proprio lo vuoi sapere.»
«Ma io cosa c’entro, in tutto questo delirio? Scusate se ve lo dico, ma mi sembrate tutti pazzi, sapete... O forse sono io, a essere uscita di senno. Sì, deve essere così, certo! Forse non c’è nessuno in questa stanza, oltre a me. Forse non esiste neppure questo luogo. Forse...»
Tuo nonno scuote lentamente la testa, mentre svuota la caldaietta della pipa.
«Non ci sono “forse”, Valentina. Ma neppure certezze assolute, non in questo piano dell’esistenza. Perché, vedi, noi esistiamo. Qui, ora, intendo. Io, Filippo... anche sua nonna, che – hai ragione, ragazzo, anche lei è qui, ammette il vecchio, annuendo nella mia direzione – ho intravisto poco fa in giardino.»
«Ma non è possibile, e voi lo sapete! Siete morti, tutti voi!» gridi, alzandoti di scatto, rovesciando la sedia nella foga.
«Non è possibile, dici?» risponde pacato il nonno, chinandosi a raccogliere la sedia. «Credi davvero sia impossibile continuare a vivere, sfidando le cosiddette leggi di natura? Sai, piccola mia, a volte i ricordi, o, se preferisci, i sogni, possono sconfiggere la realtà.»
«Non capisco, nonno. Mi stai forse dicendo che sto sognando?»
«In un certo senso. Filippo, il tuo caro compagno di un tempo, ti ha fatto visita in sogno, sì. Ma lui stesso non aveva piena coscienza di sé, di quanto stava… vivendo. Almeno fino a questo momento.»
«Vuoi dire che sono stata io a richiamare in vita tutto questo?» chiede sbigottita Valentina, spalancando le braccia a ricomprendere l’ambiente circostante.
«Più o meno, ragazza mia, più o meno» annuisce il vecchio, senza smettere di sorridere.
«Ma cosa accadrà al mio risveglio? Perché sto ancora sognando, non è vero?»
È allora che mi lanci un’occhiata disperata, piena di rimpianto misto a delusione. Protendi una mano verso di me, l’afferro. La porto alla guancia, la ricopro di baci. Ti getti di slancio verso di me, mi abbracci forte, proprio mentre il biondo dei tuoi capelli sbiadisce in un colore smorto, senza luce.
Mi baci. Una, due, tre volte. Con tenerezza disperata e infinita, le mani sulle mie guance. Sono così commosso che quasi non mi accorgo delle fitte di dolore che hanno ripreso a opprimermi il petto e a sottrarmi il respiro.
Sto ansimando. Ci siamo ormai. Ne sono certo, avverti anche tu che il mio tempo volge al termine.
Le belle pareti ricoperte di tek sbiadiscono, perdono consistenza. Tuo nonno spalanca la porta e un chiarore intenso trapela all’interno, mentre vediamo la sua sagoma allontanarsi, avvolta da una luce intensa.
Mi stringi più forte.
«Portami con te, amore, ti prego!» m’implori, il viso sprofondato sul mio petto.
Ti accarezzo il capo, bacio i tuoi capelli. «Ti amo» sussurro, la voce come un’eco lontana.
Il beep digitale della radiosveglia si diffonde nella tua stanza. Stringi forte il cuscino inzuppato di lacrime, sussurri ancora il mio nome.
Vorrei poterti abbracciare ancora, ma non posso.
Non più.
Il demone di carta
Alessio Notte non era più lui, da quando Erica l’aveva lasciato.
Era accaduto all’improvviso, pochi mesi prima del loro matrimonio. Di punto in bianco, la tenera e remissiva studentessa di Lettere l’aveva messo alla porta. Si era innamorata di un ricercatore universitario, un essere insignificante e scialbo. Così almeno appariva agli occhi di Alessio l’ometto occhialuto che gli aveva portato via la sua Erica.
Eppure era stata brava, “quella nullità”, a stordire di parole una studentessa sprovveduta. Che poi Erica non fosse affatto la ragazza ingenua che si ostinava a voler vedere Alessio, questo era un altro discorso.
«Gli occhi dell’amore spesso non riescono a ricavare una visione oggettiva della realtà» gli aveva spiegato la psicologa alle cui cure l’aveva affidato il Tribunale pochi mesi prima. Alessio si era cacciato in grossi guai, per non essersi arreso all’evidenza di una relazione ormai morta e sepolta. Aveva continuato a dare il tormento a Erica, alla ricerca di un improbabile, inutile incontro chiarificatore.
Ai dinieghi opposti dalla ex fidanzata, si era scatenato, con continue telefonate e piantonamenti sotto casa. Si era insomma dedicato anima e corpo allo sport preferito da certi neo single, lo stalking, finché un’ingiunzione del Tribunale l’aveva costretto a desistere dai suoi propositi.
Col are del tempo, ma soprattutto grazie all’intensa terapia farmacologica cui l’aveva sottoposto la psicologa dei Servizi Sociali, Alessio era parso guarire
dalla sua ossessione.
Non parlava più a tutti di lui ed Erica, come era solito fare in ato. E tuttavia una rimozione così radicale e assoluta preoccupava sia la psicologa che l’assistente dei servizi sociali. Non era necessariamente un buon segno, si confidavano, quando discutevano del caso di Alessio Notte.
Alessio continuava a covare un rancore inestinguibile nei confronti della nuova coppia, colpevole ai suoi occhi di un comportamento criminale, come annotava nel diario che aveva cominciato a tenere da qualche tempo, su consiglio della psicologa. Ma la scrittura, invece di sortire effetti liberatori, amplificava il risentimento, che in certe fasi della giornata – di solito verso sera – gli alterava la voce e perfino le espressioni del viso.
Ai suoi occhi ogni volto femminile finiva per assumere le fattezze di Erica, ogni faccia maschile i tratti odiosi del rivale, l’uomo che aveva avuto l’ardire di privarlo della sua donna. In quei momenti giungeva a insultare e ricoprire di sputi le figure che comparivano sul teleschermo.
A sera, solo ingurgitando una dose sempre crescente di sonniferi, riusciva a trascinarsi a letto, dove piombava in un penoso stato di dormiveglia, che nel tempo aveva imparato a utilizzare come veicolo onirico per le sue fantasie. Con un semplice sforzo della volontà, complice anche la miscela di sostanze in circolo nel suo organismo, era ormai in grado di determinare l’ambientazione e i protagonisti dei suoi sogni. In tal modo si ritrovava ogni notte a sognare Erica e la loro unione, naturalmente felice. In quel Nirvana narcolettico ogni difficoltà veniva superata di slancio, le ombre sulla loro relazione svanite d’incanto. L’amore di Erica, compagna ideale e idealizzata, non conosceva limiti. Alessio Notte viveva momenti idilliaci, di suprema esaltazione, nell’estasi di giornate perfette d’intensa, ancorché fallace, felicità.
Riconquistato un livello accettabile di stabilità, se non interiore almeno esteriore, Alessio riprese a lavorare. Tornò a fare il montatore video, non più però per l’importante società con la quale aveva lavorato in precedenza, prima cioè che iniziassero a manifestarsi i disturbi nervosi. Grazie all’intervento dei servizi sociali, prese invece a collaborare con un piccolo studio specializzato nella produzione di cartoni animati.
I primi tempi tutto parve procedere al meglio, a patto di considerare normale lo stato di salute psichica di un soggetto sempre più dipendente da psicofarmaci, alcool, cocaina e altre sostanze.
All’uso delle droghe vere e proprie Alessio era stato introdotto da Hugo Voss, il disegnatore un tempo celebre, oggi cocainomane perso, che di recente aveva firmato un contratto in esclusiva per la Distortion, la stessa compagnia presso la quale lavorava Alessio.
Voss sfornava progetti, bozzetti e tavole a ritmi forsennati. Realizzava storie fantasy intrise di raffinato erotismo, grondanti di violenza estrema, in uno stile inedito di rotondità disney e prospettive in stile Manga che suscitava in Alessio un entusiasmo sfrenato. Forse anche per questo lui e Voss svilupparono presto un buon rapporto, di “quasi amicizia”, come lo definiva il grande disegnatore.
«Vedi», gli aveva confessato l’artista una sera, visionando assieme a lui una sequenza al computer, «Io non credo si possa instaurare un vero rapporto di amicizia tra esseri umani. Troppo diverse le sfere intellettuali di ciascuno per poter interagire su un piano di parità.»
Quei discorsi farneticanti si sposavano bene con la megalomane concezione di assoluta superiorità che Alessio aveva sviluppato nei confronti dell’ominide che gli aveva portato via la divina Erica.
«Hai ragione, Hugo!» si era infervorato. «Al massimo, è possibile una forma di comunicazione, ma solo tra spiriti eletti, quali...»
«Avanti, dillo. Non deve aver paura a dire certe verità, un giovane con un nome tanto importante!»
«Hai ragione, Hugo... Importante come noi!» aveva concluso Alessio, trionfante.
Anche Hugo Voss viveva in un mondo tutto suo, non meno onirico di quello frequentato dal giovane montatore, la dimensione fantastica nella quale agivano i suoi personaggi, guerrieri di bellezza sovrannaturale accomunati dal culto del sangue e della violenza.
Il disegnatore sognava ogni notte le storie che poi trasponeva con consumata abilità in tavole elaboratissime, sovraffollate di particolari. Nel terrore di veder affievolite le sue fantasie, le alimentava con spericolati miscugli di alcool e droghe. Nutriva, nei confronti dei suoi stessi personaggi, atteggiamenti a dir poco bizzarri. Sembrava quasi che, in un certo senso, ne stesse divenendo schiavo.
In un’intervista, era giunto ad affermare: «Mi sto convincendo, ogni giorno di più, di un’assoluta, incontrovertibile verità, e cioè che i miei personaggi – Khan, il dio guerriero; Vrath, lo sterminatore; Wulan, il vampiro psichico, e tutti gli altri déi assassini – vivono realmente. Io non sono altro che il loro biografo per immagini. Mi auguro solo di non spiacere mai a nessuno di essi. Dio solo sa quali potrebbero essere le conseguenze, se decidessero di varcare il confine che li separa dalla nostra dimensione.»
I sogni di Alessio Notte, sotto la guida del gran sacerdote Voss, compirono un eccezionale salto di qualità, acquisendo un’intensità mai raggiunta prima, un livello di realtà più reale del reale.
Come inevitabile contropartita, Alessio sviluppò presto una nuova forma di dipendenza. Trascorreva le ore diurne nell’attesa spasmodica della notte, per trovare rifugio nell’unica dimensione che ormai trovasse appagante, la sola che valesse la pena di vivere ed esplorare, il regno del sogno.
Tuttavia, con il are del tempo, forse anche in seguito al progressivo aumento delle dosi assunte, nelle costruzioni mentali del sognatore cominciarono a insinuarsi le prime crepe.
Le azioni di Erica, analogamente a quanto era accaduto nell’altra realtà – così la chiamavano Alessio e il suo mentore Voss, sempre più rapito nei suoi sanguinolenti deliri – presero a ricalcare quanto accaduto nel mondo reale. Nonostante tutti gli sforzi di Alessio, Erica, sogno dopo sogno, si allontanava sempre più da lui.
Finché, una notte, rivisse uno dei momenti più tristi della sua vita, la desolante ripetizione dell’incontro con il suo rivale. Quel brutto film si concludeva con la sequenza, ancora più spiacevole, dell’abbandono da parte di Erica.
Alessio si svegliò di soprassalto, scosso da fremiti. Batteva i denti, doveva avere la febbre alta. Si alzò a fatica dal divano e, barcollando, raggiunse l’angolo bar del salotto. Travolse più di una bottiglia, prima di riuscire a trovare la vodka, l’unica bevanda che aveva la capacità di restituirgli uno spiraglio di calma nei momenti peggiori. Ne tracannò lunghe sorsate, finché senti lo stomaco
avvampare in un piacevole incendio.
Disteso sul tappeto polveroso, allungò una mano verso il telefono e compose con dita tremanti il numero di Hugo Voss. Dovette attendere a lungo prima di sentire qualcuno rispondere all’altro capo del telefono. Quel qualcuno era il grande cartoonist in persona.
«Chiunque tu sia, possa ardere tra le fiamme dell’Inferno!» esordì teatrale l’artista.
«Se è per questo, ci sono già, all’Inferno, Hugo!»
«Alessio, mio ottimo amico! Che ti è accaduto? Va tutto bene, voglio sperare! Sino a poco fa mi trovavo sul campo di battaglia, costretto a registrare le atroci gesta del terribile Khan... Ti confesso, anzi, che la tua chiamata è giunta quanto mai tempestiva, avendomi sottratto all’immonda vista di quel mostro sanguinario!»
«Ah, beh, allora mi consolo!» trovò la forza di replicare Alessio. In quel momento gli riusciva arduo tollerare la vena magniloquente dell’amico. Quando Hugo era sotto gli effetti della droga si esprimeva in un linguaggio arcaizzante e decadente, non dissimile da quello adoperato dai personaggi delle sue storie.
«Non dirmi che anche i tuoi sogni sono stati turbati da qualche presenza perniciosa!»
«Proprio così!»
«Parla liberamente, amico mio. Dischiudi il tuo cuore oppresso, spalanca la tua mente!»
«Erica mi ha lasciato.»
«Questo lo so già. Enunciami qualcosa di nuovo, suvvia!»
«Non hai capito, Hugo! È apparso Dario!»
«Ammetto che continuo a non rinvenire elementi di novità nelle tue parole, caro Alessio.»
«Dario mi ha portato via Erica anche in sogno» piagnucolò Alessio.
«Mein Gott! Questa proprio non ci voleva, amico mio!»
«No, decisamente» borbottò Alessio, tirando su col naso. «Non so più che fare.»
«Comprendo il tuo stato d’animo, amico mio. Eppure qualcosa potresti farla, a pensarci bene.»
«Cosa? Cosa? Se perfino nei sogni non riesco a liberarmi di quel verme, cosa diavolo posso fare?»
«Sei proprio sicuro di non potertene liberare… almeno in sogno?»
«Che intendi, Hugo? Non capisco!»
«È presto detto. Hai mai pensato che potresti ucciderlo, sia pure in sogno? Sono certo che ti gioverebbe.»
L’idea, per quanto folle, piacque immediatamente ad Alessio.
«Ammetto che mi piacerebbe moltissimo ucciderlo. Se non fisicamente, almeno nell’unica dimensione degna di essere vissuta...»
«Lo vedi? Sei già sulla buona strada, allora.»
«Dici?»
«Ho mai mentito al mio discepolo prediletto?»
«Ma come farò?»
«Tu pensa a sognare il tuo nemico. Il resto verrà da solo, vedrai.»
Per quella notte era abbastanza. Tornarono entrambi a dormire, o meglio, cercarono inutilmente di riprendere sonno, ma l’eccitazione in un caso, la paura nell’altro, impedirono loro di riposare.
La notte seguente Alessio ripeté il solito rituale tossico, a base di pasticche, alcool, droga. Ancora cosciente, cercò di focalizzare gli ultimi, rarefatti pensieri sul viso del rivale. Sperava di poterlo sognare, anzi, incontrare, da solo, senza l’imbarazzante presenza di Erica.
Quando riaprì gli occhi non era più nella sua stanza. Sedeva su una scomoda poltroncina, in quella che sembrava una camera da letto sconosciuta. Dal comodino accanto al letto un’abat-jour accesa proiettava ombre distorte sulla parete alle sue spalle.
Lo scroscio di uno sciacquone risuonò dalla stanza attigua. Alessio si nascose nell’angolo più buio della camera da letto, nell’intercapedine tra un grosso armadio e la finestra. Qualcuno era appena uscito dal bagno, e, strascicando i piedi, stava percorrendo i pochi i che lo separavano dalla camera da letto.
Era Dario, il suo rivale... il verme!
Dario esitò qualche istante sotto la mostra della porta. Si guardò attorno
strizzando gli occhi, poi, abbozzando un sorrisetto scialbo, si ò una mano sulla fronte lustra e disse: «Sciocco che sei, Dario. Alla tua età, hai ancora paura delle ombre!»
«… E fai bene invece, ad aver paura!» si sentì dire Alessio, mentre usciva dal buio.
La reazione scatenata dalla vista dell’intruso colse impreparato lo stesso Alessio. Dario Nebbia sgranò gli occhi fin quasi a farsi schizzare fuori le pupille dalle orbite, spalancò la bocca e si abbatté di schianto sul parquet. In preda a tremori squassanti, digrignava i denti, sbavava, agitava braccia e gambe di continuo, con movimenti sconnessi, da manichino disarticolato.
«Sta’ calmo, fermati, accidenti a te!» gridò Alessio, cercando di bloccare gli arti fuori controllo dell’uomo a terra.
Ma ogni sforzo era inutile. Nonostante l’evidente superiorità fisica – Dario aveva un fisico davvero mingherlino, anche più di quanto ricordasse – Alessio riusciva a stento a controllare i movimenti del padrone di casa.
Poi, improvvisamente, la frenesia cessò. Come se una mano nascosta avesse strappato il cavo dell’alimentazione dalla presa, Dario si arrestò. Rimase inerte sul pavimento, gli occhi vitrei fissi sulla fonte del suo terrore.
Alessio cercò dapprima le pulsazioni sul collo dell’uomo immobile, poi tentò di percepire il battito del cuore attraverso il ridicolo pigiama a righe. Provò a scuoterlo, a schiaffeggiarlo, ma a nulla valsero i tentativi. L’uomo era morto.
Alessio si alzò di scatto, indietreggiò, la testa che girava. Non aveva mai fatto un sogno intenso e vivido come quello, pensò fugacemente, mentre lasciava di corsa la stanza.
Trovata a stento la porta di casa, scese a precipizio le scale di un condominio che non conosceva, finché si ritrovò nell’atrio. Cercò con occhi febbrili il pulsante che azionava lo sblocco del portone d’ingresso. Una volta individuato, lo premette più volte. Poi spalancò con violenza la porta e fuggì nella notte.
Attraverso un dedalo di strade deserte, si ritrovò a Piazza del Popolo, nel punto mediano tra le celebri chiese gemelle. Alle sue spalle, la sagoma scura dell’obelisco con i geroglifici di Seti, «Colui che riempie Eliopoli di obelischi perché i loro raggi possano illuminare il tempio di Ra.»
Sentiva gli occhi di tutti addosso. Ma la piazza era deserta, a parte qualche barbone assopito in prossimità dell’ingresso della metropolitana di Piazzale Flaminio. Raggiunse una panchina e vi si lasciò cadere. Sentì i battiti del cuore rallentare, il respiro farsi meno affannoso. Chiuse gli occhi e crollò addormentato.
Alle sette di sera del giorno dopo, il trillo prolungato del telefono gli trafisse le tempie. Era come se tutte le campane di San Pietro stessero battendo i loro rintocchi accusatori all’interno della sua scatola cranica. Senza neppure tentare di aprire gli occhi, allungò una mano verso il telefono sul tappeto. Al microfono grugnì un «Pronto» stentato, con voce perfetta da ramarro in cattività.
«Alessio, sei tu?»
Il cuore prese a stantuffare nel petto di Alessio come una trivella della Exxon. Si schiarì la voce, cercò di tirarsi su, ma senza successo.
«... Erica! Sì, sì, sono io!»
«Ma che voce terribile! Stai bene?»
«Sì, ho solo un po’ di raucedine. Sai com’è, l’aria condizionata...»
«Senti», tagliò corto la ragazza, «È molto che non ci sentiamo, e francamente credo che avrei fatto meglio a non chiamarti. Non dopo tutto quello che è successo.»
«Ti capisco.»
«Davvero? Non credo proprio, sai, tu possa capire, dopo tutto il male che mi hai fatto, tu... tu, mostro!»
Alessio non aveva voglia di replicare a quei discorsi, per quanto suonassero ingiusti alle sue orecchie.
«... Non credo tu mi abbia chiamato per dirmi solo questo, vero?»
«No, infatti.»
«E allora?»
«Volevo dirti...» la sentì prendere fiato «... Volevo dirti che stanotte ho avuto un incubo terribile.»
«Davvero? Mi dispiace.»
«È stata un’esperienza angosciante, così reale che, quando mi sono svegliata, ho tirato un sospiro di sollievo». Erica fece una pausa, forse in attesa di un commento, che però Alessio si guardò bene dal fare. «Nel sogno, vedevo Dario andare a dormire.»
«Va bene. E poi?»
«Improvvisamente, vedeva qualcosa che lo terrorizzava a morte. Era come se ci fosse qualcun altro, nella stanza con lui. Questa almeno è stata la mia impressione, Alessio.»
«I sogni sono sempre un po’ misteriosi, amore, lo sai.»
«… Non chiamarmi così, non ne hai il diritto!»
«Come vuoi, scusa. E poi? Che è successo?»
«L’ho visto accasciarsi sul pavimento, in preda a terribili convulsioni. Poi, di colpo, è rimasto immobile... È stato terribile, devi credermi!»
«Perché mi stai raccontando tutto questo, Erica?»
«Perché... perché ho paura, ecco perché!»
«Paura? E perché mai? Non essere ridicola, su! È stato solo un brutto sogno. Niente di più.»
«È quello che mi son detta anch’io, eppure…»
«E poi scommetto che Dario sta benissimo.»
«Lo spero. Non lo sento da ieri sera.»
«E come mai?»
«È partito stamattina per gli Stati Uniti. Deve partecipare a un convegno, sai. Sta
facendo carriera, lui... In queste ore è in volo, non ho modo di sentirlo.»
«Non preoccuparti. Tra poco potrai parlare con lui e dimenticherai i brutti sogni.»
«Speriamo» sospirò lei. «... Alessio, sei ancora lì?»
«Ma certo. Vuoi dirmi qualche altra cosa?»
La sentì esitare.
«No. Anzi sì. Cioè... Sogni mai, tu?»
«Sì, come tutti, immagino.»
«E ti capita mai di sognarmi?»
«È successo, non dico di no.»
«E nei tuoi sogni sono ancora la tua ragazza? Cerca di ricordare, Alessio, ti prego. È importante.»
«E chi se ne ricorda? Sai come sono, i sogni. Mentre li fai, ti sembra di viverli realmente. Poi, al risveglio, il più delle volte neanche li ricordi.»
«È vero, hai ragione.»
«Certo che è vero.»
«E va bene. Ciao Alessio. Scusami se ti ho fatto perdere tempo con le mie assurde paure.»
«Ma figurati! E ricorda che ci sarà sempre posto per te, nel mio...»
«... Nei tuoi sogni?»
«Diciamo così, Erica. Diciamo così.»
La sera dopo, lo sguardo di Alessio, intento a navigare oziosamente sulla pagina Web di un giornale on line, cadde su un’agenzia di stampa, ripresa dal portale di un quotidiano locale:
Roma, 14 Luglio – Un ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma, Dario Nebbia, è morto la notte scorsa. Tre le ipotesi della morte, un infarto, indotto forse da una forte emozione. Il cadavere dell’uomo è stato rinvenuto accanto al suo letto, nell’abitazione nei pressi di Piazza del Popolo a Roma...
Era libero, finalmente! Il suo rivale, proprio come aveva auspicato Hugo Voss, era morto. Ma era stato forse lui a...?
«No! Non è possibile!» gridò, afferrando la bottiglia di vodka. Ne trangugiò diverse sorsate, prima di riuscire a comporre il numero dell’illustratore. La risposta non tardò a giungere, stavolta.
“Strano. Non è da lui, rispondere ai primi squilli”, pensò di sfuggita.
«Pronto, Hugo?»
«Pronto, chi parla?»
Non era la voce del suo amico, quella. D’istinto, fece per buttare giù, quando sentì gridare al telefono: «Non abbassi, la prego! Sono il commissario Luce!»
«… La polizia?» rispose finalmente «… Sono Alessio Notte, cos’è successo? Dov’è Hugo?»
«Signor Notte, Hugo Voss era suo amico?»
«Sì, certo! Vuole dirmi cosa diavolo sta succedendo, lì?»
«Non si scaldi. È successo che il suo amico è morto.»
«Morto? Sta scherzando?»
«Le pare che possa scherzare su un simile argomento?»
«E come è morto?»
«È stato assassinato. E forse lei potrebbe esserci d’aiuto. Può raggiungerci? L’indirizzo immagino lo conosca.»
«Certamente. Tra poco sarò lì.»
«Molto bene. L’attendo.»
«Il signor Voss, che lei sappia, era un collezionista d’armi antiche?» disse Luce, squadrando il volto tirato di Alessio.
«No, che io sappia. Non ne ho mai viste a casa sua.»
«Strano.»
«Cosa è strano, scusi?»
«Hugo Voss è stato ucciso con quella che a primo acchito parrebbe essere una spada molto antica.»
«Dio mio!»
«Credo che Dio abbia poco a che fare con questo caso... Venga con me, voglio mostrarle una cosa» disse il commissario, facendo strada verso il punto dove giaceva il corpo cosparso di sangue dell’artista. «Stia ben attento a dove mette i piedi. Siamo ancora in attesa della Scientifica. Ecco, vede quella parete?»
«Quella in fondo?»
«Esatto, proprio quella. Se guarda bene, c’è una specie di scritta, tracciata direi con la punta di...»
«... Di una spada, ma certo!»
«Infatti, è quello che ho pensato anch’io. L’assassino ha scritto un messaggio col sangue del suo amico.»
Ad Alessio, oppresso da conati di vomito, girava la testa.
«Forse lei è in grado di spiegarmi il senso di queste parole.»
«Legga lei, commissario, la prego» rispose Alessio, sull’orlo di una crisi nervosa.
«E va bene» sospirò il funzionario. «“Non recate offesa a Khan, o i vostri incubi diverranno realtà”.»
“... Khan! Ma certo, l’infame Dio guerriero, nemico giurato della razza umana! È stato protagonista dell’ultima miniserie di Hugo, che però progettava di eliminarlo dal Multiverso!” ragionò Alessio, incredulo.
«So che il signor Voss disegnava storie di personaggi mitologici, mostri sanguinari e sciocchezze del genere... È così, vero?»
«Sì. Ma non le definirei sciocchezze. Hugo è… era un grande artista.»
«Se lo dice lei… Comunque. A suo avviso, qualcuno potrebbe essersi immedesimato in quei personaggi, al punto da commettere un omicidio?»
«Non credo.»
«Ah, avevo temuto il contrario, vedendo la sua reazione. E allora, secondo lei,
cosa diamine è accaduto? Non mi dirà che sono stati i suoi stessi personaggi, a uccidere un disegnatore di fumetti tossico!»
«Non glielo dirò io, commissario» rispose Alessio, mentre l’ombra di un essere gigantesco s’insinuava alle spalle dei due uomini.
L’estate del diavolo
Avrò avuto vent’anni. Ero innocente, allora.
Era estate. Fine agosto, se non ricordo male. Mi trovavo, per motivi, diciamo così, abbastanza indipendenti dalla mia volontà, in vacanza al mare con la mia famiglia. Tutti i miei amici erano partiti prima di me e così avevo finito per accettare l’invito dei miei.
Bella roba, al mare coi vecchi. A quell’età, poi!
Era cominciata male, quell’estate. Mi ero trascinato sui libri fino alla sessione di luglio, per riuscire a dare un esame così striminzito e insignificante che mio padre, chiesto notizie sul nome del corso, se n’era uscito con uno di quei commenti che mi facevano sentire inevitabilmente un paria.
«Bella denominazione, davvero pittoresca!» aveva detto, un ghigno sarcastico sul viso, soggiungendo subito «A cosa cavolo ti servirà poi, Linguaggi della semeiotica, forse un giorno me lo spiegherai!»
Non aveva tutti i torti. Ma sapete, a vent’anni le tue priorità sono differenti da quelle di chi ha il triplo dei tuoi anni, specie se poi si tratta dei tuoi genitori. Loro vorrebbero che tu bruciassi le tappe, rinunciando a tutto quel magnifico bagaglio di esperienze che un giovane deve fare. E io, questo è poco ma sicuro, ce la mettevo tutta ad accumularne nel maggior numero possibile.
Per dirla con Adriano Celentano, “il problema più importante” erano le ragazze. Ovvio.
Non che scarseggiassero, questo no. Ma sia io che i miei amici di allora eravamo afflitti da una sorta di maledizione, catalogata nei testi di sfigatologia applicata alla terribile voce “sindrome dell’amico sincero”.
Era frutto di un approccio clamorosamente sbagliato con l’altro sesso. Mi spiego meglio. Di solito non incontravo problemi particolari nell’avvicinare le ragazze, grazie anche al mio aspetto da bravo ragazzo. Ma era proprio questa qualità a ritorcersi puntualmente contro di me, come un fastidiosissimo boomerang. Anzi no, come l’aquilone di Charlie Brown, che finisce regolarmente per impigliarsi in qualche ramo inaccessibile o, peggio, schiantato sulla sua bella testona tonda.
Il problema non era strappare un invito a cena o al cinema. Il difficile veniva dopo, quando dovevi are alla... fase pratica, ecco. Perché le ragazze si fidavano ciecamente del visetto a modo del loro amico e puntualmente lo eleggevano a confidente e amico del cuore.
Un ruolo scomodo. Terribile da sopportare, diciamocelo. L’anticamera della santità, secondo alcune scuole di pensiero. Sì, perché quando, complice l’oscurità della sala cinematografica, azzardavi una forma di contatto più stimolante, puntualmente ti sentivi apostrofare più o meno così: «Dai Giulio, non scherzare! Cosa stai facendo, non sarai mica come tutti gli altri!»
L’unica consolazione è che il tono adoperato in questi rimproveri era in genere affettuoso, poco più di un benevolo rimbrotto. Quel genere di modulazione della voce che ti fa accettare qualsiasi fregatura da una donna, insomma.
D’altro canto, non è che avessi molta scelta. O rinunciavo all’amichetta dolce e affettuosa, ma del tutto impermeabile alle mie goffe avances, oppure mi rassegnavo a quel ruolo da aspirante santo.
Beh, il più delle volte mi adattavo. Anche perché, una volta identificato dall’altro sesso come amico del cuore, perdevo ogni credibilità sotto il profilo sessuale. Insomma, dovevo rassegnarmi a lunghe uscite pseudo romantiche con l’amica di turno. Una non-soluzione, che salvava la faccia all’esterno, ma che mi frustrava a livelli penosi.
Ma torniamo a noi. Qualche giorno dopo Ferragosto, i miei genitori, finite la vacanze, erano tornati a casa. Io ero riuscito a convincerli a partire senza di me, con il pretesto che mi avrebbe raggiunto Carlo, un compagno di studi.
Era una balla bella e buona. Oddio, che fosse buona poi, questo era tutto da dimostrare... Carlo infatti non voleva neanche saperne dei miei disperati tentativi di rimorchio. In quei giorni era in Svizzera per un concerto di David Bowie. Ha sempre avuto un sacco di soldi, lui.
Ma sto divagando. Dicevo: se volevo sperare di concludere qualcosa, non potevo permettermi di farmi vedere con mamma e papà al seguito, da perfetto poppante. Anche perché si dà il caso che alla fine una ragazza l’avessi agganciata.
Si chiamava Ingrid. Era una studentessa austriaca: allegra, formosa al punto giusto, una nuvola di capelli rossi in testa, pareva divertirsi al mio trito repertorio di battute. Veramente non so se davvero riuscisse a capire completamente le mie parole. Forse era per quello che rideva tanto, chissà.
Non che fossi riuscito a “concludere”, eh! Giungevamo sempre al punto in cui, verso le undici di sera, il tempo di fare una eggiata in spiaggia – che io mi ostinavo a credere il prodromo di un altro genere di attività – lei mi scaricava. Motivo, l’orario tassativo fissato per il rientro dalla pensione gestita da una congregazione di suore.
Suore, proprio così.
Ciò non di meno non demordevo. Continuavo imperterrito la mia azione di logoramento, l’occhio fisso sul calendario. Finché, una sera, lei mi fece capire che… sì, insomma, quella sarebbe stata la sera.
Sedevamo su un lettino, a un o dal bagnasciuga. Le avevo cinto le spalle, come da copione. Guardavamo l’orizzonte oscuro del mare, rischiarato a tratti da una luna che giocava a nascondersi dietro nubi troppo dense per i miei gusti.
Pregai tra me: “Cosa darei perché non piovesse e riuscissi finalmente a…”
Non terminai il pensiero che mi ritrovai Ingrid avvinghiata addosso, come non mi aveva mai permesso di fare prima. Mi baciava di brutto, vorticando la lingua nel mio palato come un frullatore. Mi carezzava il petto sotto la camicia, mi… Mi ripresi presto dallo stupore, e cominciai a reagire – eccome se lo feci! – agli stimoli.
Oh sì! Le slacciai i bottoni della camicetta, liberai quel bel seno dal reggipetto e presi a mordicchiarle i capezzoli. Poi… poi, beh, ammetto che persi un po’ la testa, quando lei tirò giù la lampo dei miei jeans. …. Mi blandì con carezze e baci, finché non resistetti più e… Insomma, lo facemmo più volte.
Lei sembrava fuori di sé, trasfigurata dal piacere. Gridava, si dimenava, smaniava, mentre mi graffiava il petto, il collo, la schiena. Mi sentivo lusingato, non dico di no, ma allo stesso tempo non potevo non rimanere vagamente perplesso da quel cambiamento così radicale.
Alle tre del mattino il freddo della notte cominciò a farsi sentire, e benché ce ne stessimo abbracciati stretti stretti, decidemmo di lasciare la spiaggia. Troppo tardi per rientrare dalle suore: l’avrei ospitata io, nella stanzetta dove trascorrevo quegli ultimi giorni di vacanza.
Dario, il portiere di notte, un individuo sinistro di età indecifrabile e di poche parole, ci accolse con un ghigno sbieco. Accennai un’improbabile quanto inutile spiegazione sulla presenza della ragazza, ma lui fece spallucce e un gesto vago della mano, come a dire che non c’era problema. Continuò a guardare un vecchio film dell’orrore dal televisore dell’angolo bar.
Ingrid alla vista del portiere sembrava essersi rabbuiata. O forse era solo stanchezza, pensai, più che legittima del resto, dopo il nostro infuocato convegno amoroso. Non mi stupii, quando mi disse che doveva andare un attimo nella toilette.
«Tu avviati pure in stanza. Ti raggiungo subito» soggiunse, un sorriso tirato sul viso.
Feci le scale a fatica. L’alcool e tutto il resto avevano messo a dura prova anche la mia tempra di ventenne. Varcai la porta della stanza, feci una rapida doccia e mi lasciai cadere sul letto. In attesa dell’arrivo di Ingrid, rimasi a fissare l’insegna luminosa dell’albergo per qualche minuto, finché la stanchezza
prevalse. Piombai in un sonno pesante, ottundente.
Quando mi risvegliai erano quasi le cinque del mattino, e di Ingrid nessuna traccia. Provai a telefonare a Dario, giù nella hall, pregando non fosse caduto addormentato anche lui: mi aveva confessato che, in barba alle consegne, quando poteva schiacciava più di un sonnellino.
Fui fortunato. Rispose dopo pochi squilli, ma quando le chiesi notizie della ragazza che era venuta in albergo con me, rispose con evasivo che era tutto sistemato.
«Puoi tornare a dormire, dammi retta» ricordo che mi disse.
Tutto sistemato? E cosa diavolo significava l’invito a tornarmene a dormire? Non feci in tempo a chiedere altro al portiere, aveva già buttato giù.
Scesi le scale a precipizio così come mi trovavo, a torso nudo. Trovai Dario all’esterno, intento a fumare una sigaretta, appoggiato alla ringhiera della terrazza.
«Dario! Che è successo? Dimmi!» lo scossi, afferrandolo per le spalle.
Lui si liberò dalla mia stretta come una furia, e mi ingiunse di non provare mai più a toccarlo, se tenevo alla vita. Sul momento quella minaccia mi parve solo l’ennesima bizzarria di quello strano tipo, così non vi feci caso più di tanto.
Ripetei la domanda.
Lui, ghignando come l’avevo visto fare un paio d’ore prima, al momento del nostro ritorno in albergo, espirò una boccata di fumo azzurrino e rispose, la voce bassa come un brontolio di terremoto: «La ragazza è andata.»
«Che significa “è andata”? È tornata alla sua pensione?»
Dario alzò le spalle con noncuranza e scagliò la cicca della sigaretta in un portacenere di plastica. Lo inseguii, scongiurandolo di rispondermi. Dove poteva essere andata Ingrid, visto che il portone della pensione delle suore a quell’ora di notte doveva essere ancora chiuso a sette mandate?
Dario si voltò e mi scoccò un’occhiata che mi gelò il sangue. Per un attimo giurai di aver colto un lampeggio fiammeggiante in quelle pupille eternamente arrossate dalla mancanza di sonno o da chissà cosa. Sospettavo sniffasse coca.
«Quando la tua amica è uscita dal bagno era molto agitata, caro Giulio. Piangeva, tremava tutta. Le ho chiesto cosa avesse e lei mi ha raccontato una storia poco simpatica su di te, sai?»
«Cosa-cosa? Che diamine vai dicendo? Che ti avrebbe detto, eh? Avanti, sentiamo, su!»
Non riuscii neppure a vederla, la mano di Dario che mi serrava il collo e mi sollevava da terra come fossi senza peso. Annaspavo nell’aria come una
marionetta disarticolata, non riuscivo più a respirare.
Poi, come avesse perso interesse per quell’esibizione di forza, mi lasciò cadere al suolo e riprese a parlare: «Non azzardarti mai più a usare quel tono con me, capito?»
La testa girava, lottavo con conati di nausea fortissimi.
«Davvero vuoi sapere cosa è successo a quella lì?»
Mi limitai ad annuire con cautela, ignorando l’espressione villana.
«Mi ha detto che tu, amico mio, hai abusato di lei, in spiaggia... Silenzio, non negare! Quel che è fatto è fatto, so quanto la carne possa essere debole» sentenziò Dario, aiutandomi a rialzarmi.
Mi appoggiai al dondolo. Lui era già dietro il banco del minibar. Avevo di sicuro la percezione del tempo alterata, perché mi parve che fosse trascorso appena un istante, che me lo ritrovai di nuovo accanto. Mi porgeva un bicchiere di brandy, che accettai e buttai giù all’istante.
«Puoi credermi, Dario, io non ho affatto...»
«Shh, amico mio. Ormai non conta più cosa sia accaduto. Perché, come ti dicevo prima, non devi più preoccuparti».
«Dario, che vuoi dire?» piagnucolai, rabbrividendo.
«Te l’ho detto: è tutto OK, come dite voi occidentali.»
«Ma come? E Ingrid?»
«Ingrid? Si chiamava così? Bel nome... Sì, credo che farà un bell’effetto leggere il suo nome sulla lapide del suo bel cimitero austriaco...» ridacchiò Dario.
«In nome di Dio, cosa le hai fatto?»
«Dio teniamolo fuori dai nostri affari, vuoi? Anche perché temo che non li approverebbe granché. Diciamo che ti ho risolto un potenziale problema, ecco. Ma non chiedermi i particolari, non ti piacerebbero.»
Le pareti della stanza roteavano furiose attorno a me. Sentivo risa, ululati di lupi, clangore di catene trascinate. Il viso di Dario appariva diverso, più affusolato. Quel suo ridicolo pizzetto lo faceva assomigliare a un satiro. O a...
«Proprio così, ragazzo mio. Finalmente hai capito» confermò Dario, come se avesse letto i miei pensieri. «Ricordi quando in spiaggia hai formulato il desiderio che la serata andasse, diciamo così, per il meglio?»
Dalla fronte stillavo sangue frammisto a sudore. Lo stomaco era contratto, le vene del collo gonfie da scoppiare. Non riuscivo più a parlare, scosso dai singhiozzi. Eppure volevo chiedergli perché avesse deciso di eliminare Ingrid.
Di nuovo quel... quel mostro, sì!, sembrò anticipare la mia domanda, perché spiegò: «Ho agito nel tuo interesse, sai. La serata era andata per il verso giusto, ma quel... corollario, ecco, rischiava di compromettere la tua fedina penale. Sai com’è, una condanna per stupro è una cosa antipatica, cerca di capirmi. E poi non crederai mica che un patto come il nostro non esiga anche qualche – vogliamo chiamarlo così – anticipo sul dividendo, visto che dovrò attendere ancora un po’ per avere la tua anima...»
«Mi stai dicendo che l’hai uccisa, mostro?»
«Non sarei così melodrammatico, amico mio. Diciamo che la poverina è incappata in un incidente, ecco» rispose mellifluo, centellinando il suo brandy. «Ma siediti, amico mio. Sarai stanco, no? Dopo tutte queste emozioni, poi!»
Non ho più dimenticato il suono della risata, così sonora e malvagia, alla quale si abbandonò subito dopo quell’essere.
* * *
Sono trascorsi molti anni da quella notte da tregenda, e solo oggi, dopo tante angosce e struggimenti, posso dire di essere venuto… a patti col mio destino.
La cittadina di mare che fu teatro di quell’omicidio è molto cambiata, e l’alberghetto senza pretese d’un tempo ha ceduto il posto a un sontuoso hotel a cinque stelle. Qualcosa dell’antica struttura però è rimasta: la terrazza, oggi arredata con sfarzo, a dire il vero un po’ cafone.
Dicono che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto. E chi sono io per smentire una verità popolare? Infatti eccomi qui, a sorseggiare l’eccellente brandy che un vecchio amico ha appena versato nel mio bicchiere. Mi ha appena proposto un brindisi, per festeggiare l’imminente adempimento di un antico patto.
«E sia, brindiamo alla nostra! La vita è solo uno scherzo del destino, in fondo. Non è vero?»
«Verissimo, caro amico» annuisce il mio amico, scrutandomi attraverso il bicchiere.
«Ma dimmi, Dario, l’Inferno è davvero così brutto come lo dipingono?»
«Oh, se ne dicono tante, amico mio. E poi, lo sai, l’Inferno non esiste!» ridacchia Dario, assestandomi una pacca sulle spalle ormai incurvate.
Gli anni non hanno intaccato la sua figura, né il suo viso. Come sempre se ne sta in penombra, non ama mostrarsi troppo. Potresti perfino pensare che sia questa la ragione che lo induce a trincerarsi dietro un paio di costosi occhiali da sole.
Per un attimo mi balocco anch’io con questa sciocca spiegazione, finché non riconosco il barbaglio scarlatto che filtra oltre l’orlo delle lenti.
A pistola spianata
A meno che non siate uno di quei maniaci che sbava per la canna di una pistola, non è propriamente una bella vista il primo piano ravvicinato di una Beretta 92 calibro 9 Parabellum.
Specie se si tratta della tua arma, e qualcuno la tiene puntata contro di te.
Se poi aggiungete che a impugnare la pistola è la tua fidanzata, anzi la tua ex fidanzata, beh allora credo non avrete difficoltà a comprendere in che razza di situazione mi sono cacciato.
Tanto per cominciare, non mi ero accorto che Anna mi avesse sottratto l’arma di ordinanza. La mia bambina adorabile, una creatura così tenera e dolce, sempre bisognosa di affetto e tenerezze!
«Posa quella pistola, tesoro. Ti prego. È pericoloso, rischi di farti del male» le dico, sforzandomi di assumere un tono rassicurante, ma non troppo paternalistico.
«Non poserò un bel niente, tesoro! E non credo proprio che sarò io a farmi male, sai?» risponde Anna, un lampo che non ho mai visto in quei begli occhi dall’iride di ghiaccio. È sempre bella, la mia Anna, oggi forse persino più di quando eravamo una coppia felice, per usare una di quelle ridicole espressioni da rivista femminile.
«Cos’è, una minaccia?» chiedo.
«Una minaccia? Oh, nient’affatto, caro Massimo. Diciamo piuttosto che è una certezza. Perché, vedi, tu non uscirai vivo da questa stanza.»
Che faccia sul serio, la mia piccola Anna? Ma no, come potrebbe? E perché dovrebbe desiderare una cosa così terribile come la morte del suo adorato compagno?
«Credevi davvero di poter rientrare nella mia vita come niente fosse, da un giorno all’altro? Dopo tutto il male che mi hai fatto?»
«Ma, amore, mi era sembrato del tutto naturale riprendere a frequentarci, dopo quel nostro incontro al commissariato... Ricordi? Eri venuta a denunciare il furto della tua auto…»
«… E mi son trovata di fronte te, già. Bell’affare davvero!» annuisce Anna, lanciandomi un’occhiata astiosa.
«Ma come? Ti aiutai a sbrigare tutta la pratica, ricordi?»
«Me lo ricordo, me lo ricordo. E ti sono grata per quanto hai fatto, Massimo. Ma non è questo il punto.»
Se solo riuscissi a strapparle di mano quella maledetta pistola. Mi sentirei più
tranquillo. Chissà che non mi riesca: devo tentare di distrarla facendola parlare.
«Cominciammo a risentirci...» riprendo, in tono colloquiale, per quanto lo consenta la situazione.
«… Veramente fosti tu a chiamarmi, col pretesto di darmi notizie, che peraltro non avevi, sul furto.»
«Eppure la mia telefonata ti fece piacere, non è vero?»
«All’inizio, forse! Poi, però, ti mostrasti importuno e invadente come tuo solito, e maledissi il giorno che ti ho rivisto!»
«Via, non sei gentile con me, Anna.»
«Per forza! Non si può essere gentili con una persona come te, uno che è convinto di poter recuperare una relazione morta e sepolta come niente fosse, e che, pur di riuscire nell’intento, non esita a ricorrere a mezzucci squallidi e patetici» risponde lei, tremando tutta per il risentimento. Com’è agitata la mia Anna, poverina.
«Anna cara, non starai esagerando? Le cose non stanno proprio così…»
«E sta’ zitto, una buona volta! Non vorrai negare, spero, che da quella prima telefonata, alla quale, l’ammetto, ti risposi purtroppo con troppa cordialità, ne
seguirono molte altre, in una escalation ossessiva! E poi un profluvio di sms, mail, post-it, bigliettini nella casetta delle lettere e perfino sotto il tergicristalli della macchina, che nel frattempo avevo ricomperato!»
«Ricordo bene» faccio io, «ma si è trattato solo di gesti carini e premurosi, compiuti in buona fede, spinto dall’amore che nutro per te, stellina!»
«Ripeti ancora quel soprannome e ti ammazzo seduta stante! Ma come, ti avevo fatto capire chiaramente che non era il caso di insistere... Ma no, certo, il grand’uomo ascolta solo se stesso, la voce del cuore, scherziamo? Il tuo ego debordante rifiuta l’idea che qualcuno possa respingerti, non è vero? E poi immagino che ai tuoi occhi io fossi una povera donnetta in difficoltà...»
«Ma certo: è proprio così, amore! Tu avevi, anzi hai, bisogno del mio aiuto! E comunque, una sera hai accettato di venire a cena a casa mia, amore...»
«L’ho fatto, sì, nel tentativo di convincerti una volta per tutte a lasciarmi in pace. Ma poi, dì un po’, ricordi com’è finita quella splendida serata?»
Non rispondo, voglio si carichi ulteriormente. Il momento propizio per volgere la situazione a mio favore non è lontano. Lo sento.
«Non rispondi, eh? Ti rinfrescherò io la memoria, allora! Hai tentato di violentarmi, ecco com’è andata a finire, quella schifosissima serata!»
«Ora esageri, tesoro. Ho solo ceduto un attimo al... fuoco della ione, ecco!»
sorrido. Scioccamente, l’ammetto. Perché, prima che me ne renda conto, Anna, rapida come una serpe, mi colpisce al volto con il calcio della Beretta.
Vacillo, crollo sulle ginocchia. Devo avere il labbro superiore spaccato. Il sapore acre del sangue mi dà il voltastomaco, ma non ho il tempo di badarci, perché Anna, sovrastandomi, mi colpisce ancora, stavolta con un calcio al petto. Sento incrinarsi almeno una costola, colpita dalla punta dello stivale. Non credevo avesse tanta forza in corpo, la mia Anna, così minuta e delicata che pare un fuscello.
Sputo sangue, mentre, ruggendo di rabbia e furore cieco, riesco a rialzarmi di slancio e mi scaglio contro di lei.
Ah! Lo sapevo, non si attendeva una simile reazione, la puttana! Il corpo ben tornito di Anna freme sotto il mio. Vorrebbe liberarsi, scrollarmi da dosso. Ma è tutto inutile. Il mio peso la schiaccia. Com’è giusto che sia, poi.
La bacio con forza, la mia lingua che cerca la sua. Le lacero la camicetta, abbasso la lampo dei suoi jeans.
«Ora non mi scapperai più, cara! Mmm, vedrai come sarà bello! Poi mi ringrazierai, vuoi scommettere?» ansimo, eccitato come mai sono stato prima.
Le farò male, oh sì. Ma non tanto, solo un pochino. Poi faremo la pace, e sarà bello riscoprirci innamorati. Lo siamo sempre stati, e non sarà questo piccolo scatto di nervi di Anna, a mutare le cose. Lo sanno tutti, a volte le donne si lasciano vincere dalla emotività. È colpa degli ormoni.
Sento che comincia a rilassare i muscoli, ora. Bene, segno che si sta rassegnando all’idea. Così finalmente capirà quanto ci amiamo.
Poi accade.
Il fragore del colpo esploso a distanza ravvicinata squarcia l’aria, percuote l’intera stanza, si riverbera dai nostri corpi distesi sul pavimento in alto, fino al soffitto, per tornare poi ad avvolgerci, in una nube di frastuono.
Rotolo di lato, sulla schiena. Non riesco più a respirare. Tutto ciò che vedo è solo la sagoma indistinta della donna che amo.
Ma il mio stato confusionale dura poco. Per forza, sono sempre stato forte, io. Vedo molto meglio, ora. È tutto così luminoso. Se mi concentro, mi pare di riuscire addirittura a vedere l’intera scena dall’alto.
Vedo me, disteso sul parquet in una pozza scarlatta. Accanto a me c’è la mia donna. La riconosco, è lei. È in ginocchio però, e stringe il suo viso tra le mani. Trema tutta. Piange.
Forse.
Dello stesso autore...
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Quattro racconti, uno per ogni stagione dell’anno. Quattro finestre temporali sulla vita di Filippo, un giovane cresciuto negli anni Ottanta dei Police e dei Genesis, ma anche degli Abba. Seasons non vuol essere un amarcord, ma il racconto sincero, a tratti sofferto, più spesso ironico e divertito, di una vita “in progress”, tutta da costruire.
Ci sono stati dei disordini
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Dopo una violenta lite con la moglie, il celebre fotoreporter Luca Olivieri esce di casa per scomparire apparentemente nel nulla. Sua moglie, il medico Silvia Mercadante, tenterà il tutto per tutto per ritrovare il suo compagno che, come scoprirà in seguito, è stato inviato a Genova a realizzare un reportage sul G8 del 2001. Dovrà poi cercare di ricostruire l’accaduto, nel silenzio colpevole delle Autorità.