Pieno Di Luna 4s604i

Pieno di luna Enrica M. Corradini

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Copertina di Niccolò Sacco ©

Pieno di luna di Enrica M. Corradini

CAPITOLO 1

C’è un’ora in cui i fantasmi della notte non ancora defilati perdono potere, ed è proprio questo il momento in cui si genera l’angoscia. Una presenza sempre più evanescente, vuota, luce rada che, trafiggendoli, rende loro trasparenza. Sono i traati, i nostri fantasmi notturni che col favore delle tenebre ci vengono a visitare; visitatori inopportuni che si confondono nel giorno, pronti a riprendere forma appena esso si sfuma. Non più vivi ma non ancora morti. Raramente compaiono all’inizio del riposo, la stanchezza fa da baluardo alla loro leggerezza, il peso del sonno profondo li trattiene pressati come sotto una botola di cemento armato, poi, man mano che il sonno si alleggerisce, prendono forza ed emergono dall’ultra-mondo. Che cosa sia l’ultramondo non ci è dato di saperlo, si sa solo che è il regno in cui le forze ultrasottili dominano incontrastate: si rivela alla coscienza col favore delle tenebre per poi sfuggire come acqua tra le dita all’apertura delle palpebre, allo scroscio dello sciacquone del vicino, a un piccolo rumore secco e improvviso; i traati come sirene stazionano in attesa del canto dell’upupa che le ammalia e le inquieta, paralizzati si bloccano interrotti dalla luce che li relega all’invisibilità impotente. Non sono vampiri che suggono sangue dalle carotidi di anemiche fanciulle come api dai fiori, loro vogliono “esserti”, essere-in-te, pervadere la tua mente come la luce pervade loro. Se ti svegli quando la notte s’è dileguata, non ci sono pericoli di sorta, ma se per caso lo fai nel lasso di tempo tra i due stati, allora il pericolo è reale perché diventi trafiggibile ostaggio, potresti entrare nell’altra dimensione, di cui si conoscono solo suoni remoti che attraversano il buio assoluto con stridio di freni: non li avete mai sentiti nel cuore della notte? No? Pensateci bene e fate caso, se mai, la prossima volta. Appena si rese conto d’essere sveglio, rimase assolutamente immobile col corpo e con la mente, il calore pulsava alle sue tempie. Cercò di rincorrere la coda di un sogno che però gli guizzò via, pensò che fosse meglio stare a occhi chiusi facendo finta di dormire ancora un poco. L'aria che muoveva il tendone della stanza era inquieta. Sapeva che avrebbe dovuto attendere impietrito che la luce inondasse la stanza cancellando inesorabilmente quell’attesa pregna di rumori e scricchiolii. Fuori sulla strada gli operai della Nettezza Urbana svuotavano

cassonetti, i loro rumori lo rassicuravano, se ci fosse stato un pericolo, lo avrebbero segnalato loro stessi con un silenzio improvviso che tranciava le loro risate innaffiate dal grappino ingoiato a colazione col primo caffè. Erano in molti a pensare che fossero degli incoscienti a lavorare sulla linea di confine, correvano voci di traati infognati che attaccavano gli ignari risucchiandone la mente o quel che di essa restava. In realtà gli addetti erano vaccinati contro i traati, esattamente come contro il tifo, erano già stati, per motivi diversi, nell’altra dimensione e ne erano miracolosamente usciti, dunque per certi versi ne erano immuni. Automaticamente venivano assunti in azienda con stipendi cospicui e allo scadere del contratto lasciavano il lavoro con pensioni d’oro; da quel momento trascorrevano gran parte della giornata seduti in poltrona a fissare uno schermo a volte, più spesso a fissare un punto sul muro davanti a loro in uno stato vegetativo che poteva durare anche alcuni anni. Far parte della squadra non era una scelta personale, ma un dovere sociale per coloro che per varie ragioni erano stati “toccati” da quella sorte e per motivi ancora sconosciuti erano ritornati nella prima dimensione. Ne facevano parte ex avvocati, insegnanti, scrittori, chirurghi, baristi, contadini, sacerdoti, maestri zen, barboni, olimpionici, sacerdoti, infermieri, politici, esercenti, mantenuti. Quando, ancora a occhi chiusi, gli apparvero due spruzzi di luce consecutivi in sequenza temporale lenta, si rilassò per un attimo, erano gli ideogrammi del giorno che, come led luminosi, apparivano segnalando l’apertura degli occhi. Il loro blando effetto amnesico collaterale, descritto con precisione all’atto della stipula del contratto, era affatto secondario; l’ideogramma assegnatogli lo avrebbe accompagnato per tutta quella settimana di novembre. Lui aveva accettato un abbonamento-offerta con la Società Trasparenze che inviava sulle autostrade della coscienza, a chi ne fe richiesta per una settima, un mese o per un anno, ideogrammi di meditazione. Gli era apparso “Luna d’autunno”: la scoperta progressiva durante l’arco della settimana del suo significato gli avrebbe ampliato la coscienza e assicurato una certa serenità saggia e consapevole. L’ideogramma pulsava come le luci pubblicitarie al neon e durante le ore del giorno stazionava nel subcosciente emettendo a intermittenza pulsioni di significato. Avrebbe potuto ricusarlo entro quattro minuti dalla prima

apparizione ma gli piacque subito, “Luna d’autunno” gli trasmise immediatamente una gioia quieta, diversamente dalla solita sensazione di torbidità che accusava al risveglio e, soprattutto, gli evocò un vecchio refuso dell’infanzia, un paesaggio sfuggente di acque notturne di canne e ninfee, uno stagno primordiale crogiolo di vita immerso in un paesaggio alpino di rara bellezza: nel suo silenzio completo e avvolgente esso emanava pensieri di vita. Lo aveva frequentato spesso da bambino quando il confine tra le tre dimensioni non era ancora così netto. “Chissà a chi è appartenuto prima di me” si sorprese a pensare rompendo l’incanto. Quando una vampata di sudore lo cosparse, con un “al diavolo” si alzò gettando con vigore all’aria il piumone e il suo calore. Si avviò pieno di energia verso la stanza da bagno, attraversando il breve corridoio tappezzato su ogni lato da librerie a tutta parete. Il bagno di caldo marmo scuro era illuminato da una finestra a rettangoli smerigliati parzialmente colorati che dava direttamente sui tetti della città: una volta ne aveva approfittato per sfuggire a un controllo dell’Ente di Servizio, l’Ufficio Speciale del Ministero degli Interni che si occupava di individui sospetti. Fino a quel giorno non aveva mai immaginato di poterlo essere, ma mentre si chiedeva di cosa fosse sospettato, stava già scivolando sulla parete di vite americana che lo divideva dal terrazzino delle sorelle Baldi, due vicine amiche di vecchia data: quando lo videro apparire, dopo il primo momento di stupore, si misero a ridere coprendosi la bocca con le mani, lo accolsero, gli pulirono i vestiti e gli fecero un ottimo caffè macinato al momento; meravigliato di tanta agilità e sorpreso di non essersi procurato una frattura o uno stiramento, sorridente e sornione si era talmente rilassato al tavolo di cucina delle “due signorine”, come le chiamava Rosetta, lasciandosi da loro coccolare, che dimenticò completamente il motivo per cui si trovasse lì; le Baldi, d’altra parte, gli parlarono esattamente come se l’avessero accolto dalla porta, cosa che spesso succede alle persone che per anni si incrociano quotidianamente ai portoni di casa. Il suo appartamento si snodava attraverso un lungo e ampio corridoio verso la zona giorno, lo chiamava “il tunnel”, una atoia persiana contrassegnava il cammino ovattandone i i, ottimo luogo per riflettere eggiando avanti e

indietro, indietro e avanti. Ovunque libri che si potessero consultare appoggiandoli a mensole a scomparsa diffuse ogni quattro i sulle librerie, due discrete scale attendevano ai due lati; era il suo pensatoio, il posto dove le idee sgorgavano come da una sorgente. Aveva sempre pensato che tutto il sapere racchiuso in quei libri si liberasse in seguito a quella camminata rituale, una sorta di aggio obbligato affinché la mente sapesse poi esattamente cosa fare o gli indicasse quale libro consultare per saperlo. Quante volte aveva percorso quel corridoio per trovare la soluzione al problema del momento. Quel giorno non ci sarebbe stato bisogno di consumare la atoia, la decisione era stata presa, avrebbe detto semplicemente un definitivo, inderogabile, assoluto e semplice “no”.

CAPITOLO 2

Un intenso aroma amarognolo di miscela araba si diffuse nella casa, Rosetta era già in cucina alle prese coi fornelli. Ogni mattina da più di vent’anni entrava con la spesa del giorno, si cambiava nella lavanderia-guardaroba adiacente la cucina, riponeva la spesa e preparava la colazione: i suoi gesti erano antichi e colmi di significati, conosceva ogni angolo della casa, ogni sbrecciatura del pavimento di marmo, ogni listello smosso del parquet a lische di pesce che sotto il suo o ondeggiava e scricchiolava, la maniglia debole della finestra dello studio, la piccola bolla di intonaco sul soffitto dell’antibagno. Seduta al tavolo di cucina, sorbiva tranquilla il suo caffè fissando i tetti, poi cominciava a cucinare pranzo e cena, rassettare, pulire, sbattere, lisciare, lavare, rammendare, stirare, insomma ogni cosa che lei ritenesse di dover fare, essendo la governante e padrona assoluta della casa. Ci era entrata l’anno prima che morisse la signora e, per una promessa peraltro affatto forzata sul suo letto di morte, le aveva assicurato che, se lui lo avesse voluto, si sarebbe occupata di casa e persone fino a quando ce l’avrebbe fatta. Viveva sola in un monolocale del centro lasciatole in eredità dalla precedente persona di cui si era occupata con affetto e perizia fino alla morte e non pensò mai di abbandonarlo per trasferirsi dal vedovo, un giorno l’avrebbe lasciato in eredità alla nipote della sorella. Tranquilla nelle sue limpide certezze, la sua pelle - che “a star sui fornelli la pelle vien più bella” - dava l’idea di corse sui prati delle sue montagne e, forse per questo, suscitava pensieri di leggerezza e di giochi mentre il suo maestoso corpo da contadina di montagna rimaneva saldo sui piedi ben piantati a terra nelle Birkenstock: questi due apparenti estremi le permettevano di affrontare la vita con solida concretezza e con grandi voli di fantasia che donavano radiosità alle sue giornate; senza rispetto umano, era intrisa di quella saggezza che nasce dalla consapevolezza di sapere di essere sola a doversi occupare di se stessa, senza piagnistei o malinconie, semplicemente perché la vita è fatta così. La sua solidità lo tranquillizzava e spesso, senza mai avere il coraggio di parlargliene, si sorprese a chiedersi che rapporto potesse mai avere una donna concreta come lei coi traati. Quella mattina l’aroma di caffè cominciava a frammentarsi in quello della zuppa di ceci e porri e poi del ragù,

che tranquillo continuava a sbuffare sul fornello. Spesso i profumi culinari di Rosetta lo riportavano all’infanzia, quando per casa a quell’ora del mattino o forse appena dopo, sua madre ondeggiava, vagando avvolta nella sua vestaglia di seta grigio perla, la perenne sigaretta tra le lunghe dita affusolate, dando disposizioni per la giornata alla donna di turno. Ora l’atmosfera era certo più quieta o forse più rassicurante, come se tutte le molestie della realtà coi suoi dolori improvvisi e inesorabili fossero scomparse per sempre, come se quella fosse diventata un’isola felice o almeno lieta, nonostante gli eventi drammatici che l’avevano segnata. La lettera l’aveva aperta il martedì pomeriggio, quando Rosetta era ormai uscita. In realtà era rimasta sul piatto d’argento dell’ingresso dal giorno prima, finché lei stessa, uscendo, non lo sollecitò ad aprirla: la cosa lo infastidì non poco, come se fosse stato obbligato a fare qualcosa, e quel qualcosa non voleva sentirsi obbligato a farlo, tanto che la lasciò sul vassoio fino a sera, sfiorandola appena con lo sguardo, guardandola un po’ dall’alto, come si fa con le persone che si prendono un po’ troppe confidenze; la sera la prese tra le mani, la soppesò, studiò la filigrana della busta col tocco dei polpastrelli delle dita, poi la portò in camera da letto, lasciandola cadere sul comodino ingombro di fogli, di rimedi omeopatici e, naturalmente di libri in lettura. Il mattino dopo era ancora lì chiusa e vestendosi se la infilò in tasca per evitare che Rosetta gliene parlasse ancora. La lettera era arrivata lunedì mattina con la sporta della spesa, moderno cavallo di Troia portatore di efferatezze, ma poteva anche trattarsi di un invito a una vernice personalizzato dalla direttrice della galleria o la condivisione di qualche ex alunno che aveva ottenuto un particolare riconoscimento o… o… insomma, dopo averla intascata si era bevuto il suo whisky e se n’era dimenticato del tutto fino al giorno successivo. A dir la verità non se l’era sentita di leggerla, avrebbe dovuto affrontare la notte e non aveva ideogrammi cui aggrapparsi, meglio lasciar perdere e aspettare. Quel mattino quando raggiunse la cucina la sollecitazione di Rosetta lo infastidì alquanto e si costrinse a risponderle con un tono di voce appena più elevato che sì, l’avrebbe aperta nel pomeriggio sorseggiando il tè. «Beh, professore, non è mica un regalo di Natale, è una lettera, magari chi l’ha scritta ha delle necessità, chissà…».

Ma lui alzò le spalle come un bambino e lei si mise a strapazzare le carote per il sugo. Il colore ambrato del Whittard of Chelsea ai frutti di bosco rifletteva la luce della lampada da tavolo dello studio: nel pomeriggio seduto in poltrona si era preparato con calma a quel momento, una lettera scritta a mano non è assolutamente una cosa da tutti i giorni, dunque andava centellinata. “Professor Altiero Inganni ecc... ecc…” scritto a mano… sembrava una calligrafia decisa, senza fronzoli, concreta, anche antica a guardar bene e di nuovo si sorprese ad appoggiarla di nuovo al tavolino di servizio. «Cosa si crede, che solo per il fatto di esser riuscita ad entrare nella mia casa, debba ricevere l’onore d’esser letta seduta stante?» si disse, ma al tempo stesso si trovò a chiedersi il perché di quello strano comportamento attendista, se ci fosse stata Rosetta a sentirlo non avrebbe evitato di commentare: «Beh, professore, seduta stante non direi proprio, è arrivata ieri mattina». Dunque il tagliacarte d’ebano tagliò drastico la busta, si sorprese a guardarla slabbrata, non più segreta, mentre le dita estraevano un foglio filigranato vergato da segni un po’ sgangherati che divorò velocemente, come se ne conoscesse già il contenuto.

Caro Altiero, scusa se mi faccio vivo solo adesso e così improvvisamente, ma avrei proprio bisogno del tuo aiuto. Potrei venire a stare da te per qualche giorno, giusto il tempo di trovare una sistemazione definitiva? Si tratta di un’emergenza. erò da te mercoledì pomeriggio verso le cinque. Giò.

Quel Giò sul momento non gli disse nulla: stava osservando la lettera con la

calma di un entomologo quando un’ondata di calore improvviso lo avvolse, un moto di inquietudine, rabbia, malinconia e pensieri sospesi che si rincorrevano, un’ondata di ricordi lo soffocavano quando l’ideogramma apparve con un tempismo perfetto a riprenderselo per i capelli, riportandolo immediatamente in uno stato di relativa quiete… “Luna d’autunno”. Era la lettera di suo nipote che avrebbe dovuto avere una ventina d’anni e che non vedeva da quando non ne aveva nemmeno uno! Il bambino cui lui aveva legato dolore fisico e sofferenza dell’anima perché tutto era successo con quella nascita, la perdita straziante dell’adorata figlia diciottenne quando il piccolo Gionata non aveva ancora un anno di vita. «Se sapessi dove trovarlo gli direi di risparmiarsi di venire, perderebbe il suo tempo» si sorprese a dire con voce roca e profonda, come se neanche fosse sua, il sangue riprese a circolare con veemenza, il cuore batteva più forte e i muscoli del collo e della mascella si contraevano in una morsa. A dire il vero, una certa curiosità di sapere cosa ne era stato del piccolo Gionata ce l’aveva, socchiuse gli occhi e “Luna d’autunno” sfolgorava, quell’antico odore che proveniva dalle profondità delle viscere l’avvolse inondandolo di malinconia, quell’odore di neonato, evidentemente, era sempre stato con lui, insediato in qualche piega del cervello primordiale ed ora emergeva in tutta la sua forza evocativa “Rilassati, sei solo un vecchio, ormai”. La circonvoluzione limbica lampeggiava emozioni, dolore e rabbia cercavano di emergere dal profondo, affioravano come chi annega, che scompare e poi riemerge per riprendere fiato ancora più violentemente. Voleva urlare, sentiva che gli avrebbe fatto bene. No, se fosse andato avanti così non sarebbe sopravvissuto alla prossima notte, doveva assolutamente virare l’attività cerebrale verso funzioni cognitive decisamente più rassicuranti. Tra Altiero e Gionata c’erano state tre grandi donne che avevano lasciato un dolore attorcigliato: sua moglie si ammalò di cancro alle ovaie, diagnosticato esattamente un anno dopo la morte della figlia e, un anno dopo ancora, fu seppellita nella tomba di famiglia. Vicini sostavano ora sua madre, suo padre, sua moglie Giuditta e sua figlia Maddalena, oltre agli ossari dei nonni paterni. Ogni anno per Ognissanti andava con Rosetta ad onorare le

loro spoglie mortali deponendo sulla tomba un enorme vaso di gioiosi crisantemi bianchi spudoratamente belli. A volte in Altiero, dal contatto o alla vista degli oggetti d’uso che ogni tanto riaffioravano quando Rosetta faceva ordine, si risvegliavano sentimenti o si riaprivano ferite: quella casa-miniera a periodi espelleva oggetti che emergevano dal ato...lei li appoggiava con noncuranza sul tavolino dello studio, lui li vedeva con la coda dell’occhio, li lasciava sedimentare e poi, magari dopo un giorno o due, li prendeva in mano e non pensando più a nulla lasciava che le emozioni lo trascinassero violente per tutto il tempo che serviva, finché non si smorzavano da sé acquietandolo. Ora “Luna d’autunno” gli consigliava di travalicare l’emotività, in fondo Gionata era un perfetto estraneo che chiedeva una cosa assurda, di essere ospitato in casa sua, ridicolo: solo con questo pensiero era riuscito a cenare la sera dell’apertura della lettera e di seguito riuscì a sprofondarsi completamente nella rilettura dell’Hitler di Joachim Fest.

CAPITOLO 3

Fu solo nell’ultima parte della notte che i traati emersero furiosi, addirittura più potenti, “Luna d’autunno” lo buttò nello stagno primordiale prima che potesse rendersene conto e lì, quieto, attese l’alba nel buio umido. Il mercoledì mattina, come ogni mattina, si diresse eggiando in Facoltà, aveva un appuntamento con una diligente e volonterosa studentessa che probabilmente gli avrebbe chiesto di farle da relatore alla tesi; non aveva più la curiosità intellettuale di una volta, se lo ripeteva sempre quando gli arrivavano proposte del genere, peraltro numerose. Le sentiva come un peso, un lavoro in più, mentre invece avrebbe voluto dedicarsi ad altro. La sua mente di giovane vecchio, come una banderuola stava già orientandosi verso differenti riflessioni, eppure, fino a quel momento, non era mai riuscito a dire di no a proposte sensate. Quella mattina, comunque, lo fece. Il ritorno fu lieve, si sentiva soddisfatto di essere riuscito a vincere quel suo pedante senso del dovere che ogni volta lo attanagliava in progetti che dissipavano in mille rivoli le sue energie. Si sentiva anche forte per aver superato l’idea che non facendo cose che lo mettessero in vista, sarebbe scomparso nel nulla; e poi doveva stare concentrato, quel pomeriggio avrebbe dovuto ricevere suo nipote e avrebbe detto un bel no anche a lui. Il pranzo fu frugale, lo stomaco era chiuso in un pugno, a mala pena un po’ di riso e azuki e un caffè che subito si pentì di aver bevuto. Uscì di nuovo a eggiare nel parco di fronte a casa come faceva da anni dopo pranzo, quando il traffico appena si alleggeriva e eggiando rifletteva. “Luna d’autunno” gli ricordò quando usciva col suo cane, inopportuno questo pensiero, riflettè immediatamente e lo escluse fissando la corteccia di un ippocastano fregiata di cuori. Al ritorno si sentì leggermente meglio, lo stomaco aveva ripreso a funzionare e si appisolò in poltrona con un libro in mano che aveva preso a caso da una pila che sostava da alcuni giorni sullo scrittoio, il dorso scivolato dalla presa delle dita si alzava e abbassava in sintonia col suo respiro tranquillo.

Attorno, l’aria della casa era pregna dei suoi mille scricchiolii che prendevano forza quando i rumori di Rosetta tacevano, qualche acuto, lo spostamento di qualcosa di pesante per pochi secondi, i soliti strani suoni che arrivavano dalla mansarda disabitata da tempo sopra alla sua testa; lo stabile e rassicurante dondolio dell’antica bride clock d’acero dall’angolo del salone lo mantenne in quello stato perfetto che agognava da tempo, cullato dai rumori della sua vecchia casa primo novecento. Fuori il rumore ovattato del traffico che aveva ripreso forsennato, dal lato est le voci degli alberi del giardino interno, con i rami del cedro del Libano che si muovevano come le braccia di un direttore d’orchestra, ondeggiando maestosi assecondavano i vortici d’aria sussurrandogli un rischio di neve. Mentre i suoni divenivano sempre più ovattati il cuore gli si fece vicino vicino e si addormentò profondamente. Sognò di trovarsi su un enorme macigno cosparso a tratti di muschi e licheni, un’aria ghiacciata detergeva lo spazio, avvertì la spiacevole sensazione di sentirsi troppo esposto, sotto al macigno un enorme prato d’erba verde smeraldina e vellutata ondeggiava appena e poco più in là un gruppetto di persone in fila indiana camminava lungo uno stretto sentiero allontanandosi, senza mai voltarsi, lui dal masso cercava di fare segni con la mano, qualche piccolo grido, ma senza tanta convinzione; una folata di vento ghiacciato lo aveva fatto scivolare sul bel prato verde che si era trasformato in un pantano dove era difficile muoversi. Lo squillare argentino del camlo lo fece sobbalzare, la stanza era ormai invasa dal buio, solo i riflessi delle luci delle auto dal viale la illuminavano a tratti, “Luna d’autunno” apparve subitaneamente proprio mentre il suo cuore cominciava a battere all’impazzata, si chiese cosa stesse succedendo, quando un’altra scamlata lo riportò alla realtà. Era mercoledì pomeriggio e doveva trattarsi di suo nipote. Gettò il plaid a terra, si infilò le babbucce da casa e si avviò rigido ma deciso verso la porta. Lo scatto della serratura che blindava la porta liberò un’ondata di calore che se ne uscì verso il pianerottolo investendo la persona che gli stava davanti e gli sorrideva. «Adesso ho capito come fanno a rapinare i pensionati, basta suonare e loro arrivano, non chiedono neanche chi sia e aprono… buongiorno Altiero, sono Gionata» gli porse la mano che lui strinse imbarazzato nella sua, mentre si chiedeva piccato come mai la portinaia non lo avesse avvisato della visita. «Entra che fa freddo» abbozzando un sorriso appena appena agli angoli della bocca, richiuse rumorosamente la porta alle spalle del ragazzo e gli fece strada verso lo studio, indicandogli di accomodarsi sul piccolo divano di fronte alla sua

poltrona. All’imbarazzo iniziale aveva subito fatto seguito una curiosità che gli diede gioia. «Ti posso offrire qualcosa?». «No, grazie, ho appena pranzato». “Pranzato a quest’ora?” ma questo lo pensò soltanto, si rammentò di quanto i giovani fossero suscettibili su certe cose. «Se ti avessi incontrato per strada non ti avrei mai riconosciuto». «E invece adesso che uno sconosciuto preceduto da una lettera si presenta alla tua porta sei in grado di riconoscerlo?». Un lapidario: «Hai ragione» calò nella stanza col buio che man mano la avvolgeva, pensò che forse avrebbe dovuto sentirsi imbarazzato ma stranamente la situazione non lo permetteva. Una ventata di aria fresca era entrata nella sua casa, una parte del suo DNA che gli apparteneva. Lui, lo storico, non si era mai minimamente soffermato sulle vicende di famiglia per più di un soffio di respiro, si sarebbe detto che ne rifuggiva, una sorta di amnesia totale su date, diramazioni di parentela, persino del suo compleanno si scordava se non fosse stato per Rosetta. Si adattò meglio sulla poltrona, riprese la sua copertina e con un: «A cosa debbo…» si rivolse al ragazzo che stava seduto di fronte a lui. Piuttosto composto, jeans e giubbotto di pile, sapeva di vento, i suoi capelli ricci erano un po’ scompigliati e lunghi e si attorcigliavano appena su se stessi, All stars di tela rossa puntavano verso di lui come i due lati di una freccia, un leggero senso di fastidio e: «Forse, se vuoi dirmi qualcosa di te, cosa hai fatto in tutti questi anni… se vuoi, di me non c’è molto da dire, dopo quello che è successo, dalla morte di Giuditta la mia vita ha seguito un binario stabile e tranquillo e ti assicuro che ce n’era proprio bisogno, di me si è occupata Rosetta, una brava donna che viene qui ogni giorno fino a che non ho pranzato, anzi, di solito si pranza insieme e poi lei se ne torna a casa sua. Sto ancora lavorando in Università, ma sto gradualmente lasciando tanti incarichi, chiudendo ricerche in atto giunte ormai a buon fine, questione di pochi mesi poi lascio definitivamente e forse mi concederò di scrivere qualcosa in santa pace senza più vincoli di carattere diciamo politico-diplomatico e...che altro... tutto qui».

Parlò difilato, come se ripetesse una poesiola noiosa detta centinaia di volte ai parenti per Natale. «E di tuo nipote… niente? Alle volte ho fantasticato di vederti in una di quelle trasmissioni cercapersone con la mia foto a un anno…» Gionata rise a bocca aperta, rilassato. «Pensa che addirittura ho fantasticato di essere inseguito da un investigatore privato che agiva per tuo conto, insomma ho sognato che tu mi cercassi, questa è la verità e adesso capisco che se non l’avessi fatto io, per te sarei potuto scomparire nel nulla, o quasi». Altiero accese la luce della lampada da lettura che morbida assecondava i contorni del ragazzo, una pugnalata al cuore lo avvertì quando, incrociando quello sguardo, vide gli occhi di Maddalena. La riconobbe e all’improvviso, per la prima volta, si ricordò di lei e la sentì perduta, un senso di vertigine, come in un vortice e poi la caduta nel vuoto, appoggiò una mano alla fronte come per sostenerla, ma Gionata ignaro continuò. «Comunque è presto detto anche per me, ho vissuto ufficialmente con mio padre, praticamente con gli altri nonni fino all’anno scorso quando anche il nonno è morto. Da allora sono stato a bivaccare a casa di amici un po’ qui e un po’ là e mi sono scritto all’Università, faccio Lettere e mi vorrei laureare in Storia perché è la mia ione e… siccome sicuramente ti avrei incontrato a qualche esame, ho pensato che era meglio, almeno per me, evitare la farsa e presentarmi prima, in privato, tu non mi avresti conosciuto, forse non ricordi neanche il mio cognome, ma io ti conosco e non ce l’avrei fatta a fare come se nulla fosse». In quel momento la sua consuetudine con ombre sempre più invasive, che lo avevano costretto a chiedere l’aiuto di un ideogramma alla Società Trasparenze, gli apparve tutto a un tratto una cosa stupida. Era come se le ombre dei traati stessero dietro la porta ad aspettare che qualcuno venisse in loro aiuto e che non tutti fossero così terribili come li vedeva lui… ma fu solo l’impressione di un momento, “Luna d’autunno” si insinuò nel suo pensiero e lui si limitò a osservare il ragazzo che stava raccontando con naturalezza qualcosa che sapeva di assurdo. «Dunque mi conoscevi? E perché non ti sei mai fatto vivo prima?». «Sarebbe cambiato qualcosa? Ho sempre pensato di essere stato la causa di un gran casino senza mai capire come poteva essere accaduto. Mio padre l’ho

sempre visto pochissimo, credo che sia in America centrale, porta i turisti in barca, almeno questo è quel che ha detto di fare fino a un anno fa, quando l’ho sentito al telefono per la morte del nonno, mi ha detto che sarei potuto andare a vivere con lui ma io non me la sono sentita anche perché ho deciso di non appoggiarmi più a nessuno per troppo tempo, è ora di andare». Mentre le sue ultime parole sfumavano, guardava in giro senza mai soffermare l’attenzione su qualcosa, lo sguardo era assente quando rincorreva pensieri e la voce si abbassava; Altiero faceva fatica ad ascoltarlo, una strana pace lo aveva invaso, una pace da vuoto, come quando si cade dall’alto e si tocca terra incolumi e si sta lì ad assaporare la mollezza della muscolatura rilassata, finalmente. Gli chiese se gli andava una tazza di cioccolata, il ragazzo fu stupito dell’interruzione ma accettò e lo seguì in cucina. Le sue spalle parevano più curve e il o lento, al tempo della pendola giunse in cucina «Bello qui, accogliente» fece Gionata. «Dici?» gli rispose laconico, i suoi pensieri lo trasportavano oltre, verso un dove sconosciuto, sapeva che sarebbe arrivata la sera e i suoi fantasmi lo avrebbero ucciso, doveva trattenere il ragazzo con sé, almeno per quella notte. «E stasera dove dormi?». «Da amici, come al solito, ah, non preoccuparti, non è vero che ho bisogno di essere ospitato per un po’, cioè, sì, mi piacerebbe stare un po’ con te, ma in realtà non era questo il vero motivo della mia visita, come ti ho già detto, volevo conoscerti. A volte pensavo che non mi avresti ricevuto, che avresti fatto finta di niente… come è successo in tutti questi anni…». «Sì, non saprei dirti cosa sia successo, adesso all’improvviso mi sento confuso, cose che mi sono sempre apparse chiare ora le trovo inspiegabili, non lo so ragazzo, abbi pazienza ho bisogno di schiarirmi le idee». Gli occhi di Gionata erano incollati alla finestra e uno sguardo di meraviglia o di gioia lo tratteneva. «Nevica…».

«Bene, allora ti fermi a cena, è già tutto pronto». «Per adesso mi bevo la cioccolata…» sorrideva, gustandola da una tazza fumante, i tetti erano già tutti sbiancati e le luci dalle finestre illuminavano quella cartolina invernale, uno strano silenzio permeava l’aria dal giardino e il cedro si inchinava e muoveva danzando i suoi rami più recenti. Forse entrambi quegli uomini in quello stesso momento percepirono la profondità della loro solitudine, una cioccolata calda li teneva avvinghiati a un pensiero di unità, insieme, come se solo insieme si potesse sopravvivere. All’improvviso Gionata ruppe quel silenzio pregno: «Senti Altiero, adesso dovrei uscire, sono in ritardo, ho un appuntamento, ma se sei d’accordo o dai miei amici, prendo due o tre cose e poi ti raggiungo per cena e magari per la notte». «D’accordo, io ceno alle otto precise» in quel momento quell’ora gli apparve come l’ultima certezza rimastagli, s’alzò con fatica appoggiando le mani sulle ginocchia scricchiolanti e lo accompagnò alla porta «Ho una sorpresa per te» gli disse con un sorriso Gionata, e scese le scale saltellando. Quando chiuse la porta Altiero avvertì un improvviso senso di debolezza e si trascinò a fatica verso il salone buio illuminato dai lampioni. Si sentiva completamente perso, senza età, nudo, peggio, senza pelle, si chiedeva come aveva fatto a vivere tutti quegli anni come se non fosse accaduto nulla. Che malia l’aveva mai stregato al punto da fargli scordare una parte consistente della sua esistenza, uno spruzzo di DNA disperso in qualche parte del mondo? Chiuse inavvertitamente gli occhi e come in sogno gli apparve sua madre d’azzurro vestita, gli accarezzava le guance tranquilla, come per farlo addormentare dopo una giornata convulsa di giochi, le sue mani sulla fronte e sui capelli, come un respiro lieve. Si tranquillizzò immediatamente e si lasciò andare mentre avvertiva la pregnanza di un affetto che lo risarciva di tutto il dolore che stava emergendo, si rannicchiò in posizione fetale e si lasciò vagare. “Anch’io ero morto, ma come ho potuto?”.

Nemmeno quel giorno l’impazienza per una risposta a quella domanda mai formulata in attesa da anni fu esaudita. Cullato dalla calda mano materna entrò nel buio del sonno mentre fuori la neve continuava a cadere. Di nuovo gli apparve un sogno, ancora il grande prato verde e melmoso e dal piccolo drappello di gente che lentamente in fila indiana si allontanava per andare verso le montagne di ghiaccio del nord, un volto si era girato e con nostalgia sembrava fissarlo come una colla che teneva appiccicate tutte le emozioni. Morti che camminavano verso la loro meta e a lui era dato di vederli, stranamente non li temeva, anzi, li sentiva parte di sé. Non era capace di dire loro addio, erano ancora tutti lì i suoi morti e camminavano sempre, ma erano sempre fermi allo stesso posto come su un tapis roulant. In realtà non li aveva mai veramente pianti, una lastra di dolore congelato, trasparente come gelatina ghiacciata, lo divideva da loro e forse per questo loro stanziavano in quella sorta di limbo erboso, uno spazio virtuale che persino la Chiesa Cattolica aveva cancellato dai suoi trattati di Teologia. Eppure esisteva questa seconda dimensione altra da lui e dai morti davvero, anche se nessuno ne parlava mai. Ora che i traati ritornavano, se volevano la sua anima gliel’avrebbe regalata pur di non soffrire più così tanto, “Luna d’autunno” non dava alcun segno. Si addormentò di nuovo e gli apparve una distesa immensa di neve in un paesaggio di nuvole basse, si vide accucciarsi come un cane da slitta che ha scavato il suo buco per ripararsi dalla tormenta della notte che verrà. Il mondo silenzioso e freddo lo abbracciava, il fantasma della madre era scomparso lasciando solo freddo.

Una scamlata più discreta, ne riconobbe il suono sordo, stavolta era dalla portineria, si alzò con riluttanza per andare a rispondere. «Professore, c’è un ragazzo che dice di avere un appuntamento con lei». Si immaginò la portinaia che, con espressione incredula, scrutava sospettosa i riccioli di Gionata.

«Sì, lo faccia salire, grazie». Avrebbe potuto dire: “Grazie, è mio nipote”, ma quell’ultima parola gli si fermò intrappolata in gola. Raggiunse la porta appena in tempo per vederlo salire la scala a due gradini alla volta e sorridergli come se si fossero visti tutti giorni negli ultimi vent’anni; portava un grosso borsone che gettò nell’ingresso appena fu entrato. «Che si mangia Altiero?». «Dovremo aprire il frigorifero per saperlo». «Bene, lascia stare ci penso io» e si affrettò verso la cucina. «Sai, prima che tu arrivassi avevo deciso di dirti di no, che non ti avrei ospitato neanche per un giorno» quelle parole gli erano evase inopinatamente Gionata lo fissò diretto negli occhi. «La cosa non mi stupisce, mi sembra logico, in fondo siamo due perfetti estranei legati solo da una persona che è morta vent’anni fa». La logica di Gionata era ferrea, sembrava che a quel ragazzo le cose filassero sul corpo lisce come acqua. «In fondo però, perché no, per questa notte ti ospito e ti offro la cena di Rosetta». «Altiero, com’era mia nonna?». Era la prima volta che Gionata usava questo nome per indicare una parentela del ramo materno, lo fece come al solito con noncuranza mentre addentava una mezza baguette che era avanzata dalla colazione. «In che senso?» rispose, facendo finta di non capire. «In che senso! Ma come carattere, aspetto fisico, queste cose insomma». Si sentì impreparato, così su due piedi era impossibile rispondere, come se anche Giuditta fosse stata cancellata e adesso cercava di ritrovare quel che era scritto sotto alla cancellatura. Aveva in mente immagini veloci, il suono della voce

quando lo chiamava da una stanza all’altra della casa per dirgli qualcosa di molto importante, il colore del suo cappotto, il neo sulla spalla sinistra che sembrava un tatuaggio, l’odore di medicinali che c’era nella sua stanza quand’è morta, cose così… che avrebbe potuto dire a quel ragazzo, erano tanti pezzi sparsi da mettere insieme e, sinceramente, non ne aveva proprio voglia e poi cosa ci avrebbe capito? Erano solo emozioni… «Da quando è morta tua madre, Giuditta è cambiata completamente» si sorprese a dire «ha cominciato spesso a uscire nel pomeriggio senza dire dove andava, un giorno l’ho seguita, girava a zonzo per la città senza guardare le vetrine, senza vedere le persone, ha camminato per ore, senza mai prendere un mezzo, pioveva ed era senza ombrello, attraversava la strada senza guardare costringendo le auto a brusche frenate. È andata avanti così fino al giorno in cui sono comparsi dei forti dolori addominali, Rosetta mi chiamò allarmata in Università, quando raggiunsi l’Ospedale seppi che era già in sala operatoria, era un cancro: lo so che sto dicendo una bestialità, ma mi era persino sembrato che quasi ne fosse felice, non si mostrò affatto preoccupata quando glielo dissi al risveglio dall’anestesia, anzi, fu lei a consolare me e non si lamentò mai più di alcun dolore. Una volta, quando ormai si approssimava alla fine, mi prese la mano e mi disse che stava per andarsene dal mondo reale, che doveva assolutamente farlo per neutralizzare dei danni che aveva compiuto, che non l’avrei più toccata ma che mi sarebbe stata vicina... lei diceva di essere credente, io non lo sono mai stato, sapevo che quando sarebbe giunta la fine non l’avrei mai più vista davvero. Dopo la morte di Maddalena, quella di Giuditta mi sembrò quasi una cosa normale nel senso di logica, inevitabile, ero convinto che dopo poco sarebbe toccato a me». Si guardò intorno quasi a voler stanare dagli angoli oscuri quella sensazione. «Questa casa era impregnata di morte, non c’era posto per nessuno, eccetto che per Rosetta, che ava la linea di confine indisturbata e con naturalezza, lei le parlava spesso ma non seppi mai cosa si dicessero durante quelle lunghe conversazioni finché le ombre entravano nella stanza e Rosetta si alzava dalla poltrone accanto al letto di Giuditta e si avviava alle faccende abbandonate, la sentivo affettare le zucchine con la stessa naturalezza con cui lavava quel corpo martoriato. Giuditta parlava coi morti, lo so per certo, in quei momenti di silenzio chiamava sua madre e suo padre e diceva che presto li avrebbe raggiunti, poi la morfina la riportava nel nulla e si assopiva per tutta la notte. Io dormivo, si fa per dire, nella piccola stanza a lato dello studio ma se di notte si svegliava correvo al suo capezzale. Ero arrabbiato, non ce la facevo a vederla

così, ma controllavo la mia emozione dandole da bere qualche goccia d’acqua, sistemandole i cuscini, o leggendole fiabe ad alta voce che lei seguiva muovendo le labbra come fanno i bambini, le sapeva tutte a memoria, eppure voleva sempre che gliele leggessi, guai a saltare qualche aggio... solo così poteva trattenere il suo dolore, vivendo in quel mondo che l’aveva aiutata a crescere, un mondo apparentemente sereno. Quando morì, le stavo leggendo La Regina delle Nevi, il suo respiro si era fatto leggero come i i di un gatto sulla neve fresca, un’alba gelida e incolore arrivava in punta di piedi. Quando chiusi il libro la guardai, come sempre, per chiederle se le servisse qualcosa prima di ritirarmi a riposare, lei aveva il capo leggermente reclinato verso la mia voce, gli angoli della bocca appena stirati verso l’alto. Era morta ormai, non le serviva più nulla, solo attraversare il corridoio delle ombre verso la luce che aveva sempre agognato. Qualche giorno prima mi aveva detto che questa era, tra tutte, la sua fiaba preferita. Anche lei aveva avuto un cuore più duro e più freddo del ghiaccio, tanto duro e freddo da anestetizzarla da ogni emozione e quella era la favola della dimenticanza, dell’oblio dalla nostalgia e dal dolore per quello che era lei diventata dopo quella morte disperata che aveva tolto significato alla sua esistenza. È morta così tua… nonna, io da allora ho ereditato un cuore di ghiaccio nascosto in una vita tranquilla e apparentemente calda. Solo di notte i fantasmi mi trascinano via da questa finzione, me li vedo davanti lugubri e ghignanti, loro la verità la sanno, di giorno è differente, mi ancoro a Rosetta e al lavoro, alla quotidianità e ci riesco anche abbastanza bene dopo tanti anni. Solo durante il sonno perdo il controllo, soprattutto verso le ultime ore di buio quando i traati stridono i loro denti con quei lugubri suoni dalle profondità dell’universo… io adesso, in questo preciso momento credo di non aver ancora davvero seppellito nessuno di loro. Giuditta alla fine è morta serena, nella sua fede credeva che la malattia le avrebbe permesso di espiare i suoi errori, se ne è sempre sentita responsabile. Quando ho capito che non poteva che essere così non le ho più detto nulla, l’ho lasciata fare, smettendo di contrastarla completamente». Gionata si alzò all’improvviso, spalancò la finestra e una folata d’aria cristallina si mescolò a quella calda dei vapori di cucina. Come abbagliato da tutta quella neve subito la richiuse quando Altiero fece il gesto di accartocciarsi contenendo un brivido. «Posso vedere dove dormirò stanotte?» chiese con un tono che pareva duro. «Ti faccio strada» Altiero si avviò verso la piccola stanza adiacente il suo studio,

quella che aveva occupato durante la malattia di Giuditta, nessuno ci aveva più dormito da allora, a parte qualche collega straniero di aggio per qualche congresso. La cena fu frugale, l’atmosfera cordiale e tranquilla, tra i due uomini c’era un legame difficile da definire, forse lo stesso che vent’anni prima li aveva uniti e tutto sembrava svolgersi come se non si fosse mai interrotto. Dopo che Gionata prese possesso della stanza, Altiero lo avvisò che si sarebbe ritirato, con tutte quelle emozioni sentiva la necessità di riposare, gli disse di fare come se fosse a casa sua e, nel dirglielo, per la prima volta, si sorprese a sorridergli. Si intrufolò nel letto avvolgendosi nel piumone come in un sudario e presto cadde nell’oblio. Da quel momento si susseguirono sogni concitati e coinvolgenti: Giuditta, in fondo a una grande stanza illuminata da una luce artificiale bianca, gli diceva col pensiero di non aver paura; dietro a lei, da un tendaggio di pesante velluto scuro emergevano lamenti angosciosi che lo paralizzavano mentre lei continuava a proporgli di accompagnarlo oltre la cortina, come se il farlo lo potesse salvare da qualcosa di terribile. Lui impietrito la fissava e poi riusciva a sfiorarla, mentre lei cominciava a dissolversi con un ghigno lasciando a terra un mucchio di sale scuro. Lui arrabbiato che si metteva a urinarci sopra, il sale si scioglieva e rimaneva un alone opaco, mentre oltre la tenda scendeva un silenzio completo. Quando si svegliò avvertì uno strano senso di forza; buio, mosse le orbite alla ricerca di un appiglio di realtà, ma capì che era l’ora della visita; contemporaneamente era apparso “Luna d’autunno” ma vibrava di uno strano tremolio, come una luce al neon quando sta per morire. Questa constatazione non gli diede alcun senso di sicurezza. "Domattina telefonerò alla Società, con quello che mi costa" rincorse la notte e i suoi tormenti ma per la prima volta si sentì più tranquillo al pensiero che, dopo tanti anni, qualcuno dormisse a pochi metri da lui. Si abbandonò a pensare affettuosamente che Gionata invece non stesse affatto dormendo in preda a quella strana eccitazione che scorre appena ci si rende conto di essere liberi in una casa sconosciuta. Lo immaginò tutto preso dalla curiosità di esplorare l’appartamento, lo sorprese mentre si muoveva cautamente alla luce della luna che illuminava il biancore dei tetti, avrebbe aspettato il suo silenzio quando si sarebbe fermato per minuti interi al minimo scricchiolio del

pavimento. Sorrise nell’immaginarlo catturato dall’idea di entrare nella stanza che era sempre stata di sua madre fino al giorno della sua morte, l’unica che non aveva ancora visto, lo immaginò abbassare la maniglia che cedeva alla sua mano, la porta aperta che lasciava entrare il fascio di luce dal corridoio, lo intravide nella confusione, entrare con circospezione e socchiudere la porta dietro di sé. Era giusto che lo fe, era un suo diritto entrare in quella stanza buia e calda, cercare l’interruttore, accendere la lampada sulla scrivania davanti alla finestra. Lo vide ancora trovarsi a suo agio come nella stanza di una coetanea, buttarsi sul letto a una piazza e mezza, sfiorare con le dita i desueti nastri musicali appoggiati in disordine sopra a una mensola, provare ad accendere il vecchio Brionvega arancione sulla scrivania, sfiorare con le dita la poltrona trasparente gonfia d’aria, osservare le linee geometriche dei kilim adagiati con noncuranza sul pavimento di legno che attutivano lo scricchiolio delle liste sconnesse sotto i suoi piedi mentre avanzavano guardinghi in quello spazio inesplorato; avrebbe sfiorato i titoli dei libri dalle copertine slabbrate sulla mensola a lato del letto e si sarebbe incuriosito dei quaderni. Quando la pendola batté le quattro, Altiero si svegliò all’improvviso in un bagno di sudore, “Luna d’autunno” lampeggiava convulsamente aritmica, avvertì di essere in pericolo, stavolta l’avrebbero portato via, doveva rompere l’inganno, con mossa fulminea allungò il braccio ed accese la luce sul comodino, Giuditta era già seduta ai piedi del letto. «L’hai fatta grossa ad abbandonare il bambino» indossava un vestito nero da cocktail e dondolava la gamba accavallata. Non era accusatoria, lo disse con un velo di rammarico, quasi annoiata, forse gli voleva solo tirare amorevolmente le orecchie. «Non l’ho abbandonato, era in buone mani» Altiero si sorprese a difendersi, senza credere a quello che diceva. «No, non direi proprio, te ne sei completamente disinteressato come se fosse un estraneo». «Ma per me lo era, tu e Maddalena mi avevate lasciato e io sentivo tanto vuoto che poi è diventato una voragine». Il sudore gli imperlava la fronte ma egli non osava alleggerirsi, l’aria della stanza era gelida, vedeva il vapore del suo fiato.

“Luna d’autunno” lo fece scivolare dentro alla foto che teneva sul comò in una cornice antica: un’istantanea scattata in alta montagna sulle rive di un lago alpino ai piedi di un ghiacciaio. Per la prima volta si accorse di quanto lui Giuditta e Maddalena in realtà fossero lontani, staccati, solo una vicinanza formale, per scattare una foto, ognuno avvolto nella sua invisibile bolla in un paesaggio mozzafiato senza gioia; un sorriso stereotipato congelava i loro volti, e pensare che quella foto era sempre stata per lui l’emblema della famiglia Inganni. Gli uscì una smorfia sull’icona della famiglia in gita, la vide davvero questa volta, la foto di maniera da esporre su un mobile di casa: gli spazi turchese del lago si insinuavano tra le sagome dei loro corpi, le loro mani abbandonate, leggeri incavi pieni d’aria; accovacciata Giuditta sorride, fissa l’obiettivo, al suo fianco Maddalena che gira lo sguardo altrove, come se cercasse qualcuno, dietro a loro Altiero in piedi, il custode di chilometri di affetto perso per strada, la foto della famiglia felice immortalata in un giorno d’estate, evocatrice di un’età dell’oro ormai perduta su cui di tanto in tanto indugiava per fare un rabbocco di malinconia e lasciarsi un po’ andare. “Imbecille”, si disse e avrebbe voluto distogliersi, ma all’improvviso la foto si mise a trasudare angoscia, lui cercò di uscirne fissando con intensità i riflessi sul vaso di cristallo accanto «Quella foto fa proprio schifo» Giuditta si alzò di scatto e si allontanò, camminando sinuosa sui suoi tacchi a spillo mentre la sua immagine si confondeva con l’arredamento. Altiero si alzò di scatto come per seguirla ma dovette fermarsi, una vertigine improvvisa e un senso di nausea lo riportarono col pensiero sul suo corpo, decise che in giornata avrebbe preso appuntamento col suo medico. Dirigendosi verso il bagno, una lingua di luce che tagliava il corridoio dalla stanza di Maddalena gli ricordò la presenza di Gionata. “Gli sarà venuta la curiosità di vedere la stanza di sua madre” un pensiero fugace e continuò verso il bagno, la vescica urgeva, da un po’ di tempo faceva anche fatica ad urinare, aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua mentre si massaggiava il pube con riluttanza. “Certo lui non ha questi problemi” borbottò tra sé e sé, eppure il pensiero di quel viso pallido incorniciato dai riccioli, quelle lunghe gambe da fenicottero fasciate di jeans sdruciti e quelle scarpe di tela rosse… in pieno inverno… mentre

urinava all’improvviso gli vennero in mente le espadrillas rosse che Maddalena aveva calzato per tutto quell’inverno. Cacciò quello strazio e pensò rassicurandosi che, in fondo, era bello vedere un pezzo di sé da giovane girare per casa, si sentiva meno solo. Tornò a letto non curandosi della luce che proveniva dalla stanza. Forse per quella notte l’incantesimo malefico era finito, i pericoli dissolti, si sarebbe addormentato e il giorno con la sua luce bianca avrebbe fugato ogni terrore. Udì strani rumori provenire dalla strada, gli operai della Nettezza Urbana dovevano aver ingaggiato una lotta particolarmente furente con i traati, certi suoni erano agghiaccianti ma “se ci sono loro non c’è pericolo”, si assicurò addormentandosi mentre un segnale di “Luna d’autunno” lo avvisava intempestivamente con dei flash frammentati “si pregano gli utenti di avvisare immediatamente ritardi o eventuali disfunzioni nella trasmissione dell’ideogramma prescelto pena gravi effetti collaterali”. Il segnale di solito arrivava quando dalla centrale ravvisavano in genere ritardi o una non perfetta diffusione dell’immagine se non era ancora stata segnalata dall’utente. In coda apparve un flash di un verde mela elettrico con l’immagine di Giuditta a terra curva sul corpo senza vita di Maddalena, tutto attorno viola e una chiazza di rosso carminio. Altiero lo sfiorò con l’indice e una sostanza densa come vernice gli si appiccicò al polpastrello lasciandone l’impronta sull’ideogramma. “Non può essere “Luna d’autunno”, che fanno, ma sono impazziti? Mi ano sangue, non sanno che rischi mi stanno facendo correre?” si disse con tono petulante e frastornato continuando a girarsi e rigirarsi impaurito nel letto fino all’arrivo della luce quando finalmente si assopì.

CAPITOLO 4

Rosetta bussava alla porta della sua stanza. «Professore, telefono che non andrà in Università? C’è giù un metro di neve, tutta la città è bloccata». «Mmm, va bene…» mugugnò. Dalla cucina l’aroma di caffè invadeva l’appartamento, indossò la giacca da camera e seguì quella scia nella luce morbida della casa. «Prepari doppio, Rosetta, mio nipote Gionata ha dormito qui e si fermerà per qualche giorno». «Ah, allora era sua la lettera, finalmente l’ha aperta, ma cos’ha fatto al dito?» l’indice di Altiero macchiava la tazzina di caffè e una goccia densa era caduta sulla tovaglia. Un brivido lo scosse. «Non è niente» rassicurandola cercava di rassicurare se stesso, lasciò la tazza mentre lei gli porgeva del disinfettante. «Ha trovato la luce accesa nella stanza di Maddalena?». Rosetta lo osservò ancora più attentamente di quanto non avesse già fatto quel mattino, si alzò e uscì dalla cucina per tornare poco dopo. «Professore, no, non c’era nessuna luce accesa, ma... la porta è aperta, è accostata, non me ne sono subito accorta stamattina entrando». «Di certo è stato Gionata, vada a bussare alla stanzetta, probabilmente deve uscire presto» le disse sereno. Rosetta riuscì dalla cucina e dopo pochi secondi il volto prima decisamente preoccupato, aveva lasciato spazio a un radioso sorriso. «Professore, ma stamattina ha voglia di fare scherzi? Nella stanzetta non c’è

nessuno e il letto non è stato toccato». Altiero cominciava a innervosirsi, non era abituato a non essere preso sul serio, si alzò con uno scatto e le chiese di seguirlo. Nella stanza in effetti non c’era la minima traccia di una presenza umana, si ricordò di nuovo della luce dalla camera di Maddalena, andò ad aprire quella porta che non aveva mai più dischiuso e accese la luce. La stanza era come l’aveva lasciata la ragazza, Giuditta non aveva mai permesso che la si toccasse, nemmeno Rosetta era stata autorizzata a metterci le mani se non ogni tanto. per controllare che il termosifone non perdesse. Sul pavimento, al centro, spiccava una macchia rettangolare rossa. Altiero si avvicinò camminando come su un campo minato, un quaderno dalla copertina di pelle rossa lavorata, giaceva abbandonato sul pavimento, lo raccolse, lo aprì, lo sfogliò, le prime pagine erano dense di una scrittura indecisa e alterna, a tratti regolare e a tratti indecifrabile come un geroglifico… era la scrittura di Maddalena, un altro pugno nello stomaco, appoggiò il quaderno al petto e spinse forte, guardò Rosetta e disse: «Io torno a letto, chiami anche la Casa Editrice e disdica l’appuntamento di oggi pomeriggio». Trascinando le ciabatte tornò in camera e si lasciò cadere sul letto, il quaderno stretto al petto era una corazza, si addormentò di nuovo come un bimbo col suo orsacchiotto. Di nuovo il bussare alla porta lo risvegliò e di nuovo Rosetta gli chiedeva se volesse mangiare, era tutto pronto e lo aspettava in cucina. Si accorse di aver dormito tutto il tempo col quaderno rosso sul petto, lo appoggiò sul comodino e si decise ad alzarsi. Quando si sedette a tavola, vide che aveva ricominciato a nevicare, la cosa non gli dispiacque affatto, non aveva impegni e avrebbe trascorso un lungo fine settimana ad impigrirsi. «Lo sa che Maddalena ha scritto un diario?». «Beh, al tempo se ne era parlato, so che la polizia aveva sequestrato qualcosa ma poi dopo qualche mese han restituito tutto, sua moglie mi disse di mettere tutto nella stanza e di chiuderla». «Non capisco come ho fatto, neanche la curiosità di sapere, niente, ma cosa mi aveva preso?».

«Professore, certe cose nella vita quando si chiudono è meglio lasciarle stare dove sono, a cosa serve? Ha visto sua moglie..quanto soffrire povera donna». «Sì, ma credo che sia morta serena, dopotutto aveva pagato... se mai avesse avuto da pagare». «Cosa vuol dire, che lei non potrà morire sereno? Non le basta quello che ha ato professore? Lasci stare i morti dove sono…» le ultime parole le uscirono con uno strano tono di voce, sembrava incattivita ma Altiero non ci fece caso. L’idea di avere un diario da leggere era troppo eccitante e si apprestava a farlo con la curiosità e la ione da par suo, quella dello storico che scopre un documento da sempre rimasto segreto, assolutamente dimentico che si trattasse del diario di sua figlia. «Deve averlo trovato Gionata». «Finisca tranquillo professore, io metto il suo mangiare in forno così dovrà solo dargli una fiammata quando arriva» lo rassicurò mentre un’ombra le solcava la fronte «Se non le serve altro professore, io andrei, siamo vicini ma sa, con sta neve i marciapiedi sono stretti e si fa fatica, a domani professore». «Arrivederci Rosetta, mi spiace che non abbia potuto vedere il ragazzo, sarà per domani». Dopo che chiuse la porta andò a farsi una doccia, si cambiò e si diresse verso lo studio con quel senso di piacevole distensione che provava ogni volta al pensiero di trascorrere il pomeriggio leggendo o studiando. Si avvicinava a quelle pagine come se non fossero state scritte dalla sua unica figlia che di lì a poco sarebbe morta, ma da qualcuno che dal ato, attraverso una preziosissima fonte scritta come può esserlo un diario autografo, gli stesse trasmettendo qualcosa di unico e affatto conosciuto. In realtà si trattava di poche pagine, la più parte erano scarabocchi, potevano essere i primi disegni di Gionata pensò con gioia. Nella prima pagina una faccina che rideva lo accolse e lo rallegrò, la leggerezza della gioventù, si disse, e cominciò a leggere. Prima pagina: Diario privatissimo di Maddalena Inganni madre di Gionata Segunda, guai

potenti a chi lo legge. Abbozzò un sorriso e si riaccomodò la seduta con l’incoscienza di chi sta per leggere l’ultimo libro uscito in libreria.

Lunedì 3 novembre, notte Oggi a scuola sono stata accovacciata in un angolo del bagno della scuola, stavo con le braccia attorno alle ginocchia e fissavo la punta delle mie espadrillas rosse, lì dentro puzzava di fumo e poi c’era dell’aria umida che entrava dalla finestrella in alto, anche le pareti delle piastrelle bianche erano bagnate con qualche ditata nera e sul pavimento c’erano impronte di scarponi. A dire la verità un po’ schifo mi faceva ma era l’unico posto dove poter stare in silenzio, tutti erano in aula ma io non ce la facevo proprio ad entrare e così stavo in quel lerciume che dopo un po’ però non mi dava neanche più fastidio, fantasticavo, chissà, magari qualcuno mi viene a cercare, si saranno accorti che non sono in classe oppure un grande uccello magico si appollaierà sul cornicione sotto alla finestrella, gli salirò in groppa e mi porterà via oppure non ho neanche pensato a niente, sai quel niente che ti ferma la mente, un blocco, fissavo le punte delle mie espadrillas rosse che si baciavano come due pesci rossi, poi mi sbloccavo e mi dicevo: “Sarà meglio che torni in classe” ma quelle parole svanivano nell’aria le risentivo come un eco e non riuscivo a scollarmi da lì. Avevo freddo e stavo tutta stretta su me stessa, dura come un sasso, bastava poter dormire, anche solo per pochi minuti, se quella sensazione di vuoto come quando facevo le discese sulle montagne russe non fosse scomparsa, non sarei mai riuscita a tornare in classe. Poi questo cielo così pulito mi ha sempre fatto un brutto effetto, tutto è così evidente che mi sembra che si veda come sto, cioè da schifo totale, poi in effetti non è così, perché in realtà è proprio quello che vorrei, che tutti mi chiedessero come sto, ho voglia di fare pena così qualcuno mi abbraccerà e soffrirà un po’ per me. Poi mi sono fatta forza, uno sforzo supremo devo dirlo, mi sono alzata e tutta rigida sono uscita dal bagno, ho subito sentito il caldo nel corridoio e il profumo di caffè delle macchinette, mi son sentita meglio, sono ata davanti al bidello che manco m’ha vista, stava in bilico sulla sua seggiola a leggere il giornale rosa poi a un certo punto ha fatto un salto, e anch’io con lui a dire il vero per un urlo schizzato da un’aula che in effetti in quel silenzio raggela poi ti fa ridere, sono scivolata in classe come un’ombra, nessuno ha fatto cenno di vedermi, ho

appoggiato la fronte sul banco e ho continuato a fissare i miei due pesci rossi che facevano pciuc pciuc con i miei capelli che penzolavano nel vuoto come alghe: ero proprio in un acquario. Per fortuna era l’ultima ora, Simone ogni tanto mi fissava ma io ho fatto finta di non vederlo non avevo voglia di incrociare il suo sguardo, all’uscita però voleva sapere che c’era, se era successo qualcosa al bambino. Sembra un padre premuroso in effetti, anche se spesso viene un po’ allontanato da mia madre che da quando è forzatamente nonna fa il cane da guardia come se il bambino fosse suo, in effetti lo è, io non me ne occupo un granché piuttosto lo faccio un po’ giocare e lui mi sorride, mi piace tanto annusarlo e stringerlo un po’ ma lì devo stare attenta, una volta l’ho fatto piangere e mi sono sentita proprio una merda. Ho detto a Simone che lo avrei chiamato e l’ho visto andare verso casa sua un po’ triste, ma non me ne son preoccupata. Ho fatto il solito viale, ho pestato i ricci degli ippocastani e le foglie d’oro giallo un po’ umide che han macchiato le mie scarpette. Ho pensato a Cappuccetto Rosso quando stavo entrando nel portone di casa, la sua bocca spalancata presto mi avrebbe mangiata. Colpa mia non porto mai le chiavi, lei una volta mi ha detto: «A cosa servono, kkkkara, tanto quando torni ci sono sempre io». Mi è sembrata una minaccia, ho fatto le scale a piedi come al solito ed ho suonato. Gionata stava arrivando gattonando perché l’ho sentita gorgogliargli: «Ma tesoro aspetta che ti prendo in braccio, non devi mica pulire il pavimento» e poi un «ahi povera me la mia schiena, oh ciao tesoro, pigliati Giò che ho la roba nel forno». È fluttuata via come un’ape operosa da schiacciare con una scarpata perché ha sbagliato fiore e si è posata su di me.

Martedì 7 novembre Da quando è nato Gionata mia madre corre sempre, si è come rivitalizzata, non le si può mai parlare perché ti da l’idea che la stia aspettando qualcosa di importantissimo da fare e che tu le stai rompendo le scatole, forse non è un’idea, forse ha davvero da fare e io le rompo le scatole, l’ho fatta grossa a rimanere incinta e a tenermi il bambino, ma non avrei mai potuto abortire, per come stavo sarei crollata e poi quando loro mi han detto “non ti preoccupare, ti aiuteremo” dopo la riunione con i genitori di Simone mi sono rassicurata: i quattro boss

avevano deciso che saremmo stati ognuno nella propria casa, che non ci saremmo dovuti sposare per forza e che il bambino lo avremmo tenuto a casa dei miei perché i genitori di Simo hanno un negozio e non lo possono mollare, il tutto per permetterci di fare la maturità e di continuare anche oltre se volevamo. Cosa si può volere di più? La cosa strana è che da quando avevo saputo di essere incinta e soprattutto da quando si vedeva la pancia ho cominciato ad avere la sensazione che quella cosa che cresceva mi avrebbe mangiata e mi sentivo stanca e ogni piccolo dolore lo sentivo come qualcosa di terribile che mi stava per succedere. Non la finivo mai di chiedere rassicurazioni e forse li ho anche esasperati. Così l’ho scodellato tra dolori atroci inimmaginabili, lui mi ha squarciata, devastata, quando è nato l’ostetrica ha detto: «Che bel maschio!» ma io non ho fatto una piega ero distrutta da tutto il male che mi aveva fatto e non me ne importava assolutamente niente di lui, ho girato la testa dall’altra parte. Che madre di merda che sono. Che strano, se gioco con la parola madre posso scrivere merda, semplice scambio!

Mercoledì 8 novembre Comunque mia madre non la reggo più, è un morto ambulante che telefona per ore alle sue amiche parlando male di papà, che la tradisce e come deve fare povera donna e parla sempre di una tizia dell’università che sarebbe la sua amante e che cosa lui le regala e il giorno che è arrivato tardi dove può essere stato e tante menate così per tutto il pomeriggio finché finalmente verso le cinque esce a fare compere. Quando torna sta un po’ meglio, almeno il tono della voce è addirittura allegro, ha provato emozioni giocando con la carta di credito di papà, ha esercitato il suo sacrosanto diritto di moglie tradita, non è colpa sua. Io non riesco ad avvicinarmi mi sento disperata, adesso lo lascio un po’ capire, almeno Simone se ne accorge e i miei amici anche. Forse anche lei sente la noia che sento io. Per lei occuparsi di cose quotidiane come far da mangiare o aggiornare il quadernino della mia storia medica sono sempre state banalità e infatti le ha sempre tralasciate, ha sempre bisogno che succedano cose e se non succedono le fa succedere lei, cose varie come una lite furibonda col papà perché ha lasciato i suoi libri in giro per la casa o un viaggio, sempre con papà ma non per stare con lui, solo per sottrarlo a quell’altra. Dopo che lei si è sfogata per bene a nessuno è concesso di essere arrabbiato, o triste o vuoto, bisogna reagire.

«Caspita, che faccia da funerale, almeno un sorriso, un grazie, no? Guarda cosa ti ho preparato». In realtà la pasta al forno l’ha presa in gastronomia se la fa preparare direttamente sui piatti di portata di casa, è più veritiera, così come la frittata e la torta paradiso e anche il vino, quello lo dice: «Sono uscita apposta per andare dal vinaio». Il papà in quei momenti lì annuisce e abbozza un sorriso timido a bocca chiusa, lui è stato perdonato e deve gioirne, su, fai vedere da bravo che gioisci, stronzo. Oggi sono stata con Gionata quasi tutto il pomeriggio, prima abbiamo dormito poi abbiamo fatto merenda, aveva tutte le ditine appiccicate di marmellata e briciole di fette biscottate e le batteva sulla tavola e il rumore lo faceva ridere e così l’ho fatto anch’io ed è venuto fuori un concertino non da poco tutte percussioni, poi l’ho preso in braccio e l’ho baciato e ho mangiato tutta la marmellata che aveva sulle gote e lui rideva perché forse gli facevo solletico. Caro. Anche il nonno aveva battuto il cucchiaio sul bicchiere e a Gionata era piaciuto molto, poi è uscito. Adesso Gionata dorme qui nel lettino accanto al mio, ha le braccine alzate e le mani sono chiuse a pugno, piccoli boccioli di crisantemi che stanno per aprirsi, “ti serviranno piccolo”. Guardo le ombre sul soffitto, ho dormito un po’ oggi pomeriggio e adesso non se ne parla di dormire, sto scrivendo con la lucina dei bambini, ci vedo poco, vorrei tornare al più presto nel mondo incolore dei sogni che da tempo non faccio più, il mio poco sonno è tutto nero.

Giovedì 9 novembre ore 6.00 Il nuovo giorno ha l’aria di un vestito sgualcito dopo una notte ata sul sedile di un treno, non ho chiuso occhio e tra poco Gionata comincerà ad agitare le sue gambette e le braccine e si sveglierà, non posso perdermi il suo sorriso, è l’unica cosa che mi è rimasta per vivere, lui mi ha sempre sorriso dalla prima volta che mi ha annusata, piangeva e me lo hanno messo sulla pancia, io non lo guardavo ma il suo calore ha calmato la mia rabbia e lui ha smesso immediatamente di piangere, cos’è successo in quell’istante lì?

Mi porterò il suo odore, il colore delle sue guance quando adesso torna dalla eggiata e i suoi baci. Non posso dargli niente, cosa farà quando avrà bisogno del mio sguardo? Lo so com’è quando cerchi di guardare tua madre negli occhi e lei ti sfugge e scopri che non ti ha mai guardata dritto, non voglio diventare la sua regina delle nevi.

Giovedì 9 novembre notte Oggi in quel buco di fronte al liceo mi sono presa una gonna viola plissè, l’ho scambiata coi miei jeans di marca, li ho tolti e ho infilato la gonna, stava da dio con i miei calzettoni a righe arcobaleno, se ruoti si solleva e sta su che sembro un sufi che balla, mi piace da morire. Sulla porta di casa mia madre si è raggelata: «Ma cosa ti sei messa? Dio che odore!» speravo in qualcosa di più a dir la verità, a volte spero che faccia finta o almeno ci provi che lo apprezzerei. Gionata mi è venuto incontro traballando un po’ appoggiato ai mobili, il suo sorriso era a bocca spalancata e il suo dentino in basso faceva la sentinella, voleva mangiarmi. Non sono riuscita a godermelo. «Perché? Non ti piace?». «Noo, anzi, è… bellissima, forse è troppo viola, noo?». «Non è troppo viola, è viola, mamma». «Sì, non dico che non vada bene, anzi, lo stesso colore dei drappeggi quaresimali». «Ho capito, non ti piace» e me ne sono andata in camera mia lasciando il mio amore, piccolo Gionata, deluso senza degnarlo di uno sguardo. A pranzo maledizione è tornata sull’argomento, cercava di convincermi che mi ero sbagliata a pensare che a lei non pie. Papà continuava a pensare ai fatti suoi, le ha persino sorriso quando lei gli ha chiesto di arle l’olio,

cercava di esser naturale ma tirava in giù le labbra raggrinzendo il mento, poi ad un certo punto ha sbattuto la fiamminga di affettati e spinaci sulla tavola facendo scattare la forchetta nel brodo di pollo del mio piatto, il brodo ha macchiato la tovaglia, papà ha appoggiato le sue posate e dopo un attimo di silenzio forse per raccogliere le parole le ha chiesto per favore di andare a riposarsi che era troppo stanca e che avremmo fatto da soli, e lei stava per fare la vittima e dire: “No, grazie, ci sono abituata, non fa niente” la cosa sarebbe finita lì, lei con l’ultima parola e noi con un pugno nello stomaco, invece non so perché ma mi è uscito così senza pensare un: «Mamma, ma tu mi vuoi bene?». E lei… si è messa a fare una specie di urlo però piagnucoloso che è una roba terribile da sentire, forse si è sentita presa in giro in quel contesto, fatto sta che per risposta mi ha detto: «Basta, io non ce la faccio più» ed è scomparsa verso la sua stanza sbattendo la porta, ma lo fa sempre quand’è incazzata. Io e suo marito abbiamo finito in assoluto silenzio di pranzare poi lui mi fa, almeno lui guardandomi negli occhi: «Tua madre ti vuole molto bene Maddalena». «Grazie» mi son sentita in dovere di dire così, ma ti rendi conto? Una figlia che deve dire grazie per essersi sentita dire una gran balla, mi sono alzata composta e me ne sono andata da Giò che dormiva quieto.

Altiero girò la pagina di fretta, ma il diario era interrotto, le pagine successive riportavano segni a matita grigi, puntini rossi che bucavano i fogli, tracce di verde e di arancio allungate oltre i margini. «Questo è Gionata» si sorprese a dire, come se avesse riconosciuto un Matisse segreto o come se parlasse di uno con cui aveva avuto una strettissima frequentazione; contemporaneamente come lampo in un cielo in tempesta si affermò prepotentemente a caratteri cubitali un: “Dov’è Gionata?” e la consapevolezza di una realtà tanto orribile da sprofondarlo in un’angoscia senza uscita. Nonostante avesse dormito tutto il pomeriggio, si sentiva addosso una spossatezza che rendeva flebili i suoi gesti, alzandosi con estrema lentezza inventariò tutte le giunture che gli dolevano e si trascinò in bagno, la doccia sulle

prime parve rinvigorirlo ma poco dopo sentì di nuovo la necessità di sdraiarsi in poltrona, prese un libro a caso che aspettava nella pila dei libri da leggere ma non riuscì ad andare oltre le prime righe, il pensiero di non sapere dove fosse Gionata lo infastidiva. “Sono anni che non sai dove sia, che differenza fa non saperlo adesso? Sarà meglio se mangi qualcosa” si disse irritato Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare, una vampata di energia dai lombi lo avvolse come un mantello caldo. «Finalmente». «Buona sera, Società Trasparenze, parlo col prof. Altiero Inganni?». «Sì, dica» sentì la sua voce delusa che veniva risucchiata dall’altro capo del telefono. «Abbiamo verificato un guasto non istantaneamente risolvibile nella trasmissione dell’ideogramma, più precisamente è un disservizio di comunicazione tra la prima e la seconda dimensione, lei non si è accorto di qualcosa di strano? Ci vorranno alcune ore, il danno non è da poco, contiamo di riuscire a finire entro domattina, nel frattempo eviti contatti fino a quando non la avviseremo». «Come è potuto accadere, mi avevate assicurato…». «Certo, ma si tratta di un fenomeno che riscontriamo regolarmente una volta ogni milione virgola diciannove emissioni, fa parte del rischio, del resto se ne parla nel contratto, precisamente al punto 53/a, ad ogni modo le ore perse le verranno conteggiate e potrà recuperarle». «Dovrei prendere precauzioni? E se mentre voi lavorate capita qualcosa, come mi devo regolare?». «Le diciamo solo di evitare rigorosamente contatti con sconosciuti e di non uscire di casa stanotte, se segue queste raccomandazioni non ci sarà alcun problema, a domani e scusi ancora». Tutte quelle raccomandazioni gli ricordarono la fiaba di Cappuccetto Rosso

prima di inoltrarsi nel bosco per andare dalla nonna. La leggeva sempre in mansarda quando da piccolo andava a nascondersi, gli venne in mente che nella sua attuale camera da letto, un tempo la camera da letto dei suoi genitori, c’era una porta nascosta nella tappezzeria della parete, una parete di foglie d’edera verde pallido con riflessi dorati su fondo cremisi. Istintivamente si recò nello studio verso l’area “fiabe”, sorrise pensando a quante volte si era appisolato leggendo Hansel e Gretel, il pezzo di quando erano riusciti a scappare dalla strega, e quante fiabe aveva letto a Giuditta sul letto di morte. Si aggrottò pensando che, benché si sforzasse, non riusciva a ricordare di aver mai letto una fiaba a Maddalena. Si immergeva nelle grandi pagine colorate e lì stava, annegato nei drappeggi di una tenda o nelle gote del re. Ricordò che aveva scoperto la porticina in un giorno di febbre quando per tradizione si trasferiva nel lettone dei genitori: un clic meccanico aveva attirato la sua attenzione e dalla parete vicino all’angolo di fronte al letto si materializzò suo padre che usciva dal muro. Sorrise, pensando a quello stupore magico che ancora provava ricordandolo, la febbre era troppo alta e aveva richiuso gli occhi, ma il giorno seguente, gironzolando per la casa deserta era ritornato a quella parete e l’aveva osservata con attenzione incuriosito da una piccola maniglia di ottone a C, dorata come la linea che stava sul dorso di alcune foglie; sfiorandola scattò un clic, davanti a lui una ripida scala di legno chiaro si inerpicava tra pareti nero opaco; la guardò come l’alpinista che scruta la parete da scalare e, senza esitare, cominciò a salire gli alti gradini di legno che sotto il suo pur lieve peso scricchiolavano, era arrivato finalmente in cima: la testa a livello pavimento, vide oggetti e mobili accatastati a caso in uno spazio che sembrava infinito. In quel momento decise che quello sarebbe diventato il suo rifugio segreto e mentre immaginava le meraviglie che vi avrebbe scovato un: «Che ci fai qui?» piuttosto irritato lo fece trasalire, lo sguardo della donna delle pulizie era poco rassicurante. «Scendi immediatamente, ti proibisco di rimetterci piede, è sporco, ci sono chiodi arrugginiti e assi che ballano, potresti farti male e io non ne voglio sapere» sì, era proprio andata così, rivide quella scena come se ci fosse ancora dentro. Fu così che il piccolo Altiero rinunciò alla sua prima grande esplorazione, ci riprovò altre volte ma trovava inesorabilmente la porta chiusa e finì per

dimenticarsene. Un giorno, circa un annetto dopo, dalla finestra aperta del bagno vide il tetto di tegole e pensò che gli sarebbe piaciuto vedere dove portava, così appoggiò lo sgabello davanti alla finestra e s’arrampicò. Leggermente curvo per timore di scivolare, proseguì rasente la parete fino a trovarsi dopo pochi metri proprio a ridosso del giardino pensile delle sorelline Baldi che appena lo videro si misero a ridere invitandolo a giocare con loro. Da quella volta iniziarono pomeriggi meravigliosi di giochi di ogni genere, le bambine custodivano Altiero e il suo segreto nel terrazzo dietro alla vite americana d’estate e nella loro stanza dentro a un imponente armadio di noce in inverno, la merenda era sempre deliziosa e poteva sbriciolarla quanto gli pareva, e così fu per parecchie stagioni fino a tutto il periodo delle medie quando lo nascosero amorevolmente nel loro letto. Non ricordava quando smise quelle visite, forse al ginnasio quando aveva cominciato a sentirsi grande e la parentesi Baldi era diventata solo un gioco da bambini; se le incontrava nell’ingresso del palazzo non cercava di evitarle, anzi era felice di vederle e grato. Tutti quegli anni di divertimento avevano offuscato il ricordo della stanza segreta fino a quando, con la morte dei suoi genitori, lui e Giuditta ne avevano preso possesso ripristinandone l’apertura. Salì la scala che non gli parve più così ripida come se la ricordava e rivisse la stessa emozione di quella prima volta, dopo di che ridiscese, la richiuse e non se ne ricordò più. Adesso si trovava davanti alla scala per la terza volta, un libro di fiabe russe in mano e quell’odore di larice, di fronte, un grande spazio aperto ammorbidito dalla luce che filtrava da due grandi rosoni, uno che dava verso il lato strada e l’altro che dava verso il giardino interno, il pavimento a listoni di legno chiaro quasi completamente nascosto da tappeti disposti in modo apparentemente casuale, pareti vuote color latte. Un divano a tre posti e due poltrone, il vecchio salotto di sua madre, la luce grigio-azzurra del crepuscolo che giocava coi contorni delle cose ammorbidendoli. “Ma questo è un altro appartamento” si sorprese a pensare, “per me” e gli venne in mente Gionata. “A lui potrei dare l’appartamento di sotto” si lasciò andare su una poltrona allungando le gambe e abbandonando la testa all’indietro, lì si stava davvero bene, era riscaldato, e il rumore del traffico ancora più ovattato.

“Ci vorrebbe un whisky per festeggiare” e mentre il suo sguardo vagava indolente sulle cose, intravide una figura in ombra seduta sul divano, assolutamente immobile che sembrava guardare un quadro piuttosto grande che stava appoggiato a terra nella parete di fronte. Il cuore cominciò a battergli all’impazzata, era paralizzato e tratteneva un tumulto implacabile bloccato in un vuoto pensiero come un ascensore a metà tra due piani. «Ti aspettavo» disse la figura, il suo tono era astratto, incolore, senza musica. “Luna d’autunno” lanciò segnali puntiformi iridescenti poi si mise a lampeggiare freneticamente il suo ideogramma in una iperattività sterile e discontinua a tratti, come se mancasse di energia, le colonne di legno che dal pavimento sostenevano le travi a vista del soffitto erano alberi dalle snelle ombre in una notte di luna in una foresta, o in una sceneggiatura teatrale di un’opera del ‘900. Il senso che lui dava a quella immagine, di calma, contrastava con la percezione di pericolo che avvertiva invece potente, ora la paura non arrivava più dalle viscere della notte ma anche dalla sera. «Chi è?». «Io abito qui, di solito» i segnali puntiformi come miriadi di piccoli vermi fosforescenti pulsavano fastidiosamente impedendogli di mettere a fuoco la sagoma davanti a lui. «Abito qui da dopo che sono scomparse le api, da quando più o meno sono scomparse le farfalle, ricordi? Non consecutivamente, ogni tanto, adesso mi rifugio qui da circa un anno, stabilmente». Altiero percepiva una certa fatica a respirare, una pietra gli pesava sul torace, quella voce veniva da un lontano freddo, la percezione di un grave pericolo adesso era diventata realtà, gliel’avevano detto quelli della Trasparenze, accidenti, ma in che guaio s’era cacciato. «Abito questi spazi, eravamo così vicini, adesso però sto per partire verso la terza dimensione». Ad Altiero si raggelò il sangue, stava parlando con un Traato, “Luna d’autunno” lampeggiava frenetica una strada affollata di gente.

«Ma che sta facendo?». «Non è questa l’ora, ma a chi se ne sta per andare definitivamente è concessa ancora un po’ di luce prima di entrare nel mondo delle tenebre, non mi riconosci ancora?». Altiero si chiedeva chi fosse il traato e perché vivesse nella sua mansarda, la consuetudine dello storico stava prendendo il sopravvento, “Luna d’autunno” stava sempre su una strada affollata, poteva essere la sua via, come da un elicottero zoomava lentamente e a scatti su qualcosa laggiù, uno spazio vuoto attorno e tanta gente ferma. «Hai letto il diario?». «Gionata!» un tonfo di gioia al cuore, poi subito il dubbio, la confusione, il caos. Non gli rispose, silenzio. Lo zoom avvicinava il campo visivo, riconobbe la macchia viola, era la gonna di sua figlia Maddalena morta spiaccicata sul pavé, adesso cominciava a sentirsi davvero male. «Forse non lo sai, ma la seconda dimensione ha una sua vita, per così dire» continuava a non capire e decise di andarsene, come faceva sempre quando si sentiva in difficoltà, prese istintivamente il suo libro di fiabe russe e si diresse verso la scala. «Se fossi in te non lo farei, ancora» la voce di Gionata era ferma e autorevole. «Non ti interessa sapere tutta la storia?». La storia, la storia ma che storia era mai questa, non c’erano battaglie, manoscritti da decifrare, atti notarili. «A dire la verità tutto quello che so è che non dovrei parlare con te e andarmene al più presto e poi sono terribilmente confuso tu non dovresti essere… tu». «È troppo tardi Altiero». “Luna d’autunno” improvvisamente staccò il flash, l’immagine scomparve e di nuovo cominciò a restringere sulla strada, su Maddalena e su una donna

inginocchiata accanto a lei. Ora guardava la sagoma di Gionata con dolore. «Ma dove sei stato?». «Sono cresciuto con te, ogni notte di tutti questi anni tu mi hai coltivato, tu mi hai fatto crescere ma ora devo andare». Di nuovo i flash si susseguivano sulla fine delle lucciole e delle api e poi delle farfalle, tutte insieme, il mondo che da allora era cambiato, una voce metallica ripeteva: “Terra, sistema solare, braccio di Orione, via Lattea, diametro del nucleo dodici miliardi di anni luce, velocità nel vuoto seicento chilometri al secondo, tra cinque milioni di anni previsto impatto con la galassia di Andromeda”. «Questi sono fatti del nostro cervello collettivo, cosa continuano a mandarmeli» Altiero cominciava ad essere visibilmente irritato. E ancora: “L’uomo non può udire il canto della terra”. «Forse è per questo che l’ha distrutta». Si vide quando osservava i bambini durante la quotidiana eggiata al parco, quando ogni tanto raccoglieva una palla sfuggita al loro gioco e con quanta premura la restituiva. In quei momenti si sentiva un nonno efficiente, pensava con malinconia che avrebbe potuto essere lì col suo nipotino, si vide ad attenderlo davanti alla scuola, o a Natale, dio mio a Natale che strazio, eppure insisteva e arrivava col suo pigiamino celeste a piedi nudi quand’era ancora notte con l’orsachiotto in braccio a cercare i doni sotto l’albero, ancora in vacanza al mare e ai monti, lo vide zigzagare in motorino per le strade caotiche della città nei pomeriggi di maggio quando l’aria era tiepida. Staccò. Il suo respiro si fece denso come nebbia. «Da quando ho saputo che Maddalena ti aspettava ho cominciato ad immaginarti perché volevo conoscerti e quando sei nato ho visto me stesso che ripercorrevo il ciclo dell’esistenza, ti avrei raccontato degli spiriti ancestrali della nostra terra e… adesso ti avrei trasmesso il mio sapere, le scatole con gli oggetti dei simboli, ti avrei decifrato il significato di ciascuno, la sua storia che era la mia e che

sarebbe diventata la tua, ti avrei protetto dai barbari». Si accorse che si stava commovendo come se stesse rincorrendo qualcosa di perduto per sempre, ma Gionata era lì davanti a lui. «Aspetta devo pisciare» si diresse istintivamente verso il rosone, lo spalancò e urinò sul giardino con un getto potente come da tempo non possedeva, gli venne da sorridere. «Torniamo giù…» senza aspettare risposta cominciò con attenzione a scendere le scale. Gionata dietro di lui, arrivato alla sua stanza si abbandonò sul letto e si sentì stremato come dopo una grande fatica, il piccolo tavolo accanto ingombro d’oggetti in apparenza insignificanti, un paio di occhiali dalla stanghetta rotta, un’acquasantiera senz’acqua che ospitava un nitsukè, un quaderno di appunti con i sogni che da tempo cercava di cristallizzare e un piccolo libro intitolato La storia del mondo, un segnalibro nell’ultima pagina dove si leggeva “da questo piccolo nucleo di energia che era la terra alla sua origine, viaggiamo nell’universo come una briciola di pane nella tasca di uno sciatore, ciò che abbiamo costruito non sarà mai perduto, in questa navicella nella galassia, una tra miliardi di galassie, anche noi portiamo il nostro quanto di energia che, sommato a quello dell’universo immenso, ci riunirà tutti in tutto nella forza potente dell’indistruttibile vita”. Gionata lo gettò con un gesto indispettito. «Penso che tu mi debba cancellare, nonno». «Ma che dici? Adesso che ti ho ritrovato, sono anni che penso a te e adesso ti dovrei cancellare? Vuoi che ti sbatta fuori di casa? Vattene, la strada la sai, io non lo farò, mai». «Il punto è che non puoi più scegliere, adesso devi farlo e basta». «No, senti sono stanco lasciami perdere, se volevi che ti cancellassi dalla mia vita, perché ti sei fatto vivo?». Adesso che aveva trovato il nipote doveva lasciarlo andare. È vero che non aveva mai fatto nulla per averlo fisicamente con sé, se non nei giochi mentali per i quali la Società Trasparenze lo aveva più volte richiamato, ma immaginò ora la sua vita senza di lui, che poi era esattamente la vita che fino alla settimana scorsa

aveva sempre condotto, eppure quella vita gli parve improvvisamente odiosa, vuota, insignificante, un buco nero di ovvietà, un tran tran di osceno quieto sopravvivere. È anche vero che, a volte, si era persino sentito felice: Rosetta lo accudiva come in realtà nessuna donna nella sua vita aveva mai fatto, si divertiva ancora con le sorelle Baldi una sera alla settimana a giocare a poker, i suoi studenti l’adoravano, i colleghi lo stimavano, la cittadinanza, di quando in quando, lo insigniva di qualcosa per aver fatto qualcos’altro… eppure… “Luna d’autunno” gli ò una grotta sottomarina, la luce azzurrina era la stessa della stanza in cui si trovava, lui nuotava tra pesci che indisturbati lo schivavano sinuosi; vagando verso l’antro, respirando regolarmente, entrò in uno spazio che si stava restringendo come il tunnel di casa oltre il quale si apriva un’altra caverna, al centro una piccola cassapanca chiara: si avvicinò e con una certa fatica ne sollevò il coperchio, dentro, un bambino dormiente dalle guance rosate, le manine sollevate chiuse leggermente a pugno. «Gionata!» ma quello era il piccolo Gionata che dormiva così nella sua culla, quando quel pomeriggio prima di uscire lo era andato a salutare, come sempre, si piegò su di lui per baciarlo come allora e il suo profumo lo avvolse e lo inebriò. «Dove sei stato tutto questo tempo?» gli sussurrò teneramente appoggiando la testa al legno, “Luna d’autunno” gli stava inviando chiazze di viola, quattro spot consecutivi che, a dir la verità, percepiva come estremamente inquietanti senza un’apparente ragione. Come una cinepresa che dall’alto restringe il campo sull’oggetto, i suoi occhi dettagliavano le cose avvicinandosi sempre più alla chiazza viola della gonna di Maddalena distesa sull’asfalto. Quell’andirivieni nel tempo forse era un po’ troppo per lui, si accorse che non riusciva più a connettere… La sagoma di Gionata emetteva un suono flebile, sottovoce raccontava come una cantilena. «Io vivo qui da quando son scomparse le farfalle» sembrava guardar lontano nel tempo mentre parlava. «Tu non te ne sei mai accorto, vero?». “In seconda dimensione?” pensò Altiero confuso.

“Sto parlando con un Traato? E “Luna d’autunno” mi manda dei puntini? È finita, Gionata era vivo e vegeto, non poteva appartenere alla seconda dimensione”. «È ora di andare» disse Gionata con voce lontana. «Sto impazzendo, vuoi portarmi con te, è per questo che sei venuto a prendermi?». «Sono sempre stato con te, tu mi hai cresciuto, mi hai sempre pensato». «Tu eri con gli altri nonni». Il sangue prese a scorrere velocemente e un brivido di ghiaccio gli percorse la schiena, “Luna d’autunno” emetteva un fascio di luce fucsia con un alone rosa pallido poi un viola deciso, quella chiazza di viola pulsava come un battito di cuore e lo zoom si avvicinava sempre più, Giuditta inginocchiata su Maddalena sparsa sul selciato, la sua gonna plissé, le sue espadrillas rosse poco lontano, da sotto la gonna, una piccola mano di bambino chiusa a pugno. “Luna d’autunno” delineò se stessa, una capanna viola scuro, lui vi si rifugiò dentro, quel viola lo calmava e lo inondò di un sonno senza speranza che gli tolse ogni forza residua mentre, ginocchia al petto, si dondolava avanti e indietro. I fantasmi dell’oscuro per lui avevano perso ogni significato, li aveva visti, ne aveva conosciuto la potenza, adesso se ne poteva liberare. Il dondolio dell’abbandono non durò a lungo, presto cadde in un sonno azzurro e si sentì vagare su un mare limpido solcato da onde leggere, un respiro potente e tiepido aleggiava su di esse e lui capì finalmente di essere compiuto.

Indice

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4