Paranoid - Il Piano Del Male 526z29

Luigi Martinuzzi

PARANOID

copyright © 2015 Luigi Martinuzzi

Tutti i diritti riservati Grafica di copertina a cura di © Luigi Martinuzzi Questo racconto è un'opera di fantasia. Nomi e luoghi sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Qualunque somiglianza con fatti, persone e luoghi è puramente casuale. Il male in tutte le sue forme, purtroppo, esiste davvero.

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Indice dei contenuti

Sinossi: Paranoid - Il piano del male La ragazza nello specchio La ragazza nello specchio - Capitolo 1 L'ultimo respiro L'ultimo respiro - Capitolo 1 L'ultimo respiro - Capitolo 2 Biografia Segui l'autore Ringraziamenti

LUIGI MARTINUZZI PARANOID Il piano del male

Ho bisogno di qualcuno che mi mostri le cose che non riesco a trovare nella vita. Non riesco a vedere le cose che fanno la vera felicità, devo essere cieco. Fammi uno scherzo e sospirerò, e tu riderai e io piangerò. Non riesco ad essere felice e l'amore è irreale per me. E così, mentre ascolti queste parole che ti parlano del mio stato, ti dico di goderti la vita, io vorrei poterlo fare ma è troppo tardi.

Tratto da Paranoid - Black Sabbath

Sinossi:

Quarta superiore, fine del secondo quadrimestre del penultimo anno scolastico. Cotte adolescenziali, stress per le ultime interrogazioni, rivalità tra ragazzi, incoscienza, amicizie e spensieratezza. Tutto normale, certo, ma quando uno di loro decide di mettere in atto il suo terribile piano, le cose cambieranno irrimediabilmente...

Paranoid - Il piano del male

Erano un po’ di giorni che Ozzy non si vedeva a scuola. Inizialmente tutti si erano chiesti dove fosse finito, ma poi ognuno aveva smesso di pensarci perché il soggetto in questione era un tipo alquanto strano, proprio come tutta la sua famiglia di origini britanniche. Non valeva la pena arrovellarsi anche perché la maggior parte dei suoi compagni si aspettava una sua assenza negli ultimi giorni dell’anno scolastico, un comodo anticipo delle vacanze che ormai per lui era diventata una consuetudine. A detta di tutti, Ozzy era un ragazzo che non amava parlare molto con la gente. Preferiva rimanere da solo e stava volentieri in gruppo solamente quando si giocava a calcio. Inoltre, nessuno sapeva un granché su di lui, e quel poco che si conosceva era vago o frutto della fantasia di qualcun altro. Di sicuro era un grande amante dei film dell’orrore e della musica Heavy Metal. Infatti Ozzy non era il suo vero nome. Il ragazzo si chiamava Nathan e Ozzy era il soprannome che gli avevano affibbiato perché, oltre a spararsi nei timpani ore e ore di musica di Ozzy Osbourne, aveva anche una forte somiglianza con il celebre leader dei Black Sabbath. Carnagione pallida, lunghi capelli lisci e neri, occhiali con lenti azzurre e rotonde: questi erano i suoi tratti distintivi. A proposito dei film dell’orrore, invece, si diceva che ne guardasse di continuo, almeno uno al giorno. Sembrava quasi contento di vedere scorrere del sangue: più ce n’era, più appariva soddisfatto. Ma questo non lo diceva apertamente; erano i suoi occhi a farlo. E, si sa, gli occhi non mentono mai. Un giorno, per esempio, un suo compagno cadde rovinosamente sul cemento del cortile della scuola e si sbucciò un ginocchio, mentre giocava a calcio nella pausa fra una lezione e l’altra. La sua gamba si tinse subito di rosso e gli amici si riunirono intorno a lui per vedere come stava, scoprendo che la ferita era parecchio profonda e perdeva molto sangue.

Mentre il compagno urlava dal dolore e dallo spavento, sui volti di tutti i ragazzi comparvero delle espressioni di profondo sgomento. Su tutti i volti tranne uno: quello di Ozzy. Sul suo viso c’era infatti un’espressione diversa. Sembrava quasi eccitato dalla vista del liquido rosso che fuoriusciva copioso dalla ferita, come un vampiro in astinenza che finalmente può assaporare la sua bevanda preferita. Gli occhi indiavolati scintillavano e sembravano infuocati, addirittura diabolici. Questo episodio turbò non poco l’animo dei suoi compagni, e da quel giorno per tutti divenne Ozzy Il Sadico. Niente male per un ragazzino non ancora maggiorenne! Di conseguenza, la sua assenza a scuola era sempre ben accetta. Quando Nathan non c’era, infatti, il clima all’interno dell’istituto, e in particolar modo quello della sua classe, era totalmente differente. Nonostante l’ansia provocata dalle solite interrogazioni a sorpresa e dalle numerose note sul registro, per molti ragazzi l’atmosfera aveva delle piacevoli sfumature color pastello: l’opposto di quell’inquietante scala di grigi che con Ozzy Il Sadico si stabilizzava quasi sempre su una sola nota, il nero più profondo. Tutto questo lo sapevano molto bene Cristian, Giorgia e Leonardo, tre suoi compagni di classe che alla fine delle lezioni erano soliti fermarsi all’esterno della scuola, appoggiati al muretto che recintava l’edificio. Cristian e Giorgia si frequentavano da qualche mese, dato che avevano iniziato a uscire insieme poco dopo l’inizio dell’anno scolastico in corso, il quarto della scuola superiore. Leonardo, invece, era il vicino di casa di Giorgia e, purtroppo per lui, anche il compagno di banco di Ozzy. Stranamente non si era ancora fatto una ragazza, anche se le possibilità non

erano certo mancate, anzi. Era infatti un bel tipo e molte belle compagne gli facevano il filo, ma lui continuava a rispondere che amava già una persona dalla quale non era ricambiato. Cristian e Giorgia avevano provato più volte a chiedergli chi fosse, ma lui non glielo aveva mai svelato, a suo dire per paura di essere preso in giro. Aveva confessato solo che la ragazza frequentava un altro istituto. I suoi amici avevano ripetutamente provato a combinargli qualche appuntamento al buio ma lui, quando incontrava le ragazze, diventava apatico, rovinando tutto. La cosa era oltremodo strana per un diciassettenne in piena fase ormonale. Dopo che le ragazze più ambite dai maschi della scuola lo avevano corteggiato senza risultati, persino i suoi amici erano arrivati a pensare che Leonardo fosse gay. Il loro dubbio non aveva alcuna nota di razzismo o di pregiudizio, anzi. Erano fermamente convinti che l’amore andasse rispettato e incitato in tutte le sue sfumature, ma al contempo credevano che se Leonardo si fosse confidato con loro avrebbero potuto in qualche modo aiutarlo. Ben presto, però, avevano rinunciato. Un po’ perché si erano stancati, ma soprattutto per non far pesare troppo una situazione che per il loro amico doveva essere già pesante e imbarazzante di suo. Nonostante l’assenza di Ozzy, in quegli ultimi giorni di scuola aleggiava ugualmente una strana energia negativa. Che fosse per gli inquietanti disegni a matita con i quali Ozzy Il Sadico aveva tappezzato il suo banco? Quegli schizzi di teste mozzate e coltelli insanguinati non aiutavano di certo a distendere l’atmosfera, ma l’assenza fisica del loro autore avrebbe dovuto perlomeno rassicurare Leonardo, che invece aveva davvero una brutta cera. Cristian e Giorgia se n’erano accorti subito, mentre si trovavano tutti fuori dalla

scuola, osservando quella faccia stranamente preoccupata. «Ti vediamo pensieroso, Leo, c’è qualche problema?» gli domandò Giorgia. All’inizio Leonardo sembrava non volerne parlare. Era come se si fosse chiuso a riccio. «Non è niente ragazzi, tranquilli» rispose lui senza neanche guardarli negli occhi. I suoi amici, però, non erano stupidi e insistettero. Volevano sapere che cosa affliggeva così tanto il loro compagno. «Ehi, si tratta ancora di quella ragazza? È per lei che sei così?» domandò Cristian. Leonardo scosse la testa. Si stava torturando l’unghia del pollice. «No, lei non c’entra nulla, Cristian…» Giorgia gli appoggiò una mano sulla spalla e sospirò forte, cercando i suoi occhi. «Leo, se non ti confidi con noi, con chi puoi farlo? Siamo tuoi amici, giusto? Tu sei sempre stato gentile con noi, sai che, se possiamo fare qualcosa, lo facciamo volentieri. E poi ci siamo sempre detti tutto, da quando eravamo piccoli…» Il ragazzo, dopo le parole della compagna, sembrava ancora indeciso sul da farsi. Qualche secondo dopo, però, alzò la testa, si morse un labbro e dalla tasca dei jeans tirò fuori il cellulare. Prima si guardò un po’ in giro, poi fece un respiro profondo e aprì l’archivio dei messaggi. Fu allora che Cristian e Giorgia rimasero impietriti, dopo averne letti alcuni. Erano infatti delle chiare minacce nei suoi confronti e il loro mittente era nientemeno che Nathan, alias Ozzy Il Sadico! L'ultimo messaggio in ordine cronologico conteneva un laconico: Ti ucciderò. Leonardo, sebbene ora non fosse più l’unico a sostenere il fardello di quelle minacce, non riusciva proprio a levarsi dal volto quella maschera di terrore. E

giustamente, visto che i messaggi erano indirizzati a lui. Cristian e Giorgia, sulle prime, erano rimasti molto sorpresi e increduli, ma subito dopo avevano cercato di tranquillizzarlo, sdrammatizzando la situazione. «Ozzy è strano, sai che gli piace fare questi scherzi. Non è certo la prima volta» asserì Cristian. «Esatto, ti ricordi quella volta che aveva avuto il coraggio di minacciare anche il professor Vitali perché voleva obbligarlo a fare ginnastica e si era beccato una bella sospensione? Lui è così, per questo è sempre solo. «La gente pensa che sia pazzo, ma alla fine è solo un idiota. Ascolta, non devi assolutamente preoccuparti» lo rassicurò Giorgia. Leonardo a quel punto agitò vistosamente il cellulare davanti agli occhi dei suoi amici. «La gente pensa che Ozzy sia pazzo?! La gente ha ragione, porca puttana, Ozzy è pazzo! Completamente pazzo! Io ho visto i suoi occhi, e da quella volta li ho sempre impressi nella memoria. Non sono occhi, quelli, sono due fiamme che nascondono l’inferno nascosto nella sua testa! Sarò ridicolo, ragazzi, ma ho paura!» urlò. «Non sei per nulla ridicolo, però credo che tu stia esagerando. Se vuoi gli parlerò io, così gli farò are la voglia di fare tanto il cretino con questi messaggi di minaccia. Lo chiamo, o gli mando un messaggio, se sei d’accordo» fece Cristian. «Stai scherzando?! Vuoi farmi are per lo zimbello della scuola?! Grazie Cris, ma non penso che tu debba prendere le mie difese. Me la caverò da solo, e poi magari è proprio come dite voi: devo solo fregarmene e rilassarmi. O almeno provarci. La prenderò come una stupida cazzata di un cazzone…» Il ragazzo cercò di calmarsi e disse: «Grazie di tutto ma ora vado a casa.» Dopo aver salutato Cristian e Giorgia, Leonardo si mise gli auricolari e avviò l'iPod. Quindi s’incamminò sulla pista riservata ai pedoni e alle biciclette, sempre con occhio vigile, anche se era pieno giorno e batteva forte il sole. La musica rock a tutto volume lo accompagnò fino in camera sua, dove si distese

sul letto e cercò di allentare la morsa dello stress con alcuni esercizi di respirazione. Poi riconobbe che solo una cosa lo rilassava veramente. Allora prese dal cassetto del comodino un album fotografico che conteneva le sue foto preferite. Il suo umore, già dopo aver sfogliato un paio di pagine, sembrò migliorare. Il respiro ritornò regolare e un sorriso, finalmente, ricomparve sul suo volto. Anche Cristian, dopo aver accompagnato a casa Giorgia, raggiunse camera sua. Per prima cosa sistemò alcuni appunti delle lezioni del giorno precedente, poi lesse un centinaio di pagine di L’ultimo respiro, un romanzo thriller che sua madre gli aveva regalato per il compleanno. Leggendo quel libro, non poterono non argli per la mente i messaggi di Ozzy indirizzati a Leonardo. Povero Nathan, che idiota, pensò. Nel frattempo era calata la sera e con il buio tutto sembrava più ostile e spaventoso. Mentre i suoi genitori erano andati a farsi un giro in bicicletta per godersi la serata fresca, Cristian era rimasto in camera sua. Stavolta si stava dedicando al salvataggio degli Stati Uniti dagli attentati terroristici in Call of Duty, un gioco di guerra per la Xbox. Tra una scarica di mitragliatrice e una granata che sembrava far esplodere anche lo schermo della tv, il suo cellulare lo riportò alla realtà con un suono familiare. Si trattava di un messaggio. Cristian a quel punto si girò e guardò l’orologio sulla parete; erano quasi le nove. Doveva essere Giorgia, pensò mentre metteva in pausa e prendeva il cellulare. Quando lesse il nome del mittente, però, rimase di pietra.

Non si trattava della sua ragazza. Il messaggio era di Ozzy e diceva: Alcatraz. Tu e Giorgia. Povero Leonardo... Venite subito, prima che per lui sia troppo tardi. Da soli, altrimenti lo ucciderò davanti a tutti. Povero Leonardo? Lo ucciderò davanti a tutti? La cosa, così su due piedi, lo fece alterare. Poi, però, cercò di calmarsi e ragionare. Adesso Ozzy si era messo a scrivere anche a lui? Che cosa significava quel messaggio? Che cosa stava ando per la testa a quel ragazzo? E soprattutto, che cosa voleva da loro? Cristian pensò di sentire subito Giorgia per avvisarla, ma prima doveva chiamare Leonardo. Voleva capire se il messaggio di quel pazzo era attendibile. Fece partire la chiamata, ma il telefono risultava spento. Riprovò subito dopo, stesso esito. Cazzo! Cazzo! Cazzo! Una goccia di sudore gli colò dalle tempie . A quel punto cercò il numero di Giorgia sulle ultime chiamate effettuate e la ragazza rispose dopo pochi squilli. «Ciao Cris! Mi hai anticipato, stavo per chiamarti io. Vuoi sapere la novità? Ho appena ricevuto un messaggio da Nathan. Forse Leonardo aveva ragione. Inizio a preoccuparmi, sinceramente…» esordì Giorgia molto agitata. «Ti ho chiamata per la stessa ragione. Quel pazzo ha scritto anche a me. Dice che dobbiamo andare da soli all’Alcatraz. Ma pensa te questo…» «Sì, ha scritto “povero Leonardo”… Ma cosa vuole fare Nathan? E se gli avesse fatto del male? E noi in qualche modo l’abbiamo anche accusato di essere un fifone. Dobbiamo chiamare la polizia, Cris…» «Giorgia, cerca di calmarti adesso, non facciamo drammi. Non è successo niente.

Chiamare la polizia? Così, quando scopriranno che si trattava solo di uno stupido scherzo, lui si prenderà una bella lavata di capo e noi saremo messi in mezzo. E io non voglio rogne con gli sbirri. Mi è già andata bene quella volta dei petardi. Non è il caso di rischiare per colpa di un cretino. Noi non chiameremo nessuno, Giorgia.» «Sì, ma se Leonardo fosse veramente in pericolo?» «Nessuno è in pericolo, a parte Nathan stesso, perché questa è la volta buona che gli metto le mani addosso. Maledetti lui e i suoi scherzi idioti. Ora prendo la bici: preparati che fra poco o da te. Voglio proprio vedere che diavoleria si è inventato!» Cristian pensava che fosse giunto il momento di dare una lezione a Nathan. Alla sua età, fare scherzi del genere era proprio sinonimo di infantilismo. E pensare che l’anno successivo avrebbero dovuto affrontare gli esami di maturità! Bella maturità, si disse. Oltretutto, scherzare con la morte non era proprio accettabile. Cristian stava percorrendo un viale alberato per raggiungere Giorgia. Si era alzato sui pedali, sporto in avanti per andare più veloce, quando all’improvviso alcuni pensieri gli trafissero la mente come lance avvelenate. Forse il loro compagno sadico, a furia di guardare tutti quei film dell’orrore, aveva perso la ragione. D’altronde tutta la sua famiglia era un po’ strana. Forse faceva sul serio. Forse voleva iniziare a fare del male alle persone e loro erano le sue prime vittime... Subito cercò di ricacciare indietro quei lugubri pensieri, ma era difficile. All’improvviso fu colto da una sgradevole sensazione che iniziò a scorrergli nel sangue lungo tutto il corpo. Adesso doveva essere sincero con se stesso: un po’ di timore c’era.

Attraversò come un fulmine tre isolati. Ne mancava solo uno per arrivare da lei e aveva il fiatone. Non vedo l’ora di prendere la patente, pensò. Arrivato a casa di Giorgia, la trovò già fuori in sella alla bici. Mentre lo aspettava, si era divorata le unghie dall’ansia ripensando a quel messaggio, perché sentiva che qualcosa non andava. La ragazza prese subito un oggetto dal cestino della bicicletta e glielo mostrò. «Ho portato una torcia, magari ci potrà servire.» «Brava, non ci avevo pensato.» «Strano…» disse lei con un filo di voce. «Come, scusa?» «Ehm… dicevo di andare.» «Ah, per un momento avevo pensato che mi stessi prendendo per il culo…» Lei fece un ghigno, diede una pedalata e scattò in avanti. Mentre si lanciava al suo inseguimento, Cristian riconobbe la smorfia di Giorgia e capì che lei lo aveva preso davvero per il culo. I due trovarono così il modo di sorridere e per un momento si rasserenarono entrambi. Ma quando, dopo pochi secondi che pedalavano, si ricordarono dove erano diretti e perché, il buio si fece di nuovo largo nella loro testa. A renderli ansiosi era il non sapere cosa avrebbero trovato una volta arrivati. Pedalarono veloci senza spiccicare una sola parola. Cristian preferì non dire niente riguardo ai pensieri che lo avevano scosso: non era il caso di gettare ulteriore benzina su un fuoco già ardente. Giorgia, anche se tentava di nasconderlo, era piuttosto intimorita.

Presero delle scorciatoie, ando attraverso numerosi vicoli bui semi sconosciuti, campi di mais e vigneti da cui provenivano rumori a dir poco spaventosi, ritrovandosi davanti, in lontananza, il posto dove Ozzy aveva detto di trovarsi: Alcatraz. Alcatraz era il nome con cui avevano ribattezzato la vecchia casa disabitata che sbucava dietro la scuola e il cui aspetto ricordava un vecchio carcere. Come la famigerata prigione di massima sicurezza situata su un’isola della baia di San Francisco, in California, anche quell’edificio era stato curiosamente costruito su una collinetta quasi completamente circondata dall’acqua, che in questo caso apparteneva al fiume della città. L’unico modo per raggiungere la casa era percorrere un vecchio ponte di legno di una cinquantina di metri. Peccato che quel ponte, solo a guardarlo, mettesse i brividi per quanto sembrava instabile. E, cosa non da sottovalutare, ad Alcatraz Cristian e Giorgia non c’erano mai stati prima. Appoggiarono le bici a terra. Cristian accese la torcia, fece qualche o e si posizionò all’inizio del ponte, studiandolo. Era largo circa due metri e non aveva nessun tipo di riparo laterale, né un corrimano a cui attaccarsi. Più o meno ogni cinque metri, delle lunghe e spesse travi piantate sul fondo del fiume fungevano da sostegno. Il ragazzo indirizzò il fascio di luce sui primi metri e poi alzò lentamente la torcia per illuminare la parte più avanti. Anche dall’alto arrivava un piccolo aiuto a riguardo: la luna piena era infatti molto luminosa e migliorava la visibilità. Le condizioni del ponte, però, non inducevano all’ottimismo. Le tavole erano in pessime condizioni, molto rovinate, probabilmente a causa degli agenti atmosferici che le avevano deteriorate nel corso degli anni. In alcuni punti mancavano proprio, lasciando aperti dei buchi con vista sul fiume. Dovevano stare molto attenti a non infilarci i piedi e al contempo sperare che le tavole presenti non si sgretolassero facendoli precipitare di sotto.

Giorgia lo distolse dai suoi pensieri afferrandogli il braccio. «Ho paura Cris! E se cadiamo giù? Non siamo obbligati a proseguire.» Cristian le portò i capelli dietro alle orecchie, prendendole il viso fra le mani. Le diede un lungo bacio che sapeva di rassicurazione. Poi si staccò e iniziò a camminare sul bordo laterale destro del ponte. «Le tavole al centro potrebbero spezzarsi col nostro peso. Dobbiamo attraversarlo sui lati, sarà meno pericoloso» disse con sicurezza, mentre con la mano le faceva cenno di seguirlo. Lei sembrava titubante. Si guardò indietro, indecisa se proseguire per quella folle strada intrapresa o se tornarsene a casa. E magari fermarsi al comando di polizia. «Dai Giorgia, tesoro, non è pericoloso se camminiamo sui bordi» la incalzò Cristian. Giorgia non si riteneva una persona paurosa, anzi; amava l’adrenalina, ma la vista di quel ponte traballante, con il fiume sotto che scorreva veloce, l’aveva destabilizzata. Anche se non convinta del tutto, gli afferrò la mano e fece i primi i su quella sorta di sentiero minato. «Brava!» le disse lui con un sorriso. Iniziarono a camminare lentamente. Entrambi guardavano per terra, cercando di concentrarsi solamente sul pavimento. Era però difficile dimenticare la presenza, qualche metro più sotto, di un fiume che con la sua corrente avrebbe potuto trascinarli via, annegandoli. Cercarono quindi di mettere i piedi sui punti più sicuri. Sempre tenendosi per mano - Cristian davanti che cercava di fare luce e lei dietro - arrivarono a metà percorso.

Il loro cuore batteva forte e sembrava che a ogni battito salisse fino in gola. I polmoni, come bloccati, respiravano a metà. Nelle loro teste, adesso, c’era solo la voglia di raggiungere la terra ferma. Avanzarono così verso la fine del ponte. Mancavano solo una decina di metri quando la situazione, improvvisamente, precipitò. Giorgia, dopo aver appoggiato il piede su una tavola marcia, si sentì risucchiare dal basso. Il suo urlo fu soffocato dallo spavento e la sua mano perse quella di Cristian. La gamba sinistra sprofondò completamente nel vuoto mentre il ginocchio destro riuscì a fermare la caduta libera bloccandosi sulla tavola davanti a lei. Ma la ragazza perse l’equilibrio e cadde lateralmente verso il centro del ponte, ritrovandosi col corpo penzolante per aria. Si vedevano solo la testa e le braccia, con le quali si teneva aggrappata alle tavole intorno a lei. Sul suo volto c’era il panico. «Cazzo, no!» esclamò Cristian, che d’istinto si distese subito per non rischiare di rompere altre tavole. «Cristian, sto per cadere… Mi fa male il braccio» urlò Giorgia. «Resisti!» gridò il ragazzo mentre strisciava veloce verso di lei. Non appena la raggiunse, allungò le mani urlando: «Ci sono, aggrappati a me che ti tiro su!» La ragazza non se lo fece ripetere due volte e con forza fece presa sulle sue braccia. Cristian riuscì così a tirarla su, adagiandola sul bordo del ponte dopo attimi interminabili di incredibile tensione. Adesso erano di nuovo vicini, distesi supini, con il fiato corto e il cuore che

pompava a mille. Lui girò la testa verso di lei. «Ci è mancato poco! Perdonami, è colpa mia, non dovevo farti venire. Sono uno stupido!» disse dandosi dei colpi ripetuti sulla testa con il palmo della mano. La ragazza serrò la mascella e si rimise in piedi. Si tastò un po’ le braccia e constatò che, a parte qualche escoriazione, era ancora integra. Qualcosa le era scattato dentro. Era arrabbiata, certo, per non dire furiosa. Una logica reazione alla forte scarica di adrenalina provocata dal rischio appena scongiurato. Ma non ce l’aveva col suo ragazzo, per niente. «No Cris, la colpa di tutta questa faccenda è solo di una persona: Ozzy!» disse con i nervi a fior di pelle. Cristian, ancora a terra, rimase esterrefatto quando la vide camminare velocemente sul bordo del ponte, come fosse sicura che ormai nulla più potesse accaderle. In pochi secondi aveva percorso gli ultimi metri e si era guadagnata la terra ferma. «Dai, cosa aspetti!» lo incitò poi. Anche questo mi è toccato vedere, disse fra sé e sé Cristian. Adesso era lui quello agitato. Il ragazzo si alzò, recuperò la torcia che per fortuna non era caduta nel fiume, fece un respiro profondo e completò indenne gli ultimi metri del ponte, quasi correndo. Le assi sotto i suoi piedi scricchiolavano e traballavano, ma non corse altri

pericoli. Toccare il suolo stabile gli sembrò una conquista incredibile, come per Neil Armstrong mettere il primo piede sulla luna. Alcatraz, la vecchia casa disabitata, si stagliava davanti ai loro occhi, decadente e lugubre. Era un’abitazione costruita su due piani e si innalzava maestosa a pochi i da loro. Adesso era giunto il momento della resa dei conti. A breve Ozzy avrebbe avuto la lezione che meritava. I due ragazzi s’incamminarono senza esitazioni verso l’entrata. «Oh, cazzo!» esclamò subito Cristian. «Che c’è?» «Guarda qui…» Il ragazzo illuminò per terra. Una scarpa da ginnastica bianca giaceva, solitaria e rovesciata, davanti l’ingresso. «È Leonardo che usa questo modello di Nike. Le indossava proprio oggi a scuola. Questa è la destra.» «Magari non è sua ed è qui da tempo» fece Giorgia. «È troppo nuova per essere qui da tempo. Esposta com’è alla pioggia, al sole e a tutto il resto, dovrebbe essere molto più rovinata.» «Porca puttana!» I ragazzi decisero di proseguire lasciando le loro perplessità all’esterno. Cristian, dopo aver varcato la soglia principale priva di porte, iniziò a proiettare il cerchio di luce qua e là.

C’erano ancora i mobili, completamente impolverati e semi distrutti. In un angolo c’era pure quello che rimaneva di un grande tappeto arrotolato, e sopra di esso una serie di luci gialle e rotonde. Ben presto si accorsero che quelli erano in realtà i riflessi degli occhi di una dozzina di topi che sembravano fare la guardia alle scale per il secondo piano. La casa doveva essere infestata anche dai ragni, a giudicare dalle numerose ragnatele che penzolavano da ogni angolo. Cristian si tappò il naso con il pollice e l’indice, e disse: «C’è una puzza tremenda di marcio e di umidità qui dentro.» Un piccolo roditore, proprio in quel momento, sfrecciò in mezzo alle loro gambe. «Che schifo!» disse Giorgia disgustata. I due ragazzi perlustrarono il pianterreno trovando però solo muffa, polvere e mobili decadenti. Per riuscire a are, Cristian chiuse l’anta di una cristalliera che prima emise un cigolio e poi cadde a terra, infrangendosi. «Fai attenzione… Chissà chi ci abitava una volta qui dentro…» gli disse Giorgia mentre allungava il o per evitare i vetri. «Spero solo che fosse un po’ più in ordine di così quando ci abitavano…» Poi cacciarono i topi dal tappeto e salirono per le scale. Arrivati al secondo piano, Cristian fece una panoramica con la torcia. A quel punto notarono una cosa strana: tutti i muri erano stati abbattuti. C’era solo una grossa colonna portante nel mezzo di quella che adesso sembrava essere un’unica grande stanza. Le macerie, in compenso, erano dappertutto. Sembrava che un tornado fosse entrato dalla finestra e avesse distrutto le pareti delle stanze. Di Ozzy e Leonardo, però, nemmeno l’ombra.

C’era solo un silenzio spaventoso che amplificava anche il più impercettibile dei rumori, rendendolo terrificante. All’improvviso Cristian iniziò a urlare il nome di Nathan. Anche Giorgia urlò, ma per lo spavento. «Ma sei impazzito?! Vuoi farmi venire un colpo?! Avvisare no?!» «Scusa tesoro, voglio vedere se quel cretino risponde! Ma qui mi sembra che non ci sia nessuno.» Allora si misero tutti e due a urlare. «Nathan… dove sei? Siamo arrivati, brutta testa di cazzo!» «Leonardo, è tutto ok? Sei qui?» Nessuna risposta. Riprovarono a chiamare, alzando ancora la voce. Ma il silenzio regnava sovrano. arono un paio di minuti nel corso dei quali Giorgia trovò un vecchio secchio di pittura. Siccome era vuoto, lo capovolse e ci si sedette sopra. «Non può non averci sentito. Te lo dico io cos’è tutta questa storia… È solo uno scherzo di pessimo gusto. Lo sapevo io. E a momenti ci rimettevo pure la pelle…» disse la ragazza. «Oppure voleva proprio farci attraversare il ponte, sapendo che era precario, per farci finire nel fiume» insinuò Cristian. «Oh Dio! Ma perché? E poi, dov’è Leonardo? Non ci capisco più niente...» Rimasero per qualche secondo senza parlare, assorti nei loro pensieri. Poi Giorgia ruppe il silenzio. «Cristian, penso che adesso sia il caso di ritorn…» «Shhh… lo senti?» la interruppe lui.

«Cosa dovrei sentire? Io sento solo lo squittire dei topi. Torniamo indietro dai…» «No, no, ascolta bene.» Giorgia tese le orecchie ma non sentiva niente oltre al verso di quei roditori. Poi, quando il suo udito si fu abituato a quel suono, riuscì a captare qualcos’altro. «È vero, un suono soffocato. Sembra quasi un lamento» fece lei. Cristian si mosse di qualche o e poi si fermò. Piegò la testa nel tentativo di indirizzare l’orecchio verso quel rumore confuso. «Senti, senti, è sempre più chiaro adesso.» «Sì, ma cos’è? E da dove viene? Qui ci sono solo calcinacci.» Cristian ricominciò a puntare il fascio di luce in lungo e in largo e seguì l’eco di quel lamentio, sempre più acuto, con Giorgia a ruota. Arrivati in fondo al secondo piano, si fermarono nei pressi di una scala di ferro arrugginita coricata sul pavimento, e si guardarono negli occhi. Il suono arrivava proprio da sopra le loro teste, non potevano sbagliarsi: si trattava di qualcuno che urlava, ma l’urlo era soffocato perché probabilmente quel qualcuno era stato imbavagliato. Quando alzarono lo sguardo, videro un buco quadrato più o meno a tre metri d’altezza. Mentre il lamentio continuava, Cristian vi puntò la torcia: sembrava l’accesso a un ulteriore piano, probabilmente una soffitta, ma dal basso si riuscivano a scorgere solamente alcune pareti oltre quel buco. All’improvviso si sentì un tonfo potente provenire dall’alto. «Leonardo!» urlò Giorgia. Come risposta ci fu un lamento ancora più agitato. «Dev’essere lui! Presto, dobbiamo salire» disse lei indicando la scala per terra.

Cristian in un lampo l’aveva impugnata e appoggiata ai bordi del buco. Salì i primi pioli, poi si girò verso Giorgia e le fece cenno con la testa di seguirlo. I suoi piedi scalarono un piolo alla volta, finché non arrivò su. Subito dopo anche Giorgia sbucò nella soffitta e Cristian la aiutò rimettersi in piedi. Con la torcia ben stretta in mano, iniziò a perlustrare quel luogo. Era un sottotetto mansardato, con le travi in legno a vista. Il lato destro della stanza era aperto e la luce della luna filtrava senza ostacoli, illuminando quasi a giorno il pavimento in cemento grezzo. Quel lato era delimitato da un muro alto circa un metro superato il quale si apriva uno strapiombo che finiva direttamente nel fiume. Grazie al chiarore incredibile della luna, la torcia ora non serviva più. Quello che videro, però, raggelò il sangue dei due ragazzi. Adagiata contro il muro in fondo alla stanza c’era infatti una sagoma che si agitava e mugugnava. Con occhi vigili, fecero allora qualche o in avanti, facendo attenzione a dove mettevano i piedi. C’erano macerie e pezzi di legno dappertutto, come se quella parte di casa non fosse mai stata terminata. «Leonardo, sei tu? Nathan esci fuori, che cazzo stai facendo?!» strillò Cristian. Poi il ragazzo si accucciò e raccolse un grosso pezzo di legno: per difendersi, poteva andare più che bene. Continuò ad avanzare verso il punto da cui proveniva quel lamento, con il cuore che gli impazzava nel petto. Giorgia, invece, si fermò qualche metro più indietro e si guardò le spalle. Poi prese il cellulare in mano, ma non c’era campo. Cristian rallentò l’andatura verso la sagoma. Alzò il bastone, pronto per un eventuale attacco.

Ancora qualche o. Poi, la scoperta. Riuscì a vedere i suoi occhi spalancati che supplicavano aiuto. Scorse il nastro isolante grigio che gli tappava la bocca. Notò le braccia dietro la schiena e una corda stretta attorno alle caviglie. Riconobbe la Nike, indossata su un solo piede, quello sinistro. Leonardo era disteso a terra, su un fianco, immobilizzato e imbavagliato. Alla vista di Cristian e Giorgia, ricominciò ad agitarsi. «Leonardo, ma che diavolo…?» esclamò Cristian, appoggiando premurosamente il bastone a terra e accucciandosi. Con delicatezza gli tirò via il nastro dalla bocca. Adesso che con lui c’erano Cristian e Giorgia, Leonardo sembrava essersi calmato. «Per fortuna siete arrivati!» disse subito, affannato e con gli occhi terrorizzati. Poi Cristian slegò la corda che gli bloccava le caviglie. «Tranquillo, è tutto ok! Come stai? Sei ferito?» domandò preoccupato. «No, no, mi ha solo legato…» Leonardo, con l’aiuto di Cristian, si mise seduto e si appoggiò al muretto. «Chi ti ha solo legato? Nathan?» Intanto Giorgia, ammutolita dalla situazione, si era avvicinata ai due. Leonardo sembrava aver ricominciato a respirare dopo aver visto la ragazza. «Sì, è completamente impazzito. Mentre mi stava legando, delirava. Vi ucciderò tutti, urlava. È pericoloso!» «E adesso dov’è quel cretino? Gli faccio vedere io chi è pericoloso. Voglio gonfiargli il muso!» Cristian cercò di fare il duro, ma la preoccupazione era tanta. Poi si scostò per liberargli le mani dietro la schiena, ma quello che vide lo lasciò disorientato.

Non c’era infatti nessuna corda da slegare. Le mani erano libere e indossavano dei guanti aderenti da lavoro! «Attento, è dietro di te!» urlò all’improvviso Leonardo. In preda alla confusione più totale e allarmato, Cristian si girò d’istinto, con uno scatto, ma vide solo Giorgia che a sua volta sembrava volerlo avvisare di qualcosa. Poi sentì un colpo violento alla nuca. A causa del tremendo dolore, gli vennero le vertigini. Rapido e sgusciante come un serpente, un forte fischio distorto si insinuò nelle sue orecchie. L’immagine di Giorgia che si agitava divenne tutta sfocata e lui cominciò a barcollare, vistosamente. Si appoggiò quindi sulle ginocchia che gli tremavano, mentre nella sua mente calava il buio pesto. Poi cadde in avanti, sbattendo la faccia a terra, privo di sensi. «Che cos’hai fatto?! Ma che ti prende?!» urlò sconvolta Giorgia. Leonardo si alzò e con un balzo scavalcò Cristian esanime. Sul suo volto, un sorriso maligno. Fece due i in avanti, battendo sul palmo della mano il bastone col quale aveva tramortito l’amico. Giorgia, d’istinto, fece un o indietro in preda al panico. Non capiva cosa stesse succedendo. «Che mi prende? Oh niente, Giorgia. A me proprio niente! Semmai cos’è preso a Nathan…» Con fare minaccioso, Leonardo continuava ad avanzare verso la ragazza. «Dov’è Nathan?» domandò lei, indietreggiando ancora. «Nathan… Vuoi dire Ozzy Il Sadico? Ozzy è morto! L’ho ucciso io, per

legittima difesa.» Giorgia era molto confusa. «Ma che cazzo stai dicendo?» «Sì, dopo aver ucciso Cristian e te, e dopo aver cercato di uccidere anche me, ha avuto uno scontro con il sottoscritto. Sono stato obbligato a difendermi. E lui è morto. Un coltello gli ha trafitto il cuore.» Giorgia provò a buttare l’occhio su Cristian. Il suo ragazzo giaceva a terra e non dava segni di vita. Sperò con tutto il cuore che fosse ancora vivo, perché la bastonata sulla nuca era stata veramente violenta. Poi ritornò a guardare Leonardo, sempre più vicino. Indietreggiò di qualche altro o, ma alcune pietre dietro di lei le fecero perdere l’equilibrio e si ritrovò a terra. Come un falco, Leonardo si scagliò su di lei, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un paio di manette. La trascinò sul pavimento per pochi metri e le assicurò un polso a un tubo che sporgeva dal muro. Con un gesto rapido, si infilò subito le chiavi in tasca. «Ebay! Solo undici euro, compresa la consegna a domicilio. Era inclusa anche la custodia. Un affarone, vero?» disse lui soddisfatto. Poi continuò: «Avrei voluto usarle in maniera diversa, ma ora non mi lasci altra scelta!» Mentre si agitava furibonda, cercando di liberarsi dalle manette, Giorgia rimase sbigottita dalla frase di Leonardo e alzò la testa. «Eh?! A cosa ti riferisci?»

«Non sai quante volte ho fantasticato su di te e sulle manette! Sei una porca, vero?! Ti piacciono queste cose! Non è così?!» grugnì Leonardo. «Che cazzo stai dicendo?» «Ma allora proprio non capisci!» Scuotendo la testa, Leonardo si avvicinò a un vecchio armadio adiacente al muro, a qualche metro da lei. Fece volare il bastone con rabbia, spalancò le ante e, non appena le aprì, un corpo cadde in avanti sbattendo sul pavimento. Il manico di un grosso coltello da caccia sbucava all’altezza del suo cuore, lasciando intravedere solo pochi centimetri di lama. Proprio in quel punto, una grossa macchia rossa si allargava sulla maglietta. Gli occhi di quel corpo inerte erano vitrei e la fissavano spalancati, senza più alcun segno di vita. Giorgia lo riconobbe subito: era Nathan! Di fronte a una visione tanto macabra, non poté più trattenersi e urlò. Tutte le sue ipotesi si erano rivelate completamente sbagliate e un profondo senso di colpa le attanagliò il cuore. Poi Leonardo si accucciò, estrasse il coltello dal petto di Nathan e gli fece impugnare il manico, così che rimanessero le sue impronte. Quindi si rialzò e ripulì la lama insanguinata col guanto. «Guarda che cosa mi hai fatto fare, Giorgia…» disse lui, usando il coltello per indicare prima Nathan e poi Cristian. Giorgia era terrorizzata. Le lacrime le scendevano copiose e il cuore le stava esplodendo. «Tu sei completamente pazzo! Guarda che cos’hai fatto tu, ma ti rendi conto?! L’hai ucciso! Hai ammazzato una persona!» «Te l’ho già detto, è stata legittima difesa! E adesso toccherà a te!»

Giorgia non sapeva che cosa fare per fermare il delirio di quel ragazzo. Con la mano libera tirò fuori velocemente dalla tasca lo smartphone e iniziò a muovere il pollice sullo schermo, ma Leonardo sembrava non preoccuparsene. «È inutile che cerchi di chiamare aiuto, bellezza. Qui non c’è campo, quel cellulare non ti servirà a niente se non a fare per l’ultima volta una partita a Candy Crush» rise Leonardo. «Tra poco ti servirà una vita e non potrai nemmeno chiederla ad altri giocatori, che beffa eh?» «Non mi interessa se non c’è campo, non voglio chiamare nessuno. Voglio solo leggerti i messaggi che mi hai scritto fino a pochi giorni fa e che ho sempre nascosto a Cristian, anche per il legame di amicizia che c’era tra noi. O che almeno credevo ci fosse…» Leonardo si bloccò di colpo, proprio mentre si stava avvicinando. E Giorgia iniziò a leggere: « Giorgia, spero che la nostra amicizia duri in eterno.» Poi continuò: « Grazie per oggi! Sei una persona splendida! Meriti il meglio, amica mia!» E infine: « L’amicizia tra uomo e donna esiste e noi siamo i massimi esponenti di un simile fantastico legame.» «Quest’ultimo non me lo ricordavo… Bello però. Non mi ricordavo capace di parole tanto poetiche. Un po’ patetico, ma bello!» disse lui. La ragazza a quel punto ripose il cellulare sul pavimento, ricominciò ad agitare il polso ammanettato e strillò: «Mi scrivi tutte quelle cose sull’amicizia e poi hai il coraggio di fare questo a me e Cristian?! Cosa ti è successo? I tuoi modi sempre gentili che fine hanno fatto? Perché, Leonardo?! Perché?! Lo sai che ti stai cacciando in guai molto grossi, vero?!» Leonardo sembrava non fare caso alle parole di Giorgia. Quindi la sua voce si addolcì. «Non hai ancora capito un cazzo? Non hai ancora capito chi è quella ragazza? L’unica ragazza che io potrei mai amare?» Ci furono degli attimi di silenzio e Giorgia rimase interdetta per qualche

secondo. Infine portò la mano alla bocca ed esclamò: «Oh, mio dio…» La faccia e il tono di voce di Leonardo erano dispiaciuti. Quasi teneri. «Perché non sei riuscita a capire quale sentimento si nascondeva dietro ai miei messaggi, Giorgia?» La ragazza non sapeva che parole usare. «Io… Io… Ti conosco da una vita, siamo cresciuti insieme, Leonardo. Sai tutto di me. Non avrei mai…» «Appunto, Giorgia, so tutto di te. Nessuno ti conosce meglio di me, forse nemmeno i tuoi genitori…» «Ma siamo cresciuti insieme, per me eri come un fratello. Non ti ho mai illuso, come potevi immaginare che…» Leonardo si avvicinò, con gli occhi infuocati e il coltello puntato verso di lei. «Stai zitta! Adesso parlo io!» Il tono era di nuovo brusco. Giorgia si addossò al muro e si strinse le ginocchia al petto. Lo fissava terrorizzata. Non riconosceva più il suo vecchio amico, che ormai le era quasi attaccato con le vene del collo sempre più ingrossate. Percepiva il suo fiato addosso, mentre urlava e sputava. «Pensi che per me sia stato facile sentire tutte quelle tue confidenze sulle prime cotte e smancerie simili?! Mi vedevi sorridere e magari mi sentivi darti il miglior consiglio possibile. Dentro, però, il fuoco mi divorava. Prima lentamente, poi sempre più forte.»

«Ma… Io…» tentò di giustificarsi Giorgia, senza trovare le parole. «Zitta, ho detto! Ti ho ascoltato fin troppo durante tutto questo tempo! Io so ogni cosa di te, chi può farti felice più di me?! Eh?! Chi?! Invece con chi ti metti?! Con il belloccio della scuola! Il nostro bel Cristian...» Leonardo fece una pausa. Giorgia rimase in silenzio. Poi il ragazzo, con lo sguardo ammiccante, continuò: «Ti scopa bene, eh? Sì… Sembra saperci fare… Ma devo ammettere che il tuo fare l’amore è pura poesia.» Leonardo chiuse gli occhi e simulò il gesto di un’onda con le braccia. Sul suo volto campeggiava un sorriso beato. «I tuoi movimenti aggraziati mi fanno impazzire. Le tue espressioni quando raggiungi l’orgasmo sono delle opere d’arte…» disse. Giorgia lo guardava smarrita. Il ragazzo si allontanò e prese uno zaino riposto nell’armadio, avvicinandosi a lei. «Ho capito da chi hai preso. Tu sei il classico esempio di “tale madre, tale figlia”» le disse mentre estraeva un album dallo zaino e glielo porgeva tutto compiaciuto. «Cos’è questo?» domandò lei, cercando risposte nel suo volto privo di emozioni. Lui non rispose, lasciando che lo scoprisse con i suoi occhi. Giorgia, curiosa, iniziò a sfogliarlo con la mano libera, senza ancora capire cosa avesse in mente il suo aguzzino. Alla vista delle prime foto, però, il battito del suo cuore subì una forte e improvvisa accelerata. Una sensazione di disgusto le pervase l’anima.

La vista delle prove della violazione della sua intimità fu un orrendo fulmine a ciel sereno. L’album era una raccolta di scatti - effettuati probabilmente con una reflex, a giudicare dall’alta qualità della risoluzione - che la ritraevano nelle più svariate posizioni durante gli amplessi con Cristian. Le date erano diverse, mentre ad essere costante era il luogo: il letto dei suoi genitori. Tutte perfettamente disposte in ordine cronologico, le foto erano nitide perché scattate con le finestre della camera spalancate. Lo si poteva vedere dalle prime immagini che immortalavano la stanza del secondo piano da lontano. Poi gli scatti si facevano via via più vicini, sempre più espliciti e intimi. C’erano foto di lui che la svestiva, altre che la ritraevano in primo piano con espressioni di beatitudine stampate sul volto; foto di lei che si raccoglieva i capelli prima di chinarsi su di lui, foto di lei e Cristian abbracciati, dopo aver consumato; foto di loro due che si rivestivano, o mentre lottavano con i cuscini, tutti nudi e sorridenti. Era un servizio fotografico su tutto quello che lei aveva fatto con Cristian sul letto dei genitori, approfittando della loro assenza. Riguardando quelle immagini, un’infinità di emozioni la colpirono. Emozioni contrastanti, in forte conflitto tra loro. Alcune, belle e intense, le ricordavano i momenti sensuali e spensierati trascorsi con Cristian su quel letto. Altre, terribili, le dicevano senza mezzi termini che tutta quella miscela di ione, follia, amore e fantasia non era solo un ricordo blindato e intimo, ma faceva parte anche del mondo malato di un perverso assassino. In più, il contrasto fra quel Cristian sorridente e il ragazzo che ora giaceva riverso a terra senza dare segni di vita la fece trasalire ulteriormente. Un nodo le strinse la gola. «Mi fai schifo!» sbraitò Giorgia. «La visione di te mentre fai certe cose mi ricorda molto da vicino quella di tua

madre. Siete molto simili nei movimenti!» disse serio Leonardo. «Mi fai schifo!» ripeté Giorgia. «Perché? Non ho fatto forse un ottimo lavoro? Nemmeno un professionista avrebbe realizzato un book fotografico del genere… E poi è gratis.» Giorgia, in preda alla collera, iniziò a strappare le pagine dell’album e ad accartocciarle. «Maledetto pazzo! Maledetto pazzo!» Poi prese quello che rimaneva dell’album e lo scaraventò verso Leonardo. «Peccato che tu l’abbia distrutta, questa era la tua copia. La mia è a casa, ben custodita nella cassaforte di camera mia.» «Hai avuto il coraggio di fotografare anche i miei genitori, brutto pezzo di merda?!» Leonardo raccolse l’album ai suoi piedi e le pagine accartocciate vicino a Giorgia. Infilò tutto dentro allo zaino. Poi dallo scompartimento più grande tirò fuori una grossa fune. «Ehi, ehi, non ti sembra di esagerare con le parole? Stai tranquilla, con i tuoi genitori ho fatto solo le prove. Le loro foto le ho cancellate tutte. Le vostre invece sono tutte custodite in una bella scheda SD da quattro giga. Ne ho fatte tante, sai? Ho scelto le più belle e realizzato i due album. Sapevo che avresti reagito così, ecco perché ne ho fatti due.» Leonardo prese in mano la fune e con il coltello la tagliò in tre parti uguali, più o meno di quattro metri di lunghezza ciascuna. Poi le gettò a terra. «Come pensi che reagirebbe una persona normale, sapendo che il tuo vicino di casa ti spia e ti fotografa mentre fai l’amore col tuo ragazzo? Eh?!» «In realtà la cosa non era premeditata, non volevo spiare nessuno io! Per chi mi hai preso?!»

«Come fai a dire che la cosa non era premeditata?! Hai fatto un intero servizio fotografico, c’erano anche le date riportate sulle foto! E poi nessuno può spiare dentro alla camera dei miei genitori, non ci sono finestre di casa tua che danno verso quella stanza.» «È vero, non ci sono finestre, ma c’è un punto ancora migliore e riparato da cui si ha la piena visuale di quella stanza. È stato un vero colpo di fortuna scoprire quel posto. Vuoi che ti racconti com’è andata?» La ragazza non rispose. Il disgusto aveva superato la paura. «Guarda, Giorgia, credimi: questa storia merita… Un giorno sentii un miagolio sofferente che veniva dall’esterno della mia camera. Il mio gatto Tobia, probabilmente per catturare una lucertola o un uccellino, era rimasto con la zampa incastrata nello spazio molto stretto tra la grondaia e il muro. Per liberarlo scavalcai il muretto della mia terrazza e percorsi il tratto di cemento che fungeva da canale per lo scorrimento dell’acqua piovana. Certo, era pericoloso, ma con un po’ di attenzione ed equilibrio raggiungerlo fu un gioco da ragazzi. Arrivato alla grondaia, mi accucciai, tenendomi aggrappato a essa. Con calma, cercando di non fargli male, riuscii quindi a liberare Tobia, che si leccò la zampa e dopo pochi secondi, come se niente fosse, sgattaiolò via andomi tra le gambe. Allora tirai un sospiro di sollievo e iniziai a guardarmi intorno, godendomi il panorama. Ma l’occhio cadde proprio sulla camera da letto dei tuoi genitori. Le finestre erano aperte. Si vedeva dentro perfettamente. C’era tuo padre che si stava aggiustando la cravatta davanti allo specchio. Poi si appoggiò alla finestra e si mise a guardare il vostro giardino dall’alto. Girò la testa anche verso di me e mi guardava. O almeno ne ero convinto. Gli sorrisi e iniziai ad agitare la mano per salutarlo, ma non mi vide. Ostinato, cercai di fare un movimento ancora più ampio, ma lui sembrava proprio non accorgersi della mia presenza. Dopo qualche secondo, distolse lo sguardo da me, chiuse le finestre e lo vidi sparire dalla camera. Un altro giorno mi capitò la stessa cosa anche con tua madre. Si affacciò per prendere una boccata d’aria e guardò fuori; il suo sguardo ò sicuramente verso di me. Io nel frattempo mi ero fabbricato una speciale imbragatura per rimanere allacciato alla grondaia, riuscendo così ad avere tutte e due le mani libere. Di conseguenza, feci un cenno di saluto con entrambe le braccia, ma niente. Non poteva vedermi nessuno da quell’angolazione. Probabilmente, il cervello non riusciva a concepire la presenza di qualcuno a quell’altezza in quella parte precisa della casa. Così, anche se una persona si trovava là, nessuno era in grado di vederla.»

«Oh, mio dio!» esclamò Giorgia, incredula. «Poi mi capitò di vedere i tuoi genitori mentre facevano l’amore con le finestre aperte, dal momento che non avete il climatizzatore e un po’ di ricircolo è essenziale con il caldo. Da quel giorno iniziai a fare qualche foto e mi venne un’idea. Sapevo che quando i tuoi genitori erano fuori, dopo cinque minuti Cristian veniva da te. Non sai per quante settimane e quante volte mi sono appeso alla grondaia invano, sperando di vedervi arrivare in quella camera. Stavo per mollare, ma ho perseverato perché tutti i figli hanno la perversione di scopare sul letto dei propri genitori. A parte la comodità di un letto più spazioso, facendolo lì ti sembra di far parte del mondo dei grandi, di trasgredire. E questo rende le cose molto più piccanti, vero Giorgia?» «Perversione?! L’unico perverso qui sei tu, Leonardo!» disse sconvolta dopo quello che aveva sentito. «Ho perseverato e la mia teoria si è rivelata azzeccata. Finalmente, ecco i due fidanzatini che si divertono a profanare il luogo dell’amore dei genitori. Una volta, due, tre. Il massimo è stato quando vi ho visti entrare e tu sei sparita per pochi secondi dopo esserti spogliata, riapparendo con due paia di manette. Lì ho avuto il picco di eccitazione, Giorgia, ma anche il picco di frustrazione!» «Maledetto schifoso!» «Sì, Giorgia, frustrazione, perché vederti fare certe cose con lui mi provocava una rabbia che tu non immagini nemmeno. Poi, quando a scuola vi vedevo litigare e tu ti chiudevi in te stessa, la rabbia saliva ancora di più. Io ti ascoltavo, ti consigliavo, e tu mi abbracciavi. Ma alla fine tornavi sempre da lui, anche se ti faceva soffrire.» «Litigare tra fidanzati è normale, Leonardo! Soprattutto alla nostra età, dato che vogliamo avere sempre ragione e pensiamo di essere sempre nel giusto. C’è gelosia e incoscienza. Che discorsi stai facendo?! E poi io mi confidavo con te, mi fidavo di te, perché ti conoscevo da sempre! E invece sai cos’ho capito? Che non ti conosco affatto!» «Io e te non litigheremmo mai, perché io so cosa vuoi, so cosa ti fa star bene, te l’ho già detto!» «Leonardo, tu hai bisogno di aiuto…»

«Io non ho bisogno di nessun aiuto. Io avevo solo bisogno di essere ricambiato dell’amore con cui ti ho nutrita in tutti questi anni!» «Tu mi hai sempre aiutato, è vero. Ed è appunto per questo che adesso devi fare in modo che io aiuti te. Devi lasciarmelo fare. Se mi liberi, andremo alla polizia e faremo in modo che questa faccenda si risolva nel migliore dei modi. Verrai curato e potrai tornare a vivere. Vivere bene, intendo. Nessuno si ricorderà più di questa brutta storia.» «Purtroppo per te, le cose non andranno così. Se non posso averti, non ti avrà nessuno. Figuriamoci quel ladro di emozioni di Cristian.» «Leonardo, stai facendo un’enorme cavolata. Fermati e ragiona. Non peggiorare la situazione…» Leonardo si lasciò andare a una grossolana risata. «Peggiorare la situazione? Pensi che sia uno sprovveduto? Il mio piano è perfetto!» disse orgoglioso. «Quale sarebbe il tuo piano? Fingere di essere riuscito a scampare alla furia omicida di Ozzy? Tutti sanno quanto a lui piaccia il sangue, vero? Poi far trovare i nostri cadaveri alla polizia, con addosso i cellulari contenenti i messaggi minacciosi di Ozzy inviati naturalmente da te con il suo numero, giusto?» «L’idea più o meno è quella…» «Come pensi di farla franca? Le impronte delle scarpe che abbiamo lasciato in giro e le autopsie sui nostri corpi smentiranno completamente la tua versione dei fatti… Le ore non combaceranno, ci saranno un sacco di cose che non torneranno alla polizia…» «Certo! Infatti ho detto che più o meno l’idea era quella. In realtà ho deciso di optare per il piano b, quello un po’ più veloce e sicuro. Anche uccidere Nathan non è stato vano, dato che non riuscivo a trovare un’altra scusa per farvi venire in questo posto dimenticato da Dio…» «Tu stai vaneggiando! Piano b?!?» «Sì, quello che non prevede nessun assassino, nessun cadavere, niente di

niente…» Leonardo si avvicinò al cadavere di Nathan con o deciso e s’inginocchiò. Con la mano destra gli afferrò la testa per i capelli e la tirò all’indietro. Con la sinistra, invece, portò il coltello sotto il mento e iniziò a muovere la lama avanti e indietro, spingendola con forza verso l’alto. Un lago di sangue si formò immediatamente sul pavimento. «Nooo!» urlò Giorgia. «Il piano b prevede che vi faccia a pezzi lanciandovi, un pezzo alla volta, nel fiume qui sotto. Diventerete cibo per pesci e nessuno saprà più niente di voi! Cosa ne pensi?» Leonardo aveva ormai completato la sua macabra opera di decapitazione. Dovette metterci un po’ di vigore in più per staccare la testa dalla spina dorsale. Poi si alzò con espressione fiera. Lanciò la testa verso Giorgia e si ò il dorso del guanto sulla fronte per asciugarsi il sudore. «Ecco fatto! Iniziamo con la testa…» Le grida isteriche di Giorgia sembravano disumane. Vedere con i propri occhi la decapitazione a sangue freddo di una persona, anche se già morta, e sentirsi addosso gli occhi spalancati e vuoti di quella testa mozzata, fu uno spettacolo raccapricciante. «Ah sì, prima che mi dimentichi, devo fare un’altra cosa…» disse Leonardo mentre si avvicinava a Cristian, abbassandosi sul ragazzo svenuto. «Nooo! Stai lontano da lui, brutto bastardo!» urlò disperata Giorgia. «Stai lontano da lui, brutto bastardo…» ripeté con tono ironico Leonardo, schernendo la ragazza. Poi frugò nelle tasche di Cristian e tirò fuori il suo cellulare.

Tolse la SIM e la appoggiò a terra insieme al telefono. Quindi prese una pietra e dell’apparecchio rimase solo un mucchietto di plastica e pezzetti di vetro. «Bene bene, manca solo il tuo, visto che quello di Nathan l’ho già distrutto. E non preoccuparti per il tuo fidanzatino: sarà l’ultimo a morire e ad essere fatto a pezzi, perché dovrà avere gli occhi ben aperti quando taglierò la testa anche a te!» «Ma perché?! Mio dio, perché?!» «Perché?! Te l’ho già detto perché! Tu non puoi essere di nessun altro! Vuoi capirlo?!» Giorgia non riusciva a capacitarsi dell’orribile incubo che stava vivendo. All’inizio, per un secondo, aveva sperato che fosse solo uno stupido scherzo. Non avrebbe mai immaginato che situazioni così tremende, fino a quel momento viste solamente al telegiornale, potessero realmente entrare nella sua vita. E invece no: era tutto vero e stava accadendo proprio a lei, in quel preciso e orribile istante. Si trovava in balia di un pazzo squilibrato, altro che scherzo. Leonardo non scherzava affatto. Era armato, aveva ucciso e decapitato una persona, ne aveva tramortita un’altra e la faccenda non era ancora conclusa, tutt’altro. Giorgia si sentì mancare. Aveva la testa pesante e gli occhi pieni di lacrime. Cercò di farsi forza. Non poteva assolutamente mollare adesso. Non poteva svenire. Anche se poteva fare ben poco per migliorare la situazione, non doveva cedere, assolutamente. Avrebbe lottato fino a quando le sue forze glielo avrebbero permesso. Cercò allora di fare dei grandi respiri, per ossigenare il cervello e ristabilirsi.

Leonardo le si avvicinò con un sorriso perfido. Ormai sembrava completamente fuori di testa. «Vattene!» urlò Giorgia. Lui raccolse per i capelli la testa di Nathan gocciolante di sangue e diede le spalle a Giorgia. Poi si avvicinò nuovamente al corpo decapitato, lasciando una scia rossa sul pavimento. «Scherzavo…» disse il ragazzo. Giorgia non riusciva più a decifrare le frasi di Leonardo, sempre che ne fosse mai stata capace. «A cosa ti riferisci?» domandò lei. Leonardo raccolse un pezzo di fune che aveva precedentemente tagliato e la fissò bene alle caviglie di Nathan. Quindi prese una grossa pietra e la legò a sua volta all’altra estremità della fune. Dopo aver lanciato la testa verso il muretto che dava sul fiume di sotto, prese il corpo di Nathan per le mani e iniziò a trascinarlo, camminando all’indietro fino all’orlo del precipizio. Tutto questo davanti agli occhi sempre più increduli di Giorgia. «Cazzo, quanto pesi Nathan!» esclamò Leonardo. Quindi prese la testa, le spalancò la bocca e, con forza, ci infilò dentro prima una pietra, poi un’altra, spaccando alcuni denti. «Caro mio peace and love, così non dovresti galleggiare» disse appena prima di lanciare la testa mozzata nel fiume, senza fare una piega. Si sentì solo un suono sordo. Plaff.

Poi la testa sparì. «Dicevo che scherzavo. Pensi che sia così pazzo da fare una fatica tanto grande per smembrarvi? No, no… Questo è il metodo migliore! Non posso solo gettarvi nel fiume. La corrente magari vi porterebbe anche al largo, ma i cadaveri verrebbero ritrovati. Con una bella pietra pesante, invece, il vostro corpo starà giù sul fondo del fiume fino a quando non scomparirà del tutto. Semplice, no? Ecco, vedi come si fa?» le spiegò Leonardo. Mentre diceva quelle inquietanti parole, il ragazzo prese di forza il corpo di Nathan, lo sollevò e lo buttò di sotto, oltre il muretto. Dopo un volo di qualche metro, anche il cadavere senza testa, una volta impattata la superficie dell’acqua su cui si rifletteva la luce della luna, sparì, risucchiato sul fondo del fiume. «E uno…! Le altre due corde e quelle pietre sono per voi!» esclamò soddisfatto mentre procedeva verso di lei, facendo scrocchiare le ossa del proprio collo. Era in completo delirio. Sudava abbondantemente e sembrava nervoso, adesso. «Già mi immagino l’intera scuola in lacrime per le vostre strane sparizioni. Nathan, si sa, è pazzo. Quello non se lo filerà nessuno, anzi. Ma voi… Chissà che fine hanno fatto i due piccioncini, si chiederanno tutti. Che schifo! Poi vedranno il lato romantico della vostra sparizione e penseranno a una fuga d’amore. Ma che carini! Sicuramente una ragazzata. Ma sì, i due innamorati che se ne sbattono di tutto e di tutti e se ne vanno via, in cerca del loro futuro e della loro fortuna, lontani da questo paese di sfigati. D’altronde, non è la prima volta che una coppia di giovani scappa e nessuno sa più niente di loro. Qualcuno starà anche dalla vostra parte. Io per esempio farò il finto preoccupato, ma pian piano cercherò di farmene una ragione.» Leonardo fece spallucce, poi continuò: «Ma proprio non posso accettarlo adesso, Giorgia! No! Per il semplice motivo che si poteva evitare tutto questo casino, potevamo essere felici. Io e te! Poteva essere una favola, la nostra storia, e tu hai rovinato tutto!» urlò pieno di rabbia. Il ragazzo allargò le braccia e alzò gli occhi al cielo, sconsolato. Quindi continuò: «Non ci posso credere, porca puttana; c’è mezza scuola che mi viene dietro e l’unica di cui sono veramente innamorato si mette con questa testa di…»

Stuuuud Il colpo fu violentissimo. Leonardo finì subito a terra a faccia in giù. Seppur ancora un po’ intontito, Cristian fu ben felice di non averlo mancato. Sarebbe stata una beffa, oltre che una tragedia. Poi, veloce come un lampo, gli salì sulla schiena e, urlando dalla rabbia, cominciò a colpire. A colpire. E a colpire ancora. «Con questa testa di?! Eh?! Con questa testa di cazzo, volevi dire, brutto figlio di puttana?!» urlò mentre continuava a fracassargli la testa. Gli schizzi riempivano l’aria. «Con questa testa di cazzo, volevi dire, maledetto bastardo?!» continuava a ripetere. La faccia di Cristian era ormai una maschera di sangue. Troppo grandi erano la rabbia e la frustrazione accumulate per fermarsi. Adesso stavano veramente esplodendo. I colpi scendevano veloci e precisi, ripetutamente, senza sosta. «Basta Cristian, ti prego! Basta!» urlò Giorgia. Ma il ragazzo sembrava non sentire nulla. Come in trance, continuava a sfogare la sua ira su Leonardo, con gli occhi indemoniati. «Cristian, basta! È morto!» urlò più volte Giorgia. Poi, esausta ma libera di abbassare le difese, la ragazza si lasciò andare in un pianto liberatorio.

Solo a quel punto Cristian si fermò. Con disprezzo, lanciò lontano la pietra ricoperta di sangue. E dopo qualche secondo si alzò, ansimante. «Almeno io la testa ce l’ho ancora, coglione!» fu la sua ultima esclamazione. Dopodiché fece un grosso respiro per cercare di sbollire la rabbia, posò per un attimo lo sguardo su Giorgia e poi studiò la situazione ai suoi piedi. Il cranio di Leonardo era completamente fracassato, ridotto a una poltiglia informe. La materia cerebrale era seminata ovunque sul pavimento. La vista di tutto quel sangue inscenava uno spettacolo agghiacciante su cui il sipario, però, sembrava finalmente e fortunatamente calato. «Amore, come stai? Ti ha fatto del male?» disse Cristian precipitandosi verso la sua ragazza. Cercò subito di capire se era tutta intera. Si chinò e la strinse in un forte abbraccio. Giorgia allora si calmò di colpo e tirò su col naso. In pochi secondi si sentì sollevata dalla stretta di quelle braccia familiari. «Sto bene! Tu, invece? Credevo fossi morto, cioè ho temuto che potessi morire! Ti ha dato una botta tremenda!» «Sono ancora un po’ intontito e la possibilità di morire l’ho temuta anch’io! Ma ho la testa dura, per fortuna. Devo aver perso conoscenza per qualche minuto. Poi ho riaperto gli occhi e la testa mi scoppiava dal dolore. Sentivo parlare Leonardo. Diceva cose terribili, cristo santo. Ho sentito praticamente tutto. Poi, con la coda dell’occhio, l’ho visto decapitare Nathan. Mi stava venendo da vomitare. Il cuore mi andava a mille. Infine è venuto da me per prendermi il cellulare, ma pensavo che volesse tagliarmi la testa. Non sapendo come comportarmi, ho cercato di rimanere calmo e di non farmi prendere dall’agitazione. Poi mi è ato da parte trascinando il corpo di Nathan per buttarlo nel fiume. In quel momento ho notato una pietra a pochi centimetri da me. Poteva servirmi, ho pensato. Così ho cercato di recuperare le forze e ho

atteso il momento più opportuno per colpirlo.» «È andata bene. Se avessi mancato il bersaglio, probabilmente a quest’ora saremmo anche noi sul fondo del fiume.» «Non farmici pensare… Che pazzo squilibrato!» aggiunse Cristian con gli occhi visibilmente provati. «È un miracolo se siamo ancora vivi. È un miracolo che tu sia riuscito a salvarci la vita. Non so cosa dire, voglio solo andarmene al più presto da qui. Ti prego, toglimi queste maledette manette e andiamo!» disse Giorgia mentre alzava il mento per indicare il corpo di Leonardo. «Nei suoi pantaloni dovrebbero esserci le chiavi.» Cristian trovò le chiavi e la liberò. Lei si massaggiò il polso, poi prese il suo cellulare e toccò il display. Il suo ragazzo si mise una mano dietro alla nuca per sondare la ferita. «Fai vedere… Ti fa male?» domandò lei. «Abbastanza… La botta farà male per un po’, ma erà. La cosa brutta è la sensazione che ti rimane quando uccidi una persona. E quella temo che non erà mai…» «Cristian, mi hai salvato la vita. Se non lo avessi colpito sarei morta, e saresti morto anche tu. Già questo dovrebbe bastare per non farti sentire in colpa. Quel bastardo ha ucciso e decapitato una persona solo perché era geloso di noi due. Ti rendi conto?!» «Speriamo che gli sbirri credano a quello che gli racconteremo.» ribatté Cristian. «C’è l’album con le nostre foto che ho distrutto. Ne troveranno un altro nella cassaforte in camera sua. Capiranno che era un maniaco, un pazzo squilibrato! E se non bastasse…» Dal cellulare di Giorgia uscirono alcuni suoni.

Prima si sentì la voce della ragazza. “Come pensi di farla franca? Le impronte delle scarpe che abbiamo lasciato in giro e le autopsie sui nostri corpi smentiranno completamente la tua versione dei fatti… Le ore non combaceranno, ci saranno un sacco di cose che non torneranno alla polizia… ” Poi la voce di Leonardo. “Certo! Infatti ho detto che più o meno l’idea era quella. In realtà, ho deciso di optare per il piano b, quello un po’ più veloce e sicuro. Anche uccidere Nathan non è stato vano, dato che non sapevo che altra scusa inventarmi per farvi venire in questo posto dimenticato da Dio…” Quindi ancora Giorgia. “Tu stai vaneggiando. Piano b?” Poi di nuovo Leonardo. “Sì, quello che non prevede nessun assassino, nessun cadavere, niente di niente…” Ci fu una pausa. Seguì un urlo di Giorgia. Infine la voce di Leonardo. “Il piano b prevede che vi faccia a pezzi lanciandovi, un pezzo alla volta, nel fiume qui sotto. Diventerete cibo per pesci e nessuno saprà più niente di voi!” Giorgia guardò Cristian negli occhi e con la manica della camicetta gli ripulì il viso dal sangue. Poi lo baciò sulla bocca. Lui ne rimase piacevolmente sorpreso. La tensione si attenuò per un momento. «Penso che queste registrazioni toglieranno ogni dubbio. Per fortuna non sono state inutili» disse lei. «Come hai fatto a registrarlo senza che lui se ne accorgesse?» chiese Cristian. «Volevo dissuaderlo… Così ho fatto finta di prendere in mano il telefono per

leggergli i messaggi che mi aveva scritto. Speravo che ragionasse. Un messaggio me lo sono pure inventato e infatti non se lo ricordava, ma per fortuna non ha voluto approfondire. Ho semplicemente avviato il registratore e fatto finta di leggere i messaggi. Poi ho posato il telefono a terra col display rivolto verso il pavimento, così che non si accorgesse che era ancora ...» «Giorgia… tu sei un genio!» «Lo so!» disse lei, facendo spallucce. Poco dopo si lasciò andare in un grosso sospiro e appoggiò la testa sulla spalla di Cristian, che a sua volta avvicinò la sua a quella di Giorgia. Erano entrambi seduti, l’uno contro l’altra. Stanchi, spaventati e sporchi di sangue, ma vicini. E vivi. Rimasero con gli occhi chiusi, in silenzio, per un paio di minuti, mano nella mano. Poi lei si girò verso di lui, con un guizzo improvviso. «È la prima volta!» esclamò Giorgia con un bellissimo sorriso a illuminarle il viso. «Che cosa è la prima volta? Che uccido una persona, intendi?» domandò Cristian esausto, sempre con le palpebre abbassate. «Ma no, scemo… Prima, quando sei corso da me, hai detto: “Amore, come stai?”. Di solito mi chiami “tesoro” o cose simili, ma “amore” è la prima volta che me lo dici!» «Davvero? Sicura che ho detto così? La botta deve essere stata proprio forte allora!» rispose Cristian ridendo sotto i baffi. Giorgia scosse la testa, sorridendo. «Sì, l’hai detto. E la cosa non mi è dispiaciuta. Ad ogni modo, sai che non sono una ragazza sdolcinata, quindi non serve che me lo dici per forza.» ribatté lei. «Ok, Giorgia. Però se non vuoi che ti chiami “amore” ogni due secondi, mi devi

spiegare bene una cosa…» A quel punto Cristian si alzò, si girò verso la sua ragazza e le porse la mano con uno sguardo di sfida. «Ovvero?» chiese Giorgia curiosa. Lei gli prese la mano e fece forza sulle gambe, mentre Cristian la aiutava a sollevarsi. Dopo qualche o, il ragazzo abbozzò un mezzo sorriso ed esclamò, fingendosi geloso: «Quindi cos’è questa storia?! Lui ti scriveva messaggi e tu non mi hai mai detto niente?!» Cristian e Giorgia si abbracciarono all’istante, con forza, senza proferire parola. Bastava quella stretta calorosa per dirsi tutto. Poi ripresero a camminare verso casa, a braccetto. Alcatraz, e tutto quello che quel nome lugubre comportava, era definitivamente alle loro spalle. FINE

La ragazza nello specchio

Nerissa Scott, una normale ragazza che frequenta l’università, ha un pessimo rapporto con i genitori. In apparenza gentili e premurosi, spesso le rinfacciano i suoi difetti e la fanno sentire sbagliata. Tutto questo a in secondo piano quando Carter Connelly, un caro amico di Nerissa, viene trovato impiccato, con un biglietto in tasca che la accusa di averlo sempre illuso. Da quel momento una serie di eventi terribili accadono nella vita della ragazza: telefonate minatorie, inseguimenti e omicidi tra le mura dell’università. Verità e finzione si mescolano in continuazione e la stessa Nerissa non sa più a cosa o a chi credere. Forse non può nemmeno fidarsi della persona che vede riflessa nello specchio.

La ragazza nello specchio - Capitolo 1

La sveglia suonò puntualissima alle 7. Nerissa come sempre si alzò con largo anticipo rispetto all’orario dell’autobus che l’avrebbe portata al college. Al contrario della maggior parte dei suoi coetanei non era una dormigliona. Doveva aver preso da suo padre, perché anche lui era solito svegliarsi prestissimo per andare a correre. Il signor Scott, infatti, lo faceva quasi tutte le mattine, prima di recarsi in ufficio. La corsa lo sollevava dall’accumulo di stress delle riunioni fino a tarda sera, dalle ore di telefonate continue, dalle varie problematiche con i fornitori e i clienti, dalle, per fortuna rare, lamentele dei dipendenti e da tutte le responsabilità che riguardavano fare il dirigente d’azienda. Correre era la sua valvola di sfogo, una ricarica naturale per le sue batterie. E farlo a quell’ora, e soprattutto nelle stradine semi sperdute in mezzo al verde in cui abitava, era per lui una goduria a cui ormai non riusciva più a rinunciare. La giornata assumeva tutto un altro significato e veniva affrontata con un piglio decisamente migliore. Nerissa, quindi, tutte le mattine si svegliava molto presto, si lavava faccia e denti per poi svolgere una serie di esercizi fisici della durata di una quarantina di minuti circa. Infine, prima di prepararsi con calma una buona colazione, si concedeva una bella e tonificante doccia fresca. C’era già la vita che, tra una cosa e l’altra, la obbligava ad affrontare tutto di corsa, con spolverate di tensione continue e dure prove da superare quotidianamente; almeno godersi quei momenti per se stessa nelle prime ore del mattino la faceva stare bene. Le permetteva di mantenere in forma il suo corpo e affrontare con più freschezza e attenzione i corsi al college. Sotto la doccia, però, quella mattina i pensieri di Nerissa erano stati turbati dalle ultime notizie che aveva ascoltato al telegiornale la sera precedente, prima della chiacchierata con suo padre. La giornalista aveva esordito con quella che era diventata ormai la vicenda più seguita e temuta dalle persone della zona. Sono cadute le accuse che additavano Glenn Dawson come il killer dei ragazzi. Il venditore ambulante è stato rilasciato questa mattina. Il furgone dei surgelati di

sua proprietà, che si sospettava essere la tomba delle sue vittime, è ancora sottochiave, ma ogni rilevamento è già stato fatto e verrà restituito al signor Dawson entro la fine della giornata. Nerissa si sentiva inquieta, ma se da un lato il suo sonno era stato travagliato per la paura inconscia di quel serial killer, che ancora non era stato preso e continuava a mietere vittime, dall’altro la notte aveva disteso ancora una volta la forte tensione del giorno precedente, dopo la litigata con i suoi genitori. Questa volta però era diverso. Questa volta, seppur breve, c’era stato un confronto pacifico, ma soprattutto costruttivo, con suo padre, cosa che non era mai accaduta prima. Nerissa non se lo aspettava proprio, ma l’aveva apprezzato davvero. Sembrava che i suoi avessero fatto quel o che lei tanto desiderava. E, adesso, quel post-it lasciato sul tavolo giù in sala da pranzo, le aveva perfino strappato un sorriso. Ci sentiamo quando arriviamo. Inserisci l’allarme. Testa sulle spalle e occhi aperti. Buon Halloween. Ti vogliamo bene! I signori Scott erano partiti per una vacanza di una settimana ad Andros, un’isola delle Bahamas e, a parte le solite raccomandazioni, era la prima volta che le lasciavano un messaggio con scritto: ti vogliamo bene. Nerissa aveva provato una sensazione strana, ma piacevole. Il sorriso che aveva sul volto si era fatto ancora più radioso non appena aveva visto che sotto al bigliettino le avevano lasciato anche una banconota da cento dollari. Dopo essersi preparata un paio di uova strapazzate accompagnate da un bel bicchiere di succo di mela, era uscita e aveva fatto il giro della casa, per assicurarsi che porte e finestre fossero chiuse bene. La casa degli Scott era molto grande, strutturata su due piani, con un ampio giardino che la circondava. Era stata edificata in una via di campagna, che accoglieva soltanto le case di altre due famiglie. Questo faceva sì che potesse diventare un bersaglio appetibile per i ladri. La loro abitazione, infatti, come quella delle altre due famiglie, era stata visitata diverse volte in ato, ma l’ultimo tentativo di furto, purtroppo, si era concluso tragicamente. Il padre di Nerissa, molti anni prima, nel bel mezzo della notte, alzandosi per andare in bagno, avvertì la presenza di qualcuno giù al piano terra. Prima di scendere accese tutte le luci. Poi, armato di pistola, raggiunse il pianterreno da

dove provenivano i rumori. Una volta arrivato, però, erano cessati. Sembrava non ci fosse nessuno. Will allora ipotizzò che i rumori provenissero dall’esterno e che si trattasse di un animale selvatico. Più di una volta infatti, all’imbrunire, aveva visto avvicinarsi qualche volpe in cerca di cibo che lui aveva prontamente allontanato. All’improvviso, però, un’ombra si materializzò davanti ai suoi occhi. Era un uomo con il volto nascosto da un amontagna. In pochi secondi ne nacque un tafferuglio. L’intruso cercò di impossessarsi della pistola di Will, ma lui non mollò la presa. Anzi, cercò con tutte le forze di divincolarsi da quell’attacco. Lottarono per qualche secondo, l’uno cercando di neutralizzare l’altro. Poi caddero e la pistola esplose un colpo. Quel proiettile ristabilì la quiete. Anche se in maniera involontaria, il malvivente fu ferito a morte. Per questo motivo i genitori di Nerissa, da quella volta, prima di intraprendere qualsiasi viaggio e lasciarla a casa da sola, sebbene fosse una ragazza sveglia e disciplinata, si facevano sempre mille scrupoli. Finita la perlustrazione, Nerissa si era diretta alla fermata a prendere l’unico autobus che ava dalle sue parti e che faceva tappa al college. Quella mattina era uscita senza ombrello, infatti, anche se la cosa caratteristica di Oldland era proprio la pioggia, da un po’ di giorni non cadeva una sola goccia d’acqua. A parte la temperatura fresca di fine ottobre, il cielo era limpido e lasciava presagire una bella giornata di sole. L’autobus arrivò puntuale e, dopo aver attraversato il traffico della città, giunse finalmente davanti alla Oldland University, l’università privata che era riuscita a plasmare i fondatori di compagnie del calibro di Google, Apple, Yahoo! e molte altre. Nerissa non aveva certamente la pretesa di diventare una magnate stellare come loro, ma credeva fortemente che quella scuola potesse darle delle basi importanti per costruire il suo futuro. O almeno lo sperava. Scese dal mezzo pubblico con gli auricolari che le sparavano a palla nelle orecchie le movimentate note di Déjà-vu di Beyoncé, direttamente dalla playlist del suo iPhone. Solitamente, appena scendeva dall’autobus, l’occhio le cadeva sull’imponente Hoover Tower, una struttura di 87 metri che sbucava da dietro gli altri edifici e che ospitava la Institution Library and Archives Hoover, un archivio di libri e materiali relativi ai primi anni di storia del 20° secolo, accumulati da Herbert Hoover e donati alla città prima di diventare Presidente degli Stati Uniti.

Quella mattina, invece, fu distratta da una situazione insolita: di fronte a lei mancava il costante andirivieni di studenti che animavano l’ingresso dinanzi ai cancelli dell’università. Quello spazio era completamente deserto. Non c’era anima viva. Mentre camminava verso l’entrata a o spedito, come un rituale, staccò il jack degli auricolari dal cellulare, li sfilò dalle orecchie e li ripose su una tasca della tracolla. Si risistemò la borsa sulla spalla e si guardò intorno. Senza musica, il silenzio quasi la sovrastava. Anche gli altri studenti, scesi dall’autobus insieme a lei, sembravano un po’ spaesati di fronte a quell’anomalia. «Dove sono tutti?» domandò uno di loro. «Forse c’è stato uno sciopero» rispose subito un altro. Uno sciopero? Nerissa non ne sapeva niente. «Non credo. Se ci fosse stato uno sciopero ci sarebbe gente che manifesta, ma invece qui fuori non c’è proprio nessuno...» ribatté una ragazza con i capelli dai riflessi fuxia, anch’essa piuttosto disorientata. Anche Nerissa escluse categoricamente quella possibilità. Carter l’avrebbe sicuramente avvertita se ce ne fosse stato uno; frequentava i suoi stessi corsi e, oltre a essere il suo informatore, era anche un suo grande amico. La teneva sempre aggiornata su tutto quello che ruotava intorno al contesto universitario e non, e la aiutava a studiare nelle materie in cui si trovava in difficoltà. Era il classico cervellone. Perplessa e curiosa, Nerissa si decise a varcare i cancelli, entrare era l’unico modo per capire cosa fosse successo e se avesse trovato Carter avrebbe chiesto spiegazioni a lui. I suoi dubbi e le sue perplessità si dissolsero ben presto. La gente che solitamente se ne stava fuori prima che cominciassero le lezioni, adesso si trovava all’interno e formava un cerchio intorno alla quercia secolare in mezzo al cortile.

Mescolate a quella folla di studenti, spiccavano anche le divise inconfondibili della polizia. Già da lontano, sia sui volti dei ragazzi che su quelli dei poliziotti, riuscì a decifrare costernazione e sgomento. «State indietro. Non c’è niente da vedere, ragazzi. Per cortesia, che ognuno raggiunga la propria aula» intimò energicamente un poliziotto. Quelle del rappresentante delle forze dell’ordine, però, sembravano frasi dette all’aria. Nessuno, infatti, pareva intenzionato a dare ascolto a quelle richieste. Ma che diavolo è questo casino? Nerissa avanzava, con il cuore che aveva già aumentato notevolmente i suoi battiti. Probabilmente era successo di nuovo, c’era stata un’altra rissa tra ragazzi e, prima che le cose degenerassero, qualcuno aveva avvertito la polizia. Strano, però, che una normale rissa potesse alimentare tutto quell’interesse. Continuò a camminare in preda a una curiosità che ormai la stava divorando. Si avvicinò a tutta quella gente, ma non riusciva ancora a capire cosa poteva essere successo. Arrivata nei pressi di quella bolgia, aggirò subito la quercia e si alzò in punta di piedi per vedere meglio. Rimase pietrificata. La scena era agghiacciante: quello che tutti stavano guardando era il corpo di un ragazzo impiccato a un grosso ramo, che oscillava in modo impercettibile, la testa piegata di lato e gli occhi spalancati. Aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi e sotto ai piedi giaceva un bidone di plastica rovesciato. In un istante Nerissa ebbe come la sensazione che un cavo d’acciaio si fosse avvolto stretto e con violenza anche intorno alla sua gola, bloccandole il respiro. Riconobbe subito quella camicia, quelle Converse rosse e, soprattutto, quei lineamenti, così familiari, ma ormai artefatti. Anche se non voleva credere ai propri occhi, si rassegnò al fatto che appeso a

quella corda c’era proprio lui: Carter.

L'ultimo respiro

Springfield, Massachusetts. L'agente dell'Fbi John Bay, entrato in crisi dopo la morte in un incidente della moglie Lucy, sembra avere trovato un nuovo equilibrio, anche grazie ai successi professionali raccolti insieme al collega Simon Lower. Ma i tormenti non sono finiti: ad attenderlo ci sono l'improvvisa morte di Simon e le indagini sull'Annegatore, uno spietato serial killer ossessionato dall'acqua. Un folle che vuole "purificare" le sue vittime dalle loro colpe, e per il quale lo stesso John diventerà il bersaglio più importante.

L'ultimo respiro - Capitolo 1

CAPITOLO 1 Ricordi John Bay sentì suonare la sveglia. Allungò il braccio verso il comodino e premette il pulsante di spegnimento. Lentamente si mise seduto sul bordo del letto e un raggio di sole colpì l’azzurro dei suoi occhi. Il bagliore glieli fece socchiudere istintivamente. Poi se li stropicciò un po’ con i palmi delle mani. Erano le sette e mezzo, ma la luce si era già insinuata da parecchio tempo nella stanza. Si alzò e fece uno sbadiglio, mentre si toglieva pigramente la maglia. Si levò anche i boxer, gettò tutto nel cesto della biancheria sporca e s’infilò sotto la doccia. Come ogni mattina si diede una rinfrescata veloce e, dopo essersi asciugato, iniziò a vestirsi. Mentre si abbottonava la camicia osservò, attraverso lo specchio dell’armadio di fronte a lui, la grossa e lunga cicatrice all’altezza del pettorale sinistro. Si bloccò. Ci posò sopra le dita. Quelle luci, impresse ancora nella sua memoria, sempre più vicine, inesorabili. Poi, quel rumore assordante. Quegli attimi infiniti. E infine lui: il buio. Che, oltre alle luci, si era inghiottito anche il suo futuro. Vedere e toccare quella cicatrice era sempre come rivivere quel terribile momento. John distolse lo sguardo dallo specchio e lo posò sulla foto della donna sul comodino. Dopo averla fissata per qualche secondo, assorto nei suoi pensieri, cercò di ritornare presente a se stesso in quella stanza. Si avvicinò alla finestra. La sera precedente si era addormentato senza abbassare la tapparella. Si affacciò per respirare a pieni polmoni l’aria fresca e rigenerante del mattino quando, sopra di lui, si soffermò a guardare il volo libero, elegante e spensierato di un uccello. Accennò un sorriso. Anche lui, quella mattina, si sentiva vagamente spensierato. Molte volte, al contrario, si era sentito impotente, debole e intrappolato. Era il suo lavoro a dargli questo tipo di sensazioni poco gradevoli, tuttavia non aveva

alcuna intenzione di abbandonarlo. D’altronde ogni lavoro ha sempre i suoi lati positivi e le sue pecche. Nel corso della sua carriera c’erano stati forti momenti di difficoltà, e svariate volte aveva dovuto mettere sui piatti della bilancia sia gli uni che le altre. La possibilità di rendersi utile, affinché venisse mantenuto l’ordine e rispettata la legge, però, aveva sempre fatto pendere l’ago dalla parte dei lati positivi. Poi, grazie alla sua caparbietà, al suo intuito e alla sua buona stella, era riuscito sempre a fare il suo lavoro nel migliore dei modi. Nonostante in città gli omicidi fossero diminuiti notevolmente, mantenere comunque alta la concentrazione era un motivo in più, per quanto difficile fosse, per non rischiare di cadere nello sconforto. Appoggiato coi gomiti sul balcone, John vide sopraggiungere da lontano una macchina dall’aspetto familiare. Infatti, quando abbassò lo sguardo, vide fermarsi di fronte al cancello elettrico una Bmw blu. Subito dopo un uomo con gli occhiali da sole e vestito con un completo elegante scese dalla vettura con una mano sulla fronte. Era Simon Lower, il suo collega. Sembrava che sul suo volto ci fosse dipinto un velo di preoccupazione. «Cerca di stare tranquilla adesso, okay? Certo, ciao amore. Ci vediamo stasera su Skype» lo sentì dire. Poi Simon chiuse la comunicazione telefonica, si tolse l’auricolare e rilassò le spalle in un sospiro. Infine alzò la testa e, accorgendosi che John era già alla finestra che lo guardava, cercò di cambiare subito espressione. «Ehi, buongiorno agente Bay. Sono ancora in tempo per scroccarti la colazione?» chiese con un sorriso. «Buongiorno, sei arrivato con un tempismo perfetto. Tranquillo, oggi me la prendo con comodo. Sei in partenza?» «Più o meno, vecchio mio…» Simon tirò fuori dalla tasca interna della giacca le sigarette e, dopo essersene accesa una, continuò: «Prima di tutto mi farebbe piacere un caffè in tua compagnia, poi mi servirebbe un favore». «Il tempo di scendere e ti apro. Te lo faccio io un buon caffè, ma butta via quella sigaretta. Te l’ho detto un miliardo di volte che in casa mia non si fuma più.»

«Faccio due tiri e la butto.» John abitava in un quartiere residenziale molto tranquillo. La sua casa non era enorme, ma era comunque una delle più grandi della zona. Il vecchio proprietario dell’abitazione, un piccolo imprenditore edile, aveva speso un mucchio di soldi per ristrutturarla interamente, salvo poi essere obbligato a svenderla con urgenza qualche anno dopo, per colpa di una crisi di settore che aveva colpito anche la sua attività. John, che stava cercando una sistemazione più comoda della sua, aveva trovato l’annuncio sul giornale. Dopo pochi giorni l’aveva acquistata, facendo un affare. La casa, oltre a essere molto più spaziosa di quella dove abitava prima, era circondata anche da un bel giardino. Successivamente, e in sordina, nacque in lui un’inaspettata ione per le piante, che cercava di tenere sempre in perfette condizioni, nonostante le ultime vicissitudini l’avessero tenuto un po’ lontano dal giardinaggio. Il suo lavoro gli riempiva le giornate ma, non appena poteva, investiva il suo tempo libero nel mantenimento del suo spazio verde. Stare a contatto con la natura lo rilassava molto e lo aiutava a pensare. Non era un caso che più di una volta fosse stato raggiunto da alcune importanti intuizioni proprio mentre era alle prese con qualche attività botanica che gli scioglieva i nervi e la matassa aggrovigliata dei suoi pensieri. Era convinto che fosse proprio la natura che, di rimando, gli donasse degli input su cui lavorare. La casa poi aveva un retro raggiungibile tramite un vialetto di lastre in granito, posto sulla destra del perimetro. Lì c’erano un altro piccolo pezzo di terreno, su cui John aveva fatto costruire una casetta in legno che usava come deposito per gli attrezzi e, adiacente, il garage dove parcheggiava la sua adorata macchina: una Jeep grigio metallizzato. John fece accomodare Simon sul divano, aprì la dispensa e prese il caffè. «Allora hai deciso di raggiungere Marilena in Spagna? A proposito, come sta suo padre? L’altro ieri, quando mi hai detto che era partita, non mi sembravi ottimista.» «Sì, e non lo ero, infatti. Ma adesso fortunatamente è fuori pericolo. Quando Marilena ha saputo dell’infarto, ha temuto il peggio ed è salita sul primo aereo per l’Europa. Ero al telefono con lei poco fa e sembra che ora si sia tranquillizzata. Ma sai com’è fatta, John, vuole dimostrare che è forte e che è in

grado di arrangiarsi. Non lo sa che sto per raggiungerla, ho il volo tra tre ore e le farò una sorpresa. È giusto che le stia vicino in questo momento. Oltre a prenderci cura di suo padre, cercheremo di goderci qualche giorno di sole per distrarci dallo stress.» Simon aveva conosciuto Marilena in un pub a Orlando. Si trovava in America con un’amica per imparare l’inglese, e Simon non poté fare altro che notare la sua bellezza non appena si presentarono. La sua pelle olivastra, gli occhi scuri e il sorriso raggiante lo stregarono. Fu il classico colpo di fulmine. Ma non per lei, almeno inizialmente. Quella sera, dopo alcuni tentativi, Simon riuscì a farsi lasciare un recapito telefonico. Nei giorni seguenti provò a chiamarla un paio di volte per invitarla a cena. Ma lei non aveva mai risposto. La probabilità che non volesse rispondere ai numeri sconosciuti era sempre più concreta. Che cretino, si era detto, pensando che la sera in cui l’aveva conosciuta avrebbe dovuto fare subito una telefonata davanti a lei, così da indurla ad associare il suo numero al suo nome. Non era detta l’ultima parola, però, perché c’era ancora la carta degli sms da giocarsi. Allora aveva provato a scriverle un messaggio, spiegandole chi era e firmandosi alla fine. Risultato: nessuna risposta. Lasciò are alcuni giorni, poi tornò alla carica. Marilena… chissà poi se è veramente questo il tuo nome, se quella sera io ti ho vista davvero o se eri solo un miraggio nella mia testa distratta… … A questo punto mi chiedo se il numero a cui sto scrivendo me lo sia inventato di sana pianta per convincermi che una donna come te possa realmente esistere… Mi chiedo se io stessi veramente in quel locale. E se di fronte a me avevo quegli occhi che mi ricordano tanto quelli della donna dei miei sogni… … Ecco, non lo so se io stia scrivendo invano, ma ovunque tu sia, sempre che tu esista, sappi che io sono vero e mi piacerebbe rivederti un giorno. Dopo quelle parole non ci fu ancora nessuna risposta. Simon non voleva essere troppo pesante, perciò a malincuore rinunciò a ulteriori chiamate e messaggi. arono settimane e un giorno, mentre era alla guida della sua macchina, sentì la suoneria di un messaggio. Pensò che fosse la sua compagnia telefonica che gli

confermava il successo della transizione della ricarica appena fatta. Sul display, però, vide che c’era scritto Non esiste, nomignolo con cui aveva rinominato il numero della donna che non gli aveva mai risposto. Il cuore iniziò a scoppiargli nel petto. Fermò quasi di colpo la macchina e parcheggiò al bordo di una strada. Aprì il messaggio. Così io sarei la donna dei tuoi sogni? Dopo quel messaggio avevano iniziato a scriversi con continuità. Erano diventati inseparabili. Lei si era trasferita in America e dopo qualche anno si erano sposati. Avevano provato ad avere dei figli, ma la natura, o il destino, non erano stati favorevoli. Dopo alcuni tentativi finiti male, Simon era caduto in depressione. Entrambi erano diventati nervosi, insofferenti l’uno nei confronti dell’altro. Trascorsero tre anni difficili; litigavano per ogni stupidaggine, ogni scusa era buona per stare lontani. Successivamente Simon si era ripreso, e ultimamente sembrava che tra loro le cose fossero tornate a funzionare. Dopo aver il fornello e posato la moka sul fuoco, John si sedette sulla poltrona di fronte a Simon. «Amico mio, Marilena è forte, ma ha pur sempre bisogno di sentire vicino il proprio uomo. Stai facendo la cosa giusta, e questa sorpresa la riempirà sicuramente di gioia. In più, dimostrarle che in questo momento difficile tu sei vicino sarà un ottimo modo per rafforzare il vostro rapporto.» «Me lo auguro, John.» «Certo, vedrai che tutto si risolverà al meglio, sia per suo padre che per voi.» John fece una pausa e strizzò l’occhio all’amico. «Poi anche tu ti meriti un po’ di svago. D’altronde hai da poco superato i quaranta…» Simon rise. «Eh sì, in effetti gli anni iniziano a pesare.» Poi si lasciò andare sullo schienale della poltrona. «A ogni modo, sono sincero se ti dico che un po’ di riposo non mi fa di certo

male. Il nostro lavoro regala molte soddisfazioni, ma le vacanze sono sempre poche e, anche se non è proprio la situazione ideale, ne approfitterò anche io per staccare la spina per le prossime due settimane.» John e Simon erano praticamente cresciuti assieme, frequentando le stesse scuole e compagnie di amici. Per John, Simon era il fratello che non aveva mai avuto. Da ragazzini ne avevano combinate di tutti i colori. Un giorno d’estate, decisero di andare da Theodor’s, un noto supermercato della zona. Non avevano mai provato il brivido del rischio, e allora John convinse l’amico che era giunto il momento di farlo. In pochi minuti si erano riempiti le tasche di pacchetti di caramelle e gli zaini di patatine fritte. Credevano di aver studiato bene le posizioni dei commessi per non essere visti, e di essere stati veloci. Ma si sbagliarono, e fu tutto inutile: il supermercato era munito di telecamere e il gestore li aveva scoperti. John, impaurito, era riuscito a scappare, mentre Simon era stato bloccato da un commesso. Quando suo padre fu chiamato dal gestore, il ragazzino si era voluto addossare tutta la colpa dicendo che era stata una sua idea e che John non aveva fatto niente. John non era visto di buon occhio dai genitori di Simon, dicevano che lo avrebbe portato su brutte strade, e se fossero venuti a sapere che in realtà era partito tutto da lui non gli avrebbero più permesso di vedere il suo migliore amico. Da allora erano ati molti anni. La loro anima di ragazzini combinaguai non era sparita, anche se il tempo e il mestiere li avevano fatti maturare. Li avevano cambiati, e migliorati. Dalle bravate e dai furti al supermercato erano ati a comporre una delle coppie di agenti più efficienti di tutta l’Fbi. Avevano risolto brillantemente numerosi casi insieme, guadagnandosi la profonda stima di molti loro colleghi. Il caffè, quasi pronto, aveva iniziato a farsi sentire nella moka, diffondendo nell’aria il suo aroma. Dopo averlo versato nelle tazze, John prese lo zucchero e una scatola di biscotti al burro e appoggiò il tutto sul tavolino in mezzo al salotto. Porse una tazza al suo amico. Simon si mise due cucchiaini di zucchero nel caffè. «Tu quanti ne vuoi?» chiese a John. «Per me va bene così, è un paio di giorni che mi sforzo di berlo amaro, e ti dirò che inizia anche a piacermi. Sai, ho letto che il vero gusto del caffè lo si sente

solo senza zucchero.» Simon smise di mescolare, appoggiò il cucchiaino e incrociò le braccia al petto. «Allora, vediamo un po’: hai smesso di fumare, hai tolto anche lo zucchero dal caffè. Qui l’età inizia a pesare pure a te, a quanto pare. Devo iniziare a preoccuparmi? Non è che tra un po’ inizierai a mangiare solo hamburger di soia e a trangugiare centrifughe di verdura?» «Bella questa!» esclamò John. «No, non preoccuparti, vecchio mio, per adesso rimango fedele alle mie Carlsberg e ai miei hamburger di manzo. Non potrei mai rinunciarvi.» «Be’, meno male.» John si mangiò un biscotto e disse: «Allora, Simon, cosa posso fare per te? Hai bisogno forse che mi prenda cura delle tue piante durante la tua assenza?». Anche Simon diede un morso a un biscotto. Subito dopo sorseggiò un po’ di caffè. «No, tranquillo, ho visto che ne hai già abbastanza da fare qui. Più che altro avrei bisogno che tu mi accompagnassi all’aeroporto… certo, potrei tranquillamente prendere un taxi, ma preferirei fossi tu a farlo.» «Ah, okay. Perché se era per le piante, avrei dovuto dirti di no. Scherzi a parte, ti accompagno volentieri.» «Perfetto, grazie.» «Di ritorno invece ne approfitterò per fermarmi a prendere una confezione di caffè. Sono quasi a secco. E sai che se rimango senza nella dispensa mi innervosisco.» «Io invece mi innervosisco se dopo il caffè non mi fumo subito una sigaretta. Intanto che tu finisci di sistemare, io vado giù a fumarmene una, visto che in casa tua è vietato» disse Lower, rimarcando l’ultima frase e alzandosi dalla poltrona. «Okay, vai pure, ma prima o poi ti faccio smettere!»

Simon ormai era già fuori dalla porta, ma aveva sentito quello che il suo amico gli aveva detto. La risposta fu un goliardico «credici».

L'ultimo respiro - Capitolo 2

CAPITOLO 2 Un oggetto curioso Claire Ripley si legò i lunghi capelli biondi con un elastico, annodò i lacci delle Nike da running e prese il marsupio. Erano le sei del mattino e il sole non era ancora sorto del tutto. In cielo s’intravedeva solo qualche nuvola bianca e la giornata si preannunciava soleggiata. Uscì dall’appartamento e si diresse con o rilassato verso il Forest Park, uno dei parchi urbani più grandi degli Stati Uniti, con eggiate e giardini acquatici, campi da minigolf, tennis e basket, e ampi spazi frequentati da persone di tutte le età. Si mise gli auricolari, avviò l’iPod e iniziò a correre solo quando raggiunse la corsia riservata ai pedoni e alle biciclette. Notò subito le strade tranquille. Il traffico schizofrenico che durante la settimana trasformava le strade in un gigantesco formicaio, adesso si era preso una pausa e per due giorni non sarebbe ricominciato. Durante la settimana, centinaia di automobili sfrecciavano a destra e a sinistra, i semafori impazzivano, gli autobus venivano mandati al diavolo da qualche autista in ritardo. Varcò la soglia, continuando a correre; il parco, semideserto, si sarebbe affollato nel pomeriggio, come sempre. La gola le chiedeva dell’acqua, e decise quindi di raggiungere una fontanella. La più vicina era fuori servizio, e allora fece il giro dell’oasi verde per dissetarsi da un’altra. Quando aprì il rubinetto, l’acqua scese cristallina. Iniziò a sciacquarsi dal sudore, poi mise le mani a conca sotto il getto e bevve dai palmi delle mani. Mentre si chinava per prendere un’altra sorsata d’acqua, i suoi occhi notarono

che c’era qualcosa che sbucava da dietro l’angolo del cespuglio di una siepe a una ventina di metri da lei. La sua attenzione fu richiamata perché in mezzo a tutto quel verde qualsiasi cosa di un altro colore difficilmente ava inosservata. Escluse che potesse essere una bottiglia di plastica appoggiata a terra. Scartò anche l’idea che potesse essere qualsiasi altro tipo di rifiuto abbandonato da qualche incivile. Provò a immaginare di cosa si potesse trattare, ma non le venne in mente niente. Quell’oggetto aveva una forma a sé. E la cosa in qualche modo l’aveva incuriosita. Decise quindi di camminare fin là e di andare a vedere di cosa si trattava, approfittando ancora di qualche minuto di pausa per sciogliere i muscoli e rifiatare prima di riprendere la sua veloce andatura. Si avvicinò lentamente, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. Intanto che avanzava, fece qualche profonda inspirazione e portò le braccia al cielo per stirarsi spalle e dorsali. Arrivata nei pressi della siepe si bloccò di colpo, raggiunta da un brivido freddo che gli percorse tutta la schiena in un lampo. Il suo cuore, ora, batteva più forte della batteria di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, in riproduzione nel suo iPod in quel momento, e non più per la corsa. Sperò di aver visto male, ma più si avvicinava e più quella cosa prendeva forma. Quanto avrebbe voluto essersi sbagliata. Invece no; quello che i suoi occhi avevano di fronte, purtroppo, non era un oggetto: era un piede! Da quella prospettiva era l’unico particolare che riusciva a vedere, ma quando girò l’angolo si accorse che quell’arto apparteneva al corpo esanime di una ragazza. La giovane donna era completamente nuda, sistemata seduta, con le gambe mezze divaricate, le braccia adagiate in grembo e la schiena appoggiata al bordo della siepe: la testa le pendeva leggermente di lato ma i capelli non le nascondevano il volto perché si vedeva bene che i suoi occhi erano spalancati. Nonostante il corpo fosse posizionato in un punto ombreggiato, la poca luce presente non imbrogliava sul colore di morte che la pelle confessava. Dopo quella terribile visione, Claire Ripley si sentì stringere lo stomaco in una morsa. Un urlo di paura che fece eco nel parco uscì inevitabilmente dalla sua bocca. Un uomo che si era fermato alla fontanella per riempire la ciotola del suo cane rimase spaventato dalle grida, e fece appena in tempo a girarsi di scatto che la vide da lontano accasciarsi a terra, priva di conoscenza.

Biografia

Luigi Martinuzzi vive a Portogruaro (VE) dove è nato nel 1979. Ha un diploma come operatore Shiatsu ed è apionato di testi di alchimia. Ha iniziato a scrivere nel 1997 brevi racconti, ma ha lasciato nel cassetto il suo sogno di diventare scrittore fino a quando ha avuto l’idea per L’ultimo respiro, il suo romanzo d’esordio uscito nel 2016 con Leone Editore, un bestseller da migliaia di copie vendute. Nel 2018 esce La ragazza nello specchio (Leone Editore).

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Ringraziamenti

Cara lettrice, caro lettore,

in queste poche righe colgo l’occasione per ringraziarti. Decidendo di dedicare parte del tuo tempo alla lettura di questo racconto, hai infatti scommesso su di me.

Ci tengo a dirti che, anche se i racconti sono brevi, i tempi per scriverne uno sono l’esatto opposto. O almeno così è stato per me. La trama di un racconto thriller, per risultare interessante, deve avere un buon inizio, uno sviluppo centrale ben strutturato e ricco di colpi di scena e un finale che ti tenga col fiato sospeso fino all’ultimo. Il tutto attraverso poche pagine molto intense. Questo è l’obiettivo che mi sono prefissato quando ho iniziato a scrivere Paranoid.

Ora la mia speranza è che la tua fiducia sia stata ripagata e che il risultato finale ti sia piaciuto. Se vorrai gentilmente lasciare un commento, una recensione o qualsiasi osservazione sulla libreria online dove hai acquistato Paranoid, ne sarei molto felice. Per me sarebbe un confronto molto importante, e avresti tutta la mia gratitudine.

Ad ogni modo, grazie e... un forte abbraccio thriller!

L. M.